One in a Million

di Clementine84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CHAPTER 1 - Lose It All (Backstreet Boys) ***
Capitolo 2: *** CHAPTER 2 - One in a Million (Backstreet Boys) ***
Capitolo 3: *** CHAPTER 3 - Til We Ain’t Strangers Anymore (Bon Jovi) ***
Capitolo 4: *** CHAPTER 4 – Merry Christmas Baby (Mark Feehily) ***
Capitolo 5: *** CHAPTER 5 - Captain Crash and the Beauty Queen from Mars (Bon Jovi) ***
Capitolo 6: *** CHAPTER 6 – Too Hard to Say Goodbye (Westlife) ***
Capitolo 7: *** CHAPTER 7 - Tell Me It’s Love (Westlife) ***
Capitolo 8: *** CHAPTER 8 – Don’t Wanna Lose You Now (Backstreet Boys) ***
Capitolo 9: *** EPILOGUE – These Are the Days of Our Lives (Queen) ***



Capitolo 1
*** CHAPTER 1 - Lose It All (Backstreet Boys) ***


Il titolo è preso da una canzone dei Backstreet Boys e sarà anche il titolo del secondo capitolo, dove si capirà il fulcro della storia.
Come avrete intuito, anche i titoli dei capitoli sono nomi di canzoni. Ho segnalato gli artisti tra parentesi, così, se a qualcuno dovesse venire la curiosità, può andare a sentirsele.

Nulla di quanto narrato è reale o ha la pretesa di esserlo. I personaggi sono originali e appartengono alla sottoscritta e ogni riferimento a persone reali è da considerarsi puramente casuale.
 

“No, no! Romeo, scendi immediatamente da lì!” sbraitai, correndo a staccare il mio gatto dalle tende e cercando di non rovesciare sulla moquette tutto il contenuto della tazza di caffè che avevo in mano.

“Ti prego, sono già in ritardo, non ti ci mettere anche tu, eh?” lo implorai, appoggiandolo sul divano.

Per tutta risposta mi arrivò un miagolio seccato e lo considerai sufficiente. Non avevo tempo di stare a contrattare, in ogni caso. Afferrai il cappotto, la borsa e corsi fuori, salutando il mio gatto. Una volta sul pianerottolo, bussai ripetutamente alla porta di fronte alla mia, urlando “Joey, sono le otto! Svegliati!”

Una voce assonnata proveniente dall’interno, rispose “Sì, sì…sono sveglio. Buon lavoro!”

Sorrisi, soddisfatta, e corsi giù per le scale, fuori di casa, nel traffico caotico di un normale lunedì mattina nell’East End londinese.

Mentre sgusciavo tra le auto bloccate all’ora di punta con il mio motorino e mi godevo il timido sole che mi riscaldava il viso, mi chiedevo cosa aveva in serbo per me quell’insolita giornata di sole. Lavoravo in un giornale di gossip come giornalista, il che era sempre stato un mio grande sogno, fin da quando ero bambina, infatti amavo il mio lavoro anche se non andavo d’accordo con il mio capo che mi riteneva un’incapace e continuava ad affidarmi servizietti di poco conto quando io, invece, aspiravo a ben altro. Il mio sogno era quello di occuparmi di servizi di attualità, magari come inviata. Già mi vedevo a scrivere da luoghi colpiti da guerre, inondazioni, terremoti, crisi politiche…. Purtroppo, invece, dovevo accontentarmi di piccoli tradimenti nel mondo delle soap opere. Sempre meglio che niente, anche perché quegli stupidi scandali mi davano da vivere e, dato che potevo contare solo su me stessa per tirare avanti, non potevo permettermi di fare troppo la schizzinosa. Molte volte, infatti, ero stata costretta a occuparmi di servizi che io stessa, come lettrice del giornale, non avrei degnato di uno sguardo e proprio in questo consisteva il maggior motivo di disputa con il mio capo, John. E quella mattina, a quanto pareva, non sembrava essere diversa dalle altre.

“Susie ha chiamato stamattina presto dicendo che si è presa l’influenza,” mi annunciò, non appena arrivata in redazione “quindi mi vedo costretto ad affidare a te la sua parte di lavoro”.

“Non dimostrare troppo entusiasmo, mi raccomando!” commentai, risentita.

John mi ignorò completamente e, puntandomi un dito contro da sopra la scrivania, proseguì “Ma guai a te se mi combini qualche casino, chiaro? Giuro che stavolta ti licenzio in tronco!”

Annuii.
“Okay, stai calmo” lo tranquillizzai, sbuffando.

Non mi aveva ancora perdonato il fatto di aver rovesciato un bicchiere di vino sul vestito di un’attricetta da quattro soldi che mi aveva fatto perdere le staffe durante un’intervista, qualche settimana prima.

“Che devo fare?” chiesi, curiosa. Hai visto mai che fosse la volta buona e mi venisse affidato un servizio serio.

“Conosci i Drummers?” mi domandò, mostrandomi la foto di una rock band.

Annuii. “Certo, chi non li conosce?”

“Bene, devi intervistare Craig MacLuis” annunciò, indicandomi con un dito un ragazzo moro. “D’accordo” dissi, tranquilla. Non vedevo proprio cosa ci fosse di così complicato da voler riservare la cosa a Susie, la sua pupilla.

“Aspetta, non è tutto” proseguì il mio capo. “Gira voce che sia gay”

“E lo è?” domandai.

“Non lo so e nemmeno mi interessa” mi liquidò lui. “Ma è quello che dobbiamo fargli dire”.

“Scusa?” farfugliai “Temo di non aver capito”.

Lanciandomi uno sguardo di superiorità, John mi spiegò “Ti ho preparato una serie di domande speciali da fargli e ti assicuro che le risposte ci permetteranno di sostenere la tesi della sua omosessualità”.

“Fammi capire…vuoi fargli dire che è gay anche se non lo è?” chiesi.

Il mio capo annuì con un sorrisetto ebete stampato in faccia. “Esattamente”.

“Ma la calunnia non è un reato?” insistetti.

“Ma noi faremo in modo che non possa citarci perché sarà stato lui stesso a fornirci gli indizi dando quelle risposte!” concluse.

Gli rivolsi uno sguardo scettico, che lo infastidì notevolmente.

“Ma cosa ne vuoi capire tu!” sbottò. “Comunque, devi solo andare là, intervistarlo e portarmi la cassetta con la registrazione, il pezzo lo scriverà qualcun altro”.

Restai a fissarlo per un attimo, perplessa. Quella storia non mi piaceva. Odiavo mentire e ingannare la gente, proprio non lo sopportavo. Purtroppo, però, in quel genere di giornali pareva andare molto di moda.

“Allora?” insistette John.

Annuii. “Okay. Dimmi dove e quando” acconsentii.

 

Craig, devi scendere per quell’intervista!” mi chiamò Patrick, la nostra guardia del corpo. Sbuffando, mi alzai dal letto e aprii la porta della mia stanza d’albergo.

Okay. sono pronto” annunciai.

Patrick mi sorrise. “Bene. Buona fortuna!” mi augurò.

Alzai le spalle. “E per che cosa? È solo un’intervista! Spero solo di non tirarla troppo per le lunghe”.

 

Ero seduta su di uno dei divanetti nella hall del Conrad Hotel, un lussuoso 5 stelle nel cuore di Londra, aspettando l’intervistato e, intanto, mi guardavo intorno. Non avevo mai visto tutto quel lusso e mi sentivo tragicamente fuori luogo lì dentro, nonostante il portiere e i ragazzi alla reception fossero stati tutti gentilissimi con me. Mi sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio mentre davo un ultimo sguardo al foglietto con le domande, che John mi aveva consegnato prima di uscire. Che rapporto hai con i tuoi compagni della band, hai un amico del cuore, credi nell’amicizia tra uomo e donna…. Erano tutte domande piuttosto normali, ma capivo che erano state studiate a tavolino per far rilasciare a quel poverino qualche dichiarazione avventata che potesse far supporre una sua eventuale omosessualità. Desiderando con tutte le mie forze di non trovarmi lì, pregai che questo Craig fosse un tipo scaltro e non si lasciasse abbindolare.


Scesi le scale fino alla hall e mi guardai intorno alla ricerca della classica giornalista in tailleur e tacchi a spillo, ma non vidi nessuno che rientrasse in questa categoria. Improvvisamente, una ragazza castana si alzò da un divanetto e mi venne incontro, sorridente.

Piacere, Rebecca Abbot” si presentò, tendendomi la mano. “Di Planet Gossip”.

Piacere mio” farfugliai.

Mentre le stringevo la mano, la squadrai da capo a piedi. Me ne erano capitate di giornaliste strambe, ma questa le batteva decisamente tutte. Jeans scoloriti e maglia con stampo etnico, sembrava si trovasse lì per puro caso e non per lavoro. Inoltre, i lunghi capelli castani, fermati dietro la nuca da una penna biro, che di solito si usava per scrivere, e il viso pulito la facevano sembrare giovanissima mentre, con tutta probabilità, doveva avere almeno la mia età. Le feci cenno di accomodarsi al bar e, dopo aver ordinato da bere, iniziammo con l’intervista.

Bene. Ho portato con me un registratore così evito di scrivere. Non ti dispiace, vero?” domandò. Scossi la testa.
“Nessun problema” la rassicurai.

Allora, Craig, dimmi. Che rapporto hai con i tuoi colleghi della band?” chiese.

Sorrisi. Era una domanda comune e anche piuttosto facile.

Sono come fratelli, per me. Siamo molto uniti”.

E con i tuoi fratelli veri, invece? Mi risulta che tu ne abbia due”.

Annuii. “Sì, James e Larry. Beh, che devo dire? Sono i miei fratelli, la mia famiglia. È ovvio che gli voglia bene”.

 

Ascoltavo Craig raccontarmi alcuni episodi condivisi con il suo amico del cuore, un tale Simon, e facevo del mio meglio per non mettermi a urlargli in faccia di smettere. Non appena i nostri sguardi si erano incrociati, avevo letto nei suoi occhi una gentilezza e una sincerità disarmanti e avevo capito che il poverino non aveva speranze. Sarebbe caduto nella trappola con tutte le scarpe. Mi dispiaceva da morire, ancora più di prima, perché Craig mi piaceva. Era un ragazzo allegro e disponibile e parlare con lui era veramente piacevole, infatti mi trattenni parecchio con lui al bar, molto oltre il tempo limite concessomi per l’intervista. Mi parlò della sua terra, la Scozia, consigliandomi di visitarla appena ne avessi avuta l’occasione, e mi raccontò una serie di aneddoti divertenti che erano successi a lui e agli altri ragazzi del gruppo.

La cassetta era finita da un pezzo quando un ragazzo biondo, che mi fu presentato con il nome di Sean, venne a chiamarlo per la cena e io mi alzai dallo sgabello, raccogliendo le mie cose.

“Dio, come si è fatto tardi!” esclamai, guardando l’orologio. “Mi dispiace averti trattenuto così a lungo, Craig” mi scusai.

Il ragazzo scosse la testa.
“Tranquilla, nessun problema. Mi sono talmente divertito che non mi sono reso conto dell’ora nemmeno io. Più che un’intervista si è trasformata in una chiacchierata tra amici” commentò.

Sorrisi.
“Già, vale lo stesso per me” confessai, stringendogli la mano. “In ogni caso, mi ha fatto piacere intervistarti”.

“E a me ha fatto piacere essere intervistato da te” scherzò lui, facendomi ridere.

Restò a salutarmi con la mano mentre mi allontanavo e, poco prima di uscire, mi gridò dietro “Comprerò il giornale per leggere l’intervista!”.

Io sorrisi e annuii, ma dentro mi sentivo un verme perché sapevo che stavo per tradire la fiducia di quella persona così per bene.

 

Ehi, chi era quella tipa seduta con te al bar, oggi?” mi chiese Sean, a cena.

Una giornalista, tale Rebecca Abbot” risposi, posando il bicchiere.

Per che giornale scrive?” si informò Michael, l’altro nostro amico.

Planet Gossip” riferii.

Hm…mai sentito” disse Paul, il nostro tastierista.

Nemmeno io,” concordai “ma ho intenzione di comprare la prossima copia per leggere l’intervista. Mi è piaciuta molto” annunciai.

Ti è piaciuto farti intervistare? Sei sicuro di stare bene, Craig?” mi prese in giro Michael, che sapeva quanto odiassi le interviste.

Sorrisi. “Già, lo so che è strano, ma non ci posso fare niente” mi difesi.

Non è che, più che l’intervista, ti sia piaciuta la giornalista?” scherzò Sean.

Scossi la testa. “Sei sempre il solito, Finley!” lo rimproverai e scoppiai a ridere quando lui commentò “Sarà, ma era veramente carina”.

 

Tornando a casa, non feci altro che pensare al pomeriggio appena trascorso, rigirandomi tra le mani la cassetta con la registrazione dell’intervista. Non potevo darla a John e far sì che infangasse in quel modo il nome di una persona per bene come Craig. Perché, se c’era una cosa di cui ero certa, era che Craig fosse una brava persona. Non potevo dire di conoscerlo, ma per quel genere di cose avevo un certo intuito e poi semplicemente si vedeva. Eppure, se non gli avessi consegnato la cassetta, avrei perso il lavoro. Lo sapevo, John era stato molto chiaro a riguardo. Dio, che casino! Non sarei mai arrivata a nessuna conclusione in quel modo. Parcheggiai il motorino sotto casa ma, invece di salire, entrai nel pub di Joey. Ero certa di trovarlo lì.

“Joey, sono io!” lo chiamai.

“Ehi, piccola!” mi salutò lui, emergendo dal retro con una cassa di birra tra le braccia. “Com’è andata oggi?” mi chiese, gentile.

Mi sedetti al bancone e sospirai. “Hm…così così. Ho paura di essermi cacciata in un mare di guai” annunciai.

Il mio amico posò la cassa e venne a sedersi accanto a me, con sguardo preoccupato.

“Che è successo?” indagò e io gli raccontai tutta la storia dell’intervista a Craig e delle intenzioni di John, senza esitazioni. Joey era il mio migliore amico, il fratello maggiore che non avevo mai avuto e sapevo che se c’era qualcuno in grado di consigliarmi, quello era lui.

“Quindi, se do la cassetta a John e gli permetto di scrivere quell’articolo, pugnalo alle spalle una brava persona come Craig e, se mi invento una qualche scusa per non consegnargliela, perdo il lavoro” conclusi, sull’orlo delle lacrime.

Joey, che aveva ascoltato attentamente tutta la storia, strinse le labbra e mormorò “Hm…capisco”. “Oh, Joey! Non so cosa fare!” piagnucolai, appoggiando la testa sulla sua spalla.

Il mio amico mi accarezzò dolcemente i capelli per un istante, dopodiché disse “E’ una scelta difficile, piccola, ma temo di non poterti aiutare. Devi decidere tu se preferisci tenerti il lavoro e pugnalare alle spalle una persona che ti sta a cuore, portandoti dentro il rimorso per tutta la vita, oppure compiere una buona azione rinunciando, però, a qualcosa di importante e serio come il tuo lavoro”.

“In ogni caso ci perdo qualcosa” osservai, triste.

Joey annuì. “Già. Ma, se posso permettermi, un lavoro è qualcosa che pratichi per un certo periodo, mentre con la tua coscienza avrai a che fare per tutta la vita” mi fece notare.

Annuii, per fargli intendere che avevo capito, e lui mi sorrise, benevolo.

“Su, adesso, vai di sopra da Romeo. Ti starà aspettando con una fame da lupi!” scherzò, strappandomi un sorriso.

“Okay, vado. Ci vediamo più tardi, Joey. Grazie” lo salutai.

“Non c’è di che, bellezza” minimizzò lui. “Ah, e pensaci bene prima di prendere una decisione, okay?”

Annuii “Tranquillo”.

“E ricordati sempre che, qualsiasi cosa tu decida, non sei sola. Hai degli amici che non ti abbandoneranno”.

Sorrisi e, mentre salivo al mio appartamento, mi ritrovai a pensare a quanto avesse ragione. Fin da bambina, ero sempre stata abituata a cavarmela da sola perché sapevo che potevo contare solo sulle mie forze. Ero cresciuta in un piccolo orfanotrofio di suore nello Yorkshire, sulla cui soglia ero stata abbandonata ancora in fasce, quindi non avevo mai conosciuto i miei genitori. Le suore mi avevano accolta, vestita, nutrita e mi avevano anche dato un nome: Rebecca, come un personaggio della Bibbia. Il cognome Abbot derivava dal fatto che fosse stato il primo nome sull’elenco telefonico del paese. Si erano prese cura di me e mi avevano istruita, insieme a un’altra ventina di bambini e bambine di tutte le età, tutto questo fino all’età di 18 anni quando, ormai maggiorenne, mi avevano ritenuta pronta ad affrontare da sola il mondo. Grazie alla mia innata intelligenza e a una buona dose di duro lavoro, ero riuscita a ottenere una serie borse di studio che mi avevano permesso di frequentare l’università, dove avevo scelto la facoltà di giornalismo. Avevo vissuto nel campus del college fino alla laurea, dopodiché ero stata assunta al giornale e mi ero messa alla ricerca di un appartamento. Dopo settimane di inutili visite in giro per tutta Londra, avevo quasi perso le speranze quando era arrivato Joey. Ci eravamo conosciuti per caso in un ristornate indiano nell’East End dove io mi ero fermata per pranzo durante una delle mie tante peregrinazioni. Cercavamo entrambi un tavolo, ma ne era rimasto soltanto uno così il proprietario, il signor Bedi, ci aveva proposto di dividerlo. L’idea non ci era sembrata male e avevamo accettato, finendo con il fare conoscenza. Gli avevo detto che ero alla ricerca di un appartamento e lui, quasi per caso, aveva accennato al fatto che ne aveva appena messo in affitto uno in un palazzo poco distante e mi aveva proposto di dargli un’occhiata. Mi era piaciuto e, pochi giorni dopo, mi ci ero già trasferita, trovando non solo una casa ma anche una famiglia, la prima che avessi mai avuto. Oltre a Joey, proprietario del pub al piano terra, c’era Lizzie, parrucchiera pasticciona che lavorava in un salone alla fine della strada, Arthur, squattrinato attore in cerca di fortuna che, per il momento, si accontentava di girare qualche sporadico spot pubblicitario, la sua ragazza Bridget, segretaria, che, pur non vivendo nel palazzo, passava talmente tanto tempo a casa del suo ragazzo, che era come se abitasse lì, e William, dotato di un genio innato per gli affari di borsa ma, a parte questo, piuttosto sfigato in tutto il resto, che lavorava nella city e divideva con Arthur l’appartamento all’ultimo piano. Eravamo diventati tutti una grande famiglia e ci aiutavamo a vicenda ogni volta che qualcuno era nei guai. Potevo contare su di loro, sapevo che non mi avrebbero mai abbandonata.

Non appena aprii la porta del mio appartamento, fui accolta da un coro di miagolii di protesta del mio gatto.

“Ehi, ho capito. Scusa!” mi giustificai, accarezzandogli il lucente mantello nero.

Ma Romeo non era tipo da perdersi in simili smancerie e mi fece chiaramente capire che quello che più gli premeva era riempire lo stomaco mordicchiandomi la mano. Mi affrettai a riempirgli la ciotola, dopodiché mi misi ai fornelli cercando di cavarne qualcosa di buono. Non ero una grande cuoca e la metà delle volte che tentavo di cucinarmi qualcosa, combinavo pasticci. Presto mi fu chiaro che quella sera non avrebbe costituito un’eccezione. Ero in salotto e mi stavo rigirando fra le mani la cassetta con l’intervista, riflettendo sul da farsi, quando un inconfondibile odore di bruciato proveniente dalla cucina mi avvertì che avevo dimenticato le lasagne nel forno. Purtroppo era troppo tardi e, dando un’occhiata al contenuto bruciacchiato della vaschetta, mi resi conto che l’ennesimo tentativo era fallito. Mi tolsi il grembiulino e, sospirando, presi la giacca e uscii di casa. Salii al piano di sopra e bussai alla porta di Lizzie.

“Becky! Che ci fai qui?” chiese la mia amica, stupita di vedermi.

“Sto andando a cena al Cochin, mi fai compagnia?” proposi.

Lei sorrise a annuì “Certo! Prendo il cappotto”.

Ordinammo vada e coca cola e per dolce degli splendidi jilebies e passai la serata ad ascoltare Lizzie che mi descriveva le signore più bizzarre a cui aveva fatto i capelli quel giorno, mentre Ameet e Shaneen, i figli del signor Bedi, venivano a farci visita di tanto in tanto. Con mia grande sorpresa, riuscii a dimenticare completamente i miei problemi ma, una volta tornata a casa e messami a letto, con Romeo che dormiva beatamente vicino ai miei piedi, il pensiero di quello che stavo per fare a Craig non mi faceva prendere sonno. Mi preparai una bella tazza di camomilla e mi imposi di dormire. Un vecchio proverbio diceva che la notte porta consiglio e io lo speravo con tutto il cuore.

 

“Sì, sì. Okay. Sono sveglia” brontolai, spostando Romeo in modo da impedirgli di leccarmi ulteriormente i capelli.
“Ma tu devi piantarla con questo brutto vizio di leccare i capelli, sai? Mi costringi a lavarli tutti i giorni!” lo rimproverai, andando in bagno e lasciandolo sul letto a leccarsi.
Come ogni mattina, mi preparai per andare a lavoro e, prima di uscire, chiamai Joey, riflettendo su quanto fosse buffo quel modo di svegliarlo. Risaliva tutto a qualche mese prima, quando la sveglia del mio amico aveva dato forfait e lui mi aveva pregato di chiamarlo quando uscivo per andare a lavoro. Il sistema sembrava funzionare così bene che non aveva mai comprato una sveglia nuova. Dato che quel simpaticone del mio gatto mi aveva svegliata piuttosto presto, decisi di lasciare a riposo il motorino e farmi una passeggiata fino al giornale così avrei avuto modo di riflettere sul da farsi. Ero ancora combattuta sulla decisione da prendere anche se una certa idea aveva iniziato a farsi strada in me.

Mi fermai al Cochin per un caffè e, uscendo, vidi il signor Bedi alle prese con un enorme bidone di spazzatura che si stava apprestando a svuotare.

Fu un attimo, una frazione di secondo e tutto mi divenne chiaro come il sole.

“Ehi, signor Bedi!” lo chiamai.

“Buongiorno Becky!” mi salutò allegramente lui.

“Stia fermo un secondo, per favore” lo pregai e, prendendo bene la mira, feci volare la cassetta dritta nel bidone dei rifiuti.

“Bel colpo!” si complimentò lui, ridendo.

“Grazie” risposi io, facendo un piccolo inchino, dopodiché infilai le mani in tasca per proteggerle dal freddo e mi incamminai verso la redazione fischiettando. Mi sentivo leggera come l’aria.

 

“E questo è quanto” conclusi, bevendo l’ultimo sorso di succo d’arancia e appoggiando il bicchiere sul bancone. Era l’una passata e il locale di Joey aveva chiuso da un pezzo, ma mi trovavo ancora lì con lui e i miei amici ai quali avevo appena finito di raccontare tutta la storia per filo e per segno. Come previsto, non appena mi ero presentata senza la registrazione, il mio capo aveva iniziato a dare in escandescenza e la subdola scusa che la cassetta fosse finita nelle grinfie di Romeo inventata per giustificarmi non lo aveva convinto, tanto che, come promesso, mi aveva licenziata senza troppi ripensamenti. Ovviamente, ero corsa a casa a raccontare tutto a Joey e lui aveva indetto un’assemblea d’emergenza, come chiamava scherzosamente quelle nostre riunioni serali, per mettere anche gli altri al corrente dei fatti.

“Hai fatto la cosa giusta, tesoro” mi rassicurò il mio amico, accarezzandomi la schiena.

Tutti gli altri annuirono, seri. Sapevo di avere il loro supporto.

Sospirai. “Ne sono convinta. Però adesso mi trovo disoccupata” osservai.

Non ero pentita. Avrei rifatto la stessa identica cosa mille altre volte. Ero solo un po’ preoccupata per il mio futuro.

“Ehi” Joey mi alzò il viso con un dito, costringendomi a guardarlo negli occhi “Non voglio vedere quel bel musetto triste, chiaro?”.

Sorrisi.

“Ricordati che hai degli amici”

“Diamine, Joey ha ragione!” sbottò Arthur. “Una soluzione la troviamo”.

Lizzie annuì. “Sì, non preoccuparti, Becky. Hai agito da vera eroina, sono fiera di te!” si congratulò. “Lo siamo tutti!” precisò Bridget, stringendomi una mano.

Sorrisi. Era stupendo avere degli amici fantastici come loro ma, in quel momento, anche se si sforzavano di essere solidali, non mi erano di grande aiuto.

“Temo che non potrò pagarti l’affitto per un po’, Joey” cercai di sdrammatizzare.

Il mio amico sorrise, benevolo.
“Come se me ne importasse qualcosa” commentò. “Lo sai che ormai quell’appartamento è tuo, indipendentemente dall’affitto. Continuo a prenderlo solo perché so che tu non vuoi dipendere da nessuno”.

Annuii. “Lo so. E ti ringrazio” sussurrai, lasciandomi abbracciare.

Restammo tutti in silenzio per un po’ finché William non si schiarì la voce.

“Ehm…io…ho avuto un’idea” annunciò.

Ci voltammo tutti a guardarlo tanto che lui, timido e impacciato di natura, sentendosi al centro dell’attenzione, iniziò a balbettare, in imbarazzo.

“Mi è venuta così…magari poi non se ne fa niente…ma si può sempre provare”.

“Avanti, Will, dicci di che si tratta” lo spronò gentilmente Lizzie, l’unica tra tutti noi a saperlo prendere per il verso giusto.

William prese un respiro profondo “Beh, uno dei miei clienti è un pezzo grosso del Daily Mirror e pensavo che, magari, potrei mettere una buona parola per te e vedere se riesco a farti assumere”. Il mio cuore mancò un battito sentendo il nome dell’importante giornale.

“Dici sul serio?” farfugliai, strabuzzando gli occhi.

William annuì. “Non ti prometto niente, è solo un tentativo, ma hai visto mai…”.

Gli buttai letteralmente le braccia al collo. “Oh, Will! Ti adoro! Te l’ho mai detto?”.

“Ehm…no. Non di recente” balbettò lui, rosso in viso.

“Digli che farò tutto quello che vuole, anche lavare i pavimenti, basta che mi assuma!” sentenziai. “Basta che non ti facciano cucinare!” commentò Joey, facendoci scoppiare tutti a ridere come pazzi.

Se siete arrivati fino a qui, vi prego, lasciatemi due righe per dirmi cosa ne pensate. Cos'avreste fatto al posto di Becky? Sareste rimasti fedeli ai vostri principi morali o la paura di perdere il lavoro vi avrebbe fatto vacillare? Come la prenderà Craig, quando non troverà l'intervista sul giornale? Lo scoprirete nel prossimo capitolo.

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Capitolo 2
*** CHAPTER 2 - One in a Million (Backstreet Boys) ***


Sfogliai febbrilmente l’ultima copia di Planet Gossip alla ricerca dell’intervista fatta un paio di settimane prima, e sbuffai, esasperato, non trovandola.

Ancora niente?” chiese gentilmente Tanya, la moglie di Michael.

Scossi la testa. “No. E sono passate già due settimane! Non capisco”.

In effetti è piuttosto strano” osservò lei. “Di solito pubblicano le interviste nel numero immediatamente successivo a quando ve l’hanno fatta, mentre qui sono già uscite due copie del giornale e ancora non si è vista”.

Magari hanno deciso di non pubblicarla” azzardò Sean, tornando dal bar e unendosi a noi con una birra.

Hmm…è così strano. Quella giornalista sembrava così soddisfatta di com’era venuta”.

Ci sono!” esclamò Michael, battendosi un pugno sul palmo della mano.

Ci voltammo tutti a guardarlo, shockati.

Ti ricordi come si chiamava quella tipa?” mi chiese.

Annuii. “Rebecca Abbot” risposi, perplesso.
Ancora non riuscivo a capire cos’avesse in mente e, guardando gli occhi sgranati degli altri miei amici, potevo affermare con sicurezza di non essere l’unico. Michael prese il cellulare dalla tasca dei jeans e, dopo aver letto qualcosa sull’ultima pagina del giornale, compose un numero.

Pronto, buongiorno, sono Craig MacLuis, dei Drummers” annunciò.

Io e gli altri ci scambiammo delle occhiate stupite. Cosa diavolo stava combinando? Perché chiamava qualcuno spacciandosi per me?

Vorrei parlare con il direttore, se non le dispiace. Grazie mille, attendo in linea” proseguì il mio amico.

Ora me lo passano” mi informò, strizzandomi l’occhio.

Ma si può sapere cosa…?” iniziai, ma fui prontamente zittito quando qualcuno rispose all’altro capo.

Sì, buongiorno, sono Craig MacLuis, dei Drummers. Una vostra giornalista mi ha intervistato, un paio di settimane fa, ma non ho ancora visto pubblicata l’intervista. Può spiegarmi cosa è successo, per favore?” chiese, serio.

Un istante di silenzio, poi “Sì, me lo ricordo. Si chiamava Abbot, Rebecca Abbot”.

Altro silenzio, più lungo, questa volta.

Ah, capisco. E saprebbe dirmi come contattarla?”

Qualche secondo.

D’accordo, la ringrazio molto. Arrivederci!”.

