Origini

di Verfall
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Interludi ***
Capitolo 7: *** Interludi ***
Capitolo 8: *** Capitolo VI ***
Capitolo 9: *** Capitolo VII ***
Capitolo 10: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 11: *** Interludi ***
Capitolo 12: *** Interludi ***
Capitolo 13: *** Capitolo IX ***
Capitolo 14: *** Capitolo X ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Salve a tutti!
Sono felicemente approdata nel mondo di City Hunter solo il mese scorso, quando durante le vacanze natalizie ho iniziato la lettura del manga online. Conoscevo l’anime perché mi è capitato di vederlo in modo sporadico quando ero piccola, quindi della storia sapevo poco o niente. Inutile dire che l’ho divorato, passando le nottate insonne tanto non riuscendo a separarmi da quei personaggi meravigliosi! Per farla breve mi ha stregato, entrando a pieno titolo nelle opere del cuore. Anche il mondo delle fanfiction è abbastanza recente per me ma dopo aver letto un considerevole numero di opere – alcune davvero ben fatte – ho sentito l’urgenza di colmare un vuoto nella storia, ovvero cosa è successo dopo che Kaori ha conosciuto Ryo per la prima volta? Mi sono fatta la stessa domanda anche per il secondo incontro, e ho voluto aggiungere anche i punti di vista di alcuni personaggi che ritengo estremamente importati, dando massimo spazio all’introspezione (è il mio punto debole). Non nascondo di essere intimorita da ciò che sto facendo (mettere mano a dei personaggi così ben caratterizzati è sempre un azzardo e il rischio di fare una ciofeca è sempre dietro l’angolo), ma ho preso coraggio a piene mani ed ecco a voi il risultato. Spero davvero di non aver combinato un disastro e ringrazio in anticipo chi vorrà dare una lettura a queste righe.
P.S. non pensavo che il fandom di City Hunter potesse essere così attivo e ricco di bei spunti narrativi! Ok, ora la smetto davvero, buona lettura!
Cris

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1. 27 marzo 1983 - Kaori

Kaori continuava a guardarsi le mani, i palmi rivolti verso l’alto, con un mezzo sorriso indefinibile sulle labbra. Le sembrava ancora incredibile ciò che aveva fatto solo la notte precedente: lei che si era intrufolata in una villa; lei che aveva assistito a sparatorie e combattimenti, lei che si era stretta a delle spalle così calde e rassicuranti. A quell’ultimo pensiero sentì le guance andare in fiamme e chiudendo lievemente gli occhi cercò di tornare alla realtà. Si ritrovò in cucina, davanti a lei il tagliere con le verdure ancora intonse mentre sentì dietro di sé distintamente il rumore della pentola con l’acqua che gorgogliava, quasi fosse arrabbiata che la si facesse bollire a vuoto. Si batté energicamente una mano sulla fronte e sospirando si mise subito all’opera, facendo attenzione a non tagliarsi. Non aveva ancora acquisito dimestichezza con gli utensili da cucina ed erano innumerevoli le volte in cui si tagliava o si scottava le mani; ciò nonostante era ben lungi dal desistere, anzi era motivata a continuare, a provare fin quando non fosse diventata brava quasi quanto suo fratello. Sì, quasi. Era impensabile per lei eguagliare la bravura del suo caro Hide, che era capace di cucinare un pasto luculliano in pochissimo tempo, con movimenti così precisi e coordinati da far diventare la preparazione della cena un rituale così caro per lei. Alla fine era proprio quello il momento in cui potevano passare del tempo insieme, visto che durante il giorno non ne avevano l’occasione, presi com’erano dai rispettivi impegni. Kaori si girò e iniziò a versare le verdure nell’acqua cercando di far attenzione ma fu del tutto inutile. Quasi a volersi vendicare della sua disattenzione, l’acqua con un sonoro sbuffo strabordò dalla pentola, colpendola sulle dita e spegnendo la fiamma.

«Ahh, porca di quella miseria!» urlò scuotendo energicamente la mano e correndo a sciacquare le dita sotto l’acqua corrente per cercare un po’ di sollievo.

Appena si mosse per ritornare ai fornelli sentì qualcosa frantumarsi sotto il piede e con terrore vide sparse per terra tutte le verdure accuratamente tagliate. Le aveva letteralmente lanciate in aria con tutto il tagliere nell’impeto del momento, distribuendole un po’ per terra, sul piano cottura e sul tavolo.
“Sono davvero un disastro” si disse sconsolata mentre iniziò a raccogliere tutto pazientemente. “Dovrei imparare ad avere un maggior controllo delle mie azioni e smettere di essere così dannatamente impulsiva. Quando cucina Hide sembra quasi che balli, taglia con disinvoltura senza neanche guardarsi le mani e sporca il meno possibile. Se qualcuno mi vedesse in cucina altro che ballo, penserebbe che ci sia un elefante a distruggere la cucina. Forse quando lui mi dice di essere più femminile pensa anche a questo. Non c’è un movimento aggraziato in me, che mi prenda un colpo!”
Rimase quasi imbambolata dopo aver pensato ciò. Da quando aveva iniziato ad esprimersi in questo modo? Certo, non era mai stata una ragazza da espressioni e pensieri svenevoli, ma che diamine, non era neanche uno scaricatore di porto!

«Ecco, l’ho rifatto ancora» si lasciò sfuggire in un sussurro.

Anche Hideyuki se n’era accorto quella mattina, quando lei l’aveva accolto davanti casa, che c’era stato un leggero cambiamento nel suo modo di esprimersi. Non le aveva detto nulla, ma aveva notato un leggero guizzo nelle sue pupille scure e attente quando si lasciava sfuggire qualche espressione più colorita. Lei non era così perspicace come lui, alla fine era solo una ragazza quasi diciottenne timida e ancora insicura su chi sarebbe potuta essere e su ciò che il mondo poteva riservarle, niente in confronto a suo fratello. Lui sì che aveva una mente acuta, una capacità di osservazione fuori dal comune e sapeva trasmetterle quella sicurezza di cui aveva bisogno sempre, ogni giorno, anche perché era attanagliata da un’insicurezza cronica. Le ci era voluto un po’ per comprendere il motivo del leggero mutare dell’espressione di Hide, e quando ci riuscì non poté fare a meno di arrossire lievemente, sentendosi presa in fallo.
Si stupì di se stessa quando, riemergendo dai suoi pensieri, vide la cucina perfettamente in ordine e osservò stranita il suo braccio che girava pigramente il brodo denso.
“Dovrei iniziare a smettere di rimuginare troppo sulle cose che faccio, credo proprio che mi saboto da sola”. Guardò l’orologio, mancava ancora mezz’ora al rientro del suo caro fratello. Si sentì stringere il cuore da una morsa agrodolce e gli occhi le si fecero umidi. Non trattenne le lacrime, quando era sola poteva lasciarsi andare perché odiava mostrarsi vulnerabile con gli altri. Soprattutto non voleva che Hide la trovasse debole e si preoccupasse per lei più di quanto lui non facesse già da una vita. Questa volta, però, era lei ad essere seriamente preoccupata. Terribilmente preoccupata per quel fratello che ogni giorno rischiava la vita, muovendosi tra le viscere di una città che mai le era sembrata così corrotta come adesso. Ora lo capiva il significato di quelle spalle sempre abbassate, poteva intuire il pesante fardello di cui lui si era fatto carico. Riuscì a visualizzarle in un attimo quelle spalle, così ampie eppure così dimesse, a cui ne sovrappose inconsapevolmente altre, altrettanto ampie ma fiere, non piegate. Entrambe, però, sapevano di casa, di calore e di sicurezza. Un altro piccolo strappo nel petto e Kaori capì che era arrivato il tempo di lasciar andare via tutta la tensione accumulata; aveva represso troppe emozioni e sentì il bisogno fisico di liberarsene. Ah, quanto costava essere forti? A che prezzo si manteneva una facciata di imperturbabile sicurezza con agli altri? Le passarono davanti agli occhi i visi di due uomini e quello fu troppo. Ormai aveva la vista totalmente offuscata dalle lacrime, spense il fuoco e si gettò su una sedia e, prendendo il viso tra le mani, pianse sommessamente, cercando di buttar giù quel terribile nodo alla gola che sembrava non volesse più lasciarla.
Aveva accettato tutto, Hideyuki le aveva raccontato finalmente che lavoro svolgesse in realtà – sebbene dentro di lei sospettava che non le avesse detto la storia completa –, di come aveva deciso di abbandonare il lavoro che amava perché fortemente deluso da un ambiente che si era rivelato corrotto, dove la giustizia non sempre coincideva con la legge. Con una voce che non tradiva una certa emozione, lui le aveva rivelato che proprio quando pensava di aver toccato il fondo, aveva trovato una persona fuori dall’ordinario, con un senso della giustizia e uno spirito di abnegazione che pensava non fossero possibili nel mondo reale. Nel dire il suo nome Hide l’aveva guardata dritta negli occhi con uno sguardo così carico di ammirazione e affetto che lei ne era rimasta stupita. Suo fratello non era certo uno che si sprecava in complimenti, anche con lei era piuttosto avaro, ma nel descrivere il suo partner lo elogiò in un modo che non ammetteva repliche:

« […] Quell’uomo straordinario era proprio Ryo, Ryo Saeba. Ci siamo incontrati quasi per caso…no, direi che è stato il destino a far incrociare le nostre strade. Senza saperlo avevamo bisogno uno dell’altro. Lui…beh è così diverso da me, ma è mosso dai miei stessi ideali. E sono fermamente convinto che sia una persona cento volte migliore di me, ma gli piace nasconderlo a tutti, soprattutto a se stesso».

Kaori aveva spalancato gli occhi a quelle parole, un gesto che rifece inconsciamente al ricordo. La crisi di pianto era passata e ne approfittò per prendere un fazzoletto e soffiarsi il naso, ma le parole di Hide continuavano a risuonarle nella mente:

«Non ho avuto la minima esitazione, ho da subito voluto lavorare con lui, sentivo che era la cosa giusta. Avevo trovato l’occasione per portare giustizia dove la legge si rivelava impotente. Sai Kaori, ormai è più di un anno che io e Ryo lavoriamo insieme. Lui è conosciuto come City Hunter, nell’ambiente è temuto e rispettato come pochi altri; è un uomo di azione, sembra essere cresciuto con una pistola in mano per quanto le sue abilità sul campo siano prodigiose. Quest’uomo impenetrabile mi ha lasciato entrare nella sua vita e mi ha permesso di avere giusto un assaggio del suo vero mondo interiore e ne sono rimasto lievemente turbato. Non fraintendermi sorellina ma non chiedermi altro. Ricorda solo questo: lui ha la mia completa stima e il sentimento è reciproco. Anzi, lui…» a quel punto aveva fatto un respiro profondo e le aveva rivolto un sorriso disarmante «lui è il migliore amico che abbia mai avuto. E non affiderei la mia vita a nessuno se non a lui. Ha la mia fiducia più completa. Ora che sai la verità, potrai perdonare il tuo fratellone per non essere stato sincero con te? Sappi che se non te ne ho parlato prima è perché avevo paura ch-».

 Hide si era bloccato quando lei si era lanciata tra le sue braccia, stringendolo forte e mormorando solo un «stupido, sei uno stupido». Lui l’aveva abbracciata dolcemente e, dopo averle arruffato i capelli, era uscito per il suo giro di ricognizione, come l’aveva chiamato lui, dicendole che sarebbe tornato per le otto.
Kaori iniziò ad apparecchiare la tavola ma non si era ancora perfettamente ripresa, pensava che il pianto l’avrebbe liberata e invece sembrava proprio che quel groppo alla gola non volesse andar via. Rabbrividì, e non per il freddo, quando realizzò ciò che temeva davvero: non voleva che suo fratello morisse. Che ne sarebbe stato di lei, una ragazzina incapace, goffa e maschiaccio se anche Hideyuki l’avesse lasciata? “Non vorrei continuare ad essere lasciata indietro da quelli che amo. Eppure è già successo più volte…non posso permettere che mi venga tolta l’unica persona che ho più cara al mondo. Dovrò proteggerlo e..” si fermò sorridendo beffarda del suo pensiero.

«Che? Io dovrei proteggere Hide, e con quali mezzi? Con quali forze?» si ritrovò a pensare ad alta voce.

Che ingenua che era! L’ex detective non era uno sprovveduto, conosceva bene i rischi che correva e sapeva come muoversi in quell’ambiente. Anche in polizia non era esente da pericoli, allora perché da ieri questa paura irrazionale sembrava non volerla più lasciare? Una lacrima silenziosa fece capolino tra le ciglia e attese che lei chiudesse gli occhi per scivolarle lungo la guancia.

«Dimenticati di me, hai capito?! Se resti con me morirai presto!»

Erano queste le parole che gli aveva urlato contro Ryo, il partner di suo fratello. All’inizio le aveva prese come semplice minaccia, buttata lì per irritazione, ma quello sguardo…oddio non riusciva a toglierselo dalla mente. Era così spaventosamente serio che l’aveva paralizzata per qualche secondo. Quello sguardo e quelle parole si erano insinuate dentro di lei senza che se ne rendesse conto; più ci pensava e più le sembravano avere il tono di una condanna. Però Hide viveva al suo fianco in un certo senso, quindi anche lui poteva …? Era davvero possibile che lui corresse il rischio di essere colpito da quelle parole taglienti come coltelli? Lui si fidava ciecamente di quel gigante, era stato esplicito. Non poté far altro che sperare con tutto il cuore che Ryo proteggesse il suo caro fratello. Meccanicamente mise una mano nella tasca posteriore dei pantaloni e prese la foto che aveva fatto sviluppare in fretta e furia nel pomeriggio dal suo fotografo di fiducia. Eccolo l’uomo straordinario, capace di destare l’ammirazione di un ex poliziotto e unica speranza di una ragazzina affinché proteggesse quel che restava della sua famiglia. Un uomo con un’espressione beota e una boccaccia aperta e sbavante senza ritegno. Si mise a ridere rumorosamente mentre andò in camera sua per conservare quella foto che doveva assolutamente restare nascosta agli occhi di Hide. Era meglio che non scoprisse che cosa aveva fatto lei durante quella giornata così surreale e per certi versi magica. Il 26 marzo. Cinque giorni prima del suo compleanno. Mentre inseriva l’oggetto incriminato nel suo portafoglio pensò con un leggero sorriso che quella data non l’avrebbe più dimenticata, anzi l’avrebbe festeggiata segretamente come il giorno in cui aveva riscoperto suo fratello e conosciuto quel suo partner così straordinariamente improbabile a prima vista. Col cuore un po’ più leggero – che strano, possibile che il solo vedere quella faccia da schiaffi le avesse migliorato così tanto l’umore?! – si diresse in bagno per sciacquarsi la faccia e controllarsi il viso. “Bene, nessun segno di pianto. Hide non potrà sospettare niente”.
Sentì la chiave scivolare nella serratura e la porta d’ingresso si aprì con un colpo secco.

«Sono a casa! Ehi, che bel profumino!»

Kaori sorrise e gli corse subito incontro.

«Bentornato Hide! Com’è andato il giro?» e mettendosi le mani dietro la schiena aggiunse «Per farmi perdonare per tutti i problemi che ti ho causato ieri ho deciso di preparare io la cena oggi».

Hideyuki emise un lieve sbuffo accompagnato da un sorriso sbilenco, tolse il soprabito dalle spalle spioventi e mentre lo appendeva aggiunse:
«Davvero? Sorellina mi sorprendi, l’ultima volta hai letteralmente carbonizzato la zuppa di miso e reso la cucina un campo di battaglia. Pensavo avessi ordinato d’asporto, a quanto pare i miracoli esist-»

Un pugno calò impetuoso sulla sua testa, tramortendolo sul colpo.

«Stupido! Sei proprio uno stupido!» gli urlò Kaori falsamente arrabbiata. «Per una volta puoi farlo un complimento, non ti mangio mica!» aggiunse incrociando le braccia e voltando il viso su un lato con sdegno.
La mano di Hide la raggiunse, arruffandole la zazzera ribelle.

«Mi farebbe piacere se la mia cara sorellina mi preparasse più spesso da mangiare. Se lo facessi sempre io poi non avrei le energie necessarie per raccontarle com’è andato il lavoro» e facendole l’occhiolino aggiunse «Non preoccuparti, ho in serbo per te un regalo speciale per il tuo compleanno, vedi non me ne sono dimenticato!»

Kaori gli sorrise calorosamente. Non c’era niente da fare, adorava troppo suo fratello e non poteva esserne più fiera dopo gli eventi recenti.

«Su, corri a lavarti. È tutto pronto, scommetto che avrai una fame da lupi!»

Ecco, l’aveva detto di nuovo, ma ormai era troppo tardi. “Sono davvero un ragazzo a questo punto” pensò mentre si dirigeva in cucina, senza notare che suo fratello alle sue parole aveva scosso la testa sconsolato.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


2. 27 marzo 1983 - Hideyuki
 
Erano da poco passate le due del pomeriggio quando Hideyuki uscì di casa con un peso in meno sul cuore: aveva ritrovato Kaori dopo una notte insonne, distrutto dall’angoscia e dai sensi di colpa. Si sentiva emotivamente esausto ma l’adrenalina gli impediva di percepire la stanchezza fisica. Gli sembrava incredibile come la situazione avesse avuto quel felice epilogo; si era sentito morire quando Kaori l’aveva additato come un assassino, guardandolo con degli occhi colmi di orrore e repulsione.
“Mi avrà considerato alla stregua di un mostro in quel momento. Avrei preferito essere inghiottito da una voragine venti, cento volte, piuttosto che sentirmi dire quelle parole”.
Alzò gli occhi, il cielo era ancora di un azzurro intenso e il sole brillava esattamente come il giorno precedente, ma ne avvertì il calore solo in quel momento: nelle ore passate non aveva fatto altro che pensare a Kaori, a come poterla trovare in quel dedalo di strade che era Shinjuku, a come poter riconquistare la sua fiducia e, soprattutto, a come trovare un nuovo lavoro, dato che si era visto costretto a rompere la collaborazione con Ryo. In realtà erano mesi che non faceva altro che riflettere su cosa fosse giusto fare, se continuare il suo lavoro e trovare un modo per introdurlo a Kaori, oppure rinunciarvi per il bene di sua sorella. Non era mai riuscito a decidersi. Il problema principale, lo sapeva bene, consisteva proprio nell’impossibilità di scegliere; entrambe le possibilità lo facevano star male e trovava doloroso dover rinunciare a una parte della sua vita così importante. Eppure, dopo la piega tragica del pomeriggio precedente, la forza della disperazione aveva deciso per lui, senza esitazione: era affezionato al suo lavoro attuale e soprattutto a quel pazzo del suo partner, ma Kaori era più importante. Colei che era la sua famiglia – o meglio, quel che ne restava e che doveva proteggere, preservare dalle brutture del mondo il più possibile – occupava il primo posto nelle sue priorità e sarebbe stato sempre così. Quando la collaborazione con Ryo aveva iniziato a ingranare, per lui erano già iniziate le prime preoccupazioni. Odiava mentire a sua sorella, non se lo meritava, e ogni qualvolta si decideva a introdurre l’argomento quegli occhi onesti e fiduciosi lo facevano totalmente desistere. Dentro di sé temeva che, una volta saputa l’entità della sua occupazione, quegli occhi avrebbero perso quella purezza che lui trovava incantevole; Kaori si sarebbe resa conto di quanto la società potesse nascondere una seconda faccia, più oscura e putrida e, impulsiva com’era chissà come avrebbe reagito! Lui, d’altro canto, aveva fatto il possibile per scindere il lavoro dalla famiglia, la porta di casa aveva rappresentato lo spartiacque tra quei due mondi agli antipodi e lui, come un equilibrista aveva cercato di destreggiarsi il più possibile.
Sospirò e, mentre aspettava pazientemente che il semaforo diventasse verde, lanciò una sfuggevole occhiata alla vetrina di un negozio. Distolse subito lo sguardo. Non gli piaceva la sua immagine riflessa, quel suo aspetto dimesso. In realtà non si era mai piaciuto ma col tempo aveva imparato a convivere con il suo aspetto, sebbene davanti alla macchina fotografica provava ancora un certo disagio. Kaori lo sapeva bene e nonostante ciò continuava ostinatamente a voler fare foto insieme; lui cercava sempre di rifuggire queste dimostrazioni di affetto – così le chiamava lei – ma immancabilmente veniva riacciuffato e costretto a posare con quella sua espressione tra il comico e l’impacciato, diventata ormai il suo segno distintivo.
Attraversò l’incrocio e un lieve sorriso gli sollevò le labbra sottili. Ah, non riusciva mai a dirle di no, aveva un vero debole per quella ragazzina che ormai stava diventando una giovane donna, e che gli dava così tanto da fare. Si rese conto che stava camminando a passo fin troppo spedito, così decise di rallentare, non aveva alcuna fretta e voleva perdersi ancora un po’ tra i suoi pensieri.
“Ancora non capisco come abbia fatto Kaori a mutare la sua opinione sul mio lavoro nel giro di una mezza giornata. È una ragazza così testarda, di solito è quasi impossibile farle cambiare idea” si diceva mentre imboccò pigramente la trafficata Shinjuku-Dori Ave, in direzione dell’uscita est della stazione. Gli sembrava ancora impossibile, eppure lei era tornata sui suoi passi e l’aveva accolto come se nulla fosse successo, anzi, l’aveva travolto con epiteti non proprio degni di una ragazza a modo, dicendogli che l’aveva fatta preoccupare. Lui?! Quando era stata lei a farlo sbiancare come un lenzuolo, togliendogli minimo dieci anni di vita per lo spavento!
Era felice, certo, però il suo intuito gli suggeriva che poteva esserci lo zampino di un’altra persona dietro quel felice cambiamento: Ryo. Aveva la leggera sensazione che lo sweeper potesse aver conosciuto Kaori, e non solo attraverso i suoi sfoghi occasionali che negli ultimi tempi si erano fatti più frequenti. Sebbene fosse molto riservato per natura si sentiva libero di confidarsi con Ryo, specialmente nei giorni in cui il peso delle responsabilità e la stanchezza lo soverchiavano fino al limite. A quasi ventisette anni si sentiva vecchio il doppio; dalla morte di suo padre era stato tutto in salita per lui e diventare la colonna portante della famiglia non si era rivelato il più facile dei compiti. Non si sarebbe mai sognato di confidarsi con qualche coetaneo che non avesse mai sperimento la perdita nel modo doloroso che gli era stato riservato, infatti anche sul lavoro non si era mai sbottonato, mantenendo una facciata imperturbabile. Era sempre stato sicuro che non avrebbe mai trovato nessuno meritevole delle sue confidenze, fin quando non aveva conosciuto Ryo; ma lui non faceva testo. Si era subito reso conto quanto il suo partner fosse fuori dal comune e poteva solo immaginare quanto la sua esperienza di vita dovesse essere stata unica e terribilmente difficile, visto che non si era mai lanciato in nessuna confidenza particolare. Solitamente, durante i suoi sfoghi, lo sweeper o sbuffava o grugniva, se era intento a divorare – non l’aveva mai visto mangiare in modo civile –, mantenendo sempre un’aria insofferente e totalmente disinteressata. Lui però ascoltava, eccome se ascoltava, ma doveva recitare la parte dell’uomo insensibile e distaccato dalle cose terrene, eccezion fatta per le donne e il cibo; con loro non si risparmiava, mostrando un’inesauribile ingordigia. Hideyuki era certo che anche quell’aspetto, in apparenza così triviale, fosse una parte che il partner si era autoimposto, sforzandosi di mostrarla come la sua vera e unica natura; ma lui no, non si era lasciato ingannare dalla sua recita e Ryo doveva averlo intuito.
Come ex detective dal fiuto infallibile aveva avvertito una profondità ben più sfaccettata nell’animo del suo partner, in cui emergeva prepotente un vuoto interiore ed emotivo che restava, però, ostinatamente insondabile. Era sempre stato discreto nei suoi confronti, non si era mai aspettato che le sue confidenze fossero ricambiate con altrettante esternazioni e, sebbene non sapesse praticamente nulla del suo passato, gli era ormai chiaro che Ryo avesse bisogno di essere salvato da se stesso, dai suoi atteggiamenti autolesionisti ed esasperanti. Comprendendo che i discorsi edificanti sarebbero stati rigettati senza esitazione, Hideyuki aveva provato a fargli cambiare punto di vista attraverso i fatti, come il lavoro di squadra, le chiacchierate disinteressate, i bonari rimproveri sulla sua assenza di autocontrollo in determinate occasioni… il suo era un lavoro tra il serio e il faceto, volto a un unico obiettivo. Voleva incoraggiarlo a dare un’altra possibilità ai rapporti umani e convincerlo che, se lo rendeva partecipe delle sue confidenze, era perché lo considerava ormai il suo migliore amico, degno di fiducia e affetto. I primi mesi Ryo era stato molto sulle sue, ma negli ultimi tempi un leggero cambiamento nei suoi modi e nelle sue azioni l’avevano piacevolmente colpito. Certo, il suo partner cocciuto e orgoglioso non l’avrebbe mai ammesso e, anche se in apparenza sembrava comportarsi come sempre, aveva visto farsi strada in lui un nuovo spirito di autoconservazione. La strada però era ancora lunga e, se l’avesse lasciato in quel momento, l’uomo sarebbe tornato in fretta nel suo circolo vizioso, di questo ne era sicuro e difficilmente si sbagliava.
Se lo sweeper era dotato di abilità straordinarie nel maneggiare la pistola e individuare anche il più piccolo rumore, lui era infallibile nel decifrare la vera indole delle persone. Era un tratto che l’aveva aiutato negli anni in polizia, portandolo a distinguersi sul suo campo. Anche Saeko si era più volte stupita del suo intuito fuori dal comune, riservandogli fugaci sguardi di ammirazione nell’ultimo periodo in cui avevano collaborato. Già, Saeko… chissà se ogni tanto pensava al suo vecchio collega un po’ impacciato o l’aveva dimenticato, totalmente stregata dallo sweeper ben più fascinoso di lui. Sentì il cuore stringersi un po’ e interruppe il flusso dei pensieri; non voleva pensare a lei, non in quel momento almeno.
Alzò gli occhi dalle sue scarpe esattamente nel momento in cui vide, leggermente sulla sinistra, il grande edificio squadrato della stazione, ingabbiato nei caratteristici listelli metallici su cui capeggiava la scritta My City accompagnata dalle immancabili gigantografie di modelle, sempre ben apprezzate dal suo partner. Ritornando padrone delle sue azioni, e spegnendo i pensieri che così rumorosamente gli avevano fatto compagnia durante il tragitto, entrò con passo strascicato dentro la stazione, dirigendosi verso la lavagna degli avvisi senza neanche guardarsi intorno.
Osservò attentamente la superfice di ardesia ma, tra annunci di lavoro improbabili e oggetti in vendita tra i più disparati, non scorse alcun XYZ. La cosa non gli dispiacque, avevano lavorato a pieno ritmo negli ultimi tempi e gli eventi recenti gli avevano dato il colpo di grazia; sentì la necessità di un po’ di riposo.

«Lasciami brutto porco! Maniaco!» una donna urlò poco lontano da lui. Sospirò rassegnato e socchiuse le palpebre.

“A quanto pare qualcun altro ha avuto la mia stessa idea ed è venuto qui” pensò, incrociando meccanicamente le braccia. Lo avrebbe aspettato lì, vicino alla bacheca, anche perché le voci si stavano avvicinando nella sua direzione.

«Su, non fare la preziosa mokkori-chan! Dovresti rallegrarti, oggi è il tuo giorno fortunato sai? Hai appena vinto il concorso Un sedere che parla e il primo premio è passare una notte con me, lo Stallone di Shinjuku!» disse la voce predatoria, emettendo un soddisfatto verso famelico.

Ancora con gli occhi chiusi Hideyuki sorrise debolmente e tese le orecchie, restando in attesa del prevedibile epilogo. Con precisione si susseguirono: l’ennesimo urlo esasperato della giovane donna; un clamoroso rumore di una borsa sbattuta con veemenza contro un viso; l’inevitabile tonfo di un corpo atterrato per terra; dei passi veloci correre verso l’uscita della stazione e l’immancabile sottofondo di un piagnucolio sconsolato. Aperti gli occhi vide Ryo appena oltre la bacheca, seduto per terra a gambe incrociate e col capo tristemente abbassato. In pochi passi lo raggiunse e gli si accucciò accanto.

«A quanto pare nessun messaggio oggi»

«Mmpfh» un rumore indefinito provenne dall’uomo corrucciato come un bimbo in castigo, con il volto ancora ostinatamente abbassato.

«Ryo?» chiamò Hideyuki sfiorandogli leggermente il braccio sinistro. «Non è la prima volta che vieni mandato in bianco, non ti sembra di esagerare un po’?»

L’interpellato alzò con uno scatto fulmineo il viso, piantandogli addosso due occhi iniettati di sangue. Hideyuki fece un salto indietro e per poco non cadde per terra.

«Esagerare Maki? Chi esagera sei proprio tu! Sei un demonio risucchia-forze, con che coraggio mi parli di lavoro quando sto affrontando tragedie più importanti, eh?» e prima che potesse rispondere continuò a urlargli contro «Marzo è quasi finito e sai quante ragazze sono riuscito a trovare? Solo diciassette, hai capito Maki? Diciassette!! Solo se fossi un uomo di mezza età con l’arnese fuori uso potrei considerarlo un buon numero, ma per me che sono un ragazzo ancora nel fiore degli anni e del vigore è un segnale di prossima sciagura! Tu, brutto uccellaccio del malaugurio, sei tu che mi hai fatto una fattura! Toglimela subito!» e prendendo i lembi del soprabito iniziò a scuoterlo, senza però interrompere quel furente sproloquio «Ora che ci penso è da quando ti conosco che il mio successo con le donne è peggiorato! Nonostante tutti i miei sforzi, a causa del tuo cattivo influsso a stento sono riuscito a rimediare qualcosa ogni giorno…»

“Meno male che le cose gli andavano male, che brontolone” pensò Hideyuki, mentre cercava di resistere alla furia bonaria del suo collega, provando a contenere un sorriso sornione che voleva far capolino.

«…Ma questo mese è iniziato davvero col piede sbagliato, dannazione! Visto che stamattina mi hai detto che lasciavi City Hunter mi sono messo subito alla ricerca di ragazze mokkori – e ne ho trovate alcune davvero notevoli – ma niente, la tua brutta influenza continua ad appestarmi! Liberami subito o sarò lo zimbello di tutta Shinjuku, ma che dico, di tutto il Giappone porca di quella miseriaccia ladra!»

Hideyuki decise che era stato bistrattato a sufficienza, così bloccò Ryo prendendolo per i polsi e in movimento rapido gli abbassò le braccia mentre si alzò in piedi.

«Sono venuto proprio per parlarti di questo. Dovrai sopportare ancora per un po’ la mia pessima influenza» e guardando lo sweeper di sottecchi aggiunse «Sai, sono riuscito a chiarire tutto con mia sorella. Le ho raccontato del lavoro e non ha sollevato ulteriori obiezioni, è stata sorprendentemente comprensiva, ha davvero fiducia in me… Però vedo che non sei sorpreso»

«No, per niente» rispose Ryo che nel frattempo si era alzato. «I quattro rifiuti di oggi erano un segnale chiaro che non te ne fossi ancora andato» e in soffio aggiunse «Meno male» enfatizzando solo l’ultima parola, pensando di non far capire al suo partner come la pensava davvero.

Purtroppo per lui, anche Hideyuki aveva un buon orecchio e non gli sfuggì quel sospiro sollevato.
Poco dopo i due uomini uscirono dalla stazione e iniziarono a percorrere la Shinjuku-Dori Ave lungo il tratto in cui costeggiava la ferrovia, dirigendosi verso Kabukichō. Si erano silenziosamente accordati per raggiungere il nuovo appartamento in cui Ryo si era trasferito un paio di settimane prima. Hideyuki l’aveva solo visto di sfuggita e ricordava fosse un condominio di sei piani con ampi balconi e un box auto a piano terra e, secondo le parole del neoproprietario, doveva essere parecchio grande per gli standard di Tōkyō, dove gli appartamenti tendevano ad avere metrature imbarazzanti. Lui stesso abitava con Kaori in poco più di 40 mq e ogni mese faceva i salti mortali per pagare l’affitto, oltre alle varie utenze; non osava immaginare come avrebbe fatto il suo socio a far fronte a tutte le spese con le mani bucate che si ritrovava.
“Forse dovrei fargli un corso accelerato di economia domestica visto che ci sono” pensò mentre imboccarono la Kabukichō Ichiban-gai Street e, una volta varcato il caratteristico arco rosso, iniziarono ad addentrarsi nel variopinto dedalo di strade sempre troppo strette e caotiche per i suoi gusti. In fin dei conti lui era un tipo abbastanza schivo e riservato; passeggiare per le piccole vie affollate in compagnia di quell’uomo imponente – e per di più ben conosciuto nell’ambiente– non lo aiutavano a passare inosservato. Si strinse ancor di più nelle spalle, i pugni ben piantati nelle tasche del soprabito sformato. Il suono di un rumoroso sbadiglio lo distolse dai suoi pensieri e, alzando lo sguardo, vide Ryo stiracchiarsi rumorosamente; era inutile, era sempre così plateale nel voler attirare l’attenzione su di sé. Hideyuki aveva ben capito ormai che il suo partner aveva un grande intùito nell’avvertire i suoi cambi di umore e, per cercare di tiragli su il morale, indossava la maschera del buffone: era l’arma che impiegava più spesso, specialmente quando si preoccupava per qualcuno, in modo da nascondere con cura le sue reali intenzioni. Però, osservandolo bene, gli occhi erano leggermente arrossati e cerchiati, forse quel sbadigliare non era poi così artificioso.

«Ci hai messo tutta la notte per sistemare Ito e i suoi scagnozzi?» gli chiese con fare canzonatorio. Sapeva che il suo partner tendeva a non essere sincero se notava la minima traccia di apprensione nel suo interlocutore.

«Chi? Quei buoni a nulla-aaarghh» rialzò le braccia poderosamente e, nel riabbassarle, per poco non diede un pugno in testa a un ignaro passante che ebbe il suo spavento giornaliero.

«Quei maiali non meritavano considerazione. In neanche mezz’ora li ho presi tutti a calci in culo, altroché!»

«Mmh» gli rispose «Allora hai passato la notte a festeggiare come tuo solito, eh?»

«Macché festeggiare! Non me lo ricordare Maki, ho dovuto fare il baby-sitter a quel dannato Sugar Boy per tutta la notte…ah che occasione persa! Mi ero preparato un programmino niente male, si vede che dovrò recuperare oggi» concluse sfregandosi le mani, in un tono che non lasciava spazio a dubbi.

Nel sentir nominare il ragazzo Hideyuki sentì riaccendersi quell’idea che gli si era insinuata nella testa, così decise di approfittare dell’occasione datagli dal socio per provare a togliersi il dubbio.

«A proposito Ryo, com’era questa ragazzina?» chiese con finta noncuranza.

Un mano lo arpionò per la spalla e lo fece voltare, mettendolo davanti a due occhi di brace.

«Makimura sei il peggiore!» gli urlò addosso «Da quando hai cambiato gusti e ti piacciono le minorenni? E per di più spilungone e metà uomo?! Ah, non pensavo avessi avuto un tracollo di questo tipo, io non posso certo lavorare con uomini come te, ho una mia etica e se continui così sarò io a chiudere la collaborazione!».

«Ma sei impazzito per caso? Non ho cambiato un bel niente, chiedevo solo per curiosità personale! Volevo provare a immaginare chi avessi accudito ieri» rispose, scrollandosi di dosso quella manaccia.

«Non c’è bisogno della tua immaginazione fuori luogo, caro il mio detective» e dopo un attimo di riflessione aggiunse solenne «Come risarcimento per continuare a ricordarmi tutte le mie sciagure vedi di prepararmi qualcosa di buono appena arriviamo a casa»

«E perché Ryo? Mi risulta che tu sappia cucinare, non hai certo bisogno che io…»

«È inutile che cerchi scuse! E poi, vieni a vedere casa così, a mani vuote? È buona educazione portare un regalo di buon augurio, vedi ti do l’occasione per non fare la figura del maleducato. E dovresti anche ringraziarmi perché in questo modo non dovrai spendere neanche un centesimo, visto che ho già fatto la spesa» ma non ricevendo risposta tornò alla carica e piagnucolando aggiunse «Sei un essere senza cuore! Non mangio da ieri mattina e ho una fame da lupi, sono praticamente sull’orlo del collasso e non ho le forze per prepararmi qualcosa. Inoltre, tieni a mente che per colpa tua ho perso diverse occasioni oggi e, mentre cerco di dimenticare le mie sciagure, tu mi ricordi la mia misera serata di ieri e…»

«Ok, va bene, va bene ti cucino qualcosa, basta che la finisci! Ti preferisco collerico piuttosto che in questo stato»

Un grugnito soddisfatto suggellò la fine della diatriba, mentre con passo più spedito imboccarono la più ampia Kuyakusho-Dori: ancora pochi metri e sarebbero arrivati a destinazione. Hideyuki ne approfittò per mettere un po’ d’ordine nei suoi pensieri, in quanto aveva trovato alcuni elementi a supporto della sua tesi.
“Ricapitolando, Ryo è stato in compagnia di questa ragazzina alta e dall’aspetto poco femminile, in pratica un maschiaccio…proprio come Kaori. Mia sorella è scappata di casa dopo che ero tornato per medicarmi le ferite, più o meno verso le cinque di pomeriggio, ed è riapparsa stamattina attorno alle nove e mezza davanti a casa. Io mi sono incontrato con Ryo per le otto e mezza, e il mio arrivo è coinciso esattamente con la sparizione della ragazzina che era stata con lui fino a qualche attimo prima – per quanto ne dica ora, Ryo l’ha definita una ragazza carina, non dimentico queste cose… e pensandoci anche Kaori è molto carina –. Quindi con le tempistiche ci siamo, se ipotizziamo che quella ragazza fosse davvero Kaori, scappando al mio arrivo avrebbe avuto modo di tornare a casa prima di me, senza mostrare il minimo segno di affanno per un’eventuale corsa”.
Strinse gli occhi, stranamente il discorso filava più che bene e gli elementi a disposizione cominciavano a combaciare.
“Per non parlare di quel fame da lupi! Mia sorella non ha mai usato una simile espressione – per quanto si comporti come un maschiaccio non ne ha mai usato il gergo – e per combinazione Ryo l’ha utilizzata proprio qualche minuto fa. Questa non mi sembra proprio una coincidenza. Ora resta solo da verificare un altro elemento per tramutare il sospetto in certezza, ma ancora non so in che modo…”

«Ehilà Maki non starai cercando di svignartela? Le promesse si mantengono.»

Hideyuki si voltò di scatto. Perso nei suoi pensieri non si era reso conto di aver continuato a camminare mentre il suo partner si era fermato di fronte a un portone a vetri, dove lo aspettava a braccia conserte.

«Su vieni, il giro turistico sarà parecchio lungo» aggiunse, senza dargli il tempo di rispondere.
 
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Un paio d’ore dopo Hideyuki si ritrovò in una cucina uscita direttamente da un film dell’orrore, ingegnandosi nel trovare un modo per trasformare in qualcosa di commestibile i quattro ingredienti che era riuscito a reperire nel frigo. Raramente aveva visto un posto così lercio. Il piano di lavoro era di un macabro color ambrato tendente al nero e molto appiccicoso, i fornelli risultavano completamente incrostati e con accenni di ruggine negli spigoli interni. Il lavello, poi, era una meraviglia della botanica in quanto, tra una pila di piatti che reclamavano un lavaggio da giorni, faceva capolino una spugna abbandonata al proprio destino, sulla cui superfice erano cresciuti tre simpatici germogli di natura indefinita, attestando come la vita fosse davvero possibile anche nelle condizioni più estreme. Completavano l’arredo della stanza un frigo piuttosto rumoroso, una panca, un tavolo, una sedia e diversi scatoloni – quest’ultimi sembravano aver vita propria e avevano colonizzato tutti gli ambienti della casa. Non avrebbe mai immaginato che Ryo potesse possedere così tante cose.

«Ah non preoccuparti Maki, non c’è bisogno che pulisci qui»

Si girò verso la porta della cucina dove vide lo sweeper appoggiato mollemente al muro, in boxer e coi capelli ancora bagnati. Dopo il gran tour della casa era corso in bagno dicendo che non sopportava più la puzza di cane morto che si sentiva addosso, e lui non aveva avuto nulla da obiettare perché era vero.

«Ah non mi preoccupo per niente, non avrei pulito in ogni caso. Non sono certo la tua domestica e poi come regalo mi hai chiesto qualcosa da mangiare, io mi limito a questo» disse fintamente piccato.

«Sempre così generoso Maki!» e sbuffando aggiunse «Però dovrò trovare al più presto qualcuno che mi aiuti a ripulire questo mausoleo… Non ce la farei da solo, è troppo grande e i vecchi inquilini l’hanno tenuta come un porcile questa casa»

Effettivamente Hideyuki era rimasto sorpreso da quella nuova sistemazione che consisteva in due appartamenti molto grandi e spaziosi posti agli ultimi piani, un terrazzo di uso esclusivo, un poligono di tiro al piano interrato e, per concludere, un box auto di notevoli dimensioni a piano terra. Tutto questo spazio a disposizione di una sola persona che, fino a poco tempo prima, abitava in un monolocale decadente nel residence peggiore del circondario.

«Ma dimmi un po’ Ryo, come sei riuscito ad prendere in affitto questa reggia? Rispetto alla topaia in cui stavi prima devo ammettere che hai fatto un salto di qualità notevole» chiese mentre cercava di smuovere dal bollitore un blocco di riso secco e stantio.

«Beh, era giunto il momento di un cambio di immagine. Quella stamberga poteva andar bene per qualche ladruncolo disperato, ma per City Hunter ci voleva qualcosa di meglio»

Lo sweeper si sedette a cavalcioni sulla sedia e puntellando i gomiti allo schienale continuò, lievemente più serio «Comunque l’ho scelta soprattutto per l’affitto inesistente»

Hideyuki lo guardò con fare interrogativo.

«Non c’è affitto?»

«Nossignore. Devi sapere che l’intero edificio è stato costruito ad opera di un gruppo laterale alla yakuza, pesci piccoli intendiamoci, e devo ammettere che hanno fatto le cose per bene. Dalla fondamenta agli infissi si tratta di un palazzo completamente abusivo, persino le carte al catasto sono state modificate da impiegati compiacenti. Bene, questo edificio fungeva sia da abitazione che da quartier generale dell’intera banda che, in questo modo, gestiva comodamente lo spaccio di droga nei locali più malfamati di Kabukichō – infatti parte dell’attuale poligono era adibito a magazzino –. Stando alle informazioni che ho ricevuto, il gruppo operava da più di due anni e avrebbero anche potuto continuare a condurre la loro lurida vita tranquilli se non avessero deciso di pestare i piedi alla persona sbagliata»

«Non ho difficoltà a immaginare chi sia questa persona» gli rispose guardandolo con un sorrisetto appena abbozzato.

«Eh già. Pensavano di essere più furbi dei loro compari, così avevano iniziato a fare la ricotta sul ricavato dello spaccio, diminuendo notevolmente la percentuale destinata alla casa madre; poveri illusi, credevano che i capi non se ne sarebbero mai accorti, davvero non c’era un cervello funzionante tra di loro! Morale della favola: sono stati scoperti e, per evitare di essere trucidati seduta stante, si erano offerti di portare la mia testa al loro capo. I loro piani, però, non sono proprio andati come speravano» gli occhi di Ryo fiammeggiarono un istante quando concluse «Nel luogo dove ora hanno eterna dimora non hanno più bisogno di questo palazzo, ed era un peccato tenerlo vuoto visto che volevo lasciare il monolocale. I loro compari, quando hanno capito che ero intenzionato a trasferirmi qui, non si sono sognati di reclamare la proprietà, anche perché ho fatto loro un favore eliminando dei rami che sarebbero stati potati ad ogni modo»

«Quindi gli altri appartamenti sono vuoti?»

«Non tutti. Conoscevo un po’ di gente che sapevo essere rimasta senza casa per i motivi più vari, perciò ho detto loro che, se potevano permettersi di pagare le bollette e non rompevano le scatole, potevano venire qui, e…» appena, però, ebbe notato il sorriso del partner si affrettò ad aggiungere «E comunque l’ho fatto solo perché non mi andava di gestire da solo questo mausoleo! E poi non è detto che non cominci a far pagare loro l’affitto… ah insomma quanto mi fai parlare! Possibile che non sia ancora pronto niente? Tra poco inizierò a mangiare il tavolo!»

“Sempre il solito” pensò Hideyuki “non riesce proprio ad ammettere che anche lui faccia delle buone azioni disinteressate” e prendendo la padella si diresse verso l’affamato.

«Ecco, l’omu-raisu è pronto, e non guardarmi in quel modo, più di così non potevo fare. Ricordati di fare ogni tanto la spesa e di non spendere tutti i soldi che guadagni tra locali e scommesse»

«Sì sì, non farmi da balia Maki» e afferrando la padella continuò «Certo che potevi sforzarti di fare le cose per bene e impiattare come le persone civili!»

«Si dà il caso che non ci sia un piatto pulito in questa cucina e, a meno che tu non voglia prenderti il colera, è meglio che mangi nella padella. Non che sia più pulita, ma almeno il fuoco l’ha disinfettata»

«Mmm, sempre a badare a questi dettagli… e tu non mangi niente? Che c’è, hai avvelenato il cibo per caso?» gli chiese puntandogli sul volto una bacchetta che catapultò un pezzo di frittata sui suoi occhiali.

«Non ricorro a questi mezzucci per farti fuori» gli rispose togliendosi gli occhiali e mentre iniziò a pulirli pazientemente aggiunse «No, ho promesso alla mia cara sorellina che sarei tornato per la cena. Dopo tutto quello che le ho fatto passare il minimo che possa fare è prendermi cura di lei, soprattutto oggi»

Hideyuki rimase un momento immobile, le lenti degli occhiali ancora tra i lembi della camicia, e fu colto da un attimo di esitazione. Stava facendo la cosa giusta? Sarebbe stato abbastanza forte da lasciare Kaori totalmente fuori dal suo mondo ora che lei sapeva tutto? Sì, sentiva di essere pronto, ma dentro di lui c’era sempre quel minuscolo senso di inadeguatezza latente.
“Sarò abbastanza forte per entrambi?” si chiese, senza aspettarsi una risposta.

«Temo che tu sia troppo buono per questo lavoro Makimura, sappi però che io non tollero debolezze»

Quelle parole lo colsero alla sprovvista, come un colpo di pistola sparato alle spalle. Gliele aveva dette Saeko il giorno in cui avevano iniziato a lavorare insieme. Ricordava ancora quella sensazione di fastidio che gli era salita fin nel cervello nel sentirla dire così. Durante gli anni dell’accademia era stato in ottimi rapporti con la giovane donna e da subito l’aveva considerata uno spirito affine ma, quando presero servizio presso la centrale, l’aveva trovata terribilmente cambiata. Lui, che poteva sondare nell’animo delle persone, in quel caso si era scoperto totalmente incapace; era come se lei avesse innalzato una barriera impenetrabile e lui, troppo coinvolto emotivamente, non riusciva ad affrontarla col distacco necessario. Aveva scolpito nella memoria il tono e lo sguardo con cui Saeko aveva accompagnato quella frase, seguita da un veloce e freddo inchino a cui lui non aveva risposto. Che ne era stato di quella bellissima ragazza entusiasta e fiduciosa degli anni precedenti? Hideyuki su un punto era certo: lei aveva avuto modo di conoscerlo a sufficienza per capire che la sua gentilezza non era affatto sintomo di debolezza, anzi; era il suo lato più umano a salvarlo dalla voragine di brutture e violenza che lo circondavano quotidianamente. Da quel fatidico giorno aveva lavorato più duramente di chiunque altro per provare a tutti… ma no, non era vero… per provare a lei, solo a lei, quanto si fosse sbagliata su di lui, quanto valesse nel suo campo. Le mancava molto e il solo ammetterlo lo faceva stare ancora peggio.
“Oh, Saeko…”.
Un rutto sonoro lo riportò immediatamente alla realtà, facendolo sobbalzare sulla panca.

«Ehi Maki, ti confesso che sono sorpreso. Pensavo fosse impossibile trovare qualcuno che sapesse cucinare meglio di me, e infatti continuo ad avere ragione. Puoi fare di meglio» disse Ryo ben stravaccato sulla sedia, tenendo tra le labbra strette uno stuzzicadenti a mo’ di sigaretta.

«Bah, sempre a lamentarti. Vedi che è stato difficilissimo rendere commestibile quel riso vecchio e le due uova che avevi. Tranquillo questa è l’ultima volta che cucino per te» e così dicendo si alzò e prese a camminare pigramente raggiungendo il salotto adiacente, dove iniziò a osservare senza reale interesse la pila di scatoloni che ingombravano la stanza. Non gli sfuggì un alone scuro sui listelli del parquet di ciliegio.
“Sicuramente avrà versato del caffè per terra, è davvero maldestro nelle cose più semplici” pensò emettendo un leggero sbuffo. Delle orecchie ben allenate lo colsero senza difficoltà dall’altra stanza.

«Sei davvero sicuro Makimura? Non mi devi niente. Faresti ancora in tempo a lasciare» il tono questa volta era basso e molto serio.

Hideyuki capì che allo sweeper non era sfuggito il suo breve cambio di umore ma, per quanto perspicace, non poteva immaginare il giro contorto dei suoi pensieri. Sorrise mentre, attraverso l’ampio finestrone del salotto, vide il sole svanire placidamente tra l’orizzonte frastagliato dei grattacieli, tingendo tutta la città di un etereo violetto. Sentì una calma risoluta impossessarsi del suo spirito: non era mai stato più sicuro delle sue azioni, ora ne era convinto.

«Ryo mi hai frainteso. Non voglio lasciare il nostro lavoro, ormai so che il mio posto è al tuo fianco» e prendendo la stanghetta degli occhiali tra il pollice e l’indice proseguì «Vedi, il sole non illumina solo i grattacieli; con un po’ di fatica la luce raggiunge anche i vicoli più angusti, e non contenta riesce a filtrare persino attraverso le grate dei tombini, rischiarando debolmente luoghi che sarebbe meglio tenere al buio. Pochi ingenui raggi decidono di sacrificare la loro vanità per incontrare gli abissi. Già da tempo ho deciso che mi sarei comportato come quei raggi incoscienti: avrei portato un barlume di giustizia e speranza di consolazione tra gli ultimi, tra i più deboli e con qualunque mezzo, non m’importa di lordarmi. So bene che il mio piccolo intervento non farà davvero la differenza su larga scala, ma quelle parole di gratitudine, quei sorrisi, quelle lacrime di sollievo più che i compensi in denaro mi convincono che il mio lavoro non è inutile»

Si girò, le mani dietro la schiena. Ryo lo fronteggiava, una spalla appoggiata allo stipite della porta e le braccia conserte.

Si guardarono negli occhi e Hideyuki concluse «Sono convinto che il nostro lavoro sia necessario e attualmente noi siamo i soli a poterlo fare. Ecco perché non voglio lasciare»

Ryo gli rispose con uno sguardo tra i più eloquenti, lasciando scorgere nei suoi occhi una luce diversa dal solito che, pochi attimi dopo, si inabissò nel nero di quelle pupille impenetrabili. L’ex detective sapeva che quei rari istanti erano gli unici momenti in cui il suo partner lasciava uscire il cuore allo scoperto, e si chiese quanto dovesse soffrire Ryo nel dover costantemente nascondere con forza la sua vera indole. Perché si ostinava così duramente? Quell’uomo restava ancora un mistero irrisolto.
Lo sweeper distolse lo sguardo e lo raggiunse strascicando le ciabatte, con gli occhi ostinatamente volti verso il finestrone.

«Sempre il solito sentimentale!» disse in un sospiro e abbassando la testa proseguì «Eh povero me, vorrà dire che dovrò attendere ancora un po’ per la mia bella mokkori-partner. Comunque» aggiunse, mentre si allungò per prendere un pacchetto di Lucky Strikes abbandonato su uno scatolone «Domani sarò impegnato per tutta la mattina. Ci vediamo al Central Park per le due, per te va bene?»

«Sì, nessun problema. In mattinata faccio un salto in stazione per controllare eventuali messaggi» gli rispose iniziando ad indossare il soprabito.

«Spero non andrai a sterminare altri spacciatori, non è un’attività salubre appena svegli»

«Neanche per sogno!» esclamò Ryo, buttando fuori il fumo dalle narici, prendendo così le sembianze di un toro imbufalito «Ho cose migliori da fare, sto lavorando a un progettino che una volta terminato sarà un capolavoro»

«Ovvero?» gli chiese scettico.

«Ovvero, uomo di poca fede, faccio prima a fartelo vedere perché so che non capiresti»

“Chissà che gli frulla nella testa” pensò Hideyuki mentre vide il socio prendere al volo le chiavi della macchina e dirigersi spedito verso la porta.

«Che ne diresti di metterti almeno i pantaloni?»

«Fin quando sono a casa mia posso stare come voglio. E poi…» aggiunse con un’espressione inebetita «C’è sempre la possibilità di incontrare qualche bella ragazza per le scale, vedendomi in tutto il mio splendore nessuna potrà resistermi! Anzi, visto che ci sono forse dovrei togliermi anche questi stupidi boxer…»

Hideyuki gli corse incontro travolgendolo e lo tirò per un braccio lungo i primi gradini.

«Non ti azzardare a fare una cosa del genere!» gli urlò contro «Su, andiamo a vedere il tuo progetto ma, santo cielo, non toglierti quel coso di dosso!»

«Eh Eh che c’è, temi di cambiare definitivamente gusti? Lo so, dai ragazzini androgini ai bei maschioni come me il passo è breve»

Esasperato, l’ex detective gli rispose con uno sgambetto che fece rotolare lo sweeper fino al pianerottolo sottostante.

«Bastardo» sibilò Ryo mentre si rialzava massaggiandosi il fondoschiena.

«Come sono maldestro, povero me!» gli rispose candidamente, passandosi una mano dietro alla nuca.

Una volta giunti in garage Ryo si diresse verso la Mini Cooper e, dopo averla aperta, invitò il partner a saltarci su. Hideyuki si sistemò nell’abitacolo e quasi subito venne colpito da una sensazione di déjà-vu olfattiva molto forte. Nell’ambiente ristretto della macchina, la quotidianità dello sweeper era condensata in un miscuglio peculiare di odori: fumo di sigarette, polvere da sparo, colonia di pessima qualità e un indefinito sentore di pelle proveniente dalle tappezzerie. Non era la prima volta che entrava in quella macchina, ma perché era sicuro di aver già sentito quell’odore recentemente? Poi l’illuminazione. “Kaori!” pensò e per poco non lasciò sfuggire il nome di bocca. Quando quella mattina l’aveva abbracciata e aveva affondato il viso nell’incavo della sua spalla ossuta, aveva inalato dalla felpa quell’odore così caratteristico che sul momento lo aveva lasciato interdetto. Non le aveva mai sentito addosso quell’odore, ecco perché l’aveva considerato subito un possibile indizio per aiutarlo a ricostruire i suoi movimenti. In quel momento tutti gli elementi combaciarono perfettamente e il sospetto si tramutò in certezza. Si appoggiò alla spalliera del sedile reclinando il capo all’indietro; si sentì stranamente più rilassato.
“Kaori…allora sei stata qui!”

«Maki non ti ho portato qui per fare un pisolino eh!» una voce nota gli trapassò l’orecchio destro, riportandolo alla realtà.

«Su, dai, apri il vano portaoggetti» lo esortò Ryo.

«Eh?»

«Sei diventato sordo adesso? Ah la vecchiaia che brutta bestia» e così dicendo allungò il braccio possente e aprì con uno scatto la piccola ribalta, tirando fuori una tavola su cui erano fissati alcuni circuiti elettronici, tra i quali spuntavano dei piccoli cavi.

«Questo è…» fece Hideyuki con fare interrogativo.

«…Il capolavoro che ti avevo accennato» concluse Ryo, più tronfio che mai.

«Quello che vedi ora è lo scheletro di un monitor che mostrerà la planimetria di Tōkyō, diciamo che puoi paragonarlo a un radar. Tramite l’antenna integrata sarà possibile individuare con la massima precisione chiunque abbia indosso una di queste» e aprendo la mano mostrò una piccola ricetrasmittente delle stesse dimensioni di una moneta da 1 yen.

«Ogni trasmittente corrisponderà a un segnale luminoso sullo schermo, a cui vorrei aggiungere anche un segnale sonoro per comodità. Il raggio di azione è ancora modesto, però, non oltre i 500 m, ma ci stiamo lavorando e con qualche miglioria credo si possa arrivare al chilometro. Inoltre sto pensando di aggiungere una chicca per i miei momenti di piacere…eh sarà una meraviglia!»

Hideyuki lo ascoltò con attenzione e una buona dose di ammirazione. Lui non era mai stato particolarmente appassionato di tecnologia e ricordava ancora con terrore quando era stato costretto a utilizzare quei nuovi computer DOS durante gli anni in polizia; il doversi destreggiare con quella diavoleria ingombrante, dai mille comandi e con quella miriade di stringhe di calcolo da inserire, tutte uguali tra loro, era una vera tortura per i suoi occhi miopi. Da quel poco che aveva capito, però, il progetto di Ryo gli sembrava molto valido e utile. Per di più sapeva bene che il suo partner, pigro com’era, se si imbarcava in un lavoro complicato era perché ne valeva davvero la pena.

«Sì mi sembra una buona idea e ci potrebbe facilitare la vita, per esempio per i pedinamenti. Però se ho capito bene hai detto ci stiamo lavorando, quindi non è tutta farina del tuo sacco?»

«Calmo, calmo. L’idea è mia, ma naturalmente mi sto facendo aiutare da chi è più competente di me in materia. Sono totalmente ignorante e per far quadrare tutto con precisione ci vuole qualcuno che sappia fare i calcoli» e richiudendo il cassetto concluse «Dato che domani siamo liberi ne approfitto per recarmi dal Professore; dovrebbe aver ultimato l’interfaccia definitiva e se non sorgono imprevisti credo che per maggio sarà terminata la versione prova»

Hideyuki annuì semplicemente e dopo aver ricordato al socio la virtù di arrivare puntuale agli appuntamenti prefissati – sebbene era certo che avrebbe ritardato, come sempre – uscì dalla vettura e prese congedo dal partner. Appena mise piede fuori l’edificio la città lo accolse col suo turbinio di luci al neon che illuminavano quasi a giorno le strade, mentre un cielo di velluto nero sembrava avvolgere le loro vite. In quel momento si sentì terribilmente esausto, necessitava assolutamente di riposo e a passo svelto iniziò a scivolare tra la folla che iniziava a riunirsi nel quartiere notturno, non vedendo l’ora di stendersi nel letto. Guardò l’orologio: erano le sette e un quarto, non pensava di aver passato così tanto tempo con Ryo ma alla fine era sempre così, in sua compagnia non si annoiava mai e il tempo volava via.
“Ryo” si disse “chissà se tu hai capito chi era in realtà quel ragazzino.”
 
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Steso nel letto Hideyuki non riusciva ancora ad addormentarsi. Kaori era stata molto cara con lui quella sera e l’aveva stupito preparandogli un ramen davvero buono. Era proprio una brava ragazza, non poteva essere più fiero di lei. Nonostante fosse cresciuta in un ambiente prevalentemente maschile serbava quel candore e quell’innocenza così femminili, eppure così difficili da ritrovare nelle altre ragazze, molto più smaliziate della sua sorellina. Peccato, però, che si vergognasse di mostrare la sua vera natura e tendeva a chiudersi un po’ con gli altri, mostrandosi più dura e scontrosa di quanto non fosse davvero.
“Non so perché ma mi ricorda qualcun altro” pensò tra sé. Ryo. Ormai era un po’ di tempo che nei suoi pensieri rimbalzavano ogni giorno quei due. In realtà c’era anche un terzo nome, se possibile ancora più ingombrante degli altri, ma aveva deciso di rinchiuderlo nell’angolo più remoto della sua mente; peccato che si divertisse a saltar fuori nei momenti più inaspettati, proprio com’era successo poche ore prima. Sentì il cuore farsi più pesante, così chiuse gli occhi e sospirò.
Che sollievo era stato per lui l’aver scoperto che Ryo si fosse preso cura di Kaori – certo l’aveva fatto indirettamente, ma la sostanza era quella. Non aveva mai avuto dubbi sulla buona indole del partner e ora poteva esserne più che sicuro. Se fosse stato l’uomo senza scrupoli e misantropo che andava decantando non avrebbe avuto cura di una ragazzina sconosciuta e impulsiva. Improvvisamente sentì il suo fardello di responsabilità farsi un po’ più leggero. Non era più il solo a poter proteggere sua sorella e questa consapevolezza lo fece sorridere.
“Quel testone l’avrà capito prima di me? Credo che…” ma non riuscì a proseguire, poiché i pensieri si sospesero e sfumarono nel sonno che lo raggiunse.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


3. 28 marzo 1983 – Ryo

Si ritrovò carponi nel fango, il respiro sempre più pesante e un fastidioso formicolio lungo le membra. Gli mancò il fiato e in un gesto disperato aprì la bocca per cercare di incamerare quanta più aria possibile. Dietro di lui avvertì distintamente un fruscio di stoffa e un sussurro quasi impercettibile:
«Mi spiace Ryo, non ho avuto scelta. Ti sentirai meglio tra poco»
Sentì il cuore perdere qualche battito, poi una confusione infernale lo travolse.
“Uccidere. Nemico. Uccidere. Nemico” erano le uniche parole che gli ronzavano in testa mentre il battito cardiaco accelerò a un ritmo di guerra inesorabile. Subito dopo si susseguirono immagini sfocate di corpi dilaniati e urla laceranti lo avvolsero in una morsa glaciale. Sarebbe finita? L’odore ferroso del sangue misto a quello della terra e polvere da sparo gli perforò le narici, nauseandolo.
“Uccidere. Nemico. Uccidere. Nemico.”
Dolore e smania di sangue, non era capace di sentire altro. Sarebbe mai finita?  Poi, improvvisamente, venne l’oblio.
 
Ryo spalancò gli occhi. Il cuore gli martellava all’impazzata e il sudore gli imperlava la fronte. Fece un respiro profondo e cercò di ritrovare la calma. Erano alcuni anni che non faceva quel tipo di incubo e si era dimenticato quanto lo fiaccassero i risvegli da quell’inferno. Si portò le mani tra la nuca e il cuscino, guardando distrattamente il soffitto lievemente rischiarato dal sole nascente. Perché quell’inferno tornava a infestare i suoi sogni? Credeva di aver rinchiuso quel capitolo della sua vita negli abissi del suo animo, di essere riuscito a incanalare i ricordi secondo i suoi desideri. Evidentemente non aveva fatto i conti con il suo cuore ribelle, che imperterrito seguitava a scalpitare, tentando in tutti i modi di svincolarsi dalla sua rigida ragione.
“Non puoi dimenticare chi sei stato, non devi dimenticare ciò che hai fatto, non dimenticare affinché tu non rifaccia lo stesso errore” sembrava ordinargli quell’ostinata vocina interiore.
Allungò pigramente la mano verso il lato esterno del materasso, prese il pacchetto di sigarette e lentamente ne accese una; ne aveva bisogno per rilassarsi e svegliarsi definitivamente.
Ultimamente le cose non gli stavano andando così male e il lavoro procedeva bene, anche se un po’ gli dispiaceva l’assenza di casi particolarmente pericolosi. Negli anni ci aveva preso gusto a sfidare la morte, una sorta di scommessa tra lui e la sua buona stella per vedere fino a che punto sarebbe riuscito a farla franca; una sfida che gli dava la forza necessaria per affrontare ogni nuovo giorno e non darla vinta ai demoni che infestavano la sua anima. Una piccola parte dentro di lui, però, aveva iniziato a stancarsi di quelle azioni avventate e la sua solitudine glaciale si era fatta un fardello sempre più pesante da sopportare. Eppure si era ripromesso, mentre lasciava Long Beach accucciato nella stiva di una nave mercantile, che non avrebbe più commesso l’errore di lavorare in coppia con qualcuno; l’epilogo avuto con Kenny lo aveva svuotato enormemente, lacerando ulteriormente quel poco che restava del suo cuore, e neanche la collaborazione con Mick era riuscita a rimarginare quella ferita sanguinante. Intravedendo l’immensità dell’oceano si era convinto che non ci fosse speranza per lui: era destinato a essere lasciato solo e ferito dal prossimo. Eccezion fatta per il Professore, ma lui non faceva testo. Gli doveva la vita ed era soprattutto per l’enorme rispetto che nutriva nei suoi confronti che aveva mantenuto quel minimo di autocontrollo per non lanciarsi in imprese suicide.
E poi era arrivato Maki a scalfire le sue certezze. Gli sembrava ancora incredibile pensare come colui che prima rappresentava formalmente il nemico fosse diventato il suo partner lavorativo.
Socchiuse le palpebre quando ricordò la gelida notte dei primi di gennaio di due anni prima in cui, dopo un inseguimento serrato, se l’era ritrovato di fronte in uno squallido vicolo cieco nella zona ovest di Shinjuku.
 
«Vorrei dirti due parole City Hunter prima che tu decida di far cantare la pistola»
 
Visualizzava ancora bene gli occhi che lo avevano fissato dietro le ampie lenti a goccia; erano occhi privi di paura o rabbia, illuminati solo una serena determinazione. Erano anni che nessuno gli aveva rivolto quel tipo di sguardo, perciò aveva abbassato l’arma, decidendo di ascoltarlo.
 
«So bene che facciamo parte di mondi agli antipodi. Io lavoro alla luce del sole, cercando di ristabilire l’ordine e la giustizia, mentre tu ti muovi nell’illegalità, nelle ombre di questa nostra società. Io sono il buono e tu il cattivo, questo pensavo prima di vederti all’opera. Ho studiato attentamente i tuoi movimenti in queste settimane di appostamenti, ho visto come eliminavi a sangue freddo persone per denaro. Che razza di uomo farebbe una vita del genere?»
Il detective, dopo aver reclinato lievemente il capo continuò.
«Osservando nel dettaglio le tue azioni, però, mi sono reso conto che le tue vittime rientravano sempre nel gruppo della feccia, non facevi altro che ripulire le strade dalla criminalità più o meno organizzata e allora ho capito. Chi fa un lavoro del genere deve per forza avere in sé un profondo senso della giustizia»
In quel momento alzò nuovamente lo sguardo e Ryo fu certo che il poliziotto riuscì a captare il suo stupore.
«Immagino come potresti controbattere, diresti che un killer di professione non sia meglio dei criminali che uccide. Io ritengo che non sia così: tu rappresenti l’ultima speranza per chi è disperato ed è affamato di giustizia. Se la gente arriva a te vuol dire che la legge ha fallito, che io ho fallito in qualità di suo rappresentate. La verità è che certi compiti sono sempre troppo “sporchi” per poter essere svolti dalle istituzioni, ma queste ultime non sono certo più pulite»
Il poliziotto fece due passi avanti e si inginocchiò accanto al corpo esanime di un uomo di mezza età, trapassato da un colpo di pistola all’altezza del cuore.
«Ti abbiamo inseguito insieme io e Mizukami, pedinandoti per tutta la giornata e braccandoti in questo vicolo. Era sicuro di farti un’imboscata il povero illuso, non aveva idea di chi tu fossi in realtà, i suoi capi non sono stati molto precisi con lui. Eppure, quando ci siamo ritrovati qui, non hai avuto nessuna esitazione a sparargli un colpo mortale mentre ti sei limitato a disarmarmi. Potevi uccidermi ma non l’hai fatto. Questa è la prova che non sei paragonabile agli esseri ignobili che mandi all’altro mondo. Sapevi bene che Mizukami si era venduto alla yakuza e fungeva da spia in centrale, aiutando così i suoi compari a smerciare indisturbati la droga in città. Ammetto di essere disgustato e deluso da questi sotterfugi e da una legge falsata a causa della criminalità che si annida al suo interno»
«Temo tu non abbia capito niente di me poliziotto, non sono certo il giustiziere di questa misera città. Io non mi lego a nessuna ideale, faccio solo quello che ritengo giusto e accetto gli incarichi che più aggradano. Mi è stato chiesto di sgominare la banda di cui il tuo collega faceva parte. Tu non eri un mio obiettivo ecco perché sei ancora vivo»
Nonostante avesse usato il tono e lo sguardo più freddi possibili fu sorpreso nel vedere come quell’uomo mantenesse una calma e un controllo fuori dal comune. Sicuramente doveva essere un osso duro. Il detective fece un mezzo sorriso e, mettendo le mani nelle tasche del soprabito, iniziò ad allontanarsi.
«Non dovresti arrestarmi sbirro?»
L’uomo si fermò e girando la testa su un lato disse semplicemente «Gli uomini come te sono più utili qui che dietro le sbarre»
 
Espirò pesantemente il fumo mentre si passò il dorso della mano sulla fronte. Dopo quell’incontro si era informato sul conto di quello strano poliziotto e aveva scoperto che faceva generalmente coppia con una donna – davvero bellissima, su di lei si era soffermato ampiamente – e che erano considerati gli elementi di punta per quanto riguardava le indagini più rischiose. Era certo che quell’uomo avvolto in un impermeabile sformato non si sarebbe mai più messo sulla sua strada, non potendo minimamente immaginare che quello era solo l’inizio.
Nel dicembre dello stesso anno, mentre usciva dall’ennesimo strip club del suo giro notturno, con sua somma sorpresa se l’era ritrovato davanti, ma notò subito qualcosa di diverso in lui. Il poliziotto sembrava la brutta copia consunta di quello che era stato solo qualche mese prima; alla solida fermezza si era aggiunta un’ombra nera di mesta angoscia nei suoi occhi cerchiati.
 
«Saeba» il tono di chi non ammette repliche «Lasciami lavorare con te»
Ryo non poté essere più sorpreso.
«Sei impazzito detective?»
«Forse» e abbassando lo sguardo triste e vitreo continuò «L’uomo che ti ha parlato di ideali e di giustizia poco meno di anno fa, in buio vicolo cieco, è quasi morto. Ho fallito come poliziotto, mi sono fidato troppo dei mezzi a mia disposizione e a causa della mia avventatezza una collega ha perso la vita. E l’aspetto più amaro è che sia morta inutilmente; non sono riuscito a catturare i bastardi che gestiscono il traffico di donne da destinare alla prostituzione. Se, però, lasciassi la divisa, se potessi usare metodi meno leciti, se avessi modo di muovermi e conoscere meglio l’ambiente dei bassifondi, forse potrei non rendere vano il suo sacrificio»
«Non ho bisogno di nessun partner» gli rispose in modo secco, per nascondere il lieve turbamento che quelle parole e quello sguardo gli avevano trasmesso.
«Non mi aspetto che tu decida così su due piedi, ma almeno rifletti sulle mie parole. Non voglio intralciare in alcun modo la tua vita privata e professionale, per ora mi basta che tu possa introdurmi nell’ambiente, lasciarmi immergere in questo mondo. Non sono uno sprovveduto e, considerando che continuo ad avere un aggancio in polizia, forse col tempo inizierai a considerare una nostra collaborazione vantaggiosa anche per te. Inoltre, potrei agevolarti per quanto riguarda i contatti con i clienti, così da non doverti esporre in continuazione e mantenere la tua identità riservata»
Disse il tutto senza perdere fiato, quasi come se avesse così tanto pensato a quelle parole da volersene sbarazzarsene quanto prima. Fece due passi verso di lui, ora erano davvero vicini e Ryo ebbe modo di cogliere con maggior cura la luce di quegli occhi. Avvertì una strana sensazione, gli sembrò quasi di specchiarsi e per il fastidio chiuse le palpebre in due fessure.
«Domani darò le mie dimissioni formali, non sarò più un poliziotto. Da domani e per una settimana ti aspetterò dal tramonto all’alba in questo posto; se dopo il settimo giorno non ti sarai fatto vedere non insisterò oltre»
«Ti fidi così tanto di me da voler diventare mio partner, perché? Non mi conosci per niente»
«Ti sbagli» e scrollando le spalle concluse «Ti conosco abbastanza da aver capito che siamo due facce della stessa medaglia. Finora abbiamo agito in ambiti distinti ma in realtà perseguiamo lo stesso obiettivo. In due sicuramente faremmo molta meno fatica. Ti aspetto» e così dicendo sparì nel buio della notte.
 
Si era arrovellato a lungo su quella strana proposta e la sua parte razionale gli aveva gridato a gran voce di non perdere altro tempo e ignorare completamente quella richiesta. Però… però il cuore sembrava voler dare un’occasione a quell’uomo singolare. Da quando si era trasferito in Giappone aveva sempre lavorato da solo, scartando qualsiasi idea di collaborazione; se voleva sopravvivere non doveva legarsi a nessuno. Si era autoimposto di buon grado quella disciplina ferrea, tuttavia non si era mai sentito così combattuto come nei giorni seguenti quell’incontro. Infine, esausto a seguito dell’ennesima battaglia interna tra le sue parti, aveva deciso di affidarsi totalmente all’istinto, che gli rispose facendogli visualizzare quegli occhi così stanchi ma fermi, così terribilmente simili a quelli che vedeva ogni giorno riflessi nello specchio del bagno. Aveva preso la sua decisione.
In poco tempo si era convinto di aver fatto la cosa giusta, Makimura era preciso e puntuale in tutto, e con lui il lavoro aveva acquisito una regolarità e metodica mai avute prima. Era discreto, proprio come aveva sperato, non facendogli mai domande scomode sul suo conto, e allo stesso tempo si trovava bene in sua compagnia. In un certo senso creavano una buona accoppiata: Maki, dietro il suo aspetto schivo e dimesso, celava una solidità e fermezza d’animo ammirevoli; lui, invece, dietro una corazza di impenetrabile sicurezza e continuo scherzo, cercava di tenere insieme un uomo totalmente a pezzi. In pratica nessuno dei due si mostrava per quello che era davvero.
Un gorgoglio prepotente lo strappò dalle sue elucubrazioni. Il suo stomaco decise che aveva rimuginato fin troppo e che era ora di pensare a cose ben più materiali e urgenti.
Pigramente si alzò e completamente nudo si affacciò alla finestra. La giornata sembrò promettere bene e ciò significava che non avrebbe perso troppo tempo a causa del traffico, che tendeva a diventare fuori controllo nelle giornate di pioggia.
“Così non dovrei fare troppo ritardo al ritorno. Non mi va proprio di sentire i suoi continui rimbrotti e le sue lezioni edificanti sulla virtù della puntualità, non mi dà mai tregua quell’uomo” pensò mentre osservava il lungo viale che iniziava a riempirsi di vita brulicante. Indugiò con lo sguardo su una cabina telefonica posizionata sul marciapiede di fronte, vicino l’incrocio.
"Mmmh nessuna traccia di Nobu" si disse piano. Nobu era un omuncolo piccolo e allampanato, dal colorito abbronzato e dalla dentatura marcia; guardandolo lo si poteva prendere per uno dei tanti miserabili che affollavano i vicoli della Tōkyō malfamata rovistando tra i rifiuti. In realtà era uno dei suoi migliori informatori e dei più efficienti. Ssolo lui riusciva a tener sotto controllo qualsiasi evento succedesse nella caotica Kabukichō e grazie al suo aspetto agiva indisturbato. Da quando si era trasferito nel nuovo appartamento, la mattina si faceva trovare accanto a quella cabina nel caso in cui avesse avuto notizie interessanti da riferirgli, una sua assenza, invece, significava nessun evento degno di nota.
"Meglio così, vuol dire che potremo andarcene più tranquilli stamattina" aggiunse occhieggiando il suo amico che svettava ancora ben sveglio.
A lunghi passi si affrettò in bagno per farsi una doccia fredda e decise di prendersi qualcosa d’asporto per mangiarsela durante il viaggio, non voleva perdere altro tempo.
 
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Tra il traffico di Tōkyō, precisamente sull’autostrada metropolitana C2 in direzione Tohoku, una Mini Cooper sfrecciava violando ogni limite di velocita, ma il suo proprietario non ne se curava affatto. Sebbene fossero passati otto anni dal suo arrivo in Giappone, Ryo ancora non riusciva ad abituarsi al ritmo di guida degli autoctoni, che riteneva troppo lenti, indecisi e impediti nelle manovre più semplici. Per questo odiava percorrere lunghe distanze, tendeva a innervosirsi e non erano poche le occasioni in cui urlava dal suo abitacolo qualsiasi vituperio contro lo sfortunato che si era permesso di rallentarlo. Naturalmente lo faceva solo in spagnolo o inglese, sia perché così nessuno l’avrebbe capito e anche perché gli veniva più naturale esternare le emozioni più forti e dirette con le lingue che aveva padroneggiato sin dalla tenera età – che di tenero, per lui, non aveva avuto niente –. Involontariamente iniziò a tamburellare le dita sul volante, riproducendo il ritmo di Las Dos Puntas, canzone che canticchiava spesso durante l’infanzia assieme a Carlos, il corpulento cileno con cui preparava il rancio serale, prima che il loro villaggio venisse attaccato.
“Ah, si vede che oggi è la giornata dei ricordi… vediamo di farla passare presto” si disse e in un attimo bloccò le mani sul volante, fissando intensamente la strada per alcuni istanti. Si concentrò sul battito cardiaco contando fino a dieci, poi espirò rumorosamente, quasi a voler buttar fuori quei fantasmi che si ostinavano a fargli compagnia quella mattina. Gli era costata molta fatica ma, con gli anni, era riuscito a sviluppare quel metodo infallibile e rapido per sgombrare la mente da ogni tipo di pensiero, sia per una questione lavorativa – la lucidità e la fermezza erano essenziali per un professionista del suo calibro – e anche per sopravvivere al suo passato, per non tornare nuovamente sotto il giogo dell’odio e dell’amarezza che lo avevano reso alla stregua di un morto vivente.
Allungò lo sguardo verso la sua sinistra e, mentre osservava il placido scorrere del fiume Arakawa sotto di sé, l’occhio gli cadde sul sedile accanto, in cui giacevano accartocciate le carte della colazione. Cercò di riconcentrarsi alla guida ma un visetto con dei capelli arruffati e due occhi vispi e dolci tornò prepotente nella sua mente. Il mattino precedente, nel vederla dormire così serena sul sedile, totalmente abbandonata al sonno e così priva di difese, aveva sentito farsi strada dentro di sé un sentimento che poteva definire, a mente fredda, come tenerezza. Quanti anni erano passati da quando era stato coetaneo di quella ragazzina? Non ne aveva idea, sicuramente molti, ma era certo che lui non si fosse mai permesso il lusso di mostrarsi così indifeso in compagnia di uno sconosciuto. Anche quando si stava tra amici non bisognava mai abbassare la guardia, gli anfibi sempre addosso e la pistola tra le mani… chissà, se fosse stato un ragazzo normale avrebbe conosciuto una vita diversa, forse migliore? Ebbe un senso di vertigine a quel pensiero: era inutile immaginarsi diverso e quelle erano solo sciocche speculazioni. La sua vita era quella e non sarebbe riuscito a immaginarsela diversamente; gli andava bene, ora più che mai visto che stava riuscendo a far pace con se stesso grazie principalmente a due persone: il Professore e Makimura naturalmente.
Solo in quel momento si rese conto di quanto lo avesse davvero sollevato il sentirgli dire che la collaborazione sarebbe continuata, e ringraziò il cielo che quella sua sorellina testarda si fosse mostrata ragionevole. Ora che ci pensava, in realtà aveva sospettato che lo Sugar Boy potesse essere proprio lei per quel suo modo accorato di parlare del fratello. Quando, però, aveva avuto l’occasione di osservarla meglio mentre dormiva, si era convinto dell’impossibilità della sua idea. Era un eccellente fisionomista e quella ragazzina non aveva la benché minima somiglianza con il suo partner. No, si trattava sicuramente di una coincidenza, ormai ne era convinto. Comunque, nonostante quell’incursione inaspettata l’avesse inizialmente seccato, doveva ammettere che tutto sommato era stato un piacevole incontro e quella compagnia atipica gli aveva portato una ventata di freschezza; non gli capitava mica tutti i giorni di relazionarsi con persone così ingenue e totalmente estranee al suo ambiente. Sorrise lievemente.
“Ti auguro buona vita Sugar Boy, spero per te che le nostre strade non si incrocino mai più” pensò mentre lasciava l’autostrada per immettersi sulla statale 463. Nel frattempo gli alti palazzi erano stati sostituiti da villette con giardino e piccoli campi coltivati, segno che si stava avvicinando a destinazione. Sperava davvero di farcela entro tempi accettabili, ma sapeva anche che, ogni volta che si recava dal Professore, tendeva a fare tutto con molta più calma del norma, perdendo la cognizione temporale; forse era colpa di quella casa così bucolica o forse semplicemente la presenza dell’uomo aveva su di lui un effetto calmante.
“Ah, ho bisogno di un po’ di svago” si disse mentre osservò sognante la bella modella sul cartellone pubblicitario. Aveva saltato il classico giro dei locali per ben due sere di fila, che negligenza imperdonabile era la sua! Poteva già pregustare il bel programmino che aveva in mente e al solo pensiero accelerò di scatto, riuscendo a malapena ad evitare di tamponare la macchina che proseguiva placida davanti a lui.
“Devo cercare di controllarmi” pensò tra un’imprecazione e l’altra “Ma è così difficile quando penso a tutto il ben di Dio che mi attende! Sei d’accordo anche tu, vecchio mio?”
Non ebbe bisogno di guardare in basso per capire che qualcun altro era più che entusiasta, segno che era riuscito a mandar via i pensieri malinconici che lo stavano attanagliando dal risveglio.
Ryo non amava indugiare sugli eventi passati, specialmente quelli più dolorosi; nonostante tutto la sua indole era rimasta quella di un uomo a cui piaceva scherzare, preferendo nascondere le preoccupazioni dietro a un sorriso. Le donne…beh, loro rappresentavano il massimo del divertimento per lui e doveva ringraziare proprio il Professore per avergli introdotto quella filosofia di vita. Indubbiamente era stato un adolescente atipico, avendo avuto ben altro per la testa che pensare a stupide storielle d’amore e, durante gli anni di guerriglia, aveva considerato le donne una debolezza di cui poteva fare a meno. Solo negli ultimi mesi di riabilitazione – periodo che rappresentava l’inizio della sua seconda vita – aveva scoperto come l’altro sesso fosse il migliore dei diversivi per risollevare il suo animo e svuotare la mente dalle preoccupazioni. Nei momenti in cui faceva il deficiente gli sembrava di recuperare la spensieratezza che non aveva avuto possibilità di godere a tempo debito e proprio la maschera del maniaco era quella che lo divertiva maggiormente. Le reazioni sconvolte delle donne erano davvero spassose a vedersi – un po’ meno a subirle, ma era abituato ad attacchi ben peggiori. Sebbene potesse dar l’impressione di essere il peggiore dei maniaci, non era mai serio nel voler molestare le donne, no aveva visto coi suoi occhi cosa fossero le vere violenze e lo avevano scosso nel profondo quando era ragazzo. D’altro canto, se fosse stato più serio e affascinante non avrebbe avuto difficoltà a portare a letto la maggior parte delle donne che incrociava per le strade di Shinjuku, ma era proprio l’essere serio l’aspetto che voleva evitare a tutti i costi. Ciò avrebbe significato il dover stringere dei legami affettivi… no, troppo rischioso per lui, il suo lavoro non gliel’avrebbe mai permesso. Anche il Professore era stato molto chiaro con lui, prima della sua partenza per gli Stati Uniti:

«Ricorda Ryo, le donne possono essere creature angeliche, ma possono anche trasformarsi in un enorme problema appena credono di avere il tuo cuore. Divertiti, inebriati di loro purché tu lo faccia sempre senza impegno; fai il cascamorto mentre passeggi ma cerca il piacere solo nei locali notturni, dove non ci possono essere conseguenze. Non c’è spazio per l’amore in questo mestiere, intesi?»

E lui aveva seguito quel consiglio diligentemente per tutti quegli anni, e non dubitava che sarebbe stato così per sempre, non poteva permettersi di pensare all’amore nella posizione che ricopriva. Durante gli anni in California si era divertito molto, raggiungendo l’apice con le memorabili scorribande assieme a quel pazzo di Mick. Sull’argomento donne si erano trovati sulla stessa lunghezza d’onda e, se avessero avuto modo di lavorare insieme più a lungo di quella manciata di mesi, sicuramente sarebbe degenerato a livelli indicibili. Nella smania di piacere e sangue di quel periodo aveva cercato il modo per dimenticare sia l’esperienza con Kenny che le continue minacce di morte, che si susseguivano incessantemente dal giorno del fatidico duello. Da quella spirale infernale che, ne era certo, l’avrebbe portato allo morte in brevissimo tempo, l’aveva salvato il Professore con il suo provvidenziale invito a raggiungerlo in Giappone.
Sospirò gravemente. Nell’intimo del suo animo, però, Ryo avvertiva una certa amarezza per quel destino di solitudine; la parte più silente del suo essere considerava abbastanza inutili le rincorse ai bei fondoschiena, desiderando qualcosa di più, ma ne aveva paura al solo pensiero. Da quel punto di vista invidiava Makimura; il suo partner alla fine di ogni giornata, buona o brutta che fosse stata, poteva contare su una famiglia, per quanto ridotta, che espettava il suo rientro a casa. Poteva contare su un affetto stabile e incondizionato, poteva condividere risate, litigi e scherzi. Poteva amare e sentirsi amato. Lo sweeper sapeva bene, a suo malgrado, che i grandi assenti della sua vita fossero una vera famiglia e quel sentimento che aveva definitivamente bollato come la peggiore delle debolezze. Eppure per un periodo l’aveva assaporata quella sensazione e proprio grazie all’amore era riuscito a barcamenarsi negli anni di guerriglia continua. Tuttavia, e questa volta era il Ryo lucido a riportarlo sulla retta via, non era stato a causa del suo amore e fiducia incondizionati che era stato a un passo dalla morte?
“Finisce sempre così” pensò mestamente mentre rallentò e iniziò ad accostarsi al margine della carreggiata. I suoi pensieri contrastanti lo lasciavano in una condizione di impasse perenne e, se una parte di lui voleva provare a cambiare qualcosa, l’altra parte gli urlava a gran voce di lasciare tutto com’era. E vinceva sempre quest’ultima. Certe volte non si capiva nemmeno lui e odiava profondamente il suo aspetto più riflessivo, che lo portava a soffermarsi troppo sulle cose che voleva dimenticare.
Con un sospiro rumoroso spense l’auto e con poche ampie falcate attraversò la strada, dirigendosi verso il cancello di un’enorme villa in perfetto stile tradizionale. Citofonò con tre colpi secchi, un segno distintivo che il Professore doveva cogliere ma che immancabilmente si divertiva a non fare.

«Chi è?» gracchiò una voce dal citofono.

«Sapeva che sarei passato in questi giorni» rispose Ryo in tono allegro.

«Purtroppo speravo di ricordar male. Mai una volta che arrivi una bella donna da queste parti» seguì il rumore metallico della serratura aperta «Sono nello studio Ryo» concluse prima di mettere giù.

Lo sweeper sorrise lievemente; da quando era ritornato in quello che doveva essere il suo Paese d’origine, il Professore era l’unico a pronunciare il suo nome accentando la “y” a differenza di quanto si facesse in giapponese – dove era la “o” ad essere accentata – e la cosa non gli dispiaceva affatto. In un certo senso, quella pronuncia atipica rappresentava il solo elemento tangibile di un periodo della sua vita che nessuno conosceva lì. Aprì le due parti della cancellata, poi ritornò verso la Mini.
Ormai erano alcuni mesi che si chiedeva se fosse il caso di raccontare a Maki qualcosa sul suo passato, ma l’inevitabile bisticcio interiore tra le sue parti perennemente contrastanti lo aveva esasperato a tal punto da decidere di tacere del tutto, convincendosi che per l’ex detective integerrimo sarebbe stato un duro colpo apprendere la verità. Non era del tutto improbabile che avrebbe iniziato a considerarlo alla stregua di una bestia; niente più sguardi di stima e gesti di ammirazione per lui e, sinceramente, quella prospettiva lo angosciava.
Con una sgommata sterzò l’auto, facendola entrare nel posto auto coperto, dopodiché richiuse accuratamente il cancello. Attraversò il vialetto lastricato con la sicurezza di chi conosceva bene il posto e i suoi occhi si soffermarono sui bonsai posizionati in grossi vasi ai lati della piccola gradinata che conduceva al porticato d’ingresso della villa. Restava sempre estasiato nel ritrovare, nella cura dei piccoli dettagli di quella imponente tenuta, la stessa perizia che il Professore impiegava nelle sue attività. Lo percepiva come un ordine ristoratore; ogni ambiente, dal giardino agli interni, sapeva trasmettergli una tranquillità corroborante. Nulla a che vedere con il suo appartamento che aveva le sembianze di un campo di battaglia, e si ricordò di doverlo riordinare al più presto; per quanto non fosse un fanatico dell’ordine la situazione attuale era troppo anche per un uomo incasinato – in ogni senso – come lui.
Superato l’ampio ingresso, Ryo si ritrovò in un esagerato disimpegno quadrato dalle dimensione di un salone delle feste; ai suoi lati vi erano quattro porte di legno massiccio, due a destra e due a sinistra, mentre frontalmente, oltre alla scalinata che conduceva al piano superiore, vi era situato l’ampio finestrone scorrevole che conduceva al giardino zen, il punto focale dell’intera abitazione. Si diresse verso l’ultima porta sulla desta, l’unica che fosse aperta, e subito venne travolto dall’odore intenso di carta e inchiostro. Lo studio era una vera e propria biblioteca, con una possente libreria di mogano che correva lungo tutte le pareti e dotata di un mezzanino dove vi era posizionato un tavolo completamente ricoperto da pile ordinate di volumi rilegati. Nella sala principale, invece, erano disposti altri quattro tavoli di legno massello, tutti di notevoli dimensioni e occupati da decine di libri dall’aspetto molto antico. La luce, che filtrava a fasci sottili, sembrava farsi strada a fatica tra quella mole di legno e carta che inglobava integralmente quattro finestre disposte su tre lati; il riverbero particolare e il pulviscolo sospeso davano un aspetto imponente a tutto l’ambiente, creando un potente contrasto con l’estetica esterna dell’edificio. In fin dei conti erano quei due opposti a rappresentare il Professore al meglio: a una facciata giapponese tradizionale faceva da contraltare uno spirito britannico e accademico. Non era un caso, infatti, che quell’ambiente fosse una riproduzione in scala della biblioteca del King’s College di Cambridge, luogo in cui il vecchio aveva speso gli anni migliori della giovinezza, rincorrendo quella bramosia di sapere che non l’aveva mai lasciato. Ryo sapeva solo quello, il Professore non aveva mai voluto dilungarsi sugli eventi che l’avevano portato da essere un ricercatore brillante a diventare il medico di un manipolo di guerriglieri in Centro America; intuiva, però, che anche lui nascondesse una storia fatta di sofferenza e delusioni.
Giunto di fronte al settore dedicato alle pubblicazioni di biologia, Ryo infilò un dito sotto la terza mensola, facendo scattare una serratura nascosta. La libreria-porta girò su se stessa, rivelando una stanzetta dall’aspetto asettico, con una scrivania di modeste dimensioni su cui troneggiava un computer. Lungo i muri erano sistemati degli schedari, sovrastati a loro volta da orologi indicanti i vari fuso orari terresti mentre, accucciato dietro al monitor, vi era il padrone di casa avvolto nel suo immancabile camice bianco.

«Non hai perso tempo a tornare, eh Baby Face?» gli chiese l’uomo senza distogliere gli occhi dallo schermo.

«Anche per me è un piacere rivederla Professore» rispose Ryo con malcelata ironia «Ho la mattinata libera, non potevo non approfittarne per andare avanti con il lavoro» e lanciandogli un’occhiata eloquente aggiunse «Siete riuscito a risolvere le anomalie del segnale?»

Il rumore di dita che si muovevano frenetiche sulla tastiera fu la sola risposta che ricevette. Decise di essere più incisivo. Si avvicinò silenziosamente e con uno scatto fulminio afferrò il monitor e lo girò ma, nell’impeto del momento, il cavo di alimentazione si staccò spegnendo lo schermo.

«Professore» disse mentre si stendeva di peso sul computer «Ho fatto tanta strada per venire a trovarla, preferirei che guardasse il mio bel viso piuttosto che quell’ammasso di vetro e plastica»

Il vecchio non si scompose, socchiuse gli occhi e toccando con le dita la stanghetta degli occhiali – un vezzo più che necessità – rispose con una serietà totalmente fuori luogo.

«Vedi Ryo, si dà il caso che tu abbia fatto tanta strada non tanto per amor mio, ma per i tuoi comodi, sebbene riconosca che quel tuo cervello bacato ogni tanto partorisca qualche idea decente. Perciò sarebbe buona educazione aspettare che io finisca il mio lavoro prima di darti soddisfazione. E poi» fece una pausa che riuscì a far temere il peggio al povero sweeper «Anche se non mi si alza più da alcuni anni questo non vuol dire che abbia cambiato gusti, e preferirei mille volte fissare uno schermo nero piuttosto che il tuo volto ripugnante. Ah che ragazzo impossibile! Fai il bravo e non stressarmi!» e così dicendo, tra un rimbrotto a mezza voce e uno ad alta voce riprese possesso dell’apparecchio.

Ryo si arrese: era meglio fare come voleva, non era certo nel suo interesse indispettirlo. Sbuffò e mettendo le mani nelle tasche dei jeans si voltò verso l’uscita.

«Questi maledetti database americani mi stanno dando filo da torcere» sentì dire in tono bonario «Fatti un giro Ryo, ti raggiungo subito. E il tuo marchingegno l’ho sistemato tranquillo»

«D’accordo Professore, sa dove trovarmi» e visibilmente rilassato chiuse la porta-scaffale.

“Sempre il solito burlone, si diverte nel vedermi sbiancare facendomi credere che l’abbia fatto incazzare” si disse scuotendo lievemente il capo, dirigendosi lentamente verso l’enorme giardino posteriore, dove raggiunse un laghetto fin troppo perfetto per essere naturale, cinto da massi di diversa grandezza e circondato da siepi verdeggianti. Quell’angolo era diventato per lui una sorta di sala d’aspetto. Si sedette su un masso sufficientemente liscio e guardò distrattamente le carpe nuotare a pelo d’acqua, sperando che l’uomo fosse di parola e quel subito non si rivelasse l’esatto contrario. Dall’ombra che il sole proiettava sullo steccato vicino intuì che dovevano essere le undici e abbassò la testa sconsolato.
"Mi sa che anche oggi non sarò così puntuale Maki" disse in un sussurro mentre appoggiò il mento sul palmo della mano, il gomito ben piantato nella coscia destra.
Chiuse gli occhi e si concesse qualche minuto di silenzio interiore, concentrandosi su ciò che il suo corpo percepiva. Il timido calore del sole che lo avvolgeva dolcemente, il fruscio delle foglie nelle occasionali folate di vento, il lieve suono liquido dello sguazzare dei pesci nel laghetto, tutto gli dava quel senso di pace che gli era completamente estraneo nella vita quotidiana, dove doveva guardarsi continuamente le spalle. Se il Professore avesse tardato sicuramente si sarebbe addormentato così, in quella posizione scomoda, perciò riaccese il cervello, non sarebbe stato degno del suo nome farsi trovare a russare in pieno giorno. Sempre ad occhi chiusi, Ryo lasciò andare la mente a briglia sciolta, e questa lo sorprese riportandolo nello stesso posto in cui sedeva in quel momento, in una calda giornata primaverile di otto anni prima.
Ricordò perfettamente il senso di frustrazione che aveva avvertito quel giorno, mentre fissava quei fogli fitti di kana che a prima vista gli erano sembrati degli insetti schiacciati; per quanto si sforzasse non riusciva a memorizzarli, tutti così dannatamente simili tra loro.

«È normale ragazzo mio, ma vedrai che con un po’ di tempo ed esercizio riuscirai a leggere il giapponese» disse una voce alle sue spalle «Dopo pranzo riprenderemo le lezioni di conversazione; per quanto tu riesca a capire gran parte di ciò che ti viene detto sei ancora troppo bloccato nel parlato. Prima saprai padroneggiare la lingua e prima potrai metterti seriamente a lavoro»
«Credo che non ci riuscirò mai» rispose frustrato, stringendo i pugni e accartocciando i fogli «Non sono intelligente come lei, non ho mai frequentato la scuola e se non sono analfabeta è solo perché…» gli mancò il fiato per continuare.
A distanza di anni non riusciva a pronunciare il nome di chi aveva considerato suo padre. Emise un verso frustrato.

«Questa… questa è davvero una lingua infernale!» e con rabbia gettò via i fogli appallottolati «Temo non sia stata una buona idea venire qui»

“Che strazio è stato quel periodo” si disse mentre tamburellò le dita sulla guancia, ancora perso nel vivido ricordo.

«Non lasciarti scoraggiare dalla difficoltà Baby Face» gli rispose l’uomo sereno «Sono certo che entro un anno sarai già ben conosciuto nell’ambiente di Tōkyō e sorriderai nel ricordarti questi momenti»
Una mano, piccola ma forte, si appoggiò sulla sua spalla, irradiando un calore che gli arrivò dritto al cuore; un calore che significava fiducia. Alzando lo sguardo ritrovò quel calore negli occhietti arguti che lo fissavano, parzialmente nascosti dalle piccole lenti. Riabbassò la testa, non riuscendo a sostenere lo sguardo.
«Io… non so se questo è il mio posto. Anzi, credo che nessun posto vada bene per me. Io sono un fantasma, continuo a scappare dalla morte ma per quale scopo? A chi importerebbe se continuassi a vivere o crepassi trivellato da un mitra? Forse ho sbagliato a lasciare gli Stati Uniti, era meglio se fossi restato per vedere quanto tempo ci avrei impiegato prima di andare all’inferno»
La mano sulla spalla diventò all’istante una tenaglia, facendolo sobbalzare. Ne fu sorpreso, ma rimase in silenzio non osando rialzare la testa.
«Non osare dire di nuovo queste sciocchezze Ryo. Non ti azzardare neanche a pensarle. Il senso di appartenenza a un Paese è una mera idiozia nazionalistica, sinceramente l’ho sempre considerato una cazzata. Tu appartieni a questo mondo e la tua vita è preziosa esattamente come quella di ogni altro uomo su questa terra. Capisco i tuoi sentimenti ragazzo mio, ma non lasciare che l’odio e l’amarezza ti soverchino; cerca di concentrarti sui momenti felici, per quanto possa sembrarti difficile. Ricorda quanto hai fatto per gli altri, ricorda la bellezza degli attimi che hai condiviso con persone a te vicine, e pensa a quanto di buono puoi fare ancora negli anni a venire, quante possibilità ci saranno, quante persone incroceranno il loro cammino col tuo. Questo è il gioco dell’esistenza in fin dei conti. Non pensare che ti lasci gettare la tua vita così, dopo tutta la fatica che ho fatto per riportarti in questo mondo. A me importa che tu viva Ryo e sono sicuro importerà ad altri in futuro»
La presa si fece più morbida e Ryo ricominciò a respirare, non si era reso conto di aver trattenuto il fiato; quelle parole lo avevano scosso, il Professore non gli aveva mai parlato in modo così appassionato.
Quando ritrovò il coraggio di alzare lo sguardo, vide il Professore perfettamente sereno e il suo turbamento si trasformò in decisione: si sarebbe impegnato anima e corpo. Non voleva deluderlo. Allungò il braccio di slancio e, una volta raccolti i fogli accartocciati, iniziò a spiegarli e stirarli con cura.
«Entro pranzo memorizzerò l’ultima serie di hiragana. Voglio studiare duramente nei giorni a venire e tornerò in azione prima di quanto lei creda» disse piano, con una nuova risoluzione nel cuore.
«Bravo ragazzo» fu l’unica risposta che ebbe, a cui seguirono dei passi cadenzati.

Ryo percepì quegli stessi passi avvicinarsi, accompagnati questa volta dal suono sordo di un bastone da passeggio. Aprì gli occhi di scatto e per un attimo venne accecato dal riflesso del sole nell’acqua. Quanto tempo era passato? A giudicare dal formicolio lungo il braccio temette fin troppo.

«Eccomi Baby Face, ho fatto il prima possibile» e squadrandolo un attimo aggiunse «Che ti succede? Oggi ci sentiamo romantici?» enfatizzando l’ultima domanda con un sorrisetto.

Lo sweeper intuì di non aver fatto in tempo a indurire lo sguardo e al Professore naturalmente non era sfuggito quel suo attimo di debolezza. Sbuffò mentre si alzò, sentendosi leggermente anchilosato.

«Bah romantico!» esclamò disgustato. Poi aggiunse piano «Mi sembra che oggi sia braccato dai ricordi»

Il Professore rimase un attimo in silenzio, giocherellando col bastone con cui disegnava ampi cerchi in aria.

«I ricordi non sono necessariamente un male, anzi. È sempre un errore volerli sopprimere, anche se è altrettanto pericoloso indugiarvi a lungo. Sei troppo duro con te stesso, però, per quanto tu non lo voglia ammettere, sei umano e hai le tue fragilità, come tutti del resto» e girandosi continuò in tutt’altro tono «Su, sbrighiamoci con il tuo marchingegno… e la prossima volta vedi di portare qualche bella ragazza per sollazzare il mio spirito»

«Non ci penso proprio! Se fossi in così buona compagnia questo sarebbe l’ultimo posto in cui verrei» disse, schivando a stento il bastone che il Professore gli aveva scagliato addosso.

«Sei una vera piaga Ryo! Un giorno di questi inserirò una bella bomba al plastico tra i circuiti del tuo progettino!» gli abbaiò contro, per poi riprendere il bastone che lo sweeper gli allungò sorridendo.

Un’oretta dopo Ryo si ritrovò a maledire con tutto il cuore di aver avuto quell’idea brillante, mentre affondava letteralmente dentro il cofano dell’auto, il motore parzialmente smontato per terra accanto a lui. Il professore aveva voluto a tutti i costi ultimare l’interfaccia di base e fare una prova di funzionamento, però era sfuggito a entrambi che l’alimentazione sarebbe stata fornita dalla batteria dell’auto. Perciò, con suo disappunto, si era ritrovato a fare il meccanico, smontando pezzi del motore e, con l’ausilio di fresa e seghetto, era riuscito a far passare i cavi del monitor attraverso la scocca, collegandoli così alla batteria. Con i lavori manuali non aveva mai avuto problemi e aveva imparato a fare il meccanico quando era un piccolo guerrigliero, ma non era certo piacevole lavorare con la testa tra il grasso, tenendo una torcia fra i denti mentre armeggiava tra bulloncini e cacciaviti con le manone che si ritrovava. Aveva faticato sette camicie per recuperare l’ultimo dado che, sfuggendogli di mano, si era simpaticamente nascosto sotto la vaschetta dell’olio; dopo che anche quello fu fissato, si rialzò emettendo un verso simile al ruggito di un leone in gabbia.
“Ah che faticaccia!» esclamò mentre raggiunse l’officina adiacente, dove trovò il padrone di casa intento a consultare alcuni stradari.

