Un volto familiare

di GReina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 - trauma ***
Capitolo 2: *** Parte 2 - negazione ***
Capitolo 3: *** Parte 3 - accettazione ***
Capitolo 4: *** Parte 4 - inizio ***



Capitolo 1
*** Parte 1 - trauma ***


Trauma

 Atsumu non aveva bisogno di una famiglia. Questo era ciò che aveva continuato a ripetersi durante tutta la sua vita. Dire che non me aveva una, comunque, sarebbe stato errato. Il ragazzo aveva sempre vissuto con suo padre, ed anche se l'uomo non avrebbe mai potuto dirsi “presente”, se da bambino l'aveva odiato ed accusato, con la maturità dei suoi quindici anni adesso Atsumu poteva benissimo scagionarlo. Miya Chojiro era un uomo d'affari, il che cozzava fortemente col suo essere anche un padre single. Conoscendo la complessità del mondo del lavoro Atsumu non poteva biasimarlo, quindi, per non esserci stato. Se non altro non l'aveva abbandonato come aveva fatto sua madre.
Aveva imparato a sopravvivere con poco: un sorriso al mattino, un cenno di saluto la sera. Checché ne ricordasse non aveva mai ricevuto un abbraccio, mai una carezza o un bacio paterno, ma allo stesso modo mai un colpo sul viso o una punizione per i suoi drammi adolescenziali. Semplicemente, suo padre esisteva per mantenerlo e dargli un tetto sotto il quale dormire; esisteva per pagare la retta scolastica e per accennargli il proprio orgoglio ad ogni traguardo sportivo raggiunto. Per il resto, Miya Chojiro era solo lavoro.
Non avendo mai ricevuto quel tipo di amore, comunque, Atsumu non sapeva cosa si stesse perdendo, e sebbene durante il corso di tutta la sua vita non avesse fatto altro che immaginare come avrebbe potuto essere altrimenti, grazie a questo era andato avanti.
Fu difficile per Atsumu comunicare all'uomo che viveva con lui che la settimana successiva sarebbe andato a Tokyo per partecipare ad un campo estivo di pallavolo della durata di un mese. Non tanto per paura che gli negasse il permesso, tanto perché gli orari di padre e figlio erano agli opposti: Atsumu spesso già dormiva quando l'altro rientrava dopo il lavoro e viceversa questi era ancora a letto quando il più piccolo usciva per la scuola.
Fu con un post-it attaccato al bento che gli aveva preparato, infine, che il ragazzo riuscì ad informare Chojiro. Questi firmò in fretta il permesso e in men che non si dica lui e l'intera squadra dell'Inarizaki erano pronti a partire.
Non era la prima volta che Atsumu visitava la città. C'era stato una volta in gita scolastica durante le medie e ancora accompagnando suo padre ad un meeting di lavoro che sarebbe durato due giorni. Nella prima occasione aveva posto poca attenzione, mentre nella seconda era rimasto costantemente in camera d'hotel. Per questo quando il coach li aveva informati di quel ritiro si era detto immediatamente contento di poter rimediare e finalmente visitare come si deve la capitale. D'altronde era lì che si sarebbero tenuti i Nazionali di pallavolo, lì che aveva sede All-Japan Youth Training Camp. Entrambe cose a cui auspicava con tutto se stesso. Si sentì fortemente deluso, quindi, quando il pullman della scuola deviò verso la periferia piuttosto che andare in centro.
Avrebbe dovuto aspettarselo: il ritiro estivo al quale erano stati invitati, d'altronde, non era aperto solo alla loro scuola. Serviva un edificio in grado di ospitarli tutti e questo certo non era facile da trovare tra grattacieli pieni di uffici e centri sportivi privi di dormitori.
Quella delusione passò in poco tempo. Atsumu aveva conosciuto solo un tipo di amore in vita sua, ed era quello che lo univa alla pallavolo. Aveva sempre faticato a farsi degli amici, ed era ancora così; non comunicava bene, non sapeva come approcciarsi agli altri. Ma bastava che avesse una palla tra le mani affinché tutto cambiasse. Lì non aveva bisogno di parole, lì bastavano solo le sue dieci dita e la magia che esse compivano alzando la palla in maniera perfetta.
Si guardò intorno con meraviglia. C'erano il Nekoma, il Fukorodani, il Nohebi, lo Shiratorizawa. E a momenti, lo sapeva, sarebbe arrivata persino l'Itachiyama, la squadra più forte della loro categoria.
Atsumu diede uno sguardo veloce a tutti loro: le divise, i borsoni; ed annusò con avidità l'odore di palestra e sport, da quello della gomma delle suole bruciata, a quello del ghiaccio secco, al deodorante ancora fresco di ognuno di loro. Infine, venne richiamato dal proprio responsabile ed insieme ai suoi compagni si dispose in cerchio per afferrare il proprio mazzo di chiavi.  L'alzatore guardò il numero della propria camera e sorrise. Se felice o amareggiato non lo sapeva: in squadra erano dispari, così troppo spesso il castano si era ritrovato da solo. Era da sempre figlio unico, comunque, e questo – aggiunto al fatto che le circostanze l'avevano costretto presto a diventare fortemente indipendente – presupponeva che dividere una stanza non faceva per lui.
Era felice così, o almeno diceva di esserlo.
Quelle quattro pareti gli sarebbero servite solo per dormire, in ogni caso; quindi mise da parte quei pensieri ed abbandonati i bagagli in camera raggiunse la squadra negli spogliatoi comuni. Fu allora che la situazione iniziò a farsi strana.
“Miya!” venne chiamato da una voce sconosciuta “Credevo che il vostro pullman non fosse ancora arrivato! Da quanto siete qui?” l'alzatore guardò il ragazzo corvino con espressione confusa cercando di capire dove si fossero già visti. Non aveva intenzione di sbattere in faccia allo sconosciuto la sua sbadataggine, comunque, così sorrise tirato e rispose:
“Non da molto.” l'altro gli diede una pacca sulla spalla.
“Allora ci vediamo di là!” decretò lasciando gli spogliatoi. Atsumu scambiò uno sguardo perplesso con Suna e poi con Aran che erano lì accanto, ma nessuno commentò l'avvenuto.
Aveva appena finito di allacciare le scarpe da pallavolo quando una cosa simile accadde di nuovo:
“Ci si rivede!” gli fu detto da un alto ragazzo, rosso di capelli e dall'aria allampanata “Pronto a subire i miei muri?” il castano lo guardò confuso.
“Li ho mai subiti?” chiese, ma l'altro non sembrò prenderlo seriamente, perché rise ed andò via.
Ancora uno lo intercettò in corridoio:
“Miya! Non vedevo l'ora di rincontrarti! Stesso patto dell'altra volta? Se faccio più punti di te domani mi porti i tuoi fantastici Onigiri!” fu a quel punto che Atsumu scoppiò e – voltandosi infiammato verso i suoi compagni – sbraitò:
“D'accordo adesso basta! Si può sapere che razza di scherzo sarebbe questo!?” non era la prima volta che il resto dell'Inarizaki si comportava così, ma se tra loro era presente quel tipo di intimità capace di rendere divertenti cose simili, il palleggiatore non aveva abbastanza confidenza per riuscire a stare al gioco come se niente fosse. L'unica cosa che era capace di pensare, piuttosto, era di come i suoi compagni si stessero divertendo alle sue spalle.
“Guarda che non abbiamo fatto niente.” fu Ginjima a rispondere con un cipiglio. “Tu, piuttosto, dovresti dirci perché conosci tanta gente!” Atsumu stava per ribattere quando una mano si posò sulla sua spalla. Voltandosi vide un ennesimo ragazzo che non conosceva, dai capelli corvini, gli occhi azzurri e la divisa del Fukorodani addosso.
“Osamu, finalmente!” Miya si districò dal suo tocco più rudemente di quanto non avesse programmato.
“Hai sbagliato persona.” furono le sue uniche parole. Lasciò tutti gli altri indietro e raggiunse la palestra.
A quel punto Atsumu era di pessimo umore. Di norma anche la più storta delle sue lune tornava a posto sopra il parquet del campo da pallavolo, ma avere – apparentemente – tutti i ragazzi del campo estivo che lo prendevano in giro glielo stava rendendo impossibile.
Cercò comunque di darsi una controllata. Aveva imparato che la mente domina il corpo, il che vuol dire che non avrebbe mai potuto tornare di buonumore se prima non si predisponeva a farlo.
Passata mezz’ora, Miya poté dirsi abbastanza soddisfatto di sé. Era consapevole che se la squadra aveva organizzato quel piccolo teatrino era stato solo per tentare di includerlo in uno dei loro scherzi, ed era dispiaciuto di non essere riuscito a stare al gioco, ma se fuori dal campo l’atmosfera era spesso glaciale, durante il gioco tutto cambiava. Improvvisamente, Atsumu tornò padrone di se stesso: sordo ai sussurri, cieco alle strane occhiate che gli venivano lanciate. Le sue alzate erano perfette e così furono anche le poche schiacciate che ebbe l’occasione di fare. Sembrava che tutto stesse andando bene quando, di nuovo, l’alzatore del Fukorodani decise di avvicinarglisi. Sembrava più cauto, stavolta; come se lo stesse studiando attentamente per capire quali parole usare.
“Tutto bene, Miya?” Atsumu strinse l’asciugamano in uno spasmo, ma sospirando disse invece calmo:
“È solo che non mi piacciono gli scherzi.” il corvino – che rispondeva al nome di Akaashi – si limitò ad annuire, anche se lo fece con aria stranamente confusa.
“È dalle medie che non ci vediamo.” continuò, al che il castano lo guardò infuriato.
“Allora lo fai apposta!” pensò con rabbia. Quel ragazzo aveva il volto d’angelo ma era un vero stronzo. Stava comunque per sorvolare sulla cosa quando ancora gli venne detto:
“Credevo che come liceo avessi scelto l’Itachiyama.” Atsumu gettò il telo sulla panchina.
“E fare cinque ore di treno all’andata e cinque al ritorno ogni giorno!?” il castano non sapeva stare al gioco. E questo era quanto. Tornò in campo e non si fece avvicinare più da anima viva.
 