Michael chiuse la conversazione e mi rivolse un sorriso radioso.

Mistero svelato” annunciò.

Vuoi spiegarci, per favore?” lo pregò Sean, visibilmente spazientito.

Non lo sapete che in tutti i giornali c’è scritto il numero della redazione?” ci chiese, con aria di superiorità. “Ho chiamato e mi sono fatto passare il direttore. È un piccolo giornale, non è stato difficile” spiegò. “Purtroppo mi ha detto che non poteva aiutarmi perché la giornalista che ha effettuato l’intervista non lavora più da loro”.

Quindi?” chiesi, esasperato.

Michael mi rivolse un sorriso di benevolenza che iniziò ad irritarmi.

Ho chiesto come fare a mettermi in contatto con lei”.

Stavo per saltargli al collo e minacciarlo di morte se non si fosse deciso a sputare il rospo, ma Sean mi batté sul tempo. “Ti decidi a parlare o no?” sbottò, non riuscendo a resistere oltre.

Non aveva il numero ma ha detto che è sull’elenco. Basta cercare Abbot” concluse, finalmente il nostro amico.

 

Ero davanti alla porta del mio appartamento e stavo cercando di infilare la chiave senza far cadere tutto il contenuto delle buste per la spesa che avevo in mano, quando il telefono iniziò a squillare e io mi affrettai ad aprire, sperando di arrivare in tempo a rispondere. Come promesso, William aveva interceduto per me presso il direttore dei Daily Mirror, che aveva promesso di chiamarmi per fissare un colloquio, quindi ogni telefonata era di vitale importanza e non potevo permettermi di perderne neanche una.

“Pronto” risposi, trafelata, alzando la cornetta.

“Ehm…Rebecca Abbot?” chiese una voce maschile che mi sembrava di aver già sentito da qualche parte.

“Sì, sono io. Chi parla?” domandai, incuriosita.

“Sono Craig MacLuis. Non so se ti ricordi” si presentò.

Sorrisi. Ma certo, Craig MacLuis! Difficile dimenticarsi una voce come la sua.

“Certo che mi ricordo” esclamai, facendo del mio meglio per posare a terra le buste senza attorcigliarmi con il filo del telefono.

“Mi dispiace disturbarti a casa, ma ho chiamato al giornale e mi hanno detto che non lavori più per loro” spiegò.

Sospirai. “Già, così sembra” commentai, acida e poi, cercando di velocizzare le cose “Posso aiutarti in qualche modo?”

“A dire la verità sì” annunciò lui. “Ricordi che ti avevo detto che avrei comprato il giornale per leggere l’intervista? Beh, l’ho fatto, ma non l’ho trovata. Mi piacerebbe sapere come mai non l’avete pubblicata”.

Chiusi gli occhi e presi un respiro profondo. E adesso? Come diavolo facevo a spiegarglielo? Dovevo inventarmi una balla e salvarmi la faccia oppure essere sincera rischiando di infangare il mio nome di giornalista? Ripetendomi che, tanto, peggio di così non poteva andare, optai per la seconda.

“Semplicemente perché, invece di consegnare la registrazione al mio capo, l’ho buttata nella spazzatura” confessai.

Craig restò un istante in silenzio, dopodiché chiese soltanto “Perché? Avevi detto che ti piaceva”. Sospirai. “Infatti era una splendida intervista,” ribattei “e sarebbe stata una vera chicca se fosse stata pubblicata così com’era. Purtroppo, però, non era esattamente quello che aveva intenzione di fare il mio capo”.

“Cioè? Spiegati meglio” mi pregò Craig.

Deglutii, rassegnata ormai a dover confessare.

“Vedi, il fatto è che ero stata mandata a intervistarti con un intento preciso, che era quello di farti rilasciare delle dichiarazioni ambigue da cui si potesse lasciare intendere una tua presunta omosessualità” spiegai. “Per questo ti ho fatto tutte quelle domande sul rapporto con i tuoi fratelli, amici, colleghi…c’era un doppio fine. Dovevano servire al mio capo per scrivere un articolo dove si sosteneva che tu sei gay”.

Presi fiato e continuai.

“Dato che, però, non sono il tipo che va in giro ad infangare il nome delle brave persone come te, mi sono rifiutata di consegnargli la cassetta” chiusi gli occhi e conclusi “e lui mi ha licenziata”.

Questa volta, il silenzio dall’altra parte durò molto più a lungo, tanto che mi ritrovai a chiedere “Craig? Sei ancora lì?”.

“Sì. Ci sono” mi rassicurò lui. “Io…non so cosa dire”.

“Non devi dire niente” minimizzai.

Lui insistette. “Sì, invece. Ora, io non so chi te l’ha fatto fare di farti licenziare per non spargere calunnie sul conto di una persona che nemmeno conosci, ma hai tutta la mia stima e il mio rispetto, oltre che la mia gratitudine. Non posso dire di conoscerti, ma devi essere una persona davvero speciale e mi dispiace davvero tantissimo che tu abbia perso il lavoro per causa mia”.

Con il cuore che mi batteva per il piacere che mi avevano provocato quelle parole, replicai “Non è stato a causa tua. Sono stata io a scegliere di buttare la cassetta”.

“Sì, ma l’hai fatto per me”.

“Non è vero. L’avrei fatto per chiunque” mentii.

“Beh, dato che, questa volta, questo ‘chiunque’ sono io, voglio dimostrarti la mia riconoscenza” sentenziò.

Scossi la testa. “Lascia stare, non ce n’è bisogno”.

“Forse non ce n’è bisogno per te, ma per me sì. Se penso che ora ti ritrovi disoccupata per colpa mia, mi sento un verme e, anche se non potrò mai ridarti il tuo lavoro, voglio almeno cercare di ricambiare il favore invitandoti a pranzo”.

Stavo per declinare educatamente l’invito, quando Craig parlò di nuovo.

“Non dire di no, ti prego”.

Restai un istante in silenzio, mentre dalla mia memoria riaffioravano i ricordi di quel bel pomeriggio che avevo passato a chiacchierare con lui al bar dell’albergo e, alla fine, mi ritrovai a rispondere “D’accordo. Se proprio ci tieni…”.

“Benissimo!” esclamò lui, entusiasta, come se pranzare con me fosse meglio che uscire con Gwyneth Paltrow. “Tra due giorni saremo di nuovo a Londra. Ti va se ci vediamo al Conrad verso mezzogiorno?” propose.

Annuii, anche se lui non poteva vedermi. “Okay”.

“Allora ci vediamo” concluse lui. “E grazie ancora”.

“Ma figurati” farfugliai, confusa.

Dopo aver riagganciato, mi diedi un’occhiata nello specchio che tenevo appeso sopra al tavolino del telefono, accorgendomi che ero tutta rossa in viso e stavo ancora sorridendo. Perché, mi chiesi, quel ragazzo mi faceva sempre comportare in modo strano?


 

Dov’è questa ragazza virtuosa? Voglio sposarla!!” esclamò Michael, al termine del mio resoconto, beccandosi una sberla da sua moglie Tanya.

Ehi, calma, amico. Craig ha la precedenza, questa volta” commentò Sean, ridacchiando.

Ma che precedenza!” sbottai, seccato dalle continue allusioni dei miei amici. Dato che erano tutti felicemente accoppiati, avevano preso il brutto vizio di cercare di accasare anche me.

Beh, l’hai invitata a pranzo a quanto ho capito, no?” insistette il mio amico.

Sì, ma è per sdebitarmi” precisai.

Chi se ne frega, è già un inizio!” ribatté lui, deciso.

Sospirai, deciso a lasciare perdere. Quando Sean si fissava su qualcosa, non c’era verso di fargli cambiare idea.

Craig, Sean ha ragione” aggiunse Tanya.

Mi voltai a guardarla, stupito. Non era da lei fare certi commenti.

Non dico che debba nascere per forza qualcosa tra te e questa giornalista, però ammetti anche tu che una ragazza del genere è più unica che rara” si giustificò.

Verissimo!” concordò Michael. “Dove la trovi un’altra che si fa licenziare per pararti il culo? Fossi in te non me la lascerei scappare”.

Guardai Paul, in cerca di aiuto. I miei amici non facevano che pensare a trovarmi una ragazza! Anche lui, però, annuì. “Secondo me, non è poi così male come idea. Anche se doveste diventare soltanto amici, vale la pena di provare” mi fece notare.

Non dissi nulla, segno che l’argomento era da considerarsi definitivamente chiuso, ma, sotto sotto, mi ritrovai a pensare che, dopotutto, forse i miei amici non avevano proprio tutti i torti.

 

“Lizzie, mi puoi aggiustare i capelli, per favore?” chiesi alla mia amica, non appena venne ad aprire la porta. “So che è la tua giornata di riposo, ma ho un appuntamento per pranzo e…”.

“Appuntamento? Si tratta del colloquio di William, per caso?” si informò lei, speranzosa.

Scossi la testa. “No. È un’altra cosa” spiegai.

Vedendo il suo sguardo speranzoso, mi decisi a sputare il rospo.

“Ti ricordi Craig MacLuis?” domandai.

La mia amica annuì. “Quello dell’intervista, giusto?”.

“Lui. Beh, mi ha invitata a pranzo”.

Lizzie mi guardò con gli occhi che le brillavano per l’entusiasmo. “Davvero?”

Annuii. “Sì. Ha saputo il fatto e ha detto di voler farsi perdonare per avermi fatto perdere il lavoro”.

“Oh, carino!” esclamò lei, emozionata.

Sorrisi. “Sì, è stato davvero molto gentile” concordai.

“E, dimmi,” indagò, facendomi sedere e iniziando a tirar fuori un numero incredibile di pettini e spazzole “lui com’è? Carino?”

“Lizzie, guarda che l’hai già visto anche tu, sono sicura. È uno dei Drummers, hai presente?”

“Ma dai! Quale? Sono uno più carino dell’altro”.

“Hmm…come faccio a spiegarti? Alto, moro, occhi azzurri…” descrissi, brevemente.

“Oh, sì! Capito” disse lei. “Sinceramente preferisco il biondino con l’aspetto da rockettaro…Sean mi pare che si chiami…ma devo ammettere che anche questo Craig non è niente male” commentò, facendomi ridere.

“Sì, ma non ti mettere strane idee in testa. Mi ha solo invitata a pranzo per sdebitarsi” mi affrettai a precisare.

La mia amica sospirò. “Lo so, lo so…mica ho detto niente” si difese. “Ad ogni modo, meglio essere carine, no? Non si sa mai chi si può incontrare in giro! Metti che Tom Cruise alloggi allo stesso albergo”.

 

Prima di entrare al Conrad, mi fermai a specchiarmi nella vetrina di un negozio. Dopo essermi fatta sistemare i capelli, che ora portavo in una cascata di boccoli che ricadevano sulle spalle, ero tornata nel mio appartamento e avevo spalancato l’armadio, alla disperata ricerca di qualcosa da mettermi. Avevo scordato di chiedere a Craig dove aveva intenzione di portarmi, quindi non sapevo come vestirmi, senza considerare il fatto che un attento esame del mio guardaroba mi aveva rivelato che non possedevo vestiti eleganti. Era un problema a cui avrei dovuto porre rimedio, prima o poi. Alla fine avevo optato per un paio di jeans skinny, un dolcevita nero e un paio di ballerine dello stesso colore. Speravo andasse bene.

Presi un respiro profondo e mi decisi a entrare, ripetendomi che non c’era motivo di essere così agitata per uno stupido pranzo.

Craig mi venne subito incontro, sorridente. “Ciao!” salutò.

“Ciao. Spero di non essere in ritardo”.

Lui scosse la testa. “Tranquilla, sei puntualissima, sono io in anticipo”.

Sorrisi. “A proposito, grazie dell’invito” farfugliai.

Il ragazzo mi mise un dito davanti alla bocca. “Zitta! Non voglio sentire un altro ‘grazie’ da te, chiaro? Hai accumulato un bonus di…diciamo…2000 ‘grazie’ per quello che hai fatto e, fino a che non mi sarò messo in pari, non voglio sentirtelo dire”.

“D’accordo, mi arrendo” acconsentii, ridendo e alzando le mani davanti al viso. “Come vuoi tu”.

Craig sorrise, soddisfatto. “Ho prenotato un tavolo allo Sketch, in Conduit Street. Spero che ti piaccia” annunciò.

Alzai le spalle. “Non ci sono mai stata” mi scusai.

“Oh, è un posto carino, sono sicuro che ti piacerà” commentò lui. “Ora chiamo un taxi e andiamo, okay?”.

 

Craig aveva ragione, il locale era veramente carino.

“Una volta qui c’era la maison di Dior” mi spiegò.

“Davvero?” feci io, interessata.

Lui annuì.

“E tu come fai a saperlo?” domandai, incuriosita.

“Oh, me l’hanno detto” rispose lui, facendo spallucce.

Smisi di guardarmi intorno e iniziai a studiare il menù, seguendo l’esempio di Craig.

“Cosa prendi?” chiese lui, dopo un po’.

“Hm…hamburger e patatine” risposi, chiudendo il menù.

Il ragazzo sorrise, compiaciuto. “Oh, finalmente una ragazza che non ordina insalata!” commentò. Scoppiai a ridere. “Perché, ne hai incontrate molte di quella specie?” domandai.

Craig emise un lieve fischio. “Praticamente tutte” sentenziò.

“Ah, beh, mi dispiace ma credo di non andare troppo d’accordo con l’insalata” mi giustificai. “Quando ne mangio troppa finisco sempre per avere una crisi di personalità e sentirmi una mucca” spiegai, facendolo scoppiare a ridere.

Fummo interrotti dal cameriere che veniva a prendere le ordinazioni ma, non appena se ne fu andato, Craig mi guardò dritta negli occhi e disse “Allora, parlami un po’ di te”.

Restai in silenzio per qualche secondo, cercando qualcosa da dire. Improvvisamente mi sembrava che non ci fosse niente degno di nota nella mia vita.

“Oh, non c’è niente di interessante da sapere, sai” minimizzai.

“Non ci credo!” ribatté lui. “E, comunque, tu almeno un po’ mi conosci, grazie a quell’intervista, mentre io so a malapena il tuo nome!” insistette.

“E va bene” cedetti. “Vediamo un po’. Vivo nell’East End. Sono laureata in giornalismo, anche se al momento sono disoccupata. Ho 25 anni, e sono del Leone” riassunsi.

“Davvero? Anch’io sono Leone!” commentò lui. “Quando sei nata?”

“Festeggio il compleanno il 10 di Agosto” risposi.

Craig mi lanciò un’occhiata perplessa.

“Che strano modo per dirmi quando sei nata” osservò.

Sospirai. “Ehm…è che…è una storia lunga, non voglio annoiarti”.

“Non mi annoi” sentenziò lui e sembrava così sincero che decisi di raccontargli tutto.

“Il fatto è che non so precisamente quando sono nata”.

“Com’è possibile?” chiese, stupito.

“È possibile se si è stati abbandonati davanti a un orfanotrofio” spiegai.

Craig si fece improvvisamente serio.

“Non hai i genitori?” domandò.

Scossi la testa. “Oh, immagino che anch’io dovrò averli, da qualche parte, ma non li ho mai conosciuti”.

Vedendo la tipica espressione compassionevole che, di solito, seguiva questa rivelazione comparire anche sul viso di Craig, mi affrettai a precisare “E, sinceramente, nemmeno ci tengo”. “No?” chiese lui, sorpreso.

“No. Se mi hanno abbandonata, significa che non gliene fregava niente di me, quindi perché a me dovrebbe importare di loro?”.

“Più che giusto” rifletté lui. “Comunque, dev’essere stato difficile, per te, crescere in un orfanotrofio”.

Alzai le spalle. “Dicono che tutto quello che non ti distrugge serve a renderti più forte, no? Immagino che anche a me sia servito” sentenziai.

Craig restò in silenzio per un po’. Evidentemente non sapeva cosa dire. Mi sentii in dovere di rassicurarlo.

“Guarda che non devi sentirti in imbarazzo”

“Io…non…non mi sento in imbarazzo…” mentì, ma io scossi la testa.

“Tranquillo, succede sempre. Sono abituata”.

Il ragazzo sorrise. “Scusami. Sono un disastro”.

“Ma figurati! Capisco che possa essere un problema, per alcuni,” osservai “ma non devi preoccuparti, come vedi io sto benone!”

“Ma sì, certo” farfugliò lui, cercando di riprendersi. “Te la cavi alla grande, si vede”.

“Infatti. E, soprattutto, non ho bisogno della compassione di nessuno” precisai. “Certa gente non lo capisce”.

L’arrivo dei nostri piatti ci tolse dall’imbarazzo di quella conversazione.

“Allora, ti piace l’hamburger?” chiese Craig, poco dopo.

Annuii. “È ottimo! Non sono abituata a queste ghiottonerie”.

Il ragazzo mi guardò, confuso, così spiegai.

“Vivo da sola e sono assolutamente incapace di cucinare. Ogni volta che ci provo finisco per combinare danni. Spesso ceno a casa di amici, ma non posso sempre approfittare della loro ospitalità, così sono un’assidua frequentatrice del ristorante indiano della mia via”.

“Oh, capisco” ridacchiò lui. “Anch’io sono una frana ai fornelli. Fortuna che vivo ancora con mia madre” confessò. Poi, sorridendo, aggiunse “Comunque, ora che lo so, il prossimo invito sarà per una cena” scherzò, facendomi arrossire.

“Sei gentile, ma non ti devi disturbare” ringraziai.

“Ah-ah” mi rimproverò lui, agitandomi un dito davanti al naso. “Questo ha tutta l’aria di essere un ringraziamento e mi sembrava di averti detto che non ne voglio sentire”.

“Hai ragione” mi scusai, ridendo e lui sorrise, compiaciuto.

“Così va meglio. E, una volta finito qui, andiamo a prendere il dolce nella pasticceria iraniana qui vicino. Fanno una torta alla fragola da urlo!”.

 

“Quanto tempo vi fermate a Londra?” domandai, facendo sparire senza difficoltà l’ultimo pezzo della mia fetta di torta alla fragola. Craig aveva ragione, era veramente da urlo.

“Oh, domani ripartiamo. Dobbiamo registrare un programma televisivo in Germania” mi informò.

“Capisco” dissi e, dal mio tono di voce, doveva essere chiaro che mi dispiaceva, perché Craig aggiunse “Ma, se ti va, possiamo vederci la prossima volta che passo di qui”.

Sorrisi e annuii. “Okay”.

“Forse faresti meglio a darmi il tuo numero di cellulare, però, così la smetto di disturbarti a casa”. “Ehm…” farfugliai, mordicchiandomi il labbro inferiore “…temo di non potertelo dare”.

“Perché?” chiese lui, stupito. “Non ti fidi?”.

Scossi la testa. “No! Per il semplice fatto che non ce l’ho”.

“Non hai un cellulare?” esclamò, visibilmente shockato.

“No” confessai.

“Beh, questa è bella! Devi rientrare in quell’1% di persone nel mondo che riescono a farne a meno” commentò.

Poi, allungando una mano per prendere in prestito la penna appoggiata accanto alla cassa, scarabocchiò un numero su un tovagliolino.

“In ogni caso, questo è il mio. Puoi chiamarmi, se ti fa piacere”.

Annuii, prendendo il foglietto e ritirandolo nel portafoglio. Non l’avrei mai fatto, ne ero praticamente certa, ma apprezzavo il gesto.

“Tu puoi continuare a chiamarmi a casa senza farti troppo problemi. Non mi disturbi” sussurrai, tenendo lo sguardo basso per evitare di incrociare il suo e arrossire.

Mi sentivo una liceale al primo appuntamento anche se sapevo che era stupido. Quello non era un vero appuntamento, eravamo soltanto andati a mangiare qualcosa insieme.

Passeggiammo per un po’ lungo il Tamigi e, verso le tre di pomeriggio, tornammo finalmente al Conrad.

“Vuoi che ti chiami un taxi per tornare a casa?” propose Craig, prima di salutarci.

Scossi la testa. “No, farò due passi, tranquillo”.

“Bene, allora. Grazie per la compagnia, mi sono divertito” disse.

“Grazie a…” mi bloccai. “Già, non te lo dovevo dire” mi corressi, facendolo ridere.

“Va beh, per questa volta facciamo che ti perdono” scherzò lui.

Ci salutammo con un bacio sulla guancia, dandoci appuntamento ‘a presto’ anche se non sapevamo bene quando sarebbe stato questo ‘presto’ e io me ne tornai a casa fischiettando felice. Avevo passato una bella giornata con Craig, ancora una volta avevo constatato quanto fosse piacevole palare con lui. Potevo sbagliarmi, ma qualcosa mi diceva che avevo trovato un nuovo amico.

 

Ero appena tornata a casa e stavo per entrare nel mio appartamento, quando la porta di fronte si aprì e ne spuntò il viso sorridente di Joey.

“Ciao, piccola!” esclamò.

“Ehi” risposi, voltandomi.

“Sono andato da te a farmi una doccia. Dalla mia non esce acqua calda” mi spiegò.

Annuii. “Hai fatto benissimo”.

“Ah, e ho anche dato da mangiare a Romeo. Miagolava come un disperato e mi ha fatto pena”. Alzai gli occhi al cielo.

“Ho fatto male?” chiese lui.

Scossi la testa. “No, hai fatto bene. È solo che la carognetta aveva già mangiato, ma tu non potevi saperlo, quindi ha usato tutte le sue armi di persuasione per impietosirti” spiegai.

Il mio amico scoppiò a ridere di gusto.

“Il tuo gatto è proprio un bel tipo, sai?” commentò e poi, prima di sparire di nuovo in casa, aggiunse “A proposito. È giovedì, sei a cena con me e Philip, ricordatelo”.

Annuii. “Non mancherò”.

Entrando, fui accolta da una serie di miagolii e Romeo mi si catapultò sui piedi, iniziando a strusciarsi.

“Sì, sì. Fai pure lo smorfioso. Tanto lo so che è solo per non farti sgridare” commentai. “Ti senti in colpa, eh?” continuai, chinandomi a grattargli l’attaccatura delle orecchie, come sapevo che gli piaceva. “Beh, ti va bene che oggi mi sento buona. Ho avuto una bella giornata, sai?” e poi, togliendomi il giubbotto e le scarpe e andando in cucina per prepararmi una tazza di the “Quel Craig è proprio simpatico”. Ed era vero. Non potevo ancora dire di conoscerlo ma, per quel poco che sapevo, Craig mi piaceva, mi piaceva parecchio.

 

“Ciao, dolcezza!” esclamò Philip, facendomi entrare e baciandomi una guancia.

“Ciao Phil. Ho portato del vino” dissi, mettendogli in mano la bottiglia. “Joey?”.

“In cucina” rispose. “Ha detto che stasera vuole stupirci con le sue doti culinarie” mi spiegò. “Ma tu vieni, accomodati” propose, guidandomi in salotto, dove il tavolo era stato apparecchiato per tre. Ogni giovedì era la stessa storia. Era il giorno di chiusura del pub e Joey aveva la giornata libera così, la sera, si divertiva a organizzare queste cenette per me e Philip.

Stavo per sedermi al mio posto, quando Joey sbucò con la testa dalla cucina, una ciocca di capelli biondi sugli occhi.

“Ciao, piccola!” mi salutò, soffiando per spostarla. “Di’ a Philip di mettere un po’ di musica, intanto che aspettate” propose. “Ancora qualche minuto e potrete gustare le lasagne più buone di tutto l’East End!” annunciò.

Ero appena al mio secondo boccone di lasagne quando i miei due amici passarono elegantemente all’attacco.

“Allora,” iniziò Philip, rigirandosi in mano la forchetta “Joey mi ha detto che oggi hai avuto un appuntamento”.

Lanciai un’occhiataccia all’altro ragazzo che, sentendosi colpevole, abbassò lo sguardo e si finse interessatissimo alla sua porzione di lasagne.

“Joey!” lo rimproverai.

“Scusa, cucciola. Non ho saputo resistere” si giustificò.

Sospirai. Dicevano tanto delle donne, ma anche i miei amici non scherzavano in quanto a pettegolezzi.

“Comunque,” precisai, rivolta a Philip “non era un appuntamento. Siamo solo andati a pranzo”. “Beh, sei comunque uscita con un uomo, no?” insistette Philip.

Annuii “Sì”.

“Allora era un appuntamento!” sentenziò lui, in modo tale da non ammettere repliche.

Abbassai lo sguardo e me ne restai zitta, bevendo un sorso di vino. Nessuno parlava, l’unico rumore a rompere il silenzio era il gocciolio del rubinetto della cucina che perdeva ormai da una vita e che Joey non si era ancora deciso a riparare, oltre, ovviamente, alla voce di Frank Sinatra che cantava sulle note di My Way in sottofondo.

“Quindi?” sbottò improvvisamente Joey. “Non vorrai mica farti tirare fuori le parole di bocca”.

Io e Philip ci guardammo e, non riuscendo a resistere, scoppiammo entrambi a ridere.

“Scusalo, tesoro. La delicatezza non è mai stata il suo forte, temo” commentò Philip, guadagnandosi un’occhiataccia da Joey.

In ogni caso, delicata o no, quell’esclamazione aveva rotto il ghiaccio e mi aveva sbloccata così, dimenticandomi momentaneamente delle lasagne, iniziai a raccontare per filo e per segno ai miei amici la giornata trascorsa con Craig, ricevendone commenti positivi ed entusiasti che non fecero altro che aumentare la simpatia che provavo per il ragazzo.

Eccoci arrivati al secondo capitolo, dove viene rivelato il fulcro della storia. Da qui in avanti, vi aspetta molta fluffiness (ammesso che il termine esista, se no lo invento io), ma ci saranno anche dei colpi di scena mica da ridere. Stay tuned (e lasciatemi un commento).

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Capitolo 3
*** CHAPTER 3 - Til We Ain’t Strangers Anymore (Bon Jovi) ***


“Arrivo, arrivo! Dio! Sembra che ti stiano scuoiando vivo!” commentai, entrando nel mio appartamento, riferita ai miagolii disperati di Romeo che protestava per essere stato lasciato solo tutto il giorno.

Richiusi la porta e gli diedi una grattatina dietro alle orecchie, sperando di farlo tacere, ma non ottenni grandi risultati, così mi rassegnai a riempirgli la ciotola di crocchette.

“Materialista” commentai, guardandolo divorarle avidamente, dopodiché mi svestii e mi infilai sotto la doccia.

Era passato circa un mese da quando ero stata licenziata ma, fortunatamente, non ero stata inoperosa per molto. Come promesso, William aveva parlato di me a quel suo cliente che lavorava per il Daily Mirror e lui, gentilmente, aveva accettato di conoscermi, così il mio amico aveva organizzato una cena, durante la quale avevo fatto del mio meglio per sembrare una giornalista brillante e preparata. Evidentemente aveva funzionato perché, dopo qualche giorno, ero stata richiamata e mi era stato fissato un colloquio, in seguito al quale ero stata assunta, dapprima in prova e, dopo sole due settimane, permanentemente. Il cliente di William, Joseph Loy, che era diventato mio capo, credeva fermamente nelle mie capacità e mi aveva subito affidato importanti servizi di attualità in veste di inviata speciale, per i quali avevo intervistato politici e uomini d’affari, senza mai combinare pasticci, segno che l’incompetente non ero io ma quell’idiota del mio vecchio capo. Aveva una così alta stima di me che mi chiedeva un parere per questioni anche molto importanti, facendomi sentire onorata e, se capitava che, per qualche motivo, non potessi presentarmi in ufficio, non mi faceva nessun problema. Il nuovo lavoro mi piaceva da morire, era quello che avevo sempre sognato fare, andavo d’accordo con i colleghi e adoravo letteralmente il mio capo. La vita sembrava sorridermi di nuovo e non ero mai stata così felice in vita mia.

Ero appena uscita dalla doccia e stavo gingillandomi alla prospettiva di poter passare la successiva domenica mattina a letto, quando sentii suonare il telefono e corsi a rispondere. “Pronto”.

“Non hai chiamato”.

Voce inconfondibile.

“Craig!” esclamai.

“Ciao” salutò lui. “Non hai chiamato” ripeté, tranquillo.

Arrossii. Aveva ragione, avevo promesso che l’avrei chiamato e non l’avevo fatto.

“Ehm…temo di aver perso il tuo numero” mentii. Non speravo che se la bevesse, ma era comunque un tentativo.

Infatti… “Va bene, farò finta di crederci” commentò, facendomi sorridere. “Comunque, come stai?” “Bene, grazie. Tu?”

“Non c’è male. Siamo tornati oggi dall’Olanda” spiegò.

“Siete in città?” domandai, cercando di non dimostrare troppo interesse. Non volevo si facesse strane idee.

“Sì,” rispose lui “per questo ti ho chiamata”.

“Scusa?” farfugliai, confusa. Ricordavo che ci eravamo detti di rivederci, quando lui fosse stato di nuovo in città, ma non ci eravamo dati nessun appuntamento.

“Volevo sapere se eri ancora dell’idea di fare quella cena” spiegò.

Già, la cena.

“Certo, perché no?” assentii.

“Bene” esclamò lui. “C’è qualche posto particolare dove vorresti andare?” si informò.

Ci pensai su un attimo. Non mi veniva in mente niente.

“Hmm…no. Mi fido di te”.

“Okay”.

“Ah!” aggiunsi, ripensandoci “Magari un posto non troppo elegante, se non è un problema”.

Mi sentivo sempre fuori luogo nei ristoranti eleganti.