«Professore l’alimentazione ora è collegata, penso possiamo procedere con la configurazione dei comandi e vedere come…» ma una risata acuta lo interruppe, facendolo innervosire.

«Insomma mi dice che ci trova di divertente in quello che ho detto?» sbottò stizzito.

«Ahahah ragazzo!» e cercando di ricomporsi proseguì «Non è divertente quello che hai detto ma con che faccia l’ha detto, ah sei uno spettacolo, sembri uscito direttamente da… non so da cosa esattamente ma sei un vero spettacolo eheh… Ehi sei impazzito?!» gli urlò contro dopo essere stato colpito da uno straccio sporco.

«Io mi spezzo in due per lavorare e in più vengo deriso, roba da non crederci» borbottò a mezza voce, mentre raggiunse la Mini per specchiarsi nel parabrezza.

A stento si riconobbe: il riflesso gli mostrava una versione di se stesso uscita direttamente da un girone infernale, con i capelli scarmigliati e unti alle punte, il viso macchiato di grasso e gli avambracci e le mani erano così neri che sembrava avesse spalato carbone.
“Fantastico, e se penso che devo ancora risistemare le parti smontate temo che per sgrassarmi dovrò farmi un bagno nella soda caustica” si disse amaramente.
In quelle condizioni non poteva certo tornare a casa e men che mai incontrare Makimura al parco, anche se al pensiero della faccia che avrebbe potuto fare il suo partner vedendolo in quello stato pietoso lo fece ridere apertamente; era inutile, anche se ci provava non riusciva proprio ad essere permaloso ed era il primo a prendersi in giro. Con uno sbuffo riprese posto davanti al cofano aperto e velocemente riposizionò le varie parti del motore al proprio posto. Si sentiva leggermente stanco e unto, ma capì la reale entità del suo stato quando, appena poggiò l’avambraccio sulla fronte per detergersi il sudore, lo vide sgusciare come un pesce appena pescato. Decisamente si sentiva una schifezza. Con un colpo secco richiuse il cofano e appena si voltò vide il professore sorridergli.

«Direi che adesso il tuo lavoro è finito Baby Face, vai pure a ripulirti mentre litigo un po’ con quest’affare» disse mentre salì in macchina portando con sé una valigetta da cui, una volta aperta, uscirono diversi apparecchi di ignoto uso per lo sweeper.

«La ringrazio» rispose semplicemente mentre si apprestò a rientrare.

«Comunque Ryo» sentì il vecchio urlargli dietro «Sei un povero illuso se pensi non abbia capito quali siano le tue modifiche urgenti sulla planimetria! Hai segnato i love hotel di quasi tutta la città, non penso di aver mai conosciuto uno più porco di te, ehi mi ascolti?» ma lo sweeper non gli rispose, limitandosi a sventolare la mano in un gesto di noncuranza.

“Quel vecchio è impossibile, vuole farmi la morale quando lui è stato il primo a girarli tutti quei posti” si disse con un sorriso sornione.
Gli ci vollero quattro robuste passate di bagnoschiuma e shampoo per non avvertire più la fastidiosa sensazione di unto sul corpo e, con un sospiro sollevato, fu felice di constatare che la parte sporca del lavoro era finita. Rabbrividì appena uscì dalla doccia – difficilmente vi permaneva così a lungo – e si asciugò velocemente prendendo un ampio asciugamano dall’armadietto accanto al lavandino. Gli passarono veloci davanti agli occhi gli anni in cui, non solo si era lavato in quel bagno, ma che aveva vissuto in quella casa. Nel ripensarli, con la sua attuale consapevolezza, avvertì una leggera nostalgia; vivere con il Professore era stato piacevole e mai noioso poiché, a causa dei loro caratteri per alcuni versi simili e per altri opposti, non c’era giorno in cui non si scontrassero, ma senza mai andare oltre il gioco naturalmente. Eppure erano stati anche anni difficilissimi, pieni di incognite e sfide, in cui aveva dovuto riplasmarsi per l’ennesima volta, cercando tenacemente la forza e il coraggio per vivere ogni nuovo giorno. Idealmente si ritrovò ad abbracciare il ragazzo che era stato e gli fu grato per non aver mollato in quel periodo difficile, di essere andato avanti nonostante la voglia di farla finita; non sarebbe stato l’uomo che era in quel momento e non avrebbe vissuto la vita che stava vivendo. Sì, ma fin quando sarebbe durata quella vita? Stava ritrovando un certo equilibrio anche grazie al suo partner che gli riempiva le giornate, prima così solitarie, ma per lui le cose belle non duravano mai a lungo. Decise, però, di non soffermarsi in quelle inutili paranoie, ridendo di se stesso: per il lavoro che faceva doveva concentrarsi solo sul presente, non era mai scontato che ci sarebbe stato un domani.
“Insomma oggi proprio non riesco a non perdermi in queste stupide riflessioni, e questa casa non mi aiuta di certo” si disse mentre scese velocemente le scale, sorprendendosi nel notare alcune scatole di notevoli dimensioni nel grande ingresso. Appena provò ad aprirne una si sentì chiamare dal Professore; la voce proveniva dalla cucina e in pochi passi fu dentro. Lo vide seduto su uno sgabello, appoggiato sull’ampio bancone dell’angolo bar che fungeva da divisorio tra la cucina vera e propria e il tinello, intento a sorseggiare il famoso bibitone che lo sweeper era solito prepararsi a colazione come toccasana per la sua virilità; ma se per lui era poco più che una bevanda leggera, per il vecchio sostituiva il pranzo. Come facesse a non provare appetito era incomprensibile per un uomo vorace come lui, e proprio in quel momento si accorse che aveva un certo languorino.

«Prendine pure Ryo, ne ho preparato anche per te. Certo ce n’hai messo di tempo per lavarti!»

«Lasci perdere, ero in una condizione pietosa» rispose mentre afferrò il contenitore del frullatore e iniziò a trangugiare in fretta il contenuto.

«Sei sempre il solito maiale» disse sconsolato il Professore e, girando la cannuccia nell’intruglio denso, continuò «Sono riuscito a terminare la calibrazione parziale del segnale radio e per ora sembrerebbe funzionare discretamente quando tieni l’auto accesa. Però hai preso dei componenti davvero scadenti Ryo, su queste cose non si risparmia sai? Dovrai tornare tra una settimana più o meno, così potrò verificare se i circuiti sono a posto» concluse tirando su con la cannuccia.

«L’importante è che funzioni, ho già speso un mucchio di soldi, non potevo permettermi di meglio» rispose piccato, rimettendo il contenitore sulla base del frullatore.
«Eppure mi risulta che il lavoro ti stia andando piuttosto bene»

“Sì, ma ci sono modi più piacevoli per spendere il denaro” pensò con un sogghigno che gli si congelò all’istante. Ebbe un momento di panico.

«Professore può dirmi che ore sono?» chiese con una punta di preoccupazione.

«Ancora non ti decidi a comprare un orologio? Roba da non credere» e così dicendo scoprì il polso sinistro dalla manica leggermente lunga del camice, lasciando intravedere metà quadrante. «Precisamente due quarti alle tre» emise soddisfatto mentre ricominciò a bere avidamente il suo frullato.

Ryo, dopo un primo momento di perplessità – trovava astruso quel modo di leggere l’orario –, si sentì sbiancare una volta capito e di riflesso si portò una mano alla fronte. Erano le due e mezza ma avrebbe dovuto incontrare Maki alle due. Mezz’ora di ritardo a cui doveva aggiungere un’altra mezz’ora di strada per tornare… voleva morire, questa volta avrebbe ben meritato le ire del suo partner.

«Che succede?» domandò il Professore, accortosi del suo stato di catalessi.

«Nulla, sono solo mortalmente in ritardo per un appuntamento di lavoro, devo scappare»

«Prima ti saresti catapultato in questo modo solo se ci fosse stato uno stuolo di belle ragazze ad aspettarti» e saltando giù dallo sgabello continuò «Davvero notevole questo Makimura, sta riuscendo a farti rigare dritto»

I due uomini si diressero verso l’ingresso, dove il Professore tamburellò lievemente con la punta del bastone alcuni scatoloni.

«Questa è una piccola parte dei tuoi libri e giornali, dovrebbero entrare in quella macchina minuscola che ti ritrovi. Visto che ora lo spazio non ti manca non ha più senso che tu tenga qui le tue cianfrusaglie, e poi è sempre meglio avere i testi a portata di mano»

«Ha ragione, non ci avevo pensato. Allora quanto tornerò la prossima settimana prenderò l’altro carico» e sollevando i pesanti scatoloni con facilità aggiunse «La ringrazio Professore, per tutto»

«Nulla ragazzo, nulla. Va’ ora» gli sorrise, dandogli una leggera pacca sulla spalla.
 
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Illuminata dal sole del primo pomeriggio, una Mini Cooper rossa col tettuccio nero sfrecciava per l’autostrada metropolitana di Tōkyō come se fosse stata rincorsa dal diavolo in persona. Ryo teneva il piede pesantemente pigiato sull’acceleratore ma il vento contrario e il peso degli scatoloni rallentavano in modo sensibile la velocità del veicolo.
“Lo sapevo, porca miseria, va a finire sempre così. Chi lo vorrà sentire ora, sarà una iena quando arriverò…ah e questo deficiente qui che fa, va a passeggio sulla corsia di sorpasso? Gli faccio vedere io!” e subito iniziò a premere furiosamente il clacson.

«Vamos, vamos!» sbraitò mentre continuava a suonare «Muévete hijo de puta! Go right asshole!»

Le sue ire vennero ampiamente percepite dall’incauto automobilista che, evidentemente impacciato, si rimise rapidamente sulla carreggiata di marcia, rischiando di creare un tamponamento a catena. Ryo si rilassò sensibilmente vedendo la strada davanti a sé sgombra da lumaconi.
“Se continuo così dovrei farcela in poco più di un quarto d’ora, speriamo non esca fuori qualche altro imbecille tra i piedi” si augurò stringendo le mani sul volante.
Mancavano pochi minuti alle tre quando Ryo arrivò in volata sull’ampia Kita Dori e, come un provetto pirata della strada, inchiodò violentemente per parcheggiare, infilandosi in uno spazio visto all’ultimo secondo proprio accanto all’ingresso angolare del parco. Vi entrò correndo, diretto verso la scalinata che si affacciava sull’ampia piazzetta circolare con una fontana centrale; era quello il loro punto d’incontro abituale. Dopo pochi minuti intravide l’inconfondibile sagoma di Makimura seduto sugli ultimi gradini, con indosso l’immancabile soprabito beige chiaro e il capo leggermente abbassato. Gli si avvicinò trafelato, buttandosi letteralmente accanto a lui. L’ex detective non si scompose all’arrivo di quella furia e Ryo sapeva che era abituato ai suoi arrivi sempre così rocamboleschi.

«Penso sia inutile dirti che sei in ritardo» la voce era calma come sempre e questo lo lasciò stranito.

«Scusami Maki, ma sistemare il congegno si è mostrato più complicato del previsto e non avevo messo in conto che il Professore fosse impegnato, quindi ci ho messo più di quanto avessi pensato» rispose con ancora un leggero accenno di fiatone «Per recuperare tempo ho spinto la Mini al massimo per strada; non si direbbe ma ha una ripresa niente male»

«Ryo!» esclamò e guardandolo negli occhi serio continuò «Non c’era bisogno di guidare come un pazzo, rischi inutilmente la tua sicurezza e quella degli sfortunati che si trovano in strada quando ci sei tu. Però apprezzo la tua premura, vuol dire che inizi a percepire la puntualità come un qualcosa di necessario»

«In realtà non voglio sorbirmi le tue prediche Maki, sei troppo ottimista con me» rispose, distogliendo la vista da quegli occhi indagatori.

Non capiva come mai il suo partner non fosse furioso come se l’era immaginato. Forse non stava bene? O forse… sì molto probabilmente aveva incontrato qualcuno che gli aveva destabilizzato la giornata, ormai aveva imparato a conoscerlo.

«Trovato qualche messaggio?» chiese mentre si accese una sigaretta.

L’ex detective gli rispose allungandogli un foglietto con su scritto un appunto a matita.

«Mmh» fece mentre leggeva «Sorvegliare l’onorevole Oketo. Quindi il pacco bomba che ha ricevuto nel suo ufficio qualche giorno fa non era un atto isolato ad opera di uno squilibrato?» domandò riporgendo il foglietto.

«A quanto pare no, ha iniziato a scavare un po’ troppo negli affari del partito e qualcuno evidente non ha gradito il suo zelo. Questa, però, è la versione ufficiale; sembrerebbe che il caro onorevole non sia stato davvero sincero. L’attentato potrebbe essere uno specchietto per le allodole per coprire delle importanti infiltrazioni mafiose, che sarebbero già riuscite a sistemarsi molto in alto negli uffici di potere» espose a mezza voce Makimura, sistemandosi con l’indice gli occhiali sul naso.

«Uffa, non mi piace sorvegliare gli uomini» sbuffò lo sweeper esageratamente depresso «Quando hai incontrato il grassone non potevi rifiutarti?»

«Non ne ho avuto modo, anche perché è stata proprio una donna a richiedere il nostro aiuto»

Ryo si ricompose immediatamente.

«Com’è? È bella?»

«Sì, molto. E la conosci bene, così tanto che non ha lasciato scritto nessun XYZ ma si è fatta trovare direttamente accanto alla bacheca» gli disse Makimura guardandolo di sbieco.

Aveva già capito: solo una donna poteva affidar loro un incarico così rognoso e far cambiare l’umore del partner. Si rialzò, infilando le mani nelle tasche della giacca, e si appoggiò al corrimano della gradinata.

«Ah Saeko, mai una volta che ci lasci in pace!» esclamò risentito «Spero vivamente che questa volta voglia pagare i miei servigi» aggiunse nel tono maniaco che gli riusciva così bene.

Maki alzò il volto di scatto, negli occhi un lampo di gelosia e apprensione, ma non disse niente, limitandosi a sbuffare cercando di non far emergere il suo vero stato d’animo. Era inutile, non c’era gusto nel sfotterlo sull’argomento Saeko, quell’uomo era così terribilmente serio quando si trattava di lei e per questo non rispondeva mai alle frecciatine che gli lanciava. Ryo aveva compreso che Maki lo considerava un rivale, e quel solo pensiero lo faceva sorridere per quanto gli sembrasse assurdo. Certo, fisicamente era attratto dall’affascinante detective, ma lo era da qualsiasi degno esemplare di sesso femminile; non nutriva particolari mire nei suoi confronti. Inoltre non era scemo, era chiaro come il sole che Maki fosse totalmente preso da quella donna, sebbene si impegnasse a nasconderlo.  Lui di certo non ne avrebbe mai approfittato; voleva solo donne libere con cui divertirsi e la poliziotta, oltre a essere pericolosa di suo, doveva in un certo modo ricambiare il suo ex collega. Sebbene si divertisse a civettare e a rispondere compiaciuta alle sue esternazioni lascive – anche in presenza di Makimura – sentiva che lei non era del tutto sincera e, sicuramente, si sarebbe tirata indietro se si fosse andati al sodo. Ah con che persone complicate aveva a che fare!

«Domani per le undici dobbiamo essere al Capitol Hotel; lì Oketo ha un appuntamento con i vertici del partito nel ristorante francese al piano terra» disse asciutto l’ex detective «Mi raccomando puntualità e porta il binocolo, ne avremo bisogno» e così dicendo si alzò, scrollandosi di dosso un po’ di polvere.

«Dimentichi che sono un professionista? Sarò puntuale, sebbene l’idea di dover guardare a vista quell’uomo di mezza età mi faccia ribrezzo… spero ci sia qualche bella donna tra le accompagnatrici, o qualche bella cameriera!» esclamò con un sorriso ebete.

«Sei un caso senza speranza» gli soffiò esasperato, dandogli una gomitata sul fianco.

«Va bene, va bene, come non detto. Allora se è tutto io vado, ho alcuni appuntamenti importanti. Ah e fa’ il bravo Maki!» esclamò, salutandolo con un occhiolino malizioso.

«Senti da che pulpito viene la predica!» gli urlò contro il partner, con un tono decisamente più allegro di quando si erano incontrati.

“Beh, ora non sei più così giù di morale caro mio” si disse gongolando, soddisfatto per aver raggiunto il suo scopo.
Ryo con passi ampi e cadenzati ritornò alla vettura, un sorriso sornione sulle labbra. Decise che si sarebbe divertito per il resto della giornata, se lo meritava. Aveva bisogno di un po’ di stupida leggerezza e le ragazze che lo aspettavano nei vari locali lo avrebbe aiutato a rilassarsi. Mise in moto e, dopo una pericolosa inversione di marcia, si diresse verso la sua Kabukichō.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


4. 28 marzo 1983 – Saeko

Saeko rientrò nel suo appartamento, situato in un elegante palazzo sulla trafficata Sotobori-Dori Ave, in tarda serata e solo dopo che ebbe chiuso lentamente la porta alle sue spalle si permise un rumoroso sospiro, scalciando via con sollievo le décolleté nere; si sentiva esausta, il lavoro era diventato molto più stressante del solito e le responsabilità iniziavano a pioverle addosso come una grandine estiva senza fine. D’altronde la promozione era in arrivo e sapeva che quello era il prezzo da pagare, la sezione investigativa speciale era rinomata per la rigidità con cui trattava i suoi detective.
Come ogni sera il silenzio assordante dell’ambiente l’accolse; non aveva mai sofferto di solitudine, ma da alcuni mesi quella casa così vuota aveva iniziato a trasmetterle una spiacevole sensazione di freddo. Eppure erano anni – da quando aveva iniziato a frequentare l’accademia per la precisione – che viveva per conto suo, andando contro i desideri dei suoi genitori. Lei era stata irremovibile, aveva voluto rivendicare al più presto la sua indipendenza anche per svincolarsi da quel padre eccessivamente apprensivo. Già durante l’ultimo anno delle superiori si era convita che vivere lontano da casa avrebbe rappresentato il primo passo per affermarsi come individuo indipendente in una società ricca di ipocrisie e contraddizioni come quella giapponese, che non vedeva di buon occhio le donne che aspiravano a costruire una carriera piuttosto che una famiglia. Ricordava ancora la gioia dei primi tempi, quando aveva potuto affermare di avere finalmente una casa tutta sua – per quanto fosse in realtà una stanzetta poco più grande di uno sgabuzzino, ma le sue finanze non le avevano permesso di meglio. Con i primi sostanziosi stipendi da poliziotta, poi, era riuscita a prendere in affitto quell’appartamento così grande e costoso, come ne era stata orgogliosa! Per festeggiare l’occasione aveva preparato un pranzo inaugurale coi fiocchi a cui aveva invitato la sua famiglia e, se sua madre e Reika –Yuka era ancora troppo piccola– le avevano rivolto sguardi di ammirazione, non lesinando complimenti per quella felice sistemazione, il capo della polizia non si era scomposto, pronunciando un lapidario:

«Tutto questo spazio per una persona sola… Ora che hai finalmente il lavoro che volevi dovresti iniziare a pensare alle cose serie, a sistemarti. Non avrai vent’anni per sempre»

Quelle parole l’avevano indispettita oltre misura, e se non aveva risposto a tono era solo per non causare l’ennesimo litigio proprio il giorno che doveva sancire l’inizio della vita che aveva sempre sognato. “Pensare alle cose serie” le aveva detto suo padre; ma lei era fin troppo seria, e il suo desiderio di affermazione non era un semplice capriccio dettato da stupidi motivi, al contrario. Fin da piccola aveva sentito di essere diversa dalle altre bambine: non le era mai importato molto dell’amore; a differenza delle sue compagne non si scioglieva alla vista di neonati; la annoiava giocare a fare la mammina con le bambole e le vetrine con esposti abiti da sposa la lasciavano totalmente indifferente. Odiava leggere tutte quelle storie in cui inette donzelle in difficoltà attendevano il bell’eroe per poter essere salvate: lei non solo voleva salvarsi da sola ma voleva anche aiutare gli altri. Già durante le scuole elementari non aveva mancato di mostrare le sue riserve su quegli stereotipi, attirando gli immancabili sguardi smarriti da parte degli insegnati che non sapevano come gestire uno spirito così forte e indipendente, facendole guadagnare così il nomignolo di signorina polemica. Col tempo, poi, aveva compreso che non si sarebbe accontenta della vita che conduceva sua madre e che la società prevedeva per lei; no, lei aspirava a molto di più che essere una moglie e madre amorevole. Per quel motivo aveva rigettato le professioni considerate più femminili e aveva deciso di seguire le orme paterne ed entrare in polizia, era ambiziosa e desiderava diventare il primo capo della polizia donna del Giappone; poco le erano importate le proteste di suo padre, lei avrebbe dimostrato il suo valore, apportando un contributo attivo per il bene della società.
Ricordava ancora come le si era gonfiato il petto di orgoglio quando aveva scoperto di aver passato col punteggio più alto la prova di ammissione all’accademia. In quel momento aveva visto ripagati tutti gli sforzi compiuti negli anni precedenti. Sin da adolescente, infatti, aveva iniziato a rincorrere, per poi costruirsi, un’immagine di impeccabile perfezione, grazie anche a uno spiccato spirito competitivo che nella sua scuola di élite era stato ben incoraggiato. Amava primeggiare non solo nello studio ma anche nello sport e nell’aspetto, che aveva iniziato a curare attentamente già a quindici anni. Col passare del tempo, però, aveva iniziato a sentirsi sempre più arida dal punto di vista emotivo; la sua corazza di perfezione esteriore l’aveva aiutata a sentirsi sempre sicura di sé, ma d’altro canto aveva iniziato a indurirla, così se la sua bellezza attirava non pochi ragazzi, lei provvedeva a respingerli tutti con freddo sdegno. Non che disprezzasse in assoluto il genere maschile, ma una vocina interiore le diceva di non badarvi, autoconvincendola che in realtà loro erano troppo occupati ad ammirare il suo grazioso involucro per voler sondare cosa ci fosse davvero al suo interno. Sentiva di essere molto di più che due belle gambe e un seno prosperoso, e non voleva soffrire per eventuali delusioni d’amore; ciò avrebbe sottratto troppo tempo prezioso al raggiungimento suoi obiettivi. Allo stesso tempo, però, aveva scoperto che la sua avvenenza poteva esserle d’aiuto, in quanto poche moine si dimostravano più convincenti di una richiesta logica e sensata. Si era sorpresa nel vedersi capace di recitare la parte della ragazza smaliziata e seducente, proprio lei che non aveva alcuna esperienza e avrebbe ucciso piuttosto che permettere a qualcuno di toccarla con un dito. Come risultato di quella condotta, poco alla volta le persone attorno a lei avevano iniziato a considerarla fredda e cinica, ma in fondo sapeva di non essere una cattiva persona, anche perché aveva scelto di fare un lavoro al servizio della collettività. Semplicemente per lei era fondamentale mantenersi distaccata e concentrata, anche perché era sicura che il mantenersi svincolata da qualsiasi legame affettivo l’avrebbe agevolata col lavoro, anzi le avrebbe permesso di lavorare. Non erano pochi i casi in cui fidanzati amorevoli imponevano alle future mogli di lasciare l’impiego per dedicarsi totalmente alla famiglia; una prospettiva che l’aveva sempre angustiata. Era totalmente disillusa per quanto riguardava l’amore che, quando aveva varcato le porte dell’accademia, era certa che avrebbe dedicato la sua vita interamente al lavoro e che non avrebbe mai trovato nessun uomo degno della sua amicizia, ancor meno del suo cuore!
Ritornata presente a se stessa, Saeko raggiunse lentamente l’ampio openspace che costituiva la zona giorno, illuminato lievemente dalle luci che filtravano da fuori attraverso le tende leggere; si diresse verso la cucina, diametralmente opposta al soggiorno e, una volta lì, appoggiò distrattamente sul tavolo la busta con dentro la sua cena. Non cucinava quasi mai e non per mancanza di capacità; le sembrava inutile sprecare così tanto tempo ed energie solo per se stessa e, soprattutto la sera, quando rincasava sempre parecchio stanca, preferiva mangiucchiare qualcosa sul divano guardando la televisione, unica voce capace di spezzare la monotonia dei suoi pensieri. Forse, se non fosse stata sola, si sarebbe anche divertita a cucinare qualcosa, anche solo per osservare soddisfatta l’ospite mangiare con gusto ciò che aveva preparato, ma dopo l’infelice esperienza di quel pranzo inaugurale non aveva invitato più nessuno. Tirò fuori dalla busta una piccola confezione di sashimi di salmone e tonno insieme a una lattina di birra e li posizionò su un vassoietto di bambù laccato. Era una finezza del tutto evitabile ma era più forte di lei, odiava lasciarsi andare alla sciatteria e proprio sulle piccole cose voleva mantenere un aspetto il più curato possibile; le serviva per mantenere quella sicurezza che mai aveva avvertito così fragile come quella sera.
Sospirò, cacciando via quel pensiero e, una volta preso il vassoio, camminò verso il divano e con un sospiro si sedette.
“Ah finalmente! Non ne potevo più di stare in piedi” disse mentre si stiracchiava. Poi allungò il braccio per raggiungere il telecomando e accese la televisione. Iniziò a mangiare ma presto cominciò a irritarsi a causa degli insulsi programmi che si susseguivano nei vari palinsesti; quelle odiose risate finte e quelle gigantesche scritte colorate erano un vero incubo per la sua mentre stanca. Si arrese e si sintonizzò infine sul il notiziario delle dieci e, come immaginava, la prima pagina riguardava un caso a lei ben noto. La giornalista impettita leggeva:

«Per ora non ci sono ulteriori novità per quanto riguarda il pacco bomba recapitato all’onorevole Oketo Taishi. La polizia mantiene il massimo riserbo sulle indagini e non esclude alcuna pista»

“Mmh, un modo elegante per dire che non sappiamo che pesci prendere” commentò scettica sorseggiando la sua birra.
Aveva deciso di occuparsi del caso perché non le non tornavano alcuni elementi e, dopo aver incontrato di persona l’onorevole, aveva iniziato a sospettare che lui nascondesse qualcosa. Che l’attentato fosse stato tutta una farsa? Forse volevano far passare in sordina qualche infiltrazione importante all’interno del partito, sapeva che c’erano alcuni volti nuovi che erano saliti ai vertici con una velocità sospetta. La situazione puzzava di marcio e sebbene fosse brava nel suo lavoro aveva sentito il bisogno di chiedere aiuto a qualcuno più capace di lei. Poggiò il vassoio con i resti del pasto sul tavolino di fronte e abbandonò il capo sullo schienale, chiudendo per un attimo gli occhi. Sospirò profondamente.
Era inutile, aveva creduto che sarebbe stata una difficoltà passeggera, ma ormai erano quindici mesi – suo malgrado era precisa in tutto – che non lavorava più con lo stesso entusiasmo di un tempo. E pensare che all’inizio si era convita di riuscire a farcela tranquillamente da sola… che stupida, se ne rendeva conto solo in quel momento. Ogni giorno sentiva la mancanza di quel poliziotto, l’unico ad avere la sua completa fiducia, il solo che con la sua presenza discreta riusciva a infonderle sicurezza; senza quel detective, all’apparenza impacciato e dimesso ma terribilmente arguto, il lavoro aveva perso la sua bellezza, svuotandosi a mero esercizio di routine.
Makimura era stato il suo primo vero amico e anche il primo ragazzo a parlarle senza secondi fini. L’aveva colpita il primo giorno di lezione all’accademia, col suo essere sempre defilato, lo sguardo concentrato e poco incline alla conversazione con i colleghi. Si erano ritrovati seduti accanto per caso e vicini sembravano davvero due mondi totalmente agli antipodi. Lei si era messa in tiro per l’occasione, era l’inizio del capitolo più importante della sua vita e aveva voluto essere al meglio, anche per poter suscitare l’ammirazione di tutti e nascondere l’inevitabile nervosismo che l’aveva attanagliata. Dal suo ingresso nell’ampia aula quadrata non c’era stato ragazzo che non l’avesse mangiata con gli occhi e ciò le aveva dato un senso di potere inebriante, confermando la sua tesi che gli uomini non sarebbero mai stati al suo livello e che la sua bellezza, opportunamente usata, le sarebbe servita molto anche lì. Quel suo strano compagno di banco, però, non l’aveva minimamente considerata, preso com’era dai libri e dalla lezione, perciò aveva deciso di fare la prima mossa – cosa inusuale per lei – e presentarsi durante l’intervallo tra una lezione e l’altra. Era curiosa di scoprire chi si nascondeva dietro quel lungo ciuffo corvino e ampi occhiali a goccia.

«Buongiorno, visto che da oggi saremo colleghi credo sia giusto presentarci. Io sono Nogami Saeko» disse in tono formale sfoderando un sorriso di circostanza.
Il ragazzo alzò il capo e, dopo essersi sistemato gli occhiali con l’indice, si girò verso di lei.
«Makimura Hideyuki, piacere di conoscerti collega» rispose con un timido sorriso, mentre le allungava la mano lievemente impacciato.
Saeko rimase spiazzata. In quel sorriso sincero e in quegli occhi buoni non vi era alcuna traccia di malizia; non le era mai capitato di incontrare un ragazzo simile e neanche pensava sarebbe stato possibile. Ripresasi dallo stupore strinse quella mano così affabilmente porta; all’inizio quel gesto l’aveva stranita – le strette di mano erano roba da ragazzi – ma quel contatto non la disturbò, al contrario.
«Nogami hai detto? Allora sei tu che hai fatto il primo posto all’esame d’ingresso! Complimenti, devi essere davvero in gamba» disse portandosi una mano dietro alla nuca.
«Ehm, sì grazie» rispose, sentendosi lievemente imbarazzata e odiandosi per questo.
Non vi era invidia in quelle parole e gli occhi nocciola continuavano a guardare dritti nei suoi, senza mai scendere sulla scollatura procace. Come era possibile? In quel momento rientrò il professore e mentre preparava il quaderno per gli appunti lo sentì sussurrare.
«Tranquilla Nogami, non c’è bisogno di essere nervosi. Andrà bene, brava come sei non avrai problemi»
Si girò di colpo e, quando vide un sorriso un po’ impacciato ma sincero incorniciargli il volto, sentì nascere dentro di sé uno stupore mai provato prima. Gli rispose con un semplice cenno del capo per poi tornare concentrata sulla spiegazione. Non riusciva a credere che quel ragazzo timido avesse capito il suo reale stato d’animo, pensava di essere diventata bravissima nel nascondere le sue emozioni in profondità. In quel momento si rese conto di essere stata troppo affrettata nel giudicare gli uomini: forse aveva trovato un amico.

Sospirò, mantenendo gli occhi chiusi. Gli anni dell’accademia erano stati i più felici della sua vita. Per lei, che si era lanciata strenuamente nello studio, sapere di poter passare ogni giorno in compagnia di Maki era un conforto incredibile; adorava la sua presenza rassicurante e ammirava quel ragazzo che, sebbene fosse più brillante di lei sotto molti aspetti, era così modesto da sembrare a prima vista il più incapace degli studenti. Senza rendersene conto era quasi diventata dipendente dalla sua presenza man mano che passavano i mesi, e il solo saperlo seduto accanto a lei era una condizione sufficiente per infonderle sicurezza, spronandola a dare il meglio di sé. Lo considerava il fratello che non aveva avuto ed era felice di poter fare affidamento su una persona così responsabile, buona e gentile come Hideyuki. Con lui aveva gettato la maschera, anche perché era del tutto inutile: lui era l’unico capace di vederla per quello che era davvero, non come la figlia del capo della polizia o come la bellissima ragazza da conquistare. Per lui era semplicemente Saeko, con i suoi pregi e i suoi difetti, e quella consapevolezza le aveva riempito il cuore come mai le era capitato in vita sua. Maki era entrato in punta di piedi nella sua vita per stravolgerla completamente tanto che, verso la fine del corso, stentava a riconoscersi in quella ragazza fredda e disillusa degli anni precedenti.
Riaprì gli occhi di scatto. Si sentiva così sciocca nel voler indugiare sul passato ma non riusciva a fare altrimenti, sicuramente l’averlo rivisto poche ora prima aveva influito sui suoi pensieri. Lentamente si alzò e si diresse in bagno per preparare la sua solita coccola serale, che l’aiutava a distendere i nervi e dissipare la tensione che sentiva accumularsi quotidianamente sulle spalle. Lasciò scorrere l’acqua calda nella vasca e, dopo aver lanciato una manciata di sali da bagno, andò in camera da letto dove iniziò a spogliarsi. Ripiegò accuratamente la camicia e la gonna sulla poltroncina in velluto e poi, quando slacciò la fondina con i coltelli dalla coscia, non poté fare a meno di soffermarsi sul cinturino in pelle, su cui era inciso il primo kanji del suo nome e ci passò sopra un dito con delicato affetto. Gliel’aveva regalato Maki al termine del corso ed era l’unico regalo che le avesse mai fatto. Non poteva fare a meno di indossarlo ogni giorno, sia per essere pronta a difendersi in ogni evenienza, e sia perché, in qualche modo, le sembrava di averlo sempre vicino.

«E questo cos’è?» chiese sorpresa, sollevando dal pacchetto una fascia in pelle dalla forma irregolare e con il lato interno scamosciato.
All’inizio le era sembrata una cinta, ma era troppo corta e quella strana aggiunta l’aveva stranita.
«È una fondina per coltelli» sorrise lievemente impacciato.
«Non avevo idea che esistessero cose del genere» esclamò sorpresa, esaminandola meglio.
«No infatti, è una mia invenzione»
«Non ci credo Maki, l’hai fatta tu?! Ma sei bravissimo!»
Fu davvero sorpresa nel constatare come fosse ben fatta, rifinita con dei rinforzi metallici sui bordi degli alloggi destinati ai coltelli da lancio, l’arma in cui eccelleva. Il suo amico era sempre pieno di risorse.
«Ma no, non sono un granché!» gesticolò imbarazzato «Ho semplicemente realizzato il modello su carta e poi ho chiesto una mano al mio calzolaio di fiducia che ha provveduto a ritagliare la pelle, mentre l’assemblaggio e le rifiniture le abbiamo fatte assieme. Devo dire che ho imparato tanto… Allora ti piace?»
«Sì… Sì molto» rispose commossa, portando il prezioso dono al petto.
Nessuno aveva impiegato così tanta cura nel regalarle qualcosa e in quel momento si sentì speciale. Avvertì come l’impulso di abbracciarlo ma si trattenne, non sarebbe stato appropriato.
«Come ti è venuta l’idea? Io non ci avrei mai pensato»
«Beh, ho avuto l’ispirazione durante l’ultima esercitazione al poligono, quella con i bersagli mobili. Sei diventata bravissima con il lancio dei coltelli, però ho pensato che se potessi averne più di uno addosso, magari in un luogo ben nascosto e facile da raggiungere, potresti davvero non aver bisogno della pistola. Poi, visto che indossi sempre la gonna, mi è venuto in mente che un buon posto sarebbe stato…» ma si interruppe, arrossendo visibilmente «Insomma, sotto la gonna non si noterebbe affatto. La lunghezza del cinturino dovrebbe essere giusta… ma questo non vuol dire che non abbia visto niente, anzi…ma no, che dico?! Volevo dire no, non ti ho guardato…» borbottò nel panico più totale.
Saeko non poté fare a meno di ridere; quel suo caro amico era così adorabilmente impacciato!
«Maki tranquillo! So che non sei quel tipo di ragazzo» e sorridendo continuò «Ho capito, lo devo allacciare all’altezza della coscia giusto? Davvero un’idea fantastica, ma da te non potrei aspettarmi diversamente. Ah e questo?» aggiunse, notando il kanji inciso appena sotto la fibbia.
«Volevo personalizzarlo perciò ho voluto usare solo quell’ideogramma che secondo me ti rappresenta in pieno. Sono convinto che sarai la detective più brillante di tutti» e, ancora con il viso leggermente arrossato, la guardò negli occhi leggermente più serio.
Sentì una stretta al petto. Quegli occhi non furono semplicemente buoni e ridenti, ma per qualche secondo li vide traboccare di una luce e un calore così grandi che si sentì travolgere. Se non fosse stata la ragazza smaliziata che era sicuramente sarebbe arrossita, tuttavia fu costretta a distogliere subito lo sguardo da quegli occhi che l’avevano accecata come un sole fulgido. Aveva imparato a conoscerli bene e quella luce non l’aveva mai vista prima. Veloci iniziarono a rincorrersi alcune domande nella sua testa: era possibile che Maki non la considerasse più una semplice amica? E soprattutto, perché quello sguardo aveva avuto su di lei un effetto così forte da lasciarla turbata?

Saeko riemerse dal ricordo sospirando. Quelle prime domande avevano decretato la fine della sua imperturbabile sicurezza, e da allora non le era stato possibile ritrovare la pace degli anni da studentessa. Nei primi mesi di servizio, quando ancora non lavoravano in coppia, aveva provato a convincersi di aver frainteso tutto, ripetendosi che lei aveva voluto vedere nei suoi occhi buoni qualcosa che in realtà non c’era mai stato. Quando, però, si incontravano durante l’immancabile riunione settimanale, tutti i buoni propositi coltivati nei giorni precedenti crollavano. Nel salutarla Maki le dedicava sempre quel fugace sguardo così luminoso e colmo d’amore che immancabilmente la faceva vacillare, così non aveva mai smesso di chiedersi se l’amasse davvero. Lui, da perfetto giapponese qual era, rendeva i suoi reali sentimenti di difficile interpretazione; i suoi modi e i suoi gesti erano rimasti quelli di sempre, non si era mai tradito, mai una parola fuori posto. Poteva essersi sbagliata? Quegli sguardi e quei sorrisi sottintendevano un sentimento più forte dell’amicizia o erano solo sue stupide paranoie? Su una cose era certa: anche se esteriormente era riuscita a mantenersi imperturbabile come sempre, aveva perso completamente la sua serenità interiore. Le bastava vederlo avvicinarsi per sentirsi tremare ma allo stesso tempo attendeva impaziente ogni incontro; gradualmente il suo volto era diventato una presenza fissa nei suoi pensieri sia di giorno che di notte, quando cercava inutilmente di scacciarlo via tra le lacrime. Eppure non poteva abbandonarsi all’amore, era il suo orgoglio a urlarlo a gran voce. Doveva pensare al lavoro che aveva così faticosamente ottenuto, a fare carriera mostrando a tutti, suo padre incluso, che non era grazie al suo cognome che si era fatta una posizione in quell’ambiente così duro. Era stata la prima del suo corso e sarebbe stata la migliore dei detective, l’aveva giurato a se stessa. Se si fosse lasciata distrarre dall’amore sicuramente avrebbe perso di vista i suoi obiettivi, e poi non poteva permetterselo altrimenti proprio lei, che aveva giudicato con biasimo le ragazze che sognavano di diventare sposine, sarebbe diventata esattamente ciò che aveva sempre rifiutato. Il suo amor proprio non avrebbe potuto sopportare uno smacco simile.
In quella situazione così complicata, in cui stava infuriando una lotta interna terribile ma invisibile in superfice, con un infelice tempismo ad aggiungere benzina sul fuoco ci aveva pensato suo padre il giorno di quel fatidico pranzo. Dopo quella spiacevole conversazione le era risultato palese il non poter assolutamente confessare di amare qualcuno, ciò l’avrebbe irrimediabilmente condannata a sopportare i sorrisini beffardi e lo sguardo di vittoria di suo padre, finalmente soddisfatto di veder sistemata quella sua primogenita così indipendente e indomabile. Era una ragazza troppo orgogliosa e troppo ambiziosa per poter ammettere di avere avuto ripensamenti o di aver sbagliato, odiava essere dalla parte del torto e così, a seguito dell’ennesima notte insonne, aveva preso la risoluta decisione di reprimere con forza quei sentimenti nascenti, non doveva far sbocciare quei germogli d’amore che qualcuno aveva provato a coltivare teneramente.
L’occasione per mettere in pratica il suo proposito le si era presentata qualche settimana dopo, quando venne trasferita d’ufficio nella stessa squadra di Makimura; avrebbero iniziato a lavorare come coppia fissa. Con la fermezza dettata dall’eccessivo orgoglio aveva rimesso la maschera di algida freddezza e lo aveva affrontato. Era stato indispensabile mostrarsi il più distaccata possibile, doveva ad ogni modo scoraggiare i dolci attacchi di cui era vittima, sapeva che non li avrebbe retti ancora a lungo, perciò aveva scelto con cura le parole più dure possibili con cui salutare il suo caro collega. Dentro di sé, però, si era odiata per il suo comportamento, Maki era la persona a cui teneva di più e la stava ferendo ingiustamente, ma non aveva visto altre alternative. Come risultato immediato il loro rapporto si era visibilmente raffreddato, l’uomo era diventato ancora più concentrato sul lavoro e, sebbene non avesse smesso di trattarla con gentilezza, aveva fatto sparire definitivamente quello sguardo che le aveva fatto tremare il cuore più volte.
Sorrise amaramente. “Non tollero debolezze” gli aveva detto quel giorno, ma in realtà quelle parole era dirette solo a lei. Non conosceva nessuno più forte di Maki: il suo duro lavoro, il suo spirito di abnegazione, la sua bontà e sensibilità, il suo forte senso di responsabilità verso l’amata sorellina…come poteva essere debole un uomo come lui? No, era lei ad essere stata non solo debole ma anche codarda, lei che per non smuoversi dalle sue stupide posizioni aveva giocato sporco, ferendo lui e se stessa. Se avesse avuto la possibilità di tornare indietro, sicuramente avrebbe modificato l’andamento della sua storia.
Riguardò nuovamente il cinturino, l’ideogramma impresso a fuoco. 
“Credo che ora abbia assunto un altro significato che forse mi rappresenta meglio1” pensò amaramente.
Fredda, oramai sapeva di essere stata considerata così da colui che un tempo le aveva riservato quegli sguardi che, se avesse avuto modo di ricevere ancora, l’avrebbero potuta sciogliere. D'altronde non era quello che le era capitato proprio poche ore prima? Al solo pensiero riappoggiò di scatto il fodero. Non le sembrava vero di aver avuto modo di riassaporare quel dolce calore nel petto che pensava non avrebbe più provato. Raggiunse il bagno, fece una doccia veloce quasi a voler scacciare i pensieri malinconici che oramai quasi ogni sera l’attanagliavano, e poi si immerse nella vasca calda, beandosi della sensazione di tepore e leggerezza che solo il bagno serale sapeva concederle. Tutto era silenzio nel bagno cieco, il lento gocciolio del lavandino scandiva il passaggio dei secondi, e Saeko cercò di liberare la mente il più possibile, sebbene sapeva essere un’attività vana.
Durante gli anni di collaborazione con Makimura era riuscita a mantenere la sua imperturbabile indifferenza, dedicandosi anima e corpo al lavoro con eccellenti risultati, soltanto perché lo sapeva al suo fianco. Lo riteneva il più grande dei controsensi, ma era la verità in fondo. Da quando lui aveva lasciato la polizia, da quando ogni mattina vedeva quella scrivania così dolorosamente vuota, si era accorta di non essere così forte come credeva. Mentre si sforzava in tutti modi di non far cadere le apparenze, di mostrarsi come la sicura e affascinante detective di sempre, si era ritrovata a combattere tenacemente contro una parte di lei che sentiva sempre più vulnerabile. Ogni giorno che passava senza Maki portava con sé un’ombra dolorosa che andava accumulandosi nel suo animo, come i detriti portati dalla corrente di un fiume; era una sofferenza nuova, che l’aveva colta impreparata ma che sentiva di dover meritare. Aveva peccato di presunzione in quegli ultimi anni, i continui successi avuti in coppia con il suo brillante collega l’avevano inebriata a tal punto da farla sentire infallibile, e proprio quando si era cullata nei suoi sogni di gloria era stata strattonata verso il basso nel modo più brutale possibile. Era stata troppo zelante durante quell’indagine e, nonostante gli inviti di Maki alla prudenza, aveva fatto di testa sua e lui alla fine aveva assecondato la sua idea… quell’idea che aveva portato alla morte dell’agente Ōmori. Al solo pensiero sentì una fitta allo stomaco, era ancora una ferita aperta. Avevano sbagliato in due ma, come c’era da aspettarsi, lui si era voluto far carico di tutte le colpe e a nulla erano valse le sue rimostranze; aveva temuto per lui una nota di demerito o un possibile trasferimento, non sospettando che il suo caro collega aveva ben altro per la testa e arrivasse addirittura a dimettersi. Maki incarnava la figura del poliziotto ideale, racchiudendo in sé tutte le migliori caratteristiche umane e professionali, e non riusciva a immaginarlo in nessun’altra veste. Le ci era voluta una settimana per riprendersi da quel vuoto improvviso, e un’altra per metabolizzare che il detective brillante e integerrimo era diventato il partner di City Hunter. Quell’uomo non aveva mai smesso di sorprenderla.
Prese un respiro profondo e con rapido guizzo portò la testa sott’acqua per alcuni secondi, buttando fuori l’aria a piccole bolle; era un vezzo infantile che tendeva a replicare quando non sapeva come esternare la sua frustrazione. Riemerse e, con uno sbuffo, si portò i capelli all’indietro, per poi poggiare il capo sul bordo della vasca.

«Ciao Saeko» disse una voce alle sue spalle.
Restò imbambolata per la sorpresa, la mano con la chiave del portone ferma a mezz’aria. Non lo vedeva da due settimane, ovvero dal giorno prima che lasciasse in sordina la centrale come l’ultimo dei delinquenti. Il cuore le saltò in petto, felice di rivederlo, ma si impegnò a riacquistare la calma quando si girò per guardarlo.
«Makimura che ci fai qui?» chiese non riuscendo a nascondere un moto di sorpresa.
«Vorrei darti una notizia, immagino sarai stanca e vorrai rientrare subito, quindi sarò veloce. Ci tenevo a dirtelo di persona il prima possibile» e guardandola negli occhi con espressione ferma aggiunse «Ora collaboro con City Hunter»
Saeko si sentì travolta da un macigno.
Il lungo viale trafficato si silenziò di colpo, la sua mente non fu capace di percepire altro mentre le rimbombavano quelle parole cupe e improvvise come un tuono feroce. Collaborare con City Hunter… Makimura, il brillante detective, era diventato un fuorilegge?
«Maki ti sembra questo il momento di scherz…» ma il sorriso le morì in gola.
L’uomo la fissava come mai aveva fatto prima. Era spaventosamente serio, stentava a riconoscerlo.
«Devo fare ammenda, ho commesso un errore imperdonabile…»
«Non è solo colpa tua, io sono colpevole quanto e forse più di te!» gli urlò senza riuscire a controllarsi.
Nonostante si fosse imposta di restare impassibile una piccola parte del suo dolore era riuscita a fuoriuscire. Vederlo così angustiato le straziava il cuore. Hideyuki la fissò sorpreso e raddolcì per un attimo lo sguardo prima di tornare serio e risoluto.
«Non riesco più a vedermi come un poliziotto, non dopo quello che è successo. La centrale mi era diventata un luogo invivibile, troppe regole e anche troppe finzioni. Ho capito che in alcuni casi bisogna uscire dal sentiero battuto per percorrere strade meno lecite, ma non per questo sbagliate e inefficaci. Ora, facendo parte di City Hunter, potrò agire indisturbato e raggiungere luoghi e persone che con il distintivo mi sarebbero stati inaccessibili. Anzi, così potrò svolgere ancor meglio il mio compito»
«Così passerai dalla parte del torto Maki. Come puoi schierarti con quelli che combattevi fino a qualche settimana fa? Non fare scelte di cui potresti pentirti»
Makimura scosse lentamente la testa.
«Ah Saeko, sempre così rigida» disse in uno sbuffo appena udibile e poi continuò «Sai che per vaccinare una persona le si inocula una piccola parte del male che si vuole debellare? Non lasciarti ingannare dalla forma, cerca sempre di vedere oltre. Intendo continuare a impegnarmi con tutte le mie forze per portare giustizia e supporto a chi ne ha bisogno»
«E questo City Hunter, quel criminale, sarebbe d’accordo con te?» chiese scettica.
«Sì» rispose secco «Lui già lo fa e credimi, ha più senso della giustizia lui che molti poliziotti di mia conoscenza»
Saeko fu totalmente scioccata. Non aveva mai sentito il suo collega parlare di nessuno in quel modo. Lei conosceva Makimura abbastanza da sapere quanto fosse eccezionale, col suo intuito infallibile sapeva riconoscere la vera indole delle persone, quindi non poteva essersi sbagliato. Tuttavia stentava a credere che quello sweeper potesse avere la stima del detective. Lui, poi, le sembrava così diverso, ancor più distante di prima… Come era potuto cambiare in così poco tempo?
«Maki» disse in un sussurro, le parole che uscirono prima di poterle fermare «Perché te ne sei andato via senza dirmi niente? L’ho dovuto scoprire dal nostro superiore che avevi presentato le dimissioni»
L’uomo sistemò nervosamente gli occhiali sul naso.
«È stato più facile così» ammise mestamente, guardandola come se volesse leggerle dentro. Poi cambiò argomento, distogliendo lo sguardo.
«Ho bisogno del tuo aiuto, per me sarebbe di vitale importanza mantenere i contatti con la centrale. Naturalmente potrai contare sulla nostra collaborazione per qualsiasi indagine. Te la sentiresti di fare questo favore a un vecchio amico o adesso mi disprezzi?»
Si sentì morire. Era davvero riuscita così bene nel suo intento di mostrarsi fredda e distaccata da aver ingannato proprio lui? Come era diventata ai suoi occhi? Quei pensieri la ghiacciarono all’istante.
«No… Puoi contare su di me» disse piano.
«Grazie Saeko» e girandosi aggiunse «Per contattarmi scrivi un XYZ sulla bacheca della stazione di Shinjuku, uscita est. Buonanotte e scusa il disturbo» concluse, andandosene senza aspettare una risposta. Su quel punto non era affatto cambiato, voleva avere sempre l’ultima parola.
“Forse l’ho perso per sempre” si disse con amarezza, guardando la sagoma dell’uomo scivolare via in direzione della fermata della metro Akasaka-mitsuke.

Aprì gli occhi e un brivido la percorse lungo tutta la schiena. Si era addormentata nella vasca e l’acqua ormai fredda iniziava a farla rabbrividire. Si diede dalla stupida e in fretta uscì, avvolgendosi nel caldo accappatoio di spugna. Doveva essere proprio esausta per appisolarsi durante il bagno e per di più aveva sognato quella notte per lei terribile, in cui aveva preso coscienza non solo del cambiamento di Maki ma anche del suo. Era passato poco più di un anno ma quella conversazione e quello sguardo erano rimasti scolpiti nella sua memoria. Da allora aveva sentito farsi strada pian piano dentro di lei il tarlo del rimpianto per essersi mostrata così fredda e distaccata nei suoi confronti negli anni precedenti e, per la prima volta, si era trovata a maledire quel suo stupido orgoglio. Aveva sbagliato un caso importante e aveva perso l’unica persona che l’avesse capita davvero: si era sentita sconfitta su tutti i fronti e, per cercare di superare il senso di vuoto e la frustrazione che si erano fatte compagne quotidiane, si era buttata ancor più alacremente nel lavoro, riservandosi sempre i casi più difficili. Il suo non era altro che un modo per tenere la mente impegnata, per impedirle di vagare tra i ricordi che la facevano sentire così vulnerabile. Lentamente il freddo orgoglio aveva iniziato a sgretolarsi, decretando la morte definitiva della donna che era stata. La esasperava ammettere come la sua vita ruotasse in funzione di Makimura; la vera felicità l’aveva provata solo quando si era lasciata andare, e aveva liberato la sua vera essenza grazie alla sua vicinanza. Le Saeko prima e dopo di lui erano da considerarsi dei meri spettri in confronto.
Raggiunse lentamente la camera da letto, indossò l’elegante pigiama in seta blu e, sedutasi al tavolino da toeletta, iniziò la sua routine serale fatta di creme e tonici. Per essere sempre al meglio la costanza era un presupposto fondamentale e lei, precisa e rigorosa come sempre, non trascurava mai la cura del corpo, riuscendo anche a frequentare con regolarità il corso di aerobica. Tutto ciò non solo le era utile per il lavoro, ma soprattutto per se stessa, poiché sapere che la sua bellezza fosse nel pieno del suo fulgore le dava una certa sicurezza. Mentre si spalmava la crema idratante sul viso ne approfittò per guardarsi attentamente allo specchio e fu soddisfatta dell’immagine riflessa. Aveva ventisette anni ma sembrava più giovane e le sembrò assurdo che per la società giapponese fosse da considerarsi ormai quasi fuori mercato – come odiava quell’espressione! –
“A giudicare dalle reazioni che suscito non direi proprio di essere così indesiderabile” disse rivolgendosi al suo riflesso e immediatamente il pensiero andò verso un uomo in particolare. Aveva conosciuto Ryo la prima volta che si era recata alla stazione per lasciare un messaggio in bacheca. Aveva appena impugnato il gessetto quando si era vista piombare addosso un maniaco dalle fattezze di un gigante che però, con sua grande sorpresa, si era lasciato colpire e bloccare con facilità. L’avrebbe anche arrestato all’istante se non avesse scorto alle sue spalle un Makimura leggermente imbarazzato. Le era sembrato incredibile che un tale personaggio potesse essere il tanto temuto City Hunter ma, appena ebbe modo di vederlo in azione durante il primo caso che aveva loro affidato, si ricredette del tutto. Era rimasta incredibilmente affascinata da quell’uomo dalle capacità prodigiose, così fuori dal comune in ogni senso. Stentava ancora a credere fosse giapponese, per quanto il taglio degli occhi doveva confutare ogni dubbio, poiché la sua stazza possente e la sua attitudine dirompente erano lontane anni luce da quelle di qualsiasi uomo nato e cresciuto nell’arcipelago nipponico. Se si fossero confrontati i due partner su un piano meramente fisico sicuramente Makimura ne sarebbe uscito sconfitto, però… Però se avesse dovuto scegliere con il cuore non avrebbe avuto esitazione nel preferire il suo ex collega. Lo sweeper, per quanto fosse indubbiamente molto bello – quando non faceva il maniaco – era avvolto da un’aura di mistero che inconsapevolmente la intimoriva. Non riusciva a decifrarlo, anche perché non era certo brava come Maki. Sembrava convivessero in lui due uomini diversi: da una parte il professionista serio, dalle capacità fuori da comune, e dall’altra un mandrillo in calore, ingestibile come un adolescente in piena crisi ormonale. Come potessero coesistere due universi così opposti era per lei un mistero, ed essendo una donna altrettanto complicata non si sentiva affatto attratta da quella mina vagante… Non dopo aver conosciuto Maki. No, sebbene Ryo non mancasse di esternare in modo più che palese e molesto il suo interesse nei suoi confronti ogni volta che si vedevano, lei non si sarebbe mai concessa, anche se non smetteva di incoraggiarlo. Non le ci era voluto molto per capire che qualche sguardo ammiccante e la promessa di future serate mokkori erano il migliore incentivo al lavoro per lo sweeper, perciò se ne serviva sistematicamente riuscendo, però, a svignarsela ogni volta che la cercava famelico per riscuotere il suo pagamento. In fin dei conti per lei era un semplice gioco e negli ultimi tempi aveva sospettato che Ryo l’avesse capito. Su quell’aspetto era sempre stata tenacemente rigida e seria, per questo non si sarebbe mai sognata di andare a letto con un uomo solo per divertimento. Così, se da una parte era riuscita lentamente a entrare in confidenza con il tenebroso sweeper attraverso quel gioco tutto allusioni e moine, dall’altra il rapporto con Maki era precipitato ulteriormente. Più riceveva le attenzioni di Ryo e più l’ex detective diventava sfuggente, totalmente impenetrabile e, sebbene quell’atteggiamento la facesse soffrire, sentiva di non poterlo biasimare, in fin dei conti era stata lei a voler raffreddare per prima i loro rapporti. A redarguirla, però, ci pensava la sua parte più razionale, intimandole di non crucciarsi oltre per quelle sciocche speculazioni che già avevano seriamente minato il suo equilibrio emotivo e professionale; non doveva lasciarsi indebolire dall’amore.
“Ma chi voglio prendere in giro” si disse “Questi discorsi che prima mi davano forza ora li trovo così vuoti…dopo oggi poi…”. Cacciò un sonoro sbuffo di irritazione mentre con le dita tamburellava nervosamente la superfice del tavolo. Incapace di star ferma si alzò di scatto e prese a camminare pigramente per l’appartamento senza una meta precisa, aveva solo voglia di muoversi un po’ e sentiva la testa scoppiarle.
In mattinata aveva rivisto Maki dopo due lunghi mesi. Aveva voluto vederlo e per questo aveva deciso di non lasciare un semplice messaggio in bacheca, ma lo aveva aspettato stazione, nascosta dietro un pilastro. Com’era stata felice quando aveva scorto quella sagoma così piacevolmente familiare! Le era mancato più di quanto volesse ammettere.

«Come stai Maki?» gli chiese raggiungendolo accanto alla lavagna.
Gli occhi dell’uomo si allargarono per la sorpresa.
«Saeko, non pensavo di trovarti qui» disse nuovamente controllato «Un nuovo lavoro per caso?»
Gli rispose semplicemente annuendo, se avesse parlato un lieve tremore della voce avrebbe tradito la sua emozione.
«Allora è meglio discuterne lontano da possibili orecchie indiscrete» e così dicendo rimise le mani nelle tasche del soprabito e con passo tranquillo la precedette verso l’uscita della stazione.

Si avvicinò al finestrone del soggiorno e ammirò il suggestivo panorama della città rivestita dalle luci notturne, con in primo piano la zona di Nagatachō e i suoi palazzi governativi. Appoggiò la fronte contro il vetro freddo e sospirò. A giudicare dal suo modo di parlare e di porsi aveva ritrovato un Hideyuki ancora più determinato e sicuro; il suo istinto le suggeriva che gli era successo qualcosa di importante in quei mesi di assenza, qualcosa che aveva dissolto definitivamente quell’impalpabile aurea di incertezza che non aveva mai smesso di avvolgere l’uomo.  Era contenta di averlo aspettato, aveva avvertito il bisogno fisico di passare del tempo solo con lui e, se avesse lasciato un semplice messaggio, sapeva che alla fine avrebbe incontrato i due City Hunter – il che voleva dire gestire quello sweeper fuori controllo. Maki, poi, tendeva sempre a defilarsi quando iniziavano i siparietti tra loro due e ciò era anche il principale motivo che le aveva impedito di parlare con lui per molto tempo. Chiuse gli occhi e riuscì a percepire nuovamente la gioia irrazionale che aveva provato nel camminargli accanto in silenzio, all’ombra dei grattacieli che si affacciavano sull’ampia Kita Dori fino a raggiungere il Central Park, sovrastato dall’imponente Palazzo del Governo Metropolitano che si stagliava sullo sfondo con la sua peculiare struttura a due torri. Quando si erano seduti su una panchina sufficientemente defilata aveva provato una felicità e una serenità che pensava appartenessero solo al passato ma, una volta ritrovato il suo usuale controllo, gli aveva esposto in modo preciso e puntuale la questione, non mancando di illustrare i suoi dubbi. Hideyuki l’aveva ascoltata concentrato, annuendo lievemente senza mai guardarla, in apparenza troppo occupato a studiare l’intricato disegno dei rami che si affacciavano sulle loro teste.

«[…] Spero possiate aiutarmi. Per qualsiasi altra informazione puoi chiamarmi quando vuoi, naturalmente sono sempre a vostra disposizione e vi fornirò tutto il supporto possibile» terminò, soddisfatta per la sua esposizione puntuale e priva di qualsiasi emozione.
Maki rimase in silenzio per qualche minuto e lei ne approfittò per godere del tepore così fuori stagione di quella giornata; si sentì perfettamente serena e fu costretta ad ammettere che nessun altra persona riusciva a trasmetterle quel senso di sicurezza come faceva lui, semplicemente standole accanto. Per lei, abituata a mostrarsi sempre forte e incrollabile, fu come prendere una boccata d’aria fresca.
«Che ti succede Saeko? Ti sento molto stanca, non ti starai forse affaticando troppo?»
Si voltò di scatto e vide quegli occhi così cari guardarla con una punta di apprensione misto ad amore. Sentì il cuore venirle meno all’istante. Perché riusciva sempre a vedere oltre? Perché la guardava in quel modo così all’improvviso? Per non tradirsi abbandonò immediatamente il contatto visivo, combattendo strenuamente per non mostrare il turbinio di emozioni che quel semplice gesto aveva scatenato dentro di lei.
«No, sto bene non preoccuparti» rispose in fretta, alzandosi precipitosamente «Grazie Maki, ci sentiamo» e con passo sostenuto si allontanò.

Saeko ritornò con la mente nel suo appartamento e, vista l’ora tarda decise, di andare a letto così, dopo aver lavato i denti, raggiunse la camera e si fiondò sotto le coperte. Quello sguardo aveva avuto la capacità di destabilizzarla in un modo terribile; dopo anni di latitanza era riemersa quella luce che aveva il potere di sciogliere il blocco di ghiaccio che si era costruita attorno al cuore. Le sembrava ancora incredibile. Fino al giorno prima era convinta che lui ormai la detestasse e a ragione; sapeva di averlo trattato ingiustamente e proprio il saperlo ormai perduto le aveva permesso di mantenere la maschera che indossava ogni giorno, riuscendo a tenere sotto controllo i suoi rimpianti. L’episodio di quella mattina, però, cambiava tutto. Maki non la odiava, quegli occhi erano troppo onesti per poter mentire, lui provava ancora qualcosa per lei. Improvvisamente pensò a tutte le volte che aveva flirtato apertamente con Ryo davanti a lui e se ne vergognò terribilmente, ma non poteva immaginare… Lei lo credeva ormai indifferente! Si chiese se sarebbe stata in grado di resistergli come aveva fatto quasi cinque anni prima e in impeto di rabbia afferrò il cuscino colpendolo con foga.
“Ti odio Maki, ti odio” mormorò con voce rotta “Perché sei sempre così buono con me? Perché devi essere l’unico a leggermi dentro?” e lasciò scorrere due lacrime silenziose. Si sentì dilaniata, da un lato il suo cuore indurito stava iniziando a sperare di poter finalmente godere di quel sentimento così a lungo cercato e negato, mentre una vocina fastidiosa le intimava di mostrarsi forte e di non cedere. Questa volta non era l’orgoglio a farla desistere ma un sentimento più infido e paralizzante; aveva paura. Se si fosse arresa all’evidenza dei suoi sentimenti quali sarebbero state le conseguenze? Temeva che tutto ciò che aveva così duramente conquistato sarebbe svanito per sempre. Passare il resto della vita con la persona amata poteva essere una prospettiva più invitante che dedicarsi totalmente al lavoro? Maki era gentile ma molto protettivo, forse avrebbe desiderato che lei smettesse di esporsi in prima linea… O poteva arrivare addirittura a chiederle di lasciare la polizia. E anche se avesse lasciato tutto per amore, cosa sarebbe successo nel caso in cui avesse smesso di amarlo? Senza rendersene conto era entrata in quel circolo vizioso di domande e risposte innescato dalla paura di fare la scelta sbagliata. Era già rimasta scottata una volta e non avrebbe tollerato di commettere ancora lo stesso errore. Si sentì vulnerabile e debole, odiandosi ferocemente.
 “Cosa dovrei fare?” mormorò mentre si rannicchiava su un lato, stringendo al petto il secondo cuscino. La ragione le venne in soccorso. Come primo passo doveva recuperare il rapporto di amicizia che aveva avuto con Maki, il che significava impegnarsi ad abbattere il muro che aveva sollevato tra loro anni prima. Doveva trovare il coraggio di togliersi la maschera, almeno quando era sola con lui, per mostrargli che la ragazza entusiasta dell’accademia non era morta, ma giaceva sopita in attesa di risvegliarsi. Solo così, a piccoli passi – sapeva di aver bisogno di tempo – avrebbe ritrovato l’amico e la complicità di un tempo e, allo stesso modo, avrebbe avuto la possibilità di riflettere meglio sul da farsi. Non poteva tirarsi indietro, ne era consapevole: Hideyuki le aveva lanciato quel timido segnale – da lui non poteva certo aspettarsi qualcosa di plateale – e stava a lei decidere se accoglierlo o rigettarlo come aveva fatto in passato. In quel momento le sembrò la responsabilità più grande che avesse mai avuto in vita sua; il destino di entrambi dipendeva dalla sua scelta. Affondò la testa nel cuscino, stremata.
“Ti odio, ti odio, ti odio…” mormorò come una lenta litania, finché si abbandonò al sonno in cui due occhi amorevoli la raggiunsero per cullarla dolcemente.

______________________________
 
1In giapponese – lingua degli omofoni per eccellenza – i nomi posso essere scritti in molteplici varianti, assumendo ogni volta un significato diverso. Nel caso della nostra detective, Saeko è composto dai kanji 冴子, avendo così il significato di “colei (bambina) che eccelle”. Tuttavia, il kanji 冴 “sae” (che sarebbe lo stesso usato per Saeba) da solo ha molti altri significati, tra cui “estremamente freddo, ghiacciato”.

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


5. 6 aprile 1983 – Kaori 
 
«Makimura» esordì l’uomo serio «Sono estremamente sorpreso dal tuo comportamento alquanto avventato e poco consono di ieri. Vorrei rammendarti che l’anno scolastico è appena iniziato e, se il buongiorno si vede dal mattino, non oso immaginare cosa potrebbe succedere a fine anno. Confido, però, nel buon senso che hai sempre mostrato finora e sono certo che non vorrai far ripetere un episodio così increscioso come quello di ieri. Per fortuna l’esito non è stato grave, altrimenti la tua punizione sarebbe stata ben più severa»

Il professor Suzuka la fissò con due occhi bovini che avrebbero dovuto essere in qualche modo minacciosi, ma in realtà Kaori non aveva fatto altro che fissargli l’enorme pappagorgia che, come un budino, aveva vibrato per tutta la durata del discorso. Per impedirsi di scoppiare a ridergli in faccia, si diede alcuni pizzichi sulle mani mentre inclinava leggermente il capo in avanti per evitare che i suoi occhi, sempre troppo sinceri, tradissero il suo divertimento. Il professore, però, interpretò la sua azione per un gesto contrito, perciò schiarì la voce e con fare più conciliante proseguì.

«Bene, noto con sollievo che sei sinceramente pentita ma, bada bene, ciò non basterà per rimediare alle tue azioni» e, mentre si sedeva dietro la scrivania ricolma di scartoffie disordinate, si diede un contegno solenne da giudice supremo «Per il prossimo mese farai parte del gruppo pulizie tutti i giorni mentre Atarashi sarà esente e…»

«Ma professore…» scattò Kaori come una molla.

«Non ammetto repliche Makimura. Sono stato anche fin troppo magnanimo. Ricorda che al terzo anno certi comportamenti non sono perdonabili, voi dovreste essere d’esempio per gli studenti più giovani» commentò scuotendo il capo sconsolato «Ormai siete quasi adulti, molti di voi l’anno prossimo inizieranno l’università o una scuola professionale. La tua punizione sarà anche un modo per scoraggiare eventuali episodi futuri» concluse soddisfatto, schienandosi pesantemente contro la poltrona che emise un cigolio preoccupante.

«Impiegherai le tue energie per qualcosa di più utile. Puoi andare ora, le pulizie ti aspettano eheh»

“Ridi, ridi pure razza di pallone gonfiato” pensò con una punta di odio e, dopo un rapido inchino, uscì da quell’ufficio fattosi di colpo soffocante.
Si fermò un attimo davanti alle ampie finestre del corridoio e sospirò depressa. Sapeva che l’indomani la sua punizione sarebbe diventata di dominio pubblico e al solo pensiero le si imporporarono le guance per la vergogna. “Si può essere più sfortunati di me?” si chiese mentre osservava il cielo plumbeo, carico di nuvole così basse e pesanti che sembravano stessero trasportando tutta l’acqua della baia di Tōkyō.
“Bene, a quest’ora potevo essere già tranquillamente a casa, e invece credo proprio che mi beccherò un bell’acquazzone. Come aggiungere sfiga alla sfiga” pensò mentre percorreva il lungo corridoio ormai deserto e, senza fretta, iniziò a salire le scale per raggiungere la sua classe al terzo piano. Lì un rumore di secchi e un ovattato cicalio segnalavano la presenza di studenti nelle altre aule che, come lei, erano chiamati a compiere il loro buon dovere civico settimanale; l’unica differenza era che per lei sarebbe durato tutti i santi giorni di quel mese. Un bella seccatura, non la entusiasmava l’idea di tornare a casa tardi. Sentì montarle dentro una rabbia mista a frustrazione; non era stata certo l’unica ad aver sbagliato ma lei si era ritrovata a essere il capro espiatorio della situazione… Se solo il professore fosse entrato qualche minuto dopo!
“Ah che nervoso” bofonchiò e con un colpo seccò aprì la porta scorrevole dell’aula.             
              
«Aahh!» un urlo acuto provenne dall’interno della stanza, facendola sobbalzare.

«Ah, sei tu Kaori, mi hai spaventata» le disse Eriko mettendosi una mano all’altezza del cuore. All’apertura secca e improvvisa della porta aveva fatto un balzo indietro e, con aria colpevole, dava le spalle alla lavagna come se stesse cercando di nascondere qualcosa.

«Scusa Eriko, non era mia intenzione spaventarti! Forse ho aperto la porta con troppa forza» esclamò imbarazzata «Che fai?» le chiese avvicinandosi.

«Niente! Niente, sto pulendo la lavagna vedi» rispose affrettandosi a cancellare con la mano, ma Kaori fu più veloce e la bloccò.

Davanti a lei si presentarono tre bozzetti, disegnati con tratti veloci ma precisi, raffiguranti tre modelle longilinee con tre abiti da sera riccamente dettagliati. Erano bellissimi, d’altronde sapeva che la sua amica aveva buon gusto in fatto di vestiti, oltre a essere molto brava nel disegno.

«Sono davvero stupendi Eriko»

«Non direi, per quanto mi sforzi non riesco a trasferire nel disegno l’idea che ho in testa… È così frustrante creare cose mediocri» rispose con falsa modestia.

«Ma no, ti sottovaluti troppo!» esclamò Kaori con entusiasmo, credendo autentici i dubbi della ragazza «Sono certa che all’accademia di moda ti prenderanno subito appena vedranno i tuoi disegni, non conosco nessuno più brava e più portata per la moda di te» concluse mettendole una mano sulla spalla.

Le piaceva incoraggiare le persone; la faceva sentire utile e provava una genuina felicità quando riusciva a sollevare il morale a qualcuno e per questo, appena ne aveva la possibilità, non esitava a distribuire sorrisi. Eppure per lei, che aveva più bisogno di quelle parole e di quei sorrisi, non c’era nessuno che si premurasse di donarglieli, eccezion fatta di suo fratello; lui solo con piccoli gesti sapeva infonderle quel coraggio e quella sicurezza che, per una ragazza piena di complessi come lei, erano di vitale importanza.

«Sei molto gentile Kaori, se solo fossi sempre così invece di comportarti da maschiaccio» disse Eriko lievemente sorpresa e, mentre iniziava a pulire la superficie di ardesia con una spugna, continuò «A proposito, come mai sei qui? Secondo il calendario delle turnazioni dovresti pulire tra tre giorni, oggi doveva essere il turno di Atarashi se non sbaglio»

«Sì, doveva…» e prendendo la scopa in un gesto di stizza aggiunse «Quello scimmione di Suzuka mi ha obbligato non solo a prendere il suo turno, ma anche a dover pulire tutti i giorni di questo mese»

Un rombo tuono sottolineò la portata della tragedia.

«Non ci credo! E perché, cosa è successo?»

Kaori si fermò, appoggiandosi sconfortata al muro. Solo a ricordare l’accaduto le veniva voglia di spaccare tutto.

«Ieri, dopo la cerimonia di ingresso, mi sono offerta volontaria per aiutare a sgomberare la palestra – cosa che non farò mai più –; subito Atarashi mi ha intercettata e, facendo la voce grossa perché era con il suo solito gruppo di deficienti, mi ha assegnato al carico e scarico delle sedie e altri oggetti pesanti»

«Ma non dovrebbe spettare principalmente ai ragazzi?»

«Sì, e secondo te perché l’ha fatto?» e dopo averle lanciato un’occhiata eloquente proseguì «Ho lasciato correre, anche perché sono abituata, però…» e così dicendo abbassò la testa, iniziando a torturarsi le dita «Però, mentre stavo andando nel ripostiglio ho sentito alle mie spalle Atarashi sghignazzare con alcuni ragazzi del primo anno che si erano aggiunti, e a un certo punto ha urlato “Ehi Makimura-kun, grande e grosso come sei hai dimenticato i pantaloni della divisa a casa?” E tutto il gruppetto ha iniziato a ridere di gusto. Allora ho provato una gran rabbia, non ci ho visto più e…» si bloccò incerta.

«E cosa hai fatto Kaori?»

«Gli ho scaraventato addosso tutte sedie che portavo, colpendolo in pieno viso» rispose guardandola negli occhi con un misto di rabbia e soddisfazione «Non potevo tollerare che mi si prendesse in giro anche di fronte ai ragazzi più piccoli!»

«Certo che è un gran cafone quello, ha davvero esagerato ‘sta volta» e portandosi una mano davanti alla bocca aggiunse «Oh, ma non sarà finito in ospedale? Quelle sedie sono belle pesanti»

«Magari ci fosse andato con la testa rotta!» e riprendendo a spazzare continuò «No, si è solo spaccato un sopracciglio e gli è cresciuto sulla fronte un bernoccolo grande quanto una mela. Purtroppo per me proprio in quel momento è entrato Suzuka che non ha voluto sentire ragioni e mi ha convocata per oggi nel suo ufficio, mentre quel bastardo l’ha fatta franca, anzi è la vittima ora!»

Il silenzio calò tra le due ragazze, rotto solo dal fragore dei tuoni sempre più ravvicinati e dal rumore dell’energica ramazzata di Kaori. Era frustrata, una parte di lei si sentiva in colpa, sapeva di esserci andata pesante, ma l’altra era ferita e rivendicava come giusto il suo comportamento. Che la si prendesse per maschio era una storia vecchia, ci era abituata, però in quell’ultimo periodo iniziava a sentirsi esasperata, avrebbe volentieri dato un taglio a quella situazione di equivoco continuo. Alcune volte avvertiva una vocina scalpitare dentro di sé, una voce che voleva urlare a tutti di smetterla: lei non era un maschio! Ecco perché episodi come quello in palestra ora le facevano molto più male rispetto agli anni precedenti; non era mai stata particolarmente permalosa ma sentiva che non avrebbe più tollerato in silenzio e con calma ulteriori ingiustizie e cattiverie gratuite nei suoi confronti. Perché non poteva essere considerata come una ragazza normale? Ormai si faceva spesso quella domanda, iniziandosi a sentire sempre più vulnerabile e fragile nel suo essere donna; non era mai stata così debole e con l’autostima a terra come in quei giorni, e l’incidente del giorno prima era la conferma che per la prima volta il suo orgoglio femminile aveva iniziato a ribellarsi e, sicuramente non se ne sarebbe stato più in disparte come sempre. Eriko ruppe per prima il silenzio, strappandola dalle sue riflessioni.

«Sai Kaori, penso che dovresti provare a non rispondere più alle loro provocazioni» le disse mentre puliva i banchi «Ignorali, sono sicura che dopo un po’ la smetteranno»

«Io ci provo ad ignorarli ma quando mi arrabbio non riesco a controllarmi… E poi non credo che la smetterebbero comunque, quindi tanto vale che mi difenda»

«Possibile che non lo capisci?!» fece sorpresa «I ragazzi sono stupidi, si divertono a prenderti in giro solo per vedere la tua reazione, capito? Non è tanto il tuo aspetto a divertirli quanto le tue arrabbiature! Se smetterai di darli corda vedrai che si stancheranno presto e non ti prenderanno più in giro, ne sono certa. Poi…» e un po’ esitante continuò «Beh, una parte di colpa ce l’hai anche tu. Se vuoi far smettere questi episodi dovresti… Non so come dire… avere degli atteggiamenti più femminili. Sei gentile ma il tuo modo di fare è sempre troppo maschile, ecco»

Kaori la guardò di sbieco mentre richiudeva il sacco della spazzatura. “Quindi non c’è niente in me che mi faccia apparire una ragazza… Sono proprio un maschio allora, hanno ragione gli altri” pensò stizzita. Eriko era famosa per essere un tipo schietto ai limite dell’insolenza; sicuramente era mossa da buone intenzioni ma quell’ultima osservazione l’aveva un po’ ferita; un conto era sentirsi additare come ragazzo da dei ragazzi idioti e un altro era invece sentirselo dire da una ragazza – per giunta molto popolare e corteggiata.

«Kaori? Tutto a posto?» le chiese avvicinandosi.

Non si era accorta di essere rimasta immobile, accucciata accanto al sacco nero.

«Sì… Scusa mi sento un po’ stanca» e con un sorriso leggermente tirato aggiunse «Senti, puoi anche andare Eriko, visto che abiti parecchio lontano ti conviene affrettarti, credo dovresti farcela prima che inizi a piovere. Finisco io le ultime cose, tranquilla»

«Ma Kaori…»

«No, non voglio sentire ragioni, su vai!» e con impeto esagerato la mise quasi alla porta.

La ragazza, nonostante non nascose la sua sorpresa, decise di assecondare quella furia benevola e, dopo averla ringraziata, corse via, lasciandola nell’aula vuota, rischiarata dai lampi sempre più frequenti.
“Meglio che mi dia una mossa, non voglio certo restare tutto il pomeriggio qui dentro… E mi sa proprio che domani dovrò scusarmi con Eriko, sono stata troppo aggressiva” si disse mentre ultimava le ultime faccende. In realtà aveva voluto cacciare l’amica, desiderava restare solo in compagnia dei suoi pensieri per un po’. Ormai le era chiaro che iniziava ad essere stanca, aveva da poco compiuto diciotto anni e quel continuo equivocare la sua sessualità iniziava ad esasperarla. Certo, sapeva di essere un maschiaccio, era fin troppo evidente, ma ciò non significava che non fosse una ragazza a tutti gli effetti; per quanto si sforzasse non riusciva a capire cosa avesse in meno rispetto alle sue coetanee. Avrebbe preferito mille volte essere considerata una ragazza insignificante piuttosto che un ragazzo carino, e il colmo era che proprio alcune ragazzine idiote si divertivano a considerarla tale, alimentando in questo modo gli lo scherzi di quei deficienti. Sentì una leggera fitta al petto nel ricordare le parole di Eriko; le avevano fatto male, era inutile mentire a se stessa. Aveva avuto la conferma che agli occhi di tutti lei non veniva proprio considerata come una ragazza…allora avevano ragione gli altri, sbagliava a prendersela così tanto. Ma perché nessuno le permetteva di mostrarsi per quello che era davvero? Sentiva di avere tanta bontà e gentilezza da donare se solo il suo lato migliore non fosse costantemente adombrato dalla sua parte più impulsiva e violenta che sgusciava fuori prepotente ogni volta che veniva attaccata.
Dopo aver svuotato il secchio e riposto tutto il materiale nello stanzino si diresse in aula un’ultima volta per controllare che tutto fosse in ordine e prese la cartella. Il sinistro ticchettio dei goccioloni sui vetri delle finestre l’avvisarono che il temporale era appena iniziato, gettandola nello sconforto; in mattinata aveva totalmente dimenticato, nella fretta, l’ombrello a casa e se non fosse stata trattenuta da quell’imprevisto non si sarebbe ritrovata a fronteggiare quella tempesta.
“Eh già, vorrà dire che anche oggi dovrò essere poco femminile, tanto per cambiare” disse in uno sbuffo mentre si avviava verso l’uscita della scuola ormai deserta.
La pioggia cadeva copiosa sulla città, sferzandosi contro i palazzi e i pedoni che come industriose formiche cercavano di rientrare in tutta fretta al proprio formicaio. Tra queste, una ragazza alta e con la divisa alla marinara correva a tutta velocità per l’affollata Shinjuku-Dori Ave, tenendo saldamente la cartella di pelle sopra la testa; precauzione del tutto inutile visto che era completamente zuppa. Era già scivolata un paio di volte sotto lo sguardo attonito dei passanti, non abituati a vedere tutti i giorni una furia in gonnella del genere, ma Kaori non aveva rallentato l’andatura, in certo senso aveva bisogno di correre, di sfogare la rabbia per quell’ingiusta punizione, per quegli scherzi di cattivo gusto e per il suo essere irrimediabilmente maschiaccio nei modi e nel carattere. Si fermò a un incrocio col fiatone, contrariata per quel semaforo ostinatamente rosso. Si sentì rabbrividire al contatto dei vestiti freddi e bagnati sulla pelle e, per guadagnare tempo, scese dal marciapiede e si fece più avanti, pronta per lo scatto; purtroppo un simpatico automobilista la ritenne un obiettivo succulento e le passò accanto a tutta velocità, virando leggermente sulla destra in modo da avvicinarsi a un’ampia pozzanghera vicina al ciglio della carreggiata. Kaori venne presa in pieno.

«Maledetto bastardo!» urlò inferocita brandendo la cartella come se fosse un’arma, ma si bloccò alla vista delle persone vicine che la guardavano sconvolte.
Tra queste un vecchio signore dal volto incartapecorito e lo sguardo arcigno, ben protetto da un ampio ombrello, alzò un indice ammonitore.

«Un po’ di contegno, non si esprime così una ragazza a modo»

«No, infatti… Io sono solo un ragazzo» mormorò esasperata prima di proseguire la sua corsa verso casa.
 
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Kaori, dopo una lunga doccia calda, uscì dal bagno sentendosi rinata. Non le era mai capitato di infradiciarsi in quel modo – persino la biancheria era totalmente bagnata – e sperò di non essersi raffreddata troppo. Con passo leggero si diresse verso la sua cameretta – una stretta stanza rettangolare arredata con una semplice scrivania, un armadio stretto a due ante e un letto posizionato sotto la finestrella – e iniziò a rivestirsi. Si sentiva più calma, la corsa l’aveva aiutata a sfogarsi e a ritrovare la sua lucidità, non a caso si sentì una sciocca: perché si era arrabbiata così tanto per quella presa in giro? E perché le parole di Eriko l’avevano infastidita? Non era la verità ciò che le veniva detto ogni giorno? Aprì l’armadio per prendere una tuta sformata – precedentemente appartenuta a Hide – e si soffermò a esaminare il suo guardaroba; poteva essere scambiato tranquillamente per quello di un ragazzo e le uniche gonne presenti erano quelle della divisa scolastica. Non c’era dubbio, lei era la prima a trattarsi da maschiaccio, lo aveva sempre fatto, ma allo stesso tempo nell’ultimo periodo iniziava terribilmente a infastidirla quel continuo equivocare. In fin dei conti lei era una ragazza, con la sua sensibilità e il suo amor proprio che venivano calpestati ogni giorno.
Fin da piccola era stata una bambina molto sensibile ed empatica ma non aveva mai avuto modo di esprimere pienamente il suo lato più dolce, troppo presa a farsi valere con i bambini che la prendevano in giro; così mentre le sue compagne davanti agli scherzi non facevano che piagnucolare impaurite, lei si mostrava sempre forte, contrattaccando con energia e vincendo la maggior parte delle zuffe. Ricordava ancora lo sguardo di disappunto che le riservava Hideyuki quando rincasava sporca di terra o con qualche graffio, biasimandola per non essere una bambina come le altre; ma lei aveva già deciso che non sarebbe voluta essere come le altre se ciò avesse significato il non dover reagire e combattere per farsi valere. Se all’inizio, però, la sua condotta le aveva evitato ulteriori problemi, facendole guadagnare un certo rispetto da parte dei maschietti, alla fine, però, si era ritrovata intrappolata in un ruolo che sentiva ingiusto. Con il tempo non si era resa conto che a furia di rispondere alle provocazioni con i loro metodi, si era ritrovata ad essere come loro, un maschio a tutti gli effetti. Eppure lei non si sentiva certo un bruto. Perché non le era concesso di essere vista per ciò che si sentiva di essere davvero, ossia una ragazza buona e gentile? Possibile che i capelli corti e l’alta statura fossero una condizione sufficiente per scambiarla per un ragazzo? Stava crescendo e ogni qualvolta vedeva le sue amiche venir corteggiate e ammirate non poteva fare a meno di sentirsi depressa; sapeva che nessun ragazzo le avrebbe rivolto dei pensieri romantici. Stava per richiudere l’armadio quando l’occhio le cadde sulla sua immagine riflessa nello specchio appeso all’interno di un’anta, l’unico specchio che avesse in tutta la camera. Non le piaceva specchiarsi, con gli anni era diventata notevolmente insicura e piena di complessi per quanto riguardava il suo aspetto fisico, che cercava di nascondere il più possibile con l’abbigliamento; preferiva così, non avrebbe sopportato essere definita un bel ragazzo con indosso degli abiti femminili, era già sufficientemente irritante sentirselo dire con la divisa scolastica.
“Davvero sembro un ragazzo?” si domandò mentre si specchiava e, a malincuore, dovette ammettere che davanti ai suoi occhi si presentava una figura androgina. I capelli, corti e indisciplinati, incorniciavano un visino dai lineamenti morbidi ma facilmente equivocabili per quelli di un ragazzo imberbe prossimo allo sviluppo, mentre la felpa e i pantaloni larghi la rendevano ancor più magra e alta di quanto non fosse davvero, nascondendo completamente le curve ancora un po’ acerbe. Osservandosi attentamente, però, notò che in quell’insieme spiccavano alcuni dettagli inequivocabilmente femminili come gli occhi grandi incorniciati da lunghe ciglia, le labbra piccole ma piene, le spalle sottili, n aturalmente anche la voce non era certa così bassa.
“Forse Eriko ha ragione, quelle amebe potrebbero sfottermi solo per ridere delle mie reazioni, però…” e rivolgendo lo sguardo verso il portafoglio sulla scrivania disse ad alta voce «Dovresti intenderti di donne, maniaco come sei, eppure anche tu mi hai scambiato per un ragazzo… Allora è vero, sono io che me la prendo inutilmente» e sconfortata richiuse con forza l’armadio. Senza pensarci raggiunse la scrivania e aprì il portafoglio, estraendo la piccola foto.
«Anche se mi hai trattato come un ragazzino, in fin dei conti sei stato gentile con me Ryo» gli disse non potendo fare a meno di sorridere; quell’espressione era troppo comica e fu felice di averlo colto in quella posa. Riusciva sempre a tirarla su e sentiva che, se lo avesse fotografato con un’espressione più seria, sicuramente avrebbe finito per pensarlo più di quanto non facesse già. Arrossì lievemente, scuotendo la testa più volte, come a volersi liberare di quel pensiero imbarazzante, dandosi della stupida. Quell’uomo non la considerava più di quanto lei non pensasse a una pietra, ed era certa che lui si fosse già dimenticato di lei.
“Chissà se ci rivedremo ancora” emise in un soffiò mentre metteva la foto a posto, poi andò in bagno per riporre gli asciugamani bagnati. Da quando Hideyuki le aveva confessato la verità non era più tornato sull’argomento e, sebbene le avesse promesso di raccontarle di più del suo lavoro, l’uomo manteneva sempre un certo riserbo, fornendole dei resoconti molto scarni, attento a non scendere mai nei particolari. Sapeva che il suo caro fratello doveva avere dei motivi validi per quella reticenza, ma non poteva fare a meno di sentirsi contrariata; non le era mai piaciuto essere tenuta all’oscuro degli eventi. Ogni volta provava uno stratagemma diverso per tentare di captare qualche informazione in più, cercando in malo modo di nascondere la sua tremenda curiosità ma, naturalmente, suo fratello era molto più scaltro di lei e riusciva sempre a vincere. Sospirò; la sua parte più insicura temeva che Hide non avesse molta fiducia in lei.
Entrò in bagno e, una volta riposti gli asciugamani nella cesta della biancheria sporca, aprì l’antina della specchiera per prendere il pettine. In realtà non ne aveva bisogno, i capelli erano così corti che poteva tranquillamente sistemarli con le mani, ma essendo particolarmente ondulati – così insoliti per una giapponese – preferiva districare i piccoli nodi in un modo più consono. Solo sua madre aveva avuto la pazienza di pettinare e domare quelle onde ribelli, intrattenendola durante quella lunga occupazione con canzoni o raccontandole storie. Dopo la sua morte, però, né suo padre né Hideyuki avevano più avuto tutto quel tempo da dedicarle, così si era optato per un taglio molto corto, maschile appunto, di più facile gestione e lei si era abituata quasi subito. Col passare degli anni non aveva provato a farli ricrescere poiché era diventata troppo pigra per potersi dedicare alla sua chioma che, secondo il regolamento scolastico, doveva mantenere perfettamente liscia e lunga non oltre la spalla1. Maldestra com’era sicuramente avrebbe finito per bruciarsi i capelli con la piastra, senza considerare che ogni mattina era una corsa contro il tempo per non arrivare a scuola in ritardo… No, i capelli da maschiaccio erano quelli più indicati per lei. Sovrappensiero urtò accidentalmente un pennello da barba che cadde sulle piastrelle del pavimento con un tonfo secco. Kaori si affettò a recuperarlo e controllò che non avesse subito danni; quell’oggetto era l’unico effetto appartenuto a suo padre che si era voluta portare nel nuovo appartamento. Chiuse gli occhi e annusò le setole ormai ispide e indurite. Poco dopo la sua morte, e per molto tempo dopo, aveva cercato in quell’oggetto l’odore di sapone da barba che tanto le ricordava il bacio del buongiorno che suo padre era solito darle prima di colazione; era stato per lei un modo per sentirlo ancora vicino, per illudersi che non se ne fosse andato per sempre. Erano anni ormai che il suo odore era svanito, ma non aveva avuto il coraggio di disfarsi di quel semplice pennello e ogni tanto, quando si sentiva particolarmente triste, replicava il gesto, non trovandovi più, però, il conforto di un tempo: il suo odore era ormai svanito ma la sua memoria olfattiva, ostinata più di lei, le faceva ritrovare quel lieve sentore di eucalipto che sapeva d’infanzia. E senza volerlo, in quell’istante la sua mente volò lontano verso un ricordo felice, in quel bagno tredici anni prima.

«Kaori che hai combinato?» la sorprese una voce alle sue spalle.

«Papà» rispose sorridente «Sono stata brava? Ho fatto come fai tu» disse tutta impettita.

Suo padre aveva la giornata libera, il che avveniva abbastanza regolarmente una volta alla settimana da quando sua madre era morta un anno prima. Le mancava ancora molto, per questo era ben felice di trascorrere del tempo con il suo adorato ‘papino’ – come lo chiamava lei – che era sempre molto affettuoso e pieno di premure nei suoi confronti, e a lei piaceva essere coccolata da quell’uomo dalla voce roboante, i capelli brizzolati e gli occhi buoni e gentili, proprio come quelli di suo fratello.

«Certo che non posso allontanarmi un attimo, eh?» e sorridendo le passò una mano tra i capelli «Davvero brava, tra poco supererai tuo padre» le disse prendendole di mano il pennello così carico di sapone da sembrare una meringa.

«Allora facciamo la barba insiem…blah che schifo!» e così dicendo sputacchiò un po’ di sapone che le era scivolato sulla bocca.

Quel giorno si era alzata con la ferma intenzione di fare la barba insieme a suo padre, per questo aveva atteso che lui fosse andato in camera per correre in bagno e spalmarsi sul viso il sapone già montato, imitando quei gesti che aveva visto così tante volte – e con così tanta ammirazione – da aver imparato a memoria.

«Tesoro sei troppo piccola per questo, ma visto che sei già pronta vorrà dire che oggi mi farai compagnia» le disse dolcemente mentre le allungava un rasoio di sicurezza privo di lama.

Kaori accolse il gesto con un urlo acuto di pura gioia e tutta emozionata iniziò a prelevare dosi generose di sapone in modo maldestro, sporcando il lavandino e lo specchio.

«Ricorda Kaori: solo per oggi. Poi non devi fare mai più la barba con me, intesi?»

Gli occhi dell’uomo incontrarono quelli grandi della bambina, spalancati in un dispiacere evidente.

«Perché papino? Voglio esercitarmi per quando sarò grande!»

«Ma no, non ne avrai bisogno» rispose sorridendo, mentre tendeva la guancia per far scorrere la lama.

«Non mi farai fare la barba? Devo tenerla lunga come il vecchio vicino?»

Suo padre non poté fare a meno di ridere, lasciandola ancor più perplessa.

«Ma no sciocchina, semplicemente a te non crescerà mai la barba. Sei una bambina no?»

«E perché, alle bambine non cresce la barba?»

«No, la barba è roba da maschi. Ed è meglio così, no?» e facendole l’occhiolino aggiunse «Sarebbe un peccato se il tuo bel visino si rovinasse. Dai vieni, fatti pulire» disse mentre le toglieva gli ultimi residui di sapone con un asciugamano umido.

«Però sei proprio sicuro papino? A scuola mi dicono sempre che sono un maschio…»

Vide suo padre serrare per un attimo le labbra alle sue parole, per poi ritornare subito dopo quello di sempre.

«Ti fidi di me?» le chiese, inginocchiandosi e prendendola per le spalle.

Gli rispose annuendo vigorosamente con il capo, gli occhietti da cerbiatto seri in quelli di lui.

«Tu sei una bambina Kaori… Una bella bambina, soprattutto qui» disse indicandole il petto all’altezza del cuore «Sei gentile, sensibile, forte… Hai così tante buone qualità che non potrei essere più orgoglioso di avere una figlia come te. Sei la mia cara donna di casa, specialmente adesso che la mamma non c’è più… Non fingerti quello che non sei e non preoccuparti per quello che dicono gli altri. Quando sarai più grande tutti vedranno l’enorme bellezza dentro e fuori di te, devi solo avere pazienza»

Sebbene la sua mente di bambina non colse appieno il significato di quelle parole, il suo cuore percepì il grande amore che suo padre aveva per lei, avvertendo un calore che la riscaldò come una dolce carezza. Si gettò tra le sue grandi braccia, sentendo una gran voglia di piangere ma trattenne strenuamente le lacrime, voleva mostrarsi forte davanti al suo amato papà.

«Ti voglio bene papino, resta sempre con me» gli disse nell’orecchio a mezza voce.

«Sì tesoro, sarò sempre con te» le sussurrò teneramente e, dopo averla scostata dolcemente, aggiunse «Vai in cucina ora, sicuramente Hide avrà finito di preparare la colazione, ti raggiungo tra poco»

Kaori aprì gli occhi e guardò per un ultima volta il pennello prima di rimetterlo a posto.
“Alla fine non sei stato di parola papà, mi hai lasciato troppo presto” mormorò leggermente depressa. La morte di suo padre era stata un duro colpo e le aveva lasciato un vuoto ancor più grande e doloroso di quello causato dalla scomparsa di sua madre. Col tempo i ricordi della figura materna si era andati via via sfumando in pochi episodi, mentre di suo padre serbava ancora una memoria più nitida, sebbene anch’essa minacciata dallo scorrere del tempo. Quell’uomo aveva avuto una certa predilezione per la sua bambina così dolce e timida ma allo stesso tempo irruenta e caparbia. Se n’era andato proprio in una giornata piovosa come quella, un infarto fulminante dovuto al troppo lavoro; ricordava ancora il volto mortalmente pallido di Hedeyuki quando era uscito dalla sua camera d’ospedale, mentre lei, terrorizzata da quell’ennesimo incontro ravvicinato con la morte, era riuscita a entrarvi solo per pochi minuti. A otto anni si era ritrovata a dover affrontare un secondo lutto terribile, straziante, che l’aveva fatta maturare molto rispetto ai suoi coetanei che mai le erano sembrati così stupidi e superficiali. Suo padre era stato l’unico a non considerarla un maschiaccio, l’unico che le aveva riservato gesti e sguardi di rara dolcezza e dopo di lui si era aperta nel suo cuore una voragine fatta di insicurezze e complessi. Sebbene superficialmente fosse molto brava a non mostrarli, questi albergavano silenti come ombre dentro di lei, pronti a sgusciar via appena abbassava le difese e si sentiva particolarmente fragile, proprio come in quel momento.
Si ridestò da quei pensieri malinconici e, sospirando, si diresse in camera per iniziare a fare i compiti. Non aveva fatto i conti, però, con la sua testa che si rifiutava di mettersi all’opera, indugiando ancora sul quel complesso di inferiorità che tanto si faceva sentire in quelle ultime giornate.
“Chissà, se la mamma non fosse morta così presto, se avessi avuto una figura di riferimento vicina, sarei diventata lo stesso il maschiaccio che sono ora?” bofonchiò mentre appoggiava il mento sul palmo della mano, e osservò distrattamente il cielo scurirsi nell’imbrunire, coperto da quei nuvoloni che sembravano non voler abbandonare la citta.
“Possibile che i miei modi e il mio aspetto non mi facciano sembrare per niente una ragazza? Cosa vuol dire essere donna?” Era quello l’interrogativo che si andava formando sempre più frequentemente nella sua testa. Le ragazze con lunghi capelli lucidi, dai modi carini ma affettati e vestite con abiti graziosi potevano considerarsi più donne di lei? Ricordò le parole di suo padre: doveva avere pazienza sì, ma ormai era grande, aveva creduto che a diciotto anni si sarebbe avverata quella promessa ma evidentemente non era così. Forse avrebbe dovuto cambiare lei per prima, per permettere agli altri di modificare il loro giudizio nei suoi confronti; ma lei sarebbe stata in grado di farlo? E soprattutto, avrebbe voluto farlo? La risposta le giunse inaspettata, libera e sicura dal profondo del suo animo: no, non voleva cambiare. Era certa che non si sarebbe riconosciuta in nessun’altra veste che non fosse quella e, se il prezzo da pagare per essere considerata una ragazza come tutte era il dover modificare il suo atteggiamento e le sue abitudini per omologarsi alle altre, allora ne avrebbe fatto volentieri a meno. Inoltre, per quanto una parte di lei desiderava essere considerata e amata davvero da qualcuno, sapeva molto bene che non sarebbe stata in grado di gestire delle attenzioni di quel genere, annegando nella vergogna e rovinando tutto con il suo essere inguaribilmente maldestra in materia di sentimenti.
“In fin dei conti è meglio restare così, almeno per adesso… Poi si vedrà. Devo cercare di essere meno permalosa, manca poco alla fine della scuola” e giocherellando distrattamente con la matita proseguì il suo soliloquio ad alta voce, sicura della sua solitudine.
«E poi, in fin dei conti ci sono donne che non sono delle modelle no?» Il suo pensiero andò veloce verso una donna in particolare, la signora Kaze, la proprietaria del minimarket vicino casa di cui era cliente abituale. Era un donnone di mezza età, alto e ben piazzato, dalle rubiconde guance un po’ flosce e con capelli di un finto nero pece, sempre ben tirati in una crocchia alta e stretta. Il marito era un omino più basso di lei di quasi mezza testa, aveva due figli e tutti i clienti e i suoi conoscenti la chiamavano signora nonostante avesse un paio di simpatici baffetti neri che capeggiavano fieri sopra il labbro superiore. Se una persona del genere era comunque considerata donna, allora perché non lo sarebbe stata lei che di baffi non ne aveva? 
«Ma sì, forse devo avere ancora un po’ di pazienza e, male che vada, farò come la signora Kaze e proverò a farmi crescere un bel paio di baffi!» esclamò, soddisfatta di quella sua trovata bislacca.

«Cosa devi provare?»

Kaori sobbalzò sulla sedia e voltandosi vide suo fratello appoggiato allo stipite della porta a braccia conserte, con un’evidente espressione divertita.

«Hide che diavolo, mi hai fatto prendere un colpo!» gli urlò contro portandosi una mano al petto «Da quando hai iniziato a fare in ninja?»

«L’ho sempre fatto, solo che te lo tenevo nascosto» rispose facendole un occhiolino «Ho bisogno di esercitarmi un po’, è di vitale importanza saper essere silenziosi nei movimenti»

«Davvero? È per il lavoro che state svolgendo? Dove devi intrufolarti? E quando…»

«Alt, ferma, ferma. Certo che quando ti metti a fare domande sei peggio di un poliziotto! Per ora non posso dirti niente, è un lavoro un po’ complicato, te ne parlerò quando avremo finito»

«Sì, e poi non mi racconti un bel niente, sei proprio un gran bugiardo» e incrociò le braccia assumendo un’espressione offesa.

Hideyuki le si avvicinò tranquillo, schiarendosi leggermente la voce. Da alcuni giorni lo vedeva sempre di buon umore; non che la cose le dispiacesse ma lo trovava leggermente sospetto.

«Non fare così Kaori, se non ti dico di più è perché non posso. Sai già troppo di un mondo che dovrebbe esserti estraneo, non voglio certo andare nei dettagli. Non credere che non ti parli perché non abbia fiducia in te, l’ho capito che lo pensi sai? No, sarebbe rischioso per me e soprattutto per te» e guardandola serio aggiunse «Non potrei mai perdonarmi se ti capitasse qualcosa, io mi preoccupo per te, hai capito sorellina?»

Kaori annuì, totalmente sconfitta – per l’ennesima volta – da quel fratello così odiosamente bravo a trovare sempre le parole giuste; lui era l’unico che la sapesse prendere e con cui era impossibile arrabbiarsi sul serio; era proprio uguale a suo padre.

«A proposito» continuò l’uomo, facendosi canzonatorio «Che storia sarebbe questa dei baffi?»

La ragazza arrossì violentemente, maledicendosi per il suo brutto vizio di pensare ad alta voce quando era sola a casa.

«Niente, stavo… Ecco sì, stavo leggendo un testo e…»

«E lo sai che non sei brava a dire le bugie?»

Hideyuki si sedette sul letto, appoggiando i gomiti sulle cosce e portando così i pugni sotto il mento. Era appena arrivato, Kaori notò l’orlo dei pantaloni bagnati per buoni cinque centimetri e i capelli leggermente umidi alle punte.

«Su, dimmi che è successo. Come mai sei tornata così tardi a casa?»

«Come fai a sapere quando sono tornata?»

«Ah, dimentichi che sono stato un poliziotto? Non mi sfugge niente» disse sollevando le sopracciglia.

«Come no, la verità è che sei solo fortunato» borbottò irritata mentre iniziava a torturarsi le dita, un gesto che era solita fare quando era in evidente imbarazzo.