Il giorno dopo andò meglio. Erano solo le squadre che venivano da fuori città che alloggiavano nell’edificio, cosicché Atsumu si poté lavare e mangiare a sazietà con calma prima di iniziare il suo piccolo allenamento individuale in battuta libero dalla confusione e da tutte quelle ambigue attenzioni non richieste. , la giornata era iniziata decisamente bene, e continuò ad andare bene regalando all’Inarizaki una vincita dopo l’altra dapprima contro il temibile Shiratorizawa di Miyaji ed in seguito contro gli appena arrivati membri del Nohebi. L’alzatore era riuscito quasi a convincersi di essersi lasciato il malumore del giorno prima alle spalle quando – letteralmente – il suo mondo prese a crollare.
Avvenne tutto in un battito di ciglia: l’attimo prima era felice che Itachiyama li avesse finalmente raggiunti, l’attimo dopo stava fissando la sua copia esatta vestita giallo-verde fluo. Fu allora che i sussurri raddoppiarono, poi triplicarono ed in breve non si sentì altro. Atsumu, comunque, quasi non li percepiva; a stento vedeva altro al di fuori del ragazzo castano che si era fatto largo tra i propri compagni per poter guardare meglio il suo volto. All’alzatore girava la testa, credeva di star sognando; saettava gli occhi da una parte all’altra alla ricerca di una cornice che gli indicasse che quello davanti a lui altro non era che il proprio riflesso su uno specchio.
Deglutì, e così fece la sua copia. Faceva impressione, e tanta. I capelli, il naso, la forma degli occhi, le sopracciglia, l’altezza, le spalle. Tutto, tutto era identico. Gli occorsero secondi, forse minuti, ma infine si convinse dell’unica possibile spiegazione:
“Mi somiglia soltanto. È una coincidenza.” poi la voce di Suna lo chiamò, ed Atsumu fu in grado di ridestarsi.
“Miya.” ed entrambi i castani si voltarono dicendo insieme:
“Sì?”
Tornarono a fissarsi. Fu il ragazzo dell’Itachiyama a chiedere per primo, tremulo:
“Ti chiami Miya di cognome?”
“È una coincidenza.” dovette ripetersi a mente l’altro prima di annuire. Fu allora che un po’ tutti i loro compagni ripresero a sussurrare, ma sopra ogni altro si sentì la voce di Akaashi:
“Per tutto questo tempo ti ho scambiato per Osamu. Siete del tutto identici.” Atsumu fissò il corvino senza capire. Gli faceva male la testa; voleva solo scappare. Il secondo Miya gli chiese che giorno fosse il suo compleanno, ma l’altro non rispose. Fu Aran a farlo al posto suo. A quel punto Osamu sbiancò, si trascinò qualche passo in avanti, poi afferrò Atsumu per il braccio. La sua stretta era tutt’altro che salda; la mano era sudata a contatto con la sua pelle e tuttavia fredda; in più, tremava.
“Siamo fratelli.” era un’affermazione a cui stentava a credere persino colui che l’aveva dichiarata, eppure non poteva essere altrimenti. L’alzatore, comunque, si rifiutò di accettarlo. Scansò la mano.
“Non dire cazzate!” urlò “Io non ti conosco. Sono figlio unico.” ignorò le diverse esclamazioni che seguirono e corse verso i bagni.
Non si sentiva bene. Raggiunse un cubicolo e vi ci si chiuse dentro. Gli era sembrato di vedere una figura ai lavandini prima che si chiudesse la porta del piccolo locale alle spalle, e proprio per quello tentò di controllarsi, ma non ci riuscì. Il suo mondo era stato stravolto; neanche riusciva a descrivere lo shock che aveva provato nel vedere la propria faccia addosso ad un altro. Era come se la sua mente si rifiutasse di assimilare la situazione; i pensieri lo affollavano a migliaia ma volavano via prima ancora che potesse formularli.
Aveva un fratello; un gemello.
Ma non era possibile.
Sua madre lo aveva abbandonato; non lo aveva voluto.
Ma aveva voluto Osamu.
Sobbalzò spaventato quando alcuni colpi raggiunsero il legno della sua porta. Atsumu fissò inorridito in direzione del rumore, ma non riuscì a parlare.
“Tutto bene lì dentro?” non riconobbe la voce e questo lo fece calmare. Non avrebbe sopportato quella del secondo Miya, né quella di Akaashi o di qualsiasi membro dell’Inarizaki venuto lì solo per trascinarlo fuori. Così, Atsumu tentò di rispondere, ma senza successo.
Si allarmò; tutt’a un tratto consapevole di stare annaspando nel suo stesso respiro. Si portò le mani alla gola ed il suo panico crebbe.
Aveva un fratello; un gemello.
Sua madre non lo aveva voluto. Ma aveva voluto Osamu.
Tentò di respirare, ma più tentava di farlo, più gli sembrava di soffocare. Aveva ancora le mani alla gola, strette l’una all’altra, tremanti e fredde. Gli occhi spalancati, la bocca secca, le orecchie ovattate dal suono assordante del proprio battito cardiaco.
“…ira. Respira. Respira.”
Era confuso; non capiva.
“Ho un gemello. Mia madre ha abbandonato me per tenere lui.” sollevò i piedi e si abbracciò le ginocchia continuando a respirare a fatica.
Fu allora che, guardando in basso, scorse una mano guantata infilata nella fessura tra pavimento e porta intenta a porgergli qualcosa.
“Riesci a raggiungerla?” sentì la voce più chiaramente. Atsumu annaspò ancora, ed incapace di alzarsi si limitò a sporgersi in avanti. Il proprio peso lo fece arrancare a terra, ma questo gli permise di avvicinarsi allo sconosciuto; in mano aveva una busta di cartone. Miya la prese con mani tremanti.
“Va tutto bene.” continuò il ragazzo senza volto “Copriti naso e bocca con quella e respira da lì.” Atsumu fece come gli era stato detto. Passò un minuto, poi due. Iniziò a calmarsi, ma poi notò la tuta del suo salvatore: giallo-fluo. L’iperventilazione tornò.
“Non sforzarti.” gli disse l’altro “Va tutto bene. Hai tutto il tempo che vuoi.” Atsumu si prese ancora qualche secondo, ma infine fu più forte di lui e a fatica chiese:
“Mi-ya-?” la voce tacque per qualche attimo prima di rispondere:
“Non è qui. Vuoi che te lo chiami?” il panico invase l’alzatore che allungò una mano ed afferrò i pantaloni dello sconosciuto, trattenendolo.
“Non farlo.” gli venne risposto che aveva capito, poi nell’aria tornarono solo i suoi respiri malati.
Atsumu non seppe quanto gli ci volle. Ispirò ed espirò a fondo quando infine fu libero di farlo. Deglutì un paio di volte, infine ringraziò l’anonimo soccorritore.
“Adesso sto bene.” lo informò poi “Ho bisogno di qualche minuto da solo.” vide l’altro spostare il peso da un piede all’altro, infine sembrò prendere una decisione. Si chinò quel tanto che bastava, poi la sua mano raggiunse ancora Atsumu, stavolta per porgergli una mascherina chirurgica. L’alzatore riuscì ad accennare una risata.
“Porti sempre buste di cartone e mascherine con te?” la risposta arrivò celere e inaspettata.
“In effetti sì.” Miya non seppe cosa rispondere, quindi non disse nulla, e nel frattempo il ragazzo dell’Itachiyama andò via.

