La Battaglia di Aguillon

di Lady_Crow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come uomo e donna ***
Capitolo 2: *** In Attesa ***
Capitolo 3: *** Lunga Vita al Re e alla Regina! ***
Capitolo 4: *** Nella Tana del Lupo ***
Capitolo 5: *** Roma ***
Capitolo 6: *** Il Presagio ***
Capitolo 7: *** La Strada per Aguillon ***
Capitolo 8: *** Sentieri ***
Capitolo 9: *** Una Missione per Philippe ***
Capitolo 10: *** Il Gatto e il Topo ***
Capitolo 11: *** Non Dire Gatto... ***
Capitolo 12: *** ...Se Non Ce l'Hai nel Sacco ***
Capitolo 13: *** La Talpa ***
Capitolo 14: *** Non Come Giona ***
Capitolo 15: *** La Confessione ***
Capitolo 16: *** Quando il Gatto Non C’È… ***
Capitolo 17: *** L’Incubo di Navarre ***
Capitolo 18: *** … I Topi Ballano ***
Capitolo 19: *** La Palizzata ***
Capitolo 20: *** La Serpe in Seno ***
Capitolo 21: *** E Ancora Non Sai ***
Capitolo 22: *** Dalle Mura ***
Capitolo 23: *** Il Confessore ***



Capitolo 1
*** Come uomo e donna ***


Isabeau e Navarre s’incamminarono verso l’ingresso della cattedrale, attraversandone la navata principale.
Lei gli stringeva il braccio con forse un po’ troppa forza, dovuta all’euforia, facendo fatica a staccare gli occhi dal tanto amato volto, che negli ultimi due lunghissimi anni aveva solo talvolta potuto intravedere all’alba e al tramonto; guardarlo, inevitabilmente, sembrava persino più importante che badare a dove mettesse i piedi.
Anche lui, di tanto in tanto, non riusciva ad evitare di rivolgerle qualche occhiata. La luce del sole, filtrando dalle vetrate, illuminava i suoi capelli biondi, adesso così assurdamente corti. Lo sguardo del cavaliere, spesso attento e tagliente, adesso era luminoso e pieno di gioia. Forse li aveva tagliati come segno di cordoglio per quella che fino ad oggi era stata la loro disperata condizione, o forse – più semplicemente – perché non rimanessero impigliati fra i rami, nel bosco, quando di notte dava la caccia ai conigli. Doveva essere particolarmente brava, considerando il numero di volte in cui gliene aveva fatto trovare uno pronto per essere consumato al risveglio.  Non si erano visti per due anni, eppure era riuscita a trovare modi per fargli giungere piccoli indizi dell’amore che provava nei suoi confronti, ben prima di Philipe e della sua licenza poetica nel riferire presunti messaggi.
Passarono, incuranti, davanti alla vetrata che poco prima era stata rotta dall’elmo di Marquet. Solo sulla soglia Navarre, per un attimo, fu colpito dalla consapevolezza che il cadavere del Vescovo fosse ancora inchiodato allo scranno dalla sua spada. Non era concepibile abbandonare il cimelio appartenuto per generazioni alla propria famiglia, soprattutto adesso che – avendo compiuto la propria missione – avrebbe finalmente potuto far incastonare nell’elsa la sua gemma.
“Perdonami. Aspettami qui” disse poggiando la mano su quella di Isabeau, divincolandosi dolcemente dalla sua stretta.
Lei dapprima parve confusa e lo seguì con lo sguardo mentre tornava indietro, poi i suoi occhi si posarono sul truce spettacolo costituito dai resti mortali del loro persecutore, dunque comprese e decise di rivolgerli verso l’esterno della chiesa. Percependone la malvagità, aveva detestato il Vescovo già da ben prima della maledizione, eppure quella vista la turbava profondamente. Sospirò. Non poteva comunque negare di sentirsi alleggerita dalla consapevolezza che lei e il suo amato non sarebbero mai più stati costretti a fuggire e a nascondersi. Non era la morte del loro nemico a renderla felice, ma l’idea della vita che da lì in avanti avrebbero condotto senza di lui alle calcagna.
Alle sue spalle Navarre, osservato da alcuni monaci, mentre altri preferivano guardare altrove, estrasse la spada dal corpo del Vescovo. Ne usò poi la bianca veste per ripulirla dal sangue. Più che una mancanza di rispetto o di un’ulteriore vendetta, si trattava di semplice giustizia: abiti sporchi di sangue si addicevano all’ormai defunto uomo di chiesa molto più di quelli candidi dentro cui s’era sempre nascosto. Il classico esempio di lupo travestito da agnello; e lui, di lupi, se ne intendeva come forse nessun altro al mondo.
“Celebratene pure le esequie, se lo ritenete necessario, ma non voglio sentire le campane di Aguillon suonare per lui” intimò Navarre lapidariamente a monaci e frati.
Taluni distolsero lo sguardo mentre talaltri, addirittura, scossero la testa in segno di diniego. Il cavaliere inspirò profondamente e alzò un sopracciglio mentre si voltava per tornare dalla sua amata. Per qualche strana ragione, l’idea che neppure loro avrebbero avvertito la mancanza di quell’essere viscido e corrotto fino al midollo, non lo sorprendeva.
Giunto accanto alla propria dama, Navarre le offrì il braccio e lei lo prese, stavolta senza eccessive tensioni, sorridente. Uscirono dalla cattedrale, finalmente insieme, per la prima volta come uomo e donna nella piena luce del giorno.

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Capitolo 2
*** In Attesa ***


Philippe addentò una coscia di pollo emettendo un gemito compiaciuto. Seduto davanti a lui, Imperius mangiava con persino maggiore foga.
“Le avventure mi mettono una gran fame!” commentò il ladruncolo nell’inconscio tentativo di darsi un tono.

“Scorribande, vorrai dire…” l’apostrofò Imperius col vocione roco, la bocca piena e gli occhi resi un poco lucidi dal buon vino.

A differenza di quanto non fosse accaduto negli ultimi anni, però, stavolta alzare il gomito era un segno di giubilo, non una necessità dettata dal disperato bisogno di dimenticare. Seppur sovrastato dalla gioia di rivedere Isabeau e Navarre finalmente insieme, seppur finalmente alleggerito dal terribile fardello del senso di colpa, in un angolo propria anima si domandava se per un vecchio monaco come lui, da tempo datosi all’eremitismo, non fosse troppo tardi per cambiare la propria vita; si chiedeva se ancora ci fosse la possibilità di di fare il modo che il centro della sua esistenza diventasse qualcosa di radicalmente diverso: passare dall’avere le giornate riempite dal rimorso ad averle riempite da… Cosa, precisamente? Ulteriore senso di colpa, dato dalla consapevolezza che, ad ogni modo, nulla avrebbe mai restituito ai due amanti il tempo perduto?

Il Signore gli era già venuto in sogno per annunciargli la possibilità di spezzare una volta per tutte la maledizione ma – lungi da lui il voler risultare un uomo di poca fede – gli riusciva decisamente difficile immaginare, persino dopo “una notte senza il giorno e un giorno senza la notte”, un qualche tipo di miracolo che gli permettesse di tornare indietro nel tempo. Nella Sacra Bibbia aveva letto delle battaglie di Giosuè, ma anche in quell’occasione si era semplicemente – si fa per dire – trattato di fermare il tempo, non di invertirne il corso. Il suo sguardo s’era fatto triste e distante.

Philippe – pur essendo completamente estasiato dal sapore del proprio delizioso pasto, dall’odore di buon cibo che permeava la taverna e dalla meravigliosa luce che, dai candelabri,  si spandeva su tutta la sala – non mancò di notare che quel che ormai considerava un caro amico si fosse rabbuiato.

“Padre, non lascerete raffreddare il cibo!” lo esortò affettuosamente.
Involontariamente Imperius scosse leggermente il capo nel tornare alla realtà. Improvvisamente si sentì sicuro del fatto che un segno sarebbe arrivato, offrendogli una nuova missione, e che stavolta non avrebbe dovuto attendere anni.

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Capitolo 3
*** Lunga Vita al Re e alla Regina! ***


Dentro la cattedrale, lo sgomento per la cruenta morte del Vescovo non durò che qualche istante; qualcuno si sarebbe preso cura delle sue spoglie, se non altro per dovere cristiano, ma perlopiù la folla seguì Isabeau e Navarre verso la luce del giorno è verso l’aria fresca, così diversa da quella che aleggiava nella chiesa, intrisa di sangue e di morte. Per la maggior parte, i soldati della guardia tirarono un sospiro di sollievo vedendo il loro ex capitano uscire vincitore dallo scontro, giacché Marquet era stato da loro temuto, ma di certo non amato. L’ormai defunto capitano della guardia, già ben poco popolare fra i suoi uomini, aveva seminato ulteriore malcontento e timore con l’uccisione di Francesco, da lui spinto sulla spada sguainata di Navarre, reo di essersi rivolto a lui attribuendogli un titolo che non gli apparteneva più. Allorquando Etienne aveva ricoperto la sua stessa carica era stato irascibile e severo, ma mai, mai, ingiusto; tantomeno nelle sue azioni si era mai scorsa traccia di crudeltà.

Per un attimo il cavaliere guardò quelli che un tempo erano stati i suoi uomini, cercando di capire se potessero — e soprattutto se volessero — tornare ad esserlo. La risposta arrivò dopo qualche istante, quando si misero sull’attenti, salutandolo come nuovo capitano.

“Sì, ma della guardia di chi?” pensò Isabeau nervosamente, pur mantenendo un impeccabile contegno, tradito solo dalla rapidità con cui i suoi occhi limpidi si spostavano da una parte all’altra della fila di soldati che si parava loro davanti.

Anche in questo caso la risposta non si fece attendere, poiché vedendo l’appoggio dei soldati nei confronti di Navarre, la folla acclamò: “Lunga vita a Etienne Navarre e Isabeau D’Anjou, re e regina di Aguillon!”.

I due innamorati si scambiarono uno sguardo incredulo.

Entrando in quella cattedrale, Navarre era stato consapevole che ne sarebbe uscito da vincitore o da morto e che, persino qualora ne fosse uscito da vincitore ma senza essere riuscito a spezzare la maledizione, si sarebbe poi tolto la vita per raggiungere Isabeau; di certo uscirne da re, con la sua amata accanto in forma umana, era al di fuori di ogni possibile previsione.

Respirò profondamente nel tentativo di non farsi sopraffare dall’emozione, nonché dall’orgoglio, e di rimanere razionale.

“Brava gente di Aguillon!” tuonò, sovrastando il clamore “Brava gente di Aguillon!” chiamò ancora, e le voci intorno a loro si ridussero a sussurri “Non è per questo che ho ucciso il Vescovo; ne siete tutti testimoni”.

Uno dei monaci dietro di lui, con voce fioca, prese la parola: “Ne siamo tutti testimoni, Navarre. Il Vescovo era un uomo corrotto nello spirito e non vi ha lasciato altra scelta”.

La folla sembrava essere d’accordo.

Il monaco parlò ancora: “È naturale e giusto che siate voi, coloro che hanno sconfitto la personificazione del male nella bella Aguillon, a prendere il suo posto e il suo palazzo”.

“Noi considereremo l’offerta” mormorò Isabeau con tono tanto incerto che persino Etienne, che la stringeva a sé, la sentì a malapena, ma già li spingevano verso quella che era stata la dimora del Vescovo, e nelle loro menti si faceva spazio la consapevolezza che, in ogni caso, non avevano un piano alternativo a quello del popolo di Aguillon riguardo a come trascorrere il resto delle proprie vite.

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Capitolo 4
*** Nella Tana del Lupo ***


Era passata una settimana dal giorno in cui Isabeau e Navarre erano stati forzatamente portati in trionfo e avevano preso ad abitare in quella che era stata la residenza vescovile. Pur apprezzando di cuore l’entusiasmo e l’affetto del popolo di Aguillon, di certo accentuato dal fatto di essere appena stato liberato dal giogo di un sovrano autoritario e crudele, i due erano ancora assai frastornati, divisi fra l’incontenibile gioia di essersi ritrovati e di potersi finalmente vivere in una dimensione che non fosse solo quella onirica, e la necessità di costruire qualcosa che prendesse il posto di quanto avevano distrutto. Isabeau era particolarmente dubbiosa riguardo al fatto che fosse stata una buona idea accettare l’incarico piovuto dal cielo, ma provando a parlarne con Navarre si era sentita domandare se vedesse alternative a quel destino, ed era stata costretta ad ammettere di non vederne affatto.
Sospirò.
Accanto a lei, Etienne ancora dormiva; abbracciava il cuscino, forse sognando che fosse lei a stare fra le sue braccia, con le labbra appena increspate da un vago sorriso, nella beatitudine che si vede sul volto di un uomo solo dopo una notte d’amore.
Si portò una mano davanti alla bocca e premette le dita sulle labbra cercando di non ridere a quel pensiero. Respirò a fondo, e quando fu certa di riuscire a trattenersi e di non finire per svegliare il capitano, si rilassò. La mano della dama, dalla bocca, si spostò ai capelli; corti, cortissimi, specialmente per una donna del suo rango.
“Isabeu… I tuoi capelli!”: questa era stata la prima cosa dettale da Navarre appena qualche giorno prima, quando finalmente, dopo quasi due anni, avevano avuto nuovamente modo di guardarsi negli occhi per più di un istante. L’aveva detto con infinito amore, ma poteva ben comprendere che fosse rimasto sconvolto: lui la ricordava con sul capo una lunga chioma, che arrivava ben oltre la cintola; in pubblico era solita mostrarsi alle cerimonie con complesse e magnifiche acconciature, mentre una più semplice ma efficace treccia ondeggiava nel vento, dietro di lei, come un vessillo, durante le lunghe cavalcate che segnavano le battute di caccia. Solo dopo la fuga da Aguillon Etienne l’aveva vista con i capelli sciolti; era successo la prima notte in cui avevano giaciuto insieme. I due, fino a quel momento, avevano atteso di essere uniti in matrimonio, ma dopo due settimane con gli uomini del Vescovo alle calcagna, durante cui per ben tre volte erano stati sul punto di essere catturati, la paura di morire prima di essersi amati era divenuta troppo forte. In seguito, dopo la maledizione, l’unico rimpianto di Isabeau fu quello di aver atteso tanto; ma come avrebbero potuto sapere che, pur rimanendo insieme e in vita, il Vescovo avrebbe trovato un modo sovrannaturale e tanto oscuro di separarli?
Dopo la maledizione, una notte, correndo mentre cercava di afferrare una lepre, la treccia era rimasta impigliata in un ramo, facendole un gran male, ma soprattutto facendole perdere la cena. Era stato allora che, col la daga che portava sempre con sé, l’aveva tagliata.
“Perché no?” aveva pensato “In fondo probabilmente gli occhi dell’unico uomo per cui m’interessi risultar bella non si poseranno mai più su di me”.
L’aveva poi seppellita ai piedi di un albero, e con quel gesto aveva, se non lasciato ogni speranza, perlomeno pienamente abbracciato la paura di non rivedere mai più il proprio amato in forma umana.

