Non ti avevo mai visto davvero

di settembre17
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tra i soldati della Guardia ***
Capitolo 2: *** Il cavaliere nero ***
Capitolo 3: *** Uscire dal limbo ***



Capitolo 1
*** Tra i soldati della Guardia ***


Seconda tappa. La vicenda si fa sempre più tortuosa. Spero di riuscire a rendere però l’idea di una certa linearità in questo percorso interiore così difficile.
Buona lettura e sempre grazie a tutti, a chi c'è dall'inizio e a chi si aggiunge per strada, a chi scrive un commento e a chi legge soltanto, non è poco e lo so.
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PROLOGO
I primi giorni i soldati della guardia l’avevano lasciato in pace: innanzi tutto pareva legato in qualche modo al loro carismatico compagno Alain, poi dovevano ancora studiarlo, infine trovavano che lui non se la cavasse male: se poteva essere gentile lo era, altrimenti si faceva i fatti suoi e stava quasi sempre in silenzio.
Nella sua camerata dormivano in otto e, quando era entrato per la prima volta, tutti avevano interrotto la mano di carte o la gara di freccette che stavano giocando per squadrarlo e poi l’avevano salutato con indifferenza. Ma con il passare dei giorni i suoi compagni si accorsero che, per motivi diversi, il nuovo arrivato non li lasciava indifferenti.
Alain lo osservava spesso, trovava quel tipo piuttosto strano: c’era del buono in lui, lo sentiva chiaramente, ma c’era anche molto mistero e questo lo innervosiva. Ad esempio lo teneva d’occhio mentre rifaceva la branda: si vede che non sei abituato a rifarti il letto, amico, fai troppi movimenti inutili. Ma era anche chiaro che a quello lì piaceva dormire in un letto fatto come si deve perché non si limitava ad alzare il lenzuolo sul materasso, no, lo tirava per bene, cioè faceva il letto immaginando come voleva che fosse alla fine, non tanto per farlo. Certo che sei proprio un bel tipo tu! Ti raccatto ubriaco marcio nella taverna più squallida di Parigi e poi fai tutto il damerino da sobrio, “figlio di un falegname”, sì, bravo, bravo. Vorrei proprio sapere chi sei tu davvero. E smettila di lisciare quel lenzuolo, mi dai sui nervi! Che poi, senti, i superiori vogliono la branda rifatta, il come non conta e, del resto, che importanza ha come rifai il letto: stasera lo disfi comunque, no? Dio, smettila.
C’era un altro tipo, un soldataccio dall’odore rivoltante, nulla in lui era pulito, né fuori né dentro: era rispettato solo perché la sua corporatura massiccia e uno sfregio sulla faccia lo rendevano ripugnante. Con lui stavano sempre due soldati che gli facevano da leccapiedi, ragazzi talmente ottusi, o forse erano solo indolenti?, che prendevano per buona qualunque idea del loro capo. Il loro intercalare tipico era sempre lo stesso: “Tu che dici, capo?”, una sorta di comoda scorciatoia del pensiero. Dato che lo sfregiato ambiva ad essere non il capo di quei due ma una sorta di vicecapo della brigata, quella strana amicizia tra il nuovo arrivato e Alain gli era istintivamente insopportabile. L’altra cosa che non gli era proprio piaciuta era che il nuovo arrivato non giocava a carte e nemmeno a freccette: diceva sempre -no, grazie-, e a lui ribolliva il sangue ogni volta. No grazie!, ma che bel damerino educato, si può sapere chi sei tu? Chi ti credi di essere? Con chi credi di avere a che fare? Qui le carte e le freccette stabiliscono ordine e giustizia: oggi ho vinto a carte e avrò il pane di quell’idiota di Gérard, tanto per dire. Alain vince quasi sempre ed è il nostro capo: se l’è meritato, non credi? Tu chi diavolo sei, invece? Da dove salti fuori? E non farti vedere mentre scrivi su quell’affare che ti porti addosso: chi ti ha insegnato a scrivere a te, figlio del popolo? Tu non mi piaci, non mi piaci per niente.
Poi c’era un tipo segaligno con l’aria saputa, aveva gli occhi molto distanziati con l’angolo esterno più basso di quello interno e il naso che pendeva decisamente da un lato: nel complesso un effetto asimmetrico che faceva simpatia. La sua mania era mettersi le dita nel naso e poi, incrociando gli occhi all’altezza della punta del naso, osservava tutto attento quello che ne era uscito. A lui il nuovo arrivato piaceva: ehi, ti ho capito io, sai? Ho capito tutto, so io chi sei tu. Ti ho osservato bene e a me, modestamente, non mi sfugge niente. Sai che si dice dalle mie parti? Si dice: guarda come mangi ed ecco chi sei. Et voilà, ecco chi sei tu: tu sei un mangione, amico mio, uno che ci dà dentro di gusto, anche se qui la sbobba fa veramente schifo; ma, ma, ma, l’ho già detto che a me non sfugge niente? Io l’ho notato sai, che tu non ti sporchi mai. Mai una patacca sulla tua bella divisa, mai il mento unto come noi cristiani. E i tuoi denti… dio santo, ma quante volte te li spazzoli quei denti? Allora, senti un po’ la mia conclusione: tu eri in servizio nella casa di un gran borghesone, caro mio, facciamo un avvocato o un dottore visto quanto sei riservato e visto che hai tutta quella mania di scrivere… e poi ti ha dato il benservito, vero?, cos’è gli insidiavi la moglie? Come darle torto, hai l’aria dello stallone, tu! Ahah, sì sì, ci scommetto la pagnotta, bel tenebroso, ti ho capito io!
C’era anche un ragazzo, il più giovane della compagnia: aveva i capelli ricci e un accenno di moustaches di cui andava molto fiero. Lui il nuovo arrivato non lo guardava mai. O meglio, non lo guardava più. Certo che l’aveva guardato il primo giorno, ma solo di sfuggita. Poi era successo quello che lui, solamente dentro di sé, definiva “le moment”: era il secondo, forse il terzo giorno, e si stavano radendo vicini, condividendo lo stesso specchio e la stessa bacinella. Ad un certo punto, lui, che era già un po’ a disagio per quella vicinanza, aveva iniziato a guardare come ipnotizzato il movimento delle mani dell’uomo che aveva vicino: mani grandi e abbronzate, il rilievo delle ossa e dei tendini che appariva e spariva nascosto dalla pelle a seconda del movimento necessario alla rasatura, le dita… le dita lunghe e con le falangi perfettamente proporzionate e poi le unghie, corte, curate, leggermente squadrate… la metà dei soldati di quel reggimento aveva le unghie delle mani mangiate fino alla pelle viva, l’altra metà non poteva dire di averle tutte e dieci sane contemporaneamente e questo qui aveva quelle dita!
E mentre era tutto preso da questi pensieri, già un po’ turbato, avvenne “le moment”: con quelle dita, con quelle mani, il nuovo arrivato, che manco si era accorto di lui, del ragazzino con i moustaches, si passò il rasoio vicino, intorno e poi di nuovo vicino a quell’osso sporgente della gola e lì le mani si mossero con maggiore lentezza, perché era un punto delicato e lui non voleva rischiare di tagliarsi, così ci girò intorno piano, molto piano, ed infine, terminato il lavoro, deglutì, facendo scorrere l’osso su e giù come era normale che fosse. Ma quello, quello che stava al suo fianco, ancora con la lama a mezz’aria, sentì un brivido caldissimo e poi ghiacciato giù giù per la schiena e finanche più giù. Chi sei tu? tu… tu sei la versione umana di quella statua di un dio greco che ho visto ai giardini del Palais Royal? Sei un demonio, che mi tenta proprio qui, dove tutto quello che sono deve essere taciuto? Devo stare alla larga da te, tu sei pericoloso.
E infine c’era un ragazzo mite, con le lentiggini e lo sguardo buono. Per lui il nuovo arrivato era davvero il benvenuto: faticava a tenere a bada il bestione e i suoi scagnozzi, che lo prendevano di mira ogni volta che Alain non c’era, e il pensiero che quel posto vuoto fosse preso da un soldato come quelli lì lo terrorizzava. Invece tu sei buono, lo sento, sei buono e sei triste, come me. Anche io sono triste e a volte penso che sarebbe più facile lasciar perdere tutto, anche tu lo pensi? No, tu no, tu hai uno scopo, lo vedo. Tu sei un uomo con uno scopo.
 