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Capitolo 2
*** Parte 2 - negazione ***


Negazione

Uscire da quel cubicolo non fu semplice. La mascherina aveva aiutato, forse convincendolo che avere mezzo volto coperto l’avrebbe protetto. Riuscì ad arrivare alla propria camera, si chiuse dentro e ringraziò mille volte di non avere un compagno con cui dover dividere quello spazio. Si strappò più che togliersi di dosso la divisa sportiva, indossò in fretta la maglietta sformata che usava come pigiama e si rannicchiò sotto le lenzuola sperando che quelle potessero nasconderlo dal resto del mondo e dai propri pensieri.
Riemerse molto tempo dopo. Un’occhiata all’orologio del cellulare gli disse che erano le sette inoltrate del pomeriggio. Attese mezz’ora ancora. Le squadre di casa – e quindi tra queste l’Itachiyama – arrivavano la mattina e rincasavano la sera. Se gli orari erano gli stessi del giorno prima i pullman dovevano essere già partiti da tempo e con essi la sua copia, ma non volle rischiare.
Si fece l’ora di cena, e solo a quel punto Miya si fidò a lasciare camera propria. Attraversò il corridoio che l’avrebbe portato alla mensa con l’ansia nel cuore; in mente solo le domande che gli avrebbero rivolto i suoi compagni e la mascherina in volto come unica amica. Gli tremavano le gambe. Per ore non aveva fatto altro che ripetersi che quel ragazzo non era suo fratello, per ore non aveva fatto altro che tentare di convincersi che la sua vita non era stata una bugia. Alla fine c’era riuscito, e adesso temeva che le parole dei presenti nell’edificio avrebbero vanificato i suoi sforzi.
Fece il suo ingresso in mensa e subito seppe di aver avuto ragione. Mai nessuno, in tutta la sua vita, l’aveva guardato con tanto interesse. In cuor suo Atsumu aveva sempre sperato che lo facessero, eppure adesso si ritrovò a pregare per l’opposto. Il labbro gli tremò alla vista dei volti curiosi dei presenti che probabilmente non avevano fatto altro, quel giorno, che aspettare di aprire quella conversazione; una conversazione per cui Atsumu non era pronto.
Se il suo labbro tremante era nascosto dal tessuto, gli occhi però lo tradirono immediatamente inumidendosi e spalancandosi per la paura. Ogni sillaba morì in gola ai proprietari, però, quando Kita Shinsuke si alzò e ponendosi tra Atsumu e tutti gli altri autoritario disse:
“Vi sembra che si sia ripreso?” e bastò quello per far desistere tutti i presenti. L’alzatore sospirò più tranquillo e guardò riconoscente Kita quando questi si voltò per sorridergli incoraggiante. La riserva del secondo anno era una persona stupenda e – Atsumu lo sapeva – avrebbe potuto essere il suo amico più caro se solo entrambi non fossero stati così restii nell’avviare una conversazione. Immediatamente, capì che era a lui che doveva quel giorno di tranquillità, a partire dai diversi minuti che aveva passato indisturbato in bagno e per finire con le ore in stanza. Fu accanto a Kita che si sedette per consumare il proprio pasto. Lo sguardo basso e la spalla del più grande a mo’ di barriera capace di separarlo dal resto del mondo. Gli venne data la buonanotte con voci tirate, lui le ascoltò appena prima di ritirarsi.
Era riuscito a convincersi che non aveva un fratello che abitava a Tokyo di cui non aveva mai saputo l’esistenza. Con una grande forza di volontà, la sua mente era riuscita a proteggersi negando l’evidenza. Ma la realtà tornò chiara e crudele con la luce del sole.
Si mise in tenuta sportiva; indugiò con lo sguardo sulla mascherina, ma infine decise di non portarla.
Andava tutto bene. Gli sarebbe bastato evitarlo.
Fece una magra colazione – causa il suo stomaco chiuso – ed in coppia con Kita prese a riscaldarsi. Giocò come sempre mettendoci tutta l’anima, concentrando le proprie azioni e i propri pensieri sulla palla e su quella soltanto. Shinsuke sempre al suo fianco in un rispettoso silenzio cui solo lui sarebbe mai stato capace di mantenere. Atsumu non seppe se fu una coincidenza o un’insistenza del suo coach, tuttavia fu solo nel tardo pomeriggio che la sua squadra, infine, si ritrovò dietro la rete dell’Itachiyama. Miya fissò avido davanti a sé tentando di non mettere mai a fuoco il numero undici dalla maglia sgargiante. Deglutì più di quanto non avesse mai fatto in vita sua e allo stesso modo si morse le labbra in ansia. Giocò una partita pessima, ma nessuno lo biasimò per questo. Persero il primo set, e fu allora che non poté più evitare il confronto.
“Non parlarmi!!” urlò ad Osamu che gli si stava avvicinando senza neanche degnarsi di voltarsi ad affrontarlo. Abbassò il capo ancora un po’, poi sempre forte esclamò ancora: “Non voglio nemmeno guardarti. Sparisci!” aveva gli occhi chiusi, a quel punto, così seppe che il secondo Miya l’aveva ascoltato solo quando fu Kita a sussurrarglielo. Atsumu si guardò intorno: della testa castana identica alla sua non vi era traccia. In cambio, alcuni sguardi malevoli lo stavano guardando risentiti. L’alzatore li ignorò, tornò in campo e si impose di vincere il secondo set.
Il giorno successivo andò esattamente nello stesso modo, ma in quello ancora dopo le cose iniziarono a complicarsi. Se inizialmente tutti i ragazzi gli erano stati alla larga, con il susseguirsi delle ore sempre più persone quel quinto giorno di ritiro iniziarono a prendersi diverse libertà.
“Come fai a continuare a dire che non siete imparentati?” gli disse un ragazzo del Nekoma.
“Avete lo stesso cognome e siete nati lo stesso giorno!” uno del Nohebi.
“Siete identici in tutto.” un altro del Sarukawa. Atsumu non era stupido. Non c’era bisogno che quegli estranei gli sbattessero in faccia qualcosa di già così tremendamente ovvio. Eppure non voleva, non poteva crederci.
Il suo limite di sopportazione lo raggiunse dopo una settimana. Una sera raccolse in fretta giacca e portafogli pronto per una gita notturna non autorizzata. Era quasi alla porta quando una voce che conosceva bene attirò la sua attenzione: era Suna.
“Dove vai?” gli chiese. Atsumu indugiò. Lui e Rintaro non si potevano definire prettamente amici, eppure era quello con cui si sentiva più affine all’interno della squadra.
“Ho bisogno di spazio.”
“Sono le dieci passate, Miya! Non puoi uscire così.” l’alzatore sospirò forte, poi si passò una mano sul volto con fare stanco.
“Non ti ho mai chiesto niente, Sunarin.” gli disse senza dover fingere la propria disperazione “Adesso devi solo fingere di non avermi visto, tutto qui!” tentò di convincerlo “Ne ho bisogno.” gli fece ancora. Suna lo studiò per qualche secondo, infine annuì. Atsumu gli sorrise riconoscente, poi si lasciò il complesso sportivo alle spalle.
Non aveva una meta. Voleva solo allontanarsi. Non sarebbe stato via tanto a lungo, né avrebbe causato problemi. Se non per amor dei suoi responsabili, almeno perché non voleva che suo padre venisse contattato. Non gli aveva detto di Osamu. E perché avrebbe dovuto? Farlo avrebbe significato ammettere la realtà, e lui non era pronto. Forse, se solo Atsumu fosse stato una persona normale, chiamare il genitore sarebbe stato il suo primo pensiero; avrebbe urlato e sbraitato pretendendo risposte. La verità era che non sapeva cosa suo padre avrebbe potuto dirgli e non aveva fretta di scoprirlo.
Atsumu non aveva mai avuto bisogno di una famiglia. Si era ripetuto quella frase ancora e ancora: l’aveva fatto mentre giocava al parco lanciando la palla in solitudine contro il muro; durante le notti di tempesta, solo e impaurito nella sua stanza; durante i propri compleanni festeggiati in pochi minuti con l’unica compagnia di Chojiro; ed ancora al suo diploma delle medie, guardando i suoi compagni pieni di soggetti che li attorniavano nelle fotografie al contrario del suo tetro ed isolato sfondo.
Atsumu si era ripetuto quella frase ancora e ancora, ma Atsumu era umano, ed almeno con se stesso poteva ammettere a quale pensiero andasse il merito di averlo fatto sopravvivere: il pensiero che suo padre stesse mentendo, il pensiero che sua madre fosse stata costretta a lasciarlo, che sua madre lo stesse ancora cercando.
L’esistenza di Osamu cambiava tutto. L’esistenza di Osamu rendeva vere le parole di suo padre. L’esistenza di Osamu diceva che Atsumu non era stato voluto.
“Il colore degli occhi è diverso, ma la forma è identica!”, “Quanto sei alto? Osamu è un metro e ottantatré!”, “Dei capelli solo il ciuffo è diverso!”
No.
No.
No.
Atsumu si rifiutava di riconoscerlo. Osamu non era suo fratello. Loro non erano uguali.
Quando infine rientrò nell’edificio che ospitava la squadra, fece attenzione ed in silenzio raggiunse la propria camera. Sussultò, e non poco, quando dal letto di destra una figura accese la lampada del comodino.
“Sunarin!” esclamò l’alzatore portandosi una mano al cuore “Che cazzo ci fai qui?”
“Ho detto a Ginjima che avrei dormito in camera con te. Ora va meglio?” Atsumu lo guardò di sbieco domandandosi se quella non fosse una tattica per bere gossip direttamente dalla fonte primaria.
“Credevi che ti avrei lasciato uscire di notte da solo per poi andare a letto tranquillo?” gli chiese poi visto il suo mutismo. Miya spostò il peso da un piede all’altro.
“Non volevo farti preoccupare…”
“Ma ne avevi bisogno.” concluse il compagno per lui. L’alzatore annuì. Fu a quel punto che Suna si alzò e, raggiungendolo, chiese ancora:
“Che cos’hai qui?” gli sfilò il pacchetto che reggeva dalle mani. Atsumu era entrato in quel minimarket aperto ventiquattro ore su ventiquattro senza pensarci, ed aveva comprato quel che gli serviva ancora più automaticamente.
“È tinta per capelli?” Miya non rispose, ma la confezione – d’altronde – parlava da sola. Temeva che l’avrebbe giudicato; temeva che Rintaro avrebbe riso di lui e della sua malsana illusione che un po’ di biondo potesse cambiare le cose. Stravolse le sue aspettative, invece, e sorridendogli incoraggiante gli fece cenno verso il bagno.
“Ti aiuto a colorarli.” Atsumu si chiese se potesse definire il centrale un amico, e sorridendo – almeno per quella notte – si rispose di sì.
 