«Niente… Mi trovo nei guai sempre per colpa degli altri. Se quel deficiente fosse stato zitto ora non mi ritroverei a sopportare il turno di pulizie a scuola tutti i giorni per questo mese, che rabbia!»

«Kaori non dirmi che hai picchiato di nuovo qualcuno?»

«No! No, questa volta non ho preso a pugni nessuno» e abbassando gli occhi proseguì «Gli ho solo scaraventato addosso quattro sedie… Quelle pieghevoli di ferro»

«Questo credo sia ancor peggio che fare a botte. Ti ho detto mille volte di evitare…»

«Ma io non volevo! Non credere che provi piacere a essere violenta, ma mi costringono, non riesco a sopportare in silenzio, quando è troppo non ci vedo più e devo reagire in qualche modo!» esclamò stringendo i pugni lungo i fianchi.

Sapeva di essere nel torto e ciò la faceva star male, ma la parte più impulsiva di lei, quella che istintivamente passava alla violenza, non poteva che gioire nel pensare al bel trattamento che aveva riservato a quel pallone gonfiato. Lei era così, un insieme di contrasti: timida e impulsiva, dolce e violenta, comprensiva e testarda… Era la sua natura, poteva essere biasimata per questo?
Mentre in lei ribollivano quei pensieri Hideyuki la guardò pazientemente e, dopo qualche secondo, rilasciò un sospiro rassegnato.

«Non c’è niente da fare, sei cresciuta solo tra maschi dopotutto» e alzandosi continuò «Non dico che tu non debba farti valere, ma ci sono modi e modi… puoi essere forte e allo stesso tempo essere più femminile come…» ma si fermò di colpo, arrossendo lievemente.

«Come?»

«No, niente, come non detto» e sistemandosi gli occhiali sul naso aggiunse «Va bene, se proprio non riesci a contenerti cerca di non ammazzare nessuno, intesi? Su, ora mettiti a studiare che si è fatto tardi. Ci penso io alla cena»

La ragazza annuì, leggermente perplessa per quella reazione improvvisa di suo fratello. Sicuramente le stava nascondendo qualcosa e moriva dalla curiosità di scoprire cosa, ma saggiamente decise di rimandare la sua indagine a un momento migliore; si sentiva terribilmente stanca e aveva perso completamente la voglia di fare i compiti. Facendo appiglio a tutta la sua forza di volontà, però, aprì i libri e si mise all’opera.

«Ah Kaori!»

Si girò quel tanto che le bastò per scorgere il volto di suo fratello affacciato alla porta, il corpo nascosto dal muro.

«Che vuoi? Non vedi che sto studiando?» rispose scocciata, tornando ostinatamente al libro di analisi.

«Sappi che, nel caso in cui decidessi di farti crescere un bel paio di baffi, ho conoscenze che potranno rifarti senza problemi i documenti. Comunque Kaoru suona ben… Ahh » urlò prendendo in pieno viso il libro lanciato con rabbia.

«Vai al diavolo Hide! Stavo cercando di concentrarmi, porca miseria!» gli urlò contro arrabbiata non tanto per l’insolenza di suo fratello, quanto per la vergogna che l’avesse sentita durante i suoi deliri.

«Ah che caratterino!» bofonchiò Hideyuki, mentre si massaggiava il naso divertito.
 
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Erano da poco passate le sette e mezza di sera quando i due fratelli si sedettero a tavola per consumare una semplice cena preparata con maestria. Kaori aveva ritrovato il suo solito buon umore; i compiti l’avevano aiutata a distrarsi e, affamata com’era, si era avventata con insolita voracità sulla sua doppia porzione di tamagoyaki e okonomiyaki, mangiando con gusto e poca eleganza. Non si accorse, però, che due occhi attenti nascosti dietro due lenti a goccia la stavano squadrando con un’espressione indefinibile, certi di aver colto alcune somiglianze in quell’atteggiamento così rustico.

«Ah ora sì che mi sento meglio!» esclamò soddisfatta, portandosi felice le mani sullo stomaco ben pieno.

«Hai mangiato proprio come uno scaricatore di porto» le disse Hideyuki in uno sbuffo, alzandosi per accendere il televisore.

«Ha parlato il principino! Che, vuoi litigare?» chiese con sguardo esageratamente torvo.

«No, non è nei miei programmi per il dopo cena» le rispose, prendendo il telecomando per sintonizzarsi sul primo notiziario.

«Uffa, sempre questi noiosi telegiornali ogni sera! Non potremmo vedere qualcosa di più bello ogni tanto? Si sentono solo brutte notizie, è deprimente…»

«Shh, fammi sentire questa» disse secco, allungando una mano verso di lei per fermala, mentre osservava con sguardo serio lo schermo.

«Una notizia dell’ultima ora: uno scontro a fuoco si è svolto nei pressi dell’abitazione dell’onorevole Oketo. Risulta ancora ignota l’identità dell’assalitore, mentre si registrano alcuni morti e diversi feriti tra la scorta. L’onorevole attualmente è scomparso, si ipotizza un sequestro di persona. La polizia è già sul posto per…»

«Il solito casinista, gli avevo detto di essere più discreto» commentò Hideyuki scuotendo lievemente il capo.

«Come? Sai chi è stato?» chiese sorpresa la ragazza, bloccando il bicchiere d’acqua a mezz’aria.

Un lieve cenno del capo fu la sola risposta.

«Ah… Ma allora è stato Ryo!» esclamò trionfante, e nell’impeto del gesto si versò l’acqua addosso.

Suo fratello non si scompose, lanciandole un’occhiata perplessa per quell’eccessivo entusiasmo.

«Quindi è questo il lavoro super segreto di cui non vuoi parlarmi! E perché? Cosa ha fatto questo onorevole per…» ma la domanda le morì in gola quando vide lo sguardo obliquo di suo fratello «Sì, ho capito, non devo fare domande» e così dicendo si alzò e iniziò a sparecchiare.

«Brava ragazza»

Hideyuki si alzò e le passò una mano affettuosa tra i capelli «Mi dispiace sorellina ma devo lasciarti sola per un po’. Meglio che vada a controllare un po’ la situazione; Ryo è formidabile, ma alcune volte è un po’ troppo… Plateale, proprio come in questo caso»

«Non preoccuparti Hide, vai pure. Avevo già messo in conto di lavare i piatti visto che hai preparato tu la cena» e con un sorriso sincero aggiunse «Il tuo lavoro è più importante… E poi ci servono i soldi, no?»

Vide lo sguardo di suo fratello farsi per un attimo più luminoso e, dopo averle dato un buffetto affettuoso sulla guancia, lasciò la cucina.
Kaori iniziò la lavare i piatti sentendosi piacevolmente serena; Hide aveva il potere di infonderle tranquillità e sicurezza con un solo sguardo e davvero non sapeva come avrebbe fatto senza di lui.
L’ex detective ricomparve poco dopo in cucina e si diresse spedito verso l’appendiabiti per prendere il soprabito. Anche se lo vide solo di sfuggita notò che aveva cambiato la camicia e cercato di tirare un po’ più su il nodo della cravatta – sebbene fosse sempre irrimediabilmente storto. Non se l’aspettava proprio; si asciugò le mani e le appoggiò sui fianchi mentre si girava verso di lui.

«Da quando ti preoccupi di sistemarti?» lo fissò interrogativa.

Lui continuò imperterrito nella sua operazione di vestizione, mantenendo casualmente gli occhi bassi.

«Hide che mi nascondi?»

«Niente niente» e dopo essersi infilato a velocità supersonica le scarpe nel genkan disse un semplice «Ricorda di chiudere la porta a chiave quando vai a dormire» per poi volatilizzarsi.

Kaori rimase in quella posizione, stupita. Suo fratello, che solitamente era molto calmo e non badava all’abbigliamento, si era premurato di sistemarsi – in modo goffo certo, ma ci aveva sempre provato – ed era letteralmente volato via da casa. Che razza di lavoro stavano svolgendo?
“Uffa, mai una volta che riesca a scoprire qualcosa! Tutti questi misteri non fanno che innervosirmi, io voglio sapere cosa succede” sbottò e mise così tanta forza nell’asciugare la ciotola che per poco con la incrinò. Il suo sesto senso le diceva che c’era stato un cambiamento nell’umore di suo fratello ma non riusciva proprio a immaginarne la causa. Forse era stato pattuito un pagamento sostanzioso – eventualità che si augurò di cuore date le loro finanze sempre così esigue – o semplicemente il lavoro gli piaceva ogni giorno di più, rendendolo impaziente di cominciare. Provò un pizzico di invidia per lui; lei non aveva nessuna attività che la entusiasmasse particolarmente. Non aveva ancora le idee molto chiare sul suo futuro e la cosa le metteva una certa inquietudine. Quello era l’anno delle grandi decisioni, ancora pochi mesi e tutti gli studenti sarebbero stati chiamati per scegliere il loro percorso di studio – o professionale – futuro; lei non aveva deciso che direzione far prendere alla sua vita e, in un certo senso, vedere i suoi compagni già ben decisi la frustrava. Sicuramente non avrebbe scelto l’università, troppo costosa per il suo portafoglio e troppo lunga per la sua pazienza; inoltre ciò l’avrebbe obbligata a partecipare ai corsi intensivi pomeridiani per quasi tutto l’anno. No, era già sufficiente la mole di studio normale. Si lasciò cadere sconfortata sulla sedia, guardando senza ascoltare il film che passava in televisione mentre si passava distrattamente le dita tra i capelli.
Le sarebbe piaciuto avere vicino i suoi genitori per confortarla e consigliarla su quella scelta che le sembrava così importante eppure così difficile.
“I miei genitori…” mormorò piano e un sorriso amaro le increspò le labbra. Sarebbe stato corretto chiamarli genitori adottivi. Le era crollato il mondo addosso quando lo aveva scoperto, grazie a quel preside così privo di tatto che, poco dopo la morte di suo padre, le aveva porto le «più sentite condoglianze per la perdita di suo padre adottivo». Aveva provato un senso di gelo e annichilimento inaudito, che si era andato a sommare al grande vuoto che la scomparsa di suo padre le aveva appena lasciato. Incessantemente, una piccola parte dentro di lei aveva sperato e supplicato che si fosse trattato solo di un terribile malinteso. Poi, però, quando alcuni mesi dopo avevano traslocato nel loro attuale appartamento, e aveva trovato la cartella medica di sua madre in cui erano presenti solo i documenti ospedalieri riguardanti la nascita di Hideyuki e non i suoi, ne ebbe l’amara certezza. In un primo momento era stata tentata di dire a Hide che aveva scoperto tutto, ma la saggezza – o l’incoscienza – dei suoi nove anni l’aveva convinta a tacere sull’argomento. Non avrebbe sopportato l’idea di essere portata via da suo fratello, gli era molto affezionata e le dava molta forza, nonostante lui fosse ancora un ragazzino. Per quanto, col passare degli anni, quella consapevolezza aveva gettato inevitabilmente un’ombra nella sua esitenza, si era decisa a non voler fare ricerche sui suoi genitori biologici; era stata amata, per lei non potevano esserci altri genitori se non quelli che aveva conosciuto. Non si era sentita pronta per sopportare un’altra verità, magari peggiore, e scoprire di non essere stata voluta o abbandonata… Il suo cuore affamato di amore non avrebbe potuto reggere a una tale consapevolezza. E poi, se il prezzo da pagare per scoprire le sue origini fosse stato abbandonare il suo caro fratellone e non vivere più con lui, ne avrebbe fatto volentieri a meno; ormai era lui la sua famiglia, l’unica che una ragazza maschiaccio poteva desiderare di avere: atipica come lei.
Kaori scosse lievemente la testa. Tutto sommato era felice e non poteva lamentarsi della sua situazione attuale; alla fine era riuscita a non farsi schiacciare dall’amarezza, da quel senso di solitudine che aveva provato nel realizzare di non avere nessun posto a cui appartenesse davvero. Era stato possibile solo grazie a Hideyuki che con le sue attenzioni, la sua presenza e il supporto costante l’aveva aiutata a uscire fuori da quella marea che aveva cercato di trascinarla al largo di un dolore senza ritorno. Sicuramente lui doveva sapere la verità, non poteva essere possibile il contrario, eppure i suoi atteggiamenti non l’avevano mai tradito, anzi, la trattava con lo stesso affetto che avrebbe avuto qualsiasi fratello di sangue, se non maggiore. E ripensandoci, anche i suoi genitori, suo padre in primis, l’avevano trattata con così tanto amore che, se non fosse stato per quell’infelice dichiarazione, non avrebbe mai sospettato di essere stata adottata.
Riemerse dalle sue riflessioni e, dopo aver lanciando un’occhiata all’orologio, si disse che ora di andare a letto. Si alzò e, dopo aver preso dalla giacca le chiavi, richiuse attentamente la porta. Aveva provato alcune volte ad aspettare il suo caro fratellone in piedi ma immancabilmente si era addormentata di testa sul tavolo per poi ritrovarsi il mattino dopo magicamente nel suo letto, più assonnata che mai. Sicuramente Hide rientrava tardissimo, troppo per la sua resistenza, e la meravigliava constatare come lui non mostrasse nessun segno di stanchezza pur dormendo così poco.
“Spero non faccia nulla di pericoloso e torni a casa sano e salvo” disse in un sussurro mentre si preparava per la notte. Quella nuova consapevolezza sul lavoro di Hide le aveva portato una buona dose di ansia e, ogni volta che lo vedeva uscire, non poteva impedirsi di formulare una preghiera silenziosa affinché non gli succedesse nulla di grave. Entrò nella sua camera, controllò che la cartella fosse perfettamente asciutta e vi mise dentro il materiale scolastico; la aspettava una giornata impegnativa l’indomani, così come il giorno dopo ancora, per tutto l’anno davanti a sé. Le sembrò un periodo di tempo intollerabilmente lungo e sperò con tutto il cuore che finisse al più presto. Non vedeva l’ora di chiudere quel capitolo tedioso per poterne aprire uno nuovo; sebbene non fosse ancora certa su cosa il destino avesse in serbo per lei la naturale fiducia della sua età, unita a una buona dose di ingenuità, sembravano suggerirle che l’attendessero anni più belli, regalandole così sogni sereni.
 
______________________
1 Ogni scuola giapponese ha un proprio regolamento, in cui vengono stabilite delle regole al limite dell’assurdo come nel caso dei capelli, che tutti gli studenti devono avere neri e lisci, (per le ragazze si arriva anche a obbligarle a portare i capelli raccolti per lasciar libere le spalle). Qualche tempo fa fece scalpore la notizia di una ragazzina costretta a tingersi i capelli di nero perché, avendoli naturalmente castani, violava il regolamento scolastico. Da allora qualsiasi “fenotipo non nipponico” deve essere certificato da un ospedale.

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Capitolo 6
*** Interludi ***


 El Retiro, aprile 1971 – Kenji1 Date
 
Era una bella mattina di inizio aprile e il sole, che splendeva fulgido in un cielo lievemente cobalto, riscaldava teneramente l’estesa foresta che si srotolava lungo l’estrema propaggine occidentale della Sierra De Las Minas2. Kenji percorreva lo stretto sentiero che si inerpicava sulla cima della montagna, attento a non scivolare su quel terreno terribilmente viscido a causa dell’improvviso temporale che, giunto inatteso durante la stagione secca, lo aveva bloccato tutta la notte giù al villaggio. Non negava mai il suo aiuto quando i civili lo mandavano a chiamare bisognosi di un dottore, e Dio solo sapeva quanto ci sarebbe stato bisogno di medici in quei territori così selvaggi e isolati. Per lui non era certo un sacrificio, anzi. Gli piaceva stare tra quella gente semplice e ospitale – i veri Americani come amava definirli – e poi, durante le sue visite, aveva occasione per fare lo splendido con le donne che provavano per lui sempre un’ammirazione e rispetto smisurati in quanto non solo era l’unico uomo di medicina in quelle zone, ma faceva anche parte del gruppo di guerriglieri che li difendeva dagli attacchi dell’esercito governativo3. Lui si lasciava coccolare, beandosi di quelle deliziose attenzioni, sempre attento a non eccedere e approfittarne più del dovuto; in fondo non si considerava degno di tutta quell’ammirazione, era tutto fuorché un eroe, ma allo stesso tempo non poteva rinunciarvi. Aveva bisogno di sentire quelle voci cristalline e di vedere quegli occhi dolci e luminosi sorridergli; ciò lo aiutava ad andare avanti in quella quotidianità infernale. “La bellezza salverà il mondo”4 aveva letto in un libro da ragazzo e più gli anni passavano, più si rendeva conto della forza di quell’affermazione; le donne erano sempre state il suo punto debole e la loro bellezza era la batteria che lo ricaricava. Di loro non ne aveva mai abbastanza.
Dopo aver oltrepassato un piccolo fossato perimetrale raggiunse l’accampamento, formato da una decina di baracche in legno dall’aguzzo tetto spiovente in foglie secche cementate col fango, disposte in forma semicircolare attorno al capanno riservato alla cucina – che celava sotto una botola il deposito di armi. Tutto era perfettamente silenzioso, eccezion fatta per il fruscio degli alberi e il chiacchiericcio di uccelli e grilli che riecheggiava incessantemente. Il commando era uscito in missione il giorno prima, proprio quando lui si apprestava a recarsi al villaggio. I suoi informatori da L’Avana gli avevano comunicato dell’arrivo di un gruppo di mercenari, truppe scelte e perfezionate dai berretti verdi5 che, dopo aver operato nel nord del Paese, era sbarcato proprio quella settimana a Puerto Barrios e che era in viaggio verso Purulhá, chiamati per dare manforte all’esercito stazionato in zona che negli ultimi mesi era stato sensibilmente decimato grazie alle loro azioni di guerriglia. Poiché il loro accampamento sorgeva sul monte situato a metà strada tra La Union Barrios e Purulhá, aveva prontamente suggerito a Jorge, il capo gruppo, di tendere un agguato ai nuovi arrivati e, favoriti dal fattore sorpresa, avrebbero potuto attaccarli facilmente lungo l’angusta mulattiera senza rischiare troppe perdite. Era un buon piano, difficilmente le sue idee non lo erano, ragion per cui era rispettato da tutti i guerriglieri, sebbene lui fosse l’unico a non imbracciare un fucile o una pistola; no, sebbene ne fosse più che capace aveva deciso ormai da molti anni che avrebbe combattuto con l’arma più potente che aveva a disposizione: la mente.
Con passo veloce raggiunse la sua capanna – in realtà un vero e proprio ambulatorio – che si trovava in una posizione più marginale rispetto alle altre e, una volta entrato, iniziò a cacciar fuori con velocità gli strumenti dalla sacca medica. Avrebbe sterilizzato tutto prima di raggiungere i suoi uomini che, secondo i suoi calcoli, sarebbero stati appostati ancora per qualche ora prima di iniziare la battaglia vera e propria; voleva esserci, questi mercenari dovevano essere degli ossi duri, perciò la sua presenza sarebbe stata determinante per dare un primo soccorso ai guerriglieri, anche perché Shin sarebbe stato troppo impegnato a combattere per occuparsi di feriti.
L’acqua nella piccola pentola appoggiata su un fornello da campeggio iniziò a bollire, così vi inserì garze, bisturi e aghi da sutura precedentemente passati con una miscela disinfettante ma, appena terminò l’operazione, un dettaglio colpì la sua attenzione. Un’anta del piccolo armadietto che si trovava alla sua destra era leggermente aperta, eppure lui era più che certo di aver richiuso tutto accuratamente prima di andarsene.
“Che l’abbia aperto Shin? Strano, la sua sacca medica l’avevo preparata io e avevo messo tutto l’occorrente” si disse mentre si avvicinava per controllare cosa mancasse. Con sua grande sorpresa vide che era stata presa un’ampolla vuota. Perché, a cosa gli sarebbe servita? Non sembrava che mancasse nient’altro… forse i contenitori dell’etanolo e dell’anestetico gli sembravano leggermente spostati, ma a che gli sarebbero serviti?
“A meno che…”
Ricacciò con forza quel pensiero assurdo, si diresse verso la piccola ricetrasmittente e l’accese; voleva avvisarli che li avrebbe raggiunti il prima possibile e chiedere chiarimenti a al diretto interessato.
La trasmittente emise un fruscio gracchiante, prima che una voce si fece sentire.

«Hola Prof»

L’uomo premette il tasto per attivare il microfono.

«Hola Jorge. Novità?»

«Nada» rispose secco il comandante del gruppo.

Erano uomini di azione, sapeva bene che le lunghe attese li snervavano, ma in alcuni casi, proprio come quello, erano necessarie per la buona riuscita di un’operazione.

«Ancora un po’ di pazienza amigo, i miei informatori da Cuba sono precisissimi, passeranno da lì a momenti»

«Mmh…» e prima che lui potesse parlare aggiunse «Ah, Moon vuole parlati»

«Prof mi sente?» sentì pochi secondi dopo.

Frank gli aveva parlato in inglese e non era un buon segnale: c’era qualche problema e non voleva farsi capire dal resto del gruppo. Quel piccolo sospetto iniziò a scalpitare come non mai e fece un grande sforzo per mantenersi lucido.

«Sì Frank, dimmi»

«Ho un brutto presentimento Prof. Kaibara e Ryo si sono allontanati dal gruppo ieri sera, dicendo che avrebbero approfittato della ronda notturna per perlustrare ulteriormente la zona, ma non sono ancora rientrati» il guerrigliero esitò «I suoi occhi Prof… Ieri sera erano… Insomma non li ho mai visti così. Sono preoccupato per Ryo, so che con Kaibara è sempre stato al sicuro ma stanotte non sembrava più lui… Non vorrei facessero qualcosa di avventato, quei bastardi arriveranno a momenti»

Il medico sentì il cuore perdere un battito e un brivido freddo gli corse lungo la schiena: quel terribile sospetto si era concretizzato.

«Non c’è tempo da perdere! Vai subito a cercali, porta un po’ di uomini con te, forse dovreste fare ancora in tempo!» esclamò senza riuscire a contenere l’agitazione crescente «Come ho potuto essere così cieco? Era così evidente, è colpa mia…»

«Prof mi preoccupa, che diavolo è successo? Un momento, non crederà davvero che lui…»

«Corri Frank, non fare domande cazzo! Poi ti dic-»

Dalla trasmittente echeggiarono suoni sfocati ma inequivocabili di spari, seguiti da urla di sorpresa. Kenji sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene. Era troppo tardi.
La comunicazione si interruppe bruscamente e, mentre cercava di trattenere il tremore che sembrava aver assalito le membra, avvertì distintamente degli spari a non più di mezzo chilometro in linea d’aria. Non poteva sbagliarsi, quel rumore proveniva proprio in corrispondenza di una piccola radura laterale alla mulattiera, conosceva perfettamente quel posto.
“Che posso fare? Che diavolo posso fare?”
Lui, che fin dall’infanzia si era distinto per la sua genialità, lui che si era crogiolato nella sua infallibilità aveva ricevuto in quel momento uno smacco potentissimo al suo orgoglio. Se avesse considerato con più serietà quel primo discorso delirante, se gli avesse impedito di accedere al laboratorio dopo l’alterco della settimana precedente… Tanti se, tanti piccoli segnali che, colti al momento giusto avrebbero impedito ciò si stava svolgendo non lontano da lui.  
“Non devo pensare a quello che non ho fatto ma a quello che devo fare ora, dannazione!” si disse cercando di recuperare una parvenza di controllo.
Nel frattempo gli spari si fecero sempre più frequenti, a suggerire che si stesse nel pieno della battaglia. Non c’era un secondo da perdere, se fosse stato rapido avrebbe potuto anticipare il gruppo che si trovava un paio di chilometri più a nord.
«Che cosa potrei utilizzare? Mi servirebbe qualcosa come…» disse ad alta voce, cercando di calmarsi e, quando vide arrotolata accanto alla porta la robusta rete che utilizzavano per immobilizzare puma e altri animali di grossa taglia quando si avvicinavano al loro accampamento, ebbe un’idea.
Ritornato finalmente lucido, in gesto fulminio si allungò verso il tavolaccio che occupava il centro della stanza e con uno scatto recuperò dal doppiofondo un fucile a pompa carico con una dose di sonnifero estremamente potente, si infilò a tracolla la pesante rete e uscì come una furia; un occhio esterno l’avrebbe potuto scambiare tranquillamente per un bracconiere, solo che non era certo una bestia feroce quella che si preparava a catturare.
“Fa’ che non succeda nulla al ragazzo” si disse mentre si lanciava in una corsa infernale, guidato solo dagli spari, e non avvertì i rami secchi graffiarlo, le asperità della roccia, il declivio sempre più ripido che lo portava a scivolare sulle foglie secche. No, c’era ben altro a riempire i suoi pensieri: una conversazione avvenuta quasi un mese prima.

«Prof!» la porta del laboratorio si spalancò con un rumore secco mentre un uomo si precipitava all’interno come una furia «Abbiamo fatto troppo tardi! Non finirà, non finirà mai questa fottutissima guerra!»
Kenji vide il guerrigliero mettersi le mani tra i capelli, un gesto che palesava tutta l’angoscia e la frustrazione che aveva accumulato e non aveva potuto mostrare prima. Gli dispiacque molto vedere come Kaibara, quell’ex marine così capace, l’unico a cui aveva potuto insegnare qualcosa di scientifico, si stesse consumando. Erano diversi mesi ormai che lo vedeva rodersi lentamente dall’interno, come se un enorme tarlo lo stesse svuotando della sua parte migliore. Aveva provato di tutto, ma iniziava a sentirsi impotente: qualunque argomento o gesto sembravano inutili, era del tutto inconsolabile e il suo proverbiale riserbo non aiutava la situazione.
«Come stanno al villaggio?» chiese allarmato mentre si apprestava a prendere la borsa con tutto l’occorrente per il pronto soccorso.
«Tutto inutile» fece tetro, emettendo uno sbuffo disperato «Quei bastardi hanno iniziato una vera mattanza, non stanno risparmiando neanche i civili, ormai è la terza volta che succede non può essere un caso» e abbassando il capo aggiunse piano «Tutti trucidati: donne, bambini, anziani… Anche gli animali domestici, terra bruciata»
A quelle parole sentì seccarsi la gola: non si sarebbe mai immaginato che il governo alla fine avesse dato il via a una vera pulizia etnica dei nativi americani. Il solo pensiero lo nauseò e rapide immagini iniziarono a riaffiorare nella sua mente; ricordi di quanto aveva visto in prima persona, meno di trent’anni prima, nella vecchia Europa. Eccolo un altro sterminio, un altro crimine che, però, stava passando inosservato agli occhi del mondo.
«L’orrore… L’orrore e l’odio vinceranno sempre, è inutile pensarla diversamente… Per sopravvivere dovremo cambiare, diventare spietati»
«Cosa dici Shin? Noi dobbiamo mostrarci diversi da loro, essere migliori! Solo così potremo vincere… Dobbiamo proteggere la vita, soprattutto noi due abbiamo il dovere di non cedere…»
«Non ce la faccio più!» gli sbraitò contro, gli occhi arrossati carichi di una rabbia che non aveva nulla di umano «Tu e questi discorsi edificanti sai dove te li puoi ficcare? Con le parole non facciamo niente, la strategia prudente che tu e quel coglione di Jorge avete suggerito da un anno a questa parte sai a cosa ci sta portando? Eh, lo sai a cosa?» gli chiese minaccioso, avvicinandosi con passo zoppicante.
Kenji per la prima volta ebbe paura di quell’uomo che conosceva da anni e in cui nutriva una profonda fiducia. Che cosa gli stava succedendo?
«Te lo dico io a cosa. A un cazzo di niente. Mentre noi giochiamo a nascondino loro ne stanno approfittando per far piazza pulita di tutti i villaggi indios che ci appoggiano; hanno capito che se loro muoiono è più facile averci in pugno: niente più cibo, niente più corrieri e niente appoggio. Con le buone non si risolve niente, non si risolverà mai un cazzo di niente in questo inferno» e puntandogli un indice vicinissimo al volto occhialuto proseguì «Qui non è la tua bella guerra, non ci sono i cari nazisti precisi e metodici con i loro lager; qua regna il caos, la guerriglia incontrollata tra noi e quei macellai. Ce lo stanno mostrando bene, nessuna regola esiste in questo posto e allora perché noi ci ostiniamo a voler seguire dei principi che possono tranquillamente andare al diavolo?» urlò e con un rapido gesto gli strappò di mano la borsa gettandola con ferocia per terra.
«Shin ora basta! Torna in te!» gli urlò, la sua calma proverbiale era totalmente svanita.
Un sorriso lugubre tagliò le labbra dell’uomo che lo fronteggiava.
«Non sono mai stato più in me di così» e dirigendosi verso l’uscita aggiunse, dandogli le spalle «Sai, su una cosa i tedeschi ci avevano visto giusto: per combattere non servono uomini ma automi. Soldati che siano macchine da guerra senza sentimenti. Solo così… Solo così si vince…»
«Non dirlo neanche per scherzo, quella del Pervitin6 è stata una porcata assurda, e anche tu l’hai sempre pensata come me se non sbaglio»
«Ah, si cambia, si cambia…» e in un sibilo concluse «Vedrete, vedrete tutti quanti…» e sparì con la stessa furia con cui era apparso.

Una radice sporgente lo fece atterrare pesantemente sulle ginocchia, riportandolo dolorosamente alla realtà. Imprecò mentalmente, vedendo il pantalone liso e macchiato di sangue fresco, ma riprese la sua marcia. Quel discorso lo aveva turbato profondamente, in particolar modo l’ultima parte, ma non vi aveva dato particolar peso, prendendolo come uno sfogo, un eccesso dovuto all’evidente stato di agitazione in cui si trovava l’uomo. Proprio quando aveva creduto che il peggio fosse passato, ecco che Kaibara aveva parlato solo un paio di settimane dopo di un’idea rivoluzionaria, che li avrebbe portati alla vittoria. Di fronte a lui, Jorge e Frank – coloro che erano ritenuti i guerriglieri più influenti – aveva iniziato a vaneggiare di una sua idea, una droga che avrebbe potuto sintetizzare senza problemi su cui aveva studiato molto; una perfetta fusione tra i principi delle anfetamine e dalla fenciclidina7, capace secondo i suoi calcoli di creare un esercito invincibile, perfetto. Tutti avevano bocciato quella idea, ritenendola folle e contro natura, Jorge lo aveva ammonito, dicendo che “non bisogna giocare a essere Dio”, e che la guerriglia sarebbe continuata “senza il suo esercito di mostri”. Erano riusciti a estorcere la promessa di abbandonare quel progetto a un Kaibara evidentemente contrariato, che tuttavia aveva accettato di non farne parola con gli altri e di abbandonare il suo studio. Eppure Kenji ricordava il senso di disagio che aveva avvertito quando Shin li aveva guardati un’ultima volta prima di lasciare la capanna del capo gruppo: era uno sguardo lugubre, carico di odio e rancore, che lui in quel momento aveva interpretato come la manifestazione del suo orgoglio ferito. Nonostante ciò si era fidato del guerrigliero che si era sempre mostrato un uomo di parola, ma ora questo… Li aveva bellamente presi in giro! Sentì una fitta al fianco che lo fece annaspare per qualche secondo, costringendolo ad appoggiarsi su un tronco vicino mentre con la mano si teneva il fianco.
«Come ho potuto essere così superficiale? Perché non gli ho impedito l’accesso al laboratorio dopo quella sera? Aveva dato la sua parola e invece l’ha fatta davvero la sua droga, mi ha fregato come un cretino! Ah, devo darmi una mossa, devo arrivare prima che per Ryo sia troppo tardi» disse in un soliloquio a mezza voce prima di riprendere a muoversi.
Non riusciva a darsi pace e, mentre si torturava con un senso di colpa crescente, proseguì la sua corsa; inciampava, si graffiava, cadeva ma non avvertiva nulla se non il battito del suo cuore che gli rimbombava nel cervello assieme agli spari. Spari che, però, iniziarono a farsi sempre più vicini e sporadici. Si fermò e tese le orecchie al massimo: a qui pochi spari facevano eco urla laceranti, sovrastate da un ruggito bestiale. Per qualche istante non riuscì a formulare un pensiero logico, sentendosi come se fosse sull’orlo di un abisso; per quanto ne fosse atterrito le sue gambe non poterono fare a meno di continuare quella corsa, curiose di scoprire cosa quelle fronde fitte celassero ai suoi occhi. Dopo pochi passi gli spari cessarono del tutto, gettando la foresta in un silenzio surreale. Proseguì con circospezione e si avvicinò alla piccola radura, cercando di essere il più silenzioso possibile dato che non c’era più alcun rumore a nascondere la sua presenza. Una leggera brezza mosse dolcemente i rami degli alberi, portando con sé una zaffata rugginosa: sangue, e doveva essercene in grande quantità. Deglutì a vuoto, mentre con mano tremante scostava l’ultima barriera verdeggiante che lo separava dal campo di battaglia.
Rimase pietrificato e il respiro gli si mozzò in gola. Davanti a lui si stendeva uno scenario di morte di rara brutalità, una carneficina che difficilmente avrebbe dimenticato in vita sua. Fece un piccolo passo, esitante, e sentì l’anfibio sprofondare nel terreno fangoso per la pioggia del giorno prima, ulteriormente zuppo di sangue che aveva completamente sostituito l’acqua nelle varie pozzanghere presenti. A terra si trovavano decine di uomini, forse poco più di una trentina, la maggior parte dei quali distesi in pose innaturali come se fossero stati delle marionette gettate via da un bambino capriccioso.
“Non può essere… Non può essere vero…”
Fece un altro timido passo e notò leggermente sulla destra una figura, completamente ricoperta di fango e sangue, stagliarsi immobile come un dio infernale tra i suoi sudditi; in controluce riuscì a distinguerne la sagoma, le spalle che si muovevano ritmicamente a sottolineare un profondo affanno… delle spalle così dannatamente familiari.

«Ryo…» mormorò con voce strozzata.

Provò ad avvicinarsi ma un urlo feroce lo inchiodò sul posto. Il ragazzo lentamente si girò verso di lui e Kenji poté vedere distintamente ciò che aveva in mano; era la testa di un uomo, tenuta saldamente per i capelli, il sangue che gocciolava ancora copioso dal collo reciso così selvaggiamente da sembrare essere stata strappata via a mani nude. Ryo alzò il viso, puntandolo verso un cielo sereno e ignaro delle sozzure del mondo, e rilasciò un altro urlo ancor più forte e selvaggio che lacerò il cuore dell’uomo nel profondo; poi, con un rapido gesto, lanciò via quel macabro trofeo che venne prontamente inghiottito dalle della fitta foresta. Il Professore strinse convulsamente le mani sul fucile, avvertendo un malessere potente farsi strada per tutto il corpo, ma non si fece vincere; doveva fare qualcosa per quel povero ragazzo. Lentamente si sfilò la rete di dosso e l’appoggiò per terra, non perdendo il contatto visivo con quell’essere che lo fissava con occhi vacui. Ryo sembrava essersi immobilizzato, cose se si fosse spento, ma doveva certamente trattarsi di uno stato momentaneo; doveva renderlo innocuo quanto prima, probabilmente non avrebbe esitato ad attaccarlo e smembrarlo proprio come aveva fatto con quel manipolo di mercenari. Un suono di passi ovattati lo avvertì che anche i guerriglieri erano arrivati.

«Prof» sussurrò una voce preoccupata dietro di lui.

«Fermo Frank, non fate un passo tu e gli altri» e appoggiando il fucile accanto alla rete aggiunse «Io provo a parlarci, così lo distrarrò su di me. Appena farò un cenno con la mano lanciategli immediatamente la rete e sparategli il sonnifero…»

«Che? È impazzito?»

«Fai come dico cazzo!» sibilò, girando lievemente il capo verso il suo gruppo.

«Ok… Come vuole» fu la risposta rassegnata.

Kenji inspirò profondamente. Era rischiosa la sua idea, ma era la sola che gli fosse venuta in mente per evitare un ulteriore spargimento di sangue; e poi, se doveva morire qualcuno, avrebbe preferito fosse lui, così avrebbe pagato con la vita la sua leggerezza imperdonabile che con buone probabilità aveva decretato la fine del giovane. Iniziò a muoversi, lentamente, i piedi così pesanti che sembravano bloccati dalle sabbie mobili.

«Ryo… Ryo… Ragazzo» disse col tono più calmo possibile mentre si dirigeva verso il guerrigliero trasfigurato dalla droga. Vedendolo ancora immobile azzardò ad avvicinarsi di qualche passo.

«Ryo… Che cosa ti ha fatto?» non poté fare a meno di chiedersi appena riuscì a osservare meglio quel volto, sempre così pieno di vita, diventato una machera inespressiva, quasi fosse stato privato della sua anima e ridotto a un mero automa.

Quella vista lo addolorò più del massacro e delle urla feroci: non aveva mai visto niente del genere, nessuna droga di sua conoscenza aveva un effetto così devastante. In quel momento Ryo strinse le palpebre, tendendo i muscoli, un chiaro segnale che si stava preparando ad attaccare e fu allora che l’uomo diede il segnale: il giovane venne imprigionato in una pesante rete proprio mentre aveva iniziato a correre; iniziò a divincolarsi selvaggiamente, ma un colpo di fucile risuonò colpendolo in pieno petto. La preda braccata emise un ruggito doloroso prima di inginocchiarsi e accasciarsi pesantemente al suolo. Solo allora il medico iniziò a respirare liberamente, mentre i guerriglieri preceduti da Jorge e Frank – quest’ultimo ancora con il fucile tra le mani – lo raggiunsero, anche loro attoniti alla vista di quel luogo.

«Madre de Dios… Mai vista una cosa simile» mormorò il capo gruppo, togliendosi l’elmetto.

«È stato Ryo?! Come è successo?»

«Non è umano tutto questo»

«Ah, questo è l’inferno»

«Ma lo avete visto? Es el diablo!»

Gli uomini, incapaci di trattenersi, parlottavano tra di loro, muovendo gli occhi ora sui cadaveri orribilmente sventrati e mutilati, ora sulla rete che conteneva l’artefice di quel massacro.
Kenji si accucciò accanto al giovane guerrigliero, ormai immerso in un sonno profondo, e gli posò una mano sui capelli sporchi; era conciato malissimo, riusciva a intravedere tra il fango che lo ricopriva e la divisa sbrindellata in più punti molte ferite, più o meno profonde, e si augurò che non avesse perso troppo sangue.
“Quelle si potranno curare, ma riuscirò a farlo tornare? Potrò salvare anche il suo spirito o è perduto per sempre?” si chiese mesto, gli occhi che iniziavano a farsi fastidiosamente umidi. Era stato un colpo terribile vedere ridotto così quel caro ragazzo, Baby Face come si divertiva a chiamarlo perché si ostinava sempre a radere quella barba ancora acerba. Doveva salvarlo ad ogni costo, non si sarebbe perdonato un fallimento, non poteva permettersi neanche di pensarlo.

«Scusi Prof» la voce di Moon lo distolse dai suoi pensieri.

«Di’ pure Frank» rispose senza distogliere lo sguardo dal giovane.

«C’è un superstite»

«Cosa?» chiese, alzandosi di scatto.

«Sì, Paco ha sentito chiaramente dei lamenti provenire da quell’armadio lì in fondo» disse asciutto, indicando un uomo riverso supino sul terreno alla loro sinistra.

«Dovremo portarlo con noi, non ho qui con me il materiale per medicarlo»

«Ma come? Vuole portare i nemici dentro il nostro villaggio?»

«Stai calmo Frank» e dopo essersi avvicinato al mercenario e aver esaminato il volto che sembrava una maschera di sangue, aggiunse «La ferita è profonda e ha già perso molto sangue, ciò significa che non può rappresentare un pericolo per noi»

«Però…»

«So cosa stai pensando. È vero sono nostri nemici, ma…» e dopo essersi guardato attorno aggiunse «Questa non è stata una battaglia regolamentare, se c’è un ferito non me la sento di lasciarlo morire qui. Mi limiterò a fargli una prima medicazione e poi lo porterete lontano dal villaggio»

«Così tornerà dai suoi compari e verranno a darci la caccia!» esclamò con disprezzo il guerrigliero.

«Noi ce ne andremo comunque» e tornando accanto a Ryo proseguì «Non lo posso curare in questa giungla. Ci avvicineremo alla capitale così io potrò disporre delle attrezzature necessarie e, allo stesso tempo, avrete modo di montare il campo in un altro posto; è meglio cambiare aria, sia se quell’uomo verrà a cercarci con i rinforzi o meno. Sono convinto che anche Jorge sarà d’accordo»

Un silenzio carico di angoscia cadde tra i due. L’americano si avvicinò al ragazzo avviluppato nella rete e un lampo di dolore gli attraversò gli occhi.

«Quel figlio di puttana… Alla fine l’ha fatto davvero; ma come ha potuto, proprio a Ryo che lo considera suo padre?!» e stringendo freneticamente le mani attorno alla canna del fucile aggiunse «Si salverà?»

«Me lo chiedo anch’io» disse in un sussurro «È tutta colpa mia, ho sbagliato fin dal principio, non dovevo incoraggiare i suoi studi sulla chimica… Non dovevo insegnargli troppo»

«Non è colpa sua Prof. Shin è sempre stato un soldato eccezionale e l’uomo più generoso che abbia mai conosciuto… Ma sono alcuni mesi che mi chiedo che fine abbia fatto quell’uomo. Già da quel fatidico discorso mi è sembrato più scostante, quasi come se mi evitasse, e poi ieri sera… Cristo, aveva degli occhi da far spavento, mai visti in vita mia… Sentivo che qualcosa non andava, ma è sempre stato un uomo di parola, non avrei mai immaginato che alla fine ci avesse presi per il culo!» e dopo una breve pausa aggiunse accigliato «Prendo alcuni uomini e vado a cercare immediatamente quel bastardo, non sarà andato troppo lontano»

«No» disse prendendogli il braccio «Non ce n’è bisogno. Ha visto che la sua idea funziona…Vedrai, sarà lui stesso a venire da noi. Ora andiamo, non voglio perdere altro tempo prezioso»

Appena il guerrigliero si fu allontanato per dare gli ordini al gruppo, Kenji si portò furtivamente una mano sugli occhi e cacciò via due lacrime traditrici: quella giornata così luminosa aveva gettato un’ombra nera pece nel suo animo, pesante come un macigno. E non sarebbe andata più via, ne era certo, almeno fin quando non fosse riuscito a salvare Ryo.
 
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Era scesa la sera sul piccolo villaggio di guerriglieri e l’atmosfera era così carica di tensione da rendere l’aria opprimente. Il fuoco scoppiettava nello spiazzo centrale, Luis – l’addetto alla cucina – rimestava la solita zuppa nel pentolone ma l’atmosfera conviviale che di solito si creava in quell’unico momento della giornata era irrimediabilmente compromessa per l’accaduto della mattina. Il Professore si era chiuso nel laboratorio fin dal loro arrivo, vietando categoricamente l’accesso a chiunque, e si era messo all’opera freneticamente, con misurata precisione e freddezza. Aveva subito medicato e ricucito le diverse ferite di Ryo, come lo squarcio che gli fendeva il petto, per poi dedicarsi a quel gigante calvo. Era stato fortunato a non morire dissanguato, aveva riportato una terribile ferita agli occhi, infatti la lama non gli aveva reciso il nervo ottico solo per qualche millimetro; sicuramente la sua vista sarebbe stata compromessa per sempre, e fu sorpreso nel constatare come anche quel mercenario avesse gli occhi a mandorla. Un altro asiatico anomalo, sembrava proprio che quel posto fosse una calamita per loro. Una volta terminata la fasciatura non poté fare a meno di avvicinarsi al tavolaccio su cui giaceva supino il ragazzo, bloccato con delle corde intorno alla vita e alle gambe per motivi di sicurezza; sebbene fosse ancora addormentato non poteva prevedere con certezza fin quando l’effetto del sedativo sarebbe durato. Non osava immaginare come avrebbe reagito al risveglio, ragion per cui aveva preparato un’altra dose di sonnifero da somministrargli appena avrebbe iniziato a dar segni di coscienza; era la soluzione più semplice per gestirlo durante il viaggio, eppure una parte di lui nutriva qualche remora, temendo degli effetti collaterali.
“Non vedo l’ora di arrivare a Città del Guatemala, qui mi sento così impedito” pensò stancamente mentre con la mano si massaggiava le tempie. Si sentiva sfinito e l’aver lavorato a lungo alla sola luce del lume a olio non aveva giovato ai suoi occhi deboli. Oramai non era più così giovane e le ciocche bianche, che sempre più numerose si sostituivano ai capelli corvino, ne erano un segno più che evidente. Si diresse verso la porta e l’aprì di scatto.

«Frank» chiamò asciutto.

L’americano era rimasto accanto al laboratorio per tutto il tempo, seduto per terra a rigirarsi l’elmetto tra le mani meccanicamente, assorto in tetri pensieri. Alla chiamata rispose alzandosi velocemente e in pochi passi lo raggiunse.

«Puoi chiamare qualche uomo per trasportare questo bestione lontano da qui, possibilmente dalla parte opposta della radura» e vedendolo indugiare proseguì «Non temere gli ho dato un tranquillante, non si sveglierà prima di domani mattina. Nel frattempo comunica a Jorge che può ultimare i preparativi per la partenza. Se saremo abbastanza celeri dovremmo riuscire a metterci in marcia entro la mezzanotte, col favore del buio viaggeremo senza troppi problemi»

L’ex marines si limitò ad annuire lievemente per poi correre verso il centro dell’accampamento e richiamare all’opera i suoi commilitoni, che furono subito bel lieti di avere qualcosa da fare e sfuggire per un po’ a quel clima così pesante. Kenji li osservò e attese fuori, accanto all’ingresso del laboratorio, fin quando sei guerriglieri robusti riuscirono a trasportare, senza non poche difficoltà, il mastodontico mercenario. Stava per rientrare quando percepì distintamente degli occhi fissarlo tra la boscaglia alla sua destra; tenne lo sguardo fisso in quel punto, serrando le labbra in una linea cupa, severa. L’ombra si mosse e iniziò ad avanzare nella sua direzione.

«Allora, piaciuta la dimostrazione?» disse la voce in tono soddisfatto.

Il medico fremette di rabbia, ma decise di non rispondere.

«Ammettilo, non te l’aspettavi eh? L’allievo che supera il maestro. Eppure ti avevo avvertito»

Due occhi spiritati lo trapassarono da parte a parte, accompagnati da un mezzo sorriso. Kenji rimase ostinatamente in silenzio, sconcertato e disgustato da quell’uomo che non riconosceva più.

«Ora l’avrai capito che la mia idea era giusta. Devo dire che Ryo ha superato le mie aspettative»

«Ti rendi conto di quello che gli hai fatto?» gli chiese, scattando come una molla «Sai che potrebbe morire o portare dei danni permanenti?»

«Beh, me l’hai insegnato tu Prof, nella scienza bisogna sperimentare per raggiungere la perfezione»

«Che cos-»

«KAIBARA!» sbraitò Frank che correndo come una furia lo travolse, prendendolo per il colletto della mimetica «Fottuto bastardo, finalmente sei strisciato fuori»

«Fermati subito Moon o ti pianto una pallottola nel cranio senza troppi complimenti»

Nel frattempo tutti i guerriglieri iniziarono a raggiungere il luogo della disputa, preceduti da Jorge che si frappose tra i due uomini, separandoli.

«Insomma che sono queste buffonate? Non voglio cazzate adesso che siamo in partenza» e rivolgendosi freddo verso Shin aggiunse «Voglio delle spiegazioni Kaibara, cosa significa l’inferno di stamattina? Non avevi dato la tua parola che rinunciavi alla droga?»

Il guerrigliero serrò le labbra in una ghigno feroce e avanzando di qualche passo verso il resto del gruppo iniziò a guardare ogni suo commilitone negli occhi.

«Che irriconoscenti, ho fatto un lavoro eccellente e neppure un grazie!» e dopo una breve pausa continuò «Spero siate stati ben attenti a ciò che avete visto stamattina, perché avete assistito alla nascita della nostra arma migliore, la più potente, che ci renderà imbattibili. Dovete sapere che il vostro capo mi ha proibito di parlavi della mia scoperta, ma è giusto che anche voi sappiate. In questi anni non ho fatto altro che chiedermi “Come porre fine alla guerra?” Sicuramente con le buone non si risolve nulla, ed ecco che poi, dopo l’ennesima battaglia ho avuto un’illuminazione: bisogna creare un esercito imbattibile, fortissimo, incapace di avvertire qualsiasi emozione o dolore. Soldati che siano delle perfette macchine da guerra, e per far ciò ho messo appunto una nuova droga; avevo qualche dubbio circa la sua efficacia ma devo dire che sono molto soddisfatto. Avete visto cosa è stato capace di fare una sola persona, ma pensate la potenza distruttiva di un’intera truppa, anzi un intero esercito. I nemici non avrebbero scampo. Sì, grazie alla mia armata perfetta saremo invincibili» terminò entusiasta mentre attorno calò il gelo.

«Così, nonostante avessimo deciso che non avresti fatto nulla, con Ryo hai voluto darci una dimostrazione degli effetti della tua droga, eh?» chiese Jorge asciutto.

«Sei solo un pazzo, you motherfucker!» gli urlò Frank che lo colpì al volto con un gancio «Come hai potuto drogare Ryo? Tra tutti hai scelto proprio lui, bastardo, lo sai che è più morto che vivo?» i due ex marines iniziarono una lotta furibonda e ogni tentativo di separali risultò vana.

Kenji, che era rimasto immobile bloccato da un misto di sconcerto e ripugnanza, si fece avanti e con un rapido movimento fluido bloccò i due uomini, lasciando stupiti tutti; nessuno aveva mai sospettato che il loro medico, l’uomo minuto e all’apparenza indifeso, potesse avere una tale forza e abilità nella lotta libera.

«Frank mantieni la calma» gli sibilò secco.

«Mi meraviglio di te Moon, comportarti come un bambino sentimentale» disse sarcastico Kaibara e, dopo aver girato la testa di lato, sputò con disprezzo.

«Dimmi solo una cosa Shin» disse piano il Professore «Il ragazzo potrebbe non sopravvivere alla notte… Davvero non te ne frega niente di tuo figlio?» concluse sottolineando con forza l’ultima parola, in modo che tutti potessero sentirlo.

Kenji lo guardò fisso negli occhi, alla ricerca di qualche minimo accenno di emozione, ma ciò che vide fu uno strato di granitica freddezza. In quell’istante ebbe l’amara certezza che l’uomo che aveva conosciuto era definitivamente morto, sepolto vivo dall’odio e dalla rabbia; egli stesso si stava tramutando in un uomo senza anima, così tremendamente simile ai soldati perfetti che voleva ricreare.

«In battaglia non esistono genitori e figli» fece il guerrigliero alzando le spalle «E poi è stato così semplice convincerlo. Fisicamente Ryo è il prototipo di soldato perfetto, da solo è riuscito ad annientare più di trenta mercenari, sarebbe stato imperdonabile non usarlo»

«E dimmi Kaibara, pensi che uno di noi sarà disposto a fare la stessa fine del ragazzo?» chiese duro Jorge che, nonostante fosse rimasto in disparte, non aveva distolto lo sguardo dalla scena.

Subito un concitato chiacchiericcio si sollevò dal gruppo di guerriglieri, ognuno preso ad affermare il proprio sconcerto.

«Come vedi nessuno vorrebbe farti da seconda cavia e poi, questo è modo barbaro, infernale con cui combattere. Non è così che voglio liberare il mio Paese, non tollererei che qualcuno dei fratelli fosse ridotto in quelle condizioni» e rivolgendosi ai suoi uomini esclamò «Metto al voto la permanenza di Kaibara nel nostro gruppo. Alzi la mano chi è d’accordo a escluderlo definitivamente» disse mentre piantava il braccio fermamente in aria.
Velocemente venne seguito da tutti gli altri; solo Kenji si astenne, pensieroso e troppo occupato a captare ogni minimo rumore proveniente dalla sua capanna.

«Bene, è deciso: Kaibara prendi le tue cose e va via. Ora» dichiarò Jorge perentorio.

«Se pensate che mi metterò in ginocchio per chiedervi di cambiare idea avete sbagliato di grosso. Siete dei poveri idioti, vi siete bevuti il cervello da quando lui ha preso il comando!» urlò con disprezzo, additando il capogruppo «Io vado ma badate bene: chi ci rimette siete voi, poveri illusi. Gli altri guerriglieri mi accoglieranno a braccia aperte quando sapranno che cosa posseggo» disse toccando il taschino della mimetica.

“Se distruggessi le altre dosi che ha addosso, potrei porre fine a questo incubo. Una volta andato via non potrà procurarsi facilmente le sostanza di cui ha bisogno… Devo colpirlo adesso” pensò Kenji, e mentre si preparava a compiere lo scatto avvertì distintamente un tonfo secco provenire dalla capanna alle sue spalle.

«Ryo…» mormorò e subito vi si precipitò dentro.

Lo vide dimenarsi con tutte le sue forze contro quelle corde che lo tenevano saldamente ancorato al tavolaccio e, appena Ryo lo vide entrare, diede uno strattone così poderoso da far muore il tavolo in avanti. Nello stesso istante Kenji avvertì distintamente della confusione provenire dall’esterno: era iniziata un’altra rissa feroce, ma a lui non importava. Doveva sedarlo, prima che avesse rotto le corde e fosse stato libero di distruggere tutto, solo quello gli importava. Tutto il resto poteva andare al diavolo.
 
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Era trascorsa una settimana da quando Kenji si era sistemato in un piccolo edificio a due piani nella periferia a nord della capitale guatemalteca e non faceva altro che occuparsi senza sosta del suo giovane paziente. Il gruppo di guerriglieri, dopo averli accompagnati, era tornato indietro, insediandosi tra le montagne vicine per proseguire l’attività di guerriglia, e si tenevano in contatto via radio. Sapeva che la città non era certo il luogo più sicuro in cui risiedere in quel periodo a causa dei tumulti che la stavano sconquassando e che avevano l’aria di peggiorare terribilmente, ma solo lì poteva avvalersi di quel piccolo studio medico clandestino di proprietà dal cubano José, un medico che aveva conosciuto durante la sua permanenza a L’Avana e che come lui aveva deciso di approdare in quello Stato martoriato dalla guerra civile per portare aiuto alla popolazione. Gli aveva lasciato pieno uso dell’intero edificio e, nonostante si fosse offerto di aiutarlo, Kenji aveva rifiutato con fermezza; preferiva lavorare solo, non tollerava la presenza di qualcun altro che gli dicesse cosa fare. Su quel punto non era molto cambiato da quando era il giovane studente brillante, individualista fino al midollo.
Alle prime luci dell’alba uscì dalla sua camera – che in realtà era poco più di una celletta – percorse l’angusto corridoio e raggiunse silenzioso come un’ombra l’unica porta che si affacciava sul lato opposto. L’aprì lentamente, facendo attenzione a non emettere il minimo rumore; aveva notato che l’udito del giovane si era sensibilizzato in modo spaventoso e un suono normale lo scuoteva come una detonazione. Nella piccola stanza rettangolare, squallidamente spoglia ma abbastanza pulita, si trovava un semplice lettino con accanto una colonnina di acciaio su cui erano posizionati alcuni macchinari, – tra cui spiccava il monitor dell’holter cardiaco che in quel momento segnava un tracciato regolare –; sul muro opposto c’era una finestrella con gli scuri ben chiusi attraverso i quali filtrava qualche debole fascio di luce, sufficiente per distinguere in quella penombra una sagoma distesa in un letto che sembrava troppo piccolo per contenerla interamente. Kenji si avvicinò cautamente e osservò preoccupato il ragazzo: stava cercando di disintossicarlo impiegando tutte le conoscenze cha aveva in materia di anfetamine ma l’impresa si stava dimostrando più ostica del previsto. La sostanza era ancora in circolo e le crisi di astinenza non sembravano diminuire di intensità, costringendolo a mantenerlo in uno stato di semi sedazione. Qualunque sostanza avesse sintetizzato Shin era di un’aggressività mai vista, e aveva intaccato ferocemente il sistema nervoso del giovane mercenario condannandolo a spasmi terribili che i primi giorni lo avevano straziato a tal punto che si era visto costretto a legarlo poiché durante le crisi saltava sul letto, dimenandosi come un salmone appena pescato. Gli episodi iniziavano a farsi più sporadici, ma non erano ancora svaniti del tutto, ragion per cui non se l’era sentita di slegare quelle robuste cinghie di cuoio che avevano ormai segnato visibilmente le braccia e le gambe.

«Mmmh» Ryo emise un debole suono gutturale mentre provava ad aprire con fatica le palpebre tremolanti.

«Buongiorno ragazzo mio» disse con voce affettuosa l’uomo, posando una mano sul braccio ricoperto da flebo.

Ogni giorno gli parlava a lungo, tra una crisi nervosa e l’altra, per fargli sentire la sua vicinanza, augurandosi che tornasse alla vita. Quella era la prima volta dopo tre giorni che il giovane provava ad aprire gli occhi e Kenji si chiese se sarebbe riemerso dallo stato di incoscienza in cui sembrava essere sprofondato da quella maledetta mattina. Si scostò un attimo dal ragazzo per dare un’occhiata ai parametri vitali e sincerarsi che fosse tutto sotto controllo e, appena tornò a guardarlo provò un timida felicità nel constatare come due iridi ardesia lo fissavano tra due palpebre semiaperte.

«Sei proprio un gran dormiglione Baby Face» gli sorrise lievemente.

Non sarebbe riuscito a descrivere a parole la sensazione di sollievo che provò in quel momento. Per tutti quei giorni lo aveva consumato il dubbio di aver abbondato troppo con i sedativi e di aver così innescato involontariamente uno stato comatoso. Il buon senso gli suggeriva di non cantar vittoria, non poteva ancora sapere se ci sarebbero stati dei danni collaterali, ma per il momento gli bastava vederlo sveglio, anche perché ciò escludeva scenari più catastrofici che non mancavano di affacciarsi ogni notte nei suoi sogni tormentati.

«Riesci a sentirmi Ryo? Mi riconosci?» e prendendogli la mano aggiunse «Se sì muovi un dito»

Il ragazzo continuava a fissarlo e, sebbene il suo sguardo non fosse più quello vitreo e spettrale della radura, continuava a mantenersi leggermente vacuo, come se con la mente fosse perso in qualche ricordo. Il Professore attese pazientemente, teso come una corda di violino, il più impercettibile movimento che giunse dopo qualche minuto, accompagnato da una vistosa smorfia di dolore.
“Male, la situazione è ben più grave del previsto” pensò tra sé allarmato, ma dalla sua bocca fuoriuscirono solo parole incoraggianti.

«Bravissimo Ryo, ero certo che ce l’avresti fatta» ma quel tono allegro si spense all’istante quando riuscì a scorgere in quelle pupille un dolore sordo, incontenibile, che lo aveva travolto con la forza di un quieto uragano.

Gli lasciò la mano delicatamente e, poggiando i pugni sul bordo del letto, si avvicinò a quegli occhi che sembravano non volevo perdere di vista un secondo, quasi come fosse stata una questione di vita o di morte.

«Ricordi qualcosa Ryo?» chiese piano.

«Mmmh» rantolò, riuscendo questa volta a spalancare gli occhi.

L’uomo sospirò amaramente; in cuor suo aveva sperato che la memoria fosse stata compromessa, almeno per risparmiare al ragazzo il temibile fardello dei ricordi. In quel momento ebbe la certezza che il dolore straziante che gli stava comunicando con lo sguardo non riguardava solo lo stato fisico, ma soprattutto quello psicologico. Come poteva aiutarlo a uscire fuori dall’inferno in cui era prigioniero? Non ne aveva idea e lo scoprirsi impotente lo turbò: lui, uomo di scienza, abituato alla ricerca di una conoscenza basata su una realtà empirica, si sentiva così a disagio di fronte al mistero della mente umana. Cosa gli stava passando nella testa in quel momento? Quali parole sarebbero state le più efficaci per alleviare le sue pene? Fino a quando Ryo non avesse riacquistato la parola non avrebbe avuto risposta alle sue domande, era l’unica cosa di cui poteva essere certo. Chiuse per un attimo gli occhi ed inspirò profondamente; la verità, solo la verità era il mezzo per salvarlo, per quanto potesse essere dolorosa. Riaprì gli occhi e tornò a guardare calmo quegli occhi così disperati.

«Sono tanti anni che ci conosciamo, vero Ryo? La prima volta che ti ho visto eri alto quanto un soldo di cacio» disse non potendo fare a meno di sorridere al ricordo di quel bambino così sveglio e vivace, un vero raggio di sole in quell’oblio; un’anima troppo pura e che troppo presto aveva perso la sua innocenza e il suo candore.
«Percepisco il tuo dolore, capisco che stai soffrendo molto perché hai ricordi confusi e stai cercando con tutte le forze di capire cosa è successo davvero. Vuoi sapere cosa è successo, colmare quei vuoti di memoria terribili, vero? Se tu lo vuoi ti dirò tutto, anche se non sarà un racconto piacevole»

Un verso baritonale fu l’unica risposta che ricevette, ma tanto gli bastò per iniziare a parlare: gli raccontò di quella mattina, di come i suoi sospetti si erano concretizzati tragicamente appena aveva udito gli spari, di come lo aveva ritrovato. Gli disse tutto, omettendo solo i dettagli più cruenti – sapeva di ferirlo abbastanza senza dover essere troppo specifico – e, abbassando lo guardando, concluse:

«La situazione è seria Ryo. Per fortuna sei molto forte, hai fisico eccezionalmente robusto e in salute, ma l’effetto della droga non si è ancora esaurito. Nei prossimi giorni farò degli accertamenti per appurare se il sistema nervoso è stato più o meno compromesso… Devi essere forte ragazzo mio, ti aspetta un percorso in salita ma io ti sarò vicino; ricorda che non sarai solo, potrai sempre contare su di me. Sempre»

Si rialzò, le braccia leggermente intorpidite per essere rimaste a lungo tempo in quella posizione statica e, quando posò nuovamente lo sguardo sul giovane, sentì il cuore stringersi ulteriormente; lo vide mortalmente serio, con gli occhi ben aperti ostinatamente fissi verso il soffitto, quasi volesse provare a cacciar via le lacrime che gli rigavano silenziosamente le guance.

«Perdonami Ryo… Forse non avrei dovu-» ma si interruppe di colpo alla vista di quel volto che da serio diventò in un attimo una maschera di dolore, con il corpo che iniziò a muoversi convulsamente.

«Cristo, un altro attacco»  disse a denti stretti, mentre si metteva subito all’opera.

Sarebbero stati giorni difficili, settimane e forse anche mesi. Quanto sarebbe durata? Non poteva fare a meno di chiederselo quando assisteva a quelle scene. Sarebbe finita. Doveva finire.
 
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«Prof» chiamò Ryo con un filo di voce.

«Dimmi ragazzo» rispose mentre lo rivestiva dopo aver concluso le abluzioni mattutine.

«Sono così stanco Prof… Mi sembra di essere vicino alla morte»

L’uomo si sentì gelare all’istante, paralizzandosi sul posto.

«Mi sento ogni giorno più stanco… Non so se avrò la forza di continuare» disse in uno sbuffo.

Kenji guardò con dolore quel ragazzo che da più di un mese era bloccato in quel letto, sopportando una quotidianità insopportabile per chiunque. La disintossicazione procedeva a rilento e, sebbene la fase acuta era ormai alle spalle, gli episodi di astinenza continuavano a verificarsi con una certa brutalità. Non ebbe cuore di biasimarlo per quelle parole – la prova che stava affrontando avrebbe fiaccato anche l’uomo più stoico, figurarsi un ragazzo giovane come lui. Sospirò lievemente ma quando posò lo sguardo su quegli occhi così disperati e carichi di incertezza avvertì un brivido: quelle parole e quegli occhi lui li aveva già conosciuti, molti anni prima, e la mente lo scaraventò immediatamente nell’anticamera dell’inferno.

Il campo di Bergen-Belsen era stato liberato da appena una settimana quando lui vi arrivò con le retrovie dell’esercito. Aveva ricevuto un resoconto dettagliato di ciò che era stato ritrovato all’interno dei vari lager, tuttavia le parole non erano state sufficienti a preparalo a quello spettacolo. Fu letteralmente schiacciato dall’orrore e dal pesante sentore di morte che si percepiva in modo palpabile in ogni atomo circostante; tutto ciò lo annichilì in un modo che non avrebbe mai pensato possibile. Era il prezzo da pagare per essere sul fronte e d’altro canto lo aveva voluto lui, quando dopo l’ennesima lite aveva lasciato gli uffici della SIS8 per continuare il suo lavoro direttamente sul campo. Lì si sentiva finalmente utile, lontano dai doppiogiochisti che si annidavano all’interno del quartier generale e, inoltre, aveva la possibilità di mettere in pratica la sua seconda laurea, quella in medicina. Si diresse velocemente verso le ampie baracche che erano state allestite in tempo record come ambulatori improvvisati, in cui si cercava di prestare soccorso ai pochi sventurati che erano scampati agli stenti e alla tremenda epidemia di tifo. Scheletri viventi che un tempo erano state persone come lui, nel fiore degli anni e delle loro forze, lo fissarono intensamente al suo ingresso, facendolo sentire a disagio; gli sembrava che quegli occhi grevi fossero carichi di tutto il dolore del mondo, chiedendogli risposte che era impossibile fornire.
«Chi è lei?» l’ufficiale medico gli si avvicinò veloce.
«Capitano Ken Date signore»
«Ah sì, la stavo aspettando capitano. Venga, le faccio strada»
Si era messo subito all’opera, gli ex prigionieri era tanti – certo, in confronto ai morti erano sempre un numero irrisorio – e tutti disperatamente bisognosi di cure. Nessuno sembrava badare a lui, a quel curioso ufficiale britannico dai lineamenti così esotici, sembravano tutti così spenti, ognuno chiuso nel proprio dolore; solo un paio d’occhi, però, aveva lasciato trasparire una flebile scintilla di curiosità e tanto bastò per catturare la sua attenzione. Era un ragazzo, forse neanche ventenne, così piccolo ed esile da fare spavento. Gli occhi azzurri, grandi e infossati erano colmi di una tale sofferta rassegnazione che lo colpirono con la stessa forza di due proiettili. Gli si avvicinò e prese la cartella clinica che era appesa al bordo della testiera: “soggetto con forma di tisi avanzata” era l’impietosa diagnosi. Una condanna a morte per una persona così denutrita, e non poté evitare di provare una profonda pietà per quella giovane vita che non avrebbe mai avuto la possibilità di scoprire quanto il mondo poteva ancora offrirle. Gli appoggiò lievemente la mano sulla fronte per controllare la temperatura.
«Hai sete?» gli chiese, notando il bicchiere ricolmo d’acqua su un semplice banchetto che fungeva da comodino.
Il ragazzo lo guardò confuso.
«Bist du durstig?9»
Un lieve cenno del capo fu la semplice risposta a quelle parole dette in una lingua più familiare.
Kenji gli avvicinò prontamente, aiutandolo a bere a piccoli sorsi.
«D- Danke… Herr Doktor» disse in un sussurro.
L’uomo gli si sedette accanto, sorridendogli debolmente.
«Herr Doktor… Ich sterbe, oder?»
Si sentì la gola secca, incapace di deglutire o articolare qualsiasi suono. Cosa doveva fare? Mentire sulle sue reali condizioni? Quel ragazzo non meritava di essere ingannato, perciò preferì non parlare, limitandosi a stringergli la mano. Lui sembrò capirlo.
«Achso… Ich sterbe… aber…» e piegando le labbra in un leggerissimo sorriso aggiunse in un sussurro «Ich … möchte leben»
Il giovane gli strinse lievemente la mano, fissandolo con due occhi così intensi che si sentì tremare nel profondo: paura, rassegnazione, tristezza e disperazione. C’erano così tante emozioni all’interno di quello sguardo che si impresse nella sua memoria con una tale forza da non lasciarlo più.

«Prof?»

La voce di Ryo lo sorprese, riportandolo alla realtà; non era da lui perdere così clamorosamente la cognizione spazio-temporale, ma il suo giovane paziente senza volerlo aveva riaperto una ferita dolorosa e mai del tutto rimarginata. Ripresosi completamente si avvicinò al letto e si sedette sul bordo di quel materasso così scomodo. Il suo caro ragazzo lo guardava con un’aria leggermente interrogativa, ma per quanto si sforzasse di nasconderlo riusciva a vedere quanto fosse triste e sfiduciato.
“Ryo, quanto stai soffrendo? Quanto dolore stai nascondendo?” Poteva solo lontanamente immaginarlo, d'altronde il ragazzo era sempre stato schivo in quel senso, non lasciando mai trapelare completamente le sue emozioni. Proprio come ci si aspettava da un bravo soldato.

«Tornerò come prima?» chiese serio.

Ancora una volta gli veniva posta una domanda scomoda, accompagnata da due occhi carichi di dolorosa incertezza, ma non ebbe esitazioni; oramai non era più il giovane uomo che faceva dell’intrigo e doppio gioco il suo pane quotidiano ma un uomo di mezza età che, disilluso dalla vita, cercava di scoprire la verità in ogni ambito. Era stato onesto con Ryo i primi giorni e lo sarebbe stato anche in quel momento.

«Non lo so con certezza ragazzo mio. Tu sei la prima persona in assoluto ad aver avuto a che fare con questa droga, si può dire che la sto studiando grazie a te» rispose, mantenendosi il più tranquillo possibile.

Non poteva certo esternagli tutti i dubbi e le angosce che erano diventate sue compagne quotidiane da settimane, che lo coglievano nei momenti stanchezza quando, distrutto, rientrava nella sua stanza per cercare di riposare. No, era suo dovere mostrarsi sempre calmo e imperturbabile davanti a quel ragazzo che stava lottando strenuamente la sua battaglia più difficile, che era stato reso a sua insaputa carne da macello. Tradito proprio dall’uomo in cui aveva riposto una cieca fiducia.

«Ricorda, però, che sei molto forte Baby Face» aggiunse «E ritengo che se continui così tra un paio di mesi sarai in grado di muoverti e non stare sempre su questo letto. Credo in te, e anche tu dovresti avere fiducia nelle tue capacità; so che è difficile ma non lasciarti scoraggiare, non ora»

Ryo sospirò profondamente e girò la testa lateralmente per nascondergli il viso.

«Certi giorni ho la sensazione di impazzire… Il dolore è così forte che mi sembra di andare a pezzi, come se qualcuno mi staccasse ogni singolo muscolo a morsi… Inizio a sentirmi così sfinito Prof» e dopo una leggera esitazione aggiunse «Temo l’arrivo della prossima crisi… Mi chiedo se riuscirò a sopravvivere ancora a lungo così»

«Sì, certo che ce la farai Ryo» rispose fermo «Tu vivrai. Sì, tu vivrai perché…» e, dopo aver riflettuto un attimo, aggiunse «Quando ti sembra di non farcela e senti che stai per cedere pensa a un obiettivo, un desiderio… Insomma focalizza la tua attenzione su ciò che vorresti assolutamente realizzare. Pensaci adesso, ti viene in mente qualcosa?»

Il giovane guerrigliero tornò a guardarlo, ma con uno sguardo fin troppo duro, stringendo gli occhi in due fessure.  

«Sì… C’è una cosa che vorrei fare assolutamente prima di morire» rispose asciutto.

«Bene, allora questa motivazione ti darà la forza di sopportare i momenti più bui. Tu vivrai Ryo, ce la farai ne sono certo. Abbi fiducia in me»

Nonostante i dubbi e le incognite, Kenji si sentì risoluto come non mai. Lo avrebbe salvato per riscattarsi da tutte le vite che non era riuscito a strappare via dal prematuro appuntamento con la morte. Lo avrebbe fatto per la sua famiglia. Lo avrebbe fatto per Johann, che desiderava ricominciare ma era spirato in un freddo capannone poco fuori un campo di concentramento. E lo avrebbe fatto anche per se stesso.
 
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«Ce l’ho fatta Professore!» esclamò Ryo dopo essere riuscito a percorrere, con passo malfermo, l’angusto corridoio del primo piano.

«Bravissimo ragazzo, me lo sentivo che oggi era la giornata buona» disse soddisfatto l’uomo.

Aveva osservato attentamente le scena mantenendosi non troppo distante, pronto a sostenerlo nel caso avesse perso l’equilibrio.

«Ora riposati un attimo e poi ritorna qui»

«No, ho riposato anche troppo» e così dicendo iniziò a camminare lentamente, usando l’asta portaflebo come un debole supporto.

Kenji si sentì felice nel vedere deambulare quel ragazzone dopo più di quattro mesi passati quasi esclusivamente a letto; finalmente iniziava a vedere la luce in fondo a quel tunnel nero pece. Attraverso le piccole lenti si prese qualche istante per osservarlo con più attenzione mentre era concentratissimo nello sforzo di mettere un piede davanti all’altro; quegli occhi, quella fronte così corrucciata erano gli stessi di quando, ancora molto piccolo, si impegnava duramente durante gli addestramenti estenuanti. Ryo si era dimostrato fin da subito un bambino atipico: sempre concentrato, mai un lamento, mai una lacrima. La sua forza interiore, unita a un fisico incredibilmente prestante e imponente, tendevano a far dimenticare che in realtà quel guerrigliero era ancora poco più che un adolescente, che dietro quella facciata granitica celava un mondo interiore pieno di insicurezze. Ai suoi occhi ben allenati, però, non era mai sfuggito tutto ciò, allo stesso modo in cui non gli stava sfuggendo la strana luce che da qualche tempo animava lo sguardo del giovane; avvertiva che il ragazzo stava rimuginando su qualcosa, che l’entusiasmo dell’ultimo periodo era un riflesso di quell’attività mentale che gli stava celando. Una parte di lui avrebbe voluto chiedergli cosa lo impensieriva ma, schivo com’era, sapeva che delle domande esplicite sarebbero state il modo migliore per farlo chiudere a riccio; decise di pazientare, certo che il momento propizio sarebbe giunto in seguito. Mentre era perso nelle sue riflessioni Ryo lo raggiunse, e si appoggiò pesantemente contro il muro.

«Non pensavo che reimparare a camminare sarebbe stato difficile quanto maneggiare una pistola»

Kenji gli diede un’affettuosa pacca sulle spalle. Era orgoglioso dei suoi progressi, della sua incrollabile tenacia, di come non si fosse pianto addosso anche nei momenti peggiori; mai come in quei mesi gli era sembrato di provare un sincero affetto per Ryo, viscerale e profondo. Non avrebbe più permesso che qualcuno si approfittasse ancora del suo buon cuore.

«Ora torna a letto Baby Face, non giocare a fare il supereroe. Ti sei stancato fin troppo»

«Va bene Professore, ma quella robaccia non intendo mettermela più» disse disgustato, indicando il pigiama ripiegato sul letto.

«Intendi dormire con la mimetica adesso?»

«Beh sì» bofonchiò mentre si avvicinava al lettino «Alla fine la porto da sempre, mi sento più a mio agio quando ce l’ho addosso… Quel pigiama mi dà un senso di debolezza»

L’uomo si diede dello stupido: certo, cosa poteva aspettarsi da un ragazzo che fin dalla tenera età si era ritrovato sul campo di battaglia a giocare a nascondino con i nemici, a fare la conta delle mine, a utilizzare la pistola come unico giocattolo?
“Cosa posso fare per te Ryo? Vorrei tanto aiutarti a fuggire via di qui”.
Da mesi, da quando lo assisteva senza sosta, quel pensiero si presentava ormai insistentemente; Ryo aveva combattuto una guerra che non era la sua e non per sua scelta, vi si era trovato per caso e per sopravvivere era stato costretto ad adattarsi alle circostanze. Ultimamente, però, il pensare che il ragazzo conosceva solo quella realtà fatta di morte e violenza, ignorando il mondo che si apriva oltre il confine di quelle aguzze montagne verdeggianti, lo faceva soffrire profondamente. Avrebbe voluto farlo scappare da quell’inferno senza fine, magari inserendolo in quell’ambiente ai margini della legalità che da anni rappresentava il suo mondo; non sarebbe stato impossibile, doveva solo essere attento a non destare sospetti e far passare il tutto per una serie di coincidenze, quel testone difficilmente accettava favori da chiunque.

«Prof» disse Ryo.

Si era appena sdraiato sul letto, il braccio libero dalla flebo ripiegato dietro la nuca.

«Quando potrò tornare a combattere?»

Kenji si ritrovò spiazzato.

«Cosa intendi ragazzo?»

«Quando potrò tornare a usare la pistola?» chiese calmo, una piccola luce sinistra rischiarava i suoi occhi scuri.

«Presto, molto presto» rispose, non potendo evitare di sentirsi turbato. No, quegli occhi non gli piacevano neanche po’: il ragazzo stava macchinando qualcosa.

«Bene, bene» emise in soffio e, chiudendo leggermente le palpebre, sorrise debolmente.

“Chissà che gli passa per la testa, è sempre più difficile capire cosa prova davvero… È diventato davvero bravissimo nel rendersi indecifrabile” pensò con una punta di amarezza, ma proprio in quel momento un forte rumore attirò la sua attenzione, facendolo avvicinare alla piccola finestrella. Una Jeep Willys del ’67, dalla linea squadrata e color verde militare, si fermò proprio sotto di loro; conosceva perfettamente quel veicolo e, naturalmente, anche l’autista.

«Abbiamo viste Ryo!» esclamò mentre si dirigeva verso le scale.

«Chi è? Ancora José con le sue immancabili ceste di uova? Per colpa sua ne sto mangiando così tante che ho iniziato a cagarle ogni mattina» disse ironico, restando con gli occhi chiusi.

Il Professore non poté fare a meno di sorridere apertamente; gli piaceva molto quel lato del suo carattere, sempre pronto a scherzare anche nei momenti più impensabili, sotto quell’aspetto erano molto simili.

«Ah, è una sorpresa» disse, lanciandogli uno sguardo sibillino prima di scendere.

Giunto al piano sottostante sentì bussare alla porta con tre colpi secchi e veloce aprì la porta.

«Buongiorno Professore, è bello rivederla»

«Frank, fa piacere anche a me rivedere il tuo brutto grugno, sebbene preferirei che ogni tanto qualche bella ragazza passasse di qui»

«Ah, vedo che siamo di buon umore oggi!» esclamò l’americano sorridendo, mentre entrava nella piccola stanza che fungeva da cucina e sala da pranzo.

«Perché nasconderlo? Sì, sono proprio di buon umore» e alzando la testa in direzione delle scale aggiunse «Ha fatto progressi eccezionali e in così poco tempo… Ha davvero una fibra robusta il ragazzo»

«Allora potrò salutarlo questa volta?»

«Certo, non può che fargli bene vedere qualche faccia amica»

Kenji lo precedette su per le scale e affacciandosi alla porta della stanza esclamò «Vedi chi c’è Baby Face!» e con la mano fece cenno al guerrigliero di entrare.

Il volto di Ryo si aprì in un largo sorriso – non curandosi di nascondere la gioia che traspariva dai suoi lineamenti – appena guardò quell’uomo, a sua volta evidentemente emozionato per vederlo finalmente sveglio e vigile.

«Frank!» esclamò raggiante mentre si metteva a sedere sul letto.

«Ah Ryo, che bello vederti my boy» disse l’americano con tono affettuoso, arruffandogli i capelli che in quei mesi si erano allungati, arrivando a lambire le spalle «Mi sei mancato ragazzo» aggiunse a mezza voce.

Kenji decise di lasciarli un po’ soli, così ridiscese al piano terra e, una volta raggiunto il piccolo tavolo che si trovava accanto la porta d’ingresso, si lasciò cadere con un sospiro sulla dura panca di legno. Si sentiva sfinito sia mentalmente che fisicamente, in quei mesi si era imposto un ritmo di lavoro assurdo, incapace di rallentare; una parte di lui continuava a crogiolarsi nei sensi di colpa, non riuscendo a perdonare la sua dannata superficialità che aveva causato tutta quella sofferenza. Ogni sera quella consapevolezza lo aspettava come un guardiano impietoso, impedendogli di dormire più di tre ore filate; il suo orgoglio di studioso era stato scalfito pesantemente. Lui che si era sempre pensato più intelligente e scaltro di tutti era stato tradito dalla sua stessa superbia e quella ferita, per quanto l’avesse cacciata nelle profondità del suo animo, bruciava ancora.
Lui, diffidente per natura e necessità, si era fidato in poco tempo di Shin, sorprendendosi a sua volta per il suo comportamento anomalo, ma aveva avvertito fin da subito una certa affinità con quel giovane uomo, anche lui di origine giapponese ma statunitense di nascita. Si era unito al suo commando di guerriglieri insieme a Frank, suo amico e commilitone, pochi mesi dopo il loro arrivo in Guatemala poiché, entrambi simpatizzanti per la causa comunista del Paese, avevano deciso di lasciare i Marines per unirsi alla lotta dei civili. Presto aveva scoperto che non solo era un soldato dalle abilità eccezionali e dalla mira prodigiosa, ma era anche molto curioso e brillante, desideroso di imparare e, nei momenti di quiete, non si stancava mai di bombardarlo di domande sulla chimica e biologia. Kenji aveva sempre provato una certa ritrosia nel condividere le sue conoscenze, ma si era arreso facilmente a quel giovane dagli occhi buoni e così lo aveva iniziato anche alla medicina, rendendolo col tempo quasi un suo assistente. In lui sembravano convivere due persone: il marines letale e l’uomo altruista, che si alternavano in un equilibrio prodigioso. Ricordava ancora lo sconcerto che si era creato nel gruppo quando, dopo un giro di perlustrazione, Shin era tornato con un bambino in braccio; per giorni tutti gli diedero del pazzo ma lui non aveva voluto sentir ragioni e si era battuto strenuamente affinché il piccolo Ryo restasse con loro e non venisse portato al villaggio più vicino.
«Veder crescere una giovane vita mi dà la forza di tollerare la morte che ci circonda» gli aveva detto quando anche lui aveva esposto le sue riserve, ma a quelle parole Kenji non era stato in grado di controbattere; non era ciò che aveva fatto anche lui durante la guerra, quando aveva lasciato Londra per operare come medico militare al fronte? Capiva bene quanto, in un contesto di morte, il riuscire a salvare anche una sola vita aiutava a non perdersi, a restare umani. Lui ci aveva provato, ma per quanti soldati avesse curato non era riuscito a ritrovare l’ottimismo che lo aveva contraddistinto da ragazzo; aveva rischiato di perdere la sua umanità la mattina del 6 agosto 1945, quando una bomba aveva disintegrato la sua città natale e la sua famiglia, che era rientrata in patria solo l’anno precedente. Lui, l’unico discendente di una famiglia dalle origini prestigiose10, figlio di un console stimato in Inghilterra, si era ritrovato solo, torturato dal dubbio di aver contribuito con il suo lavoro di decriptazione alla morte della sua famiglia. Per cercare di sopravvivere aveva deciso che l’unica soluzione possibile fosse quella di sparire, inscenando la sua morte; ufficialmente Kenji Date risultava disperso in Germania, mentre ufficiosamente era nato il Professore, un uomo dalle molte capacità e identità, che clandestinamente era fuggito in America con la speranza di ricominciare una nuova vita.
Sospirò pesantemente. Durante la sua fuga nel Nuovo Continente non aveva preventivato che avrebbe passato più di quindici anni in un Paese martoriato da una brutale guerra civile, non era stata certo quella la sua idea di nuovo inizio, ma sapeva anche che quello in realtà era l’unico posto in cui fosse davvero necessaria la sua presenza. Sicuramente se non avesse conosciuto Guzmán mentre viveva a Cuba non avrebbe mai preso parte a quella guerra; l’ex presidente era un uomo colto e integerrimo che subito lo aveva preso in simpatia, raccontandogli la sua storia e di come era stato costretto all’esilio da un golpe vergognoso, fomentato da interessi politici spregevoli. Lui ne era rimasto talmente colpito che non aveva avuto esitazione a offrirsi volontario per partire assieme a un manipolo di guerriglieri, raggiungendo nottetempo il Guatemala. Con il tempo molti uomini si erano aggiunti al commando, tra cui Shin e Frank che – oltre lui – erano gli unici stranieri del gruppo; uomini diversissimi tra loro uniti da uno stesso obiettivo e ideale.
“Shin… Come hai potuto cedere in questo modo?” si chiese con amarezza. Non poteva far a meno di incupirsi ripensando alla trasformazione dell’uomo che aveva ritenuto tra i migliori che avesse mai conosciuto in vita sua. Lo stesso uomo che aveva avuto il coraggio di badare a un bambino in mezzo alla guerra, che aveva combattuto strenuamente affinché ci potesse essere una tregua, poteva essere lo stesso che voleva creare un esercito perfetto formato da uomini bestiali portatori di morte? Che ne era stato del suo animo? Perché non era stato in grado di far nulla per lui?  Il rumore pesante degli anfibi sulle scale di legno lo risvegliò dal turbinio di pensieri che lo aveva travolto in modo inaspettato.

«Ha fatto un lavoro miracoloso Professore, a distanza di un paio di mesi Ryo è davvero rinato, sembra quasi quello di prima» disse il guerrigliero in tono affabile, sedendosi accanto a lui.

«Ah, è tutto merito del ragazzo; ha tempra ma soprattutto voglia di vivere. Avrei potuto fare molto poco in caso contrario» e, dopo essersi lisciato distrattamente i baffi, aggiunse leggermente sovrappensiero «Perché hai detto quasi Frank?»

«La mia è solo una sensazione…»

«Hai idea di cosa abbia passato il ragazzo? Un’esperienza del genere segnerebbe chiunque, è inevitabile»

«Ma non intendevo questo Prof» e avvicinandosi verso di lui proseguì sottovoce «Ha cercato in tutti i modi di portare il discorso su Kaibara; non l’ha detto esplicitamente ma è convinto che io sappia dove si trovi e ha cercato in tutti i modi di farmi cedere. A momenti sembrava un interrogatorio in piena regola»

Kenji serrò le labbra ma non disse niente; che quella curiosità fosse collegata alla strana attitudine che aveva riscontrato poco prima? Che Ryo fosse risentito era comprensibile, non poteva certo condannarlo per odiare l’uomo che l’aveva quasi ucciso e, sebbene fosse sempre riuscito a evitare quell’argomento, sapeva che alla fine il momento sarebbe giunto.

«Mmmh, temevo l’avrebbe fatto prima o poi… Spero non ti sia lasciato scappar nulla»

«Per chi mi ha preso? Certo che sono stato muto come una tomba… So bene come Ryo sia impulsivo e non voglio pensare a cosa farebbe se lo sapesse così vicino»

Kenji annuì lievemente. No, sarebbe stato un errore sovreccitarlo in quel frangente, considerando che il percorso riabilitativo non si era ancora concluso; ci sarebbero voluti almeno un altro paio di mesi per assistere a una completa ripresa sia fisica che psicologica.

«Si trova sempre sulle montagne vicino Chinautla vero?» chiese in un sussurro.

«Sì, ma stando alle ultime notizie giunte al campo, il suo gruppo sta aumentando considerevolmente ed è preoccupante» e grattandosi le guance ricoperte da una corta barba ispida proseguì «A quanto pare ha testato nuovamente la droga su alcuni disperati e ciò invece di creare sconcerto – come è stato per noi, che lo abbiamo cacciato via senza condizioni – ha generato un’autentica ammirazione nella testa di quei fanatici. Paco ha avuto una soffiata proprio stamattina… Quel pazzo sta pianificando un attacco in grande, forse proprio qui in città»

«Mi auguro di no davvero! Pensa a cosa succederebbe se solo un paio di uomini in quelle condizioni si ritrovassero in mezzo alla folla di manifestanti… Non lo capisce che così peggiorerà solo le cose? La popolazione è già allo stremo… No, così l’esercitò inasprirà gli atti di repressione e sarà davvero la fine per noi»

I due uomini rimasero per qualche minuto in silenzio, ognuno oppresso a suo modo dallo stesso fardello fatto di angosce e frustrazioni che sembrava non voler avere una fine. Kenji parlò per primo, rompendo il silenzio.

«Dimmi Frank, non ti piacerebbe tornare a casa?»

«Come?!» il guerrigliero lo guardò stupito «Che idea è questa?»

«Bisogna essere realisti e tenersi pronti per qualsiasi evenienza. Allo stato attuale la situazione si sta facendo sempre più critica: i commando di guerriglieri nel Paese si sono più che dimezzati e ci manca solo che Kaibara mostri al mondo il suo esercito di morti viventi. Dobbiamo prendere in considerazione un’eventuale sconfitta e conseguente ritirata»

«Ma io non voglio scappare via come un codardo! Ormai questa è la mia guerra e ho già fatto la mia scelta molti anni fa: ho messo in conto di morire in battaglia, non ho certo paura di andare all’inferno»

«Sì, ma penso sia ancora presto per abbrustolirsi tra le fiamme eterne» e guardandolo seriamente aggiunse «Non pensi più a tua figlia?»

Sapeva di aver toccato un tasto dolente, era palesemente un colpo basso ma, cocciuto com’era, doveva essere scosso per farlo ragionare. Lo vide sbiancare leggermente, gli occhi verdi ben aperti, e capì di aver fatto centro.

«Certo che ci penso» rispose amaramente mentre abbassava il capo «Non c’è giorno in cui non pensi a lei»

«Allora vedi che hai un buon motivo per non morire proprio adesso? Non vorresti passare del tempo con lei? Non vorresti aiutare Ryo?»

«Cosa intende Prof?» domandò rialzando di scatto il volto.

«Tu sei molto affezionato al ragazzo e anche lui ti vuole bene» disse sorridendo lievemente «Potrebbe avere una vita quasi normale grazie a te, provare cosa voglia dire vivere in una vera casa, in una vera città. Hai ancora molte cose da insegnarli…»

«Ma come? Non intende portare con sé Ryo? Pensavo che dopo tutti questi mesi lo avesse preso sotto la sua custodia»

«No, non me lo potrei permettere» disse toccandosi distrattamente i baffi «Non potrei mai vivere con un’altra persona, specialmente una così giovane; devo continuare a mantenermi invisibile se voglio vivere e non soccombere nel mio mondo»

Lanciò un’occhiata al suo interlocutore e, vendendolo palesemente basito, non poté fare a meno di lasciarsi andare a una fragorosa risata. Da quanto non lo faceva? Si rese conto che era davvero moltissimo tempo.

«Andiamo Frank, non ti facevo mica così ingenuo! Pensavi davvero che le informazioni che ho ricevuto in tutti questi anni – e che continuo ad avere – mi arrivassero per pura cortesia?»

«No, certo che no» rispose lievemente piccato «Ma…»

«La verità è che c’è moltissima gente che vorrebbe la mia testa, in primis i miei cari ex colleghi del MI6 che – ne sono certo – sono ancora convinti che io sia vivo e vegeto. Con il lavoro che faccio e per i rischi che corro anni fa ho rinunciato ad avere un’identità per poter essere libero di continuare a inserirmi, e allo stesso tempo imbastire, la mia fitta rete di infiltrazioni e intercettazioni per mezzo mondo. Non posso rischiare di mettere in pericolo Ryo; qui è un conto, ma in un contesto meno isolato sarebbe impossibile mantenere un profilo basso. E poi sto ricevendo già da tempo forti minacce dagli Stati Uniti, ragion per cui credo proprio che mi sistemerò molto, molto lontano»

«Ma lo stesso discorso vale per me! Non dimentichi che sono un disertore, ho combattuto contro il mio stesso Paese… Se tornassi negli Stati Uniti sarei considerato il più schifoso dei traditori, rischio molto anch’io e Ryo con me!»

«Non hai nulla da temere. Vi procurerò nuovi documenti e ti metterò in contattato con alcuni miei uomini fidati che operano nel settore. Se non ricordo male non eri certo uno stinco di santo prima di arruolarti, e spero tu non ti sia dimenticato come si vive in quell’ambiente…»

«Vorrebbe dire tornare nel giro della malavita?»

«Non direi proprio così. Tu e Ryo entrerete nel circuito degli sweepers, penso che tu li abbia già sentiti nominare, e credo proprio che vi affermerete senza problemi, pochi uomini possiedono le vostre abilità. In questo il Guatemala si è mostrata un’ottima palestra»

Il guerrigliero fu sul punto di aggiungere qualcosa quando sentirono il rumore di accensione della Jeep seguito da una violenta sgommata.

«Cazzo, mi hanno fregato il fuoristrada!» urlò mentre sfoderava la pistola, precipitandosi fuori come una furia.

Kenji lo seguì a ruota, giusto in tempo per vedere la Jeep sparire dietro una nube di polvere; il ladro doveva essere un tipo in gamba in quanto non solo aveva lanciato il veicolo a una velocità paurosa ma procedeva anche zigzagando; in questo modo sarebbe stato quasi impossibile mirare con precisione per fermare il mezzo senza mettere in pericolo i passanti. Frank tentò comunque, ma il colpo non andò a segno ed espresse la frustrazione con una serie di imprecazioni senza fine. Per quanto fosse un ottimo combattente, l’ex marine eccelleva più nelle imboscate che nei tiri di precisione; per quelli Shin e Ryo erano senza ombra di dubbio i migliori cecchini che avesse mai visto in vita sua. In quell’istante un pensiero gli attraversò la mente come un proiettile.
“Ryo… Può essere…?” Rientrò e salì volando la piccola rampa di scale, ma quando spalancò la porta della stanza si sentì morire. Il letto era vuoto, totalmente disfatto, alcune gocce di sangue sul pavimento di legno testimoniavano come il ragazzo si fosse strappato via le flebo in fretta e le lenzuola, strettamente annodate, pendevano fuori dalla finestrella. Era scappato. Il sudore freddo iniziò a imperlargli la fronte.
“È scappato… Non è possibile, nella condizione in cui si trova si ammazzerà di sicuro!”
Aveva paura per la sua incolumità, anche perché non doveva compiere un grande sforzo di immaginazione per intuire che Ryo era riuscito a origliare la conversazione che aveva avuto poco prima con Frank. Sempre così impulsivo, poteva immaginarlo perfettamente mentre li ascoltava fremente di rabbia e, accecato dall’odio, metteva in atto quella fuga rocambolesca; ma la rabbia era una cattiva consigliera e l’odio il peggior compagno d’arme, era questa la verità che aveva imparato a sue spese e che si ripromise di insegnare al ragazzo, se si fosse salvato. Quell’ultimo pensiero lo gettò nell’angoscia più nera. Ryo non si era ancora del tutto ripreso e se avesse affrontato Kaibara ne sarebbe uscito sconfitto e, nella peggiore delle ipotesi, ci avrebbe rimesso la pelle. No, lui non l’avrebbe permesso; si era impegnato anima e corpo per salvarlo e non si sarebbe mai perdonato un simile epilogo. Come una furia entrò nella sua camera, accese la ricetrasmittente con mani leggermente tremanti e, dopo averla sintonizzata alla giusta frequenza, parlò al microfono nervosamente.

«Hola José»

Dopo qualche secondo che parve un’eternità ebbe risposta.

«Hola Prof, que pasa?»

«Vieni immediatamente con la macchina, corri non c’è un minuto da perdere!»

Spense tutto velocemente e mentre preparava la sua borsa per un eventuale pronto soccorso sentì i passi di Frank raggiungerlo.

«Ci ha sentiti vero? È corso da Shin?» chiese tetro.

«Sì, credo proprio di sì» e ultimando l’operazione aggiunse «La macchina arriverà a momenti, dovremmo riuscire a fare in tempo per evitare l’irreparabile»

«Ma come ha fatto? Stavamo bisbigliando, lui era qua sopra… è umanamente impossibile!»

«Temo sia un effetto della droga. Già durante i primi giorni avevo notato come la capacità uditiva fosse stata alterata, avvertiva anche il più lieve suono in modo amplificato e ho dovuto muovermi con la massima attenzione per evitare di scuoterlo eccessivamente. Col passare dei mesi, però, quel disturbo era scomparso del tutto e non ci ho dato peso, ma evidentemente gli è rimasto come strascico un udito più sensibile della norma. Credo che Ryo per primo se ne sia reso conto ma che non me l’abbia detto, come molte cose che si tiene per se…» e sistemandosi la sacca a tracolla proseguì «Sicuramente avrà intuito che tu gli hai mentito e, non contento delle tue risposte, si sarà steso per terra per origliare e cercare di carpire informazioni dalla nostra conversazione e, per nostra sfortuna, ci è riuscito benissimo»

Il suono di un clacson segnalò l’arrivo del mezzo e i due uomini, ognuno con il cuore stretto in una morsa di angoscia, uscirono dal piccolo edificio – in cui lasciarono di guardia il fidato cubano –, salirono veloci sul veicolo e partirono a tutta velocità, percorrendo la stretta strada che si inerpicava tra le verdi montagne, augurandosi di impedire l’irreparabile.
 
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1 Kenji è formato dagli ideogrammi賢 “ken” (saggio, intelligente) e 二 “ji” (due), traducibile grossolanamente come “il secondo (figlio) saggio, sapiente”. Naturalmente il nome ha molti altri significati che dipendo dai differenti kanji che si possono utilizzare nella scrittura, ma tra tutte le combinazioni mi sembrava questa la più adatta al personaggio.

2 Il Guatemala è stato lo scenario di una delle più sanguinose guerre civili del ‘900, durata dal 1954 al 1996 in cui venne compiuto un genocidio in piena regola nei confronti della popolazione amerinda. Poiché nel manga viene semplicemente accennato a un Paese del centro America, l’ho ritenuto il luogo più verisimile in cui ambientare questa parte, precisamente nel dipartimento di BajaVerapaz, uno dei più martoriati.

3 Il governo militare si instaurò nel Paese a seguito del colpo di stato avvenuto nel 1954 ad opera di militari supportati dagli Stati Uniti, che avevano interessi economici nel bloccare la politica rivoluzionaria e di impronta comunista dell’allora presidente Jacobo Árbenz Guzmán. Questi aveva attuato una riforma agraria atta a ridistribuire i possedimenti dei grandi proprietari terrieri tra la popolazione più povera (principalmente quella indigena). Tale operazione non venne vista di buon occhio dalla United Fruit Company (UFC), compagnia statunitense che deteneva accordi e un controllo quasi totale sulle coltivazioni del Paese, che vide così minacciati i propri affari. Poiché i fratelli Dulles (uno direttore della CIA e l’altro Segretario di Stato) facevano parte del consiglio di amministrazione proprio della UFC, non sorprende come gli USA diedero il via libera all’operazione della CIA con l’ufficioso motivo di fermare “la minaccia rossa” in Guatemala.

4 Essendo una lettrice accanita di Dostoevskij non sono riuscita a trattenermi dall’inserire una sua citazione – questa particolarmente celeberrima –, parole del principe Miškin nel romanzo L’Idiota.

5 I berretti verdi sono le United States Army Special Forces, ovvero forze militari specializzate e addestrate alla guerra non convenzionale. Molto spesso si trovano a operare in contesti di guerriglia, formando anche truppe locali.

6 Il Pervitin è una droga appartenente al gruppo delle anfetamine, largamente prodotta e distribuita in Germania a partire dal 1938. In virtù dei suoi effetti (iperattività, percezione alterata, inibizione dell’appetito) dal 1939 al 1945 venne inserita nel rancio dell’esercito. Quasi tutti i soldati erano effettivamente drogati e dipendenti dal Pervitin, tanto che non furono rari i disordini causati da crisi di astinenza, soprattutto nell’ultimo periodo della guerra. Durante la campagna di Russia le cronache descrivono soldati che, sotto l’effetto della droga, marciavano giorno e notte senza avvertire la stanchezza e il gelo che portava al congelamento degli arti inferiori. Insomma, l’idea dell’esercito efficiente e imbattibile è sempre esistita e, purtroppo, anche parzialmente realizzata.

7 La fenciclidina nasce come anestetico ma a causa dei sui pesanti effetti collaterali venne abbandonata in medicina e utilizzata come droga. Sarebbe la vera Angel Dust – e se non sbaglio Hojo ha preso spunto proprio da questa per la storia. Non mi intendo di chimica, l’ho studiata solo un anno al liceo, ma ritengo verisimile che Kaibara abbia sintetizzato la droga partendo da altre sostanze facilmente reperibili e con un buon effetto stupefacente come l’etanolo (che colpisce sensibilmente il sistema nervoso centrale) e l’efedrina (utilizzata come farmaco nella medicina cinese, ma appartenendo alla famiglia delle anfetamine).

8 Il SIS sta per Secret International Sistem e tuttora è il servizio d’intelligence per lo spionaggio estero nel Regno Unito. Durante la II guerra mondiale lavorarono a stretto contatto le divisioni MI6 (dedita allo spionaggio estero, in cui ha lavorato il Professore) e MI5 (controspionaggio) impegnate in una vasta operazione di depistaggio e decriptazione delle comunicazioni militari tedesche, giapponesi e italiane.

9 «Hai sete?»/ «Grazie dottore»/ «Dottore sto morendo, vero?»/ «Allora… sto morendo ma..»/ «Vorrei vivere»

10 Il clan Date (Date-shi) ha origini molto antiche, risalenti al 1189 circa e comandò principalmente nel nord del Giappone, avendo Sendai come centro di potere fino al 1871, quando il sistema di potere feudale venne soppresso.

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Capitolo 7
*** Interludi ***


Sierra de los Cuchumatanes, aprile 1956 – Shin’ichi1 Kaibara
 
La detonazione di un mortaio seguita poco dopo da un boato tremendo risuonarono nel placido mattino primaverile, scuotendo lievemente il terreno. Shin alzò pigramente gli occhi in direzione della sottile scia di fumo che si stagliava tra gli alberi della foresta, a meno di dieci chilometri dal loro accampamento e, senza scomporsi, tornò a passare lo scovolino nelle camere di scoppio della sua Colt Python con estrema cura. Erano quasi due anni che si trovava in quel posto infernale ma solo negli ultimi mesi i vari commando di guerriglieri sparsi per la regione avevano iniziato ad abbattere aerei più o meno grandi; all’inizio non ne capiva il senso, era un’ulteriore strage di civili che lui avrebbe volentieri evitato, ma sapeva bene che in guerra la logica semplicemente spariva dinanzi alla bramosia di sangue e morte. Sbuffò lievemente e, mentre si chinava per riporre lo scovolino nel contenitore, risollevò per un attimo gli occhi verso quella montagna. Non poteva fare a meno di incupirsi ogni volta che assisteva a uno spettacolo del genere, il pensiero di quante vite ignare venissero tranciate di netto in pochi secondi per i capricci dei signori della guerra lo faceva soffrire, anche se non l’aveva mai dato a vedere. Era molto bravo a fingersi quello che non era, lo aveva imparato col tempo. Alla fine, se si ritrovava in quel posto dimenticato da qualsiasi Dio era perché nella famiglia Kaibara non si era visto un uomo che non si fosse dedicato al bene del proprio Paese; la carriera militare era un obbligo da tre generazioni e non era contemplato un rifiuto.
Con rapidi gesti esperti rimontò l’arma e, mentre iniziava a inserire i proiettili negli appositi alloggi, un rumore di passi ruppe il silenzio.

