Möge der Wind in deinem Rücken sein
-Kinderheit –
II
“Moblit?
Ehi – Moblit…? Ti ricordi di me?”
Hange ha nove
anni e mezzo, negli occhi lucidi una trama rossa simile a quello del suo
retino, e nelle orecchie i brontolii inutili di Carola Berner,
che se fossero almeno un tantino più forti, forse, potrebbero servire a
camuffare i singhiozzi di Moblit, che boccheggia a faccia in aria come uno di
quei pesci che un paio di volte hanno catturato giù al fiume, e che un paio di
volte hanno anche visto morire prima di poterli rimettere in acqua.
No,
quelli di Carola Berner sono sospiri crudeli,
cattiverie sommesse e ben piazzate, studiate nel dettaglio: sa che non sono né
abbastanza lievi da passare inascoltate, né abbastanza forti da poter
sovrastare l’eco di quei lamenti soffocati dai colpi di tosse.
Sono la
sua punizione, e le sta bene.
Ciò che
non le sta bene è che sia anche quella di Moblit.
“Su, non
fare così. Se continuerai a piangere starai sempre peggio…” dice zio Ulrich,
staccando la mano dal petto per poggiarla sulla guancia rigata di Moblit come
fosse sua nonna.
Perché se
davvero gli volesse bene, anziché vagare di stanza in stanza come un fantasma
inquieto, trascinando sotto i tacchi la fuliggine del camino, Carola Berner farebbe proprio quello: lo tratterebbe come una
delle sue puerpere: gli accarezzerebbe i capelli, lo bacerebbe sulla fronte e
gli mentirebbe dicendogli che andrà tutto bene.
Perché
Moblit è piccolo ed è un piagnucolone; ha bisogno che qualcuno che gli voglia
bene, che gli dica quelle cose, perché gli crederebbe.
“Moblit,
adesso da bravo, calmati e respira. Di questo passo, ti si chiuderà il naso
ancora di più, e…”
“Ha una
polmonite.”
“Certo
che ha una polmonite! Ha passato la notte nella brughiera con i vestiti fradici
per colpa tua, dannata!”
“Carola—!”
Hange si
addenta il labbro inferiore, quello che ha tremolato di più.
Vi trova
sopra il sapore salmastro del moccio incrostato.
“N-n-on—”
Moblit geme, trattiene in un pugno un lembo del lenzuolo.
Rovescia la testa contro il cuscino, annaspa.
“N-non è
c-colpa di Ha-Hange—”
Hange
vede l’uomo soffiargli una serie di ‘shhh’,
per poi spostare la campana del suo stetoscopio su un altro punto del torace
sudato.
“È una
polmonite, non è vero?”
“Non fare
diagnosi affrettate, Hange. Non hai elementi sufficienti per poterlo
stabilire.”
In realtà
li ha; ne è abbastanza sicura.
Moblit ha
le stesse labbra bluastre che aveva la signora Viering, gli stessi rantoli
polmonari umidi che riusciva a sentire sin dallo stipite della porta quando suo
zio la mandava a prenderle la temperatura o portarle da mangiare.
Quelli di
Moblit, li ha distinti già due giorni prima.
Nel
risvegliarsi sul suo petto, ricoperta dalla brina della notte, aveva subito
avvertito tra i capelli un fiato diverso dal solito, qualcosa che l’esperienza
(e i libri) le hanno insegnato a catalogare come ‘anomalo’.
Dai suoni
che il suo torace aveva confidato al suo orecchio, avrebbe dovuto capire subito
che i rantoli si sarebbero evoluti in ronchi e crepitii. Era solo una questione
di tempo.
Non è una
diagnosi affrettata e lo sa anche suo zio, che costringe Moblit a star seduto
mentre gli ausculta la schiena nella speranza di sbagliarsi.
“Ti ho sempre detto di non passare tempo con questa poco
di buono, ma non mi hai mai ascoltata!”
E come un emerito idiota, Moblit permette a quell’ultima
frase di mozzargli il respiro.
Hange vorrebbe dirgliene quattro. Vorrebbe andare lì,
prendergli le guance tonde tra le mani e urlargli un sonoro ‘Stupido! Perché
lasci che tali sciocchezze ti facciano questo!?’
Ma deve fare i conti con la sua mascella contratta, che
altrettanto stupida, le chiede di scegliere tra questo, o imparare da suo zio,
che sordo, continua a visitare il suo amico, stringendogli una spalla e
sussurrandogli solo ciò di cui ha davvero bisogno.
“Bravo, così – sei bravissimo, figliolo.”
Moblit esala ancora un fiato, poi tossisce.
Tossisce, tossisce…
“Eri un bambino così obbediente prima che arrivasse lei e
ti tramutasse in uno scapestrato!”
“Han-Hange non—n-non c’entra ni-ente—” …tossisce.
“Shhhh, non parlare. Rilassati
e fammi un altro bel respiro—”
“Certo che c’entra! Tutto questo è colpa sua!”
“Carola, ti prego—”
“Provami il contrario! Provami in che modo mio nipote
avrebbe contratto un simile malanno se solo non avesse seguito quella piccola insolen—”
“Dannazione, Carola!”
Hange conosce suo zio Ulrich già da un po’ ormai. Gli ha
visto riparare il camino intasato del suo studio e tirare fuori un vitello
enorme dalla vacca dei vicini, ma è la prima volta che lo vede strapparsi via
lo stetoscopio dalle orecchie come fosse diventato rovente e strillare in quel
modo di fronte ad un suo paziente.
Non lo ha mai fatto neanche di fronte alla figlia dai
polmoni deboli di Anja Goldbach, che per la miseria –
solo il cielo saprà perché sbraiti e scalci come una puledra inferocita dal
primo all’ultimo istante di una visita!
Si pente subito però.
Hange lo conosce abbastanza da riconoscere i segni di pentimento sulle rughe
della fronte.
“Hai ragione" dice e Hange si ricorda d’improvviso
di avere una lingua, un palato e di poterlo anche ingoiare, quel bolo che le
blocca la gola.
“Hai ragione, Carola.” ripete a bassa voce, e a voce
ancora più bassa sussurra a Moblit qualcosa che suona come l’ennesimo
incoraggiamento, prima di rimetterlo a letto e rimboccargli le coperte.
“Moblit non si sarebbe ammalato se Hange non lo avesse
portato con sé sino alla brughiera per poi perdersi e passare tutta la notte
all’aperto.”
“Gli ha dormito addosso, capisci?! Ha usato mio nipote
come fosse un giaciglio!”
Hange fissa le assi del pavimento, annerite e spaccate
dal tempo. I suoi nodi sono scuri come il crepuscolo di fronte al quale lei e
Moblit si sono ritrovati così, all’improvviso, vagando per un sentiero della
brughiera imboccato per caso.
Non aveva mai immaginato che lontano da qualsiasi centro
abitato, il buio potesse divenire una massa così compatta, impenetrabile.
Scese di colpo, in silenzio, senza che se ne accorgesse.