 
 
Osamu era certo che avrebbe ucciso qualcuno prima che quel campo estivo potesse finire.
Aveva un fratello gemello. Quello era un fatto con cui era venuto a patti il giorno stesso in cui si era specchiato nel volto dell’alzatore dell’Inarizaki, ma dire che per era stato facile accettarlo sarebbe stata una bugia. Le sue domande, una volta appurata la parentela, erano subito corse a sua madre: l’aveva cresciuto da sola districandosi con difficoltà tra famiglia e lavoro. Gli aveva sempre detto che suo padre era morto quando lui era piccolo e che loro due se la sarebbero cavata da soli. Osamu non aveva mai fatto domande per paura di ferirla, eppure adesso l’unica cosa che gli riusciva era quella di biasimarla. Non conosceva le circostanze nelle quali lui e suo fratello erano stati separati, ma era già più che certo che non potessero essere usate come giustificazione.
“Com’è finito Atsumu a vivere a Hyogo? Perché non siamo cresciuti insieme?” aveva preso a domandarsi subito dopo la fuga del palleggiatore verso i bagni “Come ha potuto la mamma permettere che crescesse senza genitori? Io sono davvero il suo figlio biologico o mi ha preso da un orfanotrofio lasciando lì metà di me?” tutti quei pensieri lo stavano facendo impazzire. In un battito di ciglia il suo mondo era stato capovolto, e la cosa peggiore era che nessuno sembrava capirlo. Chiacchieravano sorpresi ed eccitati, invece. D’altronde non capita tutti i giorni di assistere alla riunione di due gemelli separati alla nascita.
Li fece tacere tutti con poche parole fredde e si allontanò per cercare Atsumu, ma quando non lo trovò immediatamente capì di doverlo lasciare solo. Anche lui, d’altronde, sentiva di aver bisogno di spazio.
 
I giorni successivi trascorsero tra sguardi lanciati di sottecchi e sussurri non troppo velati. Tutti erano più che impazienti di seguire l’evolversi della loro storia, ma ben presto chi lo conosceva capì di non dover sollevare l’argomento. I suoi amici gli diedero tempo e spazio, e lui li usò per osservare Atsumu.
Ed ecco, a un tratto, che un impellente impulso omicida iniziò a impadronirsi di lui.
“Che stronzo.” gli era stato detto da una riserva della sua squadra con cui non aveva mai veramente parlato subito dopo che Miya gli aveva urlato di sparire. Osamu si voltò come una furia verso il ragazzo che l’aveva seguito nella sua ritirata e – probabilmente credendo che la sua rabbia fosse rivolta ad Atsumu – continuò: “Non prendertela! Scommetto che non gli va giù il fatto di dover dividere l’attenzione con te.” ghignò. In un angolo del proprio cervello, Osamu riuscì a rendersi conto che forse quelle parole potessero essere state dette per farlo sentire meglio, eppure avevano fatto l’esatto opposto.
Come osava, quel ragazzo, insultare Atsumu? Come osava pretendere di sapere cosa gli passasse per la testa in quel momento tanto delicato della sua vita? Nessuno lo sapeva. Nemmeno Osamu. Ma se proprio qualcuno poteva sentirsi in diritto di avanzare delle ipotesi, quello era lui e lui soltanto. Nessun’altro si era e si sarebbe mai ritrovato nella loro situazione.
“Prova anche solo a pensare di insultare di nuovo mio fratello e dovrai vedertela con me.” quelle parole, ringhiate con rabbia in un sussurro roco, fecero gelare il suo interlocutore, che deglutì e smise di seguire Osamu.
Atsumu aveva bisogno di tempo e spazio, e lui glieli avrebbe dati.
 
