La luce delle lanterne

di J Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Doverosa premessa: questa è la prima storia che scrivo e pubblico, non essendo una scrittrice di professione chiedo perdono per eventuali errori nella sintassi, nella gestione del ritmo narrativo ecc. Saranno presenti spoiler inerenti agli eventi degli ultimi capitoli del manga, quindi se seguite solo l'anime o non siete in pari vi sconsiglio di proseguire con la lettura.
Ovviamente i personaggi e la vicenda  dell'Attacco dei Giganti appartengono all'autore Hajime Isayama, in questo contesto io mi sono permessa di inserire la storia della mia protagonista. 
Pubblicherò la presente fanfic solo sul sito di EFP e quindi la sua diffusione su altre piattaforme è vietata. Qualora doveste trovarla riportata in altri siti vi prego di comunicarmelo. Spero che questo umile racconto riesca ad intrattenervi e a trasmettervi le emozioni che io stessa ho provato mentre lo scrivevo.
Vi ringrazio anticipatamente per l'attenzione e qualora aveste domande, curiosità, critiche mi trovate a vostra disposizione.


 

                                                                                      PROLOGO

Tra i passaggi che preferisco del Signore degli Anelli c’è sicuramente quello in cui Éowyn affronta il Re degli Stregoni di Angmar ergendosi in difesa di Re Théoden.
Sono sempre rimasta affascinata dal disarmante coraggio di quella donna.
Forse perché in lei rivedo il mio stesso desiderio di rivalsa e di dimostrare al mondo che, malgrado la fragile apparenza, anche io sono forte.
È ironico che mi venga in mente proprio adesso, mentre sento la mia schiena premuta sulla dura terra e le forze scivolare via come il sangue caldo che sgorga dal mio addome. Non provo alcun dolore e spero di continuare ad avvertire la medesima pace anche quando il proprietario della gigantesca mano che ora mi ha afferrata, mi divorerà.
Sento una voce urlare il mio nome in lontananza… ma è tutto così ovattato e sconnesso.

Chissà se sono stata coraggiosa.

Chissà se ho fatto la scelta giusta.

So solo che ho combattuto, perché se non combatti non puoi vincere.

E che ho offerto il mio cuore.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


                                                                                   1
<< Allora come è andato il colloquio tesoro? >>

<< Tsk, una favola >> bofonchiò Carol in risposta alla domanda della madre, mentre si toglieva le scarpe sulla soglia di casa.

 << Quando ti intervistano sembrano sempre tutti stupiti dalle tue doti, dalla tua determinazione…per poi darti il benservito liquidandoti con la solita scusa della scarsa esperienza lavorativa >> aggiunse sbuffando ed abbandonandosi pesantemente sul divano.

La madre le sorrise comprensiva prendendo posto accanto a lei,

<< Sono sicura che prima o poi tutto si sistemerà e troverai chi sarà in grado di riconoscere il tuo potenziale. Purtroppo per quanto sia demoralizzante non si può fare altro che assecondare la situazione. >>

Carol sentì gli occhi bruciare nel tentativo di frenare le lacrime dettate dalla rabbia. Detestava piangere perché non voleva mostrarsi debole, ma c’erano situazioni in cui la frustrazione aveva la meglio sulla sua compostezza.

 << Sono così stanca mamma. Tutti i miei amici hanno un lavoro, sono realizzati…a me invece sembra di essere bloccata e di non combinare nulla di concreto. >>

<< No Carol, non pensarlo nemmeno per un secondo >> la ammonì la donna prendendo le mani della figlia tra le proprie.
<<  Ognuno di noi ha la propria missione da compiere, nessuno è inutile a questo mondo… tuttavia, ciascuno viaggia su un binario diverso e pertanto anche le tempistiche non possono essere le stesse. Abbi fiducia in questa consapevolezza e soprattutto nelle tue capacità. >>

La madre la strinse poi in un confortante abbraccio e lì Carol si sentì al sicuro, proprio come quando era piccola. Lentamente i singhiozzi cessarono man mano che il suo respiro si sincronizzava con il ritmo calmo di quello di sua mamma.

 << Grazie >> disse la ragazza mentre scioglieva quel contatto così rassicurante.

La madre annuì e guardandola negli occhi si fece più seria << Sai che ci sono e ci sarò sempre per te. Se potessi porterei io questo fardello al posto tuo, ma purtroppo è una sfida che fa parte del tuo percorso di vita. E ricorda che anche le situazioni che ci sembrano ingiuste portano con sé grandi insegnamenti. >>

<< Lo so mamma >> rispose Carol dandole un bacio sulla guancia << come farei senza la tua immensa saggezza? >>aggiunse sollevando platealmente le braccia al cielo in segno di disperazione. Risero entrambe di gusto, liete che l’atmosfera si fosse alleggerita.

Carol si ritirò nella propria stanza dove il suo gatto Gimli la stava aspettando placidamente accoccolato sul letto.

<< Sempre a rubarmi il posto tu eh? >> gli si rivolse amorevolmente accarezzando l’animale, che rispose al suo tocco girandosi a pancia in su e producendo delle sonore fusa.

Mentre coccolava Gimli Carol non poté fare a meno di riflettere sulla propria situazione. Si era laureata ormai da un anno eppure non aveva ancora trovato lavoro, pareva che nessuno sapesse cosa farsene di un ingegnere. Si sentiva frustrata perché odiava non avere una propria indipendenza economica o pesare sulla famiglia e detestava ancora di più starsene con le mani in mano, apparentemente senza uno scopo.
Aveva sempre provato la sensazione che la propria vita procedesse controcorrente rispetto a quella degli altri e all’inizio la cosa non la turbava, anzi era un modo per sentirsi “speciale”, per quanto banale tale constatazione potesse sembrare. 
Ora però questa piega cominciava ad essere frustrante.

<< Pff, tanto per cambiare >> borbottò dando voce ai propri pensieri mentre si sdraiava sul letto accanto a Gimli, stanca di quell’ennesima giornata storta.
 
                      
                                                                                            
 
Mentre Carol passeggiava tra le vie della piccola città sotto un grigio cielo autunnale ed immersa nei propri pensieri, notò l’insegna di un negozio che giurò non aver mai visto nonostante ormai conoscesse a menadito ogni angolo di quell’immutata zona dell’Inghilterra del Nord. Stando al nome della bottega, “Parole Incantate”, doveva trattarsi di una libreria. Carol non seppe spiegarne il motivo, eppure si sentiva irrimediabilmente attratta da quel luogo. Forse era incuriosita dall’aspetto vetusto ed un po’ trasandato del negozio che dava l’idea di ergersi in quel punto da tempo immemore. O forse fu il brivido che la percorse come una scarica elettrica quando lesse la scritta che vergava con eleganti lettere la trave sopra la porta:

“Offrite il vostro cuore”.

Appoggiò quindi quasi automaticamente la mano sulla maniglia ed entrò, venendo immediatamente investita da quell’inebriante odore di libri antichi e carta stampata tanto caro a chi, come lei, era solito trovare rifugio nelle loro pagine.
 La libreria era di modeste dimensioni ma unica nel suo genere ed emanava un alone di mistero o forse di magia. A sinistra dell’ingresso vi era un vecchio bancone in mogano con alle spalle un grande scaffale pieno di strani alambicchi che sembravano avere poco a che fare con quel tipo di esercizio. Sempre dietro al bancone, coperto da una tenda la cui trama riproduceva il disegno di una galassia, vi era un accesso secondario che probabilmente conduceva ad una stanza privata attigua. Il resto del negozio era tappezzato di libri e ce ne erano di ogni genere esposti sulle varie mensole, dalle edizioni più vecchie alle ultime uscite del mese. C'era anche una sezione dedicata a manga e fumetti dove Carol adocchiò subito l'ordinata ed elegante fila di dorsi neri appartenente al suo preferito, "L'attacco dei giganti".
Si massaggiò la testa con fare pensieroso; come poteva non aver mai notato quel posto, lei che era una lettrice seriale e conosceva ogni libreria del circondario?
 Mentre si interrogava su tali dubbi improvvisamente da dietro la tenda fece la sua comparsa quello che doveva essere il proprietario del negozio. Nel vederlo Carol pensò subito che il signore che si trovò davanti potesse benissimo essere un personaggio uscito da un'opera di Zafón: era di media statura, magro e vestito in stile primi del novecento con tanto di panciotto ed orologio da taschino. A giudicare dai folti capelli grigi e dal volto segnato doveva essere sulla settantina, ma lo sguardo vispo dietro gli occhialetti gli conferiva un'aria giovanile.

 << Buongiorno! Mi chiamo Eldar Grimm e sono il proprietario del negozio, in cosa posso esserti utile? >> si presentò allegramente Il libraio ed alla giovane venne naturale sorridere a quello strano vecchietto.

<< Piacere di conoscerla, io sono Carol Evans e a dire la verità sono capitata qui per caso…non avevo mai visto la sua bottega ma quando ho letto la scritta sopra la porta ecco… ho sentito l'impulso di entrare a curiosare >> disse timidamente lei, considerando forse un po' stupida la propria risposta.

Ma al Signor Eldar brillarono gli occhi a quelle parole.

 << Beh direi che le scoperte migliori si fanno quando non si è alla ricerca di nulla in particolare! Non preoccuparti, dai pure un'occhiata in giro se ti va. Sono convinto che da amante dei manga troverai sicuramente qualcosa che ti possa interessare >> esclamò facendole l'occhiolino.

Carol lo ringraziò con un sorriso sincero e si mise a gironzolare per il negozio sotto lo sguardo incuriosito del proprietario, che la scrutava attento mentre spolverava alcuni volumi dall'aspetto parecchio datato.
Mentre sbirciava tra gli scaffali scorse, nascosta dietro ad una vecchia edizione de "L’Isola del Tesoro”, un’elegante scatolina di pelle nera. Quando l’aprì vide al suo interno una spilla raffigurante l’inconfondibile emblema del Corpo di Ricerca. Non si trattava però di una semplice riproduzione economica come quelle normalmente acquistabili in rete, era un oggetto estremamente raffinato e curato in ogni dettaglio. Le ali della libertà spiccavano rilucenti su uno sfondo di un grigio argento brillante che sembrava davvero autentico ed anche i loro contorni parevano fatti del medesimo materiale prezioso.  Carol rimase ammaliata dalla bellezza di quel gioiello, sperimentando nuovamente dentro di sé quello stesso brivido di poco prima.

<< È bella vero? L’ala bianca è fatta di pietra di luna, quella blu di sodalite ed il resto è argento >> spiegò il libraio anticipando la sua domanda.

<< È meravigliosa >>si espresse Carol quasi con un sussurro, accarezzando delicatamente con il pollice la spilla.

Mentre stava per riporla nella custodia, consapevole che probabilmente il costo non sarebbe stato alla portata delle proprie tasche, il Signor Eldar la fermò.

 << Puoi tenerla se vuoi, è inutile che rimanga lì a prendere polvere. Meglio che stia con qualcuno che ne riconosca la bellezza. >>

 << Purtroppo non credo di potermela permettere, Signor Eldar >> rispose lei con un’evidente delusione nella voce, poggiando la scatolina sullo scaffale.

L’anziano libraio le sorrise dolcemente << Te la regalo volentieri Carol, davvero prendila. >>

La ragazza sgranò gli occhi a quelle parole e cercò di ribattere piuttosto a disagio, non le sembrava giusto appropriarsi di quello splendido gioiello senza pagarlo o approfittare della generosità del negoziante peraltro appena conosciuto.
Ma il Signor Eldar non volle sentire ragioni ed avvicinatosi a Carol tolse la custodia dallo scaffale e gliela mise tra le mani.

 << Sai, secondo alcune discipline curative queste pietre hanno dei poteri. La sodalite infonde coraggio, mentre l’adularia protegge durante i viaggi perigliosi, siano essi fisici oppure nelle profondità della nostra psiche. E qualcosa mi dice che tu ne abbia bisogno. >>

A Carol quasi venne da piangere di fronte alla disinteressata generosità di quel gesto così inaspettato

 << I-io non so come ringraziarla… >> disse sinceramente commossa.

<< Non devi ringraziarmi, solo…quando tornerai dal tuo viaggio passa a trovarmi. Sono certo che avrai una bellissima storia da raccontare. E chissà che tu non riesca a riportare speranza  >>

E detto questo si dileguò dietro la tenda da cui era comparso, lasciandosi dietro di sé una Carol un po’ confusa da quelle criptiche parole.
 
                                                                                                    
Quella sera Carol era davvero irrequieta, ancora scossa dalle emozioni suscitate dall’incontro con l’anziano libraio, dal regalo ricevuto e da quelle parole di cui non riusciva a capire appieno il significato.
Gimli dormiva placidamente accanto a lei, apparentemente incurante dell’agitazione della padrona.
La ragazza prese di nuovo in mano la spilla rimirandola attentamente, rapita dai giochi di luce che le pietre proiettavano sul muro quando colpite dal bagliore della lampada.
“Ma di che viaggio parlava?”
Improvvisamente la luce sprigionata dalla spilla si fece più intensa, illuminando a giorno l’intera stanza. Gimli balzò spaventato giù dal letto schizzando verso la porta mentre Carol, ormai completamente avvolta da quel lampo accecante, si sentì trasportare lontano da una forza incredibile e sparì nel nulla.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


                                                                                           2


Quando Carol riaprì gli occhi si trovò distesa sull'erba, sopra di lei un cielo azzurrissimo, tanto che dovette schermarsi dalla luce solare. Nel rialzarsi provò una leggera nausea e non poté credere a ciò che stava vedendo: di fronte a sé si stagliava un paesaggio verdeggiante, idilliaco, dove le colline in lontananza lasciavano il posto a montagne dalle vette innevate.

Come cavolo era arrivata in quel posto?

E soprattutto, DOVE si trovava esattamente?

Poi le tornò in mente, fulmineo come un flash, il ricordo di quella luce accecante emessa dalla spilla e notò che la stava ancora stringendo in mano. Mentre era immersa in queste elucubrazioni avvertì la terra tremare sotto i propri piedi ed un orrendo presentimento si fece largo nella sua mente. Si voltò trovando conferma dei propri timori nella figura titanica che stava avanzando a grande velocità verso di lei, con quella tipica andatura barcollante e le mani già protese per afferrarla.

<< NO... >>  sussurrò con la voce strozzata da un terrore viscerale, le gambe improvvisamente incapaci di reggerla in piedi ed il sangue raggelato nelle vene.

<< Dannazione, riportami indietro! >> inveì contro la spilla, cercando di riattivare qualunque meccanismo o magia fosse stata a portarla lì.

Ma niente, sembrava un normale gioiello.

Ormai il gigante era troppo vicino, non c'era possibilità di sfuggire a quell’orrendo destino.

Carol chiuse gli occhi, calde lacrime già le rigavano il viso mentre si arrendeva all’inevitabile.
 
<< Papà, mamma, vi voglio bene. >>
 
In quel momento udì un rumore familiare, come di una fune metallica sottoposta ad una veloce trazione ed una folata d'aria le scompigliò i capelli.
Spalancò gli occhi e la prima cosa che vide fu lo stemma del Corpo di Ricerca che cappeggiava sul mantello verde del soldato giunto in suo soccorso.

Quasi le mancò il fiato quando riconobbe l'identità di quella figura che, con un solo e letale colpo, aveva atterrato il gigante.

I capelli corvini dal taglio militare, la bassa statura, le movenze eleganti e micidiali non lasciavano dubbi.

Era il Capitano Levi.
 






 
Erano di ritorno dall'ennesima spedizione di ricognizione che era stata più fruttuosa delle altre e fortunatamente senza caduti.
Levi però non poté trattenersi dal sospirare seccato, era stanco e non ne poteva più di quella situazione.
I preparativi per l'imminente operazione di riconquista del Wall Maria stavano procedendo bene, ma ciò non gli impediva di essere preoccupato per i propri sottoposti, e per Erwin.
Reiner, Bertholdt e quella Bestia che aveva attaccato il castello di Utgard avrebbero sicuramente teso loro un'imboscata a Shiganshina, prospettando così una missione che per la maggior parte dei soldati non avrebbe garantito molte  possibilità di sopravvivenza.
Aveva detto ad Erwin di restare in disparte almeno questa volta, lo aveva addirittura minacciato di rompergli entrambe le gambe. Ma era tutto fiato sprecato, quelle minacce gli erano scivolate addosso come acqua. 
Perché quando c'erano di mezzo il suo sogno e quella dannata cantina il biondo non ammetteva ragioni ed era più cocciuto di un bambino petulante.

<< Forse un soldato ferito dovrebbe stare lontano dal fronte. Ad ogni modo, quando finalmente capiremo la verità di questo mondo,io voglio essere presente lì con voi >>.

<< Tsk, tutti a me quelli particolari >> bofonchiò tra sé mentre cavalcava alla sinistra di Hange.

All'improvviso udì delle grida provenire da non molto lontano, si guardò intorno e riconobbe un gigante che avanzava a passo svelto. Un altro soldato doveva essersene accorto, perché l’azzurro del cielo fu solcato dall’inconfondibile scia di un fumogeno rosso.  Il Titano però non sembrava interessato a loro ed aguzzando la vista Levi ne comprese il motivo; captò infatti una piccola figura proprio nel raggio di traiettoria di quel mostro.

<< Merda >> sibilò a denti stretti estraendo le lame.

 << Hange me ne occupo io, tu mantieni la formazione >>.

La caposquadra annuì, intimando poi i soldati di proseguire.

Il Capitano spronò il proprio cavallo in direzione del gigante e quando fu alla giusta distanza azionò il dispositivo di manovra tridimensionale arpionando la nuca di quell'essere. Con un colpo ben assestato gli fece saltare la collottola, atterrandolo.
La carcassa stava già iniziando ad emettere il caratteristico vapore fetido e bruciante quando Levi spostò lo sguardo sulla figura che lo stava fissando, immobile e a bocca aperta.

Non si trattava di un soldato ma di un semplice civile, una ragazza.
Eppure tanto normale non era, se si trovava fuori dalle mura.
Man mano che le si avvicinava la sua curiosità aumentava esponenzialmente, c'era qualcosa in lei che non riusciva a decifrare, un alone di mistero che lo intrigava. Doveva avere poco più di vent’anni, era magrolina, leggermente più bassa di lui e con un viso dai lineamenti delicati.

Era bella, pensò Levi osservandone i brillanti occhi verdi ed i lunghi capelli biondi.

<< Ohi, mocciosa, ma che ci fai fuori dalle mura? Volevi farti ammazzare? >>

La bionda era molto pallida, sembrava sotto shock e boccheggiò un << Io...io...non so cosa ci faccio qui >> prima di svenire tra le braccia del Capitano.





 
Quando Carol riprese i sensi si trovò in un letto di una stanza che, a giudicare dall'odore di disinfettante che aleggiava nell'aria, sembrava appartenere ad un'infermeria.
Accanto a sé scorse una figura familiare seduta a braccia conserte su una poltrona.

<< Ben svegliata, come ti senti? >> le chiese il Capitano Levi con un tono che voleva essere indifferente, ma che ad un orecchio attento tradiva una punta di curiosità.

Carol arrossì immediatamente, tutto si sarebbe aspettata dalla vita ma mai di ritrovarsi di fronte ad uno dei suoi personaggi preferiti. La versione in carne ed ossa di Levi metteva ancora più soggezione ed era, se possibile, incredibilmente più bella. La voce era la stessa che tanto amava, profonda, tagliente e la giovane si sorprese di riuscire perfettamente a comprenderla pur non conoscendo una parola di giapponese.

<< S-sto meglio, la ringrazio per l’interessamento Capitano >> rispose lei, la gola improvvisamente secca.

L’uomo intuendo la sete della ragazza prese la brocca dal comodino e le versò dell'acqua in un bicchiere, porgendoglielo con attenzione. Carol l'afferrò con entrambe le mani sorridendo debolmente al soldato in segno di ringraziamento, e lo vuotò in pochi secondi.
Rimase a fissare il fondo trasparente del bicchiere in preda allo sconforto, sentendo su di sé lo sguardo indagatore di Levi per niente pronta ad affrontare le domande che, era certa, sarebbero arrivate.

<< Come ti chiami? >> fu il corvino a rompere quel silenzio, con il tono freddo che tanto lo contraddistingueva.

<< Carol Evans >>

Ma la domanda che più temeva doveva ancora esserle posta e poteva sentire il proprio cuore scandire quei dannati secondi, martellandole furiosamente nel petto.

<< Da dove vieni? >>

La giovane deglutì il nulla, la salivazione di nuovo completamente azzerata.

In quella manciata di minuti trascorsi dal suo risveglio aveva continuato a far lavorare a pieno regime le proprie meningi, vagliando le possibili alternative. Alla fine era giunta alla conclusione che non poteva mentire perché non aveva idea di cosa inventarsi e non c'era scusa che avrebbe retto, a maggior ragione con lui.
Ormai il battito sordo del cuore le rimbombava persino nelle orecchie.

Fece un bel respiro e con tutto il coraggio che possedeva sollevò il capo, incontrando le iridi blu di Levi.

<< Temo che non mi crederebbe, a dire il vero nemmeno io lo farei al posto suo. Voglio rispondere sinceramente alla sua domanda, Capitano, e lo farò. Ma credo sia meglio che anche il Comandante Erwin ed il Caposquadra Hange ascoltino il mio racconto. >>

Gli occhi del suo interlocutore si ridussero a fessure mentre ponderava quanto aveva appena udito, probabilmente indeciso se credere a quelle parole oppure prenderla a calci reputandole uno scherzo di pessimo gusto.
Cercò meticolosamente nel volto di Carol un tentennamento, un’indecisione, qualcosa che gli confermasse che la ragazza stesse mentendo.
Ma in quello sguardo stanco e rassegnato non colse l'ombra della menzogna, solo tristezza.

<< Questa sera, nell'ufficio di Erwin. Vengo a prenderti io >> proferì atono, prima di uscire chiudendosi la porta alle spalle.

Una volta rimasta sola Carol si concesse di respirare, poi si mise a piangere nascondendosi il volto tra le mani.
Pensò alla propria famiglia ed all’assurda situazione in cui si trovava, vittima di un evento inspiegabile e con troppe emozioni da metabolizzare. Probabilmente era così che si era sentita Claire Beauchamp, la protagonista di Outlander, quando era stata trasportata nella Scozia del ‘700. A differenza sua però Carol sembrava non poter far ritorno nel proprio mondo con la stessa facilità, poiché il suo passaggio sembrava non avere alcuna intenzione di riaprirsi. 
E a proposito di portali, si rese conto di non avere più tra le mani la spilla.
Frugò nelle tasche dei pantaloni ed emise un sospiro di sollievo quando i suoi polpastrelli incontrarono il freddo metallo del gioiello. La prese tra le dita e nel lucido riflesso delle pietre le sembrò di scorgere il volto dell’anziano libraio che le sorrideva bonariamente.

<< Dannato vecchio, quando parlavi di viaggi non credevo intendessi salti di dimensione >> disse sconfortata.

Non sapeva cosa pensare, se il passaggio non voleva attivarsi un motivo doveva esserci. 
Più volte aveva fantasticato sul viaggiare in quel mondo e diventare un soldato del Corpo di Ricerca, ma ora che in quell’universo ci era davvero finita non la trovava più una prospettiva così allettante.

“E chissà che tu non riesca a riportare speranza”

Le parole del Signor Eldar le risuonarono in mente, forti e chiare come se il libraio fosse lì con lei.

Riportare speranza…

Forse era stata mandata lì per modificare il corso degli eventi.
Che fosse questa la chiave per riattivare i poteri della spilla? Ma in che modo?
Certo, se fosse stato per lei avrebbe riportato in vita molti personaggi ed evitato la spaventosa strage degli ultimi capitoli, ma gli avvenimenti del manga dipendevano dalla fantasia e dal volere di Isayama. Tuttavia, pensò Carol, il paradosso in cui si trovava era la prova che i due universi fossero connessi, e se gli accadimenti del proprio mondo influenzavano quelli dell’Attacco dei Giganti forse poteva valere anche il contrario. In tal caso se lei avesse operato qualche cambiamento in quella realtà allora il fumetto si sarebbe adattato di conseguenza.
Ma non c’era modo di esserne sicuri e forse avrebbe finito con il complicare ulteriormente le vite dei personaggi, per quanto faticasse a credere che la storia potesse assumere una piega più tragica di quella attualmente presa nel manga. Senza contare che mancava ancora un capitolo alla conclusione della vicenda, sarebbe stato davvero un azzardo interferire con il corso degli eventi prima di conoscere la soluzione narrativa di Isayama.
Inoltre tutti i libri, film e serie tv sull’argomento “viaggio nel tempo” giungevano alla medesima conclusione: ciò che è già scritto o avvenuto non può essere cambiato.

Eppure se quello era l’unico modo per riattivare il portale, per quanto assurdo doveva tentare. E la prospettiva di aiutare quei personaggi a cui era tanto affezionata le accendeva ulteriormente l’animo.

Carol strinse i pugni, a testimonianza della propria ritrovata speranza.

Avrebbe cercato di salvarli.

E sarebbe tornata a casa.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Piccola precisazione: nel Capitolo 2 ho menzionato il dialogo tra Levi ed Erwin, colloquio che nell'opera originale avviene la notte prima della partenza per Shiganshina, io mi sono permessa di dilatare le tempistiche di circa una settimana. 
Vi aspetto a fine capitolo per un'ulteriore nota, buona lettura!




                                                                                3



Seduta dinnanzi a tre delle personalità più importanti dell’universo dell’Attacco dei Giganti, Carol non poté che sentirsi in profonda soggezione.

Il comandante Erwin nella sua statuaria bellezza la osservava serio appoggiato allo schienale della sedia; La Caposquadra Hange era seduta sulla scrivania e la scrutava impaziente dietro ai propri occhiali.
 Levi, trincerato dietro il suo atteggiamento schivo e freddo, era invece in piedi con le spalle al muro dietro al Comandante, gli occhi piantati su di lei.

«Carol, dal rapporto che mi è stato consegnato ho letto che sei stata trovata al di fuori del Wall Rose e soccorsa dal qui presente Capitano Levi» fu Erwin a spezzare quel silenzio carico di tensione.

 «Non so come tu abbia fatto ad eludere le pattuglie del Corpo di Guarnigione poste a difesa dei cancelli, il solo atto di varcare quelle porte ti rende perseguibile penalmente. La Legge in tal senso è chiara e prevede che io ti consegni al Corpo di Gendarmeria per essere poi giudicata e punita.  Ciò che mi ha spinto a contravvenire a tale dovere, tuttavia, è il forte presentimento che questo non si tratti del semplice caso di un civile che si avventura nel territorio dei giganti. O sbaglio?»

«No, non è in errore Comandante. Quella che sto per raccontarvi vi apparirà come un’assurdità, tuttavia vi chiedo di sospendere momentaneamente il vostro giudizio e di attendere che abbia concluso la mia storia prima di trarre le vostre conclusioni» rispose la ragazza, cercando di darsi più contegno possibile e celare l’ansia che le stava lentamente divorando le viscere.

Erwin si protese verso di lei in atteggiamento di ascolto, poggiando il gomito sulla massiccia scrivania e sostenendosi il mento con la mano.

«Parla pure, ti ascoltiamo»

Carol prese un profondo respiro e diede inizio alle danze, ormai non si poteva più tirare indietro.

«Oltre al mistero di come io sia comparsa nel bel mezzo del territorio dei giganti, credo non vi siano sfuggite le altre peculiarità che caratterizzano la mia persona. I miei abiti sono per voi decisamente di strana fattura e parlo con un accento che vi risulterà insolito. »

Il Comandante annuì osservando la maglietta dai colori sgargianti e raffigurante i personaggi di Stranger Things indossata dalla straniera.

«Non riesce a capacitarsi di come io abbia evitato la sorveglianza delle mura semplicemente perché non l'ho fatto. Fuori dal Wall Rose mi ci sono trovata all'improvviso, per via di questa»
ed estrasse la spilla dalla tasca dei pantaloni, ponendola sul tavolo davanti ai propri interlocutori. L'attenzione dei presenti si spostò sul gioiello ed Hange lo prese subito tra le mani studiandolo attentamente, anche lei rapita da quel particolare oggetto. Lo sguardo dei tre si rivolse quindi nuovamente a Carol, in cerca di risposte.

La bionda deglutì appena, in preparazione a quella che sapeva sarebbe stata una spiegazione impossibile da accettare anche per la mente più aperta e lungimirante.

«Capisco che sia difficile da comprendere… è qualcosa che va oltre ogni logica ed io stessa non riesco ancora a capacitarmene. La verità è che io non appartengo a questo mondo ma provengo da una realtà parallela a questa, seppur molto diversa. Un luogo ed un tempo in cui le vostre gesta sono conosciute ai più perché narrate in un libro.»

Calò il gelo, quell’affermazione così azzardata pesava nell'aria quanto un macigno.

«Tsk» proruppe stizzito il Capitano abbandonando il contegno conservato fino a quel momento «ma che marea di cazzate stai dicendo, mocciosa?»

«Tutti si sono ubriacati di qualcosa per poter tirare avanti nella vita, erano tutti schiavi di qualcos'altro»

Carol parlò con voce inespressiva sostenendo con fierezza lo sguardo di Levi.

L'uomo ebbe un sussulto ed impallidì vistosamente, incapace di nascondere il proprio stupore.

«Come... come puoi saperlo?»

La ragazza lo ignorò, si voltò invece verso Erwin piantando i propri occhi verdi in quelli azzurri del Comandante.

«Prima o poi riusciremo ad abbattere le mura dietro le quali si cela la verità.»

 Un bagliore fulmineo e quasi impercettibile attraversò le cristalline iridi del biondo e le sue spalle sussultarono leggermente.

«A giudicare dalle vostre attuali condizioni fisiche, Comandante, deduco che abbiate già affrontato il gigante corazzato nella battaglia per riprendervi Eren. E dal grande numero di reclute che ho potuto vedere allenarsi in cortile mentre il Capitano mi scortava qui, immagino stiate ultimando i preparativi per l'operazione di riconquista del Wall Maria. Potete anche non credere al mio racconto, ma vi basti sapere che se volete vincere questa secolare guerra le mie conoscenze sono la chiave per farlo.
Allora Erwin, volete conoscere questa verità?» Concluse la giovane sperando con tutto il cuore che il proprio piano avesse sortito l'effetto desiderato.
 
Levi era ammutolito e fissava il vuoto scombussolato. Nel vederlo così Carol si sentì un po' in colpa, forse usare proprio le ultime parole di Kenny era stato un colpo basso…per quanto strategicamente efficace.
Hange dal canto suo era in visibilio e continuava ad agitarsi sulla scrivania con il volto rosso dalla gioia, sicuramente fremeva dalla voglia di tempestarla di domande.
Erwin, che non aveva ancora interrotto il contatto visivo con la giovane, decise infine di arrendersi all’evidenza di quell’assurdo racconto. Dopotutto la ragazza sapeva quanto il desiderio di conoscere il segreto celato in quella cantina fosse importante per lui.

«D’accordo Carol. Ancora non comprendo, ma ti credo. Ora per favore aiutaci a riconquistare Shiganshina»
 


 
Carol aveva riflettuto attentamente sul da farsi prima che Levi bussasse alla porta della sua stanza per scortarla nell’ufficio del Comandante. Aveva deciso che avrebbe cercato di impedire gli atroci eventi del manga, primo fra tutti lo sterminio della razza umana ad opera di Eren. Per arrestare quella catena di distruzione era necessario evitare che Zeke ed Eren entrassero in contatto, poiché solo con l’unione dei poteri del Gigante Progenitore e del Gigante di sangue reale il boato della terra si sarebbe potuto attivare. L’azione più sensata poteva quindi sembrare quella di far fuori Zeke direttamente sul campo di battaglia di Shiganshina.

Ma qui le cose si complicavano.

Una volta morto Zeke gli abitanti dell’isola avrebbero vissuto qualche anno in pace, prima di subire però un devastante attacco d’oltreoceano poiché Marley e le altre nazioni del mondo volevano la distruzione del popolo eldiano. Un’offensiva di fronte alla quale sarebbero stati completamente inermi senza il boato della terra e le nuove tecnologie portate da Yelena e dai volontari. La marcia dei colossali rimaneva l’unico deterrente posseduto da Paradis per opporsi all’invasione da parte delle altre potenze mondiali. Se avessero ucciso Zeke nell’imminente missione senza farne ereditare il gigante a qualcuno di sangue reale, come Historia, quest’arma sarebbe andata perduta o peggio ancora, se tramandata a qualche neonato eldiano di Marley, sarebbe finita nelle mani del nemico.
Quindi no, Zeke non poteva morire. Carol convenne che un buon compromesso sarebbe stato quello di catturarlo vivo, imprigionarlo avendo cura di non permettere alcun contatto con Eren e poi farlo divorare da Historia. Come era già stato reso chiaro nell'opera le popolazioni del continente, ad eccezione degli Azumabito, non avrebbero mai accettato una convivenza pacifica con Paradis e quindi sarebbe stato inutile tenere in vita Zeke per una possibile mediazione. Purtroppo non c’era posto per gli Eldiani al di là del mare e l’unica scelta per evitare innumerevoli morti era quella di conservare la minaccia della marcia dei colossali.
Così facendo la sicurezza dell’isola sarebbe stata mantenuta ed avrebbe anche scongiurato la morte di Erwin e lo sterminio del Corpo di Ricerca.
La ragazza non era però del tutto sicura di essere effettivamente in grado di cambiare il corso di eventi che pur non essendosi ancora verificati, erano tuttavia già stati decisi dall’abile penna di Isayama. Stabilì quindi di non rivelare la morte di Erwin, né tantomeno la verità sul mondo al di fuori dell’isola, ma di limitarsi alle informazioni necessarie al conseguimento del proprio obiettivo. 
Per assicurare il successo della riconquista del Wall Maria alla Legione Esplorativa occorreva evitare che il contingente militare fosse colto di sorpresa dal gigante Bestia e mitragliato dalle pietre lanciate da quest’ultimo.

Nel corso dell’ora seguente Carol mise dunque al corrente i suoi tre interlocutori del pericolo che li attendeva a Shiganshina. Spiegò che viaggiare sfruttando il buio delle ore notturne era una scelta giusta per eludere i giganti, tuttavia il Bestia aveva posto delle sentinelle a guardia dei boschi attorno alla città e quindi il loro arrivo non sarebbe stato un segreto. Riferì del nascondiglio di Reiner, del pericolo di Bertholdt e del fatto che l’esercito sarebbero stato accerchiato dai giganti.

Suggerì quindi di dividere la milizia in tre truppe.
Le prime due sarebbero avanzate insieme, formando il contingente principale con i carri e si sarebbero sparpagliate a ventaglio nella foresta in modo da riuscire a cogliere eventuali sentinelle in agguato tra gli alberi. Una delle incognite del suo piano era infatti che Carol non conosceva la posizione del gigante carro perché nel manga ciò non era stato specificato. Sospettava però che Pieck si trovasse già sotto forma di titano, altrimenti il bagliore generato da una sua potenziale trasformazione sarebbe stato ben visibile nell’oscurità della notte. Ciò la rendeva quindi più ingombrante e potenzialmente individuabile con maggiore facilità. Ad ogni modo ai soldati sarebbe stato ordinato di limitarsi a segnalare la posizione del gigante carro senza ingaggiare combattimento, in quanto era necessario per la riuscita del piano che questo avvisasse Zeke del loro arrivo.
La terza truppa avrebbe invece marciato mantenendosi a distanza di circa un quarto d’ora dalle altre, in modo da giungere sul posto dopo che Zeke ed i suoi scagnozzi fossero usciti allo scoperto. A quel punto tale drappello di soldati scelti guidati da Levi avrebbe potuto cogliere i nemici alle spalle ed eliminarli. Il Capitano ovviamente si sarebbe occupato del Bestia, poiché era l’unico abile abbastanza da sconfiggerlo.  Carol sperava che in tal modo, una volta catturato Zeke, l’esercito avrebbe poi potuto concentrarsi interamente sul mettere fuori gioco il Corazzato ed il Colossale.
La giovane era consapevole che si trattasse di un piano piuttosto approssimativo e rimase quindi alquanto sorpresa quando Erwin, da abilissimo stratega quale era, lo approvò complimentandosi con lei.
Levi la fissava ancora a braccia conserte diffidente e sospettoso, tanto che Carol si sentì a disagio come scottata da quello sguardo prolungato ma non poteva mostrarsi debole, non in quel momento.

«Allora è deciso, assisterai Hange nei preparativi per la spedizione. Partiremo tra una settimana» decretò Erwin e a Carol sembrò di cogliere soddisfazione sul suo viso.

«Yaooooo» esclamò Hange entusiasta, scattando in piedi e facendo prendere un colpo alla ragazza «Lo sapevo che la biondina nascondeva delle sorprese! Oltre ad essere una gioia per gli occhi ha un intelletto eccezionale. Sono sicura che andremo molto d’accordo».

«G-Grazie» rispose lei imbarazzata, dopodiché quella singolare riunione venne sciolta.



 
Mentre veniva scortata nella nuova stanza che gli era stata assegnata Carol si sentì improvvisamente molto stanca, prosciugata energeticamente da tutti gli avvenimenti di quella giornata. In quel momento persino mettere un piede davanti all'altro le risultava uno sforzo immane.
Si concentrò allora sull’elegante figura del Capitano, che con il suo solito passo cadenzato e sinuoso procedeva davanti a lei.
Ne osservò la precisa rasatura del taglio militare, il collo pallido, le ampie spalle ed i muscoli contratti che trasparivano anche da sotto la camicia inamidata.
Quando avvertì un potente calore in volto si riscosse da quei pensieri che decisamente poco si adattavano alla sua attuale situazione.

“Dannazione Carol, datti una regolata!”

Non c'era spazio per i sogni ad occhi aperti, doveva tenersi vigile. Dal momento che le sue conoscenze erano fondamentali per la missione era stato stabilito che avrebbe preso parte anche lei alla spedizione, così da tenere Erwin costantemente informato di ogni particolare in tempo reale.  Il Comandante aveva quindi predisposto che quella settimana si sarebbe allenata intensamente con Levi per acquisire un minimo di dimestichezza con il movimento tridimensionale e non essere d'intralcio ai soldati sul campo di battaglia. Carol si rabbuiò un po' al ricordo della reazione stizzita del Capitano a quell'ordine. Sapeva che l'avrebbe eseguito senza fare storie, ma era anche consapevole che la prospettiva di perdere tempo ad addestrarla non gli andasse molto a genio.

Levi si arrestò di fronte ad una porta di legno consumata dal tempo e dall’umidità e l’aprì cedendo il passo alla ragazza.

«Ti aspetto domani mattina alle sei in punto al campo di addestramento, non fare tardi. La mia stanza è proprio qui accanto quindi mi assicurerò che tu non faccia strani scherzi. E mi auguro che tu non abbia intenzione di infilarti a letto senza prima farti una doccia» le si rivolse freddamente squadrandola con una smorfia di disgusto.

«Ehm certo, la ringrazio Capitano e mi scuso per il disturbo che le potrei creare» rispose la giovane un po' a disagio.

Levi le lanciò un'occhiata diffidente poi senza aggiungere altro girò i tacchi allontanandosi lungo il corridoio.
Carol abbassò lo sguardo amareggiata, a quanto pare poteva scordarsi che le proprie fantasie sul tenebroso Capitano si realizzassero.
Entrò in stanza e tutta la stanchezza che fino a quel momento era riuscita a tenere a bada le piombò addosso con la forza di una valanga. La camera era piccola ma confortevole ed essendo collocata sul piano degli ufficiali si trattava di una singola dotata di bagno privato. Il letto era circa di una piazza e mezza ed accanto vi era una cassettiera con all’interno della biancheria pulita. Un armadio di noce era addossato alla parete di fondo e a lato vi era una semplice scrivania. La ragazza fece subito una doccia calda che suonò come un balsamo per le proprie membra esauste, poi indossò il pigiama che trovò nell’armadio e si mise a letto, abbandonandosi ad un sonno privo di sogni.





 
Levi al contrario era sicuro che quella notte non sarebbe riuscito a dormire neanche le solite misere tre ore, ecco perché non appena aveva accompagnato la ragazza al suo alloggio aveva sentito il bisogno di prendere aria.
Spalancò la porta che dava sul tetto del Quartier Generale inspirando a fondo la frizzante aria notturna. Adorava quel momento della giornata quando la sera lasciava il posto alla più profonda oscurità della notte, quando il cielo si tingeva di quella tinta nerastra che faceva brillare ancora di più la luce delle stelle. La caciara dei soldati veniva sostituita da un profondo silenzio mentre tutti dormivano placidi nel tepore delle proprie stanze. Ma non lui, Levi ormai non ricordava più l'ultima volta in cui aveva dormito profondamente o comunque per più di poche ore e senza incubi che lo svegliassero nel cuore della notte. Lo chiamavano "il soldato più forte dell'umanità", lo ritenevano tutti un uomo freddo ed invincibile e con il passare del tempo aveva finito per crederci anche lui. Forse perché era più facile pensare a se stesso come un essere apatico ed imperturbabile piuttosto che guardare in faccia la realtà. Perché un uomo senz'anima non avrebbe paura di chiudere gli occhi ed abbandonarsi al sonno, non temerebbe la vista delle immagini dei corpi straziati delle persone che ha amato, non rabbrividirebbe al ricordo delle loro urla.
No, la verità era che Levi sentiva e provava ben più di quanto avrebbe voluto e forse era persino più sensibile del comune essere umano. E ogni giorno quel turbine di emozioni lo dilaniava senza pietà, come invisibili artigli che affondavano nella sua carne. Forse era anche per questo che si isolava, che preferiva la compagnia silenziosa delle stelle al calore umano; la paura di soffrire di nuovo era troppo forte.

Quella notte in particolare gli sembrava che tutte queste emozioni fossero state enormemente amplificate.

Era ancora sconvolto dal colloquio con quella ragazza e le parole di Kenny continuavano a risuonargli nel cervello.
Come era possibile che lei ne fosse a conoscenza, se erano note solo a lui? Di assurdità Levi ne aveva viste e sentite parecchie, d’altronde da quando aveva lasciato la città sotterranea non aveva fatto altro che uccidere degli esseri mostruosi divoratori di uomini, ma questa le batteva tutte.
Eppure per quanto la sua mente razionale si opponesse, le cose stavano così, la mocciosa gliene aveva dato prova nell’esatto momento in cui aveva pronunciato quella maledetta frase.

Esisteva dunque un’altra realtà?

Un mondo dove loro non erano altro che personaggi di un libro, e le tragedie che avevano vissuto semplice intrattenimento per degli sconosciuti.
Levi strinse le nocche fino a farle diventare bianche, furente per quell’ennesima presa in giro che la vita gli aveva riservato.  I suoi compagni erano dunque morti per l’esclusivo diletto di qualche sadico? Un altro boccone amaro da mandare giù, un’altra digestione acida e dolorosa.
Doveva però ammettere che senza l’aiuto di quella ragazza sarebbero finiti direttamente nella bocca del lupo, anche se ora c’era da sperare che gli eventi non si modificassero in un’alternativa peggiore di quella da cui stavano tentando di scappare.
La mocciosa aveva saputo muovere bene le proprie pedine, puntare sul sogno di Erwin era stata davvero una mossa da maestro, uno scacco matto al re. La sola prospettiva di carpire finalmente il segreto di quella maledetta cantina era bastata al biondo per mettere le loro vite nelle mani di una straniera. 

“Che bella merda” fu l’ovvia conclusione a cui giunse il Capitano mentre si sedette lasciando che la propria schiena scivolasse lungo il muro dell’edificio. Sopra di lui il cielo stellato, davanti a sé l’ennesima notte insonne ed un futuro ancora più incerto.






Nota: Mi scuso per questo capitolo macchinoso, forse troppo, spero che non vi abbia annoiati! Purtroppo ho dovuto dilungarmi su alcuni dettagli per chiarire la missione che Carol si è decisa a compiere. Grazie per l'attenzione e a presto con il prossimo capitolo!

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


                                                                  
Buongiorno! Chiedo scusa per la svista del capitolo 3, ho provveduto subito a correggerla. Ho riletto il testo molte volte per controllare eventuali errori e mi sono lasciata sfuggire il fatto che in un passaggio mi ero momentaneamente scordata della mutilazione di Erwin, giusto un piccolo particolare insomma mannaggia a me.
Vi lascio al nuovo capitolo, spero vi piaccia, buona lettura! 





                                                                                4



Carol si svegliò alle prime luci dell’alba, affamata ed amareggiata dal fatto che l’assurda esperienza del giorno precedente non fosse stata un sogno, bensì la dura realtà.
E non era psicologicamente né tantomeno fisicamente pronta ad allenarsi con il Capitano, lei che faticava a correre per dieci minuti senza avere il fiatone ed erano anni che non praticava sport con costanza. Scese dal letto di malavoglia, si diede una rinfrescata e poi aprì il vecchio armadio alla ricerca di qualcosa da mettere, trovando solo due divise della Legione Esplorativa.
Quando vide la propria immagine riflessa nello specchio le scappò un sorriso; non era davvero niente male in uniforme.
Un prepotente brontolio da parte del suo stomaco le fece capire di dover mettere qualcosa sotto i denti se non voleva replicare uno svenimento ai piedi di Levi.
Uscì dunque dalla propria stanza e si avviò nel corridoio silenzioso ed ancora in penombra del Quartier Generale. Quasi senza pensarci l'occhio le cadde sulla porta della camera del Capitano. Conoscendolo doveva già essere sveglio, sempre che fosse riuscito a dormire quella notte…o forse si stava già allenando.

Le torce accese illuminavano gli scalini di pietra consumati mentre scendeva con cautela le scale che conducevano ai livelli inferiori. Una volta giunta al piano terra non ebbe difficoltà a trovare il refettorio, segnalato da una targa con il disegno di forchetta e coltello incrociati affisso sopra la porta. La mensa e la cucina erano deserte e quindi si permise di frugare negli armadietti alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Trovò una confezione di gallette dall’aspetto poco invitante.

“Sempre meglio di niente immagino".

Mentre consumava la sua magra colazione controllò l’orologio affisso alla parete che segnava le 5:45, percependo l’ansia crescerle in corpo al ritmo scandito dalla lancetta dei secondi.

Era meglio avviarsi al campo di addestramento.

Uscì nella frizzante aria mattutina stringendosi nella giacca di pelle della divisa, in risposta ai brividi di freddo che si insinuavano attraverso la stoffa degli indumenti. Doveva essere autunno a giudicare dalla temperatura piuttosto bassa e dalle foglie ingiallite degli alberi che costeggiavano il cortile.
In lontananza in mezzo al campo scorse la figura altera del Capitano che le dava le spalle con lo sguardo rivolto verso il bosco, le braccia conserte e le gambe leggermente divaricate.  Non appena lui avvertì i passi di Carol sulla ghiaia si girò con un movimento fulmineo e la ragazza, già in soggezione per quelle occhiate indagatrici, accelerò automaticamente l'andatura per raggiungerlo.
Levi le illustrò poi il programma che aveva in mente per la giornata, che si sarebbe dimostrata alquanto lunga e stancante.
Carol poteva già sentire i polmoni in fiamme durante il solo riscaldamento che prevedeva una corsa di quindici minuti ed una sessione di esercizi a corpo libero per mezz'ora.

Mentre stava completando a fatica l'ultima serie di addominali, con i muscoli che imploravano pietà, vide il Capitano uscire dal magazzino indossando la divisa per l’uso del movimento tridimensionale e reggendone una seconda tra le mani.
L’ombra di Levi si stagliò sopra Carol ancora sdraiata a terra esausta, rivolgendole un'occhiata di disappunto, probabilmente inorridito dalla sua scarsa resistenza fisica.

«Alzati, o vuoi restare con il culo sporco di terra per tutta la giornata?» la rimproverò stizzito.

La ragazza scattò subito in piedi a quelle parole, nascondendo il viso per la vergogna.

«Ti aiuto ad indossare l'imbragatura» aggiunse lui con tono incolore.

Il Capitano si chinò quindi davanti a Carol per assisterla nell'infilare con attenzione le intricate cinghie della divisa. Durante tale procedura le sue mani sfiorarono inevitabilmente le gambe della giovane la quale, seppur quel tocco fosse privo di qualsiasi secondo fine, si sentì arrossire fino alla punta dei capelli. Se Levi se ne accorse non lo diede a vedere ma anzi proseguì impassibile ad allacciare le fibbie dell'imbragatura dietro la schiena di Carol.
Quando ebbero concluso la vestizione la condusse nella parte del campo dedicata all'addestramento delle reclute, dove vi era una postazione per sperimentare in sicurezza il movimento tridimensionale. Carol deglutì nervosamente osservando la struttura in legno; non voleva ritrovarsi a sbattere la testa al suolo come era successo ad Eren.

Levi intuì la sua esitazione

«La tecnica del movimento tridimensionale richiede mesi per essere padroneggiata. Nessuno qui pretende che tu diventi un'esperta, ti servono solo le nozioni base per non essere di peso durante la spedizione. Inoltre sarebbe alquanto inutile sprecare tempo prezioso per insegnarti le tecniche più specifiche, considerando che nel tuo mondo non hai a che fare con i giganti»

A Carol sembrò di cogliere rimprovero o forse amarezza nel tono del Capitano, ma scelse di non farci caso.

Prese quindi posizione e Levi agganciò i moschettoni dell'imbragatura alle funi di metallo che pendevano dalla struttura.

«Quando ti solleverò da terra dovrai cercare di usare la forza di gambe e addome per mantenerti in equilibrio. Per fare ciò dovrai spostare il tuo peso corporeo usando il bacino come fulcro. Sei pronta?»

«S…sí» rispose lei poco convinta.

Levi roteò gli occhi già evidentemente seccato e si apprestò a tirare la fune.

Carol strinse con forza le palpebre preparandosi all'imminente impatto al suolo, un rivolo di sudore già le colava lungo la tempia. E puntuale come se lo aspettava, quando i suoi piedi si staccarono da terra perse l’equilibrio e si rovesciò, riuscendo però a proteggersi il volto parando le mani in avanti.

«Ti sei fatta prendere dall’agitazione e non hai mantenuto un buon controllo del tronco» le fece notare Levi aiutandola a rialzarsi «prova ad immaginare di essere sott’acqua e dover spingere con gli arti inferiori per risalire in superfice, irrigidendo al tempo stesso l’addome»

Carol era una discreta nuotatrice quindi accettò di buon grado quel consiglio; forse valutare l’esercizio sotto la prospettiva di un movimento a lei ben noto le sarebbe risultato più facile.

« Va bene, riproviamo!» esclamò con decisione.

Il Capitano tirò nuovamente la fune e Carol questa volta decise di tenere gli occhi aperti, concentrandosi sul pensiero di trovarsi in acqua e doverne vincere la spinta. Con grande sorpresa da parte di entrambi riuscì a mantenere un quasi perfetto equilibrio.
Si lasciò sfuggire un grido di vittoria, assaporando quell’insolita sensazione di leggerezza.
Anche Levi si stupì di fronte all'inaspettata predisposizione naturale della ragazza, raramente i novellini avevano successo già al secondo tentativo. Forse quell'allenamento sarebbe stato più interessante del previsto.

«Non male per una principiante» commentò quando riportò Carol a terra.

«Ti prego, lasciami provare l'attrezzatura nel bosco» gli chiese elettrizzata la ragazza, con gli occhi smeraldo che brillavano per l'impazienza.

Levi inarcò un sopracciglio squadrandola dubbioso, eppure qualcosa lo spinse ad acconsentire a quella richiesta per quanto prematura potesse essere. Forse fu il tono implorante della giovane, oppure l’improvvisa confidenza ed abbandono delle formalità che rendevano la loro interazione stranamente naturale.

 «D'accordo si può fare, ma ti starò attaccato tutto il tempo per evitare che ti schianti al suolo. E ovviamente non userai le lame, non ho intenzione di pulire il tuo sangue se dovessi finire infilzata come uno spiedino.»

Carol gli rispose con un sorriso a trentadue denti che quasi abbagliò il giovane, il quale avvertì una punta di calore farsi strada nel proprio cuore, come se qualcuno avesse acceso un piccolo tizzone nel camino di una stanza fredda da tempo. Si ritrovò a contemplare quel volto diafano privo di imperfezioni che dava ancor più risalto alle sottili labbra rosate e agli occhi verdi, luminosi ma cerchiati da occhiaie violacee. 
Era indubbiamente attraente, ma di una bellezza delicata e quasi eterea, di quelle che sfuggono ai più e vengono colte solo da chi osserva attentamente.
Scrollò il capo per scacciare quell’inusuale sensazione ed aiutò la ragazza a liberarsi dai cavi, quindi si avviarono verso il bosco.

Giunti al limitare della foresta Levi le mostrò come azionare i grilletti e spiegò le manovre base:
«Una volta che i rampini si saranno ancorati agli alberi verrai proiettata in avanti, devi poi premere nuovamente il grilletto e sganciarli prima che i cavi si tendano troppo altrimenti subirai un violento contraccolpo. Ricordati di coordinare costantemente la tua avanzata con lo sgancio ed aggancio dei rampini, è fondamentale per mantenere velocità ed equilibrio o ti andrai a schiantare contro gli alberi.»

«Ricevuto!»

Levi la guardò con espressione seria per sincerarsi che avesse compreso i rischi di ciò che stava per fare e lei gli rispose con un cenno del capo.

«Bene, procediamo allora. Stammi vicina e non fare cazzate»

Carol fremeva di impazienza, aveva sempre sognato di usare quel dispositivo. Certo era consapevole che non sarebbe stato così facile come appariva nell'anime, ma non le importava.
Al diavolo la fisica e la legge di gravità, in quel momento voleva solo sentirsi come un vero soldato del Corpo di Ricerca.
Afferrò saldamente le impugnature e fece scattare il grilletto.
Le bombole sfiatarono una nube di gas e si trovò investita da una forza fulminea che la proiettò in avanti mettendole in subbuglio le viscere. Quando avvertì un aumento nella tensione dei cavi azionò nuovamente il meccanismo e gli arpioni vennero risucchiati verso i contenitori metallici ai suoi fianchi. Per un attimo rimase sospesa a mezz’aria poi caricò il grilletto facendo conficcare i rampini nei due tronchi davanti a sé.

Sparì tutto.

Il desiderio di tornare a casa, l’angoscia di trovarsi in un altro mondo, il pensiero dell’imminente spedizione, tutto questo non c’era più.

In quel momento esistevano solo lei e quella meravigliosa sensazione di potenza ed adrenalina che le scorreva nelle vene, come una corrente che la galvanizzava rianimandola dopo un’immemore paralisi.

Il vento freddo le sferzava il volto penetrandole sotto gli abiti e trapassando pelle, muscoli fino a raggiungere le sue ossa.

Lacrime di gioia prendevano il volo dai lati dei suoi occhi, come le gocce di pioggia che scivolano veloci lungo i finestrini di un’auto in corsa.

Era libera.

Inaspettatamente la sagoma di cartone di un piccolo gigante entrò nel suo campo visivo ridestandola da quel sogno ad occhi aperti.

Sentì l’irrefrenabile impulso di attaccare e le sue mani si mossero quasi inconsciamente, come se un’antica memoria si fosse risvegliata guidandone i gesti.
Ritirò uno degli arpioni per virare in direzione del gigante e con un movimento repentino innestò una lama sull’impugnatura.
Non si fermò a riflettere sui rischi di quell’azzardata manovra o su quanto quell’acciaio fosse pericolosamente affilato per le sue mani inesperte.
Ormai era vicinissima alla sagoma e poteva vedere l’imbottitura a livello della nuca fittizia.

Levi le urlò qualcosa, senza dubbio l’ordine di fermarsi ma lei non lo ascoltò, troppo impegnata a rispondere al richiamo atavico che sentiva ribollire nel proprio sangue.

Proiettò un rampino verso la cima dell’albero immediatamente sopra la testa del finto gigante ed afferrò la spada con entrambe le mani ruotando il busto, pronta a colpire. 
Le bombole, o forse le sue orecchie, fischiarono all’impazzata mentre si lanciava a tutta velocità verso l’obiettivo.

Con un colpo secco tranciò l’imbottitura facendone saltare via un pezzo.

Puntò i piedi contro il tronco dell’albero per attutire l’impatto, poi si voltò verso la sagoma scorgendo un taglio triangolare nel rivestimento della nuca.

Ce l’aveva fatta.

Mentre era ancora intenta a godersi quella piccola conquista Levi si posizionò alla sua sinistra furente come non mai.

«Ma dico sei impazzita cazzo?» l’apostrofò furibondo, la voce tagliente quanto la lama che Carol stringeva nella mano.

«Cosa esattamente ti è sfuggito quando ti ho espressamente ordinato di non usare le lame? Hai idea di quello che sarebbe potuto accadere?»

Quelle parole la riscossero facendole prendere coscienza delle proprie azioni. Quasi le venne un conato di vomito al pensiero del proprio corpo riverso a terra in un lago di sangue.

«S-Scusa Levi» mormorò con un filo di voce.

«Sai che cazzo me ne faccio delle tue scuse!» sbottò rabbioso «Se fossi morta tutto questo assurdo piano in cui ci hai coinvolti sarebbe andato a farsi fottere! Torniamo indietro per oggi abbiamo finito. E rinfodera immediatamente quella lama!» e senza nemmeno guardarla si librò fulmineo in aria sparendo nel folto della foresta.

Carol abbassò sconfortata lo sguardo sulla spada, osservandone il bagliore emesso dall’acciaio quando colpito dai raggi solari che filtravano tra le fronde degli alberi. Avrebbe voluto giustificarsi dicendo che non sapeva cosa le fosse preso in quel momento ma era consapevole che ciò non era vero. Per quanto volesse dare la colpa all’adrenalina che le aveva pervaso il corpo, la sua mente era sempre rimasta lucida; aveva volutamente deciso di disubbidire al Capitano ed attaccare.
Ma era stata davvero una scelta così sbagliata seguire il proprio istinto?
 
 
 
 



Di ritorno dal bosco Carol vide che il Quartier Generale si era rianimato, il cortile brulicava di soldati impegnati in sessioni di allenamento.
Non c'era traccia di Levi e si sentì affranta per ciò che era successo. Sospettava già da prima di non essere molto simpatica allo scorbutico Capitano ed ora la situazione si era ulteriormente complicata.
Il sole era alto in cielo, doveva essere mezzogiorno ed il suo stomaco aveva ricominciato a brontolare, decidendo per lei che fosse il momento di pranzare.
Si diresse verso il refettorio e nel corridoio si imbatté nella Caposquadra Hange.

«Ehiiiii, ciao Carol! Ma non dovresti essere ad addestrarti con Levi?» domandò con il suo solito fare esuberante.

«Per oggi abbiamo concluso» le rispose Carol piuttosto abbattuta.

«Oh tesoro, non prendertela. Quel nanetto distrugge tutti al primo allenamento, vedrai che poi andrà meglio.»

Hange l’abbracciò forte, già provava una grande simpatia per quella ragazza giunta da una terra lontana. Per un attimo alla bionda sembrò di trovarsi tra la braccia della propria mamma, reprimendo a stento le lacrime di nostalgia.

La donna si accorse del suo sconforto e con grande dolcezza le disse
«Troveremo il modo di farti tornare a casa, non disperare Carol. Sono sicura che al momento giusto quella strana spilla si riattiverà.»

«Ti ringrazio Hange» rispose la giovane asciugandosi una lacrima traditrice.

«Vai a mangiare qualcosa, io andrò a torturare un po' Capitan Brontolone. Ti aspetto domani in laboratorio per mostrarti i miei nuovi giocattolini» esclamò la Caposquadra arrossendo euforica al pensiero di sperimentare le lance fulmine.

Carol non riuscì a trattenere una risata, era impossibile non adorare quella donna.
Mentre la osservava allontanarsi provò una profonda tristezza al pensiero che presto, quell’innato ottimismo si sarebbe spento di fronte ai terribili eventi che avrebbero stravolto per sempre il mondo da lei conosciuto.
 




 
Quando Carol entrò nel refettorio non c'erano molti soldati seduti ai tavoli e la sua attenzione fu catturata da un familiare gruppetto di ragazzini.
Eren era intento a discutere come al solito con Jean, mentre Mikasa ed Armin cercavano di placare gli animi di quelle due teste calde. Le risate sguaiate di Connie riecheggiavano nella sala e Sasha, ovviamente, era intenta a divorare un piatto con una razione ben maggiore di quella normalmente consentita.

Carol sorrise spontaneamente a quella scena, era bello vederli ancora così spensierati, tutti insieme, vivi.

Prese un vassoio dal carrello vicino ai banconi del cibo e scelse un piatto di riso con verdure. Mentre si stava dirigendo verso un tavolo vuoto sul fondo del refettorio, sentì la voce squillante di Eren che la chiamava.

«Ehi, tu sei Carol giusto? La nuova recluta!»

«Sì, sono arrivata ieri»

«Vieni a sederti con noi, sempre che non sia una scocciatura per te pranzare in mezzo a dei ragazzini» aggiunse Eren grattandosi un po' imbarazzato la nuca.

«Al contrario, accetto volentieri l'invito!»

Alla sua risposta un leggero rossore comparve sulle guance del ragazzo Titano, che si guadagnò un'occhiataccia da parte di Mikasa.

Quando Carol prese posto al tavolo i sei amici si presentarono e la giovane percepì un certo imbarazzo da parte dei maschi, forse un po' in soggezione per la differenza di età; in fondo lei aveva dieci anni in più di loro, non era più una ragazzina.

«Carol, il Capitano ci ha avvisati che prenderai parte anche tu in via eccezionale alla spedizione come consulente strategico, giusto?» Prese parola Armin con fare amichevole.

«Esatto, conosco da tempo il Comandante Erwin e mi è stato chiesto di assistervi nella prossima missione. Il Capitano Levi ha il compito di insegnarmi i rudimenti dell'addestramento, così da non essere di peso in battaglia» rispose lei educatamente, sperando che i ragazzi non approfondissero ulteriormente l’argomento.

«Hai uno strano accento, da dove vieni?» chiese Sasha con la bocca ancora piena di cibo ed i ragazzini guardarono Carol curiosi.

«Non più insolito del tuo, Sasha» replicò ironica la giovane, riferendosi alla goffa parlata montanara che la Ragazza Patata tentava sempre di nascondere. Quasi Sasha si ingozzò a quell’affermazione, scatenando le risate del gruppo.

«Ad ogni modo hai ragione, vengo da un paese di montagna a nord del distretto di Karanes, per questo la mia parlata vi risulta singolare» riprese poi Carol una volta placatasi l’ilarità generale.

«Come ti sembrano gli allenamenti del Capitano?» le domandò Jean.

 «Ehm…stancanti, non so come facciate ad arrivare a fine giornata, io già dopo la sessione del mattino sono distrutta»

«Beh ma noi ormai siamo dei veterani, ci vuole ben altro per abbatterci» proferì Connie gonfiando il petto.

«Ma se sei stato a malapena in grado di terminare la sessione di ieri…e con la lingua per terra per giunta!» lo incalzò Jean ridacchiando ed assestandogli una gomitata nelle coste.