Navarre sospirò e si voltò un poco, nel sonno. Lei fu tentata di carezzargli una guancia, ma si trattenne. Era felice anche così, potendo guardare i riflessi che la poca luce, filtrando dalle finestre, traeva dai suoi capelli biondissimi, e Dio sapeva quanto il suo amato avesse bisogno di riposo.
Per i primi due giorni dopo la morte del Vescovo nessuno aveva osato disturbarli, ma subito dopo erano stati inondati dalle questioni portate davanti a loro da postulanti e consiglieri. Loro erano stati quelli ad essere feriti nella maniera più spettacolare, ma egli aveva fatto del male a molti, e molte questioni amministrative che stoltamente aveva creduto di poter risolvere spaventando il popolo, si erano in realtà ingigantite, e adesso richiedevano soluzioni immediate, e giuste. Per giunta Navarre non poteva esimersi dall’arduo compito di cercare di capire se davvero potesse fidarsi degli uomini della guardia, e questo – la donna ne era certa – lo stancava più di tutto, perché di certo gl’intrighi, la diplomazia e lo spionaggio non erano il suo forte.
Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, e non era di certo solo per la gradevolezza dei suoi tratti; la dama si sentiva colma di gratitudine e di ammirazione nei suoi confronti all’idea di quanta forza d’animo e quanto coraggio avesse dimostrato, in quegli ultimi due anni e prima di allora; nel petto di Navarre batteva il cuore di un eroe, puro e temerario come – al di fuori di lui – ne aveva incontrati solo nelle ballate.
Doveva alzarsi, altrimenti non sarebbe riuscita a resistere alla tentazione di sfiorarlo, e l’avrebbe svegliato. Lentamente – e con tutta l’agilità acquisita in paritcolar modo durante gli anni passati come fuggiasca, in cui un movimento troppo brusco poteva significare rimanere a digiuno, o peggio, venire catturata – scese dal letto e si diresse verso la porta. Uscì socchiudendola, ma non prima di essersi concessa un altro sguardo a Navarre.
Il lungo corridoio che portava alla camera da letto veniva debolmente illuminato dalla luce che entrava attraverso alcune feritoie; nel complesso, la loro nuova dimora, nonostante lo splendore e il lusso, risultava piuttosto buia all’interno, persino di giorno. Forse la dama non vi avrebbe fatto caso in precedenza, ma dopo aver vissuto prevalentemente all’aperto per tanto tempo, trovava l’atmosfera soffocante, e di certo sapere chi avesse abitato quel luogo per tanti anni non risultava d’aiuto. Proprio per questo motivo non avevano passato una sola notte in quella che era stata la stanza da letto del vescovo, ma avevano deciso di prendere possesso della più bella fra le camere riservate agli ospiti. La posizione meno centrale si sarebbe fra l’altro rivelata utile qualora il palazzo fosse mai stato attaccato.
Rabbrividì.
Non aveva ancora avuto modo di vedere per intero quella che adesso era la sua dimora, e che se Dio lo voleva lo sarebbe stata ancora per molto tempo. In parte era stata rapita dalla gioia di poter trascorrere tempo con Navarre, in parte era stata presa dai suoi nuovi obblighi come sovrana di Aguillon, ma d’altro canto, se ne rendeva conto, la soggezione aveva giocato un ruolo importante. In un angolo della mente quasi temeva di veder ricomparire il Vescovo; ancora vedeva vivida nella memoria l’immagine dei fiotti di sangue che gli sgorgavano dalla bocca mentre moriva, invocando il suo nome. Si strinse la lunga veste intorno, quasi come a volersi abbracciare per darsi conforto. La paura e faceva sembrare il corridoio molto più lungo di quanto in realtà non fosse, se ne rendeva conto.
Per questo decise di andare a vedere la stanza da letto del Vescovo; voleva guardare il luogo che più di tutti, negli anni trascorsi in fuga, aveva temuto; giacché più della morte aveva temuto di essere catturata, portata ad Aguillon, e presa da lui con la forza.
Svoltò a sinistra, poi a destra. Adesso l’ambiente era più luminoso, tuttavia era piuttosto sorpresa dal fatto di non aver ancora incontrato nessuno. Pensò fra sé e sé che però tutto sommato fosse ben comprensibile che i servi di “Sua Grazia” si fossero abituati a cercare di risultare invisibili, onde evitare di attirare le sue attenzioni e le sue ire, come lei del resto, che ancora istintivamente manteneva il passo silenzioso, come se costantemente temesse di essere scoperta.
Le porte delle camere da letto (fino a quel momento ne aveva contate quindici) erano aperte, probabilmente per lasciare che arieggiassero; tutte aperte tranne una. Non avrebbe saputo dire se fosse questo, o piuttosto il brivido freddo come la morte che le attraversò la schiena, a darle idea che proprio quella fosse stata la camera del suo acerrimo nemico.
Respirò a fondo, abbassò la maniglia e spinse la porta quasi con aria di sfida. Si coprì il volto con una mano: il tanfo di chiuso era intollerabile. Come aveva immaginato, nessuno aveva più messo piede lì dentro da una settimana, e non stentava ad immaginare che gl’incubi avessero divorato le ultime notti di vita dell’uomo di chiesa che si era dimostrato tanto poco santo, portandolo a bagnare le lenzuola di sudore; e il sudore dato dalla paura è sempre ben più acre di quello dato dalla comune fatica. Forse una parte di lui sapeva, o forse aveva la coscienza troppo sporca. Il letto era completamente disfatto; era facile immaginare che vi si fosse girato e rigirato, senza pace.
Se solo fosse stato capace di lasciarli andare…
Ma non lo era stato, e adesso lei e Navarre possedevano tutto ciò che era stato suo oltre, naturalmente, a quella felicità data dall’amore che lui aveva temuto e detestato più di ogni altra cosa.
Qualcosa attirò la sua attenzione: la parete a cui era poggiato l’enorme letto a baldacchino. Uno dei mattoni sembrava avere un contorno più scuro di tutti quelli che gli stavano intorno.
Lei inclinò leggermente la testa di lato e strinse appena gli occhi notando il dettaglio. La paura era scomparsa, sostituita dalla curiosità. Attraversò la stanza senza lasciare che i suoi timori tornassero a galla; si avvicinò alla parete e premette il mattone che, come aveva immaginato, scattò indietro e poi nuovamente in avanti. Sotto i piedi nudi avvertì la vibrazione data da un qualche sistema d’ingranaggi sotto il pavimento, e alla sua destra, sotto il suo sguardo incredulo, parte del pavimento si spostò, rivelando una scala. Qualche istante dopo, ai due lati di essa, si accesero fiammate che la illuminarono fino al sotterraneo a cui portava. Sul volto d’Isabeu era visibile il perfetto stupore, sia per la scoperta che per l’ingegnoso meccanismo.
Per un attimo si domandò se potesse essere una trappola, ma poi si disse che tutto sommato, in quella parte della casa, una cosa del genere fosse ben poco probabile. Con grande cautela scese i gradini uno dopo l’altro, fin quando i suoi piedi, inaspettatamente, si poggiarono su del terreno, vagamente umido. Qui il puzzo che aveva avvertito all’ingresso della camera da letto era ben più forte; era stata troppo ottimista a pensare che potesse essere l’odore della paura del vescovo.
La luce proveniente dal piano superiore, ma soprattutto dalle fiamme che costeggiavano la scalinata, erano sufficienti a rivelare la verità.
Catene pendevano dal soffitto, e nei loro pressi giacevano ferri che immaginava fossero stati usati come strumenti di tortura. Ancora: ossa e resti umani in decomposizione. Un ratto che se ne stava nutrendo squittì spaventato e corse a nascondersi.
Isabeau chiuse gli occhi stringendoli più forte che poté; fu scossa da un tremito di rabbia. Rabbia per quel che immaginava fosse accaduto lì sotto, e rabbia all’idea di quanti s’inginocchiavano al Vescovo, ma avrebbero voluto vedere Navarre morto, soprattutto incrociandolo nella sua forma notturna; eppure anche come lupo lui non avrebbe mai commesso simili orrori.
Riaprì gli occhi, asciugando frettolosamente le lacrime che le colavano lungo le guance, e altrettanto frettolosamente risalì la scalinata: sarebbe andata a chiedere ai monaci di dare degna sepoltura ai resti delle vittime del Vescovo.

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Capitolo 5
*** Roma ***


I passi decisi di Leroy risuonavano ritmicamente lungo l’ampio e luminoso corridoio, seppur spoglio, reso ricco dalla qualità dei materiali. Le arcate di marmo bianco riflettevano parte della luce proveniente dall’esterno e le venature grigie facevano pensare a delle nuvole; forse erano state progettate appositamente per dare al visitatore l’idea di addentrarsi nel Paradiso, avvicinandosi al trono di Dio stesso, o perlomeno a quello del suo rappresentante in Terra. Non era stato semplice ottenere un’udienza con il Papa in persona: erano trascorsi quasi due mesi dalla morte di Marquet, e dalla conseguente presa di Aguillon da parte dei ribelli Etienne Navarre e Isabeau D’Anjou; due mesi in cui il Vaticano aveva cercato di ignorare quanto accaduto. La motivazione era semplice: Aguillon e il Vescovo, che fino alla morte l’aveva governata, erano stati fonte d’imbarazzo per la Santa Sede; il Vescovo aveva infatti creato una sorta di città-Stato di cui era assoluto dittatore, senza avere come autentico riferimento la Chiesa, ma usandone il nome per legittimarsi. Il Vaticano l’aveva lasciato fare, non avendo nessun interesse ad inimicarsi, in nome del dominio su una semplice città, qualcuno che fosse al corrente di tanti segreti quanto lui; in fin dei conti Aguillon rimaneva ufficialmente sotto il dominio vaticano, e tanto bastava. L’autentico imbarazzo era però arrivato più tardi, quando alle orecchie del Papa erano giunte voci riguardo al fatto che non solo il Vescovo avesse disperatamente – e quel che era peggio: pubblicamente – cercato di conquistare una giovane donna, ma che non riuscendovi, alla fuga di lei e del suo innamorato, si fosse macchiato di nefandezze tremende nei confronti di chiunque fosse sospettato di essere complice dei due fuggiaschi, e addirittura fosse poi arrivato a stupulare un patto col Demonio stesso, nel disperato tentativo di maledirli per sempre. Da quel momento, Aguillon era divenuta un vero e proprio tabù fra le alte sfere del clero.
La presa di Aguillon, per quanto sconveniente, era parsa al Papa il minore dei mali; in fin dei conti quell’atto sovversivo aveva risolto una situazione tremendamente sconveniente senza costringerlo a muovere un dito.
Questo sarebbe continuato a valere, se solo Aguillon fosse rimasta un tabù; purtroppo per Sua Santità, però, Leroy, fratello minore di Marquet, non aveva nessuna intenzione di lasciare che chi aveva ucciso l’ultimo altro membro della propria famiglia la facesse franca. Non riuscendo ad ottenere un’udienza col Papa, o perlomeno con qualcuno che gli fosse ragionevolmente vicino, aveva deciso di andare per vie traverse, suscitando malcontento fra l’esercito, lamentandosi dell’ingratitudine del Vaticano nei confronti di chi aveva tentato di difenderne le proprietà, ed essendo abbastanza furbo da diffondere anche la voce che, qualora lui stesso fosse morto in circostanze misteriose, sarebbe stato evidente il tradimento da parte di chi li governava, nel disperato tentativo di mantenere il silenzio in merito ad una questione scomoda.
In effetti, qualora Leroy non fosse stato tanto previdente, qualcuno, per ordine del Papa, lo avrebbe messo a tacere per sempre, evitando con un solo omicidio un’intera battaglia, nonché il rischio di riportare l’attenzione su questioni che la Chiesa avrebbe volentieri lasciato cadere nel dimenticatoio. La sua astuzia lo aveva invece portato ad ottenere quel che tanto aveva desiderato: che Sua Santità lo ascoltasse, e con buona probabilità che di conseguenza gli concedesse quanto – a suo parere – gli spettava.
Gli uomini di guardia a quella che a tutti gli effetti era una sala del trono lo riconobbero e si accinsero ad le porte. Lui non si fermò, si limitò a rallentare, in parte per dare loro il tempo di aprire, in parte con l’intento di fare meno rumore: era deciso ad ottenere quel che voleva, ma l’insolenza non era necessaria, anzi, irritare Sua Santità non avrebbe fatto altro che ostacolarlo.
Silenziosamente Leory fece capolino nella sala. Chiunque avesse incontrato Marquet avrebbe indovinato il legame di sangue fra i due con un semplice colpo d’occhio, perché la somiglianza era impressionante: le uniche differenze erano il colore dei capelli e della barba, decisamente più chiari, e il viso più allungato e smunto; pur essendo più giovane di Marquet di cinque anni, Leroy aveva dimostrato almeno cinque anni in più di lui già nei propri giorni migliori, ma il dolore e la rabbia degli ultimi due mesi l’avevano ulteriormente logorato, facendolo apparire ancor più vecchio. Il suo sguardo comunque non era adombrato dal lutto; egli appariva anzi assolutamente lucido e determinato, dandogli un’aria forte che – accostata all’eccessiva magrezza – creava un inquietante contrasto.
Giunto ad una ragionevole distanza dallo scranno d’oro, Leroy s’inginocchiò.
“Vostra Santità…” mormorò rispettosamente mentre compiva il gesto di riverenza.
“Sì, sì… Alzati!” rispose rispose il Papa sospirando, con un vago gesto della mano, determinato a far terminare quell’incontro il prima possibile.
Nell’alzarsi, Leroy dovette trattenersi per non sorridere: in quel momento seppe che Sua Santità avrebbe ceduto e gli avrebbe dato quanto stava per chiedere.
Già vedeva Etienne Navarre spirare accasciandosi sulla sua spada.

