Solo se balli con me

di Imperfectworld01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cronologia ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Uno. ***
Capitolo 4: *** Due. ***
Capitolo 5: *** Tre. ***
Capitolo 6: *** Quattro. ***
Capitolo 7: *** Cinque. ***
Capitolo 8: *** Sei. ***
Capitolo 9: *** Sette. ***
Capitolo 10: *** Otto. ***
Capitolo 11: *** Nove. ***
Capitolo 12: *** Dieci. ***
Capitolo 13: *** Undici. ***
Capitolo 14: *** Dodici. ***
Capitolo 15: *** Tredici. ***
Capitolo 16: *** Quattordici. ***
Capitolo 17: *** Quindici. ***
Capitolo 18: *** Sedici. ***
Capitolo 19: *** Diciassette. ***
Capitolo 20: *** Diciotto. ***
Capitolo 21: *** Diciannove. ***
Capitolo 22: *** Venti. ***
Capitolo 23: *** Ventuno. ***
Capitolo 24: *** Ventidue. ***
Capitolo 25: *** Ventitré. ***
Capitolo 26: *** Ventiquattro. ***
Capitolo 27: *** Venticinque. ***
Capitolo 28: *** Ventisei. ***
Capitolo 29: *** Ventisette. ***
Capitolo 30: *** Ventotto. ***
Capitolo 31: *** Ventinove. ***
Capitolo 32: *** Trenta. ***
Capitolo 33: *** Trentuno. ***
Capitolo 34: *** Trentadue. ***
Capitolo 35: *** Trentatré. ***
Capitolo 36: *** Trentaquattro. ***
Capitolo 37: *** Trentacinque. ***
Capitolo 38: *** Trentasei. ***
Capitolo 39: *** Trentasette. ***
Capitolo 40: *** Trentotto. ***
Capitolo 41: *** Trentanove. ***



Capitolo 1
*** Cronologia ***


Cronologia

1968

Anno celebre in tutto il mondo - Italia, Francia, Stati Uniti - per le numerose rivolte e proteste che lo caratterizzarono, a partire dalle mobilitazioni studentesche che culminarono in vere e proprie occupazioni delle università più importanti, fino ad arrivare alle occupazioni delle fabbriche per quanto riguarda gli operai, insieme anche alle lotte femministe volte a ottenere la parità di genere.
Milano, per quanto riguarda l'Italia, fu certamente la città capofila del Sessantotto.
Ah, e cosa più importante, il 27 maggio sono nata io.

1969

Era il 12 dicembre 1969, ore 16:37, quando si verificò quella che venne ricordata come una vera e propria strage: l'esplosione di una bomba all'interno della Banca Nazionale per l'Agricoltura, in Piazza Fontana a Milano, che causò la morte di 17 persone e ne ferì gravemente 88.

Quello che si sperava che sarebbe stato un caso isolato, fu in realtà solo il primo di una serie interminabile di episodi come quelli. Agguati, attentati, sparatorie in mezzo alla strada, erano ormai all'ordine del giorno.

La cosa peggiore? L'obiettivo non era mai soltanto quello di colpire una determinata persona, ma colpire anche tutte le altre. Non in senso fisico, bensì psicologico. Le persone che morirono in quella banca e le vittime che ci furono dopo erano state solamente usate come mezzo per seminare terrore. Non c'era un fine militare dietro a tutto ciò, ma politico: partiti di sinistra e destra si scontravano continuamente, ciascuno per dimostrare la propria superiorità e prevalenza sull'altro. A volte bastava solo camminare dal lato "sbagliato" della strada per perdere la propria vita, nessuno escluso: non importava il sesso, l'età, l'appartenenza sociale.

Milano non era più un posto sicuro in cui vivere, ma non era il solo. La situazione era la stessa in tutta Italia, e non solo. Episodi simili si erano verificati anche in altri Paesi, come ad esempio la Germania.

Mia madre dopo quel 12 dicembre rimase chiusa in casa per ben quattro mesi, senza riuscire a trovare la forza di uscire per nessun motivo al mondo. Purtroppo questo iniziò a creare dei problemi fra lei e mio padre, nonostante fossero sposati da appena sette anni e avessero due bambine di uno e quattro anni.

1970

Approvazione della legge n. 898/1970 del 1 dicembre che, per la prima volta in Italia, rendeva possibile il divorzio. Furono circa 5.600 i divorzi in quell'anno, ma nel corso di un decennio arrivarono quasi a quintuplicarsi.

Anche i miei genitori furono fra quelli. Ma io non me ne resi mai conto, perché ero ancora piccola e anche perché, prima che si potesse proseguire con la procedura di divorzio, era necessario sottostare a un periodo di separazione coniugale, della durata di cinque anni. Esso non prevedeva l'obbligo di comunione dei beni, né tantomeno l'obbligo di convivenza sotto lo stesso tetto, tuttavia i miei genitori continuarono a vivere insieme, seppur essendo separati in casa. Ecco perché non mi accorsi mai di niente.

Mia madre non sopportava l'idea di doversi far mantenere ancora da mio padre, ma non aveva altra scelta, dal momento che non aveva nessun altro luogo dove andare e non aveva un lavoro, e soprattutto non voleva rinunciare a vedere me e mia sorella. Ma si impegnò duramente e, dopo una assidua ricerca, trovò un impiego come operaia in un'industria tessile, così da poter ottenere almeno l'indipendenza economica, nonostante la disapprovazione di mio padre e del resto dell'opinione pubblica.

1975

Le campagne delle donne in cerca di emancipazione fecero ulteriori progressi, nel momento in cui venne approvata la legge n.151/1975 del 19 maggio, denominata "Riforma del diritto di famiglia". Essa prevedeva numerosi passi avanti verso l'abbattimento della disuguaglianza di genere.

Ecco quindi che si abbandonò il termine di "patria potestà", che venne sostituito con "potestà genitoriale", si passò da "potestà maritale" a "eguaglianza fra coniugi".

Inoltre, erano già trascorsi cinque anni, e quindi i miei genitori poterono ormai ufficializzare il loro divorzio.

Una sera, vidi mio padre prendere un cumulo di valigie e sbatterle in maniera energica fuori dalla porta di casa, mentre mia madre era in lacrime. Ciononostante, prese per mano me e mia sorella e, dopo averci ordinato di andare ad abbracciare papà, ci condusse fuori da casa e ci dirigemmo alla stazione.

Andammo a Torino, dai miei nonni materni. Non fu facile convincerli a riaccettare mia madre a casa loro, probabilmente lo fecero solo perché con lei c'erano anche le loro nipotine e non volevano finissimo sotto i ponti.

Non avevano mai perdonato mia mamma dopo la sua fuitina, ossia quando, una volta che sia lei che mio padre avevano compiuto ventun anni raggiungendo la maggiore età, erano fuggiti da casa per qualche giorno per celebrare il loro amore e al loro ritorno, i miei nonni sia paterni che materni avevano dovuto obbligatoriamente accettare che si sposassero.

Sembrava che gli atti di ribellione, seppur fatti per amore, potessero venire tollerati solo se era un uomo a compierli: se lo faceva una donna era "un'indegna svergognata", così consideravano mia madre; ma quando la stessa cosa l'aveva fatta mio zio quando aveva solo sedici anni, non era stato brutalmente cacciato di casa.

«Si sa come sono fatti i ragazzi, ne combinano di tutti i colori.»

Non presero posizioni estreme neanche quando scoprirono che aveva tradito la moglie, mettendo incinta un'altra donna.

«L'amore per i propri figli è in grado di superare qualsiasi confine, alla fine gli si perdona ogni cosa.»

Mia madre, per poter continuare ad avere un tetto sotto cui vivere e non finire per strada, era costretta a farsi ogni giorno all'incirca due ore di treno sia all'andata che al ritorno per andare da Torino a Milano a lavorare e da Milano a Torino per tornare a casa. Aveva faticato per mesi per riuscire a trovarsi quel lavoro, e non poteva certamente permettersi di lasciarlo, sebbene la paga fosse ugualmente molto modesta.

Iniziai a sentire molto la mancanza di mia madre in quegli anni. Era costretta a svegliarsi prestissimo per andare alla stazione e prendere il treno per andare a lavoro, e la sera tornava tardissimo. Molto spesso era così stanca che saltava anche la cena e correva dritta a letto, il tutto ovviamente sotto gli occhi critici e accusatori dei miei nonni.

1982

Era ormai da diversi mesi che mamma si tratteneva a Milano anche per due o più giorni, a volte stava via quasi per una settimana intera senza mai tornare a casa.

Iniziai a preoccuparmi, pensando che la stessero stressando troppo con il lavoro, o almeno continuai a pensarlo finché non notai che aveva un'aria allegra, che non le vedevo ormai da molti anni. Era felice, spensierata, leggera. Non dava troppi segni di stanchezza.

Cominciai quindi a ipotizzare che fosse tornata insieme a mio padre. Me ne convinsi ancora di più quando una sera, a cena, comunicò a me e mia sorella che saremmo tornate ad abitare a Milano.

Ma le mie speranze si spensero brutalmente quando confessò che aveva iniziato una relazione con un altro uomo e che saremmo andate a vivere a casa sua.

Rimasi delusa, una parte di me sperava che saremmo potute tornare indietro di sette anni e riprendere la vita di prima, ma comunque mi faceva piacere per mia madre.

Era dicembre quando ci diede quella comunicazione. Disse che per non ostacolarci con la scuola, avrebbe atteso la fine dell'anno scolastico e, di conseguenza, ci saremmo trasferite ad agosto inoltrato.

1983

Dunque, da dove posso cominciare? No, ho bisogno di più righe.

 

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Capitolo 2
*** Prologo ***


Prologo


Lamette di Donatella Rettore, un singolo che aveva riscosso molto successo fin da quando era uscito l'estate precedente, stava ora risuonando a tutto volume dall'autoradio, quasi come fosse stato uno strano scherzo del destino.

Non ero triste all'idea di tornare a Milano, in fondo ero nata lì, ma anche Torino dopo otto anni era riuscita a guadagnarsi un posto nel mio cuore.
Comunque a me non era andata troppo male. Sì, avevo dovuto salutare dei cari amici, ma me ne sarei fatti degli altri; Benedetta, invece... be', aveva perso l'amore della sua vita, o così diceva lei.

In quel momento era silenziosa, con lo sguardo fisso fuori dal finestrino della Fiat Panda del nuovo compagno di mia madre, Claudio, ma era evidente che il suo animo ribelle non sarebbe rimasto addormentato, e che aspettava solo il momento giusto per scappare e ritornare da lui.

Lei e Maurizio si erano frequentati a lungo ma di fatto non stavano insieme da molto, all'incirca tre mesi, ma secondo Benedetta fin da quando si erano visti per la prima volta circa un anno fa, era stato un colpo di fulmine, aveva trovato la sua anima gemella, l'uomo che avrebbe sposato, il padre dei suoi figli. Lo ripeteva all'incirca dieci volte al giorno da quando mamma ci aveva detto che ci saremmo trasferite. Quindi almeno da otto mesi.

... promette bene, sì, promette tanto bene,
ma (gimme, gimme, gimme),
ma (gimme, gimme, gimme),
ma (gimme, gimme, gimme),
ma dammi una lametta che mi taglio le vene!

«Si può cambiare canzone, per piacere?» domandò Benedetta con tono scocciato e spazientito, prima di chinarsi e roteare la maniglia alzacristalli per abbassare il finestrino.

«Benedetta, chiudi il finestrino, o entreranno le mosche» le ordinò mia madre, ma mia sorella la ignorò.

Il signor Bianchi - o semplicemente Claudio, come ci aveva detto di chiamarlo - invece annuì semplicemente e cambiò la trasmissione della radio. Sembrava un tipo tranquillo, educato, ma se ne stava un po' troppo sulle sue delle volte. Non sapevamo molto su di lui e della sua vita prima che incontrasse mia madre. Mamma ce l'aveva presentato solo due sere prima, quando ci aveva raggiunte a Torino. Aveva dovuto dormire in albergo, poiché i miei nonni si erano rifiutati anche solo di farlo entrare in casa.

Disapprovavano enormemente quella e altre scelte di mia madre: il fatto che per sfuggire al loro controllo si fosse donata a un uomo prima del matrimonio, il fatto che non avesse saputo rispettare la sacralità del matrimonio chiedendo al giudice il divorzio, il fatto che avesse cercato di ottenere la propria indipendenza economica cercandosi un lavoro, il fatto che fosse stata una madre assente e incapace di prendersi cura delle sue figlie, il fatto che stesse cercando di costruirsi una nuova famiglia.

Io volevo bene ai miei nonni, erano stati sempre presenti in quegli anni quando mamma non c'era, ma sapevo che si sbagliavano sul suo conto. Forse non era stata molto presente, ma era l'unica che mi aveva insegnato delle cose importanti e che non avrei mai dimenticato.

«Tu sei una donna, Nina, ma prima di questo sei una persona, come chiunque altro. E la nostra Costituzione, che è la più meravigliosa che esista al mondo, stabilisce che tutti gli  individui sono uguali davanti alla legge, sai? Ma non è sempre stato così. Hai idea di quante persone siano morte orribilmente per far sì che oggi noi potessimo vivere in uno Stato libero? Uno Stato dove i diritti di tutti fossero rispettati, dove tutti fossero uguali, senza distinzione di etnia, sesso o credo religioso. Tutto questo non è scontato. Le persone hanno lottato per ottenere questi diritti, fra cui anche i tuoi nonni paterni. Eppure c'è n'è ancora molta di strada da fare.
«Ciononostante, c'è ancora chi si oppone a questi cambiamenti, perché in fondo sa che noi donne siamo qualcosa di più di solamente un corpo e teme che, se avessimo libero arbitrio e smettessimo di farci sottomettere, saremmo in grado di ottenere qualsiasi cosa che ci mettiamo in testa di fare.
Promettimi che anche tu lotterai sempre per dimostrare il tuo valore, promettimi che non ti farai mai mettere i piedi in testa da nessuno» mi disse una volta.

Avevo sempre apprezzato il fatto che mia madre non avesse mai usato mezze misure mentre parlava con me. Mi parlava in maniera aperta, sincera, senza trattarmi come se fossi troppo piccola e inesperta per capire certe cose. Secondo lei più cose sapevo del mondo, e più sarei stata difficile da abbattere.

«Una donna che non conosce i suoi diritti non saprà mai quanto vale» mi ripeteva sempre.

Per questo motivo rimasi molto sorpresa quando scoprii che la persona che reputavo fra le più trasparenti al mondo, era anche quella che era riuscita a nascondere una relazione che andava avanti da ben quattro anni.

Ma in fondo non ce l'avevo con lei per questo, sapevo che l'aveva fatto per il bene mio e di mia sorella.

Dopo interminabili ore, Claudio posteggiò la macchina. Spalancai subito la portiera e uscii, pronta ad assaporare l'aria di Milano.
Era una tipica giornata soleggiata estiva, ma fortunatamente l'aria non era afosa, anzi, era anche piacevole stare all'aperto, a maggior ragione dopo aver passato più di due ore in uno spazio ristretto con altre tre persone.

Era strano. Avevo solo sette anni quando avevo lasciato Milano, perciò non mi ricordavo molti particolari, conoscevo molto meglio Torino, eppure non mi sentivo un'estranea. Mi sentivo a casa.

Guardandomi intorno, riuscii a individuare il Duomo in lontananza. La Madonnina dorata risplendeva più che mai illuminata dalla luce del sole.
A pochi passi da dove si era fermato Claudio con l'auto, c'era un sottopassaggio. In cima, c'era un cartello che riportava il logo del comune di Milano e di fianco a esso, su sfondo rosso c'era una scritta bianca: "CAIROLI Castello". A lato del sottopassaggio c'era un palo e un cartello quadrato con una grande M.

Non mi ci volle molto a capire che fosse il sottopassaggio che conduceva alla metropolitana. Supposi che sarebbe stato comodo averla vicina a casa.

«Nina, spostati! Ma non lo vedi il furgone?»

La voce di mia madre che mi chiamava per nome riattivò la concentrazione in me. Mi accorsi solo in quel momento che mi ero messa praticamente in mezzo alla strada e che si stava avvicinando un enorme furgone addetto ai traslochi, il quale, presumibilmente, stava trasportando i nostri scatoloni.

Mi spostai appena in tempo e raggiunsi gli altri sul marciapiede.

Circa mezz'ora trascorse così: facendo su e giù per portare tutte le valigie e gli scatoloni. Sfortunatamente l'appartamento di Claudio non era al pianterreno, bensì al terzo, e come se non bastasse l'ascensore era anche di una lentezza disarmante.
Quando finalmente terminammo, mi accorsi di avere la fronte permeata di sudore, così ci passai una mano sopra per asciugarla.

«D'accordo, ora che finalmente abbiamo tutto, vi faccio vedere la casa e la vostra stanza. Seguitemi, da questa...»

Claudio si interruppe nel momento in cui sentimmo il rumore delle chiavi che venivano inserite nella serratura della porta d'ingresso e, poco dopo, vedemmo entrare un ragazzo. Era alto, e i capelli erano scuri e ricci. Aveva la pelle molto chiara, gli occhi verdi e diverse lentiggini su tutto il viso.
Con nonchalance, richiuse la porta alle sue spalle e fece per attraversare il corridoio dell'anticamera e dirigersi altrove, ma nel momento in cui Claudio si schiarì la voce, si immobilizzò e retrocedette, posizionandosi davanti a mia madre. «Tu devi essere Carlotta» disse. «Io sono Vittorio, molto piacere di conoscerti» aggiunse, tendendo la mano verso mia madre.

Io e mia sorella ci scambiammo uno sguardo confuso, che indirizzammo poi verso mia madre. Quest'ultima aprì la bocca per chiarire i nostri dubbi, ma Benedetta si intromise e la precedette: «Vittorio come, prego?» chiese, tentando di sforzarsi per non risultare insolente, invano. Mia sorella aveva sempre la puzza sotto il naso, dava l'impressione di credersi superiore a tutti.

«Vittorio Bianchi» rispose fieramente. «Suo figlio» aggiunse, facendo un cenno al fidanzato di mia madre.

 

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Capitolo 3
*** Uno. ***


Uno.


Quella notte stavo facendo una fatica immane a prendere sonno. C'erano ancora troppe cose che dovevo cercare di metabolizzare. Pensavo che il trasferimento in sé fosse già tanto, ma ora in più si aggiungeva un dettaglio che avrebbe enormemente influenzato la mia vita ancor più di quello che mi ero immaginata: non era più uno l'uomo con cui avrei dovuto convivere da quel momento in poi, bensì due.

O forse, avrei dovuto dire tre.

«E questo è il vostro bagno. È più piccolo, ma abbiamo pensato di lasciarvi questo perché è più vicino alla vostra stanza. Spero che vada bene» concluse così Claudio il suo giro turistico della casa.

Io e mia sorella annuimmo, ancora piuttosto scosse per quanto appreso poco prima. Non riuscivo a capire perché mamma ci avesse tenuto nascosto che Claudio aveva un figlio. Anzi, sarebbe stato molto meglio saperlo prima, anziché doversi trovare di fronte quella "sorpresa".

«E Giuseppe dov'è?» chiese a un certo punto Claudio a Vittorio, per smorzare il silenzio che si era creato.

«Un altro figlio?» non potei evitare di chiedere.

Claudio emise un flebile sorriso. «Be', più o meno.» Ma la cosa non fece ridere né me né mia sorella. Iniziai a sudare freddo all'idea che ci fosse davvero un altro figlio, finché poi non sentii qualcosa toccarmi le caviglie e i polpacci. Dava l'idea di essere qualcosa di morbido, peloso. Abbassai lo sguardo e vidi una creatura rossiccia e pelosa intenta ad annusarmi i piedi: un gatto.

Davvero?

«Ecco Giuseppe» disse Vittorio, chinandosi a terra per prendere in braccio quel felino come se fosse un bebè.

Non mi piacevano i gatti, preferivo di gran lunga i cani. I gatti erano scaltri e diffidenti, non mi capacitavo di come le persone potessero scegliergli come animali da compagnia.

«Mi sembra un nome inusuale per un gatto» commentai.

«Il suo nome completo è Giuseppe Garibaldi» specificò Claudio, facendo poi ridere mia madre.

Il che era ancora più inusuale. In che diavolo di famiglia ero capitata?, era ciò che avevo continuato a ripetermi per ore e ore: a pranzo e a cena, mentre continuavo a provare un disagio non indifferente; durante il pomeriggio, mentre sistemavo le mie cose nella mia nuova stanza; e infine, mentre mi giravo e rigiravo nel letto cercando di prendere sonno, senza ottenere risultati.

Non volevo mettere in dubbio che Claudio e suo figlio fossero due persone meravigliose, sembrava che entrambi stessero facendo il possibile per metterci a nostro agio, ma al tempo stesso mi era difficile riuscire ad abituarmi all'idea che non ero solo un'ospite lì dentro e che quella sarebbe stata la mia nuova casa. Avevo paura che non mi sarei mai ambientata.

In più, il caldo di quella notte non aiutava per niente a conciliare il sonno. A un certo punto, mi alzai dal letto per andare in cucina a prendere un bicchiere d'acqua. Cercai il più possibile di orientarmi senza l'ausilio della luce, dal momento che la porta della camera di Claudio e mia mamma era aperta e non volevo rischiare di svegliarli. Appoggiandomi con una mano al muro, percorsi il tragitto fino ad arrivare in salotto.

Dopodiché accesi la luce e, nel momento in cui lo feci, udii un sobbalzo a pochi metri da me e subito mi si materializzò davanti una figura incappucciata. A quel punto aprii la bocca per urlare a causa dello spavento, ma lui mi coprì la bocca con la mano. Gli afferrai il polso per scostare la sua mano dal mio viso: «Di preciso, quali sono i tuoi problemi?» chiesi, sforzandomi di tenere un tono di voce basso per non rischiare di svegliare gli altri.

Vittorio roteò gli occhi, prima di spalancare la bocca in un sorriso a trentadue denti, che in poco tempo si trasformò in una vera e propria risata. «Scusa, è che... è che stata una scena piuttosto divertente! Eri terrorizzata, sembrava che avessi visto Clara Calamai in Profondo rosso» disse e io aggrottai un poco la fronte: «Non so a che ti riferisci, non ho mai visto quel film».

Spalancò gli occhi a quella mia confessione. «Scherzi? È uno dei miei film preferiti, è un vero capolavoro! Ho qui la videocassetta, uno di questi giorni dobbiamo per forza rimediare» esclamò in preda a un entusiasmo che, neanche sforzandomi, sarei riuscita a condividere. Come riusciva a comportarsi come se fosse tutto normale? Come se avessimo confidenza e non fosse strano che fossimo invece due estranei costretti a vivere insieme.

«Grazie, ma passo. Non mi piacciono i film dell'orrore» rifiutai. «Comunque... ecco, avevo solo bisogno di un bicchiere d'acqua» aggiunsi, dirigendomi verso quella che, se mi ricordavo bene, doveva essere la cucina.

Mentre camminavo, pensando che la conversazione fosse ormai conclusa, Vittorio mi venne dietro. «Ah sì, e cosa ti piace? Candy Candy?» domandò e lo fissai con gli occhi ridotti a fessure. Poi, dopo aver capito che stava scherzando e non intendeva essere canzonatorio né offensivo, mi lasciai andare a un piccolo sorriso. Accesi la luce della cucina e aprii il frigo per prendere l'acqua. «Ci ho azzeccato, eh?» mi incalzò Vittorio.

«Veramente sono più una da Lady Oscar» confessai, prima di aprire l'anta della credenza e alzarmi poi in punta di piedi per afferrare un bicchiere. Purtroppo erano tutti impilati in fondo alla mensola e non ero alta a sufficienza per arrivarci.

«Ah, be' lei è una tosta» commentò, prima di allungare il braccio e afferrare il bicchiere per poi passarmelo.

«Grazie» dissi, prima di versarmi l'acqua nel bicchiere. Una volta fatto ciò per cui mi ero alzata dal letto, unii i puntini e rivolsi a Vittorio uno sguardo interrogativo. «Che cosa fai tu sveglio a quest'ora? E vestito in questo modo?» domandai.

Indossava infatti dei jeans, delle scarpe da tennis e aveva ancora il cappuccio nero della felpa in testa. Di certo sembrava qualcuno che voleva camuffarsi e non dare nell'occhio.

«Vado a una festa a casa di un amico. Per favore, non dire niente a nessuno. Se mio padre dovesse mostrarsi sospettoso domani mattina e fare domande, fingi di non sapere nulla, te ne prego!» disse unendo fra loro i palmi delle mani.

Stavo per annuire e dire che stavo per andare dritta a dormire e che c'erano alte probabilità che il mattino seguente non mi sarei nemmeno ricordata del nostro incontro, ma dopo un secondo in più di riflessione, cambiai idea. Incrociai le braccia al petto e cercai di darmi un'aria autoritaria e rispettabile, sebbene fosse difficile a causa della grande differenza di altezza fra me e lui. «Non dirò nulla...» cominciai.

«Oh, grazie, grazie, grazie!» esclamò interrompendomi. «Il fatto è che è martedì sera e mio padre fa sempre storie se esco durante la settimana, quindi sono costretto a svignarmela di nascosto» spiegò.

«Non mi hai fatto finire di parlare» dissi. «Io terrò la bocca chiusa, ma solo se tu mi porti con te.»

Spalancò gli occhi in segno di stupore. «Sei qui da meno di dodici ore, che fretta hai di andartene?» chiese.

«Non voglio cominciare l'anno scolastico senza conoscere nessuno. E lo so che siamo solo a metà agosto, ma... be', non voglio passare il resto dell'estate chiusa in casa senza sapere cosa fare e con chi uscire. E poi quando ricomincerà la scuola non voglio che le persone mi vedano ancora come quella "nuova", ora di settembre voglio essermi già integrata» spiegai, senza neanche sapere se avesse senso. Il fatto era che conoscere delle persone tramite qualcun altro era di certo più facile che far tutto da sola, e quella mi sembrava un'opportunità da cogliere in fretta.

«Sì, ha senso, ma devi stare tranquilla: ti avrei sicuramente portata a conoscere i miei amici in questi giorni. Come mai proprio stasera? Non sei stanca?»

Scossi la testa, per fargli capire che non avrei cambiato idea facilmente.

Dopo un attimo di titubanza, Vittorio scrollò le spalle e mi tese la mano: «Affare fatto».

Sorrisi e strinsi la sua mano per sigillare l'accordo. Poi corsi di fretta in camera mia per potermi preparare. Cautamente aprii i cassetti e scelsi qualcosa da mettermi, poi andai in bagno e mi cambiai. Optai per una semplice camicia bianca di cotone da infilare dentro a dei jeans a vita alta. Una volta vestita, spazzolai i capelli cercando il più possibile di dar loro una forma. Se avessi avuto più tempo li avrei cotonati, ma dovendo far in fretta mi limitai a legarli in una mezza coda di cavallo.

Dopodiché uscii dal bagno e tornai di corsa in salotto. Vittorio aveva rispento la luce. Per poco non inciampai in quella terribile palla di pelo rossa, che in risposta mi guardò con aria minacciosa e mi soffiò contro. Con quel buio neanche mi ero accorta della presenza.

Vittorio soffocò una risata e poi aprì e richiuse con attenzione la porta di casa, assicurandosi di non far rumore.

Successivamente prendemmo l'ascensore. In quel momento calò un silenzio imbarazzante, un po' come quando poche ore prima eravamo tutti e cinque a tavola. Solo che era peggio.
Sia io che lui cercavamo il più possibile di evitare l'una lo sguardo dell'altro, ma era più difficile dato che eravamo in uno spazio ristretto e in più l'ascensore era di una lentezza immane. «Questo ascensore è dell'anteguerra per caso?» chiesi per interrompere la tensione. «E quale delle due, soprattutto?»

Vittorio sogghignò ma non rispose. «In che scuola andrai?» domandò poi.

«Al ginnasio Manzoni» risposi.

«Be', ti è andata bene. Sono giusto tre fermate di metropolitana, però devi cambiare. L'hai mai presa la verde?»

Scossi la testa. «In realtà nemmeno la rossa. Avevo sette anni quando ho lasciato Milano, quindi...»

«Ah, giusto, giusto.»

«Anche tu vai a scuola lì?»

«Io? Ginnasio? No, la mia mente non è così eccelsa.»

«E chi l'ha detto che chi frequenta un liceo classico ha una mente superiore a quella degli altri? Non è mica con queste cose che si misura il cervello di una persona.»

Abbassò un poco la testa per avvicinarsi a me. «Lo sai? Sei forse la prima persona a dirmi una cosa del genere. Di solito se la tirano tutti, i cervelloni come te» mi picchiettò la testa con un dito.

Giungemmo finalmente al piano terra. Girai la manopola per aprire la grata dell'ascensore e poter uscire.

«In che zona abitavi prima?» chiese, facendo cenno al cartello della metropolitana con su scritto "CAIROLI - Castello".

«De Angeli» risposi. Ci dirigemmo fuori dalla palazzina. «Alla festa ci sarà qualcuno che va nella mia scuola?»

«E che ne so? Suppongo di sì.» Poi tirò fuori dalla tasca della felpa una chiave e si diresse verso una Vespa Piaggio color giallo cromo posteggiata pochi metri più in là.

Lo fissai con le sopracciglia inarcate. «In che senso, scusa? Non hai detto che è a casa di un tuo amico?»

«Sì, esatto, ma la verità è che c'è sempre un sacco di gente a caso a questo tipo di feste, sai? Non ho idea di chi potremmo trovare» scrollò le spalle.

«Che modello è?» chiesi poi, facendo cenno al motorino.

«Oh, è grandiosa! È una 50 special, sai che vuol dire? Ha quattro marce, praticamente una rivoluzione!» esclamò sprizzando entusiasmo da tutti i pori. Anch'io avevo sempre desiderato avere un motorino, ma chiaramente con il solo stipendio di mia madre, non ce lo saremmo mai potuto permettere.

«Ed è tutta tua?»

Scosse la testa. «Di mio padre, la comprò nel '69, appena era uscita. Allora non aveva ancora abbastanza soldi per permettersi una macchina. Ma adesso che ce li ha, non usa più questo gioiellino e quindi diciamo che è diventata quasi mia.»

Poi montò in sella alla moto e mi invitò a fare lo stesso.

«Ma ce l'hai il patentino, giusto?»

«A cosa serve? Tanto so guidare» disse con convinzione. «Allora, vieni o no?»

La grande fiducia che aveva in se stesso riuscì a persuadermi. In fondo doveva averlo fatto altre volte, quindi cosa rischiavo? Così salii sul motorino dietro di lui.

«Tieniti» mi consigliò.

In effetti non avevamo neanche il casco, perciò non era sicuro stare senza sostegno. Così annuii e cinsi la sua vita con le mie mani.

Poco meno di un quarto d'ora dopo giungemmo al suddetto luogo della festa, in zona Porta Venezia. Avevo un leggero mal di mare per via della guida spericolata di Vittorio, ma in realtà era stato divertente. Amavo l'adrenalina che sprigionava l'alta velocità. Sembrava quasi di volare.

Lui probabilmente non aveva gradito alla mia stessa maniera quel viaggio, dal momento che giurò che gli fossero finiti tutti i miei capelli in faccia.

«Dai, non è vero! E comunque è stata colpa del vento» tentai di giustificarmi.

«Ah, neghi l'evidenza?» inarcò un sopracciglio, prima di infilarsi una mano in bocca e tirar fuori un capello leggermente mosso e castano. I suoi erano quasi neri, quindi doveva per forza trattarsi di uno dei miei. Emisi una smorfia di disgusto, prima di scusarmi: «Ops... be', mi dispiace».

«Non fa niente. Vieni, andiamo» mi afferrò per mano e ci dirigemmo verso una folla di ragazzi radunati davanti a un portone.

Vittorio ne salutò alcuni con una stretta di mano e una pacca sulla spalla. «Lei è Nina» disse poi.

A quel punto iniziò un giro infinito di presentazioni in cui ripetei il mio nome una dozzina di volte stringendo mani di persone a caso senza ascoltare un solo nome che mi veniva fatto. «Sappiate che non mi ricorderò nessuno dei vostri nomi» dissi, provocando qualche risata.

Pochi minuti dopo ci trovavamo già in una stanza con la musica a tutto volume e gremita di persone, o così sembrava, ma in realtà non potevo affermarlo con certezza dal momento che la quantità di fumo nella stanza era tale da aver creato una vera e propria nube. Ciò conferiva al salotto un'aria suggestiva, certamente, ma era anche fastidioso dopo un po'.

Vittorio mi guidò infatti verso una finestra. La spalancò per far circolare un po' l'aria e poi si sedette sul davanzale, portandosi il ginocchio destro al petto e tenendo l'altra gamba a terra.

Aprì la bocca per dirmi qualcosa, ma non ne ebbe il tempo poiché fu interrotto da una voce stridula che giunse alle mie spalle: «Vittorio! Eccoti, finalmente. Si può sapere perché ci hai messo così tanto ad arrivare?» domandò.

Mi voltai e vidi una ragazza alta poco meno di me, con i capelli castani e liscissimi, lunghi fino al sedere - e io che credevo che non esistessero persone con capelli più lunghi di quelli di mia sorella; gli occhi erano grandi e da cerbiatto, dello stesso colore dei capelli; le sopracciglia scure e marcate. Indossava una gonna di jeans che le arrivava fino alle ginocchia e una maglia a maniche corte nera.

«Piacere, io sono Monica» disse poi rivolgendosi a me.

Le strinsi la mano e mi presentai a mia volta.

«Mina? Come la cantante? Oh, io la adoro, è una delle mie preferite!» esclamò.

«No, non Mina, Nina» la corressi, scandendo meglio.

«Ah, carino uguale, anche se è un po' strano come nome. Non fraintendere, non è che non mi piaccia, è solo che...»

«È il diminutivo di Marina» si intromise Vittorio, fornendole chiarimenti.

Lo fulminai subito con lo sguardo, ma lui nemmeno se ne accorse. Gli avevo detto che non mi piaceva essere chiamata col mio nome completo.

«Sei nuova di qui? Vieni, ti presento gli altri del gruppo!» esclamò, prendendomi per un braccio e trascinandomi verso il divano. Separò due ragazzi intenti a pomiciare e fece spazio affinché ci potessimo sedere entrambe. «Ragazzi, lei è Marina!» annunciò.

«Nina» la corressi, prima di iniziare un altro giro di presentazioni.

«Come mai non ti abbiamo mai vista?» domandò una ragazza riccia con i capelli super cotonati, Erica, supposi.

Praticamente fui inondata di continue domande e neanche mi fu dato il tempo di rispondere a tutte perché non smettevano di pioverne di nuove.

«E come sono i ragazzi a Torino?» chiese a un certo punto Monica.

«Con tre file di denti e nove gambe in più. Secondo te, Moni? Sono uguali a qui!» commentò innervosito un altro ragazzo, Giovanni, o forse Riccardo, oppure Fabio.

«Con quanti ragazzi sei stata?» domandò poi un'altra.

A quella domanda, tutti si zittirono e posero la loro completa attenzione su di me. Sembrava che dalla mia risposta a quella domanda sarebbe dipesa la salvezza del mondo intero. Così mi sentii un po' a disagio nel dire la verità, anche se normalmente non me ne vergognavo. «Be', io... ecco, ehm... nessuno» ammisi.

Spalancarono tutti gli occhi e la bocca in segno di sorpresa, come se ci trovassero qualcosa di strano. Che c'era di così tanto sconvolgente? Avevo appena quindici anni, non mi sembrava ci fosse molta fretta.

«Quindi non hai mai baciato nessuno?» chiese Monica. «Ma dai, se sei così carina!»

Carina? Sarei stata carina se avessi avuto il suo viso spaziale e il suo fisico da Sophia Loren. Monica era assolutamente perfetta. Io, a differenza sua, avevo due mandarini al posto delle tette e assolutamente nessuna forma. Ero l'unica della mia età a non essersi ancora sviluppata, com'era possibile che ancora non mi fossero arrivate le mestruazioni? Mi metteva un sacco a disagio quella situazione.

«Non capisco tutta questa necessità di avere per forza qualcuno, a me piace stare da sola» dissi semplicemente, scrollando le spalle.

Rimasero tutti in silenzio, ancora una volta, come se avessi detto qualcosa fuori dal mondo.
A me non sembrava così strano. Per secoli le donne erano state sempre associate agli uomini, assecondate a loro, come se fossero solo degli accessori da accompagnamento. Io avevo avuto la fortuna di nascere in un'epoca in cui questo stava cambiando e in cui la figura della donna stava iniziando a essere vista come qualcosa di più che una madre o una moglie devota, perciò non avevo alcuna intenzione di buttare via quella fortuna. Avrei sfruttato al meglio l'indipendenza e la libertà che a me erano state donate sin dalla nascita e che, al contrario, altre donne, compresa mia madre, avevano dovuto lottare per ottenere.

Dal momento che si era creato un leggero imbarazzo per via delle mie ultime parole, decisi di alzarmi dal divano e raggiungere Vittorio, il quale nel frattempo era intento ad accendersi una sigaretta.

«Ehi, mi dispiace che Monica ti abbia trascinata via, lei è fatta così, è travolgente e spesso non lascia neanche il tempo di riflettere. Però non è male, no?» disse.

«No, anzi, è molto... molto...» Onestamente non sapevo neanche trovare le parole per descriverla. Era sicuramente energica, estroversa, di una bellezza ammaliante per certi versi, e anche sincera e schietta. Ma fra quelle non riuscivo a trovare quella più adatta a definirla.

In quel momento riconobbi Tu di Umberto Tozzi uscire dal giradischi e risuonare in tutta la stanza.

Era uno dei miei cantanti preferiti, oltre al gruppo musicale "Il Giardino dei Semplici".

«Posso chiederti una cosa?»

Vittorio annuì, prima di aspirare una boccata di fumo.

«Me ne daresti una? Avevo lasciato il mio pacchetto a Torino di proposito, perché avevo intenzione di smettere, ma poi sono venuta qui e... be', qui fumano tutti, è praticamente impossibile. Ti prometto che te la restituirò uno di questi giorni.»

Inarcò le sopracciglia meravigliato. «E io che ti facevo come la cocca di mamma. Tieni» disse, tirando fuori un'altra sigaretta dal suo pacchetto e offrendomela. La misi in bocca e lui l'accese con l'accendino. «Grazie» dissi. «Ah, ti prego, non dirlo a mia mamma» aggiunsi, prima di aspirare il fumo.

Arricciò le labbra per qualche secondo e volse lo sguardo in alto, per dar l'impressione che stesse riflettendo accuratamente. «D'accordo, mi cucio la bocca» disse.

«Grazie» sospirai di sollievo.

«Ma solo se balli con me» aggiunse, lasciandomi interdetta per qualche secondo.

Sgranai gli occhi. «Scherzi?»

Scosse la testa. «Dai, adoro questa canzone!» esclamò, prima di dirigersi verso il cumulo di persone che, proprio come mi aveva chiesto di fare lui, stavano ballando. Sembrava che non mi stesse lasciando molta scelta.

«Aspetta, non l'ho ancora finita!» esclamai, ma lui fece orecchie da mercante e mi vidi obbligata a raggiungerlo.

A quel punto fui costretta a spegnere la sigaretta e a metterla in tasca, nella speranza che non si appiattisse.

Mi guardai intorno e vidi che erano tutti abbracciati a qualcun altro e ballavano, ognuno immerso nel suo mondo. Così cercai di cacciare il disagio che provavo, dal momento che tanto nessuno avrebbe fatto caso a noi. Mi sollevai leggermente in punta di piedi e appoggiai le mani sulle spalle di Vittorio, mentre lui cinse con delicatezza i miei fianchi.

Iniziammo a girare sul posto molto lentamente, proprio come tutti gli altri.
Non mi piacevano i balli lenti. Erano noiosi e inutili. Facevo danza sin da quando avevo tre anni. Avevo iniziato con danza classica, ma poi a sei anni avevo cominciato a fare danza moderna e contemporanea. Avevo provato anche con qualche lezione di salsa e bachata l'anno prima, ma non mi avevano entusiasmata.
Trovavo grandioso ciò che si poteva fare con i semplici movimenti del proprio corpo, quindi mi sembrava riduttivo stare in piedi come una sorta di stoccafisso.

Certo, forse l'avrei pensata in maniera differente se mi fossi trovata a ballare una delle canzoni d'amore più belle di quegli anni con una persona per la quale provavo dei sentimenti, e non con il figlio del fidanzato di mia madre. Ricordarmi di quel particolare fece apparire il tutto a dir poco incomodo e strano.

Per fortuna la canzone era ormai quasi giunta al termine.

Vittorio, che fino a quel momento aveva tenuto la sua guancia a contatto con la mia, a un certo punto sollevò a testa e la spostò di lato. Sollevai lo sguardo e vidi che stava discorrendo a bassa voce con uno dei suoi amici.

Non riuscii a sentire una sola parola, così non compresi perché a un certo punto si allontanò bruscamente e, dopo avermi fatto un occhiolino, mi lasciò sola con l'altro ragazzo che era venuto a parlargli.

Costui, con i capelli dello stesso color del miele e gli occhi fra il verde e l'azzurro, mi fissava sorridendo. «Nina Colombo, giusto?»

«Sì. Posso aiutarti con qualcosa?» chiesi, iniziando a sentirmi a disagio.

Il sorriso si allargò maggiormente. «Ti va di ballare?»

 

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Capitolo 4
*** Due. ***


Due.


«Allora? Hai intenzione di raccontarmi qualcosa oppure no?»

Roteai gli occhi e poi sbadigliai.
Erano le undici meno tre quarti del mattino, quella notte ero tornata a casa alle due ma mi ero addormentata come minimo per le quattro, motivo per cui ero ancora stanca morta; Vittorio, che tra l'altro si era svegliato più presto di me, a differenza mia era invece pimpante e pieno di energie. E aveva in serbo anche un sacco di domande da fare.

«Qualcosa tipo?» domandai, prima di allungare il braccio per prendere una fetta biscottata dal piatto appoggiato al centro del tavolo e iniziando a riempirla di marmellata.

«Dai, con Filippo. Non mi aspetto che tu mi ringrazi, però non puoi negare che sia stato merito mio se l'hai conosciuto» disse con fierezza. «Che vi siete detti quando siete usciti a parlare in balcone? Ti ha chiesto di uscire, non è vero?»

Annuii. «Sì, e io gli ho detto di no» aggiunsi, prima di fare un morso alla mia fetta biscottata.

Vittorio sgranò gli occhi e sbatté le palpebre un paio di volte: «E perché? Io vi vedevo alla grande insieme, secondo me sareste stati un po' come Sophie Marceau e Pierre Cosso ne Il tempo delle mele 2» disse, il che mi portò a chiedermi se conoscesse ogni singolo film a  memoria.

«Ah, sì? Per quale motivo, perché lui è biondo con gli occhi azzurri e perché io ho i capelli corti e castani?» domandai fissandolo accigliata. «Comunque non mi sembra una grande perdita, specie perché subito dopo che gli ho detto di no è corso da Monica a farle la stessa domanda» aggiunsi scrollando le spalle, mentre Vittorio per poco non si strozzò con la fetta biscottata che aveva appena iniziato a masticare. «Davvero?» domandò sorpreso.

Un po' troppo sorpreso.

Emisi allora un ghigno compiaciuto: «Ah, lo sapevo! Sei cotto di Monica!» esclamai, mentre il viso di Vittorio assunse pian piano una tonalità sempre più accesa. Aprì la bocca per ribattere, ma non gliene diedi l'occasione perché mi alzai subito in piedi e, dopo aver sparecchiato le mie cose, uscii dalla cucina. Indietreggiai di qualche passo per potermi affacciare dalla porta e aggiungere: «Ho visto il modo in cui la guardavi ieri», prima di avviarmi verso la mia camera.

Be', era più o meno il modo in cui la guardavano tutti, e non li biasimavo affatto.

Nel momento in cui aprii la porta della mia stanza, sentii un tonfo tremendo. «Ma dico, sei scema?!» urlò mia sorella, spuntando da dietro la porta e massaggiandosi la testa.

«Io? Chi è che si appoggia alla porta e si chiude senza avvertire?» ribattei, ma lei non mi rispose neanche e mi sbatté la porta in faccia.

«No, amore, non parlo con te. Mia sorella è una seccatura, non capisce mai quando è il caso di lasciarmi i miei spazi e la mia riservatezza» la sentii dire, e così realizzai che si era chiusa in camera per parlare ancora al telefono con Maurizio, cosa che faceva ininterrottamente già da tutta la mattina e che era ciò che mi aveva svegliata.

Non lo sopportavo proprio, il fatto che le persone diventassero così da innamorate: costantemente con la testa sulle nuvole, assolutamente noiose, completamente dipendenti dall'altra persona, senza alcun riguardo per se stessi e incapaci di prendere decisioni sensate.

Era ciò che mi spaventava di più in assoluto: innamorarmi, e diventare la copia di Benedetta e tante altre che, proprio come lei, dopo aver trovato l'amore, avevano totalmente perso la ragione.

Era un dato di fatto, ne ero certa, accadeva a tutti almeno una volta nella vita. Iniziava dolcemente, così da mascherare la sua vera essenza, e poi culminava nella distruzione vera e propria, a volte non solo metaforica.

Elena e Paride, Paolo e Francesca, Calisto e Melibea, Anna Bolena e le altre mogli di Enrico VIII (se non altro sua figlia Elisabetta aveva fatto la scelta più giusta, non sposandosi mai, e infatti era stata la prima donna a regnare in Inghilterra, e anche per tanto tempo), Marco Antonio e Cleopatra, Romeo e Giulietta, Anna Karenina e il conte Vronsky, il Grande Gatsby e Daisy Buchanan, e tanti altri.

Sia la storia che la letteratura, fin da sempre, mi avevano insegnato che l'amore non portava altro che dolore. Io stessa l'avevo sperimentato, sebbene non direttamente, con la fine del matrimonio dei miei genitori. Amore, si erano promessi amore eterno, ma alla fine avevano infranto entrambi quel giuramento e in cambio avevano ottenuto solo un cuore spezzato e una famiglia divisa a metà.

Ecco cosa faceva l'amore. Perciò, finché potevo privarmene ed evitare così di soffrire, l'avrei fatto volentieri. Certo, mi sarebbe piaciuto avere una mia famiglia un giorno, dei figli, ma mi sarebbe piaciuto ancora di più continuare a mantenere la mia libertà e la mia indipendenza il più a lungo possibile.

A differenza del giorno precedente, quella era una giornata tutt'altro che arieggiata. C'era un caldo insostenibile e, nonostante ogni finestra fosse spalancata, l'aria circolava a fatica.

Indossavo solamente una maglia a maniche corte rosa e dei pantaloncini corti del medesimo colore con cui avevo dormito. Normalmente sarei rimasta in canottiera intima e mutande, ma essendo costretta a condividere la casa anche con Claudio e suo figlio, non mi era più possibile fare quello che volevo e comportarmi come se fossi stata a casa mia, anche se di fatto lo ero.

Se non altro, tutta la situazione era meno assurda e imbarazzante del giorno precedente, dal momento che sia Claudio sia mia madre erano andati a lavoro e quindi non eravamo costretti in casa tutti e cinque insieme.

Solo che, se il giorno prima era passato piuttosto velocemente, poiché ero stata occupata tutto il tempo a svuotare gli scatoloni e a sistemare le mie cose nella nuova casa, ecco che adesso mi ritrovavo senza un reale passatempo. Stare attaccata alla televisione non mi aveva mai entusiasmata molto, tutti i libri che avevo li avevo già letti, inoltre di uscire non se ne parlava proprio perché faceva troppo caldo e, soprattutto, perché non conoscevo ancora nessuno a sufficienza e non volevo necessariamente accollarmi ancora una volta a Vittorio - lui aveva già la sua vita, io dovevo riprendere in mano la mia e non dovevo farlo per forza inserendomi con prepotenza nella sua.

Così l'unica cosa sensata che trovai da fare fu una veloce, fresca e rigenerante doccia. La prima della giornata. Ne seguì un'altra due ore dopo, prima di pranzo, e una terza poco dopo.

Quell'ultima volta lavai anche i capelli, infatti ci impiegai più tempo. Una volta uscita dalla doccia presi per la terza volta in quella giornata il telo e me lo avvolsi attorno al corpo, lo stesso feci con un asciugamano che fissai sui capelli a mo di turbante per togliere l'umidità, non che ce ne fosse così tanto bisogno, in realtà.

Era un'abitudine che mi era rimasta ma che in realtà non era più necessaria, dal momento che avevo i capelli corti e ci mettevano pochissimo ad asciugarsi. Era stato un taglio netto: a mia nonna era venuto quasi un colpo quando aveva aperto la porta del bagno un giorno e aveva visto i miei capelli lunghissimi sul lavandino e me, con una faccia colpevole, con una forbice in mano. La verità era che non volevo farli così corti, solo che più che andavo avanti a sforbiciare, più mi accorgevo di quanto li stessi tagliando storti, così avevo continuato ad accorciarli finché non mi parvero perfetti.

Ma in realtà non lo erano, e il giorno dopo mia nonna mi spedì subito dal parrucchiere a farli sistemare, il che implicò ovviamente di doverli tagliare ancora più corti, fin poco sotto al mento.

Era partito tutto dal fatto che, una volta, quando ero in giro per Piazza Vittorio Veneto insieme a Benedetta, una vecchietta ci aveva fermate perché ci aveva scambiato per le sue nipoti e in seguito, dopo essersi accorta del malinteso, ci aveva fatto i complimenti dicendoci quanto fossimo carine e ci aveva chiesto se fossimo gemelle.

Ed effettivamente, a parte la differenza nel colore di occhi (maledetta, se li era beccata lei gli occhi verdi di mamma), eravamo praticamente alte uguali e avevamo entrambe i capelli castano chiaro e lunghi fino in vita. Dal momento che qualsiasi associazione a mia sorella, a mio avviso, era tutt'altro che un complimento, dopo attente meditazioni, ecco che avevo deciso di fare un cambiamento drastico per potermi distinguere da lei.

Comunque anche se erano venuti più corti di quello che avrei voluto, erano ricresciuti in fretta e infatti mi arrivavano ormai alle spalle, e non mi dispiacevano affatto: erano comodi e riuscivo a gestirli senza troppe fatiche.

Mi chiesi se fosse giunto il momento di un altro cambio radicale.

All'improvvisò si aprì la porta ed entrò Benedetta, che si diresse subito verso il gabinetto.

«Secondo te come starei con la frangia?» le chiesi, continuando a tenere lo sguardo fisso sul mio riflesso.

«Perché? Non hai mica una fronte esagerata» rispose.

«Che c'entra? Mica è obbligatorio.»

A quel punto Benedetta sbuffò e roteò gli occhi: «Allora fai quello che ti pare, non mi interessa».

«Sei sempre molto d'aiuto, Benni, meno male che ci sei tu» commentai sarcastica.

«Senti, Nina, vuoi uscire e lasciarmi in pace? Sto cercando di fare la ca...»

«Che palle che sei, non ti si può mai chiedere nulla!» esclamai interrompendola, prima di uscire dal bagno e chiudere la porta con decisione.

Era insopportabile. Non la reggevo più.

«Tutto bene? Ho sentito delle urla e...»

Gridai e feci un balzo in aria dallo spavento, prima di tirarmi istintivamente il telo su il più possibile. «Ma dico, devi sempre apparire così, di soppiatto? Non puoi fare in modo di annunciarti come le persone normali?» sbottai, prima di voltarmi in direzione di Vittorio, il quale arrossì violentemente, mentre io al contrario impallidii.

Per mia sfortuna, non era solo, bensì in compagnia.

Riconobbi due fra i ragazzi della sera precedente, di uno non mi ricordavo il nome, l'altro invece era Filippo, il quale era l'unico a non essersi coperto la vista con le mani.

«Mi dispiace, non volevo...» cominciò Vittorio mortificato almeno quanto me, ma non gli diedi il tempo di terminare la frase poiché corsi dritta in camera mia, chiudendo la porta a chiave per il tempo necessario che mi serviva a vestirmi.

Benedetta avrebbe anche potuto dirmelo che in quel frangente di tempo in cui ero andata in bagno per farmi una doccia erano arrivati degli ospiti.

Dopo aver messo dei vestiti puliti, riaprii la porta e in seguito tornai in bagno per spazzolarmi i capelli. Benedetta fortunatamente era già uscita e, a giudicare dal rumore della rotella che veniva girata freneticamente, sembrava stesse componendo un numero di telefono, sicuro quello di casa di Maurizio.

I miei dubbi vennero confermati nel momento in cui, una volta uscita dal bagno, vidi il cavo del telefono partire dal mobiletto in legno posto sul corridoio e finire in camera nostra. E ciò significava anche che mi avrebbe nuovamente impedito l'accesso alla stanza come quella mattina.

E adesso che cosa dovrei fare?, mi chiesi. Non potevo stare in camera mia, il salotto era occupato da Vittorio e i suoi amici...

Avevo sete. Mi avviai rapidamente in cucina e versai dell'acqua in un bicchiere. Mi accorsi solo in quel momento che Vittorio aveva avvicinato i bicchieri al bordo della credenza, così che potessi arrivarci senza sforzi. Era stato gentile da parte sua.

Dopodiché mi sedetti e con calma bevvi dei sorsi d'acqua. A un certo punto sentii un miagolio e abbassai lo sguardo, vedendo il felino ai miei piedi. «Be', che vuoi? Non hai un Paese da liberare dagli invasori?» domandai, sentendomi subito dopo immensamente idiota. E non solo perché avevo appena parlato da sola con un gatto, ma anche perché avevo persino fatto una battuta di pessimo gusto. Non mi sorprese quindi il fatto che mi guardò con un'espressione torva.

In seguito si stiracchiò tendendo le zampe in avanti e poi si strusciò contro le mie gambe. Stupendomi di me stessa, mi chinai a terra per appoggiare una mano sul suo testone peloso e accarezzarlo. Il suo pelo era molto soffice. Sembrò gradire quel contatto, infatti aprì la bocca e iniziò a leccare il dorso della mia mano. A quel punto mi ritrassi di scatto. «Dai, che schifo!» esclamai, prima di alzarmi in piedi e aprire il rubinetto del lavello per sciacquarmi le mani. La sua lingua era ruvidissima al tatto e probabilmente impregnata dell'odore del pesce che si era mangiato per pasto.

«Nina, che fai? Dai, vieni con noi.» Mi voltai e vidi Vittorio appoggiato allo stipite della porta della cucina.

Aprii la bocca per obiettare, ma non ne ebbi il tempo poiché Vittorio era ormai entrato dentro e mi aveva afferrato per un braccio, deciso a portarmi dai suoi amici.

Erano seduti a terra, uno di fronte all'altro, e un mazzo di carte al centro. «Ci serve un quarto giocatore per briscola» spiegò Vittorio, prima di sedersi a terra in mezzo ai due amici.

Emisi un mezzo sorriso. Giocavo a carte con mio nonno da anni, ormai mi reputavo imbattibile. Avevo imparato a valutare al meglio le carte da usare a ogni mano, a tentare di memorizzare i carichi che erano già stati usati e quali rimanevano, e a creare il livello giusto di suspence prima di buttare giù una carta.

A quel punto mi sedetti anch'io a terra, cercando di ignorare lo sguardo di Filippo posato insistentemente su di me. Ma che cosa voleva?

Tentai di nascondere il fastidio e presi in mano le tre carte che Vittorio mi stava passando.

«D'accordo, possiamo cominciare» disse, una volta dopo aver finito di dare le carte a tutti e aver girato una carta dal mazzo che avrebbe rappresentato la briscola per quella partita. «Mi raccomando, non si parla al primo turno» ricordò.

Giocammo due partite e io e Vittorio le vincemmo entrambe con un gran numero di punti. Alla terza sembrava che avessimo perso, o almeno così ci sembrava finché Filippo non finì di contare: «Cinquantanove» disse sconsolato, mentre io e Vittorio ci battemmo il cinque per aver incassato un altro successo.

«Dai, è assurdo, com'è possibile che abbiate così tanto culo?» protestò Giovanni, prima di farsi passare le carte per effettuare lui stesso il conteggio dei punti.

«Non è culo, è tecnica» precisai.

«Ma va' a dà via el cu! Che tecnica e tecnica!» esclamò.

«Ah sì? Allora insegnamela» colse la palla al balzo Filippo, rivolgendomi un piccolo sorriso.

«Non è una cattiva idea» si intromise Vittorio. «Visto che Filo e Gio sono due imbranati, perché non facciamo fare una partita solo a loro due, mentre noi li aiutiamo e li consigliamo? Almeno si spera che la prossima volta sarà più divertente giocare» propose.

«Non sono brava a insegnare» risposi scrollando le spalle, ma nessuno fra i presenti si bevve quella scusa, o forse semplicemente non gli importava.

Roteai gli occhi, ma poi mi spostai al fianco del biondino. Non mi sfuggì affatto la sua espressione compiaciuta e lo sguardo complice che si scambiò con Vittorio.

Giovanni mischiò le carte e poi le distribuì a se stesso e a Filippo.

Partivamo bene. Aveva l'asso di coppe, che in quel caso era la briscola; oltre a quello, aveva un sei di bastoni e un fante di spade.

Gli suggerii di partire con la carta nulla, indicando con il dito il sei di bastoni.

Giovanni fu costretto a prendere con una briscola, il che mi permise di fare un'importante deduzione. «Significa che ha due carichi» sussurrai all'orecchio di Filippo.

«Cosa?» domandò lui, girandosi e avvicinandosi vertiginosamente al mio viso. Il ghignò che emise lo tradì e capii che in realtà aveva sentito benissimo e che era solo una tattica che stava usando affinché rimanessi vicina a lui. Così mi distanziai, fissandolo con gli occhi ridotti a due fessure. «Forza, tocca a te pescare» dissi con tono duro.

Senza darsi per vinto, fece come gli dissi. «Agli ordini.»

Dopodiché seguii il mio consiglio di prendere il suo fante di denari con il cavallo del medesimo seme che aveva appena pescato.

In quel momento, sentii qualcosa sfiorarmi la schiena e mi voltai di soprassalto, solo per vedere il gatto che si stava strusciando su di me come poco prima in cucina.

Dopo avermi annusata a lungo, passò a fare la stessa cosa a Filippo, il quale ne approfittò per dargli una carezza sul dorso, prima che il gatto lo scavalcasse e decidesse di sbattersi a terra a pancia in su sopra le carte.

Vittorio sbuffò e lo prese in braccio per spostarlo: «Giuseppe, proprio ora?» chiese, e dal tono severo che usò sembrava convinto che il gatto potesse capire le sue parole. Si alzò poi in piedi e si diresse, presumibilmente, verso la sua camera, per portarci dentro il gatto.

«Dai, che palle!» esclamò Giovanni, nell'accorgersi che il gatto aveva scombinato tutte le carte. «Mi sa che non ci rimane altro che ricominciare da capo.»

«Non se ne parla» affermammo io e Filippo all'unisono, dal momento che eravamo in vantaggio e avevamo anche l'asso di briscola.

«Che succede?» domandò Vittorio, tornando a sedersi a terra insieme a noi.

«Giudica tu, quel grassone peloso ha rovinato tutto» rispose Giovanni.

«Giuseppe non è grasso, è che ha il pelo lungo» puntualizzò Vittorio.

«Ma se pesa più di mia sorella che ha tre anni!»

«Ok, chi se ne frega di quello stupido gatto, possiamo riprendere la partita?» intervenni, spazientita, senza ricevere alcuna risposta.

I due andarono avanti a battibeccare senza degnarmi. Il biondino alla mia destra sembrava si stesse godendo lo spettacolo, ma a me personalmente non erano mai andate a genio le discussioni, soprattutto quelle insensate come quella.

Roteai gli occhi al soffitto e poi mi alzai in piedi.

«Dove vai?» chiese.

«In camera mia. Ho bisogno del tuo permesso?»

Non attesi nemmeno una sua risposta, dato che era una domanda ovviamente retorica.

Mi diressi davanti alla mia stanza e abbassai la maniglia della porta nel tentativo di aprirla, ma non ci riuscii. Benedetta si era chiusa a chiave, così iniziai a battere le mani sulla porta: «Benni, apri! Devo entrare!» esclamai.

Come prevedibile, fui ignorata. Ma continuai a insistere senza darmi per vinta. «Benedetta! È anche la mia camera questa, non ti ricordi?»

«Dio, Nina, che scocciatura che sei!» urlò. C'era qualcosa di strano nella sua voce. Ponendo l'orecchio vicino alla porta, avvertii i suoi passi farsi sempre più vicini. Girò la chiave nella serratura e aprì la porta.

Schiusi le labbra stupita, nel vedere mia sorella in lacrime. Entrai dentro la stanza e chiusi la porta alle mie spalle. «Cosa è successo?» domandai preoccupata.

«Ho paura che Maurizio stia per lasciarmi» confessò, prima di lasciarsi cadere a terra con la schiena appoggiata al muro.

 

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Capitolo 5
*** Tre. ***


Tre.

Passai il resto del pomeriggio a cercare di consolare mia sorella, la quale non sembrava volerne sapere di smettere di piangere.

Che palle i sentimenti. Mia sorella non era altro che una stronza snob e altezzosa, lo era con chiunque, tutti tranne Maurizio. Con lui era solo una rammollita. Non solo: una rammollita paranoica.

Non c'era niente di diverso nel comportamento di Maurizio rispetto a due giorni prima, ovvero prima che partissimo per Milano, ma lei si era convinta, basandosi sul niente, che prima o poi lui l'avrebbe scaricata.

«Solo perché non sta tutto il giorno in casa attaccato alla cornetta del telefono a parlare con te non significa che non ti ami più» ripetei per la centesima volta.

«Ha detto che doveva andare perché aveva da fare. Cos'ha da fare di più importante che parlare con la sua ragazza che non vive più nella sua stessa città?»

«Praticamente di tutto!» esclamai. «Ha anche una sua vita, degli amici...»

«E delle amiche!» mi interruppe. «Lo so che ora che non ci sono più io gli salteranno tutte addosso.»

Alzai gli occhi al cielo. «Ok, probabilmente tu hai quest'impressione, questo timore, ma ti assicuro che non vanno tutte dietro a lui.»

Di certo non con quel taglio di capelli da tossico e quel modo strano di camminare, ma tali considerazioni preferii tenerle per me.

«E io come posso saperlo? Non sono più lì con lui, può succedere praticamente di tutto!» tirò su con il naso.

«Pensavo che alla base di ogni relazione ci fosse la fiducia reciproca.»

«Io mi fido di lui. Ma non di quelle ochette che gli ruotano sicuramente intorno.»

A quel punto iniziai a scaldarmi. Era da ore che provavo a farla ragionare, ma proprio non le entrava in testa niente. In più, non potevo credere che avesse una mentalità così chiusa e sessista. «Anche se fosse, che colpa avrebbero le altre ragazze? È lui il tuo ragazzo, è lui che non deve fare cazzate» le feci notare, inasprendo il tono.

«Certo. Penso solo che non sia da ragazza per bene andare a provarci con i ragazzi fidanzati.»

«Che motivo hai di pensare che qualcuna lo farebbe? Soprattutto se non l'hanno mai fatto fino ad adesso... In fondo se una non ha scrupoli, lo fa anche in tua presenza, no? E non è mai successo. Quindi ora smettila di frignare e mettiti il cuore in pace.»

«Ma perché devi essere sempre così dura e spietata, Nina?» mi rimproverò. «Ti atteggi con quest'aria da superiore solo perché non capisci quello che provo. Tu mi reputi una lagna, ma io non mi vergogno se piango, sai? Perché lo amo e ho paura di perderlo. È normale, ma tu non lo sai perché non hai mai provato niente di simile e non lo proverai mai, anaffettiva e apatica come sei!» esclamò, prima di alzarsi in piedi da terra, dove era stata fino a quel momento, e uscire dalla stanza, sbattendo la porta con veemenza.

Apatica e anaffettiva, certo. Eppure ero stata almeno due ore a cercare di confortarla, perché in fondo le volevo bene e mi dispiaceva vederla star male.

Ecco che dopo quella sua ultima scenata e le sue ultime parole, mi convinsi ancora di più di non volermi mai innamorare in tutta la mia vita.

L'unica nota positiva di tutta quella situazione era che Giovanni e Filippo se n'erano ormai andati, quindi potevo riprendere ad andare in giro per casa senza correre il rischio di incontrarli. Be', più che da Giovanni, era Filippo dal quale tentavo di nascondermi.

Mi accorsi che mia madre era tornata a casa da lavoro e si era diretta in cucina per preparare la cena. «Ciao, ma'» la salutai.

«Ciao, Nina. Che ha tua sorella? Vi ho sentite urlare e ora si è rinchiusa in bagno.»

Scrollai le spalle. «È un'isterica, ecco cos'ha. Deve darsi una calmata e smettere di pensare che il mondo giri attorno a lei.»

«Non è forse una cosa che credono tutti gli adolescenti?»

«Io non lo credo» affermai, incrociando le braccia al petto.

Mia madre mi guardò inarcando le sopracciglia e io non colsi il perché di quella diffidenza. «Che c'è? È vero. Io mi preoccupo per gli altri, non sono una stronza egoista come lei.»

«Nina, le parole» mi riprese e io roteo gli occhi. «Ora perché non finisci di sbucciare le carote mentre io vado a parlarle?»

Nemmeno mi diede l'occasione di replicare. Uscì dalla cucina, lasciandomi un coltello in mano e una montagna di carote da sbucciare.

Naturalmente. Benedetta come al solito se ne fregava di tutto e di tutti, passando le sue giornate a lagnarsi come una bambina, ed ero sempre io a rimetterci.

Sbuffai, e poi afferrai una carota e iniziai a sbucciarla. Pochi istanti dopo, Vittorio apparve sulla soglia della porta. «Ma che succede?» domandò, riferendosi alle urla di Benedetta che risuonavano per tutta la casa da interminabili ore.

«Ti dico solo che preferirei tagliarmi entrambe le orecchie con questo coltello piuttosto che stare a sentirla ancora mentre si lamenta» risposi e Vittorio ridacchiò.

«Ma cos'ha? Insomma, non ci ho parlato molto finora, quindi...»

«Il suo ragazzo, Maurizio, vive a Torino. E pensa che lui voglia lasciarla, oppure metterle le corna» spiegai in modo sintetico, mentre nel frattempo Vittorio afferrò un altro coltello per aiutarmi a sbucciare le carote.
Apprezzai il gesto, specie perché lo fece di sua spontanea iniziativa.

«Se non si fida di lui allora perché non lo lascia?»

«Già, appunto. Prova a farglielo capire.»

Vittorio sogghignò e rimase zitto, prendendo altre carote da sbucciare. Non sembrava avere una grande manualità nel farlo, infatti ci impiegava il doppio del tempo che ci mettevo io. «Dai, lascia stare, non c'è bisogno che mi aiuti» dissi allora.

«Sì che ce n'è bisogno. Siamo una famiglia, ognuno deve fare la sua parte.»

"Siamo una famiglia".

Come poteva ritenere normale una frase del genere? Ci conoscevamo a malapena da un giorno. A me non sarebbe mai venuto spontaneo ritenerlo parte della famiglia, non dopo così poco tempo se non altro.

«Comunque non sei capace a farlo, quindi se non vuoi rischiare di tagliarti le dita, forse dovresti lasciar fare a me.»

Sgranò gli occhi e inarcò le sopracciglia, tuttavia non posò il coltello sul tavolo e continuò per la sua strada. «Sei sempre così diretta?» domandò, e mi parve quasi offeso.

«Sì» risposi solamente, senza cercare qualsiasi tipo di giustificazione al mio comportamento. Ero fatta così e basta, non mi piacevano le mezze misure. Ripensandoci, tuttavia, capii che forse, non conoscendomi bene, agli occhi di Vittorio sarei potuta apparire scortese. «Facciamo che finisco io di sbucciare le carote e tu le tagli a fette, va bene? Poi mettile dentro quella scodella.»

Annuì e iniziò a fare come gli dissi. Poi calò il silenzio, che regnò sì e no due minuti, prima che venisse interrotto da Vittorio un'altra volta:«Domani pensavamo di andare a fare un picnic al parco, che dici?».

«Pensavamo? Tu e chi?» chiesi, sebbene una parte di me conoscesse già la risposta a quella domanda.

E lui non mi diede la soddisfazione di confermare la mia tesi, evitando di rispondere in maniera diretta. «Dai, sarà divertente. Se non sbaglio, dovrebbero esserci anche Monica e le altre ragazze.»

Sospirai, prima di passargli la carota che avevo appena finito di sbucciare. Trascorsi qualche istante a riflettere. In fondo non sarei stata sola come quel pomeriggio, ci sarebbero state anche le ragazze e avrei potuto ignorare Filippo con più facilità. «Va bene, ci sono» dissi e Vittorio sorrise, prima di alzare il palmo della mano in aria e puntarlo verso di me.

Lo fissai con la fronte corrucciata. «Che c'è?» domandai confusa.

«Dai, dammi il cinque!» esclamò. Ancora piuttosto disorientata, appoggiai il coltello sul tavolo e battei il palmo della mia mano contro il suo. «Perché questa roba?»

«Non hai mai visto l'NBA in tv?»

Scossi la testa. «Sarebbe?»

«Una lega di pallacanestro statunitense. I membri di una squadra, i Los Angeles Dodgers, si danno il cinque continuamente durante la partita, è come una sorta di modo per congratularsi con qualcuno per qualcosa che ha fatto.»

«Come fai a sapere tutte queste cose?»

«Guardo un sacco di televisione» rispose soltanto, prima di riprendere ad affettare le carote.

*

L'indomani mattina mi svegliai e mi catapultai giù dal letto piena di energie. Merito del non aver fatto assolutamente niente il giorno precedente e dell'essere andata a dormire a un orario decente.

Non mi era mai piaciuto svegliarmi tardi, avevo sempre la sensazione di perdere del tempo. Preferivo rinunciare a qualche ora di sonno piuttosto che perdermi delle ore durante il giorno passandole a dormire.

Così quella mattina mi svegliai prima di tutti, anche prima di mia madre e Claudio e, camminando in punta di piedi per stare attenta a non svegliare nessuno, mi diressi in bagno.

Tirai lo sciacquone e poi mi apprestai a fare il bidet, finché a un certo punto la porta del bagno, che a quanto pare avevo lasciato inavvertitamente socchiusa, si aprì di un piccolo spiraglio e non vidi entrare Giuseppe. «Un po' di riservatezza sarebbe gradita, palla di pelo e di lardo» commentai scocciata, mentre il gatto con uno scatto fulmineo salì sulla tazza del gabinetto e ci immerse il muso.

Gli rivolsi una smorfia di disgusto, nel momento in cui risollevò il muso e iniziò a leccarsi i baffi, prima di tornare a bere dal water.

«Fai davvero schifo, lo sai?» domandai, prima di alzarmi dal bidet e asciugarmi con un panno. Poi tirai su le mutande e i pantaloncini del pigiama e mi avvicinai al gatto. In maniera cauta, avvolsi le mie braccia attorno al suo corpicino e lo sollevai dal gabinetto, intenzionata a portarlo via da là. «Dio, quanto pesi!» esclamai, prima che lui mi soffiasse contro e si liberasse dalla mia presa, tornando a terra con un balzo e uscendo prontamente dal bagno.

Mi guardai le braccia e le vidi disseminate di graffi procurate da quel felino. Feci allora scorrere l'acqua del rubinetto sulle ferite, sentendo un lieve bruciore e maledendo dentro di me quel gatto insopportabile.

Dopodiché andai in cucina e iniziai a preparare la moka per fare il caffè. Mentre attendevo che fosse pronto, presi le fette biscottate e la marmellata.

Poco dopo, sentii dei passi approssimarsi alla cucina e a un certo punto spuntò Claudio. «Buongiorno» mi disse con un caloroso sorriso che io ricambiai. «Come mai già sveglia a quest'ora?»

Scrollai le spalle. «Ho preparato il caffè» dissi poi, avviandomi verso i fornelli e spegnendo il fuoco, notando che stava quasi per fuoriuscire. Poi mi alzai in punta di piedi e presi due tazzine dalla credenza.

«Alla tua età bevi già il caffè?» chiese sorpreso, prima di accettare la tazzina che gli stavo porgendo. Gli versai il caffè e poi feci lo stesso per me.

«È l'unica cosa che mi dà energie per affrontare la giornata» risposi. «Con o senza zucchero?» domandai poi.

«Senza, grazie» rispose. «Non credevo ce ne fosse bisogno a quindici anni» aggiunse, commentando quanto detto da me poco prima.

Sogghignai, prima di svuotare un'intera bustina di zucchero dentro il mio caffè e mescolare con un cucchiaino.

In effetti, ero già abbastanza pimpante di mio. Bere caffè amplificava le mie energie, ma spesso mi rendeva anche più nervosa e frenetica.

«Cosa c'era nella stanza che ora occupiamo io e mia sorella?» domandai, sedendomi al tavolo e iniziando a farcire una fetta biscottata con la marmellata di fragole.

Me l'ero chiesto da quando eravamo arrivate lì due giorni prima. Non poteva essere stata una terza camera da letto fin dall'inizio: se Claudio aveva solo un figlio, non ve ne sarebbe stato bisogno.

«Inizialmente era il mio studio. Poi, quando mio padre se n'è andato, per un po' mia madre è stata con noi, così da non dover rimanere sola tutto il giorno, e quella è stata la sua stanza. Poi quando ci ha lasciati anche lei, per un po' è rimasta vuota...»

«Mi dispiace» dissi solamente, facendo un sorso di caffè. Avrei pure voluto chiedergli che fine avesse fatto la madre di Vittorio, ma considerando la gaffe che avevo appena fatto, preferii rimanere zitta.

«Tranquilla, non potevi saperlo. Ormai poi sono passati tre anni...» Lasciò la frase in sospeso. «Come sta andando in questi giorni? Da quello che ho capito ieri, oggi vai anche te con Vittorio e i suoi amici, non è così?»

«Già» risposi secca.

Claudio parve accorgersi della mia poca convinzione. «Che c'è, non ti piacciono i suoi amici?»

«Non li conosco a tal punto da poter esprimere un parere.» Decisi di rimanere neutra, e Claudio si lasciò bastare quella risposta, senza inquisire ulteriormente.

Finito il suo caffè, si alzò dalla sedia e si diresse verso il lavabo per sciacquare la tazzina.

«Personalmente, quello che preferisco fra di loro è Filippo» disse e io per poco non scoppiai a ridergli in faccia. Pensare che era proprio quello che preferivo meno. «Non sembra, ma ha la testa ben salda sulle spalle, il che non è scontato, data la sua situazione...»

Feci per chiedergli a che si riferisse, ma nel momento in cui mi voltai nella sua direzione, mi accorsi che Claudio era già uscito dalla sua cucina. Pochi minuti dopo uscì anche di casa per andare a lavoro, così non feci in tempo.

Passai le ore successive in bagno a cercare di capire come acconciare i capelli. Per via di tutta quell'umidità, non stavano mai in ordine e si gonfiavano senza che riuscissi a dargli una forma. Inoltre erano ancora troppo corti affinché potessi provare chissà quali acconciature. Alla fine optai per due treccine, sebbene mi facessero sembrare una dodicenne.

Nel frattempo anche mia madre era andata a lavoro, Benedetta si era attaccata un'altra volta alla cornetta (stavolta a parlare con una delle sue amiche, presumibilmente sempre per chiedere di Maurizio) e Vittorio era andato in cucina a preparare lo zaino.

Una volta finito, più o meno, di sistemarmi i capelli, decisi di andare ad aiutarlo. Aveva già preparato della frutta, fra cui due mele e due banane, e ora si stava occupando di farcire i panini. «Va bene il crudo per te? O preferisci il cotto?» domandò.

«Sì, va bene qualsiasi cosa, non preoccuparti. Cos'altro ti serve?»

Si fermò un attimo per fare mente locale e capire cosa mancasse. «Un telo. Se apri l'armadio che c'è nell'anticamera, nel ripiano in alto dovrebbero esserci dei grossi teli. Prendine due per sicurezza, c'è sempre qualcuno che se lo dimentica.»

Annuii e feci come disse. Presi due teli e dopo averli piegati e ripiegati più volte, li infilai nello zaino, prima di assumere un'espressione scettica. «Non penso che ci starà tutta questa roba dentro lo zaino, questi teli occupano già quasi tutto lo spazio a disposizione. Non ne hai un altro?»

«Sì. In camera mia, sulla sedia, dovrebbe esserci il mio zaino di scuola. Non è grandissimo, ma ce lo faremo bastare.»

Mi diressi allora verso la sua stanza, e sbuffai non appena notai il gatto spaparanzato sulla sedia di Vittorio, sopra il suo zaino. Considerando i graffi che mi aveva lasciato quella mattina sulle braccia, non mi sembrava un'ottima idea quella di andare a spostarlo.

Mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa che potesse attirare la sua attenzione e farlo spostare di lì, e vidi appoggiata su una mensola una pallina di gomma. La presi e, dopo averla agitata davanti al gatto, la lanciai dall'altra parte della stanza. Giuseppe sollevò la testa per osservarla, e poi tornò a raggomitolarsi su se stesso.

Sbuffai nuovamente.

Non avendo altre idee, decisi di avvicinarmi al gatto e di iniziare a tirare i lembi dello zaino nel tentativo di sfilarglielo da sotto di quel deterano peloso. Allora Giuseppe si svegliò di nuovo e scese dalla sedia, non dopo avermi rivolto una delle sue occhiate minacciose. Recuperai lo zaino e lo portai a Vittorio in cucina.

«Eccolo, anche se è pieno di peli» dissi, iniziando a dare dei colpi con la mano sullo zaino per toglierne un po'.

«D'accordo, io ho quasi finito, quindi vai a vestirti.»

Entrai in camera mia e aprii l'armadio alla ricerca di cosa mettermi. Avrei voluto mettere una salopette, ma faceva troppo caldo, così alla fine scelsi dei pantaloncini di tessuto azzurri e una maglia a maniche corte bianca, abbinando il tutto a delle Superga del medesimo colore della maglia.

«Quei pantaloncini non sono miei?» chiese Benedetta, staccandosi un attimo dalla cornetta.

«No, macché» mentii, uscendo dalla stanza.

«Che schifosa bugiarda! Nina, togliteli subito!» esclamò, alzandosi in piedi e venendomi dietro. Mi afferrò per il braccio per fermarmi, ma mi liberai facilmente dalla sua presa con una gomitata. Dopodiché presi letteralmente la rincorsa per sfuggirle e uscire di casa.

Vittorio mi raggiunse un paio di minuti dopo e, dopo aver pigiato il tasto per chiamare l'ascensore e aver appoggiato i due zaini a terra, mi tirò una sberla sul braccio. Lo fissai sconvolta e pronta a restituirgli il gesto con il doppio della forza, ma mi fermai non appena parlò: «Scusami, ho promesso a tua sorella che l'avrei fatto. Era da parte sua. Anche se non so bene il perché» si giustificò.

Alzai gli occhi al cielo, prima di entrare in ascensore. «Mia sorella è egoista e possessiva, ecco perché» spiegai. «E tu sei un idiota» aggiunsi, restituendogli la sberla.

Non protestò. «D'accordo, me lo meritavo. Non mi metterò più in mezzo fra voi due e i vostri battibecchi» disse.

Poi notai che, invece che schiacciare il pulsante del piano terra, schiacciò sul -1. «Perché stiamo andando al -1?»

«Dobbiamo andare a prendere le bici in cantina. Oltre alla mia, ne ho una che avevo qualche anno fa, ma penso che per te possa andare bene, giudicando la tua statura e il resto.»

E il resto? Cosa stava a significare? Che avevo il corpo di una dodicenne? Probabilmente era così, ma era troppo sveglio per ammetterlo davanti a me, motivo per cui non entrò nei dettagli e si evitò un'altra botta sul braccio. «Comunque non avevo capito che saremmo andati in bici» dissi.

«Sì, così facciamo prima. È un problema?» domandò.

«In effetti c'è. Non sono capace di andare in bici» ammisi, sentendomi un poco a disagio.

Non avevo mai avuto una bici, solo un triciclo quando ero molto piccola, pertanto non avevo mai imparato.

«Davvero?» chiese sorpreso. Doveva suonare ridicolo alle sue orecchie, dal momento che tutti sapevano andare in bici, era il mezzo di trasporto per eccellenza usato dai giovani.

«Sì, e allora? Ci sono cose peggiori nella vita per cui scandalizzarsi!» esclamai, incrociando le braccia al petto. L'ascensore giunse a destinazione e io uscii frettolosamente.

«No, lo so, scusa... Comunque fa niente, ti porto io con la mia bici sul portapacchi» disse, andando a tirare fuori la bici dalla cantina.

Non sembrava di certo una sistemazione comoda, ma del resto era anche l'unica soluzione che avevamo. Misi uno degli zaini in spalla, e lo stesso fece anche Vittorio. Attesi che si sistemasse sulla sua bici e dopodiché mi sedetti sul portapacchi, stringendo le mani attorno alla sua vita per tenermi.

Furono i dieci minuti di viaggio più lunghi della mia vita, per via del fastidio, anzi, del dolore, che mi procurava stare in quella posizione. Alla fine Vittorio si arrestò e potei scendere da quell'aggeggio.

«Niente capelli in faccia stavolta, contento?» commentai e Vittorio annuì, ridendo.

«Tutto bene? Ogni tanto ti sentivo mentre ti lamentavi...»

«Sì, tutto bene, tranne per il fatto che penso di avere la griglia del portapacchi incisa permanentemente sul sedere» risposi, e stavolta risi anch'io insieme a lui.

Si perse qualche secondo a fissare qualcosa alle mie spalle, infine tornò a guardarmi, con un'espressione preoccupata. «Io, ehm... io dovrei dirti una cosa.» Si grattò il capo e si morse il labbro inferiore.

Aggrottai le sopracciglia. «Cosa?» chiesi. A giudicare dal suo tono, sembrava che temesse che a breve avrei perso le staffe.

Mentre attendevo una risposta, il mio istinto mi suggerì di voltarmi, alla ricerca di ciò che stesse fissando Vittorio come prima.

Così lo feci. Mi girai. E capii. E sì, persi le staffe.

 

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Capitolo 6
*** Quattro. ***


Quattro.

«L'hai fatto apposta, non è così?» domandai, montando su tutte le furie.

«Guarda che...»

«Sei un vigliacco!» esclamai interrompendolo.

«La vuoi smettere di urlare? Ci stanno sentendo tutti, non mi sembra che sia il caso di dare spettacolo.»

«Capirai quanto mi importa. Sai che ti dico? Ora me ne vado a casa.» Così mi voltai e diedi le spalle a Vittorio, soltanto per trovarmi Monica e Filippo a pochi centimetri di distanza.

«Ehi, Nina! Che bello che ci sei anche tu» esclamò la ragazza bruna, gettandomi le braccia al collo per abbracciarmi e darmi un bacio su entrambe le guance. Mi parve una reazione spropositata, considerando che ci eravamo viste una sola volta e ci eravamo parlate al massimo per dieci minuti.

Poi passò a salutare Vittorio nel medesimo modo.

Io e Filippo ci fissammo per qualche secondo, prima che lui si avvicinasse a me per salutarmi con un bacio sulla guancia, ma io arretrai: «Non provarci nemmeno» lo ammonii.

«Perché? Monica l'hai salutata. Che c'è, mi discrimini solo perché sono un ragazzo?» domandò. «Ha ragione mio padre: il Sessantotto vi ha dato alla testa, a voi donne.»

«Fai sul serio?» domandai sgranando gli occhi, pronta ad aggredirlo verbalmente di lì a breve.

«No» scosse la testa sorridendo.

Gli conveniva.

«Allora?» domandò poi il biondino.

«Cosa?» chiesi, non capendo cos'altro volesse da me.

Si picchiettò la guancia con l'indice, in attesa che lo baciassi dove indicato. «Non lo farò.» Incrociai le braccia al petto, stizzita.

«Come vuoi. Per inciso, si tratta di pura educazione.»

«Il saluto è educazione. E posso salutarti anche senza baciarti sulla guancia.»

«Come vuoi» scrollò le spalle. Poi sogghignò. «A dire il vero, mi va benissimo anche così. Senza neanche rendertene conto, ti ostini a trattarmi in modo diverso rispetto agli altri. Quindi non ti sono indifferente. Da qui a cadere ai miei piedi direi che è un attimo.»

Digrignai i denti e ridussi gli occhi a due fessure. Che sfrontato.

«Avete finito voi due? Sto morendo di fame!» esclamò Monica, che nel frattempo si era seduta sul telo insieme a Vittorio e stava tirando fuori dal suo zaino dei panini e dei tovaglioli.

Allora mi inginocchiai a terra e poi mi sedetti al fianco di Monica. Filippo si sedette invece di fronte a me, vicino a Vittorio. Si tolse lo zaino dalle spalle e tirò fuori una bottiglia di vino rosso e quattro calici di vetro.

«Hai davvero portato dei calici di vetro al parco?» domandò Monica, precedendomi.

«Avresti per caso voluto bere il vino dentro dei bicchieri di plastica?» rispose l'altro e nessuno ribatté, tranne me: «Hai davvero portato una bottiglia di vino? Se ci beccano...»

«Ne ho portate due, a dire il vero, da un litro e mezzo ciascuna» mi interruppe, iniziando a passare il calice a ciascuno dei presenti. «Se vuoi puoi sempre non bere.» Riflettei qualche secondo, e alla fine afferrai il calice, sebbene fossi ancora molto scettica.

Poi passò il suo bicchiere a Vittorio, per prendere il cavatappi dentro lo zaino e aprire la bottiglia. Il tappo di sughero rimbalzò sopra le nostre teste e finì per colpire la gamba di Monica.

Dopo aver versato un po' del contenuto della bottiglia in ciascuno dei nostri calici, e aver proceduto al rituale del "cin cin", facemmo tutti un sorso.

Io, così come anche Vittorio e Monica, storcemmo il naso. «Che roba è? Sa di aceto» esclamò Monica.

«Sa di vin santo» commentò Vittorio, e io mi chiesi come potesse conoscere il sapore del vino usato dai sacerdoti durante la messa.

«È della Conad, che volete?» domandò scocciato. «E se volete saperlo, mi è costato tutti gli spicci che avevo, quindi dovreste ringraziarmi.»

Non dicemmo nient'altro. Mi sforzai di finire il mio bicchiere e poi lo appoggiai in mezzo alle mie gambe per evitare che cadesse. Dopodiché aprii il mio zaino e tirai fuori i panini miei e di Vittorio. Essendo ancora arrabbiata con lui, praticamente glielo lanciai contro.

Poi volli verificare quanto sapessero gli altri due ragazzi del piano malato che aveva architettato. «Come mai alla fine gli altri non vengono più?» chiesi, ricevendo un'occhiata confusa da parte della ragazza al mio fianco.

«Gli altri chi?»

«Vittorio mi aveva detto che saremmo stati un bel gruppone, non un banale quartetto» risposi, fissandolo con gli occhi socchiusi.

«Boh, io non ne sapevo niente. L'altra sera alla festa Filippo mi aveva chiesto di uscire e poi ieri mi ha chiamato dicendo che aveva parlato con Vitto e che ci sareste stati anche voi due.»

Sembrava avere un'aria troppo innocente per essere in grado di mentire. Così trucidai nuovamente Vittorio con lo sguardo. L'aveva fatto apposta. Non voleva che Filippo uscisse da solo con Monica e sperava che, portandomi con sé, Filippo si sarebbe scollato da lei e si sarebbe appiccicato a me.

Non dissi nient'altro, eppure avrei voluto fare una bella scenata coi fiocchi.

Sapevo che Vittorio non aveva cattive intenzioni, ma invece che ingannarmi avrebbe almeno potuto dirmi la verità.

Mangiammo i panini in fretta, mentre il resto del tempo lo impiegammo a bere e bere e bere.

In fondo, se lo si beveva piano, non era poi così male quel vino. Peccato che fossi l'unica a berlo piano. Gli altri tre trangugiarono ogni bicchiere in pochi secondi, ed erano sempre in procinto di riempirselo ancora.

Sebbene fossimo a stomaco pieno, due di noi andarono su di giri con molta facilità: Vittorio e Monica. Di Vittorio ero sicura al cento per cento, sebbene lui continuasse a insistere sul contrario. Aveva il viso tutto rosso e l'aria persa. Su Monica avevo qualche dubbio. Sembrava più che altro che stesse fingendo.

«Mi gira tutto!» esclamò per la terza volta nel giro di due minuti.

«Magari dovresti smetterla di riempirti il bicchiere» le consigliò Filippo.

Lei sbuffò così forte da sollevarsi qualche ciocca di capelli in aria. Poi si alzò in piedi un po' barcollante, solo per sedersi di nuovo, con non molta grazia, in mezzo ai due ragazzi. Avvolse entrambe le braccia attorno alle loro spalle. «Perché dovrei smetterla? Sto alla grande!» esclamò, prima di staccarsi da Vittorio e avvolgere entrambe le braccia attorno al collo di Filippo. «Dai, Filo, versamene un altro po'» disse con voce suadente.

«Sì, perché no? Così dopo mi puoi vomitare sulle scarpe proprio come hai fatto due settimane fa.»

La ragazza roteò gli occhi, prima di protendersi in avanti per prendere la bottiglia di vino che era appoggiata alla destra di Filippo. Ne versò qualche goccia, prima di rendersi conto che la bottiglia era vuota.

«Apri la seconda» disse a Filippo, tornando ad avvolgere le braccia attorno al suo collo. «Era questa la seconda» rispose il ragazzo, prima di passare di soppiatto il suo zaino a Vittorio, che lo nascose senza obiettare, come un vero e proprio complice.

Non era vero che era la seconda bottiglia, ma Monica parve crederci lo stesso. Continuò a rimanere vicina al viso del ragazzo, il quale la fissava con un mezzo sorriso. «Allora potresti darmene un po' del tuo. Dai, ti prego» disse simulando una voce da bambina.

Filippo fissò il contenuto del suo calice, prima di prenderlo e iniziare a berlo. Monica lo fissò con le sopracciglia aggrottate e lui scrollò le spalle con fare menefreghista.

Per qualche strano motivo, Filippo non aveva mandato subito giù il vino ma lo stava trattenendo dentro la sua bocca, forse per farle pesare maggiormente il fatto che ormai non c'era niente da fare. La ragazza però non si diede per vinta e baciò Filippo davanti gli occhi sbalorditi miei e di Vittorio, oltre che di Filippo stesso.

Occhi sbalorditi che divennero colmi di disgusto non appena Monica fece sì che il biondino aprisse la bocca per potergli sottrarre il vino che conteneva. Inutile dire che il risultato fu fallimentare e vomitevole da guardare, dato che Filippo sputò il vino, macchiando la sua maglia e quella di Monica. Si passò una mano sulle labbra per pulirsi. «Moni, dai, che schifo!» esclamò, mentre la ragazza scoppiò a ridere e tornò a baciarlo, senza venire ostacolata da lui.

Mi voltai istintivamente verso Vittorio, che ritraeva alla perfezione l'immagine della sofferenza e della delusione.

Il suo piano sembrava aver fallito miseramente. Mi dispiaceva vederlo stare così. Sembrava quasi sul punto di piangere, probabilmente ciò che provava in quel momento era anche amplificato per via dell'alcol.

Così mi feci venire in mente qualcosa in fretta. Mi alzai in piedi, lamentando un lieve e breve capogiro, e afferrai lo zaino di Filippo che Vittorio aveva nascosto. Lo aprii e tirai fuori la seconda bottiglia di vino. «Ehi, guardate! Ce n'è un'altra!» urlai, appositamente per farmi sentire da quei due piccioncini. Ebbi successo, infatti posero fine a quello spettacolo penoso e mi degnarono della loro attenzione.

«Sì, che bello!» esclamò Monica, facendo per prendermi la bottiglia dalle mani, ma non glielo permisi.

Filippo invece mi guardò torvo, per aver svelato la sua menzogna. Come se mi importasse.

«Dai, un goccino» insistette Monica, e stava iniziando davvero a starmi sulle scatole. Un'altra parola e le avrei risposto per le rime.

«Io e Filippo al contrario di voi due non siamo ancora alticci. Non sarebbe equo, non vi pare?» domandai rivolta a tutti i presenti.

Filippo mi diede ragione, prendendo la bottiglia dalle mie mani per aprirla con il cavatappi. Mi voltai allora verso Vittorio, ancora immerso nella sua desolazione. I suoi occhi verdi così spenti parlavano chiaro, mi chiesi quindi come mai me ne fossi accorta io e non Filippo, il quale, da ciò che avevo capito, era il suo migliore amico.
Allora mi avvicinai a lui afferrandolo per i capelli: «Smettila di fare il depresso e animati, mi hai capito?» sussurrai, non ammettendo repliche.

«A che pro?» ribatté e io gli tirai una sberla sulla nuca.

Non reagì, nemmeno per dire "ahia!", così gliene tirai un'altra. «Beve anche lui!» annunciai allora.

«E io?» si inserì Monica nel discorso.

«Magari dopo, se avanza qualcosa» si intromise Filippo.

Poi passò a me e Vittorio i due calici colmi di vino. Aveva riempito tutti e tre i bicchieri fino all'orlo.

«Alla goccia?» domandò Filippo e non sapevo se fosse una buona idea. Anzi, sicuramente non lo era. Era però anche vero che, dopo tutte quelle ore sotto al sole, il vino stava ormai diventando caldo, quindi ci conveniva finirlo il prima possibile, piuttosto che rischiare di doverlo buttare.

Allora annuii, e lo stesso fece Vittorio.

Così feci un grosso sorso e buttai giù tutto il liquido contenuto nel calice. Deglutii a fatica, tanto che sentii gli occhi cominciare a diventarmi lucidi, tuttavia non rifiutai un secondo giro, che buttai giù velocemente quanto il primo.

Ecco che anche la seconda bottiglia terminò in men che non si dica. Rimase solo il contenuto di un quarto di calice, che fu finito da Monica.

La situazione iniziò a cambiare drasticamente anche per me. Cominciai a ridere senza sosta per qualsiasi cosa, fino a finire stesa supina sul telo, occupando gran parte dello spazio a disposizione.

Purtroppo non riuscii nel mio piano. Infatti, Vittorio, se possibile, si incupì ancora di più: nulla da fare insomma, gli era salita male.
Filippo, invece, sembrava solo leggermente allegro. Com'era possibile che un ragazzino della nostra età reggesse così tanto bene l'alcol?

A un certo punto, mi imitò e si stese di fianco a me. Me lo ritrovai a pochi centimetri dal mio viso. «Spostati» dissi voltandomi verso di lui.

«Spostami» mi sfidò.

Non me lo feci ripetere due volte. Iniziai a premere entrambe le mani sul suo braccio per allontanarlo da me, tuttavia non lo spostai nemmeno di mezzo centimetro. Così sbuffai, infastidita, e feci per alzarmi in piedi: dal momento che lui non si sarebbe spostato, l'avrei fatto io.

Tuttavia persi l'equilibrio e cascai come un sacco di patate sopra di lui, tirandogli per sbaglio una gomitata dove non avrei mai pensato.

«Ah, le palle!» esclamò con la voce soffocata, portandosi le mani sotto il bacino.

Sollevai il mio peso e tornai seduta, solo per vederlo totalmente pietrificato. Rimase immobile per diversi secondi, forse anche minuti.

Non potei fare a meno che scoppiare a ridere fragorosamente, seguita anche da Vittorio e Monica.

«Lo trovi divertente?» domandò una volta dopo essersi ripreso, sollevando il busto e sedendosi come me.

«No, rido perché mi dispiace troppo. Guarda, ho anche le lacrime» risposi, asciugandomi le lacrime che mi erano scese dagli occhi a causa delle risate e lui mi fissò in cagnesco.

«Tanto prima o poi avrò la mia rivincita» disse con così tanta convinzione che non potei far altro che ridergli in faccia un'altra volta.

Aspettammo poi che Vittorio finisse di fumare la sua ultima sigaretta, dopodiché iniziammo a prepararci per andare.

«Che ore si saranno fatte?» chiese Monica, prima che le facessimo notare che era l'unica ad avere un orologio al polso. «Ah, già. Sono quasi le sei» lesse e spalancai gli occhi: «Di già? Non è possibile che siamo qui da più di cinque ore!» esclamai.

Filippo allora le afferrò il polso per controllare. «Ha letto male, sono quasi le sedici» spiegò, e sembrò avere più senso.

Una volta dopo aver buttato nel cestino le carte di alluminio in cui erano avvolti i panini, i tovaglioli, i torsi delle mele e le bucce delle banane e infine le bottiglie vuote di vino, ripiegammo i teli in cui eravamo stati seduti fino a quel momento dopo averli sbattuti con decisione per ripulirli dai fili d'erba e dalla terra.

Filippo fece per infilare con cautela i calici di vino nel suo zaino, ma si fermò e invece tirò fuori un pallone da calcio. «Cavolo, mi ero dimenticato di averlo portato! Partitella?» chiese rivolto a Vittorio, ma ricevette un no secco da parte mia.

«Siete venuti a piedi voi due?» chiesi poi e Filippo annuì.

«Bene. Allora Vittorio può accompagnare Monica a casa» dissi.

«Perché?» chiesero i tre all'unisono.

«Perché abita in zona Barona, davvero volete che cammini fino a lì? Neanche si regge in piedi.»

«Non so a Torino, ma a Milano esiste la metro» disse Filippo. «L'abbiamo presa anche all'andata.»

«No, non c'è la metro a Torino, la stanno ancora costruendo» risposi guardandolo torva. «Comunque in bici ci mette di meno» insistetti poi. «E poi almeno anche Vittorio smaltisce, non può tornare a casa e farsi vedere da suo padre così» mi inventai, prima di scambiarmi un'occhiata complice con il mio nuovo coinquilino.

«Sì, ha ragione» disse. «Vieni, Monica, andiamo» disse alla ragazza bruna, prima di tirare su la sua bici da terra. Ci salutarono e iniziarono ad andare.