“Guarda che non devi preoccuparti. Pago io” mi rassicurò lui.

“No, non è per quello!” mi affrettai a precisare. “È che mi sento sempre a disagio nei posti eleganti” confessai.

“Ah, capisco. D’accordo, allora! Niente di troppo chic, tranquilla”.

“E, comunque, ho un nuovo lavoro, adesso. Non devi pagare tu” protestai.

“Lo so che non devo, voglio pagare!” insistette.

Restai in silenzio per un attimo, riflettendo su quanto sarebbe stato difficile dissuaderlo. “D’accordo” rinunciai, alla fine “Grazie”.

“Potrei sbagliarmi, ma mi sembra di aver sentito un grazie” scherzò Craig.

“Beh…io…” farfugliai.

“Farò finta di non aver capito bene” mi interruppe. “Dicevi?”

Decisi di stare al gioco. “Ho chiesto quando ci vediamo”.

“Mah, non so. Tu quand’è che sei libera?”

“Hmm…domani?” proposi.

“Benissimo” concordò lui.

“Vengo in albergo, o…” mi informai.

“Sì, se non ti dispiace. Vorrei fare il galante e passarti a prendere a casa, ma ho paura che l’intervista che dobbiamo fare vada per le lunghe e di non fare in tempo” si scusò.

“Ma figurati, nessun problema” lo tranquillizzai.

“Allora ci vediamo al Conrad per…diciamo…le sette?”

“Alle sette al Conrad. Non mancherò” assicurai e, dopo esserci salutati, riagganciai.

“Altro appuntamento?” mi voltai di scatto e trovai Joey che mi sorrideva sulla porta.

“Joey! Mi hai spaventata” lo rimproverai.

“Scusa. Ero passato a chiederti se potevi scendere un po’ prima, stasera, ma eri al telefono, così ho aspettato” spiegò.

Poi, lasciandosi vincere dalla curiosità, aggiunse “Allora? Altro appuntamento?”

Annuii. “Se così vogliamo chiamarlo”.

“Sempre quel Craig?”

Annuii di nuovo.

“Beh, non ha più niente per cui ringraziarti, quindi questo è un vero appuntamento” constatò, sorridente.

“Non iniziare a fare castelli in aria, per favore” lo pregai.

“Nessun castello,” mi assicurò lui, serio e poi, prima di richiudere la porta e sparire “solo un piccolo monolocale!”.

 

Dando un’ultima sistemata ai polsini neri che indossavo per l’occasione, entrai nel locale, trovando tutti i miei amici già al lavoro.
“Ciao Lizzie” salutai, prendendo posto insieme a lei dietro al bancone.
“Ciao” rispose lei, servendo da bere a un signore e poi, guardandomi con un sorrisino divertito. “Joey mi ha detto che domani hai un altro appuntamento”.
Lanciai un’occhiataccia al mio amico, impegnato a parlare con un cliente e lui, per tutta risposta, mi mandò un bacio con la mano.
Non feci in tempo a replicare perché Bridget, la ragazza di Arthur, mi passò vicina con in mano due pinte di birra chiara da portare a un tavolo e chiese “Com’è questo tipo? Carino?”
“Beh, sì…” farfugliai, messa alle strette.
“Dove ti porta?” si informò William, appoggiando sul bancone tre bicchieri vuoti.
“Non lo so, gli ho chiesto di cercare un posto semplice” spiegai.
“Che ti frega, tanto paga lui, no?” commentò Arthur, passando un’ordinazione alla sua ragazza.
“Non è per quello, lo sai che mi sento a disagio nei posti eleganti” mi giustificai.
“Oh, quanto mi piacerebbe che Arthur mi ci portasse, invece!” sentenziò Bridget, sognante.
“Beh, sì tesoro, ma lo sai che sono sempre un po’ a corto di spiccioli per la mancia del cameriere” cercò di sdrammatizzare lui, guadagnandosi una linguaccia dalla sua ragazza, alla quale si affrettò a schioccare un bacio per farsi perdonare.
“Per cosa deve ringraziarti, questa volta?” scherzò Lizzie, avvicinandosi mentre spillavo una birra.
“Ah-ah, simpatica” commentai, con una smorfia. “Per nulla”.
“Wow! Allora ammetti che è un vero appuntamento” insistette.
Sorrisi. “Beh, vedi, c’è una storia dietro a questo invito, ma è troppo lunga da spiegare” minimizzai. “Ah! Bene! Adesso avete anche delle ‘storie lunghe’ che vi accomunano!” mi canzonò lei, per farmi arrabbiare.
Stavo per risponderle per le rime quando Joey mi arrivò alle spalle e mi immobilizzò le mani dietro alla schiena.
“Cuccia tu!” mi rimproverò, come se fossi il suo cane “Vi pestate dopo, adesso è ora di cominciare lo show”.
Annuii e, insieme alle mie due amiche, salii sul bancone, lasciando il posto dietro ai ragazzi. Joey fece partire la musica e noi tre iniziammo a ballare. Lo facevamo tutti i sabati, almeno da quando Joey aveva istituito la Serata Coyote Ugly per incrementare la clientela del locale. Sulle prime non ero stata entusiasta dell’idea. Non amavo ballare, specialmente se dovevo farlo in piedi su un bancone con un centinaio di maschi arrapati che mi guardavano. Poi, però, avevo accettato di farlo, se non altro per aiutare il mio amico, e ormai era diventata una routine: non ci avrei mai preso gusto, ma almeno mi ci ero abituata e riuscivo anche a divertirmi insieme alle mie amiche.

 

“Okay, a chi tocca, ora?” chiese Arthur, inserendo l’ennesima monetina nel vecchio juke-box del locale.
“Oh, a me, a me!” urlò Lizzie, saltellando per richiamare l’attenzione del ragazzo.
“D’accordo, la canzone di Lizzie” acconsentì lui, premendo un pulsante e un istante dopo le note di I Feel Lonely, una divertente canzonetta di un tedesco semisconosciuto che rispondeva al nome di Sasha, riempirono il locale ormai vuoto.
“I feel lonely lololonely…” cantava la mia amica, mentre asciugava i bicchieri che le passavo e tutti ridevamo vedendola così partecipe e concentrata.
“Bene. Adesso tocca a Joey” proposi, al termine della canzone.
“Sicuro” rispose Bridget, mettendo un’altra moneta nel juke-box e facendo partire la canzone dei Bon Jovi che si intitolava, appunto, Joey.
Il ragazzo sorrise, benevolo, e scoppiò a ridere quando abbandonammo tutti le nostre occupazioni per cantare in coro la strofa che faceva “Joey’s parents owned a restaurant, after closing time they’d give us almost anything we’d want…”.
Ogni sabato, al termine della serata, ci fermavamo per dare una mano a Joey a risistemare e uno dei nostri passatempi preferiti consisteva nel trovare le canzoni che più si addicevano a ognuno di noi. Quella dei Bon Jovi, per esempio, era proprio perfetta per il nostro amico, che aveva ereditato quel locale dai genitori, che l’avevano gestito per più di trent’anni prima di ritirarsi.
“E adesso è il turno della nostra Becky” concluse Joey, facendo partire l’ennesima canzone. Sorrisi, sapendo cosa mi aspettava, e iniziai a cantare con entusiasmo sulle note di Bad Reputation, specialmente la mia strofa preferita, che faceva “And I don’t really care if I’m strange, I ain’t gonna change…” e, secondo i miei amici, mi descriveva particolarmente bene.

 

“Ehi, Becky” mi richiamò Lizzie, dopo esserci salutate sulla porta del mio appartamento.
“Sì?” domandai, voltandomi.
“A che ora ti aspetto, domani?”
Strabuzzai gli occhi “Scusa?”
“Per aggiustarti i capelli, no?” spiegò lei, tranquilla.
Sorrisi. “Suonami il campanello quando torni da lavoro così mi consigli anche cosa mettermi” proposi e lei annuì, entusiasta.
“Allora, domani rivedi Craig, eh?” chiese Joey, prima di salutarmi.
Annuii “Già”.
“Non mi sembri troppo entusiasta” commentò.
“No, no” mi affrettai a precisare “lo sono. È solo che…beh, è tutto così strano”.
“Strano? Cosa c’è di strano a uscire con un ragazzo?” chiese lui, perplesso.
“Nulla, di per sé” spiegai. “Ma ci conosciamo appena”.
“Appunto!” ribatté il mio amico “Gli appuntamenti dovrebbero servire proprio a conoscersi, sai?” mi fece notare.
Sorrisi. “Sì, hai ragione. Mi sto facendo un sacco di paranoie per nulla. In fondo è solo una cena”.
“Già, solo una cena” concordò Joey.
“Tra amici” aggiunsi io.
“Tra…beh…” farfugliò, preso in contropiede.
“Buonanotte Joey” lo salutai, interrompendo le sue macchinazioni mentali, e lui scoppiò a ridere, augurandomi sogni d’oro.

 

“Allora, che ne dici?” chiesi, speranzosa.
“Sei uno schianto” commentò Lizzie, sorridendo alla mia immagine riflessa nello specchio.
Mi diedi un’ultima occhiata e constatai che non aveva tutti i torti. Il rosa mi aveva sempre donato e l’idea di abbinare quella maglia con lo scollo a barchetta a una camicia nera, in modo da poter indossare le mie solite ballerine sotto ai jeans era stata vincente. Lizzie, poi, aveva fatto un ottimo lavoro raccogliendomi i capelli dietro la nuca in una treccia, che mi scendeva sulle spalle, mescolandosi agli altri, che avevo lasciato sciolti.
Sorrisi. “Bene. Augurami buona fortuna, Liz”.
“Spacca tutto, Becky!” esclamò lei, entusiasta.
Il rumore di un clacson, in strada, ci avvertì che il mio taxi era arrivato così afferrai la borsa e il cappotto e uscii, salutando Romeo e la mia amica.
“Magari quando torno passo a raccontarti com’è andata” proposi.
“Ah…ehm…io…non so se…” farfugliò Lizzie, cambiando colore.
Mi bloccai di colpo a guardarla.
“Non sai cosa?” domandai, insospettita.
“Non so se mi trovi” spiegò lei.
“Esci?” mi informai.
Lizzie annuì, abbassando lo sguardo.
“Appuntamento?”
“Una specie”.
“Qualcuno che conosco?” tentai, sperando di farle sputare il rospo.
“Può darsi…”.
“Chi è, Liz?” insistetti, controllando l’orologio per accertarmi di non essere troppo in ritardo.
“Will” rispose lei, continuando a guardarsi i piedi.
“Cosa? William?” sbottai. “Il nostro William?”
“Quanti altri William conosci?” commentò lei, rassegnata.
“Ma…ma…” farfugliai. “Come diavolo…?”
“Niente! Mi ha chiesto di uscire e ho accettato, tutto qui” minimizzò.
Restai a guardarla a bocca spalancata. Miliardi di domande affollavano la mia testa, ma non riuscii a formularne nemmeno una perché il clacson suonò di nuovo, segno che il tassista stava iniziando a spazientirsi.
“Devo andare” sentenziai.
“Già” disse la mia amica.
“Ma non pensare di cavartela così, questa ma le spieghi” la minacciai, prima di correre di sotto.

 

Arrivai al Conrad Hotel ancora sotto shock dalla rivelazione della mia amica tanto che, quando Craig mi venne incontro sorridendo e mi salutò con un bacio sulla guancia, realizzai solo in parte quello che stava succedendo e riuscii a restare relativamente calma.
“Scusa il ritardo” dissi, non appena riacquistai l’uso della parola. “Ho avuto una discussione con una mia amica”.
“Niente di grave, spero”.
Scossi la testa. “No, assolutamente. È solo che ho scoperto che esce con un mio amico e…Dio! Non riesco ancora a crederci” spiegai.
Il ragazzo mi rivolse uno sguardo perplesso.
“Non hai capito niente, vero?” azzardai.
“Ehm…temo di no” confessò. “Ma sono convinto che il mio cervello lavorerà meglio davanti a una bella cenetta”.
Sorrisi. “Ne sono convinta” commentai. “A proposito, dove andiamo?”
“Oh, sei mai stata al Chelsea Kitchen?” chiese.
Scossi la testa.
“Beh, Sean dice che si mangia piuttosto bene e ho deciso di fidarmi”.
“D’accordo, fidiamoci di Sean!” esclamai. “Almeno, nel caso la cucina facesse schifo, potremo prendercela con qualcuno” scherzai, facendo ridere Craig, dopodiché chiamammo un taxi e andammo al locale.

“Quindi, fammi capire…la tua amica Lizzie, che fa la parrucchiera, stasera esce con il tuo amico William, che lavora in borsa, e non ti aveva detto niente” ricapitolò Craig, bevendo un ultimo sorso di vino.
Annuii “Esatto”.
“Visto? Te l’avevo detto che tutto sarebbe stato più facile, a stomaco pieno” scherzò lui.
Sorrisi. Era incredibile come quel ragazzo, che mi conosceva appena, si interessasse così alle mie faccende che, paragonate alla sua vita piena di avvenimenti e gente importante, dovevano sembrargli ben poca cosa.
“Chissà, magari sono amanti segreti da un pezzo e tu non te n’eri mai accorta” ipotizzò.
Spalancai gli occhi. “No!” sbottai e poi, dopo aversi pensato su un istante “Oppure si?”
Craig rise.
“A me è successo qualcosa di molto simile con il mio amico Michael” raccontò. “Vedi, lui è sposato con la sorella di Sean, Tanya, adesso, ma nessuno si era accorto che si frequentavano finché una mattina non l’abbiamo beccata a sgattaiolare di soppiatto fuori dalla stanza d’albergo di Michael”.
“E credi che anche per Lizzie e Will sia così?” domandai, scioccata.
“Beh, potrebbe anche essere” osservò lui, facendo spallucce. “Comunque, fossi in te, non mi ci romperei la testa. Queste tresche non durano mai troppo, verrai a saperlo presto”.
“Com’è che sei così esperto?” lo canzonai.
“Oh, beh, lo diventeresti anche tu se fossi costretta a vivere con quei curiosoni dei miei amici. Non gli si può nascondere nulla” spiegò
“Quindi sanno che sei a cena con me” azzardai.
“Non gliel’ho detto direttamente, ma credo proprio che abbiano capito” confessò.
“Non te la prendere. In fondo me l’hai detto tu, sarebbero comunque venuti a saperlo, prima o poi” cercai di consolarlo.
“Nel loro caso, meglio poi che prima” commentò.

Non mi era mai capitato di stare così bene con un ragazzo, o, meglio, l’unica volta che mi era successo era stato con Joey e lui non contava. Craig era veramente speciale come mi era sembrato all’inizio e, sebbene quella fosse solo la terza volta che ci vedevamo, incluso il giorno dell’intervista, mi sembrava di conoscerlo da una vita e sentivo di potergli parlare di tutto senza sentirmi in soggezione. Non sembrava affatto un cantante famoso, non si atteggiava a rock star e non dava sfoggio della sua ricchezza in alcun modo. Mi faceva sentire a mio agio come solo Joey sapeva fare. Non credevo che sarei mai arrivata a pensare una cosa simile, ma mi sarebbe tanto piaciuto poter avere anche solo una piccola speranza con lui. Eppure, sapevo che erano solo sciocchezze, non si sarebbe mai accorto di me, non in quel modo, almeno. Anche se il suo atteggiamento me ne faceva dimenticare, dovevo tenere a mente che era pur sempre un cantante ricco, famoso e dannatamente affascinante, seppur non di quella bellezza quasi perfetta, mentre io ero soltanto una povera orfanella dell’East End che giocava a fare l’inviata per un giornale importante e, soprattutto, che la mia vita non seguiva il copione di Notting Hill.

“Odio l’inverno, fa troppo freddo” si lamentò Craig, scendendo dal taxi di fronte all’albergo e tenendo la portiera aperta per salutarmi.
“Io invece trovo che il Natale sia il più bel periodo dell’anno” replicai, con aria sognante. “Le luci, gli addobbi, le vetrine piene di regali, le canzoncine in ogni negozio…sembra il paese dei balocchi” sentenziai, entusiasta.
“È bello che ti piaccia il Natale. Voglio dire, credevo che, non avendo i genitori, odiassi questo periodo” disse, gentilmente.
“Per molti è così, infatti, ma io credo di aver superato brillantemente la cosa” lo rassicurai.
“A proposito, che farai a Natale?” mi domandò, nascondendo le mani nelle tasche.
“Credo che lo passerò con Joey e Lizzie, come al solito. In mancanza di una famiglia, ce ne ricreiamo una tra di noi. Tu che farai, invece?”
“Oh, me ne tornerò a Inverness dalla mia famiglia. È un po’ che non li vedo”.
“Fai benissimo” commentai. “Quando partirai?”
“La vigilia di Natale, credo. Prima devo fare un po’ shopping natalizio”.
“Anch’io devo ancora comprare tutti i regali. Pensavo di andarci domani” annunciai e poi, assecondando un’idea improvvisa “Mi fai compagnia?” proposi. “Se non hai impegni, ovviamente”.
Craig sorrise e io mi ritrovai a pensare a quanto fosse dannatamente carino quando i suoi occhioni blu scintillavano in quel modo.
“Sarebbe magnifico” disse solo.
“D’accordo” dissi, non riuscendo a credere alle mie orecchie. “Allora ci vediamo domani alle tre all’ingresso di Harrod’s, okay?”

Lui annuì e ci salutammo con un bacio sulla guancia.

 

Scusa il ritardo, sono stato trattenuto da alcune fan” mi giustificai, arrivato da Harrod’s, salutando Rebecca con un bacio sulla guancia.
“Figurati. Il lavoro prima di tutto” minimizzò lei. “E poi, nemmeno io ero puntuale. Lizzie mi ha finalmente raccontato tutto” annunciò.
“Davvero? Allora?” chiesi, curioso.
“Beh, a quanto pare era da un po’ che aveva messo gli occhi su William, ma quello di ieri sera è stato il loro primo appuntamento che, a sentire lei, è andato piuttosto bene. A parte quando lui le ha rovesciato la salsa al guacamole sul vestito” riassunse, ridacchiando. “Comunque usciranno ancora il prossimo weekend e Lizzie spera seriamente in un’evoluzione”.
Sorrisi, compiaciuto e, ancora una volta, mi stupii di come quelle persone sconosciute mi interessassero così seriamente soltanto perché erano importanti per quella ragazza così speciale che mi stava vicino. All’inizio credevo si trattasse soltanto di attrazione fisica ma, più stavo con lei, più mi accorgevo che il feeling che si era creato tra di noi era davvero speciale. Con lei potevo essere me stesso, senza aver paura di farlo nel modo sbagliato, ed era una sensazione bellissima. Facevo una tremenda fatica ad ammetterlo, ma stavo iniziando a provare qualcosa di più che una semplice simpatia per Rebecca e avevo una tremenda paura che per lei non fosse lo stesso e di restare deluso. Decisi di non pensarci e godermi quel pomeriggio di shopping in sua compagnia.
“Allora, da che parte iniziamo?” chiesi, entrando nei grandi magazzini.
Rebecca ci pensò su un attimo, poi propose “Che ne dici del reparto profumeria? Devo comprare un profumo a Joey”.
Annuii. “Andata. Così mi aiuti anche a sceglierne uno per mia madre. Sono una frana, non ci azzecco mai”.

Che ne dici di questo?” domandai, facendole annusare una fragranza fruttata che mi ero spruzzato sul polso.
“Non so…non mi convince” disse lei, storcendo il naso.
“Forse è un po’ troppo dolce?” azzardai.
“Sì, forse” commentò, distratta e poi, afferrando una confezione di Hugo Boss “in ogni caso non ce lo vedo proprio su tua madre”.
“Come fai ad esserne così sicura? Voglio dire, non l’hai nemmeno mai vista” osservai.
“Sì invece” ribatté lei, sorridendo “Hai la sua foto nel portafoglio, vero?”
Restai a bocca aperta. Non credevo che l’avesse notato.
“Allora cosa proponi?”
“Fossi in te cambierei decisamente genere”.
“Cioè?”
“Se con i profumi non sei stato fortunato, perché non le compri qualcos’altro? Che ne dici di un gioiello?” propose.
Ci pensai un attimo. “Sì, potrebbe essere un’idea” decisi.
“D’accordo. Pago questo e poi andiamo insieme al reparto gioielli a scegliere un bel paio di orecchini per tua mamma. Mi è sembrato di vederglieli nella foto, giusto?”
Non risposi, ero troppo scioccato dal suo spirito di osservazione.

 

Stavamo aspettando che il commesso incartasse gli splendidi orecchini che Craig aveva comprato per sua madre e intanto davamo un’occhiata intorno, chiacchierando del più e del meno.
“A me, per esempio, piace questo” dissi, indicando un ciondolo con diamante che luccicava dietro al vetro del bancone.
“Beh, dici niente!” mi canzonò lui, scoppiando a ridere.
“Potendo scegliere, punto al meglio” mi giustificai.
“A me invece piace quel braccialetto” sentenziò, tranquillo.
“Quale?” domandai, non riuscendo a capire a cosa si riferisse.
“Quello semplice che sembra una catena” mi spiegò, indicandomelo.
“Per tanto così prendi la catena della mia bicicletta! È tua, se vuoi” scherzai, guadagnandomi una linguaccia.
Era incredibile come io e Craig andassimo d’accordo. Ovviamente avevamo gusti e opinioni differenti, ma sapevamo accettarci e anche prenderci affettuosamente in giro.
“Propongo una pausa caffè” disse, mettendomi un braccio intorno alle spalle e guidandomi verso il bar. Io non risposi, mi limitai ad annuire, sorridendo, pensando che, se solo Lizzie e Bridget mi avessero vista, avrebbero sicuramente detto che provavo una certa simpatia per Craig. Il che, ad essere sinceri, era vero.

 

Ehi, guarda! Quello è Arthur!” esclamò Rebecca, raggiante, indicando un cartellone che pubblicizzava uno shampoo per capelli.
“Chi?” chiesi, perplesso, fissando il ragazzo moro che mi stava indicando.
“Il mio amico attore” spiegò, bevendo un sorso di caffè.
Restai a fissarla, sbalordito.
“Ma quanti amici hai, tu?” domandai.
“Solo quelli di cui ti ho parlato” minimizzò lei, facendo spallucce.
“Vediamo un po’ se mi ricordo bene…” proposi, appoggiando la tazzina sul tavolino di uno dei bar che si trovavano all’interno dei grandi magazzini. “C’è Lizzie, la parrucchiera, William, che lavora in borsa, Arthur, attore, e la sua ragazza Bridget…e poi c’è Joey, che ha un pub” elencai, contandoli sulle dita.
Rebecca annuì, soddisfatta. “Sei stato bravissimo. Ora tocca a me” iniziò. “C’è il tuo vecchio amico Simon, poi Sean, che sta con quell’attrice, Brenda mi pare. Poi il tastierista, Paul, e Micheal, marito della sorella di Sean”.
“Tanya, esatto” conclusi, compiaciuto.
Rebecca sorrise, soddisfatta e restò un istante persa nei suoi pensieri mentre io mi chiedevo invano cosa diavolo le stesse passando per la testa poi, improvvisamente, se ne saltò fuori con “A proposito, sai che mi sono comprata tutti i vostri CD?”
“Davvero?” chiesi, scioccato, e lei annuì.
“Sì, volevo vedere che tipo di musica era. Sai, senza limitarmi ai pezzi trasmessi in radio” spiegò.
“E…?” insistetti, curioso. Speravo tanto che la nostra musica le piacesse, non mi era mai importato così tanto di essere apprezzato per il mio lavoro.
“Beh, non ve la cavate niente male, sai?” commentò, sorridendo.
Tirai un sospiro di sollievo. “Meno male! Credevo ti avessero fatto schifo” confessai.
“No,” mi rassicurò lei, ridendo “affatto”.
“Bene. Vorrà dire che ti farò avere un biglietto per venirci a vedere in concerto, allora” proposi. “Con molto piacere!” acconsentì lei, felice.

 

Tornai a casa molto soddisfatta del pomeriggio passato con Craig e, mentre mettevo i pacchetti con i regali dei miei amici sotto all’albero di Natale, mi ritrovai a fischiettare, sotto lo sguardo divertito di Romeo, che non era abituato a vedermi fare certe cose. Arrossii e, sorridendo, esclamai “Possibile che passare qualche ora con lui mi renda così felice?”
Capivo che era assurdo, ma non potevo farci niente. Craig mi piaceva e mi piaceva ancora di più stare con lui. Era divertente, ironico e premuroso e non mi faceva mai sentire a disagio. Raccolsi una piccola scatolina rettangolare impacchettata con una carta rossa e sorrisi, rigirandomelo tra le mani. Appena salutato Craig, all’uscita di Harrod’s, mi ero precipitata dentro di nuovo per andare a comprargli quel braccialetto che gli piaceva e per cui l’avevo tanto preso in giro. Avevo già in mente di fargli un regalo, se non altro per ringraziarlo di tutte le gentilezze che usava nei miei confronti, e quello mi era sembrata la scelta più giusta. Avrei lasciato passare qualche giorno e poi l’avrei chiamato chiedendogli di vederci, così avrei potuto dargli il regalo. Ero così eccitata! Mi sentivo una quindicenne alla prima cotta cosa, peraltro, assurda perché io non mi ero affatto presa una cotta per Craig. Mi piaceva, vero, ma solo perché stavo così bene con lui. Sì, se, in un mondo ipotetico, mi avesse chiesto di sposarlo, probabilmente non ci avrei pensato due volte ad accettare, ma era una situazione talmente assurda da risultare quasi ridicola, quindi inutile perdere tempo a pensarci. Meglio tornare con i piedi per terra, alla mia vita di sempre. Rimisi a posto il pacchetto e andai in cucina a preparare la cena, con Romeo che mi trotterellava allegramente dietro.

Oggi vi lascio un capitolo un po' fluffoso, dove Becky e Craig iniziano a fare conoscenza, e ne approfitto per augurare a tutti buon weekend! Se non sapete cosa fare e vi va di lasciare un commento, mi fa piacere.

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Capitolo 4
*** CHAPTER 4 – Merry Christmas Baby (Mark Feehily) ***


Sollevai la cornetta del telefono e presi un respiro profondo. Potevo farcela, lo sapevo.
‘D’accordo, Becky, ora piantala di fare la stupida e fai quel numero’ mi dissi ma, appena digitata la prima cifra, ci ripensai e feci cadere la linea.
Ero in ufficio e stavo tentando di chiamare Craig da un’ora per proporgli un aperitivo quella sera. Morivo dalla voglia di vederlo e di dargli il regalo che avevo comprato per lui, ma non mi andava di farlo così, senza motivo apparente. Dovevo trovare un scusa qualsiasi, prima. Sì, ma cosa?
‘Ciao, volevo solo provare se il nuovo telefono dell’ufficio funziona e tu sei la prima persona che mi è venuta in mente’
Nah, patetico.
‘Ehi, Ciao. Mi sono accorta proprio ora che stasera devo passare dalla parti del Conrad’
Sì, e per fare cosa? No, non andava nemmeno questa.
Stavo quasi per perdere le speranze, quando il mio capo bussò alla porta, dicendo che doveva parlarmi.
“Senti Becky, abbiamo qualche problema con la stampa della sezione degli annunci musicali del prossimo numero. Dato che l’anno è quasi finito, avevamo pensato di pubblicare le date di tutti i concerti che si terranno qui a Londra il prossimo anno, sai, una specie di calendario per i lettori appassionati” mi spiegò.
Annuii, seria, aspettando che arrivasse al punto “Però ci siamo accorti proprio ora che ci mancano le date del tour dei Drummers”.
“E io come posso aiutarti?” domandai, perplessa.
“Beh, so che sei amica di uno del gruppo e pensavo che, magari, potresti chiedergliele in anteprima” azzardò.
Sorrisi.
“Okay, nessun problema. Stavo giusto per chiamarlo” farfugliai e, non appena Jo lasciò il mio ufficio, composi senza problemi il numero di Craig, ringraziando silenziosamente il mio capo per avermi trovato la scusa che cercavo.

 

Stavamo uscendo dagli studi di ITV, per cui avevamo registrato un’apparizione, quando il mio cellulare iniziò a squillare. Lo presi dalla tasca e guardai il display. Numero sconosciuto. Stavo per ricacciarmelo in tasca senza rispondere, quando cambiai idea, pensando che, magari, poteva trattarsi di mia madre che mi chiamava dall’ufficio.