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Capitolo 6
*** Il Presagio ***


Navarre non riusciva a staccare gli occhi dalla luna; la ricordava, certo, ma nei ricordi – durante i due anni in cui l’aveva vista solo attraverso i suoi notturni occhi di lupo – si era fatta sbiadita, forse perché aveva impiegato tutta la concentrazione di cui era capace nel mantenere vivida nella mente l’immagine d’Isabeau. Negli anni trascorsi, dentro e fuori il campo di battaglia, aveva visto e vissuto cose che gli avevano tolto il sonno per giorni, a volte settimane, ma senza ombra di dubbio – subito dopo la volta in cui la sua amata, nella forma di falco, era stata colpita da una freccia e aveva temuto di perderla per sempre – la cosa più spaventosa mai accadutagli risaliva a circa un anno e mezzo prima. Erano trascorsi alcuni mesi dall’inizio della maledizione; una sera, negli attimi appena prima del tramonto, lui aveva chiuso gli occhi e aveva cercato con tutte le proprie forze di rievocare l’immagine di lei, sperando per un attimo di avere almeno l’illusione di poterne sfiorare il viso, ma con orrore si era presto reso conto del fatto che il ricordo risultava come appannato; alcuni tratti d’Isabeau erano come ricoperti da un fitto strato di nebbia. Aveva sudato freddo temendo di non riuscire a vederla mai più, neppure nei propri ricordi; il fatto di trasformarsi in lupo durante la notte gli aveva persino tolto la consolazione dei sogni, dunque neppure ad essi poteva affidarsi nella speranza di rivedere la sua bella. Da quella sera aveva ripetuto l’esercizio svariate volte prima di riuscire a visualizzarla nuovamente con la chiarezza in cui aveva sperato, ma si era trattato di una vittoria a suo modo amara, perché sparendo la paura di non riuscire neppure a ricordare il volto umano di Isabeau, era stato colpito in pieno, e con piena forza, dalla consapevolezza della sua – o meglio, della loro – assoluta vulnerabilità. Erano passati dall’essere una dama di nobili natali ed un capitano della guardia, con una relazione vissuta nell’ombra ma estremamente felice, ad essere due fuggiaschi, condannati ad una vita a metà, che non solo vivevano nell’ombra, ma che persino della propria ombra avevano paura. Così aveva recuperato il ricordo del volto d’Isabeau, ma aveva quasi perduto la luna. Adesso aveva di nuovo entrambe, e non temeva che si trattasse di un sogno solo perché se ancora fosse stato maledetto non avrebbe potuto sognare, giacché mai avrebbe dormito di giorno, impegnato com’era a proteggere Lady Falco. Ancora adesso, due mesi dopo la fine della maledizione, faceva molta fatica a separarsi da lei; spesso i loro obblighi lo rendevano necessario, ma lui ancora non riusciva a vivere la cosa con tranquillità, in parte a causa dell’atroce mancanza vissuta durante l’esilio da Aguillon, ma soprattutto per paura: paura che il destino li tradisse e li separasse di nuovo, magari per sempre, qualora qualcosa di tragico le fosse accaduto.  Udiva il richiamo dei rapaci notturni e il cuore gli si faceva pesante. Essendosi Isabeau addormentata presto, aveva approfittato del momento per uscire ad osservare la luna, e per esercitarsi nello stare lontano da lei, un poco come aveva fatto per tornare ad avere limpida nella mente l’immagine del suo volto, ma questa volta l’esercizio non pareva avere successo; anzi, sembrava angosciarlo ulteriormente. Il suo sguardo si fece duro; non si trattava solo di timori fondati, qualcosa stava davvero per accadere, ne era certo. Si affrettò a fare ritorno a quella che ormai era la sua dimora, pregando, di qualunque cosa si trattasse, di essere capace di fare da scudo alla sua amata.

Nel mezzo della notte, Imperius si svegliò annaspando. Il suo tentativo di riprendere fiato fu tanto rumoroso da far svegliare di soprassalto anche Philippe che, a dire il vero, da giovane abituato a non vivere propriamente secondo le regole, era solito dormire con un occhio aperto.
“Padre!” esclamò preoccupato, precipitandosi al suo fianco.
“Va tutto bene, figliolo, va tutto bene” lo rassicurò il vecchio, pur essendo ancora affannato.
“Ne siete sicuro?” domandò il ladruncolo, appena sveglio ma già ben lucido.
Il monaco per un attimo, finendo di riprendere fiato, tenne lo sguardo fisso davanti a sé, come se potesse vedere qualcosa d’invisibile agli occhi di Philippe.
Finalmente annuì con un cenno del capo “Va tutto bene, per adesso, ma dobbiamo tornare ad Aguillon”.
Philippe, intuendo cosa avesse svegliato il suo compagno di viaggio, sospirò e annuì a sua volta.

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Capitolo 7
*** La Strada per Aguillon ***


Dopo il brusco risveglio di Imperius, lui e Philippe avevano loro malgrado dovuto aspettare che albeggiasse per potersi mettere in viaggio. Il monaco aveva camminato nervosamente avanti e indietro per la propria cella, sbuffando come un cavallo, ma sapeva bene quanto le rovine in cui si era arroccato fossero isolate dal resto del mondo – in fondo proprio per questo le aveva scelte come propria dimora dopo aver tradito Isabeau e Navarre – ed era conscio del fatto che, intraprendendo il viaggio in piena notte, probabilmente sarebbero finiti dritti in bocca a qualche belva feroce; o peggio: avrebbero rischiato di andare direttamente incontro a qualunque forza oscura stesse arrivando da Roma.
In sogno aveva visto una lupa allattare due gemelli; essi erano poi cresciuti e diventati adulti in un batter d’occhio. Uno dei due fratelli si era scagliato contro un lupo dal manto nero, che però aveva finito col divorarlo; il lupo, impegnato a banchettare della carne di chi aveva osato attaccarlo, non si era però accorto del fatto che, alle sue spalle, la lupa – i cui occhi sembravano brace – e il gemello rimasto – stringendo una daga dalla lama lucente – si stessero silenziosamente avvicinando. Si era svegliato di soprassalto nel momento in cui, nel sogno, la lupa aveva cominciato a ringhiare.
Il messaggio gli risultava assai chiaro; gli era parso superfluo chiedere un parere a Philippe; e Philippe, dal canto suo, pur essendo abituato a mettere in dubbio ogni cosa, aveva già avuto la dimostrazione pratica di quanto Imperius fosse capace d’interpretare correttamente i propri sogni, dunque non aveva sollevato obiezioni in merito. Non era dubbioso, certo, ma questo non significava che non fosse spaventato. Appena una manciata di settimane era trascorsa da quando aveva guardato più volte la morte in faccia, nel giro di pochi giorni. Non rimpiangeva il rischio corso: forse era un ladruncolo qualunque, ma quella missione, l’aver aiutato i due amanti a sconfiggere il Vescovo e – finalmente – a ricongiungersi, gli aveva quasi dato una parvenza d’onore. In qualche modo incontrare Isabeau e Navarre aveva dato alla sua vita un senso che non aveva mai sospettato essa potesse avere – o prendere – e nel suo piccolo cuore di topo, seppur con grande timore, non poteva fare a meno di ammettere di essere tuttora pronto a morire per loro; certo però, sarebbe stato di gran lunga più felice rimanendo vivo e vegeto. Aveva sospirato sperando che il viaggio che stavano per intraprendere non fosse l’ultimo.
Adesso il sole splendeva alto, impietoso su di loro, che pur avendo portato il minimo indispensabile si sentivano tremendamente appesantiti già solo dalle provviste e dai pochi stracci che riempivano le loro sacche. Il sudore colava copiosamente soprattutto dalla fronte di Imperius, che si asciugava alla bella e meglio con un pezzo di stoffa ormai sporco di un misto fra sudore e terra battuta sollevata dai loro passi trascinati; di tanto in tanto si lamentava di essere troppo vecchio per certe cose, sforzandosi però di non imprecare.
“Padre, coraggio!” cercò di rincuorarlo Philippe “Manca appena qualche miglio!”
“Arriverò ad Aguillon prima di qualunque cosa stia per attaccare da Roma!” rispose lui affannato “Spero solo di arrivarci vivo e sulle mie gambe; e lo spero soprattutto per te, ragazzo: non mi pare che tu abbia la stazza per riuscire a trascinare fin lì il mio cadavere!”.
Il ladro riuscì a stento a trattenere una risata.

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Capitolo 8
*** Sentieri ***


Il sole, tramontando su Aguillon, dal cielo fiammeggiante la baciava con quelli che erano ormai gli ultimi raggi della giornata. Non ne avevano parlato, forse perché non ve n’era stato alcun bisogno, ma sia Isabeau che Navarre avevano conservato una sorta di sottile disagio, una lieve ansia che li attraversava ogni giorno all’alba e al tramonto; non sapevano se mai sarebbe stato possibile liberarsene, ma tutto sommato erano ancora troppo positivamente sconvolti dal fatto di aver vissuto abbastanza a lungo da vedere la maledizione spezzarsi per lamentarsi degli strascichi. Ad ogni modo non era la vista in sé del sorgere e del tramontare del sole a provocare il lieve turbamento, perché entrambi l’avvertivano distintamente anche quando rinchiusi fra quattro mura, troppo presi da i propri doveri di sovrani per aver tempo di ammirare il cielo. Questa loro nuova libertà, rivestita di autorità e responsabilità non richieste, aveva un sapore ben strano. Di questo sì, avevano parlato, e si erano domandati se fosse stata davvero una buona idea lasciarsi travolgere dall’entusiasmo del popolo di Aguillon, quando già per i due anni precedenti erano stati costretti a vivere le proprie vite secondo la volontà di qualcun altro. La mancanza di alternative concrete rimaneva però l’annosa questione pratica; in più, in tutta coscienza, non sentivano di poter evitare di prendersi la responsabilità di rimpiazzare l’ordine che avevano distrutto con le proprie mani, per quanto malsano e corrotto; forse poi qualcosa diceva loro che Aguillon non fosse ancora davvero salva, e loro con essa.

Quella sera erano rinchiusi nella sala del trono ad ascoltare due postulanti — due maniscalchi; uno si lamentava del fatto che il secondo avesse aperto un laboratorio troppo vicino al suo e gli stesse rovinando la piazza — quando le sentinelle videro, nella luce del crepuscolo, due figure avvolte in pesanti ma logori mantelli avvicinarsi alla città. Dapprima avevano pensato a due mendicanti, ma poi la più giovane delle sentinelle — un ragazzo dalla vista di falco di nome Gérard, che forse superava d’un paio d’anni Philippe, e che a dire il vero in qualche modo gli somigliava — aveva riconosciuto il ladro e il monaco, in parte perché li aveva già incrociati, in parte perché in brevissimo tempo le ballate dei menestrelli avevano già scolpito le loro immagini nelle menti degli abitanti di Aguillon; certo, non sempre i toni riguardo al loro aspetto fisico erano stati lusinghieri, soprattutto per quanto riguardava Imperius, forse anche perché il clero era comprensibilmente poco popolare in città, ma tutti erano stati d’accordo nel raccontare con ammirazione le loro gesta, e questo era già molto più di quanto Philippe si fosse mai aspettato che potesse accadergli.

Gérard annunciò agli altri l’arrivo dei due.
“Aprite le porte per Philippe, il Topo, e Imperius, il monaco!”

“Sì, ma sta’ calmo, ragazzino!” abbaiò in risposta una delle guardie, esausta dopo il lungo turno, ormai giunto quasi al termine, e per niente entusiasta di prendere ordini da lui.

 

I due arrivati vennero condotti da Isabeau e Navarre, ancora nella sala del trono, proprio mentre il sovrano dichiarava che purtroppo, per quella giornata, non avrebbero potuto ricevere altri sudditi, ma che l’indomani sarebbero stati lieti di riprendere da dove avevano lasciato. Qualcuno, dal corridoio, mormorò qualche lamentela carica di sconforto, ma in fondo tutti sapevano di potersi fidare della parola del loro nuovo sovrano, e riconoscevano il suo impegno nel risolvere i loro problemi. Lo sguardo di Etienne si fissò sulle due figure scure che non sembravano dare cenno di averlo udito chiedere ai postulanti di lasciare la sua dimora, poi s’illuminò quando avanzarono lasciando cadere il cappuccio. Incredulo si voltò verso Isabeau, alla sua destra, quasi a chiederle conferma di non stare sognando. Il sorriso radiante sul volto della dama non lasciava dubbi.
I due attesero che gli ultimi se ne fossero andati, prima di abbandonare l’etichetta ed alzarsi, quasi correndo incontro ai loro amici. Isabeau, che indossava un magnifico vestito a strascico, di certo non pensato perché chi lo portava potesse correre, ne sollevo i lembi alla bella e meglio mentre andava incontro a Philippe.
“Pensavo di rivederti all’inferno, vecchio!” esclamò Navarre stringendo la spalla d’Imperius, con un tono che non riusciva a – e forse non voleva – celare il suo affetto per il monaco.
“Sono ben contento del fatto che i nostri sentieri s’incrocino di nuovo, e non in un girone infernale” rispose lui con un sorriso triste “ma temo di dovervi portare cattive notizie, e Dio solo sa quanto non lo vorrei”.
Isabeau sospirò intuendo di cosa potesse trattarsi; annuì con un cenno del capo.
“Venite, dovete essere stanchi e affamati. Ci racconterete tutto davanti ad un pasto caldo”.
“Di certo del buon cibo non ci farà alcun male” concordò Philippe, il cui solito tono gioviale era però smorzato da una nota di preoccupazione.

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Capitolo 9
*** Una Missione per Philippe ***


Quando le porte della sala da pranzo vennero aperte, Philippe sospirò incredulo: stando al profumo, l’agnello che stavano servendo doveva essere buono almeno quanto quello che gli cucinava la piccola Berta, pur non essendo condito da alcuna salsa verde. Il lungo tavolo era stato apparecchiato per quattro: di certo la notizia dell’arrivo di Philippe e Imperius aveva viaggiato veloce fra la servitù, che non si era preoccupata di fingersi ignara; l’avrebbe fatto, ai tempi del Vescovo, ma adesso non si correva più il rischio di ingiuste e crudeli punizioni per futili motivi, anzi, se solo Navarre e Isabeau non fossero stato troppo stanchi per la giornata appena trascorsa e preoccupati dal fatto che i due ospiti non portassero buone notizie, avrebbero notato e apprezzato il gesto di ospitalità nei confronti dei loro amici.