«E tu come torni?» domandò Filippo, incrociando le braccia al petto.

«A piedi, forse? Cairoli è a due passi» risposi, iniziando ad avviarmi verso l'uscita del parco.

«È da quest'altra parte che devi andare» mi informò. Quindi mi fermai e cambiai direzione. Poi mi arrestai un'altra volta e tornai indietro fino a raggiungere Filippo. «Lo sai, invece che fare tanto il saputello, perché non taci e non vieni con me?»

Lo presi per mano e iniziai a camminare a passo spedito, trascinandomelo dietro. Rimanemmo in silenzio tutto il tempo necessario per uscire dal Sempione e ringraziai il Cielo per quel regalo. Non avevo alcuna intenzione di parlare con lui, volevo solo arrivare a casa al più presto.

«Era a questo che puntavi tutto il tempo?» mi giunse la sua voce da lontano a un certo punto. «Potevi dirlo subito invece che montare su tutto questo teatrino.»

«Che vorresti dire?» chiesi, non accennando a smettere di camminare.

Lui però si fermò e inchiodò a terra, tirandomi verso di lui affinché facessi lo stesso. Senza volerlo, finii a poca distanza dal suo viso, motivo per cui indietreggiai prontamente. «L'hai fatto perché volevi rimanere da sola con me» disse, intrecciando le mie dita alle sue e impedendomi di liberarmi dalla sua presa.

«Se fossi meno sfacciato e pieno di te sapresti che non è così» sputai.

«Ah no?» chiese inarcando le sopracciglia e avvicinandosi vertiginosamente a me. Il suo alito sapeva di vino e i suoi capelli odoravano di fumo, e fra i due non doveva essere il solo ad avere quell'odore.

L'idea di puzzare così tanto mi turbava, avrei fatto una doccia non appena arrivata a casa e mi sarei lavata i denti almeno tre volte.

Comunque aveva dei bei lineamenti. Gli occhi erano grandi e di un azzurro cristallino. Le guance erano rosate in maniera quasi innaturale, tanto da dare l'impressione che fosse truccato. E poi aveva quella fossetta che spuntava solo sulla guancia destra quando sorrideva o sogghignava, come in quel momento.

«Allora visto che sono troppo sfacciato e da solo non ci arrivo, illuminami. Carine queste treccine, comunque» disse, tirandomi una delle due trecce.

A quel punto mi riscossi. Mi ero letteralmente incantata.

«Non mi toccare» lo ammonii, distanziandomi da lui. «Da quanto tempo tu e Vittorio siete amici?» domandai.

«Non siamo amici, siamo fratelli. Ci conosciamo da una vita.»

Mi stupì quella risposta, dal momento che era in netta contraddizione con ciò che gli dissi poco dopo: «Allora come hai fatto a non accorgerti che ha una cotta per Monica?» chiesi e lui parve sorpreso da quella dichiarazione.

Lasciò andare la mia mano. «No, che dici?»

«Dai, è palese che sia così! E tu da bravo amico cosa fai? Prima la inviti a uscire e poi la baci davanti a lui.»

«Mi ha baciato lei» mi corresse.

«Che differenza fa?»

«Fa differenza, perché a me lei non piace. Cioè, siamo amici, niente di più» spiegò.

«Allora perché le hai chiesto di uscire?»

«Non l'ho fatto mica con qualche fine strano. Altrimenti non avrei permesso a te e Vitto di mettervi in mezzo e venire con noi oggi. Avrei fatto in modo che rimanessimo soli.»

«Vittorio invece pensa di sì. Perché diavolo non vi parlate voi ragazzi? Non ti sei chiesto perché fra tutte le persone che avrebbe potuto invitare, abbia portato proprio me, che vi conosco appena? Non era un caso che fossimo solo noi quattro.»

Filippo corrucciò la fronte e rifletté qualche secondo tenendo lo sguardo rivolto verso il basso. Poi lo risollevò e lo puntò sui miei occhi. «Ma certo! Pensava di fare un favore a entrambi. L'appuntamento, se così vogliamo chiamarlo, fra me e Monica sarebbe sfumato, e poi io... cioè tu... sì, insomma, ora ho capito.»

«Bene. Mi fa molto piacere. E se tieni a lui, allora non farlo soffrire. D'ora in poi, cercate di parlare più spesso» mi raccomandai. «E non intendo parlare delle solite cagate, ma dei vostri sentimenti.»

Scoppiò a ridere. «Parlare dei miei sentimenti? Lo farei solo se fossi una stupida ragazzina oppure una checca.»

Non seppi contenermi. Sollevai il braccio e feci per tirargli uno schiaffo, ma lui mi afferrò la mano con degli ottimi riflessi e me la portò lungo i fianchi. «Non provare a farlo mai più» mi ammonì e quasi mi spaventò la gravità del suo tono e la durezza dello sguardo che mi riservò.

Ma comunque non mi sarei fatta mettere i piedi in testa da lui né da nessun altro.

«E tu non dire mai più una cosa del genere.»

«Cosa? Stupida ragazzina oppure checca? Da quale dalle due ti senti tirata in causa?» domandò, prima di ridere della sua stessa battuta.

Era ritornato improvvisamente calmo, il solito sbruffone di sempre.

Non volli sprecare ulteriore fiato per lui e le sue baggianate, pertanto ripresi a camminare.

Per mia fortuna non insistette per ricevere una mia risposta.

«Però, cammini in fretta» disse, giungendo al mio fianco, prima che io accelerassi ancora il passo e lo lasciassi indietro. «D'accordo. In effetti non mi dispiace questa vista, di certo meglio di quel visetto antipatico.»

Non appena capii a cosa alludesse con quelle parole, non ce la feci più a trattenermi. «Come ti permetti di parlarmi così? Razza di vile screanzato, vergognati!» esclamai a un centimetro dal suo viso.

«Rilassati, peperino, o quella vena che hai sulla fronte potrebbe esplodere.»

«Vattene. Ci torno da sola a casa.»

«Certo, magari domani mattina dopo aver fatto il giro della circonvallazione sette volte» fece sarcastico. «Non sai neanche dove andare.»

«A te che importa?» domandai esasperata. Non ne potevo più di quelle sue risposte provocatorie, dette apposta per istigarmi.

«Molto poco, in realtà. Mi hai chiesto te di accompagnarti, ricordi?»

«Ora ho cambiato idea, quindi puoi andare. Ciao» dissi, facendogli il saluto con la mano.

«Mica l'ho fatto per te. Ho accettato di accompagnarti solo perché non ho voglia di tornare subito a casa.»

«Allora vai a farti un giro e tornaci quando cavolo vuoi. Ma non seguirmi più.» Gli diedi le spalle e attraversai la strada, sperando che il mio istinto non mi ingannasse e che mi ricordassi bene la strada.

«Ci vediamo domani, peperino?» chiese dall'altra parte della strada. «Lo prendo come un sì» disse, mentre io proseguii a ignorarlo.

 

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Capitolo 7
*** Cinque. ***


Cinque.

Attesi almeno una ventina di minuti che Vittorio ritornasse a casa. Non appena lo vidi arrivare in lontananza, sospirai di sollievo e mi alzai in piedi dal bordo del marciapiede sul quale mi ero seduta. «Eccoti, finalmente!» esclamai, andandogli incontro. «Come mai ci hai messo così tanto?»

«E come mai non hai citofonato invece che aspettarmi? Tua sorella non è mica in casa?»

«L'ho fatto. Trentasei volte. Ma mia sorella non mi ha sentito, sicuramente sarà rinchiusa in camera come suo solito.»

«A proposito, devo dire a mio padre di andare dal ferramenta per duplicare le chiavi, così non dovrete dipendere sempre da me o da lui ogni volta che uscite» disse, prima di tirare fuori il suo mazzo di chiavi e aprire il portone.

Entrammo in ascensore e calò subito il silenzio, che io interruppi prontamente. «Allora? Hai intenzione di raccontarmi qualcosa oppure no?» chiesi, citando le sue stesse identiche parole del giorno precedente.

Sospirò amaramente, appoggiandosi alla parete dell'ascensore. «Che cosa vuoi che ti dica? Eri presente anche tu... Cosa ne pensi?»

«Innanzitutto penso che tu debba smetterla di atteggiarti da sfigato. Davvero, piantala. E togliti quell'espressione da cane bastonato.»

Sgranò gli occhi, colpito ancora una volta dalla mia durezza.

«Vorresti davvero dirmi che in quest'arco di tempo in cui siete rimasti da soli, non è stato fatto nessun passo avanti?» chiesi poi.

«Non so nemmeno cosa intendi per "passo avanti". Dimmi, cos'avrei dovuto fare?» fece e, a giudicare dalla sua espressione, non era una domanda fatta tanto per: non aveva davvero idea di come muoversi.

Mi portai una mano alla fronte e scossi la testa. Poi pensai a come diavolo fosse possibile che due individui completamente opposti come Filippo e Vittorio fossero davvero migliori amici da una vita. Non c'entravano niente l'uno con l'altro.

«Davvero me lo stai chiedendo? Cosa pensi che ne sappia io di corteggiamenti?»

L'ascensore giunse a destinazione. Uscimmo sul pianerottolo e ci dirigemmo davanti la porta di casa. «Ho l'impressione che anche se sapessi cosa fare, non servirebbe a nulla. Semplicemente non le piaccio, ecco» si impuntò, dopo aver inserito la chiave nella serratura della porta per aprirla. Incontrò un po' di difficoltà nel svolgere quell'operazione fatta centinaia di volte nel corso della sua vita al punto da diventare meccanica, motivo per cui alla fine estrasse la chiave e girò semplicemente il pomello della porta, aprendola.

«Merda, l'avevo lasciata aperta quando siamo usciti questa mattina. Come ho fatto a dimenticarmi di chiuderla?»

Entrammo e appoggiammo gli zaini a terra.

«Non lo so, ma speriamo in bene» risposi, guardandomi intorno per verificare che tutto fosse al suo posto.

«Oggi proprio non me n'è andata una per il verso giusto!»

«Ancora con l'autocommiserazione?» lo rimbeccai, cominciando a perdere la pazienza.

«Filippo non ha fatto assolutamente niente, eppure guarda: lui l'ha baciata e io ero lì a guardare!» esclamò, richiudendo la porta a chiave e lasciandosi sprofondare sul divano.

Mi misi davanti a lui, ponendo le mani sui fianchi per darmi una certa autorità. «Allora non stare più a guardare e agisci. Devi avere più autostima. Le persone guardano Filippo e vedono un ragazzo sicuro, che sa quello che vuole - cioè, io a dire il vero lo reputo un pagliaccio, ma su qualcuno dovrà pur fare il suo effetto. Poi guardano te e... e vedono un topolino spaventato che si rifugia nella sua tana, ma ciò non significa che tu sia da meno rispetto a lui. Basta solo smetterla di nascondersi nell'ombra e far uscire il tuo potenziale.»

«Tanto a voi ragazze interessano solo i bei tenebrosi come lui» brontolò.

Roteai gli occhi. «Smettila di generalizzare.» Poi andai a sedermi di fianco a lui. «Mi spieghi cosa pensavi di ottenere da quest'uscita a quattro? Non che fosse tanto male come idea, - ah, guai a te se mi metti in mezzo un'altra volta - peccato che poi ti sei fermato e hai lasciato che le cose seguissero il loro corso: se ti fossi dato più da fare, magari avresti ottenuto qualcosa.»

«Ti rendi conto che sottolineare continuamente i miei errori e la mia mancanza di intraprendenza non mi fa sentire meglio ma produce solo l'effetto contrario?»

«Non sono mai stata brava a consolare le persone» dissi, stringendomi nelle spalle.

«Sì, me ne sono accorto.»

Il mio concetto di consolare qualcuno, invece che riempirlo di parole confortevoli, era più che altro cercare di spingerlo a ragionare.

«Sei priva di empatia» aggiunse.

«Come prego?» domandai sorpresa.

Come poteva dirlo? Se non mi fosse dispiaciuto per lui, non avrei perso quegli ultimi quindici minuti a cercare di tirarlo su di morale.

«Tu non capisci quello che provo. Non riesci a immedesimarti. Mi rimproveri per i miei comportamenti ma non ti chiedi a cosa siano dovuti.»

Era ciò che mi aveva detto anche Benedetta. Erano già in due a dirmelo. Che fosse vero?

In effetti era così. Io non lo capivo. Non riuscivo a capire ciò che provavano, perché non mi ero mai trovata in una situazione simile. Non ero mai stata innamorata, non ero mai stata neanche lievemente interessata a qualcuno in quel senso, perciò non sapevo fino in fondo che cosa si provasse.

Avevo sempre pensato che quello fosse il mio punto di forza, ciò che mi permetteva di rimanere coerente con me stessa e vedere in faccia la realtà. E se invece fosse stato il tassello mancante nella mia vita? Ciò che mi impediva di comprenderla appieno, di comprendere gli altri.

Be', comunque sempre meglio che ridurmi come loro due e tutti gli altri.

«Allora forse stai chiedendo aiuto alla persona sbagliata» dissi fredda, prima di alzarmi dal divano e dirigermi in camera mia. Ero già pronta a sbraitare contro mia sorella per non aver risposto al citofono ma, con mia grande sorpresa, non la vidi nella nostra stanza.

Andai allora a controllare in bagno, ma non era neanche lì. Uscii allora in terrazzo e mi affacciai per vedere se magari in preda ad uno dei suoi deliri si fosse buttata giù.

Nulla. Doveva essere semplicemente uscita di casa, magari era andata a fare un giro del quartiere.

Certo, non era stata un'idea proprio geniale la sua, quella di uscire di casa senza dire niente a nessuno e lasciando la porta aperta. Ci era andata fin troppo bene che non erano entrati i ladri, specie per il fatto che eravamo a metà agosto e i furti in casa accadevano più di frequente in quel periodo dell'anno.

Infine andai a farmi quella meritata doccia, per togliermi quell'odore misto fra fumo, vino e sudore di cui avevo impregnati i capelli e i vestiti.

Mi trattenni il più del dovuto sotto il getto, poiché a un certo punto mi persi fra i miei pensieri.

Nel momento in cui chiusi il getto della doccia per uscire, il frastuono causato dall'acqua si arrestò e venne sovrastato dalle urla di mia madre.

«No che non sto calma! Dove diavolo è?» continuava a ripetere, mentre Claudio cercava di convincerla ad abbassare la voce.

Uscii dalla doccia e mi avvolsi il telo attorno al corpo. Mi avvicinai alla porta del bagno e tesi l'orecchio per capire cosa stesse succedendo. Eravamo in quella casa da meno di una settimana e mia madre e Claudio stavano già litigando?

«Sei sicuro di non averla vista dopo questa mattina?» chiese mia madre.

«No, pensavamo fosse chiusa in camera sua come al solito» rispose Vittorio.

Capii allora che si stavano riferendo a Benedetta. Abbassai la maniglia della porta per aprirla e uscire dal bagno. Le loro voci provenivano dal salotto. Corsi in camera mia e mi cambiai il prima possibile prima di raggiungerli.

Mia madre non era solo preoccupata, era terrorizzata, e non capivo il perché. «Che succede?» domandai con nonchalance.

«Tua sorella è scomparsa!» esclamò, passandosi le mani fra i capelli, in preda alla disperazione.

Non capivo il motivo di tutto quell'allarmismo. «Che dici? Sarà solo uscita...»

«Sono quasi le sette, Nina, e non è ancora tornata! E se si fosse persa? E se le fosse successo qualcosa? Inoltre com'è possibile che nessuno di voi due sapesse niente?»

Perché ero io a dovermi sorbire un rimprovero se era Benedetta che era uscita senza dire nulla a nessuno e, per giunta, lasciando la porta di casa aperta?

«Fino a stamattina era in casa. Dev'essere uscita dopo che io e Vittorio siamo andati al parco» spiegai, scrollando le spalle e incrociando le braccia al petto.

«E quando siete tornati e non l'avete vista in casa, non avete pensato di avvisarmi?»

Alzai gli occhi al cielo. «Da quando sono responsabile di lei e dei suoi spostamenti? Ha quasi diciott'anni, saprà badare a se stessa anche meglio di me» dissi.

«Ma com'è possibile che sia uscita senza avvisare e che non sia ancora tornata? Non capisco davvero cosa le prenda in questo periodo...»

«Certo, come potresti?» mi lasciai sfuggire.

Mia madre mi guardò con gli occhi sgranati e confusi. «Che vorresti dire, Nina?» domandò, incrociando a sua volte le braccia al petto.

Mannaggia a me e alla mia linguaccia.

A quel punto Vittorio e Claudio parvero sentirsi di troppo, infatti ci diedero le spalle e andarono altrove, lasciando me e mia madre da sole.

Rimasi in silenzio, mordendomi letteralmente la lingua per evitare di rispondere. Tentai di sopportare il dolore in silenzio.

«Marina» mi esortò.

Aveva ragione. Non potevo gettare il sasso e poi nascondere la mano. Dovevo parlare. «Che tu non ci sei mai, mamma!» esclamai dunque. «Mi dispiace, ma è come se a volte ti dimenticassi che siamo adolescenti e abbiamo ancora bisogno di te. Siamo da sole tutto il giorno, dalla mattina alla sera, se non in rare occasioni. Ogni volta che c'è un problema, dobbiamo risolvercelo da sole. Sembra che ti interessi a noi solo quando... solo quando non ce la facciamo più, quando è evidente che qualcosa non vada e siamo sul punto di crollare o perdere il controllo!» esclamai. «Magari se ci ascoltassi, eviteremmo di tenerti nascoste le cose o fare follie come quella di Benedetta.»

Lo sguardo dipinto sul volto di mia madre mi fece sentire terribilmente in colpa. Ferirla era l'ultima delle mie intenzioni, eppure era evidente sul suo viso la sofferenza, ed ero io, o meglio, le mie parole, la causa del suo malessere.

Mi sentii un'ingrata. Per anni aveva fatto di tutto per me e Benedetta, aveva cercato di esserci per quanto le fosse possibile, e io le stavo rinfacciando la sua assenza, proprio come i miei nonni avevano fatto per anni e anni.

Ci avevo provato per anni a capirla, mi ero detta mille volte, ogni qualvolta sentivo la sua mancanza, che ciò che faceva non lo faceva solo per lei, ma anche per noi. Mi ero ripetuta che aveva avuto un grande coraggio e una grande forza, che di donne come lei ce n'erano poche al mondo: era stata capace di rifarsi una vita, invece che accettare di farsi schiacciare e demolire giorno dopo giorno da un matrimonio infelice, era stata capace di ottenere la propria indipendenza economica trovando un lavoro per mantenere se stessa e le proprie figlie, era stata capace di non chiudere definitivamente le porte all'amore nonostante la volta precedente non fosse andata come sperava.

Credevo davvero a tutto ciò con tutta me stessa e capivo le sue scelte, ma forse anch'io avevo bisogno di essere capita.
Per la sua felicità, io e mia sorella avevamo dovuto rinunciare a molte cose, la nostra vita era stata stravolta da un momento all'altro. Era stato facile quando ci eravamo trasferite a Torino otto anni prima, in fondo eravamo piccole, l'avevamo seguita senza nemmeno sapere cosa stesse accadendo.

Ma non eravamo più delle bambine. Eravamo consapevoli, sapevamo bene ciò che ci lasciavamo indietro, e lei non si era mai chiesta se fossimo disposte a farlo, non si era posta nemmeno posta il problema.

«Nina, io non sapevo che... insomma, non pensavo...» Mia madre era a dir poco a corto di parole, e mi spezzava il cuore vederla in quel modo.

Avrei voluto dire qualcosa per confortarla, ma non credevo di esserne capace. A detta di alcuni, non ero una persona empatica.

A un tratto poi, a fronte di tutte quelle riflessioni, ebbi un'illuminazione. Spalancai la bocca ed esclamai: «È andata a Torino».

 

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Capitolo 8
*** Sei. ***


Sei.


Come avevamo fatto a non pensarci prima? Era ovvio. Era da mesi che Benedetta ripeteva che alla prima occasione se ne sarebbe andata e sarebbe tornata dal suo Maurizio. E l'aveva fatto davvero.

Così accecata dall'amore da commettere la più ordinaria fra le follie compiute in nome dell'amore: scappare.

Quella notte non riuscii a prendere sonno neanche volendoci mettere tutto l'impegno del mondo. Non riuscivo a smettere di pensarci. Era la prima volta in tutta la mia vita che dormivo in una stanza senza Benedetta. Se per anni non avevo sognato altro che avere una cameretta solo per me, in quell'istante in cui il mio sogno si era trasformato in una realtà concreta, ero tutto tranne che felice.

Avevo paura.

Avrebbe realmente potuto accaderle qualcosa. Milano era pericolosa, specie di notte, specie in luoghi poco raccomandabili come la Stazione Centrale, pieni di malintenzionati. L'ipotesi più plausibile, o meglio rassicurante, era infatti quella secondo la quale aveva preso il treno. Ma c'era anche un'ipotesi peggiore: che avesse deciso di andare a Torino in autostop. Era terrificante anche solo l'idea, eppure non riuscivo a pensare ad altro ormai da ore.

Non avevamo neanche avuto modo di sapere se ci fosse effettivamente arrivata a Torino. I nostri nonni avevano detto che non era andata a casa loro, e avvertendoli della sua scomparsa, li avevamo anche fatti preoccupare. Non avendo poi il numero del telefono di casa dei genitori di Maurizio, non avevamo potuto contattarli.

Così, mia madre e Claudio, dopo aver telefonato ai miei nonni, si erano diretti alla stazione e, nel peggiore dei casi, sarebbero andati direttamente a Torino a cercarla.

Considerando che era ormai notte fonda e non erano ancora tornati, ipotizzai che fosse proprio lì che si erano diretti.

Dopo essermi rigirata per l'ennesima volta nel letto, mi alzai dal letto e uscii dalla mia stanza. Meditai qualche istante sul da farsi, infine mi diressi verso la camera di Vittorio.

Aprii la porta e lo vidi sdraiato a pancia in su con l'addome scheletrico scoperto, con il lenzuolo ai piedi e il gatto raggomitolato al suo fianco.

«Vittorio, sei sveglio?» chiesi. Era ovvio che non lo fosse, ma mi sembrava comunque doveroso fare un tentativo prima di svegliarlo malamente.

Mi inginocchiai infatti sul lato sinistro del letto e iniziai a scuoterlo dapprima con leggerezza e successivamente, dopo aver constatato che non era sufficiente, con maggiore decisione. Ebbe un piccolo spasmo e poi si girò sull'altro fianco.

Alzai gli occhi al cielo. Sembrava essere tutto inutile.

Poi la mia attenzione fu attirata dalle vibrazioni rumorose provenienti dal felino rossiccio nella stanza. Forse Giuseppe non era del tutto privo di uno scopo nella vita. Mi avvicinai a lui e lo presi in braccio, prima di tornare affianco al ragazzo dormiente. Come prevedibile, il gatto cominciò a soffiarmi contro e a cercare di dimenarsi, così lasciai semplicemente andare la presa su di lui, assicurandomi che cadesse addosso a Vittorio impiantando gli artigli sul suo corpo per non perdere l'equilibrio.

Vittorio sollevò il busto d'improvviso e cominciò a urlare. Il gatto balzò in aria, soffiò e dopodiché scattò fuori dalla stanza alla velocità della luce. «Wow, è proprio vero che questi mostriciattoli pelosi atterrano sempre in piedi» constatai. Vittorio si accorse allora della mia presenza alla sua destra e urlò spaventato una seconda volta.

«Smettila di urlare!» esclamai. «Vuoi forse svegliare i vicini?»

Vittorio si alzò prontamente in piedi e si diresse verso l'armadio per prendere una maglietta e coprirsi. «Che cosa c'è, Nina? Perché mi hai svegliato?» chiese irritato, strofinandosi poi entrambi gli occhi con le mani.

Giunse davanti a me e, per via della sua grande statura, mi sentii a dir poco sovrastata. Mi sentii una vera bambina, eppure avevamo solo un anno di differenza.

«Non riesco a dormire» confessai, abbassando lo sguardo.

«Sì, giusto, scusa...»

Inarcai le sopracciglia. «Perché ti stai scusando? Sono io che ti ho svegliato nel cuore della notte lanciandoti cadere addosso un gatto di dodici chili con gli artigli affilati.»

«Giuseppe non pesa dodici chili» precisò. «Be', non importa. Mi scusavo perché non ho pensato a chiederti come stai. Ti sei chiusa in camera senza nemmeno cenare e io ti ho lasciato fare.»

«No, hai fatto bene, è probabile che ti avrei lanciato un piatto in testa se avessi provato ad aprire la porta della cameretta.»

Sogghignò, interpretando la mia frase come ironica. Invece non sapeva che lo avrebbe corso davvero quel rischio. «Sono felice di non averlo fatto, allora» disse, e a quel punto emisi un piccolo sorriso anch'io. «Che cosa vuoi che faccia? Hai bisogno di sfogarti?» domandò e io scossi la testa: «No, al contrario, non ne voglio parlare».

«Perché no? Fa bene ogni tanto tirare fuori tutto quello che si ha dentro» consigliò, avvicinandosi a me e poggiandomi una mano sulla spalla.

Mi ritrassi in maniera brusca. «Che c'è, sei sordo oppure non vuoi capire? Se ho detto che non voglio parlarne è perché non voglio farlo, ok?»

Nonostante il buio nella stanza, non mi sfuggì il suo sguardo scosso dopo le mie parole. L'avevo fatto di nuovo. L'avevo aggredito ancora con la mia durezza e scontrosità.

Quella volta però non volle starsene in silenzio e accettare il tutto in maniera passiva. «Ma devi per forza essere così stronza con tutti? Pensi che questo atteggiamento ti porterà mai da qualche parte?»

Incrociai le braccia al petto. «Sono fatta così, quindi abituatici. Mi dispiace che tu sia troppo sensibile per poter fare i conti con un po' di...»

«Non cercare di trasferire il problema su di me, quando è di te che si tratta» mi interruppe. «Non è vero che sei fatta così, a te piace dare l'idea di essere fatta così. Ti piace dare l'impressione che nulla ti scalfisca, dall'alto della tua superiorità. L'unica cosa che ottieni però è che tutti si allontanino da te prima ancora di poterti conoscere, e non riesco a credere che sia questo ciò che vuoi, perché nessuno vuole essere solo.»

Per un mezzo secondo mi sfiorò l'idea che potesse avere ragione, tuttavia non lo avrei mai ammesso. Motivo per cui, invece che ammorbidirmi come forse lui sperava che avrei fatto dopo quell'inutile discorso fatto come se mi conoscesse e potesse permettersi di fare tali insinuazioni sul mio conto, proseguii stando sulla difensiva. «D'accordo, lascia perdere, scusa se ti ho rovinato il sonno. Torno in camera mia.»

Così feci per dirigermi verso la porta della sua stanza e uscire, ma Vittorio me lo impedì sbarrandomi la strada. «Guardiamo un film, ti va?» domandò e io lo fissai confusa e con le sopracciglia aggrottate. Poi capii che il suo era un tentativo di accantonare quella piccola discussione e al contempo un modo per distrarmi da tutta la questione di Benedetta.

Lo apprezzai molto. A differenza mia, Vittorio non sembrava essere una persona rancorosa.

«Sì, mi va» risposi allora annuendo.

Andammo in salotto e ci inginocchiammo davanti al televisore, appoggiato sopra a un mobiletto che conteneva delle mensole su cui erano poggiate numerose videocassette. Vittorio le tirò fuori e iniziò a mostrarmele una ad una per concedermi l'onore di scegliere. «Laguna blu?» chiese e io storsi il naso: «Non è mica quel film uscito tre anni fa con gli attori che girano nudi tutto il tempo?».

«Be', sì, ma è carino e poi...»

«Ma fammi il piacere!» esclamai, scartando il primo film proposto. «Certo, la protagonista è una ragazza molto carina e deve avere anche un corpo niente male...» commentai, esaminando l'immagine di copertina della videocassetta.

«Non te l'ho proposto mica per questo... ha un'ottima trama a mio parere» disse, e probabilmente se gli avessi puntato una torcia contro avrei visto il suo viso diventare rosso come un pomodoro. Purtroppo la luce della luna che proveniva dalla portafinestra non era sufficiente per poter confermare quella mia supposizione.

Comunque poi rimise via Laguna Blu tirò fuori un'altra videocassetta. «Un lupo mannaro americano a Londra!» esclamò, in preda all'entusiasmo.

«Ho il timore che non abbiamo gli stessi gusti in merito di film» commentai, corrucciando la fronte.

Vittorio sbuffò. «D'accordo, cosa ti piace? Storie d'amore?» chiese e io lo trucidai con lo sguardo. «Commedie? Dovrei avere l'ultimo film di Verdone da qualche parte, oppure qualcosa di Fantozzi...»

«E.T. l'extra-terrestre!» lo interruppi, afferrando una delle videocassette.

«Veramente? Ti piace questo?»

«Be', cos'è quel tono di sufficienza? È un capolavoro!»

Vittorio scosse la testa e scoppiò a ridere. «Dai, sei seria? È un film per bambini.»

«Allora magari sono una bambina, qualche problema a riguardo?» feci, fissandolo di sottecchi con le braccia conserte.

«Se davvero vuoi vedere un capolavoro, allora che ne pensi di questo?» Mi passò una videocassetta dove c'era una copertina in cui spuntava da una fessura la faccia di un uomo con l'aria da pazzo, gli occhi spalancati, il sorriso inquietante. «Shi... sci... che roba è?» Non me la cavavo molto in inglese.

«Shining» rispose Vittorio.

«Di che parla?»

«Di uno scrittore che per superare un blocco decide di accettare l'incarico di custode di un hotel durante i mesi di chiusura invernale e si rifugia lì insieme alla famiglia per produrre il suo prossimo libro» rispose.

«Che barba. Lo vedi? È impossibile, non troveremo mai qualcosa che vada bene a tutti e due.»

«Non mi hai lasciato neanche finire di parlare. Dai, questo sono sicuro che ti piacerà da matti. Ti fidi di me?»

«Certo che no, chi ti credi di essere, scusa? Ci conosciamo da cinque minuti!» Poi ripensai alla breve discussione che avevamo avuto poco prima, e anche al fatto che, nonostante l'avessi svegliato nel bel mezzo della notte lanciandogli il gatto addosso, lui non aveva fatto una piega e stava trovando il modo di far passare la notte nell'attesa che mia madre e Benedetta tornassero a casa, il tutto solo per me. Lo stava facendo per me e, non solo non me lo meritavo per via dei miei modi impossibili, ma soprattutto perché di fatto non mi doveva niente: io non ero niente per lui, come lui non lo era per me. «Ok, va bene, guardiamolo.»

*

Mi fu ben presto chiaro il motivo per cui il mio sesto senso non mi ingannava mai e non avrei mai dovuto dare fiducia a Vittorio. Infatti, sebbene all'inizio il film sembrasse un qualcosa di molto innocuo, dopo un po' mi fu chiaro che si trattasse di un film dell'orrore, e anche uno coi fiocchi. Cioè, più che far paura, sapeva come generare un'ansia sempre più crescente: gemelle inquietanti nei corridoi, vecchie nude decrepite e sfigurate in vasche da bagno camuffate da giovani donne, bambini di sei anni con poteri psichedelici e padri che perdevano il senno e tentavano di uccidere la propria famiglia.

Inutile dire che trascorsi gran parte del film appiccicata a Vittorio, nascondendo il viso dietro la sua spalla e stringendogli con forza immane il polso ogni qualvolta mi capitasse di avere paura. Lui, al contrario, guardava lo schermo del televisore meravigliato per l'incredibile regia e recitazione, le ottime inquadrature e per le eccezionali musiche scelte per creare suspense. Mentre io strillavo in preda al terrore per l'ennesima scena inaspettata, lui invece rideva, ribadendo ogni volta come tanto fosse tutto pura finzione. «Chissà quante risate si fanno gli attori durante queste scene. Penso anche che facciano fatica a fingersi spaventati, insomma, alla fine sono circondati dal resto dell'equipaggio cinematografico e...»

«La vuoi smettere di parlare?» ringhiai, tirandogli una sberla sul braccio.

Lui non fece una piega, così come anche il resto delle volte in cui lo colpii o gli stritolai il polso.

Finalmente poi, dopo quasi due ore e mezza di supplizio, giungemmo all'inquadratura finale di Jack Torrance morto assiderato in mezzo al labirinto con gli occhi ancora aperti e a dir poco inquietanti.

Tirai un sospiro di sollievo. Poi mi voltai verso Vittorio. «Sei un bastardo. Potevi dirmelo che si trattava di un film dell'orrore.»

«"Dell'orrore", addirittura! Non fa paura, più che altro mette angoscia. E poi sbaglio o sei te che non mi hai fatto finire di delineare la trama? Altrimenti te l'avrei detto» disse, ma non ci credevo neanche un po'.

A quel punto lasciai il suo braccio che avevo preso in ostaggio fino a quel momento. «Lo sai, giuro che se stanotte non riesco a dormire per colpa di questo dannato film, allora...»

«Almeno non penserai più a Benedetta» mi interruppe, prima di rendersi conto che nominarla non era un buon modo per non farmici pensare.

Sembrò rendersene conto quando era troppo tardi, infatti si morse il labbro inferiore e si passò una mano sui capelli.

Stavo per rispondere, ma mi fermai e sbadigliai. Lo stesso fece lui poco dopo. Probabilmente era già molto stanco da prima, ma a causa mia si era fatto la nottata sveglio.

«Che ore saranno?» domandai.

«Quasi le quattro» rispose, indicando l'orologio a cucù appeso al muro.

Forse si era davvero fatta l'ora di andare a letto.

Ci alzammo dal divano e, dopo esserci mossi un po' per togliere l'effetto dell'intorpidimento, iniziammo ad avviarci verso le nostre stanze. Proprio mentre stavamo per varcare la soglia del corridoio, sentimmo un rumore provenire dal salotto.

Vittorio mi intimò di stare indietro e procedette in avanti per capire di cosa si trattasse.

«Non saranno i ladri, spero» sussurrai, dal momento che sembrava che qualcuno stesse cercando di entrare in casa.

«No, magari è solo il lupo cattivo che vuole uccidere Wendy» rispose, riprendendo una delle citazioni più famose del film che avevamo appena visto.

«Non fa affatto ridere, Vittorio» lo rimbeccai, prima che la porta si spalancasse e si accendessero le luci del salotto.

Urlai dallo spavento e mi nascosi dietro il ragazzo, prima di riconoscere la voce che mi stava richiamando al silenzio. Ebbi allora il coraggio da uscire allo scoperto e sospirai di sollievo, nel vedere che non si trattava né di un ladro né di un assassino.

«Si può capire che cosa diavolo fate voi due svegli?» domandò Claudio, prima di spostarsi a lato della porta per far entrare in casa anche mia madre, seguita da Benedetta.

Era tornata. E stava bene.

 

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Capitolo 9
*** Sette. ***


Sette.

«Fila in camera. Ne parleremo domani mattina» disse mia madre a Benedetta con un tono che non ammetteva repliche, ma mia sorella non era della mia stessa opinione. «Di cosa dovremmo parlare? Del fatto che fai di tutto per rovinarmi la vita?» ribatté con la solita sfrontatezza.

Claudio si era ritirato in camera sua, mentre io e Vittorio ci eravamo messi a origliare la conversazione fra le due, nascondendoci dietro la porta del corridoio che dava sul salotto. «Dio, che melodrammatica» bisbigliai, e Vittorio sogghignò. Ero contenta che mia sorella stesse bene, ma al tempo stesso non mi erano mancate le sue reazioni spropositate.

«Credimi, quando sarai grande, smetterai di pensarla così» replicò mia madre, sforzandosi di rimanere calma.

«Sono già grande! Fra un mese sarò maggiorenne...»

«E fino ad allora farai ciò che dico io, è chiaro?» fece mia madre retorica, interrompendola. «Sei in punizione» aggiunse.

Benedetta schioccò la lingua sul palato. «E per che cosa? Smettila di trattarmi come se fossi una criminale! Che cos'ho fatto di male se non voler andare a trovare il mio fidanzato?»

«Sei fuggita senza dirci nulla! È grave, Benedetta, te ne rendi conto? Avrebbe potuto succederti di tutto!» esclamò.

«Come vedi non mi è successo nulla, so badare a me stessa. Ma se vuoi che ti chieda il permesso la prossima volta che andrò a trovare Maurizio, allora va bene, lo farò.»

«Oh, no. Non credere che sia così semplice. Maurizio ha una cattiva influenza su di te, io credo. Non hai mai fatto cose del genere prima d'ora. Sono preoccupata per...»

«Ma smettila!» la interruppe Benedetta. «Tanto a te interessa solo una cosa: e no, non ci sono andata a letto! Contenta adesso?»

Mia madre fece una piccola pausa prima di rispondere. «Non è l'unica cosa che mi interessa. Ma comunque sì, vorrei che fossi più giudiziosa e attenta. Anche se credi che Maurizio sia l'amore della tua vita, non è detto che lo sarà per sempre, quindi cerca di non affrettare troppo le cose.»

«Tranquilla, non preoccuparti. Non ripeterò i tuoi stessi errori» disse con tono tagliente mia sorella.

Seguì un rumore secco, ipotizzai quindi che si fosse beccata uno schiaffo. Poi calò un silenzio insopportabile, che si prolungò per innumerevoli secondi.

Mi voltai verso Vittorio e lo vidi con lo sguardo abbassato, probabilmente si sentiva a disagio, non più di quanto mi ci sentissi io. Fino a quel momento non si poteva dire che avessimo fatto proprio un'ottima impressione sulla famiglia Bianchi. Ero certa che si stesse chiedendo con chi diavolo stesse condividendo la sua abitazione.

Infine mia sorella riprese la parola. «Io ti odio, ti detesto! Non appena compirò diciotto anni me ne andrò via da qui e non tornerò più da te, non vorrò mai più vederti!» esclamò a gran voce, prima che sentissi i suoi passi farsi sempre più vicini, così mi avviai il più veloce possibile verso la mia stanza, lo stesso fece Vittorio.

Feci appena in tempo a lanciarmi sul letto, sbattendo tra l'altro il capo contro la testiera, e a infilarmi sotto le coperte, quando la porta si spalancò e una Benedetta furente entrò, chiudendo poi la porta con violenza, tanto che interruppe per un paio di secondi l'afa di quella notte portando un leggero venticello.

Mia sorella evitò di fissarmi, facendo finta di essersi bevuta il fatto che stessi già dormendo. Iniziò a spogliarsi per mettersi il pigiama, senza dire una parola. Ogni tanto la sentivo tirare su col naso, ma oltre a quello non emise nessun altro rumore, eppure era chiaro che stesse piangendo.

Dopo essersi preparata per la notte, si sdraiò a letto. Si girò su un fianco, dandomi le spalle, mentre si lasciava andare a dei ripetuti e fastidiosi singhiozzi.

Avrei tanto voluto intervenire e dirle che non mi sarei mai addormentata finché avesse continuato a piagnucolare, ma francamente ero troppo stanca per poter sostenere il probabile litigio che sarebbe derivato da quel mio commento, così tentai di chiudere gli occhi ed evitare di ascoltare i suoni che provenivano dall'altra parte della stanza.

*

Il mattino seguente mi svegliai tardissimo, quasi a mezzogiorno. Nonostante mi fosse sempre piaciuto essere una persona mattiniera, in quell'occasione non mi biasimai. D'altronde durante la giornata precedente ne erano successe di tutti i colori ed ero andata a dormire tardissimo, mi ero meritata un po' di riposo.

Comunque fui la prima fra tutti a svegliarmi, dopo ovviamente Claudio e mia madre che si erano recati come sempre a lavoro.

Poverini. Dopo la terribile nottata passata a causa di Benedetta, da Milano a Torino e da Torino a Milano senza alcuna sosta, si erano anche dovuti alzare neanche quattro ore dopo essere tornati a casa per andare a lavorare.

Avvicinandosi l'ora di pranzo, evitai di fare colazione e andai in cucina per iniziare a preparare qualcosa da mangiare per pranzo. Nel frattempo mi preparai anche una tazzina di caffè per darmi la carica e farmi passare il mal di testa. Ogni volta che dormivo troppo, mi svegliavo sempre con una forte emicrania.

Mentre aspettavo che l'acqua in pentola bollisse, iniziai a dosare la pasta. Avrei potuto usare una bilancia per farlo, ma in realtà non ero ben sicura di quanti grammi di pasta dovessero essere destinati a ciascuna persona, quindi preferivo sempre misurare la pasta usando i piatti. Peccato che la maggior parte delle volte sembravo dimenticarmi del fatto che durante la cottura le dimensioni della pasta tendevano a crescere e che, riempiendo il piatto, mi sarei ritrovata con quintali di pasta avanzata per almeno due giorni.

Mi accorsi troppo tardi, al momento di scolarla, che era proprio quello il caso. Comunque, a differenza mia e di Benedetta, Vittorio mangiava molto di più, quindi forse non sarebbe stato un problema.

Lo stomaco di Vittorio sembrava davvero un pozzo senza fine, il che sembrava assurdo per un ragazzo dalla corporatura così gracile. Osservandolo, si sarebbe potuto dedurre che non mangiasse a sufficienza, invece era tutto il contrario. Sarebbe stato certamente l'orgoglio di mia nonna, colei che a ogni pasto pareva cucinasse per una legione intera di soldati e si arrabbiava nel momento in cui le sole quattro persone presenti oltre a lei non avevano le forze per finire tutto.

«Wow, siamo sempre mattiniere, eh?»

Sobbalzai, nel momento in cui sentii alle mie spalle la voce del ragazzo che fino a quell'istante era stato nei miei pensieri. Mi voltai e lo vidi appoggiato allo stipite della porta, con addosso solo un paio di pantaloncini della tuta che giungevano al ginocchio e l'addome scoperto, proprio come l'avevo trovato quando l'avevo svegliato nel cuore della notte.

«Il mattino ha l'oro in bocca» risposi solamente, prima di girarmi dalla parte opposta. Non che mi mettesse a disagio vederlo senza maglia, insomma, perché avrebbe dovuto? Non c'era niente di male. E comunque non si poteva dire che avesse un fisico così tanto degno di nota... cioè, nulla di che, ecco. Avevo visto di meglio, così come anche di peggio. Al mare, intendo. Ma non mi era mai capitato di vedere un maschio mezzo nudo in casa mia, perciò non ero abituata.

Nel mentre di quelle riflessioni a dir poco prive di senso, lo sentii farsi sempre più vicino. «Ah, quindi non hai tenuto gli occhi chiusi tutto il tempo durante il film di stanotte?» fece con tono canzonatorio, dal momento che il modo di dire che avevo usato era presente in una scena di Shining, frase scritta dal protagonista con la macchina da scrivere su centinaia e centinaia di fogli.

Roteai gli occhi e gli puntai contro il mestolo che stavo usando per servire la pasta nei piatti. «Attento, ti ricordo che siamo ancora a due torti che hai compiuto nei miei confronti. Prima o poi potrebbero ritornarti indietro» tentai di apparire minacciosa.

Apparve confuso e mi fissò con le sopracciglia scure aggrottate. «Due torti? Quali sarebbero?»

«Il più recente è quello di avermi fatto vedere un film dell'orrore a mia insaputa; l'altro è quello di avermi portata con l'inganno a quel picnic insieme alla persona che sto cercando di evitare con tutte le mie forze» risposi, mentre lui nel frattempo si era allontanato per prendere le cose per apparecchiare la tavola.

Lo vidi sogghignare, mentre sistemava i tovaglioli al loro posto. «Non capisco perché proprio non ti piaccia Filo.»

A me al contrario non era chiaro come potesse piacere a tutti. «È pieno di sé, tanto per cominciare.»

«E che c'è di male in questo? Se appena ieri mi hai fatto tutto un discorso sull'importanza di essere sicuri di sé.»

Scossi la testa. «C'è differenza fra avere fiducia in se stessi e credersi Dio sceso in terra come fa lui. Lo detesto, si atteggia come se tutti fossero ai suoi piedi...»

«Hai detto bene: si atteggia» mi interruppe. «Credimi, se lo conoscessi come lo conosco io, capiresti che in realtà non è così presuntuoso come sembra. E poi, con tutti i suoi problemi, ci sta che cerchi di creare un'immagine di se diversa dalla realtà...»

«Quali problemi?» chiesi. Era già la seconda volta che venivano menzionati dei problemi nella vita di Filippo.

Vittorio increspò le labbra, come se non fosse sicuro di volermelo dire. O di potermelo dire. Finì di appoggiare le posate sul tavolo e poi scosse il capo. «No, niente. Non importa» disse e io decisi di non insistere. Almeno potevamo chiudere l'ennesimo discorso su Filippo.

«Comunque non mi interessa di avere la copia mal riuscita di Danny Zuko nella mia vita» commentai, prima di uscire dalla cucina per vedere se per caso mia sorella si fosse svegliata e, eventualmente, chiamarla per venire a mangiare.

Aprii con cautela la porta della nostra cameretta, come avevo fatto quella mattina per uscire senza rischiare di svegliarla, e subito fui invasa dalla luce che subentrava dalla finestra. Mia sorella aveva già tirato su le tapparelle e spalancato la finestra per far cambiare l'aria. Se ne stava china in un angolo del letto, con la schiena appoggiata al muro.

«Benni, ho fatto la pasta, vieni in cucina?» chiesi con tono affabile. Non volevo che anche quella conversazione degenerasse nel solito litigio, sebbene con lei e il suo caratteraccio (e anche il mio, lo ammetto) fosse molto facile.

«No, non ho fame» rispose in un bisbiglio, senza nemmeno guardarmi in faccia.

«Ma non puoi non mangiare nulla. Al massimo prendi un po' di frutta, o una fetta di pane, no?» tentai di incoraggiarla.

Rimase qualche secondo in silenzio, probabilmente per rifletterci su. «Mi porti qui una mela? Non mi va di andare di là.» Puntò lo sguardo sul mio, e vidi che aveva il volto pallido e gli occhi arrossati. Aveva pianto tutta la notte, ed era probabile che non avesse neanche dormito in quelle ore.

Annuii, prima di dirigermi verso la porta. Prima di uscire, tuttavia, c'era un'altra cosa che volevo chiederle. Avevo già tenuto in conto che si sarebbe potuta arrabbiare, ma la curiosità in quel caso fu più forte di me. «Benni, posso chiederti una cosa?»

Sbuffò e alzò gli occhi al soffitto. «Che c'è? Nina, sono stanca e voglio stare da sola» fece scocciata.

«È vero che non hai fatto l'amore con Maurizio?» domandai.

Era ovvio che a mia madre non avrebbe mai detto la verità perché sapeva che non l'avrebbe presa bene, ma a me avrebbe potuto dirlo, ero sua sorella in fondo, non l'avrei giudicata.

«Hai origliato la mia conversazione con la mamma? Sei proprio un'impicciona!» esclamò.

«Anche volendo farmi i fatti miei, sarebbe stato impossibile, considerando quanto urlavate» provai a giustificarmi, e Benedetta mi fulminò con lo sguardo.

Non disse altro, così immaginai che non avrei ricevuto alcuna risposta. Feci per uscire dalla stanza, ma mi fermai quando mi giunse ancora la sua voce alle mie spalle: «No, non abbiamo fatto l'amore».

Mi girai ancora una volta verso di lei, stupita. «Perché? Insomma, se vi amate...»

«Avevo paura» rispose soltanto.

«Paura di cosa? Di rimanere incinta?»

Schioccò la lingua sul palato e scosse la testa. «Ma va, quelle sono stupidaggini, non si può rimanere incinte la prima volta. È solo che... che ora che non viviamo più a Torino è tutto diverso. E se l'avessimo fatto e poi dopo pochi giorni lui avesse deciso di lasciarmi perché non riusciva più a continuare così? Non avrei mai superato una cosa del genere, sarebbe stato mille volte peggio. Così gli ho detto che non me la sentivo.»

Fra tutte le azioni stupide e avventate che aveva collezionato mia sorella nel corso degli anni, mi sorprese che proprio quella fosse la figurina che le mancava. Ma in fondo capivo il suo discorso, ed ero lieta che avesse deciso di agire così.

«E lui come l'ha presa?» chiesi poi.

«Come ogni persona sana di mente, è ovvio. Il corpo è il mio, non può decidere di forzarmi a fare qualcosa che non mi va di fare. Ha detto che mi aspetterà, in fondo non staremo distanti ancora per molto.»

Corrucciai la fronte. «Che intendi dire, Benni?»

«Io non resterò qui per sempre, Nina. La mia vita è a Torino, con l'amore della mia vita. Quando avrò diciotto anni tornerò da lui, e nessuno potrà dirmi niente né impedirmelo stavolta.»

Dopo aver sentito quelle parole, una parte di me iniziò a provare una sensazione di fastidio a livello dello stomaco. Poi sentii anche un soffio al cuore. Non volevo separarmi da mia sorella. Era parte della mia famiglia, e non potevo sopportare che quest'ultima si sfaldasse e si decomponesse ancora di più. Prima se n'era andato mio padre, mia madre aveva poi incominciato una nuova vita, la prossima ad andarsene sarebbe stata Benedetta.

Nessuno sembrava curarsi di me. Mi lasciavano tutti. Mi lasciavano sola. Praticamente rimanevo solo io della vecchia famiglia Colombo. Colombo, il mio cognome, che mi era stato dato alla nascita da una persona di cui a stento ricordavo la faccia.

Non significava niente quel cognome, non c'entrava niente con me e, stando così le cose, allora chi ero davvero io? Chi era Nina?

 

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Capitolo 10
*** Otto. ***


Otto.

Erano passate ormai più di due settimane da quando io, mia madre e mia sorella ci eravamo trasferite da Torino a Milano per andare a vivere con il nuovo compagno di mia mamma e suo figlio.

Mia madre e Benedetta si erano riconciliate. La prima si stava sforzando di essere un po' più presente e attenta alle sue figlie; la seconda invece stava provando, per quanto possibile, a rigare dritto, partendo col diminuire la frequenza e la durata delle sue telefonate giornaliere a Maurizio, dal momento che era probabile che quel mese l'importo delle bollette telefoniche fosse certamente raddoppiato se non triplicato a causa sua, ed era il caso che si desse una regolata.

Per quanto riguardava me, ormai cominciavo a far l'abitudine a molte cose: a svegliarmi con altri due maschi in casa senza reputarli più dei completi sconosciuti, a non scandalizzarmi nel vedere Vittorio senza maglia, a essere più rispettosa e meno distaccata e scontrosa nei loro confronti, mi stavo abituando persino ad avere quella palla di pelo rossa sempre fra i piedi, e poi stavo imparando a conoscere meglio Milano e ad ambientarmi. A volte sembrava quasi come se non me ne fossi mai andata, come se quegli otto anni a Torino non ci fossero mai stati.

E in fondo un po' era così. Più ci pensavo, e più non riuscivo a rispondere a una domanda molto importante: cos'avevo lasciato di mio a Torino?

Nulla, probabilmente, se non i miei nonni e quell'ultimo pacco di sigarette. Il resto era venuto via con me. Peccato che non sapessi nemmeno che cosa intendessi di preciso con "il resto".

Mancava all'incirca una settimana all'inizio della scuola ed ero a dir poco emozionata. Non facendo granché durante il giorno, finalmente qualcosa avrebbe stravolto la noiosa e insopportabile monotonia delle mie giornate. E poi avrei conosciuto qualcuno di nuovo, così da non dover stare sempre con Vittorio e i suoi amici.

Non che fossero male, insomma non tutti, con alcuni mi trovavo anche molto bene. Solamente che, come mi ero detta i primi giorni che ero arrivata a Milano, volevo anche essere in grado di farmi degli amici da sola, senza l'aiuto di nessuno.

Quel pomeriggio Vittorio mi avrebbe accompagnata a scuola per mostrarmi il tragitto che avrei dovuto compiere e i mezzi che avrei dovuto prendere a partire dalla settimana seguente.

«Nina, ci sei?» chiese, bussando alla porta del bagno.

Era da dopo pranzo che avevo dei continui crampi alla parte bassa dello stomaco. Non mi era mai successo prima, pertanto non sapevo come comportarmi né tantomeno se prendere qualcosa per far passare il dolore e se sì, non sapevo che cosa. Avrei chiamato mia madre, ma non volevo disturbarla mentre era a lavoro per qualcosa di così banale come un mal di stomaco.

Comunque alla fine feci un respiro profondo e aprii la porta del bagno per uscire. Simulai un sorriso e annuii: «Sì, eccomi».

Vittorio ricambiò il sorriso e in seguito uscimmo di casa. Ci dirigemmo verso l'ascensore, solo per vedere che davanti alle porte era stato appiccicato un foglio bianco con una scritta a penna che diceva: "FUORI SERVIZIO. USARE LE SCALE".

Sbuffai. Non era possibile. L'unico giorno in cui mi sentivo priva di forze, quell'inutile ascensore aveva smesso di funzionare. Il problema non era tanto la discesa, non era chissà quanto faticosa, ma il solo pensiero di dover fare le scale in salita al nostro ritorno, dopo essere stati in giro tutto il pomeriggio sotto al sole, accaldati, stanchi e sudati, bastava per far sì che desiderassi rientrare subito in casa e rimandare il tutto a un altro giorno.

«Grandioso. Magari ora della terza guerra mondiale l'avranno riparato» commentai sarcastica, mentre ci avviavamo giù per le scale.

«Dai, non dirlo neanche per scherzo.»

«Perché? Gli Stati Uniti e la Russia vanno avanti da più di vent'anni con questa sorta di inutile rivalità da bambini dell'asilo. Secondo me è solo questione di tempo prima che riprenda tutto. Pensa alla Germania, basterebbe che si ribellasse e succederebbe un putiferio.»

«Devi sempre essere così cinica?»

Scrollai le spalle. «Dico solo che li capirei se lo facessero: insomma, che barbarie immonda è quella di costruire un muro per dividere una città?»

«Dopo ciò che hanno fatto si meriterebbero anche di peggio» sputò Vittorio, aprendo il grande portone in legno del condominio e uscendo, seguito poi da me.

«Allora è lo stesso che ci meriteremmo anche noi, secondo il tuo ragionamento siamo colpevoli almeno quanto loro. Non è giusto e basta.»

«Sì, ma... be'... diamine, come fai ad avere sempre ragione, in qualsiasi circostanza?»

«È un dono!» esclamai, andando a dirigermi verso il sottopassaggio che portava alla stazione della metro.

«Sì, certo, va' a ciapà i ratt!» rispose lui di rimando, venendomi dietro.

«Che cosa significa esattamente?» chiesi, non potendo a fare meno di ridere. Da quando mi ero ritrasferita a Milano mi era accaduto di frequente di sentire quell'espressione e, sebbene mi fosse chiaro che era usata in tono dispregiativo, non riuscivo a capirne il significato e, per di più, mi faceva molto ridere come suonava.

«È Milanese. Letteralmente significa "vai a prendere i ratti". Un modo diverso per mandare qualcuno a quel paese» spiegò.

«Quindi un po' come "vai a stendere"» dissi, pensando a un modo di dire di Torino.

Vittorio aggrottò le sopracciglia e poi rise sguaiatamente. «Vai a stendere? Che cazzo mi rappresenta?» disse fra una risata e l'altra.

«Oh, sta' zitto, piciu.»

«Immagino che questo sia un'alternativa a pirla» intuì.

«Se pirla significa testa di cazzo, allora sì, diciamo che è la stessa cosa.»

«Buono a sapersi» scrollò le spalle. «Mi chiedo come mai non abbiamo avuto questo tipo di conversazione tempo prima. Dovrai istruirmi, e io istruirò te. Che Milanese è una che non conosce una parola di dialetto?»

«Una che a Milano praticamente ci è nata e basta» risposi.

Dopodiché vidi Vittorio dirigersi ai tornelli che permettevano di accedere alle scale, le quali portavano probabilmente al binario.

«Aspetta, non abbiamo comprato i biglietti!» esclamai raggiungendolo e lui si voltò verso di me fissandomi come se avessi appena bestemmiato o cose simili: «Il biglietto? Stai scherzando? Non ne ho mai comprato uno in tutta la mia vita e non inizierò ora».

«E se dovesse vederci un controllore? Lo spieghi tu a mia madre e a Claudio che dovranno pagare trecentomila lire e passa di multa?»

«Sì, lo spiegherò io a tua madre "e Claudio"» rispose mimando le virgolette con le dita. «Smettila di essere così ansiosa e cerca di mostrarti sicura di te, come se fossi innocente, e poi, quando sei sicura che nessuno ti guardi, scavalca il tornello.»

Quell'idea non mi piaceva per niente. Il controllore nel gabbiotto avrebbe benissimo potuto vederci. Soprattutto, non sapevo se sarei stata in grado di scavalcare velocemente il tornello senza dare nell'occhio. Né sapevo se ci sarei riuscita ogni mattina e ogni pomeriggio dal lunedì al venerdì. Un giorno o l'altro era certo che qualcuno mi avrebbe vista, e sarebbero stati guai seri per me.

Mentre facevo quelle riflessioni, Vittorio era già passato oltre e mi stava incitando a fare lo stesso.

Io scossi la testa. «No, davvero, non c'è un altro modo? Quanto ci vuole a piedi ad arrivare? Piuttosto ci andrò così.»

«Ma con la metro ci vuole di meno... Va be', d'accordo, andiamo col tram.» Vittorio si rassegnò e, dopo essersi guardato intorno per assicurarsi di non essere visto, passò nuovamente sopra al tornello per ritornare dalla mia parte.

«Ehi tu, ragazzino!»

Quelle tre semplici parole gridate bastarono a farmi gelare il sangue nelle vene. Il controllore stava uscendo dal suo gabbiotto di vetro e si stava dirigendo a falcate verso il ragazzo alto e magro davanti a me. «Merda, merda, merda!» esclamò quest'ultimo. Ero ancora paralizzata per via del terrore, quando Vittorio mi afferrò per mano e mi trascinò verso le scale che portavano in superficie, rischiando seriamente di staccarmi un braccio per via della rapidità e le maniere brusche con cui praticamente mi teletrasportò da una parte all'altra della stazione della metro.

«Venite qui, tutti e due!» proseguì l'uomo, continuando a inseguirci.

«Muoviti, corri!» mi incitò Vittorio, e feci come disse.

Salimmo di corsa le scale per uscire dal sottopassaggio e iniziammo a vagare apparentemente senza una meta precisa, incerti se il tizio ci stesse ancora seguendo o meno, attraversando fuori dalle strisce se necessario ed esponendoci al rischio di farci investire da una macchina.

Giungemmo in un vicolo stretto e finalmente ci arrestammo, appoggiandoci con la schiena alle pareti per riprendere fiato, uno di fronte all'altro.
Proprio in quel giorno in cui mi sentivo debole più che mai e i crampi allo stomaco non accennavano a darmi pace, l'ascensore del nostro condominio era guasto ed eravamo stati inseguiti da un dipendente dell'A.T.M.

Dire che ne avevo abbastanza e non vedevo l'ora di tornare a casa era superfluo.

Così, non appena sentii che l'ossigeno nei miei polmoni era tornato a un livello considerato normale e il battito del mio cuore si era stabilizzato, non ci pensai due volte prima di inveire contro Vittorio: «Dico, ma ti sembra normale? È un miracolo che non abbia fatto in tempo a fermarci, altrimenti sarebbero stati guai seri!» esclamai tutto d'un fiato, riprendendo ad avere un respiro affannato subito dopo.

Vittorio si staccò dal muro e mi guardò in silenzio per qualche istante. Poi, semplicemente, scoppiò a ridere. «Dai, è stato divertente» si limitò a dire, prima di portarsi una mano sullo stomaco e continuare a ridere.

Io rimasi seria e mi portai una mano sul fianco, sollevando la schiena dal muro e avvicinandomi a lui per puntargli il dito contro: «Divertente? Sei serio? È l'unica cosa che hai da dire? Perché invece non dici che ho ragione come ogni volta? Avresti dovuto ascoltarmi!». A ogni invettiva, avanzavo sempre di più nella sua direzione, sfiorandogli appena il petto con l'indice, mentre lui arretrò finché non toccò nuovamente la schiena al muro, trovandosi alle strette.

Eppure, a giudicare dalla risposta che mi diede, non si era sentito per nulla intimorito. «Rilassati, Nina. Come vedi non è successo niente di male.»

Evitai di rispondere, piantandogli il muso e incrociando le braccia al petto.

«Dai, te la sei presa seriamente?» fece, avvicinandosi al mio viso per poter interpretare la mia espressione. «Nina, scusami, scusami davvero. Non volevo farti prendere uno spavento, non pensavo che in quel momento mi stesse guardando, se ne stava lì intento a fumare la sigaretta senza badare a niente.»

Proseguii stando in silenzio.

«Ok, quindi intendi non parlarmi mai più? Sarà difficile, dal momento che viviamo insieme.»

«Oh, non ricordarmelo» dissi infine, non riuscendo a evitare di fare un commento acido e offensivo a riguardo. Riportai le braccia lungo i fianchi e accennai un mezzo sorriso.

«Mi perdoni quindi?» Senza nemmeno darmi il tempo di rispondere, mi attirò a sé in un abbraccio. Sgranai gli occhi e mi irrigidii immediatamente.
Sentivo le guance andarmi letteralmente a fuoco per via del disagio sempre più crescente che cominciai a provare per via di quel contatto.

Pertanto mi separai in maniera brusca e lo fissai scandalizzata: «Non farlo mai più» intimai.

«Perché?» chiese sorpreso dalla mia freddezza.

Io a mia volta rimasi stupita per via della sua domanda. «Come sarebbe a dire "perché"? È stato strano.»

Aggrottò le sopracciglia scure. «Da quando in qua è strano abbracciare i propri amici? Alt, so cosa stai per dire, "noi non siamo amici". Però lo stiamo diventando, no?»

Scrollai le spalle. «Sì, pensala come ti pare» dissi, senza sbilanciarmi di molto. «La prossima volta però avvisami. Non mi piacciono gli abbracci.»

«Ma a tutti piacciono!» esclamò e lo fulminai con lo sguardo. «D'accordo, andiamo. Con la metro faresti certamente prima, ma comunque possiamo arrivare alla tua scuola anche con il tram.» Uscimmo dal vicolo e mi condusse verso la fermata del tram. Fortunatamente non era molta strada, neanche cinque minuti di camminata, ma da casa nostra doveva essere anche meno.

Lì passavano due linee, il 2 e il 14. «È indifferente, puoi prendere sia l'uno che l'altro, tanto per questo tratto di strada fanno lo stesso tragitto. Sono solo cinque fermate, ma considerando il traffico mattutino e la lentezza disarmante a cui procede questo mezzo preistorico, potrebbe volerci un po' più del dovuto» spiegò e io annuii.

Dopo pochi minuti di attesa, vedemmo un tram avvicinarsi e, nel momento in cui si arrestò e aprì le porte, delle persone scesero e noi potemmo salire.

Andammo a sederci su una delle panche in legno, anzi, nel mio caso mi lasciai praticamente sprofondare e sospirai.

Finalmente un attimo di pietà.

«Stai bene?» chiese Vittorio, dal momento che mantenni gli occhi chiusi per diversi istanti.

A quel punto li riaprii. «Sì, tutto a posto» risposi. Da seduta, se evitavo di pensarci, non mi faceva neanche così tanto male il ventre.

Peccato che quel temporaneo sollievo durò troppo poco per i miei gusti. Infatti, prima di quanto mi sarei aspettata, Vittorio annunciò che eravamo arrivati.

Fui quindi costretta ad alzarmi in piedi e a scendere dal tram. «Di qua» mi fece senno di seguirlo.

«Mi stavo chiedendo, come fai a sapere questa strada? Dubito tu conosca i percorsi per tutte le scuole di Milano» dissi.

Sorrise e scosse la testa: «No, infatti. È che la mia scuola è qualche fermata più in là rispetto alla tua. Di solito, arrivato qui a Carrobbio, prendo un altro tram per tre fermate e dopo una manciata di passi sono arrivato» rispose, indicandomi un'altra fermata per i tram diversa da quella da cui eravamo sbucati.

«Perché non me l'hai detto prima? A saperlo, non ti avrei chiesto di sacrificare un pomeriggio per questo giretto inutile! Allora potremo prendere i mezzi insieme alla mattina, no?» proposi.

Si morse il labbro inferiore ed esitò qualche istante prima di rispondere: «È che... io la mattina ci vado con Filo, andiamo nella stessa scuola. Ti avrei detto di andarci insieme, ma sapevo che...»

Lo interruppi prima che potesse finire. «Chiaro, va benissimo così, hai fatto bene» dissi. Col cavolo che mi sarei vista con quel biondino insopportabile ogni santo giorno. Se il buongiorno si vede dal mattino, vedere Filippo non sarebbe stato certamente un buon inizio delle mie giornate.

Per fortuna che non lo vedevo da quel famoso picnic.

Vittorio allargò le labbra in un sorriso. «Ecco, appunto. E poi di solito andiamo con la metro, e a te non va di prenderla, perciò...» Lasciò la frase in sospeso. «Però se vuoi ogni tanto posso dargli buca e andarci con te a scuola, così non devi andarci sempre da sola.»

Mi strinsi nelle spalle. «Ma sì, non preoccuparti.»

A un certo punto svoltammo l'angolo e ci trovammo al cospetto di un grosso edificio dalle pareti color giallo avorio e le finestre con le rifiniture che davano sull'arancione. «Eccolo qui il tuo carcere per i prossimi tre anni.»

«Quattro» lo corressi. «Devo iniziare il secondo» gli ricordai.

«Ah, già. È vero, mi dimentico sempre che hai la stessa età di Filo.»

Basta sentir parlare di lui.

Roteai gli occhi e Vittorio se ne accorse: «Che c'è?» domandò preoccupato per via della mia espressione scocciata.

«Nulla, però potevi anche dire "è vero, sei un anno più piccola", piuttosto che nominare ancora quel soggetto. Per caso hai una cotta per il tuo amico e non puoi fare a meno di spostare ogni discorso su di lui?» lo punzecchiai.

«A dire il vero, è ciò che hai appena fatto tu» rispose e io lo fissai confusa, con le sopracciglia aggrottate. Così decise di illuminarmi: «Se non avessi fatto quella faccia quando l'ho nominato, io non ti avrei chiesto cosa c'era che non andava, quindi adesso non ci saremmo trovati a parlare di lui» spiegò.

Lo fissai di sottecchi e trovai solo un modo per rispondergli. «Senti, va' a ciapà i ratt» dissi a denti stretti.

«I miei complimentoni, vedo che stai imparando in fretta!» fece, prima che entrambi ridessimo di gusto. Poi Vittorio diede uno sguardo all'edificio scolastico davanti a noi. «Ne hai ancora per molto o possiamo andare?» chiese.

«No, possiamo andare. Direi che non è niente di che, non che mi aspettassi chissà che cosa.»

«Ti va se prima di tornare a casa passiamo a prenderci un gelato in quella gelateria buona della volta scorsa? Tanto è qui vicino.»

Mi presi qualche secondo per riflettere. Ero davvero a pezzi, sia per il caldo sfiancante, sia per la "fuga" di neanche un'ora prima, sia per i dolori che avevo già da prima di uscire di casa.

Però non si poteva mai dire di no a un gelato, giusto? Anzi, era proprio l'ideale: mi avrebbe rinfrescata e magari mi avrebbe anche fatto bene.

Tuttavia, solo il pensiero di dover camminare anche per cinque minuti, mi uccideva.

«Va bene, ma a una condizione» iniziai a dire, attirando l'attenzione di Vittorio. «Solo se mi porti sulla schiena.»

 

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Capitolo 11
*** Nove. ***


Nove.

«Dio, sto morendo... sono morto... sono morto...» farneticò Vittorio, facendomi scendere dalla sua schiena e lasciandosi cadere su un marciapiede subito dopo, per poter riprendere fiato.

«Caspita, che virilità» commentai. «Probabilmente la versione in vita reale del Garfield dei fumetti che avete in casa pesa più di me, eppure non mi sembra che tu ti sia mai lamentato.»

«Smettila di prendere in giro Giuseppe per via del suo peso, non è carino» mi rimproverò serio.

«Ok, se vuoi allora posso prenderlo in giro per il suo alito che sa di pesce marcio» ribattei, ricevendo un'occhiataccia torva da parte di Vittorio. Non che mi importasse granché, aveva un viso dai tratti fin troppo delicati per poter apparire ai miei occhi come una seria minaccia.

Poi mi sedetti sul marciapiede accanto a lui.

«Sono strabiliata, comunque, con quel fisico così mingherlino non pensavo proprio che ce l'avresti fatta a portarmi per più di trenta secondi.»

Lo dicevo soprattutto perché negli ultimi giorni mi sembrava di aver messo su qualche chilo: mi sentivo sempre tremendamente gonfia. Avrei gradito molto se quel gonfiore dalla pancia si fosse trasferito al mio seno praticamente inesistente.

Vittorio mi fulminò di nuovo con lo sguardo. «Simpatica. Oggi ti stai proprio superando» fece sarcastico. «Il problema non è il mio fisico non propriamente atletico, suppongo piuttosto che sia stata la sigaretta che ho deciso di fumarmi prima di portarti.»

«Infatti ti avevo detto di fumarla dopo, ma tu hai insistito.»

Scrollò le spalle. Poi, quando se la sentì, si rialzò in piedi dal marciapiede e io feci lo stesso. Ci dirigemmo verso l'entrata della gelateria.

Come sempre, era gremita di gente. A detta di Vittorio, era una delle migliori in città. Non avendone provate altre fino a quel momento, non potevo dargli torto, ma neanche ragione.

Però era davvero buono il gelato che servivano.

Ecco quindi perché, sebbene fosse di dimensioni molto ridotte, tanto da non avere nessun posto a sedere, e per questo non saltava neanche subito all'occhio, c'era una fila di gente che partiva già dal marciapiede.

Mi appoggiai a una parete, stanca morta. Non ne potevo più di stare in piedi, specialmente di stare in giro. Avevo seriamente bisogno di una doccia che mi desse sollievo.

Chiusi per qualche attimo gli occhi, nella sciocca speranza che in quel modo l'attesa si facesse più breve, finché all'improvviso non avvertii più il calore insopportabile del sole picchiarmi sulla fronte. Riaprii prima l'occhio destro e poi quello sinistro, per poi sollevarli entrambi verso il cielo e sbuffare.

Mi sembrava di essere vittima di un brutto scherzo del destino.

«, guarda qui chi ho trovato! Ehilà, Vitto, che si dice? Ciao anche a te, peperoncino!» disse il ragazzo che si era posizionato davanti a me, fissandomi con un gran sorriso.

Inarcai un sopracciglio. «Peperoncino?» feci stizzita e anche piuttosto confusa.

L'unica nota positiva della sua presenza lì era che, per via della sua altezza, creava ombra e non mi faceva arrivare il sole scottante in faccia.

«Lo so, hai ragione: era peperino il soprannome che ti avevo affibbiato, ma peperoncino mi piace di più, e poi si addice perfettamente al colore che assume il tuo bel visetto quando ti arrabbi, quindi più o meno ogni volta che mi parli. Allora, ti piace?»

Onestamente non avevo neanche le forze di rispondergli per le rime, né sapevo se ne sarebbe valsa la pena. Era meglio cercare di ignorarlo per quanto possibile. «No» dissi soltanto, con gli occhi ridotti a due fessure.

Filippo sbuffò scocciato, portandosi le mani sui fianchi. «Diamine, come sei difficile! Ti hanno mai detto che puoi anche evitare di tenere quell'orrendo broncio tutto il tempo?»

«Sì, me l'hanno detto in molti. Vuoi anche sapere che fine hanno fatto quelli che ci hanno provato?»

Ok, a quanto pare le forze per rispondergli per le rime ce le avevo eccome.

Emise un piccolo ghigno e si passò la lingua sul labbro superiore. «Che hai mangiato oggi a pranzo, pane e simpatia?» chiese e sgranai gli occhi: «Potrei dire lo stesso di te» ribattei.

«Ok, ehm, basta, direi» si intromise Vittorio. «Come mai in questi paraggi?» chiese al suo amico, e ipotizzai che non abitasse in quella zona.

Proprio un vero scherzo del destino, pensai di nuovo.

«Ero a scuola per gli esami di riparazione» rispose Filippo.

«Ah, è vero. E com'è andata?»

Procedemmo di qualche passo in avanti. Anche se lentamente, per fortuna la fila si muoveva. Non ci avremmo impiegato molto. E, prima avremmo fatto, prima mi sarei liberata di Filippo.

Sentii il mio stomaco contrarsi nel momento in cui vidi un gruppo di tre o quattro persone gustarsi il gelato appena comprato proprio davanti ai miei occhi. Avevo proprio una fame da lupi.

«Boh. Ho sparato un po' di stronzate, spero sia stato sufficiente. Dovrebbero farmi sapere giovedì... Magari se mi bocciano è la volta buona che mio padre mi ritira da scuola e mi fa andare a lavorare. In fondo a cosa mi serve studiare? I veri uomini lavorano, non passano le giornate sui libri.»

Lo disse con un mezzo sorriso, come se non gliene importasse nulla dell'esito del suo esame e anzi, come se l'eventualità di essere bocciato e abbandonare gli studi lo allietasse, ma in realtà il suo tono di voce a tratti tremolante appariva in netto contrasto con ciò che aveva appena detto. Sembrava quasi come se la sola ipotesi lo terrorizzasse.

Comunque non mi intromisi e li lasciai ai loro discorsi.

Poi finalmente giunse il nostro turno. Entrammo dentro la gelateria e salutammo Beppe, il proprietario, che come al solito ci accolse con un caloroso sorriso. Era un uomo sulla sessantina, sbarbato, con i capelli brizzolati, le sopracciglia folte e nere e un sorriso luminosissimo.

Come sempre, ordinai la mia coppetta al limone e fior di latte; Vittorio optò invece per un cono con stracciatella e amarena; Filippo, infine, prese un cono con menta e fior di latte. «Sai, forse il limone non è stata un'ottima scelta» commentò il biondino dopo che ebbi espresso la mia preferenza al gelataio.

«Perdonami?» chiesi stralunata.

«Dico solo che non hai bisogno di aggiungere ulteriore acidità al tuo organismo, Ebenezer Scrooge» rispose e, se solo non ci fossero state altre persone oltre a noi due, l'avrei preso a pugni. Metaforicamente, si intende... forse.

Era incredibile come fosse in grado di farmi perdere le staffe in un nano secondo.

«Perché non ti fai gli affaracci tuoi, testa di rapa?» sbraitai, causando del riso in Vittorio e anche in Beppe, il gelataio.

«Ecco a te, signorina» disse quest'ultimo, passandomi la mia coppetta di gelato, prima di fare lo stesso anche con gli altri due. «Fanno cento lire a testa» aggiunse, mentre iniziava a battere lo scontrino.

Vittorio tirò fuori dalla tasca dei jeans le monete e gliele porse e io feci lo stesso, mentre Filippo sembrò impiegarci più tempo del necessario. Passò il suo cono a Vittorio e infilò la mano in tasca alla ricerca dei soldi. Aveva una manciata di monetine in mano, tutte da due o massimo cinque lire, e le stava contando una a una, nella speranza di arrivare alla cifra tonda.

«Ci sei?» fece Vittorio e Filippo si grattò velocemente il capo: «Sì, sto finendo di contare». Io ero stata più rapida di lui nel fare il conto, e arrivava a settanta lire. Per evitare di tirare le cose troppo per le lunghe, allungai un'altra moneta da cento al gelataio: «Ecco fatto. Buona giornata, Beppe» dissi con un piccolo sorriso.

Filippo sollevò lo sguardo, puntandolo prima su Beppe e infine su di me. Deglutì, ma non si espresse. Si rimise le monete in tasca, strappò di mano a Vittorio il suo gelato con maniere a dir poco brusche, e infine uscì dalla gelateria.

Che razza di modi.

Con uno scatto fulmineo lo raggiunsi e gli toccai la spalla con la mano per farlo voltare. «Ehi! Un "grazie" mi pare il minimo!» esclamai.

«E per cosa? Forse per avermi fatto fare una figura di merda?»

Strabuzzai gli occhi. «Ma di che diavolo parli?»

«Da quando in qua è una ragazza a pagare per il ragazzo? Mi hai fatto apparire come un buzzurro spilorcio. E comunque non ne avevo bisogno, ce li avevo i soldi.»

Roteai gli occhi e poi diedi un'occhiata a Vittorio, in cerca di un appoggio. Lui scrollò le spalle e poi si voltò dalla parte opposta continuando ad assaporare il suo gelato, come a volerne stare fuori.

«Che c'è, ti senti ferito nel profondo del tuo orgoglio, per caso? Poverino, quanto mi dispiace» continuai, rivolta a Filippo.

Ridusse gli occhi azzurri a due minuscole fessure. «Non me ne faccio niente del tuo dispiacere. E comunque tieni» disse, tirando fuori nuovamente gli spicci dalla tasca e porgendomeli.

«Non li voglio, non mi interessa. L'ho fatto per gentilezza, tutto qui» risposi, allontanando la sua mano. Più che altro, in realtà, l'avevo fatto perché ero impaziente di andarmene di lì.

«Già, o per pietà...» fece Filippo, più a bassa voce, tanto che per un attimo mi parve di aver sentito o capito male.

Non sapendo come altro ribattere, mi voltai di nuovo verso Vittorio in cerca di sostegno, il quale decise finalmente di intervenire. «Dai Filo, l'avrei fatto anch'io. Cosa c'è di male?» disse, appoggiando una mano sulla spalla dell'amico.

Filippo rimase zitto, il viso spento e cupo. I suoi sbalzi d'umore erano persino più frequenti dei miei. Un secondo era il ragazzo più impertinente e scocciante della storia, quello dopo era quello silenzioso e ferito nell'orgoglio.

Subito dopo si esibì in un sorriso a trentadue denti. «Sì, giusto. Be', vogliamo restare qui tutto il giorno oppure andiamo a fare un giro da qualche parte?»

Rimasi interdetta qualche secondo. Aveva cambiato stato d'animo nuovamente nel giro di neanche un minuto? Ero piuttosto sicura che la definizione giusta in quel caso fosse folle.

A stargli dietro fino a quel momento mi era venuto quasi il mal di mare. Lo interpretai come un segno che dovevo davvero andarmene a casa. «Tu se vuoi girovaga ancora quanto vuoi, noi andiamo a casa» risposi, cominciando ad avviarmi verso la strada di ritorno.

«In realtà, io resterei fuori ancora un po'» si intromise Vittorio. «Ma se tu sei stanca, Nina, vai a casa, non preoccuparti. Ti ricordi la strada? Prendi il tram, il 2 o il 14, per cinque fermate.»

Quella parte era facile, il difficile stava nel capire che strada fare per ritornare alla fermata del tram, dal momento che ci eravamo allontanati un bel po' da quella zona. Ma al limite avrei chiesto a qualcuno, non volevo essere di ulteriore peso a Vittorio. «Sì, d'accordo, ci vediamo dopo a casa allora» dissi, facendo per incamminarmi.

«L'invito vale anche per me, peperoncino?»

Alzai gli occhi al cielo. Ecco che era tornato il solito impertinente e fastidioso ragazzino. «No, a dire il vero preferirei passare una giornata intera chiusa in uno sgabuzzino da sola con la versione a quattro zampe dell'eroe dei due mondi piuttosto che trascorrere altri cinque minuti in tua compagnia» ribattei, aggiungendo un sorriso finto alla fine per rendere il tutto un po' meno aspro.

Filippo e Vittorio si scambiarono un'occhiata confusa, prima di tornare a fissarmi, rimanendo in silenzio. Allora capii che non avevano colto il riferimento storico. «Giuseppe Garibaldi, nome che hai dato al tuo gatto, era noto anche con l'appellativo "eroe dei due mondi".»

«Ahhh» dissero i due all'unisono, dopo aver capito. «Perdonami, ho avuto il debito in storia quest'estate, per forza non lo sapevo» aggiunse Filippo.

«Guarda che la storia della liberazione italiana non si studia in prima superiore... ma ciò non ti giustifica comunque: saperlo è il minimo, insomma è... be', cultura generale» dissi. «È assurdo che voi due non lo sappiate, specialmente tu» puntai il dito contro Vittorio.

«Cosa vuoi che ne sappia di queste cose? Mio padre ha scelto il nome del gatto» provò a dire in sua difesa.

«Caspita, non credevo che fossi un'appassionata di storia, peperoncino! A saperlo prima, mi sarei preparato al meglio per l'esame solo per fare una bella figura ai tuoi occhi» intervenne Filippo e io roteai gli occhi per l'ennesima volta da quando mi ero ritrovata a trascorrere parte di quel pomeriggio in sua compagnia.

Decisi tuttavia di ignorare le sue parole. «Allora io vado, ci vediamo dopo a casa» dissi rivolta a Vittorio che mi rispose con un cenno del capo. «Ciao» aggiunsi poi secca, dando una rapida occhiata a Filippo.

Lui non rispose al mio saluto, ma piuttosto rimase a fissarmi in silenzio per qualche istante, senza che riuscissi a cogliere il significato dello sguardo che mi stava riservando. Sembrava stesse meditando su qualcosa, e la cosa non mi piaceva affatto.

Perciò, per evitare qualsiasi problema, feci per iniziare a incamminarmi, ma fu in quel momento che Filippo mi sbarrò la strada, mi appoggiò la mano libera sulla guancia e mi scoccò un umido e a mio avviso vomitevole bacio sull'altra.

Rimasi pietrificata per qualche secondo, finché non ripresi il controllo di me stessa. O meglio, piuttosto che riprendere il controllo, più che altro proseguii totalmente allo sbando, fino ad arrivare a dare il peggio di me: gli strappai il cono gelato dalle mani e glielo capovolsi sulla testa.

Non avrei voluto arrivare a tanto, ma era stato più forte di me. Quando ero davvero furente, tendevo a esagerare, come era appena accaduto.

Per un attimo, sembrò che il mondo si fosse fermato. Filippo non si era mosso di un millimetro, l'unico movimento era dato dalle gocce di gelato che continuavano a colargli dai capelli sulla fronte e sul resto del viso, fino a colare a terra; Vittorio se ne stava in disparte, con gli occhi sbarrati e le labbra serrate come a voler nascondere una risata; io ero immobile, col fiato in sospeso e lo sguardo puntato sul terreno.

Alla fine trovai il coraggio di sostenere lo sguardo di Filippo. Mi morsi il labbro inferiore: «Scusami, non... non avrei dovuto» dissi, ed ero sincera. Non erano molte le volte in cui mi scusavo con qualcuno per i miei modi, se arrivavo a farlo era perché ero davvero pentita e dispiaciuta.

Ma era anche vero che lui non avrebbe dovuto darmi quel bacio senza il mio permesso e avrebbe dovuto tenere in conto che, facendolo, avrei reagito male.

A un certo punto, il ragazzo biondo davanti a me si riscosse e mi rispose: «Mi spieghi che cazzo di problemi hai?» sbraitò Filippo, iracondo.

Si lisciò una mano sui capelli e poi la scosse due o tre volte per far cadere il gelato a terra, prima di tornare a rivolgermi uno sguardo infuocato.

Inarcai un sopracciglio, stupita per via di quella reazione. «Tutto qui quello che hai da dire? Io ho ammesso di aver sbagliato, forse dovresti farlo anche tu.» In fondo non mi sarebbe mai venuto in mente di fare una cosa del genere se solo lui non mi avesse fatta arrabbiare.

«Ma sei seria? Dovrei scusarmi per un bacio sulla guancia? Dio, non ti facevo così squilibrata. Su, Vitto, andiamo.» Si voltò verso Vittorio, il quale mi rivolse un'espressione compatita, e insieme si allontanarono, lasciandomi sola sul ciglio della strada.

Che nervi. Mi era passata anche la fame, e i crampi allo stomaco che avevo da tutto il giorno si stavano intensificando.

Mi avvicinai a un cestino e buttai la mia coppetta di gelato, tanto si era ormai quasi completamente squagliato e non valeva la pena finirlo. Poi mi feci forza e mi incamminai verso casa.

 

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Capitolo 12
*** Dieci. ***


Dieci.

«Una squilibrata... una squilibrata! Dio, che fastidio! Idiota, stupido, disturbato mentalmente che non è altro! Ha cambiato umore tre volte in dieci minuti e si azzarda persino a trattarmi come se fossi io la folle?»

Stavo sfregando le dita sul capo con così tanta forza e enfasi che a un certo pensai quasi di essermi graffiata. Dedussi quindi di essermi insaponata i capelli a sufficienza, allora aprii il getto della doccia e cominciai a sciacquarmi via lo shampoo dai capelli.

Dopo aver finito di lavarmi, uscii dalla doccia e mi avvolsi il solito telo attorno al corpo e misi le ciabatte ai piedi.

Senza neanche attendere che le punte dei capelli smettessero di sgocciolare, mi affrettai a passare la spazzola con energia per poter sciogliere ogni nodo.

Poi riappoggiai la spazzola sul mobile del bagno e uscii dalla stanza. Tornai in camera mia e, dopo essermi assicurata che il mio corpo fosse asciutto, tolsi il telo, lasciandolo cadere sul letto.

Poi aprii il cassetto della biancheria intima e tirai fuori una canottiera e delle mutandine pulite.

«Non metti il reggiseno?» domandò mia sorella, osservandomi mentre mi vestivo.

«A cosa servirebbe? Non c'è granché da reggere» ammisi, dandomi qualche leggero colpo sul petto. «Vedi?»

«Lo so, ma con questa canottiera ti si vedono i capezzoli, Nina» mi fece notare, alzandosi dal letto e venendo nella mia direzione.

Roteai gli occhi. «Che male c'è? Ce li hanno tutti.» Poi abbassai un attimo lo sguardo per guardare se quanto detto da Benedetta fosse vero.

«Non mi stava così attillata prima, di solito non si vedeva niente...» dissi, più che altro fra me e me.

«Ci credo, non fai che abbuffarti tutto il giorno. Fra poco farai concorrenza a Vittorio per quanto mangi, solo che lui almeno è alto e smaltisce di più.»

Rimasi interdetta qualche secondo per la sua sfacciataggine. «Grazie, Benni, come sei gentile» ribattei, piuttosto seccata. Poi aprii un altro cassetto e presi una maglia larga a maniche corte e dei pantaloncini.

«Dovresti esserne contenta: era anche ora che mettessi su qualche chilo, sei sempre stata uno scricciolo» fece, tirandomi un piccolo pizzicotto sulla pancia.

In effetti aveva ragione. Non mi ero mai sentita molto a mio agio con il mio fisico, mi ero sempre sentita da meno rispetto alle mie coetanee. Forse ingrassare un po' era ciò che mi serviva. E non è che fossi una che in genere mangiava poco, anzi, l'appetito non mi mancava mai, ma solo in quegli ultimi giorni sembrava che non smaltissi più rapidamente tutte le calorie che ingerivo come succedeva un tempo.

«Ciò non significa che mi piaccia essere paragonata a un maiale» dissi, prima di finire di vestirmi e gettarmi a letto. Mi sedetti appoggiando la schiena al muro e portandomi le ginocchia al petto.

«Lo sai, un po' di femminilità non guasterebbe» commentò Benedetta, portandosi entrambe le mani sui fianchi per darsi una certa aria.

«Mica è colpa mia se l'hai presa tutta te» feci, scrollando le spalle. «E poi non mi interessa essere femminile, specie se implica avere la puzza sotto al naso proprio come te.»

«Mi chiedo solo come farai a trovare qualcuno disposto a sposarti con quei modi sgraziati da ragazzo» mi rimbeccò, sedendosi sul suo letto, di fronte a me.

«Hai mai pensato che forse sposarmi è la cosa fra tutte che meno mi interessa? Ci sono tante cose a cui aspiro essere, prima che una moglie, o una madre.»

Prima di tutto, mi sarebbe piaciuto viaggiare. Vedere tutta l'Italia, tanto per cominciare, e non fare solo da Milano a Torino e da Torino a Milano in eterno. E poi il resto d'Europa, e l'Asia, e così via. C'erano così tanti luoghi diversi da quello in cui ero nata da vedere e da scoprire, un sacco di culture e persone da conoscere.

E avrei voluto farlo perlopiù da sola. Andare alla scoperta del mondo da sola, senza dover stare dietro né dover assecondare nessuno.

Poi mi sarebbe piaciuto trovare un lavoro gratificante, qualcosa che mi avrebbe reso fiera ogni giorno, qualcosa che mi avrebbe permesso di fare qualcosa di importante. Qualcosa che in genere era affidato agli uomini, e per il quale le donne non venivano quasi prese in considerazione, così da poter dimostrare quanto fosse sbagliata la continua disparità fra generi.

Mi sarebbe piaciuto anche diventare brava a fare cose diverse: conoscere altre lingue, scrivere, suonare uno strumento... Qualcosa di diverso dal solito cucinare o lavorare all'uncinetto.

E poi, soltanto alla fine, mi sarebbe piaciuto costruirmi una famiglia. Trovare un marito, avere dei figli. Ma non era una vera e propria necessità, né aveva la precedenza sul resto.

«Ma dai, lo dici solo perché come al solito vuoi sentirti diversa e speciale rispetto a tutti gli altri! Non c'è niente di male nel...»

Scattai in piedi e persi il controllo, non lasciandole neanche il tempo di terminare la frase: «Perché semplicemente non puoi rispettare un modo di vedere le cose diverso dal tuo? Non me ne frega niente di distinguermi dalla massa, semplicemente non baso la mia vita sulla ricerca di un moroso e non ho intenzione di cambiare il mio modo di essere e i miei atteggiamenti solo per riuscire a trovarne uno!» esclamai, sentendo le guance ribollirmi per la rabbia.

Presi un paio di respiri profondi subito dopo e tornai a sedermi sul letto, per riacquistare la calma.

Come accadeva la maggior parte delle volte in cui avevamo una discussione, le mie parole le entrarono in un orecchio e le uscirono dall'altro: infatti mi ignorò totalmente e provò a cambiare discorso per non far degenerare ancora una volta il tutto. «Vedi di abbassare la voce, che abbiamo ospiti. Che cosa vuoi che pensino di noi tutti quanti?»

Sbarrai gli occhi. «Ospiti? Chi c'è a casa?»

«Un altro degli amici di Vittorio» rispose, sbuffando. «In questa casa è sempre pieno di stupidi mocciosi, non bastavi già tu?»

Così presa da ciò che aveva detto, non colsi neanche la frecciatina di Benedetta. «Quale amico?» chiesi, anche se dentro di me stavo già pentendomi di quella domanda.

«Oh, ma che ne so? Non mi interessa. A proposito, vai a chiedere a mamma fra quanto si mangia? Devo chiamare Maurizio stasera, ma se è quasi pronto allora lo chiamerò dopo cena.»

Accennai un sì con la testa e poi uscii dalla nostra stanza e mi diressi in cucina.

Non appena mossi un piede dentro la stanza, il mio olfatto fu deliziato da un ottimo odore e il tutto fu seguito poi da un enorme senso di vuoto allo stomaco. Allora mi ricordai che era quasi da pranzo che digiunavo, dal momento che la mia merenda di quel pomeriggio era finita in un cestino.

Mi avvicinai ai fornelli e inspirai. «Mmh... risotto con lo zafferano!» esclamai, osservando la padella nella quale mia mamma stava colorando di giallo il risotto con il condimento.

«Alla Milanese» sottolineò mia madre. «Assaggia e dimmi se va bene» disse poi, passandomi un cucchiaio di legno sul quale c'era un po' di risotto. Non me lo feci ripetere due volte.

«Sì, è pronto.» Poi diedi un'occhiata alla tavola, che era già apparecchiata. Storsi il naso. «Perché hai apparecchiato per sei?»

«Abbiamo un ospite stasera, si ferma a cena da noi, forse resta anche a dormire. È un amico di Vittorio, dovresti conoscerlo» disse mia madre, prima di spegnere il fornello.

«Per caso quello biondo?» chiesi, pregando dentro di me che la sua risposta non fosse affermativa.

Mia madre mi rivolse un sorriso. «Sì, proprio lui!»

«Ecco, lo sapevo...» sbottai scocciata, ma a quanto pare mia madre non interpretò in maniera corretta il mio tono di voce: «Che c'è, speravi che fosse proprio lui?» fece con tono malizioso.

«No, l'esatto contrario.» Incrociai le braccia al petto e mi andai a sedere a tavola. «È pronto! A tavola!» esclamai poi.

Rimasi tutto il tempo con le braccia conserte appoggiate sul tavolo e lo sguardo tenuto basso. O almeno finché non sentii delle voci maschili farsi sempre più vicine alla cucina e finché non riconobbi la risata più fastidiosa esistente al mondo.

Cioè, no, era anche una bella risata, una di quelle abbastanza contagiose. Il fastidio era dovuto alla persona che emetteva quella risata.

Non appena entrò in cucina, incrociò velocemente il mio sguardo, ma lo distolse subito e non disse nulla, il che mi meravigliò. Ma di certo era meglio così.

Dopodiché ci raggiunsero a tavola anche Claudio e Benedetta.

Diedi un'occhiata a Vittorio, il quale andò a sedersi in mezzo a noi due, come a voler fare da mediatore e impedire qualsiasi bisticcio. Lui ricambiò il mio sguardo, e sembrava quasi volesse dirmi qualcosa come: «Fidati, è tutto a posto».

O almeno lo speravo. Per quella giornata ne avevo avuto abbastanza.

*

La cena comunque proseguì tranquilla. Filippo era stato stranamente gentile, parlava a mia madre con tono così tanto mellifluo che sembrava quasi le facesse il filo. Ciò mi rese molto difficile mantenere l'impegno che mi ero presa di evitare commenti o smorfie ogni qualvolta aprisse bocca. Continuavo a riempirmi il bicchiere d'acqua e a bere soltanto per avere la bocca piena e riuscire a tenere a freno la lingua.

Con Claudio sembrava avere un gran bel rapporto, del resto si conoscevano da anni, lo trattava come se fosse suo figlio e al tempo stesso anche Filippo sembrava quasi considerarsi tale.

Ciò che mi stupì in assoluto, però, fu che riuscì perfino a strappare due parole a mia sorella, che normalmente durante tutti i pranzi in famiglia se ne stava quasi del tutto zitta, attendeva di finire il suo pasto e poi si alzava e se ne andava in camera sua. Invece quella sera rimase volentieri più del solito, parve quasi dimenticarsi di dover telefonare all'amore della sua vita.

Sembrava che Filippo fosse di famiglia più di quanto lo fossi io.

Si offrì perfino di aiutare mia madre a sparecchiare e lavare i piatti, dicendo che tanto era abituato a farlo a casa sua e non gli pesava, il che diede a Claudio il pretesto per obbligare suo figlio a fare lo stesso. «Andiamo, sfaticato, renditi utile» disse a Vittorio, mentre io e mia sorella fummo ben contente di potercene andare in camera nostra a rilassarci.

Ero a dir poco sfinita. Andai rapidamente in bagno, mi lavai i denti e poi tornai in camera per mettermi a letto, peccato che proprio in quel momento mia sorella stava componendo il numero di casa di Maurizio, ciò significava che non avrei avuto pace per le successive tre ore.

«Benni, per favore, non puoi spostarti in salotto?»

«No, non ci arriva la cornetta fino al divano. Sh! Sta squillando!» disse poi, portandosi un indice sulle labbra.

«Ma se tanto ti siedi sempre a terra appoggiata al muro» le feci notare. «Ho sonno, e visto che questa è la camera di entrambe, dovresti...»

«Pronto? Amore, eccomi finalmente!» mi interruppe, senza neanche dare ascolto alle mie parole.

Roteai gli occhi, uscii dalla stanza e mi diressi verso il mobiletto in legno dove solitamente era appoggiato il telefono. Mi chinai a terra e senza troppi sensi di colpa staccai la spina.

Mia sorella non ci impiegò molto a fare due più due e a capire cos'era successo e chi era la responsabile. «Nina!» strillò, prima di spalancare la porta della stanza e afferrarmi per l'orecchio.

Mi liberai con uno strattone e le tirai una sberla sulla mano. «Ahia! Sei impazzita?»

«Sei proprio una sciocca!»

«Almeno adesso mi darai ascolto e mi lascerai dormire?»

Non mi rispose. Mi strappò il cavo del telefono dalle mani e riattaccò la spina alla presa, prima di sedersi a terra, lì in corridoio.

Grazie a Dio.

Tornai in camera mia soddisfatta, massaggiandomi l'orecchio dolorante. Dopodiché, senza perdere ulteriore tempo, mi stesi a letto e chiusi gli occhi.

Ero così cotta che mi addormentai quasi subito, nonostante la terribile afa di quella notte.

Per mia sfortuna, la cosa non durò a lungo. Mi risvegliai dopo poche ore, per andare in bagno. Mia sorella aveva già finito la sua chiamata con Maurizio e si era messa a dormire, perciò dedussi di aver dormito per circa due o tre ore.

Ritornai a dormire, solo per rialzarmi ancora altre due volte nel corso della notte.
Forse bere così tanta acqua a cena non era stata un'ottima idea, dato che sembrava fossi diventata incontinente.

E il problema era che mi era anche tornata la sete.

Tentai per un po' di resistere, per non rischiare di passare davvero tutta la notte fra il mio letto e il gabinetto, ma alla fine cedetti e mi rialzai. Avevo la gola troppo secca.

Feci per dirigermi in cucina, quando notai la portafinestra della sala socchiusa. Era strano che ce la fossimo dimenticata aperta. Mi avvicinai e la richiusi. Dopodiché mi diressi in cucina, tirai fuori un bicchiere dalla credenza e lo riempii d'acqua del rubinetto.

Sobbalzai letteralmente non appena iniziai a sentire dei forti colpi provenire dall'altra stanza, facendo cascare un po' del contenuto del bicchiere a terra. Appoggiai quest'ultimo sul tavolo dopo essermi dissetata, e poi andai a vedere di cosa si trattasse, sebbene fossi un po' timorosa di scoprire a cos'erano dovuti quei rumori.