Pronto” risposi.
“Ciao Craig” salutò una voce allegra che mi sembrò di riconoscere.
Non poteva essere lei. Oppure sì?
“Ehm…” farfugliai, cercando di guadagnare tempo.
“Non mi riconosci? Sono Rebecca” si presentò.
Sorrisi. Non mi ero sbagliato.
“Ti avevo riconosciuta, solo mi sembrava troppo bello per essere vero” confessai, scansando un paio di fan che chiedevano l’autografo e andando dritto a sedermi in auto.
“Non gioire, ti chiamo per chiederti un favore” annunciò.
“Non importa. Intanto mi hai chiamato ed è già un passo avanti. Su, vediamo se posso aiutarti”.
“Il mio capo vorrebbe pubblicare le date dei concerti di tutti gli artisti che si esibiranno a Londra il prossimo anno, ma non è riuscito a trovare le vostre” spiegò.
“E tu vorresti che te le dicessi, vero?” ipotizzai.
“Esatto. Se puoi, ovviamente” precisò lei, in imbarazzo.
“Ma certo, nessun problema. Non è mica un segreto di stato. Aspetta solo che chiedo conferma a Sean, non vorrei dartele sbagliate” acconsentii e, dopo aver confabulato un attimo con il mio amico, gliele comunicai.
“Benissimo. Grazie mille, Craig” esclamò lei, entusiasta.
“Figurati. Ah, dimmi poi in quale di questi giorni vuoi venire a vederci, così ti tengo da parte un biglietto in prima fila” proposi.
“Okay, te lo farò sapere” disse lei e poi, dopo un istante, aggiunse “A proposito, c’è un’altra cosa che volevo chiederti”.
“Dimmi pure” la spronai.
“Mi piacerebbe vederti, prima che tu parta, per…beh, per augurarti buon Natale” farfugliò.
Sorrisi al pensiero di rivederla.
“Sai, anche a me farebbe piacere rivederti prima di Natale” dissi, serio.
“Allora, che ne dici se passassi da te in albergo per un aperitivo, prima di cena?” propose.
Annuii. “Ottima idea! Ti aspetto questa sera, allora”
“D’accordo, a dopo” mi salutò e riagganciai sorridendo, tanto che i miei amici iniziarono a prendermi in giro e a torturarmi finché non confessai il motivo di tanto entusiasmo.

 

Tornai a casa più tardi dall’ufficio, quella sera, e trovai Joey ad aspettarmi sul pianerottolo.
“È questa l’ora di arrivare?” mi rimproverò.
“Perché? Mica è tardi” mi giustificai.
“Tecnicamente no, ma in pratica è un’ora che ti aspettiamo” mi fece notare e, improvvisamente, mi ricordai che era giovedì.
“Dio, Joey! La cena” esclamai, dandomi una manata sulla fronte.
“Esatto” disse lui “non so come tu abbia fatto a dimenticartene”.
“Beh, è che ho visto Craig, dopo il lavoro e…” tentai di spiegare, ma fui interrotta dal mio amico che, sorridente, chiese “Davvero?”
Annuii. “Sì, ci siamo scambiati i regali di Natale”.
“Ti ha fatto un regalo anche lui?” domandò ancora, incuriosito.
“Già” risposi, mostrandogli la scatola che tenevo sotto il braccio.
“Wow!” commentò lui, eccitato “Qualcosa mi dice che questo Natale io e Lizzie ci divertiremo più del solito”.
Scoppiai a ridere a quella stupida affermazione, mentre già mi immaginavo i miei amici che facevano a gara per aprire il pacco di Craig al posto mio.
“Comunque su, posa la roba e vieni a cena. Philip ha fatto il suo puree di patate speciale. E non vedrà l’ora di sapere anche lui del regalo” concluse, sparendo in casa.

 

Era la mattina di Natale e, come al solito, Lizzie e Joey erano venuti a svegliarmi prestissimo, per essere i primi a farmi gli auguri. Inutile protestare spiegandogli che, tanto, non c’era nessun altro che me li faceva, quindi sarebbero comunque stati i primi, non c’era verso di farglielo capire. Io non avevo mai conosciuto i miei genitori, Joey era rimasto orfano anni prima e Lizzie era stata letteralmente buttata fuori di casa quando suo padre era morto e la sua matrigna aveva deciso che non era più compito suo occuparsi di lei quindi, essendo gli unici tre delle banda a non avere nessuno con cui festeggiare il Natale, avevamo preso l’abitudine di farlo tra di noi e non avrei cambiato quella situazione con tutte le famiglie del mondo.
“Uffa! E’ quasi ora?” chiese Lizzie, impaziente.
“Dipende” risposi, dalla cucina “è già finito Mamma ho perso l’aereo?”
“Non ancora” mi informò Joey.
“Beh, ma quasi!” insistette la mia amica.
“Non è vero, mancano ancora tre o quattro scene” replicò Joey.
“Ma io voglio aprire i regali!” piagnucolò Lizzie.
“Non se ne parla, Liz. Sai quali sono i patti” la rimproverai.
“I regali si aprono solo alla fine del film, lo so” cantilenò lei, seccata.
“Tieni, intanto mangia questi” proposi, mettendole in mano un’enorme ciotola di pop-corn che, se non riuscirono a consolarla, per lo meno le fecero tenere la bocca chiusa.

Dopo nemmeno un quarto d’ora, il film terminò e lasciammo che Lizzie fosse la prima ad aprire i regali, senza tirare a sorte, come facevamo di solito. La mia amica distrusse la carta e fu entusiasta sia del phon professionale di Joey, sia del ciondolo etnico che le avevo preso io, e anche la maglia di Philip e il CD di Arthur e Bridget ottennero un grande successo, anche se non furono nulla paragonati agli orecchini che le aveva regalato William. Poi fu il turno di Joey, che fu molto felice di ricevere un flacone del suo profumo preferito da me, una camicia sportiva da Lizzie, un libro di cucina italiana da Philip, una macchina per fare il cappuccino, di cui andava pazzo, da William e un cesto con una bottiglia di champagne francese e una scatola dei suoi cioccolatini preferiti da Arthur e Bridget. Arrivato il mio turno, aprii per primo il regalo di Lizzie, che non stava più nella pelle, e fui molto felice del set per il bagno alla menta che aveva scelto. Poi scartai il pacco di Philip, che si era lanciato su una maglia di cachemire rosa. Philip aveva sempre avuto un gran gusto per i vestiti e anche questa volta non si era smentito. William mi regalò un nuovo lettore DVD, dato che quello che avevo aveva dato forfait un mese prima, mentre Arthur e Bridget avevano scelto per me una macchina per fare il gelato in casa, sapendo che era l’unica cosa per cui andassi veramente pazza. Avevo lasciato di proposito per ultimo il regalo di Joey e quasi non riuscivo a credere ai miei occhi quando trovai una guida della Scozia, un biglietto aereo con date da stabilire e un voucher per alloggiare in bed&breakfast per una settimana.
“Sono mesi che dici di volerci andare, ora basta soltanto che il capo ti dia le ferie” si giustificò al mio sguardo scioccato.
Mentre i miei amici avevano finito i regali, a me mancava ancora un pacchetto da aprire e sapevo che Joey e Lizzie non aspettavano altro, perché si trattava del regalo di Craig e stavano letteralmente morendo di curiosità. Tolta la carta, mi trovai davanti una scatola che lasciava poco spazio all’immaginazione.
“È un cellulare!” esclamò Lizzie, sorpresa.
Io annuii, stupita, e lo fui ancora di più nel trovare un biglietto appoggiato proprio sopra al telefono:

Mi sembrava brutto relegarti nell’1% che p fare a meno del cellulare.

Mi sono permesso di memorizzarti il mio numero. Adesso non hai più scuse.

Buon Natale.

Craig”

Sorrisi, sotto lo sguardo divertito dei miei amici, a cui avevo fatto leggere il messaggio, dopodiché mi alzai da terra.
“Dove vai?” chiese Lizzie.
“Chiamo Craig” annunciai, decisa.

 

Mi ero appena seduto a tavola con la mia famiglia, dopo il consueto rito dell’apertura dei regali, e stavo ancora pensando a come, tra tutti, quello che mi aveva fatto più piacere ricevere fosse il braccialetto che mi aveva preso Rebecca. Era stata così carina a ricordarsi che mi piaceva e l’idea di portare qualcosa che mi aveva regalato lei al polso mi provocava una sensazione così piacevole che avevo deciso all’istante che non l’avrei più tolto. Stavo per addentare il leggendario pollo arrosto di mia madre, quando il mio cellulare iniziò a squillare e, nonostante le maledizioni che gli mandai, non accennava a smettere, tanto che fui costretto a scusarmi con i miei per andare a rispondere.
“Pronto” dissi, in tono leggermente seccato.
“Ehm…Craig?” chiese una voce nervosa.
“Sì, chi parla?” indagai.
“Ma come, non mi riconosci neanche stavolta?”
Improvvisamente collegai la voce al viso e non riuscii a fare a meno di sorridere.
“Non ci posso credere” commentai. “Aspetta un po’…” e, dopo aver dato un’occhiata fuori dalla finestra, aggiunsi “Mi hai chiamato eppure non nevica. Ci dev’essere qualcosa che non va” scherzai, facendola ridere.
“Volevo solo augurarti buon Natale” spiegò “e ringraziarti per il regalo. Sei stato veramente carino”.
“Figurati. Quel regalo aveva un doppio fine. Adesso posso rintracciarti sempre” confessai.
“Beh, doppio fine o no, mi ha fatto davvero molto piacere” disse, semplicemente.
“Anche a me ha fatto molto piacere il tuo braccialetto” la ringraziai.
“Sono contenta. Scommetto che ti piace” mi canzonò.
“Non so. Non ne sarei più così sicuro” sentenziai, prendendola in giro ma, non ottenendo risposta, mi affrettai a precisare “Stavo scherzando”.
“Che stai facendo?” le chiesi, desiderando per un momento di essere con lei:
“Oh, sono qui con Joey e Lizzie, abbiamo guardato Mamma ho perso l’aereo, come ogni Natale, e poi abbiamo aperto i regali. Adesso, se è pronto, andiamo a mangiare. Pollo arrosto e patatine” spiegò.
“Ma dai, che coincidenza! Anch’io sto mangiando pollo arrosto” osservai.
“Scommetto che il tuo è mille volte migliore del nostro” commentò lei, ridendo e, subito dopo “A proposito, scusa se ti ho disturbato mentre eri a pranzo. Anzi, fai le mie scuse anche alla tua famiglia. Non mi è proprio passato per la mente che potessi essere a tavola”.
“Ma figurati, non è niente. E poi non avevo ancora iniziato” la rassicurai.
“Beh, comunque adesso ti lascio andare. Ci sentiamo dopo le feste, okay?” propose.
“D’accordo. Ah, guarda che ci conto” la minacciai e lei mi salutò, ridacchiando.

Tornai a tavola che stavo ancora sorridendo come un cretino e mi trovai addosso gli sguardi interrogativi dei miei genitori e dei miei fratelli che, ovviamente, volevano sapere con chi stessi parlando.
Feci un enorme sorriso e annunciai “Mentre mangiamo, vi racconto una cosa che mi è successa qualche mese fa. Dovevo fare un’intervista per un periodico e mandano ad intervistarmi questa strana ragazza…”.

 

 

Ero nel mio ufficio e stavo mangiando uno yogurt alla nocciola, mentre buttavo giù un articolo sul computer, quando il cellulare squillò. Capii subito che si trattava di un messaggio e, senza staccare gli occhi dallo schermo, lo presi dalla borsa, certa che si trattasse di Joey che si divertiva a stressarmi. Quando aprii la bustina e lessi il nome di Craig, feci cadere rumorosamente a terra il cucchiaino che ancora tenevo in bocca e iniziai a sudare freddo. Premetti ‘okay’ e lessi il messaggio:

Ciao

Restai a fissare lo schermo per qualche istante. Ciao? Tutto qui? Non ci sentivamo da Natale, mi aspettavo chissà cosa e, invece, solo ciao. In ogni caso, premetti il tasto per la risposta e, senza rifletterci troppo, scrissi a mia volta:

Ciao

Passò qualche minuto, dopodiché il cellulare squillò di nuovo e, aperto l’ennesimo messaggio di Craig, lessi:

Volevo vedere se avevi imparato a mandare i messaggi

Sorrisi e, divertita, risposi:

Mi ha insegnato Joey

Era vero. Ci aveva impiegato un pomeriggio intero ma alla fine ce l’aveva fatta e, grazie ai ventimila messaggi che mi mandava ogni giorno per farmi fare pratica, ero diventata bravissima.

Dopo qualche minuto, mi arrivò la risposta:

Devo ricordarmi di ringraziarlo, allora.
Glielo faccio sapere io, tranquillo. Magari gli mando un messaggio

scherzai.

Avevi detto che mi avresti chiamato e non l’hai fatto. Qual è la scusa, questa volta?

mi chiese, con l’intento preciso di mettermi in imbarazzo.
Arrossii, anche se non mi poteva vedere:

Lo so, scusami. Sono stata presa dal lavoro

confessai.
E non era una balla, ero stata veramente molto impegnata, tornavo tardi e non riuscivo a trovare un minuto libero per fare nulla. Ormai stavo iniziando a conoscere Craig e mi aspettavo un’altra presa in giro, invece:

Troppo occupata anche per un caffè?

Domandò.

Siete in città?

mi informai.

Io. Gli altri sono a casa

spiegò.

Sei in albergo?

mi dispiaceva l’idea di saperlo lì da solo anche se, probabilmente, ci era abituato.

No, sto a casa di Sean. Ha un appartamento a Fulham

Sorrisi. Almeno non era solo.

Dove esattamente?

chiesi.
Craig dovette restarci parecchio sorpreso perché stette sul vago, così cercai di essere più precisa:

Mi dai l’indirizzo?

Ci mise un attimo prima di rispondere:

Perché?

Indagò.

Altrimenti come faccio a passare per il caffè?

Due secondi dopo mi arrivò un messaggio con l’indirizzo dell’appartamento di Sean, le indicazioni su che campanello suonare e il commento:

Ti aspetto.

 

Ehi” salutò Sean, vendendomi uscire dalla stanza degli ospiti, che occupavo.
“Ciao” ricambiai, abbottonandomi un polsino della camicia.
“Hmm…camicia bianca!” commentò lui, divertito. “Esci?”
Scossi la testa. “No”.
“Come mai così elegante, allora?” chiese.
“Ho una specie di appuntamento” confessai.
“Ma…se hai appena detto che…” farfugliò Sean, confuso.
Sorrisi. “Infatti non esco, viene lei qui” spiegai.
“Davvero?” esclamò il mio amico, rizzandosi a sedere.
Io annuii.
“E si può sapere di chi si tratta?”
“Rebecca” risposi, dando un’occhiata all’orologio.
“Rebecca…la giornalista?” domandò ancora Sean e io annuii nuovamente.
“Wow! Finalmente conoscerò la famosa ragazza che ha fatto perdere la testa al mio amico Craig” sentenziò, eccitato.
“Non ho perso la testa per lei” mi difesi.
Era una palla. In realtà Becky mi piaceva, e molto anche. Mi era piaciuta fin dal primo momento che l’avevo vista e le cose non avevano fatto altro che migliorare. O peggiorare, a seconda della prospettiva. Sean era mio amico e sapevo di potermi fidare di lui, però ero sempre stato un tipo piuttosto riservato e facevo fatica a parlare dei miei sentimenti, così preferii negare. Sean mi rivolse uno sguardo scettico, che faceva chiaramente capire che non se l’era bevuta, ma, da persona discreta qual era, decise di non infierire e si alzò per versarsi un bicchiere di succo d’arancia, limitandosi a commentare “Già, certo”.
Pur essendo tentato di ribattere per chiarire la cosa, mi imposi di lasciar perdere e andai in bagno a spruzzarmi un po’ di profumo. Quando uscii, Sean arricciò il naso e, sforzandosi di non ridere, disse “Infatti hai fatto il bagno nel profumo per me, vero?”.
In quel momento, il campanello di casa suonò e il mio amico si beccò soltanto un’occhiataccia, invece che un paio di insulti.
“Comportati bene, per favore” lo pregai, prima di andare ad aprire.
Lui annuì. “Non ti preoccupare, sarò un vero gentleman”.

 

Dopo aver controllato per l’ennesima volta le istruzioni che mi aveva dato Craig, mi decisi a suonare il campanello che corrispondeva a un fantomatico Mr. Brown. Con mio sommo sollievo, sentii la voce di Craig che rispondeva e mi avvisava di non prendere l’ascensore perché era guasto. Salii alcune rampe di scale, finché non trovai Craig che mi aspettava davanti alla porta aperta.
“Ciao” lo salutai, sorridente.
“Ciao” ricambiò lui, dandomi un bacio sulla guancia, come faceva sempre. “Stanca?” chiese, notando il fiatone.
“Un po’,” confessai “non ho più il fisico per certe cose!”
“E a casa tua come fai, scusa?” si informò lui, stupito.
Sorrisi. “Abito al primo piano” spiegai. “Come sei elegante, oggi” osservai, mentre mi faceva strada nell’appartamento.
“Trovi?” chiese lui, sorpreso.
Annuii. “Molto”.
“Non è niente di che,” minimizzò, con un’alzata di spalle “sarà la camicia bianca che ti dà questa idea”.
“Non starlo a sentire, ha passato mezz’ora in bagno, prima che tu arrivassi” sentenziò una voce proveniente dalla cucina.
Mi voltai a guardare e notai un viso sorridente che faceva capolino dalla porta e che riconobbi come appartenente al ragazzo biondo che era venuto a chiamare Craig il giorno dell’intervista. Doveva essere Sean.
“Ciao” mi salutò, tendendomi la mano. “Piacere di conoscerti”.
“Piacere mio…Mr. Brown” scherzai, alludendo al campanello.
Il ragazzo scoppiò a ridere. “Già…dovrei decidermi a cambiarlo, eh?”
Scossi la testa. “No, lascialo! Non credevo esistessero veramente i Mr. Brown al di fuori delle barzellette” commentai.
“Beh, come avrai capito, lui è il mio amico Sean” spiegò Craig “e lei è Rebecca” aggiunse, rivolto al ragazzo.
“La famosa Rebecca” disse lui, sorridendo.
“Sono già diventata famosa?” domandai, incuriosita.
“Craig parla sempre di te” mi confidò, strizzandomi l’occhio.
Guardai Craig e vidi che lanciò un’occhiataccia all’amico.
“Bene. Sean, non credi di avermi già messo abbastanza in imbarazzo, per oggi?” azzardò. “Non hai qualcosa di terribilmente urgente da fare?”
Sean finse di pensarci su un attimo, poi rispose, con molta naturalezza “A dire la verità no. Sto aspettando che arrivi Brenda”.
“La sua ragazza” mi rammentò Craig.
“Quindi, mi dispiace per te, ma mi sa proprio che dovrai sopportarmi” concluse il ragazzo, sorridendo.
Craig sospirò poi, rivolgendomi uno dei suoi splendidi sorrisi, chiese “Ti va un caffè?”
“Sì, grazie” risposi.
“A me non lo chiedi?” si intromise Sean, facendo l’offeso.
Craig lo guardò seriamente. “No. Se vuoi il caffè puoi alzare il culo e fartelo” lo canzonò.
Il ragazzo mi rivolse uno sguardo shockato. “Hai sentito?” chiese. “È questo il suo modo per ringraziarmi dell’ospitalità”
“Oh, ma piantala!” lo liquidò Craig, con un gesto della mano.
Alla fine, però, preparò il caffè anche per lui e ci sedemmo tutti a berlo, io e Craig sul divano e Sean sulla poltrona di fronte alla TV.

“…ed è stato bellissimo perché, dopo avergli detto di accennare quella vecchia canzone dei Rollong Stones, lui se ne scende dalle nuvole e mi chiede ‘Adesso?’. Davanti a 5.000 persone, capisci?”
Scoppiai a ridere. “Ma dai, non ci credo!”
“Ti giuro che è vero!” insistette Sean.
“E tu cosa dici a tua discolpa?” chiesi a Craig che, sospirando, rispose “Mi appello all’articolo…qualche cosa…e parlo solo in presenza dei miei avvocati, perché tanto so che qualsiasi cosa dica potrebbe essere usata contro di me”.
Stavamo ancora ridendo per questa sua uscita, quando il campanello suonò di nuovo e Sean si alzò per andare ad aprire, annunciando “Dev’essere Brenda”.
Qualche minuto dopo, una bellissima ragazza castana entrò in casa e salutò Sean con un bacio.
“Ciao tesoro” le disse lui e, accompagnandola in salotto, mi presentò “Lei è Rebecca, un’amica di Craig”.
“Tanto piacere” esclamò la ragazza, stringendomi la mano.
“Piacere mio, Brenda”.
“Allora, tu sei la giornalista di cui ci ha parlato Craig, giusto?” chiese.
Annuii. “Già. Spero vi abbia parlato bene” dissi, lanciando un’occhiata al ragazzo, che sorrise.
“Oh, ma certo! Anzi, lascia che ti dica che, da quando ho saputo quello che hai fatto, sei diventata la mia eroina” confessò, facendomi arrossire.
“Adesso…eroina…non ho fatto niente di così speciale, credimi. Più che altro sono stata una grande incosciente”.
“Beh, alla fine ti è andata bene, no? Adesso lavori per un giornale importante” fece notare Sean.
“Com’è che dice il proverbio? Non tutto il male viene per nuocere’” commentai.
“Stavo raccontando a Rebecca qualche episodio simpatico” spiegò Sean, tornando dalla cucina con un bicchiere di succo d’arancia per la sua ragazza.
“In realtà stava cercando di rendermi ridicolo” precisò Craig.
“Oh, Sean! Smettila di prendere in giro Craig” lo rimproverò Brenda. “Non è affatto carino che tu ti diverta a metterlo in imbarazzo davanti a una ragazza”.
Craig diventò paonazzo. “Grazie dell’aiuto, Brenda” si affrettò ad interromperla. “Comunque, io e Rebecca ce ne stavamo andando, vero?”
Lo guardai, perplessa. Davvero ce ne stavamo andando? Non me n’ero accorta.
“Già” farfugliai, alzandomi, non appena capii che si trattava di un diversivo. “Grazie mille del caffè e tanto piacere di avervi conosciuti, ragazzi” salutai.
“Spero di rivederti presto, Becky” disse Sean, salutandomi con un bacio sulla guancia e, dopo un istante, aggiunse “Posso chiamarti Becky, vero?”
Annuii. “Certo che puoi. Anzi, mi farebbe piacere se iniziasse a farlo anche il tuo amico” dissi, indicando Craig. “Nessuno mi chiama Rebecca, nemmeno il mio capo”.
“Ciao Becky, mi ha fatto piacere conoscerti e spero anch’io di rivederti presto. Magari potremmo andare a fare shopping insieme, una volta” propose Brenda.
“Sarebbe carino” concordai. “Fatti dare il mio numero da Craig, okay?”

La ragazza annuì e, recuperati i cappotti, io e Craig togliemmo il disturbo.

“Scusami” disse lui, non appena restammo soli. “Mi dispiace averti trascinata via così, ma rischiavo di uscirne davvero male”.
Sorrisi. “Non fa niente, stai tranquillo” lo rassicurai. “I tuoi amici sono veramente simpatici ma, alla fine, ero venuta a trovare te” confessai, facendolo sorridere.

“Allora, sono piaciuti gli orecchini a tua madre?” domandai, mentre passeggiavamo per un parco della zona.
“Moltissimo. Ma ha scoperto subito che non li avevo scelti io. Erano troppo azzeccati”.
“Mi dispiace” farfugliai.
“Ma figurati! Anzi, ti ringrazia”.
“Mi ringrazia?” ripetei, perplessa.
Craig annuì. “Era stufa di ricevere profumi che le facevano schifo”.
Scoppiammo entrambi a ridere poi, senza riflettere, dissi “Mi diverto con te”.
Craig si fermò di colpo e restò imbambolato a fissarmi, tanto che mi spaventai e chiesi “Ho detto qualcosa di male?”
“No, nulla…”.
“Allora perché mi guardi così?”
“È che…davvero?” chiese.
“Davvero cosa?” domandai a mia volta, e lui spiegò “Davvero con me ti diverti?”
Annuii. “Certo. C’è forse qualcosa di strano?”
“No, però non me l’aveva mai detto nessuno” confessò, timidamente.
“Beh, te lo dico io. E sono orgogliosa di essere la prima” sentenziai.

 

Già. Sei anche la prima che mi fa sentire così’ pensai, sentendo il battito accelerato del mio cuore ma, nonostante tutto, mi imposi di restare calmo.
“A questo punto, per essere carino, avresti dovuto dire che anche tu ti diverti con me” mi fece notare, scherzando.
Sorrisi. “Credevo che fosse sottinteso” osservai.
“Ah sì? E perché dovrebbe, scusa?” chiese lei, perplessa.
“Ti pare che ti chiederei sempre di vederci, altrimenti?” spiegai e lei sorrise, compiaciuta.
“Vieni qui” dissi, allargando le braccia. “Ti meriti un abbraccio”.
Becky sorrise e si avvicinò , in modo da farsi stringere in un bell’abbraccio, il primo che ci fossimo mai scambiati.
“Certo che mi diverto con te” confessai. “Non sono mai stato così bene con qualcuno in vita mia”.
Ancora sorridendo, Becky mi prese per mano e commentò “Allora, forse dovremmo vederci un po’ più spesso”.

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Capitolo 5
*** CHAPTER 5 - Captain Crash and the Beauty Queen from Mars (Bon Jovi) ***


Stavo preparandomi un’insalata per cena, quando sentii il segnale di messaggio ricevuto del mio cellulare. Come prevedibile, era Craig. Dopo che ero stata a trovarlo a casa del suo amico Sean, ci eravamo rivisti molte altre volte e ci sentivamo così spesso che, ormai, potevo quasi dire di conoscerlo tanto quanto conoscevo Joey. La mia simpatia per lui cresceva sempre di più e ormai era inutile che fingessi indifferenza, mi ero presa una terribile cotta per Craig. A forza di vederci e sentirci, quella semplice cotta si stava trasformando in qualcosa di molto serio, qualcosa che non avevo mai provato prima.

Che fai?

Sorrisi. Niente di che, ovviamente, quello famoso con un’intensa vita sociale era lui, ma mi faceva comunque piacere che volesse saperlo.

Sto preparando la cena

scrissi.

Oh, Dio! Devo chiamare i pompieri?

mi prese in giro lui

Ah, ah. Spiritoso. Non ce n’è bisogno, sto solo facendo un’insalata

spiegai.

Okay, allora posso stare tranquillo. Sei sola?

chiese.

Con Romeo

Romeo?

Il mio gatto

gli ricordai.

Spero che tu abbia preparato qualcosa di meglio che un’insalata a lui

scherzò.

Al posto di preoccuparti dei fatti miei, dimmi un po’ che stai facendo tu?

cercai di cambiare discorso.

Mi sto preparando per uno show televisivo. A proposito, camicia bianca o nera?

ci pensai un attimo.

Bianca

risposi, sicura, ricordando quanto era bello il giorno che ci eravamo visti da Sean.

Sicura?

chiese conferma.

Sì.

Allora mi fido. Ora devo andare. Magari ti chiamo più tardi, okay? Buon appetito!

Posai il telefono con il sorriso sulle labbra e, continuando a pensare a Craig, mi sedetti a tavola, iniziando a mangiare l’insalata. Dopo la seconda forchettata, però, mi accorsi che c’era qualcosa che non andava e, facendo mente locale, realizzai di non averla condita.
“Dio! Sono un disastro” mi lamentai, attirando perfino l’attenzione di Romeo. “Possibile che Craig mi faccia questo effetto?”
Evidentemente sì.

 

Era domenica mattina e io ero ancora a gingillarmi a letto, quando sentii il materasso muoversi, ma non ci feci troppo caso, pensando che fosse Romeo. Un istante dopo, un intenso profumo mi invase le narici. Era profumo di… “Brioche!” esclamai, spalancando gli occhi.
“Sorpresa” disse Joey, sventolandomene due appena sfornate davanti al naso.
Mi misi a sedere e, con mio grande stupore, trovai un vassoio con due tazze di caffè, appoggiato alla sedia che tenevo accanto al letto.
“Wow! Colazione a letto” osservai, compiaciuta.
Joey sorrise. “Già. Oggi mi sento buono” si giustificò e, dopo essersi tolto le scarpe, si infilò sotto alle coperte con me e iniziammo a fare colazione.
“Senti, pensavo che oggi potevamo andare a farci un giretto in centro, io e te” propose il mio amico.
“Sì, bell’idea!” risposi, annuendo entusiasta.
“Ti porto a comprare qualche vestito nuovo”.
“Perché? Che hanno quelli vecchi che non va?” chiesi, offesa.
“Niente. Però, sai, magari a Craig farebbe piacere vedere qualcosa di nuovo, di tanto in tanto” azzardò, simpaticamente. “Anche se sono convinto che forse preferirebbe vederti senza” aggiunse.
“Joey! Cosa ti viene in mente” lo rimproverai, indignata.
“Beh? Che c’è di male? È un ragazzo” si giustificò.
“Appunto! Un ragazzo, non un maniaco” precisai e il mio amico non fece in tempo a rispondere, perché il mio cellulare si mise a squillare e fui costretta a rispondere.
“Pronto” dissi, senza guardare il nome sul display e ingoiando velocemente l’ultimo pezzo di brioche.
“Ciao” disse una voce profonda all’altro lato.
“Craig!” esclamai, sorpresa e anche Joey si alzò e venne accanto a me.
“Ti ho svegliata?” si preoccupò.
“No, figurati. Stavo facendo colazione” lo rassicurai.
“Ah, peccato” commentò lui.
“Peccato? Perché?” domandai, incuriosita.
“Perché avevo intenzione di offrirtela io, qui in albergo” confessò.
“Siete in città?”
“Sì, da venerdì”.
“E non me l’hai detto?” lo rimproverai.
“Siamo stati parecchio occupati, scusa” si giustificò.
“Dai, per stavolta ti perdono” scherzai, ma Craig non rise alla battuta, al che iniziai a pensare che ci fosse qualcosa che non andava.
“Craig, che hai?” chiesi.
“È successo un casino”.
“Che genere di casino?” mi informai.
“Qualcuno non si è fatto tutti gli scrupoli che ti sei fatta tu a pubblicare bugie su di me” spiegò. “Che genere di bugie?” indagai.
“Esattamente le stesse per cui ti sei fatta licenziare”.
“Ah…” fu tutto quello che mi venne da dire e poi, riprendendomi “Ma…andiamo! Tutti sanno che non è vero”
“Vista la ressa di fotografi e giornalisti che si è accalcata sotto all’albergo, non ne sarei tanto sicuro”.
“Mi dispiace”.
“Già” fece lui.
“Posso fare qualcosa?” domandai.
Craig restò un attimo in silenzio, poi propose “Vieni a trovarmi? Sono bloccato in albergo da solo e mi annoio. Ti offro il pranzo, dato che la colazione l’hai già fatta”.
Sorrisi. Mi sarei subito precipitata, se solo non…
“Aspetta un attimo” lo bloccai e, coperto il microfono con una mano, mi rivolsi a Joey “Senti, ti dispiacerebbe proprio tantissimo se rimandassimo il nostro giro di shopping alla prossima domenica?”
“Non tenterei di tagliarmi le vene, se è questo che ti preoccupa” ironizzò lui. “Perché?”
“Emergenza,” risposi “poi ti spiego”. “Craig?”
“Dimmi”.
“Mi cambio e arrivo” annunciai.
“Davvero?”
“Sì” confermai.
“Grazie Becky. Te l’ho mai detto che ti adoro?” esclamò.
“Non di recente, non mi pare”.
“Beh, adesso lo sai. Non vedo l’ora di vederti”.
“Anch’io ho voglia di vederti” confessai, sentendo le guance avvamparmi.
“Dico alla reception di farti passare”.
“Okay”.
“Ci vediamo”.
“A dopo” salutai.