Si era fidata di quella piccola porzione di cielo in cui temporeggiava un
bagliore che tingeva di rosso le punte dell’erica mossa dal vento; si era
fidata a tal punto da non fare caso al nero che avanzava da oriente.
La luce scomparve quasi di colpo. Quasi senza che le
desse il tempo di realizzarlo.
Così.
Un momento prima stava costeggiando il ruscello cinque
passi avanti rispetto a Moblit, sollevando ogni pietra le desse la parvenza di
essere il nascondiglio di un rospo che volesse sfuggire al suo retino, un
attimo dopo, il rospo nel retino, era lei.
Paralizzata di fronte ad una coltre di nulla a cui nessuno l’aveva
preparata.
Per un paio di secondi tutto sembrò svanire: gli uccelli,
il ruscello, i rospi nel suo retino.
Tutto sembrò tacere, ingoiato da qualcosa di grande, di potente e oscuro.
Tutto, eccetto Moblit: ‘Hange…? Hange!’
“Hange!”
Solleva di colpo la testa al richiamo di suo zio. Non sa
neanche lei perché si guardi le mani – o meglio, lo sa. Per un attimo, le è
sembrato di sentirla di nuovo, la mano umida di Moblit stringere la sua e
allontanarla dall’argine del ruscello.
Ma è una mossa così ingenua che non sa davvero spiegarsela – Moblit è adesso
lì, rovente, a stringere lenzuola e federe, chiuso in un buio che lei ha deciso
di non colmare.
“Hange, hai capito quello che ho detto?”
“Non ti stava neanche prestando ascolto, Ulrich!”
Suo zio
sospira, scuote la testa.
La mano sulla sua spalla è incredibilmente grande, incredibilmente pesante.
Hange solleva gli occhi. Sa di meritarseli tutti, quegli sguardi.
“Vuoi
dire qualcosa al riguardo?”
Hange non
ha mai pianto da quando vive con suo zio.
D’accordo,
forse un paio di volte lo ha fatto, ma erano i primi giorni e sulle pareti
della sala osservazione la luce dei lampi creava figure strane, immagini che
credeva di aver dimenticato: il volto di sua madre, ad esempio.
Ed è strano. Tutt’ora, non saprebbe dire perché sull’intonaco crepato ci abbia
visto proprio lei, ma ricorda che per ben due sere riuscì a prendere sonno solo
a notte fonda, e solo su un cuscino fradicio di lacrime.
Quando
due giorni dopo suo zio riuscì, come promesso, a ripulire il solaio e a
trasformarlo nella sua camera, con alle pareti disegni ad acquerello mal
riusciti, e tanti, tanti
libri (suo zio li aveva sistemati lì perché non sapeva dove riporli, le
confessò più avanti), non accadde più. Mai più.
Non sa
perché adesso faccia così fatica a contenere il pianto angoscioso, che qualcosa
dentro di sé vorrebbe lasciasse andare.
Non sa
neanche perché lo trattenga, in verità. Moblit, ad esempio, ha ripreso a
piangere già da prima che suo zio finisse la frase. Se non si fa così tanti
problemi lui che è un maschio, non capisce perché dovrebbe farsene lei.
“Hange?”
La
fuliggine del camino le pizzica il naso, ed anche gli occhi. Ed anche la gola,
a dirla tutta.
“No.”
Scuote la
testa un paio di volte, poi l’abbassa.
“Dunque è
tutto vero? Riconosci di avere delle responsabilità in ciò che è successo?”
Il suo
cenno di assenso fa gemere Moblit, che volta la testa dall’altro lato del
cuscino e singhiozza sempre di più, sempre più forte, e tossisce. Diavolo, se
tossisce.
“Io te
l’ho detto già da tempo come la penso, Ulrich! Quella ragazzina non è—”
“Carola,
oggi non hai nessuna puerpera da far sgravare?”
“Cosa?”
Hange
ruota gli occhi. Stira le labbra. Si prepara alle scintille.
“Nessun
bambino da aiutare a venire a questo brutto, fetido, incomprensibile
mondo?”
Rimodula,
atteggia un sorriso forzato, uno dei più odiosi che Hange possa immaginare.
Fosse lei
la destinataria di quel sorriso, probabilmente andrebbe su tutte le furie, ma
Carola Berner è Carola Berner,
e le partorienti sono un argomento delicato per lei.
Qualcosa
di cui parlare solo con riguardo, sottovoce, con serietà.
La vede
sfiatare, rilassare le spalle, lasciar perdere il grembiule contro cui si
ostina a ripulirsi le dita anche se di fatto, sulle dita non ha niente da
ripulire.
“Quella
poverina di Sarah Müller ha appena partorito e io ho dovuto abbandonarla da
sola con i suoi tre bambini per venire qui!”
È la
risposta di cui suo zio ha bisogno.
Era già pronto
a tornare chino sul letto di Moblit ancora prima di sentirla, in verità.
Raccoglie
le coperte intorno al suo corpo, infila le dita tra il materasso e i fianchi
prima di voltarlo di lato, piano, con riguardo, sino ad avvolgerlo
completamente, dalla testa ai piedi, ignorandone i rantoli e le richieste di
spiegazioni di Carola.
“Torna
pure da lei senza darti alcun pensiero. Porto tuo nipote con me, lo terrò in
osservazione nel mio ambulatorio fin quando non starà meglio. Sarà Hange ad
occuparsi di lui. Mi assicurerò che gli offra le cure migliori.”
“Che
cosa? Ulrich, vecchio caprone! Ti è dato di volta il cervello!? Cosa significa
che Hange si occuperà di Moblit? Vorresti affidare mio nipote ad una
mocciosa!?”
Hange ha
un sussulto.
Non crede
di riuscire neanche a dividere la mente tra la dichiarazione di suo zio, i
talloni nudi di Moblit che penzolano adesso a pochi centimetri dalla sua fronte
e una crepa che le si apre d’improvviso in petto, come il crack di una
noce, che si allarga man mano che le spiegazioni di suo zio si levano nell’aria
e prendono forma concreta.
Non crede
di riuscire a cogliere ogni cosa, ma suo zio sogghigna divertito e la cosa
dovrebbe in qualche modo rilassarla.
Lo
osserva mentre sistema meglio Moblit su una spalla affinché i suoi talloni non
calcino più la sua fronte. Gli accarezza la schiena, cerca di placare il nuovo
attacco di tosse che lo scuote.
“Non
essere sciocca, Carola. Sebbene sia convinto che Hange sia già migliore di
tanti spaccaossa che si spacciano per medici presso gli ospedali distrettuali,
sarei un pazzo se osassi affidare un paziente ad una ragazzina. Sarà
responsabilità di Hange occuparsi di Moblit per tutto ciò che concerne la sua
degenza; mi aiuterà con l’osservazione e la somministrazione delle terapie. Visto
che è stata lei a farlo ammalare, sarà anche lei a riportarlo in salute.
Non trovi anche tu sia un ottimo intervento educativo?”