Rimasi immobile sulla soglia della porta della cucina per qualche istante, prima di portarmi una mano sulla bocca per soffocare le risate. «Allora ecco perché l'avevo vista socchiusa!» esclamai, prima di andare di nuovo verso la portafinestra.

«Tu hai dei seri problemi!» sbraitò Filippo, che a causa mia era rimasto chiuso fuori in terrazzo.

«Ehi, non ti conviene parlarmi così, potrei sempre decidere di lasciarti qui» feci, incrociando le braccia al petto. Decisi allora che gliel'avrei fatta un po' sudare. «Allora, qual è la parolina magica?»

Ridusse gli occhi a due fessure e sbuffò. «Datti una mossa, andrà a finire che le zanzare mi mangeranno vivo!» esclamò, e la cosa sembrava farsi sempre più allettante. Poi, vedendo che io non facevo una piega, sospirò rassegnato. «Amore della mia vita e futura madre dei miei figli, saresti così gentile da aprire la portafinestra e lasciarmi entrare?»

Alzai gli occhi al cielo. Non poteva proprio farne a meno di irritarmi.

«Ah, ma allora ti piace proprio l'idea di rimanere chiuso qui fino a domattina» dissi, portandomi le mani sui fianchi.

Alla fine però abbassai la maniglia e aprii la portafinestra. Del resto non volevo passare tutta la notte a negoziare con lui. Era anche vero che avrei semplicemente potuto andarmene a dormire e fregarmene, ma mi sarei di certo sentita in colpa a farlo.

«Grazie, tesorino» disse una volta rientrato in casa.

«Piantala, o ti risbatto fuori a calci» lo ammonii. «E poi si può sapere che ci facevi fuori in terrazzo a quest'ora?»

Si strinse nelle spalle. «Nulla, non riuscivo a dormire ed ero venuto a prendere un po' d'aria fresca e a riflettere sul senso della vita. Ma in realtà fa quasi più caldo fuori che qui dentro» spiegò. «O almeno, era così prima che ti vedessi, adesso la temperatura sta certamente salendo» aggiunse con uno dei soliti ghigni beffardi e fastidiosi.

Alzai gli occhi al soffitto e non risposi subito.

«Wow, allora adesso mi parli» commentai a un certo punto.

«Ma certo, non ha senso vivere portando rancore, non trovi?» fece, poggiandomi una mano sulla spalla.

«Sì, suppongo di sì...» dissi, non molto convinta. Ogni volta trovava il modo di lasciarmi spiazzata. Quel pomeriggio mi aveva letteralmente dato della squilibrata, pensavo non mi avrebbe mai più rivolto la parola. Se non altro ci speravo.

«E tranquilla, ho imparato la lezione: non proverò più a baciarti. A meno che non sia tu a volerlo.» Si morse il labbro inferiore e mi fissò con quella solita faccia da pesce lesso.

Indietreggiai di qualche passo, per liberarmi della sua mano ancora appoggiata sulla mia spalla. «Certo, sì, tu inizia ad attendere che cambi idea, ne riparleremo quando sarai ormai in punto di morte magari.»

Gli voltai le spalle, già stufa di quella conversazione. Filippo mi si piazzò allora davanti, per far sì che il dialogo proseguisse. «D'accordo. Ho una vita intera davanti per aspettare che cambi idea.»

«Quanto sei scontato. Poi posso sapere perché fra tutte le ragazze che ci sono ti sei fissato proprio con me?»

Non avevo fatto altro che trattarlo male e respingerlo da quando lo conoscevo. Allontanare le persone per via del mio carattere era la mia specialità, era strano che con lui non avesse funzionato.

«Non lo so» rispose in tutta sincerità, scrollando le spalle.

Inarcai le sopracciglia e spostai il peso da un piede all'altro. «Ah sì? Io una mezza idea ce l'avrei: tu sai benissimo l'effetto che hai normalmente sulle ragazze e, il fatto che per una volta ce ne sia una che non ti muore dietro, rappresenta per te come una sorta di sconfitta. E a te non va di perdere.»

«O forse è perché tu non sei come le altre.»

Che banalità.

«E come sono le altre? Sono stupide? Troppo facili? Non sono abbastanza? Galline, ingenue, fuori di testa? Su, illuminami» lo sfidai, avvicinandomi un poco al suo viso. Ero curiosa di vedere come si sarebbe tirato fuori da quella situazione. In un modo o nell'altro finiva sempre per dire la cosa sbagliata e farmi arrabbiare.

«No, guarda che...»

«Se pensi di fare colpo su di me dicendomi che sono "diversa" dalle altre ragazze, allora sappi che non avrai successo. Magari sì, sono diversa, perché tutte lo siamo. Ma io non ho nulla in più né nulla in meno rispetto alle altre ragazze.»

Non rispose, conscio di aver appena fatto una terribile figura ai miei occhi. Feci allora per tornare verso la mia stanza, ma mi afferrò per un braccio e mi fece voltare: «Perché devi per forza pensare male di me? Hai tratto le tue conclusioni senza nemmeno lasciarmi l'occasione di finire di parlare».

«Allora spiega quello che intendevi.»

«Be', non ci riesco, ok? Non tutto può essere spiegato a parole.»

«Oh, fammi il piacere! Che c'è, ti sei innamorato di me? Se nemmeno mi conosci.»

«È proprio questo che ti ho chiesto. Di uscire con me per darmi la possibilità di conoscerti. E per avere la possibilità di conoscere te. Che cosa ho fatto di male per non meritarmelo?»

Riflettei per qualche secondo sulle sue parole. Non aveva tutti i torti. Ero partita in quarta, facendomi un'opinione su di lui senza neanche conoscerlo. In fondo non si era comportato male nei miei confronti. Dopo il primo rifiuto aveva deciso di non demordere, ma comunque non era stato neanche troppo invadente, ero io che l'avevo presa in modo anche fin troppo esagerato e ormai ogni cosa che diceva veniva interpretata in maniera negativa da me.

«Va be', d'accordo allora» fece a una certa.

«Cosa?» domandai confusa, mentre lo vedevo dirigersi verso il corridoio che portava alle camere da letto.

«Basta così, me ne farò presto una ragione.»

Strabuzzai gli occhi. «Stai scherzando?»

«No. Che vuoi, solo a te è consentito cambiare idea? Se pensi che sia uno a cui piace correre dietro alle ragazze, sappi che ti sbagli. In genere sono uno che si stufa molto in fretta e, onestamente, non ho più voglia di rincorrerti.»

Sembrava un sogno. Finalmente me ne stavo tirando fuori, anzi, meglio: era lui che si stava tirando indietro. «Come non detto, allora. Pensa, stavo quasi per dirti di sì.»

Sorrise, mostrando quella fossetta che gli spuntava solo sulla guancia destra. «Ah, troppo facile così. Vuoi la parità di genere? Anche io. Ora tocca a te.»

«Ora tocca a me fare cosa? Guarda che lo facevo per te, non me ne importa nulla di uscire con te. Ora che non interessa più neanche a te, siamo a posto direi.»

«Sì, siamo a posto. Mi raccomando, non cercarmi» mi fece un occhiolino prima di andarsene verso la stanza di Vittorio.

«Tranquillo, non c'è questo rischio!» dissi a voce un po' più alta per farmi sentire, dal momento che era già entrato dentro la stanza e aveva chiuso la porta alle sue spalle.

«Lo vedremo!» rispose lui dall'altra parte.

 

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Capitolo 13
*** Undici. ***


Undici.

Primo giorno di scuola nella nuova scuola.

Dire che ero nervosa era quasi un eufemismo, diciamo che ero proprio nevrotica.

Soprattutto perché quella mattina mi ero svegliata alle cinque per via di quei terribili crampi al basso ventre che non mi davano pietà ormai da giorni.

Per darmi la carica e riuscire a superare quella giornata, bevvi ben tre tazze di caffè, una dopo l'altra.

«Non è possibile! Non è davvero possibile!» esclamai, cercando di tenere la pancia in dentro il più possibile.

«Nina, vuoi calmarti?» fece Benedetta, passandosi le mani fra i capelli dalla disperazione.

«No che non mi calmo!»

«Smettila, mettine un altro paio e basta.»

A quelle parole mi infiammai. «Un altro paio? Un altro paio! Sono i miei jeans preferiti, li ho comprati nemmeno tre mesi fa e volevo metterli oggi per il mio primo giorno di scuola. Non mi entrano! Come diavolo è possibile?»

«Stai ferma e fai provare me» disse. Prese i due lembi dei miei jeans e li avvicinò fra di loro per abbottonarli, prima di provare a tirare su la zip. «Ecco fatto, vedi? Con un po' di tranquillità si riesce a fare tutto.»

«Ah, parli proprio tu di calma e tranquillità? Saremo sorelle per un motivo!» feci con tono tagliente, prima di sospirare di sollievo per essere finalmente riuscita a chiudere quei jeans.

Nel farlo, la zip si abbassò di nuovo e vidi il bottone saltare in aria alla velocità della luce e andare a colpire il muro, prima di depositarsi a terra.

Rimasi in silenzio per un paio di secondi con il tic nervoso all'occhio che avevo da tutta la mattina, prima di prendere di nuovo a urlare. «Ecco, si sono anche rotti adesso! Ho una vita di merda, vedi? Fa tutto schifo!» continuai a lamentarmi, nel mentre che mi toglievo i jeans, incontrando un po' di difficoltà nel farli passare sotto il sedere.

A quel punto la porta si aprì e apparve Vittorio, già pronto, vestito e con lo zaino in spalla. «Allora, Nina, ci sei?» chiese con un sorriso.

Gli lanciai i miei jeans contro, beccandolo dritto in faccia. «No, levati dalle palle! Ma ti puoi fare i cazzi tuoi per una volta?» gridai, e lui, terrorizzato, non se lo fece ripetere due volte e richiuse la porta. «Non ci vado a scuola, non ci vado. Non mi interessa niente. Mi rifiuto» sbottai, lasciandomi sprofondare sul letto.

«Nina, smettila, hai quindici anni e ti comporti proprio come una bambina. Ora ti alzi, ti prepari e porti il tuo stupido culo dritto a scuola, altrimenti...»

«Altrimenti cosa?» la interruppi, con tono beffardo. Solo perché per una volta aveva deciso di comportarsi da persona matura, non stava a significare che poteva darmi ordini.

«Altrimenti ti picchio, come facevo quando eravamo bambine» rispose, portandosi le mani sui fianchi.

«Ho imparato a difendermi adesso, ti farei più male» ribattei.

«Sì, ma comunque sei ancora uno scricciolo.»

A quelle parole, il labbro inferiore cominciò a tremarmi incessantemente. «I miei jeans preferiti si sono rotti perché ho il culo troppo grosso e ho troppa pancia!» esclamai, prima che migliaia di lacrime iniziassero a sgorgare dai miei occhi.

Benedetta si portò una mano sulla fronte e scosse la testa. «Non ce la faccio più, Nina, e che diamine! Datti una svegliata e smettila di frignare. Ringrazia che mamma sia già uscita e non ti senta fare queste scenate inutili.» Dopo quelle parole, prese il suo zaino di scuola e uscì dalla stanza, lasciandomi sola.

«Ma certo... tanto a te che importa? Non puoi capire, nessuno riesce a farlo... a nessuno frega mai niente di me e dei miei problemi!»

Tirai su col naso e poi chiusi gli occhi, dando modo alle ultime lacrime di scendere dai miei occhi e depositarsi sulle mie guance. Poi pensai che doveva essersi già fatta una certa ora e che rischiavo davvero di perdermi il primo giorno.

Allora feci un respiro profondo, riaprii gli occhi e mi alzai dal letto. Aprii un cassetto e tirai fuori dei pantaloni neri. Me li misi e poi infilai la polo bianca che indossavo al loro interno, prima di tirare su la zip e allacciare il bottone. Poi infilai le calze a fantasmino e un paio di ballerine nere.

Presi il mio zaino e successivamente uscii dalla mia stanza.

Benedetta se n'era già andata, mentre Vittorio era rimasto ad aspettarmi seduto sul divano. Non appena mi vide, si alzò in piedi e mi raggiunse. «Allora, possiamo andare?» domandò quasi spazientito, ed ero seriamente tentata di mandarlo a quel paese: mica l'avevo obbligato io ad aspettarmi, potevo andarci benissimo da sola a scuola. Anzi, me la cavavo meglio da sola.

Comunque poi pensai che per quella mattina avevo dato fin troppo spettacolo, perciò rimasi semplicemente zitta e mi avviai verso la porta di casa.

Vittorio mi seguì e insieme prendemmo l'ascensore, continuando a rimanere in silenzio. Io me ne stavo a braccia conserte, tenendo lo sguardo basso e tentando di trattenere altre lacrime.

Ma che mi succedeva quella mattina? Ero cento volte peggio del solito, tanto che, anche se non mi andava di ammetterlo, me ne rendevo conto da sola di essere insopportabile.

«Ma hai pianto?» chiese a un certo punto Vittorio, scrutandomi meglio in viso.

Sollevai di scatto la testa e lo fulminai con lo sguardo. «Già! E allora? Il fatto che pianga ti crea problemi? Be', risolviteli, nel caso» sputai con veemenza.

Vittorio sgranò gli occhi e rimase a bocca aperta per la mia aggressività. Pensavo che quella sarebbe stata la volta buona in cui mi avrebbe risposto per le rime, come avrebbe fatto chiunque altro e come avrebbe dovuto fare anche lui, invece nemmeno quello fu il caso. «Quanti caffè hai bevuto stamattina?» chiese, mantenendo quel tono pacato che mi dava sui nervi.

«Tre» risposi, riabbassando lo sguardo e iniziando a torturami le mani dall'agitazione.

«Ah ecco, adesso si spiega perché sei sul piede di guerra, e anche perché hai i denti marroni.»

Mi portai una mano sulla bocca. «I denti... cosa?»

Poi ripensai ai vari passaggi seguiti quella mattina da quando mi ero svegliata fino a quando ero uscita di casa, e arrivai a realizzare una cosa gravissima, oltre che imbarazzante: mi ero dimenticata di lavare i denti.

Ma ormai era troppo tardi per risalire.
Istintivamente iniziai quindi a passarmi l'indice sui denti e a strofinare, nell'illusione che servisse a qualcosa. «Hai una mentina?» chiesi a Vittorio, nel mentre che l'ascensore giungeva al piano terra.

«No, ma ho delle gomme da masticare» rispose.

«È uguale! Dammene una, ti scongiuro. E veloce!» esclamai e lui roteò gli occhi.

«Prima esci dall'ascensore almeno, che ne dici?» disse. Dopo che ebbi fatto come mi aveva detto, si infilò una mano in tasca e tirò fuori un pacchetto di gomme da masticare, prima di passarmene una.

«Va meglio adesso?» domandai, mostrandogli i denti e pregando mi dicesse di sì.

«Sì, all'incirca. Meglio di prima sicuro.»

Sbuffai. Che giornata disastrosa.

*

Una volta arrivata nella mia nuova classe, 2A, andai in cerca di un posto libero. Dopo averlo trovato, nella seconda fila centrale, mi sedetti. E fu in quel momento che avvertii qualcosa di strano.

Era qualcosa di... liquido, forse? Non era pipì, insomma, avevo imparato a farla senza pannolino ormai da molto tempo. Allora cosa diavolo era? Se non... no, impossibile. No, non proprio impossibile, in realtà. Prima o poi sarebbe dovuto arrivare quel giorno, anzi, io ero anche abbastanza in ritardo rispetto alla media.

Mi era arrivato il ciclo.

Dio, era ora.

E questo effettivamente spiegava molte cose. I crampi degli ultimi giorni, la mia fame da lupi, l'aumento di peso, il mio carattere ancora più intrattabile del consueto.

Cominciai a sorridere quasi senza rendermene conto. Avrei voluto annunciarlo al mondo intero, ma dubitavo che ad altre persone all'infuori di me sarebbe interessata la cosa.

Poi però pensai che essere stata colta alla sprovvista dal menarca aveva anche un importante aspetto negativo: non avevo un assorbente. Non potevo sporcarmi il primo giorno di scuola nella mia nuova scuola.

Così mi alzai dalla sedia, verificando rapidamente di non averla sporcata, e poi mi avvicinai a un gruppo di ragazze riunite a cerchio. «Ehi, ciao ragazze» dissi.
Queste mi squadrarono da capo a piedi, ma sul momento non ci diedi importanza, avevo altre cose a cui dare la precedenza. «Io sono Nina, sono nuova, mi sono trasferita da poco» mi presentai, simulando un sorriso.

«Ciao» risposero in coro. E nient'altro.

Io però non avevo intenzione di spostarmi da lì. Rimasi immobile, continuando a fissarle una a una.

Dopo una manciata di secondi, allora, ecco che parvero sbloccarsi e iniziarono a dire il proprio nome a turno e stringermi la mano.

Angelica, Eva, Irene e Sabrina.

«Da dov'è che ti sei trasferita?» chiese una di loro, Irene forse.

«Torino. Be', in realtà sono nata a Milano, poi mi sono trasferita a Torino, e poi sono ritornata qui. Storia lunga» risposi con un sorriso imbarazzato. «E... ecco, perdonate la schiettezza, ma qualcuna di voi avrebbe un assorbente da prestarmi?» andai subito al sodo.

Subito dopo assunsi un'espressione compiaciuta e sperai che nessuna di loro l'avesse colta. Avevo sempre desiderato dire una frase del genere. Qualcosa di così normale, tipico dei discorsi fra ragazze, ma che per anni non avevo avuto modo di dire. Per di più, era imbarazzante e fuori dal normale, ogni volta che qualcuno chiedeva a me se avessi un assorbente, dover ammettere che non ne avevo perché non ne avevo bisogno.

Ma nessuna di quelle quattro ragazze lo sapeva. Per loro non ero fuori dalla norma. Non avevo nulla che mi rendeva diversa da loro. Se non che il mio aspetto era ancora quello di una dodicenne, sebbene avessi preso qualche chilo. Ma adesso sarebbe cambiato tutto.

«Sì, sì, certo, ce l'ho io, non ti preoccupare» fece Angelica, dirigendosi verso il suo zaino di scuola e tirando fuori dal taschino, attenta a non farsi notare dagli altri presenti in classe, ciò che le avevo chiesto. Poi tornò da me e aprì la mano, mostrandomi una sorta di bastoncino di cotone avvolto in una plastica trasparente.

Corrucciai la fronte. «Che... che cos'è?»

«Un tampone. Sai, da infilare... dentro» replicò, ma ciò non chiarì la mia confusione. Avevo già visto degli assorbenti, e nessuno aveva quell'aspetto. Erano più grandi e più allungati.

«Dentro dove?»

Angelica si scambiò uno sguardo con le altre sue compagne e ridacchiarono tutte insieme. «Non saprei, su per le narici magari! Secondo te?» fece una di loro.

Simulai una risata. «Ma sì, certo, stavo scherzando!» esclamai, prima di dar loro le spalle e avvicinarmi verso il mio zaino. Presi dei fazzoletti e un piccolo specchietto che, per fortuna, mi ero portata dietro. Dopodiché uscii dalla classe e mi misi alla ricerca del bagno delle ragazze.

Mi sentivo così a disagio mentre camminavo, e non solo perché ero nuova lì dentro e non sapevo neanche dove stavo andando. Ogni persona con cui incrociavo lo sguardo sembrava mi stesse prendendo in giro... era quasi come se tutti lo sapessero.

Ogni volta che vedevo un gruppo di ragazzi o ragazze parlare sottovoce e sghignazzare subito dopo, avevo come la sensazione che ridessero di me.

A un certo punto scossi la testa per riprendermi. Smettila, Nina, non sei il centro del mondo e nessuno sta badando a te.

Poi incrociai un bidello e gli chiesi dove fosse il bagno delle ragazze. Mi guardò torvo e se ne andò senza nemmeno rispondere.

«Che gentile...»

Poi sobbalzai nel momento in cui sentii una porta che veniva aperta alle mie spalle. Ne uscì una ragazza che mi guardò male, visto che ero in mezzo ai piedi.

E poi realizzai che la stanza da cui era appena uscita era il bagno delle donne. Allora ecco perché il bidello mi aveva guardato male quando avevo chiesto indicazioni.

Entrai allora in bagno e mi avviai dentro una delle tre porte libere. La chiusi a chiave e iniziai a darmi da fare per capire come muovermi. Misi per il momento i fazzoletti in tasca, poi tolsi la plastica che avvolgeva l'assorbente interno e lo osservai.

Era grande all'incirca quanto il mio mignolo. Come avrebbe fatto un aggeggio del genere a contenere tutto quel... sangue?

Mi tirai giù i pantaloni e le mutandine e piegai leggermente le ginocchia. Poi, con lo specchietto che tenevo nell'altra mano, tentai di capire come diavolo fare.

Più avvicinavo la mano alla mia intimità e più le mani mi tremavano. Dopo poco tempo persi la pazienza. «Io neanche lo vedo il buco!» esclamai, sull'orlo ormai di un'altra crisi di pianto. «Come fa a esserci tutto questo flusso se il buco è minuscolo?»

E poi, sentii un suono che mi fece crollare il mondo una volta addosso per l'ennesima volta quella mattina: la campanella di inizio lezioni.

 

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Capitolo 14
*** Dodici. ***


Dodici.

Alla fine mi ingegnai creando una sorta di assorbente di emergenza con i fazzoletti che mi ero portata dietro, aprendoli e avvolgendoli attorno alle mie mutande. Ne usai tre, per creare più strati, sperando che fossero sufficienti almeno per le prime ore, fino all'intervallo.

E così fu, per fortuna. Quando mi alzai dalla sedia, controllai ancora una volta di non aver sporcato niente, e mi avviai quasi di corsa in bagno per cambiarmi ancora.

Che seccatura, però. Non pensavo che il ciclo mestruale potesse essere così estenuante: dovevo stare attenta a così tante cose, e quella particolare volta al mese mi sarebbe potuto arrivare in qualsiasi momento, quindi avrei sempre dovuto portarmi gli assorbenti dietro, così come i fazzoletti. In più i crampi, la fame da lupi, gli sbalzi d'umore... per circa una settimana al mese, ogni mese, per anni e anni e anni. E al momento non mi sarebbe neanche servito a molto, dal momento che non avevo intenzione di avere figli almeno per i prossimi dieci anni.

Essere donna non era per niente facile. Ma almeno finalmente potevo dire di esserlo. Non ero più una bambina, a tutti gli effetti. Quella consapevolezza mi dava una sensazione di compiacimento e non sapevo nemmeno il perché. Di fatto non era cambiato granché, ma dentro di me sentivo di aver compiuto un grande passo in avanti nella mia vita.

Comunque le lezioni proseguirono piuttosto tranquillamente. I professori erano bravi a spiegare, ma anche tosti e piuttosto severi, tanto che ci avevano già dato dei compiti per il giorno successivo. Al solo pensiero che fino al giorno prima era un semplice giorno d'estate e trascorrevo le giornate nella più completa nullafacenza, ebbi quasi una morsa allo stomaco. Dovevo fissarmi bene in testa fin da subito di dovermi mettere sotto con lo studio.

Durante i due intervalli parlai un po' con le ragazze che avevo conosciuto prima e anche con altri miei compagni di classe. Per il momento, nel complesso non mi avevano fatto una brutta impressione, anche se forse erano un pochino spocchiosi, specialmente le ragazze. Non facevano che parlare di cose come trucchi, ragazzi, vestiti, mi sembrava quasi di ascoltare le conversazioni telefoniche di Benedetta con le sue amiche di Torino.

Comunque, essendo solo il primo giorno e avendo la necessità di inserirmi nei loro discorsi per cercare di fare conoscenza, mi adeguai. Più che altro le lasciai parlare di loro, delle loro esperienze, dei loro gusti, senza scendere nei dettagli per le cose che riguardavano me.

Una volta terminate le lezioni, mi avviai insieme a una ragazza, Irene, verso la fermata del tram. Anche lei lo prendeva, abitava a Lanza, e doveva fare una fermata di tram in più rispetto a me per arrivare a casa.
Durante il tragitto parlammo parecchio, e scoprimmo di avere alcune cose in comune: anche lei aveva una sorella più grande, della stessa età di Benedetta, oltre a un fratello di cinque anni più grande, e anche lei si era trasferita da poco a Milano, all'incirca da due anni, perché prima stava a Como. Inoltre, eravamo nate ad appena due giorni di distanza, lei era nata il 25 e io il 27 maggio del '68.

Quando arrivò per me il momento da scendere dal tram, la salutai con un sorriso e ci mettemmo d'accordo per andare a scuola insieme il giorno seguente. Ci demmo un orario indicativo per prendere il tram, che tanto sarebbe passato a meno di cinque minuti di distanza da me dopo essere passato da lei.

Tornai perciò a casa sfinita da un lato, ma soddisfatta dall'altro. Erano successe così tante cose in metà giornata, che mi sembrava assurdo credere che non fossero nemmeno le due del pomeriggio.

Come prima cosa, dopo aver chiuso la porta di casa alle mie spalle e aver mollato lo zaino a terra, andai in bagno per farmi una doccia rigenerante. Poi mi avvolsi l'accappatoio attorno al corpo e mi chinai in basso per aprire il terzo cassetto del mobile del bagno, dove sapevo ci fossero gli assorbenti che usavano mia madre e mia sorella. Ne presi uno, quello che mi sembrava di dimensioni maggiori, e successivamente andai in camera mia per prendere della biancheria intima pulita e poterlo mettere.

Era certamente meglio dei fazzoletti, ma era comunque scomodo. Avrei dovuto farci l'abitudine.

Un attimo dopo essermi rivestita, sentii la porta di casa aprirsi. Dal modo in cui fu richiusa e dal sospiro che sentii subito dopo, capii immediatamente che si trattasse di Vittorio. Di solito Benedetta la richiudeva con irruenza, mentre Vittorio era più delicato, e in più ogni volta che rientrava a casa, si appoggiava alla porta e sospirava, il più delle volte perché prendeva le scale di corsa piuttosto che l'ascensore per arrivare prima e sfondarsi di cibo. Inoltre, ogni volta che lui o Claudio tornavano a casa, Giuseppe abbandonava qualsiasi attività che stesse facendo, che si trattasse di ronfare pigrosamente, o abbuffarsi, oppure ancora leccarsi le parti intime, per correre verso la porta d'ingresso ad accogliere i suoi padroni. E anche quella volta fu così.

Uscii allora dalla mia camera per andare a salutarlo. Rispetto a quella mattina mi ero un po' tranquillizzata. Con ciò non intendo dire che non fossi intrattabile, perché quello lo ero sempre, ma almeno non avevo istinti suicidi né omicidi nei confronti di chiunque cercasse di aiutarmi o di calmarmi.

Mi appoggiai allo stipite della porta del corridoio che dava sul salotto e mi schiarii la gola per attirare l'attenzione.

Vittorio sollevò lo sguardo e mi rivolse uno sguardo sorpreso. «Wow, sei arrivata persino prima di me. E io che avevo paura di doverti venire a cercare in giro per Milano per paura che ti saresti persa!» Poi prese in braccio Giuseppe, il quale si stava strusciando sulle sue caviglie e i suoi polpacci da cinque minuti buoni.

«Già, e invece, eccomi qui» risposi, avvicinandomi a lui. «Una mia compagna di classe fa la mia stessa strada, quindi mi ha aiutata a orientarmi» spiegai, prima di dare qualche carezza al testone peloso di Giuseppe. Mi stupii da sola di quel mio gesto, infatti dopo poco ritrassi la mano e mi sfregai le mani fra di loro per togliermi i suoi peli di dosso.

«Wow, hai già fatto amicizia?» domandò Vittorio, prima di dare un bacio al gatto sulla fronte e poi rimetterlo giù.

«Be', adesso non esageriamo» risposi, dirigendomi in cucina. Aprii il frigo alla ricerca di qualcosa da mangiare. Non avevo la minima voglia di mettermi a cucinare, perciò sperai di trovare qualcosa di già pronto. C'erano le lasagne avanzate dalla cena della sera prima, un po' d'insalata e degli affettati.

Vittorio mi seguì in cucina. «Ah, non preoccuparti per me, ho mangiato tre pizzette prese al bar della scuola. Comunque come si chiama la tua nuova "amica"?» fece, mimando le virgolette con le dita.

«Sicuro? Tanto io mi sa che mi faccio un panino, se tu vuoi le lasagne» dissi, tirando fuori l'insalata e gli affettati dal frigo e appoggiandoli sul letto. «Irene» risposi poi alla sua domanda. «Irene Stelluti» precisai.

A quel punto Vittorio sgranò i suoi occhi verdi a tal punto che pensai che gli sarebbero usciti dalle orbite e cascati a terra a un certo punto. Poi si rese conto di quella reazione eccessiva, così tentò di ricomporsi. Ma era troppo tardi, l'avevo già sgamato: «Sì? Che cos'ha questa Irene?».

«No, nulla, nulla» portò subito le mani in avanti, letteralmente. «Tu non le hai detto di me, vero?»

«No, le ho raccontato in generale la storia, ma non le ho fatto il tuo nome... Potrei sapere perché?» insistetti.

Mi diede le spalle e fece per dirigersi fuori dalla cucina, ma con uno scatto fulmineo riuscii a pararmi di fronte alla sua figura e fermarlo. «Vittorio! Dimmelo, dai, sono curiosa adesso!» esclamai.

Vederlo a disagio e in imbarazzo era sempre qualcosa in grado di divertirmi. Probabilmente non se ne rendeva conto, ma faceva quasi tenerezza. Le gote gli si arrossavano leggermente, lo sguardo diventava sfuggente e continuava a torturarsi le labbra, strappandosi i lembi di pelle con le dita; lo stesso con i capelli, che continuava a spostarsi da un lato e dall'altro, fino a sembrare un istrice con gli aculei in fuori.

«Dai, Nina, che palle che sei! Quasi quasi ti preferivo quando eri isterica questa mattina» disse, e a quel punto fui io a cambiare radicalmente espressione.

Iniziai a sentirmi in colpa per come mi ero comportata. Non volevo dare quell'idea di me e fare quelle scenate inutili. Probabilmente sarò sembrata una pazza, e anche maleducata, tanto che ancora non so come sia possibile che Vittorio non mi abbia mandata a quel paese dopo tutto ciò che gli sto facendo passare da quando sono qui, pensai. Sono una persona orribile, problematica, che nessuno vorrebbe al proprio fianco, ed ecco infatti perché sono sola.

Improvvisamente sentii un groppo formarmisi in gola e gli occhi diventare lucidi. Il labbro inferiore cominciò a tremare incessantemente, senza che potessi controllarlo.

«No... no, aspetta, che succede? Ho detto qualcosa di sbagliato? Mi dispiace, era solo una battuta, non pensavo che...»

«Lo so che era una battuta!» lo interruppi, scoppiando in un pianto isterico. «Io te ne faccio pure di peggiori, sempre, e tu non mi dici mai niente, mentre io... mentre io sono così, così... non lo so! Mi dispiace, non riesco davvero a capire cosa mi prenda ultimamente, sono così instabile, e... e...»

Mi bloccai non appena Vittorio, probabilmente non sapendo cos'altro fare, mi cinse in un abbraccio. Provai a divincolarmi, ma non ci riuscii perché Vittorio mi strinse ancora più forte. «Da quando quelle braccine rachitiche sono più forti delle mie?» commentai, prima di tirare su col naso.

«Ti rendi conto che questi continui commenti sul mio fisico sono sessisti?» fece Vittorio, allontanandosi un poco per potermi guardare bene in viso.

Sbuffai e roteai gli occhi. «Lo so, scusa» dissi, a malincuore, prima di alzarmi in punta di piedi e incastrare la testa nell'incavo del suo collo. Trascorremmo così una manciata di secondi, forse massimo un minuto, in silenzio, finché non riuscii a tranquillizzarmi e a smettere di singhiozzare. Poi mi separai bruscamente da lui, una volta che ritornai in me: «Che cosa ti avevo detto sugli abbracci?».

Scrollò le spalle. «Non saprei, non mi ricordo bene» rispose con tono beffardo.

Alzai gli occhi al soffitto ma decisi di lasciar correre per quella volta. Mi passai entrambe le mani sugli occhi e le strofinai, per potermi asciugare le lacrime. «Wow, non pensavo che il ciclo potesse davvero avere il pieno controllo di me e delle emozioni» commentai poi, ripensando alla scena ridicola di cui ero appena stata protagonista.

«Il ciclo?» domandò Vittorio confusò, prima di prendere un bicchiere dalla credenza e iniziare a riempirlo con l'acqua del rubinetto, porgendomelo.

«Grazie» dissi, prima di fare un grande sorso. «Sì, il ciclo. Mi è venuto oggi per la prima volta, per questo ho l'umore ancora più altalenante del solito.»

Vittorio appariva seriamente confuso, come se stessi parlando di una cosa fuori dal mondo.

«Tu... tu sai cosa sono le mestruazioni, giusto?»

Si grattò il capo ed evitò di rispondere subito. «È una malattia?» domandò incerto e io scoppiai a ridere fragorosamente: «Ma quale malattia! Le mestruazioni sono normalissime, ce le hanno tutte le donne, anche quelle della mia età o poco più piccole» spiegai.

«Ok, ma di che si tratta?»

Aprii la bocca per rispondere, ma poi la richiusi per poter pensare meglio a come farglielo capire senza scandalizzarlo più di quanto non lo fosse già. «Be'... diciamo che l'arrivo delle mestruazioni causa la fuoriuscita di sangue dalle parti... dalle parti intime delle ragazze per qualche giorno» dissi, e Vittorio inorridì, prima di strapparmi il bicchiere dalle mani e bere l'acqua rimanente. «Sanguinate ininterrottamente? E per quale motivo?»

«Be', questo non lo so! Però succede a tutte e...»

Non ebbi il tempo di finire la frase, poiché fui interrotta da Vittorio: «E come fate a contenere tutto quel sangue?» domandò, prima di cominciare a fissare ossessivamente i miei pantaloni.

«Smettila di guardarmi!» lo rimproverai, prima di portarmi le mani lì davanti per coprirmi.

«Ok, scusa, è stato irrispettoso. È che mi sembra fantascienza! Come fate a vivere normalmente la vostra vita nel mentre che... cioè, in queste situazioni?»

«Non mi sembra qualcosa di così impossibile. Perché, tu non ci riusciresti?» lo punzecchiai.

Scrollò le spalle. «Dipende... che cosa si prova? Un po' come avere qualche linea di febbre?»

«Ah be', dipende da quanto ti demoliscono due linee di febbre...»

«A te non fa nulla la febbre a 37,5°? Perché per me è come stare sul letto di morte!» esclamò e io presi a ridere ininterrottamente, senza riuscire a fermarmi.

In quel momento si aprì la porta di casa, che pochi attimi dopo fu richiusa con non molta delicatezza. Io e Vittorio ci scambiammo uno sguardo ed esclamammo all'unisono: «Benedetta». prima di tornare a ridere.

*

Nel pomeriggio, dopo pranzo, mi misi subito in cucina con i libri e i quaderni per svolgere i compiti per l'indomani. Una volta finito, tornai in camera mia, dove c'era mia sorella seduta a letto e, ancora piuttosto emozionata, le svelai la notizia del giorno: «Mi sono arrivate le mestruazioni» dissi con un sorriso, sedendomi sul suo letto, accanto a lei.

Mi rivolse uno sguardo di indifferenza e scrollò le spalle. «Condoglianze» disse soltanto.

«Però, che entusiasmo, Benni!» feci sarcastica.

«Credimi, già dal prossimo mese anche tu avrai la mia stessa reazione» replicò, e probabilmente aveva ragione, ma per me era comunque un giorno speciale. «Comunque adesso si spiegano molte cose, eh "culona"?» fece e, contrariamente a quella mattina, reagii bene a quella battuta, annuendo e dandole ragione.

«Com'è andata a scuola?» le domandai poi. Non si sbilanciò più di tanto, si limitò a un generico «bene», prima di aggiungere: «Ah, ti ricordi Emanuela? La mia amica d'infanzia, prima che ci trasferissimo a Torino? Oggi l'ho incontrata nei corridoi, però è in una sezione diversa dalla mia».

«Assurdo, com'è piccolo il mondo.»

«Già. Tra l'altro non è cambiata di una virgola, tranne i capelli. Non ha più quel caschetto orrendo da maschio, ma ha i capelli più lunghi e voluminosi.»

«Io ho un "caschetto orrendo da maschio". Sono gusti» puntualizzai, guardandola torva. «O meglio, ce l'avevo fino a qualche mese fa, ora sono cresciuti. Ma potrei decidere di tagliarli ancora.»

«Fa' come ti pare, non mi interessa» rispose con il suo solito tono menefreghista. «Anche se penso che ti stiano meglio come sono ora.»

«Mmh, non lo so, mi sa che mi taglierò la frangia uno di questi giorni. E di te che mi dici? Potresti cambiare ogni tanto, hai quel taglio da secoli e sembri proprio una suora!»

«Fatti gli affari tuoi, e comunque levati dal mio letto, hai il tuo per un motivo» fece scontrosa, prima di spingermi fuori dal suo letto fino a che non caddi a terra come una pera cotta.

A quel punto ebbe inizio un acceso dibattito, colmo di frecciatine, colpi bassi, e qualche sberla ogni tanto, che si concluse solo nel momento in cui sentimmo la voce di nostra madre provenire dall'altra stanza. Ci stoppammo nell'immediato, consce del fatto che se ci avesse trovato a battibeccare come quando eravamo bambine, non sarebbe finita bene. Allora mi alzai dal mio letto, sul quale per la precisione ero sdraiata a testa in giù con il capo che sporgeva di lato e toccava il pavimento, e andai da mia madre per salutarla.

«Che cos'era tutto quel casino?» chiese con fare sospetto.

«Non so di che parli» risposi evasiva, prima di sorridere e dare anche a lei la mia grande notizia: «Mi è arrivato il ciclo!» esclamai, e mia madre si portò le mani alla bocca dallo stupore. Poi mi gettò le braccia al collo e mi abbracciò. «Oh mio Dio, non ci posso credere! Finalmente! Sei contenta? Hai già avvisato i tuoi nonni e i tuoi zii? Aspetta che li chiamo subito! Che emozione!» urlò. Praticamente aveva fatto tutto lei. Sciolse l'abbraccio e si diresse subito verso il telefono per iniziare il suo giro di telefonate.

Chiamò davvero tutti i miei parenti. Tutti. Quelli materni, ovvio, perché con quelli paterni non avevamo più contatti da ormai molti anni. E ognuno di loro poi aveva voluto parlare al telefono con me, aspettandosi che gli dicessi chissà che cosa oltre alla cosa in sé. Praticamente fui impegnata fino a ora di cena a parlare solo del mio ciclo mestruale. Però mi fece anche piacere, ricevetti da mia nonna e dalle mie zie anche parecchi consigli, per gestire il dolore, per capire come contare in modo corretto l'arrivo delle prossime mestruazioni e ogni quanto cambiare l'assorbente in linea di massima, oltre che di evitare per il momento quelli interni, e mi dissero di non preoccuparmi per qualche eventuale ritardo, poiché all'inizio era del tutto normale.

Nel frattempo Vittorio, che a quanto pare aveva fatto la scoperta del secolo, ascoltò il tutto con estrema attenzione, nonostante continuassi a intimargli di levarsi dai piedi. A un certo punto gli lanciai dapprima la ciabatta sinistra e in seguito quella destra, ma non riuscii comunque nel mio intento di allontanarlo.

«Sì, d'accordo, ciao zia. Ci sentiamo. Un bacio e un abbraccio forte» dissi infine, chiudendo l'ultima telefonata. Un'altra volta dopo aver appoggiato la cornetta alla base del telefono, scattai in piedi e mi diressi di corsa verso Vittorio, che se ne stava dietro alla porta della sua camera appena socchiusa a origliare e sghignazzare. Spalancai la porta, tirandogliela sulle ginocchia. «Ahia, cazzo!» si lamentò, portandosi una mano sulle ginocchia e emettendo una smorfia di dolore.

«Oh, quello non è niente, adesso ti do il resto» lo avvisai, pronta a scagliarmi su di lui.

«No, Nina, ti prego, scusa, scusa, scusa!» fece, portandosi le mani avanti e chiudendosi a riccio per proteggersi da qualsiasi mio attacco.

Che rammollito.

Gli presi le mani per spostargli le braccia posizionate a forma di X sul petto. «Quando imparerai a farti gli affaracci tuoi?» chiesi, sedendomi a cavalcioni su di lui per tenerlo fermo.

Vittorio a quel punto si immobilizzò e smise di fare opposizione. Avvertii una sensazione strana al basso ventre, ma i crampi di quegli ultimi giorni in quel caso avevano ben poco a che vedere. Ci guardammo per qualche attimo, finché non fu chiaro a entrambi che la situazione si era fatta piuttosto imbarazzante. Mi alzai in fretta in piedi e lo stesso fece lui poco dopo. Evitammo di guardarci o di dire qualsiasi altra cosa.

«A tavola!» ci chiamò Claudio poco dopo, e ne approfittai per mettere il turbo e allontanarmi il più in fretta possibile dalla stanza di Vittorio.

 

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Capitolo 15
*** Tredici. ***


Tredici.

L'indomani mattina mi svegliai senza energie e piuttosto svogliata. Tuttavia, invece che commettere l'errore del giorno precedente di bermi tre caffè uno dopo l'altro, decisi di evitare e di prepararmi invece una tazza di latte caldo. Avevo ormai capito di essere ancora più instabile quando ero nel mio periodo, e il caffè avrebbe rischiato di amplificare ulteriormente i miei cambi d'umore.

Dopo aver finito di prepararmi, mi assicurai un'altra volta di avere gli assorbenti nello zaino di scuola - erano circa cinque o sei, giusto per essere sicura. Mi lavai i denti due volte, sempre per non ripetere gli errori del giorno precedente.

A quel punto, dopo aver controllato l'ora sull'orologio a cucù, uscii di casa e mi diressi verso la fermata del tram. Dopo pochi minuti di attesa, lo vidi arrivare. Cercai di sporgermi in avanti per cercare di vedere se ci fosse Irene lì sopra. Aguzzai la vista e finalmente la vidi mentre mi faceva un cenno con la mano per farsi notare. Allora salii sul mezzo pubblico e camminai fino ad arrivare al fondo del tram, dove si era seduta.

«Buongiorno» disse con un sorriso.

«Ciao» ricambiai il saluto e il sorriso, prima di sedermi al suo fianco.

«Hai fatto la versione di latino?» mi chiese e io scrollai le spalle. «Diciamo che ci ho provato, ma non penso di aver formulato frasi di senso compiuto» risposi, ed entrambe ridemmo.

«Bene, pensavo di essere l'unica, questo mi consola. Comunque se vuoi quando arriviamo in classe confrontiamo le nostre anche con Ange, Eva e le altre. Soprattutto te dovresti stare attenta: essendo quella nuova è molto probabile che ti chiami.»

Sgranai gli occhi. «Veramente? Merda, sono proprio fottuta» dissi, portandomi le dita sulle labbra dalla preoccupazione. Ricevetti un'occhiataccia da una signora anziana seduta di fronte a me dopo la mia uscita a dir poco elegante, ma non mi importava granché a dirla tutta.

«Ma sì, non preoccuparti. Al limite attaccherà uno dei suoi soliti discorsi su quanto non attribuiamo un'importanza adeguata alla sua materia, che è una fra le più importanti, senza la quale non potremo mai capire davvero il mondo che ci circonda, eccetera, eccetera, eccetera... Lo ripete circa dieci volte a settimana da un anno a questa parte, per giustificare la montagna di compiti che ci assegnerà per la lezione successiva.»

«Non avevi mica detto che non dovevo preoccuparmi? Se succede una cosa del genere, immagino che se la prenderanno tutti con me dopo...» dissi, e non era di certo fra le mie intenzioni al momento.

«No, tranquilla, tanto ci siamo abituati. Sceglie una vittima nuova a ogni lezione, ormai lo sappiamo che è così.»

Sbuffai. Che stress, però. E in realtà i miei professori a Torino non erano neanche tanto diversi. Mi chiesi se quando si preparavano per sostenere i concorsi pubblici, gli aspiranti professori dovessero anche superare la prova di "stronzaggine", che era uguale per tutti, dal momento che sembravano tutti fatti con lo stampino.

Poi ripensai alla conversazione avuta con Vittorio il giorno precedente e, dato che da lui non avevo ricevuto alcuna risposta, decisi di provare con Irene. «Comunque... stavo pensando che non ti ho detto il nome del figlio del compagno di mia madre, magari lo conosci, ha un anno in più di noi» aprii il discorso, attirando la sua attenzione: «Sì, dimmi. Anche se non penso, insomma, Milano è così grande...»

«Vittorio Bianchi» sputai il rospo e lei ebbe più o meno la stessa reazione avuta da Vittorio il giorno prima. Sgranò gli occhi e spalancò la bocca, poi la richiuse e poi la riaprì inavvertitamente. Dopodiché distolse lo sguardo e cominciò ad alzarsi in piedi, dal momento che eravamo arrivate a destinazione e dovevamo scendere dal tram. Feci lo stesso, ma non mi arresi: «Allora? Lo conosci o no?» domandai nuovamente una volta giù dal tram.

«Ehm... be'... sì, forse ho presente» rispose sottovoce, tanto che faticai a capire cosa avesse detto. Volevo sapere che cosa ci fosse sotto, così decisi di giocarmela d'astuzia: «Già, in realtà era una domanda retorica, Vittorio me l'ha detto ieri».

Irene spalancò una volta i suoi occhi grandi e castani. «Ti ha detto che ci siamo baciati? Quindi se lo ricorda!» esclamò, tentando di nascondere un piccolo sorriso.

Dopo quella confessione, fui io quella ad assumere un'espressione a dir poco sconvolta. «B-baciati?» chiesi conferma.

«Sì, circa sei mesi fa... Oh, aspetta, lui non ti aveva detto niente, non è così? Oh mio Dio, che imbarazzo! Fra tutte le persone proprio la sorella di Vittorio!» esclamò, portandosi le mani sul viso per nasconderlo dalla vergogna.

Storsi il naso a sentire la parola "sorella", ma cercai di passarci sopra per concentrarmi su altro. «Quindi tu e Vittorio vi siete baciati?» domandai ancora.

Wow, allora non è del tutto un imbecille, pensai.

«È successo solo in un'occasione. Ci eravamo incontrati a una festa e lui mi aveva invitata a ballare. Poi a un certo punto, proprio in mezzo alla pista, si è avvicinato a me e mi ha baciata, davanti a tutti. Siamo stati insieme tutta la sera, penso che volesse chiedermi di stare insieme ma che non ne avesse il coraggio. Gli ho chiesto il suo numero per poterci tenere in contatto, e quando il giorno dopo ho chiamato, ho scoperto che mi aveva dato il numero sbagliato. Da allora non ho più avuto modo di rincontrarlo... avevo pure pensato di cercare il numero di casa fra le Pagine Bianche, ma hai idea di quante persone con il suo cognome esistano a Milano? Quindi ho semplicemente deciso di rinunciarci. Ma ora che ti ho conosciuta, è tutto perfetto! Ti prego, dimmi che posso venire a casa tua uno di questi giorni. Ho la cotta più grande del mondo per lui, è così... così...» lasciò la frase in sospeso, e la ringraziai mentalmente per la sua scelta di non proseguire, poiché mi aveva parecchio intontita.

«Se ti ha dato il numero sbagliato, perché dovresti volerci avere ancora a che fare?» domandai, tanto per cominciare.

«Be', magari ha confuso qualche cifra, oppure ho sentito male io, con tutto il casino che c'era a quella festa» ipotizzò.

«E allora perché non ti ha cercata lui?»

Sperai di non essere suonata troppo cattiva e insolente, ma era una cosa che andava oltre il mio controllo. Non appena qualcuno iniziava a vaneggiare parlando dell'amore e senza usare un occhio critico, il mio cinismo e la mia razionalità avevano la meglio.

«E che ne so! Possono succedere così tante cose che impediscono a due persone di ritrovarsi, anche se sono fatte per stare insieme» fece Irene con occhi sognanti, e io roteai gli occhi, meditando anche se danneggiarmi l'udito facendomi esplodere una penna a gel nelle orecchie, solo per non dover più sentire quelle stupidaggini da innamorati.

«Ma se non lo conosci nemmeno» le feci notare, nel mentre che entravamo dentro scuola e ci dirigevamo verso la nostra classe.

«Lo so, ma il modo in cui mi ha baciata... se ci ripenso sento ancora le farfalle nello stomaco. Certo, forse ha influito il fatto che fosse il mio primo bacio e che nessun ragazzo prima di lui si era mai interessato a me, e non li biasimo, a dire il vero» ammise con tono sconsolato.

Aggrottai la fronte. «Perché dici così?»

«Come potrei non farlo? Insomma, guardami: sono bassina, un po' in carne, porto gli occhiali e l'apparecchio, e poi...»

La interruppi prima che potesse finire la frase: «Smettila di demoralizzarti! Non c'è niente di più sbagliato» le ricordai. «E poi hai visto Vittorio? Non mi sembra che sia...»

A quel punto fu lei a interrompermi. «Oh, credimi, l'ho visto bene. Sembra un angelo, l'arcangelo Gabriele me lo immagino proprio come lui, sai? Una figura statuaria, occhi da sogno e delle labbra così... così morbide!»

Già, e all'apparenza anche un subdolo calcolatore e seduttore.

«Per caso usa il burrocacao?» domandò Irene, una volta giunte in classe.

«Ma che ne so? Non mi interessa di quello che mette sulle sue labbra» risposi seccata, appoggiando il mio zaino a terra vicino alla mia sedia. Sapevo solo che, non appena sarei tornata a casa, avrei fatto proprio un bell'interrogatorio a Vittorio, non me la raccontava giusta. Volevo sentire anche la sua versione.

«Di che parlate?» si intromise Eva, unendosi a noi.

«Indovina? Nina conosce Vittorio, anzi, di più: vive con lui!» rispose Irene in preda all'entusiasmo. «È suo fratello, cioè fratello acquisito più che altro» specificò, per chiarire la confusione di Eva.

«È grandioso!» esclamò. «Almeno finalmente avrai modo di rivederlo» aggiunse, lanciandomi uno sguardo.

Era piuttosto evidente che mi stava esortando a pianificare un incontro fra Irene e Vittorio. Mi sarebbe piaciuto aiutare Irene, ma non mi andava nemmeno di forzare le cose senza prima sapere cosa ne pensasse lui. Infatti, a differenza di mio "fratello", io non l'avrei obbligato a trascorrere del tempo in compagnia di Irene incastrandolo a sua insaputa, come aveva fatto lui quella volta con Filippo.

Inoltre, forse sapevo il reale motivo per cui non si era più fatto sentire: Monica. Non sapevo se i suoi sentimenti per lei fossero già presenti nel momento in cui lui e Irene si sono incontrati a quella festa, ma sapevo che andavano avanti da parecchio tempo e ancora adesso le cose non erano cambiate.

Comunque non mi andava di deludere le speranze di Irene senza prima provare a fare qualcosa per aiutarla. «Be', vedrò cosa posso fare» dissi allora, senza però garantire nulla.

*

Alla fine non fui chiamata io a correggere la versione di latino che ci era stata assegnata il giorno precedente, ma, nonostante questo, la reazione della professoressa fu proprio quella che mi aveva anticipato Irene. Iniziò a farneticare le solite frasi di ogni insegnante deluso dalla propria classe, facendo leva sul suo disappunto per riempirci di compiti per la settimana prossima. «È evidente che abbiate bisogno di esercitarvi più di così, se i risultati sono questi» disse, prima di mettere via il gessetto dopo aver finito di scrivere i compiti sulla lavagna, esattamente un secondo prima che suonasse la campanella che segnava la fine delle lezioni.

Sbuffai e mi scambiai uno sguardo con Irene, che mi guardò come a dire: «Te l'avevo detto».

Poi mi affrettai, insieme al resto dei miei compagni di classe, a mettere via il libro e l'astuccio nella cartella, pronta per tornare a casa e passare il resto del pomeriggio sui libri, a quanto pare.

Io e Irene ci avviammo quasi di corsa fuori da quell'edificio infernale, e ci dirigemmo verso la solita fermata del tram. Come per le precedenti sei ore, Irene aprì nuovamente il discorso su Vittorio. «Comunque se ci penso è davvero assurdo: non solo abitiamo più vicini di quello che pensassi, ma sono anche finita in classe con quella che ci abita! Non puoi negare che sia un segno del destino.»

Dovetti ricorrere a tutte le mie forze per trattenermi dal risponderle male, ma era già da tutto il giorno che lo facevo, così a quel punto non potei far altro che cedere ed esplodere: «Un segno del destino? Ma davvero? Quello che per te è un miraggio per me è stata una delle più grandi disgrazie dell'ultimo anno! Dover abbandonare tutto quello che avevo a Torino per venire qui e cercare di rifarmi una vita partendo da capo, dovendomi abituare a vivere con due sconosciuti e un gatto ciccione che odio, e... e quella che pensavo che sarebbe potuta diventare la mia prima amica, è contenta di avermi conosciuta, sì, ma soltanto per potermi usare per rivedere il ragazzo dei suoi sogni! Pensa che fortuna» sbottai, prima di salire sul tram che si era appena fermato davanti a noi.

Non appena anche Irene salì sul mezzo pubblico e mi guardò, mi sentii terribilmente in colpa per ciò che le avevo detto. L'avevo attaccata senza motivo, o meglio, un motivo c'era, ma piuttosto futile e lei non c'entrava praticamente niente. «Mi dispiace, ho esagerato» mi scusai. «Non volevo offenderti, né scaricare su di te problemi che non ti riguardano.»

«No, in parte hai ragione. È tutto il giorno che non parlo d'altro, e forse da come mi sono atteggiata ti sarà sembrato che mi importi di te solo perché conosci Vittorio, ma non è così. E non cambierebbe nulla se tu non lo conoscessi... in fondo mi piaceva la tua compagnia ancor prima di scoprirlo. Sai, spero anch'io che diventeremo amiche» disse, sorprendendomi. «So che ti potrò essere sembrata superficiale, è solo che dopo tutti questi mesi, all'improvviso sei arrivata tu, e poi... non lo so, è difficile da spiegare. Io non me ne rendo nemmeno conto di quando inizio a diventare pesante. Sono così presa a pensarlo tutto il giorno che per me è facile collegare ogni cosa direttamente a lui, anche quelle che non c'entrano niente. Cercherò di parlarne di meno, lo prometto.»

«No, ma va, non preoccuparti. Non devi trattenerti solo per me.»

«Sicura?» chiese e io annuii. «Allora significa che ogni tanto, quando arrivi al limite, sei legittimata a sfuriarmi contro come hai fatto poco fa, giusto per rimettermi un po' in riga quando esagero» disse e io sorrisi.

«D'accordo, affare fatto. Anche perché è una cosa che mi viene molto naturale alle volte. Ti conviene farci l'abitudine ai miei scatti di nervi» risi, seguita subito dopo da lei. «Specie quando ho il ciclo» aggiunsi.

In realtà no, ero sempre stata così ancor prima di averlo, ma pensai che sarebbe stato utile usarlo come scusa ogni tanto, per salvarmi da situazioni come quella appena verificatasi, in cui perdevo il controllo e sbottavo. Tutta colpa degli ormoni, semplice no?

«Ah, lascia perdere, ci faccio i conti da appena qualche mese, ma...»

«Davvero?» la interruppi, stupita. «A me è arrivato ieri per la prima volta.» Pensavo che non l'avrei mai ammesso a qualcuno all'infuori di quelli che già mi conoscevano, come Vittorio, mia mamma e mia sorella e gli altri parenti, ma sapere che non ero stata l'unica a essersi sviluppata in ritardo rispetto alla media, mi aiutò a sentirmi meno come un pesce fuor d'acqua.

«Scherzi? Pensavo di essere l'unica adolescente al mondo ad aver avuto le sue prime mestruazioni a quindici anni. Era così imbarazzante, perché tutte ce l'hanno, e io ero la sola ad avere ancora le sembianze di una bambina. Non sai quanto mi consola condividere questo piccolo disagio con te!»

«Posso dire la stessa cosa. Che poi comunque ormai è andata. È successo e basta, e non importa quanto tempo ci è voluto.»

«Già, me lo dice sempre mia mamma.»

«Idem la mia.»

Sorrisi. Avevamo trovato la stessa armonia del giorno precedente. Che sollievo, per un attimo pensavo di essermi sbagliata su di lei, e che in realtà non avevamo niente a che vedere l'una con l'altra. Ora avevo la conferma che non era così.

*

Una volta rientrata a casa, appoggiai lo zaino nella mia stanza e poi mi diressi in bagno. Dopo essermi sistemata, mi lavai le mani e poi mi diressi in cucina per preparare qualcosa da mangiare, anche se in realtà non avevo tanta fame, di certo molta meno rispetto ai giorni precedenti. L'unica cosa che bramavo era una bella tazza di caffè dopo aver finito di pranzare, dal momento che quella mattina non l'avevo bevuto.

Mentre aspettavo che l'olio in padella si scaldasse, avvertii la porta di casa aprirsi e riconobbi subito Vittorio. Sorrisi flebilmente, pensando all'interrogatorio a cui l'avrei sottoposto di lì a breve.

«Buondì, com'è andata oggi?» chiese pochi istanti dopo, entrando in cucina.

«Normale» scrollai le spalle. «Metto un uovo anche per te?» chiesi poi.

Si prese qualche secondo per rifletterci, prima di annuire: «Sì, grazie» sorrise, allora io presi due uova dalla confezione e mi preparai a romperle e a metterle dentro la padella, ma poi mi fermai non appena Vittorio prese di nuovo la parola: «No, aspetta, posso provare io? Non l'ho mai fatto prima» disse e io storsi il naso. «Non hai mai... rotto un uovo?» domandai.

Vittorio scosse la testa. «Le mie capacità culinarie si fermano a fare la pasta in bianco, cuocere una bistecca oppure farmi un panino» rispose.

«Accomodati pure, uomo di casa» dissi allora, passandogli un uovo in mano e consigliandogli di sbatterlo contro il bancone della cucina. Non ebbi nemmeno il tempo di avvisarlo di non metterci troppa forza, che mi ritrovai con un paio di schizzi di tuorlo d'uovo sul pantalone e Vittorio con le mani sudicie. «Ops, qualcosa dev'essere andato storto...» si limitò a dire, prima di prendere un canovaccio e passarmelo affinché provassi a pulirmi, mentre lui andò direttamente a lavarsi le mani.

«Tu dici?» feci sarcastica, nel mentre che provavo a sfregare energicamente la macchia, ma era inutile: non sarebbe andata via se non dopo un adeguato lavaggio. «Facciamo che questa volta faccio io e tu mi osservi, e poi la prossima volta, forse, ti lascerò riprovare» dissi e lui non obiettò, prima di prendere altre due uova dalla cassa e romperle in maniera delicata, prima di versare il contenuto nella padella.

«Comunque, giusto perché tu lo sappia, Irene me l'ha detto che vi siete baciati» feci, guardandolo con aria di sfida.

Lui sbiancò e deglutì. «Ah sì?»

«Sì, e mi ha detto anche che sei uno stupido caprone! Anzi, quello l'ho dedotto da sola, visto che l'hai baciata e poi non l'hai più cercata!» lo rimproverai. «Ti pare forse il modo di trattare una ragazza? Le hai persino dato il numero di telefono sbagliato!» esclamai, continuando a gesticolare con il cucchiaio di legno nella mia mano, finché, presa dalla troppa enfasi e agitazione, non colpii per sbaglio Vittorio sulla spalla.

«Quanto la fai drammatica, Nina! I ragazzi della nostra età lo fanno: si va alle feste, si balla e magari scappa anche un bacio o due, ma non significa che debba essere la ragazza con cui mi sposerò.»

«Ma che c'entra questo? L'hai comunque illusa, non dicendole come stavano chiaramente le cose, e lei ci è rimasta male. Era il suo primo bacio e l'ha sprecato con...»

«Era anche il mio, se proprio lo vuoi sapere» mi interruppe e io spalancai gli occhi, prima di spegnere il fuoco del fornello. Poi presi il primo piatto dalla credenza e, aiutandomi con il cucchiaio di legno, cercai di mettervi dentro il primo uovo senza fare un pasticcio come mio solito. Ma, come prevedibile, alla fine il tuorlo si aprì e "l'occhio di bue" si sfaldò. «Sì, lo immaginavo... anche se pensavo che... non lo so, non credevo che tu...»

Vittorio abbassò un poco le ginocchia per giungere alla mia altezza e guardarmi negli occhi. «Che cosa?»

Gli diedi le spalle, alzandomi in punta di piedi per prendere il secondo piatto e spostare l'uovo dalla padella al piatto. Un altro disastro. «Niente, è solo che pensavo fossi un imbecille con le ragazze e che non... be', che non fossi in grado di conquistarne una» confessai, prima di voltarmi e passargli uno dei due piatti. Lui lo prese e si andò a sedere, prima assumere un'espressione corrucciata e confusa: «Ehm... grazie?»

Mi sedetti di fronte a lui e rimasi in silenzio.

«Tutti questi discorsi sull'autostima, fiducia in se stessi, e poi pensi che non ne sarei capace?» continuò e io alzai gli occhi al soffitto.

«Non intendevo questo, è solo che...»

Da come si era comportato, dalla prima volta che l'avevo visto fino a quel momento, avevo sempre creduto che fosse nella mia stessa situazione, che anche lui non avesse mai baciato nessuno.

«Perché allora non ci hai provato con Monica, piuttosto che con una ragazza di cui non ti importa e che stai facendo soffrire?» domandai, prima di addentare il primo boccone di uovo. Anche se si era distrutto, non era venuto male.

«Sì, certo, e a che pro? Per fare una terribile figuraccia?»

«E che figuraccia dovresti mai fare, che non puoi permetterti di fare con Monica?» Non riuscivo proprio a capire il punto del suo discorso.

«Be', diciamo che mi sono sempre detto, che quando mai sarebbe arrivato il momento, avrei voluto essere pronto e capace. Pensa se finalmente arrivasse il momento di baciare Monica, la ragazza dei miei sogni, e lei si accorgesse che non so farlo? Sarebbe orribile. Per questo ho tentato di rimediare, baciando un'altra prima di lei.»

«Oh, ma che baggianate!» esclamai, addentando un altro boccone e afferrando anche un pezzo di pane per raccogliere il giallo dell'uovo. «Che cosa ci potrebbe mai essere di così difficile a baciare qualcuno? Insomma, non si può sbagliare, giusto?»

Fino a quel momento non mi ero mai interrogata su quelle questioni, sia perché non mi interessava, sia perché non mi si era nemmeno mai presentata l'occasione. Ma era davvero così? Si poteva baciare male, e se sì, in che modo? Cosa si poteva sbagliare nel farlo?

«Be', non è così semplice... all'inizio è strano capire come fare, specie se nessuno dei due sa cosa sta facendo» disse, con una mezza risata, probabilmente ripensando a quel momento.

«Quindi per te è stato imbarazzante?»

Scrollò le spalle. «Un po', ma tanto lei non si è accorta di niente, e poi non mi fregava molto. Pensa se invece fosse successo con Monica... sarei morto dentro.»

Fino a prima di quella conversazione con Vittorio, le poche volte che mi era capitato di pensare al momento in cui avrei baciato qualcuno per la prima volta, l'avevo sempre immaginato come qualcosa di naturale, spontaneo, facile. "Io piaccio a lui, lui piace a me, ci baciamo". Semplice, no?
Ma se a detta di Vittorio era qualcosa di così terribile, non ero più sicura che avrei dato il mio primo bacio a un ragazzo per cui provavo dei sentimenti, se gli effetti sarebbero stati disastrosi.

Certo, avrei avuto molto tempo prima che arrivasse quel momento, e forse sarebbe stato ancora peggio. Provai a immaginarmi all'età di Benedetta o magari un po' più grande, completamente incapace e inesperta. Non volevo questo.
Volevo che il mio primo bacio fosse magico, ma non poteva esserlo, se non sapevo cosa fare. Quindi come avrei potuto fare?

«Nina, ci sei?» Vittorio mi stava sventolando un tovagliolo sporco e in parte accartocciato davanti agli occhi, e a quel punto mi riscossi: «Sì, che c'è?».

«Ah eccoti, allora sei viva, pensavo che fossi in catalessi» disse e io rimasi in silenzio, finendo di mangiare, anche perché non avevo idea di cosa significasse la parola "catalessi". «Stavo dicendo che mi dispiace che Irene si sia offesa, ma comunque avrebbe potuto farsi da sola qualche domanda, dato come mi sono comportato» fece, scrollando le spalle.

«Tu ti fai qualche domanda sul perché Monica non ti degni di uno sguardo?» chiesi, accorgendomi troppo tardi di essere apparsa, ancora una volta, troppo scontrosa. «Scusa» aggiunsi, riconoscendo la mia mancanza di tatto.

«Con Monica è diverso, perché io e lei siamo amici e non è così semplice interpretare i suoi segnali.»

Già, magari perché Monica non gliene mandava neanche uno, di segnale. E se così fosse stato, lui comunque non se ne sarebbe accorto. Anche se non se ne rendeva conto, lui e Irene erano sulla stessa barca, bloccati da mesi e mesi nella stessa situazione amorosa.
Ma quei pensieri decisi di tenerli per me, per non demolire Vittorio ancora di più.

Stavo facendo progressi, no?

 

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Capitolo 16
*** Quattordici. ***


Quattordici.

Non pensavo che dopo aver sentito le parole di Vittorio in merito a quell'assurda questione del primo bacio, ne sarei diventata letteralmente ossessionata. Stava diventando più forte di me. Nei giorni successivi sembrava non sapessi fare altro che fissare le coppie per strada che si baciavano, non riuscivo proprio a farne a meno.
E pensare che fino a poco tempo prima non mi era mai importato molto, anzi, quasi mi disgustava vedere due persone scambiarsi quel tipo di effusioni, tanto che distoglievo subito lo sguardo.

A differenza di prima, non mi faceva più così tanto senso, al contrario, non riuscivo letteralmente a togliere gli occhi di dosso da tutte le coppie che mi capitava di incrociare: che fosse per strada, a scuola, sui mezzi pubblici, al supermercato, al parco.
Anche quando mi capitava di vedere un bacio in televisione, la mia reazione era totalmente diversa rispetto a prima che avessi quel discorso con Vittorio: prima ritenevo superfluo, scontato e nemmeno così necessario che in ogni singolo film o programma televisivo ci fosse sempre almeno un bacio fra i protagonisti; ora sembrava che fosse l'unica cosa che mi interessava realmente vedere.

E non si trattava solo di vedere, stavo proprio a osservare il tutto nei minimi dettagli, per non perdermi nessun particolare: occhi chiusi, teste leggermente inclinate per non far scontrare i nasi, mani sul viso, o sui capelli, oppure intrecciate a quelle dell'altra persona, o magari sui fianchi.

Cose ovvie e palesi a tutti probabilmente, ma a cui io non avevo mai prestato attenzione. Avevo sempre pensato fosse qualcosa di facile, e in effetti tutte le persone lo facevano sembrare facile, come se non si potesse sbagliare niente e si potesse essere pratici ed esperti fin dall'inizio. Ma a me stava iniziando a sembrare tutt'altro che semplice. C'erano così tante cose che, se mi fossi dimenticata, avrebbe reso il tutto molto imbarazzante, ancor prima di iniziare a baciare qualcuno. Avrei dovuto curare molto l'alito, per esempio. Ma come si faceva ad avere sempre un buon alito, se in teoria non potevo sapere quando sarebbe arrivato il momento di baciare qualcuno?

Non era come una verifica o un'interrogazione di scuola, per le quali potevo sempre studiare e prepararmi al meglio per il giorno stabilito. Non era qualcosa che si poteva programmare. A meno che... a meno che non decidessi di fare come aveva fatto Vittorio.

Dio, era assurdo anche solo il fatto che ci stessi pensando. E poi chi sarebbe mai stato così malato di mente da volermi baciare?

Se fossi andata ad una festa, ci sarebbero state sicuramente tante ragazze in grado di attirare l'attenzione molto più di me, nessuno mi si sarebbe avvicinato, e io non ero il tipo da andare per prima da un ragazzo per provarci. Cioè, non ci sarebbe stato niente di male nel farlo, ma non avrei saputo nemmeno da dove cominciare. Ero molto più brava a dare consigli agli altri, piuttosto che ad applicare tali consigli a una mia situazione personale, semplicemente perché non avevo mai avuto né il bisogno né la necessità di farlo.

E nemmeno adesso, a dirla tutta, ce l'avevo. Non avevo fretta. Non mi piaceva nessun ragazzo, così come era stato per tutti i quindici anni precedenti della mia vita, quindi non c'era bisogno di allarmarsi così tanto, giusto?

«Che hai?» chiese mia sorella, interrompendo il flusso dei miei pensieri. «Sei stata parecchio silenziosa oggi a cena.»

«Ma te non sei quella che si lamenta sempre della mia parlantina?» feci, per evitare di rispondere alla sua domanda, prima di iniziare a preparare la cartella per il giorno successivo.

«Ovvio, grillo parlante, solo che mi sembri parecchio strana oggi.»

Scrollai le spalle, chiudendo lo zaino e tornando a letto. «Non ho niente, Benni, tranquilla. Ora puoi continuare a isolarti dal resto del mondo come fai sempre.»

«Certo che a volte sei proprio una stronza, Nina! Per una volta che cercavo di essere gentile, guarda come...»

«Nessuno ti ha chiesto di esserlo» la interruppi. «E poi sei la prima a non raccontare mai nulla... che c'è, ti aspetti che le persone ti vengano a confidare ogni cosa solo perché sei tu, però poi tu te ne stai sempre con la bocca cucita?»

Guardando l'espressione dipinta sul suo volto, per nulla irritata ma al contrario compiaciuta, capii di essermi appena tirata la zappa sui piedi. «Ahhh, allora sì che c'è qualcosa!» esclamò, lanciandosi letteralmente sul mio letto con un balzo, atterrando tra l'altro sul mio piede col suo peso. «Ahia, cazzo!» urlai.

«E dai, quanto la fai tragica, e poi mica l'ho fatto apposta» disse, spostandosi dal mio piede.

A quel punto afferrai il mio cuscino e glielo tirai in faccia. «Questo sì che è fatto apposta» dissi, prima che Benedetta me lo restituisse.

«Vi state picchiando di nuovo?» giunse la voce di nostra madre dall'altra stanza. Io e Benedetta ci fissammo per qualche secondo stando ferme e in silenzio, prima di scoppiare a ridere incontrollatamente, dimenticandoci in un nanosecondo dell'accaduto.

La porta della nostra stanza si spalancò pochi secondi dopo ed entrò nostra mamma, con la classica espressione e posa da rimprovero: occhi socchiusi, fronte aggrottata, labbra serrate e mani sui fianchi. «Quand'è che crescerete? Soprattutto te, Benedetta, hai quasi diciotto anni» fece con tono severo.

«Ma è più divertente risolvere i litigi in questo modo. E comunque ha iniziato Nina» rispose mia sorella e io la fissai stralunata: «Scherzi? Sei tu che ti sei catapultata col tuo sederone sul mio povero piedino!»

«Quel piedino intanto puzza come poche cose al mondo. E poi, sederone a me? Almeno a me vanno ancora tutti i miei jeans» ribatté e, se non ci fosse stata mia madre lì presente, avrei aggredito nuovamente Benedetta. «Quand'è che ti finisce il ciclo, comunque? Non ti sopporto davvero più» aggiunse.

Feci qualche calcolo per poter rispondere alla sua domanda. «Allora, oggi è giovedì, quindi... allora, dato che mi è arrivato la prima volta lunedì, ciò significa che...»

«Se sei fortunata, domani sarà l'ultimo giorno» mi precedette mia mamma. «E fra ventiquattro giorni circa dovrebbe ritornarti, sempre se è regolare, ma è probabile che non lo sarà la seconda volta.»

«Come ci riesci a essere così precisa?» domandai, visibilmente colpita. Ci aveva messo un attimo a rispondere, e non era nemmeno il suo ciclo.

«Tesoro, tu hai appena cominciato, ma io ci faccio i conti da più di trent'anni.»

Dopodiché, uscì dalla stanza e richiuse la porta. Ci fu un attimo di silenzio, Benedetta tornò a sedersi sul suo letto e io rimisi il cuscino a posto. Poi mia sorella riprese la parola. «Comunque, se mi dirai cos'è che ti turba tanto, io ti dirò una cosa che...»

«Aspetta un attimo» la interruppi, e mi alzai in piedi per uscire dalla stanza. Sentivo delle voci provenire dal salotto, di cui una in realtà pareva provenire da più lontano.

Ecco che, infatti, una volta giunta in sala vidi la portafinestra spalancata e Vittorio affacciato al balcone. Lo raggiunsi, solo per rimanere profondamente delusa nel vedere Filippo sotto il nostro balcone, per strada.

«Dai, sali. Vengo ad aprirti» disse Vittorio.

Alzai gli occhi al cielo. «Ma non ce l'ha una casa questo?» dissi, più che altro fra me e me, dal momento che Vittorio mi guardò storto dopo quella mia uscita, e successivamente si diresse verso la porta d'ingresso.

Filippo, infatti, aveva appena citofonato, e Vittorio andò ad aprirgli il portone. Dopodiché si portò avanti, aprendo anche la porta di casa, lasciando un piccolo spiraglio aperto, piccolo a sufficienza da non far uscire il gatto fuori dall'appartamento, come succedeva di frequente quando lasciavamo la porta spalancata ed evitavamo di chiuderla subito una volta dopo essere rientrati a casa.

Non che ci fosse un reale pericolo che il gatto scendesse le scale e scappasse, dal momento che era così pigro e fifone che al limite si faceva un breve giro del pianerottolo, prima di piazzarsi a terra sul tappetino davanti alla nostra porta d'ingresso, ma comunque era sempre meglio prevenire.

Comunque, in pochi attimi, il ragazzo biondo che avevo appena visto in lontananza affacciandomi al terrazzo, era comparso e si trovava ora a pochi passi da me.

Lui e Vittorio si scambiarono qualche parola sottovoce che non riuscii a capire. Poi Filippo andò a dirigersi probabilmente verso la stanza del suo amico, mentre quest'ultimo esclamò: «Pa', c'è qui Filo, si ferma a dormire!» avvisando suo padre, oltre che me, che quella notte avremmo avuto un ospite, a mio parere indesiderato.

Mi avvicinai a Vittorio per chiedergli cosa fosse successo e per quale motivo Filippo si fosse presentato sotto casa nostra alle nove meno un quarto di sera e perché non potesse rimanersene a dormire a casa sua invece che stare da noi, ma non appena giunsi al suo fianco, lui mi diede le spalle e raggiunse Filippo in camera, il quale lo aveva appena chiamato.

Ma io non volevo darmi per vinta. Ero sicura ci fosse qualcosa sotto, ed ero più che intenzionata a scoprirlo.

Così tentai di ingegnarmi in qualche modo per intromettermi fra quei due, e quella palla di pelo che aveva appena cominciato a strusciarsi contro le mie gambe mi sembrò per la prima volta un ottimo alleato. Mi inginocchiai a terra e lo presi in braccio. «Vieni con me, Beppino» gli dissi sottovoce, prima di inscenare il mio teatrino: «No, basta! Mi hai davvero rotto!» esclamai, rivolta al gatto, sperando che anche il resto dei miei familiari mi sentisse. Poi mi diressi verso camera di Vittorio e aprii la porta. «Te lo puoi prendere? Quest'inutile felino continua a starmi addosso» dissi a Vittorio, prima di rimettere il gatto a terra.

A giudicare dagli sguardi dei due, sembrava se la fossero bevuta. Filippo emise un flebile sorriso, che in realtà sembrava parecchio forzato, mentre Vittorio si chinò a prendere il gatto in braccio come un bebè, facendo sì che appoggiasse il suo testone peloso sulla sua spalla.

Non dissero nulla, e sembrava stessero attendendo che mi levassi dai piedi, ma non volevo farlo. Così, dato che loro non proferirono parola, decisi di farlo io: «Perché non guardiamo un film?» proposi.

«Fai sul serio? Ogni volta che te lo chiedo mi mandi a quel paese» rispose Vittorio, ridacchiando.

«Sì, perché ti ricordo ancora di quella volta mi hai fatto vedere un film horror nonostante sapessi che non mi piacciono, e poi mi innervosisce il fatto che tu debba sempre commentare ogni minimo particolare e anticipare le scene che stiamo per vedere. Ma stasera non sarei da sola, magari in due ce la facciamo a farti stare zitto» dissi.

Vittorio mi fissava con gli occhi socchiusi, sembrava sospettare del mio tono stranamente accondiscendente e gentile, e della mia improvvisa voglia di trascorrere il resto della serata in compagnia di Filippo. O forse ero io a credere che lui si stesse facendo tutti quei viaggi mentali, quando in realtà ero solo io a farmeli.

«D'accordo, io ci sto. Ma decido io il film, so che stasera ne danno uno carino sulla Rai» disse Vittorio, lasciando il gatto sul suo letto e cominciando ad avviarsi fuori dalla sua stanza.

«Vale a dire?» chiese Filippo, ed era la prima frase che gli sentivo pronunciare da quando era arrivato. A differenza del solito, aveva un tono di voce piuttosto grave e rauco.

«Seguitemi e lo scoprirete» fece con un tono che non prometteva nulla di buono.

*

«Mi rifiuto di guardare una stronzata simile. Non se ne parla proprio» sbraitò Filippo, e per la prima volta eravamo d'accordo su qualcosa.

«Ma dai, perché?»

Gli presi il telecomando dalle mani e cambiai canale. «Il tempo delle mele 2, fai sul serio?» Già sapevo che se avessimo guardato quel film, Vittorio non avrebbe fatto altro che fare battute su me e Filippo, dato che tempo prima ci aveva paragonato ai due protagonisti. «Comunque i due protagonisti si chiamano Vic e Philippe, quindi forse è il caso che lo guardiate voi due da soli, magari porterà alla nascita della vostra storia d'amore» feci ironica e loro mi ignorarono totalmente.

«Di che ti lamenti tu? Se l'altro giorno ti ho beccata mentre guardavi quella telenovela noiosissima da nonne» mi rimbeccò Vittorio e io lo fissai con gli occhi ridotti a due fessure.

«Te l'ho già detto, non c'era niente di meglio, e comunque non ci stavo neanche prestando attenzione» provai a difendermi.

«Sì certo, tanto non ci crede nessuno. Ora però non metterti a piangere» ribatté, strappandomi il telecomando dalle mani e cambiando nuovamente canale.

«Ma chi, lei? Hai più probabilità di metterti a piangere tu» commentò Filippo, seduto alla mia destra.

«Oh no, non in questi giorni, credimi. Nina ha il ciclo, quindi è un sacco vulnerabile e frigna per ogni cosa, oppure è più scontrosa del solito, va un po' a momenti alterni.»

Sentii le guance andarmi a fuoco, sia per la rabbia sia per l'imbarazzo. «Vittorio!» esclamai a gran voce girando la testa a sinistra, mentre Filippo se la ghignava in silenzio.

«Che c'è? Non pensavo fosse un segreto...»

«No, infatti» intervenne Filippo: «Raccontami di più, tanto non ho idea di che cosa sia.»

«Magari allora è meglio che sia così» risposi, rigirandomi dall'altra parte. A breve mi sarebbe venuto il torcicollo a furia di girarmi da una parte all'altra di continuo.

«È qualcosa di troppo assurdo, te lo giuro: per cinque giorni circa, ogni mese, semplicemente sanguinano... lì sotto» spiegò Vittorio e Filippo storse il naso in segno di disgusto. «E poi anche un sacco di cose strane, tipo dolori alla pancia, sbalzi d'umore, fame incontrollata.»

Bene, visto che aveva praticamente riassunto il tutto, direi che si poteva andare oltre e chiudere quel discorso. All'improvviso l'idea di vedere quel film non mi pareva così tanto male.

«E come fanno a non sporcarsi?» domandò Filippo. A quanto pare no, ne avrebbero parlato ancora per molto.

«Mettono delle cose tipo i pannolini dei bambini» replicò Vittorio, scoppiando a ridere, seguito dall'amico.

«Si chiamano assorbenti» precisai, prima di sbuffare. Stavo davvero perdendo la pazienza.

«E scusa, quindi stai sanguinando anche in questo momento?» chiese il biondino, iniziando a fissare in maniera ossessiva le mie parti basse.

«Smettila di guardarmi! E finitela, non sono un saltimbanco da circo!» esplosi, alzandomi in piedi e preparandomi a ritirarmi nella mia stanza. I due continuarono comunque a ridere ininterrottamente, nonostante la mia sfuriata.

«Aspetta Nina, girati. Mi sa che... forse... sì, mi sa che hai una piccola macchiolina qui dietro» fece Vittorio, tornando serio. Mi voltai verso di lui preoccupata e mi portai una mano sul sedere. Poi, non appena il mio sguardo incrociò quello di Vittorio e riprese a ridere, capii che era stato solo uno stupido scherzo.

«Sai che lo fanno di continuo tra di loro, le ragazze? Non fanno che controllarsi a vicenda di non essere sporche, perché a volte può capitare, nonostante i pannolini, che si sporchino lo stesso di sangue» spiegò a Filippo, il quale rise: «Allora ecco perché ogni tanto a scuola vedo una ragazza che cammina e l'amica che la fissa, oppure a volte in pieno inverno te la vedi a maniche corte e con la felpa in vita che gira per i corridoi!» esclamò, riprendendo a ridere.

Stavo per strapparmi i capelli dal nervoso. «Siete proprio due bambini dell'asilo, e non fate ridere neanche un po'! Ecco perché non volevo parlarne, perché siete in grado di trasformare una cosa normale in qualcosa di cui vergognarsi! In realtà gli unici a doversi vergognare dovreste essere voi due!» mi lamentai, prima di incamminarmi verso il corridoio che portava alla mia stanza. Mi stoppai non appena sentii qualcuno affermarmi il polso e tirarlo affinché tornassi indietro: «Dai Nina, scusami. Scusaci, anzi. Stavamo solo giocando» disse Vittorio, fissandomi con un'aria pentita.

Rimasi in silenzio e cercai di liberarmi dalla sua presa, ma a quel punto lui si alzò in piedi e mi si piazzò davanti per sbarrarmi la strada e impedirmi di lasciare il salotto.

«Non me ne faccio niente delle tue banalissime scuse» sputai, incrociando le braccia al petto.

«Cosa vuoi che faccia allora? Ho capito: ho superato il limite, perché non mi dici come posso rimediare?» chiese, e sembrava davvero dispiaciuto.

Forse me l'ero presa troppo come mio solito... Anzi, no. Ero fiera di quello che avevo detto. Loro avevano esagerato e io li avevo zittiti e messi al loro posto. Ma comunque almeno avevano capito di aver sbagliato, cioè, Vittorio sicuramente, ed era quello l'importante.

«Come puoi rimediare? Semplice: prova a metterti nei miei panni, scommetto che neanche a te piacerebbe ricevere battute di questo tipo.»

«Tu mi fai sempre battute di questo tipo, solo che io ho più senso dell'umorismo a differenza tua e ci rido su» ribatté e io lo fissai in cagnesco. «D'accordo, d'accordo. Se ti dà fastidio, allora non ci scherzerò più» disse, prima di invitarmi a tornare seduta sul divano.

Rimasi qualche istante a pensarci, in silenzio, e alla fine tornai a sedermi in mezzo ai due ragazzi. Poi mi voltai verso Filippo. «Be', tu non hai niente da dirmi?» chiesi.

«Ti devo ricordare che l'ultima volta che ci siamo visti mi hai chiuso fuori in balcone? E mi hai capovolto un cono gelato sui capelli? Tutto nello stesso giorno, per giunta. Direi che ora siamo pari.»

Ancora con quella storia?

«Pari? Io ti ho chiesto scusa. E meno male che sei quello che non porta rancore...»

Filippo emise un piccolo sorriso. «Sto scherzando, peperoncino. Dovresti smetterla di prendere ogni cosa che ti viene detta così tanto sul serio.»

«E tu dovresti smetterla di chiamarmi peperoncino» ribattei, ma in effetti non aveva tutti i torti. Era una cosa che facevo molto spesso, e che mi rendeva parecchio irascibile.

«Ma dai, io non capisco perché non ti piaccia! Fa pure quasi rima col tuo nome: Nina, peperoncino... arancino, o arancina. Che ne pensi, vuoi che ti chiami arancina?»

Roteai gli occhi. «Hai finito?»

«Sì. E mi dispiace. Era quello che volevi sentire? Ora puoi dormire sonni tranquilli?»

«Ovviamente no, sapendo che dormirai nella stanza accanto alla mia.»

Mi sarei aspettata che a quel punto avrebbe fatto una delle sue solite battutine, scontate, squallide e di pessimo gusto, qualcosa come: «Se vuoi possiamo dormire nella stessa stanza». Sarebbe stato qualcosa molto da lui, qualcosa che avrebbe detto per farmi saltare i nervi come a suo solito, oltre che per provarci ottenendo scarsi risultati, invece non disse niente di tutto ciò. Non disse nulla e punto, in realtà.

Magari allora era vero, che non aveva più intenzione di "darmi la caccia". Chissà, forse ora che si era tolto quell'insensata fissa per me, saremmo diventati amici.

 

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Capitolo 17
*** Quindici. ***


Quindici.


Nel mentre di quella piccola discussione, ci eravamo dimenticati di avere la televisione accesa, perciò ci eravamo persi la prima parte del film. Un motivo valido in più, a mio parere, per cambiare canale e vederci qualcos'altro. Vittorio però non volle sentire ragioni, e cercò in tutti i modi di impedirmi di prendergli il telecomando dalle mani.

Speravo di poter contare sull'appoggio di Filippo, ma in realtà sembrava piuttosto assente quella sera. Fissava lo schermo davanti a sé standosene in silenzio, ma in realtà era come se stesse guardando il vuoto. Nemmeno si era accorto del fatto che io e Vittorio stessimo bisticciando a suo lato. «Almeno dagli una possibilità! Hai detto che non l'hai neanche mai visto, magari ti potrebbe piacere» disse Vittorio.

«Ti ho detto di no» ribattei per l'ennesima volta, alzando gli occhi al soffitto.

«Quanto sei cocciuta. Non dovresti avere così tanti preconcetti. Se magari provassi a dare una possibilità alle cose che dici che non ti piacciono, potresti scoprire che...»

«Ti stai riferendo a questo stupido film oppure a qualcos'altro?» lo interruppi, prima di protendermi verso di lui per cercare di prendere il telecomando che nascondeva dietro la schiena.

«Perché, a cos'altro pensi che potrei riferirmi?» domandò con un piccolo ghigno beffardo, prima di fare un cenno quasi impercettibile al biondino al mio fianco.

Roteai gli occhi un'altra volta e sbuffai. «Sai, magari sono più romantica di quello che pensi e credo molto nelle cose a prima vista. Se un film non mi cattura fin da subito, a primo impatto, allora sicuramente non mi interesserà» dissi, prima di insinuare la mano dietro la sua schiena per cercare di afferrare il telecomando.

«Romanticismo? Quella che dici tu si chiami superficialità» contestò, passandosi poi rapidamente il telecomando nell'altra mano e sollevando il braccio che la teneva il più in alto possibile.

«Io superficiale? Magari sono solo brava a inquadrare le person... cioè, i film» mi corressi all'ultimo, prima di alzarmi in piedi sul divano per poter prendere il telecomando dalla mano di Vittorio. Lo teneva così stretto nella sua presa che stavo trovando assai difficile riuscire nella mia impresa. «E comunque magari non ho bisogno di un film nella mia vita per sentirmi completa» tirai ancora più forte, ma non c'era niente da fare: sorprendentemente, Vittorio era parecchio più forte di me, e sembrava anche divertirsi molto a dimostrarmelo.

«Ma non sei mica stata tu a proporlo?» mi ricordò, prima di lasciar andare la presa sul telecomando all'improvviso. Dato che fino a quel momento mi ero mantenuta in equilibrio facendo leva sul telecomando che lui stava tenendo, nel momento in cui lo lasciò andare persi l'equilibrio e caddi all'indietro, atterrando con la testa sulle gambe di Filippo, il quale finalmente si riscosse: «Che succede?» domandò sobbalzando, prima di guardarsi intorno disorientato.

Poi abbassò lo sguardo su di me e mi rivolse uno sguardo fra il sorpreso e il divertito. Mi presi qualche secondo per osservarlo più da vicino. I suoi occhi azzurri risaltavano più del solito, accompagnati da un contorno un po' arrossato e delle occhiaie abbastanza profonde.

Solo allora sembrai ricordarmi di quello che era il mio piano originale: scoprire cosa ci facesse lì. Chissà cosa diavolo era successo, sembrava così turbato...

Le risate sempre più rumorose e fastidiose di Vittorio mi fecero riprendere da quel momento di riflessione. Allungai i miei piedi in avanti per tirargli un paio di calci sul fianco, ma Vittorio mi afferrò le caviglie prima che potessi riuscirci. «Dai, Vittorio, lasciami!» protestai, cominciando a dimenarmi.

«Dammi il telecomando e ti lascio andare.»

«Scordatelo. Sono quasi morta per riuscire ad averlo.»

«Addirittura, quanto la fai tragica!»

«Be', per caso vuoi provare anche tu? Con la sola differenza che ti lascerei cadere a terra» lo minacciai.

Dopodiché, pian piano sentii le mie dita lasciar andare la presa sul telecomando, finché non lo ritrovai più in mano mia. Sollevai la testa e fulminai Filippo con lo sguardo: «Scherzi? Che c'è, adesso lo darai al tuo amichetto del cuore? Pensavo fossi dalla mia parte e che anche tu non volessi vedere questo stupido film» dissi, stupendomi per la maestria e scaltrezza con cui mi aveva sfilato il telecomando dalle mani. Nemmeno me ne ero resa conto.

Cercai di allungare il braccio per riprendermelo, ma dall'altra parte c'era Vittorio che mi teneva ferma, quindi non ero in grado di allungarmi quanto avrei voluto.

«Grande, Filo» fece Vittorio con un sorriso, che si spense nel momento in cui il biondino puntò il telecomando verso il televisore e lo spense.

«Aveva rotto questo film, e comunque ero l'unico a guardarlo» disse, prima di puntare lo sguardo su di me: «Tu ti levi dalle palle oppure ne hai ancora per molto?»

«Che scorbutico» commentai, prima di sollevare la testa e rimettermi seduta sul divano.

«Già, senti chi parla» mi rispose di rimando, prima di alzarsi dal divano e dirigersi verso la portafinestra che conduceva al terrazzo.

Mi scambiai uno sguardo con Vittorio, il quale scrollò le spalle. «Lascia perdere, non è la serata giusta» disse, e quella fu la conferma che stavo aspettando, ovvero che c'era davvero qualcosa che non andava.

Stavo per chiedere al ragazzo moro davanti a me di cosa si trattasse, ma mi fermai nel momento in cui iniziammo a sentire un rumore strano provenire dalla cucina. Sembrava quasi come se qualcuno stesse soffocando o rigurgitando, eppure la luce della cucina era spenta e non avevamo visto nessuno fra mia sorella, mamma o Claudio dirigersi di là prima di sentire quel rumore.

«Oh... no, che palle. Giuseppe sta vomitando» fece Vittorio in parte preoccupato e in parte scocciato, prima di alzarsi dal divano e andare a prendersi cura del suo animale domestico.

Approfittai di quell'inconveniente per fare un tentativo. Mi sistemai le calze ai piedi, dato che si erano sfilate e mi lasciavano scoperti i talloni. Dopodiché mi alzai in piedi e uscii fuori in terrazzo.

Filippo era seduto con la schiena appoggiata al muro, un ginocchio portato al petto e l'altra gamba distesa in avanti. Fra il dito indice e il medio teneva una sigaretta. Era così assorto nei suoi pensieri che si accorse della mia presenza solo quando mi inginocchiai davanti a lui.

«Non ti avevo mai visto fumare fino ad ora» dissi.

«Se neanche mi conosci, ci saremo visti tre volte» rispose soltanto.

«Sono piuttosto sicura che siano state più di tre» feci con un mezzo sorriso. Le ricordavo bene tutte, dal momento che i nostri non erano mai degli incontri tranquilli.

Si strinse nelle spalle e poi si avvicinò la sigaretta alla bocca per fare un tiro, senza dire nulla. Io però non volevo darmi per vinta. «Però è vero, praticamente non ci conosciamo. Pensa, fino a prima di stasera ero convinta che fossi un logorroico che parla sempre a sproposito, invece questa sera...»

«Un po' come lo sei tu?» mi interruppe bruscamente.

A quel punto i miei buoni propositi svanirono nel nulla, perché, come prevedibile, persi la pazienza: «Sì, forse parlo a sproposito a volte, ma in questo momento stavo cercando di aiutarti, quindi forse dovresti essere più riconoscente!».

Inarcò le sopracciglia. «Riconoscente? E dimmi, per che cosa, per avermi dato dello scorbutico o del logorroico? Giusto per citarne due fresche fresche, perché poi ce ne sarebbero così tante di cose che mi hai detto da quando ci siamo visti la prima volta.»

«D'accordo, va bene, va' avanti per la tua strada» mi rialzai in piedi, pronta a tornare dentro casa. «Mi dispiaceva solo vederti così giù di corda e volevo capire se potessi fare qualcosa per...»

«Tu? E cosa potresti fare tu per aiutarmi?» domandò, interrompendomi per l'ennesima volta.

«Magari se iniziassi col dirmi che cosa ti succede...» Tornai a sedermi a terra, ma questa volta al suo fianco, così da stargli più vicina. Mi portai entrambe le ginocchia al petto e le cinsi con le braccia.

A quel punto si girò verso di me, puntando finalmente il suo sguardo sul mio dopo averlo evitato per tutto il tempo.

Mi offrì la sigaretta e, nonostante dentro di me sapessi che avrei dovuto rifiutare perché non mi faceva bene e mi ero ripromessa di smettere, alla fine non riuscii a declinare la sua generosa proposta. Feci per prendergli la sigaretta dalle mani, ma lui schioccò la lingua sul palato e scosse la testa. A quel punto aggrottai la fronte confusa. «Apri la bocca» sussurrò.

«No» risposi, corrucciando la fronte.

«Perché?»

«Questo dovrei essere io a chiederlo a te» gli feci notare.

«Dai, fidati. Ti voglio far vedere una cosa davvero forte.» Fece un altro tiro dalla sigaretta, ma non buttò subito fuori il fumo. Stava aspettando me.

Sebbene non avessi ben chiaro ciò che avesse intenzione di fare, decisi di dargli ascolto e aprii pian piano la bocca. A quel punto Filippo sogghignò, prima di avvicinarsi sempre di più al mio viso. Feci per indietreggiare e allontanarmi da lui, ma mi ricordai all'ultimo, quando battei la testa, che avevo un muro dietro di me. E comunque era ormai troppo tardi. Filippo era ormai a pochi centimetri dal mio viso, quando infine separò le sue labbra per far passare il fumo dalla sua bocca fin dentro la mia.

Rimasi pietrificata. L'unica parte del mio corpo che sentivo muoversi era il mio cuore, che non accennava a smettere di martellarmi nel petto e che proseguì in quel modo anche quando lui si era ormai allontanato dal mio viso, facendo svanire anche quel tenue calore che provocava il suo respiro sulla mia pelle. A quel punto mi accorsi che non stavo più respirando già da una dozzina di secondi. Nel momento in cui ripresi a farlo, mi ricordai di aver aspirato il fumo e di non averlo buttato fuori, così presi a tossire ininterrottamente a causa del fumo ingerito.

Filippo prese a ridere fragorosamente, prima di darmi dei piccoli colpi sulla schiena affinché la smettessi di tossire. «Ci sei? Sei ancora viva?» chiese e io annuii, prima di prendere un respiro profondo per calmarmi. «Dai, prova tu adesso» disse, passandomi la sigaretta.

«M-ma... ma n-non ne sono capace» balbettai. Perché balbettavo?

«Sì che ne sei capace, è semplicissimo!» provò a incoraggiarmi.

«Lo faccio, ma solo se tu poi mi dici che cosa ti prende stasera» misi in chiaro le cose. Non me n'ero affatto dimenticata.

Sospirò. «Va bene, ora però vai, o tra poco sarà consumata tutta dal vento e sarà già da buttare» disse, riferendosi alla sigaretta che tenevo stretta fra le dita.

Annuii e poi la portai fra le mie labbra per aspirare il fumo. Sebben ancora titubante, presi ad avvicinarmi al suo viso. Nel momento in cui stavo per schiudere le labbra, Filippo mi portò una mano sulla nuca per ridurre ancora di più la distanza fra noi due, e io a quel punto gli appoggiai una mano sul petto per allontanarlo. Anche il suo cuore stava battendo molto velocemente, tanto quanto il mio. «Devi venire un po' più vicino, altrimenti il fumo si disperde per aria» disse a bassa voce. Poi mi prese la mano e se la portò sulla guancia. Dopodiché aprì la bocca e io tentai di replicare ciò che aveva fatto lui poco prima, trasferendo il fumo dalla mia bocca alla sua.

«Vedi? Sei andata benissimo» fece con tono affabile, mostrando la sua piccola fossetta sulla guancia e liberando il fumo. «Ora ti va di provare senza fumo?» chiese poi continuando a tenere lo sguardo fisso sulle mie labbra, e fui seriamente tentata di spegnergli la sigaretta in un occhio dopo quella sua uscita.

«Adesso non ti pare di esagerare?» Mi allontanai all'improvviso e sbuffai. Sempre il solito sbruffone. Sembrava quasi che si fosse trattenuto tutta la sera dal fare le sue solite battute scontate, e che avesse deciso di liberarle proprio in quel momento.

Fece gli ultimi tiri di sigaretta e poi la spense, calpestandola con il piede sul pavimento, prima di buttarla giù dal terrazzo. Poi calò il silenzio, che fu interrotto da lui pochi attimi dopo. «Quindi lo vuoi sapere veramente?»