“Craig, eh?” chiese Joey, addentando un pezzo di brioche, non appena ebbi riagganciato.

Annuii, affrettandomi ad andare a cambiarmi. Il mio amico mi seguì, incurante della privacy.
“Emergenza, eh?” domandò, ancora.
“Già” risposi, infilandomi i jeans.
“Che genere di emergenza?”
“Una cosa seria” farfugliai.
“Immagino. Serissima” mi canzonò lui. “Gli è morto il pesce rosso, per caso?”
Gli lanciai un’occhiataccia.
“Ne avrai per tutto il giorno?” si informò.
“Non ne ho idea. Può darsi”.
“Quindi a Romeo devo pensare io”.
“Te ne sarei grata” lo pregai.
“D’accordo,” acconsentì lui “ma solo se, quando torni, corri a raccontarmi tutto!”
Gli tirai una sberla sul braccio e corsi fuori, afferrando borsa e giubbotto.

 

Mollai il motorino nel primo parcheggio libero che riuscii a trovare e mi precipitai all’albergo, andando dritta alla reception.
“Buongiorno” esclamai, sorridente. “Può dirmi in che stanza è il signor C…” ma fui gentilmente interrotta dalla signorina che, venendomi incontro e prendendomi per un braccio, si affrettò a rassicurarmi “Ma certo, venga con me. La sta aspettando”.
In quel momento capii di aver fatto una sciocchezza. Ovviamente Craig non voleva che si sapesse che qualche ragazza andava a trovarlo in camera. Con tutto il casino che già era successo, era proprio l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Che cretina che ero.
“Chiedo scusa per i modi un po’ bruschi, signorina, ma il signor MacLuis ha raccomandato la massima discrezione” si giustificò la ragazza, mentre eravamo in ascensore.
Scossi la testa. “Si figuri. Sono io che dovrei scusarmi, piuttosto. Sono così stupida. E pensare che ho anche visto le frotte di giornalisti che assediano l’hotel”.
“Non me ne parli, sono qui da stamattina e, nonostante il signor MacLuis non abbia messo il naso fuori dalla sua stanza, non vogliono saperne di andarsene” mi spiegò.
“Dev’essere seccante” osservai.
“Lo è,” mi informò “ma mai quanto dev’esserlo per il povero signor MacLuis. È una così brava persona, mi dispiace che sia costretto a starsene barricato in camera per colpa di gente senza scrupoli che ha messo in giro fandonie sul suo conto”.
Sorrisi. Allora non ero l’unica a pensarla in quel modo.
“Bene, siamo arrivate” annunciò, conducendomi verso una porta. “Stanza 43”.
“Grazie mille…ehm…il suo nome?”
“Laura”
“Laura. È stata gentilissima” e, dopo averla salutata, bussai.
Immediatamente, l’inconfondibile voce di Craig chiese “Chi è?”
“Servizio in camera” risposi, camuffando la voce.
“Ma io non ho ordinato niente” si lamentò.
“Io non ne sarei così sicura” insistetti.
Ci fu un attimo di silenzio, dopodiché sentii un rumore di passi che si avvicinavano e, mentre faceva girare la serratura della porta, il mio amico che ribatteva “Guardi, non per essere scortese, ma le assicuro che…Becky!” esclamò, appena mi vide.
“Te l’ho detto che avevi ordinato qualcosa” obiettai, sorridendo.
“Che bello vederti” esclamò, abbracciandomi. “Finalmente una faccia amica”.
“Non credo di essere l’unica sai?”
“Ah, no? Chi altro?” domandò, incuriosito, facendomi entrare e richiudendo la porta.
“Laura, la tipa della reception. Credo che tu abbia fatto colpo” lo informai.
“Buono a sapersi” commentò ironicamente lui.
“Perché? Le hai già messo gli occhi addosso, per caso?” indagai.
“No, ma può sempre tornare utile nel caso mi servisse qualche favore. Userò tutto il mio charme”.
“Ma piantala!” lo canzonai, tirandogli una pacca sul braccio.
“Allora, che si fa?” chiesi, togliendomi il cappotto e buttandolo sulla sedia della scrivania.
“Non ne ho idea” rispose Craig, facendo spallucce.
“Quindi siamo bloccati qui dentro senza niente da fare?” domandai.
“Beh, c’è la tv” propose. “Possiamo guardare un film”.
“Okay. C’è qualcosa di divertente?”
“Non so, ora vediamo. Anzi, facciamo così, guarda tu, io intanto ordino qualcosa da mangiare. Non potendo uscire di qui, non posso offrirti un pranzo come si deve, ma spero che ti piaccia la pizza”.
Sorrisi. “A chi non piace?”
Anche Craig sorrise e afferrò il telefono, felice, mentre io consultavo la guida della pay tv per la lista dei film a disposizione.

La scelta cadde su Come d’incanto commediola a lieto fine su una principessa delle favole catapultata nel mondo reale, che che fa innamorare un bel padre single. Il film di per sé non era nulla di speciale, ma l’attore era Patrick Dempsey, famoso come il Dottor Derek Shepherd del telefilm Grey’s Anatomy.
“Lo sai che questo attore ha recitato anche in altro film molto divertente uscito qualche anno fa?” dissi a Craig.
Lui scosse la testa.
“No. Non sono informato sui film, non ho mai tempo per andare al cinema” mi spiegò. “Che genere di film era?”
“Oh, una commedia romantica dove lui era il testimone di nozze della sua migliore amica, della quale, però, era segretamente innamorato. La parte più divertente è quella delle nozze. Il futuro sposo è scozzese e vanno a sposarsi là” spiegai. “Non so perché ma ho un debole per quel film” confessai.
Craig tornò a fissare lo schermo per qualche secondo, dopodiché mi rivolse uno sguardo divertito, mentre commentava “Allora devi avere un debole per la Scozia e gli scozzesi. Il film, io…”.
Questa volta fui io a guardarlo con aria divertita.
“Cosa ti fa pensare che io abbia un debole per te?” indagai.
Lui mi sorrise e si sedette comodo di fronte a me, segno che aveva accettato la sfida che gli avevo lanciato.
“Dunque,” iniziò “per esempio sei uscita con me un paio di volte, se non erro, mi hai fatto un bel regalo a Natale…” e mi agitò davanti al naso il polso sinistro, dove teneva il braccialetto che gli avevo regalato “…ti sei precipitata qui non appena ti ho chiesto aiuto e…fammi pensare…che altro?” si interruppe, fingendo di riflettere. “Ah, sì! Quasi dimenticavo un piccolo e insignificante dettaglio: ti sei fatta licenziare per me” concluse, senza staccarmi gli occhi di dosso.
Non riuscendo a evitarlo, arrossii ferocemente e, per tentare di nascondere almeno in parte il colorito acceso delle mie guance, distolsi lo sguardo.
“Beh, sì” ammisi, ridacchiando nervosamente. “Forse un pochino hai ragione. Diciamo che hai trovato una buona amica” precisai, senza sbilanciarmi.
Craig sorrise, soddisfatto di aver vinto quella piccola battaglia, poi chiese “Ci sono forse altri deboli di cui dovrei essere a conoscenza?”
“Vediamo…” iniziai a pensare. “Ho un debole per il mio amico Joey, ma credo di avertene già accennato”.
“Sì, vagamente” minimizzò lui, prendendomi in giro. Parlavo sempre di Joey, era troppo speciale per me.
“Oh, sì! Ci sono!” esclamai, a un tratto “Ho un debole per i film con le principesse”.
“I film con le principesse?” ripeté lui, incredulo, e io annuii. “Sì, tipo questo” spiegai.
“Perché?”
“Non c’è un perché preciso, credo che, inconsciamente, sogni…”
“…di essere un principessa?” azzardò il mio amico, incuriosito.
Scossi la testa. “No. Cioè, sì”.
“No o sì?” chiese Craig, piuttosto confuso.
“Sì, ma non per sempre. Mi piacerebbe poter essere una principessa per un giorno soltanto, così da poter indossare tutti quei bei vestiti, farmi quelle acconciature da favola e avere a disposizione un cameriere personale che mi porti da mangiare tutto quello che mi passa per la testa” confessai, arrossendo un po’. “Lo so che è da bambine, però…sai, dalle suore stavo bene ma, per esempio, non ho mai avuto una di quelle Barbie con quei bellissimi vestiti da sera per far finta di andare al ballo. Forse avrebbe aiutato e adesso non avrei questi stupidi desideri repressi” tentai di giustificarmi.
Con mia grande sorpresa, Craig scosse la testa.
“Non sono desideri stupidi” sentenziò, serio e poi, sorridendo, aggiunse “Ti confesso una cosa. Sai qual è stata la prima cosa che mi sono comprato quando ho iniziato a guadagnare con i Drummers?”
Scossi la testa, confusa.
“Una jeep”.
“Una jeep?” ripetei.
“Esatto” rispose lui.
“Cosa c’è di strano?” insistetti, non riuscendo a capire.
“Vedi, da piccolo ho sempre sognato che i miei mi regalassero una di quelle jeep giocattolo che vanno sul serio ma, essendo in tre, se la regalavano a me, avrebbero dovuto prenderla anche ai miei fratelli, se no avremmo finito per litigare tutto il tempo e, dato che non navigavamo nell’oro, non me l’hanno mai comprata e mi è rimasto quel desiderio che, ovviamente, crescendo si è ingrandito. Così, appena ho potuto, mi sono comprato una jeep vera, in barba a tutti i bambini che si vantavano di avere quella giocattolo” spiegò, facendomi ridere. “È la stessa cosa per te con la Barbie principessa. Non l’hai mai avuta e, ora che sei cresciuta, vorresti essere tu una principessa, per compensare”.
“Teoria interessante, Craig, ma c’è un piccolo problema: diventare principessa non è facile come comprare una jeep” gli feci notare.
Improvvisamente, un enorme sorriso si allargò sulla sua faccia.
“Che hai?” chiesi. “Mi metti paura quando fai così”.
“Se riesco a farti diventare principessa per un giorno, inizieresti ad avere un debole per me?” domandò, senza scomporsi.
“Diciamo che potrei prendere in considerazione la cosa” farfugliai, vagamente preoccupata da quello che stava architettando la mente diabolica del mio amico.
“D’accordo, tu mettiti comoda e goditi il film, io intanto faccio qualche telefonata” concluse, lasciandomi senza parole.

 

Ero in bagno quando il telefono suonò e sentii Craig rispondere e dire “Oh, benissimo. Li mandi su”.
“Cos’è che devono mandare su?” chiesi, appena uscita, ma Craig non fece in tempo a rispondere perché sentimmo bussare alla porta.
“Apri, tanto è per te” mi spronò, mettendosi comodo.
“Per me?” ripetei, incuriosita e, senza riflettere, aprii la porta, trovandomi davanti due uomini e una ragazza bionda, tutti carichi di borse e pacchi.
“La signorina Rebecca?” chiese uno di loro.
“Sì, sono io” risposi, confusa.
“Benissimo” commentò l’uomo e poi, rivolto al suo compare “Non è un amore, Greg? Guarda che visino!”
“Oh, sì Luke, è proprio uno zuccherino. Non vedo l’ora di trasformarla”.
“Chiedo scusa…chi…cosa…?” farfugliai, sempre più confusa.
“Tranquilla, Becky” intervenne Craig in mio aiuto, facendo entrare il gruppetto. “Ti presento Greg e Luke, sono personal stylist” disse, mentre io stringevo la mano ai due uomini. “E Lucy, la miglior parrucchiera di Londra” concluse, sorridendo alla ragazza bionda. “Sono qui per farti diventare una principessa” spiegò, lasciandomi a bocca aperta.
“Io…wow!” furono le uniche parole che riuscii a pronunciare.
Craig sorrise e, rivolto a Greg, aggiunse “Mi serve pronta per le 8. Ce la fate?”
“Ma certo” gli assicurò l’uomo.
“Siamo dei professionisti” puntualizzò Luke.
“Benissimo, allora” sentenziò il mio amico. “La affido a voi” e, rivolto a me “Ti lascio in buone mani, stai tranquilla” mi rassicurò.
“Dove vai?” domandai, vedendo che prendeva il cappotto.
“Devo sbrigare alcune faccende, sarò di ritorno per le 8” e, sottovoce “Se avessi bisogno di me per qualsiasi cosa, ho il cellulare” dopodiché mi diede un bacio sulla guancia e sparì, lasciandomi in balia dello strano terzetto.
Mi voltai e rivolsi a tutti un sorriso rassicurante.
“Allora, sei pronta tesoro?” chiese Luke, appoggiandomi le mani sulle spalle.
Io annuii, incerta, ma lui sorrise ed esclamò “Bene, iniziamo!” e capii di non avere più scampo.

 

Sentii suonare il telefono della stanza e Lucy che rispondeva, assicurando che sarei scesa subito, e mi guardai allo specchio un’ultima volta, prima di raggiungere Craig. Non riuscivo a credere a quello che vedevo. L’immagine che lo specchio rifletteva non ero io, era una principessa. In effetti era quello lo scopo, rammentai sorridendo. Controllai che l’acconciatura fosse in ordine e mi sistemai meglio un ciuffo di capelli dietro all’orecchio, dopodiché lisciai il bellissimo vestito giallo oro che indossavo, assicurandomi che il nastro intrecciato che lo teneva chiuso sulla schiena fosse ben stretto e ammirando come i minuscoli strass di cui era coperto brillassero alla luce. Ero stata a lungo combattuta nella scelta dell’abito con un fantastico vestito di seta rosa ma, alla fine, avevo optato per questo perché mi ricordava tantissimo il vestito del cartone Disney La bella e la bestia e dovevo ammettere che mi stava bene. Merito anche della parure collana, orecchini e braccialetto di ambra che Luke aveva fatto spuntare come dal nulla. Presi un respiro profondo e mi decisi ad uscire.
“Oh, tesoro!” esclamò Greg, vedendomi. “Sei una favola”
“Sorridi” mi disse Luke, prima di flasharmi in faccia per scattare una foto.
“Chiedo scusa” si giustificò, vedendomi sbattere furiosamente gli occhi. “Sono solito immortalare i lavori meglio riusciti e tu sei proprio un incanto” spiegò.
“Grazie” farfugliai, sorridendo e cercando di raggiungere la porta a tentoni.
“Craig ti aspetta di sotto” mi annunciò Lucy, accompagnandomi. “Buona fortuna!”
‘Ne avrò bisogno” mi ritrovai a pensare, mentre raggiungevo la hall con l’ascensore.

 

Quando le porte dell’ascensore si aprirono e la vidi uscire, il cuore iniziò a martellarmi nel petto. Dio, era bellissima! Se ancora avessi avuto qualche dubbio sui sentimenti che, da un po’ di tempo, mi ero accorto di provare per lei, sarebbero comunque svaniti come una bolla di sapone al solo vederla così magnifica.
“Ciao” mi salutò, avvicinandosi.
“Ciao” risposi, sforzandomi di far riprendere la salivazione che si era bruscamente interrotta. “Sei splendida” confessai, facendola arrossire.
“Grazie. Anche tu sei molto elegante” osservò lei, notando il mio completo nero.
“Bene, andiamo” dissi, prendendola per mano. “La limousine ci aspetta”.
“Limousine?” ripeté lei, sorpresa.
Sorrisi. “Già. Purtroppo i cavalli bianchi erano terminati” scherzai, cercando di metterla a suo agio.

Uscimmo dalla porta sul retro ma, anche così, fummo assaliti dai flash dei fotografi. Istintivamente, le misi una braccio intorno alle spalle, cercando di coprirle il viso. Volevo con tutto me stesso continuare a frequentarla e, se il mio sogno si fosse avverato, non avrei potuto nasconderla per sempre dalla stampa ma, almeno per quella sera, volevo provare a proteggerla dall’assalto dei tabloid. Avrebbero comunque scritto che Craig dei Drummers era uscito dall’albergo in compagnia di una ragazza ed erano saliti su una limousine, ma almeno non avrebbero saputo di chi si trattava.
“Al Levantine” dissi all’autista, quando entrambi fummo seduti comodi.
“Il Levantine?” chiese lei, eccitata, mentre le versavo un bicchiere di champagne.
Annuii.
“Hai prenotato un tavolo al Levantine?” insistette, incredula.
Scossi la testa. “No, non ho prenotato un tavolo al Levantine” dissi, serio.
“Oh” fece lei, leggermente delusa.
“Ho prenotato il Levantine” conclusi, con un mezzo sorriso e lo stupore che si dipinse sul suo viso sarebbe valso anche diecimila Levantine.

 

Mi sedetti al tavolo, lasciando che il cameriere mi aiutasse con la sedia, dopodiché guardai Craig.
“Allora, che si mangia?” gli chiesi, sorridente.
“Tutto quello che vuoi” disse lui.
“Scusa?”
“A te la scelta. Chiedi qualsiasi cosa ti venga in mente e te la porteranno” mi spiegò.
“Qualsiasi cosa?” mi accertai, ancora poco convinta.
Craig annui.
“D’accordo. Allora…mi piacerebbero dei crostini con burro e salmone, se è possibile” tentai.
Il cameriere fece un cenno d’assenso e, con un inchino, sparì in cucina, lasciandoci soli.
“Ottima scelta” si complimentò Craig, ma io richiamai la sua attenzione prendendogli una mano.
“Craig, grazie”.
“Per me è un piacere, principessa” disse lui, sorridendo e il mio cuore mancò un battito.
Non ero mai stata tipo da lasciarmi andare facilmente con i ragazzi, ma con Craig veniva tutto così spontaneo. Ogni minuto che passava, mi innamoravo sempre di più.
“Però, c’è una piccola clausola da rispettare” mi informò.
“Ah, sì? Cioè?” domandai, incuriosita.
“Beh, dato che io ho fatto la parte della fata madrina e ti ho trasformata in principessa, a te toccherà la parte di Cenerentola, quindi…”
“...quindi al dodicesimo rintocco della mezzanotte tutto questo sparirà, ho indovinato?” azzardai.
Craig sorrise. “Più o meno” e, al mio sguardo interrogativo, aggiunse “Ho tentato di far sincronizzare il Big Ben solo per noi ma, chissà perché, non hanno accettato, così ho dovuto limitarmi a qualcosa di molto meno romantico ma altrettanto efficace”.
“E sarebbe?” chiesi.
“La sveglia del mio cellulare” confessò, facendomi scoppiare a ridere.

 

“Altro dessert, principessa?” chiese il cameriere, portandomi via il piatto vuoto.
Scossi la testa. “No, grazie. Anche volendo, non credo che dopo la torta pere e cioccolato ci starebbe ancora qualcosa” confessai, facendo ridere Craig di gusto.
“Non ho un aspetto molto regale, vero?” domandai, quando riuscimmo a calmarci.
“No, perché? Te la sei cavata alla grande finora” mi rassicurò. “E il vestito ti sta benissimo” aggiunse.
Sorrisi. “Ti confesso una cosa. L’ho scelto perché mi ricordava quello di Belle ne La bella e la bestia” dissi, ridacchiando.
“Davvero?” Craig fece una smorfia. “E suppongo che io sarei la bestia”.
“Ehm…” farfugliai, sforzandomi di non scoppiare a ridergli in faccia, ma fu proprio lui a iniziare per primo, quindi gli feci semplicemente compagnia.
“Beh, possiamo anche essere la Sirenetta e il principe Eric, se preferisci” proposi poi.
“Già meglio” commentò lui. “Oppure Fred e Ginger”.
“Ma io non so ballare” osservai.
“Neppure io” confessò lui, ridendo.
“Altre proposte?” domandai, sghignazzando.
“Bonnie e Clyde? Ti va?”
“Dobbiamo proprio?” piagnucolai.
“No, era una coppia come un’altra” si giustificò Craig, “A questo punto perché non Superman e Lois Lane?” azzardò, iniziando a divertirsi.
“Non ti sembra un po’ troppo ambizioso?”
“Perché?”
“Tu non sei un super eroe” gli feci notare.
“Già, vero anche questo” ammise.
“Che ne dici di John Lennon e Yoko Ono? Almeno lui era un musicista, come te” proposi.
“Lui sarà anche stato un musicista, e anche molto bravo,” osservò Craig, con una faccia schifata “ma lei non è questa gran bellezza. Invece tu…voglio dire, ti sei vista stasera?”
“Okay, d’accordo” acconsentii, arrossendo e, dopo averci pensato su un attimo “Ci sono! Capitan Crash e la bella regina di Marte” esclamai, raggiante.
“Chi, scusa?” chiese Craig, strabuzzando gli occhi.
“Capitan Crash e la bella regina di Marte” ripetei, serena.
“E che razza di coppia è?” si informò.
“È una canzone dei Bon Jovi” spiegai.
“Mai sentita”.
“Fidati, è la coppia migliore del mondo” sentenziai. “Se ascolti la canzone, mi darai ragione”.
Craig restò in silenzio per qualche secondo. “Non ne dubito,” disse “e lo farò appena tornato in albergo. Quindi io dovrei essere Capitan Crash?” mi domandò, indeciso.
Io annuii, sorridendo.
“E presumo che tu sarai…”
“…la bella regina di Marte, esatto” conclusi, felice.
“E, esattamente, cosa farebbero Capitan Crash e la bella regina di Marte?” chiese Craig, interessato.
“Beh, non lo so” farfugliai. “Presumo quello che fanno tutte le coppie” azzardai, cercando di mantenermi sul vago.
“Tipo andare a cena” iniziò ad elencare.
“E mi pare che l’abbiamo fatto, no?”
“Fare due chiacchiere” continuò lui.
“Fatto anche questo, direi”.
“Ridere”.
“Abbiamo riso tanto”.
“Scherzare”.
“Non abbiamo fatto altro” commentai.
“Ballare”.
“Lascerei perdere”.
“Dici?” chiese lui.
Annuii. “Sì, saltiamo direttamente al passaggio successivo”.
“Bene” acconsentì, sporgendosi leggermente sul tavolo in modo da avvicinarsi a me. “Suppongo che il passaggio successivo dovrebbe essere un bacio. Che ne dici?”
“Direi...di sì” riuscii a balbettare, nonostante l’imbarazzo e l’eccitazione crescenti.
“Okay. Allora adesso Capitan Crash bacerà la bella regina di Marte” annunciò Craig, prendendomi il viso tra le mani.
Chiusi gli occhi, preparandomi a quel bacio tanto atteso ma, proprio nel momento in cui le sue labbra stavano per sfiorare le mie, sentimmo il ‘bip’ insistente di un allarme e riaprimmo entrambi gli occhi.
“Che cos’è?” domandai, spaventata.
“Temo che sia la sveglia del cellulare” rispose lui, togliendo le mani dal mio viso e allontanandosi per spegnerla.
“È già mezzanotte?”
“Così pare”.
“Non me ne sono proprio accorta, sai? Il tempo è volato” osservai.
“Già” concordò lui e, dopo un istante “Mi dispiace” si scusò. “Se vuoi possiamo far finta che questa stupida sveglia non sia mai suonata”.
Scossi la testa e sorrisi.
“No, lascia stare. Anche la fiaba va così, si vede che è destino che la seguiamo fino in fondo” commentai, alzandomi.
Craig sorrise e, prendendomi per mano, disse “Vieni, Cenerentola. Ti accompagno a casa”.

 

Salutato Craig, salii lentamente i gradini che conducevano al mio appartamento, pensando a quanto eravamo stati sfortunati. Quella stupida sveglia doveva suonare proprio in quel momento? E pensare che Craig stava per baciarmi. Me, una insignificante ragazza dell’East End. Infilai la chiave nella toppa e sospirai. Si vede che era proprio destino che seguissimo la storia di Cenerentola fino alla fine. Pazienza, ci sarebbero state altre occasioni. Almeno era quello che speravo.
Girai la maniglia e feci per entrare quando una voce profonda alle mie spalle mi fece sobbalzare, esclamando “Cosa credi di fare, principessina? Non ti permetterò di entrare nell’appartamento della mia amica Becky!”
“Per la miseria, Joey!” sbottai, voltandomi di scatto, spaventata.
“Becky? Ma sei tu?” chiese lui, studiandomi.
“Sì che sono io, chi credevi?”

“E che ne so io? Un ladro camuffato da principessa, forse” confessò. “A proposito, come diavolo ti sei conciata?” domandò, prendendo in braccio Romeo che, sentendo la mia voce, si era catapultato fuori dal suo appartamento.
“È una storia piuttosto lunga” cercai di dissuaderlo.
“Non c’è problema,” mi rassicurò lui, chiudendo la porta del suo appartamento ed entrando nel mio “abbiamo tutta la notte a disposizione” e, mentre io stavo ancora cercando di raccapezzarmi, vidi il suo faccione sorridente far capolino dalla porta della mia cucina, chiedendo “The o caffè?”
“Caffè” risposi. Si prospettava una notte piuttosto lunga.

 

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Capitolo 6
*** CHAPTER 6 – Too Hard to Say Goodbye (Westlife) ***


Ero seduta a un tavolo della piccola sala da pranzo del grazioso B&B di Glasgow dove alloggiavo e mi stavo godendo un’ottima colazione a base di the, pane tostato e marmellata di fragole fatta in casa dalla proprietaria, la signora Mary. Finalmente ero riuscita a prendermi una settimana di ferie e ne avevo approfittato per usufruire della famosa vacanza in Scozia che mi aveva regalato Joey a Natale. Avevo visto posti bellissimi, tanto che ormai Londra mi sembrava grigia e soffocante e la voglia di tornare era pari a zero, però dovevo rassegnarmi perché il mattino dopo avrei preso l’aereo che mi avrebbe riportata alla normalità. Sogno finito, bentornata alla realtà, Becky.
Sbuffai e, cercando di non pensarci, presi distrattamente un quotidiano che era posato sulla poltrona. In fondo avevo ancora tutta una giornata a disposizione e l’avrei passata a sbizzarrirmi con lo shopping in giro per Glasgow. Proprio in quel momento, la mia attenzione fu attirata da un titolone che occupava quasi tutta la prima pagina ‘Paul Dunn lascia i Drummers’.
Stavo cercando di riordinare i pensieri quando il mio cellulare iniziò a squillare insistentemente e fui costretta a rispondere.
“Pronto” feci con voce piatta, senza nemmeno guardare chi fosse.
“Becky, ciao” riconobbi la voce di Jo.
“Ciao”.
“Senti, lo so che sei in vacanza e mi dispiace disturbarti, ma ho disperatamente bisogno del tuo aiuto” esordì il mio capo.
“Dimmi pure” lo spronai, cercando di tornare in me.
“Non so se per caso hai letto i giornali, ma a quanto pare uno dei Drummers molla il gruppo” mi annunciò.
“Sì, l’ho appena saputo” confessai.
“Bene, terranno una conferenza per dare l’annuncio ufficiale oggi all’1:00 all’Hilton. A cose normali non ci avrei mandato nessuno ma, dato che ti trovi nei paraggi, non è che potresti farci un salto e buttare giù qualcosa?” azzardò.
Restai un attimo in silenzio, mentre davanti ai miei occhi prendeva forma l’immagine di un Craig piuttosto sconvolto e bisognoso di consolazione, dopodiché risposi, senza riflettere “D’accordo”.
“Davvero?” chiese Jo, incredulo.
“Sì” confermai.
“Sei sicura che non sia un problema?” insistette lui.
“No, nessun problema. Ti mando il pezzo via e-mail, okay?”
“Benissimo! Allora telefono e dico che avremo un’inviata. Ah, Becky? Grazie”.
“Grazie a te” mi sentii rispondere, appena prima di sbattergli il telefono in faccia.
Guardai l’ora. Le 11:00. Giusto il tempo di farmi una doccia e presentarmi sul posto. Craig avrebbe avuto bisogno di me.