«Cheee? N-non è vero! Ieri non ero molto in forma, ecco tutto» balbettò l'altro rosso di vergogna.

Carol rise di gusto insieme agli altri, sentendosi accolta in quell'atmosfera gioviale e dimenticandosi per un attimo delle preoccupazioni che la assillavano.
Una volte terminato di pranzare si salutarono, dandosi appuntamento per cena.



Dopo aver fatto ritorno nel proprio alloggio Carol sentì qualcuno bussare alla porta. Era l’attendente di Erwin per informarla che il Comandante desiderava fare un colloquio con lei nel suo ufficio appena possibile. La giovane si irrigidì, improvvisamente in ansia all’idea di rimanere sola con una delle menti più acute della storia, che cosa avrebbe dovuto aspettarsi da quella convocazione?

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


                                                                                       5


Non avendo impegni per quel pomeriggio Carol acconsentì subito ad essere ricevuta in udienza da Erwin.
L’attendente si fermò davanti all’ufficio del superiore e quando bussò per annunciare la loro presenza, la voce del Comandante si udì chiara dall'altro lato.

 «Sì?»

«La signorina Evans, Signore, come da lei richiesto.»

«Oh certamente, falla entrare Marvin per favore.»

Il soldato aprì la porta cedendole gentilmente il passo, poi la richiuse alle sue spalle lasciandola sola con il Comandante.
Erwin era seduto alla scrivania, intento ad ultimare la compilazione di alcuni documenti.

«Ci vorrà solo un attimo, nel frattempo accomodati pure» le si rivolse, facendole cenno di sedersi sulla poltrona di fronte a lui.

Carol approfittò di quegli istanti di attesa per ammirare l’altero profilo del Comandante; la mascella definita, le folte sopracciglia contratte mentre leggeva i dettagliati rapporti dei sottoposti, o forse sgradevoli lettere del Comando Centrale.
Era un bell’uomo, decisamente affascinante constatò la bionda.
Quando ebbe finito di firmare le ultime scartoffie mise a posto la penna e si appoggiò allo schienale della sedia. La ragazza notò che aveva il volto provato e si dispiacque per quell’uomo che doveva continuare ad apparire forte agli occhi degli altri, mentre dentro di sé era ormai distrutto e stanco. Si stupì del fatto che in sua presenza avesse calato la solenne maschera di condottiero che riservava al pubblico, mostrando il soldato ferito che voleva solo deporre le armi e riposare.
Se lo meritava, in fondo.

«Carol, desideravo vederti perché sono curioso. Vorrei che tu mi parlassi del tuo mondo, per favore» esordì lui pacatamente.

La giovane ebbe un attimo di esitazione, stupita da quella richiesta inaspettata.

«Cosa vuole sapere, Comandante?»

«Quello che vuoi, scegli tu»

Carol si prese qualche secondo per organizzare i propri pensieri, poi parlò.

«Sicuramente, se le è capitato di udire alcuni dei discorsi di Armin, le sarà famigliare il concetto di “mare”, un’immensa distesa di acqua salata così grande che nemmeno i mercanti riusciranno mai a prosciugare. Esiste davvero… il mio mondo è costituto per la maggior parte da un vasto mare chiamato Oceano, su cui poggiano continenti di terra. Il paesaggio del luogo in cui vivo non si discosta molto da quello a cui voi siete abituati, ci sono pianure, campi, colline, montagne. Ma esistono anche deserti, ovvero territori coperti di sabbia e, di contro, regioni interamente rivestite di ghiaccio e neve dove regna un inverno perenne.»

Erwin la fissava attentamente sempre più intrigato da quel racconto, gli occhi che brillavano di un azzurro intenso come quello di un cielo estivo.

«La scienza e la tecnologia hanno fatto passi da gigante, se mi concede l’ironia. Possediamo strumenti e conoscenze per curare quasi ogni malattia o trauma, tanto che la percentuale di morte si è abbassata notevolmente. Ogni luogo è ormai facilmente raggiungibile grazie al grande numero di strade e ponti che collegano città, regioni, stati.  Non ci spostiamo più a cavallo ma per mezzo di “carrozze metalliche” chiamate automobili, che non necessitano di essere trainate da animali perché azionate da un motore alimentato da un combustibile. Superare l’oceano per recarsi nelle varie nazioni non è un problema poiché esistono grandi imbarcazioni simili ai vostri traghetti ma anche mezzi di trasporto, sempre a motore, in grado di volare.»

Il biondo strabuzzò gli occhi a quelle informazioni e si protese verso Carol, le pupille accese dalla fame di sapere.

La ragazza gli sorrise amabile; Erwin, così possente ed imperturbabile, sembrava ora un bambino rapito dalla favola della buonanotte. La curiosità riaccendeva l’ardore e la determinazione del fanciullo interiore, risvegliandone l’animo ed i sogni.

«Il mio mondo è abitato da 8 miliardi di persone, una cifra che le sembrerà esorbitante immagino. E non ha torto, iniziamo ad essere troppi per le risorse della nostra terra. Questo porta a continue guerre per il possesso delle esigue ricchezze e c’è disparità tra popolazioni povere e ricche. Purtroppo le innovazioni tecnologiche hanno investito anche il comparto bellico fornendoci armi ancora più temibili e potenti, in grado di sterminare intere nazioni. Rispetto alla vostra realtà nella mia esistono persone di culture e religioni diverse, con colori di pelle differenti ed è proprio questa diversità ad impreziosire il mondo. Molti non la pensano però allo stesso modo e quindi si scatenano conflitti e discriminazioni. La lotta al diverso, dettata dalla paura verso ciò che non conosciamo o comprendiamo è una piaga diffusa in tutte le realtà, nessuna esclusa» concluse Carol con una nota di amarezza nella voce e guardando intensamente negli occhi il Comandante, come a rafforzare il significato delle proprie affermazioni.

“Anche voi presto vi confronterete con questa sofferenza” si disse tra sé.

Conversarono per una buona ora, scambiandosi informazioni ed opinioni sulle più disparate tematiche e quando giunse il momento di congedarsi, entrambi si sentirono profondamente arricchiti da quel colloquio.

«Ti ringrazio davvero Carol per aver accolto la mia richiesta, è stato uno scambio illuminante» affermò Erwin quando erano in procinto di salutarsi.

«Prima di andare avrei una domanda da porle, Comandante»

«Ti ascolto»

«Perché non mi ha chiesto di rivelarle il segreto della cantina?»

Erwin sorrise debolmente abbassando lo sguardo sui fogli davanti a sé, probabilmente in cuor suo si aspettava quella domanda.

«Per quanto possa sembrare pragmatico e calcolatore in realtà sono un sognatore, Carol. Ed in virtù della realizzazione del mio sogno ho agito e vissuto la mia vita... Forse sarò egoista, tuttavia ritengo che il mio desiderio sia strettamente legato alle sorti del mondo e dell’umanità. È questa consapevolezza che forse mi dona un po’ di pace, permettendomi di sfuggire per brevi attimi al senso di colpa che mi divora ogni giorno per aver mandato a morte tanti miei compagni.»

Carol l’osservò rabbuiarsi, forse la sua mente era attraversata dalle immagini di sofferenza e morte che riempivano la sua esistenza. In quel momento sembrava solo un uomo schiacciato dal peso del comando, dalla responsabilità di tenere nelle proprie mani le sorti di migliaia di vite.

«Sono affamato di conoscenza ma anche di avventura… credo nell’importanza del viaggio, nell’esistenza di un destino e nel valore della fatica per raggiungere i propri obiettivi. Sapere subito da te ogni cosa, senza necessitare di altre spedizioni, di altro sangue versato, per quanto incredibilmente allettante non sarebbe giusto. Non lo sarebbe verso i compagni caduti che hanno offerto il proprio cuore e non lo sarebbe verso me stesso: non sono arrivato fino a questo punto per cedere ed ottenere così facilmente la verità per cui abbiamo tanto lottato. Quindi no, Carol, non ti chiederò di rivelarmi il segreto di quella cantina. Le sorti del mondo non si decideranno in questa stanza, non oggi» si espresse Erwin, la voce tornata decisa e potente, carica di quella forza vitale che tanto lo contraddistingueva.

La ragazza lo guardò con ammirazione, ora comprendeva perfettamente il motivo per il quale i soldati accompagnassero senza esitazione quell’uomo in battaglia, come mai Levi si fidasse ciecamente di lui. Di fronte a sé si ergeva un vero leader, dalla cui possente figura traspariva tutta la furia del fuoco che animava il suo essere.
Erwin Smith avrebbe potuto ordinarle di gettarsi tra le fiamme dell’inferno e Carol lo avrebbe seguito, per l’umanità, per la libertà.

“Shinzou wo Sasageyo”

La giovane si alzò dalla sedia ed eseguì per la prima volta il saluto militare, battendo forte il pugno sul cuore e drizzandosi fiera davanti al Comandante.
Erwin rispose nello stesso modo e rimasero così per qualche istante prima di congedarsi, ad osservarsi complici e ritti in quel silenzioso assenso che racchiudeva in sé la potenza di mille parole.
 
 




 
Mentre scrutava dalla finestra della propria stanza il cortile immerso nel buio, Levi continuava a ripensare agli eventi di quella giornata.
Dopo la mattinata trascorsa con Carol aveva sentito il bisogno di starsene per conto proprio, approfittando di quel raro momento libero per portarsi avanti con le scartoffie; ma era troppo innervosito da quanto accaduto per concentrarsi sul lavoro. Aveva quindi deciso di accantonare la penna e brandire invece i fedeli strumenti di pulizia, sfogando la propria rabbia sulla muffa insinuatasi tra le fughe delle piastrelle del bagno.
Una volta placatasi l’irritazione iniziò a ragionare con la mente più lucida.
Quella mocciosa aveva contravvenuto ai suoi ordini, aveva estratto una lama avventandosi contro uno dei giganti di cartone disseminati nel bosco. Normalmente si sarebbe meritata una punizione con i fiocchi, e Levi era molto bravo nel trovare i castighi più adatti per i soldati indisciplinati.
Se non fosse che la bionda aveva agito con movimenti che, per quanto inesperti, dimostravano una precisione ed agilità non indifferenti.
Come era possibile che lei, senza aver ricevuto alcun addestramento, vantasse una tale bravura? Probabilmente, dovette riconoscere, quello doveva essere stato lo stesso pensiero dei suoi di allora superiori quando appena arruolato aveva dato prova delle proprie abilità.
Era chiaro che Carol avesse una più che discreta predisposizione per il movimento tridimensionale, così come erano palesi il desiderio e la capacità della giovane di apprendere ben più dei semplici fondamenti.

Il Capitano emise un profondo sospiro; prima Eren e gli altri mocciosi, ora lei.

Sembrava che tutti i soggetti più particolari dell'universo convergessero verso di lui, cospirando per togliergli ulteriore tempo e sonno, come se le occhiaie che gli solcavano il viso non fossero già abbastanza profonde.
Ma Levi, per quanto riluttante, aveva già preso la sua decisione. Quella ragazza scatenava in lui sensazioni che non poteva ignorare e pur non riuscendo a comprendere cosa esattamente gli avesse risvegliato nell’animo, il giovane ne ricercava la vicinanza.
Un richiamo forte, come un germoglio che desidera il calore del sole per bucare la neve dopo un gelido inverno.
 
 





Nonostante la stanchezza nemmeno Carol riusciva a prendere sonno, troppi pensieri affollavano la sua mente.
Non aveva più visto il Capitano dopo il diverbio di quella mattina, sembrava sparito nel nulla. Non che lei lo avesse cercato in realtà perché, per quanto volesse scusarsi con lui, temeva quel confronto. Non voleva leggere negli occhi del suo personaggio preferito la delusione e la rabbia dirette a lei stessa. Eppure doveva farsi coraggio, doveva agire.
Erano circa le due di notte e la ragazza sapeva che Levi sicuramente in quel momento era sveglio, intento a compilare rapporti nel proprio ufficio oppure in cucina a bere il suo tanto amato tè nero.
Carol scelse di seguire il proprio intuito e si diresse verso il refettorio, ritrovandosi a percorrere da sola come quella mattina i corridoi bui e silenziosi del Quartier Generale. I suoi passi riecheggiavano tra le volte di pietra, in un’atmosfera resa vagamente sinistra dalla luce delle fiaccole che lambiva le pareti creando ombre tremolanti.
Giunta sulla soglia della cucina sorrise tra sé vedendo il Capitano seduto ad un tavolo intento a gustarsi del tè caldo, la tazza artigliata tra le dita secondo la sua singolare abitudine.

«Che hai da guardare mocciosa, ti sei forse imbambolata?» l’apostrofò seccato, con il suo solito fare cinico.

«Nulla, sono solo contenta di averla trovata» rispose lei ignorandone il malumore.
«Volevo chiederle scusa per aver disobbedito ai suoi ordini, lei si è preso l’impegno di addestrarmi ed io in cambio ho rischiato di causarle ulteriori seccature. Le prometto che non ricapiterà mai più, però comprendo perfettamente se lei non vorrà più seguire i miei allenamenti».

«Perché mi stai dando del “lei”?» le chiese laconico Levi mentre contemplava il fondo della tazza, facendola roteare distrattamente.

La giovane lo guardò perplessa

«Temo di non capire.»

«Oggi durante l’allenamento mi hai dato del “tu”, quindi ora mi chiedevo il perché di questo cambiamento.»

Levi alzò lo sguardo dal liquido scuro e si scontrò con le iridi verdi di Carol, in attesa di una risposta.
Quasi le si mozzò il fiato, persino con gli occhi cerchiati da nere occhiaie il Capitano era troppo bello per essere vero.

«Io...è stata una distrazione involontaria. A volte mi dimentico che il fatto che io conosca le storie di ognuno di voi non giustifica la mancanza di formalità, men che meno un rapporto di amicizia» si giustificò un po’ imbarazzata.

«Ma tu non sei un soldato ed io non sono il tuo superiore. Se vuoi chiamarmi solo Levi, a me sta bene» aggiunse lui con finta noncuranza, portandosi la tazza alle labbra e prendendo un sorso di tè.

Carol si rasserenò, sentiva in cuor suo che quello era il suo modo per fare pace e forse per farle capire che la sua vicinanza non lo disturbava così tanto come credeva.

«Ti ringrazio Levi» si voltò per fare ritorno nella propria stanza, ma la consapevolezza che ci fosse ancora una cosa di cui si sarebbe dovuta scusare la fermò sul posto, la mano appoggiata allo stipite della porta.

«Perdonami se mi sono permessa di usare le ultime parole di Kenny per convincerti dell’autenticità della mia storia. Non volevo risvegliare il tuo dolore o metterti a disagio di fronte ad Erwin e Hange.»

Avvertì il Capitano irrigidirsi alle proprie spalle, poi lo sentì posare la tazza sul tavolo prima di alzarsi dalla sedia ed avanzare lentamente verso di lei. La ragazza si girò titubante, sperando che lui non avvertisse il rimbombo del suo cuore che già le sfarfallava nel petto.

Lui era immobile davanti a lei, intento ad osservarla silenzioso.

Se gli occhi di Erwin erano limpidi come un terso cielo estivo, quelli di Levi erano burrascosi come un violento temporale, di quelli così forti da squassare la terra fin nelle viscere.

Carol deglutì, il volto in fiamme per la ridotta distanza tra i loro corpi.

Cosa stava succedendo?

«Sai…ti avrei creduta anche se non avessi usato quelle parole» proferì lui con voce stranamente dolce e pacata.
«Quando ti ho trovata in pieno territorio dei giganti, quando ti ho guardata negli occhi, quando ti ho parlato… ho avuto il presentimento che tu fossi diversa da chiunque avessi mai conosciuto. In te ho colto qualcosa che fino a quel momento mi era estraneo. La consapevolezza, la leggerezza di chi non conosce confini di pietra, di chi non deve guardare ogni giorno la morte in faccia. Ammetto di aver provato un po’ di invidia nei tuoi confronti, ma ora sto iniziando a leggere questa situazione in maniera diversa. Tu mi hai dato prova che un mondo nuovo e libero è possibile.
Ti aiuterò a fare ritorno alla tua casa Carol, e spero che anche in questo mondo qualcuno possa svegliarsi un giorno non troppo lontano con quella stessa spensieratezza nell’animo».
 
La ragazza non sapeva cosa dire, ammutolita da quelle parole così profonde.
La sua mano si mosse spontaneamente, posandosi con delicatezza sulla guancia del Capitano come se fosse la cosa più naturale del mondo.
In un primo momento avvertì la mascella di lui irrigidirsi a quel tocco, per poi rilassarsi quasi immediatamente. Aveva sempre immaginato che la pelle marmorea di Levi fosse fredda come il ghiaccio, invece quella guancia era gradevolmente calda a contatto con la sua mano.
Ebbe come la sensazione che il tempo si fosse fermato, i rumori di sottofondo sfumarono lasciandole percepire solo il battito accelerato del proprio cuore.
Il Capitano si era sentito preso alla sprovvista dall’iniziativa della bionda, ma dopo un’iniziale ed istintiva ritrosia si era abbandonato al tepore di quel tocco. Quello stesso piacevole calore sperimentato per la prima volta qualche ora prima si rifece largo nel suo cuore, infondendogli calma.

«Tutti meritano di conoscere quella pace Levi, tu più di tutti» gli si rivolse teneramente, prima di sciogliere quella leggera carezza riportandosi la mano al fianco.

L’interruzione di quel singolare momento, così simile ad un’intima comunione tra due anime solitarie, provocò ad entrambi una sensazione di freddo e mancanza, come se ci fosse qualcosa fuori posto.

«Ti aspetto sempre domani mattina alle sei al campo di addestramento. Buonanotte, Carol» la salutò il Capitano con una strana malinconia nella voce.

«Non mancherò. Buonanotte anche a te, Levi» gli rispose lei prima di tornare sui propri passi, lasciandolo solo nella cucina.

Nessuno dei due giovani aveva compreso pienamente il significato di quanto era appena accaduto, ma entrambi erano consapevoli che qualcosa in loro e tra di loro fosse cambiato.

Forse un piccolo ingranaggio aveva ricominciato a girare, rimettendo in moto gli arrugginiti meccanismi di un macchinario fermo da tempo immemore.

Forse dopo tanto tempo, la speranza era tornata a bussare alle porte di entrambi.






Note: Buonasera a tutti/e! Spero che la storia vi stia intrigando, ovviamente i vostri commenti(sia positivi che negativi) sono più che graditi quindi scatenatevi pure :) !
Sono curiosa: se voi vi ritrovaste nella stessa situazione di Carol, con quale personaggio/i vi piacerebbe trascorrere più tempo o interagire?
Arrivederci al prossimo capitolo!
 
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


                                                                                       6




I giorni successivi trascorsero dinamici e ricchi di azione per Carol, che si era ormai abituata alla vita di quel mondo così diverso eppure allo stesso tempo incredibilmente simile al suo.
Era entrata in confidenza con Eren e gli altri, affezionandosi ancora di più a quei vivaci ragazzini con cui condivideva non solo la convivialità dei pasti ma anche momenti di svago tra gli addestramenti.
Adorava trascorrere le ore libere in laboratorio con Hange dove, tra bizzarri esperimenti e teorie innovative, avevano anche modo di lasciarsi andare a qualche pettegolezzo. La Caposquadra sembrava molto incuriosita dal rapporto che si era creato tra la ragazza ed il Capitano e non mancava mai di lanciare qualche frecciatina appena si presentava l’occasione, ridendosela di gusto alla reazione che queste sue allusioni suscitavano nei due malcapitati.
I duri allenamenti cominciavano a dare i loro frutti, consentendo a Carol di acquisire una maggiore fiducia in sé stessa. Grazie alla sua considerevole agilità non le risultò infatti difficile apprendere in breve tempo, e sotto gli eccellenti insegnamenti di Levi, l’utilizzo del movimento tridimensionale anche brandendo le lame. Persino il Capitano sembrava soddisfatto di quei progressi ed il rapporto tra i due si era alleggerito dopo la conversazione avuta nella cucina, diventando più amichevole ed, in un certo senso, intimo. Trascorrevano insieme gran parte della giornata per via delle esercitazioni e la notte, quando la caserma era addormentata ed il sonno non voleva saperne di palesarsi, la giovane raggiungeva Levi nel refettorio.
Al contrario di Erwin ed Hange lui non le faceva mai domande riguardo al mondo da cui proveniva, né chiedeva informazioni sui futuri sviluppi della storia e lei non riusciva a capirne il motivo. Stentava a credere che fosse per un effettivo disinteresse, sospettava invece che l’estrema riservatezza che contraddistingueva il Capitano lo frenasse dal porre tali quesiti e forse, quella reticenza era dettata anche da una ben celata ma presente paura per l’ignoto.
In quelle notti insonni spesso si limitavano a sorseggiare il tè preparato da lui, in silenziosa compagnia e ciascuno immerso nei propri pensieri, complice il fatto che non sentissero il bisogno di riempire quei momenti di chiacchiere forzate.
 
Quel giorno mentre Carol si trovava nel magazzino per preparare meticolosamente l’equipaggiamento fu interrotta da Levi,che silenzioso come un gatto le era sopraggiunto alle spalle e la stava studiando appoggiato al muro.

«Lascia stare le lame, oggi dobbiamo affiancare Hange negli esperimenti con Eren» disse cogliendola alla sprovvista e facendola sobbalzare.

A Carol non sfuggì il fatto che sembrasse leggermente seccato per quell’incombenza.

«Ah non lo sapevo… o forse me lo avevi accennato ma me lo sono scordata»

Lui la tranquillizzò agitando la mano
«No è stata una decisione dell’ultimo minuto, Erwin me lo ha comunicato stamattina. Quella di oggi dovrebbe essere la prova finale per testare l’abilità di indurimento, perché vogliamo evitare di affaticare eccessivamente Eren prima della spedizione. La Quattrocchi ha richiesto che ci fossimo anche noi.»

«Beh devo dire che non mi dispiace assistere agli esperimenti di Eren, finalmente potrò vedere dal vivo la sua trasformazione in gigante!» la ragazza non riuscì a nascondere la propria eccitazione per quell’evento e dopo aver rimesso a posto le lame si voltò verso il Capitano in attesa che facesse strada.

«Sarà anche un’ottima occasione per farti provare a risalire le mura con il movimento tridimensionale, visto che a Shiganshina non sarà possibile usare i montacarichi.»

Carol ebbe un sussulto, la prospettiva di arrampicarsi su una parete di cinquanta metri non l’allettava particolarmente e Levi se ne accorse.

«Tsk, che ti aspettavi, che ti portassimo in braccio? Devi essere autonoma, non si sa mai cosa potrebbe accadere in missione» la rimbeccò glaciale.

«Sì comprendo perfettamente» rispose lei amareggiata, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di lui.

«Incamminiamoci, ci stanno aspettando.»

Dal momento che in condizioni di pace ai soldati non era permesso spostarsi per la città sfruttando il movimento tridimensionale, i due si servirono di una delle carrozze in dotazione al Corpo di Ricerca per recarsi al cancello esterno di Trost.

Quando Carol scese dal mezzo di trasporto e vide le mura stagliarsi imperiose sopra di lei avvertì lo stomaco attorcigliarsi.
Erano davvero altissime ed in confronto si sentiva una formica.

«Forza cominciamo» esordì Levi «per ora ti sei mossa solo in orizzontale e ad altezze contenute, adesso sperimenteremo l’ascesa verticale. I principi ed i movimenti sono gli stessi, la differenza è che qui puoi sfruttare anche la camminata sulla parete, però dovrai essere delicata nel richiamare le funi man mano che avanzi, oltre che molto veloce nel rilanciare i rampini»

«Altrimenti mi spappolerò a terra come un uovo»

«Sostanzialmente» aggiunse lui incolore scrutandola di sbieco.

La bionda era visibilmente impallidita, c’era da aspettarselo dopotutto chi non se la faceva sotto all’idea di scalare cinquanta metri?

Vederla così lo ammorbidì un poco
«Tu pensa ai movimenti, punta in alto e non guardare giù perché il tuo obiettivo non si trova in basso. A coprirti le spalle ci sono io, non avere paura.»

Quelle parole la rincuorano e Carol non riuscì a nascondere un lieve imbarazzo per la delicatezza con cui Levi le aveva pronunciate.

«Sì d’accordo, proviamoci…»

Si posizionò di fronte alla parete, fece un bel respiro a pieni polmoni e premette il grilletto conficcando i rampini circa due metri sopra di sé.
Quando sentì che erano ben saldi si decise ad avanzare puntando i piedi contro il muro, azione che richiedeva un considerevole sforzo muscolare per non cadere all’indietro. I primi dieci-quindici metri non sarebbero stati difficili perché era l’altezza a cui si era allenata fino a quel momento, i problemi cominciavano dopo.
Sapeva però che il Capitano era poco più sotto di lei, pronto a soccorrerla se necessario.
Carol manteneva gli occhi incollati al muro davanti a sé, il vento che fischiava sempre più forte e freddo le asciugava il sudore sulla nuca, rammentandole che la distanza dal suolo stava aumentando inesorabilmente.
Per quanto fosse consapevole di non dover guardare in basso, il pericoloso masochismo che si diverte a tentare l’animo in situazioni del genere ebbe la meglio sulla sua riluttanza. 
Per un breve istante prevalse lo stupore: le case sembravano minuscole viste da lassù e le persone apparivano davvero delle brulicanti formichine.
Poi arrivò il panico, subdolo come un’onda che in lontananza sembra innocua e poi avvicinandosi alla riva acquista vigore trascinandoti nel proprio turbine.
Le mani cominciarono a tremarle diventando umidicce, tanto che il terrore di perdere la presa e cadere nel vuoto si fece più concreto, bloccandole completamente i movimenti.

«Carol! Tutto bene?» la voce di Levi giunse lontana e sfumata alle sue orecchie ovattate, non capiva più nulla.

Vedendo che la ragazza non gli rispondeva, il Capitano le si accostò e dal volto cereo e dallo sguardo vitreo di lei intuì immediatamente il motivo di quell’improvvisa esitazione.

«Che cazzo mocciosa, ma secondo te perché ti ho raccomandato di non guardare giù?»

«i-i-io n-no-non r-riesco a-a m-m-muovermi» i denti di Carol sbattevano come se stesse congelando ed il suo corpo era in preda a tremori incontrollabili.

Levi capì che inveendole contro non avrebbe sortito alcun effetto positivo, quindi le si avvicinò maggiormente e le cinse la vita per darle sostegno.

«Ascoltami Carol» parlò con una voce così pacata e dolce che quasi lui stesso non si riconobbe «capisco la paura che provi, ma se lascerai che essa ti schiacci non riuscirai ad avanzare. I rampini sono ben ancorati, la tua presa è salda, tu sei in grado di superare questo ostacolo ed io sono proprio qui accanto a te.»

Quell’incoraggiamento la riscosse, restituendole la terra sotto i piedi insieme alla fiducia nelle proprie capacità. 
Riportò l’attenzione sul proprio respiro accorgendosi di quanto fosse irregolare, e piano piano una calma determinazione fece breccia nell’impenetrabile muro di terrore che le oscurava la vista e la ragione.
Dopo qualche minuto anche gli spasmi muscolari si placarono e Carol allora rivolse un cenno di assenso a Levi, il quale la liberò dalla propria stretta e ripresero la salita.
Quando le sue mani afferrarono il bordo delle mura ed i suoi piedi ne toccarono finalmente la sommità, si sentì esausta ma soddisfatta. Rimase per qualche secondo sdraiata supina, allargando le braccia ed il petto per inspirare a pieni polmoni quella pungente aria che per lei sapeva di vittoria.

Levi la contemplò in silenzio, fiero della sempre maggiore forza di volontà che traboccava da quel corpo minuto e all’apparenza così fragile.

«Sei stata brava» affermò allungandole una mano per aiutarla ad alzarsi.

«Grazie a te, Levi. Sei un vero Maestro Jedi!»

«Uh?»

«Nulla, nulla. Forza, raggiungiamo Hange» si affrettò a rispondere lei mentre sbatteva via la polvere dalla propria divisa.
 
La Caposquadra era già in posizione con gli altri militari e Carol vide che, contrariamente a quanto ricordava dall’anime, oltre ad Eren era presente anche Mikasa.
L’ultimo frutto della geniale mente di Hange, “Il Boia Infernale”, al cui perfezionamento avevano contribuito le preziose competenze da ingegnere di Carol era stato montato sopra la vecchia breccia di Trost.
Nello spazio tra i due massicci cordoni di pietra che sporgendo esternamente dalle mura delimitavano l’apertura del cancello, era ben visibile la fitta trama di minerale indurito prodotta dal Gigante d’Attacco. Diversi titani si accalcavano lungo la parete, cercando invano di farsi strada verso la città.

«Ben arrivati ragazzi! Giusto in tempo, stavamo per cominciare» li salutò calorosamente la Caposquadra, poi dopo aver osservato meglio la giovane aggiunse
«Ma… Carol, ti vedo piuttosto provata. Hai scalato le mura con il movimento tridimensionale? »

«Sì ahaha, devo essere proprio uno straccio se mi si legge in faccia» ribatté lei grattandosi la nuca come era solita fare quando era agitata.

«Ma scherzi? Non è un’impresa affatto facile per chi è alle prime armi, ottimo lavoro!»

«Sì in effetti non è stata una passeggiata…ti ringrazio per i complimenti!»

«Allora Quattrocchi, ci diamo una mossa? Non abbiamo tutto il giorno» le interruppe Levi, riacquistato il suo abituale cipiglio.

«UUUH hai ragione, forza Eren, è ora di entrare in azione!»

Carol fece un occhiolino di incoraggiamento al ragazzo titano, il quale le rispose con un debole sorriso che rivelava quanto fosse in realtà spossato e teso. Dopotutto il successo della missione di Shiganshina puntava sulla sua nuova abilità e l’ombra del fallimento sembrava oscurare l’ottimismo del giovane.

Eren si lanciò nel vuoto ed un forte bagliore ne annunciò l’avvenuta trasformazione.
La bionda si sporse curiosa, ammirando il risultato degli estenuanti allenamenti da lui sostenuti: la sagoma indurita del Gigante d’Attacco si era fusa al minerale già presente, rafforzandone ulteriormente l’impalcatura.

«Che spettacolo»

«Vero? E questo è ancora niente, ora testiamo Il Boia Infernale» esclamò con fierezza Hange, facendo segno a Moblit di dare il via all’operazione successiva.

Mikasa si occupò di aiutare Eren ad uscire dalla carcassa del gigante ed insieme risalirono le mura; Carol notò che il ragazzino sembrava ancora più stanco di prima.
Uno dei soldati si calò in mezzo a quella ragnatela luminescente ed impenetrabile, così da fare da esca per i titani che vagavano vicino al cancello. Come era accaduto anche nell’anime un gigante cercò di avvicinarsi a quella preda, ponendosi proprio sotto tiro per sfruttare la nuova arma.
Al segnale del militare venne tagliata la fune che ancorava il Boia ed il grosso tronco piombò dritto sulla nuca della sfortunata creatura.
Del vapore fuoriuscì subito dalla ferita, a dimostrazione che l’esperimento aveva avuto successo.

«WOOOO lo abbiamo colpito sulla nuca stavolta! ABBIAMO ABBATTUTO UN GIGANTE CLASSE DODICI METRI!» fu l’esaltato grido della Caposquadra mentre levava soddisfatta il pugno al cielo.

«Ha funzionato…» proferì Eren quasi incredulo accasciandosi esausto a terra.

«È FANTASTICO! D’ora in poi possiamo abbattere i giganti senza far combattere i soldati! Inizia la disinfestazione dei giganti, questa è la nascita del Boia Infernale! Sei stato grande Eren!»

Ma in quel momento lui era troppo intento a bloccare la violenta epistassi per unirsi al giubilo di Hange.

«Oh…Eren» sussurrò lei dispiaciuta vedendolo in quello stato.

«Probabilmente ha esagerato con il potere del gigante, di recente sta facendo un esperimento dietro l’altro» constatò freddamente Levi mentre porgeva uno dei propri fazzoletti immacolati al sanguinante Eren.

«Ti chiedo scusa…»

«Non deve scusarsi Signorina Hange, il fatto che sia un po’ stanco non cambia nulla. Adesso prepariamo tutte le nostre armi e andiamo a Shiganshina» la rassicurò il moro.

Carol provò una grande tristezza, anche allo stremo delle forze Eren poneva il bene del genere umano al di sopra della propria incolumità. Come si fosse passati da questo ammirabile altruismo alla spietatezza degli ultimi capitoli rimaneva un mistero per lei.

«Direi che per questa mattina abbiamo terminato. Mikasa, porta Eren in infermeria ed assicurati che oggi si riposi a dovere» decretò il Capitano e la corvina eseguì immediatamente l’ordine senza farselo ripetere due volte, per lei nessuno era più importante del proprio compagno d’infanzia.

Non più distratta dalla foga dell’esperimento, Carol si ricordò di trovarsi sulla sommità delle mura e realizzò che le parole di Levi significavano una sola cosa: ora dovevano scendere.

Si sporse un poco e la vista di quel panorama le fece venire la nausea, rammentandole del panico che l’aveva pervasa poco prima.
Durante la salita poteva concentrarsi sull’ignorare l’abisso sotto di lei, ma la discesa era tutto un altro paio di maniche poiché era proprio a terra che avrebbe dovuto guardare.

«Eh già, ora inizia il bello»

Ecco, ci mancava anche Levi a leggerle nel pensiero.

«Ho solo un consiglio da darti» proseguì lui con naturalezza, incrociando le braccia al petto «Chiudi gli occhi e lasciati cadere, conta fino a tre e poi riaprili».

Carol sbarrò le palpebre incredula

«COSAA?? Ma stai scherzando?»

«Sono serissimo.»

«No no. Non ci penso proprio.»

«Come vuoi, allora resterai qui. Oppure puoi ignorare il mio suggerimento e scendere godendoti ad occhi aperti questo panorama d’alta quota…» disse lui beffardo, indicando con un ampio gesto del braccio lo scenario davanti e sotto di loro.

La bionda ci rifletté su, sapeva di non avere alternative perché il Capitano non avrebbe ceduto a permetterle di usare il montacarichi.

«Tu mi starai accanto per ogni evenienza?» gli chiese, fissando attentamente quelle iridi glaciali.

«Fidati di me» fu l’epigrafica risposta di lui e Carol sapeva che lo diceva davvero.

Si posizionò sul bordo delle mura dando le spalle alla città, sentendo già un rivolo di sudore colarle lungo la spina dorsale.

Come poteva lasciarsi andare nel vuoto e per di più alla cieca? E se si fosse schiantata a terra prima di aver finito di contare?

“Ma tu guarda cosa mi tocca fare”

Controllò un’ultima volta che le cinghie dell’imbragatura fossero a posto, strinse le palpebre più che poté e poi trattenendo il respiro fece un passo nel nulla.

1…”

Sentiva il vento fischiarle nelle orecchie e farsi strada nei suoi indumenti asciugando in un lampo il sudore che le imperlava la pelle. Si aggrappò con forza alle impugnature che cercavano di sgusciare via dalla sua presa.

“2…”

Le sembrò che le sue interiora si stessero rivoltando su sé stesse, un po’ come la sua prima volta sulle montagne russe; quel giorno era stata talmente male che aveva giurato di non riprovarci mai più.
In fondo però era bello abbandonarsi alla forza di gravità, per una volta non doveva controllare i propri movimenti.

“3”

Spalancò le palpebre senza più alcuna paura in corpo, e mentre sentiva le folate di aria seccarle istantaneamente gli occhi vide che la prospettiva delle case era decisamente cambiata rispetto a prima, molto più tollerabile. Doveva trovarsi a circa trenta metri dal suolo, la distanza giusta per azionare i rampini.
Con uno scatto repentino le funi si agganciarono dietro di lei, frenando la discesa e consentendole di piantare i piedi contro la parete.

«Non è poi così male, vero mocciosa?» la punzecchiò ironico Levi.

«Sta zitto» sogghignò lei non volendo dargli la soddisfazione di dire che aveva ragione.

«In gergo militare questa sarebbe insubordinazione»

«L’hai detto tu che non sei un mio superiore» lo incalzò sarcastica.

Il Capitano alzò un sopracciglio, intrigato da quella sfida tra due caratteri ugualmente forti, seppur in modo diverso.

«Vero, ma se mi manchi di rispetto potrei sempre lasciarti qui a penzolare»

«Non lo faresti mai» ribatté la ragazza con assoluta certezza delle proprie parole.

Lui distolse lo sguardo rivolgendolo in lontananza, un angolo della bocca si sollevò leggermente in un quasi impercettibile sorriso.

«Dai mocciosa, riportiamo i piedi a terra»

A Carol sembrò di intuire che dietro all’evidente significato letterale di quell’affermazione si celasse in realtà qualcosa di più.

Forse per lei l’animo di Levi cominciava ad essere meno impenetrabile.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


 
                                                                                          7



«Possiamo vincere! Possiamo vincere! I giganti non possono nulla contro le nostre nuove armi» Marlo si era lanciato in un monologo fin troppo ottimista sulla rinnovata potenza dell’umanità, e Carol si ritrovò a sospirare sommessamente di fronte a quella vana illusione.

«Vedo che sei su di giri…» commentò dubbioso Jean «perché sei tanto felice ora che sei nel Corpo di Ricerca?»

«Già come mai? Scusa, Hitch non ha provato a farti cambiare idea?»

«Hai detto Hitch? Perché mai?» chiese Marlo sinceramente perplesso di fronte all’allusiva domanda di Sasha.

«Che vuol dire “perché mai”, voi siete molto intimi dico bene?» sghignazzò lei con Connie a darle man forte.

Quei due quando ci si mettevano sapevano essere estremamente infantili.

«Non capisco cosa intendi, mi ha detto di non fare l’esibizionista perché questo Corpo non era adatto a me. Che restare nella Gendarmeria mi avrebbe reso la vita più facile. E dire che la stavo rivalutando…le ho detto che mi ha molto deluso»

Carol si limitò a scuotere la testa mentre prendeva una cucchiaiata di minestra, riflettendo su quanto i maschi potessero essere ingenui.

«Che idiota» disse Jean.

«Marlo, ma sei stupido?» lo rimproverò Armin.

«Un idiota con i capelli orribili» sentenziò Sasha.

«Ma che state dicendo, Marlo ha ragione!» l’innocenza con cui si espresse Eren confermò a Carol la propria teoria e le strappò un sorriso bonario. Si soffermò ad osservare meglio il ragazzino, che sembrava aver recuperato le forze dopo l’esperimento di quella mattina, tuttavia non doveva avere molto appetito poiché il suo piatto era ancora pieno.

«Ad ogni modo gli unici ad essere su di giri sono i novellini come te, che non hanno esperienza nel combattimento» proseguì Jean.

«Ma senti senti, quindi voi sareste i veterani di vecchia data?»

Carol serrò i denti nell’udire la voce di Floch; dopo tutte le cazzate che quello sbruffone aveva combinato nel manga, ogni volta che se lo trovava davanti faceva fatica a trattenersi dal prenderlo a pugni.

«In confronto a voi direi proprio di sì» anche Jean sembrava altrettanto seccato all’idea di conversare con il compagno.

«In fondo proveniamo tutti quanti dal 104°… e comunque non si tratta solo di noi. L’intera popolazione è estasiata all’idea di riconquistare il Wall Maria! Però… devo ammettere che siete davvero cambiati, c’è qualcosa di strano nei vostri occhi. Ditemi, che cosa vi è capitato?»

E non aveva torto, non erano più gli speranzosi ragazzini di qualche mese prima.

In fondo si può forse rimanere impassibili di fronte alla morte dei propri amici, davanti a tradimenti che non ci si sarebbe mai aspettati, scontrandosi faccia a faccia con la costante paura per la propria vita?

No, certo che no.

Mentre nel mondo di Carol i loro coetanei si preoccupavano di andare bene a scuola, di uscire con gli amici, di innamorarsi, di essere insomma adolescenti, quei giovani soldati invece offrivano i loro cuori e la loro vita per l’umanità.

Costretti a crescere in fretta, troppo in fretta.

«Vuoi saperlo?» sibilò minaccioso Jean incutendo non poco terrore in Floch il quale, pur forse inconsciamente, sembrò avvertire il peso e la sofferenza velati dietro quelle parole.

Preferì infatti l’ignoranza alla cruda verità probabilmente perché, se avesse saputo ciò che l’attendeva, il poco coraggio che l’aveva spinto ad unirsi alla Legione Esplorativa l’avrebbe abbandonato.

«N-no…magari…facciamo la prossima volta» balbettò affrettandosi ad uscire dal refettorio.

Anche Connie si congedò subito dopo, annunciando che il giorno successivo si sarebbe recato al proprio villaggio per fare visita alla madre.

Quando fu fuori portata di orecchi Sasha espresse le proprie preoccupazioni, sinceramente addolorata per la situazione dell’amico.

«Deve esserci un modo per far tornare normale la madre di Connie…c’è qualche possibilità dico bene?»

«Già, se continuiamo a far luce sul mistero dei giganti forse un giorno…» le rispose Armin nel mesto silenzio che era calato sul gruppo.

Carol vide che Eren era particolarmente assorto nei propri pensieri, sapeva bene che in quella mente confusa si stavano affollando i ricordi delle varie scoperte susseguitesi nel corso della storia.

«Vivere in un incubo» proferì poi il moro dal nulla, facendo sussultare gli amici «sono successe tante cose e ora è tutto vago… arrivati a questo punto chi è il nostro nemico? In altre parole, cosa sono i giganti? Persone come noi che stanno continuando a vivere in un incubo? Anche io per un momento sono stato un gigante come loro…»

«EREN!» lo riscosse duramente Mikasa «non hai ancora finito il pane e la minestra, potrai chiacchierare dopo aver finito il tuo pasto»

«D’accordo, scusami Mikasa»

«Ho notato una cosa Eren. Ultimamente te ne stai sempre lì a borbottare tra te e te. La persona di cui ti devi ricordare è soltanto quell’uomo. Quando eri nella caverna e hanno scavato nei tuoi ricordi, hai visto un uomo del Corpo di Ricerca che ha incontrato tuo padre» parlò Jean sostenendosi distrattamente il mento con la mano.

«È vero, mio padre l’ha incontrato proprio in quella situazione… sicuramente deve sapere qualcosa. Ho la strana impressione di aver già visto quell’uomo da qualche parte»

Il ragazzo titano si massaggiò la fronte come per mettere meglio a fuoco quelle immagini lontane, l’ennesima rivelazione era vicina.
Carol cercava di nascondere l’esaltazione che la pervadeva, era stranissimo trovarsi in carne ed ossa dentro una scena che conosceva a memoria ma che stava rivivendo in modo completamente diverso, al tempo stesso spettatrice e partecipante.

«Intendi con i tuoi occhi e non nei ricordi del Dottor Jaeger?» lo incalzò Armin.
«Sì almeno credo…»

«E tu prova a dare una testata sul muro»

Ovviamente Jean non poteva che essere favorevole a tale suggerimento

«Sì Sasha ha ragione, con la scusa dei ricordi non hai fatto altro che stringere la mano di Historia. Ti servirebbe una testata dal vecchio Istruttore»

“Bingo”

 Carol non staccò gli occhi da Eren, in attesa.

«Se bastasse solamente quello…» all’improvviso lui sbarrò gli occhi, l’evidenza lo colpì violentemente come una sberla in pieno volto. Ci volle solo qualche istante, anche se sicuramente nella sua mente stava ponderando ed unendo a rallentatore i pezzi di quell’intricato puzzle.

Poi batté forte le mani sul tavolo

«È l’Istruttore dei cadetti. Quell’uomo è Keith Shadis»

I compagni si ammutolirono increduli a quella scoperta.

Fu Carol ad alzarsi per prima dal tavolo e a dare una scossa alla situazione, come ci si aspetterebbe dopotutto da un adulto

«Sarà meglio avvisare subito i superiori. Li ho visti giusto un attimo fa uscire dalla mensa, ti accompagno»

«Veniamo anche noi» Mikasa ed Armin non avrebbero mai abbandonato il loro amico d’infanzia.
Ed era giusto così, quello era un momento importantissimo per lui e gli sarebbe servito tutto il sostegno morale possibile.

Salutarono frettolosamente il resto del gruppo e si fiondarono fuori dal refettorio, in fondo al corridoio scorsero Erwin, Hange e Levi intenti a confabulare.

«Comandante! Devo parlarle urgentemente» urlò Eren a pieni polmoni, facendo sobbalzare il trio.

«Datti una calmata ragazzino, non siamo al mercato» lo ammonì aspramente il Capitano.

Il moro recuperò un po’ di autocontrollo sotto lo sguardo attento ed un po’ dubbioso dei superiori.

«Si tratta dei ricordi di mio padre, quell’uomo dell’Armata Ricognitiva di cui vi ho fatto menzione è l’ex Comandante Shadis. Vi prego di permettermi di incontrarlo, potrebbe sapere qualcosa riguardo a mio padre!»

«Ne sei assolutamente certo?» chiese serio Erwin.

«Signorsì!»

«Non c’è tempo da perdere allora. Venite nel mio ufficio, discuteremo immediatamente i dettagli.»

I ragazzini seguirono Hange ed il Comandante, solo Levi rimase fermo sul posto scrutando sospettoso Carol.

«Tu già lo sapevi, dico bene?»

«Non ti sfugge proprio nulla»

«Tsk, devo ammettere che sei davvero brava a recitare»

«Eppure non mi sembra che tu ora abbia fatto fatica a smascherarmi»

Per quanto nessuno dei due l’avrebbe ammesso per primo, quello stuzzicarsi a vicenda li intrigava, accendeva i loro sensi come una miccia esplosiva.

«Alla luce di queste nuove rivelazioni credo che l’allenamento di domani mattina sarà rimandato. Approfittane per riposarti, recupereremo nel pomeriggio»

Carol annuì e mentre lui si stava incamminando verso l’ufficio di Erwin aggiunse

«Deduco che anche stanotte ti sarà difficile prendere sonno…»

Il Capitano arrestò il passo, voltandosi quel tanto per lanciarle un’occhiata di sbieco.

«Perché, ho in programma attività più stimolanti a cui dedicarmi?»

La nota volutamente maliziosa con cui si espresse fece arrossire Carol fino alla punta dei capelli.

Ed il ghigno che vide stampato sul volto di Levi prima che le desse nuovamente le spalle confermò che quello era esattamente il risultato che lui si aspettava.

Ma la ragazza recuperò in fretta, decisa a non perdere quella quotidiana competizione.

«Come sempre niente zucchero nel mio tè, grazie»

Lui fece finta di niente ma Carol sapeva che l’aveva udita perfettamente.

Come era certa che anche quella notte l’avrebbe trovato seduto al tavolo, con due tazze fumanti davanti a sé.
 
 



 
 
 
«Quando ti deciderai a fare un passo avanti?»

«Quando la smetterai di farti i cazzi miei, Quattrocchi?»

Concluso quel vertice dell’ultimo minuto Hange aveva raggiunto Levi in camera scaltra come una faina e nonostante lui la ignorasse, non voleva saperne di andarsene.

«Vuoi forse farmi credere che Carol ti è indifferente?» proseguì imperterrita, buttandosi sul letto impeccabilmente rifatto dell’amico.

Levi alzò la testa dai documenti solo per fulminarla con lo sguardo.

«Ti muovi con la grazia dei tuoi tanto amati giganti»

Lei per irritarlo ulteriormente si mise ancora più comoda, piegando i gomiti dietro la testa e sollevando in aria le gambe, rigorosamente senza togliersi gli stivali.

«Il fatto che tu eluda la domanda non fa che confermare la mia teoria»

“Dannazione”

Proseguì nella compilazione delle scartoffie, sperando di dissuaderla dall’intavolare quella discussione.

«Ti conosco da anni, eppure non ti ho mai visto così tranquillo come nell’ultima settimana, hai una luce diversa negli occhi… sembri persino felice»

«Perdonami se non sono solito fare il coglione come te»

La bruna si girò a pancia sotto fissandolo duramente negli occhi ed additandolo imperiosa con l’indice.

«Non cercare di sviare il discorso, con me non attacca! Vuoi che non sappia che quasi tutte le sere vi ritrovate insieme in cucina? Pensi che non veda gli sguardi che vi scambiate a vicenda?»

Il Capitano sbuffò sonoramente, scagliando la penna in un angolo della scrivania ed abbandonandosi rassegnato allo schienale della sedia.

Non c’era verso di sottrarsi a quel supplizio.

«Se sai così tante cose, allora spiega tu a me cosa sta succedendo!» sbottò seccato.

Il volto di Hange si addolcì, conosceva quello scorbutico nanetto abbastanza bene da essere consapevole che esternare i sentimenti gli costasse uno sforzo sovrumano. Era sicura che in quel momento avrebbe preferito affrontare un’orda di giganti pur di sfuggire a quell’interrogatorio.

Il soldato più forte dell’umanità aveva forse una sola, viscerale paura.

Quella di aprire il proprio cuore e lasciarsi amare.

«È chiaro che lei ti piace, Levi. Oserei dire che ti stai innamorando»

Lui avvertì una scossa fulminea attraversagli il corpo

«E quindi?» disse cercando di risultare il più indifferente possibile.

La donna scattò in piedi guardandolo allibita.

Aveva sentito bene? Si era appena confessato?

«COME SAREBBE “e quindi”? Devi dichiararti, stupido!»

«Abbassa quella voce, sembri una gallina starnazzante!» ribatté Levi portandosi le mani alle orecchie «non ho bisogno che tu mi dica cosa fare. Non sono un novellino, ho avuto le mie esperienze in passato»

«Allora qual è il problema?»

«Nel tuo delirio di saccenza ti è sfuggito che lei viene da un'altra “dimensione”, se così si può chiamare»

Hange lesse sul volto dell’amico una grande malinconia che le fece stringere il cuore.

Non era tuttavia il momento di abbattersi, lui aveva bisogno di una sveglia.

Attraversò a grandi passi la stanza e piantò con forza le mani sulla scrivania, scombinando i documenti e richiamando la sua attenzione.

«Ascoltami bene Levi! Non sai quanto Carol rimarrà ancora in questo mondo. E la nostra esistenza è già fin troppo piena di miseria e rimpianti per starsene fermi a cincischiare, agisci ora che puoi!»

La bruna parlò con sincera apprensione, mostrando quanto tenesse a lui e sapeva che in fondo anche per Levi era lo stesso.

Rimasero qualche istante a sostenersi lo sguardo a vicenda, entrambi decisi a non cedere.

«Quattrocchi» fu il Capitano a spezzare quella lotta silenziosa «riserva ai tuoi sottoposti queste paternali del cazzo, io me la cavo da me.»

Hange sospirò affranta, portando le mani al cielo

«AHHHHH, sei impossibile! D’accordo, fai come vuoi, poi non dire che non ti avevo avvertito!» lo minacciò prima di sbattere bruscamente la porta dietro di sé.

Quando la quiete finalmente tornò nella stanza, Levi si alzò dalla sedia e si diresse alla finestra.

Ogni volta che aveva una discussione con quel terremoto di donna finiva con il sentirsi prosciugato, come se fosse appena tornato da una dura battaglia.

Ma per quanto gli pesasse ammetterlo, Hange aveva ragione.

Carol non gli era affatto indifferente, tutt’altro.  La sera si ritrovava ad aspettare con ansia i loro incontri notturni e la mattina si svegliava con una strana sensazione di calma all’idea che avrebbe trascorso la giornata allenandosi con lei.

Ma era amore? O semplice eccitazione per una novità che aveva stravolto la sua routine, distraendolo dalle solite preoccupazioni?

Levi questo non riusciva a stabilirlo.

Aveva avuto diverse donne nella propria vita, per la maggior parte incontri occasionali dettati dal bisogno di stringere a sé un'altra creatura vivente e riscoprirsi vivo a sua volta. Per scacciare il fetore di morte che gli si incollava addosso dopo ogni spedizione, per silenziare le urla dei compagni caduti, per trovare un attimo di pace.

Con Carol però era tutto imprevedibile, si sentiva diverso eppure allo stesso tempo libero di essere sé stesso.

Era in balìa di quel mare di nuove emozioni, era una foglia portata via dal vento.

Si scopriva ad indugiare su di lei con lo sguardo più del dovuto, ed ogni volta che la vedeva sorridere il suo cuore si fermava per un attimo che sembrava infinito.

Gli era difficile processare tutto ciò, razionalizzarlo era impossibile.

Sapeva solo che il vuoto che da sempre dimorava dentro di lui sembrava più piccolo quando era insieme a lei.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Salve a tutti, il presente capitolo tratterà un tema molto delicato quindi mi scuso in anticipo qualora possa urtare la sensibilità di qualche lettore/lettrice. Ciò non era in programma originariamente ma è stato un cambiamento “in corso d’opera”, ho già provveduto a modificare gli avvertimenti della storia.
Vi attendo a fine capitolo per ulteriori note,
Buona lettura!
 


                                                                                                     8



 
Carol aveva compiuto i primi, metaforici passi nel mondo dell’Attacco dei Giganti circa due anni prima, quando Isayama aveva appena pubblicato lo sconvolgente capitolo 113.

Si può dire che la scoperta di quell’universo giunse come una calda carezza nel pieno di quello che decisamente si era rivelato essere l’inverno più freddo della sua vita.

Non perché le temperature fossero particolarmente basse, di fatto il gelo aveva iniziato a calare su di lei da tempo.
Addirittura molto prima di quella diagnosi che Carol avrebbe voluto definire come una secchiata di acqua ghiacciata, come un fulmine a ciel sereno.

Ma la verità era che se l’aspettava.

Anzi si sentiva come se in un certo senso fosse stata lei stessa ad attirarla, nella speranza che le accadesse qualcosa che la disincagliasse dalla stasi melmosa in cui si era arenata la sua esistenza.

Da tempo le sembrava di sopravvivere più che vivere, incapace di adattarsi ad un mondo in cui vagava come una reietta, arrancando tra un esame e l’altro in una facoltà universitaria che non aveva scelto ma in cui il destino l’aveva parcheggiata.
Lei che sognava di studiare psicologia fin dalle elementari ma non era riuscita ad entrare da nessuna parte, vedendosi chiudere dolorosamente ogni porta in faccia.

Dopo quel colpo male incassato ogni cosa perse sapore, profumo ed un filtro grigio e apatico si frappose tra lei ed il mondo.

Era diventata scostante persino con i genitori e ricercava sempre più spesso la solitudine della propria stanza, rifuggendo anche la compagnia degli amici che presto infatti cessarono di contattarla.

Si stava lentamente spegnendo come la fiamma di una candela in un ambiente privo di ossigeno.

Stava appassendo sotto lo sguardo impotente dei suoi cari.

Per questo, quando in quel pomeriggio settembrino scaldato dagli ultimi tepori estivi il suo ginecologo le comunicò che aveva un tumore ovarico al secondo stadio, il mondo non le crollò addosso.

Accettò invece con incredibile passività quella notizia, riconoscendola come la necessaria conseguenza del proprio essersi arresa e del non avere più uno scopo.

Quando lo raccontò ai genitori il padre quasi si sentì mancare e la madre si mise a piangere.
Ma ciò che più sconcertò entrambi fu l’impassibilità con cui la figlia aveva riferito l’accaduto, come se fosse un rapporto militare conciso e distaccato. Erano terrorizzati che lei non volesse farsi curare ma fortunatamente Carol per quanto indolente non oppose resistenza.

Da quel momento iniziarono le innumerevoli visite ed il rimbalzo continuo tra uno specialista e l’altro per decidere il percorso terapeutico più adatto.
Fortunatamente dagli esami sembrava che il carcinoma fosse limitato all’ovaio sinistro, senza intaccamento delle stazioni linfonodali o metastasi.
Con l’intervento, che prevedeva la rimozione della massa tumorale e la successiva chemioterapia, le probabilità di sopravvivenza si assestavano intorno all’80%.
I medici e la psicologa che le era stata assegnata si prodigavano a rassicurarla che un futuro concepimento naturale rimaneva possibile, poiché l’ovaio destro e la rispettiva tuba sarebbero stati risparmiati. Carol li ringraziò per le competenze che stavano mettendo a sua disposizione, tuttavia non si dimostrò particolarmente rallegrata da quella notizia.
Ovviamente ciò impensierì ulteriormente i medici, i quali proprio non si spiegavano come una giovane ragazza potesse reagire con simile stoicismo ad una situazione del genere.

La verità era che lei in quel momento non sapeva come rapportarsi col fatto che la sua capacità di avere figli potesse essere messa a rischio.
Non aveva mai pensato a sé stessa come madre e non si trovava a proprio agio con i bambini, né aveva manifestato la volontà di averne di propri.
Quello che sapeva per certo era che non voleva assolutamente sentirsi obbligata da parte della società a rimanere incinta.
Perché per quanto il mondo si vantasse della propria modernità ed avanguardia, su certi temi dimostrava di essere ancora molto arretrato. Sempre più spesso subdolamente si continuava a perpetrare l’idea che lo scopo primo della donna fosse quello di procreare e badare alla famiglia, spingendola a sentirsi in colpa o inferiore se ciò non poteva accadere o peggio, se essa non poneva il desiderio di diventare madre in cima alle proprie priorità.

E Carol odiava piegarsi al volere altrui.

In Ottobre si sottopose all’intervento la cui convalescenza non fu nulla in confronto a ciò che venne dopo; le chemio la misero a durissima prova, permettendo alla depressione che già da tempo la ghermiva di stringere ancora di più le sue spire attorno al corpo ed alla mente di Carol.
Non perse i capelli che tuttavia si indebolirono e sfibrarono notevolmente diventando quasi paglia, ma la nausea e la spossatezza si fecero compagne costanti delle sue giornate, costringendola a letto per settimane.
I suoi genitori furono sempre al suo fianco, sostenendola con amore immenso per tutto il calvario e mai come in quei momenti lei si rese conto di quanto fossero fantastici.

Ma nonostante ciò il vedersi così debole e fragile la intristì ancora di più, fino a farle perdere la motivazione ad andare avanti, a guarire.

La sera del 31 Dicembre scorrendo distrattamente la bacheca di Facebook, Carol vide che una pagina da lei seguita aveva pubblicato l’immagine di un anime che la incuriosì molto.

Raffigurava tre ragazzini in uniforme militare che con sguardo serio e determinato battevano il pugno destro sul petto, alle loro spalle sullo sfondo azzurro cielo si stagliava uno stemma con due ali incrociate.

La didascalia recitava semplicemente
“Shinzou wo Sasageyo, Offrite i vostri cuori”

Digitò immediatamente su Google la frase in questione e le si aprì un mondo nuovo, singolare, accattivante, nel quale voleva assolutamente immergersi.

Fu così che mise in play il pilot dell’Attacco dei Giganti, il primo anime che guardava dopo tanto tempo.

E quella stessa notte la sua vita ebbe una svolta decisiva.

Nello straziato urlo di Eren, in quel “Combatti, combatti!” gridato prima a Mikasa nella baita sulla montagna e poi all’umanità intera nell’inferno di Trost, Carol ritrovò tutta la determinazione ed il desiderio di vittoria che lei stessa conservava nel cuore e che aveva dimenticato.

“Combatti, devi combattere”

Un monito che le risuonò forte nell’animo come il rintocco di mille campane incitandola a non mollare.

“Se ti arrendi, morirai, ma se ti batti vivrai”

A spingere forte i piedi sul fondo abissale in cui si era lasciata sprofondare e darsi la spinta necessaria a risalire, a riaffiorare in superficie e respirare finalmente a pieni polmoni.

“Se non combatti non potrai mai vincere!”

Con le lacrime agli occhi in quella notte di fine anno decise di rialzarsi più forte che mai e di volare alto.

E più passavano i giorni, più si addentrava in quella storia mozzafiato, più ogni personaggio aveva qualche insegnamento prezioso da regalarle.

Soprattutto riguardo al sacrificio.

Ognuno di loro le mostrò in modo diverso come spesso, in virtù di un bene più grande o semplicemente di fronte ad una situazione che per quanto difficile si deve accettare, bisogna avere il coraggio di dire addio.

All’orgoglio.

Ai sogni.

All’odio.

Ai propri cari.

Alla libertà.

Alla propria vita.

Capì che colui che incarnava maggiormente questo concetto e che a dispetto delle apparenze il cuore l'aveva offerto più di tutti, era Levi.

Nella furia che lo animava, nella sofferta scelta di lasciare andare Erwin, in quell'ultima disperata promessa di vendetta a cui si aggrappava, Carol avvertì tutta la tragicità e la profondità di questo straordinario personaggio.

Il tenebroso Capitano le entrò fin da subito nel cuore e non se ne andò più.

La lampante chiarezza di questi insegnamenti la spinse a riprendere in mano la propria vita facendo pace con le disillusioni ed il passato, ripartendo da lì per trovare un nuovo scopo, un nuovo sogno.

Quando mesi dopo gli esami indicarono che il tumore era totalmente scomparso gridò di gioia per quella seconda possibilità che le era stata concessa e di cui in ritardo aveva capito l’importanza, promettendo a sé stessa di renderla meravigliosa.

Ed ora a distanza di due anni, mentre si librava veloce nelle foreste di Paradis con la spilla argentea appuntata sul petto, sentiva che le ali le aveva messe davvero ed aveva finalmente iniziato a volare.
 
 
 

 
Rieccomi, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che non vi abbia dissuasi dal proseguire con la lettura di questa storia. Ammetto di averlo riesaminato e modificato più volte perché non ne ero mai pienamente soddisfatta e non lo sono tuttora. Potrà sembrare più riflessivo e statico rispetto ai precedenti ma sentivo la necessità di approfondire meglio il personaggio di Carol dandole un background che, per quanto pesante, potesse veicolarne la grinta e la forza d’animo. E non meno importante volevo provare a dare risalto al valore dell’Attacco dei Giganti, che ritengo sia un’opera con un grande potere edificante per nulla inferiore a famosi classici letterari.
Come sempre i vostri giudizi sono ben accetti,
Grazie per l’attenzione e alla prossima!
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


                                                                                 9


Quella mattina a Carol non sembrò vero di poter dormire più del solito, era talmente rilassata che anche il duro guanciale ed il vecchio materasso le risultavano comodissimi.

Erano da poco passate le nove quando aprì gli occhi e nonostante iniziasse ad avvertire un certo languorino si concesse di rimanere un altro po’ a letto, godendosi placida i timidi raggi di sole che filtrando dalla finestra le intiepidivano la pelle.
A quell’ora Levi e gli altri dovevano già essere arrivati a destinazione, probabilmente stavano già parlando con l’Istruttore Shadis.
Benché fosse stata assegnata alla squadra del Capitano, Erwin non le aveva chiesto di unirsi a loro quella mattina e ciò l’aveva rammaricata un poco, poiché non le sarebbe dispiaciuto assistere al colloquio con Keith.
Ma dovette riconoscere che si trattava di una questione che non la riguardava e lei, seppur involontariamente, si era già intromessa in fin troppi aspetti di quel mondo. Almeno in questa circostanza doveva restarne fuori.

In certi momenti si ritrovava ancora a pensare che si trattasse di un sogno anche se più vivido e lungo del solito. 

Si aspettava da un momento all'altro di essere svegliata dal suo gatto Gimli, che come ogni mattina le poggiava la zampina sulla guancia per richiamare la sua attenzione ed avvisarla che era ora di colazione per entrambi.