«Se te l'ho chiesto, direi di sì.»

Si prese ancora qualche attimo prima di rispondere. Cominciò a fissare un punto indefinito davanti a sé. «Ecco... Mio padre ha un po' di problemi con il bere e... e a volte diventa un po' violento. Finché ero piccolo le prendevo senza oppormi, ma ora che sono cresciuto non mi va più, così inizio a dire la mia e provo a difendermi. A volte mia madre si mette in mezzo per calmare le acque e per proteggermi, e quindi lui picchia anche lei; altre volte, forse nelle ipotesi migliori, mio padre esce di casa gridando che non vuole più saperne di noi due, e mia madre gli corre dietro per riportarlo indietro, salutandomi affettuosamente con un: "Vattene, quando torneremo a casa, non voglio vederti qui". Stasera era una di quelle sere. Ecco quindi spiegato perché sono qui.»

Rimasi letteralmente spiazzata dalle sue parole, tanto da starmene lì con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Quindi era questo a cui si riferivano Claudio e Vittorio, quando parlavano dei "problemi di Filippo". Non avrei mai immaginato una cosa del genere.

«Io... m-mi dispiace. Non ne avevo alcuna idea» fu l'unica cosa che fui in grado di dire.

«Certo che no» disse con un sorriso amaro, prima di iniziare a fissarmi intensamente negli occhi. «Oltre a Vittorio e suo padre, sei l'unica persona a cui l'ho detto.»

Quell'ultima frase che disse attivò in me qualcosa molto diverso dal dispiacere, più che altro lo tramutò in disprezzo. Sembrava quasi troppo toccante il fatto che fra tutte le persone esistenti al mondo, avesse deciso di confidare una parte così intima e personale di lui proprio alla sottoscritta.

Troppo scontato. Come ogni cosa che diceva ogni qualvolta accadeva la sfortuna che aprisse bocca.

«Sì, certo. Bel modo di far colpo su una ragazza, inventando stronzate affinché ti compatisca!» esclamai, alzandomi in piedi e preparandomi a tornare dentro, ma quella volta per davvero.

Si alzò in piedi anche Filippo e mi sbarrò la strada. «Tu pensi davvero che mentirei su una cosa del genere? Ma che considerazione hai di me? E soprattutto che cosa ti ho fatto per farti avere quest'impressione di me?»

Lo sguardo che mi rivolse prima di rientrare in casa mi uccise dentro. Non avevo fatto altro che peggiorare le cose. Avevo detto che avevo intenzione di aiutarlo a stare meglio, e in realtà non avevo fatto altro che ferirlo ancora di più.

Mi ero comportata da vera stupida, come succedeva ogni singola volta. Riuscivo sempre a rovinare tutto per via del mio pessimo carattere, diffidente verso chiunque.
Avrei dovuto capirlo. Avrei dovuto capire che nello stato d'animo in cui era, non sarebbe stato in grado di giocarmi brutti scherzi come suo solito, specie su un argomento così delicato.

Rientrai in casa anch'io e chiusi la portafinestra, prima di appoggiarmici con la schiena. Mi sentivo terribilmente in colpa, tanto da voler scomparire. Non sapevo neanche che cosa fare, se provare a scusarmi oppure aspettare che fosse di un umore migliore prima di parlargli.

«Ma Filo? Dov'è andato?»

Sollevai lo sguardo e mi ritrovai Vittorio davanti, con il gatto in braccio. Non risposi. Lanciai uno sguardo schifato verso il gatto che, nonostante Vittorio avesse sicuramente fatto il possibile, emanava un odore di pesce marcio, ancor più forte del solito. Poi mi diressi con passo deciso verso camera di Vittorio, dove ero certa che si fosse rifugiato Filippo.

«Che è successo? Nina, mi vuoi parlare?» chiese Vittorio, seguendomi.

Aprii la porta della sua camera ed entrai, prima di chiudergliela praticamente in faccia. Girai la chiave nella serratura, per far sì che Vittorio non ci disturbasse. «Nina! Apri la porta!» esclamò, tirando un piccolo colpo alla porta per farsi sentire da me, ma tanto io non gli diedi ascolto.

Diedi una rapida occhiata alla stanza di Vittorio, per cercare di orientarmi. Infatti, a terra, di fronte al suo letto, era posizionato il materasso dove avrebbe dormito Filippo e, se non ci avessi prestato attenzione, ci sarei certamente inciampata sopra. Seduto sul pavimento, sotto la finestra e lo sguardo rivolto verso il basso, individuai infine il biondino.

«Nina!» mi giunse ancora la voce di Vittorio dall'altra parte della porta.

Che insistenza. «Un attimo!» risposi a gran voce affinché mi sentisse.

A quel punto Filippo si voltò verso di me: «Perché non mi lasci in pace?» chiese, con voce grave e rauca, come quando era appena arrivato a casa.

Avvertii una fitta al cuore. Andai a sedermi di fronte a Filippo, il quale a quel punto girò su se stesso e mi diede le spalle. Roteai gli occhi, pronta a dirgliene quattro, ma poi cercai di ricorrere a tutte le mie forze per evitare di farlo, dal momento che non ero proprio nella posizione per poterlo fare. Così sospirai, sia per calmarmi sia per prendere coraggio. «D'accordo, va bene anche se non mi guardi. Anzi, forse me lo rende più facile, dato che non sono abituata a chiedere scusa, non lo faccio quasi mai, con nessuno... e se lo faccio è perché devo, non perché mi va davvero di farlo. Ma non stavolta.»

Feci una piccola pausa. Nonostante quello che avevo detto iniziando il discorso, in realtà non mi stava bene stare a parlare con la sua schiena piuttosto che con lui. Così mi alzai in piedi solo per risedermi di fronte a lui. Come previsto, non appena lo feci, lui si girò di nuovo dall'altro lato. «Dai, Filippo, tanto comunque sei qui ad ascoltarmi, se non te ne importasse di starmi a sentire, ti saresti già alzato e avresti aperto la porta, quindi che cosa ti cambia guardarmi negli occhi mentre ti parlo?»

Temevo che dopo quelle mie parole si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato, ma alla fine non fu così. Rimase immobile per qualche secondo, probabilmente riflettendo sul da farsi, infine si voltò nella mia direzione. Sentii un'altra fitta al cuore, nel momento in cui scorsi, per via della luce della luna che subentrava dalla finestra, una lacrima depositata sulla sua guancia, recente ma ormai quasi asciutta.

A quel punto ero io quella che non era in grado di sostenere il suo sguardo. Lo abbassai quindi sul pavimento, prima di riprendere a parlare: «M-mi dispiace, ok? È che... è che mi sembrava assurdo che... che avessi deciso di raccontare una cosa così personale a me, che obiettivamente non sono nessuno, in fondo fino a un mese fa neanche sapevi della mia esistenza».

«Quindi per te risulta più facile credere che mi inventerei una balla per far colpo su di te, piuttosto che credere al fatto che mi fidi a tal punto da raccontarti una cosa del genere?»

Rimasi zitta, continuando a sentirmi in colpa per aver pensato una cosa del genere. No, magari lo avessi solo pensato... io gliel'avevo proprio sbattuto in faccia con tracotanza.

«Che cosa ti ho fatto? Dimmelo, che cosa ti ho fatto perché tu debba pensare questo di me?»

Non dissi nulla, incapace di dire qualsiasi cosa. E sapevo che non avrei dovuto fare così, dato che ero stata io a insistere affinché ne parlassimo e non avrei dovuto tirarmi indietro.

«Allora?» mi incalzò e io roteai gli occhi.

«Perché me l'hai voluto dire? Se è vero che lo sanno solo Vittorio e suo padre, perché l'hai detto a me?» chiesi, tornando a guardarlo. «Se neanche ci conosciamo e a quanto pare sono un mostro di persona, perché hai voluto dirmelo?»

«Chi se ne importa, Nina, ormai te l'ho detto! Mi andava di farlo e basta. Non è che se decido di confidarti qualcosa devono esserci per forza dei secondi fini.»

«Lo so, ma...» Non terminai la frase. Per me era difficile fidarmi delle persone, credere che non avessero cattive intenzioni qualsiasi cosa facessero o dicessero. Non potevo farci niente, ero diffidente verso chiunque. L'unica cosa che mi dispiaceva era che quel mio modo di fare alle volte rischiava di ferire le altre persone, oltre che me. «Mi dispiace, ho sbagliato» dissi.

«Lo so, questo l'hai già detto» fece con un mezzo sorriso amaro. «Io però voglio capire che cosa ti ho...»

«Filippo, non riguarda te, sono io il problema» lo interruppi con fare scocciato. «Non è che ce l'ho con te, né mi hai fatto qualcosa in particolare. Ho sbagliato e basta, ora ho capito e non succederà più. Pace fatta?» tesi la mano verso di lui sperando che me la stringesse e potessimo finalmente dichiarare chiuso quel discorso.

Si strofinò una mano sulla guancia e tirò su col naso, prima di annuire e stringermi la mano. Poi, continuando a stringerla, si alzò in piedi e sollevò anche me da terra. «Comunque te l'ho detto che non mi piaci più in quel senso, quindi perché pensavi che ci stessi provando?» domandò.

«Be', io... per la battuta che avevi fatto poco prima... quella sulla sigaretta» risposi, sciogliendo la presa e incrociando le braccia al petto.

«Quello che c'entra? Era uno scherzo. Te l'ho già detto, prendi tutto troppo sul serio» fece, appoggiando le sue mani sulle mie spalle e massaggiandomele per qualche secondo. «Pensavi che ci stessi provando anche quando abbiamo fatto quella cosa?» chiese al mio orecchio e mi irrigidii non appena sentii un brivido percorrermi la schiena. «Anche perché così fosse, allora sembrava che tu non fossi poi così contraria...» aggiunse a voce più bassa.

Mi allontanai di scatto. «Macché, era soltanto un gioco, no?» feci, sforzandomi di mantenere un tono rilassato. Non aveva significato niente, né per me né per lui. Altrimenti avrei di certo rifiutato.

«Certo, lo faccio con tutte le mie amiche più o meno da sempre» rispose, avviandosi verso la porta per aprirla.

«Ah bene, complimenti. E quindi io cosa sono, una delle tue amichette con cui fai giochetti stupidi e che baci quando vuoi anche se non ti importa niente di loro, giusto per divertirti?»

Mi morsi la lingua non appena dopo aver parlato. A giudicare dal sorriso compiaciuto e divertito che assunse dopo le mie parole, avevo appena detto proprio ciò che voleva sentire. «Be', sì, tanto tu hai detto che non sei diversa dalle altre ragazze. Parole tue, o sbaglio? Oppure ti aspettavi un trattamento diverso?»

Sentii le guance andarmi a fuoco dalla rabbia e strinsi i pugni per evitare di reagire. Quasi quasi lo preferivo a inizio serata, quando parlava poco e teneva il broncio.

«Tra l'altro, dimmi se sbaglio, ma non mi sembra proprio che ci siamo baciati. Però se ci tieni possiamo sempre rimediare una delle prossime volte» sorrise beffardamente e mi fece un occhiolino.

Stavo per scatenare la mia furia contro di lui, ma proprio in quel momento girò la chiave nella serratura e aprì la porta. «Prego, milady. Buonanotte» indicò il corridoio con la mano e mi invitò a uscire dalla stanza di Vittorio. Non me lo feci ripetere due volte. Uscii dalla stanza e richiusi la porta alle mie spalle con veemenza.

Dopo qualche istante sbucò Vittorio dal salotto. «Che è successo?» domandò agitato.

«Ma sai dire altro? Sembri quasi un giradischi impallato.»

«Benedetta, sempre con questa porta!» esclamò mia madre dalla sua stanza, inducendo che si trattasse di mia sorella visto che era lei solitamente a sbattere le porte, e a quel punto la mia rabbia si dissolse in un battibaleno per lasciare spazio a una risata che veniva dal profondo del cuore. Vittorio mi fissò confuso, prima di ridere a sua volta.

 

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Capitolo 18
*** Sedici. ***



Sedici.

Finalmente era venerdì, l'ultimo giorno di quella prima intensa settimana di scuola. E, se mia madre non si sbagliava, era anche il mio ultimo giorno di ciclo. In realtà non avevo praticamente più alcuna perdita, ma mia sorella mi consigliò di mettere comunque l'assorbente e portarmene alcuni di riserva. «Sai quante volte ho pensato che fosse finito e poi mi sono sporcata le mutande e persino i pantaloni?» mi disse, prima di andare a chiudersi in bagno.

«No, Benni, aspetta» provai ad abbassare la maniglia della porta del bagno, ma non riuscii ad aprirla perché si era chiusa a chiave. «Benedetta, fammi entrare, per favore! Devo farmi il bidet e cambiarmi ancora l'assorbente che ho da questa notte.»

«E chi se ne importa? Aspetta un attimo. Ci sono io in bagno adesso, tanto che fretta hai? È ancora presto» rispose dall'altra parte della porta.

Sbuffai. Avevo fretta perché non volevo rischiare di incrociare Filippo. Lui e Vittorio stavano ancora dormendo, dal momento che ci mettevano di meno a prepararsi e non dovevano svegliarsi così presto come noi ragazze. «Ma perché non puoi farmi entrare? Stiamo sempre in bagno insieme» protestai.

«Che barba che sei! Devo fare una cosa e se continui a parlarmi ci metto il triplo a finire e a liberarti il bagno!» esclamò nervosa.

Mi appoggiai con la schiena alla porta del bagno e sbuffai. Chissà cosa avrebbe mai potuto fare in bagno di così segreto da non potermi far entrare. Eravamo abituate fin da bambine a fare i bisogni una dopo l'altra senza alcun problema o imbarazzo, perciò non capivo il motivo di tutta quella necessità di riservatezza.

Dopo pochi secondi, la porta della stanza di Vittorio si aprì, e ne uscì il moro insieme al biondo.

«Ecco, grandioso...» feci sarcastica sottovoce.

Vittorio sbadigliò e poi si avvicinò a me. «Si può sapere cosa c'è da urlare tanto a quest'ora del mattino?» chiese, appoggiandosi col gomito alla mia spalla.

«Mi serve il bagno» risposi, prima di sorridere per l'aspetto dei suoi capelli completamente arruffati e spettinati. Mi alzai in punta di piedi e allungai una mano per cercare di sistemarglieli, senza ottenere però dei risultati troppo soddisfacenti.

«C'è l'altro libero» mi fece notare Filippo, prima di sbadigliare anche lui e stiracchiarsi.

«Lo so, ma mi serve questo» mi impuntai, tenendo le braccia incrociate al petto.

Vittorio si strofinò gli occhi e poi emise un piccolo ghigno strafottente. «Ah, ho capito perché: è per i pannolini, sono lì dentro!» esclamò ridacchiando. In seguito si scambiò uno sguardo complice con Filippo: «Fra tre... due... uno...» contò con le dita, senza che capissi a cosa si riferisse.

«Si chiamano assorbenti, non pannolini» precisai, parlando all'unisono con i due ragazzi, i quali mi fecero il verso.

Li fissai entrambi di sottecchi. Per fortuna subito dopo la porta del bagno si riaprì e mi ci rifugiai di corsa non appena Benedetta uscì.

Una volta finito di sistemarmi, tornai in camera e cercai di prepararmi il più in fretta possibile. Armata di zaino in spalla, mi avvicinai alla porta di casa e la aprì. «Io vado! Ci vediamo dopo!» esclamai salutando Benedetta, Vittorio e Filippo. Dopodiché uscii di casa.

«Fiù! Ce l'ho fatta» sospirai di sollievo.

*

Una volta a scuola, io e Irene ci riunimmo come al solito con Angelica, Eva e Sabrina a parlare in corridoio prima dell'inizio delle lezioni.

«È allucinante! Una sola settimana e sono già sfinita» si lamentò Eva.

«Già, pensa che da settimana prossima iniziano già a interrogare» le ricordò Sabrina.

Mi stava venendo l'angoscia solo a pensarci. Non ero ancora pronta a mettermi sotto con lo studio, nonostante i miei piani iniziali. «Dai, cerchiamo di non pensarci» dissi.

«Se solo avessimo modo di svagarci un po' durante il fine settimana... Avrei proprio voglia di andare a una festa» intervenne Angelica, portandosi entrambe le mani sulle guance.

A quel punto, le quattro ragazze posarono tutte lo sguardo su di me e rimasero in silenzio, il che mi parve piuttosto strano. «Che c'è?» chiesi confusa.

Si scambiarono uno sguardo e poi tornarono a guardarmi. «Vittorio cosa fa stasera?» domandò Irene.

«Non lo so, perché?»

«Dai, quelli del suo gruppo escono sempre il fine settimana e danno sempre feste strepitose!» rispose Angelica, e mi stupì il fatto che, oltre a Vittorio, conoscessero anche il resto dei suoi amici.

«Ah sì?» Da quando mi trovavo a Milano non avevano fatto granché, ma forse solo perché era estate e non ci fosse chissà quanto da fare.

«Ti prego, non puoi chiederglielo e dirgli di invitarci?» fece Irene con parecchia insistenza.

Mi scocciava dover dipendere ancora da Vittorio per questo genere di cose. Speravo che una volta cominciata la scuola e trovato il mio gruppo di amici, non ci fosse più bisogno di dovermi accollare a lui. Non che mi dispiacesse stare in sua compagnia, il problema erano più che altro i suoi amici...

Comunque mi dispiaceva dire di no a Irene e deludere le altre, che altrimenti sarebbero rimaste a casa ad annoiarsi tutta la sera quando invece avrebbero potuto uscire a divertirsi. «Posso provare a chiedere, ma non vi garantisco niente. Per adesso non mi ha accennato nulla, di solito tendono a organizzarsi all'ultimo» spiegai, e loro si esibirono in un sorriso a trentadue denti.

Poi, mentre loro proseguirono a parlare di cosa avrebbero potuto mettersi nel caso di una ipotetica festa, io mi estraniai dalla conversazione, per concentrarmi su una coppia intenta a scambiarsi delle effusioni a pochi passi da me. Il ragazzo era seduto sul tavolo dove generalmente stava il bidello, invece la ragazza era in piedi davanti a lui. La cosa che saltava subito all'occhio erano le mani grandi del ragazzo strette attorno alle natiche della sua fidanzata. Disgustoso. Distolsi subito lo sguardo e tornai ad ascoltare le ragazze.

«Io dico che non puoi sapere se bacia bene se hai baciato solo lui» fece Eva, rivolta a Irene.

«Per me è così, invece, e poi conta quello che ho provato in quel momento, piuttosto che il modo in cui bacia» ribatté Irene.

«Sì, ma oggettivamente parlando, non puoi saperlo davvero finché non baci altri ragazzi. Te che ne pensi, Nina?» domandò Sabrina e in un primo momento finsi di non aver sentito: «È? Cosa?».

«Stavamo dando un voto ai ragazzi che abbiamo baciato, e dicevamo a Irene che non può dare un dieci a Vittorio se prima non l'ha confrontato con altri.»

Corrucciai la fronte. «Ecco, io... onestamente non mi sembra una cosa molto carina, quella di valutare i ragazzi in questo modo» dissi. Né mi pareva molto carino far sentire Irene da meno solo perché a differenza loro aveva baciato un solo ragazzo.

«Ma sì, lo facciamo giusto per scherzare. Dai, è il tuo turno adesso: vuota il sacco!» mi esortò Angelica.

«Io? Ecco, ehm...» Stavo per aprire bocca e ripetere per la milionesima volta che non avevo mai baciato nessuno, sia perché non mi interessava, sia perché non ci era mai stata l'occasione di farlo, ma mi bloccai all'ultimo prima di proferire parola.
Ero stufa di sentirmi così tanto a disagio ogni qualvolta mi capitasse di "vuotare il sacco", mi faceva sentire come se la verità fosse qualcosa di cui vergognarsi.

E, per la prima volta nella mia vita, in effetti era così: me ne vergognavo. Avrebbero pensato anche loro che ero una sfigata, e forse era davvero così, forse lo ero. E mi ero stancata di essere reputata tale.
Comunque loro non mi conoscevano, né conoscevano la Nina che ero prima che mi trasferissi a Milano. Non avrebbero mai potuto capire se si trattasse della verità oppure di una bugia.

«Ci sono stati un paio di ragazzi, a Torino, ma niente di che. Darei un sette a tutti. Comunque sta arrivando il professore di storia, dovremmo rientrare in classe» dissi velocemente, per liquidare il discorso.

Pensavo che mi sarei sentita meglio dopo quella piccola bugia, che mi sarei sentita maggiormente inclusa e apprezzata all'interno di quel gruppo, ma in realtà non fregava niente a nessuno. In fondo per tutte loro era la normalità, di certo nessuna sarebbe mai venuta a dirmi: «Davvero? Caspita, complimenti!».

Quindi sì, era stato del tutto inutile inventarsi quella balla. Forse sarebbe stato meglio beccarsi le loro occhiate stranite dopo aver detto la verità, piuttosto che quella semplice indifferenza. Ma ormai, alea iacta est, come si suol dire.

*

Solo una volta che ero sul tram insieme a Irene, pronta a tornare a casa e a chiudere quella prima settimana di scuola, ebbi finalmente modo di tornare a essere la persona onesta che ero sempre stata: «Comunque ho mentito prima. In realtà io... io non ho mai baciato nessuno».

Non ne potevo più di tenermi quella bugia bianca, mi stava attanagliando dentro, anche se a nessuno importava ed era una cosa di poco conto che non avrebbe ferito nessuno. Mi sentii immensamente sollevata dopo aver detto la verità, anche se solo a una persona. Almeno con lei sapevo che potevo essere sincera, me stessa al cento per cento.

Irene mi fissò sorpresa, con le sopracciglia inarcate. «Come? Perché non ce l'hai detto?» domandò e io scrollai le spalle.

«Perché sono una stupida, ecco perché. Avevo paura che se vi avessi detto la verità, avreste pensato di me che... non lo so, che sono strana, o che sono una sfigata» ammisi, togliendomi un altro grosso peso.

«Ma dai, Nina, che sciocchezza. Sai cos'è davvero da sfigate? Fare questo tipo di classifiche, proprio come hai detto tu prima» disse appoggiandomi una mano sulla spalla, e io abbozzai un piccolo sorriso. «Comunque non so se ci hai fatto caso o se eri persa nel tuo mondo, ma nessuna di loro ha dato voti troppo alti a quei ragazzi. I casi sono due: o facevano davvero tutti così schifo, oppure hanno esagerato loro per darsi delle arie, com'è più probabile.»

«Sai, mi hanno dato davvero sui nervi quando si sono accanite su di te... Presumo che sia stato anche per questo che ho mentito, perché non volevo che deridessero anche me. E mi dispiace di non essere intervenuta per difenderti.»

Scrollò le spalle e sorrise. «Ah, non prendertela per quello che mi dicono. E tranquilla che se voglio so difendermi benissimo da sola, semplicemente ho deciso di non farlo e ho imparato a fregarmene, tanto so che sarebbe tutto inutile con loro.»

«Comunque è molto dolce quello che hai detto su Vittorio...» dissi, ripensando alle sue parole di quella mattina. «Credi che sia davvero così? Che un bacio sia bello solo quando lo dai a qualcuno per cui provi qualcosa?»

«Non lo so, ma penso di sì. Io ero praticamente già cotta di lui ancor prima che accadesse, perciò!» esclamò ridendo.

«Ma se lo conoscevi appena quando ti ha invitata a ballare.»

«Lo so, ma... non lo so, fin da subito ho sentito qualcosa qui, dentro al petto» ammise, mettendosi una mano sul cuore.

Sorrisi, più che altro per il fatto che ero sempre più convinta che non avrei mai provato una cosa del genere per nessuno, né avrei voluto, ed ero lieta che per il momento non fosse accaduto.

«Non avevi paura prima di baciarlo?» domandai poi.

«Paura?» ripeté, fissandomi stralunata. «E per quale motivo?»

«Per il fatto che non sapevi cosa fare, non avendolo mai fatto.»

Si prese qualche secondo per pensarci. «Più che altro avevo paura che rimanesse in qualche modo impigliato al mio apparecchio o che si tagliasse la lingua» rispose e ridemmo all'unisono. «Comunque no, ero piuttosto tranquilla. Lui mi ha messa fin da subito a mio agio, è stato un sacco carino e premuroso con me. Non ci ho neanche pensato, è successo e basta.»

Mi stupì parecchio la sua risposta, e mi lasciò con ancora più dubbi di quanti ne avessi prima. Da una parte c'era Vittorio che descriveva il suo primo bacio e l'attimo che lo precedeva come qualcosa di orribile e imbarazzante; dall'altra c'era Irene che si era sentita a suo agio e non temeva che qualcosa potesse andare storto.
Da una parte Vittorio aveva preferito riservare il suo primo bacio a qualcuno di cui non era innamorato, per essere pratico per il futuro; dall'altra, Irene riteneva che un bacio non potesse essere né brutto né bello, ma che ciò che contava e lo rendeva speciale era ciò che si provava per l'altra persona che si baciava.

Così ecco che avevo le idee ancora più confuse che in precedenza. Ed ecco che ancor più di prima, la mia mente non riusciva a pensare ad altro se non a quando, come, dove e con chi avrei dato il mio maledetto primo bacio.

Ormai stava diventando un peso che non vedevo l'ora di togliermi, così da non doverci più pensare. Eppure non potevo farci niente.

*

Quel pomeriggio Vittorio non era tornato a casa per pranzo, ipotizzai che fosse andato a mangiare fuori con i suoi amici, così non ebbi modo di chiedergli subito se avesse dei piani per la sera.

Quanto a mia sorella, pensavo che il suo nervosismo si sarebbe esaurito a quella mattina, invece constatai con seccatura che si era solo intensificato. «Dai, cazzo, ma perché in quella casa non risponde mai nessuno?» chiese fra sé e sé, mentre componeva ancora una volta il numero di casa di Maurizio, portandosi nel frattempo le unghie alla bocca e mordicchiandole per l'agitazione.

«Magari si sono semplicemente stufati di ricevere dodici chiamate al giorno tutte da parte tua e hanno buttato il telefono fuori dalla finestra» ipotizzai, ridendo da sola per la mia battuta.

«Non è divertente, Nina. E comunque non lo sento da due giorni.»

Inarcai le sopracciglia. «Veramente?»

«Perché l'hai detto con quel tono preoccupato? Pensi che ci possa essere qualcosa sotto?»

Roteai gli occhi. «No, Benni, adesso non partire per la tangente. È solo che da quando ci siamo trasferite vi siete sempre sentiti al telefono almeno due o tre volte al giorno, quindi mi sembrava strano che fossero trascorsi addirittura due giorni.»

Buttò giù la cornetta con irruenza e incrociò le braccia al petto. «Io davvero non capisco... ieri o non rispondeva nessuno oppure rispondevano i suoi e mi dicevano che Maurizio non c'era, e oggi idem.»

«Ma avete litigato?» chiesi. In effetti era una circostanza piuttosto sospetta.

«No! Non è successo niente. Non riesco proprio a capire...» disse col magone, portandosi entrambe le mani sui capelli.

«Hai provato a chiamare qualche tua amica per sapere se l'hanno sentito o visto in questi giorni? Chiara non è mica in classe con lui?»

Dopo quelle mie parole, sembrò che a Benedetta si fosse accesa una lampadina. «Giusto! Come ho fatto a non pensarci?»

«Semplice, perché da quando stai con Maurizio hai la testa bacata ancor più del solito» risposi, avvicinandomi alla sua testa per bussarle sulla fronte. «Senti? È vuota.»

«Ah, ma finiscila, cretina» sbottò, piegando le dita della mano e lasciando alzato solo il dito medio.

Le feci la linguaccia e poi andai in bagno. Fissai a lungo il mio riflesso allo specchio. Mi portai i capelli dietro le spalle. Erano davvero cresciuti un sacco: prima quando li spostavo indietro non vi era alcuna differenza rispetto a quando li tenevo davanti. Mi sorse un dilemma esistenziale: non sapevo se lasciarli così oppure se tagliarli un pochino, per averceli all'altezza del mento come ce li avevo all'inizio dell'estate.

Considerando il casino che avevo fatto l'ultima volta, non sapevo proprio se fidarmi ancora delle mie abilità da parrucchiera, se non per le cose basilari. E ce n'era una che meditavo di fare da un po' di tempo.

Alla fine mi convinsi e andai in cucina per prendere una forbice. Dopodiché tornai in bagno, mi avvolsi un asciugamano attorno alle spalle e lo fissai con una molletta. Presi un pettine e iniziai a dividere le ciocche anteriori dal resto dei capelli. Aprii il rubinetto e cominciai a bagnarmi i ciuffi. Una volta fatto, chiusi il rubinetto e pettinai le ciocche spostandomele davanti al viso. Afferrai i ciuffi fra il dito indice e il dito medio, lisciando la ciocca dalla radice e fermandomi circa ad altezza del naso.

Per evitare di dover fare troppe fatiche per pulire una volta finito, presi un altro asciugamano e lo stesi sul lavandino. Poi, con la mano un po' tremolante per via del fatto che non ero ben sicura di portare a termine ciò che avevo iniziato, tagliai con la forbice la parte di capelli che stava al di sotto delle dita.

Osservai i capelli cadere e depositarsi sul lavandino. Ormai il danno era fatto. Avevo tagliato un bel pezzo. Be', d'altronde mi ero appena fatta la frangia. Poi sollevai lo sguardo per guardarmi allo specchio. Non ero ancora soddisfatta, così riafferrai i capelli e li tagliai ancora più corti, facendo arrivare le ciocche appena sotto gli occhi. «Ecco, così sì che è una vera frangia» mi dissi, compiaciuta. Dentro di me mi chiedevo quanto ci avrei messo a stufarmi anche di quel nuovo look.

Mi tolsi l'asciugamano dalle spalle e lo richiusi solo per aprirlo e sbatterlo sopra al water, per far cadere nella tavoletta i capelli. Lo stesso feci con l'asciugamano che avevo messo sul lavandino.

Come ultima cosa, tirai fuori il phon e la spazzola tonda dal mobile del bagno. Attaccai l'asciugacapelli alla presa e iniziai ad asciugarmi i capelli con la spazzola, così da dare una forma alla frangia. «Così sembro Luigi XIV con una delle sue parrucche» constatai, notando la forma piuttosto gonfia e bombata che aveva assunto la frangia. Ci passai una mano sopra per spettinarmi un po' i capelli, e il risultato finale non era così male come temevo.

Misi a posto tutto ciò che avevo utilizzato per il mio piccolo esperimento e infine uscii dal bagno. Vidi la porta di camera di Vittorio socchiusa, così intuii che era finalmente tornato a casa. Entrai nella sua stanza e sollevai le mani in aria con fare teatrale: «Ta-da! Che ne pensi?».

Sobbalzò sul letto per la mia apparizione improvvisa e poi si alzò in piedi per darmi un'occhiata più da vicino. «Mmh... sì, sei carina.»

«Tutto qui?» domandai aggrottando le sopracciglia, delusa da quella reazione non molto convinta

«Sì, dai, ti sta bene questo nuovo taglio. Ma quando l'hai fatto? Sei andata dal parrucchiere?»

Ridacchiai a quella sua domanda. «Ti pare? Ho fatto da sola.»

«Addirittura?» domandò ironico e io sorrisi.

«Se vuoi uno di questi giorni posso dare una sistemata anche a te» proposi.

«Perché? Cos'hanno i miei capelli che non va?» fece quasi offeso.

Sarebbe stato più facile dirgli cosa c'era che andava piuttosto che il contrario. «Dai, sono diventati ingestibili. Sembri quasi il cugino di Tarzan» gli feci notare.

«Ah sì? Il cugino di Tarzan?»

«Già. Vuoi vedere?» chiesi, prima di passare una mano sulla sua testa per arruffargli tutti i capelli. Lui approfittò della poca distanza fra i nostri corpi per cingermi le ginocchia e sollevarmi di peso su una spalla. «No, Vittorio, lasciami andare!» cominciai a protestare, tirandogli dei piccoli pugni sulla schiena.

«Ah, è questo che vuoi? Lo sai che se ti lascio andare ora e tu continui a muoverti come una schizzata, va a finire che cadi di testa?» fece, togliendo per qualche secondo la mano che sorreggeva le mie gambe. Per un attimo mi parve davvero di cadere, così smisi di dimenarmi per cercare di rimanere in equilibrio.

A quel punto riportò la mano dietro le mie ginocchia, prima di prendere a camminare fuori dalla sua stanza e giungere in salotto. Si avvicinò al divano quanto bastava affinché ci toccassi con i piedi, così che potessi scendere. «Sei proprio un idiota!» esclamai, prima di scendere dal divano e avvicinarmi a lui con fare minaccioso. «Poi non lamentarti se ti viene mal di schiena» aggiunsi, ma lui sembrò non ascoltarmi nemmeno, preso com'era a ridere a crepapelle.

«Sentiamo, cosa ci sarebbe di così divertente nell'avere un'ernia a sedici anni?» domandai scocciata.

«Dovresti vedere... dovresti vedere i tuoi capelli in... in questo momento. Adesso sembri... sembri anche tu la cugina di Tarzan» rispose, fra una risata e l'altra.

Lo fissai in cagnesco. Poi mi ricordai del reale motivo per cui mi ero diretta in camera sua in prima battuta e rilassai il viso. «Questa sera tu e gli altri fate qualcosa?» domandai allora.

«Ah, già, mi stavo quasi dimenticando. Monica dà una festa a casa tua, e tu devi assolutamente esserci perché devi aiutarmi.»

Grandioso. Non vedevo proprio l'ora di passare la serata in compagnia di Monica.

«Io? In che modo potrei aiutarti?»

«Non lo so, qualsiasi. Non sei tu l'esperta di queste cose, colei che dispensa sempre consigli a tutti?»

Non avrei avuto alcun problema ad aiutare Vittorio con Monica, se solo al tempo stesso non avessi promesso a Irene che l'avrei aiutata con lui.

«Dai, Nina, per piacere. Ti scongiuro. Ho bisogno che tu mi aiuti a fare colpo su di lei. Ti concedo anche di toccarmi i capelli se necessario» disse unendo i palmi delle mani in segno di preghiera.

«Be', io... d'accordo. Ma a una condizione» puntai il dito in avanti verso di lui.

Sospirò, sconsolato. «Perché con te le cose devono sempre andare in questo modo? Non puoi semplicemente aiutarmi per la gioia di farlo?»

«No, perché decidendo di aiutarti, vuol dire che consapevolmente accetto di sentire tutte le tue lamentele prima, durante e dopo quella festa. Quindi devo guadagnarci qualcosa anch'io, me lo merito.»

«Sì, in effetti ha senso. Cosa vuoi in cambio?»

«Ecco, io ti aiuterò, ma solo se un giorno mi lascerai guidare la Vespa e se anche le mie amiche potranno venire alla festa, fra cui Irene.»

Vittorio sgranò gli occhi e poi sbuffò. «A parte il fatto che queste sono due condizioni, ma poi ti pare che...» si interruppe prima di terminare la frase, come se gli fosse appena venuto in mente qualcosa. «Però se mi presentassi con altre ragazze alla festa, forse Monica mi vedrebbe sotto una nuova luce. Magari sarebbe persino gelosa.»

«Ah, ne dubito...» dissi sottovoce, ma lui mi sentì lo stesso e mi fissò con gli occhi ridotti a due fessure.

«Quindi? Affare fatto» lo incalzai poi, tendendo la mano verso di lui.

Si prese ancora qualche secondo per pensarci, ma alla fine annuì. «Affare fatto. Tanto comunque Monica mi ha detto di spargere la voce un po' in giro, perciò non ci saranno certamente problemi» mi strinse la mano.

Feci un verso di gioia e poi mi sollevai in punta di piedi per abbracciare Vittorio. «Oh, grazie, grazie, grazie!» esclamai al settimo cielo, prima di andare di corsa verso il telefono per chiamare Irene e avvisarla.

 

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Capitolo 19
*** Diciassette. ***


Diciassette.


«Alla fine non mi hai più detto cos'è successo con Filippo l'altra sera» disse Vittorio, nel mentre che mi accingevo a tirare fuori letteralmente ogni cosa dal suo armadio e dai suoi cassetti e la lanciavo all'indietro, sul letto, alla ricerca del look perfetto per quella sera.

Mi immobilizzai un secondo dopo le sue parole, riflettendo su che risposta dare. «Lui non te l'ha raccontato?» domandai, prima di tirare fuori una polo bianca che, fra tutte le cose che avevo scartato fino a quel momento, sembrava la meno peggio.

«No» rispose Vittorio e io mi girai verso di lui con sguardo inquisitorio, per capire se mentisse o meno.

Mi sembrava sincero. Così sospirai. «Mi ha detto di... di suo padre.» Mi passai una mano sui capelli per portarmi una ciocca dietro le orecchie.

«Davvero?» fece sorpreso. «Non l'aveva mai detto a nessuno, oltre a me, è ovvio.»

«Lo so» tagliai corto, prima di alzarmi in piedi e porgergli la polo. «Dai, prova questa» dissi.

Vittorio annuì. Prese la maglia che gli stavo tendendo e la indossò. Gli diedi una rapida occhiata e poi storsi il naso. «Nah, con questa non sai di niente. Sai in quanti indosseranno una polo bianca?» chiesi retorica, tornando a inginocchiarmi davanti ai suoi cassetti per cercare qualcos'altro.

«E dopo? Perché vi siete chiusi in camera mia? Cioè, non è che... non è che è successo qualcosa fra di voi?»

Scoppiai a ridere, in un primo momento per l'assurdità di ciò che aveva chiesto, in seguito la mia si trasformò più in una risata nervosa, nel ricordare ciò che era successo quando eravamo ancora in terrazzo. «Ma che sei scemo?» feci, continuando a ridere. «Lo sai benissimo che... insomma, dai. Comunque ecco, diciamo che dopo ciò che mi aveva confessato, io ho reagito un po' male e lui se l'è presa. Dato che mi sentivo in colpa sono semplicemente andata a scusarmi. E poi abbiamo litigato di nuovo, all'incirca» dissi, con un mezzo sorriso.

Poi trovai una polo blu in fondo al cassetto. «Ecco, questa è perfetta! Si intona certamente ai tuoi occhi!» esclamai, passandogliela.

Vittorio si tolse l'altra maglia e si infilò quella che avevo trovato. «I miei occhi però sono verdi» precisò.

«Sh, va benissimo! È perfetta. Un paio di jeans e sei a posto. E poi faremo qualcosa per questi capelli» dissi, passando una mano sui suoi riccioli corvini.

«Di te che mi dici? Cosa ti metterai?»

«Ah, non ne ho la più pallida idea. Volevo mettere i miei jeans preferiti, ma si sono rotti...» Mi venne il nervoso solo a ripensarci. Maledette mestruazioni.

«Perché non metti un vestito?»

«Non penso neanche di averne uno, ma magari potrei prenderlo in prestito da Benedetta.»

«Se lo fai, magari questa volta chiedile il permesso, considerando com'è andata l'ultima volta...»

Sorrisi al ricordo. Alla fine era stato messo Vittorio in mezzo anche se non c'entrava niente, e si era quasi beccato una sberla da parte mia. «Ma se glielo chiedo, mi dirà sicuramente di no... Ora comunque vedo cosa mettermi, tanto comunque sono appena le cinque di pomeriggio, abbiamo tempo per pensare a te.»

«Va bene. E grazie.»

Sorrisi e mi avviai verso la porta per uscire dalla sua stanza. Poi la mia mente tornò indietro al discorso precedente, e non potei fare a meno di porre a Vittorio una domanda. «Perché se tu e tuo padre lo sapete non avete mai fatto niente per aiutarlo? Che ne so, denunciarlo alla polizia, oppure...»

«Mio padre dice che non sono cose che ci riguardano» mi interruppe.

«E così continuate a vivere la vostra vita sapendo che una moglie e un figlio vengono malmenati quasi quotidianamente?»

Io avrei preferito non saperlo affatto. Ogni volta che ci pensavo mi si accapponava la pelle.

Vittorio sospirò, sedendosi sul letto. «Non è così semplice. Se né Filippo né sua madre hanno mai fatto qualcosa, come potremmo decidere noi per loro? Io cerco di essere sempre lì per lui, sa che appena ha bisogno, a qualsiasi ora, può contare su di me e mio padre... ma non posso fare più di questo.»

Spostai il peso da un piede all'altro, e incrociai le braccia al petto. Da una parte capivo il suo punto di vista, non volevano immischiarsi, ma dall'altro... era come chiudere un occhio davanti a un'ingiustizia, ed era una cosa che non potevo tollerare. «Almeno avete mai provato a parlare con Filippo per... non lo so, farlo ragionare? Così che possa valutare l'idea di farsi aiutare da qualcuno?» chiesi, appoggiandomi allo stipite della porta.

Vittorio increspò le labbra e aggrottò la fronte. «Nina, sua madre non lavora e lui ha appena quindici anni, finirebbero in mezzo a una strada.»

«Non hanno dei parenti che possono aiutarli?»

Scosse la testa. «Hanno ormai chiuso tutti i rapporti da anni. Non hanno nessuno.»

Mi venne un groppo in gola. Era così... così ingiusto. Così triste.

Io non avevo avuto un'infanzia facile, ma almeno non avevo mai dovuto provare i soprusi che Filippo e sua madre sopportavano da anni. E comunque avevo sempre avuto accanto mia sorella, mia madre, i miei nonni. Ognuno, a modo loro, mi aveva sempre mostrato amore e affetto.

«Non è giusto» ripetei.

Vittorio scrollò le spalle: «Nella vita vera, niente lo è».

Poi pensai ancora una volta a quello che per me era ancora un mistero, ossia la madre di Vittorio. In casa non c'era nemmeno una foto che la ritraesse. C'erano quelle di Vittorio da piccolo, quelle dei nonni, ma nessuna che desse vagamente l'idea di essere sua madre. E né lui né Claudio ne avevano mai anche solo accennato.

Ma comunque sentivo che quello non fosse il momento giusto per chiederlo, così mi voltai e uscii dalla stanza di Vittorio.

*

«Benni, mi ascolti un attimo?» chiesi dopo cena, senza ottenere risposta. Mia sorella era china sui libri, alle otto e mezza di venerdì sera.

«No, Nina, non vedi che sto finendo di studiare? Mica passo le giornate a cazzeggiare come te.»

Roteai gli occhi. «Ah sì? E tu da quando sei così secchiona?» Di solito era lei quella che passava le giornate sempre fuori casa, e anche le serate ogni tanto.

Benedetta sbuffò e poi chiuse momentaneamente il libro di filosofia. «Che c'è?»

«Vorrei che mi prestassi la tua gonna, quella di jeans.»

«Perché? Dove devi andare?» domandò guardandomi con gli occhi ridotti a due fessure.

Non me la sentivo di dirle una bugia. E poi magari avrebbe premiato la mia sincerità prestandomi quello che le avevo chiesto. «A... a una festa, insieme a Vittorio» risposi quindi.

«Alla mamma non avevi mica detto che andavi a casa di alcuni amici? Adesso si scopre che è una festa, interessante!» esclamò con una risata.

«Tanto quando tornerò lei starà dormendo. Dai, quindi posso metterla o no?» insistetti.

«Mmh, fammici pensare...» disse, lisciandosi il mento con l'indice e il pollice.

«Potresti pensarci un po' più in fretta? Tra tre quarti d'ora dobbiamo uscire e io sono ancora in queste condizioni» feci, indicando la mia figura.

«Se ti riferisci alla faccia, per quello puoi fare poco. Dai, andiamo a vedere come ti sta questa gonna.»

Le feci una linguaccia e poi sorrisi, dirigendomi di corsa verso la nostra cameretta. Lei si alzò dal tavolo e mi seguì. Si chinò per aprire l'ultimo cassetto nel suo armadio e prese la famosa gonna. Me la passò e io mi spogliai per provarla. «Allora?» chiesi.

«Vediamo, fai un giro completo» disse, sedendosi sulla punta del letto, davanti a me.

Feci come disse e poi la fissai in attesa di una risposta.

«Sì, può andare. E sopra cosa metti?»

Mi girai e mi chinai per prendere dal letto quello che avevo preparato prima. Erano due semplici maglioni di cotone, uno rosa confetto e l'altro rosso. Li sollevai davanti alla mia figura per mostrarli a Benedetta. «Quale?»

«Nessuno dei due! Vuoi andare a una festa con un maglione? Morirai di caldo, e comunque sono entrambi orrendi.» Benedetta mi strappò di mano gli indumenti e li gettò sul mio letto.

«Veramente due anni fa erano tuoi» le ricordai.

«Infatti tutti gli scarti che ti do sono cose orripilanti.» Poi si diresse verso la sua parte armadio per tirare fuori qualcosa. Dopo aver trafficato per qualche secondo, alla fine tornò davanti a me con un body bianco di cotone, con uno scollo a V ricamato in pizzo. «Dai, prova questo» disse e io sgranai gli occhi. Quello non era affatto uno scarto, anzi, era molto bello.

A quel punto, prima che potesse cambiare idea, mi tolsi di fretta la gonna, mi infilai il body e poi rimisi la gonna di jeans. «Dai, ora andiamo in bagno che ti trucco, così che tu possa finalmente dimostrare la tua età e non sembrare una ragazzina di tredici anni» disse, prendendomi per mano e trascinandomi in bagno.

*

«No, Nina, ti ho detto che non puoi guardarti allo specchio finché non ho finito!» esclamò Benedetta infastidita, piazzandosi davanti alla mia figura per impedirmi di sporgermi e guardare cosa stava combinando alla mia faccia. «Comunque questa frangia ti sta malissimo» aggiunse e io roteai gli occhi.

«A me invece piace.»

«Perché non hai gusti decenti, pensa anche solo a come avresti voluto vestirti.»

«Grazie, Benni, ma non mi sembra di aver chiesto la tua opinione» le feci notare.

«Sh, zitta, fai così con le guance» ordinò, risucchiando le guance in dentro a mo di pesce.

Mi passò un pennello di notevoli dimensioni e piuttosto cicciotto sulle guance e gli zigomi. «Perfetto, finito. Ora puoi guardarti!» esclamò. A quel punto mi alzai dal gabinetto che aveva usato come sedia per truccarmi e mi andai a specchiare. Rimasi visibilmente stupita. Non aveva fatto niente di esagerato: mi aveva un po' ripulito le sopracciglia nonostante le mie proteste, poi messo l'eyeliner e il mascara sugli occhi, e infine un po' di fard per colorare le guance. Eppure quasi non mi riconoscevo, in senso positivo.

Non mi ero mai truccata molto, più per pigrizia e svogliatezza che per altro, al limite ogni tanto mettevo giusto un po' di mascara e del lucidalabbra, però anche quel look un po' più azzardato del solito non mi dispiaceva.

«Grazie, Benni» dissi con sincerità, prima di abbracciarla. Lei rimase rigida in un primo momento, ma alla fine ricambiò il mio abbraccio. «Dai, adesso vai, Vittorio ci starà maledicendo in ogni lingua esistente al mondo» disse e io sorrisi, prima di darle ascolto e uscire dal bagno.

Attraversai il corridoio e giunsi in salotto, dove c'era Vittorio in attesa seduto sul divano. «Ci sono!» esclamai per attirare la sua attenzione, e lui si voltò verso di me e si alzò in piedi. Mi diede una rapida occhiata e inarcò le sopracciglia in senso di stupore. Aprì la bocca come a voler dire qualcosa, ma alla fine la richiuse. Mi passò il mio giacchetto di jeans che gli avevo chiesto di tenermi e poi ci dirigemmo verso la porta di uscire.

«Pa', stiamo uscendo!» urlò per avvisare Claudio.

«Ciao mami, ciao Claudio, stiamo andando!» urlai anch'io.

«Non fate troppo tardi» si raccomandarono entrambi, all'unisono.

Io e Vittorio ci scambiammo uno sguardo complice in seguito a quella raccomandazione, e poi uscimmo di casa.

Una volta in ascensore, approfittai per dare ancora una sistemata ai capelli di Vittorio. Avevo cercato di domare i suoi ricci con un po' di gel, tuttavia ce n'era ancora qualcuno che sfuggiva al suo controllo e gli ricadeva sul viso. Mi alzai allora in punta di piedi per sistemarglieli all'indietro, così che non ci fosse niente a coprire i suoi bellissimi occhi verdi. «Perfetto» feci soddisfatta, prima di ritornare con i talloni a terra.

A quel punto notai lo sguardo di Vittorio che, invece che essere posato sul mio viso, era puntato un po' più in basso, più precisamente sulla scollatura del mio body. «Vittorio!» lo rimproverai, e lui spostò subito lo sguardo altrove, visibilmente imbarazzato, anche se di certo non quanto me. «S-scusami, mi dispiace, n-non avrei dovuto» balbettò.

«Già, non avresti proprio dovuto. È irrispettoso» dissi, uscendo dall'ascensore che era ormai arrivato al piano terra.

«Senti, è che ti eri avvicinata e... e ce le avevo praticamente davanti... e poi se ti metti questa canottierina, è normale che noi ragazzi...»

Lo guardai con sguardo infuocato e lo interruppi: «È normale che cosa? Il mio modo di vestire non giustifica il comportamento sbagliato di nessun ragazzo. Impara a controllarti».

«Sì, no... scusa, hai ragione, è vero.»

«Spero che tu non l'abbia mai fatto con Monica» aggiunsi poi, anche se era quasi palese la risposta, la quale tra l'altro non ci fu mai, in quanto Vittorio rimase saggiamente in silenzio. Uscimmo in strada e ci dirigemmo verso la Vespa di suo padre.

Mi misi la giacca di jeans sulle spalle e legai le maniche attorno al collo, dopodiché salii sulla moto tenendo entrambe le gambe dallo stesso lato, dal momento che con la gonna non potevo fare altrimenti. Mi strinsi a Vittorio per tenermi e poi, quando anche lui era pronto, partimmo.

Impiegammo all'incirca venti minuti ad arrivare da Monica. Come la volta precedente, Vittorio si lamentò dei miei capelli che gli erano arrivati in faccia per via del vento. «Magari la prossima volta se usassimo dei caschi potremmo evitare questo inconveniente» gli feci notare.

«Lo so, mi dimentico sempre di andare in cantina a prenderli, la prossima volta ricordarmelo.»

Dopodiché scendemmo dalla moto e andammo a citofonare affinché Monica ci aprisse. «Chi è?» giunse la sua voce poco dopo.

«Siamo noi» rispose Vittorio, e lei aprì il portone. «Secondo piano!» ci rammentò.

Casa di Monica era molto grande e spaziosa, perciò non mi stupì il fatto che l'avesse utilizzata per organizzare una festa con tutta quella gente. Come prima cosa mi tolsi la giacca e l'appesi all'attaccapanni all'entrata.

«Mi tieni la maglia?» chiese Vittorio e io annuii, allungando le mani sulla sua polo per tenerla ferma mentre lui si toglieva il maglione nero di cotone che aveva addosso, così da poterlo appendere anche lui all'attaccapanni.

Poi andammo a cercare Monica per salutarla. La trovammo in cucina, intenta a travasare delle patatine dal sacchetto a una scodella. Aveva i capelli legati in una lunghissima treccia e indossava un vestito color corallo con le maniche lunghe a sbuffo.

Vittorio rimase letteralmente incantato a guardarla, finché non gli tirai una gomitata e si riscosse. «E-ehilà!» disse allora, per attirare l'attenzione della ragazza.

A quel punto si accorse di noi, appoggiati ai due stipiti della porta, e si esibì in un gran sorriso. «Ciao ragazzi! Nina, mio Dio, sei quasi irriconoscibile, sei stupenda!» esclamò, venendomi incontro e abbracciandomi.

Cioè, in pratica, mi aveva detto che di solito ero un cesso a pedali?

«Grazie, anche tu» risposi sorridendo, una volta sciolto l'abbraccio.

Poi Monica si concentrò su Vittorio, il quale le stava sorridendo come un vero pirla, come si suol dire in quel di Milano. «E tu? Cos'è questo cambio di look?» domandò al ragazzo al mio fianco. Si avvicinò vertiginosamente a Vittorio, il quale quasi certamente smise di respirare. «Mio Dio, ma sai che ero convinta che i tuoi occhi fossero azzurri? Cinque anni che ci conosciamo e scopro solo ora che sono verdi!» esclamò, prima di prenderlo per mano: «Vieni, ti porto dagli altri, sono qui già da un po'» aggiunse, allontanandosi e trascinando Vittorio con sé.

«Che questa finalmente sia la volta buona?» dissi fra me e me. Poi tornai in salotto e vidi le mie amiche di scuola. Corsi da loro a salutarle.

«Nina!» esclamarono in coro.

«Grazie, è merito tuo se siamo qui» disse Angelica e io scrollai le spalle: «Non ho fatto niente di che, anzi, l'ho fatto con piacere» dissi, ed era vero. In fondo se non ci fossero state loro, avrei necessariamente dovuto stare tutto il tempo con Vittorio e i suoi amici.

«Allora? Ci buttiamo o no nella mischia?» domandò Eva, e proprio in quel momento partì "Another one bites the dust" dei Queen.

«Oh, io adoro i Queen!» esclamò Irene.

«Ah, sì? Anche Vittorio» dissi.

Irene sbarrò gli occhi e spalancò la bocca. «Davvero? Abbiamo anche gli stessi gusti musicali!»

«Mmh, no, in realtà scherzavo, anzi, non ascolta molta musica in generale» risposi, prima che tutte ridessimo per la sua faccia delusa.

«Che stronza» disse tirandomi una sberla scherzosa sul braccio, prima di ridere insieme a noi.

Poi tutte e cinque iniziammo a scatenarci al ritmo della musica. Mi mancava così tanto ballare. Prima di trasferirmi lo facevo almeno due volte a settimana, frequentando il corso di danza a cui ero iscritta. Avrei dovuto iscrivermi anche a Milano, ma fra il trasloco e il resto alla fine mia mamma non aveva ancora trovato il tempo per trovare un posto in cui iscrivermi.

A un certo punto, scorsi in lontananza Filippo, appoggiato al muro in un angolino della stanza. Aveva un bicchiere in mano e non sembrava molto di compagnia, al contrario del solito.
Si accorse che lo stavo fissando e quindi gli diedi prontamente le spalle, tornando a ballare.

«And another one gone and another one gone, another one bites the dust!» cantammo a gran voce io e le mie amiche, o almeno era ciò che credevamo di aver fatto, ma con più probabilità avevamo pronunciato parole inesistenti e inventate da noi. Però era anche questo a renderlo divertente.

Dopo qualche secondo, mi ritrovai ancora una volta a girarmi e fissare Filippo, stavolta un po' più a lungo, dato che lui era impegnato a parlare con una ragazza e non si sarebbe accorto di me. Poi Irene mi passò una mano davanti agli occhi per far sì che mi riprendessi, e a quel punto distolsi lo sguardo da lui e ripresi a ballare. La mia concentrazione durò meno di un minuto, perché poi mi persi di nuovo, questa volta per contare il numero di ragazzi e ragazze che si stavano scambiando effusioni e baci.

Tre... quattro... cinque coppie, sei forse. Probabilmente era così anche alla festa a cui ero andata il mese scorso, ma solo in quel momento la cosa mi stava interessando così tanto.

Infine, mi girai ancora a guardare Filippo, che era tornato nuovamente solo, sempre in quell'angolino.

Ma non ci rimase per molto. Questo perché, senza sapere il motivo per cui lo stessi facendo, a un certo punto mi separai dal mio gruppo di amiche e iniziai a dirigermi verso di lui. Mi vide in lontananza e abbozzò un sorriso come una sorta di saluto, ma ciò che non sapeva era che non mi sarei fermata, perché era proprio da lui che stavo andando. Non sapevo neanche il perché, ma ormai il danno era fatto. «Hai visto Vittorio?» chiesi. Banale come scusa, ma era l'unica che mi era venuta in mente.

«Prima sì, ora non so dove sia andato, perché?»

«Dai, aiutami a cercarlo» mi inventai, afferrandolo per il polso e portandolo via da quel grande salone. Andammo in corridoio. Filippo accese la luce, dal momento che era buio e non si vedeva nulla, ma io abbassai l'interruttore della luce per spegnerla di nuovo. «Ma dai, non si vede un fico secco, come pensi di trovarlo Vittorio così? Ti dona la frangetta, comunque: se avessi i capelli biondi, uniti a quel tuo sguardo da furbetta sembreresti una mini Raffaella Carrà. Dio, quella donna è il mio sogno tutte le notti, è stupenda e...»

«Shh, abbassa quella dannata voce e non fare tutto questo baccano!» ordinai parlando a bassa voce, portandogli un indice sulle labbra.

«Si può sapere che c'è? Che vuoi da me?» chiese, ed era una domanda più che lecita.

La mia risposta, invece, che poi di fatto era un'altra domanda, era soltanto molto ridicola. «Ti va di... di provare a fare la cosa dell'altra sera, però senza fumo?»

Mi sentii andare le guance a fuoco e non potevo credere di aver appena detto una cosa del genere. A lui, per giunta.

«Cioè? Spiegati meglio» replicò, ma a giudicare dal tono di voce che usò, sembrava tutt'altro che confuso. Voleva solo rigirare il dito nella piaga, ma aveva capito benissimo, non era mica stupido.

Voleva che mi spiegassi meglio? Bene, l'avrei fatto. Sapevo quello che stavo facendo, più o meno. Mi avvicinai al suo viso. Non avevo paura di quella poca distanza fra di noi, avevo il pieno controllo di me stessa. Il mio cuore non stava facendo nessuna maratona, forse.

«Voglio che mi baci, idiota.»

 

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Capitolo 20
*** Diciotto. ***


Diciotto.


N/A: quest'intero capitolo è un flashback che riprende la vicenda a partire dalla fine del capitolo "Uno".
A partire dal capitolo "Diciannove", invece, la storia continua da dove si era interrotta alla fine del capitolo "Diciassette".

Circa un mese prima...

Vittorio, che fino a quel momento aveva tenuto la sua guancia a contatto con la mia, a un certo punto sollevò a testa e la spostò di lato. Sollevai lo sguardo e vidi che stava discorrendo a bassa voce con uno dei suoi amici.

Non riuscii a sentire una sola parola, così non compresi perché a un certo punto si allontanò bruscamente e, dopo avermi fatto un occhiolino, mi lasciò sola con l'altro ragazzo che era venuto a parlargli.

Costui, con i capelli dello stesso color del miele e gli occhi fra il verde e l'azzurro, mi fissava sorridendo. «Nina Colombo, giusto?»

«Sì. Posso aiutarti con qualcosa?» chiesi, iniziando a sentirmi a disagio.

Il sorriso si allargò maggiormente. «Ti va di ballare?»

Lo fissai stralunata per qualche secondo, pensando stesse scherzando. Invece dava tutta l'aria di essere serio. «No, nemmeno so chi sei» risposi secca e diretta. Mi voltai e gli diedi le spalle, ma dopo neanche un secondo me lo ritrovai davanti.

«E quindi? È vietato ballare con gli sconosciuti?»

«Dovrebbe» replicai, squadrandolo.

Lui la prese come una battuta e sorrise. «Se è solo questo il motivo del tuo rifiuto, direi che si può facilmente rimediare, non credi?» fece, tendendo poi la mano nella mia direzione: «Piacere, Filippo» si presentò.

Al momento, il mio era solo un dispiacere. Comunque gli strinsi la mano con un sorriso forzato e lo scansai. Poi mi ricordai di quella sigaretta che tenevo in tasca. Disgraziatamente, proprio quando mi era venuta una voglia da matti di fumarla, la tirai fuori e la vidi spiaccicata e infumabile. A quel punto mi rigirai verso il biondo, pensando che magari avrebbe potuto tornarmi utile: «Per caso hai una sigaretta?» domandai.

«Se ce l'avessi, allora accetteresti di ballare con me?»

«Forse» risposi vaga, sperando che servisse a far sì che mi desse ciò che gli avevo chiesto.

«Allora forse ce l'ho» disse, con un piccolo ghigno.

Alzai gli occhi al soffitto. Non so se gli era chiaro, ma non avevo alcuna intenzione di stare ai suoi stupidi giochetti. «Lascia perdere, meglio così, anzi!» esclamai, allontanandomi un'altra volta dalla persona più fastidiosa che avessi incontrato fino a quel momento. Tornai da Vittorio e gli rivolsi una mano girata col palmo verso l'alto: «Ho ballato con te, quindi direi che mi devi quella sigaretta. Un'altra, perché questa si è spiaccicata» dissi, mostrandogliela e lanciandola fuori dalla finestra. Forse quel mio tono da pretesa non era il migliore per ottenere un favore da qualcuno, ma ero parecchio nervosa e non ce l'avrei fatta a simulare un tono più affabile e mellifluo.

«E Filippo, dove l'hai lasciato?» chiese con un piccolo ghigno beffardo, prima di tirar fuori dalla tasca il suo pacchetto di sigarette e l'accendino. Me ne porse una e fece per accendermela come poco prima, ma io gli strappai l'accendino dalle mani e mi diressi rapida fuori in balcone.

Mi accesi con tranquillità la sigaretta e feci il primo tiro, chiudendo gli occhi per rilassarmi e godermi quel venticello estivo che mi scompigliava leggermente i capelli, nel mentre che osservavo l'ambiente davanti a me. Non era un granché, era solo una grande via con tante macchine parcheggiate e tante palazzine, una attaccata all'altra. Tuttavia, guardando un po' più in lontananza, si riusciva a scorgere la Madonnina del Duomo. Mi faceva sempre un strano effetto vederla. Era la vetta più alta di tutta la città, sovrastava tutto.

Dopo aver terminato la sigaretta, la buttai a terra e ci passai sopra il piede per spegnerla. Poi mi girai per ritornare dentro, e fu in quel momento che, appoggiato allo stipite della portafinestra, vidi ancora l'amico di Vittorio che mi fissava e sorrideva.

Roteai gli occhi. Che persecuzione. «Che c'è ancora?» chiesi seccata.

«Rilassati, non mi pare che solo tu abbia l'accesso a questo balcone» fece, mostrandosi un poco offeso per via dei miei modi poco cortesi.

«Bene, goditelo pure» dissi, avviandomi verso l'uscita, ma lui mi afferrò per un polso per fermarmi. «Dai, Nina, ma perché devi fare così? Non mi sembra di averti fatto qualcosa...»

«Vorrei solo che mi lasciassi in pace, è così difficile da capire?» chiesi, liberandomi poi dalla sua presa con uno strattone.

«Ok, ma perché? Hai già un ragazzo?» domandò ed ero quasi sul punto di scoppiare a ridere. Mi limitai tuttavia a scuotere la testa. «Se vuoi, io sono disponibile» disse allora, con una fierezza e un orgoglio tali che neanche un pavone in confronto a lui aveva una considerazione così alta di se stesso.

«No, grazie, sono a posto così» risposi con un sorriso finto.

Filippo a quel punto storse il naso. «Cioè, mi rifiuti così? Potrei essere l'amore della tua vita e tu non mi lasci neanche il beneficio del dubbio?»

Inarcai le sopracciglia. Quanto era pieno di sé. «Ma ti senti quando parli? Mi hai vista per la prima volta dieci minuti fa, e...»

«No, in realtà ti ho adocchiata già da un'oretta, da quando sei arrivata insieme a Vitto. Ed è stata la cosa migliore che mi sia successa in questa giornata» mi interruppe.

«Allora la tua vita deve fare parecchio schifo se vedermi è stata la svolta di questa giornata» constatai. Era davvero ridicolo. Sperai che nessuna ragazza si bevesse le cretinate che sparava, sembrava parlasse a vanvera.

«Mmh, non mi lamento. E magari domani puoi svoltarmi ancora la giornata, se deciderai di uscire con me» disse, avvicinandosi leggermente al mio viso e fissandomi con intensità negli occhi.

«Mi dispiace, ma non sono interessata» declinai il suo invito, distanziandomi.

«Su, piantala di fare la difficile. Non capisco perché voi ragazze vi ostiniate sempre a dire il contrario di quello che pensate, perché non dite direttamente di sì invece che tirarla per le lunghe? Sai come si dice, "il gioco è bello quando dura poco".»

Che sfrontato. «Senti, non so a che cosa sei abituato di solito, ma ti dico subito che a me non piace girare intorno alle cose e fare stupidi giochi. Quindi quando dico "no" a qualcosa, "no" è quello che intendo. Non è un "forse", non è un "sì" velato e che tu devi cercare di interpretare perché sto cercando di fare la preziosa, è semplicemente quello che è! Quindi accettalo e smettila di importunarmi!» esclamai tutto d'un fiato, prendendo dei respiri profondi subito dopo per cercare di calmarmi.

Rimase in silenzio per parecchi secondi. Forse ero stata troppo rude e l'avevo ferito, ma onestamente mi importava ben poco. Stavo per superarlo e tornare dentro, pensando che la conversazione fosse ormai giunta al termine, quando alla fine parlò: «D'accordo. E scusami, se ti ho "importunata" solo perché ti ho chiesto di ballare con me o in alternativa di uscire con me per conoscerci» fece, e se si fosse fermato alle prime tre parole che aveva detto avrei anche potuto metterci una pietra sopra al più presto e dimenticare l'accaduto.

Al contrario, per via di quello che aggiunse dopo, mi scaldai ancora di più. «Ah, ma allora vedi che non hai capito niente!» sbottai. «È la tua insistenza che mi importuna» spiegai esasperata, e sperai che quella volta capisse il punto del mio discorso. Non poteva aspettarsi che ogni ragazza volesse per forza uscire con lui, anche se magari fino a quel momento era stato sempre così.

«Insisto perché non capisco per quale motivo tu abbia deciso a priori, senza sapere niente di me, di non voler avere niente a che fare con me» ribatté.

«Perché non mi va in generale, non è perché sei tu. Non mi interessa avere un fidanzato, sto benissimo così» dissi, come avevo già fatto innumerevoli volte, ogni qualvolta si aprisse un discorso di quel tipo.

A quel punto Filippo scoppiò a ridere fragorosamente, senza che ne cogliessi il motivo. Non mi sembrava di aver fatto chissà quale battuta.

«Guarda che ti ho chiesto solo di ballare, non significa che voglia diventare il tuo ragazzo! Fra le due cose ci passa un oceano di mezzo!» esclamò, continuando a ridere.

La cosa mi irritò parecchio, infatti spostai il peso da un piede all'altro e gli puntai un dito contro: «Ma se ci hai letteralmente provato con me fino ad adesso! Bravo, ora prova a negarlo e a rimangiarti tutto solo perché ti ho detto di no!».

Sorrise divertito. «Sì, magari un po' ci ho provato, ma è solo il mio modo di fare. Credevi che ci stessi provando sul serio?» domandò, tornando serio.

Mi stava seriamente mandando in confusione. Non riuscivo a capire le sue intenzioni, a fare distinzione fra ciò che era vero e ciò che per lui era solo uno scherzo. Mi stava facendo sentire stupida, come se mi fossi immaginata tutto e avessi ingigantito i suoi comportamenti.

Ma non volevo mostrarmi come se mi avesse appena fatto fare una figura di merda. Così mi avvicinai a lui e lo fissai, a testa alta e senza vergogna. «Bene, allora visto che prendi le cose con molta leggerezza, mi raccomando, non perderti d'animo. Anzi, adesso perché non vai dalla prossima malcapitata ragazza che avrai sicuramente adocchiato questa sera e provi a vedere se con lei ti va meglio?»

Non mostrò neanche un attimo di esitazione. Rimase impassibile dopo quelle mie parole e, anzi, forse sembrava ancora più divertito di prima, il che mi fece irritare ancora di più.

«Era proprio quello che stavo per fare, sai? Mi hai letto nel pensiero. Vedi, saremmo proprio una coppia perfetta io e te. Peccato, sembra che non lo scopriremo mai» disse facendomi un occhiolino e rivolgendomi un'ultima volta quel sorriso snervante che avrei quasi preso a pugni, metaforicamente parlando.

Poi mi diede le spalle e tornò in casa. Lo osservai da lontano, mentre si dirigeva, proprio come aveva detto, da un'altra delle ragazze con cui avrebbe tentato una delle sue mosse. In particolare, lo vidi dirigersi da Monica.

Ottima scelta, comunque. Era la stessa di Vittorio, probabilmente, a giudicare da come la fissava da quando eravamo arrivati a quella festa, ma sicuro anche di molti altri.

Lei era certamente una di quelle ragazze bellissime e appariscenti, che non passavano mai inosservate in mezzo a una folla di persone.

Io invece... io probabilmente quella sera ero stata notata da Filippo solo perché ero una faccia nuova, ed era stato quello ad attirare la sua attenzione. E si era stancato anche abbastanza in fretta, per fortuna.
In fondo non mi importava essere notata, non ne avevo bisogno. Qualsiasi fossero le reali intenzioni di Filippo, che ci stesse provando davvero oppure solo per gioco, a me non cambiava niente.

Stavo bene così e mi bastavo da sola, come sempre. Giusto?

 

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Capitolo 21
*** Diciannove. ***


Diciannove.

«La musica è troppo alta, Nina, non riesco proprio a sentire quello che dici» disse Filippo alzando il tono di voce, ma in realtà non era davvero così. La musica che proveniva dal salotto appariva ovattata lì in corridoio, perciò di certo aveva sentito benissimo.

E io davvero gli stavo permettendo di mettermi in ridicolo in quel modo solo per una serie di paranoie a cui non avevo mai dato peso in quindici anni di vita?

No, se lo poteva scordare. Non l'avrei ripetuto, anche perché già la prima volta era bastata a farmi rendere conto di quanto stupida e insensata fosse la mia idea. «Non importa, lascia perdere» feci, dirigendomi verso il salotto, ma Filippo mi intrappolò alla parete, appoggiando entrambe le mani al muro, all'altezza delle mie spalle. «È davvero quello che vuoi? Vuoi che ti baci?» domandò con tono suadente.

Scossi la testa e gli afferrai i polsi per provare a spostare le sue mani dal muro e liberarmi, ma lui era irremovibile.

«Perché proprio io? Se non mi sopporti nemmeno» mi fece notare.

«Diciamo che non mi vai propriamente a genio, ma non è vero che non ti sopporto» precisai. «E poi a chi altro potrei chiederlo?»

Corrucciò la fronte. «Perché mai dovresti chiedere a qualcuno di baciarti?»

Bella domanda.

Sospirai, senza rispondere subito. Non ci potevo credere, che stavo davvero per esporre le mie paturnie di quegli ultimi giorni proprio a lui. «Be', perché... perché se non mi do una mossa, finirà che arriverò a trent'anni senza aver mai baciato nessuno, mentre tutte le mie coetanee...»

«Pensavo che non ti importasse di queste cose» mi interruppe.

«È così, ma... ma forse lo dicevo più che altro perché prima di questi ultimi giorni non ci avevo mai pensato seriamente.»

A quel punto cambiò espressione, sogghignando e mostrando la sua tipica fossetta sulla guancia. «Quindi tu in questi ultimi giorni hai pensato seriamente a volermi baciare? E a volere che sia io il tuo primo bacio?» mi canzonò e sentii le mie gote infiammarsi.

«No!» ribattei prontamente. «Ho pensato seriamente di volermi togliermi questo peso al più presto, così quando arriverà la persona giusta non farò una figuraccia» spiegai, sperando che avesse senso ciò che stavo dicendo.

Più guardavo Filippo e più mi sembrava che non ne avesse e che stessi sparando baggianate a tutto spiano.

Mi lasciai scivolare a terra fino a sedermi accovacciata con la schiena appoggiata al muro. Fortunatamente la gonna era abbastanza lunga da non far intravedere niente nonostante le mie pose goffe e poco femminili. A quel punto Filippo fece lo stesso, sedendosi davanti a me e intrappolando le mie ginocchia fra le sue e appoggiando il suo bicchiere a terra alla sua destra. «Se è la persona giusta non pensi che le potresti parlare liberamente come stai facendo con me? Non faresti nessuna figuraccia ai suoi occhi.»

«Sì, lo so, ma è più una cosa mia. Mi sento a disagio solo a pensarci.» Mi portai entrambe le mani sulle guance per nascondere il più possibile il mio viso. «Ma tanto tu cosa puoi capirne? Chissà quante ragazze avrai già baciato, almeno una ventina.»

Sgranò gli occhi e rise. «E dai, non esagerare, ti ricordo che ho quindici anni anch'io come te. Forse una dozzina, ma neanche me lo ricordo a dire il vero.»

Roteai gli occhi. Bene, era addirittura arrivato a perdere il conto di quante ragazze aveva baciato nella sua vita. Non che avesse importanza, comunque. E poi ormai ero lì, gli avevo esposto le mie insicurezze e lui era rimasto ugualmente, quindi forse non gli importava davvero di quanto risultassi ridicola. «Quindi non ti cambierà niente se se ne aggiunge una alla lista, no?» domandai, avvicinandomi leggermente al suo viso. Probabilmente avrebbe anche giovato al suo ego smisurato.

«Se è questo quello che vuoi» rispose, scrollando le spalle.

«Tu non vuoi?» chiesi, distogliendo lo sguardo dal suo viso e abbassandolo sulle mie mani intrecciate attorno alle ginocchia. «Non voglio mica... che ne so, approfittarmi di te e costringerti a fare qualcosa che non vuoi» aggiunsi, indietreggiando un pochino con il busto fino a toccare di nuovo il muro con la schiena.

«Ti pare forse che io mi stia sentendo obbligato?»

Poi fissai il bicchiere mezzo pieno che aveva alla sua destra. «Sei ubriaco? Se lo sei, vuol dire che non sei cosciente e...»

Mi interruppe prima che finissi la frase: «Secondo te un bicchiere di birra mi potrà mai fare qualcosa?» chiese in maniera retorica.

Rimasi un attimo in silenzio, prima di riprendere la parola non appena mi venne in mente una cosa che era meglio chiarire: «Comunque... ehm, comunque tu... nel senso, questo non cambierà le cose fra di noi» precisai, anche se non con la convinzione che avrei voluto avere.

«Perché mai dovrebbe cambiare qualcosa?» domandò.

«Be', non si sa mai. Magari ti stavi per mettere in testa che ci stavo provando con te... ecco, non è così.»

«Sì, lo so.»

Annuii e non dissi nulla. Fui lieta di sapere che non ci sarebbero stati fraintendimenti. A quel punto mi armai di coraggio e cominciai a ripetere nella mia testa i vari passaggi da seguire che mi ero imparata osservando le persone come una vera guardona.
Mi avvicinai a Filippo e gli presi il viso fra le mani. Ci fissammo a lungo negli occhi, ma nessuno dei due fece il primo passo.

Avevo paura, ma nemmeno sapevo di cosa. Era solo un bacio, non correvo alcun pericolo.

Poi Filippo chiuse gli occhi e prese ad avvicinarsi maggiormente a me, ma mi scansai appena prima che le nostre labbra si toccassero. «No, aspetta!» esclamai. Non ero pronta. Che diavolo stavo facendo, e perché soprattutto?

«Scusa, è che pensavo che uno dei due a un certo punto dovesse prendere l'iniziativa» si giustificò, anche se non doveva. Non stava facendo nulla di sbagliato, anzi, mi stava assecondando fin troppo. Rimasi in silenzio, e questo gli suggerì che stavo avendo dei ripensamenti. «Nina, che c'è? Secondo me tu ci pensi troppo, ed è questo il problema. Non devi pensare, devi...»

Non ebbe il tempo di finire la frase. Presi il suo bicchiere e lo trangugiai in un secondo per darmi un pizzico di coraggio, prima di fiondarmi sulle sue labbra senza preavviso. In un primo momento mi dimenticai persino di chiudere gli occhi, e dal momento che anche lui ce li aveva sbarrati per via del mio gesto improvviso, mi sentii piuttosto a disagio, così li chiusi immediatamente.
Sentivo le sue labbra premere sempre di più sulle mie, finché a un certo punto non le schiuse e percepii qualcosa di umido bagnarmi le labbra.

A quel punto mi scansai bruscamente e interruppi il bacio. «Che stavi facendo?» chiesi, passandomi una mano sulle labbra per asciugarle.

Filippo corrugò la fronte. «Ti provavo a baciare alla francese? Cioè, che poi in realtà in origine era detto bacio alla fiorentina, ma i Francesi ci hanno rubato anche questo, oltre alla Gioconda» spiegò, ma io ero ancora piuttosto confusa per dar peso a quei sproloqui.

«Bacio alla francese?» ripetei disorientata.

«Ma sì, il bacio con la lingua! Cosa credevi, che baciarsi davvero significasse darsi un bacio come quello sulla guancia ma sulle labbra?»

In realtà sì. Bacio con la lingua? Vale a dire la mia e la sua lingua che si toccano? Disgustoso, pensai. «No, scordatelo proprio. Mi viene il vomito solo a pensarci.»

«Ma è così che si fa. Una roba così...» lasciò la frase in sospeso e mi diede un fugace bacio sulle labbra e io sobbalzai leggermente per la sorpresa, «... non vale niente. I baci veri sono come ti ho detto io. E tu vuoi imparare come si fa, sì o no?».

Riflettei qualche secondo, infine annuii. Quella volta però avrei lasciato che fosse lui a guidarmi, così chiusi gli occhi e aspettai che agisse.
Nell'attesa, lo sentii schioccare la lingua sul palato un paio di volte. «No, così non va» disse e io riaprii gli occhi, solo per vedere che si era alzato in piedi. «Cosa?» chiesi confusa.

Filippo sospirò, dopodiché mi tese una mano affinché mi rialzassi in piedi anch'io. «Allora?» lo incalzai.

In risposta, prese le mie mani e se le portò dietro la nuca, mentre le sue le cinse attorno alla mia vita, avvicinandomi a lui fino a far scontrare i nostri bacini. Il mio cuore cominciò a battere sempre più velocemente.

«Tu... tu stai attento a quelle manacce, guai a te se le abbassi» lo minacciai e lui sogghignò: «Significa che allora mi è consentito alzarle? Carina questa canottierina. Ti dona, peperoncino» disse, posando lo sguardo sulla mia scollatura. Ne approfittai per tirargli un piccolo schiaffo sulla nuca, nel mentre che lui se la rideva sguaiatamente.

Poi tornò serio e posò lo sguardo dapprima sui miei occhi e in seguito sulla mia bocca, mentre io a mia volta ero ferma a fissare la sua. C'era da dirlo, aveva delle labbra niente male, morbide e carnose, a differenza delle mie, sottili e sempre screpolate.

Dio, no, sembravo quasi Irene quando parlava di Vittorio.

I nostri visi si fecero sempre più vicini, finché a un certo punto non chiudemmo gli occhi e le nostre labbra si scontrarono un'altra volta. Le mani di Filippo risalirono lentamente la mia schiena fino ad arrivare a posarsi sul mio viso, mentre io abbassai le mie sulle sue spalle. Poi schiuse le labbra e premette sulle mie affinché io facessi lo stesso. Poco dopo sentii la sua lingua venire a contatto con la mia e tentai di seguirla nei movimenti che faceva.

Era una sensazione così strana, alquanto sgradevole. Tra l'altro nessuno dei due aveva una mentina, perciò niente alito fresco al sapore di menta. Ma alla gente come faceva a piacere? C'erano coppie che non facevano letteralmente altro che... questo, per minuti interi, senza interrompersi mai. A me già mancava il fiato ed erano passati meno di dieci secondi.

Così a un certo punto mi separai bruscamente da lui per riprendere fiato. «Puah! Che schifo!» esclamai, senza riuscire proprio a tenermelo per me. Era stato orribile. Non ci avrei mai più provato in vita mia.

Filippo mi fissò sorpreso e quasi offeso. «Bene, d'accordo... Sai, a dirla tutta neanche per me è stato il massimo» rispose di rimando, incrociando le braccia al petto.

«Mica è colpa mia, per me era la prima volta. Non farmi credere che ti aspettassi chissà che cosa.»

«No, ovviamente no» fece, scrollando le spalle e spostando lo sguardo altrove.

«Bene» dissi, dichiarando il discorso concluso e preparandomi a tornare dalle mie amiche.

Filippo però mi si parò davanti, e mi rivolse un piccolo ghigno. «Ti va di riprovarci?» domandò, e nonostante il sorriso da idiota sembrava piuttosto serio.

«Non scherzare! Non provarci mai più a fare una cosa del genere con me!»

«Ah, quanto sei melodrammatica» roteò gli occhi. «Credi di poter superare questo trauma? No perché io me lo sono già dimenticato. Puff!, magia: non è mai successo. Contenta adesso?»

Lo ignorai, mentre mi prendevo qualche secondo di più per pensare a quello che era stato il mio primo vero bacio. «Non ho sentito niente...» sussurrai, parlando fra me e me. Filippo mi sentì lo stesso e corrucciò le sopracciglia: «A che ti riferisci? Che cos'avresti dovuto sentire?»

«Le farfalle di cui tutti parlano.» Probabilmente avevo qualcosa che non andava, ero difettosa o qualcosa di simile. Se non un pizzico di ribrezzo e confusione, non avevo davvero provato nulla a livello emotivo.

«Quelle le senti solo se baci una persona per cui provi qualcosa. O almeno così dicono.»

«Tu le hai mai sentite?»

Inarcò le sopracciglia e aggrottò la fronte, prima di sogghignare, mostrando la sua solita fossetta. «Ma ti paio il tipo?»

«Che presuntuoso che sei. Non mi pare qualcosa di cui vantarsi il fatto di non aver mai provato niente per qualcuno, come se ci fosse qualcosa di male nel provare dei sentimenti!» lo rimbeccai.

«Ho mai detto questo? E poi senti chi parla, se sei la prima a non voler stare con nessuno e giudichi chiunque abbia una relazione.»

«Io non giudico chiunque abbia una relazione!» ribattei.

«Invece sì, e ti senti superiore per il fatto che tu sia "immune" all'amore.»

Non dissi nulla. Forse un po' aveva ragione.

«Ecco, vale lo stesso per me» disse infine, dichiarando realmente chiuso il discorso. Solo che per una volta ero io a non volere che il discorso fosse concluso. Fece per andarsene, ma lo afferrai per un polso per trattenerlo. Si voltò confuso, così parlai senza girarci troppo intorno per chiarire la sua confusione: «È stato... è stato così tanto brutto?» domandai, prima di lasciarmi scivolare un'altra volta a terra sconsolata.

Mi sentivo quasi ridicola a porgli una domanda del genere. Eppure al momento era l'unico al quale potevo permettermi di fare domande di quel tipo.

Tornò a sedersi a terra, stavolta al mio fianco. «Io non ho mai detto che è stato brutto. Sei tu che hai detto che ti ha fatto schifo» rispose con tono gentile e pacato.

«Quando ti ha baciato Monica è stato meglio o peggio?» non potei evitare di chiedergli. Almeno io non avevo fatto quel casino disgustoso col vino.

In un primo momento rimase spiazzato per via della mia domanda, ma poi rispose con tranquillità: «Che c'entra Monica adesso? Lasciamola fuori da questo discorso, stiamo parlando di te e di me».

Sbuffai, per il fatto di non avere ottenuto una reale risposta a quella domanda. Ma in effetti aveva ragione, non era poi così importante. «Quindi per te non è stato uno schifo?» domandai poi.

«Penso che si possa migliorare.»

«Ma smettila, lo dici solo perché vuoi baciarmi di nuovo.»

«No, lo dico perché è così: con la pratica si migliora sempre, non è che puoi dichiararti un'esperta dopo appena un bacio, non trovi? E comunque sì, è ovvio che vorrei ribaciarti...»

«Davvero?» lo interruppi, stupita. «Anche se la prima volta è andata...»

Fu lui a interrompermi quella volta, spazientendosi un po': «Ancora con questa storia? Dio, non ti facevo così... così... non importa, lascia perdere».

«No, adesso me lo dici. Come sono?» lo incalzai.

«Lo devo dire? Bene, lo dico: sei pesante» rispose, e in effetti non aveva tutti i torti. «Ma non significa che tu sia pessima a baciare e che non imparerai mai a fare di meglio.»

Tanto le sue parole non avevano alcun effetto su di me. Ero fatta così, quando mi impuntavo su qualcosa, difficilmente cambiavo idea. Apprezzai comunque il tentativo di tirarmi su di morale, seppur provenisse da Filippo.

Poi mi prese il mento fra il pollice e l'indice e lo spostò verso il suo viso, affinché lo guardassi negli occhi. «E non significa che se per me non è stato il massimo la prima volta, ora non voglia più baciarti, perché non desidero altro da quando ti ho vista a quella festa il mese scorso e non credere che un solo bacio mi sia sufficiente. Perciò... perciò ora dimmi se anche tu vuoi che succeda ancora, ma tanto so che mentiresti se affermassi il contrario» bisbigliò, avvicinando vertiginosamente il suo viso al mio.

Stavo decisamente andando in tilt. Il mio respiro si stava facendo via via più affannato, sapevo di dovermi allontanare ma per qualche ragione non riuscivo a farlo, sentivo di dover rispondere semplicemente di no e riprendere il controllo della situazione, soprattutto perché era stato sfrontato e impertinente come al solito, ma non lo feci.

Filippo chiuse gli occhi quando ormai la distanza fra noi era minima, e stava andando a diminuire sempre di più mentre io continuavo a non fare niente per impedirlo. Mi afferrò per la nuca per avvicinarmi a lui quel poco che mancava, ma si immobilizzò all'improvviso non appena sentimmo delle voci farsi sempre più vicine.

«Nina?» sentii qualcuno chiamare il mio nome. Ma non era un semplice qualcuno: era Vittorio.

Io e Filippo ci separammo bruscamente e ci alzammo subito in piedi. Stavo letteralmente morendo dall'imbarazzo, già ero pronta a sentire tutte le battute di Vittorio e gli altri suoi amici sul mio conto. Alcuni stavano già sghignazzando e scambiandosi commenti sottovoce.
Eppure a giudicare dall'espressione che aveva Vittorio, sembrava tutt'altro che in vena di scherzi. Avanzò verso di me e mi prese per un braccio per allontanarmi dal suo migliore amico: «Si è fatto tardi, dobbiamo andare» si limitò a dire, prima di trascinarmi verso l'ingresso di casa di Monica.

«Ma se saremo qui da massimo due ore...»

«Ho detto che adesso andiamo a casa, ok?» fece girandosi verso di me con uno sguardo minaccioso.

Non mi piaceva per niente il tono con cui mi stava parlando. Con uno strattone mi liberai dalla sua presa. «Si può sapere che ti prende?» domandai, voltandomi poi indietro per dare uno sguardo a Filippo. Quest'ultimo sembrava in parte imbarazzato, dall'altra intimorito, non aveva più l'aria sicura di sé che lo contraddistingueva di solito. Neanche aveva il coraggio di guardarmi negli occhi.

Vittorio mi prese per mano con più decisione rispetto a prima e perciò non mi lasciò scampo, prendemmo le nostre giacche e uscimmo da casa di Monica praticamente di corsa.

«Che ti prende, Vittorio? Non riesco a capire perché tu abbia l'aria così... così arrabbiata, ecco.» Non l'avevo mai visto così. Al limite giù di morale, oppure offeso, ma mai arrabbiato.

Salì sulla moto senza rispondermi e inserì la chiave per accenderla. Mi affrettai a salire e neanche il tempo di posizionarmi per bene sulla sella che lui partì. Mi aggrappai immediatamente a lui per evitare di cadere. «Ma sei forse impazzito?» sbottai, venendo ignorata un'altra volta.

Per tutto il tragitto evitò qualsiasi mio tentativo di avere una spiegazione al suo comportamento. Ogni qualvolta aprissi bocca, semplicemente lui decideva di non degnarmi di alcuna risposta. Così decisi di smettere di provare a un certo punto.

Non avevo nemmeno salutato le mie amiche, e pensare che avrei dovuto passare la serata con loro... ma per quello non era colpa di Vittorio, bensì mia. Certo, stavo quasi per tornare da loro, se solo lui all'ultimo non fosse arrivato a fare quella scenata isterica e a portarmi via di peso dalla festa.

«Io non riesco davvero a capire perché ce l'hai con me!» esclamai, una volta rientrati in casa.

Vittorio stava per ignorarmi anche quella volta e dirigersi in camera sua, ma mi parai davanti alla porta che dal salotto portava al corridoio dove c'erano le nostre stanze per impedirglielo. «Allora? D'accordo, mi hai portata via dalla festa, alla quale tra l'altro mi hai pregato di venire, ma almeno dimmi perché ce l'hai con me» sbraitai.

Me lo doveva.

«Sì, be', non ti ho chiesto di venire con me alla festa solo per vederti mentre stavi per baciare il mio migliore amico!» rispose a un certo punto.

In realtà l'avevo baciato per davvero, ma considerando come stavano le cose preferii non dirglielo. «È questo il punto? Davvero?» domandai stranita.

«Sì, è proprio questo il punto. Io... io pensavo che almeno tu fossi diversa, invece sei proprio come tutte le altre.»

Ci risiamo, un altro che mi ha idealizzato come "diversa dalle altre", mi dissi. Ma che cosa pensavano di me le persone a primo impatto? E che male c'era a essere una ragazza come tutte?

«E sentiamo, che c'è di male in questo?» chiesi e Vittorio sgranò gli occhi: «Ma sei seria? È da un mese che mi ripeti che non lo sopporti, che non vuoi avere niente a che fare con lui e che non capisci cosa ci trovino le ragazze in uno così. Eppure stasera eccoti, a pendere dalle sue labbra come tutte».

«Pendere dalle sue labbra? Hai proprio sbagliato persona, non sono...»

Mi interruppe con una risata. «Dai, questa raccontala a qualcun altro che ci creda» fece con tono di scherno. «Alla fine finisce sempre così... tutte le stronzate che mi hai detto sul far emergere il mio vero carattere per poter piacere a Monica non contano niente, sono parole vuote e prive di senso, e tu ne sai la prova lampante: alla fine voi ragazze preferite sempre quelli come lui e mai quelli come me.»

«Sei completamente fuori strada, a me non piace Filippo! Magari se mi lasciassi spiegare ciò che hai visto, allora...»

«No, adesso basta, Nina» mi interruppe ancora. «Ormai non credo più a una parola che dici» aggiunse guardandomi dritto negli occhi con disprezzo, prima di scansarmi e andare a rinchiudersi nella sua stanza.

 

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Capitolo 22
*** Venti. ***


Venti.


Non riuscii a chiudere occhio tutta la notte. Avevo così tante cose per la mente che mi venne impossibile prendere sonno, tanto che a un certo punto decisi di rinunciarvi definitivamente.

Saranno state le quattro o cinque di notte quando presi la decisione di alzarmi dal letto e dirigermi in salotto.
Mi sedetti accovacciata sul divano, cingendomi le gambe con le braccia, incantata a fissare un punto indefinito davanti a me.

A un certo punto mi passai l'indice e il medio sulle labbra, facendo un giro completo della mia bocca due o tre volte.

Era stato davvero necessario? Insistere così tanto per baciare Filippo solo per togliermi un peso inutile con il quale in realtà avrei potuto benissimo convivere? C'erano cose ben più gravi nella vita, e non aver dato il primo bacio a quindici anni non rientrava fra quelle.

Non ne era nemmeno valsa la pena. Non solo era stato pure peggio di quanto mi sarei mai aspettata, ma in più avevo litigato con Vittorio per una sciocchezza del genere. E poi fra tutte le persone esistenti al mondo avevo baciato proprio quell'egocentrico di Filippo, il quale come minimo era già corso a spifferare tutto ai suoi amici per farsi acclamare come il re della serata.

Mentre mi torturavo ancora una volta con quei pensieri, sentii qualcosa di morbido che mi sfiorava. Mi voltai e vidi Giuseppe al mio fianco, che strusciava il suo muso contro il mio avambraccio.
Iniziai a fargli dei grattini sotto il mento, dato che sapevo che le coccole in quel punto particolare lo facevano impazzire, infatti poco dopo cominciò a vibrare e fare le fusa.

Per una volta, non mi dispiaceva la sua compagnia, tanto che lo presi in braccio e me lo posizionai sulle gambe.

Continuai a dargli carezze, mentre di tanto in tanto mi dava dei bacini a modo suo, leccandomi le dita e le mani.

Era strano. Sembrava quasi che sapesse del mio malumore e che avesse deciso di darmi conforto, ma forse era solo una mia suggestione.

Mi venne quasi da ridere a pensarci, stavo impazzendo, a tal punto da convincermi che un gatto potesse provare pietà e compassione verso di me e che volesse consolarmi. E risi, in un primo momento, però poi scoppiai a piangere a dirotto, senza riuscire a fermarmi né senza un reale motivo.

Giuseppe aveva un'aria stralunata e stizzita, sobbalzava a ogni mio singhiozzo. Poco dopo infatti decise di alzarsi dalle mie gambe e andarsene in cucina a sgranocchiare qualcosa.

Tirai su col naso un paio di volte e poi mi sdraiai sul divano, stendendomi su un fianco. Avevo la vista così annebbiata dal pianto da non riuscire più a tenere gli occhi aperti, pertanto li chiusi e, nel farlo, altre lacrime colarono sul mio viso.

*

Quando mi svegliai qualche ora dopo, ero piuttosto confusa e avvertivo un dolore lancinante alla testa.

Non avevo idea del perché mi trovassi in salotto e non sul mio letto, inoltre sentivo la pelle tirare e solo innumerevoli minuti dopo realizzai che era per via delle lacrime che si erano asciugate sul mio viso ore prima.

Dopo qualche secondo di ricognizione, mi alzai di scatto dal divano e mi diressi verso camera di Vittorio.

Stava ancora dormendo, ma non mi importava. Mi avviai verso la sua finestra e spalancai le tende, così da far entrare la luce nella sua stanza e svegliarlo.

Infatti lo sentii grugnire dopo poco e girarsi dall'altra parte del letto. Andai a sedermi sul materasso e cominciai a percuoterlo nel tentativo di svegliarlo.

Diversamente dalle altre volte, reagì in maniera più brusca del solito, rispondendo con una manata. Persi l'equilibrio e caddi all'indietro, atterrando col sedere sul pavimento.

«Ahia» mugugnai, senza però darmi per vinta. Dopo essermi massaggiata il fondoschiena, mi rialzai in piedi e feci il giro del letto, inginocchiandomi davanti al viso di Vittorio. «Vittorio, svegliati, dobbiamo parlare» lo scongiurai.

Aprì un occhio e poi l'altro, poi li roteò e si rigirò dall'altra parte del letto. «Io non... iente... dirti» brontolò, e lo interpretai come un: «Io non ho niente da dirti».

«D'accordo. Allora ascolta me.»

«Va a dà via el cu, Nina!» rispose, e sebbene non mi fosse chiaro il significato di quelle parole, ero piuttosto certa che fosse un insulto. «Va föra di pè, e lasciami dormire» aggiunse.

Stavo iniziando a spazientirmi. Non poteva decidere di avercela con me e non rivolgermi più la parola senza neanche ascoltarmi. «Sei davvero uno stronzo, lo sai? Volevo fare pace con te, ma onestamente adesso non mi interessa più. Arrangiati, e va a dà via el cu pure tu, cretino!» esclamai, prima di alzarmi e uscire dalla sua stanza, richiudendo la porta alle mie spalle con veemenza, come avevo imparato a fare da mia sorella.

Rimasi qualche istante fuori dalla sua stanza, con la schiena appoggiata alla porta e le braccia incrociate al petto, prima di sbuffare e riaprire la porta.

Vidi Vittorio in piedi, ancora un po' assonnato, intento a rifarsi il letto. «Ah, bene» dissi per attirare la sua attenzione, prima di battere le mani. «Vedo che ce l'hai fatta ad alzare il tuo culo di lì.»

Mi trucidò con lo sguardo ma io non avevo intenzione di demordere. Mossi dei passi verso di lui e lui fece lo stesso con me. «Esci da questa stanza, non ti voglio vedere né parlare» ordinò serissimo, afferrandomi per un braccio e preparandosi a sbattermi fuori.

«Ti comporti proprio come un bambino» lo rimproverai, fissandolo con gli occhi ridotti a due fessure e facendo il possibile per rimanere coi piedi incollati al pavimento.

«Già, con la differenza che so di esserlo e se non altro evito di atteggiarmi da primadonna come fai te.»

«È questo che pensi di me?» domandai, liberandomi dalla sua presa con uno strattone.

«Sì. E anche che sei un'ipocrita, una bugiarda e un'opportunista» rispose, rivolgendomi uno sguardo che mi gelò il sangue nelle vene.

Fra tutte le persone, lui era l'ultimo che pensavo fosse in grado di tirare fuori tutta quella cattiveria.

L'avevo ferito così tanto con quello che avevo fatto? Se poi non lo riguardava nemmeno... l'avevo fatto per me, senza pensare né a lui né a nessun altro. Non capivo perché la cosa l'avesse toccato così tanto sul personale.

Andai a sedermi sul bordo del letto. «E tutto questo solo perché ho baciato Filippo? Sì, è vero, è successo» ammisi, mentre lui mi fissava incredulo. «E prima di sparare sentenze su di me, forse dovresti stare a sentire i veri motivi per cui l'ho fatto.»

«Perché ti ha incantata come fa con tutte, è semplice.»

«Vittorio però devi lasciarmi parlare, perché mi stai davvero facendo innervosire!» sbraitai, rialzandomi in piedi e puntandogli il dito contro. «È colpa tua, lo sai? Se tu non avessi fatto quel discorso su Irene e sul perché ci avessi provato con lei mesi fa, io non... io non avrei cominciato a ossessionarmi così tanto, a sentirmi un pesce fuor d'acqua, a ritenermi indietro rispetto alle proprie coetanee... ho soltanto fatto il tuo stesso ragionamento, timorosa di fare una figuraccia in futuro con qualcuno che mi piace veramente... e mi sono rivolta a Filippo solo perché sapevo che avrebbe accettato senza troppe storie. Ma non me ne frega niente di lui, zero proprio, persino lui ne è consapevole, solo tu non sei in grado di rendertene conto.
E a essere sincera mi fa male sapere che pensi cose così brutte su di me, perché io di te penso che...»