“Sediamoci e mangiamo” esortò Isabeau “sono certa che a pancia piena le notizie che portate non sembreranno poi tanto terribili” concluse scoccando un’occhiata divertita e speranzosa a Philippe, il quale – con giocoso imbarazzo – abbassò lo sguardo.

“Lo spero tanto, Isabeau…” gracchiò Imperius lasciandosi andare in maniera goffa su una delle sedie posizionate sui lati lunghi del tavolo “Mia regina, intendevo dire!” si corresse poi.

Isabeau, che si era seduta un’attimo prima di lui – e in maniera decisamente più aggraziata – sorrise e sollevò una mano in cenno di dissenso “‘Isabeau’ va benissimo, padre”.

Navarre fu il primo a servirsi della carne; forse avrebbe dovuto aspettare che lo facesse qualcuno dei suoi servi, ma non gl’interessavano le cerimonie e soprattutto stava morendo di fame. Il suo stomaco sembrava non essersi accorto che avesse smesso di trasformarsi in lupo durante la notte.

“Isabeau e io siamo molto lieti di avervi qui, ma mi domando che notizie portiate” tagliò corto il sovrano di Aguillon, mentre i due ospiti si servivano prendendo del cibo dal piatto d’oro al centro della tavola imbandita, anch’essi troppo stanchi e affamati per preoccuparsi dell’etichetta; l’unica ad aspettare di venir servita fu Isabeau, talmente ansiosa di sapere quali nuove portassero il monaco e il ladro da aver quasi scordato di essere affamata.

Philippe si avventò sull’agnello; Imperius fu sul punto di fare lo stesso, ma poi desistette, rendendosi conto di aver tenuto Isabeau e Navarre già fin troppo sulle spine, e non volendo raccontare loro il sogno a bocca piena.
Etienne chiese alla servitù di lasciarli, e una volta rimasti soli nella sala – che oltre alle candele era illuminata e scaldata dal camino in cui la legna scoppiettava – il monaco vuotò il sacco. Tutti ascoltarono in solenne silenzio il racconto del sogno, Philippe incluso, pur avendolo già udito; nonostante la presenza di una dama a tavola, il monaco scese nel dettaglio, rivelando anche i particolari cruenti del momento in cui uno dei due fratelli veniva sbranato, e lo fece per rispetto, perché riconosceva che la dama in questione avesse vissuto in passato una realtà ben più cruenta delle immagini del suo sogno. A dire il vero, talvolta aveva provato ad immaginare come fosse stata per lei, nata e cresciuta nel privilegio nonostante l’indole violenta del padre, la vita ai margini della dannazione condotta di notte nei boschi; come risultato aveva dovuto ammettere davanti a se stesso che la forza d’Isabeau quasi gl’incuteva timore.

A questo punto, il monaco e la dama erano gli unici a non aver ancora toccato il cibo nei propri piatti. Lo stomaco d’Isabeau si era quasi chiuso, non per l’aspetto cruento del sogno, ma per quanto temeva potesse significare; ciononostante si sforzò d’iniziare a mangiare, perché sospettava che Imperius non si sarebbe sentito libero di cominciare fin quando non l’avesse fatto lei. Il profumo del buon cibo si mescolava a quello della legna che bruciava; un odore davvero gradevole, ma lei avvertiva una leggera nausea.

“Imperius” chiamò infine Navarre spezzando il pesante silenzio che gravava sulla tavolata “significa ciò che credo che significhi?”.

Il monaco annuì con un cenno del capo abbassando lo sguardo mentre, rumorosamente, masticava un boccone “Temo proprio di sì, Navarre: Roma sta inviando qualcuno per vendicare il Vescovo”.
Etienne sospirò senza perdere la sua compostezza “E immagino tu sia sicuro del fatto che anche questo sia un sogno profetico”.
“Temo proprio di sì” rispose Imperius lanciando un’occhiata al calice stracolmo di vino alla sua destra, temendo però di essere preso meno seriamente qualora avesse cominciato a bere “Vedi…” sospirò a sua volta cercando le parole adatte “L’intensità spirituale di questo sogno, persino la luce in cui vedevo le cose accadere, era esattamente la stessa del sogno che mi rivelò la possibilità di spezzare la vostra maledizione.” afferrò il calice perché sentiva la gola troppo secca, e presto avrebbe cominciato a tossire qualora non avesse in qualche modo placato l’arsura “Proprio come ero certo che avremmo visto una notte senza il giorno e un giorno senza la notte, ahimè, mio buon Navarre, sono certo del fatto che il nemico si prepari a colpire”.
Questa volta fu Isabeau a sospirare “Saremo pronti” disse poi con una fermezza che stupì Philippe, ma non Imperius e Navarre “però abbiamo bisogno di sapere chi ci stia attaccando, o perlomeno quanti uomini siano diretti verso Aguillon”.

“Andrò io” si offrì quasi senza darle il tempo di finire Philippe, che incredulo sentì quelle parole pronunciate dalla propria voce prima di avere il tempo di pensare davvero a tutte le implicazioni di quanto stava proponendo.

Navarre lo guardò di traverso, quasi a voler valutare se stesse scherzando o se fosse serio.

“Forse non sarò un indomito cavaliere con una gemma da conquistare per l’elsa della propria spada” iniziò con tono quasi offeso dall’incredulità di Navarre, tralasciando bellamente la propria “ma se avete bisogno di discrezione e di velocità… Beh, in fondo mi chiamano ‘il Topo’ per un motivo”.
Etienne serrò le labbra riflettendo su quanto appena detto dal ladro; infine annuì “E sia”.

Isabeau sgranò gli occhi; non voleva contraddire Navarre, ma neppure voleva che il suo amico corresse un rischio tanto folle “Non andrai da solo, però” si limitò dunque ad aggiungere.

“Mia signora, da solo correrò meno rischi di essere scoperto” rispose lui col suo tono più devoto.
“Sceglierai tu chi portare con te, Philippe: qualcuno di abbastanza silenzioso e veloce da non metterti a rischio… Ma non dormirei sapendoti là fuori senza nessuno con cui contare”.
“Va bene” acconsentì il giovane sorridendo per l’affetto che gli veniva dimostrato, ma non avendo affatto idea di dove trovare qualcuno col passo abbastanza leggero da non rischiare di costargli la pelle.

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Capitolo 10
*** Il Gatto e il Topo ***


Philippe non aveva avuto il tempo di esaminare le capacità di tutti i soldati della guardia di Aguillon. O meglio: non aveva avuto modo di fare calcoli, non avendo affatto idea di quando le truppe nemiche fossero partite, ammesso che fossero già partite; in tutta onestà, però, il ladro non dubitava della realtà della minaccia, giacché i sogni profetici d’Imperius si erano già rivelati affidabili in circostanze in cui avevano dipinto scenari ben meno realistici.
Fortunatamente, in quei due mesi, Etienne aveva avuto modo di conoscere bene i propri soldati – certo, nel limite in cui due mesi potessero essere sufficienti a conoscere duecento uomini – dunque gli era risultato semplice trovare una rosa di nomi da suggerire a Philippe. A dire il vero, il sovrano di Aguillon, con la sua mentalità da guerriero, si sarebbe sentito più tranquillo se l’amico avesse portato con se perlomeno un piccolo gruppo di soldati, ma comprendeva che il ladro seguisse ben altre logiche, e soprattutto il quel contesto non si sarebbe mosso per vincere, bensì per spiare e scoprire; più che di forza, ci sarebbe stato bisogno di muoversi veloci, leggeri, e facendo meno rumore possibile. In fondo, non per niente Philippe Gaston era detto “il Topo”.
Il caso, o forse il destino, volle che – fra gli uomini suggeriti da Navarre – Philippe scegliesse per accompagnarlo proprio Gérard: il soldato che per primo, dall’alto delle mura di Aguillon, aveva avvistato lui e Imperius avvicinarsi per portare alla città le loro nefaste nuove. Forse però, se l’avesse incontrato prima del viaggio, invece di limitarsi alle descrizioni di Navarre per risparmiare tempo prezioso, non avrebbe deciso di portare con sé proprio lui, perché la sua presenza, in qualche modo che non comprendeva pienamente, lo metteva a disagio.
Adesso si erano lasciati alle spalle Aguillon già da qualche ora, col favore della notte; non avevano sperato di riuscire a percorrere un lungo tratto di strada senza luce, ma semplicemente di potersi addentrare nel bosco e di allontanarsi un poco, in modo che ci fossero meno possibilità di essere visti mentre lasciavano la città, qualora il nemico li stesse già osservando. Ora, con la schiena e la testa poggiate ad un tronco, il cappuccio tirato sulla faccia, con un occhio semiaperto, cercando di non farsi notare, Philippe osservava il soldato dormiente, che in posizione simile alla sua si era appisolato davanti a lui, appoggiato ad sempreverde. L’odore del bosco, seppur pungente, era piacevole, e lo faceva sentire vivo, soprattutto quando faceva paragoni col tempo trascorso nelle prigioni di Aguillon, fra il tanfo di chiuso e taluni tipi di olezzo che sperava di vivere abbastanza a lungo da dimenticare. Qui, in questo momento, in parte aveva paura, ma soprattutto si sentiva libero; e ora che ci pensava, non ricordava di essersi mai sentito davvero libero senza provare, di fondo, quello stesso filo di timore; forse una cosa non poteva esistere senza l’altra? Adesso, ad ogni modo, non era la paura ciò su cui si stava concentrando. L’umidità e il suono dei richiami degli uccelli notturni sembravano metterlo in contatto col proprio istinto, e questo lo portava a domandarsi quale fosse la natura del disagio che provava difronte a questo soldato. Anche così, avvolto dal mantello e col viso in gran parte coperto, pur essendo di corporatura esile e di modesta statura, dava l’idea di essere forte, probabilmente grazie agli anni di addestramento; però c’era dell’altro.
“Hai finito di fissarmi?” domandò il giovane a mezza bocca, un po’ divertito e un po’ infastidito, un attimo prima che il cappuccio per un attimo rivelasse un sorriso sornione mentre si stiracchiava come un gatto.
Ecco! Ecco cosa lo faceva stare sulle spine: Gérard gli ricordava un gatto.
Philippe quasi si spaventò, perché nell’esatto momento in cui ebbe finito di formulare quel pensiero, il suo compagno di viaggio emise un lieve grugnito; talmente lieve, da ricordargli il suono delle fusa. Cercò di rimanere fermo e immobile, continuando a respirare profondamente, in modo che perlomeno Gérard non potesse avere la certezza che fosse davvero sveglio e che lo stesse fissando, ma non poté fare a meno di domandarsi se, qualche mese, prima non avesse avuto ragione a pensare di essere diventato matto.

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Capitolo 11
*** Non Dire Gatto... ***


Avevano già battuto due delle strade che portavano ad Aguillon per una ragionevole distanza senza alcun risultato. Erano in spedizione da quattro giorni e ancora non avevano scoperto alcunché. Pur consumando le provviste con parsimonia, ne avevano già utilizzate la metà. Il ladro e il soldato, oltre alla missione, condividevano il timore di deludere Navarre, il primo per senso d’amicizia, il secondo perché temeva di rimanere a fare da sentinella sulle mura del castello fino alla fine dei propri giorni.

Quando si muovevano in esplorazione, Gérard sembrava avere la naturale tendenza a cercare di stare in testa; nonostante di norma avesse un carattere tutt’altro che dominante, ben più orientato verso la sopravvivenza che verso il controllo e il potere, la cosa infastidiva Philippe in un modo che persino lui faticava a spiegarsi. La primavera era alle porte, i profumi del bosco e il clima finalmente più mite lo facevano sentire coccolato, eppure non riusciva a evitare di sentirsi a disagio.
“Perché?” si domandò, mentre in un angolo della mente si rendeva conto del fatto che essere sovrappensiero lo rendesse ancora più incline a seguire Gérard, sentendosi di riflesso ancor più indispettito.

A stento sentiva la brezza accarezzargli il viso e smuovere le foglie mentre, scuro in volto, passava in rassegna tutte le volte in cui, nella vita, si era ritrovato a dover seguire gli ordini di qualcuno, o perlomeno tutte quelle che riusciva a ricordare. Si era sentito schiacciato, schiavizzato, aveva provato senso d’ingiustizia, voglia di scappare, talvolta anche del desiderio di rivalsa, ma questa volta c’era qualcosa di diverso.

Forse essendo stato al servizio di Navarre adesso non sopportava il fatto di ricevere ordini da qualcuno di rango inferiore al suo? O magari avendo aiutato lui e Isabeau a spezzare la maledizione si era montato la testa?
“Povero Philippe” pensò fra sé e sé con un filo d’amarezza “ti eri forse illuso di essere diventato qualcuno? Un topo, in fin dei conti, rimane un topo…”.

Si concentrò a questo punto sulla camminata del suo compagno di viaggio. Sì, decisamente gli ricordava un gatto: fiero ma silenzioso, senza forzature, chiaramente rilassato, eppure – ci avrebbe scommesso – pronto allo scatto; il proprio essere silenzioso invece – ne era consapevole – era frutto del suo farsi piccolo, sperando che il mondo non si accorgesse di lui. Forse si era tanto immedesimato nel ruolo del topo da non riuscire ad evitare di sentirsi a disagio accanto a qualcuno che avesse un qualcosa di felino.
No, non aveva senso.
Involontariamente sbuffò. Gérard si voltò a guardarlo con aria interrogativa, vagamente divertita, forse percependo il suo stato d’animo.

“Che c’è?” chiese alzando un sopracciglio; la sua voce era vagamente nasale.

“Niente” si affrettò a rispondere Philippe, abbassando lo sguardo.

“Sicuro?” insisté il soldato.

Il ladro inspirò profondamente: “Certo!” esclamò cercando di suonare ben più sicuro di quanto non fosse, poi però non riuscì ad evitare di cominciare a farfugliare. “È solo che non capisco” finì per ammettere.

Gérard annuì con un cenno del capo mentre sorrideva soddisfatto: “Allora esiste!” disse fermandosi.

