Il Velo Invisibile

di edoardo811
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una pessima giornata ***
Capitolo 2: *** La figlia di Trivia ***
Capitolo 3: *** La Quinta Coorte ***
Capitolo 4: *** Attacco nella Via Principalis ***
Capitolo 5: *** La battaglia per il Campo Giove ***
Capitolo 6: *** La dea in catene ***
Capitolo 7: *** Profezia ***
Capitolo 8: *** Alcune regole sono fatte per essere infrante ***
Capitolo 9: *** Alla ricerca di Ecate ***
Capitolo 10: *** Un nuovo amico ***
Capitolo 11: *** Un destino oscuro come pochi... tanto per cambiare ***
Capitolo 12: *** La prigione ***
Capitolo 13: *** La figlia abbandonata ***
Capitolo 14: *** La vera Foschia ***
Capitolo 15: *** Divisi ***
Capitolo 16: *** Riunione ***
Capitolo 17: *** Death Valley ***
Capitolo 18: *** Rivelazioni ***
Capitolo 19: *** Vecchi amici ***
Capitolo 20: *** Furnace Creek ***
Capitolo 21: *** Rimpatriata ***
Capitolo 22: *** Un unico obiettivo ***
Capitolo 23: *** Il Vacuo ***
Capitolo 24: *** Corsa contro il tempo ***
Capitolo 25: *** Clint Eastwood affronta l'Anti Ecate ***



Capitolo 1
*** Una pessima giornata ***


I

Una pessima giornata

 

 

Il mattino era sempre la parte più difficile della giornata, per Daniel. Il sole filtrava dalle finestre, la sua luce accecante batteva sul suo volto dopo una lunga notte insonne, scacciando via il buio a cui si era abituato. Dei, quanto lo odiava.

«Alzati García!» gridò qualcuno. Il ragazzo spostò lo sguardo accanto al suo letto, dove un fantasma viola lo stava osservando infastidito. «Non fare arrivare tardi i tuoi compagni un’altra volta!»

Daniel allontanò il suo sguardo annoiato da lui, sospirando pesantemente. Aveva provato un miliardo di volte a spiegare a Vitellio che non lo faceva di proposito, che davvero di mattina non si sentiva mai bene, ma quello continuava a urlargli di essere solamente un pigro, uno scansafatiche, un hircus exsuccus e così via.

Si mise a sedere a fatica, massaggiandosi tra i capelli neri come il carbone, mentre il lare continuava girare per la stanza urlando e sbraitando. Per essere un morto ne aveva di energie.

«Buongiorno Daniel» lo salutò David dal letto accanto al suo, mentre si stiracchiava.

«Buongiorno…» rispose lui. La sua voce era roca di natura, ma quando era anche impastata dal sonno uscivano sempre versi gutturali che ricordavano quelli di un animale incattivito. Per fortuna i suoi compagni di stanza ormai si erano abituati.

Travis saltellò di fronte a loro come nella corsa coi sacchi per infilarsi nei pantaloni, schivando gli altri ragazzi che andavano e venivano. Naturalmente inciampò, suscitando le ire di Vitellio.

Dopo essersi dato una ripulita in bagno, Daniel indossò un paio di jeans neri e la maglietta viola del campo. Afferrò sul comodino la sua piastrina da probatio, infilandosela in tasca con una smorfia. Grazie agli dei – ma non al suo genitore divino – il suo anno di servizio al Campo Giove stava per finire. Già essere non riconosciuto dopo i sedici anni lo rendeva una specie di appestato, essere anche un novellino che non aveva ancora dimostrato di meritarsi di salire di rango non faceva che peggiorare le cose. Concluse indossando un maglione blu scuro, che gli diede una sensazione di gradevole familiarità.

Nei corridoi del dormitorio incrociò gli altri membri della Quinta Coorte. I due centurioni guidavano la folla, scambiandosi parole non molto cortesi con Vitellio che continuava ad urlare loro di sbrigarsi.

«Buongiorno Daniel!» esordì Camille, apparendo accanto a lui con un ampio sorriso. «Come stai?»

Daniel rispose con un mugugno e la ragazza ridacchiò, per poi farsi più apprensiva. «Dormito bene?»

Il ragazzo spostò lo sguardo su di lei incrociando i suoi occhi color ametista. Quel colore lo aveva sempre incuriosito. Si domandava sempre se fosse naturale o se fosse stata lei a renderli così con la magia.

«Sì, stranamente sì» ammise, stringendosi nelle spalle. «È stata una notte tranquilla.»

Camille annuì, spostandosi una ciocca di capelli albini dietro l’orecchio. Di solito li teneva chiusi in una crocchia, ma forse quella mattina non aveva avuto tempo di farsela. «È una bella cosa, no?»

«Credo… di sì.»

«Ehilà, zombie.» Qualcuno gli sferrò una sonora pacca sulla schiena, facendogli serrare le labbra. Riconobbe immediatamente quella voce e, soprattutto, quella mano capace di frantumare una pietra.

Kiana lo affiancò con il suo solito sorrisetto arrogante. O meglio, torreggiò. Quella ragazza era alta almeno un metro e novanta, con braccia scolpite e il fisico tonico. A prima vista nessuno l’avrebbe davvero scambiata per una figlia di Venere. Da come si allenava – e da come picchiava, anche – pareva più una figlia di Marte.

«Sì, ehilà…» mugugnò lui, ricacciando indietro parole peggiori.

«Dai, Kiana» la rimproverò Camille, trattenendo a stento una risatina. «Lo sai che di mattina è un po’ suscettibile.»

«Oh, lo so.» Kiana gli sferrò un’altra pacca. «Lo so molto bene.»

Daniel serrò le labbra, decidendo di lasciar perdere con un sospiro, mentre le due ragazze ridacchiavano. A distanza di così tanto tempo, ancora non capiva perché quelle due si ostinassero ad essere amichevoli con lui e non lo ignorassero invece come faceva tutto il resto del Campo Giove.

Non piaceva molto alle altre coorti, Daniel. Nemmeno ai lari, o ai fauni. E se perfino i fauni preferivano stargli lontano piuttosto che chiedergli spiccioli, significava che forse c’era davvero qualcosa che non quadrava in lui. Ma non era un problema; meno gente che gli parlava significava meno ronzii fastidiosi per le sue orecchie.

Come tutte le mattine, nella mensa l’aria era satura di elettricità. Occhiate velenose volavano in ogni direzione, da parte di tutte le coorti. Il bersaglio preferito, però, era sempre la quinta. Non che a Daniel importasse granché, a dire il vero. La sua preoccupazione maggiore era riuscire a farsi riconoscere e, soprattutto, stare alla larga dai guai.

E anche cercare di capire che cosa significassero quei maledetti incubi che lo assalivano da mesi e mesi.

Rimase a mangiare in silenzio, mentre accanto a lui Camille e Kiana chiacchieravano serene. Quelle due erano poli opposti: una era bassina, gracile e un po’ impacciata, la pelle pallida come un lenzuolo e i capelli albini che le arrivavano al collo; l’altra era alta, il corpo a clessidra con muscoli ben definiti, la pelle scura e un’impressionante chioma di capelli che dal castano tendevano al nero.

Formavano una strana coppia, eppure erano inseparabili. E, per qualche motivo a Daniel ancora sconosciuto, avevano cercato di includere anche lui in quella cerchia, quando era arrivato al Campo Giove quasi un anno prima.

Forse serviva uno di altezza e corporatura media per fare da mezzano.

«García.»

Daniel drizzò la testa dal suo doppio – anche triplo, quadruplo – caffè, trovandosi di fronte gli occhi di ghiaccio di Marianne, che lo scrutavano severi dall’altra parte del tavolo. Quella ragazza aveva appena diciott’anni, eppure sembrava già una trentenne, con il volto un po’ scavato e i capelli mossi che scendevano ai suoi lati come tende.

«Quando hai finito qui, vai al tempio di Giove. L’augure vuole vederti.» Il centurione si allontanò senza nemmeno attendere una risposta.  

«L’augure?» domandò Cam, stupita.

«Che hai combinato, zombie?» Kiana spalmò della marmellata su un toast, rivolgendogli un ghigno.

Daniel scosse la testa, sorpreso tanto quanto loro. «Non ne ho la più pallida idea.»

Vide Camille giocherellare nervosamente con uno dei suoi orecchini a forma di triquetra, che indossava come rimando a sua madre Trivia. «Forse… vuole chiederti dei tuoi sogni?»

«Non credo. Voi siete le uniche con cui ho parlato dei miei incubi.»

L’espressione della ragazza cambiò all’improvviso, facendosi angosciata. «D-Davvero? Non l’hai detto a nessun altro?»

«No.»

Camille distolse lo sguardo da lui, facendo di tutto per non incrociarlo più. Daniel serrò le labbra, percependo un’impellente sensazione di fastidio. «Cam?»

«S-Sì?»

«Hai parlato a qualcuno dei miei sogni?»

Nessuna risposta. Quelle iridi viola rimasero incastonate sul piatto di brioches integrali riposto sul tavolo. E la cosa non fece che irritarlo ancora di più. «Si può sapere perché l’hai fatto?!» sbottò, con voce più alta di quanto avrebbe voluto.

Diversi sguardi si posarono su di lui, facendolo irrigidire. Odiava quando gli altri lo fissavano. Si ricompose prima che Marianne arrivasse a conciarlo per le feste e si voltò di nuovo verso Cam, usando un tono più moderato: «Te ne ho parlato in confidenza, ricordi? Doveva essere solo una cosa tra di noi!»

«Ehi, ehi, zombie.» Kiana si sporse verso di lui, scrutandolo severa con i suoi occhi cangianti. «Non prendertela con lei. È soltanto preoccupata per te. Voleva aiutarti.»

Daniel grugnì, distogliendo lo sguardo da lei.

«Ho… ho soltanto detto che facevi fatica a dormire, e che eri… turbato» mormorò Camille.

«E a chi l’avresti detto?»

Camille farfugliò qualcosa, con voce così fioca che Daniel ebbe perfino il dubbio che avesse parlato. «A chi, scusa?» ripeté.

«A-Ashley» bisbigliò Cam, per poi voltarsi – saggiamente – da un’altra parte.  

«ASH-» Daniel si zittì quando altre dieci teste si voltarono verso di lui. Marianne lo folgorò con un’occhiataccia, mentre il suo collega centurione, Allen, sospirava scuotendo la testa. I gemelli Vega sghignazzarono, mentre David volse uno sguardo angosciato verso la loro direzione.

Travis, invece, si sbracciò verso uno dei vassoi fluttuanti per chiedere il bis, la bocca e la maglietta ricoperte di briciole.

«Ashley?» ripeté lui, sentendo il sangue ribollirgli nelle vene. «Di tutte le persone a cui avresti potuto dirlo, proprio Ashley?!»

«È… è il nostro pretore» provò a spiegare Camille. «A chi altro avrei potuto dirlo?»

«Magari a nessuno!»

Cam non rispose. La paura, lo sconforto e la tristezza che trapelavano dal suo sguardo erano così forti che Daniel avrebbe quasi potuto toccarle con le dita.

«Dacci un taglio, Daniel» sbottò Kiana, posandole una mano sulla spalla per tranquillizzarla. «C’ero anch’io con lei. L’idea è stata di tutte e due. Se vuoi arrabbiarti, allora prenditela anche con me.»

La figlia di Trivia la osservò stupita, mentre Daniel serrava le labbra. Sapeva riconoscere le bugie quando le sentiva e Kiana ne aveva appena detta una. Stava solo cercando di proteggere Camille. Tuttavia, decise di lasciar perdere una volta per tutte. Ormai quell’impicciona aveva spifferato tutto, arrabbiarsi non sarebbe servito a nulla.

Anche se tra tutte le persone, Ashley era di gran lunga l’ultima che avrebbe voluto scoprisse che di notte aveva gli incubi.

Si alzò dal tavolo senza curarsi di finire di mangiare, la fame ormai gli era passata del tutto. Lanciò un ultimo sguardo verso le sue “amiche” e fece una smorfia. «Mi ricorderò di non dirvi mai più nulla.»

Se ne andò senza nemmeno attendere una risposta. Per tutto il tempo sentì gli sguardi di quelle due puntati sulla sua schiena.

 

***

 

Percorse la Via dei Templi cupo in volto, mentre il sole picchiava con insistenza su di lui, irritandolo. Avrebbe dovuto smetterla di vestire con colori scuri.

Il suo sguardo scivolò su tutte quelle costruzioni dedicate agli dei e gli altarini stipati di doni per loro. Lì in mezzo avrebbe dovuto esserci anche quello dedicato al suo genitore, eppure ogni volta che il suo sguardo passava sopra tutti quei palazzi stravaganti non riusciva a provare nulla. Nessuno di quei templi gli diceva mai nulla. Il tempio di Bellona, quello di Mercurio, quello di Giove, di Plutone, non sentiva di avere niente da spartire con nessuno di loro. E lo stesso valeva per quelli delle divinità minori.

Ogni volta che passava di lì, ogni volta che li osservava, si sentiva un estraneo. Si sentiva come se in realtà non appartenesse a quel luogo. E i suoi sogni non facevano altro che alimentargli questa convinzione.

Sapeva che Camille aveva cercato di aiutarlo, ma non riusciva a capire perché. Che cosa sperava di ottenere? Non lo voleva il suo aiuto. Detestava quando gli altri si impicciavano nei suoi affari. Ormai era troppo tardi. Avrebbe incontrato l’augure e avrebbe sentito che cosa aveva da dirgli, sperando che non si trattasse di domande proprio sui suoi incubi, perché non gli andava affatto di parlarne.

A Camille e Kiana non aveva mai raccontato che cosa vedesse in quei sogni. Aveva soltanto detto che faticava a dormire per causa loro. Non aveva raccontato loro delle voci che sentiva e che – con quella lingua che era certo di non avere mai sentito in vita sua, che però in qualche modo lui sapeva comprendere – gli ordinavano di distruggere il Campo Giove. Non aveva raccontato delle visioni terrificanti che lo perseguitavano, di quella terra che sembrava ribollire, con creature disumane che vi si riversavano fuori come eruttate da essa, qualcosa che la sua mente non avrebbe potuto, e dovuto, comprendere.

Non aveva idea di come avrebbero potuto reagire Camille e Kiana sentendo qualcosa del genere. Non voleva nemmeno saperlo.

Il tempio di Giove apparve di fronte a lui. Era di gran lunga il tempio più grosso e maestoso di tutta la via: la sua figura si poteva intravedere dal campo, come se Giove cercasse di attirare l’attenzione di tutti in qualsiasi momento. E soprattutto come se volesse ricordare a tutti gli altri dei che i loro templi rispetto al suo erano insignificanti.

Ora Daniel sapeva da chi avesse preso Ashley.

Superò le ampie colonne all’ingresso e s’avviò verso l’altare su cui l’augure compiva i rituali. Il suono dei suoi passi riecheggiò sul pavimento di marmo, dispendendosi nell’ambiente silenzioso, mentre avvertiva le spalle rilassarsi: nell’ombra del tempio, lontano dalla luce del sole, si sentiva molto meglio.

Si guardò attorno, corrucciando la fronte. In un angolo vide alcuni pupazzetti di peluche squartati e buttati a casaccio: orsetti, leoni, lupacchiotti, perfino una zebra.

«Dante?» chiamò, incerto. Nessuna risposta. L’augure non c’era. Daniel sbuffò. «Che perdita di tempo.»

S’avvicinò alla gigantesca statua di Giove posta al fondo del tempio, dietro all’altare. Osservò quell’omaccione dal basso, concentrandosi sul suo sguardo severo e austero. Era solo una statua, eppure sentì la propria schiena formicolare in sua presenza.

Avvertì una sensazione strana, sgradevole, come se si trovasse di fronte ad un nemico. Lo sguardo rigido dell’uomo scolpito lanciava lo stesso messaggio con cui anche le voci nei suoi incubi amavano torturarlo: “Non appartieni a questo luogo.”

Daniel fece schioccare la lingua. «E cosa pensi di fare a riguardo? Vuoi forse cacciarmi?» La statua non disse nulla, e il ragazzo annuì. «Già, lo immaginavo.»

Si accorse di decine e decine di fogli sparsi sopra l’altare. Rotoli di pergamene, mischiati a blocchetti degli appunti, post-it e perfino pagine di quaderni scolastici a righe e a quadretti. Erano ricoperti di scritte in latino, greco e inglese.

Un forte ronzio attirò la sua attenzione, facendolo sussultare. Arrivava da dietro l’altare. Daniel fece il giro, con passo lento, e spalancò gli occhi. Chiuso in un sacco a pelo lunghissimo, incastrato tra l’altare e la statua di Giove e intento a russare beato, c’era un ragazzo con un delirio di capelli castani e spettinati sopra la testa e una barba corta.

Eccolo lì, l’augure, Dante. Non aveva niente a che vedere con il poeta da cui prendeva il nome, ma chiaramente la progenie di Apollo adorava avere nomi aulici, forse per compensare il fatto che nella realtà non avessero niente d’interessante.

Non era sicuro che si potesse dormire lì dentro, ma dopotutto Dante non era esattamente un semidio modello da seguire. E in ogni caso il ruolo dell’augure non aveva più la stessa importanza di un tempo, dopo che uno di loro aveva quasi causato la fine del mondo, una ventina di anni prima. Ormai era un titolo come un altro, che soltanto i più pigri e scansafatiche decidevano di assumere per evitare d’allenarsi e di combattere. Dante era un maestro in quello. Non aveva idea del perché l’avessero mandato lì, ma era certo che ci fosse lo zampino di Ashley dietro.

Lo punzecchiò con il piede per svegliarlo.

«No, dai, Babbo Natale… sono stato buono quest’anno, lo giuro…» Dante si rigirò dall’altra parte, russando come una mietitrebbia.

Daniel alzò gli occhi al cielo, sospirando profondamente. «Magnifico.»

Riportò l’attenzione sui fogli scarabocchiati, concentrandosi sulle scritte che poteva comprendere.

 

Un giuramento verrà infranto. 4 stelle su 5 –Rotten Tomatoes.

Il Caos e la Morte nel mondo irromperanno. Diretto da J.J. Abrams nel 2004. 

E con la morte di un araldo, essa dovrà terminare. Da servire freddo.

 

«Ma… ma che diamine…» bisbigliò Daniel, scorrendo tra i fogli. Tutte le frasi erano così. Cominciavano con qualcosa di cupo e minaccioso, morte, tenebre, sangue, e si concludevano con assurdità come recensioni di film, ricette di cucina o pettegolezzi vari.

Un verso era cerchiato di rosso.

 

Un mezzosangue dall’Abisso ascenderà. 

La Notte più profonda con sé porterà.

 

Non c’erano altre frasi. Nessuno sproloquio assurdo su qualche serie televisiva, nessun segreto su come rendere la carne più tenera o chissà che altro. Solo quello.

Un lungo brivido percorse la schiena di Daniel, mentre si rendeva conto che doveva essere il verso di chissà quale profezia. I suoi occhi si impressero sopra quelle due parole. Abisso. Notte.

Come nei suoi incubi.

Un urlo lo fece sobbalzare. Si dimenticò dei foglietti di carta e fece per correre a perdifiato fuori dal tempio, quando si accorse di Dante seduto sopra il sacco a pelo. Era lui che stava gridando.

«AAAAAAH! Ah… ah…» fece poi, una volta calmo. Si massaggiò tra i capelli, prima di chiudere gli occhi e crollare di nuovo nel sacco. «Era… solo un sogno… solo un sogno…» mugugnò, con voce impastata. Un paio di secondi dopo e stava già di nuovo russando.

Non s’era nemmeno accorto di non essere solo nel tempio. Con il cuore che batteva all’impazzata per lo spavento, Daniel rimase a osservare il ragazzo addormentato senza né fiato né parole. «Ehi! Svegliati, Dante!» esclamò, alzando la voce. Quell’altro lo ignorò beatamente.

Daniel alzò gli occhi al cielo e si accovacciò accanto al sacco a pelo, prima di iniziare a strattonarlo. «Svegliati!» urlò.

«Non urlare, sto dormendo» si lamentò l’augure, ancora più disordinato di prima.

«Ma sei tu che mi hai detto di venire!»

«Mh?» Dante riaprì un occhio. Ci impiegò un po’ più del dovuto, poi la sua vista appannata dovette riuscire a metterlo a fuoco. «Ah… okay…»

Si liberò dal sacco a pelo e si stiracchiò, con un altro rumoroso sbadiglio. «Certo che potevi venire ad un orario più consono…»

«Ma se è mattina!»

«Eh? Davvero?» Con uno sforzo che ricordava quelli di Daniel quando si allenava sulla sbarra, Dante s’issò in piedi reggendosi all’altare.

«Oh» fu il suo unico commento, quando si accorse del sole mattutino che illuminava il tempio. «Beh… immagino di aver fatto un po’ tardi ieri notte» aggiunse, mentre si grattava il fondoschiena, sopra la tunica.

Ed eccolo, l’augure del Campo Giove, in tutto il suo splendore. Colui che de facto deteneva il maggior potere dopo i pretori e il Senato.

«Allora…» cominciò Dante, afferrando una tazza sopra l’altare. Doveva arrivare dalla mensa, perché si riempì da sola fino all’orlo di un liquido scuro e fumante, sicuramente caffè. Ne sorseggiò un po’, mentre lo studiava con attenzione con i suoi occhi iniettati di sangue.

Nonostante Dante non fosse un combattente, Daniel si sentì comunque a disagio di fronte a quello sguardo inquisitorio. Sembrava capace di leggergli nell’anima, e forse c’era un briciolo di verità in quello. Magari aveva visto il suo futuro in qualche profezia senza nemmeno saperlo. Magari era a conoscenza di verità sconvolgenti su di lui, qualcosa che non si sarebbe mai immaginato di sentire. Poteva sembrare innocuo quanto voleva, ma rimaneva l’augure, non andava sottovalutato.

«… scusa, ma perché ti ho chiamato?» disse Dante in quel momento, interrompendo i suoi pensieri.

«E io che cavolo ne so?!» rispose Daniel. «Sei tu che dovresti saperlo!»

L’augure sorseggiò altro caffè, mandandolo giù facendo gli stessi rumori che avrebbe fatto un bambino con un frappè di frutta.

«Non me lo ricordo» concluse, sollevando le spalle.

Daniel schiuse le labbra. Aveva sempre saputo che quel tizio avesse qualche rotella fuori posto, ma non si era mai aspettato qualcosa di simile. Realizzò che le sue riflessioni di poco prima erano state inutili. Dante era pericoloso tanto quanto un fauno. Anzi, forse un fauno avrebbe fatto più danni.

Per un momento, Daniel ponderò se suggerirgli o meno che forse l’aveva chiamato per domandargli dei suoi incubi, ma esitò. Alla fine, aveva fatto ciò che gli avevano chiesto, era andato dall’augure. Mica era colpa sua se quell’altro non aveva idea del perché volesse parlargli.