Ma un rimprovero di Levi durante l'allenamento, una domanda di Hange mentre trafficavano in laboratorio o un battibecco tra Eren e Jean a tavola la catapultavano prontamente nel qui ed ora, confermandole che era tutto vero.

Le mancava terribilmente casa e ciò che la spaventava ancora di più era il pensiero che se le linee temporali della Terra e di Paradis procedevano alla medesima velocità, i suoi genitori a quel punto la ritenevano scomparsa e non osava immaginare quanto potessero essere preoccupati.
In cuor suo continuava a pregare che il tempo per loro si fosse fermato o scorresse con un ritmo ben più lento.

Un passero si appollaiò sul davanzale della finestra, picchiettando impertinente contro il vetro e poi dopo un attimo di esitazione volò via, veloce come i pensieri che affollavano la testa della giovane.

Mentre scrutava le chiazze di nuvole che correvano sull’azzurro intenso del cielo la mente vagò al racconto di Keith Shadis e l’immagine di quell’uomo abbattuto la invase di malinconia.

Per tutta la vita aveva creduto di essere speciale, un prescelto destinato a compiere grandi imprese che le persone comuni potevano solo sognare. Anzi, a detta di lui erano troppo indolenti e stupide persino per concepire tali azioni.
Anche lei aveva più volte ripetuto a sé stessa di essere diversa, anche lei aveva sdegnato la mediocrità sognando un futuro incredibile. Ma immancabilmente la vita l’aveva sempre riportata con i piedi per terra, ricordandole che la tracotanza di volersi avvicinare troppo al sole si pagava a caro prezzo.
Ritrovarsi a vivere quella strana avventura le aveva nuovamente fatto provare quell’orgoglio, quella sensazione di unicità.
Però in quel momento le parole dell’Istruttore le fecero nascere un oscuro presentimento, che come una lama gelata le penetrò il petto costringendola a raggomitolarsi nelle coperte per scacciare quello spiacevole brivido.

“Ma la verità è che io non sono in grado di cambiare niente, sono solo uno spettatore”

Da che ricordava si era sempre assunta, forse un po' ingenuamente e superbamente, il ruolo di salvatrice, determinata a portare giustizia nel mondo per quanto le sue capacità le consentissero. Ed ora, complice l'assurda situazione in cui si trovava, stava replicando il medesimo schema anche in quel frangente.

Voleva sistemare le cose, voleva salvarli tutti e desiderava essere protagonista anche lei nel farlo.

E se invece il ruolo che le apparteneva fosse quello di semplice spettatrice?

Se si fosse illusa di poter cambiare le sorti di quel mondo, quando in realtà poteva solo assistere impotente agli eventi, proprio come Shadis?

Era una possibilità, certo, ma allora a che pro farle attraversare le dimensioni e spedirla lì.
Istintivamente prese la spilla dal comodino e la rigirò tra le dita scrutando attentamente quelle ali splendenti in campo argento, nella vana speranza di vedervi riflesse le risposte alle proprie domande.

Ma l'unico effetto che ottenne da tale contemplazione fu quello di far sorgere ulteriori dubbi.

Chissà quale era davvero lo scopo del signor Eldar, chissà perché aveva scelto proprio lei.

Carol aveva molte domande da porre al furbo libraio e quando avrebbe fatto ritorno a casa si sarebbe subito fiondata in quella libreria pretendendo i dovuti chiarimenti.

Eppure non riusciva ad essere arrabbiata con lui perché in cuor suo sapeva di aver bisogno di quel viaggio, proprio come l'anziano le aveva velatamente anticipato.

Possibile che si sentisse più viva in quell'universo immaginario che nel mondo reale?

Percepiva ogni cosa con più entusiasmo, anche i rapporti che stava stringendo in quella realtà sembravano più genuini e profondi.

E riflettendo su quanto si stesse affezionando a quei personaggi, il pensiero volò quasi automaticamente a Levi.

Aveva sempre avuto un debole per gli uomini riflessivi e misteriosi fino al midollo, ma tra tutti il Capitano era stato l'unico ad affascinarla tanto profondamente.
Se con gli altri personaggi di fantasia non le risultava difficile mantenere bene in chiaro che fossero fittizi, con lui era molto più complicato.  Dopo aver recuperato tutte le stagioni dell'Attacco dei Giganti, manga compreso, spesso si scopriva imbambolata a sognare ad occhi aperti mirabolanti avventure, immancabilmente a fianco di Levi. Quando si accorgeva di essersi lasciata andare all'ennesima, sciocca fantasia finiva con l'imbarazzarsi e darsi della stupida da sola.
Ed ora che quei sogni si erano in parte avverati tenere a freno l'immaginazione richiedeva uno sforzo ancora più considerevole, a maggior ragione dovendo trascorrere tutti i giorni a contatto con il Capitano in carne ed ossa.

Tutto di lui l'attraeva, ma erano soprattutto le piccole cose a colpirla.

L'espressione stizzita che assumeva inarcando il sopracciglio di fronte a qualcosa che non gli andava a genio.

L'ormai celebre e peculiare modo in cui reggeva la tazzina.

La delicatezza e la cura con cui metteva in infusione le foglie di tè, in netto contrasto con la furia che mostrava sul campo di battaglia.

L'accenno impercettibile di sorriso, che veniva prontamente represso nel giro di qualche istante, quando assisteva ad una scenata di Hange.

L'attenzione che dedicava a Carol durante gli allenamenti, aiutandola quando ne aveva bisogno prima ancora che fosse lei a chiederlo.

La sicurezza che traspariva dalla sua figura, dal suo atteggiamento, come se fosse fatto di duro granito e nulla potesse scalfirlo.

Pur sapendo che a dispetto delle apparenze nemmeno lui fosse invincibile, Carol in questo lo ammirava molto, anche se con una punta di invidia.
Quanto desiderava essere in grado di celare altrettanto abilmente le proprie paure ed insicurezze, restituendo al mondo una maschera impavida.

Si mise a sedere sul letto, decisa ad interrompere almeno per la mattina quell'incessante vorticare di pensieri.
Levò le braccia al soffitto per stiracchiarsi e dopo un sonoro sbadiglio poggiò i piedi sul pavimento di legno consumato. Gli spifferi che si infiltravano tra le fessure della finestra la fecero rabbrividire, annunciando che per quanto la giornata fosse soleggiata non si sarebbe prospettata molto calda.
Si gettò sulle spalle la coperta di lana che era adagiata ai piedi del letto e si guardò intorno.

Nei giorni precedenti aveva avuto così poco tempo per sé stessa o era talmente esausta per gli addestramenti di Levi che le era mancata l'occasione di ispezionare la stanza.
Sì avvicinò quindi alla vecchia scrivania ormai segnata dal tempo oltre che dai tarli e ne aprì il primo cassetto, da cui si innalzò subito uno spiacevole lezzo di muffa ed umidità. Al suo interno trovò un ragno che sgusciò veloce fuori dallo scomparto ed una penna d'oca spennacchiata.
Passò al secondo cassetto che si rivelò più ostico da sbloccare, tanto che Carol dovette fare leva con un piede sul bordo del mobile. Dopo qualche poderosa trazione il blocco cedette e con uno scricchiolio sinistro il cassetto mostrò il proprio contenuto, che consisteva in una pila di carteggi ingialliti, forse vecchi documenti della Legione.
Ad un’attenta analisi però la ragazza notò che il legno sembrava stranamente traballante sotto il peso dei fogli, rivelando infatti un doppio fondo.
Nel vano nascosto erano riposti un distintivo sgualcito del Corpo di Ricerca chiazzato di sangue ormai ossidato ed un diario in pelle nera.
Incuriosita si mise a sfogliarne le pagine vergate da una grafia ordinata e dal tratto delicato per nulla difficile da decifrare. Il frontespizio recava solo la lettera X puntata, forse ad indicare le iniziali del suo possessore.
 
"Ho finalmente deciso di trascrivere in un secondo diario i miei pensieri, perché questi avvenimenti stanno diventando talmente difficili da gestire che temo ne perderei il filo una volta tornato a casa."
 
Recitava così la prima, enigmatica pagina del diario datata anno 830 e Carol venne immediatamente rapita da quella narrazione singolare.
 
"Non potrò portare con me questo taccuino, non mi è mai possibile conservare nulla di questi strani viaggi. Solo la mia coscienza mi accompagna ma a volte ho paura che anche questa possa abbandonarmi, troppo messa alla prova per non impazzire.
Dopo quasi un mese di continuo andirivieni mi sono ormai acclimatato a questa seconda esistenza in una vita che in realtà non mi appartiene, ma in cui cerco di essere un ospite il meno invadente possibile.
Non so mai in anticipo quando arrivo né quando è ora di andarmene, ma se mi concentro riesco a percepire qualcosa un attimo prima di partire.
È un tenue ed improvviso formicolio che si diffonde nel mio corpo immergendolo in un torpore simile a quello del dormiveglia."
 
La giovane era sempre più sbigottita da quanto stava leggendo.
L'autore denotava una grande capacità di analisi unita ad una spiccata vena narrativa, lanciandosi in minuziose descrizioni di scene di vita quotidiana; dalla visita al mercato cittadino ai momenti di svago con i commilitoni e dalle pagine trasudava un senso di sorpresa e meraviglia, come se chi scriveva fosse un turista in viaggio in un paese straniero. Tuttavia egli era volutamente criptico e quando menzionava nomi o luoghi lo faceva sempre con iniziali puntate, probabilmente per timore che il diario potesse finire nelle mani sbagliate.

Un sospetto iniziò infatti a sorgere in Carol, perché più si addentrava in quei racconti misteriosi più le sembrava che quella persona fosse effettivamente uno straniero e che avesse vissuto un'esperienza per certi versi molto simile alla propria.

Inoltre, per quanto quello fosse un alloggio destinato agli ufficiali del Corpo di Ricerca e di conseguenza il possessore del diario dovesse essere un Caposquadra, in quel registro non c’era traccia di freddi resoconti di vertici militari o spedizioni. Tale considerazione non fece che acuire i dubbi della ragazza.
Si chiese da quanto tempo quella stanza dovesse essere in disuso se nessuno aveva mai portato alla luce quel quadernino. Però effettivamente, se mai qualcuno fosse incappato in quegli scritti, ad una lettura superficiale essi sarebbero apparsi come deliri mentali di un pazzo, qualcosa su cui riderci sopra e riporre nuovamente nel cassetto.

“Sto conoscendo meglio questa realtà tra le mura di cui avevo letto solo vaghe testimonianze ed ho capito che non l'abbiamo mai conosciuta davvero. Ho sempre cercato di mantenere la mia mente sveglia ed aperta, senza farmi condizionare troppo da ciò che volevano impormi gli altri e toccando con mano la verità.
Ora riconosco che mi è stata data un’opportunità di conoscenza incredibile, ma sarà un segreto che dovrò portarmi nella tomba.
Le informazioni che ho raccolto nel mio peregrinare potrebbero portare ad una pace duratura, tuttavia nessuno mi crederebbe mai, troverei solo un pubblico di sordi ad ascoltarmi.
Non per mancanza di fede o lungimiranza, ma perché l’odio spesso è la scelta più comoda per gli arrivisti e quella che porta maggior profitto economico. Se ciò che mi è stato riferito corrisponde al vero presto questa terra, che è già un comodo capro espiatorio per numerose azioni, diverrà anche il diretto oggetto delle mire espansionistiche di M.
E a quel punto quanto ho da dire risulterebbe davvero scomodo ed io con esso. In fondo, per quale motivo chi brama il potere dovrebbe condividere, quando si può essere gli unici padroni di ogni cosa?”
 
I racconti si susseguivano negli anni e le preoccupazioni su un’imminente guerra si facevano sempre più pressanti e ricorrenti.
Narrazioni dai toni lugubri e pessimistici si alternavano ad altre più leggere ed in merito a queste ultime Carol notò una costante.  Si trattava soprattutto di aneddoti in cui compariva la figura di una certa E. a cui l’autore sembrava essere molto legato, forse un’amica o qualcosa di più.
Il profondo affetto per quella misteriosa donna cresceva e diveniva più solido di anno in anno.
Era evidente dalla dolcezza con cui E. veniva descritta mentre accarezzava un gatto nei giardini del Quartier Generale.
Traspariva quando X. catturava talmente bene lo splendore del sorriso di lei che Carol poteva quasi immaginarla ridere davanti a sé vivida e reale. 

Ma la buona sorte non era stata affatto benevola verso i due malcapitati e le cupi nuvole che avevano iniziato ad ammassarsi sopra le loro teste si tramutarono in una violenta tempesta nell’anno 834.

E. è morta.
Ed è solo colpa mia.
Se ci fosse stato il vero G. sarebbe sopravvissuta. Perché lui sarebbe stato in grado di uccidere il gigante che aveva davanti a sé invece di soccombere al terrore.
Invece in quel campo aperto c’ero io, e per salvare me lei ha perso la vita.
Il senso di morte che ho provato quando quella orripilante creatura mi stava per divorare non è nulla in confronto al dolore lancinante che mi ha invaso quando E. è spirata tra le mie braccia.
Non riesco a sopportare il fardello di questo ennesimo senso di colpa che mi squarta, che come un impietoso strozzino continua a bussare alla porta della mia misera esistenza.
Oggi più che mai mi sento davvero un demone, merito l’odio, il disprezzo.
Merito di morire.”
 
Carol si scoprì con le lacrime agli occhi nel leggere quella confessione a cuore aperto, di una sofferenza e tragicità devastanti.

Fuori dalla finestra il sole stava continuando a splendere, ma in quella stanza e nel cuore della giovane era calata una cupa mestizia.

Si soffermò su quella frase che suonava come una micidiale coltellata

“Mi sento davvero un demone”

Procedendo con la lettura del diario la giovane aveva covato il sentore che quella persona potesse essere in realtà un Marleyano. Vi erano troppe considerazioni sull’arretratezza di Paradis, troppi riferimenti a mire colonialiste che ancora non appartenevano alla mentalità degli abitanti dell’isola.
Ma ora quella particolare affermazione la poneva di fronte ad un cambio di rotta, che si trattasse sì di una persona nata e cresciuta a Marley, ma nel distretto di internamento e quindi Eldiano?
Sembrava plausibile, tuttavia non si spiegavano tutti quegli strani discorsi su partenze e ritorni improvvisi, né tantomeno quel “se ci fosse stato il vero G.”

Era tutto molto nebuloso ed al momento risultava davvero impossibile per Carol trovarci un senso logico.

I rintocchi delle campane del municipio la riscossero, si erano già fatte le dodici. Incredibile quanto veloce il tempo fosse volato.

Dato che presto Levi e la squadra avrebbero fatto ritorno, decise di rimandare le macchinazioni ed il proseguo della lettura a più tardi.

Ripose quindi il quaderno nel cassetto e quando vide il distintivo insanguinato lo stomaco le si strinse.

Quello doveva appartenere ad E.

L’unico frammento di lei che aveva fatto ritorno a casa.
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


                                                                                         10


 
Carol non ce la faceva davvero più, non c’era muscolo del suo corpo che non implorasse pietà ed era talmente sudata che la maglietta le si appiccicava addosso.
Levi, che dopo l’incontro con Shadis non sembrava affatto di buon umore, aveva deciso di farle pienamente recuperare il tempo perso quella mattinata.
Dopo tre ore di intenso allenamento lei aveva però decretato la fine di quell’estenuante sessione sdraiandosi sull’erba e non aveva alcuna intenzione di alzarsi.
Il Capitano, fresco come una rosa, la guardava accigliato pur consapevole che insistere non gli sarebbe valso a nulla.

«Tu sei pazzo, una persona normale non può tollerare un ritmo del genere, sono distrutta» ansimò la ragazza tirandosi su a sedere.

«Distrutta? Ma se hai avuto l’intera mattinata per poltrire» la rimbeccò lui scrutandola a braccia conserte.

«E chi ha detto che ho poltrito?»

«Allora che hai fatto, ti sei alzata presto e sei scesa ad allenarti? Oppure hai dato una pulita alla stanza?»

«Beh no…»

«Dunque hai oziato» sogghignò Levi dimostrando di averla smascherata e guadagnandosi un sonoro sbuffo da parte di lei.

«Non mi hai nemmeno raccontato come è andato il colloquio con Shadis»

«Tanto sai già tutto, l’hai detto tu stessa»

Carol alzò le braccia al cielo in segno di esasperazione

«Ma cosa vuol dire, si chiama “fare conversazione”»

«Si chiama “sprecare fiato inutilmente”» rispose lui impassibile e seccato come sempre, facendole intendere che cercare di farlo parlare sarebbe stata una battaglia persa in partenza.

«Allora cosa ne pensi dei miei progressi?» proseguì lei senza demordere, rimettendosi in piedi e cercando con espressione schifata di staccarsi dalla pelle il tessuto fradicio della maglietta.

«In una settimana di addestramento non si fanno miracoli, però devo ammettere che ormai hai appreso le basi»

La giovane si portò le mani alle guance strabuzzando gli occhi in una plateale e voluta espressione di stupore.

«Mi hai appena fatto un complimento?»

Ma Levi a dispetto delle altre occasioni questa volta non resse il gioco

«Tsk, se sono i complimenti che cerchi hai sbagliato persona e mondo. Qui combattiamo per sopravvivere, non abbiamo di certo tempo da perdere in fronzoli o carinerie»

Carol aveva posto la domanda con tono scherzoso per stuzzicarlo, ma quella fredda replica bastò a spegnere il suo entusiasmo facendola indispettire non poco.

«Stare un po’ agli scherzi non ti ucciderebbe mica sai? Risulteresti anche più simpatico» sbottò seccata chinandosi a raccogliere la propria attrezzatura.

«Non mi interessa piacere alla gente. Dovrei essere più affabile per chi, per quelli come te che si divertono a leggere delle nostre disgrazie e vivono con il sedere al caldo?» sibilò lui riservandole uno sguardo sprezzante.

Carol rimase a bocca aperta di fronte a quell’improvvisa insofferenza, non capendone il motivo dal momento che non le sembrava di avergli recato offesa. 
E benché consapevole che quello fosse un esempio del tipico meccanismo di difesa di Levi, non riuscì a perdonargli tale atteggiamento.

«Che cazzo vuoi dire, che solo perché nel mio universo non ci sono i giganti allora non abbiamo pericoli e viviamo tranquilli? Tu non sai nulla di me!»

Il volto del Capitano si rabbuiò in un istante

«Né tu di me»

Lei ormai aveva le lacrime agli occhi per la rabbia, ma nonostante ciò trovò la forza di sfidare quell’espressione glaciale.

«Ora me ne andrò a darmi una ripulita, perché la conversazione sta degenerando e non voglio litigare»

Era quello che avrebbe voluto dire.

Quello che disse invece fu ben altro.

Coprì con due falcate la breve distanza che la separava da lui, piantandoglisi davanti.

«Se abbandonassi per una volta questo tuo carattere perennemente incazzato ti accorgeresti del grande affetto che sei in grado di donare, qualcuno potrebbe persino innamorarsi di te.
Invece preferisci nasconderti dietro la fottuta corazza che ti sei costruito e chiudere fuori tutti.
E sai qual è la verità?»

Carol aveva il volto cremisi per la foga ed il naso era ad un palmo da quello di lui, tanto vicini da poter avvertire sul viso l’uno il respiro dell’altro. Lui nonostante fosse rimasto sorpreso dall’inaspettato sfogo della giovane era riuscito a non darlo a vedere.

«Tu hai paura Levi, una paura fottuta»

Pronunciò quelle parole scandendole una per una e lasciandole aleggiare nell’aria, come la profezia di una vecchia strega la cui certezza non si osa mettere in dubbio.

Le pupille del Capitano vibrarono e si dilatarono solo per una frazione di secondo, ma tale mutamento non sfuggì alla ragazza che ritenne conclusa vittoriosamente la propria arringa.

Senza nemmeno dargli modo di ribattere girò i tacchi lasciandoselo alle spalle.

Si sentiva ribollire e non capiva se provasse rabbia per lui o verso sé stessa, per aver pensato di potersi integrare bene in quel mondo, per essersi illusa di poter stringere un legame con lui.

L’unica cosa che voleva fare in quel momento era tornare a casa.

Levi nel frattempo era ancora lì dove la giovane l’aveva lasciato, per l’ennesima volta in una settimana ammutolito e scombussolato da quanto lei aveva detto.

Un luccichio attirò la sua attenzione, la spilla di Carol brillava a terra tra l’erba e sembrava giudicarlo severamente.
 





 
L’acqua calda del bagno aveva placato l’animo di Carol, che decise di non permettere alla collera di rovinarle la giornata.

Voleva godersi gli ultimi residui di calore del sole autunnale esplorando i dintorni del Quartier Generale.

Ormai mancavano due giorni alla partenza per Shiganshina e l’aria fremeva per l’agitazione dei soldati intenti negli ultimi preparativi.

Mentre osservava quei giovani militari si ricordò delle nuove rivelazioni di quella mattina e sentì un’improvvisa ansia stringerle il petto.

Sarebbe davvero riuscita a salvarli?

Spettatrice o protagonista?

Cominciava a comprendere l’entità del peso che Erwin portava quotidianamente sulle proprie spalle, non avrebbe mai voluto avere sulla coscienza la morte di qualcuno, il doversi confrontare con il dolore straziante di intere famiglie distrutte, lordarsi le mani di lacrime e sangue.

Scosse la testa nel tentativo di scacciare quegli oscuri fantasmi, come se davvero fosse così facile sbarazzarsene e prese il sentiero lastricato che dal cortile conduceva verso i giardini della caserma.

Lanciò un’occhiata al campo di addestramento, forse nella speranza di scorgere Levi, ma di lui non c’era traccia. Era dispiaciuta per le dure parole che si erano scambiati poco prima, tuttavia ringraziò mentalmente per l’assenza di lui poiché in quel momento non se la sentiva di intavolare un’altra conversazione.

Uno scenario fiabesco, con filari di alberi multicolore si stagliava davanti ai suoi occhi.

Le foglie secche si staccavano da quelle chiome scosse dal vento, vorticando nell’aria prima di posarsi a terra dove creavano un variopinto mosaico.

In fondo al prato, seduto all’ombra di un magnifico acero rosso ed immerso nella lettura di un libro, vi era Armin.

Carol si avvicinò al ragazzino, il quale non appena si accorse di lei sollevò lo sguardo dal volume rivolgendole un allegro saluto.

«Posso sedermi?» domandò lei indicando l’erba accanto al biondino.

«Ma certo» le rispose lui con la sua voce cristallina.

Carol prese posto sedendosi sulla giacca della divisa per evitare che il terreno umido le sporcasse i pantaloni.

L’occhio le cadde sul tomo rilegato in cuoio che l’amico teneva tra le mani.

«Cosa stai leggendo?»

Armin protese il libro verso di lei

«É un vecchio volume appartenuto a mio nonno, parla del mondo esterno!» disse elettrizzato, felice che lei avesse espresso interesse verso la sua lettura.

Carol ne sfogliò delicatamente le pagine, affascinata dai disegni dai colori brillanti che raffiguravano luoghi esotici, pensando che in fondo quelle rappresentazioni non erano molto lontane dalla realtà.
Quello doveva essere il libro che Armin aveva mostrato gelosamente solo ad Eren e Mikasa, e si sentì speciale per il fatto che l’avesse condiviso anche con lei pur conoscendola da pochi giorni.

«È davvero un libro prezioso»  

Un ampio sorriso illuminò il volto del ragazzino, grato che qualcun altro avesse riconosciuto la bellezza racchiusa in quelle pagine.

«Sai, io credo davvero all’esistenza di quei luoghi. Prima ancora di poterli vedere di persona io sono fermamente convinto che là fuori oltre queste alte mura ci siano immense distese di sabbia, continenti di ghiaccio…ed il mare» decantò lui volgendo lo sguardo davanti a sé verso la foresta, ma la ragazza sapeva che in realtà esso si stava posando ben oltre l’ampia distesa di alberi.

Quei fulgidi occhi azzurri avevano oltrepassato il Wall Maria ed erano già là, su quelle bianche sponde a contemplare le cristalline acque dell’oceano di cui tanto amava parlare.

Carol si lasciò ammaliare da quelle iridi celesti così diverse da quelle di Erwin eppure cariche della stessa luce, della stessa fame di conoscenza.

Eren aveva ragione, negli occhi di Armin c’era davvero un bellissimo sogno.

La giovane avvertì ancora la medesima stretta al cuore di poco prima e la consapevolezza dell’imminente catastrofe si fece nuovamente strada nella propria mente.

Lui era uno dei personaggi che amava di più ed essere a conoscenza delle sue sofferenze future la rattristava.

Quel ragazzino minuto così sottovalutato da tutti e soprattutto da sè stesso, che in quel momento era così felice di confidarle il proprio sogno, non aveva idea del dolore e della disperazione dei quali di lì a pochi anni sarebbe stato testimone.
Il pacifico Armin che credeva fermamente ci fosse sempre un’alternativa alla violenza, alla guerra, presto avrebbe visto la propria incrollabile fede capitolare di fronte agli errori ed orrori di Eren. 
Lui che da sempre era considerato “debole” si sarebbe ritrovato con la responsabilità del ruolo di Comandante sulle proprie spalle e con il compito di salvare il mondo.

Un’improvvisa folata di vento agitò le fronde dell’acero facendo cadere a terra alcune foglie, Armin ne raccolse una e la contemplò con espressione infantile, assorto nei propri pensieri.

“Un giorno, prima del tramonto del sole noi tre abbiamo fatto una gara verso l’albero sulla collina.
Eren, che ebbe l’idea, iniziò subito a correre e Mikasa gli andò immediatamente dietro.
Ovviamente io ero ultimo.
Ma c’era un bel vento quel giorno ed era piacevole anche solo correre così.
Cadevano molte foglie e…proprio in quel momento, per qualche motivo pensai che forse, la ragione per cui ero nato era per fare quella gara con loro.
Pensai la stessa cosa mentre leggevo un libro in un giorno di pioggia, quando uno scoiattolo mangiò le noccioline che gli avevo offerto e anche mentre facevamo un giro insieme al mercato.
Pensai che quei momenti felici sarebbero diventati preziosi.
Questa foglia l’ho trovata nascosta nella sabbia e ai miei occhi, anche se non c’è bisogno di qualcosa di simile per potersi moltiplicare, rimane qualcosa di incredibilmente prezioso.”

Il ricordo del dialogo tra lui e Zeke balenò nella mente di Carol.

«Hai ragione Armin, quei luoghi meravigliosi esistono»

Il biondino la guardò attentamente, stupito da quella frase.

«Il giorno in cui li vedrai di persona imprimiti quelle immagini negli occhi e nel cuore. Promettimi che quando le cose si faranno difficili, quando la speranza vacillerà e tutto sembrerà perduto, tu ripenserai a quel momento. Non permettere mai alle sofferenze ed alle cattiverie di questo mondo di offuscare la purezza della tua anima e la bellezza del tuo sogno.
Promettimelo, Armin» concluse lei con gli occhi umidi di lacrime.

«S-Sì, lo prometto» rispose lui perplesso, non riuscendo ad afferrare appieno il vero significato di quelle parole, ma sentendo nel profondo del proprio cuore che esse dovevano essere custodite e mai dimenticate.

La giovane lo strinse in un vigoroso abbraccio.

Nell’innocenza di Armin rivedeva molto di sé stessa ed avrebbe voluto proteggerlo da ogni male come una sorella maggiore farebbe con il proprio fratellino.

«Ti ringrazio per le belle parole Carol, farò tesoro di quanto mi hai detto»

«Sono io a doverti ringraziare, mi hai insegnato tanto…e sei incredibilmente più forte di quanto immagini» e detto questo si rialzò, imboccando la strada di ritorno alla caserma sotto lo sguardo di un ancora più frastornato Armin.

 
 
                                                                                            
Mentre si avvicinava al cortile di fronte alle stalle udì due inconfondibili voci immerse in una concitata conversazione.

«Caposquadra Hange le ho già detto che deve fare attenzione quando maneggia le lance fulmine! Sa bene che è estremamente facile azionarne il detonatore!» urlava inquieto Moblit con le braccia protese verso la bruna nel tentativo di toglierle di mano l’ordigno.

«E su Moblit, ti ripeto che non devi preoccuparti, rilassati è tutto sotto controllo» replicò Hange agitando nell’aria la lancia fulmine come se fosse lo scettro di uno stregone.

Il povero assistente si mise le mani nei capelli e Carol lo guardò con tenerezza.

Leggendo il manga e seguendo l’anime aveva sempre pensato che tra quei due ci fosse una chimica che andasse ben oltre una semplice amicizia ed ora, osservando il loro rapporto di persona, sentì di poter confermare con una certa sicurezza la propria ipotesi.

Decise comunque di intervenire in aiuto di Moblit prima che al soldato venisse un infarto… e prima che Hange facesse esplodere il Quartier Generale.

«Ancora a collaudare le lance fulmine Hange? Credevo che ormai avessi concluso gli esperimenti!» esordì avvicinandosi al dinamico duo e catturando l’attenzione della donna.

«Carol che piacere vederti! È più forte di me, non riesco a fare a meno di ammirare quotidianamente questi gioiellini» rispose euforica la quattrocchi, porgendo distrattamente all’assistente la letale arma.

Moblit l’afferrò immediatamente, sospirando sollevato e lanciando un cenno di ringraziamento in direzione della bionda prima di dileguarsi per mettere al sicuro la lancia.

Una volta rimaste sole Hange le si accostò e facendole l’occhiolino si lanciò in una discussione che Carol non aveva la minima voglia di intraprendere, soprattutto con quella mente così perspicace.

«Piuttosto, ho sentito che gli allenamenti con Levi procedono bene…»

La ragazza si sentì avvampare di fronte a quella velata allusione e cercò di nascondere il proprio imbarazzo dietro una finta nonchalance, voltandosi ad accarezzare uno dei cavalli vicini.

«Secondo il Capitano sono discretamente brava per una che non ha mai combattuto dei giganti in vita sua»

Ovviamente ad Hange non era sfuggito il repentino cambio di colore sul suo volto e sogghignò soddisfatta tra sé, desiderosa di andare più a fondo.

«Ben più che discreta, direi. Il nanetto non è tipo da dispensare molti complimenti, eppure con te è diverso» continuò lei, inclinando la testa di lato intenta a cogliere ogni minima reazione della bionda.

Carol rimase in silenzio fingendo di non badarle, seguendo con le dita la linea bianca sul muso dell’animale. Avvertiva lo sguardo indagatore della Caposquadra su di sé e quando se la ritrovò accanto capì che ormai era troppo tardi per sottrarsi a quell’oculata tortura.

«Gli devi piacere davvero molto per condividere il suo prezioso the nero. Sai che lo nasconde sempre in un posto diverso? E come si arrabbia se qualcuno osa rubarglielo, tiene il conto di ogni filtro…»

“Maledizione”

«Immagino lo faccia perché sa che non rimarrò nei paraggi tanto a lungo da finirglielo» cercò di sdrammatizzare Carol sperando di mettere un freno alla prepotente curiosità della bruna.

Hange proruppe in una grassa risata, quasi le vennero le lacrime agli occhi.

«Chissà» ridacchiò mentre si puliva gli occhiali con un lembo della camicia, esaminandoli poi in controluce «probabilmente siete così simili da ricercare istintivamente la compagnia l’uno dell’altro».

Carol trattenne il respiro a quelle parole.

«Ad ogni modo, fareste meglio a darvi una mossa. Siamo in guerra dopotutto» concluse la donna con un sorriso sardonico, assestandole una leggera gomitata nelle coste ed avviandosi poi verso l’interno del Quartier Generale.

«Non so proprio di che parli Hange» le gridò la ragazza riscuotendosi dal tentennamento.

«Cooome no… a più tardi cara» ribattè l’altra con un cenno della mano senza voltarsi, lasciando Carol sola con i cavalli e con i propri pensieri.  

“Touché” riconobbe lei mentre allungava una carota al nero destriero nel box alle sue spalle.

In fondo, a chi voleva darla a bere?

La vicinanza che si era creata con Levi non aveva fatto altro che intensificare i sentimenti che lei già provava per lui.

E nonostante avessero litigato poche ore prima le cose non erano affatto cambiate.

Dovette ammettere a sé stessa che le parole di Hange la lusingavano, la Quattrocchi conosceva benissimo il Capitano ed il pensiero che lui davvero potesse ricambiare i suoi sentimenti le accendeva il cuore di gioia.

Ma a che servirebbe dichiararsi, se poi a distanza di pochi giorni sarebbe tornata a casa, sparendo per sempre?

Solo a complicare le cose, ecco a cosa servirebbe.

Come se già la situazione non fosse abbastanza ingarbugliata, ci mancava solo aggiungerci i sentimenti di una ragazza nerd innamorata di un personaggio fittizio.

«Sono davvero nei guai eh, bello?» chiese sconfortata rivolta al cavallo. L’animale emise un potente nitrito di risposta, strappandole un sorriso.

«Hai proprio ragione»
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


                                                                             11

 
Ciao a tutt* ,
È passato un po’ dall’ultima volta ma tra impegni vari non riuscivo a trovare il tempo per scrivere ed essendo questo un capitolo piuttosto importante volevo dedicargli la giusta attenzione.
Vi aspetto alla fine per ulteriori note, buona lettura!




 
 
Carol non aveva mai avuto così tanta resistenza ad addormentarsi come da quando si trovava a Paradis.

E quella notte non faceva eccezione.

Le coperte le davano fastidio, il cuscino sembrava troppo scomodo e le sue gambe non volevano saperne di stare ferme.

Negli ultimi giorni anche se era distrutta dagli allenamenti, finiva spesso con il trascorrere le lunghe ore della notte a fissare il soffitto con la testa che vorticava di mille pensieri e parole non dette, con il cuore che sembrava accelerare la sua corsa sfociando in fastidiose palpitazioni.

Spazientita gettò da parte le lenzuola e si alzò, perché tanto in quelle condizioni non sarebbe comunque riuscita a tranquillizzarsi.

La stanza si era parecchio raffreddata quindi si infilò un maglioncino caldo e procedendo a tentoni nella penombra riuscì a trovare la lampada sul comodino. Rimosse il telo che oscurava il minerale luminescente e l’ambiente fu subito immerso nella caratteristica luce azzurrina.
Si diresse verso la finestra che dava sul campo di addestramento, come attirata da una strana sensazione di irrequietezza.

Nella nera oscurità scorse una calda e solitaria luce che brillava in lontananza nel prato, come un fuoco fatuo delle leggende celtiche.

La curiosità, o forse l’ancestrale sesto senso, ebbero la meglio sul freddo e sulla paura.

In pochi istanti Carol indossò la propria giacca ed imboccò la scala che scendeva al piano terra.

La pungente aria notturna le sferzava la pelle mentre attraversava il cortile ma lei scelse di non badarvi, poiché la sua attenzione era interamente catalizzata da quella sorgente luminosa.

Avanzò guardinga nell’erba e quando fu a pochi metri di distanza riuscì a distinguere chiaramente una lanterna accesa poggiata al suolo.

Seduta accanto ad essa una figura era intenta ad osservarne i giochi di luce che si proiettavano sul terreno.

Il battito di Carol accelerò nell’esatto istante in cui riconobbe quella persona.  

Anche se era girata di spalle era impossibile sbagliarsi.

Non che le servisse conferma, perché in realtà aveva già capito chi fosse nel momento stesso in cui aveva deciso di uscire dalla propria stanza e raggiungerlo.

Chi altri poteva essere dopotutto, nel cuore della notte?

«Sapevo che saresti venuta» esordì Levi senza nemmeno guardarla, la voce calma e vagamente mesta senza alcuna traccia del suo classico atteggiamento spigoloso.

La ragazza rimase in silenzio, sapendo che quell’affermazione non esigesse una risposta da parte sua.
Si limitò ad intenderla come un tacito invito a prendere posto, o almeno come un segno di pace dopo gli attriti del pomeriggio.

«Faccio sempre questo rituale prima di una spedizione» proseguì lui, mantenendo lo sguardo fisso sul lume «nelle notti insonni dopo le mie prime missioni non riuscivo a tollerare il buio. Mi sembrava di essere precipitato sul fondo di un pozzo nero e dovunque mi girassi vedevo ombre pronte ad aggredirmi. Solo la luce della lanterna riusciva a farle sparire dandomi un po’ di pace. Il calore della fiamma frenava le immagini dei compagni dilaniati che mi vorticavano davanti agli occhi, sostituendole per quanto possibile con dei ricordi felici. I miei fantasmi non se ne andranno mai lo so, mi accompagneranno per sempre…però in questo modo riesco a tenerli a bada, a non lasciarmi divorare. Ora è diventata un’abitudine che pratico spesso, soprattutto quando alla vigilia delle spedizioni sento il bisogno di riflettere ed onorare gli amici caduti. È come se la lanterna mi aiutasse a stabilire un contatto con loro, è come se li sentissi qui vicino a me»

Carol lo ascoltava attentamente, timorosa che se avesse anche solo fiatato lui sarebbe fuggito via come un animale braccato.

Non era a conoscenza dell’abitudine di Levi, di cui non si faceva menzione né nel manga né nell’anime ed il pensiero che ci fosse qualcosa che sfuggisse al controllo di Isayama le diede un po’ di speranza.

Era bello vederlo così tranquillo, quasi in pace.

Le sue iridi scure erano screziate da lampi dorati che le rendevano ancora più affascinanti. Il volto era rilassato ed i capelli neri gli ricadevano morbidi sulla fronte.

In quello sguardo nostalgico Carol poteva cogliere il riflesso dei ricordi tanto cari a Levi ed era sicura che in quel momento nella mente di lui le immagini della madre, Farlan, Isabel, Petra e tutti gli altri si stavano susseguendo come tanti fotogrammi proiettati sullo schermo.

Le viscere le si strinsero in una morsa di tristezza per quell’anima ferita e si sentì fortunata per quel frammento privato del suo cuore che Levi stava condividendo con lei.

Distolse rispettosamente gli occhi dal viso del Capitano, forse anche per paura di violare i confini di uno spazio intimo che non le apparteneva. 

Prese a fissare anche lei la tremolante fiammella, ipnotizzata dai raggi dorati che proiettandosi dal vetro fendevano l’oscurità della notte, come un faro in soccorso di una nave durante la burrasca.

E man mano che l’animo si riscaldava sotto quell’ardente luce, comprese appieno ciò che lui intendesse.

Pensò a casa, a mamma, papà ed alla propria esistenza, così tranquilla e prevedibile prima di quello strano viaggio.

Ed in maniera naturale, come non faceva da anni, iniziò a cantare a bassa voce.

«Lasciati andare, lasciati andare,
non devi per forza fingere di essere così coraggioso.
Quel fiore che qualcuno ha dipinto sul muro ondeggia.
Nessuno conosce veramente sé stesso,
nel mezzo di questo lungo, lungo cammino fatto di perdite e scoperte.
Ci sono giorni in cui ci si sente soli e si ha voglia di piangere,
ma tu trasforma queste lacrime e questo dolore in stelle,
accendi la luce che risplenderà fino al domani.
Forse ogni tanto smarrirò la strada…
Ma insieme creeremo polvere di stelle,
andando alla ricerca di un per sempre che brillerà luminoso.
Lasciati andare, lasciati andare.
Ci sono tante cose che non tornano, giusto?
Ma non importa, perché ho potuto incontrarti.
Voglio conoscere quale è davvero “la Verità”.
Ho nascosto un piccolo pugnale nel mio calzino,
fa sempre più male indossare una faccia coraggiosa e mentire.
Fa davvero paura, ma nonostante ciò continuerò a vivere.
Il vento accarezza dolcemente il tuo volto sorridente,
ed insieme mano nella mano creeremo polvere di stelle
andando alla ricerca di un per sempre che brillerà luminoso.
Cosa dovrei fare se non capisco ciò che è giusto?
Dovrei accettare la realtà anche se fa male?
Credevo di essermi persa, ma poi ho trovato te.
Sono così grata che tu sia qui…
Trasformiamo queste lacrime e questo dolore in stelle,
accendiamo la luce che risplenderà fino al domani.
Insieme mano nella mano creeremo polvere di stelle,
andando alla ricerca di un per sempre che brillerà luminoso.
Forse un giorno dovremo dirci addio,
comunque le stagioni si susseguiranno…
anche se potrei smarrire la strada io continuerò a camminare, camminerò al tuo fianco.
Questo è ciò che non cambierà mai.»
 
Quando la udì cantare Levi non credette alle proprie orecchie.
Non era dotata di abilità eccelsa e laddove la voce si incrinava per l’emozione vi erano numerose stonature, eppure a lui parve un suono celestiale.
La fissava incantato, totalmente assorto nella contemplazione di quei lineamenti delicati messi in risalto dal contrasto tra il caldo chiarore della lanterna e la pallida luce lunare.
Si perse in quegli occhi smeraldo accesi di speranza e poteva sentire le membra rilassarsi al suono di quel dolce canto.

Era una visione stupenda, una bellissima creatura in un mondo crudele.

Se gli angeli di cui tanto parlavano i credenti esistevano davvero, Levi era sicuro che lei sarebbe appartenuta a quella categoria.

Si chiese se anche Carol avvertisse quella vibrante tensione che sembrava attraversare lo spazio tra di loro, investendolo con una dirompente cascata di brividi e spingendolo verso di lei come due calamite irrimediabilmente attratte l'una dell'altra.

Non conosceva quella melodia eppure ogni parola penetrava a fondo nel suo animo, incidendosi indelebile nella memoria.

Quando lei ebbe concluso la canzone rimasero in silenzio, permettendo a quell’improvvisa magia di sostare ancora un po’ nell’aria.

Un’atmosfera quasi religiosa permeava quel momento ricco di spiritualità, un ricordo verso i propri cari defunti ma anche di profondo raccoglimento in sé stessi. 

Levi si accorse che la giovane stava piangendo ed istintivamente si alzò dal proprio posto per accostarsi a lei.

«Tieni» mormorò porgendole uno dei propri fazzoletti di stoffa.

Lei rispose a quel gesto con un’espressione così dolce che il soldato avvertì una morsa allo stomaco, come se qualcuno lo stesse prendendo a calci senza pietà.

Carol si portò il panno al viso ed il profumo del Capitano permeò le sue narici, era una fragranza fresca, pulita, che le ricordava l’odore delle foreste del nord.

«Non avevo mai sentito questa canzone. La trovo...molto significativa» disse lui, scoprendosi stranamente a disagio. 

«Sì lo penso anche io… è una delle mie preferite»

Volsero nuovamente l'attenzione verso la lanterna, poi Levi ebbe un lieve sussulto e si voltò come per prendere qualcosa dalla tasca della giacca.

«L'hai dimenticata oggi pomeriggio dopo l’addestramento» proferì porgendole la spilla.

Carol ne fu sorpresa, tra i mille pensieri in cui era rimasta invischiata non si era nemmeno resa conto di averla persa.

«Grazie…» rispose riappuntandosi il gioiello alla camicia.

Dal bosco lo stormire delle foglie annunciò l'arrivo di una fredda brezza e la ragazza raccolse le ginocchia al petto, rabbrividendo leggermente.

«Scusami per oggi, non era mia intenzione risponderti sgarbatamente»

Levi le stava chiedendo scusa? si stupì lei.

Probabilmente l'indomani avrebbe nevicato, piovuto e ci sarebbe stato il sole al contempo.

Rifletté un attimo su come replicare a quelle parole.

«Non preoccuparti, le giornate storte capitano a tutti. Nemmeno io ci sono andata molto piano nei tuoi confronti... non volevo farti credere che il tuo carattere sia sbagliato o che devi cambiare...»

Lui scosse la testa, mantenendo lo sguardo fisso sul terreno illuminato.

«So di non essere esattamente la persona più piacevole del mondo. Ma è più forte di me, non riesco ad abbassare la guardia. E hai ragione, ho paura. Temo che se mi lascio andare, se mi affeziono, se creo legami, non sarò in grado di agire con freddezza e perderò altre persone a cui tengo»

Il volto del Capitano si era fatto ancora più malinconico, Carol avrebbe voluto abbracciarlo ma non era sicura quanto tale espansività sarebbe stata accolta positivamente.

Voleva tuttavia fargli capire che non era solo, fargli sentire la vicinanza di un altro essere umano.

«Credo che avere qualcuno da proteggere ti sproni a lottare con più forza, a batterti fino all'ultimo. Non la vedo affatto come una debolezza»

Poggiò poi la propria mano sul dorso di quella di Levi, delicatamente, come quando si avanza sul ghiaccio con il pericolo che esso possa frantumarsi alla minima pressione.

E lo stesso paragone valeva per l'equilibrio e la fiducia che si erano creati tra loro due.

Metti un piede nel posto sbagliato, nel punto più sottile della lastra e tutto si incrina.

«Con me puoi farlo sai, lasciarti andare»

Lui si riscosse e la fissò intensamente, forse ancora non del tutto sicuro che fosse sincera.

Poi Carol vide le sue rughe d’espressione distendersi in un piccolo sorriso che conferiva una nuova dolcezza a quei lineamenti spigolosi.

«Come dice la canzone?» chiese Levi con tono quasi speranzoso.

La bionda annuì ed aumentò con decisione la pressione della propria stretta sulla mano si lui.

«Come dice la canzone»

Sopra di loro miliardi di stelle palpitavano come tante lucciole, risplendendo in tutta la loro bellezza.

I loro volti erano così vicini che Carol poteva sentire il respiro caldo di Levi stuzzicarle la pelle.

Lui non avrebbe desiderato altro che affogare in quelle iridi verdi, dove i riflessi dorati della lanterna danzavano creando ipnotici giochi di luce.

Fu impossibile resistere oltre.

Questa volta fu il Capitano a posare la propria mano sulla guancia di lei, e quando la ragazza socchiuse gli occhi a quel tocco delicato, lui annullò la distanza facendo combaciare le loro labbra.
La testa di Carol iniziò a girare vorticosamente ed il cuore prese a batterle come un tamburo, sconvolta da quel momento che sembrava troppo bello per essere vero.
Avvertì le morbide labbra di Levi dischiudersi lentamente, seguite dalle proprie ed istintivamente affondò le mani nei suoi capelli corvini carezzandogli la nuca.
Lui di rimando le cinse il busto in una stretta salda, avvicinandola ancora di più a sé.

Entrambi erano inebriati dal reciproco calore e da quel contatto così naturale, così giusto.

Un’orda di giganti avrebbe potuto sbucare dal folto della foresta e a loro non sarebbe importato.

Nulla avrebbe potuto rovinare la magia di quel prezioso e tanto perfetto frammento di tempo, in cui esistevano solo loro e la rasserenante luce della lanterna.

Quando si separarono dopo quell’infinita apnea, si contemplarono persi l’uno negli occhi dell’altro e si sorrisero a vicenda.

Successivamente, senza dire una parola ed intendendosi con un singolo sguardo, si incamminarono verso la caserma.

Solo l’eco dei loro passi ed i palpiti dei loro cuori riecheggiavano nei muti corridoi del Quartier Generale.

Quando furono al riparo da occhi indiscreti negli alloggi del Capitano, Carol gli gettò le braccia al collo riprendendo da dove si erano interrotti poco prima.
Lui la sollevò dalle cosce sostenendola con le braccia, consentendole così di cingergli i fianchi con le gambe.  Si diresse verso il proprio letto nella stanza attigua allo studio ed adagiò dolcemente la bionda sul materasso, senza interrompere quella danza travolgente che teneva così impegnate le loro bocche.
Scese poi lungo il candido collo di Carol, lasciando una scia di baci che a lei parvero roventi come il fuoco ed allo stesso tempo freddi come il ghiaccio, tanto erano violenti i brividi che le scatenavano in corpo.
Levi le tolse con estenuante lentezza la camicia, sfilando meticolosamente ogni bottone dalla propria asola, stregato da quel corpo che ai suoi occhi appariva assolutamente perfetto.
Venne il turno anche per lei di spogliarlo, percorrendo con le dita i contorni di quei muscoli così definiti e tonici da sembrare quasi irreali.
Non c’era impaccio né imbarazzo nei loro sguardi o nelle movenze e Carol si sorprese della propria sicurezza, lei che soffriva sempre il timore di non essere abbastanza e rifuggiva le attenzioni.
Ora invece si scoprì desiderosa di essere ammirata, baciata, liberando una sensualità che fino a quel momento le era estranea. 

Negli occhi languidi di Levi scorse il riflesso di una donna forte e bellissima.

Era davvero lei.

I restanti indumenti finirono ben presto accantonati sul pavimento, ormai totalmente superflui.

La stanza era pervasa dai sospiri sconnessi dei due giovani, i corpi luccicanti di sudore si fondevano in un amplesso travolgente, quasi a sancire il ricongiungimento di due anime gemelle che a lungo si erano sognate, cercate e finalmente trovate.

Si addormentarono esausti ed appagati, stretti l’uno nelle braccia dell’altro.

E seppero con certezza che niente e nessuno avrebbe mai potuto spezzare quel sottile filo rosso che da quel momento, o forse già da tempo immemore, legava i loro destini così come i loro cuori.






 
Rieccomi, come vi dicevo considero questo capitolo come molto importante. Potrà forse sembrare strano ma è proprio dall’immagine di Levi seduto a contemplare la lanterna che è nata l’idea di scrivere la storia. Ho deciso che il titolo dovesse quindi richiamare il rituale del Capitano, ecco perché “La luce delle lanterne”. Il plurale si spiegherà più avanti ;-)
Inoltre credo che questo passaggio sia un punto di svolta per il rapporto tra Carol e Levi. Devo dire che descrivere momenti romantici non è il mio forte, spero di non essere caduta nel banale o peggio nello stucchevole.
La canzone cantata da Carol è la stupenda “Let it all out” di Miho Fukuhara, chi ha visto Fullmetal Alchemist capirà. La traduzione letterale sarebbe “lascia che tutto esca/ tira fuori tutto” ma per ovvie ragioni ho dovuto un po’ adattarla. Trattandosi di un invito ad esternare le proprie emozioni ho optato per un più semplice “lasciati andare”.
Vi ringrazio per l’attenzione che state dedicando al mio racconto e mi auguro che continuiate a leggerlo. Alla prossima!

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


                                                                                    12




Il tenue chiarore dell’alba filtrava già dalla finestra quando Carol si svegliò da un sonno profondo come non le capitava da anni.
Aprì pigramente gli occhi stiracchiandosi nel letto ed allungò istintivamente la mano per tastare lo spazio di materasso accanto a sé, trovandolo vuoto. Il fuoco scoppiettava allegro nel caminetto di pietra dall’altro capo della stanza, diffondendo il proprio tepore nell’ambiente.
La ragazza volse lo sguardo al soffitto, si sentiva incredibilmente felice ed in pace con il mondo.
I ricordi della sera precedente cominciarono a riaffiorare nella sua mente, a conferma che ciò che era accaduto non era stato un sogno ma l’inaspettata e bellissima realtà.
La sua razionalità le instillò un subdolo dubbio, spingendola a darsi un potente pizzicotto sull’avambraccio giusto per esserne assolutamente certa.
Ma contrariamente ad altre occasioni in cui le sue fantasie si erano effettivamente rivelate tali questa volta era sveglissima.
E si trovava ancora nella stanza del Capitano Levi.

Tra le profumatissime e pulitissime lenzuola del Capitano Levi.

«Buongiorno»

Quell’inconfondibile voce roca le giunse alle orecchie risvegliando ogni cellula del proprio corpo. Istintivamente si voltò in direzione di quell’irresistibile richiamo e lo spettacolo che le si parò davanti monopolizzò tutta la sua attenzione.
Levi era in piedi accanto al letto e la studiava con la fronte aggrottata, forse perché lei invece di rispondere al saluto era rimasta a fissarlo imbambolata.
A giudicare dal petto nudo e dall’asciugamano immacolato che gli cingeva i fianchi doveva essere appena uscito dalla doccia.

«Buongiorno a te» riuscì a sillabare recuperando un po’ di lucidità.

Il corvino si sedette sul letto a pochi centimetri da lei, dopo ciò che avevano condiviso anche quella misera distanza risultava fin troppa per entrambi.  Una potente corrente sembrava scorrere tra i loro corpi spingendoli a ricercare nella reciproca unione una completezza che in tanti anni non avevano mai sperimentato.
A prima vista Carol notò con piacere che il viso del Capitano era più sereno del solito e le occhiaie notevolmente ridotte.

«Questa notte ho dormito splendidamente» le confermò infatti lui come se le avesse letto nella mente, esalando un sospiro rilassato mentre spostava una ciocca ribelle dal volto della giovane.

Carol era al settimo cielo, avrebbe potuto trascorrere il resto dei propri giorni a perdersi in quelle pozze blu di solito tanto agitate eppure in quel momento così placide.

Cosa era la felicità in fondo, se non la possibilità di godere di piccoli attimi come quello?

«Lo stesso vale per me» mormorò lei regalandogli uno splendido sorriso.

Si scambiarono un lento bacio, diverso da quelli che avevano riempito la sera precedente ma non per questo meno intenso.
Non c’era fretta o urgenza in esso, era simile a quello degli innamorati di lunga data che si salutano prima di cominciare la giornata, un bacio che porta in sé la sicurezza e la promessa di non essere l’ultimo ma il primo di tanti.

E ad entrambi piacque quella sensazione che sapeva di quotidianità, di intimità, di casa.

Purtroppo essi erano anche ben consapevoli che oltre quella bolla di pura serenità in cui erano loro a dettare le regole del gioco, un ospite sgradito li attendeva una volta varcata la soglia della stanza.

Il tempo.

E contro questo inflessibile avversario non c’era possibilità di negoziazione.
Come quando il Tristo Mietitore bussa alla tua porta e tu sai che non puoi fare altro che preparare le valige e partire, perché quella chiamata non si può rimandare. 
Tuttavia nessuno dei due aveva intenzione di pensarci, non ancora almeno.
Quella triste consapevolezza venne quindi relegata in un piccolo recesso delle loro menti, nascosta dal calore delle loro effusioni.
La bionda si lasciò sfuggire una risatina quando alcune gocce caddero dai capelli bagnati di Levi stuzzicandole la pelle.
Lui pensò che quel sorriso potesse essere tranquillamente annoverato tra le meraviglie del mondo, era così luminoso da poter rischiarare anche la notte più buia.

E si rese conto che era piacevole farsi trascinare dall’energia di quella ragazza, lasciarsi andare, ridere, senza preoccuparsi di nient’altro.

«Sarà meglio che vada nella mia stanza prima che il resto della caserma si svegli» disse lei accennando al sole che era ormai sorto, chiaro segno che presto il Quartier Generale si sarebbe rianimato.

Levi annuì, ammaliato dai riflessi dorati che accendevano ancora di più il verde degli occhi di Carol, era davvero la donna più bella che avesse mai visto.
Si rivestirono con tranquillità e dopo il via libera del Capitano la ragazza si dileguò nel corridoio ancora deserto.
Mentre percorreva furtiva gli androni della caserma dovette costringersi a non saltare o gridare, tanta era la gioia che pervadeva ogni fibra del suo essere. Dentro di sé sapeva bene però che la situazione si era appena complicata… e di molto. Lasciare quel mondo ora sarebbe stato ancora più difficile del previsto, così come accettare le conseguenze delle proprie azioni. La paura si insinuò un poco nel suo animo, ma lei non le lasciò il tempo di mettere radici, determinata ora più che mai a salvare quelle vite dal buio destino che le attendeva.
 




Trascorse l’intera giornata senza che Carol e Levi potessero ritagliarsi un momento di intimità, complice il fermento per gli ultimi preparativi della spedizione che stavano tenendo occupati tutti i superiori.
Si incrociarono a pranzo in mensa ma ovviamente rimasero a debita distanza. Gli sguardi che si scambiarono dalle rispettive tavolate non sfuggirono comunque ad Hange, la quale mollò una potente e, a giudicare dalla reazione di Levi, dolorosa gomitata nelle coste dell’amico.
A quella donna davvero non si poteva nascondere nulla.
Lo stesso non si poteva invece affermare per Eren e compagni, troppo tesi per l’imminente partenza per badare ad altro. 
La giovane ringraziò mentalmente per la scarsa attenzione che le stavano dedicando, era troppo su di giri per riuscire a mantenere una facciata stoica.

«Ci sarai anche tu stasera Carol?» le chiese Armin che era seduto di fronte a lei.

Quella sarebbe stata la famosa “Notte prima dell’operazione di riconquista” ed era previsto che l’intero Corpo di Ricerca si riunisse nel refettorio per festeggiare. Tuttavia il pensiero di ciò che li attendeva a Shiganshina non le avrebbe permesso di godersi l’evento come avrebbe voluto, oltre al fatto che desiderava trascorrere del tempo con Levi.

«Non credo, oggi sono un po’ stanca…Magari vi raggiungerò al termine della cena»

«COOOOSAAA? Ma così ti perderai il più bello, ci sarà un sacco di carne!» esclamò Sasha già con la bava alla bocca.

Carol non riuscì a trattenersi dal ridere di fronte ad una visione tanto comica.

«In realtà Sasha devi sapere che io non vado matta per la carne…»

La ragazza patata impallidì vistosamente a quell’affermazione, come se qualcuno le avesse appena confessato un’indicibile bestialità.

«Tu non sei di questo mondo» le si rivolse sgomenta e la bionda rise ancora più di gusto, un po’ per la scena in sé, un po’ per il fatto che involontariamente Sasha aveva riassunto perfettamente la sua situazione.

Anche il resto del tavolo si unì a quella contagiosa ilarità, solo Armin non staccò gli occhi da Carol.

Neppure a lui la si poteva dare a bere.
 
 






Gli schiamazzi dei soldati, molti dei quali probabilmente già ubriachi, erano ben udibili persino dalla sua camera. Aveva lasciato la finestra leggermente aperta per far entrare un po’ di aria fresca nel tentativo di acquietare un poco l’ansia che aveva incominciato ad impossessarsi di lei dal pomeriggio. Per fortuna era riuscita ad evitare di farsi vedere in quello stato da Levi, il quale tra le numerose riunioni ed incombenze a cui aveva dovuto assistere non era ancora riuscito ad avvicinarla. Doveva necessariamente calmarsi prima del loro incontro, altrimenti lui avrebbe immediatamente capito che c’era qualcosa di strano.
Camminare nervosamente per la stanza non la stava affatto aiutando anzi sentiva le mani sempre più sudate ed il cuore martellarle le tempie.
Poi si ricordò di non aver concluso la lettura del diario del misterioso eldiano, perciò decise di dedicarsi a quello.
Recuperò il taccuino dal cassetto della scrivania, si posizionò comoda sul letto e si immerse nuovamente in quegli strani resoconti che dopo la morte di E. si erano fatti più radi, fino a contare poche pagine per anno.
In parte ciò era dovuto al fatto che, come riportava X. stesso, la frequenza di quegli strani “viaggi” si era notevolmente ridotta.
Ciononostante anche la narrazione si era fatta spenta e didascalica, come se effettivamente la gioia di vivere avesse abbandonato l’autore.

L’ultima pagina era datata 841 ed era una delle lettere a cuore aperto più struggenti che Carol avesse mai letto.



“È da molto che non aggiorno questo diario, forse perché da quando E. se ne è andata le mie giornate non sono così degne di nota.
Dovrei descrivere minuziosamente ogni particolare della mia permanenza, attenendomi al rigore scientifico che è sempre stato il mio vanto. Tuttavia mi rendo conto di non essere capace della stessa imparzialità di un tempo. Non possiedo la freddezza delle macchine che popolano sempre di più il mio Paese, poiché in quanto esseri umani siamo naturalmente portati a vivere di emozioni, rendendo di fatto soggettiva ogni nostra percezione ed esperienza.
Mentre scrivo fuori è una bellissima giornata, sembra che il mondo voglia schernirmi beffardo sfoderando tutto il suo splendore contro il mio umore più nero.
Se chiudo gli occhi posso lasciarmi trasportare da questa brezza primaverile che profuma di gelsomino, che profuma di lei.
Mi basta inalare a fondo questa dolce fragranza per sentirmi a casa ed al tempo stesso avvertire una stilettata al cuore.

Forse sono pazzo ad aggrapparmi a questo dolore atroce, ma il suo ricordo è tutto ciò che mi rimane.
Quando parlo di E. preferisco usare l’espressione "se ne è andata", ed anche questa è un'altra dimostrazione di come la mia impassibilità vacilli.
Morire è naturale, fa parte della vita. Eppure non riesco ad associare i concetti di decomposizione e putrefazione al ricordo di lei.
Ho scelto di pensare che sia partita per un lungo, lunghissimo viaggio, ma che sia ancora là fuori da qualche parte.
Forse perché questo implica che prima o poi potrò raggiungerla, ed io non desidero altro che rivederla.
Non sarà molto scientifica come scoperta ma ho imparato che nel corso della nostra esistenza ci approcciamo a diverse realtà, entriamo nei cuori di molte persone ed esse fanno altrettanto.
Incrociamo destini, raccontiamo storie, diventiamo storie.
Ed il tempo che lei ha trascorso insieme a me ha riportato la luce nella mia vita rendendola una storia bellissima.
Sono convinto che quando due anime così affini si incontrano non esistano mai addii ma solo arrivederci.
Manca poco ormai…presto partirò anche io, presto la raggiungerò.
Forse lungo quello stesso sentiero illuminato dalle stelle che mi ha portato qui.
Forse invece ci rincontreremo su una candida spiaggia sotto un cielo che non ha mai visto la guerra.
E quando contemplerò i suoi occhi brillare alla vista del vasto oceano, finalmente potrò ringraziarla.
Perché lei, al contrario di me, mi ha salvato.
Perché prima di conoscerla ero distrutto, un vuoto e triste relitto dell'uomo che ero un tempo.
Ma soprattutto le dirò quanto l'ho amata, e quanto l'amerò ancora ed ancora.”

 
Quando richiuse delicatamente il diario Carol era in lacrime.

Dire che quella lettera l'avesse profondamente toccata era riduttivo.

Non conosceva l’autore, non sapeva a chi appartenessero tutte le iniziali puntate che avevano popolato quelle pagine eppure ogni parola, ogni persona le era arrivata dritta al cuore. In qualche modo sentiva che quelle ultime righe erano rivolte a lei, giungendole proprio nel momento del bisogno.
Anche lei era aveva intrapreso un incredibile viaggio, anche lei avrebbe amato per sempre qualcuno oltre il tempo ed oltre lo spazio.
Per quanto avesse avuto diverse relazioni in passato nessuna aveva acceso dentro di lei delle emozioni paragonabili a quelle che provava con Levi.
Come se fino a quel momento avesse osservato solo le ombre del mondo proiettate su un telo.
E ora che quel velo era stato sollevato i suoi occhi potevano bearsi di tutte le bellezze che si stagliavano davanti a lei.

Adesso finalmente capiva cosa volesse dire amare.

Ma ciò portava con sé delle conseguenze meno piacevoli, poiché ora doveva misurarsi con un’ansia alquanto maggiore per gli eventi futuri ed avvertiva più gravoso anche il peso di un potenziale fallimento.

Eppure proprio in virtù di questa paura anche il suo desiderio di combattere, di avanzare acquisiva potenza.