Carola
stira i lembi del suo grembiule, incrocia le braccia. Appare stordita, incapace
di agire.
Hange
osserva le guance flosce della levatrice indugiare, come se d’improvviso
fossero diventate troppo pesanti per creare il grugno imbruttito che vorrebbe
far apparire. Ci rinuncia.
Comincia a muoversi smaniosa, quasi avesse i vermi. O qualcosa del genere.
Cambia stanza, poi vai in un’altra, arriva sino al pianerottolo.
Non dà alcuna risposta.
Per suo
zio Ulrich, non sembra essere nulla a cui non abbia già assistito.
Divertito,
raccatta tra due dita un orso di pezza incastrato in un angolo di letto, tira
su la coperta sulla testa di Moblit e con un lieve tocco sulla spalla la invita
a seguirlo.
**
“Questa
cosa un giorno dovrai spiegarmela,”
Hange
tira su la testa.
Si
sorprende che la prima cosa che veda siano gli occhi di Moblit attraverso la
trama della coperta. Sono socchiusi, in apparenza fuori fuoco.
Si
ricrede sul fuori fuoco quando li vede storcere dal dolore prima di cedere ad
un colpo di tosse contro l’incavo del collo di suo zio.
“Come
diavolo hai fatto ad addormentarti su Moblit?”
Sta per
rispondere, ma il terrapieno su cui è salita è più saggio di lei: si sgretola
sotto i suoi piedi e la fa scivolare giù un paio di metri.
Si rialza in fretta, ci riprova.
Afferra
ciuffi di erbaccia ben salda al terreno, raggiunge la sommità dell’altura prima
che qualcuno possa accorgersi del suo attardare.
“Voglio
dire, si può dormire accanto a qualcuno – ma sopra?”
Sente dei
rivoli caldi cominciare a scivolarle sotto i calzoni, lungo il polpaccio.
Le sbucciature delle ginocchia si sono riaperte, ma non ha dolore.
Non ne aveva neanche quando Moblit l’ha convinta a stendersi sopra di lui in
realtà.
‘Me lo
ha detto lui.’ risponderebbe, ma
Moblit sta ancora tossendo e suonerebbe come un’accusa nei suoi confronti.
Fa
spallucce, strofina il gomito contro il naso, prosegue a capo chino.
“Ehi—” la
mano che stringe la sua spalla è la stessa di prima; solo che adesso è così
leggera che a fatica se ne accorge. “Tutti abbiamo fatto stupidaggini alla
vostra età. Moblit starà bene—” sorride suo zio, ma Hange non ne sente il
conforto.
“La signora
Viering…”
“La
signora Viering aveva 93 anni.”
Calpestano
le spighe di grano matto, ricalcano le impronte lasciate all’andata e l’erba
non scricchiola neanche un po’.
“Friedrich
Aschner era giovane…”
“Friedrich
era malato di cuore. Aveva una malattia congenita, lo sai anche tu. Moblit
invece è un ragazzo sano e robusto.”
Hange
questo non sa dirlo in realtà. Sa che Moblit è un piagnucolone, che geme e si
lamenta nel cercare di stare al suo passo quando si lancia contro i prati umidi
e che arrossisce sempre un po’ prima di togliersi i vestiti e tuffarsi nel lago
dal pontile.
Sa che l’ha presa per mano e ha sfidato per lei le tenebre della notte e l’ha
costretta a stargli vicino affinché la brina notturna non la bagnasse.
Non sa
dire però se è sano e robusto.
Non lo ha mai visitato.
“Moblit?”
Lo zio si ferma.
Attraverso la coperta, Hange vede le spalle di Moblit
contrarsi, le ginocchia sollevarsi al torace e appallottolarsi, come un gatto
che arruffa il pelo di fronte ad un predatore più grosso.
Non sa quanto a lungo si possa tossire in quel modo.
Dovrebbe fare un rapporto tra peso, età e una media della
quantità di ossigeno inalato per secondo.
“Hange,”
Raddrizza la schiena, i numeri svaniscono dalla sua
testa.
La realtà a cui viene richiamata ha l’immagine di un Moblit cianotico, con gli
occhi chiusi e la gola esposta, rovesciata oltre le ginocchia di suo zio.
“Apri la borsa, miscela tre millilitri di leudiptina. Ti ricordi come si fa, vero?”
Moblit vibra.
“Hange?”
Ah, già.
Annuisce, si inginocchia sulle spighe, apre la grossa
borsa che porta a tracollo, cerca ciò che le serve per la leudiptina.
L’ha vista fare tante volte, non ha bisogno delle
indicazioni.
Ha solo bisogno che Moblit smetta di ciondolare la testa
contro il grano in quel modo, perché ha i capelli dello stesso colore, e quando
annaspa, le sembra come se diventasse un tutt’uno con i campi, proprio come sua
madre.
Perché lo ricorda, il giorno in cui le raccontò delle ceneri di Sabine Berner, disperse tra quelle stesse distese di grano e…
“Moblit."
Suo zio non urla, ma Hange riconosce quel tono.
Abbandona la borsa, i cucchiai e i flaconi.
“Moblit!”
“Hange!”
Riconosce anche quello, di tono. Interrompe di colpo la
sua corsa. Qualcosa nel petto si incrina.
“La leudiptina.”
Ed è la brezza che sembra sprigionarsi dalla terra a
restituirle il respiro e il ricordo di qualcosa di importante che per un
istante ha accantonato: ‘Se vuoi diventare come me, dovrai imparare
comprendere il dolore e ciò che fa alle persone. E dopo, dovrai curarle con
distacco.’ (*)
Le aveva detto suo zio, quando gli disse di voler
diventare come lui.
Distacco. Allora non le era sembrato così difficile.
Allontana
le mani fredde dal suo viso deformato, le fa tornare in fretta nella borsa.
Chiude
gli occhi. Cerca di fermare il tremore delle dita mentre estrae tre millilitri
dalla fiala che ha in mano.
“So che
fa male, figliolo – ma devi fare uno sforzo, coraggio. Respira.”
Le
ciocche scompigliate di Moblit accarezzano ancora il grano quando suo zio
espone lo sterno per il tempo necessario a strisciare su di esso un unguento
balsamico tirato fuori da chissà quale tasca. Moblit non si muove, non
rabbrividisce neppure.
Anche il
terreno che serra tra i pugni sembra ormai libero di sgusciare via dalle sue
dita in qualsiasi momento.
Se non
fosse per quei suoni orrendi che gli gonfiano il petto, Hange lo direbbe morto.
O quasi.
‘Distacco’ si dice ancora, tirando su con il naso.
La leudiptina è un composto semplice e altrettanto semplice è
somministrarlo.
Non ha bisogno di infusione, né di riposo. Chi ne ha bisogno, di solito la
brama come l’aria. In tutti i sensi.
Dagli
occhi ridotti in fessure, Moblit guarda appena la cinghia emostatica che suo
zio gli lega al braccio.
“Adesso
sentirai una pizzicolino, ma dopo respirerai molto, molto meglio.”