Cap. 2 Tra i soldati della guardia

 
Un pomeriggio, infine, lei arrivò. Entrò nel loro dormitorio e non attese la rivista nella piazza d’armi come avrebbe auspicato il colonnello al suo fianco. Lei voleva sorprenderli nel territorio che era loro, guardarli negli occhi quando erano a casa loro, non quando fingevano di essere a casa sua. E così, dopo essere entrata, si presentò con voce marziale e comunicò secca ed autoritaria quello che si aspettava da tutti i suoi soldati tenendo lo sguardo sul gruppo che aveva di fronte, guardandoli ma non guardandoli, concentrata sul contenuto delle sue parole, sull’ideale e non sul reale. Quando ebbe finito e seppe di aver ottenuto la loro attenzione, decise che il reale poteva farsi largo nell’ideale e iniziò a mettere a fuoco i volti davanti a sé. Se era rimasta impressionata nel vedere tutte quelle facce, quei ceffi, quegli sfregiati, quegli sguardi obliqui, nel sentire odori non consoni al suo titolo, nel considerare lo squallore di quel posto non lo diede a vedere, e fece come aveva sempre fatto davanti ai suoi uomini: vide solo soldati in divisa, soldati che le dovevano obbedienza.
Poi, fu un attimo, e lei incrociò uno sguardo a metà, lo sguardo di un solo occhio verde. Ideale o reale? Ideale… No, l’ideale per lei era stato fino a poco prima uno svedese dallo sguardo malinconico. E il reale, troppo reale, era stato lui una sera di qualche settimana prima, una sera in cui avevano rotto tutto quello che avevano insieme. I pezzi erano ancora lì, per terra tra di loro.
Per questo lei non lo stava guardando davvero, lo stava trafiggendo: che. cosa. ci fai. qui.
Lui invece sì, la guardava davvero, la guardava e nel suo unico occhio a lei sembrò di leggere: ecco come ho usato la libertà che tu mi hai dato. Ti piace?
 
Più tardi, a casa, sprofondò nella sua poltrona con un bicchiere di vino in mano e con la testa che ancora cercava di rielaborare quello che aveva vissuto. Bevve d’un fiato.
Sulla disciplina dei suoi nuovi soldati c’era da lavorare, ma questo non la impensieriva. Si versò un altro bicchiere.
Sul fatto che dovesse convincerli ad obbedire a lei, “a una donna” le aveva precisato lui, unico schierato nella piazza d’armi che le pareva più che altro la piazza dell’ammutinamento, era pronta: da vent’anni lottava silenziosamente ma tenacemente per affermare la legittimità dei suoi titoli militari. Ne bevve un altro.
Sul fatto che lui fosse lì, invece, la confusione regnava in lei. Voleva stare lì, in quella caserma? Che ci stesse. Per lei non c’era nessun problema. Prese direttamente la bottiglia. Alla fine, il vino e la stanchezza ebbero il sopravvento e si assopì, di traverso sulla poltrona, e sognò. Nel sogno, era notte, lei scappava, braccata da un lupo e dai suoi piccoli lupi che la cacciavano su per un monte e mentre correva correva senza fiato e senza meta, solo con il pensiero di non farsi prendere, cercava di chiamare lui, ma la voce era strozzata in gola e non usciva e lei, come soffocata, correva correva sola, sola irrimediabilmente sola e lui non c’era! non c’era! Non era lì vicino ad aspettare un suo richiamo d’aiuto, non era al suo fianco ad anticipare un pericolo, non era con lei ad affrontare quei lupi maledetti, dove era? Dove sei? E alla fine il lupo la raggiungeva e, invece che sbranarla, le diceva guardandola con un disprezzo glaciale “Mi hai scambiato per un lupo, vero? Ma io non sono un lupo, sono una lupa! Una lupa!” e intorno i lupacchiotti ridevano e dicevano “Ti ha scambiato per un lupo!”.
Si svegliò di soprassalto, frastornata e con la memoria nitida di quello che aveva sognato, riviveva ogni dettaglio, ogni particolare. Ma non erano le immagini a spaventarla e nemmeno le parole di quel lupo che poi era una lupa o le risate sinistre dei suoi piccoli, no. Lo spavento che la faceva tremare era l’acuta percezione dell’assenza di lui.
 
Nei giorni seguenti lo osservò come un qualunque viandante che non fosse Edipo aveva osservato la Sfinge: più lo guardava e meno capiva, più lo guardava e più lo sentiva estraneo. Eppure lui era sempre lui: la stessa persona con cui aveva condiviso tutta la sua vita, l’aveva avuto vicino giorno dopo giorno, avventura dopo avventura, con lui aveva duellato almeno due volte al giorno per anni, avevano mangiato, avevano riso, avevano parlato di cose serie e di stupidaggini. Insomma, era lui! E allora perché si sentiva così a disagio? Come se non lo conoscesse, come se non l’avesse mai visto davvero.
E più lo guardava più la incuriosiva quell’uomo, così conosciuto e così sconosciuto.
Mentre lo osservava in mezzo ai suoi commilitoni si stupiva di quanta confidenza avesse con loro e le suonava strano il nome di lui chiamato da quelle voci fino a poco tempo prima estranee nella loro vita.
Ma poi lo sguardo si incupiva e lui diventava anche quello che era passato da gridarle “Diventa una donna!” a strapparle una camicia per dimostrarle che era una donna. E lei continuava a sentirsi contesa tra due sentimenti, come se ogni volta dovesse decidere se dare spazio all’affetto o al risentimento: era capace di ignorarlo per giorni, di accomunarlo a tutti gli altri con un semplice battito di ciglia o con un asciutto commento e allo stesso tempo lo voleva sempre vicino, se doveva decidere quali soldati l’avrebbero accompagnata in qualunque tipo di azione, lui c’era sempre, lo sceglieva sempre. E lo osservava come se non l’avesse mai visto prima, come se non l’avesse mai visto davvero. Quante volte in passato l’aveva avuto davanti ai suoi occhi: lui, unico essere umano ammesso ad entrare nella sua solitudine e nella sua riservatezza, e in realtà non l’aveva mai considerato, non l’aveva mai visto davvero, mentre ora, vestito come gli altri, in mezzo a uomini più o meno della sua stazza e della sua età, lo notava sempre, anche senza volerlo, e notava come lui spiccasse ai suoi occhi tra tutti e talvolta, anche se per un brevissimo istante, in un piccolo gesto di lui, in un movimento delle mani, nella falcata della corsa o nel modo con cui reggeva le briglie, lei lo vedeva davvero.
Guardava spesso lui con Alain e, anche se faticava ad ammetterlo, vedeva due amici.
Poi, una volta a casa, stava a tormentarsi: li rivedeva darsi pacche sulle spalle, ridere a battute stupide, darsi appuntamento per una birra, aspettarsi per correre poi insieme alla piazza d’armi facendo a gara a chi si schierava per primo. Ma aveva visto anche altro: a volte stavano in silenzio per molto tempo, poi uno dei due diceva qualcosa e l’altro annuiva o faceva di no con la testa e lei capiva che lì il cameratismo non c’entrava, che quella era l’amicizia delle confidenze, dei segreti, delle cose taciute e per questo rispettate. Capiva e ne soffriva, sentiva che lui scivolava via da lei, che lui si stava costruendo un mondo suo. A volte si chiedeva se con Alain avesse mai parlato di lei.
Certo che lui era bravo a scegliersi gli amici, ammise tra sé. Tra tutti gli uomini di quella sgangherata compagnia, Alain era il migliore. Aveva scelto bene a chi concedere la sua amicizia, lui. E lei? che ne sapeva lei dell’amicizia? A cuor leggero aveva considerato per anni amico un uomo che non si era sforzata di comprendere e di guardare davvero. Si era lasciata definire “amico” da uno che credeva di amare senza nemmeno essersi chiesta che cosa lei volesse dall’amore.
E lui, intanto, andava avanti. E lei si sentiva sempre indietro.
Una notte lo sognò: le teneva la mano nella sua e la accarezzava piano sul dorso. Poi le diceva: “Guardami, sono io”, lei allora alzava lo sguardo su di lui e la sua vista si sdoppiava, vedeva due volti, poi tre, poi quattro e allora lei, spaventata, chiudeva forte forte gli occhi e scuoteva la testa furiosamente e diceva “Non riesco, non riesco! Non riesco a vederti!” e allora serrava la mano in un pugno e lui le stringeva il polso e lei lo supplicava “Così mi fai male” e lui la lasciava andare. “Scusa”, le diceva, e poi se ne andava via salutandola con una specie di saluto militare appena abbozzato.
Ma da quando dormire era diventato così difficile?
Per fortuna la disciplina militare l’aiutava molto: le incombenze erano tante e le giornate ben scandite, non c’era troppo tempo per pensare. Lei, poi, sentendosi sempre sotto gli sguardi di tutti, si imponeva senza sforzo un contegno e un dominio di sé che negli anni aveva perfezionato al punto che qualcuno la riteneva una donna glaciale.
 