“Succeda quel che succeda” si disse,
“Io sono pronta”.



 
 
Nel corridoio incrociò alcuni soldati decisamente alticci e ne superò altrettanti intenti a scambiarsi effusioni nelle penombre delle scalinate. Non poteva certo giudicarli, lei stessa in quel momento fremeva per rivedere Levi. Il giorno successivo sarebbero stati troppo impegnati per potersi appartare e la partenza per Shiganshina era prevista per il calar della sera, quindi voleva godersi ogni attimo disponibile. 
Arrossì ripensando alla profonda intimità che avevano condiviso la notte precedente e fu grata per la penombra che le oscurava il volto.
Dal refettorio proveniva un caldo decisamente opprimente oltre che un gran chiasso, a quanto pareva la carne comprata dalla Compagnia Reeves aveva riscosso grande successo.

Proprio mentre stava superando la porta della mensa per guadagnare l'uscita sulla strada principale un religioso silenzio si sostituì al fragore delle risate e lentamente un canto solenne si propagò nell’aria.


«Mi chiedo che cosa vedrei dall’alto del cielo verso il basso della terra?
Vorrei visitare qualche luogo che non sia questo.
Ho un sogno fin dalla mia infanzia, sapere cosa si trova nel vasto mondo,
qualcosa che superi ogni comprensione, di inimmaginabile.
Il sogno di ammirare la libertà equivale ad un gelido letto di fango.
Mentre prendiamo in prestito le sembianze di Dio la Giustizia snuda le proprie zanne.
Che sia fuori o dentro questa gabbia moriremo comunque.
Portando sulle spalle il peso dei nostri peccati diamo valore alla nostra avanzata,
Tradendo il crepuscolo ci siamo aggrappati alla luce della speranza,
l’abbiamo inseguita, già sapendo che eravamo diretti verso l’inferno.
Cosa sei disposto ad offrire per vedere dove ti conducono i tuoi sogni?
Il diavolo sussurra mentre passiamo sul sentiero di cadaveri,
“Che cosa c’è oltre questa oscurità”? La realtà che ci maledice fin dall’infanzia.
Un giorno saremo ricompensati, una volta superato il sentiero dei cadaveri.
Lungo la scia percorsa da archi e frecce dispieghiamo le nostre ali,
Anche se uniamo i nostri cuori è troppo presto per piangere i defunti,
poiché il sole non è ancora calato all’orizzonte.
Continueremo ad avanzare, oltre le onde dell’oceano!»


Quelle strofe così familiari assestarono una poderosa stoccata nell'animo di Carol, si trattava proprio della colonna sonora che apriva il ciclo di puntate sulla riconquista di Shinganshina.

Un inno al sacrificio e alla libertà che a lei suonava però come una perfida frecciatina nei propri confronti.

Una violenta vampata di calore la investì ed il respiro le si fece più affannato, segno che quell'evento aveva riacceso il panico dentro di lei spazzando via la calma appena ritrovata.

Sì appoggiò al muro per sostenersi ed avanzò incespicando verso il portone, incapace di tollerare oltre quel caldo infernale.

Doveva allontanarsi da quelle voci, aveva bisogno di aria.

Finalmente la brezza notturna le accarezzò il viso dandole modo di trarre un sospiro di sollievo.

«Parlare con l’Istruttore mi ha fatto bene, insomma voglio dire… che farò tutto quello che devo fare, che io sia in forma o meno»

La voce di Eren le giunse alle orecchie, evocando le immagini della famosa scena sulla scalinata. Carol si sporse oltre la parete quel tanto che bastava per osservare i tre amici che conversavano sotto le stelle.

«Però hai ragione, mi sento meglio. Da troppo continuavo a fare ragionamenti a vuoto. Continuavo a chiedermi perché non fossi forte come Mikasa o come il Capitano Levi. Io vi invidiavo, ma persino due come voi non possono fare molto da soli. Per questo motivo ognuno di noi deve avere il suo ruolo e tutti i piccoli ruoli insieme diventano un’unica forza.  È questo il motivo per cui ogni persona è diversa l’una dall’altra»

«Sì hai ragione» gli fece eco Armin, per poi ammutolirsi insieme ad Eren e Mikasa nell’osservare un ufficiale di passaggio che somigliava al signor Hannes.

Carol volse invece lo sguardo al cielo notturno, giusto in tempo per scorgere l’inconfondibile scia di una stella cadente attraversare velocissima quello spazio infinito.

«Quando ci saremo ripresi il Wall Maria e avremo eliminato tutti i nostri nemici, potremo tornare indietro a quei giorni?» domandò malinconica Mikasa.

«Li faremo tornare, anche se non sarà tutto come prima, per questo dovremo fargliela pagare» fu la risposta di Eren al quesito della corvina.

«Ma non si limita tutto a questo…» prese nuovamente parola Armin alzando a sua volta gli occhi al cielo.
 «Il mare. Un enorme lago salato che i mercanti non potranno prosciugare nemmeno mettendoci una vita. All’esterno di queste mura non ci sono solo i giganti…lave incandescenti, continenti di ghiaccio, distese di sabbia. Sono entrato nel Corpo di Ricerca per vederli di persona!»

«Ah beh hai ragione, questo è vero Armin» lo assecondò Eren seppur decisamente poco convinto.

Il biondo si accorse dello scetticismo del compagno di infanzia e scattò in piedi

«Allora, per prima cosa raggiungeremo il mare! Tu ancora non riesci a crederci, vero Eren? E invece vedrai, sono sicuro che esiste»

«Va bene, come vuoi tu Armin. Voglio proprio vederlo con i miei occhi»

Carol sorrise tra sé, era impossibile non lasciarsi trascinare dall’entusiasmo di Armin ed anche se in quel momento non poteva vederlo in faccia, era sicura che quegli occhi azzurri stessero brillando quanto gli astri sopra le loro teste.

«Questa è una promessa, dovrai farlo! Insieme esploreremo il mondo esterno, è mille volte più grande dell’interno di queste mura!»

«State di nuovo parlando di cose che capite solo voi» li zittì Mikasa, spedendo poi entrambi a letto a dormire.

La giovane attese che i tre fossero rientrati nella caserma prima di uscire allo scoperto per raggiungere Levi.

Sapeva esattamente dove cercarlo, perché anche lui aveva ascoltato ogni passaggio di quella conversazione.

Ed infatti lo trovò seduto a terra nella rientranza di un’arcata, con un boccale di birra ancora pieno vicino a sé ed un’espressione mesta in volto.

«Buonasera Capitano»

«Tsk e dire che pensavo di essermi nascosto per bene» rispose Levi rianimandosi e lasciandosi sfuggire un sorriso compiaciuto.

«Non per me, io so sempre dove trovarti» ribatté Carol prendendo posto accanto al Capitano ed intrecciando le proprie gambe su quelle di lui.

«Stavi pensando a Farlan ed Isabel vero?»

Lui annuì mantenendo lo sguardo fisso al suolo e deglutì con sforzo, come si fa con un boccone amaro o quando si cerca di scacciare il pianto che restringe sempre di più le pareti della gola per soffocarti.  

«Non voglio che a quei ragazzini capiti lo stesso. Voglio che tutti e tre sopravvivano e vedano il mare, sempre ammesso che esista»

Il Capitano faticava ad interagire con le persone e Carol pensò che ciò dovesse risultargli ancora più difficoltoso da quando il destino aveva posto sul suo cammino quel dinamico trio, un costante e doloroso miraggio di ciò che lui, Farlan ed Isabel erano stati.
Col tempo però quella che all’inizio gli era sicuramente apparsa come una crudele beffa era diventata una seconda possibilità.

Le sue parole tradivano l’affetto che provava per quei ragazzini a cui voleva regalare un futuro migliore di quello che era toccato a lui.

Questo era Levi, un uomo straordinario che non aveva idea dell’infinito amore di cui era capace.

Carol attirò verso di sé con dolcezza quel volto affilato per scrutare nelle profondità abissali dei suoi occhi blu.

Almeno quella certezza gliela doveva, solo una piccola anticipazione.

 «Lo vedranno Levi, grazie a te»

Ed il sorriso che ridiede vita a quello sguardo triste le confermò che aveva fatto la scelta giusta.

Le loro labbra si cercarono istintivamente abbandonandosi ad un vorace bacio che voleva compensare l’assenza di contatti di quella giornata.

«Devo esserti mancato molto oggi» ridacchiò lui impressionato da tanto trasporto.

«Mmmh potrei dire lo stesso di te» mugugnò lei mordendogli leggermente il labbro inferiore per dispetto «E comunque spero tu non abbia esagerato con Eren e Jean, domani ci servono in forze non ko su una barella»

«Tsk è davvero insopportabile il fatto che tu sappia tutto»

La sua reazione seccata strappò una risata a Carol.

«Anche minacciare Erwin di non riuscire ad andare in bagno… oggi hai proprio dato il meglio di te!»

Levi sollevò un sopracciglio guardandola perplesso.

«Ma quella conversazione risale ad una settimana fa»

La bionda rimase impietrita, quella differenza indicava che le tempistiche degli eventi non combaciavano perfettamente con la storia che lei conosceva.  Un’altra sbavatura che per quanto apparentemente insignificante minava ulteriormente la riuscita del piano.

La sua esitazione impensierì il Capitano che si sporse verso di lei scostandole i capelli dal viso

«Ohi, che succede?»

«Nulla nulla, tranquillo avevo solo fatto confusione. Colpa della stanchezza e dell’agitazione per domani»

Ma poiché lui non sembrava nemmeno lontanamente persuaso da quel goffo tentativo di sdrammatizzare, Carol decise di sviare il discorso su argomenti ben più interessanti.

«Ad ogni modo… vuoi rimanere qui seduto fino a domani mattina?» proferì maliziosamente, risalendo con le dita il braccio del corvino.

Levi avvertì la pelle d’oca fino alle estremità più remote ed il sangue ribollirgli in corpo.

Era astuta la mocciosa, convenne tra sé.

«Non credere di cavartela così. E comunque non hai appena detto di essere stanca?»

Lei sorrise divertita, la smorfia che il Capitano aveva stampata in faccia era fin troppo eloquente.

«Di te mai» gli sussurrò all’orecchio prima di baciarlo.
 
 
 



Aprì gli occhi all'improvviso, svegliandosi da un sonno leggero e si accorse che Levi non occupava il suo posto nel letto. Squadrò la stanza e quando gli occhi si furono abituati alla penombra riuscì a scorgerlo in piedi davanti alla finestra. Il tenue chiarore dell’ultimo spicchio di luna ne illuminava la figura marmorea contornando il profilo di ogni muscolo.
Carol scivolò fuori dalle coperte e lo abbracciò da dietro, appoggiando il proprio mento sulla spalla di lui.
Nonostante fosse completamente nudo e la stanza piuttosto fredda il suo corpo risultava piacevolmente caldo.
Non si era nemmeno preoccupata di poterlo cogliere di sorpresa poiché i sensi da Ackerman erano talmente affinati da rendere la cosa pressoché impossibile.

«Non riesci a dormire?»

Lui si girò in direzione di Carol, afferrandone i fianchi per ridurre lo spazio tra di loro.

«Tutt’altro, non ho mai dormito così bene in vita mia come in questi ultimi giorni»

Poi il suo sguardo si fece improvvisamente serio.

«Il tuo piano è buono Carol, tuttavia non riesco a fare a meno di essere inquieto. Ed è diverso dal turbamento che provo solitamente per le spedizioni. Non riesco a levarmi dalla testa un presentimento...e sento che c'è qualcosa che tu non mi hai detto. So che hai le tue ragioni, ma lo vedo nel tuo sguardo che non sei tranquilla»

Come poteva contraddirlo, certo che non era stata completamente sincera con lui.

C’era la possibilità che l’indomani li avrebbe attesi una disfatta, in cui Levi avrebbe perso il suo migliore amico e con esso le vite di centinaia di commilitoni.

A questo si aggiungeva l’ansia dovuta alle piccole ma frequenti discrepanze temporali e narrative che aveva riscontrato durante la propria permanenza.

Ma non poteva caricare su di lui un simile fardello, non se esisteva ancora una chance di vittoria.

Decise di continuare a tacere sul destino di Erwin, ripiegando su una confessione che, per quanto sincera, era consapevole non fosse la spiegazione voluta dal corvino.

«Mentirei se dicessi di essere perfettamente calma.  Come potrei, non sono mai stata in guerra, non ho mai combattuto contro un gigante. Inoltre… ora che tu sei entrato nella mia vita non voglio dovermi separare da te»

Lui le sorrise appena, senza staccare gli occhi dai suoi e prendendone il volto tra le mani.

«Lo stesso vale per me Carol. Tu mi hai sconvolto in ogni senso possibile, hai reso incredibile la mia infelice esistenza in questi giorni, hai ridato energia al mio cuore e sarà così fino a quando non farai ritorno a casa»

Un senso di grande tristezza stava crescendo nel petto della ragazza e la gola si faceva sempre più stretta e dolorante ad ogni respiro.
Le lacrime si stavano già preparando a scorrere, anticipando quel “ma” che fin dall’inizio entrambi erano consapevoli sarebbe prima o poi arrivato.

Ed implacabile come un colpo di ghigliottina la dura realtà calò su entrambi.

«Desidererei fuggire con te lontano da questo mondo crudele ma ciò non mi è possibile. Io sono un soldato e come tale devo comportarmi, ho fatto un giuramento e devo tenergli fede. Allo stesso modo non voglio che tu sacrifichi la tua famiglia, la tua vita sulla Terra per rimanere qui e rischiare quotidianamente di morire divorata, non potrei mai sopportarlo»

Levi parlò con la voce rotta dall’emozione, dover dire addio alla donna alla quale aveva aperto il proprio cuore dopo anni passati a reprimere sentimenti in una forzata apatia gli provocava un dolore enorme.

«Quello che dici è vero, fa male ma è così. Entrambi abbiamo delle responsabilità a cui non possiamo voltare le spalle. Tuttavia... voglio scegliere di vedere tutto ciò da una prospettiva diversa»

Il Capitano la guardò senza capire, in attesa che lei proseguisse.

«Secondo un'antica tradizione ciascuno di noi nasce con un filo rosso che lo lega ad un'altra persona. Non importa quale sia la differenza d'età, il genere, non importa l'estrazione sociale o in che luogo o tempo vivano, le anime gemelle unite dal filo troveranno sempre il modo di rivedersi. Ecco… io voglio credere che anche per noi valga lo stesso. Offro il mio cuore a te, Levi»

Il corvino rimase attonito di fronte a quella rivelazione, non sapendo sinceramente cosa rispondere.
In quel terribile giorno di cinque anni prima sotto la pioggia battente lui aveva offerto il suo cuore all'umanità, al Corpo di Ricerca.

Non poteva offrire qualcosa che non possedeva più. Non poteva mentire, non a lei.

Era scombussolato e non riusciva a gestire quel turbinio di nuove emozioni, si trattava di una situazione completamente nuova per lui.

E per quanto volesse lasciarsi andare aveva ancora troppe resistenze, era troppo presto.

La ragazza invece aveva compreso benissimo il suo disagio.
Era certa che anche lui provasse gli stessi sentimenti nei suoi confronti, come era altrettanto certa di quanta fatica gli costasse confrontarsi con le proprie emozioni e legarsi nuovamente a qualcuno che sicuramente avrebbe perso.
Quindi prese lei la parola, posando l'indice sulle labbra di lui per zittirlo.

«Lo so Levi, tranquillo. Stanotte non voglio pensare al futuro, voglio solo stare con te»

Lo sguardo del giovane si addolcì e le loro labbra si unirono fameliche, desiderose di non sprecare nemmeno un istante di quel tempo prezioso.
Contrariamente alla notte precedente fecero l’amore con irruenza, le loro mani ed i loro corpi si cercavano affannosamente, le loro bocche si separavano solo per respirare come se sapessero in cuor loro che il destino tramava perché quel sogno andasse in frantumi.
Entrambi si impressero i reciproci odori e sapori nella memoria, ricordi salati di lacrime e sudore che si mescolavano tra le lenzuola stropicciate.
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


                                                                             13




 
Ovviamente l’evento era troppo grandioso per illudersi che Hange riuscisse a trattenersi dal reclamare il proprio trionfo.
Era scontato che fremesse dalla voglia di sentire dalla bocca di Carol la conferma di quanto effettivamente ci avesse visto lungo. Per questo quel pomeriggio aveva affidato a Moblit l’ingrato compito di prelevare la ragazza dopo l'allenamento per condurla in laboratorio da lei.
La bionda sapeva già cosa aspettarsi e quando fece il suo ingresso nell'antro della strega, perché altro modo non c'era per definire quell'accozzaglia di alambicchi, provette e carteggi, era ormai pronta al supplizio.

«Avanti Hange, spara» esordì sconsolata accompagnando la propria resa con un ampio gesto delle braccia.

L’altra sfoderò un ghigno sornione senza però staccare gli occhi dal campione che stava analizzando con un primitivo microscopio.

«Che malfidente Carol... e dire che volevo solo fare quattro chiacchere tra amiche prima della partenza di stasera»

La giovane si portò il palmo della mano sinistra al volto per la disperazione.

«Va bene, allora parlerò io così ci toglieremo subito di mezzo l’argomento più spinoso»

Esitò un attimo per essere sicura di avere tutta l'attenzione della donna, certa che per quanto fingesse disinteresse ostinandosi a rimirare quel dannato vetrino, in realtà fremesse dall'impazienza.

«Avevi ragione. Ecco l'ho detto, soddisfatta?»

Hange mise bruscamente da parte l'armamentario ed una luce velò per un secondo le spesse lenti degli occhiali, la bocca completamente allargata in uno dei suoi inquietanti sorrisi a trentadue denti.

«Ma ovvio che avessi ragione, non poteva che andare in questo modo!» trillò avvicinandosi a Carol ed afferrandone saldamente le mani.

«E non sai quanto sia felice per voi! Non ho mai visto Levi così preso da una donna, è come analizzare una nuova specie animale, anzi no un gigante anomalo!»

«Ehm... non ne dubito. Ma nonostante apprezzi il tuo interesse Hange, ti chiedo di mantenere il massimo riserbo su questa faccenda».

«Tranquilla figurati, immaginavo non voleste sbandierare ai quattro venti questa piccante notizia. A dispetto della mia reputazione sono un’eccellente confidente» la rassicurò la Caposquadra, poi fulminea come un temporale estivo mutò piglio e tono «Ad ogni modo...siediti per favore, in tutta sincerità non ti ho fatta venire qui solo per il mio bagno di gloria»

Carol si accomodò un po' sorpresa su una delle due poltroncine di pelle consumata e scolorita che arredavano il salottino del laboratorio. Accettò di buon grado una tazza di tè offertale da Hange, sentendosi preda di un’improvvisa arsura.

«Questa mattina Levi è venuto da me» cominciò seria l’altra scrutando ogni minima variazione di espressione della ragazza.

«Abbiamo discusso a lungo su quanto ci attende a Shiganshina e siamo giunti ad una conclusione. Per quanto le preziose informazioni che hai condiviso con noi ci forniscano un vantaggio non indifferente, non possiamo tuttavia ignorare l'eventualità che la situazione non vada come previsto. E siamo certi che anche tu ne sia consapevole. Siamo entrambi d'accordo sul fatto che tu debba necessariamente sopravvivere e fare ritorno al tuo mondo. Pertanto... se le cose dovessero mettersi male, io e te approfitteremo della confusione creatasi e faremo ritorno qui al Quartier Generale»

Carol restò a fissarla sbigottita cercando di processare quanto avesse appena udito, mentre il calore del tè appena bevuto le risaliva al volto sciogliendosi in una violenta vampata.

Quanto accaduto con il Capitano aveva complicato le cose e questo già lo sapeva, ma non avrebbe mai pensato fino al punto da mettere a rischio l’operazione.

«Non potete permettervi di portare via dal campo di battaglia l'unica persona che conosce il corso degli eventi» replicò glaciale.

Lo sguardo di Hange quasi la perforò.

«Credi davvero che se tutto sfociasse in una carneficina la tua presenza sarebbe determinante? Tutt'altro, se vogliamo metterla sul piano dell'utilità allora è meglio che al primo accenno di pericolo tu riesca a salvarti, così da poter fornire le tue informazioni a chi sarà ancora in vita ed organizzare un nuovo attacco»

Carol si sentiva in un vicolo cieco, la capacità dialettica e l'arguzia della Caposquadra erano un avversario troppo grande per lei.

Ma forse aveva ancora qualche asso nella manica.

«Ciononostante Hange, il tuo ruolo in questa storia è troppo importante per essere ridotta a mera balia della sottoscritta» riuscì ad articolare sperando di sembrare più autorevole di quanto in realtà suonasse nella propria testa.

«Cosa intendi dire?»

«La tua presenza in battaglia è fondamentale, per gli eventi di domani e per quelli futuri. I tuoi compagni hanno bisogno di te, così come il mondo necessiterà della tua guida. Sei un personaggio chiave e se abbandonassi tutto per ricondurre me in città, quello sì che sarebbe un passo azzardato nonché una gigantesca incognita. Potremmo essere sorprese da giganti o da altri pericoli lungo il cammino e la tua eventuale morte arrecherebbe un immane stravolgimento alla trama. Mentre se manterrai la tua posizione a Shiganshina, sia che la missione abbia successo o fallisca il tuo ruolo nella storia rimarrà tale»

La donna sembrò tentennare a quelle parole, ponderandole con il raziocinio e la lungimiranza che l’avrebbero resa in seguito un’eccellente Comandante.

«Hai detto bene, è tutto un “se”. Neppure tu sei certa di quello che potrebbe accadere domani»

«Ma converrai che il modo migliore per evitare che la situazione degeneri è attenersi, per quanto possibile, al corso conosciuto degli eventi»

Hange trasse un pesante sospiro scuotendo il capo

«A Levi non piacerà affatto questo cambio di programma»

«Ecco perché non glielo diremo. La missione richiederà la sua massima concentrazione e ciò non può avvenire se continua a temere per la mia incolumità»

«D’accordo Carol, ma devi promettermi che non ti getterai in azioni sconsiderate. In ogni caso sappi che io analizzerò costantemente la situazione e se giudicherò che l’unico modo per garantire la tua sicurezza sarà portarti via, volente o nolente verrai con me»

«Va bene»

La donna annuì, poi si alzò dalla poltrona e Carol fece lo stesso.

«Comunque vadano le cose, sono contenta di averti conosciuta. Mi consola il fatto che se dovessimo cadere in battaglia la nostra storia non verrà dimenticata e mi piace pensare che rimarremo vivi nel tuo cuore. E non mi importa se siamo il frutto della fantasia di qualche strambo autore, io sono reale al cento per cento. Ma soprattutto io sola sono l’artefice del mio destino, non sarà una penna a decidere per me»

Carol provò grande soggezione al cospetto del vigore e della determinazione della Caposquadra, la stessa forza che poi avrebbe spinto quell’eroina a sacrificare la propria vita per rallentare l’avanzata dei colossali,permettendo all’idrovolante di decollare.

Non le serviva altra conferma che quello non fosse un personaggio fittizio ma una persona in carne ed ossa.

«L’importante è non avere rimpianti, giusto?»

«Mmm questa frase mi suona familiare, l’hai rubata ad un nanetto di nostra conoscenza?» l’assecondò la bruna sghignazzando.

Le due amiche scambiarono ancora qualche parola prima di salutarsi poi, quando la ragazza fece per aprire la porta del laboratorio, l’altra le rivolse un solenne ammonimento.  

«Carol, un’ultima cosa»

L’interessata si bloccò sul posto senza voltarsi, concentrandosi sul ticchettio ritmico dell’orologio a parete che come un rullo di tamburi anticipava un indesiderato colpo di scena.

«Se la spilla dovesse attivarsi nel bel mezzo della missione, qualunque cosa stia accadendo tu salterai in quel portale. È chiaro?»

Carol non riuscì a guardare Hange negli occhi, timorosa che essa vi avrebbe letto l’indecisione che a quell’affermazione le stava esplodendo dentro.
Capì che la Caposquadra aveva già intuito le sue intenzioni molto prima di lei stessa, altrimenti non avrebbe mai pronunciato quel comando perentorio.

«Agli ordini» ubbidì sommessamente a capo chino prima di chiudersi la porta alle spalle.








 
 
Carol se ne stava seduta sul letto della propria stanza vestita di tutto punto nella divisa della Legione, con le lame posate in grembo.
Aveva lo sguardo fisso su un fascio di luce che fendeva l'aria disegnando una piccola pozza arancio a terra proprio davanti ai suoi piedi. La polvere danzava liberamente dentro quel bagliore mentre l’ultimo sole colorava di calde tonalità l'ambiente.

Mancava poco alla partenza, era tutto ciò a cui la giovane riuscisse a pensare. 

Si accorse che la gamba destra era in preda ad una continua e cadenzata oscillazione; su e giù, su e giù, il piede sembrava una molla impazzita proprio come le capitava durante gli esami in università. Strinse l'impugnatura di una delle due spade scrutando nel freddo acciaio il riflesso del proprio volto contratto dall'ansia. Quanto avrebbe voluto essere anche lei resistente e forte come quell'invincibile metallo o mettere in ginocchio davanti a sé ognuna delle proprie paure e passarle a fil di spada.
Aveva compiuto così tanti progressi durante la sua permanenza sull'isola, era riuscita a superare limiti che non avrebbe mai pensato di valicare.

Eppure in quel momento si sentiva debole, terribilmente debole.

Percepiva i propri muscoli atrofizzati ed inermi come un informe ammasso di gelatina, completamente scollegati dalla volontà. 

Con uno sforzo che le sembrò immane si alzò dal letto, tastandosi la camicia per trovare la sua fedele compagna di viaggio: la spilla che ormai teneva perennemente appuntata al petto.

Era il suo unico effetto personale, non possedeva altro in quel mondo.

O forse si sbagliava.

Quasi senza pensarci gli occhi saettarono alla vecchia scrivania e le gambe si mossero automaticamente nella sua direzione. Aprì lo scricchiolante cassetto e ne estrasse il diario e lo stemma insanguinato perché sì, anche quegli oggetti ormai facevano parte di lei e li avrebbe portati con sé. 
Indossò la calda cappa verde con l'emblema delle Ali della Libertà e si diresse verso la porta.
Esitò un attimo con la mano posata sulla maniglia, gettando un ultimo sguardo nostalgico a quello che era stato il suo piccolo rifugio per quei sette giorni.
Era un'abitudine che l’accompagnava da quando ancora piccola aveva traslocato, e che aveva replicato anche prima di restituire le chiavi dell'appartamento in cui aveva abitato durante l'università. 

Lo considerava come un rito di passaggio, il completamento di un ciclo e l'inizio di uno nuovo.

Il modo di Carol per congedarsi da quelle avventure ed esperienze che ora sarebbero entrate a far parte del passato.

Perché nel momento in cui avrebbe varcato la soglia della stanza, chiudendosi la porta alle spalle, nulla sarebbe stato come prima.

Qualora fosse morta o avesse fatto ritorno a casa, non avrebbe più rivisto quella camera.

Se vi avesse rimesso piede al rientro dalla spedizione, comunque la Carol che avrebbe riposato in quel letto non sarebbe stata la stessa di adesso.

Così come la Carol di una settimana prima, che si asciugava le lacrime su quella federa stropicciata, era diversa dalla ragazza in completo militare in piedi sull'uscio. 

A conti fatti era come se ogni volta dovesse dire addio a sé stessa.

"Grazie" sussurrò a labbra socchiuse.

Poi abbassò la maniglia e dopo aver girato la chiave avanzò a grandi passi nel corridoio già illuminato dalle fiaccole. 
 
 






 
Tutti i soldati erano in fermento sulla cima delle mura, in attesa che i montacarichi li calassero dall’altro lato.
Carol rimase ancora una volta rapita dalla bellezza di quel vasto panorama scaldato dalla luce morente del sole che tramontava oltre l’orizzonte.
Silenzioso come sempre Levi le si accostò, spingendosi anche lui lontano con il proprio sguardo come a sondare la distesa di pianure e foreste che li separava dal Wall Maria.

«È sempre una vista mozzafiato, vero?»

«Sì, credo che non potrei mai stancarmene» rispose lei ed approfittando delle cappe che li celavano ad occhi indiscreti gli strinse la mano.

«Devo radunare gli altri, tu sei pronta?»

Era una domanda che le aveva posto spesso durante gli allenamenti quando si trovavano di fronte ad una sfida particolarmente complessa, eppure in quel momento suonò molto diversa alle orecchie di Carol. In essa vi percepì tutta la preoccupazione, l’amore e l’ansia che Levi stava vivendo. Sentimenti che alla luce della nuova intesa sviluppatasi tra i due giovani ora erano esplosi in tutta la loro potenza, rendendo ancora più arduo il tentativo di nasconderli agli altri, ma soprattutto a loro stessi.
Vedere Levi scendere a patti con questa ritrovata emotività le fece battere il cuore di gioia.

«Prontissima»

Il Capitano le rivolse un lieve sorriso, prima di allontanarsi con la sua solita camminata fluida e sinuosa verso il resto della squadra.

Per la maggior parte del viaggio avrebbero cavalcato insieme, si era infatti deciso di procedere mantenendo unita la formazione per fronteggiare eventuali attacchi da parte dei giganti in campo aperto.
Giunti in prossimità delle montagne attorno a Shiganshina il contingente si sarebbe poi diviso seguendo il piano prestabilito.

Nel frattempo ai piedi delle mura la popolazione si era radunata in massa, urlando a gran voce per salutare i coraggiosi eroi che avrebbero strappato le terre ai giganti.
Sasha, Connie e Jean erano completamente galvanizzati da quell’atmosfera carica di ammirazione e rispondevano a tono alle grida di incitamento.
Più perplessi erano invece gli altri militari, decisamente poco avvezzi a quell’insolita dimostrazione di stima verso il Corpo di Ricerca da parte del popolo.
Levi rimase piuttosto impassibile a quegli elogi sperticati, non si scompose nemmeno nell’udire alcune persone rivolgere lodi direttamente a lui.
La sua espressione mutò però radicalmente quando Erwin, in preda all’eccitazione, levò il pugno al cielo prorompendo in un fragoroso urlo che aizzò ancora di più la folla sottostante.

«L’OPERAZIONE DI RICONQUISTA DEL WALL MARIA HA INIZIO!» esclamò Smith sguainando la propria spada e con dipinta in volto la sua invincibile determinazione.

I membri della Legione ammutolirono di fronte alla magnificenza che trasudava da ogni poro di quell’uomo.
Carol fu certa che qualsiasi dubbio qualcuno dei presenti avesse mai avuto sulle capacità di comandante di Erwin, si fosse polverizzato in quell’istante.  
Quando pochi minuti dopo i montacarichi ebbero calato oltre le mura destrieri e soldati, le grida del popolo erano ancora bene udibili nonostante la spessa pietra che li separava.

Tutti erano in religioso silenzio in attesa di un ordine di Erwin, che ritto sul proprio purosangue in testa alla colonna scrutava la verdeggiante pianura davanti a sé.

L’adrenalina montava già nel corpo di una Carol ancora incredula di essere partecipe di quell’evento memorabile.

Con una voce che avrebbe fatto tremare anche la più solida catena montuosa, il Comandante Smith diede ufficialmente inizio a quella che sarebbe stata la più gloriosa delle missioni.

«SOLDATI AVANZATE!»

fu l’urlo di battaglia che riecheggiò nell’aria e nei cuori di tutti mentre avanzavano al galoppo verso l’orizzonte infuocato.

L’esaltazione era tale che in quel momento non esistevano più confini davanti a quegli uomini.

Solo il brivido di spronare al limite i propri corsieri, per afferrare il prima possibile la gloria eterna che erano certi li attendesse alla prossima alba.

Laggiù, a Shiganshina.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


                                                                                      14




“Il territorio del Wall Maria costituiva un terzo del territorio totale rimasto all’umanità. Cinque anni prima, dopo aver perso questo territorio, gli esseri umani chiusi dentro due sole cerchie di mura capirono una cosa.
Che non avevano più il diritto di vivere.

Questo perché gli uomini non potevano sconfiggere i giganti.
E fu così che la piccola lama celata dentro al cuore di un giovane uomo riuscì a trafiggere un gigante, facendo battere a terra la sua enorme testa.
Che effetto avrà avuto questo sui testimoni dell’evento?
Ci furono grida orgogliose.
Grida di grande speranza.
E altri urlarono pieni di rabbia.
Ma allora, una volta riconquistato il Wall Maria, queste persone che cosa proveranno?
Riusciranno ancora a credere nel fatto che l’umanità ha il diritto di vivere?
Arriverà mai qualcuno in grado di convincerli che l’umanità può decidere da sola del proprio destino, una volta riconquistato il Wall Maria?”
 



 
Il sole non era ancora sorto nel cielo e le ultime ombre della notte nascondevano l’avanzata del convoglio nel folto della foresta.
Carol si guardava attorno irrequieta, ponendosi in ascolto di ogni minimo rumore sospetto e stringendo saldamente le briglie di Stranger per darsi coraggio. Quando Levi il secondo giorno di addestramento l’aveva condotta nelle stalle per scegliere un cavallo, tra lei e quell’animale era scattata un’immediata chimica. Era un meraviglioso destriero dal manto bruno, mansueto nonostante la giovane età e l’ideale per lei che non era esperta di equitazione. Eppure, fin dalla prima cavalcata la ragazza aveva colto la furia e la grande tenacia che si celavano dietro quell’apparente docilità. Sentirlo al proprio fianco in quel frangente ed in perfetta sintonia con il proprio essere la tranquillizzava.

Era trascorsa circa mezz’ora da quando il contingente principale si era diviso dal gruppo capitanato da Levi, e da allora l’ansia non aveva fatto che crescerle in petto.

Aveva paura, per sé stessa, per Levi, per tutti loro.

Fin dall’inizio era sempre stata consapevole che la minima alterazione nella trama degli eventi potesse sconvolgere l’intera storia, lei in primis era una variabile importante ed inaspettata. Il suo arrivo sull’Isola di Paradis aveva già determinato cambiamenti che procedevano inarrestabili come i tasselli di un tortuoso domino. La sua decisione di condividere le informazioni con Erwin e gli altri ne aveva accelerato ulteriormente la corsa, senza contare ciò che era successo negli ultimi giorni.

Ora più che mai il futuro era un’incognita.

Poteva quasi percepirlo, quell’infido tarlo che non voleva saperne di abbandonare la sua testa, continuando ad instillarle il dubbio del fallimento.
Fallimento che, in quella circostanza, equivaleva ad una condanna a morte.
Non per lei forse, anche se non era sicura che l’appartenere ad un altro mondo l’avrebbe risparmiata da un eventuale decesso. Ma per tutti i soldati che camminavano al suo fianco, per quelli non ci sarebbe stato scampo.
Per sfuggire alla morsa delle proprie paure si aggrappò al bagliore emesso dalla lanterna che reggeva con la mano destra. La speciale gemma che vi era incastonata proiettava una discreta luce, agevolandole la marcia sul terreno accidentato. Un chiarore freddo, asettico, ben diverso dalla calda fiamma che aveva illuminato l’oscurità di quella notte trascorsa con il Capitano.
Per tutto il viaggio aveva cercato di ignorare lo sguardo di Hange puntato su di sé, come a volerle costantemente ricordare l’ordine che le aveva impartito nel suo laboratorio.
Non era sicura di come avrebbe agito se la spilla si fosse attivata durante la missione, sperava solo che ciò non accadesse, che quella decisione venisse rimandata ad un’altra circostanza.

Perché per quanto volesse fare ritorno a casa, in cuor suo sapeva che la scelta non sarebbe stata priva di tentennamenti.

«Grazie di badare anche al mio cavallo»

La voce di Eren le giunse quasi lontana, ma bastò a fornirle una via di fuga dall’ovattato raccoglimento in cui i propri pensieri l’avevano confinata.

«Devi conservare le tue energie, ne avrai bisogno» gli rispose Mikasa con tono apprensivo.

«Eh già, è proprio vero»

«Lei ha ragione, devi riposarti Eren» parlò Connie, venendo prontamente ripreso da Jean per l’imprudenza con cui aveva pronunciato quel nome ad alta voce.

«Devi sempre pensare che il nemico sia nei dintorni» aggiunse circospetto quest’ultimo, prima di dare l’allarme per l’avvistamento di un gigante.

«Va tutto bene, dorme come un sasso, non sembra uno di quei nuovi esemplari capaci di muoversi la notte. Un grandissimo peccato, lasciamolo stare» li tranquillizzò Hange vagamente delusa per l’incontro mancato. Solo lei poteva essere rattristata da una simile circostanza.

«Non l’abbiamo notato finché non ci siamo trovati ad un passo da lui» puntualizzò il ragazzo titano.

«Sì, hai proprio ragione» gli rispose seria la Caposquadra «Per fortuna è come se il velo della notte ci stesse proteggendo. Dopotutto sappiamo che la luna riflette la luce solare, avevamo ipotizzato che nuovi esemplari usassero la luce lunare come fonte di energia. Abbiamo fatto bene ad aspettare la luna nuova, non possiamo sapere se un evento simile si ripeterà ancora. Forse anche quello era uno dei giganti del chiaro di luna…è possibile. Il mio desiderio più grande è catturarne uno!»

Sul volto di Hange si dipinse l’espressione trasognata tipica di quando si parlava di scoperte scientifiche e di titani.  
Carol sospirò, quella donna era impossibile, persino in un momento di tensione come quello riusciva a pensare ai suoi esperimenti.

«Come mai stai tremando? Sei spaventato?» chiese Armin rivolgendosi ad un visibilmente preoccupato Eren.

«EH?! Ma che cosa stai dicendo!» sbottò l’altro, chiaramente infastidito da quella domanda che tuttavia non conteneva in sé alcuna accusa, ma solo un’amorevole preoccupazione.

«È ovvio che mi stai mentendo, vedo le tue mani tremare»

«Tremano perché ho tanto freddo! Ho le mani congelate dal freddo, va bene?»

«Quindi è per quello… perché io ho iniziato a tremare prima e non riesco a smettere. Guarda» Armin mostrò all’amico la traballante mano che reggeva la lanterna.

«Eren, in vita tua hai mai avuto paura dei giganti?» continuò poi sommessamente «Tutti hanno paura dei giganti, è una cosa normale. La prima volta che ho dovuto fronteggiarne uno da solo non sono riuscito a muovere un dito…eppure, in quel momento sei arrivato tu a tirarmi fuori dalla sua bocca. Eren spiegami, come sei riuscito a fare una cosa simile?»

Ci fu un attimo di silenzio, poi il moro si espresse con ritrovata calma.

«Mi era tornata in mente quella volta in cui tu mi facesti vedere quel libro»

Un sorriso distese le labbra di Carol, già a conoscenza dell’evolversi di quel monologo.

«Prima di allora non avevo mai pensato a cosa ci fosse al di fuori delle mura. Passavo i giorni a guardare il cielo e le nuvole…ma poi ascoltai le tue parole e vidi i tuoi occhi brillare. Eri entusiasta di inseguire il tuo sogno ed io non avevo nulla. Fu la prima volta in cui capii che non ero libero, che ero chiuso in una piccola gabbia dentro a un mondo enorme. La mia libertà mi era stata portata via da quelle creature e quando capii tutto questo lo trovai inaccettabile. Non so neanche io il perché, ma quando penso alla nostra libertà, sento le mie forze moltiplicarsi. Ti devo ringraziare, adesso sto meglio» i due amici si sorrisero a vicenda, le loro mani ormai non tremavano più.

Anche la ragazza si sentì alleggerita, nonostante la consapevolezza delle azioni future di Eren gettasse su quelle parole un sinistro significato.

«Magari l’anno prossimo a quest’ora staremo già guardando il mare»

Ed era vero, pensò Carol osservando la speranza accendere quegli splendidi occhi smeraldo, resi ancora più brillanti dalla luce azzurrina della lanterna.

L’atmosfera di quel giorno in riva al mare sarebbe però stata ben diversa da quella che i tre amici ora sognavano.

Dai lati del sentiero fecero la loro comparsa i dieci membri della terza truppa, quella che aveva avuto il compito di sorvegliare i movimenti di Pieck durante la traversata nella foresta.
La Caposquadra Marlene si accostò con discrezione ad Erwin che era in testa alla colonna, ma i due erano troppo lontani perché Carol potesse udirne i discorsi.

«Questo posto… mi è familiare» affermò improvvisamente Mikasa, mentre il resto del gruppo si fermò ad ascoltarla.

«Mi ricordo che sono… venuta qui a raccogliere legna»

«I piedi della montagna! Ci sono le tracce di una strada!» annunciò un soldato, a conferma delle parole della corvina.

«Allora… siamo quasi arrivati» Constatò Eren.

«Riesco a sentire il rumore del fiume» aggiunse Mikasa.

«Siamo arrivati, siamo tornati per davvero. Per la prima volta dal giorno della nostra fuga… siamo tornati nel nostro paese»

A Carol non sfuggì la trepidazione che colorò la voce di Armin.
Talmente presa dalle proprie angosce, non si era soffermata a riflettere su cosa significasse per quei tre ragazzini fare ritorno nella città dove erano cresciuti, e dove la loro infanzia era stata crudelmente spezzata.

Chissà quanto avevano agognato quel giorno, quella personale rivincita non solo sui giganti, ma sullo spietato destino che come la spada di Damocle si ostinava a gravare sulle loro teste.

Ed ora erano finalmente lì, al limitare del bosco dove le fronde degli alberi si aprivano, rendendo visibili ai loro occhi le prime rovine del distretto di Shiganshina.

«Montate a cavallo!» tuonò il Comandante Smith ed all'unisono i militari si issarono sui propri destrieri, spronandoli a tutta velocità verso la città fantasma.

La giovane ascoltava il cuore sbatterle contro le coste al ritmo serrato di quel galoppo, seguendo il battere degli zoccoli sulla vecchia strada lastricata.

«Fate attenzione ai giganti nascosti tra gli edifici! L’operazione comincia adesso, soldati passate al movimento tridimensionale!» ordinò Erwin in prossimità del cancello interno ed in un turbinio di gas il cielo si riempì di mantelli verdi, simili a tante foglie traportate dal vento.

Carol si coprì il capo con il cappuccio, abbandonandosi all’epicità di quel momento.
Fece fermare Stranger e mentre azionava il dispositivo di manovra, nella sua testa risuonò la colonna sonora che aveva scandito quella scena nell'anime. Il ricordo del solenne suono dei corni francesi le accese il sangue, accompagnandola nella risalita lungo le alte mura.
Una volta poggiati i piedi sulla solida pietra la bionda si accostò ad Erwin, osservando Hange e la sua squadra che partivano alla volta del cancello esterno.  Armin invece si arrestò sul posto, attirato dai segni del falò dei loro nemici Eldiani e fece segno a Smith di avvicinarsi.

"Ci siamo" disse tra sé la ragazza.

 Ora i giochi avevano inizio.

«Comandante, questi sono i segni di un fuoco, Berthold e Reiner devono essere vicini»

«Hai ragione, non possiamo ignorare questi resti. Vai in perlustrazione Armin e poi riferiscimi ciò che trovi»

Alle parole del Superiore il biondino si calò immediatamente dalle mura, sparendo alla loro vista.
Carol approvava la decisione di Erwin di mantenere invariata quella sequenza degli eventi, benché fosse già stato informato dell’ubicazione di Reiner. Egli aveva infatti compreso l'importanza di quell’opportunità per il ragazzino, che poteva in questo modo accrescere la fiducia nelle proprie capacità di leader e stratega.
Vedere il Comandante nutrire così tante speranze in Arlert lo nobilitò ancora di più agli occhi della giovane.

Ovviamente sarebbero stati comunque pronti ad agire: in assenza di Levi, che ormai doveva essere in posizione con la propria squadra nella foresta, il compito di attaccare Reiner era stato affidato a Grime. Si trattava di uno degli ultimi capisquadra rimasti, lo stesso a cui si attribuiva il merito di aver organizzato la grigliata della sera precedente, acquistando la carne dalla Compagnia Reeves.
Dato che nella storia originale nemmeno il Capitano era riuscito a decapitare il Guerriero, e vista la necessità di catturarlo vivo, si era deciso di non impedirne la trasformazione.
Due soldati scelti, arpionati alle mura in due punti vicini al nascondiglio di Reiner, avrebbero sorpreso quest’ultimo dai lati mirandone alla mandibola con le lance fulmine. Grime sarebbe quindi piombato su di lui dall’alto, infilandosi nella bocca aperta del Corazzato e facendone così saltare la nuca. Con il corpo di Reiner troppo impegnato nella rigenerazione per ritrasformarsi, sarebbe poi stato facile immobilizzarlo del tutto recidendone gli arti.

Carol sperava che, mettendo subito fuori gioco Reiner e Zeke, si potesse tentare di arrivare ad un qualche accordo con i Guerrieri di Marley, scongiurando così la disfatta di Shiganshina.

E con essa quella del mondo intero.

La sua ansia non sfuggì all'occhio esperto di Erwin, che le pose la mano sulla spalla in un incoraggiamento silenzioso.

«Marlene mi ha riferito che, come avevi previsto, il Gigante Carro ha seguito i nostri spostamenti durante l’intera marcia nel bosco. Quando poi eravamo ormai vicini alla città ha cambiato direzione, ricongiungendosi con i suoi compagni anch’essi nascosti al limitare della foresta»

«Quindi Levi e la sua squadra sono riusciti a passare inosservati» dedusse Carol tirando un sospiro di sollievo.

«Sì, abbiamo mantenuto l’attenzione dei nemici sulla schiera principale. Ora non ci resta che aspettare che facciano la loro mossa»

Entrambi tornarono a volgere l'attenzione verso la città, in attesa.

Due fumogeni verdi solcarono il cielo in lontananza, dando la notizia che la breccia esterna era stata sigillata con successo ed avvisando del ritorno di Eren e gli altri per richiudere quella interna.

«Abbiamo chiuso il cancello esterno» osservò il Caposquadra Klaus «Continuo a non approvare la scelta di perdere questo tempo prezioso, secondo me avremmo dovuto concentrarci subito su Braun, in fondo sappiamo già dove si trovi…»

«Agli altri soldati non sono state fornite le informazioni in nostro possesso, inoltre dobbiamo procede in questo modo per non insospettire i nemici. La sola conoscenza ci fornisce un vantaggio strategico non indifferente e dobbiamo sfruttarlo al meglio. Se attaccassimo subito il Corazzato non sappiamo come potrebbero reagire i suoi alleati. Stando al loro gioco invece possiamo anticiparne le mosse. Ponderare le azioni del nemico, studiare bene la situazione, fargli credere di averci in pugno e solo allora colpire» spiegò analiticamente Erwin.

«Non mi è mai piaciuto giocare al gatto e topo» sbuffò Klaus ancora perplesso sul da farsi.

«Forse, dopo tanti anni passati come topi è finalmente giunto il nostro momento di ribaltare i ruoli di questa caccia» ipotizzò Smith azzardando una smorfia beffarda, poi proprio in quel momento Armin risalì le mura.

«Ho ispezionato la zona e ci sono davvero le tracce di un accampamento. Per terra c’erano degli oggetti, ma il bollitore era già freddo. Hanno bevuto qualcosa di simile a un tè, ho trovato tre tazze con i resti di un liquido nero sul fondo… Quindi c’erano almeno tre persone sulle mura» riferì il giovane soldato, con il fiato ancora corto.

«Hai detto che il bollitore per terra era freddo» considerò il Comandante.

«Esatto»

«Questo è molto strano»

«Già»

«Ma… perché è strano?» si intromise stupito Klaus, non riuscendo a seguire il sottile ragionamento di quelle menti acute.

«Siamo arrivati a tutta velocità sui nostri cavalli e usando dispositivi di manovra. Supponendo che si siano accorti che noi eravamo diretti qui, avevano solo due minuti per reagire. Un bollitore non si raffredda completamente in così poco tempo, devono averci individuati almeno cinque minuti prima del nostro arrivo così hanno avuto tutto il tempo di cui avevano bisogno per prepararsi» spiegò Erwin allo sbigottito Caposquadra.

«Non capisco…ma come hanno fatto?»

«F-Forse c’erano altre sentinelle oltre alle tre persone qua sulle mura, quindi dobbiamo pensare che i nemici in agguato siano più numerosi, è così?» osservò Armin dando voce ai propri pensieri.

«La priorità adesso è individuare la posizione del nemico. Senti Arlert, la tua mente ci ha salvato più e più volte da questo tipo di situazioni. È il momento in cui ne abbiamo maggior bisogno. Puoi prendere tutti gli uomini che ti servono, scopri se il nemico si nasconde vicino al cancello interno» dispose Smith richiamando alcuni dei soldati.

«Da questo momento risponderete agli ordini di Armin Arlert, le ricerche cominciano ora!»

Carol assistette alla scena in silenzio, lo sguardo fisso sul ragazzino che in quel momento sembrava non credere alle proprie orecchie.

«AGLI ORDINI!» risposero all’unisono i militari dopo un breve attimo di esitazione, prima di accerchiare un ancora più scombussolato Armin chiedendogli istruzioni.

«Abbiamo ispezionato ogni angolo delle mura!»

«Dicci cosa dobbiamo fare e lo faremo!»

«Dividetevi in due gruppi e ispezionate tutti gli edifici che si trovano vicino al cancello. Se c’è qualcosa usate un segnalatore acustico. Pe-per favore» impartì titubante il biondino e subito la squadra si lanciò in perlustrazione sulla città, seguita poi da lui stesso.

«Un’altra scommessa azzardata» Fu lo scettico commento di Klaus una volta rimasti soli sulle mura.

«No, so cosa è in grado di fare. Lui è una delle armi migliori a nostra disposizione» ribatté lapidario il Comandante e Carol fu grata che Armin potesse contare sulla piena fiducia di quel leggendario militare.

«Eren sta tornando per il secondo cancello, che cosa facciamo? Sospendiamo l’operazione finché non troviamo il nemico?»

«No procediamo. Abbiamo poche possibilità di vittoria in uno scontro prolungato. La nostra unica speranza in territorio nemico è uno scontro breve. E se questo fa parte del piano dei nemici allora staremo al loro gioco, non ci rimane altra scelta»

Erwin spostò poi lo sguardo su Carol

«In ogni caso, loro non sono gli unici ad avere dei segreti»

La ragazza avvertì dei brividi simili ad una scarica elettrica percorrerle la spina dorsale, sentendosi improvvisamente nuda ed indifesa di fronte a quegli occhi celesti che la squadravano temibili quanto quelli di un rapace.

Un segnale acustico precedette il ritorno di Arlert ed i soldati si radunarono nuovamente sulle mura chiedendo spiegazioni.

«Dove sono i nemici?»

«Li hai trovati?»

«Non ancora, ma perlustrate tutti le mura!»

I militari non sembravano d’accordo con quell’ordine, facendo notare di aver già controllato ogni angolo possibile.

«Sono dentro le mura!» li zittì il ragazzino «Sono sicuro che c’è uno spazio in cui le persone possono trascorrere del tempo»

«E chi ti ha detto che sono lì dentro?» gli domandò perplesso un veterano.

Armin abbassò lo sguardo, esitante.

«Il mio istinto»

A quelle parole l’uomo reagì malamente afferrandolo per il colletto.

 «Ti rendi conto che la situazione in cui ci troviamo è molto grave? Non abbiamo tempo per le tue sciocchezze!»

Carol non poté biasimarlo, dopotutto stavano chiedendo a quei soldati una grande prova di fiducia.

Ma il giovane non si scompose.

«No devi ascoltarmi! I nemici sono sempre riusciti a metterci alle strette con l’enigmatico potere dei giganti, non possiamo permettere che il nostro buon senso ci blocchi o non riusciremo mai a batterli! Avete capito?»

In quel momento un fumogeno rosso, il segnale di sospensione dell’operazione, venne sparato.

Tutti si voltarono sbalorditi verso Erwin, il quale si espresse con un’autorevolezza che non ammetteva repliche.

«C’è un tempo per la rigidità e uno per la flessibilità, fate tutto seguendo i principi e le regole del buon soldato. La gerarchia di comando va rispettata, noi siamo venuti qui per vincere una battaglia»

Come incoraggiato dalla stima che il Superiore mostrava nei sui confronti, Armin diede nuovamente ai soldati l’ordine di ispezionare attentamente la parete delle mura.
Carol notò con piacere che nella sua voce non c’era traccia dell’esitazione di poco prima, davanti a sé riusciva davvero a scorgere il quindicesimo Comandante del Corpo di Ricerca e non poteva esserne più orgogliosa.

Mentre osservava i militari esaminare la facciata di pietra, la ragazza contava i secondi che li separavano dall’inizio della battaglia.

«Qui! Qui dietro c’è qualcosa!» gridò un commilitone sparando il segnale acustico.

Erwin lanciò un'occhiata a Grime che, già allerta, si mise in posizione di attacco.

Carol trattenne il respiro.

In un attimo Reiner uscì dal nascondiglio, colpendo il veterano che aveva fatto la segnalazione.

Quando avevano pianificato la strategia, la giovane aveva espresso la volontà di risparmiare quella vita innocente.
Ma Erwin era stato chiaro: se non volevano destare sospetti e rendere credibile la messa in scena, quello era un sacrificio che non poteva essere evitato. Era stata però disposta la presenza di un membro della squadra medica, così da poter attendere nell’immediato alle ferite del soldato, che infatti venne prontamente recuperato prima di impattare al suolo.

Ed in quella frazione di secondo, mentre tutti erano in attesa della prossima mossa del Guerriero egli, contrariamente a quanto Carol si sarebbe aspettata, invece di trasformarsi si scagliò su Armin.

«NO!» urlò lei terrorizzata, la voce strozzata dal panico.

Braun immobilizzò il gracile amico con facilità, puntandogli una lama alla gola.

«Se provate anche solo a mettervi in mezzo, lo uccido» minacciò rivolto al resto della truppa.

Carol non sapeva cosa fare, le gambe le tremavano di fronte alla concreta possibilità di aver fallito ed aver messo ancora più in pericolo quegli uomini.

«Davvero vuoi uccidere uno dei tuoi preziosi compagni, Reiner?» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, attirando su di sé l’attenzione dell’interessato.

Lui alzò la testa nella sua direzione, assottigliando lo sguardo per mettere a fuoco quell’esile figura che lo stava apertamente sfidando.

Anche gli altri soldati, Erwin compreso, la guardavano in attesa.

«Per tre lunghi anni Armin e gli altri sono stati la tua famiglia, ti hanno guardato le spalle in battaglia e lo stesso hai fatto tu con loro. Avete condiviso i vostri sogni, le vostre paure, siete cresciuti insieme. Non deve finire così Reiner, lo so che tu non vuoi questo» proseguì la giovane facendo appello a tutta la calma che possedeva. 

Ma la volontà del Guerriero sembrava non volersi piegare all’affetto che provava per i vecchi amici, e per tutta risposta premette ancora di più l’acciaio contro il sottile collo di Armin.

Quando un rivolo di sangue corse lungo quella pelle candida, Carol capì di doversi spingere oltre.

«Se lo uccidi, noi non ti lasceremo farla franca. Morirai qui Reiner, e non potrai fare ritorno alla tua terra. Non è forse questo il tuo più grande desiderio? Non vuoi rivedere tua madre Karina e tua cugina Gabi?»

Attorno a lei calò il silenzio, solo il vento osava fischiare sulle alte mura, incurante di quella tensione che si poteva tagliare con un coltello.

«C-Cosa hai detto?» balbettò attonito il suo interlocutore, fissandola impietrito ad occhi spalancati.

Approfittando di quell’attimo di esitazione in cui Reiner aveva allentato la presa, Armin premette entrambi i grilletti sganciando così i rampini dalla pietra, e spingendo via il braccio del ragazzo si lasciò cadere verso il basso.

Grime a quel punto agì d’istinto e scaraventandosi sul Guerriero lo infilzò al collo, con la medesima tecnica adottata da Levi nell’anime.

Carol sapeva già che sarebbe stato inutile, data l’abilità del titano di trasferire la propria coscienza lungo il midollo spinale.

Osservò Reiner contorcersi al suolo come un insetto in agonia, in preda agli spasmi della trasformazione.

Preceduto da un bagliore accecante davanti ai loro occhi si stagliò il Corazzato, pronto a combattere ed ancora più determinato a sterminare tutti loro dopo le parole pronunciate da Carol.

«Ispezionate i dintorni, individuate il resto dei nemici!» urlò Erwin sguainando la spada.

In quell’istante una serie di potenti lampi simili ad esplosioni illuminarono l’orizzonte alle spalle del Comandante.

E laggiù, in mezzo alla fila ordinata di giganti che si era appena delineata, fece la sua comparsa Zeke Yeager.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


                                                                                15



Salve a tutti! Mi scuso per il ritardo con cui sto aggiornando e spero che i “pochi ma buoni” che ancora seguono il mio racconto siano ancora presenti. Volevo fare una piccola precisazione che mi ero dimenticata di aggiungere nel capitolo precedente. Dal momento che nel manga e nell'anime non viene indicato il nome del Caposquadra che organizza la famosa grigliata, e avendo appunto necessità di citarne il personaggio per esigenze narrative, mi sono presa la libertà di chiamarlo Grime (spero che Isayama non si arrabbi :D). Per ora è tutto, vi ringrazio per l’attenzione e buona lettura!








 
“Ci siamo”

Constatò tra sé Levi quando dal ramo su cui era appostato vide uscire dalla foresta una ventina di persone.
Le osservò disporsi formando un cordone orizzontale in mezzo alla piana erbosa in cui regnava un completo silenzio.
Non sembravano soldati, da essi non traspariva il classico portamento tronfio e militare, avanzavano con la testa china ed il dorso curvo come se portassero sulle loro spalle uno zaino carico di pietre.

L’immagine più calzante che gli venne in mente fu quella dei condannati diretti al patibolo, talmente rassegnati alla propria morte da essere già cadaveri prima ancora che essa sopraggiungesse.

E ben presto si sarebbe accorto di quanto quell’impressione non fosse affatto sbagliata.

Quando tutti loro ebbero preso posizione, il barbuto biondo che si trovava al centro di quella fila ordinata emise un potente grido.
Il Capitano dovette schermarsi gli occhi tanto era accecante la luce che ne seguì.
Davanti a lui numerosi giganti di varia grandezza presero il posto degli uomini di poco prima e per quanto Levi avesse assistito molte volte agli esperimenti di Eren, queste trasformazioni gli fecero un effetto del tutto diverso.

A differenza dei mutaforma infatti quei giganti semplici sarebbero stati confinati per sempre in quello stato, senza più un briciolo di umanità, nessuna facoltà intellettiva, nessun raziocinio.

Solo la feroce fame di cibarsi di altri esseri umani.

Tornò con la mente al giorno in cui Hange aveva sottoposto a lui ,Erwin e Pixis l’ipotesi che quelle orripilanti creature fossero in realtà persone. E proprio come allora il pensiero di quante vite erano state troncate in questa folle guerra gli fece venire la nausea.
Non si trattava più di fare un bilancio tra quanti mostri erano stati abbattuti e quante perdite aveva sostenuto il genere umano.

Le vittime appartenevano tutte alla stessa stirpe, fin dall’inizio si era trattato di uno scontro tra esseri umani.

Lui stesso aveva da sempre ucciso esseri umani.

Forse, convenne con amarezza, il titolo di “Assassino più forte dell’umanità” gli calzava meglio.

Chissà se lo avrebbero osannato ancora in patria una volta scoperta quell’amara verità.

Ma, ironia della sorte, non poteva comunque lasciarsi sopraffare dal senso di colpa, la missione richiedeva il suo distaccato e freddo temperamento.

Il proprio istinto lo spinse a canalizzare quel rancore verso il barbone che ora aveva rivelato la sua forma titanica.

Eccola finalmente, la ributtante scimmia di cui tanto aveva sentito parlare.

Il gigante Bestia.

Levi era ben consapevole di quanto il fattore tempo fosse di vitale importanza in quel frangente.
Bisognava agire prima che quello stronzo scagliasse il macigno, altrimenti i compagni che già si trovavano sulle mura, così come lui stesso e la truppa al proprio seguito, sarebbero rimasti intrappolati ed impossibilitati ad usare i cavalli.
Al segnale del Capitano i soldati planarono silenziosamente sul terreno, sparpagliandosi a ventaglio alle spalle di quegli esseri ancora ignari della loro presenza.
Lui si scagliò senza tante cerimonie sul Bestia recidendogli con un colpo secco i tendini delle caviglie e facendolo crollare rovinosamente a terra.
Poi con un guizzo fu sopra la sua testa, accecandolo.
Non seppe spiegarsene il motivo ma il mettere al tappeto quella scimmia gli procurò un’enorme soddisfazione.
Il gigante si dimenava urlando a squarciagola, probabilmente incapace di comprendere appieno ciò che stava succedendo, tanto erano fulminei i movimenti di Levi.
Infine puntò alla nuca, dilaniandola con precise raffiche di fendenti.
E quando sotto quella spessa pelliccia intravide il corpo dell’ospite, lo afferrò per i capelli estraendolo dal groviglio di tendini sanguinolenti.
Zeke rantolava per il dolore, ancora stordito dalla furia di quell’attacco.

«E smettila di fare tanto baccano, barbone» esclamò stizzito il corvino mentre troncava gli arti di quella sudicia creatura per impedirne una nuova trasformazione.

Si guardò intorno, i suoi sottoposti erano a buon punto con l'uccisione dei giganti, la minaccia sembrava scongiurata.

Improvvisamente però una strana nebbia che sembrava giungere dalla foresta iniziò a propagarsi attorno a loro, riducendo di molto la visibilità. I militari, ad eccezione di Levi, cominciarono a tossire coprendosi istintivamente il volto per proteggersi da quell’insolito vapore.

«Capitano ma che succede?»

«Signore, non si vede più nulla!»

«È opera tua vero, bastardo?» ringhiò il Capitano affondando ancora di più la spada nel petto di Zeke.

«Lo vedrai» gli rispose l’altro sogghignando mentre sputava sangue.

Levi era spaesato, Carol non aveva fatto menzione di una potenziale arma segreta, forse perché nemmeno lei ne era a conoscenza.

Ma di cosa si trattava esattamente?

I suoi dubbi furono presto fugati non appena Zeke lanciò un altro urlo a pieni polmoni.

Nell'attimo di un respiro la grigia foschia fu illuminata dagli inconfondibili bagliori gialli delle trasformazioni.

Levi assistette impotente all’agghiacciante spettacolo dei propri compagni che venivano sfigurati, la pelle dei loro corpi umani che si lacerava lasciando il posto alle grottesche fattezze dei giganti.

Ora era completamente solo, in territorio pianeggiante e circondato da fin troppi titani.

Una situazione di merda persino per un soldato abile quanto lui.

Non poteva far tornare alla normalità quegli uomini e non c’era modo di fronteggiare da solo tutti quei giganti, doveva mettersi in salvo. Portarsi appresso il barbone era escluso, l’avrebbe rallentato rendendolo facile preda di quelle bocche fameliche e benché ne avesse il bruciante desiderio, non poteva ucciderlo seduta stante poiché Carol era stata chiarissima su quel particolare.

«Merda» sibilò a denti stretti.