Osamu capì di aver fatto bene una settimana dopo quel giorno. Si era trascinato come sempre fino a scuola e da lì preso l’autobus insieme a tutta la squadra. Sebbene fosse passato molto dalla grande rivelazione, le chiacchiere ancora non si erano estinte, e – anzi – in alcuni casi erano persino cresciute. Lo schiacciatore poteva dire per certo che si trattasse di lui e suo fratello perché la gente bisbigliava e si bloccava non appena lo vedeva. Quel giorno tutti sembravano più eccitati del solito, ed Osamu ne capì la ragione non appena vide Atsumu.
Si bloccò. Non tanto per la sorpresa che aveva in testa quanto per il fatto che gli si stava avvicinando. Lui e l’Itachiyama erano appena scesi dall’autobus, tanto che ancora non avevano neanche fatto in tempo ad entrare in palestra. Atsumu indossava gli abiti sportivi, eppure era chiaro che non avesse fatto attività.
Rimasero qualche secondo in silenzio non appena l’alzatore lo raggiunse. Osamu non commentò nulla sui capelli; invece, attese che fosse l’altro a parlare, timoroso che ogni suo preventivo intervento potesse farlo scappare.
“Andiamo a sederci da qualche parte?” gli chiese, e subito Osamu annuì.
“Dove preferisci?” l’altro scrollò le spalle, ma subito dopo iniziò a fare strada.
Si sedettero uno di fianco all’altro su un muretto all’ombra, sul retro dell’edificio, e lì stettero in silenziosa contemplazione per qualche secondo. Fu Atsumu, di nuovo, a parlare per primo:
“L’hai già detto a qualcuno?” le sue parole erano state flebili, quindi Osamu fu costretto a voltarsi e a chiedere:
“Come?” Atsumu si schiarì la gola.
“Hai detto a qualcuno di me, a casa?” Osamu lo osservò per un attimo mentre il biondo continuava imperterrito a fissare dritto davanti a sé.
“No.” rispose infine, al che Atsumu si voltò a guardarlo. Lui sorrise mesto. Avrebbe tanto voluto chiedere spiegazioni a sua madre, ma se da una parte la curiosità lo spingeva a farlo, dall’altra la paura lo frenava. “Mi sembrava giusto prima parlarne con te.” gli disse con sincerità ciò che maggiormente, comunque, l’aveva bloccato. L’alzatore abbassò lo sguardo ma sorrise riconoscente.
“Tu?” chiese a quel punto il castano. Atsumu sbuffò una risata.
“Neanche una parola.” sospirarono entrambi.
Il silenzio scese ancora una volta tra di loro, ma senza essere accompagnato dall’imbarazzo. Semplicemente, entrambi i gemelli avevano bisogno di tempo, e fortunatamente per loro potevano usarne quanto ne volevano.
“Non ho mai conosciuto mia madre…” riprese a un certo punto il ragazzo di Hyogo. Si voltò verso Osamu che poté appurare quanto lucidi e terrorizzati fossero gli occhi castani del fratello. “Tu sei cresciuto con lei?” lo schiacciatore fu pervaso da un immotivato senso di colpa. Sapeva che non era lui quello da biasimare per la vita dell’altro, eppure continuava a chiedersi: “Perché io ho potuto vivere con un genitore e lui no?”
Annuì, e Atsumu sospirò tremante. Il castano deglutì ed indugiò molto, ma infine riuscì a chiedere:
“Tu, invece…?”
“Sono cresciuto con mio padre.” Osamu spalancò gli occhi.
“Padre?” pensò. Ancora una volta le proprie certezze che crollavano.
“T-ti” balbettò “ti ha… adottato?” tentò di chiedere. Atsumu sollevò il capo di scatto, ma dopo un’iniziale sorpresa rise, più isterico che divertito.
“A questo punto non ne ho idea!” anche Osamu si ritrovò a ridere. Se fossero stati in compagnia, probabilmente li avrebbero ritenuti pazzi.
“Mamma mi ha sempre detto che mio padre è morto quando io ero piccolo.”
“Papà che la mamma ci ha abbandonati.”
Di nuovo silenzio; entrambi con le stesse domande in testa:
“Qual è la verità? Perché ci hanno mentito?”
E allo stesso modo, entrambi consapevoli dell’unica soluzione possibile: chiederlo a loro.
Però no, non erano pronti. Avevano quindici anni ed avevano appena scoperto entrambi di avere un fratello. Era su quello che si sarebbero concentrati per il momento.
Parlarono per un po’. Dapprima con cautela, poi toccando tasti sempre più delicati. E fu raccontando un aneddoto vissuto insieme a sua madre, infine, che Osamu commise il primo errore. Atsumu si alzò di scatto.
“Scusa.” esclamò con voce tremula senza guardarlo in faccia. “Credevo di farcela, ma non è così.” fece per scappare via, quindi Osamu agì d’istinto e alzandosi a sua volta chiamò a gran voce:
“Tsumu!” il biondo si bloccò. Stavano entrambi respirando sonoramente, adesso, con la testa invasa da vecchi ricordi tornati a galla. Il palleggiatore si voltò.
“Come mi hai chiamato?” chiese in un sussurro, tanto che se Osamu non si fosse aspettato quella domanda probabilmente non l’avrebbe sentito. Deglutì.
Tsumu… era così che ti chiamavo… vero?” gli occhi di entrambi si fecero lucidi, poi un paio di lacrime sfuggirono al controllo di quello di Hyogo.
“Samu…” sussurrò quasi incredulo “Credevo fosse solo un amico immaginario che mi ero inventato da piccolo.” Osamu sorrise, adesso anche lui con le guance rigate. Se non altro, adesso sapevano di aver vissuto i primissimi anni di vita insieme.
Tornarono a sedersi, si presero qualche attimo per riprendersi, poi continuarono a parlare.

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Capitolo 3
*** Parte 3 - accettazione ***


Accettazione

 
Aveva un fratello gemello. Dopo aver parlato con lui la cosa era diventata innegabile persino per Atsumu. Gli era stato raccontato di sua madre e allo stesso modo lui aveva raccontato del padre ad Osamu che – si accorse solo in quel momento il biondo – aveva per tutti quei giorni dato per scontato non essere imparentato biologicamente a loro. Se lui aveva negato l’evidenza per quanto riguardava suo fratello, il castano aveva fatto lo stesso con Chojiro, ma anche lui dovette ricredersi una volta viste le foto mostratogli da Atsumu. Non sembrava essere stato facile per lui appurare di essere cresciuto tra inganni e bugie, ma non aveva più importanza; non l’aveva per nessuno dei due.
Se Osamu non aveva voluto neanche pensare all’eventualità che loro padre fosse ancora vivo per non perdere fiducia nella donna che lo aveva cresciuto, Atsumu aveva rifiutato l’evidenza pensando solo di voler preservare l’immagine che si era costruito di sua madre nella sua fantasia, ma a un tratto quelle cose erano passate in secondo piano. Addirittura, forse, erano state del tutto dimenticate.
Avevano entrambi un fratello; un fratello gemello. Si erano conosciuti e poi dimenticati. Tsumu e Samu. Ecco chi erano; chi avrebbero dovuto essere.
Parlarono e parlarono ancora. Parlarono di tutto e parlarono di niente.
Se era questo che voleva dire avere un fratello, Atsumu era felice che la sua vita fosse stata del tutto scombussolata; era felice che l’immagine idilliaca di sua madre si fosse di netto trasformata.
Quando rientrarono in palestra, l’uno di fianco all’altro e con due sorrisi identici sulle labbra, tutti gli occhi corsero su di loro, ma per una volta al biondo non interessava.
Si chinò d’istinto quando Osamu sollevò una mano per arruffargli i capelli.
“Ti stanno bene.” disse contento commentando per la prima volta quel nuovo colore. Atsumu lo spintonò con la spalla.
“Il coach ha minacciato di chiamare mio padre non appena mi ha visto!” l’uomo era stato più che comprensivo quei giorni, ed ancora lo fu quando Atsumu gli chiese ancora qualche giorno senza che lui sapesse nulla.
Si separarono per qualche secondo. Entrambi raggiunsero le proprie squadre ed annunciarono che avrebbero giocato contro quella del fratello. Dopo tanto tempo, finalmente, l’alzatore sentì di potersi godere appieno quel ritiro estivo che tanto aveva aspettato. Giocò a pallavolo e si divertì come sempre avrebbe dovuto essere. Persero e vinsero alcuni set, poi Osamu sollevò la rete e vi passò sotto obbligando alla panchina una delle loro ali laterali.
“Bella battuta, Samu!!” esclamò entusiasta il biondo ad un ennesimo punto. Sorrise al settimo cielo consapevole che mai, come allora, aveva amato tanto quello sport che già di suo venerava alla follia.
 