Il cenno
del mento di suo zio la vuole adesso lì, a chiudergli il polso tra le dita
affinché non faccia movimenti bruschi.
Moblit però non si muove neppure di un centimetro, né quando l’ago entra nella
sua vena, né quando esce.
“Va già
molto meglio, non è vero? Stai meglio, Moblit?”
I rantoli
si attutiscono e Moblit fa un blando tentativo di tirare da solo la testa su
dal grano.
Annuisce
lieve contro il petto su cui si affloscia, prima di esalare un sospiro lungo
come non ne faceva da tempo, e abbandonarsi.
Piegata
sulle gambe, Hange stringe tra i pugni le spighe. Moblit, stringe la lana della
sua giacca infeltrita.
“Affrettiamoci,
Hange. Il freddo potrebbe causargli un altro attacco.”
Si
rimette in cammino, sente frammenti di ‘sei stata brava, ottima
preparazione’, ma forse è solo il fischio del vento che si camuffa con
altro.
**
Il
camino, suo zio, lo accende subito.
Mette
dell’acqua a scaldare e gli antinfettivi in infusione. Tutti.
Dal primo
all’ultimo, una sfilza di flaconi dall’odore invisibile che ribollono su di una
fiammella che Hange ha il compito di controllare ogni dieci minuti.
Moblit è
a letto, ed è da un po’ che non si muove. Ha i polsi incrociati di fronte al
viso di nuovo rosso. Un rivolo di muco gli schiuma in un lato delle labbra semi
aperte e le palpebre, per la prima volta, non danno l’impressione di star
trattenendo tutta la sofferenza del mondo.
Hange lo
osserva guardinga: non sta bene come vuol farle credere, non si fa ingannare.
Strizza
una pezzuola in un bacile d’acqua fredda, assorbe tutti i suoni a cui le gocce
vanno ad unirsi.
Li conosce bene: dai sibili dei polmoni costretti ad una temporanea quiete
farmacologica, al borbottio degli antinfettivi che completano il loro ciclo di
sedimentazione, allo scoppiettio dei ciocchi nel camino che crepitano sempre in
modo differente, nella sala osservazione.
Li conosce
a tal punto che se anche uno solo di questi sparisse, sarebbe in grado di
notare subito la straordinarietà della sua assenza.
“Hange,”
Suo zio
ripone dei fogli piegati tra le pagine di un libro gonfio di umidità, si
appunta qualcosa su di un taccuino, poi si avvicina al letto.
“Come
sta?” le chiede, chino su Moblit.
Hange
arrossisce, l’agitazione le morde lo stomaco.
Gli dice
ciò che sa: che ha la febbre a trentanove e mezzo, che il respiro è sibilante
ma non difficoltoso come prima, e che il polso è stabile.
E che sta
sognando, aggiunge, come ultima informazione non pertinente.
“Sta
sognando?”
Hange
annuisce: “parla nel sonno.”
Incrocia le braccia dietro la schiena prima di accorgersi della scialba
imitazione e riportarle ai fianchi.
“Cosa dice?”
“Piange,
per lo più.”
Lo
zio assorbe in silenzio, come fa sempre quando la interroga.
Non
dice né sì né no. Né giusto, né sbagliato. Può quasi sentire il suono
delle sue risposte riecheggiare nella mente di Ulrich Zoë
mentre le analizza e compara con tutte le informazioni che ha dentro di sé,
lasciandola crudelmente in balia del dubbio, e di un cuore che dovrà
cercare da sola di non far esplodere.
Ripiega
le coperte sui fianchi, il petto di Moblit su cui poggia la mano emana ancora
fragranze balsamiche. Lo sonda con i palmi per un paio di secondi, poi gli
prende il polso.
Ed
è lì che Moblit ricomincia.
Stringe
il volto.
“Ha-Hange—” piagnucola, le labbra lucide schiuse sbavano contro il cuscino.
“No-non
stenderti sul te-terreno, do-dormi qu-qui. Q-qui su di me—” rimesta qualcosa
sotto le guance in fiamme, qualcosa che sembra avere un sapore talmente brutto
da farlo singhiozzare.
“P-perché?
Pe-perché non…non m-mi ascolti mai?”
“Cosa proponi per lui?”
Hange non esita, non questa volta.
Fa
un passo indietro, incrocia di nuovo le braccia dietro la schiena.
La
mano che sbuca da sotto il lenzuolo è la stessa di allora, per questo si dice
che non deve permettergli di raggiungere la sua. Non questa volta.
Questa
volta, Hange abbandona la brughiera. Abbandona Moblit alle sue idee del cavolo.
Questa
volta, Hange affronta il buio.
“Antinfettivo a base di antolosporine.”
“Qual
è il dosaggio delle antolosporine?”
“Dai
trenta ai cinquanta milligrammi per chilo, a seconda della gravità.”
“Dunque, per Moblit quanto ne suggeriresti?”
“Un
grammo al giorno.”
La
sua uscita le procura il ‘brava, Hange’ che non si era mai presa.
Lo
immaginava diverso, in realtà.
Moblit
affloscia il braccio che aveva teso verso il vuoto, volta la testa dall’altro
lato del cuscino e torna nel suo buio a singhiozzare.
**
“C’è della zuppa di grano in cucina,”
Hange
non sa perché quella frase le arrivi così improvvisa da strapparle un sobbalzo.
L’antinfettivo
che sta travasando zampilla, uno schizzo raggiunge le sue lenti ancor prima che
l’aria nella sua gola smetta di indietreggiare.
Aveva
già sentito suo zio parlare a Moblit nei rari momenti in cui ha aperto gli
occhi.
Il
tono caldo e sommesso con cui si è scusato per il fastidio della pezzuola
gelida sul collo o per il termometro che ad un certo punto gli ha fatto
scivolare sotto l’ascella in uno dei suoi lenti andirivieni. Anche l’insistere
affinché mandasse giù almeno un bicchiere d’acqua gli ha strappato frasucole piene di fiducia – tutte cose che hanno avuto il
potere di farle sentire allo stomaco qualcosa di simile alle dita che Moblit
solleva verso il vuoto ogni qualvolta varca il paravento che seziona la sala
osservazione, e che puntualmente, ignora (o almeno, si dice
di farlo).
“Moblit dovrà mangiarne almeno un po’, prima
di iniziare la cura.”
È come la punta della fiamma che
involontariamente sfiora con il mignolo.
Hange trattiene un gemito. Ripone con cura le fiale già miscelate, salta giù
dal panchetto.
Moblit scolla il viso dal bordo delle
coperte, lo sguardo liquido è quello di sempre, ma c’è un’ombra in più, adesso
che Hange lo osserva meglio. Si sforza ad attribuirla al digiuno.
“Non
riesce a mangiare,” squilla.
Non
mangia da due giorni, per la precisione. Non perché non voglia, ma perché non
può.
Vomita
tutto non appena il suo stomaco tocca qualcosa. Quello è stato il primo
sintomo, in effetti.