Quella parte della missione era andata a puttane, non poteva fare altro che ritirarsi verso le mura e riunirsi con il resto dell’esercito.

Lanciò un ultimo sguardo d’odio verso Zeke, il cui corpo aveva già avviato la rigenerazione, e fischiò forte per richiamare il proprio cavallo nascosto nel bosco. 
Quando il destriero emerse dal margine della foresta Il Capitano gli montò in groppa e partì a rotta di collo verso le rovine della città. Stranamente i giganti non si erano lanciati al suo inseguimento, ma anzi se ne stavano fermi come in attesa di ricevere ordini che sicuramente sarebbero giunti dal Bestia.

Mentre cavalcava all’impazzata sentiva un’immensa rabbia montargli dentro.

Quel mostro aveva ammazzato i suoi sottoposti, dei valenti soldati che avevano votato la propria vita all’umanità.

Ma li avrebbe vendicati, tutti loro.

L’ennesimo giuramento che si aggiungeva alla lista di anime di cui Levi doveva onorare la morte, anche a costo di sacrificare sé stesso.
 







 
 
Carol si dimenticò per un attimo di Reiner e volse l’attenzione a Zeke stringendo con forza la spilla appuntata al cuore. Quando vide i giganti accasciarsi a terra uno dopo l’altro, capì che Levi e la sua squadra erano entrati in azione e si concesse di respirare.
Ma non c’era tempo per godersi lo spettacolo, dovevano ancora occuparsi del Corazzato che in quel momento si preparava a prendere la rincorsa per risalire le mura.
Quando questo ebbe artigliato la parete di pietra Erwin diede il segnale ai due soldati scelti della squadra Grime, i quali si portarono ai lati del titano per scagliare le lance fulmine.
Entrambi i colpi andarono a segno, frantumando la mandibola di Reiner che per il dolore perse la presa sul muro cadendo all’indietro. Fu poi il turno di Grime,il quale centrò il bersaglio con altrettanta precisione, tanto che a seguito dell’esplosione il corpo del Guerriero venne scaraventato fuori dalla nuca del suo gigante. I soldati circondarono quindi il malconcio traditore ormai fuori combattimento, immobilizzandolo a terra.

Dall’alto delle mura si levò l’urlo di vittoria degli altri militari e anche Carol esultò in cuor suo.

Ma l’euforia durò poco.

Quando si voltò verso Smith si raggelò nel vederlo improvvisamente sbiancato.

E di fronte alla comparsa dei lampi di nuove trasformazioni che brillavano dietro una grigia foschia, comprese immediatamente la ragione di tale turbamento.

“Non è possibile” pensò terrorizzata.

Il respiro le si mozzò in gola alla vista di una figura lontana che emerse a cavallo dalla nebbia, procedendo spedita in direzione delle mura.

“Fa che sia lui ti prego” implorò silenziosamente cercando di mantenere il proprio contegno, nonostante i suoi muscoli fossero un fascio di nervi ed il battito sordo del cuore le rimbombasse nelle orecchie.

“Ti prego”

Quando la distanza si ridusse e fu in grado di riconoscere destriero e cavaliere, Carol si lasciò cadere sulle ginocchia sospirando profondamente.
Anche Erwin fu altrettanto sollevato nel vedere ritornare il suo più fidato sottoposto, il suo migliore amico, sano e salvo.

Quando il Capitano atterrò sulle mura la ragazza gli corse incontro gettandogli le braccia al collo e stringendolo a sé il più possibile, come se da un momento all’altro egli potesse svanire. Levi rispose a quell’abbraccio con altrettanta enfasi, affondando il viso nei capelli di lei e respirandone a fondo il profumo.

«Sei ferito?» chiese Carol con apprensione, scostandosi quanto bastava per controllarne le condizioni ed osservandone la divisa sporca di sangue e polvere.

«No tranquilla» la rassicurò lui, la voce ancora affannata per lo sforzo.

«Levi, cosa è successo agli altri?» si intromise serio il Comandante, interrompendo quel breve scambio di battute.

La giovane aveva paura di conoscere la risposta a quella domanda, poiché la nube di poco prima poteva significare una cosa sola.

«Avevamo quasi sterminato i giganti, io ero riuscito ad abbattere il Bestia, c’eravamo quasi Erwin» iniziò a fare rapporto il corvino, le nocche strette fino a sbiancare e la mascella contratta «Poi dal bosco ha iniziato a salire una fitta nebbia, non si vedeva più nulla ed i soldati tossivano violentemente. Lo scimmione ha lanciato un urlo e in un attimo sono comparsi nuovi giganti»

I militari all’ascolto reagirono sconvolti di fronte a quella tragedia e solo Erwin non si scompose, ritto nel suo stoicismo, gli occhi ancora fissi sul proprio vice.

«Erano troppi, non ho avuto altra scelta se non quella di ritirarmi. Ho fallito»

Il Comandante gli si avvicinò e gli pose una mano sulla spalla per confortarlo.

«No Levi, hai agito nella maniera più giusta e razionale. Avremo modo di piangere i nostri morti quando torneremo a casa, ora concentriamoci sul resto della missione»

I due si scambiarono un’occhiata di assenso ed in essa Carol poté cogliere ben più del semplice paternalismo tra un superiore ed il suo sottoposto.

In quello sguardo c’era tutto l’affetto e la fiducia che due grandi amici, due fratelli, provavano l’uno per l’altra.

Smith si rivolse poi a lei, in una muta richiesta di spiegazioni che tuttavia non sottintendeva alcuna accusa.

«Io… non ne sapevo nulla Erwin. Questa evenienza mi era sconosciuta»

«Ti credo Carol. L’imprevisto a quanto pare è il prezzo da pagare quando si cerca di cambiare la storia» rispose lui malinconico scuotendo il capo.

Si concentrarono sul limitare del bosco, dove la nebbia ormai dissolta lasciava intravedere Zeke pronto a lanciare il famigerato macigno.
Nell’arco di pochi secondi un potente fragore e le urla spaventate dei militari accompagnarono l’impatto del masso contro la parete di pietra. Una porzione della base delle mura si sbriciolò collassando su sé stessa e bloccando completamente l’apertura del cancello interno.

«Ci ha mancati!» Fu l’ingenua affermazione di una giovane recluta.

«Niente affatto, ha mirato con intelligenza» osservò mestamente Erwin «Ha fatto in modo che i nostri cavalli non possano passare il cancello. Vogliono privarci dei cavalli e circondarci, così saremo bloccati qui dentro mentre ci stermineranno. Abbiamo entrambi lo stesso desiderio, chiudere i conti una volta per tutte. L’umanità e i giganti, chi sopravvivrà? E chi morirà?»

Le parole del Comandante vibrarono nell’aria mentre in Carol cresceva sempre di più il sospetto di essersi illusa, e che la storia si stesse ripetendo senza che lei potesse porvi rimedio.

Una semplice spettatrice, questo era? A che scopo dunque mandarla in quel luogo ed in quel preciso momento se era destinata a soccombere dinnanzi al fato?

Ad un tratto si accorse che qualcuno le aveva afferrato la mano, volse lo sguardo alla propria sinistra e trovò gli occhi di Levi che la scrutavano impensieriti.

No, il suo viaggio non era stato inutile. Il calore di quella stretta e quelle profonde iridi metalliche erano lì a ricordaglielo.

Una certezza che si promise di non dimenticare.

Sorrise quindi in risposta a Levi con ritrovata forza.

Zeke emise un’altra delle sue urla bestiali ed i giganti più piccoli, che fino a quel momento erano rimasti immobili, presero a correre a tutta velocità verso le case.
I soldati rimasero a fissare inorriditi quella moltitudine di corpi tozzi e dalle movenze sgraziate, sapendo che non c’era altra scelta se non combattere contro i loro stessi compagni.

«Arrivano! Giganti di classe 2-3 metri in avvicinamento!» avvisò Hange che nel frattempo aveva fatto ritorno con la squadra.

Carol spostò l’attenzione su Erwin che in quel momento aveva il capo abbassato in chiaro atteggiamento di riflessione. Ora che parte del piano era andata in frantumi solo lui poteva riprendere in mano le redini della situazione.

Dopo quella che parve un’attesa interminabile, l’uomo riportò lo sguardo verso l’orizzonte.

Il Comandante Smith aveva elaborato la sua strategia.

«Oh, finalmente ti sei deciso a parlare. Ma prima mi sarebbe piaciuto fare colazione» fu la battuta sarcastica del Capitano.

«Ascoltate! Squadre Dirk e Marlene, raggiungete la squadra Klaus e proteggete i cavalli. Squadre Levi e Hange, recatevi al centro della città e preparate il necessario per mantenere immobilizzato il Corazzato. Utilizzate le lance fulmine o qualsiasi altro mezzo e portate a termine la vostra missione! La sopravvivenza dell’intera umanità dipende da questo momento e da questa battaglia. Ancora una volta, OFFRITE I VOSTRI CUORI PER L’UMANITÀ!» la voce di Erwin riscosse anche gli animi più timorosi, riecheggiando autorevole e perentoria come era sempre stata «Dovete avanzare restando sempre protetti dalle pareti degli edifici perché il Bestia potrebbe scagliarvi addosso altre pietre, mi avete capito?»

«SIGNORSÍ»

I soldati si lanciarono verso i rispettivi obiettivi con la foga di chi non solo è ligio al dovere, ma ha piena fiducia nella missione a cui ha votato la propria vita.

Prima di calarsi dalle mura Hange si portò l’indice ed il medio davanti agli occhi, rivolgendoli poi verso Carol.

Quest’ultima annuì, dandole segno di non aver dimenticato il loro patto.

Che volesse o meno tenervi fede, quello era un altro conto.

«Levi, Armin aspettate» li bloccò Smith «A differenza della tua squadra tu sei da questa parte Levi»

«Quindi devo proteggere i cavalli e non Eren?»

«Esatto. E al momento opportuno ti occuperai di lui» la lama del biondo luccicò al sole mentre era puntata in direzione del Bestia.

«Hai già dimostrato di essere l’unico in grado di portare a termine questo compito. Inoltre, per qualche strana ragione la nebbia non ha avuto effetto su di te… quindi sembrerebbe che solo tu possa avvicinarti a quella creatura senza correre il rischio di essere trasformato»

«Sì ricevuto. Prima ho fallito, ma ora mi prenderò la mia rivincita su quel bastardo» asserì l’altro osservando Zeke con fare sprezzante.

Chiunque fosse il destinatario di quello sguardo truce poteva dirsi spacciato, il Capitano Levi era decisamente un uomo da non inimicarsi.

Ma quando si rivolse a Carol la sua espressione cambiò radicalmente.

«Ci vediamo dopo» le sussurrò premendo la propria fronte contro quella di lei in un gesto colmo di tenerezza, ormai incurante che gli altri li potessero vedere.

«Sarà meglio» ribatté lei, cercando di nascondergli la paura che le stava rodendo le viscere.

Lui sdrammatizzò con un sorriso sghembo e poi in un movimento fluido scomparve nel vuoto.

«Erwin…» parlò Carol con gli occhi ancora fissi sulla figura del Capitano, che ora si muoveva sui tetti delle abitazioni sottostanti «Dobbiamo allontanare subito Reiner dalle mura, perché se dovesse in qualche modo chiamare Berthold l’esplosione che ne deriverebbe ci ucciderebbe tutti»

«Hai ragione e questo ci porta a te, Arlert»

Sentendosi preso in causa il ragazzino sussultò. Era rimasto in disparte in attesa di ordini e guardava Carol con circospezione, memore delle parole che la giovane aveva usato con Reiner poco prima.

«Armin, questa battaglia deciderà le sorti dell’umanità. Affido il comando di una delle sue fasi a te e ad Hange. Recati dalla squadra Grime e riferisci loro di trasportare Braun verso la posizione di Eren e gli altri. Accompagnali tu e assicurati che tutti sappiano che il Corazzato non deve avvicinarsi alle mura»

Arlert indirizzò un’ultima occhiata inquisitoria alla ragazza, poi si congedò rispettosamente con il Superiore e si dileguò.

Carol indugiò sulla minuta figura di Armin, rammaricata per averne perso la sua fiducia. Quelle biglie azzurre che qualche giorno prima sotto l’ombra dell’acero le si erano rivolte con stima e affetto, ora la scrutavano con diffidenza.

Con il cuore in tumulto si accostò ad Erwin per controllare lo svolgersi della battaglia sotto di loro; nell’aria risuonavano i versi strozzati dei giganti ed il rumore di quelle nude carni che venivano affettate.

Udì Levi intimare i propri sottoposti a non morire, una preghiera più che un ordine che si perdeva nel concitato frastuono di quel momento.

«Stanno avendo difficoltà contro i classe tre-quattro metri e ci sono già stati diversi feriti. La forza del Corpo di Ricerca non è più quella di una volta. Ma senza tutte quelle perdite... non saremmo mai arrivati al punto in cui siamo ora» il Comandante parlava con voce atona, forse rivolto più a sé stesso invece che ad un interlocutore.
«Durante l'addestramento, parlavo spesso agli altri della teoria pensata da me e mio padre. Volevo entrare nel Corpo di Ricerca per dimostrarla. Ma dopo esservi entrato, per qualche motivo smisi di parlarne del tutto. Anzi no... So bene quale fu il motivo, mi accorsi di una cosa. Solo io... stavo combattendo per me stesso. Solo io... stavo inseguendo il mio sogno. In un lampo, mi ritrovai con subordinati da comandare e compagni da incoraggiare. Dissi loro di offrire il proprio cuore per la salvezza dell'umanità. È così che ho ingannato i miei compagni, è così che ho ingannato me stesso, ed è così che ho creato la montagna di cadaveri su cui adesso mi trovo. Ma nonostante tutto, non riesco a togliermi dalla testa quella stanza sotterranea. Anche se la missione dovesse fallire, forse potrò comunque vederla prima di morire…La stanza lasciataci da Grisha Jaeger»

Carol ascoltò in silenzio, e finalmente dal vivo, quel toccante monologo. La ragionata conclusione a cui era giunto Erwin dopo tanti anni passati a tirare le fila del Corpo di Ricerca.

Lo struggente senso di colpa che da tempo dilaniava quell’uomo tormentato ora si era fatto insormontabile, appesantito dalla consapevolezza che l’ideale che inseguiva così strenuamente forse non fosse così altruista.

Per quanto il suo ego gli avesse sempre sussurrato il contrario, egli aveva capito quanto la realtà con cui si ritrovava ora a fare i conti fosse tragicamente dura e beffarda.

Persino il celebre Comandante Smith aveva ceduto alla tentazione dei propri desideri mostrandosi così per ciò che era, non una creatura irreale senza macchia o incorruttibile, bensì un essere umano in tutta la sua realistica imperfezione.

Un uomo come tutti gli altri a cui però, in virtù della carica che ricopriva, la società non permetteva di essere tale.

Lui doveva essere il soldato perfetto, abnegante fino al midollo e senza un briciolo di egoismo.

Ed invece eccolo lì ad ammettere la propria debolezza, a confessare le proprie colpe di fronte all’invisibile tribunale dei compagni caduti in battaglia.

Ma Carol non trovò nulla di vergognoso in quell’ammissione, che non sottolineava altro che la natura frammentata e fallibile dell’animo umano.

Sentì di dover dire qualcosa ora che ne aveva la possibilità.

«Tutti inseguiamo i nostri sogni, dopotutto che cosa saremmo senza di essi? Dei gusci vuoti che si limitano a sopravvivere all’incessante scorrere del tempo» si espresse accostandosi ad Erwin, il quale come ridestatosi da uno stato di trance si era appena reso conto di aver esternato il proprio monologo interiore.
«Ma se hai un sogno, questo ti dà la forza e l’energia di combattere, di vivere. E sono convinta che se esso non è dettato da sentimenti malvagi ti consentirà di contribuire al bene dell’umanità nel corso della sua realizzazione. Ed è anche il tuo caso Erwin. Me lo hai detto tu stesso durante il nostro colloquio qualche giorno fa, mi hai confidato la speranza che il tuo sogno possa essere di aiuto al genere umano»

Pose una mano sul braccio di lui, specchiandosi in quei bellissimi e tristissimi occhi azzurri che la fissavano smarriti forse in cerca di un’assoluzione che tuttavia lei non aveva il potere di elargire.

«Chi ti ha seguito e ti segue tuttora l’ha fatto non solo perché si fidava dei tuoi ordini, ma perché era guidato dal proprio desiderio di servire il genere umano. E tramite il sacrificio ha realizzato quell’ideale, Erwin, perché se tutti loro non avessero offerto il proprio cuore ora non ci troveremmo qui. Se tu non avessi inseguito la tua chimera non saremmo qui. Dunque non colpevolizzarti, il tuo sogno ha permesso a quei soldati di realizzare il proprio» concluse Carol, la voce carica di emozione.

Sul volto del soldato si dipinse fugace come un lampo un’espressione incredula, che poi si aprì in un sorriso riconoscente.

Lui era sempre stato un eccellente oratore, aveva sempre scelto le parole perfette per motivare i propri uomini anche nei momenti più critici.

Quali che fossero le circostanze, tutti sapevano che avrebbero trovato un pilastro ed un faro nel Comandante Erwin.

La ragazza capì che in quell’attimo stava ricoprendo lei quel ruolo, le parole che aveva pronunciato erano ciò di cui lui avesse bisogno, ora era stata lei a dargli coraggio.

E questa consapevolezza risollevò il morale anche a lei stessa.

La lucidità annunciò il proprio ritorno nella mente della giovane con un oscuro presentimento,
interrompendo quel momento di comunione platonica.

Nonostante i loro sforzi la strategia per contrastare il Bestia era fallita, se possibile era andata anche peggio che nella storia originale poiché avevano perso dei soldati ancora prima dell’inizio della battaglia. Ora tutto sarebbe dipeso dall’altra parte del piano, se fossero riusciti a mantenere sotto controllo Reiner evitandogli di richiamare Bertholdt forse ci sarebbe stata ancora speranza.
Carol esaminò i combattimenti sotto di sé, sembrava che i soldati per ora non avessero problemi ad evitare i massi di Zeke, i cui lanci non parevano potenti e devastanti come nel manga. Gli edifici non erano stati sbalzati via ma solo parzialmente danneggiati.

Che il barbone fosse ancora troppo indebolito dal combattimento con Levi? Si chiese Carol riflettendo sulle alternative possibili.

In effetti la roccia che aveva scagliato per bloccare il cancello principale doveva avergli richiesto parecchie energie, uno sforzo non indifferente in concomitanza con una rigenerazione. 

Forse poteva concedersi un cambio di programma.

«Erwin, devo andare da Hange e gli altri. Credo che in questo momento potrebbero avere più bisogno loro di me»

Il volto dell’uomo si incupì per un secondo, indeciso sul da farsi e Carol temette che le avrebbe impedito di agire.

«D’accordo, vuoi che ti faccia scortare da uno dei miei uomini?»

«Non è necessario, andrò da sola. È meglio che i soldati restino in posizione per ogni evenienza»

Il Comandante annuì, piacevolmente colpito dalla sua determinazione.

La giovane si portò sull’altra sponda del muro trovandosi a riflettere, stupita come lo era stata la prima volta, di come le case sembrassero minuscole viste da quella prospettiva. Una vasta distesa di costruzioni Lego che riproducevano una città in miniatura. Ora che doveva saltare di nuovo nel vuoto da una tale altezza sentì il coraggio venirle meno, e le dita si strinsero ancora più saldamente attorno alle impugnature delle lame. Risalire la parete delle mura non era stato difficile, discenderle era tutto un altro paio di maniche e questa volta non ci sarebbe stato Levi ad assisterla.

«Non guardare giù Carol, salta e basta. Lasciati cadere, conta fino a tre e poi apri gli occhi»

Lei ridacchiò, non riuscendo a trattenersi dal rivolgergli un’occhiataccia

«Adesso ho capito da chi Levi ha appreso questo discutibile consiglio»

Erwin sorrise stancamente, fissando un punto in lontananza.

«Nemmeno il tuo Capitano era immune alle vertigini all’inizio»

I muscoli della ragazza si tesero come corde di violino di fronte all’oculata scelta di quell’aggettivo, quel “tuo” volutamente enfatizzato.

Carol fu certa che il rapporto tra lei e Levi non fosse mai passato inosservato all’attento sguardo del Comandante.

Non era però altrettanto sicura di volerne conoscere il parere ed avvertì l’impellente urgenza di dileguarsi, improvvisamente attratta dall’idea di essere inghiottita da quel panorama vertiginoso.

«Non spetta a me dirti cosa devi o non devi fare Carol, sarebbe alquanto ipocrita da parte mia» proseguì lui, ed il tono amareggiato della sua voce lasciava intendere la piega che il discorso avrebbe assunto.
«Hange è entusiasta per te e Levi, mi dispiace fare la parte del guastafeste. Per quanto mi rallegri vederlo aprire il proprio cuore, ho paura di quello che accadrà quando l’idillio che avete costruito avrà fine. Io c’ero Carol, tutte le volte in cui il destino è stato crudele nei suoi confronti. Io l’ho visto raccogliere i pezzi e rimetterli insieme, ce l’ha sempre fatta… anche se ogni volta con più fatica della precedente. Ma questa volta sento che è diverso…quando te ne andrai, perché quel momento arriverà, temo che non reggerà il colpo altrettanto bene. Forse quello che voglio dire è…che non credo dovreste approfondire questo rapporto, per il bene tuo e di Levi»

Non poteva dirsi offesa da quell’osservazione, era un semplice parere personale che poteva tranquillamente scegliere di ignorare. Ma il vedersi sbattere in faccia che quanto era nato con il Capitano avesse una data di scadenza, e neppure troppo lontana, la irritò fortemente.

«Nemmeno tu sai come reagiresti all’eventualità che il tuo desiderio fosse irraggiungibile. Eppure non mi sembra che questa incognita ti impedisca di inseguirlo» sentenziò lei tagliente guardandolo dritto negli occhi «Anche io ho dovuto rimettere insieme i miei pezzi, così spesso che ormai ho perso il conto. Si chiama vita. Dovremmo forse rinunciare a sperimentare, a vivere, perché non abbiamo alcuna certezza di dove ci porteranno le nostre scelte? L’importante è che qualsiasi scelta si compia, non si abbiano rimpianti. Sono parole tue Erwin. E proprio tu, hai così poca fiducia nelle capacità di Levi da credere che la nostra separazione lo annienterà? È vero non siamo indistruttibili, siamo solo esseri umani. Ci illudiamo, falliamo, cadiamo… ma in questo risiede la nostra forza, nel fatto che non importa quante volte ci schiacceranno a terra. Noi ci rialzeremo sempre»

Smith sostenne quello sguardo di sfida, leggendovi la potente risolutezza che ardeva in quella giovane straniera.

«Non poteva che innamorarsi di te» concluse sorridendole teneramente.

Lei si rilassò, lasciando che il calore che le ribolliva in corpo affluisse al volto, probabilmente l’effetto adrenalinico di quella conversazione che ora stava sfumando.

Ritornò sul bordo del muro per prepararsi al salto.

«Carol fammi un favore, non morire» le giunse nuovamente alle spalle la voce di Erwin.

Lei gli fece l’occhiolino

«Non ne ho alcuna intenzione Signore»

Poi avanzò nel vuoto contando fino a tre.

Rigorosamente ad occhi chiusi.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


                                                                             
                                                                              16





 
Carol scelse un alto campanile nel proprio raggio d’azione, premette i grilletti dando di gas ed i rampini si ancorarono subito alla ruvida pietra dell’edificio. Da lì iniziò a librarsi tra le case deserte di quella città fantasma in cui si era trasformato il distretto di Shiganshina.
Tutti gli estenuanti allenamenti con Levi avevano dato i loro frutti, si muoveva rapida e sinuosa quasi come una veterana della Legione.
 
Giunta in prossimità del cancello esterno notò i soldati fermi in mezzo ad una piccola piazza, virò prontamente e li raggiunse atterrando vicino a loro.

Reiner era seduto a terra con un aspetto parecchio malconcio, gli arti ancora impegnati in una lenta rigenerazione a giudicare dai tenui aliti di vapore che si levavano dai moncherini. Per precauzione era stato legato alla base di una statua di marmo con un doppio e saldo giro di funi che si stringevano attorno al suo torace bloccandogli le braccia.

Sembrava che effettivamente almeno quella parte del piano stesse procedendo bene.

Hange era inginocchiata di fronte a lui, intenta a cercare di strappargli qualche informazione. Carol vide che Eren stava in disparte a capo chino e con i pugni serrati. Per via delle ciocche castane che ne oscuravano il volto, non seppe dire se in quel momento il ragazzo titano stesse piangendo oppure fremesse di rabbia.
O forse entrambi i sentimenti stavano imperversando dentro di lui.
I membri delle altre squadre erano invece posizionati in punti strategici della piazza pronti a fronteggiare ogni possibile evenienza.

«Te lo chiedo ancora una volta Reiner» gli intimò Hange ed il suo tono tagliente e severo, ben diverso dal solito atteggiamento amichevole, metteva quasi paura «qual è il vostro scopo?»

Il Guerriero sollevò il capo incontrando gli occhi di Carol che proprio in quel momento si era avvicinata a quel singolare capannello.

La ragazza giurò di avere intravisto una scintilla di curiosità mista a sollievo attraversare fulminea lo sguardo di Reiner.

«Voglio parlare con lei, da solo» proferì lapidario indicando la bionda con un cenno della testa.

La Caposquadra e gli altri si voltarono ad osservare Carol alquanto perplessi, solo Armin rimase impassibile a quella scena, limitandosi a guardarla di sottecchi con diffidenza. Evidentemente la riteneva una traditrice e lei non poteva biasimarlo, chiunque non conoscendo la verità si sarebbe insospettito.

«Tranquilla Hange, non ho paura di rimanere sola con lui» affermò la giovane mostrando il palmo della mano destra per placare gli animi «Armin, nel frattempo aggiornali su quanto è successo sulle mura per favore» aggiunse poi rivolta al ragazzino.

Lui le rispose con un cenno di assenso e la Caposquadra li squadrò entrambi, confusa sul da farsi ed insospettita dall’inconsueta freddezza che era calata tra i due compagni.

«D'accordo acconsento al colloquio, ma tu prova a fare qualche passo falso Braun e ti staccheremo anche la testa. É tutto tuo, Carol» si espresse infine la donna, dirigendosi insieme a Moblit e al resto del gruppo sotto il colonnato di quello che probabilmente era un tempo il municipio del distretto.

Quando furono fuori portata d'orecchi, Reiner si decise a parlare.

«Da dove vieni? Non ti ho mai vista quando ero nel Corpo di Ricerca…eppure non puoi essere una recluta, sei più vecchia di me»

«Che tatto, mi ricordi qualcuno. Diciamo che come te non sono di questa terra» rispose indispettita Carol, martoriando distrattamente una zolla di terreno con la punta della spada.

«Quelle cose che mi hai detto...» proseguì esitante il ragazzo «come facevi a sapere della mia famiglia? Io non ne ho fatto parola con i miei compagni di corso, e non puoi avere ottenuto quelle informazioni da Annie o Berthold se non li hai mai incontrati»

La bionda era incerta su come comportarsi, pensò che forse avrebbe potuto fingersi una compatriota per tenere a bada Reiner. Ma la situazione era decisamente troppo delicata per macchinare un doppio gioco che non era affatto certa di riuscire a gestire. Non avrebbe fatto altro che incrementare i sospetti di Armin e degli altri commilitoni finendo col perderne la fiducia, rischiando di mettere in pericolo la riuscita del piano.
E non poteva permettersi di rimanere senza alleati in quel mondo.

«Ho le miei fonti, Eldiano» disse infine, decidendo di rimanere sul vago e studiando la reazione del Guerriero con la coda dell’occhio.

Lui fremette sentendosi chiamare in quel modo.

«Sei dalla nostra parte quindi?»

«Non ci sono parti da prendere, non ci sono demoni da uccidere. Non è uno scontro tra buoni e cattivi ma tra disperati. Mi rifiuto di credere che il tuo animo ti stia dicendo di sterminare gli amici, questa è una cazzata che continui a raccontare a te stesso. Quale spiegazione attribuisci ai tuoi misteriosi vuoti di memoria, se non il fatto che siano l’unico modo che ti rimane per sfuggire al senso di colpa?» gli inveì contro Carol, nell’illusorio tentativo di fare nuovamente appello all'affetto che Reiner provava per i suoi vecchi compagni.

Il ragazzo abbassò lo sguardo a terra sorridendo amaramente.

«Non importa quello che dice il cuore, un guerriero deve portare a termine il compito assegnatogli, non c'è un'altra strada. In questo io non ho possibilità di scelta»

Carol si sentì ribollire il sangue nelle vene, lui era uno dei suoi personaggi preferiti ma in quel momento voleva solo prenderlo a cazzotti fino a farlo rinsavire.

«E per chi lo stai facendo dimmi» scattò rabbiosa «per il padre che ti ha rifiutato senza troppi complimenti prima che partissi per Paradis? O per salvare il culo ai Marleyani che vi disprezzano e per i quali non siete altro che feccia da rinchiudere nel ghetto? Davvero pensi ancora che i tuoi amici siano i terribili demoni di cui ti hanno tanto parlato durante l'addestramento in patria? Apri gli occhi, Reiner, tutto questo è sbagliato»

Lui non rispose, forse impegnato a riflettere sulle accuse che gli erano state mosse.

Chissà se in quell'istante nella mente del giovane soldato si stavano fronteggiando le due personalità in cui il suo animo provato si era irrimediabilmente scisso. Forse c’era ancora speranza di farlo ragionare, di bypassare l’intrico di sinapsi che le tante scelte prese controvoglia avevano cortocircuitato.

«Non capisco quali siano le tue intenzioni, né come tu conosca tutti questi particolari» sentenziò Reiner sostenendo lo sguardo di Carol con gelida fermezza «ma se ci ostacoli, ammazzeremo anche te insieme a tutti questi discendenti del demonio»

Il Guerriero devoto alla causa, alla disperata ricerca di quell’approvazione che la sua terra natia non gli avrebbe mai concesso, aveva quindi avuto la meglio.

«Così sia allora» asserì l’altra rassegnata «ma ricordati che il fatto che tu sia un Marleyano onorario non toglie che nelle tue vene scorra lo stesso sangue di quelli che tu chiami demoni. Non importa se tu ti consideri diverso da loro… per tutto il mondo porterai sempre al braccio la fascia da Eldiano e come tale sei solo carne da macello, un nemico da abbattere. Si sbarazzeranno di te senza troppi complimenti quando cesserai di essere utile e nessuno ti ringrazierà per i tuoi sacrifici, continueranno ad odiarti come hanno sempre fatto»

E senza attendere una risposta si avviò verso il resto della squadra, abbandonando la speranza che il suo discorso facesse breccia nel cuore del soldato.

Quello che Carol non vide fu però l’unica, piccola lacrima che scese veloce lungo la guancia di Reiner, concludendo la propria corsa sul freddo basamento della statua.

«Sei riuscita a scoprire qualcosa?» le domandò Hange quando si fu riunita al gruppo.

La bionda fece spallucce «Solo che è determinato ad ucciderci tutti»

«Bah, è inutile cercare di ragionarci. Vado ad aggiornare Grime, voi aspettatemi qui»

La Caposquadra era visibilmente irritata e d'altronde non le si poteva dare torto.
C'erano già stati molti spargimenti di sangue ed evitarne ulteriori con un confronto pacifico era ciò che si auguravano tutti.

«Hange ci ha spiegato la tua situazione» parlò improvvisamente Armin, non con il fare distaccato di prima ma con riguardoso rispetto, come se si sentisse in colpa «non…non sapevamo che fossi un membro delle squadre speciali, è naturale che voi abbiate accesso ad informazioni che a noi soldati semplici sono precluse. Ti chiedo scusa per aver dubitato della tua lealtà»

“Giusto, Hange deve aver raccontato loro la scusa ideata da Erwin” rammentò Carol ringraziando mentalmente la lungimiranza della bruna.

«Non preoccuparti Armin, anzi hai fatto bene a non abbassare la guardia. Solitamente lavoriamo nelle retrovie e poco sul campo come fate invece voi. Questa è la mia prima missione da operativa ed è tutto nuovo anche per me» lo rassicurò lei assestandogli una leggera pacca sulla spalla.

Un lamento molto famigliare fece virare la conversazione su tutt’altro argomento.

«Che fame, non mangio da ore» piagnucolò Sasha stringendosi l’addome con fare tragico.

«Sei sempre la solita, come fai a pensare al cibo in una situazione simile?!» la rimbeccò Connie dando così il via ad uno dei loro interminabili battibecchi.

Carol si accorse che Jean, appoggiato ad una colonna dell’edificio, era silenzioso e sembrava assorto nei propri pensieri.

Seguendone la traiettoria dello sguardo capì che stava studiando Eren e Mikasa intenti a parlare con Reiner.

Quella piccola riunione era passata inosservata al resto del gruppo e nessuno, ad eccezione appunto di Jean, si era accorto che i due amici si erano accostati al loro vecchio compagno d'armi.

I tre erano troppo distanti per capire cosa si stessero dicendo, ma la tensione che traspariva dalla postura rigida e dal gesticolare agitato di Eren suggerivano quanto i toni fossero tutt’altro che amichevoli.
Proprio mentre Jean cercava di zittire Connie e Sasha in modo da poter udire quel dialogo, Eren esplose attirando l’attenzione di tutti.

«Come sarebbe che non hai nulla da dire?! Mia mamma è morta per colpa tua brutto bastardo! Hai idea di quanta sofferenza hai causato?» Il ragazzo titano iniziò a colpire l’ex commilitone in preda ad una cieca furia, scansando malamente Mikasa che era subito intervenuta per fermarlo.

«IO UCCIDERÓ OGNUNO DI VOI! E GIURO CHE MI RIPRENDERÓ TUTTO QUELLO CHE MI AVETE SOTTRATTO!» la voce del moro riecheggiò tra le rovine, rotta dal dolore e animata dal desiderio di vendetta.

Il Guerriero sembrava non reagire a quelle provocazioni, ma un piccolo particolare fece intuire a Carol il motivo di tale passività.

Le sembrò infatti che il vapore emanato dalle sue ferite si fosse fatto più intenso da quando Eren si era avventato su di lui.

Poi capì.

Reiner fino a quel momento aveva moderato a proprio piacimento il processo di guarigione, riuscendo ad ingannarli.

«Eren, Mikasa! Allontanatevi subito da lui!» gridò la giovane a pieni polmoni, ma in una frazione di secondo il boato prodotto dalla trasformazione del Corazzato squarciò la piazza, investendo tutti loro con un potente contraccolpo.

Carol si sentì scagliare con forza sotto al porticato del municipio e quasi perse i sensi per il violento impatto contro la parete.

“Dannazione Eren, proprio ora dovevi metterti a discutere” inveì tra sé mentre un dolore lancinante quanto una pugnalata le attraversò il fianco, impedendole di rialzarsi nell’immediato.

Si guardò intorno e vide Armin altrettanto in difficoltà a terra a pochi metri da lei.

«Armin…s-stai bene?» gli chiese preoccupata trascinandosi carponi verso di lui.

«S-Sì più o meno» rispose il ragazzino massaggiandosi il capo, palesemente sofferente.

Il polverone che ancora appestava l’aria la fece tossire e quando iniziò a diradarsi vide di fronte a sé Reiner ed Eren che si affrontavano nelle forme dei rispettivi giganti.
Ecco il motivo di un’esplosione così massiva, anche Eren si era trasformato simultaneamente.

Ancora frastornata dalla botta Carol convenne di non poter rimanere in quel luogo. La sua presenza sarebbe infatti stata solo un peso durante il combattimento che sarebbe seguito, comportando un maggior rischio per la propria vita e per quella degli altri soldati.

«Ascoltami bene Armin, non c’è tempo da perdere. Usate Eren come diversivo per tenere Reiner lontano dalle mura e poi sferrate un attacco a sorpresa con le lance fulmine. Dovete assolutamente impedirgli di chiamare Berthold, estraetelo nuovamente dal corpo del Corazzato il prima possibile. E non fatevi intenerire dal fatto che è stato un vostro compagno, perché lui non avrà pietà per voi» disse mentre si rimetteva faticosamente in piedi, nella speranza che le poche informazioni che poteva fornire fossero di aiuto.

«Ma… tu che farai?» domandò lui disorientato, non capendo il motivo che la spingesse a non includere sé stessa nel piano.

La giovane abbassò lo sguardo costernata, con le lacrime che iniziavano ad appannarle il campo visivo.

«Io… non sono in grado di aiutarvi in un combattimento simile…vi sarei solo di peso. Sono inutile»

«Tu mi hai salvato Carol, se non fosse stato per te Reiner mi avrebbe ucciso»

Lei alzò la testa sbalordita ed un’illuminazione la folgorò nell’esatto istante in cui i propri occhi incontrarono il limpido azzurro di quelli di Armin.

La gratitudine che vide brillare in essi, invece di rincuorarla la mise ancora più a disagio.

Ne aveva impedito la morte per mano di Reiner, era vero, ma l’aveva condannato ad un’agonia ancora peggiore.

Ormai era infatti chiaro che persino quella parte dell’operazione fosse ormai da considerarsi fallita e ciò significava che il Colossale avrebbe presto fatto la sua comparsa, rendendo vana la possibilità di prenderlo in ostaggio insieme al Corazzato.
Nell’anime Armin aveva già tentato di negoziare pacificamente con Berthold, ma ogni sforzo era stato vano tanto che nemmeno Mikasa era riuscita ad immobilizzarlo.
Non c’era modo di evitare la catastrofe che avrebbe seguito la venuta di Berthold. La loro finestra di opportunità era svanita nel momento in cui il Guerriero era riuscito a ritrasformarsi, annullando così quel prezioso vantaggio.
Carol dovette riconoscere che l’eventualità che si verificasse la disfatta di Shiganshina si stava facendo più concreta che mai, rendendo necessario salvaguardare le linee narrative di coloro che erano fondamentali per gli eventi futuri.

E più si soffermava su quel particolare, più capiva di non poter più modificare la parte della storia che riguardava Armin.

Benché l’ultimo capitolo del manga non fosse ancora stato pubblicato, nei precedenti il biondino grazie alla sua intelligenza aveva già grandemente contribuito alla causa. E ciò suggeriva il ruolo chiave che avrebbe sicuramente rivestito nella risoluzione della trama e nel contrastare Eren.

Armin doveva sopravvivere e doveva ereditare il Colossale.

E per fare questo rimanevano ora due possibili vie.

Lasciare che tutto procedesse secondo la storia originale, pur non essendoci la certezza che effettivamente ciò venisse rispettato, date le discrepanze temporali e narrative che Carol aveva riscontrato.

Oppure, come era il suo obiettivo fin dall’inizio, impedire la morte di Erwin garantendo così la salvezza del ragazzino tramite il siero.
Questa seconda opzione avrebbe risparmiato a Levi ed Arlert il bruciante senso di colpa per aver decretato la fine del proprio Comandante, permettendo inoltre all’umanità di poter ancora contare sulle preziose abilità di Smith.

Comunque la si volesse vedere l’inferno di Shiganshina avrebbe inghiottito l’esile corpo di Armin, carbonizzandolo senza pietà.

L’unica cosa che poteva fare era aggrapparsi alla speranza che dall’altra parte della città Erwin e Levi avessero ribaltato gli eventi, ma doveva verificarlo di persona. 

«Armin, ti ricordi cosa ti ho detto quel giorno sotto l’acero?»

Lui la guardò un po’ confuso, non capendo come quell’aneddoto potesse essere rilevante in un momento del genere, tuttavia le rispose affermativamente scuotendo il capo.

Entrambi percepirono l’atmosfera acquisire una certa solennità.

«Sii coraggioso» lo spronò Carol fissandolo dritto negli occhi «e salvali tutti»

Poi si fiondò verso la parte opposta della piazza per fare ritorno al cancello interno, spingendo al limite le proprie gambe e cercando di ignorare il frastuono prodotto dai due giganti alle proprie spalle, così come l’odore di morte che già le inondava le narici.
 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


                                                                                    17







Carol si sarebbe senza dubbio paragonata ad una biglia impazzita. Di quelle che schizzano a tutta velocità contro altre biglie e pareti di plastica colorata nell’intricato labirinto di un flipper, in un tripudio di giochi di luci da crisi epilettiche. La disattenzione che la teneva in scacco, unita all’ansia ed alla poca esperienza con il movimento tridimensionale, le fecero guadagnare nuovi lividi sbattendo malamente contro le costruzioni di Shiganshina.
Stava raggiungendo le mura quando udì un grido disumano e straziante seguito qualche istante dopo dalla comparsa nel cielo, fugace come una meteora, della sagoma di un barile.
Il coperchio saltò via e dalla botte ne uscì nientemeno che Berthold.
Carol distolse immediatamente lo sguardo. Aveva i muscoli tesi come i cavi di sospensione di una funivia, la schiena madida di sudore ed i polmoni in fiamme. Il cuore batteva ad un ritmo decisamente troppo accelerato, nello strenuo tentativo di rispondere alle esagerate richieste energetiche che lei stava imponendo al proprio corpo.
Ma in quel momento pensava solo a correre, o meglio a volare, per mettere più distanza possibile tra sé stessa e l’onda d’urto che sapeva di lì a poco sarebbe sopraggiunta.

Quanto tempo le restava prima dell’impatto? Si chiese.

Pochi minuti probabilmente, il tempo del dialogo tra Berthold e Armin.

Se l’esplosione l’avesse colta durante la risalita delle mura sarebbe stata sbalzata via in un battito di ciglia, era più saggio cercare riparo a terra.
Si accucciò alla base dell’immensa parete, sufficientemente lontana dagli edifici per ridurre il rischio che i detriti le finissero addosso. Anche se il colpo maggiore l’avrebbero subito i quartieri vicini all’epicentro della trasformazione, eccedere in prudenza non guastava.

Si riparò la nuca con le mani e attese.

Tutto tacque in un silenzio assordante e spettrale, come se ogni forma di vita fosse già stata annientata.

Persino il vento smise di ululare.

Il silenzio della morte, pensò la ragazza.

Dal lato opposto della città una sfera di fuoco parve nascere dalle viscere della terra e vi era un che di affascinante nel modo in cui essa si allargava a dismisura, inglobando interi quartieri.

Poi essa si scompose saettando verso il cielo in una colonna di fumo rosso ed ocra, disegnando quella tipica sagoma delle esplosioni atomiche spesso paragonata ad un fungo, ma che a lei ricordarono il tronco e la chioma di uno smisurato Yggdrasil.

Un terrificante boato seguì quello spettacolo, talmente forte che Carol temette le si fossero sbriciolate le ossa.

Il terreno tremò sotto i suoi piedi ed uno tsunami di polvere si erse all’orizzonte inghiottendo ogni cosa.

L’onda d’urto si insinuò tra le vie del distretto, mandando in frantumi i vetri delle abitazioni e strappando via le tegole dai tetti, armandosi così di schegge di varia natura letali quanto proiettili.

Quando essa investì Carol aveva fortunatamente perso potenza, finendo per infrangersi simile ad una risacca contro la parete delle solide mura.
Ma nell’origine dell’impatto aveva spazzato via tutto ciò che si era trovata sul proprio cammino, case e persone comprese.

E nel cuore di quello scenario apocalittico si erse l’immensa sagoma del Gigante Colossale.

La ragazza si rimise in piedi a fatica, sofferente per il bruciante lamento dei propri muscoli che raffreddatisi in quella breve pausa imploravano ora ulteriore riposo. Si accinse a scalare lentamente il Wall Maria sforzandosi di ignorare quanto ogni spinta, ogni issata, costassero alle sue membra sfiancate una tremenda agonia. Il vento gelido la mordeva senza pietà laddove la camicia fradicia era diventata un tutt’uno con la sua pelle.

Raggiunto l’apice, esausta, vide una robusta mano protendersi verso di lei per aiutarla. Nell’accettare spontaneamente il solido appoggio che le veniva offerto i suoi occhi incontrarono quelli cerulei di Erwin, insondabili.

«Sono ancora tutti vivi?» le chiese lui incolore, osservando Berthold scaraventare in aria gli edifici come se fossero semplici zolle di terra.

«Hange ed i ragazzini sì» ansimò lei a testa bassa.

«Per fortuna anche tu sei tutta intera. Levi non me lo avrebbe mai perdonato» commentò l’altro sollevato.

Carol non rispose, si chiese invece quanto dovesse costare a quell’uomo sforzarsi di trovare un lato positivo a cui aggrapparsi dopo aver assistito alla disfatta di tanti compagni.

Lei sicuramente non ne aveva la forza.

Sapeva che era solo questione di tempo prima che Zeke ricominciasse a scagliare le sue dannate pietre. E a quel punto anche le poche case che facevano loro da scudo sarebbero andate distrutte, così come le sue speranze di riuscire a salvare quegli uomini.

«Levi e gli altri sono riusciti ad abbattere i giganti più piccoli, abbiamo subito alcune perdite tra le reclute inesperte ma per il resto ce la siamo cavata» l’aggiornò Erwin meticoloso come sempre «tuttavia siamo ad un punto di stallo, non possiamo usare i cavalli per scappare perché il Bestia ci blocca la strada. Non possiamo avvicinarci a lui per abbatterlo perché potremmo venire tramutati in giganti. E come se non bastasse, dall’altro lato delle mura ci sono il Colossale ed il Corazzato»

Abbassò lo sguardo sulla giovane, in cerca di risposte.

«Cosa è successo, perché il nostro piano per immobilizzare Reiner non è andato a buon fine?»

«Reiner ha sapientemente rallentato i processi rigenerativi fingendosi innocuo. Quando Eren gli si è avventato contro accecato dalla rabbia, la situazione è esplosa. Letteralmente. Si sono trasformati entrambi e hanno ingaggiato battaglia. A quel punto ho capito che lì sarei stata solo di intralcio e mi sono affrettata a tornare» spiegò lei contrita.

Smith non sembrò particolarmente sorpreso da tale risvolto, per lui forse non così inatteso.

«Quel ragazzino non cambierà mai... è tenace ma è una testa calda. Si ostina a non sentire ragioni, preferendo agire per conto proprio e d’impulso…ho paura per ciò che questo potrebbe comportare per il futuro. Temo che sarà Eren stesso a decretare la propria fine»

La giovane ponderò in silenzio quelle parole, impietrita da quanto esse corrispondessero al vero.

Davanti a lei sfilò fulminea l’immagine del volto triste e spento del ragazzino un attimo prima che Mikasa ne recidesse il capo.

Benché a quest’ultima sarebbe toccato il ruolo di esecutrice materiale dell’atto, Eren stesso ne avrebbe guidato la mano con le proprie azioni. La scelta da lui compiuta, o per meglio dire quella che avrebbe preso di lì a pochi giorni dopo aver visto i ricordi del Gigante d’Attacco, si sarebbe tradotta in una catena di indicibili tragedie che avrebbe avuto culmine in quell’ultimo fatidico istante.

E a chi avrebbe mai potuto appartenere quella spada, se non alla persona a lui più affezionata?

Carol studiò la sagoma di Zeke all’orizzonte, la disgustosa replica di un primate dall’addome informe e dai denti limati in un sorriso aguzzo e compiaciuto.  
C’era qualcosa di sospetto nel suo comportamento, in quell’immobilità lassa.
Ormai la rigenerazione era completata, perché non stava lanciando pietre?

«Raggiungiamo gli altri, così potremo confrontarci sul da farsi» parlò Erwin azionando il proprio dispositivo.

La ragazza lanciò un'altra occhiata diffidente al Bestia, poi iniziò a calarsi dalle mura scostandosi i capelli che per il forte vento le frustavano la pelle del viso.

Toccarono terra proprio vicino al gruppo di reclute a cui erano stati affidati i cavalli.
Levi li stava aspettando, intento a rimproverare alcuni novellini terrorizzati dall’esplosione appena avvenuta. Carol sperò che non si fosse accorto della sua piccola trasferta dall’altro lato della città, perché non aveva la minima intenzione di mettersi a litigare in quel momento.

«Le squadre Dirk e Klaus sono appostate al riparo delle costruzioni più avanti, nel caso lo scimmione decida di mandare altri giganti a farci visita. Alla squadra Marlene ho assegnato la protezione delle reclute e dei cavalli. Sembrerebbe però che quello non abbia più molta voglia di giocare» commentò stizzito il Capitano andando incontro a Carol ed Erwin.

«In effetti il suo comportamento è molto strano, mi domando cosa stia tramando. Sicuramente anche lui è stato messo in difficoltà dalle nostre tattiche…forse sta cercando di prendere tempo aspettando che Berthold e Reiner ci raggiungano alle spalle, una sorta di manovra a tenaglia» ipotizzò il Comandante aggrottando le sue folte sopracciglia.

«Bah, vallo a capire… cosa ti aspetti da uno che manda avanti i tirapiedi? Non ha neppure le palle, nel vero senso della parola tra l’altro, di affrontarci in prima linea» replicò con sdegno Levi «Hange e gli altri come stanno, Eren è ancora vivo?»

«Dovrebbero essere salvi, ma molti di loro sono rimasti coinvolti nell’esplosione. Abbiamo perduto molti dei nostri uomini»

Carol lesse negli occhi dei giovani soldati attorno a sé la paura che le parole di Smith avevano suscitato. Floch più di tutti sembrava sul punto di disperarsi.
Ed il peggio doveva ancora verificarsi.

Davvero Zeke sarebbe rimasto inerte, lasciando che i suoi compagni facessero il lavoro più grosso?

Mentre rifletteva su quell’eventualità si sentì afferrare per il polso da Levi con decisamente poca grazia. La stava tirando in disparte dietro una delle case, lontano dal piagnisteo di Floch e dalle orecchie di Erwin.

«Ti piace così tanto mettere a rischio la tua vita? Andare dall’altra parte del muro senza un supporto è stata una mossa davvero idiota da parte tua, per non parlare di Erwin che te l’ha permesso!» sbottò il corvino dopo aver mollato la presa.

«Prima di tutto ahia. Mi hai fatto male» precisò la giovane massaggiandosi il polso, alquanto irritata da quel comportamento manesco «secondo, non spetta a te decidere al posto mio quello che posso o non posso fare»

Lui la trafisse con un’espressione truce.

«Non ho detto questo»

«Allora spiegati meglio Levi, PARLA, santo cielo e possibilmente non a monosillabi» esplose lei pentendosi istantaneamente di quella reazione, consapevole che in quel modo avrebbe ottenuto in risposta solo un atteggiamento ancora più ostile da parte del Capitano.

Lui mostrava una spiccata dimestichezza per i compiti pratici e concreti come quelli richiesti sul campo di battaglia, o nelle pulizie. Ma per quanto concerneva le faccende più mentali ed astratte era un pesce fuor d’acqua. Figurarsi gestire i propri sentimenti o a maggior ragione confrontarsi con la necessità di imbastire, a tale riguardo, un dialogo senza ricorrere continuamente a commenti secchi e rudi. Non era infatti un segreto che Levi fosse un uomo taciturno, non esattamente a suo agio con l’arte oratoria. Ingaggiava conversazione di malavoglia e quando lo faceva le sue frasi, spesso graffianti, comprendevano poche e succinte parole. Chiunque lo conoscesse a fondo sapeva però quanto esse fossero il frutto mai casuale di un ragionato processo selettivo.

«Scusami è stata un’uscita infelice, non…» si affrettò a giustificarsi la ragazza, scuotendo il capo compunta e allungando una mano verso di lui.

«E con questo cosa vorresti dire, che sono un cazzo di analfabeta?» replicò l’altro sempre più scostante, divincolandosi da lei.

«Levi…»

«O forse mi credi uno di quei pezzi di merda della Città Sotterranea, abituati a calpestare il prossimo? Solo perché sono nato in quella fogna non sono come loro!»

«Levi» ripeté Carol paziente.

Ma lui non l’ascoltava, seguitando imperterrito con quello sfogo sconclusionato.

«Che cazzo, detesto questa cosa. Non sono più lucido, mi sento esposto. Preferirei affrontare a mani nude un gigante»

La bionda chiuse gli occhi prendendo un respiro profondo per ritrovare la calma.

«Sei un automa?»

La domanda lo aveva spiazzato, Carol glielo lesse chiaramente negli occhi, che ora la fissavano sconcertati.

«…Cosa cazzo è un automa?» chiese Levi dopo un attimo di smarrimento.

«Un robot»

«Un che?»

«Non è importante. Il punto è…» disse lei stufa di girare intorno al vero cuore della questione, la “cosa” che lui aveva affermato di detestare «sei un essere umano sì o no?»

Il Capitano le rivolse uno sguardo se possibile ancora più incredulo, che Carol sostenne impassibile.

«Certo che sono un essere umano, che discorsi sono!»

«Allora mi dispiace romperti le uova nel paniere, ma per quanto tu ti ostini a credere il contrario, provi delle emozioni»

Lui fece per ribattere ma lei lo anticipò.

«All’inizio siamo tutti sopraffatti da questo sentimento…ma riflettendoci ti renderai conto che questa non è la prima volta che ti capita, l’hai già sperimentato in passato. Anzi, non ti ha mai abbandonato» spiegò con un tono ammorbidito ma pur sempre deciso «perché l’amore prima o poi entra nella vita di ognuno di noi. Lo sentivi quando tua mamma ti abbracciava, anche se forse eri troppo piccolo per rendertene conto. L’hai provato su quella terrazza alla luce delle stelle insieme a Farlan ed Isabel. È stata la furia che ti ha animato mentre facevi a pezzi quel gigante sotto la pioggia battente. È la forza che ti ha portato fino a qui, a ricercare la libertà che ti era stata tolta. È il desiderio di protezione verso la tua squadra, verso i tuoi amici, verso coloro che consideri famiglia. È questo e molto, molto altro ma ti assicuro… non sarà mai una debolezza. Proprio perché porta con sé una potenza devastante l’amore ti rende capace di azioni incredibili»

Levi era spaesato ed il vederlo così preso in contropiede, in una condizione tutt’altro che usuale per Il Soldato più forte dell’umanità, addolcì ulteriormente Carol.

Gli si fece più vicina toccandogli l’avambraccio.

Lui questa volta non si spostò ed un formicolio guizzò lungo l’arto dell’uomo, pungendogli la pelle come se tanti piccoli aghi vi si fossero conficcati.

La bionda aumentò la pressione man mano che le sue parole acquisivano vigore.

«Ne abbiamo parlato anche l’altra notte…tenere a qualcuno così tanto da voler impedire che soffra non è un crimine. Ciononostante, non puoi tenere chi ami sotto una campana di vetro pensando di proteggerlo dal mondo. Anche questo è amore, il più grande e difficile… lasciare che ognuno compia le proprie scelte, anche se sai che potrebbero comportare un rischio per l’incolumità di quella persona» terminò lei sorridendogli incoraggiante.

Il Capitano, che aveva ascoltato attentamente ogni singolo passaggio di quel discorso, annuì contemplandola con occhi di piombo liquido.

I pochi centimetri che li separavano divennero insostenibili così lui rimediò premendo le proprie labbra su quelle sottili e morbide di Carol, prima delicatamente e poi con trasporto.

Con il tacito consenso di lei approfondì il bacio, inebriato dal profumo e dal calore di quel corpo che malgrado lo spessore dei vestiti pareva evaporare sotto le sue mani.

Nessuno dei due accennò l’iniziativa di interrompere quel contatto.

Carol era guidata da un’urgenza di avvicinarlo ancora di più a sé, di rimanervi aggrappata per scongiurare il fantasma dell’addio che le alitava sul collo. Quel vortice che sapeva essere in agguato dietro un angolo di quelle case diroccate, pronto a risucchiarla via, lontano da lui.

Levi avvertiva invece un nauseante vuoto allo stomaco, come se glielo avessero preso ripetutamente a pugni.
Nella testa gli rimbombava il maligno pensiero che quello sarebbe stato il loro ultimo bacio.

Quando si separarono il Capitano la studiò con la fronte aggrottata, come impensierito da qualcosa.

«Che c’è ora?» domandò guardinga la ragazza.

«Poi mi spiegherai cosa è un automa»

Lei scoppiò a ridere e con un sorrisetto innocente gli scostò dalla fronte una ciocca dei capelli corvini.

«Te l’ho già detto, è un robot»

Prima che il soldato potesse protestare un colpo di tosse attirò la loro attenzione.

«Non per essere noioso, ma qui staremmo cercando di risolvere un certo problema…» fece notare loro Erwin, quasi meravigliato nel vedere il proprio vice abbandonarsi a simili effusioni in barba alle circostanze.
E Carol in quello sguardo vi lesse un certo fastidio, una critica diretta a lei che in quel momento veniva identificata come una distrazione per il Capitano e quindi un potenziale rischio per l’incolumità di tutti.

«E chi se la scorda questa situazione del cazzo» si espresse Levi con il suo proverbiale garbo e la bionda giurò di aver intravisto un leggero rossore colorare le guance del suo algido innamorato.

Mentre i due militari confabulavano sul da farsi, si chiese quale sarebbe stata la mossa di Zeke per rompere la stasi in cui erano precipitati i due schieramenti.

Il Bestia, come se le avesse letto nel pensiero, si drizzò mollemente in piedi e con un gesto fluido scagliò senza sforzo qualcosa verso di loro.

L'oggetto atterrò sulla strada principale che divideva il quartiere in due sezioni, rotolando proprio vicino agli edifici dove erano appostate le squadre Dirk e Klaus.

Aveva una forma sferica ed era delle dimensioni di un pallone da calcio. 

A prima vista poteva sembrare un piccolo masso, ma la distanza a cui si trovava non consentiva a Carol di definire con precisione la natura di quello strano manufatto.
 
«Un po' fiacco come lancio!» esclamò una recluta burlandosi del Bestia.
 
«Stai zitto, ti pare il caso di scherzare in questa situazione?!» lo rimproverò aspramente Marlo. 
 
La giovane vide gli uomini dell'avanguardia avvicinarsi all'oggetto con le lame sguainate, incuriositi ma pur sempre prudenti. 

Improvvisamente si udì uno scatto dal suono metallico e la sfera cominciò a ruotare su sé stessa sibilando e sfiatando come una pentola a pressione.

Probabilmente attivata da un rudimentale meccanismo a tempo, rilasciò nell'aria quello che a tutti gli effetti apparve come gas. 
 
L'urlo di Zeke fece il resto e tutti i soldati delle squadre Dirk e Klaus assunsero le grottesche sembianze dei giganti. 
 
«Dannazione, non di nuovo!» gridò Levi, dando voce all'orrore che si era dipinto sul volto dei presenti. 
 
I nuovi titani fiutarono il lauto pasto e presero a correre scompostamente verso i militari, parando di fronte a sé le mani già pronte ad afferrare le prede.
 
Smith nonostante l’incombente pericolo conservò il sangue freddo.
 
«Squadra Marlene, occupatevi dei giganti, non permettetegli di raggiungere i cavalli!»
 
Mentre gli uomini partivano alla carica i frammenti di un macigno di grandi dimensioni si abbatterono su di loro come le scariche di una mitraglia.
I corpi maciullati di soldati e giganti, insieme a detriti appartenenti alle case distrutte, chiazzarono il cielo in un macabro spettacolo pirotecnico.

Era anche peggio di come Carol si sarebbe aspettata, come se il destino avesse voluto farle pagare per mano di Zeke la tracotanza di aver osato sfidarlo.

Di aver anche solo pensato di poter cambiare le cose. 

L'odore di sangue misto a paura impregnò l'aria, agitando i cavalli che presero ad impennarsi e nitrire. Le reclute, che a stento riuscivano a controllare il proprio terrore, provarono invano a tenere a bada quello dei poveri animali. 

Il Capitano lanciò un’occhiata nervosa a Carol, che in quel momento fissava con sguardo vacuo ed assente il Bestia. Nella mente gli baluginò un frammento della conversazione che loro due avevano avuto la notte prima della partenza.

“Lo vedranno Levi, grazie a te”

Questo gli aveva sussurrato quando lui aveva espresso il desiderio che quei tre ragazzini, che per lui ormai costituivano un perenne grattacapo, raggiungessero il mare.
E lui aveva voluto crederle, abbandonandosi all’illusione che grazie alle preziose informazioni della giovane avrebbero potuto vincere quella battaglia, forse persino la guerra.
Ma ora che aveva assistito alla deriva di ogni parte del piano che Carol ed Erwin avevano ordito, non ne era più altrettanto sicuro.

Ancora preda di quella reminiscenza si rivolse al superiore.

«Erwin, hai in mente un piano?»

L’altro abbassò la testa, immerso nelle proprie elucubrazioni.
Per quanto la ragazza fosse stata criptica sull’evoluzione della storia qualora il piano escogitato avesse fallito, il biondo ne aveva già intuito l’unica possibile via d’uscita.
Una decisione sofferta certamente e nessun altro avrebbe potuto prenderla ad eccezione del Comandante Smith.

Eppure non riusciva ad accettarla, o meglio non voleva.

Perché essa avrebbe significato una resa, lui si sarebbe dovuto arrendere al fatto che non avrebbe mai realizzato il proprio sogno.

Un boato sopra le loro teste, accompagnato dal crepitio di detriti che franavano a terra, fece scattare a tutti lo sguardo in alto.

Riverso sulla cima delle mura giaceva, completamente privo di sensi, il Gigante d’Attacco.

Zeke nel frattempo proseguiva quella folle partita demolendo con potenti lanci i propri obiettivi.
 
«Il Gigante Bestia ha capito dove ci troviamo, questa zona verrà crivellata dalle pietre. Erwin, se non abbiamo una strategia per rispondere all’attacco prepariamoci alla fuga. Vai in cima alle mura a svegliare Eren, tu e un gruppo di uomini potete salire su di lui e scappare. Almeno alcuni di noi sopravvivranno» parlò nuovamente il Capitano, ma il volto di Smith sembrava non tradire alcuna emozione, mantenendosi impenetrabile.

Tra le reclute l’agitazione ed il caos serpeggiavano. Carol aveva le orecchie ovattate da un sibilo acuto quanto il fischio di una locomotiva, tanto che il disperato lamento di Floch le giunse lontano ed indistinto.
 
Sopra di loro cupe nubi si stavano addensando nel cielo ed il vento prese a soffiare violentemente, portando con sé il preludio di pioggia e sconfitta.
 
«I novellini e i sopravvissuti di Hange tenteranno la fuga a cavallo, tutti in direzioni diverse. Usandoli come esche il gruppo su Eren dovrebbe riuscire ad allontanarsi»
 
«Levi, quali sono le tue intenzioni?» chiese pacatamente Erwin destandosi dal mutismo in cui si era chiuso.
 
«Affronterò il Gigante Bestia, proverò a distrarlo e poi…»
 
«Non puoi, non riuscirai ad avvicinarti»
 
«È probabile. Ma… se tu ed Eren sopravviveste, ci sarà ancora speranza» la voce del Capitano aveva un tono amaro pregno di rassegnazione «non credi che sia arrivato il momento di guardare in faccia alla realtà? È una totale disfatta… e ad essere sinceri, sono convinto che nessuno di noi uscirà vivo dalla battaglia»
 
«Sì, se non avessimo un piano per contrattaccare» ribatté Smith con calma mortale.
 