«E con questo siamo arrivati a dieci. A giudicare dal fumo l’aereo non è esploso, la caduta sarà stata frenata dagli alberi; meglio, un incendio in meno questo mese»

Shin piegò le labbra in un lieve sorriso.

«Complimenti Frank, non ti facevo così attento»

«Beh, a parte contare quante volte Carlos sputacchia dentro la minestra, non ci sono molti divertimenti quaggiù e i disastri aerei sono sicuramente il diversivo più interessante»

«Hai dimenticato gli urli di Ramon quando si sveglia con i ragni addosso»

«Vero come ho fatto a dimenticarlo!» esclamò l’amico per poi tornare subito serio «Secondo te chi è il responsabile ‘sta volta?»

«Mmmh, difficile dirlo con esattezza» e senza interrompere la sua operazione certosina aggiunse «Facendo un calcolo approssimativo, se si considera il punto in cui è precipitato l’aereo e l’intervallo di tempo trascorso dallo scoppio del mortaio alla sua caduta, si può ipotizzare che i colpi siano partiti da quelle montagne a Nord-Est… Dovrebbe essere la zona controllata dagli uomini di Montoya se non mi sbaglio»

«Ah, sei proprio impossibile» sbuffò arreso mentre si accendeva una sigaretta.

«Che intendi Frank?»

«Quello attento sarei io?! Saresti capace di dirmi il modello dell’aereo e da dove è partito! Non cambierai mai… Ti mostri disinteressato a tutto ma in realtà non ti sfugge niente»

Shin si limitò a incontrare gli occhi dell’amico e gli sorrise; odiava ammetterlo ma Frank era l’unico uomo che fosse riuscito a capirlo da quando era nato e, non a caso, era l’unico amico che avesse mai avuto. Così diversi – uno figlio della buona società newyorkese e l’altro un ex delinquente, cresciuto nelle periferie malfamate di San Francisco – eppure così simili nelle loro solitudini, tanto da creare un duo affiatato, specialmente in battaglia.

«Ehilà signorine avete finito di fare salotto? Solo perché oggi non si combatte non vuol dire che dovete battere la fiacca! Moon non ti avevo detto di andare a sistemare il motore della Jeep? Quando si tratta di lavorare sei il primo che scappa come un coyote, che ti prenda un accidente da restare secco e-»

«Ahh Pablo prendi fiato tra una parola e l’altra, altrimenti un giorno di questi ci rimetterai la pellaccia!» esclamò l’americano roteando gli occhi esasperato «Arrivo, arrivo, non posso neanche fumare una sigaretta in santa pace! Sei proprio uno schiavista»

«IO?! Fino a prova contraria siete tu e i tuoi compari i veri schiavisti, hijo de puta» borbottò il mastodontico guerrigliero, rosso in volto da fare spavento.

«Stavo scherzando vecchio mio!» esclamò Frank divertito e dopo avergli dato una pacca sulla spalla aggiunse «Su, dimmi che è successo, perché il tuo culo è agitato stamattina Pablito?»

Fu troppo per l’uomo che esplose come un vulcano.

«TU, tu sei un porco insolente! Corri subito al lavoro se non vuoi diventare cibo per vermi ora!»

Shin, che nel frattempo aveva riordinato il suo materiale e stava scendendo verso il campo, se la rideva sotto i baffi. Frank era talmente diverso da lui, sempre così estroverso e con la battuta pronta, non si faceva problemi a prendere in giro persino il capo gruppo; era sorprendente vedere come Pablo lasciasse correre, forse perché Frank era un elemento troppo valido per farlo fuori e forse, in fondo, perché grazie a lui aveva la possibilità di sfogare i suoi malumori sbraitandogli contro.
Intanto il campo brulicava di vita, con gli uomini impegnati nei vari lavori di manutenzione che venivano inevitabilmente rimandati ai brevi momenti di stasi che si verificavano tra i diversi attacchi. Tutto ciò lo fece tornare con la mente ancora una volta a quell’aereo abbattuto, a quanta vita c’era anche lì dentro e che era stata annullata da uomini come loro. Era stato un marine eccellente, il primo del suo corso, temprato a gestire con freddezza anche le situazioni più estreme, tuttavia non riusciva a non pensare all’incidente di poco prima con una punta di amarezza; era inutile, in cuor suo ogni giorno sperava di svegliarsi e assistere alla fine della guerra, di non vedere più morte e distruzione. Avrebbe potuto ricominciare, magari approfondire gli studi con il Professore e dedicarsi attivamente alla ricerca medica, diventare uno strumento di vita anziché di morte… Pensieri sciocchi e ingenui, lo sapeva, ma intimamente non smetteva di sperare che un giorno si sarebbero potuti realizzare. Immerso nei sue riflessioni raggiunse la capanna-laboratorio e bussò lievemente alla porticina fatta di canne, che si aprì pochi istanti dopo.

«Ah eccoti Shin, sei arrivato giusto in tempo, stavo preparando gli anestetici»

Il Professore era l’uomo più indecifrabile che avesse mai conosciuto. Basso e snello, i capelli corvini raccolti in una coda bassa e occhi penetranti nascosti da due piccole lenti sferiche: dietro tale aspetto si celava una persona brillante e acuta, dalle infinite competenze, capace di grandi slanci di altruismo ma freddo e calcolatore quando era necessario. Si riteneva fortunato per essere riuscito a entrare nelle grazie di quell’uomo schivo e riservato, grazie al quale aveva potuto continuare gli studi di chimica e biologia che era stato costretto a interrompere per entrare nell’esercito; emanava un’aurea di rispetto così palpabile che tutti i guerriglieri gli davano del lei naturalmente, come se fosse la cosa più scontata del mondo. E lui non faceva eccezione.

«Sarei venuto prima ma la Colt mi ha preso più tempo del previsto Professore» disse alzando lievemente la sacchetta con gli attrezzi di pulizia.

«Non hai di che scusarti Shin, la manutenzione della propria arma è un elemento prioritario, hai fatto bene a impiegarci tutto il tempo necessario. E poi la tua è un bel gioiellino di cui devi avere la massima cura2» e tornando dietro ai vari lambicchi fumanti gli lanciò una rapida occhiata «Beh, che stai a fare ancora lì impalato?»

Il giovane uomo si riscosse e, dopo essersi lavato le mani, prese posto davanti agli strumenti di lavoro. I due rimasero per un’oretta in un silenzio rotto solo dall’occasionale vociare proveniente dall’esterno, ognuno concentrato sulle proprie mansioni ma con la testa segretamente altrove.

«Ti ho visto stranamente impreciso Shin, c’è qualche problema?» chiese con noncuranza il Professore a fine operazione mentre iniziava a sistemare la postazione.

«No, nessun problema in particolare…» rispose leggermente scocciato per essere stato sorpreso così facilmente.

D’altronde con una persona acuta come il Professore era impossibile scamparla.

«Ma…»

«Solo non capisco perché i gruppi stazionati sul fronte orientale abbiano iniziato ad abbattere in modo sistematico gli arei civili. All’inizio li avevo creduti degli incidenti isolati, ma ormai è fin troppo palese che non si tratti di errore» ammise con stizza mentre richiudeva il piccolo mobiletto ricolmo di provette e becher.
Per quanto il Professore fosse una persona degna di stima e fiducia, Shin non amava palesare a nessuno i suoi veri pensieri; era come aprire una finestra nel suo animo, rendendolo vulnerabile. Una debolezza da non commettere mai.

«Si vede che non hai ancora la mentalità di un guerrigliero Shin» rispose l’uomo tranquillo e, guardandolo serio, proseguì «L’intento iniziale era colpire solo gli aerei americani per impedire i rifornimenti e scoraggiare possibili attacchi, però dopo si sono resi conto che abbattendo quelli civili si raggiunge una maggiore eco nella stampa internazionale»

«Si ammazza gente innocente a caso per un po’ di pubblicità… Bello schifo»

«La guerriglia in fin dei conti è solo quello e noi ne facciamo parte» e dopo aver aperto la porta della capanna concluse in un soffio «Solo perché combattiamo per i più deboli non vuol dire che noi siamo meglio di coloro che ci sono nemici. Siamo tutti uomini deboli e sporchi di sangue, ognuno con i propri fantasmi e le nostre colpe. Non siamo certo dei santi, tra noi si annida la società peggiore, non dobbiamo dimenticarlo, e il fatto che non abbiamo ancora iniziato a giocare al tiro a bersaglio non vuol dire che non potremmo iniziare presto»

Shin lo guardò con un misto di stupore e turbamento: quell’uomo riusciva sempre a sorprenderlo, sfoderando ogni volta le parole giuste al momento giusto. Lui si ostinava a credersi migliore degli altri perché la sua indole lo portava a cercare il buono anche in quel manipolo di guerriglieri sguaiati e senza scrupoli, ma era giusto che si ricordasse chi fosse davvero e cosa stesse facendo. Era un ex marine, un uomo addestrato a uccidere e a non provare sentimenti; era quellaa la sua vita, non doveva dimenticarlo.

«Ah sei qui Shin» la voce roboante di Pablo lo riportò alla realtà e, affacciandosi dentro il laboratorio, aggiunse perentorio «Vieni subito, dobbiamo organizzare i turni di ronda»
 
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In quel tratto la foresta era fitta a tal punto che dovette utilizzare il machete per farsi strada nell’impenetrabile vegetazione del sottobosco. Si era offerto volontario, come sempre, per perlustrare il territorio in modo da sincerarsi che nelle vicinanze non ci fossero nuovi accampamenti di soldati che – secondo le intercettazioni del Professare – stavano iniziando a popolare quelle alture selvagge alla ricerca dei vari villaggi dei guerriglieri. Gli piaceva andare in avanscoperta, muoversi furtivo tra la natura incontaminata, in quanto lo aiutava a ritrovare una calma seppur apparente. Quello, inoltre, era un ottimo modo quello per restare in esercizio, per mantenere e anche affinare le sue abilità, con i sensi sempre tesi al massimo, attento a cogliere il minimo rumore sospetto nel marasma di suoni che caratterizzava quella immensa distesa verdeggiante. Continuò la sua ascesa impervia e, dopo aver spazzato via l’ennesimo groviglio di tronchi e rampicanti, si concesse qualche attimo per riprendere fiato. Con la mano si deterse il sudore che gli imperlava la fronte, poi raggiunse la borraccia che portava a tracolla per prendere un sorso d’acqua. Aveva percorso all’incirca cinque chilometri ma a causa del terreno così impervio gli sembrava di averne fatti più del doppio; doveva sbrigarsi, aveva ancora molta strada da fare e avrebbe dovuto essere di ritorno prima di sera, perciò si rimise in marcia con rinnovato vigore. Dopo qualche passo, però, il rumore secco di un ramo spezzato lo mise in allerta e in un attimo sfoderò la pistola dalla fondina, il colpo già in canna.
“Che sia qualche bestia? Un soldato non potrebbe fare un errore così grossolano” si disse mentre si appiattiva contro il tronco di un albero imponente e chiuse gli occhi per concentrarsi meglio. Attese alcuni istanti e nuovamente avvertì un fruscio, segno inequivocabile che qualcosa si stava dirigendo proprio verso di lui. Riaprì gli occhi e silenzioso come un’ombra sporse leggermente il capo oltre la spessa corteccia, quanto bastava per permettere all’occhio destro di prendere la mira, pronto a sparare. Quel colpo, però, non partì. Davanti a lui si stava muovendo un bambino che, con passo strascicato, stava scendendo il crinale della montagna.
“Che ci fa un bambino in mezzo a questa giungla?!” si chiese stupito mentre riponeva l’arma al proprio posto. Lentamente uscì dal suo nascondiglio e in pochi passi gli fu di fronte: era davvero piccolo, piuttosto magro, il volto – sporco di terra e sangue rappreso – era incorniciato da folti capelli corvini spettinati, tra cui spuntavano alcune foglie secche. Anche i suoi vestiti non erano in condizioni migliori, con la maglietta e i pantaloncini sporchi e strappati in più punti, e si chiese cosa potesse essergli successo. Il bambino, appena lo vide, si fermò piantandogli addosso due occhi dal taglio orientale, seri come quelli di un adulto e, per nulla intimorito, attese che il guerrigliero si avvicinasse.

«Hola niño» gli disse, cercando di sembrare il più affabile possibile, ma non fu certo di esserci riuscito.

Il bimbo non emise un fiato e continuò a fissarlo serio, la piccola bocca stretta tanto da far sparire le labbra. Non si diede per vinto e continuò a parlargli in spagnolo.

«Che ci fai qui da solo? Ti sei perso?» domandò ma si diede mentalmente dello stupido.

Che razza di domande faceva?! Era chiaro come il sole che un bambino così piccolo e abbastanza malconcio non poteva trovarsi nel mezzo della foresta – completamente solo tra l’altro – per una scampagnata. Intuiva che doveva essergli successo qualcosa di molto grave, ma il piccolo continuava a guardalo ostinatamente muto; stava per riparlare quando vide un lampo di dolore attraversare quegli occhietti scuri e, pochi attimi dopo, il bambino si accasciò a terra come un sacco vuoto.
Shin in uno scatto lo raggiunse e gli appoggiò la testa sulle ginocchia; era freddissimo e appena scorse le labbra secche e spaccate capì che doveva essere molto disidratato così, con l’acqua della borraccia, gli inumidì la bocca per poi passare delicatamente la mano bagnata sul viso, cercando di pulirlo in modo grossolano.
«Devi essere proprio giunto al limite piccolino» emise in un sussurro, avvertendo una punta di tenerezza per quell’essere così minuscolo e indifeso.
Il bambino emise un debole lamento mentre con evidente sforzo riapriva gli occhi.

«Hi… Hikōk-» disse in un soffio e le pupille si strinsero nuovamente in un dolore sordo.

L’uomo fu sollevato nel vederlo riacquistare coscienza e allo stesso tempo incredulo nel sentirgli pronunciare quella parola che gli sembrava giapponese. Non poté fare a meno di allargare gli occhi per la sorpresa; tutta quella situazione gli sembrava così surreale, non pensava che oltre a lui e il Professore avrebbe potuto incontrare altri giapponesi tra quelle montagne così selvagge.

«Onamae wa nan desu ka?3» gli chiese gentilmente.

Il bambino si illuminò a quelle parole e con un filo di voce rispose «Ryo»

«Ryo» ripeté accarezzandogli la testa «Goryōshin wa doko ni imasu ka?»

«Hikōki…» disse tornando mortalmente triste.

Quell’unica parola bastò per avere un quadro chiaro della situazione e la sua meraviglia aumentò nel rendersi conto di avere tra le mani, con molta probabilità, l’unico superstite di quell’aereo che stato abbattuto tre giorni prima; il turbamento che gli aveva causato quell’evento era nulla in confronto a quello che avvertì quando realizzò che si era imbattuto in un autentico miracolo. Il bambino era sopravvissuto tre giorni in quel luogo inospitale: sarebbe dovuto essere morto e invece era lì, stremato ma vivo, e quella consapevolezza gli gonfiò il petto di felicità. La vita poteva trionfare anche quando la morte era considerata l’unica possibilità.

«Eu» sussurrò il piccolo, rompendo il silenzio «Estou com fome…4» concluse con fatica prima di svenire.

“Ma questo non è mica giapponese!” pensò basito mentre si rialzava tenendo il bambino saldamente in braccio.
Cosa doveva fare? Il suo dovere di soldato gli imponeva di proseguire l’esplorazione ma il suo cuore gli diceva di non perdere tempo prezioso e di portare Ryo subito al villaggio. Si ritrovò immobile per qualche istante, profondamente combattuto, ma infine le gambe si mossero da sole, facendolo voltare.
«Ah, al diavolo il dovere!» e iniziò a correre.
Aveva avuto la possibilità di salvare almeno una vita e non l’avrebbe sprecata.
 
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«Shin ti ha dato di volta il cervello?» gli domandò Pablo secco «Da quando in qua saremmo diventati un asilo per marmocchi?»

Già prima di arrivare al campo aveva intuito che la sua proposta non avrebbe riscosso molti consensi, ma non avrebbe immaginato che praticamente tutti gli sarebbero stati contro.

«Non è una scelta che si può prendere alla leggera. Forse sarebbe meglio portarlo al villaggio più vicino» commentò il Professore greve.

Era l’imbrunire e tutti gli uomini si erano radunati come sempre nello spiazzo centrale dell’accampamento in attesa del rancio serale; solo una mezz’ora prima Shin si era presentato con un bambino in braccio, creando un certo scompiglio nel gruppo che ora stava discutendo per decidere il suo destino.

«Io ritengo che non sia una scelta del tutto insensata. È sopravvissuto a un incidente aereo e ha vagato per tre giorni senza né cibo né acqua per la foresta… Insomma non stiamo certo parlando di un bambino debole, tutt’altro! Non vedo nessun problema nel farlo restare qui»

«Ma perché ti stai ostinando tanto? Non starebbe meglio con i civili?» chiese Paco perplesso.

«Come perché?! Non vedi che tutti piangono miseria? Hanno appena di che sopravvivere e portandolo da loro lo condanneremmo a una vita di stenti!» sbottò Shin con rabbia.

Si sentiva terribilmente frustato nel constatare come tutti gli andavano contro. Certo, in fin dei conti erano guerriglieri e la loro quotidianità era pregna di morte e violenza, però… Non sarebbe riuscito a spiegarlo a parole, ma avvertiva una vocina interiore suggerirgli di non demordere. Avrebbe voluto urlare a tutti che, se lo avessero lasciato tra i civili, Ryo avrebbe rischiato davvero di morire o condurre un’esistenza miserevole come quella di tutti gli orfani abbandonati a loro stessi, ma si sforzò per rimanere il più calmo possibile.

«Rifletti Shin» la voce pacata del Professore lo riportò alla realtà «Anche restando con noi che vita condurrebbe? Diventerebbe un bambino soldato, è inevitabile. È questo che vuoi per lui?»

“Io voglio solo che viva” pensò amaramente, non riuscendo a dirlo a voce. Si alzò lentamente e, sentendo il bisogno di fare due passi, si diresse verso la sua capanna. Man mano che si allontanava avvertì il brusio degli uomini farsi più forte, quasi come se volessero voltare pagina e riprendere i soliti discorsi. A nessuno interessava quella giovane vita, nessuno sembrava percepire l’importanza di quel ritrovamento fortuito e iniziò a temere concretamente di non riuscire a farcela. Aprì la porta con cautela e si affacciò dentro il piccolo ambiente; scorse sul misero giaciglio la piccola sagoma raggomitolata su se stessa, il respiro calmo a segnalare che fosse profondamente addormentato, ignaro che perfetti sconosciuti stessero decretando il suo futuro.
«Che cosa devo fare…» emise in un sussurro mentre appoggiava stancamente la fronte allo stipite della porta. Cosa sarebbe stato meglio per lui? Quella sua vocina irrazionale non si era affatto spenta, anzi, ma d’altro canto l’osservazione del Professore lo aveva fatto vacillare. Non era così idiota da non pensare a cosa ne sarebbe stato del bambino se fosse riuscito a farlo restare; un guerrigliero e per di più bambino, non era certo una vita invidiabile, tuttavia continuava a considerarla una soluzione nettamente migliore rispetto a quella suggerita dagli altri uomini. Il Guatemala era in piena guerra civile, l’esercito governativo aveva iniziato terribili repressioni nei confronti della popolazione, la povertà dilagava in modo incontrollato e la situazione sembrava aggravarsi ogni giorno.
“Portarlo in un villaggio… Certo, come se non avessero gli occhi per vedere che vita fanno!”
Le condizioni di vita nei villaggi indigeni era miserevoli già prima dell’inizio della guerra, ma col tempo stavano ulteriormente peggiorando. Un bambino orfano, per giunta straniero, che non parlava una parola di spagnolo – figurarsi di K’iche’5 – sarebbe stato una preda troppo ghiotta per criminali di ogni tipo, come facevano a non capirlo? Con loro, invece, il bambino avrebbe potuto imparare a combattere, sarebbe stato capace di difendersi – condizione essenziale per sopravvivere in quell’ambiente infernale – e, soprattutto, lui avrebbe potuto vederlo crescere, aiutarlo; era inutile, tra le due opzioni continuava a preferire la sua idea.
Non poté fare a meno di sorridere amaramente: proprio lui, che aveva sofferto molto a causa delle imposizioni paterne che lo avevano privato della possibilità di scegliere il suo futuro per seguire una stupida tradizione familiare, si ritrovava a decidere in modo arbitrario del destino di un bambino.
Richiuse delicatamente la porta e, con passo deciso, raggiunse il gruppo fattosi più silenzioso, segnale che avevano iniziato a cenare. Tenendo gli occhi bassi si sedette sulla nuda terra accanto a Frank, che gli porse la scodella col rancio che gli aveva tenuto da parte. Lo ringraziò con un lieve cenno del capo e iniziò a rimestare il cucchiaio nella minestra con poca convinzione, non riuscendo a mangiare; avvertiva gli occhi di tutti puntati addosso ma continuò imperterrito a fissare l’oscura brodaglia, come se all’interno vi potesse trovare tutte le risposte. Alla fine sbottò deciso.

«Un mese» disse semplicemente, fissando Pablo negli occhi.

L’uomo, seduto dalla parte opposta del fuoco, non si scompose e continuò a passarsi un pezzetto di legno tra i denti.

«Un mese cosa?» fece il capo gruppo continuando la sua pulizia.

«Chiedo un mese di tempo per preparare il bambino. Se entro questo periodo si dimostrerà un peso per il gruppo lo lascerò al villaggio più vicino, in caso contrario resterà con noi»

Il capo gruppo gli rivolse un mezzo sorriso, carico di sorpresa e curiosità.

«Bene, ha tutta l’aria di una scommessa e a me piacciono molto. Vedremo se saprai renderlo un guerrillero» e dopo essere balzato in piedi con grande agilità a dispetto dell’imponente stazza proseguì «Non so per quale motivo tu ti sia incaponito così tanto Shin, però attento: hai sì un mese ma sappi che il moccioso non dovrà mai mostrarsi una zavorra per noi. Non posso tollerare nessun elemento debole, bambino o uomo che sia, intesi?»

L’ex marine annuì semplicemente a quello che aveva tutta l’aria di un ordine.

«Bene signorine, sbrigatevi a mangiare questa schifezza e poi tutti dritti nelle proprie baracche, domani sveglia all’alba» e così dicendo si allontanò, entrando nella sua capanna.

Shin si sentì finalmente libero da tutta la tensione accumulatasi durante la giornata e, dopo essersi stiracchiato, si apprestò a mangiare; appena, però, riuscì a mandar già un boccone non riuscì a nascondere una smorfia di disgusto.

«Terribile vero? Sembra che ci abbia bollito dentro gli scarponi» gli disse Frank sorridendo.

«Davvero pessima… Temo che oggi si sia superato» rispose gettando via la gavetta.

«Qualcosa da ridire sul cibo gringo?» chiese lapidario Carlos, famoso per la sua permalosità, a cui non era sfuggito il gesto.

«Nulla» rispose subito Shin «Non ho fame, tutto qui»

«Sì, niente da ridire sulla tua ottima cucina» si affrettò a fargli eco Moon.

In una situazione normale sapeva che Frank non avrebbe perso tempo per colpirlo con la sua linguaccia, ma scatenare una rissa – con annessa ira di Pablo – era certo l’ultimo dei loro pensieri, soprattutto dopo quanto era successo. Purtroppo il cuoco non sembrò particolarmente convinto.

«Non mi starai prendendo per il culo, vero?» sibilò stringendo gli occhi.

«Cosa?! Ma come puoi pensare una roba del genere! Non mi permetterei mai» esclamò fintamente sorpreso l’americano, alzando solennemente la mano destra a mo’ di giuramento e facendo sghignazzare così alcuni uomini.

«Suvvia Carlos, non lo considerare» intervenne Shin prontamente e, onde evitare che l’amico peggiorasse la situazione, raccolse il piccolo recipiente di latta «La conservo per il bambino, nel caso si svegli durante la notte gli farò mangiare qualcosa»

La sua risposta sembrò soddisfare il corpulento cileno che si limitò a grugnire parole incomprensibili prima di riprende la conversazione con i suoi vicini.

«Ma che sei impazzito? Vuoi davvero ammazzare quella povera creatura?» gli chiese sottovoce un Frank sconvolto.

«Certo che no, ma era l’unico modo per spegnere la questione, se fosse per te a quest’ora avresti già scatenato una rissa! Sei sempre il solito» disse a mezza voce mentre cercava nel taschino della mimetica il pacchetto di sigarette.

«Comunque Shin sappi che ti aiuterò con il bambino; per quel poco che l’ho visto devo dire che mi è simpatico e poi mi piace l’idea di avere una mascotte»

«Ne parli come se fossimo una squadra di football» emise sarcastico per poi passargli la sigaretta.

Frank fece un tiro lungo e, fattosi improvvisamente più serio, proseguì «In realtà, appena ti ho visto arrivare con quel fagotto sulle spalle mi è preso un colpo, mi ha fatto ricordare mia figlia… Io purtroppo non l’ho vista nascere, di lei ho solo una foto che la madre mi ha inviato quando siamo arrivati qui. Quel bambino avrà più o meno l’età di Mary… So che è stupido ma se posso aiutarlo a crescere mi sembrerà di passare del tempo con lei, visto che non ne ho avuto la possibilità e non so se potrò mai farlo» concluse in sussurro, evidentemente imbarazzato.

«No Frank, non lo trovo affatto stupido» e dandogli un’amichevole pacca sulla spalla aggiunse «Ti ringrazio, sapere che almeno tu non mi sei contro mi conforta molto. E avrò bisogno di tutto l’aiuto possibile, non so proprio da che parte iniziare, io non ne so nulla di bambini. Penso di averla sparata un po’ grossa prima»

«Si vede che alla fine qualcosa te l’ho insegnata»

I due uomini si ritrovarono a ridere senza motivo, volendosi concedere qualche attimo di leggerezza, attirando così l’attenzione dei loro commilitoni che li guardarono perplessi, non capendo cosa trovassero così divertente quei due americani che non facevano altro che starsene in disparte a parlottare in inglese tra loro. A mettere fine al momento conviviale ci pensò il Professore che era rimasto silenzioso e meditabondo per tutto il tempo.

«Ora basta, ognuno torni alle proprie capanne! Avete sentito cosa ha detto Pablo e avete indugiato fin troppo» esclamò perentorio, alzandosi in piedi per dare l’esempio.

Pigramente il gruppo iniziò a disperdersi e anche Shin, che in realtà si sentiva molto stanco, raccolse la gavetta – si sarebbe premurato di svuotarla nella latrina – e a passo lento si incamminò verso la sua capanna, che era proprio accanto al laboratorio.

«Vorrei parlarti un attimo» la voce del Professore lo raggiunse da dietro, poco prima che potesse aprire la porta.

Si voltò ma non fu in grado di leggere alcuna emozione negli occhi dell’uomo minuto che lo fronteggiava.

«Certo Prof, mi dica»

«So che la questione è ormai chiusa, ma mi sento in dovere di dirti che sono preoccupato per la proposta che hai avanzato poco fa»

«Intende il limite del mese?»

«Esattamente» e sistemandosi furtivamente gli occhiali con l’indice continuò «Quando hai portato il bambino non ci ho pensato due volte a soccorrerlo – e per fortuna ti sei mostrato così celere, altrimenti non credo sarebbe arrivato a domani –, però il pensiero che possa restare e crescere con noi mi preoccupa»

«E non la preoccupa il fatto che lasciandolo in qualche villaggio possa rischiare molto di più?» sbottò senza riuscire a nascondere la sua frustrazione.

Perché non riusciva a capirlo? Il Professore si era sempre dimostrato l’unica persona dotata di buonsenso in tutto il gruppo e il fatto che nutrisse remore circa la sua scelta lo scoraggiava enormemente.
“Che stia sbagliando davvero?” si chiese abbattuto.
L’uomo si limitò a osservarlo per pochi secondi che parvero interminabili, scrutandolo intensamente attraverso le lenti, per poi sospirare con un mezzo sorriso.

«Ci tieni davvero così tanto… Però ho un’ultima domanda, rispondimi onestamente. Perché?»

Shin rimase un attimo sovrappensiero e alzò lo sguardo verso quel cielo stellato così luminoso che era possibile godere solo in quei territori lontani dalla civiltà. Doveva essere sincero, sapeva che se fosse riuscito a portare il Professore dalla sua parte non avrebbe avuto più nulla da temere.

«Sarebbe difficile spiegarlo a parole, ma sento che il mio incontro con Ryo non è stato dettato dal caso. La guerra in Corea6 è stata il mio battesimo di fuoco, come ci aveva anticipato il nostro sergente istruttore, e lì ho sperimentato per la prima volta le atrocità della violenza… Ah, sapesse quanti bambini ho visto morire, quanta gente innocente piangere senza lacrime perché ormai le avevano terminate tutte. Sono stato lì due anni ma me ne sono sembrati venti»

«Non mi hai mai raccontato che eri stato in Corea. Com’è possibile ch-»

«Che un soldato come me rimanga ancora turbato dalle violenze sui civili?» lo interruppe guardandolo negli occhi «È questo che voleva dire, vero?» sorrise amaro.

L’uomo si limitò ad annuire.

«La verità è che non riesco ancora ad accettare la violenza fine a se stessa: se un nemico ci attacca è giusto rispondere, o se siamo noi in azione puntiamo sempre a uomini armati come noi. Questo io lo accetto, uccidere oramai fa parte di me, è un aspetto che per quanto mi addolori non potrò eliminare, però… Però quando vedo sparare sulla folla inerme, violentare donne indiscriminatamente e ora abbattere aerei di linea, non posso fare a meno di chiedermi se tutto ciò sia necessario. Tutta questa violenza gratuita dove ci condurrà?» chiese angosciato.

Stava facendo un grande sforzo per mantenersi calmo e parlare con un tono di voce bassissimo ma le ultime parole gli uscirono leggermente tremanti. Era la prima volta che si metteva a nudo in quel modo ma era per una buona causa.

«Proprio dopo l’ennesimo disastro aereo ecco che mi imbatto in un bambino, sicuramente unico superstite di quella tragedia. Il suo attaccamento alla vita, l’essere quell’unica eccezione, mi ha profondamente colpito, perciò voglio preservare questo germoglio, aiutarlo a crescere piuttosto che abbandonarlo a morte certa» sospirò pesantemente prima di concludere «So che il nostro commando non è il posto ideale per un bambino ma non me la sento di lasciarlo… Ne ho bisogno io. Il poter veder crescere una giovane vita mi darà la forza di tollerare la morte che ci circonda»

Si sentì improvvisamente più leggero ma anche profondamente imbarazzato: era stato troppo sentimentale? Forse agli occhi del medico era diventato uno stupido ma non importava, gli aveva parlato francamente e sperò ardentemente che avesse capito le sue ragioni. Dopo qualche istante di silenzio, il Professore gli si avvicinò, aprì la piccola sacca che portava a tracolla e gli porse due manghi maturi.

«Se si sveglia prima della colazione faglieli mangiare, ha bisogno di zuccheri» disse in un sussurro per poi allontanarsi.

Con quel gesto il Professore gli aveva manifestato indirettamente il suo consenso e Shin sentì di avercela fatta finalmente. Aveva poco di cui gioire, però, l’indomani sarebbe iniziata la vera sfida e si chiese se non fosse stato davvero troppo ottimista nel valutare le sue capacità e quelle del bambino. Entrò nella capanna e vide il piccolo raggomitolato ancora nella stessa posizione e cautamente si sdraiò poco lontano. Sentì il cuore riempirsi di un sentimento agrodolce al pensiero che quel bambino presto non avrebbe più dormito così profondamente, che il momento dei giochi era terminato e che avrebbe dovuto imparare a combattere per poter sopravvivere.
«Io farò quello che devo Ryo, ma tutto dipende da te. Mi raccomando, metticela tutta» emise in un sussurro impercettibile prima di abbandonarsi al dormiveglia.
 
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«Forza Ryo, più veloce!» gridò Shin battendo le mani con enfasi.

Il bambino accelerò ulteriormente la corsa sebbene fosse palesemente esausto.

«Non mi sarei mai aspettato che tu fossi un uomo senza cuore» lo accusò Frank mentre gli si avvicinava «Con questo ritmo non arriverà vivo al mese, altro che farne un guerrigliero!»

«Non credere che ne sia contento, ma non ho molta scelta. C’è tanto da fare e bisogna approfittare di ogni ritaglio di tempo possibile; se avessi a disposizione almeno mezza giornata sarebbe diverso, ma Pablo è diventato una iena e non fa che starmi addosso, dandomi compiti su compiti. E temo lo faccia apposta» disse amaramente.

Era trascorsa poco più di una settimana dal giorno in cui aveva portato Ryo al villaggio e già si sentiva profondamente legato a quel bambino che, fin da subito, si era mostrato terribilmente sveglio e obbediente. Sempre energico e di buon umore, era impossibile non volergli bene, non a caso anche gli stessi guerriglieri – che all’inizio si erano mostrati molto diffidenti nei confronti di quella novità – si erano poi ricreduti in un paio di giorni, tanto che alcuni interagivano con Ryo in un modo che rasentava l’affabilità. Pablo, però, si manteneva fermo nella sua posizione sprezzante, non perdendo occasione per rimproverarlo per ogni minima inezia e lasciandogli così poco tempo libero per addestrare il bambino che si ritrovava costretto a imporgli ritmi estenuanti persino per un adulto pur di farcela con le tempistiche. E Ryo, contro ogni aspettativa, non si lamentava mai se ogni giorno aumentava il numero di giri da fare intorno al perimetro del campo e i pesi nello zaino, se durante le arrampicate sugli alberi si riempiva di graffi, se gli urlava contro perché non riusciva ancora a far bene le flessioni. Shin era genuinamente stupito da quell’attitudine così insolita per un bambino che, stando alle parole del Professore, non doveva avere più di quattro anni; più lo vedeva concentrato, più vedeva il suo visino sporco di terra ma mai di lacrime, più sentiva crescere in lui una profonda stima per quell’ometto. Lui non era stato certo così forte durante l’infanzia, e si chiedeva quanto la non completa consapevolezza degli eventi influisse su quel comportamento così maturo. In cuor suo sperava che il bambino avesse intuito che quelle non erano angherie gratuite ma semplicemente la sua nuova vita in quel posto in cui era arrivato per caso e di cui non faceva mai domande. Non aveva mai parlato dei genitori, di come si fosse salvato dallo schianto e Shin non se la sentiva di intavolare il discorso per primo; forse il forte shock aveva contribuito a oscurare i dettagli più dolorosi o era una scelta consapevole, ad ogni modo non sarebbe stato lui ad aprire quel capitolo, sebbene nutrisse una certa curiosità.
Il rumore di un tonfo secco lo strappò dai suoi pensieri e i suoi occhi si focalizzarono su Ryo riverso per terra, la schiena che sollevava a fatica il pesante zaino sopra di lui; forse aveva esagerato, in fin dei conti era pur sempre un bambino e lo stava trattando alla stregua di una recluta. Fece per avvicinarsi ma fu preceduto da Frank che aveva già preso il bambino tra le braccia con impacciata delicatezza.

«Ha perso i sensi… Shin credo proprio che dovresti darti una calmata, il tuo zelo lo trovo non solo eccessivo ma anche dannoso» gli disse duro «Lo porto dal Professore. Per i prossimi giorni penserò io a lui, così avrete entrambi modo di riprendervi»

«Ma io in realt-» iniziò, sentendosi colto in fallo.

«Kaibara!» la voce di Pablo, proveniente oltre gli alti cespugli lo interruppe «Dove diavolo si è cacciato quel buono a nulla? KAIBARA!» sbraitò il mercenario.

«Che cazzo vuole ancora quella piaga?» emise esasperato e rivolgendosi a Frank aggiunse «Va bene, appena mi sarò liberato parlerò con il Professore» e si avviò veloce verso l’accampamento, dove sapeva lo attendeva una bestia furente.

Era già sera quando riuscì finalmente a liberarsi e a raggiungere il laboratorio; era stata una giornata intensa, avevano pianificato l’attacco che avrebbero condotto il giorno successivo e che, con buona probabilità, sarebbe proseguito per un paio di giorni. Erano stati fermi per troppo tempo e necessitavano di armi, munizioni e di qualsiasi cosa potessero rivendere al mercato nero: si tendeva a dimenticarlo, ma in guerra il vil denaro si mostrava più importante di quanto si potesse immaginare. L’occasione giusta era arrivata proprio con quel plotone che si era da poco insediato a valle per controllare e sedare le rivolte dei facinorosi che si stavano facendo sempre più intense e incisive, grazie soprattutto all’appoggio delle varie squadre di guerriglieri disseminate nel territorio. Sarebbe stata la loro ultima azione prima di smontare il campo e stabilirsi verso sud-est, avvicinandosi, seppur di poco, alla capitale; oramai si era abituato a quella vita nomade, senza avere la possibilità di mettere radici in nessun luogo, senza poter progettare la propria vita. “Il domani non esiste, conta solo l’oggi” diceva sempre il suo sergente istruttore nelle ultime settimane del corso, poco prima che la sua sorte e quella dei compagni venisse decisa dai loro superiori, che li avrebbero smistati nei vari reparti prima di partire per il fronte.
La maggior parte dei suoi commilitoni era morta in Corea del Nord ma lui era sopravvissuto a tutto; si era tramutato in un’arma, il fucile come un naturale prolungamento dei suoi arti, e aveva ucciso un numero imprecisato di uomini, non si era azzardato a tener il conto. Per quanto si fosse distinto come cecchino di prim’ordine, per quante vite avesse falciato, non era riuscito a riplasmarsi come i suoi familiari e superiori avrebbero auspicato. Il suo cuore era ancora capace di compassione, di provare tenerezza e rabbia verso le ingiustizie e ciò lo rincuorava perché ciò significava che non aveva ancora perso la sua parte più umana, in cui risiedeva il vero lui. Duranti i due lunghi e interminabili anni di guerra si era chiesto più volte cosa suo padre e suo nonno avessero trovato di esaltante nell’esercito, tanto da difendere con le unghie e con i denti quella che sembrava una dinastia militare, a cui nessun uomo della famiglia Kaibara poteva sottrarsi. Per un istante ricordò il salone della casa di suo nonno che era tappezzato dai ritratti di figli, fratelli, nipoti e antenati, tutti fieri nel posare impettiti nella bella uniforme; un posto speciale era dedicato agli “eroi”, ovvero coloro che erano morti in guerra, dando così onore alla famiglia che era misurato a suon di medaglie e onorificenze. Naturalmente c’era anche lui in quella nutrita galleria ma il suo volto, serio e triste, strideva in quel contesto, ragion per cui era stato relegato nell’angolo più defilato – e la cosa non gli era mai dispiaciuta.
“Sicuramente avranno prontamente rimosso la foto della pecora nera della famiglia e fatto cerimonie di purificazione… Che patetici” pensò cupo.
Fosse dipeso da lui avrebbe gettato immediatamente la mimetica in un bidone e le avrebbe dato fuoco. Trovava tutto così stupido – la guerra, l’onore, l’orgoglio – ma non poteva far altro che camminare, andare incontro al suo destino che lo voleva il giorno dopo al comando della squadra che avrebbe condotto l’attacco frontale. Totalmente perso nei suoi pensieri arrivò al laboratorio e avvertì un certo nervosismo al pensiero che avrebbe dovuto affrontare Ryo; per quanto tenesse a lui si era scoperto totalmente impacciato nell’interagirci, mostrandosi più duro di quanto non fosse davvero e riuscendo a rivolgergli pochissime parole nel corso della giornata, e solo se strettamente necessario. La porta era socchiusa e riuscì a captare il discorso che si stava svolgendo all’interno della capanna e, non volendo interrompere, si appiattì con la schiena contro la parete di legno.

«Lo vedi questo Ryo?» chiese il Professore tranquillo.

«Sì, che cos’è?» una vocina vispa e allegra segnalò che il bambino si era ripreso del tutto.

Shin sorrise lievemente nel sentirlo: era davvero incredibile quanta vitalità e gioia potesse sprigionare nonostante tutto ciò che gli fosse successo e considerando come conduceva le sue giornate. Erano così tutti i bambini? Lui non ricordava di aver passato molti giorni felici durante l’infanzia, al contrario…  Scosse il capo per impedirsi di ricordare.
“Sicuramente Ryo non ha ancora realizzato qual è la sua situazione, penserà che tutto questo sia un gioco; devo fargli capire al più presto che cosa lo attende” pensò amaramente.

«Questo è un filo particolare, serve per chiudere tagli molto grandi come questo che ti sei fatto sulla coscia. La vedi questa linea più scura? È segno che la ferita si sta rimarginando. Quando sarà diventata più chiara vorrà dire che sei guarito e ti toglierò il filo»

«Ma farà male come quando me l’hai messo?» fece la voce con una punta di preoccupazione.

«No Ryo, sentirai giusto un po’ di fastidio ma non ti farò male»

Shin fu sorpreso dal tono che il Professore stava usando: se qualcuno si fosse trovato a passare di lì per caso avrebbe pensato che il medico si stesse rivolgendo a un uomo e il bambino sembrava apprezzare molto questo suo modo di fare.

«Quindi per sistemare tutte le ferite basta cucire… Se imparo a usare il filo poi posso tornare da mamma e papà per guarirli?» chiese esitante.

Un silenzio scomodo scese nella capanna e Shin si chiese come il medico ne sarebbe uscito fuori. Era la prima volta che il bambino nominava i suoi genitori e nella sua ingenuità sperava di poter essere utile per risanare le loro ferite mortali... Fino a quel momento li aveva considerati vivi e ciò lo fece sentire a disagio; mentalmente ringraziò che quella domanda scomoda non l’avesse fatta a lui. Sentì un lieve sospiro e il rumore di un passo.

«No Ryo, loro sono morti; non c’è più niente che tu possa fare per loro»

«Ah… E perché?»

«Vedi, ci sono casi in cui le ferite sono troppo gravi ed è impossibile curarle»

«E come si fa a capirlo?»

«Con il tempo lo capirai Ryo, non avere fretta. Ora cerca di non pensarci, concentrati invece sui tuoi allenamenti e ascolta sempre quello che ti dicono Shin e Frank, intesi?»

«Va bene Prof»

«Bravo e ora -» ma venne interrotto da un sonoro brontolio.

«Ah credo proprio che qualcuno abbia fame!» esclamò l’uomo divertito.

«Un po’ sì» e dopo l’ennesimo rumoroso reclamo chiese imbarazzato «Posso andare a mangiare?»

«Certo Ryo, va’ pure»

Dopo un tonfo – segno che si era buttato giù dal tavolaccio su cui era stato seduto con le gambe a penzoloni – la porta si spalancò lasciando uscire il bambino che, correndo veloce, percorse la breve discesa che portava al centro dell’accampamento in cui era già stato acceso il fuoco per la cena. Shin lo seguì con lo sguardo fin quando non lo vide parlare con Carlos; apparentemente sembrava il Ryo di sempre, ma come poteva essere nuovamente allegro se poco prima aveva parlato dei suoi genitori? Quel bambino era un completo mistero per lui.

«Potevi anche bussare Shin, sai che non è buona educazione origliare?» la voce del Professore lo raggiunse dall’interno.

«Stavate parlando e non volevo disturbarvi» rispose con un mezzo sorriso mentre entrava nella piccola capanna quadrata.

«Non ti facevo così timido» commentò l’uomo ironico, accovacciato davanti l’armadietto di metallo in cui stava ultimando di riporre il materiale medico «Credo che dovresti rivedere il tuo programma di allenamento se non vuoi far venire al bambino un’ernia»

Shin sospirò: possibile che non ne stesse combinando una giusta? Ci teneva davvero a Ryo e l’ultimo dei suoi pensieri era nuocergli in qualche modo, ma sentiva l’urgenza di addestrarlo e renderlo forte quanto prima.

«Ho preso un impegno e devo mantenerlo. Il tempo a disposizione è molto limitato perciò…»

«Ma è un bambino Shin!» esclamò il Professore esasperato «So bene che hai fatto la cazzata di chiedere un mese di tempo, ma credi davvero di poter fare il miracolo? Davvero pensi che nel giro di un mese Ryo possa diventare un soldato? Scordatelo!»

Lo fissò esterrefatto: anche quell’uomo all’apparenza freddo e distaccato doveva tener molto al bambino se gli parlava in quel modo.

«Tu ci sei diventato in un mese quello che sei? Beh, a maggior ragione non dovresti meravigliarti se un bambino che fino a un mese fa giocava nel parco con i genitori non sia reattivo e forte come tu desideri» e così dicendo si tolse gli occhiali e portò una mano alla tempia per massaggiarsela.

«So perfettamente che è piccolo, ma prima si abitua a questa vita e diventa abile e prima potrà essere autonomo, pronto a combattere»

«Per questo motivo lo fai correre attorno al perimetro del fossato con uno zaino pesante più di cinque chili fin quando non stramazza per terra?» sbottò caustico «Frank quando me lo ha portato mi ha esposto i suoi dubbi sul tuo modo di fare e, in tutta onestà, li condivido pienamente»

«Io…E va bene, non succederà più le do la parola mia» mormorò mesto, sentendosi sconfitto su tutta la linea.

Il Professore gli si avvicinò dandogli qualche pacca bonaria sulla spalla ma lui continuò a tenere gli occhi fissi sul pavimento in terra battuta dove poteva ancora scorgere le impronte delle scarpette.

«Ho parlato con Pablo, o meglio lui si è lasciato sfuggire qualche parola in mia presenza. Come credo tu abbia intuito, se ti ha concesso questi trenta giorni è giusto per divertirsi nel vederti fallire. Non so che gli avete fatto tu e quel pazzo di Moon ma vi ammazzerebbe nel sonno oggi stesso se non fosse che siete tra i suoi uomini migliori»

«Devo dire che l’affetto è ricambiato» commentò sprezzante.

«E proprio per questo non si è lasciato perdere l’occasione per darti una bella lezione, facendoti ritirare con la coda tra le gambe» e avvicinandosi alla porta aggiunse «Ti sta mettendo fretta, ti sta togliendo tempo proprio perché sa che le cazzate peggiori si fanno quando non si ragiona con calma e tu hai abboccato perfettamente. È vero che il tempo a disposizione è poco ma tu ti stai ostinando a volerlo rendere subito un guerrigliero; ragiona lucidamente, non vedi che gli allenamenti estenuanti a cui lo stai sottoponendo sono frustranti per te e deleteri per lui? Il punto che Pablo ha sottolineato più volte è quello del peso e allora ciò che bisogna fare nell’immediato è impedire che Ryo lo sia. Non dico che devi sospendere l’addestramento ma cerca di andarci piano, punta più nello sviluppare la sua naturale flessibilità, Frank ti aiuterebbe nell’insegnargli le migliori tecniche per mimetizzarsi tra la vegetazione – lui è il maestro al riguardo, nessuno sa nascondersi meglio di lui quando si tratta di pulire le latrine – e poi potrà imparare a difendersi attivamente con un’arma. Concentrati su queste piccole cose indispensabili, esercitalo al rigore e alla disciplina, elementi essenziali per far continuare la sua permanenza tra noi. Anche il fatto che passi del tempo da solo con alcuni uomini come Carlos o Paco per esempio è un ottimo modo affinché possa imparare a relazionarsi con loro e, allo stesso tempo, ad aiutarli nello svolgimento dei loro compiti… Insomma, nelle settimane che restano punta a renderlo un jolly capace di essere utile un po’ per tutto, in modo che nessuno potrà avere motivo di lamentarsi del bambino quando si tratterà di parlare con Pablo. Una volta entrato definitivamente nel gruppo si potrà procedere ad addestrarlo seriamente»

Shin aveva ascoltato in religioso silenzio quelle parole che, con forza, avevano sradicato l’ansia che lo aveva ingabbiato per tutti quei giorni; finalmente aveva una visione più chiara della situazione e si maledisse per non essersi confrontato prima con lui, si sarebbero risparmiati molti incidenti spiacevoli per il bambino. Aveva sbagliato proprio come un novellino, venendo meno a tutti gli insegnamenti che aveva appreso, lasciandosi prendere troppo dall’emotività: con che coraggio aveva preteso così tanto da Ryo quando era lui stesso il primo a essersi mostrato debole? Guardò con ammirazione il piccolo uomo che gli aveva parlato lucidamente e avvertì la stima e rispetto accrescere ulteriormente nei suoi confronti; non sarebbe mai riuscito a essere infallibile come lui.

«La ringrazio Professore per avermi parlato con tanta franchezza. Sono io il primo a biasimare la mia condotta avuta fino a oggi e, mi creda, condivido tutto ciò che mi ha esposto; non posso tornare indietro ma da domani seguirò i suoi consigli e le prossime settimane mi impegnerò seriamente»

«Non mi devi ringraziare» e osservando il bambino che rideva insieme a Carlos accanto al focolare aggiunse «Sai, oramai capisco perfettamente i motivi che ti hanno spinto a insistere affinché Ryo restasse… È davvero un bimbo eccezionale, un vero raggio di sole in questa giungla, mi spiace solo che molto presto dovrà fare i conti con la dura realtà. Mi chiedo se troverà ancora la forza di ridere»

«Se ci riesce adesso, dopo che gli avete detto esplicitamente che i suoi genitori sono morti, credo che potrà farlo anche in futuro» commentò raggiungendolo accanto all’uscio della porta.

«Non ne sarei così convinto, per ora la sua concezione della morte è parecchio confusa data la sua età e credo non abbia ancora realizzato cosa significhi davvero ciò che gli ho detto. Quando, però, vedrà uomini morire davanti ai suoi occhi, quando sarà lui stesso a uccidere, in quel momento risiederà la grande sfida. Spero non perda mai quel suo lato così giovale»

«Me lo auguro anch’io» mormorò per poi aggiungere subito dopo «Comunque è davvero un bambino intelligente, sta già imparando un po’ di spagnolo e di questo passo tra qualche mese non ci sarà più bisogno di parlargli in giapponese»

«I bambini sono delle spugne Shin, soprattutto piccoli come Ryo. Poi lui parlottava anche un po’ di portoghese, quindi parte già agevolato nell’essere quasi bilingue»

«Già…Mi chiedo da dove venga davvero»

«Non potremo mai saperlo con esattezza, però direi che il volo su cui viaggiava con molta probabilità era partito dal Brasile7. Chissà, forse lui e i suoi genitori tornavano in Giappone dopo aver fatto visita a dei parenti, oppure vivevano lì e andavano in Giappone… Ad ogni modo questo non ha più molta importanza, ciò che conta è aiutare Ryo a sopravvivere»

Shin si limitò ad annuire e, una volta congedatosi, si avviò verso il centro dell’accampamento dove gli uomini iniziavano a radunarsi per la cena. Lì trovò Ryo che, lesto come una lepre, porgeva a Carlos le scodelle vuote e, una volta riempite di arrosto, correva a distribuirle tra i guerriglieri che si erano già seduti.

«Bravo Ryo, vali più tu che quei due soldatini americani. Devo dire a Pablo di cacciare loro e farti restare» grugnì con evidente buonumore e, dopo avergli allungato un piatto strabordante di arrosto aggiunse «Ecco a te chiquito, te lo sei meritato. Ora corri a mangiare, gli altri si serviranno da soli»

Ryo non se lo fece ripetere due volte e, dopo avergli regalato un sorrisone, si allontanò con cautela, quasi come se stesse trasportando un carico prezioso.
“È davvero un bravo bambino” si disse Shin mentre lo vedeva avvicinarsi e poi sedersi a gambe incrociate accanto a lui, come faceva tutte le sere. Con la coda dell’occhio scorse Pablo osservarli con sguardo duro; sicuramente a lui non erano sfuggita la scena e probabilmente era impensierito dalla possibilità che Carlos potesse mostrarsi favorevole a Ryo e, con lui, tutta la sua cricca.
“Ah caro mio, puoi incenerirci con gli occhi quanto vuoi ma mi dispiace, questa volta non l’avrai vinta” pensò risoluto e, senza pensarci, appoggiò una mano sul capo del bambino, accarezzandogli i capelli.

«Scusami per stamattina Ryo» disse un soffio e il bambino a quelle parole spalancò gli occhietti, guardandolo con sorpresa «Ero preoccupato e ho fatto tanti errori… Non succederà più, te lo prometto»

«Perché eri preoccupato?» gli chiese dopo una breve pausa durante la quale non aveva smesso di fissarlo.

«Beh, ecco…» borbottò leggermente imbarazzato.

Non aveva certo intenzione di dirgli tutto e così, messo alle strette non sapeva proprio cosa rispondere. Il Professore prima era stato sincero, gli aveva detto la verità e Ryo sembrava averla accettata senza troppi problemi ma lui era troppo codardo per potergli dire quanto fosse preoccupato per lui. In suo soccorso, però, sopraggiunse Frank che, senza saperlo, con il suo arrivo gli evitò quel discorso scomodo.

«Ehilà voi due, iniziate a mangiare senza aspettarmi, che modi!» esclamò sorridente e con la mano libera fece il solletico a Ryo, che rise sputacchiando pezzetti di carne in giro.

In quel momento l’amico gli lanciò uno sguardo significativo a cui rispose con altrettanta intensità; in quel breve scambio muto i due uomini si dissero che dal giorno dopo la musica sarebbe cambiata, che le parole del Professore avevano sortito l’effetto sperato e che il bambino non sarebbe stato bistrattato ulteriormente. Evidentemente soddisfatto l’americano si lasciò cadere accanto al bambino che, in quel momento si trovò tra i due uomini, e iniziò a mangiare tranquillo.

«Ah, devo ammettere che da quando c’è Ryo anche la cucina di Carlos è migliorata. Questo arrosto è quasi buono, almeno non sembra di masticare cuoio. Di questo passo tra qualche mese potremo mangiare finalmente qualcosa di decente» disse Frank sornione, con un tono sufficientemente alto per farsi udire dal diretto interessato che, nel sentire quelle parole, strinse gli occhi.

«Quand’è così Moon» urlò brandendo uno spiedo di legno «La prossima volta ti infilo uno di questi su per il culo e ti butto sul fuoco, così vediamo se vali qualcosa come cibo visto che come uomo sei il verme più schifoso che abbia mai visto in vita mia!»

«Sei proprio un adulatore, non ti smentisci mai!» esclamò fingendo un atteggiamento pudico che scatenò la generale ilarità «Attento, però, perché è più probabile che sia tu il prossimo porcello allo spiedo» aggiunse facendogli l’occhiolino.

«Ah non te le manda certo a dire!» commentò Paco ridendo mentre dava una gomitata al rubicondo cileno, che aveva strabuzzato gli occhi a quell’affermazione.

«Sei più infido di un coyote» gli sibilò contro.

«Insomma, proprio non riuscite a fare casini ogni sera voi due! Frank se impegnassi metà delle energie che usi per dire boiate negli incarichi, a quest’ora la guerra sarebbe finita» intimò Pablo evidentemente esasperato «Risparmiate le forze per domani, ne avrete bisogno»

Un silenzio carico di tensione si diffuse tra gli uomini che, fino a qualche istante prima, erano stati allegri e spensierati. L’attacco del giorno seguente impensieriva un po’ tutti in quanto non sarebbe stata una passeggiata e, per alcuni di loro, quella sarebbe stata l’ultima sera passata accanto al fuoco. Sebbene fossero uomini avvezzi alla guerra, provavano sempre un certo disagio ogni qual volta si avvicinava un probabile appuntamento con la morte; in fin dei conti era la natura umana, era meglio pensarsi vivi che morti, nonostante tutto.  

«Che succede?» pigolò Ryo con la bocca piena, colpito da quel cambio di atmosfera.

«Te lo spiegherò più tardi, ora pensa a mangiare» gli sussurrò Shin tranquillo.

A differenza dei suoi commilitoni lui si sentiva stranamente tranquillo – non che fosse mai stato particolarmente spaventato all’idea di morire – ma avvertiva la solida certezza che quella non sarebbe stata la sua ultima cena. Il pasto proseguì in relativo silenzio e, appena vide che bambino ebbe terminato di mangiare, si alzò in piedi.

«Andiamo Ryo, domani ci aspetta una lunga giornata» e, senza aspettarlo, si congedò dal gruppo con un cenno della mano.

Solo dopo pochi passi avvertì l’ormai familiare scalpiccio alle sue spalle, segno che il bambino lo stava seguendo lungo la breve salita che portava alla loro capanna. Anche Ryo si era mostrato più serio quella sera e non aveva urlato la sua consueta buonanotte, dando l’impressione di aver intuito che la sua allegria avrebbe stonato in quel frangente.
“È proprio un bravo bambino… Forse troppo” si ritrovò a pensare quando una vocina lo raggiunse.

«Ora me lo dici cosa è successo?»

L’uomo continuò a camminare silenzioso e, una volta entrati dentro la baracca e richiusa la porta, si avvicinò al lume ad olio e lo accese in modo da illuminare – se pur flebilmente – la piccola stanza quadrata che altrimenti sarebbe stata nell’oscurità quasi completa.

«Sai cos’è la morte Ryo?» domandò serio mentre si sedeva per terra, invitando il bambino a fare altrettanto.

Il piccolo sembrò leggermente confuso da quella domanda; si limitò ad abbassare gli occhi e con le dita seguì il bordo dei suoi calzoncini strappati in più punti.

«Sai cosa significa quando una persona è morta?» lo incalzò mantenendosi calmo.

«Ah» esclamò il bambino, rialzando la testa come se si fosse acceso «Sì, me l’ha detto il Prof… Ecco, una persona è morta quando ha delle ferite che non si possono cucire, giusto?»

«Sì, è più o meno così»

«E come si capisce se si è morti?»

«Beh, lo capisci perché ti addormenti e non ti svegli più» disse piano e un triste sorriso gli piegò le labbra.

«Ma non ci si annoia a dormire sempre?»

«No, proprio perché sei morto»

Ryo lo guardò accigliato e Shin intuì che il loro breve dialogo lo aveva lasciato perplesso; non era un discorso leggero, in particolar modo per un bambino della sua età, perciò decise di fornirgli un esempio. Si alzò e raccolse una formica dal muro, poi tornò vicino al bambino e, dopo essersi accovacciato, la appoggiò per terra.

«Vedi, questa formica adesso è viva, si muove e mangia proprio come me e te» spiegò e, appena lo vide fissare l’insetto incuriosito, proseguì «A un certo punto, però, ogni essere vivente si scontra con una forza superiore, ovvero la morte» e così dicendo schiacciò l’insetto col piede.

Ryo continuò ad osservare la scena concentrato, senza emettere un fiato.

«In questo mondo tutti, prima o poi, faremo la stessa fine di questa formica. Per lei la morte è sopraggiunta a causa mia, per gli uomini può essere una malattia, un incidente o una pistola… Il nostro incontro inevitabile con la morte avviene in tantissimi modi; prima o poi tutti moriremo, i nostri pensieri si perderanno nel nulla e tutto ciò che rimarrà non è che un corpo riverso sulla nuda terra» concluse amaro, dimenticandosi per un attimo con chi stesse parlando.

Ryo restò impassibile, gli occhietti grevi fissi sull’insetto spiaccicato a terra. Rimase così per qualche minuto perso in una profonda riflessione e Shin si domandò quali pensieri potessero frullare dentro quella testolina; forse era stato troppo eccessivo ma almeno era stato onesto con lui e voleva che quel concetto, per quanto poco adatto alla sua tenera età, gli diventasse familiare.

«Non si muove proprio più… Quindi morire fa male?» chiese serio.

«Un po’ sì»

«Allora anche mamma e papà hanno sofferto?»

A quelle parole sentì stringersi il cuore «Non preoccuparti per loro, il dolore passa subito… Ora non soffrono più»

«Sai» disse dopo un breve silenzio «Un po’ mi dispiace per la formica… Poverina» emise timido mentre si rannicchiava prendendosi le ginocchia con le braccia.

“Dovrai imparare a non compatire più nessuno piccolino” pensò tra sé l’uomo e, con la punta dell’anfibio, portò un po’ di terra sopra il minuscolo cadavere.

«Domani la maggior parte degli uomini sarà via per una battaglia abbastanza impegnativa. Qualcuno potrebbe anche morire nello scontro, ecco perché durante la cena si sono fatti a un tratto tristi e seri» riprese mantenendosi il più sereno possibile «Ci sveglieremo all’alba perché partirò subito. Resterai con il Professore tutta la giornata, mi raccomando non ti allontanare e fa’ tutto quello che ti dice»

Ryo annuì con energia, scuotendo il lungo ciuffo corvino che gli ricadeva sulla fronte.

«Bravo bambino» e nuovamente si trovò ad accarezzargli la testa spontaneamente, in un modo che voleva essere affettuoso.

«Non morirai domani, vero?» gli chiese improvvisamente serio.

Shin fissò per qualche istante le sue iridi scure e limpide prima di rispondere.

«No Ryo, non morirò»
 
«Shin! Shin corri la mamma sta male!» gli urlò Yoko, la sua sorellina, che era arrivata trafelata nel garage.
Si sentì mancare l’aria per un attimo: un altro malore, era già il secondo nel giro di una settimana, e ciò non gli fece presagire nulla di buono. In preda all’ansia lanciò via la bicicletta che stava sistemando e corse veloce per la stretta rampa di scale, fino a raggiungere la cucina dove trovò sua madre riversa per terra.
«Mamma! Mamma!» le urlò preoccupato.
Si buttò a terra e iniziò a scuoterla concitato, cercando allo stesso tempo di non essere troppo brusco, ma sua madre – pallida come una bambola di porcellana – non rispondeva ai suoi richiami e fissava il soffitto con occhi velati, annaspando dolorosamente.
«Mamma… Perché non parli? Le altre volte ti sei ripresa subito» mormorò con voce tremante e sentì le lacrime offuscargli la vista.
«Shin che cosa ha la mamma?» chiese preoccupata la bambina, avvicinandosi quasi intimorita.
«Niente Yoko, è il solito malessere. Anche questa volta si riprenderà subito, non preoccuparti» le rispose poco convinto.
In quel momento la madre girò lievemente il capo verso di lui e, dopo aver emesso tre respiri rochi, reclinò il capo leggermente all’indietro. Appena il bambino vide i suoi occhi farsi vitrei, e la sentì irrigidirsi tra le sue braccia, non riuscì a fermare le lacrime che iniziarono a scorrere copiose.
«Mamma non ci abbandonare…» riuscì a dire prima di scoppiare in un pianto disperato.
 
Shin riaprì gli occhi e si mise subito a sedere portandosi una mano alla fronte. Alla fine il triste ricordo che aveva cacciato via con forza durante la giornata si era presentato nelle sembianze di un sogno, o meglio, di un incubo. Sospirò e nel buio della stanza riuscì a distinguere la sagoma di Ryo che, dandogli le spalle, dormiva rannicchiato poco lontano da lui; era immobile come sempre e si augurò che almeno i suoi sogni fossero più sereni. Si alzò e silenziosamente scivolò fuori la capanna; aveva bisogno di aria, ogni volta che ricordava quell’episodio sentiva la gola stringersi in un nodo d’acciaio, non importava che fossero passati molti anni e che non fosse più quel bambino timido e debole.
Tutto era quiete nel campo avvolto dalle tenebre; fece qualche passo, attento a non emettere il minimo rumore per non rompere la perfezione di quel momento e si sedette sulla radice sporgente di un alto albero proprio accanto alla sua baracca. Era solito sedere lì quando non riusciva a dormire, quel posto lo aiutava a distendere i nervi, a recuperare un po’ di pace – parola che non riusciva più a pronunciare tanto strideva nel contesto in cui viveva. Si sporse in avanti appoggiando gli avambracci sulle ginocchia e fece un respiro profondo, lasciandosi invadere da quell’odore silvestre così diverso – e allo stesso tempo così simile – a quello dei sterminati querceti in cui amava rifugiarsi durante l’infanzia. Quella vita passata non gli era mai sembrata così distante: erano anni che non scorrazzava più con la bicicletta tra i viali verdeggianti, cinti da eleganti villette col prato ben curato; anni che non passeggiava tra le strade brulicanti di Manhattan. Si era emozionato quando, al termine della guerra – e con essa anche le ostilità verso i giapponesi8 – era tornato nella metropoli, beandosi del caleidoscopico turbinio di colori e di vitalità che esplodeva in ogni strada, non immaginando che poco più di sei anni dopo avrebbe vissuto solo tra i campi di battaglia. Il ragazzino entusiasta era morto da tempo e sapeva che, se fosse riuscito a tornare vivo negli Stati Uniti, non avrebbe più tollerato tutto il caos che lo aveva attratto in passato; sarebbe stato infastidito dal modo frivolo in cui vivevano gli abitanti di quella parte fortunata del globo, incuranti delle tragedie che si svolgevano sotto i loro occhi. No, se mai fosse tornato, avrebbe raggiunto solo sua sorella e sperò in cuor suo che almeno lei ogni tanto si ricordasse del suo fratellone, la “vergona della famiglia Kaibara” per citare suo nonno.
Quando sua madre era morta d’infarto, in quel caldo pomeriggio di giugno del ’42, lui aveva pianto ininterrottamente fino al giorno seguente, fin quando non si era addormentato distrutto da un mal di testa lancinante; con lei aveva perso il suo unico rifugio, l’unica persona che gli era affine e che non lo aveva mai biasimato per la sua sensibilità e curiosità, incoraggiandole in ogni modo. Non a caso era stata additata a lungo come l’anello debole della famiglia, un “pessimo acquisto” – sempre per citare l’amorevole nonno che non aveva mai perso l’occasione per sottolineare quanto fosse troppo malaticcia e capace di fare solo due figli, di cui un maschio rammollito. Il sorriso di sua madre lo aveva sempre sostenuto e confortato dopo le sfuriate paterne durante le quali gli venivano rimproverati la sua debolezza, la sua insensata riservatezza e il suo ridicolo sogno di diventare uno scienziato. L’antica tradizione familiare andava rispettata e il suo futuro sarebbe stato nelle forze armate, che a lui piacesse o meno non importava Se il suo cuore di bambino aveva sempre intimamente sperato di riuscire a scampare a quel destino già segnato, quando si era ritrovato tra le mani il viso dolce e mortalmente pallido della sua amata madre aveva compreso che non avrebbe avuto scampo; con suo padre al fronte la loro custodia sarebbe passata al temibile nonno, l’ufficiale integerrimo e tutto di un pezzo che aveva cresciuto i suoi figli come se fossero stati in accademia. Aveva dovuto cambiare, aveva dovuto sopportare, aveva dovuto accettare decisioni che non condivideva pur di non sentire più parole di biasimo nei confronti di sua madre, ritenuta colpevole di quel fallimento di nome Shin’ichi. Per quanto con gli anni si fosse impegnato negli studi, vincendo premi e borse di studio, dopo l’ennesimo litigio, per punizione fu costretto a entrare nei Marines invece che all’accademia; quell’anno durissimo gli era sembrato interminabile, ma si era impegnato anima e corpo, deciso a mostrare il suo valore. I suoi sforzi furono ampiamente ripagati, il sergente istruttore fu impressionato dal suo rigore e dalle sue abilità, tanto da fargli guadagnare una medaglia e una lettera di benmerito; era stata una fatica inutile. Non avrebbe mai dimenticato i volti scettici di suo padre e suo nonno mentre leggevano quelle righe, come se quelle parole fossero state uno scherzo di cattivo gusto: la sua debolezza non sarebbe mai stata dimenticata, ormai era diventato il capro espiatorio di ogni insuccesso familiare e così sarebbe stato fino alla fine. Quel giorno stesso era andato via di casa in piena notte, non salutando nessuno, e nel giro di una settimana era già in viaggio verso la Corea, deciso a troncare per sempre i rapporti con la sua famiglia.
Si schienò contro il ruvido tronco e sospirò nuovamente. In sere come quella sentiva l’animo farsi pesante, schiacciato dalle tante scelte che aveva subìto – e poi compiuto – nel corso degli anni. Pensò al bambino che era stato, ai suoi sogni, e si chiese cosa avrebbe pensato se lo avesse visto in quel momento, un guerrigliero con le mani perennemente sporche sangue; in realtà lo immaginava fin troppo bene e, per non soffermarsi troppo su quell’idea scomoda, gli tornò in mente il piccolo ospite che da nove giorni condivideva la sua capanna. Era stato molto duro con Ryo, se ne rendeva conto in quel momento, ma in fin dei conti non aveva nessuna esperienza in fatto di bambini e a ventitré anni a stento ricordava cosa volesse dire avere una carezza. Avrebbe rimediato ai suoi errori nei giorni a venire, si sarebbe mostrato sì duro, ma anche comprensivo, non mancando di incoraggiarlo e spronarlo a far sempre meglio; non si sarebbe mostrato come suo padre o suo nonno. No, sarebbe diventato una figura autorevole per il bambino, un punto di riferimento per aiutarlo a far fronte alle mille insidie che quel luogo nascondeva e che, molto presto, anche Ryo avrebbe imparato a conoscere.
Riemerse dai suoi pensieri rincuorato dalla sua risoluzione e, appena intravide tra le fronde degli alberi la timida luce lattiginosa che preannunciava l’arrivo dell’aurora, decise di rientrare. Come un’ombra entrò dentro la capanna e, prima di ristendersi, si accovacciò accanto al bambino che sembrava non essersi mosso di un millimetro da quando si era addormentato. Per controllare se stesse ancora respirando, avvicinò una mano all’altezza del viso e subito leggerissimi soffi solleticarono le sue dita, confutando il suo stupido dubbio. Sfiorando la stuoia, però, avvertì una sensazione di umido; decise quindi di tastarla meglio e si accorse che era bagnata. Osservò attentamente il volto del bambino più da vicino e riuscì a distinguere abbastanza nitidamente la lucida scia che le lacrime avevano lasciato sulla guancia prima di riversarsi sul pagliericcio. Si allontanò di scatto, come se avesse preso la corrente e, leggermente turbato, si ridistese supino portando un braccio dietro la testa a mo’ di cuscino. Gli passarono davanti come fotogrammi le immagini di quel visetto che ogni giorno aveva visto sorridente, serio, corrucciato, anche triste ma mai lo aveva visto piangere. I primi giorni ne era rimasto sorpreso ma poi aveva collegato quella mancanza di lacrime al fatto che Ryo non avesse ancora realizzato la situazione in cui si trovava… Certo che si era sbagliato, aveva fin troppo sottovalutato la sua intelligenza. Forse quella non era neanche l’unica notte in cui inzuppava il pagliericcio di lacrime ma lui, troppo preso da altro, non se n’era mai accorto e la consapevolezza che, al sorriso del giorno faceva da contraltare il pianto nel buio della capanna, gli fece male come un pugno nello stomaco.
“Credo proprio che tu sia più forte di me Ryo… Pensavo di aver capito tutto e invece non ho capito proprio niente” si disse tristemente prima di chiudere gli occhi senza, però, riuscire a riposare.
 
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L’alba del trentesimo giorno arrivò in una serena giornata di maggio e Shin si augurò che fosse di buon auspicio. Si sentiva assolutamente tranquillo, certo che il dialogo che stava per affrontare sarebbe stato una pura formalità; aveva seguito i consigli del Professore e, odiava ammetterlo, i risultati ottenuti confermavano che quell’uomo non sbagliava mai. Ryo aveva continuato i suoi allenamenti, ma in modo più moderato, e aveva già sviluppato una notevole resistenza fisica, migliorato la sua flessibilità e con la fionda aveva dato prova di avere una buona mira. Naturalmente tutto ciò non sarebbe stato possibile se il bambino non fosse stato predisposto all’attività fisica e, il fatto che caratterialmente non fosse timido, gli aveva permesso di interagire col passare dei giorni – seppur in modo minimo – con la maggior parte degli uomini. Frank si era rivelato come sempre un ottimo amico e un supporto prezioso; aveva instaurato un bel rapporto con Ryo e con le sue battute riusciva a strappargli un sorriso ogni giorno, dandogli qualche attimo di allegria che lui, terribilmente serio, non sarebbe mai stato in grado di dargli. Anche il Professore, seppur mantenendosi più defilato, aveva giocato un ruolo fondamentale attraverso i suoi preziosi consigli e si era sempre mostrato disponibile a passere del tempo con il bambino, di cui iniziava ad apprezzare sempre più la compagnia.
Ripensando a tutto il lavoro svolto, Shin bevette il suo caffè di buon umore, umore che non accennò a sparire quando vide il capo dei guerriglieri passarsi il dorso della mano sulle labbra mentre lo fissava, pronto a parlare.

«Bene il mese è terminato» esordì Pablo schiarendosi la voce «Direi che è arrivato il momento di decidere»

«Credo che non sia neanche più necessario» gli rispose avvicinandosi a lui «In questi trenta giorni non si è registrato nessun problema» e scandendo bene le parole aggiunse «Nessuna zavorra ha rallentato il gruppo e penso nessuno possa dire il contrario»

Indistinte affermazioni di assenso si sollevarono tra gli uomini, confermando ciò che era stato detto.

«Se non sei ancora convinto dai fatti Pablo chiedi pure agli altri e, stanne certo, ripeteranno le mie parole, anzi. Ryo non solo non si è mostrato elemento di disturbo ma in alcuni casi si è anche dimostrato di aiuto. Non è vero Carlos?»

Il guerrigliero chiamato in causa si passò una mano sotto il mento, guardando ora Shin ora il bambino che, accanto a Frank, osservava la scena incuriosito.

«Ah beh, il chiquito sta insieme a due figli di coyote della peggior specie, ma devo dire che è stato l’unico – e ribadisco l’unico – ad aiutarmi ogni sera, che possiate essere fulminati tutti quanti! Perciò sì, per me può restare» concluse facendo un leggero occhiolino in direzione di Ryo, che gli rispose con un sorrisone.

«Grazie Carlos, e potrei aggiungere che Ryo si è mostrato molto disponibile anche con Paco e il Professore; è volenteroso, rispettoso e ha molta voglia di imparare. Sono certo che in poco tempo saprà essere davvero un elemento importante per il nostro commando» proseguì Shin guardando il capo gruppo dritto negli occhi.

«Sì, potrà essere d’aiuto ma è pur sempre un bambino» replicò Pablo, distogliendo lo sguardo in evidente difficoltà.

«Non puoi appigliarti solo a questo, sai anche tu che è un’argomentazione debole» lo incalzò Shin «Anzi, ritengo che proprio il fatto che sia così piccolo possa essere un punto a suo favore; imparerà più in fretta e saprà combattere meglio di tutti noi. Adesso sa già mimetizzarsi perfettamente nel sottobosco e sugli alberi, e con la fionda ha fatto progressi notevoli; di questo passo a breve potrà passare al pugnale, e così via»

«Io ritengo che dopo questo mese sia impossibile lasciare Ryo in qualche villaggio» si inserì il Professore «Anche perché, per quanto piccolo, sa troppo bene chi siamo e come svolgiamo le nostre attività… Potrebbe riferire dettagli preziosi che è meglio non andassero nelle mani sbagliate, non so se mi spiego» aggiunse con uno sguardo eloquente.

L’uomo, sentendosi palesemente sconfitto, guardò con una punta di rabbia prima il piccolo e poi il guerrigliero che lo fronteggiava ed emise un rantolo frustrato.

«Argh e va bene! Che resti pure, ma continuerò a tenerlo d’occhio. Non avrà nessun trattamento privilegiato e il prima possibile si unirà alle nostre azioni. E ora tutti al lavoro, dobbiamo scendere al villaggio prima di mezzogiorno! Professore lei venga con me» e così dicendo si allontanò sbuffando, dirigendosi verso il laboratorio seguito dal medico.

«Ah sapevo che l’avremmo spuntata contro quell’impiastro!» esclamò Frank mentre sollevava Ryo, facendolo dondolare pericolosamente a testa in giù.

«Ahh Frank mettimi giù!» gli urlò il bambino divertito «Ora movito!»

«Ehi ragazzo niente scherzi, non voglio andare puzzando fino alla prossima pioggia! E si dice vomito» gli disse sorridente e con una leggera rotazione lo rimise a terra.

Shin li guardò mentre si avvicinava; era riuscito nell’intento che si era prefissato, Ryo sarebbe rimasto con loro ma, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a far festa. Non era certo una passeggiata far parte di un commando di guerriglieri e il bambino doveva averlo capito, visto che trovava la stuoia bagnata ogni mattina. Nonostante tutto, però, aveva ancora la forza di sorridere per piccole cose, di gioire spensierato come se si trovasse in un enorme parco giochi. Ammirava profondamente la forza d’animo di quell’ometto; lui non sarebbe mai stato capace di comportarsi così né da piccolo né da adulto. Si concesse qualche attimo per imprimere nella memoria quel sorriso e quegli occhi luminosi, avvertendo che non li avrebbe visti ancora per molto e, dopo aver scompigliato affettuosamente i capelli del piccolo guerrigliero, andò verso la sua capanna per prepararsi per la giornata.
 
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1 Bentornati alla rubrica “Cris che sclera con i kanji” (Perdonatemi ma non posso farne a meno!) Nell’opera originale Shin è scritto  神  e ciò mi ha incuriosita non poco, in quanto tale ideogramma ha il significato di “dio, divinità” con la pronuncia “kami”, ma anche spirito, psiche con la pronuncia “shin” (es. Shinto  神道). Insomma, l’ho trovato un nome abbastanza impegnativo, per cui sono andata a fare un po’ di ricerche e, spulciando diverse fonti, è emerso che tra i molti ideogrammi utilizzati per scrivere il nome Shin non risulta  神  (esiste invece come cognome). Solo in due varianti ho trovato il kanji incriminato, Shin’ichi e Shinnosuke, perciò ho pensato che Shin sia il diminutivo di uno dei due nomi (per gusto personale ho preferito il primo). Il significato di Shin’ichi “神一”  è il medesimo Shin – “ichi” sta per uno – perciò anche Shin’ichi Kaibara resta un nome “mitologico”, da divinità marina alla stregua di Umibōzu (Kaibara significa “mare aperto/selvaggio ed entrambi i nomi condividono il kanji  海  che sta per “mare/oceano”). Concludo il mio sproloquio dicendo che mi ha colpito molto come il suono “shin” ricorra più volte nella storia: lo troviamo in Shinjuku, in Shin Kaibara e, in modo più indiretto, in Makimura poiché l’ideogramma 槇 “maki” con la lettura On è reso “shin”. Sicuramente sarà una pura coincidenza ma mi ha affascinato tutto ciò.
 
2 La Colt Python iniziò a essere prodotta nel 1955 (quindi era nuovissima nel tempo in cui è ambientata questa parte) e subito riscosse ampi consensi, tanto da essere definita tra i più bei revolver mai realizzati, aggiudicandosi il titolo di “Rolls-Royce dei revolver Colt”.
 
3 «Come ti chiami?» / «Dove sono i tuoi genitori?» / «Aereo»
 
4 «Io ho fame»
 
5 Il K’iche’ è una delle miriadi di lingue maya parlate in Guatemala (prevalentemente nella regione Quiché) e tra le più diffuse in Mesoamerica. Per avere un’idea della sua prosodia, un ottimo esempio è il film Apocalypto che è girato in lingua yucateca (questa appartiene allo stesso ceppo linguistico del K’iche’ e perciò sono molto affini).
 
6 La guerra di Corea durò dal 1950 al 1953 e a seguito di questa si stabilì l’attuale confine tra le due nazioni che si attesta attorno al 38° parallelo (area che a sua volta si mostrò scenario di buona parte degli scontri). Ebbe un costo non indifferente dal punto di vista umano con quasi tre milioni di morti tra civili e militari; non ebbe, però, una grande risonanza mediatica per questo è stata definita “The Forgotten War”.
 
7 In Brasile risiede la più grande comunità di immigrati giapponesi al mondo, con circa due milioni di nippo-brasiliani concentrati prevalentemente nella zona di San Paolo. Il flusso migratorio iniziò verso il 1907 quando la richiesta di manodopera nella piantagioni di caffè, e la mancanza di lavoro nel Giappone dell’età Meiji, portò a un accordo tra i due Paesi. Non mi dispiace pensare che Ryo possa appartenere a una famiglia di “nisei” (alias immigrati di seconda generazione).
 
8 A seguito dell’attacco di Pearl Harbor il governo statunitense decise di trasferire e internare in appositi campi i giapponesi (anche di seconda generazione) che vivevano principalmente lungo la costa occidentale del Paese, in quanto considerati potenziali nemici per la sicurezza nazionale. I campi, nelle fattezze simile a quelli di concentramento, erano disposti negli Stati centrali, in zone prevalentemente desertiche e vide centinaia di donne, anziani e bambini vivere in condizioni non facili. Solo nel 1946 gli oltre 120.000 internati poterono tornare liberi.

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Capitolo 8
*** Capitolo VI ***


 
6. 12 Novembre 1983 – Ryo
 
Era da poco passata l’una quando Ryo si decise ad aprire gli occhi, in realtà sarebbe rimasto ancora a letto ma il suo stomaco aveva deciso che era stato ignorato fin troppo. Riemerse dal lenzuolo, che lo aveva avvolto in un bozzolo disordinato, e senza contenere un sonoro sbadiglio si mise a sedere pigramente mentre si passava una mano sugli occhi. La giornata nuvolosa faceva filtrare attraverso le veneziane dei fasci di luce fiochi e plumbei che dipinsero la camera di una luce malinconica; dopo aver terminato l’opera di stiracchiamento Ryo mise a fuoco l’ambiente circostante e la visione lo impressionò negativamente. Sembrava fosse esplosa una bomba: un cumulo di vestiti e asciugamani sporchi erano ammucchiati per terra, vicino all’armadio semiaperto; le sue amate riviste giacevano sparpagliate sul divano e per tutto il pavimento assieme ai giornali che aveva letto e che doveva ancora catalogale negli appositi raccoglitori e, come se non bastasse, dei simpatici batuffoli di polvere, come tanti coniglietti, avevano colonizzato gli angoli della camera. Cacciò un rassegnato sospiro e, dopo aver preso la sua Python da sotto il cuscino, si diresse con passo strascicato verso le scale per raggiungere il bagno.
“Dovrei dare una piccola sistemata alla stanza… Mi faccio schifo da solo” pensò mentre in velocità si faceva la barba a secco per poi buttarsi sotto un getto di acqua fredda che lo avrebbe aiutato a svegliarsi.
In fin dei conti, se la sua camera si trovava in quella situazione precaria era solo perché nelle ultime settimane si era lasciato andare a uno stato apatico che ricorreva abbastanza frequentemente da quando si trovava in quella casa così grande. Sebbene ci abitasse da otto mesi, non si era ancora perfettamente abituato ad avere tutte quelle stanze a sua disposizione e, se all’inizio ne era stato entusiasta – non aveva mai vissuto in un appartamento così grande –, con il passare delle settimane gli era sembrato che quel lungo corridoio, quella libreria enorme, quel soggiorno solitario, amplificassero una sua inquietudine latente. Lui, lupo solitario che si muoveva tra le tenebre della società, non avrebbe mai pensato di trovare la sua vita vuota come quella casa e tale analogia lo aveva turbato sin dalla prima volta che gli era affiorata nella mente. Non era tipo che si lasciava andare a stupidi sentimentalismi, anzi li trovava nocivi e deleteri per la propria sopravvivenza, ragion per cui cercava di passare il minor tempo possibile in casa, riuscendo così a tener a bada quelle sensazioni così sgradevoli. Se non ci fosse stata Fujiko – la drag queen che occupava due stanze al terzo piano – che una volta a settimana passava per sistemare alla meno peggio l’appartamento, tutti gli ambienti sarebbero stati nelle stesse condizioni precarie della sua camera; quella, infatti, era assolutamente off limits, era il suo antro personale e preferiva fosse una discarica piuttosto che permettere a qualcuno di metterci le mani. In fondo lì teneva conservati i pochi ricordi di una vita assurdamente fuori dagli schemi che non voleva condividere con nessuno.
Riemerse dalla doccia per constatare contrariato di non avere più un asciugamano pulito da usare; imprecò mentalmente e, dopo aver rimosso l’acqua in eccesso con ampi movimenti delle braccia, si mosse veloce lungo le scale lasciando una scia d’acqua dietro di sé. Si era lasciato fin troppo andare e capì che la priorità della giornata sarebbe stata fare una lavatrice, idea che si rafforzò quando faticò a trovare un jeans pulito che indossò velocemente insieme a una maglia nera a maniche lunghe. Ormai perfettamente sveglio posò un ginocchio sul letto e si affacciò cautamente alla finestra; attraverso le veneziane vide una cupa nebbia avvolgere la città e dopo aver registrato l’assenza di Nobu, il suo informatore di Kabukichō, alla solita cabina telefonica, si preparò ad affrontare quella giornata che con le sue tinte plumbee e malinconiche ben si intonava al suo umore, almeno fino a quando non avrebbe fatto colazione. Arcuò lievemente un angolo della bocca: se le sue care signorine dei vari nightclub lo avessero visto in quel momento avrebbero stentato a credere che l’uomo burlone, maniaco e ciarliero della notte era in realtà di pessimo umore appena sveglio e, in generale, serio e riflessivo. Ah se lo era, lo era fin troppo! La sua mente era un continuo turbinio di pensieri, mai sazia di quei monologhi a cui lui cercava di svignarsela sempre il prima possibile. Non amava particolarmente quel suo lato riflessivo che lo costringeva a ragionamenti quasi mai piacevoli e reagiva nel modo che conosceva: non si faceva vincere dall’ozio. Il lavoro, i duri allenamenti, le lunghe sessioni al poligono, anche fare il maniaco in giro e sprofondare in letture culturali; tutto ciò non era che una strategia per rimandare il confronto con quei pensieri a un domani ipotetico che, ne era certo, non sarebbe mai arrivato.
Con un leggero sbuffo si riscosse e scese in cucina, ormai terribilmente affamato, e una volta aperto il frigo si trattenne dal cucinare tutto il contenuto, riservandosi di lasciare qualcosina per un’altra colazione.
“Allora, come prima cosa sicuramente devo fare una lavatrice, in che condizioni mi sono ridotto, poi con questo tempo i panni ci metteranno una vita ad asciugarsi…” si disse mentre spadellava tre salsicce con altrettante uova e bacon “Poi assolutamente devo catalogare i giornali delle ultime settimane, sono indietro con il lavoro e l’ordine con quelli è fondamentale… Se mi vedesse il Professore quante me ne direbbe!” e con un sorriso divertito si allungò per prendere da un armadietto una lunga baguette che iniziò a tagliare e a farcire con abbondante marmellata “Per non parlare della polvere, quella sì che è una bella scocciatura… Pazienza, troverò un modo indolore per sistemare anche questa rogna”.
Soddisfatto per il suo programma mentale prese dal frigo una confezione di gyoza che riscaldò velocemente mentre iniziava a mettere sulla tavola ciò che aveva già preparato; il suo era in realtà un pranzo piuttosto che una colazione, ma era una finezza linguistica del tutto trascurabile e che non lo interessava minimamente. La sua si sarebbe potuta definire una vita sregolata ed effettivamente era proprio così, fin da quando aveva memoria non c’era niente di regolare nella sua esistenza. Con quei pensieri si sedette alla panca e iniziò a mangiare voracemente il suo pasto. Avrebbe voluto continuare a vivere così fino alla fine dei suoi giorni? Fino a qualche tempo prima non si sarebbe neanche posto una domanda del genere, eppure per quanto non lo ammettesse apertamente a se stesso, avvertiva che qualcosa era cambiato in lui nell’ultimo anno e mezzo; un piccolo cambiamento, certo, ma abbastanza incisivo da renderlo diverso dal giovane uomo che era stato nei primi tempi in Giappone. Alla sua solitudine di ghiaccio si era avvicinata una piccola fiammella inaspettata che, goccia a goccia, stava scavando il muro artico che lo rivestiva; si era sorpreso nel constatare che ciò non lo dispiaceva per nulla, tanto che la sua parte più irrazionale – che però veniva prontamente messa in riga – desiderava essere investita da un incendio in piena regola, per scoprire se avrebbe trovato quel calore a cui anelava da sempre. Fantasticheria stupida e pericolosa ribatteva il suo io razionale; se avesse permesso ciò si sarebbe semplicemente ustionato gravemente.
Nel mondo della malavita, dove due occhi non era mai sufficienti per guardarsi le spalle, l’aver trovato un uomo, un compagno di lavoro, degno della massima fiducia gli era sembrato un regalo troppo grande per meritarselo. Ricordava ancora la ritrosia che aveva provato nei primi mesi in cui aveva iniziato a collaborare con l’ex poliziotto, e di come ogni giorno lo sorprendesse in positivo con le sue parole e le sue capacità, riuscendo a piegare la sua naturale diffidenza frutto delle delusioni passate. A poco a poco aveva iniziato ad aprirsi sempre di più nei confronti di Makimura e la paura di essere tradito, di sentirsi annientato e solo al mondo alla fine non si era dimostrata un argomento sufficientemente forte contro quei modi pacati e quegli occhi sinceri. Grazie a lui stava riscoprendo la bellezza del lavorare in squadra, la piacevolezza di condividere parte della propria giornata in buona compagnia e di poter contare davvero su qualcuno che non fosse solo se stesso. Nonostante tutto, però, la sua cara vocina interiore non lo lasciava mai davvero tranquillo, intimandogli di non accogliere ancora completamente quella mano che gli veniva porta così affabilmente; non doveva affezionarsi troppo al buon Maki poiché il suo cuore lacerato aveva paura di soffrire ancora una volta. Aveva già perso Frank e Kenny ma intuiva che il dolore provato in quei frangenti sarebbe stato nulla in confronto a quello che avrebbe avvertito se anche il suo attuale partner gli fosse stato portato via: Makimura era un uomo raro, non era facile incontrarne uno così sulla propria strada ma se si aveva quella fortuna era impossibile non esserne toccati. Aveva odiato Tōkyō, Shinjuku, la sua stessa esistenza fino a quando aveva iniziato a condividere la sua solitudine con lui e il pensiero di poter tornare indietro a quegli anni lo pietrificava… Quel poco di cuore che gli era rimasto non avrebbe retto a un altro colpo del genere e, per quanto gli facesse male, non poteva non pensarci; nel suo ambiente la morte era una compagna di lavoro costante, lo aveva imparato fin da piccolo. Quanti pensieri, quante paure serbava dentro di sé come zavorre che appesantivano il suo animo e anche se cercava di soffermarcisi il meno possibile, di negarle addirittura, loro erano sempre lì; non poteva farci niente, era doppiamente codardo perché si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che ammettere le sue debolezze. Per sua fortuna, quando si trovava in quei momenti fastidiosamente riflessivi, la sua parte irriverente e goliardica lo aiutava a svincolare sempre, prendersi troppo sul serio non lo avrebbe aiutato ad andare avanti. Nel suo mondo, dove non c’era posto per i “per sempre” e i “mai” era fondamentale concentrarsi sull’attimo, ignorando qualsiasi progetto futuro; un meccanismo di autoprotezione il suo, che lo aiutava ad apprezzare meglio ciò che aveva in quel momento, tenendo sempre a mente, però, che tutto poteva cambiare in un istante.
Aveva quasi concluso il suo pasto quando un impercettibile fruscio, captato dal suo udito sensibilissimo, gli segnalò che l’ospite atteso avrebbe fatto il suo ingresso in cucina entro pochi minuti. Decise di accoglierlo al meglio e così si stravaccò sulla panca mentre continuava ad azzannare il panino con la marmellata; non c’era gusto a essere sciatti se non c’era nessuno che poteva richiamarlo.

«Ryo sei in cucina?» sentì domandare da un voce fuori il corridoio.

«E dove potrei essere? Che domande» bofonchiò a bocca piena.

Qualche istante dopo la porta si aprì lasciando entrare il giovane uomo con il suo fidato soprabito leggermente bagnato sulle spalle e il solito giornale della mattina in mano.

«Ah, oggi è una giornata terribile» emise mentre avanzava verso il tavolo «C’è una nebbia terribile, sembra stia piovendo farina e…» si bloccò alla vista del partner semidisteso sulla panca, il piede destro sulla tavola imbandita, che sbranava un’intera baguette.

«A volte mi chiedo se tu non sia cresciuto nella giungla insieme alle scimmie… Non ho mai visto un uomo mangiare in questo modo» disse rassegnato, lanciandogli il giornale in pieno viso.

I fogli nascosero il mezzo sorriso che Ryo non riuscì a trattenere all’affermazione dell’amico che, senza volerlo, si era avvicinato fin troppo alla verità. Si ricompose e, mentre spiegava il Maiasa Shinbun1 sul tavolo, emise uno sbuffo sonoro.

«Sempre a rompere Maki, come mi rovini le giornate tu non ci riesce nessuno» e iniziando a sfogliare il quotidiano aggiunse «Se vuoi mangiare qualcosa ti conviene preparartela, ho praticamente finito tutto quello che ho cucinato»

«No, sono a posto così» rispose lasciandosi cadere sulla panca di fronte.

«Meglio così, potrò evitare di fare la spesa domani»

«Sicuro che ti sia rimasto qualche yen?»

«Certo uomo di poca fede! Grazie balia Maki ma non c’è bisogno che ti preoccupi, so badare benissimo a me stesso» esclamò piccato.

In realtà era praticamente al verde, l’ultimo incarico risaliva a due settimane prima e nel giro di una manciata di giorni si era bruciato tutto ma non gli importava molto. Riusciva a scroccare sempre un pasto nei vari locali di Shinjuku durante i suoi giri notturni, a City Hunter nessuno negava un po’ di cibo in cambio della sua protezione, e aveva liste di credito lunghissime praticamente con ogni commerciante della zona. Non poteva biasimare Makimura per i suoi tentativi di civilizzarlo, sapeva che se faceva quelle osservazioni era solo per il suo bene, ma non era certo molto bravo a organizzarsi le giornate e la vita in generale. Si lasciava trasportare dagli eventi, accettando qualsiasi cosa il destino avesse deciso di mettere sul suo cammino: non aveva senso progettare un domani sapendo che non ci sarebbe stato. Era una vecchia abitudine dura a morire la sua.

«Va bene, come non detto signor so-tutto-io» disse Hideyuki e, pulendosi gli occhiali a goccia con un fazzoletto, proseguì «Che lenti sporche non me n’ero accorto… Comunque sembrerebbe che la situazione stia tornando alla normalità; sono stati rimossi i posti di blocco sulle vie principali e si vede molta meno polizia in giro»

«Beh, Nakasone si è proprio impegnato per impressionare il suo special guest; guarda che roba» e indicando con enfasi il giornale continuò «Ben due pagine di esaltazione autoreferenziale in cui si sottolinea come Reagan2 sia rapito dal Giappone, dalla sua cultura e altre cazzate che fanno tanto piacere al cittadino medio»

«Devi capirli i giornalisti… Dopo la condanna di Tanaka3 questa visita di stato è stata un buon modo per risollevare l’opinione pubblica dal clima di generale mortificazione dell’ultimo periodo. La corruzione è talmente diffusa nel Paese da sembrare la normalità, ma solo quando viene spiattellata per mezzo mondo diventa una tragedia sociale»

«Tipico tratto dell’ipocrisia giapponese» sbottò richiudendo il quotidiano.

«Non posso darti torto Ryo» commentò amaramente «Siamo in pochi a non possederla»

Lo sweeper si alzò in uno scatto e mise sul fuoco il pentolino con l’acqua.

«Una tazza di caffè?» chiese guardando il socio uscire fuori dalla tasca interna del soprabito il suo inseparabile taccuino.

«Sì grazie, oggi si lavora»

«Bene iniziavo ad annoiarmi» e mentre si stiracchiava con energia chiese «Che incarico è stavolta?»

«Dipende da te»

«Che storia è questa?» domandò sorpreso.

«Il cliente mi ha detto che la scelta la riservava a City Hunter se uccidere o meno» emise asciutto, guardandolo senza particolare turbamento.

«Ma è -»

«No Ryo, ti dico già che è un uomo»

«Maki vergognati è già la seconda volta che mi rifili un uomo! Continua con questo andazzo e andrò io personalmente a controllare la lavagna!» esclamò ferito, guardando in cagnesco il partner che non si scompose.

«Stai pur certo che se contattassi tu le clienti le faresti scappare tutte»

«Ma che assurdità stai dicendo? Piuttosto è il tuo brutto muso a far spaventare le belle ragazze! Ah, povero me, mi fai sgobbare senza neanche una gioia in cambio»

«Sempre a lamentarti… Mi meraviglio come il mio cervello non sia esploso nel sentire i tuoi continui sproloqui» sospirò sconsolato Hideyuki, appoggiando il mento sulla mano.

Ryo, dopo aver contato mentalmente dieci secondi, spense il gas e versò l’acqua bollente nel recipiente in cui aveva sistemato il filtro conico con dentro il caffè in polvere. Gli piacevano quei piccoli momenti di quotidianità condivisa con il suo socio, le loro erano più chiacchierate tra amici che di lavoro e lo sweeper avvertì che, le nubi che lo avevano accompagnato al risveglio, si erano totalmente diradate.

«Allora, dimmi tutto» disse tornado a tavola con le due tazze fumanti.

«Grazie» e leggendo dalla sua agendina Maki aggiunse «Come ti ho già detto il cliente è un uomo, un certo Tong Min-Jun, cinquantacinque anni e lavora come cuoco presso un ristorante coreano»

«Per caso è uno di quelli che in questi mesi sono spuntati come funghi a Ōkubo4

«Esattamente»

«Mmmh non penso proprio che potrà permettersi i nostri servigi, lì non stanno che miserabili» commentò scettico per poi dare un lungo sorso al suo caffè.

Vide il partner restare in silenzio per qualche istante, apparentemente troppo concentrato sulla sua bevanda; Makimura non si era mai sbagliato nello scegliere i casi e quella non poteva essere certo la prima volta, perciò decise di ascoltarlo.

«Avanti Maki, so già che hai accettato questo caso prima ancora di parlarmene quindi sicuramente è roba seria»

«Molto» disse il giovane uomo sistemandosi gli occhiali con l’indice «Stiamo parlando di un caso di omicidio. Di una ragazza» e vedendo lo sguardo dello sweeper farsi più interessato proseguì «Mi ha detto al telefono di aver trovato il cadavere della figlia ieri mattina abbandonato tra i rifiuti vicino al suo locale. La ragazza era uscita nel pomeriggio per andare a lavoro e non si aspettava di vederla tornare a casa così… Mi è sembrato molto scosso e mi ha assicurato che ci fornirà ulteriori dettagli di persona»

«Naturalmente la notizia non è arrivata alle orecchie dalla polizia»

«Assolutamente, la grande maggioranza dei coreani lì è irregolare e, non avendo visto e permesso di soggiorno, è nel loro interesse mantenere un profilo basso, specialmente se si tratta di cronaca nera. Il fatto che lo stesso Tong abbia ritrovato il cadavere ha impedito che la notizia circolasse all’interno dello stesso distretto»

“Altri invisibili come il sottoscritto” pensò Ryo amaramente; storie come quella lo colpivano particolarmente, in un certo senso si sentiva vicino ai deboli sconfitti dalla vita e non a caso il motivo principale che lo spingeva a essere uno sweeper era quello di poter aiutare gli ultimi e poter essere l'unica speranza per chi era affamato di una giustizia che la legge non poteva garantire. In quella città serviva disperatamente qualcuno che si mettesse al servizio degli altri e lui, uomo senza famiglia e senza prospettiva di una vita sua, si sporcava volentieri le mani per chiunque avesse bisogno di lui. Seppur con motivazioni diverse anche il suo caro partner era sulla sua stessa lunghezza d’onda; lui un’esistenza importante per qualcuno ce l’aveva, però, e se solo avesse voluto, avrebbe potuto vivere come un comune cittadino eppure lavorava al suo fianco. Quell’ex poliziotto era l’uomo più pazzo che avesse mai conosciuto. Si schiarì la gola prima di parlare.

«Ok, quando è l’appuntamento?»

«Stasera alle otto. Entreremo nel locale fingendoci normali avventori e aspetteremo la chiusura, quando lui stesso ci raggiungerà»

«Bene, spero si mangi decentemente, non mi piace lavorare a stomaco vuoto» disse in un sospiro per poi cambiare registro «Bene Maki, i piatti ti attendono»

«Come?!»

«Su non fare l’ospite sgarbato: hai disturbato la mia colazione, ti ho offerto un ottimo caffè e il minimo che tu possa fare è lavare i piatti»

«Non cominciare con la solita storia, ti è andata bene già un paio di volte ma non credere di cavartela sempre con questa scusa» disse mentre si alzava pigramente.

«Sei proprio insensibile Maki, così ricambi la mia ospitalità?» mugolò afflitto «E pensare che ho tante di quelle cose da fare…»

«Ovvero grattarti la pancia mentre stai spoltronato sul divano?»

«Non dire fesserie! Sono una persona impegnata, io»

L’ex poliziotto lo guardò per qualche istante in silenzio, con un’espressione tra il divertito e il rassegnato; Ryo aveva imparato a conoscerla in quanto compariva sempre alla fine delle loro improbabili discussioni come segno di resa.

«E va bene, solo per quest’ultima volta» emise alzando le mani sconfitto «Però sono curioso di sapere quali sono le tue ‘tante cose da fare’»

«Beh» disse lievemente in imbarazzo dandogli le spalle «Ecco… I vestiti non si lavano da soli e ho da catalogare le riviste delle ultime due settimane, in camera ho i conigli di polvere… Insomma, cose così…»

«City Hunter casalingo… Ah se lo sapessero tutti perdesti di credibilità. Dimmi, ti metti il grembiulino quando fai le faccende domestiche?» chiese Hideyuki non riuscendo a reprime una risatina.

«Sai che ti dico Maki? Vai al diavolo!» esclamò furente mentre usciva dalla cucina «Grembiulino…Te lo faccio vedere io il grembiulino, quella linguaccia!» borbottò salendo le scale.