Si era ritrovata a casa Girodelle, una sera. Lui aveva detto che era solo passato a salutare, ma più tardi la nonna, un po’ compiaciuta, le aveva rivelato che in realtà Girodelle la voleva sposare e che aveva ufficialmente chiesto la sua mano al generale.
Quella sera, dopo che Girodelle se ne era andato, aveva bevuto e le era venuta la sbronza allegra: a un certo punto aveva schierato sul tavolo davanti a sé tre calici, “uh, come siete eleganti” aveva pensato ridendo, e, nella mente, aveva dato a ciascuno un nome:
- Ecco qui “Stockholm”, e fece un sorriso amaro, “beaux cheveux”, e una risata soffocata a stento la costrinse a un fare un soffio a labbra strette, e questo… , si rabbuiò, questo sei… “tu”.
Le venne la sbronza triste. Guardò ciascun bicchiere senza toccarlo, cercando di vedere nel cristallo il ricordo di qualcosa che la consolasse.  Ne riempì solo uno. Poi non bevve, lo lasciò lì e andò a dormire un po’ barcollando.
Sogni confusi la tormentarono, al risveglio ricordò solo un volto indistinto di uomo che nel buio le diceva “Sei la mia migliore amica”.
 
Qualche giorno dopo lui fu picchiato a sangue dallo sfregiato e dai suoi scagnozzi che avevano scoperto che lui per anni era stato al servizio dei nobili, di lei per la precisione; lei arrivò che tutto era finito. Lui: sdraiato per terra, semisvenuto per le botte e incapace di muovere un muscolo. Vicino a lui, Alain, testimone di una dichiarazione d’amore che lei ancora fingeva di non sentire. Era la seconda volta che lui tra le lacrime rivelava il suo segreto. E ancora una volta lei non disse niente. Lo fece portare in infermeria e finse di non aver sentito la sua supplica “Non sposarti, ti prego”.
Alain aveva assistito a tutto e taceva: ecco chi sei tu, tu sei un pazzo, amico mio.
E intanto lei se ne era andata.
Ma quello che provava lo sapeva solo lei. Nessuno la seguiva a casa, nessuno la vedeva nella sua stanza. La pagina si chiudeva quando lei usciva dalla caserma e se ne apriva un’altra il giorno dopo, quando lei tornava, impettita sul suo cavallo bianco, pronta a dare ordini come ogni giorno. Ma quello che c’era in mezzo lo sapeva solo lei.
 
Incapace di affrontare lui, di guardarlo una buona volta per davvero, si limitò a liquidare l’altro, “Dovete dimenticarmi. E in fretta”, e a mandare a monte una grande soirée organizzata con l’entusiastico consenso di suo padre per trovarle un degno consorte. Pugni chiusi, dritta sulla schiena, sguardo tagliente, entrò nella sala da ballo, salutò, fece una battuta di spirito, girò sui tacchi e se ne andò: padrona della situazione, pensarono con un misto di delusione e di ammirazione tutti gli aspiranti sposi convenuti alla festa, vittima di sé stessa, pensò Girodelle, ho sbagliato tutto, pensò suo padre.
 
EPILOGO (forse)
Quando salvarono la vita al principe spagnolo, lei, lui e Alain furono sbalzati da cavallo da un’esplosione tremenda nella campagna appena fuori da un villaggio. Era una notte molto buia. Lei stava sdraiata per terra, nell’erba, e tutti i suoi sensi erano coperti di ovatta, percepiva ma da lontano, percepiva ma impiegava tempo a dare un nome alla percezione. Vide poco distante da lei un corpo svenuto. Era un uomo. Era lui. Respirava? Sì, respirava. Poi sentì un peso sul braccio, vicino al polso. Si concentrò. A poco a poco capì che quel peso era la mano di lui che la teneva stretta. Sentì che andava tutto bene e, appena prima di crollare incosciente, anche se non poteva vederlo chiaramente, per un istante, nell’oscurità di una notte senza luna, lo vide davvero: vide un’altra lei e un altro lui sdraiati in un altro prato, le mani strette, i pensieri vicini. Ricongiunse il lui di una volta all’uomo che ancora la stringeva forte e la proteggeva. Una lucciola illuminò un filo d’erba davanti a lei. Pensò che sarebbe stato bello se lui l’avesse abbracciata. O forse stava già dormendo.
Non fece sogni.

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Capitolo 2
*** Il cavaliere nero ***


Non ti avevo mai visto davvero

 
Questi personaggi e la loro storia sono stati creati da Ryoko Ikeda, alla quale vanno tutte le mie lodi e la mia ammirazione da decenni.
 
In questi capitoli (un po’ più lunghi del mio solito) immagino il percorso, scandito in tre tappe, che porta Oscar ad accorgersi davvero di André e di quello che la lega a lui. In ogni capitolo ci sarà anche uno sguardo obliquo su André nella prospettiva di altri personaggi.
Alla fine, è tutto un parlare di lui, ma la sua prospettiva, volutamente, non c’è.
I fatti, ben noti a tutti e già splendidamente raccontati nel manga e nell’anime, saranno solo quelli necessari allo scorrimento della trama, qualcosa sarà omesso, qualcosa sarà lievemente cambiato (metto subito le mani avanti) molto è frutto della mia immaginazione.
Sempre grazie di cuore a chi ha voglia di leggere e a chi ha voglia di lasciare due parole.  
 
 

 
PROLOGO
Quando iniziò a circolare la voce che un ladro mascherato derubava i nobili, lei non ci fece caso, non se ne accorse proprio. Ne parlavano tutti, ma lei era sempre assorta, sempre assente: pareva che i suoi pensieri non andassero oltre le incombenze immediate oppure che si perdessero in una strada assolutamente inaccessibile a chiunque.
Il capitano Girodelle lo sapeva che bisognava solo obbedire e lasciarla stare quando faceva così. Restando immobile nella sua marziale postura, fece scorrere il suo sguardo alle spalle di lei fino a inquadrare l’intera figura dell’onnipresente attendente, il servo che lei, scandalosamente, per dire le cose come stavano, trattava come un amico. Era strano pure l’attendente, il capitano notò, perché si teneva alla larga da lei: faceva quel che doveva e poi si metteva in disparte, erano giorni che non gli vedeva sulla faccia quell’insopportabile sguardo scanzonato e sornione che usava come linguaggio muto e cifrato con il colonnello. Ma lui, l’attendente, sapeva del cavaliere nero, di sicuro gli era giunta la voce, perché a quello, e Girodelle lo sapeva, non sfuggiva mai niente. Probabile che sapesse anche che cosa aveva il colonnello.
Certo che l’attendente era proprio strano, continuava tra sé Girodelle, sembrava assente, preso da pensieri suoi, suoi? e quando mai aveva avuto pensieri suoi? quello pensava solo in funzione del colonnello, non aveva vita propria. Beh, come ogni attendente capace di fare il suo lavoro, pensò tentando di relegare nell’alveo della normalità quell’uomo per lui indecifrabile.
Un allegro brusio che si faceva sempre più vicino lo richiamò alla realtà. Si stupì di aver dedicato tutti quei pensieri all’attendente del colonnello e ne provò anche un certo fastidio, così, spostandosi i capelli dal volto con la mano, scrollò da sé quelle sciocche elucubrazioni e si avviò verso i giardini, dove aveva intravisto dietro a un ventaglio una dama di sua conoscenza.
 