Quella sera, in stanza, raccontò a Suna di suo fratello. Il castano lo ascoltava rapito e – incredibilmente – del tutto dimentico del suo cellulare che trillava notifiche lì a fianco. Iniziò ad avvicinarsi sempre di più ai ragazzi dell’Inarizaki. La scuola, dopotutto, era iniziata ormai da più di tre mesi, e se prima Atsumu era convinto di non essere capace di farsi degli amici, adesso grazie a Osamu sapeva non essere così.
Si presentarono a vicenda i compagni, entusiasti di ascoltare storie sul gemello e ancor più di prenderlo scherzosamente in giro per le cose più insignificanti.
Fu a quel punto che per la prima volta Atsumu si interessò di Kiyoomi. I Miya erano seduti al tavolo insieme all’Itachiyama, ma guardandosi intorno il biondo notò mancare il loro asso.
“Sakusa non mangia con voi?” un paio di ragazzi sbuffarono una risata.
“Non mangia con nessuno!” esclamò uno di loro, poi Osamu spiegò meglio:
“Ha qualche problema con la confusione, quindi di solito afferra un vassoio con suo cugino Komori e si trovano un tavolo appartato.”
“Non rivolge la parola a nessuno se non è prettamente indispensabile.” a quelle parole Atsumu corrucciò gli occhi. Aveva parlato con lui, d’altronde. Scosse la testa subito dopo e scacciò via quel pensiero. Era ovvio che avesse parlato con lui. Era in pieno attacco di panico e Sakusa sarebbe stato un mostro a non intervenire. Tornò a sorridere spensierato, quindi, ed era pronto a tranquillizzare Osamu per quel momento di confusione quando notò che suo fratello stava guardando in alto, oltre la sua spalla. Atsumu si voltò e trovò l’oggetto dei suoi pensieri in piedi accanto a sé.
“Ora stai bene.” si rivolse proprio a lui. Il biondo strabuzzò gli occhi senza capire. Era Osamu il suo compagno di squadra, quindi perché era con lui che stava parlando? Distinguerli era facile, adesso, con i capelli biondi e la maglietta nera che stava indossando il ragazzo di Hyogo.
“S-sì.” balbettò “Tutto bene adesso.” Kiyoomi annuì. Poi, contro le aspettative di chiunque, scavalcò la panca e si sedette al suo fianco. Il silenzio scese carico intorno al tavolo, ma non durò a lungo perché subito Atsumu prese a commentare qualcuna delle splendide azioni che aveva visto compiere all’asso.
“Ti va di schiacciare qualche mia alzata?” gli chiese eccitato. Sakusa sorrise.
“Solo se mi batti sui punti di servizio.” Atsumu ghignò.
“È una scommessa.”
 
 
 
Ebbene sì, suo fratello era fenomenale. Era un ottimo alzatore, certo. Forse persino il migliore dell’edificio nonostante fosse ancora al primo anno. Ma la cosa più strabiliate fu vederlo interagire così normalmente con Sakusa.
“Esattamente, rispiegami com’è possibile che tu riesca così bene a parlare con Sakusa e nel frattempo essere pessimo a farti piacere da chiunque altro.”
Erano sette giorni ormai che i gemelli non mollavano un attimo l’uno il fianco dell’altro, così Osamu poteva star certo di potergli rinfacciare la sua scarsa popolarità senza con questo rattristarlo o ferirlo. Atsumu, a mo’ di risposta, si limitò ad arrossire.
“Giochiamo di nuovo insieme, oggi?” gli chiese poi, invece di rispondere davvero. Osamu alzò gli occhi al cielo per quel cambio così drastico d’argomento, ma non insistette oltre.
“Il coach mi uccide se cambio squadra un’altra volta.” deluse le sue aspettative. Ci pensò un attimo, poi aggiunse: “Potrei dire alla mamma che devo fermarmi per la notte e giocare con quelli che restano fino a tardi insieme a te.” il viso di Atsumu si illuminò.
“E lei te lo lascerà fare?” il ragazzo di Tokyo scrollò le spalle.
“Immagino di sì.”
Fu comporre il numero della donna, quindi, la cosa successiva che fece. A quella vista Atsumu si mise sulla difensiva facendo qualche passo indietro. Avevano passato sette giorni insieme senza che nessuno dei due avesse mai provato a toccare l’argomento genitori. Atsumu, d’altronde, si rifiutava persino – a quanto pareva – di sentire la sua voce, quindi Osamu si allontanò.
Le spiegò che ad alcuni ragazzi era stato proposto di fermarsi per la notte e che lui voleva davvero, davvero tanto fermarsi per la notte, ed al suo consenso Osamu sorrise mostrando il pollice in alto a suo fratello. Chiuse la chiamata e si separarono per raggiungere le rispettive squadre con la promessa di rivedersi quella sera.
 
Giocare come ala esterna dell’Inarizaki gli piaceva. Lui e suo fratello formavano una coppia formidabile, tanto che – sebbene in quei pochi mesi si fosse affezionato all’Itachiyama – per poco non rimpianse di non essere cresciuto a Hyogo. I ragazzi erano tutti eccezionali. Li conosceva già di nome da qualche giorno, ma quella sera – specialmente a cena – capì di adorare ognuno di loro.
“Atsumu russa.” gli disse a un certo punto Suna una volta raggiunta la stanza che lo avrebbe ospitato.
“Non è vero!” esclamò il biondo.
“E parla nel sonno.”
“Non ascoltarlo.” incrociò le braccia al petto.
“E poi sgancia certe bombe che-”
“Te lo stai inventando, Sunarin!!” lo interruppe l’alzatore. Il centrale rise e finì di raccogliere le proprie cose.
“In ogni caso non mi mancherà affatto stare qui!” disse. Fece per lasciare la stanza, ma prima che potesse farlo mise una mano sulla spalla di Osamu “Prenditi cura di lui, eh?” lo disse piano, in tono privato, ma Atsumu lo sentì ugualmente. Il ragazzo di Tokyo vide i suoi occhi castani brillare di felicità e commozione, poi annuì a Rintaro che subito dopo andò via.
“È più simpatico quando ti insulta.” affermò Miya buttandosi sul suo nuovo letto. Atsumu lo raggiunse solo per mettergli una mano in faccia e spingerlo all’indietro.
“Siete fatti l’uno per l’altro.” scherzò alzando gli occhi al cielo, al che Osamu ghignò.
“Con quel culo… potrei farci un pensierino.” il biondo si bloccò ed arrossendo spalancò gli occhi.
“Non dici sul serio!” l’altro rise.
“Perché è un ragazzo?”
“Perché è Sunarin!” Osamu strinse gli occhi.
“Ma ci vedi?” il biondo gli si sedette accanto.
“Io ti aiuto con lui se tu mi aiuti con Sakusa.” il castano rise di gusto.
“Non hai speranze!”
“Vale la pena provare!!”
Passarono il resto della serata ad insultarsi a vicenda, ridendo e di tanto in tanto lanciando a tradimento qualche cuscino. Osamu non poteva certo dire di conoscerlo, eppure Atsumu gli sembrava adesso una persona completamente diversa dal primo giorno del ritiro. Era più sicuro, estroverso, e di riflesso felice. L’ultima cosa che il castano voleva era di rovinare quell’atmosfera, eppure i giorni passavano e – presto o tardi – l’argomento tabù sarebbe dovuto saltare fuori.
Ne parlarono pochi giorni più avanti: era tempo di dire di loro ai genitori.
 

 
Sbloccare il cellulare ed aprire la chat che aveva con suo padre fu più difficile di quanto Atsumu non avesse creduto. Stare con Osamu, avere un fratello, riuscire a parlare grazie a lui con l’intera squadra dell’Inarizaki come fossero amici… tutto quello era troppo bello ed Atsumu non voleva che finisse. Scrivere a suo padre gli sembrava come impostare la sveglia nonostante stesse vivendo il sogno più bello di tutta la sua vita. Non sarebbe stato facile tornare alla realtà, ma mancavano meno di due settimane alla fine del ritiro estivo, ormai, e se non avessero affrontato la cosa sarebbe stato peggio.
Aprì la chat, dunque, e scrisse una semplice frase che sapeva tuttavia a priori sarebbe stata presa dall’uomo poco seriamente:
            “Mi raggiungi a Tokyo domani per pranzare insieme?”
Come previsto, suo padre rispose ridendo. Atsumu non la prese come un’offesa. Abitavano insieme da quindici anni, ormai, ed il ragazzo aveva imparato sin dalle elementari che per fare una cosa così semplice come pranzare insieme occorreva un preavviso di almeno una settimana, forse persino di più. Figurarsi, poi, se i due si trovavano in città così distanti l’una dall’altra come erano Hyogo e Tokyo. Così Atsumu scrisse una seconda, semplice frase:
            “Ho conosciuto Osamu.”
Attese in ansia la reazione di Chojiro. Questi ci mise di più a rispondere; molto di più, ma non c’era da stupirsi. Attese, ed infine ebbe la sua risposta:
            “Prenderò l’aereo delle 12.00 AM. Dimmi dove vederci.”
Quando il biondo sollevò lo sguardo per comunicare la cosa a suo fratello, anche Osamu aveva avuto la sua risposta.
“Alle 14.00 al Gyopao Gyoza Roppongi, quindi.”
 