«Tu sei ancora in probatio, giusto?» gli domandò Dante all’improvviso, dandogli le spalle. Posò la tazza e cominciò a rovistare tra i fogli sparsi sull’altare. «Perdona il disordine, stavo… ehm… sistemando, ma… mi sono addormentato per caso. Sì. Per caso.»

Daniel ignorò le sue confabulazioni e rispose alla prima domanda, con un moto di stizza. «Sì…»

«E quanti anni hai?»

«Quasi diciassette…»

Dante si voltò di scatto verso di lui, con un luccichio folle negli occhi. «Interessante. Non sei stato riconosciuto dopo i sedici anni. E sei arrivato con tre anni di ritardo al Campo Giove, giusto?»

«Ehm… sì.»

Lo sguardo dell’altro non mutò affatto. Si gratto la barba, mentre un lungo mugugno gli scappava dalle labbra chiuse. «Curioso, non trovi?»

«In realtà, no. È solo fastidioso» sbottò Daniel, domandandosi perché gli stesse facendo quelle domande. Era una storia risaputa la sua, ormai. Tutte le coorti erano a conoscenza del ragazzo arrivato tardi al campo e con un genitore che non sembrava affatto desideroso di riconoscere il proprio figlio.

Ricordava i due pretori quando l’avevano interrogato il giorno del suo arrivo. Ashley ed Elias l’avevano osservato come un roditore riuscito a evadere da qualche laboratorio segreto. Gli avevano chiesto come avesse superato le selezioni di Lupa, e lui aveva risposto che non aveva idea di chi fosse questa Lupa.

Aveva quindi scoperto che l’unico modo per arrivare al Campo Giove era passare prima per la Casa del Lupo, dove la dea Lupa metteva alla prova i semidei romani per stabilire se erano pronti o meno per il Campo Giove, e lui non aveva fatto niente del genere.

Sua madre era morta quando era un neonato, non ricordava nemmeno di averla mai conosciuta, e a quanto pareva suo padre era un dio che si era dato alla macchia. Aveva vissuto in orfanotrofi e case famiglia finché non aveva compiuto quindici anni, poi era scappato. E in qualche modo, un anno più tardi, era finito lì nella Bay Area.

Naturalmente, in qualche modo non era una spiegazione convincente, ma era la verità. Si era sentito come se qualcosa lo avesse spinto in quella direzione. E quando aveva scoperto la verità sul mondo che lo circondava non aveva nemmeno battuto ciglio. Dentro di sé, era stato come se avesse sempre saputo che fosse tutto vero, che gli dei esistevano veramente e che tutte le favole sui grandi eroi del passato in realtà non erano affatto favole.

Gli avevano chiesto come aveva fatto a sopravvivere ai mostri, e lui per tutta risposta aveva detto di non averne mai visto uno. E anche questo era vero. Gli avevano insegnato che, come esistevano gli dei, esistevano anche i mostri che li avevano combattuti, e che si divertivano ad andare a caccia di semidei per sterminarli, ma lui non ne aveva mai incontrato uno. Per qualche motivo, non erano sembrati interessati a lui.

«Forse perché è così debole da non emanare nulla» aveva suggerito un senatore, con un ghigno divertito.

Alla fine, dopo un lungo processo al Senato, per stabilire se accoglierlo o meno vista la situazione straordinaria in cui erano capitati, Ashley, dall’alto della sua benevolenza, l’aveva scaricato alla Quinta Coorte, facendolo sembrare come il gesto più eroico e altruista di sempre.  

C’era anche Dante durante quel processo. Era rimasto seduto in disparte a sonnecchiare per tutto il tempo e nessuno si era preso la briga di svegliarlo. Forse era per questo che ora gli stava facendo quelle domande.

«Su, su. Presto ci sarà la Festa della Fortuna» lo incoraggiò proprio l’augure, mentre era chino sull’altare, girato di spalle. «Magari il tuo genitore si farà vivo lì!»

«Siamo a ottobre» mormorò Daniel, sempre più incredulo. Non capiva se quel tizio lo stesse prendendo in giro o no.

Dante smise di armeggiare con le pergamene e si voltò di nuovo verso di lui. «Cos… davvero?!»

Un lungo sospiro sfuggì dalle labbra di Daniel. Più tempo trascorreva con quel tizio e più si sentiva contagiato dalla sua idiozia. «Posso andare ora? Ritornerò se ti torna in mente cosa dovevi dirmi.»

«Ah, sì, cer…» Dante si interruppe. Un sorrisetto apparve sul suo volto stropicciato. «Aspetta, ora ricordo! Avevo chiesto che qualcuno venisse ad aiutarmi a riordinare qui!»

Daniel inarcò un sopracciglio. «Davvero?»

«Sì, sì! Vieni, forza» lo invitò l’augure, sollevando una manciata di fogli. «Aiutami con questi!»

«Stai cercando una scusa per non fare tutto da solo?» domandò l’altro, per nulla convinto, mentre lo affiancava.

«Nooooo, ma come ti viene in mente?»

Se Daniel avesse avuto un pizzico di malizia in più gli avrebbe chiesto di giurare sullo Stige, ma sapeva che era meglio non turbare la dea più del dovuto. Non era famosa per la sua gentilezza. A volte si domandava se fosse proprio figlio suo.

Decise comunque di non discutere e di rimanere ad aiutare Dante. Non era affatto in vena di tornare così presto da Camille e Kiana. Afferrò i fogli e cominciò ad impilarli, ma Dante si alterò. «Fermo, fermo, ma che fai?! Devi metterli in ordine!» Indicò un numerino minuscolo, riposto sull’angolo in basso di un post-it. «Ecco, vedi? Sono numerati.»

Daniel ricacciò un altro sospiro e si diede da fare.

«Che cosa significano queste frasi?» disse, dopo un attimo di silenzio in cui il fruscio della carta fu l’unico rumore a riempire il tempio vuoto. Rivolse un’occhiata angosciata a quel verso cerchiato di rosso che l’aveva attirato prima, ma Dante non se ne accorse, preso com’era dallo sfogliare i post-it.

«Oh… ehm… niente di che» disse proprio l’augure, strappandogli dalle mani un pezzo di carta che recitava: “Con la sparizione del velo invisibile, apparirà la minaccia più temibile. Aggiungere una scorza di limone.” «Non… non li hai letti, vero?»

La domanda dell’augure sembrava tanto una supplica quanto una minaccia. Daniel corrucciò la fronte. «No…» mentì.

Dante sembrò riprendere a respirare correttamente all’improvviso. «Uh, bene. Aiutami a rimettere in ordine e… ehm… non leggere, per favore.»

«Okay…» borbottò Daniel, decidendo di lasciar cadere la questione e imponendosi di darsi una mossa per alzare al più presto i tacchi da lì.

Non passò molto prima che trovasse due fogli diversi con lo stesso numero. Quando lo fece presente a Dante, quello corrucciò la fronte. «Uhm… hanno “A” o “B” accanto al numero?»

«Non hanno niente» mugugnò Daniel.

«Ehm… tienili da parte, poi vediamo…»

Daniel si rabbuiò ancora di più: quella giornata si preannunciava peggiore del solito.

 

 

 

 


Ehilà gente. Sì, sono di nuovo io. Sì, continuo a rompere le scatole con queste stupide storie. Ehm… no, non smetterò, scusate. 

A tutti i lettori neofiti, salve, e benvenuti. Questa è una storia creata con personaggi originali, ambientata nel Campo Giove e in questo universo post-libri che ho creato, con personaggi originali, senza più gli eroi della vecchia guardia, quindi non ci saranno i vari Percy, Frank, Hazel, Leo, eccetera, ma verranno menzionati di tanto in tanto. Rimangono, tuttavia, tutti i personaggi immortali, Talia, Reyna, Chirone e gli dei ovviamente.

Ho scritto anche una storia ambientata nel Campo Mezzosangue, la Spada del Paradiso, di cui consiglio la lettura. Non è proprio fondamentale per capire questa storia qui, ma ci saranno molti rimandi ad essa. 

Altra cosa che voglio precisare, la premessa di questa storia è simile a quella di un’altra utente, di nome partyponies, chiamata “Dietro la Foschia” che è stata scritta quest’anno. Vorrei dire che l’idea per questa storia ce l’avevo in mente già da molto tempo, durante la stesura della Spada del Paradiso, quindi vi parlo del 2019/20, adesso non ricordo bene, ma non l’ho mai iniziata perché ero preso dalla Spada, e poi ho scritto l’Elisir, e non sono capace di portare avanti troppe cose alla volta.

Quindi, insomma, non si tratta di plagio, o copie o cose così, anche perché non credo nemmeno che siamo gli unici due a toccare questo argomento, e comunque ho letto Dietro la Foschia e posso assicurare agli altri che l’hanno letta che le nostre due storie divergeranno un bel po’.

Ok, adesso mi rivolgo perlopiù a chi mi conosce già. Dunque, questo trio di romani ce l’avevo in mente da tanto tempo, dai giorni in cui ancora stavo scrivendo la Spada del Paradiso. Certo, ovviamente hanno subito cambiamenti, e Daniel non aveva un nome, nemmeno le altre due in realtà, con lui ho fatto più fatica, però alla fine ho iniziato ad apprezzarlo come nome. 

Dunque, questa storia, come si evincerà in futuro, è ambientata dopo i fatti della Spada del Paradiso, quindi comunque rientra in quel canone e rientra nella serie. Avrebbe dovuto essere questo il seguito non ufficiale, all’inizio, ma poi è nata l’idea per l’Elisir di lunga vita e ho voluto prima finire quello, visto che, cronologicamente, si pone un pochino prima di questa storia. 

Comunque questo primo capitolo è solo un teaser, non credo che aggiornerò questa storia per diverso tempo, prima voglio finire l’Elisir, e poi devo anche finire la raccolta (ebbene sì gente, presto rivedremo il nostro quintetto originario). Però comunque, ecco, ci tenevo a pubblicare questa storia, perché… boh, non so, volevo farlo.

Beh, che dire gente, grazie mille per aver letto e ci becchiamo alla prossima!

 

 

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Capitolo 2
*** La figlia di Trivia ***


II

La figlia di Trivia

 

 

Camille si sentiva uno straccio. Dopo che Daniel si era allontanato in quel modo, con quello sguardo arrabbiato, aveva capito di aver davvero esagerato.

Aveva cercato di aiutarlo, era preoccupata per lui, per i sogni che faceva, ma alla fine il suo impicciarsi aveva solo creato dei problemi. Come sempre. Avrebbe dovuto imparare a farsi gli affari suoi. Osservò le brioche integrali con aria afflitta e allontanò il piatto da sé. La fame le era passata del tutto.

La voce di Kiana le fece drizzare la testa: «Stai pensando a Daniel?»

Camille si voltò di scatto verso l’amica intenta a sbriciolare il toast tra i denti, le labbra intrise di marmellata. «Non capisco proprio come faccia a piacerti quello.»

Uno squittio indispettito scappò dalla bocca di Camille, strappando un sorrisetto beffardo all’amica. Poteva anche non avere i modi di fare di una figlia di Venere, ma quel genere di cose rimanevano pur sempre il pane quotidiano di Kiana: se c’era qualcuno che sapeva che cosa stesse provando, quella era lei. E la cosa la faceva sentire ancora più a disagio.

«Anche se questo è il tuo difetto fatale, Cam: a te piacciono tutti» proseguì Kiana, dando un altro morso al toast.

Camille seppellì il viso tra le mani, per nascondere le guance paonazze. «N-Non è vero!»

«Ah no? Che mi dici di Allen? Elias? Daniel? Diamine, perfino Travis…» Kiana si ritrovò la mano di Camille premuta sulla bocca, per frenarla dall’aggiungere altro. Per fortuna Travis era troppo concentrato sulle sue ciambelle zuccherate per fare caso a loro. Quando drizzò la testa, con una barba di zucchero a velo posata sulle guance, Camille si sentì sciogliere dall’interno.

Si accorse che lo stava guardando e le sorrise, salutandola con il suo solito sorrisetto da figlio di Mercurio. «N’giorno Cam!»

«B-Buongiorno» sussurrò lei, con un filo di voce. Travis era così… adorabile.

Kiana si liberò della sua mano, ridacchiando. «Sei un caso disperato.»

Camille non riuscì a ritrovare il coraggio di guardarla. «Sono solo preoccupata per lui…»

«Fer Travish?» mugugnò Kiana, mentre dava un altro morso al toast.

«Per Daniel!» esclamò Cam, infastidita dalle sue maniere a tavola. Sì, Kiana non aveva niente in comune con gli altri figli di Venere. Si strinse nelle spalle, incupendosi. «È solo che… capisco come si sente. Anch’io mi sono ritrovata al posto suo, quando sono arrivata al Campo Giove. Non è facile essere visti come degli estranei.»

Ripensò a quando era arrivata e al suo anno da probatio. Una ragazzina fragile e mingherlina, sbattuta nella Quinta Coorte come una pezza da piedi. Nessuno l’aveva degnata di una seconda occhiata, finché non era stata riconosciuta: una figlia di Trivia.

L’unica figlia di Trivia che si fosse vista negli ultimi decenni, se non secoli. Trivia era una dea vergine, come Minerva, non poteva avere figli. O almeno, così si credeva. Invece, lei esisteva. Avevano pensato che fosse una figlia della Ecate greca, ma no, la sua mente era predisposta per imparare il latino, e Lupa l’aveva accettata, perciò era una semidea romana a tutti gli effetti.

C’era voluto un po’ prima che tutti si abituassero alla sua presenza nel campo, anche se comunque i ragazzi delle altre coorti non avevano mai davvero smesso di osservarla dall’alto, o di chiamarla strega alle sue spalle.

Ogni volta che ci pensava, Camille sentiva una fitta di dolore al petto.

Inoltre Trivia non era solo la dea della magia, ma anche la dea dell’oltretomba, assieme a Plutone, e per questo motivo veniva chiamata “Regina dei fantasmi”. Il che significava che i lari si inchinavano a Camille ogni volta che la incrociavano, cosa che trovava piuttosto inquietante.

In ogni caso anche lei si era trovata nei panni di Daniel, perciò non riusciva a rimanere ferma a guardare mentre lui pativa tutto quello che anche lei aveva patito.

«Devo forse ricordarti come hanno trattato me dopo che sono stata riconosciuta?» si intromise Kiana, interrompendo il filo dei suoi pensieri.

Un sorriso nacque sul volto di Camille. Ripensò alla scena, durante la Festa della Fortuna. Kiana era arrivata da poco, a malapena una ragazzina, ma aveva subito fatto scalpore con il suo aspetto grazioso prima, col suo bel temperamento dopo: nella prima settimana aveva rotto almeno cinque nasi e fatto fuggire diversi bulli che se l’erano presa con dei ragazzi della Quinta Coorte.

Camille aveva subito intuito che sotto quell’aria dura e diffidente in realtà si nascondeva una brava ragazza. Non appena si erano conosciute meglio, erano subito diventate amiche.

Quando Kiana era stata riconosciuta aveva iniziato a brillare, circondata da una nebbia rosa accesa che profumava di rose e pesche, che lei non aveva affatto apprezzato. Aveva gridato spaventata, poi la nebbia si era diradata ed era apparsa con un vestito maestoso, trucco e capelli impeccabili, collane d’oro, orecchini e braccialetti tempestati di diamanti.

Camille aveva pensato che fosse maestosa; Kiana invece aveva dato di matto. Si era stropicciata i capelli, pulita il trucco, aveva gettato via i gioielli e si era perfino strappata i vestiti di dosso, ma quelli erano tornati al loro posto da soli – per fortuna – mentre i capelli si erano risistemati come sospinti dal vento e il trucco si era dipinto di nuovo sulle sue guance scure grazie al tocco delicato di chissà quali pennelli invisibili.

La sua reazione aveva suscitato l’ilarità di tutti, perfino di quelli che normalmente giravano alla larga terrorizzati da lei. C’erano voluti un paio di giorni prima che la “benedizione di Venere” svanisse, e settimane prima che nel campo si smettesse di parlare di Kiana che dava di matto. Per tutto il tempo Camille le era stata vicino, ed era certa che le fosse sempre stata grata per quello. Dopo quell’“incidente”, Kiana aveva iniziato ad allenarsi come un’ossessa e Camille non l’aveva mai più vista con indosso del trucco, o con i capelli pettinati.

«Siamo stati tutti nei panni di Daniel» mugugnò Kiana, ripulendosi la bocca con le mani. «La differenza sostanziale, è che noi abbiamo accettato l’aiuto degli altri. Lui invece non vuole saperne di essere aiutato.» Le lanciò un’occhiatina rapida, con un velo di biasimo. «Ma immagino che la sua resistenza ti invogli ancora di più ad aiutarlo.»

Camille sentì di nuovo le guance bruciare. Non disse nulla, e per Kiana fu una risposta più che chiara.

«C’è un nome per questa cosa, sai? “Sindrome della crocerossina.”»

«Non ho la sindrome della crocerossina!» esclamò Camille. «Voglio… voglio solo rendermi utile. Sono sicura che se gli dimostro di tenerci davvero, anche lui accetterà l’aiuto.»

Kiana scosse la testa. «Tu hai dei problemi…»

«Tu hai dei problemi!»

«Cos’è, ti sei messa a fare specchio riflesso ora?»

«N-No!»

La figlia di Venere rovesciò la testa all’indietro e cominciò a ridere sguaiata. Le diede una pacca sulla spalla, doveva essere un gesto amichevole, però Cam sentì l’osso incrinarsi. Trattenne il fiato per il dolore, ma Kiana nemmeno ci fece caso, così come non si accorse dell’occhiataccia che Marianne lanciò loro.

Malgrado tutto, anche a Camille venne prima da sorridere, poi da ridacchiare, contagiata dalla risata dell’amica. Per un istante si dimenticò della tensione e si godette quel momento. Non durò molto, però: si accorse di tutti i semidei che si alzavano all’unisono, voltandosi verso l’ingresso della mensa, e si ridestò. Saltò in piedi all’istante e afferrò Kiana per il braccio, invitandola a fare lo stesso.

Quella fece un mugugno sorpreso, chetando le risate, poi si rese conto anche lei di cosa stava accadendo e la imitò.

Due ragazzi entrarono nella mensa in quel momento, con indosso dei mantelli. Almeno duecento ragazzi rimasero in silenzio rispettoso, al passaggio dei due pretori.

Ashley marciava per prima, con la testa alta, l’espressione fiera e un sorriso radioso dipinto sul viso da cherubino. I suoi ricciolini biondi erano adagiati morbidamente sulle spalle a cui era agganciato il suo mantello rosso.

Elias la seguiva come un’ombra alta quasi due metri, il mantello nero e sgualcito che radeva il suolo. Era opposto di Ashley in tutti i sensi: lei era figlia di Giove, lui di Plutone. Lei era nivea, lui era scuro come il legno dell’ebano. Lei era snella e minuta, lui era muscoloso, con spalle possenti, uno dei pochi ragazzi del campo a essere più alti di Kiana.

Lei era gentile, di bella presenza e di molte parole, con occhi celesti che infondevano sicurezza e tranquillità, lui non parlava mai, e con un solo sguardo di quegli occhi che parevano pozze d’oro liquido sapeva mettere a tacere anche il più rumoroso dei dissidenti.

Camille si rese conto di starsi mordendo il labbro, mentre lo osservava. Arrossì da sola, e grazie agli dei questa volta Kiana non fece caso a lei.

Non solo erano i due pretori, ma erano anche i primi figli di Giove e Plutone dopo quasi vent’anni, e la cosa includeva anche il Campo Mezzosangue. Nati durante lo stesso periodo, sette anni prima avevano completato la loro prima impresa, insieme. All’epoca Ashley aveva undici anni, Elias dodici. Poco più che bambini, avevano ucciso un terrificante mostro marino che aveva minacciato di distruggere l’intera costa ovest e poi sconfitto il pazzo che l’aveva scatenato.

Non appena erano diventati abbastanza grandi, Ashley Flare ed Elias Crowe erano stati eletti pretori. Da allora le cose non erano più cambiate.

«Buongiorno a tutti voi» annunciò Ashley, sollevando una mano. «Sedete tranquilli, continuate pure la vostra colazione.»

Il brusio della mensa riprese in pochi istanti, mentre i ragazzi si sedevano di nuovo.

«È sempre stato così?» domandò Kiana, afferrando un altro toast.

«Così come?» domandò Camille distogliendo lo sguardo da Elias, che dal canto suo non aveva degnato nessuno di un’occhiata.

«Alzarsi in piedi quando entrano quei due. È sempre stato così?»

La figlia di Trivia si strinse nelle spalle, cercando di non pensare più al cupo, tetro e affascinante figlio di Plutone. «Non ne ho idea. Però loro sono le due forme di autorità più grandi del campo, mi sembra giusto mostrare rispetto.»

«Sarà…»

«Gray. Farhat.»

Camille sobbalzò. Kiana rimase immobile, con il toast bloccato a mezz’aria tra le fila schiuse dei denti. Ashley era accanto a loro, e stava sorridendo come suo solito. La medaglia che aveva ottenuto per aver completato quell’impresa di sette anni prima brillava all’altezza del cuore, assieme a tutte quelle guadagnate negli anni successivi.

Entrambe fecero per alzarsi, ma lei le fermò con un cenno della mano, ridacchiando. «Tranquille, rimanete sedute.» Lo sguardo di Ashley si posò sul posto vuoto accanto a loro due. «García è già andato da Dante?»

«Sì, è andato qualche minuto fa» mormorò Camille.

«Bene.» Il sorriso di Ashley si distese. «Ti ringrazio per avermi avvertito delle turbe del tuo amico, Camille. Hai reso un grande servigio al Campo Giove.»

Camille sentì di nuovo le guance colorirsi, questa volta però per tutt’altro motivo. Distolse lo sguardo imbarazzata. «Non ho fatto niente di che…»

Ashley si addolcì. «E sei anche modesta. Ah, se tutti fossero come te…»

La figlia di Trivia giocherellò con l’orecchino sinistro, come faceva sempre quando era nervosa. Dette da Ashley, quelle parole significavano molto per lei. La ammirava tantissimo, era quasi impossibile trovarla senza quell’espressione cortese sul volto ed era sempre gentile e affabile, con tutti quanti. Pensare che arrivasse dalla Prima Coorte era inverosimile: non aveva nulla da spartire con quegli esaltati e arroganti. Era stata anche sua l’idea di dare le onorificenze a David e Travis, quando erano tornati dalla missione a San Francisco. Quella ragazza era straordinaria, e un giorno Camille sperava di essere proprio come lei, o magari perfino di diventare il suo successore.

La figlia di Giove si congedò dopo quel breve scambio, e tornò al tavolo che condivideva con Elias. Il figlio di Plutone intento a sorseggiare una tazza di caffè ricordò a Camille l’altro motivo per cui le sarebbe piaciuto prendere il posto di Ashley.

Di solito i pretori del campo diventavano una coppia, visto che dovevano passare molto tempo sempre insieme a svolgere i loro doveri, ma quei due, stando a quello che si diceva in giro, erano soltanto buoni colleghi, niente di più e niente di meno. Non che avesse molta importanza, nemmeno in cento vite Camille avrebbe mai pensato di avere la più remota possibilità di interessare a Elias, però le piaceva fantasticare.