Philippe si fermò a sua volta: “Cosa?”.

Questa volta fu il soldato a inspirare profondamente: “Il richiamo del sangue”.

Philippe si accigliò: “Che intendi dire?”.

Gérard lasciò cadere il cappuccio, e mai come in quel preciso momento Philippe vide la similitudine fra loro due.
“Quando hai scelto proprio me fra tutti gli uomini a disposizione, ho quasi sperato che in qualche modo lo sapessi già, o che lo avessi capito…” strinse le labbra esitando, rivelando che forse – a dispetto delle apparenze – tutto sommato condivideva parte della timidezza del suo interlocutore “Poi, rendendomi conto che probabilmente così non era, ho sperato che capitasse una grande occasione, un momento speciale per dirtelo, ma adesso mi rendo conto che forse torneremo da Navarre senza alcuna informazione utile, che non ci saranno momenti degni della vita di un avventuriero a seguito di cui svelarti il grande segreto, dunque forse è meglio che lo faccia adesso”.
Gli occhi di Philippe si erano fatti grandi e attenti come quelli di una civetta.

“Philippe, io avevo sei anni e tu ancora non ne avevi tre quando nostra madre ti lasciò alle porte del monastero di Aguillon” riuscì infine ad ammettere Gérard.
Il ladro era perfettamente immobile, forse neppure respirava.

“Ti prego, per l’amor del cielo, dimmi qualcosa!” cercò infine di scuoterlo il soldato.

“Sei sicuro di quanto dici?” domandò allora Philippe con un filo di voce, mentre i suoi occhi – a dispetto della volontà di contenersi – diventavano lucidi.

“Quanti Philippe il Topo conosci?” chiese a sua volta Gérard trattenendo a stento una risata “E come altro spieghi questo?” concluse indicando con un gesto della mano prima il proprio volto e poi quello dell’interlocutore.

Il ladro inspirò e aprì la bocca come se stesse per dire qualcosa, ma poi parve cambiare idea: “Ho bisogno di sedermi” si limitò a mormorare mentre deviava dal sentiero su cui si trovavano per appoggiare la schiena contro un albero e poi lasciarsi cadere.

Il fratello dapprima fu incerto sul da farsi, ma poi decise di andare a sedersi accanto a lui; si mosse con cautela e si appoggiò ad un altro tronco, per lasciargli un po’ di spazio, di cui probabilmente aveva un gran bisogno. Guardandolo tremare mentre lottava per darsi un contegno, Gérard si domandò se non avesse peccato d’egoismo e commesso un errore: il loro compito richiedeva lucidità, e adesso invece, per quanto in senso probabilmente positivo, Philippe era sconvolto.

“Mi dispiace se…”
Philippe lo interruppe: “Dispiace? E di cosa?” chiese mentre ormai non riusciva più a trattenere le lacrime.
Certo, ora aveva senso: il fastidio che provava era rivalità, in questo preciso istante sepolta dalla gioia e dallo stupore.

Gérard a questo punto osò avvicinarci e gli mise una mano sulla spalla: “Ti spiegherò tutto” promise mentre anche lui si commuoveva.

Philippe rise nervosamente. Solo a questo punto riuscì a tornare a vedere e sentire davvero l’ambiente intorno a sé. La schiena, che aveva strisciato contro il tronco, gli doleva leggermente; sotto le mani sentiva la terra; finalmente riusciva di nuovo a respirare a pieni polmoni e il cielo terso sopra di loro pareva sorridere. Soprattutto sì, il volto del ragazzo che stava danti a lui era davvero simile al suo.

La gioia durò però appena un attimo, perché in un baleno – senza capire esattamente da dove fossero arrivati – si ritrovarono davanti due uomini vestiti di bianco, armati di balestre puntate alle loro teste.

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Capitolo 12
*** ...Se Non Ce l'Hai nel Sacco ***


Philippe tremava. Tremava perché, a differenza di Gérard, già conosceva la prigionia. Conosceva la fame col volto con cui era venuta a fargli visita nelle prigioni di Aguillon, ben più truce di quello con cui invece si presentava agli uomini liberi: non si è mai davvero liberi se si ha fame, ma l’uomo libero può perlomeno tentare, usare l’ingegno o sperare in un colpo di fortuna; durante la prigionia invece, la fame diventa un ennesimo strumento di tortura, un altro muro, altre sbarre da cui non si può evadere, un sinonimo di disperazione con denti più affilati.

Le preoccupazioni di Gérard erano invece di natura ben più cavalleresca: si vergognava di dover avanzare a testa bassa, con le mani legate dietro alla schiena, come un qualunque tagliagole. Nelle poche occasioni in cui Philippe aveva osato voltarsi verso di lui, aveva potuto indovinare quanto il suo orgoglio fosse ferito, e ciò lo preoccupava ulteriormente perché, se nel poco tempo a disposizione aveva ben inquadrato la mentalità del fratello appena ritrovato, questo lo avrebbe portato a chiudersi in se stesso e ad essere poco reattivo: l’esatto opposto dell’attitudine adatta perché si possa sperare in un’evasione coi fiocchi, ambito in cui lui era un esperto. Aveva la netta sensazione che i due soldati che li avevano catturati fossero stati avvertiti della sua fama, del fatto che fosse l’unico ad essere mai riuscito a scappare dalle prigioni di Aguillon, perché gli pareva che tenessero d’occhio lui molto più di Gérard, ma in particolar modo perché notava il loro pesante silenzio, ben insolito per chi è convinto di avere la vittoria in pugno. Dovevano sapere quanto fosse astuto e capace di cavarsi fuori dai guai grazie all’inarrestabile parlantina, e probabilmente il silenzio era un modo per accertarsi di non farsene scalfire. 

“Signore, non mi abbandonare proprio adesso. Non so quali siano i tuoi piani, ma non lasciare che io venga strappato a mio fratello proprio ora che ci siamo appena ritrovati” pensò in maniera insolitamente accorata, se paragonata ai suoi soliti appelli. Forse perché questa volta sentiva di avere davvero qualcosa, o meglio qualcuno, da perdere, sensazione che non ricordava di aver più provato dall’infanzia in poi.
“Dove ci state port…” provò a chiedere, ma la frase venne interrotta da un colpo in pieno viso, e ben assestato, del soldato davanti a lui, che aveva per giunta la mano coperta da un guanto d’arme, dunque l’esperienza fu particolarmente dolorosa. Dopo qualche istante sentì del sangue caldo colargli sulla guancia destra, ma non osò lamentarsi, limitandosi a stringere le labbra, con lo sguardo basso, e a non fiatare. Dietro di sé avvertiva però che il ritmo del respiro di Gérard era cambiato, diventando forzatamente lento e profondo: probabilmente era passato dalla vergogna alla rabbia.

“Bene!” pensò il ladro “Ci ho rimesso la faccia, letteralmente, ma perlomeno adesso sarà pronto ad agire quando ce ne sarà l’occasione”.

Si sforzò di non considerare neppure l’ipotesi che tale provvidenziale occasione in realtà potesse finire per non presentarsi affatto, perché non voleva assolutamente pensare a quali sarebbero state le conseguenze di tale evenienza. Andava ammesso che fin lì la fortuna non fosse stata dalla loro, o forse che i due soldati fossero stati più previdenti di quanto in generale la guardia del vescovo non si fosse dimostrata nelle occasioni – più numerose di quanto in quel momento riuscisse a ricordare – in cui Philippe ci aveva avuto a che fare: avevano infatti seguito un sentiero sterrato in mezzo ad una vegetazione molto fitta, carica di spine e rovi, quasi come se fosse stato ideato proprio per non permettere ad eventuali prigionieri di fuggire; ma chi mai avrebbe potuto pensare a una cosa del genere o realizzarla? No, si trattava semplicemente del fatto che il momento giusto non fosse ancora arrivato. Doveva essere così.

Gérard, messe da parte le sue cavalleresche paranoie, forse anche in virtù del fatto di non possedere e non aver mai posseduto alcun cavallo, era stato brutalmente riportato alla realtà dall’angheria subita dal fratello minore, che non poteva dire di conoscere come adulto, ma di cui conservava diversi teneri ricordi dall’infanzia, e per cui l’affetto provato – in tutti quegli anni – era cresciuto a dismisura, nutrito non da ricordi nuovi, ma dall’ansia di crearne. Questo non era decisamente ciò che per anni aveva avuto in mente, né sperato. Aveva tanta sete da fargli dolere il capo, e il sole batteva a picco sul sentiero sterrato, che ora dopo ora era parso diventare incandescente. Non aveva mai seriamente pensato di poter finire all’inferno, ma ora si domandava se potesse essere poi tanto diverso dalla condizione in cui si ritrovava: senso di fallimento, arsura, calore insopportabile, nessuna speranza, ombra e frescura tanto vicine da poterle quasi sfiorare, ma oltre i rovi e con i loro carcerieri come ostacolo; pareva mancare solo l’odore di zolfo. Era così stanco e portato all’esasperazione dal sole impietoso che quasi gli pareva di cominciare a sentire anche quello quando, dopo svariati tentativi, Philippe riuscì a richiamare la sua attenzione senza una sola parola. Si limitò ad aprire e chiudere furiosamente le mani che ancora teneva dietro la schiena, ma – si accorse presto Gérard – non erano più legate. Non solo! Il Topo era stato abbastanza abile e scaltro da riuscire a non far cadere la corda, infilandola in una manica, in modo che il soldato dietro di loro non la vedesse a terra sul sentiero e dunque non s’insospettisse. Gérard aveva scelto, nella vita, la strada opposta rispetto alla sua, ma non poté fare a meno di provare un moto di ammirazione e di orgoglio; cercò però ovviamente di non dare alcun segno di aver notato qualcosa d’insolito, e si concentrò sul mantenere la propria andatura esattamente com’era stata prima di accorgersi del fatto che, tutto sommato, potesse forse esserci una scappatoia. Finse tanto bene che Philippe non era del tutto certo che si fosse accorto del fatto che si fosse liberato nonostante il segnale, ma fu costretto ad avere fede, e perlomeno quest’ultima non gli mancava.

Gaston era certo di avere una possibilità ed una soltanto: non sapeva quali direttive i soldati avessero ricevuto da Roma, sempre ammesso che – come sospettava – venissero da lì, e non sapeva dunque se avessero il permesso di ucciderlo in caso di tentata fuga; l’esperienza accumulata come fuggitivo non gli consentiva di escludero. Anche qualora si fossero limitati ad acciuffarlo, ad ogni modo, lo avrebbero nuovamente legato, questa volta in maniera ben più accurata, e dunque fuggire sarebbe diventato impossibile. Doveva sperare in un momento perfetto, e il momento perfetto sarebbe stato dato dal paesaggio perfetto: non poteva sperare di fuggire lungo il sentiero, ma solo di far perdere le proprie tracce fra la vegetazione, e perché questo fosse possibile doveva attendere un tratto di strada che non avesse rovi e spine come barriera naturale a costeggiarlo. Ripeté il segnale per il fratello aprendo e chiudendo le mani ripetutamente e velocemente in altre due occasioni prima che la possibilità si presentasse. Si rendeva conto del fatto che per Gérard, con le mani certamente ancora legate, sarebbe stato ben più difficile, ma c’era il serio rischio che i due soldati intendessero portarli direttamente al proprio accampamento, senza soste di alcun tipo, e in tal caso non poteva sperare di avere modo di slegarlo prima di tentare la fuga. Doveva agire il prima possibile.

Il suono ritmico dei passi – suoi, della guardia davanti a lui e del fratello seguito dal soldato nemico – sembrava essere destinato a perforargli il cranio, ma di tanto in tanto il suono di qualche ciottolo accidentalmente calciato interrompeva la monotonia, aiutandolo a rimanere presente a se stesso.

Dopo un tempo che sembrò infinito, finalmente, il sentiero si allargò rapidamente e la vegetazione si fece meno fitta, nonché meno ostile alla fuga. Philippe si domandò se non fosse il caso di cercare di distrarre l’attenzione delle guardie in qualche modo, ma poi concluse fra sé e sé che la sorpresa potesse essere la sua migliore alleata. Ripeté il gesto di avvertimento per il fratello, stavolta più lentamente e con più forza, sperando che lui notasse la differenza e capisse che intendesse agire subito. Improvvisamente scattò verso sinistra, correndo più veloce del vento nonostante il dolore ai piedi, dirigendosi verso il bosco leggermente in discesa rispetto al sentiero. La guardia dietro di loro per un attimo rimase impietrita dall’incredulità; ebbe appena il tempo di capire cosa stesse succedendo e di scoccare un dardo che subito Gérard fu dietro a Philippe, sebbene molto rallentato dal fatto di avere le mani legate dietro alla schiena. La seconda guardia si voltò e fu molto più veloce della prima, colpendo Gérard a un polpaccio e facendolo cadere, senza che potesse neppure ripararsi il viso nella caduta, mentre il Topo si dava alla macchia.

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Capitolo 13
*** La Talpa ***


Navarre era un uomo intelligente; troppo intelligente per credere a quanto le cose fossero filate – relativamente – lisce fino a quel punto, perlomeno dalla morte del Vescovo in poi. Certo, era stato temuto e odiato ad Aguillon, com’era ben prevedibile che accadesse trattandosi di un uomo crudele e spietato, e non avendo di fondo altra legge al di fuori del proprio egoismo malato. D’altra parte però, persino ogni eresiarca di cui il cavaliere avesse mai udito notizia aveva sempre trovato almeno qualche discepolo, e il Vescovo – per quanto umanamente deplorevole – aveva governato su Aguillon per più di una decade; il suo potere non avrebbe potuto risultare tanto duraturo nonostante tutte le angherie da lui inferte al popolo se perlomeno fra le sue schiere non vi fosse stato qualcuno di autenticamente fedele; fedele di una fedeltà che andasse ben oltre quella che lui stesso era stato costretto a mostrargli in nome dell’alleanza fra la propria famiglia e la Santa Madre Chiesa, simboleggiata da una delle gemme che tanto orgogliosamente portava incastonate nell’elsa della propria spada. A proposito della spada ereditata da suo padre: Etienne finalmente aveva potuto portarla dal miglior fabbro di Aguillon insieme a uno smeraldo, scelto congiuntamente da lui e Isabeau, perché potesse venire anch’esso incastonato nell’elsa, simboleggiando la loro vittoria sul Vescovo e la loro speranza, che mai gli era riuscito di distruggere. Lei non aveva perso l’occasione per prendersi bonariamente gioco del consorte, a causa della cui testardaggine – aizzata dall’ostilità nei confronti d’Imperius – avevano rischiato di mandare all’aria l’unica possibilità di salvezza. Lui aveva reagito in un modo che appena qualche settimana prima non avrebbe mai creduto possibile: aveva riso. Aveva riso di quei momenti in cui aveva temuto che tutto fosse perduto, per lui e per la sua amata; aveva riso perché adesso poteva permetterselo.