Mi fermai prima di terminare la frase, perché avevo un groppo in gola, la voce tremolante e sentivo che stavo per mettermi a piangere. Abbassai lo sguardo sul pavimento, non riuscendo più a sostenere il suo sguardo duro e inquisitorio.

Non avevo mai pianto davanti a un'altra persona, tralasciando mia mamma e mia sorella, ma loro erano la mia famiglia, non le contavo nemmeno, e se mai mi era capitato di farlo con altre persone al di fuori di loro era stato per futili motivi come le crisi di pianto dovute al ciclo dei giorni precedenti.

Cercai di calmare il mio respiro e concludere il discorso, ora che avevo la sua completa attenzione.

«Di te penso che sei l'unica persona che mi conosca veramente. Quando ho lasciato Torino, non mi è dispiaciuto poi così tanto, perché la verità è che io... io non avevo amici lì. Alle elementari non era così, avevo tante persone che mi erano care, ma poi... poi fra una cosa e l'altra ho cominciato a chiudermi sempre di più in me stessa, sentivo di non potermi aprire con nessuno, mi tenevo tutto dentro, perché pensavo che... non lo so, che nessuno potesse capirmi o che a nessuno importasse di me. Perciò con le persone che conoscevo nel corso degli anni instauravo solo delle amicizie superficiali, non riuscivo a trovare nessuno con cui riuscissi a essere realmente me stessa, mostravo solo la parte di me che sapevo che a loro sarebbe andata bene. Ero la Nina sempre contenta, di buon umore, quella che non voleva mai creare scompiglio o avere problemi con la gente e che si faceva andare bene tutto, quella che non aveva mai una giornata no, la cui vita andava sempre a gonfie vele. E nessuno si accorgeva che non era davvero così, perché era come se fossi invisibile agli occhi degli altri, e forse in fondo a loro conveniva così. Pensa che ho iniziato a fumare solo perché lo facevano tutti e non volevo sentirmi esclusa, volevo che tutti avessero una buona opinione di me, che credessero che ero come tutti loro... l'unica cosa che ho guadagnato da ciò è stato quello di prendere il vizio e una probabile morte prematura per via di problemi respiratori nel caso non dovessi riuscire a smettere.
«Comunque, con te non c'è stato bisogno di fingere nulla, a te andavo bene così come sono, fin dal primo momento, il che mi sembrava incredibile perché so di non avere un carattere facile e che sopportarmi non è una passeggiata, e probabilmente stare in mia compagnia non è per nulla piacevole... ma tu fino ad adesso eri quasi riuscito a convincermi del contrario. E sei anche stato il solo a capire che dietro al mio atteggiamento che fa allontanare le persone, c'è la paura di farmi vedere per ciò che sono davvero. Ti ricordi? Me l'avevi detto la sera che Benedetta era scappata a Torino, quando ti avevo svegliato nel cuore della notte perché avevo bisogno di qualcuno. E tu c'eri, nonostante tutto ci sei sempre stato per me, da quando ti conosco. Sei il mio migliore amico, Vittorio. Ancor di più, sei il mio primo, vero amico.»

E alla fine avevo pianto. Avevo pianto tantissimo, mentre andavo avanti con il racconto della mia vita prima di conoscerlo. Avevo pianto davvero, davanti a lui, e se nemmeno quello avesse funzionato a farmi perdonare da lui, non sapevo cos'altro avrei potuto fare, perché ero stata me stessa al cento per cento, senza filtri e con tutte le mie debolezze e insicurezze.

Tirai su col naso e deglutii, una volta concluso il mio discorso.

Calò il silenzio. Probabilmente Vittorio non sapeva cosa dire, né si aspettava che tirassi fuori una roba del genere.

A un certo punto mi appoggiò le mani sulle spalle e piegò le ginocchia per giungere alla mia altezza. «Quindi... significa che un pochino mi vuoi bene?» chiese. Sollevai lo sguardo e lo puntai sul suo, pronta a demolirlo in due secondi, se davvero dopo tutte le mie parole quella era l'unica cosa che aveva da dire, ma poi lo vidi sorridere e sorrisi a mia volta, prima di tirargli una sberla scherzosa sul braccio. «Sei proprio un deficiente!» lo sgridai, poi mi asciugai le lacrime e risi.

«Scusami per quello che ho detto. Non avevo idea di... altrimenti non avrei mai detto quelle cose. È solo che mi sembrava troppo bello che, per una volta, ci fosse qualcuno che preferisse me a Filippo, e non lo venerasse come fosse una divinità, e poi ieri sera ti ho vista lì, con lui, e per l'ennesima volta mi sono sentito una nullità, come se fossi stato un mezzo per arrivare a lui... perché sì, è successo tante volte che una ragazza mi usasse solo per avvicinarsi a lui. Perdonami, per aver commesso l'errore di non accorgermi che tu non sei come le altre ragazze che ho conosciuto.»

Roteai gli occhi. «Smettila di dirlo. Mi dà fastidio. Non devi paragonarmi a nessun'altra ragazza e non devi equiparare le mie coetanee fra di loro, perché è davvero una cosa stupida.»

«Pensavo di farti un complimento» tentò di giustificarsi, non cogliendo il punto del mio discorso.

«Non lo è! È normale, siamo giovani e un po' superficiali, è logico che cerchiamo le stesse cose, che cerchiamo di omologarci fra noi, e non è per forza un male, cerchiamo un punto di riferimento, qualcosa che ci unisca... E poi, secondo il tuo discorso anche tu sei "come tutti gli altri", tutti i ragazzi che vanno dietro a Monica così come le ragazze fanno con Filippo.»

«È una cosa diversa, Monica è...»

Lo interruppi: «Sentiamo, perché ti piace davvero? Perché è bella? Perché si atteggia da civetta e agli occhi di tutti è irraggiungibile? Scommetto che se non fosse così gettonata e agli occhi di voi ragazzi non apparisse come un premio da contendersi, non ti piacerebbe nemmeno. Vorresti stare con lei perché sei innamorato oppure perché ti sentiresti appagato per l'essere riuscito ad avere la ragazza che tutti desiderano?»

Vittorio mi fissò con la fronte aggrottata, e non rispose subito. Si prese qualche secondo per pensare alle mie parole. «Magari entrambe le cose» rispose infine. «Ma so che non mi stancherei di lei dopo averla conquistata» aggiunse, eppure non mi sembrava poi così tanto convinto.

Annuii senza dire nulla e poi uscii dalla sua stanza. Stavo per richiudermi la porta alle spalle, quando sentii Vittorio chiamarmi: «Ehi, Nina». Mi voltai verso di lui, pronta ad ascoltarlo. «Ti voglio bene» disse e io sorrisi flebilmente.

*

Poche ore dopo la rappacificazione fra me e Vittorio, Benedetta occupò la nostra cameretta per parlare al telefono con Maurizio, Vittorio scese in cortile a giocare a calcetto con gli amici, mentre mia madre e Claudio andarono insieme a fare la spesa.

Considerando la poca compagnia di Benedetta, era come se ci fossi solo io in casa, pertanto avrei potuto prendermi del tempo per fare una cosa che avevo in mente da un po' di giorni.

Per l'appunto, quella sciocchezza del bacio non era l'unico pensiero che mi aveva torturata in quei giorni: ce n'era un altro un po' più serio e che mi portavo dietro anche da più tempo.

Mi avvicinai al mobile vicino all'ingresso e presi il libro delle Pagine Bianche. Era arrivato il mese precedente per posta ed era ancora ricoperto dell'involucro trasparente. Lo aprii e poi lo portai in cucina, sedendomi al tavolo e iniziando a sfogliare le pagine con frenesia.

Persi circa un quarto d'ora per trovare ciò che cercavo, ma alla fine ce la feci. Posai il dito sulla riga che mi interessava, dopodiché mi armai rapidamente di carta e penna e ricopiai numero di casa e indirizzo di Emanuele Colombo.

Mio padre.

Era da giorni, forse settimane, che non facevo che pensare al fatto che, dopo tutti quegli anni separati, mi ritrovavo finalmente nella stessa città di mio padre, e non avevo ancora avuto modo di rivederlo.

Sapevo di non poterlo chiedere a mia madre, perché non avrebbe capito o magari ci sarebbe rimasta male, perciò avevo dovuto ingegnarmi da sola. L'importante era che, in un modo o nell'altro, ce la facessi a rivederlo.
Era la cosa che desideravo di più in quel momento.

Dopo aver ricopiato sul foglio di carta le informazioni che necessitavo, chiusi il libro delle Pagine Bianche e lo rimisi al suo posto, prima di piegare in quattro il foglio e metterlo dentro il taschino del mio zaino di scuola.

 

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Capitolo 23
*** Ventuno. ***


Ventuno.

A partire da dopo pranzo, per il resto di quella giornata e gran parte di quella seguente, fui impegnata perlopiù nello studio "matto e disperatissimo", come si suol dire.

Volevo fare una bella figura davanti ai miei nuovi professori e farmi vedere preparata al meglio. Inoltre, quando mi mettevo in testa di fare qualcosa, mi ci impegnavo sul serio, qualsiasi essa fosse, fino a rischiare di impazzire.

Stavo rileggendo e parafrasando a voce il testo di greco per l'ennesima volta, quando Vittorio irruppe in cucina e si diresse a falcate verso il frigo. «Sto morendo di fame, tanto che mi mangerei pure te!» esclamò, e io alzai lo sguardo dal libro per fissarlo accigliata. «Certo che il frigo è sempre vuoto in questa casa!» sbraitò.

Magari perché si scofanava tutto due minuti dopo aver fatto la spesa.

«Ti dispiace? Starei finendo di studiare» gli feci notare, mostrandogli il mio libro e desiderando ardentemente, dentro di me, di lanciarglielo su quella sua testa vuota.

«Ancora?!» fece stralunato. «È da due giorni che ripeti queste boiate, ormai le ha imparate anche Giuseppe. Prenditi una pausa, Nina, finirai con l'avere una crisi di nervi» disse, prima di addentare una mela che aveva appena preso dal frigorifero.

«No, non posso, perché le ripeto ancora male» mi impuntai.

«Perché sei stanca. Fidati di me, non fa mai bene esagerare con lo studio.» Si avvicinò a me e mi appoggiò una mano sulla spalla per farmi una specie di massaggio. «Senti? Sei tutta tesa.»

«Ma dai, non sapevo di avere a che fare con un fisioterapista» commentai sarcastica ma lui non mi ascoltò nemmeno.

Chiuse la pagina del mio libro ignorando le mie proteste, dopodiché mi fece alzare in piedi e mi trascinò fuori dalla cucina di peso. Appoggiò entrambe le mani sulle mie spalle e si avvicinò con la bocca al mio orecchio: «Adesso ce ne andiamo a fare un giro, perché tu hai bisogno di svagarti e di respirare aria nuova» sussurrò.

«Vorrei, ma...» Mi tappò la bocca con l'indice e mi impedì di continuare a parlare: «Shhh! La scuola è iniziata da una settimana e non la voglio una sorella esaurita, perché il tuo fare così tanto mi fa sentire in colpa per il mio fare così poco, e a me piace molto essere un fannullone, perciò ora vai a lavarti dato che puzzi e poi usciamo» ordinò, e storsi il naso un paio di volte durante il suo discorso.

La prima quando mi chiamò "sorella"; la seconda quando mi disse che puzzavo.

Tuttavia non replicai, dal momento che sembrava non ci fosse niente che avrei potuto fare per fargli cambiare idea.

Dopodiché sentii un gran vociare provenire da fuori, presumibilmente era qualcuno posizionato sotto al nostro balcone.

«Allora? Ti muovi o no?» urlò qualcuno, e Vittorio mi prese per mano e mi portò fuori in balcone.

Mi affacciai e vidi in effetti un gruppo nutrito di persone. Più in particolare, erano gli amici di Vittorio: Giovanni, Erica, Monica, Riccardo, Fabio e Filippo.

Tutti al completo, che gioia.

«Non è colpa mia, è colpa di Nina che non vuole uscire di casa perché preferisce studiare» gridò Vittorio dal balcone e io lo fulminai con lo sguardo. Ero già pronta a tornare dentro, ma Vittorio saldò la presa sulla mia mano e me lo impedì. «Ditele qualcosa, su! Se non viene lei, non vengo neanch'io.»

«Vittorio, che palle che sei! Mi stai facendo perdere tempo e...»

«Dai, Nina, butta i libri dalla finestra e vieni con noi!» mi incoraggiò Giovanni. «Oppure buttati tu giù dal balcone se preferisci» aggiunse ridacchiando.

Il problema non era che non lo volessi, era che non potevo permettermelo.

Però... ecco, forse avrei potuto riprendere dopo cena, e ripassare qualcosa anche la mattina seguente, sul tram. Sì, avrei fatto così. Mi ero segregata in casa troppo a lungo, e in fondo aveva ragione Vittorio: non potevo impazzire per la scuola, specie perché era appena iniziata.

«Va bene, datemi qualche minuto e poi scendo!» esclamai, prima che loro esplodessero in ovazioni e fischi, mentre Vittorio mi percosse ripetutamente in modo scherzoso, poi mi spettinò tutti i capelli e infine mi lasciò un bacio in fronte.

Gli mostrai il dito medio e andai in bagno a darmi una sistemata. I capelli, sebbene fossero un po' arruffati e spettinati, non erano ancora da lavare, quindi infilai una cuffia in testa ed entrai in doccia per lavarmi solo il corpo, così avrei anche fatto più in fretta.

Una volta dopo essermi data una pulita e una rinfrescata, andai rapida in camera a vestirmi. Faceva un po' più freddo rispetto agli altri giorni, perciò scelsi dei pantaloni lunghi e un maglione rosa confetto, lo stesso che avrei voluto mettere alla festa ma che Benedetta mi aveva impedito di indossare.

Mi spazzolai i capelli per togliermi i nodi e infine misi le scarpe ai piedi. Tornai in salotto da Vittorio e mi annunciai con un solenne: «Eccomi! Possiamo andare».

Annuì e poi, dopo aver salutato Giuseppe con qualche carezza e qualche bacio, si avviò verso la porta di casa, seguito da me.

«Potevi uscire con i tuoi amici anche senza di me» dissi, nel mentre che attendessimo che quell'ascensore lentissimo giungesse al piano terra.

«Lo so, ma mi faceva piacere che venissi anche tu, e anche a loro.»

Roteai gli occhi. «Ah sì? A chi faceva piacere?» domandai scettica.

Con Riccardo e Fabio avevo parlato sì e no due volte, con Erica idem, Giovanni era uno a cui andavano a genio più o meno tutti. Monica non ero ancora riuscita a inquadrarla e non capivo se mi avesse realmente presa in simpatia senza un apparente motivo o se, al contrario, fosse tutta una messinscena.

Infine c'era Filippo... ora che era finalmente riuscito ad avere un bacio da me, era quasi certo che non gli importasse più nulla di me, ero alla pari dell'altra dozzina di ragazze con cui aveva avuto a che fare.

Ma forse era meglio così, almeno non mi avrebbe più dedicato quelle morbose attenzioni. Magari saremmo diventati davvero amici.

In fondo, nonostante i nostri screzi e le nostre incomprensioni, sapevo che era una brava persona. Anzi, forse il maggiore ostacolo all'instaurarsi di un rapporto amicale fra di noi fino a quel momento era stato il mio pessimo carattere, piuttosto che il suo atteggiamento nei miei confronti.

Feci queste riflessioni nel mentre che io e Vittorio ci dirigevamo fuori dal portone di casa. Sollevai lo sguardo che fino a quel momento avevo tenuto rivolto verso il basso, e mi preparai a salutare i ragazzi e le ragazze.

«Nina! Meno male che ti abbiamo convinto!» esclamò Monica, prima di gettarmi le braccia al collo come suo solito e baciarmi entrambe le guance.

Fortunatamente ero piuttosto abile a nascondere le mie emozioni e a non lasciarle trasparire attraverso le mie espressioni facciali, perché di certo non avrei ricambiato la contentezza e l'allegria di Monica. Era probabile che se ne fosse ugualmente resa conto, considerando la mia scarsa indole a mostrarle affetto e la mia postura rigida e distaccata, tuttavia non sembrava le interessasse.

Mi separai da lei in fretta e passai a salutare gli altri, mentre nel frattempo l'ansia cresceva dentro di me, perché sapevo che prima o poi mi sarebbe toccato salutare Filippo.

Non avrei saputo in che modo salutarlo. Dopo ciò che era successo venerdì sera, sarebbe stato ipocrita da parte mia rifiutarmi di dargli un bacio sulla guancia come facevo con tutti gli altri, ma temevo che facendolo avrei dato troppo nell'occhio: non sapevo cosa sapessero le ragazze e i ragazzi di ciò che era successo e, anche qualora Filippo non fosse corso a spifferare tutto ai quattro venti, comunque un'idea se l'erano già fatta dato che ci avevano quasi colti in flagrante.

Feci durare il saluto con Giovanni più a lungo, perdendo tempo a chiedergli come stesse e complimentandomi per il nuovo taglio di capelli, proprio per ritardare il momento in cui avrei preso una decisione in merito. Ma alla fine mi diede le spalle e si allontanò, e io mi trovai davanti il biondino senza preavviso.

Trasalii e distolsi subito lo sguardo da lui. Poi lo risollevai non appena avvertii che muoveva qualche passo nella mia direzione. Protese il viso in avanti come a volermi lasciare un bacio sulla guancia, ma all'ultimo si arrestò, nel momento in cui incrociò il mio sguardo. A quel punto feci per avvicinarmi io a lui, ma proprio quando eravamo vicini a tal punto da far sfiorare le nostre braccia, si scostò bruscamente e andò a dare una pacca sulla spalla a Vittorio.

Rimasi a fissarlo confusa e irritata per qualche istante, e qualcosa dentro di me mi suggeriva che sapeva che lo stavo fissando, sebbene facesse del suo meglio per evitarmi e proseguire la conversazione con il suo migliore amico.

Mi lasciai sfuggire un sospiro piuttosto profondo e scocciato, ma poi mi dissi che non c'era alcun motivo per offendersi e mettere il muso, perciò forzai un sorriso e andai a inserirmi in un discorso delle ragazze, nel mentre che cominciavamo a incamminarci presumibilmente al parco Sempione.

«Ah, io uno bello così non lo troverò mai! Ha proprio tutte le caratteristiche che piacciono a me: alto, capelli folti e lunghi, occhi chiari, tratti delicati...» Monica parlava con voce e occhi sognanti, e mi incuriosì il soggetto del suo discorso, tanto che mi intromisi per chiedere di chi parlasse.

Quella descrizione mi fece pensare in immediato a una persona: Vittorio. Eppure mi sembrava strano parlasse di lui, considerando che era già tanto se si ricordava il suo nome.

«Ma come chi? Umberto Tozzi! Peccato abbia più del doppio dei nostri anni...» rispose Erica, lasciandosi andare a un sospiro amareggiato.

«Pensa che stavo pensando che quando sarò grande chiamerò mia figlia Gloria, proprio in onore della sua canzone» continuò Monica.

«Ma dai! Sai che ci avevo pensato anche io?» fece Erica, prima di batterle il cinque, come probabilmente Vittorio aveva insegnato loro.

Nel sentire quelle dichiarazioni, scoppiai a ridere spontaneamente, seguita poi dalle due ragazze. Peccato che forse, più che ridere con loro, stavo ridendo di loro. Era una delle cose più ridicole che avessi mai sentito, eppure qualcosa mi diceva che quello era stato il pensiero di molte delle seguaci del famoso cantante.

Dopodiché, su iniziativa di Monica, iniziammo a cantare a squarciagola la canzone in questione, nel mentre che i ragazzi si coprivano le orecchie con le mani: «Delle anatre che si strozzano col cibo sarebbero più intonate di voi tre!» esclamò Giovanni, e io risi.

A quel punto interrompemmo il nostro piccolo concerto.

«E invece qual è il tuo prototipo di ragazzo?» mi domandò Erica a un certo punto, nel momento in cui mettemmo piede dentro al parco.

Mi sentii a disagio per via quella domanda, perché non avevo una risposta da dare. Non mi era mai piaciuto nessuno, nessuna piccola cotta neanche da bambina, che io ne avessi memoria. In più, il tono con cui me lo chiese, faceva sottintendere che si aspettasse una risposta in particolare. E sapevo anche quale.

Tuttavia, non mi sarei mai fatta mettere in bocca parole da altre persone. «Nessuno, non ho nessun tipo in particolare» risposi con orgoglio, riconfermando la mia solita posizione di disinteresse verso certe cose.

Erica e Monica si scambiarono un'occhiata complice, prima che la seconda proferisse parola: «Sicura sicura? Non so, pensavo che magari ti piacessero i ragazzi biondi, occhi azzurri, con la pelle chiara e dorata, labbra carnose e da sogno...»

Un brivido mi percorse la schiena e il cuore mi batteva più che mai. Volevo mostrarmi come se quelle frecciatine non mi toccassero minimamente, ma non era così, dentro di me stavo morendo dall'imbarazzo.

E, come succedeva spesso in situazioni incresciose come questa, l'unico modo per tirarmene fuori era quello di ricorrere alla cattiveria, pur sapendo che sarei risultata scortese: «Sicura di non star parlando di te invece che di me?» dissi. Se l'avessi detto con tono tranquillo e l'avessi buttata sul ridere, non avrei fatto la figura dell'antipatica; invece io avevo usato apposta un tono pungente e sarcastico, per farle intendere che doveva lasciarmi in pace.

E, contrariamente a quello che poteva sembrare, Monica era tutt'altro che stupida, infatti emise un sorriso forzato e poi si allontanò insieme a Erica.

Sospirai. L'avevo fatto di nuovo. Avevo reagito male davanti a quella che era una semplice provocazione, probabilmente più uno scherzo innocente che una derisione. Accidenti alla mia tremenda boccaccia.

Poco dopo fui avvicinata da Giovanni, che mi cinse un braccio attorno alle spalle. Mi irrigidii per via di quel contatto, ma comunque lasciai perdere. «La signorina qui presente mi deve una rivincita a carte» bisbigliò.

Mi voltai verso di lui con un sorriso. «D'accordo, esaminerò la Sua richiesta e Le farò sapere se accetto la sfida o meno» risposi, dandomi un'aria autoritaria.

Aggrottò la fronte e mi fissò di sottecchi.

«Il fatto è che non c'è gusto a giocare con te, è una pura noia!» esclamai ridendo e lui sgranò gli occhi come se avessi detto una cosa fuori dal mondo. «Non guardarmi così. Tu giochi l'asso di briscola alla prima mano e poi dici: "Ah, merda, sono proprio imbesüì, non me n'ero nemmeno accorto!"» spiegai imitando il suo modo di parlare, e lui non trovò niente da obiettare, perché in fondo sapeva che avevo ragione.

In quel momento mi accorsi che ci eravamo fermati. Avevamo individuato l'area in cui assestarci. Era praticamente l'unica in tutto il parco, in effetti, dove c'era un grande spazio, così che non dovessimo stare tutti appiccicati. Infatti, nonostante fosse tardo pomeriggio e non ci fosse così tanto caldo, il parco era pieno di gente.

C'erano famiglie con bambini che scorrazzavano da ogni parte, gruppi di ragazzi come noi che si godevano il dolce far nulla, gente che giocava a palla, persone che leggevano o studiavano sedute sotto l'ombra degli alberi, coppie che passeggiavano mentre si gustavano un gelato oppure una bibita fresca.

Giovanni mi tolse il braccio dalle spalle e poi si tolse lo zaino di dosso e lo aprì, pronto a tirare fuori un telo. Così fecero anche Vittorio e Riccardo, mentre Erica tirò fuori un pacco di patatine, Fabio delle lattine di birra e Filippo, proprio come qualche settimana prima, un paio di bottiglie di vino e Monica qualche calice.

«Non dirmi che è ancora quella schifezza dell'altra volta» fece Vittorio, guardando con disgusto le bottiglie tirate fuori dall'amico.

«Fa citu, o questo o il Tavernello in cartone dell'Esselunga» rispose Filippo, mettendolo a tacere.

Avrei voluto avere un dizionario per poter comprendere tutte quelle espressioni in dialetto. Talvolta mi sentivo fuori luogo, quando i miei coetanei oppure anche Vittorio e suo padre instauravano un discorso completamente in Milanese, e io ero in grado di coglierne sì e no due parole.

Alcune cose poi si capivano dal contesto, come in questo caso, oppure erano parole molto simili all'Italiano; nonostante le capissi, però, mi sentivo ugualmente a disagio, come se in qualche modo venissi esclusa da quel mondo, da quella città, alla quale appartenevo soltanto per metà.

Comunque mi stesi su uno dei teli, in mezzo a Giovanni e Erica, e cercai di scacciare quei pensieri e godermi il resto del pomeriggio che rimaneva.

 

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Capitolo 24
*** Ventidue. ***


Ventuno.


Alla fine, non so come, Giovanni riuscì a convincermi a giocare a carte in coppia con Vittorio, così che lui e Filippo potessero prendersi una rivincita.

Contrariamente alle aspettative, sembrava proprio che ci stessero riuscendo. Durante la prima partita, mi resi conto fin da subito di non essere al mio meglio, in quanto distratta e in soprappensiero: buttavo le carte a casaccio, mi dimenticavo di pescare, dovevo ogni volta essere richiamata quando era il mio turno perché non ero in grado di accorgermene da sola.

Avevo mille pensieri per la testa. Pensavo a mio padre, a quanto desiderassi rivederlo; pensavo a come mi ero rivolta poco prima a Monica, e che forse avevo esagerato; pensavo a Filippo, al fatto che non riuscivo neanche a incrociare il suo sguardo senza provare imbarazzo e continuavo a chiedermi se avessi commesso un errore venerdì sera, compromettendo ancora di più il nostro difficile rapporto; pensavo a mia sorella Benedetta, che in quei giorni mi pareva strana, era sempre nervosa e sull'attenti, più del consueto; pensavo al fatto che stavo sottraendo tempo allo studio e quasi sicuramente dopo cena non avrei concluso niente perché troppo stanca e svogliata.

E alla fine io e Vittorio perdemmo la prima partita.

«Dai, Nina, concentrati. Non è ancora finita!» mi incalzò, non perdendosi d'animo.

Giovanni appoggiò le carte sul telo, invece che cominciare a mischiarle, sebbene fosse il suo turno di farlo. «No, così non va» disse increspando le labbra. «Abbiamo vinto novantasei a ventiquattro. È umiliante persino per me che ho vinto! Non ti posso vedere così, Nina.» Mi appoggiò una mano sulla spalla ma io me ne accorsi appena, assorta com'ero nei miei pensieri. Mi stavo torturando le labbra, continuando a tracciarne il contorno con le dita e strappandomi le pellicine. Mi riscossi solo appena Giovanni batté le mani davanti al mio viso. «Propongo un cambio nelle regole! D'ora in poi, la coppia che perderà dovrà bersi tre sorsi di vino. A ogni partita persa, si aggiungerà un sorso» disse colmo d'entusiasmo.

«Non mi pare che sia un'ottima idea. Nina già è stordita ora, pensa da ubriaca» commentò Vittorio e lo fulminai con lo sguardo, anche se non aveva proprio tutti i torti, dato che stavo giocando da cani.

Nemmeno Filippo sembrava pro a quella proposta. «Quante partite vuoi giocare? Tre come al solito?» domandò e Giovanni schioccò la lingua sul palato e scosse la testa: «Almeno cinque. Finché non saremo tutti in stato d'ebbrezza non ho intenzione di muovermi da questo cazzo di parco».

«Io non posso permettermelo, devo studiare» gli rammentai ma lui non volle sentire ragioni. Mi passò una delle bottiglie e mi incitò a bere.

Sospirai e cedetti al diavolo tentatore alla mia sinistra. Bevvi tre piccoli sorsi, sebbene lui mi incitasse a farne di più grossi. Poi mi ripulii le labbra con la mano e passai la bottiglia al mio compagno di gioco.

«Bene! Ora sì che si fa sul serio» fece Giovanni, rimboccandosi le maniche con fare teatrale e prendendo le carte per mischiarle. «Anzi, un sorso me lo bevo pure io. Tu Filo? Lo vuoi?» chiese all'amico, il quale scosse la testa: «No, voglio rimanere concentrato. Non dobbiamo perdere nemmeno una partita» rispose con aria competitiva.

«Ehi! Ho portato i calici apposta, perché bevete dalla bottiglia? Va a finire che poi la impuzzolite mischiando i vostri aliti» si intromise Monica, spuntando alle spalle di Vittorio, il quale si prese uno spavento e io risi sommessamente.

«Rilassati, guarda che ce li laviamo i denti. E comunque i calici non bastano per tutti» replicò Giovanni.

Monica poi emise un sorrisetto malizioso. «Comunque vi state scambiando la saliva, praticamente è come se vi steste baciando tutti e quattro» fece notare con una risata.

Giovanni emise una smorfia di disgusto, Filippo la squadrò come se avesse appena detto una delle più grandi baggianate e Vittorio era semplicemente incantato a fissarla come un ebete. Io evitai del tutto di guardarla.

«Dai, allora bevi anche tu e facciamo una bella orgia, Moni» le disse Giovanni passandole la bottiglia. Monica assunse un'espressione schifata e contrariata, Filippo e Vittorio lo maledissero con lo sguardo e io ero semplicemente confusa, non avendo idea di cosa significasse quella parola.

Avevo paura a chiedere, a giudicare dalle loro reazioni dopo quella frase, ma alla fine la mia curiosità prevalse, perciò domandai: «Che cos'è un'orgia?».

I tre ragazzi si scambiarono uno sguardo che a quanto pare valeva più di mille parole, e infatti di comune accordo decisero di non fornirmi una risposta.

Monica poi si mise in ginocchio e si portò le mani sui fianchi. «Posso giocare anch'io a carte? Mi annoio» disse con un viso imbronciato.

«No» rispose prontamente Giovanni e, a giudicare da quelle risposte puntigliose e provocatorie che continuava a darle, ipotizzai che non le stesse un granché simpatica. Iniziò a distribuire le carte, noncurante delle continue proteste della mora.

«Dai, voglio giocare anch'io! Nessuno di voi vuole cedermi il posto? Sono fortunata nel gioco! È solo l'amore che va sempre uno schifo» continuò a lamentarsi.

«Perché dici così?» domandò Vittorio, riemergendo dal suo coma dopo l'ultima frase della ragazza.

L'avrei preso volentieri a pedate, perché, dandole retta, ci stava facendo perdere tempo. Stranamente, anche Filippo e Giovanni parevano infastiditi dalla sua presenza almeno quanto me.

Così, senza farmi vedere, presi la bottiglia di vino e, abbandonando tutti i miei buoni propositi, feci qualche altro sorso, nella speranza che l'alcol in circolo nel mio corpo mi aiutasse a rendere il tutto più sopportabile.

«Tutti i ragazzi che trovo si stufano di me dopo appena una settimana» proseguì Monica, sfogandosi con Vittorio.

«Una settimana mi pare anche troppo» disse Giovanni sottovoce ma io lo sentii ugualmente e dovetti faticare per trattenere una risata. Lui se ne accorse e poi vide anche che tenevo in mano la bottiglia di vino e mi chiese di passargliela così che potesse berne un po' anche lui.

«E questo dopo che mi hanno fatto la corte anche per mesi interi! Insomma, perché? Perché siete fatti così? A volte sembrate proprio degli esseri primordiali, pensate solo a cacciare e poi una volta che avete catturato la preda ve ne disfate in un attimo.»

A quel punto iniziai realmente ad ascoltare le parole di Monica. Era forse la prima cosa davvero sensata che le sentivo dire. «Perché sono attratti da ciò che pensano di non poter avere, e una volta che ce l'hanno, il loro ego si gonfia perché sono riusciti ad avere ciò che consideravano irraggiungibile, e semplicemente perdono interesse per la cosa» intervenni.

«Esatto! È proprio così! Siete solo degli egocentrici e degli stronzi» mi diede ragione Monica.

«Io volevo solo giocare una cazzo di partita a carte, e invece mi devo sentir dire che sono un pezzo di merda?» si chiese Giovanni fra sé e sé.

«Be', però non è vero, non è sempre come dici tu. Non dovresti generalizzare» disse Vittorio. «Magari ci sono dei ragazzi che farebbero di tutto per piacerti e non si stuferebbero mai di te, ma tu semplicemente non ti accorgi di loro e badi solo ai soliti idioti che non ti valorizzano.»

Sgranai gli occhi nel sentirlo dire quelle cose. Con quegli occhi da pesce lesso che aveva ogni volta che le parlava e in più quel discorso in cui si stava addentrando, era palese che si stesse riferendo a se stesso. Era impossibile che Monica non se ne rendesse conto.

«Evidentemente se non li noto è perché sono noiosi e per nulla interessanti» scrollò le spalle Monica, e giurai di aver sentito il cuoricino di Vittorio spezzarsi in mille pezzi dopo quella risposta secca e diretta.
Glielo leggevo negli occhi, che l'aveva distrutto. Non disse nulla per ribattere, certamente in quello stato d'animo in cui era caduto faticava a trovare le parole.

Brutta vipera... Ma che ci trovava davvero Vittorio in lei? Avrei voluto dirgliene quattro per metterla al suo posto, e ci sarei riuscita alla grande, ma sapevo che poi lui ce l'avrebbe avuta con me.

Sorprendentemente, però, qualcun altro intervenne per metterla a tacere. «Chissà, magari questo è lo stesso motivo per cui i ragazzi di cui parli si stufano di te. Forse ritengono che tu non sia abbastanza interessante per loro.»

Mi voltai immediatamente verso Filippo colma di sorpresa e, a dirla tutta, anche con un certo compiacimento. Avrei tanto voluto dirlo io, mi aveva letteralmente tolto le parole di bocca.

Aveva usato un tono così pungente che in confronto io, mentre prima eravamo per strada, le avevo leccato il didietro.

Monica lo fissò con disappunto, poi lo squadrò, infine, offesa e risentita, gli diede le spalle e se ne andò.

Filippo non sembrava minimamente pentito e, anzi, diede una pacca sulla spalla a Vittorio e poi gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Il moro annuì e Filippo poi fece cenno a Giovanni che potevamo riprendere a giocare.

*

Fra una cosa e l'altra, o meglio, fra una partita e l'altra, alla quale seguiva sempre qualche sorso di vino di troppo, persi completamente la concezione del tempo. A un certo punto alzai lo sguardo su verso il cielo e vidi che il sole stava ormai tramontando.

Mi alzai di scatto in piedi. «Bòja Fàuss! Sarà già ora di cena, devo tornare a casa!» esclamai in preda al panico, prima di scoppiare a ridere. «Bòja Fàuss, non è buffo come termine? Non lo dicevo da un sacco! Il Milanese non lo so, ma qualche espressione imparata a Torino mi è rimasta, sapete? No, basta parlare. Bando alle ciance: dobbiamo andare, prima che mia madre mi uccida e penso anche le vostre!»

Praticamente avevo fatto tutto da sola, infatti i ragazzi e le ragazze mi fissarono allibiti. Tutta colpa del vino. Avevo esagerato. Tuttavia non rifiutai lo stesso la bottiglia che mi passò Giovanni, nonostante le ammonizioni di Vittorio. Rimanevano solo un paio di sorsi, e mi assunsi il compito di finirlo, così che potessimo buttarlo e poi andarcene.

Sentivo le guance andarmi a fuoco e in più mi era venuto il singhiozzo.

A quel punto alcuni di loro iniziarono a dare un'occhiata agli orologi che tenevano al polso, e furono della mia stessa idea: dovevamo muoverci a tornare a casa.
Specie perché io e Vittorio abitavamo vicini, dieci minuti massimo e saremmo arrivati, ma c'era chi veniva quasi dall'altra parte di Milano.

Si alzarono tutti in piedi come me, sistemammo i teli, buttammo la sporcizia che avevamo lasciato e facemmo per incamminarci, saltando i saluti e convenevoli.

Nonostante la fretta che avevo messo a tutti, c'era qualcosa dentro di me, non sapevo se l'alcol o qualcos'altro, che voleva ritardare il più possibile il rientro a casa. O meglio, voleva ritardare la separazione dal gruppo. Cioè, non proprio da tutto il gruppo.

«Vitto, tu inizia ad andare, va bene? Ti raggiungo fra un po'» dissi a Vittorio e, sebbene non sembrasse propriamente d'accordo, annuì e iniziò a incamminarsi senza di me.

A quel punto, ancora incerta su quelle che fossero le mie reali intenzioni, mi voltai e raggiunsi Filippo, che stava camminando dalla parte opposta. «Ti va di ria... accompagnarmi a ca... casa?» chiesi, ma per via di quel fastidioso singhiozzo che si verificava con frequenza ogni cinque secondi mi mangiai le parole, così lui mi fissò accigliato, senza aver capito la mia domanda: «Cosa?» chiese infatti.

«Ho detto... se ti va di riaccompagnarmi... riaccompagnarmi a casa» ripetei, e lui inarcò le sopracciglia dallo stupore, senza rispondermi. Mi aspettavo una delle sue solite battute, invece mi fece un cenno di assenso e cominciammo a camminare, facendo il giro largo del parco così da non dover incrociare Vittorio.

Per i primi due minuti rimanemmo in silenzio. Il mio singhiozzo era l'unico rumore ad accompagnarci durante il tragitto.

Sembrava che ogni tanto Filippo fosse sul punto di dire qualcosa, ma che all'ultimo momento ci ripensasse e rimanesse zitto.

Così parlai io, mettendo a nudo i miei dubbi: «Come Monica, anche io sono così poco interessante ai tuoi occhi da non degnarmi nemmeno di un saluto?» domandai e lui mi fissò confuso, senza capire a che cosa mi riferissi. Proseguii allora con il mio discorso. «Che c'è, solo perché mi hai baciata adesso non ti importa nemmeno di salutarmi? Prima ti stavo per salutare e tu ti sei voltato... chi cazzo sei, Dio sceso in terra? E poi durante tutto il pomeriggio non mi rivolgi parola, non mi consideri neanche un minimo, neanche avessi la lebbra, e... ed era ovvio, lo sapevo in fondo, che sei fatto così: non appena ottieni ciò che vuoi, ecco che il giocattolino non ti pare più interessante come prima, quindi vai oltre e non te ne fai più nulla» sputai, in preda alla collera. Seguì un altro piccolo singhiozzo, che rese quella scena a dir poco comica se non anche ridicola. Dovetti ricorrere a tutte le mie forze per non scoppiare a ridere e rimanere seria, dato che, nonostante l'ebbrezza, ero molto adirata.

Onestamente non sapevo neanche perché ci dessi così tanto peso, e il fatto che ci dessi importanza mi mandava ancora più in bestia.

«Quindi prima quando parlavi con Monica con tutto quell'astio, ti riferivi a me?» chiese con un mezzo sorriso, senza rispondere a nulla di tutto il resto. 

Sbuffai, evitando a mia volta di dargli una risposta e accelerando il passo. Mi stavo già pentendo di avergli chiesto di accompagnarmi a casa, e anche di aver aperto quel discorso, dato che non sapevo dove mi avrebbe portata. Di certo non stava prendendo una bella piega.

Uscimmo dal parco e girammo a destra, finendo sul marciapiede.

«Se ti avessi salutata come con le altre ti saresti arrabbiata» disse poi Filippo dopo quegli attimi di silenzio, interrotti solo dal mio fastidiosissimo singhiozzo che non sembrava voler cessare in brevi tempi. «E lo so perché è già successo» aggiunse.

«Si, è probabile, ma in quel caso l'arrabbiatura mi sarebbe passata prima. Invece ignorandomi del tutto mi hai...»

«Tu sei completamente fuori di testa!» mi interruppe, iniziando a scaldarsi pure lui. Sussultai per l'aumento di volume nel suo tono di voce, dato che non mi aspettavo quella reazione improvvisa. «Non ho idea di come comportarmi con te, lo sai? Ogni volta che ti vedo mi viene l'ansia, perché so che qualsiasi cosa faccia sarai pronta a puntare il dito e criticarmi. Parli di me come se ti vedessi come un giocattolino, ma tu fai lo stesso. E indovina? Non lo sono, non sono un pupazzo a cui decidi cosa far fare e cosa no! In più lo fai solo con me, con gli altri hai un rapporto d'amicizia normalissimo e senza tutti questi alti e bassi. Parli, scherzi e fai battute, ridi... con me fai l'incazzata tutto il tempo, però poi mi chiedi di accompagnarti a casa. Non ce la faccio più, mi fai letteralmente uscire dai gangheri!»

Mentre il suo viso assumeva un tono più colorito, per via dell'afflusso di sangue che andava a concentrarsi in quella parte del corpo, il mio volto iniziò a rilassarsi.

Avendo trattenuto il respiro durante tutta la sua sfuriata, il singhiozzo mi era fortunatamente passato.

Smisi di avercela con lui, e presi ad avercela un'altra volta con me stessa.
Aveva ragione. Solo con lui facevo così e solo con lui non riuscivo ad andare d'accordo, nonostante partissi con buone intenzioni ogni volta.

Vidi Filippo sedersi a terra sul bordo del marciapiede, più per riprendere fiato dopo quella scenata che per altro. Mi sedetti al suo fianco. «Si vede che i nostri caratteri non sono compatibili, tutto qui» dissi con tono calmo e atono, senza la mia solita aggressività.

Si voltò verso di me per guardarmi, ma non disse nulla.

«E mi dispiace, dico davvero, perché nemmeno a me piace questa situazione. Ma sembra che non riusciremo mai ad andare d'accordo ed essere amici» conclusi il discorso.

«Potremmo provarci, invece» mi contraddisse, invece che decidere di rinunciare come stavo facendo io. «Lasciando da parte i pregiudizi e le questioni passate e ricominciando dall'inizio. Dai, facciamo finta che questa sia la prima volta che ci vediamo.»

«Che stronzata...» non potei fare a meno di dire. Sembrava una cosa molto da film, e infatti solo in un film avrebbe potuto funzionare una cosa del genere.

«Incredibile, devi sempre andarmi contro qualsiasi cosa io dica» sbraitò, alzando gli occhi al cielo.

«Te l'ho detto» scrollai le spalle, con fare rassegnato. «Non è colpa mia se non sono mai d'accordo con quello che dici. Non posso farci niente.»

«Ma dimmi, tu sei mai d'accordo con quello che qualsiasi altra persona al mondo al di fuori di te dica, oppure hai ragione sempre e soltanto tu? E meno male che sono io Dio sceso in terra» ribatté e non trovai nulla da controbattere per una volta. Anzi, mi venne quasi da ridere a pensare a quanto fosse vero. Tuttavia mi trattenni e lo lasciai finire di parlare: «Almeno proviamoci, e sul serio questa volta. Ci stai?».

 

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Capitolo 25
*** Ventitré. ***


Ventitré.


Con mia grande sorpresa e probabilmente anche del mio interlocutore, quel marciapiede sul quale ci sedemmo segnò l'evoluzione del rapporto fra me e Filippo. Cominciammo a parlare e parlare e parlare, senza discutere né alzare la voce, senza neanche un momento morto, passavamo da un discorso all'altro senza nemmeno accorgercene. Ci furono dei momenti di silenzio, sì, ma non si trattava di silenzi imbarazzanti.

Fra le prime cose, sebbene un po' in ritardo, Filippo mi aggiornò sull'esito del suo esame di riparazione. Era passato al secondo anno e, nonostante ciò che aveva detto a voce a me e Vittorio settimane prima, ovvero che sperava quasi di essere bocciato per poter finalmente lasciare la scuola e andare a lavorare, mi rivelò che non era quello il reale motivo per cui sperava che accadesse. «Mio padre ha detto che finita la scuola - perché per qualche ignoto motivo ci tiene comunque che la finisca a tutti i costi - mi sbatterà fuori di casa a calci senza pensarci due volte. L'unico motivo per cui speravo di essere bocciato quest'anno era per poter stare qualche anno in più con mia madre e non doverla lasciare sola con lui» disse, e mi sentii mancare il respiro nel sentire quelle parole.

Per me era uno scenario terrificante da immaginare, ma la naturalezza e spontaneità con cui lo raccontò mi fece rendere conto di quanto cose del genere fossero per lui all'ordine del giorno.

Rimasi qualche istante in silenzio, più che altro per pensare a cosa rispondere. Sarei risultata troppo banale se avessi risposto soltanto con "mi dispiace", e comunque la mia compassione era l'ultima cosa che voleva ricevere.

Più ci riflettevo, però, più mi accorgevo che mi mancavano le parole. Lui se ne accorse e mi diede un colpetto sulla schiena per riscuotermi: «Dai, peperoncino, non fare quella faccia, su con la vita!» esclamò, simulando un sorriso. O almeno, a me sembrò simulato. Come se si fosse accorto del peso delle cose che mi aveva detto e non volesse appesantirmi né scaricare su di me i suoi problemi.

«Io credo che forse ti sia andata meglio così. Dato che sembra tenerci così tanto al fatto che tu finisca gli studi, se ti avessero bocciato, probabilmente avrebbe reagito peggio, no?» chiesi, cercando di vedere il lato positivo, sempre che ci fosse.

«Sì, ma così fra soli quattro anni...»

«Hai ancora tanto tempo da passare con tua madre» lo interruppi. «Ma altrettanto tempo da passare con lui. Se ti diplomi in tempo, poi potrai trovare un lavoro e andartene il prima possibile da quella casa insieme a tua madre. Mentre se perdi anni di scuola, tutto questo continuerà per molto altro tempo e tu continuerai a essere impotente, e non penso che sia questo ciò che vuoi» provai a farlo ragionare.

Rimase un attimo in silenzio, come se stesse riflettendo veramente su ciò che gli stavo dicendo.

«Anzi, potresti trovarlo già adesso un lavoro, qualcosa da poter conciliare con la scuola, e racimolare così qualche soldo» aggiunsi.

La legge n. 977 del 1967 consentiva, entro certi limiti, il lavoro minorile a chi aveva compiuto almeno quindici anni e assolto quindi il periodo di istruzione obbligatoria.

L'avevo sentito da mia madre qualche anno prima, quando rimproverava Benedetta per la sua scarsa dedizione allo studio, ricordandole che se proprio non le andava di studiare, poteva pur sempre lasciare la scuola e trovarsi un lavoro. Davanti a quella prospettiva, e considerando che mia sorella non era in grado di fare assolutamente niente se non lamentarsi e perdere ore davanti allo specchio, Benedetta appurò che fosse conveniente trascorrere ancora qualche anno in più fra le mura scolastiche, piuttosto che interfacciarsi così presto con il mondo reale.

«Pensaci: non andresti contro il volere di tuo padre perché continueresti a frequentare la scuola nonostante tu non sia più obbligato per legge a farlo e in più faresti in modo di aiutare te e tua madre.»

«Mia madre non me lo permetterebbe mai. Ogni volta che provo a intromettermi e a impicciarmi in queste cose da grandi, lei mi rammenta che è lei il genitore ed è lei a doversi prendere cura di me, non il contrario. Ma tanto non lo fa comunque...» Lasciò la frase in sospeso, come se più che dialogare con me stesse riflettendo ad alta voce.

A quel punto cercai un modo per cambiare discorso, per evitare di avvilirlo ancora di più. Ripensai a una delle battute di Giovanni di quel pomeriggio che però lui si era perso poiché impegnato a parlare con Riccardo (e io lo sapevo perché gran parte di quel pomeriggio l'avevo impiegata a osservare il biondino di nascosto e ad avercela con lui perché continuava imperterrito a ignorarmi), e gliela raccontai così da farlo ridere e distrarlo.

Poi insistette per sapere il giorno del mio compleanno, io gli risposi di tirare a indovinare. Tuttavia, dopo tre tentativi che non si avvicinavano neanche lontanamente, mi stufai di stare ad ascoltare le sue previsioni e vuotai il sacco.

Mi fissò strabiliato, con le sopracciglia inarcate. «Ah, quindi sei del segno dei Gemelli! Ora capisco molte più cose di come funziona la tua testolina!» esclamò, battendomi un pugnetto leggero sulla testa.

Storsi il naso. «Ma che discorso è?»

«Sei lunatica, impaziente, logorroica, intelligente ma un po' ficcanaso, e brava a intortare le persone con le parole. E hai una doppia personalità, è risaputo che i Gemelli ce l'abbiano» rispose, convintissimo di descrivermi alla perfezione.

Non che si sbagliasse totalmente, ma di certo non aveva niente a che fare con il mio segno zodiacale.

«Io non ho una doppia personalità» ribattei, incrociando le braccia al petto.

«Invece sì. Pensa, fino a oggi non mi ero accorto di quanto ti stesse sul cazzo Monica perché sei abile a nasconderlo. Poi ho visto come trattenevi a stento una risata dopo quello che le avevo risposto.»

«Non mi sta sul cazzo Monica, è solo che...»

«Shh, non mi interessa» mi zittì, portandomi un indice davanti alle labbra. Persi un battito, e mi distanziai un poco. «Comunque in realtà non la vedo per forza come una caratteristica negativa. Anzi, io penso che sia intrigante. Secondo me è più una cosa come... non lo so, che mostri agli altri, alla maggioranza delle persone, la parte di te che preferisci, ma solo in pochi poi ti conoscono per come sei davvero.»

Rimasi stupita nel sentire quelle parole, perché in effetti era ciò che accadeva il più delle volte. Tuttavia rimasi della mia idea: «Ciò non ha a che vedere con il segno zodiacale sotto il quale sono nata. Prima hai detto che pensavi fossi nata il 10 novembre, che segno è, Bilancia? No, forse Scorpione... Sì, insomma, è uguale. E dubito che avresti potuto dire la stessa cosa in tal caso. Perciò non vale assolutamente niente» chiarii il mio punto di vista.

Filippo sollevò le mani in segno di resa, temendo forse che iniziassi a scaldarmi e riprendessimo a litigare come sempre. «D'accordo, d'accordo, come credi tu. Però fidati, non sono tutte stronzate. Qualcosa ci azzecca per davvero» si difese.

«Per forza, perché siamo esseri umani e abbiamo cose che ci accomunano. Tu che segno sei?»

«Sagittario, ovviamente» rispose, come se fosse un onore riservato a pochi. Io che ne sapevo poco e niente di quel segno come anche di tutti gli altri non potevo di certo sapere il motivo di tutto quel vanto. «Solare, ottimista, amante della libertà, un po' con la testa fra le nuvole a volte, ma molto passionale» spiegò.

Finsi di esserne rimasta impressionata, anche se in realtà non me ne importava niente.

«E poi tu come le sai tutte queste cose? Che c'è, ti leggi l'oroscopo tutti i giorni?» domandai e lui mi fissò come se avessi detto una follia: «Scherzi? L'oroscopo è tutt'altra cosa, a quello non credo neanch'io! Comunque ogni tanto, quando mi annoio, sfoglio delle riviste che si legge mia madre, sai quelle dove ci sono fotoromanzi e robe simili? Ecco, ogni tanto ci sono delle postille che parlano di queste cose e quindi mi informo.»

«Ah be', le tue sì che sono letture di qualità» commentai sarcastica, e in quel modo introducemmo un nuovo discorso, dato che io cominciai a parlare della mia passione per la lettura.

Era da diverso tempo che non avevo nessun nuovo libro sottogamba, e in più con l'inizio della scuola non ero sicura che ne avrei trovato il tempo, ma mi mancava quella sensazione di perdermi completamente in un romanzo che, se era in grado di coinvolgermi, divoravo anche in meno di tre giorni.
La stessa cosa valeva per la danza, mi mancava tantissimo praticarla.

Dopodiché Filippo mi prese in giro per la facilità con cui mi ero ubriacata quel pomeriggio, canzonandomi perché alla fine ero quella che si era ridotta peggio sebbene fossi quella che aveva bevuto meno di tutti, lui escluso, che aveva toccato giusto due gocce. «Ti sembrerà strano, ma sai che non mi sono mai ubriacato per davvero? Sì, al massimo ero un poco fuori di me, un po' brillo, ma mai abbastanza da non rendermi conto di ciò che facevo o dicevo» disse e, dal modo in cui parlò, con tono serio ma voce tremolante, mi resi conto di una cosa, che colsi senza che lui la spiegasse a parole.

Era suo padre il motivo per cui non si lasciava andare. Probabilmente aveva paura che, qualora avesse perso il controllo, avrebbe reagito come il padre. Era una cosa stupida, ma era comunque comprensibile il suo timore.

«Nemmeno io, infatti poi mi scende piuttosto velocemente, ci metto poco a tornare in me. Ma forse è meglio così. In realtà non so cosa ci troviamo di tanto divertente nel rovinarci il fegato in questo modo» feci, riflettendo meglio sui rischi che l'assunzione di alcolici poteva apportare al corpo umano, specie a noi che eravamo ancora dei ragazzi. «Né i polmoni, in realtà» aggiunsi, pensando al mio brutto vizio.

Cioè, a dire il vero non ne ero proprio dipendente, ma ogni volta che ero in compagnia e qualcuno mi offriva una sigaretta, non riuscivo mai a dire di no, gli spiegai.

«Io cerco di evitare il più possibile, dato che soffro d'asma, ma...»

«Sei completamente pazzo?» lo interruppi, dopo quella rivelazione. «Non dovresti assolutamente fumare!» lo rimproverai.

«Rilassati, è asma lieve e ci convivo dalla nascita, non è nulla di esagerato.»

«Lo dici tu. Continuando a fumare la peggiori soltanto» lo rimbeccai.

Filippo emise un piccolo sorriso che non seppi interpretare. Era da una parte compiaciuto e dall'altra...

«Oh, che carina, adoro quando ti preoccupi per me» fece, accarezzandomi la testa come fossi un cagnolino.

Presuntuoso.

Lo fissai di sottecchi e rimasi in silenzio per evitare di fare una scenata coi fiocchi come a mio solito. Ci riuscii, ma con immensa fatica.

«Facciamo un patto» disse poi, attirando la mia attenzione. «Io ora ti do il mio pacchetto senza comprarne mai più nessun altro e tu, una volta finito, smetterai per sempre di fumare, proprio come me. Ah, e neanche scroccare gli ultimi due tiri a Vittorio vale.» Tese la mano verso di me affinché sigillassimo il patto, mentre l'altra la infilò in tasca per offrirmi il suo pacchetto di sigarette, pieno a metà.

Sapevo che non ce l'avrei mai fatta e che non ce l'avrebbe fatta neanche lui, tuttavia non mi andava di dargli soddisfazione, così gli strinsi la mano e con l'altra presi il pacco di sigarette.

«Comunque non potremo mai sapere se stiamo rispettando l'accordo oppure no.»

«Io mi fiderò semplicemente della tua parola, e tu dovrai fidarti della mia» rispose, scrollando le spalle e facendomi un occhiolino.

Infine, finimmo col parlare di Vittorio. Gli dissi che era stato nobile da parte sua intervenire in difesa dell'amico. Lui mi rispose semplicemente che chiunque tenesse davvero a lui l'avrebbe fatto, visto com'era in difficoltà. Poi dissi che speravo che avesse realmente aperto gli occhi su Monica e che quella sua cotta fosse svanita nel nulla così come era nata, e Filippo mi diede ragione.

Scherzammo un po' su quanto fosse ridicolo e imbarazzante il suo comportamento dinnanzi a lei, ma concordammo che faceva anche tenerezza alle volte.

«È un ragazzo d'oro» dissi. «È gentile, educato, altruista e premuroso, ha sempre una buona parola per tutti e non salta mai a conclusioni affrettate, a differenza mia... Ho persino imparato ad apprezzare i suoi monologhi ogni volta che mi parla di un nuovo film che è uscito al cinema. Non è per niente noioso, anzi, è una delle persone più straordinarie che conosca.»

Mi emozionai un po' nel dire quelle cose sul suo conto, tanto che mi tremò la voce alla fine, ma solo perché ancora non mi capacitavo di quanto fossi stata fortunata ad averlo incontrato.

«Ma guai a te se gli racconti queste cose» ammonii Filippo, e lui mimò il gesto di chiudersi le labbra come fossero una zip.

Poi mi sorse spontanea una domanda, ed era il caso che gliela ponessi in quel momento oppure non ne avrei più avuto il coraggio. «Hai detto a qualcuno di... di quello che è successo venerdì?» domandai, sentendo il mio cuore prendere a battere sempre più forte.

Mi fissò per qualche istante, prima di rispondere: «No. Non mi piace andare in giro a raccontare gli affari miei».

Inarcai le sopracciglia. «Ma finiscila, se con me non fai che vantarti continuamente delle tue conquiste!»

Sgranò gli occhi e poi li alzò al cielo. «Cioè, tu mi fai una domanda e poi credi comunque a quello di cui sei già convinta? Allora tieniti i tuoi dubbi la prossima volta!» strepitò, visibilmente infastidito.

«Allora perché oggi Monica e Erica continuavano a farmi battutine allusive?»

«E io che ne so? Ci hanno visti insieme e l'avranno pensato, ma io non ho confermato né smentito niente» ribadì, anche se non ero ancora sicura di credergli. «Non l'ho detto neanche a Vittorio, a differenza tua che sei andata a spifferare tutto. E non provare a negarlo perché so che l'hai fatto» aggiunse, ma non sembrava turbato per il fatto che gliel'avessi detto, semmai sembrava divertito, anche se non ne capivo il motivo.

«E comunque ripeto, non mi pare proprio che tu sia un tipo riservato, dato che...»

«Ancora? Guarda che quando dico quelle cose è solo per renderti gelosa» mi interruppe con un sorriso.

«E perché mai? Non me ne frega niente di chi baci» asserii, incrociando le braccia al petto e spostando lo sguardo altrove.

«Sì, si vede» rispose e, sebbene non lo stessi guardando in faccia, capii che stava ancora sorridendo mentre aveva pronunciato quella frase, il che significava solo una cosa: si stava facendo beffe di me.

«Mi stai dando ragione o per caso mi stai prendendo per i fondelli?» chiesi fulminandolo con lo sguardo.

«Ti lascio il beneficio del dubbio» rispose scrollando le spalle, e mi feci andare bene quella risposta solo per evitare che nascesse un'altra discussione.

Calò il silenzio. A quel punto pensai che forse era il momento giusto per chiedere a Filippo della madre di Vittorio. Ero davvero troppo curiosa, ma non avevo idea di come aprire il discorso con il diretto interessato. Se non me l'aveva mai citata neanche una volta, probabilmente un motivo c'era. E io volevo sapere.

«Posso chiederti un'altra cosa?» domandai a Filippo, il quale annuì e mi esortò a parlare. «Ho notato che in casa da noi non ci sia neanche una...»

Non terminai nemmeno la frase. C'era stata una parola in particolare nella frase che non avevo portato a compimento, che aveva attivato qualcosa nel mio cervello, quasi come una sorta di allarme.

"Casa".

Avvertii un brivido lungo la schiena e poi diedi uno sguardo al cielo. Era notte fonda.

Scattai in piedi. «Oddio, che ore saranno? Devo tornare subito a casa! Mia madre mi darà per dispersa. Anzi, preferirei esserlo, piuttosto che subire la sua ira funesta! Forza, muoviamoci, devo tornare a casa immediatamente!» urlai, andando nel panico.

Filippo cercò di calmarmi pur restando seduto, ma io non lo stavo neanche ad ascoltare e continuavo a farneticare, così a un certo punto si alzò in piedi e mi afferrò per le spalle per farmi stare immobile. «Stai calma. Adesso ti porto a casa, saremo lì neanche in cinque minuti, perciò non preoccuparti. E poi non penso che sia così tanto tardi.»

Le sue parole mi servirono da calmante. Ripresi a respirare a un ritmo regolare e così potemmo avviarci verso casa.

Come aveva detto Filippo, in meno di cinque minuti vidi davanti a me il sottopassaggio della metro e mi tranquillizzai. Filippo iniziò a scendere un paio di scalini e poi si voltò verso di me.

«Grazie mille, davvero!» gli urlai da sotto il portone di casa, mentre mi indaffaravo a tirar fuori le chiavi.

«Di nulla, gemellina» rispose con un sorriso, prima di scendere le scale.

Roteai gli occhi.

Un altro soprannome.

Poi però mi scappò un piccolo sorriso. Anche se stavo per essere ammazzata a mani nude da mia madre, non mi era dispiaciuto trattenermi tutto quel tempo con Filippo.

Bleah, non posso averlo pensato davvero, dissi fra me e me.

*

«Le nove e tre quarti, Marina, le nove e tre quarti! Ti rendi conto? Cosa ti dice il cervello!» iniziò la paternale, non appena misi appena un piede dentro casa, mentre l'altro era ancora in corridoio.

Era lì ad aspettarmi, con le mani sui fianchi e la faccia da pazza isterica. Non appena mi vide avanzò nella mia direzione.

«Mamma, posso almeno spie...»

«Hai l'alito che sa di vino. Dove sei andata, eh? Lo posso sapere? Sei andata a ubriacarti con non si sa chi e hai appena quindici anni!» esclamò, tirandomi per un braccio per farmi entrare dentro casa.

Fortuna che avevo nascosto il pacchetto di sigarette nel portaombrelli fuori casa. Se avesse visto anche quelle sarebbe davvero stata la fine.

«Ero con gli amici di Vittorio, come ti avevo detto, e...»

«Dove, nel parco a neanche dieci minuti da qui? Vittorio è tornato da almeno due ore, perché tu ci hai messo così tanto? E perché non siete tornati insieme?»

Solo a quel punto, dietro la figura di mia madre, scorsi anche quella lunga e slanciata di Vittorio e quella ugualmente alta ma più robusta di Claudio, e in più scorsi mia sorella rintanata in un angolino, curiosa di assistere a quella discussione di cui, per una volta, non era la protagonista.

Claudio a quel punto intervenne e puntò il dito contro il figlio: «L'hai fatta tornare da sola con questo buio?» lo accusò, e sembrava furente.

«No, certo che no, è tornata con...» Vittorio si interruppe non appena incrociò il mio sguardo, interpretando subito il mio scuotere la testa come un: «Non accennare a Filippo». Riordinò le idee e poi riprese la parola. «È tornata con le ragazze, mi ha detto che voleva stare ancora un po' con loro e io mi sono semplicemente fidato, non so cosa abbiano fatto dopo» disse, tirandosene fuori e dandomi uno spunto per giustificarmi.

O almeno, credeva di essersene tirato fuori, ma a quanto pare mia madre ne aveva un po' anche per lui. «E tu? Tu porti mia figlia a bere al parco? È questo che fate per passare il tempo?»

«Mamma, guarda che Vittorio non c'entra niente...» cominciai a parlare, ma ancora una volta non mi fu lasciata la possibilità di finire. Stavolta però fu Claudio a interrompermi: «Non difenderlo, Nina, non sono nato ieri, so bene cosa fanno i ragazzi di oggi. Che non succeda mai più, intesi? E scordati feste e festini d'ora in poi, uscire la sera per te sarà fuori discussione per un po'» disse, tornando a rivolgersi al figlio.

La sua voce si sovrapponeva alla mia, che nel frattempo raccontavo la mia versione a mia madre, dicendole che Erica e Monica mi avevano chiesto se mi andava un gelato e io avevo detto di sì, ma la gelateria dove volevano andare era lontana e loro non avevano il biglietto per prendere i mezzi pubblici, perciò ci eravamo andate a piedi e per tale motivo ci avevamo impiegato tanto tempo. «... e poi per non lasciarmi tornare da sola, mi hanno riaccompagnata qui. Non ho chiamato perché non avevo una sola lira per le cabine telefoniche, altrimenti ti giuro che l'avrei fatto» conclusi, sperando che se la bevesse. Nel mentre che esponevo il racconto, avevo condito la bugia con dei dettagli pressoché inutili, come il fatto che ci eravamo dovute fermare più volte perché a Monica si continuavano a slacciare le scarpe e anche che c'erano dei gusti di gelato particolari e mai visti, il tutto per poter rendere la menzogna più credibile.

Nel frattempo notai Benedetta mentre mi fissava con gli occhi ridotti a due fessure, consapevole del fatto che non la stessi raccontando giusta, e alle volte la beccavo mentre tentava di soffocare una risata. Per lei quello era un bello spettacolo a cui assistere.

Io invece lo trovavo tutt'altro che divertente. Mi sentivo tremendamente in colpa, ma al tempo stesso la reazione di mia madre mi pareva spropositata, in fondo ero tornata a casa sana e salva, e poi non ero più una bambina: avrebbe dovuto aspettarsi, prima o poi, che accadesse una cosa del genere, come se poi lei non avesse mai fatto niente di simile o di peggio.

«Senti, non voglio più ascoltarti, Marina. Sono profondamente delusa...»

«... non voglio più sentire queste fandonie belle e buone che mi rifili da anni, ormai sono in grado di capire quando menti.»

Le voci di Claudio e mia mamma si mescolavano perfettamente, praticamente dicevano le stesse cose, perciò era indifferente che dessi ascolto all'una o all'altro.

«E scordati di uscire al pomeriggio e alla sera, la tua vita d'ora in avanti sarà casa-scuola e scuola-casa, finché non deciderò altrimenti. E già che ci sei vedi di dare anche una mano in casa, dato che ogni volta devo pregarti per farti fare qualsiasi cosa! Non lavi mai i piatti a pranzo e la sera me li ritrovo sempre incrostati dentro al lavello; non porti mai fuori la spazzatura; se non ci fosse Vittorio quel povero gatto morirebbe di fame perché non pensi mai a dargli da mangiare, né gli pulisci mai la lettiera; la tua camera è sempre uno schifo, per non parlare dei tuoi cassetti, butti sempre tutto dentro alla rinfusa e poi ti ritrovi sempre con le cose stropicciate... tanto ci sono io che lavo e che stiro, giusto? Ogni cosa che ti chiedo di fare è sempre "dopo, dopo, dopo" e poi finisce che devo fare tutto io! Ma ti avverto, adesso è finita la pacchia. È chiaro?»

Rimasi in silenzio e le piantai il muso. Non volevo più starla a sentire, volevo solo andarmene in camera mia e non vederla più.

«È chiaro?» ripeté e io a quel punto persi la calma e sbottai: «Sì, è chiaro, è chiaro! Speriamo che la prossima volta mi capiti qualcosa di brutto, così avrai un valido motivo per starmi così addosso!» urlai, prima di dirigermi a tutta velocità in stanza e sbattere la porta per chiuderla.

Mi stava punendo così duramente e per cosa? In fondo mi stavo solo divertendo, senza far male a nessuno e senza esagerare. Capivo la sua preoccupazione, ma ormai mi conosceva e avrebbe dovuto imparare a fidarsi, sapeva che ero una ragazza responsabile.

Quella sera desiderai con tutto il cuore di andarmene da quella casa, di trovare mio padre e andare a vivere con lui. Sempre meglio che continuare a stare con mia madre.

 

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Capitolo 26
*** Ventiquattro. ***


Ventiquattro.

Mi svegliai l'indomani mattina con un enorme vuoto allo stomaco, dato che era praticamente da ora di pranzo del giorno prima che non mangiavo qualcosa. Così mi alzai, un po' meno energica del solito, per andare in cucina a fare colazione. Non appena uscii dalla mia stanza, notai la porta della camera di Vittorio aperta, segnale che si era già svegliato, il che era strano, dal momento che non era solito svegliarsi prima di me.

Entrai dentro alla stanza per assicurarmene e con stupore constatai che le mie considerazioni non erano errate: il letto era già stato rifatto e la sua cartella di scuola mancava.

Possibile che fosse già uscito per andare a scuola?

Un certo languorino allo stomaco mi distolse dai miei pensieri e mi ricordò che stavo morendo di fame, così mi diressi in cucina quasi correndo. Lì c'era Claudio, intento a leggere un quotidiano nell'attesa che il caffè uscisse dalla moka.

Mentre attendevo anch'io, mi posizionai di fronte a Claudio per dare una lettura veloce al quotidiano che teneva fra le mani. In prima pagina si parlava dello sviluppo delle indagini in merito alla caccia del "mostro di Firenze", che aveva colpito una decina di giorni prima, il 9 settembre, assassinando due ragazzi tedeschi di ventiquattro anni che si trovavano all'interno di un furgone Volkswagen.

Di solito l'obiettivo dell'omicida seriale erano le giovani coppie composte da un ragazzo e una ragazza; il duplice omicidio di dieci giorni prima, invece, distaccandosi dalla prassi, coinvolgeva due poveri ragazzi di sesso maschile, il che aveva creato scalpore poiché si ipotizzava fosse stato commesso un errore dallo stesso "mostro", il quale non aveva proceduto nemmeno con le solite escissioni e mutilazioni.

Stando alle notizie di quella mattina, era emerso un dettaglio rilevante sull'identikit del mostro di Firenze: a giudicare dall'altezza a cui aveva sparato, si suppose che l'omicida avesse un altezza di un metro e ottanta centimetri.

«Ehilà! Buongiorno, Nina.»

La voce di Claudio mi riscosse da quell'attenta lettura. Dando un'occhiata più attenta a dove avevo tenuto fisso lo sguardo fino a quel momento, Claudio decise di chiudere e appoggiarlo sul tavolo, nascondendo la parte che ero intenta a leggere e mostrando solo la parte che riportava le notizie sportive. Probabilmente non voleva che mi angosciassi pensando a quelle cose.

Da una parte era generoso da parte sua, e apprezzai il fatto che cercasse di salvaguardarmi in quel modo; dall'altra, non poteva pensare davvero di richiudermi in una bolla e di impedirmi di conoscere ciò che accadeva nel mondo reale: era giusto che sapessi.

Comunque sorrisi e lo salutai a mia volta. Poi mi alzai di scatto per spegnere il fornello e prendere il caffè. Lo versai in due tazzine, una per lui e una per me. Gli porsi la sua e appoggiai la mia sul tavolo, prima di prendere del burro dal frigo.

Mentre imburravo la mia fetta biscottata, attendendo che il caffè si raffreddasse un poco così da non dovermi bruciare la lingua nel tentativo di berlo, pensai di approfittare della presenza di Claudio per chiedergli che fine avesse fatto suo figlio. «Vittorio è già uscito?» chiesi.

«Presumo di sì» rispose, scrollando le spalle. Eppure aveva usato un tono strano, sembrava quasi non fosse pronto a rispondere alla domanda che gli avevo appena posto e che si fosse trovato in difficoltà nel farlo.

«Di solito esce sempre dopo di me, anche perché si sveglia più tardi quel pigrone» dissi con un piccolo sorriso.

«Non saprei, magari oggi aveva fretta» mi liquidò, prima di mandare giù il suo caffè, mettersi il giornale sottobraccio e uscire dalla cucina.

Era tutto molto strano.

*

Non appena vidi Irene, facendomi strada fra le diverse persone che erano in piedi sul tram quella mattina, mi illuminai in viso. «Ah, che bello vederti! Mi dispiace un sacco di essermene andata via dalla festa senza neanche salutare, ma Vittorio se l'era presa per una sciocchezza e mi ha trascinata via di peso» le dissi come prima cosa, porgendole le mie più sincere scuse. Avrei dovuto passare con lei e le ragazze quel venerdì sera, invece nulla era andato secondo i piani.

«Non preoccuparti, è tutto a posto» replicò con un sorriso che mi parve sincero.

«Te come stai?» le domandai e lei scrollò le spalle: «Non c'è male».

Poi decisi di rivelarle la buona notizia che mi era giunta il giorno precedente. Mi schiarii la gola con fare teatrale e le feci la mia confessione, sicura che ne sarebbe stata contenta: «Comunque uno degli amici di Vittorio mi ha chiesto di te e delle altre, ha detto che secondo lui sarebbe carino unire il loro e il nostro gruppo e uscire tutti insieme».

Era stato Giovanni a propormelo. Le sue intenzioni non erano, tuttavia, delle più nobili, come si potrebbe pensare: semplicemente erano a corto di ragazze in quel gruppo e volevano conoscerne di nuove.
Comunque non era male come idea.

Irene si esibì in un sorriso a trentadue denti e in una serie di squittii, cingendomi nel mentre in un abbraccio fino quasi a soffocarmi. «Oh mio Dio! Non potevi darmi notizia migliore, è fantastico! Finalmente conoscerò Vittorio per davvero, dato che alla festa alla fine non c'è stato modo... e poi anche io e te ci vedremo più spesso, dato che non dovrai continuamente dividerti fra il loro gruppo e il nostro. Sono troppo felice!» esclamò, lasciandomi anche un bacio su entrambe le guance e facendomi storcere il naso per via di quell'eccessiva affettuosità.

«Già, solo che temo dovrai aspettare un po' per questo...» aggiunsi separandomi da lei e iniziando a giocare nervosamente con le mie mani. «Sono in castigo» spiegai, andando incontro alla sua confusione.

Era umiliante. Neanche fossi una bambina di dieci anni che fa i capricci, continuavo a ripetermi.

Capivo l'apprensione di mia madre, e aveva tutto il diritto di sgridarmi, ma se io ero in grado di capire lei, perché invece lei non era in grado mettersi nei miei panni?

In fondo potevano capitare mille cose che impedivano di telefonare, e non per forza dovevano essere cose brutte. Perché sapeva pensare sempre e solo al peggio? Mi stavo solo divertendo, forse per la prima vera volta da quando mi ero trasferita. Stavo bene. Non stavo pensando a tutto il resto, mi stavo solo vivendo il momento. Come potevo meritare una punizione così severa per questo?

Trascorsi il resto del viaggio verso scuola a raccontare a Irene di quel pomeriggio e della litigata con mia madre. Lei riuscì a risollevarmi un po' il morale, raccontandomi che per lei le cose non erano tanto diverse. Anche i suoi genitori erano molto apprensivi e severi, ma la differenza rispetto alla mia situazione era che mentre lei e sua sorella avevano mille costrizioni e proibizioni, suo fratello maggiore era al contrario libero come un fringuello e, persino anche quando aveva meno dell'età che aveva Irene al momento, poteva uscire quando voleva e tornare quando voleva.

Se non altro il trattamento riservato da mia madre a me e Benedetta era il medesimo, se non che lei, essendo più grande di me, aveva meno pressioni addosso.

«A volte mi pare ancora di vivere nel Medioevo, preferirei essere nata maschio» si lamentò Irene e io concordai con lei, nel mentre che ci apprestavamo a dirigerci verso la nostra aula.

«Già, ma sai cosa sarebbe ancora meglio? Riuscire a fare qualcosa riservato solo a loro e farlo anche meglio» dissi poi con convinzione.

«Tipo? Il muratore?» chiese storcendo il naso e io scossi la testa ridendo: «No, non quello. Non lo so, ecco... ma qualcosa che non sia solo cucinare, cucire, accudire i figli» dissi.

«Ah, io non penso neanche di volerne avere. Mi danno ai nervi i bambini, sarebbe meglio se la gente ne facesse sempre meno. Sono letteralmente ovunque e sono così fastidiosi, frignano di continuo» ridacchiò, mentre io riflettei seriamente sulle sue parole.

Fino a quel momento pensavo di essere l'unica persona al mondo a non avvertire quel bisogno insistente di farmi una famiglia.
Sì, l'avrei voluta un giorno, ma non era l'unica cosa che contava per me.

«Sai invece quante ragazze della nostra età non aspettano altro? Per fortuna io non corro nemmeno il rischio al momento, già tanto se ho dato il mio primo bacio!» esclamai, prima di portarmi d'istinto una mano alla bocca e maledirmi da sola per essermi fatta sfuggire quel mio piccolo segreto.

Non che ci fosse qualcosa di male nel dirlo a Irene, solo che una parte di me avrebbe preferito tenere quella cosa fra me e il diretto interessato. Non volevo che si spargesse troppo la voce.
Anche se quel bacio non mi era per niente piaciuto, me lo sarei ricordato per sempre ed era un ricordo del quale ero in qualche senso gelosa: se l'avessero saputo tutti, ed erano già in due di troppo a saperlo, avevo come l'impressione che quel momento non sarebbe più stato solo fra me e Filippo, ma come se anche Vittorio e Irene fossero stati lì presenti e fossero stati spettatori.

Probabilmente era una cosa stupida, e comunque era ormai troppo tardi per impedirlo.

Irene, presa com'era a ridere della mia battuta, non si rese subito conto di ciò che le avevo confessato, ma non appena tornò seria, sgranò gli occhi e si avvicinò al mio viso per parlarmi a voce più bassa: «Aspetta, che cosa? E che aspettavi a dirmelo? Avanti, dimmi, com'è stato?» mi incalzò.

«Disgustoso» dissi con sincerità, senza scendere nei dettagli, sperando in cuor mio che le bastasse. Irene appoggiò il suo zaino vicino alla sedia e poi si sedette, mentre io mi appoggiai con la parte bassa della schiena al suo banco.

Comunque sia ero felice. Nonostante i miei ripensamenti iniziali, non me ne pentivo. Mi ero tolta quel peso ed ero a posto così.

«Dai, dimmi qualcos'altro! È successo alla festa, vero? È lì che l'hai baciato? Devi assolutamente dirmi chi è!»

Mi morsi la lingua. Perché diavolo non sapevo stare zitta? Era normale la curiosità di Irene, anch'io avrei insistito come lei... solo che non mi piaceva poi così tanto parlare di me, specie di una cosa così delicata. Tentai in ogni modo di farla desistere, ma alla fine dovetti arrendermi e vuotare il sacco. «F-Filippo, l'amico di Vittorio» confessai, continuando a torturarmi le mani per il nervosismo.

«Filippo Cattaneo?»

Quella domanda colma di stupore, inaspettatamente, non arrivò da Irene, ma mi fu posta da qualcuno alle mie spalle. Mi voltai e vidi Angelica e le altre con la bocca letteralmente spalancata per la sorpresa.

Ancora parecchio imbarazzata, soprattutto per via di quel loro sguardo inquisitorio, annuii e basta, in risposta alla sua domanda.

«E brava! Hai capito la nostra Nina?» mi diede un colpo sulla schiena Sabrina, facendomi sobbalzare.

«Lui è davvero carino» confermò Eva.

Non dissi nulla, scrollai le spalle e basta. Non era per quello che avevo baciato Filippo: né per vantarmi né perché lo trovassi carino.

«Dai, dicci com'è stato» fece Angelica, prendendomi entrambe le mani. «Dagli un voto.»

Mi trattenni dall'alzare gli occhi verso il soffitto. Ancora quello stupido gioco. Cercai l'appoggio di Irene con lo sguardo, la quale capì subito e intervenne per aiutarmi: «Ha detto che non le è piaciuto molto» rispose al posto mio.

«Perdonami?! No, Nina, devi essere fuori di testa per dire una cosa del genere!» esclamò Angelica, lasciando la presa sulle mie mani e toccandomi una fronte con la mano come a vedere se avessi la febbre e stessi per tale motivo delirando. «Insomma, è pur sempre Filippo Cattaneo: non può non esserti piaciuto. Abbiamo sentito certe storie su di lui...» lasciò la frase in sospeso, suscitando la mia curiosità.

«Certe storie?» ripetei, e Angelica, Eva e Sabrina si scambiarono uno sguardo complice.

E meno male che non gli piaceva raccontare i fatti suoi in giro. Riservato un cavolo.

«Be', sì, ecco... dicono che lui abbia molta esperienza con le ragazze» spiegò Eva, sottintendendo qualcosa che però io non capii.

«Non così tanta, a quanto pare» mi permisi di dire, anche se dentro di me mi sentivo io quella in difetto. Forse se non mi era piaciuto era davvero solo colpa mia. Magari Filippo mi aveva anche confrontata con tutte quelle che c'erano state prima di me e si era vergognato per me per quanto io fossi inesperta in confronto a lui.

«No, Nina, ha davvero tanta esperienza» ribatté Eva, usando ancora quel tono allusivo, ma io non capivo.

«Ci sono delle voci su di lui... noi non conoscendolo direttamente non sappiamo se siano vere, ma dicono che abbia già fatto l'amore» disse finalmente Angelica, chiarendo i miei dubbi.

Quella con la bocca spalancata in quel momento ero io. Non era vero, di certo non era così. Sicuramente aveva baciato tante ragazze, sì, ma addirittura quello? E poi non era mai stato innamorato di nessuna, a meno che non mi avesse mentito, perciò non poteva essere.

Fu la campanella che segnava l'inizio delle lezioni a distogliermi da quei pensieri. Con rapidità e in modo quasi meccanico, io e i miei compagni di classe andammo a sistemarci al nostro posto, nell'attesa che arrivasse il professore in classe.

Fu allora, quando il professore di greco entrò in aula, che mi crollò il mondo addosso per l'ennesima volta in quei giorni.

Ero fregata.

*

Per tutto il tempo non attesi altro che l'ora di tornare a casa.
Era una giornata da dimenticare, non me ne andava bene una in quell'ultimo periodo.

Ovviamente ero stata la prima a essere stata chiamata alla cattedra per essere interrogata. La sera prima non avevo ripassato, la mattina nemmeno ed essendo stata chiamata subito non avevo neanche avuto il tempo di dare una veloce sfogliata al libro. In più, fra l'ansia e altri mille problemi che avevo in testa in quel momento, non potei far altro che fare una pessima figura. Ero così agitata che feci praticamente scena muta.

Tre. Non avevo mai preso un tre in tutta la mia vita scolastica e non avevo idea di come avrei rimediato.

Trattenni per tutto il giorno le lacrime che minacciavano di uscire dai miei occhi da un momento all'altro. In fondo era inutile piangere, era colpa mia che non avevo fatto il mio dovere e non mi ero preparata a sufficienza. Non avrei dovuto lasciarmi convincere da Vittorio a uscire con lui e i suoi amici il giorno prima, in fondo lo sapevo che non ero ancora pronta per quell'interrogazione.

Certo, se mi fossi fatta prendere meno dal panico forse avrei preso un cinque e non un tre. Speravo solo di riuscire a recuperare quel voto prima che mia madre venisse a saperlo.

Fortunatamente non aveva mai richiesto un colloquio a nessuno dei miei professori, sia perché li facevano sempre in orari in cui lavorava, sia perché non ce n'era mai stato un grande bisogno: non aveva mai ritenuto di dover chiedere un permesso al lavoro per sentirsi riferire dell'andamento scolastico mio e di mia sorella. Tuttavia, temevo che se avessi continuato ad andare male in quella materia, l'avrebbe convocata direttamente il mio professore.

Mia madre mi ucciderà, continuavo a ripetermi, mi ucciderà e farebbe anche bene, visto che mi sto comportando malissimo, con lei a casa e anche a scuola.

Tornai a casa con l'umore a terra, tanto che Irene evitò quasi del tutto di parlarmi, temendo che le avrei potuto rispondere male.

Mi diressi rapida in camera mia e pensai per un attimo che ci fosse stato un terremoto del quale non mi ero resa conto, presa com'ero a demolirmi da sola coi miei pensieri: la nostra cameretta era totalmente coperta in ogni parte e in ogni angolo da vestiti, maglie, calzini, pantaloni, ma anche libri, quaderni, pennarelli, qualsiasi cosa.

Il terremoto non era altro che mia sorella, che sembrava come impazzita. Continuava a tirare fuori cose dai suoi armadi e lanciarle a terra, nel mentre che continuava a piangere disperata.

Provai ad avvicinarmi a lei con cautela, ma il risultato fu che mi ritrovai un paio di jeans in faccia. «Ahia, cazzo!» mi lamentai, dato che mi aveva beccata in pieno in viso, facendo sì che il bottone mi colpisse una guancia. «Benni, ti vuoi calmare? Che succede?» chiesi cercando di mantenere il controllo nella mia voce per non farla innervosire ancora di più, una volta dopo essermi tolta il pantalone dalla faccia e averlo appoggiato sul suo letto.

Non l'avevo mai vista così turbata, ero seriamente preoccupata per lei.

Ma lei neanche mi ascoltava, continuava a lanciare cose a terra e a farfugliare cose sottovoce.

Provai ad avvicinarmi ancora a lei, schivando le cose che continuava a lanciare senza badare a me. Una volta dopo averla raggiunta, con non poca fatica, la afferrai per un braccio e cercai di farla restare ferma. Tentò di divincolarsi con qualche calcio e qualche pugno, ma nello stato in cui era probabilmente si stava facendo più male lei di quanto ne facesse a me.
Finalmente riuscii a stringerla in un abbraccio, nel mentre che lei si abbandonava a terra e io mi abbassavo con lei per restarle vicino.

Le bloccai le braccia con le mie e aspettai che rinunciasse a liberarsi dalla mia presa. Dopo qualche minuto, per fortuna, ci diede un taglio. Si spostò i capelli spettinati dalla faccia, tirò su col naso e provò ad asciugarsi le lacrime, ma era praticamente impossibile perché continuavano a sgorgare dai suoi occhi e a sporcarle il viso di nero, dal momento che era truccata.

Attesi pazientemente in silenzio che fosse pronta a parlarmi ma, non appena lo fece, mi lasciò così spiazzata che una parte di me desiderò che non l'avesse mai fatto: «Aspetto un bambino da Maurizio».

 

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Capitolo 27
*** Venticinque. ***


Venticinque.

«Sono passati quarantacinque giorni dal mio ultimo ciclo, ed è sempre stato super regolare, non mi ha mai ritardato per più di tre giorni. E poi guarda, sono tutta gonfia, secondo me ho preso almeno tre chili» spiegò Benedetta, una volta essersi calmata e aver smesso di delirare. Si sollevò la maglia per mostrarmi il ventre ed effettivamente non aveva più la pancia piatta che molte delle sue coetanee le invidiavano. Era sempre stata abbastanza fissata con il cibo e le diete, stava molto attenta a mangiare il giusto e mangiare sano, perciò quell'improvviso gonfiore pareva fuori luogo su di lei.

Eppure ciò non combaciava con quello che si ostinava ad affermare, vale a dire che lei e Maurizio non avevano fatto l'amore, ma io non ci credevo e, anzi, mi sentivo quasi tradita da lei, perché pensavo che si fidasse di me al punto da dirmi la verità e invece mi aveva mentito deliberatamente tempo prima e continuava a farlo tutt'ora. Ma in quel momento non era il caso di infierire, perciò lo tenni per me.

«Benni, capisci che non è possibile? Qualcosa dev'essere successo, ed è inutile che continui a negarlo. Lo sai che non ti giudicherò, a me puoi parlare di tutto» cercai di convincerla, dandole una carezza sul braccio.

Si prese qualche secondo per riflettere sulle mie parole, prima di parlare, sebbene ancora un po' titubante: «D'accordo... la verità è che... che quando sono andata da lui a Torino abbiamo fatto... abbiamo fatto i preliminari, e basta. Poi io non me la sono sentita di continuare e ci siamo fermati» raccontò, e io aggrottai le sopracciglia e mi grattai il capo, un po' disorientata.

«Preliminari?» ripetei, senza avere idea di che cosa significasse.

«Sì, tipo sesso orale, e...»

«Allora avete fatto sesso» la interruppi. L'aveva appena ammesso, perciò non mi era chiaro che cosa intendesse con "preliminari e basta".

«Ma no, Nina, si vede che non capisci niente! Sesso orale non è davvero sesso, insomma, è come... be', inutile che stia qui a spiegartelo» fece spazientita, prima di alzarsi dal suo letto e dirigersi verso il comodino per cercare qualcosa.

Ero già pronta a ribattere, sia perché volevo sapere a che si riferisse, sia per il tono scontroso con cui mi aveva risposto, ma non ne ebbi il tempo poiché tornò a sedersi davanti a me sul letto e mi piazzò davanti tre particolari termometri. Due di essi avevano nel riquadro bianco due strisce rosse, mentre l'altro ne aveva solo una. «Che cosa sono?» chiesi, sempre più confusa.

«Test di gravidanza. Ne ho fatti due qualche settimane fa, uno è risultato positivo e l'altro negativo. Ne ho rifatto un altro qualche giorno fa ed è risultato anch'esso positivo» rispose, prima di portarsi le mani alla testa, disperata.

Rimasi in silenzio, ancora sconvolta per ciò che mi si stava presentando davanti agli occhi. Era surreale. Mia sorella era incinta. E a quanto si ostinava ad affermare con insistenza, senza aver fatto l'amore con Maurizio? Com'era possibile?

Se era per caso stata scelta come colei che avrebbe portato in grembo il nuovo Messia, forse il Signore aveva fatto qualche errore di calcolo nel sceglierla, visto che considerando chi era la madre, avrebbe assomigliato più al figlio di Satana.

Mi insultai mentalmente da sola dopo aver fatto quelle considerazioni così stupide e futili, anche perché non era il momento adatto. E poi era del mio nipotino o della mia nipotina che si stava parlando. Diamine, che roba strana.

«Vuoi parlarne con la mamma? Lei saprà come aiutar...» Non riuscii a fare in tempo a finire la frase perché Benedetta mi interruppe: «No, Nina, non ci penso proprio! Come posso dirglielo? Mi farà fuori! La mia vita è finita, e anche la mia storia con Maurizio, con ogni probabilità. Tempo fa, quando mi sono accorta che le mestruazioni erano in ritardo, gli avevo accennato quest'ipotesi e lui solo per questo non mi ha risposto al telefono per giorni. L'unica cosa che ho potuto fare è stata dirgli che era un falso allarme e che mi era arrivato il ciclo» raccontò, fra un singhiozzo e l'altro.

«Ma che comportamento è? Ti pare normale che Maurizio ti abbia trattata così?» sbottai, non riuscendo a credere alle mie orecchie.

«Be', io... io lo capisco, avrà avuto paura, così come ce l'ho io» tentò di giustificarlo, e io alzai gli occhi al cielo.

«Guarda che se è davvero come credi, vuol dire che sarà vostro figlio, e non soltanto tuo! Per avere diciannove anni il tuo ragazzo mi sembra un po' un irresponsabile oltre che insensibile. Perché non apri un po' gli occhi?»

Mia sorella si portò le mani davanti al viso per coprirsi. «Ma Nina perché devi sempre essere così crudele? Non riesci ad avere un po' di tatto? Sai solo urlarmi addosso e farmi sentire ancora peggio di come sto già...» Mi accorsi, a giudicare dalla sua voce rotta, che aveva ricominciato a piangere a dirotto.

Ed era solo colpa mia. A volte non sapevo proprio darmi un contegno. Il tutto poi dopo essermi comportata da vera egoista: per tutti quei giorni avevo pensato solo a me stessa e ai miei problemi, senza accorgermi dell'inferno che stava attraversando Benedetta. Mi venne anche in mente di quella volta che stava per confessarmi un segreto, con ogni probabilità quello, e io l'avevo eclissata per andare a vedere un film con Vittorio e Filippo.

Se solo avessi saputo ciò che stava passando...

Ma comunque non era ancora finita. Non le sono stata vicino in questo periodo difficile, ma d'ora in poi lo farò senz'altro, mi ripromisi. La abbracciai e la strinsi forte a me, aspettando che si tranquillizzasse. «Scusami. Davvero, perdonami. E vedrai che troveremo insieme una soluzione, io e te insieme» la rassicurai.

*

Uscii dalla mia stanza e mi diressi fuori in balcone per prendere un po' d'aria, dopo quella notizia che mi aveva scombussolata non poco. Stando attenta a non farmi vedere, presi una delle sigarette del pacchetto che mi aveva dato Filippo e la accesi. Era la prima che fumavo dal giorno precedente, quando me le aveva date, e direi che me la meritavo eccome.

Mi ricordai del discorso che avevo fatto con Angelica e le altre quella mattina riguardante Filippo e pensai che forse il biondino mi sarebbe potuto tornare utile: se davvero ha già esperienza sul campo, allora sarà informato sull'argomento, constatai.

Avevo urgenza di parlargli.

Così decisi di aspettare pazientemente che Vittorio tornasse a casa. Non tornò per pranzo e nemmeno nel primo pomeriggio. Inutile dire che la mia pazienza si stava già esaurendo, non riuscivo a pensare ad altro che al momento in cui l'avrei visto entrare dalla porta di casa.

Finalmente, alle cinque spaccate del pomeriggio sentii il rumore delle chiavi che venivano girate nella serratura. Mi alzai dal divano sul quale mi ero appisolata per una ventina di minuti e accorsi alla porta.

Aveva una faccia distrutta, era pallido e stanco, privo di energie, dava l'impressione di uno che non aveva mangiato nulla da quella mattina, sempre che avesse fatto colazione. Non avendolo visto quando mi ero svegliata, non potevo saperlo.

«Ehi, tutto a posto?» chiesi preoccupata, mentre lui entrò in casa quasi barcollando.

Gli presi lo zaino dalle spalle per aiutarlo, e constatai fin da subito che era piuttosto leggero per essere lo zaino di uno studente delle superiori. Non pareva ci fossero dei libri dentro.

Si esibì in un sorriso alquanto forzato e non disse nulla, quasi come se non avesse le forze per parlare. Comunque sia andai a lasciare lo zaino in camera sua senza fare altre domande.

Qualsiasi cosa avesse fatto in quella giornata, non era andato a scuola, ma nemmeno aveva bigiato per andare a divertirsi in giro per la città, considerando la sua espressione scolorita e abbattuta.

«Dove sei stato fino ad ora?» domandai tornando in salotto, non riuscendo proprio a trattenere la curiosità. In fondo non capivo perché non potesse essere sincero con me. A pensarci bene, non era neanche la prima volta: era successo più volte che una mattina, all'incirca ogni due settimane, io mi svegliassi e lui non ci fosse, tornando a pomeriggio inoltrato come quel giorno.

«A scuola» rispose evasivo, senza neanche preoccuparsi che quella bugia risultasse credibile.

Normalmente avrei insistito fino a fargli vuotare il sacco, ma al momento avevo altro per la mente, così lasciai stare e andai al punto: «E Filippo come sta?».

«Sei tu che sei stata con lui fino alle dieci di sera, dovresti saperlo meglio di me» rispose secco, prima di togliersi le scarpe e andare a sbattersi sul divano come un peso morto, afferrando il telecomando e accendendo il televisore.

Non ci parlavamo dalla sera precedente, perché subito dopo aver litigato con mia madre mi ero chiusa in camera e avevo provato a mettermi a dormire. Anche se non me l'aveva detto a voce, era chiaro che Vittorio ce l'avesse con me per via di ciò che era successo. In fondo era solo stata colpa mia se suo padre si era infuriato con lui e l'aveva messo in castigo. Lui si era fidato a lasciarmi tornare insieme a Filippo, e poi si era ritrovato nei guai a causa mia.

Comunque preso com'era dal volermi a tutti i costi lanciare una frecciatina che in effetti mi meritavo, non si era neanche reso conto di essersi tirato la zappa sui piedi. Spostai le sue gambe e mi sedetti al suo fianco. «Scusa ma non l'hai mica visto oggi a scuola?» feci sospettosa.

«S-sì, ovvio» replicò, sebbene neanche lui fosse così convinto. «Ma non abbiamo parlato granché. Perché ti interessa?»

«Devo chiedergli una cosa. Stasera viene a cena?» chiesi.

«Non lo so, non ci siamo accordati, magari poi viene» rispose sbrigativo, mentre continuava a girare tutti i canali alla ricerca di qualcosa che potesse interessargli.

«Non puoi chiamarlo e invitarlo?» insistetti e Vittorio mi iniziò a fissare in modo sospettoso: «Perché tutta quest'urgenza? Non è che vi siete baciati di nuovo?» chiese e io sentii le mie guance avvampare.

«Sei fuori di testa? Che schifo! Una volta è stata più che sufficiente.» Incrociai le braccia al petto e arricciai il naso solo al pensiero.

«Quanto sei falsa, guarda, ti sta già crescendo il naso!» esclamò con un mezzo sorriso, di certo più spontaneo di quello di prima. «Che bugiarda, se quando io e gli altri alla festa di Monica vi abbiamo sorpresi mentre stavate per farlo anco...»

«Comunque domani mattina faccio il tragitto per andare a scuola insieme a voi, va bene?» lo interruppi, riportando l'attenzione sul discorso principale. Almeno avrei avuto l'occasione di parlare con Filippo al più presto se l'avessi visto la mattina seguente. «Ah, e viene anche Irene» aggiunsi poi.

Mi aspettavo che Vittorio avrebbe storto il naso come suo solito, invece rimase tranquillo e annuì. «Sì, va bene» disse soltanto.

Mi alzai in piedi dal divano, soddisfatta per aver ottenuto quello che volevo, ma mi fermai non appena sentii Vittorio dire qualcos'altro. «Sai, ieri mentre tornavo a casa dal Sempione, stavo riflettendo, e... ecco, non lo so, penso che forse dovrei smetterla di privilegiare così tanto Monica e iniziare a guardarmi un po' intorno.»

Mi immobilizzai un attimo, prima di tornare a sedermi sul divano al suo fianco. «Veramente?» chiesi incredula.

Vittorio si passò una mano fra i capelli per spostarseli dalla fronte e lasciare scoperto il suo viso, così caratteristico e insolito. Spense il televisore, rinunciando a guardare qualcosa, e tornò a fissarmi. «La verità è che sono stufo. Lo so che niente nella vita è facile, e ci ho provato per mesi a fare in modo che cambiasse qualcosa... ma è inutile, non mi vedrà mai nel modo in cui la vedo io. Anzi, credo che non mi veda proprio, in nessun modo.»

Aprii la bocca per rispondere, ma fui interrotta da Vittorio che riprese di nuovo la parola: «Tu credi che io sia noioso?» domandò.

Mi si formò spontaneo un sorriso sul volto, ripensando alle parole che avevo speso su di lui quando ero insieme a Filippo. Non l'avrei mai ammesso davanti a lui neanche sotto tortura, ma era quello che pensavo.

Scossi la testa. «No, per nulla. Credo solo che la paura di fare una brutta figura davanti ai suoi occhi ti impedisca di far uscire il tuo potenziale, sei sempre così goffo e impacciato quando c'è lei, è già tanto se riesci a formulare una frase di senso compiuto... se ti conoscesse per come sei davvero, fidati che sarebbe lei quella a sentirsi da meno. Cavoli suoi, non ha idea di cosa significhi avere un ragazzo per bene come te al suo fianco» risposi per rincuorarlo.