Udì Kiana fare un verso di disappunto e le lanciò uno sguardo interrogativo, riprendendosi dai suoi deliranti pensieri. «Tutto okay?»

«Sì, certo…» borbottò l’amica, senza guardarla. Rimase unicamente concentrata sulla sua colazione.

Camille intuì subito che in realtà non era tutto okay, ma sapeva riconoscere quando Kiana non aveva voglia di discutere, perciò decise di non indagare. Si chiese comunque che cosa le fosse presto tutto ad un tratto. Magari gliene avrebbe parlato più tardi, com’era già accaduto in passato.

La fame fece di nuovo capolino all’improvviso, avvisandola con un brontolio dello stomaco. La sua attenzione scivolò sulle sue brioches rimaste lì, sole solette, in attesa di un’anima pia che se le divorasse. Camille, dall’alto della sua bontà, decise di concedere loro questo desiderio.

 

***

 

«Non posso credere che oggi toccava di nuovo a noi!» protestò Kiana, mentre gettava in una carriola il contenuto alquanto ripugnante della vanga che reggeva tra le mani.

Non era passato molto prima che il muso duro le passasse: le era bastato scoprire che, quel giorno, toccava a lei e Camille pulire le stalle.

Di nuovo.

A quel punto la sua espressione corrucciata si era tramutata in una di odio puro.

«Sono una guerriera, figlia di Venere, e mio padre potrebbe comprarsi mezza San Francisco se solo volesse! E allora perché mi ritrovo qui a fare questo schifo di lavoro?!» sbraitò la ragazza verso le pareti e verso gli unicorni che si erano voltati incuriositi, attirati dal rumore.

«Dai, Kiana» mormorò Camille, con una smorfia dovuta in parte alla puzza, in parte alle costanti lamentele dell’amica. E il fatto che stesse menzionando sia la madre che il padre in quel modo significava che fosse davvero infuriata. Spinse la carriola dietro di lei, tentando di farle coraggio: «Tieni duro, non manca molto.»

«Allen me la pagherà» sibilò per tutta risposta la figlia di Venere.

«Non è stata colpa di Allen…»

«Smettila di difendere le tue cottarelle!»

«Non sto…»

Camille si interruppe, zittita dallo sguardo eloquente dell’amica. Ormai Kiana era sul piede di guerra: riuscire a farla ragionare era inutile. Avrebbe dovuto aspettare finché non avrebbe esaurito tutta la sua rabbia da sola. Rimase quindi ad ascoltare quasi con ammirazione gli insulti coloriti che stava rivolgendo al mondo intero. Certo che ci sapeva fare. Non aveva la lingua ammaliatrice come David, in compenso aveva un’ottima “Lingua Insultatrice.”

«Perché poi dobbiamo lavorare, mi domando!» sbottò ancora, dopo aver appena finito di dire che il mucchietto circondato di mosche sopra la carriola assomigliava a Hailey Spears, il centurione della Seconda Coorte. «Non dovrebbero pensarci le aurae a sbrigare queste faccende?»

«Solo studio, allenamenti e pacchia non fanno di un legionario un vero legionario» spiegò Camille seguendola a debita distanza, intimorita dalla vanga che maneggiava come una lancia e soprattutto dal suo contenuto«Anche il duro lavoro tempra lo spirito.»

«Ah! Qualcuno dovrebbe dirlo a quei fessi delle prime coorti, allora» replicò Kiana, prima di lanciarle un altro sguardo. «Ma non puoi usare la tua magia per pulire qui?»

«E come dovrei fare? Pensi che mi basti recitare una formula per far volare da sola la cacca dentro la carriola?»

«Ehm… sì?»

Camille mollò la carriola con un gesto secco, infastidita. «La magia non funziona in questo modo. E anche se fosse, non sprecherei il dono che mi ha dato mia madre per qualcosa di così volgare!»

«Oh, certo, quindi non puoi usare la magia per aiutare un’amica in difficoltà, ma puoi farlo per colorarti gli occhi e farti i tatuaggi!»

La figlia di Trivia si coprì d’istinto la spalla colpevole, anche se la giacchetta stava già coprendo la rosa circondata da rovi raffigurata sulla sua pelle.

«Crocerossina e fricchettona» mugugnò Kiana. «Dimentico qualcos’altro?»

Camille avvertì le guance pizzicare di nuovo. «N-Non è la stessa cosa!»

«Meno lagne e più magia» ordinò Kiana gettando a terra la vanga, che si schiantò con un tonfo secco che fece nitrire spaventati alcuni cavalli.

«Ma non sono capace» cercò ancora di difendersi Camille. «So fare soltanto cose basilari! Qui non c’è nessuno a insegnarmi come usare la magia, l’hai dimenticato?»

«Beh, la pratica rende perfetti, no? Avanti, prova a…»

«No.» Questa volta Camille non lasciò trapelare alcuna incertezza nella voce. Osservò Kiana dritta negli occhi, in una scena quasi comica visto che le faceva ombra, ma tenne i nervi saldi. «Se preferisci continuo a pulire da sola, ma non userò la magia così. Mi rifiuto.»

Kiana la soppesò dall’alto, assottigliando le palpebre. Sembrava arrabbiata, molto arrabbiata, ma Camille non si lasciò intimidire. Un lungo sbuffo sfuggì dalle labbra della figlia di Venere e Cam realizzò con soddisfazione, e anche sollievo, di essere riuscita a spuntarla.

«Avanti, ditelo: “Kiana, ti odiamo tutti.” Forza. Fatelo. Mi sembra ovvio, ormai» cominciò a dire Kiana, mentre afferrava di nuovo la vanga. «Stupidi pony cornuti, stupida Quinta Coorte, stupidi centurioni, stupidi…»

Camille non riuscì a reprimere un sorriso divertito. Strinse le mani attorno ai manici della carriola e riprese a seguire l’amica.

«E comunque i miei occhi sono davvero di questo colore» puntualizzò. «E anche i miei capelli.»

«Zitta, fricchettona!»

Ci volle ancora qualche ora, e un sacco di imprecazioni, ma riuscirono a finire senza che Kiana perdesse del tutto la testa per la rabbia, o per la puzza. Si stavano asciugando il sudore dai volti quando qualcuno parlò dal fondo della stalla: «Non esattamente il lavoro più adatto per una principessa, questo.»

Quella voce fece accapponare la pelle di Camille. Perfino Kiana divenne più rigida di un chiodo. Entrambe si voltarono meccaniche verso il ragazzo appena entrato, che si stava avvicinando a loro con un sorriso odioso stampato sul volto. «Però devo ammetterlo: sembrate tagliate per questo. Non credo di aver mai visto la stalla così pulita.»

«Che vuoi, Maxwell?» domandò Kiana, ma nemmeno il suo tono duro riuscì a cancellare il sorrisetto in mezzo alle guance coperte da una barbetta orribile del nuovo arrivato. Maxwell Freeman, un figlio di Mercurio della Seconda Coorte. Camille lo ricordava bene: era sempre in prima fila quando si trattava di maltrattare i nuovi arrivati della Quinta Coorte assieme ai suoi compagni, con quell’espressione da folletto dispettoso stampata in faccia.

Lei, David, i gemelli Vega, perfino Travis, figlio dello stesso Mercurio, c’erano passati. Una ragazza della quinta, una figlia di Bacco, era arrivata al punto tale da trasferirsi al Campo Mezzosangue per causa sua e dei suoi amici. Camille non la conosceva, non c’aveva mai parlato, ma non aveva mai davvero potuto biasimarla per la sua decisione. C’erano state volte in cui anche lei aveva pensato di trasferirsi, immaginandosi come potesse essere vivere con i suoi fratellastri greci, domandandosi se loro potessero aiutarla a carpire i segreti della magia.

Ogni volta però pensava alle amicizie che aveva stretto nella Quinta Coorte, tra cui quella con Kiana. Erano tutti bravi ragazzi, cercavano di darsi una mano a vicenda, soli contro tutti, e si era affezionata a loro.

«Devo parlarti.»

La voce di Maxwell la riportò alla realtà, anche se comunque avrebbe potuto continuare a ignorarlo, visto che il nuovo arrivato non sembrava affatto interessato a lei. Anzi, da come stava fissando Kiana, pareva proprio che ci fosse un conto in sospeso tra quei due.

«Non ho alcuna intenzione di ascoltarti» sibilò Kiana.  

Maxwell si fece serio all’improvviso. Quello sguardo fu un pugno in un occhio, specie dopo l’espressione arrogante e appagata di poco prima. Emanava freddezza pura. «Perché fai così? Voglio solo aiutarti.»

«Non mi serve il tuo aiuto.»

Lo psicopatico gettò un’occhiata rapida a Camille, che sussultò.

«Cos’è, non vuoi abbandonare la tua amica?» proseguì lui, riportando l’attenzione sulla figlia di Venere. «Posso mettere una buona parola anche per lei, se proprio ci tieni.»

Doveva sembrare un favore, forse, però lo disse con voce così disgustata che fu impossibile non accorgersene. Camille strinse i pugni, punta nell’orgoglio. Sapeva riconoscere quando qualcuno metteva lei e Kiana a confronto. Era consapevole di non essere una “racchia”, ma a confronto dell’amica lo pareva eccome. Qualsiasi ragazza lo sembrava. Kiana era alta, con un fisico tonico e perfetto grazie agli allenamenti costanti e per finire un viso davvero grazioso. Tutti i ragazzi andavano pazzi per lei nonostante non si vestisse, truccasse o comportasse come una figlia di Venere – e nonostante potesse pure distruggerli tutti a braccio di ferro.

Kiana si mise accanto a Camille quasi con fare protettivo. «Lasciala fuori da questa storia.»

Maxwell tornò a sogghignare. La ignorò e si parò di fronte a Camille, scrutandola dall’alto. «Ho offerto alla tua amica di entrare nella Seconda Coorte. Molto meglio che quella fogna della Quinta, mi sbaglio? Ma lei continua a rifiutarsi. Dimmi, tu cosa ne pensi? È davvero ingrato da parte sua, non trovi?»

Camille batté le palpebre sorpresa da quella rivelazione, e confusa, anche. Inghiottì il nodo alla gola dovuto dal disagio e rispose: «Se… se lei non vuole è inutile insistere.»

Uno strano luccichio balenò negli occhi scuri di Maxwell. «Risposta sbagliata.»

Si avvicinò la mano alla bocca e poi, con la stessa rapidità, avvicinò la stessa mano ai capelli di Camille, che emise un grido squillante.

La figlia di Trivia indietreggiò di qualche passo, con gli occhi spalancati, e si toccò la tempia: qualcosa di molle e umido era appiccicato ai capelli. La gomma da masticare di Maxwell.

«Ecco, ora sì che sei carin…»

Il commento di Maxwell si interruppe con il pugno di Kiana stampato sulla sua guancia. Il ragazzo ruzzolò a terra, insudiciandosi sul pavimento di terra e paglia. Al suo gridolino poco virile si susseguirono i nitriti degli unicorni, forse spaventati dal rumore, o forse divertiti.

E Kiana non sembrava avere ancora finito. Si avvicinò a lui furibonda, sgranchendosi le nocche. «Tu, razza di schifoso, pezzo di…»

«Io mi fermerei qui, se fossi in te» mugugnò Maxwell, dal basso, con la guancia abrasa ma di nuovo con quel sorrisetto odioso. «Non vorrai mica passare dei guai per aver di nuovo alzato le mani?»

«Sei stato tu a metterle la tua schifosa gomma tra i capelli!» tuonò la ragazza, indicando Camille, ancora sconvolta.

Maxwell sollevò nelle spalle. «Lei mi ha provocato per prima.»

«Non è vero! Noi stavamo badando ai fatti nostri quando tu…»

«E a chi pensi che crederanno?» Il ragazzo sogghignò. Camille conosceva quell’espressione: era quella di chi sapeva di averla vinta.

Kiana sembrava in procinto di saltargli addosso per staccargli la testa. Si calmò solo quando Camille le afferrò il polso, scuotendo la testa, la mano ancora appoggiata contro la tempia per coprire la gomma. Arrabbiarsi era inutile, sarebbero soltanto finite nei guai mettendosi contro di lui. Era in una coorte più alta, loro invece erano al fondo del barile: non contavano nulla.

«Brava streghetta. Vedo che almeno tu hai capito.»

Quel nomignolo fece irrigidire Camille, ma non disse nulla.

Maxwell si rimise in piedi, massaggiandosi la guancia. «Ricorda la mia offerta, Kiana. Non durerà per sempre.»

Kiana era livida di rabbia. «Sono mesi che me lo dici.»

«Sì, e la mia pazienza si sta esaurendo.»

Camille strinse il polso di Kiana con forza, prima che potesse replicare ancora. Non fu facile, visto che si sentiva arrabbiata tanto quanto lei, ma sapeva di essere l’unica persona in grado di impedire a Kiana di rovinarsi per sempre la vita nel Campo Giove. Forse a lei non importava di mettersi contro tutta la Seconda Coorte, ma a Camille sì. Non voleva che la sua amica finisse nei guai. E in ogni caso, tutto quanto avrebbe potuto ripercuotersi sull’intera Quinta Coorte, e di certo non avevano bisogno di altri problemi.

Entrambe si rilassarono soltanto quando la faccia da schiaffi di Maxwell svanì dalla visuale, seguita dal cigolio del portone della stalla. Kiana si voltò verso di lei. Ora sembrava solo mortificata. «Stai bene?»

«Sì, certo» mormorò Camille, colpita dal suo tono di voce. «Non mi ha fatto male, tranquil…»

Kiana le prese il volto tra le mani e la fece voltare quasi di forza, strappandole un verso sorpreso.

«Mi dispiace» mormorò, afflitta. Le sfiorò i capelli appiccicati alla gomma con un gesto delicato, totalmente diverso dal modo in cui l’aveva afferrata, o dal pugno che aveva sferrato a Maxwell. «Sei rimasta coinvolta in questa storia…»

«Non preoccuparti, non è successo niente.» Camille incrociò il suo sguardo preoccupato. «Ma… perché quello vuole che tu vada nella Seconda Coorte?»

La figlia di Venere rispose con un sospiro esausto. Fu subito chiaro che non aveva affatto voglia di parlarne.

«Dai, vieni» disse invece, circondandole le spalle. «Vediamo di sistemarti i capelli.»

 

 

 

 

 

 

 

Salve gente! Come va? Spero tutto bene, dai. Per me è un periodaccio, lol, ma proviamo a tirare avanti comunque. 

Allora, innanzi tutto, questo capitolo è stato un po’ pieno di fuffa, e di questo domando scusa, ma siamo solo all’inizio e prima di tutto volevo introdurre i nuovi protagonisti e anche gettare un po’ di luce sulla situazione nel Campo Giove. Come avrete modo di vedere in futuro, gli “sfigati” nemmeno qui se la passano proprio bene. E ricordo a tutti che la storia è ambientata qualche mese più tardi rispetto alla Spada del Paradiso, dove invece le beghe nel Campo Mezzosangue si sono risolte, all’incirca. 

Comunque spero che il capitolo vi sia piaciuto e soprattutto spero che i pretori abbiano fatto una buona impressione. Non dirò chi è il mostro marino che hanno ucciso, nemmeno il folle che lo ha scagliato, semplicemente perché… beh, è un’altra storia per un altro giorno (e poi volevo fare un rimando a PJO, con Percy dodicenne che completa le imprese).  

So che avevo detto che avrei aggiornato prima la raccolta di questa storia, ma come ho detto sopra, è un periodaccio e faccio quello che posso.

Bene, spero di non aver depresso nessuno, alla prossima! 

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Capitolo 3
*** La Quinta Coorte ***


III

La Quinta Coorte



Kiana era in vena di rompere qualcosa. Magari la faccia da mulo, per non dire qualcosa di simile, di quel viziato figlio di papà di Maxwell. Anzi, figlio di mamma, visto che sua madre era una ricca ereditiera la cui unica qualità era stata quella di avere un cognome importante.

Certo, il padre di Kiana avrebbe potuto comprarsi tutti i possedimenti della sua famiglia e spianarli per creare dei campi da tennis se solo avesse voluto, ma lei preferiva non parlarne. Maxwell invece non faceva altro, lui amava ricordare a tutti che la sua famiglia fosse molto benestante. Era una delle tante storielle che le aveva raccontato per convincerla ad andare nella sua dannata coorte.

«Eh, sì, sono ricco» le aveva detto. Non l’aveva ucciso seduta stante in quel momento, ma la tentazione era stata forte.

Quella volta, però, aveva davvero esagerato. Se non ci fosse stata Cam a fermarla gli avrebbe spezzato ogni osso nel corpo. Sentì il petto stringersi in una morsa al pensiero di quello che era appena successo. Se c’era qualcuno che non meritava di essere trattato in quel modo, quella era proprio Cam.

Le lanciò uno sguardo tramite il riflesso dello specchio e lei, nonostante tutto, le sorrise. Kiana non aveva idea di come facesse ad essere così calma e gentile. Se non altro aveva la decenza di non essere cotta pure di Maxwell, quindi non era una causa così tanto persa.

«Wow» mormorò Camille in quel momento, accarezzandosi la tempia, dove Kiana era stata costretta a tagliare i capelli imbrigliati in quella nauseante gomma alla fragola. Non si era nemmeno resa conto di aver finito; aveva posato le forbici sul ripiano del lavabo senza dire una parola, così presa dalle maledizioni che stava lanciando contro quel verme.

Osservò l’amica, accorgendosi del perfetto taglio asimmetrico che le aveva appena dato. L’aveva fatto in automatico, senza nemmeno pensare. Sapeva che se si fosse concentrata su cosa stava facendo probabilmente avrebbe fatto un disastro, perciò aveva lasciato che fosse il suo lato di figlia di Venere a fare tutto il lavoro. Certo, mentre osservava lo specchio si accorse anche di tutte le altre imperfezioni di Cam, puntini neri, pustoline così piccole da essere invisibili a un occhio qualsiasi, le sopracciglia da rifare e così via, ma serrò le palpebre per non pensarci. Detestava quando si accorgeva di quel genere di cose, come se fosse un sensore vivente che captava la bellezza.

«Ti piace?» le domandò invece.

Camille era radiosa. «Tantissimo.» Si voltò verso di lei e l’abbracciò. «Grazie!»

«Ehm… prego…» rispose Kiana, riuscendo a ridacchiare. Il suo sguardo scivolò sulla spalla scoperta di Cam, sui cui aveva tatuata la corolla di una rosa rossa come il sangue, con grandi petali e rovi che germogliavano come radici, da cui spuntavano anche foglie d’ortica.

Anche i capelli fanno di una fricchettona una fricchettona…, pensò con un mezzo sorrisetto, mentre la guardava chiuderseli nella sua solita crocchia, intrecciandoseli all’altezza delle orecchie subito dietro la nuca.

«Che state facendo?» disse una voce all’improvviso. Entrambe si voltarono di scatto, accorgendosi di Marianne che le squadrava appoggiata allo stipite della porta del bagno. Aveva le braccia incrociate e la sua solita “Resting bitch face”, gli occhi azzurri che esaminavano critici le due legionarie.

«Non dovreste essere nelle stalle?» domandò severa, facendo di tutto per non guardare Kiana in faccia.

«Abbiamo finito poco fa» mormorò Camille, dimenticandosi della felicità di poco prima e giocherellando nervosa con i suoi orecchini.

«E quindi avete pensato di venire qui a rifarvi l’acconciatura anziché venirmi ad avvisare?»

Kiana strinse i pugni. «Non stavamo…»

Camille troncò la sua protesta, posandole la mano piccola sul braccio e strappandole un sussulto.

«Ci dispiace. La prossima volta ti avviseremo subito» disse accondiscende.

Marianne assottigliò le palpebre mentre squadrava la mano di Cam. Kiana notò con una punta di sadico piacere il fastidio evidente che trapelava dallo sguardo del centurione, sporcando quel viso abitualmente stoico. «Qualcosa non va, Mary?» le domandò.

Gli occhi di ghiaccio di Mary si posarono finalmente su di lei. Le due rimasero in silenzio, a fissarsi, e Kiana sentì l’aria farsi molto più pesante. Le venne da domandarsi che cosa Camille stesse pensando, assistendo a quella scena.

Uno sbuffo uscì dalle labbra di Marianne, prima che si staccasse dalla porta. Distolse lo sguardo da Kiana e riassunse la sua solita compostezza. «Siete fortunate che non ci sono altri lavori, per oggi, sennò vi ci avrei già spedite senza guardarmi indietro.» Accennò con la testa all’uscita. «E ora fuori di qui. Non voglio più vedervi fino a pranzo.»

«Grazie» rispose Camille. Afferrò Kiana per mano e la trascinò fuori dal bagno, ma non prima che lei e Marianne si scambiassero un altro sguardo carico di veleno.

Mentre erano nel corridoio, Kiana squadrò l’amica come se le fosse cresciuta un’altra testa. «“Grazie”?! Ma fai sul serio, Cam?»

«Che dovevo dirle, “Vai a quel paese?” Non so te, ma a me non va proprio di ritrovarmi a spalare letame per i prossimi sei mesi. Però tu sei libera di tornare indietro, se vuoi» aggiunse poi Camille, lanciandole un’occhiata di sbieco.

Kiana trovava fastidiose molte cose. Non trovare nulla da ridire a Cam era una di queste. Non sopportava affatto quando quello scricciolo riusciva a zittirla.

«Voi due.»

Entrambe si fermarono di getto quando Marianne le chiamò di nuovo dal fondo del corridoio. Per un istante Kiana pensò che le avesse sentite, invece quella disse: «Già che siete qui, fatevi una doccia. Puzzate.»

Kiana si voltò verso di lei, incrociando i suoi occhi cristallini e notando la sua espressione beffarda nonostante la distanza. Fu costretta a mordersi la lingua, prima di darle la risposta che avrebbe davvero voluto darle. Non poteva dire qualcosa del genere in presenza di Cam.

Dopo la doccia passarono il resto della mattinata con i gemelli Vega, che avevano finito il loro lavoro poco dopo. Thia aveva un pacchetto di noccioline e cercava di lanciarsele in bocca, mancando il bersaglio la maggior parte delle volte, mentre Minho se ne stava per le sue, come al solito, chiuso nel suo mutismo. Letteralmente, quel ragazzo era davvero muto, e comunicava a gesti che però nessuno tranne la sorella poteva comprendere. Non perché nessuno sapesse parlare il linguaggio dei segni, ma proprio perché il linguaggio che quei due usavano era inventato da loro e soltanto loro potevano comprenderlo.

Oltretutto entrambi non capivano un’acca di inglese, Thia parlava perlopiù in spagnolo, giusto per aggiungere qualcosa di più al malloppo. Ovviamente, l’unica che ci provava a comunicare con loro era Camille, che, ovviamente, aveva una cotta pure per Minho. Non che Kiana potesse biasimarla questa volta, Minho sembrava una specie di vichingo latino, con i capelli lunghi, la barba e il fisico statuario, che in un certo senso lo rendevano buffo, perché arrivava appena al metro e settanta d’altezza: era una specie di piccolo armadio.