Poteva permetterselo davvero però?

La signora di Aguillon dormiva con la testa poggiata al suo petto, col respiro profondo tipico di chi indulge in un sonno tranquillo, mentre lui le accarezzava i capelli biondi, ancora troppo corti, che aveva temuto di non rivedere mai più, sostituiti dalle piume che per due anni l’avevano ricoperta durante le ore diurne, quando guardava il mondo attraverso i suoi occhi di falco. Forse sì, poteva permetterselo, considerando il fatto che – contro ogni aspettativa – fosse finalmente tornato a stringere fra le braccia la sua amata nella forma originale e autentica. D’altro canto però era un suo preciso dovere proteggere quel che con tanta fatica e dopo tanto dolore avevano riconquistato.

Non era solo la logica del potere, e neppure solo la paura, a dirgli di doversi guardare da qualcuno alla sua corte. Ci doveva essere qualcosa, un dettaglio sfuggitogli durante il giorno, che però si era depositato sul fondo della sua mente e adesso tornava a tormentarlo. Qualcuno, in maniera sottile, si era tradito, e lui era stato troppo preso dalla felicità appena ritrovata e dalle sue nuove responsabilità per reagire immediatamente, ma non abbastanza sprovveduto perché la cosa gli scivolasse completamente addosso.
Isabeau – nel sonno – per un attimo trattenne il respiro, forse sognava. Lui abbassò lo sguardo su di lei cercando di non muoversi troppo, in modo da non svegliarla, e lei subito riprese a respirare profondamente. Lui cercò di rilassarsi, comprensibilmente colto dal dubbio che le sue tensioni potessero turbare i sogni della sua sposa. Strinse le labbra cercando ancora disperatamente quel dettaglio, da cui poteva dipendere la loro sorte, perso da qualche parte nei meandri della sua mente.

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Capitolo 14
*** Non Come Giona ***


Philippe era al riparo già da un po’, non avrebbe saputo dire se da ore o minuti; persino la capacità di indovinare il trascorrere del tempo guardando il cielo, che aveva guadagnato verso la fine del periodo trascorso con Isabeau e Navarre prima dello scioglimento della maledizione, sembrava rifiutarsi di venirgli in soccorso. Panico era ciò che provava; panico e senso di colpa.

Certo, era riuscito a fuggire, ma Gérard, appena ritrovato, era già perduto fra le grinfie del nemico. Era quella che Imperius gli aveva insegnato venisse definita una “vittoria di porro”, o “di Pirro”, non ricordava, ma di fatto: una vittoria dal costo talmente alto da avere il sapore di una sconfitta.

Ma Gérard era poi davvero perduto?

Forse avrebbe dovuto aver fede: dopo tutto era riuscito a evadere dalle prigioni di Aguillon, traguardo che non aveva avuto precedenti, o almeno questo era quanto il Vescovo aveva sempre voluto far credere a tutti. Il suo povero cuore di topo, tuttavia, non voleva saperne di smettere di battere all’impazzata, e pur riconoscendo le proprie fortune, non riusciva in alcun modo a scovare traccia d’autentico ottimismo sotto alla paura che lo pervadeva, e che sembrava aumentare col passare del tempo invece d’attenuarsi. Era lieto di trovarsi in mezzo al bosco, non solo perché lo nascondeva allo sguardo del nemico, ma perché aveva l’impressione che le fronde e i cespugli potessero attutire il suono del suo battito cardiaco fuori controllo. Avrebbe voluto guardare il cielo,  ma la fitta vegetazione glielo impediva; pur essendo pieno giorno – a causa delle fronde che tanto strettamente s’intrecciavano sopra la sua testa – fra gli alberi era quasi buio. Gli angoli della bocca gli si piegarono in giù e a stento riuscì a trattenere le lacrime mentre con un filo di voce mormorava: “Signore, non mi hai abbandonato; vero? Il tuo servitore, Philippe, non ha mai avuto tanto bisogno di te. Sono sicuro, Signore, che non mi avresti mai fatto incontrare il mio perduto fratello, di cui neppure avevo serbato memoria, solo per farmelo perdere subito dopo. Ma allora, Signore, qual è il tuo piano?”.

Terminò facendo fatica a non singhiozzare. Forse la cosa più sensata sarebbe stata tornare ad Aguillon e chiedere aiuto, ma nella mente già vedeva l’espressione severa di Navarre e quella preoccupata di Isabeau: lui e Gérard erano partiti per aiutarli, invece adesso si sarebbero trasformati in un nuovo grattacapo, un’altra vita da salvare, come se i civili di Aguillon non fossero già una responsabilità sufficientemente gravosa. C’era poi un altro problema, ben più grave: rischiava di non fare in tempo, di arrivare ad Aguillon con suo fratello già appeso alla forca. Considerando questa possibilità, la sola idea di allontanarsi ulteriormente da lui, seppur per andare a chiedere aiuto, lo faceva sentire come se una bestia gli avesse strappato il cuore e l’avesse inghiottito.

Da qui cominciò a pensare al profeta Giona: inghiottito per tre giorni e tre notti da una balena come risultato della tentata fuga da ciò che il Signore gli aveva ordinato di fare. Esattamente così sarebbe stato anche col suo cuore se fosse fuggito da quel che implicitamente Dio si aspettava che lui facesse.

Doveva trovare il modo di liberare Gérard, presto, e dunque da solo.

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Capitolo 15
*** La Confessione ***


Isabeau si pulì l’angolo della bocca con il polsino del vestito, poi subito se ne pentì vedendo la macchia marroncina rimasta sul tessuto bianco. Sospirò sconsolata coprendosi il volto con una mano.
“Non ne faccio una giusta” mormorò fra sé e sé.
Le regole della vita di corte le erano sempre andate un po’ strette da ragazzina; forse nel petto aveva sin da allora covato quello spirito bonariamente ribelle che in seguito le avrebbe causato tanti guai, ma che ciononostante benediva, poiché l’era valso anche l’amore di Navarre. Mai però avrebbe immaginato, neppure allora, neppure quando la voce pacata ma ferma della madre le ricordava come una nobildonna si sarebbe dovuta comportare e per tutta risposta lei sbuffava, quanto facile potesse essere perdere certe abitudini.
Ricordava tanto nitidamente quanto quella appena trascorsa la tragica notte di due anni prima in cui, appena qualche settimana dopo la celebrazione in gran segreto del matrimonio con Navarre, si era svegliata, nuda, con un lupo dal manto nero stretto al petto. Fuori infuriava la tempesta, proprio come la notte in cui Cezar, di recente, era venuto a dar loro la caccia, senza sapere che quella sarebbe stata la sua ultima battuta, e che a rimetterci la pelle sarebbe stato lui e lui soltanto. Isabeau non aveva avuto paura, neppure per un secondo, non del lupo perlomeno. Lo aveva accarezzato in cuor proprio già assurdamente sapendo cosa fosse accaduto, ma chiamando il nome di Navarre come per mantenere una certa dignità difronte a se stessa, rendendosi conto della follia della realtà che le si parava davanti ma non volendo cedervi. Il modesto riparo era scosso dal vento e battuto dall’acqua, ma quelli erano gli unici suoni udibili. Niente dava ad intendere la presenza di qualcun altro. Al suo chiamare, il lupo si era destato, guardandola negli occhi ed emettendo un basso ringhio che non aveva nulla di minaccioso, ma quasi ricordava le fusa di un gatto. Gli occhi le si erano riempiti di lacrime e anche allora si era coperta il volto con una mano, proprio come stava facendo adesso, in quel mattino dal cielo terso, col sole sorto da poco, che nulla aveva a vedere con quella tempesta, ma che non la stava stravolgendo meno di quanto non avesse fatto quella notte.
“Va’ a chiamare padre Imperius” disse all’ancella al suo fianco con tono gentile ma fermo, forse più per non dover ulteriormente sopportare il peso del suo sguardo preoccupato che per reale volontà di parlare col monaco.
L’ancella fortunatamente obbedì senza proferire parola. La sua signora ne fu lieta: non amava imporsi con eccessiva autorità, ma esausta com’era davvero non avrebbe avuto la forza di affrontare una discussione, anche la più blanda, proprio in quel momento, ed era appena l’inizio della giornata.
Seduta sul giaciglio suo e di Navarre si guardò intorno, accarezzando con lo sguardo quella che era diventata la loro camera da letto, ancora sorprendentemente spoglia considerando il loro nuovo rango in Aguillon, ma in verità non c’era stato tempo per pensare all’arredamento: il Vescovo aveva fatto troppi danni accumulando ingiustizie su ingiustizie, a cui loro adesso dovevano rimediare; non era sempre facile districare fatti e dicerie per trovare il bandolo della matassa e scoprire a chi spettasse cosa e chi avesse originariamente fatto torto a chi; per giunta poi c’era stato il sogno d’Imperius ad avvisarli dell’imminente pericolo. Ancora non sapeva quanto imminente, ma ora dopo ora il fatto che Philippe ancora non fosse tornato dal suo viaggio d’ispezione la rendeva sempre più nervosa.
Nonostante tutto amava quella stanza e amava il fatto, se ne rendeva conto, che giorno dopo giorno avvertiva la malefica energia del Vescovo dissiparsi per fare spazio alla propria e a quella di Etienne. Poco le importava dell’arredamento: quel che le interessava era avere un posto sicuro dove passare insieme i pochi, pochissimi momenti di veglia in cui non fossero sommersi dagl’impegni.
Il suono di qualcuno che bussava alla porta in maniera fin troppo decisa la fece sussultare. Doveva trattarsi della mano tozza d’Imperius.
“Avanti” disse lei con voce più debole di quanto non avrebbe voluto.
La porta si aprì e il Monaco si fece avanti rivolgendole un cenno del capo pieno di riverenza mentre si accingeva ad avvicinarsi.
“Chiudete la porta, per favore”.
Isabeau udì quelle parole come se non fosse stata lei a pronunciarle; si sentiva soffocare nonostante la frizzante aria del mattino. Alla sua richiesta lo sguardo del monaco si fece serio, ma non disse nulla, si limitò a grugnire bonariamente in segno di assenso. Chiuse la porta e poi si voltò a guardare la dama, non sapendo bene cosa aspettarsi, ma essendo assolutamente certo del fatto che ci fossero ulteriori guai all’orizzonte.
Isabeau, con i grandi occhi azzurri pieni di lacrime che a stento riusciva a trattenere, poso una mano accanto a sé sul morbido copriletto, facendo segno a Imperius di sedersi vicino a lei. Lui, goffamente obbedì e per un attimo, con la bocca semiaperta, la fissò indeciso sul da farsi: non sapeva se porle delle domande o aspettare che fosse lei a parlare.
“Ho bisogno che mi confessiate, padre” dichiarò infine lei, continuando a sforzarsi di trattenersi dal piangere.
“Qui?”domandò lui sorpreso.
Lei annui con un cenno del capo. “Questa volta però il segreto della confessione dovrà rimanere tale” lo pregò con un filo di voce.
“Certo figliola” rispose lui con ruvida gentilezza, ancora non essendo davvero riuscito a perdonarsi i guai che la sua mancanza di riservatezza aveva in precedenza causato alla coppia, e che probabilmente ancora non erano finiti. Si segnò e pronunciò la formula con cui sempre iniziava il rituale della confessione.
Isabeau però non riuscì minimamente ad essere altrettanto formale. Scoppiò in lacrime e gli si gettò al collo.
“Che succede, figlia mia?” chiese lui stringendola, troppo sorpreso e preoccupato per dare spazio all’imbarazzo che pure era presente.
“Aspetto un figlio da Navarre” disse lei fra i singhiozzi.
Lui sgranò gli occhi e posandole le mani sulle spalle l’allontanò un poco con dolcezza in modo da poterla guardare negli occhi. “Ma questa è una benedizione!” rispose cercando di non piangere a sua volta; le sue sarebbero state però lacrime di gioia “Lo hai già detto a Etienne?”.
Lei scosse la testa “Non posso dargli anche questo di cui preoccuparsi, col nemico alle porte” spiegò mentre il suo respiro si faceva un po’ più regolare e la voce un po’ più stabile.
Il monaco sospirò e l’accolse nuovamente fra le braccia, col cuore colmo di gioia ma pesante come un macigno.

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Capitolo 16
*** Quando il Gatto Non C’È… ***


“A che punto ci si può considerare davvero spacciati?”

Questo continuava a domandarsi Gérard, il Gatto, mentre i soldati inviati dal Vaticano lo forzavano alla marcia. Era molto più bravo di suo fratello a dissimulare la paura; così era stato sin da quando erano bambini, ma allora aveva pensato che fosse a causa dei suoi anni in più. Adesso che con l’età la differenza cominciava a parere irrisoria, vedeva bene come invece lui e Philippe fossero diversi per natura. Differenza poi sicuramente accresciuta dal modo in cui avevano trascorso gli ultimi anni. Aveva seguito a distanza, per quanto possibile, le mirabolanti avventure del Topo. Aveva nascosto con maestria il moto d’orgoglio quando gli era giunta voce dalle altre guardie di come fosse miracolosamente evaso dalle prigioni di Aguillon e di come anche dopo, quando era stato riconosciuto, fosse riuscito a svignarsela. Certo, era stato aiutato dal capitan Navarre, ma quel ragazzo aveva del talento; soprattutto aveva imparato a trarre vantaggio dalla propria natura sommessa, a far udire la propria voce molto più come uno squittio che come un ruggito. In breve aveva fatto delle sue debolezze una forza e questo probabilmente gli era valso la pelle. Lui, d’altro canto, fra i soldati aveva imparato a dissimulare e a scattare al momento più adatto ad afferrare ciò che voleva, e questo faceva adesso: dissimulava. Quanto allo scatto però, visto l’andazzo, cominciava davvero a temere che l’occasione non arrivasse mai.