 

Craig”.
Sentendo pronunciare il mio nome, alzai la testa dal tavolo e aprii gli occhi. Erano stati giorni d’inferno. Discussioni, dubbi, paure. Eravamo stati sballottati di qua e di là, senza nemmeno avere il tempo di riflettere sui cambiamenti e le conseguenze reali che la decisone di Paul avrebbe portato nella nostra vita. La notte scorsa non avevo chiuso occhio. E nemmeno quella precedente. E quella prima ancora. Ormai, andavo avanti solo per inerzia.
“Tra pochissimo iniziamo” mi disse Michael e, dando un’occhiata alla mia faccia, aggiunse “Fossi in te andrei a darmi una rinfrescata. Sembra che sia morto qualcuno”.
Cercai di sorridere e mi alzai per seguire il suo consiglio. In bagno, mi fermai a studiare la mia immagine allo specchio. Avevo un po’ di occhiaie e i capelli nemmeno troppo pettinati. Mi bagnai le mani e me le passai sulla testa. Il risultato non era comunque dei migliori, ma almeno sembrava gel. Tornai in sala e presi posto, pronto all’estrema tortura. Tutti quei giornalisti ci avrebbero massacrati, me lo sentivo. Per quanto mi sforzassi a scrutare, non riuscivo a individuare neanche un’espressione gentile su quei volti che riempivano la sala. Avevo appena finito queste considerazione quando la vidi. Dapprima credetti di avere le allucinazioni. Forse le nottate insonni avevano danneggiato la mia salute più di quanto credessi. Becky non poteva trovarsi lì, doveva essere a Londra. Eppure, più guardavo e più mi convincevo che fosse lei. Indossava un paio di jeans scuri e una maglia di cotone gialla, e si guardava intorno, con aria spaesata, dal fondo della sala. In quel momento alzò lo sguardo e i nostri occhi si incontrarono. Mi sorrise e io non potei fare a meno di ricambiare. Quel sorriso fu per me come un faro nella notte per un pescatore che si è perso. Presi un respiro profondo e mi voltai a guardare i miei amici con rinnovato entusiasmo. Forse non sarebbe andata poi così male.

La conferenza era finita, i ragazzi erano usciti per farsi scattare alcune foto e la maggior parte dei giornalisti se ne stava andando, ma io continuavo ad aspettare in fondo alla sala. Prima dell’inizio, Craig mi aveva sorriso, ma quel sorriso non mi aveva convinta. Era stanco, tirato, e avevo notato una strana luce nei suoi occhi, come di paura. Volevo parlargli. Era stupido, non sapevo nemmeno cosa gli avrei detto esattamente, ma volevo farlo. Le parole sarebbero venute da sole. Li vidi rientrare e disperdersi per la sala, alla ricerca di amici, famigliari e conoscenti. Lentamente mi avvicinai al tavolo, dove Craig si era trattenuto a cercare qualcosa nella tasca della giacca.
“Ciao” lo salutai, una volta arrivatagli vicina.
Lui alzò lo sguardo e, vedendomi, sorrise. “Ciao. Non speravo di trovarti ancora qui”.
“Mi sono fermata a salutarti” confessai “e a dirti che, se hai bisogno, io ci sono”.
Craig abbassò gli occhi.
“Grazie” sussurrò, triste e io, senza riflettere, allungai una mano sul tavolo, fino ad afferrare la sua.
Come prevedibile, il suo sguardo fu nuovamente su di me che, per cercare di cavarmi d’impaccio e salvare il salvabile, tentai di ritirare la mano, ma Craig me lo impedì, stringendomela nella sua.
Restammo per un attimo così, a fissarci. Il mio cuore batteva a mille e mi diceva che avevo fatto la cosa giusta, mentre il mio cervello continuava a insultarmi per essere stata così sciocca e impulsiva. Perché gli avevo preso la mano? Che giustificazione potevo trovare adesso? Fortunatamente, non fu necessaria nessuna giustificazione perché fu Craig a parlare “Grazie per essere venuta. Cioè, so che sei qui per lavoro, ma significa molto per me”.
“Ho pensato che potessi aver bisogno di un’amica” farfugliai e poi, realizzando che, in ogni caso, non sarebbe stato solo, precisai “Voglio dire, una in più”.
“Non ho bisogno di un’amica” disse lui, serio, e io mi sentii come se avessi appena fatto una doccia gelata. Che stupida ero stata. Ovvio che in un momento del genere non mi volesse intorno.
“Ho bisogno di te” concluse, stringendomi ancora di più la mano.
Sorrisi. Era incredibile come Craig riuscisse sempre a trovare le parole giuste per farmi felice. Forse era proprio questo che mi aveva fatto innamorare di lui.
“Andiamo a bere qualcosa al bar, ti va?” propose, e io annuii, seguendolo, con la mano ancora stretta nella sua.

Davanti a un drink, le cose diventarono immediatamente più facili.
“Che ci fai qui?” mi chiese, sorridendo.
“Mi sembra di avertelo già spiegato”.
“No,” Craig scosse la testa “intendevo che ci fai qui a Glasgow” mi spiegò.
“Sono qui in vacanza” risposi.
“Davvero?” chiese lui, sorpreso.
Annuii.
“Quando sei arrivata?” domandò ancora.
“Una settimana fa. Sono stata a Edimburgo e ad Aberdeen, e ora sono tornata a Glasgow perché domani ho l’aereo per Londra. Vacanza finita, si torna alla realtà” sospirai.
“Quindi te ne vai subito” osservò il mio amico.
“Purtroppo sì”.
“Peccato. Mi sarebbe piaciuto passare un po’ di tempo con te” ammise.
“Sarebbe piaciuto anche a me, lo sai” confessai. “E, fosse per me, resterei”.
“Avrei potuto portarti fuori a cena” disse, quasi stesse riflettendo ad alta voce.
“Se proprio ci tieni così tanto, stasera sono ancora qui e, guarda caso, non ho impegni” scherzai, con l’intento di farlo ridere.
“Mi piacerebbe, ma purtroppo devo partire subito per Inverness. I miei mi aspettano a casa, pensano che mi faccia bene staccare la spina per un paio di giorni, uscire da questo casino e tornare un po’ alla normalità” si giustificò.
“Hanno ragione, ti farà bene” concordai.
“Però mi dispiace. Voglio dire, sei in Scozia, a casa mia, e io non posso nemmeno portarti fuori. Quando ricapita?”
“Non c’è problema, dai. Ci rivedremo quando torni a Londra” lo rassicurai, ma Craig non mi stava già più ascoltando, era perso nei suoi pensieri. Ne ebbi la conferma quando tornò in sé e mi fissò con gli occhi luccicanti. Ero certa di non sbagliarmi dicendo che aveva appena avuto un’idea di cui andava fiero.
“Cosa c’è? Mi fai paura quando fai così” dissi.
“Senti, devi tornare subito al lavoro, domani?” mi chiese.
“No, ho preso dieci giorni di ferie, riprendo lunedì”.
“Benissimo! Allora, che ne dici di venire a Inverness con me per un paio di giorni?”.
Restai spiazzata da quella proposta. “Come, scusa?” farfugliai.
“Vieni a Inverness con me” ripeté lui, pacato.
“A fare che?” domandai.
Craig alzò le spalle. “Nulla di che. Ti faccio vedere la città, passiamo un po’ di tempo insieme…e mi aiuti ad affrontare i miei” confessò.
Gli rivolsi uno sguardo di rimprovero. “Perché dovrei aiutarti ad affrontare i tuoi?”
“Sai, sono persone stupende e mi vogliono veramente un bene infinito, però per loro sono sempre un bambino da proteggere. Non faranno altro che parlare di questa storia di Paul, ripetendo quanto sia terribile e dandomi consigli su come comportarmi e, sinceramente, vorrei evitare l’argomento. Ma non posso dirglielo così, non sarebbe carino. In fondo, loro credono di farlo per il mio bene”.
Istintivamente sorrisi. Non avevo mai avuto una famiglia, ma potevo comunque capire la situazione di Craig. C’erano volte in cui anch’io avrei preferito non discutere di certe questioni con i miei amici, ma loro insistevano, credendo di farmi contenta, e non me la sentivo proprio di farglielo notare.
“Allora, forse non è una grande idea andare a Inverness” osservai.
Craig mi rivolse uno sguardo stupito. “Non hai appena detto che staccare un po’ la spina mi avrebbe fatto bene?” mi fece notare.
“Infatti,” insistetti “ma, forse, non è il caso di farlo proprio a Inverness”.
Il mio amico mi guardò e dalla sua espressione capii che era ancora perplesso.
“Se andare a casa ti mette così in ansia, forse sarebbe meglio che andassi da qualche altra parte”.
“Per esempio?” chiese.
“Non lo so,” iniziai a pensare “per adesso l’unica meta che posso proporti è casa mia”.
“Casa tua?” ripeté lui, stupito.
Annuii. “Sì. Puoi venire a passare il weekend da me, se ti va. Non è una dimora di lusso, ma ho un divano comodissimo e prometto di non cucinare” proposi.
Craig sorrise. “Mi va” annunciò. “Grazie dell’invito”.
“Ma figurati” minimizzai e, abbassando lo sguardo per non fargli vedere che arrossivo nel dirlo, aggiunsi “Lo sai che mi diverto ad averti intorno”.
Il mio amico restò un attimo in silenzio, tanto che io non avevo il coraggio di alzare la testa per paura di aver detto qualcosa di sbagliato, poi appoggiò il bicchiere sul tavolo.
“Comunque, devo andare lo stesso a Inverness dai miei. Gliel’ho promesso” disse.
“Certo. Puoi raggiungermi quando ti va, io ti aspetto”.
“E se, invece di aspettarmi a Londra, venissi a Inverness con me?” tentò, di nuovo.
Scossi la testa. “Non mi sembra il caso”.
“Perché no, scusa?”
“Perché…beh, chissà da quanto tempo non vedi la tua famiglia, non mi va di essere d’impiccio”.
“Ma che impiccio!” sbottò. “Scommetto che saranno entusiasti di conoscerti”.
“Ma…ho l’aereo domani” mi opposi, molto più debolmente.
“Non ti preoccupare per l’aereo, sistemo tutto io, e prenoto anche due posti per andare a Londra sabato”. Restai un attimo in silenzio, mentre Craig mi fissava con aria implorante, dopodiché sorrisi “D’accordo, dato che insisti”.
Il sorriso che si allargò sul viso del mio amico valeva mille voli posticipati.

Chiusi il portatile e lo rimisi nella sua valigetta, dopodiché mi voltai verso Craig, che stava guidando al mio fianco.

“Fatto?” chiese, senza togliere gli occhi dalla strada.
Annuii, sorridendo. “Fatto. Lo invierò al mio capo quando saremo arrivati a casa tua, se non è un problema”.
“Assolutamente nessun problema” mi rassicurò lui.
“Allora,” iniziai, con un sospiro rilassato “c’è qualcosa di particolare che dovrei sapere su Inverness?”
“Mah, non saprei” rispose, pensandoci un po’ su. “È un posto come un altro, ma per me è speciale perché significa casa” confessò.
Sorrisi. Qualcosa mi diceva che sarebbe presto diventato speciale anche per me e soltanto per il fatto che fosse così speciale per lui, il ragazzo di cui mi ero innamorata.
“Ti mancano i tuoi, vero?” domandai, aspettandomi una risposta affermativa che, in effetti, arrivò.
“Beh, credo sia normale, no?” si giustificò.
Annuii. “Normalissimo” concordai e, dopo un istante di esitazione, aggiunsi “Almeno credo”.
Craig si voltò a guardarmi, dispiaciuto. “Dio, Becky, mi dispiace!”
“Ma per cosa?” chiesi, perplessa.
“Scusa, sono un idiota” continuò lui, sempre più desolato.
“Ma non hai fatto niente, Craig” insistetti.
“Parlare così di famiglia, davanti a te”
“La vuoi piantare?” sbottai, guadagnandomi una sua occhiata stupita. “Non ti sei mai fatto problemi con me ed era una delle cose che mi piaceva di più del nostro rapporto. Mi spieghi perché diavolo vuoi iniziare a farteli proprio adesso?”
“Credevo che…insomma…” farfugliò, nervoso.
“Va tutto bene” lo tranquillizzai. “E, tornando al discorso di prima, credo sia normale che ti manchi la tua famiglia. Anche a me mancano i miei amici e Romeo” spiegai, facendolo sorridere.
Restammo in silenzio per un po’, ma non era uno di quei silenzi carichi di tensione, che mettevano a disagio, era un silenzio piacevole e rilassato, semplicemente stavamo godendo uno della presenza dell’altra. Fu Craig a rompere l’incanto.
“A proposito di famiglia,” iniziò “ti chiedo scusa già da ora per la mia”.
“Perché?” domandai, sorpresa.
“So già che, appena arriveremo, ti copriranno di domande. Non sentirti costretta a rispondere se non ti va di farlo” precisò.
Sorrisi, tra me. Ero veramente toccata da tutte le premure che Craig aveva nei miei confronti, ma a volte esagerava. Stavo per ribattere, ma lui mi precedette.
“E i miei fratelli non ti daranno tregua” aggiunse.
“Beh, ma…” iniziai.
“No,” mi interruppe lui “a volte possono diventare veramente insopportabili, credimi. Non sanno tenere la bocca chiusa”.
Non riuscii più a resistere e scoppiai a ridere di gusto, tanto che Craig si voltò a guardarmi, stupito.
“Che c’è? Che hai da ridere?” chiese.
“Niente,” risposi “è che a volte sei proprio buffo, sai?”
“Buffo?” domandò.
Annuii.
“Io?”
Annuii di nuovo.
“E perché?”
“Craig,” dissi, asciugandomi le lacrime con il palmo della mano “ascolta. Sono veramente onorata di tutte queste premure che hai nei miei confronti, ma smettila di preoccuparti. Non credo che i tuoi abbiano mai mangiato qualcuno, o sbaglio? Me la caverò”.
A quel punto, anche Craig si mise a ridere.
“Hai ragione, ho esagerato” si scusò. “È che ho sempre paura che la gente possa sentirsi in imbarazzo” spiegò e, dopo un istante “Devo esserti sembrato un tantino paranoico, vero?”
Scossi la testa.
“Affatto,” confessai “mi sei sembrato solo dolcissimo”.
Craig si voltò a guardarmi e io gli sorrisi. Non sapevo bene come mi erano uscite quelle parole, non era da me dire cose del genere, però avevo semplicemente pensato fosse carino renderlo partecipe dei miei pensieri e non mi ero fermata a riflettere che, forse, almeno dei pensieri che riguardavano lui, sarebbe stato meglio lasciarlo all’oscuro. In ogni caso, non sembrava l’avesse presa troppo male perché ricambiò il mio sorriso e, subito dopo, staccò una mano dal volante e la allungò fino a stringere la mia che, ovviamente, non tirai certo indietro. Distolsi lo sguardo dal suo viso e lo fissai sulla strada davanti a noi, sperando che, così facendo, non si accorgesse che stavo sorridendo. Le cose, tra noi, stavano andando alla grande e qualcosa mi diceva che, presto, ci sarebbe stato un cambiamento positivo nel nostro rapporto. Per la prima volta in quella giornata, mi ritrovai a pensare che non avevo poi tutta questa voglia di conoscere la famiglia di Craig. Non certo per loro, semplicemente perché, se solo fossimo stati soli, sarebbe stato tutto molto più facile.

 

Arrivammo a Inverness in tarda serata e, già mentre stavo scaricando le valige dal baule, la povera Becky fu subissata di domande da parte della mia chiassosissima famiglia. Con grande piacere, notai che se la stava cavando alla grande e non aveva nessun bisogno del mio aiuto, quindi mi dedicai completamente a coccolare il mio cane, che mi stava facendo moltissime feste.

Cosa volete per cena?” chiese mia madre, mentre accompagnava Rebecca in cucina.
“Abbiamo mangiato qualcosa per strada, mamma, grazie” la rassicurai.
“Sicuri?” si accertò lei.
Io e Rebecca annuimmo.
“Tranquilla. Credo che l’unica cosa che vogliamo fare, adesso, sia una bella doccia. E poi di filato a letto, vero?” azzardai, sorridendo alla mia amica.
“Già” convenne lei, ricambiando il sorriso. “È stata una lunga giornata. Specialmente per Craig”.
“Avete ragione, ragazzi. Meglio che vi riposiate. Ci sarà tutto il tempo di parlare domani” concluse mia madre.
“A proposito, mamma” la informai. “Domani avevo intenzione di portare Becky a fare un giretto in paese. Magari potremmo pranzare fuori. Che ne dici?”
Rebecca annuì. “Perfetto”.
“Fatti portare a Loch Ness!” esclamò mio fratello Larry.
“Loch Ness?” ripetè lei. “Quello di Nessie?”
“Leggende a parte, è un posto fantastico per passeggiare” spiegò mio padre. “I ragazzi lo adorano”.
“Il lago è bellissimo. C’è un’atmosfera magica” aggiunse James, il mio fratellino più piccolo.
Becky annuì. “D’accordo, me lo segno. Grazie ragazzi!”.
Sorrisi, tra me, e notai che Larry mi stava sorridendo a sua volta. Loch Ness era il posto perfetto per le coppie di innamorati. Possibile che i miei fratelli avessero già capito tutto? In ogni caso, dovevo ricordarmi di ringraziarli, un giorno o l’altro.

Accompagnai Becky in camera mia, portandole la valigia.

“Eccoci qua. Questa è la mia stanza. Non è una reggia, ma il letto è piuttosto comodo”.
“È perfetta” disse lei, guardandosi intorno. “Grazie Craig”. “Tu dove dormi?” mi chiese, dopo un istante.
“Con Larry” risposi.
“Sicuro che non ti dispiaccia lasciarmi la camera? Posso dormire sul divano” si offrì.
Scossi la testa. “Non se ne parla. Sei un’ospite. E poi Larry deve raccontarmi di una certa Michelle, la sua ultima conquista”.
Becky rise. “Ah beh, in questo caso”.
“Ci vediamo domani e grazie di avermi accompagnato” la salutai.
“Figurati. Grazie a te per avermi convinta a prolungare la vacanza”.

 

Salutai Craig e chiusi la porta, appoggiandomici con la schiena. Chiusi gli occhi e sospirai. Che giornata! Avrei dovuto essere a Glasgow, alle prese con i preparativi per il rientro, invece mi trovavo nella camera di Craig e davanti a me si prospettava una giornata ricca di eventi. Loch Ness. Un posto dall’atmosfera magica. L’idea mi elettrizzava. Ad essere onesti, però, non era tanto il lago in sé ad entusiasmarmi, quanto l’idea di quello che poteva succedere. Sapevo che Craig non stava attraversando un bel momento, l’addio di Paul era stato un brutto colpo per lui, però non riuscivo a togliermi dalla testa quella sera, al Levantine, quando ci eravamo quasi baciati. Certo, poteva benissimo aver cambiato idea, ma oggi, dopo la conferenza, mi aveva detto che aveva bisogno di me. Di me. Non di un’amica. Di me. Riaprii gli occhi e sbuffai. Dovevo smetterla di fantasticare, magari non sarebbe successo proprio un bel niente. Però…. In quel momento, il mio cellulare iniziò a suonare e io corsi a rispondere, per paura che svegliasse qualcuno dei MacLuis.
“Pronto” bisbigliai, senza nemmeno guardare chi fosse.
“Allora?” era la voce di Joey.
“Ciao”.
“Dove sei?” mi chiese, subito.
“Da Craig, te l’ho detto” risposi, alludendo al messaggio che gli avevo mandato durante il viaggio verso Inverness, spiegandogli che avrei prolungato la mia vacanza di un paio di giorni.
“Che vuol dire ‘da Craig’?” insistette lui.
“Vuol dire a casa sua, Joey. Anzi, a dire il vero in camera sua”.
“E…c’è anche lui?”
“Ma sei scemo?” lo rimproverai. “Certo che no. Craig è un galantuomo. Dorme con suo fratello”.
“Che c’è di male, scusa? Vi piacete, non vedo perché non possiate dormire insieme”.
“Ti elenco giusto un paio di motivi” iniziai.
“Lascia perdere” mi bloccò lui. “Non mi interessano. Piuttosto, è successo qualcosa?”
“Cosa dovrebbe succedere, scusa?”
“Mah, non so, l’ultima volta che vi siete visti ha tentato di baciarti, se ti ricordi”.
“Mi ricordo” lo liquidai. “Quindi?”
“Quindi mi aspetto che ci riprovi. Tu no, scusa?”
“Beh, io…sì, diciamo di sì” ammisi.
“Ci sono state premesse favorevoli?”
“Ancora no, non direi” confessai. “Anche se, forse, domani mi porta a fare un giro in paese e poi una passeggiata lungo il lago”.
“Lago? Fantastico! Allora è sicuro” esclamò il mio amico.
“Cosa c’è di così sicuro in un lago, scusa?” mi informai.
“Andiamo, Becky! Se un ragazzo porta una ragazza a passeggiare lungo un lago, c’è sempre un secondo fine”.
“No. Sei tu che sei pervertito Joey” sbottai, facendolo ridere.
“Beh, mi saprai poi dire” concluse. “Adesso vai a nanna, altrimenti domattina ti sveglierai con delle occhiaie terribili e Craig avrà ribrezzo ad avvicinarsi”.
“Grazie Joey, tu sì che sai rassicurare una ragazza” lo canzonai, ma ormai il mio amico aveva riattaccato, lasciandomi lì come un’idiota, con il telefono in mano, a sperare ardentemente che avesse ragione riguardo ai ragazzi e alle passeggiate lungo il lago.

“Craig, aspettami!” ansimai, cercando di stare dietro al mio amico.

“Su, dai pigrona” mi canzonò lui, fermandosi però ad aspettarmi.
Lo raggiunsi e mi aggrappai al suo braccio.
“Ascolta,” iniziai “la prossima volta che vuoi farmi scarpinare per un’ora e mezza, magari evita di portarmi a mangiare messicano a pranzo, okay? Mi piace troppo e ogni volta mi rimpinzo come un maiale. Non ce la posso fare a camminare così tanto” mi lamentai.
Craig scoppiò a ridere. “D’accordo,” annuì “lo terrò a mente per la prossima volta. Ma adesso rilassati, siamo quasi arrivati alla macchina”.
“Sia lodato il Cielo!” esclamai, aumentando il passo.
“Ehi! Ritrovato l’entusiasmo?” chiese lui, perplesso.
“Affatto,” riposi, voltandomi a guardarlo mentre proseguivo “ma quella panchina laggiù è così invitante”.

“Allora, scarpinata a parte, piaciuto Loch Ness?” le domandai, sedendomi accanto a lei su una panchina in riva al lago.

Rebecca annuì. “È un posto veramente magico, Craig. Grazie per avermici portato”.
“Figurati. Sono contento che ti piaccia. Io adoro starmene qui seduto a guardare il lago” confessai. Poi, voltandomi a guardarla, precisai “Certo, sempre che non ci sia qualcosa di più interessante da contemplare”.
Non sapevo esattamente come mi fossero uscite quelle parole. Non ero propriamente un tipo disinibito con le ragazze, tendevo a farmi troppi problemi e mi imbarazzavo facilmente. Con lei, però, era diverso. Mi ero sentito a mio agio sin dal nostro primo incontro e anche corteggiarla era molto più semplice. Inoltre, durante l’ultimo nostro incontro avevamo lasciato qualcosa in sospeso, e sapevo che non ci sarebbe stata occasione migliore per chiarire le cose, una volta per tutte. Becky arrossì, ma non distolse lo sguardo, che teneva puntato su di me.
“Lo prendo come un complimento” sentenziò.
“Assolutamente” concordai.

Distolsi lo sguardo, cercando di concentrarmi sulle leggere increspature che la brezza formava sulla superficie del lago. Sapevo di avere le guance in fiamme e sentivo il cuore martellarmi nel petto. Non avevo idea di cosa fare, o meglio, sapevo esattamente cos’avrei voluto che accadesse ma non avevo il coraggio di muovere un muscolo e mi limitavo ad aspettare che la situazione progredisse in qualche modo. Quanto ci metteva Craig a capire che volevo che mi baciasse? Stavo quasi per perdere le speranze, quando sentii la sua mano cercare la mia e mi voltai, sorpresa.

“Becky, io…” iniziò, avvicinandosi leggermente al mio viso.
“Sì?” farfugliai, tanto per dire qualcosa.
“C’è una cosa che vorrei fare da un po’ di tempo, ma…”
“Falla”.

 

Falla’? Avevo sentito bene? Rebecca mi aveva appena chiesto di baciarla? Perché era questo che volevo fare, mi pareva abbastanza chiaro. La guardai dritta negli occhi e vidi che sorrideva. Non avevo più dubbi. Mi avvicinai e le presi il viso tra le mani. Le mie labbra avevano appena sfiorato le sue, quando….

 

Il cellulare. Non riuscivo a crederci. Questa volta non c’era alcuna favola da rispettare, niente mezzanotte. Perché diavolo si era messo a suonare proprio in quel momento? Spalancai gli occhi e notai che anche Craig aveva fatto lo stesso.

“Scusa” sussurrai, cercando il telefono nella tasca della giacca.
Guardai il display. Era Joey. Giurai a me stessa che gliel’avrei fatta pagare.
“Pronto, Joey” risposi, sfiorando la mano a Craig mentre mi alzavo dalla panchina.
“Becky, aiuto” disse subito il mio amico.
“Che c’è?” domandai.
“Una tragedia”.
“Spera solo che sia veramente grave, Joey, perché mi hai appena rovinato la giornata” sbottai, seccata.
Sentii il mio amico sospirare. “Oh, lo è Becky, credimi”.
“Ok, spara” lo spronai.
“Ecco, domani sera ho una festa di addio al celibato al locale”.
“Fantastico” commentai, acida.
“E il festeggiato ha espressamente richiesto una ‘Serata Coyote Ugly’, altrimenti non se ne fa niente” Joey fece una pausa. “Pensavo di potermela cavare senza di te, ma Bridget si è slogata una caviglia e non può fare granché, poverina. Se non vieni nemmeno tu, resta solo Lizzie e che razza di ‘Serata Coyote Ugly’ sarebbe?”.
Mi voltai a guardare Craig, che mi sorrise, ancora seduto sulla panchina. Sospirai.
“Vedrò di essere a casa prima di domani sera” acconsentii, rassegnata.
Il mio amico si profuse in un torrente di ringraziamenti, che io stroncai con un secco “Ma ricordati che mi devi un favore enorme”.
“Problemi?” chiese Craig, preoccupato, non appena ebbi riattaccato.
“Una specie” risposi e, sedendomi di nuovo sulla panchina, gli spiegai la situazione.
“Mi dispiace, Craig, so quanto ci tenevi a questa mini vacanza qui”.
Il ragazzo scosse la testa e, sorridendo, si alzò. “Non importa. È bello che ti preoccupi così tanto per i tuoi amici”.
Sorrisi a mia volta. “Sì, ma tu…”.
“Io vengo con te, come promesso. Proseguiremo la mini vacanza a Londra” mi rassicurò.
Io annuii e mi avvicinai a lui.
“Grazie” sussurrai, prendendogli la mano.
“E di che?” chiese lui “Dai, andiamo a casa” aggiunse. “Se ci sbrighiamo, forse riusciamo a prendere il primo volo domattina”.

 

Eravamo all’aeroporto di Glasgow e stavamo curiosando tra i negozi del duty-free in attesa dell’imbarco. Becky stava pagando delle caramelle, mentre io ciondolavo per il negozio, pensando a lei e al momento in cui, forse, sarei finalmente riuscito a baciarla. Improvvisamente, la mia attenzione fu attratta da un ciondolo a forma di pianeta: era una piccola sfera rossa, circondata da un cerchio in argento che doveva rappresentare una sorta di anello.
“Capitan Crash e la bella regina di Marte” sussurrai, in contemplazione.
“Allora? Andiamo?” chiese la voce allegra di Becky, facendomi voltare di scatto.

Le sorrisi. “Certo, andiamo” risposi, seguendola verso il gate. La mia testa, però, era altrove. Quel ciondolo era perfetto. Avrei dovuto comprarlo, per lei. Gliel’avrei dato quando…quando? Quando le avrei confessato che mi ero innamorato di lei. Se mai ci fossi riuscito.
“Non hanno ancora iniziato ad imbarcare” mi informò Becky, annoiata.
La guardai, stralunato. “Io…mi sono dimenticato di comprare le sigarette” mentii. “Faccio un salto. Mi aspetti?”.

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Capitolo 7
*** CHAPTER 7 - Tell Me It’s Love (Westlife) ***


“Bene. Questa è la mia umile dimora” annunciai, scendendo dal taxi davanti al palazzo in cui abitavo. Craig pagò l’autista e alzò lo sguardo.
“Carino” commentò.
Sorrisi. “Non mentire. So che da fuori non è il massimo, ma dentro è meglio” dissi, prendendolo per mano e trascinandolo all’interno.
Mentre stavamo salendo la prima rampa di scale, ci imbattemmo in Philip.
“Becky!” esclamò, salutandomi con un bacio sulla guancia.
“Ciao, Phil”.
“Meno male che sei tornata, Becky. Joey era disperato con questa storia dell’addio al celibato di domani. Dovevi arrivare tu a salvarlo”.
Scoppiai a ridere. “Cosa vuoi, non è mica facile fare la super eroina, sai?”.
Anche Philip si mise a ridere, dopodiché guardò Craig, aspettando che dicessi qualcosa.
“Philip, lui è Craig. Craig, questo è Philip, un…amico” li presentai.
I due ragazzi si strinsero la mano.
“Piacere” disse Craig.
“Piacere mio. Finalmente ti conosciamo”. E poi, rivolto a me “Adesso vai da Joey. Non vedrà l’ora di conoscere Craig anche lui”.
Ci salutammo e ricominciammo a salire le scale, Craig davanti a me. Dopo pochi gradini mi voltai a guardare Philip e vidi che mi stava facendo l’occhiolino e un evidente segno di apprezzamento nei confronti di Craig. Gli feci la linguaccia e continuai a salire, scuotendo la testa. I miei amici non sarebbero cambiati mai.