Cap. 1 Il cavaliere nero


Dopo l’ennesimo colpo del cavaliere nero, anche lei non poté ignorare il ladro più famoso di Parigi e proprio a lei venne dato l’incarico di dargli la caccia. Ne fu entusiasta: un obiettivo su cui concentrare tutte le sue energie, ecco quello che ci voleva. Basta piagnistei, basta rimuginare su sciocchi ventagli con le piume di pavone e vestiti da odalisca, lei! un’odalisca!, finalmente appostamenti, strategie, armi pronte e un nemico in carne e ossa a cui dare la caccia. Era quello che ci voleva. Eppure… provava una strana inquietudine, un presentimento, una perenne sensazione di camminare lungo un precipizio, di andare troppo velocemente verso qualcosa di indefinito ma che avvertiva come sicuramente oscuro e doloroso. E non la aiutava per niente la novità che il suo amico di sempre, quello che gli altri definivano il suo “attendente” e che lei preferiva considerare la sua ombra, avesse iniziato a sparire, specialmente la sera. Non che ne sentisse la mancanza, lei? sentire la mancanza di qualcuno? sciocchezze, lei bastava a sé stessa!, ma iniziò a chiedersi dove lui andasse. Naturalmente non la sfiorò nemmeno il pensiero che lui potesse essere impegnato in questioni, per esempio, amorose, e così, giorno dopo giorno, iniziò a covare dentro di sé un assurdo sospetto.
Una notte lo sorprese mentre rientrava molto tardi e notò una collana di perle che gli usciva da una tasca. Trasalì. Il giorno dopo lui, aria innocente e sguardo limpido, gliela mostrò e le disse che l’aveva trovata per strada la sera prima: potremmo restituirla se è parte della refurtiva del cavaliere nero, che dici? Lei annuì pensierosa.
Presero a frequentare tutti i balli e le feste della nobiltà per cogliere quella specie di Robin Hood sul fatto, ma lui non si faceva vedere; come se lui sapesse della loro presenza e girasse al largo, in effetti. Quando finalmente, nel corso dell’ennesimo ballo, il ladro mascherato fece la sua apparizione, lui, ma non era la sua ombra?, non c’era: “è uscito due ore fa e non è ancora tornato. Ha lasciato detto di aspettarlo” aveva detto la nonna. Lei naturalmente aveva ignorato l’ultima frase. Quindi, quando il cavaliere nero, dio come gli assomiglia…, carico di gioielli, aveva preso la via della fuga, lei l’aveva inseguito, sola! sola!, fino a Parigi, fino al Palais Royal, dove era stata sorpresa e quasi catturata da loschi figuri con il volto coperto.
A quel punto non si trattava più di fantasticare, l’incredulità si trasformava sempre più in certezza, troppe le coincidenze, e così lei pesava, come su una bilancia, le possibili verità. Ecco un piatto: la collana nella tasca, le uscite serali sempre più frequenti, la convinzione sussurrata da molti nei corridoi di corte che solo il servo di un nobile potesse avere una tale conoscenza di palazzi e date delle feste della nobiltà, l’assurda coincidenza che lui non ci fosse proprio l’unica sera in cui lei aveva visto il cavaliere nero, e dio mio come gli assomiglia, e poi, e poi il fatto che un giorno lui le avesse confessato, pensoso e quasi titubante, una sorta di ammirazione per chi, come il cavaliere nero, rischiava la vita per aiutare i poveri; e in più era spesso silenzioso, sfuggente, distratto?, no, distratto no, ma impegnato in pensieri suoi, ecco. L’altro piatto: lo conosco da una vita, non è da lui, non lo farebbe mai, lui non è un ladro, lui non ruba, nemmeno per dare la refurtiva ai poveri, lui cercherebbe un’altra strada.
Ma il secondo piatto le sembrava sempre più vuoto e leggero del primo: e se si sbagliava? E se si fosse sempre sbagliata su di lui? Quanto ci si può sbagliare sul conto di una persona? Quanto ci si può sbagliare su sé stessi? Lui, tanto per dire, l’avrebbe mai detto che lei avrebbe un giorno indossato quel vestito bianco e azzurro? Lo svedese avrebbe mai detto che un giorno l’avrebbe tenuta tra le braccia? E lei, lei, lei avrebbe mai saputo spiegare a sé stessa che cosa l’aveva spinta a superare ogni imbarazzo e a dire alla nonna “preparami un vestito da sera”? E allora. Quanto si può dire di conoscere qualcuno se non conosciamo nemmeno noi stessi? E allora. Sempre più confusa e allarmata, iniziò a guardare solo il primo piatto della bilancia.
Una notte fece un sogno dal quale si svegliò stravolta: lui, vestito come il cavaliere nero, dondolava su un lampadario, poi si toglieva la maschera rivolto verso di lei e iniziava a ridere, mentre lei lo guardava paralizzata, lo guardava come se lo vedesse per la prima volta, come se non l’avesse mai visto davvero, e poi lui precipitava, cadeva nel vuoto urlando il nome di lei.
Il giorno seguente quel sogno la tormentò: nel mezzo delle esercitazioni, mentre redigeva i suoi documenti, mentre parlava tutta concentrata con Girodelle, le accadeva all’improvviso di sentire un brivido che la costringeva a qualche gesto involontario e secco, stringere i pugni conficcandosi le unghie nel palmo, strizzare gli occhi, scuotere la testa come se un insetto le ronzasse vicino a un orecchio, e subito riviveva la parte del sogno più spaventosa, quella in cui lui la guardava e lei lo guardava. Allora le restava addosso una specie di sgomento, un interrogativo inquietante: Chi sei tu? E in quei momenti le pareva che se lui avesse detto: Io sono il cavaliere nero, lei avrebbe pianto di dolore.
 
Esausta, quella sera, decise di affrontarlo, così, quando lo sentì rientrare a casa ad un’ora decisamente tarda lo affrontò:
- Dove vai tutte le sere?
Sapeva essere diretta, quando voleva.
Lui, intuendo il sospetto dietro a quella domanda, le disse che se lo voleva sapere poteva seguirlo la sera successiva. Lei accettò.
 
La sera successiva l’aveva portata in una chiesa di campagna poco lontano: lì erano riuniti uomini e donne del popolo che parlavano della situazione della Francia, delle loro miserie, delle ingiustizie e delle sofferenze che subivano. Immaginavano un mondo diverso, disegnavano un domani di giustizia e libertà. Parlavano dei privilegi dei nobili, dell’immorale divario tra il tenore di vita di un nobile qualunque e di uno qualunque di loro, delle loro giornate di duro lavoro con le quali pagavano i vizi e le frivolezze di nobili dalle mani bianche. Nessuno urlava, nessuno imprecava. Tutti erano sull’orlo della disperazione, ma si facevano forza tra loro con una dignità che lei non aveva mai visto. O che forse aveva visto tanti anni prima nella catapecchia di una famiglia di Arras. Lei, colpita dal senso delle parole che sentiva e ancor più colpita da quell’atmosfera e dalla prospettiva capovolta con cui quella gente la costringeva a guardare la realtà, si voltò piano e, senza che lui se ne accorgesse, lo osservò attentamente: lui stava in silenzio ed ascoltava con serietà e partecipazione, pareva farsi carico di tutta quella gente solo con lo sguardo e allo stesso tempo le sembrava proteso in avanti, come se cercasse di guardare oltre quel presente. No, lui non era il cavaliere nero, in quel momento ne ebbe la certezza. Ma ancora una volta si stupì: le sembrò di non conoscerlo, di avere di fronte una persona diversa, di non averlo mai visto davvero. Il pensiero la riempì di inquietudine, quante cose non sapeva di lui? E senza avere il controllo dei suoi pensieri sentì nascere dentro di sé ancora quella domanda: Chi sei tu?
Finita la riunione, rientrarono a casa taciturni, ma ad un tratto lui le parlò del cavaliere nero:
- Il cavaliere nero dona tutta la sua refurtiva ai poveri. Per molti è un benefattore, ha aiutato e in certi casi salvato intere famiglie…
- Un ladro è sempre un ladro.
Lui non aggiunse altro.
 