Siparietti come quello erano all’ordine del giorno e a Ryo piacevano molto. Per non perdere la testa nel mondo della malavita dove non c’era nulla da ridere, il poter scherzare e concedersi qualche stupido battibecco con un’altra persona che non si prendeva troppo sul serio come lui era in qualche modo ristorante. Si divertiva troppo a stuzzicarlo, sapeva rispondergli a tono ed era palese che anche a lui piacevano quei momenti.
Ryo entrò velocemente nella sua camera, prese il mucchio di vestiti e con poca grazia li portò nell’antibagno dove li buttò dentro la lavatrice. Odiava occuparsi di quelle faccende, lo annoiavano terribilmente, ma non poteva fare altrimenti; era già in debito per la pulizia dell’appartamento, non poteva anche farsi lavare le sue mutande sporche. Sistemata la prima incombenza si occupò poi delle sue amate riviste culturali che iniziò a sistemare negli scaffali che componevano la testiera del letto, non riuscendo a non dar loro un ultimo sguardo sognante. Decise di lasciare i giornali per ultimi visto che sarebbe dovuto scendere nella libreria per catalogarli, perciò si concentrò sui simpatici peluche polverosi che avevano infestato la camera; non gli andava certo di mettersi a pulire come si deve, perciò si limitò a raccoglierli per poi buttarli via dalla finestra.
“Ecco fatto, ora iniziamo a ragionare” si disse perfettamente soddisfatto anche se un occhio esterno avrebbe trovato quella stanza bisognosa di una pulizia e riordinata più profonde, ma per Ryo ciò fu più che sufficiente. Fischiettando scese le scale e una volta in libreria iniziò a sistemare nei raccoglitori i vari giornali, catalogandoli per argomenti, data e luogo. Fu un’operazione che gli prese più tempo delle precedenti poiché su quello era sempre estremamente preciso e meticoloso; nel suo lavoro le informazioni erano tutto, la carta vincente per non farsi mai cogliere impreparati, e il Professore aveva insistito molto sull’argomento per poterlo dimenticare facilmente. Quando anche l’ultimo faldone venne sistemato al suo posto, un Ryo stanco ma compiaciuto del suo operato si avviò verso la cucina dove vide Makimura intento a sgrassare il piano cottura – lavoro extra che a quanto pare aveva deciso di abbonargli. Sorrise impercettibilmente; come avrebbe fatto senza di lui? Era una domanda retorica, certo, ma non volle immaginare una risposta seria, ragion per cui cacciò via quel pensiero lugubre e indossò la sua solita maschera. 

«Non hai ancora finito Maki? Certo che sei proprio una lumaca, io ho già sistemato mezza casa» esclamò saccente mentre gli si avvicinava.

Il socio emise un verso sarcastico «Conoscendoti so come non hai sistemato mezza casa» e dopo essersi asciugato le mani gli lanciò il canovaccio «Tieni, mentre asciughi i piatti faccio una telefonata»

Ryo lo guardò sconsolato e di malavoglia si apprestò a compiere quell’ingloriosa operazione; sapeva già a chi avrebbe telefonato e, sebbene si mostrasse sempre noncurante, in realtà una parte di lui era interessata alla vita familiare del suo partner. Qualche istante dopo sentì la voce Maki giungere dal soggiorno.

[Ciao Kaori sono io, com’è andata oggi a scuola? Hai avuto qualche problema?]

“Che fratello premuroso, quando la chiama fa sempre la stessa domanda…Mi chiedo che problemi abbia sua sorella”

[Mmmh meglio così. Senti, non aspettarmi per cena, va bene?]
[…]
[Devo lavorare ecco perché… Sì, sì stai tranquilla… No, nessuna sparatoria è solo… Ma no, non preoccuparti, tornerò tardi ma non starò fuori tutta la notte] rispose in tono conciliante.

“Poco ansiosa la ragazzina” pensò Ryo con un mezzo sorriso.

[Sì, poi domani ti dico di cosa si tratta ora pensa a studiare. Ah, vedi che il riso è già pronto e prima di uscire ho preparato per cena del salmone marinato, devi solo cucinarlo. Mi raccomando non farlo carbonizzare come l’altra volta… Sì, lo so che è successo tempo fa ma non smetterò di ricordartelo!]
[…]
[Su, non prendertela] disse allegro [Ora fila a studiare… Bene, fai la brava… Sì, anch’io tranquilla, ciao]

Lo sweeper aveva appena terminato l’asciugatura quando sentì il ricevitore abbassarsi, così raggiunse il partner che si trovava ancora davanti al telefono con un tenero sorriso.

«Problemi con la sorellina?»

Hideyuki si ridestò a quelle parole e guardandolo gli rivolse un mezzo sorriso impacciato.

«No, si preoccupa troppo per me, tutto qui»

«Come suo fratello… Ce l’avete proprio nel sangue» si lasciò sfuggire debolmente.

«Forse…» commentò fattosi leggermente malinconico.

Ryo lo squadrò un attimo: che si fosse pentito di continuare la collaborazione con lui? Doveva essere difficile conciliare una vita normale in superficie con il loro lavoro, a maggior ragione da quando anche la sua cara sorella sapeva che lavoro faceva. Una vita normale… Non riusciva proprio a immaginarla.

«Ho capito a cosa stai pensando, e la mia risposta è sempre la stessa. Non ti libererai così facilmente di me» sospirò l’ex poliziotto sedendosi sul divano.

“Dannato Maki e i suoi poteri di veggenza” si ritrovò a pensare mentre si limitava a increspare leggermente le labbra in un mezzo sorriso.
 
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«Prego signori, venite pure per di qua»

Ryo reclinò il capo per raccogliere dal bicchiere l’ultima goccia di Soju prima di alzarsi lentamente preceduto da Maki, che aveva finito di mangiare da un bel pezzo. Ormai non c’era più nessuno nel piccolo locale, e i pochi avventori regolari avevano guardato con non poca curiosità quella coppia peculiare, soprattutto quel gigante che aveva mostrato un appetito famelico di rara portata. Aveva avuto la conferma di quanto fosse difficile passare inosservati in quella zona in cui non si vedevano molte facce nuove. Attraversarono un minuscolo disimpegno nel retro del locale e poi salirono lungo una ripida scala in legno leggermente scricchiolante, fino a raggiungere un pianerottolo su cui si affacciavano solo tre porte. L’uomo aprì la prima a destra e fece loro segno di entrare.

«Perdonate il disordine, la mia è una modesta camera» fece l’uomo mentre si sedeva sul pavimento coperto da un tatami liso ma pulito.

“Se questo è disordine allora non so come definire quello che ho a casa” pensò stupito Ryo. La stanzetta era minuscola ma ben organizzata; c’era una piccola finestrella di fronte la porta, sul muro a destra erano posizionati due armadi con accanto un futon ripiegato e a sinistra, invece, si notava quello che sembrava un angolo cottura vecchio di almeno dieci anni. Non un soprammobile, non una foto, tutto dava l’idea di un ambiente impersonale tipico di un monolocale in affitto.

«Bene signor Tong, ha già parlato al telefono con il mio partner ma prima di accettare la sua richiesta vorremmo sapere tutta la storia» emise asciutto Ryo guardando serio il robusto uomo di mezza età di fronte.

«Sì, è più che giusto scusatemi se ho tergiversato ma è così difficile…» e abbassando gli occhi iniziò a esporre «Non voglio tediarvi troppo con la mia storia, che è uguale a quella di molti altri immigrati che sono venuti in Giappone sperando in una vita migliore ma che, nonostante gli sforzi, restano ancora ai margini della società. Se ho sopportato qualsiasi umiliazione e la fatica di turni estenuanti è stato solo per mia figlia e. ora che me l’hanno strappata via, non riesco a trovare più un senso in ciò che faccio… Voglio assicurarmi che abbia giustizia, è il minimo che possa fare visto che sono stato incapace di proteggerla»

«Sua figlia dove lavorava? Era in giri particolari?» domandò Makimura imperturbabile; in quei momenti la sua natura di poliziotto usciva a galla.

«No, mia figlia è… Era una brava ragazza, seria e responsabile. Mi aveva raggiunto da poco più di sei mesi qui a Tokyo quando, dopo mille peripezie, io con due miei fidati amici ci siamo trasferiti qui a Ōkubo. L’ho incoraggiata io a venire visto che questa era la prima sistemazione decente che ho rimediato dopo anni…» evidentemente emozionato l’uomo si fermò un attimo per prendere fiato e prese dal taschino della camicia una foto che guardò con tenerezza «Aveva terminato il liceo e desiderava moltissimo vivere con me, così ha lasciato la casa dei miei genitori e ha iniziato a lavorare come cameriera nel ristorante; sapete lei aveva frequentato in Corea un corso di giapponese per molti anni e i primi tempi ci ha aiutato molto, con i documenti e altro. Era volenterosa, mi aiutava con l’attività e desiderava proseguire gli studi, ma siamo un piccolo ristorante e gli affari non sono così prosperi, abbiamo appena di che vivere una volta pagato l’affitto. Per questo appena Mi-Sun ha sentito che avrebbero aperto un pachinko qui vicino e cercavano personale non ci ha pensato due volte a proporsi, visto che la paga era nettamente superiore a quella che prendeva come cameriera»

«Per quanto tempo ha lavorato al pachinko?» chiese sempre l’ex poliziotto fattosi più attento.

«Con oggi sarebbe stato un mese. Non mi piaceva l’idea che lavorasse in un posto del genere ma era così decisa… Eppure sento che se fossi riuscito a bloccarla lei sarebbe ancora viva…»

«Perché è così certo che la morte di sua figlia sia collegata al suo nuovo lavoro? Potrebbe essere opera di qualche altro ragazzo del distretto o di un cliente» disse Ryo grattandosi distrattamente la testa.

«No, lo escludo!» esclamò l’uomo risoluto «Faceva una vita molto ritirata e i nostri clienti li conosco tutti, sono brave persone. Lei non mi ha mai detto nulla ma fin dai primi giorni in cui ha messo piede in quel maledetto pachinko ho iniziato a sentirla più agitata; come pensava di nascondermi il suo turbamento, lei che è carne della mia carne?! Ultimamente, poi, non mangiava quasi più e quando le ho chiesto cosa la preoccupasse lei mi ha detto solo ‘Non preoccuparti papà, non ti vergognerai di me’. Era il mio orgoglio e l’ho ritrovata all’alba in un sacco nero, buttata tra i rifiuti…» l’uomo non riuscì a dire altro e con rapido gesto si asciugò due lacrime.

Ryo, rimasto impassibile per tutto il tempo, ammorbidì lo sguardo nel vedere quell’uomo distrutto che sembrava fattosi sempre più piccolo man mano che aveva raccontato la storia. Il suo dolore gli era arrivato tutto, senza sconti, fin nel profondo del suo essere e non ebbe ulteriori dubbi nel voler accettare l’incarico; per di più era stata uccisa una ragazza e quello era per lui un crimine intollerabile. Come sempre lui e Makimura erano in completa sintonia quando si trattava di scegliere i casi e quella sera ebbe solo l’ennesima conferma. Le sue riflessioni vennero interrotte dal cliente che riprese a parlare con voce strozzata.

«Vi prego, non posso rivolgermi alla polizia, siete la mia unica speranza per poter avere giustizia per la mia bambina… Chiunque sia stato deve pagare, scegliete voi come ma non può restare impunito. Vi supplico» e prostrandosi per terra concluse «Vi darò tutto quello che possiedo, non è molto ma sono disposto a rinunciare a ogni cosa pur di riuscire a visitare la tomba di mia figlia a testa alta. Se non basta farò tutto ciò che vorrete, consideratemi ai vostri ordini e-»

«Si rialzi signor Tong, non faccia così» gli disse Hideyuki gentilmente mentre lo tirava su «Non si preoccupi per questo, piuttosto può darci qualche dettaglio circa la routine quotidiana di sua figlia in quest’ultimo mese? Anche il più piccolo dettaglio o un nome ci può essere utile»

L’uomo lo guardò con occhi speranzosi «Vuol dire che accettate di aiutarmi?»

«Beh sì, ma a una condizione» rispose Ryo serissimo e dopo qualche secondo di silenzio in cui vide l’uomo fattosi teso fino allo spasmo proseguì «Accettiamo il caso solo se ci farà mangiare gratis nel suo ristorante per il prossimo mese»

Il cuoco spalancò leggermente gli occhi per la sorpresa, non aspettandosi una tale richiesta e si abbandonò a una leggera risata, la prima da quando era stato travolto dalla sua personale tragedia.

«Ah signor Saeba, ma è davvero troppo poco! Altro che mese, vi considererò i miei ospiti d’onore fino a quando vivrò»

«E considerando l’appetito famelico del mio socio temo proprio che i suoi conti saranno sempre in rosso» commentò Hideyuki poco serio.

Il clima si era disteso, il loro cliente aveva ritrovato un po’ di buonumore e in più aveva rimediato un pasto caldo sicuro per i prossimi mesi.
“Bravo Ryo hai fatto un buon lavoro” si disse soddisfatto mentre si apprestava ad ascoltare attentamente ciò che il signor Tong aveva ancora da dire.
 
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C’era un insolito movimento nell’angusta traversa dell’Ōkubo-dori illuminata principalmente dalle pacchiane insegne del nuovo pachinko. Tra gli avventori e i passanti che circolavano su quella strada sinistramente vitale nella notte, c’erano due uomini in soprabito lungo che sorseggiavano una bevanda energetica presa dal konbini all’angolo; appollaiati su un basso muretto sembravano apparentemente troppo presi dalla loro conversazione per accorgersi di ciò che succedeva attorno a loro.

«A prima vista sembra un posto pulito, per quanto pulito si possa considerare un luogo del genere» commentò Hideyuki guardandosi le scarpe.

«Sì, bisogna dire che per essere dei novellini sono stati abbastanza bravi, nella prossima vita potranno migliorarsi»

«Immagino ti stia riferendo allo strano balletto che si sta svolgendo nel vico laterale»

«Già…» commentò Ryo asciutto prima di dare un lungo sorso alla lattina.

Il Lucky House era un brutto capannone dalla forma squadrata, con ampie finestre al piano rialzato oscurate da delle carte adesive; oltre all’accesso principale i due avevano notato una porticina di servizio che faceva capolino sul lato sinistro della struttura – l’unico libero – che dava su uno strettissimo vicolo in cui vi erano accatastati sacchi neri di rifiuti, gli stessi usati per nascondere il corpo della giovane a solo due isolati di distanza. Per essere un’entrata secondaria sembrava fin troppo trafficata, e a degli osservatori attenti come i due partner saltò subito all’occhio come quel passaggio fosse usato come uscita riservata.

«Da quella porta escono solo uomini e tutti con facce soddisfatte… Inizio a intuire qualcosa» disse Ryo ma un leggero sospiro giunse alle sue orecchie.

«Che succede Maki?»

«Niente…» fece l’uomo sistemandosi gli occhiali sul naso.

«Non dirmi che stavi pensando a tua sorella»

L’ex poliziotto lo guardò sorridendogli «Non ti sfugge niente, eh?»

«Stai parlando con lo sweeper migliore del Giappone, dovresti saperlo ormai» emise tronfio.

Hideyuki scosse lievemente la testa e dopo aver sollevato leggermente la manica controllò l’orologio.

«Mezzanotte… Scommetto che quella sciocca starà ancora seduta in cucina ad aspettarmi» e alzando gli occhi al cielo continuò «Posso già immaginarmi la tiritera che mi riserverà domani quando capirà che non solo ho fatto più tardi di quanto le avessi detto, ma che non porterò neanche un soldo a casa»

«Puoi sempre dirle che il suo caro fratellone ha rimediato un po’ di cibo, scusami se è poco»

« ‘Ah, ma con quello non ci paghi le bollette’… Sì, sicuramente mi risponderebbe così. È ancora così ingenua sebbene si sforzi a fare la forte; crede di aver capito che lavoro faccio ma in realtà non ha ben chiaro cosa significhi davvero, che la nostro compenso non è misurabile solo con i soldi… C’è molto di più in questo lavoro, tanto altro, ma bisogna avere delle spalle grandi e robuste per accettarlo, per portare il peso delle responsabilità che comporta e per non lasciarsi soverchiare dalle brutture che lo caratterizzano»

«Mi sembrava strano che non avessi fatto ancora nessuna uscita da vecchio filosofo» lo canzonò Ryo sebbene avesse inteso perfettamente il senso di quelle parole.

Alla fine Makimura aveva riassunto la sua vita in poche parole. Quanto aveva faticato affinché le sue spalle non si piegassero, quanto aveva sofferto prima di riuscire a costruirsi quell’armatura inscalfibile che metteva a disposizione degli altri. Avrebbe voluto esprimere a voce qui pensieri ma il suo cuore, come sempre, vacillò impedendogli di aprirsi davvero, perciò decise di riportare la conversazione su un terreno più sicuro.

«Direi che è il momento di entrare. Facciamo una partita e poi ci vediamo nel bagno per decidere come procedere?» domandò saltando giù dal muretto per poi scalciare leggermente le gambe intirizzite dal freddo.

«Sì, buona idea» e dopo averlo raggiunto aggiunse «Ammetto, però, che mi rode buttare quei pochi spiccioli che ho per acquistare quelle dannate palline»

«Non lo dire a me! Come fanno certi uomini a rincretinirsi davanti a quegli schermi senza neanche qualche donna nuda per me è un mistero»

«Mi sembrava strano che non avessi fatto ancora nessun commento da vecchio porco» gli rispose Hideyuki sornione, parafrasando ciò che lui aveva detto poco prima.

«Ehi Maki a chi hai dato del vecchio?! A un giovincello come me, che razza di modi» borbotto mentre si apprestavano a entrare all’interno del pachinko.

I due uomini fecero l’ingresso in un’ampia sala quadrata coperta da una terribile moquette grigia in cui la musica e i suoni provenienti dalle varie macchinette – disposte in otto lunghe file – creavano un fracasso infernale. A una prima occhiata Ryo non vide nulla di sospetto ma individuò subito le uniche altre uscite presenti, ovvero due porte abbastanza distanti tra loro, su cui riuscì a leggere le scritte “bagno” e “ufficio”; una volta cambiati i soldi alla cassa si sistemarono in modo che ognuno potesse vedere le spalle dell’altro, e iniziarono la loro partita. Passarono un’oretta in quel modo e a Ryo non pesò più di tanto visto che amava giocare e si era accanito ben presto, riuscendo anche a vincere in modo considerevole; per qualche istante si sentì catapultato a San Francisco una vita prima, quando con Frank e Mary si divertiva a giocare a flipper nel retro del loro locale preferito. Quello però era un gioco conviviale, si rideva e scherzava tra ragazzi mentre lì in Giappone gli metteva tristezza quella disposizione così impersonale, dove uomini buttavano via i loro risparmi davanti a quella versione di flipper che somigliava tanto a una lavatrice. Il gioco, però, non lo aveva distratto dalla sua reale missione, infatti non aveva perso d’occhio un attimo le due porte e lo strano movimento che aveva notato verso l’ufficio aveva confermato i suoi sospetti. Tutti gli uomini agivano allo stesso modo: arrivavano decisi, bussavano con tre colpi e poi si avvicinavano sussurrando qualcosa prima di entrare. Nessuno di quelli che vi era entrato era poi uscito.
Soddisfatto si alzò con noncuranza per dirigersi verso il bagno e una volta dentro si assicurò che non ci fossero persone o cimici; poco dopo arrivò il suo socio che, dopo aver bloccato la porta, si avvicinò a lui.

«Mi sembra chiaro che ci sia qualcosa di molto interessante in quell’ufficio e il mio fiuto dice che si tratta di donne» bisbigliò Ryo impercettibilmente.

«Lo credo anch’io, non sarebbe certo la prima volta che un locale nasconda altri usi più illeciti» e incrociando le braccia Hideyuki proseguì «Credo che questo movimento sia ben organizzato; controllando l’ingresso ho notato che gli uomini diretti verso l’ufficio non solo non fanno una partita ma si rivolgono sempre alla stessa cassa. Sicuramente riceveranno per appuntamento»

«Sì è la stessa cosa che ho pensato… Vanno tutti troppo sicuri verso quella porta e sussurrano probabilmente una password. Hanno provato a camuffare un po’ le cose ma si vede lontano un miglio che qui abbiamo a che fare con gente non troppo scaltra»

«Già, ma d’altronde chi è che viene a controllare questi posti? Si sentiranno sicuri visto che i clienti del pachinko sono troppo presi dal gioco per rendersi conto di questi dettagli»

«Infatti, in più di un’ora che ho tenuto d’occhio le porte non ne ho visto neanche uno alzarsi per venire in bagno!»

Makimura gli sorrise per poi domandargli «Come intendi comportarti?»

«Beh, per prima cosa vorrei far uscire allo scoperto uno dei galantuomini che gestiscono questo simpatico locale e riuscire a entrare nel giro dei clienti speciali» rispose guardandolo significativo.

«Qualcosa mi dice che il lavoro sporco toccherà a me e tu ti riserverai il divertimento»

«Andiamo Maki, sai che non mi piace parlare con gli uomini! E poi ci penserò io a farlo venire da noi, tu ti limiterai a parlarci meglio»

«Temo già di intuire come ci riuscirai» emise in uno sbuffo l’ex poliziotto.

Ryo precedette di qualche minuto il partner ed uscì dal bagno, dirigendosi verso la sua postazione; nel frattempo la sala aveva iniziato a svuotarsi, visto che la maggior parte dei giocatori apparteneva alla categoria denominata “gente rispettabile” che, conducendo una vita ordinaria, non poteva permettersi un’eccessiva vita notturna. Una volta recuperate le sfere seguì Hideyuki verso la cassa incriminata per effettuare la conversione delle sfere in buoni; lì si trovava una giovane ragazza intenta a scrivere su un’agenda così Ryo, dopo aver rivolto un sorriso furbo all’amico, sfruttò l’effetto sorpresa e in un balzo raggiunse il bancone facendo sobbalzare la cassiera.

«Ah finalmente ti ho trovato mia cara Mokkori-chan!» esclamò con fare libidinoso prendendo le mani della giovane.

«Che cosa fa signore?!» esclamò la giovane in evidente imbarazzo.

«Su non farti pregare troppo mia cara, perché non lasci prima il lavoro e non passi la notte con me?» e lanciandole uno sguardo da perfetto maniaco proseguì «Non puoi dirmi di no, la tua bellezza mi ha distratto per tutto il tempo facendomi perdere sempre… Anche il mio amico ha perso per colpa tua ma tu ignoralo, stai con me invece»

«Deve essere ubriaco signore» emise con un filo di voce la ragazza a disagio, osservando l’omone allupato che non mollava la presa sulle sue mani mentre l’amico accanto la fissava in silenzio.

«Non fare la preziosa, dai un bacino a Ryo tuo»

«No! Lasciatemi andare!» urlò terrorizzata appena vide lo sweeper sporgersi verso di lei, e si accovacciò dietro la cassa.

“Una reazione fin troppo esagerata… Poverina avrà subito molestie più gravi” pensò Ryo con una punta di tenerezza e vide che nella concitazione del momento la ragazza aveva premuto un pulsante nascosto sotto il registratore di cassa. L’esca era stata lanciata e quando qualche istante dopo Makimura gli diede un’impercettibile pacca sulle spalle ebbe la conferma che il pesce aveva abboccato.
Dalla porta dell’ufficio uscì fuori un ragazzo abbastanza giovane, basso e dai lineamenti sgraziati che con aria strafottente si avvicinò a loro.

«Qualche problema signori?»

“Eccoti finalmente piccolo bastardo” si disse appena mise gli occhi su quell’omuncolo la cui sola vista gli aveva fatto venire il prurito alle mani.

«Assolutamente no, stavo solo dicendo a questa bellezza se non voleva aiutarci a tirar su il morale… Non so se mi spiego» fece con uno sguardo famelico che poco lasciava all’immaginazione.

Il ragazzo lo squadrò con un’aria di superiorità che fece venir voglia a Ryo di tramortirlo con un cazzotto all’istante e solo un colpo di tosse del suo partner riuscì a farlo desistere.

«Tutto chiaro, siete stati mandati dagli uomini di Hayan Son giusto?»

«Sì certo, ci ha parlato bene del posto» bleffò con sicurezza Makimura.

«Immagino» fece il nanerottolo con un sorriso sghembo «Comunque non so che informazioni vi abbiano dato ma l’ordinazione non funziona proprio così. Avete buon gusto ma Mi-Yon non fa parte della squadra… Però, se voleste farle un regalo per farvi compagnia…»

«Io e il mio amico siamo molto generosi, sappiamo che non si dà nulla per niente» disse l’ex poliziotto serio ma conciliante.

Ryo lasciava ampio margine d’azione al caro Maki, sapeva che era imbattibile con i modi e le parole; per quanto fosse una persona limpida e buona, quando lavorava diventava un altro uomo riuscendo, però, a essere sempre convincente in ogni sua veste. Nessuno dubitava di lui fin quando si accorgeva che era troppo tardi per sfuggire a City Hunter.

«Bene signori, vedo che con voi ci si accorda alla perfezione» emise soddisfatto, lasciando intravedere gli incisivi d’oro «Ci tengo a fare le cose seriamente, quindi per stasera purtroppo non sarà possibile» e al mugugno scontento di Ryo aggiunse «Però ci possiamo accordare per domani; solitamente con i nuovi clienti preferisco incontrarmi prima di sera per definire i dettagli e prendere un anticipo, sapete non tutti sono come voi. Immagino di giorno lavoriate però se riusciste a trovare un momento… Non ci metteremmo molto»

«Sì, io avrei la pausa pranzo intorno alle dodici, per le dodici e mezza posso essere qui. Il mio amico purtroppo è occupato, spero che basti la mia sola presenza» gli rispose sempre Makimura.

«Ma certo, assolutamente» e sfregandosi leggermente le mani si congedò dicendo «Domani alla cassa chieda di Zanna e sarò subito da lei. Ora vogliate scusarmi ma devo tornare al lavoro» e così dicendo si allontanò veloce per sparire qualche attimo dopo dietro la famigerata porta.

Ryo, che fino a quel momento aveva tenuto stampato sul viso un sorriso compiacente, prese una smorfia disgustata che meglio si atteneva al suo stato d’animo e si scambiò una fugace occhiata d’intesa con Hideyuki, leggendo nel suo sguardo la stessa emozione. Con la coda dell’occhio vide la cassiera che, ancora col capo chino, si manteneva distante dal bancone palesemente turbata; provò una profonda compassione per lei e senza pensarci due volte si sporse nella sua direzione.

«Non temere, presto sarà tutto finito» le sussurrò in tono gentile.

La ragazza a quelle parole alzò la testa di scatto e lo guardò con occhi colmi di sorpresa e lacrime a stento trattenute; lo sweeper le fece un occhiolino prima di salutarla con un’alzata di mano e raggiungere Maki che lo aspettava all’uscita.
La notte era particolarmente fredda, il vento gelido giungeva con colpi impetuosi a graffiare il viso come stilettate ghiacciate ma Ryo non si scompose particolarmente, era temprato a ogni intemperia. Indossava il suo impermeabile lungo, così simile e allo stesso tempo diverso da quello di Makimura, che aveva lasciato aperto ma, grazie al suo peso, non sventolava fastidiosamente come quello del suo partner. Con calma si accese una sigaretta e silenziosamente scivolarono lungo le vie ancora affollate dagli abitanti della notte, categoria a cui apparteneva con orgoglio. Non dissero una parola fin quando non seminarono il ragazzo che aveva iniziato a seguirli dall’uscita del pachinko fino a Ikemen Street e una volta tornati a Kabukicho ruppe il silenzio lanciando via la cicca.

«Sono proprio dei bambocci, pedinare in quel modo così maldestro»

«Ancora mi chiedo con che soldi siano riusciti ad avviare l’attività… Forse sono le ultime ruote di un ingranaggio ben più grosso»

«Probabile… Ma questo non li risparmierà di certo» commentò sprezzante.

«Quindi hai già deciso cosa fare di loro? Tong ti ha lasciato libero di agire, se distruggere il pachinko o uccidere» domandò pianissimo Hideyuki.

«All’inizio avevo pensato di essere clemente ma dopo che ho visto il brutto muso di quel tizio mi è salita la voglia di piantargli una bella pallottola in fronte che si intoni con i suoi denti»

Ryo vide il suo partner annuire lievemente e sentì che non aveva nulla da ridire sulla sua scelta; era uno sweeper dopotutto ed era suo dovere spazzar via i rifiuti che ammorbavano la società.

«Prima, però, vorrei reperire qualche informazione in più su questi tizi dal vecchio; ti unisci a me o vuoi correre a casa per la nanna Maki?» chiese ironico.

«Non c’è bisogno che me lo chieda, è naturale che venga anch’io: primo, perché domani mattina non so se avrò modo di parlare con te visto gli orari che fai e all’appuntamento ci tengo ad arrivare preparato; e secondo perché devo controllare che tu ci arrivi dal vecchio e non ti perda per strada risucchiato dai tuoi locali»

«Ah povero me, balia Maki è tornato!» esclamò alzando le mani.

Sorrise impercettibilmente mentre con occhi golosi vedeva gli ingressi dei suoi cari locali e fece uno sforzo per non andarci subito e rimandare così l’incontro con l’informatore; il suo caro collega aveva ragione come sempre, come avrebbe fatto senza di lui che lo rimetteva sulla retta via? Imprecò mentalmente per essersi posto per la seconda volta quella domanda mentre con passo deciso e cadenzato camminavano per la Niban-dori fino a giungere in prossimità del Tokyu Milano5 che con la sua sagoma gli ricordava un hangar appesantito dal rosso slavato. Dopo averlo quasi circumnavigato attraversarono la strada in direzione dell’ingresso pedonale della stazione Seibu-Shinjuku.
Passarono attraverso una stretta cancellata quasi invisibile per la maggior parte della gente e percorsero uno stretto corridoio dai muri leggermente scrostati, illuminato da alcuni neon malfunzionanti che emettevano una pallida luce giallina intermittente. Ryo, dietro la sua aria rilassata, si manteneva estremamente vigile, attento a captare qualsiasi altro suono che non fosse l’eco dei loro passi sul cemento; sapeva che le brutte sorprese potevano giungere inaspettate, anche nei posti più familiari. Arrivarono davanti a una porta di ferro e Ryo batté il pugno ritmicamente, riproducendo in codice Morse le lettere CH. Qualche istante dopo un uomo nerboruto e guercio si affacciò e, guardandoli torvo li lasciò entrare.

«Come te la passi Akira? Sempre di buon umore, eh?» esclamò lo sweeper sollevando il braccio ma come al solito non ebbe risposta.

All’interno si trovarono in un semplicissimo locale in cui capeggiavano un lungo bancone laccato nero e un ben fornito angolo bar; una decina di tavolini tondi erano disseminati in modo abbastanza disordinato nella stanza rettangolare e alcuni erano occupati da uomini che parlottavano fitto, sorseggiando il loro drink. Non c’erano sedie: gli avventori non si trattenevano mai troppo a lungo e se ne stavano appollaiati sulle superfici di formica dei tavolini come avvoltoi. Ryo avanzò con tranquillità verso il bancone, limitandosi a fare un cenno del capo come saluto e, seguito dal fedele partner, vi si appoggiò sopra.

«Il solito ragazzi?» chiese un ometto dal volto gentile, vestito con una camicia bianca e un gilet bordeaux.

«Sì, grazie Yama-sama» rispose affabilmente.

«Mi chiedevo quando sareste passati» commentò il barman mentre versava il whisky nei due bicchieri.

Aveva parlato senza muovere le labbra, come suo solito. Yama-sama era un ventriloquo formidabile nonché il più anziano informatore di Shinjuku; nel loro ambiente la longevità non era certo una caratteristica diffusa e chi riusciva a raggiungere i cinquant’anni era considerato degno di ammirazione. Ormai anziano si era ritirato dal lavoro in prima linea ma aveva aperto quel locale, un luogo di ritrovo sicuro per i vari informatori che affollavano il grande quartiere e per il suo sweeper.
Ryo prese il bicchiere gentilmente offerto e dopo averlo alzato lievemente verso Makimura iniziò a sorseggiarne il contenuto. Ricordava ancora la prima volta che aveva visto quell’informatore così formidabile, glielo aveva presentato il Professore stesso.

«Ryo ti presento Yama-sama. È l’uomo con cui ho iniziato a gestire la rete di informatori a Shinjuku subito dopo il mio arrivo in Giappone. Ha la mia totale fiducia e ti consiglio caldamente di ascoltare attentamente ciò che ti dice. Conosce il quartiere meglio di chiunque altro, ti affiancherà i primi tempi. Ah, è anche un ventriloquo formidabile, non ti farebbe male prendere qualche lezione!»
Ryo guardò quell’uomo piccolo, all’apparenza più grande del Professore, che gli sorrideva cordialmente. Sembrava uno di quei vecchietti che si incrociavano nei parchi cittadini, dediti alle passeggiate o alla meditazione.
«Benvenuto a Shinjuku ragazzo! C’era proprio bisogno di un uomo capace qui e se ciò che ha detto il Professore è vero solo la metà, credo che da ora in poi staremo in una botte di ferro» gli disse tendendogli la piccola mano affusolata.
Il giovane rimase sorpreso dalla stretta vigorosa che l’uomo gli riservò e, dallo strano scintillio dei suoi occhi, intuì che avrebbe dovuto considerarlo con la massima attenzione; quel giorno ebbe l’ulteriore conferma che le apparenze mai coincidevano con la realtà delle cose.

«Abbiamo bisogno di alcune informazioni» disse l’ex poliziotto.

L’anziano sorrise per l’ovvietà dell’affermazione «Certamente, sapete che sono sempre a vostra disposizione» commentò mantenendo le labbra in una linea dritta.

Ryo sorrise lievemente: lo divertiva sempre vedere come Makimura interagiva con i suoi informatori, per quanto si impegnasse risultava ancora evidente come lui non fosse pienamente del mestiere. All’inizio era stato indeciso se portarlo nei suoi giri, se fargli conoscere quel posto che rappresentava un piccolo punto d’incontro per gli uomini di Yama-sama – che rappresentavano una buona fetta dei suoi migliori informatori – e aveva richiesto una buona dose di coraggio fare quel passo. Non ne era pentito, Maki era la persona di cui aveva più fiducia al mondo insieme al Professore, e non a caso era entrato maggiormente nel suo mondo solo dopo che il vecchio lo aveva visto, dandogli la sua approvazione. Makimura gli era stato particolarmente grato per quel gesto; conoscere meglio gli informatori gli era di grande aiuto per addentrarsi nel mondo della malavita e, allo stesso tempo, per proseguire la sua indagine personale a cui non aveva smesso di interessarsi una volta lasciata la polizia.

«Lucky House hai detto?»

La voce del loro barman lo riportò alla realtà; il suo socio non aveva perso tempo con le domande.

«Sì, il nome mi dice qualcosa… Dove hai detto che si trova?» domandò il vecchio.

«Distretto 2 di Ōkubo, nelle vicinanze dell’Ōkubo-dori. Ha aperto da un mese» rispose Hideyuki centellinando il suo whisky.

«Ah sì… Ecco perché non l’ho ancora memorizzato. Perdonatemi ho sempre una certa età e la memoria non è più forte come un tempo»

«Non direi proprio» emise Ryo sornione.

«Ah ragazzo sei sempre il solito!» e increspando le labbra in un lieve sorriso proseguì «Comunque con l’arrivo in massa dei coreani gli equilibri della zona stanno cambiando velocemente e si stanno instaurando così tanti piccoli clan che è difficile tenere il conto»

«Ti dice niente Hayan Son?» domandò lo sweeper mentre giocherellava con il bicchiere ormai vuoto.

«Mmm sì, è uno dei nuovi clan che più sta facendo la voce grossa a Ōkubo. Non sarebbero così potenti se non avessero tutto il denaro che si ritrovano, che proviene dalle loro attività in Corea, ma che io sappia sono abbastanza innocui. Gestiscono alcuni nightclub e per ora non sembrerebbero affiliati a nessun gruppo giapponese in particolare»

«Quindi non ti risulta che abbiano collegamenti con quel pachinko?» incalzò Makimura.

«Non lo confermo ma non lo escludo. Sapete che il gioco d’azzardo è una tentazione troppo ghiotta per la mala e non mi meraviglierebbe se volessero ampliare il giro anche in quel campo. Sono certo che non lo gestiscono loro, questa è l’unica cosa che posso confermarvi senza dubbio»

I due partner si scambiarono un’occhiata eloquente. Ryo si ritenne soddisfatto, alla fine avevano a che fare con pesci davvero piccoli che si sarebbero mostrati di facile neutralizzazione ma volle togliersi un dubbio.

«Giusto per curiosità, hai mai sentito di un certo Zanna?»

«E chi sarebbe questo fenomeno?» esclamò l’uomo mentre passava uno straccio sul bancone lustro «No, sinceramente è la prima volta che lo sento. Scommetto che è lui il campione che gestisce il pachinko»

«Indovinato»

«Bah, certo che questi nuovi arrivati ne hanno di fantasia con i nomi… Credo che non rappresenterà un problema per te ragazzo»

Ryo annuì e dopo essersi rumorosamente stiracchiato si alzò.

«Grazie Yama-sama, ti sei mostrato smemorato come sempre, dovresti farti vedere da un bravo dottore» gli disse senza muovere le labbra di un millimetro.

«E tu sei sempre il solito insolente Ryo» e rivolgendosi a entrambi gli salutò «Alla prossima ragazzi»

Quando i due uomini uscirono sulla Seibu Shinjuku Station Dori vennero accolti da un vento ancora più forte e pungente di quando erano entrati nel piccolo locale, che li fece leggermente rabbrividire. Ryo non perse tempo e con difficoltà riuscì ad accendersi l’ennesima sigaretta della giornata; si sentiva perfettamente tranquillo, il lavoro sarebbe stato concluso l’indomani stesso.

«Direi che ciò che ci ha detto Yama-sama ha confermato i nostri dubbi: non c’è traccia di yakuza in questo caso e direi che è un bene» emise in soffio assieme al fumo.

«Già, si vede che quel Zanna vuole entrare tra le fila della Hayan Son e avrà stretto un accordo con loro senza considerare che, probabilmente, una volta che gli affari del pachinko – sia quelli espliciti che impliciti – si saranno affermati verrà fatto fuori in modo che il clan possa metterci le mani direttamente»

«Puoi darlo per certo. Ora capisco perché non ha occultato meglio l’attività parallela, quel pallone gonfiato e i suoi amici si sentono fin troppo sicuri perché si sentono protetti dal clan… Poveri illusi»

Parlottando tra loro raggiunsero la sempre caotica Kabukicho Ichiban-gai e Ryo si lasciò trasportare dal marasma di luci che non mancavano mai di galvanizzarlo e lanciò un’occhiata di striscio al suo partner che, come sempre, aveva affondato le mani nelle tasche del soprabito, incurvandosi leggermente. Sapeva che Makimura non amava particolarmente Kabukichō, specialmente quando la notte lo rendeva un luogo peccaminoso in cui lui sguazzava come un satanasso; lo sorprendeva sempre come un uomo più o meno della sua età potesse sentirsi a disagio in quello che lui considerava il paradiso, ma in fondo Maki era un bravo ragazzo, non era come lui. Decise di toglierlo dall’imbarazzo non prima di aver salutato affettuosamente delle promoter discinte accanto al nuovo strip club, che si ripromise di visitare quanto prima.

«Non sei felice Maki?» gli chiese grattandosi la testa.

Il giovane lo guardò con un’espressione tra il sorpreso e il confuso «In che senso?»

«Che il caso non sia particolarmente difficile!» emise come se fosse ovvio capire i suoi pensieri.

Makimura si rilassò alle sue parole «Sì, anche se in realtà è presto per esprimerci. Sappiamo che la ragazza è stata uccisa da qualcuno del pachinko visto che indossava ancora la divisa, ma fin quando non avrò parlato con quel Zanna non possiamo essere sicuri che sia stato lui e-»

«Ah sei il solito uccellaccio del malaugurio! Io dico che è stato lui, il mio sesto senso non sbaglia mai… Ehi tesoro aspettami tra poco!» esclamò a una ballerina che si era affacciata dall’ennesimo locale di cui era cliente fisso «E comunque è meglio così, non mi piace lavorare troppo se non c’è un bel culetto di mezzo; quello sì che è un incentivo per metterci più impegno» concluse con fare sognante.

«Mi chiedo come tu possa essere così senza speranze» sospirò sconsolato Hideyuki dandogli una leggere gomitata sul fianco.

«Dai Maki non dirmi che non ti fa piacere lavorare quando si ha a che fare con una bella mokkori-chan! Eppure mi risulta che tu l’abbia fatto per diversi anni e non mi sembra ti abbia fatto schifo, anzi, scommetto che in ufficio non facevi che fissare quel bel paio di -»

«La pianti una buona volta?!» sbottò il partner arrossendo vistosamente «Sei davvero incredibile, quando ti renderai conto che questi sono discorsi da adolescenti?»

«Sei così noioso Makimura, mi sembri una vecchia ciabatta quando parli così»

«Tu dici Ryo? Immagina, però, se tutti gli uomini si comportassero come ragazzini in calore – ovvero come fai tu quando rimbambisci dietro alle donne – e ti renderesti conto che questa città diventerebbe un inferno»

«Ora che mi ci fai pensare… Sì, sarebbe abbastanza orripilante…» e dopo aver riflettuto qualche secondo trattenne a stento una risata «Ah, sto provando a immaginarti nelle vesti di maniaco e faresti ancor più senso del normale!» esclamò sghignazzando.

«Sei il solito cretino» gli rispose scuotendo lievemente la testa «C’è un tempo per tutto Ryo, dovresti tenerlo a mente»

«Bah, secondo me sono tutte scuse per non ammettere che non ti si alza più» borbottò guardandolo di sbieco ma in un attimo si ritrovò faccia a faccia con l’asfalto «Maledizione Maki non puoi attentare alla vita della gente in questo modo!» piagnucolò mentre il partner, mosso a compassione, gli tendeva la mano per aiutarlo ad alzarsi sorridendo lievemente.

«Su, non lamentarti che non ti sei fatto nulla» e volgendo uno sguardo verso il caratteristico arco rosso aggiunse «Allora Ryo, domani prima di andare al Pachinko passo lo stesso da te, spero tu stia sveglio. Io vado, ormai sono quasi le tre…»

«E stai morendo di sonno lo sapevo» e dandogli una pacca sulla spalla aggiunse più serio «Vai, tu hai qualcuno che ti aspetta a casa, no?» e senza dargli il tempo di rispondere si allontanò salutandolo con la mano.

Si diresse verso il suo locale preferito, una capatina veloce visto che si sarebbe dovuto svegliare presto per i suoi standard, ma durante il tragitto continuavano a rimbombargli nella testa quelle parole: c’è un tempo per tutto. Non riusciva a spiegarsi perché quella semplice affermazione gli avesse lasciato una leggera inquietudine, una fastidiosa sensazione che avvertiva ogni qualvolta si sentiva colto in fallo e che neanche facendo l’idiota era riuscito a scrollarsi di dosso. Per lui lo scorrere del tempo era un concetto così ineffabile, indefinito e chiaro in egual misura; poteva quantificare ogni giornata, mese, minuto alla perfezione ma non poteva fare altrettanto con la sua vita. L’essere svincolato da qualsiasi limite cronologico lo faceva sentire come un essere impalpabile, un’ombra che camminava dove non c’era che luce. Makimura era tremendo, non faceva che ripeterselo: riusciva a destabilizzarlo, a costringerlo a riflettere su se stesso con minuscole affermazioni lanciate a tradimento, ma non volle soffermarsi oltre. Entrando nel nightclub e stringendo a sé due cameriere che lo accolsero con entusiasmo cacciò via quei pensieri; voleva solo divertirsi, non pensare a niente e rimandò le sue riflessioni a quel domani che non avrebbe mai visto la luce.
 
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1 Rieccoci all’angolo kanji. Nel primo capitolo del manga, quando Ryo fa la sua comparsa, si nota l’immagine di un giornale su cui si intravede la scritta  毎朝新  e curiosa come sono ho voluto verificare se esistesse davvero. Cercando è saltato fuori che il Maiasa Shinbun (questo è il suo nome, mancava l’ultimo ideogramma聞) nasce dall’unione di due dei più importanti quotidiani giapponesi, il Mainichi Shimbun e l’Asahi Shimbun, ed è conosciuto in Giappone come giornale fittizio utilizzato nelle serie tv e nei manga (fa la sua comparsa anche in Doraemon). Cercando un altro po’ ho scoperto che in realtà è stato realmente stampato dal 1978 al 2008 come giornale della città di Tokushima, vicino Osaka. Ultima nota linguistica (non odiatemi): avrete notato la doppia grafia Shinbun/Shimbun (giornale) ma se ho usato l’ultima variante è solo per adeguarmi alla trascrizione rōmaji utilizza ormai diffusamente dalle testate. La confusione si crea perché in giapponese la “n” viene pronunciata più somigliate a una “m” in virtù dell’economia linguistica secondo la quale, quando parliamo, cerchiamo il minimo sforzo. Il fenomeno osservato con Shinbun lo vediamo anche in italiano (se provate a dire velocemente “oggi ho visto un bambino giocare” noterete come il nostro “un” sembri più “um”).
 
2 Dal 9 all’11 novembre Reagan fu in visita ufficiale e concluse la sua permanenza con un discorso tenuto alla dieta giapponese; è stato il primo presidente statunitense a farlo.
 
3 Il 12 ottobre 1983 l’ex primo ministro Kakuei Tanaka fu condannato a quattro anni di carcere, ritenuto colpevole a seguito dello scandalo Lockheed (fornitura di aerei militari tramite tangenti a politici e funzionari), che interessò non solo il Giappone ma anche altri Paesi tra cui Italia, Germania Ovest, Olanda e naturalmente gli USA.
 
4 I coreani iniziarono a trasferirsi a Shin-Ōkubo intorno al 1983 in quanto era considerata la zona più economica di Tōkyō per cercare un alloggio; in poco tempo è diventata famosa come Little Korea ospitando sia immigrati che Zainichi (ovvero coreani aventi residenza fissa in Giappone).
 
5 Il Tokyu Milano è stato un multisala, che ha ospitato anche sale giochi e negozi, aperto nel 1956 e chiuso nel 2014. Successivamente è stato demolito e al suo posto c’è ancora un cantiere, credo stiano costruendo un nuovo cinema. Per chi fosse curioso di vederlo su Maps basta impostare lo Streetview al 2009.

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Capitolo 9
*** Capitolo VII ***


7. 13 Novembre 1983 – Hideyuki
 
Aveva sempre amato l’alba, per lui era il momento più magico della giornata, quando tutto sembrava carico di promesse e aspettative. Anche quella domenica si era svegliato nettamente in anticipo rispetto alla sua sveglia ma, sebbene la mente fosse già ben operativa, il corpo si mostrava ancora restio ad abbandonare il letto. Sospirò lievemente mentre i suoi occhi miopi seguivano la vetusta crepa sfocata sul solaio, che correva per tutta la lunghezza della stanza; dare un’imbiancata all’appartamento, ecco un altro compito da aggiungere alla ben nutrita lista delle cose da fare.
“Preparo subito la colazione e poi vado da Ryo… Spero si sia contenuto ieri sera, quell’uomo non sa cosa sia il senso della misura quando si tratta di lui” pensò, passandosi una mano sugli occhi.
La sregolatezza di Ryo lo aveva colpito fin dai primi giorni in cui aveva iniziato a collaborare con lui; lo sweeper era un professionista serissimo, infallibile e metodico, ma nel privato sembrava lasciarsi andare, totalmente incurante di qualsiasi cosa e con un atteggiamento che rasentava l’autolesionismo. Sorrise debolmente: su quel punto aveva intavolato la prima conversazione non lavorativa con lui, e ricordava ancora perfettamente l’esito disastroso.
 
Hideyuki, stringendosi nel soprabito, bussò a una porta situata al quinto e ultimo piano di un caseggiato piuttosto malconcio; tutte le abitazioni – piccoli monolocali – si affacciavano su un lungo ballatoio scoperto, con una squallida vista sui binari della linea Yamanote. Era la seconda volta che si recava in quel posto, la prima era stata solo qualche giorno prima, quando City Hunter gli aveva mostrato il luogo in cui abitava; lo conosceva ancora poco, in fin dei conti lavoravano insieme da poco meno di due settimane, ma quel gesto gli aveva fatto piacere, lasciava intendere quanto l’uomo si fidasse di lui. Il sole era già alto ma non batteva mai su quel lato, perennemente freddo e in ombra; ormai sempre più infreddolito, bussò nuovamente ma nessuno andò ad aprire. Con sua sorpresa, però, scoprì che la porta non era chiusa a chiave e l’aprì con estrema facilità. All’interno avvertì distintamente un acre odore di sigarette unito a un forte sentore di alcolici, e tanto gli bastò per dedurre che il proprietario dell’appartamento era al suo interno.
«Sono io, Makimura; scusa se sto entrando ma la porta è aperta» disse mentre si sfilava le scarpe nel minuscolo genkan.
Non ricevette nessuna risposta e, dopo essere passato attraverso l’angusta cucina, si affacciò nella stanza adiacente, dove vide Ryo riverso per terra su un futon disordinato; era profondamente addormentato, ancora vestito e, a giudicare dal puzzo che emanava, doveva aver bevuto molto la sera precedente. In punta di piedi tornò indietro nella cucina e, dopo aver aperto diversi pensili per trovare l’occorrente, preparò un caffè istantaneo per farsi perdonare l’intrusione.
«Non era necessario che ti disturbassi»
La voce improvvisa dello sweeper lo colse totalmente di sorpresa, facendogli quasi rovesciare per terra il caffè che, miracolosamente, finì solo nella tazza. Hideyuki aveva ricevuto un addestramento di prim’ordine ed era sempre stato tra i migliori del suo corso, ma l’abilità del suo nuovo socio gli aveva fatto dubitare più volte delle sue capacità. Non gli era mai capitato di incontrare qualcuno in grado di nascondere perfettamente la propria presenza, di essere sempre letale in ogni suo colpo… No, Ryo non poteva avere avuto un addestramento normale, e si chiese se sarebbe mai riuscito a scoprire qualcosa di più sul suo conto.
«Nessun disturbo, ho pensato che un caffè ti avrebbe aiutato a svegliarti» rispose sentendosi, però, leggermente colpevole «Avevo bussato ma non sentendo risposta ho provato ad aprire e-»
«Non chiudo mai la porta a chiave» rispose lo sweeper brusco e, prendendo la tazza dal tavolino, biascicò un “grazie” prima di iniziare a bere.
«Non è una leggerezza evitabile?»
«No» e, dopo aver dato un profondo sorso, aggiunse scocciato «So intervenire quando è necessario»
«Eppure non mi sembra tu abbia fatto qualcosa quando sono entrato» ribatté calmo, osservandolo tranquillo.
Ryo si appoggiò contro il muro di fronte, piantandogli addosso due occhi arrossati segnati da occhiaie nere; no, sicuramente non era in ottimo stato, sebbene si mostrasse perfettamente lucido come sempre.
«Ho avvertito la tua presenza da subito ma non eri una minaccia, perciò ho continuato a dormire. Finito con l’interrogatorio detective?» domandò caustico.
Hideyuki si limitò ad annuire, mentre con la mano prendeva il taccuino dalla tasca interna del soprabito.
«Sono andato in stazione e ho trovato finalmente un messaggio. Sono passato per parlartene…»
Ryo lo fermò con una mano «Per tua futura informazione, non amo essere svegliato così presto e ancor meno che mi si parli appena sveglio. Mi stai facendo scoppiare le cervella, dannazione»
«Non mi meraviglia, visto che questa casa puzza come una distilleria. So che non dovrei, ma credo che faresti meglio a contenerti con gli alcolici…»
«Hai detto bene. Non dovresti dire queste cose»
Hideyuki iniziò a sentirsi a disagio: lo conosceva poco ma non lo aveva mai visto così scostante, così tetro. Era un aspetto nuovo e si trovò in difficoltà, non sapendo come gestire quella che aveva tutta l’aria di essere una bomba a orologeria. Per darsi un tono si sistemò nervosamente gli occhiali sul naso; non voleva far trapelare che il suo era un sincero interesse nei suoi confronti. Si sarebbe sentito stupido.
«Se ho parlato non è per farmi gli affari tuoi… Prendilo piuttosto come un consiglio lavorativo. I tuoi riflessi non trovano giovamento con questi eccessi e-»
Non riuscì a terminare la frase poiché dovette schivare la tazza che, velocissima, volò a pochi millimetri dal suo volto, schiantandosi contro il muro alle sue spalle.
«Ti ho detto di chiudere quella cazzo di bocca!» gli urlò contro Ryo con sguardo cattivo «Ho accettato che tu collaborassi con me, ma quello che faccio non deve interessarti, chiaro?» e così dicendo uscì di casa sbattendo la porta con una tale violenza da far vibrare i pensili della cucina.
 
Quello, in realtà, era stato l’unico diverbio che avessero mai avuto. Lo stesso Ryo, in serata, si era scusato con lui, chiudendo così la questione senza ulteriori problemi. Quell’episodio, però, gli aveva fatto capire che c’era qualcosa che non andava nello sweeper. Il suo intuito gli diceva che dietro una facciata granitica c’era un uomo che urlava, che si dimenava e cercava un modo per sfuggire a quella prigione interiore che si era autoimposto. In quegli occhi arrossati e arrabbiati gli era sembrato di scorgere un animale ferito, ancora troppo diffidente e rancoroso da non riuscire a non azzannare la mano che lo voleva accarezzare anziché picchiare. Lui, però, non aveva demorso e, con tutta la discrezione di cui era stato capace, aveva iniziato a mostrargli che un altro Ryo non solo non era sbagliato, ma sarebbe stato possibile. Hideyuki era lungi da essere un tipo presuntuoso ma, sotto sotto, era fiero di non essersi sbagliato e di non essersi scoraggiato nei momenti in cui lo sweeper si era mostrato più impenetrabile che mai. Alla fine aveva avuto davvero ragione, sotto la superfice si celava un uomo buono, molto empatico e con una sensibilità tutta sua. Peccato, però, che il diretto interessato sembrava non esserne consapevole, o forse – conoscendolo ormai bene – fingeva di non sapere. Su quel punto non aveva più dubbi: Ryo non era mai onesto, né con gli altri né con se stesso, e quando lasciava uscir fuori il vero sé lo faceva solo per pochi attimi, sviando subito il discorso; era davvero contorto come comportamento ma in cuor suo non se la sentiva di biasimarlo. In fondo, nessuno si mostrava apertamente per quello che era, nessuno aveva così tanto coraggio da far trasparire davvero i propri pensieri e, ancor di più, riuscire a esprimerli a parole. Lui stesso non faceva eccezione: se avesse avuto più coraggio, avrebbe affrontato di petto la situazione e parlato con la donna che occupava la sua mente – e il suo cuore – da molti anni, invece di ricorrere a estenuanti non detti.
Cacciando via con fastidio quell’ultimo pensiero, si alzò velocemente e si diresse verso la cucina, mettendosi subito all’opera tra i fornelli per preparare la colazione. Una decina di minuti dopo avvertì dei passi ovattati alle sue spalle.

«’Giorno» bofonchiò Kaori palesemente assonnata.

Hideyuki si girò verso di lei, sorridendo alla vista di quella ragazza ormai grande ma che, con quell’espressione imbronciata e il largo pigiama, sembrava ancora una bambina.

«Buongiorno a te» e, mentre versava il riso bollito nella ciotola, continuò «Devi spiegarmi come mai la domenica ti svegli così presto, mentre durante la settimana ci vogliono le cannonate per buttarti giù dal letto»

«Non sono certo io a volermi alzare a quest’ora!» gli rispose stizzita e, aiutandolo a portare il cibo a tavola, aggiunse «Non riuscivo più a dormire, ho fatto un incubo»

«Ovvero hai sognato di comportarti come una ragazza normale invece del solito taglialegna?»

«Sei uno scemo totale!» esclamò risentita mentre si sedeva a tavola.

Hideyuki, dopo aver preso la teiera fumante, la raggiunse «Sai che scherzo Kaori, sei troppo permalosa»

«No, sei tu che non sei affatto divertente» rispose ancora imbronciata.

«Su, sai che al tuo fratellone puoi dire tutto. Che cosa hai sognato?» le chiese gentile.

«Niente di che… Non lo ricordo più ormai» disse fattasi leggermente triste, e iniziò a sbocconcellare la sua porzione di riso e nattō.

L’uomo la guardò di sottecchi mentre consumava il suo pasto; se c’era un volto di facile interpretazione per lui era quello di Kaori. Era così onesta, e priva di qualsiasi artificio, che le era impossibile nascondere realmente i suoi sentimenti, anche se ci provava. Gli stava mentendo ma, chissà per quale motivo, non aveva voglia di confidarsi con lui; decise, però, di rispettare la sua scelta e la colazione si svolse in relativo silenzio, rotto infine da Kaori appena si alzò per sparecchiare.

«A che ora sei rientrato stanotte?»

«Verso le tre più o meno… Ti avevo detto che non avrei fatto tardi, ma ci ho messo più tempo del previsto, scusami» la anticipò, sapendo già cosa voleva sott’intendere sua sorella con quella domanda.

«Non devi scusarti Hide, so che il tuo lavoro non ha orari, solo che…»

«Che?»

«So che è sciocco, ma odio andare a letto quando tu non sei ancora rientrato; sapere che, mentre io sto qui a casa al sicuro, tu possa essere in pericolo mi rende inquieta…»

Hideyuki le si avvicinò, passando la mano su quella zazzera spettinata «È per questo che fai gli incubi?» le chiese dolcemente.

Kaori si limitò ad annuire lievemente, abbassando gli occhi come una bambina colta in fallo.

«Non devi stare in pensiero per me sorellina; so bene ciò che faccio e credimi, sapere che tu sei qui al sicuro mi aiuta a compiere il mio lavoro al meglio. Non rischio più di quanto non rischiassi quando lavoravo in polizia… Promettimi che da oggi in poi non ti preoccuperai per me e andrai a dormire tranquilla, va bene?» concluse facendole l’occhiolino.

Un timido ma caloroso sorriso illuminò il volto della ragazza, che lo guardò finalmente senza imbarazzo «Va bene, te lo prometto vecchio mio» gli disse allegra.

«Brava. Che programmi hai per oggi?» le chiese mentre si appropinquava a lavare le poche stoviglie.

«Vuol dire che sei libero oggi?» fece lei con entusiasmo.

«Ehm… Veramente no, devo lavorare e non so quando finirò» rispose con tono leggermente colpevole.

«Ah ho capito… Spero che almeno il compenso sia decente questa volta» commentò senza notare il volto imbarazzato del fratello «Comunque dovrei vedermi con Eriko, facciamo insieme i compiti e poi, se ricordo bene, faremo anche un salto ad Harajuku… Insomma, credo starò fuori casa tutta la giornata»

«Beh, mi sembra un bel programma» e asciugandosi le mani aggiunse più piano «Divertiti, mi sarebbe dispiaciuto sapere che avresti passato la giornata da sola»

«Come hai detto?» domandò Kaori fermandosi in mezzo alla stanza.

«Nulla, nulla. Mi meraviglio di come tu sia diventata brava a non fare domande sul lavoro»

«Mi sono rassegnata ormai, so che è impossibile riuscire a farti dire qualcosa» emise sconsolata, alzando le mani «Però questo non significa che non voglia sapere qualcosa a riguardo»

«Sai che ti riassumo i casi solo a lavoro finito per -»

«Per una questione di sicurezza, lo so, sempre la solita tiritera… Per tutti i diavoli, ma è tardissimo!» esclamò con orrore appena mise gli occhi sull’orologio da parete, che segnava le otto in punto.

«Ma se sono appena le otto, e di domenica per giunta» commento l’uomo sorpreso.

«Sì lo so, ma è quella pazza di Eriko che mi ha raccomandato di fare presto perché vuole avere il pomeriggio libero per non so cosa, mi ha detto che è una sorpresa» e così dicendo corse come una furia verso il bagno «Faccio in un lampo e poi te lo lascio libero!» gli urlò mentre sbatteva la porta alle sue spalle.

«Fai con comodo, non sono in ritardo e poi Ryo a quest’ora starà dormendo dalla grossa» le rispose dietro la porta.

«Ah, vai da lui? Quindi entrate in azione stamattina? E dove anda-Ahhhh scotta, scotta!»

«Sei la solita distratta, non ammazzarti in bagno! Vedi che succede a fare domande inopportune?»

Era inutile, quella ragazza tentava in ogni modo di estorcergli qualche informazione in anticipo, altro che rassegnata! E immancabilmente, bastava pronunciare un certo nome per farle fare qualche sciocchezza; indubbiamente lo sweeper doveva essere rimasto ben impresso nella mente della sua cara sorellina, dopo quella giornata di quasi otto mesi prima, e non ne era sorpreso. Il suo partner aveva fascino e carisma da vendere, nonostante i modi da maniaco che manifestava in modo fin troppo molesto in pubblico, perciò era normale che una ragazza come Kaori fosse rimasta affascinata da quell’uomo e dalla breve avventura che aveva vissuto con lui. In modo maldestro, lei manifestava sempre un certo interesse nei suoi confronti, mentre Ryo non aveva più fatto parola di quel ragazzino che gli aveva fatto compagnia durante la sua incursione da Ito; in fin dei conti Kaori non era ancora appetibile per lui e, forse, si era già dimenticato di lei. Mentre si vestiva si chiese se l’avrebbe mai presentata un giorno allo sweeper, ma i suoi pensieri vennero interrotti dal trambusto causato da Kaori che, dopo avergli augurato una “buona giornata” urlando a pieni polmoni, uscì sbattendo la porta.
“Ah, è proprio irrecuperabile” pensò con un leggero sorriso.
 
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Erano quasi le dieci quando Hideyuki arrivò nei pressi della palazzina del socio e, come aveva immaginato, il silenzio lo accolse appena varcò la porta dell’appartamento che, come sempre, non era stata chiusa a chiave.
“Starà ancora dormendo, chissà a che ora è rientrato” si disse affacciandosi in cucina.
Tutto era in ordine e posizionato esattamente come lo aveva lasciato il giorno prima, confermando la sua ipotesi che Ryo avesse fatto così tardi da non passare in cucina neanche per prendere un bicchiere d’acqua. Muovendosi con la sicurezza di chi ha confidenza del posto, iniziò a preparare il caffè; ne aveva bisogno lui per primo – a casa non lo faceva mai per non rendere Kaori troppo nervosa – e sapeva che anche il suo socio lo avrebbe gradito.
L’odore forte della bevanda aveva appena iniziato a diffondersi nell’ambiente, quando avvertì distintamente i passi del padrone di casa che, una volta arrivato in cucina, lo salutò sbadigliando sonoramente.

«Buongiorno anche a te Ryo, ti vedo bello pimpante stamattina» emise sarcastico mentre si sedeva al suo solito posto.

«E invece io ti vedo in vena di fare lo spiritoso Maki» emise in un rantolo, lasciandosi cadere pesantemente sulla panca «Almeno hai preparato il caffè…»

«Ryo?»

«Su, fai il bravo, non torturare le mie povere orecchie…»

«Ti sei accorto di non avere neanche le mutande addosso?» gli domandò rassegnato «Non so come tu faccia a stare nudo a novembre»

Lo sweeper lo guardò perplesso prima di abbassare lo sguardo e realizzare che, effettivamente, il suo partner aveva ragione.

«Beh Maki, io ho il fuoco della gioventù, non sento mai freddo» borbottò sorseggiando il suo caffè «E poi sono stato scaldato per bene stanotte…» emise in un ghigno.

«Sta di fatto che non ho voglia di vederti in questo stato»

«Ah, so che è tutta invidia la tua, caro mio… Ehi Maki, ma non hai preparato niente da mangiare?!» esclamò svegliandosi all’improvviso, guardando frenetico il tavolo e il piano cottura.

«Certo che no, volevo un caffè e l’ho fatto anche per te» emise con noncuranza.

«Di prima mattina sei più spietato del solito! E va bene, ho capito, farò da solo… Nessuno che pensa al povero Ryo-chan» emise con fare lamentoso mentre si alzava e affondava la testa nel frigo semivuoto.

Hideyuki appoggiò il mento sul palmo della mano e osservò, con un impercettibile sorriso sulle labbra, un Ryo indaffarato a cucinare la sua colazione.
“Sì, sta proprio cambiando” pensò soddisfatto e veloce gli riaffiorò alla mente il ricordo di qualche ora prima. Intimamente era felice di come l’uomo schivo e tetro, che aveva conosciuto l’anno prima, avesse lasciato il posto a uno più gioviale, in poche parole più vitale. Ogni più piccola schermaglia, ogni suo discorso strampalato, tutto ciò era la prova che Ryo aveva represso la sua vera natura per troppo tempo; una persona come lui non poteva essere naturalmente austera e solitaria, ma gli eventi lo avevano costretto a modificarsi. Nei primi tempi a Hideyuki era sembrato fin troppo palese il modo in cui lo sweeper si lasciava semplicemente vivere, nei suoi occhi non c’era alcun interesse che non fosse per il lavoro e le donne. E, mentre si grattava distrattamente il mento, pensò che anche nei confronti del gentil sesso lo sweeper aveva leggermente ammorbidito il suo atteggiamento. Certo, restava sempre un porco di prim’ordine, ma i suoi approcci avevano assunto col passare dei mesi una sfumatura più allegra, prima totalmente assente. Non si volle certo dare tutto il merito di quel cambiamento ma, una piccola parte di lui, gioiva nel sapere come i suoi modi indiretti avessero iniziato a sciogliere il suo partner. Eppure… Continuava ad esserci un’ombra inquieta in quegli occhi ormai familiari. Ryo era ancora lontano dall’essere una persona serena, ne era più che certo; aveva fin troppo dolore inespresso dentro di sé e Hideyuki sentiva che, per quelle confidenze, non era ancora il momento giusto e, forse, non sarebbe mai arrivato.

«MAKIII» l’urlo del socio lo scosse, riportandolo alla realtà «Insomma oggi sei più rintronato del solito, mi hai sentito?»

«Ehm… Veramente no» ammise giocherellando nervosamente con un ciuffo di capelli.

Ryo sospirò sconsolato «Non solo mi viene a svegliare presto, non solo non mi aiuta a preparare la colazione, ma in più ignora totalmente ciò che dico! Che razza di socio mi ritrovo…»

«Scusa Ryo, ero sovrappensiero. Cosa mi stavi dicendo?»

«Niente di importante, avevo chiesto solo come ci organizziamo per la nostra visitina di oggi» emise sostenuto mentre divorava il suo pasto.

«Mi meraviglio che tu mi faccia questa domanda… Penso che tu sappia cosa fare, e non hai bisogno di molta immaginazione per capire il mio piano d’azione» rispose sibillino.

Ryo lo guardò sorridendo «Sei proprio impossibile caro il mio detective. E sentiamo, visto che sai tutto, cosa avrei intenzione di fare?» domandò sornione.

Hideyuki accolse quel gesto di bonaria sfida con un certo divertimento; c’era sintonia tra loro, la avvertiva distintamente sebbene non fosse molto evidente per un osservatore superficiale. Nello scherzo Ryo era sempre onesto: non mentiva mai nel mostrare il suo autentico divertimento nel stuzzicarlo, e lo punzecchiava in continuazione. L’ex poliziotto non era certo una persona permalosa e partecipava volentieri a quelle schermaglie infantili; avvertiva che il suo partner necessitava di quella leggerezza per stemperare la sua quotidianità. Sfilò dal taschino interno del soprabito un fazzoletto di stoffa e iniziò a pulirsi gli occhiali con calcolata noncuranza.

«Semplice, non vorrai aspettare buono l’esito del mio colloquio perciò ti presenterai in grande stile… Immagino farai irruzione annunciandoti da bravo casinista che sei»

 Ryo lo squadrò esageratamente risentito e, alzandosi per sistemare i piatti sporchi nel lavello, borbottò con fare lamentoso «Questa è la considerazione che hai di me Maki? Sei un pessimo socio, davvero, da domani non c’è più bisogno che tu venga qui!»

Hideyuki scosse bonariamente il capo e diede un’occhiata all’orologio da polso «Tra una mezzoretta mi avvio verso il pachinko, arrivando in anticipo potrei fare una migliore impressione su quell’omuncolo e riuscire ad ottenere le informazioni necessarie senza troppa fatica. Tu puoi raggiungermi con calma, potresti asp-»

«Aspettarti fuori mentre parli con quel tizio. Anzi, ancora meglio, potrei appostarmi sul terrazzo dell’edificio all’angolo – quello del kombini per intenderci – e tenere sotto controllo la struttura, individuare possibili punti di fuga che potrebbero essere sfuggiti con il buio, e poi entrarci dentro… Direi che, visto che ci sono, potrei anche far uscire i dipendenti assieme ai clienti, sbarrare gli ingressi e poi dare inizio alle danze»

Ryo si voltò verso il partner per guardarlo soddisfatto «Allora, che te ne pare? Non male per essere un semplice casinista impaziente, o sbaglio?»

«Beh, riconosco che la mia buona influenza sta dando i suoi frutti» replicò candidamente.

«Dovrei essere io a dirlo! Guarda che roba» e borbottando uscì dalla cucina.

L’ex poliziotto si alzò a sua volta e, stiracchiandosi leggermente, si avviò verso la porta «Ah Ryo, oggi per far prima non sono passato dalla stazione. Appena concludiamo l’incarico ci vado subito, così rimedio anche il giornale»

Nel corridoio, però, non vide nessuno e si chiese dove si fosse volatilizzato il suo socio. Non poteva fare a meno di ammirare la sua capacità così fuori dal comune di sparire e comparire a proprio piacimento; quando si accorse della sua presenza stava già scendendo le scale, stringendo qualcosa in mano.

«Tieni, te l’ho pulita e caricata» e così dicendo gli allungò la piccola Colt Lawman1, sua vecchia compagna di lavoro.

Hideyuki si sentì leggermente a disagio alla vista dell’arma; era dolorosamente legata a un ricordo difficile da accettare e impossibile da dimenticare. Con quella pistola non era riuscito a centrare per la prima volta un bersaglio da quando lavorava nella polizia… Quella mancanza aveva portato al fallimento della loro missione, alla morte di una collega e alla sua fine come poliziotto. Si era a lungo chiesto se sarebbe stato giusto continuare a usarla in seguito, ma i sensi di colpa, uniti a una generale sensazione di inadeguatezza, lo avevano fatto desistere, decidendo così di consegnarla a Ryo. Meccanicamente prese la pistola tra le mani, saggiandone il peso; la freddezza del metallo gli ricordò che non provava più quella sensazione da molto tempo.

«Non era necessario Ryo, so cavarmela anche senza» disse senza alzare gli occhi dalla Colt.

«Non sappiamo se Zanna sia armato, e soprattutto quanti complici abbia all’interno del pachinko. È una precauzione in più visto che non ci sarò» e in un sussurro aggiunse «Bisogna affrontare i propri rimorsi»

A quelle parole appena percepite, Hideyuki alzò gli occhi in direzioni di quelli del partner: ancora una volta riuscì a scorgervi una scintilla diversa, più profonda. Eccolo un altro raro attimo in cui Ryo si mostrava davvero sincero con lui, e avvertì distintamente una punta di amarezza e verità in quel bisbiglio. Quali erano i rimorsi che albergavano nel suo animo? Quell’attimo fugace, però, terminò prima che potesse pensare ad altro poiché lo sweeper cambiò subito registro, come suo solito.

«Allora è tutto deciso. Vai pure Maki, chissà che non riesca a trovare qualche bella ragazza nel frattempo che tu parli con quella bruttura d’uomo» disse mentre si allontanava trotterellando.

«Ryo?»

«Che c’è?» domandò girando appena la testa.

«Prima di uscire ricordati di mettere almeno le mutande»

«Ah sei proprio un maiale Maki, hai solo un pensiero fisso!» esclamò ridendo.
 
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Appena arrivato nelle vicinanze del Lucky House, Hideyuki si fermò un attimo per riordinare i pensieri e analizzare meglio la situazione. La giornata soleggiata si mostrava impietosa nei confronti della struttura, che sembrava ancora più squallida e decadente della notte, quando i variopinti neon davano fin troppa luce a quello scatolone di cemento dal colore bigio. C’era meno movimento nell’angusta viuzza rispetto alla sera precedente, mentre nelle strade principali si riversava un numero considerevole di persone che, in orario lavorativo, erano solitamente rinchiuse nei loro uffici. Sostando vicino al muretto su cui si erano appostati lui e Ryo, fece un respiro profondo per calarsi nella parte che si apprestava a recitare, e che non poteva essere più lontana dal suo essere. La presenza della pistola al suo fianco, celata dal suo soprabito sformato, lo faceva sentire calmo ma allo stesso tempo più teso; si era disabituato a indossarla e si augurò che quella “scampagnata” – come l’aveva definita Ryo – non prendesse una piega inaspettata. Era ben conscio che il lavoro non era particolarmente impegnativo, ma non poteva impedirsi di temere possibili scenari nefasti; lo aveva sempre fatto, sia in polizia, sia da quando affiancava quell’uomo così sicuro di sé sempre e comunque. Si chiese se Ryo avesse mai avuto paura di sbagliare, ma forse proprio la sua noncuranza nei confronti del domani gli aveva permesso di arrivare illeso fino a quel giorno. Intuiva le ragioni che portavano lo sweeper a non preoccuparsi troppo della propria incolumità, ma per lui era diverso; lui aveva qualcuno a cui badare. Gli aveva fatto male vedere come Kaori iniziasse a preoccuparsi per lui, era proprio quello che aveva cercato di evitare nascondendole la vera entità del lavoro e, in quel momento, sentì che non poteva permettersi il lusso di sbagliare. Non poteva lasciarla sola, almeno non prima di aver concluso una piccola missione affidatagli anni prima per lei. Uno sbuffo di vento gli scompigliò i capelli, riportandolo alla realtà; si rese conto di aver aspettato fin troppo, perciò tornò professionale e, dopo aver indurito lo sguardo, accese il piccolo registratore che aveva ben nascosto nella tasca.
Il suo orologio segnava le dodici meno un quarto quando varcò l’ingresso del pachinko. L’ambiente sembrava sempre lo stesso, i clienti affollavano le varie postazioni, troppo presi dal proprio gioco per accorgersi del suo ingresso. Con sicurezza si diresse verso sinistra, dove erano situate delle casse, e andò subito verso quella centrale come gli aveva raccomandato di fare l’uomo. Notò che c’era un’altra ragazza, e si chiese quante ce ne fossero lì a lavorare in modo più o meno pulito.

«Benvenuto signore, desidera?» domandò la cassiera, sfoggiando un ampio sorriso.

«Buongiorno, avrei un appuntamento con Zanna» rispose serio ma cordiale.

A quelle parole vide il volto della giovane vacillare, ma senza scomporsi troppo replicò «Sì, ve lo chiamo subito» e alzando la cornetta di un interfono si limitò a sussurrare «C’è un uomo per lei»

Hideyuki squadrò per qualche attimo la ragazza, e ciò fu sufficiente per capire che era molto scossa dal punto di vista psicologico; le rivolse uno sguardo pieno di dolcezza che sembrò sorprenderla. Era davvero molto giovane, forse poteva avere la stessa età di Kaori, e quel pensiero gli fece montare una rabbia improvvisa.

«Signorina voglio darle un consiglio, mi ascolti bene» le disse sporgendosi lievemente verso di lei «Tra non molto arriverà un uomo, molto alto, che si comporterà come un maniaco… No, non mi guardi così, non le torcerà un capello, tranquilla, ma faccia tutto ciò che le dirà senza discutere. Si fidi» le raccomandò sincero e, quando la ragazza fece per ribattere, vide avvicinarsi a lui la sagoma sgraziata di quell’uomo che trovò ancor più ripugnante del giorno prima.

«Eccomi, avete fatto presto signor…»

«Nori2. Sì, sono riuscito a liberarmi prima»

«Certo che vuoi impiegati giapponesi siete davvero efficienti, lavorate anche nei giorni festivi» disse Zanna con un ghigno «Prego, da questa parte signor Nori» concluse, facendogli strada.

Hideyuki lo seguì apparentemente distratto, preparandosi invece a registrare mentalmente ogni dettaglio circa l’ambiente attorno a sé. Si sentì leggermente più rilassato; l’ometto lo aveva guardato solo di sfuggita e non si era affatto accorto della pistola, evidenziando un atteggiamento superficiale. Ryo ci aveva visto giusto, erano dei perfetti novellini nell’ambiente della malavita. Quando varcarono la porta del famigerato ufficio, l’ex poliziotto rimase spiazzato da ciò che vide: la stanza – quadrata e molto spaziosa – aveva sulla sinistra un’imponente scrivania in noce, su cui capeggiavano un lume in ottone, dalla plafoniera in vetro color smeraldo, e  un elegante set di cancelleria con sopra alcuni fascicoli. La poltrona in pelle nera era coordinata con le due poltroncine per gli ospiti e con un piccolo divanetto angolare, situato nella zona opposta della stanza. Due dei quattro lati erano occupati da una grande libreria in legno massiccio, piena di tomi elegantemente rilegati, mentre sulla parete a destra era addossato un moderno angolo bar ben rifornito, che incorniciava una finestrella. Quell’ambiente era così fuori luogo rispetto al contesto del pachinko che Hideyuki si sentì leggermente spaesato; sembrava lo studio di un legale piuttosto che l’ufficio di una sala giochi.

«Si accomodi pure» e con la mano Zanna lo invitò a sedere mentre prendeva posto dietro la scrivania.

«È davvero un bell’ufficio» gli disse sedendosi.

«Ah beh…. Sì, immagino che possa piacere» rispose quello, grattandosi pigramente il mento glabro.

«Quindi non è opera sua?»

«No di certo, l’ufficio come l’attività è in comproprietà con mio fratello, e lui vuole sempre avere l’ultima parola. Sa com’è, i figli maggiori tendono a comandare sugli altri» emise con un sorriso sghembo.

«Comprendo perfettamente»

«Ma ora basta parlare di sciocchezze, credo che voglia andare dritto al sodo» e, aperto il secondo cassetto, tirò fuori un grande raccoglitore «Vuole che le faccia un riepilogo o le hanno già detto tutto i miei soci?»

Hideyuki si ricordò delle parole che gli aveva rivolto la sera precedente, quando aveva nominato gli uomini del clan Hayan Son che, a quanto sembrava, indirizzavano i clienti più esigenti dei loro night club nel pachinko. Volendo assolutamente saperne di più gli chiese di rispiegare tutto.

«Come ben sa, oltre alla sala giochi organizziamo incontri per un numero di clienti selezionato e che proviene esclusivamente dai locali a noi convenzionati, e per i più affezionati facciamo anche un piccolo sconto» disse facendo un occhiolino complice «Offriamo diverse prestazioni, dal semplice sollazzo a un rapporto completo, abbiamo un tariffario dettagliato che le mostrerò tra poco. Le ragazze sono tutte eccellenti, vere coreane – in confidenza, sappiamo quanto i giapponesi abbiano apprezzato anche in passato le mie connazionali3 – e posso assicurarle che nessun cliente si è lamentato finora. Come le ho accennato ieri sera, il primo accordo lo prendiamo con un certo anticipo visto che organizziamo i turni in modo scrupoloso, si versa una caparra che corrisponde alla metà della somma pattuita, mentre la restante viene a fine rapporto. Un buon numero di uomini ha poi deciso di fare un piccolo abbonamento, chiamiamolo così, ma in quel caso ci si accorderà strada facendo. Ecco, questo è il tariffario» e gli allungò un foglio plastificato.

Hideyuki lo ringraziò e diede un’occhiata rapida al contenuto; Zanna aveva detto correttamente, erano ben elencate diverse prestazioni in modo fin troppo preciso ed esplicito. Fu quando arrivò alla parte dei supplementi, però, che avverti una stretta allo stomaco.

«Noto la dicitura “più giovani” tra gli extra… Questo significa minorenni?»

«Sì certo, d’altronde sono quelle più richieste» rispose l’ometto tranquillo, accendendosi un sigaro.

«Non è rischioso per voi?»

«Lei è davvero un uomo prudente signor Nori» disse sbuffando una nuvola di fumo acre «Ma non c’è bisogno che si preoccupi, abbiamo pensato a tutto; nessun cliente rischia incontri spiacevoli con gli sbirri, siamo in una botte di ferro qui!» ridacchiò soddisfatto.

“Ah, non sai quanto ti sbagli” pensò Hideyuki tagliente, mentre rispondeva con un sorriso falso.

«Qui, invece, può vedere le nostre ragazze» proseguì porgendogli il raccoglitore «Ricordo che lei e il suo amico avete mostrato un certo interesse nei confronti di Mi-Yon, ma dia pure una sfogliata, non sono tutte di prim’ordine?»

«Sì, certo» gli rispose, assumendo un’aria concentrata che venne scambiata dal suo interlocutore per mera lussuria.

Quello che stava cercando Makimura, in realtà, era un minimo indizio per poter collegare la ragazza uccisa a quel catalogo: sentiva che era così, il suo intuito non sbagliava mai. Sfogliò lentamente quelle pagine in cui facevano mostra di sé una quindicina di ragazze, tutte fotografate in un misero bikini; più che sui loro corpi seminudi, si concentrò sui loro volti, tutti estremamente tristi, in alcuni casi anche spaventati. Come poteva un uomo trovare attraente una donna in quelle condizioni per lui era inspiegabile, era evidente che le giovani erano costrette da quegli uomini, ma come le ricattavano? Si ritrovò a voler andare a fondo di quel meccanismo più per un suo senso di giustizia personale che per l’incarico stesso. Arrivando alle ultime pagine, però, notò delle fotografie in formato polaroid che ritraevano i volti di alcune cassiere, e sembravano scattate di nascosto poiché i soggetti non erano in posa; tra queste notò la ragazza della sera precedente e, accanto ad essa, un vuoto sospetto. Erano ben visibili i resti del nastro adesivo, segno che una foto era stata stappata via in tutta fretta. Quel particolare lo mise in allerta.

«Avete davvero ottimo gusto» disse Hideyuki, indugiando qualche attimo su quell’ultima pagina «Come mai queste ragazze sono sistemate a parte e fotografate in un modo diverso?»

«Ah, quelle sono le reali impiegate del pachinko; diciamo che arrotondano con un’ulteriore attività da accompagnatrici, ma niente di troppo approfondito, sono merce rara»

«Ovvero?»

«Vergini, ecco perché sono in una categoria apposita. Con loro non si può avere un rapporto completo a meno che…» e, guardandolo con occhi carichi di cupidigia, ultimò «Non si paghi una somma importante»

«Allora questo vuol dire che richiedete un prezzo davvero alto. Le ragazze sono ancora tutte disponibili a parte una» disse con noncuranza studiata.

«Come, prego?» domandò l’altro leggermente turbato.

«Si vede che è stata strappata una foto, quindi una è stata già presa» e gli allungò il raccoglitore, guardandolo dritto negli occhi.

«Ah… Sì, certo. Eh, siete davvero un ottimo osservatore signor Nori» balbettò l’uomo a disagio.

“Credo proprio di aver toccato un nervo scoperto, molto bene” pensò soddisfatto mentre si alzava dalla poltroncina.

«Mi tolga una curiosità Zanna: dove avvengono gli incontri? In questo ufficio?»

«No di certo. Lei è un tipo curioso» gli rispose, squadrandolo più attento.

«Non mi piace comprare nulla a scatola chiusa. Deformazione professionale, spero di non esserle sembrato troppo scortese» emise, sistemandosi gli occhiali sul naso.

Cominciava a non poterne più di parlare con quel tipo meschino e perfido; la sua natura viscida trasudava da ogni suo poro e iniziò ad avere la nausea della sua sola presenza. Tuttavia, si impose di pazientare e portare avanti quella pantomima il più a lungo possibile, almeno fino a quando non fosse riuscito a registrare il maggior numero di informazioni possibili e, soprattutto, fin quando non avesse avvertito l’arrivo di Ryo. Sapeva che, una volta fatto il suo ingresso, il suo partner avrebbe concluso quella storia molto velocemente.

«Lei deve essere un ottimo uomo d’affari signor Nori. Va bene, le mostrerò tutto e poi torniamo qui per definire la parte economica. Sa, per noi è quella più importante» emise ridacchiando come un tricheco.

L’ometto premette un pulsante nascosto sotto la scrivania e, a quell’azione, seguì un secco suono metallico. Hideyuki, mantenendosi fermo, girò di scatto gli occhi in direzione di quel rumore e non si sorprese nel constatare che proveniva dalla libreria.

«Davvero ingegnoso Zanna, è una sua idea?»

«No, è sempre opera di quel rompiscatole di mio fratello. La trovava una soluzione degna di un film d’azione» disse spegnendo il sigaro, per poi sputare rumorosamente in una sputacchiera dorata che aveva estratto dalla tasca posteriore dei pantaloni.

«E lui è qui?»

«Sì, dovrebbe stare in una delle stanze... Ha sistemato quest’ufficio secondo i suoi gusti e poi non lo usa mai» e così dicendo lo superò per aprire lo scaffale girevole.

Seguendolo, l’ex poliziotto si ritrovò in un stretto corridoio su cui si affacciavano sette porticine, oltre a una porta di metallo situata nell’angolo più buio – quella che doveva essere l’uscita secondaria –; nessuna finestra, l’unica fonte luminosa erano dei neon che riflettevano una luce violetta, che si riverberava anche sulla moquette chiara. L’odore di chiuso era coperto da un forte miscuglio di profumi, alcuni particolarmente dolciastri, che gli scombussolarono ulteriormente lo stomaco; non era nuovo a posti del genere, ma non si sarebbe mai abituato a reagire con distacco. Il suo udito allenato avvertì il rumore sommesso di alcune voci femminili, ma decise di non fare nessuna osservazione al riguardo.
Raggiunta la porta centrale, Zanna bussò lievemente per poi aprire e farlo entrare. All’interno della stanza Hideyuki vide un uomo, poco più alto della sua guida, con un ciuffo cotonato all’inverosimile, fissato con una dose spropositata di lacca. Era seduto a un tavolino e stava compilando quello che sembrava un registro contabile. Un letto e due comodini erano il resto del mobilio e, sebbene fosse tutto molto pulito, non riuscì a non trovare quel posto di raro squallore.

«Fratello ti ho portato il nuovo cliente di cui ti avevo parlato ieri sera. Voleva vedere dove si svolgono gli incontri» emise quasi in tono di scuse.

L’uomo alzò il viso dai fogli e il lume vicino mise in evidenza una profonda cicatrice, che gli solcava la guancia sinistra fino a raggiungere l’occhio. Aveva uno sguardo molto più duro e, in un certo senso, professionale rispetto al fratello; in quel momento Makimura ebbe la certezza che il cervello dell’attività doveva essere lui, restava solo da appurare se fosse stato lui a uccidere la ragazza o meno.

«Mmmh, da quale locale le è stato consigliato il nostro pachinko?» chiese stringendo gli occhi in due fessure.

Eccola una domanda a cui non sapeva rispondere, ma non si scompose; in quei casi fingersi tonto era una tattica vincente.

«Non capisco…» emise Hideyuki con occhi persi.

L’uomo sbuffò «Blue Moon? Night Stars? Kankoku no Kaze? Quale di questi locali frequenta?»

«Ah, intendeva questo! Il Blue Moon, mi hanno consigliato loro di venire qui»

Hideyuki fu soddisfatto; era riuscito ad avere l’elenco dei locali gestiti dalla Hayan Son, che erano convenzionati con quel bordello clandestino, e il tutto era stato ben registrato. Sperò solo di aver dato la risposta esatta. Nel frattempo, il fratello sfregiato si era alzato e aveva iniziato a scrutarlo con fare indagatore.
“Credo proprio di aver sbagliato risposta” si disse tranquillo; la situazione poteva degenerare da un momento all’altro, ma mantenne una calma stoica, tenendosi pronto all’azione.

«Beh, direi che non ha l’aria di uno dei classici avventori del Blue Moon… È un posto piuttosto esclusivo»

«Le apparenze possono ingannare, a volte»

«Sicuramente» fece con un sorrisetto di circostanza «Beh, questa stanza è uguale a tutte le altre, perciò se il posto è di suo gradimento direi che possiamo passare alla parte seria» e con un cenno del capo ordinò a Zanna di tornare indietro «Dopo di lei» fece, poi, rivolto a Makimura.

Ritornati nel corridoio, Hideyuki volle fare un’ultima domanda prima di dare inizio alla conclusione di quel spiacevole incontro.

«Spero di non essere indiscreto ma» avvertì un lieve “clic” in direzione della porta metallica «Ho sentito delle voci quando sono entrato con Zanna. Ci sono ragazze in servizio anche la mattina?» concluse con un tono di voce più alto per sviare l’attenzione del suo interlocutore.

“Ryo ha bloccato l’uscita, bene. Ora posso accelerare un po’ le cose”
L’uomo, che sembrò non essersi accorto di quanto stesse accadendo all’esterno, si limito a grugnire.

«No, stanno solo facendo le pulizie» disse in un modo che non voleva incoraggiare nessuna risposta.

Una volta tornati nell’ufficio – e richiuso accuratamente lo scaffale – si sedettero. Il fratello guercio prese posto dietro la scrivania mentre Zanna si sistemò sul divanetto; in sua presenza aveva perso tutta la sua baldanza.

«Bene» esordì quello che sembrava il capo, aprendo un’agenda in pelle nera lucida «Per questa sera posso sistemarla per mezzanotte meno un quarto. Prima è impossibile, è già tutto occupato»

«Nessun problema» fece Hideyuki, allungandosi leggermente verso la superficie del tavolo «Spero solo che il mio amico non abbia nulla da ridire, lui è un uomo un po’ impaziente»

«Ah sì, me lo ricordo bene» echeggiò Zanna con un sorriso stupido, che venne spento sul nascere dallo sguardo glaciale lanciatogli dal fratello.

«Allora potrei mettere prima lui, più di così non posso fare. Avete già scelto la ragazza?»

«Sì, hanno detto ieri che erano interessati a Mi-Yon» lo anticipò Zanna.

«Mi auguro che il mio inutile fratello le abbia spiegato che con lei il discorso è un po’ particolare…»

«Sì, è stato molto chiaro sulla questione, ma io e il mio amico non siamo certo tirchi» e sistemandosi gli occhiali con l’indice aggiunse «Quanto?»

«50.000 per il primo, poi dal secondo 15.000; però dovrete accordarvi tra voi su chi si prenderà la sua virtù, non vogliamo spiacevoli litigi qui»

«Quindi è già successa una situazione del genere?» domandò con noncuranza.

«Ah sì, qualche giorno fa, un vero macello!» esclamò gracchiante Zanna «Doveva vederli quei due come si contendevano M-»

«Non credo che al nostro ospite possa interessare» lo interruppe tagliente l’altro, guardandolo con odio; poi rivolgendosi a Hideyuki disse «Lo perdoni, purtroppo non sa far funzionare la testa bene quanto le mani…»

«Nessun problema. Però c’è una piccola imprecisione» emise Hideyuki mentre con l’indice indicava la pagina con l’appunto «Il mio amico è per Mi-Yon, ma io sono per Mi-Sun» disse guardando fisso negli occhi lo sfregiato.

Questi sbiancò all’istante e rimase paralizzato, come anche il fratello.

«Che?...»

«Mi-Sun Tong, la ragazza che voi miserabili avete ucciso»

«Come…»

L’uomo riuscì a balbettare solo quella parola, prima di destarsi dallo stato di torpore che sembrava averlo colpito nel sentire il nome della ragazza. Lanciando un’occhiata rancorosa nei confronti di Hideyuki, urlò al fratello di bloccare la porta mentre in un gesto fulmineo aprì il primo cassetto della scrivania; non fu, però, abbastanza veloce poiché l’ex detective in un istante si alzò, prese il voluminoso tagliacarte che faceva bella mostra sulla scrivania e glielo lanciò contro, trafiggendogli la mano destra che restò ancorata sul fondo del cassetto.

«Ahhh, brutto bastardo!» rantolò feroce «La pagherai cara, Zanna uccidilo!» ordinò all’ometto che si trovava alle spalle di Makimura.

L’omuncolo, tuttavia, non riuscì a raggiungere la libreria – dove probabilmente erano nascoste le armi – poiché si bloccò quando la porta dell’ufficiò si aprì improvvisamente con un colpo secco, lasciando entrare Ryo con la Python in pugno, una leggera scia di fumo che fuoriusciva dal silenziatore. A quella vista i due coreani rimasero, se possibile, ancor più impietriti di prima; lo sguardo del nuovo arrivato aveva una durezza che non avevano mai visto. Una freddezza che sapeva di morte.

«A quanto pare il mio socio ha iniziato a divertirsi senza di me. Ma non preoccupativi, adesso iniziamo a fare sul serio» disse lo sweeper con un sorrisetto.

«Tu?! Si può sapere chi diavolo siete?» domandò Zanna nervoso, mentre si avvicinava cautamente alla libreria facendo piccoli passetti all’indietro.

Ryo lanciò un’occhiata allo sfregiato, che cercava di sfilare il tagliacarte dalla mano senza successo, e scrollò le spalle «Beh, ufficialmente noi siamo City Hunter, ma per voi oggi siamo in veste del tutto speciale» e rapido sparò in direzione del suo interlocutore, graffiandogli la guancia; questi si fermò all’istante, emettendo un verso di sorpresa «Siamo le ultime persone che vedrete prima di marcire all’inferno»

Hideyuki osservò la scena senza perdere di vista l’uomo dolorante accanto a lui; da come cercava disperatamente di liberare la mano, capì che la pistola doveva essere conservata nel doppio fondo del cassetto, e che la lama impediva l’azionamento del meccanismo. Per scoraggiarlo decise di sfoderare la pistola e, dopo averla puntata contro di lui, scosse lievemente il capo.

«Fossi in te starei fermo, così ti farà solo più male e perderai fin troppo sangue» disse asciutto.

L’uomo, sentendosi sconfitto, abbassò la testa «Cosa volete?»

«La verità, signor avvocato» rispose lapidario Makimura.

A quelle parole lo sfregiato alzò di scatto la testa e lo guardò sorpreso.

«Non so parlare il coreano ma lo so leggere, e i molti libri esposti qui sono testi giuridici. Per non parlare poi dell’arredamento dell’ufficio, che sembra uscito direttamente da un poliziesco americano»

L’uomo lo soppesò con lo sguardo «Avrei dovuto capirlo che non eri un semplice impiegato sciatto»

Hideyuki lo guardò con durezza; aveva sempre odiato le apparenze e non c’era giorno in cui non gli venisse ricordato quanto il suo aspetto lo facesse passare per un uomo sprovveduto e trasandato. Pochi avevano la capacità di andare oltre ma, se nel privato ciò lo sconfortava, nel lavoro si mostrava una strategia vincente per un buon effetto sorpresa.

«Perché avete ucciso Mi-Sun?» domandò secco.

«Si era rifiutata a dei clienti e aveva cercato di scappare via. Voleva rivolgersi alla polizia, quella stupida»

«Immagino sia scappata durante la lite che ha accennato Zanna prima, quando è contesa da alcuni uomini» lo incalzò Makimura.

«Sì, c’erano troppi soldi in ballo per lasciar correre. Si era ribellata già altre volte, sapeva che non l’avrebbe passata liscia» rispose l’uomo con noncuranza, come se stesse parlando del tempo.

«Con cosa ricattate le ragazze? È chiaro che nessuna di loro è nel giro di spontanea volontà»

«Il contratto» e facendo una leggera smorfia di dolore proseguì «Nel contratto in giapponese è presente una piccola clausola in cui le ragazze dichiarano la loro disponibilità a svolgere mansioni supplementari; in caso di inadempienza è previsto il decurtamento dello stipendio, oltre a una penale di 150.000 yen, cifra enorme per loro che provengono da famiglie povere. Nel contratto coreano questa voce, però, è stata omessa così, quando le ragazze lo hanno scoperto non potevano fare più niente visto che avevano già firmato entrambi. Sono così stupide da non sapere che quella è tutta carta straccia, quei contratti non hanno una vera valenza giuridica, ma per stare più tranquilli abbiamo aggiunto, poi, qualche minaccia non troppo velata contro le loro famiglie. Mi-Sun è sempre stata la più problematica, però alla fine si è mostrata più utile da morta. Grazie a lei le ragazze hanno capito cosa rischiano se non fanno le brave, e sono diventate tutte mansuete come agnellini»

Hideyuki strinse più forte l’impugnatura della pistola in un misto di rabbia e disprezzo, ma fu la voce di Ryo ad alzarsi dopo qualche istante di silenzio.

«Insomma, avete cercato di pararvi il culo usando la legge a vostro piacimento per ingannare delle ragazze ingenue. E scommetto che sei stato tu grand’uomo, eh?» soffiò tagliente in direzione di Zanna, che continuava a fissarlo con occhi spiritati «L’hai uccisa con le tue mani vero?»

L’omuncolo si limitò ad annuire.

«E hai avuto anche il cattivo gusto di mettere il corpo in una busta della spazzatura e lasciarlo vicino alla sua abitazione?»

«No, quella è stata una sua idea!» esclamò additando il fratello «Io mi sono limitato a eseguire gli ordini» concluse, guardando nervosamente oltre le spalle dello sweeper.

«Che c’è? Ti stai chiedendo perché nessuno stia accorrendo in vostro soccorso?» e, avvicinandosi di qualche passo all’uomo, Ryo incrociò le braccia «Il pachinko è vuoto, ho mandato via i clienti insieme alle ragazze e ho bloccato gli ingressi. I vostri quattro scagnozzi hanno avuto la brutta idea di opporsi alla mia decisione, ma ho dato loro argomenti abbastanza convincenti per non dare più fastidio»

«Fottuti bastardi la pagherete! I nostri soci non ve la faranno passare liscia!» gli abbaiò contro l’avvocato, muovendosi con enfasi.

«Taci tu» tagliò corto Ryo, girandosi verso di lui «Siete stati proprio dei babbei a pensare che agli uomini della Hayan Son freghi qualcosa della vostra misera vita. Vi stanno usando per fare cassa, e vi hanno fatto credere di essere sotto la loro ala protettrice quando, in realtà, non vedono l’ora di mettere le mani sulla vostra attività appena sarà ben avviata, e una volta avervi fatto fuori naturalmente»

«È…È vero quello che sta dicendo, fratello?» squittì rauco Zanna, pallido come un cencio, non smettendo di fissare Ryo.

«No, è tutta una balla, una tattica per farci paura»

Sebbene il tono fosse sprezzante, Hideyuki avvertì distintamente il tremore nella sua voce.

«Ne sei proprio sicuro? Allora come mai nessuno è ancora venuto a salvarvi? Perché non ci sono telecamere o trasmittenti per mettervi in contatto con loro velocemente? No, sono sicuro che loro non tengono alla vostra vita più di quanto vuoi non teniate a quella delle ragazze, proprio come ha detto il mio socio» disse freddo mentre estraeva il tagliacarte dalla mano dell’uomo completamente insanguinata, strappandogli così un gemito di dolore.

In quell’istante Ryo fece qualche passo indietro e si girò verso l’uscita. Era quasi scomparso dietro la porta quando Zanna, frenetico, si lanciò verso una scatoletta di legno posizionata sullo scaffale alle sue spalle da cui prese un revolver di piccolo calibro, che impugnò rapido.

«Muori bastardo!» urlò inserendo il colpo in canna e un istante dopo un colpo ovattato riecheggiò nella stanza.

Zanna fece un salto all’indietro, colpendo rovinosamente la libreria e trascinando alcuni libri con sé sul pavimento. Makimura si avvicinò al corpo, giusto per constatare che una pallottola lo aveva colpito in piena fronte e, in un ultimo gesto caritatevole, gli si accovacciò accanto, chiudendogli le palpebre. Solo in quel momento Ryo, che era rimasto di spalle, si girò e avanzò in direzione dell’avvocato, le labbra strette in un’espressione severa.

«Allora? Provi il minimo rimorso per ciò che avete fatto? Collaborerai con la polizia?»

L’uomo, tremante di rabbia e con il volto madido di sudore, lo guardò in cagnesco, rosso di rabbia.

«Figlio di puttana, non ti perdonerò per aver ammazzato mio fratello» e così dicendo si alzò e gli tirò contro il tagliacarte che stava sulla scrivania.

Con un movimento agile, Ryo schivò la lama e sparò sicuro, colpendo il bersaglio all’altezza del cuore; l’uomo si riaccasciò pesantemente sulla sedia con il capo reclinato all’indietro e un’espressione digrignata.

«Può entrare adesso» disse lo sweeper rivolto alla porta e, qualche istante dopo, fece la sua comparsa il signor Tong, con gli occhi arrossati e visibilmente scosso. In quell’istante Hideyuki capì perché il suo partner si era voltato qualche minuto prima; aveva portato con sé il loro cliente, forse per permettergli un faccia a faccia con gli assassini di sua figlia. La missione poteva dirsi conclusa, per cui cacciò fuori dalla tasca del soprabito il registratore e lo spense.

«Sono… Sono morti?» domandò turbato l’uomo.

«Sì» rispose Ryo mettendo la Python nella fondina «Stavo per chiamarla quando hanno deciso di accelerare la loro condanna»

L’uomo si avvicinò cauto verso i due cadaveri e li guardò a lungo prima di emettere un sospiro lamentoso. Hideyuki, immaginando il corso dei pensieri dell’uomo, gli si avvicinò posandogli una mano sulla spalla.

«Questo non potrà riportare in vita sua figlia, ma almeno permetterà ad altre ragazze di salvarsi e cominciare una nuova vita. Non è una vendetta ma una forma di giustizia; non pensi a loro che sono morti, pensi a coloro che ha salvato decidendo di chiamarci»

Due furtive lacrime fecero capolino tra gli occhi di Tong «La ringrazio signor Makimura… Quello che mi addolora di più è che non hanno avuto la minima pietà per mia figlia… Questi non sono uomini…»

«No, non lo sono» gli fece eco un Ryo serissimo.

«Terminiamo di sistemare alcune cose qui e poi la accompagniamo a casa» disse Hideyuki allungando un fazzoletto al pover’uomo.
 
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Nel tiepido primo pomeriggio, una fiumana di persone si riversava nelle vicinanze dalla stazione di Shinjuku; volti felici, seri, concentrati, pensierosi, anche tristi si muovevano e si scontravano senza realmente vedersi. Così era anche per Hideyuki che, perso nei suoi pensieri, non si rendeva realmente conto di ciò che lo circondava. Non era stato un caso difficile, non aveva mai avuto realmente paura per la sua incolumità, ma l’esito gli aveva lasciato una certa amarezza. I due responsabili dell’omicidio erano stati uccisi, avevano aiutato una decina di ragazze a scappar via da un destino di violenze e minacce, aveva raccolto materiale interessante per far partire le indagini contro il clan Hayan Son, ma cosa restava davvero? La consapevolezza che una giovane vita era stata recisa prematuramente, il dolore insanabile di un padre e la responsabilità di aver condannato a morte due persone, seppur colpevoli. Solo questo. Si sentiva svuotato: la sua indole provava orrore per ciò che avevano fatto ma la sua parte più razionale riteneva il loro operato giusto e necessario. Avvertì, all’altezza del taschino interno del soprabito, il vuoto lasciato dalla Colt che aveva riconsegnato a Ryo prima di lasciare il pachinko semidistrutto, e sospirò lievemente. Non aveva mai ucciso nessuno, ferito sì, anche gravemente molte volte, e intimamente si era sempre sentito un po’ in colpa per quel male che aveva procurato. Da quando era City Hunter, però, il lavoro sporco lo svolgeva sempre e solo Ryo e, per quanto le loro azioni fossero sempre dettate dall’assoluta necessità, non poteva fare a meno di avvertire un certo disagio nell’arrogarsi quello stesso diritto che condannava ai criminali. Non sapeva se anche il suo partner, in realtà, si crogiolasse nei suoi stessi sensi di colpa, ma lo conosceva ormai abbastanza da aver capito che lo sweeper non provava nessun piacere nell’uccidere. Lo considerava alla stregua di un’attività inevitabile, una parte imprescindibile del suo lavoro che, volente o nolente, andava compiuta. Gli lanciò un’occhiata mentre si avvicinavano all’ingresso est della stazione, e lo vide camminare rilassato, con le mani dietro la nuca e gli occhi socchiusi; era incredibile quanto sembrasse spensierato in quella posa, così lontano dall’uomo che solo qualche ora prima aveva giustiziato due persone.