Il resto della mattinata trascorse lentamente e saturo d’ansia: sulle spalle di entrambi, adesso, il conto alla rovescia dei minuti che li separavano dal conoscere il genitore che li aveva abbandonati.
Entrambi avvertirono i rispettivi compagni e coach: Osamu avrebbe dormito ancora una volta al campo, poi insieme avrebbero preso la navetta che li avrebbe portati in città. I genitori – neanche a dirlo – avevano approvato.
“C’è ancora una cosa che devo fare prima di domani.” disse Osamu ad Atsumu ad un certo punto di quella sera. “Mi aiuti?”

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Capitolo 4
*** Parte 4 - inizio ***


Inizio

Osamu non era mai stato particolarmente cattivo. Pur di essere lasciato in pace troppo spesso aveva fatto buon viso a cattivo gioco, e men che meno – poi – si era permesso di essere scortese verso la donna che con così tanto impegno l’aveva cresciuto da sola. Nonostante questo, comunque, il ragazzo non si sentì minimamente in colpa a non averle specificato chi avrebbe dovuto farle incontrare con quel pranzo quando, entrati nel ristorante, vide il suo volto sbiancare. Aveva provato per giorni a capire perché sua madre Izumi gli avesse nascosto la verità, solo per arrivare alla conclusione che – qualsiasi fosse stato il motivo – non avrebbe mai potuto perdonarla.
Si concesse un momento, lo schiacciatore, per osservare Atsumu all’ingresso del ristorante, prima di proseguire e raggiungere la donna. Non appena furono a portata di voce nessuno parlò per diversi attimi. Atsumu era agitato e – Osamu avrebbe potuto scommetterci la vita – in lotta con se stesso per decidere se far prevalere l’ansia o la tristezza. Di nuovo, come era stato durante i loro primi giorni di ritiro, il biondo sembrava tanto essere un animale braccato: in dubbio se restare fermo immobile o voltarsi e scappare via. Sembrò prevalere la seconda quando – seppur cauta – Izumi fece un passo verso di lui nel chiaro tentativo di abbracciarlo. Osamu non seppe mai se quello di suo fratello fosse stato un gesto istintivo o premeditato, solo che, a quel movimento, il palleggiatore si fece indietro. La donna si bloccò, ma come poteva permettersi, lei, di insistere oltre se il bambino in fasce da lei lasciato a Hyogo non voleva toccarla?
Izumi deglutì ed abbassò le braccia. Infine, forse semplicemente per dire qualcosa, si rivolse allo schiacciatore:
“Osamu… i tuoi capelli…” Miya si aspettava una cosa simile, così rise amaro.
“Vuoi davvero parlare di questo?” non ci fu risposta. Si sedettero e, semplicemente, attesero in silenzio.
Miya Chojiro arrivò pochi minuti più tardi. Atsumu glielo aveva descritto come la versione più vecchia di loro, ed in effetti aveva ragione. Non era difficile, infatti, capire da chi i due avessero preso guardando i capelli neri della madre e quelli castani del padre. Anche gli occhi erano gli stessi mentre le folte sopracciglia – con forte disappunto di lei – erano tutte della mamma. Come la donna, era pallido anche lui, e anche se Osamu non l’aveva mai visto prima, non era difficile capire non essere dovuto alla sua naturale carnagione. Vederlo fu strano. Fu come realizzare una volta per tutte che lui non era un orfano, bensì un bambino abbandonato. Come Atsumu, adesso anche lui si ritrovava paralizzato: in dubbio se correre o restare.
“Izumi…” ruppe il silenzio l’uomo rivolgendosi alla donna che – come tutti – si era alzata per accoglierlo. “Ti trovo bene.” disse con voce tesa. Poi si voltò verso i gemelli. Osservò Osamu, gli si avvicinò e, titubante, gli mise una mano sulla spalla stringendola appena. Infine si rivolse ad Atsumu.
“Ti sei tinto i capelli.” costatò, ed il biondo fu molto meno pacato di lui nel rispondere:
“Sai, è stato uno shock piuttosto grande vedere la mia faccia addosso ad un altro! Vuoi biasimarmi per aver voluto cambiare qualcosa!?” come la sua ex compagna prima di lui, l’uomo decise saggiamente di non rispondere. Bofonchiò un “mi dispiace”, infine tutti tornarono a sedersi.
La scena fu imbarazzante, tesa e in stallo, all’inizio. Ognuno di loro – era certo – aveva lo stomaco troppo chiuso per poter mettere qualcosa sotto i denti, ma ordinarono ugualmente e fu dopo che le pietanze arrivarono – solo per lì sul tavolo rimanere intatte – che iniziarono davvero a parlare.
I gemelli volevano risposte.
Osamu sospirò forte non appena gli adulti ebbero finito di parlare, poi – per amor di precisione – volle ricapitolare:
“Insomma, quando tu hai ricevuto la promozione per un posto a Tokyo non ci avete pensato due volte e ci avete separati!”
“Non è stata una decisione presa alla leggera, Osamu.” provò a giustificarsi la donna, ma il ragazzo la fece a stento finire:
“A me sembra tanto di sì! C’erano mille soluzioni migliori rispetto a questa! Non avete pensato – che so – di tenerci a settimane alterne??”
“Avevate due anni, figliolo…” si inserì l’uomo. Lo schiacciatore digrignò i denti per quel nomignolo assolutamente non richiesto, ma lo lasciò continuare. “Vi avremmo scombussolato troppo l’infanzia trascinandovi da una parte all’altra del Paese così spesso.” dopodiché intervenne Atsumu che con rabbia sibilò:
“Perché in questo modo non l’avete fatto, non è vero?”
“Contavamo di dirvelo una volta che foste cresciuti abbastanza.” fu l’ennesima scusa.
“Abbastanza per cosa?” riprese il biondo “Per viaggiare in autonomia? Per avere un cellulare con cui poter contattare l’altro? Abbiamo superato da tempo quel punto. Trovate un’altra scusa.”
Izumi sospirò stanca, poi poggiò un gomito sul tavolo e la fronte alla mano.
“Non credere che non abbia mai pensato a te, Atsumu.” sollevò poi lo sguardo verso il ragazzo di Hyogo. Osamu osservò il fratello. Lo conosceva da meno di un mese, ma non gli ci era voluto molto per capire quanto quell’argomento fosse delicato per lui. Più di quanto – comunque – non lo fosse la mancanza di un padre creduto morto per l’altro.
“Ad ogni vostro compleanno, ad ogni Natale, ad ogni festa della mamma… sono stata così tanto spesso tentata di contattarti… e lo stesso tuo padre con te, Osamu.” si rivolse a lui. Poi tirò fuori il cellulare sbloccando davanti a tutti l’Area Personale: all’interno, solo foto di Atsumu. Nel cellulare di loro padre – scoprirono – vi era la stessa situazione con Osamu.
“Questo è ancora peggio!” urlò arrabbiato il ragazzo dai capelli tinti di grigio “Vuol dire che vi siete tenuti a contatto mentre noi…” le parole gli morirono in gola, ma Atsumu prese il suo posto chiedendo:
“Quindi perché.” aveva lo sguardo basso ed i pugni serrati “Perché separarci! Perché nasconderci la verità.” gli adulti si studiarono per un attimo, infine ammisero:
“Era la soluzione più semplice, Atsumu.” il biondo guardò ferito e deluso verso l’uomo che aveva parlato. “Eravamo entrambi sposati con il lavoro prima che tra di noi e…” indugiò “eravamo entrambi innamorati del lavoro prima che vostri genitori.”
Erano parole crude. Parole orribili. Ma proprio per questo, in un certo modo, apprezzate particolarmente da Osamu. I ragazzi avevano chiesto la verità, dopotutto, e questa certo non poteva che far male.
Sebbene fossero preparati a tutto quello, comunque, occorse a entrambi un minuto per metabolizzare la cosa. Tornando a guardare Chojiro, questi poi continuò:
“Abbiamo discusso a lungo su cosa fare. Continuare una relazione a distanza, dividerci la custodia a mesi alterni… ma lasciare uno il lavoro per l’altra… no, non era da noi. Nessuno dei due sarebbe mai riuscito a crescere due gemelli piccoli con tutte quelle ore lavorative, neanche se a fasi alternate con l’altro. Quindi Atsumu è rimasto con me, e tu, Osamu,” fece guardandolo “sei partito con tua madre.”
“Siete le persone più egoiste che io abbia mai conosciuto.” il ringhio di Atsumu fu basso, eppure perfettamente udibile da tutto il tavolo. Alcune persone sono più portate per il lavoro che per la vita familiare, questo è certo, eppure no, nessuno dei due – in quel caso – avrebbe mai potuto dirsi nel giusto.
“Avete almeno una minima idea di quello che ci avete rubato?” chiese arrabbiato il palleggiatore, al che la donna prese fiato. Forse per rispondere, forse per scusarsi. Non lo seppero mai, perché Atsumu – attirando non poca attenzione – senza più controllo urlò:
“Sta zitta! Non voglio nemmeno ascoltarti!” Chojiro si alzò in piedi, non inferocito ma alquanto alterato.
“Atsumu, non permetterti-”
“No, tu non permetterti!” si alzò a sua volta il biondo scansando la mano che aveva provato a raggiungere la sua spalla. Dopodiché andò via. L’uomo fece per seguirlo, ma bastò lo sguardo tagliente di Osamu per bloccarlo. Fu lui, poi, a seguire Atsumu.
 