Poi a lei venne l’idea geniale: attirare il cavaliere nero in una trappola fingendosi lei stessa il cavaliere nero. Si fece preparare un costume nero con tanto di mantello e una maschera, li indossò e si specchiò, complimentandosi tra sé per la sua coraggiosa nonché scaltra iniziativa. Ma in quel momento lui entrò nella stanza e le fece presente che i suoi capelli, troppo lunghi, troppo biondi, e la sua figura, troppo esile, l’avrebbero resa riconoscibile, e comunque non somigliante al cavaliere nero. Lei ebbe un moto di stizza perché era ancora convinta che bastasse cambiarsi d’abito per non farsi riconoscere e che bastasse un costume per non essere più lei.
Fu bruscamente risvegliata dai pensieri che incupivano le sue pericolanti certezze dal rumore secco con il quale lui, con un gesto solo, si era tagliato i capelli.
Lei capì subito la sua intenzione e, dopo che lui ebbe indossato gli abiti da cavaliere nero, con uno sguardo sommario alla figura che aveva di fronte, valutò che la somiglianza era in effetti straordinaria: non provò nulla per quei capelli recisi, che lei aveva visto per anni chiusi da nastri blu, non fece alcuna considerazione sul nuovo aspetto di lui ora che i capelli gli arrivavano solo alle spalle, non pensò nemmeno che lui senza esitare si era sostituito a lei nel pericolo per catturare un uomo che in realtà lui non voleva catturare. E non dedicò un pensiero a tutto questo perché in realtà lei non lo stava guardando davvero: stava solo sovrapponendo l’immagine di lui a quella del cavaliere nero. E, compiaciuta, approvò la somiglianza pregustando la riuscita del suo piano.
Si succedettero serate di gran divertimento: lui rubava, lei si appostava per liberargli il campo e per aspettare al varco il vero cavaliere nero, poi volavano a casa carichi di refurtiva e un po’ inebriati dal gusto di quella impresa pericolosa e proibita.
Ma, una volta chiusa la porta della sua stanza, in lei nasceva ancora quell’inquietudine, si riaffacciava il presentimento di un pericolo incombente, le tornava in mente quel sogno, soprattutto la parte in cui lui precipitava nel vuoto; altre volte, mentre galoppavano nella notte, le pareva di essere sull’orlo di un precipizio, oppure immaginava con spavento, e allora con una contrazione involontaria dei muscoli stringeva le cosce sui fianchi del cavallo, che la strada finisse improvvisamente sotto gli zoccoli e che lei stesse per precipitare.
Una sera, al tramonto, mentre si preparavano per l’ennesimo colpo, il volo impazzito di un corvo le aveva fatto cadere dalla mano la tazza dalla quale stava bevendo: era rimasta imbambolata a fissare la sua mano e, smarrita, aveva sentito una forza oscura che la invadeva e per un istante aveva pensato di rinunciare al furto di quella sera. Ma da quando era così irrazionale e superstiziosa? Aveva ripassato mentalmente il piano previsto per quella sera e poi era uscita.
 
Quando infine il vero cavaliere nero, appostato da tempo tra gli alberi di una radura, vide il suo sosia, la rabbia e l’indignazione si impadronirono di lui: chi sei tu? come osi?, guardati, trionfante nella tua arroganza e carico di una refurtiva che non ti spetta! come osi? chi sei tu? Uscì allo scoperto e gli si parò di fronte. In tutta la sua persona traboccava la rabbia che nasce dall’ingiustizia, il sangue pulsava alle tempie, gli occhi sbarrati dardeggiavano dietro la maschera, i muscoli erano pronti alla vendetta, il cuore urlava, la mente correva forsennata alle famiglie che quell’impostore privava del pane e del necessario per vivere, immaginava quel farabutto arricchirsi e spassarsela nel lusso usando il suo nome e la sua identità.
Poi, non appena si era accorto di essere finito in una trappola e che un ufficiale delle Guardie Reali era pronto a fare fuoco su di lui per catturarlo, balzò con agilità contro quel dannato impostore e in un attimo diede inizio a un duello forsennato che impedì a lei qualunque possibilità di prendere la mira in modo certo contro il bersaglio che voleva colpire.
Così restò atterrita spettatrice di uno scontro tra due figure avvolte dal nero dei loro vestiti, dei loro capelli e della notte.
Il duello terminò con il nero di un grido di dolore che le squarciò il petto perché quel grido era l’invocazione del suo nome: il vero cavaliere nero, sentendosi giustiziere prima ancora che cavaliere, aveva disarmato il suo sosia, che era stato attento a difendersi più che ad attaccare, e poi, con un colpo netto di spada, gli aveva tagliato la maschera. E anche l’occhio.
 
Spuntava l’alba e lei aspettava che lui si risvegliasse. Sentiva dentro di sé una strana pace: tutti quei presagi, quell’inquietudine, quell’angoscia sotterranea… pareva tutto placato. Era successo, l’evento terribile che presentiva da giorni era successo, ma ne erano anche usciti: il dottore aveva detto parole rassicuranti sulla ferita all’occhio di lui, “la ferita non è grave” aveva detto, e poi lei aveva visto di nuovo il vero cavaliere nero e, anche se l’aveva lasciato fuggire, era sicura che presto l’avrebbe catturato.
Lui si svegliò con una smorfia di dolore e lei, intenerita, lo guardò riconoscente. E lui le disse una frase, sono contento che sia stato ferito io e non tu, e gliela disse come se le stesse facendo una carezza e lei riuscì solo a ringraziare e gli disse: sei molto caro, con una dolcezza che avrebbe ritrovato solo molto tempo dopo osservando con lui un quadro.
 
Senza informare lui, lei proseguì la sua personale caccia al ladro, ma finì per farsi catturare: una prigioniera illustre la cui libertà poteva essere barattata con cose più preziose di denaro e gioielli, con armi, con fucili che gli amici e complici del cavaliere nero avrebbero imbracciato contro i nobili e in favore del popolo. Era un piano perfetto.
Intanto a casa la nonna si prendeva cura di lui e lo assisteva durante le medicazioni: guardava il suo bellissimo nipote piena di apprensione e di tristezza. Da anni aveva capito quanto fosse pericoloso che lui e lei vivessero così vicini, da anni aveva capito che lui la amava e, talvolta, aveva avuto la sensazione che anche lei…, e allora tutte le sere aveva pregato Dio che suo nipote trovasse una brava ragazza da sposare, che distogliesse i suoi occhi troppo limpidi e innamorati da lei prima che qualcuno si facesse male, prima che entrambi si facessero male, e come una litania ripeteva tra sé un’accorata preghiera che sperava arrivasse a suo nipote attraverso la voce del cuore: sei un servo, non dimenticarlo, non dimenticarlo, ti prego. Non confondere il bene che lei ti vuole per qualcos’altro, non volere da lei quello che non puoi avere, sei un servo, ricordati chi sei tu. Tu sei un servo.
 