Lui sorrise e mi avvolse un braccio attorno alle spalle e mi strinse a lui, nonostante io cercassi in ogni modo di divincolarmi. «Grazie, peperoncino» mi bisbigliò nell'orecchio e io gli tirai un calcio nello stinco: «Non iniziare anche tu con questo stupido soprannome» lo ammonii.

«Perché? È carino» affermò, prima di prendere a ridere sguaiatamente, evitando di prendermi sul serio.

Allora gli tirai una gomitata sull'addome per farlo smettere, ma lui prese a ridere ancora più forte e ad agitarsi finché non cadde a terra dal divano.

«Ben ti sta» dissi, mettendomi a ridere a mia volta.

Vittorio mi prese per un braccio e cominciò a tirare per farmi cadere dal divano. Cercai di tenermi ancorata allo schienale del divano con la mano libera, impiegando tutte le mie forze, ma non fu sufficiente perché finii col cadere rovinosamente a terra accanto al ragazzo. «Perché non cresci un po'?» lo rimproverai, mentre lui si scompisciava dalle risate, faticando a stare seduto e finendo col sdraiarsi supino.

Rimasi a fissarlo con il broncio e le braccia conserte finché non smise di ridere, e stando a quanto segnava l'orologio a cucù appeso alla parete trascorsero circa sette minuti. Infatti, ogni qualvolta era sul punto di tornare serio, gli bastava incrociare il mio sguardo per riprendere a sghignazzare.

Aveva il volto rosso come il naso di un pagliaccio e si teneva entrambe le mani sull'addome, il quale doveva fargli molto male per via di quelle grasse risate. Ero quasi tentata di tirargli un calcio in mezzo alle gambe per fare in modo che la facesse finita, ma alla fine riuscii a trattenermi.

Quando si calmò prese una serie di respiri profondi e poi si alzò, mi lasciò un bacio sui capelli e poi si rintanò in camera sua per andare a studiare.

 

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Capitolo 28
*** Ventisei. ***


Ventisei.


Non saprei dire che cosa mi prese quella notte, ma non appena poggiai la testa sul cuscino, fui inondata da una serie di pensieri contorti e contraddittori che mi lasciarono sveglia tutta la notte.

Nello specifico, erano ricominciati i miei dubbi e ripensamenti vari riguardo al mio primo bacio. Pensavo di averli debellati e che fosse una questione chiusa, invece a quanto pare era non solo aperta, ma addirittura spalancata.

Perché l'avevo fatto? Avevo gettato via un momento speciale che avrei potuto vivere con qualcuno che provava dei sentimenti per me e per il quale a mia volta provavo qualcosa. Per Filippo non aveva significato nulla, era stato un bacio come tanti, invece io me lo sarei ricordato per sempre e non avrei mai riavuto indietro l'occasione di ridare il mio primo bacio.

Com'ero stata stupida.

Mi dava sui nervi il fatto che non riuscissi a prendere sonno a causa sua, ma ogni qualvolta mi sforzassi di pensare ad altro, alla fine mi ritornava in mente lui e ciò che era successo quel maledetto venerdì sera.

Mi ero dimenticata in fretta del voto in greco, del problema di mia sorella, del segreto di Vittorio. Apparentemente l'unica cosa che aveva importanza per me in quel momento era paradossalmente la più irrilevante, eppure stavo trascorrendo un'intera notte in bianco a pensarci.

Quando giunse il momento di alzarmi per prepararmi per la scuola, non ci volevo credere. Avevo dormito sì e no due ore in totale. Nessuno mi avrebbe impedito di bermi almeno due tazze di caffè per svegliarmi.

Cercai di fare piano mentre mi muovevo in camera per stare attenta a non svegliare mia sorella, la quale ieri sera aveva lamentato un forte mal di testa e aveva convinto mia mamma a farle saltare un giorno di scuola per riposarsi e riprendersi un po'.

Avrei voluto tanto rimanere a casa anch'io, dopo il terribile voto che avevo preso in greco il giorno precedente, ma non potevo permettermelo: avevo una sorta di prova individuale di matematica per valutare il mio livello e vedere se presentavo delle lacune rispetto ai miei compagni di classe, perciò non potevo assentarmi.

Fortunatamente la valutazione di quella prova non avrebbe fatto media con gli altri voti: non ero proprio una cima in matematica.

«Ci sei, Nina?» chiese Vittorio, riscuotendomi dai miei pensieri.

Io annuii. «Sì, metto le scarpe e ci sono» risposi, chinandomi poi a terra per infilarmi le scarpe ai piedi e legare i lacci. «Andiamo» annunciai, una volta dopo aver finito.

Uscimmo da casa e ci dirigemmo verso la fermata del tram, dove avremmo atteso Irene. Le avevo telefonato la sera precedente per avvisarla del cambio di programma. Inutile dire che ne era stata entusiasta.

Pochi minuti dopo arrivò la linea 2 del tram e, quando si aprirono le porte, fra le varie persone ci fu anche Irene a scendere a quella fermata. «Eccoti!» esclamai, andando incontro alla mia amica e salutandola con un abbraccio. Poi rivolsi un'occhiata severa a Vittorio, il quale dopo qualche attimo di titubanza si avvicinò a lei con un mezzo sorriso.

Si guardarono intensamente per qualche secondo. Irene in un primo momento ricambiò il suo sorriso, poi tornò seria, infine sorrise di nuovo, portandosi una mano sulla bocca per coprire l'apparecchio. Con ogni probabilità si stava anche dimenticando di respirare.

Vittorio dal canto suo era soltanto imbarazzato, davanti a Irene non era spavaldo come quando ne parlava con me.

Inoltre, la loro enorme differenza d'altezza era qualcosa di molto tenero in un certo senso.

«P-piacere, Irene» si presentò la mia amica, non sapendo cos'altro dire per smorzare la tensione, e tendendogli una mano.

«Guarda che mi ricordo di te» rispose Vittorio, stringendole ugualmente la mano.

«Ti ricordi anche che mi hai rifilato il numero di telefono sbagliato?»

Sgranai gli occhi e mi voltai verso Irene, sorpresa per quell'improvvisa intraprendenza. Non pensavo che avrebbe mai affrontato Vittorio a riguardo.

Vittorio deglutì e incassò il colpo stando in silenzio. O almeno così pensavo. Invece, dopo qualche secondo, riprese la parola: «Magari ho confuso qualche cifra» tentò di pararsi il didietro.

«L'ho confrontato con quello che mi ha dato Nina e sembrerebbe che tu abbia confuso almeno sette cifre» precisò Irene e Vittorio sbiancò, mentre io mi trattenni a fatica dal ridere.

Fino a quel momento Irene era sempre stata piuttosto timida, sembrava che avesse paura di dire realmente quello che pensava. Con Angelica e le altre si tratteneva sempre, quindi mi stupì il fatto che con Vittorio avesse deciso di vuotare immediatamente il sacco.

«Non sarebbe il caso di andare?» mi intromisi, sia per tirarli fuori da quella situazione imbarazzante, sia perché dovevamo davvero andare.

Vittorio colse la palla al balzo e si diresse verso il sottopassaggio della metropolitana, mentre io e Irene lo seguivamo.

«Non sono stata troppo dura con lui, vero?» chiese Irene sottovoce e io scossi prontamente la testa: «Tutt'altro, anzi, sei stata un portento! Sono fiera di te» dissi forse con troppa energia, tanto che Irene mi intimò di abbassare la voce.

«Sì, ma magari adesso non mi rivolgerà più la parola perché l'ho trattato male...»

«Credimi, più lo tratti male e più hai possibilità di piacergli» la rassicurai, pensando alla sua cotta insensata per Monica.

Poi alzai lo sguardo davanti a me e vidi che Vittorio era già dall'altra parte del tornello e attendeva impaziente che lo raggiungessimo.

«Tu hai un biglietto?» chiesi a Irene, la quale scosse la testa.

Mia madre mi aveva confiscato tutti i pochi spicci che avevo, perciò non avrei potuto comprarmene uno neanche volendo.

«Allora? Vi muovete?» ci incalzò Vittorio.

Non avevo pensato a quell'inconveniente quando avevo deciso di fare il tragitto insieme a Vittorio e Filippo con la metro, e a quanto pare nemmeno Irene. E non avrei scavalcato quel tornello, neanche morta.

«Forza, tra poco arriva la metro e Filo è sicuramente già lì a Cadorna ad aspettarci!»

Esitai ancora per qualche secondo e poi, seppur controvoglia, mi diressi verso il tornello. Mi guardai intorno per assicurarmi che il dipendente dentro al gabbiotto di vetro non stesse guardando nella mia direzione, dopodiché sollevai il mio peso sulle sbarre e passai oltre. Poco dopo aiutai Irene a fare lo stesso, la quale per via della sua piccola statura incontrò maggiore difficoltà.

Dopodiché prendemmo letteralmente la rincorsa per scendere le scale e scappare il più presto possibile di lì.

*

«Era ora! Avrei fatto in tempo a farmi Lambrate-Cadorna e Cadorna-Lambrate almeno sette volte nel mentre che ti aspettavo!» esclamò Filippo spazientito rivolgendosi a Vittorio. Poi sgranò gli occhi non appena vide anche me. «E tu che ci fai qui?» domandò stupito, rivolgendomi la sua attenzione. «Ah, piacere, Filippo» si presentò poi a Irene, la quale in immediato si voltò verso di me con sguardo allusivo, come a dire: «Ah, quindi è lui quel Filippo», e io la fissai con gli occhi ridotti a due fessure per intimarla a non dire una sola parola.

«Ci abbiamo messo tanto perché Vittorio ci ha fatto commettere un reato» mi giustificai poi.

«Un reato!» mi fece il verso il moro. «Un reato è pagare così tante lire ogni giorno per uno stupido biglietto per dei mezzi sporchi e fatiscenti come una discarica, ovvio che tutti si rifiutino di farlo» si lamentò.

«Magari costerebbe di meno e farebbe anche meno schifo se ci fosse più gente a pagarlo» gli feci notare.

Poi mi avvicinai a Filippo per salutarlo con un bacio sulla guancia e lui mi sorrise. «Wow, è Natale, peperoncino?»

«Cosa?» chiesi confusa, ma lui ignorò la mia domanda e mi prese sottobraccio, nel mentre che camminavamo verso il corridoio che portava dalla linea rossa di Cadorna a quella verde, dove eravamo diretti noi.

Persi un battito per via di quel contatto fra di noi ma cercai di ignorare la cosa e convincermi che fosse normale. In fondo se l'avesse fatto Vittorio non ci avrei visto nulla di male, perciò che motivo c'era di agitarsi tanto?

«Come mai questa novità? Vittorio mi ha detto che neanche sotto tortura avresti mai fatto la strada insieme a me e lui per andare a scuola» disse, e io distolsi in immediato i miei stupidi pensieri.

Sogghignai, perché in effetti era vero, e l'avevo ribadito diverse volte da quando era iniziata la scuola. Sia perché non ero solita gradire la compagnia di Filippo, sia perché spesso anche Vittorio diveniva insopportabile quando faceva comunella con il suo amico.

«Vittorio esagera sempre» mi limitai a dire, e lui se lo fece bastare.

«Tua mamma si è arrabbiata con te per l'altra sera?» domandò poi.

Aggrottai le sopracciglia e lo fissai sospettosa. «Vittorio non te l'ha detto?»

«Ma se non lo vedo da due giorni» rispose, mentre scendevamo le scale per andare verso i binari.

«Quindi ieri non era a scuola?»

In quel momento l'espressione di Filippo mutò radicalmente, come se si fosse appena reso conto di aver detto qualcosa che non avrebbe dovuto. Lasciò la presa sul mio braccio, si grattò il capo e cominciò a evitare il mio sguardo. «No» rispose soltanto, un po' incerto.

«E allora dov'era? Perché è uscito prestissimo ed è tornato tardi.»

«Che ne so, Nina, mica gli faccio da badante!» esclamò. «Se vuoi fare il terzo grado a qualcuno, dovresti farlo a lui, non trovi?»

Decisi di rinunciare a scoprire dove si fosse recato Vittorio il giorno precedente, almeno per quel momento. Filippo non avrebbe parlato per nessun motivo al mondo, ne ero certa, avrebbe difeso il suo amico in ogni occasione.

«Treno in arrivo da Gessate, diretto ad Abbiategrasso. Allontanarsi dalla linea gialla» disse la voce automatica all'altoparlante, annunciando l'arrivo della metropolitana.

Mi voltai per vedere se Vittorio e Irene fossero ancora nei dintorni, e li vidi a parlare seduti su una delle panche grigie di marmo. Si alzarono in piedi e si diressero verso di noi dopo aver sentito l'annuncio.

«Comunque sai che le mie compagne di scuola ti conoscono?» feci, pronta a introdurre il nuovo discorso che avrei voluto fare con lui.

Dopo pochi secondi iniziammo a sentire un grande frastuono ed ecco che apparve la metropolitana a tutta velocità. Non ne avevo mai presa una prima di quella mattina, e in effetti dava proprio l'idea di un treno, con la differenza che non percorreva la strada in superficie, il che a me sembrava quasi fantascienza.

Le porte si spalancarono e, dopo aver atteso che le persone scendessero, salimmo sul mezzo pubblico. Nel frattempo che io mi guardavo ancora intorno estasiata come poco prima quando avevo preso la M1 da Cairoli a Cadorna, Filippo e Vittorio si erano già adoperati ad occupare dei posti a sedere, uno di fronte all'altro. Mentre io e Irene stavamo per prendere posto di fianco a loro, in un battibaleno questi furono occupati da altre persone.

Comunque non mi importava di stare in piedi, tanto io e Irene avremmo dovuto fare solo una fermata e poi saremmo arrivate.
Mi diressi verso Filippo per continuare a parlargli. «Vuoi sederti?» chiese e io scossi la testa, tuttavia lui si alzò lo stesso dal suo posto.

«No, dico sul serio, sto bene in piedi. Ho bevuto due caffè stamattina, perciò sono bella arzilla» gli spiegai.

«E quindi anche molto più nervosa del solito, suppongo» sogghignò e, se avesse usato un altro tono, probabilmente l'avrei insultato; invece capii subito che stava solo scherzando, perciò sorrisi a mia volta.

Stava per tornare a sedersi, solo per accorgersi con amarezza che il suo posto era stato già occupato. Così rimase in piedi a sua volta. «Cos'è che dicevi prima, sulle tue compagne?» domandò e, una volta che la metro ripartì, iniziò a tenersi con la mano alla sbarra che c'era alle mie spalle per mantenersi in equilibrio, avvicinandosi in tal modo a me.

«Ah, giusto. Be', diciamo che girano delle voci su di te...» risposi, restando vaga per suscitare la sua curiosità.

Inarcò le sopracciglia, stupito. «E tu credi alle voci?»

«No. O meglio, non lo so. Forse un po' sì. In genere c'è sempre un fondo di verità in tutto...»

«E cosa vuoi sapere?» chiese, intuendo subito dove volevo arrivare.

«Sant'Ambrogio, fermata Sant'Ambrogio: Università Cattolica - Museo della ScienzaApertura porte a destra.»

Non era possibile. Eravamo già arrivate e io non avevo neanche aperto il discorso con Filippo. Ecco un'altra cosa a cui non avevo pensato, fra le molte di quella mattina.

Anche se non ne avevo per niente voglia, mi preparai a scendere dal treno e a rimandare quella conversazione a un'altra volta.

«Nina, andiamo?» mi richiamò Irene e io annuii, prima di rivolgere un ultimo sguardo a Filippo e poi scendere. Sorprendentemente, il ragazzo mi seguì e scese a sua volta, ignorando le proteste di Vittorio, il quale rimase l'unico dei quattro sulla metro, ed era di certo molto confuso per via di ciò che si stava verificando.

«Ma sì, me la farò a piedi, non è un problema» disse Filippo, anche se era chiaro che non sarebbe mai arrivato per tempo.

Comunque ignorai la cosa e decisi di proseguire con la mia sorta di indagine. In fondo non erano affari miei se voleva arrivare tardi a lezione o meno. «Dicono che... c-che... hai già fatto... che hai già fatto l'amore» vuotai il sacco, senza riuscire a spiegarmi perché all'improvviso avessi perso la mia normale sicurezza e mi fossi espressa con quella insopportabile e stupida balbuzie. Sperai che avesse capito e che non mi costringesse a ripetere.

Studiai a lungo il suo viso per cercare di cogliere un qualche segnale, ma a parte un piccolo sorriso imbarazzato, non trapelò nulla. «E tu che ne pensi?» chiese poi.

Irene nel frattempo, che camminava avanti a noi, mi fece cenno che avrebbe accelerato il passo e che mi avrebbe aspettata in classe.

«Penso che sia una balla, ovviamente, ma...»

«È vero, invece» mi interruppe e io sgranai gli occhi.

Non potevo assolutamente crederci. Aveva solo quindici anni, anzi, quattordici a essere precisi, dato che era nato a dicembre. Non mettevo in dubbio che fosse più sveglio di me per certe cose e più precoce, ma arrivare a tanto... mi pareva eccessivo.

«Cioè, in realtà aveva molto poco a che fare con l'amore» precisò.

«In che senso, scusa?» Poco dopo inciampai su una lattina di Coca-Cola gettata a terra e, se non fosse stato per Filippo che mi tenne su afferrandomi per il polso, sarei sicuramente caduta a terra.

Filippo mi guardò divertito per via della mia goffaggine, prima di riprendere la parola. «Nel senso che non è obbligatorio farlo con qualcuno che ami.»

«Allora che cosa si fa a fare?» domandai, sempre più disorientata.

«Be', perché... perché è bello» disse soltanto, perdendosi poi qualche secondo in se stesso, forse per ricordare quel momento.

«E quando è successo?» chiesi, non riuscendo a tenere a freno la mia curiosità.

«La primavera scorsa. Mi sono trovato con questa ragazza a una festa, lei era più grande di me di un paio d'anni, e niente... ci siamo chiusi in una stanza ed è successo» ammise con un po' di disagio.

Non riuscivo ancora a credere alle mie orecchie e avevo un sacco di domande che mi frullavano per la testa. «E quanto è durato?»

«Non lo so, cinque minuti massimo.»

«Solo?» chiesi stranita. Nei film sembrava durasse all'infinito, che potesse andare avanti per tutta la notte, fino alle prime luci del mattino. Raccontata così, invece, non pareva nulla di neanche lontanamente romantico.

«Be', era la prima volta, e comunque è anche soggettivo, e poi... che palle, Nina, non mi va di parlare di queste cose con te!» sbottò a un certo punto.

«Perché no?»

«Perché sei... sei piccola, e...»

«Ma se sono nata prima di te» lo interruppi, spazientendomi.

«Intendo piccola per queste cose. Nel senso che sei ancora ingenua e... e non voglio essere io a farti scoprire queste cose.»

Qualcosa la sapevo, invece. Non ero ingenua e disinformata come credeva. O meglio, lo sarei stata fino al giorno prima. «Avete fatto anche i preliminari?» chiesi e lui strabuzzò gli occhi e arrossì un poco, dal momento che un paio di persone si voltarono a fissarci stralunati dopo quella mia domanda.

Cos'avevano da sorprendersi tanto? In fondo era una delle cose più naturali del mondo, non capivo perché le persone si scandalizzassero a sentirne parlare.

«Abbassa la voce!» mi sgridò guardandosi intorno. «E poi tu come le sai queste cose?» domandò.

«Non sono mica una bambina» feci, evitando di citare le mie fonti.

«Infatti non ho mai detto questo.»

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, e solo allora mi accorsi che eravamo giunti davanti alla mia scuola e che quindi, di lì a breve, avrei dovuto salutarlo e andare dentro.

«Hai altro da chiedere?»

Annuii, pensando a un'ultima cosa che mi interessava sapere, anche se non c'entrava con mia sorella. «Almeno avete usato le protezioni?» domandai. Non avevo idea di che significasse con esattezza, ma era una frase di circostanza che avevo sentito spesso dire nei film, perciò doveva essere importante.

Filippo alzò gli occhi al cielo, irritato. «Ti pare? Non l'avevo mai fatto prima e non sapevo di certo che sarebbe successo quella notte, non avevo nulla con me. E poi lei aveva detto che prendeva la pillola.»

«Ma quella serve a evitare di fare i bambini, non a proteggersi dalle malattie» contestai.

Una volta, qualche mese prima, avevo sentito parlare al telegiornale di un virus abbastanza pericoloso che si poteva trasmettere facendo sesso senza le dovute precauzioni. Portava infatti a sviluppare una malattia in grado di distruggere le difese immunitarie di un individuo, il che era rischioso poiché rendeva difficile sopravvivere anche alle malattie più innocue che si potevano contrarre, dato che non si avevano più anticorpi a sufficienza per sconfiggerle.

«Se ti riferisci a quello che penso, devi stare tranquilla, perché tanto quello riguarda solo i finocchi» fece ridacchiando e io lo trucidai con lo sguardo, trattenendomi dal tirargli anche uno schiaffo.

«Ma sei serio? Siamo nel 1983 e ancora si devono fare questi discorsi ridicoli e senza senso! Perché non apri la mente e magari ti informi un po' invece che sparare queste idiozie?» sbottai, conferendo alla mia voce tutto il disprezzo che provavo in quel momento.

Non riuscivo a credere di avere a che fare con una persona così ignorante e chiusa di mente.

«Inutile che brontoli tanto, li guardo i telegiornali, e solamente i froci se lo pren...»

«Smettila di dire quella parola» lo interruppi. «Mi dà fastidio, è offensiva» aggiunsi.

Rimase in silenzio qualche istante, e io sperai che ci stesse ripensando e che volesse ritrattare quanto appena detto. Invece non fu affatto così. «Io ritengo che siano loro offensivi per via di ciò che fanno. Sono deviati, Nina» ribatté, battendosi l'indice sulla tempia, alludendo alla sua scatola cronica, la quale con ogni probabilità era vuota.

«Sono persone! E non è giusto che vengano discriminate, derise o emarginate per via di chi amano, anche perché non è una cosa che si può scegliere.»

«Appunto, come chi ha una malattia mentale, ci nasce e basta, ma non significa che non sia malato e contro natura» continuò a difendere il suo punto di vista, mentre io proseguii a fissarlo con ribrezzo.

L'ultima guerra era finita da quasi quarant'anni e fra le vittime di quella immonda ingiustizia vi erano stati anche gli omosessuali. Invece che imparare qualcosa da tutto ciò, c'era ancora chi aveva quell'ideologia profondamente sbagliata, che per fortuna a me non era stata tramandata: qualsiasi forma d'amore doveva essere accettata in quanto tale.

Ma non era così per tutti, a quanto pare. Ogni volta che sembrava che il mondo facesse passi in avanti, alla fine si rivelava tutto una vana illusione, e mi faceva male rendermene conto. Anche se forse la colpa era mia, che sognavo un mondo diverso da quello in cui vivevo, e nutrivo speranze che in futuro quella mia utopia si sarebbe realizzata.

«Se proprio vuoi saperlo, non ci sono prove scientifiche che provano che tale virus non si possa diffondere anche fra un uomo e una donna, perciò spero vivamente per te che in futuro starai più attento quando lo farai con un'altra ragazza» dissi, ritornando al discorso principale che stavamo facendo, dato che era inutile fargli cambiare idea sul resto, e un po' mi dispiaceva a dirla tutta.

Credevo fosse diverso. E pensare che avevo sprecato una notte intera a pensare a un essere ignobile come lui... Ogni volta che ero sul punto di cambiare idea sul suo conto, alla fine si rivelava sempre il contrario di come mi convincevo che fosse. In fondo ero io che sbagliavo: perché mi ostinavo a immaginarlo diverso da com'era nella realtà? Era solo un ragazzo come tanti altri della sua età, superficiale e immaturo, incapace di ragionare per davvero con la sua testa. Si credeva tanto grande, invece era solo un bambino che si atteggiava e diceva cose da adulti.

Non mi piaceva per nulla.

Filippo alzò gli occhi al cielo. «Tranquilla che tu non corri il rischio di essere fra quelle» disse con tono provocatorio e un sorrisetto malizioso.

«Ci mancherebbe altro, pervertito che non sei altro!» esclamai, e lo stavo tollerando con sempre più difficoltà. Ma perché ancora sprecavo fiato a parlare con lui? Era solo una perdita di tempo.

«Comunque, giusto perché tu lo sappia, in TV dicono che finora gli unici che si sono ammalati sono le categorie di persone che ho detto io, insieme anche ai drogati, ma tu continua comunque a vivere nel tuo mondo di fate e arcobaleni dove tutti si amano e si rispettano per il semplice fatto che sono esseri umani» mi canzonò, mentre io ribollivo dalla rabbia.

Rimasi in silenzio a fissarlo con disdegno per diversi istanti, incapace persino di trovare le parole; lui a sua volta mi riservava uno sguardo ostile.

Che fatica. Con lui era sempre un passo avanti e tre indietro.

E poi, inaspettatamente, rilassò il viso e scoppiò in una risata a dir poco rumorosa. Rideva così tanto di cuore che era quasi contagioso, ma ero ancora incavolata nera con lui, perciò mi trattenni. E poi che diavolo aveva da ridere?

«Ti giuro che vederti furiosa è una delle cose che più preferisco, peperoncino!»

«Scusami?» chiesi stralunata, spostando il peso da un piede all'altro e ponendomi a braccia conserte.

«Secondo te me ne frega qualcosa se uno se la fa con un uomo o con una donna? Che facciano quello che vogliono, a me non importa un fico secco! E no, non so chi abbia messo in giro quella voce, ma è una stronzata, non sono mai stato con nessuna. Ti stavo solo prendendo in giro, fin dall'inizio, perché mi diverte da matti vederti fuori di te dalla rabbia» confessò, prima di provare a sciogliere il nodo che formavo con le mie braccia incrociate al petto, ma io gli voltai prontamente le spalle per sfuggire al suo tocco: «No, lasciami stare!» sbraitai, prendendo a camminare verso l'entrata della mia scuola.

Sbuffò molto sonoramente e mi si piazzò davanti per tagliarmi la strada. «Dai, Nina, era uno scherzo, perché sei così permalosa? Neanche avessi insultato te...»

«No, infatti. Invece io in questo momento ho in mente una marea di insulti che potrei riservarti, ma so che a breve mi passerà, quindi penso ti convenga andartene prima che dica qualcosa di cui potrei pentirmi già fra dieci minuti» dissi tutto d'un fiato e a denti stretti.

Emise un mezzo sorriso. «Oh, quanto sei dolce, si vede proprio che ci tieni a me, ma ti prometto che non mi offendo. Su, sono curioso, cosa ti sta frullando in mente?»

«Che faresti certamente carriera come circense, dato che fare il pagliaccio ti viene benissimo» replicai con sdegno. Invece che prendersela, si mise a ridere sguaiatamente, divertito da quella che mal interpretò come una battuta invece che come un'offesa.

Comunque non riuscii più a trattenermi e presi a ridere a mia volta, contagiata dalla sua risata. A un certo punto mi bloccai, ricorrendo a tutte le mie forze, ma mi bastò incrociare il suo sguardo per ricominciare.

«E comunque, tornando al discorso di prima, se pensi di saperne più di me sul sesso e cose del genere, allora perché non ti vai a leggere l'educazione sessuale per scoprire se hai ragione?» fece sarcastico, aggiungendo poi un'altra risata.

L'aveva buttata sullo scherzo, ma in realtà, oltre a farmi imbestialire, mi aveva anche fornito una buona idea. Incredibilmente, grazie a quel pallone gonfiato, forse avevo trovato il modo per aiutare Benedetta.

 

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Capitolo 29
*** Ventisette. ***


Ventisette.


Poco dopo aver liquidato Filippo con modi frettolosi e aver ricevuto in cambio uno dei suoi soliti commenti a cui non avevo prestato minimamente ascolto, entrai dentro l'edificio dalle mura color avorio e mi diressi verso la mia aula per riunirmi con Irene e le altre.

Non lo sopportavo proprio. Sapeva sempre quali tasti toccare per farmi arrabbiare e li manovrava con immenso piacere, come mi aveva lui stesso confessato. Nonostante questo, non riuscivo mai ad avercela con lui troppo a lungo, il che mi rendeva ancora più furente, perché significava che avrebbe continuato a farlo all'infinito, consapevole che con me l'avrebbe sempre passata liscia.

«Nina.»

La voce di Irene mi riportò al mondo reale. Mi riscossi e mi voltai verso di lei. A giudicare da come mi fissava era stata parecchio tempo ad attendere che mi riprendessi e le rivolgessi la mia attenzione. «Sì? Dimmi.»

«Nulla, ero solo curiosa di sapere che cosa vi foste detti tu e Filippo. Dato che siete rimasti un bel po' a parlare, immagino fosse qualcosa di importante.»

Solo a ripensarci sentivo la bile risalirmi in gola e sapevo che se avessi risposto alla domanda di Irene con sincerità, sarei finita per scaldarmi ripensando all'ultima burrascosa conversazione avuta col biondino, e mi ero stancata di dedicargli del tempo. «Macché, niente di importante. Solo che Filippo è logorroico, una volta che inizia un discorso non lo finisce più, non riuscivo a liberarmi di lui!» risposi con una finta risata.

Irene mi fissò un secondo per capire se mentissi oppure fossi sincera, e infine si mise a ridere insieme a me. Non sapevo se ridesse spontaneamente oppure se stesse fingendo a sua volta, solo perché aveva capito che, se anche avesse tentato di indagare oltre, non sarebbe riuscita a estorcermi una sola parola. Comunque sia approfittai della cosa per cambiare discorso: «E tu con Vittorio? Avete parlato molto anche voi, mi pare» chiesi.

Irene non ebbe la reazione che mi aspettavo. Invece che partire a parlare a macchinetta per raccontarmi come a suo solito, sospirò e basta, piuttosto sconsolata. Spostò il peso da un piede all'altro. «Non lo so, sono rimasta un po' delusa. Non mi è sembrato lo stesso ragazzo che ho conosciuto a quella festa. Lì era spavaldo, sicuro di sé, sembrava avere la situazione sotto controllo, invece oggi mi è sembrato quasi più timido di me! Praticamente ero io a portare avanti la conversazione e a tirargli le cose fuori di bocca. E poi sembriamo così diversi: lui è patito di film e io a malapena guardo la televisione; io amo la musica e lui confonde Dalla con Battisti; a me piace praticare sport e lui invece lo guarda solo in TV...»

«Ma dai, mi sembrano solo delle piccolezze» constatai. «Ti è piaciuto per mesi e poi ora tutto a un tratto svanisce tutto solo perché non avete gli stessi gusti?»

«No, Nina, non sono piccolezze. E non è che non mi faccia più effetto vederlo, anzi, all'inizio stavo quasi per morire perché ero in apnea... ma ecco, solo perché non lo vedevo da tanto e non lo ricordavo così bello, e... ehi, non storcere il naso, la bellezza è soggettiva, e per me lui è bello come il sole! Solo che l'attrazione fisica che si prova per qualcuno passa in secondo piano se non c'è intesa mentale con quella data persona. E noi non c'entriamo niente l'una con l'altro, temo.»

Per me non era qualcosa di così importante. Io avrei preferito di gran lunga qualcuno che fosse il mio opposto, mi sarei annoiata a morte con qualcuno uguale a me. Anzi, non sarei stata proprio in grado di sopportare una mia versione al maschile.

«Secondo me ci sei rimasta male solo perché l'hai idealizzato troppo senza conoscerlo. E comunque avere gusti diversi non significa non potere avere un'intesa mentale. Io e Vittorio siamo completamente diversi, eppure siamo tanto amici. Vi conosco entrambi, e secondo me avete più cose in comune di quelle che pensi.»

L'ingenuità, la tendenza a scoraggiarsi con facilità, la timidezza iniziale, la scarsa fiducia in loro stessi e nelle loro potenzialità, ma anche la generosità, la dolcezza e la bontà d'animo, l'attenzione alle piccole cose, l'empatia.

Non ci avevo mai pensato seriamente fino a quel momento, ma i miei due cari amici sarebbero stati davvero bene insieme. E poi, sia che quella cotta insensata che si portava dietro per mesi svanisse oppure si trasformasse in un sentimento autentico, era comunque ora che Irene si togliesse il prosciutto dagli occhi e iniziasse a vedere Vittorio per com'era davvero.

«No, a me così non piace» si impuntò e io alzai gli occhi al soffitto.

«Ire, guarda che è sempre lui, è sempre lo stesso ragazzo di quella sera in cui l'hai conosciuto. Solo che ha bisogno di tempo per aprirsi.»

Irene scrollò le spalle. «A me basterebbe solo che aprisse la bocca per baciarmi ancora, invece che per parlare, che almeno quello gli viene bene!» esclamò e io le tirai una sberla scherzosa sul braccio: «Irene! Ti pare il caso di dire certe cose?» ridacchiai, giusto un attimo prima che suonasse la campanella che segnava l'inizio della prima ora.

*

Durante l'intervallo mi diressi al piano di sotto dove, di fianco alla segreteria, c'era la biblioteca della scuola. Cominciai a guardarmi intorno alla ricerca del reparto che mi interessava.

Nella prima fila di scaffali c'erano dei dizionari, nella seconda romanzi di epica e mitologia, nella terza manuali di storia moderna e contemporanea... avevo l'impressione che avrei perso molto tempo per trovare quello che cercavo, ma non ne avevo così tanto a disposizione: meno di dieci minuti e sarei dovuta risalire in classe.

«Posso aiutarti con qualcosa?» mi giunse una voce alle spalle a un certo punto. Sobbalzai per lo spavento, dato che non mi ero accorta di avere qualcuno dietro di me.

Poi mi voltai e diedi una rapida occhiata alla bibliotecaria. Era una donna sulla sessantina, alta poco più di un metro e mezzo, dalle forme piuttosto tornite, i capelli grigi per metà e bianchi per l'altra, il viso che in proporzione al resto del corpo era molto più piccolo e un grosso paio di occhiali tondi che le ricadevano sul naso piccolo ma aquilino.

Distolsi lo sguardo e lo puntai sul pavimento. «Io, ehm, io... devo fare una ricerca per scienze, avrei bisogno di prendere in prestito il libro sull'educazione sessuale» ammisi con non poco imbarazzo.

Lei invece non fece una piega, mi fece cenno di seguirla verso una fila di scaffali e poi, salendo in piedi su una scala, cominciò a cercare ciò che le avevo chiesto.

Strabuzzai gli occhi, nel trovarmi il suo sederone a pochi centimetri dal mio viso mentre saliva le scale, e indietreggiai con rapidità. «Sì, certo... ricerche per la scuola... se le inventano tutte al giorno d'oggi...» le sentii dire sottovoce mentre cercava fra gli scaffali.

Assunsi un'espressione confusa, non cogliendo il riferimento.

Pochi attimi dopo scese gli scalini e tornò sul pavimento. Si girò nella mia direzione e mi porse il libro in questione. In copertina erano raffigurati una versione piuttosto blanda di Adamo ed Eva, nudi e con le mani intrecciate.

«Su che cos'è la ricerca?» chiese la bibliotecaria, con quella voce stridula e gracchiante.

Mi grattai il capo per prendere del tempo mentre mi scervellavo per dare una risposta alla sua domanda. «Ehm... il... il rischio di incorrere in una gravidanza» risposi, che poi era anche la verità.

«Non c'è chissà quale arcano mistero da scoprire: basta non fare sesso» disse e io strabuzzai gli occhi per la sua schiettezza. Prima che potessi dire qualsiasi cosa, la bibliotecaria mi diede le spalle e si diresse verso il suo banco in legno, dove teneva una sorta di registro in cui segnava i libri che venivano presi in prestito.

La seguii e appoggiai momentaneamente il libro sul banco, nel mentre che lei mi faceva compilare il modulo, inserendo la data odierna, il mio nome e cognome, la mia classe e sezione e il titolo del libro che prendevo in prestito.

«Devi restituirlo entro e non oltre due settimane da oggi» mi avvisò e io annuii, prima di riprendere in mano il libro e uscire dalla biblioteca.

Non specificò che cosa sarebbe successo in caso di ritardo nella restituzione, ma quella sua figura così piccola ma al tempo stesso massiccia mi incuteva una tale inquietudine che non avevo alcuna intenzione di sfidarla. A dirla tutta avrei potuto restituirlo già il giorno seguente: mi sarebbe bastata una lettura veloce per trovare le risposte che cercavo, dopodiché non ne avrei più avuto bisogno.

*

Una volta tornata finalmente a casa, mi cibai voracemente e alla svelta con dell'insalata e un po' di petto di pollo, così da potermi mettere a leggere al più presto.

Mi gettai sul letto e cominciai a sfogliare con rapidità le pagine, saltando le parti che non mi interessavano, come l'introduzione e l'anatomia degli organi riproduttivi femminili e maschili.

Uno dei paragrafi parlava della pubertà, che era diversa per maschi e femmine, in quanto per queste ultime iniziava leggermente prima, fra gli otto e i tredici anni circa, mentre per i ragazzi fra i dodici e i sedici anni.

Pensai subito alla mia situazione, e a quanto fossi fuori dalla norma, avendo avuto le mie prime mestruazioni neanche un mese prima. Motivo per cui al momento il mio fisico assomigliava più alla figura a sinistra, che rappresentava il corpo femminile prima dello sviluppo e pareva proprio quello di una bambina, piuttosto che alla figura a destra, in cui vi era un corpo più simile a quello di una donna.

Continuavo a fissare la seconda fra le due immagini quasi con fare ossessivo, nel mentre che mi venivano in mente tutte le ragazze mie coetanee con cui avevo a che fare quotidianamente o quasi: le mie compagne di classe, Monica e Erica, tutte le ragazze della mia scuola che mi capitava di incrociare fra i corridoi. Avevano tutte dei fisici così diversi fra loro ma tutti così armoniosi e femminili... tutte tranne me.

Le invidiavo da morire. Io non avevo un punto vita segnato, non avevo fianchi, avevo le spalle più larghe rispetto al resto del corpo, forse più di quelle di Vittorio, un seno inesistente e le gambe così sottili da risultare a dir poco sproporzionate. Ero il cigno nero della famiglia, considerando che sia mia madre sia mia sorella erano stupende.

Avrei dato qualsiasi cosa per avere il fisico di Monica, oltre che il suo bellissimo viso. La stessa cosa valeva per i capelli di Irene: aveva dei boccoli naturali definiti e voluminosi, mentre io mi ritrovavo con due peli in testa, lisci ma quasi sempre crespi e senza una vera forma. E poi c'era il viso di Angelica, così pulito e... angelico, neanche a farlo apposta: i suoi occhi verde bosco e con taglio a mandorla, insieme alle ciglia lunghissime e scure, si sposavano perfettamente con i suoi capelli neri, un naso piccolo e dritto e le labbra color pesca. In più era molto alta, con una figura slanciata e gambe da sogno.

Chiusi le mani a pugno, trattenendomi con tutte le mie forze dall'impulso di strappare quella maledetta pagina dal libro.

Era assurdo che mi stessi ossessionando così tanto per una cosa così futile... Quand'è che ero diventata così superficiale? Non mi ero mai fatta così tante paranoie come in quel periodo. Ne avevo almeno una nuova ogni giorno, nessuna che fosse realmente sensata, e non facevo che rimuginarci su tutto il tempo fino a sentirmi male, conscia di non poter fare nulla per cambiare la situazione.

Non riuscivo nemmeno a leggere un banalissimo libro di scienze senza crearmi inutili paturnie.

L'adolescenza faceva schifo. Non mi capacitavo di come gli adulti ne parlassero continuamente come l'età migliore.

Sbuffai e poi cercai di smetterla di demoralizzarmi ulteriormente, dato che c'erano cose più urgenti di cui preoccuparmi.

Voltai quella e altre pagine, fino ad arrivare al paragrafo che mi interessava, ovvero quello che parlava dei rapporti sessuali, e iniziai a leggere a mente: "Con il termine di rapporto sessuale completo ci si riferisce a un rapporto con penetrazione e eiaculazione interna alla vagina. In tal modo avviene la fecondazione, nei giorni in cui la donna è fertile. Ci sono però delle eccezioni, in cui solamente con i preliminari lo sperma riesce ad entrare in vagina e gli spermatozoi a riescono a raggiungere l'ovocita maturo, ma ciò è molto raro e improbabile, in quanto l'esigua quantità di liquido seminale difficilmente riesce a concepire, oltretutto in assenza della spinta eiaculatoria".

Inutile dire che il linguaggio era troppo tecnico e io, con le mie scarse conoscenze, faticai a comprendere il significato di quanto letto. Tuttavia provai comunque ad andare avanti con la lettura per vedere se ci fosse altro che mi sarebbe potuto tornare utile.

Il paragrafo successivo spiegava come evitare una gravidanza indesiderata, stilando una lunga lista di metodi contraccettivi dei quali ignoravo completamente l'esistenza. Il libro si soffermava in particolare nello spiegare le funzionalità della pillola anticoncezionale e il preservativo maschile, specificando in merito a quest'ultimo che era efficace inoltre per non incorrere nel rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili (anch'esse erano molte di più di quelle che immaginavo).

Per un attimo mi venne in mente Filippo e la discussione che avevamo avuto quella mattina, ma scacciai subito quel pensiero per non innervosirmi ancora.

In fondo alla pagina c'era poi un'avvertenza, che invitava chiunque avesse il timore di aver contratto una malattia venerea o di essere rimasta incinta ad andare a visitarsi da uno specialista al più presto, evidenziando per i minorenni la possibilità di andare a un consultorio familiare, completamente gratuito e senza l'obbligo di essere accompagnati dai genitori.

A quel punto scattai in piedi e uscii dalla mia stanza. Mi inginocchiai a terra, dove c'era Benedetta che, non appena era tornata a casa da scuola, circa una mezz'oretta prima, si era subito messa al telefono a parlare con Maurizio.

«Benni, ascoltami un attimo» provai ad attirare la sua attenzione, ma lei mi fulminò con lo sguardo e mi intimò di lasciarla in pace. «Ti prego, è una cosa importante e che ti dovrebbe interessare» insistetti, ma lei proseguì a ignorarmi.

La mia pazienza purtroppo aveva un limite facilmente raggiungibile, e mia sorella era sempre in grado di eccederlo. Le strappai subito la cornetta dalle mani e riattaccai il telefono, fissandola poi con un sorrisetto beffardo e compiaciuto.

«Nina, cazzo, ma mi lasci stare sì o no?» sbraitò.

«Sh! Leggi qua! Domani pomeriggio dopo la scuola ci andiamo, intesi?» dissi, passandole il libro che avevo letto fino a pochi minuti prima e segnando con un dito la parte che volevo che leggesse.

Rimase qualche secondo in silenzio, poi deglutì e infine si voltò verso di me: «No, io non ci vado dal medico».

Roteai gli occhi. «Invece sì che ci andrai. Devi sapere se sei davvero... sì, insomma...»

«E se... e se è vero? Se sono incinta?» mi interruppe, con gli occhi che cominciavano a riempirsi di lacrime.

«Ne dubito fortemente, in realtà. Leggi quello che c'è scritto qui, accade solo in casi rarissimi» le feci notare, mostrandole quanto scritto nella pagina precedente. «Però è importante che tu ti faccia visitare da qualcuno di competente, così da poterti togliere definitivamente il dubbio e tornare a vivere serena. Cioè, a dirla tutta non hai mai vissuto serena dato che sei sempre incazzata, ma almeno ti potrai togliere questa preoccupazione.»

Invece che ridere della mia battuta fatta per smorzare la tensione o se non altro rispondermi a tono come a suo solito, Benedetta scosse la testa e abbassò lo sguardo, sospirando. «Non me la starei vivendo così male, se solo due dei tre test di gravidanza che ho fatto non fossero risultati positivi.»

Non avrei dovuto affidarmi ciecamente a quelle poche righe che avevo letto, eppure mi ero lo stesso convinta che ci dovesse essere un'altra spiegazione e che mia sorella non aspettava un bambino. «Per questo dobbiamo sapere che cos'hai. Adesso cerchiamo il consultorio più vicino e domani ci andiamo, va bene? Non ci sarà neanche bisogno di dirlo alla mamma» le parlai addolcendo il tono, appoggiandole una mano sulla spalla.

«Ma Nina, tu sei ancora in punizione, se la mamma scopre che esci ti fa fuori.»

«Per questo ci andiamo domani e non subito oggi! Di solito torna per le 18:30 da lavoro, se andassimo oggi non farei in tempo a tornare per quell'ora e mi scoprirebbe, invece se ci ingegniamo e ci organizziamo adesso per domani, la cosa rimarrà solo fra noi due.»

Si prese qualche secondo per riflettere sulle mie parole, infine annuì un paio di volte e poi emise un piccolo sorriso. «Davvero sei disposta a rischiartela così per me?»

«Certo che sì, sei mia sorella e io sono qui apposta. Comunque vadano le cose, io ci sarò per te, così come tu ci sarai per me, come è sempre stato e continuerà a essere, giusto?»

Non rispose e mi abbracciò stretta. La spontaneità di quel gesto e anche il fatto che l'abbraccio durò più a lungo di quanto mi sarei immaginata mi sorpresero, tanto che non diedi importanza al fatto che non ricambiò le mie parole.

E quello di non dare importanza a quel dettaglio fu un grave errore del quale però mi accorsi troppo tardi.

 

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Capitolo 30
*** Ventotto. ***


Ventotto.


Non avendo un granché da fare quel pomeriggio, una volta dopo aver finito di fare i compiti e di studiare per il giorno successivo, ripresi sottomano il libro che avevo preso in prestito dalla biblioteca della scuola. Mi mancava leggere e, sebbene non fosse proprio la migliore delle alternative, era anche l'unica che avevo, perciò decisi di accontentarmi.

E infondo mi avrebbe fatto soltanto bene informarmi un po' di più. In fondo Filippo aveva ragione, non sapevo quasi nulla di certe cose, anche se forse ne sapevo ugualmente più di lui.

Approfittai del fatto che mia sorella fosse in bagno a farsi una doccia e che quindi fossi in camera da sola, per ricominciare a sfogliare il libro, sedendomi con la schiena appoggiata alla testiera del letto. Aprendo una pagina totalmente casuale e senza seguire un ordine preciso, mi imbattei di nuovo, neanche a farlo apposta, nella pagina in cui erano raffigurate le due figure femminili, una con il fisico non ancora sviluppato e l'altra con forme più pronunciate.

Cambiai alla svelta pagina. Mi concentrai a fondo e mi immersi nella lettura.

Sorprendentemente, alcuni paragrafi mi interessarono per davvero. In più, oltre a farmi un po' di cultura generale, apprendere ciò che vi era scritto mi sarebbe potuto di certo tornare utile in futuro, così da non finire nella disperazione più totale come Benedetta.

Non la incolpavo per questo, perché non c'era mai nessuno a parlarci di queste cose, né a casa né a scuola né da nessun'altra parte, il che era ingiusto e anche pericoloso perché poteva portare a farsi delle convinzioni totalmente sbagliate.

Ad esempio, tempo prima Benedetta mi aveva detto che non si poteva rimanere incinte la prima volta, ma la verità era un'altra, ovvero che il rischio si correva ugualmente la prima così come la decima o la trentesima volta, in quanto dipendeva da altri fattori.

A scuola studiavamo lingue morte ormai da secoli, ma le cose davvero utili non ci venivano insegnate.
A volte mi sembrava di vivere in una bolla, come se non sapessi nulla del mondo in cui vivevo, e la cosa valeva anche per le mie coetanee.

Un giorno finiremo la scuola ed entreremo davvero nel mondo reale, da adulte, e non sapremo comunque nulla, riflettei fra me e me.

Non avevo la minima idea di come si pagavano le bollette, né da dove arrivavano i soldi delle pensioni, né come venivano calcolate le tasse pagate dai cittadini, eppure erano cose con cui fra meno di dieci anni avrei dovuto fare i conti quasi ogni giorno. Perché la scuola italiana non ce lo insegnava?

«Nina, ma che cavolo fai con quel libro ancora in mano?»

Sobbalzai sul letto e battei la testa sul muro al quale ero appoggiata, nel sentire la voce di Benedetta. Così concentrata su quello che leggevo, non mi ero nemmeno resa conto che mia sorella fosse tornata in camera nostra.

«Sto leggendo» risposi, cercando di celare l'imbarazzo sempre più crescente attraverso la sicurezza nel mio tono di voce.

«Non dovresti leggere queste cose» mi ammonì, avvicinandosi e cercando di togliermi il libro dalle mani, ma io lo nascosi dietro la mia schiena.

«Perché non dovrei?»

«Perché sei solo una ragazzina, e queste sono cose da grandi.»

Alzai gli occhi al cielo. E con quale coraggio mi faceva lei la morale? Certo che a volte era proprio un'ipocrita.

«Non capisco, che male c'è a volersi informare?» ribattei. «Intanto se non avessi preso questo libro, tu staresti ancora in un angolino a piangere come una disperata senza sapere cosa fare della tua vita, quindi sì, forse io non dovrei leggerlo, ma tu avresti do...» Mi interruppi prima di finire la frase. Era comunque chiaro dove volessi andare a parare con il mio discorso, ma fermarmi prima di concluderlo mi diede l'illusione in qualche modo di non essere stata tanto stronza. Anche se in realtà era chiaro che lo ero stata e che avevo ferito i suoi sentimenti, tanto per cambiare.

«Vaffanculo, Nina!» esclamò, dandomi le spalle e preparandosi a uscire dalla stanza, ma io la fermai, camminando a carponi sul letto fino a raggiungerla e afferrarla per il polso: «Mi dispiace, Benni, non volevo» mi scusai.

Benedetta in un primo momento tenne lo sguardo fisso sul pavimento, ma poi lo sollevò e lo puntò sul mio, incenerendomi. «Ma quand'è che inizierai a maturare un po'? Nella vita non puoi continuare a sbagliare e poi scusarti, ogni tanto dovresti anche riflettere su quello che dici e su quello che fai!» mi rimproverò.

Odiavo quando usava quel tono da maestrina, comportandosi come se fosse mia madre, ma era anche innegabile che avesse ragione, e forse era soprattutto questo a renderla ancora più odiosa.

Non sapevo darmi un freno, e questo mi portava a ferire le persone senza ragione. Lo facevo di continuo e con chiunque.

«E comunque non ho mai chiesto il tuo aiuto, me la sarei cavata in qualche modo anche da sola.» Aprii bocca per ribattere ma non me ne diede il tempo perché riprese subito la parola. «Che c'è, leggendo queste stronzate pensavi forse di sentirti parte del mondo dei grandi, degli adulti? E poi perché mai dovresti volerlo? È un mondo di merda! Tra qualche anno te ne renderai conto.»

Al momento mi riusciva difficile credere che la mia vita potesse peggiorare ancora negli anni a venire, dato che i quindici già trascorsi non erano stati per niente facili né memorabili. Forse era per quello che non attendevo altro che crescere, perché speravo che in futuro, magari raggiunta la mia indipendenza, sarebbe migliorato qualcosa.

«Domani ci vado da sola al consultorio» concluse il discorso, liberandosi dalla mia presa e uscendo di scena.

Non tentai di fermarla quella volta. Aveva bisogno di stare sola e anche io. Ma ciò non significava che mi sarei arresa nell'aiutarla e che l'avrei davvero lasciata andare da sola.

*

L'indomani mi svegliai stranamente di buon umore, nonostante le vicissitudini del giorno precedente. Avevo dormito bene e mi ero svegliata riposata. Inoltre, dopo tre giorni, finalmente mia madre aveva finito di tenermi il muso e aveva ripreso a parlarmi come sempre, salutandomi con un abbraccio e un bacio in fronte prima di uscire per andare a lavoro (ma ribadendo che ero ancora in punizione), il che mi aveva dato serenità e forza per affrontare un altro giorno di scuola.

Non mi piaceva litigare con mia madre. Era capace di essere persino più permalosa di me, e i giorni successivi a un litigio erano sempre duri perché si avvertiva la tensione nell'aria e non mi rivolgeva quasi parola se non per darmi ordini del tipo: «Apparecchia la tavola», oppure «Vai a letto che è tardi».

Per fortuna non durava mai in eterno, e in pochi giorni tornavamo circa quelle di un tempo.

Una volta arrivata a scuola, io e Irene ci riunimmo insieme alle altre ragazze come di consueto e cominciammo a discorrere del più e del meno.
Essendo ormai a metà settimana, a un certo punto il centro del discorso si spostò sul cosa fare il fine settimana.

«Io non ci sono, vado con i miei in montagna» disse subito Sabrina.

«Ah, che bello, ogni tanto ci sta cambiare aria» commentai. Era da più di un anno che non uscivo fuori dalla città. Quell'estate l'avevo passata per metà a Torino e per l'altra metà a Milano. Normalmente io, mia madre, mia sorella e i miei nonni passavamo una settimana in Liguria oppure in Toscana verso fine luglio, ma quell'estate per via del trasloco imminente eravamo troppo incasinate per poter organizzare qualsiasi cosa, perciò non eravamo andate da nessuna parte.

«Scherzi? È una noia! Io e quel rompipalle di mio fratello minore siamo costretti a seguire i miei a raccogliere funghi. Quando avevo dieci o undici anni mi divertivo anch'io, ma adesso mi sembra solo un'enorme perdita di tempo!» esclamò.

«Neanch'io ci sono, comunque» dissi poi. «Sono ancora in punizione fino a prossimo avviso» aggiunsi, seccata.

«In punizione? Per il voto in greco?» domandò Angelica e io scossi la testa: «Per carità, no, mia madre non lo sa ancora, e non deve scoprirlo! Domenica sono uscita e sono tornata a casa tardissimo senza avvisare» spiegai, per chiarire la loro confusione.

«Sì, e perché non la racconti per intero questa storia, Nina?» si intromise Irene e io la fulminai con lo sguardo.
Non mi andava di dire tutto di me alle altre ragazze. Per me era già un gran passo riuscire ad aprirmi con lei. Una cosa alla volta.

«Cioè?» intervenne Eva, colma di curiosità.

Diedi un occhio all'orologio inesistente sul mio polso ed elusi la domanda: «È tardi, fra poco suona la campanella, ve lo racconto dopo».

Nessuna di loro se la bevve, infatti mi fissarono sospettose, ma fortunatamente la campanella trillò per davvero dopo quella mia affermazione, perciò lasciarono perdere.

«Ma dai, Nina, che male c'era a raccontarlo?» bisbigliò Irene rimanendomi vicina invece che andare dritta al suo posto come fecero le altre. «In fondo non è successo niente di male.»

«Lo so, ma lo sai che non mi piace parlare di Filippo, specie con loro che si gasano appena lo sentono nominare» risposi evasiva.

«Non ti piacerà parlare di lui, ma parlare con lui invece ti piace parecchio, se già per due volte ti sei trattenuta a farlo fino a perdere la cognizione del tempo» commentò fissandomi con uno sguardo malizioso.

Sentii le mie guance avvampare. «M-ma che dici? Ieri dovevo chiedergli una cosa importante, e poi...»

«Sì, sì, come dici tu» mi interruppe, voltandomi le spalle e andando a sedersi. «Anche se secondo me neanche tu credi a quello che dici.»

«Irene!» esclamai, profondamente infastidita per le sue insinuazioni senza alcun tipo di fondamento.

Il professore entrò in aula prima che potessi dire qualsiasi cosa per ribattere, ma non era finita lì: l'avrei avuta io l'ultima parola su quella questione.

*

Alla fine il discorso non fu più riaperto, né con Irene singolarmente né con le altre, e in fondo preferii così. Non avevo nulla di cui giustificarmi e inoltre non potevo essere obbligata a parlare di qualcosa di cui non mi andava, no?

Inoltre non mi andava di rovinarmi quella giornata con discussioni inutili e prive di senso, quindi feci finta di nulla e, sia durante le pause fra una lezione e l'altra sia durante l'intervallo vero e proprio, cercai di tirar fuori quanti più argomenti possibili di cui parlare, così da distogliere l'attenzione da tutto il resto.

Ero abbastanza brava a farlo, se mi ci mettevo d'impegno. Il problema sarebbe stato il tragitto di ritorno a casa insieme a Irene, durante il quale ero sicura che non mi avrebbe lasciato alcuna via di scampo.

Infatti andò proprio così. «Incredibile come diventi loquace quando si parla di tutto fuorché di te» osservò, non appena salimmo sul tram.

«Sarà che non sono una persona egocentrica» risposi scrollando le spalle, cercando di schivare la sua freccia. «Preferisco interessarmi agli altri piuttosto che parlare solo di me stessa» aggiunsi con un mezzo sorriso.

«No, Nina, tu non parli mai di te stessa» mi fece notare, restando seria. «E mi può andare bene che tu non voglia parlarne con le altre, ma ecco... Noi due ci conosciamo da relativamente poco, è vero, ma rispetto a ciò che sai tu di me, io so pochissimo di te.»

«Ma che dici? Sei una delle poche persone a cui racconto tutto» la contraddissi.

Schioccò la lingua sul palato. «Al massimo mi racconti cosa accade nelle tue giornate, ma lo fai... non lo so, con un certo distacco, come se mi riferissi le cose successe a qualcun altro. E allora devo tirare a indovinare per capire cosa ti passa davvero nella testa. Ma vorrei tanto che mi parlassi a cuore aperto, perché credo che la nostra sia qualcosa di più di un'amicizia superficiale e a convenienza... però così facendo non stiamo costruendo nulla, e a me dispiace un sacco. Finora ti ho assecondato, fingendo di credere alle balle che mi rifilavi ogni qualvolta volevi evitare un discorso, ma la verità è che non sono stupida, e credo anche che tu lo sappia.»

Trattenni il fiato durante tutto il suo discorso. Stavo già per scattare sulla difensiva come a mio solito, perché era l'unico modo che conoscevo per tirarmi fuori da situazioni spiacevoli, ma forse... forse aveva ragione mia sorella, dovevo smetterla di comportarmi da bambina, e dovevo imparare ad affrontare situazioni come quella.

Così incassai il colpo sferrato da Irene senza partire in quarta con la mia lingua velenosa. «Lo so, hai ragione» ammisi. «Solo che ho bisogno di tempo, sono fatta così. Chiedilo a Vittorio: vivo con lui da più di un mese, e lo sai quando è stata la prima volta che sono riuscita ad aprirmi e parlargli seriamente? Sabato mattina, dopo che la sera prima avevamo discusso dopo essere tornati a casa dalla festa di Monica. Lo so che ho questo problema, e sto cercando di migliorare, ma... ma non è così facile.»

Non era per niente piacevole doverle dare ragione, e in più mostrarmi così vulnerabile. Ma d'altronde era un compromesso necessario, ogni tanto, per poter costruire dei rapporti profondi e duraturi, e ci tenevo a far sì che accadesse con Irene.

Mi appoggiò una mano sulla spalla e mi sorrise flebilmente: «Vedi? È stato così tremendo?» chiese e io scossi la testa.

Poi rimanemmo qualche istante in silenzio, che io trascorsi torturandomi le dita strappandomi le pellicine, desiderando il prima possibile di scendere dal tram e arrivare a casa. Ripresi la parola non appena mi venne in mente una cosa: «Tutto questo discorso profondo e motivazionale è per far sì che mi decida a parlarti di Filippo?» chiesi.

Irene scoppiò a ridere. «È più forte di te, eh? Non riesci a pensare ad altro!» mi prese in giro, ma io la fissai di sottecchi. Sapevo benissimo che avevo centrato il punto, perché era partito tutto da lì. «Comunque, ecco, se te la senti, sono super pronta ad ascoltarti» aggiunse infatti poco dopo.

Roteai gli occhi. «Dai, magari domani mattina. Ora devo scendere. Ciao!» esclamai, prima di voltarle le spalle e dirigermi verso le porte del tram, senza neanche darle la possibilità di dire qualsiasi cosa.

«Che bastarda!» le sentii dire non appena misi il primo piede giù dal mezzo pubblico, e la cosa mi fece sorridere.

*

Dopo aver pranzato, attesi con impazienza che mia sorella tornasse a casa da scuola. La sera precedente, mentre lei si era rintanata in un angolo a parlare al telefono come suo solito, io mi ero ingegnata, armata di cartina di Milano e di Pagine Gialle, per trovare il consultorio familiare più vicino a cui andare con Benedetta.

Non appena sentii la porta di casa richiudersi producendo un gran baccano, scattai in piedi dalla sedia della cucina e accorsi in salotto. «Dai, veloce a mangiare la pasta, così poi andiamo dal medico» dissi semplicemente, aiutandola poi a togliere lo zaino dalle spalle e posizionandomi dietro di lei per spingerla verso la cucina.

«Nina, Santo Cielo, mi lasci stare? E comunque ti ho detto che non vengo da nessuna parte con te!» esclamò puntando i piedi a terra, ma io non avevo intenzione di starla ad ascoltare.

«Sì, invece» ribattei. «Non c'è modo in cui tu riuscirai a farmi cambiare idea, sappilo. E poi scommetto che non sai nemmeno dove si trova il consultorio, invece la sottoscritta...» Lasciai per qualche secondo la frase in sospeso, giusto il tempo di andare di corsa in camera mia a tirare fuori la mappa della città dove avevo tracciato con un pennarello indelebile il percorso da fare. «... ha già organizzato tutto» conclusi il discorso, prima di passarle la cartina.

Benedetta rimase titubante per un po', spostando il peso dal piede sinistro al destro e viceversa per almeno due volte. Dopo un minuto e mezzo, finalmente, cedette. «D'accordo. Dopo pranzo andiamo» disse, prima di andare a mangiare.

*

Il consultorio familiare che avevo trovato non era molto lontano da casa, ci impiegammo meno di venti minuti di camminata. Benedetta era molto agitata, sebbene cercasse di non darlo a vedere. Io però la conoscevo, e sapevo riconoscere il suo stato d'animo decifrando il suo linguaggio del corpo. Quando era nervosa, continuava a inumidirsi e mordersi le labbra e ad attorcigliarsi ciocche di capelli attorno al viso, e lei non faceva altro da quando eravamo uscite di casa.

Restammo sedute in sala d'attesa per un bel po' di tempo. Essendo che non era necessaria alcuna prenotazione per effettuare le visite ed erano molte le persone in fila per andare a fare la visita ginecologica, c'era da attendere molto più di quanto mi sarei immaginata. Erano molte le ragazze adolescenti sedute ad aspettare il loro turno.

Qualsiasi fosse la ragione che le aveva portate lì, il pensiero che forse almeno la metà di quelle fossero lì per lo stesso motivo di Benedetta, mi rattristava e mi metteva angoscia.

Dato che quel silenzio e quell'attesa interminabili rendevano agitata anche me, decisi di parlare, per smorzare un po' la tensione. L'unica cosa che mi venne in mente da dire era quella che mi tenevo dentro da più tempo, e solo con mia sorella sentivo di poterne parlare. «Io... ehm... v-voglio andare a trovare papà, uno di questi giorni» dissi, sentendo un brivido percorrermi tutta la schiena.

Era una sensazione strana quella di parlarne ad alta voce con qualcuno, specie con Benedetta. Non parlavamo mai di lui ormai da tanto tempo, da almeno tre anni.

Tenni lo sguardo fisso sul pavimento, poiché avevo paura ad affrontare il suo.

«E come dovresti fare?» chiese, con un filo di voce.

«Non siamo più a Torino, ora viviamo nella sua stessa città. Ci sono le Pagine Bianche, e...»

«Ok, ma perché?» domandò, interrompendomi. «Che ti importa di lui?»

«Come sarebbe a dire? È nostro padre, e... e, anzi, te l'ho detto per chiederti se ti andasse di venire con me.»

Più andavo avanti a parlare e più mi sentivo... a disagio, come se stessi sbagliando tutto e stessi dicendo cose fuori dal mondo, ma non capivo perché.

«Nina, guardami» ordinò Benedetta e io, dopo qualche attimo di esitazione, feci come disse.

Avevo gli occhi lucidi e le labbra tremolanti. Era per quello che avevo smesso di parlare di mio padre, perché ogni volta mi riducevo in quel modo in un nano secondo e non mi andava di farmi vedere così, da nessuno, nemmeno da mia sorella, né tantomeno da mia madre. Non volevo far vedere che, dopo tutti quegli anni, mi importava ancora di lui... però la verità era che mi importava da matti.

«Per me quell'uomo non esiste più da diversi anni, e dovrebbe essere così anche per te» riprese la parola Benedetta.

«Come puoi parlare così? È nostro padre...»

«E noi siamo le sue figlie, Nina, porca miseria! Perché non lo capisci? Il divorzio non implica la separazione dai propri figli e lui, se davvero ci avesse voluto bene, non si sarebbe dimenticato di noi. Sono passati otto anni da quando ce ne siamo andate, otto anni, e lui non si è mai interessato: nessuna telefonata, nessuna lettera, niente di niente, neanche nei giorni più importanti per noi come i compleanni, o il primo giorno di scuola, oppure a Natale.»

Non stava dicendo niente che non sapessi già, eppure le sue parole mi stavano ferendo come se mi stesse sbattendo in faccia una verità che fino ad allora mi era stata nascosta. Forse con gli anni mi ero ormai così tanto abituata all'assenza di mio padre, al punto da scordarmi quanto avessi davvero sofferto la sua mancanza.

Ciononostante, sarei rimasta ferma sulla mia decisione. Ne avevo bisogno.

«Forse mi sono stancata di trascorrere altro tempo a chiedermi perché abbia fatto certe cose, e preferisco chiederlo direttamente a lui e avere finalmente delle risposte» affermai.

«E che risposte pensi di ottenere?» chiese. «Insomma, e se ciò che scoprirai non sarà ciò che ti aspettavi? Poi ci staresti soltanto peggio, quindi forse ti conviene rimanere nell'ignoto...»

Corrucciai la fronte. Mi lasciò confusa il tono in cui parlò. Era come se sottintendesse qualcosa, come se sapesse qualcosa che io non sapevo.

Dopodiché si aprì la porta dello studio ginecologico e ne uscì la ragazza che era arrivata prima di noi. Era il nostro turno di entrare. Sull'uscio comparve poi la dottoressa, che invitò la prossima ragazza in attesa a farsi avanti.

«Tu... tu eri piccola, Nina. Non ti ricordi davvero com'era quando c'era lui» concluse il discorso, prima di alzarsi in piedi e dirigersi verso la dottoressa.

«Può entrare anche mia sorella minore? Mi ha accompagnata qui e... ecco, mi sentirei più sicura a non entrare da sola» chiese Benedetta e il medico annuì comprensiva, prima di farmi cenno di raggiungerle.

 

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Capitolo 31
*** Ventinove. ***


Ventinove.


La dottoressa era molto premurosa e riuscì a mettere mia sorella a suo agio fin da subito. La fece sedere, le chiese il suo nome e chiese a me il mio, poi con gentilezza le domandò che cosa la portasse lì e la ascoltò rispettosamente in silenzio. Non dubitò della parola di Benedetta quando dichiarò di non avere avuto nessun rapporto completo con il suo fidanzato.

A un certo punto le offrì una bottiglia d'acqua da due litri e le intimò di berne il più possibile, almeno più di metà.

Non ne colsi subito la ragione, pensavo che fosse solo perché la vedeva molto agitata, ma non era così.

Una volta finito di ascoltare la vicenda di Benedetta, le chiese di spogliarsi nella parte bassa, togliendo jeans e mutandine, e di tenere sollevata la maglia fino a scoprire gran parte del ventre. Dopodiché la fece sedere su una particolare poltrona, che oltre ai due soliti braccioli per poggiare le braccia, ne aveva due più grandi dove invece avrebbe dovuto appoggiare le cosce, ponendola in una posizione insolita: con le gambe alzate e spalancate.

Assunsi una smorfia di disgusto nel pensare a ciò che si trovò davanti la dottoressa, e provai a immaginare me stessa al posto di mia sorella.

Il solo pensiero mi accapponava la pelle e mi metteva fortemente in imbarazzo, tanto che sperai che mi sarei sottoposta a una visita ginecologica solo quando sarei stata in dolce attesa, dimenticandomi subito degli insegnamenti del libro che avevo letto, che consigliava invece alle donne sessualmente attive di andarci almeno una volta l'anno.

Comunque almeno per il momento non era un problema che mi riguardava personalmente, anche se una parte di me in quel momento desiderò quasi di non essere entrata con Benedetta dentro quella stanza per le visite.

Distolsi quei pensieri e tornai a guardare mia sorella e la dottoressa, intenta a cospargere la parte bassa del ventre di Benedetta con un particolare gel trasparente e appiccicoso. Poi accese un monitor posizionato alla destra della poltrona. Schiacciò qualche pulsante qua e là e poi attraverso uno strumento particolare, definito come "sonda" dal medico, cominciò la cosiddetta ecografia pelvica.

Si eseguiva a vescica piena, aveva spiegato la dottoressa, che ci teneva a informare Benedetta di ogni dettaglio di quella visita, considerando che era la prima a cui si sottoponeva mia sorella. Sullo schermo iniziarono ad apparire delle immagini strane e indefinite, che solo un esperto sarebbe stato in grado di decifrare. Spiegò alcuni particolari a Benedetta, evidenziando cosa stava comparendo di volta in volta sullo schermo: la vescica, il suo utero, le tube di Falloppio e le ovaie.

Per il momento nulla che desse l'idea di essere un embrione o qualcosa del genere.

Poi la dottoressa si arrestò e increspò le labbra. Mormorò qualcosa in merito al fatto che aveva confermato l'ipotesi a cui stava pensando fin da quando mia sorella era entrata lì dentro. Sia Benedetta che io ci allarmammo all'improvviso, e mia sorella la incalzò a parlare chiaro e a dire se stava realmente aspettando un bambino. La dottoressa sogghignò e, mentre io mi sentivo ancora il cuore in gola, scosse la testa e pronunciò quattro parole diverse da quelle che mi aspettavo. Infatti, invece che dire; «Sì, lei è incinta», disse: «Sindrome dell'ovaio policistico».

Sia io che mia sorella storcemmo il naso, non avendo la benché minima di che cosa si trattasse. La dottoressa passò un panno a Benedetta affinché potesse pulirsi il ventre, dopodiché la aiutò a scendere dalla poltrona e la fece rivestire, prima di invitarla a risedersi al mio fianco.

La sindrome dell'ovaio policistico era una patologia in grado di alterare il funzionamento del sistema endocrino nelle donne in età fertile. Si manifestava il più delle volte attraverso l'ingrossamento delle ovaie per via dell'accumulo di cisti liquide. Fra i sintomi si avevano: aumento di peso, amenorrea, ovvero assenza di ciclo mestruale e, in alcuni casi, poteva comportare falsi positivi nel test di gravidanza.

Sia io che mia sorella tirammo più di un sospiro di sollievo.
A tutto c'era sempre una risposta, e per fortuna quella data dalla dottoressa era ben diversa da quella che ci eravamo date noi: non c'era nessun bambino in arrivo. E per fortuna non si trattava di una malattia grave.

La dottoressa predispose insieme a Benedetta un piano terapeutico, che prevedeva che iniziasse a prendere la pillola anticoncezionale. Alla sola ipotesi Benedetta scattò sull'attenti e cominciò quasi a protestare, dato che non aveva intenzione di "prendere altri mille chili e riempirsi di orribili buchi di cellulite".

Tipico di lei. Davanti al rischio di dover rinunciare al suo fisico quasi perfetto, come se fosse quello l'importante, avrebbe compromesso persino la sua salute senza pensarci due volte. La dottoressa la rassicurò dicendole che con la pillola giusta quelli che erano i suoi più grandi timori sarebbero rimasti tali e nient'altro, ma era chiaro che non sapeva con chi avesse a che fare. Le sarebbe servita una bella lavata di capo, e solo una persona sarebbe stata in grado di convincerla: nostra madre.

Una volta tornate a casa, attendemmo l'arrivo di mamma dal lavoro e, costretta da me che la minacciai di parlare al posto suo nel caso in cui lei avesse taciuto, Benedetta rivelò dove era stata quel pomeriggio e ciò che aveva scoperto.

Mia madre se la prese per il fatto che l'avesse tenuta all'oscuro di tutto, e ci rimase anche un bel po' male perché aveva sempre sperato che lei e Benedetta sarebbero andate insieme alla sua prima visita ginecologica.
A quel punto mia sorella le promise che la prossima volta le avrebbe permesso di accompagnarla, e accettò anche, a malincuore, di seguire la terapia prescritta dalla ginecologa.

Erano passate circa due settimane da quel giorno, ed era tutto ormai un lontano ricordo, per fortuna.

A partire da quel pomeriggio mi ero assunta un compito e l'avevo portato a termine con successo: avevo cercato il più possibile di rigare dritto, di essere più gentile e affettuosa con mia madre e di limitare i litigi con mia sorella. Mi ero inoltre dilettata in qualche mestiere di casa, fra cui lavare subito i piatti dopo aver finito di mangiare, cucinare dei biscotti al burro per il tè, pulire la lettiera del gatto e dargli da mangiare. Inoltre avevo cucito a Giuseppe un piccolo berretto di lana per tenergli caldo, facendo anche due buchi per fargli passare le orecchie.

Non che ne avesse realmente bisogno, avendo il pelo lungo e stando sempre confinato in casa, ma l'idea mi faceva ridere e in effetti gli conferiva un'aria realmente buffa.

Vittorio si offese perché voleva che facessi un berretto anche a lui, a cui sarebbe servito certamente di più, e gli promisi che a breve mi sarei adoperata per cucirne uno anche a lui.

In cambio, lui avrebbe fatto un favore a me: non mi ero affatto scordata di quando mi aveva promesso che, se fossi venuta alla festa a casa di Monica, lui mi avrebbe lasciato guidare la Vespa di suo padre un giorno. Ma sarebbe stato parecchio difficile per me imparare a farlo, se prima non sapevo neanche andare in bicicletta. Così, quasi tutte le sere dopo cena, andavamo in cortile (l'unico luogo dove mia madre mi permetteva di uscire, dato che comunque era sempre all'interno del nostro condominio) e Vittorio cercava di insegnarmi ad andare.

Fu molto difficile all'inizio, poiché continuavo a perdere l'equilibrio e a cadere a terra insieme alla bici, specie perché Vittorio con le sue esili braccine faticava a tenermi su. Finché un giorno, mentre lui era dentro il garage a cercare l'olio da mettere nelle ruote della bici dato che erano un po' arrugginite, mi esercitai per qualche minuto da sola e finalmente riuscii a partire e a pedalare da sola.

Non ci potevo credere: avevo finalmente imparato ad andare in bici.

Vittorio si congratulò con me, e io lo ringraziai, chiedendogli poi anche con una certa trepidazione quando mi avrebbe fatto guidare il motorino. Lui rispose che prima voleva che prendessi ancora un po' la mano con la bicicletta, e mi feci bastare quella risposta. Era già un grande traguardo.

Con Irene non riaprii più il discorso su Filippo, sia perché mi sforzai il più possibile per evitare di parlare di lui in sua presenza, sia perché la cosa mi venne parecchio facile, poiché non lo vidi più dopo quella mattina in cui mi ero trattenuta a parlare con lui più del dovuto e avevamo avuto l'ultimo dei nostri confronti dai toni un po' accesi.

Una vera liberazione... però speravo che stesse bene.

Infine, mi ero messa sotto con lo studio e avevo chiesto al professore di greco se potesse interrogarmi un'altra volta per recuperare il mio brutto voto, dato che grazie alle sue spietate interrogazioni a tappeto aveva già finito di sentire tutta la classe in poco più di una settimana. Sebbene fosse uno stronzo, apprezzò la mia volontà di darmi da fare e la mia intraprendenza, così mi concesse quella possibilità. Presi un sette e mezzo quella volta e, sebbene la mia media in quella materia fosse ancora insufficiente, mi ritenni comunque fiera di me stessa.

Poi una sera, quando mia madre tornò dal lavoro, si diresse subito verso camera mia e di mia sorella, ma era me che cercava nello specifico. Mi disse che aveva capito che avevo imparato la lezione e che non ero più in punizione e, inoltre, mi aveva iscritta a un corso di danza.

Inutile dire che mi sentivo al settimo cielo. Ero felicissima di poter tornare a ballare. Avrei iniziato l'indomani, alle sei di sera.

Ma c'era una cosa che mi rendeva ancora più contenta dell'iniziare il mio corso di danza: ora che avevo di nuovo il permesso per uscire, potevo finalmente fare ciò che pianificavo ormai da settimane.

Ritirai fuori il foglietto che qualche settimana prima avevo infilato nello zaino e anche la mappa di Milano che avevo usato per cercare il consultorio familiare più vicino a cui rivolgerci, e iniziai a cercare il tragitto per andare da casa mia a quella di mio padre. Erano passati tanti anni ed erano cambiate tante cose, ma una cosa era rimasta la stessa, e io l'avevo ancora ben impressa nella mia mente: l'indirizzo di casa scritto sul foglietto, che avevo trovato sulle Pagine Bianche insieme al numero di casa, era lo stesso. Era quello di casa nostra. Abitava ancora lì.

Inizialmente credevo che mi sarei limitata a una telefonata, ma poi avevo pensato che non avrei mai trovato le parole giuste. Anche se mi fossi preparata un discorso prima, avrei certamente perso le parole subito dopo aver sentito la sua voce, così decisi che mi sarei presentata direttamente a casa sua entro il fine settimana.

Persi il mio primo pomeriggio di libertà a decifrare la cartina e a trovare la via giusta, prendendomi del tempo poi anche per segnarmi gli indirizzi di casa delle mie amiche, così da saper meglio come raggiungerle. Dopo aver finito, mi stropicciai gli occhi e arrotolai la cartina, la infilai dentro il mio zaino di scuola e dopodiché iniziai a preparare il borsone per andare alla mia prima lezione di danza.

Fortunatamente la scuola di danza non era molto distante: un quarto d'ora di tram ed ero già arrivata, ma solo perché c'era molto traffico verso quell'ora. Non appena giunsi in spogliatoio, emozionata come non mai, la mia eccitazione venne presto sostituita con l'imbarazzo. Feci un saluto generale alle ragazze che erano già lì e mi presentai, mentre queste si limitarono a squadrarmi, chiedendosi con ogni probabilità chi fossi e cosa ci facessi lì.

Aggrottai la fronte e mi presi una minuscola parte di panchina che era rimasta e ci appoggiai sopra le mie cose, iniziando a spogliarmi per infilarmi il body e i fuseaux, oltre che le ballerine di danza. Mi sentivo tremendamente a disagio nel mostrare il mio corpo a tutte loro, sapendo che loro non facevano che fissarmi.

Se avessi avuto più autostima ne avrei approfittato per chiedere loro se fosse loro di gradimento ciò che stavano osservando dato che non riuscivano a fare altro, ma in quel periodo più che mai non mi trovavo a posto con me stessa e con il mio corpo, e il loro comportamento mi avvilì ancora di più.

Capivo che il mondo della danza fosse da sempre competitivo, ma quelle continue occhiatacce mi davano parecchio sui nervi. Non era facile essere la nuova arrivata, specie perché era quasi certo che si conoscessero da quando erano bambine e io invece ero spuntata dal nulla.

Un altro problema si presentò nel momento in cui faticai parecchio per riuscire a infilarmi i fuseaux e il body. Non li indossavo da prima dell'estate, e mi stavano piccoli. Mi ero ingrossata sulle gambe e anche, incredibilmente, sul petto. Me ne accorsi solo nel momento in cui andai in bagno a specchiarmi per legarmi i capelli in un piccolo chignon basso, dato che non avevo i capelli abbastanza lunghi per farne uno alto, e lì constatai che le mie piccole prugnette si erano trasformate in dei mandarini, e io non me ne ero resa conto prima di allora.

Una parte di me ne era soddisfatta, mentre l'altra ne era infastidita, dato che il mio piccolo seno non più minuscolo minacciava di uscire dal body da un momento all'altro ed era probabile che ne avrei dovuto prendere un altro.

Dopo aver finito di acconciarmi i capelli, finii di ripiegare bene le mie cose dentro al borsone, dopodiché lo richiusi e infine uscii dallo spogliatoio e mi diressi verso la sala da danza.

La maestra si accorse di me e mi rivolse un piccolo sorriso: «Tu devi essere Nina, giusto?» chiese, notando che il mio era un volto nuovo. Annuii e basta, abbassando poi lo sguardo verso il basso e ponendomi a braccia conserte per coprirmi il petto.

«Ma chi si crede di essere con quel body striminzito, la pop star Madonna? Praticamente le lascia tutte le chiappe scoperte» sentii dire da qualcuna alle mie spalle. Mi voltai istintivamente verso di lei e la fulminai con lo sguardo, senza però dire niente: in fondo per che cosa avrei potuto attaccarla, se aveva più che ragione?

«Forza, iniziamo con il riscaldamento!» esclamò la maestra di danza, e a quel punto non ci fu più tempo né motivo per continuare a sentirmi inadeguata e a disagio, perché avevo cose più importanti a cui pensare.

*

Fortunatamente non erano tutte spocchiose e antipatiche come la ragazza autrice di quel commento poco garbato nei miei confronti. Me ne resi conto poco dopo aver iniziato il corso, spiaccicando qualche parola qua e là con alcune delle mie compagne di danza che, nonostante la loro diffidenza iniziale nei miei confronti, alla fine si rivelarono molto socievoli e alla mano. In particolare due di loro, Ginevra e Maria, con le quali parlai abbastanza a lungo da riuscire a ricordarmi i loro nomi, mentre scordai con facilità quelli di tutte le altre nove ragazze.

Fu un po' difficile invece mettersi alla pari con il loro livello. Ero abbastanza arrugginita, non avendo fatto attività fisica per mesi interi, e inoltre la coreografia che stavamo preparando non era per niente facile, sia per me che avevo iniziato a impararla in ritardo, tre settimane dopo l'inizio del corso, sia anche per le altre che avevano avuto invece più tempo per esercitarsi.

«Bene, per oggi basta così. Ci vediamo mercoledì. Buona serata, ragazze» annunciò finalmente l'insegnante, e tirai un sospiro di sollievo: ero sudata e sfinita come non mai.

Mi presi qualche minuto in più rispetto alle altre per tirare bene tutti i muscoli, mettendomi a terra con le gambe aperte a spaccata e allungando il busto in avanti il più possibile per tirare la schiena.

Poi lentamente mi alzai dal pavimento e ritornai in spogliatoio. Aprii il borsone per prendere l'accappatoio, le ciabatte e tutto l'occorrente per farmi la doccia. Le quattro docce presenti erano già occupate e io, essendomi trattenuta di più dentro la sala, avrei dovuto aspettare il mio turno e andare fra le ultime.

Due o tre ragazze dissero che si sarebbero lavate a casa, per cui sperai che non avrei dovuto attendere chissà quanto.

Ginevra, che era andata fra le prime, aveva già finito. «Comunque secondo me non sei andata così male, avendo iniziato oggi. Io come vedi faccio confusione fra il primo e il secondo ritornello» mi disse, mentre strofinava un asciugamano sui capelli per togliere l'umidità. «Vedrai che fra una o due lezioni sarai già al nostro passo» aggiunse con tono incoraggiante e io lo apprezzai molto.

«Lo spero, anche perché dobbiamo imparare altre due coreografie oltre a questa per il saggio di dicembre» risposi.

«Ma sì, vedrai, non preoccuparti. Comunque noi questa sera andiamo a cena in una pizzeria qui vicino, se ti va di aggregarti non farti problemi» propose, prima di togliersi l'accappatoio di dosso e cominciare a vestirsi.

Sarebbe stata un'idea carina, ma non avevo mezza lira con me e in più ero davvero stanca, non vedevo semplicemente l'ora di tornare a casa e infilarmi sotto le coperte. «Magari la prossima volta, ma grazie comunque per l'invito» declinai la sua offerta, anche se mi aveva fatto davvero piacere che me l'avesse chiesto.

Se l'atmosfera fosse rimasta la stessa di quando ero arrivata lì dentro poco più di un'ora prima, sarei stata certamente desolata e anche demotivata all'idea di doverci tornare la settimana dopo per ben due volte: infatti era un corso bisettimanale, avevamo lezione sia il mercoledì sia il venerdì.

Invece tutto sommato ero stata felice e al di là della stanchezza, non vedevo quasi l'ora che trascorressero quei cinque giorni e che fosse subito mercoledì, così da poter tornare lì.

Lo raccontai a cena e mia madre ne fu lieta, dal momento che sicuro aveva speso tanti soldi per dovermi iscrivere a quel corso, probabilmente privandosi di qualcos'altro e, di conseguenza, se mi avesse sentita lamentarmi e dirmi che non ci sarei più voluta andare (cosa che avevo seriamente pensato prima di iniziare), si sarebbe arrabbiata con me.

«Però mi serve un body più grande, questo mi sta stretto, mi tira da tutte le parti e inoltre paio una scostumata. Lo stesso vale per i fuseaux, se non mi si è fermata la circolazione è stato un miracolo» dissi a un certo punto. Nonostante il commento poco carino di quella ragazza, non potevo comunque darle torto. Ci mancava poco che la parte di mutanda del body sembrasse una di quelle mutande da donna, il perizoma o qualcosa di simile.

«Va bene, questo fine settimana andremo a comprarne uno nuovo» concordò mia mamma.

«Anch'io voglio andare a fare compere» si intromise Benedetta, la quale certamente non aveva compreso il fulcro del discorso. «Mi metto sempre le solite cose.»

«Non ci eri andata con la nonna a fare compere poco prima di lasciare da Torino?» domandò mia madre.

«Sì, ma ho comprato solo cose estive, che tra l'altro non ho neanche quasi mai messo perché non ho idea di dove si trovino. Sicuro Nina me le ha fregate.»

«Ma che dici? Cosa me ne faccio dei tuoi vestiti se ho i miei?» scattai subito sulla difensiva, anche se in realtà ci aveva preso in pieno e un paio di suoi nuovi capi erano nei miei cassetti.

«Magari sono fra le cose da lavare» provò a difendermi mia madre. Non le piaceva quando mia sorella puntava subito il dito contro di me.

Sebbene quella volta in realtà avesse più che ragione, decisi comunque di sfruttare la situazione a mio favore e restare in silenzio.

«Non è possibile che siano a lavare da due mesi. Dopo apriamo i suoi cassetti e vediamo se saltano fuori oppure no!» esclamò Benedetta.

«No, come io non posso toccare i tuoi cassetti, non esiste che tu vada a ficcare il naso fra i miei» ribattei.

«Questa sera danno il nuovo film di Rocky Balboa in TV» si mise in mezzo Vittorio, per provare a smorzare la tensione spostando l'attenzione su qualcos'altro.

«E chi se ne importa» commentai, mentre mia madre mi fulminò con lo sguardo per i miei modi scortesi.

«Dai, perché non lo guardiamo? Non guardiamo un film insieme da un sacco, mi annoio a vederli da solo» insistette, sebbene non avesse alcun senso, perché un film era fatto per essere guardato in silenzio, quindi che si fosse da soli o in compagnia cambiava ben poco.

«Non mi piace che guardi questa tipologia di film» intervenne Claudio rivolgendosi al figlio. «Non vorrei che iniziassi ad imitare le mosse di questi pugili, e...»

«Anche se lo facessi, e ciò non significa che lo farei, non potrei mai fare del male a una mosca» lo interruppe Vittorio, mostrando il suo braccino magro e sottile.

Claudio non disse nulla, facendosi andare bene quella risposta e riponendo fiducia nell'integrità morale del figlio, oppure nella sua scarsa indole a poter ferire seriamente qualcuno con quel fisico così mingherlino.

Vittorio allora esultò e, dopo aver finito di cenare, mi costrinse a posizionarmi sul divano e a guardare Rocky III con lui. Me ne fregava ben poco di vederlo, ma decisi comunque di fargli quel piacere e di rimanere con lui.

Peccato che fui di poca compagnia, in quanto poco dopo l'inizio del film mi addormentai sulla sua spalla, con ancora i vestiti che avevo quando ero tornata a casa da danza.

*

L'indomani mattina, con mia grossa sorpresa e confusione, mi svegliai nel mio letto, ancora con i pantaloni della tuta e la felpa che indossavo la sera prima. Ero parecchio confusa, in quanto non sapevo come ci fossi finita lì e come fosse possibile che fosse già mattina. L'ultimo ricordo che avevo erano i rumori di sottofondo provocati dalla televisione accesa, e la spalla ossuta di Vittorio sulla quale mi ero appisolata per quelli che pensavo che sarebbero stati solo pochi minuti, e non una notte intera.

Dev'essere stato Vittorio a portarmi a letto, pensai. All'improvviso mi ricordai di quelle volte in cui da bambina mi addormentavo sul divano e quasi per magia mi risvegliavo nel mio letto la mattina seguente, poiché mio padre mi prendeva in braccio e mi portava a letto.

Mi mancava quella sensazione di confusione che si provava in quei momenti, e quell'illusione di essere stata teletrasportata.

E ciò significava solo una cosa: non potevo più aspettare. Era sabato e io ero pronta a mettere in atto il mio piano e andare a trovare mio padre.

 

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Capitolo 32
*** Trenta. ***


Trenta.

Dopo aver studiato tutta la mattina, nel primo pomeriggio uscii con lo zaino in spalla, riempito con la mappa di Milano e una scatola di biscotti che avrei usato come scusa per farmi aprire la porta.

Avevo minacciato Vittorio per giorni interi affinché non si avvicinasse a quei biscotti al burro che avevo accuratamente preparato, senza fornirgli una vera e propria spiegazione, dato che nessuno doveva sapere quello che stavo per andare a fare, nemmeno lui.

Non perché pensavo che avrebbe cercato di fermarmi come aveva fatto Benedetta, anche perché se non era riuscita lei a farmi cambiare idea, figuriamoci se ce l'avrebbe fatta lui, ma solo perché volevo che fosse una cosa mia. Al limite gliene avrei parlato una volta tornata a casa, sempre che ne avessi voglia.

E poi anche lui, che si professava sempre sincero e capace di parlare a cuore aperto con me, aveva invece i propri segreti che non si sentiva di condividere con me.

Non lo incolpavo per questo. Anzi, forse da una parte era giusto così. Chiunque aveva i propri segreti, piccoli o grandi che fossero, qualcosa che non rivelava a nessuno per le più svariate ragioni, e andava bene così.

Feci così in fretta a pranzare e prepararmi per uscire, che mi sentivo ancora le tagliatelle al ragù in gola piuttosto che nello stomaco. Inoltre, mia mamma e Benedetta, oltre a Vittorio e Claudio, si domandarono con ogni probabilità dove mi stessi recando con così tanta urgenza, ma riuscii a evitare di fornire loro una risposta precisa.

Speravo solo di non impiegarci troppo tempo ad arrivare a destinazione: non ero più in punizione, ma ci sarei facilmente tornata se fossi scomparsa per ore e ore senza avvisare nessuno circa i miei spostamenti e per di più se fossi tornata la sera tardi, come circa tre settimane prima. Dipendeva tutto anche da quanto ci avrei messo a parlare con mio padre.

La strada sarebbe stata molto più breve se avessi preso la metropolitana, ma non avevo voglia di prenderla senza biglietto e assumermi il rischio di essere scoperta, anche perché nel primo pomeriggio i mezzi pubblici non erano mai tanto pieni e sarebbe stato più difficile passare inosservata e confondermi fra la calca di gente.

Così presi un autobus fino al capolinea, e da lì attesi l'arrivo di un tram che avrei preso per sette fermate. Da lì poi era un attimo, questione di pochi minuti di camminata e sarei giunta a destinazione.

Mi accorsi, man mano che mi avvicinavo, che avevo sempre meno bisogno di tirare fuori la mappa per controllare il tragitto, a differenza di prima che dovevo accertarmi in continuazione di non star sbagliando strada. Sapevo benissimo dove stavo mettendo i piedi, me lo ricordavo ancora.

C'erano gli stessi palazzi, quelli più vecchi sulla destra e quelli più nuovi, ricostruiti dopo la guerra sulla sinistra, la stessa piazzetta quadrata dove andavo a giocare da bambina, pure i graffiti e i pasticci sulle mura grigie del mio vecchio condominio erano rimasti gli stessi, se n'erano solo aggiunti di nuovi. C'era ancora, parcheggiato dove lo vedevo sempre, un vecchio Maggiolino cabriolet del 1949, che una volta era bianco ma col tempo aveva perso sempre di più la sua luminosità e si era ingrigito. Apparteneva a un mio vecchio vicino di casa, che a quanto pare abitava ancora lì.

Mi avvicinai allora al pannello del citofono, andando a cercare con l'indice il cartellino bianco contenente il cognome di mio padre.

Storsi il naso nel momento in cui lo individuai, Colombo, seguito da un trattino e un altro cognome, Vezzi.

Comunque cercai di non saltare a conclusioni affrettate. A breve avrei avuto tutte le risposte che cercavo. Così, con le mani che tremavano terribilmente, schiacciai il pulsante corrispondente all'etichetta e attesi un riscontro dall'altra parte, che arrivò dopo pochi secondi.

«Chi è?»

Non era una voce maschile, e inoltre non sembrava una voce adulta, a considerare da quanto fosse acuta e squillante.

«I-io... sono Nina, sono una ragazza della parrocchia di San Giovanni, sono qui per... per portare dei doni» risposi, sentendo il cuore morirmi in gola.

Diamine Nina, ti eri esercitata a casa, perché ora te ne esci con questo tono così insicuro? Come puoi aspettarti che ti aprano se ti presenti così?, mi rimproverai fra me e me.

Sorprendentemente, però, sentii il portone scattare, segnale che mi avevano aperto.

«Secondo piano!» sentii dire in lontananza, ma non ce n'era un reale bisogno: mi ricordavo anche quello, e infatti subito dopo che si era aperta la porta ero scattata dentro e mi ero già diretta su per le scale, senza stare ad attendere che mi dessero quell'informazione.

Mi accorsi che avevo già il fiatone ancor prima di appoggiare il piede sul primo scalino. Mi fermai a metà percorso, per cercare di calmarmi, e fui quasi tentata di scendere di sotto e correre a casa.

Smettila di fare la vigliacca, ormai sei qui, quindi sali quegli stupidi scalini e vai a scoprire la verità che ti meriti dopo tutti questi anni, mi dissi.

Allora feci un respiro profondo e, infondendomi coraggio, percorsi gli ultimi scalini che mi mancavano.

Una volta sul pianerottolo del secondo piano, vidi una porta socchiusa. Mi avvicinai per leggere la targhetta sul muro, ed era quella giusta.

Nel mentre che credevo di morire per un attacco di cuore, mi accinsi a mettere via dentro lo zaino la cartina e a tirare invece fuori la scatola di biscotti. Una volta pronta, bussai educatamente alla porta.

La porta si aprì del tutto e davanti a me mi ritrovai una scena che non mi sarei mai immaginata. C'era una bambina, di dieci anni massimo, che mi fissava con occhi sorpresi e con un nasino curioso che aveva già intuito quello che fosse il contenuto della scatola che tenevo in mano. Ma ciò che mi stupì ancor di più fu vedere una ragazza, dietro la bambina, che dimostrava circa la mia età, massimo uno o due anni in più.

Avevo la pelle d'oca, i brividi lungo tutto il corpo, il respiro che mi mancava e per poco non rischiai di far cadere a terra la scatola di biscotti.

Con un filo di voce e gli occhi così lucidi da impedirmi di mettere bene a fuoco, aprii finalmente la bocca e parlai: «Questi sono i biscotti che io e... e gli altri ragazzi e bambini della parrocchia abbiamo fatto con... con a-amo... sì, amore verso il p-prossimo, e li stiamo consegnando a tutte le famiglie del quartiere... in cambio di... di una gentile offerta» proseguii con la mia recita, impiegando di certo più tempo del dovuto a pronunciare quelle parole, a causa dell'agitazione che mi faceva tremare la voce, balbettare e impappinare di continuo.

In quel momento, più che mai prima d'ora, desiderai di aver preso, così come Benedetta, gli occhi da mia madre... dato che a quanto pare non sembravo l'unica ad aver ereditato quelli di mio padre.

Chissà se anche loro se ne erano accorte nel trovarmi lì di fronte a loro.

Era l'unica spiegazione possibile, ma volevo averne la conferma. «Chiaramente mi rendo conto che voi... sì, insomma, immagino che non abbiate del denaro con voi... per caso la signora Colombo e il signor Vezzi sono in casa?» domandai, invertendo appositamente il genere associato ai loro cognomi.

«No, il signor Colombo - mio padre -, e la signora Vezzi - mia madre -, non sono in casa al momento» precisò quella più grande, e io mi sentii morire dentro, nel ricevere quella risposta così dettagliata. «E mi dispiace, perché sembri molto gentile, ma noi non abbiamo niente da darti» aggiunse.

Deglutii.

«Stai bene?» chiese la più piccola mentre io mi sentivo quasi svenire, avvicinandosi e toccandomi il braccio delicatamente. Sicuramente ero sbiancata e parevo davvero un cadavere, e forse avrei voluto esserlo. O se non altro avrei voluto essere ovunque ma non lì.

Mi scostai bruscamente e tesi le braccia in avanti, per passare a loro la scatola di biscotti. Avevo bisogno di liberarmi di quel peso, dato che sembrava aumentato di una cinquantina di chili e io non ce la facevo più ad averlo fra le mani. «Tenete! Non fa nulla, insomma, tanto ne abbiamo fatti talmente tanti di biscotti che possiamo permetterci di regalarne qualcuno» dissi a quel punto, e la bambina accolse le mie parole e il mio dono con piacere.

Stavo quasi per andarmene, e non vedevo l'ora di farlo, ma c'era ancora una cosa che volevo scoprire. Così mi rivolsi alla figlia più grande. «Tu frequenti l'Itis Feltrinelli, giusto? Mi sembra di averti vista, io sono nella 2D, tu che sezione sei?» domandai quindi.

Lei corrucciò la fronte, piuttosto confusa e stranita. Be', era ovvio che non ci avessi preso, dato che avevo sparato a caso, inventandomi tutto. Ma mi serviva per sapere una cosa nello specifico, e la sua risposta spiegò tutto perfettamente: «No, direi che non è possibile. Vado al liceo Brera e, anche se non si direbbe perché sembro più piccola rispetto alle mie coetanee, sono al quarto anno» disse con un piccolo sorriso, e io mi sentii ancora peggio di come già mi sentivo.