Levi ebbe un sussulto, i suoi occhi scuri si illuminarono per un fugace istante.
 
«Eh? Quindi hai un piano!»
 
«Ce l’ho»
 
«E perché non me lo hai detto subito? Te ne stavi zitto con quella faccia del cavolo!» lo rimbeccò il vice, accigliato ma al tempo stesso sollevato da quella notizia.
 
«Se il piano avrà successo forse sarai in grado di uccidere il Gigante Bestia, ma dovremo sacrificare la mia vita e quella dei nuovi arruolati. È esattamente come dici tu, la maggior parte di noi morirà in ogni caso… anzi è molto probabile che i giganti ci uccidano tutti» le parole di Erwin suonavano distanti, come se risultassero estranee a lui stesso, e mentre ragionava si diresse a capo chino verso un vicolo appartato.
 
«Tuttavia dobbiamo cercare una possibilità di vittoria, senza badare al costo di vite umane. Quindi dovrò chiedere loro di morire per me. Sarà necessaria una messa in scena degna di un grande truffatore. Cavalcherò davanti ai miei uomini, altrimenti nessuno mi seguirà»
 
Il biondo si avvicinò ad una cassa di legno abbandonata contro il muro di un’abitazione lasciandovisi cadere, esausto e sconfitto.
 
«Questo vuol dire che morirò per primo…e non conoscerò il segreto che si cela in quella cantina»
 
Il Capitano lo fissò stralunato senza credere a quanto le proprie orecchie avessero appena udito, totalmente azzittito da quella rivelazione.

Carol rimase in disparte sentendosi estranea alla scena, come se stesse guardando un film.
 
«Levi, voglio entrare in quella cantina» ammise sinceramente Erwin «se sono riuscito ad arrivare fin qui è perché volevo che arrivasse questo giorno. Volevo… avere delle risposte prima o poi. Molte volte ho pensato sarebbe stato meglio morire, ma ogni volta mi tornava in mente il mio sogno e quello di mio padre… soprattutto adesso che quelle risposte sono a portata di mano! Sono così vicine…» la voce del Comandante si incrinò mentre gettava dietro di sé la mano, forse per afferrare la verità che sentiva scivolargli via dalle dita come sabbia in una clessidra.

«Ora dimmi Levi, riesci a vedere i nostri compagni? Loro ci osservano costantemente. Vogliono sapere a cosa sono serviti i cuori che hanno offerto. Perché la nostra guerra non è ancora finita. Dimmi Levi, tu credi che il mio desiderio sia solo uno stupido capriccio infantile?»
 
Nell’ascoltare quel surreale monologo il corvino stava sperimentando emozioni contrastanti. Dapprima aveva sentito una rabbia montargli dentro e con essa un potente impulso di prendere a schiaffi l’amico; Erwin aveva sempre messo il bene dell’umanità davanti alla vita del singolo, ma dopo quelle parole sembrava che tale concetto valesse solamente per le vite degli altri.

Che diamine stava farneticando? I loro compagni d’arme caduti non avevano forse sogni? E nonostante ciò si erano sacrificati. I loro sogni erano quindi insignificanti rispetto al suo?

Ma poi ponderò meglio l’affermazione, ne registrò il tono abbattuto e terribilmente amareggiato da cui traspariva un genuino dolore.

E a quel punto, di fronte a sé, al fiero Comandante del Corpo di Ricerca si sostituì il fantasma di un ragazzino dai grandi occhi celesti.

In essi scorse un’immensa tristezza e gli fu chiaro cosa il sogno della cantina significasse davvero per Erwin.

Non rappresentava solo la soddisfazione di una personale brama di sapere, quell’ideale era l’eredità che aveva ricevuto dal padre defunto, tutto ciò che gli rimaneva di lui.

E forse anche l’opportunità di redimersi per averlo condotto alla morte consegnandolo involontariamente nelle mani della Gendarmeria.

Lasciare quel sogno incompiuto avrebbe significato perdere il genitore una seconda volta, nonché l’impossibilità di rendere quest’ultimo fiero del proprio figlio.  

“Sono stato bravo, papà?” era la domanda silenziosa che pareva filtrare dalla trama a raggera di quelle iridi cristalline.

Tuttavia le circostanze esigevano il pugno di ferro ed il cinismo dell’età adulta. E Smith ne era ben consapevole, su questo Levi non aveva alcun dubbio.

Ma allora a che pro suggerire un piano suicida per poi pronunciare tali parole? Si interrogò sinceramente perplesso.

Poi si illuminò.

Era una richiesta di aiuto diretta a lui.

In cuor suo Erwin aveva già scelto, ma necessitava di una conferma.
Aveva bisogno di qualcuno che gli impedisse di revocare quella decisione, permettendogli di tenere fede allo scopo più grande verso cui aveva sempre teso il suo cammino.

Il Bene dell’umanità.

Così come sapeva che quella soluzione costituiva la loro unica speranza di riuscita, al tempo stesso non aveva il coraggio di pronunciarla, perché non voleva essere lui a calare la scure sul proprio sogno. Ed appunto in virtù della consapevolezza di tale tentennamento si era lasciato andare a quella sofferta confessione, implorando indirettamente Levi di emettere la sentenza di morte al posto suo.
 
Il Capitano dunque con un gesto solenne si inginocchiò davanti al proprio Comandante.
 
«Hai combattuto bene, se siamo arrivati fin qui lo dobbiamo a te» intonò fermamente, a capo chino per celare ad Erwin la smorfia sofferente che gli contraeva il viso «ma adesso decido io»
 
La gola gli si fece secca e raccogliere il coraggio di articolare le parole successive gli costò uno sforzo immane.
 
«Devi rinunciare al tuo sogno e morire, devi condurre i novellini dritti all’inferno, mentre io ucciderò… il Gigante Bestia.
 
Erwin socchiuse lentamente gli occhi ed un sorriso sereno si disegnò sulle sue labbra, l’accettazione del proprio destino.
 
Allora li riaprì guardando con riconoscenza il compagno di tante battaglie e avventure.
 
«Levi…ti ringrazio»
 
Carol assistette rassegnata a quello scambio di battute, senza nascondere la propria tristezza. Ormai mestamente consapevole di come in realtà non potesse cambiare il corso degli eventi. Forse proprio in questo stava la soluzione, nell’abbandonare il controllo e lasciare che la storia si dispiegasse come era scritto fin dal principio. Il suo goffo tentativo di porre rimedio a quelli che aveva interpretato come errori non aveva fatto altro che ritorcersi contro lei stessa.
Non poteva impedire la morte di quell'uomo straordinario, tuttavia c'era ancora un particolare su cui si rifiutò di arrendersi, in barba al destino.

Il Comandante meritava di sapere. 

«Levi, lasciaci soli per favore»
 
Il corvino si irrigidì, il suo sguardo corse dalla ragazza ad Erwin per poi soffermarsi di nuovo su di lei. Quindi annuì e si allontanò verso le reclute.
 
«Resta seduto, Erwin» disse Carol nel tono più dolce e pacato di cui fu capace, lo stesso che avrebbe usato per consolare un bambino in lacrime. E tale scelta vocale la colpì molto, perché di primo acchito le sembrò stridesse con l’uomo possente che aveva davanti a sé.

Eppure al tempo stesso le suonò come la più calzante.

Il volto di lui riacquistò colore e mentre le loro iridi si specchiavano l’una nell’altra una strana fiamma ne accese lo sguardo. Un ultimo barlume di curiosità, la smania di sapere che continuava ad ardere in quell’animo tenace.
 
La giovane trasse un profondo sospiro.
 
«Ti devo raccontare una storia»

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


                                                                                    
Salve a tutti!
Chiedo scusa per l’immenso ritardo, purtroppo tra i tanti impegni che si sono susseguiti ho dovuto mettere la scrittura in secondo piano. Sarà un capitolo un po’ lungo e forse più pesante del solito ma spero che comunque riesca ad intrattenervi. Come sempre vi ringrazio per la pazienza e l’interesse che mostrate verso il mio racconto 
❤! Adesso vi lascio al capitolo, mentre io corro a recuperare la lettura di tutte le storie che sto seguendo e che ho lasciato in sospeso in questi mesi🙈. Buona lettura!



                                                                          18


Marley, 3 giorni prima degli eventi di Shiganshina.

L’eco dei passi di Porco rimbalza sordo nel corridoio e la sua ombra lo precede frettolosa allungandosi sul pavimento, anche lei impaziente di arrivare a destinazione.
La calda luce delle fiaccole che si susseguono ordinatamente sulle pareti di pietra sembra indicargli la strada da percorrere in quel dedalo di anditi pregni di umidità. Pochi metri lo separano dalla “Sala delle successioni”, così è chiamato quel luogo nei sotterranei della caserma riservato al passaggio di testimone del potere dei giganti. Dopo tutti gli eventi verificatisi in quegli anni concitati Porco aveva cominciato a temere che a lui non sarebbe mai toccato il privilegio di entrarvi.
Il colletto della camicia gli stringe fastidiosamente la gola ma a lui non importa, perché aspetta questo momento da anni e non sarà certo un pezzo di stoffa a guastare il suo umore.

Cinque anni prima quel bastardo di Reiner gli aveva soffiato l’eredità del Corazzato, salpando alla volta di Paradis con Marcel e gli altri guerrieri.Lui invece, nonostante i voti ben maggiori e le ottime prestazioni collezionate nel corso dell’intero addestramento, era rimasto a terra con l’amaro in bocca e l’animo roso dal rancore.

Quella missione però era stata sfortunata in partenza.

Il fratello era morto per proteggere Braun e con esso era andato perduto il potere del Gigante Mascella, confermando a Porco quanto il suo commilitone non meritasse affatto l’onore che gli era stato concesso.

Così, quando poche ore prima all’alba Pieck e la truppa di supporto erano inaspettatamente attraccati al porto accompagnati da un ricco bottino, lui aveva gioito per la fortuna che finalmente gli aveva sorriso. Questa è la sua occasione per dimostrare quanto valga, avendo successo dove Reiner aveva invece miseramente fallito. Non solo, non appena avesse divorato quella ragazza, che ironicamente portava il nome di Ymir, avrebbe potuto accedere anche ai ricordi di Marcel e vedere così più chiaro su molte cose.

«Guerriero onorario Porco Galliard» si presenta scandendo il proprio nome alle due guardie che stazionano di fronte all’imponente ingresso della Sala.

I due militari in risposta battono sonoramente a terra il piede sinistro seguito dal destro e contemporaneamente portano il fucile prima sul lato del cuore, poi al fianco.
A quel punto rivolgono a Porco un profondo inchino, rizzano nuovamente la schiena e con uno scatto di novanta gradi si posizionano l’uno di fronte all’altro.
Infine arretrano a passo di marcia ai lati del portone di quercia, dove rimangono immobili come statue.

Porco assiste con estrema impazienza a quel cerimoniale, ai suoi occhi solo una colossale perdita di tempo progettata per indisporlo. 

Dall’altra parte lo sferragliare dei vecchi ingranaggi accompagna l’apertura del pesante portone, mentre le due ali cedono lentamente cigolando verso l’interno.

Quando esso è completamente spalancato Porco avanza fino al centro della stanza.

L’ambiente è immerso in una vaporosa ed eterea luce azzurrina che sale come fumo verso l’alto soffitto.

Di fronte a lui svetta una torre di roccia alta circa cinque metri sulla cui cima è inginocchiata, con i polsi imprigionati da pesanti catene, la ragazza che porta il nome di Ymir. Veste una semplice tunica di un bianco quasi accecante, la classica prevista dal rituale, e tiene il capo chino. Il viso è coperto dai capelli castani che le ricadono scompigliati sul davanti ma Porco non fa fatica ad intuire cosa stia provando, sicuramente impaurita per ciò che tra pochi istanti le accadrà.

Lui invece non ha paura, è tutta la vita che si prepara a quel momento, a quel riconoscimento che finalmente gli verrà giustamente elargito.

Il portone si chiude alle sue spalle segnando l’inizio della cerimonia e lui avverte le mani farsi sudaticce, anche se la temperatura della Sala è ben lontana dal potersi definire calda.

Sulla parete di fondo, rialzato di qualche metro rispetto al pinnacolo roccioso, è collocato un ballatoio da cui gli alti ufficiali dell’esercito possono assistere all’evento.

Nota che tra loro c’è anche Pieck.
Appena lei si accorge della sua presenza si porta la mano alle labbra stampandoci un bacio che poi soffia verso di lui. Porco reagisce con una smorfia e distoglie velocemente lo sguardo, imbarazzato da quel gesto così inopportuno. Ma Pieck è fatta così e non ci si può fare niente, lui l’ha imparato da tempo. Il loro è un rapporto di amicizia tra due caratteri opposti, costruito su quella singolare diversità che fa costantemente battibeccare due persone quando sono insieme facendo poi sentire la mancanza l’uno dell’altro quando sono distanti.

La sua attenzione viene catturata dal Comandante Magath vestito in alta uniforme militare e comparso a sinistra da una porta laterale. Il superiore gli si avvicina seguito da un uomo canuto e distinto che regge una borsa di cuoio, sicuramente il medico incaricato di somministrargli il siero.

Entrambi si fermano esattamente ad un metro di distanza da lui.

«Porco Galliard, guerriero Eldiano onorario di Marley» intona Magath con tutta la solennità richiesta dalla circostanza «accetti tu di ereditare il potere del Gigante Mascella, giurando di adoperarlo al servizio di Marley, la madrepatria che ti ha nutrito, addestrato e a cui hai votato la tua fedeltà e la tua vita?»

Porco raddrizza ancora di più la schiena per mostrare tutta la propria determinazione.

«LO GIURO» scandisce recitando le parole che ha imparato a memoria «giuro di usare il potere che mi viene qui ed ora concesso dalla grazia di Marley per proteggere la grande nazione che mi ha accolto, e con essa tutti i suoi abitanti. Giuro di mettere la mia vita al servizio della causa per rimediare al peccato di Ymir e porre fine alla minaccia rappresentata dai demoni dell’Isola di Paradis»

Non c’è alcuna esitazione nella sua voce, nessun tremore ed è soddisfatto di come ha pronunciato il giuramento.

Anche Magath pensa lo stesso, Porco lo capisce dallo sguardo orgoglioso che il Comandante gli rivolge prima di fare cenno al medico di procedere con l’iniezione.

L’anziano dottore gli si accosta impugnando la siringa di vetro.

Il liquido riluce come argento e Porco sente il cuore che inizia a battergli più forte sbattendo impetuoso contro lo sterno.

L’uomo gli risvolta la manica della camicia e con mani esperte tasta l’avambraccio in cerca di una vena.

Prima che l’ago gli trapassi la pelle Porco lancia quasi senza pensarci un ultimo sguardo alla ragazza che tra pochi istanti divorerà.

Adesso anche lei lo sta fissando.

Il volto è cereo e gli occhi sembrano biglie di vetro assenti come quelle di una bambola. Eppure lui ha la sensazione che gli buchino l’anima come baionette affusolate.

La bocca mostra l’accenno di un sorriso inanimato dalla parvenza, si potrebbe dire, quasi serena.

Porco deglutisce a vuoto e mentre il siero gli entra in circolo in un gelido abbraccio capisce che in realtà quello ad avere paura è solo lui.
                                                                                           

                                                                 ●∞●  ̰ ●∞●  ̰ ●∞●

 
«Quindi mi stai dicendo… che fuori da queste mura esiste un immenso oceano e al di là di esso un continente dove vive il resto dell’umanità»

«Esatto» confermò Carol studiando il volto pallido e frastornato di Erwin, pervasa dal dubbio di aver commesso un errore madornale.

«E che tutti gli abitanti del mondo ci odiano perché noi siamo il popolo di Ymir, per questo siamo confinati su quest’isola e fatti divorare dai giganti»

La giovane deglutì faticosamente, sentendosi la bocca arida ed impastata.

«Anche questo è vero»

Lui si coprì il volto con l’unica mano solcata da cicatrici biancastre e Carol trattenne il respiro.

In quel momento le massicce spalle dell’uomo cominciarono a sussultare scosse da fremiti, come se stesse singhiozzando.

«Erwin…» gli si avvicinò lei guardinga.

Ma l’altro rovesciò il capo all’indietro abbandonandosi con la schiena al muro, effettivamente con le lacrime agli occhi ma non dovute al pianto.

Erwin Smith si stava sganasciando dal ridere e la ragazza pensò di averlo mandato completamente fuori di testa.

Quello sfogo rauco e sguaiato durò per un minuto che parve interminabile, catturando l’attenzione di Levi e delle reclute che squadrarono il loro Comandante perplessi per un simile atteggiamento del tutto fuori luogo.

Quando si fu calmato il biondo tornò a guardare Carol con un’espressione in cui ogni traccia di ilarità era scomparsa, lasciando il posto ad un volto livido.

«Quindi non cambierà mai niente» proferì in tono tetro «a che serve che io mi sacrifichi, che ordini ai miei uomini di farlo, se poi questa battaglia sarà solo l’inizio. Adesso combattiamo i giganti, poi verrà il momento dell’umanità intera. Ci sarà sempre e solo sangue per noi… e tutto perché siamo condannati senza appello per un crimine di cui non eravamo nemmeno a conoscenza»

Carol era in tralice, avrebbe voluto che il portale si aprisse in quel preciso istante solo per potervici saltare dentro e fuggire dalla situazione in cui si era cacciata con le proprie mani.

Invece era lì, costretta a trovare le parole giuste per convincere quell’uomo ad andare a morire oltre che per conferirgli la forza di spronare i sottoposti a seguirlo.
Aveva deciso di raccontare ad Erwin la verità sul mondo esterno per consentirgli di andarsene senza rimpianti, realizzando in qualche modo il suo sogno, ma ora che lo vedeva così affranto non le sembrava più un’idea tanto geniale.

«La guerra è l’invenzione umana più terribile che esista» disse pacatamente, mettendosi in ginocchio davanti a lui proprio come aveva fatto Levi poco prima «tronca senza pietà vite che meriterebbero una fine tranquilla dopo un’esistenza fatta di sudore e fatiche. Ne spezza altre che avrebbero ancora sogni da realizzare, amori da coltivare, sbagli da compiere. Priva quelle che non sono venute al mondo della possibilità di vedere la luce, di crescere. Finché l’uomo abiterà questa terra, finché non mancheranno persone desiderose di prevaricare su altre agendo con malignità per ottenere il potere o la vendetta, ci sarà sempre un nuovo conflitto. È utopistico pensare ad una realtà senza violenza, senza scontri, semplicemente la nostra razza non ne può fare a meno. O meglio, non ha ancora imparato a farlo. Perché Erwin ascoltami bene, al tempo stesso ci sarà sempre qualcuno in grado di andare oltre questa cattiveria, di ribellarsi a questo circolo vizioso, di lottare sì, ma per un mondo migliore. E l’eredità che lasceranno ai posteri sarà un messaggio d’amore che si radicherà sempre di più e forse, un giorno, questa oscurità avrà fine. Io ho fiducia in questo…devo averla. E lo stesso vale per te»

Erwin la guardò come se la vedesse per la prima volta, come se finalmente capisse quella straniera giunta da una terra lontana a sconvolgere le loro vite. Come se tra le righe di quelle frasi criptiche e piene di allusioni incomprensibili leggesse adesso una verità comune ad entrambi.

«Quindi… mi stai chiedendo di offrire il mio cuore per una causa più grande» mormorò accennando ad un sorriso.

«Oppure per una folle speranza che proprio non voglio abbandonare» chiosò Carol reclinando la testa di lato.

«Forse» ridacchiò Smith rimettendosi in piedi insieme a lei «ma di certo non sarà un altro folle come me a giudicarti»

Si mantennero entrambi l’uno di fronte all’altro poi fu Erwin a parlare, con un atteggiamento che la ragazza ebbe il piacere di definire rilassato, in pace con sé stesso e con il proprio destino.

«Dunque immagino che questo sia il momento di andare…ti ringrazio Carol, davvero. Grazie per le tue parole, grazie per avermi dato la risposta alle domande che mi porto appresso da una vita. Anche se non mi hai rivelato come evolverà la storia dopo la mia morte posso immaginarla e so che la mia squadra saprà cavarsela egregiamente anche senza di me, come è giusto che sia. Ho sempre pensato che un bravo Comandante si riconosca da quanto è in grado di rendere autonomi i propri uomini e, senza vantarmi, credo di potermi ritenere soddisfatto del mio lavoro»

Gli occhi del biondo guizzarono su Levi in un’espressione mista di malinconia ed affetto.

«E grazie per lui» disse mentre la giovane sentiva un freddo glaciale scivolarle nello stomaco, inesorabile quanto una slavina lungo uno scosceso pendio.

Erwin sembrò avvertire l’agitazione di lei e proseguì senza guardarla.

«So cosa ho detto prima sulle mura e non lo rinnego. Ma non posso ignorare che Levi avesse bisogno di qualcuno che lo aiutasse a vedere un po’ di luce in questo mondo, da tempo io non ero più capace di assolvere a tale compito. E se è vero che tutto accade per una ragione…sono contento che lui abbia trovato te, in qualche modo gli hai ricordato che c’è sempre un valido motivo per continuare a lottare. Per offrire il proprio cuore. Come hai fatto ora con me»

Si voltò quindi nella sua direzione, tendendole la mano e distendendo le labbra in un ampio sorriso.
«Buona fortuna Carol. E buon ritorno a casa»

Lei scosse la testa e rifiutò quell’offerta, gettando invece le braccia attorno al massiccio busto del soldato con grande stupore di quest’ultimo.

«Oh Erwin… avrei tanto voluto evitare tutto questo» singhiozzò stringendolo più forte e biasimando sé stessa per quel ridicolo paradosso in cui lei veniva consolata dall’uomo che stava per morire. Smith parve non leggere la scena allo stesso modo e ricambiò invece con dolcezza l’inaspettato abbraccio.

«Lo so tranquilla. Va bene così Carol»

Quando si separarono la giovane si asciugò le lacrime con la manica della camicia e lui sorrise arruffandole affettuosamente i capelli con la mano. Carol dovette riconoscere con amarezza che sarebbe stato un ottimo padre, se solo il destino gli avesse riservato una strada diversa.

O se lei non avesse fallito quella missione.

Erwin la guardò con benevolenza come se ne avesse intuito i pensieri.

«Andiamo, è giunta l’ora di lasciare un segno nella storia» proclamò solennemente.


 
                                                                    ●∞●  ̰ ●∞●  ̰ ●∞●




Mentre Armin volava sopra i tetti della propria città natale al tempo stesso così familiare ed estranea, era perfettamente consapevole del destino che l’attendeva.

E per quanto la ragione gli suggerisse di lasciarsi sopraffare dal naturale istinto di sopravvivenza, non provava affatto paura.

Sentiva invece una calda tranquillità pervadergli le membra, una lucida accettazione del proprio compito resa ancora più serena dalla cognizione che quella scelta avrebbe garantito la salvezza dei suoi amici e, per esteso, dell’umanità intera.

Persino l’aria che stava respirando aveva un odore diverso; il vento lo investiva con un sentore bagnato e quasi salato, portando con sé l’eco delle parole di Eren.

«Non so neanche io il perché, ma quando penso alla nostra libertà, sento le mie forze moltiplicarsi»

Giunto in vetta alle mura planò sul corpo del Gigante d’Attacco e fece scattare i grilletti delle else. Con un rumore viscido i rampini si conficcarono in quella carne titanica fornendo al ragazzino un saldo ancoraggio per ciò che stava per fare.

«Se questo piano funzionerà, allora… io non riuscirò più a vedere il mare» ammise concedendosi una punta di amarezza per quell’unico rimpianto che si sarebbe lasciato alle spalle «non so bene il perché ma quando penso al mondo esterno… sento nascere il coraggio in me!»

Nel pronunciare quelle parole le sue mani impugnavano saldamente la spada, non tremavano più come durante la traversata nella foresta. Vi era però una fondamentale differenza, perché questa volta non era stato il suo amico d’infanzia a restituirgli il coraggio, ora quella forza maestosa nasceva dal suo stesso cuore.
La sentiva ardere nel petto irradiandosi in tutto il corpo come un flusso tangibile, caldo e fluido quanto il sangue che gli scorreva nelle vene. Armin stesso ne aveva innescato la miccia alimentandola sempre di più con il passare del tempo.

Tutti quegli anni vissuti all’ombra delle grandi gesta altrui, confinato in disparte dalle sue stesse insicurezze e dal timore di non essere all’altezza terminavano in quel momento.

E sarebbe stato proprio lui a decretarne la fine.

Il volto di Carol gli si parò davanti agli occhi e le parole di lei gli risuonarono più che mai profetiche.

Sì, sarebbe stato coraggioso e li avrebbe salvati tutti.

I suoi compagni avrebbero visto quell’immensa distesa di acqua salata anche per lui, ne era sicuro.

Dopotutto Carol gli aveva detto che era vero… tutti quei luoghi incantati esistevano là fuori, pronti per essere scoperti.  

Solo che lui non li avrebbe mai ammirati.

«Svegliati Eren!» chiamò Armin affondando la lama nei muscoli roventi dell’amico «andiamo a vedere il mare!»




                                                                    ●∞●  ̰ ●∞●  ̰ ●∞●
 



 
«CHE COSA? Non posso usare il dispositivo di manovra tridimensionale, è una zona completamente vuota, non ci sono alberi o edifici da sfruttare»

La tonalità della voce e la tensione nervosa con cui vibrava ogni cellula del corpo di Levi esprimevano tutta la sua reticenza nell’accettare quel piano dell’ultimo minuto. Tale indisposizione d’animo non era da attribuire ad una mancanza di fiducia verso il Comandante, bensì al fatto che tale strategia comportasse due certezze che andavano a braccetto l’una con l’altra, inscindibili.

La prima, nonché l’unica positiva, era che sarebbe stato garantito l’abbattimento del Bestia perché il Capitano portava sempre a termine una missione.

La seconda, quella che più lo frenava, era che tutti i soldati ed Erwin stesso sarebbero morti.

Con un simile macigno sul cuore il soldato era chino davanti alle casse di munizioni a fare rifornimento di lame in vista dell’imminente battaglia, perché comunque avrebbe seguito Smith anche nel più disperato dei piani, tanta era la lealtà che nutriva per quell’uomo.

Una dedizione viscerale che risaliva al giorno in cui Levi aveva tentato di uccidere nientemeno che il suo futuro Comandante.

Ricordava benissimo quell’occasione rimastagli impressa a fuoco nella memoria e nel cuore.

Si trattava di un momento incredibile per chi, come lui, era abituato alla perenne oscurità della Città Sotterranea e non aveva mai contemplato lo splendido scenario che si dipana al termine di un temporale, quando il sole traccia scie dorate tra le nubi ormai disidratate ed il mondo brilla come ricoperto di gemme preziose.
Levi avrebbe voluto sdraiarsi su quell’erba verde ed assaporare la libertà godendosi il delicato tepore dei raggi che gli accarezzavano la pelle.
Posare le armi e fermarsi ad ascoltare l’orchestra della natura che timidamente, dopo essere stata messa a tacere dalla furia della tempesta, riprendeva la propria sinfonia.

Ma tutta quella bellezza era stata imbrattata da una carneficina ed il profumo di terra bagnata era soverchiato dall’acre odore di sangue, nonché dal rovente vapore che si levava dalla carcassa del gigante da lui appena ridotto a brandelli.

Invece del canto degli uccellini e del ronzio degli insetti un martellante suono aveva riempito le orecchie del Capitano; l’eco delle sue stesse urla e del dolore che gli aveva squarciato il petto, pulsante quanto una ferita fisica.

E nel medesimo istante in cui aveva affondato la propria lama nella carne di Erwin, affacciandosi sull’abisso senza ritorno in cui si stava per gettare, Levi ebbe la certezza di non poter reclamare la vittoria di quel duello.

 «Non farlo. Se proverai rimpianto questo offuscherà le tue scelte future e lascerai che siano gli altri a decidere per te. E allora non ti rimarrà altro da fare che morire. Nessuno può predirne l’esito, ogni decisione che prendi ha significato solo nel modo in cui influenza la decisione successiva. Noi proseguiremo con le spedizioni. Mi aspetto che tu venga con me»

Erano bastate quelle parole ed il celeste di quegli occhi, così brillante da fargli paura ed in confronto al quale persino l’azzurro del cielo pareva spento, a trapassargli l’anima soverchiando ogni sua resistenza.

Un invincibile istinto era scattato dentro di lui, qualcosa che non era più stato in grado di soffocare e che per gli anni seguenti sarebbe divenuto una delle poche ragioni di vita a cui aggrapparsi.

Perché in quel giorno di pioggia in cui la sua unica famiglia gli venne portata via Levi trovò qualcos’altro.

Tutti i militari che lo circondavano avevano perso e continuavano a perdere compagni una spedizione dopo l’altra, in un circolo di veglie funebri senza fine. E se in principio al Capitano era sembrato assurdo che essi tollerassero a ripetizione un simile strazio, in quel momento comprese cosa permettesse loro di rialzarsi in piedi ogni volta, di lottare con sempre maggior ardore, di affrontare altre sofferenze. Venne folgorato dall’idea che le vicissitudini della propria vita, intrise di dolore e violenza, potessero essere convertite in una furia che, contrariamente a ciò che gli aveva insegnato Kenny, ardesse per generare invece che distruggere.

E se ancora ignorava quale sommo ideale dovesse perseguire, dove dovesse incanalare tale furia, allora avrebbe messo le proprie abilità sovrumane al servizio di qualcuno che invece un grande scopo lo possedeva.

Qualcuno che riuscisse a volare oltre le immense mura visualizzando il tanto decantato Bene per l’Umanità e forse, lungo il cammino, lo mostrasse anche a lui.

E scontrandosi con l’altero profilo di Erwin ebbe la chiara percezione che egli fosse la guida di cui era inconsciamente alla ricerca. Dietro le parole del Comandante ne lesse non solo il pesante senso di responsabilità ma anche la promessa di assolvere ad un grande scopo. Di fronte a sé vide un uomo che aveva imparato a padroneggiare l’abilità di rialzarsi ad ogni sconfitta e che, per uno strano fenomeno naturale, irradiava siffatto potere a tutti coloro che lo affiancavano.

Levi provò quindi il bisogno, fisico ed irrefrenabile, di attingere anche lui a tale fonte dando ascolto alla necessità fino ad allora ignorata di assolvere ad uno scopo più grande e di sentirsi utile, indispensabile persino.

Ed in virtù di ciò per tutti quegli anni aveva seguito Erwin offrendo il proprio cuore per la causa. Non gli importava che le malelingue lo additassero come cagnolino di Smith, il Capitano sapeva che tale lealtà non fosse dettata da una mancanza di forza di volontà, poiché lui era assolutamente in grado di decidere per sé stesso.

Eppure ora, all’avvicinarsi della morte di Erwin, lo aveva assalito il terrore di ciò che sarebbe stato senza la possibilità di esaudire gli ordini del suo Comandante. Senza poter consultare quella preziosa bussola su cui aveva fatto affidamento per eludere le tenebre che lo seguivano come avvoltoi fin dalla nascita. Non voleva aggiungere il volto di Erwin al novero di anime a cui rendere omaggio al bagliore della lanterna durante le notti insonni prima delle spedizioni.

«Nessuno può predirne l’esito. Ogni decisione che prendi ha significato solo nel modo in cui influenza la decisione successiva»

Sei anni prima Levi aveva compiuto la scelta quasi inconsapevole e spontanea di affidarsi ad Erwin.

La decisione che aveva preso poco prima, di imporre la propria autorità invertendo i rispettivi ruoli, era stata invece pienamente consapevole e ragionata. Quella scelta era tanto di Erwin quanto sua, ma Levi era stato l’unico a raccogliere il coraggio di pronunciarla ad alta voce per entrambi.

Ebbe la certezza che fosse proprio quella la famosa decisione futura che dava significato alla passata.

Come se ogni evento, ogni attimo di vita, fosse accaduto per prepararlo all’inesorabile attimo in cui avrebbe dovuto tagliare la corda che fino ad allora lo aveva legato ad Erwin.  

Per la prima volta gli sembrò di ragionare davvero in maniera indipendente, affidandosi alla propria bussola interiore, ben conscio che quel piano costituisse la loro ultima freccia da scoccare. Se avesse visto anche solo un’alternativa, se avesse letto negli occhi di Smith la possibilità di un piano diverso, non lo avrebbe mai spronato a lanciarsi verso la morte. Ed ora il silenzio di Carol, nonché il modo in cui evitava il contatto visivo dopo quel colloquio segreto con Erwin, gli avevano dato la conferma che non rimaneva davvero altra via.

«Ti sbagli» l’osservazione del biondo parve giungere da lontano, aprendo una breccia nella mente di Levi tormenta dai dubbi e nella quale il tempo si era dilatato per un istante infinito «hai degli appigli alti quanto basta, immobili e perfettamente allineati. Per muoverti sfrutterai i giganti e attaccherai di sorpresa il Gigante Bestia»

Il Capitano realizzò di essere definitivamente a corto di obiezioni ed annuì.

Dopo aver infilato l’ultima lama nell’apposito scomparto si rialzò per controllare che tutte le cinghie dell’imbragatura fossero ben salde.
Quella stretta rete di cuoio che da anni gli avvolgeva il corpo come una seconda pelle gli parve ora estremamente insopportabile.  

«Ho piena fiducia in te Levi e fin dal primo giorno non ho mai dubitato delle tue capacità» parlò Erwin rivolgendosi con affetto all’amico «ti sono riconoscente per l’enorme aiuto che mi hai dato in questi anni…e per ciò che mi hai detto oggi. Grazie per aver scelto il Bene dell’Umanità quando io non ne sono stato in grado…non può esserci decisione più giusta di questa. La mia morte non dovrà in alcun modo pesare sulla tua coscienza, intesi?»

Il corvino alzò gli occhi verso il proprio interlocutore, attento.

«Agli ordini»

Smith ne sostenne lo sguardo finché non fu certo di leggervi ciò che cercava, forse il fiume di ricordi che i due condividevano, forse l’eco della vecchia promessa che li aveva resi compagni d’avventura.

Poi voltò le spalle a Carol e Levi squadrando ciò che rimaneva del Corpo di Ricerca, un esiguo numero di reclute inesperte accucciate a terra a disperarsi come bambini spaventati.

«Ecco i dettagli dell’operazione finale. SOLDATI, IN RIGA!» gridò catturando l’attenzione dei sottoposti che si rizzarono subito in piedi.

«Caricheremo in sella ai cavalli» intonò «e il nostro obiettivo sarà il Gigante Bestia! Ovviamente per lui saremo dei bersagli facili. Quando l’obiettivo inizierà il suo attacco lanceremo tutti i nostri razzi segnalatori, per quanto possibile limiteremo la sua precisione. Mentre noialtri faremo da esca…il Capitano Levi abbatterà il Gigante Bestia. Questi sono i miei ordini»

Carol osservò di sottecchi Levi all’apparenza come sempre impeccabile nel suo contegno stoico, ma lei sapeva bene quanto si stesse sforzando nel tenere a bada l’inferno che gli imperversava dentro.

Poi passò in rassegna i volti pallidi di quei soldati, ragazzini gettati troppo presto in una guerra da adulti.

Tremavano come foglie ed una recluta si accasciò a terra vomitando.

«Qui non potremo fare altro che aspettare che quelle pietre ci colpiscano. Iniziate ora i preparativi!» aggiunse Smith parlando al di sopra dei conati della soldatessa.

«Comandante, sta dicendo che moriremo tutti?» domandò Flock con il terrore che trasudava dagli occhi e dalla voce.

Erwin lo guardò senza battere ciglio.

«Proprio così»

«Anche se il nostro destino è comunque segnato… vuole che moriamo combattendo?»

«Esatto»

Una smorfia distorse l’espressione del ragazzino mentre le lacrime iniziavano a fare capolino dai suoi occhi spauriti.

«Ma… proprio perché moriremo… nulla ha più un senso. Potremmo morire disobbedendo e non cambierebbe niente giusto?»

«Precisamente soldato» rispose Smith con una spiazzante freddezza di cui solo un vero condottiero poteva essere capace «è vero, nulla ha più senso. La morte prescinde dai nostri sogni. Prescinde dalla vita felice che abbiamo vissuto… o dalle pietre che ci massacreranno. Tutti prima o poi moriremo, ma credi che la vita sia priva di valore? Che essere venuti al mondo non abbia alcun significato? Pensi lo stesso dei nostri compagni, che il loro sacrificio non abbia avuto un senso?»

Quegli interrogativi aleggiarono nell’aria mentre tutti i militari lo fissavano a bocca aperta.

«NON È COSÍ!» gridò il Comandante con tutto l’ardore che aveva in corpo «saremo noi a dare un significato alla loro morte, ai nostri sfortunati e valorosi caduti! Solo i vivi possono ricordarli. Noi moriremo qui! E affideremo il nostro significato a coloro che resteranno in vita. È l’unico modo che abbiamo per opporci e lottare contro questo mondo crudele!»

Nessuno dei presenti osò contraddire quelle affermazioni che anzi riscossero gli animi di tutti nel momento di maggior bisogno.

Ancora una volta Erwin Smith era riuscito nell’impresa di rendere eroica la prospettiva della morte, ammantandola della consapevolezza dell’importanza che quel sacrificio avrebbe avuto per i posteri.

I membri del Corpo di Ricerca drizzarono la schiena battendo con forza e convinzione il pugno sul cuore, in un saluto solenne che metteva in luce tutto il loro senso del dovere.

Smith annuì, enormemente fiero di quei ragazzini che ora davanti a lui si erano trasformati in uomini d’onore a tutti gli effetti.

«AI VOSTRI POSTI SOLDATI!» impartì prima di recuperare il proprio cavallo.

Tutti si affrettarono ad imitarlo, in quella che sarebbe stata la loro ultima cavalcata.

«Carol, adesso sali sulle mura e aspetta l’arrivo di Hange. Insieme tornerete al Wall Rose» parlò Levi accostandosi alla giovane e dando a quell’esternazione il tono di un ordine nemmeno tanto velato.

«Io non tornerò indietro Levi. E Hange non arriverà»

«Carol…»

«Carol un corno» contestò lei con fermezza «sono a conoscenza dell’accordo tra te e Hange e ti confermo che lei non mi riporterà indietro. Ha cose ben più importanti da fare, ora più che mai ognuno di voi deve attenersi al proprio ruolo. Questa battaglia potrà essere vinta solo se tutti voi rimarrete ai vostri posti, tu per primo»

Lui la fissò combattuto ma la ragazza non cedette di una virgola, certa che il Capitano comprendesse il suo ragionamento.

«UOMINI! PER L’ULTIMA VOLTA VI CHIEDO DI OFFRIRE I VOSTRI CUORI!» risuonò chiara la voce di Erwin.

«Resta nascosta allora. Per favore» la implorò Levi lanciandole uno sguardo inequivocabile.

«…Sì»

Prima che potessero dirsi altro il Comandante ed i militari diedero di speroni, mentre il corvino volò incontro ai primi giganti che come statue di pietra si ergevano immobili in mezzo al prato.

Carol rimase dov’era, a scrutare le volute di polvere e sabbia che quell’orda disperata stava sollevando.

Nell’abbassare lo sguardo ai propri piedi scorse nell’erba calpestata dal tramestio di uomini e cavalli uno scarafaggio che annaspava con il ventre rivolto al cielo.

Ne osservò la foga con la quale, basculando sulla dura corazza, agitava nell’aria le zampe alla spasmodica ricerca di un appiglio invisibile con cui farsi leva e pensò che non avrebbe trovato migliore paragone con la propria condizione.

«SOLDATI GRIDATE! SOLDATI COMBATTETE!» furono le ultime parole che udì pronunciare da Erwin, prima che l’assordante schianto dei massi coprisse ogni cosa.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


Salve a tutt*! Chiedo nuovamente scusa per essere sparita, purtroppo ai vari impegni si è aggiunto uno spiacevole “blocco dello scrittore” che ora dovrei aver risolto. Spero che il capitolo valga la lunga attesa, buona lettura e grazie ancora per seguire la mia storia!


 
                                                                                 19




«Figliolo, vieni qui per favore»

Il piccolo Erwin si siede al tavolo di fronte al padre obbedendo a quella richiesta calma che al tempo stesso tradisce però l’urgenza di un ordine. La loro piccola, povera cucina è illuminata dalla debole luce di una candela, le tende alle finestre sono state tirate in modo da oscurare alla vista di eventuali curiosi di passaggio ciò che sta accadendo in quella stanza. Il ragazzino non capisce come mai sia necessaria una tale precauzione, ciononostante si limita ad assecondare il volere del padre. L’unica domanda di cui gli interessa risposta, in fondo, l’ha posta quella mattina in classe durante l’ora di storia ed è una risposta per la quale gli è stato detto di attendere la sera.
Il Signor Smith si guarda in giro furtivo, come se nascoste dietro ai tendaggi o nelle globose ombre che si allungano nell’oscurità della casa ci fossero appostate spie nemiche.
Estrae dalla tasca dei pantaloni il fazzoletto con le iniziali ricamate e si asciuga la fronte un po’ sudata.


Erwin aspetta paziente.

«C’è un motivo ben preciso se questa mattina in classe non ho risposto alla tua domanda» esordisce finalmente il padre, parlando a voce bassa «non perché fosse una richiesta insensata o futile, tutt’altro. Hai posto un quesito intelligente che mi rende molto fiero di te perché dimostra quanto tu possegga un grande senso critico andando oltre le apparenze. Nella vita è fondamentale interrogarsi costantemente sulle nostre azioni, su quelle degli altri, sui tanti misteri che ci circondano e non accettare passivamente tutto quello che ti viene raccontato, poiché non sempre il mondo sarà onesto con te nello svelare i propri segreti. Devi sapere che la conoscenza è un potere a tutti gli effetti ed in quanto tale si farà sempre a gara per detenerlo. Perché quando una verità che risulta scomoda diventa di dominio pubblico conferisce una forza più grande di eserciti ed armi, può far cadere monarchie sovvertendo ogni sistema. Ci sono verità “pericolose” di cui il Governo cerca disperatamente di controllare la divulgazione, ben consapevole di non poter impedire l’insorgere di dubbi, domande nelle persone … come è successo a te. Quello che ti sto per dire ha una portata devastante perciò ho bisogno che tu mi prometta che non lo racconterai a nessun altro, rimarrà un segreto tra me e te. Mi dai la tua parola, figliolo?»

Erwin annuisce ma in cuor suo non comprende tale supplica, sente solo una grande smania di sapere e l’adrenalina che gli scorre in corpo a tutta velocità.

Perché aver paura della verità se essa è ciò che bisogna perseguire? Dopotutto, è proprio suo padre ad averglielo insegnato.

L’uomo prende un profondo respiro, nell’arco di quei pochi minuti pare invecchiato di dieci anni.

«Nel corso delle lezioni in classe hai imparato che l’unica storia di cui abbiamo traccia è quella risalente a 107 anni fa, dal confinamento dell’umanità all’interno delle mura fino ai giorni nostri. Tuttavia…per quanto ci sia stata effettivamente un’invasione da parte dei giganti e ci sia stato detto che insieme alla stragrande maggioranza del genere umano siano andati perduti registri ed archivi, è assai inverosimile che non esistano informazioni sul periodo precedente alla nostra reclusione, come se prima di questo evento vi fosse il nulla. Sai, i libri ed i resoconti scritti non sono l’unico modo per raccontare una storia… c’è un’altra via molto più antica e profondamente radicata nella tradizione popolare, fatta di informazioni tramandate oralmente. In parole semplici, anche in mancanza di supporti cartacei le persone dell’epoca avrebbero potuto raccontare a voce le loro memorie sugli eventi passati, facendole arrivare ai giorni nostri. L’unica spiegazione che si può dare a questa strana amnesia collettiva è che i capi del nostro Governo, o chiunque qui detenga il potere, abbiano in qualche modo alterato la memoria della popolazione facendo loro dimenticare gli eventi precedenti alla venuta dei giganti»

Il ragazzino guarda il padre completamente affascinato da ogni singola parola.

«E per ricollegarmi alla tua domanda, qui tutti hanno accolto senza riflettere una storia che continua ad essere tramandata per vera quando invece fa acqua da tutte le parti. Si dà per certo che fuori dalle mura non esista più il genere umano, ma come possiamo esserne sicuri se, per l’appunto, non possediamo alcuna informazione in merito e nessuno si è mai davvero avventurato oltre i confini delle nostre terre?»

Quelle parole mandano in fermento l’animo del giovane Erwin, che ora è più che mai determinato a varcare lui stesso quei confini lontani per vedere con i propri occhi la verità che da sempre gli viene negata. Già si immagina mentre rivela ai suoi compagni ogni cosa, prefigurandosi la ribellione del popolo verso il dispotico governo che li ha solo presi in giro.

«Ma allora questo cambia tutto, le persone devono sapere, bisogna assolutamente capire cosa è davvero accaduto!» esclama entusiasta il futuro Comandante del Corpo di Ricerca ed il signor Smith, accortosi di quella scintilla nell’espressione del figlio che durante la conversazione ha lentamente acquisito vigore, non può negare di averne paura.
Perché sa che indagare e portare alla luce ciò che l’autorità vuole tenere nascosto comporta un rischio che né lui né il piccolo Erwin sono in grado di gestire.

Per questo si affretta, suo malgrado, a smorzare quella curiosità rivolgendosi più serio che mai al piccolo.

«Erwin ascoltami bene, nessuno meglio di me può comprendere ciò che ti sta passando per la testa. So quanto è intenso il desiderio di conoscenza, la voglia di andare a fondo e smascherare la menzogna, di rendere partecipi le altre persone di questa grande scoperta... Ma ti chiedo di nuovo di promettermi che terrai per te quanto ti ho detto e che non cercherai di fare azioni avventate che possano metterci in pericolo, intesi?»

Erwin sposta lo sguardo sulla candela ormai dimezzatasi. Una grande delusione si impossessa di lui nell’osservare la cera che si solidifica lungo il fusto prima ancora di raggiungere la base della bugia.

Più o meno nello stesso modo in cui la sua corsa verso la verità sta subendo una brusca frenata.


«Sì papà» risponde mestamente a testa bassa.



 
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Sobborghi di Stohess, due mesi prima della battaglia di Shiganshina

«Certo che non potevi scegliere serata più azzeccata, Quattrocchi» si espresse seccato Levi, abbassandosi ancora di più il cappuccio sul volto, per schermarsi dall’acquazzone che si stava abbattendo con forza sulla città e che li aveva inseguiti dal momento in cui avevano messo piede fuori dalla carrozza.

«Uuuff quante storie per un po’ di pioggia… e poi c’era bisogno di acqua, i pozzi erano quasi a secco sai?» disse per tutta risposta Hange, saltellando di pozzanghera in pozzanghera come se fosse tornata bambina.

«L’acqua sta bene nei fiumi e nelle brocche, non nelle mie cazzo di mutande»

La donna si voltò di scatto verso il corvino sfoderando un sorriso ammiccante.

«Ma tu guarda, da quando in qua menzioni il contenuto delle tue immacolate mutande?»

«Di certo non con te, Quattrocchi di merda»

«Bambini» li interruppe Erwin cercando di mediare l’ennesimo dei tanti battibecchi ai quali ormai si era abituato ad assistere. Non c’era giorno che passasse senza che li sentisse litigare ed il peggio si verificava quando li convocava entrambi nel proprio ufficio per fare rapporto; bastava una frecciatina di Hange per far scattare Levi sulla difensiva e a sua volta quest’ultimo non perdeva mai occasione di stroncare malamente sul nascere i balzani progetti dell’altra.
Nonostante le emicranie a cui aveva fatto abbonamento Erwin dovette però ammettere che la faccenda lo divertiva, insieme erano un trio alquanto bizzarro ma funzionale. Hange era un vulcano di idee in perenne attività, Levi un’inarrestabile macchina da guerra e lui…

Già, si chiese.  

Chi era lui?

Ma prima di potersi soffermare su tale quesito la bruna ne interruppe i pensieri facendo segno di aver raggiunto la loro destinazione.

Si trovarono di fronte ad un edificio dai muri di pietra consumati e macchiati che faceva il paio con le altre case malmesse di cui era disseminato il quartiere. L’acqua colava a fiumi dai tubi delle grondaie e le strade, che contrariamente alle vie più lussuose della città erano sprovviste di un efficiente sistema di scarichi, si erano praticamente allagate. Non era quella che si sarebbe definita una zona raccomandabile ma in giro, complici l’ora tarda ed il temporale, non si scorgeva anima viva e ciò faceva perfettamente al caso loro.
Hange aggirò lo stabile imboccando un vicolo defilato e maleodorante per arrestarsi poi davanti ad un portone di legno marcio.

«Sbrigati ad aprire, non sopporto questo puzzo di piscio» inveì il Capitano mentre la donna armeggiava per ruotare la chiave nella toppa.

Quando finalmente la porta cedette i tre si affrettarono ad entrare in un ambiente immerso nel buio e pregno dell’odore di alcol e tabacco.
Sulla parete di fondo si intravedeva il profilo di un caminetto ed il debole pulsare delle braci ancora ardenti sembrava il respiro di una strana creatura addormentata. Hange estrasse da sotto il mantello una lanterna, ne accese la candela e si apprestò a ravvivare quel fuoco morente. Qualcuno aveva già disposto ordinatamente a terra i ciocchi di legna e l’attizzatoio, mentre sul ripiano di pietra che faceva da tetto al camino era appoggiata una scatola di fiammiferi.
Quando la calda luce delle fiamme rischiarò ulteriormente la stanza questa si rivelò essere una vecchia taverna dall’aspetto spartano ed informale, il tipo di locale frequentato dagli ubriaconi dei sobborghi, da avventori in cerca di compagnia e prostitute oppure, come in quella determinata circostanza, da militari che tramavano per rovesciare la monarchia. Il proprietario era una vecchia e fidata conoscenza di Hange che aveva accettato, incentivato dall’allettante prospettiva di trarre profitto dalla caduta del governo, di fornire loro quel luogo come base strategica per la messa a punto del piano.

«Allora, che ve ne pare?» chiese la bruna appendendo all’ingresso la propria cerata fradicia.

Levi osservò schifato le grosse ragnatele che decoravano i quattro angoli del soffitto, nonché gli aloni di unto o altra discutibile natura di cui erano ricoperti i tavoli.

«È una bettola»

«Sìsì Bella Lavanderina lo sappiamo, vorresti pulire tutto da cima a fondo. Intanto ringrazia che sei all’asciutto»

Il corvino fece per scattare ma Erwin lo anticipò.

«Ci serviva un posto sicuro in cui parlare lontano da occhi e orecchie indiscrete, qui andrà benissimo»

«Allooora, intanto che aspettiamo il resto della compagnia vediamo di bere qualcosa di corroborante. Con un intero bar a disposizione posso dare libero sfogo alla mia creatività» esclamò Hange fregandosi le mani e studiando il novero di bottiglie che riempivano gli scaffali.
Al contrario del resto delle suppellettili del locale quelle erano lucidissime tanto era frequente il loro impiego.

Gli altri due presero posto sugli sgabelli del bancone e mentre Erwin, stanco della giornata piena dei gravosi oneri da Comandante, si sedette senza fare caso alla polvere che li circondava lo stesso non si poté dire di Levi che invece fu bene attento a limitare al meno possibile i contatti con quelle superfici poco linde.

Dal canto suo invece Hange sembrava divertirsi un mondo a miscelare liquori improvvisandosi barman.

«Ecco qua provate e ditemi» affermò nel disporre sul bancone tre bicchieri il cui contenuto assumeva un colore quasi ambrato nel tremolante chiarore nella stanza.

«Io non lo bevo, non ti sei nemmeno lavata le mani»

«Ma cosa c’entra? Ho toccato le bottiglie non il liquido»

«È questione di igiene, cazzo. E poi ho visto come hai preso quei bicchieri con le tue dita lerce e li hai passati con uno strofinaccio altrettanto sudicio»

«Questo dici?» scherzò l’altra sventolando l’asciugamano davanti al volto inorridito di Levi, che quasi per evitarlo si sbilanciò sullo sgabello.

«Avanti su, brindiamo» tagliò corto Erwin accaparrandosi un bicchiere.

«Cosa ci sarebbe da brindare, la nuova situazione di merda in cui ci stiamo per cacciare?»

Hange lanciò un’occhiataccia al commilitone.

«Dai Levi, le nostre avventure partono sempre di merda ma poi…»

«Poi finiscono anche peggio» sentenziò il Capitano storcendo il naso nell’odorare lo strano intruglio preparato dalla donna.

«Volevo dire che alla fine per quanto malconci e feriti riusciamo a cavarcela, anche quando ogni speranza sembra persa»

«Tsk ma ti pagano per dire certe cazzate?»

«Avete presente la formazione a tre che utilizziamo per gli abbattimenti dei giganti?»  parlò improvvisamente Erwin e i due compagni ammutolirono osservandolo perplessi.  

«Due soldati attaccano per primi i punti deboli dell’avversario… generalmente occhi, polpacci, avambracci. Lo scopo è quello di renderlo il più inoffensivo possibile affinché il terzo compagno possa sferrare il colpo decisivo in relativa sicurezza. Relativa perché in quell’istante il gigante, seppur menomato, è più pericoloso ed imprevedibile che mai»

Il biondo parlava tenendo lo sguardo fisso sul proprio bicchiere e lo scintillio dorato del liquore giocava con l’azzurro dei suoi occhi, dando l’impressione che in essi vi si potesse scorgere una distesa d’acqua immota alla luce del tramonto.

«È una delle prime strategie che vengono insegnate ai corsi di addestramento ma pochi poi effettivamente la sfruttano. Preferiscono provare il brivido, la soddisfazione, di abbattere da soli un gigante, senza tenere conto di quanto in realtà le possibilità di successo di un’azione compiuta in solitaria siano minime. Ciò ovviamente non si potrebbe dire per te Levi… parliamo sempre della stragrande maggioranza dei militari. Nel Corpo di Ricerca invece il lavoro di squadra è fondamentale perché abbiamo capito che là fuori, dove siamo in costante balìa del nemico e del caso, l’unica certezza che possediamo è il sostegno dei nostri compagni. Perché per quanto solitamente nella formazione a tre si scelga per l’ultimo colpo il soldato più abile del gruppo, comunque il successo della sua azione dipende dalla bravura dei compagni che gli hanno preparato il terreno e prima ancora dalle vedette che hanno tempestivamente segnalato la presenza del gigante. Siamo una catena in cui ogni anello è fondamentale. Se ciascuno nelle spedizioni pensasse per sé a quest’ora non esisterebbe più una Legione Esplorativa»

Erwin si girò di tre quarti verso i propri interlocutori fissandoli attentamente negli occhi con uno sguardo deciso e pungente.

«Quindi…per riallacciarmi a quanto affermato da Hange, è vero, abbiamo affrontato tante battaglie. Il mondo sembra costantemente impegnato nel tentativo di affossarci ma nonostante tutto eccoci qui a progettare il nostro contrattacco. Riusciamo a reagire…a cavarcela…perché siamo l’uno lo scudo dell’altro, restiamo uniti. È questa la nostra forza, è questo che ci distingue dai nostri avversari»

Nella stanza calò un silenzio irreale che diventò presto intollerabile. Levi si affrettò a porvi fine, a modo suo, spinto dall’urgenza di sciogliere la spiacevole sensazione che gli aveva ghiacciato lo stomaco.

«Cosa è, una specie di dichiarazione d’amore?»

Gli altri due scoppiarono a ridere per la battuta e la tensione si allentò.

«Questa tua avversione nei confronti dei sentimenti è davvero singolare» commentò Hange appoggiandosi con i gomiti al bancone per scrutare da vicino il volto pallido di Levi.

«Non era l’assenza dei genitali nei giganti a risultarti interessante?» le rinfacciò tagliente l’altro.

«In quanto ad interesse scientifico ti assicuro che tu concorri alla grande con i giganti. Decifrarti sarebbe la scoperta del secolo»

«Che ti decidessi a chiudere la bocca, questo sarebbe un avvenimento straordinario»

«Ma guarda… è rossore quello che scorgo sulle tue guance?»

«Complimenti oltre che strabica sei anche daltonica»

«Errato, la mia percezione dei colori funziona a meraviglia. E poi non sono strabica ma miope»

«Sempre Quattrocchi rimani»

Erwin li osservò sorridendo.

Il monologo al quale si era lasciato andare era servito in primis a lui stesso, perché in quel momento gli fu chiaro chi fosse davvero. Il ruolo di Comandante lo rende il cuore della Legione, colui che conferisce forza ai propri sottoposti portando avanti il senso di unità e di appartenenza.

Ma se normalmente egli veniva considerato come la figura da tutelare e che non doveva mai esporsi più di tanto al pericolo, guardando il proprio braccio mutilato Erwin concluse che per lui non era mai stato così.Lui avrebbe continuato ad impartire ordini e guidare i soldati ma non avrebbe mai rinunciato alla prima linea, ad entrare lui stesso in quella formazione a tre per sferrare l’ultimo colpo per abbattere il nemico.
Tuttavia per quanto non si sarebbe mai tirato indietro di fronte al pericolo, l’essere ad un passo dalla morte lo aveva spinto a riflettere su come non fosse ancora pronto, o meglio non volesse, dire addio a quel mondo. Nel proprio arrovellarsi aveva capito che alla base di tale rifiuto non c’era tanto il terrore della morte in sé, quanto un bisogno restare in vita per sapere, per scavare sempre più a fondo ed arrivare a quella verità.

Perché lui aveva un sogno.

E solo una volta realizzato quel sogno avrebbe potuto mettere in gioco la propria vita al cento per cento, senza trucchi, senza scommesse.

«Allora a noi» brindò il biondo levando in alto il bicchiere per poi trarne un lungo sorso.

Il drink preparato da Hange avrebbe fatto sembrare l’inferno una landa di ghiaccio tanto erano intense le fiamme che scatenò nella discesa lungo le gole degli sfortunati bevitori. Sia Erwin che Levi strabuzzarono gli occhi dallo shock e si aggrapparono con forza al bordo di legno del bancone.

«Che cazzo ci hai dato da bere, svitata?» tossì il Capitano con il viso contratto in una smorfia di puro ribrezzo.

«È una ricetta segreta, l’ho chiamata “Bomba di Hange”»

«Erwin, penso che se servissimo questa schifezza ai piani alti li faremmo fuori all’istante senza nemmeno sparare un colpo» dichiarò Levi allontanando da sé l’imbevibile intruglio.

«Potrei prendere in considerazione la tua proposta»

«Pff si vede che non avete dei palati sopraffini» fece l’offesa Hange incrociando le braccia.

«Grazie al tuo veleno non possiedo più un palato» rincarò la dose il Capitano.

Improvvisamente si udirono cinque colpi battuti sul legno del portone, due lenti e tre veloci come prevedeva il segnale in codice.

I soldati si ricomposero ed Erwin si alzò per andare ad accogliere il nuovo arrivato.

Quando aprì la porta una figura massiccia interamente avvolta in un impermeabile nero entrò nel locale, con l’acqua che gocciolava a terra dalla tesa del cappuccio e dalle larghe maniche.

«Buonasera signori» annunciò il Comandante Supremo Zachary «davvero un tempo da lupi, perfetto per tramare un colpo di stato»




       
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Non c’era stato nulla di epico in quella carica suicida verso la morte, niente fronzoli come nelle edulcorate trasposizioni delle battaglie cavalleresche.

Nessuna raffinatezza nel modo in cui i corpi di uomini e cavalli erano stati smembrati e scaraventati in aria.

Nulla di eroico nella distesa di cadaveri stracciati e sanguinolenti che riempivano il suolo attorno a Carol disegnando un macabro tappeto.

Un rumore viscido, simile a quello di un insetto schiacciato, ruppe il silenzio quando Stranger pestò con lo zoccolo le interiora di un soldato sparpagliate sul terreno macchiato di sangue.

Per la giovane fu troppo, dovette smontare da cavallo e liberarsi lo stomaco. I conati erano talmente violenti che il sudore le colava lungo le tempie fino ad infradiciarle il colletto della camicia.

«P-p-perdonatemi vi prego» proruppe in singhiozzi accasciandosi a terra ed affondando nel fango cremisi, compressa da un peso invisibile di cui tuttavia riusciva perfettamente a percepire l’immensa e concreta mole.

Non fece caso al sudiciume che le lordava i vestiti, tanto si sentiva già sporca.

La rabbia e la disperazione le montarono dentro ed iniziò a prendere furiosamente a pugni l’erba.

Lacrime, sudore, muco e terriccio insanguinato si mischiavano nella sua bocca creando un disgustoso composto viscoso dal sapore salato e ferroso che si infiltrava dappertutto fino a correrle giù per la faringe.

Un grido gutturale si liberò poi dalla sua gola facendole vibrare dolorosamente le corde vocali e bruciandole i polmoni. Un ululato disperato che si perse nel silenzio di quel paesaggio maledetto, sotto lo sguardo impietoso di un cielo plumbeo che assisteva dall’alto estraneo alla scena.

Aveva fallito, si disse.

E la sconfitta puzzava di vomito, feci, urina, sangue.

E morte.

Attorno a lei c’era solo un tetro silenzio che la schiacciava senza pietà.

Staccò la spilla dalla camicia e la guardò con odio, l’unica emozione che in quel momento riusciva ad indirizzarle. Voleva scagliarla via, lontano dalla propria vista ma non riuscì a farlo perché quella era la sua unica speranza di tornare a casa, nonostante cominciasse a credere che sarebbe morta lì.
Perché la strategia che aveva pianificato con tanto impegno, illudendosi potesse funzionare, era stata un completo disastro ed ora non era più sicura di ciò che sarebbe potuto accadere, di ciò che ne sarebbe stato di lei e di tutti gli altri.

Si coprì le orecchie con le mani nel disperato tentativo di zittire le grida di quei cadaveri che le rimbombavano in testa. Urla che si sommavano ai futuri pianti delle povere famiglie quando sarebbe giunta la notizia che avrebbe reso realtà i loro peggiori incubi. 

Incassò il capo più che poté nelle proprie ginocchia, serrando con forza le palpebre già intrise di lacrime.

Perché, perché stava andando tutto a rotoli? Si domandò mentre un profondo terrore le cresceva nell’addome, pronto a divorarla.

Le sembrava che i polmoni non riuscissero ad incamerare ossigeno a sufficienza, come se annaspasse sott’acqua o come se delle mani invisibili le si fossero serrate attorno alla gola.

Non era certo la prima volta che si ritrovava preda di simili sensazioni ma un attacco di panico così intenso non le capitava da mesi.

Puntini neri le invasero il campo visivo e la testa prese a vorticarle come una giostra. Il suo corpo fu scosso da brividi e vampate di calore nello stesso momento.

E mentre la sua mente deragliava incontrollata un ricordo nebuloso iniziò ad affiorare.

«Non puoi vincere se non combatti»

Proprio come in quella lontana notte di due anni prima il grido di battaglia di Eren le tornò alla memoria, offrendole nuovamente una guida per attraversare quel labirinto di angosce in cui si era addentrata.

Ma la via d’uscita da quel dedalo di insidie avrebbe potuto trovarla solo lei.