“Per questo è importante provarci. Gratta un
po’ di zenzero nella zuppa, lo aiuterà con la nausea”.
“Han-Hange—”
La
fissa, come se attendesse che sia lei a protestare per conto suo, perché in
fondo, che porcheria sarà mai la zuppa di grano con lo zenzero?
“Posso
fare dei biscotti!” propone.
Quelli
al miele, i preferiti di Moblit.
Quelli
di cui sarebbe capace di trangugiarne un intero cestino senza neanche
accorgersene.
Li
mangerebbe di certo, si dice.
“Forse
dopo,”
Lo zio si sposta, controlla il lavoro
compiuto con gli antinfettivi, “prima deve mettere nello stomaco qualcosa di
sostanzioso.”
E Hange un po’ lo guarda, Moblit.
Un
po’ glielo lancia, quello sguardo solidale con cui la febbre, forse, gli
impedisce di consolarsi.
Inspira profondamente con il naso, espira con uno sbuffo
silente: uno troppo forte potrebbe farlo ricominciare a piangere, e non sarebbe
il caso.
Oltre ad essere fastidioso, lo farebbe peggiorare.
Va
in cucina, torna in fretta con una ciotola di zuppa di grano tra le mani.
L’effetto della leudiptina
comincia a mostrare i primi cenni di cedimento, e Moblit non sogna più come
prima. Le sue labbra lucide di saliva non dicono più nulla per il quale
dovrebbe barricarsi dietro la parola ‘distacco’.
Non
piagnucola, né tende la mano in quel modo così patetico e sperduto,
difficilissimo da ignorare.
No.
Sollevato da quattro cuscini, Moblit è lì, a darle il peso familiare dei suoi
occhi, che la scrutano da sotto le ciglia incrostate, tentando di indovinare le
sue intenzioni.
Hange
avvicina la sedia, incrocia le gambe sotto il sedere.
“Coraggio,
Moblit – mangia.”
In effetti, fa un po’ strano.
L’immagine
di Moblit con quella zuppa in grembo confonde anche lui.
La ciotola è in bilico, basterebbe un solo movimento azzardato per fargliela
riversare addosso, e no – considerata la sua tosse, no, non è davvero il caso
di lasciarla lì.
Hange la ritira prima che le braccia bianche
di Moblit possano anche solo emergere da sotto le coperte.
“Non
ho…” storce il naso, trattiene un po’ il respiro “non ho fame, Hange…”
Moblit ha già la nausea.
Il
borbottio della saliva tra i denti, Hange lo sente ancor prima di vederne un
rivolo scendere sul mento. Lo raccoglie per lui con il polsino della sua
casacca.
“Non
puoi non aver fame.” rimesta il grano cotto nella ciotola.
Il
suono del cucchiaio in legno è sordo e confortevole, “Non mangi da due giorni.”
“Non ho fame, davvero …”
“Dai, fai un piccolo sforzo”
È
lo stesso tono che usa quando vuole che scavalchi la finestra e vada con lei a
pescare al lago anche se sua nonna glielo ha vietato, o di quando gli chiede di
ritrarre per lei qualche animale in decomposizione nonostante sappia che un
paio di volte ha avuto incubi orrendi a causa di questo, o di quando lo
costringe ad appoggiare le labbra alle sue perché vuole capire che effetto fa,
visto che per la sorella di Agnes Hoffmann, sembra essere importante come
l’aria, nonostante con il figlio del panettiere lo faccia in segreto,
goffamente nascosta tra l’edera della strada che costeggia la chiesa, che la
graffia e la ferisce, ma meno di quanto farebbe suo padre se la trovasse lì con
lui (o almeno, questo le ha sentito bisbigliare, mentre lui la tratteneva per
la veste buona, quella bianca della domenica, chiedendole ancora qualche altro
istante).
E come sempre, di fronte a quel tono, Moblit
la guarda un paio di istanti.
Attimi
in cui spera di avvistare nel suo viso un cenno di ripensamento, poi obbedisce.
Anche
oggi non è da meno; solo, un po’ più sofferente del solito forse.
Prende
tra le labbra i chicchi sulla punta del cucchiaio, li mastica come fossero
pietre.
Tossisce.
Con il collo irrigidito e gli occhi chiusi, si sforza di ingoiare.
“Hange—”
è tutto ciò con cui riesce a formulare la sua supplica.
Ma non ci sta. Hange accosta di nuovo il
cucchiaio alle sue labbra adesso color cenere.
“Lo hai sentito, mio zio. Non può fa farti
l’iniezione se prima non mangi. Coraggio.”
C’è qualcosa che attraversa la fronte di
Moblit, come un fremito.
Corruga
le sopracciglia. Gli sbuffi di fiato che esala diventano improvvisamente più
densi.
“Mi
farà un’iniezione?”
“Sì, di antinfettivo. Le antolosporine sono
molto efficaci, ti rimetterai in poco tempo!”
Spiega
entusiasta, immergendo di nuovo il cucchiaio nella zuppa e rimestandola.
Moblit
apre la bocca quasi accorgersene, ingoia subito, quasi non mastica.
“E…”
Hange ne approfitta per fargli scivolare in
bocca un’altra cucchiaiata. Forse avrebbe dovuto soffiargli un po’ sopra, ma
non importa. Moblit non si lamenta e lei non vede nulla di ciò
che si contorce dentro di lui.
“…e farà male?”
Hange
fa spallucce, non solleva lo sguardo, troppo impegnata a pescare per Moblit
quei bei pezzetti di patate nascosti sul fondo.
“Non lo so, forse un po’—”
Ci pensa meglio, elabora i suoi ricordi, mentre si assicura che i pezzetti di
patate scivolino nella bocca di Moblit, adesso vagamente deformata. “In
effetti, di solito si lamentano.”
Ma
del resto, la buon’anima della signora Viering, dall’alto dei suoi novanta tre
anni, si lamentava di tutto: dal cibo monotono che le veniva propinato, al
nitrire dei cavalli nella stalla, a suo dire troppo rumoroso.
Moblit tossisce. Si sbriga ad ingoiare per
poterlo fare ancora, ripiegandosi su sé stesso come un bruco.
Tossisce
e poi tossisce ancora.
E
non smette.
“Moblit?”
Un colpo di tosse più forte fa abbandonare ad
Hange la scodella sul comodino e insieme ad essa, anche l’idea di aver fatto
qualcosa di buono, soprattutto quando le mani che Moblit poggia debolmente
sulla sua bocca si riempiono di bile, muco e anche chicchi di grano indigesti,
che spinte da un conato, sfuggono alla barriera delle sue dita per finire
ovunque.
Letteralmente.
Ovunque.
“Ehi
– Moblit?!”
Hange salta giù dalla sedia, si riversa su un
angolo di letto.
“Moblit,
togli le mani!”
Infila
le dita sotto i polsi, scolla i palmi di Moblit dalla bocca imbrattata, che non
perde tempo a restituire con una serie di versacci inferociti dai colpi di
tosse, ciò che sin dal principio non sarebbe dovuto entrare nel suo stomaco.