«Che c’è Maki, stai cambiando gusti? Non resisti più al mio fascino, vero?» disse sorridendo sornione, senza voltarsi verso di lui.

Hideyuki arrossì lievemente per essere stato colto in fallo «Non potrebbe mai succedere, tranquillo. Controllavo, piuttosto, che non facessi il maniaco in giro»

«Sempre a riempirmi di complimenti, povero me» piagnucolò, scuotendo lievemente il capo «Ho proprio ragione quando dico che dovrei trovare un nuovo socio»

L’ex poliziotto sorrise a quella lamentela che rendeva lo sweeper paragonabile a un bambino offeso. Aumentò l’andatura e, scansando con fatica la gente che si accalcava all’interno della stazione, raggiunse il tabellone degli annunci. Nessuna richiesta, potevano considerarsi liberi per il resto della giornata.

«Ryo, vedi che…» ma le parole gli morirono in gola appena vide il suo partner avvicinare in modo molesto alcune ragazze che stavano camminando lì vicino.

“Ah, è proprio irrecuperabile” pensò sospirando ma, non seppe spiegarsi come, quella scena non lo disturbò. Non era certo la prima volta che assisteva a quel comportamento ma, a differenza delle altre occasioni, si soffermò qualche istante in più sullo sweeper, osservando davvero, ed ebbe come una rivelazione: nel vederlo saltellare dietro all’ennesima ragazza con la lingua di fuori e prendersi l’immancabile borsata in faccia, Hideyuki capì che per Ryo quello non era che un gioco. Nel suo modo di porsi esagerato, nel non voler schivare i colpi, era chiaro come lui non ci provasse mai seriamente con le donne che incontrava per le strade affollate, anche perché – da quel poco che gli raccontava – non aveva nessun problema nel rimediare compagnia la sera nei locali. Perché comportarsi così allora? Gli mancava un piccolo elemento per giungere alla comprensione completa. Lo aveva ripreso proprio la sera precedente perché si comportava sempre come un adolescente in calore, e ora lo vedeva più simile a un bambinone dispettoso. “Perché questi atteggiamenti infantili?” si chiese e poi, improvvisamente, tutto fu chiarissimo. Se Ryo aveva quei comportamenti immaturi era perché, al momento opportuno, gli erano stati proibiti; ciò era un chiaro segnale che la sua, molto probabilmente, era stata un’infanzia negata. Quel pensiero lo intenerì e, pian piano, vide andare a posto alcune tessere del confuso mosaico che rappresentava il carattere sfaccettato del suo partner. Restavano ancora molte zone buie, ma poté dirsi soddisfatto per l’essere riuscito a capire il motivo all’origine del suo atteggiamento da maniaco, e decise di essere più comprensivo e fargli meno ramanzine sull’argomento. Gli si avvicinò in un momento di pausa in cui si era appoggiato a un pilastro, mentre si massaggiava la guancia arrossata.

«Nessun incarico per noi, quindi hai il resto della giornata libera Ryo. Domani mattina ti porto i quotidiani arretrati; mi raccomando fai il bravo»

«Bah, io sono sempre bravissimo, anzi, sono un uomo di rara bravura» e così dicendo si allontanò baldanzoso, sollevando il braccio per salutarlo.

Hideyuki si girò dalla parte opposta e, dopo aver comprato il giornale dall’edicola, raggiunse una delle tante cabina telefoniche disposte all’esterno della stazione. Dopo aver richiuso accuratamente la porticina alle sue spalle, inserì la scheda telefonica e digitò il numero che ormai sapeva a memoria. Dopo quattro squilli qualcuno alzò la cornetta.

[Sì, qui Nogami]

Nel sentire la sua voce avvertì il cuore battergli più veloce.

[Sono io] rispose in tono neutrale.

Dall’altra parte ci fu qualche secondo di silenzio.

[Dimmi] sussurrò la donna.
[Devo vederti…] disse senza pensare davvero ma, appena si rese conto dell’ambiguità della sua affermazione, aggiunse in tutta fretta [Ho del materiale interessante da darti]
[Ecco, veramente oggi sono molto impegnata, è una giornataccia…]
[A che ora finisci?] le chiese d’impeto, sorprendendosi della sua stessa intraprendenza.
[Beh…] borbottò Saeko, non riuscendo a nascondere la propria sorpresa [Per le otto più o meno…]
[Bene, allora ti aspetto al vecchio posto. A dopo] e senza aspettare risposta riagganciò.

Uscì dalla cabina come una furia, sentendosi mancare l’aria di colpo.
“Che cosa ho fatto?” si chiese turbato, mettendosi una mano sulla fronte. Da quando era diventato così sfacciato? Quando doveva incontrarsi con Saeko per questioni lavorative, lasciava decidere sempre a lei il luogo, ma questa volta… Che diavolo gli era preso? Le aveva dato l’impressione di essere impaziente di vederla, a prescindere dalle informazioni che doveva comunicarle. Affondò le mani nelle tasche del soprabito e le strinse a pugno; la verità era che lei gli mancava da morire. Negli ultimi mesi il loro rapporto si era in qualche modo rinsaldato, lei non si era più mostrata così sfuggevole e scostante nei suoi confronti, anzi, per alcuni brevi istanti gli era sembrato di ritrovare la Saeko dell’accademia, la ragazza di cui si era innamorato. Un amore non corrisposto il suo e, in fin dei conti, non si meravigliava; cosa aveva da offrire lui, soprattutto a una donna in gamba come lei? No, non ambiva certo a essere ricambiato, ma già il fatto di sentirla meno fredda gli aveva dato una gioia che non provava da molto tempo; avrebbe fatto di tutto per preservare la loro ritrovata amicizia… Se la sarebbe fatta bastare.
La breve conversazione telefonica continuava a ripetersi nella sua mente senza sosta e ciò lo fece sentire più imbarazzato che mai. L’imbarazzo si tramutò in nervosismo e, senza riuscire a controllare davvero i suoi movimenti, iniziò a camminare a scatti, fermandosi di colpo quando le sue riflessioni si facevano più profonde. Si ritrovò a girare intorno all’isolato con fare inconcludente e, appena se ne rese conto, si diede un pugno in testa, destando lo sconcerto dei passanti.
“Piantala di comportanti come un cretino, Hideyuki! Basta, non ci devo pensare più. Stasera mi scuserò per essere stato così precipitoso, fine della storia” si disse esasperato mentre si incamminava sulla Shinjuku-Dori Avenue, sperando di raggiungere casa senza ulteriori sviste.
 
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Ciao a tutte/i! Approfitto di questo piccolo spazio per scusarmi per l’aggiornamento così tardivo: purtroppo maggio e i primi di giugno sono stati mesi di fuoco per quanto riguarda il lavoro e, tra preparazione e correzione di verifiche, consigli, scrutini e altre brutture non ho avuto un attimo di tregua (a cui si è aggiunto un vero e proprio blocco per la scrittura). Vi ringrazio di cuore per la pazienza e l’affetto con cui seguite questa storia, prometto di essere più rapida in futuro! Alla prossima :)
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1 La pistola di Makimura è una Colt Lawman MK III con canna da 2 pollici, prodotta dal 1969 al 1983. Come suggerisce il nome stesso, era una pistola molto usata dalla polizia sia come arma d’ordinanza che per uso privato. In Giappone ha fatto la sua comparsa fin dagli anni ’70 in diverse serie tv e anche in altri manga.
 
2 Credo che ormai non sia un mistero il fatto che io ritenga Makimura un personaggio estremamente intelligente e arguto, perciò ce lo vedo bene a giocare un po’ con i nomi. Il cognome “Nori” è scritto con il kanji  法 , avendo così il significato di “misura”. Lo stesso ideogramma, però, con la lettura On ha il significato di “legge, principio” e lo si trova in molti sostantivi affini (facoltà di legge:  法学部; tribunale: 法廷; legislazione: 法規; ecc.) . Insomma, un modo velato per rappresentarsi al meglio.
 
3 Qui Zanna fa un riferimento non troppo velato alle “comfort women”, una delle pagine più vergognose della storia giapponese – e argomento che mi tocca sempre moltissimo. Per chi non lo sapesse, a partire dal 1932 per proseguire in modo sistematico durante gli anni della guerra, l’esercito giapponese istituì dei bordelli per i militari, in modo da scoraggiare gli stupri sulla popolazione civile nei vari Paesi asiatici da loro occupati (ad esempio: Cina, Corea, Indonesia…). Purtroppo, però, le ragazze che ne facevano parte furono tutte prese con la forza o l’inganno e costrette a prostituirsi in condizioni allucinanti, al limite del proibitivo. La maggior parte di loro è morta in seguito alle violenze subite e delle malattie contratte durante quello che fu un periodo di prigionia a tutti gli effetti. Il Giappone non ne è uscito benissimo in quanto, dopo diversi tentativi di negazione, il governo ha formulato le sue scuse ufficiale alle poche sopravvissute solo nel 2007.

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Capitolo 10
*** Capitolo VIII ***


8. 13 Novembre 1983 – Saeko Hideyuki
 
Saeko osservò per l’ennesima volta l’orologio alla parete e iniziò a tamburellare nervosamente la penna sulla superfice della scrivania. Mancava ancora mezz’ora alle otto, il tempo sembrava essersi fermato per quanto si ostinava a scorrere lentamente. Sbuffò mentre continuava pigramente a leggere le pagine dell’ultimo rapporto; non era proprio così che si era immaginato il periodo successivo alla sua promozione, ma in fin dei conti doveva aspettarselo che maggiori responsabilità comportavano un graduale aumento del lavoro d’ufficio. Le dispiaceva molto non poter essere più in prima linea come un tempo, e faticava non poco per poter partecipare a qualche missione, seppur in modo sporadico. Le piaceva il lavoro pericoloso, sentire l’adrenalina fluire nelle vene, ma era anche vero che, senza un buon partner, anche quella parte del lavoro aveva perso parte del suo fascino. Dopo Makimura aveva rifiutato qualsiasi partner fisso e, quelli assegnati per le singole missioni, non arrivavano minimamente a raggiungere l’abilità dell’ex detective; alcuni, poi, avevano cercato anche di approfittare della situazione per allungare le mani, ma lei li aveva prontamente rimessi al loro posto con un lancio di coltelli vicino all’inguine. Alla fine, per lei era meglio trascorrere più tempo in ufficio, almeno lì poteva lavorare in autonomia e senza ulteriori disturbi. Con un gesto meccanico sollevò nuovamente la testa in direzione dell’orologio.
“Sono passati meno di cinque minuti?!” si chiese spazientita e non riuscì a trattenere uno sbuffo.

«Qualche problema Nogami?» gli domandò gentile il sergente Kumori, che sedeva alla scrivania alla sua destra.

«Ah nulla» si affrettò a rispondere, irritata con se stessa per essersi fatta scoprire «Mi chiedevo quando potrò leggere un rapporto privo di errori ortografici» disse rivolgendo all’uomo un sorriso tirato.

Non era davvero quella la causa della sua inquietudine, ma era riuscita a trovare un motivo convincente, anche perché era reale.

«Ah, devi essere comprensiva, non tutti sono al tuo livello» commentò l’uomo bonariamente.

Saeko si limitò a reclinare il capo in cenno di assenso e si costrinse a concentrarsi seriamente su quei fogli, che si ostinava a guardare da tempo senza riuscire davvero a leggerli. Si sentiva una stupida per essere così distratta, non era da lei perdere il suo sangue freddo, ma quella serata le sembrava diversa dalle altre. Avvertiva dentro di sé una tensione nuova che non riusciva a spiegarsi.
“Tutta colpa tua Maki, spero davvero che tu mi abbia chiamata per un buon motivo” si disse un’ultima volta prima di fiondarsi nella lettura, iniziando a segnare e correggere i kanji sbagliati.
 
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Dopo aver fatto due volte il giro dell’isolato, Hideyuki riuscì finalmente a trovare un posto libero per poter parcheggiare lungo la Iwaida-dori Avenue, proprio accanto l’entrata Kasumi dell’Hibiya Park. Era da diverso tempo che non tornava in quel parco – più o meno poco dopo aver lasciato la polizia – ma, una volta mossi i primi passi e varcato il cancello, gli sembrò di essere mancato solo per pochi giorni. Nonostante il freddo e il tardo orario, diverse persone si avventuravano all’interno del grande ed elegante parco per poter godere di una passeggiata più intima e discreta. Spostò la manica del soprabito, scoprendo così il quadrante dell’orologio: mezz’ora alle otto. Era in buon anticipo, perciò decise che, per ingannare l’attesa, ne avrebbe approfittato per allungare la strada e perdersi un po’ tra i bei sentieri prima di raggiungere il luogo dell’incontro. Non riusciva ancora a spiegarsi perché, tra i tanti posti di Tōkyō, avesse menzionato proprio quello più carico di ricordi e a lui più caro, ma era stato un impulso spontaneo, uno di quelli che gli risultava sempre più difficile reprimere quando parlava con lei. Gli sembravano così lontani, eppure così vicini i tempi in cui, approfittando della pausa pranzo, si rifugiavano in quell’oasi di verde e pace; in realtà quello era in origine il suo posto, ma Saeko era riuscito a scoprirlo.
 
«Ehi Maki, finalmente ti ho trovato!»
Hideyuki si girò di scatto al suono di quella voce e fu particolarmente sorpreso nel vedere la ragazza, col volto raggiante di chi è riuscito a raggiungere il proprio obiettivo.
«Saeko che ci fai qui?!» le domandò alzandosi dalla panchina.
Lei gli si avvicinò e lo guardò con aria furba «Allora è qui che sparisci durante ogni pausa pranzo, e pensare che gli altri alla centrale sono convinti che incontri la tua fidanzata segreta»
«COSA?!» il ragazzo strabuzzò gli occhi, diventando paonazzo all’istante.
Saeko si lasciò andare a una fragorosa risata; Hideyuki la osservò mentre si teneva la pancia, cercando a stento di contenersi, e la trovò più bella che mai.
«Ah Maki, avresti dovuto vedere la tua faccia!» e una volta ritrovato il controllo disse, poi, più seria «Scusami, ti ho disturbato»
«No, assolutamente, e poi non stavo facendo niente di che» rispose prontamente, sorridendole.
«Non hai mangiato nulla?» gli chiese mentre si sistemava sulla panchina.
«Non proprio, avevo solo un onigiri… Non ho molto appetito a pranzo» rispose, sedendole accanto.
«Lo so, me lo ricordo bene»
«E tu? Già finito?»
«Sì, un sandwich si fa presto a finirlo. Non sono tipo da bentō troppo complicati…»
«Perché non ti piace cucinare solo per te, lo so» concluse lui.
«Già…»
Per qualche istante si guardarono con occhi ridenti; si conoscevano ormai così bene e si capivano con una facilità che non li sorprendeva più. Hideyuki si perse in quelle perle scure, pensando che avrebbe potuto fissarle ogni giorno senza mai stancarsi; quel pensiero, però, lo riportò alla realtà, facendogli distogliere lo sguardo che si rifugiò sulle acque scintillanti del laghetto. Si chiese come mai lei lo avesse raggiunto, alla fine lui si eclissava per poco meno di mezz’ora e la sua mancanza non era certo sofferta da nessuno.
Quello era il loro secondo mese in centrale e stavano ultimando l’addestramento affiancando detective esperti sul campo. Lui e Saeko stavano lavorando insieme a un caso che, se si fosse concluso positivamente, li avrebbe portati a terminare l’accademia non solo col massimo del punteggio, ma anche con un inserimento prioritario in sede. L’ambiente non era male, tuttavia lui aveva fiutato da subito molta falsità e alcune dinamiche sospette che, però, non poteva palesare in quanto non contava ancora nulla lì dentro. A parte un paio di poliziotti che ricordavano ancora con affetto suo padre, e lo trattavano con molto riguardo, gli altri sembrano a malapena tollerarlo. Saeko, invece, aveva destato subito grande interesse, a partire dal suo cognome per poi concludere con il suo aspetto. Ricordava bene gli occhi di quei poliziotti al momento del loro ingresso: li aveva detestati fin da subito, poiché quegli sguardi sottintendevano un certo scetticismo e un non troppo velato desiderio. Lei, però, grazie alla sua freddezza e indubbia bravura era riuscita in pochissimo tempo a mettere tutti al proprio posto, aumentando, se possibile, la sua popolarità all’interno della centrale. In quel breve periodo si era ritrovato a capire davvero quanta fatica costasse alla donna doversi affermare nel suo campo, quanto dovesse essere snervante sentirsi costantemente sotto esame, dover dimostrare sempre più degli altri, e provò per lei un’ammirazione sconfinata. Anche l’affetto che nutriva nei suoi confronti aveva subìto una crescita esponenziale, ma doveva tenerlo ben rinchiuso nel suo cuore; lei lo considerava come un fratello e con lui si lasciava andare, si confidava, mostrando quella parte di sé che era costretta a nascondere durante la quotidianità. Un lato più allegro e gioviale, spensierato e sensibile; un piccolo tesoro che sapeva essere riservato soltanto a lui.
Un colpo di vento fece muovere lievemente i rami del grande ciliegio sopra di loro, e alcuni fiori piovvero sulle loro teste. Saeko ridacchiò mentre gli passava una mano sulla testa per togliere quella ghirlanda improvvisata, poi si rigirò verso le placide acque del laghetto.
«È davvero un posto incantevole Maki... Ora capisco perché preferisci stare qui piuttosto che tra quelle vecchie quattro mura1»
«Sì» e, guardando la statua della gru che zampillava acqua, aggiunse «Più passano le settimane e più realizzo che nessuna teoria accademica può preparare al marcio che c’è nella società. Per questo ho bisogno in qualche modo di riprendere le forze, di ricaricarmi, in modo da affrontare il lavoro con maggior impegno ed energia. Passare qualche minuto qui ogni giorno mi aiuta a ripulirmi in un certo senso»
«Ti capisco… In effetti questo luogo trasmette un senso di pace»
Hideyuki si voltò e la vide con gli occhi chiusi, il capo leggermente reclinato con i capelli che si muovevano pigramente sotto gli sbuffi del vento. Il sole, che filtrava attraverso le foglie del porticato, rifletteva un disegno di luci e ombre sul suo viso che la faceva apparire ancor più giovane. Non sembrava più la temibile e algida Nogami tutta di un pezzo, ma una ragazza libera e serena; sentì il cuore stringersi ulteriormente.
«Senti Maki» disse lei in un sussurrò, continuando ad avere gli occhi chiusi «Per te sarebbe un problema se da domani venissi qui con te? Ammetto che la tua pausa pranzo mi piace molto più della mia» concluse guardandolo negli occhi felice.
«Beh» balbettò arrossendo lievemente «No… Nessun problema» disse imbarazzato mentre si passava una mano sulla nuca.
«Bene, grazie» e guardando l’orologio continuò «Purtroppo è già ora di andare, peccato si sta così bene qui» e alzandosi concluse «Ti precedo, così potrò dire a quel gruppetto di pettegole di averti trovato in dolce compagnia» disse facendogli l’occhiolino.
«Che?! Non mettere in giro voci false!» le urlò vedendola allontanarsi.
«In fin dei conti dalla prossima volta sarai in compagnia di una donna, quindi non è del tutto falso» gli rispose senza voltarsi.
 
Sovrappensiero raggiunse il laghetto della gru, il punto d’incontro, ma decise di non sedersi alla loro panchina, preferendo restare in piedi. Si avvicinò alla riva, appoggiandosi con la schiena al tronco di un maestoso ginkgo. L’aria era pungente, l’oscurità quasi completa se non fosse stato per i sporadici lampioni che illuminavano lievemente i dintorni, ma lui si sentiva finalmente tranquillo, libero dalla tensione che lo aveva attanagliato da quando le aveva telefonato. Quel luogo era davvero capace di rasserenare il suo animo. Lì aveva sempre pranzato con lei quasi tutti i giorni, anche durante il periodo più freddo del loro rapporto; lo avevano nominato “il loro posto” proprio perché, nonostante tutto, non lo avevano condiviso con nessun’altro, diventando così il loro personale rifugio. Guardò distrattamente l’orologio e vide la lancette segnare le otto in punto.

«Bene, manca poco ormai» emise in un soffio; era calmo ma non poté impedire al suo cuore di iniziare a battere più veloce.
 
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Si massaggiò le tempie, avvertendo quel lieve pulsare che preannunciava l’arrivo del mal di testa. Percepiva la tensione pesare su ogni muscolo del suo corpo e mai come in quel momento sentì il bisogno di un bel bagno caldo. Finalmente soddisfatta, impilò ordinatamente i fogli del rapporto e li inserì nell’apposita cartella; aveva faticato moltissimo per trovare la giusta concentrazione e aveva impiegato più tempo del normale per terminare il lavoro, ma alla fine era riuscita a tener a bada l’agitazione che l’aveva colta dopo quella telefonata. Mosse le spalle, sgranchendole un po’, e lanciò un’occhiata all’orologio da parete che segnava le otto e dieci. Senza pensarci due volte scattò in piedi e, con una calma calcolata, si avvicinò alla scrivania del collega.

«Ho apportato alcune modifiche, puoi dare un’occhiata se vuoi prima di mandare tutto ai piani alti» disse allungandogli il fascicolo.

«Non credo ce ne sarà bisogno, non ho mai nulla da ridire su ciò che scrivi» le rispose l’uomo abbozzando un mezzo sorriso «Se non c’è altro, direi che possiamo anche andar via»

«Sì, stavo giusto pensando di tornare a casa Kumori» e così dicendo tornò alla sua scrivania, iniziando a raccogliere le sue cose.

«Fai bene, saresti dovuta andar via almeno due ore fa. Lavori troppo Nogami, dovresti prendere una pausa ogni tanto»

«Non ne sento la necessità. Grazie comunque per la tua premura» rispose gentile.

Kumori era un brav’uomo di mezza età, molto serio e disponibile e non le dispiaceva averlo come compagno d’ufficio; lo aveva conosciuto appena arrivata alla centrale ed era stato il suo tutor nei primi mesi. In un certo senso l’aveva vista crescere e affermarsi in quell’ambiente all’inizio così ostile e pieno di pregiudizi, e in quel momento era la persona di cui aveva più fiducia in centrale. L’uomo si alzò, lanciandole un sorriso bonario mentre iniziava a preparare la sua borsa. Si apprestò a raggiungere la porta ma, mettendo la mano sulla maniglia, si fermò.

«Hai notizie di Makimura?»

Saeko ebbe un attimo di turbamento e ringraziò di essere di spalle al collega «Non lo sento da un po’, comunque l’ultima volta stava bene» rispose sforzandosi di mantenere un tono più neutro possibile.

«Mi fa piacere» commentò l’uomo «Sento molto la mancanza del ragazzo, era davvero uno dei migliori e facevate una bella squadra…» e aprendo la porta aggiunse «Porgigli i miei saluti la prossima volta che lo senti. Buona serata»

«Grazie, buona serata a te»

La donna chiuse velocemente la borsa e, dopo aver dato un’ultima occhiata alla scrivania per assicurarsi di aver preso tutto, si diresse con passo deciso verso l’uscita. Si sentiva un po’ in colpa nei confronti di Kumori, in fin dei conti era uno dei pochi ad avere ancora in mente il defilato detective Makimura e l’unico che le chiedeva notizie su di lui. Lei si era mantenuta sempre sul vago, non sognandosi minimamente di metterlo al corrente del lavoro del suo ex partner, ma l’uomo era un tipo discreto e si accontentava di saperlo in salute e tutto intero. Una volta fuori l’imponente Sakurada Mon2, si avviò velocemente verso il parco, percorrendo l’alberata Sakurada-dori Avenue su cui scorrevano le auto senza fretta, dando l’impressione di un fiume puntellato da una miriade di luci bianche e rosse. Lei, però, non si curò troppo di ciò che le stava attorno; non si vedevano da un paio di mesi e il battito alterato del suo cuore tradiva una certa impazienza. Non vedeva l’ora di incontrarlo, di parlare con lui, di stare seduta al suo fianco semplicemente per poter godere della sua compagnia. Si era impegnata in quei mesi per far chiarezza nel suo animo e, per quanto fosse ancora lontana dal prendere una decisione definitiva, era giunta alla conclusione che non poteva fare a meno di Makimura nella sua vita. Con quella certezza aveva riallacciato i rapporti con lui, mostrandosi molto più disponibile al dialogo e, quando necessario, preferendo parlare con lui piuttosto che con Ryo. Era stata felice di constatare che Hideyuki non provava alcun risentimento nei suoi confronti e, dopo i primi tentennamenti, avevano ritrovato quella sintonia e quella complicità che lei volontariamente aveva raffreddato negli anni precedenti. Sospirò mentre impaziente attendeva il semaforo farsi verde: perché, però, si sentiva più tesa del solito? Non era certo la prima volta che lui la chiamava in ufficio per lavoro, però… Lo aveva sentito diverso, aveva avvertito una sfumatura particolare nella sua voce che l’aveva fatta fremere per qualche istante. Non sapeva descriverla, sapeva solo che qualunque cosa fosse si era trasmessa in lei e aveva iniziato a tormentarla. La scelta del punto d’incontro, poi, l’aveva colta di sorpresa. Il vecchio posto, il “loro posto”: da quanto tempo non ci metteva piede? Aveva continuato a frequentare il parco durante le pause lavorative ma non era più riuscita ad avvicinarsi al laghetto della gru, non dopo il loro l’ultimo incontro.
 
«Maki!» lo chiamò con apprensione vedendolo seduto sul prato, accanto al solitario ciliegio che si specchiava nel lago.
Era l’imbrunire e i rami spogli dell’albero, uniti al grigiore del cielo plumbeo, conferivano all’ambiente un’atmosfera spettale. L’uomo non si mosse e lei si avvicinò, avvertendo un senso di oppressione all’altezza del petto. Era finita, la missione era stata un fiasco, Ōmori era stata ritrovata morta nei sotterranei della base criminale dopo che erano stati impegnati a lungo in un attacco che, in realtà, si era dimostrato essere uno specchietto per allodole, e i criminali si erano dileguati senza lasciar traccia. Erano ventiquattro ore che non si concedeva un minuto per chiudere gli occhi e le sembrava di vivere un incubo infinito; era stata lei a spingere Hideyuki a velocizzare i tempi e compiere la retata, sentendosi sicura delle sue valutazioni, e invece era stata gabbata come la matricola più inesperta. Aveva sbagliato. Per la prima volta lei, che era sempre stata infallibile, impeccabile, aveva fallito una missione e, ciò che era peggio, aveva indirettamente causato la morte di una fidata collega. Da quella sera aveva avvertito un gelo inestinguibile nel profondo del suo animo, ma il comportamento del suo partner l’aveva sconfortata a livelli indicibili. Non aveva emesso un fiato, trincerandosi in un ostinato mutismo fin quando avevano fatto ritorno alla centrale dove, dopo aver fatto un breve rapporto, si era dileguato. Aveva sbrigato lei la parte burocratica, impaziente di poterlo raggiungere; sapeva dove trovarlo.
Cautamente gli arrivò accanto e con un lieve movimento si sedette; l’erba era bagnata per via della pioggia recete e avvertì la gonna farsi fastidiosamente umida, ma non si scompose. Il suo, in fondo, era un disagio da poco in confronto alla tragedia che si era svolta in quelle ventiquattr’ore maledette. Girò il volto cercando il suo sguardo, ma Makimura sembrava irraggiungibile, con gli occhi fissi davanti a lui.
«Ti prego Maki, di’ qualcosa…» emise in un sussurro.
L’uomo sembrò riscuotersi solo in quel momento e si limitò a fare un pesante sospiro e ad abbassare la testa «Cosa vuoi che dica?» disse con voce spenta.
Lei non seppe cosa rispondere e si limitò a guardarlo addolorata; non lo aveva mai visto così provato, sembrava aver accusato un colpo quasi mortale. Si fece coraggio e appoggiò la mano sulla sua, che era stretta in un pugno: un piccolo gesto per comunicarli tutta la sua vicinanza e fargli capire che non era il solo a soffrire. In quell’istante il detective rialzò il capo, voltandosi nella sua direzione, e Saeko sentì un dolore acuto trapassarle il petto quando vide i suoi occhi cerchiati e carichi di una sofferenza che non aveva mai visto. Non riuscì a restare oltre in silenzio.
«Mi prenderò la responsabilità di quanto avvenuto, ho iniziato ad abbozzare il verbale e domani…»
«Domani non presenterai nulla» la interruppe bruscamente «Non prenderti tu la responsabilità. Parlerò io con il commissario Kobayashi domani, è colpa mia…»
«Lo sai che non è vero»
«Ero d’accordo quanto te»
«Sì, ma solo perché ero riuscita a convincerti!»
Makimura sorrise triste «Pensi davvero che io abbia così poca capacità decisionale?»
Saeko lo guardò smarrita; il suo partner le sembrava un pezzo di ghiaccio.
«Se ho acconsentito a procedere è perché ritenevo fosse la cosa giusta. Non mi hai convinto a fare proprio niente, o credi che sia debole a tal punto da non essere in grado di decidere autonomamente?» domandò con una punta di amara ironia.
«No!» esclamò alzando la voce «Non ho mai pensato questo e non potrei mai farlo!»
Non era stupida, aveva intuito la frecciatina verso la sua infelice affermazione sul “non ammettere alcuna debolezza”, ma non pensava di averlo ferito così tanto. Non era mai stata quella la sua intenzione.
«Ad ogni modo faremo come ho detto. Lascia parlare prima me e poi, se vuoi, puoi dare la tua versione dei fatti» emise risoluto e lei non ebbe modo di ribattere.
Lo vide così inarrivabile, così chiuso… Cosa poteva fare per placare il suo dolore se la lasciava volontariamente fuori dal suo mondo?
«Non preoccuparti, io sto bene» le disse in un soffio, come se avesse letto nei suoi pensieri «Ho solo bisogno di un po’ di tempo per riflettere» e, guardandola eloquente, aggiunse «Da solo»
«Va bene» disse nascondendo la delusione che quelle ultime parole le avevano provocato.
Come un automa si rialzò e non riuscendo ad emettere fiato si allontanò lentamente da lui, sforzandosi di non voltarsi altrimenti gli sarebbe corsa contro, schiaffeggiandolo per obbligarlo a reagire in qualche modo.
 
Entrò nel parco ormai poco affollato e avvertì la tensione aumentare ulteriormente. Pochi minuti e si sarebbero rivisti, e poi? In fin dei conti era solo per lavoro, doveva mantenersi neutrale, doveva calmarsi per ritrovare la lucidità. Imboccò il sentiero che aveva percorso così tante volte e le sembrò di vederlo con occhi nuovi: era sempre stato così bello? Non sapeva spiegarsi il perché ma, con il buio e le luci dei lampioni, il parco sembrava aver acquistato una nuova atmosfera, più suggestiva e, in un certo senso, più intima. Arrossì internamente a quelle sue sciocche sensazioni, ma il flusso dei pensieri fu interrotto appena riuscì a scorgere quella sagoma così familiare, avvolta nell’inconfondibile soprabito, leggermente illuminata dalle tenui luci artificiali. Fece qualche passo, consapevole che lui l’avesse già sentita e, appena lo vide girarsi e rivolgerle un timido sorriso, sentì il cuore tamburellarle in testa. Che cose le stava succedendo? Perché quella sera lei si sentiva così diversa? Era per via del luogo in cui si trovavano o per il tono con cui le aveva parlato prima? Non si era resa conto di essersi fermata a un paio di metri da lui, non riuscendo a interrompere il contatto con quegli occhi magnetici; gradualmente, però, sentì l’agitazione farsi più blanda per lasciar il posto a una inquietudine più lieta. Non capì cosa Makimura fu in grado di leggere nei suoi occhi ma, appena lo vide allargare le braccia verso di lei, non ebbe esitazione e gli andò incontro veloce, stringendosi a lui con forza. In un attimo il tumulto interiore si placò per lasciarle un senso di benessere dolcissimo. Quel posto era davvero la sua oasi di pace.

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Aveva smesso di osservare l’orologio da tempo e si era perso nella contemplazione delle acque placide del laghetto. Non pensava a nulla, aveva sgomberato la mente da ogni preoccupazione e aspettava sereno il suo arrivo. I rumori della città gli giungevano ovattati ma ciò non gli impedì di concentrarsi su un suono di passi secco e cadenzato che avrebbe riconosciuto tra mille. Sentendola più incerta si girò verso di lei e, alla felicità del momento, si sovrappose una certa preoccupazione appena incrociò i suoi occhi. Gli sembrava così esausta, poteva leggere chiaramente la stanchezza sui suoi lineamenti tirati; d’altronde lei era solita non risparmiassi mai sul lavoro e sapeva che, da quando non c’era più lui, aveva considerevolmente aumentato il ritmo. Oltre questo, però, non gli sfuggì una certa tensione nel suo sguardo e si chiese cosa potesse turbarla in quel modo. La vide tentennare, incapace di avvicinarsi a lui sicura come sempre, e avvertì una profonda tenerezza nei suoi confronti. Forse perché era una serata diversa dal solito, o perché il luogo era così carico di significato, Hideyuki avvertì con nitidezza che lei necessitava di rassicurazione e si rese conto che solo lui poteva dargliela. Come aveva già fatto in quella giornata, agì senza riflettere e, tolte le mani dalle tasche del soprabito, allargò le braccia leggermente ma in modo inequivocabile. Voleva darle il supporto che le mancava, essere la spalla su cui poter trovare ristoro. In quell’istante si accorse davvero del suo gesto e ne rimase stupito e allo stesso tempo imbarazzato; ancora una volta si era lasciato andare all’istinto e sentì il rossore inondargli alle guance. Non ebbe, però, molto tempo per imbarazzarsi poiché la vide muoversi rapida verso di lui, uno strano sorriso sulle labbra, e con slancio si buttò tra le sue braccia. Sentì il cuore esplodergli nel petto appena avvertì il suo calore; si erano abbracciati poche volte e mai in quel modo.

«Scusami, ho fatto tardi» gli disse con un filo di voce.

Hideyuki sorrise: sembrava davvero una giovane donna indifesa quella che stava abbracciando e si rese conto di volerla vedere più spesso così bisognosa di lui. Lui che, normalmente, non poteva darle niente a parte il suo infinito amore e supporto.

«Non preoccuparti» le soffiò tra i capelli, stringendola un po’ di più «Anzi, per colpa mia ora stai facendo gli straordinari invece di essere a casa a riposare»

Saeko scosse lievemente il capo «Non mi dispiace essere qui»

In quell’istante Hideyuki si sentì perfettamente felice.

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Con il capo appoggiato sul suo petto, Saeko avvertiva distintamente i battiti ritmici e veloci dell’uomo, che la tranquillizzavano come una tenera ninna nanna. Si ritrovò a sorridere, pensando a come il suo caro amico sicuramente fosse arrossito e, per evitargli ulteriore imbarazzo, lentamente si allontanò da lui; le sembrò strano, ma di colpo avvertì una fastidiosa sensazione di freddo attorno a sé.

«È da un po’ che non ci si vede» disse per riportare la conversazione a un tono più neutro.

«Già»

Lo sguardo di lui era così carico di dolcezza che fece un enorme sforzo per non fiondarsi nuovamente tra le sue braccia; sentì le gambe farsi più deboli, ma riuscì a mascherare il tutto con un sorriso.

«Ah, prima che me ne dimentichi, ti manda i suoi saluti Kumori»

Hideyuki sorrise sorpreso «Grazie, ricambio con affetto i saluti. Come sta?»

«Adesso molto meglio; sua moglie è stata ricoverata per un mesetto in ospedale e sembrava il fantasma di se stesso. Per fortuna è andato tutto bene e anche lui è tornato l’uomo di sempre»

«Mi fa piacere, lo ricordo con affetto. È un uomo integerrimo, l’ho sempre rispettato e ammirato per questo» disse volgendo lo sguardo verso destra.

«Sai, mi ha detto che sente la tua mancanza. Ti ritiene uno dei migliori ed è ancora dispiaciuto della tua scelta» e prendendo un profondo respiro, aggiunse piano «E lo sono anch’io»

L’uomo portò i suoi occhi rapidamente su di lei, mantenendo un’espressione indecifrabile.

«Non ci hai mai pensato… A ritornare nella polizia?»

«Saeko…»

«Uomini come te sono necessari, dovresti riconsiderare la tua scelta! Sono certa che ti riprenderebbero senza problemi e-»

«No»

La donna nascose a stento la delusione causata da quel monosillabo; una parte di lei aveva sempre sperato nel ritorno di Makimura in polizia. Avrebbe potuto contare nuovamente sulla sua preziosa presenza e collaborazione. Sarebbero potuti tornati a essere una squadra.

«Mi rende felice che qualcuno abbia una così buona considerazione di me, ma mi trovo bene con il mio nuovo lavoro. Non ho le limitazioni che la legge inevitabilmente impone e sto perseguendo il mio obiettivo di essere utile a questa società» e, sistemandosi nervosamente gli occhiali con l’indice, aggiunse «Non ti nascondo che qualche volta mi è capitato di pensarci, ma posso dirti che per ora non rientra assolutamente nei miei piani… Però, se in futuro alcune cose dovessero cambiare, allora potrei davvero riconsiderare l’idea di tornare in polizia»

«Davvero?» domandò, leggermente curiosa di sapere quale potesse essere il motivo che lo avrebbe riportato al vecchio lavoro.

«Sì… Anche se una parte di me crede che ciò non succederà mai» le rispose, guardandola fattosi schivo d’un tratto.

Saeko avrebbe voluto chiedergli altro ma lui la anticipò, cambiando radicalmente discorso.

«Comunque non mi sono dimenticato di ciò che ti ho detto al telefono. Ho bisogno del tuo aiuto per terminare un lavoro che non posso fare da solo, visto che mi mancano gli uomini e i mezzi»

La donna si fece di colpo più attenta; era raro che fosse lui a richiedere il suo aiuto, solitamente era lei che cercava la collaborazione dei due City Hunter.

«L’ultimo caso ci è stato affidato da un padre che aveva trovato sua figlia morta… Non entro nei dettagli della vicenda, ma immagino che tu possa intuire il contesto se ti dico che loro sono coreani e vivono a Shin-Ōkubo»

Saeko si limitò ad annuire; non si era informata personalmente, ma sapeva bene come quella zona fosse diventata di colpo popolosa di immigrati, per lo più irregolari, e di come la criminalità iniziasse a contendersi il dominio del quartiere. Hideyuki, notando la sua comprensione, proseguì lasciandosi cadere sulla panchina vicina.

«Il nostro lavoro si è limitato a individuare i responsabili dell’omicidio però, durante l’indagine, abbiamo scoperto che c’è un clan coreano che si sta imponendo nel quartiere, gestendo alcuni night club e, allo stesso tempo, controllando anche il traffico di droga e donne…» emise abbassando il capo.

La detective iniziò a intuire dove l’uomo volesse arrivare.

«Maki, pensi ancora a-»

«Certo che ci penso, non c’è giorno in cui non speri di riuscire a prendere quei criminali!» esclamò risoluto «Nell’attesa di riuscirci, però, non posso permettere di lasciare in libertà bastardi che si arricchiscono sulla pelle di giovani donne. La ragazza del nostro caso era una di quelle, l’hanno uccisa perché aveva cercato di scappare, di sottrarsi alle violenze, capisci?»

«Sì» mormorò triste.

Makimura continuava a pensare al loro ultimo lavoro, il suo più grande fallimento, e non la meravigliò constatare come casi simili a quello non lo lasciassero indifferente. Aveva sempre notato nel suo ex partner una certa sensibilità per le tematiche che includevano il traffico di donne con tutti gli annessi e connessi. Lui stesso le aveva confessato, anni prima, di come gli fosse impossibile concepire la violenza nei confronti delle donne. Era la sua grande sensibilità a farlo parlare così, anche se lei intuiva che, un’altra motivazione, fosse il suo amore fraterno: quelle giovani vittime, così simili alla sua cara sorellina, sicuramente influivano in buona misura a corroborare la sua rabbia e il suo impegno nella crociata contro quei spregevoli criminali.

«Ecco perché ho registrato il colloquio con i due responsabili del pachinko che collaboravano con quel clan; nel retro della sala da gioco si occupavano di gestire gli incontri tra le ragazze e i clienti inviati dai night club» e così dicendo estrasse dalla tasca interna del soprabito una piccola cassetta «Non sarà un ascolto piacevole, ad ogni modo all’interno della custodia ho inserito un biglietto con i minutaggi importanti. Viene fatto il nome del clan e dei locali da loro gestiti, puoi usarla come eventuale prova in un futuro processo»

«Ho capito» gli disse, prendendo la piccola cassetta e mettendola subito in borsa «Non preoccuparti, dirò di aver avuto una segnalazione anonima circa attività sospette nel quartiere, e manderò casualmente due uomini in quei locali in modo da infiltrarsi e scoprire qualcosa di più»

Hideyuki sorrise soddisfatto «Ti ringrazio Saeko. Purtroppo so già che, anche se hanno perso quel pachinko, avranno trovato un modo per non perdere quell’entrata facile. È importante non perdere tempo»

Dopo qualche secondo di pausa, venne presa da una certa curiosità «A proposito, che ne avete fatto degli uomini della registrazione?» domandò, sebbene intuisse già la risposta.

«Beh, diciamo pure che Ryo li ha messi fuori gioco a tempo indeterminato. Poi abbiamo distrutto un po’ la struttura – ho dovuto contenere quel pazzo, voleva bruciare tutto – e i soldi che abbiamo trovato li abbiamo dati alle ragazze che ci aspettavano fuori; avrebbero provveduto a distribuirseli tra di loro, come risarcimento»

Saeko si prese qualche istante per osservare il profilo dell’uomo, lievemente illuminato dalle luci fredde della città e, nel vedere la sua espressione seria, la mascella contratta, avvertì una sensazione strana allo stomaco. Le piaceva il Maki dolce e un po’ impacciato, ma il suo lato più serio e professionale la affascinava terribilmente. Quella sera si sentiva attratta da lui come non le era mai capitato ma, appena si rese conto della deriva che avevano preso i suoi pensieri, si ricompose, limitandosi a schiarire la voce e si sedette accanto a lui.

«Ascolterò il nastro stasera e domani vedrò di iniziare a imbastire le indagini» con la coda dell’occhio lo vide annuire e poi proseguì «Vorrei sapere se questo clan ha qualche appoggio con delle famiglie yakuza. Sai, ciò complicherebbe non poco la situazione…»

«No» rispose calmo, non smettendo di fissare un punto indefinito davanti a lui «Abbiamo parlato con l’informatore migliore di Shinjuku e lui ci ha assicurato che il clan non ha alcun collegamento con la mafia giapponese»

Saeko lanciò nuovamente uno sguardo fugace nella sua direzione e le dispiacque vederlo in quell’istante così distante. Decise di riscuoterlo da quel momento di torpore, provando a stuzzicarlo un po’.

«E Ryo, gli hai detto che avresti chiesto il mio aiuto?»

A quelle parole vide Hideyuki girarsi di scatto, un’espressione indecifrabile sul viso.

«No, è stata un’idea mia. Quello che ti ho chiesto va oltre il caso affidatoci» rispose un po’ secco.

La donna non si fece scoraggiare e continuò «Ah peccato, con questo lavoro avrei potuto smarcare un po’ di debiti da quell’assurda lista che sventola ogni volta in mia presenza» disse eccessivamente afflitta.

«Te ne dispiace davvero?»

Saeko a quelle parole trasalì leggermente; il tono era stato freddo, non era affatto quello il risultato che aveva sperato. Aveva intuito da tempo che Makimura provava una certa gelosia nei confronti di Ryo – e con il suo atteggiamento ambiguo lei non l’aveva di certo aiutato – e solitamente lui rispondeva alle sue provocazioni. Le piaceva vederlo visibilmente teso e imbarazzato, e avrebbe voluto vederlo così piuttosto che in preda all’apatia che sembrava averlo colto improvvisamente. Eppure lui l’aveva nuovamente sorpresa: non era più apatico ma sembrava che quella piccola allusione lo avesse reso scostante.

«Che intendi?»

«Sii onesta con me Saeko. Anche se ho gli occhiali, ci vedo bene abbastanza bene per capire che tu piaci davvero molto a Ryo e anche tu…» lasciò in sospeso abbassando il volto.

«Io cosa?» domandò non riuscendo a reprimere una certa ansia nella sua voce.

Era la prima volta che lui affrontava in modo così diretto quell’argomento e la cosa le mise addosso una certa inquietudine, ben diversa da quella che l’aveva attanagliata fino a una mezz’oretta prima.

«Anche tu dovresti ricambiarlo. Non mi meraviglia ciò, d’altronde so che Ryo è un uomo eccezionale, perciò…» si interruppe per prendere fiato, a testimonianza di come gli pesasse pronunciare quelle parole «Perciò non credo che per te sia davvero una fatica ripagare i debiti che hai con lui, anzi il contrario»

Saeko sgranò gli occhi a seguito di quella dichiarazione; l’uomo sicuro di sé aveva lasciato il posto a uno fattosi più piccolo, schiacciato da una consapevolezza di inferiorità che lo rendeva ai suoi occhi vulnerabile come non mai. Era quindi questo quello che pensava? Si era convinto che lei provasse dei sentimenti nei confronti dello sweeper? E allora tutto ciò che aveva fatto nei mesi precedenti, il modo in cui aveva diminuito le loro solite pantomime e aveva cercato il modo di passare più tempo con lui, l’abbraccio che si erano scambiati solo poco prima… Possibile che il suo intuito infallibile avesse preso un abbaglio e pensasse che lei potesse essere così frivola?

«No!» esclamò con un tono di voce più alto di quanto volesse, sorprendendo Makimura e lei stessa «Non è vero!»

Lo guardò intensamente, sperando che lui riuscisse a leggerle dentro, come aveva sempre fatto del resto, ma lui fuggì quel confronto, alzandosi velocemente e dandole le spalle.

«Maki perché adesso mi eviti?»

L’uomo sembrò irremovibile e in quel momento Saeko iniziò a essere esasperata da quella situazione. Gli avrebbe fatto capire che lo sweeper non era nel suo cuore.

«Insomma Maki, non è da te!» sbottò leggermente irritata, alzandosi di scatto dalla panchina, ma il suo gesto non fece che farlo allontanare ulteriormente di un passo.

Una parte di lei avrebbe voluto prenderlo per un braccio e scuoterlo con violenza, spronarlo a parlare per impedirgli di restare nel suo stato catatonico, ma alla fine prevalsero i sensi di colpa; in fin dei conti era stata lei a far uscire il discorso di Ryo. Sapeva che lui l’amava e ne era geloso, ma non aveva capito fino a che punto fosse fragile. Abbassò il viso costernata, limitandosi a rivolgergli un sussurro.

«Ti prego… Hideyuki…»

Lo aveva fatto. Per la prima volta lo aveva chiamato per nome e le era sembrato come se lo avesse fatto da sempre. Aveva sempre preferito chiamarlo con il diminutivo del cognome, non sapeva neanche lei il perché, ma in quel momento aveva voluto accorciare le distanze tra loro. Glielo doveva, soprattutto dopo aver intuito l’entità del dolore che provava per causa sua; decise in quell’istante di essere il più onesta possibile con lui visto che, quando doveva gestire i propri sentimenti, Makimura smetteva di essere infallibile come suo solito. Le sue parole sembrarono avere l’effetto sperato e l’uomo si girò finalmente verso di lei, con un’espressione sorpresa.

«Non potrei mai andare a letto con Ryo» gli disse decisa, avanzando verso di lui «Indubbiamente è un uomo virile e gli sono affezionata…» si bloccò appena fu a un passo di distanza da lui, che non smetteva di fissarla leggermente confuso; sapeva di farlo stare sulle spine.

«Però non lo amo. Non potrei mai concedermi a un uomo che non abbia il mio cuore» concluse sorridendo debolmente.

Alla fine lo aveva detto. Gli aveva confessato la verità in modo inequivocabile e, appena vide i suoi tratti distendersi e gli occhi ritrovare il loro usuale bagliore, si disse di aver fatto la scelta giusta. Le sorrise teneramente e, in quell’istante, sentì il cuore mancarle un battito. Per la seconda volta lo trovò bello e desiderabile in un modo tale da farle male, sentendosi allo stesso tempo attratta e atterrita da lui. Sarebbe riuscita a dirgli che, l’uomo che deteneva gran parte del suo cuore era proprio lui? Sarebbe mai riuscita a dirgli che lo amava quando lei stessa era spaventata dai suoi stessi sentimenti e dalle conseguenze che un eventuale rapporto avrebbe apportato inevitabilmente alla sua vita? Per quanto in quel momento provasse a sforzarsi, non sarebbe riuscita a dirgli che lo amava, sebbene avvertisse un affetto smisurato nei suoi confronti. Lei non era mai stata legata a nessuno ed era stata sempre un tipo fin troppo razionale per poter credere che l’amore fosse un sentimento totalizzante, capace di annientare la ragione. C’erano così tante incognite, così tanti fattori nella vita e nel rapporto di coppia, sarebbe stata capace di superarle? Sarebbe riuscita un giorno a lasciarsi andare e permettere di farsi amare? La sua parte più fragile temeva di deludere lui e l’idea che si era fatta di se stessa.
Mentre era persa nelle sue riflessioni, non smise un attimo di fissare quegli occhi caldi e buoni, che sembravano seguirla nei suoi pensieri, come se li avesse espressi a voce e ciò la rincuorò; testimoniava che Maki era tornato presente a se stesso. Lui, l’unica persona capace di capirla e vederla nella sua vera essenza.
Hideyuki in quel momento le prese la mano destra e la strinse con calore, portandola vicino al suo cuore.

«Non preoccuparti, io aspetterò per tutto il tempo che vorrai» le disse con un sorriso amorevole, come se volesse rispondere ai suoi dubbi inespressi «Avrei, però, una richiesta che spero potrai esaudire da oggi stesso» e dopo una brevissima pausa concluse «Vorresti chiamarmi sempre per nome quando siamo soli? Sai, mi piace sentirtelo dire»

Saeko fremette a quelle parole e si limitò ad annuire, troppo emozionata per dire qualcosa. Cos’era quella, una dichiarazione? Lui non era mai stato così esplicito e ciò, in un certo senso, non le dispiacque affatto. Per loro quella era si era mostrata davvero una serata magica e, l’essersi scoperti nel loro posto speciale, non fece che accrescere in lei una forte emozione. Quel momento d’incanto, però, fu interrotto quando Makimura lanciò un’occhiata all’orologio da polso.

«Purtroppo devo andare, si è fatto tardi e Kaori sicuramente si starà chiedendo che fine abbia fatto» e, accarezzandole dolcemente il dorso della mano con il pollice, aggiunse «E anche tu Saeko, meglio che torni a casa a riposare e cerca di non strapazzarti troppo, mi raccomando»

«Mi fai la ramanzina come se fossi una ragazzina irresponsabile»

«Forse perché certe volte lo sei»

Si sorrisero liberamente, di quei sorrisi sinceri che vibrano negli occhi, e Saeko per la prima volta avvertì il doloroso desiderio di trattenerlo, di non farlo andare via da lei.

«Ah, me ne stavo dimenticando…» e così dicendo prese dalla tasca esterna del soprabito un piccolo sacchetto argentato «Immagino che tu non lo dica troppo in giro, ma per tua sfortuna ho una buona memoria. Anche se in ritardo, buon compleanno»

Sentì il cuore fermarsi per un secondo: lui si era ricordato anche del suo compleanno e aveva avuto il tempo di farle un regalo. A parte la fondina per i coltelli non le aveva mai regalato nient’altro, perciò prese il sacchetto leggermente commossa.

«Grazie mille Hideyuki, non dovevi»

«Ah, è davvero una sciocchezza! Diciamo che ti sarà utile per quando comprerai la macchina dei tuoi sogni» le disse passandosi la mano dietro la nuca, con fare imbarazzato.

Eccolo lì, il suo caro Maki timido e un po’ impacciato, tanto da non saper gestire i ringraziamenti. Dopo averle lanciato un’ultima occhiata ricolma di affetto, le sussurrò “buona notte” per poi allontanarsi velocemente. Saeko restò qualche istante a fissare il sacchetto ma poi, vinta dalla curiosità, decise di aprilo subito non volendo aspettare di tornare a casa. All’interno della piccola confezione trovò un semplice portachiavi con un pendente circolare di legno laccato nero, lucidissimo; appena ruotò il lato, però, vide disegnati un fiore di ciliegio e una foglia di ginkgo dorata che si incrociavano.
“Allora non dimentichi proprio niente…” disse passando delicatamente un dito sul disegno.
 
«Perché non hai detto agli altri che oggi è il tuo compleanno?»
Makimura la guardò con aria sorniona mentre lei stava aprendo il suo scarno bentō. Se lo aspettava che avrebbe tirato fuori quella storia.
«Non mi andava» rispose facendo spallucce.
«Ammettilo: non ti va di offrire perciò sei stata zitta»
«Maki!» esclamò dandogli uno schiaffetto sul braccio «Mi dipingi come un mostro»
«No, solo come una vecchia taccagna» commentò divertito, facendole un occhiolino.
«Chi sarebbe la vecchia? Attento, potrei romperti gli occhiali e condannarti a morte certa» gli soffiò tagliente.
«Ah, allora come non detto» emise con tono falsamente colpevole, piegandosi contrito «Mi scusi Saeko-dono3
La ragazza gli sorrise prima di iniziare a mangiare. Il suo caro amico riusciva sempre a metterla di buon’umore, anche durante le giornate in cui si sentiva più malinconica come quella del suo compleanno. Non le piaceva festeggiarlo, le ricordava solo dell’inesorabile trascorrere del tempo e delle pressioni che suo padre iniziava a farle ogni volta che la sua età aumentava di numero. A lui, però, aveva confidato tutto già da un anno; Maki non face testo, era l’unica persona ad avere la sua totale fiducia.
«Festeggerai con la tua famiglia?» le domandò Hideyuki dopo qualche minuto di silenzio.
«Non proprio. Mi vedrò in serata con mia sorella Reika, mangiamo qualcosa fuori e fine. Ho finito di sorbirmi quelle snervanti cene familiari» e lanciando un’occhiata al laghetto continuò «Per questo non l’ho detto in centrale, anche le cene tra colleghi sono terribili, anzi direi anche peggiori; lì la falsità si taglia col coltello» spostò gli occhi verso il suo amico, che non sembrava affatto sorpreso da ciò che stesse dicendo «Preferisco che lo sappia pochissima gente, quella che mi è più vicina e di cui sento di potermi fidare. Festeggiarlo, poi, è un altro discorso. Per ora non mi sento ancora in vena ma, se con il tempo la mia visione cambierà, vorrò sicuramente trascorrere una bella serata solo in loro compagnia» concluse lanciandogli un fugace sorriso.
I due restarono per un po’ di tempo in silenzio, godendo della reciproca compagnia in quel posto che rappresentava un piccolo rifugio pacifico dal loro mondo. Aveva appena smesso di piovere e le nubi si stavano diradando, per lasciar il posto a un timido sole che illuminò la chioma rigogliosa dell’imponente ginkgo che si trovava sulla sponda del lago.
«È davvero bellissimo» si lasciò sfuggire la ragazza in un sussurro, mentre osservava l’albero.
Hideyuki si girò verso di lei, guardandola con fare interrogativo.
«In questa stagione i ginkgo sono i miei alberi preferiti… Guarda quelle foglie dorate, non sono uno spettacolo?»
«Beh, sì…» rispose il ragazzo non molto convinto.
«Ah, ma che te lo dico a fare! Ho capito, ti sto annoiando» disse subito piccata.
«Non fare così Saeko» disse girandosi verso di lei «Solo che non mi entusiasmano i ginkgo, tutto qui»
«Ah, e cosa preferisci? Per caso i ciliegi?» gli chiese indicando i rami spogli sopra di loro.
«Non ho una vera passione per le piante, però sì, tra i due preferisco i ciliegi in fiore»
«Davvero? Beh sì, non sono male ma mi piacciono di gran lunga i ginkgo dorati. In fin dei conti, i fiori di ciliegio hanno anche troppi estimatori, specialmente tra le ragazze»
«E tu cerchi di andare sempre dove non va la massa, vero?» domandò guardandola sorridente.
Saeko rispose al sorriso, sentendo un piacevole calore all’altezza del petto: Maki non si smentiva mai, riusciva sempre ad andare dritto al punto, a capirla come nessuno era riuscito mai a fare. Si sentì felice di averlo nella sua vita, con un amico così sentiva di non avere nulla da temere.
«Però» proseguì lui, volgendo lo sguardo verso il laghetto «È un peccato che il periodo della fioritura non coincida con quando le foglie dei ginkgo cambiano colore. Sarebbero uno spettacolo molto interessante»
«Mmh… Ora che mi ci fai pensare, sì, sarebbero meravigliosi insieme; già me li immagino uno accanto all’altro con quel bel contrasto di colori... Peccato, però, che siano un’accoppiata impossibile» rispose, riprendendo il suo pasto.
«Un’accoppiata impossibile… Già…» commentò Makimura leggermente rabbuiato.
 
 Saeko, commossa, strinse tra le mani il portachiavi; era stato un episodio insignificante quello, risalente a diversi anni prima, ma lui non solo lo aveva ricordato, ma aveva anche cercato di realizzare in parte il suo desiderio. Un fiore di ciliegio assieme a una foglia di ginkgo dorata; osservandoli sul ciondolo erano davvero una bella accoppiata. I fiori preferiti da Maki insieme al suo amato ginkgo. Una coppia impossibile. In quell’istante venne colta da un dubbio: che quel regalo nascondesse un messaggio velato? Che quelle piante potessero simbolicamente indicare loro due? Poteva Hideyuki aver voluto comunicarle, in modo indiretto, che anche loro avevano una possibilità di stare insieme, di formare una coppia all’apparenza impossibile, con lei, giovane e affascinante detective in carriera, e lui, defilato ex detective ormai collega di un fuorilegge? Forse era semplicemente un’invenzione della sua fantasia e non c’era nessun significato particolare dietro quel dono, ciò nonostante ebbe la consapevolezza che quella serata aveva cambiato in modo significativo il loro rapporto: si erano scoperti entrambi più di quanto avessero fatto in tutti quegli anni. Risultava ormai palese come provassero un reciproco affetto, che andava ben oltre l’amicizia ma che non era ancora sufficientemente chiaro per potersi definire amore. Una parte di lei, in realtà, avrebbe desiderato già lasciarsi andare ma, l’altra, era come presa da un senso di oppressione al pensiero di essere unita a qualcuno, di far coppia nella vita con un’altra persona, e tutti i dubbi che l’avevano colta prima le facevano dubitare della forza del sentimento che nutriva per lui. Si convinse di aver bisogno solo di altro tempo. Tempo per poter chiarire in modo definitivo le sue priorità, i suoi desideri, e testare l’effettiva portata del suo amore; non voleva in nessun modo illudere il caro Maki dandogli una falsa speranza. Non se lo sarebbe mai perdonato, ma lui sembrava aver già capito tutto.
“Aspetterò per tutto il tempo che vorrai”: quella promessa le ritornò in mente, facendole riaffiorare un timido sorriso sulle labbra.
“Spero di non farti aspettare troppo” pensò mentre, a passi lenti, usciva dal parco dirigendosi verso casa.

__________________
 
1 Il quartier generale della polizia metropolitana di Tōkyō, ben rappresentato più volte dallo stesso Hōjō, è stato costruito dal 1977 al 1980. Precedentemente, sempre sullo stesso posto (e con una forma più o meno simile) vi era il vecchio quartier generale, risalente al 1937 e demolito poiché considerato antiquato e troppo piccolo. Tenendo conto che Hideyuki è del 1956 – come Saeko, che ritengo essere sua coetanea – mi sembra probabile che i due abbiano lavorato almeno un anno nella vecchio palazzo prima che venisse dismesso. Durante la costruzione del nuovo quartier generale, la sede della polizia metropolitana venne spostata al Bussankan, edificio anch’esso risalente ai primi anni Trenta, che aveva ospitato negli anni diversi uffici istituzionali e situato a Nishi-Shinbashi, non molto distante dal quartier generale. A sua volta, il Bussankan venne demolito nel 1980 e al suo posto è stato edificato l’Hibiya Central Building.
 
2 Letteralmente “Porta Sakurada” è l’altro nome con cui è chiamato in modo informale il palazzo della polizia metropolitana, in quanto posizionato di fronte all’omonima porta d’accesso del Palazzo Imperiale (fenomeno simile lo si osserva per New Scotland Yard, che prende il nome appunto dalla via della prima sede).
 
3 –dono (殿) è un suffisso formale, utilizzato oggi principalmente nel linguaggio scritto. Il kanji ha altri significati, quali signore feudale, e lo si usa per comporre le parole dimora/palazzo, vostra altezza, ecc. Per chi conosce l’opera Rurōni Kenshin, sa che Kenshin si rivolge a Kaoru chiamandola “Kaoru-dono” proprio per sottolineare un rapporto non solo di rispetto ma anche di inferiorità. Nel contesto del dialogo, l’accezione è volutamente esagerata e quindi scherzosa.

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Capitolo 11
*** Interludi ***


Salina Cruz, dicembre 19711 – Un nuovo inizio I
 
«Vi è uno spettacolo più grandioso del mare, ed è il
cielo; vi è uno spettacolo più grandioso del cielo, ed
è l’interno dell’anima» Victor Hugo, I Miserabili
 
Nel buio della notte, una petroliera di piccole dimensioni si accingeva a sciogliere gli ormeggi e a salpare dal porto di Salina Cruz diretta verso Rosarito, penultima città messicana prima del confine con gli Stati Uniti. Le luci che provenivano dalla costa non potevano rivaleggiare in alcun modo con le tenebre dense dell’Oceano Pacifico, che sembravano aver inghiottito la placida imbarcazione. Tra gli uomini dell’equipaggio che si affannavano veloci sul ponte principale, ognuno col proprio incarico da portare a termine, ce n’erano tre che si limitavano a stare appollaiati sulla balaustra esterna; anche un occhio poco attento sarebbe stato in grado di intuire che quel trio si differenziava dal resto dell’equipaggio. I due uomini – uno di mezza età e statura minuta, l’altro più alto e giovane – si trovavano vicini mentre il terzo se ne stava leggermente più defilato. Sebbene l’altezza di quest’ultimo fosse superiore a quella di chiunque altro a bordo, osservando il suo viso ci si sarebbe resi conto che era soltanto un ragazzo. Vestivano abiti civili, semplici pantaloni di fustagno e camice quadrettate, ma si poteva intuire facilmente che erano tutto fuorché dei normali civili; gli stessi membri dell’equipaggio sembravano averlo capito e si guardavano bene dall’avvicinarsi e, a parte il capitano con cui avevano pattuito la somma per il viaggio, nessuno si era azzardato a parlare con loro.

«Abbiamo avuto fortuna» emise piano Kenji «Se avessimo perso questa occasione saremmo stati costretti ad attraversare quasi metà Messico prima di arrivare a un altro porto mercantile»

«Avremmo anche avuto fortuna Prof, ma ciò non toglie che il capitano è un maledetto strozzino» sbottò l’uomo seccato, prendendo dal taschino della camicia un pacchetto di sigarette «Ha voluto la mia amata Jeep Willys… è stato un colpo al cuore separarmene!» si lamentò accorato.

«Andiamo Frank, presto ti potrai comprare un’auto anche superiore. E poi, questo bestione ci porta proprio a un passo dal confine; sono riuscito a contattare due miei uomini che operano a San Diego e si stanno già attivando per i documenti» emise l’uomo soddisfatto, mentre giocherellava con le dita tra i corti baffi.

«Sarà… Ad ogni modo ero molto affezionato a quel macinino» e dopo essersi acceso una sigaretta, si rivolse al ragazzo alla sua destra «Ryo?» chiamò, allungandogli il braccio con il pacchetto.

Il giovane annuì e si avvicinò per prendere una sigaretta.

«Tutto bene, my boy? Ti vedo più silenzioso del solito»

«Sì Frank» rispose mantenendosi un po’ schivo e, appena si mosse per allontanarsi, la voce del Professore lo raggiunse.

«Mi raccomando Ryo, solo un paio di tiri. Navighiamo con il petrolio, non vorrei saltare in aria qui, e penso neanche tu»

«No di certo Prof» gli rispose abbozzando un sorriso.

«E questo vale anche per te Frank, sia chiaro»

«Ah non mi dà un attimo di pace! E va bene, vede, ho fatto tre tiri e ora la butto via» e così dicendo spense il mozzicone con i polpastrelli inumiditi di saliva prima di lanciarla lontano nel mare «E pensare che mi aspetta una settimana così… Che inferno!»

Ryo a sua volta imitò l’uomo dopo un paio di tiri e iniziò a camminare pigramente lungo il perimetro della petroliera, facendo scorrere la mando lungo la fredda ringhiera d’acciaio. Si trovava in uno stato d’animo tale che non sarebbe mai riuscito a esprimerlo a parole, consapevole solo di volersi prendere del tempo per sé; non che disprezzasse la compagnia del Professore e di Frank, anzi il contrario, ma sentiva il bisogno di mettere un po’ d’ordine nella sua mente e tra le sue emozioni. Raggiunse lentamente la poppa della petroliera e i suoi occhi si persero nel movimento ipnotico dell’acqua che gorgogliava al loro passaggio, lasciando una lunga scia che la luce lunare rendeva perlacea. Sospirando si inclinò, appoggiando il mento sugli avambracci piegati e prese, poi, un profondo respiro; l’aria marina salmastra si mischiava all’odore pungente del greggio e quella combinazione lo stordì per qualche istante.
Si trovava in mare aperto, per la prima volta. Oltre alla linea costiera alla sua sinistra, puntellata da deboli e sporadiche luci artificiali, tutto il resto era illuminato solo dalla pallida luna, che aveva deciso infine di far capolino tra le nubi. Un orizzonte illimitato si dispiegava davanti a lui e fu preso da un senso di vertigine: per tutta la sua vita aveva vissuto nella giungla e, se non erano gli alberi a bloccare la vista, ci pensavano le alte montagne con i loro profili aguzzi. Lì, invece, non c’era niente a impedire il suo sguardo e, una parte di lui, era impaziente affinché fosse già mattino per poter osservare di più. Sorrise; si sentì libero come non mai, libero da quelle foreste, libero da quelle battaglie che lo avevano occupato tutti i santi giorni. Era diretto verso un posto ignoto e, per quanto Frank e il Professore gli avessero ampiamente spiegato cosa lo attendeva negli Stati Uniti, stentava ancora a crederci che fosse davvero reale. Grattacieli, città moderne, tecnologia avanzata e tanto altro. Quella prospettiva lo incuriosiva non poco e non vedeva l’ora di poter ammirare dal vivo tutte quelle meraviglie, augurandosi di aver lasciato il peggio alle spalle. A quel pensiero, istintivamente portò una mano al medaglione nascosto sotto la camicia e alzò gli occhi al cielo puntellato da una miriade di stelle, chiedendosi se qualcuno vegliasse su di lui ma, quella visione a lui così familiare, non fece che farlo sentire un granello di sabbia solo in mezzo al deserto.
 
⁓ ⁓ ⁓
 
«Sono un po’ preoccupato per Ryo» mormorò l’americano mentre guardava la figura del ragazzo allontanarsi da loro.

«No, stai tranquillo. Vuole riflettere ed è giusto lasciarlo da solo per un po’» rispose il Professore «Sta metabolizzando un enorme cambiamento dopo aver superato la prova più difficile della sua vita, immagino si senta frastornato» e, girandosi verso l’uomo, aggiunse in tono di richiesta «Dovrai essere molto vicino e paziente con lui, Frank. In un certo senso è ancora inesperto e non ha idea di come sia davvero la vita nella parte fortunata del mondo, ma so che lo addestrerai a dovere»

«Non si preoccupi, voglio bene a Ryo come se fosse mio figlio e lo aiuterò a inserirsi nell’ambiente… Però, non so se sarò in grado di essere una figura di riferimento come lo è stata lei…»

Kenji gli strinse affettuosamente l’avambraccio «Non avere così poco considerazione di te mio caro Moon. Hai fatto tanto per il ragazzo e sono certo che continuerai a fare un ottimo lavoro con lui negli Stati Uniti»

«La ringrazio Professore» disse Frank facendosi più schivo.

Non era certo abituato a sentirsi rivolgere complimenti, ne aveva avuti così pochi in vita sua e, il fatto che a riservargli quella gentilezza fosse stato proprio l’uomo per cui provava un rispetto smisurato, lo commosse intimamente.
“Un nuovo inizio, eh?” disse a se stesso mentre osservava la sagoma di spalle di Ryo.
Erano mesi che quegli occhi a lui cari avevano perso la luce che avevano avuto un tempo; sarebbe mai più ricomparsa? Sarebbe stato in grado di fare davvero qualcosa per lui?

«Chissà…» sbuffò sommessamente.
---
 
Avvertì improvvisamente un peso all’altezza del petto, un senso di claustrofobia che sembrava non volergli lasciare scampo. Provò a muoversi ma il corpo era come se si fosse cementato al terreno, incapace di alzare neppure un dito.
Poi uno sparo. E un altro, e un altro ancora, sempre più vicini.
“Devo alzarmi, ci stanno attaccando”
Per quanto spalancasse gli occhi non vedeva che tenebre, come se fosse sprofondato in un lago d’inchiostro. I proiettili, però, avevano iniziato a lambirgli le orecchie, poteva sentirli fischiarli così forte da ferirgli i timpani.
“Devo muovermi, cazzo, o sarò spacciato” si disse sempre più angosciato; non si era mai sentito così inerme come in quel momento. Poi, improvvisamente ci fu un silenzio glaciale.
E una risata, fredda e sprezzante, gli fece fermare il cuore per qualche istante. Avrebbe riconosciuto quella risata tra mille.
«Ah Ryo! Vedo che non hai imparato niente. Eppure… Quante volte ti ho detto che un bravo soldato combatte con freddezza?»
Avvertì distintamente lo scatto metallico che annunciava l’inserimento del colpo in canna, poi…
Un colpo risuonò e ciò gli permise di aprire finalmente gli occhi.

«Maldito seas Felipe! Mi hai fatto prendere un accidente! Fai attenzione con quel secchio» le voci, che risuonavano dall’esterno, riportarono il giovane alla realtà.

Si ritrovò steso su una coperta adagiata sul duro pavimento metallico della piccola stiva secondaria, appena sotto il ponte principale. Ancora scosso da quell’incubo atroce, si lasciò andare a un profondo sospiro di sollievo, felice di essere scampato da quell’oblio e, senza pensarci troppo, si alzò velocemente; a quel movimento brusco represse a stento un gemito di dolore. La ferita al fianco gli faceva ancora male quando compiva una torsione del busto veloce. La sua ultima cicatrice da guerrigliero, un ricordo di quell’attacco a tradimento che avevano subìto in Messico, poco dopo aver varcato il confine durante la loro fuga dal Guatemala2. Si ripromise di fare attenzione nei giorni seguenti e camminando con passo felpato per non svegliare Frank e il Professore, che dormivano poco lontano da lui, si diresse verso la stretta scaletta in lamiera e salì verso l’esterno. Un vento tagliente lo accolse, penetrando all’interno della sua camicia flanellata e scompigliandogli i capelli ormai lunghi e ribelli. Si fece scudo portandosi il dorso della mano davanti gli occhi ma, appena abituò gli occhi alla luce, restò senza fiato per lo spettacolo che gli si prospettava davanti. La luce violetta dell’aurora creava un gioco di colori e sfumature sull’ampia tavolozza azzurra dell’oceano per lui totalmente inedito; sentendosi irrimediabilmente attratto da una tale bellezza, camminò fino alla balaustra del lato lungo della petroliera, quello rivolto verso l’oceano e, dopo aver posato le mani sul freddo cordone d’acciaio, chiuse leggermente gli occhi e inspirò a pieni polmoni quell’aria piacevolmente frizzante. Avvertì distintamente il suo cuore colmarsi di una forte emozione a cui non seppe dare un nome, e ne fu talmente sopraffatto che questa fuoriuscì nella veste di una lacrima che si affrettò a cacciar via con un dito.

«Si prospetta una bella giornata»

Ryo si voltò lievemente in direzione di quella voce conosciuta.

«Buongiorno Professore, spero di non averla svegliata prima»

«Per niente ragazzo, non sono certo un dormiglione come Frank» rispose allegro l’uomo, mentre gli si metteva accanto.

I due rimasero in silenzio per un po’, quando Kenji ruppe il silenzio.

«È davvero una meraviglia, non trovi?» mormorò indicando l’oceano con un gesto del braccio.

«Già» fu la risposta laconica di Ryo, che ancora non si era ripreso del tutto da quel momento di commozione.

«Goditi tutto questo Baby Face. Fin quando il viaggiò durerà, voglio che tu assorba il più possibile ogni dettaglio, che tu incida nella tua memoria albe come questa e l’azzurro lucente dell’oceano. Tutto, non tralasciare proprio nulla»

«Perché?» gli chiese semplicemente, cercando gli occhi nascosti dalle immancabili lenti circolari leggermente crepate.

Il Professore gli sorrise «Semplice. La bellezza che ci circonda, in ogni sua forma, è la vera linfa che ci aiuta a restare in vita, a non mollare… A non voler inseguire la morte quando questa sembra essere la soluzione più comoda» e, lanciandogli improvvisamente uno sguardo eloquente, proseguì «Mi auguro davvero che non ti venga più in testa una follia come quella»

Ryo si volse nuovamente verso l’orizzonte, sentendosi come un bambino colto in fallo. Sapeva perfettamente a cosa il Professore si stava riferendo, ma volle comunque fare lo gnorri.

«Se è per l’agguato in Messico, non mi è sembrato che lei fosse così contrario al mio modus operandi…»

«No ragazzo mio, è inutile che cerchi di fare l’ingenuo con me, ti conosco troppo bene» replicò l’uomo facendogli un sorrisino «Mi riferisco al tuo tentativo suicida in Guatemala» e prendendogli il braccio lo obbligò a fronteggiarlo «Non fare mai più una cosa del genere Ryo»

Il giovane sentì sciogliere le sue riserve; per quanto non amasse ricordare il suo tentativo di vendetta nei confronti di Kaibara, aveva immaginato che alla fine il Professore avrebbe affrontato il discorso e, d’altro canto, si meravigliava che avesse aspettato tutto quel tempo per farlo. Sospirò, sconfitto.

«Avevo una tale rabbia dentro… Volevo ucciderlo con le mie stesse mani» disse pianissimo.

«Non ci sei riuscito però, giusto?»

«No… E una parte di me si odia per questo. Se fossi stato più lucido, più preciso, a quest’ora Kaibara sarebbe morto da tempo e-»

«Dovresti essere grato alla parte di te che ti ha impedito di ammazzarlo»

«Come?!» Ryo lo guardò confuso.

Il Professore, dopo avergli lanciato un’occhiata penetrante, preferì scrutare l’immensa distesa dell’oceano.

«Per uomini come noi il confine tra giustizia e crudeltà è terribilmente sottile, basta poco perché la sete di sangue diventi inestinguibile. Ogni volta che si impugna un’arma lo si dovrebbe fare sempre per difendere e proteggere…»

«Ma io avevo un buon motivo!» ribatté leggermente agitato, battendo con forza il pugno sulla ringhiera.

«Sì, la vendetta... In alcuni casi può essere un buon motivo» commentò l’uomo giocherellando con due dita tra i baffi «Riflettici un attimo Ryo: quali erano i sentimenti che ti hanno spinto a confrontarti con lui? Com’era il tuo cuore?» dopo un breve silenzio proseguì «Credo che tu ora ci stia arrivando. Combattere guidati solo dalla rabbia cieca, consigliati unicamente dall’odio, è il modo migliore per perdere definitivamente la propria umanità. Non è questo l’insegnamento che devi conservare di Shin»

A quelle parole il ragazzo lo guardò con gli occhi sgranati.

«Non fare il suo stesso errore Ryo: hai un’indole buona e generosa, non lasciare che venga macchiata e distrutta dall’odio. Custodisci dentro di te il ricordo di Kaibara come dell’uomo che ti ha insegnato a sopravvivere in un ambiente proibitivo, un uomo buono e giusto. Cerca di far riaffiorare dentro di te quei momenti e vedrai che il forte risentimento che nutri nei suoi confronti si mitigherà col tempo»

Ryo avvertì una lieve fitta all’altezza del petto nel sentire quelle parole: era vero, non c’era stato giorno durante la riabilitazione in cui non avesse pensato a un modo per vendicarsi, ma era anche vero che, quando si era trovato effettivamente davanti a lui, l’odio che aveva provato era stato così forte da avergli offuscato qualsiasi percezione. E così, travolto dalla sua stessa smania di vendetta, si era ritrovato incapace di combattere bene, non riuscendo a coordinare i movimenti come avrebbe voluto. Per diversi istanti aveva avvertito quella fastidiosa sensazione di non essere totalmente padrone del suo corpo, ricordandogli dolorosamente quando aveva combattuto sotto l’effetto della PCP. Eppure, alla fine era riuscito ad averlo sotto tiro; aveva steso il braccio, puntato la pistola contro di lui, ma l’indice aveva esitato sul grilletto, dando modo poi a Kaibara di contrattaccare, disarmandolo con un potente pugno in faccia. Non era riuscito a ucciderlo: questa era la verità che gli era rimbalzata nel cervello per giorni, e gli faceva male ammettere che non ci sarebbe ancora riuscito. Una parte di lui semplicemente non poteva concepire l’idea di freddare l’uomo che per anni era stato un punto di riferimento, un vero padre a cui intimamente aspirava di voler somigliare. Quell’uomo, da cui aveva sempre cercato approvazione, aveva ormai perso il suo sguardo caldo, la sua voce forte ma pacata, trasfigurandosi completamente: com’era stato possibile che si perdesse così? Dov’era finita la sua umanità? Perché lui, suo figlio, non era stato in grado di capire il suo tormento? Lui che aveva ricevuto così tanto non era stato in grado di ricambiare, di salvarlo dai suoi stessi demoni. Quel piccolo tarlo si era insinuato in lui da tempo e sembrava non voler più uscire dalla sua mente. Chiuse lievemente gli occhi e rilasciò un leggero sospiro: stentava a credere che tutti gli eventi e i cambiamenti che si erano succeduti in quell’anno fossero veri.

«Non tornerò più sull’argomento Ryo, perciò ti prego di riflettere attentamente su ciò che ti ho detto. Non voglio ripetere l’errore che ho fatto con Kaibara»

Il giovane, colpito, girò velocemente il capo verso il Professore «Che cosa dice? Lei non c’entra niente»

«Invece sì, ragazzo mio. Avrei potuto fare molto di più e invece…»

«No, spettava a me fare qualcosa ma non ne sono stato capace» sbottò Ryo, abbassando lo sguardo.

L’uomo si lasciò andare a un sorriso bonario e, mettendogli una mano sulla spalla, disse in un sussurro «Su questo siete proprio uguali, sempre pronti a volervi far carico di tutte le responsabilità» e, dopo aver trovato i suoi occhi, concluse con fermezza «Sono davvero felice di essere riuscito almeno a fare qualcosa per te Ryo, mi ha fatto sentire meno inutile. Con questo viaggio si chiude un capitolo: non devi dimenticare chi sei stato, ma ricorda anche che non sei più un guerrigliero. Non devi comportarti più come tale»

Ryo per un istante provò un certo smarrimento a quelle parole; non era stato altro da quando aveva memoria, come sarebbe stato ricominciare tutto da capo? L’entusiasmo per la novità che lo aveva colto la sera precedente si intiepidì a quella consapevolezza. Si sentì fastidiosamente vulnerabile, sensazione acuita dalla conversazione avuta con il Professore. In fin dei conti, solo lui poteva permettersi di metterlo con le spalle al muro e solo a lui poteva permettere di sbirciare un po’ nel suo animo; ciò, però, non mitigava il suo turbamento e, dal canto suo, il Professore sapeva leggerlo abbastanza bene da averlo capito. Per questo Ryo non fu particolarmente sorpreso nel sentirlo subito stemperare i toni, e intimamente gliene fu grato.

«Devi sfruttare al massimo questo nuovo inizio: pensa a quante belle opportunità di divertimento ci saranno negli Stati Uniti» disse in tono semiserio.

Ryo abbozzò un sorriso «E naturalmente un bel ragazzo come me non può farsene sfuggire nessuna, no?»

«Assolutamente» gli rispose con una risatina «Non temere, una volta a terra ti darò qualche consiglio, sono un esperto in materia» e iniziando ad allontanarsi aggiunse «Ma per ora va’ a svegliare quella mietitrebbia di Moon, io cerco di rimediare qualcosa di commestibile»

Prima di scendere sottocoperta, Ryo si prese qualche altro attimo per ammirare l’oceano che scivolava davanti a lui.
"Una nuova vita, eh? Peggio della vecchia non penso si potrà proprio fare” si disse tra sé. Per quanto si sentisse leggermente più sollevato dopo aver parlato con il Professore, non poté evitare di provare un certo smarrimento. Il suo sesto senso gli diceva che nella grande giungla metropolitana sarebbe stato più solo che mai, e si chiese se sarebbe stato abbastanza forte per sopportarlo. Sapeva bene che Frank e il Professore, per quanto gli volessero bene, non sarebbero potuti stare con lui per sempre, e sperò che le rispettive separazioni avvenissero il più tardi possibile. 
 
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«Accidenti, non ne posso più!» esclamò Frank con gli iniettati di sangue.

«Sei una lagna continua» commentò Kenji mentre, in canotta, ricuciva un bottone della camicia «Certo che quei mercanti ci hanno rifilato degli stracci davvero di pessima qualità. In un certo senso erano meglio le mimetiche…»

L’americano, nel frattempo, camminava come un leone in gabbia, misurando la stanza con lunghe falcate «Come fa a preoccuparsi di stronzate come quella?» e sbattendo un pugno contro il muro metallico esclamò frustrato «Voglio scendere da questa prigione! Sono ormai quattro giorni che non fumo, mi sembra di impazzire!»

«Ecco cosa succede quando si è abituati a fumare come una ciminiera. Sai che non ti fa bene…»

«La smetta per favore! L’ultima cosa di cui ho bisogno è proprio una ramanzina» sentenziò piccato, appoggiando la fronte alla fredda parete.

Kenji gli lanciò un’occhiata fugace e sorrise conciliante «Invece di borbottare come una pentola di fagioli, perché non fai come Ryo e vai ad allenarti un po’ con lui? Vedrai che ti farà bene sfogarti facendo un po’ di esercizio»

«Con Ryo? Vuole la mia morte definitiva?!» e sospirando aggiunse «Quel ragazzo sembra avere un’energia inesauribile»

«Non ti facevo già così decrepito Moon… E pensare che ho parlato di te nella mia comunicazione come di un soldato di prim’ordine. Vorrà dire che mi sbagliavo…» lo stuzzicò il Professore, certo di colpirlo nel punto giusto.

«E lo sono eccome! Un uomo nel pieno della sua prestanza» gli abbaiò contro, ferito nell’orgoglio «Gliela farò vedere io il decrepito, qui l’unico vecchio è proprio lei!» e così dicendo si fiondò sulla scaletta per raggiungere Ryo.

«Vecchio a chi? Non venire da me poi, quando piangerai per il mal di mare» gli urlò di rimando Kenji lievemente risentito.

Appena rimase solo nella stanza, però, rilasciò un leggero sbuffo e sorrise, riprendendo a riattaccare il bottone. Era soddisfatto per aver strappato Frank da quello stato semi depressivo; sebbene non lo dicesse apertamente, sospettava che il suo nervosismo non fosse dovuto solo dall’astinenza da nicotina e dall’occasionale rollio della petroliera. Da quando gli aveva formalmente affidato Ryo, l’americano sembrava sempre in tensione, come se si preparasse a un esame temibile e, in fondo, non poteva biasimarlo. Avevano passato mesi difficili, carichi di eventi tragici che avevano messo a dura prova la loro tempra, e lui stesso ne aveva osservato i segni su di sé, notando la propria capigliatura farsi quasi completamente canuta in pochissimo tempo. Strattonò lievemente il bottone per saggiarne la resistenza e, soddisfatto, chiuse il punto e tagliò il filo con i denti.
A differenza di Frank, lui stava apprezzando quel viaggio. Rappresentava una piccola parentesi, la classica calma prima della tempesta, e solo Dio sapeva quanti impegni e problemi lo aspettavano una volta messo piede sulla terraferma. Primo tra tutti, dovevano passare il confine con gli Stati Uniti senza imbattersi nella polizia di frontiera e poi raggiungere Chula Vista, dove avrebbero trovato i suoi uomini che gli avrebbero portati a San Diego. Quaranta chilometri in cui poteva succedere di tutto.
Una risata proveniente dall’esterno lo distolse dai suoi pensieri. Era quella di Ryo e gli fece bene al cuore sentirla. Aveva temuto davvero di non poterla più sentire, specialmente quando era caduto in uno stato di semi mutismo dopo il suo ultimo confronto con Kaibara. Comprendeva i sentimenti del ragazzo, sapeva che il dolore per un tradimento subìto da una persona in cui si ripone la massima fiducia era un qualcosa di indescrivibile a parole, e non se la sentiva di condannarlo per aver agito in quel modo avventato. Quando avevano raggiunto Ryo rantolante in una pozza di sangue, aveva capito all’istante che era la sconfitta a far soffrire il ragazzo più del dolore fisico, ragion per cui aveva deciso di non parlargli dell’accaduto, aspettando il momento propizio. Kaibara non si era fatto trovare ma, dopo avere medicato il ragazzo, si era reso conto che, forse, non era totalmente annegato nella sua follia: Shin avrebbe potuto ammazzare Ryo con facilità, ma non l’aveva fatto, causandogli ferite di poco conto. E, d’altro canto, neanche Ryo era riuscito nel suo intento omicida.
“Un legame come quello è difficile da scindere così velocemente” si era detto quando aveva osservato la figura di spalle del ragazzo contemplare le montagne, poco prima della loro fuga verso il Messico. Era così simile a Shin nelle sue posture e nei suoi atteggiamenti che sarebbe potuto tranquillamente essere scambiato per il suo vero figlio. E non lo era forse? Avevano vissuto quasi in simbiosi per quindici anni prima che tutto precipitasse. Aveva faticato per far ritrovare un accenno di sorriso al giovane guerrigliero e poi, improvvisamente, il suo umore era migliorato di colpo a seguito di quel formidabile attacco dopo che avevano superato superato il confine, quando Ryo aveva sbaragliato da solo un intero gruppo di soldati ostili ai guerriglieri che iniziavano a confluire nella zona.
«Temevo di non esserne più capace» lo aveva sentito mormorare in un soffio, mentre si lavava via la sporcizia di dosso dopo la battaglia e, in quell’istante, aveva compreso che la sconfitta subita contro Kaibara aveva minato pesantemente la sua autostima. In fin dei conti, Ryo aveva pur sempre un animo troppo sensibile e schivo per nutrire davvero un ego smisurato, sebbene gli piacesse recitare la parte del gradasso davanti a tutti. Era la sua corazza che si era costruito fin dalla prima infanzia: un immagine di se stesso più forte che lo aiutasse ad esserlo davvero perché, nella loro vita, qualsiasi tipo di debolezza poteva essere fatale.
Si alzò e lentamente indosso la camicia mentre continuava a sentire i soliti schiamazzi dall’esterno. Lo rincuorava sapere che, una volta negli Stati Uniti, il ragazzo avrebbe potuto conoscere una parvenza di normalità; avrebbe sempre lavorato nelle ombre della società, certo, ma ciò non gli avrebbe impedito di condurre una vita alla luce del sole, con tutte le dovute precauzioni.
“Ha vissuto tutti questi anni non vedendo altro che battaglie, fango e sangue eppure è riuscito a non corrompersi fino al midollo” pensò iniziando ad abbottonare l’indumento. Era ammirato dalla tenace forza di volontà di Ryo e, una piccola parte di lui sperava che il ragazzo fosse riuscito a mantenersi immune dalla follia della guerra anche grazie a lui.
Con la coda dell’occhio vide il corpo del ragazzo affacciarsi dalla botola in alto per poi scendere con un solo balzo, facendo risuonare l’intero ambiente. Dietro di lui, un Frank pallido da far spavento scendeva cautamente la scaletta con movimenti tremuli.

«Ma vedi se è normale scendere in quel modo, sembri una scimmia» commentò caustico il povero americano.

Kenji sogghignò: non importava in che condizioni fosse, Frank non avrebbe mai perso la sua linguaccia, era una sua caratteristica inconfondibile. In tutti quegli anni che lo conosceva non era cambiato di una virgola.

«E io è meglio che non ti dica cosa sembri, perché non saresti neanche riconducibile al regno animale»

Il Professore scosse la testa: inutile, anche Ryo non le mandava certo a dire e sospettava che quell’atteggiamento fosse stato in parte influenzato dal suo rapporto con l’americano. In fondo era stato come uno zio per lui. Decise di divertirsi un po’ a discapito di Frank; non gli era andata giù la sua battutina precedente e lui si prendeva sempre le sue rivincite.

«Devo dare ragione al ragazzo: sembra tu sia stato ingoiato e cagato da uno squalo» disse con noncuranza ultimando la sua operazione di vestizione.

«Anche lei ci si mette?!» esclamò esasperato Frank, strabuzzando gli occhi mentre continuava la sua cauta discesa «Se sapesse cosa ha combinato…» e rivolgendosi rancoroso in direzione di Ryo, che ridacchiava accovacciato su se stesso, urlò «Shut up! Damn boy, you scared the shit out of me!»

«Che cosa hai combinato Baby Face?» gli chiese Kenji con uno sguardo che sembrava dire “Ottimo lavoro”.

Ryo si rimise in piedi e grattandosi la nuca con fare innocente pigolò «Niente di che… Visto che Frank si è unito a me per un po’ di allenamento, dopo i soliti esercizi l’ho sfidato a fare più crunch di me scommettendo un pacchetto di sigarette» e camminando verso il Professore proseguì «Per dare un po’ di brio alla sfida ho avuto una sorta di ispirazione, così ho deciso di allenare gli addominali in maniera creativa: ho bloccato le caviglie alla balaustra e mi sono appeso all’esterno dello scafo»

«Bloccate my ass! Si potevano appena appoggiare sulla ringhiera» intervenne Moon che, nel frattempo, era riuscito a mettere i piedi a terra con sua grande soddisfazione.

«Intanto io ne ho fatti cinquanta e tu a stento dieci!» esclamò trionfante Ryo «Devi ammettere la sconfitta, sei parecchio fuori forma vecchio mio» gli disse facendo un occhiolino.

«Solo un pazzo come te poteva concepire un’idea balzana come quella. A ogni piegamento temevo di precipitare nell’oceano» e rivolto al Professore sottolineò «E sarei diventato davvero cibo per gli squali»

«Sei il solito esagerato Frank» disse Ryo, per poi aggiungere, guardandolo più schivo «Ero vicino a te e avevo la situazione sotto controllo. Se fossi scivolato ti avrei preso anche a costo di cadere entrambi in acqua»

L’americano lo guardò con uno sguardo fattosi improvvisamente più dolce, ma che virò sùbito al collerico appena il giovane proseguì «E forse sarebbe stato meglio. Hai davvero bisogno di farti un bagno, puzzi da fare schifo»

Kenji si mise una mano sulla fronte mentre li vedeva battibeccare come due bambini.
“Proprio non ce la fai a essere onesto con i tuoi sentimenti, eh Ryo?” si disse per poi ricordarsi che, alla fine, nessuno dei presenti ne aveva la forza, incluso lui stesso.
 
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Aveva piovuto per tutta la mattinata e solo nel primo pomeriggio un timido sole fece capolino tra le nubi, rischiarando la petroliera che proseguiva indisturbata la sua navigazione. Ryo si scrollò la cerata di dosso e si passò una mano tra i folti capelli per togliere qualche gocciolina residua di pioggia. Tutto l’equipaggio, inclusi i suoi compagni di viaggio, si erano rintanati sottocoperta o nella torretta di controllo, mentre lui aveva voluto restare solo all’aperto. Sentire l’incessante ticchettio delle gocce sul telo gli infondeva sempre una certa calma e, quando aveva chiuso per un attimo gli occhi, gli era sembrato di ritrovarsi nuovamente nella foresta, accucciato sotto un albero in attesa della battaglia. Questa volta non aveva il fucile tra le mani né pesanti anfibi ai piedi, eppure, anche se era più leggero esteriormente, nulla era paragonabile alla pesante zavorra che sentiva dentro di sé. Un macigno che faticava a mandar giù. Si alzò e camminò pigramente accanto agli oleodotti che correvano al centro del ponte principale; l’equipaggio il primo giorno si era dimostrato un po’ restio a farlo accedere su quella parte dell’imbarcazione, ma alla fine si era arreso alla volontà di quel ragazzo dal fisico così imponente e dallo sguardo così assorto. Si fermò a contemplare la riva rocciosa che si srotolava davanti ai suoi occhi e cacciò fuori un sonoro sospiro, lo faceva fin troppo spesso ultimamente ma la sua rabbia e delusione erano difficili da gestire.
“E se… Una volta negli Stati Uniti cosa mi aspetterà? No, non potrò fidarmi di nessuno, non devo fidarmi di nessuno. Non posso permettere che qualcuno mi tradisca ancora” si disse, abbassando lievemente il capo “Solo il Professore e Frank meritano la mia fiducia. Il resto degli uomini per me non avrà alcuna importanza” si impose fermamente e tornò al punto in cui aveva abbandonato la cerata. Forse non era stata una buona idea passare tutto quel tempo fuori e da solo, gli aveva riportato alla mente due occhi che lo avevano ferito quasi a morte con la loro durezza e ferocia. Si risedette e, per cercare di distendere un po’ i nervi, iniziò con l’indice destro a tracciare i contorni delle lettere dell’alfabeto sulla fredda superfice bagnata; era un esercizio che si ritrovava a fare spesso, soprattutto quando era in attesa dello scontro imminente, trovava in certo senso confortante come quelle semplici linee si susseguivano con il loro ordine prestabilito. Senza rendersene conto, dopo aver ripassato i tre stili di scrittura, si allungò un po’ più lontano, e iniziò a buttar giù una serie di linee molto più complesse e articolate delle precedenti. Tre ideogrammi si erano fissati in modo effimero sull’acciaio prima di disperdersi definitivamente. Gli unici ideogrammi che conoscesse. Il suo nome.
 
La serata sembrava trascorrere tranquilla come le altre. Il commando si affrettava nelle ultime occupazioni giornaliere e lui, come suo solito, aveva raggiunto Carlos per aiutarlo nella preparazione del rancio. Quell’omone gli stava simpatico, era burbero ma gli piaceva molto scherzare con lui.
«Ehi chiquito, sono spuntati?» gli domandò il cileno mentre ammucchiava la legna per preparare il fuoco.
Ryo scosse la testa «Ancora no» e con l’indice e il medio di entrambe le mani spalancò la bocca, mostrando l’assenza dei due incisivi inferiori.
«Ci vuole un po’ di tempo, Ryo. E questo è solo l’inizio, poi ti cadranno tutti i denti»
«Ma io non voglio restare senza denti, poi come mangerò?»
Carlos ridacchiò con voce tonante «Ah non preoccuparti, ne rinasceranno altri e molto più forti. Potrai mangiare tutto quello che vorrai»
«Spero che finisca presto» disse in tono leggermente rassegnato.
Prese il pentolone dalla capanna della cucina e lo avvicinò al fuoco appena acceso.
«Dobbiamo aspettare, lo sai. Nel frattempo prendi il sacco delle patate così le iniziamo a sbucciare» gli ordinò l’uomo bonariamente e il bambino si apprestò ad eseguire l’operazione, arrancando leggermente sotto il peso del saccone di iuta.
I due si sedettero su un tronco e iniziarono la loro operazione di pulizia. Ryo si impegnò ad essere il più preciso possibile, ma il coltello a serramanico che usava era troppo grande per le sue mani e non riusciva a utilizzarlo con la giusta destrezza.
«Bravo chiquito, stai migliorando» il commento lo colse di sorpresa e alzò gli occhi verso Carlos che non aveva smesso di lavorare «Sai, anche un compito stupido come questo è un ottimo esercizio per allenare le mani. Ricorda Ryo, le tue mani devono essere sempre veloci, forti e resistenti. Così sarai infallibile come il sottoscritto» e così dicendo gli fece un occhiolino complice.
«Veloci, forti e resistenti… Ho capito, allora da domani sbuccerò tutti i giorni un intero sacco di patate da solo» ribatté convinto, ma la sua sicurezza vacillò appena vide l’uomo ridere di gusto.
«Ma no, bastasse solo questo allora gli sguatteri delle cucine sarebbero i migliori combattenti del mondo» e guadandolo un attimo proseguì «Questo è un esercizio di resistenza, per imparare a usare le mani anche quando non senti più i muscoli perché indolenziti dal lungo lavoro. Ma gli allenamenti che fai, quelli sono davvero fondamentali» concluse, continuando a ridacchiare per la sua battuta precedente.
Ryo era sul punto di ribattere quando un urlo lo paralizzò sul posto.
«Ci attaccano! Presto!» gridò Paco, correndo trafelato «Li ho visti avvicinarsi, saranno più di una ventina, salgono da nord»
Pablo uscì veloce dalla sua baracca accompagnato dai suoi uomini e fu seguito a ruota da tutti gli altri guerriglieri; era di pessimo umore, avrebbe ammazzato con lo sguardo e Ryo iniziò a sentire il cuore battergli furiosamente. Non erano mai stati attaccati così vicino al campo e avvertì un certa concitazione nell’aria.
«Qualcuno del villaggio deve averci tradito… Cani maledetti venduti all’esercito!» si ritrovò a imprecare il capo gruppo ma, senza perdere tempo, diede disposizioni di controffensiva «Il Professore, Carlos e Ryo restano qui, tutti gli altri li voglio con me. Usiamo la nostra solita tattica a tenaglia, li prenderemo sui lati quei bastardi» e così dicendo il gruppo si mosse veloce.
Ryo fece in tempo a scorgere Shin e Frank, che gli sorrisero incoraggianti e gli fecero cenno di salire su un albero. Cercavano sempre di tenerlo lontano dalla prima linea, dicendogli che non era pronto, ma a Ryo quelle premure iniziavano a pesare, lo facevano sentire inutile.
«Cosa aspetti? Sali forza» lo esortò il Professore, avvicinatosi mentre imbracciava un fucile a canne mozze.
«Ma anche io voglio aiutare, voglio combattere» ribatté sicuro, mostrando la fionda che aveva sfilato dal tascone dei pantaloni.
«Proprio per questo devi stare in alto Ryo» rispose l’uomo senza scomporsi «Nel caso arrivino qui saresti più utile lì sopra»
Il bambino provò a controbattere ma, dopo aver incontrato lo sguardo deciso di Carlos, annuì e salì veloce sull’albero vicino, mimetizzandosi perfettamente tra le fronde.
 
Ryo riemerse da quel ricordo, che lo aveva sorpreso per la sua nitidezza, e si passò una mano sugli occhi. Quella sera la ricordava ancora benissimo nonostante fossero passati molti anni. Era stato il giorno in cui aveva ucciso degli uomini per la prima volta.
 
Gli spari riempirono il silenzio della notte, portando con sé anche grida concitate.
«Hanno iniziato l’attacco» commentò asciutto il Professore «Carlos spegniamo subito il fuoco» esclamò, poi, come colto da un’idea.
«Ma come Professore? I nostri li staranno già sistemando…»
«Presto!» urlò l’uomo iniziando a buttare terra sul falò «Ho una brutta sensazione. Non possiamo escludere che ci sia un secondo gruppo diretto proprio qui, interessato alle nostre provviste e armi… Anzi non vorrei che ci avessero già accerchiati, Pablo è stato troppo precipitoso»
Ryo li osservava con gli occhioni sgranati mentre nel piccolo pugno stringeva la fionda già carica. Un attacco… Si sarebbe ritrovato nel mezzo della battaglia per la prima volta. Al solo pensiero sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena; quell’attesa lo stava snervando.
Poi, tutto si svolse in pochi secondi.
 
Si ritrovò a stringere meccanicamente i pugni e fu come ritrovarsi nuovamente in quell’inferno.
 