Si costrinse a fare dei respiri lenti e profondi prendendo aria dal naso ed espellendola dalla bocca, cercando di calmare il proprio cuore impazzito.

Visualizzò quel terrore farsi strada nel proprio corpo avvolgendola dalla testa e correndo giù fino alla punta delle dita, con la stessa violenza di un inarrestabile rogo che divampa nel folto della foresta.

Ascoltò il dolore e l’atterrimento che esso le procurava, per la prima volta senza respingerlo bensì offrendoglisi in una resa volontaria.

Rimase così per un tempo imprecisato fino a che sentì quel fuoco ritirarsi dietro lo sterno consumandosi da solo prima di scomparire. E sul fondale di tenebra dietro le palpebre dove credeva avrebbe visto una piana deserta e divorata dall’incendio scorse invece una brillante luce.

Pur essendo cosciente di essere ancora inginocchiata a terra le sembrò di avanzare davvero verso quella fonte luminosa e di sparirvi dentro come varcando un portale.

Riaprì gli occhi recuperando il controllo del proprio corpo ed assaporando la lucidità che era ritornata a scorrere in lei.

“Combatti”

Finché era viva, finché rimaneva in quel mondo poteva agire e nulla era ancora definitivo. La sua presenza indicava che qualsiasi impresa fosse stata mandata lì a compiere non era ancora conclusa.

Sì rialzò da terra e rimontò sul dorso di Stranger che nel frattempo era rimasto pazientemente ad aspettarla.

«Grazie bello» gli disse accarezzandogli il muso mentre scrutava l’aria polverosa attorno a sé ragionando sul da farsi.

Sapeva che presto da qualche parte tra tutti quei cadaveri un frastornato Floch avrebbe trovato il proprio Comandante in fin di vita e l’avrebbe trasportato da Levi.
Ma in quel momento il Capitano stava affrontando Zeke e visto come gli eventi stavano mutando, non era escluso che potesse essere in pericolo.
Spronò Stranger a tutta velocità verso il limitare del bosco lasciandosi alle spalle quella piana maledetta finché la spessa coltre di sabbia smossa dalle pietre scagliate dal Bestia cominciò a diradarsi. Carol notò allora con terrore che, contrariamente alla storia originale, mentre Zeke era impegnato ad esultare per essere riuscito a sterminare la Legione Levi non lo aveva ancora raggiunto.
Le fila dei giganti da abbattere si erano infatti arricchite grazie ai soldati trasformati poc'anzi con il gas e di questo passo il Bestia si sarebbe accorto di Levi ben prima del dovuto.

C'era una sola cosa da fare e per quanto folle era l'unica scelta possibile.



 
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Caldo. Terribilmente caldo.

Era tutto ciò che Armin riuscisse a provare mentre il fuoco gli bruciava pelle e muscoli, divorandogli il corpo fino alle ossa e trasformandolo in un tizzone umano.

Agganciare gli arpioni ai denti di Berthold si era rivelata la scelta giusta poiché il calore non ne consumava lo smalto impedendo così agli ancoraggi di staccarsi.
E come risultato di questa brillante intuizione Armin si ritrovava ora ad essere sospeso nel vuoto, in balia delle folate ustionanti emesse dal Colossale che lo investivano senza pietà.

La tentazione di sganciarsi e porre fine a quel supplizio era forte ma il ragazzino sapeva di dover resistere per garantire ad Eren più tempo possibile, perché la salvezza di tutti dipendeva dal coraggio che avrebbe dimostrato in quel momento.

Se quel vapore rovente non gli avesse arso i dotti lacrimali probabilmente avrebbe pianto.

Perché era chiaro che sarebbe morto quel giorno stesso, ironicamente nella città in cui era nato e dove aveva coltivato il sogno di quel mare che non avrebbe mai visto.

Quello a cui stava andando incontro altro non era che il logico epilogo di una vita che per quanto a tutti era sempre apparsa normale, con la normalità non aveva proprio nulla a che spartire.

Era forse giusto che ad un ragazzino di quindici anni venisse riservata una tale fine? Certo che no, si disse. Come non era mai stato giusto vivere nel terrore dei giganti, rimanere soli al mondo, essere costretti ad arruolarsi sacrificando ogni cosa alla ricerca di un’esistenza diversa, libera. Un diritto che sarebbe dovuto appartenere ad ogni essere umano fin dalla nascita era stato invece per loro un privilegio da conquistare a caro prezzo.

Anche se a quel punto non possedeva più nemmeno una faccia poté sentire le proprie labbra lacerate sollevarsi in un sorriso.

Sì, nonostante tutto andava bene così, avrebbe affidato la sua vita ed i suoi sogni ad Eren.

Il fuoco si fece più intenso ed il metallo dei cavi del dispositivo raggiunse la temperatura di fusione sciogliendosi in un liquido argenteo.  

Armin perse quindi l'appiglio ed il suo corpo di cui ormai non aveva più percezione venne sbalzato via come una bambola di pezza.

Mentre fluttuava alla deriva di quella nube rovente fu, per la prima volta in vita sua, fiero di sé stesso.

Era stato coraggioso, non aveva perso.

Perché lui non era mica scappato.



 
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Arpionare, prendere velocità, tagliare, riavvolgere.

Ormai era un movimento talmente automatico che non ci pensava più.

Levi aveva perso il conto di quanti giganti avesse abbattuto in quei pochi minuti ed i muscoli, benché temprati da anni di duri allenamenti, iniziavano a bruciargli.

Ma non gli importava.

Doveva proseguire la sua danza mortale, ciò che sapeva fare meglio, ed annientare quell’infame essere che aveva massacrato tutti i suoi compagni.

Che gli aveva portato via Erwin.

Il sangue di quelle orride creature schizzava ovunque infradiciandolo da capo a piedi e riempiendogli la bocca di quel particolare sapore ferroso che da sempre lo aveva accompagnato nella vita.
Il gusto della morte e della vendetta.

Inaspettatamente udì un grido in lontananza che lo distolse dalla trance violenta in cui era assorto ed il sangue gli si gelò in corpo come se fosse caduto nelle acque ghiacciate di un torrente in pieno inverno.

Vide Carol emergere dalla caligine polverosa del campo di battaglia sparando in aria un fumogeno verde, lanciata al galoppo verso il Bestia e senza il minimo accenno a rallentare.
Non fu difficile intuirne le intenzioni, lo stava facendo per permettergli di mantenere l'elemento sorpresa, di cogliere alle spalle il gigante.

Ma a Levi restavano ancora quattro titani da abbattere.

Velocizzò ulteriormente le proprie mosse, mulinando le lame senza sosta ed ansimando pesantemente per l'angoscia.

Tre.

Il Gigante Bestia emise un risolino di scherno, beffandosi di quell’insulsa umana che si illudeva di poterlo anche solo fronteggiare. Si chinò ad afferrare una manciata di pietre e come aveva fatto in precedenza serrò l'enorme pugno peloso per frantumarle.

Due.

Lo vide posizionarsi in assetto di lancio, inarcando il busto per poi portare le braccia sopra la testa.

Uno
 


      
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Quando Hange riprese conoscenza tutto ciò di cui si accorse all’inizio fu un incredibile mal di testa, la sensazione di avere un pugnale che si facesse strada dall’occhio sinistro verso l’interno del cranio. La sua schiena era distesa su una superfice dura ed umida mentre sopra di sé scorgeva un cerchio di luce, anche se c’era qualcosa di strano nel modo in cui lo visualizzava.

Poi lentamente, come acqua che sgocciola da una grondaia le ripiombarono addosso i ricordi degli eventi di quel giorno.

La trasformazione di Reiner e la lotta tra lui e quell’incauto di Eren. L’illusione di aver abbattuto il Corazzato con le lance fulmine, l’esitazione dei ragazzi a scaricare il colpo decisivo. Quell’urlo agghiacciante seguito dalla comparsa di Berthold nel cielo e la corsa disperata per allontanarsi dalla bomba umana in cui il ragazzo si sarebbe convertito.

Hange si portò una mano alla bocca quando nella mente le riaffiorò il volto apprensivo di Moblit.

«CAPOSQUADRA HANGE!»  le aveva gridato spingendola in quel pozzo prima di essere inghiottito dalle fiamme dell’esplosione.

Si era sacrificato per lei, Moblit non c’era più.

E quella consapevolezza le provocò un agghiacciante e doloroso senso di vuoto.

«Moblit…» gemette stringendosi il petto.

Avrebbe voluto gridare ma in quel momento sembrava non esserne più capace.
Non lo aveva mai considerato un semplice assistente, per lei era stato fin dall’inizio un amico fidato. E quando alla scoperta dell’assassinio del Reverendo Nick aveva preso le sue difese, proteggendola dall’ufficiale di Gendarmeria, Hange aveva finito per innamorarsi di quel soldato biondo che la guardava sempre con occhi gentili.
Ed ora si ritrovava pentita di non essersi dichiarata quando ne aveva avuto la possibilità.
Non che comunque lei e Moblit avrebbero avuto chissà quale vita idilliaca, nel Corpo di Ricerca non sarebbe stato possibile. E lei non avrebbe mai abbandonato l'esercito rinunciando alle proprie ricerche, al lavoro che amava, per accudire dei figli.
Però sarebbe stato bello condividere con lui come una coppia a tutti gli effetti quell'esistenza priva di garanzie ed in compenso zeppa di giganti. Ma tale prospettiva era stata cancellata dalle fiamme, a dimostrazione di quanto il destino fosse beffardo e gli esseri umani stupidi a non sfruttare al meglio il poco tempo a loro disposizione.

Alzò di nuovo lo sguardo verso l’apertura circolare constatando la stessa difficoltà di prima nel metterne a fuoco i contorni.

Si passò le dita sul volto per asciugarsi le lacrime ma si accorse che non erano solo quelle ad appannarle la vista.

Un liquido caldo e appiccicoso le impiastrava la guancia e laddove si sarebbe aspettata di incontrare l’occhio sinistro trovò invece un’orbita vuota e ridivenne cosciente di quel dolore trafittivo che le martellava la testa.

Con una calma che non le apparteneva si chinò a tastare le pietre squadrate del pavimento che nel passare degli anni si era coperto di un umido tappeto di muschio. Trovò i propri occhiali la cui lente sinistra era frantumata. Non che questo facesse differenza, si disse, dal momento che non l’aveva più un occhio sinistro.

Recuperata così parzialmente la capacità visiva controllò l'integrità del proprio dispositivo di manovra e si accinse ad uscire da quel rifugio improvvisato.

Emerse in superficie dove l'aspettava la strage di macerie che la trasformazione del Colossale si era lasciata dietro e ringraziò che Carol si fosse allontanata in tempo prima che accadesse il disastro.

Quando Armin le aveva riferito che la ragazza si era diretta verso il cancello interno Hange era andata su tutte le furie, ma presto si era dovuta ricredere perché assistendo alla rapida degenerazione degli eventi aveva concluso che in fondo era stato meglio così. Dovette inoltre ammettere che Carol aveva avuto ragione su un altro punto; abbandonare la missione per ritornare al Wall Rose non era decisamente più un’opzione e forse, riconobbe con rammarico, non lo era mai stata.

In lontananza scorse la sagoma di Berthold avanzare fumante di un intenso vapore che lo stava però consumando fino all’osso.

Udì delle grida non molto distanti da lei, dalla voce pensò potessero appartenere a Jean.

Istintivamente si tastò i fianchi constatando di avere ancora una lancia fulmine a disposizione.

Gli altri compagni erano tutti morti ma lei rimaneva pur sempre un Caposquadra.

 Non esitò due secondi per dare di gas e correre in aiuto dei suoi ragazzi.



 
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Carol pensava solo a gridare con quanto fiato avesse in corpo, in quella che le parve essere la reazione più adatta per farsi coraggio andando incontro alla morte.

Chi l’avrebbe detto che la sua fine sarebbe sopraggiunta a Paradis, in un universo di fantasia?

Non avrebbe più rivisto la propria famiglia e non sarebbe più tornata a casa.

Sarebbe morta in una manciata di secondi fatta a pezzi da quelle pietre micidiali.

Eppure in quegli ultimi istanti che le rimanevano da vivere non provò paura e non fu affatto come nei film, dove procede tutto a rallentatore mentre la tua esistenza ti scorre davanti.

No, i suoi pensieri seguivano in tempo reale le immagini catturate dai suoi occhi.

Zeke si mise in assetto da impeccabile pitcher pronto a segnare il punto decisivo.

Ad un tratto però lo vide girarsi verso qualcosa, o meglio qualcuno.

Con una furia impressionante di cui solo lui era capace Levi si avventò sul Bestia replicando la scena del combattimento ormai divenuta celebre. Dopo aver accecato la propria preda in un’azione fulminea il Capitano scattò a terra tranciandogli di netto i tendini delle gambe. La massa imponente di Zeke impattò al suolo rantolando e sollevando un polverone che oscurò alla vista di Carol il resto del duello.

Un'azione spettacolare, sovrumana.

E l'aveva salvata un'altra volta.

Non fece però in tempo a trarre un respiro di sollievo che si accorse di una sagoma che stava arrivando a grande velocità dalla foresta.

Non si trattava di Pieck, quell'agilità poteva appartenere ad un solo gigante.

Il Mascella.

Non era possibile, pensò immersa nell’ennesima ondata di sconforto, secondo la storia Galliard si trovava a Marley.

Ma poi un piccolo ed in apparenza insignificante dettaglio le tornò alla mente: il Gigante Carro portava due fusti sul proprio dorso, uno di essi aveva rivelato come ospite Berthold ma del secondo non era mai stato mostrato il contenuto.

Almeno fino a quel momento.

Carol cominciava ad averne decisamente sopra i capelli di tutta quella sequela di inconvenienti che continuavano a disseminarsi sulla sua strada.

Con Galliard lanciatosi in difesa del compagno Levi non avrebbe avuto tempo sufficiente per estrarre Zeke dal gigante.

Armandosi di tutto il coraggio che quel giorno sembrava possederla spronò quindi Stranger in direzione del Mascella, troppo concentrato sul Capitano per accorgersi di lei.

Quando fu alla giusta distanza Carol innestò le lame sulle impugnature e pregò qualunque entità fosse in ascolto di darle la forza di andare fino in fondo con quanto aveva intenzione di fare.
Solo quando gli arpioni ferirono il dorso di Porco quest’ultimo si rese conto del pericolo imminente e si girò verso di lei, che ormai era già a mezzaria pronta a sferrare il proprio attacco.
Il Mascella allora agitò il braccio come per scacciare un insetto fastidioso, ma prima che riuscisse a colpirla Carol ritirò prontamente un rampino deviando la traiettoria e diede nuovamente di gas. Riuscì così a mandare a segno un profondo taglio sul fianco del gigante che ululò dal dolore e cercò di strapparsi l’uncino ancora conficcato nella carne. Nel fare ciò diede un violento strattone alla fune che la giovane, nella propria inesperienza, aveva tardato a riavvolgere. Carol si ritrovò quindi ad essere trascinata sempre più vicino all’avversario, con la polvere che le bruciava gli occhi e la presa sulle lame sempre più scivolosa per il sudore.

In un lampo di lucidità si ricordò di avere appesa alla cintola una granata luminosa, gentile concessione di Hange.

Quando fu alla portata del Mascella attivò l’ordigno levandolo sopra la testa.

Un forte bagliore accecò il gigante che si coprì d’istinto il volto con le zampe mollando la presa sulla fune. Carol ritirò l’arpione, si rialzò di scatto e passò veloce sotto gli arti posteriori di Porco allontanandosi quel tanto per prendere sufficiente rincorsa. Approfittando dello stordimento di Galliard tentò un nuovo assalto puntando ai polpacci muscolosi del suo opponente. Quando le lame ne lacerarono la carne quest’ultimo perse l'equilibrio cadendo con la faccia sul terreno, incapace di rimettersi in piedi.

Inebriata dall’adrenalina pura che le pompava nelle vene ed invasa dalla sensazione di essere un’inarrestabile macchina da guerra, Carol volle a tutti i costi ultimare il lavoro mirando alla nuca.

Per essere una principiante lo stacco da terra fu eseguito alla perfezione, il quantitativo di gas erogato dosato con maestria ed altrettanta fu l’eleganza del suo volteggio.

Una mossa che non avrebbe lasciato scampo ad alcun nemico.

Se non fosse che Galliard, in uno sforzo estremo, compì un'istantanea rotazione su sé stesso fendendo l'aria con le grinfie acuminate e per Carol non ci fu tempo sufficiente per cambiare direzione.

Una zampa artigliata calò implacabile su di lei, sostituendo la scarica di endorfine con un dolore lancinante all'addome.

L'impatto con il terreno fu altrettanto devastante, si sentì mozzare il respiro e batté violentemente le coste.

Prima di perdere i sensi scorse Levi conficcare la spada nella gola di Zeke.

Non c'era traccia di Pieck all'orizzonte e Porco giaceva a terra esausto e sanguinante almeno quanto lei.

Il Capitano aveva campo libero per agire, forse c'era ancora speranza.

L'ultima immagine che riuscì a mettere a fuoco fu il volto pallido di Levi che la guardava atterrito, sulla bocca di lui lesse il proprio nome, sillabato con estrema lentezza.

Trovò la forza di rassicurarlo con un sorriso placido appannato dal dolore.

Un ottundimento dei sensi la avvolse in uno strano torpore mentre il suo sangue caldo innaffiava l’erba sotto di lei.

Udì la voce di Levi che la chiamava ma era troppo lontana per distinguerne le parole.

E lei troppo stanca per rispondere.

Una mano gigantesca le si strinse attorno al corpo sollevandola dal suolo come se pesasse solo pochi grammi.

Al contrario la sua coscienza sprofondava sempre di più verso il fondale di un abisso bagnato e buio dove solo un fascio di luce vaporosa riusciva ancora a raggiungerla.

Poi anche quell’ultimo bagliore scomparve e la voragine di tenebre si chiuse su di lei velandole gli occhi con una colata di pece nera.



 
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«CAROL! CAROL! Mi senti dannazione?»

Fu riportata al presente dalla voce straziata di Levi che cercava disperatamente di bloccarle l’emorragia tamponandola con il mantello.
Poteva udire distintamente il rumore prodotto dal tessuto già inzuppato, che le ricordò quello degli scarponi che avanzano su un terreno fangoso…o dell’intestino calpestato da Stranger poco prima.

«Cazzo…cazzo» imprecò l’uomo con voce strozzata, il volto contratto in un’espressione di angoscia e terrore.

Alle sue spalle saliva ancora al cielo la nuvola di vapore proveniente dal gigante che il corvino aveva abbattuto per evitare che Carol venisse divorata. Si chiese come quel mostro potesse essere sfuggito alla furia del Capitano, probabilmente un anomalo che non aveva ubbidito a Zeke e si era nascosto dietro la linea degli alberi.

«È veramente brutta, eh?» tossicchiò Carol sentendo il sapore ferroso del proprio sangue sulle labbra.

L’altro le rispose con un grugnito rabbioso, senza apprezzare il tono ironico che lei si era sforzata di dare a quelle parole.

«Levi…dove è Zeke?»

«Fanculo Zeke»

La ragazza ruotò la testa alla ricerca del Bambino Prodigio.
Lo scorse poco lontano che agonizzava sull’erba, con la spada del Capitano ancora conficcata in gola. Pieck non si vedeva mentre Porco, dopo aver abbandonato la carcassa del proprio gigante, era riuscito a trascinarsi carponi al capezzale del compagno guerriero. Carol sorrise tra sé nel constatare quanto filo da torcere gli avesse dato nonostante lei fosse solo una principiante.

Ma quella soddisfazione non durò che un istante e fu una magra consolazione per l’esito della vicenda.

«Levi… devi occuparti di Zeke»

Il corvino scosse la testa, chinandosi ancora di più su di lei per esercitare una maggiore pressione sulla ferita. Dalle ciocche acuminate dei capelli piovevano gocce di sudore tanto era intenso il suo affanno.

Chiamando a raccolta le proprie forze la ragazza mise la mano su quelle di lui, constatando che erano bagnate fradice del proprio sangue.

Il soldato continuò ad evitarne lo sguardo.

«Levi… è finita, basta» mormorò con una calma che stupì sé stessa «è una ferita troppo grave…su di me non puoi usare il siero e qui non ci sono le tecniche adeguate per curarmi»

Lui finalmente si girò verso di lei, con la disperazione dipinta in volto.

«No non è vero, Hange sistemerà tutto»

Carol rise e ciò le procurò subito una fitta lancinante.

«Non vuoi proprio mollare…»

Lei invece era tanto stanca e non riusciva più a tenere gli occhi aperti.

«Ehi! Non addormentarti, è un ordine!» la richiamò lui perentorio.

«Va bene…Capitano…» ubbidì lei, ma aveva ancora le palpebre serrate.

Stava per lasciarsi andare alla tranquilla serenità che la pervadeva quando un fragore le rimbombò nelle orecchie, seguito da un suono simile ad una forte folata di vento.

Un vortice.

Spalancò gli occhi e vide alla propria sinistra a qualche metro di distanza lo stesso portale che l’aveva condotta a Paradis.

Nel medesimo istante alle loro spalle si palesò Pieck, che dopo aver osservato perplessa lo strano fenomeno caricò sul dorso Porco e Zeke allontanandosi di gran carriera verso le mura.

«No! No!» gridò Carol abbattuta, certa che a quel punto la storia non potesse più essere modificata.

Levi, che aveva fissato il vortice in trance a bocca spalancata, udendo la ragazza si riscosse e la sollevò prontamente da terra.

«Cosa fai, fermo!»

Rianimata da un’improvvisa scarica di adrenalina ed incurante dello squarcio che le apriva l’addome Carol tentò di liberarsi da quella presa, mentre il corvino la trasportava verso il portale.

«Cosa faccio? Ti rimando a casa! Lì sapranno curarti di certo»

«No Levi… così non ti rivedrò più» disse lei con la voce rotta dall’emozione.

Lui la guardò severo ma Carol vide riflesso in quegli occhi scuri il suo stesso dolore.

«Non dirlo nemmeno, tu devi vivere»

La luce si fece più intensa e la giovane capì di avere poco tempo e di dover usare quegli ultimi secondi al meglio.

Se si fosse trattato del finale tragico e sdolcinato di quei film romantici che lei non aveva mai tollerato, l’eroina protagonista avrebbe confessato apertamente i propri sentimenti all’amato.

Ma Carol non si sentiva una protagonista, tantomeno un’eroina quindi scartò quell’opzione a vantaggio di un consiglio che sperò potesse essere di maggior aiuto al Capitano.

Si concentrò sul suo volto affilato che stava sfumando sempre di più, imprimendosi nella memoria ogni particolare.

«Non fidarti mai di Zeke» buttò fuori tutto d’un fiato, mentre le mani di Levi la abbandonavano ed il vortice la inghiottiva nel suo sfolgorante bagliore.
 



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Come può un ricordo essere così nitido?

Come è possibile conservare perfettamente intatti nella memoria i dettagli di un luogo che non si visita da anni?

Questi ed altri interrogativi affollano la mente di Erwin mentre sosta sull’uscio della classe che frequentava da ragazzino.

Il tempo sembra non aver intaccato quello spazio, ogni cosa è rimasta come era allora; I banchi di rovere sono nella stessa posizione e lui individua subito il proprio nel posto vuoto nella fila centrale, lo stesso da cui in quel lontano giorno aveva posto la fatidica domanda, inconsapevole delle conseguenze che da essa sarebbero derivate.
Dalle finestre filtra la medesima luce polverosa che colora i ricordi delle giornate trascorse in quella stanza ed Erwin può quasi afferrare i minuscoli granelli di pulviscolo che gravitano nell’aria durante l’ora di storia, la lezione di suo padre.

Eccolo infatti davanti a lui il maestro, che trascrive meticolosamente alcune date alla lavagna mentre gli alunni lo seguono attenti con occhi colmi di ammirazione.

È così bello rivederlo felice, vivo, immerso con encomiabile dedizione nel lavoro che ama.

In questo sente che loro due si assomigliano molto, entrambi decisi a votare anima e cuore alla verità, ai sogni, finendo per sacrificare sé stessi.

E adesso Erwin non vede l’ora di raccontare ciò che ha scoperto, di confermare al padre che aveva ragione.

Tutto risulta talmente reale come se ciò a cui stesse assistendo non appartenesse ad un’epoca ormai lontana ma al presente. Non ricorda nemmeno l’ultima volta in cui ha provato una simile sensazione di pace e di serenità.

Avverte il proprio corpo muoversi come se ripescasse anche lui una memoria alla quale non attingeva da anni ma che non è mai stata dimenticata.

«Maestro» la sua mano si alza con un gesto naturale all’unisono con la sua voce che, commossa, riecheggia nella stanza «ora conosco la verità»

Il padre si volta in direzione del figlio sorridendogli orgoglioso, per nulla colto di sorpresa da quell’affermazione come se fosse la cosa più scontata del mondo, come se avesse sempre saputo che la verità sarebbe stata prima o poi raggiunta.

Ripone il gesso nel cestello della lavagna, chiude il libro di testo e si siede alla cattedra facendo segno ad Erwin di prendere posto a sua volta.

L’ex Comandante del Corpo di Ricerca sfila nell’aula sotto gli sguardi miti dei vecchi compagni, l’eco di ogni suo passo risuona potente nell’aula emanando una grande solennità come se presenziasse ad una cerimonia.

Ed Erwin l’avverte appieno l’importanza di quel momento perché, dopo una vita trascorsa alla ricerca dell’ultimo pezzo di un puzzle troppo importante da lasciare incompleto, finalmente l’attesa è finita.

«Questo è per te papà, ce l’abbiamo fatta» ripete a sé stesso.

Quando si siede accarezza con nostalgia quel legno ruvido e sente che tutto è come deve essere, che è giusto concludere la propria storia lì nel luogo dove ogni cosa ha avuto inizio.

Il padre intreccia le mani sotto il mento e dietro gli occhiali le sue iridi azzurre ardono di curiosità quanto quelle del figlio.

«Siamo tutti orecchi, Erwin»




 
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Con un tonfo Carol ricadde su qualcosa di morbido, che riconobbe essere il letto della propria stanza.

Gimli la spiava guardingo dall’angolo in cui si era nascosto quando il portale si era aperto per la prima volta.

Per lei erano passati sette giorni, nella sua dimensione invece il tempo sembrava essersi fermato.

Si portò istintivamente le mani all’addome e laddove fino a pochi istanti prima vi era uno squarcio sanguinolento sentì solo la stoffa asciutta del pigiama.

Ansimando si lanciò giù dal letto per afferrare uno dei manga della sua collezione, doveva sapere come era andata a finire.

Con grande stupore si accorse che lo scaffale dove teneva ordinatamente i volumi era vuoto.

Senza curarsi del baccano che stava facendo rivoltò mezza stanza alla ricerca della raccolta perduta.

Gimli la guardava sempre più perplesso.

Sentì bussare piano alla porta e poi vide la maniglia abbassarsi. Sua mamma comparve sulla soglia in vestaglia da notte.

«Carol ma cosa è questo caos, è notte fonda…» la rimproverò a bassa voce per non svegliare il marito che dormiva ancora.

La ragazza rimase paralizzata sul posto fissando la madre come se fosse un’apparizione.

«S-scusa mamma…» farfugliò trattenendo l’emozione «stavo…cercando un libro»

L’altra le rivolse un’occhiata allibita.

«A quest’ora? Dai torna a letto, sono sicura che la tua voglia di leggere può aspettare domani mattina»

Carol annuì, ma prima che la donna sparisse dietro la porta la richiamò con urgenza.

«Mamma!»

Lei sussultò per lo spavento.

«Santo cielo Carol, c’è qualcosa che non va?»

«Volevo solo dirti…che ti voglio bene»

La madre dovette pensare che la figlia quella sera fosse più strana del solito, nonostante ciò le sorrise benevolmente.

«Anche io te ne voglio. Buonanotte»

Quando la porta si richiuse Carol, ancora scossa, si sedette alla scrivania ed accese il portatile.

Appena il sistema si fu avviato cliccò sull’icona di Chrome e digitò “Shinjeki no kiojiin”.

Trattenne il respiro mentre la pagina elaborava ironicamente con infinita lentezza la richiesta.

Ma sullo schermo comparve solo una scritta “Siamo spiacenti, la ricerca non ha prodotto risultati”.

Atterrita, provò ad inserire nella barra di ricerca il nome di Isayama, quelli dei personaggi, qualsiasi cosa che rimandasse all’opera.

Ma niente, sembrava che l’Attacco dei Giganti non fosse mai esistito.

Si abbandonò allo schienale della sedia con lo sguardo incollato alla pagina bianca di Google.

Cosa aveva combinato?
 




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Levi avrebbe voluto capire una volta per tutte il motivo che inducesse il destino, o chi per esso, a scaricargli addosso una disgrazia dietro l’altra.

Ma si rese conto che in realtà, come accade sempre nonostante la gente preferisca leggervi una causa divina, l’artefice di quegli eventi altri non era che un umano in carne ed ossa.
Perché se Carol aveva ragione e loro erano tutti personaggi fittizi, allora la persona verso cui indirizzare le proprie invettive era l’autore di quello strambo racconto.
Era con questo illustre Superiore che Levi avrebbe desiderato un’udienza, magari con la propria spada a portata di mano tanto per fargli sentire quanto fosse finto l’acciaio partorito dalla sua immaginazione.

Ciononostante chi ora doveva gestire quella tragica situazione era solo Levi.

L’ennesima scelta, l’ennesimo interrogativo su cosa fosse giusto o sbagliato.

Da una parte un ragazzino coraggioso che sognava di vedere il mare.

Dall’altra un Comandante che fino alla fine aveva inseguito la verità.

In mezzo ad essi un altro essere umano, chiamato suo malgrado a decidere chi condannare e chi salvare con quell’unica siringa che stringeva tra le dita.

Cosa fare dunque?

Iniettare il liquido ad Armin consentendogli di realizzare il proprio sogno e diventare magari un bravo Comandante?

«Né io né il Comandante riusciremo a salvare l’umanità, sarà soltanto Armin!»

C’era del vero nelle parole di quel petulante di Eren? Più volte il Capitano aveva assistito ai ragionamenti ed alle osservazioni di Armin, riconoscendo il grande potenziale che cresceva in quel ragazzino sul quale nessuno a prima vista avrebbe scommesso un centesimo.

«Allora, per prima cosa raggiungeremo il mare, vedrai Eren sono sicuro che esiste!»

Ma il Corpo di Ricerca necessitava di un eccellente Comandante nell’immediato presente, per fronteggiare battaglie che senza l’ingegno e l’esperienza di Erwin potevano considerarsi perse in partenza. Carol era stata molto attenta a non lasciarsi sfuggire rivelazioni su ciò che sarebbe accaduto dopo lo scontro di Shiganshina, tuttavia i suoi sforzi per cambiare il corso di quegli eventi lasciavano intendere quanto essi fossero disastrosi.

«Levi, voglio entrare in quella cantina»

Salvare Erwin lasciando morire un ragazzino non era comunque una scelta più allettante.

E Levi non poté fare a meno di pensare che anche la persona a cui venisse inoculato il siero ricevesse a tutti gli effetti una condanna, seppur di un altro tipo. Essere costretti a divorare un altro essere umano non era infatti quello che forse si sarebbe potuto definire “aver salva la vita”.

Ma uno di loro doveva sopravvivere, in questo non vi era alternativa e il Capitano aveva preso la sua decisione.

«Accidenti, siete uno peggio dell’altro… fate i capricci proprio come dei mocciosi» disse mentre avanzava mettendo faticosamente un piede davanti all’altro e trascinandosi appresso il busto senz’arti di Berthold.

Si chinò sul corpo esanime di Erwin, lasciandosi alle spalle Armin perché non aveva intenzione di guardarlo morire mentre resuscitava il Comandante.

Ignorare l’ammasso di carbone in cui si era trasformato il ragazzino non bastò a farne tacere la voce, che continuò invece a risuonare nella testa del Capitano affermando la propria presenza.

«Ma non si limita tutto a questo… il mare!»

Levi provò a farla tacere concentrandosi sui propri gesti, sulla siringa che impugnava, sul liquido argenteo che riluceva al suo interno.

Era solo un oggettino di vetro sottile, così delicato che se Levi avesse fatto appena più forza con le dita si sarebbe frantumato in mille pezzi eppure nella sua mano pesava una tonnellata.

Si sentì immerso in una bolla dove tutto era sfumato, ovattato e dove un secondo sembrava lungo anni.

Afferrò l’avambraccio di Erwin e proprio quando stava per bucarne la vena il biondo si liberò dalla presa portando il braccio all’indietro con uno scatto.

La mano ricadde sulle tegole del tetto con il palmo rivolto verso l’alto, come nel gesto di chiedere il permesso di prendere parola.

Le palpebre si aprirono lentamente anche se quegli occhi ormai non erano più in grado di vedere, erano sono solo due palle di vetro azzurro opaco.

«Maestro…ora…conosco…la verità…» pronunciò il Comandante con un filo di voce, prima di esalare un lungo respiro di sollievo.

Di liberazione.

E a Levi bastarono quella frase e l’espressione pacifica di Erwin per comprendere, per realizzare che non poteva riportarlo a forza in quel mondo disfatto.

Kenny diceva che tutti si ubriacano di qualcosa per far fronte alle sfide della vita, trascorrendo così i propri giorni schiavi di tale dipendenza. Se ciò corrispondeva al vero allora Levi non poteva arrogarsi il diritto di sottrarre ad Erwin la libertà che egli, separatosi da quel sogno diventato un’ossessione, aveva appena conquistato.

Per il Comandante era giunto il momento di riposare.

Il corvino distolse lo sguardo dal biondo e si alzò lentamente per inginocchiarsi davanti ad Armin.

Quando gli appoggiò la lama della spada sotto le narici l’acciaio si appannò lievemente rivelando la tenacia che ancora teneva in vita quel ragazzino.

Mentre si ingegnava a trovare una vena in quella pelle annerita, chiedendosi se ciò che stesse facendo fosse una pazzia, il ricordo della conversazione avuta con Carol la notte prima della partenza irruppe nella sua mente.

«Non voglio che a quei ragazzini capiti lo stesso. Voglio che tutti e tre sopravvivano e vedano il mare, sempre ammesso che esista»

«Lo vedranno Levi, grazie a te»

Si accorse di star sorridendo nonostante le circostanze, perché in cuor suo aveva sempre avuto la risposta che cercava.



 
  …                                                                               
 




«Hai fatto ciò che dovevi Levi. Erwin ha affidato a te il siero per l’enorme fiducia che nutriva nei tuoi confronti, sapeva che avresti scelto la via migliore per il Bene del genere umano. Adesso solo il tempo ci mostrerà l’esito di questa decisione» affermò Hange qualche minuto dopo, mentre osservava insieme al commilitone Eren, Mikasa e gli altri riuniti attorno al corpo di Armin.

Il Capitano annuì mantenendo lo sguardo fisso sui ragazzini che piangevano di gioia nell’abbracciare il loro amico.

Le volute di vapore si levavano alte dalla carcassa del gigante che aveva ospitato Armin ed i colori del crepuscolo tingevano il mondo di un caldo arancio, conferendo alla scena un che di onirico e surreale.

«Hange»

«Sì?» rispose la donna, sorpresa che lui non l’avesse chiamata “Quattrocchi” come di suo solito.

«Una volta fatto ritorno a casa andremo in quella bettola in cui ci avevi portati, preparerai la tua disgustosa bevanda e la berremo in silenzio. Intesi?»

Hange si girò a studiare il profilo teso del compagno di avventure che quel giorno aveva detto addio a due persone che amava incassando quel nuovo, brutale colpo del destino e gli sorrise commossa.

«Intesi»




 
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Quando il Signor Eldar udì la porta del negozio aprirsi con forza ed il campanello trillare più acutamente del solito come seccato da quella brusca entrata, prima ancora di sollevare gli occhi dal libro contabile aveva già capito chi si sarebbe trovato davanti. 

«Bentornata Carol» la salutò educatamente sistemandosi gli occhiali sul naso adunco e chiudendo il registro che stava consultando.

«Mi rimandi là» tagliò corto l’altra decisa a saltare i convenevoli.

Lui le sorrise paterno, studiando con indulgenza quel volto arrossato dall’agitazione in cui si leggevano chiaramente i segni dell’avventura appena vissuta.

La Carol che lo stava fissando con occhi accesi di determinazione non era di certo la stessa giovane schiva che aveva incontrato il giorno precedente.

Sulla terra erano trascorse solo ventiquattro ore ma Eldar sapeva che a Paradis lei aveva passato un lasso di tempo ben più lungo.

«Non posso»

«Al diavolo! Certo che può, l’ha già fatto una volta!» sbottò la ragazza dimenando le braccia ed avvicinandosi al bancone.

«Mi permetto di dissentire, la spilla ti ha portato a Paradis, non io»

Lei lo guardò spazientita.

«Allora me ne dia un’altra»

«Non c’è un’altra spilla… mi dispiace»

Carol affondò il viso tra le mani appoggiandosi al bancone con i gomiti, le stava venendo da piangere per la disperazione. Il libraio versò del tè in un bicchiere da un thermos che teneva sempre vicino alla cassa, allungandolo alla giovane.

«Grazie» brontolò lei accettando l’offerta.

Stette un attimo in silenzio, come per riorganizzare i propri pensieri.

«Perché ogni traccia dell’Attacco Dei Giganti è sparita? Dove ho sbagliato?» domandò poi fissando titubante il suo interlocutore.

«Onestamente non lo so… è probabile che ciò che è successo abbia creato una sorta di glitch. O forse il tuo intervento ha determinato delle conseguenze che hanno messo in sospeso la storia»

«Ma addirittura cancellarsi mi sembra eccessivo. Effettivamente durante la mia permanenza ci sono state delle modificazioni degli eventi, ma quando ho lasciato Paradis comunque l’esito della battaglia di Shiganshina sembrava essere quello che conosciamo tutti»

Il Signor Eldar si strinse nelle spalle.

«L’unica cosa che possiamo fare è aspettare. Deduco che, dal momento che me ne hai chiesta un’altra, tu non sia più in possesso della spilla»

«Purtroppo è così, deve essersi distrutta dopo aver aperto il portale… una volta tornata nella mia stanza nelle tasche ho trovato solo questi»

Carol estrasse dalla borsa i cimeli che l’avevano seguita nel suo viaggio di ritorno e li porse all’anziano.

Lo sguardo di lui si accese immediatamente, le sue dita si chiusero tremanti attorno al taccuino ed al distintivo insanguinato come se stessero contemplando un tesoro perduto.

La ragazza corrugò la fronte senza capire cosa stesse succedendo.

«Elyn…» sussurrò il libraio con le lacrime agli occhi.

«Come fa a conoscere...ma… il taccuino sarebbe il suo? Come è possibile...» Balbettò lei ancora più spaesata.

L’altro le sorrise comprensivo mentre faceva il giro del bancone dirigendosi verso l’ingresso del negozio.

Girò la chiave nella toppa ed espose il cartello in modo che da fuori si leggesse “CHIUSO”.

«Eldar é il nome che uso ora in questo mondo, ma in realtà tanto tempo fa quando vivevo a Marley mi chiamavo in un altro modo...e si può dire che tu già mi conosca»

Carol strabuzzò gli occhi, connettendo in quell'istante i tanti puntini disseminati lungo quella tortuosa strada.

«Xaver» pronunciò a fior di labbra fissandolo sconvolta.

Lui annuì soddisfatto, poi le indicò con un gesto della mano il retrobottega.

«Mettiamoci comodi, adesso è il mio turno di raccontarti una storia»
 

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


Aprile 830


Xaver si sveglia all'improvviso, frastornato come se qualcuno gli avesse brutalmente strattonato le lenzuola facendolo cadere dal letto.

I suoi sensi sono ovattati ma capisce di non trovarsi nella piccola e umida stanza che occupa nella divisione scientifica del distretto di internamento. Allo stesso modo, pur essendo senza occhiali, sa che quella massa sfocata che svetta sopra di lui non è il soffitto di pietra segnato da crepe che conosce ormai a memoria.

La schiena poggia su una strana superficie che affonda e cede nell’accogliere il peso del suo corpo.
Ruota sul fianco per mettersi carponi, scoprendo sotto le proprie mani quella che a tutti gli effetti sembra sabbia che gli sfugge veloce dalle dita. Tasta a tentoni lo spazio intorno a sé in cerca degli occhiali, li trova e se li infila.

Finalmente tutto acquista nitidezza e Xaver può contemplare con assoluta meraviglia quel luogo magico di cui ha solo udito leggende.

Un immenso cielo, dove vivide sfumature di blu e violetto si fondono come pennellate, sovrasta una distesa di sabbia che si perde in un orizzonte infinito.
Sul fondale variopinto fluttuano in scie luminose moltissime strade di stelle.


I Sentieri.

D'un tratto avverte una presenza alle proprie spalle e capisce di non essere da solo in quel luogo.
 
Quando si volta vede una bambina esile vestita di abiti servili e logori. Le spalle incurvate e tutta la sua persona comunicano una profonda tristezza.
Xaver sente una strana inquietudine scorrergli nel corpo, qualcosa in quella creatura lo agita.
Deve avere appena dieci anni eppure in quello sguardo che non c'è, perché oscurato da una cupa ombra, si legge il peso di una vita estremamente lunga e sofferta.

Anche se Xaver non ha mai visto quella bambina sulle sue labbra un nome prende forma spontaneamente.

«Ymir»

Lei continua a fissarlo impassibile, poi gli volta le spalle incamminandosi sotto la scia di una delle tante vie tracciate nella splendida volta celeste.

Qualcosa gli suggerisce di seguirla e lui obbedisce.

Ymir si arresta dove il sentiero sembra perdersi in un portale talmente luminoso da non permettere a Xaver di scorgere cosa si trovi al di là di esso.
Osserva la sua piccola guida confuso sul da farsi. Lei non dice nulla ma con un cenno del braccio gli fa segno di inoltrarsi in quella luce abbagliante.
Titubante l’uomo getta un’ultima occhiata perplessa in direzione di Ymir ma il suo sguardo cieco è imperscrutabile.
Si avvicina al varco, la cui consistenza vaporosa lo attrae quanto una calamita. Allunga la mano per toccarla, è come attraversare dell'aria densa e fredda.

Prende un respiro e chiudendo gli occhi si inoltra nella nebbia fitta.

In una frazione di secondo si ritrova in un altro luogo che gli è estraneo.

Si tratta di una modesta stanza le cui pareti dall'intonaco rovinato ed i mobili consunti suggeriscono abbia visto tempi migliori. Dall'unica finestra filtra una vivace luce e si intravede un cielo azzurro senza nemmeno una nuvola. Apre un vecchio armadio e vi trova appese alle grucce delle divise che parrebbero appartenere ad un corpo militare. Accarezza lo stemma a due ali incrociate inciso su una giacca di pelle chiedendosi se abbia definitivamente perso il senno.

Un particolare attira la sua attenzione, sul dorso della mano sinistra nota una cicatrice frastagliata che non ricorda di essersi mai procurato.

A dire il vero, guardando meglio, quella mano è più grande del solito e le vene troppo in rilievo.
 

Qualcosa decisamente non quadra, ha la sensazione di essere in un corpo che non è il suo.

Spaventato si dirige verso lo specchio rettangolare agganciato alla parete e ciò che vi scorge non è affatto il riflesso dello Xaver che conosce. Quello che si sta specchiando è un uomo sulla trentina, biondo, piuttosto alto e prestante. La mascella squadrata ed il naso importante creano un viso particolare ma nell'insieme attraente. In quella cornice estranea nota qualcosa di familiare ed inconfondibile. Due occhi blu con pagliuzze grigie, i suoi. Lo straniero è vestito con una divisa uguale a quelle che Xaver ha trovato nell'armadio poco prima e dal fisico atletico sembrerebbe effettivamente un militare.
 
Si avvicina di più allo specchio, fissando sconcertato quel volto sconosciuto che gli restituisce lo stesso sgomento.
 
Probabilmente ha bevuto troppo quella sera, pensa. Come sempre tutta colpa di Hein il possessore del gigante corazzato e del suo nuovo liquore al sambuco di cui si vantava tanto. Deve essere collassato dopo aver fatto ritorno alla propria stanza e ora sta facendo quel sogno assurdo. DEVE essere così, la ragione gli suggerisce che è l'unica spiegazione. Xaver però nel profondo sa che non è vero.
 
Mentre cerca di svegliarsi a suon di schiaffi la porta della stanza si spalanca di colpo ed una risata infantile gli giunge alle orecchie.
 
«E quella cosa sarebbe Gunne, un rimedio contro le rughe? Se è quello il tuo cruccio arrivi troppo tardi»

La donna sulla soglia lo sta squadrando a braccia conserte in attesa di una risposta che però non arriva. Indossa la sua stessa divisa e Xaver la fissa imbambolato senza capire.

«Ma che hai questa mattina? Mi lasci ad aspettarti per mezz'ora al campo come una scema e poi ti trovo qui a specchiarti. Se non sbaglio eri tu che avevi detto di volerti alzare con le galline per allenarti» incalza impaziente la sua interlocutrice.

Lui si rende conto che nemmeno la più colossale delle sbronze può essere l'artefice di quell’incredibile situazione, ciononostante la tentazione di lanciarsi dalla finestra per testare un brusco risveglio è forte.

Si concentra sul viso della sconosciuta registrandone velocemente le caratteristiche con il suo occhio analitico, scientifico.

É carina, leggermente più alta della media. Il fisico è tonico anche se le proporzioni sono un po' sbilanciate verso la parte alta, evidenziando spalle e seno importanti. Il taglio sbarazzino ed i capelli rossi le conferiscono un'aria da ragazzina per quanto anche lei debba essere sulla trentina. Gli sorride guardinga scrutandolo con due occhi ambrati furbi e diffidenti.

Xaver capisce di dover stare al gioco, almeno finché non trova una via d'uscita da quel paradosso.

«Ehmm ma no...» farfuglia imbarazzato «oggi mi sa che non sono molto in forma, non ho nemmeno sentito la sveglia...»

Peccato che la sua risposta arrivi troppo tardi per non destare sospetti e così la donna inarca un sopracciglio poco convinta.

«Sarà meglio che tu faccia un salto in infermeria allora, abbiamo una spedizione a breve e come Caposquadra dobbiamo essere al massimo delle nostre capacità»

"Spedizione? Caposquadra?" ripete mentalmente Xaver.

«Hai ragione, ci vado subito. A più tardi e scusa ancora per l'allenamento» risponde frettoloso, superandola a testa bassa per allontanarsi dalla stanza e da quella conversazione che lo sta agitando.

Ha fatto solo pochi passi nel corridoio quando si sente nuovamente chiamare.

«Gunne»

Lui si volta fingendo nonchalance.

La donna, ancora appoggiata allo stipite della porta, indica con un cenno del capo la propria sinistra.

«L'infermeria è nell'ala Ovest, ricordi? devi andare di qui» precisa in tono sospettoso.

Xaver sente di poter quasi annegare nel proprio sudore.

«Certo che sbadato, oggi non è proprio la mia giornata buona» ridacchia mentre si affretta a percorrere quel freddo corridoio di pietra che gli ricorda l'interno di un castello.

Lo sguardo della donna continua a pungergli la nuca finché non scompare dietro un pesante portone di legno tirando un sospiro di sollievo.

Non sa come ma nel suo girovagare per quei corridoi infiniti trova la porta dell’infermeria, bussa piano ed una signora dai capelli argento in divisa bianca si presenta ad aprirgli.

«Gunne! Che sorpresa, hai bisogno di qualcosa?»

«…Katherine, buongiorno» risponde Xaver sbirciando il nome dell’infermiera sulla targhetta del camice «questa mattina mi sento piuttosto debole e mi è stato consigliato di venire qui»

La donna si fa da parte per farlo entrare e gli fa segno di accomodarsi sul lettino che occupa la saletta per le visite.

«Sono certa che è stata Elyn a convincerti a passare, quella ragazza si preoccupa sempre per tutti. E voi andate così tanto d’accordo che non mi stupisce abbia a cuore la tua salute»

Lui esita un attimo, indeciso su come ribattere a quella frase. Forse Elyn è effettivamente il nome della soldatessa che ha incontrato quella mattina, considerato l’atteggiamento amicale di lei nei confronti di questo Gunne.

«Ehm, sì… sai come è fatta»

Katherine gli sorride e lo fa con quella maniera confortante, priva di giudizi, tipica delle persone abituate ad offrire assistenza nella sofferenza e nella malattia. Gli ausculta il battito con il fonendoscopio, osserva la gola controllando eventuali arrossamenti ed abbassa la palpebra inferiore dell’occhio per vedere meglio il colore della sclera.

«Mmm sembra tutto a posto, probabilmente è solo stanchezza. Però è meglio ti dia uno dei miei tonici alle erbe» sentenzia dopo quell’attento esame clinico.

«Ti ringrazio» dice Xaver, arrischiandosi poi ad aggiungere «a quanto pare avremo una spedizione a breve, devo riprendermi in fretta»

Il volto dell’infermiera si rabbuia mentre rovista nell’armadietto dei medicinali.

«Già... e ogni volta siete sempre di meno a fare ritorno. Vuoi anche il tuo solito unguento per la mano?»

Xaver guarda la brutta cicatrice che ha iniziato a pizzicare.

«Sì forse è meglio. Sai… ormai non mi ricordo nemmeno più come me la sia procurata»

«Vuoi dire che ormai hai perso il conto di tutte le ferite che hai…» lo corregge lei fissandolo con la fronte aggrottata e lui teme di essersi appena tradito.

«Ahah certo, non posso ricordarmi tutto» si difende ridacchiando.

«La memoria in effetti non è mai stata il tuo punto forte, probabilmente dovresti dedicare più attenzione a quella e meno ai muscoli» commenta sarcastica, porgendogli una boccetta di vetro piena di un liquido verdognolo e un piccolo contenitore di legno «prendine un cucchiaio la mattina appena sveglio, la pomata invece massaggiala come al solito sulla cicatrice dopo gli allenamenti»

Xaver annuisce e si avvia verso l’uscita, deluso di non aver scoperto nulla che possa aiutarlo a capire dove diamine sia finito.

Ma proprio a quel punto Katherine gli svela l’arcano.

«Quei dannati giganti…dovranno pur esaurirsi prima o poi!»

Lui si blocca davanti alla porta, gli occhi sbarrati fissi sulle venature del legno. Incapace di voltarsi riesce ad emettere solo un mugugno accompagnato da un debole cenno del capo.

Prima che l’infermiera possa aggiungere altro abbassa la maniglia e si fionda in corridoio, adesso perfettamente consapevole della geografia e del nome della terra su cui poggia piede.

L’Isola di Paradis.



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Una volta tornato in quella che è la stanza di Gunne, Xaver non riesce a smettere di tremare.
Guarda il panorama attraverso la finestra fissando atterrito l’imponente muraglia che si staglia all’orizzonte, chiedendosi come abbia potuto non notarla prima.
Si siede sul bordo del letto sforzandosi di riflettere sul da farsi e le idee piano piano iniziano ad affiorare, così come il potenziale senso logico di quegli avvenimenti.
Poiché gli Eldiani di Marley e quelli di Paradis fanno tutti parte del Popolo di Ymir evidentemente sussiste una certa connessione tra i due rami familiari tramite i Sentieri. Deve essere per quel motivo che la sua coscienza ha potuto trasferirsi nel corpo del suo simile e ciò vuol dire, conclude con ansia sempre maggiore, che forse allora Gunne in quel momento si trova a Marley in una speculare situazione.
Degli abitanti di Paradis Xaver conosce solo ciò che gli è stato trasmesso dagli insegnamenti di Marley, per la cui propaganda essi sono marchiati come gli Eldiani malvagi che terrorizzano il mondo detenendo il potere del Gigante Fondatore. Una minaccia che i Marleyani cercano di tenere a bada inviando sull’isola i condannati trasformati in giganti puri. A differenza dei suoi conterranei però Xaver non è propenso a dispensare odio a priori, non è un uomo di fede e necessita di fatti e prove prima di giudicare, ecco perché non ha mai subìto passivamente l’indottrinamento di Marley.
Superato l’iniziale sgomento e la preoccupazione su come fare ritorno casa capisce però che quella che gli si è presentata può essere un’ottima opportunità di studio per uno scienziato come lui.

Bussano alla porta e quando domanda chi sia dall’altro lato gli giunge una voce che già conosce.

«Sono io, Elyn»

«Entra pure»

La sinuosa figura comparsa sull’uscio lo studia vigile, memore degli eventi della mattinata. Xaver però ora risponde prontamente.

«Ti chiedo scusa per prima… sono andato da Katherine a farmi visitare e mi ha detto che si tratta di semplice stanchezza»

«L’ho sempre detto che ti alleni troppo» sbuffa lei, sembra sollevata «che programmi hai per il pomeriggio, stare a letto?»

Lui ci pensa un attimo su poi un’idea lo folgora.

 «No, credo farò un giro in città. Devo comprare un libro»

Elyn strabuzza gli occhi sorpresa di fronte a quella che evidentemente per Gunne costituisce un’evenienza quantomeno insolita.

«Questa è bella… in due anni che ti conosco non ti ho mai visto leggere delle pagine che non fossero i rapporti delle missioni»

Xaver si alza dal letto ed afferra con disinvoltura la giacca dalla sedia.

«C’è sempre una prima volta per tutto. Vieni con me?»

«Perché no, in effetti avrei anche io delle commissioni da fare. E poi conosco un’ottima libreria»

Insieme si avviano verso il cortile della caserma, ricambiando il saluto di altri soldati in cui si imbattono durante il tragitto. Xaver nota che alcuni, probabilmente di pari grado, gli sorridono rivolgendo un cenno del capo mentre altri si fermano sul posto battendo il pugno destro sul cuore e portando il sinistro dietro la schiena.
La sua mente analitica comincia a registrare tutte quelle curiosità come se fosse in una sorta di elettrizzante esperimento sul campo.
Si guarda intorno affascinato dalle case con i tetti rossi a spiovente e le pareti con travi di legno a vista incassate geometricamente nella pietra. Una città dallo stile singolare con torri che svettano tra un quartiere e l’altro ricordandogli i borghi fortificati di vecchie illustrazioni. 
Dopo aver preso varie traverse sbucano nella via principale della città dove Xaver può vedere all’opera i famosi demoni, in realtà non molto diversi dai propri connazionali.
Ci sono donne con cestini di vimini sotto braccio intente a fare la spesa al mercato chiacchierando nel frattempo del più e del meno. Nota bambini che giocano rincorrendosi per i marciapiedi o che contemplano con l’acquolina in bocca le meraviglie esposte sulle bancarelle di dolciumi. Ci sono uomini che leggono il giornale fuori da un’edicola, lamentandosi dell’aumento del prezzo dei viveri e commentando con disdegno l’operato di un certo Corpo di Ricerca.
Xaver si accorge che a quelle affermazioni il volto di Elyn si rabbuia e la donna stringe i pugni, accelerando il passo. Lui registra anche quel particolare e prosegue con la propria indagine osservando quanto il livello di sviluppo di quella società sia decisamente arretrato rispetto agli standard dell’epoca. Gli unici mezzi di trasporto sono carri e carrozze trainate da cavalli, non c’è traccia di automobili, treni, dirigibili, a testimonianza di quanto quel popolo sia completamente isolato dal resto del mondo.
 
Ad un tratto Elyn gli tira la manica per indicargli l’entrata di una libreria.
 
«Qui troverai sicuramente quello che cerchi, io proseguo per il negozio di ferramenta. Ci ritroviamo qui tra un’oretta»

«D’accordo a dopo allora» si congeda lui, indugiando sulla figura flessuosa della donna che si allontana sparendo tra la folla.

Per un istante si sofferma a pensare che lei gli piace e vorrebbe approfondirne la conoscenza.

E questa volta non è il suo spirito di scienziato a parlare.

Ma poi quel fugace pensiero se ne va veloce come è arrivato, Xaver si riscuote e spinge la porta del negozio.



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Dopo aver ringraziato Elyn per averlo accompagnato in città Xaver si siede alla scrivania e si tuffa nella lettura del libro di storia che ha appena acquistato.
Attraverso quel semplice testo scopre che la milizia alla quale appartiene Gunne è uno dei tre corpi militari che si occupano della sicurezza del territorio. Prende il nome di Corpo di Ricerca, istituito con lo scopo di compiere spedizioni fuori dalle mura e uccidere i giganti. Apprende anche che gli Eldiani dell’Isola non sono a conoscenza delle proprie origini, tantomeno della vera natura dei giganti, vivendo nella convinzione di essere gli unici sopravvissuti della razza umana.

Quando richiude il libro la stanza è immersa nella luce aranciata del tramonto e una pesante stanchezza gli piomba addosso.

Improvvisamente un caldo formicolio inizia a diffondersi nel suo corpo, la vista si oscura ed avverte una grande forza risucchiarlo lontano.

Rientrato in possesso dei propri sensi davanti a lui si apre ancora lo spettacolare panorama dei Sentieri.

Una strana percezione lo spinge a voltarsi.

Ymir è dietro di lui, immobile come se dopo essersi separati lo avesse aspettato pazientemente.

A differenza di prima ha però con sé un secchio.
Versa l’acqua a terra e si china a raccogliere della sabbia bagnata compattandola nelle mani.
Poi immerge la palla di sabbia nel secchio e quando estrae la mano dall’acqua nel palmo ora regge un oggetto.
Senza dire una parola lo porge a Xaver. È una spilla d’argento di splendida fattura con lo stemma del Corpo di Ricerca.

Prima che lui possa chiedere spiegazioni un bagliore accecante si sprigiona dal gioiello e lui si sente nuovamente in balìa di un’immensa forza che lo trascina via.

La luce cala di intensità permettendogli di riconosce attorno a sé i contorni della propria stanza a Marley.

Corre in bagno, il volto riflesso nello specchio sopra il lavandino questa volta è proprio il suo.

Sorride, in parte perché è contento di essere di nuovo a casa, in parte perché ha capito che la spilla che stringe ancora in mano potrebbe essere la chiave per proseguire in quegli strani viaggi.



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Trascorrono quasi due mesi prima che Xaver possa ritornare a Paradis.

I viaggi dapprima sporadici diventano in seguito piuttosto frequenti, anche più volte in uno stesso mese e lui si scopre sempre alquanto trepidante di lasciarsi assorbire nella nuova avventura.

Inizialmente non gli è chiaro se si tratti a tutti gli effetti di uno scambio bilaterale, oppure se a viaggiare sia solo lui e la coscienza di Gunne venga come sopita mentre ne occupa il corpo. Ad ogni suo ritorno a Marley non trova infatti segni o tracce che possano testimoniare il passaggio del soldato Eldiano, né i colleghi gli portano osservazioni su eventuali comportamenti insoliti come invece gli capita quando è a Paradis.


Trascrive fedelmente in un taccuino, di cui conserva una copia a Marley, tutte le scoperte e le esperienze che vive avendo cura di celare nomi di persone e luoghi dietro iniziali puntate.

Dalla permanenza sull’isola Xaver trae molti insegnamenti, la rivelazione più eclatante è però senza dubbio che gli abitanti definiti “demoni” non sono così diversi dal popolo d’oltreoceano. Certo tra essi ci sono individui dall’animo discutibile che potrebbero tranquillamente meritarsi tale appellativo, ma lo stesso ragionamento può essere applicato per qualsiasi società, Marley inclusa. Ciò che fa comprendere a Xaver quanto la condanna del mondo esterno sia ingiusta sono le azioni assolutamente umane delle persone comuni che incontra nelle sue esplorazioni in città, le scene di vita “normale” a cui assiste, gli sguardi di ammirazione che gli regalano i bambini nel vederlo in divisa. E tra tutti l’estremo sacrificio dei militari del Corpo di Ricerca che votano la propria vita a garantire la conservazione di tale quotidianità, servendo e proteggendo senza riserve quella stessa gente che spesso li critica. L’incarnazione vivente di questa vocazione è proprio Elyn che è anche l’unica ad accorgersi delle stranezze dette o compiute da Xaver in veste di Gunne.

Tra i vari commilitoni sembra essere quella con cui l’uomo è maggiormente in confidenza ed anche Xaver si sente davvero a proprio agio in sua compagnia.


Trascorre così, dividendosi tra la vita di scienziato ed il suo alter ego a Paradis, il primo di tanti anni.

A Marzo dell’831 il governo di Marley inizia a mettere in atto le proprie mire espansionistiche verso l’isola, ingolosito dalle abbondanti risorse naturali che essa possiede. La minaccia rappresentata dal potere di Re Fritz obbliga però gli alti vertici militari ad ideare un piano che prevede l’arruolamento e l’addestramento di bambini Eldiani ai quali trasmettere il potere dei sette giganti detenuti da Marley. A questa unità speciale verrà assegnato il compito di attaccare Paradis e recuperare il Gigante Fondatore, per consentire in seguito l’invasione da parte dell’esercito principale.
Xaver apprende con non poca preoccupazione tale notizia e per qualche giorno è tormentato dall’indecisione di rivelare ai suoi superiori quanto ha scoperto sugli Eldiani d’oltreoceano o al contrario tacere.
 
È l’ultima opzione ad avere la meglio poiché si rende conto che essi, accecati dai pregiudizi e dalla brama di potere, non potrebbero mai essere persuasi a cambiare idea su quel popolo.
I Marleyani trattano con sufficienza persino quelli come lui, gli Eldiani “buoni” del distretto di internamento, senza contare che anche questi ultimi disprezzano i propri confratelli accusandoli di aver condannato all’odio universale l’intera stirpe.
Aspettarsi che venga concesso il perdono ai demoni di Paradis è quindi assolutamente fuori questione. Inoltre il rischio che i superiori sfruttino i suoi viaggi obbligandolo a sabotare gli Eldiani dall’interno è molto elevato.

Xaver sceglie dunque la via del silenzio proseguendo la propria avventura sempre più addolorato per il destino di quel luogo e dei suoi abitanti, ignari delle disgrazie che vengono architettate ai loro danni.




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Settembre 831



Xaver si sta godendo i tiepidi raggi del sole settembrino, il suo periodo preferito, quando gli ultimi sprazzi d’estate si mescolano all’aria frizzante che preannuncia l’arrivo dell’autunno. Le giornate si accorciano, le chiome degli alberi iniziano a tingersi di colori variopinti, la natura rallenta il proprio ritmo invitando anche tutte le creature viventi a fare lo stesso. E lui ha tanta voglia di riposarsi, i giorni appena trascorsi sono stati duri; il Governo ha intensificato le sessioni di addestramento dei cadetti e supervisionare quelli che per lui non sono altro che ragazzini che si allenano a diventare macchine da guerra, ad uccidere, non gli dà pace.

Ma quello che più lo preoccupa è il piccolo Zeke.

Si ritrovano spesso a giocare insieme, cercandosi istintivamente come se l’uno avesse bisogno della compagnia dell’altro per colmare una mancanza della propria esistenza. Vederlo impegnarsi strenuamente per stare al passo con le aspettative del padre, dal quale riceve in cambio solo sguardi delusi e rimproveri, lo intristisce. A Xaver è chiaro che il ragazzino non desideri affatto diventare un Guerriero ma stia ubbidendo al volere del genitore ricercandone l’approvazione. La tristezza e la solitudine che legge ogni giorno negli occhi di Zeke gli ricordano il proprio tormento, perciò si è ripromesso di stargli accanto, di giocare con lui e fornirgli quel supporto che non riceve dalla famiglia.