E l’eco di questo pensiero è solo l’ennesima
crepa che Hange sente aprirsi dentro di sé.
Distacco, la parola torna a imporsi
di fronte a Moblit che schizza bolle di bile ovunque, e vomita, e tossisce, e –
diamine, ma perché adesso ha anche ripreso a piangere?
“Moblit—” a carponi sul letto, Hange struscia
un ginocchio su una pozza di grano smangiucchiato, lo stesso ginocchio le cui
sbucciature avevano ripreso a sanguinare già nel bosco qualche ora prima, ma
non fanno male, si convince.
“Moblit,
calmati – che ti prende?” insinua le mani sotto la stoffa, scorre sulla sua
schiena rovente.
Le basta il palmo per sentire i suoi polmoni rinfacciarle ogni colpa sotto
forma di rantoli e altre crudeltà che Moblit non conosce neppure.
“Moblit,”
Non è solo qualcosa dentro di sé ad essersi
incrinato ancora, ma anche la sua voce. “Moblit, non—”
Le sue guance si scottano sul viso viscido, le dita si chiudono dietro la nuca
sudata e tesa.
Si
stringe a lui.
Hange
lo abbraccia.
“Moblit, non volevo—”
“Cosa succede?”
Uno,
due, tre colpi di tosse continui, poi rantoli. Il naso che cola filamenti di
muco bolloso, la gola che stride e non fa il suo lavoro e dannazione.
Dannazione, Moblit!
“Hange, cosa succede qui?”
Si
accorge del ritorno di suo zio solo quando la sua calma si piazza sulla scena
come una nota stonata.
Hange
solleva la testa, lo vede traballare sotto il velo acquoso che le appanna gli
occhi.
“Vieni,
figliolo, tiriamoci su, hop—”
Zio
Ulrich recupera Moblit dal letto e dai nodi delle sue braccia impiastrate. La
sua mole diventa improvvisamente simile a quella con cui Hange immagina i
giganti fuori delle mura di cui tutti parlano.
Si
siede ai piedi del letto, corica Moblit sulle sue gambe.
L’umidità
della pezzuola a ripulirne il volto è sufficiente per dare un suono nuovo ai
singhiozzi.
“Non
è successo niente, va tutto bene – hai solo vomitato un po’, capita a tutti,
prima o poi.”
Hange osserva le mani agire sui punti della
schiena giusti.
Quelli
che sanno come placare i suoi polmoni e farlo stare meglio.
Moblit
non proferisce parola. Assorbe i comandi di suo zio, tenta di metterli in atto,
tra respiri affannosi e le lacrime che gli strisciano sul volto come lumache.
“Bravo,
così. Respira. Adesso cambiamo la biancheria, ci diamo una ripulita ed è passato
tutto,” mente, e lo sa anche Moblit. La sua spina dorsale tesa sembra poter
tagliare da un momento all’altro il tessuto sottile della sua camiciola
consumata.
Hange
sente i gorgoglii della sua gola rallentare, e quando la sua bocca
comincia a esalare un paio di respiri con meno fatica, lo zio si solleva e lo
porta con sé oltre il paravento.
Moblit
è troppo grande per stare seduto sul braccio come un bambino piccolo, eppure
dal modo in cui si aggrappa alle sue spalle lo sembra davvero, un bambino
piccolo.
Zio
Ulrich lo mette a sedere sul letto d’esaminazione. Hange lo raggiunge giusto in
tempo per vederlo mentre gli dà un’occhiata veloce alle sclere, gli tasta la
fronte e il polso.
“Stai meglio?” domanda, stringendo le mani
sulle spalle.
Moblit
dà un altro colpo di tosse, poi annuisce ad occhi chiusi.
“Hange,”
la richiama; la voce ancora pastosa di chi ha bisbigliato a lungo, “vieni, dai una
ripulita a Moblit, fagli indossare una delle camiciole che diamo ai pazienti.
Io vado a prendere delle lenzuola pulite.”
Hange
obbedisce. Ha ancora il cuore che le pulsa in gola, ma si impegna affinché
nessuno lo noti.
Sul
letto d’esaminazione però, Moblit è troppo in alto. Ha il mento chino sulla
base del bavero lercio, gli occhi strizzati come le dita che stringe sul bordo
del materasso sottile.
Sembra
un gigante anche lui.
Un
gigante molto, molto triste (che non sa se esistono, ma se esistessero, allora
sarebbero certamente così).
Hange
avvicina il suo panchetto, si solleva di fronte a lui, fa in modo che le sue
narici si riempiano bene dell’odore rancido che ha addosso. Sente di meritarne
il disgusto.
“Hange—”
“Shhh, non parlare,” ammonisce senza forza mentre sfila i
bottoni dalle asole, “riprenderesti a tossire.”
“L’inie—l’iniezione…”
si interrompe, dà sfogo ad un altro paio di colpi di tosse, “non voglio
l’iniezione—” bisbiglia miserevole.
Così
miserevole che Hange si arresta, non finisce neanche di infilargli le braccia
dentro la camiciola pulita. Spiazzata, scruta il visetto rosso e gonfio
incastrato nel colletto.
Un
misto di imbarazzo e sconforto lo attraversa, e la confonde.
Piega il collo, arriccia il naso.
“Che hai detto?”
Sotto
il tessuto, Moblit contrae le spalle. Contrae anche il viso, gli occhi, le
dita.
La lingua schiocca dentro la bocca deforme,
ci riprova “non vo—”
“Le antolosporine sono pronte, Hange.
Preparane una fiala, gliela facciamo subito.”
Dietro
le lenti, Hange sbatte le ciglia.
Tagliuzza la realtà in
tanti piccoli tocchi, come dei lampi: Moblit, suo zio, i pugni lividi di Moblit
stretti sul bordo del letto come sull’orlo di un precipizio, la voce profonda
di Ulrich Zoë che la richiama al suo lavoro, l’ululato del vento della
sera che innervosisce la cavallina nella stalla, lo sguardo di Moblit, lo
sguardo lucido di Moblit che ripete a tutti i suoi sensi l’ultima frase, ancora
e ancora, come una preghiera, lo sguardo di Moblit, le dita di Moblit che
gattonano piano come animaletti feriti sulla mano che ha inavvertitamente
poggiato sul materasso.
Hange
china il capo e le guarda: sono le stesse dita che l’hanno afferrata e
sottratta alla morsa del terrore, lì, nella brughiera.
È difficile da credere, visto il modo incerto
in cui adesso si stringono alla sua mano e tremano.
Le
dita che l’avevano stretta di fronte al buio non avevano mai tremato.
“Hange—” sfiletta tra i denti, trattiene un
singhiozzo, “Hange, non—”
“Hange,
cosa stai aspettando?”
Sobbalza.
Gli occhiali avanzano di qualche millimetro sul suo naso, ma non cadono.
Guarda
ancora Moblit, poi in silenzio si disfa lesta della sua presa per correre verso
il tavolo poco distante.