Quella di rifugiarsi nei bagni doveva essere una tecnica che andava di moda a Hyogo. Non che, comunque, ci fossero altri posti dove andare all’interno di quel ristorante di lusso.
Osamu trovò Atsumu chinato su uno dei lavandini: l’acqua aperta e qualche goccia che già gli colava dal viso appena rinfrescato. Chiuse il flusso del rubinetto non appena si accorse di lui grazie allo specchio; si voltò e poggiò il peso sul piano di marmo.
“Come stai?” gli chiese lo schiacciatore. Atsumu non rispose. D’altronde – si disse Osamu – era una domanda ridicola da fare.
“Ci hanno abbandonati. Ci hanno separati. E per cosa!?” chiese senza guardarlo, le lacrime pronte a versarsi da un momento all’altro. Anche Osamu stava male. Aveva un groppo in gola e gli sembrava di non riuscir a deglutire bene sin da quando la folle spiegazione dei loro genitori era iniziata.
“Quella non è mia madre.” continuò poi il biondo “È solo la donna che ha preferito abbandonarmi per poter lavorare di più.” sospirò tremulo. Il ragazzo di Tokyo spostò il peso da un piede all’altro, infine avanzò e strinse Atsumu in un abbraccio. Il biondo si irrigidì, e ci mise un attimo di troppo per ricambiare. Lo fece con cautela, quasi con paura. Osamu arrivò a pensare che non fosse gradito, poi notò il riflesso di suo fratello nello specchio.
“Cazzo, Tsumu. Non arrossire così! Rendi sempre tutto molto più imbarazzante!” lo beffeggiò mentre anche le sue guance, tuttavia, si imporporavano.
“Sta zitto.” mormorò l’altro, e continuò strascicando le parole: “Questo è il primo abbraccio che ricevo in vita mia.” Osamu non riuscì a controllare la propria sorpresa a quella realizzazione e sussultò appena, ma non mollò la presa.
“Non credo. Ero un bambino carinissimo da piccolo. Scommetto che ti ho già abbracciato almeno una volta, solo che tu non lo ricordi perché sei un idiota!” Atsumu rise facendo incurvare verso l’alto anche le sue labbra. Poi strinse di più la presa.
“Torniamo di là solo quando te la senti.” gli sussurrò. Il biondo arrossì ancora.
“Mi fai sentire come il debole della coppia.” Osamu rise.
“Tu sei il debole della coppia.” lo insultò. A quel punto Atsumu sciolse la stretta per dargli un debole pugno sul braccio.
“Ridimmelo quando verrò selezionato per All-Japan Youth Training Camp prima di te. O quando riuscirò a conquistare Omi prima che tu possa farlo con Sunarin!” Osamu ghignò vittorioso.
“Omi?” chiese con tono incredulo e divertito insieme, consapevole di aver appena ottenuto del materiale di ricatto. La risposta di Atsumu arrivò attraverso un’altra raffica di colpi sul braccio.
 
 
 
 
Fu stranamente eccessivamente rilassato che Atsumu, infine, lasciò quel bagno in compagnia di Osamu. Scoprire il folle e del tutto ingiustificabile motivo per cui i loro genitori li avevano privati di un’infanzia piena di giochi in compagnia e rapporti sociali più sani lo aveva destabilizzato, ma ricordarsi – con l’abbraccio appena ricevuto – che non era troppo tardi per recuperare il tempo perso con il fratello lo aveva aiutato.
In un certo senso l’assurda spiegazione dei due lo aveva portato a fare pace con se stesso: non aveva mai avuto un rapporto stretto con suo padre e mai lo avrebbe avuto con sua madre. Che entrambi si tenessero i loro amati lavori, se proprio volevano. Sarebbe stato su Osamu su cui Atsumu si sarebbe concentrato, libero – dopo quindici anni – dall’irrealizzabile utopia che un giorno sua madre avrebbe potuto varcare la soglia di casa urlando il proprio rimpianto per l’abbandono.
Con gli occhi asciutti e la voce ben più salda di prima, dunque, i gemelli fecero ritorno al loro tavolo.
“Ecco come faremo.” annunciò il biondo non appena si sedette. “A partire da lunedì entrambi, una volta a settimana, verserete su un conto in comune intestato a me e a Samu diecimila yen1 a testa.”
“E noi potremo usare quei soldi quando vogliamo per finanziare i viaggi che faremo per vederci.” continuò Osamu.
“Compreremo entrambi dei nuovi letti da mettere nelle nostre camere, così a weekend alterni potremo dormire insieme.” riprese il biondo.
“I voli per Tokyo costano parecchio, quindi immagino che dovrete finanziare a parte il viaggio che farò la prossima settimana dato che il conto non potrà ancora coprirlo.” dichiarò infine lo schiacciatore.
“E questo è quanto.” volle precisare Atsumu dal momento che nessuno dei due adulti si decideva a dar segno di vita “Parlatene pure tra di voi, ma l’accordo non è trattabile.”
“Con i vostri bei lavori non sarà un problema rinunciare a quarantamila al mese, giusto?” gli rinfacciò Osamu. Il palleggiatore sorrise. Era pericolosamente soddisfacente torturare un po’ quei due insieme al fratello. Da ora in avanti – almeno questo era ciò che Atsumu si augurava – i genitori si sarebbero impegnati per conoscere il figlio che avevano rispettivamente abbandonato, ma almeno per il momento era liberatorio per Miya potersi prendere la sua piccola dose di vendetta con l’aiuto infimo di quella volpe di suo fratello.
A Chojiro ed Izumi non rimase altro da fare che accettare di buon grado e – magari – prendere come esempio quel metodo di compromesso.
 
Furono riaccompagnati entrambi al ritiro estivo in periferia poco dopo. Di comune accordo fu deciso che Osamu avrebbe potuto passare lì il resto delle notti. Infine, si accordarono affinché potessero cenare tutti e quattro insieme prima che Atsumu tornasse a Hyogo. Poco importava che loro padre avrebbe dovuto prendere nuovamente l’aereo. Quello, certo, era un buon inizio per la famiglia. Forse non sarebbero mai stati uniti come in passato il biondo avrebbe voluto che fossero, ma adesso tutto era cambiato. Sua madre l’aveva abbandonato così come il padre con Osamu, ma se da piccoli ne avevano sentito il bisogno, era anche vero che i genitori avevano aspettato troppo ed adesso erano altre le priorità dei due adolescenti.
Che si tenessero le loro vite, quindi. Atsumu ed Osamu avrebbero vissuto le loro, e l’avrebbero fatto insieme.
E fu proprio quel pensiero a ritornare in mente al giocatore professionista, dieci anni più tardi. Abitava ad Osaka, aveva un contratto solido con i Black Jackals ed una relazione stabile con Kiyoomi. Gli sarebbe bastato prendere la macchina, percorrere la via principale per appena dieci minuti e lì avrebbe trovato Onigiri Miya.
I loro genitori erano andati avanti con le loro vite, dopotutto, mentre Atsumu ed Osamu avevano vissuto le loro, e l’avevano fatto insieme.
 

1circa 80 euro.

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