Era più grande di me e più piccola di Benedetta.

«Allora forse sarà stato qualcuno che ti somiglia. Grazie tante e scusate il disturbo. Buona giornata» dissi con voce rotta, prima di voltarmi e andarmene da lì al più presto.

Ero sotto shock, con la vista annebbiata, e me ne stavo lì a vagare senza una meta vera e propria nei dintorni di Milano.

Non potevo crederci. Avevo già messo in conto che qualsiasi cosa avessi scoperto mi avrebbe scossa, anche perché già rivedere mio padre dopo tutti quegli anni sarebbe stato qualcosa di a dir poco sconvolgente... ma quello era stato ancora peggio, ed ero certa che non avrei mai più sentito il bisogno di vedere quel mostro per il resto della mia vita.

Del resto quasi metà dei miei anni li avevo passati standogli lontana, ed ero sopravvissuta. Ce l'avrei fatta così come avevo fatto fino a quel momento.

Solo che non ce l'avrei fatta da sola, non dopo ciò di cui ero venuta a conoscenza. Avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno, ma non volevo né potevo farlo con Benedetta, perché mi aveva avvisata, e solo allora le sue parole mi sembravano finalmente sensate; non potevo parlarne neanche con mia madre, poiché non volevo che lo scoprisse; né tantomeno con Vittorio, più che altro perché non avevo voglia di tornare a casa.

Avevo bisogno di starmene fuori da quelle quattro mura ancora per qualche ora. E quindi c'era solo un posto dove sarei potuta andare.

*

Era stata una fortuna che proprio il giorno precedente mi fossi segnata sulla mappa l'indirizzo di casa delle mie amiche, non pensavo che mi sarebbe servito così presto.

Irene mi accolse a braccia aperte, senza fare domande sul perché mi fossi precipitata a casa sua senza preavviso. Le corsi incontro non appena mi aprì la porta di casa e la abbracciai forte: «È stato il giorno più brutto della mia vita!» esclamai, lottando con tutta me stessa per evitare di piangere.

Probabilmente mi avrebbe fatto bene piangere, ma mi ero stancata di farlo per lui, ne avevo versate a sufficienza di lacrime nel corso degli anni.

Irene sciolse l'abbraccio e mi fissò preoccupata, prima di chiudere la porta di casa alle mie spalle e prendermi per mano per portarmi con lei in cucina. Mi disse di accomodarmi sulla sedia e dopodiché prese un bicchiere e lo riempì velocemente con l'acqua del rubinetto, prima di passarmelo.

Bevvi il tutto in un sorso solo, che mandai giù deglutendo pesantemente. Allora Irene mi prese con cautela il bicchiere dalle mani e me lo riempì nuovamente.

«Che succede, Nina? Non ti ho mai vista così...»

Aprii la bocca per rispondere, e poi la richiusi.

Una parte di me voleva scoraggiarmi dal confessarglielo, mi ripeteva di lasciare perdere e che tanto a Irene non sarebbe fregato niente dei miei problemi, anzi, che avevo pure fatto un errore madornale a presentarmi a casa sua da gran maleducata; l'altra parte di me però mi diceva che non era ignorando la cosa e tenendomi tutto dentro che sarei stata meglio, e che inoltre Irene non avrebbe mai pensato quelle cose di me perché era una vera amica e mi voleva bene.

Quella volta lasciai quindi che la piccola e fragile Nina prevalesse sulla grande e dura Nina. Presi un respiro profondo e, dopo aver bevuto anche il secondo bicchier d'acqua, un po' più lentamente rispetto alla prima volta, riaprii la bocca. «D'accordo. Ti racconterò ogni cosa.»

*

Irene era molto brava ad ascoltare. Rimase in silenzio a sentire il mio racconto fin dal principio, le raccontai in dettaglio di mio padre e di quello che era successo otto anni prima, dato che prima di allora mi ero solo limitata a dire che i miei si erano separati e non avevo mai parlato della storia per intero; dissi di come per tutti quegli anni avessi sempre sentito la mancanza di mio padre come un vero e proprio tassello mancante nella mia vita, e infine raccontai di quel pomeriggio e di ciò che ero venuta a sapere.

La mia amica mi ascoltò con pazienza e attenzione, senza fare nessun commento fino a che non terminai il discorso.

Era stato un enorme passo avanti per me e mi aveva costato molta fatica, ma mi sentivo bene dopo averne parlato con qualcuno, e in particolare dopo averne parlato con lei.

Mi abbracciò forte un'altra volta, dandomi delle piccole carezze sulla schiena mentre io singhiozzavo.

Perché sì, nonostante ciò che mi ero imposta, era inevitabile che alla fine avrei pianto. Mi ero rivista scorrere davanti tutti quegli anni alla velocità dalla luce, migliaia di ricordi che riaffioravano, il tutto unito al nervoso, alla tristezza, alla delusione e alla rabbia... era un misto di emozioni così intense che non ero riuscita a trattenermi.

«Mi dispiace tanto, Nina, davvero. Vorrei trovare il modo di aiutarti, ma non posso far altro se non starti vicino, anche se mi rendo conto che non sia sufficiente, e che...»

«Lo è, invece. Per me conta tantissimo» la interruppi con un piccolo sorriso, prima di soffiarmi il naso sul tovagliolo di carta che mi aveva passato poco prima. «E scusa se mi sono presentata così a casa tua senza neanche chiederti il permesso, ma non ce la facevo proprio a tornare a casa mia e fare finta che non fosse successo niente... ora però mi sento meglio, quindi posso togliere il disturbo, anche perché credo che si stia quasi facendo ora di cena, e i tuoi torneranno a casa a breve.» Mi alzai in piedi dalla sedia e feci per dirigermi verso la porta di casa, ma Irene mi afferrò per il polso per trattenermi: «Perché non resti a cena qui? E magari anche a dormire. Tanto domani è domenica, anche se facciamo tardi non è un problema, dato che non c'è scuola» propose ed era un'idea allettante, ma avrei prima dovuto avvisare mia madre e chiederle il permesso. «Cioè, mia madre mi romperà sicuramente se non vado a messa, ma magari chiuderà un occhio se ci sei tu come ospite» aggiunse e io sogghignai.

Non avevo mai fatto un pigiama party, chiaramente, non avendo mai stretto un vero rapporto d'amicizia con nessuna.

Andammo in salotto per prendere il telefono e poter chiamare mia madre, che stando a quanto segnava l'orologio appeso alla parete era tornata a casa da una decina di minuti. «Pronto?» rispose.

«Ehi mamma, sono io, Nina. Sono a casa di una mia amica, Irene» dissi.

«Chi?» domandò confusa.

«Ma dai, mamma, te ne parlo sempre! Irene, la mia compagna di classe!» esclamai, convinta per qualche ragione che alzare il tono di voce servisse a scuotere la memoria di mia madre e far sì che si ricordasse.

Trascorsero una decina di secondi, e poi mia madre si espresse nuovamente: «Ah, ma certo: Irene, quella di Como che è nata due giorni prima di te» disse, rimembrando ciò che le avevo detto i primi giorni di scuola. «E senti, quando torni a casa?» chiese. «È quasi ora di cena» aggiunse.

«In verità noi... ecco, Irene mi ha invitata a rimanere qui a cena e a dormire. Posso? Ti prego, ti supplico, ti scongiuro!»

Io e Irene ci scambiammo uno sguardo complice e sorridemmo.

«Ma dai, Nina, domani è anche il compleanno di tua sorella...» iniziò a dire, e io la interruppi: «Appunto, domani, non oggi. Tanto torno domani mattina prima di pranzo, Irene non abita tanto lontano da noi, tempo di svegliarmi e fare colazione e sarò a casa» spiegai, sperando di riuscire a convincerla.

In fondo non le chiedevo quasi mai dei piaceri.

Passarono altri secondi di silenzio, che mia madre si prese per riflettere, mentre io e Irene ce ne stavamo lì a incrociare le dita.

«Mmh... dai, d'accordo. Comportati bene, mi raccomando. E ringrazia i suoi genitori per l'ospitalità. E non state alzate fino a troppo tardi a schiamazzare come delle oche, potreste infastidire i suoi familiari oppure i suoi vicini, e inoltre...»

Non le diedi il tempo di finire la lunga lista di raccomandazioni, perché ero troppo al settimo cielo per poter starmene lì ad ascoltarla. «Grazie, grazie, grazie! Ti voglio bene, mammina, sei la mamma migliore del mondo e finché avrò te so che non mi mancherà mai nulla!» esclamai, ed era la verità, era quello che sentivo davvero dentro di me.

 

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Capitolo 33
*** Trentuno. ***


Trentuno.


Restare a casa di Irene fu terapeutico molto più di quello che mi sarei aspettata. Fino a quel momento non avevamo avuto mai troppo tempo a disposizione da trascorrere insieme, ed era davvero ciò di cui avevo bisogno: staccare da tutto, scherzare e fare un po' la stupida, distrarmi.

Approfittando del fatto che quel pomeriggio sia i genitori di Irene, sia sua sorella e suo fratello non erano in casa, Irene prese da uno scaffale del salotto uno dei cento o più dischi in vinile di suo padre e lo inserì nel giradischi posizionato di fianco al televisore. Ne selezionò uno dei Beatles e regolò il volume al massimo.

Poi chiuse tutte le finestre e tirò giù le tapparelle, lasciando solo accesa un'abatjour dalla luce tenue e soffusa, in modo tale da dare l'impressione che ci trovassimo in una discoteca.

E infatti non appena iniziò il primo brano, iniziammo a scatenarci come delle pazze.

Poi domandai a Irene se le andasse di vedere la parte di coreografia che avevo imparato a danza qualche giorno prima e, anche se chiaramente il ritmo dolce e lento di Here Comes The Sun stonava parecchio con quello più incalzante e rapido della coreografia, ma al momento non importava a nessuna delle due.

A un certo punto inciampai sul tappeto del salotto mentre facevo una piroetta e scivolai a terra come una pera cotta, causando delle grassi risate in Irene.

Più tardi il resto dei familiari della mia amica tornò a casa, e Irene si affrettò subito a mettere subito il disco a posto con cura.

Suo padre, appassionato di musica di ogni tipo, teneva molto alla sua enorme collezione di dischi e aveva paura che la figlia li rovinasse maneggiandoli con poca premura. Del resto anche Irene non lasciava nessuno avvicinare al suo pianoforte, appoggiato alla parete di fianco al divano.

Era bello che padre e figlia condividessero la stessa passione.

Una cosa che io non avevo mai sperimentato né allora né avrei fatto in futuro.

Comunque i genitori di Irene si rivelarono molto gentili e ospitali, proprio come la figlia. Sua sorella, Letizia, era molto calma e protettiva con Irene, tutto il contrario di Benedetta; quanto a Stefano, suo fratello, sembrava molto timido e riservato, e mi ricordò un po' Vittorio.

A modo loro, riuscirono tutti a farmi sentire a mio agio e a cena, una volta superato lo scoglio iniziale di timidezza, non mi sentii in imbarazzo, bensì riuscii a dialogare con ciascuno di loro senza vergogna.

Erano una famiglia molto alla mano, ed era bello che fossero così uniti. Eppure una parte di me non riuscì a evitare di provare un poco d'invidia nei confronti di Irene e della sua splendida famiglia. Era la rappresentazione di ciò che avevo sempre desiderato e non avevo mai avuto.

Per un po' avevo pensato che il mio fosse solo un sogno irrealizzabile e che non esistesse davvero la famiglia del Mulino Bianco nella vita reale. Ed era vero, non esisteva, ma la famiglia di Irene ci si avvicinava parecchio, perciò non era neanche così impossibile.

Dopodiché io e Irene ci preparammo per andare a dormire. Mi prestò un suo pigiama, che mi stava un pochino corto e mi lasciava scoperte caviglie e polsi, ma era anche l'unica alternativa che avevo: come lei, anche sua sorella e sua madre erano di bassa statura, perciò anche se mi avesse prestato uno dei loro pigiami sarebbe cambiato ben poco.

Proprio come me e Benedetta, anche Irene divideva la cameretta con sua sorella maggiore, mentre Stefano aveva una stanza tutta sua. Tuttavia, quella sera il fratello di Irene sarebbe uscito a fare serata a Pavia insieme ai suoi amici e alla sua fidanzata, e sarebbe tornato ormai a mattina inoltrata. In questo modo, Letizia avrebbe dormito nella stanza del fratello, mentre io e Irene saremmo state insieme nella camera delle due sorelle "senza altre intromissioni", come disse la mia amica.

Infatti, se Letizia a me pareva come un'ottima sorella, premurosa e affettuosa con la più piccola della famiglia, Irene spesso la giudicava troppo appiccicosa e pressante, ed era lieta di poter avere un po' di tregua per una sera.

Io e Irene ci mettemmo a letto una volta dopo esserci sistemate per la notte, ma inutile dire che non chiudemmo occhio quasi per tutto il tempo, trascorrendo l'intera notte in bianco per parlare, ridere e spettegolare.

L'indomani mi svegliai distrutta, ma ne era valsa assolutamente la pena, perché non ero mai stata meglio come in quella giornata, non subito dopo essere stata così tanto male.

Per non disturbare ulteriormente Irene e i suoi, i quali non si erano lamentati ma certamente erano rimasti svegli a sentire i nostri schiamazzi durante tutta la notte, lasciai casa della mia amica il prima possibile dopo essermi svegliata, evitando perfino di fare colazione al contrario di ciò che mi ero prefissata il giorno precedente.

In fondo sarei arrivata in pochi minuti a casa e avrei potuto fare lì colazione con la mia famiglia, anche perché era il compleanno di mia sorella.

Ringraziai Irene e mi diressi a casa.

*

Non appena aprii la porta d'ingresso, quella palla di pelo arancione si diresse verso di me e iniziò a strusciarsi contro le mie caviglie. Se un tempo avrei voluto calciarlo e allontanarlo da me, quella volta mi chinai a terra per prenderlo in braccio. «Anche tu hai fame, vero, brutto bestione?» gli domandai, prima di dirigermi in cucina.

Nel mentre che metto la moka sul fuoco, gli darò da mangiare, mi dissi. I miei piani però subirono una variazione nel momento in cui in cucina, seduto al posto in cui di solito sedevo io, vidi il biondino, con la testa chinata sul tavolo e intento a bersi una tazza di tè.

Ci voleva poco affinché facessi cadere il gatto a terra per la sorpresa, ma fortunatamente riuscii a evitare che accadesse.

Non potevo fare a meno di chiedermi se Filippo fosse lì soltanto perché Vittorio l'aveva invitato oppure se si fosse presentato di sua iniziativa per via di suo padre.

Appoggiai il gatto a terra e poi mi schiarii la voce per farmi notare, dato che era così assorto nei suoi pensieri da non accorgersi della mia presenza.

Sussultò in un primo momento e poi sollevò il capo. Spalancai la bocca e rabbrividii non appena vidi che aveva il labbro spaccato e un livido sulla tempia. Non l'avevo mai visto ridotto così, e in realtà non avrei dovuto stupirmi, dato che era coerente con ciò che mi aveva raccontato... eppure una parte di me aveva sempre ingenuamente creduto che se non avessi mai visto le prove di quella immonda realtà in cui viveva, allora ciò l'avrebbe resa meno vera, meno reale.

«Ehilà, Mercoledì Addams» mi salutò, annunciandomi che in quei giorni in cui non ci eravamo visti, aveva a quanto pare trovato un altro soprannome da affibbiarmi.

Rimasi in silenzio a fissarlo, ancora terrorizzata per la scena che mi trovavo davanti.

«Allora?! Che è quella faccia da cadavere? Ti ci ha soprannominato Vittorio così, giuro, e in effetti un po' ti si addice. Dai, vieni a salutarmi» mi esortò con un sorriso che a me sembrò più che forzato, nascondendo tra l'altro una smorfia di dolore. Ma io non mossi un solo passo verso di lui. A quel punto, un po' spazientito, si alzò in piedi, girò l'angolo del tavolo e si posizionò davanti a me.

Il mio cuore non voleva smettere di battere all'impazzata, e inoltre non riuscivo a distogliere lo sguardo dalle sue ferite.

Aspettava che gli dessi un bacio sulla guancia, dato che non era ovviamente il caso che lo facesse lui e, dopo molti attimi di titubanza, alla fine mi avvicinai per accontentarlo, solo che sfiorai appena la sua pelle con le mie labbra, e mi ritrassi in fretta.

Corrucciò la fronte, probabilmente non capiva perché mi stessi comportando in modo più strano del normale, ma la verità era che non lo sapevo nemmeno io. Comunque dopo pochi attimi uscì dalla cucina e lo vidi sparire in camera di Vittorio, eppure a giudicare dalla tazza di tè ancora fumante e piena quasi fino all'orlo, non poteva aver già finito di fare colazione.

Nel frattempo che cercavo di capire cosa avesse in mente di fare, mi accorsi invece che a me la fame era passata, eppure sentivo lo stesso una specie di vuoto allo stomaco.

Dopo qualche secondo, Filippo ritornò in cucina con un sacchetto di carta marrone fra le mani, e me lo porse: «Un regalo per te, mia piccola Jo March» disse, e io lo fissai sempre più confusa. Storsi il naso, non cogliendo il riferimento, né capendo il motivo di tutti quei nomignoli.

Alla fine decisi di prendere il sacchetto e di tirarne fuori il contenuto. Era un libro piuttosto massiccio, un po' rovinato sui lati e dalla copertina sbiadita e un po' polverosa, dal titolo: "Piccole donne e piccole donne crescono". Tornai a guardare Filippo, nella speranza che mi desse dei chiarimenti.

«È un'edizione vecchissima, ora li vendono divisi in due volumi» spiegò.

«Non dovevi... ti rido i soldi» dissi prontamente, perché non potevo accettare che mi avesse comprato un libro, per di più un'edizione vecchia, che doveva quindi essere più rara e più costosa.

«Non ho speso un centesimo» mi rassicurò. «Ce l'avevo in soffitta, apparteneva a mia nonna, credo. E ho pensato che potesse piacerti, capirai il perché.»

«Comunque ho già letto piccole donne. Be', era una versione riadattata per l'infanzia perché l'ho letto a nove anni, ma qualcosa dovrei ricordarmi...»

«I classici riadattati per bambini fanno pena, lo sanno tutti» mi interruppe. «Questo l'avevo letto qualche anno fa, e ieri mentre mi nascondevo me lo sono trovato a portata di mano e subito mi sono ricordato e poi ho pensato a te.»

Rabbrividii nel sentire le parole «mentre mi nascondevo», specie a causa della tranquillità con cui lo disse.

«Grazie, grazie, veramente!» esclamai, ed ero davvero al settimo cielo. Avrei voluto ringraziarlo più che a parole, ma non avrei saputo in che altro modo ricambiare il favore.

Per me contava davvero tanto quel gesto.

Quella volta dopo il pomeriggio al Parco Sempione in cui ci eravamo fermati a parlare solo io e lui, gli avevo rivelato di quanto mi piacesse leggere sebbene non lo facessi tanto, e lui mi aveva ascoltata mentre gliene parlavo, ma ascoltata per davvero: mi aveva presa così alla lettera che alla prima occasione mi aveva portato un libro da leggere! E a quanto pare non l'aveva scelto in maniera casuale, ma appositamente per me.

Cioè, probabilmente ha pensato potesse piacermi per una delle sue goliardate e sarà quindi tutta una presa in giro, mi dissi in un primo momento per evitare di ingigantire tutto, in fondo era sempre Filippo e non dovevo aspettarmi chissà che da lui... ma era così serio mentre me l'aveva detto che in realtà forse era davvero così come diceva lui. Avrei solo dovuto leggerlo e terminarlo per scoprire la verità.

«E comunque dovevo trovare un modo per farmi perdonare per aver esagerato l'altra volta» disse a un certo punto.

Appoggiai per un momento il libro sul tavolo della cucina e incrociai le braccia al petto: «Ah, wow, finalmente ti scusi per qualcosa» gli feci notare, simulando un applauso.

«Quando sbaglio io mi scuso io. Ma tu, cara mia, pur essendo una donnina, sei quasi sempre nel torto quando si tratta di una questione fra me e te!» ribatté, battendomi un dito sulla fronte per un paio di volte, prima di prendere la sua tazza di tè e uscire di nuovo dalla cucina, privandomi della possibilità di rispondergli a tono.

In realtà avrei potuto inseguirlo e dirgli la mia, ma a quel punto sarebbe degenerato tutto in un'altra discussione, e io non ne avevo voglia.

Ero troppo di buon umore quella mattina per farmi rovinare la giornata da lui o da chiunque altro.

*

Filippo andò via dopo pranzo, sebbene sia Vittorio sia Claudio e mia madre insistettero per farlo rimanere più a lungo. E forse nemmeno a me sarebbe dispiaciuto più di tanto se avesse prolungato la sua presenza da noi. Tuttavia, lui insistette che doveva andare a fare la spesa e che inoltre non voleva disturbare durante il giorno del compleanno di mia sorella, senza sapere che in realtà era un giorno come gli altri.

A Benedetta infatti non importava nulla di festeggiare, da sempre era stato così; avrebbe voluto passare quel giorno insieme a Maurizio, ma ovviamente non era possibile, quindi si sarebbe dovuta accontentare della nostra compagnia.

Quella sera saremmo andati a cena al ristorante su proposta di mia madre, che non poteva accettare che sua figlia si rinchiudesse in casa il giorno del suo diciottesimo compleanno.

Mi chiesi che cosa stesse provando mia madre durante quella giornata. Chissà che cosa significava per lei vedere sua figlia, la sua primogenita, diventare maggiorenne. Continuava a dire che era accaduto troppo in fretta e che ogni volta che la guardava la vedeva gattonare in giro per la casa oppure mangiare le pappe (e lanciarle contro il muro perché difficilmente erano di suo gusto) oppure ancora, quando la vedeva sorridere, le pareva quasi di vedere tutti i denti mancanti a differenza dei due incisivi superiori.

Inoltre, per mia mamma suonava strano considerare Benedetta maggiorenne a soli diciotto anni: ai suoi tempi, e fino al 1975, si diveniva maggiorenni solo al compimento del ventunesimo anno di età. Era un bel cambiamento.

Mentre io e mia sorella ci ritirammo in camera dopo aver finito di lavare i piatti, trovai finalmente il coraggio di porle una domanda importante, e sapevo con certezza che lei avrebbe saputo rispondermi. «Benni» richiamai la sua attenzione, e lei si mise seduta sul bordo del letto, di fronte a me. «Tu lo sapevi? Che papà ha sempre tradito la mamma?» domandai, deglutendo subito dopo.

Benedetta rimase sorpresa in un primo momento, ma evitò comunque di chiedermi come lo avessi saputo. In fondo le avevo detto del mio piano di andare a trovare nostro padre, da lì non ci voleva molto a fare due più due. «Per questo ti avevo detto che non dovevi andarci» mi disse con tono di rimprovero, prima di sospirare e poi fornire maggiori dettagli: «Lo sai che dopo la strage di Piazza Fontana la mamma è stata tanto male, no? E che inoltre papà lavorava lì vicino, in Via Clemente? Ecco, la verità è che la mamma non è stata depressa per mesi e mesi per via del terrore di ciò che era avvenuto, ma per il fatto che papà, una volta tornato a casa, anche più tardi del solito, non ne avesse avuto alcuna notizia... e lui lavorava lì a due passi! E comunque tutti i telegiornali e le radio e qualsiasi altro mezzo di comunicazione non facevano che annunciarlo ovunque. Quindi, lui dov'era mentre succedeva?».

Da lì nostra madre iniziò a essere sempre più sospettosa e insofferente nei confronti di nostro padre, ci era stata malissimo, tanto da chiudersi in casa per mesi interi. Finché una sera, durante una discussione, nostro padre non ammise finalmente la verità, ovvero che c'era un'altra donna nella sua vita, e Benedetta sentì tutto origliando da dietro una porta.

«La mamma cadde in depressione, voleva lasciarlo dopo ciò che aveva fatto, ma nessuna legge lo consentiva e non sapeva dove andare né cosa fare; non aveva un lavoro; non poteva andare dai nonni perché avrebbero trovato il modo di dare la colpa a lei di tutto come sempre, e poi era frenata dal fatto che volesse il meglio per me e te, non voleva essere egoista pensando solo a se stessa e alla sua felicità. E noi stravedevamo per papà, forse più di quanto stravedevamo per lei.
Lo stesso in fondo valeva per papà, anche lui teneva a noi, o almeno così diceva, perciò decisero di riprovarci per qualche tempo, finché la mamma non scoprì che c'era anche un'altra figlia, che aveva avuto prima di te. E lì le cose si ruppero definitivamente fra i due.»

Avevo gli occhi lucidi ed ero a corto di fiato.
Per tutti quegli anni ero stata all'oscuro di quella verità, che mi era stata nascosta forse per proteggermi, ma in realtà mi aveva solo fatto stare peggio, perché non ero mai riuscita a darmi pace fino a quel momento.

Avrei voluto saperlo e avrei voluto saperlo da Benedetta e da mia madre, invece l'avevo scoperto nel peggiore dei modi: vedendo la realtà venirmi sbattuta crudelmente in faccia davanti ai miei occhi increduli.

E poi per mesi una parte di me aveva incolpato mia madre per essersi subito rifatta una vita una volta dopo aver conosciuto Claudio, fregandosene di me e Benedetta.

Ma le cose non erano andate affatto così: avrebbe potuto scappare molti anni prima, dopo aver scoperto il segreto di nostro padre, ma non l'aveva fatto a causa delle sue figlie. Aveva messo noi al primo posto, per anni e anni, finché finalmente un giorno, all'incirca quattro anni prima, aveva finalmente conosciuto un uomo degno di lei e gli aveva dato una possibilità, e adesso era felice.

Lo vedevo dalla luce che risplendeva nei suoi occhi verdi e cristallini, e che per diverso tempo erano stati bui e spenti.

Non sapevo come sentirmi in quel momento. Una parte di me stava ancora elaborando quelle informazioni, l'altra era quasi in lutto, un'altra ancora era in uno strano stato di pacifica serenità: finalmente avevo trovato il tassello mancante del puzzle, avevo tutte le risposte che per anni avevo cercato e che mi avevano fatta sentire incompleta.

Eppure perché mi sentivo ancora quella sensazione di vuoto allo stomaco? Perché dentro di me sentivo che mancasse ancora qualcosa?

 

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Capitolo 34
*** Trentadue. ***


Trentadue.


Per distrarmi da ciò che mi aveva raccontato mia sorella, passai gran parte del pomeriggio a leggere il libro che mi aveva regalato Filippo. L'autrice aveva un modo di scrivere così pulito e leggero che mi catturò e mi travolse fin da subito. Era probabile che l'avrei finito in meno di una settimana se mi ci fossi messa davvero d'impegno; se non avessi avuto altri impegni quali la scuola e la danza, probabilmente anche meno.

Erano passati davvero tanti anni da quando avevo letto la versione riadattata del grande classico di Louisa May Alcott, pertanto avevo rimosso quasi ogni ricordo a riguardo. E forse aveva ragione Filippo: i classici riadattati per l'infanzia non avevano mai lo stesso impatto e lo stesso valore dei romanzi originali, infatti non l'avevo mai considerato una grande lettura fra le tante che avevo fatto in quegli anni, eppure il libro che avevo fra le mani ormai da ore mi stava piacendo tantissimo.

Avrei continuato volentieri a divorarmi quelle pagine fino all'ora di andare a dormire, ma non mi fu possibile. Dovevo prepararmi per uscire a cena per il compleanno di Benedetta.

Intanto, mentre io ero in cameretta a cercare di capire cosa mettere, Benedetta se ne stava come al solito al telefono con Maurizio, a borbottare frasi smielate e vomitevoli e ridere sommessamente. Ne approfittai per prepararle una piccola sorpresa, complice anche mia madre.

Quando finalmente tornò in camera dopo aver riattaccato la cornetta, le porsi un sacchetto dalle dimensioni piuttosto abbondanti: «Tanti auguri!» esclamai.

Lo afferrò subito, curiosa e anche un po' sospettosa, e iniziò a esaminarne il contenuto. Sgranò gli occhi e poi mi fissò di sottecchi, nel mentre che si adoperava a tirare fuori dal sacchetto magliette, pantaloni, calzini, gonne, maglioni... in pratica tutto ciò che era suo e che io avevo fatto sparire dai suoi cassetti in quei mesi per metterli al posto suo senza averne il permesso. «Sai, non si tratta di un regalo, se in realtà sono tutte cose già mie e che tu mi hai rubato, brutta ladruncola!» blaterò con quel solito tono altezzoso e superbo.

«Lo so, ma lo scopo dei regali è anche quello di sorprendere chi li riceve, perché in genere sono cose che non ci si aspetta, o sbaglio? Sorpresa!» urlai quindi, prima di allargare le braccia in attesa di un suo abbraccio. Come prevedibile, mi lasciò con le braccia sospese a mezz'aria e proseguì a guardarmi male. «Intanto perché non lo svuoti tutto?» la incalzai poi, e lei andò avanti a togliere fuori gli indumenti dal sacchetto, finché le sue mani non toccarono qualcosa di diverso, di solido, e di nuovo.

Assunse un sorrisetto compiaciuto, intuendo già cosa teneva sottomano. E allora il suo sorriso si allargò maggiormente non appena ebbe la conferma che cercava: «Il profumo che volevo! Non ci credo!» esclamò a gran voce, fissando il profumo che desiderava da mesi e che avevano tutte le sue amiche tranne lei, a quanto diceva. Paris di Yves Saint Laurent, che oltre a essere impronunciabile, secondo me non aveva neanche tutto questo buon odore, era troppo dolce e nauseabondo per i miei gusti, e quindi perfetto per quelli di Benedetta.

A quel punto aprì con frenesia la confezione del profumo e cominciò a spruzzarsene addosso quintali e quintali, tanto da riuscire a far assumere in pochi attimi quell'odore all'intera stanza. Dopodiché uscì e andò in cerca di mia madre per andare ad abbracciarla e ringraziarla.

Iniziai intanto a raccogliere da terra e a ripiegare i vestiti che Benedetta aveva lasciato cadere con noncuranza man mano che li estraeva dal sacchetto che le avevo dato. Li appoggiai sul suo letto in maniera ordinata, poi mi avvicinai ai miei cassetti e iniziai a cercare qualcosa da mettermi.

Eravamo ormai a ottobre e a Milano iniziava a fare troppo freddo per continuare a mettersi maglie di cotone e felpe leggere. Così scelsi un maglione turchese, che avrei messo sopra una maglia intima, e un paio di pantaloni neri di lana che vestivano un poco attillati.

«Ma davvero vuoi vestirti così, Nina? Sembri una barbona» ci tenne mia sorella a evidenziare una volta tornata in camera.

«È autunno inoltrato e quindi ormai è finito il tempo in cui ci si può vestire in maniera decente» risposi con tono acido. «Che poi non dovrei neanche giustificarmi con te» aggiunsi, incrociando le braccia al petto.

«Su, Nina, avresti anche un bel fisico se la smettessi di coprirlo così tanto con tutti questi strati e questi indumenti larghi.»

Strabuzzai gli occhi, incredula e anche un po' risentita, perché era chiaro che mi stesse prendendo in giro, pur sapendo quanto ci stessi male a riguardo. «Un bel fisico? Io?» ripetei le sue parole, aggiungendo una certa dose di scetticismo.

«Be', perché no? Almeno non sembri più una scopa che cammina e hai qualche forma in più.»

«Ho le spalle troppo larghe e le gambe troppo magre» mi lamentai, assumendo un tono meno duro e più rassegnato. «Vedi? Non c'è niente di femminile in questo.»

Benedetta inarcò le sopracciglia e increspò le labbra, fissando a lungo la mia figura con attenzione. «Ma smettila, Nina, stai ancora crescendo. Le tue spalle sono più piccole delle mie, quindi non sono così larghe, è solo che hai il bacino stretto. Inoltre hai una bella schiena, una buona postura. E le tue gambe sono magre ma toniche e muscolose. Sei fortunata, se continuerai con la danza magari ti eviterai la cellulite e il culo cadente ancora per molto. Anche se comunque non mi spiego come sia possibile che dopo tutti questi anni in cui la pratichi, tu non abbia acquisito un minimo di grazia e quando cammini sembri ugualmente un bisonte.»

Rimasi in silenzio, tanto le sue parole non avevano alcun effetto su di me. Ormai non facevo che paragonarmi con chiunque mi capitasse davanti, e alla fine ero sempre io a perdere il confronto.

Tuttavia mia sorella sembrava non essersi ancora arresa. Prese i lembi del mio maglione e me lo sollevò, lo stesso fece con la maglia intima che indossavo sotto, per potermi scoprire la pancia. «Non hai un filo di pancia, e guarda il tuo punto vita: è minuscolo! Solo che non si nota molto perché hai i fianchi stretti. Se imparassi a vestirti, riusciresti di certo a valorizzarti e a piacerti anche di più.»

A quel punto emisi un piccolo sorriso spontaneo. Apprezzai molto quello che disse, soprattutto la parte finale.

"Riusciresti a piacerti di più".

Normalmente Benedetta avrebbe detto cose come: «Così finalmente qualche ragazzo inizierà a notarti», ma quella volta non lo fece. Incentrò il discorso su di me, perché sapeva che conquistare qualcuno era l'ultima fra le mie priorità.

Finalmente l'aveva capito. E le fui grata per quello, aveva detto le cose giuste al momento giusto. Mia sorella ogni tanto, le poche volte in cui voleva, sapeva essere davvero gentile e amorevole verso il prossimo.

Alla fine mi fece cambiare. Mi permise di tenere il maglione, dato che aveva lo scollo a V e secondo lei mi stava molto bene, ma sotto mi fece mettere dei jeans a vita super alta e che vestivano larghi, per dare più volume ai fianchi, a detta di Benedetta.

«Ecco, così va molto meglio» esclamò soddisfatta. «Che ore sono?» domandò poi, e io andai un attimo in salotto per leggere l'orario sull'orologio a cucù.

Poi tornai in camera. «Le sette meno un quarto» riferii a Benedetta, la quale strabuzzò gli occhi: «Merda! Avrei dovuto prendere la pillola un quarto d'ora fa» esclamò disperata, prima di chinarsi a terra e frugare nel suo zaino per tirare fuori la confezione di pillole anticoncezionali.

La dottoressa le aveva detto che avrebbe dovuto prenderla ogni giorno sempre alla stessa ora, specificando anche che in realtà non c'era bisogno di essere per forza così fiscali: l'importante era che non tardasse nel prenderla oltre le dodici ore, caso in cui avrebbe perso la sua efficacia. Pertanto un quarto d'ora non avrebbe influito affatto, ma mia sorella non voleva comunque saperne ed era impossibile farla ragionare.

Andò in cucina a versarsi un bicchiere d'acqua e poi in quattro e quattr'otto mandò giù la pillola.

«Mannaggia a me, dovrei prendermi un orologio da polso per controllare sempre l'orario. E comunque tu potevi avvertirmi!» mi rimproverò, ancora in preda all'agitazione.

Non le risposi nemmeno. Quando faceva così era inutile darle corda, ma conveniva piuttosto lasciarla farneticare finché non si stancava di farlo a vuoto.

«Maurizio cosa ne pensa?» chiesi a un certo punto.

Benedetta scrollò le spalle. «Non è che ci capisca molto di queste cose, e poi figurati se aveva una vaga idea di cosa fosse l'ovaio policistico!» replicò con una piccola risata.

In effetti non mi aspettavo una risposta tanto diversa da quella. E poi non è che Maurizio fosse proprio una cima.

Poi, quasi per caso, mi sorse spontanea un'altra domanda. «Come hai fatto a capire che provavi qualcosa per lui? Cioè, insomma, che ti piaceva più di come ti piace un amico» domandai, mentre dentro di me mi interrogavo su cosa mi avesse portata a chiederglielo.

Però in effetti non gliel'avevo mai chiesto. Benedetta era fin da subito stata molto chiara, ma non le avevo mai domandato da cosa venisse quella certezza in merito ai suoi sentimenti.

Benedetta mi fissò stupita per qualche istante, prima di rispondere. «Non lo so, Nina, ecco... non c'è una ragione sola. Al contrario, io penso che non ce ne sia nessuna realmente valida: è una cosa che non si riesce a spiegare a parole, la si sente e basta.»

Mi sembrava un po' buttata lì a caso come risposta... avevo sempre pensato che ci fossero un miliardo di ragioni che portavano una persona a interessarsi a un'altra, e non che accadesse e basta.

«E si sente che cosa? Le farfalle nello stomaco?»

Benedetta scoppiò a ridere fragorosamente. «Assolutamente no! Mai sentite, neanche all'inizio. Ma dai Nina, tu credi davvero a queste cretinate? Le cosiddette "farfalle nello stomaco", scientificamente parlando, non sono altro che un sintomo d'ansia. Perché dovrei avere ansia mentre sono in compagnia di qualcuno che amo? Mi sono sempre sentita a mio agio con lui. Secondo me se provi ansia in presenza di qualcuno è perché non è quello giusto.»

Come discorso filava, in effetti, sebbene contrastasse in pieno tutto ciò che si era sempre detto a riguardo dell'amore. Fu interessante come nuovo punto di vista, ma in realtà, invece che chiarire i miei dubbi, mi confuse ancora di più.

Subito dopo qualcuno bussò alla porta della nostra cameretta. «Ragazze, siete pronte? È ora di andare» annunciò Vittorio.

*

La cena fu piacevole. Da quando era iniziata la scuola, erano diminuiti i momenti che trascorrevamo tutti insieme. I nostri genitori si alzavano prestissimo e tornavano tardi, noi ragazzi pranzavamo quasi sempre in orari differenti, poi ci isolavamo per studiare, Vittorio appena riusciva a liberarsi usciva con gli amici.

Solo a cena riuscivamo a ritrovarci tutti e cinque, ma comunque non era mai qualcosa di memorabile. I dialoghi erano spenti e poveri, sia perché eravamo stanchi e stressati durante la settimana, sia perché non c'era un granché da raccontare. Inoltre mia sorella appena finiva di mangiare si alzava e tornava alla svelta a riattaccarsi alla cornetta del telefono, e poco dopo anche io e Vittorio la seguivamo e ci rintanavamo nelle nostre stanze.

Ma quella sera fu diverso. Non eravamo mai usciti fuori a cena al ristorante da quando ci eravamo trasferiti, e c'era un'atmosfera diversa.

Eravamo tutti sereni, di buon umore, il che era insolito per essere domenica: normalmente, specie alla sera, ci affliggeva sempre il pensiero che il giorno seguente era lunedì, che segnava l'inizio di una nuova settimana ricca di fatiche e impegni. Eppure quella sera sembrava ce ne fossimo dimenticati.

In più mangiai la pizza dopo tantissimo tempo, escludendo quella che preparava mia mamma in casa di tanto in tanto il sabato sera ma, nonostante le buoni dote culinarie di mia madre, non si avvicinava neanche lontanamente a quella della pizzeria.

Era davvero stata una serata perfetta, e anche la giornata in sé, nel suo complesso, per una volta aveva avuto più alti che bassi.

Il tutto mi sembrava difficile da credere, considerando specialmente la velocità con cui si era capovolta la situazione rispetto al giorno precedente. Ma finalmente stava andando tutto per il verso giusto, per il meglio.

Quando ritornammo a casa, sebbene fossero già le undici di sera e il mattino dopo mi sarei dovuta alzare presto per andare a scuola, non potei comunque fare a meno di riprendere in mano il libro per continuare a leggerlo.

Dovetti spostarmi in salotto a farlo, poiché mia sorella mi cacciò dalla nostra stanza, perché voleva dormire e non sopportava che tenessi la luce accesa ancora a lungo.

Sapevo che il giorno dopo sarei stata stanchissima e avrei risentito di quelle ore di sonno perse, ma era più forte di me, così proseguii a ignorare l'orario riportato sul cucù appeso al muro.

Alla fine, inevitabilmente, mi addormentai, con il libro in grembo e la luce ancora accesa.

*

Mi svegliai di soprassalto, sentendo un forte rumore nelle vicinanze e un'imprecazione subito dopo.

Mi guardai intorno e mi ritrovai sdraiata sul divano.

Ma che era successo? Stavo leggendo, sì, ma... diamine, erano le tre e mezza di notte! E poi chi aveva spento la luce? Che cos'era stato quel rumore? Era forse Giuseppe? Impossibile, perché era a dormire nella sua cuccia di fianco al divano. C'erano dei ladri in casa?

No, probabilmente si trattava di Vittorio, che stava per svignarsela da casa per uscire con gli amici nonostante il divieto di Claudio.

Decisi di alzarmi e andare a scoprirlo, sebbene fossi un po' timorosa.

Cercai di dirigermi verso i rumori, che erano in corridoio. A quel punto ebbi la conferma che cercavo: per via del buio non ero in grado di distinguere la figura davanti a me, ma c'era effettivamente qualcuno lì.

Una volta trovato il coraggio, premetti l'interruttore e accesi la luce.

Spalancai la bocca, nel vedere mia sorella che mi dava le spalle, intenta a chiudere la porta dello sgabuzzino, con una valigia alla sua destra.

Per via della luce, Benedetta in un primo momento si immobilizzò, forse terrorizzata dall'idea di essere stata scoperta, infine ebbe il coraggio di voltarsi e affrontare la situazione. Affrontare me.

«B-Benni, ma che diavolo stai facendo a quest'ora e con questa valigia?» domandai, anche se non era difficile da intuire.

«Nina, torna a dormire» tentò di liquidarmi, ma se lo poteva scordare: «Rispondimi!» ordinai, alzando un poco il tono di voce.

«Shh, abbassa la voce, cretina! Che è notte fonda e rischi di sve...»

«Di svegliare tutti?» la interruppi. «E che male ci sarebbe? Sei così codarda da andartene di notte senza dire niente a nessuno e preferisci che se ne accorgano tutti la mattina appena svegli?»

Non potevo credere alle mie orecchie, né a ciò che mi stavano mostrando i miei occhi. Non solo se ne stava andando e ci stava lasciando, mi stava lasciando, in più aveva avuto la faccia tosta di non dirci quali fossero le sue intenzioni.

Poi mi tornò in mente una cosa. «Io non resterò qui per sempre, Nina. La mia vita è a Torino, con l'amore della mia vita. Quando avrò diciotto anni tornerò da lui, e nessuno potrà dirmi niente né impedirmelo stavolta» aveva detto tempo prima.

Non c'era perciò da stupirsi. Sapevo quanto Benedetta fosse testarda e quanto fosse seria quando aveva pronunciato quelle parole, solo che non pensavo che sarebbe accaduto così in fretta e per di più in quel modo. Speravo di poter ritardare l'inevitabile il più possibile, invece era probabile che avesse già architettato tutto da tempo.

Ecco anche perché non mi aveva risposto quando le avevo detto che comunque sarebbero andate le cose, io ci sarei sempre stata per lei così come sapevo che lei ci sarebbe stato per me.

Benedetta non era stupida. Aveva evitato di proposito di rifilarmi una bugia, per evitare di illudermi, pensando forse che ci sarei rimasta meno male.

Eppure il mio cuore era ugualmente in frantumi.

«Credi che per me sia facile? Questo è il modo migliore che ho trovato, e ora spostati» disse, scansandomi e ritornando in salotto insieme alla sua valigia, prima di spegnere la luce del corridoio e lasciandomi al buio.

La seguii e mi parai di fronte alla sua figura per sbarrarle la strada. «Il modo migliore per chi? Per te? Perché così mamma non potrà dirti niente e non potrà fermarti, ammettilo!» ribattei.

Rimase in silenzio. Era ovvio che avessi ragione. Era una codarda, non aveva neanche il coraggio di salutarci tutti. Si sarebbe limitata a scappare, a sparire come sempre.

«E poi non potevi aspettare?» continuai con la mia invettiva, sentendo la rabbia mista al risentimento crescere sempre più dentro di me. «Hai diciotto anni da un giorno appena!»

«Vuoi abbassare quella cazzo di voce sì o no?» rispose e basta, sussurrando.

«No, al contrario, voglio che sentano tutti e ti colgano in flagrante» ribattei.

«Sei davvero una stronza, Nina! Non riesci a capire quanto sia importante per me Maurizio?»

Sgranai gli occhi, incredula. Io ero una stronza? Perché non riuscivo ad accettare il fatto che mi stesse abbandonando per stare con lui? Allora forse sì, ero una stronza ed ero anche egoista. Non mi importava un fico secco di Maurizio, volevo solo rimanere con mia sorella, pur sapendo che lei sarebbe stata più felice insieme a lui.

«Ti rendi conto che la mamma non ti perdonerà mai?» chiesi, anche se al momento nostra madre era l'ultimo dei miei pensieri. Ero io quella che non l'avrebbe mai perdonata se avesse varcato quella porta.

Benedetta mi scansò ed evitò di rispondermi, dirigendosi verso l'ingresso. Le afferrai il polso per fermarla e lei si voltò verso di me spazientita: «Basta, Nina, ormai è deciso! Io non ho niente che mi trattenga qui, lo vuoi capire?»

Niente.

A quel punto, seppur contro il mio volere, i miei occhi cominciarono a riempirsi di lacrime. Mi gettai addosso a lei per abbracciarla e anche per cercare di trattenerla.

Mi restava solo un'ultima carta da giocare. E avevo una paura tremenda che non sarebbe servita lo stesso a farla rimanere. «Ti prego, Benni, non puoi farmi questo. Non mi puoi lasciare. Tu... tu sei la mia sorella maggiore, dovresti essere il mio punto di riferimento e... e io senza di te non sono niente. Non valgo nulla. Anche se non andiamo d'accordo e litighiamo di continuo, e non ti capisco appieno, e ti rubo sempre i vestiti di nascosto, anche se... anche se non sono la sorella che vorresti, e anche se forse non la volevi nemmeno una sorella e ti sei ritrovata me fra i piedi a tre anni... io ti voglio bene e non posso stare senza di te.»

Benedetta rimase in silenzio per tutto il tempo in cui parlai e anche oltre. Trascorsero forse cinque minuti senza che nessuna delle due dicesse qualcosa.

Mi illusi seriamente che ci stesse riflettendo, che le mie parole avessero fatto leva sui suoi sentimenti e che avesse deciso di rimanere qui, di rimanere con me.

A un certo punto la sentii tirare su col naso. Si era messa a piangere.

Mi allontanai leggermente per guardarla negli occhi e averne conferma, ed era così: si era commossa.

Non appena incrociò il mio sguardo, tuttavia, si irrigidì e la sua espressione si indurì. «Tanto non cambio idea, quindi mettiti l'anima in pace e lasciami andare» disse con un tono che mi gelò il sangue nelle vene.

Mi allontanò con una gomitata e poi in men che non si dica aprì la porta di casa e poi uscì, richiudendosela alle spalle.

Mi sentii mancare tutte le forze e infatti caddi a terra sulle ginocchia, non riuscendo più a reggermi in piedi.

Anche se dentro di me mi ripetevo che dovevo alzarmi e rincorrerla, impedirle di andarsene e farla restare con me, non feci nulla se non continuare a piangere a dirotto fino a che il mio respiro divenne sempre più affannato e credetti di morire.

Ero ancora in tempo. Sentivo il rumore dell'ascensore che giungeva al nostro piano, segnale che Benedetta era ancora lì, tuttavia non mi mossi di lì, per almeno venti minuti rimasi lì quasi inerme, se non per le lacrime che continuavano a uscire a fiotti dai miei occhi.

Non riuscivo a calmarmi.

A un certo punto, una volta tornata più lucida, appurai che non potevo restare lì tutta la notte. Così, praticamente gattonando, con molta fatica e affanno mi diressi verso la mia stanza.

*

Era stato un sogno stranissimo. Così reale da sembrare quasi surreale.

Quando riaprii gli occhi il mattino seguente avvertii un forte dolore alla testa.

L'ultima cosa che ricordavo era che mi ero addormentata sul divano mentre leggevo.

E poi avevo fatto quel sogno assurdo, del quale ricordavo solo qualche piccola parte, era tutto molto confusionario.

Però che ci facevo di nuovo nel mio letto? Non ricordavo di essermi risvegliata e di essere tornata in camera mia.

Comunque era inutile continuare a farsi domande a cui non avrei trovato risposta, anche perché dovevo alzarmi per andare a scuola.

A giudicare dal letto vuoto e già rifatto di mia sorella, sembrava che Benedetta si fosse alzata prima di me per una volta e che si stesse già preparando per andare a scuola.

Quanto diavolo avevo dormito? Speravo solo di non fare tardi a scuola.

Mi alzai con uno scatto dal mio letto e attraversai il corridoio, diretta verso la cucina. Ma mi fermai prima.

Appena misi piede in salotto, iniziai a sentire dei brusii sottovoce, e riconobbi la voce di mia madre e quella di Claudio, il che era strano, perché solitamente uscivano presto di casa e non riuscivo quasi mai a incrociarli.

Incuriosita, seguii le loro voci e giunsi davanti a loro, seduti sul divano mentre in piedi, in un angolino lì accanto, c'era anche Vittorio.

Mia mamma sembrava sconvolta, aveva una serie di fogli fra le mani, davano l'idea di essere una lettera di diverse pagine. Claudio le cingeva le spalle e cercava di tranquillizzarla.

Quando si accorsero della mia presenza, i tre sollevarono lo sguardo e lo puntarono sul mio. Mia madre aveva gli occhi lucidi, Claudio sembrava agitato e Vittorio dispiaciuto.

A quel punto mi fu tutto più chiaro. Così si spiegava la mancanza all'appello di Benedetta, c'eravamo tutti tranne lei.

Non era stato un sogno.

Se n'era andata per davvero.

 

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Capitolo 35
*** Trentatré. ***


Trentatré.

«Io non capisco... davvero non capisco... cosa ho sbagliato? Le ho sempre dato tutto, ho cercato sempre di accontentarla in ogni cosa, e non è stato sufficiente... non capisco» continuava a ripetere mia madre, non trovando altre parole da esprimere.

Non ce la facevo a vederla così. Anzi, non ce la facevo ad assistere in generale a quella scena pietosa.

Benedetta non si meritava tutte quelle attenzioni, né tutte quelle persone tristi per la sua partenza.

In fondo per lei eravamo "niente".

Sbuffai sonoramente per far notare il mio fastidio e la mia insofferenza a tutti i presenti, dopodiché ritornai in camera mia per prepararmi.

Sentii in lontananza mia madre chiedermi se volessi leggere anch'io la lettera, ma la ignorai ed evitai di proposito di rispondere. Tuttavia, dopo qualche secondo, sentii ugualmente la presenza di qualcuno all'uscio della porta. «No, mamma, non la voglio leggere quella stupida lettera! Non me ne frega niente!» esclamai, prima di voltarmi verso la porta e vedere Vittorio al posto di mia madre.

Non appena si accorse che indosso avevo solo un reggiseno e i pantaloni del pigiama, si voltò imbarazzato dall'altra parte e si scusò.

«Sei sicura?» chiese, continuando a darmi le spalle.

«Sicurissima. Basta chiederlo, fammi questo piacere» risposi acida.

Vittorio rimase un attimo in silenzio. Nel momento in cui stavo per chiedergli di levarsi dai piedi e lasciarmi sola, poi, parlò di nuovo: «Come stai?»

«Che domanda del cazzo è?» sbraitai, sentendomi in colpa subito dopo per aver usato quel tono con lui, che si stava solo preoccupando per me e non stava facendo niente di male, a parte invadere i miei spazi come suo solito. «Sto bene. In fondo me lo immaginavo. Tanto si sa, Benedetta non sa comportarsi come se fosse una persona sola e autonoma, funziona solo in base a Maurizio, come fossero una cosa sola. È una persona insulsa e patetica» dissi poi.

Vittorio si girò di nuovo verso di me, probabilmente perché non si sentiva a suo agio a parlarmi senza guardarmi in faccia. Al contrario a me andava benissimo continuare in quel modo ed evitare il suo sguardo, così rimasi com'ero e non provai minimamente a coprirmi, nella speranza che il suo imbarazzo lo portasse a voltarsi di nuovo.

Purtroppo così non fu, e si sforzò il più possibile di tenere lo sguardo fisso sui miei occhi. «Dai, Nina, non dire così. È normale che voglia stare con la persona che ama, e...»

«Be', speravo che non fosse Maurizio l'unica persona che ama nella sua cazzo di vita! È una stronza e basta, diciamo le cose come stanno» montai su tutte le furie. Dopodiché mi accorsi di aver esagerato ancora e di aver mostrato di darci troppa importanza, così mi ricomposi e moderai i toni. «Ma comunque va bene così, almeno adesso ho finalmente una camera tutta per me come ho sempre sognato, quindi siamo tutte e due felici e contente!» esclamai con un finto sorriso, prima di scansarlo e uscire dalla stanza per dirigermi in bagno.

*

A scuola fu difficile nascondere cosa ci fosse a non andare in me. Ero brava a farlo e a indossare una maschera se volevo, dato che l'avevo fatto per tutta la vita, ma una parte di me non era sicuro di volerlo fare. Avrei voluto sfogarmi con le mie amiche, se non altro con Irene, ma sentivo anche che non fosse il momento adatto.

Erano tutte prese da varie faccende, fra cui l'imminente interrogazione di storia, perciò ritenni che appesantirle con i miei problemi in quel momento non avrebbe aiutato granché. E poi cosa avrebbero potuto dirmi? Niente mi avrebbe fatta sentire meglio, tanto valeva tacere e ingoiare il rospo.

«Comunque, indovinate chi non è più in punizione?» annunciai a un certo punto. «E scommetto che, se mia madre ha lasciato perdere, a breve anche Claudio, il padre di Vittorio, allenterà la corda, ne sono certa. Così finalmente potrò farvi conoscere meglio lui e gli altri» dissi, attirando la loro completa attenzione.

«È grandioso! E quando, quando pensi che accadrà?» domandò Angelica con frenesia.

«Be', spero entro questo fine settimana. Me lo auguro, insomma! Sono stufa di rimanere sempre in casa ad ammuffire il sabato sera.» Poi scambiai un piccolo sorriso con Irene, nel ricordarmi del sabato appena passato che invece avevo trascorso a casa sua e di quanto ci eravamo divertite.

«Già, pure io» mi diede corda Sabrina.

«Quindi comunque nel caso ci sareste tutte?» chiesi alle quattro ragazze, le quali annuirono.

Suonò la campanella, segnando l'inizio della prima ora, e andammo tutte a sederci ai nostri posti.

Avevo in mente di fare una cosa, ma non sapevo se avrebbe funzionato.

*

«Ma perché no? Non mi sembra qualcosa di così sbagliato da fare!» sbottai con mia madre, nel mentre che la aiutavo a pelare le patate verso ora di cena.

Il mio piano stava fallendo.

«Perché non posso decidere io per Claudio il modo in cui dare regole a suo figlio» rispose, mantenendo un tono calmo e pacato, che a me non faceva altro che innervosire ulteriormente.

Stavo provando, per quanto possibile, a mantenere la calma anche io, solo perché vedevo dai suoi occhi accerchiati da occhiaie e rossori che era distrutta, e ci mancava solo che si mettesse a discutere con me dopo che una delle sue figlie l'aveva appena abbandonata. Probabilmente non aveva neanche le forze di starmi dietro e alzare la voce.

«Ok però non è giusto che Vittorio sia stato messo in punizione a causa mia e che ci rimanga anche più di quanto ci sia rimasta io. Mi sento in colpa» incrociai le braccia al petto e misi il broncio.

Mia madre mi guardò con un piccolo sorriso. «Inutile che pianti il muso, i capricci funzionavano solo quando eri bambina» fece e io roteai gli occhi. «E comunque Vittorio è stato messo in punizione non solo a causa tua, ma anche perché è uscito a ubriacarsi con i suoi amici come un'irresponsabile e ha solamente sedici anni» mi ricordò, tentando forse di farmi sentire meglio, ma non funzionò.

Sbuffai, e poi ripresi in mano il pelapatate e mi ci accanii con forse troppa forza.

«Perché non provi a parlarci tu?» mi consigliò mia madre.

«A me non darebbe ascolto, non ho voce in capitolo... ma tu, invece, sei la sua compagna, la tua opinione deve contare molto per lui, sicuro più della mia. E tu la pensi come me, giusto? Che il castigo sia durato a sufficienza e anche Vittorio dovrebbe avere la possibilità di uscire e tornare a divertirsi con i suoi amici.»

«Non posso intromettermi, Marina. Neanch'io sopporterei se qualcuno di esterno dicesse la propria sul modo in cui sto educando la mia prole» replicò, e qualcosa mi suggerì che scelse appositamente la parola "prole", per evitare di dire "le mie figlie", per non riferirsi specificatamente anche a Benedetta.

O magari era solo una mia suggestione, che però era del tutto ragionevole, dal momento che era stata mia madre quella a prendere la sua partenza nel modo peggiore fra le due.

Io invece ero tranquillissima.

Ogni tanto mi capitava di pensarci durante il giorno, soprattutto quando passavo in corridoio e non la vedevo più seduta a terra a parlare al telefono, oppure nel notare parecchi cassetti vuoti nell'armadio, oppure nell'accorgermi di quanto la nostra stanza sembrasse più grande se occupata da una sola persona, ma oltre a questo non sentivo niente.

Qualsiasi cosa avesse scritto Benedetta in quella stupida lettera, doveva avere accennato qualcosa in merito al fatto che avrebbe telefonato quella mattina, una volta arrivata a Torino. Infatti, quando quella mattina stavo per uscire per andare a scuola, avevo sentito il telefono di casa squillare e mia madre scattare in piedi dal divano esclamando: «Eccola, è lei!».
Poco dopo mi aveva chiamata affinché la raggiungessi e parlassi con mia sorella, ma fu a quel punto che mi decisi ad aprire la porta di casa e a richiudermela violentemente alle spalle dopo essere uscita.

Per quanto mi riguardava, non avevo una parola di più da spendere con lei.

A un certo punto mi riscossi e distolsi quei pensieri, ricordandomi della conversazione ancora in corso con mia madre e del mio tentativo di convincerla a parlare con Claudio. «Ma tu e Claudio non siete degli estranei! Insomma, ormai viviamo insieme da due mesi, state insieme da anni, prima o poi scommetto che vi sposerete e a quel punto, almeno legalmente, Vittorio sarà anche tuo figlio. Perciò non ci vedo nulla di male nel...» dissi, prima di venire interrotta da mia mamma: «No, Marina, è fuori discussione. E poi io e Claudio non possiamo sposarci».

Corrucciai la fronte e storsi il naso. «In che senso non potete?»

Non mi giunse alcuna risposta a quella domanda, il che mi insospettì. «Allora?»

«No, intendevo che non programmiamo di farlo. Stiamo bene così e comunque per come la penso, non è il matrimonio ad accrescere l'amore fra due persone, ma lo stare bene insieme» rispose, e mi feci andare bene quella risposta, sebbene mi fosse chiaro che si trattasse di una menzogna e che non si era solo imbrogliata con le parole.

*

Dopo cena ripresi ancora una volta il libro che mi aveva regalato Filippo il giorno precedente.
L'avevo portato anche a scuola e avevo continuato a leggerlo anche durante i cambi d'ora e parte dell'intervallo.

Ne ero completamente ossessionata, sebbene nel corso degli anni avessi portato a compimento letture più avvincenti di quella.

E capii anche perché Filippo mi avesse affibbiato il nome di una delle protagoniste, Jo March, ed era tutt'altro che una presa per i fondelli. Avevamo molte affinità e similarità: carattere difficile, un sacco di idee e progetti, amore per la propria libertà e indipendenza, tanto da non volerci rinunciare a nessun costo. Inoltre, Josephine March, proprio come me, odiava essere chiamata con il suo nome completo.

Mi interessavano le storie di tutte e quattro le sorelle March, ma ero desiderosa di scoprire soprattutto quella che sarebbe stata la sorte di Jo alla fine del libro, quasi come se credessi che mi avrebbe potuto fornire delle risposte per il mio, di futuro.

E alla fine, proprio quando l'orologio a cucù segnò le due di notte, terminai di leggere l'ultima pagina del libro.

Non mi ero resa conto di quanto tardi si fosse fatto (tra l'altro, per la seconda notte di seguito), e mi stupii di me stessa per aver finito quel libro in un solo giorno.

In fondo non avevo tutta questa fretta, anzi, forse avrei potuto godermelo di più e per più giorni, piuttosto che leggerlo tutto d'un fiato. Eppure mi era servito, per poter tenere la mente occupata.

E ora, dopo averlo terminato, ero così stanca che mi sarei addormentata in poco tempo, senza farmi sopraffare da inutili pensieri.

E così fu. Mi addormentai quasi serenamente, dimenticandomi di ciò che era successo la notte precedente e le ripercussioni che aveva e che avrebbe continuato ad avere sulla mia vita di lì in avanti.

Eppure la mia era solo una vana illusione, perché al mio risveglio sarei stata catapultata nuovamente nel mondo reale, di cui Benedetta non faceva più parte.

*

"Cara mamma, cara Nina,

non mi aspetto che capiate la mia scelta. Penserete di me che sono un'egoista, o forse un'illusa che vive ancora nel mondo delle favole, oppure una bambina irresponsabile, e forse sono tutte e tre le cose contemporaneamente. Ma mi va bene esserlo, finché significa anche essere felice.
Io amo Maurizio, e non posso stare senza di lui. Ci ho provato, in questi mesi, sebbene voi sicuramente affermerete il contrario e penserete di me che sono debole e incapace di stare da sola, ma non ci sono riuscita. Quindi forse fate bene a pensare quelle cose su di me.
La verità è che io non sono forte come voi, non lo sono mai stata. Sento di essere forte solo quando sono con lui. La mamma a questo punto penserà che sono baggianate e che posso fare e ottenere tutto ciò che voglio anche da sola, come ha fatto fin da sempre, incoraggiando e spronando le sue figlie a crescere come donne indipendenti e determinate, ma io so che non è così e che ha fallito con me da questo punto di vista... se così non fosse non mi sarei comportata da vigliacca e avrei trovato il coraggio di parlarvi a cuore aperto e rivelarvi le mie intenzioni, assumendomi tutti i rischi. Invece ho deciso di fuggire, perché era la via più facile.
Mamma, non voglio che tu prenda ciò che ho fatto sul personale. Sei la mamma migliore che potessi chiedere, ti voglio un bene dell'anima e non dubitarlo neanche per un secondo, anche se non te lo dico spesso. Per me sei sempre stata un ottimo esempio e non dimenticherò mai ciò che hai fatto per me e per Nina in tutti questi anni. Non voglio che pensi che fossi infelice a causa tua, per via della tua scelta di trasferirci tutti a Milano, perché so quanto ti meritassi di farti un'altra vita, e non ti biasimo né incolpo per questo... semplicemente ti chiedo di capirmi e quindi di non incolpare me solo perché ho preso la tua stessa decisione.
Comunque sia non ho di certo intenzione di lasciare la scuola, per di più ora che sono all'ultimo anno ed è solo questione di pochi mesi prima che finisca, perciò stai tranquilla che domani mi recherò alla mia vecchia scuola e mi informerò sulle procedure per fare il trasferimento, così ritornerò a frequentare il mio ex liceo.
Nina, tu sei la mia sorellina. So che ce l'avrai a morte con me e che penserai delle cose terribili sul mio conto, perché credi che l'amore sia una perdita di tempo e che renda deboli e che io ne sia la prova lampante, ma ciò non potrà cancellare l'unica cosa che conta davvero: che sei mia sorella e lo sarai per sempre, e non credere che ti voglia meno bene solo perché ho scelto di andarmene. Sei una vera rompipalle, vuoi fare la donna ma in fondo sei ancora una bambina, e credimi che è meglio così. Non devi avere fretta di crescere, fidati di me. Penserai che l'adolescenza sia uno schifo, che nessuno ti capisca e dia mai il giusto valore alle cose che ti riguardano, ti guarderai allo specchio e non riconoscerai più il tuo corpo e forse non ti piacerà, e non ne potrai più della scuola perché effettivamente è una vera seccatura, anche se serve tantissimo. Ma è durante questi anni che vivrai le cose migliori, conoscerai le persone che ti staranno accanto per sempre, farai le tue prime esperienze.
Ora che ho diciotto anni e sono ufficialmente un'adulta, mi guardo indietro e mi manca tutto questo che a te ora pare come un inferno, e che non riavrò più indietro. Perciò ti auguro di vivere questi anni al meglio e di non perderti neanche un momento.
Ti scrivo tutte queste cose ora in questa lettera perché non potrò più dirtele dal vivo, ma sappi che ogni volta che avrai bisogno, potrai chiamarmi e contare sul mio aiuto. In fondo siamo nel 1983, è più facile non perdere i contatti con qualcuno grazie all'esistenza di queste tecnologie. E io non ho intenzione di perderli con te.
A proposito, mamma, il mio treno dovrebbe giungere a destinazione per le 7:00, ciò significa che arriverò a casa dai nonni per le 7:30 e quindi farò in tempo a chiamarti al telefono prima che tu vada a lavoro, così saprai che sto bene e sono arrivata sana e salva.
Claudio e Vittorio, vorrei spendere un paio di parole anche su di voi. Per quel poco che vi ho conosciuto, mi siete sembrate due persone stupende.
Non pensavo che sarei mai riuscita a essere felice nel vedere mia madre insieme a un altro uomo, ma invece così è stato non appena ho visto come si illumina in viso ogni volta che è in tua compagnia, Claudio. Le hai ridato un'opportunità, una seconda occasione, e te ne sarò infinitamente grata.
Vittorio, tu sei davvero un tesoro di ragazzo. So che non ci siamo parlati molto, più che altro a causa mia che non ti ho lasciato molto spazio per conoscermi, ma nonostante ciò ho avuto modo di vedere quanto tu sia grandioso, e non hai idea di quanto sia contenta del rapporto che sei riuscito a instaurare con Nina. Non siete semplici amici, siete quasi fratelli. Il che a volte, anche se non l'ho mai dato a vedere, mi ha reso invidiosa, perché io, che sono la vera sorella di Nina, un rapporto come il vostro non sono mai riuscita ad averlo. Ma va bene così: so quanto lei ti voglia bene e quanto si sia affezionata a te seppur in così poco tempo, e questo mi rende felice, perché so che tu ricambi il suo bene. Ti prego di starle vicino anche da parte mia.

Bene, penso che non ci sia nulla da aggiungere. Scusate per questo gesto che forse a voi sembrerà avventato o sconsiderato, ma così non è stato, perché è ciò che desideravo di fare da tanti mesi.

Con amore,
Benedetta."

 

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Capitolo 36
*** Trentaquattro. ***


Trentaquattro.


Sentivo gli occhi pizzicarmi, nel mentre che leggevo la lettera di Benedetta seduta al tavolo della cucina per fare colazione, con Giuseppe in braccio sulle mie gambe. Le mie labbra tremavano incontrollatamente e gli occhi pieni di lacrime mi annebbiavano sempre di più la vista.

Non avevo resistito. Avevo sentito il bisogno di sapere che cosa ci fosse scritto.

Non appena avvertii qualcuno alle mie spalle, sobbalzai leggermente per la sorpresa e mi ripresi in un attimo. Tirai su col naso e feci il possibile per ricacciare dentro le lacrime. Mi voltai alla mia destra e vidi Claudio intento a tirare fuori lo spremiagrumi dalla dispensa. «Vuoi una spremuta d'arancia?» chiese gentilmente.

Scossi prontamente la testa. «No, grazie, ho già bevuto il caffè» risposi e basta. Dopodiché feci in modo di far scendere il gatto dalle mie gambe così che potessi alzarmi in piedi e uscire dalla cucina, nascondendo la lettera dietro la schiena per non far vedere a Claudio che la stavo leggendo.

Andai a riporla sopra lo svuotatasche vicino alla porta d'ingresso, dove mia madre l'aveva trovata il giorno precedente.

Pensavo che in qualche modo leggere le parole di Benedetta mi avrebbe fatta sentire meglio e mi avrebbe aiutata a capire meglio la sua scelta, ma così non era stato. Non mi sentivo né di capirla, né mi sentivo in qualche modo consolata dalle sue parole, che per me non avevano più alcun peso.

Certo, era stato tutto molto toccante, ma comunque non avevo intenzione di perdonarla. Mi aveva ferita e non avrei mai potuto passarci sopra.

E poi era facile scrivere quelle cose per dare una sorta di contentino alla famiglia che non avrebbe più rivisto, ma intanto quando l'avevo colta in fragrante, Benedetta aveva detto tutt'altro. Nessuno avrebbe mai saputo quale delle due versioni fosse quella corretta.

E così stavo per iniziare un'altra giornata con la luna storta, proprio come quella precedente.

Per di più, Vittorio non si era visto. Un'altra delle sue fughe di cui a quanto pare nessuno aveva intenzione di parlare. Lui e Claudio, così come Filippo, si limitavano a far finta che fosse solo una mia suggestione e che fossi pazza a pensare che ogni due settimane, di martedì, Vittorio usciva di casa all'alba e tornava quasi al tramonto. Che cosa aveva da nascondere? Che bisogno c'era di tenersi per sé tutti quei segreti?

Non avrei mai smesso di chiedermelo, perciò speravo che prima o poi si sarebbe arreso alla mia curiosità e si sarebbe deciso a raccontarmi la verità.

In fondo che cosa poteva essere di così grave da dover essere taciuto a tutti i costi? Non riuscivo proprio a pensare a niente, se non... se non che doveva essere in qualche modo collegato a sua madre. Era l'unico altro aspetto su cui Vittorio e suo padre non proferivano mai parola.

«Dai, Nina, in fondo non è tenuto a dirti tutto» intervenne Irene, nel mentre che ci accingevamo a scendere dal tram.

«Perché no? Io a lui dico tutto» ribattei.

«Gli hai detto di tuo padre?» chiese, e mi irrigidii solo a sentirlo nominare.

«Be'... non ancora, insomma, non c'è stato modo» risposi, scrollando le spalle.

«Magari per lui è lo stesso, sta aspettando anche lui il momento giusto per parlartene.»

Mi fermai un attimo a pensare seriamente alle parole di Irene.

Adoravo la sua empatia. Riusciva perfettamente a mettersi nei panni di chiunque e in qualunque situazione, cosa che io non ero mai riuscita a fare. Motivo per cui, ogni qualvolta provassi ad aiutare qualcuno, alla fine non facevo che peggiorare le cose.

Avrei voluto essere più come lei. Forse era per questo che nessuno mi confidava mai spontaneamente le cose e dovevo faticare per farmele dire. Per questo Vittorio mi teneva nascoste le cose e Benedetta aveva fatto lo stesso.

Rimasi in silenzio a lungo dopo le parole di Irene, incapace di portare avanti il discorso.

Percorremmo in silenzio tutto il tragitto dal tram fino all'atrio della nostra scuola. Soltanto allora Irene riprese la parola, dal momento che io non ero in grado: «Nina, che c'è? Perché sei così pensierosa oggi?» domandò, poggiandomi una mano sulla spalla.

Sentivo gli occhi cominciare a pizzicarmi proprio come quella mattina, ma ancora una volta mi impuntai e ricacciai tutto dentro, stringendo i pugni e i denti.

Non volevo che tutti i progressi fatti fino a quel momento nel rapporto fra me e Irene si rendessero vani, ma al tempo stesso non volevo passare le giornate intere a lamentarmi e a tediarla con i miei problemi, dato che nell'ultimo periodo sembrava ne avessi una nuova ogni giorno.

Mi esibii in un finto sorriso che sapevo che non l'avrebbe mai convinta ma che speravo si facesse andare bene come era successo già in passato: «No, macché. Non sono pensierosa, è che sono due notti che praticamente non chiudo occhio, perciò sono un po' rimbambita e fra le nuvole per via della stanchezza» risposi, una volta che giungemmo davanti alla porta della nostra aula.

Peccato che il mio tono di voce non convinse neanche me. Sembrava quasi che in quel periodo avessi perso il mio talento naturale a mentire alla perfezione.

Forse perché, dopo aver provato a dire la verità in certe occasioni, mi ero accorta che preferivo di gran lunga la sensazione che si provava dopo aver buttato tutto fuori ed essermi sfogata, rispetto a quel senso di soffocamento e oppressione che mi provocavano le bugie che dicevo di continuo.

Forse perché non riuscivo a dire bugie alle persone a cui volevo bene.

«Se non riesci a dormire evidentemente è perché hai tanti pensieri per la testa» replicò Irene, ridicolizzando in pochi attimi il mio tentativo di eludere la sua curiosità. «Ma non importa, tieniteli per te, se proprio ti costa così tanto aprirti con me, anche se cerco solo di aiutarti!» aggiunse con tono piuttosto infastidito e adirato, prima di andare a sedersi al suo posto.

Ecco, ci mancava solo che Irene se la prendesse con me.

Perché non riusciva a capire che per me era difficile fidarmi di qualcuno a tal punto da raccontargli ogni cosa che mi riguardava? Non doveva prenderla così sul personale, non mi comportavo così con lei per qualche particolare motivo, era semplicemente ciò che facevo con tutti.

In fondo gliel'avevo spiegato mille volte, se non riusciva a capirlo e avere pazienza, io non potevo farci proprio nulla.

*

Per il resto della giornata provai più volte a riavvicinarmi a Irene, ma lei aveva come eretto un muro. Aveva detto che non le importava e che le era già passata, eppure non faceva lo stesso che rispondermi a monosillabi e con tono scontroso ogni qualvolta le rivolgessi parola.

Se pensava che in questo modo mi sarei convinta a raccontarle tutto solo per far sì che smettesse di tenermi il muso, si sbagliava di grosso. Anzi, avrebbe ottenuto l'effetto opposto a quello desiderato, e mi sarei richiusa ancora di più in me stessa.

Dopo pranzo pensai di andare a stendermi sul divano e fare una pennichella, per recuperare un po' il sonno perso in quegli ultimi giorni.

Tuttavia, non appena provai a sdraiarmi e a chiudere gli occhi, iniziai a sentire delle urla provenienti da fuori. Cercai di ignorarle in un primo momento, ma queste proseguirono.

Di solito c'erano dei bambini che si mettevano a giocare per strada con il pallone e facevano casino, ma non sembrava questo il caso. Sembrava quasi un richiamo.

Una volta che ebbi trovato la forza, mi alzai in piedi per dirigermi ad aprire la portafinestra e capire che cosa diavolo stesse succedendo.

Uscii in balcone e, come prima cosa, rabbrividii nell'appoggiare i miei piedi nudi sul pavimento gelido. Dopodiché mi affacciai e strabuzzai gli occhi, nel vedere nientepopodimeno che Filippo Cattaneo per strada, sotto il mio balcone.

«Che problemi hai? È da cinque minuti che ti sgoli! Non lo sai che esistono i citofoni?» gridai, per farmi sentire fin giù da lui.

«Ma così è molto più divertente, peperoncino!» rispose con una risata. «Mi chiami Vittorio? Oppure quell'idiota si è dimenticato che dovevamo uscire?»

Socchiusi gli occhi e lo fissai di sottecchi. Lo stava facendo apposta oppure davvero non sapeva che Vittorio non c'era? Quando gli avevo parlato qualche settimana prima mi aveva dato l'idea di sapere delle "fughe" occasionali del suo migliore amico, perciò non era possibile che si fosse presentato lì a casa nostra senza averne idea.

Anche perché andavano sempre a scuola insieme e Vittorio, ne ero certa al cento per cento, quella mattina non ci era andato.

«Vittorio non è in casa» risposi soltanto, incrociando le braccia e appoggiandole al davanzale.

Filippo si prese qualche secondo per riflettere e, quando finalmente fece due più due, strabuzzò gli occhi in un momento e poi si portò una mano alla fronte e scosse la testa.

A quel punto stavo per ritornare dentro casa, anche perché con solo una maglia a maniche lunghe e i jeans stavo iniziando a prendere freddo. Tuttavia non lo feci, perché Filippo parlò nuovamente: «Tu cosa fai, invece?».

«Cioè?» domandai confusa.

«Be', non mi va di tornare a casa, specie dopo che mi sono fatto tutta questa strada  per nulla. Perché non andiamo a fare un giro? Sempre se non hai altro da fare» propose.

In un primo momento mi chiesi se fosse serio. Poi, dopo aver appurato che lo era, dal momento che non si era mosso di un millimetro ed era lì ad aspettare una mia risposta, mi si formò automaticamente un piccolo sorriso in volto, che tentai di nascondere con tutta me stessa. Infine, una volta tornata neutrale, inarcai le sopracciglia: «Un giro? E dove?» chiesi con tono scettico, per non mostrarmi particolarmente colpita da quella proposta.

«Ovunque tu voglia! C'è qualche posto dove vorresti andare in particolare?»

La risposta a quella domanda era molto semplice: Piazza Duomo.

Casa mia era davvero a pochi passi da lì, eppure, inspiegabilmente, in ben due mesi da quando mi ero trasferita a Milano, non avevo ancora avuto l'occasione di andare in Duomo e di vedere qualcosa di più della semplice Madonnina dorata che spuntava in cima e che vedevo da casa mia.

«Fammi un attimo preparare e scendo!» esclamai sorridendo, e lui ricambiò il mio sorriso.

*

Feci più in fretta che potei. In fondo si trattava solo di rimettersi le scarpe e il giubbotto.

Mi diedi un'occhiata allo specchio del bagno prima di uscire di casa, e mi pentii di non aver lavato i capelli la sera prima, dato che cominciavano a essere sporchi e si notava. Infatti, sebbene i miei capelli fossero molto crespi sulle lunghezze, alla radice erano invece molto grassi e si sporcavano in pochi giorni, specialmente da quando avevo tagliato la frangia.

Comunque era troppo tardi per poter fare qualcosa. Tentai di rimediare portandomi la frangia all'indietro con una forcina, ma il risultato fu ancora più disastroso, dato che sembrava che i miei capelli fossero stati leccati da una mucca. In più mi accorsi solo in quel momento di avere un enorme brufolo proprio in mezzo alla fronte, perciò forse era meglio lasciare la fronte coperta.

E pensare che avevo sempre avuto una pelle quasi perfetta, invece era da qualche giorno che mi svegliavo la mattina e mi ritrovavo un brufolo nuovo al giorno. Era anche vero che in quegli ultimi giorni stavo mangiando più del solito e per di più un sacco di schifezze. Non riuscivo a capire cosa ci fosse alla base di quella fame incontrollata, se non forse il nervosismo per gli avvenimenti degli ultimi giorni.

Per non parlare delle terribili occhiaie che mi ritrovavo a causa delle poche ore di sonno degli ultimi due giorni. Tuttavia non sapevo in che modo coprirle. L'unica volta che avevo provato a truccarmi il viso con i trucchi di mia madre, avevo ottenuto come risultato quello di sembrare una donna di trent'anni e passa, il che non si addiceva al viso di una quindicenne. Sembravo davvero ridicola, specialmente per il fatto che mia madre aveva una carnagione leggermente più scura della mia, e la differenza si notava guardando il distacco fra la pelle del viso colma di fondotinta e il collo bianchissimo.

L'unica soluzione che trovai a quell'aspetto da cadavere fu quello di pizzicarmi le guance per diversi secondi affinché si colorassero di rosso, per darmi un po' di tono. Inutile dire che entro pochi attimi sarebbero tornate come prima che lo facessi, ma mi illusi di aver risolto il problema.

Dopodiché tolsi la forcina per far tornare i capelli come prima e rinunciai definitivamente a sistemare i capelli.

Uscii di casa e chiusi la porta a chiave. Dopodiché mi diressi verso le scale e le scesi con rapidità, dato che ci avevo impiegato più tempo del previsto e non volevo far attendere Filippo ulteriormente.

Non appena lo vidi, persi un battito nel vedere il suo viso, ancora ridotto piuttosto male. Finché ero affacciata al balcone e lo vedevo da lontano, neanche ci avevo fatto caso, tanto che mi ero persino dimenticata ciò che gli era capitato.

Provai una rabbia sempre più crescente nel pensare a ciò che doveva subire a causa di quell'essere ignobile. Come poteva arrivare a tanto? Era solo un ragazzino, e per giunta era anche suo figlio.

Poi Filippo mi posò candidamente le labbra sulla guancia e io avvertii la rabbia dissolversi in un secondo in seguito a quel tocco.
Mi sfiorò appena, probabilmente il labbro gli faceva ancora male, eppure avvertii lo stesso qualcosa di diverso dal solito in quel gesto. Anche se non sapevo spiegarmi che cosa.

«Allora, dove siamo diretti?» chiese con tono incalzante, e in qualche modo mi piaceva il fatto di avere il controllo della destinazione.

Non gli risposi subito. Lo presi sottobraccio e iniziai a camminare. Mi sorpresi da sola di me stessa e di quel gesto.

Generalmente non cercavo mai il contatto con lui, semmai lo evitavo.

Eppure mi era venuto così spontaneo che non riuscivo a trovarci niente di sbagliato in ciò che avevo appena fatto.

Lui non disse nulla, continuando a lasciarsi guidare da me. Eppure dopo qualche minuto iniziai a pensare, senza una ragione precisa, che forse gli stavo stando troppo appiccicata e che magari si sentiva a disagio ma non aveva il coraggio di dirmelo né di spostarsi, così mi spostai io, lasciando il suo braccio e distanziandomi un poco.

Ancora una volta Filippo non si espresse a riguardo. Magari non ci stava facendo neanche caso, preso com'era a raccontarmi le sue cose, ed io ero solo una povera paranoica.

Mi stava dicendo che aveva parlato con Beppe, il gelataio di fiducia suo e di Vittorio, e che non appena avrebbe compiuto quindici anni avrebbe iniziato a lavorare alcuni fine settimana da lui.

Mi rese immensamente felice saperlo. Non solo perché mi aveva presa sul serio quando gli avevo proposto di cercare un lavoro, e quindi mi sentii in qualche modo soddisfatta per il fatto di essergli stata d'aiuto, ma anche perché credevo davvero che gli sarebbe servito.

«Così potrò offrirti tutti i gelati che vorrai. Che te ne pare?» disse e io emisi un piccolo sorriso.

«Che non ce n'è bisogno. E poi tu fai gli anni a dicembre, chi diavolo mangia gelati d'inverno?»

«A dire il vero un sacco di gente, cara saputella» ribatté e lo fissai con sguardo torvo. «E poi chi rinuncerebbe a un gelato finché è gratis?»

«Ma non lo è. Se Beppe un giorno o l'altro dovesse scoprirti, allora...»

Smisi di parlare nel momento in cui sentii Filippo sbuffare sonoramente. «Incredibile, uno cerca di fare una cosa carina e tu hai sempre e comunque da ridire!» sbottò.

«Ok, ma non ti ho chiesto io di farla, e inoltre...»

«Certo che no» mi interruppe. «Il senso è proprio questo. Dev'essere qualcosa che faccio spontaneamente senza che tu lo chieda, perché mi viene dal cuore.»

«E perché dovresti farlo?»

«Ehm, perché è così che funziona fra amici?» fece sarcastico.

Fu strano sentirlo definire il nostro rapporto in quel modo.

Amici.

Probabilmente era vero, lo eravamo, eppure non sapevo se mi sentivo propriamente una sua amica.

Con lui non avevo lo stesso rapporto che avevo con Irene e Vittorio, ma nemmeno quello che avevo con Angelica e le altre.

Lui era nel mezzo. E quindi non lo vedevo come un vero amico, ma neanche come un semplice conoscente.

«Comunque ancora non mi hai detto dove siamo diretti» disse a un certo punto, riprendendo la parola.

«In Duomo» risposi.

A quel punto Filippo mi fissò sorpreso. «Seriamente?» chiese quasi con tono di scherno.

«Che domanda è?» feci io indispettita, preparandomi a pormi sulla difensiva.

«Non lo so, ma con tutto ciò che c'è da vedere a Milano, pensavo che volessi andare da qualche altra parte.»

«Non vado in Piazza Duomo da quando ho sei o sette anni, ed è ciò che di più importante c'è da vedere a Milano, quindi qual è il problema?»

Filippo sorrise e scosse la testa. «No, nessuno. D'accordo, andiamo.» Mi riprese a braccetto e accelerò il passo. Lo fece in modo così improvviso e inaspettato che in un primo momento rischiai di inciampare a terra poiché non riuscivo a tenere il suo passo.

Se ne rese conto e, pur senza dire nulla per scusarsi, decise di decelerare la sua andatura per poter continuare a camminare al mio fianco senza rischiare di farmi a cadere di faccia sul marciapiede.

Trascorremmo qualche altro secondo stando in silenzio, eppure a me sembrava che lui fosse sempre sul punto di dire qualcosa ma che ci ripensasse all'ultimo. Dopo la quinta volta che ebbi quell'impressione, mi spazientii e decisi di affrontarlo: «Che c'è?» domandai, sforzandomi di mantenere un tono pacato e affabile, ma probabilmente non ci riuscii.

Scrollò le spalle. «No, nulla.»

«Dai, dimmelo!» lo incalzai.

«Solo se prometti di non arrabbiarti» rispose, e forse non gli era chiaro che un avvertimento del genere era proprio ciò che in genere anticipava un'arrabbiatura.

Non dissi nulla, dato che non avevo intenzione di promettergli un bel niente, e così lui si ammutolì di nuovo. A quanto pare non avrei mai scoperto cosa gli passava per la mente in quel momento.

Salvo poi, con un piccolo sorriso imbarazzato, tornare a guardarmi e riprendere la parola, lasciandomi letteralmente spiazzata: «Io, ehm... sì, ecco, in realtà mi ricordavo benissimo che Vittorio non fosse a casa oggi».

 

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Capitolo 37
*** Trentacinque. ***


Trentacinque.


«Ma sei serio?» domandai, staccandomi bruscamente dal suo braccio e trattenendomi il più possibile dal montare su tutte le furie, semplicemente perché non avevo né la voglia né le forze per farlo. Tuttavia dal mio tono si intuiva benissimo che non ne ero assolutamente contenta.

Filippo provò il più possibile ad evitare il mio sguardo, tenendo il suo puntato sul marciapiede.

Che impostore, imbroglione, bugiardo. E poi per quale motivo avrebbe dovuto ingannarmi?

«Se te lo ricordavi, perché mi hai mentito?»

«Be', perché se no non avresti accettato di uscire con me» rispose, scrollando le spalle, come se quella bugia bianca potesse in qualche modo giustificarlo.

«Infatti ora che lo so penso proprio che me ne tornerò a casa!» esclamai.

Non mi piacevano per nulla i raggiri.

Filippo mi guardò incredulo e divertito per il fatto che ancora una volta stesse riuscendo a farmi perdere la pazienza.

Che razza di bambino.

Poi mi appoggiò una mano sulla spalla per farmi voltare verso di lui e, nel momento in cui incrociò il mio sguardo, scoppiò a ridere, lasciandomi ancora più spiazzata. «È fin troppo facile, ci sei cascata anche questa volta!»

«Perdonami?!» feci stralunata.

«Sai, a dire il vero non saprei come interpretare questa cosa...» disse, tornando serio e assumendo un'espressione pensierosa.

«Quale cosa?» chiesi a denti stretti, trattenendo a stento la collera.

«Be', il fatto che tu abbia davvero creduto che io perda il mio prezioso tempo ad architettare strategie e tattiche varie solo per poter riuscire a passare del tempo con te. Da quando non ti vado più dietro, pare quasi che tu rimpianga le mie attenzioni, o sbaglio? In fondo ti piace essere corteggiata da me, eh? Oppure sei solo un'egocentrica.»

Sentivo il mio volto in fiamme per la rabbia e per l'imbarazzo.

Com'era possibile che ci riuscisse ogni volta? Diffidavo sempre di chiunque, anche senza nessun motivo apparentemente valido, per poi cadere come una stupida ingenua nei suoi piccoli tranelli.

«Sei solo un presuntuoso, arrogante e impertinente! Si può sapere perché ti diverti così tanto a prenderti gioco di me in questo modo?» sbottai, mentre lui a stento tratteneva un'altra risata.

«Non lo so, non saprei come spiegartelo. È divertente e basta. Ogni tanto dovresti provarci anche tu» rispose in tutta tranquillità, prima di continuare a camminare.

Ormai eravamo vicinissimi a Piazza Duomo, tanto che in fondo alla via si iniziava a intravedere qualcosa.

«E comunque non me ne frega un accidente delle tue attenzioni, anzi, penso solo che tu sia una palla al piede!» aggiunsi, seguendolo solo perché non sopportavo che il discorso fosse finito lì.

«Già, infatti come vedi ti ho dovuta supplicare» ribatté ancora una volta usando quel sarcasmo pungente e odioso.

«Quindi mi stai dicendo che ti sei semplicemente dimenticato che Vittorio non era a casa, come hai affermato all'inizio?» chiesi con tono sospettoso, ignorando la sua stupida frecciatina.

In fondo come potevo sapere quale delle due versioni che mi aveva rifilato fosse una balla e quale no? Poteva avermi mentito poco fa così come poteva averlo fatto quando era sotto casa mia.

Filippo annuì soltanto.

«Su, come puoi essertene dimenticato? Se tu e Vittorio vi vedete tutti i giorni per andare a scuola.»

Quella storia mi puzzava sempre di più.

«Perché neanch'io ci sono andato oggi» disse e io lo fissai con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure. Alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Dimmi: mi vedi per caso con uno zaino sulle spalle? Era l'una e mezza quando sono arrivato a casa vostra, la scuola finisce per l'una, se ci fossi andato non avrei mai fatto in tempo a tornare a casa mia per lasciare lo zaino e poi arrivare a casa da voi per quell'ora.»

In effetti aveva senso.

Io mi accorgevo delle sparizioni di Vittorio perché ci vivevo insieme e mi accorgevo subito della sua assenza, ma Filippo probabilmente non ci faceva così tanto caso a meno che non lo vedesse la mattina al momento di andare a scuola. E se quella mattina nemmeno lui ci era andato, era plausibile che se ne fosse dimenticato.

«Fatto sta che rimani un pagliaccio» ribadii il mio punto di vista, e la cosa lo divertì. «E poi perché hai saltato la scuola?»

«Perché non mi andava di andarci?» domandò con tono retorico, come se fosse ovvio.

Evitai di rispondergli. Volevo solo vedere il mio amato Duomo e poi me ne sarei anche potuta tornare a casa.

Tuttavia, prima che potessi avviarmici, Filippo mi afferrò per il braccio e mi attirò verso una piccola piazza. Era costituita da diversi archi e un vecchio pozzo sormontato da due colonne situato al centro. «Piazza dei Mercanti, costruita nel 1233» mi informò Filippo.

«Pensavo facessi pena in storia» commentai ironica e lui ridacchiò: «È vero, ma questa piazza in particolare mi ha sempre affascinato, e ora ti mostrò perché» replicò, prima di dirigersi verso la loggia.

Proprio come la piazza, anch'essa era di modeste dimensioni, inoltre non aveva niente di affascinante o degno di nota, pertanto non capivo cosa ci trovasse Filippo di così interessante.

Mi fece posizionare con il viso rivolto verso una delle quattro colonne, mentre lui si posizionò in quella obliqua alla mia.

Stavo già per chiedergli che cosa diavolo avesse in mente di fare, ma mi fermai non appena sentii una voce provenire proprio dalla mia colonna: «Oggi sei davvero carina, peperoncino».

Strabuzzai gli occhi e mi voltai in immediato verso Filippo, solo per vedere che non si era mosso di un millimetro dalla sua colonna, e inoltre mi stava dando le spalle.

Considerando la rapidità con cui mi ero girata nella sua direzione, era impossibile che avesse fatto in tempo a pronunciare quella frase e subito dopo tornare davanti alla sua colonna, per di più senza che mi accorgessi minimamente dei suoi spostamenti. Inoltre non avevo sentito la sua voce alle mie spalle, l'avevo sentita provenire proprio da quella colonna, accompagnata da una sorta di rimbombo e un'eco.

«Com'è possibile?» domandai incuriosita, parlando alla colonna, sicura che la mia voce sarebbe giunta a lui proprio come la sua era giunta a me.

«Non lo so, dicono che molto probabilmente si tratta di un sistema di comunicazione segreto nato fra commercianti. Be', non più così segreto oramai» spiegò Filippo, mentre io ancora non credevo né ai miei occhi né alle mie orecchie.

«Dai, ora andiamo a vedere la chiesa che ti piace tanto» disse con tono canzonatorio dopo qualche secondo, ma stavolta la sua voce proveniva dalle mie spalle. Infatti, non appena mi girai, vidi che si era allontanato dalla colonna e si era avvicinato a me.

«Perché non la pianti di prendermi in giro?»

«Perché non capisco tutta quest'ammirazione per una chiesa che è uguale a tante altre e che per giunta è lì da almeno cinque secoli, perciò che fretta c'è? Mica si sposta» sbraitò, e io mi pentii subito di averglielo chiesto. «E poi tanto la gente ci va per pregare, e non penso che tu...»

«Si vede che non sai apprezzare la bellezza» lo interruppi. «Né cose come l'ar...»

«Giusto, guarda caso ti ho definita carina poco fa. Hai proprio una bassa considerazione di te stessa, non dovresti. L'autostima è tutto, non te l'hanno insegnato?» mi interruppe a sua volta e per poco non mi uscirono gli occhi fuori dalle orbite.

«Mio Dio, non ti sopporto più!» esclamai e lui prese a ridere sguaiatamente.

*

Dopo aver finalmente ammirato, dopo tutti quegli anni, la cattedrale di Milano, ed esserne rimasta incantata proprio come mi accadeva da bambina, su proposta di Filippo ci spostammo verso la Galleria.

Era una galleria commerciale in stile neorinascimentale costruita solamente il secolo scorso e definita anche come "il salotto di Milano", poiché costituita da negozi e ristoranti di lusso, tanto che fin dalla sua inaugurazione nel diciannovesimo secolo era stato un ritrovo per gente dell'alta società.

Il che mi portò a chiedermi che cosa ci facessimo lì io e Filippo , additati probabilmente come due mocciosi da tutti i passanti.

«Le palle del toro» rispose e io lo fissai con il naso arricciato e le sopracciglia aggrottate. «Dai, è simbolo di buon auspicio!» aggiunse con tono incalzante, sperando che questo mi avrebbe convinta.

«A dire il vero secondo la tradizione vale solo il 31 di dicembre» precisai, ma lui non volle comunque starmi a sentire e mi fece dirigere verso le fatidiche "palle del toro".

Quando venne progettata la Galleria Vittorio Emanuele, sul pavimento fu progettato di inserire il simbolo della città di Milano e, attorno allo stesso, furono inseriti quelli di altre importanti città italiane come la lupa di Roma, il giglio di Firenze e il toro per raffigurare Torino, la prima capitale dell'Italia dopo l'unificazione.

Si diffuse fin da subito l'idea che il toro portasse fortuna e, quindi, per i milanesi più superstiziosi di fine Ottocento divenne un'usanza fare tre giri con la scarpa ben puntata sugli attributi, il che era più difficile di ciò che si poteva immaginare perché si rischiava il più delle volte di perdere l'equilibrio prima di aver ultimato il giro. Solo a quelli che ci sarebbero riusciti, infatti, il gesto avrebbe portato buona sorte.

Secondo alcuni bastava fare solo un giro; secondo altri quella sorta di rituale era segno di buon auspicio per un ritorno a Milano.

Secondo me, invece, era solo una cavolata.

Comunque, per far contento il "bambino" alla mia destra, acconsentii a farlo. «Ti avverto, un solo giro e poi ce ne andiamo, dato che è imbarazzante» lo avvisai e lui non disse nulla in contrario.

Posizionai il tallone destro nel buco corrispondente agli attributi del toro e dopodiché provai a effettuare un giro. Stava andando tutto secondo i piani, fino a che all'ultimo non mi sbilanciai troppo da un lato e per poco non caddi a terra. Riuscii a evitarlo solamente appoggiandomi al braccio di Filippo, il quale come prevedibile si stava già sbellicando dalle risate.

«Complimenti, si vede proprio dalla grazia e dal perfetto equilibrio che fai danza da anni» mi prese in giro e io gli tirai una piccola sberla sul braccio. Cioè, non proprio piccola, dato che lamentò un: «Ahia!» e prese a massaggiarsi il braccio poco dopo. Ma diciamo che mi stavo trattenendo da tutto il pomeriggio dal farlo.

«Ora possiamo tornare a casa, per favore?» chiesi con un finto tono gentile e affabile.

«No, mi è venuta fame. Andiamo da Luini» rispose, prima di iniziare a camminare.

Solo a quel punto mi resi conto di quanto anch'io, a mia volta, avessi fame.

E per di più i panzerotti di Luini erano i più buoni che avessi mai assaggiato! Erano famosi in tutta Milano per questo.

«L'ultima volta che ho mangiato un panzerotto di Luini era una domenica pomeriggio di più di otto anni fa, ero con mio padre e mia sorella» dissi, senza sapermi spiegare perché lo stessi facendo.

Inevitabilmente iniziai a pensare a uno dei pochi momenti felici che mi ricordavo di aver trascorso in compagnia di mio padre. Mi ricordavo davvero pochissime cose, e questa era fra quelle.

Un pomeriggio trascorso con le due persone che mi avevano abbandonata per amore di altre persone, il quale aveva prevalso su quello provato per me.

«Non l'hai mai più rivisto né sentito da quando ti sei trasferita a Torino?» chiese Filippo, nel mentre che ci avviavamo verso il forno della famiglia Luini.

Schioccai la lingua sul palato e scossi la testa. «No, mai. Lui non si è mai interessato. E ora che sono tornata a Milano...» mi fermai un attimo, insicura se voler proseguire con il discorso oppure no. Mi voltai verso il biondino, che mi stava dedicando la sua più completa attenzione ma al tempo stesso non dava cenni né di impazienza né di insistenza. Voleva sapere ma non voleva obbligarmi a parlarne.

Mi presi ancora qualche secondo per me, e nel frattempo iniziammo a metterci in fila per entrare. Il locale infatti non era di grandi dimensioni, e per di più era sempre così gremito di gente, specialmente turisti, così che non era una novità il fatto di doversi mettere in coda a volte già dall'inizio della via.