 

Solo un breve saluto a Joey e poi andiamo in casa a mangiare qualcosa, okay?” mi disse, suonando un campanello.
Io annuii. Non vedevo l’ora di restare per un po’ solo con lei, in tranquillità. Forse avrei finalmente trovato il coraggio di baciarla e di darle quel ciondolo che avevo preso all’aeroporto. Però capivo che dovesse prima salutare i suoi amici.
La porta si spalancò e Becky venne letteralmente ingoiata dall’abbraccio mortale di un ragazzone biondo che, come se non bastasse, le stampò anche un sonoro bacio sulla guancia. Restai in disparte, trattenendomi a stento dall’intimargli di tenere giù le mani dalla mia ragazza. Non era proprio la mia ragazza ma una specie. Quasi, diciamo.
“Vieni qui, mia salvatrice” esclamò il ragazzo, liberando Becky dalla sua morsa mortale. “Fatti guardare”.
Becky si allontanò di un passo e fece una piroetta su se stessa.
“Ma sei un vero splendore! L’aria scozzese ti ha fatto bene, sai?”. Poi, accortosi della mia presenza, aggiunse “E, forse, non solo quella”.
Si avvicinò, tendendomi la mano. “Ciao. Tu devi essere Craig”.
Annuii. “Esatto. E tu devi essere Joey”.
“Esatto. Scusa per avervi rovinato la vacanza, ma era un’emergenza”.
“Figurati, non importa” lo rassicurai.
“Allora,” proseguì, rivolto verso Becky “vi fermate a pranzo, vero? Ho preparato apposta il pollo al curry che ti piace tanto”.
Becky si voltò verso di me, titubante. “Non lo so, Joey…forse Craig vuole riposare”.
“Oh, andiamo” insistette Joey. “Non credo che a Craig dispiaccia restare a pranzo, vero amico?”.
Messo alle strette, non potei fare altro che rispondere “No, figurati. Per me va bene”.
“Perfetto!” esclamò Joey. “Così avrò anche l’occasione di conoscerti un po’ meglio”.
Annuii, pensando che, però, io avrei di gran lunga preferito conoscere in maniera un po’ più intima un’altra persona.

 

Il pranzo fu ottimo. Joey era veramente un cuoco eccellente e, a voler essere sinceri, era anche un ragazzo piuttosto simpatico. Io, però, non riuscivo a farmelo andare del tutto a genio e ciò era dovuto al tipo di rapporto che lo legava a Rebecca. Si vedeva che i due erano affiatati. Molto affiatati. Anche troppo per i miei gusti. Durante il pranzo c’era stato un continuo scambio di battute, complimenti, occhiate, senza contare gli sfioramenti di mani e un’altra serie di gesti piuttosto intimi. Non ci voleva un genio per capire che si volevano bene e mi chiedevo cosa ci facessi io lì. Ero geloso. Becky mi piaceva e molto anche. Mi ero innamorato di lei e credevo che anche lei fosse interessata a me, ma adesso ero confuso. Non sarei mai riuscito a entrare in quel loro universo di affetto, tanto valeva lasciare perdere. Ma non volevo rinunciare a Becky, non senza lottare almeno. Certo, avrei almeno dovuto avere l’occasione di farlo. Le cose, però, stavano andando per le lunghe. Erano ormai le 16:30 e sapevo che Becky doveva ancora prepararsi per la serata, che sarebbe iniziata piuttosto presto, verso le 19:00. Dopo l’ennesimo complimento a Becky da parte di Joey, decisi di non poter più sopportare altre smancerie e, millantando un mal di testa improvviso, convinsi Becky ad andare a casa. Joey ci salutò calorosamente, dandoci appuntamento per quella sera al pub e io annuii, pur sapendo che non ci sarei mai andato. Mi avrebbe fatto piacere vedere Becky in versione ‘sexy’ ma non mi andava di dovermi sorbire altre dimostrazioni di affetto tra lei e Joey.
“Scusa Craig” disse subito lei, appena entrati nel suo appartamento. “Non avremmo dovuto restare a pranzo da Joey. Potevo capirlo che eri stanco”.
Scossi la testa. “Non è colpa tua” la rassicurai. “Forse mi ha fatto male il pollo” mentii.
“Fai una cosa, sdraiati sul mio letto mentre io mi faccio una doccia. Ti preparo un the caldo, ti va?”
Annuii e mi diressi verso la sua stanza, seguendo le indicazioni che mi dava dalla cucina. Arrivato, trovai il letto occupato da un grosso gatto nero. Sorrisi. Quello doveva essere il famoso Romeo. Tornai in cucina e mi appoggiai allo stipite della porta, restando per un istante a guardarla armeggiare con i fornelli. La trovavo semplicemente perfetta.
“Che ci fai qui?” chiese, voltandosi. “Ti avrei portato io il the”.
“Lo so, ma vedi, il letto era già occupato” spiegai.
Becky sorrise. “Romeo” sentenziò.

Io annuii, sorridendo.
“Vieni, sistemati sul divano. È piuttosto comodo”.
La seguii e mi buttai sul divano a guardare la tv, sorseggiando il the che mi aveva preparato, mentre lei schizzava in bagno a farsi la doccia.

 

Non seppi dire per quanto restai sul divano, ma dovevo essermi addormentato perché, quando aprii gli occhi, trovai Becky vestita di tutto punto con jeans neri, t-shirt grigia piuttosto attillata, stivali in pelle e polsini di borchie, che si stava sistemando i capelli davanti al grande specchio accanto alla tv. Vedendo che mi ero svegliato dall’immagine riflessa, si voltò a salutarmi.
“Quanto ho dormito?” domandai. “Che ore sono?”
“Le 18:45” rispose, sorridendo.
“Caspita, mi dispiace” esclamai, mettendomi a sedere.
“E di che?” chiese lei, stupita. “Dovevi essere veramente stanco”.
Mi alzai e la raggiunsi accanto allo specchio.
“Mi dispiace perché non siamo potuti stare insieme nemmeno un po’ oggi” confessai.
Lei alzò lo sguardo e i nostri occhi si incrociarono. Le scostai dolcemente una ciocca di capelli che le cadeva sul viso. Becky sorrise e io presi coraggio e le accarezzai leggermente una guancia con il dorso della mano. La ragazza chiuse gli occhi. Era il momento perfetto, o adesso o mai più, mi dissi. Mi avvicinai lentamente a lei e stavo per posare le mie labbra sulle sue quando qualcuno bussò violentemente alla porta e sentimmo la voce di Joey chiamare “Becky! Stiamo tutti aspettando te, di sotto, per cominciare”.
“Arrivo!” rispose lei, spalancando di scatto gli occhi.
Sospirai. L’incanto era rotto e, per la seconda volta, era stata colpa di Joey. Quel ragazzo stava seriamente iniziando a darmi sui nervi.
“Devo andare” mi disse Becky, dolcemente.
Annuii.
“Ti aspetto di sotto?” chiese.
Scossi la testa. “Non vengo”.
“Perché?”
“Meglio di no. È la tua serata, con i tuoi amici. Non voglio rubarti la scena”.
Becky sorrise. “Di sotto c’è un addio al celibato, Craig. Sono tutti uomini. Non mi ruberesti la scena” osservò. “E poi, anche tu sei mio amico. Ci tengo che tu ci sia”.
La guardai, cercando di nascondere quanto quell’affermazione mi avesse fatto piacere.
“Lo so,” dissi “e mi piacerebbe venire. Solo che…non vorrei che Joey si ingelosisse se dedichi troppe attenzioni a me” confessai, deluso.
Becky scosse la testa. “Non credo proprio che possa succedere” decretò. “Joey è un ragazzo intelligente”.
“Ti piace molto, vero?” domandai, non riuscendo a trattenermi.
Becky annuì. “Moltissimo”.
Abbassai lo sguardo, rassegnato.
“Ma mai quanto a Philip” aggiunse.
Strabuzzai gli occhi, confuso.
“Philip?” ripetei.
La ragazza annuì.
“Il tipo moro che abbiamo incontrato stamattina sulle scale?” chiesi.
“Lui” confermò lei.
“Cosa c’entra Philip?” domandai.
Becky mi prese una mano. “Craig,” iniziò “c’è una cosa che dovresti sapere riguardo a Joey”.
Chiusi istintivamente gli occhi, preparandomi al peggio. Mi avrebbe detto che era profondamente innamorata di Joey, lo sapevo. E io che speravo potesse essere interessata a me. Era troppo bello per essere vero.
Becky proseguì “Non te l’ho mai detto perché credevo che, una volta conosciuto, sarebbe stato evidente ma, dalla tua reazione, mi pare di capire che non è così”.
Sospirai, sforzandomi di guardarla negli occhi.
“Io voglio bene a Joey. È il mio migliore amico e, sì, mi piace moltissimo”.
Chiusi gli occhi. Ecco, era finita.
“Ma non potrei mai innamorarmi di lui”.
Spalancai gli occhi, sorpreso.
“Joey è gay”.
Non riuscivo a crederci. Joey gay. E quel Philip doveva essere il suo ragazzo. Allora, non dovevo preoccuparmi di nulla.
“Io…” farfugliai “Becky, scusa. Sono un idiota”.
Lei sorrise.
“Solo un pochino” convenne e, prendendomi per mano, aggiunse “Vogliamo andare adesso?”.
Annuii, ancora confuso, ma, prima che potesse raggiungere la porta, mi bloccai, tirandola a me “Becky, aspetta”.
“Che c’è?” chiese lei, sorpresa.
“Io…” iniziai ma, poi, mi resi conto che le parole sarebbero state un’inutile perdita di tempo. Dolcemente, le misi una mano dietro al collo e la tirai a me riuscendo, finalmente, a fare quello che sognavo da mesi. Lei non solo non oppose alcuna resistenza, ma rispose al mio bacio, passandomi le mani tra i capelli. Ci baciammo con passione una, due, tre volte. Dopodiché fummo nuovamente disturbati dalla voce di Joey che minacciava di buttare giù la porta se Becky non si fosse presentata di sotto nel giro di due minuti. Ridendo, Rebecca si allontanò da me, senza però lasciarmi la mano.
“Vieni giù” mi sussurrò all’orecchio. “Ballerò solo per te”.
Sorridendo, mi lasciai trascinare al piano di sotto, sereno come non ero mai stato e felice. Finalmente l’avevo baciata. Ora sarebbe stata mia, solo mia. Per sempre.

 

Non riuscii a toglierle gli occhi di dosso per tutta la serata. Avevo sempre pensato che Rebecca fosse una bella ragazza, non troppo appariscente, forse, non una di quelle ragazze che fanno voltare la testa agli uomini quando camminano per la strada, ma comunque molto carina e, a suo modo, perfetta. Quella sera, però, mentre ballava sul bancone insieme alla sua amica Lizzie, scoprii una parte di lei che non conoscevo. Becky era sexy. Dannatamente sexy. Si vedeva che fare la provocatrice di uomini non era il suo pane e stava solo recitando una parte per aiutare Joey ma, in fondo, sembrava si stesse divertendo. Improvvisamente, Arthur, addetto alla musica, fece partire un famoso pezzo degli Abba, Lay All Your Love on Me. Becky sorrise e strizzò l’occhio al ragazzo. Evidentemente la canzone le piaceva. Infatti, iniziò a ballare su e giù per il bancone in modo molto disinvolto, dimenticando per un attimo la sua timidezza. I nostri sguardi si incrociarono e io le sorrisi, al di sopra della mia pinta. Lei non solo ricambiò il sorriso, ma saltò giù dal bancone e mi si avvicinò, lanciandomi occhiate maliziose. Il mio cuore accelerò i battiti e sentii il sangue bollirmi letteralmente nelle vene. Non ero preparato a questa nuova versione di Rebecca, ma Dio solo sapeva quanto mi piacesse. Avrei voluto prenderla tra le mie braccia e baciarla, davanti a tutti, ma mi costrinsi a frenare i miei sensi, almeno fino alla fine dello spettacolo. Mi sembrava ancora un sogno, eppure l’avevo baciata. Il giorno seguente sarei dovuto partire per tornare a Glasgow e raggiungere gli altri. Il nostro nuovo tour mondiale stava per iniziare e saremmo stati via da casa per parecchi mesi. Non volevo lasciare Becky, non adesso che ci eravamo appena trovati. Ma sapevo che mi avrebbe aspettato e, magari, sarebbe pure potuta venire a trovarmi, quando non fossimo stati troppo lontani da Londra. L’importante era che le facessi chiaramente capire di avere intenzioni serie, e sapevo di potercela fare. Superato lo scoglio del primo bacio, tutto sarebbe stato più semplice.

 

La ‘Serata Coyote Ugly’ si era finalmente conclusa. I ragazzi dell’addio al celibato se n’erano andati, tutti un po’ brilli, ma decisamente soddisfatti, Joey aveva chiuso il locale e io e gli altri ci eravamo fermati per aiutarlo a sistemare, come al solito. Dopo aver riposto l’ennesimo bicchiere sulle mensole dietro al bancone, mi voltai a guardare Craig, impegnato a trasportare all’esterno i fusti vuoti di birra. Aveva insistito per dare una mano anche lui e, alla fine, Joey aveva ceduto.
“Bene, ragazzi. Ormai siamo a posto, potete andarvene a dormire” annunciò il mio amico, iniziando a spegnere le luci. “Grazie di tutto”.
“Figurati” ribattemmo noi, in coro, dopodiché lo salutammo, chi con una pacca sulla spalla, chi con un bacio sulla guancia, e salimmo le scale verso i nostri appartamenti.

Appena entrata in casa, mi buttai sul divano, esclamando “Sono esausta”.
Craig venne a sedersi accanto a me. “Immagino” osservò. “Però sei stata bravissima”.
Mi voltai a guardarlo, sorridendo, e lui mi accarezzò una guancia.
“Credi che ci lasceranno tranquilli?” chiese, ironico.
Annuii, trattenendo a stento una risata. “Nessuno ha più bisogno di me, adesso” spiegai e, avvicinandomi ulteriormente a lui “Sono tutta tua”.
Craig non se lo fece ripetere due volte e, dolcemente, mi prese il viso tra le mani, iniziando a baciarmi, con passione. Chiusi gli occhi, assaporando il momento che aspettavo ormai da mesi, poi mi lasciai trasportare e iniziai a passargli le mani tra i capelli. Pochi istanti dopo, ero sdraiata sul divano, con Craig sopra di me.
“Se sei stanca, possiamo…” azzardò.
“Non pensarci nemmeno” gli intimai, facendolo ridere di gusto.
Il ragazzo si alzò e, sfilandosi la maglietta, mi porse una mano.
“Allora vieni” disse, aiutandomi ad alzarmi dal divano. “Tanto vale metterci comodi, ti pare?”
Io annuii e, con il cuore che mi martellava nel petto, lo seguii in camera da letto.

 

Mi svegliai a causa della luce del sole che filtrava attraverso le tapparelle, e sentii un suono fastidioso accanto al mio orecchio destro. Mi voltai, per cercare di capire cosa fosse, e mi ritrovai davanti lo sguardo divertito di Becky, che accarezzava il suo gatto.
“Era lui che urlava?” domandai, ancora mezzo addormentato.
La ragazza annuì. “Credo abbia fame” spiegò, poi si alzò e, infilandosi una vestaglia azzurra, si avviò verso la cucina.
“Vado a dargli la pappa, altrimenti ci prenderà per sfinimento. Intanto metto su il caffè” annunciò, sorridendo.
Mi rizzai a sedere e, dopo essermi infilato i boxer, accesi il cellulare, che avevo lasciato sul comodino. Immediatamente, comparvero cinque messaggi identici, che mi informavano che Sean aveva provato a chiamarmi. Sospirai. Cosa diavolo voleva? Prima che potessi fare qualsiasi cosa, il telefono iniziò a suonare e sul display comparve il numero del mio amico.
Accettai la chiamata “Pronto”.
“Si può sapere dove diavolo sei?” sbottò Sean, seccato. “Sto provando a rintracciarti da ore”.
“Sono a Londra,” risposi “da Becky”.
Sean rimase un istante in silenzio, probabilmente immagazzinando l’informazione, dopodiché disse “Okay, senti. A quanto pare è previsto uno sciopero aereo, per oggi, e l’unico volo per Glasgow garantito è quello delle 10:30”.
Mi guardai intorno, alla ricerca di un orologio.
“Che ore sono adesso?” domandai.
“Le 9:00” rispose Sean “Quindi sbrigati a venire all’aeroporto”.
Riagganciai, piuttosto seccato. Dannazione. Sapevo di dover partire, ma non credevo di dover fare tutto di corsa. Cercando di organizzarmi, raggruppai i miei vestiti, sparsi qua e là per la stanza, e chiamai il servizio taxi, per farmi mandare una macchina all’indirizzo di Becky. Quando tutto fu sistemato, mi alzai e la raggiunsi in cucina. Non appena si voltò a guardarmi, si accorse che qualcosa non andava.
“Problemi?” chiese, preoccupata.
Scossi la testa. “Non proprio. Solo uno stupido sciopero che mi costringe a correre in aeroporto prima del previsto” spiegai.
Becky sorrise e mi porse una tazza di caffè, che io accettai, ma posai subito sul tavolo.
“Mi dispiace” dissi, prendendole una mano e tirandola a me.
Rebecca scosse la testa. “Non importa. Non potevi prevederlo”.
“Sembra che ci sia una congiura che non ci permette di stare insieme” osservai, facendola sorridere.
“Stanotte siamo stati insieme” mi fece notare lei.
Annuii. “Già. Ed è stato bellissimo”.
Becky arrossì e distolse lo sguardo. Era così tenera quando si imbarazzava per qualcosa. Le presi il viso tra le mani e la baciai.
“Grazie” sussurrai.
“E di cosa?” chiese, sorpresa.
Alzai le spalle. “Di tutto”.
In quel momento sentimmo un clacson provenire dalla strada. Becky si affacciò alla finestra.
“Il tuo taxi è arrivato” annunciò.
Io annuii e presi la valigia, pur controvoglia. Davanti alla porta ci fermammo a guardarci.
“Ti chiamo” promisi.
Becky annuì.
“Fai buon viaggio” mi augurò, dandomi un timido bacio sulle labbra. Non riuscendo a resistere, lasciai cadere a terra la valigia, la presi tra le braccia e la baciai, lasciando libero sfogo a tutta la passione che avevo in corpo. Rebecca si abbandonò completamente tra le mie braccia, e passò le sue dietro alla mia schiena, stringendomi forte. In quel momento, mi ricordai della scatoletta con il ciondolo che le avevo comprato all’aeroporto. Ce l’avevo in tasca e mi dava un certo fastidio. La presi e, prima di scappare di sotto, a prendere il taxi, gliela misi in mano.
“Questa è per te, mia bellissima regina di Marte” spiegai e, dopo averle dato un ultimo bacio, scesi di corsa, con il cuore che scoppiava di gioia e una voglia matta di urlare al mondo che ero innamorato della ragazza più speciale sulla faccia della Terra.

 

Mi richiusi la porta alle spalle e aprii la scatoletta che Craig mi aveva messo in mano poco prima di scappare, restando in contemplazione del bellissimo ciondolo che conteneva. Ripreso possesso delle mie facoltà mentali, lo tirai fuori e me lo agganciai, tenendolo stretto in mano, quasi sperassi di poter sentire la sua presenza. Il suono del campanello mi fece sobbalzare. Aprii e mi trovai davanti Joey, sorridente.
“Voglio tutti i dettagli” sentenziò, entrando e dirigendosi verso la cucina, dove iniziò a trafficare con la macchina del caffè.
Senza protestare, richiusi nuovamente la porta e lo seguii, sedendomi sul tavolo. Il ragazzo mi porse una tazza di caffè appena fatto e mi spronò “Allora?”
“Chiederti di farti gli affari tuoi ti sembrerebbe fuori luogo, vero?” lo canzonai.
Joey mi rivolse uno sguardo scettico. “Se non ne vuoi parlare, va bene. Ma non mi sembra che lui si sia preoccupato troppo di nascondersi, quando ti ha controllato le tonsille con la lingua, sulla porta”.
Strabuzzai gli occhi. “Ci stavi spiando?” sbottai.
“Non sia mai!” rispose lui, offeso. “Avevo sentito il taxi e, supponendo fosse per voi, stavo venendo ad avvertirvi”.
Sospirai e bevvi un sorso di caffè. “Beh, hai visto tutto quello che c’è da sapere, allora” sentenziai.
Joey mi si avvicinò, poco convinto. “Quindi state insieme, adesso?” chiese.
Alzai le spalle. “Suppongo di sì. Non abbiamo avuto il tempo per parlarne” ammisi.
“Beh, ma che ti ha detto? Che ti ama?”.
Scossi la testa. “No, a dire la verità non mi ha detto nulla” confessai.

Joey mi passò un braccio attorno alle spalle e, stringendomi a sé, mi rassicurò “Probabilmente, con il trambusto della partenza, non ne ha avuto modo. Ma sono certo che lo pensa. Vedrai che te lo dirà presto” poi, parlando più a se stesso che a me, aggiunse “Pensa che Philip ci ha messo due mesi a dirmi che si era innamorato di me. Due mesi. Quasi non ci speravo più”.

 

Arrivai in aeroporto appena in tempo e passai tutto il resto della giornata a correre da una parte all’altra, cercando di sistemare le ultime cose prima dell’inizio del tour. Finalmente, alla sera, riuscii a fermarmi un secondo e la prima cosa che feci, fu chiamare Becky.
“Pronto” rispose lei, con la sua voce dolce.
“Ciao” esordii.
“Ehi” salutò lei, riconoscendomi. “Ce l’hai fatta a prendere l’aereo?”
“Per un pelo” spiegai. “Ti è piaciuto il ciondolo?” chiesi.
È bellissimo, Craig. Non dovevi” mi ringraziò.
“Ma figurati” minimizzai.
Parlammo un po’ del più e del meno, le raccontai la mia giornata frenetica e lei mi spiegò di come avesse accompagnato Lizzie a fare shopping. Poi ci salutammo, augurandoci la buonanotte, e le promisi di richiamarla il giorno seguente.
“Ciao, Craig. Sogni d’oro” disse lei.
“Sogni d’oro anche a te, mia bella regina di Marte. Un bacio”.

Riattaccai, sospirando, e mi lasciai cadere sul letto. Avrei tanto voluto dirle che la amavo alla follia, ma non mi sembrava carino confessarle una cosa così importante per telefono. Scossi la testa. Come al solito, mi stavo preoccupando per niente. Fino a ieri, non sapevo nemmeno cosa provasse lei per me, mentre oggi non solo l’avevo baciata, ma avevamo fatto l’amore ed era stato fantastico. Quei quattro mesi di tour sarebbero passati più in fretta di quanto immaginassi e avrei finalmente potuto dirle quanto la amavo.

 

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Capitolo 8
*** CHAPTER 8 – Don’t Wanna Lose You Now (Backstreet Boys) ***


Ero tornata al lavoro, dopo quei fantastici dieci giorni di vacanza, durante i quali la mia vita aveva preso una piega tanto inaspettata quanto graditissima. Ero ancora un po’ sottosopra e, a sentire Joey, me ne andavo in giro tutto il tempo con un sorrisino ebete sulla faccia, come se nulla al mondo potesse toccarmi. Sentivo Craig tutti i giorni. Erano conversazioni semplici, in cui ci raccontavamo le nostre rispettive giornate, e lui mi teneva aggiornata su tutti i dettagli del tour. Mi aveva promesso di procurarmi i biglietti per andarli a vedere con i miei amici, quando fossero tornati a Londra, ma quella data era ancora molto lontana, segnando praticamente la fine del tour. Mi mancava da morire, ma quelle nostre chiacchierate serali mi aiutavano moltissimo a non soffrire troppo di nostalgia.
“Rebecca, puoi venire un attimo nel mio ufficio?” chiese il mio capo, e io annuii, affrettandomi a vedere cosa volesse.
“Da quant’è che lavori qui, Becky?” mi chiese, mentre sorseggiavamo una tazza di the.
“Circa sei mesi” risposi.
“E in questi sei mesi hai fatto un ottimo lavoro” mi elogiò Jo.
Sorrisi. Nonostante Jo fosse un tipo estremamente alla mano, era sempre il mio capo e mi faceva piacere sentirmi fare complimenti da lui.
“Grazie” sussurrai, arrossendo.
“È soltanto la verità” sentenziò lui. “Senti, ti ho chiamata perché voglio farti una proposta. Non sei costretta ad accettare subito. Puoi pensarci. E, anche se decidessi di dirmi di no, non cambierebbe nulla. Credo solo che sia un’ottima chance, per te, e volevo parlartene prima di proporlo a chiunque altro” spiegò.
Annuii, seria. Morivo dalla curiosità di sapere in cosa consisteva questa proposta.
“La nostra inviata in Afghanistan andrà in maternità e ci serve qualcuno che la sostituisca. So che il tuo sogno è sempre stato quello di fare l’inviata di guerra, per questo lo sto proponendo a te. Ma so anche che sei una ragazza giovane e, se l’idea ti spaventa, posso capire”.
Restai a fissare il mio capo, come in trance. Afghanistan. Inviata di guerra. Era sempre stato il mio sogno e avrei dato qualsiasi cosa per ricevere una proposta del genere. Ma tutto questo era anni prima, quando non avevo nulla da perdere. Ora era diverso. C’era Craig. E, andando in Afghanistan, potevo perderlo. Presi un respiro profondo, prima di rispondere.
“Jo, ti ringrazio infinitamente per la proposta. È veramente il mio sogno più grande” iniziai. “Non so proprio cosa dire” ammisi.
Jo sorrise. “Ma certo, non è una decisione semplice, da prendere così su due piedi” osservò e, appoggiandomi una mano sulla spalla, propose “Facciamo così. Non darmi una risposta subito. Prenditi del tempo per pensarci. Mi farai sapere, okay?.
Annuii, incapace di aggiungere altro e, per tutto il resto della giornata, non feci altro che contare le ore che mi separavano dal rientro, quando avrei potuto finalmente parlarne con i miei amici.

 

“Becky, no. Non esiste” sbottò Lizzie.
“Non fare cazzate” esclamò Arthur, deciso.
Guardai le facce preoccupate dei miei amici e sospirai. Non sembravano condividere il mio stesso entusiasmo riguardo alla proposta di Jo.
“Becky, non puoi andare in Afghanistan” disse Bridget, in tono implorante. “Lì ammazzano la gente, lo sai, vero?”.
Sbuffai. Da quando ci eravamo ritrovati, al bancone del pub di Joey, non avevano fatto altro che ripetermi tutti le stesse cose. Joey richiamò la mia attenzione.
“Becky, so che questo è il tuo sogno e che la consideri la tua grande occasione, quindi non ti pregherò di rinunciare” annunciò, serio. “Voglio solo che ci pensi bene e che, qualunque sia la tua decisione, tu sia veramente sicura, okay?”
Annuii e mi alzai per andare ad aiutarlo a pulire i tavoli, lasciando cadere il discorso.
Mentre stavo sciacquando la spugna nel lavandino, Joey mi si avvicinò, con la scusa di dover sistemare un fusto di birra.
“Ne hai parlato con Craig?” chiese, fingendosi indifferente.
Scossi la testa. “No. Non gliel’ho detto”.
“Forse dovresti farlo” propose.
Sospirai. “Non credo che glielo dirò” annunciai. “Almeno finché non avrò deciso cosa vorrei fare. Solo allora sentirò cosa ne pensa”.
Joey annuì e, dopo un istante di silenzio, domandò “Tanto per sapere, se lui ti chiedesse di rinunciare, cosa faresti?”.
Alzai le spalle. “Presumo che lo farei” risposi.
Il mio amico sorrise e, facendomi l’occhiolino, commentò “È quello gusto, Becky. Ne sono sicuro”.

 

La mattina seguente, mi svegliai inaspettatamente di buonumore. La notte non mi aveva portato consiglio, come diceva il proverbio, e non avevo ancora deciso se accettare o no la proposta di Jo, ma avevo riposato bene ed ero rilassata. Quando arrivai in ufficio, Jo si presentò subito da me.

“Ciao, devo parlarti” disse, sedendosi al di là della mia scrivania.

“Dimmi” lo spronai, mettendomi in ascolto.

“Ascolta, so che ti avevo detto che avresti potuto pensarci e mi dispiace metterti fretta, ma Martha, l’inviata di cui ti ho parlato, ieri non è stata bene e ha dovuto tornare a casa prima del previsto” spiegò.

“Oddio, come sta?” chiesi subito.

“Sta bene, tranquilla,” rispose lui, sorridendo “ma deve entrare in maternità prima del previsto, quindi mi serve mandare là qualcun altro subito”.

Mi fissò per un istante, serio.

“Cosa mi dici?”

Sospirai. Avrei voluto rifletterci ancora, ma a quanto pareva, invece, avrei dovuto decidere di pancia. “Okay, ci sto” dissi, decisa.

Jo sorrise. “Brava ragazza”.

Sorrisi anch’io “Quando devo partire?”

“Tra due giorni. Ce la fai?”

Annuii.