Si
mette subito al lavoro, si impone di dimenticare in fretta quanto crudele possa
essere stato.
“Vieni,
Moblit. Pazienta ancora un attimo, poi ti lasceremo dormire in pace—”
Tra
le braccia di suo zio, Moblit mormora qualcosa in risposta, ma l’ago con cui
aspira il medicamento fischia, e copre quelli che hanno
l’aria di essere lamenti soffocati.
Hange
aguzza la vista. Affida alle gocce che fa zampillare fuori dalla siringa il suo
‘forse è meglio così’.
“Una
punturina, solo un pizzichino – non è molto diversa da quella di poco fa nel
bosco, ricordi?”
Filtra al di là del paravento alle sue spalle.
“Brucerà
un po’, ma solo per qualche secondo. Poi, starai meglio.”
“Non hai ragione di aver paura, davvero. Te
la farà Hange, è molto brava con le iniezioni.”
Ed è il secondo ‘brava’ che riceve nel
giro di poco tempo, ma non sa perché non faccia quell’effetto.
Quello
che sente nella pancia quando nel segreto della notte, scandisce quella parola
di fronte ad uno specchio, emulando la voce di suo zio, o della signora
Viering, del signor Berg, o di uno dei pazienti del giorno.
È come se tutto dentro di sé cominciasse ad
avere un doppio. Una versione autentica ed una fasulla e sfocata– un po’
come quando le lettere si sdoppiano e si annebbiano le volte in cui legge senza
occhiali.
“Hange! Quanto ci metti?”
Ecco, sì. La Hange che solca il paravento con
gambe intirizzite e il respiro rotto è il suo doppio fasullo e sfocato.
Così
come lo era anche la Hange che nella brughiera ha avuto paura del buio, e
quella così sciocca da accettare di dormire su Moblit.
“Cosa
succede?” domanda suo zio.
Hange sa che il tremore della mano con cui
regge la siringa è già una risposta.
Lo
sa anche Moblit che, seduto su lenzuola che odorano ancora di amido, sa anche
di averglielo contagiato, quel tremore.
“Niente,” mente, e a suo zio sta bene così.
“D’accordo,”
non perde altro tempo. Ne ha già perso fin troppo, per quel che ne sa.
Si
scosta; guida Moblit sul suo grembo e poi con cautela, senza spaventarlo, lo
aiuta a distendersi su di un fianco. Arrotola per lui la camiciola in un angolo
della schiena, scopre un po’ una natica pallida.
Moblit di tanto in tanto sobbalza, non sempre
riesce a trattenere l’angoscia; ma le mani con cui Ulrich Zoë
prende ad accarezzargli le braccia e le spalle ne hanno conosciute tante, di
spalle e braccia singhiozzanti.
“È
molto stanco,” sibila flebile, per ragioni che avrà trovato di sicuro nel
colore assunto dal suo volto, “sii veloce e attenta, mi raccomando.”
“Hange—”
mugola Moblit contro l’addome morbido di suo zio.
Quel
suono piagnucoloso, Hange lo ha già sentito. Ne ha sentito l’inflessione, anzi:
l’ha creata lei.
Può
sentirne ancora in bocca il sapore amaro, il cuore che batte veloce, gonfio di
un terrore nero e appiccicoso.
“—Hange…” scandisce ancora, strozza il
respiro, avvicina le ginocchia al petto e diamine – lei non aveva dovuto
neanche farlo quel secondo tentativo lì nella brughiera.
Qualunque
cosa le avesse fatto paura, Moblit l’aveva già sottratta ad essa da tempo.
L’aveva stretta per mano e portata via.
Abbassa la siringa, fa un passo indietro, il
labbro inferiore trema.
“Moblit
–non—non la vuole..”
“Cosa?”
“Moblit
non vuole l’iniezione,” affonda i denti sull’interno della guancia, “ha…ha
paura.”
Nel silenzio in cui sprofonda la stanza dopo
la sua frase, Hange ascolta tutto quello che era stato il suo mondo vibrare.
Ulrich
tira un sospiro. Trova un momento di riconciliazione con sé stesso togliendosi
gli occhiali, per poi passarsi una mano sul volto e inforcarli di nuovo.
“Hange,
ricordi cosa ci siamo detti circa il distacco?”
Hange annuisce, tutti i suoi ‘brava’ conquistati,
si rimestano nella bocca e diventano fiele.
“Più
tempo perdi, più difficile sarà per lui. Coraggio, sai bene come fare:
quadrante supero-esterno. Esattamente qui.”
Punta
l’indice su un punto della natica che non sfiora, torna a portare ai fianchi le
gambe tremanti di Moblit.
“Moblit
ha bisogno di questo antinfettivo per stare meglio. Lo sai anche tu. Hai
formulato tu la sua diagnosi, nonché la sua terapia, e lo hai fatto prima di
me.”
C’è comunque una nota di orgoglio in quella frase priva di inflessione.
“È per il suo bene, ricordatelo.” Sarebbero state per il
suo bene tante cose che invece ha deliberatamente ignorato.
“Ma
lui non vuole…”
“Non è che non vuole, ha solo paura del
dolore,” afferma, calmo e sicuro, “Ti ho parlato anche di questo, ricordi?
Dovrai capire cosa fa il dolore alla gente. Certe volte, devi imparare a
domarlo tu per loro e agire per il meglio. Avanti, fai
l’iniezione.”
Hange ingoia un groppo grosso come uno dei
suoi rospi, poi con obbedienza ci riprova.
Avvicina
le mani, va a sfregare un lembo di pelle irta con della garza imbevuta,
predisposta per lei sul comodino. Lascia presagire bene.
Riceve
l’ennesimo ‘brava’, di cui si dimentica nel momento in cui trova
qualcosa nell’immobilità in cui soccombe Moblit.
Trova
l’urlo assordante del buio della brughiera, lo sente abbattersi su di sé come
una secchiata d’acqua gelida che trafigge la pelle tutta insieme, tutta di
colpo.
Lo
scroscio del ruscello che sparisce, il gracidio delle rane che di colpo si
arresta.
L’assenza
della mano di Moblit.
Non è lì, questa volta – non la tira a sé.
L’orrore le formicola sui polsi come pulci impazzite, che risalgono su tutto il
corpo, lo invadono, finché non riesce più a stare ferma, finché non riesce più
a respirare.
“Scu—” prende fiato, trema confusa. Si accorge di non poter
più tenere la siringa tra le dita. “Scusa zio—”
Suo zio non la richiama neppure. Forse, un
po’ se lo aspettava.
Mentre
fugge a piedi nudi verso le stalle, tra gli insulti del vento che le sbatte in
faccia ogni colpa e le stelle in cielo che hanno smesso di brillare, c’è un
pensiero strano che si insinua nella sua mente: forse, quando il crepuscolo li
aveva sorpresi, anche Moblit aveva avuto paura di quel buio.
Ma
al contrario di lei, lui aveva finto non fosse così.