Una mattina la nonna fu costretta a dirgli che lei non rincasava da giorni dopo essere andata a Parigi al Palais Royal e lui capì tutto: indossò costume, maschera, mantello. Buttò a terra la benda che proteggeva il suo occhio dal pericolo della cecità, “per nessun motivo devi toglierti la benda” aveva detto il dottore, e andò a salvarla, sfruttando a suo vantaggio la somiglianza con il cavaliere nero. Persino lei, quando lo vide entrare nella sua cella, lo scambiò per il vero ladro mascherato e lui dovette farsi riconoscere; a lei scappò anche un sorriso e pensò: Che sciocca, non ti avevo guardato davvero!, poi avevano addirittura catturato con uno stratagemma il cavaliere nero ed erano fuggiti al galoppo. Appena fuori dalla città, il cavaliere nero aveva tentato la fuga, ma lei aveva sparato e colpito la sua spalla: ora il cavaliere, ferito e medicato, dormiva in un letto al piano di sopra.
Missione compiuta.
Ma non c’era il trionfo ad attenderla: la coscienza rimordeva, il dubbio si insinuava nelle sue certezze, i colori accesi delle sue convinzioni si sfumavano e cambiavano uno nell’altro e lei non sapeva più dire se aveva catturato un ladro o un benefattore; sentiva su di sé il peso di una colpa atavica, la colpa del privilegio, che però lei non aveva mai voluto né scelto e si chiedeva quanto potesse essere invocato il cavaliere nero da chi nella minestra, che alla sua tavola si chiamava “potage avec…” e via un elenco di raffinati ingredienti, poteva mettere solo il cucchiaio.
Si scosse dai suoi pensieri e alzò lo sguardo verso il dottore che stava visitando con crescente apprensione l’occhio ferito di lui. Poi lo vide soffiare ad occhi chiusi sulla candela che aveva usato per il controllo e lo sentì mentre pronunciava parole che non riuscì a mettere ordinatamente in fila: “mi dispiace”, “avevo detto”, “stare attento”, “perduto per sempre”, “mai più”.
In un attimo avvertì un dolore violento che si impadroniva di lei e reagì a quel dolore con la rabbia e con un bisogno istintivo di immediata vendetta: diede un volto al responsabile di quell’orrore, di quell’occhio cieco, cieco!, e il responsabile era quel maledetto ladro, sì ladro, ladro! ladro di occhi!, e corse con la spada in mano fino alla camera dove il cavaliere nero dormiva e allora lei sollevò la spada e urlò, o forse credette di urlare, “ora farò a te quello che tu hai fatto a lui”, e, mentre la spada era alta sul volto di quell’uomo addormentato, mentre lei con il fiatone e senza lacrime stava per fare giustizia nel modo più barbaro e primitivo che ci fosse, allora si fermò e lo guardò.
Attonita percorreva e ripercorreva il volto di quell’uomo che, ora sveglio, la fissava interrogativo: ma come aveva potuto? si chiedeva lei, come aveva potuto pensare che si assomigliassero? come aveva potuto, addirittura!, confonderli? Erano talmente diversi! Il colore dei capelli, così sbiadito questo in confronto a quello, il profilo del naso, così schiacciato su questo volto e così aristocratico, sì aristocratico, in lui, la bocca di quest’uomo così piccola e con labbra così sottili, le labbra sottili: segno di cattiveria diceva la nonna, e la mascella così sfuggente e femminea in confronto a quella di lui, il mento così largo e piatto e poi… lo guardò negli occhi e fece fatica a continuare il confronto perché era troppo lo sgomento, la nitida consapevolezza di quello che aveva, lei, sì, lei, perduto per sempre.
Così, forse per un attimo, attraverso il volto del cavaliere nero, lei lo vide davvero.
 
EPILOGO (forse)
Alla fine lei disse sbrigativamente a tutti, anche a suo padre, di essersi sbagliata, -ho catturato la persona sbagliata- le parole esatte, e nessuno fece più domande dal momento che i furti cessarono. Una sera lo lasciò andare, gli trovò il calore di una casa semplice abitata da persone buone per la sua convalescenza. E lei rimase nel freddo dei suoi pensieri.

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Capitolo 3
*** Uscire dal limbo ***


PROLOGO
 
Poi furono aggrediti a Saint-Antoine e lei rischiò di perderlo. Nell’angoscia del momento, piena di ferite e percosse, cercò una via di fuga tra le urla disumane che si alzavano intorno a lei e contro di lei e, quando tutto sembrava perduto, si accasciò svenuta in un vicolo riuscendo a sfuggire a quella folla imbestialita. Si sentì improvvisamente scuotere e vide, prima con difficoltà, poi distintamente, un volto di uomo tremendamente preoccupato davanti a sé. E lei con lo sguardo un po’ appannato prima, nell’ottundimento dei sensi poi, e finalmente nella chiarezza senza ombre dello sguardo vide lo svedese davanti a sé. Lo guardò a lungo prima di capire che cosa diavolo stesse dicendo, lo guardava, lo guardava davvero, quello svedese, e si chiedeva: perché non sono sollevata? Perché non sono felice di vederlo? Avvertiva una sorta di rigurgito nello stomaco, un rifiuto istintivo delle sue mani che la scuotevano per le spalle, un’indifferenza assoluta nei confronti dell’apprensione di lui per le sue condizioni. Finché, come un boato nella testa, realizzò che voleva solo vedere dei capelli neri e uno sguardo verde e sentire solo una voce e sapere che lui era salvo. E basta chiedersi “chi sei tu?” disse il suo corpo alla sua testa, che in quel momento lavorava poco perché era stata più volte colpita negli scontri, e tutti i suoi sensi, la sua pelle, la bocca dello stomaco urlarono di fronte allo svedese solo il nome di lui.
 
Più tardi, tutti e due in salvo grazie allo svedese, la mente tornò padrona dei sensi e li governò per bene, ma non li rinnegò. Pensò che se avesse avuto forze sufficienti l’avrebbe salvato lei e che non provava alcun imbarazzo per quello che lo svedese aveva sentito e, molto probabilmente, intuito.
 
Ma era ancora scossa, profondamente scossa. Cercava di capire il motivo della paura che aveva provato e ripercorreva la sua vita a ritroso: quante volte avevano rischiato la vita loro due? L’attentato al principe spagnolo, la faccenda del cavaliere nero, gli agguati notturni della Polignac, e poi Jeanne a Saverne, e ancora si chiedeva come avesse fatto lui a sentirla, e quel lampadario che l’avrebbe schiacciata se lui non fosse intervenuto, e quel giorno nella casa del falsario di Parigi assoldato dalla Du Barry, e poi altri agguati, duelli, insomma, quante volte avevano rischiato di morire? Perché ora quell’assalto l’aveva tanto terrorizzata? Qual era la differenza?
“Qual è la differenza… smettila, tu sai qual è la differenza” le disse il suo cuore.
Eppure non riusciva a lasciarsi andare, era confusa perché aveva capito che le servivano occhi nuovi per vedere la realtà e sapeva che guardare lui davvero voleva dire decidersi a guardare sé stessa davvero e ancora non era pronta. E così, tenne celato dentro di sé quello che il suo istinto e il suo corpo avevano scoperto, quello che la sua mente analizzava ed elaborava ormai con una frequenza tale che il resto diventava dovere, contorno, formalità. Così, nascondendo bene all’esterno la rivoluzione che stava vivendo dentro di sé, le sue parole e i suoi gesti verso di lui, benché avvolti da una nascente tenerezza, rimasero quelli del comandante.
 
Cap. 3 Uscire dal limbo
 
Il colonnello se la trovò davanti all’improvviso nel suo ufficio. Si alzò di scatto e prese la sua legnosa posizione marziale, portò la mano tesa alla fronte per salutare e poi stette in attesa degli ordini.
- Il soldato de Soisson non si fa vedere da giorni, vado a cercare notizie a casa sua. Lascio il comando a voi. Porto un soldato con me.
Il colonnello non chiese quale soldato, lo sapeva già, poi la guardò mentre, decisa ed elegante, usciva dall’ufficio e veniva raggiunta da un uomo dai capelli scuri che si mise a seguirla a due passi di distanza.
Erano incorreggibili quei due, pensò il colonnello, sempre insieme e mai davvero insieme… Ma non si può sprecare il tempo così, pensava il colonnello. Non si può sprecare il tempo così quando ci si ama, pensava contro ogni regola del suo tempo e del suo ceto. Ma che cosa credevano quei due, di avere davanti a sé tutto il tempo del mondo? Ma non sapevano che basta un colpo di tosse diverso dagli altri o un proiettile vagante per perdere tutto? Da quando aveva perso la moglie amatissima, quella tosse! quella fame d’aria!, era molto cambiato, il colonnello; o forse non era cambiato, era solo più esposto alla commozione e alla tenerezza. E alla comprensione. La morte aveva ridotto all’essenziale i suoi bisogni, che erano divenuti uno solo: il bisogno impossibile di averla ancora con sé. Poi, naturalmente, era pur sempre un militare, e la disciplina lo aiutava enormemente ad andare avanti; gli avevano insegnato fin da piccolo il rigore e l’autocontrollo e lui si era plasmato docilmente fino a divenire un uomo capace di grande sopportazione. Gli avevano insegnato anche la riservatezza, dote non comune nella nobiltà del suo tempo, e così lui mascherava agli occhi del mondo la sua disperazione, convinto che non fosse necessario né interessante per gli altri essere al corrente del suo dolore. La sua cupezza si era attenuata con l’arrivo del nuovo comandante: aveva avuto un istintivo affetto per lei, ma soprattutto per il giovane che era sempre al suo fianco. Li osservava spesso e nei loro gesti aveva colto tutto quello che non c’era nelle loro parole. Quel soldato era il ritratto della devozione, pensava, e pensava anche, per la prima volta nella sua vita, che nel caso di quei due i ceti sociali non contavano affatto, che mai aveva visto due persone appartenersi in quel modo. Avrebbe voluto prenderlo in disparte, un giorno, mettergli una mano sulla spalla e dirgli: “Io so, figliolo, io vedo. Non smettere di amarla, non smettere di crederci. E diglielo, diglielo, diglielo finché hai fiato. Dille che la ami, diglielo ancora e diglielo sempre. Ogni giorno perso è un giorno sprecato che non avrai più, non aspettare, non aspettare. Ho vissuto quarant’anni con mia moglie, credi che mi siano bastati? Non bastano mai, non bastano mai, i giorni dell’amore”.
Si asciugò veloce una lacrima, strinse le labbra e tornò a scrivere il suo rapporto. 
 