Sentì una raffica di proiettili passare un paio di metri sotto di lui e avvertì il cuore tamburellargli all’impazzata.
“Respira. Prima cosa è respirare con calma, non devo avere paura” si disse come un mantra per scacciare via ogni tipo di emozione mentre tendeva la fionda. Nel frattempo, Carlos e il Professore avevano risposto al fuoco e si erano riparati dietro al tronco che lo aveva visto poco prima preparare la cena. Il fuocherello, non ancora del tutto spento, ostacolava la vista dei due uomini in basso ma per lui non era un problema; ormai i suoi occhi si erano perfettamente adattati all’oscurità così, appena colse il lieve oscillare di un cespuglio di felci, trattenne il fiato, mirò e scoccò un colpo sicuro. Un urlo a malapena soffocato gli segnalò che aveva centrato il bersaglio.
Inorgoglito, per poco non perse l’equilibrio quando una serie di proiettili gli fischiarono accanto. L’avevano individuato e sfogavano la loro rabbia su di lui.
«Scendi subito Ryo, ti copro io!» gli urlò Carlos, mettendosi a correre e rendendosi bersaglio per i soldati.
Il bambino si affrettò nella discesa, stringendo i denti appena avvertì il tronco tagliarli i palmi delle mani, ma non si fermò. Una volta a terra, strisciò fino a raggiungere le spalle del Professore che era impegnato a ricaricare il fucile.
«Tieniti pronto Ryo. Appena ti do il segnale corri verso il laboratorio e nasconditi nel deposito, intesi?» gli comunicò in un tono che non ammetteva repliche.
Non rispose, limitandosi a osservare serio il sottobosco davanti a loro. Perché non si facevano avanti quei soldati? Avrebbe tanto voluto chiederlo, ma intuì che il Professore non avrebbe voluto parlare in quel momento.
«Hijos de puta, mi state stancando» sentì Carlos borbottare poco distante.
Qualche istante dopo vennero investiti da una scarica di colpi e Ryo si appiattì ancora di più al terreno.
«Vai!» gli urlò il Professore e, dopo qualche attimo di esitazione, iniziò a correre piegato in due. Aveva percorso quasi metà strada quando un’altra violenta sparatoria, seguita da un grido soffocato di Carlos, lo fecero fermare. Si voltò e vide il cileno riverso per terra mentre il Professore manteneva disperatamente la posizione. Contravvenendo a quando ordinatogli, si arrampicò veloce su un altro albero e, dopo aver individuato un’altra sagoma muoversi poco lontano, pescò una delle pietre più grosse e acuminate dal suo borsello appeso alla cinta, prese la mira e sperò con tutto il cuore di non sbagliare.
Il suo tiro colpì nuovamente il bersaglio e l’uomo si accasciò con un tremendo urlo, ma la situazione iniziò a precipitare quando notò una decina di uomini muoversi nervosi tra le fronde. Ce la poteva fare il Professore a tener loro testa? Ebbe paura di no quando lo vide sempre più in difficoltà così, senza perdere tempo, armò un altro colpo. All’improvviso si sentì tirare con forza per un piede e per la sorpresa spalancò la bocca senza, però, riuscire a emettere alcun suono.
«Eccoti finalmente piccolo bastardo. Sei tu la scimmietta che si diverte sugli alberi, eh?»
Ryo si dimenò a testa in giù ma l’uomo lo lanciò via con rabbia; l’impatto con il terreno lo fece restare qualche istante senza fiato e provò un dolore acuto all’avambraccio sinistro.
«Meno male che non ho sprecato proiettili per te, mi basterà schiacciarti come un insetto»
Il soldato fece due passi e una volta arrivatogli accanto lo colpì con un calcio all’addome. Ryo sbarrò gli occhi e strinse i denti, incassando il colpo in silenzio; la sua mente iniziò disperatamente a cercare un modo per salvarsi.
“Il Professore sta tenendo a bada gli altri e il resto del gruppo è impegnato sull’altro fronte… Carlos chissà se è ancora vivo…” pensò mentre si portava il braccio destro attorno alla vita, non riuscendo ancora ad alzarsi. In quell’istante le sue dita sfiorarono il coltello che aveva nascosto sotto la camicia: quel contatto gli diede fiducia. Non si sarebbe arreso, avrebbe mostrato che tutti i suoi allenamenti erano serviti.
«Usano anche i mocciosi questi miserabili, sono proprio alla frutta» e con disprezzo il soldato sfilò il pugnale dal fodero laterale, chinandosi pronto ad affondarlo nel petto del bambino.
Ryo sentì un’energia animale scorrergli dentro, semplice e primordiale istinto e, facendo appello a tutte le sue forze, si alzò rapidissimo, appoggiando un ginocchio sul terreno per avere una presa più salda e tese il braccio verso l’uomo, stringendo gli occhi per lo sforzo. Fu una frazione di secondo, avvertì una strana resistenza e sentì la lama sprofondare in tutta la sua lunghezza; quando riaprì gli occhi vide l’uomo annaspare per poi cadere pesantemente contro di lui, travolgendolo. Si ritrovò nuovamente a colpire il terreno sullo stesso lato dolorante e questa volta non riuscì a reprimere un gemito di dolore. Si divincolò da quella stretta mortale, riuscendo a sgusciare come un serpente da sotto quel corpo imponente che si era irrigidito di colpo.
Risentì nuovamente gli spari e si accorse che fino a quel momento non aveva avvertito altro che il suo respiro e battiti del suo cuore. La scarica di adrenalina per qualche istante non gli fece sentire alcun dolore.
«Ryo? Ryo ci sei?» gli domandò il professore, che si era girato proprio in quel momento verso di lui leggermente preoccupato, prima di lanciare una granata «Visto che non mi ascolti, corri ad avvisare gli altri, di questo passo non so se riuscirò a bloccarli ancora a lungo» la sua voce era sempre calma anche se aveva avvertito una punta di impazienza.
«Vado» gli urlò di rimando e, una volta messosi in piedi, iniziò a correre.
Fu costretto a tenersi il braccio con l’altra mano; non riusciva a muoverlo e a ogni accidentale oscillazione avvertiva un dolore lancinante. Non aveva fatto molta strada quando si trovò di fronte Kaibara e Moon che tornavano in fretta.
«O mio dio, Ryo che ti è successo?» gli domandò Shin con occhi preoccupati.
«Ci hanno attaccati. Il Professore vuole rinforzi» rispose serio, mostrando di aver appreso quanto gli era stato insegnato. Durante un combattimento non c’era posto per inutili chiacchierate.
L’uomo fece un lieve cenno col capo e si diresse in direzione degli spari mentre Frank, dopo essersi fermato un attimo per osservarlo, gli mormorò sollecito «Wait for us here, my boy»
Quando li vide allontanarsi si permise di inginocchiarsi esausto, per poi cadere a terra privo di sensi.
 
Ryo si alzò, non riuscendo più a nascondere il suo nervosismo, e iniziò a camminare verso la prua della petroliera, il vento imperioso gli scuoteva i capelli, scoprendogli la fronte sempre nascosta dal ciuffo. Si era abituato alla navigazione, tutto sommato non era così male e sarebbe stata un’esperienza che avrebbe ricordato con piacere. Su quel pensiero, però, si rabbuiò colpito dalle sue stesse riflessioni.
“Ricordare con piacere… Sicuramente non ho molti ricordi di cui gioire” si disse, posando gli occhi ardesia sulla distesa dorata davanti a lui. Eppure, anche i ricordi più dolorosi custodivano quel piccolo elemento che li rendeva degni di essere vissuti, nonostante tutto. Come l’evento che la sua mente stava riproducendo per lui.
 
«Ryo? Riesci a sentirmi?»
Aprì gli occhi e vide il volto familiare del Professore osservarlo con la sua aria imperturbabile. Si ritrovò disteso sul tavolaccio del suo laboratorio e, prima ancora del dolore, fu investito dall’odore pungente e dolciastro della tintura di iodio. Doveva essere ancora buio, i lumi rischiaravano appena l’intero della baracca.
«Bene, direi che sei tornato tra noi» e così dicendo l’uomo si affacciò alla porta, facendo segno con la mano.
Ryo lo seguì con gli occhi, girando lievemente la testa, e lo vide uscire dalla stanza appena Shin fece il suo ingresso. Aveva il viso sporco di terra e sangue, portando con sé quel particolare odore di battaglia che aveva imparato a conoscere; nel suo sguardo, però, c’era solo una luce calda a rischiarare le sue pupille. Il bambino si sentì subito più tranquillo e abbozzò un sorriso, che venne prontamente ricambiato.
«Sei stato molto avventato Ryo» disse Kaibara passandogli una mano sui capelli «Ma sei stato anche molto bravo. Mi hai sorpreso, ti sei dimostrato più abile di quanto pensassi… Ora sei un guerrigliero a tutti gli effetti»
Ryo sentì un moto d’orgoglio gonfiargli il petto e percepì gli occhi farsi pericolosamente umidi. Batté velocemente le palpebre per ricacciare le lacrime. Si impose di non cedere.
«Ti sei battuto per proteggere il tuo campo, rischiando la tua incolumità. Certo, hai anche preso delle vite, ma è il prezzo da pagare quando si è come noi…» commentò l’uomo improvvisamente più cupo.
«Davvero ho ucciso?» gli domandò incredulo.
«Sì, a quanto pare tre uomini. Due con la fionda e il terzo con un colpo da manuale, dritto al cuore. Se continui così sarai presto preciso e infallibile come pochi. Però…» e Shin lo fissò serissimo «Non devi provare gioia o soddisfazione nell’uccidere, hai capito Ryo?»
Il bambino annuì, ancora troppo travolto dagli eventi e dalle emozioni per parlare.
«Bravo ometto» e rispondendo alla sua muta risposta Kaibara si affrettò a chiarire «Gli avvenimenti di stanotte non ti hanno reso solo un guerrigliero: dopo ciò che hai fatto… Ora sei diventato un vero uomo e, come tale, devi avere un nome completo come tutti. Ho già scelto da tempo un cognome per te, ma non riuscivo mai a trovare il momento giusto… Beh, direi che alla fine è giunto» e sorridendogli gli sussurrò «Ryo Saeba, benvenuto tra noi»
Ryo non riuscì più a trattenere l’emozione e una piccola lacrima si fece strada tra le ciglia. Lievemente imbarazzato la cacciò subito via con la mano, sperando che passasse inosservata.
«Per fortuna ti sei fatto solo una microfrattura al braccio ma la contusione è molto estesa, dovrai tenerlo a riposo per un po’. Ce la fai ad alzarti adesso? È giusto che comunichi tu stesso il tuo nome agli altri»
«S- sì» e dandosi una spinta con gli addominali doloranti si mise a sedere.
«Shin… Grazie» gli disse con un lieve sorriso.
 
Quando ripensava a momenti come quello, sentiva ancora vivo l’affetto nei confronti di quell’uomo e, allo stesso, una rabbia furiosa per quello che era diventato… Per quello che gli aveva fatto. Il Professore, però, gli aveva consigliato di focalizzarsi sui ricordi del “vero” Kaibara, dell’uomo che gli aveva dato un cognome e che gli aveva insegnato a scrivere il suo nome in quei caratteri giapponesi così complicati, che si divertiva a tracciare per terra o a incidere sulla corteccia. Un nome a sua detta che lo rappresentava2, che lui ormai considerava suo a tutti gli effetti e che non avrebbe mai cambiato, anche se fosse mai riuscito a scoprire la sua vera identità. Stava seguendo il suo consiglio ma faceva tremendamente male ricordare, e si chiese se non fosse meglio cercare di dimenticarlo del tutto.
Il suono di passi leggeri ma conosciuti lo distolse definitivamente dal suo viaggio mentale. Attese che l’uomo gli si sistemasse accanto prima di rivolgergli uno sguardo.

«Che razza di tempo, piove per mezza giornata e poi ci ritroviamo la sabbia addosso» disse Moon passando un dito lungo la ringhiera per poi osservare i granelli brunastri.

Ryo abbozzò un sorrisetto nel sentire quel borbottio «Si dice che più si invecchia e più di diventa intolleranti. Direi che è proprio il tuo caso Frank»

«Sei proprio un ragazzo insolente, avrei dovuto sculacciarti di più in passato» gli rispose fintamente arrabbiato l’americano.

Dopo qualche minuto di silenzio, l’uomo gli disse senza distogliere lo sguardo dall’oceano «Una sigaretta per i tuoi pensieri»

«Ma se non te ne sono rimaste altre! Con la scommessa ho vinto il tuo ultimo pacchetto» rispose prontamente Ryo divertito.

«Eh no, my boy, un professionista del mio calibro non è mai a mani vuote» e, con un rapido gioco di mani da consumato baro, fece materializzare una sigaretta.

«Ehi, questo trucco non me l’hai mai insegnato!» esclamò sorpreso Ryo, strappandogli dalle mani l’oggetto per verificare che fosse vero.

«Beh, ci sono ancora molti numeri che non ti ho mostrato, però una volta che ci saremo stabiliti ti mostrerò il repertorio completo» commentò orgogliosamente «E comunque è vero, ho davvero una mia piccola scorta personale ben nascosta e che fumerò tutta nei primi dieci minuti in cui metterò finalmente i piedi a terra»

«Credo che ti farò compagnia» gli disse Ryo, infilando il prezioso bottino nel taschino della camicia.

«Vedi che non ti ho dato la sigaretta per niente»

«Ok, va bene… Ricordavo» disse in un sospiro, appoggiando entrambi gli avambracci alla ringhiera.

«Sempre preciso, tu»

«Pensavo a quella sera» disse infine il ragazzo con un sorriso triste «Quando sono diventato un vero guerrigliero»

Dopo qualche istante, Frank disse in tono enigmatico «Ricordo bene quella sera. Provai un po’ di invidia per Kaibara quel giorno»

Ryo si girò verso di lui, genuinamente sorpreso «E perché?»

«Ecco» balbettò l’americano, passandosi una mano nei corti capelli castano ramato punteggiati di bianco «Beh… Lui ti ha dato un nome e lo ricorderai sempre per questo. Può sembrare un gesto semplice ma in realtà non è così. Per voi giapponesi, poi, è tutto così complicato, quando mi spiegò il significato dietro quei segni astrusi mi sentivo scoppiare il cervello» esclamò scuotendo la testa «Però è un gesto che lo identifica come padre. I genitori in quanto tali scelgono il nome dei propri figli. Quello che non mi è stato possibile fare» disse abbassando gli occhi verso i suoi piedi.

«Davvero?» domandò Ryo, stupito che Frank si stesse lasciando così andare; non era solito mostrarsi così intimamente.

L’americano annuì «È una storia un po’ lunga… Con mia moglie ero in brutti rapporti e vivevamo praticamente separati in casa; sicuramente se non fossi partito avremmo continuato con le pratiche del divorzio. Lei, però, mi aveva nascosto di essere incinta così sono partito ignaro per il Guatemala, fino a quando, poco prima che io e Shin decidessimo di lasciare l’esercito per unirci ai rivoltosi, lei mi inviò una lettera con la foto di una neonata. Sul retro solo due righe e il suo nome… Ah shit, quanto vorrei fumare in questo momento!» sbottò nervoso.

Ryo lo fissò, non volendo interrompere quella rara confidenza.

«Quella scoperta mi scombussolò profondamente... In un certo senso mi ha fatto male sentirmi escluso da colei che, con gli anni, è diventata ciò che mi ha tenuto in vita» e, incontrando lo sguardo interrogativo del ragazzo, continuò «Ah my boy, ora non puoi capire perché sei troppo giovane. Anch’io quando avevo più o meno la tua età non ne volevo sapere di far famiglia, i marmocchi non gli sopportavo e vivevo solo per me stesso; però, quando in mezzo alla guerra vidi quella foto sentii scattare in me qualcosa. Mi resi conto che una parte di me sarebbe sempre vissuta in lei e, grazie a lei, avrei continuato a vivere anche negli anni avvenire nei suoi figli e nipoti. L’immortalità dell’uomo in fin dei conti è rinchiusa nella sua discendenza. Così, ogni giorno mi imponevo di resistere con la speranza di poterla incontrare, volevo disperatamente conoscere quella parte di me racchiusa in mia figlia. Sicuramente lei non sa neanche che sono vivo… E chissà se vivono ancora nella vecchia casa…»

Ryo l’osservò in silenzio; gli sembrava di vederlo con occhi nuovi, non aveva immaginato che, dietro la sua apparenza, Frank celasse una sua profonda sensibilità, e lo fece sentire meno solo sapere che qualcun altro condivideva la sua stessa debolezza. Moon scrollò il capo, per poi osservalo con uno sguardo malinconico.

«Quando si è immersi in una quotidianità di violenza e morte bisogna aggrapparsi alla vita per non sprofondare. In fin dei conti, è la stessa cosa che ha fatto Shin con te»

«Come?» esclamò Ryo punto sul vivo.

«Sì. So che non te ne ha mai parlato, ma tu hai rappresentato il suo legame con la vita. Lui non ha retto, però… Forse il suo destino era segnato, ma sono certo che senza di te si sarebbe perso moltissimi anni fa. Purtroppo uomini come lui non sono fatti per questo mondo…» concluse amaro, sospirando lievemente «Ognuno ha almeno un motivo per vivere, sono certo che anche tu troverai il tuo»

Una volta che l’uomo si fu allontanato, Ryo rifletté su quanto gli aveva confessato Frank e si ritrovò ad essere più confuso di prima. Certo, era piacevolmente sorpreso, non immaginava che Kaibara si fosse espresso in quel modo nei suoi confronti, però la sua presenza, la sua stessa vita alla fine non era stata sufficiente per impedire la sua caduta verso le tenebre. Forse non aveva fatto abbastanza come figlio? Lui stesso aveva trovato conforto nella vicinanza di Shin durante quegli anni, ma lui stesso gli aveva insegnato quanto fosse indispensabile trovare la forza sempre dentro di sé. Quindi Kaibara non era stato onesto fino in fondo con lui? Si poteva trovare un motivo per andare avanti anche grazie a una persona? Gli sembrò un concetto molto astratto e terribilmente rischioso: se non fosse stato abituato a fare affidamento principalmente sulle sue forze, non sarebbe riuscito a riprendersi in alcun modo dal tradimento di suo padre. Senza contare, poi, che il Professore gli aveva parlato di bellezza e non di rapporti umani come rimedio contro le brutture della vita, quindi chi aveva ragione? Qual era la verità? Era solito ascoltare i consigli, ma preferiva sempre giungere a una sua personale conclusione, perciò, dopo qualche minuto di riflessione, decise di perseguire per il momento con la linea di condotta che si era autoimposto: non doveva legarsi in modo significativo ad altre persone, doveva restare solo per non rischiare altro dolore. La forza per andare avanti l’avrebbe dovuta trovare solo dentro di lui. Era vivere quello? Avvertì una fitta al cuore al pensiero di quella prospettiva di vita così fredda e solitaria, ma se la sarebbe fatta andar bene. Non aveva altra scelta se voleva sopravvivere ancora in questo mondo.
 
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All’alba del settimo giorno di navigazione la piccola petroliera, dopo diverse manovre, fece il suo ingresso nella stretta insenatura del porto mercantile di Rosarito. Nel piccolo magazzino sottocoperta, i tre uomini stavano ultimando di raccogliere le loro poche cose in larghe sacche di tela quando sentirono bussare al portellino della botola.

«Avanti» disse ad alta voce il Professore, mentre cercava di chiudere con fatica la borsa con le sue apparecchiature.

Dopo un sonoro cigolio, fece la sua comparsa la testa coriacea del capitano della nave.

«Señores volevo avvisarvi di affrettarvi, tra meno di mezz’ora il porto sarà piuttosto affollato e sarà difficile passare inosservati»

«Grazie Capitano, siamo quasi pronti» gli rispose Kenji cordiale, avvicinandosi alla scaletta «Come ultima cosa, volevo chiederle se ci sono dei mezzi per raggiungere il confine…Non ufficialmente s’intende»

L’uomo si acciglio e iniziò a grattarsi le tempia con l’indice «Beh, un modo ci sarebbe…Ma è costoso…»

«Non è un problema» lo bloccò il Professore risoluto.

In quel momento l’uomo scese, avvicinandosi a loro con fare cospiratore «Allora, poco lontano dalla raffineria troverete una pompa di benzina con un chioschetto. È l’unica non potete sbagliarvi. Lì chiedete di Julio, è un nome in codice per far capire loro che avete bisogno di passare il confine... Ma non credo che vi lascino solo l’auto, vi accompagnerà qualcuno perché solo loro conoscono il sentiero più sicuro per evitare la dogana e i posti di blocco, almeno è quello che si dice…»

«Grazie mille Capitano, ci è stato molto utile» lo congedò il Professore mentre si accingeva a prendere le sue borse; Ryo e Frank lo aspettavano già pronti.

«Ah señor…» aggiunse il marinaio titubante «Fate attenzione ai coyotes4, quelli non si fanno molti scrupoli ad ammazzare e derubare chiunque voglia passare la frontiera. Si sentono certe storie, e-»

«Ah, per questo non c’è alcun pericolo. Sono loro che dovrebbero fare attenzione a noi» gli rispose con un sorriso divertito mentre iniziava a salire la scaletta.

L’omino, sconvolto, li fissò salire per poi sparire dall’apertura in alto.
“Chi diavolo sono questi uomini?” si chiese, tamponandosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto sporco.
 
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«Cos’era quell’affermazione Prof? L’ha sentita in qualche film di serie Z?» domandò Moon mentre camminavano a passo spedito lungo la banchina poco affollata.

«Non capisci niente Frank, ogni tanto bisogna saper concludere i discorsi con qualche bella frase a effetto» replicò soddisfatto «E pensa che l’ho così spaventato che ci ha anche regalato un pastrano a testa. Con questo freddo le mie ossa ringraziano eheh. Anzi, mi devi un favore»

«Non si dia troppe arie» sbottò seccato l’americano.

Ryo li osservò bisticciare come due ragazzini e sorrise lievemente, mentre stringeva tra le mani i due pesanti borsoni. I loro effetti personali erano piuttosto risicati, tutto lo spazio lo prendevano le armi che erano riusciti a portare con loro.

«C’è una cosa che non capisco» disse a un tratto, interrompendo il dialogo tra i due uomini «Perché dovremmo servirci di altra gente per raggiungere gli Stati Uniti? Con l’altro confine non abbiamo avuto grandi problemi, la polizia di frontiera si lascia corrompere facilmente. Anche senza macchina non siamo così carichi da non poter marciare»

Il Professore scosse il capo «Ah Baby Face, me l’aspettavo questo tuo dubbio» gli rispose mantenendo un aspetto serafico «Certo che potevamo andare a piedi, sono quasi otto ore di marcia ma siamo abituati a molto peggio. In questo caso, però, ci cerve un mezzo. Guardaci: anche il poliziotto più stupido d’America si renderebbe conto che non siamo semplici clandestini. Qui possiamo ancora stare relativamente tranquilli, alla gente piace farsi i fatti propri ma, una volta arrivati nel primo paese degli Stati Uniti, attireremmo l’attenzione e sùbito uno sceriffo troppo zelante verrebbe a darci fastidio. E poi, ammesso che alla dogana si riesca a corrompere facilmente la polizia di frontiera, resta il fatto che degli sbirri vedrebbero la nostra faccia. Ricorda: meno gente ci vede e meglio è, soprattutto per te e Frank che dovrete vivere e lavorare lì. Bisogna evitare a tutti i costi che ci possa essere il minimo indizio per identificarvi o rintracciare i vostri spostamenti. Ecco perché è meglio affidarsi a questi sciacalli; è nel loro interesse evitare i controlli e con loro risparmieremo tempo e fatica. Comunque sono criminali di poco conto e, se davvero dovessero giocarci qualche brutto scherzo, non avremo problemi a sistemarli e prenderci il loro mezzo»

«È proprio un diavolo Prof» commentò Frank mentre, in estasi, stringeva tra le labbra la sigaretta tanto bramata.

«Che significa?» domandò Ryo, fermandosi dopo aver mosso pochi passi «Io e Frank vivremo lì, e lei?»

Quella frase lo aveva messo in allarme.

L’uomo gli sorrise bonariamente, scrollando leggermente il capo «Io non posso restare ragazzo mio, rischierei davvero di rimetterci la pellaccia. Vi accompagnerò fino a San Diego, poi le nostre strade si divideranno» e, ricominciando a camminare, aggiunse «Su muoviamoci, entro stasera voglio essere a Chula Vista»

Ripresero la marcia, ma un scomodo silenzio era sceso tra di loro, ognuno perso nei proprio pensieri. Ryo continuava a ripetersi che lo sapeva che le cose sarebbero andate così, che sarebbe arrivato infine il momento in cui ognuno avrebbe preso la propria strada ma, nonostante tutto, quella consapevolezza gli strinse lo stomaco.
 
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1 Approfitto di questa noticina per esplicitare le date di nascita che ho pensato per vari personaggi e che avrei dovuto fare prima. Naturalmente è solo una mia personalissima valutazione visto che non ci sono certezze, ho solo cercato di dare a ognuno un’età il più verisimile possibile. Ryo: 1953; Kaibara: 1933; Professore: 1916; Moon: 1932.
 
2 Piccolo rimando a quanto detto dal Professore a Kazue e Kaori nel capitolo 83 (edizione Panini) e nel capitolo 39 (edizione Star Comics). Citando testualmente: «[…] Erano anni che non gli vedevo quell’espressione determinata. L’ultima volta…Ah, sì, è stato in Messico. In quell’occasione fece fuori da solo un intero plotone… Nel giro di mezz’ora!»
Se non mi sbaglio è l’unico riferimento a un preciso Paese del periodo di guerriglia, mentre per il resto si parla del generico Centroamerica.
 
3 Naturalmente anche il dolce Ryo merita un angolo kanji tutto per sé (quelle che scriverò saranno ovvietà per gli esperti di CH, ma concedetemelo lo stesso). Partiamo dal nome. Dopo le mie solite ricerche è saltato fuori che tra, i vari kanji utilizzati per il nome Ryo e derivati, non risulta quello utilizzato dallo sweeper, ovvero il cui significato è “cacciare di notte con le torce”. Quindi il caro City Hunter è cacciatore di nome – vero e d’arte – e di fatto (è probabile che questo riferimento sia stato voluto da Hojo. Apro una sotto parentesi solo per aggiungere che la lettura Kun di è “kari”, basta metterci una “o” in mezzo e abbiamo Kaori – ma qui siamo a livelli di complotto/coincidenza che Adam Kadmon spostati!).
Veniamo ora al cognome. Saeba è un effettivo cognome giapponese, ma mi sono sorpresa nel non trovare alcun riscontro della grafia 冴羽. Analizzando i kanji, il primo   "sae" è lo stesso che compone il nome Saeko e che si ritrova nella grafia classica di Saeba. Ciò che stona è il secondo kanji  "ba", il cui significato principale è “ala”. Come prima associazione, ho subito pensato all’aereo su cui viaggiava Ryo e, poiché sappiamo essere stato Kaibara a dargli il cognome, non escludo che possa aver scelto degli ideogrammi significativi per il vissuto di Ryo e che gli abbia insegnato a scriverli (ma questa è solo una mia fantasia!) Concludo il mio ennesimo sproloquio linguistico dicendo che, alla luce di quanto detto sopra, Ryo non solo non esiste in quanto privo di documenti e stato civile, ma anche dal punto di vista del nome è in certo senso inesistente, in quanto ha una combinazione di ideogrammi inedita.   
 
4 Per coyotes si intendeva i trafficanti di immigrati clandestini che, specialmente al confine tra Messico e Stati Uniti, abbandonavano i loro clienti nei territori desertici, condannandoli a morte certa. Giusto per togliere possibili dubbi, in quel periodo il muro non esisteva ancora in quanto venne costruito a partire dal 1990.

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Capitolo 12
*** Interludi ***


California, dicembre 1971 – Un nuovo inizio II
 
«Vi giuro, signori, che l’essere troppo consapevoli è una malattia,
un’autentica, assoluta malattia»
 Fëdor Dostoevskij, Memorie del Sottosuolo
 
Un furgoncino sporco e ammaccato si fermò con una sgommata, sollevando un ampio polverone che, nel buio del tardo pomeriggio, non si notò affatto. Aveva appena raggiunto un altopiano semidesertico dopo aver percorso una sentiero sterrato alla sola luce della luna; l’autista aveva guidato senza difficoltà con i fari spenti grazie ad anni di esercizio. Quest’ultimo aprì la portiera, dopo aver litigato con la maniglia, e uscì dal mezzo imprecando.

«Jeez, non ho mai visto una schifezza del genere» borbottò mentre si avviava verso il portellone posteriore che aprì con un sonoro calcio.

«Señores, il vostro viaggio finisce qui» disse in tono conciliante, spostandosi di lato.

Poco dopo cinque uomini, dall’aspetto piccolo e smunto, sgusciarono fuori stringendo tra le mani dei minuscoli fagotti.

«Siamo poco fuori città, le luci che vedete in lontananza sulla sinistra sono la zona industriale di Chula Vista; una mezz’oretta di cammino e sarete arrivati.

«Noi… Non sappiamo come ringraziarvi…» mormorò uno degli uomini avvicinandosi a Frank e stringendogli le mani «Se non fosse stato per voi, noi a quest’ora non saremmo vivi»

«Ah, nessun problema. Quella gentaglia non meritava nessuna pietà e per noi è stato un gioco da ragazzi» esclamò l’uomo, ritirando la mano leggermente imbarazzato.

«Buena suerte» disse loro prima di richiudere il portellone.

«Gracias señor, vaya con Dios!» gli disse di rimando l’uomo che si era fatto portavoce dei suoi compagni.

Il piccolo gruppo si mise in marcia, verso quella città che rappresentava per loro il sogno di un futuro migliore. Moon li seguì con lo sguardo per qualche istante prima di stiracchiarsi e avvicinarsi alla portiera del passeggero.

«Allora Prof, notizie?» domandò appoggiandosi con gli avambracci sul bordo del finestrino abbassato.

«Ssssh» gli disse l’uomo, zittendolo con un gesto della mano.

Kenji era chino sulla sua trasmittente, le cuffie strette alle orecchie con le mani e, a giudicare dall’espressione corrucciata, il segnale doveva essere disturbato.
Frank sbuffò e iniziò a ciondolare accanto al veicolo; era da quando avevano fatto fuori quegli schiavisti, poco prima del confine, che il Professore si era attaccato a quella trasmittente emettendo di tanto in tanto parole totalmente sconnesse, certamente il suo linguaggio in codice. Immaginava fosse subentrata qualche difficoltà, ma era certo che ne avrebbe parlato appena risolto tutto. Per fortuna quell’ammasso di ferraglia aveva tre sedili anteriori, così aveva potuto scambiare qualche parola con Ryo durante il tragitto, altrimenti si sarebbe annoiato a morte.
Proprio in quell’istante sentì i passi di quest’ultimo avvicinarsi a lui mentre si grattava distrattamente la testa.

«Mamma mia Frank hai guidato da fare schifo, mi sento lo stomaco sottosopra» gli disse il ragazzo fermandosi poco più avanti di lui.

«Vedi che con quel rottame è già tanto se siamo arrivati fin qua, e poi non si può chiamare strada quella che abbiamo fatto. Non sono ancora capace di fare miracoli»

«Sì, lo so Mr. Permaloso» gli disse Ryo in tono allegro e, dopo avergli dato nuovamente le spalle, fece qualche altro passo in avanti; sembrava scrutare il terreno.

L’americano si mise subito in allarme «Che c’è my boy? Hai notato qualcosa di strano?»

Ryo non rispose subito, si limitò a inginocchiarsi e a posare una mano per terra.

«Guarda… Questo è l’unico punto in cui il terreno, nonostante la posizione, sembra accennare una leggera discesa» e, girandosi verso l’uomo, sentenziò serio «Quindi è il punto migliore per pisciare senza il rischio di bagnarsi i piedi»

Frank si sentì un emerito cretino per avergli dato corda e, dopo essersi passato una mano sugli occhi, gli diede uno scappellotto sulla nuca.

«Sei proprio un idiota Ryo, lo sai?»

Il ragazzo sghignazzò e, dopo essersi alzato, iniziò ad aprire la patta dei pantaloni «Sono un tuo allievo, no?» gli disse con fare innocente.

L’uomo sospirò sconfitto e gli si affiancò «Allora ne approfitto anch’io di questa tua mirabolante scoperta» disse mentre armeggiava con la cinta.

«Ehi, però non sbirciare» gli intimò Ryo dopo qualche istante, lanciandogli un’occhiatina divertita.

«Non ne avrei motivo, voi asiatici siete così sottodotati» sbuffò in un tono di superiorità.

«Sottodotato a chi? Vedi che roba!» gli urlò, indicando l’oggetto della disputa con enfasi.

«Scemo, perché mi vuoi far vomitare? Non mi interessa il tuo amico» esclamò esasperato l’uomo, tenendo a freno i suoi entusiasmi con un gomito.

«Insomma la volete smettere di fare questo baccano?»

La voce del Professore li riportò subito all’ordine e i due si ricomposero, imbarazzati come due scolaretti.

Kenji si lasciò andare a un sospiro esasperato, sebbene internamente fosse lieto che quei due avessero la voglia di scherzare. Soprattutto Ryo, che si era incupito di colpo quella mattina dopo che erano sbarcati dalla petroliera.

«Ho contattato il mio fedelissimo di San Diego ed è arrivato adesso a Chiula Vista: ci siamo dati appuntamento nei pressi di una cava di ghiaia dismessa, nelle vicinanze del fiume Otay. Per i documenti non ci sono stati problemi» e, passandosi le dita sui baffi, continuò contrariato «Purtroppo a quanto pare c’è stato un errore di valutazione e la nave che dovrei prendere parte all’alba da Long Beach… Questo scardina un po’ i miei piani, ma penso che rimandare la partenza di alcune ore non cambi molto le cose. Vorrà dire che verrò a Los Angeles con voi e ne approfitterò per salutare una persona»

«Davvero? Quindi siamo diretti lì?» domandò curioso Ryo, segretamente contento che il Professore restasse con loro un po’ di più.

«Sì ragazzo mio, ma non sarà la vostra sede definitiva» e girandosi in direzione di Frank aggiunse «Una certa persona non ha fatto altro che darmi fastidio, sebbene stessi lavorando per lei. Credo che tu voglia tornare nella tua San Francisco, no? Un mio amico mi ha dato conferma di aver trovato quello che cerchi»

Gli occhi di Frank si spalancarono per lo stupore e si ritrovò incapace di emettere alcun suono. Era intimamente commosso per quello che il Professore aveva fatto per lui, e sentì nascere nel cuore la speranza di poter avverare finalmente il suo sogno di incontrare sua figlia.

«Beh, che hai da guardarmi come un pesce lesso? Se avete finito con i vostri bisognini salite subito a bordo, non voglio perdere altro tempo in questo postaccio» e così dicendo, l’uomo si avviò verso il furgoncino.

Ryo guardò entrambi gli uomini e fu felice per Frank: quello era il suo regalo di addio da parte del Professore e si chiese se l’uomo avesse in serbo qualcosa anche per lui.
---
 
«Frank, dove hai la testa? Dovevi girare a destra, non proseguire dritto!»

«Anche lei Prof, potrebbe dirmele in anticipo queste cose?» borbottò l’uomo mentre accostava la macchina e, con una manovra azzardata, faceva inversione di marcia.

«Ah, di questo passo arriveremo a Los Angeles tra dieci anni»

«Se vuole può guidare lei» sbottò Moon, lasciando per qualche istante le mani dal volante.

«No grazie, sono stanco… Lascio fare a te. E poi, non sei stato tu a insistere nel volere la macchina di John e a rifilargli quella caffettiera di furgoncino? Beh, ora che l’hai avuta guida» rispose candidamente Kenji portandosi le mani dietro la nuca «Poverino, mi chiedo se quell’ammasso di ferraglia abbia retto fino a San Diego»

Uno sbuffo esasperato mise fine alla discussione e così, senza ulteriori problemi, una Ford Falcon del ’64 celeste con tettuccio bianco si inserì nella Interstatale 5 in direzione Los Angeles. Illuminati dalle luci artificiali della metropoli, i tre uomini si concessero un po’ di silenzio; in realtà Ryo non aveva più aperto bocca da quando era salito in auto dopo aver salutato l’uomo del Professore, e sembrava non averne l’intenzione. Schiacciato contro la portiera, osservava con meraviglia infantile lo spettacolo che gli si presentava davanti.
Erano arrivati negli Stati Uniti solo da poche ore e non faceva che ripetersi come tutto sembrasse più grande: auto, case, strade, ogni cosa sembrava fuori misura in quel posto, quasi a sottolineare l’opulenza di quella nazione che, fino a poco tempo prima, aveva supportato i suoi nemici. Guardava fuori senza soffermarsi davvero su quel carosello di luci che sfilava davanti ai suoi occhi, consapevole di quanto poco conoscesse quel mondo; mondo in cui sia Frank che il Professore si sentivano perfettamente a loro agio.
Loro avevano ricordi di una vita prima della guerriglia, mentre lui non ricordava niente se non delle sfuggevoli sensazioni che non sarebbe riuscito a definire in alcun modo.
“Sono diverso dagli altri” si disse, rendendosi conto per la prima volta di quel dato di fatto: non aveva una casa in cui tornare e nessuna famiglia ad aspettarlo e, forse, non avrebbe avuto nessun futuro.
Fece un profondo respiro e, dopo essere scivolato leggermente in avanti, reclinò la testa sul bordo del sedile, appoggiando la fronte sul finestrino. Osservò uno spicchio di cielo e non gli era mai sembrato così buio e privo di stelle.
 
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Mentre il ragazzo era immerso nelle sue riflessioni, i due uomini seduti sui sedili anteriori si scambiarono un lieve cenno d’intensa e decisero di lasciar stare Ryo. Frank lo scrutò dallo specchietto retrovisore e, appena intravide lo sguardo serio e assorto del ragazzo, piegò lievemente le labbra in un moto di affetto. Poteva solo provare a immaginare cosa gli stesse passando per la testa in quel momento, ma sapeva anche che non ci sarebbe mai riuscito. Gli mancavano le capacità del Professore, non sapeva indagare così a fondo nell’animo umano; con gli anni, però, aveva capito che Ryo, per quanto non lo desse a vedere, aveva la tendenza a isolarsi e rimuginare quando qualche cosa lo impensieriva, e non accettava nessun tipo di interferenza mentre era in quello stato. Nemmeno da uno di loro due. Sapeva anche che, una volta passato il momento, sarebbe stato lui stesso a ritornare il ragazzo di sempre.

«Allora Prof, me lo vuole dire finalmente da chi stiamo andando?» domandò a voce bassa, spezzando il silenzio che aleggiava da troppo tempo nell’abitacolo.

«Non ancora, lo scoprirai a tempo debito» fece l’uomo con un sorriso furbo «Diciamo che è un mio vecchio amico con cui ho mantenuto i contatti durante questi anni, seppur in modo discontinuo. Lui sta aspettando solo il vostro arrivo perché avevo dato per scontato di partire da San Diego, ma visto che il mio piano è saltato gli farò proprio una bella sorpresa, ehehe» ridacchiò soddisfatto.

«Allora temo che sia il diavolo in persona» borbottò l’americano mentre armeggiava con la mano destra nel taschino della camicia per prendere una sigaretta.

«Non credo che sarebbe felice di questa definizione. E poi dovresti ringraziarlo, è stato lui a rintracciare tua figlia»

Frank strinse il filtro tra i denti «No, se c’è una persona che devo ringraziare è solo lei Prof»

«Suvvia Moon, non ho fatto niente di che»

«Invece ha fatto molto, se non si fosse interessato dubito che il suo amico si sarebbe attivato per trovare Mary. Quindi è solo lei che devo ringraziare» ed espirando il fumo dalle narici concluse «Avrà sempre la mia eterna gratitudine per questo. Anche se… Non so come potrò presentarmi davanti a lei. Non deve essere bello scoprire di avere un padre come me» disse leggermente afflitto.

Kenji lo squadrò con la coda dell’occhio; avrebbe voluto dirgli altro, ma non voleva rovinare la sorpresa che aveva iniziato a organizzare già durante il loro ultimo mese in Guatemala.

«Non preoccuparti, sono certo che sarà molto comprensiva»
 
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Ryo sentiva i due uomini confabulare tra loro, ma non diede molta importanza alla cosa, alla fine sapeva che stavano rimediando a modo loro al silenzio che aveva involontariamente portato nell’abitacolo. Rialzò il capo e ritornò a osservare fuori dal vetro, notando come il paesaggio fosse cambiato. In quel momento le luci si erano fatte più lontane, ma sembravano non finire mai. Lui era abituato a vedere villaggi, o comunque piccoli paesi distanti l’uno dall’altro in modo inequivocabile. Lì invece le costruzioni si susseguivano senza soluzione di continuità, tanto che si chiese se fossero ancora a San Diego; aveva perso la cognizione del tempo, ma non aveva fretta di recuperarla e si lasciò cullare da quel veicolo, così comodo per gli standard a cui era abituato, che scivolava senza scossoni su quella strada liscia così diversa dai sentieri sterrati e dalle strade accidentate della sua vecchia vita. Si grattò distrattamente il mento che si era fatto ispido per la barba non fatta: era inutile, si sentiva un po’ a disagio, così fuori posto e così ignorante. Tutte sensazioni che odiava profondamente. Avrebbe dovuto lavorare duramente per colmare le sue lacune, consapevole che la sua ottima conoscenza delle tecniche di guerriglia e il saper padroneggiare con sicurezza invidiabile ogni tipo di arma non fossero i soli requisiti fondamentali per potersela cavare in quella giungla fatta di palazzi alti come non avrebbe mai immaginato esistessero.

«Che dice Prof, accendo un po’ la radio? Per quanto riguarda la musica sono rimasto parecchio indietro»

La voce di Frank giunse a interrompere il flusso dei suoi pensieri lugubri e, subito dopo, l’abitacolo venne invaso dalla voce esagitata di uno speaker che elogiava “il singolo che stava raggiungendo la vetta delle classifiche internazionali”. Ryo si mise composto, chiedendosi cosa diavolo significassero quelle parole, ma poi si diffuse una melodia delicata che gli suscitò all’istante una certa malinconia. No, non aveva mai sentito una musica del genere, abituato com’era alle canzoni popolari del Centro e Sud America, dai ritmi e melodie ben diverse. Lo stesso Frank non gli aveva mai cantato niente dicendo fosse terribilmente stonato, mimandogli solo delle pose assurde di un certo Elvis che lo avevano fatto spanciare dalle risate. Il delicato accompagnamento di piano e archi continuò ad accarezzargli le orecchie e Ryo chiuse gli occhi, provando a concentrarsi sul testo, per fortuna il cantante aveva una pronuncia più pulita rispetto all’uomo che aveva parlato poco prima.
 
[…] Imagine there's no countries/ It isn't hard to do/ Nothing to kill or die for […]1
 
Riaprì gli occhi di scatto, leggermente turbato da quelle parole. Si era sentito chiamare in causa: lui aveva ucciso giorno dopo giorno, aveva rischiato più volte di morire, e tutto questo perché? Qual era il motivo che lo aveva trascinato in quella spirale infernale? Era la prima volta che ci rifletteva seriamente in quanto prima non ne aveva mai avuto la possibilità, o forse, più semplicemente non aveva potuto permettersi di avere alcun dubbio.
“Per sopravvivere. Ho combattuto per restare in vita. È la legge del più forte, è così che va avanti la natura. Il debole soccombe affinché il più forte possa continuare a muoversi su questa terra” si disse e, inconsapevolmente, strinse le mani a pugno sopra le sue cosce. Certo, loro avevano combattuto per aiutare i civili, per salvarli dalle angherie dell’esercito e dei suoi mercenari, ma quell’ideale non modificava la sua realtà: quando si trovava sul campo di battaglia c’erano solo lui e il suo nemico e, se fosse crepato in qualche assalto, poco sarebbe importato alla loro causa superiore. Con gli anni quella guerra era diventata ‘sua’ semplicemente perché si era ritrovato a vivere lì, e non aveva avuto altra scelta se non quella di trascinarsi, giorno dopo giorno, con la consapevolezza di dover migliorare sempre di più, di non poter mai davvero abbassare la guardia se voleva vedere un altro mattino.
Fu in quel momento, quando l’accordo finale sfumò per fare posto a una canzone più ritmata, che realizzò davvero il significato delle parole che il Professore e Frank gli avevano detto sulla petroliera. No, non doveva più pensare come un guerrigliero, non doveva più accettare passivamente gli ordini impartiti dal suo superiore; avrebbe avuto più libertà da quel momento in poi. E avrebbe dovuto provare a vivere, trovare uno scopo, un motivo per aprire gli occhi che non fosse quello della mera autodifesa. Bellezza, una persona cara... Erano tutti concetti fuori dal proprio sé eppure, a detta dei due uomini, così sentiti e così necessari per avere la forza di combattere qualsiasi cosa. Doveva ampliare i suoi orizzonti interiori, proprio come stava facendo con quegli esteriori.
“Sì, ma come?” e, mentre formulava quella domanda, portò il suo sguardo verso sinistra e osservò il profilo di Frank. Avrebbe vissuto con lui da quel momento in poi, una delle poche persone in cui nutriva una profonda fiducia, e che lo aveva aiutato ogni volta che aveva potuto. Avvertì del calore all’altezza del petto e arcuò le labbra in un leggero sorriso. Per il momento si sarebbe assicurato di ricambiare tutto ciò che l’uomo aveva fatto per lui, e si ripromise di offrirgli tutto il suo supporto. Forse non era una motivazione abbastanza forte per vivere, ma in quel momento sembrò sufficiente per rinfrancarlo. Una parte della sua inquietudine scivolò via e si sentì d’un tratto più leggero, pronto a lasciare le sue malinconiche riflessioni a un altro momento.
Con la mano destra abbassò veloce la manovella del finestrino e venne investito all’istante da una folata ghiacciata che gli scompigliò i capelli.

«Ehi Ryo, sei impazzito forse?» gli urlò Moon contrariato, visto che quella corrente d’aria improvvisa gli aveva spento la sigaretta «Vuoi farci ammalare tutti?»

«Dai Frank, non essere noioso» gli rispose Ryo, sporgendosi fuori con la testa mentre con un braccio teso saggiava la resistenza dell’aria.

«Fosse estate non avrei nulla in contrario, ma a dicembre specialmente dopo il tramonto fa parecchio freddo, soprattutto ora che stiamo lasciando Oceanside e ci aspetta un bel tratto dove saremo solo noi, le montagne e l’oceano»

Ryo chiuse gli occhi, inspirando profondamente «Senti Frank, questa scatoletta non può andare più veloce?»

«Eh?» domandò confuso.

«Dicevo, è questo il massimo che sai fare come pilota?» gli fece Ryo, girandosi verso di lui con un sorrisetto furbo.

«Ah, è la guerra che vuoi allora?» rispose ricambiando lo sguardo di sfida.

«Frank che vuoi fare? Vedi che-» disse il Professore leggermente preoccupato, ma fu incapace di proseguire perché interrotto dal rombo del motore portato al massimo dei giri.

«Allora, che ne dici my boy?»

«Ora iniziamo a ragionare!» esclamò Ryo esaltato, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia, prima di rifiondarsi con la testa fuori dal finestrino.

«Poi faremo i conti! Non so davvero chi sia il più piccolo fra voi due» borbottò di malumore il Professore, mentre si alzava il pastrano fino in testa per ripararsi dal vento impetuoso.

Ryo si lasciò andare a una risata liberatoria, galvanizzato dalla sensazione del vento sul suo viso e dalla velocità che lo spingeva contro il sedile. Avrebbe voluto che quel viaggio non finisse mai.
 
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Erano quasi le otto di sera quando la Ford Falcon raggiunse l’estesa area metropolitana di Los Angeles. Ryo, una volta placati i suoi entusiasmi, aveva continuato a osservare il panorama, diventando particolarmente attento appena iniziarono ad attraversare i centri abitati; si sentiva stranamente attratto dalla pletora di luci artificiali dai mille colori, trovandole uno spettacolo interessante per lui che era abituato alle tenebre notturne. Di tutt’altro stato d’animo era Frank che, spazientito, osservava in tralice il Professore che, chino sull’atlante stradale, era intento a cercare la giusta uscita per lasciare l’Interstatale.

«Allora Prof, dobbiamo proseguire o no?» domandò Moon, tamburellando le dita sullo sterzo.

«Non lo so» rispose l’uomo mentre si abbassava gli occhialini sulla punta del naso.

«Come?! Tra poco c’è una biforcazione e devo sapere se proseguire o girare a destra!»

«Sì, lo so Frank, non mettermi fretta»

«Ma no, che fretta, possiamo tranquillamente fermarci in mezzo alla strada!» esclamò esasperato l’americano «Ah, mi sento la gamba destra totalmente intorpidita, ormai è tutto il giorno che guido, peggio di un camionista»

«Almeno hai un altro lavoro da fare appena inizierai a far schifo con le armi»

«Vada al diavolo» sbottò Frank «Ryo, vedi questo vecchio? Non diventare mai come lui»

«Vecchio a chi, eh?» scattò Kenji colpendogli la testa con l’atlante «Non posso farci niente se manco da Los Angeles da più di vent’anni, e per di più questo stradario non è neanche aggiornato»

Ryo sghignazzava internamente nel vedere quei due che creavano un’accoppiata pilota – copilota tra le più improbabili.

«Ma si può sapere dove diavolo stiamo andando? L.A. non è mica così piccola, mi serve il luogo preciso, così almeno posso farmi un’idea»

«Dobbiamo raggiungere North Hollywood, quindi per logica dobbiamo proseguire verso nord»

«A Hollywood?» esclamò sorpreso Frank «E chi stiamo andando a trovare? Liz Taylor?»

«Ti piacerebbe, eh? Comunque ho detto North, è leggermente diverso… Dovrebbe essere accanto all’Hollywood Burbank Airport… Ah, dannazione, questa parte della mappa si trova proprio vicino l’attaccatura del foglio»

«Prof, destra o sinistra?» chiese esasperato «Mancano 500 metri»

«Mmmh, ecco…Vediamo… Forse, ah sì forse…»

«Mi vuole rispondere sì o no? Non voglio sbagliare strada e guidare per un’altra ora inutilmente!» sbraitò Frank ormai agitato e rosso in viso.

Kenji rialzò la testa, si sistemò gli occhiali con noncuranza e, dopo aver richiuso lo stradario, disse candidamente «Mantieni la corsia di sinistra e prosegui in direzione Sacramento» dopo di che si sistemò meglio sul sedile.

«E ci voleva tanto per dirmelo?» sbottò l’americano ancora furente mentre passavano lo svincolo «Dopo che mi ha fatto dannare per mezz’ora…» ma si interruppe nel sentire una risatina soffocata. «Non mi dica…» sibilò «Non mi dica che ha fatto finta di non sapere la strada?!»

«Eheheh mio caro Moon, è così bello vederti perdere le staffe» ridacchiò Kenji «Non ho mai visto qualcuno diventare rosso come te! E per di più a chiazze; vedi, proprio sulla fronte, per non parlare delle guance e-»

«Prof, vuole diventare anche lei rosso a suon di schiaffi?»

«Su su, non puoi limitarti solo a fare scherzi, bisogna saperli anche accettare da parte degli altri. Capito Ryo?» disse girandosi verso il sedile posteriore «Mi raccomando, non risparmiarti con questo permalosone»

«Non si preoccupi Professore, non gli darò un attimo di pace» rispose il ragazzo facendogli un occhiolino complice.

Frank scosse la testa sconsolato e lasciò andare un sospiro «Ripeterà questa sceneggiata anche più tardi?»

«Certo che no, hai la tendenza a diventare isterico quando sei di cattivo umore e ci tengo a non morire in un incidente» commentò angelico l’uomo, passandosi distrattamente le dita sui baffi «Uscita 148. Vedi di non sbagliare, voglio essere lì prima che sia troppo tardi per rimediare una cena»

«Ci terrei anch’io visto che non abbiamo pranzato» chiuse Frank, accendendosi l’ennesima sigaretta della giornata.


Il resto del viaggio si svolse senza intoppi e nel tempo previsto i tre uomini, dopo aver percorso diverse strade che a Ryo sembrarono tutte uguali, si fermarono nei pressi di una delle tante villette con giardino che costellavano Califa Street.

«Eccoci arrivati» esclamò il Professore soddisfatto, uscendo veloce dall’abitacolo «Ah, non ne potevo più di stare seduto»

«Quindi abita qui l’uomo del mistero» commentò Frank mentre si sistemava i pantaloni.

Ryo non disse niente, limitandosi a squadrare la villetta bassa dal tetto spiovente. Il prato era decorato da palme e aiuole ben sagomate e, dalle persiane accostate, filtrava una luce calda. Case così belle non ne aveva mai viste.

«Deve essere davvero ricco per potersi permettere una casa del genere» si lasciò sfuggire.

«Beh, sì i soldi non gli mancano ma credimi ragazzo mio, le persone davvero ricche non vivono in queste casette» gli rispose prontamente il Professore e, senza ulteriori indugi, si avviò verso il vialetto lastricato, fermandosi sul pianerottolo illuminato da una lanterna appesa sopra il portone.

Appena Frank e Ryo lo raggiunsero suonò il campanello. Dopo pochi istanti la porta si aprì e un ragazzino alto e magro, dai capelli rossi e il viso cosparso di efelidi, li guardò con occhi indagatori.

«Chi siete?» domandò cauto.

«Amici, abbiamo un appuntamento con tuo padre» rispose il Professore sorridendo.

«Ah sì? E chi devo riferire?»

«Golden Gate, 1948. Digli questo, lui capirà»

«Aspettate qui» disse il ragazzetto, prima di socchiudere la porta.

Ryo guardò il Professore con aria interrogativa ma, nel vederlo così sereno e padrone della situazione, decise di non fargli domande. Qualche istante dopo avvertì dei passi pesanti avvicinarsi alla porta, che venne spalancata con un colpo secco.

«Non ci credo, anche tu qui vecchia volpe!» esclamò l’omone sorridendo selvaggio «Che bella sorpresa!»

Il ragazzo fu sorpreso nel vedere quell’uomo possente, poco più basso di lui, massiccio e con una lunga barba curata, abbassarsi e stritolare in un abbraccio il Professore.

«Sono felice di vederti anch’io vecchio orso, o forse dovrei chiamarti Papa adesso» disse Kenji mentre si riprendeva da quella stretta d’acciaio.

«Sempre aggiornato su tutto Prof» disse l’uomo allegro «Quindi sono loro i due uomini?» domandò spostando lo sguardo.

«Sì, ti presento Frank Moon e Ryo Saeba» disse Kenji, facendosi indietro.

L’uomo li squadrò velocemente da capo e piedi e commentò con un sorrisino «Così voi avreste capacità eccezionali… E tu ragazzo? Sei davvero il fenomeno che mi è stato descritto?» domandò fissando Ryo negli occhi.

«Non mi ritengo tale, sono stato un semplice guerrigliero» rispose sentendosi leggermente a disagio per quell’occhiata penetrante.

«Mmmh, eppure qui dentro vedo un fuoco ben diverso… Beh, mi piacciono i ragazzi così!» esclamò dandogli una robusta pacca sulla spalla.

Ryo arcuò leggermente l’angolo della bocca abbozzando un sorrisetto; era confuso da quello sconosciuto. Avvertiva a pelle che era un uomo molto pericoloso, ma nei suoi modi non si scorgeva altro che una rustica giovialità. In quel momento, però, il suo udito sensibilissimo avvertì il debole scatto di un cane armato. L’assenza di aura omicida non gli impedì di agire d’istinto e, in un movimento fulmineo, prese la Python da sotto il pastrano e sparò in alto senza prendere la mira, basandosi solo sul rumore che aveva sentito.

«Ma che…?» esclamò il Professore, ma si bloccò appena vide una pistola cadere dal tetto.

«Are you crazy, motherfucker? Do you wanna kill me? Holy shit!» urlò una voce in alto e, alzando la testa, tutti poterono intravedere nell’oscurità un uomo aggrappato a un abbaino.

Il padrone di casa esplose in una fragorosa risata «Ah ragazzo, mi sa proprio che il vecchio aveva ragione! Neanche io mi ero accorto di nulla» e vedendo lo sguardo decisamente confuso di Ryo aggiunse «Era solo una prova per testarvi, ho chiesto a Will di simulare un’imboscata…Ehi Will, tutto a posto lassù?» chiese alzando la testa.

«Sì capo, per fortuna ha colpito solo la pistola» disse l’uomo mentre si rimetteva in piedi.

«Bene, e sei stato bravo ad avere montato il silenziatore ragazzo, se no avremmo creato un bel po’ di trambusto nella zona» e sfregandosi le mani concluse «Entrate signori, immagino siate stanchi e affamati; tranquilli qui c’è sempre posto per gli amici»

I tre uomini entrarono in un disimpegno quadrato su cui si affacciava una scalinata in legno e due porte ai lati. L’ambiente era pregno di tabacco e polvere da sparo, una casa sicuramente fuori dal comune, come il suo proprietario. Ryo si guardò intorno curioso e, cercando lo sguardo di Frank, capì che anche lui era confuso quanto lui.

«Prof» sussurrò l’americano «Ma chi è quest’uomo?»

L’uomo fece un sorrisino prima di rispondere «Ralph Thorson2. Ti facevo più perspicace Frank»

«Cosa?!» Moon rimase impalato con gli occhi spalancati, mentre il Professore si accingeva a seguire il padrone di casa nella cucina.

Ryo, nel vedere quella reazione, capì di non voler essere più l’unico all’oscuro di tutto.

«Lo conosci?» chiese all’uomo.

Frank annuì lentamente «Era molto noto a San Francisco, ma è la prima volta che lo vedo» e guardandolo negli occhi rispose alla sua muta domanda «È uno dei più famosi bounty hunter della California»

«Che fate impalati come stoccafissi? Su venite qui, per fortuna è avanzato dello stufato» urlò Thorson dalla stanza adiacente e i due non se lo fecero ripetere due volte.

 
Ryo si rese conto di morire di fame solo quando si trovò sotto al naso un abbondante piatto fumante. Si avventò sul cibo con voracità mentre il Professore aggiornava Thorson circa il loro viaggio.

«Quindi sei in partenza caro Prof?» domandò accendendosi un sigaro.

«Sì, sai bene che qui rischio troppo. Ho intenzione di tornare alle mie origini» rispose Kenji, intento a mangiucchiare un po’ d’insalata.

«Sicuro che stare in Giappone sia la scelta giusta?»

«Certo, per me l’importante è stare lontano dagli Stati Uniti. Anche l’Europa è un luogo ‘caldo’ per così dire, quindi direi che sì, il Giappone è perfetto. Lì non corro rischi, non mi conosce quasi nessuno» e, appoggiando la mano sul mento, aggiunse in un tono che Ryo non gli aveva mai sentito «E poi sono quarant’anni che vi manco»

Ryo alzò gli occhi e fissò per qualche istante il Professore, gli era sembrato a un tratto più addolcito. Quando incontrò il suo sguardo, però, vide l’uomo di sempre e si chiese se fosse stata solo una sua impressione dato che Frank stava continuando imperterrito il suo pasto.

«Come ti avevo accennato, non era nei miei piani venire fin qui ma i miei uomini di San Diego non sono stati molto attenti e solo all’ultimo minuto mi hanno riferito che, la nave cargo su cui dovrei imbarcarmi, in questo periodo salpa da Long Beach. Beh, questo succede quando non mi occupo delle cose in prima persona. Approfitterò della tua ospitalità ancora per poco, il tempo di riposarmi un attim-»

«Ma non mi disturbi affatto Prof» disse l’ospite disegnando ampi cerchi di fumo con la bocca «Per me potresti restare anche a lungo, ormai questa casa è un porto di mare! Ad ogni modo, comprendo le tue motivazioni e non voglio trattenerti oltre, ci tengo a saperti ancora vivo» aggiunse facendogli un sorrisetto.

Kenji si limitò ad annuire e continuò il suo pasto frugale, ragion per cui le attenzioni di Thorson si spostarono su Frank.

«Allora ginger head» esordì mentre dava un’altra boccata al suo sigaro «Prof mi ha detto che sei di San Francisco»

«Infatti» rispose leggermente risentito per quel nomignolo.

«Di cosa ti occupavi?»

Frank represse a stento un rutto prima di rispondere «Robetta di poco conto. Facevo parte di una banda specializzata in piccoli furti, truffe e bische clandestine» e cercando una sigaretta proseguì noncurante «Andava tutto discretamente bene, fina a quando decidemmo di unirci a un boss mafioso, occupandoci dei suoi affari più sporchi e rischiosi… Alla fine lui stesso ci ha traditi perché iniziava a vederci come una minaccia e così sono finito dietro alle sbarre. Bel periodo di merda quello» commentò espirando il fumo lentamente.

Nonostante avesse il viso concentrato sul suo piatto, Ryo non si perse una parola di quel dialogo; era la prima volta che sentiva parlare Frank del suo passato e rimase genuinamente sorpreso nello scoprire che aveva fatto parte della malavita. Lo conosceva abbastanza bene da sapere che non aveva l’indole di un criminale, e immaginò che doveva aver avuto le sue buone ragioni per aver tenuto quella condotta.

«Dopo qualche tempo ci dissero che potevamo scegliere di arruolarci per andare in guerra o restare a marcire in carcere, e io non me lo feci ripetere due volte, avrei fatto qualunque cosa pur di scappare da lì. Il resto è abbastanza scontato: ho frequentato un corso breve diventando un marine e poi sono partito per la Corea; al ritorno, poi, c’è stato il Guatemala. Soddisfatto big man?» domandò con un sorrisino.

Thorson piegò le labbra in un sorriso feroce «Sei proprio un bel tipino, mi sei simpatico» e così dicendo si allungò verso il pensile alla sua sinistra per prendere una bottiglia di whisky che stappò coi denti.

«Alla tua salute» disse riempiendogli il bicchiere.

Frank lo alzò leggermente verso di lui per svuotarlo in un solo sorso.

«La storia che mi hai raccontato coincide con quello che alla fine sono riuscito a sapere su di te. Sarai stato un criminale da quattro soldi, ma con buone probabilità te la caverai molto bene col tuo nuovo lavoro. Sarà strano trovarsi dall’altra parte della barricata, no?» disse il bounty hunter.

Frank lanciò uno sguardò in direzione del Professore che se ne stava tranquillo a pulirsi gli occhiali con la tovaglia.

«Non meravigliarti Frank» disse quest’ultimo «È normale che un professionista come lui facesse le sue ricerche, considerando che aveva qualcuno da cercare»

«Sei tu che hai rintracciato mia figlia? Sta bene?» domandò all’uomo.

«Ehi, frena con le domande man!» esclamò Thorson alzando le mani «In realtà ho delegato il compito a un mio caro amico con cui ho lavorato quando mi trovavo a San Francisco. Ha faticato parecchio, tuttavia alla fine è riuscito non solo a trovare tua figlia, ma anche a entrare in contatto con lei. Mi ha detto solo che sta bene e che vuole incontrarti, non so altro»

Ryo notò come le spalle di Moon si rilassarono nel sentire quelle parole; sapeva che per lui era la fine di una lunga agonia.

«Tieni» disse sempre Ralph mentre porgeva a Moon un biglietto e un foglio ripiegato «Qui ho scritto l’indirizzo dell’ufficio di Pooch3 – è il nome del mio uomo –, mentre l’altro devi consegnarlo a lui. È il vostro ‘lasciapassare’ per così dire. Mi ha telefonato proprio stamattina per chiedermi se foste arrivati, c’è una grossa taglia e non vede l’ora di metterci le mani, il solito impaziente. Sono certo che andrete molto d’accordo, due bounty hunter con le vostre abilità sono davvero rari al momento»

«Come mai?» domandò Frank mentre riponeva i fogli nel taschino della camicia con cura.

«Purtroppo la maggior parte degli uomini più in gamba è ancora impegnata in Vietnam4, non so se ne sei al corrente»

«Il Prof ci ha accennato qualcosa; è un altro Paese che non conosce la pace da troppo tempo e questo è più che sufficiente per capire come stanno le cose. Le abbiamo ben vissute»

«Parole sante» sbuffò l’uomo passandosi la mano sulla folta barba «Ad ogni modo, i rientri sono iniziati da poco e spero che entro l’anno prossimo le tempistiche promesse vengano rispettate. Sono certo che la situazione si farà parecchio interessante appena ci sarà più competizione, per quel periodo dovreste esservi fatti già un nome»

«Puoi giurarci, sentirai parlare di noi in continuazione tanto da non poterne più»

Thorson si lasciò andare a una grassa risata «Ah sei proprio un pallone gonfiato, sai Moon? Però è per questo che mi stai simpatico» e girandosi finalmente verso Ryo, che aveva ormai ultimato il suo pasto, aggiunse «Mi raccomando ragazzo, mi aspetto grandi cose da te»

Approfittando dell’atmosfera distesa, gli uomini si lanciarono andare a due brindisi: uno per l’imminente partenza del Professe e un altro per il nuovo lavoro di Frank e Ryo.

«Bene signori, direi che è il momento che andiate a riposare. Avete della facce da far spavento e non manca molto tempo alle quattro» disse l’ospite alzandosi e facendo loro strada.

«Grazie Thorson»

L’omone si girò verso Frank, che si trovava subito dietro di lui, e gli cinse le spalle con il suo braccio possente «Di niente my friend, come along!» e così abbracciati salirono le scale.

«Sapevo che sarebbero andati d’accordo, per certi versi sono simili» commentò a mezza voce Kenji.

«Prof» domandò Ryo, che era accanto a lui «Ma come vi siete conosciuti voi due? Quello che ha riferito al ragazzino c’entra con il vostro incontro per caso?»

L’uomo gli lanciò un sorriso sibillino «In un certo senso sì… Comunque non è una storia molto interessante, diciamo che lavoravamo in ambiti diversi ma in sostanza simili» e senza aggiungere altro iniziò a trotterellare sulle scale, lasciando dietro di sé un Ryo con più domande che risposte.
 
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Un russare calmo e ritmato riempiva una camera da letto in cui si trovavano un letto a due piazze e un divanetto. Dalla finestra filtrava il debole fascio di luce proveniente da un lampione distante. Tutto era silenzio nella casa, ad eccezione del canto dei gufi insieme al suono di qualche macchina solitaria che giungevano dall’esterno.
“Notte senza luna” pensò Ryo seduto sull’ampio davanzale, con la gamba sinistra piegata contro il petto e la destra a ciondoloni.
Ci aveva provato a dormire, aveva ceduto il letto al Professore e a Frank prendendo per sé il divanetto, sicuro che – stanco com’era – sarebbe crollato incurante della scomodità. E invece, mentre i due uomini avevano raggiunto Morfeo in pochi minuti, lui non era riuscito a lasciarsi andare. Aveva chiuso gli occhi ma il sonno non era arrivato; aveva passato minuti interminabili a rigirarsi, a sgombrare la mente, ma nulla sembrava poter funzionare. Esasperato da se stesso, alla fine aveva deciso di alzarsi e appollaiarsi su quel davanzale, sperando che quella vista così poco interessante lo aiutasse nella sua impresa. Razionalmente sapeva di aver bisogno di riposo, erano quarantott’ore che non chiudeva occhio e la stanchezza poteva avere effetti disastrosi.

«Un buon soldato deve essere in grado di recuperare le forze anche nei momenti più impensabili. Meglio un finto sonno che beccarsi una pallottola in fronte per poca prontezza di riflessi»

Si mise una mano sulla fronte sentendosi stupido.
“Perché continuo a pensare come se fossi ancora un guerrigliero? Perché le sue parole continuano a rimbombarmi in testa?”
Strinse gli occhi con forza, cercando di cacciarle via. Voleva svuotare la mente ma non ci riusciva, quel silenzio e quel buio non facevano che far riaffiorare ricordi sopiti. Appoggiò la fronte al vetro, come aveva già fatto in macchina, sperando che quel contatto freddo lo aiutasse a tornare padrone di sé.
“Devo riuscire a riposare. Almeno per mezz’ora. Quanto vorrei smettere di pensare…”
Mentre ripeteva quelle frasi come una lenta litania, respirò profondamente e cercò di rilassare i muscoli il più possibile.
In quel momento non c’erano che lui e il buio più completo offertogli dalle palpebre serrate. Amava le tenebre, lo sorprendeva sempre come ogni cosa perdesse il suo colore con il calar del sole. In un certo senso lo trovava tranquillizzante: tutto veniva uniformato, i dettagli si perdevano, ci si poteva nascondere facilmente in quel mondo fatto di nero e delle sue impercettibili sfumature. Proprio come il suo mondo interiore. Lasciò andare, lentamente, un sospiro lungo e sommesso. Si sarebbe concesso di abbandonarsi al suo vero stato d’animo ancora per un altro po’, preparandosi a dover indossare nuovamente la sua solita maschera; non poteva permettere in alcun modo che Frank e il Professore si preoccupassero a causa del suo umore cupo.
 
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Una pioggerellina fredda e insistente avvolgeva la città e la Terminal Island, dando un aspetto spettrale alle mastodontiche cataste di container e alle imponenti gru. L’umidità rendeva l’aria più pungente di quanto non fosse, ma Ryo non se ne curò particolarmente.

«Bene, direi che è arrivato il momento dei saluti»

Il Professore si girò verso di loro con un mite sorriso «Per quanto odi gli addii, mi vedo costretto a farli, eh»

Senza dire altro, fece un cenno a Frank e si allontanarono in direzione di un container poco distante, che forniva un luogo abbastanza discreto.

«Aspetta lì Ryo, tra poco tocca a te» gli urlò l’uomo alzando la mano.

Il ragazzo si limitò a sorridergli e, cacciando le mani in tasca, iniziò a camminare pigramente avanti e indietro, facendo attenzione a non intralciare la strada ai membri dell’equipaggio che si apprestavano a salire a bordo. Vide i due uomini confabulare seri per qualche minuto, poi Frank si slanciò verso il Professore, abbracciandolo e dandogli delle affettuose pacche sulla schiena; quel semplice ma fugace gesto lo fece sorridere lievemente. Per uomini come loro le dimostrazioni di affetto era quanto mai rare. L’americano si allontanò dal Professore e, senza voltarsi, iniziò a camminare lungo la banchina; fu allora che Ryo si avvicinò all’omino che lo fissava con occhi acuti.

«Bene Baby Face» esordì schiarendosi la voce «Prima di andare mi preme dirti alcune cose»

Ryo lo guardò leggermente incuriosito mentre si sistemava gli occhialini sul naso.

«Da oggi vivrai e lavorerai con Frank. Lui conosce questo mondo meglio di te, perciò cerca di non essere troppo testardo come tuo solito e ascoltalo»

“Mi sembra di essere tornato a quando ero bambino” pensò tra sé il ragazzo nel sentire quelle raccomandazioni, così simili a quelle che il Professore gli rivolgeva spesso quando era un piccolo guerrigliero.

«Allo stesso tempo, però, tienilo d’occhio e assicurati che non faccia nessuna sciocchezza. E soprattutto guardagli le spalle quando lavorerete; in tutta onestà, credo che tu sia più bravo di lui sotto alcuni aspetti»

«Non mi sarei mai aspettato un complimento simile» disse Ryo, celando malamente l’orgoglio che quelle parole gli avevano provocato.

«Non ti gonfiare come una mongolfiera ora!» lo rimbeccò l’uomo, facendogli un sorrisetto «Te lo dico perché, molto probabilmente, Frank perderà la sua freddezza una volta che tornerete a San Francisco. Lì troverà sua figlia e qualcosa mi dice che è proprio il tipo di padre che si rincretinisce con la sua bambina…» e guardandolo negli occhi, improvvisamente serio, continuò «Per questo Ryo devi fare il possibile per non permetterti alcuna debolezza simile»

Il ragazzo lo studiò, iniziando a intuire dove l’uomo volesse arrivare «Ho capito, devo restare solo»

«Non fraintendere ragazzo: non intendo solo nel senso letterale del termine. Comprenderai che in questo lavoro le notizie e i buoni agganci sono tutto, perciò devi conoscere quanta più gente possibile. Però devi fare molta attenzione ai legami, lì non puoi permetterti distrazioni, soprattutto in ambito sentimentale»

«Ma Prof, a me non interessa legarmi a nessuna!» obiettò con foga.

«Lo so, ma devi fare attenzione lo stesso. Le donne quando vogliono possono essere diaboliche, noi uomini certe volte ragioniamo troppo con il nostro bassoventre e, quando ce ne accorgiamo, è troppo tardi» e, mettendogli una mano sul braccio, continuò «Ti ho detto che la bellezza è la linfa vitale per non soccombere nel nostro mondo. Per me le donne costituiscono una parte principale di questa bellezza, perciò ti dico: divertiti, inebriati di loro ma fallo entro determinati limiti. Non frequentare nessuna “brava ragazza”, fai il cretino quanto vuoi ma concretizza solo con donne davvero libere e non interessate a intraprendere una relazione. Il tuo cuore deve restare libero, slegato da qualsiasi sentimento…Se amassi davvero una donna per te sarebbe impossibile lavorare bene, sarebbe troppo rischioso; ci vuole molta forza, forse troppa…»

Ryo notò gli occhi dell’uomo adombrarsi di malinconia, proprio come era capitato durante la cena, e si chinò leggermente verso di lui «Prof?»

Kenji lasciò il suo braccio con un mezzo sorriso che non raggiunse gli occhi.

«Non è niente ragazzo» disse ondeggiando la mano «Che sia chiaro, però, questo non vuol dire che devi inaridirti. Abbi cura delle persone che ti circondano, metti la tua vita al servizio degli altri. Alla fine è una cosa che hai fatto durante la guerriglia, no? Noi siamo uomini d’ombra, ed è lì che dobbiamo mantenere il nostro margine di azione. Ah, cerca di mantenere sempre profilo basso, non vorrei che qualche ex mercenario si mettesse alla vostra ricerca per uno stupido regolamento di conti. Hai capito Ryo?»

«Sì» rispose sicuro, sebbene dentro di lui non si sentisse affatto così. Stava immagazzinando così tante informazioni e avvertiva così tante emozioni che faticava a mantenere la sua facciata imperturbabile.

«Ne ero sicuro» e, con un movimento fluido, fece scivolare qualcosa nella tasca del pastrano di Ryo «Questo è un piccolo pensiero per quando sarai a San Francisco. Fanne buon uso» disse facendogli l’occhiolino.

«Grazie mille Prof, non doveva»

«Forse, ma credo proprio che ti sarà utile. È una lista dettagliata dei migliori locali della città, con valutazioni e annotazioni» commentò in modo complice.

«Lo apprezzo moltissimo» rispose il ragazzo ridacchiando per quel regalo così particolare.

L’uomo, poi, si chinò per prendere i due borsoni ai suoi lati e iniziò ad allontanarsi di qualche passo prima di girarsi nuovamente verso Ryo.

«Comunque, sappi ragazzo mio che avrò sempre tue notizie e, in caso di necessità, troverò il modo di contattarti. Il nostro non è un addio, sento che ci rivedremo in futuro. Buona fortuna Baby Face» e così dicendo l’uomo si incamminò verso lo scivolo dell’imponente mercantile.

«Prof!» lo chiamò Ryo dopo qualche istante, come se si fosse risvegliato da uno stato di torpore.

Avrebbe voluto dirgli quanto la sua partenza gli dispiacesse, quanto lo stimasse e lo considerasse l’unica persona a cui doveva la sua attuale vita, chiedergli perché trapelasse della tristezza nei suoi occhi, ma quel marasma di pensieri si condensò in un'unica parola.

«Grazie»

Si sentì leggermente frustrato per la sua incapacità di esprimersi come avrebbe voluto, ma forse quella sola parola fu sufficiente. Il Professore gli rivolse un sorriso sincero che gli arrivò dritto al cuore. E, senza dire altro, gli diede le spalle e sparì dentro la stiva della nave.
 
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Era da poco passato mezzogiorno quando i due uomini fecero il loro ingresso a San Francisco dopo un viaggio abbastanza silenzioso. Frank non si era mai sentito così agitato. Qualche ora prima aveva detto addio all’uomo che stimava di più al mondo e che, senza rendersene conto, aveva rappresentato un riferimento sicuro in quegli anni, ed entro poche ore avrebbe visto sua figlia. Sbirciò con la coda dell’occhio il ragazzo seduto scomposto alla sua destra, e lo vide sonnecchiare a braccia conserte con la testa appoggiata al finestrino. Sorrise nel vederlo così, quando dormiva sembrava davvero un bambino con braccia e gambe troppo lunghe, tanto da non sapere mai come sistemarle bene.
“Non mi meraviglia che sia crollato, stanotte non ha chiuso occhio” pensò riportando gli occhi sulla strada. Alla fine anche lui era un guerrigliero di un certo livello; per quanto potesse essere stanco non si permetteva mai di lasciarsi andare a un sonno profondo, e si era accorto di come Ryo era sgusciato fuori dal divano e aveva passato quelle poche ore di riposo sveglio. Intuiva che il ragazzo avesse più di una pensiero per la testa, e il fatto che il Professore non fosse più con loro lo impensierì non poco; sapeva che Ryo non si sarebbe mai confidato con lui e si augurò solo che il ragazzo non si mostrasse troppo duro con se stesso. Lui avrebbe fatto il possibile per supportarlo, di questo ne era certo, anche se non si sentiva allo stesso livello del Professore e di Kaibara. Strinse i denti nel ricordare il suo vecchio amico e un’ombra di tristezza gli offuscò gli occhi verdi.
“Chissà cosa starà facendo ora… Perché è successo?”
In cuor suo voleva ancora bene a Shin, ed era profondamente amareggiato per come la guerra lo avesse contagiato con la sua pazzia. Eppure, lui aveva avuto Ryo. Possibile che suo figlio, come lo aveva definito lui stesso, non fosse stata una condizione sufficiente per salvarlo? In fondo, avevano entrambi vissuto le stesse cose e, ripensandoci, gli sembrava incredibile di non essere impazzito con lui.
“La differenza, però, era che io ero ormai disilluso e, abituato a vivere tra le ingiustizie e nella criminalità, non mi aspettavo niente di buono dalla vita. Invece lui aveva un animo più puro, aveva sempre sperato in una risoluzione di quel conflitto. Mi sono chiesto più volte come poteva essere così ingenuo… Io stesso speravo che si fortificasse di più, ma non avrei mai pensato che sarebbe degenerato fino a quel punto.” Strinse con nervosismo lo sterzo; gli dispiaceva molto che alla fine, l’unica vera vittima della follia dell’uomo fosse stata il ragazzo accanto a lui.
In quell’istante Ryo aprì gli occhi e si stiracchiò rumorosamente.

«Allora, siamo arrivati?» domandò allungandosi sul sedile.

«Sì. Purtroppo, però, c’è molto traffico e ci metteremo un po’ per arrivare a destinazione» rispose Moon, risvegliato dai suoi pensieri.

«Hai bisogno di aiuto? Vuoi che prenda lo stradario?»

«No, my boy. Conosco questa città come le mie tasche, non ho bisogno di indicazioni» rispose tranquillo mentre prendeva il pacchetto di sigarette «Eppure… È difficile spiegarlo, la città sembra la stessa ma allo stesso tempo è così diversa. Temevo proprio questa sensazione…»

«Che sensazione?» domandò Ryo accendendosi una sigaretta.

«Di sentirmi spaesato, come se fossi un estraneo a casa mia» rispose, sbuffando una nuvola di fumo «Alla fine credo sia inevitabile. Sono passati molti anni da quando sono andata via e le cose cambiano, che ci piaccia o no»

«Il vantaggio di non avere una casa è che non c’è modo di soffrire per queste cose»

Frank si irrigidì a quelle parole appena sussurrate. Dunque era così che si sentiva Ryo? In fin dei conti quella che poteva aver considerato casa sua erano le foreste impervie delle montagne del Guatemala, non certo posti in cui si avesse voglia di tornare e, per il resto, non aveva nessun altro legame con il mondo.

«In realtà non soffro poi così tanto» disse ad alta voce, spontaneamente «Col tempo ho imparato che sono le persone che ci circondano a farci sentire a casa piuttosto che il luogo in sé. Ricordatelo Ryo»

Gli lanciò un’occhiata e fu felice di leggere della sorpresa in quegli occhi sempre così impenetrabili. Non sarebbe mai riuscito a dirglielo esplicitamente ma, una parte di lui, si augurava che Ryo lo considerasse la sua casa, proprio come lui lo considerava, ormai, da molto tempo.
 
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Sotto una fredda pioggerellina la Ford Falcon si fermò su Bryant Street, proprio accanto a una palazzina a due piani di un grigio stinto che eguagliava il colore del cielo di quel giorno. Ryo, una volta uscito dall’auto, si guardò intorno, osservando il largo viale e il caotico traffico.

«Proprio di fronte al Palazzo di Giustizia… Bah, immagino che per un bail bondsman sia il luogo migliore, ma lo odio lo stesso» sospirò Frank mentre lo raggiungeva sul marciapiede «Entriamo dai, ci stiamo bagnando per bene» e così dicendo lo precedette, aprendo la porta a vetri del locale.

Ryo lo seguì senza aggiungere altro; aveva approfittato del viaggio per riposare un po’ e doveva ammettere che gli aveva fatto bene, si sentiva più lucido. All’interno li accolse una saletta rivestita di listelli di legno in cui troneggiava una piccola scrivania, anch’essa di legno di noce, che si abbinava a una moquette marroncina, sporca e lisa in diversi punti. L’ambiente aveva un’aria parecchio decadente – oltre che soffocante – e Ryo chiese a Moon se non avessero sbagliato posto.

«No, no l’indirizzo è questo. C’è nessuno?» domandò a voce alta, sbattendo il pugno sul tavolo.

Dopo qualche istante, da una porticina sul retro fece la sua comparsa un ometto sparuto, sulla sessantina abbondante, vestito con una camicia bianca e un pantalone scuro con bretelle nere in bella vista. Osservandolo meglio, Ryo notò come il viso allungato fosse incorniciato da finissimi capelli nero pece, unti all’inverosimile per poter sostenere l’ardito riporto che andava da orecchio a orecchio.
“Dovrà tingersi i capelli con la pomata delle scarpe” pensò il giovane, osservandolo incuriosito.

«Eccomi, ditemi signori» disse l’uomo mentre si sfregava le mani.

«Salve, stiamo cercando Pooch» rispose Frank.

«Sono io in persona»

«Bene, abbiamo un messaggio per lei» e, mentre diceva questo, prese dalla tasca interna del pastrano un foglietto ripiegato.

Pooch lesse velocemente le poche righe e subito dopo il suo sguardo si illuminò «Ah ma siete voi! Potevate dirlo subito senza perdervi in stupide formalità»

Senza perdere tempo, l’uomo li condusse nel suo piccolo ufficio con una cordialità che sfociava nel molesto. La curiosità di Ryo si tramutò subito in confusione: quell’uomo parlava a macchinetta, sciorinando una serie di cifre, percentuali e nomi che per lui ancora erano del tutto insignificanti. Osservò di sfuggita Frank e lo vide in difficoltà, incapace di contenere quel fiume di parole in cui si inseriva con stentati monosillabi.

«Attualmente c’è un caso molto ghiotto, un serial killer ricercato e tuttora a piede libero. Se vi ha mandati Papa allora dovete essere formidabili come lui. Come ti ho già anticipato Frank – ormai siamo colleghi, non te la prendi se ti do già del tu vero? – io prendo come commissione il venti percento, mentre Tom – che era l’uomo che lavorava con me, Dio l’abbia in gloria – si accontentava di prendere il cinque percento della taglia ma, poiché siete in due, direi che potremmo rivedere la somma… Un momento che prendo carta e penna e facciamo un po’ di calcoli. Ah ragazzo – Ryo giusto? Sì certo, ricordo proprio così – vorresti del caffè? L’ho appena preparato, trovi la macchinetta nell’archivio – è la porta proprio di fronte a questa – e, se non ti dispiace, potresti portarcene una tazza ciascuno? Sai com’è, noi abbiamo una certa età e anche il caro Frank ha proprio la faccia di uno che vuole una buona tazza di caffè – e il mio, modestamente, è eccellente»

Ryo, totalmente stordito da tanto ciarlare, si alzò limitandosi ad annuire e uscì dalla stanza.
“Non gli si può mettere un silenziatore in bocca? Di certo eviterò di passare il tempo con lui, non voglio rimbambirmi sempre così” pensò tra sé mentre in poche falcate raggiungeva l’archivio, che si dimostrò essere una stanza grande il doppio dell’ufficio, con tre dei quattro muri ricoperti da una spartana libreria metallica strabordante di fascicoli, raccoglitori e fogli. Sul lato libero, quello accanto alla porta, vi era un lungo bancone utilizzato come scrivania su cui era posizionata una macchinetta che Ryo intuì essere quella del caffè, considerando il liquido all’interno della brocca di vetro. Stava per riempire tre tazze sbeccate quando notò i poster appesi al muro davanti a lui: erano immagini di una certa grandezza raffiguranti diversi pianeti ma, tra tutte, lo colpì particolarmente l’immagine di un’eclissi.
 
Ryo si stava sgranchendo il collo, leggermente irrigidito per la posa statica che aveva assunto per lungo tempo. I fucili di precisione erano dei bei bestioni, ma esercitarsi con loro significava imparare a sparare appostato nei luoghi più scomodi, attento a controllare anche il più impercettibile movimento del corpo. E Shin era un maestro fin troppo esigente.
«Non abbiamo ancora finito, ricorda che fin quando non centrerai i bersagli al primo colpo non mollerai il fucile»
«Sì, lo so» rispose reprimendo uno sbuffo esasperato e, senza perdere altro tempo, riposizionò la canna del fucile sull’incavo del braccio sinistro, sostenuto a sua volta dal ginocchio sinistro.
Nell’osservare il mirino, però, gli sembrò che non ci fosse più la luce di qualche minuto prima. Alzò gli occhi e notò il sole scurito in un angolo.
«Ma che sta succedendo?»
Kaibara lanciò un’occhiata veloce al cielo prima di emettere sereno «Nulla di grave, è un’eclissi di sole5. Dai, continuiamo»
«Eh? E che vuol dire?» domandò il ragazzino.
Era più forte di lui, si era fatto subito riconoscere per la sua spiccata curiosità e da bambino non si era risparmiato con le domande. Voleva sapere, voleva capire più cose possibili, e giustificava il suo modo di fare dicendo che così poteva essere pronto a ogni evenienza. In realtà lo faceva per sentirsi più sicuro e avere tutto sotto controllo; e questa era una cosa che, crescendo, aveva scoperto piacergli molto. Ormai era entrato nella fase della pubertà – almeno così gli aveva detto il Professore – e stava imparando a convivere con un corpo in continua mutazione, con quella voce ora stridula e ora roboante e con quei nuovi desideri che pericolosamente gli si affacciavano alla mente. Aveva temuto il peggio quando si era trovato in balìa di eventi che non aveva saputo definire, e invece stava semplicemente diventando un uomo. Solo nel fisico, però, perché lui agiva, pensava e viveva come un uomo già da molti anni.
Shin conosceva bene quel suo lato del carattere, perciò decise subito di assecondarlo, anche perché era l’unico modo per farlo tornare concentrato all’addestramento.
«In poche parole, capita a volte che la luna si trovi esattamente tra la terra e il sole. Si parla di eclissi totale quando la luna riesce a coprire completamente il sole, e il cielo si oscura come se fosse notte… Ma qui credo che assisteremo a una parziale, vedremo il sole farsi più piccolo come adesso, ma non farà davvero buio» concluse mentre stringeva gli occhi nell’osservare il fenomeno sulle loro teste.
Ryo stava per fare altre domande quando Kaibara lo sorprese, dicendo in un sussurro.
«A quanto pare Amaterasu si sta nascondendo da noi»
«E chi sarebbe Amaterasu6
L’uomo lo osservò come se si fosse reso conto solo in quel momento di aver parlato ad alta voce.
«Niente, è una vecchia leggenda giapponese» rispose mentre si accendeva una sigaretta «Ma immagino tu voglia sentirla lo stesso»
Ryo annuì semplicemente, predisponendosi all’ascolto. Erano pochi i momenti in cui Kaibara si lasciava andare, raccontandogli qualcosa che proveniva dal suo passato, e il Giappone era un elemento ricorrente in quelle memorie. A lui piaceva ascoltare quelle storie, poteva evadere un po’ dalla sua realtà e, allo stesso tempo, gli sembrava di poter conoscere meglio l’uomo.
 
Ryo continuò a osservare quelle foto, sorridendo mentalmente per quella leggenda che gli era piaciuta subito; non era male immaginare che il sole fosse una dea bellissima che era uscita dal suo nascondiglio grazie a un balletto a luci rosse.

«E tu chi sei?»

Ryo, perso nei suoi pensieri, non si era reso conto dell’arrivo di una persona alla sua destra. Si voltò e vide una giovane ragazza, molto bella, dai lunghi capelli ramati che, appoggiata alla porta con le braccia conserte, lo guardava con espressione strafottente. Quegli occhi verdi gli erano familiari e in pochi secondi capì chi aveva di fronte.

«Beh, sei per caso muto Bruce Lee?»

«Eh?»

«Ah, finalmente hai parlato» rispose allegra la giovane «Anche se emettere versi gutturali non si può considerare parlare... Forse non somigli tanto a Bruce Lee quanto a Tarzan» e, senza dargli il tempo di rispondere, continuò avvicinandosi a lui «Allora, per caso sei venuto per lavorare con Pooch? Scommetto che sei scappato qui per metterti in salvo, quando inizia a parlare è difficile farlo smettere»

«Non scherzi neanche tu» commentò mentre versava il caffè nelle tazze.

«Come hai-»

«Ryo, quanto tempo ci stai mettendo per quel caffè?» la voce di Frank interruppe la ragazza, e Ryo alzò la testa giusto per vedere l’uomo fermarsi a pochi passi dalla stanza, con gli occhi sbarrati per la sorpresa.

Anche la giovane si era girata nel sentire quella voce e un leggero tremore del labbro inferiore tradì la sua agitazione.

«Mary…» sussurrò Frank «Sei tu Mary, vero?»

La ragazza si limitò ad annuire e tanto bastò all’uomo che, in uno slancio, la strinse tra le braccia.

«Non mi sembra vero… Finalmente figlia mia, finalmente…»

Dopo un’iniziale momento di rigidità, anche Mary ricambiò l’abbraccio del padre, cominciando a singhiozzare silenziosamente sulla sua spalla. Ryo li osservò con tenerezza; davanti a lui un padre e una figlia si erano ritrovati dopo molti anni. Non si erano mai visti eppure l’affetto che provavano era reale, forte, lo poteva percepire nitidamente. Per un attimo avvertì una stretta gelida all’altezza del petto: ne conosceva la causa ma si impose di non pensarci, di non rendere reali quelle emozioni dando loro una definizione. Non poteva permetterselo.

«Ah, alla fine vedo che le presentazioni non sono state necessarie» esclamò Pooch soddisfatto «Su Mary, smettila di piangere o allagherai tutto l’archivio»

«Vai al diavolo!» gli borbottò contro la ragazza, sciogliendo l’abbraccio e passandosi i dorsi delle mani sugli occhi arrossati.

«Bene, ora ti riconosco. Devo ancora definire gli ultimi dettagli con tuo padre e poi vi lascio liberi, intesi?»
 
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Ryo camminava sulla 19th Street senza fretta, godendosi il tiepido sole di quella mattina. Era appena uscito di casa sentendosi decisamente di troppo. Aveva trascorso la notte a casa di Mary, dormendo sul tappeto del soggiorno visto che l’appartamento era davvero piccolo, composto da una cucina openspace, due minuscole camere e un bagno cieco. Non si lamentava certo per quello, era abituato a riposare su una spartana stuoia – se non proprio direttamente per terra – e lui stesso aveva insistito per quella sistemazione lasciando a Frank più comodità, però aveva avvertito una certa tensione nell’aria durante la colazione. Dovevano parlare quei due, non era stupido, e si era accorto che i non detti e le domande gravavano su di loro come macigni. E lui sapeva farsi da parte quando era necessario. Non si era meravigliato nel vedere l’espressione felice della ragazza quando aveva detto di voler fare due passi e lei stessa l’aveva accompagnato con fin troppo entusiasmo alla porta, consigliandogli di fare un salto al vicino Mission Dolores Park7.
“Che antipatica, mi ha praticamente cacciato” pensò tra sé mentre ricordava i fatti di qualche minuto prima “Farò bene a trovarmi una stanza da qualche parte, non posso certo restare lì.”
Si fermò per accendersi con calma una sigaretta e, una volta messe le mani nelle tasche del pastrano blu, riprese la sua placida camminata. Non aveva una meta precisa, perciò decise di approfittarne per studiare i dintorni e iniziare ad avere un’idea chiara del posto in cui si trovava: una vecchia abitudine, retaggio delle lunghe perlustrazioni che si effettuavano ogni volta che si spostava il campo, e che ritenne utile anche per la sua nuova attività. Era importante conoscere la città per sapersi destreggiare al meglio, proprio come aveva fatto nella giungla. Stinse le labbra a quell’ultimo pensiero.
“Diamine, quando la smetterò di fare riferimento al passato?”
Sospirò leggermente, poi decise di concentrarsi e iniziò a tenere a mente i nomi delle varie traverse con i rispettivi sensi di marcia, ed eventuali vicoli ciechi o cortili. Dopo alcuni minuti, la strada alberata iniziò a mostrare una leggera pendenza che portava all’ingresso in salita di un parco.
“Deve essere quello il famigerato parco” pensò accigliatosi “Beh, in fin dei conti posso concedermi una piccola sosta lì.”
 
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Frank rimase immobile per qualche istante a fissare la porta. Ryo era uscito e si trovava da solo con sua figlia, una perfetta sconosciuta. Per quanto l’avesse sempre amata, ingenuamente la sua mente sembrava non aver processato il fatto che Mary non fosse più la neonata paffuta e sorridente della foto ma una ragazza di quasi diciassette anni. Respirò profondamente e si voltò. Recuperare gli anni perduti era impossibile, però poteva conoscerla meglio, capire cose le piaceva e cosa odiava… Scoprire se aveva preso qualche lato del suo carattere. Piccole cose che un padre che vede crescere i propri figli dà per scontate ma che per lui erano assolute novità. La vide appoggiata al tavolo della cucina, le mani dietro la schiena, il suo sguardo fisso su di lui. In quel momento le sembrò fiera e coraggiosa, con un cipiglio particolare che gli ricordò dolorosamente la sua ex compagna.

«Sei più vecchio di quello che pensavo» disse sua figlia senza giri di parole.

«Che?» l’uomo strabuzzò gli occhi.

«Dico che porti molto male la tua età… Non hai neanche quarant’anni e la tua fronte è tutta un reticolo di rughe, per non parlare delle zampe di gallina» continuò seria, sebbene negli occhi riuscì a scorgere uno scintillio impertinente.

“Allora qualcosa da me l’ha presa” pensò soddisfatto.

«Beh, nella giungla non esistono creme idratanti. E poi, parli adesso che sei poco più di una bambina, ma vedrai che tra qualche anno starai messa peggio di me… È la genetica» commento avvicinandosi a lei.

«Genetica un corno! Punto primo, non sono una bambina e, punto secondo, quella pelle incartapecorita non mi verrà neanche a cento anni!» esclamò risoluta.

Frank sghignazzò «Vedo che hai un bel caratterino»

«Sì, lo diceva anche mia madre» emise in uno sbuffo.

L’uomo notò l’espressione della giovane adombrarsi, così decise di cambiare argomento – sebbene una parte di lui voleva sapere cosa fosse successo alla donna.

«Non avrei mai immaginato che tu fossi in quell’ambiente, vederti lì e scoprire che lavori per Pooch mi ha davvero sorpreso»

«In negativo o in positivo?»

«Beh… Ecco…» borbottò «Non saprei. Io speravo facessi una vita più normale, questo ambito è molto rischioso, in particolare per una donna» e, abbassando la testa, aggiunse piano «Sai, in realtà temevo mi avresti disprezzato. Io… Quello che ho fatto… Quello che sono stato in questi anni…»

La ragazza fece pigramente il giro del tavolo e si sedette su un sedia.

«Su, vieni qui» gli disse indicandogli il posto a capo tavola «Mettiti comodo, perché non ti farò alzare fino a quando non mi avrai raccontato tutta la tua storia» e incontrando il suo sguardo sorpreso aggiunse «Ho sempre voluto sapere di più su dite… Papà»

Frank riuscì miracolosamente a trattenere le lacrime e, sorridendole grato, la raggiunse.
 
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Ryo aprì gli occhi e, dando un’occhiata all’ombra che le palme vicine proiettavano sul prato, capì che si era fatto mezzogiorno. Si rialzò e decise di tornare indietro, sperando che quei due avessero finito con i loro discorsi, anche perché il suo stomaco iniziava a farsi sentire.
“Chissà se il pranzo sarà migliore della colazione… Quella ragazza è totalmente incapace di cucinare, spero di non morire intossicato” si disse mentre si metteva in marcia.
Si era intrattenuto più del previsto in quel parco; non sapeva se fosse dovuto alla bella giornata o alle numerose madri con prole che lo animavano, ma Ryo aveva avvertito un senso di benessere che lo aveva portato a sedersi sull’erba umida, appoggiando la schiena al tronco di un albero. Aveva voluto godersi quegli attimi di tranquillità consapevole che, presto, avrebbe dovuto iniziare a guardarsi le spalle come aveva sempre fatto in vita sua. Nell’osservare quei bambini giocare, rincorrersi felici, ridere sotto lo sguardo delle madri, si era chiesto se fosse mai stato così anche lui. Non ricordava niente della sua vita prima dell’incidente aereo, e non sapeva se fosse meglio così o il contrario. Con un sospiro aveva interrotto quelle riflessioni, considerandole inutili. Lui il suo passato lo aveva, iniziava con l’odore di bruciato e la vista di lamiere accartocciate, ed era proseguito tra polvere da sparo, sangue e sudore. Era fortunato per essere ancora in vita e tanto bastava per essere soddisfatto della sua infanzia. Con quei pensieri aveva chiuso gli occhi, cercando di sgomberare la mente. Lo aveva sorpreso come la quasi totalità delle persone presenti parlasse in spagnolo e per lui fu facile cogliere sprazzi delle loro conversazioni: problemi con i mariti, figli capricciosi, pettegolezzi sul vicinato, e la sua mente aveva processato quelle informazioni, cercando di farsi un’idea di che cosa fosse la normalità. Gli era sembrato un esercizio divertente e si ripromise di ripetere l’esperienza appena possibile.
Ormai fuori dal parco decise di allungare leggermente la strada ma, camminando a passo svelto, arrivò presto in prossimità della palazzina a tre piani che, non le sue forme squadrate, stonava con le restanti abitazioni di legno più antiche. Ritrovò il portone accostato esattamente come lo aveva lasciato, perciò entrò senza problemi e salì silenzioso le due rampe di scale. Arrivato sul pianerottolo, però, avvertì una voce femminile palesemente incredula e allarmata. Guidato dall’istinto si appiattì contro la porta, respirando appena, riuscendo così a sentire la conversazione all’interno.
 
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«Non ci credo, mi stai prendendo in giro!» esclamò Mary agitata.

«Abbassa la voce» le disse Frank, con un gesto della mano.

«Sì, scusa» ammise, portandosi una mano alla bocca «Ma non riesco a immaginare una cosa tanto crudele… Mi sembra impossibile!»

L’uomo si passò una mano sugli occhi. Doveva immaginarselo che la curiosità della ragazza non si sarebbe fermata solo alla sua vita e, non contenta, lo aveva bombardato di domande su Ryo. All’inizio si era mostrato restio, non voleva dirle niente al riguardo, ma sua figlia era stata fin troppo convincente e alla fine aveva ceduto.

«Purtroppo questa è la verità Mary» sussurrò.

«E ora come sta?»

«Bene, gli effetti della droga sono spariti senza causare danni, ma è stato tra la vita e la morte per molto tempo, e la sua ripresa si è mostrata lenta e molto dolorosa. Lo ricordo molto bene quel periodo, è un miracolo che sia ancora vivo»

«E che ne è stato di quel Kaibara?»

«Lo allontanammo dal gruppo, disgustati per quello che aveva fatto. Purtroppo, però, appena Ryo fu in grado di camminare, scoprì casualmente dove si trovava e andò ad affrontarlo, deciso a voler uccidere l’uomo che lo aveva tradito. Non deve essere stata una scelta facile, in fondo Kaibara è stato davvero un padre per Ryo e infatti, nonostante il male che gli aveva fatto, lui non riuscì a uccider-»

Frank si blocco di colpo, non finendo la frase; avvertì distintamente una presenza fuori la porta.
Col cuore in gola raggiunse in pochi passi il pomello e spalancò la porta di scatto. Davanti a lui c’era Ryo, teso e con occhi carichi di una rabbia a stento contenuta.

«Ryo…»
 
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«Perché?» domandò con voce dura «Perché l’hai detto?»

Senza aspettare una risposta lo superò dandogli una spallata, e si avvicinò alla ragazza che lo fronteggiava leggermente impaurita.

«Soddisfatta? La tua curiosità è stata appagata?» domandò caustico mentre stringeva i pugni.

Per quanto fosse intimorita da quel ragazzo che la fulminava con gli occhi, Mary trovò la forza per fronteggiarlo.

«Non fraintendere big boy, ho solo chiesto a mio padre di raccontarmi la sua vita. Voglio conoscerlo meglio visto che nessuno ha mai voluto dirmi qualcosa su di lui» e dopo aver fatto una breve pausa continuò «Tu fai parte della sua vita, anche molto da quanto ho capito, perciò mi è sembrato giusto sapere anche qualcosa su di te. Riconosco, però, di aver sbagliato, sarebbe stato corretto chiedertelo direttamente»

Ryo piegò gli angoli delle labbra in un sorrisetto sprezzante «Sarebbe stata fatica sprecata»

«Ryo» disse Frank facendosi avanti «Lei non ha nessuna colpa, sono solo io da biasimare. Ti chiedo scusa, ma puoi stare tranquillo, ciò che ci siamo detti non uscirà da questa casa»

“Proprio come aveva detto il Professore, non sono passate neanche quarantotto ore e si lascia già rivoltare come un calzino da questa ragazza” pensò Ryo amaro.

«Ah sì? E come fai a essere sicuro che non andrà spifferando in giro tutto ciò che le hai detto?» gli domandò tagliente.

«Perché sono una professionista e quando do la mia parola la mantengo» ribatté seria.

«Tu? Una professionista?» e così dicendo le diede le spalle.

In quell’istante Mary afferro un coltello dal tavolo e glielo lanciò contro. Senza voltarsi Ryo si mosse lievemente, schivandolo senza problemi.

«Mary?!» esclamò Moon sorpreso.

«Passabile, ma non abbastanza per me» commentò Ryo atono.

«Sei davvero insopportabile!» sbottò la ragazza palesemente alterata. In un attimo fece il giro del tavolo e lo raggiunse, strattonandolo per un braccio.

«Senti, non pensare di essere l’unico a detenere le sofferenze del mondo!» gli urlò contro «Sì, probabilmente potresti vincere il premio per la migliore infanzia di merda, ma ormai è passata, no? Mi dispiace sinceramente per quello che ti è successo e lo giuro, se ti può tranquillizzare, terrò la bocca cucita. Mi interessava solo conoscere che vita avesse fatto mio padre… Non prenderla sul personale perché non era mia intenzione»

Ryo la osservò con la coda dell’occhio e la vide con la testa abbassata, intenta a respirare profondamente per ritrovare la calma. Dentro di lui era abbastanza certo che lei non rappresentasse un pericolo, perciò iniziò a sentire la tensione scivolargli via dalle spalle. La rabbia, però, era ancora cocente, viva sotto la sua superficie imperturbabile. Non andava fiero del suo passato e soprattutto quell’ultimo capito era qualcosa con cui faceva ancora i conti e, forse, non avrebbe mai smesso di farli. La sua rabbia era soprattutto rivolta contro se stesso, per quello che era stato e per come non era riuscito a evitare di diventare una bestia sanguinaria. Odiava sé stesso, odiava Kaibara, odiava sentirsi così. Si rese conto, però, che alla fine era sbagliato sfogare le sue frustrazioni su quella ragazza; si sarebbe limitato ad ammonire Frank in privato. Poteva provare a comprendere la debolezza che l’uomo aveva avuto nei confronti di sua figlia, ma voleva assicurarsi che quelle confidenze non diventassero un’abitudine.

Sospirò pesantemente prima di guardare la ragazza «Perché sei entrata in questo ambiente?»

Mary sobbalzò e alzò il capo verso di lui, non aspettandosi di sentirlo parlare.

«Mi sembra giusto, un passato per un altro passato» e così dicendo si allontanò da lui, dirigendosi verso la finestra alla loro sinistra.