All’inizio, appena dopo la fuga di Philippe, i due militari avevano considerato l’idea di andare a cercarlo, ma ben presto si erano resi conto del fatto che l’impresa fosse impossibile, e che per giunta rischiasse di costare loro anche “il traditore” che sicuramente, seppur ferito, avrebbe trovato il modo di darsela a gambe; dopo tutto era pur sempre un uomo d’armi.

Quella conversazione l’aveva fatto rabbrividire per due motivi: da un lato si rendeva conto solo adesso per la prima volta che, pur avendo il Vaticano chiuso gli occhi davanti alla crudeltà del Vescovo decidendo di allontanarlo, egli rimaneva la guida da esso preposta per Aguillon, e che dunque spodestarla o aiutare chi l’aveva spodestata fosse considerato un tradimento a tutti gli effetti; dall’altro – pur ammettendo le sue probabili abilità – gli uomini inviati dal papa parlavano di lui come se non fosse presente, e questo in qualche modo gli dava la sensazione di essere già morto, di star già penzolando dalla forca.

Adesso camminava con una guardia davanti a lui e l’altra dietro, lungo un tratto polveroso e scosceso. La vegetazione era parsa ritrarsi dal loro cammino, e la terra sollevata dai suoi passi gli sembrava appiccicarsi alla ferita al polpaccio, provocandogli un immenso dolore. Sempre parlando fra loro come se lui non fosse stato presente, i suoi carcerieri avevano infatti deciso – dopo aver inizialmente tamponato la ferita per non farlo morire dissanguato e avendola poi fasciata alla bell’e meglio – di non curarsi troppo della sua condizione, né di rallentare eccessivamente, proprio perché il dolore facesse da terzo guardiano e gl’impedisse di fuggire. Come se tutto il resto non bastasse, le zanzare avevano preso ad avventarsi su di lui, attratte dal sangue. A breve comunque si sarebbero necessariamente dovuti fermare, poiché il sole stava ormai tramontando. Non era ben certo di dove però, visto che il territorio intorno a loro non pareva offrire altro che terra, polvere, rocce e insetti molesti. Forse i soldati erano a conoscenza di una qualche caverna o insenatura nella roccia dove potersi riparare; se non per amor suo prima o poi si sarebbero dovuti fermare a riposare perlomeno per amor proprio.

Non osò fiatare per timore che s’inasprissero ulteriormente nei suoi confronti, magari smettendo di limitarsi ad ignorare le sue necessità di ferito e cominciando ad andarvi contro di proposito, ma col trascorrere del tempo, oltre ad essere sempre più sofferente e stanco (era piuttosto certo di avere la febbre, pessimo segno) andava crescendo la sua perplessità riguardo al fatto che non si stessero fermando. Ormai la luna era ben visibile in cielo pur non essendosi le ultime luci del tramonto ancora spente. Poi una svolta brusca oltre un masso gigantesco fu sufficiente a spiegargli tutto. Lo vide in lontananza come un dragone dormiente: l’accampamento nemico, con le tende che in quella luce parevano tendere ad un viola scuro, e le torce che andavano accendendosi, come se persino nel sonno si preparasse a sputar fuoco.

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Capitolo 17
*** L’Incubo di Navarre ***


Un ringhio appena udibile vibrava fra le fauci del lupo, aperte quel tanto che bastava a mostrare i canini. La luna piena riversava sulla radura una luce che, attraverso la foschia, risultava spettrale. Il Vescovo stava in piedi, nella sua tunica bianca dagli sfarzosi ricami dorati, il copricapo che brillava come una corona. Reggeva lo scettro a forma di croce: perché questo era, non una croce che portava con sé, utilizzata come scettro, bensì un simbolo di potere sotto le mentite spoglie di uno religioso, giacché la fede aveva sempre ricoperto il ruolo di mera scusante per giustificare le sue angherie. Navarre non ricordava di averlo mai visto senza; il lupo, d’altro canto, viveva di pensieri e ricordi assai meno articolati, e forse talvolta proprio per questo aveva le idee ben più chiare. Odiava quella figura, la odiava con tutto se stesso.

Il ringhio esplose in un suono ancora gutturale ma ben più violento mentre gli si lanciava finalmente contro, già assaporando il suo sangue e già godendo del senso di libertà che avrebbe provato nel veder soccombere quell’essere spregevole.

Fu un attimo: il Vescovo era riuscito in un baleno a sguainare la lama nascosta all’estremità inferiore dello scettro e il lupo vi si era scagliato contro. Trafitto, guaiva adesso come un cane bastonato, mentre con un sorriso appena accennato l’uomo ritraeva l’arma, senza però distogliere lo sguardo dall’animale ferito.

“Ebbene Navarre” domandò con il solito tono implicitamente carico di sdegno “credevi davvero di poterti liberare di me e della maledizione con cui Dio in persona ha scelto di lasciare che veniste puniti? Ricorda bene le mie parole: neppure le generazioni a venire troveranno riparo da essa”.

 

Navarre si svegliò di soprassalto, disperatamente alla ricerca d’aria. In un attimo, guardandosi intorno e ritrovandosi nella propria dimora ad Aguillon, si rese conto di aver solo avuto un tremendo incubo. Abbassò lo sguardo e vide che si era portato una mano al petto, nel punto in cui nel sogno era stato trafitto. Isabeau, al suo fianco, sussultò un paio di volte ma non si destò.

“Meglio così” pensò Etienne, adesso sospirando di sollievo, ma essendo certo in cuor proprio che tutto ciò dovesse avere un significato.

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Capitolo 18
*** … I Topi Ballano ***


Quando finalmente arrivarono all’accampamento Gérard faceva ormai una gran fatica non solo a camminare, ma persino a tenere aperti gli occhi. Di tanto in tanto si riaveva e li sbarrava; in quei frangenti, prima che tutto tornasse ad essere indistinto e appannato, i colori gli apparivano più vividi del normale, e le tende sembravano davvero viola, forse perché traevano riflessi dal rosso del fuoco e dal blu scuro del cielo, o forse semplicemente perché la morsa della febbre sulla sua mente si stava facendo sempre più forte. Sentiva perfettamente quel che le guardie che l’avevano catturato stavano dicendo e capiva il senso delle singole parole, ma non riusciva a metterle insieme per comprenderne il senso complessivo; la parte di lui che cercava di rimanere ancorata alla lucidità era perfettamente cosciente del fatto che ciò fosse assai negativo, perché tanto quanto qualche informazione in più avrebbe potuto salvargliela, qualche informazione in meno sarebbe potuta costargli la vita. Tuttavia, semplicemente, gli mancavano le forze. Come in un sogno si vide prima le sbarre, poi le mura e un lurido giaciglio avvicinarsi, come se fossero questi a muoversi e non lui a camminare. Lo gettarono in cella senza troppi complimenti, ma poi gli diedero una coperta e dell’acqua: sudava, rabbrividiva e nessuno voleva veder morire l’unico che potesse dare loro informazioni su cosa accadesse fra le mura di Aguillon prima che venisse interrogato. Sempre che davvero ci fosse tempo per interrogarlo.

 

Philippe, sfidando la fortuna in maniera sfacciata persino per lui, era incredibilmente riuscito a intrufolarsi nell’accampamento: aveva seguito il fratello e i suoi carcerieri costeggiando il sentiero a debita distanza laddove la vegetazione poteva nasconderlo, rimanendo sul sentiero ma molto indietro laddove invece non c’erano rami, foglie e ombre dietro cui ripararsi. Durante uno dei tratti in cui alberi e cespugli gli avevano offerto copertura, la dea bendata gli aveva sorriso ed era riuscito a “prendere in prestito” una coperta lasciata stesa ad asciugare fuori da quella che probabilmente era la capanna di un cacciatore. Fuori dall’accampamento, svariate ore dopo il tramonto, una delegazione di monaci esausti era giunta probabilmente su ordine del Vaticano stesso; lui si era gettato addosso la coperta accodandosi a essa e il soldato di guardia, che mai l’avrebbe ammesso ma sonnecchiava fino a un attimo prima dell’arrivo degli uomini di chiesa, si era ritrovato con gli occhi troppo appannati per rendersi conto del fatto che quello indossato dal Topo non fosse propriamente un saio. Abbandonando il gruppo appena dopo l’ingresso, esso stesso non si accorse di avergli funto da lasciapassare.

“Bene Gaston” pensò “adesso devi solo trovare tuo fratello e portarlo via… Un gioco da ragazzi!” si disse cercando disperatamente di farsi coraggio.

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Capitolo 19
*** La Palizzata ***


“Te lo dico io!” sbottò un soldato ubriaco biascicando e gettando qualcosa nel fuoco, facendolo scoppiettare “La caduta di Aguillon nelle mani dei traditori non è cominciata col ritorno di Navarre, ma con la fuga di Gaston!”.
Philippe, che proprio in quel momento si era ritrovato a passare vicino a quella tenda, deglutì rumorosamente; per fortuna il soldato era però molto più rumoroso di lui.
Il ragazzo che gli sedeva accanto, ben più giovane e probabilmente alla sua prima missione, gli strinse il braccio, timoroso che il compagno venisse udito dal capitano. Leroy aveva dovuto acconsentire al fatto che il vino facesse parte delle provviste perché negarlo avrebbe generato un eccessivo malcontento fra i suoi uomini, tuttavia era ben noto che detestasse gli ubriaconi. Detestava tutto ciò che non era ordine e controllo, a quanto si diceva: questo aveva colto il Topo aggirandosi fra le tende con le mani infilate nelle maniche e un cappuccio tirato sulla testa, giacché nel frattempo era riuscito a sbarazzarsi della coperta e a procurarsi un vero saio. Le informazioni che gli giungevano purtroppo non lo rincuoravano: non solo gli abitanti di Aguillon venivano adesso ritenuti traditori, ma a riprendere la città era stato inviato un manipolo di uomini guidati da Leroy, il fratello di Marquet, che dunque oltre al dovere aveva probabilmente come motivazione la sete di vendetta. Ciò era male, molto male: quel fuoco, che non appartenendogli non comprendeva interamente, in particolare in chi per ruolo aveva come priorità l’onore, poteva talvolta provocare immensi danni. Non si sarebbe voluto ritrovare a intralciare la strada di un uomo d’armi pronto persino ad autodistruggersi pur di vendicare la morte di un membro della propria famiglia. Con un tremito si domandò se Leroy fosse venuto a sapere di lui, del fatto che – quando avevano cercato di riacciuffarlo – aveva ferito Marquet al volto. Certo, era stato per sbaglio, e nonostante egli fosse stato il suo carceriere tuttora ripensandoci veniva colto da un certo senso d’inadeguatezza, quasi di vergogna, ma era sicuro del fatto che – se Leroy somigliava anche solo vagamente a Marquet – qualora fosse finito nelle sue grinfie non gli sarebbe importato di nulla di tutto questo. Il suo cuore quasi si fermò mentre un’idea gli si affacciava alla mente: e se Leroy avesse saputo che Gérard altri non fosse che il sangue del sangue di Philippe Gaston? Inspirò profondamente smettendo di camminare per un istante, poi però il suo istinto di ladro prese il sopravvento: non doveva dare nell’occhio; non poteva. Ne andava letteralmente della vita sua e di Gérard.
Naturalmente non poteva sapere dove fosse tenuto prigioniero il fratello, ma nella vita aveva trascorso abbastanza tempo in prigionia da aver compreso a grandi linee la mentalità dei carcerieri: in qualunque modo lo stessero trattenendo, era probabile che fosse tenuto in custodia al centro dell’accampamento, in modo che le possibilità di fuga rasentassero lo zero. L’accampamento non era poi così esteso: Roma non era stata evidentemente disposta a dispiegare grandi forze per quel poco che Aguillon poteva rendere; pareva tuttavia assai organizzato. Solo una volta arrivato a destinazione si rese però conto, con sgomento, di quanto: si era aspettato di dover entrare in una tenda con a una o due guardie a piantonarla; si trovava invece davanti a una sorta di fortino costruito in legno in fretta e furia, con pali acuminati a circondarlo. Due guardie davanti alla porta, più altre due per ogni lato della palizzata: sei in tutto. Avrebbe voluto potersi raccontare che forse Gérard non fosse tenuto prigioniero proprio lì, ma grazie all’udito fine e al silenzio che regnava intorno alla piccola prigione, pur tenendosi a distanza, riuscì distintamente a sentire uno dei due uomini davanti all’ingresso farsi beffe di come “il traditore”, in preda alla febbre, non smettesse di piagnucolare chiedendo di un certo Philippe, alludendo al fatto che potesse trattarsi del suo segreto amante.
Il cuore gli si strinse: come se l’impresa di tirare fuori da lì suo fratello nonostante le difese e la stretta sorveglianza non fosse già stata sufficientemente ardua, adesso veniva a sapere di doverlo fare alla svelta a causa delle sue condizioni di salute. Cercò d’immaginare di riuscire a portare via da lì il ragazzo, a quanto dicevano delirante, e cercò d’immaginare un lieto fine, ma non vi riuscì.

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Capitolo 20
*** La Serpe in Seno ***


Era un monaco, un monaco semplice, un monaco come tanti, eppure si era scoperto unico in una maniera che l’aveva lasciato sgomento: unico in questo caso significava solo; il solo a essersi rivelato realmente fedele al Vescovo. Le sue dita nodose si strinsero al davanzale della finestra a cui era affacciato mentre osservava le prime luci rossastre del tramonto, riflettendo su quelle che riteneva le proprie vere colpe: ancora la sua coscienza faticava a buttar giù l’amaro boccone di aver dovuto definire Sua Grazia un uomo corrotto. Aveva dovuto pronunciare tale menzogna nel rassicurare Navarre in merito al fatto che tutti fossero dalla sua parte. L’aveva fatto in nome di un bene superiore.