Tutti questi pensieri gli procurano una tensione non indifferente ecco perché cerca di godersi il più possibile i placidi momenti in cui si trova a Paradis, una dolce pausa dalla frenetica ed insidiosa vita che lo aspetta a Marley.

Sta percorrendo il sentiero sterrato e decorato di cespugli d’erica che attraversa i vasti campi del Wall Maria, quando riconosce Elyn intenta a cogliere dei frutti da un albero.

Senza pensarci devia istintivamente il proprio percorso per raggiungerla, camminando su un tappeto d’erba dove spuntano qua e là pozze dorate di heliantus.

«Ciao Gunne» lo apostrofa riconoscendolo immediatamente «anche tu hai deciso di sfruttare il giorno libero per scaldarti al sole?»

«Esatto… non mi andava proprio di chiudermi in stanza a compilare rapporti»

«Allora poi…sentirai che ramanzina…ti farà il Comandante» lo rimprovera mentre si solleva sulle punte per raggiungere un frutto troppo in alto per lei.

Xaver, che nei panni di Gunne possiede una notevole stazza, lo coglie al suo posto porgendoglielo con gentilezza.

«Che strani frutti» commenta osservando quei singolari e molli esemplari dalla forma a goccia.

La donna ripone il raccolto nel cestino di vimini che porta al braccio, fissando esterrefatta l’uomo.

«Ma come, non hai mai visto un fico?»

«Ehm no… a dire il vero non ho mai avuto il piacere di assaggiarli. Sono buoni?» domanda l’altro massaggiandosi la nuca perplesso.

«Io li adoro. Sono molto dolci ed incredibilmente versatili. Si possono utilizzare per torte, crostate, ma sono ottimi anche accompagnati a formaggi e pane»

«Mi stai facendo venire l’acquolina in bocca»

«Allora ti preparerò il mio piatto forte! La crostata con confettura di fichi» esclama Elyn regalandogli un sorriso smagliante che lo colpisce con una stilettata dritta al cuore.

«A-accetto molto volentieri» balbetta lui ancora frastornato dalla radiosità emanata dalla donna, così a suo agio e serena «è una tua invenzione?»

«No, seguo la ricetta di mia nonna» risponde lei e nel perdersi in ricordi lontani la sua espressione si addolcisce ancora di più «quando ero piccola trascorrevo spesso i pomeriggi dai miei nonni perché i miei genitori dovevano lavorare. In giardino c’era una pianta di fichi bella quanto questa e uno dei miei passatempi preferiti era arrampicarmi sui rami più alti e fare scorpacciate di fichi leggendo un libro»

Entrambi alzano lo sguardo verso le fronde dell’albero ammirando la stupenda trama dorata disegnata dai raggi del sole.

«E poi per merenda mia nonna preparava una crostata squisita… se chiudo gli occhi posso ancora rievocare chiaramente la sensazione morbida e dolce di ogni boccone. Ovviamente quando la cucino, per quanto segua per filo e per segno la ricetta, non ha mai lo stesso sapore della sua» chiosa Elyn in tono vagamente affranto.

«Credo che dipenda soprattutto dai ricordi felici che ti legano a quel piatto e dall’amore che provavi per tua nonna, più che dall’accortezza con cui ti attenga alla ricetta. La crostata che preparava lei quindi ti risulterà sempre più buona di qualsiasi altra»

«Probabilmente hai ragione. In effetti io sono stata fortunata ad avere un’infanzia serena, non mi è mai mancato nulla…ora che nella mia vita adulta vedo tanta morte e dolore ogni tanto sento il bisogno di riconnettermi a quegli anni spensierati, di ritornare la me stessa bambina che mangia fichi fino a farsi venire il mal di pancia»

«Basta che non esageri, altrimenti tutta la dolcezza dei fichi non potrà nulla contro Katherine ed i suoi ricostituenti amari» scherza Xaver mentre si incamminano per fare ritorno alla caserma.

«Bleah non farmici pensare» rabbrividisce Elyn con una smorfia di disgusto.

Molto elegantemente Xaver si offre di portare il cesto e la donna sembra apprezzare tale gentilezza, arrossendo appena.

Nel percorrere il sentiero davanti a loro sfilano veloci alcune rondini, che si innalzano nel cielo volando oltre le mura verso il caldo sole del meriggio.

«All’arrivo dell’autunno se ne vanno sempre verso Sud… chissà dove andranno»

Xaver conosce già la risposta, perché i volatili per svernare dirigono la propria rotta verso i caldi territori meridionali di Marley. Questo, però, lui non può rivelarlo.

«Sicuramente in un posto dove non faccia freddo»

«Tante grazie, questo lo sapevo anche io» sbuffa Elyn roteando gli occhi «intendevo dire… se davvero non esistesse altra terra all’infuori di questa, come raccontano i libri su cui studiamo, non avrebbero un posto in cui andare a passare l’inverno. Quindi qualcosa di vero nelle leggende deve esserci, sul mar…»

Si interrompe bruscamente, arrossendo come accortasi di essersi lasciata sfuggire un segreto.

Xaver non insiste, la osserva teneramente cercando di reprimere l’ardente desiderio di prenderle la mano o di stringerla a sé come da tanto, troppo tempo, non fa con una donna.

«Non è forse questo lo scopo del Corpo di Ricerca? Scoprire cosa c’è al di là?»

«Hai ragione» risponde lei con lo sguardo rivolto sempre più lontano «è per questo che noi esistiamo»



 
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Agosto 832



Xaver apre gli occhi, ormai a proprio agio con quella sensazione di vuoto allo stomaco che persiste per qualche minuto dopo il cambio di corpo. L’atmosfera attorno a lui è molto accogliente, forse merito della candela sulla scrivania che ha immerso la stanza in una penombra calda ed intima.
Si specchia nel riflesso di Gunne alla finestra, oltre la quale regna un buio puntellato dalle luci delle fiaccole che costeggiano il cortile interno della caserma.
Nota che la classica uniforme è stata sostituita da una semplice camicia azzurra abbinata a dei pantaloni blu dal taglio morbido.
Abiti civili.
Incuriosito dal vociare che sente oltre la porta spegne la candela ed esce dalla stanza.
 
Il chiasso sembra provenire dal grande refettorio al piano inferiore e quando Xaver raggiunge la sala questa è gremita di militari che brindano e cantano.
 
Si appoggia allo stipite dell'ingresso osservando la scena e ritrovandosi a sorridere.
 
Ormai ha imparato a conoscere quelle persone e pensa che se i propri connazionali vedessero quegli uomini e donne divertirsi e bere esattamente come farebbero loro, forse riterrebbero stupido l’odio che per anni sono stati addestrati a covare. Tuttavia gli sovviene l’amaro sospetto che un antidoto per quel veleno a lento rilascio iniettato dalla propaganda Marleyana arriverebbe troppo tardi, perché il sangue ne è già saturo oltre il punto di recupero.
Pensa a quei ragazzini che stanno dando anima e corpo per diventare guerrieri, per ottenere una possibilità di riscatto e gloria che in realtà non è altro che una condanna a morte.
Pensa al piccolo Zeke con cui ha stretto un legame unico considerandolo praticamente un secondo figlio. Infine pensa a sé stesso, al fatto che non è stato uno spirito patriottico a spingerlo ad ereditare il Gigante Bestia quanto la rassicurazione di una sentenza di morte con una data di esecuzione prestabilita e certa. Dietro alla scusa di carpire nuove informazioni sulla razza Eldiana accedendo ai ricordi dei predecessori nascondeva infatti l’esigenza di espiare le proprie colpe. Accorciare la sua misera esistenza in una sorta di suicidio volontario gli era sembrata la cosa migliore per ottenere il perdono del figlio che il suo stesso egoismo gli aveva portato via. Eppure proprio quando l’aspettativa della morte era divenuta il suo chiodo fisso quell’occasione si era presentata, fornendogli una piacevole distrazione.

«Hey Gunne!» lo riscuote ad un tratto una voce familiare. 

Lasciatosi trascinare da quel fiume di considerazioni non si era accorto dell’uomo che gli si era avvicinato.

«Buonasera Keith» ricambia il saluto Xaver diradando la nebbia dalla propria mente «mi è giunta voce che sei il favorito per diventare il prossimo Comandante»

Shadis scuote la testa prendendo una bella sorsata di birra dal boccale che regge in mano.

«Dovrebbe essere un’informazione confidenziale…ma da quel che sento ormai è di dominio pubblico» bofonchia seccato.

Xaver si concede una risata accordandosi con l’aria di festa che si irradia attorno a lui.

«Non che ci fossero dubbi… sei un soldato esperto e giudizioso, sarai un ottimo Comandante»

L’altro corruccia la fronte e passa in rassegna con una vaga aria di superiorità i compagni intenti a divertirsi.

«Forse… però vorrei essere più di questo. Posso fare davvero la differenza, sento che ho un ruolo importante da compiere nel destino dell’umanità»

Xaver lo osserva stupito ma incuriosito da quella scintilla di ego che Keith, solitamente riservato ed abbottonato, si è lasciato sfuggire.

«Non capirò mai questo bisogno di ricercare grandi occasioni e imprese per sentirsi speciali, eccellere a tutti i costi. Credo che la soddisfazione si possa trovare anche nelle piccole cose, nella normalità. Non fraintendermi Keith è lodevole avere una sana considerazione di sé e volersi distinguere… l’importante è che essa non si trasformi in una rovinosa arroganza. Sai come si dice, chi vola troppo vicino al sole poi rischia di bruciarsi»

L’uomo, evidentemente punto nel vivo, lo fulmina con lo sguardo contrariato di chi è fin troppo consapevole del proprio valore tradendo la tendenza di porsi al di sopra degli altri.

«Questi discorsi profondi non sono proprio da te, sei già ubriaco? Comunque essere speciali non vuol dire essere arroganti. Non tutti hanno le capacità per realizzare qualcosa di epico, in questo sta la differenza.»

«Allora contiamo tutti su di te, grande uomo» conclude Xaver assestandogli una pacca sulla spalla e scrutando tra la folla alla ricerca di Elyn.

«È di fuori… l’ho vista uscire poco fa in cortile» lo anticipa Shadis nascondendo un ghigno dietro il boccale «e ti ricordo che le relazioni tra commilitoni sono fortemente sconsigliate e ufficiosamente vietate»

«E io ti faccio presente che non sei ancora il Comandante»

«Questa me la segno per dopo. Comunque proprio non ti capisco… ci sono momenti in cui ti comporti come se per te non fosse più di un’amica e altri, come adesso, in cui è palese che ti sei preso una bella sbandata»

Xaver apre bocca ma esita ad emettere suoni, realizzando che forse con le proprie azioni sta interferendo eccessivamente nel rapporto tra il vero Gunne ed Elyn.

«Oh beh, immagino non siano affari miei» prosegue l’altro gettando un’occhiata annoiata al fondo vuoto del boccale e constatando così di essere a corto di birra «però se i tuoi sentimenti sono sinceri parlagliene. Prima che qualcuno te la rubi»

Nell’osservarlo farsi largo tra i compagni Xaver prova un moto di compassione per Keith, che in quel momento gli appare alla disperata ricerca di alcol quanto di uno scopo. Un naufrago dall’animo colmo di rimpianti che, proprio come lui, non riuscirà mai ad integrarsi completamente in quel mondo.
Chissà quali eventi l’hanno spinto ad attaccarsi tanto ostinatamente all’aspettativa di un glorioso destino.
Forse una profonda insicurezza, forse la delusione di un amore che non ha potuto avere.


Con quell’immagine in mente Xaver prende la via che conduce all’esterno, lasciandosi alle spalle il calore della sala gremita e le risate che riecheggiano tra gli alti soffitti.

Trova Elyn seduta su una panchina sotto il porticato che fiancheggia l’edificio. Alla luce aranciata delle fiaccole i suoi capelli rossi sembrano ancora più brillanti. 

«Non dirmelo, là dentro c’era troppo divertimento per i tuoi gusti e avevi bisogno di una pausa» esordisce beffardo sentendo il proprio cuore accelerare i battiti.

«Non vedo cosa ci sia da festeggiare dato che dubito la cerimonia di diploma ci porti nuove reclute» gli risponde scettica la donna.

Lui annuisce capendo finalmente il motivo della festa e prende posto accanto a lei.

«Davvero assurdo» prosegue Elyn gesticolando nervosamente «dopo ogni spedizione siamo sempre più a corto di uomini e finanziamenti. Ma d’altronde non biasimo i cadetti, chi non avrebbe paura di unirsi ad un esercito dove ci sono pochissime probabilità di sopravvivenza?»

«Forse a mancare è soprattutto il desiderio di servire uno scopo più grande»

Elyn si volta verso di lui, soppesandolo in silenzio.

«Intendo dire… se c’è la volontà di realizzare il Bene del genere umano, di fare la differenza, credo che il coraggio di compiere questa determinata scelta poi venga da sé. Certo nessuno affronterà mai senza paura un gigante, però tenere fede al proprio ideale ti dà la spinta per sguainare le spade e combattere» specifica Xaver alzando lo sguardo al cielo siderale «sono sicuro che prima o poi arriverà qualcuno che incarnerà questo sogno più di tutti. Una guida che saprà ispirare i cuori dei propri uomini facendo nascere in loro la stessa consapevolezza. Allora il Corpo di Ricerca vivrà il suo periodo di splendore»

Quel monologo gli esce con naturalezza, come se sentisse il bisogno di riprendere le fila del discorso lasciato in sospeso con Shadis poco prima.

«Alcuni dicono che Keith potrebbe fare la differenza una volta diventato Comandante»

«Forse» si limita a commentare l’uomo, rifiutandosi di rovinare l’illusione di Elyn. In realtà dubita che il soldato in questione corrisponda al ritratto da lui appena tratteggiato.

«Però… non ti facevo così filosofico» lo stuzzica lei condendo quell’affermazione con un sorriso amorevole.

«Non sei la prima a dirmelo. A quanto pare stasera sono particolarmente ispirato» replica Xaver ricambiando spontaneamente il gesto.

Dall’interno della caserma inizia a diffondersi una vivace melodia portata dalle corde pizzicate di una chitarra.

«Ti va di ballare?»

La donna lo fissa un po’ interdetta e lievemente imbarazzata. Lui invece per una volta tanto si sente molto sicuro di sé come se le loro personalità si fossero momentaneamente invertite.

«Dai, ti prometto che non ti pesterò i piedi. Mia mamma era un’eccellente insegnante» la incalza scattando in piedi e tendendole la mano.

Elyn temporeggia ancora per qualche istante poi accetta l’offerta alzandosi a sua volta.

«Va bene. Ma sappi che se stai mentendo al prossimo allenamento ti restituirò i pestoni con gli interessi»

Xaver ridacchia alla battuta, avvertendo al contempo la gola farsi secca per la vicinanza di lei. La sua mano prende posizione sul fianco della donna e le dita accarezzano la stoffa leggera della camicetta, intercettando il calore della pelle sottostante.

Dondolano a tempo di musica, più che ballare, ma a nessuno dei due sembra importare.

Nel cortile ci sono solamente loro e le ombre della notte che danzano tremolanti sui muri di pietra insieme alle luci delle fiaccole.


Si specchiano l’uno negli occhi dell’altro così intensamente da far temere a Xaver che lei gli possa leggere l’anima e con essa il suo segreto.

Prova un moto di invidia per Gunne, il fortunato destinatario di quello sguardo languido e dolce.

Sarebbe sbagliato cedere alla tentazione che lo sta assalendo. Non può ingannarla, non così. E sa che lei è troppo ligia alle regole per non pentirsi di averlo assecondato.

Questo pensiero non basta tuttavia a trattenerlo dall’avvicinare le proprie labbra a quelle di Elyn, fino ad incontrarsi in un bacio che presto travolge entrambi. Manca la volontà di interromperlo, di fermarsi, tutto quello che Xaver sente è un bellissimo calore che gli scalda il cuore come non accadeva da tanto tempo.

«Eeeelyn! Dove sei?» chiama improvvisamente una voce femminile. Suona incredibilmente ovattata alle orecchie dell’uomo e non saprebbe definire da quale distanza provenga.

Anche Elyn mostra incertezza nell’interrompere quel contatto e quando si ritrovano nuovamente faccia a faccia si studiano in silenzio, restii a spezzare con le parole lo strano incantesimo che si è creato.

«Scusami… devo andare» mormora lei quasi intontita e senza voltarsi sparisce dentro l’edificio lasciandosi dietro un leggero profumo agrumato.  

Xaver resta lì in piedi in mezzo al cortile come sospeso in un limbo.

Poi un familiare formicolio si fa strada lungo i suoi muscoli e capisce che è ora di tornare a casa.




 
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Xaver bussa con decisione alla porta di Elyn.

È impaziente di vederla perché è passato ormai un mese dall'ultima volta. E in tutto quel tempo il pensiero del loro bacio non l'ha mai abbandonato.


Sente dei passi che si avvicinano da dentro la stanza mentre il suo cuore per un attimo salta un battito.
La maniglia si abbassa ed il volto della donna compare sulla soglia.

«Elyn...» la saluta con un sorriso ebete che percepisce allargarsi sempre di più.

Ma c'è qualcosa di strano, lei non ricambia con altrettanta felicità e anzi lo guarda con disprezzo, assottigliando gli occhi a due fessure. 

«Vaffanculo Gunne» sbotta prima di chiudergli violentemente la porta in faccia.

Xaver rimane interdetto per qualche secondo. Un po' per la reazione che non si spiega ed in parte perché, scioccamente, si aspettava che lei lo avrebbe chiamato con il suo vero nome.

Torna alla carica picchiando nuovamente sul legno.

«Ti ho detto di andartene»

Non volendo dare spettacolo in mezzo al corridoio ed essendo deciso a vederci chiaro, si arroga in via eccezionale il diritto di entrare nella stanza.

Elyn, seduta alla scrivania in mezzo alle scartoffie, scatta in piedi.

«Giuro che sei a tanto così dal prenderti un sonoro cazzotto» sibila mostrandogli pollice ed indice che quasi si toccano.

Lui para avanti le mani dando segno di avere intenzioni pacifiche.

«Elyn ti prego, non capisco questo comportamento»

«Ah non capisci??» inveisce lei lanciandogli uno sguardo di fuoco «mi prendi per il culo evidentemente. Prima mi baci, poi quando prendo io l'iniziativa mi respingi facendo il finto tonto e dandomi della pazza come se mi fossi inventata tutto»

L’uomo abbassa lo sguardo e capisce che in quel lasso di tempo il rapporto tra il vero Gunne ed Elyn è cambiato drasticamente e la colpa è solo sua.

L’altra rincara la dose, furente.

«E adesso ti presenti qui, dopo che non ci parliamo da un mese, con un sorrisetto del cazzo come se tutto fosse tornato come prima?!»

Lui si trova indeciso sul da farsi. È stanco di quella faccenda e vorrebbe dirle tutta la verità ma è anche consapevole che sarebbe una mossa stupida.

O forse no?

«Elyn» si decide finalmente a parlare «sbaglio o è da un po' di tempo che Gunne non si comporta più come suo solito?»

La donna gli riserva un'occhiataccia e prima che sferri un nuovo attacco Xaver si affretta ad aggiungere «Lo ritrovi a leggere libri che magari giorni dopo nega di aver letto, in alcuni allenamenti sembra troppo goffo nell’adoperare il movimento tridimensionale e a volte si interessa più del solito a te facendoti domande che non ti ha mai posto...potrei andare avanti ancora e ancora ma mi fermo qui. Perché sai esattamente di cosa sto parlando»

Elyn continua a fissarlo senza abbassare la guardia.

«Stai vaneggiando, hai dato a me della pazza quando l’unico con le rotelle fuori posto sei proprio tu!»

Ma a lui non sfugge il leggero incrinarsi della sua voce e l'ombra che le attraversa lo sguardo nell'attimo di un respiro.

Quel piccolo mutamento gli infonde il coraggio che gli serve.

«Lo so che l'hai notato, perché sono certo che anche tu avverti questa nuova sensazione quando siamo io e te. E non è la stessa che provi con Gunne» mormora iniziando ad avvicinarsi lentamente a lei.

La donna scuote la testa, senza però indietreggiare.

Ormai sono a pochi centimetri di distanza.

«Non sei pazza. Guardami bene e cerca tu stessa la conferma che ciò che dico è vero»

Gli occhi di lei saettano da un punto all'altro del viso dell’uomo poi si concentrano sulle sue iridi.

Elyn sussulta e Xaver capisce che ha trovato quello che cercava e che finalmente gli crede.

«Gunne ha gli occhi verdi...»

Lui le sorride e fa un cenno di assenso.

«Chi sei?» è la domanda che gli pone prima che la mastodontica rivelazione le cada addosso.



 
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Giugno 833



Se qualcuno in passato si fosse avvicinato a Xaver durante il funerale di moglie e figlio dicendogli che quella non era la fine e che la vita sarebbe andata avanti, questi si sarebbe certamente ritrovato con il volto livido a suon di pugni. Perché la negazione nella quale Xaver era piombato l’aveva reso insensibile a tali verità che ora invece si palesavano in tutta la loro concretezza.
Sì, la vita in quanto processo dinamico prosegue nel suo inarrestabile incedere e ciò è un bene, perché significa che di riflesso anche tutto il resto muta. Anche il dolore più distruttivo si rimpicciolisce stringendosi un pochino per non ingombrare tutta la casa. In quello spazietto, all’inizio minuscolo ed inospitale, può allora fare capolino qualcosa per far compagnia al vecchio abitante. Un nuovo obiettivo, un nuovo amore, una nuova consapevolezza, qualcosa insomma che sussurri al nostro dolore “Hey, non voglio prendere il tuo posto o sbatterti fuori ma forse, se ti tengo la mano, tutto qui è più facile”.
Ecco cosa era diventata Elyn per Xaver, la provvidenziale gioia che gli faceva deporre l’ascia di guerra verso la vita e sé stesso. Un sé stesso del quale attraverso gli occhi di lei impara ad apprezzare alcune qualità ed accettare gli inevitabili, e per lui ancora in numero superiore, difetti.
E mentre in quel pomeriggio di giugno Xaver osserva Elyn passeggiare sulla riva di un placido laghetto di montagna, tirando le somme degli ultimi anni ringrazia mentalmente Ymir per quel dono inaspettato.

«Yuhuu, Tom! Ma non mi senti?» lo riscuote improvvisamente la voce di lei facendogli segno di raggiungerlo.

Lui posa il libro che stava leggendo e si mette in piedi con uno sbuffo, massaggiandosi il fondoschiena un po’ dolorante per il contatto con i sassi della spiaggetta.

«Sei proprio un vecchietto» lo canzona Elyn scuotendo la testa mentre l’uomo le si avvicina.

«Ah sì? eppure quando siamo a letto non mi sembra tu ti sia mai lamentata»

La donna gli getta le braccia attorno al collo rivolgendogli un’occhiata maliziosa.

«Questo lo dici tu, magari sei talmente sordo da non sentirmi»

«Insomma l’ultima parola deve essere sempre la tua»

«Ovviamente» risponde lei prima di baciarlo teneramente.

«Mi hai fatto alzare solo per questo? Stavo leggendo un passaggio molto interessante nel mio libro»

«Idiota» lo apostrofa Elyn con una mezza risata «volevo farti vedere cosa ho trovato»

Porge a Xaver un piccolo sasso sul quale in rilievo è ben visibile il profilo di una conchiglia.

«È un ammonite, un fossile» le spiega accarezzando le scanalature lungo il guscio.

«Sarebbe?»

«Si tratta di un animale che viveva sui fondali oceanici milioni di anni fa, con il passare del tempo sulla sua carcassa si sono sedimentati terra e minerali fino ad intrappolarlo nella roccia»

«Ma qui siamo in montagna, non c’è il mare» esclama l’altra giustamente perplessa dall’affermazione del compagno.

«Hai ragione, ma in epoca preistorica la maggior parte della superficie di questo mondo era rappresentata dall’oceano. Poi vari fenomeni naturali hanno permesso alle terre di emergere dando origine alle montagne, colline, pianure…»

«Quindi la terra su cui camminiamo in realtà è il fondale oceanico…» conclude Elyn fissando le montagne all’orizzonte.

La superficie dell’acqua, colpita dai raggi del sole, sembra un tappeto di diamanti e verrebbe quasi da schermarsi gli occhi tanto è abbagliante il riflesso luminoso. La donna invece non batte ciglio e Xaver si accorge che il suo volto si è intristito a quella scoperta. Sta per aggiungere qualcosa alla propria lezione improvvisata di scienze quando lei lo anticipa.

«Posso chiederti una cosa?»

«Tutto quello che vuoi» la rassicura lui.

«Che odore ha il mare?»

L’uomo rimane zitto per un secondo, sinceramente sorpreso da quella domanda e indeciso su cosa risponderle. È già un’ardua impresa descrivere qualcosa di concreto a chi non l’ha mai visto, figurarsi un profumo.

«È difficile da spiegare…è un odore umido, simile a quello che senti quando sei sulle sponde di un lago e sta piovendo. Ma è molto più forte e dal retrogusto salato… ti entra nelle narici, ti pervade completamente come se stessi respirando l’essenza di una creatura maestosa, un grande ecosistema in cui convivono tanti esseri viventi. Profuma di libertà»

Elyn chiude gli occhi e avanza immergendo i piedi nell’acqua, come se farlo l’aiutasse a visualizzare ciò che lui le ha appena spiegato.

«Vorrei tanto vedere il mare» confessa in tono malinconico, senza staccare gli occhi dall’orizzonte «quando ero piccola una mia amica, Hannah, un giorno mi fece vedere un libro. L'aveva trovato nascosto in fondo all'armadio di suo padre. Era uno di quei libri rilegati in cuoio che odorano di antico. Non dimenticherò mai il modo in cui le brillavano gli occhi mentre sfogliavamo quelle pagine ingiallite dal tempo. C'erano tantissimi disegni, uno raffigurava una distesa di sabbia chiamata deserto dove c'è un caldo torrido. Un'altra invece un continente di ghiaccio dove regna il gelo. Un'altra ancora un'immensa massa di acqua salata, il mare appunto»

Lui ascolta attentamente, contemplando gli occhi ambrati della donna che in quel momento sembrano oro fuso.

«Io non ci credevo... pensavo fossero sciocchezze perché a scuola non ci avevano insegnato nulla di tutto ciò. Lei invece non dubitava affatto dell'esistenza di quei luoghi, negli anni successivi continuò a ripetere che un giorno sarebbe andata oltre le mura per esplorare il mondo esterno»

Fa una piccola pausa, gli occhi le si inumidiscono e la voce si incrina mentre prosegue il racconto.

«Una volta cresciute io sono entrata nel Corpo di Ricerca e lei si è sposata. Un giorno che ero in licenza sono andata a trovarla a Shiganshina, vive a qualche isolato dal centro in una bella casetta con un piccolo giardino fiorito. Rivedendola provai un po' di invidia per quella vita stabile e serena così diversa dalla mia. Hannah mi confidò di non aver abbandonato il suo desiderio e di condividerlo con il marito. Le dissi che onestamente non ne vedevo il senso, ormai si sta costruendo una famiglia e non varrebbe la pena metterla a rischio per un capriccio infantile, oltretutto inoltrarsi nel territorio esterno per un civile costituisce un reato. Lei se ne risentì e mi rispose che, data la mia scelta, avrei dovuto capirla più di chiunque altro. Poi aggiunse che lo doveva ai suoi futuri figli, che non voleva crescessero in un mondo dove non vi era la libertà di inseguire i propri sogni e la verità. Da allora non l'ho più vista... so che sta cercando di rimanere incinta e spero che una volta diventata madre cambi idea»

«Non possiamo proteggere tutti, Elyn…» le dice Xaver stringendole delicatamente la mano.

Lei scuote la testa dando segno di non aver ancora concluso.

«È come se mi fossi svegliata da un lungo sonno. Ho scelto il Corpo di Ricerca perché credevo che uccidere i giganti fosse la soluzione per aiutare l’umanità e recuperare i territori invasi. In realtà c’era molto di più in gioco anche se non me ne rendevo conto. Ora che grazie a te conosco la nostra vera storia non posso fare a meno di pensare che Hannah abbia ragione, che quel profumo di libertà sia il vero Bene per il genere umano. La rappresentazione di quell’ideale di cui mi hai parlato quando ci siamo baciati la prima volta. Quel sogno che dovrebbe unirci tutti e spronarci a combattere per la libertà che ci hanno tolto»

Xaver la fissa intensamente, domandandosi come sia possibile che la forza di quella donna non cessi mai di stupirlo e scatenare in lui una sincera e profonda ammirazione.  

«Ti porterò a vedere il mare, te lo prometto. Magari costruiremo anche una casa sulla spiaggia» le sussurra stringendola dolcemente a sè. In quel momento non pensa a quanto sia irreale quel piano e numerosi gli ostacoli che ne impediscano la realizzazione, primo tra tutti il fatto che a Xaver restano ancora otto anni prima di tramandare il Gigante Bestia.

«Guarda che se me l’hai promesso non puoi rimangiarti la parola» lo ammonisce seria Elyn.

«Non ne avevo alcuna intenzione»

«Bene»

Rimangono stretti l’uno all’altra, godendosi la leggera brezza che ha iniziato a soffiare increspando la superficie del lago.

Ad un tratto Elyn scioglie l’abbraccio e fa qualche passo in avanti nell’acqua, dando le spalle a Xaver.


«Non è che per caso la spilla può anche fermare il tempo? I tuoi viaggi durano sempre troppo poco» confessa mestamente.  

Xaver sorride commosso perché conosce bene la fatica di Elyn nell’ammettere le proprie emozioni.

Si abbassa furtivo e con il palmo della mano schiaffa l’acqua in direzione della compagna che sussulta per quella sferzata fredda.

«Ma cosa…»

«Eri triste e come hai puntualizzato non rimarrò qui ancora a lungo, dovevo agire in fretta» si giustifica lui facendo spallucce con aria innocente.

«Adesso ti faccio vedere io» lo minaccia Elyn, ma sul volto campeggia un radioso sorriso ed i suoi occhi ambrati ammiccano furbescamente. 



 
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Febbraio 834



Fuori la pioggia picchietta debolmente contro il vetro della finestra, disegnando gocce che fanno a gara per correre una più veloce dell'altra.

Xaver si gode la sensazione di calore che gli dà il corpo di Elyn stretto al proprio mentre lei poggia la testa sul suo petto tracciandovi ghirigori immaginari con le dita. Nonostante quel gesto gli solletichi la pelle non si sogna nemmeno lontanamente di fermarla.

«Toglimi una curiosità…» esordisce con un tono più serioso del previsto.

«Come sei lugubre! Cosa vuoi sapere, un segreto di stato?»

«Quasi…» ridacchia lui aumentando intenzionalmente la suspence e la donna alza la testa scrutandolo impaziente «…come va con Gunne?»

Lei sbuffa roteando gli occhi al cielo, il rimprovero non verbale che gli riserva quando pronuncia una stupidaggine.

«Non c’è molto da dire… dopo averci litigato, per colpa tua ovviamente, gli ho chiesto scusa ma non abbiamo più avuto lo stesso rapporto. Certo continuiamo a collaborare negli allenamenti e in battaglia ci copriamo le spalle a vicenda, però la nostra amicizia si è… raffreddata»

«Mi dispiace…»

«Sì sai quanto ci credo, immagino mentre ti struggi all’idea che io e Gunne non siamo più così in confidenza» commenta sarcastica Elyn mettendosi a sedere ed appoggiandosi con la schiena alla testiera del letto.

Xaver non può darle torto, quando si guarda allo specchio è sempre inevitabile il confronto tra il vero Gunne ed il sé stesso esteticamente meno appetibile. Non potrebbero essere due persone più diverse fisicamente e caratterialmente.

«Quindi nessuno sospetta qualcosa di noi due?»

«Puoi stare tranquillo, quando ti trovi qui siamo sempre molto discreti. Inoltre i miei commilitoni hanno così paura che siano le loro di tresche ad essere scoperte che sono ben disposti a chiudere entrambi gli occhi»

Xaver annuisce e per un attimo restano entrambi in silenzio a guardare la tempesta che imperversa al di fuori di quella piccola bolla di felicità.

«Credi che riusciremo ad incontrarci prima o poi?»

«Mi sembra che siamo insieme proprio in questo istante» risponde lui cercando di sviare la domanda, anche se è consapevole che quell’infantile tentativo non attaccherà con Elyn.

«Sai bene cosa intendo. Riuscirò mai a vedere il tuo vero aspetto?»

Lui esita.

«Forse è meglio così. Ti ho già dato una descrizione ma dal vivo le cose cambiano…non credo sarei il tuo tipo, fisicamente parlando almeno»

A quelle parole la donna si sporge verso di lui piantando i palmi sul materasso per guardarlo dritto negli occhi con un’espressione a metà tra l’offeso e lo scocciato.

«Che cosa vorresti dire Tom, che non potrei amare qualcuno che non è considerato attraente?»

«No no» si affretta a giustificarsi accarezzandole i fianchi «solo che effettivamente tu sei più giovane e più bella di me… non ti biasimerei se incontrandomi per strada non mi degnassi di uno sguardo»

Elyn rimane un attimo a studiarlo in silenzio poi cambia posizione sedendosi a cavalcioni su di lui.

«Quindi fammi capire…» sussurra chinandosi a baciargli il collo «secondo te stiamo insieme perché in realtà sono gli addominali di Gunne e la sua mascella squadrata ad avermi fatta innamorare…»

Xaver sente la ragione farsi sempre più sfocata in accordo con la lentezza estenuante di quelle labbra roventi che gli percorrono la pelle.

«…mentre invece ciò che ci siamo detti, ciò che sentiamo l’uno per l’altra, le nostre affinità…non contano nulla?»

La dolce tortura si ferma e l’uomo apre gli occhi, ritrovandosi quelli ambrati di Elyn che lo interrogano pungenti come spilli.

«Dimmelo, voglio sentirti dire cosa pensi del nostro rapporto» gli intima lei perentoria serrando ancora di più le gambe attorno al bacino del compagno.

«Certo che tutto quello che hai detto significa moltissimo per me. Credo che il legame che abbiamo stretto vada oltre la fisicità, tuttavia…mi rendo conto che anche questo aspetto conti»

La donna avvicina il proprio volto a quello di Xaver senza interrompere il contatto visivo.

«Lascia decidere a me chi trovo attraente, così come chi voglio o non voglio amare»

Xaver ha un sussulto, quella rivelazione spontanea ed inaspettata era tutto ciò che aveva bisogno di sentire. Sapere di essere desiderato da Elyn è un balsamo per il sentimento di inadeguatezza che lo accompagna da sempre.

«Sbaglio o hai appena detto che mi ami?»

«Chissà…magari te lo sei immaginato. O forse parlavo con Gunne» ribatte lei con un sorrisetto sghembo.

«Anche io ti amo» ricambia Xaver con altrettanto ardore, prima di stringersi nuovamente a lei nel desiderio di non lasciarla mai andare.





 
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Settembre 834


Quella mattina Xaver non si sente molto in forma.

Una strana sensazione gli pesa sullo stomaco, diversa dalla leggera nausea che lo accompagna i primi minuti dopo il cambio di corpo.

Ciononostante è felice di poter rivedere Elyn così presto; è trascorsa appena una settimana dall’ultimo viaggio, una circostanza altrettanto inusuale ma è un dettaglio su cui sorvola senza pensarci troppo. L’orologio sulla scrivania segna solo le sei eppure dalla finestra vede il cortile già affollato di soldati indaffarati come tante formichine. Molti sono intenti a caricare delle pesanti casse su alcuni carri, altri affilano le lame e controllano le attrezzature con grande attenzione.


Prima che possa chiedersene il motivo la porta della stanza si apre facendolo sussultare.

«Gunne ho dato un’occhiata al progetto della formazione e urge un cambio di programma. Oltre a Robert, Selka e Finn avrai in squadra due reclute altrimenti il nostro settore nell’ala destra avrà meno copertura»

Elyn si ferma a pochi passi da lui e quando realizza che chi le sta sorridendo non è il vero Gunne sul viso le cala un’espressione atterrita.

«…Tom?»

«Credevo saresti stata più felice di rivedermi» ironizza lui andandole incontro.

Ma lei sembra sempre più inquieta.

«No, devi tornare indietro. Non puoi rimanere qui, non oggi»

«Perché scusa?» domanda Xaver perplesso, senza capire il significato di quell’affermazione.

«Oggi dobbiamo uscire dalle mura…»

Lui impallidisce, non è mai capitato che venisse trasportato a Paradis in concomitanza di una missione esplorativa. Non ha la preparazione per svolgere il ruolo di Caposquadra e soprattutto non si sente minimamente in grado di gestire dei sottoposti in situazioni di pericolo.

Estrae dalla tasca dei pantaloni la spilla ed entrambi la fissano ansiosi nella speranza che questa lo ritrasporti indietro.

Ma non accade nulla.

«Non ho scelta. O sbaglio?» il tono dell’uomo è funereo e la domanda retorica perché tutti e due conoscono già la risposta.

«Ascolta, io e Gunne siamo entrambi assegnati all’ala destra quindi staremo insieme tutto il tempo. I membri della tua squadra li hai conosciuti durante gli allenamenti e sono praticamente autonomi, solitamente non necessitano di chissà quali direttive e nel caso per questa volta impartirò io gli ordini»

«Ma se dovessimo imbatterci in qualche gigante… io non ne ho mai affrontato uno…»

«Nelle sessioni di addestramento che abbiamo fatto insieme te la sei sempre cavata discretamente, è vero non eccelli nell’utilizzo del dispositivo ma sei in grado di difenderti e attaccare qualora dovesse presentarsi l’evenienza. Ad ogni modo si tratta di una perlustrazione nei territori vicini che sono già stati epurati dalla maggior parte dei giganti. Vi prenderanno parte solo sessanta soldati, non è una spedizione su lunghe distanze e i pochi titani che avvisteremo verranno abbattuti senza troppe difficoltà. L’importante è che non ci separiamo, resta sempre al mio fianco»

Xaver annuisce in silenzio con sguardo assente.

«Ti ricordi come è organizzata la nostra formazione, giusto? Te lo avevo spiegato un po’ di tempo fa…» domanda Elyn sistemandogli il colletto della camicia.

«Sì…il contingente è suddiviso in tre gruppi: ala sinistra, centrale e destra che si spartiscono il territorio da perlustrare restando però ad una distanza massima di un chilometro l’una dall’altra. La comunicazione tra le parti avviene a mezzo di vedette»

«Perfetto, andrà tutto bene vedrai» mormora lei abbracciandolo, ma sembra stia cercando di rassicurare più sé stessa che lui.

Uno squillo di tromba proveniente dall’esterno indica che è il momento di dirigersi al cancello della città. I due si separano da quel contatto con riluttanza ma quando la donna gli rivolge il suo solito sorriso da folletto Xaver si sente più tranquillo.

Recuperano i propri cavalli dai box e raggiungono gli altri membri della Legione nella piazzola antistante l’edificio principale, sfilando tutti insieme in due colonne ordinate verso il Wall Maria.

Studiando i soldati che lo circondano Xaver si rende conto della grande disparità di sentimenti verso l’imminente missione.

Alcuni sono trincerati in un cupo mutismo, di contro altri chiacchierano animatamente con i compagni o salutano la folla scesa in strada. Altri ancora tengono la testa alta con apparente sicurezza, se non fosse che l’eccessiva forza con cui stringono le redini frantumi tale illusione.

Qualche posizione avanti a sé scorge l’inconfondibile zazzera castana di Robert accanto alla chioma bionda di Selka, entrambi intenti a conversare con naturalezza come li ha visti fare tante volte durante gli allenamenti. Alla destra di Selka c’è Finn, il più giovane della squadra di Gunne nonché dotato di un’infallibile memoria e senso dell’orientamento. Si chiede come quei tre possano avere una tale parvenza di normalità e mentalmente ringrazia non siano vicini a lui che in quel momento invece sta sudando sette camicie.


Il loro incedere per le vie della città è accompagnato dalle affermazioni più disparate bisbigliate dalla gente accalcata ai lati della strada; elogi, commenti di sdegno, frasi compassionevoli.

Xaver si sente più un animale da parata che un soldato.

Elyn gli lancia di sovente occhiate per accertarsi del suo stato d’animo e lui la conforta come può, ma la tensione gli cresce sempre di più in petto chiudendogli la gola.
La colonna di cavalieri si ferma davanti al cancello principale in attesa che i genieri del Corpo di Guarnigione aprano l’immenso portone che li separa dal mondo esterno.
La campana del municipio batte il primo rintocco e nell’aria cala un silenzio spettrale che gela il cuore a Xaver. Tra l’affanno e le martellate del proprio cuore impazzito riesce a distinguere il clangore delle catene che con infinita lentezza spalancano il cancello.
Quando anche l’eco dell’ultimo rintocco sfuma nell’etere il Comandante grida l’ordine di avanzare ed in un turbinio di polvere e scalpitare di zoccoli il contingente supera le mura, cavalcando nel verde delle immense praterie.


La luce del sole sembra più abbagliante lì fuori e l’aria odora di fresco, tanto che Xaver riesce a cogliere quel desiderio di libertà tanto caro ad Elyn. I nervi si distendono ed anche le spalle sembrano meno pesanti, permettendogli di rilassare la presa sulle briglie.

Al segnale del Comandante i militari si schierano secondo la formazione abituale, dividendosi in tre gruppi. Xaver segue Elyn nell’ala destra composta da quattro squadre che poi avanzeranno accoppiate in due unità.

Procedono in linea retta tra quel verde senza fine per circa mezz’ora, quando da un vicino boschetto emerge la figura sgraziata di un titano che inizia a correre verso di loro.

«Caposquadra Gunne! Classe sette metri in avvicinamento da sud-est!» grida Robert affiancandosi a Xaver.

«Lascia che me ne occupi io» lo anticipa Elyn risoluta e fa un cenno ad una sottoposta «Alicia, con me!»

Con un colpo di redini le due soldatesse sterzano prontamente in direzione del grottesco essere che appena le individua accelera ancora di più la propria andatura, agitando convulsamente le braccia in aria.

Il cuore di Xaver freme di paura nell’assistere alla scena.

Le donne caricano il nemico frontalmente a tutta velocità come se fossero due arieti pronti a sfondare le porte della cittadella.

Quando solo pochi metri le separano dal gigante e quest’ultimo scatta in avanti per afferrarle loro deviano la traiettoria per evitarlo. Prima che il titano si giri sparano i rampini conficcandoli all’altezza di quei polpacci che paiono colonne di granito, quindi danno di gas tranciandone i tendini con un colpo secco.
Il mostro lancia un latrato di dolore e si rovescia a terra prono, sollevando una nube di polvere massiccia quanto la sua mole.
È quindi la volta dei deltoidi, che recisi fanno afflosciare gli arti superiori proprio come ad una marionetta a cui vengono spezzati i fili. Mentre l’umanoide si dimena furiosamente Elyn è già pronta a scagliarsi sulla nuca che lui involontariamente le offre, ponendo fine allo scontro con un fendente chirurgico.


In un istante i gorgoglii cessano e le soldatesse sono già in sella sane e salve.

Xaver non sa se è più la paura di quell’incontro indesiderato ad averlo frastornato oppure le superbe abilità di combattimento di Elyn. L’aveva già osservata durante alcune sessioni di allenamento ma quella è la prima volta che la vede in azione sul campo di battaglia.

«Ottimo lavoro!» esclama l’uomo rivolgendosi ad entrambe.  

«Ci vuole ben altro per fermarci» risponde lei facendogli l’occhiolino, senza alcun accenno di paura in volto.

«Ho consumato troppo gas, vero Caposquadra?» domanda Alicia alle loro spalle in tono affranto.

È una cara ragazza, segue Elyn come un’ombra ascoltando con ammirazione tutto ciò che ha da insegnarle. Ormai anche Xaver si è affezionato a lei ed ha imparato a riconoscere la tenace grinta celata dietro quel volto angelico spruzzato di lentiggini.   


«Hai tardato a tirare le redini quindi ti è servita più pressione per coordinarti a me nell’esecuzione della manovra… ma non colpevolizzarti, sono accorgimenti che si imparano con l’esperienza» la rinfranca Elyn.

«La ringrazio Caposquadra! Farò tesoro di questo consiglio»

Xaver contempla di nascosto il profilo aguzzo di Elyn pensando a quanto è fortunato ad averla come compagna, un’anima tanto bella che il solo udirla parlare scalda il cuore.

La colonna procede indisturbata sotto un cielo che si fa sempre più plumbeo ed al quale si aggiunge un sensibile calo della temperatura.
Xaver nota che la situazione non sembra piacere ai soldati, tantomeno ad Elyn che si guarda attorno con aria inquieta.


«Qualcosa non va?» le domanda.

«Stiamo cavalcando da troppo tempo senza avvistare giganti e non abbiamo ancora ricevuto comunicazioni dalle vedette dell’ala centrale. Ho un brutto presentimento»

«Ma non avevi detto che si tratta di una zona già ripulita dai giganti?»

«Infatti è così» ribadisce la donna «tuttavia è insolito non imbattersi in qualche esemplare proveniente da altri territori… sono creature che si spostano continuamente»

Un violento acquazzone si rovescia improvvisamente su di loro con il frastuono di un’impetuosa cascata, tanto che in pochi secondi sono già tutti fradici da capo a piedi. 

«Maledizione!» urla Elyn cercando di farsi sentire sopra lo scrosciare della pioggia ed il rombo dei tuoni «così non va, la comunicazione è compromessa e abbiamo perso di vista le squadre di Keith e Frances»

«Dobbiamo trovare subito un riparo!» le fa eco Xaver schermandosi il viso dai goccioloni che per le violente raffiche di vento hanno l’effetto di dolorose frustate.

«Se non ricordo male procedendo in questa direzione dovremmo incontrare una foresta a meno di un chilometro!» grida Finn controllando la bussola.

«Caposquadra non si vede niente!» urlano altri sottoposti spaventati.

Un nitrito inaspettato annuncia la comparsa di un militare alla sinistra della formazione.

«Il contingente centrale è sotto attacco da un gruppo di esemplari giunti da Sud Ovest! Dovete subito venire in aiuto» li informa il cavaliere.

«Come è possibile che le vedette dell’ala sinistra non abbiano dato l’allarme?!» chiede Elyn arrestando l’avanzata.

Il soldato china il capo e l’acqua gli ruscella copiosamente dal cappuccio.

«Non esiste più alcuna ala sinistra…è stata la prima ad essere annientata»

Quella rivelazione gela il sangue a tutti i presenti ma è nuovamente la donna a prendere in mano la situazione.

«Presto, facci strada!»

Al posto della pioggia battente una fitta nebbia ostacola adesso il loro incedere, il vapore si leva alto dalla terra e l’aria è satura di umidità rendendo sempre più concreta l’angoscia di essere travolti da un’orda di giganti. Sul terreno zuppo d’acqua si iniziano a distinguere pozze di sangue e cadaveri gettati al suolo come pupazzi inerti. Xaver scavalca all’ultimo secondo una sagoma scura, a prima vista scambiata per un grosso ramo e rivelatasi invece una gamba amputata.

La vedetta all'improvviso fa segno di arrestarsi e fare silenzio.

Xaver attorno a sé non distingue altro che un biancore lattiginoso, un’atmosfera da incubo.

In mezzo a quelle nubi però il suo orecchio coglie un rumore raccapricciante, un masticare vorace, di gusto, unito a rantoli disperati.

I peli gli si rizzano sulla nuca mentre attende insieme ai compagni che la bruma si diradi, permettendo loro di agire in maggior sicurezza.


Quando il paesaggio si fa meno appannato i contorni di tozze figure, i numerosi giganti che continuano imperterriti a maciullare militari ancora agonizzanti, si delineano davanti ai loro sguardi atterriti.

Non c’è più nessuno da salvare ed ora rischiano di diventare le nuove prede di quei mostri.

Ad una rapida conta sono circa dodici esemplari contro i dieci membri delle squadre di Elyn e Gunne.

Anche ammesso che il resto dell’ala destra arrivi in soccorso rimangono comunque troppi da affrontare in campo aperto, soprattutto in quelle condizioni metereologiche.


Avvertendo l’odore del sangue i cavalli nitriscono e subitamente le teste dei giganti scattano nella loro direzione. Abbandonano a terra il resto di quel macabro pasto che per loro ormai ha perso attrattiva e corrono incespicando nel fango, la lingua a penzoloni come un branco di bestie affamate.

«Non c’è tempo! Abbattiamoli qui o ci inseguiranno!» ordina Elyn con voce ferma.

Uno sfiatare di molteplici bombole segue il suo comando, solo Xaver non è in grado di muovere un muscolo.

«Gunne! Con me!» lo afferra lei per la manica trascinandolo verso un piccolo classe quattro metri.

Ci pensa Elyn a rendere inoffensivo l’avversario in modo che Xaver, recuperata sufficiente lucidità, possa misurarsi con le proprie capacità compiendo la sua prima, seppur un po’ impacciata, uccisione.

«Bravo!» lo incoraggia «aiuta come puoi e cerca di non esporti troppo! Occupati piuttosto degli esemplari più piccoli»

Al cenno di assenso di lui Elyn saetta verso un classe sette metri che sta dando filo da torcere a due reclute.

Xaver non saprebbe dire quanto a lungo si protragga lo scontro, sa solo che la stanchezza sta inesorabilmente prendendo il sopravvento fendente dopo fendente, scatto dopo scatto. Cerca come può di rispondere alle richieste di aiuto dei compagni che divengono sempre più numerose e disperate.

I piedi scivolano sul terreno fangoso privandolo di un solido appoggio e rallentando i suoi movimenti proprio quando i secondi si fanno più che mai preziosi.

Il picchiettare costante della pioggerella sembra scandire il tempo come le lancette di un macabro orologio.

Ben presto si accorge che le perdite umane sono purtroppo maggiori di quelle avversarie e pochi sono i militari ancora in grado di tenere testa ai giganti.

«Caposquadra Gunne!» grida Robert disperato mentre due giganti lo sovrastano.

Xaver si affretta a raggiungerlo facendosi largo tra la calca della battaglia e chiedendosi dove sia finita Selka, dal momento che lei e Robert fanno parte della stessa formazione di combattimento.


«Abbatti il più piccolo!» ordina al sottoposto mentre lui stesso si lancia verso l’altro esemplare, un classe cinque metri con la testa decisamente sproporzionata rispetto al resto del corpo.

Appena entra nel campo visivo del gigante questi spalanca la bocca in un inquietante sorriso ed allunga subito le braccia per afferrarlo, ma Xaver mulina le proprie spade riuscendo a troncargli alcune dita delle mani. Mentre l’essere si divincola con urla bestiali lo scienziato ne arpiona le tozze cosce dando prontamente di gas per ferirlo all’inguine. Nonostante i tagli siano troppo superficiali per recidere i muscoli il dolore che provocano è sufficiente a far perdere l’equilibrio al mostro.

Finalmente Xaver ha un buon accesso alla nuca, se non fosse che nell’attimo in cui le spade affondano nella carne realizza di aver commesso un grossolano quanto grave errore.

Nella foga si è dimenticato di sostituire le lame il cui filo, ormai usurato per la sua scarsa perizia di combattimento, ha perso efficacia di taglio.

L’acciaio termina la propria corsa incastrandosi nel collo del gigante ed annullando così la manovra d’attacco.

Xaver nel panico, accecato dal vapore che ha iniziato a sfiatare dalla ferita, strattona con forza le impugnature riuscendo a recuperarne una prima che su di lui cali l’enorme mano del titano.
 
È il provvidenziale intervento di Robert a salvarlo da morte certa con un colpo secco che recide il polso del mostro.
 
Poiché non c’è più tempo per provare a liberare l’altra impugnatura ed essendo questa strettamente connessa al sistema di manovra, Xaver si trova a dover compiere una scelta estrema. Mentre Robert mantiene concentrata su di sé l’attenzione del gigante, sgancia il cassone destro del dispositivo lasciandolo appeso alla carne del titano per mezzo di rampino e spada.
 
Privo di impedimenti può quindi svincolarsi da quella schiena rovente atterrando maldestramente nel fango.
 
Prima di ingaggiare nuovamente battaglia si affretta a sostituire la lama rovinata e nota con la coda dell’occhio un oggetto rotondo vicino a sé. Nel metterlo a fuoco si rende conto con orrore che si tratta della testa mozzata di Selka. Gli occhi vitrei lo fissano spalancati e quella splendida chioma bionda di cui tanto andava fiera è ora imbrattata di sangue e sudiciume.

Xaver reprime a fatica un conato ed è solo l’urgenza di aiutare Robert a dare stabilità alle sue gambe tremanti.

 
Il sistema di manovra ormai squilibrato gli impedisce di tentare un nuovo assalto al collo e nonostante il sottoposto sia riuscito ad azzoppare il gigante, questi non accenna a demordere.
 
«Robert!» grida a pieni polmoni attirando l’attenzione del ragazzo «continua a distrarlo poi al mio segnale lanciati sulla nuca!»

Sfruttando quel diversivo spara il rampino nella pancia del titano e sfiata la bombola prendendo sempre più velocità.

«ADESSO!» urla prima di squarciare l’addome del mostro. Una massa fumante e viscida si riversa a terra, seguita dal corpo dell’umanoide sul quale si abbatte immediatamente Robert ponendo fine allo scontro.

«C-caposquadra, Sel-selka è…» lo informa il soldato con una voce in cui l’affanno dato dal combattimento e la sofferenza per la perdita dell’amica si fondono in un lamento che spezza il cuore.

«Lo so…mi dispiace» risponde mestamente Xaver poggiandogli una mano sulla spalla. È un gesto rapido, di misero conforto, ma in quel contesto è tutto ciò che si possono permettere.  

Robert annuisce asciugandosi il naso con la manica della giacca. In una smorfia di dolore distoglie lo sguardo dal punto in cui giace il cadavere di Selka.

«Caposquadra il suo dispositivo, deve sostituirlo immediatamente! Le coprirò io le spalle»

«Adesso ne recupero un altro, tu pensa ad aiutare chi è in difficoltà. Possiamo ancora farcela non restano molti giganti»

«Agli ordini!»

«Robert» lo richiama Xaver prima che il soldato si lanci nuovamente nella mischia «la riporteremo a casa, avrà la sepoltura che merita te lo prometto. Tutti loro l’avranno»

Il volto del ragazzo assume un’espressione di pura gratitudine e senza dire una parola gli risponde battendo il pugno destro sul cuore. Quel momento dura pochissimi secondi ma la sua portata è talmente intensa che sembra quasi fermare il tempo, una minuscola bolla di silenzio in mezzo al frastuono della battaglia.

Poi il miraggio si dissolve e Robert è già impegnato in un nuovo combattimento.


Xaver scandaglia rapidamente l’area con lo sguardo, la prospettiva di sganciare il dispositivo da uno dei tanti cadaveri che lo circondano lo frena ma sa di non avere alternativa.

Ne trova uno ancora in buone condizioni, lo stesso non si può dire invece per il suo possessore; a giudicare dal volto infantile con un minimo accenno di barba non doveva avere neppure vent’anni.

Come la maggior parte di quei soldati è solo un ragazzino.

È di fronte a tale scenario che a Xaver monta una rabbia viscerale, un odio verso il Governo di Marley che alimenta quello sterminio inviando sull’isola gli Eldiani trasformati in giganti. Maledice le smanie di conquista della nazione ed il progetto della Squadra Speciale che condanna ragazzini ad uccidere altri ragazzini.
Eppure è soprattutto sé stesso che detesta perché anche lui fa parte di quello stesso esercito d’oltremare, anche lui addestra futuri soldati per una guerra fratricida.

Mentre si lascia trascinare dalle proprie considerazioni improvvisamente una voce familiare catalizza la sua attenzione spazzando via come una folata di vento ogni altro pensiero.

Nel voltarsi vede Elyn fronteggiare da sola un classe nove metri che si sta portando alla bocca Alicia.

La ragazza ha appena il tempo di emettere un grido disperato prima che le fauci del gigante si chiudano sul suo bacino. La metà inferiore del corpo scivola nello stomaco dell’immondo essere mentre l’altra precipita nel fango accompagnata da un copioso fiotto di sangue.


Il titano si concentra allora sul suo prossimo boccone avventandosi famelico su Elyn, la quale lo accoglie spiccando il volo a lame sguainate.

Xaver rinuncia a sostituire il dispositivo e si getta in suo aiuto, una scelta le cui conseguenze lo tormenteranno per sempre.

Gli arti estremamente lunghi del gigante impediscono ad Elyn di mirare immediatamente alla nuca, costringendola a tenersi a debita distanza per evitare di venire afferrata.

Per agevolarle l’attacco Xaver decide allora di replicare la tecnica utilizzata poco prima con Robert ma il gigante in questione si rivela per sua sfortuna più agile del precedente. Così quando il rampino si conficca nella carne del titano quest’ultimo assesta una potente manata all’uomo che, in mancanza dell’altra metà del dispositivo di manovra, non può evitare il colpo e viene scaraventato al suolo.

L’impatto lo stordisce ed è colto da violente vertigini che lo paralizzano.


«TOM! Vattene da lì!» si leva forte la voce di Elyn ma lui non può ubbidire a quell’ordine finché il mondo che lo circonda non smette di girare.

Il gigante pregustando quella facile preda protende gli arti per afferrarlo ed è a quel punto che la donna può assestare il proprio fendente alla nuca. Le lame ormai completamente consumate si spezzano in una pioggia di schegge, per quanto il colpo inferto riesca comunque a mandare al tappeto l’avversario.

«Tom, sei tutto intero?» domanda Elyn accostandosi immediatamente al compagno. Gli prende il volto tra le mani esaminandolo attentamente e nota una ferita sanguinolenta alla tempia, per fortuna non un taglio profondo.

«Sì, adesso almeno riesco a stare in piedi…anche se mi sembra di essere ubriaco» risponde lui con la voce impastata.

«Segui il mio dito con lo sguardo» gli intima seria muovendo l’indice davanti agli occhi e Xaver ubbidisce.

Constatando che non sembrano esserci, almeno in apparenza, danni cerebrali Elyn tira un sospiro di sollievo.

«Sei stato un cretino, cosa pensavi di fare con l’attrezzatura ridotta a quel modo?»

«Volevo solo aiutarti» ammette l’altro sorridendole fiacco.

Talmente presi dal proprio dialogo i due non danno importanza ai gorgoglii emessi dal gigante a pochi metri da loro ed ignorano che la carcassa non stia evaporando come accadrebbe dopo un abbattimento.

Se Elyn prima di correre da Xaver avesse verificato l’effettiva uccisione, si sarebbe infatti accorta che il colpo non era stato letale poiché aveva solo sfiorato il cuore della nuca.


Quando la mano del gigante striscia sul terreno attirando finalmente l’attenzione della donna è ormai troppo tardi per sfuggire all’inevitabile.

Le enormi dita si stringono attorno al suo corpo sollevandola da terra sotto lo sguardo sgomento di Xaver.


Mentre il titano si rimette mollemente in piedi l’uomo aziona il rampino accorgendosi però che questo, probabilmente a causa dell’urto di poco prima, si è inceppato.

Un rumore orrendo di ossa frantumate accompagnato dalle urla di dolore di Elyn manda in panico Xaver, che in una mossa disperata si ferisce il braccio con la spada.

L’amara verità non tarda a palesarsi, perché quello non è il suo vero corpo e quindi non è in grado di trasformarsi.


Nessuno può correre in loro aiuto e così, con le urla strazianti della compagna che gli rimbombano nelle orecchie, si fionda contro il gigante insistendo forsennatamente sul grilletto nel tentativo di sbloccarlo. Finalmente il meccanismo scatta ed il rampino si conficca proprio nell’occhio del mostro, seguito dalla lama che ne dilania la gola.

Il titano letteralmente accecato dal dolore lascia cadere a terra la propria prigioniera ed entrambi impattano al suolo con un tonfo sordo.

Xaver getta uno sguardo disperato in direzione del corpo immobile di Elyn, ben consapevole di non poterla aiutare prima di aver ultimato l’uccisione.

Rilancia l’arpione sul dorso del mostro agonizzante, dà fondo al gas che gli rimane e schizza a tutta velocità sulla nuca. Con tutta la forza di cui è capace sferra l’ultimo colpo tranciandola di netto.

Il cadavere non fa in tempo ad evaporare che Xaver è già chino su Elyn, riversa supina nel suo stesso sangue.

Un rivolo cremisi le cola dalla bocca e la gamba è ruotata in una posizione innaturale, la gabbia toracica deformata da quella presa stritolatrice.

Non serve essere medici per capire che nemmeno un miracolo potrebbe salvarla.

Le si accosta tremante e quando la donna si accorge della sua presenza spalanca le palpebre e lo cerca con la mano. Xaver incapace di proferire parola gliela stringe singhiozzando, abbracciandole il busto per sostenerla.
Gli occhi della soldatessa ricoperti da un velo acquoso rotearono senza meta prima di soffermarsi su di lui.


«R-resta con me Tom…ti prego»

L’uomo si paralizza, avvertendo un ferro rovente calare lunga la propria gola. Deglutisce dolorosamente sforzandosi di vincere l’ustionante resistenza che i muscoli gli oppongono.

«Non vado da nessuna parte, tesoro» sussurra, sperando che quel sangue che tinge l’erba dello stesso colore dei capelli di Elyn si porti via ogni dolore, risparmiandole atroci sofferenze.

«Come brilla il sole… c-come quel giorno al lago…» ansima la donna con una voce flebile che si spegne ad ogni parola.

Tom segue la traiettoria di quello sguardo appannato, ritrovandosi anche lui a fissare un cielo che in realtà non può essere più grigio e dove il sole è coperto da nubi gonfie di pioggia.

«Hai ragione» asserisce sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime «ti ricordi quanto ci siamo divertiti, solo io e te?»

L’altra annuisce debolmente, l’esile corpo sempre più pesante e la mente ormai lontana da quello spiazzo infernale.

«Tom… finalmente vedo il mare…è così bello. T-ti aspetterò qui» mormora con il respiro ridotto a rantoli.

Gli occhi di Xaver si inondano di lacrime mentre si china per posare un ultimo bacio su quelle labbra già fredde.

«Va bene, aspettami dove vuoi. Ti amo Elyn»

Un sorriso si congela sul volto pallido e sugli occhi ambrati cala il vacuo oblio della morte.

Rimangono aperti a fissare assenti l’immenso cielo sopra di loro, lo specchio della libertà tanto agognata che non avrebbero mai contemplato.

Tom si trattiene dal serrarle le palpebre, forse perché la vastità di quell’orizzonte solcato dalle nubi gli sembra preferibile alle tenebre eterne.

Sente un dolore immane come se gli avessero cavato il cuore dal torace, la stringe a sé ancora più forte e rimane a piangere a dirotto mentre pesanti gocce di pioggia ricominciano a cadere.

La squadra di Keith lo troverà in quella stessa posizione un’ora dopo, fradicio e con lo sguardo spento, il corpo di Elyn ancora tra le braccia.

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