Sua sorella Thia pareva una scappata di casa, invece. Non aveva alcuna cura per sé stessa, i capelli corti bruni tagliati male, le guance coperte di sfoghi, un incisivo e pure un pezzo di lobo dell’orecchio mancanti, persi chissà come e chissà dove.

Sembravano due figli di Mercurio cresciuti per strada in tutti i sensi della parola, invece erano figli di Giano. Due gemelli, figli di Giano, che grande originalità. Malgrado le differenze apparenti i loro volti erano davvero simili, tanto che avrebbero potuto essere scambiati l’uno per l’altra se entrambi fossero stati lindi e tinti, cosa che non erano quasi mai.

Rimasero accanto alla gelateria chiusa sulla Via Principalis, a osservare i semidei che andavano e venivano per il campo, occupati nelle loro mansioni mattutine. I fauni li seguivano, elemosinando spiccioli, e venendo cacciati in malo modo da alcuni e accontentati da altri. Di tanto in tanto passava anche Vitellio, sbraitando ai ragazzi della quinta di sbrigarsi, e lanciando anche alcune maledizioni rivolte a loro quattro – tre, anzi, visto che come tutti i lari adorava leccare i piedi di Camille – giusto per buona misura. Però a Kiana quel tizio era simpatico. Aveva vissuto, era morto e aveva vissuto dopo la morte facendo quello che amava: rompere le scatole alla Quinta Coorte.

Quasi tutti quelli con qualcosa da fare appartenevano alla Quinta o la Quarta Coorte, più raramente se ne scorgevano alcuni della Terza. Gli unici ragazzi della Prima e della Seconda che videro, furono quelli che andavano verso le terme. Come al solito.

Kiana non riuscì a ricacciare una smorfia infastidita a quel pensiero. Quei tizi se la spassavano a ogni occasione, e loro invece erano costretti ad ingoiare tutto quel fango. Non era giusto.

In quei momenti, pensava alla proposta di Maxwell. Da quando avevano scoperto che era una figlia di Venere, avevano fatto di tutto per conquistarla nei modi più disparati. Dopo l’umiliazione dovuta alla “benedizione” di Venere, per cui si era ritrovata a fare il cosplay di “Barbie mediorientale”, era arrivata pure la beffa: un esercito di adolescenti con complessi di superiorità che volevano aggiungere anche lei sotto forma di una tacca immaginaria alle loro conquiste.

Non aveva idea di come Maxwell progettasse di farla entrare nella Seconda Coorte, per quanto ne sapeva poteva pure trattarsi di un bluff, ma ogni volta che ci pensava sentiva il sangue ribollirle nelle vene. Non voleva un trattamento di favore solo perché era carina, non voleva nemmeno che persone viscide come Maxwell le ronzassero attorno, ma soprattutto avrebbe preferito morire piuttosto che lasciare la Quinta Coorte. Erano una banda di disadattati, ma anche lei ne faceva parte. E comunque meglio loro che dei viziatelli che guardavano tutti dall’alto verso il basso. Kiana aveva trascorso tutta la vita guardata dall’alto da persone che pretendevano da lei qualcosa che non avrebbero mai potuto ottenere, era sempre stata un’estranea, ovunque fosse mai andata.

A volte, le sembrava ancora di sentire le prediche di suo padre Amir: «Farhat ha origini antiche. Significa “grandezza, splendore.” Dovrai dimostrare di meritare questo cognome, Kiana.»

Inutile dire che non era mai riuscita a dimostrare un bel niente. Non che avesse importanza, visto che non vedeva quell’uomo da anni e aveva intenzione di continuare così. La Quinta Coorte, nel bene e nel male, l’aveva fatta sentire davvero parte di qualcosa, per una volta. Specialmente Cam, che non avrebbe abbandonato per nessuna ragione al mondo, ma anche David, il fratello minore che aveva scoperto di avere, e che senza la Quinta Coorte non avrebbe mai avuto.

E poi c’era Mary.

«Ohi, hermano» disse Thia all’improvviso, con la sua vocetta squillante. Disse qualcosa in spagnolo a Minho, che esibì un raro sorrisetto divertito e gesticolò qualcosa di ritorno.

«Non potete dire sul serio» mormorò Camille. Per tutta risposta, quei due le lanciarono un’occhiatina maliziosa.

«Cosa? Che hanno detto?» domandò Kiana, sorpresa dall’angoscia evidente di Camille.

«Vogliono andare a rubare i vestiti dei ragazzi nelle terme» spiegò Cam. «Secondo me è una pessima idea…»

«Per te tutto è una pessima idea» borbottò Kiana, stuzzicata invece dalla proposta dei Vega. «Sapete come fare?» domandò, e quei due annuirono, anche se non era molto sicura che avessero davvero capito la domanda.

«Vamos!» esordì Thia, facendo cenno di seguirli. Cominciò a incamminarsi accanto al fratello, spartendo le noccioline con lui. Parevano determinati ad andare fino in fondo, con o senza di loro.

«Io questa non me la perdo» esordì Kiana.

«Non puoi dire sul serio!» protestò Camille.  

Kiana si voltò verso di lei mentre continuava a camminare. «Nessuno ti obbliga a venire!» le gridò, e di rimando subì un’occhiataccia inviperita.

Poco dopo Camille stava camminando accanto a lei, scura in volto. «Finiremo in un mare di guai…»

«Vuoi mettere la soddisfazione di vedere quegli idioti andarsene in giro in mutande?»

Camille corrucciò la fronte. «C’è anche Maxwell alle terme?»

«Penso proprio di sì.»

«Andiamo.» Da come Camille si mise a marciare in testa al gruppo, sembrò che l’idea fosse stata sua all’improvviso. Kiana ridacchiò, e rimase a chiudere la fila.

 

***

 

Avanzarono nei corridoi bui, con le luci spente. Alcuni sbuffi del vapore proveniente dalle terme erano riusciti ad infiltrarsi anche lì, rendendo umido il pavimento piastrellato. Le voci e le risa dei semidei che si godevano l’acqua calda arrivavano come echi distanti, e la temperatura era molto più alta rispetto a quella fredda autunnale della Via Principalis.

«Niente rumore» bisbigliò Thia in un inglese zoppicante, quando arrivarono di fronte alla porta degli spogliatoi maschili.

«Ma dai?» ribatté Kiana, sardonica.

«Shhh.» Minho si portò l’indice le labbra, e questa volta la figlia di Venere non ebbe nulla da obiettare.

Thia abbassò la maniglia, ma la porta era chiusa. Disse qualcosa al fratello e lui annuì. Si divisero e lei rimase ad armeggiare con la serratura, mentre il gemello mirava agli spogliatoi delle ragazze, anch’essi chiusi.

«Espero ver tíos desnudos» gracchiò Thia, passandosi la lingua sopra le labbra. Qualunque cosa avesse detto, Kiana non voleva saperne nulla.

La spavalderia di Cam sembrava essersi prosciugata non appena avevano varcato la soglia delle terme. Ora sembrava in procinto di esplodere da un momento all’altro, tesa come un elastico per capelli, mentre i Vega dimostravano ancora una volta di meritarsi il loro posto nella squadra di scarti e disadattati della Quinta Coorte.

«F-Forse dovremmo…»

«Shhh»

«Ma…»

«Shhh.»

«Zitta.»

«Cállate!» fecero Minho, Kiana e Thia contemporaneamente.

Camille divenne più rossa di quando un ragazzo carino ricambiava un suo sguardo e si riguardò dal dire altro. Kiana le diede qualche pacca di consolazione sulla spalla, ma non sembrò riuscire a rincuorarla.

Cominciò ad immaginare la faccia che quei fessi della Prima e Seconda Coorte avrebbero fatto quando si sarebbero accorti di essere senza vestiti, quando la luce nel corridoio si accese all’improvviso, cogliendo alla sprovvista i suoi occhi abituati al buio. Tutto si fece arancione, accecandola, e le scappò un gemito infastidito.

«E voi cosa state facendo?!»

Kiana riaprì gli occhi, pietrificandosi. Ecco, ora che erano nei guai. Si voltò verso un ragazzo biondo che li osservava dal fondo del corridoio a bocca e occhi spalancati. Lo riconobbe subito: era Kyle Greenwood, il centurione della Prima Coorte.

Thia e Minho balzarono in piedi e sollevarono le mani come in una retata della polizia. Lei cominciò a blaterare in spagnolo frasi che Kiana non poteva comprendere, ma a giudicare dallo sguardo e dal tono sembrava proprio che stesse accusando lei e Camille di essere le artefici di tutto. Kiana non poteva esserne certa, però, quindi non le avrebbe staccato la testa per il tradimento.

Si rese conto che anche lei aveva alzato le mani e le abbassò, dandosi della stupida. Accorgendosi di essere l’unica rimasta con il dono della parola, visto che Camille era paralizzata e i Vega non sapevano parlare, si avvicinò al ragazzo con fare innocente. «E-Ehi, Kyle! Volevamo farci anche noi un bagno, ma le porte sono tutte chiuse, per caso potresti aiutarci?»

«E tu pensi che me la beva?» sbottò lui. Puntò l’indice verso i gemelli Vega, che stavano cercando di nascondersi dietro Camille con risultati tanto scarsi quanto esilaranti. «Siete stati voi a rubarci i vestiti l’altra volta?!»

«Qué?» fu la risposta di Thia.

Il sorriso di Kiana si dissipò nell’aria, mentre realizzava che nessuna balla avrebbe potuto tirarli fuori da quel casino. Lanciò uno sguardo ai suoi compagni, che sembravano senza idee tanto quanto lei, e deglutì. Non aveva la lingua ammaliatrice, perciò non poteva dire niente che avrebbe potuto tirarli fuori da quell'impiccio. C’era solo più una cosa che poteva fare: colpire Kyle così forte da sperare che perdesse la memoria.

«Kyle…» cominciò a dire, cercando di sorridergli di nuovo. Gli osservò i capelli rasati ai lati della testa, che lasciavano ben esposte le tempie. Le dispiacque un po’ essere costretta a tirargli un cazzotto, alla fine era uno dei pochi bravi ragazzi della Prima Coorte che conosceva, però era un figlio di Esculapio, di sicuro si sarebbe preso cura di sé stesso.

Si augurò anche di non farsi troppo male alla mano. «Noi…»

«Tu non c’hai visti» asserì Camille, apparendo accanto a lei come un miraggio, con una rapidità tale da farla sussultare. «Noi non siamo mai stati qui. Tu non c’hai visti.»

Kyle sbatté le palpebre un paio di volte. Kiana osservò l’amica incredula, ma non disse nulla quando si accorse del suo sguardo deciso: quelle iridi viola non ammettevano obiezioni.

«Stavi tornando negli spogliatoi per controllare che fossero chiusi» proseguì Camille. «E non hai visto nessuno.»

«Io… non ho visto nessuno…»

Non appena Kyle pronunciò quelle parole, con lo stesso tono di voce di un sonnambulo, Kiana spalancò la bocca sbigottita.

«Bene. Ora noi ce ne andiamo. Tu non c’hai visti» ripeté Cam con decisione.

Il centurione annuì con sguardo vitreo.

«Andiamo.» Camille afferrò Kiana per il polso e rivolse un cenno ai Vega. Le due amiche arrivarono a metà corridoio e si voltarono giusto in tempo per accorgersi di Thia che sventolava la mano di fronte a Kyle, rimasto immobile.

«Pst!» fece la figlia di Trivia. «Rápido

Thia sembrava voler fare qualcosa a Kyle, forse abbassargli i pantaloni, ma incredibilmente ci pensò suo fratello a trascinarla via prima che li incasinasse ancora di più. Uscirono dalle terme a passo spedito, trattenendosi dal correre per non fare troppo rumore e rischiare di attirare ancora più attenzioni. Per tutto il tempo, Kiana non fece altro che pensare a quello che aveva appena visto.

«Non fermatevi e non guardate nessuno» bisbigliò Camille, con una fermezza ed una lucidità che mai le aveva visto esibire. Sembrava più tesa di tutti loro messi insieme, ma allo stesso tempo li stava guidando con passo deciso, priva di alcun dubbio.

«Dios mio…» esalò Thia, una volta che furono a distanza di sicurezza dalle terme. Nessuno si era accorto di loro quando erano usciti. «Ese hombre me ha asust…»

«Cállate!» esclamò Camille, puntandole contro l’indice e facendola sobbalzare. Cominciò a sbottarle contro in uno spagnolo piuttosto risicato, ma a giudicare dalla reazione di Thia sembrò riuscire a trasmettere il messaggio. Perfino Kiana si sarebbe sentita intimidita se Cam l’avesse sgridata con quella lingua da telenovela.

«Niente più scherzi! No más bromas! Entiende?!»

Thia fece un’espressione da bambino offeso, ma non disse nulla. Minho le posò una mano sulla spalla per incoraggiarla. Nonostante fosse arrabbiata anche con lui, Camille non lo rimproverò, confermando ancora una volta di essere una causa persa.

«E anche tu!» Camille puntò l’indice verso Kiana. «L’avevo detto che era una pessima idea, o sbaglio? Perché non mi ascolti mai?!»

«Hai ragione. Ti chiedo scusa.»

«Bene! Aspetta, cosa?» La rabbia sfumò dal volto di Cam, rimpiazzata dallo stupore.

«Avevi ragione, è stata una stupidaggine. Ti chiedo scusa.»  

«Oh… ok…»

Kiana dovette trattenersi dal ridacchiare. Camille era troppo buona con lei. Bastavano delle scuse ben piazzate e quella si calmava subito. «Ma che è successo là dentro?» domandò, quando si accorse che Cam si era tranquillizzata. «Che hai fatto a Kyle?»

La piccoletta sussultò come se l’avesse punta con un ago rovente. «Non… non mi va di parlarne…»

«Hai la lingua ammaliatrice? So che ci sono alcuni figli di Ecate che…»

«Non mi va di parlarne!» esclamò Camille, alzando la voce.

Kiana trasalì, sorpresa da quella reazione così accesa e dagli occhi ametista dell’amica all’improvviso di nuovo severi. «Scusa» ripeté, con tono sentito.

Camille prese un profondo respiro. «Stai lontana da Kyle per qualche giorno. E se proprio lo incontri, non parlargli, non guardarlo nemmeno. Capito?»

Ripeté la frase in spagnolo, e i due Vega annuirono, anche loro piuttosto turbati. Poco dopo, i quattro si separarono. Thia e Minho si allontanarono, confabulando con il loro linguaggio segreto, mentre Kiana rimase con Cam, ancora perplessa dal suo comportamento e da quello che aveva visto soprattutto, ma cercando di non darlo a vedere.

L’ipotesi che Camille avesse la lingua ammaliatrice cominciò a farsi più debole man mano che ci rifletteva su. David le aveva spiegato come funzionava quel potere: non era un’ipnosi, non si potevano trasformare le persone in marionette che eseguivano ogni compito, o almeno non come Camille aveva fatto con Kyle. Occorreva dire loro quello che volevano sentirsi dire, o quantomeno edulcorare le frasi in modo da farle sembrare delle richieste e non degli ordini veri e propri.

Invece Camille aveva praticamente ordinato a Kyle di dimenticarsi di loro e lui, fermo come una mummia, aveva annuito. O Cam possedeva una lingua ammaliatrice così potente da rompere certi vincoli, oppure c’era qualcos’altro sotto. E qualsiasi cosa fosse, lei non sembrava per niente felice di averla usata.

Forse era magia. Le ritornò in mente il modo in cui si era rifiutata di usarla nelle stalle e si domandò se ci fosse un collegamento con tutto quello.

In ogni caso, Kiana si sentì un’emerita idiota. Non era stata cortese con Cam, per niente. Avrebbe dovuto capirlo subito che si sentiva a disagio quando si trattava dei suoi poteri. «Ehi, Cam» mormorò dopo un lungo silenzio, mentre camminavano lungo la Via Principalis.

«Sì?»

«Scusa… ancora, per prima. Non volevo farti arrabbiare.»

Camille si mordicchiò un labbro. «Ti chiedo scusa anch’io. Non avrei dovuto gridarti addosso.»

Kiana le porse il mignolo, con un sorrisetto. «Pace?»

Una risatina sfuggì da Cam. Non appena la udì, Kiana si sentì mille volte meglio.

«Pace» concluse la figlia di Trivia, intrecciando il mignolo con lei. Li strinsero, poi abbassarono e alzarono le mani con due gesti secchi e si separarono.

«Devo chiederti un favore» proseguì Camille, facendosi di nuovo seria. Anzi, pareva perfino angosciata. «Non… non dire a nessuno quello che hai visto, ok?»

«Non lo farò. Promesso.»

Le spalle di Camille si rilassarono. «Grazie.»

«E… i Vega? C’erano anche loro, non pensi che…»

Kiana si interruppe, accorgendosi dello sguardo di sufficienza che Cam le rivolse. A quel punto, anche lei realizzò di starsi preoccupando per niente. Sicuramente un mucchio di persone erano ansiose di sentire in spagnolo, o a gesti incomprensibili, quello che Cam era riuscita a fare. E in ogni caso quei due non erano famosi per la loro “sincera onestà”. Potevano stare tranquille.

Per il resto della mattina Camille sembrò mantenere quell’aria tesa e dubbiosa. Kiana provò a farla ridere ancora qualche volta, riuscendoci nella maggior parte dei casi, ma quando la pacchia finiva l’espressione grigia di Cam tornava sempre a fare capolino. Sembrava davvero turbata.

Questo finché non si riunirono con Daniel, durante l’appello prima del pranzo. A quel punto Cam tornò a essere il solito caso disperato.

«Ehi, ragazze» cominciò lui, avvicinandosi per primo.

«Ehi…» rispose Camille, cercando di non incrociare il suo sguardo.

«Zombie» lo salutò Kiana, sforzando un sorrisetto provocatorio, ma non era molto sicura del risultato. «Com’è andata dall’augure?»

Daniel si fece ancora più cupo, superando i limiti conosciuti della cupezza. Gli occhi di quel tizio sembravano farsi più scavati ogni giorno che passava, i suoi capelli parevano sempre più arruffati, e la pubertà stava cominciando a mostrarsi sotto forma di una barba rada sopra le guance pallidissime. Sembrava il frontman di una band emo. Non era un brutto ragazzo, anzi, e aveva anche un certo fascino se si era attratti da quel genere di look, ma Kiana pensava che la sua fosse solo pigrizia. Non che avesse importanza, dopotutto non era lei quella cotta di lui.

«Lascia perdere» mugugnò Daniel, sospirando pesantemente. Fece vagare i suoi occhi scuri su entrambe le ragazze. «Volevo chiedervi scusa per come me ne sono andato questa mattina. Non…» Si interruppe, osservando Camille. «Ma… hai tagliato i capelli?»

La ragazza giocherellò con gli orecchini, le guance arrossate. «Oh… te ne sei accorto…»

Kiana spalancò gli occhi.

Certo che se n’è accorto! Mica è cieco!

«Ti stanno bene.» Daniel fece un mezzo sorriso, e Camille divenne più rossa di quanto mai fosse mai stata.

«D-Davvero??»

Daniel sollevò le spalle. «Sì, certo.»

Per tutta risposta, Cam si coprì la faccia e cominciò a farfugliare dei ringraziamenti. Kiana dovette attingere a tutto il suo autocontrollo per non sbattersi con forza la mano sul muso. Si limitò a distogliere lo sguardo e a scuotere impercettibilmente la testa.

Crocerossina…

Daniel non parlò molto di quello che aveva combinato insieme a Dante, disse soltanto che quello spilungone aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a riordinare delle scartoffie. Camille se la bevve tutta, ma Kiana faticò a credere che ci fosse voluta tutta la mattina per quel lavoro. E soprattutto le fu impossibile non accorgersi di alcuni suoi tentennamenti, mentre parlava. Era successo qualcos’altro dall’augure, ma lui non lo disse. Camille raccontò invece la storia di Maxwell e la gomma.

«Che verme» sbottò Daniel, quando sentì quello che era successo.

«Oh, beh…» mormorò la figlia di Trivia, arrossendo di nuovo. «Non tutti i mali vengono per nuocere… i miei capelli adesso mi piacciono molto di più.»

Daniel le sorrise. «Meglio così, allora.»

Anche Cam gli sorrise. «Scusa anche tu se… se mi sono fatta gli affari tuoi. Credevo che…»

«Stai tranquilla. È tutto a posto. Grazie… per esserti preoccupata.»

«P-Prego…»

Kiana avrebbe voluto vomitare. Prima Daniel faceva lo scontroso, poi se ne tornava ostentando gentilezza tutto ad un tratto. Non riusciva proprio a capire quel tizio. Si augurò che avesse davvero capito di aver esagerato, quando se n’era andato offeso in quel modo.

Il pranzo procedette in tranquillità. Camille cercava di attaccare bottone con Daniel, con scarsi risultati, mentre i Vega erano al loro solito posto. A parte uno sguardo muto rivolto a Kiana, quei due non interagirono né con lei né con Cam.

Al tavolo della Prima Coorte, Kiana vide Kyle ridere assieme ai suoi compagni, mentre si teneva per mano con una brunetta, forse una figlia di Pomona a giudicare dalle sue “abbondanze”. Non pareva più la mummia delle terme, anzi se la spassava con i suoi amici e si sbaciucchiava con la sua ragazza, quindi forse era tutto ok. Decise di non dirlo a Cam, comunque, visto che sembrava di nuovo serena e non voleva riprendere la questione.

«Kiana» la chiamò David, seduto accanto a lei, a bassa voce.

«Sì?»

Suo fratello le porse qualcosa, poi le sue guance si colorarono e distolse lo sguardo da lei, imbarazzato. «Ehm… grazie per avermelo prestato» bisbigliò.

Kiana sorrise e prese il rossetto che David le stava porgendo. «Figurati. Ora sai che ti basta chiedere e che non devi andartene in giro col tuo ragazzo a rubare le cose degli altri.»

«Travis non è il mio ragazzo!» protestò David, con vocetta indispettita.

«In ogni caso, girate alla larga dai dormitori delle ragazze, o vi faccio male» concluse Kiana con un’alzata di spalle. A dimostrazione del fatto che non mentiva, David si massaggiò il braccio dove, un paio di giorni prima, lei gli aveva sferrato un cazzotto da record. Era successo proprio quando aveva beccato lui e il suo compare mentre girovagavano per il lato sbagliato dei dormitori. All’inizio aveva pensato che fossero in cerca di biancheria o cose malate di quel tipo, e a quel punto lui aveva vuotato il sacco, implorandola di non ucciderlo.

Una volta saputa la verità, Kiana gli aveva detto che se voleva truccarsi poteva chiedere a lei e non frugare tra le cose delle ragazze come un maniaco assieme al suo “migliore amico” – a detta sua – visto che, quando era stata riconosciuta da Venere, si era ritrovata un beauty case stracarico di roba con scritto il suo nome sopra il letto.

Kiana ancora non capiva perché Venere avesse avuto la brillante idea di regalare proprio a lei un beauty case, visto che odiava truccarsi. Aveva provato in tutti i modi a cederlo a David, ma quello ritornava sempre in camera sua come per magia. Camille le aveva spiegato che ormai era suo, e non poteva separarsene.