**
“Ah – sei qui,”
Si
è appena calmata quando suo zio entra nella stalla e si accovaccia sul fieno
accanto a lei.
Si
è calmata, e lo ha fatto anche la cavallina grigia, che
all’inizio si era davvero imposta di ignorare - ma i suoi nitriti e il suoi
sgambettii continui tutt’intorno al pagliaio, a un certo punto erano diventati
talmente fastidiosi da sentire il bisogno di fare qualcosa.
Del
resto, tutte le volte che quel muso lungo si è sporto verso di lei al di là
della recinzione, ha avuto l’impressione che sospettasse qualcosa; che la
guardasse piangere con quel miscuglio di pietà e indifferenza che solo gli
animali sanno esprimere. Era stato snervante.
Così si era messa ad accarezzarla; impigrita e indispettita, ma sicura di aver
in mano il segreto per ottenere almeno un po’ di silenzio.
“Moblit sta bene. Adesso dorme, finalmente.”
Hange
tace, raccoglie di più i talloni alle natiche.
Sa di avere gli occhi ancora gonfi e sa anche di non volerli
incrociare con quelli di suo zio.
La cavallina
emette per lei uno sbuffo.
“Non ha pianto neanche, è stato molto
coraggioso.”
“Non è vero.”
Lo zio ondeggia la testa da un lato e poi
dall’altro, valuta meglio.
“Beh, forse un po’ all’inizio ha singhiozzato, lo hai visto anche tu. Ma poi è
stato stoico. Gli ho dato il suo orsetto, lo ha abbracciato e si è calmato.”
“Ha abbracciato il suo orso?”
Zio Ulrich risucchia un angolo delle sue
labbra baffute all’interno della bocca, fissa con finto sovrappensiero un punto
di fronte a sé, annuisce. “Te l’ho detto: aveva solo paura del dolore. Non di
te, o della terapia.”
Hange ci pensa un attimo, poi scuote il mento
e torna a poggiarlo tra le ginocchia.
Emette un lungo sospiro stanco.
“È proprio un bambino…”
“Non
c’è niente di male ad essere un bambino. Non è neanche facile accettare di
esserlo, certe volte.”
Hange riconosce un fondo di verità in quelle
frasi, che comunque guarda con disprezzo e distanzia da sé.
Rimangono
così per alcuni minuti, in silenzio, seduti sulla paglia illuminata da un lume
dalla fiamma incerta, che si muove e oscilla ogni qualvolta uno dei due tira un
sospiro più profondo.
Poi
di punto in bianco suo zio si alza.
“È già sera, ma pensavo di preparare una
minestra per cena. Vieni ad aiutarmi?” dice di spalle.
Hange
non risponde.
Caccia
con una mano una falena che le ronza vicino la fronte, fastidiosa come i
pensieri che le svolazzano ancora in mente.
“D’accordo,
ma non fare tardi.”
Zio Ulrich muove qualche passo sulla paglia, poi si ferma sull’uscio “Non
essere troppo dura con te stessa, è stata colpa mia. Non avrei dovuto
coinvolgerti in quella situazione. Era molto più grande di te, ma non me ne
sono reso conto.”
“Non era affatto più grande di me. Io
potevo farlo.”
Si
volta a guardarla, “Lo so.” scandisce sincero e Hange preferirebbe mille e
mille volte ancora un volto distorto dalla delusione a quel sorriso
comprensivo.
“Dico
sul serio!” insiste, si alza in piedi, come a voler ergere più in alto la sua
verità.
“Non
lo metto in dubbio, Hange.”
“Allora…” respira, spinge fuori l’aria
incastrata in gola “Allora – perché?”
Le
parole vengono fuori con dei gorgoglii e dei picchi che li rendono in qualche
modo simili ai nitriti snervanti della cavallina.
Dannazione.
“Perché quello è Moblit. È tuo amico, e
tu gli vuoi bene. Il voler bene unito al dolore, a volte, crea delle situazioni
che non vanno molto d’accordo con ciò che facciamo.”
“Dunque voler bene agli altri è sbagliato?”
“Oh no, voler bene agli altri è la cosa più importante.
È solo il dolore che fa fare cose strane, a volte” Si pizzica con un dito le
tempie, “Non puoi aiutare qualcuno a cui tieni se dentro di te stai così
male…”
La cavallina grigia borbotta, poi sbuffa,
sbuffa ancora.
Il silenzio
in cui precipita la stalla torna ad acuire il soffio rabbioso del vento lì
fuori. Ad Hange sembra come se la stesse cercando ancora per fargliela pagare.
“Io volevo—” Hange porta una mano sul petto,
cerca un appiglio che non trova. “volevo così tanto che non stesse più così
male per colpa mia.” Singhiozza, sconnessa e orrenda.
“Volevo
tornare lì alla brughiera e dirgli che no – dormire su di lui sarebbe
stata una pessima idea, che avremmo dovuto restare svegli, all’asciutto sino al
sorgere dell’alba, e volevo anche dire a quella stronza di Carola Berner di stare zitta, di smetterla di parlare in quel modo
a Moblit, e volevo anche dire a Moblit che è un piagnucolone, che con le sue
suppliche riesce a farmi perdere la ragione e a farmi fare le peggiori
stronzate, che ha approfittato della mia paura per convincermi a farle, poi,
certe stronzate – e…” crolla a terra, “e che mi dispiace – che mi dispiace così
tanto di non essere riuscita a proteggerlo…mi dispiace così tanto…”
Le parole fuoriescono come un’emorragia
arteriosa; prive di alcun controllo, in sincronia con il battito cardiaco.
Zio Ulrich non si avvicina.
La
lascia lì, carponi, a versare lacrime e moccio sulla paglia che pesante, si
lascia stringere e spezzare tra le sue dita. La paglia, che ha lo stesso
colore dei capelli di Moblit, ma un odore diverso – un odore più genuino,
più aggressivo rispetto al grano, che invece sa di cenere e di morte.
“Andrà meglio la prossima volta, Hange”
È l’abbraccio che suo zio fa vibrare sulla
sua pelle.
“Sono sicuro che sarà così.”
Fine seconda parte
(*)
Attenzione: la fanfiction riprende un headcanon
di Joy, espresso in Between Us.
Se non avete letto le sue fanfiction, ne consiglio caldamente la lettura: sono
degli autentici capolavori. La frase con asterisco è una citazione diretta del
suo lavoro.
Naturalmente, tutto è stato realizzato con il suo permesso.
Betaggio: Francesca LM. (Grazie infinite!)
Note: Ricordatemi di non scrivere più su bambini. Questo
capitolo è stato UN PARTO. Ci lavoro da settimane, e il risultato non è neanche
come lo aspettavo.
Di base,
sono storie autoconclusive. Non ho assolutamente idea di quante ne verranno
fuori, ma amo così tanto questo personaggio che potrei continuare ad oltranza
per sempre.
Nel frattempo, mi scuso per il ritardo e ringrazio, come sempre, per la
lettura. <3