Il Vescovo era appena stato assassinato, l’intera Aguillon si era rivelata sostenitrice di quella coppia d’immorali e vili traditori; aveva dunque pensato di fingersi parte di quella collettiva follia per poterlo poi vendicare. Alla sua età, e avendo passato la vita intera fra preghiera e libri di teologia, senza avere alcuna conoscenza approfondita riguardo alle proprietà delle erbe, era impensabile per lui poter sconfiggere l’usurpatore in maniera diretta. Quel che poteva fare era aprire un canale di comunicazione con Roma, ed era quel che aveva fatto. Durante una visita da parte di un gruppo di confratelli, aveva affidato alle mani di un amico di vecchissima data, con cui aveva condiviso gli anni in seminario, un messaggio da far arrivare sino ai vertici della Santa Madre Chiesa. Era certo del fatto che la voce che il legittimo sovrano di Aguillon fosse stato spodestato fosse già giunta sin lì, ma voleva che arrivassero anche  i dettagli: informazioni riguardo a di quanti soldati, e di quante provviste la città disponesse. Naturalmente si era anche premurato di specificare la propria identità, in modo che – come Lot il giusto da Sodoma e Gomorra – potesse essere salvato nel giorno in cui la meritata punizione si fosse abbattuta sull’indegna città.

Dalla partenza del monaco divenuto messaggero aveva atteso una risposta. L’aveva attesa mettendosi alla ricerca di segni inviati dal Cielo, ma l’aveva attesa anche in senso più concreto, sotto forma di sussurro o di una nota fatta scivolare nella sua tasca da un viandante, ma comprendeva che in una situazione del genere la discrezione significasse tutto.  Nel caso in cui il suo messaggio fosse arrivato a destinazione, avrebbe dato a chiunque fosse incaricato di riprendere Aguillon un notevole vantaggio, vantaggio che di certo egli non avrebbe voluto far scoprire ai nemici fino all’ultimo istante possibile. Il problema era che, dopo tanto tempo, aveva cominciato a domandarsi se fosse davvero mai giunto a destinazione, poiché non ne aveva ancora avuto alcuna conferma.

Nutriva tuttavia un timore ben peggiore: che ci fosse stata una risposta da parte di Roma, ma che qualcuno l’avesse intercettata. Era naturale che Navarre volesse conoscere i nuovi membri della guardia, subentrati dopo la sua fuga con D’Anjou, e accertarsi sia della loro fedeltà che delle loro capacità, tuttavia negli ultimi giorni aveva avvertito un fermento di diverso tipo. Quando aveva incrociato l’usurpatore gli era persino sembrato che si guardasse intorno con del sospetto, come se sapesse che qualcuno all’interno delle mura non fosse dalla sua parte. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente rivolgendo a Dio i propri pensieri, domandando un segno. Quando li riaprì, contro le nuvole porpora, gli parve d’intravedere un volatile diretto proprio verso la sua finestra. Che si trattasse della risposta tanto attesa?

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Capitolo 21
*** E Ancora Non Sai ***


La visiera alzata dell’elmo di Navarre trasse un riflesso dal sole del mattino che splendeva nel cielo terso. Il sovrano di Aguillon e capitano della guardia, a cavallo di Golia, sfilò davanti ai suoi fidati soldati, perlopiù impettiti. Etienne torse la bocca cercando di nascondere un sorriso divertito passando davanti a un giovane tremante e rosso in volto che, preso dall’ansia di fare bella figura con lui, doveva essersi dimenticato di respirare. Il profumo dell’erba schiacciata dagli zoccoli del suo destriero gli solleticava le narici; a non troppa distanza Isabeau, coperta da un pesante mantello nero col cappuccio tirato su, lo osservava con complicità, avendo colto il suo divertimento davanti all’atteggiamento impacciato di quel giovane senza esperienza. Se la probabilità di ritrovarsi il nemico alle porte non fosse stata tanto concreta, in quel mattino dall’aria frizzante si sarebbe sentito perfettamente felice. Era la fine dell’esercitazione ed era piuttosto soddisfatto. Anche il soldato paonazzo, al di là di qualche errore causato dal nervosismo, si era rivelato all’altezza della situazione, senza dubbio volenteroso di dimostrare il proprio valore. Sarebbe stato curioso di osservare l’esercitazione di Gérard, che gli era arrivata voce venisse chiamato “Gatto” proprio per le sue movenze feline, ma di certo il fatto che Philippe avesse al proprio fianco un compagno di viaggio abile e capace veniva prima della sua curiosità. A tal proposito cominciava a preoccuparsi: non un messaggio dopo giorni. Non conosceva Gérard, ma Philippe era più cauto di così. Forse qualcosa era davvero andato storto. Diede l’ordine di rompere le file, segretamente sperando che la cosa lo aiutasse anche a spazzare via le proprie preoccupazioni.

Isabeau si avvicinò a Navarre che smontava da cavallo con passi rapidi ma silenziosi. Gli anni passati di notte nella foresta erano ormai alle spalle, ma avevano lasciato su di lei, nei suoi comportamenti, dei segni destinati a non scomparire mai. Lui alzò un sopracciglio intuendo che lei avesse qualcosa in particolare da dirgli: lo vedeva dalla luce che le scintillava negli occhi.

“Molti anni fa mio padre m’insegnò a tirare con l’arco. Ero piuttosto brava!” disse non riuscendo a nascondere una punta d’orgoglio “Voglio che mi aiuti a riprendere”.

Lui inspirò profondamente e aprì la bocca per protestate ma lei lo anticipò “Potrebbe tornarci davvero utile, e lo sai”.

Lui strinse le labbra per un attimo. Gli bastava guardarla per capire quanto fosse determinata e sapere che non gliel’avrebbe mai data vinta. “Va bene” concesse sollevando un dito in segno d’ammonizione “ma bada: questo non significa che ti permetterò mai, in caso di attacco, di stare in una qualunque postazione che non sia la più protetta in tutta Aguillon”.

Lei rise annuendo. “E ancora non sai…” pensò mentre lo prendeva per un braccio, pronta ad accompagnarlo a riportare Golia nelle scuderia.

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Capitolo 22
*** Dalle Mura ***


Imperius, da uno dei punti di vedetta lungo le mura, osservava la coppia finalmente libera dalla maledizione. Si ritrovò a pensare di essere diventato proprio un vecchio rammollito quando gli occhi gli s’inumidirono alla vista di Isabeau che prendeva per il braccio Navarre dirigendosi verso le scuderie. I crini neri di Golia luccicarono sotto il sole mentre la bestia, imponente, si muoveva con eleganza e fluidità, al solito sembrando un tutt’uno con il capitano; per un attimo il monaco rivide nella mente quello che era stato il manto nero di quest’ultimo nella sua forma di lupo, ma scacciò il pensiero. Quelle immonde e continue trasformazioni appartenevano, per grazia divina, al passato, ed era fermamente intenzionato a lasciarle lì sepolte. Senza saperlo, si ritrovò a pensare esattamente ciò che Navarre aveva pensato appena qualche istante prima, ma lo pensò sbuffando: Philippe mancava da troppo tempo, qualcosa doveva essere andato storto. Si voltò lasciandosi alle spalle i due innamorati per scrutare l’orizzonte. Imperius non credeva che Dio avesse permesso a Philippe di sfuggire al Vescovo e alle famigerate prigioni di Aguillon per farlo morire nelle mani dei soldati che con tutta probabilità il Vaticano aveva inviato a riprendere la città, ma d’altro canto non aveva la pretesa di comprendere i tortuosi sentieri della volontà del Signore. Gli era sempre sfuggito, per esempio, come avesse potuto permettere a un uomo malvagio e corrotto quanto il Vescovo di regnare in suo nome per tanti anni, ma alla fine tutto era stato rimesso in ordine dalla spada di Navarre. Adesso però quell’equilibrio era destinato a durare? E se sì, a quale prezzo? Rabbrividì riconoscendo nell’aria pungente di quel mattino un oscuro presagio un attimo prima di scorgere quel che probabilmente era un piccione viaggiatore scendere in picchiata verso il monastero. Inspirò profondamente sperando di sbagliarsi, ma una parte di lui sapeva perfettamente che le probabilità che tutti fossero stati effettivamente felici di vedere trionfare la giustizia fossero scarse, e che dunque fosse plausibile che Navarre e Isabeau avessero qualche nemico anche all’interno delle mura. Per un attimo sgranò gli occhi: se qualcuno aveva avvisato l’esercito in arrivo della spedizione di Philippe… Forse era stato scoperto, catturato e persino… No! Si rifiutava anche solo di pensarci! Ma doveva parlare con Navarre e doveva farlo al più presto. Si fece il segno della croce e si portò la mano alle labbra per poi scattare verso le scuderie in una corsa goffa, mentre uno dei soldati di guardia sulle mura lo osservava con perplessità.

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Capitolo 23
*** Il Confessore ***


Philippe era pronto; perlomeno tanto quanto poteva sperare di esserlo mai. Stava per rischiare la pelle; soprattutto ultimamente non era certo la prima volta, ma per quanto Navarre l’avesse spinto a correre rischi non aveva mai mancato di proteggerlo all’occorrenza. Qui e adesso il sovrano di Aguillon sarebbe stato completamente impotente qualora qualcuno avesse voluto fargli saltare la testa, letteralmente. No, ben più probabile che a un topo di fogna come lui venisse riservato il cappio! Deglutì rumorosamente: non si stava aiutando, e doveva sbrigarsi a percorrere la distanza fra dove se ne stava impalato e l’entrata dell’improvvisata prigione, altrimenti avrebbe attirato l’attenzione, ed era l’ultima cosa che desiderava.

“Signore, perdonami e aiutami” mormorò fra sé e sé muovendo quel primo fatale passo. Domandava perdono per l’abito monacale che indossava pur essendo ben lungi dall’aver mai preso i voti, ma era certo che Dio fosse ben disposto a comprendere la situazione di assoluta necessità, nonché il suo nobile proposito.

Si sforzò di mantenere regolare il respiro: a breve avrebbe dovuto parlare e a qualunque costo avrebbe dovuto dare l’impressione di essere sicuro di sé. Aveva un piano, c’era la possibilità che riuscisse a farla franca persino portando con sé il fratello malato e ferito, aveva preparato tutto nel minimo dettaglio durante la nottata, con grande dedizione e fatica, e di proposito agiva adesso, appena prima dell’alba e dunque del cambio di guardia, nella speranza che la stanchezza annebbiasse la mente dei soldati che piantonavano la palizzata. Da sotto il cappuccio riuscì di soppiatto a lanciare qualche occhiata senza destar sospetto: era stato abbastanza furbo da rubare degli altri vestiti lasciati fuori da una tenda perché prendessero aria, li aveva appallottolati e infilati sotto il saio, sulla schiena, in modo da dar l’impressione d’esser gobbo; in questo modo probabilmente nessun giovane uomo d’armi avrebbe osato, soprattutto credendolo un monaco, ordinargli di raddrizzarsi per mostrare il volto, e seppur rallentato dall’andamento claudicante che aveva adottato per rendere la farsa più credibile, il fatto di tenere il viso in ombra rappresentava per lui un grande vantaggio, consentendogli di osservare i dintorni senza che gli altri se ne accorgessero. La postura dei soldati che riusciva a vedere parlava chiaro: non erano sull’attenti; uno di loro, di guardia su uno dei lati della prigione, era addirittura quasi accasciato contro la lancia che aveva piantato nel terreno per poterla usare come supporto. Nessuno di loro credeva che qualcuno potesse farsi strada silenziosamente fin lì; sarebbero stati svegli, attenti e probabilmente pronti a dar la vita se avessero udito intorno rumori di battaglia, ma a chi mai sarebbe saltato in mente che il Topo fosse tanto coraggioso da tentare un’impresa come quella in cui s’era lanciato? Ancora una volta: nessuno; e proprio su questo lui avrebbe giocato.

Vedendolo arrivare, uno dei due soldati di guardia alla porta cercò di risultare composto e di darsi una parvenza di dignità. “Chi è là?” domandò con tono palesemente assonnato.

L’altro non proferì parola, ma il suo sguardo corse immediatamente verso Gaston.

“Io” rispose quest’ultimo con voce roca, credibilmente fingendosi vecchio, trascinando e rendendo tremule le vocali “sono stato il confessore di Sua Grazia il Vescovo di Aguillon!” disse simulando alla perfezione un moto di orgoglio, puntando un dito verso l’alto con fare ammonitore, ma essendo abbastanza furbo da far tremare le mani proprio come quelle di un anziano, in modo che nella luce delle torce il dettaglio della sua pelle così giovane non lo tradisse.

Il giovane soldato batté le palpebre: non era stato avvisato di nessuna visita clericale al prigioniero. “Ma io…” provò a protestare; fu però subito interrotto.

“Senti, ragazzo, sono stato convocato dal vostro capitano poiché egli ha udito che il prigioniero ha la febbre alta. Essendo” fece una pausa fingendosi affannato “in questo momento” prese di nuovo fiato “il fautore della volontà divina, colui che vi guida non può rischiare che il prigioniero muoia senza che gli sia stata offerta la possibilità di confessarsi!” scandì quest’ultima parola come fosse stata una sentenza.

Il soldato fece appena in tempo ad aprire la bocca cercando d’inserirsi nella conversazione, ma le intenzioni di Philippe erano decisamente più orientate verso il monologo, dunque incalzò nuovamente.

“Ora” riprese con un goffo gesto della mano “capisci bene che il prigioniero fugge da Aguillon e, a quanto ne sappiamo, faceva parte della guardia di Aguillon sotto il Vescovo, pertanto costui potrebbe essere a conoscenza di qualche di lui segreto. Se così fosse, io sarei la persona più indicata a raccoglierlo, sapendo già ogni cosa della vita di Sua Santità. Al tempo stesso, solo ed esclusivamente davanti al vostro capitano, sarei ben disposto a far valere il buon senso sulle regole assolute, e ad accantonare la discrezione, nel limite del giusto. Il vostro capitano conta” adesso quasi urlava “sui miei servigi. Ordunque, fammi passare, prima che quello, lì dentro, muoia, e i segreti delle difese di Aguillon muoiano con lui!”.

Il ragazzo parve ragionarvi per un attimo: si sentiva incerto ma non voleva rischiare le ire di Leroy qualora il prigioniero avesse davvero tirato le cuoia da un momento all’altro. Con il capitano davvero non c’era da scherzare.

“Sì, certo, perdonate la mia lentezza nel comprendere la vostra sacra missione” disse infine facendosi da parte per lasciarlo passare.

In quell’istante Philippe si sentì talmente incredulo e felice da rischiare quasi di dimenticarsi di rimanere nel personaggio, ma per fortuna tornò insieme un attimo prima di aprir bocca. “Che il signore ti benedica!” disse con la posticcia voce da vecchio mentre entrava zoppicando nella piccola prigione improvvisata.

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