Era come se sua madre volesse a tutti i costi che lei usasse quell’affare almeno una volta. Peccato però che Kiana non l’avrebbe mai e poi mai fatto; quel coso avrebbe continuato a prendere polvere ancora per molto tempo. Polvere metaforica, perché non poteva sporcarsi, o rompersi – Kiana aveva provato anche a distruggerlo un paio di volte.

Le auree volavano per la mensa, con i loro vassoi carichi di cibo di qualsiasi tipo. Ce n’era per tutti i gusti, e se solo il pensiero non le avesse dato il voltastomaco, Kiana avrebbe perfino potuto chiedere le stesse pietanze che mangiava da bambina, quelle che i suoi chef personali confezionavano apposta per lei con la stessa cura e amore che invece non aveva mai ricevuto da suo padre.

A volte pensava a quell’uomo, e a tutte le storie che le aveva raccontato. Aveva detto un milione di volte di non essere stato agiato come lei, di aver faticato molto da bambino, ma in realtà erano tutte bugie.

Non era mai nato e cresciuto a Teheran come le aveva detto. Non si era mai fatto il mazzo con un lavoro umile per anni prima di diventare miliardario. La “prestigiosa” famiglia Farhat era emigrata negli Stati Uniti quasi mezzo secolo prima, e da quel momento in poi non aveva fatto altro che mettere radici e ingrandire lentamente ma inesorabilmente il suo impero come una piaga che si dissipava in un corpo. L’unica cosa che rimaneva della loro terra natale quello era, il cognome.

Suo padre era più americano degli americani, ma fingeva di non esserlo davvero, fingeva di essere ancora legato alle tradizioni e alla cultura del suo popolo, ma Kiana sapeva la verità. A lui non importava nulla di tutto quello, l’unica cosa che voleva era salvare la faccia di fronte ai suoi fratelli e nel frattempo portare avanti l’attività di famiglia, visto che suo padre, il nonno di Kiana, nonché il vero fautore del successo dei Farhat, era morto da tanto tempo.

Kiana l’aveva visto solo una volta, da molto molto piccola. Ricordava quell’incontro a malapena, sapeva solo che era stato gentile con lei. Le aveva raccontato che il suo nome significava “gioiello della terra”, e con un sorriso le aveva detto che lei era davvero un gioiello maestoso.

Era stata solo una manciata di minuti, eppure si era comportato da padre migliore di quanto avesse mai fatto il suo padre reale.

Il brusio dei semidei che si alzavano in piedi per accogliere Ashley la fece distogliere da quei pensieri. Meglio così, perché quando cominciava a pensare a quell’ipocrita di suo padre faceva fatica a fermarsi.

«Elias non c’è ancora» borbottò Daniel, osservando la figlia di Giove mentre procedeva da sola verso il suo tavolo, dispendendo sorrisi e saluti come suo solito. Kiana ripensò a quella mattina, quando Ashley aveva detto a Camille che avrebbe voluto che più ragazzi fossero come lei, e sentì il sangue ribollirle nelle vene.

Se davvero voleva dei legionari modello, forse avrebbe dovuto levarsi le fette di salame dagli occhi; ogni volta che la Quinta Coorte veniva presa di mira dalle altre quella fingeva di non vedere niente. Che gran bel modo di comportarsi.

«Kiana?» la chiamò David con voce angosciata, probabilmente accorgendosi della sua espressione. «Tutto bene?»

Lei si sforzò di sorridergli e di cacciare via ogni pensiero cupo dalla mente. «Sì, certo.»

Mentre il pranzo proseguiva, Kiana si accorse che David non indossava più la medaglia che Ashley gli aveva assegnato. Ricordava ancora quando avevano preso lui, Travis e Gus, un fauno, per andare in quella missione al museo d’arte asiatica di San Francisco. Al Senato, in molti erano stati perfino contrari al lasciarsi coinvolgere in quella faccenda, dicendo che i greci avrebbero dovuto risolvere il loro problema da soli. Tuttavia, alla fine, avevano sbolognato l’incarico alla Quinta Coorte.

Kiana si era offerta volontaria, ma la scelta era già stata presa alle spalle di tutti. David e Travis avrebbero avuto “L’occasione di dimostrare il loro valore e quello della Quinta Coorte.”

Tutti avevano subito capito cosa stava accadendo, lo stesso David l’aveva capito. L’unico troppo buono, e ingenuo, per arrivarci, era Travis.

Avevano preso loro due aspettandosi che fallissero. Oppure, nel caso in cui avessero avuto successo, avrebbero potuto dire che era stato un incarico da poco – che alla fine era proprio quello che era successo. Quelle medaglie non avevano fatto altro che aumentare le vessazioni che già ricevevano normalmente. Meno Kiana pensava agli insulti che lanciavano a David e meglio era, altrimenti avrebbe rischiato di uccidere qualcuno per davvero.

L’unico che continuava a non rendersi conto di tutto quello che stava accadendo era Travis, che continuava a indossare quella medaglia con onore. Di nuovo, era troppo buono per accorgersi della crudeltà degli altri. Quel giorno era toccato a lui e Allen rimanere di guardia all’ingresso nel tunnel Caldecott, perciò entrambi non erano a pranzo con loro. Marianne era dunque sola soletta al suo posto di capotavola, e rigirava la sua insalatina scondita a malavoglia.

Certe cose non cambiavano mai. Quel cibo scarno, in tutti i sensi, e insipido, quel viso stoico, quei capelli scalati che le arrivavano appena alle spalle, gli occhi freddi e azzurri, a distanza di così tanti anni tutto quanto era rimasto tale e quale al giorno in cui l’aveva conosciuta.

Chissà a cosa pensa.

Kiana rimase a osservarla con insistenza, con l’intento di farsi notare. Non appena Marianne incrociò il suo sguardo la figlia di Venere le rivolse un sorrisetto, seguito subito dopo da un gesto di cortesia della mano, un bel dito mezzano alzato in compagnia del pollice. La dolce Mary-Mary la squadrò come se volesse incenerirla con lo sguardo, che bene o male fu proprio la reazione che Kiana voleva ottenere.

Infastidirla era diventata la sua ragione di vita da quando l’aveva piantata in asso per diventare centurione.

«Sono una figlia di Bellona» le aveva detto. «Sono nata per questo. Mi dispiace, ma devo farlo.»

Kiana non capiva proprio i legionari come Mary, che vivevano basandosi unicamente su chi fossero i loro genitori. Non c’era più spazio per l’individualità di una persona? Dovevano tutti essere quello che i loro genitori rappresentavano? Essere una figlia di Bellona non aveva portato Mary da nessuna parte. Certo, quando lei era diventata centurione alcune cose nella quinta erano migliorate, grazie al suo pugno di ferro erano diventati più uniti, più efficienti, ma a parte questo la Quinta Coorte continuava a essere il bersaglio preferito di tutte le altre. Per via della sua cocciutaggine Marianne non solo aveva rinunciato a loro due, ma si era anche ritrovata a fare un lavoro senza sbocchi, con un collega idiota, a guidare un gruppo di persone che non valevano niente agli occhi degli altri. Ormai sembrava sull’orlo di un esaurimento nervoso ogni volta che la guardava.

Se essere figli di Bellona equivaleva a essere anche masochisti, allora Mary era una figlia perfetta.

Probabilmente avrebbero continuato a fissarsi in quel modo fino alla fine del pranzo, come due gatte in lotta per il territorio, se solo delle urla non avessero attirato la loro attenzione.

Le porte della mensa si spalancarono all’improvviso e due ragazzi entrarono, anzi, barcollarono dentro. Kiana inorridì quando si accorse delle loro armature macchiate di sangue.

«Ci attaccano!» urlò uno di loro, il più alto dei due.

Ben presto, Kiana realizzò che il sangue sulla sua armatura non apparteneva davvero a lui, ma al ragazzo che stava cercando di sorreggere, il cui elmetto era completamente intriso, al punto che era impossibile scorgerlo in faccia. Non era necessario vederlo, però, per capire chi fosse: bastava guardare la medaglia appesa alla cotta di maglia, di oro massiccio imbrattato di rosso.

«Allen!» gridò Marianne, alzandosi di scatto dal tavolo.

«Travis» sussurrò David, prima che il figlio di Mercurio stramazzasse a terra.




Salve gente, bentornati! Non mi dilungherò molto. Dunque, con questo capitolo abbiamo chiuso l’introduzione alla storia e ai tre nuovi protagonisti, spero che vi siano piaciuti, fatemi sapere chi preferite per ora. Siamo solo all’inizio quindi non è detto che il risultato rimanga lo stesso fino alla fine, ma sono curioso delle prime impressioni, insomma. E sì gente, Reyna e Hylla hanno una nuova sorella. 

Inoltre, come avete potuto leggere, stanno arrivando i problemi. Ebbene sì, la pacchia è già finita purtroppo, o per fortuna, dipende dai punti di vista.

Grazie per aver letto ed essere arrivati fino a qui. Vorrei poi ringraziare Farkas e Roland per le recensioni. Infine, lascio il link a un paio di disegni che ho fatto quest’estate, che ho poi pubblicato su DeviantArt ma mai condiviso con i lettori perché aspettavo di arrivare al capitolo in cui avevamo il loro aspetto definitivo:

Daniel: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Daniel-Garcia-Il-Velo-Invisibile-893719090

Camille: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Camille-Gray-figlia-di-Trivia-Il-Velo-Invisibile-893719839

Kiana: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Kiana-Farhat-Figlia-di-Venere-Il-Velo-Invisibile-893719921

Dante: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Dante-D-Amico-l-augure-Il-Velo-Invisibile-893719582

Bene, grazie ancora per tutto quanto e alla prossima!

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Capitolo 4
*** Attacco nella Via Principalis ***


IV

Attacco nella Via Principalis 


 

Daniel non avrebbe mai immaginato che i suoi occhi potessero bruciare per aver passato troppo tempo a fissare dei foglietti, eppure accadde proprio quello. Quando anche l’ultimo post-it fu al suo posto, il ragazzo giurò a sé stesso che non avrebbe mai più guardato un pezzo di carta per più di cinque secondi per almeno un'altra manciata di anni.

Anche se, per quanto si sforzasse, quei versi che aveva letto continuavano a balenare di fronte a lui. Soprattutto quello dell’Abisso e la Notte.

Perché era così… familiare?

«Bene, questo era l’ultimo» concluse Dante con vocetta allegra, facendolo ritornare alla realtà.

Daniel sbatté le palpebre un paio di volte, poi si massaggiò la tempia con un grugnito e cercò di scacciare via la sensazione di vertigini che l’aveva appena assalito. «Posso andare ora?»

«Certo, e grazie per l’aiuto!»

«Come se avessi avuto scelta…»

«Come?»

«Niente.»

Daniel si affrettò ad allontanarsi dall’augure prima che quello si girasse e pensasse a qualche altra follia da fargli fare. E soprattutto prima che si ricordasse che cosa voleva davvero da lui. Non era più in vena di parlarci.

Lasciò il tempio di Giove Massimo con passo lento ed esausto. Non dovevano essere passata più di un’ora da quando era entrato, eppure gli sembrava di averci trascorso un’eternità. Si sentiva provato come durante le esercitazioni sotto il sole cocente di luglio.

Non sapeva cosa fare. Doveva parlare con qualcuno dei suoi incubi, questo era chiaro, ma aveva paura delle reazioni che avrebbe potuto suscitare, soprattutto se c’era pure una profezia di mezzo. Ripensò a quella voce che lo chiamava, dal fondo di quel baratro buio. L’Abisso. Un brivido gli percorse la schiena. Chiuse gli occhi e scacciò quei pensieri. Torturarcisi sopra non sarebbe servito a niente, la risposta non gli sarebbe caduta dal cielo.

Fu proprio con questo pensiero che andò a sbattere contro qualcuno. Anzi, più che qualcuno, parve qualcosa. Tipo un muro di cemento armato. Daniel barcollò all’indietro e sbatté le palpebre stordito, accorgendosi della figura che torreggiava su di lui, così alta da oscurare il sole.

Rimase in silenzio, pietrificato per lo stupore, mentre Elias lo scrutava dall’alto con quegli occhi che parevano monete d’oro scintillante. La sua espressione era più dura e fredda del metallo.

«Ehm… scusa, ero distratto…» borbottò Daniel, sentendosi in soggezione. Una strana sensazione gli percorse il corpo, simile a quella provata di fronte alla statua di Giove: ostilità, rabbia, pericolo.

Una volta, un fauno di nome Gus gli aveva detto che il suo odore era simile a quello di Elias, ma molto più intenso. E poi era scappato via quando Daniel gli aveva ringhiato di non avere monetine da dargli. Quella volta si era chiesto se Plutone non fosse anche suo padre. Ne dubitava, perché sentiva di non avere niente in comune con Elias.

Il pretore grugnì e gli passò accanto senza dire una parola, sbattendogli contro la spalla. Daniel indietreggiò e lo seguì con lo sguardo mentre proseguiva per la via. Una volta che fu abbastanza lontano fece schioccare la lingua, infastidito. «Stronzo.»

Non gli era mai piaciuto quel gigante. Se ne stava sempre in silenzio, a fissare tutti dall’alto con quello sguardo a metà tra il critico e il disgustato. Si credeva tanto meglio degli altri, proprio come la sua collega, ma almeno lui non si nascondeva dietro a un sorriso fasullo.

Stava per andarsene per la sua strada, ma qualcosa lo frenò. Ripensò all’andatura di Elias, e al suo sguardo adirato, e controllò di nuovo la strada alle sue spalle. Da quella parte c’era solo il Tempio di Giove Ottimo Massimo.

E nel tempio c’era ancora Dante.

Daniel rimase immobile, pensieroso. Era chiaro che Elias volesse qualcosa dall’augure, e sembrava perfino di umore peggiore del solito. Che fosse arrabbiato con lui per qualche motivo?

Era mattino inoltrato, il che significava che in quel momento gli altri della Quinta Coorte stavano svolgendo i loro classici lavoretti. E quindi, Daniel poteva arrivare giusto in tempo per dare una mano.

«Sì, come no» borbottò a sé stesso, voltandosi e cominciando a seguire Elias.

Rimase concentrato sul suo mantello nero e sbrindellato, tenendosi a debita distanza. Avrebbe potuto pedinarlo di nascosto, sgattaiolando tra i templi, ma decise di non farlo: se l’avesse scoperto, spiegare cosa stava cercando di fare sarebbe stato molto più difficile. Se lo avesse visto camminare sulla strada principale, invece, avrebbe potuto dirgli che aveva dimenticato qualcosa al tempio Giove, o che aveva una domanda per Dante.

Non ebbe nemmeno bisogno di pensare a qualche scusa preventiva: Elias non si voltò neanche una volta. Entrò nel tempio e svanì tra i pilastri. La luce del mattino gli permise di scorgere la sua figura avvicinarsi a quella di Dante, rimasto girato di spalle, chino sui suoi foglietti pieni di scarabocchi.

Daniel pensò che dovesse parlargli, invece lo vide afferrare la spalla dell’augure e farlo voltare verso di lui con un gesto secco. Gli diede uno spintone, facendolo sbattere contro l’altare. Dante sollevò le mani, con aria spaventata, e Daniel schiuse le labbra per lo stupore.

Il figlio di Apollo cominciò a parlare e a gesticolare nervoso, ma Elias lo zittì puntandogli un indice al petto. Daniel affrettò il passo e andò a nascondersi dietro le colonne sull’ingresso, appena in tempo per sentire la voce di Dante, tremolante di paura: «… non lo so che cosa significa! Ci sto provando! Ci sto provando con tutto me stesso, ma non ci capisco niente! Mi serve altro… agh

Vi fu un grido, seguito da un tonfo secco. Daniel sussultò e si sporse leggermente, in tempo per vedere Elias afferrare Dante dietro al collo per fargli sbattere la fronte sopra l’altare. L’augure gridò, ma il pretore gli sferrò un pugno al fianco, mozzandogli il fiato prima che potesse fare troppo rumore. Lo immobilizzò, stringendogli le braccia dietro la schiena con l’ausilio di una mano sola, e lo fece sbattere di nuovo con lo stomaco sopra l’altare.

Daniel non credette ai suoi occhi. Dante cercava di dimenarsi, ma era una battaglia impossibile per lui. Fisicamente non reggeva il confronto con Elias, e poi c’aveva appena parlato, quel tizio non sarebbe stato in grado di fare del male nemmeno a una mosca.

Elias si chinò sull’augure per sussurrargli qualcosa all’orecchio, in quella scena che sembrava uscita da un film action di serie B. Peccato solo che quello non era un film e Dante sembrava davvero terrorizzato.

«L-Lo so che non c’è più tempo!» gemette. «Ma devi dire ad Ashley che…»

Elias gli tappò la bocca. Un campanello di allarme esplose nella mente di Daniel, che si ritirò dietro la colonna un secondo prima di udire il fruscio della testa del pretore che si voltava verso di lui. Rimase immobile, appiattito contro la colonna, gocce di sudore freddo che colavano lungo la fronte e il cuore che rischiava di esplodergli nel petto. Trattenne perfino il fiato.

Sentì il suono di alcuni passi e si paralizzò. Non poteva scappare, o lo avrebbe visto. Ma non poteva nemmeno rimanere lì.

Era in trappola.

Daniel strinse i denti fino a sentire male alla bocca, arrovellandosi su che razza di scusa inventarsi. Avrebbe potuto dire che stava tornando da Dante, ma si era spaventato accorgendosi di come Elias lo avesse aggredito. Magari Dante gli avrebbe dato manforte. Dopotutto, era Elias quello nel torto, non lui. Lui era solo uno spettatore innocente, e aveva assistito a un’aggressione.

Non era lui ad essere colpevole. Riaprì gli occhi, sentendosi incoraggiato da quei pensieri, ma la sensazione sfumò non appena Elias sbucò da oltre le colonne per piazzare lo sguardo su di lui. A quel punto, Daniel sentì il proprio corpo diventare di gelatina. Schiuse le labbra, ricambiando il suo sguardo, la mente azzerata e il cuore che ora pareva un tamburo da guerra che rimbombava.

Elias corrugò la fronte, guardandolo intensamente, poi si voltò verso l’altra colonna. Avanzò di qualche passo, facendo vagare gli occhi attorno a sé con aria confusa. Si posò le mani sui fianchi, dando la schiena a Daniel, e imboccò la stradina della via dei templi.

Daniel non mosse un muscolo per l’incredulità. Elias si grattò la tempia, poi scosse la testa e fece schioccare la lingua in segno di disappunto. Ritornò nel tempio passando di nuovo accanto al ragazzo appoggiato alla colonna, senza più guardarlo.

Ci vollero diversi istanti prima che Daniel si rendesse conto che non l’aveva visto. Il sole fece capolino da dietro le nuvole che l’avevano coperto, inondandogli la faccia con i suoi raggi accecanti e costringendolo a socchiudere gli occhi, infastidito. Quello fu l’attimo in cui si riscosse.

Sentì di nuovo la voce di Dante, che sembrò più un eco distante, ovattato, e intuì che Elias aveva ripreso a tartassarlo. Senza perdere un solo altro istante, Daniel si allontanò a passo felpato, lanciando occhiatine rapide alle sue spalle per tenere sotto controllo l’ingresso del tempio, ma nessuno uscì di nuovo.

Accelerò il passo finché, pure nella sua mastodontica figura, il Tempio di Giove Ottimo Massimo non rimase nient’altro che un puntino alle sue spalle.

 

***

 

Trascorse il resto della mattina per i fatti suoi, cercando di non dare nell’occhio. Era piuttosto bravo in quello, ormai. E soprattutto fece attenzione a non incrociare Marianne, o altrimenti lei avrebbe potuto spedirlo a lavorare; dopo quello che aveva visto, non credeva proprio di avere le facoltà mentali per farlo.

Di sicuro non aveva quelle fisiche, visto che il sole batteva su di lui e si sentiva morire di caldo nonostante fosse quasi inverno. Trovò riparo all’ombra, dietro i dormitori della Quinta Coorte, e sentì il respiro calmarsi e il cuore diminuire i suoi battiti affannati. Il corpo sembrò ringraziarlo in silenzio.

Non riusciva a togliersi dalla testa quello che era successo. A partire da Elias che picchiava Dante, il tono di voce spaventato di quel poveraccio di un augure, e poi il modo in cui il pretore non si fosse accorto di lui nonostante l’avesse visto in faccia. Aveva solo finto di non vederlo? Forse aveva cercato di comprare il suo silenzio in quel modo, ma perché avrebbe dovuto? Lasciare andare un testimone del genere, senza nemmeno dirgli di farsi i fatti suoi, sembrava davvero eccessivo, pure se si era il pretore.

Daniel si massaggiò tra i capelli con un sospiro esausto, l’ennesimo di quella mattinata maledetta. Pensarci non serviva a niente, tanto non avrebbe…

Si fermò prima di ripetere lo stesso errore di prima e di tirarsi un’altra gufata clamorosa addosso. Ne aveva avuto abbastanza per quel giorno.

Purtroppo per lui, la situazione stava per peggiorare ancora di più.

Quando all’appello incrociò Camille e Kiana, insieme come al solito, si ricordò di essere arrabbiato con quelle due. Dopo tutto quello che era successo, però, non era pure in vena di tenere il muso a loro. Sicuramente Camille avrebbe provato ad avvicinarlo in ogni caso, per scusarsi, quindi tanto valeva fare il primo passo e magari salvare quel poco di faccia che gli era rimasto.

Chiese scusa per quello che era successo e fece un complimento a Cam, giusto per mostrare che non c’erano rancori. Avrebbe voluto che tutto si concludesse lì, invece lei continuò a cercare di parlare con lui durante il pranzo. Da un lato fu contento di avere una distrazione, dall’altro però continuava a pensare a quello che era successo con Elias. Era certo di apparire molto più distratto di quanto avrebbe voluto di fronte a Camille, ma se lei aveva notato qualcosa di strano in lui non lo diede a vedere. Meglio così, perché non voleva raccontare a nessuno quello che aveva visto; nemmeno lui ci credeva davvero.

Osservandola meglio, Daniel si rese conto che in effetti il taglio di capelli nuovo le stava bene per davvero, anche se il modo in cui era stata costretta a farselo lo lasciava tanto sbigottito quanto cinicamente divertito. Soltanto lei avrebbe potuto lasciarsi avvicinare in quel modo da quel lunatico di Maxwell. Quel tizio era una bomba a orologeria pronta a esplodere in qualsiasi momento, nessuno aveva idea di che cosa avrebbe potuto fare, probabilmente nemmeno lo stesso Maxwell lo sapeva.

La sua attenzione fu catturata dall’arrivo di Ashley. Si alzò in piedi insieme a tutti gli altri, dimenticandosi per un istante persino dell’astio che nutriva verso di lei.

«Elias non è ancora arrivato…» sussurrò stupito. Stava ancora maltrattando Dante? Daniel provò un moto di pena per lui, seguito da uno di rabbia nei confronti di Elias.