“Bene. Ora vieni, ti presento Peter, il fotografo che verrà con te. È rientrato ieri sera con Martha e non vede l’ora di conoscerti”.

 

Entrai in casa e mi richiusi la porta alle spalle. Era stata una giornata eterna. Tornata dal lavoro, avevo riunito i miei amici per informarli della decisione. Nessuno di loro si era dimostrato entusiasta ma, nel complesso, tutti mi avevano offerto il loro supporto, chi pratico, chi psicologico. Anche se non era giovedì, mi ero fermata a cena da Joey, in modo da accordarci su alcune questioni pratiche. Sarei rimasta via tre mesi e mezzo e il mio amico si sarebbe preso cura di Romeo, in mia assenza.

“Joey, mi hanno chiesto un contatto per le emergenze e ho lasciato il tuo” lo informai, prima di andarmene.

“Che genere di emergenze?” chiese lui, preoccupato.

Gli sorrisi. “Tranquillo, è un pro forma. Non mi succederà niente” lo rassicurai.

“Mi raccomando, fai attenzione” disse lui, abbracciandomi.

“Prometto, non ti preoccupare” giurai.

“Becky...l’hai detto a Craig?” domandò, prima di chiudere la porta del suo appartamento.

Scossi la testa. “Non ancora. Lo faccio ora”.

Joey annuì.

“Speri che mi chieda di non andare, vero?” indagai.

Il mio amico sorrise. “Mi conosci troppo bene” confessò. “Ma, se ho inquadrato il tipo, so che non lo farà. Anche se vorrebbe”.

Gli rivolsi uno sguardo stupito. “Perché?”

“Perché ti ama e vuole la tua felicità. Esattamente come me” sentenziò.

Non riuscii a resistere e lo abbracciai, nascondendo il viso nella sua felpa. “Mi mancherai”.

“Anche tu, quindi torna presto. E tutta intera”.

Mi buttai sul divano e presi il cellulare. Temevo quella chiamata, ma non potevo evitarla. Speravo solo che non ci restasse troppo male. Mi rispose subito.

“Ciao!” esclamò, felice.

“Ciao” risposi. “Com’è andato il concerto?”

“Molto bene, le fan tedesche sono sempre molto affettuose”.

Sorrisi. “Sono felice che vada tutto alla grande”.

“Tu come stai?” chiese lui.

“Io...bene. Sto bene” farfugliai e poi, chiudendo gli occhi “Devo dirti una cosa”.

“Dimmi” mi spronò, così gli spiegai della proposta di Jo e della mia partenza imminente.

“Così andrai in Afghanistan” disse, una volta ascoltato il mio resoconto.

“Così pare” risposi.

“Quanto starai via?”

“Tre mesi e mezzo, circa. Poi manderanno un’altra inviata a darmi il cambio”.

Lo sentii sospirare.

“Di’ qualcosa, ti prego” lo supplicai.

“Non so cosa dire” confessò. “So che è quello che hai sempre sognato, ma sono anche preoccupato”.

“Lo so, ma non devi” lo rassicurai. “Starò attenta, lo prometto”.

“Ti farai sentire?” mi domandò.

“Tutte le volte che potrò” promisi.

“Mi mancherai” ammise.

“Tornerò prima dell’ultima data del vostro tour e verrò a vedervi a Londra. Mi hai promesso i biglietti, non te lo dimenticare” scherzai.

Craig rise. “Come potrei dimenticarlo? Sei sempre nei miei pensieri”.

Il cuore mi schizzò in gola. “Anche tu”.

“Allora, buona fortuna mia bella regina di Marte. Torna presto da me” sussurrò.

“Lo farò, Captain Crash. Te lo prometto”.

 

I giorni seguenti furono piuttosto frenetici, tra preparativi e ultime faccende da sistemare. Joey mi accompagnò in aeroporto e mi tenne stretta tra le sue braccia per un tempo interminabile.

“So che non sei d’accordo ma, ti prego, non odiarmi” lo supplicai, prima di salutarlo.

Lui sorrise e mi accorsi che aveva le lacrime agli occhi.
“Non potrei mai odiarti” mi rassicurò. “Ma tu non fare la stupida, mi raccomando”.

Annuii e gli sorrisi, tentando di ricacciare indietro le lacrime. Era il mio sogno, ma mi sarebbe mancata casa mia. Mi sarebbero mancati i miei amici.

 

Salii sul minivan che ci avrebbe portati all’arena per il concerto e, appena preso posto, incollai gli occhi al cellulare. Sean si sedette accanto a me.

Stai di nuovo controllando le notizie?” domandò, alzando un sopracciglio.

Annuii distrattamente.

Le hai guardate un’ora fa, non può essere successo niente” commentò.

Beh, meglio esserne certo” ribattei.

Il mio amico sospirò. “Tu non stai bene”.

In effetti no” ammisi, voltandomi a guardarlo. “Mi manca da morire e vivo con l’ansia che le succeda qualcosa”.

Era passato un mese dalla partenza di Becky. Ci sentivamo ogni volta che riuscivamo ma, tra i miei impegni e la difficoltà nelle comunicazioni con l’Afghanistan, non era sempre così semplice. Mi mancavano le nostre chiacchierate serali e, più di tutto, odiavo il fatto di non averle detto che l’amavo. Ero certo che sapesse quanto tenevo a lei, ero stato piuttosto chiaro a riguardo, ma non avevo avuto modo di dirle quelle tre semplici parole, prima che partisse e, ovviamente, non era il caso di farlo adesso, durante le nostre brevi e accidentate conversazioni telefoniche. Avrei dovuto aspettare di vederla di persona. Però avevo una spiacevole sensazione che mi accompagnava, come un fastidio per aver lasciato qualcosa in sospeso.

Posso chiederti una cosa?” mi domandò Sean, serio.

Annuii.

Perché non le hai chiesto di restare?”

Sospirai. “Non voglio mettermi in mezzo tra lei e i suoi sogni. La amo, voglio che sia felice”.

Così però stai uscendo di testa tu” osservò il mio amico.

Sorrisi. “Ce la posso fare. Ancora due mesi e mezzo e sarà di ritorno”.

 

Rientrai in albergo massaggiandomi il collo. Peter mi lanciò un’occhiata divertita.

“Stanca?” chiese.

Annuii. “Un po’. Ho dormito male, stanotte, e diciamo che tutte quelle ore appostati davanti al palazzo presidenziale non hanno aiutato”.

Peter sorrise. “Sai cosa ti ci vuole?”

“Una doccia calda e una bella dormita?” azzardai.

“Anche,” convenne lui “ma poi ti porto a cena in un posto carino e ci fermiamo a bere qualcosa in quel locale di cui ti parlavo ieri” propose.

“Quello del tuo amico?” domandai.

Il ragazzo annuì. “Vedrai che ti aiuterà a rilassarti”.

“Dici?” replicai, scettica.

“Ne sono sicuro. È tutta una questione di testa, succedeva anche a me le prime volte. Devi staccare e non pensare a questo schifo che abbiamo intorno”.

Gli sorrisi e annuii. Mi fidavo di lui. Da quando eravamo a Kabul, lavoravamo fianco a fianco ogni ora di ogni giorno ed eravamo diventati amici. Peter era un veterano dell’Afghanistan, quella era la sua decima missione come inviato fotografo, quindi era un’autorità in quasi tutto ciò che riguardava Kabul. Oltre a essere un fotografo eccezionale, lo trovavo un ragazzo fantastico ed ero felice di poter contare su di lui in quella mia prima esperienza.

Ci salutammo e ci accordammo per vederci nella hall un’ora dopo per la nostra serata.

Mi richiusi la porta della stanza alle spalle e mi buttai sul letto. Restai un istante a fissare il soffitto, poi guardai l’orologio che avevo al polso. Le sei. Feci un rapido calcolo. A casa era l’una e mezza. Craig in quel momento si trovava in Irlanda per le date di Dublino. Sicuramente non aveva ancora iniziato il soundcheck. Potevo fare un tentativo e chiamarlo. Presi il cellulare e feci partire la chiamata. Dopo un paio di squilli, non sentii più nulla. Sospirai. Le linee erano di nuovo fuori uso. Succedeva spesso, ultimamente. Quella giornata non accennava a migliorare. Strinsi la collanina che avevo al collo e chiusi gli occhi, cercando di richiamare alla mente il viso di Craig. Immediatamente ricordai i suoi occhi blu e quel sorriso timido ma sincero. Mi mancava da morire e ancora di più mi mancava non potergli dire quanto fossi innamorata di lui. Non rimpiangevo la decisione di partire, quell’esperienza era quanto di più entusiasmante avessi mai vissuto in vita mia, ma contavo i giorni che mi separavano dal rientro a casa, che mi separavano da poter riabbracciare Craig. Era proprio vero che non ti accorgi di quello che hai finché non lo perdi. Prima di partire, cercavo qualcosa che rendesse la mia vita speciale e credevo che lo sarebbe diventata coronando il mio sogno di fare l’inviata di guerra. Adesso, invece, per quanto mi piacesse quello che stavo facendo, mi ero resa conto che la mia vita era già speciale prima e lo era diventata ancora di più dopo aver conosciuto Craig. Scossi la testa e tornai alla realtà. Tentai ancora una volta di chiamare Craig ma non ebbi fortuna, quindi mi rassegnai e andai a farmi la doccia e a prepararmi alla serata, sperando che Peter avesse ragione e servisse a distrarmi. Prima di uscire dalla mia stanza, presi il cellulare, ma poi ci ripensai e lo abbandonai sul letto. Tanto quello stupido aggeggio non funzionava, tanto valeva tagliare fuori qualsiasi distrazione e concentrarmi sulla serata. Al resto avrei pensato il giorno seguente.

 

BAM. BAM. BAM. Cosa diavolo era quel rumore fastidioso? Cercai di fare mente locale. Ero sdraiato su un prato verde, in riva a un lago. Casa mia. L’aria era fresca e il cielo limpido, solcato soltanto da qualche nuvoletta passeggera. Presi un respiro profondo e il profumo dei fiori e dell’erba fresca mi riempì le narici. Ero sereno.

BAM. BAM. BAM. Ancora quel rumore. Non c’entrava niente con il prato su cui ero sdraiato e nemmeno con il lago davanti a me. Da dove poteva provenire?

BAM. BAM. BAM. Il lago iniziò a sbiadire davanti ai miei occhi, il profumo dell’erba divenne via via più lieve, fino a sparire completamente, il cielo cambiò colore e da azzurro diventò completamente bianco. Riluttante, aprii gli occhi e mi ritrovai nella mia camera d’albergo a Dublino. Niente prato fiorito, niente lago, niente cielo azzurro. Stavo sognando. La sera precedente, dopo il concerto, ero tornato in albergo esausto. Da un mese circa dormivo male, probabilmente preoccupato per Becky e frustrato per non poterla sentire quanto avrei voluto. Non appena toccato il letto ero crollato, sprofondando in un sonno senza sogni. Almeno fino a quando non mi ero ritrovato su quel bel prato. Ma poi quel rumore fastidioso mi aveva svegliato.

BAM. BAM. BAM. Non accennava a smettere. Ormai completamente sveglio, mi accorsi che proveniva dalla porta. Qualcuno stava bussando con insistenza. Trascinandomi a fatica fuori dal letto, andai ad aprire, senza neanche preoccuparmi di chiedere chi fosse. Non ero abbastanza lucido per immaginare fan che erano riuscite a intrufolarsi in hotel e a scoprire quale fosse la mia stanza, per cui neanche pensai a mettermi qualcosa addosso e aprii la porta in boxer. Fortunatamente, mi ritrovai davanti Sean.

Cosa diavolo stavi facendo?” chiese, entrando.

Dormivo” risposi, richiudendo meccanicamente la porta.

Quindi non sai nulla” osservò lui.

Non so cosa?” domandai, passandomi una mano sugli occhi per riacquistare lucidità.

Sean mi fissò, serio. “Siediti” mi disse.

Obbedii, come un automa, e mi sedetti sul bordo del letto. Sean rintracciò il telecomando della TV, che avevo abbandonato su una poltrincina, e accese l’apparecchio, sintonizzandolo su un canale che trasmetteva notizie 24 ore su 24. Immediatamente, sullo schermo comparvero immagini di fuoco, cenere e macerie.

Cosa…?” farfugliai.

Leggi sotto” mi spronò il mio amico.

Abbassai lo sguardo sul banner rosso che passava a fondo schermo: Kabul. Attentato di Al Quaeda all’Hotel Kabul Star, dove alloggiavano gli inviati delle principali emittenti occidentali. La struttura è stata rasa al suolo. Ancora da accertare il numero delle vittime e dei dispersi.

Il mio cuore smise di battere e mi si annebbiò la vista. Sean mi fissava, preoccupato.

Cristo. Becky” riuscii a dire, senza fiato.

Mi dispiace” sussurrò il mio amico, ma io non lo stavo più ascoltando. Mi ero precipitato al comodino e stavo trafficando con il cellulare, cercando il numero di Becky. Non poteva essere vero. Doveva essere uno sbaglio. Mi aveva promesso che sarebbe stata attenta e che sarebbe tornata presto. Feci partire la chiamata ma attaccò subito la segreteria telefonica. Scoppiai a piangere come un bambino. Sean mi si avvicinò e mi abbracciò.

Calmati” mi disse, battendomi delle pacche sulla schiena.

Non può essere vero” singhiozzai. “Mi aveva promesso che sarebbe stata attenta”.

Non è stata colpa sua” cercò di farmi ragionare lui.

Non le ho detto che la amo” farfugliai, in preda alla disperazione.

Ehi, guardami” disse Sean, allontanandomi dal suo abbraccio e costringendomi a guardarlo negli occhi. “Smettila di disperarti. Non sappiamo ancora se era lì”.

L’hotel è quello” obiettai, incapace di ragionare.

D’accordo, ma ci sono dei dispersi, hai sentito? Non è ancora detta l’ultima parola”.

Non so cosa fare” farfugliai, lasciandomi cadere sul letto.

Quel suo amico, a Londra…” propose Sean.

Joey?” chiesi.

Sean annuì. “Chiamalo”.

Scossi la testa. “Non ho il suo numero”.

Allora vai a Londra a parlargli” insistette.

Ma...io...il tour…” balbettai.

Chi se ne frega del tour, Craig!” sbottò il mio amico. “Occupati di Becky. Al resto penso io”.

Annuii, deciso. “Okay”.

Prepara la valigia, io ti prenoto il primo volo per Londra e ti chiamo un taxi” sentenziò, prima di uscire dalla mia stanza.

 

Arrivai sotto casa di Becky alle sei e venti. Scesi dal taxi e mi precipitai al pub di Joey, certo di trovarlo lì. Infatti, era seduto al bancone, circondato da tutti gli altri amici di Becky. Philip gli teneva un braccio intorno alle spalle. Mi avvicinai.

Joey” dissi.

Il ragazzo alzò lo sguardo su di me e vidi che aveva gli occhi rossi e gonfi di pianto.

Craig”.

Dimmi che sta bene, ti prego” lo supplicai.

Joey scosse la testa. “Non lo so” rispose, iniziando a singhiozzare. Philip lo abbracciò.

Mi si avvicinò un ragazzo, che riconobbi essere Arthur, l’attore.

Non abbiamo notizie di Becky da due giorni” spiegò. “Jo, il suo capo, ha chiamato Joey per avvisarlo dell’attentato, ma non ha saputo dirci altro. Il cellulare di Becky è irraggiungibile e anche quello di Peter, il fotografo che è con lei, suona a vuoto. Stanno cercando di rintracciarli tramite l’ambasciata, ma laggiù è un gran casino e si sta rivelando più difficile del previsto”.

Annuii, con la mente annebbiata. “Non può essere morta” farfugliai.

Bridget e Lizzie scoppiarono a piangere e Arthur si affrettò ad abbracciare la sua ragazza.

Vogliamo credere che stia bene, ma la verità è che non lo sappiamo” confessò, abbassando lo sguardo.

In quel momento, Joey si alzò dallo sgabello su cui era seduto e mi si avvicinò. Ci guardammo negli occhi per un istante, poi mi abbracciò.

Grazie per essere qui” mi disse, trattenendo a stento le lacrime. “Sapevo che tieni veramente a lei”.

Annuii. “Io la amo” confessai, sforzandomi di non scoppiare a piangere “e non gliel’ho nemmeno mai detto”.

Lei lo sa” mi rassicurò lui, dandomi una pacca sulla spalla.

Cosa...cosa facciamo?” domandai, incapace di rassegnarmi.

Joey alzò le spalle. “C’è ben poco che possiamo fare, temo. Aspettiamo di avere notizie e preghiamo che stia bene”.

Scossi la testa. “Non ce la faccio”.

Craig, è difficile per tutti, ma non c’è davvero nient’altro da fare” tentò di farmi ragionare Lizzie, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.

Una cosa c’è” dissi, guardandoli negli occhi uno a uno.

Tutti mi restituirono uno sguardo perplesso. Poi Philip chiese “Cosa vuoi fare?”

Vado a cercarla” sentenziai.

A Kabul?” chiese William, strabuzzando gli occhi.

Annuii, serio.

È una pazzia” commentò Philip, scioccato.

Può darsi,” convenni “ma se non faccio nulla impazzisco ugualmente”.

Restarono tutti a guardarmi in silenzio per un po’, poi Arthur si riscosse e, sorridendomi, disse “Ti cerco un volo”.

Io ti accompagno in aeroporto” propose William.

Joey mi mise le mani sulle spalle e, sorridendo, mi disse “Vai e riporta a casa la nostra Becky”.

 

Arrivato a Kabul, presi un taxi e mi feci portare al Kabul Star Hotel o, quanto meno, a ciò che ne restava. Non nutrivo alcuna speranza di trovare risposte lì, ma non sapevo dove altro andare. In un inglese stentato, il tassista tentò di spiegarmi che l’albergo era saltato in aria, ma lo convinsi a portarmici ugualmente. Volevo vedere con i miei occhi la situazione.

Prima di partire, ero riuscito a parlare con il capo di Becky. Non aveva novità da darmi ma, dai primi bollettini ufficiali rilasciati dalle varie ambasciate, i nomi di Becky e del suo collega fotografo non comparivano tra le vittime. Stavano ancora estraendo corpi tra le macerie, quindi non voleva dire nulla, ma la notizia aveva risvegliato in me un briciolo di speranza.

Scesi dal taxi e chiesi all’autista di aspettare, mentre mi guardavo intorno, sbigottito. Ovunque c’erano rovine e calcinacci e tutta la zona era presieduta dall’esercito, che lavorava incessantemente per estrarre gli ultimi corpi, sebbene non si nutrissero più speranze di trovare superstiti. Fui assalito da un senso di angoscia terribile e mi venne da piangere. Cosa stavo facendo lì? Cosa pensavo di trovare? La situazione era talmente tragica che, se Becky si trovava davvero in quel maledetto albergo, al momento dell’esplosione, non c’era la benché minima possibilità che fosse sopravvissuta. Dovevo guardare in faccia alla realtà, era inutile continuare a illudersi. Le lacrime mi annebbiarono la vista e, prima di tornare al taxi, mi voltai ancora una volta verso i cumuli di macerie che una volta erano state il Kabul Star Hotel. Fu allora che li vidi. Due figure che si avvicinavano, uscendo dalla zona presidiata dai militari e salutando il soldato che gli aveva aperto il passaggio. Un uomo di media statura, ben piantato, con la barba e un cappellino da baseball blu, e una donna più bassa, con i capelli castani legati in una treccia, una giacca verde militare e un paio di jeans. Mi asciugai velocemente le lacrime per poter vedere meglio. Mano a mano che si avvicinavano, riuscivo a mettere a fuoco altri dettagli. L’uomo aveva al collo una macchina fotografica mentre la donna portava uno zainetto in spalla e stringeva una shopper di tela. Strizzai gli occhi, incredulo. Non poteva essere. In quel momento, anche loro si accorsero della mia presenza e la donna si fermò di colpo, fissandomi. Il mio cuore mancò un battito e mi ritrovai a sorridere, come un idiota.

Craig!” esclamò lei, strabuzzando gli occhi.

Becky!” dissi, andandole incontro.

Un istante dopo, la stavo stringendo tra le mie braccia, singhiozzando senza vergogna.

 

Io e Peter eravamo usciti a comprare qualcosa da mangiare quando, seguendo un impulso, avevamo deciso di tornare all’hotel per vedere com’era la situazione. La notte dell’attentato, eravamo andati a cena e poi ci eravamo fermati a bere qualcosa dall’amico di Peter, come pianificato. Ahmed era un brav’uomo e ci eravamo trattenuti a chiacchierare con lui e sua moglie Asmaa molto più a lungo di quanto avremmo dovuto. Erano ormai quasi le tre di notte quando ci eravamo ripresentati al nostro albergo, per scoprire che l’albergo non c’era più. I terroristi l’avevano fatto saltare in aria e, con lui, tutti i poveri ospiti al suo interno. Sotto shock per lo scampato pericolo e senza riuscire ancora a renderci veramente conto della fortuna che avevamo avuto, eravamo stati accompagnati in un altro albergo da dei soldati, che ci avevano spiegato cos’era successo e ci avevano assicurato che, non appena la situazione si fosse assestata, avrebbero preso contatto con l’ambasciata inglese, chiedendo di avvisare le nostre famiglie a casa che stavamo bene. Non avevamo più nulla a parte i vestiti che indossavamo, la macchina fotografica, che Peter portava sempre con sé, e le poche cose che c’erano nel mio zainetto tra cui, fortunatamente, il portafogli con qualche contante. Entrambi avevamo lasciato i cellulari in camera, quindi erano andati distrutti insieme all’albergo. Inoltre, le linee telefoniche, che già prima del disastro lasciavano alquanto a desiderare, erano andate completamente in tilt in seguito all’esplosione, quindi non avevamo modo di contattare casa. Sulle prime ci eravamo agitati, immaginando l’angoscia dei nostri amici e famigliari, ma poi ci eravamo rassegnati ad attendere, anche perché non c’era veramente nient’altro che potessimo fare. Allontanandoci dalla zona presidiata, quel pomeriggio, avevamo realizzato veramente, forse per la prima volta, quanto successo. Se non fosse stato per una pura coincidenza, anche noi avremmo potuto trovarci sotto quelle macerie. Avremmo potuto essere morti. Ci eravamo allontanati in silenzio, scioccati da quell’improvvisa presa di coscienza. Quando mi ritrovai davanti Craig, a cui non avevo fatto altro che pensare dal momento dell’incidente, quindi, sulle prime pensai che si trattasse di un’allucinazione dovuta allo shock. Poi lo sentii pronunciare il mio nome e lo vidi corrermi incontro e capii che, per quanto sembrasse troppo bello per essere vero, non era un sogno o una proiezione della mia mente sconvolta, ma lui era davvero lì. Era lì per me. Avevo un’altra possibilità di stringerlo tra le mie braccia e dirgli quanto era importante per me. Senza perdere altro tempo, lasciai cadere la borsa e gli corsi incontro, buttandomi nel suo abbraccio.

 

Mentre la stringevo tra le mie braccia, continuavo a ripetermi che non stavo sognando, che era tutto vero, anche se incredibile. La donna che amavo era lì, con me, e non l’avrei più lasciata. Mai più.

Mio Dio, Becky, sei viva” farfugliai, tra le lacrime.

Sì, sto bene. Non preoccuparti” mi rassicurò lei.

Credevo di averti persa per sempre” confessai, accarezzandole i capelli.

Lei mi prese il viso tra le mani e mi asciugò le lacrime con i pollici.

Non mi hai persa” disse, sorridendo “Sono qui”.

Sorrisi anch’io e le accarezzai una guancia.

Cosa ci fai qui?” mi chiese.

Io...quando ho sentito dell’attentato, ho creduto di morire. Non potevo aspettare di ricevere notizie, dovevo sapere che stavi bene” tentai di spiegare.

È stata una follia” osservò lei.

Alzai le spalle.

Forse,” ammisi “ma più ti guardo, più mi convinco di aver preso la decisione giusta, invece”.

La guardai negli occhi, con il cuore che mi batteva a mille. Normalmente, sarei stato terribilmente in imbarazzo, considerato quello che stavo per fare, ma la possibilità di averla persa per sempre, relegava tutto il resto in secondo piano.
Le presi il viso tra le mani e, senza smettere di guardarla degli occhi, dissi “Ti amo, Becky. Ti amo come non ho mai amato nessun’altra e non posso più vivere senza di te. Scusa per non avertelo detto prima”.

Pur scioccata dalla mia dichiarazione, Becky sorrise.

Ti amo anch’io, Craig. Non avrei mai creduto di innamorarmi di una persona famosa, lontana anni luce dal mio mondo ma, dopo averti conosciuto, la verità è che ho capito che, in realtà, sei soltanto un uomo normale, che fa un lavoro particolare”.

Mi venne da ridere.
“Io faccio un lavoro particolare?” domandai, scettico “Non sono io che ho rischiato di saltare in aria, mi pare”.

Anche Becky rise “In effetti hai ragione. Forse quella con il lavoro più strano sono io”.

Restammo un istante a guardarci, poi mi avvicinai alle sue labbra e la baciai, cercando di trasmetterle con quel bacio tutto l’amore che provavo per lei.

Fummo distratti da un rumore meccanico, come una serie di click. Ci voltammo entrambi, stupiti, e trovammo Peter, il fotografo amico di Becky, che ci scattava una raffica di fotografie.

Accortosi che lo stavamo fissando, abbassò la macchina fotografica e ci sorrise, imbarazzato.

Ehm…io...scusate. Non volevo rovinare il momento, ma la deformazione professionale ha preso il sopravvento. Era uno scatto perfetto” si giustificò.

Io e Becky scoppiammo a ridere. Poi ci guardammo di nuovo negli occhi e lei appoggiò la testa sul mio torace. Sospirai e la strinsi a me, baciandole i capelli. Non l’avrei mai più lasciata. Mai più.

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Capitolo 9
*** EPILOGUE – These Are the Days of Our Lives (Queen) ***


~ Un anno dopo ~

 

Mi guardai intorno, nella sala gremita di gente, scrutando i volti delle persone che sedevano al tavolo con me. Joey e Philip, elegantissimi nei loro smoking. Arthur che stringeva la mano di Bridget, che gli sorrideva, felice e bellissima, nel vestito rosso scollato. William che sussurrava qualcosa all’orecchio di Lizzie, le guance fianco a fianco. Brenda che beveva un sorso di vino bianco e Sean che parlava con Craig, sghignazzando per qualche battuta che sicuramente avevano fatto su qualcuno degli ospiti presenti. Ero felice. Se un anno prima qualcuno mi avesse detto che mi sarei ritrovata seduta a un tavolo alla premiazione di uno dei premi fotografici più importanti del mondo, circondata dai miei amici e insieme a due famosi cantanti, gli sarei scoppiata a ridere in faccia. Ma la vita era curiosa. E il destino tesseva trame intricate e, spesso, incomprensibili. Una delle foto che Peter ci aveva scattato il giorno che Craig era venuto a cercarmi a Kabul, dopo l’attentato all’albergo, era stata scelta come copertina di Time Magazine e successivamente candidata al World Press Photo of the Year. Già la sola candidatura significava entrare a far parte dei fotografi di attualità più acclamati al mondo ma, contro ogni più rosea aspettativa, la foto di Peter si era aggiudicata il primo posto e, quella sera, si teneva la cerimonia di consegna del premio. Peter ci aveva invitati tutti, specialmente me e Craig, in quanto soggetti dello scatto. In realtà, solo lui e i nostri amici sapevano che le due persone che si baciavano sullo sfondo delle rovine del Kabul Star Hotel eravamo noi, perché nella foto si potevano scorgere solo le nostre silhouette, poiché lo scatto era stato preso contro luce a causa di un raggio di sole che aveva inaspettatamente squarciato le nuvole che coprivano il cielo di Kabul, quel giorno, conferendo alla composizione un che di mistico. Ma noi lo sapevamo e questo bastava. Craig aveva mantenuto la promessa e, da quel momento, non mi aveva più lasciata. Jo mi aveva cambiato mansioni, spostandomi dai conflitti alla scena musicale, così riuscivo a vedere Craig molto più spesso. Ogni volta che era a Londra per impegni con la band, il che succedeva piuttosto spesso, Craig non stava più in albergo o nell’appartamento di Sean, ma veniva a stare da me. La nostra relazione andava a gonfie vele e lui aveva iniziato a parlare di trovare un appartamento più grande dove trasferirci insieme, magari vicino a quello di Sean.

Quando il nome di Peter venne annunciato e lui si recò sul palco per ritirare il premio e pronunciare il breve discorso di ringraziamento di rito, sentii la mano di Craig stringere la mia sul tavolo. Mi voltai a guardarlo e gli sorrisi. Lui ricambiò. Un istante dopo, lasciò la mia mano per applaudire il nostro amico e mi accorsi che mi aveva messo qualcosa sul palmo. Abbassai gli occhi, per vedere di cosa si trattasse, e trovai un anello, un semplice cerchio di oro bianco con un piccolo diamante. Spostai lo sguardo su Craig e lo fissai, a bocca aperta. Lui mi sorrise.

“Vuoi?” sussurrò.

Annuii. “Certo che voglio” risposi, con gli occhi che mi brillavano di felicità.

Lui prese l’anello dal palmo della mia mano e me lo infilò al dito, baciandomi dolcemente il dorso della mano. Lo tirai a me e posai le mie labbra sulle sue. Rebecca MacLuis. Sì, suonava proprio bene.

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