«Tanto vale iniziare dal principio. Ho sempre vissuto con mia madre da che ho memoria, e non siamo mai andate molto d’accordo. Vivevamo in un bilocale abbastanza decadente, non molto lontano da qui. Lei non aveva tempo, o forse non aveva molta voglia di gestirmi, perciò mi lasciava spesso con mia nonna materna. Le cose, però, iniziarono a peggiorare quando trovò lavoro in un casinò: potevo avere sette anni più o meno, e da allora cominciò a disinteressarsi completamente a me. Praticamente vivevo con mia nonna che mi faceva da madre, e le poche volte che si faceva vedere andava sempre di fretta perché doveva incontrarsi con i suoi amici. C’era poco dialogo fra noi, per lo più finivamo quasi sempre col litigare, e immancabilmente non perdeva occasione per rinfacciarmi quando somigliassi troppo a mio padre. Lui era un argomento quasi intoccabile e se le facevo delle domande diventava ancora più nervosa»

Mary fece una pausa e Ryo la vide rivolgere uno sguardo furtivo in direzione di Frank; l’uomo era impallidito e fissava la ragazza con sorpresa mista a dolore. Intuì che quella storia gli era nuova tanto quanto lo era per lui.

«Le cose sono continuate così fino alla famosa Summer of Love8, in parole povere un mega raduno di hippie qui a San Francisco; musica, droga, sesso, nessuna regola… È mancata un mese da casa e poi, i primi di gennaio di tre anni fa se n’è andata via con uno che aveva conosciuto lì. Mi ha espressamente chiesto di non cercarla più e infatti attualmente non ho idea di dove si trovi, né intendo saperlo»

«E poi come hai fatto?» domandò Frank visibilmente turbato.

«Per fortuna c’era la nonna, ma non aveva molti soldi perciò lasciai la scuola e mi misi a cercare un lavoretto; ironia della sorte lo trovai proprio nel casinò dove aveva lavorato mia madre. Purtroppo agli inizi di quest’anno la nonna è venuta a mancare. L’affitto della casa era troppo alto per me, così mi sono trasferita da una collega che subaffittava una stanza»

Mary si avvicinò a suo padre e gli mise affettuosamente una mano sulla spalla «Non è necessario che tu ti affligga per quello che ho detto. In confronto alla vita che avete fallo laggiù direi che non mi posso lamentare» disse guardando gli occhi tristi dell’uomo.

Moon si limitò a schiarire la voce «E perché hai lasciato il tuo lavoro per questo?»

«Direi che è iniziato tutto per caso. Pooch era un cliente abituale e, a un certo punto, ha iniziato a frequentare sempre il tavolo da poker che dirigevo. È sempre stato gentile con me, fin troppo chiacchierone certo, ma non si è mai sbottonato sulla sua vita privata e non avevo idea di che lavoro facesse. Poi, verso i primi di maggio mi ha chiesto se volevo cambiare lavoro, dicendo che cercava una segretaria. L’idea non mi dispiaceva, così ho iniziato a collaborare con lui e non me ne pento; la paga è buona e in più mi ha aiutato a trovare questo appartamento. Solo dopo qualche tempo mi ha confessato che, in realtà, aveva avuto l’incarico di cercarmi e che mio padre sarebbe potuto tornare a breve. Per me che ti credevo morto è stata una sorpresa, ed ero fuori di me dalla gioia quando ho scoperto che eri vivo e ti trovavi in Centro America. Ero felice ma allo stesso tempo impaurita, desideravo che tu fossi fiero di me e che mi volessi tenere al tuo fianco, perciò ho iniziato a prendere lezioni di tiro e autodifesa con Pooch – non sembra ma ci sa fare. Ho atteso ogni giorno il momento del tuo arrivo, impaziente di poterti mostrare le mie capacità in modo che, una volta qui, avremmo potuto lavorare insieme»

Mary prese leggermente fiato prima di continuare «Ieri il mio sogno si è avverato però, quando ti ho visto accompagnato… Ammetto di aver provato invidia nei confronti di Ryo»

Il ragazzo si accigliò nel sentire quella confessione ma rimase impassibile, decidendo invece di spostarsi e andare verso la finestra, dando così le spalle ai due. Un suo tentativo di dar loro un po’ di intimità.

«So che è stupido, ma ho avvertito una fitta di gelosia nel sapere che lui ha potuto trascorre tanto tempo con te, mentre io non ne ho avuto la possibilità… In realtà era questo il motivo principale alla base della mia curiosità, volevo scoprire chi fosse veramente il ragazzo che tratti come un figlio – perché è così, si vede chiaramente. Sapere se meritava il tuo affetto…»

Seguì qualche istante di silenzio, in cui ognuno elaborò ciò che era stato detto fino a quel momento. Ryo fissava la strada attraverso il vetro su cui si rifletteva il suo viso, e vide le sue labbra piegate in un sorriso amaro. Che qualcuno potesse provare invidia e gelosia nei suoi confronti era stato sempre l’ultimo dei suoi pensieri, e non l’avrebbe mai pensato minimamente possibile. Alla luce di quel racconto, però, riuscì a comprendere i motivi che avevano spinto la giovane a sentirsi e a comportarsi in quel modo. Non poteva farci niente, per quanto fosse bravo a mantenere un contegno glaciale, il suo cuore era ben lontano dall’essere algido, sempre pronto a empatizzare con chiunque avesse sofferto. In quel momento avvertì un grande vuoto al posto della rabbia che lo aveva colmato irrazionalmente e fu così che capì di essere passato oltre, di aver perdonato l’incidente di poco prima.

«Ryo» chiamò infine Mary con un filo di voce.

Il giovane si limitò a muovere di tre quarti il viso, giusto per riuscire a intravedere la ragazza abbracciata al padre.

«Ti chiedo scusa per come ti ho parlato prima. Ora che sento pienamente l’amore di mio padre nei miei confronti, mi rendo conto di essere stata molto infantile. Io… Vorrei che diventassimo buoni amici, possiamo ricominciare da capo?»

Ryo tornò a fissare la finestra mettendosi le mani in tasca. Si prese qualche istante prima di dichiarare con noncuranza che, se voleva il suo perdono, doveva offrirgli un pasto decente. A quelle parole Mary ritrovò il suo solito umore e, dopo aver indossato il cappotto, si fiondò fuori per prendere qualcosa dal ristorante messicano vicino, assicurando che lo avrebbe trovato buonissimo.
Una volta soli, Ryo si voltò e fissò Frank negli occhi con un’espressione eloquente.

«Non temere my boy. Questa è la prima e ultima volta che ne parlo, hai la mia parola» gli disse l’uomo sincero.

Ryo si limitò ad annuire e senza fretta prese e accese una sigaretta. Si fidava di lui, non aveva nulla da temere.

«Va bene, non parliamone più» disse allungando il pacchetto in direzione dell’uomo.

Frank gli sorrise e si avvicinò: con quel piccolo gesto Ryo gli aveva dimostrato che avevano fatto pace e, in silenzio, fumarono insieme come se niente fosse accaduto.

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1 Naturalmente la canzone in questione è Imagine di John Lennon, pubblicata come singolo negli Stati Uniti i primi di ottobre del 1971 e assieme all’album omonimo – uscito il mese prima – fu un successo commerciale mondiale. Il singolo infatti raggiunse il terzo posto della Billiboard Hot 100 e la prima posizione nelle classifiche britanniche e canadesi (solo per dirne alcune).
 
2 Specifico subito che ho scelto di mantenere l’originale definizione per distinguerla dal bounty killer visto che in italiano entrambe le figure sono tradotte generalmente come “cacciatore di taglie”.
Ralph “Papa” Thorson (1926 – 1991) è stato uno dei bounty hunter più famosi di sempre, entrando nella leggenda e nell’immaginario collettivo grazie anche al film The Hunter del 1980 che tratta la sua vita in modo romanzato. Figura sfaccettata e complessa, è stato tra le tante cose un rinomato astrologo, campione di bridge e un vescovo protestante. Ha lavorato su circa 5000 casi, tra cui la cattura della famiglia Manson. Abitava davvero a North Hollywood (ma la strada l’ho scelta io dopo una passeggiata con Streetview, come sempre!). Il ragazzino che apre la porta al Professore in realtà è il figlio che la compagna di Thorson, Dotty Barras, aveva avuto da una precedente relazione (i due poi avranno una figlia, Brandi, nel 1973) e si chiama Kenny, coincidenza che mi ha fatto sorridere.
 
3 A. Boyd Puccinelli, detto Pooch, ha lavorato davvero con Thorson per quasi dieci anni, fino al 1958 quando il bounty hunter si trasferì a Los Angeles. Purtroppo non ho trovato molte informazioni su di lui, se non che era un bail bondsman (garante della cauzione), ovvero una figura con cui collaborano i cacciatori di taglie. Solitamente costituita da un’agenzia, il bail bondsman si impegna a far presentare un imputato al processo, pagandone la cauzione e ricevendo in cambio una commissione non rimborsabile per il servizio offerto dai suoi agenti.
 
4 Il 1971 fu un anno abbastanza caldo per quanto riguarda le proteste contro la guerra del Vietnam (che complessivamente è durata dal 1955 al 1975), e in tutto il Paese ci furono diverse manifestazioni. L’allora Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, aveva attuato già dal ’69 la cosiddetta “Vietnamization” ovvero un programma di addestramento delle truppe sud vietnamite per permettere un graduale rientro dell’esercito statunitense; proprio nel ‘71 Nixon aveva annunciato che entro il febbraio ’72 altri 45.000 soldati sarebbero stati ritirati dal fronte.
 
5 Riferimento all’eclissi del 12 novembre 1966 che interessò principalmente il Sud America, con avvistamenti anche in Centro America.
 
6 Nel manga Ryo fa riferimento alla leggenda di Amaterasu nell’episodio di Sara; quando la bambina corre a nascondersi nel ripostiglio dice (citando la versione Panini): «Amaterasu si è ritirata nella grotta a quanto pare». Questo, però, non è l’unico momento in cui se ne parla, e per questo devo ringraziare l’edizione della Panini in quanto sia le scan della Star Comics che quelle in inglese, con la loro traduzione troppo “addomesticata”, fanno perdere un dettaglio importante. Qando Kaibara si presenta a casa di Ryo, dopo essere riuscito a farsi aprire la porta da una titubante Kaori, esclama: «Finalmente sei uscita dalla grotta, bella Amaterasu!». Ciò mi ha convinta che non poteva essere in nessun modo una coincidenza, perciò credo proprio che sia stato Kaibara a raccontare la storia a un giovane Ryo.
 
7 Il parco, situato dove c’era un antico cimitero ebraico, si trova nel quartiere Mission, il più antico della città. La metà della residenti è latina, solo un terzo è bianca e la componente asiatica è presente con circa l’11% degli abitanti. Rispetto agli altri quartieri della città la criminalità qui è maggiormente presente, perciò a pelle l’ho sentito come il luogo migliore in cui far alloggiare Ryo durante il suo soggiorno a San Francisco. Per di più, Mission confina con Castro, zona diventata centro della comunità gay statunitense a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, e successivamente cuore della comunità LGBT in generale. Considerando l’approccio disteso che Ryo ha con i gay bar a Tōkyō, assolutamente non scontato per quel periodo (e purtroppo ancora oggi non lo è), mi piace pensare che il giovane Ryo abbia conosciuto quegli ambienti già nel periodo statunitense.
 
8 La Summer of Love si svolse nel quartiere di Haight-Ashbury che, già dal ’65 venne visto come il centro della cultura hippy. Nel maggio del ’67 migliaia di giovani si misero in viaggio verso San Francisco per quella che doveva una sorta di pellegrinaggio per riaffermare un rinnovamento spirituale, innescato dai movimenti di controcultura e con una conseguente rivoluzione musicale (manifesto dell’evento fu la canzone San Francisco “Be Sure to Wear Flowers in Your Hear” cantata da Scott McKenzie). L’inizio della Summer of Love coincise con il solstizio d’estate e termino agli inizi di ottobre del ’67.

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Capitolo 13
*** Capitolo IX ***


9. 28 Gennaio 1984 - Kaori

«Mi raccomando Nao, domani devi essere puntualissima. Ci vediamo alle nove davanti…»

«Davanti all’ingresso dei magazzini Isetan, quello sulla Meiji-dori Ave. Me l’avrai detto almeno una decina di volte oggi Eriko!» sbuffò la ragazza portandosi indietro la coda di cavallo.

«Ripetere aiuta a ricordare. Domani avremo così tante cose da fare che non possiamo concederci ritardi. Anche tu Kaori, capito?»

«Sì…» le rispose senza entusiasmo mentre tamburellava con le dita sul banco. Quel pomeriggio si sentiva totalmente prosciugata di ogni energia e l’esuberanza eccessiva di Eriko le stava causando un mal di testa micidiale.

«Belle amiche che siete, io organizzo una giornata per voi e voi mi ripagate con un entusiasmo da funerale» ribatté risentita Eriko incrociando le braccia al petto «Per fortuna c’è Chiharu a darmi manforte, giusto?»

«Certo Eriko!» esclamò adorante la ragazza alla sua destra.

Kaori osservò meglio le tre ragazze che si trovano davanti al suo banco. Poteva affermare con relativa sicurezza che in quei tre anni si erano rivelate delle buone amiche e si trovava bene con loro; avevano caratteri diversi ma abbastanza complementari perciò non le dispiaceva l’idea di passare una giornata tutta al femminile. Peccato solo che Eriko, da brava generalessa, aveva già messo in chiaro che non si sarebbe potuta sottrarre a nessuna delle attività previste, e ciò le fece temere il peggio.

«Ma si può sapere che diavolo hai organizzato Eriko?» chiese Kaori mentre riponeva i quaderni nella cartella.

«Ah non te lo dico! Ti lascerò crogiolare nella curiosità»

«Sempre la solita despota» soffiò sconfitta Kaori, alzandosi e raggiungendo le amiche che la stavano aspettando vicino la porta dell’aula vuota.

La scuola si stava lentamente svuotando dopo che le attività dei vari club erano concluse e le ragazze, assieme a pochi altri ritardatari, camminavano a passo spedito per il corridoio in direzione dell’uscita.

«Potremmo anche andare al karaoke, che ne dite?» domandò allegra Chiharu mentre si ravvivava la cotonatura con entrambe le mani.

«Può essere un’idea, brava Chiharu» le rispose Eriko che, tutta soddisfatta, trotterellava davanti al gruppetto «Anche se… Ho in mente qualcosa di meglio…» aggiunse con un sorrisetto furbo.

«Ti conviene davvero che sia un’idea migliore, avrei proprio voglia di cantare» sbuffò Nao «Se devo sottrarre tempo allo studio, voglio che sia per qualcosa per cui valga la pena»

«Ah sei una lagna tu e i tuoi esami! Sei la più secchiona della classe, una serata di svago non può che fare bene, considerando che tra poco inizieranno gli esami finali e non avremo più la possibilità di fare altro»

«E io direi che proprio per questo dovremmo già da adesso non trascurare lo studio…»

«Ragazze su, non iniziate a litigare» Kaori si inserì tra loro, interrompendo sul nascere quella diatriba «Nao, sono sicura che Eriko non intenda fare troppo tardi, giusto?» domandò assottigliando gli occhi in direzione della diretta interessata.

La ragazza alzò lievemente lo sguardo con aria fintamente ingenua «Sicuro, non ho detto che torneremo a casa all’alba. E ho davvero in mente un’idea per concludere alla grande la serata, fidatevi di me!» e con ritrovato entusiasmo tornò a camminare.

“Proprio per questo non mi fido… Chissà cosa avrà in mente stavolta” pensò Kaori sconsolata.
In quegli anni aveva capito che Eriko aveva idee particolari e una percezione della realtà leggermente distorta rispetto a quella di una qualsiasi liceale giapponese. Nonostante questo Kaori le era affezionata, e forse proprio in virtù di quel suo peculiare modo d’essere; in fin dei conti erano entrambe delle ragazze abbastanza atipiche per motivi diversi e proprio quella diversità sembrava averle unite.
Dopo aver promesso per l’ennesima volta assoluta puntualità per l’appuntamento del giorno dopo, Kaori salutò le ragazze e si incamminò senza fretta verso casa. Il sole era ormai tramontato e l’aria pungente della sera le pizzicò le guance ancora accaldate; si alzò maggiormente il bavero della giacca e continuò la sua passeggiata. Immaginando che suo fratello fosse già a casa, decise di allungare la strada, volendo prendersi del tempo per alleggerire la mente e fare un po’ di esercizio dopo una giornata passata tra i banchi. In realtà si sentiva turbata da una lieve agitazione; era poco più di una sensazione ma era lì, ben nascosta nell’intimo del suo animo. Una sensazione agrodolce che da quasi un anno l’accompagnava senza sosta: il timore che potesse succedere qualcosa. E se prima le sue paure si erano limitate ai problemi scolastici o altre amenità, ora quel sentore di pericolo aveva assunto una connotazione più seria – e anche più reale. Sapeva perfettamente che tutto ciò aveva a che fare con il lavoro di Hideyuki, in particolar modo con l’ambiente in cui si muoveva e, nonostante lui tornasse sempre a casa sano e salvo, non riusciva mai a scacciare completamente quelle sensazioni sgradevoli dalla sua mente. Sospirò mentre iniziava a scorgere il parchetto vicino la sua palazzina. Si impose di prendere maggiore controllo sui suoi pensieri, scacciando l’espressione cupa che le aveva fatto corrugare la fronte per tutto il tragitto; il suo vecchio era fin troppo bravo a leggerle il viso e non aveva voglia di affrontare con lui quell’argomento perché, in fondo, si sentiva un po’ stupida e quella consapevolezza le fece stringere le labbra in un moto di stizza. Suo fratello non era mai stato un salary man ma un poliziotto, come suo padre prima di lui. In casa aveva sempre respirato un clima diverso, e la possibilità che ogni saluto sulla soglia potesse essere l’ultimo si era consolidato in lei dopo la morte di suo padre. Ciononostante, era riuscita a vivere con relativa tranquillità fino a quando aveva scoperto in modo fortuito l’attuale impiego di Hideyuki. Cos’era cambiato in lei? Forse era semplicemente cresciuta, o forse il saperlo nella polizia le aveva dato l’illusione che la legge lo proteggesse dai cattivi. Adesso non c’era nessun filtro tra lui e loro, a parte Ryo non c’era nessun altro su cui potesse fare affidamento e ciò non poteva che impensierirla; per quanto riempisse le sue giornate, quella sensazione infausta le gravitava attorno e quasi ogni giorno le piombava addosso, fin quando decideva di passarci sopra.
“Per oggi penso possa bastare” si disse mentre iniziava a salire le scale, canticchiando una canzone per rallegrare il suo umore. Una volta raggiunto il pianerottolo prese le chiavi dalla cartella e le inserì nella toppa, aprendo con impeto la porta.

«Sono a casa!» esclamò mentre si toglieva i mocassini nel piccolo genkan.

Hideyuki alzò leggermente la testa dai suoi giornali e le accennò un sorriso «Bentornata»

L’uomo, seduto al tavolo della cucina invaso da diversi quotidiani, era intento a scrivere su un quadernino. Dalla quantità di carte accumulate, e dal modo in cui poggiava la testa sulla mano sinistra, Kaori intuì che aveva trascorso buona parte della giornata in quel modo, e il fatto che indossasse un semplice maglioncino con lo scollo a punta indicava che non si era visto con il suo partner; non sapeva per quale motivo, ma Hideyuki aveva la tendenza a vestirsi sempre allo stesso modo quando usciva per lavoro, ovvero giacca, cravatta – storta naturalmente – e soprabito sgualcito. Nel dirigersi verso la sua camera Kaori non poté fare a meno di pensare come quella versione di suo fratello, così seria e professionale, cozzasse con l’immagine che aveva sempre avuto di lui, dell’uomo un po’ impacciato ma affettuoso. Da quando, però, non aveva più segreti con lei, aveva iniziato a portarsi a casa un po’ del suo lavoro e lei cominciava ad accettare quell’altro lato di lui.

«Com’è andata a scuola?» sentì domandare dalla cucina.

«Bene, la solita» rispose mentre era intenta a togliersi la divisa scolastica per indossare i suoi comodi abiti di casa.

«Chi hai picchiato stavolta?» sentì poco dopo.

Kaori non represse uno sbuffo «Nessuno!» gli urlò dalla camera «Davvero mi chiedo se credi di avere per sorella un teppista» sbottò dirigendosi verso la cucina.

Nel frattempo Hideyuki aveva sgombrato il tavolo dalle sue cose, che giacevano ordinatamente impilate su una sedia. Nel vederla arrivare a passo di marcia le sorrise mentre si avvicinava al piano cottura.

«Mi preparo una tazza di tè. Ne vuoi anche tu?» le chiese intanto che riempiva il bollitore.

«Mmh… Sì, ci sta proprio qualcosa di caldo. Fa davvero freddo» disse sfregandosi le mani ancora intirizzite.

«Avresti dovuto indossare il cappotto pesante, te l’avevo detto stamattina. Dovresti essere un po’ meno cocciuta e ascoltarmi di più»

Kaori sbuffò sonoramente «Stamattina era una bella giornata, non potevo immaginare che il tempo sarebbe cambiato così velocemente» disse mettendo il muso. Odiava essere ripresa come una bambina, non lo era più da tempo.

Hideyuki si limitò a scuotere la testa ma non aggiunse nient’altro. Conosceva bene il carattere di sua sorella, di come bastasse poco per farla scattare e scatenare le sue ire, perciò decise di lasciar stemperare il nervosismo che avvertiva in lei; avrebbe continuato la sua ramanzina in un altro momento.
Dopo pochi minuti i due si ritrovarono seduti a tavola, intenti a sorseggiare la loro tazza di tè verde fumante in un confortevole silenzio. Kaori godette del piacevole tepore che la bevanda infondeva dentro di lei e si sentì subito più sollevata, il cattivo umore ormai un lontano ricordo. Ma era soprattutto l’influsso di suo fratello a farla stare bene, a darle il calore di cui aveva bisogno. Alzò gli occhi verso di lui e lo vide con gli avambracci puntati sul tavolo, le mani che reggevano la tazza davanti alle labbra e gli occhi persi a fissare il vuoto. In quegli ultimi mesi era spesso con la testa fra le nuvole, più del solito, e per la maggior parte delle volte con un sorrisino a piegarli l’angolo destro della bocca verso l’alto. Kaori aggrottò le sopracciglia e si sforzò di ricordare se l’avesse mai visto in quello stato prima. La risposta che si diede fu negativa.

«Perché hai quel sorriso scemo?» gli domandò guardandolo in faccia.

«Che hai detto?» Hideyuki si ridestò dalle sue fantasticherie e le lanciò un’occhiata confusa.

«Ho detto che hai un sorriso scemo e non è la prima volta. È per il lavoro?»

«Davvero?» mormorò l’uomo improvvisamente serio, come se fosse preoccupato per qualcosa «Mmmh… Sì, certo è il lavoro» e così dicendo si alzò dandole le spalle.

Kaori fu colta da un’illuminazione e si portò le mani davanti alla bocca, gli occhi spalancati.

«Hide… Non dirmi che per caso ti sei…»

Suo fratello si girò di scatto, trasudando panico da tutti i pori.

«…Ti sei messo a fare il maniaco in giro?!» urlò Kaori, rabbrividendo nell’immaginare suo fratello sbavante; temeva davvero che la cattiva influenza del suo partner alla fine lo avesse traviato.

A quel punto lo vide scoppiare a ridere mentre abbassava le spalle evidentemente sollevato.

«Ah Kaori, a volte mi chiedo come facciano a venirti in testa certe idee!»

«E allora, se non è per quello, perché hai quell’espressione beota da un po’ di tempo a questa parte?» lo incalzò non volendo demordere.

«Beh, è la mia espressione normale. Non dici anche tu che sono uno stupido?» e, facendole un sorriso sghembo, prese anche la sua tazza e la ripose nel lavello «Non è niente Kaori, certi giorni diamo il peggio di noi stessi. Anche tu non sei esclusa»

«Sempre molto gentile» rispose stizzita, più che altro perché non era riuscita ad avere una risposta soddisfacente, come sempre del resto. Con suo fratello era quasi impossibile riuscire a spuntarla.

«Andiamo, vuoi dirmi che quando l’altro giorno sei tornata dalla scuola guida avevi l’aspetto di un angioletto?»

Kaori lo fulminò con lo sguardo «Non è colpa mia se l’istruttore che mi hanno appioppato è un incompetente e l’auto vecchia…»

«E casualmente è colpa loro se ti ostinavi a scambiare il pedale del freno con quello dell’acceleratore» aggiunse Hideyuki candidamente.

In quel momento Kaori rimpianse di essere sempre così schietta con suo fratello e di raccontargli i dettagli delle sue imprese; lui sapeva sempre come rivoltarglieli contro al primo momento favorevole. Era vero, aveva iniziato da poche settimane le guide e si era già distinta per aver quasi distrutto l’auto, oltre ad aver causato un attacco isterico al suo istruttore attempato – che le aveva assicurato che non le avrebbe mai permesso di esercitarsi per le strade di Tōkyō1, non volendo avere morti sulla coscienza. Un po’ si era sentita mortificata per quelle parole ma, d’altro canto, lei pagava profumatamente quella scuola per imparare! Perciò si era sfogata con Hideyuki che, dopo qualche risata, l’aveva sostenuta e rassicurata che, col tempo, sarebbe diventata bravissima, aggiungendo inoltre che, se avesse avuto bisogno di guide supplementari, non doveva farsi scrupoli economici. In realtà lei se ne faceva eccome.
Approfittando di quel suo momento di immobilità, il giovane uomo si avvicinò per posarle un leggero bacio sui capelli prima di tornare a sciacquare le tazze canticchiando.

“Come faccio ad arrabbiarmi con te se ti comporti così?” gli disse mentalmente per poi schiarirsi la gola «Domani sarò fuori tutta la giornata» disse cambiando così discorso.

«Come mai?»

«Un’uscita tra ragazze. Non tornerò a casa per pranzo e penso neanche per cena»

L’ex detective le lanciò un’occhiata indagatrice «Mi raccomando non rientrare troppo tardi, e fate attenzione a dove andate»

«Stai tranquillo, andremo all’Isetan e poi a casa di Eriko. Penso che in serata faremo una passeggiata ma niente di che. E poi siamo tutte responsabili, non crederai che ci andremo a ficcare in qualche guaio!» lo rassicurò iniziando pigramente ad avviarsi verso la sua camera.

«È degli altri che non mi fido, non di te» lo sentì dire a bassa voce e sorrise lievemente. Il suo caro fratellone era proprio una mamma chioccia certe volte.
 
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Quando si era svegliata quella mattina, Kaori non avrebbe mai immaginato che l’obiettivo primario di Eriko sarebbe stato quello di obbligarla a comprare una tutina da aerobica. Aveva protestato in tutti i modi possibili, e solo poco prima che la sicurezza chiamasse i buttafuori a causa del baccano che stava provocando, Kaori si era infine piegata al volere dell’amica che l’aveva accompagnata saltellante come una gazzella alla cassa.

«Sono certa che mi ringrazierai Kaori! Questi capi sono in saldo e non lo sarebbero stati ancora per molto» sentenziò soddisfatta mentre camminava accanto a lei sottobraccio. Dietro seguivano Nao e Chiharu che avevano effettuato il loro acquisto senza protestare.

«Mi chiedo quando la smetterai di decidere per gli altri» borbottò tetra Kaori, lanciando un’occhiata alla busta.

«Sei tu che dovresti essere meno rigida. Non si può fare aerobica senza l’abbigliamento adeguato»

«Ma io non l’ho mai fatta»

Eriko le rivolse un sorriso indecifrabile, poi si girò verso le altre ragazze e annunciò lieta «Che ne dite se per pranzo andiamo al McDonald’s del Mitsukoshi2

«Che bello Eriko, sì!» esclamò estasiata Chiharu, che era la più fervente sostenitrice di ogni proposta della ragazza.

«Però è un po’ lontano…» esitò Nao che, del gruppo, era quella che aveva l’aria un po’ da vecchia bisbetica.

«Ma per piacere Nao, con la metro ci mettiamo pochissimo! E poi, è da un po’ che non faccio un salto da quelle parti, e con una bella giornata come oggi sarebbe un peccato non approfittarne… Ah, che negozi meravigliosi ci sono lì!»

Kaori osservò la stilista in erba mentre era persa nella sua bolla personale e sorrise; ammirava Eriko per come non aveva paura di mostrare la sua vera natura, per come lasciava trasparire il suo entusiasmo senza minimamente curarsi del giudizio altrui. Se solo ne fosse stata in grado anche lei, avrebbe voluto prendere in prestito un po’ della sua sicurezza.

«-ci Kaori?»

«Eh?» domandò strappata dalle sue riflessioni.

«Terra chiama Kaori!» esclamò Eriko bussando all’altezza della sua tempia «Ti ho chiesto se per te andava bene»

«Ah, sì certo non mi dispiace fare un salto a Ginza, non ho praticamente mai occasione di andarci»

«Perfetto, allora è deciso!»
 
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Nell’affollato e angusto locale un tavolo, posto accanto alla vetrata che si affacciava sulla frenetica Chou-dori Ave, si era guadagnato diverse occhiate di disapprovazione da parte dei vari avventori e dipendenti a causa delle sue occupanti, fin troppo chiassose per gli standard nipponici. Le ragazze, però, troppo prese dalla loro conversazione non vi avevano fatto caso, e proseguivano il loro spettacolo non voluto.

«E ora vi mostro il pezzo forte della mia collezione» la voce di Eriko sovrastò quella delle sue amiche mentre, in un gesto solenne, estraeva la mano dalla sua borsa «Ta-daaann!» esclamò trionfante alzando in aria una musicassetta.

«Cos’è?» domando curiosa Chiharu strappandogliela dalle mani.

«Ehi fai attenzione, ci tengo molto!» la riprese Eriko dopo averla fulminata con lo sguardo «Viene fresca fresca dall’America»

«Davvero? Dall’America?!» esclamò la ragazza strabuzzando gli occhi per la sorpresa.

«Sì, me l’ha portata mia cugina un paio di settimane fa quando è rientrata dal suo viaggio di lavoro a New York. È la cassetta del corso di aerobica di Jane Fonda, originale»

«Che ce ne facciamo di una cassetta in inglese?» bofonchiò Nao mentre giocherellava distrattamente con una patatina.

«Parla per te signorina tradizionalista! Le lezioni di inglese che ho preso l’anno scorso stanno dando i loro frutti» e, rimettendo la mano nella borsa, cacciò fuori un taccuino che sventolò con enfasi «In realtà non è così incomprensibile, e comunque ho già provveduto a tradurre il contenuto. Una volta a casa vi leggerò i comandi così non avrete problemi per l’allenamento. Farò proprio come Jane Fonda!»

«Non so perché Eriko, ma ho la sensazione che il tuo unico scopo di oggi fosse proprio questo» sentenziò con uno sbuffo sconfitto Kaori, che si amplificò nel vedere la sua teoria confermata dalla risatina che l’amica le rivolse.

Si strinse nelle spalle: Eriko era sempre stata così, un po’ despota ma in modo bonario. E Kaori apprezzava molto il suo essere trascinatrice e la sua energia, sebbene la maggior parte delle volte si mostrassero un’arma a doppio taglio.
Nel dare l’ultimo sorso alla sua Coca-Cola, pensò che al termine della scuola le sarebbero mancate molto le piccole abitudini che aveva instaurato in quei tre anni di scuola.

«Comunque Eriko, ti dico già adesso che potrò fare aerobica con voi solo oggi. Poi sarò troppo impegnata con lo studio» sentenziò Nao, spegnendo il generale clima di entusiasmo che trasudava dal gruppetto solo fino a qualche istante prima.

«Lo so, non credere di essere l’unica» sbottò Eriko accigliandosi e iniziando a giocherellare distrattamente con alcune ciocche della frangia.

«Sei la solita guastafeste Nao. Mancano ancora tre settimane, era necessario ricordarlo?» sospirò Chiharu.

«Non sono una guastafeste ma solo realista. Manca pochissimo tempo e io ci tengo a passere gli esami di ammissione all’università. È da due anni che frequento la scuola di preparazione serale e studio come una pazza, pensa che ho prenotato una visita dall’oculista perché non ci vedo più… Non intendo diventare cieca per niente!»

«Tranquilla che non perderai la vista» replicò scocciata Kaori senza pensarci.

Non le piaceva quando le persone si lamentavano senza motivo, le sembrava un insulto verso chi soffriva realmente e non lo dava a vedere. In quel senso Nao era davvero capace di farla innervosire.

«A proposito Kaori» rilanciò subito la ragazza «Tu non hai fatto domanda per nessuna università vero?»

Kaori provò il desiderio di darle un pugno ma si limitò a confermare.

«Beh, allora non puoi capire…»

«Basta Nao stai diventando noiosa» la interruppe Eriko, intenzionata a portare la conversazione su toni più leggeri.

«Forse per ora non posso capire» iniziò Kaori, decisa invece a far valere le proprie ragioni «Ma ho intenzione di proseguire gli studi. Mi prenderò solo un anno sabbatico, tutto qui»

«Davvero Kaori? Non lo sapevo!» cinguettò Chiharu con la sua allegria invidiabile «E cosa intendi fare nel frattempo?»

«Lavorerò, non resterò di certo con le mani in mano. Ho già trovato due lavoretti part-time che possono fare al caso mio e, contemporaneamente, mi iscriverò a un corso di preparazione per gli esami di ammissione. Vicino a casa mia c’è una scuola molto buona specializzata per le lauree brevi perciò, visto che non sono riuscita a organizzarmi bene prima, ho preferito fare le cose con più calma dopo, ma farle bene»

«Hai le idee molto chiare Kaori, ti ammiro» disse Chiharu sincera, facendo arrossire lievemente Kaori che negava col capo «E hai già deciso che facoltà prendere?»

«Probabilmente infermieristica…»

Eriko sputò l’aranciata che stava bevendo e iniziò a ridere, seguita a ruota dalle altre ragazze, sotto lo sguardo attonito di Kaori.

«Ma si può sapere che vi prende?» domandò loro mentre passava un fazzoletto per asciugare il tavolo.

«Ah niente Kaori» rispose Eriko ancora sghignazzante «Ti ho solo immaginata in ospedale e con la pazienza che ti ritrovi c’è il rischio che tu ti metta a lanciare padellate a chiunque non ti ascolti… Ahahah!»

«Già, credo proprio che gli ammalati potrebbero solo peggiorare o aumentare!» rincarò la dose Chiharu.

«Ma insomma, non sono così!» esclamò Kaori alzandosi di scatto dalla sedia, guadagnandosi l’ennesimo sguardo di biasimo da parte degli altri avventori.

«Ah no?» commentò Nao con noncuranza.

Rossa per l’imbarazzo, Kaori ricadde pesantemente al suo posto. Sapeva di perdere la pazienza molto facilmente, ma non si aspettava di trovare così poco supporto anche da parte delle sue amiche.
“Sono davvero un caso così disperato, vero?” si disse mentre stringeva i pugni. Eppure quella le era sembrata la soluzione migliore. Le altre ragazze non potevano sapere che la sua situazione economica era quanto mai precaria e non se l’era sentita di frequentare una scuola preparatoria né di pensare all’università. Non dopo aver scoperto il vero lavoro di Hideyuki. Da allora anche il suo rendimento scolastico aveva subìto un lieve calo: non riusciva più a concentrarsi come un tempo, e il sapere suo fratello costantemente in pericolo mentre lei era così inutile non le era d’aiuto. Così, senza dire niente neanche a Hideyuki, aveva deciso di rimandare, di prendersi quell’anno per guadagnare il più possibile e potersi assicurare un piccolo gruzzoletto per non dover pesare troppo su di lui; voleva iniziare a essere più indipendente.
Per quanto riguardava infermieristica, in realtà non aveva mai pensato a quel tipo di studi se non quando, solo due mesi prima, Hideyuki era stato ricoverato per una settimana in ospedale dopo una colluttazione particolarmente violenta che suo fratello – con l’aiuto di qualche sua conoscenza, ne era certa – era riuscito a far passare come un incidente. Quell’imprevisto l’aveva spaventata moltissimo e non si era risparmiata nell’accudire suo fratello, che l’aveva lodata per il suo operato. E percorrendo più volte la corsia del reparto di ortopedia, le era venuto in mente che fare l’infermiera, forse, non era una cattiva idea se avesse superato l’orrore per pale e cateteri. Avrebbe trovato lavoro abbastanza facilmente e avrebbe potuto essere di grande aiuto per Hideyuki. L’avrebbe potuto curare in qualsiasi momento senza che fosse costretto a sborsare buona parte dei suoi risparmi per pagare l’assicurazione sanitaria. Avrebbe voluto dire alle ragazze tutto questo, ma sapeva che nell’interesse di suo fratello avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa. E poi, non l’avrebbero potuta comprendere davvero.
Per fortuna ci pensò Eriko a salvarla dalle sue riflessioni, decretando il momento di andare a casa sua per fare aerobica.

«Vedrete, alla fine mi ringrazierete» assicurò entusiasta e, prendendo Kaori per un braccio, si diresse verso l’uscita.
 
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Kaori pensava di essere abbastanza atletica, considerando il suo fisico longilineo, ma non avrebbe mai pensato di sentirsi così sfinita dopo poco meno di un’ora di lezione. Lei e Chiharu erano accasciate sul pavimento, la schiena contro il muro e con delle espressioni stravolte.

«Siete davvero fuori allenamento ragazze» commentò Eriko mentre era intenta a spegnere la radio.

«Sì, è proprio vero che essere magre non vuol dire essere atletiche» commentò Nao, seduta su una sedia fresca come una rosa.

«Con che coraggio parli proprio tu che ti sei ritirata dopo dieci minuti?» fece Chiharu mentre si passava il dorso della mano sulla fronte.

«Erano almeno venti…»

«Su ragazze, non voglio che ci perdiamo in sciocchi battibecchi» Eriko prese la parola saltando sopra il suo letto «Io sono molto soddisfatta, come prima volta siete andate piuttosto bene. Soprattutto tu Kaori» aggiunse riferendosi all’amica «Non sembravi neanche una principiante. Dovresti continuare a fare aerobica regolarmente, avresti un fisico da urlo!»

«Mmmm» emise Kaori scettica; lo era ogni qualvolta Eriko le rivolgeva dei complimenti. Li riteneva fin troppo esagerati poiché era ben consapevole di quanto fosse poco attraente.

«Comunque» proseguì la padrona di casa «Ora vado a prendere degli asciugamani per voi, così possiamo farci tutte una doccia veloce e prepararci per la serata»

«Oh Eriko, non vedo l’ora di scoprire cosa hai pensato!» esclamò Chiharu mentre si alzava e si avvicinava alla ragazza.

«Non dovevamo andare al karaoke?» domandò Nao mentre tendeva una mano a Kaori che, senza esitazione, afferrò per alzarsi.

Per quanto Nao riuscisse a essere odiosa in certi momenti, Kaori sapeva che aveva un’indole buona, e la sua rigidità le era stata inculcata da una famiglia che esigeva da lei solo l’eccellenza, perciò le perdonava abbastanza velocemente i suoi comportamenti più antipatici. D’altronde, neanche lei stessa era un angioletto, quindi non era certo la persona più indicata a biasimarla. Almeno Nao non era una ragazza frivola, ma concreta e con la testa sulle spalle, e ciò era indubbiamente il suo miglior pregio.

«Il karaoke era la proposta originaria… Ma non voglio anticiparvi niente, ora è il momento di lavarsi e poi vi dico» sentenziò categorica Eriko, facendo strada verso il bagno.
 

Una mezzoretta più tardi le ragazze, pulite e profumate, si ritrovarono nuovamente nella camera di Eriko, sorseggiando una tazza di tè caldo sedute in cerchio su dei morbidi cuscini.

«Hai davvero una stanza così bella e grande Eriko. La mia in confronto sembra uno sgabuzzino» commentò Chiharu mentre occhieggiava con desiderio la spaziosa camera rettangolare, arredata con gusto occidentale.

«Beh, immagino sia la fortuna di avere una sorella molto più grande di me. Dopo aver tolto il suo letto, scrivania e tutte le sue cianfrusaglie, ho avuto una camera bella grande tutta per me» replicò la ragazza prima di soffiare sulla sua tazza.

«E soprattutto non ci devi litigare tutti i giorni» aggiunse Nao sbuffando.

«Ma tu hai due fratelli più piccoli, è normale che ci litighi sempre. I maschi sono stupidi a prescindere» dichiarò Chiharu «Essere figlia unica ha i suoi svantaggi, ma almeno non devo sopportare nessuna piccola peste»

«Beh, non è vero che tutti i maschi sono stupidi» disse Kaori «O almeno, non lo sono nel senso peggiore del termine»

«Trovami a scuola un ragazzo decente» replicò Chiharu ancora ferma nelle sue convinzioni.

«Ma no, non intendevo a scuola. Lo so perfettamente che lì c’è un’alta concentrazione di teste vuote…»

«Quindi ti riferivi a qualcuno in particolare?» domandò Nao con un tono particolare, portando così le altre due ragazze a fissarla con una certa curiosità.

Kaori abbassò la testa e non poté fare a meno di arrossire, chiedendosi come facessero le altre persone a non far andare le guance a fuoco così facilmente.

«Ma no… Io mi riferivo solo al mio fratellone…»

«Ah, solo a lui?» disse Chiharu senza nascondere una certa delusione per quel mancato pettegolezzo.

«Sì…»

All’immagine di Hideyuki, però, se ne sovrappose un’altra. Un uomo imponente, dalle spalle larghe e comode. Se chiudeva gli occhi riusciva a percepire ancora sulle mani il calore che aveva provato quella sera mentre, se non fosse stato per la foto che custodiva ancora nel suo portafoglio, non sarebbe riuscita a ricordare con precisione assoluta il suo viso. Appena avvertì una nuova ondata di calore affluirle in faccia, si precipitò a cancellare quelle immagini mentali con forza, scuotendo anche il capo.

«Sì solo mio fratello, a chi altri potrei pensare?!» esclamò con fin troppa agitazione per nascondere il suo imbarazzo «Lui è davvero la persona più responsabile che conosca»

«Immagino che qualche eccezione ci sia. Spero tanto che anche i miei fratellini un giorno riescano a diventarlo» commentò Nao mentre posava la tazza vuota sul vassoio di bambù posizionato per terra «Tuo fratello è militare, no?»

«Ehm, non proprio» Kaori deglutì con difficoltà un sorso di tè «Lavorava in polizia»

«E ora che fa? Ha cambiato lavoro?» domandò Chiharu sinceramente curiosa.

“Dannazione, perché oggi hanno tutta questa curiosità fuori luogo?” pensò Kaori sempre più a disagio. Non le piaceva parlare della sua famiglia, soprattutto da quando Hideyuki aveva lasciato la polizia.

«Non proprio… Diciamo che mantiene sempre lo stesso margine d’azione in ambito leggermente diverso però…» e nel vedere le sue amiche confuse ebbe poi, finalmente, un’idea «Ah, ora è un detective privato»

«Wow!» esclamò Eriko «Proprio come Shunsaku Kudō3»

«Davvero?! Allora deve essere un figo, ce lo devi presentare»

«Anche lui ha un’assistente americana? Chissà quante avventure deve raccontarti, e pensare che ti sei stata zitta tutto questo tempo!»

«Ehi, fermatevi!» Kaori pose fine a quegli entusiasmi portando in alto le mani «Non è assolutamente così, mio fratello è un uomo assolutamente normale… Per certi aspetti anche anonimo. Non ha niente a che vedere con Matsuda e il suo lavoro non è come quello mostrato nei film. La realtà non è poi così entusiasmante…»

Kaori sperò con tutte le sue forze che le ragazze si ritenessero soddisfatte così, ben consapevole che non sarebbe riuscita a reggere oltre quelle domande scomode. Onde evitare un’altra carica, prima di portare la tazza alle labbra domandò subito a Eriko quale fosse la sua idea per la serata. Era certa che cambiando discorso sarebbe tornata in acque più tranquille.

«Ah, giusto! Ho pensato che stasera è la serata giusta per entrare in qualche disco club di Kabukichō»

A Kaori andò di traverso il tè che stava bevendo, e iniziò a tossire rumorosamente nello stesso momento in cui Nao e Chiharu emisero urla di incredulità.

«Ragazze mie non vi facevo così pudiche! E soprattutto, non mi direte che non siete mai state lì!»

«Sei matta Eriko? Quello non è un posto per persone per bene, soprattutto da un certo orario in poi! Lo sanno tutti4…» commentò Nao.

«E proprio per questo tutti ci vanno» ribatté convinta Eriko «Dai, sarà divertente conoscere un po’ di più la Tōkyō a luci rosse» e portandosi l’indice sul mento continuò riflessiva «Mi chiedo come sia la moda in quel posto… Immagino che le donne non indossino molto ma è sempre un campo di studio interessante…»

«Eriko non ti sembra troppo eccessivo entrare in quel tipo di locali? Un giro per le strade sarebbe più che sufficiente» Kaori, una volta ripresasi, cercò di trovare un compromesso.

«Infatti Eriko… Credo che Kaori abbia ragione, facciamo solo una passeggiata. E poi quei localacci sono per uomini, non mi va di vedere donne mezze nude» la supportò Chiharu che, per la prima volta, si trovava in disaccordo con la futura stilista.

«Ma ci sono anche locali per donne…»

«Eriko la maggioranza è per una semplice passeggiata, arrenditi all’evidenza» sentenziò Nao definitiva.

«Ah, siete proprio delle guastafeste! E va bene, vada per un semplice giro, ma la prossima volta voglio entrare in qualche club»

«Faremo in modo che non ci sia una prossima volta» replicò prontamente Nao mentre districava un nodo da una ciocca di capelli.

Nel frattempo, Kaori fissava con un’espressione leggermente crucciata il fondo della tazza che stringeva ancora tra le mani. Si sentiva combattuta tra un misto di eccitazione e timore; la sua parte più intrepida apprezzava sempre qualsiasi avventura potesse smuovere la sua quotidianità, e la proposta di Eriko la interessava in quel senso. Allo stesso tempo, però, le era sorto immediato un timore per nulla infondato: e se l’avesse visto? Considerando il modo in cui l’aveva visto importunare ignare passanti, era molto probabile che frequentasse quell’ambiente. Forse avrebbe potuto incontrare Ryo quella sera. E, con una certa sorpresa, si rese conto di temere ma anche di desiderare quella possibilità.
“Che cosa vado mai a pensare! Non succederà mai… E poi, perché mi dovrebbe importare di lui?” si disse mentalmente mentre appoggiava rumorosamente la sua tazza per terra.
 
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«Ehi Kaori rallenta, stai camminando troppo velocemente!»

Kaori si fermò di colpo nel sentire la voce di Eriko così lontana; non si era resa conto di aver percorso buona parte della Sakura-dori a testa bassa e passo inferocito. Si voltò e aspettò che le ragazze la raggiungessero.

«Ci stai facendo sfiancare» disse in affanno Chiharu mentre Nao si limitò ad annuire a quanto detto.

«Avevamo detto di fare una passeggiata, non una maratona…» ma Eriko non riuscì a terminare perché Kaori le si rivolse furiosa.

«Quattro volte Eriko! Per quattro volte mi hanno scambiato per un ragazzo quelle… Quelle donne lì!»

«Beh, mica è la prima volta, no? Perché te la prendi tanto?» ribatté l’amica confusa.

«Ti hanno fatto anche un sacco di complimenti» rincarò la dose Nao.

«È proprio questo il punto!» ribatté piccata Kaori, stringendosi nella spalle.

La sconfortava vedere come le sue amiche non capissero il problema. Un conto erano quei quattro scemi dei suoi compagni di scuola, e un altro un altro erano le donne che lavoravano nei locali notturni; nonostante la loro esperienza l’avevano scambiata per un ragazzo, un “bellissimo ragazzo”, e l’avevano invitata a entrare nei vari night club. Era riuscita a mantenere una certa calma ma, dopo la quarta promoter che le aveva parlato ammiccando, non ce l’aveva fatta più e, dopo averle urlato contro di non essere un ragazzo, aveva iniziato a camminare a testa bassa nella speranza di passare almeno inosservata.

«Dai Kaori» le fece Eriko mettendole una mano sul braccio «Non te la prendere troppo. Se sentissi di più i miei consigli e ti vestissi come si deve queste sviste non sarebbero così frequenti»

Kaori abbassò gli occhi sul giubbino scuro che la infagottava e sbuffò lievemente. Era vero, non poteva prendersela troppo con quelle donne, in fondo era lei che non faceva niente per evitare l’equivoco, ostinandosi ad auto castigarsi con abiti larghi e dal taglio decisamente maschile.

«Sì, hai ragione» disse infine, facendo un timido sorriso. Per fortuna la corsa l’aveva aiutata a ritrovare la calma.

«Quindi questo vuol dire che mi permetterai di rinnovare il tuo guardaroba?»

«Assolutamente no»

«Ah Kaori, sei incorreggibile!» esclamò Eriko sorridendole.

«Ehm» Nao si schiarì la voce «Credo sia ora di rientrare» disse indicando con l’indice destro il quadrante del suo orologio da polso che segnava le dieci e un quarto.

«Di già?» Eriko si rabbuiò «Non possiamo restare un altro po’? Vorrei vedere ancora qualche altro…» ma nel vedere gli sguardi decisi delle ragazze si arrese «E va bene, però per tornare facciamo un giro più lungo»

Le ragazze acconsentirono e proseguirono la loro passeggiata fino a raggiungere la Hanamichi-dori, una strada un po’ più larga e piena di movimento. Kaori notò come la loro presenza sembrasse non passare inosservata dal modo in cui molti uomini, più o meno giovani, lanciavano verso di loro sguardi che lasciavano sottendere mire particolari. Nonostante fosse cosciente di non essere l’oggetto di quelle attenzioni, poteva percepire egualmente il peso di quegli occhi e le dispiacque molto per le sue amiche; non doveva essere bello ricevere quelle attenzioni. Ne ebbe conferma appena Chiharu, fattasi ancora più piccola, le prese il braccio e si schiacciò contro di lei.

«Non mi piace per niente, voglio andarmene subito» pigolò stringendo la manica del giubbotto più forte.

«Non ti preoccupare Chiharu non ci succederà niente, e poi non vedi che molti sono già ben accompagnati? E la cosa non mi meraviglia…» disse con assoluta tranquillità Eriko, facendo un cenno verso sinistra.

Kaori poté vedere distintamente come lungo la strada – e relative traverse – si susseguivano una serie di insegne luminose e cartelli aventi in comune una parola: hotel. Erano tutti love hotel. Sentì la vergogna bruciarle le guance ghiacciate dal freddo della sera.

«Di’ un po’ Eriko, non è che ci sei già stata in un love hotel?» domandò Nao guardando la ragazza di sottecchi.

«Che razza di idee balzane ti vengono in testa?» esclamò risentita Eriko.

«Ne parli da esperta…»

«Sono semplicemente una ragazza informata ed emancipata, che--»

«Ragazze che ne dite di rimandare a un secondo momento?» Kaori interruppe le due, facendo segno col capo in direzione di Chiharu, che non aveva smesso di nascondersi dietro di lei; essendo la più graziosa del gruppo, col suo fisico minuto e il viso di porcellana, era quella che subiva maggiormente la pressione di quegli sguardi lascivi.

Eriko sbuffò «Va bene, allora torniamo subito indietro» emise sconfitta per poi mettersi a capo gruppo, girando alla prima traversa a sinistra.

La via che imboccarono si rivelò essere la più angusta di tutte, su cui si affaciavano decine di localini e night club che riversavano all’esterno una pletora di suoni e musiche discordanti volte ad attirare i clienti notturni. Kaori avvertì un senso di claustrofobia man mano che si immergevano in quel vicolo e fu grata che fosse leggermente meno affollato rispetto agli altri posti in cui erano state; continuare a dare spallate per farsi strada era l’ultima cosa che voleva fare.

«Siete davvero delle lumache!» esclamò Eriko girandosi verso le tre ragazze e iniziò a camminare all’indietro.

Le aveva distanziate di diversi metri e sembrava non voler cambiare andatura. Kaori stava per risponderle a tono, quando vide l’amica scontrarsi con una figura ferma davanti a una portoncino illuminato da un neon rosa. Sentì Eriko scusarsi ma ciò che notò dopo la fece fermare all’istante assieme a Nao e Chiharu.

«Ehi dolcezza, lo sai che bisogna fare attenzione? O cercavi proprio me?»

L’uomo di mezza età, dall’apparenza distinta, circondò con un braccio le spalle della ragazza, tirandola verso di sé.

«Ehi, che le salta in mente?» Eriko cercò di scrollarsi di dosso quel braccio, ma come risultato l’uomo la strinse con maggior forza.

«Sai, stavo per entrare in questo pink salon5 ma credo che invece potremmo passare la serata insieme. Su non fare la preziosa, ti comprerò un bel regalo» concluse con un sorriso viscido.

Kaori avvertì un brivido freddo correre lungo la schiena nell’osservare quella scena poco lontana. Si sentiva pietrificata, era la prima volta che vedeva un uomo importunare una ragazza con fare da maniaco e sì, l’aver visto Ryo non contava. Non sapeva spiegarlo ma, quando lo aveva osservato di nascosto, non aveva avvertito la sensazione di pericolo e disgusto che stava provando in quell’istante. Probabilmente Ryo non era pericoloso come l’uomo che aveva arpionato Eriko; questi, poi, sembrava non essersi affatto accorto della loro presenza, né si curava dei passanti che transitavano a pochi centimetri da lui. Senza pensarci due volte si fiondò di peso sull’uomo, riuscendo così ad allontanarlo da Eriko.

«Che cazzo fai stronzetto?» gli sbraitò quello paonazzo mentre stringeva un pugno per la rabbia, pronto a colpirla.

Kaori, però, fu più veloce di lui e, con tutta la forza che aveva, gli sferrò un calcio in mezzo alle gambe. L’uomo strabuzzò gli occhi, lanciando un urlo che somigliava a un guaito, e cadde in ginocchio sull’asfalto contorcendosi per il dolore.

«Brutto porco schifoso, così impari a tenere a posto le tue manacce!» gli urlò contro e una serie di maledizioni più o meno colorite fu l’unica risposta che ricevette.

Ancora sotto l’influsso dell’adrenalina, Kaori prese Eriko per mano e dopo aver esortato Chiharu e Nao a seguirla, iniziò a correre a tutta velocità verso la Sakura-dori, scontrandosi più volte contro i passanti che le guardavano tra il sorpreso e lo scocciato. Dopo una manciata di minuti di corsa sfrenata, vide davanti a sé l’ampia Yasukuni-dori Ave, segno che erano finalmente fuori da Kabukichō. Si fermò accanto alle scale della metro per riprendere fiato e, dopo aver lasciato la mano di Eiko, si voltò preoccupata, sperando di non scorgere quell’uomo sulle loro tracce.
“Che diavolo ho appena fatto?” pensò mettendosi una mano sulla fronte. Le sembrava tutto così assurdo.

«Kaori…» Chiharu era bianca come un lenzuolo nonostante i neon dalle tinte rossastre le tingessero il viso.

«Scusate ragazze, non so com…» disse precipitosamente abbassando la testa.

«Sei stata fantastica!» la interruppe Nao abbracciandola «Ero paralizzata dalla paura, non riuscivo a muovere neppure un dito, e invece tu hai messo k.o. quell’uomo… Sei stata incredibile!»

«È vero, hai avuto una prontezza di riflessi pazzesca!» anche Chiharu si unì all’abbraccio, soffocando un singhiozzo dovuto alla tensione accumulata.

Eriko, che fino a quel momento era stata in silenzio, le sorrise per nulla turbata dagli eventi recenti «Grazie mille Kaori per avermi aiutata, sei stata più veloce di me a reagire. Scommetto che hai reso quell’uomo impotente a vita!»

Kaori arrossì violentemente sia per l’imbarazzo che per la gioia di essere stata utile. Si chiese se anche suo fratello provasse quella stessa felicità quando portava a termine un caso, e si rese conto che era una sensazione bellissima.

«Per sdebitarmi ti offro qualcosa» proseguì Eriko nuovamente di buon umore «Andiamo a prenderci una cioccolata calda, che ne dite? Ci vuole qualcosa di dolce per chiudere la serata»

Chiharu fu la prima ad accettare con entusiasmo, seguita da Nao. Kaori, che era rimasta leggermente perplessa nel vedere come neanche incidenti di quel tipo turbassero l’amica, accettò di buon grado, felice di allontanarsi da lì. Mentre aspettavano davanti alle strisce pedonali che il semaforo diventasse verde, si voltò un’ultima volta per imprimere nella mente quella lunghissima schiera di luci abbaglianti sotto cui si muoveva una moltitudine di gente di qualsiasi genere.
“Farò bene a non dire niente di tutto ciò a Hideyuki” pensò mentre si incamminava verso zone più tranquille senza sapere che, proprio in quel momento, lo Stallone di Shinjuku si affacciava su una strada dove un uomo di mezza età, inginocchiato per terra accanto all’entrata di un pink salon, dava spettacolo di se stesso inveendo con quanto fiato aveva in corpo contro un fantomatico ragazzino.

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Salve a tutte/i! Ritorno dopo un lungo periodo di assenza non voluto e non previsto, spero non me ne vogliate. Purtroppo novembre e dicembre sono stati mesi pesanti sotto diversi aspetti e mi hanno portata ad allontanarmi da questi lidi. Non solo non riuscivo più a scrivere, ma ero arrivata al punto di considerare tutto ciò che avevo fatto finora brutto e banale perciò, prima di compiere l’insano gesto e cancellare tutto, ho atteso tempi migliori (La mia non è affatto falsa modestia, che tollero poco d’altronde, ma realmente ho l’autostima di uno scaldabagno e sono la prima detrattrice di me stessa – ma credo che molti si ritroveranno nelle mie parole). Per fortuna il momentaccio è passato, fin troppo direi visto che mi ha portato a scrivere in contemporanea a questo capitolo un’altra storiella (che pubblicherò appena sarà completata), quindi credo che continuerò a infestare questo sito ancora per un po’.
Vi auguro il meglio per quest’anno, la salute in primis, e vi ringrazio per aver letto queste righe.
Alla prossima!
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1 Alcune scuole guida giapponesi hanno un circuito interno, o comunque un’area delimitata, in cui iniziare le esercitazioni di guida prima di andare su strada.
 
2 Nel 1971 venne aperto il primo McDonald’s del Giappone al primo piano del grande magazzino Ginza Mitsukoshi, decretando l’inizio dell’era dei fast food occidentali. Ciò fu possibile grazie alla volontà di un uomo, Den Fujita, che restò impressionato dalle potenzialità del marchio, decidendo di esportate il franchising in patria. Famose le parole che usava a supporto del suo operato (e al giorno d’oggi fanno molto sorridere): “Il motivo per cui i giapponesi sono così bassi e hanno la pelle gialla è perché non hanno mangiato nient’altro che pesce e riso per duemila anni… Se mangiassimo gli hamburger e patatine del McDonald’s per mille anni, diventeremmo più alti, la nostra pelle diventerebbe bianca, i nostri capelli biondi”.
Il Mitsukoshi è uno dei grandi magazzini più antichi del Giappone, fondato nel 1673 come negozio di kimono, e vanta diverse sedi in tutto il Paese. A seguito di un periodo di crisi, e per salvare il gruppo, nel 2007 si è unito a un altro colosso del settore, l’Isetan la cui sede principale è a Shinjuku.
 
3 Shunsaku Kudō è il protagonista di Tantei Monogatari (探偵物語), conosciuto anche come Detective Story, un telefilm di grande successo andato in onda dal settembre 1979 all’aprile 1980. Kudō è un detective privato sui generis, si distingue per il suo abbigliamento (borsalino e completo gessato), ha un passato da poliziotto a San Francisco, vive con due assistenti, Nancy (americana) e Kaori, e sfreccia per le strade con la sua inconfondibile vespa. È impersonato da Yūsaku Matsuda, considerato uno dei più importanti attori giapponesi e che ha influenzato indirettamente il mondo degli anime e manga. Le sue fattezze hanno fatto da modello per la creazione di Spike Spiegel (Cowboy Bebop), Kuzan Aokiji (One Piece) e Kenshiro (Hara ha utilizzato sia lui che Bruce Lee).
 
4 Nel 1981 una serie di omicidi noti come “gli omicidi nei love hotel di Kabukichō” gettò una cattiva luce sul quartiere, fomentando la convinzione che fosse un posto molto pericoloso in cui ci si poteva aspettare di tutto. Le tre vittime di quegli omicidi erano tutte giovani, ritrovate strangolate all’interno di una camera di un love hotel casualmente dai dipendenti. A causa della mancanza di videosorveglianza, che serviva a garantire il perfetto anonimato, non fu possibile ricavare prove sufficienti alla cattura dell’omicida, che di fatto è rimasto impunito. A seguito di questi eventi sono state infine installate le telecamere di sicurezza nei love hotel.
L’anno successivo, un altro caso di omicidio di una giovane liceale, macchiò ulteriorlemnte la reputazione di Kabukichō in quando la vittima, assieme a un amico, si era intrattenuta in un disco club della zona dove aveva conosciuto il suo assassino.
 
5 I pink salon (ピンクサロン “pinku saron”) sono dei locali in cui le commesse praticano ai clienti principalmente sesso orale, che in alcuni casi può essere reciproco. Solitamente vengono offerte anche bevande analcoliche mentre quelle alcoliche vanno pagate a parte.

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Capitolo 14
*** Capitolo X ***


10. 29 maggio 1984 – Ryo ⁓ Kenji

Per Ryo quel pomeriggio era un’autentica delizia stare disteso sul pavimento della veranda dell’antica villa in stile tradizionale, con i raggi del sole che obliqui gli riscaldavano il ventre e le gambe. Sarebbe potuto restare così per ore o, almeno, fino a quando la sua parte vulcanica avrebbe iniziato a scalpitare non potendone più di tutto quell’ozio. In fondo, era tipico della sua apparente natura indolente e goliardica celare sotto la superfice un uragano distruttivo che spesso lo sfiancava. Non era facile gestire se stesso il più delle volte, ormai ne era ben consapevole, ma per fortuna quella parentesi di stasi lo stava aiutando a prendere fiato dalla sua vita frenetica; nessun altro luogo riusciva a trasmettergli una tale serenità. Non che casa sua fosse un luogo stressante, anzi, l’aveva resa una piccola roccaforte inespugnabile dove poteva concedersi il lusso di abbassare la guardia, ma ciò non lo riposava davvero. Certo, aveva anche le sue amate ‘riviste altamente culturali’ che lo aiutavano a spegnere il cervello mentre godeva delle meraviglie della natura, ma l’incanto svaniva appena le richiudeva. Per quanto si sforzasse, avvertiva sempre un piccolo e temibile senso di vuoto che, però, non riusciva bene a identificare. Che cosa gli mancava?
Emise un verso sarcastico. A lui non mancava proprio niente, la sua vita era fin troppo piena per il lavoro che conduceva e cercò di convincersi che quella sensazione era solo frutto della sua immaginazione. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente; si era abbuffato fin troppo voracemente e il pranzo gli gravava sullo stomaco come un macigno.
“Non dovevo fare così tanti bis…” pensò e lasciò andare un rutto che risuonò potente nelle vicinanze.

«Sei proprio un maiale»

Ryo arcuò l’angolo della bocca «Il bue che dà del cornuto all’asino» rispose senza muoversi, limitandosi solo ad aprire gli occhi.

Ciò che vide fu la faccia sotto sopra del Professore, che lo guardava con un sorrisino sotto i baffi.

«Dopo tutti questi anni devi ancora imparare il senso della misura»

«Invece ce l’ho perfettamente»

«Ma se mangi sempre come se fossi digiuno da giorni!» sbottò l’uomo.

«No, mangio sempre come se fosse l’ultimo pasto possibile»

Il Professore gli lanciò uno sguardo indecifrabile prima di sparire dal suo campo visivo. Sentì i suoi passi e il bastone scricchiolare sui listelli di legno fin quando non raggiunse la sedia a dondolo posizionata poco lontano da lui. Ryo richiuse gli occhi.
“Bene, adesso è finita la pace” pensò mentre avvertiva il senso di oppressione farsi sempre più pressante. Strinse le labbra in una linea sottile ben conscio che, per quanto potesse fare lo gnorri, non poteva mentire a se stesso; le rare volte in cui il Professore lo invitava a casa per pranzo erano sempre collegate a situazioni particolari, in cui condivideva con lui informazioni delicate. Per questo motivo a tavola si era aspettato una conversazione impegnata, mentre, in realtà, avevano parlato amabilmente di facezie e il Professore si era mostrato il solito uomo di spirito; dietro quell’apparenza, però, aveva avvertito quasi una ritrosia da parte del suo ospite che all’inizio lo aveva sorpreso. E a giudicare dalla tensione che avvertiva provenire dal Professore, sembrava proprio che il momento rimandato fosse infine giunto.
Nel frattempo la sedia dondolava ritmicamente a piccoli intervalli, il vento leggero scuoteva le fronde vicine e il rombo delle sporadiche macchine di passaggio sulla strada principale echeggiava ovattato; stava così bene in quel momento che avrebbe voluto fermarlo, cristallizzarlo nel tempo che scorreva inesorabile e a cui era impossibile sfuggire.
Scosse lievemente la testa per scacciare quell’assurdo pensiero e con un movimento flemmatico del braccio raggiunse la giacca che aveva steso alla sua destra, prendendo dalla tasca interna sigaretta e accendino: era meglio distendere i nervi, forse ne avrebbe avuto bisogno.
Dopo la prima boccata sentì il Professore schiarirsi la voce esageratamente infastidito e ciò non mancò di farlo sorridere.

«Dovresti smetterla di fumare ragazzo, non ti fa bene»

“Come scusa per iniziare la conversazione mi sembra un po’ misera” pensò Ryo mentre si metteva a sedere con un rapido guizzo degli addominali. Si girò verso sinistra, in direzione dell’uomo «Da quando è diventato un problema?»

«Da adesso» commentò il Professore mentre incrociava le braccia «Non fai certo un regalo ai tuoi polmoni continuando con questo brutto vizio»

«Beh, in qualche modo bisogna pur morire» lo sweeper espirò dal naso prima di aggiungere allegro «E visto che tutto è potenzialmente letale preferisco non negarmi alcun vizio, almeno crepo contento!»

L’uomo scosse la testa con un sorriso che gli piegò i baffi verso l’alto «Proprio non ti piace rimanere serio, eh?»

«No» “Lo sono stato fin troppo” avrebbe voluto aggiungere ma si trattenne, limitandosi a girarsi verso l’ampio giardino.

«Ricordo ancora la prima volta che hai fumato» disse il Professore dopo un momento di silenzio «Per poco non scatenasti una rissa… Ah, sei sempre stato un casinista»

Ryo si lasciò andare a una risatina «Beh, non che gli altri uomini fossero da meno»

«Su questo sono costretto a darti ragione»

Dopo aver lanciato all’uomo un’occhiata fintamente sostenuta, Ryo prese un’altra boccata dalla sigaretta che il vento stava consumando fin troppo velocemente. Si sforzò di tornare con la mente a quel tempo, quando lui, poco più che bambino, venne fatto avvicinare al vizio del fumo che era considerato una tappa irrinunciabile per sancire la crescita di un uomo. E per quanto cercasse di ricordare quel momento, i dettagli continuavano a disperdersi come volute nebbiose nella sua memoria, lasciando nitidi solo brevi sprazzi che sembravano fotogrammi di una pellicola rovinata: lui che tossiva con le lacrime a gli occhi, sentendo la gola in fiamme; un collerico Carlos che gli urlava contro perché per poco non dava fuoco alle provviste di un mese; Paco e Carlos che si azzuffavano perché quest’ultimo accusava Paco di aver rubato la sua ultima sigaretta – che aveva poi dato a Ryo. Si grattò contrariato la tempia con il pollice; era inutile, non c’era verso di riuscire a riempire i vuoti e collegare quegli eventi frammentati forse perché, a furia di cercare di ignorare, di seppellire quella parte della sua vita, questa stava davvero svanendo dalla sua memoria poco a poco, e scoprirlo non gli fece tanto piacere quanto aveva immaginato.
Mentre era preso dalle sue riflessioni, il Professore lo fissava attento senza smettere di dondolarsi lentamente. Appena avvertì il suo sguardo su di sé, Ryo decise di prendere di petto la situazione e sciogliere definitivamente quella ritrosia che iniziava a esasperarlo; era meglio affrontare subito il problema piuttosto che girarci intorno, l’attesa aumentava solo l’agonia.

«Non è da lei fare riferimento a quei tempi» disse Ryo, girandosi verso l’uomo «Per caso quello che deve dirmi ha a che fare con l’America?»

Il Professore smise di dondolarsi e posizionò il bastone tra le gambe, appoggiandovi sopra entrambe le mani come se volesse trovare un qualche supporto.

«Se c’è una cosa che ho sempre apprezzato di te, Ryo, è la tua perspicacia» gli rispose con sguardo fiero e dopo qualche attimo di silenziò proseguì «Mi ha contattato un vecchio amico, José il cubano. Ti ricordi ancora di lui, no?»

Ryo si limitò ad annuire. Non aveva certo dimenticato l’ometto che aveva messo a loro disposizione la sua palazzina durante quei mesi infernali in cui aveva combattuto strenuamente per disintossicarsi dalla PCP. Sentì lo stomaco stringersi in una morsa di rabbia e nausea al solo pensarci.

«Siamo rimasti in contatto saltuariamente nel corso degli anni. Sai, adesso non abita più a Città del Guatemala: già un anno dopo la nostra partenza per gli Stati Uniti, la situazione per lui era diventata insostenibile, perciò ha iniziato a condurre un’esistenza errabonda tra Centro e Sud Americ-»

«Così può tenerla aggiornata meglio su cosa succede nei vari Stati, dico bene? E non mi meraviglierebbe più di tanto se scoprissi che proprio lei provvede a pagare tutte le sue spese, visto che ormai è un suo fidato informatore» lo interruppe Ryo con fare ovvio.

Il Professore si limitò a piegare le labbra in un sorrisino che gli fece alzare leggermente i baffi canuti «Se sai già tutto allora posso fare a meno di continuare…»

«No, prego, non la interromperò più» lo esortò, ben sapendo quanto l’uomo fosse permaloso in quel senso e non tollerasse di buon grado le interruzioni.

Il Professore si schienò contro la spalliera e chiuse gli occhi per un attimo prima di riprendere il discorso «Non andrò per le lunghe Ryo, non ti preoccupare. Ad ogni modo, adesso si trova a Panama che, a quanto pare, è diventata ultimamente una città piuttosto affollata»

«Ah sì?» lo sweeper si alzò in piedi e con noncuranza si infilò la giacca di pelle. Non gli piaceva la direzione che stava prendendo quel discorso.

«Noriega sta accogliendo in massa i narcotrafficanti colombiani che, da poco più di un mese, stanno scappando dopo l’uccisione del loro Ministro della Giustizia; a quanto pare è stato uno dei principali responsabili del fallimento politico di Escobar e questi, per vendetta, l’ha fatto fuori. Ah, anche lui è scappato assieme ai suoi compari. Sai, Noriega va molto d’accordo con quella gentaglia…1»

«Quindi adesso in Colombia non ci sono più cartelli della droga? Da quando il mondo va al rovescio?»

«Sarebbe bello ma purtroppo non è così. Sono scappati solo i pezzi grossi, o gli elementi più pavidi che temono ripercussioni a seguito della morte di Lara Bonilla. Il settore continua a essere attivo, e anzi…» il Professore si sistemò gli occhiali sul naso e lanciò uno sguardo significativo in direzione di Ryo «Grazie a questa fuga di massa si sta affermando in modo egemone un gruppo che ha messo radici in Colombia da diversi anni, ma che si è mantenuto sempre più defilato. Ora sta lavorando a pieno regime visto che, a differenza del cartello di Medellin, ha buoni agganci con il governo e quindi non rischia nulla. José ha avuto modo di parlare con alcuni narcotrafficanti cha avevano la lingua sciolta dalla tequila, e gli hanno detto che questa associazione ormai è presente in tutto il Sudamerica e che lo stesso Escobar ne ha un certo timore, sebbene abbiano stipulato un accordo che fino a poco tempo fa è stato rispettato, e infatti non si sono mai intralciati – anche perché si occupano di ambiti leggermente diversi.  Adesso, però, non so se la situazione cambierà»

«Prof…»

«Ryo hai capito vero?» il Professore lo guardò con le sopracciglia corrugate «Hai già capito che sto parlando de la Unión Teope come la chiamano da quelle parti, no?»

Ryo avvertì un brivido freddo lungo la schiena mentre si passava una mano dietro al collo. L’aveva intuito fin da subito, ma sentire quel nome gli dava sempre una stilettata nello stomaco. Buttò giù il nodo alla gola che stava iniziando a crearsi e piegò le labbra in un sorriso amaro.

«Bene, vedo che ne ha fatta di strada. Ormai non c’è angolo di quel continente in cui non sia arrivata»

«E non ha ancora finito»

Nel sentire ciò Ryo non riuscì a nascondere il lampo di preoccupazione che brillò nel suo sguardo.

«Sempre da ciò che è riuscito a carpire José, sembrerebbe che la Union Teope sia interessata a insediarsi anche nel Triangolo d’Oro2. Comprendi bene cosa significhi questo, no? Che se riuscirà ad affermarsi anche nel Sud-est asiatico, entro poco tempo si infiltrerà anche qui in Giappone; questo è un Paese potente ormai, in cui circola fin troppo denaro e molto spesso di dubbia provenienza. Un mercato davvero troppo ghiotto e sono certo che lui non se lo lascerà sfuggire»

Il Professore si alzò lentamente, scrutandolo con occhi perfettamente calmi «Mi sono già messo in azione per cercare di recuperare quante più informazioni possibili, ma temo mi ci vorrà ancora un po’ prima di riuscire a seguire i loro spostamenti con una certa accuratezza, ammesso che ci riesca. Non è mia intenzione darti preoccupazioni Ryo, però ritenevo giusto fartelo sapere. Per ora sono una minaccia lontana, ma una volta che la Union Teope avrà trovato gli agganci giusti per iniziare a insediarsi qui, probabilmente ti cercheranno come hanno fatto in passato… Devi fare attenzione ragazzo mio»

Ryo sospirò e, dopo aver abbasso per un attimo gli occhi, leccò l’indice e il pollice sinistri e spense la cicca «Non si preoccupi troppo Professore, non ce n’è bisogno. Quando arriverà il momento, la Union Teope saprà dove trovarmi e io non farò nulla per nascondermi»

«Ryo…»

«Andiamo Prof» lo interruppe più brusco di quanto avesse voluto «Nel mio lavoro chi si ferma è perduto, non me lo diceva proprio lei?»  

Girò la testa in direzione del giardino e fece due passi, il necessario per scendere dalla veranda, prima di voltarsi nuovamente verso il Professore che lo osservava sempre imperturbabile «Non è nel mio stile evitare i problemi, anzi… Quando sarà il momento saprò cavarmela, fine della storia. La saluto ora, ormai è tempo di rientrare. La ringrazio per il pranzo» e senza aspettare risposta iniziò a incamminarsi verso il cancello.

«Di niente Baby Face, a presto» sentì alle sue spalle. Ryo rispose solo alzando la mano destra, facendola ondeggiare in segno di saluto.

Con poche falcate raggiunse la sua Harley e, dopo aver chiuso il chiodo, la portò a mano fino in strada, dove saltò in sella con una certa impazienza. Da quando respirare era diventato così difficile? Aveva bisogno di aria, di velocità, di adrenalina perciò non perse tempo e con un rombo potente si mise in marcia, avvolto dalla calda luce del tramonto. Gli ci vollero diversi chilometri per potersi togliere di dosso il senso di oppressione ma ciò non bastò a farlo sentire meglio. Quella notizia era stata una bella batosta, eppure sapeva che non era saggio indugiarvi troppo; doveva continuare come sempre, era nel suo interesse mantenere la massima lucidità e calma.
“Una cosa alla volta” ripeté più volte nella mente, fino a quando sentì i muscoli delle braccia meno contratti. Sì, avrebbe trovato un modo per cavarsela al momento opportuno, non prima. A che pro fasciarsi la testa in anticipo? Per il momento si sarebbe occupato di svolgere il suo lungo giro tra gli informatori e poi avrebbe deciso come concludere la serata. Un passo alla volta. Era così che era abituato a vivere e la ipotetica minaccia della Union Teope e di Kaibara non gli avrebbe fatto cambiare la sua andatura.
 
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Camminava a passi lenti e misurati in direzione della sua camera, l’eco del bastone sul pavimento era l’unico rumore a spezzare il silenzio della sera. Si sentiva stanco, tremendamente stanco, e il fascicolo che portava sottobraccio sembrava pesare come se contenesse lastre di marmo; sapeva di non avere più trent’anni, ma non avrebbe mai immaginato che il tempo avrebbe reso il suo corpo così fragile. E la cosa non gli piaceva per niente, gli dava un senso di vulnerabilità e debolezza che odiava profondamente. Ciò che lo consolava era che almeno la sua mente e il suo spirito sembravano non essere stati intaccati dallo scorrere degli anni; se chiudeva gli occhi gli sembrava di essere ancora il giovane che si era imbarcato per gli Stati Uniti dopo la fine della guerra, peccato che l’illusione svanisse appena si specchiava o faceva i conti con i suoi acciacchi. Buttò fuori l’aria dalla bocca con rassegnazione e, una volta raggiunta la camera, chiuse lentamente la porta alle sue spalle.
“Che giornataccia” si disse e con fastidio gettò sul suo letto all’occidentale il fascicolo che si aprì, sparpagliando i fogli riempiti fittamente di cifre e dati sulla coperta. Segnati a penna o con la macchina da scrivere vi erano anni di ricerche, di faticose soffiate e notti insonni di studio per cercare di unire le tessere di un puzzle ben lungi dall’essere completato. Da quando era tornato in Giappone non aveva smesso di seguire l’inesorabile ascesa di Shin Kaibara, prima come militare e poi, a guerra terminata, come capo della Union Teope. Man mano che aveva ricostruito i suoi spostamenti, si era sorpreso nel realizzare con quanta velocità quell’uomo fosse riuscito ad ampliare le sue aree di azione e influenza: in dieci anni non solo aveva colonizzato tutto il Centro, Nord e Sud America, ma si era affermato come una figura autoritaria alla stregua di un Dio, piegando al suo potere un numero spropositato di uomini, alcuni dei quali anche molto potenti. Solo il diavolo poteva sapere come ci fosse riuscito. Aveva sempre seguito la Union Teope in modo solitario, a Ryo non ne aveva mai fatto parola ma la notizia che aveva ricevuto due settimane prima lo aveva convinto a parlargli.  Si lasciò cadere pesantemente sul letto e si prese stancamente la testa tra le mani. Non era stato del tutto onesto con il ragazzo: in realtà la Union Teope era già diventata una temibile istituzione in Thailandia, giocando un ruolo di primo piano nella malavita organizzata grazie al suo prodotto di punta. Era bastato pochissimo per convincere un numero sempre crescente di boss mafiosi e generali di eserciti più o meno regolari a utilizzare la potente PCP e così, sulla miseria umana, Kaibara accumulava profitti tali da averlo reso un milionario con un patrimonio di tutto rispetto. E, per quanto in cuor suo cercava di non pensarci, era ormai certo che il suo arrivo fisico in Giappone fosse solo questione di tempo.
Si sdraiò di traverso sul letto e chiuse gli occhi. Era dannatamente difficile individuare quel bastardo in anticipo; fin dai primi anni di spionaggio si era reso conto che Kaibara non si preoccupava di nascondere troppo le sue tracce se ben insediato, mentre spariva nel nulla quando iniziava qualche nuova operazione in altro loco. Non ne era certo, ma non poteva escludere il fatto che quel demonio sapesse di essere osservato. Chissà, forse aveva anche capito che era proprio lui a tenerlo d’occhio, ma questo aveva importanza? Kenji scosse lentamente la testa. No, quelle che stava facendo erano congetture inutili; ciò che lo irritava davvero era non riuscire ad avere la meglio sul suo ex allievo, di dimostrarsi così fallibile. Quanto avrebbe voluto localizzare il suo nascondiglio, prevedere le sue mosse! Nei primissimi tempi ci era riuscito ma poi Kaibara doveva essere ulteriormente cambiato, superandolo in astuzia. Se solo Shin fosse stato uno stupido sarebbe stato tutto così semplice…
“Che razza di discorsi sto facendo?!” si redarguì mentalmente mentre sbuffava esasperato.
Ripensò a Ryo… Gli era bastato solo accennare quel nome per vedere aprirsi negli occhi del giovane un abisso, lo stesso che lo aveva inghiottito anni prima e da cui ne era uscito faticosamente. Una parte di lui rimproverava la reticenza che lo aveva accompagnato durante la giornata, ma gli bastava ricordare quello sguardo per convincersi di aver fatto bene a essersi trattenuto. Non avrebbe avuto senso far sentire al ragazzo la minaccia della Union Teope così vicina se poi concretamente non poteva fare niente; ciò che gli aveva detto lo avrebbe aiutato a eliminare il fattore sorpresa, e questo era già sufficiente. Per il resto poteva solo confidare in Ryo, augurandosi un epilogo diverso nel caso in cui lui e Kaibara si fossero affrontati nuovamente. Ne aveva fatta di strada il suo Baby Face, ora era certo che non si sarebbe mai precipitato ancora convalescente sulle montagne per ammazzare Kaibara accecato dalla rabbia, e sicuramente non si sarebbe trasformato in un morto che cammina come era accaduto nell’ultimo periodo statunitense, quando la Union Teope aveva fatto terra bruciata attorno a lui. Sperava davvero che Ryo avrebbe avuto la forza di continuare ad andare avanti come stava facendo, sebbene quell’ombra che continuava a portarsi dietro sembrava suggerire che un passo falso lo avrebbe trasformato nuovamente in una macchina di morte.

«Non ho un motivo per continuare a vivere» gli aveva detto nove anni prima, quando una sera i suoi demoni erano emersi prepotenti «Perché non faccio che portare morte con me? Perché tutti quelli che mi sono vicini muoiono mentre io continuo a vivere? Sarebbe stato meglio il contrario…»

Ricordava ancora bene quelle parole, quegli occhi bassi, vuoti e straziati, e quanto fosse stato faticoso convincere quel testone che, se non riusciva a trovare un motivo per vivere in lui, allora doveva votare la sua vita per proteggere gli altri; doveva tramutare la propria miseria in speranza per la disperazione altrui. Solo quando aveva compreso ciò, Ryo era riuscito a mettersi sulle spalle il pesante fardello del suo passato e a camminarci insieme. E da quando aveva iniziato a collaborare con quello strano poliziotto, Makimura, stava ulteriormente cambiando in meglio.
“Chi l’avrebbe mai detto che ci voleva uno sbirro per aiutarlo a crescere…”
Per certi aspetti del suo carattere, Ryo gli sembrava ancora il bambino con addosso una mimetica troppo grande per lui e lo rasserenava sapere che, grazie a quel ragazzo occhialuto, stava iniziando a riacquistare fiducia nel prossimo; quando la minaccia della Union Teope si sarebbe fatta vicina non l’avrebbe affrontata da solo, per fortuna.
Riaprì gli occhi e si ritrovò a fissare il soffitto e l’intricato gioco delle travi di legno che, nella quasi completa oscurità, si poteva solamente intuire. E da quelle geometrie emerse etereo un viso, o meglio, quel poco che restava nelle sue memorie di quel viso, che erano per lo più occhi cerulei e un sorriso dolce. Il tempo impietoso gli stava portando via man mano sempre più dettagli di lei e quella consapevolezza gli strinse lo stomaco, facendolo restare senza fiato. Se solo avesse avuto una sua fotografia… Ma Sophie era troppo timida e riservata, odiava mettersi in posa. Lo aveva sempre stupito come una ragazza così forte e risoluta potesse nascondere un lato così schivo e modesto, e in fondo era proprio per questo che si era innamorato di lei, così diversa dalle altre donne di cui era piena la società. Poco prima della sua partenza per il fronte, però, gli aveva promesso solennemente che, una volta rientrato, sarebbero andati insieme dal fotografo per poi scappare via, lontano dai suoi genitori che non le avrebbero mai permesso di sposare un giapponese. E con un sorriso radioso lo aveva salutato, lo stesso che tornava a riempire la sua mente quando si sentiva più stanco e scorato, e che lo aveva aiutato ad andare avanti tra gli orrori della guerra. Una volta tornato a Londra, però, lo aveva accolto la notizia che era morta durante i bombardamenti; non c’era stato nessun lieto fine per lui, solo un cuore distrutto incapace di amare e pochi ricordi a cui aggrapparsi. E non importava quante altre donne avesse conosciuto, quante ne avesse portate a letto, su quanti sederi avesse allungato le mani, l’unico volto che gli tornava in mente era sempre e solo il suo. In alcuni sogni poteva ancora sentire la sua risata cristallina che lo aveva colpito sin dalla prima volta, perché così genuina e aperta… Dopo di lei il suo cuore si era completamente congelato. Ryo, però, era stato la prima persona che era riuscito ad amare dopo molti anni e che, senza saperlo, lo aveva aiutato a far pace con i fantasmi del suo passato.
Non lo ammetteva spesso a se stesso, ma ormai Ryo era per lui il figlio che non aveva mai avuto e di cui era tremendamente orgoglioso.

«So che gli vuoi bene anche tu Sophie…» mormorò prima che una lacrima solitaria facesse capolino tra le ciglia.

Appena se ne rese conto l’asciugò in fretta, quasi con vergogna.
“Ah, con l’età si diventa più sentimentali” pensò tra sé prima di mettersi seduto e, una volta sistemato il fascicolo, si alzò dirigendosi verso la scrivania. Quando accese il lume aveva già ritrovato la sua lucidità ed era pronto per mettersi all’opera; gli aspettavano due pagine da decodificare e non voleva perdere altro tempo.
 
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Era riuscito a terminare in un tempo decente i suoi giri di ricognizione tra i vari informatori, ma non c’era stato verso di togliersi dalla testa le parole che gli aveva detto il Professore. Si sentiva amareggiato e arrabbiato, eppure dal suo viso non trapelava nulla delle sue emozioni. Anzi, come sempre sorrise affabilmente a Yūsaku, il simpatico vecchietto dalla dentatura marcia che si trovava dietro al suo piccolo carrettino su cui arrostiva patate dolci all’ingresso di Kabukichō; era bravo a fingere, se n’era accorto da diversi anni, e forse era proprio grazie a ciò se continuava a sopravvivere.

«Tieni Saeba-san, ti ho tenuto da parte le due più grosse» gli disse con un sorriso sdentato l’uomo mentre gli allungava una sacchetto di carta ben pieno.

«So che posso contare su di te vecchio mio» rispose complice Ryo e prese con attenzione il bottino rovente. Yūsaku doveva avere le mani di amianto per maneggiare cibo rovente con assoluta tranquillità «Ti hanno dato ancora problemi quei teppistelli?»

L’uomo sistemò un altro paio di patate sulla graticola e iniziò a sventagliarci sopra «No Saeba-san, sono ormai un paio di settimane che nessuno è più venuto a seccarmi. Credo che abbiano rinunciato a estorcermi del denaro, avranno capito che qui non c’è trippa per gatti»

«Meglio così» mormorò lo sweeper soddisfatto e, nel momento in cui stava mettendo la mano nel taschino della giacca per prendere qualche yen, una mano ossuta gli bloccò il braccio.

«Offre la casa» Yūsaku gli lanciò un’occhiata penetrante di chi la sapeva lunga «Non credere che non sappia con chi abbiano ‘parlato’. E so anche che sei la persona più convincente di questa città»

Ryo scosse la testa mostrando un sorriso abbozzato «Quand’è così ti ringrazio vecchio mio» e in tutta fretta si allontanò.

Era più forte di lui, lo imbarazzava enormemente quando qualcuno capiva che c’era lui dietro la soluzione dei propri problemi. Preferiva di gran lunga agire nell’ombra, era meglio per la sua reputazione: non si doveva diffondere nel mondo della malavita la notizia che City Hunter aveva il cuore tenero. Le sue buone azioni dovevano essere svolte solo previo ingaggio, era questo che sperava si sapesse, ma Yūsaku era solo uno dei tanti nomi che si aggiungeva alla sua ben nutrita lista di aiuto disinteressato. E, in fondo, era certo che sarebbe solo aumentata col tempo, perché lui non sopportava quando il più forte prevaricava il debole; nella sua vita non aveva visto altro che ingiustizie di ogni genere e non se la sentiva di passare indifferente. Aveva una sua etica, legale o meno, e aveva giurato a se stesso di agire secondo i suoi dettami. Sempre.
Raggiunse la sua Harley-Davidson e, dopo aver infilato il fagotto fumante all’interno del giubbotto chiuso a mo’ di marsupio, saltò in sella e senza fretta si mise in marcia verso Nishi-Shinjuku.
 
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La notte sembrava aver inglobato con il suo manto tutta la città che, con le sue luci abbaglianti, cercava di sfuggirvi. Appoggiato alla sottile ringhiera di metallo, Ryo osservava sotto di sé il flusso vorticoso di mezzi che scorrevano senza sosta tra la Higashita-Dori e la Kita-Dori e, una volta alzati gli occhi, osservò la vicina Ōkubo in lontananza. Quella vista panoramica era davvero notevole: da lassù non c’erano squallore, povertà e criminalità. Non c’era niente a parte quell’uniforme trapunta di luci che sembrava voler rivalere con il cielo stellato. Lentamente accese una sigaretta e con la bocca disegnò una serie di cerchi di fumo perfetti. Gli piaceva moltissimo quel posto, ormai era diventato il suo personale rifugio in città, in cui poteva permettersi di fantasticare in libertà. Doveva essere grato all’incarico ricevuto solo due anni prima, quando uno dei pezzi grossi della Taisei aveva richiesto i suoi servigi; grazie a quell’occasione aveva avuto modo di mettere piede sulla terrazza del Center Building3 e quel cambio di prospettiva lo aveva immediatamente affascinato. Per lui, abituato a muoversi tra i bassi fondi, era stato rinfrancante scoprire una nuova Tōkyō; dall’alto la città mostrava il suo volto migliore, e ciò lo aveva aiutato a rivalutare il luogo in cui viveva da diversi anni e che non amava particolarmente. Così, una volta concluso egregiamente il suo ingaggio, aveva richiesto di avere libero accesso alla terrazza ogni qualvolta avesse voluto. E a City Hunter non avevano potuto dire di no.
Comminò lentamente lungo il perimetro mentre riparava con la mano sinistra la sigaretta dalle folate di vento. Lanciò un’occhiata distratta ai grattacieli che svettavano poco distanti e ricordò che, quando era arrivato a Tōkyō, quasi non ce n’erano; era incredibile come fosse cambiato profondamente l’assetto di Nishi-Shinjuku in neanche dieci anni.
“Ne è passato di tempo però…” pensò intanto che gettava via la cicca con fastidio. Non era riuscito a fumare decentemente. O forse, quello che lo infastidiva davvero, era che neanche la nicotina era riuscita a distendergli i nervi.
Lasciò andare un sospiro doloroso prima di sedersi per terra, appoggiando la fronte alle sbarre fredde della ringhiera. Avrebbe voluto urlare, prendere a calci quella stupida ringhiera o consumare tutta la sua riserva di proiettili al poligono e invece si limitò a chiudere gli occhi. Aveva permesso già in passato che la rabbia lo sopraffacesse, ma adesso, a distanza di anni, sapeva perfettamente che mantenere la calma era il modo migliore per permettere al cervello di non spegnersi, di rimanere a galla nel mare di dolore e rimpianti che tratteneva dentro di lui.
Sentiva ancora le parole del Professore ronzargli nella testa e, probabilmente, sarebbero rimaste lì ancora per molto tempo. Non sapeva cosa lo avesse turbato di più, se il fatto che la Union Teope avesse raggiunto anche il Sud-est asiatico – e si fosse fatta pericolosamente vicina al Giappone –, o il fatto che Kaibara continuasse a esserne a capo, ricavando i suoi maggiori profitti dalla PCP. Forse erano entrambi i motivi, o forse nessuno. Forse si sentiva semplicemente un idiota per aver intimamente sperato che il tempo avrebbe cambiato anche Kaibara. L’avrebbe cercato una volta arrivato in Giappone? Non era stupido, era ben consapevole che era solo questione di tempo prima che la potente organizzazione mettesse radici in terra nipponica, ma l’avrebbe fatto cercare una volta lì? Era quello il tarlo che si era insinuato dentro di lui. Ryo sapeva solo che avrebbe agito prontamente e con forza, rifuggendo la condotta che aveva avuto negli ultimi mesi in America, quando quel maledetto duello con Kenny prima, e i continui attacchi pressanti dopo, lo avevano portato a un passo dal perdersi definitivamente, trasformandosi in mero strumento omicida incurante della propria vita.
Si stese supino, le braccia piegate dietro la testa, e fissò il cielo bluastro a causa del riverbero delle luci della città e chiuse gli occhi, lasciando la sua mente libera di vagare tra i ricordi.
 

«Faremmo meglio a fermarci qui per la notte Ryo»
Il ragazzo non rispose, limitandosi a mantenere gli occhi fissi contro il cielo stellato. Era seduto con la schiena contro il tronco di un albero e, nonostante avvertisse sul collo il pizzicare delle formiche che si attardavano sulla corteccia, non si mosse di un millimetro. Si sentiva distrutto, non c’era angolo del suo corpo che non fosse dolorante e, soprattutto, stentava a credere di essere ancora vivo. Soffocò un gemito quando la fitta al torace lo lasciò senza fiato; si era certamente incrinato un paio di costole.
«No» disse infine «Sono in grado di continuare la marcia» e così dicendo si fece coraggio e si rialzò.
«Sicuro? Comunque non c’è bisogno che continui a portarmi sulle spalle…»
Shin sbuffò sofferente intanto che cercava di alzarsi facendo leva sul braccio destro, ma venne interrotto prontamente da Ryo, che gli si era avvicinato in un attimo.
«Stai giù» soffiò deciso, accompagnando le parole al movimento delle mani che si posizionarono sulle spalle dell’uomo, facendolo sedere nuovamente. Kaibara lasciò andare un grugnito appena toccò terra e Ryo non poté fare a meno di guardarlo con occhi preoccupati. Gli si inginocchiò accanto e controllò in quali condizioni fosse la sua gamba sinistra; accese un fiammifero e lo avvicinò al moncherino abbastanza per notare che le strisce di tessuto, che aveva usato come bendaggio improvvisato tagliando la sua maglietta, erano totalmente insanguinate.
“Cazzo, sta perdendo ancora sangue… Devo cercare di fare una fasciatura migliore” pensò Ryo mentre si sfilava la giacca della mimetica, rimanendo a torso nudo. Era ben pratico di queste medicazioni, ma era la prima volta che aveva a che fare con un arto tronco e non era affatto facile. La consapevolezza che Kaibara era in quelle condizioni per colpa sua gli fece stringere lo stomaco per il senso di colpa, ma rimase impassibile.
«Non deve essere un bel vedere se hai quella faccia…» emise debole Shin, che nel frattempo si era schienato contro un albero.
Ryo con la coda dell’occhio notò che la sua fronte si era imperlata di sudore e il respiro si stava facendo più pesante. Si limitò ad annuire e velocemente con il pugnare iniziò a fare a strisce la sua giacca partendo dalle maniche, scegliendo con cura le parti più pulite.
Disfò le fasce insanguinate e versò sul ginocchio quel poco di acqua che era rimasta nella borraccia per lavare via il sangue fresco e ammorbidire quello seccatosi. Ringraziò di avere lo stomaco forte perché la vista di quello squarcio da cui si intravedevano osso e muscoli non era di certo un bello spettacolo. Con un certo sollievo notò che il sangue fuoriusciva solo da tagli secondari, mentre i vasi sanguigni principali, che aveva cauterizzato nel pomeriggio con il pugnale arroventato, si erano mantenuti puliti. Ciò scongiurava il rischio di emorragia ma, se non si fosse disinfettata seriamente la parte, questa sarebbe potuta andare in setticemia. Dovevano tornare al più presto al loro campo, una volta nelle mani del Professore Shin sarebbe stato fuori pericolo. Rifece il laccio emostatico sopra il ginocchio e fasciò velocemente il moncherino, cercando di essere il più delicato possibile. Dall’uomo, comunque, non giunse alcun lamento. Una volta terminato il lavoro si rialzò, incapace di guardare in faccia Kaibara.
«Mi dispiace…» mormorò, il senso di colpa continuava a pungolarlo in pieno petto.
«Non ne hai motivo»
«A che sono serviti tutti questi anni? Sono stato un coglione, ho voluto fare di testa mia e invece di restare con la squadra ho tentato un attacco in solitaria. E mi sono fatto scoprire come un imbecille! Mi avrebbero potuto torturare per avere informazioni, uccidermi e-»
«E invece sei ancora vivo»
Ryo alzò di scatto la testa e lo rivide: lo stesso sorriso che gli aveva rivolto poco dopo l’esplosione della mina, quando gli aveva urlato per quale motivo fosse andato a cercarlo. Per pochi istanti gli sembrò che il viso di Kaibara irradiasse luce in mezzo alla foresta buia in cui si ritrovavano, e quella luce la sentì sedimentarsi dentro di lui con un calore che non aveva mai provato prima. Com’era possibile che senza dire una parola riuscisse a comunicare una tale soddisfazione? Possibile che per Kaibara la sua vita fosse davvero così importante?
«Sei solo giovane Ryo, col tempo migliorerai» continuò mantenendo la stessa espressione.
Ryo si rese conto di non averlo mai visto sorridere così e una gioia nuova lo travolse con forza; si sentì davvero amato per la prima volta nella sua vita. Un uomo che era disposto a sacrificarsi per il suo bene non poteva che provare un affetto viscerale nei suoi confronti. Proprio come quello di un padre per i suoi figli. A quella idea gli sembrò di avere davanti a sé un punto fermo: non era più solo al mondo. E avrebbe fatto tutto il possibile per proteggere quell’unica persona che poteva dare significato all’esistenza vuota e disordinata che conduceva da quando aveva memoria.
Con decisione gli diede le spalle e si accovacciò davanti a lui «Forza, salta su. Dobbiamo raggiungere il nostro accampamento prima dell’alba»
Sentendolo indugiare, Ryo si girò verso di lui e lo guardò supplicante. Voleva fare il possibile affinché sopravvivesse dopo quello che aveva fatto per lui… E per quello che rappresentava ormai per lui.
«Ti prego… Padre…» disse in un sussurrò.
A quella richiesta gli occhi di Kaibara si aprirono per la sorpresa, brillando di una luce commossa. Infine, dopo aver fatto un cenno col capo, acconsentì a farsi trasportare.
«Grazie figliolo» mormorò sulla sua spalla mentre Ryo con fatica si addentrava su un sentiero impervio, illuminato solo dalla timida luce lunare. Lui, però, era felice; aveva finalmente un posto nel mondo.
 
 
Si rialzò di scatto dal pavimento gelato come se fosse di lava e si passò stancamente una mano sugli occhi. Nonostante fossero passati molti anni – e si fosse indurito grazie alle intemperie della vita – lo addolorava ancora sapere che quell’uomo, suo padre, ormai non esisteva più, fagocitato da una bestia che sembrava aver preso il totale controllo del suo intelletto.  Eppure, dentro di lui continuava a nutrire la segreta speranza che l’uomo che aveva conquistato il posto più importante nel suo cuore ci fosse ancora. Forse come figlio non aveva fatto abbastanza per lui, se solo avesse saputo come impedire che si giungesse a questa situazione…
Con movimenti rapidi e nervosi si accese l’ennesima sigaretta. Decise che avrebbe chiesto ai suoi informatori di riferirgli qualsiasi notizia, anche la più insignificante, sebbene fosse ben consapevole che era una precauzione inutile. Kaibara era e restava un uomo brillante, il suo maestro in fin dei conti. Non si sarebbe lasciato stanare facilmente e sarebbe riuscito a sorprenderlo.
“Ma sì, è inutile fasciarsi la testa in anticipo. Farò meglio a non pensarci più per davvero, quando sarà il momento mi farò trovare pronto” sancì mentalmente spegnendo con stizza la sigaretta consumata solo a metà. Quando anche fumare lo rendeva ancor più nervoso, c’era un unico modo per aiutarlo a scaricare la tensione e tornare calmo.
Lasciò il terrazzo panoramico, diretto verso gli ascensori, mentre si preparava mentalmente a un’intensa sessione al poligono; avrebbe sparato fino a quando non avesse sentito il braccio intorpidito.
 
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E rieccomi dopo eoni da queste parti, faccio un grande mea culpa. In realtà il capitolo era finito da quasi due mesi, ma ho procrastinato fin troppo con le correzioni/modifiche dell’ultimo minuto e nel frattempo il tempo è letteralmente volato. Ringrazio per i messaggi gentilissimi, trovare belle persone nel fin troppo incattivito mondo virtuale (e non) fa sempre bene al cuore! Se può consolare, ormai siamo oltre la metà della storia, manca solo un altro capitolo per concludere il 1984 (più piacevole di questo) e poi… Non dico altro ;)
Alla prossima!
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1 Il 30 aprile del 1984 i sicari di Escobar uccisero il ministro della Giustizia colombiano Rodrigo Lara Bonilla, che si era battuto con molto zelo contro il potente narcotrafficante, denunciandone le attività illecite. Ciò obbligò Escobar il 20 gennaio dello stesso anno a ritirarsi dalla scena politica, desideroso naturalmente di vendicarsi. Noriega, leader militare di Panama dal 1983, nonostante fosse stato sul libro paga della CIA per molti anni, venne infine processato e incriminato per traffico di droga ed estorsione negli Stati Uniti nel 1992.
 
2 Con Triangolo d’oro si intende una zona prevalentemente montuosa che comprende Thailandia, Laos e Myanmar. È il secondo luogo in Asia per produzione di oppio – l’invidiabile primato spetta alla “mezzaluna d’oro”, che comprende principalmente Afghanistan, Iran e Pakistan – a cui si sono affiancati la produzione di eroina (anni sessanta) e metanfetamine (anni novanta).
 
3 Il Shinjuku Center Building è un grattacielo situato a Nishi-Shinjuku, alto 223 e inaugurato il 31 ottobre del 1979. Funge principalmente da quartier generale della Taisei Corporation, società storica dedita all’edilizia e ingegneria civile. Il Center Building fa la sua comparsa in City Hunter nell’episodio della principessa Alma, infatti nella scena del terrazzo Hojo disegna fedelmente in alcune vignette il peculiare andamento a zigzag della parete esterna dell’edificio. Lo ritroviamo anche in alcuni episodi successivi assieme al vicino Sompo Japan Building, anch’esso ben riconoscibile per la sua forma svasata alla base.

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