Più tardi sarebbe tornato a controllare l’augure, magari anche per cercare di carpire qualche informazione in più, ma senza far intendere che aveva assistito alla scena.

Anche Ashley era stata menzionata, ora che ci pensava. Elias doveva dirle qualcosa. Quel dettaglio lo portò a domandarsi se Ashley fosse estranea a quella faccenda, oppure se fosse coinvolta anche lei. Forse il suo collega pretore stava tramando alle sue spalle. O forse era stata lei a mandarlo lì.

Entrambe le opzioni non l’avrebbero sorpreso. Quei due puzzavano di marcio da lontano un chilometro.

Smise di pensarci quando Camille riprese a parlare con lui, dopo che si erano seduti. Nonostante cercasse di prestare attenzione a lei, continuò a osservare di nascosto il tavolo di Ashley, dove lei stava mangiando in solitudine e in apparente tranquillità.

Questo, almeno, finché Allen e Travis non fecero irruzione nella mensa, il secondo coperto di sangue dalla testa ai piedi. A quel punto perfino Ashley era stata travolta da un’onda di sconforto che aveva sporcato la sua espressione sempre rilassata.

Daniel non poté concentrarsi a lungo su di lei, però. Tutta la mensa andò nel panico, vi furono grida e schiamazzi. Accanto a lui Camille e David cominciarono a gridare disperati il nome di Travis, mentre Marianne non perse tempo e corse in direzione dei due feriti. Aiutò Allen a mettersi in ginocchio, poi andò da Travis e chiamò un medico a pieni polmoni.

«Andiamo, zombie!» sbottò Kiana, arrogante come sempre, anche se aveva la voce tesa.

Una piccola folla circondò i due feriti.

«Fatemi passare!» gridò Ashley, facendosi largo tra i legionari.

«Allora, questo medico?!» sbraitò Marianne, un istante prima che Ashley si chinasse di fronte a loro.

«Fatemi vedere» ordinò. Tentò di sfilare l’elmetto a Travis, ma quello emise un grido di dolore straziante. «Un medico, veloci!» ripeté, e in quello stesso istante Kyle Greenwood sbucò dalla folla.

«Eccomi.»

«Che cos’è successo?» domandò Ashley ad Allen, mentre Kyle si faceva aiutare da alcuni ragazzi per sollevare Travis e spostarlo sopra un tavolo. Grazie agli dei, la rivalità tra coorti non esisteva più in casi come quello.

«Hanno varcato il confine» gemette Allen, sfilandosi l’elmetto e rivelando un brutto taglio sulla fronte, sotto i cortissimi capelli castani. «Hanno colpito Travis… non sono riuscito a fermarli.»

L’espressione di Ashley era dura come il marmo. «Quanti nemici?»

Il centurione esitò. «Tanti. E un Gigante.»

Daniel non si era reso conto del silenzio gelato che era sceso nella mensa finché non sentì un centinaio di ragazzi sussultare di sorpresa, seguiti da mormorii confusi.

«Un Gigante?!» sussurrò Camille, sconvolta, imitata da moltissimi altri.

«Ci hanno attaccati mentre eravamo più vulnerabili» meditò Marianne, l’unica rimasta inflessibile. Incrociò lo sguardo di Ashley. «Bisogna lanciare l’allarme.»

«Sì, lo so.» La risposta del pretore parve seccata, non accondiscendente. Si alzò in piedi e fece vagare lo sguardo lungo i legionari, prima di urlare tonante e autoritaria: «Lanciate l’allarme e preparatevi a combattere! Respingiamo gli invasori!»

 

***

 

Le frecce infuocate stavano piovendo da prima ancora che i legionari si riversassero fuori dalla mensa, schiantandosi contro gli edifici. Un susseguirsi di sibili, che si concludevano con forti esplosioni di fiamme.

Il cielo era occupato da una trentina di grifoni, che cominciarono a scendere in picchiata non appena notarono i legionari ammucchiati nella Via Principalis, stretti come topi in trappola.

I corni dell’allarme suonavano all’impazzata, così forte da far sanguinare i timpani. Un grifone sfrecciò sopra la testa di Daniel, mancandolo per un soffio; qualcun altro non fu altrettanto fortunato. Con la coda dell’occhio, il ragazzo vide una di quelle bestie alate con stretto tra le zampe un legionario che tentava di dimenarsi inutilmente. Quando il grifone arrivò abbastanza in alto lasciò andare la sua vittima. Daniel distolse lo sguardo, mentre l’urlo di quel poveraccio che precipitava si disperdeva in mezzo alle decine, centinaia di altre grida.

La terra cominciò a tremare. Centauri e lupi attraversarono di corsa la Via Principalis, aggredendo qualsiasi cosa capitasse a tiro, il tutto sotto il fuoco costante delle frecce. Non erano i centauri amici dei greci, o i lupi di Lupa, però. Erano selvatici, bestie violente e assetate di sangue. E soprattutto non avrebbero dovuto trovarsi lì. Il campo era circondato dai confini magici, era impossibile per i mostri attraversarli. Eppure quelli c’erano riusciti. Diversi legionari vennero assaliti da branchi interi di lupi e trascinati a terra emettendo grida disperate che si spegnevano ben presto.

Lari e fauni fuggivano in ogni direzione, urlando disperati. Vitellio, invece, volava in mezzo ai semidei urlando di riscuotersi e di rispondere all’attacco, sventolando una spada fantasma. L’odore del sangue e del fumo impregnò l’aria. Ovunque si voltasse, Daniel scorgeva volti terrorizzati, occhi fuori dalle orbite, visi sanguinanti o persone a terra che giacevano immobili.

Le aquile giganti della legione arrivarono in quel momento, avvinghiandosi con i grifoni in aria in un turbinio di piume, strilla lancinanti e artigli. Chi era armato cominciò a difendersi dagli attacchi via terra. I semidei formarono delle cortine difensive, formazioni a testuggine di fortuna, in modo da spostarsi proteggendo chi non poteva difendersi da solo, nel tentativo disperato di arrivare fino all’armeria, o ai dormitori, o a qualsiasi altro luogo utile.

Dei figli di Cerere e di Bacco fecero spuntare delle radici da terra, che andarono a rallentare l’assalto delle creature terrene, ma nemmeno quello servì a molto. Alcuni figli di Apollo armati d’arco incoccarono freccia dopo freccia, abbattendo i grifoni, ma non sembrava mai abbastanza.

Daniel avanzò assieme a Camille, Kiana, David e i gemelli Vega. Erano tutti armati, tranne lui. Nessuno però glielo fece pesare: avevano cose più importanti a cui pensare. Rimase dietro di loro, impotente, mentre respingevano un lupo dietro l’altro e si difendevano come potevano dai violenti attacchi dei centauri. Una freccia esplose poco distante da loro, strappando un grido a Camille.

Un lupo saltò mirando proprio alla gola della figlia di Trivia e Daniel sgranò gli occhi. Stava per urlare il suo nome, ma Kiana fu più rapida di lui: con un colpo della lancia trafisse il lupo come uno spiedino, strappandogli un guaito straziato. Per fortuna non erano lupi mannari, forse erano un branco che aveva rifiutato l’autorità di Lupa, o le armi d’Oro Imperiale sarebbero state inutili. Questo però non li rendeva meno pericolosi.

«Vete a morir!» ululò Thia, dimenando il gladio e azzoppando un centauro.

«Questo è per Travis!» sbraitò anche David, infilzando un altro lupo.

Un grifone scese in picchiata su Minho, ma lui si scansò e lo decapitò con un colpo secco di spada.

Dopo un attimo di disordine iniziale, i semidei cominciarono a riprendere il controllo della Via Principalis. Daniel sapeva, però, che quei nemici non erano la vera minaccia: il vero esercito stava ancora marciando verso il campo.

Un lupo balenò a un soffio dal suo volto, facendolo ridestare. Urlò di sorpresa, credendo di essere spacciato, ma qualcuno lo salvò trafiggendo l’animale al collo con un colpo ben assestato di pugio. 

«Guardia alta, García!» lo rimproverò Marianne, apparsa accanto a lui come un’ombra. Passò oltre senza dire altro e andò in soccorso di altri legionari in difficoltà, armata giusto di quel pugnale.

«Che vuoi fare con quell’ago da cucito?!» le urlò Kiana, alle prese con un centauro.

«Numquam periclum sine periclo vincitur!» ribatté Marianne, abbattendo un altro lupo. 

«Tiratela di meno!»

«Attenti!» gridò Camille, abbassandosi dopo il passaggio di un altro grifone, che la mancò per un soffio. Quello emise uno stridulo infastidito e riprese quota. Volteggiò nell’aria e sfoderò gli artigli, voltandosi di nuovo verso il loro gruppetto. Prima che potesse tentare un altro attacco qualcosa squarciò l’aria, più veloce del grifone, più veloce di una freccia. Un raggio di luce, seguito dal boato del pennuto che si disintegrava in mille pezzi, seguito infine da un’orrenda puzza di pollo alla griglia carbonizzato.

Daniel si voltò e si accorse di Ashley che correva in mezzo alla via con lancia e scudo alla mano, gli occhi che brillavano di accecante luce azzurra. Si era levata il mantello e ora correva con indosso soltanto la cotta di maglia, falcidiando tutti i mostri che le capitavano a tiro a colpi di lancia. 

«Non vi fermate!» gridò quando passò accanto al gruppetto di Daniel. 

Sollevò lo scudo: un fulmine cadde al cielo, rimbalzandoci sopra e attraversando il corpo della ragazza per poi esplodere dalla lancia come un proiettile, polverizzando un centauro prima che finisse un legionario inciampato a terra. 

«IUPPITER OPTIMO MAXIMO!»  

I romani gridarono in risposta al pretore, ognuno inneggiando al proprio dio. La presenza di Ashley aveva rincuorato tutti quanti. La Legione intera si animò. Attorno a lui, Daniel vide i suoi compagni combattere con maggiore ferocia e coraggio. Si accorse che anche Marianne stava gridando qualcosa, ma a causa del rumore non riuscì a sentire le sue parole. Eppure gli bastò solo guardarla per sentire un brivido lungo la schiena: il desiderio irrefrenabile di combattere con tutta la forza che aveva in corpo, perfino se disarmato, si fece largo dentro di lui. E la stessa sensazione sembrarono provarla anche Kiana, Camille e il resto del loro gruppetto, perché nessuna creatura riuscì più ad avvicinarsi senza essere disintegrata all’istante.

I mostri cominciarono a ritirarsi, schiacciati dai semidei che poco a poco stavano riacquistando il controllo della situazione, spronati da Ashley che guidava la marcia con la forza di una tempesta vera e propria. Aveva distrutto da sola chissà quanti mostri, e non sembrava affatto intenzionata a fermarsi.

Daniel approfittò della situazione per districarsi dai suoi compagni e correre verso l’armeria, dove trovò un’altra ventina di ragazzi che cercavano di armarsi e di indossare almeno qualche pezzo d’armatura in fretta e furia. Si fermò di fronte a una rastrelliera, alla ricerca dell’arma giusta per lui.

«Levati tu!» gridò qualcuno, scansandolo di peso. Daniel barcollò, accorgendosi di Maxwell che gli sfrecciava accanto per poi svanire nei meandri dell’armeria. Gli bastò un solo istante per capire che quello non sarebbe mai uscito da laggiù, se non a battaglia finita. Con suo stupore, la stessa idea gli attraversò la mente come uno dei fulmini di Ashley, scacciando via la determinazione che l’aveva assuefatto poco prima. Se si fosse nascosto, chi se ne sarebbe accorto?

«Daniel…» lo chiamò una voce all’improvviso. Il ragazzo sussultò e cominciò a guardarsi attorno, ma non vide altro che il caos generato dalla battaglia: il via vai di gente dall’armeria, alcuni ragazzi feriti che cercavano rifugio, altri che si trascinavano dietro dei corpi macchiati di rosso, alcuni in lacrime, altri invece con sguardo spiritato per la paura e l’adrenalina. Tutto quanto si sgranò: le grida si ovattarono, la vista gli si appannò, i legionari che correvano accanto a lui diventarono macchie sfocate.

«Daniel» ripeté la voce. Una voce di donna, gentile e soave, che risuonava come una dolce melodia. Come quella dei suoi incubi.

«Forza, Daniel, che cosa aspetti? Uccidili.»

Il ragazzo sentì il proprio respiro mozzarsi. Non sapeva come, non ne aveva idea, ma era certo che soltanto lui potesse sentire quella voce. E sapeva anche che non gli stava affatto ordinando di uccidere i mostri: gli stava ordinando di uccidere i semidei stipati nell’armeria assieme a lui. 

«Non sei uno di loro, Daniel. Non lo sei mai stato. Uccidili. Aiutaci a distruggere questo posto.»

Una fitta di dolore atroce gli colpì la tempia, facendolo gridare. Crollò in ginocchio e si premette le mani sulla testa. Gli sembrò di avere il cervello crivellato da pugnali roventi e ghiacciati in contemporanea. Cominciò a sudare e a tremare allo stesso tempo, assalito da un forte senso di nausea. 

I volti dei legionari che correvano attorno a lui si trasformarono in maschere di oscurità, con occhi di sclera bianca, vitrei. Le loro forme scomparvero, lasciando solo spazio a corpi umanoidi privi di dettagli, impossibile capire che cosa fossero. Daniel sussultò, la mente che rischiava di spaccarsi a metà. Un’ombra fittissima ricoprì l’armeria, mentre la voce della donna cresceva d’intensità: «Sei tu il mio campione, Daniel. Hai già ucciso centinaia, migliaia di volte. Puoi farlo di nuovo.»

Daniel rimase pietrificato. Le immagini dei suoi compagni sfarfallavano. A tratti erano le persone che conosceva, a tratti erano quegli ammassi informi di buio con gli occhi vacui. Nessuno badò a lui, erano tutti troppo presi da quello che stava accadendo per strada. 

«Daniel!»

Una mano si posò sulla sua spalla, facendolo rinsavire. L’oscurità svanì e il chiasso dei legionari e della battaglia tornò a farsi nitido tutt’attorno a lui. La voce tacque e i ragazzi riassunsero i loro aspetti normali. Vide Camille accanto a lui. Era intatta, e lo stava guardando angosciata. «Stai bene?» 

«Sì, sì…» riuscì a rispondere lui, rialzandosi in piedi. Si massaggiò la tempia e strizzò le palpebre, scacciando quella sensazione di disorientamento. Individuò la rastrelliera di fronte a lui e si ricordò perché era andato lì dentro. Afferrò un gladio e indossò anche una cotta di maglia, per avere un po’ di protezione in più. 

Camille lo imitò, recuperando una panoplia adatta alla sua corporatura. «Ci stiamo muovendo verso le colline» gli spiegò, mentre allacciava le protezioni. «I centauri e i lupi si sono ritirati, ma c’è ancora un intero esercito là fuori.»

«Non c’è altro tempo da perdere.» 

«Sei sicuro di stare bene? Sei pallido.»

Daniel ricacciò una smorfia. Nonostante la situazione, lei doveva comunque preoccuparsi del suo pallore. «Sto bene» ripeté, con tono duro. «Sbrighiamoci.»

Le labbra di Camille si ridussero a una riga sottile. Distolse lo sguardo da lui e annuì, senza dire altro. 

«Eccovi!» tuonò la voce di Kiana, che entrò facendosi largo a spintoni e ignorando le proteste che ricevette in cambio. Sembrava molto, molto arrabbiata, ma anche lei era illesa. Gettò via la lancia spezzata e si avviò verso una rastrelliera ormai mezza vuota. Ne prese un’altra, con la lunga lama d’Oro Imperiale seghettata e l’impugnatura bianca come l’avorio. La saggiò un paio di volte, poi annuì a sé stessa. «Questa può andare.»

Non si fermò lì. Afferrò anche il fodero di un gladio e due pugi, legandosi tutto alla cintura. Anche Marianne entrò in quel momento, arruffata ma altrettanto illesa. Affiancò Kiana e cominciò ad armarsi di tutto punto a sua volta. 

«Cos’è, hai capito che quel coltello da burro era inutile?» la provocò la figlia di Venere.

Marianne non batté ciglio. Si allungò verso un altro gladio rimasto incustodito, scansando Kiana. «Spostati, mi sei d’intralcio.»

«Sei tu che sei venuta qui!»

Il centurione finì di armarsi, indossò soltanto un elmetto e si allontanò rapida com’era entrata. 

«Che vuoi fare solo con quell’elmetto?!» le urlò Kiana, senza ottenere risposta. A quel puntò fece un verso irritato e finì di sistemarsi la sua panoplia. «Giuro che se quella si fa ammazzare...»

Seguì Marianne, passando accanto a Camille e Daniel. Sembrò ricordarsi di loro solamente quando li affiancò. «Beh, che fate lì impalati? Muovetevi, Ashley sta già marciando verso il Gigante!»

Daniel si riscosse. Il Gigante. I mostri creati per distruggere gli dei. Aveva sentito parlare di loro, ma non ne aveva mai visto uno: non aveva idea di cosa aspettarsi.

«Elias si è visto?» domandò, mentre seguiva Kiana e Camille fuori dall’armeria.

«Ma che ne so! È un delirio lì fuori!»

«Io non l’ho visto» si intromise Camille, con gli occhi spalancati. «Che… che si sia fatto del male?!»

«Ne dubito» mugugnò Daniel, ripensando a quello che aveva visto a proposito del loro secondo pretore.

«Lo so che non c’è più tempo!» aveva detto Dante e Elias. Che si fosse riferito a quello? All’attacco?

L’ennesimo grifone scese in picchiata su di lui, ma questa volta Daniel si fece trovare pronto. Urlò e dimenò il gladio, centrandolo in pieno e distruggendolo. A Elias e tutto il resto avrebbe potuto pensare dopo: adesso aveva un campo da difendere.

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Capitolo 5
*** La battaglia per il Campo Giove ***


V

La battaglia per il Campo Giove



Corse assieme ai legionari, cacciando dalla Via Principalis i lupi e i centauri rimasti, mentre il cielo veniva riconquistato dai romani a cavallo di pegasi e dalle aquile. I mostri sopravvissuti tornarono indietro, a cercare rifugio tra le fila dell’esercito che per tutto il tempo aveva continuato a marciare verso il campo, scendendo dalle colline di Oakland. 

Ora che la Via Principalis era di nuovo libera, Daniel poté concentrarsi su quello che li attendeva al di fuori delle mura difensive. Falangi intere di dracene armate di archi e frecce incendiarie, ciclopi con le mani cariche di grossi massi, lestrigoni, diversi segugi infernali e i centauri e i lupi sopravvissuti si stavano dirigendo verso di loro. Erano almeno duecento o trecento nemici, senza contare il gigante, che camminava proprio in centro. Era ancora troppo lontano per poterlo scorgere bene, ma la sua statura mastodontica faceva sembrare pulci perfino ciclopi e lestrigoni alti due metri.

Le cinque coorti si radunarono ognuna dietro ai rispettivi centurioni, che a loro volta seguivano il pretore formando cinque colonne ordinate al millimetro, per via di tutte le esercitazioni e addestramenti fatti. Poche, sporadiche frecce caddero ancora su di loro, ma non fecero altro che incontrare gli scudi dei legionari di nuovo bene armati ed equipaggiati. 

Nonostante quell’esercito impressionante, i legionari avanzarono verso di loro senza paura. Daniel affiancò Kiana, Camille, David e i Vega al seguito di Marianne, rimasta sola dopo che Allen si era ritirato nella mensa assieme a Travis e a tutti i feriti nell’attacco della Via Principalis. 

Erano addestrati per quello, e anche se la vista di così tanti mostri avrebbe potuto spaventarli, la forza del Campo Giove stava nell’unione dei suoi abitanti e nella fiducia che nutrivano nei confronti dei loro leader. Potevano essere spaventati, ma dovevano ricordarsi di non essere soli.

Il cielo crepitò all’improvviso e Daniel sentì i peli delle braccia rizzarsi. Si accorse del fittissimo strato di nubi nere che si stavano addensando proprio sopra di loro, con alcuni lampi che baluginavano al loro interno, impazienti di essere sprigionati, mentre sopra il campo, Nuova Roma e le colline tutto era sereno. Era come se tutta la furia del cielo fosse concentrata unicamente su di loro. 

Ashley smise di marciare, sollevando un pugno, e come un sol individuo l’intera Legione si arrestò in uno scroscio di stivali che calpestavano il suolo. Entrambi gli eserciti si erano fermati a metà strada tra il campo e il Piccolo Tevere, separati da un centinaio di metri. Sopra le loro teste, i semidei a cavallo dei pegasi e le aquile giganti cominciarono a volteggiare sopra la Legione, in attesa. 

Il pretore era circondato da un’aura di elettricità pura, così forte da rendere l’aria umida e satura. Perfino da quella distanza Daniel percepiva il potere da lei emanato. Realizzò a quel punto che i nuvoloni erano tutta opera sua: una tempesta stava per scatenarsi sulle sponde del Piccolo Tevere. 

Un silenzio irreale scese lungo quello che sarebbe stato il nuovo campo di battaglia, mentre entrambi gli eserciti si scrutavano e studiavano.

«Siete entrati in un luogo sacro. Tornate indietro, o verrete distrutti» gridò Ashley, rivolta verso i mostri. 

Una valanga di risate si sollevò da loro. Le dracene tesero di nuovo gli archi, ma anche il Gigante alzò una mano, per fermarle. Avanzò attraverso i suoi seguaci, portandosi in testa al gruppo. Non appena lo vide meglio, Daniel sentì un brivido percorrergli la schiena. Provò una sensazione molto diversa rispetto a quelle a cui si era abituato nel campo. Il Gigante non trasmise in lui ostilità, o pericolo. Anzi, aveva un’aria quasi… familiare.  

Era alto almeno otto metri, con zampe verdi, capelli lunghi e intrecciati neri come la pece. Indossava un’armatura di Bronzo Celeste ed era armato di una lancia lunga il quadruplo di quella di Kiana. 

«Ho una proposta migliore: arrendetevi voi e vi promettiamo una morte rapida e indolore!» Aveva la voce roca e profonda, come se parlasse dal fondo di una caverna.

«Quello… quello è Encelado…» sussurrò Camille all’improvviso, con un filo di voce. Era diventata perfino più pallida del solito, gli occhi d’ametista spalancati per lo stupore.

«L’anti Minerva» rifletté Kiana, prima di serrare la presa sulla lancia. «Ma credevo che fosse morto una ventina di anni fa!»

«È così, infatti» disse Marianne, senza voltarsi. «Si sono riformati molto più in fretta di quanto potessimo immaginare.»

«Ma… come?» 

«Non lo so, ma questa storia non mi piace per niente.»

«Allora? Che cosa rispondi, figlia di Giove?» incalzò Encelado, il cui ghigno fu ben distinguibile.

Il corpo del pretore sprigionò scintille azzurre. Un forte vento cominciò ad alzarsi, soffiando sulla Legione. I piedi di Ashley si staccarono da terra, mentre l’aria ruggiva attorno a lei, scompigliandole i riccioli dorati. Arrivò a levitare ad almeno tre metri di altezza, sotto lo sguardo sbalordito di Daniel e moltissimi altri. 