Quando si avviarono su per le scale della casa in cui Alain abitava con la madre e con la sorella, lei lo lasciò andare avanti e lo seguì; per una volta era lei ad accompagnare lui e non il contrario. Così, si lasciò guidare da lui fino alla porta, fino all’ingresso in quella casa, fino a quel tendone che separava due stanze, fino a quel letto dove avevano visto con i loro occhi che cosa fosse l’orrore. E l’orrore era una ragazza bellissima e bianca e fredda e vestita da sposa e sopra di lei un cappio che dondolava appena all’aria che avevano spostato al loro ingresso e vicino a lei un sacco accasciato di carne e lacrime, un uomo dagli occhi vuoti e fissi, un uomo perduto. Si sentì mancare, ma ebbe la prontezza di stare in piedi, senza parole e con una crescente oppressione al petto. Lui, benché profondamente turbato, già aveva trovato gesti e parole di conforto per il suo amico e per la mamma di lui, intontita su una sedia. Si era anche messo in una posizione, voluta? lei ne era quasi sicura, grazie alla quale la sua spalla sinistra e la sua testa riuscivano a coprire agli occhi di lei la visione di quel corpo senza vita, e così lei, con gli occhi sbarrati, non intravedeva altro se non la parte inferiore del vestito che, con un assurdo sbuffo, spazzava il pavimento.
Quando uscirono non parlarono, lei non lo guardò, ma la sua pelle le disse che avrebbe voluto essere abbracciata, da lui.
“Non essere sciocca, non è il momento!” le disse la sua testa.
 
I giorni passavano, gli eventi della storia irrompevano nella sua vita con un’intensità crescente e sempre più preoccupante: alle giornate sempre uguali della sua giovinezza a Versailles ora si sostituivano giorni frenetici, in cui la rincorsa all’ultima notizia era affare di tutti, dal generale Bouillé all’ultima lavandaia del faubourg Saint-Marceau. E in tutto questo lei, ormai divenuta sempre più attenta e presente alla sua vita interiore, si stupiva: la continua irrequietezza della sua passata giovinezza contrastava con il mondo immobile della corte tanto quanto ora, nell’irrequieto presente che viveva, lei si sentiva stranamente ferma, centrata, sicura. Certo, la situazione politica la preoccupava, solo gli incoscienti e gli esaltati non erano preoccupati, in quelle settimane forsennate di giugno. E naturalmente se il mondo esterno le chiedeva azione, lei agiva: concentrata, precisa, pronta nelle decisioni e convinta delle sue idee. Ma nel suo mondo interiore c’era una strana quiete, i giorni precipitavano uno dopo l’altro e lei si sentiva sempre più forte, più decisa, più consapevole e libera dalle catene del passato, quelle che l’avevano incatenata per anni alla maledizione del suo essere donna, alla sua appartenenza alla nobiltà, a un amore che, ora se ne rendeva conto, non era amore.
 
Ma lui era ancora un essere misterioso ai suoi occhi, lui che, sempre accanto a lei, non chiedeva niente e continuava ad assolvere i suoi compiti, lui che sapeva mantenere le distanze, che vinceva l’attrazione, che sapeva sopire l’amore in un sorriso. Chi sei tu? Ecco, tutto questo era oggetto di continuo stupore per lei: come poteva lui contenere in sé l’amore per lei da così tanto tempo? Come era riuscito a vederla piangere per un altro? Lei, che aveva appena iniziato a capire qualche cosa del suo cuore, lo guardava e ancora non riusciva a vederlo del tutto. Come fai, tu? Come si fa ad essere padroni dell’amore?
Talvolta la quotidiana imperturbabile calma di lui la faceva vacillare. Ma è davvero possibile che ancora mi ami? E poi puntuale arrivava un gesto, un’attenzione piccola che la faceva sentire al centro del suo mondo.
Qualche giorno prima, per esempio, faceva un caldo torrido e lei con sei soldati era stata di pattuglia nell’Ile de la Cité per ore: nel tardo pomeriggio, sfinita dal caldo e dalla fatica ma sempre impeccabile nella postura, decise che era ora di rientrare in caserma. Il sole alle loro spalle era un proiettile infuocato nella schiena, lei sentiva i capelli gravare umidi sul collo e resisteva a stento al desiderio di sollevarli un poco per far passare un filo d’aria. Improvvisamente aveva sentito un piccolo sollievo, un’ombra pietosa che le dava ristoro. Aveva guardato indietro con la coda dell’occhio e si era accorta che lui si era spostato leggermente: ora cavalcava esattamente dietro di lei e il suo corpo proiettava su di lei la sua ombra. Prima che la testa le imponesse il contegno dovuto, le sue guance arrossirono, e continuò a cavalcare, pensando a un giorno di pioggia e a un mantello verde.
 
Le rarissime volte che si trovavano a casa insieme, però, lei oscillava tra il piacere di averlo intorno e l’imbarazzo di non sapere che cosa dire o fare. A volte, se capitava di chiacchierare dopo cena, lei a un tratto doveva alzarsi in piedi e dargli le spalle, magari con la scusa di guardare fuori dalla finestra perché non riusciva a sostenere il suo sguardo. Non riusciva ancora a guardarlo davvero. E così, dal momento che raramente soffermava in modo prolungato lo sguardo su di lui, non si era nemmeno accorta che lui non ci vedeva più bene e quando, dopo tante prove della debolezza della sua vista, a lei finalmente era venuta un’ombra di sospetto, maldestramente l’aveva messo alla prova. Lui aveva riso e lei si era sentita un po’ sciocca.
 
La sera in cui ricevettero la notizia della morte del delfino, un bambino da lei tanto amato, erano così, sospesi a guardare il vuoto, lui tra le sue mani, lei fuori dalla finestra.
Le venne da piangere, andava tutto a rotoli.
Devo andare a porgere le mie condoglianze, subito, pensò con tristezza.
- Vado a Versailles, gli disse.
Quante volte aveva sentito dire quella frase a sua madre. E poi di solito accadeva che, quando la carrozza era pronta e sua madre era salita e aveva socchiuso la tendina, suo padre sulla porta a vetri, in piedi sull’ultimo gradino della scalinata d’ingresso, con le mani dietro la schiena, o, talvolta, con una mano appoggiata alla porta finestra, la seguiva con lo sguardo senza dire una parola. Ma stava lì, finché la carrozza non si era allontanata nel viale.
Anche lui quella sera stava lì, inconsapevole copia del generale, a guardare lei, sposa solo nei suoi sogni, e lei mentre si allontanava sentì il suo sguardo che la accompagnava e capì che quella casa solo se c’era quell’uomo era casa e che lei, dopo, sarebbe tornata da lui non come una padrona rincasa dalla servitù, non come un’amica torna dall’amico, non come un comandante si presenta davanti a un soldato, ma come una donna che torna dal suo… interruppe la frase, scosse la testa e rivolse i suoi pensieri al piccolo principe che aveva smesso di sognare le stelle.
“Ora non è il momento”, si disse.
 