«Sono andata a cercarlo» dissi infine. «E ho scoperto che il motivo per cui fra lui e mia madre le cose non sono funzionate è perché lui aveva un'altra famiglia. Praticamente conduceva due vite parallele. Prima che nascessi io aveva già avuto una figlia da un'altra donna» spiegai con tono stranamente quieto.

Non mi tremava la voce, non avevo gli occhi lucidi, mi parve quasi di non provare niente a riguardo.

«Quindi alla fine l'hai rivisto?» chiese Filippo e io scossi nuovamente la testa: «No, ho visto le sue due figlie» dissi e Filippo ne fu a dir poco sconvolto. Per fortuna mi risparmiò la faccia ricca di compassione e non disse nulla che avesse minimamente a che fare con: «Oh mio Dio, quanto mi dispiace per te».

Rimase in silenzio e si limitò ad avvolgermi un braccio attorno alle spalle come a volermi dare conforto.

Non mi mossi.

Tempo prima mi sarei allontanata perché non sopportavo quel genere di effusioni, specie se con persone conosciute da poco e che si prendevano confidenza fin da subito. Ma in fondo non era più quello il caso: Filippo non era più solo un conoscente.

Poi mi venne in mente una cosa. «Non dire a Vittorio che ti ho detto questa cosa» lo supplicai. «Lui non ne sa niente» aggiunsi, per chiarire la sua confusione.

«Perché?» domandò.

«Perché non mi va di parlargli di mio padre dato che lui non parla mai di sua madre» risposi, diretta e senza giri di parole.

Dopodiché quattro o cinque persone uscirono dal forno con il loro panzerotto fumante e così la fila procedette in avanti. Il mio languorino allo stomaco si fece sentire.

«Con me ne parla» disse Filippo.

«Già, non avevo dubbi» feci sarcastica. «Che cos'è che nasconde e che bisogno c'è di farlo?» chiesi poi.

Filippo si irrigidì, proprio come quando tempo prima ero riuscita a estorcergli la conferma che Vittorio non fosse andato a scuola uno di quei fatidici giorni.

«A casa non ci sono foto, né lui né Claudio ne hanno mai parlato una sola volta, neanche per sbaglio. È morta? È viva? L'ha abbandonato quando era piccolo, oppure...»

«Nina, che cosa pretendi di sapere da me?» mi interruppe, cominciando a spazientirsi e roteando gli occhi.

«Niente, ma sei il suo migliore amico, quindi saprai quali tasti toccare. So che se glielo chiedessi in maniera diretta non mi risponderebbe; altrimenti non avrebbe taciuto sull'argomento fino ad adesso» replicai, esponendo i miei pensieri a riguardo.

Sapevo che non stava a Filippo il compito di parlarmene, e non era quello il mio obiettivo. Volevo solo che mi aiutasse a capire come fare per far sì che il mio amico mi parlasse.

Altre persone uscirono e io e Filippo scorremmo in avanti, giungendo ormai dinnanzi all'entrata. A quella poca vicinanza dal bancone si poteva sentire l'odore dei panzerotti, caldi e appena sfornati.

Filippo sembrava restio a darmi una risposta, perché probabilmente facendolo sentiva di tradire la fiducia del suo amico. Ma in fondo non gli stavo chiedendo di raccontarmi tutto.

Alla fine, dopo qualche altro attimo di riflessione, sospirò e si decise a parlarmi: «Probabilmente dovresti iniziare col chiedergli dove si è recato oggi, così come due settimane fa, e due settimane prima ancora».

Quindi era così. Avevo ragione.

*

Solo nel momento in cui ci ritrovammo davanti al bancone realizzai che, nella fretta di prepararmi e di privilegiare aspetti futili come i miei capelli sporchi e la mia faccia provata, non avevo pensato a portare dei soldi con me.

Filippo mi disse di non preoccuparmi, e che avrebbe provveduto lui, ma nel momento in cui infilò le mani in tasca, si accorse di non avere lire a sufficienza per entrambi, così comprammo solo un panzerotto che ci saremmo smezzati.

«Comunque in realtà non ho tutta questa fame, ti ho accompagnato solo perché sapevo che tu ne avevi voglia» dissi una volta che fummo usciti da lì.

In realtà non era vero, ma mi dispiaceva che dovesse dividere con me il panzerotto che aveva pagato con i suoi soldi, solo perché io mi ero dimenticata di portarli.

Nel momento in cui uscimmo, diedi istintivamente un'occhiata al cielo e mi accorsi che stava cominciando ad imbrunire. Del resto era autunno già da qualche settimana. Forse ci conveniva dirigerci verso casa.

«Ma finiscila, ti ho vista che sbavavi mentre eravamo dentro» disse scherzosamente, avvicinandosi vertiginosamente al mio viso e fingendo di pulirmi la bava ai lati delle labbra con le dita.

Con la mano libera, dato che l'altra sorreggeva il sacchetto di carta con dentro il panzerotto, gli afferrai il polso per allontanarlo dal mio viso, ma incontrai una certa resistenza da parte sua. «Dai, Filippo, che barba quando fai così!» esclamai, non riuscendo a trattenere una piccola risata.

«Così come?» fece il finto tonto, prima di strapparmi il sacchetto dalle mani e tirare fuori il panzerotto di Luini. Tuttavia, invece che addentarlo, me lo avvicinò, affinché fossi io la prima ad assaggiarlo.

Esitai per qualche secondo, e alla fine diedi un piccolo morso, chiudendo anche gli occhi per assaporarlo meglio.

Filippo aspettava solo di vedere la mia reazione, che purtroppo per lui non fu quella che si aspettava, dato che scattai subito in alto e sputai ciò che avevo ingerito senza pensarci due volte. «Brucia, brucia un sacco!» urlai, tirando fuori la lingua e cominciando ad ansimare per via del dolore.

La mozzarella e il pomodoro all'interno erano così bollenti da avermi ustionato la lingua.

Filippo mi fissava incredulo e, come sempre, divertito dalle mie disavventure. Tratteneva con fatica una risata, probabilmente solo perché gli dispiaceva per il fatto che mi fossi fatta male seriamente e non voleva sembrare insensibile scoppiandomi a ridere in faccia, sebbene non sarebbe stata di certo la prima volta. «Dai, fammi vedere» disse avvicinandosi, ma io lo scansai: «Che cosa vuoi che ci sia da vedere? , guarda» dissi scontrosa, tirando fuori la lingua.

«Che maleducata, non ti hanno insegnato che non si fanno le linguacce alla gente? E anche che non si sputa per terra, specie il cibo. I bambini in Africa muoiono di fame, lo sai? Un po' mi deludi, alla tua età pensavo non ci fosse neanche il bisogno di sottolinearlo.»

Insopportabile. Spocchioso. Fastidioso.

Strinsi i pugni così forte fino a piantarmi le unghie nei palmi delle mani. «Forza, andiamo a casa!» esclamai e basta, voltandogli le spalle e cominciando a camminare.

Poi mi fermai, tornai indietro, mi chinai a terra e raccolsi lo schifo che avevo sputato aiutandomi con il sacchetto di carta, poi mi diressi verso il cestino più vicino e lo buttai.

Dopodiché ripresi a camminare verso casa.

«Davvero vuoi sopportarmi ancora fino a che non arrivi a casa?» mi giunse la sua voce alle spalle.

«Solo perché mi fa comodo non tornare da sola dato che si sta facendo buio» replicai. «Se poi ti cuci la bocca è anche meglio» aggiunsi, nella speranza che, per evitare che mi arrabbiassi ulteriormente, si decidesse a tenere la bocca chiusa.

Ovviamente non accadde. «Questa scena mi pare di averla già vissuta: io che ti devo per forza accompagnare ma poi devo rimanere zitto» disse, e la sua voce mi giunse più vicina rispetto a poco prima, segnale che anche lui stava camminando più velocemente per raggiungermi.

Non dissi nulla per ribattere. Volevo solo tornare a casa. Ma lui non aveva capito. «L'hai iniziato il libro che ti ho dato?» chiese, parlando mentre masticava il panzerotto.

Ancora una volta rimasi in silenzio.

«Mamma mia, che carattere di merda» lo sentii bisbigliare alle mie spalle. «Certo che sei proprio come lei, come Jo: cocciuta fino al midollo» disse, giungendo finalmente al mio fianco.

«No, non è vero» ribattei. «Lo pensavo anch'io all'inizio, ma poi quando l'ho finito ho capito che non è così» aggiunsi, decidendomi a parlarne.

«L'hai già finito?» domandò strabiliato.

Io annuii. «Insomma, lei era innamorata di Laurie! Perché alla fine ha dovuto accontentarsi e sposare il professor Bhear?»

Filippo corrucciò la fronte. «Sei sicura di averlo letto con attenzione? Lei e Laurie sono sempre e solo stati grandi amici.»

Al momento a fissarlo contrariata ero io. «Erano fatti per stare insieme. Laurie l'ha amata per anni e anni, e...»

«L'ha idealizzata per anni, semmai» mi interruppe. «E lei non è mai stata innamorata di Laurie. Voleva sposarlo solo per paura di rimanere da sola per sempre, e tutto sommato le sue attenzioni non gli dispiacevano, perciò se lo sarebbe fatto andare bene.»

«Si vede che sei un maschio e che non riesci proprio a capirle certe cose! Jo è sempre stata troppo orgogliosa per ammettere quello che provava, in primis a se stessa, inoltre aveva troppe ambizioni a cui non intendeva rinunciare per amore, perché riteneva quest'ultimo un freno al realizzarsi dei suoi sogni. In fondo erano anche altri tempi, per le donne non c'erano molte possibilità: o ci si realizzava come persone, oppure ci si sposava e si costruiva una famiglia. Jo ha sempre avuto un animo ribelle e un forte spirito indipendente, perciò ha scelto la prima opzione, dato che non poteva avere entrambe le cose» esposi il mio punto di vista.

Filippo si prese qualche secondo per pensarci, finendo inoltre di masticare l'ultimo pezzo rimasto di panzerotto. «Ok, ipotizziamo anche che sia come dici tu, ma allora che mi dici di Laurie? Alla fine lui si è innamorato di Amy e l'ha sposata.»

«Amy? Amy era solo un ripiego, un rimpiazzo a ciò che non avrebbe mai potuto avere dato che Jo l'aveva rifiutato. Non a caso Amy era proprio sua sorella» risposi cinicamente.

Nel frattempo eravamo arrivati davanti al portone di casa mia. Mi appoggiai con la schiena al muro lì vicino, e Filippo si posizionò davanti a me, incrociando le braccia al petto.

«Solo perché l'ha amata dopo Jo non significa che sia stata la sua seconda scelta» mi fece notare il biondino.

«Ok, ma... ma io non...»

Mi fermai prima di finire la frase. Non sapevo nemmeno io dove volessi andare a parare con quel discorso. Semplicemente non potevo accettarlo.

Non era così che sarebbe dovuta finire.

Ero fermamente convinta che fosse come dicevo io, e che Jo avesse soltanto fatto la scelta sbagliata. Lei e Laurie avrebbero potuto essere felici insieme, ma Jo aveva paura di rischiare e aveva scelto la via più semplice.

E un po' la capivo.

D'altronde... d'altronde era lo stesso bivio davanti al quale mi trovavo io.

Feci quelle riflessioni nel mentre che guardavo fisso in quegli occhi fra il verde e l'azzurro, così espressivi, così limpidi.

E in un attimo anche a me fu tutto chiaro. Limpido. Cristallino.

Mi ostinavo a difendere quel punto di vista perché in realtà mi stavo nascondendo dietro a Jo, dietro al personaggio di un libro, quando invece... quando invece stavo parlando di me.

 

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Capitolo 38
*** Trentasei. ***


Trentasei.


Non riuscivo a crederci.

Non potevo... non volevo crederci.

Non era giusto.

Non era così che sarebbero dovute andare le cose.

Mi stavo innamorando di Filippo Cattaneo.

No, forse era troppo presto per parlare di innamoramento. O no? In fondo non ne sapevo nulla dell'amore. Non me ne ero mai interessata fino a fondo, dopotutto per tutti quegli anni mi ero impegnata a fondo solamente per riuscire a sfuggirgli.

E ci ero sempre riuscita, fino a che non mi ero ritrasferita a Milano. Quindi che cosa era andato storto? Che cosa avevo sbagliato?

Avevo abbassato le mie difese, così come avevo fatto con Vittorio e stavo cercando di fare anche con Irene... perché con Filippo la cosa aveva funzionato in maniera differente?

Non riuscivo proprio a capacitarmene, a trovare anche una sola motivazione valida. Eppure era ormai innegabile: nel momento in cui avevamo avuto quella conversazione, improvvisamente, mi era apparso tutto chiaro. Era come se nella mia mente, offuscata fino ad allora, tutto fosse stato rimesso a fuoco. E al tempo stesso avevo sentito il cuore battermi fortissimo, nel mentre che realizzavo di star cominciando a vedere Filippo in un modo del tutto nuovo.

In un primo momento avevo provato sollievo, mi ero sentita leggera, quasi spensierata.

Poi ero ritornata in me. La lucidità aveva recuperato il suo posto nella mia mente, e mi ero resa conto di quanto ciò fosse sbagliato. Non poteva capitare a me.

Io non volevo Filippo, non mi interessava avere una relazione con lui, del resto il più delle volte non lo apprezzavo nemmeno come persona! Era fastidioso, impertinente, logorroico, insistente, presuntuoso, bugiardo, infantile, permaloso, vanesio, superficiale, ignorante... avrei potuto andare avanti per ore a elencare i suoi difetti.

Eppure più me li ripetevo, sdraiata nel letto e incapace di prendere sonno, più mi rendevo conto che non stava servendo a nulla... non avrebbe cambiato il modo in cui mi sentivo nei suoi confronti, né il modo in cui mi faceva sentire quando eravamo insieme.

O anche quando non eravamo insieme.
Quante erano state le volte, in quei mesi, che avevo perso ore e ore a pensarlo, qualunque fosse la motivazione? Effettivamente era da un bel po' di tempo che mi era entrato in testa.

Era l'unica persona in grado di confondermi, l'unico a farmi mettere in discussione qualsiasi cosa, qualsiasi principio a cui mi ero sempre affidata ciecamente, l'unico che mi faceva sentire diversa dal solito.

Ero totalmente un'altra persona quando ero con lui. E lo odiavo, perché ero vulnerabile, eppure non riuscivo a farne a meno, non riuscivo a controllarlo, tanto che in un modo o nell'altro mi ritrovavo a cercare sempre di passare quanto più tempo possibile con lui.

Ma avrei dovuto smettere di farlo. Non potevo permettermelo... non potevo soffrire ancora.

In fondo era stato chiaro, non era più interessato a me.

E pensare che se non fossi stata così tanto dura con lui, forse le cose sarebbero andate in tutt'altro modo...
Avrei dovuto essere meno me stessa e essere più accondiscendente con lui, mostrare una maggiore apertura nonostante i miei pregiudizi e preconcetti.

Così non sarebbe successo quello che era successo.

Me lo meritavo in fondo, di non essere ricambiata. Mi sarebbe servito da lezione.

Mi dispiaceva solo che fosse andata così: che lui, una volta avermi conosciuta per quella che ero, aveva perso progressivamente interesse nei miei confronti, mentre io, conoscendolo meglio, avevo iniziato a provare dei sentimenti autentici per lui.

Se solo non avessi avuto quel carattere impossibile... non mi stupiva di certo il fatto che ci avesse rinunciato, né che si fosse stufato. Non potevo biasimarlo.

Dal momento che non riuscivo a chiudere occhio, ebbi l'impulso di alzarmi dal letto e andare in camera di Vittorio, ma mi trattenni dal farlo, in un primo momento.

Mi girai sull'altro fianco e richiusi gli occhi.

Durò poco, perché la tentazione si ripresentò, più insistente della prima volta.

Ancora un po' rintontita per via del sonno, mi alzai dal letto, uscii dalla mia stanza e mi diressi verso la sua. Aprii la porta e mi avvicinai frettolosamente al suo letto. Mi sedetti al capezzale e mi chinai in avanti per iniziare a scuotere il busto di Vittorio affinché si svegliasse.

«Mmh...» brontolò, prima di sdraiarsi prono e darmi le spalle.

«Vittorio, per favore» lo supplicai, afferrandolo per il braccio e iniziando a tirargli dei piccoli schiaffi sul viso con la sua stessa mano.

«...ono stanco... omani ne ri...rliamo» farfugliò, e io roteai gli occhi.

«Ti prego, Vittorio, svegliati e ascoltami» insistetti, prima di sdraiarmi di proposito sopra di lui, nella speranza che il mio peso su di lui senza preavviso lo ridestasse. «Posso dormire con te?» gli sussurrai all'orecchio.

Riaprì gli occhi ed ebbe un sussulto. Per un attimo ebbi l'impressione che mi avrebbe scaraventata a terra per lo spavento, invece non lo fece. Mi rialzai in piedi e lui sollevò il busto per mettersi seduto. Si stropicciò gli occhi con le dita e poi sbadigliò, senza premurarsi di mettersi la mano davanti alla bocca. «Che c'è, Nina?» chiese con tono serio ma non seccato.

Sebbene fosse stanco, non voleva liquidarmi, non senza sapere realmente ciò che mi stava succedendo.

«Non ce la faccio a dormire in camera da sola» ammisi, con voce rotta.

Quella notte erano i pensieri su Filippo a tenermi sveglia, ma le altre volte si trattava di Benedetta. Lei non c'era più. Per quindici anni ero stata abituata a dividere la stanza con lei e, anche se non lo avrei mai immaginato, sentivo la sua mancanza anche quando si trattava semplicemente di dormire. Quella stanza era vuota se occupata solo da me.

Vittorio sbadigliò ancora, poi senza dire niente mi fece cenno di mettermi a letto al suo fianco. Con un piccolo sorriso mi infilai sotto le coperte.

Sentii Vittorio rabbrividire e irrigidirsi non appena lo feci. «Dio, hai i piedi gelidi!» esclamò.

«Scusa» dissi, prima di toccare nuovamente i suoi piedi di proposito per infastidirlo ancora.

«Su, Nina! E poi mi fanno schifo i piedi, tienili alla larga!»

«Ma dai, i miei piedi sono bellissimi, mia mamma dice che ho i piedi da Cenerentola, porto il trentacinque di scarpe» spiegai con una piccola risata.

«Non puoi metterti delle calze?» chiese e io alzai gli occhi al cielo: «Ma fai sul serio? Solo per dei piedi?».

«Sono ghiacciati, e poi ti ripeto che provo un certo ribrezzo per i piedi. Anzi, peggio. È quasi una fobia» spiegò.

«Ok, e quando avrai una moglie e ci dormirai insieme ogni notte come affronterai la cosa?»

«Non farmici pensare» rispose serio, facendola più tragica di quello che era.

Poi si girò su un fianco e cercò il più possibile di distanziarsi da me per far sì che i nostri piedi non si toccassero nuovamente. A quel punto mi adoperai anch'io per trovare una posizione comoda, il che era più difficile di ciò che avevo pensato inizialmente.

Provai a girarmi sul fianco opposto rispetto a quello di Vittorio e chiusi gli occhi.

Dopo qualche istante, lo sentii girarsi e mi misi a strillare non appena appoggiò la testa, con tutto il peso, sui miei capelli. «Oddio, perdonami, perdonami» si scusò, sollevando la testa dal cuscino affinché potessi spostare i miei capelli.

Poi sentivo che mi si stava addormentando il braccio, così mi girai sull'altro fianco, appoggiando la testa vicino alla spalla di Vittorio e avvolgendo il braccio attorno al suo addome. «Non ci credo, mi stai abbracciando di tua spontanea volontà» bisbigliò divertito e io gli tappai la bocca con la mano.

«Fossi in te la leverei quella mano, a volte sbavo quando dormo» disse e io la ritrassi in fretta, con una smorfia di disgusto.

Dopodiché mi sdraiai supina, e lì mi resi conto che non ci stavamo in due in quel letto, non se eravamo entrambi sdraiati in quel modo. «Non puoi girarti sul fianco?» proposi.

«No, perché ora sono comodo così.»

«Ma non vedi che non ci stiamo?»

«E quindi cosa dovrei fare? Ti ricordo che è il mio letto!» esclamò stizzito.

«Uffa» mi lamentai.

Nonostante ciò che aveva detto, mi diede ascolto e si rigirò sul fianco, rivolto verso di me.

Chiusi gli occhi un'altra volta e provai seriamente ad addormentarmi. Sembrava la volta definitiva. Nessuno dei due cambiò posizione per diversi minuti né si lamentò di qualcosa. Sentivo che mi sarei finalmente addormentata, se solo... se solo...

«No, io così non ce la faccio» sbottai a un certo punto. «Respiri troppo forte, e mi aliti sul collo.»

«Nina, ti sto per sbattere fuori» mi avvertì.

Cercai allora di stare zitta e ferma per qualche secondo. Durò fino a che non sentii la porta, lasciata socchiusa, spalancarsi, seguita da un rumore di unghiette affilate che si scontravano sul pavimento nel mentre che lo percorrevano. Poi cessarono, e fu a quel punto che quel gatto insopportabile balzò sul letto. «No, Vittorio, portalo fuori e chiudi la porta. Non ci stiamo in tre, anche perché questo gatto è un terzo di me» mi lamentai, nel mentre che quella bestia pelosa cominciava a gironzolare nel letto fino a trovare il posto giusto per lui.

«Scordatelo. Giuseppe è abituato ad avere accesso alla mia camera ogni qualvolta ne abbia voglia. Se provo a chiudere la porta poi miagola tutta la notte e non lascia tregua a nessuno.»

Il felino si piazzò seduto sul mio ventre, cominciando a fare "la pasta", una pratica che consisteva nel continuare a schiacciare le sue zampe contro il mio stomaco in modo alternato: prima la zampetta sinistra, poi quella destra. Lo faceva sempre, prima di sdraiarsi a dormire su qualcuno.

«Almeno tienitelo tu» dissi, prendendolo in braccio e spostandolo verso Vittorio.

«È un gatto libero, decide lui dove stare, se ha scelto te, un motivo ci sarà... ecco, infatti» disse, nel mentre che Giuseppe prese a dirigersi di nuovo verso di me.

Sbuffai sonoramente. «Se poi almeno si sdraiasse invece che continuare a fare così! È davvero snervante.»

Poi il felino, forse percependo il mio astio, si assestò. Si sdraiò su di me, appoggiando le zampe anteriori sul mio petto e infilando la testa nell'incavo del mio collo. Dopo non molto cominciò a fare le fusa. Stranamente quelle vibrazioni non mi infastidirono, anzi: riuscirono quasi a rilassarmi.

Infatti, quel suono prodotto dal gatto dall'interno del suo corpicino, ripetuto sempre nello stesso modo quasi come una frequenza, in un modo o nell'altro riuscì a conciliarmi il sonno, dato che prima che potessi rendermene conto ero già caduta nelle braccia di Morfeo.

Quando mi svegliai l'indomani mattina, Giuseppe non era più sdraiato sopra di me, era del tutto uscito dalla stanza. Neanche Vittorio c'era.

In un primo momento provai confusione; in seguito provai angoscia, perché l'ultima volta che mi ero risvegliata in una stanza senza rivedere la persona con cui la condividevo, era perché Benedetta se n'era andata per sempre; infine cacciai quei pensieri e mi alzai dal letto.

Andai in camera mia per iniziare a prepararmi per la scuola e, non appena aprii la porta, vidi Vittorio sul mio letto, ancora ronfante. Tirai un sospiro di sollievo, senza però sapermi spiegare perché si fosse spostato lì a dormire.

Comunque mi avviai alla finestra e spalancai le tende, per far entrare la luce del sole e svegliare Vittorio, così che uscisse dalla mia cameretta e mi lasciasse sola per prepararmi. Non appena dopo averlo fatto, il mio amico emise un lamento e si coprì la testa col cuscino.

«È ora di alzarsi, Bella Addormentata» lo canzonai, avvicinandomi al letto dove stava dormendo e strappandogli il cuscino di mano.

«Che rompabale, Nina» si lamentò. «Sai che russi da morire? Non sono riuscito a chiudere occhio fino a che non ho deciso di alzarmi e andarmene in un'altra stanza!» sbraitò e io assunsi un'espressione offesa: «Che dici? Non è vero che russo. Forse sono solo un po' raffreddata e ho il naso chiuso...» tentai di giustificarmi.

«Su, non cercare scuse, sembrava di ascoltare un concerto di ottoni!» esclamò e io roteai gli occhi.

«Che esagerato. E ora levati.» Poi gli tolsi la coperta di dosso, lo afferrai per un braccio e lo costrinsi a uscire dalla mia camera.

*

A scuola sembrava che le cose fra me e Irene fossero tornate come prima, non si comportava più come se ce l'avesse con me, tanto che non ci fu nemmeno il bisogno che mi scusassi e le spiegassi, ancora una volta, che non appena mi fossi sentita pronta le avrei raccontato ciò che mi stava succedendo.

Ne fui sollevata. Non volevo di certo che continuasse ad avercela in eterno con me, ma al tempo stesso ancora non me la sentivo di dirle la verità.

E poi così almeno su quel fronte non avevo di che preoccuparmi, considerando che tutto il resto andava uno schifo.

L'unica altra nota positiva di quella giornata era che quella sera avrei avuto la mia seconda lezione di danza.

Non appena tornata a casa da scuola, infatti, corsi subito in camera a preparare la borsa con le cose da portare, fra cui l'occorrente per farmi la doccia in spogliatoio.

A un certo punto sentii il telefono di casa squillare, ma presa com'ero dalle mie faccende non avevo voglia di interrompermi per andare a rispondere. «Vitto, vai tu?» gli urlai dalla mia stanza.

«Sì, vado io» rispose e infatti, pochi secondi dopo, il trillo insistente terminò, segnale che Vittorio aveva sollevato la cornetta. «Pronto?» gli sentii dire.

Trascorse poi qualche secondo in silenzio ad ascoltare chiunque stesse parlando dall'altra parte della cornetta. Poco dopo finii di preparare la borsa, così uscii dalla stanza e mi appoggiai allo stipite della porta per osservare Vittorio. «Chi è?» sussurrai, e in cuor mio speravo si trattasse di Filippo, che magari aveva chiamato Vittorio per chiedergli di vedersi quel pomeriggio oppure se poteva venire a stare da noi quella sera.

Vittorio separò la cornetta dall'orecchio e la coprì con la mano: «È Benedetta, mi ha chiesto di te» rispose a bassa voce e io subito mi irrigidii.

Scossi la testa prontamente e mimai a Vittorio di lasciar perdere, poi mi richiusi in camera.

«No, mi dispiace, non è ancora tornata a casa» sentii Vittorio dire.

Sospirai di sollievo e lo ringraziai mentalmente per avermi coperta. Non avevo alcuna intenzione di parlare con lei, perciò era il caso che la smettesse di telefonare ogni giorno e chiedere che me la passassero, perché non avrei mai ceduto. Non volevo più saperne di lei.

Dopo aver finito di pranzare e di studiare, arrivò finalmente l'ora di uscire per andare a danza.

Quella sera era particolarmente fredda e ventilata, e me ne resi conto solo non appena misi piede fuori casa e sentii la mia gola chiedere pietà. Avrei dovuto portarmi dietro una sciarpa. Speravo solo di non ammalarmi.

Presi il tram e in meno di venti minuti giunsi a destinazione. Andai di corsa in spogliatoio a cambiarmi e lì salutai le mie compagne di danza con un sorriso. Alcune di loro mi squadrarono come la prima volta, ma non me ne curai. Misi il body e i fuseaux, stavolta della taglia giusta, e infine le scarpette.

A differenza della prima volta, mi sembrava che l'insegnante ci stesse massacrando, fra il riscaldamento e il proseguimento della coreografia, andando a velocità supersonica e senza lasciarci quasi alcuna pausa. Molto spesso mi guardavo intorno per cercare di capire se fossero tutte stremate come me, eppure sembravo l'unica così tanto affaticata.

Non capivo se fosse per via delle poche ore di sonno degli ultimi giorni oppure perché ancora non ero ben abituata a tanto esercizio fisico, eppure arrivai a fine lezione totalmente spossata e con la testa che girava.

In più mi sentivo lo stomaco vuoto, e spesso ero distratta perché, totalmente senza motivo, pur non c'entrando nulla, mi veniva in mente Filippo. In particolare quando gli avevo raccontato della mia passione per la danza, e di quando il giorno prima mi aveva presa in giro per via del mio poco equilibrio e della mia poca grazia, e poi ancora di quando mi aveva chiesto di ballare con lui la prima volta che ci eravamo incontrati.

Scacciai ogni qualvolta quei pensieri con decisione.

«Ho una fame da lupi!» esclamai, rientrando in spogliatoio.

«Già, a chi lo dici» mi diede ragione Ginevra. «Non ho nemmeno fatto merenda, è praticamente da pranzo che digiuno!».

«E mi scoppia la testa, per colpa di questo schifo di chignon troppo stretto» mi lamentai, provvedendo subito dopo a sciogliermi i capelli e a massaggiarmi la cute con le dita.

Come al solito, in pochissimo tempo le poche docce a disposizione furono occupate, e c'erano addirittura già alcune ragazze in fila ad aspettare il proprio turno.

Sentii il mio stomaco brontolare indecorosamente un'altra volta. Mi presi qualche secondo per riflettere. Avevo una fame incontrollata, in più ero a pezzi, avevo solamente voglia di andare a casa mia, farmi una doccia rigenerante, cenare e poi filare a letto, il tutto nel minor tempo possibile. Quindi decisi di andarmene e lavarmi una volta tornata a casa.

Avrei fatto in fretta. In fondo la fermata del tram era a pochi passi dalla scuola di danza.

Una volta salita sarebbe stata questione davvero di una manciata di minuti. E così feci. Mi lasciai cadere sulla panca in legno del tram, appoggiando la borsa di danza ai miei piedi.

Fu allora che provai una strana sensazione, sperimentata solamente una volta nella mia vita, all'incirca un mese prima.
Sentivo delle goccioline fare la loro discesa da una determinata parte del mio corpo. Non poteva essere sudore, dato che fortunatamente non sudavo mai molto e di solito si concentrava tutto sulla fronte, dietro la nuca e sotto le ascelle, insomma nella parte alta del mio corpo.

Dentro di me sapevo già di cosa si trattasse, ma non volevo credere che avesse bussato alla mia porta, per la seconda volta, nel momento più sconveniente. Eppure ero sicura fosse così: mi era arrivato il ciclo.

Che palle.

Neanche il tempo di riprendermi da quello precedente. Avevo passato quindici anni ad attenderlo e per cosa? Se lui neanche sapeva aspettare che tornassi a casa prima di presentarsi! A quanto pare avevamo una cosa in comune: l'impazienza.

Motivo ulteriore per arrivare a casa il prima possibile.

Nonostante la stanchezza, mi alzai in piedi e ci rimasi fino al momento di scendere dal tram, per evitare di sporcare qualcosa.

Quando finalmente giunse la mia fermata, scesi quasi correndo, il che fu un errore di cui mi resi conto troppo tardi, dato che contribuì ad aumentare le perdite.

Indossavo dei pantaloni della tuta blu notte, e pregai che non si notasse qualcosa.

Cominciai a camminare verso casa con fare spedito. Questione di pochi minuti.

«Ehi bella, dove vai così di fretta?» sentii una voce maschile alle mie spalle, seguita da una grossa e grassa risata, anch'essa maschile ma con una voce diversa dalla prima.

Rabbrividii, e sentii la pelle d'oca propagarsi in ogni parte del mio corpo.

Il mio battito accelerò, così come anche il mio passo.

Decisi di ignorare quel richiamo, come mi aveva insegnato mia madre, e tirare dritto, senza dire nulla. Non fu facile, perché ne avrei dette di cose, parecchie, ma non sarebbe servito a niente. Erano in due, e io ero solo una ragazzina indifesa.

«Ehilà, parliamo con te!» sentii un altro richiamo in lontananza, stavolta sembrava provenire da colui che prima stava ridendo.

Non li avevo neanche visti in faccia, ma a giudicare dal tono delle loro voci sembravano adulti, sulla quarantina o cinquantina.

Mi davano il voltastomaco.

E pensare che forse erano padri di famiglia e facevano tali commenti su una ragazzina... mi chiesi come si sarebbero sentiti se a fare così fosse stato qualcun altro con le loro figlie. Mi chiesi anche come si sarebbero sentite le loro eventuali compagne nello scoprire di stare con persone del genere, e di averci fatto anche dei figli con persone così viscide.

«Non scappare, dai!» urlò il primo, e le loro voci mi giunsero più vicine rispetto a poco prima. Mi stavano seguendo. «Non dovresti andare in giro tutta sola con questo buio!»

«Ti riaccompagniamo noi» si aggiunse l'altro, mentre io sentivo le lacrime addensarsi nei miei occhi, ma non avevo tempo per piangere.

Mancavano circa due minuti ad arrivare a casa, ma non potevo permettermelo, non se ce li avevo alle calcagna. Dovevo seminarli, o andare in un luogo pieno di gente, a differenza di quello isolato in cui mi trovavo.

Mi ricordai che lì nei paraggi c'era un supermercato, così iniziai a dirigermi lì. Sarei rimasta lì dentro per un po', fino a che non ci avrebbero rinunciato.

Ormai non mi importava nemmeno più di arrivare al più presto a casa, mi importava arrivarci sana e salva.

Portai a compimento il mio piano, varcando la soglia del supermercato e tirando subito un sospiro di sollievo nel vedere quanta gente ci fosse. I due, che nel frattempo non si erano mostrati intenzionati a demordere, rimasero invece fuori, evitando di entrare.

Feci un giro di tutto il supermercato due o tre volte, girando ogni singolo reparto dall'inizio alla fine e talvolta soffermandomi a leggere le etichette dei prodotti, sperando che col passare dei minuti i due si decidessero a lasciarmi in pace.

Avevo la costante paura che, una volta uscita dal supermercato, sarebbero stati ancora lì fuori ad attendermi, così ritardai il più possibile quel momento.
Mi affiancai a una donna con due bambini, uno dentro il carrello e uno che camminava al suo fianco, e uscii insieme a lei, standole quasi attaccata, nell'illusione che, se quei depravati fossero stati lì, vedendomi insieme a un adulto mi avrebbero lasciata stare.

Non ce ne fu bisogno, per fortuna, perché se n'erano andati.

A quel punto mi avviai davvero verso casa correndo, dimenticandomi che correre non era il massimo nella mia situazione. Tanto dopo la doccia mi sarei ripulita per bene, l'importante era soltanto arrivarci, a quella doccia.

Giunsi davanti al portone e tirai fuori dal borsone le mie chiavi, affrettandomi ad inserirla nella serratura.

Una volta dentro, infine, richiusi il portone alle mie spalle e sospirai di sollievo.

Ero salva.

Ma odiavo essere femmina.

E ancor di più odiavo gli uomini.

Perciò non capivo che cosa mi avesse portata a prendermi una cotta per uno di loro.

C'era solo una cosa che potevo fare per rimediare: uccidere quel sentimento.

 

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Capitolo 39
*** Trentasette. ***


Trentasette.


L'unica cosa più spiacevole dell'episodio della sera precedente, fu solamente il mio risveglio il mattino seguente. Mi sentivo un mal di gola così forte che mi impediva quasi di parlare poiché mi causava attacchi di tosse ogni qualvolta ci provassi, il naso così chiuso che faticavo a respirare, crampi terribili nella parte bassa del ventre a causa delle mestruazioni, e una fortissima emicrania.

«Mmh, sì, hai la febbre» constatò mia madre, prima di separare le sue labbra dalla mia fronte.

«Macché, avrò solo... solo preso un po' di... di freddo» riuscii a malapena a dire, fra un colpo di tosse o l'altro.

«Oppure ti sei presa l'influenza. In ogni caso oggi a scuola non ci vai» dichiarò, e io scossi prontamente la testa: «No, non posso assentarmi! Oggi quello di latino inizia a interrogare, e se non mi presento penserà che l'abbia fatto di proposito e mi prenderà di mira» protestai, prima di riprendere a tossire.

«Non ti faccio andare a scuola in queste condizioni, Marina, perciò mettiti l'anima in pace: oggi non ti muovi da questa camera» fece con tono categorico. Poi si lasciò scappare una risatina. «È buffo, sai? Alla tua età le tentavo tutte pur di non andare a scuola! Un paio di volte avevo anche tenuto vicino il termometro al calorifero per qualche minuto per far salire la temperatura e convincere il nonno e la nonna a lasciarmi a casa» disse, e io emisi un piccolo sorriso.

Normalmente non avrei protestato così tanto, e poi non mi importava un bel niente di ciò che avrebbe pensato il mio professore di latino. Solo che non volevo restare ancora una volta da sola con i miei pensieri, senza poter far niente per distrarmi.

Infatti non avevo le forze di alzarmi da quel maledetto letto, né di fare qualsiasi altra cosa che non fosse dormire.

Mia madre mi lasciò un bacio sulla fronte, una carezza sulla guancia e poi mi lasciò in stanza da sola, lasciando la porta socchiusa.

Dopo pochi istanti ritornò davanti alla soglia della porta, tenendo in mano il telefono di casa, che appoggiò a terra vicino allo stipite della porta, dove di solito si metteva Benedetta a parlare con Maurizio. «Te lo lascio qui, nel caso dovessi avere bisogno di qualsiasi cosa, telefonami. Te lo ricordi il numero del lavoro, giusto?» chiese, prima di ripetermelo ugualmente e affrettarsi anche a segnarlo su un foglio di carta che mi lasciò di fianco al telefono.

Poi uscì di nuovo dalla mia stanza e poco dopo uscì di casa per andare a lavoro.

Io chiusi gli occhi e mi girai su un fianco, provando a dormire. Mi coprii con le coperte quasi fin sopra la testa, dato che avvertivo brividi di freddo e al tempo stesso sudavo.

Odiavo essere malata.

Se solo non avessi dimenticato la sciarpa la sera prima, e se solo non avessi dovuto scappare da quei maniaci perdendo tempo e prendendo freddo, non mi sarei ritrovata in quella situazione. Infatti ero sicura si trattasse solo di un colpo di freddo.

Ma cos'avevo fatto di male nell'ultimo periodo affinché me ne accadesse una dopo l'altra?

Non ne potevo più. Ero totalmente sopraffatta da tutto ciò che mi stava succedendo.

E il mio malessere fisico era niente in confronto a quello emotivo... in fondo la febbre e il raffreddore mi sarebbero passati in pochi giorni, ma non sapevo se avrei potuto dire lo stesso per tutto il resto.

Come si faceva a far sparire il dolore? A non provare più niente?

Non chiedevo di essere la persona più felice sulla faccia della Terra, non me ne importava niente, volevo solo smetterla di soffrire.

Ultimamente gli unici momenti in cui riuscivo a stare bene, senza pensieri, senza preoccupazioni, erano quelli con Filippo. Cioè, no, non solo quelli con lui, era lo stesso con Irene e anche con Vittorio, con i quali in realtà avevo un rapporto molto più saldo e avevo condiviso più momenti con loro che con Filippo... ma nella mia testa, attualmente, albergavano solo quelli trascorsi con lui.

La mia mente era inondata solo da pensieri che lo riguardavano. Ripercorrevo ogni momento, ogni attimo che avevamo vissuto insieme, ogni conversazione, ogni sguardo, ogni contatto fisico, e pensavo solo a quanto avrei voluto godermi meglio quei momenti, o a come avrei voluto agire diversamente rispetto a come avevo fatto nella realtà.

Quante occasioni avevo sprecato... e chissà da quanto tempo in realtà provavo qualcosa per lui ma ero stata troppo ottusa o anche troppo inesperta per rendermene conto.

E oramai era tutto andato perduto. Il treno era passato e io avevo lasciato che mi passasse davanti senza fare niente, restando dietro la linea gialla, a distanza di sicurezza.

E in fondo era meglio così, continuavo a ripetermi, perché io non volevo provare ciò che provavo, non volevo innamorarmi, non volevo essere fidanzata con lui né con nessuno.

Mai.

O almeno fino a che non sarei stata pronta, e ancora non lo ero.

Sapevo ancora fin troppe poche cose su di me e sull'amore in generale... in fondo nemmeno riuscivo a spiegarmi perché Filippo avesse iniziato a piacermi!

Solo allora capii le parole di Benedetta, quando mi aveva detto che non è possibile spiegare a parole ciò che si prova per qualcuno.

Non avevo mai pensato che potesse essere così dannatamente vero fino a che non l'avevo sperimentato sulla mia pelle.

E quindi, se ero davvero arrivata a quel punto... ero assolutamente fregata.

*

La mattinata tutto sommato passò in fretta. Dopo le prime ore critiche, in cui ero sopraffatta dai miei pensieri e dal mio pessimo stato fisico, alla fine riuscii a prendere un po' di sonno e a riposare, cosa che mi meritavo assolutamente.

Quando riaprii gli occhi, in un primo momento mi sentii disorientata, dopodiché fui colta da un'improvvisa sete, così, nonostante le poche forze in corpo, mi alzai dal letto.

Mi avviai barcollante verso la cucina, e lì mi accorsi della presenza di Vittorio, il quale doveva essere tornato da poco da scuola e stava pranzando. «Oh, buongiorno, Nina» disse, non appena dopo essersi accorto della mia presenza.

Risposi solo con un piccolo verso, e poi mi avviai verso la credenza per prendere un bicchiere. Allungai il braccio il più possibile verso l'alto, ma avevo così poche forze in corpo che ottenni scarsi risultati. Vittorio, che mi stava tenendo sotto osservazione fin da quando ero entrata in cucina, accorse in mio aiuto e mi prese il bicchiere. Lo riempì con dell'acqua a temperatura ambiente e poi me lo passò. «Grazie» dissi e dalla mia voce uscì appena un sibilo.

Avevo la voce giù, anche più di quella mattina. Subito dopo diedi due colpi di tosse, così mi sedetti e mi affrettai a bere l'acqua.

«Come diavolo hai fatto a conciarti così?» chiese Vittorio. «Ne vuoi ancora?» domandò poi, prima di riempirmi nuovamente il bicchiere.

Mi presi qualche secondo prima di rispondere, per essere sicura di essere in grado di parlare senza tossire di continuo. «Ho dimenticato la sciarpa ieri, quando sono andata a danza» risposi brevemente.

Vittorio finì di masticare la sua bistecca, prima di riprendere la parola: «Ok, ma non è a un quarto d'ora da qui?».

Annuii. «Sì, ma ho fatto una strada più lunga ieri perché...» mi interruppi per tossire ancora. «Perché c'erano due uomini poco raccomandabili che mi seguivano» confessai, provando repulsione solo a ripensarci.

Vittorio corrucciò la fronte. »Sei sicura? Magari era solo una tua impressione! Perché avrebbero dovuto seguirti?»

«Be', questo io non lo so, probabilmente erano due malintenzionati! Non appena mi hanno vista hanno iniziato a fare apprezzamenti su di me, e...»

«Non mi sembra una cosa negativa» mi interruppe Vittorio e io lo fissai stralunata e incredula: «Mi prendi forse per il culo?».

Vittorio scosse la testa, prima di alzarsi in piedi prendendo il piatto e le posate dal tavolo e iniziare a sciacquarle nel lavello.

»Che male c'è nel fare un complimento a qualcuno? Ho sempre pensato che a voi ragazze facesse piacere riceverli...»

Nonostante fossi totalmente spossata, non riuscii a trattenermi dal rispondergli a tono: «Secondo te dovrei sentirmi lusingata se due uomini sconosciuti, che hanno più del doppio dei miei anni, mi interrompono mentre giro per strada da sola per dirmi: "Ehi bella, dove vai da sola?". Ti risparmio la fatica di pensarci: no, non mi sono sentita lusingata, perché eri troppo impegnata a essere terrorizzata a morte».

Vittorio rimase zitto, chiudendo anche l'acqua del rubinetto. Si grattò la testa, come faceva quando si sentiva a disagio per aver detto qualcosa di sbagliato, anche se con ogni probabilità non aveva neanche capito il motivo di tutta quella mia arrabbiatura. La conferma la ebbi poco dopo, quando Vittorio si espresse nuovamente sull'argomento: «Ma perché devi sempre vedere il marcio in tutto? Magari in realtà erano preoccupati, e ti hanno seguita per assicurarsi che non ti accadesse nulla».

Stavo per inveire nuovamente contro di lui, ma all'ultimo ci ripensai. Feci un respiro profondo e tentai di calmarmi. «D'accordo, come credi tu» dissi soltanto.

Pensavo che almeno con lui avrei potuto parlarne e che mi avrebbe capita. Di solito ci riusciva sempre, a capirmi.

Dopo quelle parole, mi alzai dalla sedia e mi preparai per tornare a rinchiudermi in camera mia, ma Vittorio me lo impedì, afferrandomi per il polso. «No, Nina, aspetta. Che cos'ho detto di sbagliato?» domandò preoccupato.

«Tanto è inutile cercare di fartelo capire! Sei un maschio come tutti gli altri e in quanto tale non puoi capire che cosa dobbiamo sopportare ogni giorno noi femmine: il terrore che abbiamo nell'imboccare delle vie isolate al buio per paura che ci capiti qualcosa di brutto; il fatto che ricevere dei complimenti non richiesti non ci faccia piacere perché spesso sono inopportuni e ci fanno sentire a disagio specie se provengono da sconosciuti per strada; il fatto che ci insegnano fin da piccole che dobbiamo stare attente a come ci vestiamo quando andiamo in giro, perché se mettiamo qualcosa di troppo "provocante", qualcuno si sentirà legittimato a decidere cosa fare di noi e del nostro corpo, quando invece dovrebbero insegnare agli uomini a rispettare le donne. Ecco cosa non capirai mai e poi mai!».

Sì, avrei davvero voluto dire quelle parole, invece non lo feci. Non dissi nulla. Semplicemente mi liberai dalla sua presa e gli diedi le spalle, lasciandolo nella sua confusione.

Magari riflettendoci meglio ci sarebbe arrivato da solo. O magari no. In fondo erano tutti così, anche quelli che reputavo diversi.

*

Verso pomeriggio sentii la febbre risalirmi, ma non volevo disturbare mia madre a lavoro, così presi una tachipirina e tentai di resistere il più possibile, nonostante mi stesse scoppiando la testa.

Praticamente non mi ero mossa dal letto tutto il giorno, se non per andare in cucina a bere, andare in bagno, cambiarmi l'assorbente. Non avevo quasi toccato cibo tutto il giorno, perché non appena provavo a ingerire qualsiasi cosa avvertivo un forte senso di nausea, e questo aveva contribuito a rendermi ancora più debole e fiacca.

Quando mia madre tornò a casa da lavoro, come prima cosa accorse subito da me per vedere come stessi.

Non vedendo netti miglioramenti rispetto a quella mattina, mi impose di restare a casa anche il giorno successivo, e quella volta non provai minimamente a dissuaderla. Stavo troppo male.

Mia madre mi costrinse a mangiare almeno un po' di pastina in brodo per cena, portandomela in camera e facendomi mangiare a letto; ne mangiai metà.

Adoravo quando mia mamma mi viziava in quel modo, era l'unico lato positivo dell'essere malate. Oltre a dormire nel lettone con lei. Infatti, quella notte mia mamma chiese a Claudio il piacere di lasciarmi il suo posto in camera con lei.

Dormii con lei, accudita e coccolata, proprio come quando ero bambina. Fin da piccola ero sempre stata convinta che dormire con mia mamma fosse come una delle più potenti medicine: per quanto potessi star male, quando dormivo nel letto insieme a lei, in un qualche modo mi sentivo meglio e tutto sembrava più sopportabile.

Quando mi risvegliai il giorno seguente, stavo ancora male. La febbre continuava a oscillare fra trentotto e trentotto gradi e mezzo, e il mio stra maledetto ciclo non contribuiva di certo a far sì che mi rimettessi in sesto, anzi, probabilmente stava soltanto ritardando il mio processo di guarigione.

Mi annoiavo a morte a stare tutto il giorno in casa da sola e a non avere niente da fare, eppure era qualcosa che sfuggiva al mio controllo, e che purtroppo durò più del previsto.

Dovetti pure saltare la lezione di danza del venerdì, e diciamo che non potevo proprio permettermelo: ero l'ultima arrivata, avevo iniziato più tardi rispetto alle mie compagne, non mi allenavo da mesi e avevo molto da recuperare.

Per non parlare della scuola. Avendo saltato due giorni, avevo già molte cose da recuperare, e mi stava salendo l'ansia a sentire Irene mentre me le comunicava al telefono sabato pomeriggio. Se fossi stata bene, avrei potuto sfruttare quei giorni per portarmi avanti con lo studio, invece non riuscii a fare niente di niente.

Eppure non potevo far altro che adeguarmi.

«Quello di latino ha detto qualcosa sul fatto che non ci fossi?» domandai, portandomi le dita in bocca e mordicchiandomi le unghie.

«Mmh, no, non che mi risulti, anche perché c'erano stati già due volontari a offrirsi, quindi non aveva di che lamentarsi» mi spiegò Irene, e la cosa mi rassicurò.

Dopodiché la porta della mia stanza si aprì leggermente, e vidi Vittorio sbucare dalla fessura. «Che vuoi?» mimai con un gesto della mano e muovendo solo la bocca senza però parlare.

«È Irene?» domandò e io annuii, prima di fissarlo con un punto interrogativo stampato in faccia. «Chiedile cosa fa stasera» bisbigliò.

Roteai gli occhi e lo ignorai, tornando poi ad ascoltare ciò che mi stava raccontando Irene, che mi stava spiegando le domande che erano state fatte agli interrogati.

«Dai, Nina!» esclamò allora Vittorio, facendosi sentire, tanto che Irene si fermò e subito mi chiese: «Oh mio Dio, c'è Vittorio lì affianco a te?».

Alzai gli occhi al soffitto e tirai una mia pantofola addosso a Vittorio, affinché mi lasciasse in pace. Ovviamente non funzionò, e il moro si limitò a ridacchiare. Poi si sedette a terra di fianco a me e provò il più possibile di cercare di ascoltare quello che mi stava dicendo Irene.

«Nina, sei ancora lì? Mi rispondi?» chiese con insistenza, e io stavo per perdere la pazienza. Da una parte c'era Vittorio che mi assillava, e dall'altra Irene che faceva lo stesso. Seppur controvoglia, alla fine cedetti: «Vittorio mi chiede che piani hai per stasera» dissi a Irene, prima di voltarmi verso il mio amico: «Perché me lo chiedi, tuo padre ti fa uscire?» chiesi poi sussurrando.

«Sì, finalmente» rispose Vittorio, prima di strapparmi la cornetta dalle mani e iniziare a parlare con Irene.

Lo fissai stralunata, e allungai un braccio per cercare di riprendermi il telefono, ma a quel punto lui si alzò in piedi e si portò il tutto fuori dalla mia stanza, riavvicinandosi al corridoio. Avrei potuto alzarmi anch'io e requisirglielo nuovamente, ma non avevo voglia di sforzarmi per farlo. «Vittorio!» esclamai con tono di rimprovero, ma non fu efficace, in quanto lui proseguì a ignorarmi.

Trascorsero due o tre minuti in cui lo sentii parlare a voce piuttosto bassa con Irene, e balbettare di tanto in tanto.

Era davvero buffo. Fino a due secondi prima che mi strappasse la cornetta dalle mani sembrava avere il totale controllo di sé, mentre ora, parlando con Irene, sembrava insicuro e impacciato come quando parlava con Monica.

Poco dopo la salutò e mise giù la cornetta. A quel punto si aprì la porta di camera mia e Vittorio rientrò. Aveva ancora un'espressione imbarazzata dipinta in volto. «Allora?» chiesi, incrociando le braccia al petto.

«Nulla, ho invitato lei e le altre a uscire con noi questa sera» rispose scrollando le spalle, andando a sedersi sul bordo del mio letto.

Quella risposta mi stupì. Non perché si trattasse di qualcosa che non mi sarei mai aspettata che accadesse, ma perché non pensavo che l'unico sabato sera in cui io non ero presente, lui l'avrebbe voluto passare con le mie amiche.

In fondo cosa c'entravano lui e gli altri con loro? Ero io a fare da tramite fra i due gruppi, ed ero sempre io l'unica a mancare durante la loro prima uscita.

«E... e come mai?» domandai. «Nel senso, che ti importa di uscire con loro? A parte Irene, le altre nemmeno le conosci» aggiunsi, celando il più possibile il mio fastidio.

Vittorio scrollò di nuovo le spalle. «Ti avevo detto che Giovanni mi aveva chiesto di portarle alle prossime uscite. E poi almeno così vedrò Irene...»

«E da quando la cosa ti interessa?» domandai scettica. «Cos'è, trami ancora di voler far in qualche modo ingelosire Monica provandoci con lei?» lo accusai, piena di risentimento.

«Rilassati, Nina» mi disse, facendomi notare di essere stata un po' troppo brusca e avventata con i miei giudizi. «E no, non è così. Te l'ho detto: voglio provare a guardarmi intorno e provare a conoscere Irene seriamente. C'è qualcosa in lei che... boh, non so neanche come spiegarlo. Sai, prima non mi importava di fare una brutta figura ai suoi occhi, perché non provavo seriamente a piacerle, mentre adesso... be', adesso è cambiato tutto, e mi comporto sempre da idiota incapace di pronunciare frasi di senso compiuto.»

Non dissi nulla in un primo momento, il che portò Vittorio a prendere nuovamente la parola per concludere il discorso. «Sì, lo so, è inutile che mi guardi così... lo so che non riesci a capirlo non avendolo mai provato e penserai che sono solo un rimbambito, ma ti giuro che... che è una cosa che non riesco proprio a controllare.»

E invece lo capivo. Lo capivo benissimo. Era proprio la medesima situazione in cui mi trovavo io, si trattava della stessa impotenza che provavo io ogni qualvolta mi provassi a relazionare con Filippo. Non mi sembrava mai di comportarmi nel modo giusto, e solamente dopo (dopo minuti, ore o persino giorni) mi veniva in mente quella risposta brillante che avrei potuto dare al posto di quella banale e scontata che mi era balenata in testa sul momento.

Tuttavia non dissi nulla di tutto ciò, me lo tenni per me. Era ancora troppo presto per poterne parlare con qualcuno, io in primis dovevo ancora metabolizzare il tutto.

«Fammi soltanto una promessa» dissi poi, con tono serio.

«Quale?» domandò Vittorio con una mezza risata.

«No, dico veramente, non sto scherzando. Promettimi che non la prenderai di nuovo in giro.»

Vittorio mi fissò qualche istante restando in silenzio, prima di appoggiarmi entrambe le mani sulle spalle e lasciarmi un piccolo bacio in fronte. «Stai tranquilla, non rifarò lo stesso errore due volte.»

 

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Capitolo 40
*** Trentotto. ***


Trentotto.


Dopo essermi rimessa definitivamente in sesto durante il fine settimana, lunedì ritornai a scuola. Non avrei mai pensato di dirlo, ma quasi mi era mancato andarci, dopo quei quattro giorni trascorsi in casa ad annoiarmi e a crogiolarmi nei miei tormentati e contorti pensieri.

Avevo bisogno di una distrazione dalle mie varie distrazioni.

E poi ero felice di rivedere le mie amiche, specialmente Irene.

«Ciao, ragazze» le salutai non appena arrivai in classe insieme a quest'ultima.

«Nina!» esclamarono in coro, prima di correre ad abbracciarmi.

«Che bello che sei tornata! Stai bene ora?» domandò Angelica e io annuii: «Sì, l'influenza è passata, ora ho soltanto un leggero raffreddore, ma nulla di grave. Pensate che per i primi giorni il mio letto era letteralmente sepolto da tutti i fazzoletti che usavo» spiegai, con una piccola risata.

«Dai, così sabato possiamo ci sarai anche tu» intervenne Eva. «I ragazzi ci hanno invitato ad andare al cinema a vedere Flashdance, che esce proprio in questi giorni!» esclamò.

«Ah, sì, vero! Ma sicuramente Vittorio te l'avrà già accennato» aggiunse Sabrina.

Storsi leggermente il naso.

No, Vittorio non mi aveva detto un bel niente.

«Sì, ovvio» mentii. «E com'è andata questo sabato invece? Vi siete trovate bene?» domandai.

Vittorio non si era sprecato più di molto a raccontarmi del sabato sera trascorso con le mie amiche. Si era limitato a un: «Sì, il solito, ci siamo divertiti», perciò volevo sapere cosa ne pensassero loro.

Angelica prese la parola per prima. «Moltissimo! Avresti dovuto esserci, davvero. Siamo andati sui Navigli a fare un giro e a bere un po' a riva della Darsena. C'era un sacco di gente della nostra età, e...»

«Dai, racconta la parte più bella!» si intromise Eva, prima di raccontarla lei stessa. «A un certo punto due ragazzi di un altro gruppo accanto al nostro si sono tolti i vestiti rimanendo solo in mutande e si sono gettati dentro l'acqua!» esclamò euforica, e tutte le altre cominciarono a ridere al solo ricordo.

«Per di più faceva freddissimo, non oso pensare che genere di malanno si saranno presi dopo» considerò Irene.

«Fabio e Giovanni poi si sono messi a scommettere e hanno lanciato una moneta per decretare chi dei due dovesse tuffarsi a sua volta» proseguì il racconto Sabrina, e la cosa non mi stupiva affatto, conoscendo Giovanni.

«Sarebbe toccato a Gio, ma all'ultimo se l'è fatta sotto e si è tirato indietro» disse Angelica, continuando a ridere insieme alle altre.

«Ah, poi per poco non c'è stata una rissa fra due gruppi di ragazzi» fece Irene, e io sgranai gli occhi. «Erano più grandi di noi, ed erano ubriachi marci da far schifo. Uno di loro aveva gettato una bottiglia di birra contro un altro ragazzo, ma aveva preso male la mira e per poco non colpiva uno di noi. Monica si è messa a piangere per lo spavento, e a quel punto abbiamo deciso di tornare tutti a casa» spiegò Irene, e sperai che il discorso a quel punto fosse chiuso.

Ma non lo era.

«Già, lei è un po' esagerata» commentò Angelica. «Probabilmente l'ha fatto solo per attirare l'attenzione. Infatti subito dopo i ragazzi sono accorsi da lei per tranquillizzarla.»

«Dai, non dire così. Anche io ero sul punto di piangere, non avevo mai assistito a una scena del genere in vita mia» disse Irene.

Istintivamente pensai a Filippo, e a quante scene del genere avesse magari vissuto sulla sua stessa pelle. Sentii subito una stretta al cuore al solo pensiero.

Immediatamente dopo me la presi con me stessa per il fatto che stessi pensando ancora a lui.

Non c'entrava un accidente con quel discorso, perché cavolo doveva venirmi in mente?

Angelica scrollò le spalle, senza dire nient'altro. Poco dopo però riprese la parola per ricordare un altro aneddoto di quella serata, a cui ne seguì un altro, e poi un altro ancora.

Wow. Sembrava mi fossi persa davvero una serata indimenticabile, tanto che non riuscirono a parlare d'altro che non fosse quello.

Per. Tutto. Il. Giorno.

Non è che non ero felice per loro e per la bella serata che avevano trascorso, solo che... solo che ne parlavano di continuo, dimenticandosi del fatto che io non ci fossi stata e che invece me n'ero stata chiusa in casa con la febbre e altri mille problemi di salute e di cuore (anche se di questi ultimi non ne erano a conoscenza).

Dopo un po' divenne pesante sentirle parlare solo di quello, rimembrando momenti ed episodi che avevano vissuto solo fra di loro e che perciò per me costituivano un motivo di esclusione dai loro discorsi.

Mi sentivo totalmente tagliata fuori. Solo perché mi ero persa una serata. Una singola serata. In più da come parlavano di tutti sembrava quasi che li conoscessero meglio di me.

Sicuro erano più integrate di quanto lo fossi io, dato che già erano state invitate alla prossima serata, senza che a me fosse stato detto nulla.

Probabilmente erano più simpatiche, più solari, più appariscenti di me, che invece me ne stavo sempre in un angolino, incazzata col mondo, e parlavo sempre con le solite due o tre persone.

Avrei dovuto essere felice per il fatto che loro invece si trovassero così bene, in fondo era una cosa positiva. Ma non lo ero. Mi dava fastidio. Anche perché era solo grazie a me che si erano conosciuti.

Ero io a fare da collante fra i due gruppi, eppure non sembravo più così tanto indispensabile. Praticamente non servivo a nulla, e nessuno durante quella serata aveva sentito la mia mancanza, ci avrei messo la mano sul fuoco.

Ero certa anche che dalle prossime volte loro sarebbero state molto più a proprio agio di me a stare con tutti gli altri, e che io mi sarei invece sentita fuori posto.

Quando finalmente quella giornata di scuola giunse a termine, anche i discorsi su quel maledetto sabato sera cessarono.

O così speravo. Nemmeno mi capacitavo del perché continuassi ingenuamente a illudermi che non ne avrei più sentito parlare.

Una volta che io e Irene ci trovammo insieme sul tram, dirette verso casa, la mia amica riaprì infatti il discorso: «Sai, non me la sentivo molto di parlarne mentre eravamo con le altre, ma sabato... ecco, mi sono fatta un'altra idea di Vittorio. O meglio, è praticamente ritornata quella iniziale. Cioè, non nel senso che lo idealizzo nuovamente, ma nel senso che... che forse ancora un po' mi piace» disse, impappinandosi un po' con le parole per via dell'agitazione.

«Già, l'avevo capito da come ti sei esaltata sabato pomeriggio non appena hai sentito la sua voce dall'altra parte del telefono» feci sarcastica, e quel commento poco carino nei suoi confronti mi costò di perdere l'equilibrio e rischiare di cadere a terra dopo una brusca frenata del tram.

Era proprio vero che la cattiveria tornava sempre indietro. E io ne stavo accumulando parecchia da tutto il giorno.

«Sì, ma a parte quello... dopo ha anche voluto parlarmi al telefono e invitarmi personalmente! Insomma, perché avrebbe dovuto farlo? In fondo pensavo che lui e gli altri avrebbero voluto uscire insieme a noi solo se ci fossi stata anche tu, dato che è grazie a te se i gruppi si sono uniti... che fretta c'era a invitarci per forza sapendo che tu non saresti potuta venire?» domandò, e un po' mi rincuorò il fatto che anche Irene la pensasse come me sotto quel punto di vista.

Pensavo di essere io pazza. O paranoica. Oppure malsanamente invidiosa. No, forse l'ultima cosa era vera, purtroppo.

«Non lo so, me lo sono chiesta anch'io a dirla tutta» risposi in tutta onestà.

«Ma Vittorio non ti ha raccontato nulla?» chiese fissandomi con due occhi così grandi e imploranti che con ogni probabilità facevano parte di una sua strategia per riuscire a estrapolarmi qualcosa.

Sebbene fosse molto tenera, però, non avrei ceduto.

Mi ero data una regola: per evitare problemi fra di loro, che erano entrambi miei amici, e anche per evitare di andarci io di mezzo, avrei ascoltato entrambe le campane ma non mi sarei mai intromessa né avrei fatto da intermediaria. A lei non avrei detto ciò che mi riferiva Vittorio, e con lui avrei fatto lo stesso.

Volevo che fossero loro a gestirsela.

«No, in realtà nulla di che. Poi non ci siamo parlati molto in questi giorni, sono stata quasi tutto il tempo rinchiusa in stanza» risposi, che poi non era neanche una bugia.

«Uffa» sbuffò Irene. «Comunque sabato mi sembrava di nuovo come mesi fa. Ora che l'ho visto in mezzo ai suoi amici, non era più così tanto a disagio come quando eravamo noi due da soli l'altra volta, e ho avuto modo di vederlo per com'è davvero. Insomma, l'ho visto meno timido e più "sbloccato", e sembrava quasi che cercasse ogni buona occasione per parlarmi!» esclamò con occhi sognanti.

Aprii la bocca per risponderle e darle il mio parere, ma lei non me ne lasciò il tempo: «Sì, lo so, ora mi dirai che non devo fasciarmi la testa e devo evitare di partire in quarta. Cercherò di restare coi piedi per terra questa volta e di non malinterpretare ogni minuscolo gesto o parola» disse, con un tono più serio e anche un po' malinconico. In fondo Vittorio l'aveva già presa in giro e ferita in passato, e Irene non era stupida. Per quanto le piacesse, non voleva rischiare di rimanerci male di nuovo.

Mi dispiaceva vederla così: euforica in un primo momento, disillusa quello successivo per paura di scottarsi di nuovo. E per di più sapevo che quei segnali che lei aveva colto la portavano sulla strada giusta, perché Vittorio mi aveva confessato di avere un piccolo interesse nei suoi confronti.

Avrei benissimo potuto lenire quel suo stato d'animo e rassicurarla, ma andava contro ciò che mi ero ripromessa di fare... A pensarci meglio, però, io in prima persona avrei voluto una mano da parte di una terza persona, che mi aiutasse a fare chiarezza sulla situazione fra me e Filippo. Avrebbe reso le cose più semplici, quindi che cosa c'era di sbagliato?

Sbuffai. «Uff, e va bene! Mannaggia a te Irene, te l'avevo detto che non volevo intromettermi, ma... ma Vittorio mi ha detto che ci vuole provare con te» vuotai il sacco e gli occhi di Irene si riempirono di gioia e speranza. «Seriamente? Oh mio Dio, non ci voglio credere! Non potevi darmi notizia migliore di questa!» esclamò, gettandomi le braccia al collo.

«E... e Filippo, invece? C'era anche lui sabato, giusto? Né tu né le altre me l'avete nominato finora, il che è strano dato che loro sembrano essere le sue fan più accanite, e per di più non avete parlato di niente che non fosse sabato per tutto il giorno!» dissi con una risata, fingendo che la cosa non mi importasse più di tanto.

Irene rimase qualche secondo in silenzio per riflettere. «Sì, c'era anche lui, ma non penso abbia fatto chissà quale buona impressione sulle altre. Era piuttosto taciturno, se ne stava molto sulle sue quella sera. Anche con i suoi amici ha scambiato forse quattro parole in croce» rispose, e la mia mente malata non poté fare a meno di pensare che fosse giù di morale solo perché gli dispiaceva che io non fossi lì quella sera. Dopo un secondo mi diedi un pizzicotto sull'avambraccio per darmi una svegliata e mettermi in testa che non ero il centro del suo mondo, e che se se ne stava per conto suo era perché aveva sicuramente problemi molto più seri a cui pensare.

Una parte di me, poi, voleva quasi dire la verità a Irene, confessarle finalmente ciò che provavo per lui, ma l'altra parte non ne aveva il coraggio. Non appena provai ad aprire la bocca, poi, mi resi conto di dover scendere dal tram, e lo interpretai come un segno che dovevo tenermelo per me.

*

In confronto alla noia e alla monotonia di quei quattro giorni trascorsi in casa da sola, la settimana successiva alla mia guarigione mi sembrò passasse molto più rapidamente, per via di tutte le cose che avevo da fare fra la scuola, lo studio, i piccoli mestieri in casa e la danza.

E così sabato arrivò in men che non si dica.

A dirla tutta non avevo aspettato altro per l'intera settimana. Sia perché non vedevo l'ora di uscire e fare qualcosa il sabato sera, sia perché speravo di rivedere finalmente Filippo.

Anzi, specialmente il secondo motivo. Nonostante i miei tentativi di autoconvincimento, infatti, non ero riuscita a cancellare ciò che provavo per lui. Mi ci sarebbe voluto più tempo, e magari anche più impegno e rigore.

Però volevo vederlo...

Volevo vederlo e volevo passare del tempo con lui. Il cinema non era di certo il luogo più adatto per relazionarsi con qualcuno, ma a me sarebbe bastato anche solo avercelo di fianco e fissarlo di soppiatto. O sfiorare le sue mani accidentalmente (ma anche un po' di proposito) nel tentativo di prendere dei popcorn dal sacchetto. O bisticciare con lui per via degli stupidi commenti stupidi che ero certa avrebbe fatto durante il film, disturbando tutti dentro la sala.

Oppure...

«Nina, ti ho già detto che mi dispiace, ok? Non pensavo che te la saresti presa pure per questa cosa!» esclamò Vittorio, riscuotendomi dai miei pensieri.

Mi ero totalmente distratta nel mentre che stavo avendo una discussione con lui, una discussione che per giunta avevo iniziato io.

Gli avevo fatto notare che non era stato carino che avesse avvisato prima le mie amiche di me di quello che sarebbe stato il prossimo ritrovo della compagnia.

«Pure per questa cosa? Lo dici come se fosse qualcosa di eccessivo e ti stessi rompendo le palle senza ragione» mi lamentai, nel mentre che ci avviavamo verso la biglietteria del cinema multisala Odeon.

«Sì, perché ultimamente non posso più dire o fare niente che tu vedi l'ago nel pagliaio e ne fai una questione esistenziale!» sbottò. «Due biglietti per Flashdance» disse poi al bigliettaio, allungando una banconota.

Esitai un attimo prima di rispondere. Era vero. Non sapevo cosa ci stesse prendendo nell'ultimo periodo. Prima, nonostante le differenze caratteriali, riuscivamo sempre a trovare un punto d'incontro; adesso trovavo sempre qualcosa di ridire e sentivo che non fossimo più complici come un tempo.

Al momento non riuscivo neanche a sopportarlo quando parlava, sia con me che con gli altri. Anzi, a maggior ragione quando parlava con gli altri. Lo detestavo quando si rivolgeva alle altre per ridere e far battute, magari facendo allusioni a quel cavolo di sabato sera in cui io non c'ero, escludendomi di conseguenza.

Ogni tanto avevo provato a intervenire dicendo ciò che sapevo sulla base di ciò che mi era stato raccontato, ma a quanto pare quando ne parlavo io non era così interessante: ridevano a crepapelle e schiamazzavano solo quando ne parlavano fra di loro.

«Sala cinque» comunicò il bigliettaio, dando a Vittorio il resto in monete e consegnandogli anche i biglietti per vedere il film in questione. A quel punto io e il ragazzo alla mia destra ci spostammo dalla biglietteria e iniziammo ad avviarci verso la sala di fretta, anche perché per via della nostra discussione eravamo rimasti per ultimi, mentre gli altri erano già tutti entrati.

Dato che non avevo ancora detto nulla per ribattere, Vittorio mi avvolse un braccio attorno alle spalle mentre camminavamo, sperando forse fosse finita lì, ma io lo scansai: «No, lasciami» lo ammonii.

«Nina, mi spieghi che c'è? Non riesco proprio a capirti!» esclamò, e almeno su quello eravamo non potevo dargli torto. «Viviamo insieme, ci vediamo letteralmente ogni giorno, non pensavo di doverti invitare a uscire con me il sabato sera. Per questo non ti ho detto nulla fino a questo pomeriggio, perché non lo ritenevo necessario» spiegò.

«È solo che... che mi sono sentita come se non mi volessi e che ti importasse solo che ci fossero le altre» ammisi, abbassando la testa verso il pavimento.

«È davvero questo il punto? Ti sei sentita trascurata da me? Non ha alcun senso...»

«No, figuriamoci! Sono solo io che sono visionaria e mi faccio inutili paranoie!» sbottai sarcastica, prima di abbassare la maniglia della porta della sala, intenzionata a chiuderla lì, ma Vittorio mi si parò davanti per impedirmelo.

«Nina» mi chiamò, nel mentre che io continuavo a fissare il pavimento per evitare il suo sguardo.

«Sì, è il mio nome, mi fa piacere che tu te lo ricordi ancora, però adesso basta ripeterlo all'infinito» dissi ancora con quel tono pungente, del quale non potevo fare a meno quando ero arrabbiata, ancor di più quando ero offesa e ferita. «Sembra che l'unica cosa di cui ti importa sia uscire con i tuoi amici e con le mie amiche, mentre io sono finita nel dimenticatoio» aggiunsi, per liberarmi da quel peso che mi portavo dietro da giorni e che mi stava massacrando dentro.

Vittorio piegò le ginocchia per abbassarsi e giungere alla mia altezza. «Non avevo idea che ti sentissi così... E mi dispiace che tu pensi questo di me, perché non c'è niente di più sciocco» disse, guardandomi negli occhi.

«Ah, quindi adesso sarei anche stupida oltre che visionaria?»

Vittorio roteò gli occhi e sbuffò: «Però tu ti ci metti d'impegno per farmi passare per lo stronzo della situazione, eh! Secondo te perché ho proposto a tutti di andare a vedere proprio questo film? Perché so quanto ti piaccia la danza e pensavo di farti felice, dato che tu devi sempre sorbirti film di cui non te ne frega niente solo per farmi un piacere. Volevo ricambiare per una volta».

Rimasi in silenzio per un paio di secondi, per elaborare ciò che aveva appena detto. «Quindi l'hai fatto per me?» chiesi conferma.

Vittorio annuì. «Perciò non provare mai più a dirmi che non tengo a te e che ti trascuro. Ho conosciuto nuove persone, e allora? Non significa che questo cambierà qualcosa nel rapporto che c'è fra di noi» rispose, prima di allargare le braccia in attesa di un abbraccio.

Sorrisi e mi lanciai direttamente in braccio a lui, facendogli quasi perdere l'equilibrio. «Dai, entriamo. La pubblicità non dura mai in eterno» disse lui ricambiando il mio sorriso.

«Ma... non aspettiamo Filippo? E anche Angelica e Giovanni» domandai, prima di scendere e tornare con i piedi a terra.

Erano gli unici che mancavano, fino a quel momento avevo solo pensato che fossero in ritardo.

«No, stasera non vengono» rispose soltanto e subito fui inondata dalla delusione, un attimo dopo essere stata al settimo cielo per essermi riappacificata con il mio amico.

A quel punto mi chiesi che cosa ci facessi lì, se tanto Filippo non sarebbe venuto.

Poi mi venne quasi da prendermi a testate da sola per aver fatto quel pensiero. Ero lì per passare una serata con i miei amici, ecco che cosa ci facevo lì. La mia vita, le mie giornate e le mie azioni non dovevano dipendere solo da una persona, né di certo il mio umore.

Che importa se ho perso un pomeriggio intero a decidere che cosa mettere solo perché speravo che lui mi avrebbe notata?, mi chiesi fra me e me. Era l'ultima cosa che avrebbe dovuto interessarmi.

Senza dire nient'altro, aprii la porta ed entrai dentro la sala per andare a vedermi quel film che Vittorio aveva scelto appositamente per me.

*

Considerando il fatto che normalmente i gusti di Vittorio in fatto di film non combaciassero affatto con i miei, non avevo chissà quali aspettative, invece alla fine gradii molto il film che vedemmo. Passammo una bella serata, se solo non fosse stato per due ragazzi della fila dietro alla mia che continuavano a commentare fastidiosamente ogni singola scena, e in più una coppia nella fila davanti che pensava più ad amoreggiare che ad altro.

Dato che si era fatta una certa ora, convenimmo tutti che fosse il caso di tornare a casa e iniziammo a salutarci. «Dovremmo replicare più avanti, magari quando ci saremo tutti!» esclamò Monica.

«Già, a proposito, perché Filippo non c'era?» chiesi, rivolgendole la parola per la prima volta solo a fine serata. «Ah, e anche Giovanni» aggiunsi poi, ricordandomene solo in seguito.

Monica scrollò le spalle. «Giovanni aveva il compleanno di qualche sua zia, e Filippo boh, non ne ho la benché minima idea» rispose, lasciandomi insoddisfatta.

Morivo dalla voglia di sapere il motivo per cui l'unica volta in cui io uscivo la sera, dopo tanto tempo, lui non c'era. L'ultima volta era stata proprio quando io e lui ci eravamo baciati per la prima volta a casa di Monica.

Provai un brivido lungo la schiena solo a ripensarci.

Poi Irene mi afferrò per un braccio e mi trascinò in un angolino del cinema, in disparte dagli altri. «Che c'è?» domandai preoccupata per via di quel suo gesto improvviso.

«Nina, sarà forse la quinta volta in tutta la sera in cui domandi a qualcuno perché Filippo non sia qui stasera, e ogni volta ti ho vista assumere quell'espressione delusa non appena non ricevevi la risposta che ti aspettavi» disse e io mi stavo già affrettando a negare, ma non me ne diede il tempo: «Io... io te lo devo chiedere, in maniera diretta e senza girarci intorno, una volta per tutte. Non mi interessa nemmeno se mi risponderai mentendo, l'importante è che tu mi dica sì o no, invece che evitare il discorso come hai già fatto in passato. Provi qualcosa per Filippo?» domandò.

Parlò con tono calmo e non inquisitorio. Sembrava quasi preoccupata per me, e per la risposta che avrei potuto darle, e non capivo perché. Probabilmente era perché non mi aveva mai vista atteggiarmi così, forse lo stavo rendendo fin troppo evidente. E in effetti non era sbagliato ciò che aveva detto sul mio conto, me n'ero accorta anche da sola che non facevo altro che parlare di lui con chiunque da tutta la sera.

Volevo negarlo, perché io in primis non lo accettavo, ma alla fine mi ritrovai ad annuire. «Quando... quando lo penso mi batte forte il cuore, a volte sorrido da sola, senza un apparente motivo. E quando lo vedo... quando lo vedo sento che potrei morire, perché mi manca sempre il respiro, sono sempre a corto di fiato. Che... che cosa significa tutto ciò?» espressi tutto ciò che provavo a riguardo, compresi i miei dubbi.

«Solo che ti sei presa una cotta grande quanto un aeroplano» rispose la mia amica, con un piccolo sorriso.

«No, io non... non voglio» scossi la testa. Pensavo che ammetterlo ad alta voce mi avrebbe fatta sentire meglio, ma invece lo aveva solo reso tremendamente reale. E non volevo che lo fosse. Volevo che continuasse a rimanere solo un pensiero fisso nella mia testa.

Irene non era neanche sorpresa. In fondo l'aveva sempre saputo. «Non lo puoi mica decidere tu! Non puoi controllare i tuoi sentimenti.»

«Perché no? Io sto bene così. E questa cosa non ci voleva affatto» dissi, rimanendo comunque della mia idea.

Sapevo ciò che provavo, ma comunque non avrei fatto niente per incoraggiare i miei sentimenti. Speravo solo che svanissero per puro caso, così come erano capitati.

«Ok, ma è davvero così?» domandò Irene, e il suo tono supponente mi infastidì parecchio. Le stavo dicendo la verità, tutto quello che mi passava per la testa e che provavo, e lei ancora aveva dubbi?

«Sentiamo, cosa dovrebbe significare questa domanda?» chiesi allora.

«Be', che... che in fondo è una cosa bella. Non ti rende felice? Quando lo pensi o quando lo vedi non sei al settimo cielo?»

Non aspetto altro ogni volta, risposi dentro di me.

Irene si protese in avanti e mi appoggiò entrambe le mani sulle spalle. «Nina, basta. Basta usare la testa. Vivitela per quello che è, e come andrà andrà» mi sussurrò poi all'orecchio.

Non ribattei, eppure non riuscivo a vederla come lei. Non potevo permettere che accadesse, che Filippo offuscasse la mia razionalità.

Ma forse era già troppo tardi per quello.

 

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Capitolo 41
*** Trentanove. ***


Trentanove.

Dal momento che il cinema si trovava vicino a Piazza Duomo, ebbi l'occasione di vedere quest'ultimo anche di notte una volta che uscimmo dal cinema, e ne rimasi semplicemente incantata.

La Piazza non era gremita di persone così come lo era di giorno, così la cattedrale non faceva che risaltare ancora di più in mezzo in tutto il suo splendore, illuminata dalle luci della luna e delle stelle e dalle poche luce artificiali che lo contornavano.

Mi presi qualche secondo per perdermi a osservarlo, dopodiché io e Vittorio ci avviammo verso casa, insieme anche a Irene, la quale andava dalla stessa parte.

L'unica cosa che volevo era tornare a casa il prima possibile, motivo per cui iniziai a camminare davanti a loro con passo spedito. Almeno li avrei lasciati un po' da soli, in disparte.

Li sentivo parlare e ridere sommessamente di tanto in tanto, ma non mi voltai mai per osservarli per paura di rovinare il momento. Sembrava stesse andando bene. Dentro la sala del cinema si erano anche seduti vicini.

Mi sarebbe piaciuto dire che li trovavo carini, perché in effetti lo erano, ma in realtà mi davano anche un po' di voltastomaco. Il mio modo di vedere le cose non era cambiato, detestavo ancora le coppiette e stare nei loro paraggi.

Quando arrivammo davanti al portone di casa nostra, una decina di minuti dopo, io continuai a procedere avanti, dato che non avremmo mai permesso che Irene tornasse da sola, ma mi stoppai non appena Vittorio mi chiamò: «Nina, ferma, aspetta» disse.

A quel punto retrocedetti e li raggiunsi in una manciata di secondi. «Che c'è?» domandai, parecchio confusa, così come lo era la mia amica.

«Dai, non ha senso che venga anche tu. Vai tranquilla a casa, la accompagno io Irene» mi rispose.

Corrucciai la fronte. «Perché? Tanto non ci vuole niente, non mi scoccia.»

Tutto quel discorso e poi trovava ancora il modo di escludermi?

«Sì, Nina, Vittorio ha ragione. Non preoccuparti, davvero, se sei stanca, vai pure a dormire» intervenne Irene, e riservai anche a lei uno sguardo stralunato.

Ma che cosa stava succedendo? Mi ero persa sicuramente qualche passaggio.

«Si può sapere che razza di... Ah!» Ecco che giunse l'illuminazione. Simulai uno sbadiglio. «Sì, in effetti è stata una giornata pesante ed è tardi, è il caso che vada a letto» mentii, stando al loro gioco.

Volevano restare da soli.

Quindi sì, era vero che non mi volevano fra i piedi, ma era per un valido motivo. Mi stupii per la prontezza e l'ingegno di Vittorio: allora quando ci si metteva d'impegno ci sapeva fare davvero. Anche Irene era stata molto furba e perspicace, a cogliere subito le intenzioni di Vittorio e a "cacciarmi" a sua volta.

Salutai Irene con un bacio sulla guancia e un abbraccio, io e Vittorio ci scambiammo uno sguardo d'intesa e dopodiché tirai fuori le chiavi di casa dalla tasca del giubbotto e aprii il portone.

Una volta rientrata in casa, andai come prima cosa in bagno. Aprii il cassetto dove mia mamma teneva il suo struccante e, armandomi di un dischetto di cotone, iniziai a passarlo su tutto il viso. Non era stato molto astuto da parte mia sforzarmi per realizzare un trucco decente considerando che dentro la sala buia di un cinema nessuno avrebbe potuto farci caso, eppure una parte di me aveva ingenuamente creduto che Filippo lo avrebbe comunque notato.

Comunque meno male che alla fine non era venuto, perché a riguardarlo meglio quell'eyeliner lo avevo applicato davvero da schifo, e mi sorprese il fatto che nessuno me lo avesse detto. Probabilmente non ne avevano avuto il coraggio.

Benedetta l'avrebbe fatto. E mi avrebbe anche aiutata a sistemarmi, impedendomi di uscire conciata in quel modo.

Una volta terminato, andai in camera mia e mi cambiai per la notte. Tuttavia, non avevo alcuna intenzione di andare a dormire. Non prima di aver atteso il ritorno a casa di Vittorio.

Andai in salotto a prelevare il gatto dal divano e a portarlo in camera mia affinché mi tenesse compagnia. Lo appoggiai delicatamente sul mio letto. Era ancora parecchio assonnato, dato che quando l'avevo preso in braccio per spostarlo lo avevo svegliato dal suo solito torpore, ma non appena si riprese, mi lanciò un'occhiataccia e poi scese dal mio letto con un balzo, finendo poi per camminare fuori dalla mia cameretta.

Sbuffai.

Gatto inutile.

*

Vittorio ritornò una cosa come tre quarti d'ora dopo, o poco più. Mi stavo quasi addormentando, una volta dopo essermi arresa e aver capito che non sarebbe tornato nel giro di una decina di minuta, e fu lì che sentii il rumore delle chiavi che venivano ruotate all'interno della serratura e le zampette del felino che accorrevano in fretta verso la porta.

A quel punto scattai anch'io in piedi e mi diressi verso la porta d'ingresso: «Forza, raccontami tutto immediatamente!» esclamai e Vittorio sobbalzò per lo spavento.

«Nina, sei impazzita? Mi hai fatto prendere un coccolone! Pensavo fossi già andata a dormire» disse, portandosi una mano sul petto.

«Sì, ti piacerebbe. Ero qui ad aspettare soltanto il tuo ritorno. Dopo come mi avete sbolognata malamente, il minimo che puoi fare per farti perdonare è raccontarmi tutto.»

«Raccontare?» fece il finto tonto.
 «Raccontare?»Che ci sarebbe da raccontare?»

Pensava di essere furbo e di evitare il discorso, ma non sapeva che io ero più furba di lui. «Sai, c
i sono rimasta male, potevate anche farmi capire che volevate stare da soli in una maniera più carina di quella...» lo misi alle strette, facendo leva sulla sua bontà d'animo e sul fatto che certamente si sarebbe sentito in colpa se avesse pensato che me l'ero presa. Anche se non era così e la mia era solo una finta per ottenere ciò che volevo.

«Davvero te la sei presa? È che non sapevo come altro fartelo capire senza dirlo direttamente, e poi era anche una sorta di prova del nove, perché ecco... nel caso Irene non avesse voluto, avrebbe insistito per farti rimanere, e io avrei capito che non era cosa. Invece mi ha assecondato, e quindi... però mi dispiace che tu l'abbia presa così sul serio» si scusò, e quasi mi veniva da ridere per il fatto che stesse davvero credendo alla mia arrabbiatura.

La mia doppia faccia lo rendeva piuttosto semplice, avevo un talento naturale a mentire, a detta di qualcuno.

«Be', accetto le tue scuse, ma che non ricapiti più che prima mi tenete a fare da terzo incomodo e poi fate così... per di più mi avete ignorata per tutto il tragitto dal cinema fino a casa, ve ne stavate a parlare solo fra di voi» aggiunsi, e fui soddisfatta nell'accorgermi che il dispiacere nel suo viso stava aumentando. Stava funzionando. Vittorio era davvero una brava persona. Io un po' meno.

«Scusa, davvero, che tu ci creda o meno, mi dispiace un sacco. Se non altro ti farà felice sapere che il tutto non è stato vano...» sganciò la bomba con un piccolo sorriso imbarazzato, e i miei occhi si spalancarono per la sorpresa. «Volevamo tenercelo per noi in un primo momento, ma non penso di avere più questo privilegio, altrimenti non mi parlerai mai più, non è così?» mi canzonò, e da quella frase capii che in realtà aveva capito benissimo le mie intenzioni, e che mi avrebbe raccontato tutto a prescindere dal fatto che io me la fossi presa o meno.

Gli feci una pernacchia.

«Complimenti, proprio una recita da Oscar la tua!» continuò a prendermi in giro. «Ci stavo credendo fino a che non hai detto di esserti offesa per il fatto che non ti avessimo parlato, quando sei tu che non appena usciti dal cinema hai iniziato a mettermi fretta affinché arrivassimo a casa il prima possibile, perciò mi viene difficile pensare che te ne fregasse qualcosa di fare conversazione con noi!» esclamò e non aveva tutti i torti.

Poi mi prese per mano e mi condusse verso la sua cameretta. Mi sedetti a gambe incrociate sul suo letto, in attesa del suo racconto. Lui accese la luce e come prima cosa iniziò a togliersi le scarpe e i vestiti, prima di infilarsi il pigiama. «Ecco, ehm... durante tutto il tragitto dall'Odeon fino a qui avevamo parlato un bel po', del più e del meno. Poi, una volta rimasti soli, non lo so cosa sia successo: siamo diventati entrambi più taciturni. Ed era imbarazzante, mi rendevo conto di non aver nulla da dire e che nel frattempo i secondi scorrevano senza che nessuno dei due dicesse nulla, ma al tempo stesso avevo un vuoto tremendo e non sapevo come uscirne. Quasi mi stavo pentendo di non aver lasciato che tu rimanessi. Volevo solo arrivare sotto casa sua il prima possibile, salutarla e andarmene. Ma ovviamente non è quello che è successo alla fine. O meglio, era quello che stava per succedere, dato che lei mi ha ringraziato e stava per andarsene, ma poi io le ho chiesto di rimanere, dato che le dovevo delle scuse.
«In tutto questo tempo avevo evitato la cosa lasciando che rimanesse sepolta nel passato, ma una parte di me ha continuato a sentirsi una merda per come l'ho trattata, per giunta senza mai scusarmi. E quindi le ho detto la verità, ovvero che sì, mi sono comportato da stronzo, e che non ero realmente interessato ma era stato tutto un... una sorta di gioco, e che ho scelto una persona qualunque a cui dare il mio primo bacio per togliermi uno stupido peso, e che la mia testa - e il mio cuore - erano occupate da un'altra persona con cui però non avrei mai avuto alcuna possibilità.»

«Erano?» chiesi, interrogandomi sul perché scegliere di usare un verbo al passato.

Vittorio annuì. «Monica ormai non conta più niente, l'ho superata» rispose e ne fui lieta, tanto che gli rivolsi un sorriso compiaciuto, prima di invitarlo a proseguire col racconto. »Ovviamente non l'ha presa benissimo, ma neanche malissimo, dato che ha avuto un bel po' di mesi per rendersene conto da sola, sebbene una parte di lei avesse continuato a sperare che le cose non stessero realmente così. E poi mi ha fatto notare una cosa, ovvero che forse non è successo per caso, ma semplicemente era così che doveva andare: in fondo, fra tutte le persone, io sono andato proprio da lei. E dopo mesi e mesi, alla fine, grazie a te ci siamo rincontrati. Quante probabilità c'erano che accadesse?»

Una frase in particolare fra quelle che disse mi rimase impressa in mente, e già sapevo che mi avrebbe tormentata tutta la notte: «In fondo, fra tutte le persone, io sono andato proprio da lei».

Vittorio aveva scelto a chi dare il suo primo bacio, così come l'avevo fatto io. E se non fosse stata una scelta casuale? Perché fra tutti avevo scelto proprio Filippo, perché? Aveva iniziato a piacermi dopo quel bacio, oppure il mio cuore era già suo fin da prima che accadesse ed era ciò che mi aveva portato a riservare a lui il mio primo bacio?

«E poi?» domandai, nella speranza che il suo racconto mi distrasse dal casino che avevo in testa.

«Io avevo notato che già da diversi minuti controllava ossessivamente il suo orologio, così le ho chiesto se fosse già arrivata l'ora del suo coprifuoco e lei mi ha risposto che non era importante, e che le sarebbe piaciuto rimanere ancora un po' invece che tornare a casa. Però non volevo rischiare che i suoi la sgridassero, così mi sono alzato dal marciapiede su cui ci eravamo seduti a parlare e l'ho aiutata a fare lo stesso. Le ho dato la buonanotte e...»

«Dio, Vittorio, arriva al punto! L'hai baciata sì o no?» lo interruppi, dato che mi era ormai sopraggiunta la stanchezza e mi interessava solo sapere se c'era stato il lieto fine oppure no.

Il moro scosse la testa e io stavo quasi per insultarlo, fino a che lui non parlò e disse: «Perché è stata lei a baciarmi».

Sgranai gli occhi, attonita. Non era di certo la risposta che mi aspettavo di ottenere. Ma andava ugualmente bene. Ero felice per loro.

«Già, mi sono sentito un pisciasotto...» confessò Vittorio, sedendosi finalmente sul letto al mio fianco, dopo essere rimasto in piedi fino a quel momento.

«Perché? In fondo non c'è scritto da nessuna parte che debba fare tu la prima mossa» tentai di rincuorarlo.

«Ma se è quello che mi hai rimproverato di non aver mai fatto con Monica per mesi e mesi» mi contraddisse e io roteai gli occhi: «Posso cambiare anche idea, ok? Comunque com'è andata?» domandai.

Scrollò le spalle. «Bene, credo. All'inizio avevo paura di aver dimenticato come si facesse, essendo che era successo solo in un'occasione» rispose e subito le sue parole sbloccarono in me una nuova insicurezza: si poteva davvero disimparare a farlo se non lo si faceva per tanto tempo? Diamine, perché Vittorio mi faceva sempre venire tali dubbi atroci? Se avessi cominciato nuovamente a ossessionarmi a causa delle sue parole, giuro che l'avrei fatto fuori.

«Ma in realtà non è stato così» disse poi Vittorio, e io sospirai di sollievo. «È un po' come andare in bici. Una volta che sai come fare ti viene naturale, anche se riprendi dopo mesi o anni. Cioè, a parte che è sicuramente più bello che andare in bici» aggiunse con un piccolo tremolio nella voce, probabilmente dovuto all'emozione.

«Bene, ora sì che sono a posto e posso andare a dormire. Buonanotte, romanticone» sussurrai al suo orecchio, prima di pizzicargli la guancia.

«'Notte» mi rispose, e a quel punto uscii dalla sua cameretta.

*

Domenica mattina sentii al telefono anche la versione di Irene, e a differenza di Vittorio fu più precisa e dettagliata, il quale era sempre sintetico e sbrigativo per i miei gusti, tanto da non soddisfare mai a pieno la mia insana curiosità. Mi fece piacere sentirla così felice, specialmente sapendo per quanti mesi era stata a sperare e a sognare a occhi aperti, e alla fine le sue non erano state solo fantasticherie: aveva avuto il suo lieto fine.

Immediatamente mi venne da chiedermi se sarebbe stato lo stesso per me, se anch'io avrei avuto la sua stessa fortuna. Poi la realtà mi piombò addosso di prepotenza, riportandomi sul pianeta Terra: era ovvio che non sarebbe successo, a me certe cose non accadevano. E mi sarei sforzata di farmelo andare bene. Era la cosa migliore.

Nonostante le parole di incoraggiamento di Irene, infatti, non riuscivo a cambiare idea, non riuscivo a vivermela con tranquillità, ma solo con estrema angoscia, che qualcuno se ne accorgesse, che lui se ne accorgesse, che potessi soffrire ancora, che stessi sbagliando tutto, che non mi sarebbe mai passata quella cotta insensata, che lui si innamorasse di qualcun'altra meglio di me (non che fosse difficile) e che smettessi di essere importante per lui, sempre che lo fossi... come potevo vivermela per quello che era e smetterla di usare la testa se ero soffocata continuamente da quei pensieri, senza che potessi controllarli?

Davvero, più ci pensavo e più mi mancava il respiro, e non c'era alcuna via d'uscita, alcun modo per stare meglio, se non forse... se non forse vederlo il meno possibile. In fondo come si può continuare a provare qualcosa per una persona senza nemmeno vederla?, mi chiesi. Motivo per cui declinai l'offerta di Vittorio di fare il tragitto per andare a scuola con lui e l'amico il giorno seguente, dato che ci sarebbe stata anche Irene.

Non volevo vederlo. Non volevo parlarci. Non volevo averci niente a che fare. Durante le uscite di gruppo l'avrei evitato il più possibile, lo stesso avrei fatto qualora fosse venuto a casa nostra. Se neanche questo basterà, dissi fra me e me, allora non saprò davvero più cosa fare, ma per ora è meglio evitare di pensarci: devo credere che funzionerà.

Funzionerà.

*

Ovviamente il giorno dopo mi pentii di non essere andata con loro e di non aver visto Filippo, ma lo tenni per me e non lo ammisi a Irene quando la vidi a scuola. Dovevo solo tenere duro, sarebbe stato difficile all'inizio, ma poi ero sicura che ne sarei stata ripagata e che avrebbe smesso di interessarmi.

Il momento preferito di quella giornata giunse quindi alla sera, quando decisi di affrontare finalmente Vittorio per quella che era una motivazione ben più seria di quella per cui l'avevo aspettato sveglia sabato notte.

Era lunedì sera, il lunedì sera che precedeva quel martedì, e io non avrei lasciato che trascorresse senza che sapessi una volta per tutte dove si sarebbe recato Vittorio, svanendo per una giornata intera e ricomparendo al pomeriggio tardi come se niente fosse.

Andai in camera sua, dopo cena, e lo vidi seduto alla sua scrivania, intento a svolgere degli esercizi di matematica. Giunsi silenziosamente alle sue spalle, senza che lui si accorgesse di nulla, e infine mi schiarii la gola per attirare la sua attenzione.

Si voltò confuso, con la fronte aggrottata.

«Perché tutta questa smania di finire i compiti per domani?» domandò, prima di andare dritta al sodo: «Mi pare inutile, dato che non ci andrai, proprio come accade ogni due settimane, sempre e solo di martedì. Di certo non è un caso. Quindi... se non vai a scuola, dov'è che vai?».

Non mi parve sorpreso dalla mia sorta di interrogatorio, non diede alcun cenno di stupore. Rimase in silenzio per qualche istante prima di rispondermi. Appoggiò la penna che teneva in mano sulla scrivania, dopodiché chiuse il quaderno e si alzò in piedi dalla sedia, giungendo dinnanzi a me e sovrastandomi in altezza con la sua figura.

«Sei sicura che sia questa la domanda giusta da pormi?» chiese di rimando.

Non era propriamente la risposta che mi aspettavo. «Sì» replicai tuttavia, nascondendo la mia titubanza il più possibile.

«È davvero questo che vuoi sapere?» insistette.

«Sì» ripetei, con tono più deciso.

Scosse la testa e emise un sorriso amaro. «No, non è vero. Non è questo che ti interessa sapere.»

«Che c'è, mi leggi nel pensiero? Non credo proprio, quindi se ti dico una cosa, è quella e basta!» esclamai, sebbene in realtà si trattasse di una menzogna.

«Sì certo, "e basta"... Dai, vai a dormire che domani ci svegliamo presto» disse Vittorio, disorientandomi ancora di più.

«C-cioè?» chiesi, mentre lui mi scortava fuori dalla sua cameretta.

«Ti porto a conoscere mia madre» rispose solo una volta che fui sulla soglia della sua porta, prima di chiudermi quest'ultima davanti agli occhi.

 

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