«Dodicesima Legione Fulminata!» Ashley puntò la lancia verso gli invasori. Il cielo tuonò assieme al suo grido: «Roma Regina! Omnia hostes mori debent

Un fulmine precipitò su di lei, diramandosi nel suo corpo com’era successo nella Via Principalis e scagliandosi verso Encelado, che fu colpito in pieno. Il gigante urlò furibondo, barcollando all’indietro, ma si riscosse immediatamente. Ordinò ai mostri di attaccare, e la vera battaglia per il Campo Giove ebbe inizio. 

Ashley partì per prima, volando verso il Gigante senza alcuna esitazione. Un altro tuono scosse il terreno mentre la ragazza gridava a perdifiato, evocando altri fulmini e polverizzando diverse fila di mostri. Alcune frecce e massi vennero scagliati contro di lei, ma furono tutti rispediti indietro dal vento che le infuriava attorno, schiantandosi addosso ai loro lanciatori.

Le altre coorti si lanciarono all’attacco al seguito del pretore, ognuna col proprio grido di battaglia.

«Quinta Coorte!» urlò Marianne. «Cuneum formate

I ragazzi della quinta obbedirono al centurione. Caricarono con la formazione a cuneo, mentre tutt’attorno a loro infuriava il caos della battaglia. I pegasi e le aquile si abbattevano sui mostri dal cielo. Le dracene continuavano a scoccare frecce esplosive, ma il vento di Ashley le rispediva tutte indietro, facendole pentire di averle scagliate. Le frecce della legione, in compenso, venivano sospinte dalla corrente e si abbattevano sui nemici con ancora più forza, decimandoli.

Daniel si fece largo tra le creature, dimenando il gladio con furore, accompagnato da Kiana e Camille. La figlia di Venere infilzò una dracena, un ciclope e un lestrigone uno dietro l’altro formando uno spiedino di mostri, uccidendoli sul colpo. Cam era piccola, ma era agile: saettava tra i nemici, armata di una daga d’Oro Imperiale, il simbolo della madre, ferendo o uccidendo qualsiasi cosa capitasse a tiro. Il resto della Quinta Coorte non era da meno. Ovunque guardasse, Daniel poteva vedere uno dei suoi commilitoni combattere con coraggio contro i mostri. Erano uniti, solidi, una cortina invalicabile che falcidiava ogni nemico abbastanza folle da mettersi in mezzo, alimentata dalle grida del suo centurione. 

Marianne in particolare sembrava spinta dalla mano invisibile di Bellona in persona. Eliminava un mostro dietro l’altro con una furia che Daniel non aveva mai visto in lei, continuando a impartire ordini alla sua coorte con precisione chirurgica, indicando quando e che formazione adottare e soprattutto intimando di non arrendersi. Ogni sua frase era una scarica elettrica che percorreva la schiena dei suoi compagni, incitandoli a dare il massimo. Stava combattendo come se stesse aspettando quel momento da tutta la vita, come se fosse nata per quello, cosa che poteva pure essere vera. Di sicuro, era bello vedere i mostri cadere vittima della sua furia. 

Da qualche parte oltre le fila dei mostri, Ashley stava affrontando Encelado. Ogni volta che Daniel si accorgeva del loro scontro, notava una ferita in più sul corpo del gigante. E quando vide il pretore, per un istante rimase pietrificato. Era come se Ashley avesse una tempesta personale attorno a sé stessa ed Encelado. L’aria crepitava di elettricità e fulmini, rendendo impossibile a chiunque avvicinarsi. La figlia di Giove mulinava la lancia con furia e a ogni suo attacco un fulmine precipitava, esplodendo tra le fila dei nemici e disintegrandone a manciate ogni volta. Encelado aveva perso la sua lancia gigantesca ed era pieno di bruciacchiature dovute ai fulmini, le squame impregnate di icore dorato. Pareva perfino che si stesse difendendo da lei e non il contrario.

All’improvviso, la sensazione che aveva avvertito nell’armeria tornò a farsi sentire. Il gladio gli scivolò dalle mani e cadde in ginocchio, boccheggiando. Attorno a lui la battaglia continuava a infuriare, ma divenne tutto indistinto, sfocato. Nessun legionario e nessun mostro fece caso a lui. Deglutì, tremando come una foglia, la fronte madida di sudore freddo. 

Le figure dei suoi compagni e anche dei mostri si tramutarono ancora una volta in quelle forme senza dettagli e senza volto, fatte unicamente di oscurità e di occhi bianchi e vacui. Daniel si pietrificò all’improvviso, incapace di muoversi, o di pensare. Immagini balenarono nella sua mente, senza che lui potesse controllarle. Le figure di oscurità che lo attaccavano, lui che si difendeva, lui che si trovava solo, circondato da una quantità incalcolabile di corpi privi di vita. 

Si premette le mani sulle tempie, grugnendo di dolore. Ebbe il timore che quella voce si facesse di nuovo sentire, ma non accadde. Riaprì gli occhi. La sensazione svanì rapidamente, ma il senso di inquietudine rimase dentro di lui. 

Un’ombra più grande delle altre gli apparve di fronte all’improvviso, questa però aveva l’aspetto e soprattutto le fauci di un segugio infernale. Daniel si riscosse un secondo prima che quel molosso lo investisse in pieno. Saltò all’indietro, la sorpresa e la paura che gli artigliavano le ginocchia, tramutandole in purea. Se non altro la nuova minaccia lo aiutò a tornare alla realtà.

Il segugio infernale cominciò a ringhiare e un fiume di disgustosa bava lattiginosa gli scivolò tra i denti. Daniel fece per sollevare il gladio, ma gli era caduto di mano. Senza distogliere lo sguardo dal segugio, si avvicinò alla spada lentamente, ma quello non la prese bene: caricò con un guaito di rabbia, muovendosi veloce come le ombre di cui era plasmato. Il ragazzo cercò di evitarlo, ma non riuscì a spostarsi in tempo. 

Il segugio infernale non era solo grande come un furgone, investiva pure come un furgone. 

Daniel finì bloccato a terra, travolto da un dolore atroce all’addome. La cotta di maglia aveva attutito il colpo, ma sentiva le ossa vibrare per la botta. Le fauci del molosso apparvero ad un palmo dal suo volto, il suo alito pestilenziale ricordava un misto rivoltante di sangue e carcasse di animali. Pensò di poter svenire per la puzza. Annaspò alla ricerca del gladio, ma era troppo lontano. Gridò aiuto, ma nessuno arrivò. Era bloccato, con la morte sopra di lui. Il segugio infernale continuò a ringhiare, la sua bava colò sul volto di Daniel, così nauseabonda da sembrare corrosiva. Incrociò lo sguardo famelico del cane, e rimase immobile, in attesa della fine. 

Qualcosa di completamente inaspettato accadde. Il segugio smise di ringhiare all’improvviso, mentre teneva gli occhi rossi come il sangue conficcati in quelli scuri del ragazzo. Le orecchie gli si abbassarono e piegò la testa, producendo un verso molto diverso da quello famelico di poco prima. 

«Bau?»

Daniel sbatté le palpebre. 

Bau?

Il segugio scese su di lui all’improvviso, facendolo gridare di spavento. Continuò a gridare, senza fermarsi, mentre quella gigantesca lingua rosa gli scartavetrava la faccia intera, brucandogli la pelle e ricoprendolo di bava fino ai capelli, che si ritrovarono ad avere la stessa consistenza della lattuga appassita. 

«Bau!» Questa volta, il verso del segugio parve una cannonata. 

Daniel riaprì gli occhi rimasti chiusi e si accorse dell’espressione giocosa del molosso, che adesso se ne stava con la lingua a penzoloni. Sembrava un cucciolo che chiedeva di andare a fare una passeggiata nel parco. 

«Ma… ma cosa…» riuscì solo a dire, prima che il cane caricasse il peso sulle zampe e spiccasse un balzo oltre la sua testa, svanendo dalla visuale. 

Il ragazzo rimase a terra, lo sguardo fisso sul cielo, l’aria pulita che rientrava lentamente nei suoi polmoni e i rumori della guerra che tempestava accanto a lui. La morte era stata così vicina che nemmeno voleva pensarci, o avrebbe rischiato di dare di matto.

Si riscosse solamente quando udì un altro urlo furibondo provenire da Encelado. Drizzò appena lo sguardo, ma non vide altro che una gigantesca folla di persone attorno a sé. 

«Daniel!» Non si sorprese quando vide la testa di Camille fare capolino sopra di lui. «Che ti è successo?! Stai bene??»

Non era molto sicuro della risposta da darle. Gli uscì un mugugno che poteva essere tanto un sì quanto un no, poi si alzò in piedi, ignorando la mano di Camille. 

«Accidenti, zombie, ma che hai fatto ai capelli?» gli domandò Kiana, non appena la incrociò in mezzo alla folla. Era illesa, con indosso la sua panoplia e la lancia ben stretta tra le mani. 

Daniel si passò la mano tra i capelli, trovandoli sparati in aria in tutte le direzioni come se fosse stato centrato in pieno da un fulmine di Ashley. Rispose con un altro mugugno, strappando una risatina alla figlia di Venere, anche se sembrava nervosa e non davvero divertita. Si guardò attorno, constatando che la battaglia era finita. Non c’era più traccia dei mostri, mentre sopra di loro i pegasi e le aquile continuavano a volteggiare.

L’unico invasore rimasto era Encelado, riverso a terra come una stella marina, con Ashley in piedi sopra il suo stomaco, la lancia puntata verso il suo collo, e circondato da una miriade di legionari armati e infuriati. 

«L’attacco è già finito?» sussurrò Daniel, a Camille e Kiana.

La seconda si strinse nelle spalle. «I mostri sono fuggiti quando Ashley ha sconfitto Encelado.» 

«È stato incredibile!» aggiunse Cam, con tono e sguardo sognanti. «Ashley l’ha annientato! Non avrei mai pensato che potesse essere così forte!»

Già, pensò Daniel, serrando le labbra. L’immagine di lei che faceva a pezzi Encelado balenò nella sua mente, facendolo irrigidire.

Forse era un po’ troppo forte.

Un pegaso atterrò in quel momento. Il suo conducente, un ragazzo che Daniel non conosceva, saltò giù e corse verso di Ashley, sbraitando che mentre era in cielo aveva visto i corpi privi di vita di tutte le sentinelle sopra le torri di guardia. Un susseguirsi di versi di sorpresa provenne dalla Legione, anche se Daniel pensò che buona parte di quei ragazzi fosse solo sollevata che non fosse toccato a loro fare il turno di guardia.

Proprio in quel momento, Encelado ridacchiò. «La tua fama ti precede, figlia di Giove. Sei davvero potente. Ma credo proprio che dovresti rivedere la sicurezza nel tuo campo. Eluderla è stato molto più semplice di quanto pensassimo.»

Ashley serrò la mascella, ma tenne i nervi saldi. Avvicinò la lancia contro la gola del gigante. «Chi vi ha mandati? Che cosa pensavate di fare, attaccando il Campo Giove in questo modo?»

«E come hanno fatto a varcare i confini?» aggiunse Marianne, ad alta voce, facendosi udire da tutti. 

«Sì… anche quello» convenne Ashley.

Per tutta risposta, Encelado rise ancora. «Quante domande. Ma chiedete alla persona sbagliata. Non sono io ad avere le risposte che cercate. Le ha il mio caro fratello.»

«Quale fratello?»

«Non preoccuparti, figlia di Giove. Lo capirai presto. Dopotutto… lui è già qui.»

Camille sussultò all’improvviso. I suoi compagni si voltarono verso di lei, sorpresi, un attimo prima che una fitta nebbia nera apparisse dal nulla, sorgendo dal terreno. 

«Attenti!» gridò la figlia di Trivia, spalancando le braccia. 

La nebbia cominciò a coprire ogni cosa, avvolgendo i legionari, oscurando la luce del giorno. Tutti quelli che vi entrarono in contatto stramazzarono a terra come mosche, con gli occhi vitrei. Daniel gridò inorridito, credendo che fossero morti. Vide la nebbia avvicinarsi anche a lui e indietreggiò, finendo con lo sbattere contro Kiana, che era sconvolta tanto quanto lui. La nebbia continuò ad avvicinarsi, ma si fermò a pochi metri di distanza da loro e cominciò a scivolare verso l’alto, come se stesse scorrendo lungo una superficie invisibile. Daniel si accorse di Camille ancora con le braccia spalancate, gli occhi sigillati in un’espressione concentrata. «Restate vicini a me» ordinò, a denti stretti. 

Daniel e Kiana si strinsero all’amica, angosciati. La nebbia li circondò completamente, oscurando tutto quanto tranne loro tre, grazie alla bolla protettiva che Camille aveva creato. 

«David» sussurrò Kiana, concentrata sul fratello poco distante, a terra assieme ai Vega e a tutti gli altri. 

«Che sta succedendo?» Daniel provò a trattenere la vena di tensione nella sua voce, ma non ci riuscì. 

«È opera del fratello di Encelado» disse una quarta voce, che fece sobbalzare lui e Kiana. Nella bolla protettiva si era infilata anche Marianne, anche lei con lo sguardo fisso sui legionari avvolti nella nebbia. «Tranquilli, se non ricordo male, quella nebbia ha solo fatto svenire i nostri compagni. Non sono morti.»

«Mi auguro davvero che tu ricordi bene» rispose Kiana, tesa come una corda di violino. 

Nonostante la situazione angusta in cui si trovavano, in mezzo a quelle tenebre Daniel si sentì rinvigorito. La stanchezza e la spossatezza generate nel corso della mattinata si affievolirono e si sentì pronto per combattere ancora. Durò poco, però: la nebbia cominciò a diradarsi poco dopo, e la luce del giorno penetrò di nuovo l’oscurità con delle saette accecanti, strappandogli una smorfia infastidita. 

Quando la nebbia svanì di nuovo nel terreno, una scena desolante apparve di fronte ai quattro ragazzi. L’intera Legione giaceva a terra, priva di sensi, su quella riva del fiume che era stato il loro campo di battaglia. Encelado era svanito. 

«Via… via libera…» mormorò Camille, abbassando le braccia. Non appena compì quel gesto, le scappò un gemito e le gambe le cedettero. 

«Cam!» Kiana la afferrò al volo, prima di farla precipitare. La sollevò come una piuma e la aiutò a reggersi in piedi, facendola aggrappare alla sua vita. 

«G-Grazie» mormorò Camille, pallida come un cencio. Sembrava quasi che stesse per vomitare.

«Interessante» sussurrò qualcuno all’improvviso. Una voce roca, secca, ma anche molto familiare. Daniel spostò lo sguardo, accorgendosi di una nuvola di fumo nero che usciva dalla bocca di Ashley. La ragazza era riversa su un fianco, voltata proprio verso di loro, con gli occhi sbarrati. 

«Non sapevo della tua esistenza, figlia di Trivia.» Era lei a parlare. Da svenuta.

«Ashley…» Camille si coprì la bocca, terrorizzata.

«Una sorpresa inaspettata. Ma non sarà un problema. Non puoi contrastare i miei poteri, figlia di Trivia. Io sono l’anti magia. Sono l’anti Ecate. Sono nato per annullare tutto ciò che tu e tua madre rappresentate.»

«Ma… ma che sta dicendo?» domandò Kiana. «Ashley è nata per contrastare la magia?!»

«Quella non è Ashley.» Marianne stirò le labbra, affondando le dita nel manico del gladio. «Quello è Clizio. Il Gigante nato per contrastare Ecate.»

«Esatto, figlia di Bellona.» Ashley ridacchiò. Ogni volta che parlava, nuvolette nere le fuoriuscivano dalle labbra. «Non mi aspettavo così tanta resistenza da parte vostra. Mi congratulo per come avete arrestato l’avanzata di mio fratello. Ma infondo, uccidervi tutti non era il nostro obiettivo. Non ora, almeno. Prima dovrete assistere alla Notte Eterna.»

Daniel si sentì come punto da una zanzara. Gemette, ma rimase immobile, con lo sguardo conficcato negli occhi sigillati di Ashley, che sogghignò. 

«Qual era il vostro obbiettivo?» domandò Marianne, facendo un passo avanti. 

«Il vostro pretore vi ha salvati, ma non sarete sempre così fortunati. Torneremo con un esercito più grande. Distruggeremo questo luogo. Abbiamo la dea. La Foschia è svanita. I confini magici sono stati cancellati. Conosciamo i vostri movimenti, i vostri segreti. Non potete nemmeno fidarvi di voi stessi. Quando arriverà la Notte Eterna...»

Il pretore posseduto riaprì gli occhi di scatto e cominciò a tossire, rigettando altra nebbia nera dalla gola. Si tirò a sedere, tenendosi la pancia, mentre la tosse peggiorava, priva di controllo, così forte che Daniel sentì dolore alla gola al posto suo. Nonostante non provasse simpatia per lei, Ashley sembrava davvero sofferente.

«Ashley!» gridò Camille, riuscendo a staccarsi da Kiana per andare ad accovacciarsi accanto a lei. Le posò il palmo sulla spalla, ma il pretore sollevò una mano. 

«Sto… sto bene…» riuscì a dire, con la voce ancora un po’ roca ma meno graffiante rispetto a prima. Ebbe ancora qualche colpo di tosse, poi si riprese del tutto; solo in quel momento sembrò notare lo spettacolo desolante che la circondava. «Cos’è successo?» domandò, severa, ma con una vena di preoccupazione nella voce.

«È stato…» La risposta di Marianne morì nella sua gola. Rimase immobile, gli occhi rivolti ad un punto imprecisato al di là del Piccolo Tevere. Daniel seguì il suo sguardo e rimase altrettanto sconvolto alla vista di Encelado e un altro gigante simile a lui, con le zampe cineree, i capelli così neri che parevano ombre che si plasmavano sopra la testa, e un’armatura che, nonostante la distanza, riconobbe subito come fatta di Ferro dello Stige. 

Encelado era malconcio, ma vivo e vegeto. L’altro era illeso, e li scrutava intensamente con occhi brillanti come diamanti. Camille indietreggiò, guardando il secondo gigante come se fosse il male impersonato. «Clizio…»

Daniel vide le quattro ragazze sollevare le armi, e solo in quel momento lui realizzò di non aver ancora raccolto il gladio. Non ebbe bisogno di recuperarlo, perché Clizio diede loro le spalle. Sferzò l’aria con la sua possente mano e un varco di tenebre apparve accanto ai due giganti. 

«Ci rivedremo, figlia di Giove!» abbaiò Encelado, prima di entrare nel varco e venirne inghiottito. Suo fratello impiegò ancora qualche istante, facendo vagare lo sguardo su loro cinque, con il volto umanoide che ricordava un quadro, immobile, inespressivo. Dopodiché anche lui si infilò nella fenditura, che si richiuse da sola subito dopo, svanendo nell’aria con un rumore simile allo scoppio di una bolla.

I ragazzi rimasero fermi, con il respiro pesante e i sensi affinati al massimo, pronti per altri pericoli. Ci volle un po’ prima che tutti loro si abituassero all’idea che il peggio fosse passato. Le spalle di Ashley si abbassarono. Si guardò attorno, scrutando i legionari svenuti a lungo, inespressiva. Infine, si voltò verso di loro cupa in volto. «Ditemi subito cos’è successo.»

Per fortuna c’era Marianne, perché Camille sembrava in procinto di svenire, Kiana sembrava sconvolta e Daniel non aveva alcuna intenzione di proferire parola. Il centurione aggiornò Ashley, mentre i legionari caduti vittima della nebbia riprendevano i sensi uno alla volta, in un susseguirsi di mugugni e voci impastate e confuse. 

A racconto concluso, Ashley si strinse lo stomaco. «Non posso credere che ha usato me per parlare.» Venne scossa da un brivido e Daniel non poté biasimarla per questo. Clizio aveva violato la sua mente, il suo corpo, l’aveva usata come una marionetta. Nessuno avrebbe preso bene una cosa del genere, soprattutto qualcuno di orgoglioso come Ashley. «Ma che significa che controllano la Foschia?» domandò poi. «Quale dea hanno? E che cosa cercavano?»

Nessuno sapeva cosa rispondere. E il fatto che fosse lei, il pretore, a fare le domande la diceva lunga su che razza di situazione fosse quella davvero. 

Marianne si allontanò da loro senza dire nulla. Un lungo mugugno le scappò dalle labbra, mentre studiava le torri di guardia che si trovavano agli angoli del campo. 

«Hanno ucciso le sentinelle per prime» cominciò a dire, sotto gli sguardi interrogativi di tutti. «Per questo non hanno dato l’allarme. Forse hanno usato delle frecce, o forse sono stati i grifoni. Poi hanno attaccato Allen e Travis, che però sono riusciti a scappare. Se loro non si fossero salvati, l’esercito sarebbe arrivato nel campo mentre eravamo a pranzo. Tuttavia…» 

La figlia di Bellona fece un passo verso le colline di Oakland, il nuovo oggetto del suo interesse. «… non era un esercito molto grande, quello. E non avevano nemmeno armi d’assedio pesanti. Inoltre, avete visto anche voi Clizio ed Encelado usare un portale per scappare. Deve essere così che hanno portato qui quell’intero esercito senza che ce ne accorgessimo prima. È stato un attacco premeditato, hanno puntato esclusivamente sull’effetto sorpresa. Sapevano bene come e quando colpire. L’unico motivo per cui hanno fallito, è perché Travis e Allen sono riusciti ad avvisarci.»

«Questo è un ottimo resoconto, Moreau» disse Ashley, cupa in volto. «Dove vuoi arrivare?»

Marianne si voltò verso di lei. La sua espressione severa non mutò di una virgola. «Clizio ha detto che conoscevano i nostri movimenti. E che non possiamo fidarci di noi stessi.»

Camille deglutì. «Pensi… pensi che…»

«Sì» tagliò corto Marianne. «Penso che abbiano un infiltrato nel campo.»

Le pupille di Ashley guizzarono su Daniel. Fu solo un istante, un lampo, ma lui se n’era accorto. 

«Oh, fantastico!» sbottò Kiana. «Una maledetta talpa, proprio quello che ci voleva!»

«Calma. Non possiamo credere a questa storia» stabilì la figlia di Giove. Daniel continuò a scrutarla impassibile, ma lei sembrò fare finta di niente. «Mi rifiuto. Potrebbe trattarsi di una trovata di Encelado, per farci dubitare di noi stessi.»

Marianne si mise a braccia conserte. «Sapevano che il campo era meno sorvegliato per il pranzo.» 

«Anche i mostri sanno che la gente comune mangia a quest’ora» ribatté Ashley, incrociando il suo sguardo.

«E allora perché prima di oggi non hanno mai fatto un attacco del genere?» 

«Perché questa volta avevano due giganti. Clizio deve aver forzato i confini magici del campo. Non so come abbia fatto, ma non ci sono altre spiegazioni. Non sarebbero riusciti ad arrivare fino alla Via Principalis, altrimenti.»