EPILOGO
 
Quando suo padre l’aveva convocata nello studio, aveva capito subito che la questione era seria e che avrebbe dovuto rendere conto delle sue azioni recenti. In ordine sparso, si era opposta pubblicamente a un ordine del re, aveva colpito quell’insulso comandante con i baffi da Richelieu e con la personalità di Tartuffe, era fuggita dall’ufficio nel quale il generale Bouillé l’aveva messa in stato d’arresto, aveva fermato Girodelle e i soldati della guardia dando concretezza al detto “dovete passare sul mio cadavere”, i suoi soldati avevano osato disobbedire al generale in persona ed ora erano rinchiusi in prigione in attesa di una sentenza di morte. Per suo padre una sola di queste trovate era sufficiente per diseredarla, ne era certa. Eppure, pur essendo naturalmente molto preoccupata per la sorte dei suoi uomini, si sentiva stranamente calma, pacificata. Tornassi indietro, rifarei tutto, pensava.
 
E continuò a sentirsi una roccia anche dopo, quando capì le intenzioni di suo padre. L’avrebbe uccisa, disse, e poi si sarebbe ucciso anche lui: insostenibile l’onta del tradimento in una famiglia come la loro.
Allora “traditrice”. Questo lei era, una “traditrice”. L’accusa era chiara, “tradimento”: ma lei che cosa, nello specifico, aveva tradito? Mai si era sentita così coerente con sé stessa, mai aveva preso decisioni così consapevoli come negli ultimi mesi.
E guardava suo padre, lo guardava davvero, e avvertiva la distanza ormai incolmabile che li separava, ma sentiva per lui anche un amore puro di figlia che la fece piangere: posso non condividere i tuoi valori ma amarti lo stesso, padre? Posso non retrocedere di un passo nella mia coscienza, essere pronta alla mia morte per mano tua ma non tollerare il pensiero di essere causa della tua, padre?
E proprio mentre tutto stava per essere consumato, aveva sentito alle sue spalle la porta che si spalancava, una voce ferma che gridava “No!”, uno spostamento d’aria che le aveva mosso i capelli sulla fronte e poi il cuore che perdeva un colpo.
 
Ed eccoli lì, lui e suo padre: lui che impediva a suo padre di ucciderla e suo padre che lo guardava inorridito per l’affronto di sentirsi addosso le mani di un servo. Fuori dalla porta spalancata, la nonna piangeva accucciata in un angolo e vedeva avverarsi il suo peggiore incubo, vedeva suo nipote ribellarsi alla sua condizione di servo. E in effetti proprio questo disse suo padre: che lui era un servo e che prerogativa dei servi è obbedire e che quello che lui sognava e desiderava non si sarebbe realizzato, mai. Che cosa voleva fare, fuggire con lei? Non si fugge dalla propria condizione e dal proprio dovere e dovere di un servo è servire il padrone, dovere di una nobile è servire il re. Non c’era altro nel suo orizzonte di uomo, di padre, di generale.
 
Allora lui abbassò l’arma che teneva in mano e chinò la testa in una resa, mentre lei realizzava che lui, arrendendosi, stava sacrificando anche sé stesso.
E parole le salirono fino alla gola dove una maledetta strozzatura impediva loro di uscire: Ma no, no! Non state capendo, padre, non avete capito! Non avete capito niente di lui! Niente di me! Guardatelo, guardatelo davvero! Padre, lui non è un servo, nonna, tuo nipote non è ai miei ordini. Padre, nonna, guardate davvero quest’uomo, quest’uomo che io amo.
E guardate me, guardatemi e leggete nei miei occhi quello che io sono e quello che io voglio. È così chiaro, così evidente, come fate a non vederlo?
Ma non un solo suono era uscito dalle sue labbra.
E lui, che le dava le spalle, ignaro di quello che stava accadendo dentro di lei, proseguì quello che aveva iniziato e si inginocchiò davanti al generale, appoggiò sul pavimento davanti a sé la pistola che aveva tenuto in mano e disse, era la terza volta che lei lo sentiva, che l’amava, ma questa volta non c’erano lacrime sul suo volto: lo disse a suo padre e gli chiese di ucciderlo per primo, perché non avrebbe sopportato di vederla morire.
 
E fu allora, finalmente, che lei lo vide davvero, con il corpo e con la mente, con i sensi e con la ragione, proprio quando lui non le mostrava nient’altro che la schiena, in ginocchio ma non piegato, senza speranza ma fermo nella consapevolezza, inerme ma potentissimo. Lo vide davvero e riunì in un solo corpo tutto quello che in lui negli anni aveva faticosamente riconosciuto e si accorse che c’era ancora spazio in quel corpo, perché sicuramente lui era anche altro che lei ancora non conosceva. Capì che quella sua pretesa di vederlo davvero, nella sua completezza, era un’assurdità, o che era una scusa per rimandare, per non entrare mai nel gioco, e che aveva di fronte a sé un uomo che era stato definito da lei stessa e dagli altri in mille modi, ma che non aveva mai smesso di essere solo sé stesso, al di là di ogni definizione, fedele servitore della sua coscienza e padrone delle sue scelte più profonde. Allora si arrese e finalmente rispose a quella domanda, quella che ormai non aveva più senso, chi sei tu?, e dentro di sé diede un nome a quell’uomo, disposto a morire per lei in nome del suo amore, finalmente lo riconobbe in tutto quello che era stato e che era e che sarebbe stato e gli diede un nome e si disse:
 
Tu sei André.
 
Così, tremando perché l’aveva finalmente riconosciuto, per fermare il tremito mise una mano sul tavolo vicino a lei e con gli occhi sbarrati per lo stupore e per l’amore, mentre fissava i suoi capelli e la sua schiena, provò a dire una frase, una sola, che esprimesse tutto quello che provava e che allo stesso tempo gli facesse capire una volta per tutte quello che aveva compreso e così, mentre la sua mente in modo forsennato sceglieva le parole perché potessero essere pronunciate dalle labbra prima che la lama calasse su quel collo o penetrasse in quel cuore, con le dita della mano che si reggevano al piano di quella scrivania, lei riuscì a dire:
- André, io
e sapeva quello che voleva dire, ma si bloccò a sentire l’eco di quelle due parole vicine e si stupì per tutte le occasioni in cui le aveva pronunciate vicine senza mai cogliere il vero significato di quella vicinanza e così, senza logica e senza senso, rimase lì, con gli occhi sbarrati, nell’orrore della scena che stava vivendo, a pronunciare nella mente mille volte la bellezza di quei due suoni vicini.
 
Poi fu tutto molto veloce: un lampo e un tuono squarciarono il cielo, la nonna piangeva, il generale era pronto a colpire, anche se il suo sguardo disperato sembrava smentire la forza con cui stringeva l’elsa della spada. E in un istante un rumore di cavalli e l’arrivo improvviso del messo reale: il generale si precipitò fuori e scese le scale correndo come un ragazzo, la nonna sollevò il capo trattenendo il respiro e loro due uscirono dalla stanza e raggiunsero in pochi passi la balconata che dava sull’atrio d’ingresso e fianco a fianco, come mille altre volte, fissarono il messo mentre iniziava a leggere la lettera che conteneva il perdono della regina.
E allora, quando gli sguardi di tutti erano rivolti a quel messo, e le orecchie di tutti erano rivolte alle sue parole, e quando tutto pareva dipendere dallo scritto che quello reggeva tra le mani e leggeva con impersonale distacco, allora, mentre nessuno guardava ancora verso di loro, mentre erano nascosti al mondo intero pur essendo il centro di tutta quella storia, lei, al di sotto della balaustra afferrò con forza la manica e poi la mano di lui e, indifferente al messaggio della regina, disse piano:
- André, io non ti lascio più.
 
FINE
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Anche questa volta sono arrivata in fondo.
Ancora vi dico grazie, e sempre mi pare di dir poco.
Vi ringrazio sotto, nelle recensioni, a uno a uno, voi che mi leggete e commentate. Ed è un grazie grande quello che rivolgo a chi trova il tempo di scrivere un commento. Ma grazie e grazie di cuore anche a chi, come spesso capita di fare anche a me, legge silenziosamente. Come diceva Seneca, nessuno, per quanto riconoscente, può ricambiare il dono del tempo che gli viene dedicato.
Fate conto che stasera un bicchiere di vino me lo faccio anch’io, alla vostra!

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