«Ma Clizio ha detto che i confini sono scomparsi. Anche questo spiegherebbe come hanno fatto ad arrivare fino a qui, e soprattutto come avrebbero potuto uccidere le sentinelle.»

«Possiamo stare qui a discutere tutto il giorno, Moreau, resta il fatto che siamo stati attaccati, non importa come. Da questo momento in poi dovremo agire con la massima prudenza e prendere tutte le precauzioni necessarie, almeno finché non avremo più informazioni. Sono stata chiara?»

Marianne chiuse gli occhi e chinò la testa. «Sì, Ashley.»

Ashley assottigliò le labbra. Sembrava infastidita, ma annuì. «Bene.»

Daniel sentì l’aria farsi più pesante, ma questa volta l’elettricità statica della figlia di Giove non c’entrava nulla. Anche Camille si mordicchiò nervosamente le unghie. Infine, un profondo sospiro provenne da Kiana, che si massaggiò tra i capelli d’ebano. «Che casino assurdo…»

«Siete stati bravi.» Ashley fece vagare lo sguardo su di loro, fermandosi su Camille, a cui rivolse un ampio sorriso. «Specialmente tu, Gray. Hai avuto prontezza di riflessi e non ti sei fatta colpire da Clizio. È grazie a te se ora abbiamo queste informazioni.»

«B-Beh…» Camille arrossì fino alla punta dei capelli. «G-Grazie…»

Daniel pensò che avrebbe potuto vomitare. 

«Siete qui!» disse un’altra voce all’improvviso.

Tutti si voltarono verso Elias, che stava marciando verso di loro con passo pesante, buio in volto. Non era stato lui a parlare, però. Dante sbucò fuori da dietro la sua schiena. Erano alti uguali, ma l’augure era largo la metà del figlio di Plutone. «Ci… ci sono ancora i mostri?»

«Elias! Dove diamine eri finito?!» tuonò Ashley, ignorando Dante.

Il suo collega pretore incrociò i martelli pneumatici che aveva al posto delle braccia e le lanciò un’occhiata inespressiva, senza rispondere. Dante si frappose tra loro due, con fare nervoso. «Era con me. Eravamo nel tempio di Giove Massimo, quando abbiamo sentito i corni dell’allarme. Stavamo per uscire, ma è apparsa quella nebbia nera, così siamo tornati dentro. Elias è riuscito a tenerla lontana. C’era… qualcosa, fuori dal tempio. Si stava avvicinando, ma poi è tornata indietro. Forse ha visto che noi eravamo lì.»

Marianne annuì. «Clizio.» Scambiò uno sguardo con i suoi compagni della Quinta Coorte. «Mentre noi eravamo presi da Encelado, lui ci ha elusi tutti.»

«Encelado era un diversivo…» dedusse Kiana, prima di stringere i pugni. «Quindi… Clizio cercava qualcosa nel tempio di Giove Massimo?»

Daniel si accorse degli sguardi che Dante, Elias e Ashley si scambiarono. Il primo sembrava nervoso esattamente come quella mattina, quando si era trovato sotto torchio. 

«Parlarne ora è inutile» concluse Ashley, anche se esitò. Sembrava saperne qualcosa. E anche gli altri due. «Adesso dobbiamo occuparci dei feriti e…»

Un urlo lancinante la costrinse ad interrompersi. Tutti si voltarono di scatto verso Camille, che era crollata in ginocchio, le mani pressate sulle tempie. 

Il pretore la chiamò inorridita: «Gray! Che cosa ti prende?!» 

Cam non rispose. Continuò a gridare e a dimenarsi, come scossa da mani invisibili. Perfino il sempre impassibile Elias parve smuoversi di fronte a quella scena.

«Cam!» Kiana si chinò di fronte a lei, prendendole il volto tra le mani. «Maledizione Cam! Che succede?!»

La figlia di Trivia aveva le lacrime agli occhi. La sua espressione era di dolore puro. Kiana la abbracciò con tutta la forza che aveva. La sua voce si incrinò per la paura: «Calmati! Ti prego, calmati!»

«Daniel.» La voce della donna risuonò nella mente di Daniel. Le grida di Camille diventarono mute, così come quelle di Kiana che cercava di calmarla. Il ragazzo rimase immobile, senza fiato. 

«Uccidili, Daniel. Uccidili tutti.»

La voce svanì quasi subito, rapida com’era apparsa. Nello stesso istante, Camille svenne tra le braccia di Kiana.

 

 

 

 

 

Ehilà, gente, sono tornato dopo un piccolo periodo di pausa. Come va? Spero tutto bene, dai. Io sono stato mezzo raffreddato, mezzo influenzato, mezzo col mal di gola, mezzo con tutto, e ho concluso con una bella vaccinazione per dare il colpo di grazia. Vabbé, questa è un’altra storia. Spero che il capitolo vi sia piaciuto! 

Non mi dilungherò molto, voglio solo comunicare brevemente che in futuro, spero non troppo prossimo, pubblicherò gli ultimi capitoli della raccolta, ci sarà un twist interessante e spero che sarà di gradimento a chi ancora segue quella storia. 

Poi, abbiamo avuto un assaggio dei poteri di Ashley, spero che la scena vi sia piaciuta. Io ammetto che, sebbene questo capitolo mi lasci un po’ incerto, sono soddisfatto di come ho reso la figlia di Giove. “OP as fuck” come si suol dire. E spero che anche Marianne vi sia piaciuta, anche lei è un personaggio che ho a cuore. Comunque ormai è chiaro che Daniel non sia esattamente… una persona comune, ecco. 

Riguardo Clizio, sulla wikia è riportato che non sono conosciute tutte le sue abilità, perciò ho pensato che potesse anche lui fare i salti nell’ombra, una specie, almeno. Se ricordate, nel primo libro abbiamo visto Luke creare una fenditura e poi svanirci dentro, cosa che poi non è MAI più stata riportata in auge (lol, vecchio Riordan con questi plot tools solo quando gli fanno comodo) perciò ho deciso di riprendere questa “abilità” e di donarla all’anti Ecate, non so perché ma in qualche modo la trovo una cosa sensata. Riguardo la nebbia alla fine, il motivo per cui non l’ha usata subito è perché, appunto, l’attacco era solo un diversivo e come dice anche Mary, è stato un attacco grossolano, sostanzialmente, e la nebbia era soltanto l’escamotage per scappare in caso di fallimento. Questa è una cosa che spiego io per chiarire eventuali dubbi, quindi spero che sia tutto chiaro. 

Grazie per aver letto, alla prossima!


p.s. Quanto Ashley combatte con Encelado, non ho potuto non pensare a questa canzone in sottofondo:  https://www.youtube.com/watch?v=fCSbBuHlf7Y


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Capitolo 6
*** La dea in catene ***


VI

La dea in catene

 


L’ultima cosa che ricordava era un dolore atroce alle tempie, così forte da sembrare una lancia che le trapassava il cranio da parte a parte. Non aveva mai provato niente del genere, mai, e in anni e anni di addestramento e studi non aveva mai sentito o letto di qualcosa in grado di farla sentire in quel modo, come se la testa le stesse scoppiando dall’interno.

Ma studi e addestramenti non erano necessari per farle riconoscere quella cosa che sin da bambina aveva percepito scorrere dentro di lei: magia. 

Mentre era assalita da quel dolore lancinante aveva percepito la magia agitarsi nel suo organismo in maniera incontrollabile, al punto che aveva sentito la propria essenza sbriciolarsi mano a mano che tutto si faceva scuro attorno a lei. Non aveva idea di come facesse a essere ancora viva. Eppure era lì. 

O meglio, la sua mente era lì. Il suo corpo doveva trovarsi nell’infermeria del Campo Giove, o forse era ancora steso sulla riva del Piccolo Tevere, a seconda di quanto tempo fosse trascorso.

Non era morta, di questo ne era sicura. 

Okay, non ne era così sicura, ma se l’augurava almeno.

Attorno a lei c’erano soltanto tenebre. Un buio fitto e senza fine, così denso che nemmeno una luce sarebbe riuscito a penetrarlo e così spesso da poter quasi essere toccato.

Stava camminando, ma non sapeva nemmeno dove. Ogni cosa era uguale, non c’erano pavimento, né soffitto o pareti. Eppure i suoi passi riecheggiavano come se si trovasse dentro una caverna. 

Udì un tintinnio metallico all’improvviso, seguito da un gemito. Si fermò, pietrificata. Era un gemito di dolore. E il tintinnio… pareva quello di una catena. 

C’erano così tante cose che avrebbe voluto fare in quel momento. Svegliarsi era la prima tra queste. Purtroppo sapeva di non avere molta scelta: quello era un sogno, anzi, un contatto. Qualcuno l’aveva chiamata lì e non poteva andarsene finché non avrebbe visto ciò che chiunque fosse il mittente aveva da mostrarle, con o senza il suo volere.

Prese coraggio e andò avanti. Le tenebre cominciarono a diradarsi. L’oscurità su cui camminava si trasformò in un terreno roccioso, dissestato. Pareti di pietra apparvero accanto a lei rivelando una galleria, forse opera dell’uomo, o forse sbocciata da cause naturali. Era in pendenza. Stava scendendo, sempre di più. 

Un potere opprimente cominciò a permeare l’aria. Avvertì un’aura di malvagità pura provenire dal fondo di quella caverna, che la fece rabbrividire. Il desiderio di voltarsi e fuggire più lontano possibile da lì cominciò a farsi impellente, ma si sforzò di proseguire. Non correva pericoli, non era davvero lì. 

Anche questo si augurava.

Una luce cominciò a penetrare le tenebre, proveniente da più in basso. Un’altra sensazione le percorse il corpo. Avvertì di nuovo la magia scorrere potente nelle sue vene, facendosi largo in mezzo alla stretta soffocante sul suo petto. Era la stessa sensazione che aveva avvertito prima di svenire, ma molto più debole, come se perfino lei faticasse a coesistere con il potere sconosciuto che serpeggiava tra le pareti della galleria.

Ma lei la sentiva: era vicina.

Arrivo in un’ampia stanza sotterranea. Era alta, immensa, le torce che illuminavano le pareti gettavano ombre cupe sopra degli affreschi indistinguibili e, soprattutto, sulla persona inginocchiata al centro.

Una donna con una veste strappata e gambe, braccia e collo incatenati alle pareti e al soffitto da catene nere come la notte, che sembravano sorgere dall’oscurità. Attorno a lei c’era un cerchio perfetto, realizzato con qualcosa di terribilmente simile a sangue. 

«Camille» sussurrò lei, drizzando lo sguardo. La sua carnagione era di un candore innaturale, uguale a quello della ragazza; gli occhi erano neri, i capelli color oro stinti con striature bianche, che cadevano disordinati sul viso dalla bellezza fiera, ma distorta dalla sua espressione sofferente.

«Non… mi rimane molto tempo, Camille» disse ancora con voce spenta, così debole da sembrare un sussurro nel vento. 

Camille non aveva mai visto quella donna. Eppure, capì subito di chi si trattava. Si sentì calamitata da lei, attratta dalla magia che il suo corpo in catene emanava. C’era un legame invisibile, quasi impercettibile, ma presente, che la connetteva a quella donna. Si diresse verso di lei, sentendo lacrime invisibili scenderle dagli occhi incapaci di sostenere quella vista. 

«FERMA!» gridò la prigioniera. Gemette e accasciò la testa sul petto. Accennò appena con il mento al cerchio di sangue attorno a lei. Camille si accorse dei simboli di cui era composto: glifi di un linguaggio che non conosceva, appartenente ad un mondo che non esisteva più, disegnati in modo da formare quel cerchio perfetto attorno alla prigioniera. 

«I… sigilli…» sussurrò la donna. «Nessuno può avvicinarsi… li tiene lontani, ma non… dureranno molto…» 

La voce di Camille si incrinò: «Mamma…» 

Aveva desiderato tante volte di incontrarla. Aveva così tante cose da chiederle. Perché avesse scelto di concepirla come Trivia, e non come Ecate, come usare il suo dono, come controllarlo per evitare che altri si facessero del male. O magari aveva desiderato di incontrarla semplicemente per abbracciarla, per avere quel contatto materno che non aveva mai avuto, per versare quelle lacrime che non aveva mai versato, per sentirsi dire almeno una volta che le voleva bene.

Tutto si sarebbe aspettata, come primo incontro, tutto meno che quello.

Conosceva le storie di Trivia, o Ecate. Sapeva di cosa fosse capace. Era una delle dee più potenti, antiche, perfino gli Olimpi la temevano e rispettavano. Tutti gli dei si erano trovati in catene in un modo o nell’altro, almeno una volta, ma non lei. Non sua madre. Lei non poteva trovarsi davvero lì, prigioniera, ferita, pallida e debole. Camille non riusciva ad accettarlo.

«La magia… hanno… hanno la magia…» sussurrò Trivia. «La Foschia… non… posso…» Gemette, come colpita da una scossa. 

Un’altra voce femminile si levò nell’aria, fredda e pungente come un coltello: «Con chi stai parlando, sorellina?» 

Proveniva dalla galleria alle spalle di Camille. Trivia trasalì di nuovo. Cercò la figlia con lo sguardo, sembrando quasi… spaventata. «Non mi resta molto tempo. Dovete liberarmi. Dovete… dovete…» Abbassò di nuovo la testa. Perfino parlare sembrava costarle una forza incredibile. «… la magia… la Foschia… ho perso il controllo… sbrigatevi…»

Gli occhi della donna incontrarono ancora una volta quelli di Camille. «Solo tu… puoi trovarmi… il legame… seguilo. Trovami, Camille. Liberami prima che… sia troppo tardi.»

«Sorellina.» 

Qualcuno apparve dietro a Camille. Una donna con un lungo vestito rosso e capelli che sembravano di inchiostro, riposti con dolcezza sopra le spalle scoperte. Il mento era sporgente, il naso appuntito, gli occhi neri e freddi tanto quanto il suo sorriso spietato. Lo sguardo scintillava di una follia crudele, ebbro della vista della dea in catene. Aveva un tatuaggio sulla spalla, nello stesso punto in cui anche Camille aveva il suo, e quella coincidenza la inquietò. Sembrava una specie di stella, un simbolo a lei sconosciuto.

E non era sola. Una figura mastodontica sbucò dalle tenebre dietro di lei, posando i riflettori di luce cristallina che aveva al posto degli occhi su Camille.

Clizio.

«Non sono… tua sorella» riuscì a gemere Trivia, fiera e collerica nonostante la voce affaticata. «Io… sono un Titano. Non ho niente da spartire con voi.»

«Continua a ripetertelo. Magari diventerà vero, prima o poi.» La donna vestita di rosso spostò lo sguardo su Camille, che trasalì. Il suo ghigno crudele si distese. «E che cosa abbiamo, qui? Una figlia di cui non ci avevi parlato, Ecate? Credi davvero che lei ti aiuterà?»

Camille indietreggiò, seguita con lo sguardo sia dalla donna che dal Gigante. Non riuscì a rispondere, a causa degli occhi di diamante di Clizio che la scrutavano con interesse, seguendola in ogni movimento. Si sentiva come in prossimità di un buco nero che stava risucchiando via ogni fibra del suo corpo. Ora le era chiaro perché l’aria fosse così opprimente, era opera sua, dell’Anti Ecate. Camille però non aveva idea di chi fosse la donna misteriosa. Sapeva solo che si era rivolta a Trivia chiamandola Ecate, quindi doveva essere greca. 

La sconosciuta fece un passo avanti, analizzando madre e figlia con le dita che formicolavano. «Mi aspettavo una rappresaglia migliore da parte tua, sorellina. Di sicuro molto di più di un cerchietto sul pavimento e di una ragazzina terrorizzata.» 

«Entrambi saranno più che sufficienti per annientarvi» sibilò Ecate, a denti stretti. Involontariamente, aveva appena detto alla figlia di fidarsi di lei molto più di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Camille sentì un tuffo al cuore, mentre l’aria attorno a lei sembrava farsi ancora più pesante.

La carceriera fece un’espressione di finta commiserazione. «Che carina. E pensare che tutto questo si sarebbe potuto evitare se solo ti fossi unita a noi. Ora è troppo tardi. Ma non preoccuparti: avrai comunque un ruolo in prima fila nella buona riuscita del nostro piano.» Fece schioccare la lingua, divertita. «Peccato solo che non vivrai per vedere il resto.»

Spostò di nuovo lo sguardo su Camille. «Coraggio, nipotina. Vieni a cercare la mamma. Direi che…» Puntò un palmo verso di Trivia, e un fiume di energia oscura si riversò contro la donna in catene. Camille gridò, ma sua madre non venne scalfita: l’energia si abbatté contro un muro invisibile, attorno alla dea, e poi si dissipò senza aver arrecato alcun danno. La ragazza si accorse del cerchio sul pavimento, ora illuminato di un rosso acceso, i segni che sfrigolavano incandescenti. 

«Sì. A giudicare dalle condizioni di quei sigilli…» La donna vestita di rosso rivolse a Camille un ultimo, freddo, sorriso. «… non ti rimane molto tempo. Una settimana, cinque giorni, forse? Ti consiglio di sbrigarti. Mi divertirò un mondo con te e i tuoi amici.»

Camille sentì un brivido percorrerle il corpo che non aveva. Cercò sua madre con lo sguardo, ma Clizio sollevò una mano; la nebbia nera cominciò a salire da terra, avvolgendo tutto quanto.

Lo sguardo smorto di sua madre e il sorriso sadico della carceriera furono le ultime cose che Camille vide prima che tutto svanisse.

 

***

 

Un mugugno infastidito le scappò quando venne accecata dall’inconfondibile bianco delle pareti dell’infermeria. I suoi occhi erano molto più sensibili alla luce di quanto avrebbe voluto, per via del loro colore così chiaro.

Il dolore alla testa si palesò per primo, subito seguito da nausea e vertigini. In breve, si sentiva un vero schifo e avvertiva ancora addosso i residui della battaglia. Sollevare quella barriera magica contro la nebbia di Clizio le era costato molto più caro di quanto avesse dato a vedere, tanto che aveva creduto di poter svenire proprio in quel momento. Era stato come se ogni sua energia fosse stata risucchiata via non appena era entrata in contatto con il potere del gigante. Non aveva mentito affatto dicendo di essere l’anti magia, e le voci sul suo conto non erano affatto esagerate, anzi, le era parso pure il contrario. 

Sbatté le palpebre, cercando di scacciare macchie che baluginavano davanti ai suoi occhi. Un brusio sommesso di voci indistinte e ovattate arrivò alle sue orecchie. Riuscì appena a drizzare la testa, ma non vide altro che una tendina che circondava il suo letto, dietro la quale poteva scorgere alcune ombre muoversi, andando avanti e indietro, di sicuro gli altri occupanti dell’infermeria.

Tentò di scendere dal letto, ma un’altra ondata di vertigini la costrinse a rimanere ferma: le sembrava di avere il cervello ridotto a una mousse.

Il suo sguardo scese lungo il lettino e si accorse di non essere sola. Si ritrovò a sorridere intenerita, osservando Kiana accasciata in maniera scomposta sulla sedia al suo capezzale, intenta a russare con la testa rivolta all’indietro e due rivoli di bava che le sgorgavano dagli angoli della bocca spalancata.

Non era proprio un bello spettacolo Kiana, quando dormiva. Purtroppo ai semidei non erano concessi i cellulari, sennò avrebbe avuto un album pieno delle pose ed espressioni assurde che faceva di notte, nei dormitori. Però era rimasta con lei. Quel pensiero le infuse gioia da una parte, e tristezza da un’altra. Però magari Daniel aveva preferito non rimanere lì, mentre era priva di sensi, o magari gli avevano dato altro da fare e non era riuscito a fermarsi. 

Per un attimo valutò se lasciare dormire la sua amica, visto che sembrava davvero crollata in un sonno profondo, però cominciò a sentire le vertigini allentarsi e il senso di nausea venire meno, quindi presto avrebbe potuto alzarsi di nuovo, e in ogni caso non aveva un attimo da perdere. 

«Ehi, Kiana» la chiamò, allungando appena il braccio verso di lei. Posò la mano sul suo ginocchio e cominciò a scuoterlo. «Sveglia.»

Kiana chiuse la bocca ed emise un mugugno che sembrava il verso di un affamato di fronte ad un piatto fumante di spaghetti. E la bava rendeva il paragone ancora più verosimile.

«Sveglia, Kiana!»

«Ah…»

«Kiana!»

«Ah! Sì, sì, sono…» Gli occhi ancora appannati dal sonno di Kiana si schiusero a rallentatore, poi si strofinò le palpebre e sbadigliò senza coprirsi la bocca, prima di asciugarsi la bava con il dorso della mano, da vera damigella quale era. «Cam!» 

Ogni traccia di stanchezza svanì quando si accorse che era desta. Si sporse verso di lei, quasi sdraiandosi sul materasso, e le stritolò le guance. «Stai bene!» 

La sua voce sorpresa e gioiosa si tramutò presto in una infastidita. «Non azzardarti mai più a svenire in quel modo! Mi hai fatto prendere un colpo, lo sai?!»

Camille provò a liberarsi dalla stretta, ma le sembrò di essere un gattino che provava a sfuggire dalle zampone di un alano. 

«Scusa» cercò di dire, riuscendo comunque a ridacchiare. «Ti prometto che non lo farò più.»

Kiana piantò i suoi occhi multicolore sui suoi. Era corrucciata, ma era chiaro che sotto quella maschera arrabbiata nascondesse del sollievo. Emise un grugnito e si allontanò da lei. «Bene.» 

Tornò a sedersi composta sulla sedia, liberando il suo corpo gracile dalla pressa di quel fisico da body builder. Doveva essersi cambiata dopo la battaglia, perché aveva indosso dei leggins neri e un top grigio fumo, che lasciava scoperta la pancia scura e piatta, con un accenno di addominali, e le spalle ampie e tonde seguite da quei bicipiti con cui avrebbe potuto spaccare un’anguria. I capelli invece erano raccolti in una coda che però non aveva incluso anche la frangia, che invece cadeva scomposta sulla sua fronte.

Anche Camille avrebbe voluto cambiarsi gli abiti strappati e maleodoranti, magari farsi pure una doccia, ma prima doveva andare da Ashley. Provò a mettersi seduta sul materasso, ma venne travolta da un’altra scarica di vertigini. 

«Aspetta, Cam! Devi dirmi che cavolo ti è preso!»

«Non… c’è tempo» riuscì a farfugliare lei, di nuovo annebbiata dalla nausea. «Prima…»

Tentò di alzarsi dal letto e per tutta risposta le gambe la abbandonarono, facendola precipitare in avanti. Kiana la prese al volo prima che tirasse una facciata al pavimento, senza battere ciglio. Per lei doveva essere come raccogliere un pupazzo di peluche. 

«Ma dove vuoi andare, ridotta così?» la sgridò, prima di afferrarla sotto la schiena e le ginocchia e sollevarla come una principessa. Camille gridò, reggendosi al collo dell’amica, e si ritrovò sospesa a mezz’aria sopra il materasso. 

«Stai giù» ordinò Kiana, lasciandola andare. 

Cam atterrò sul lettino con un altro gridolino a metà tra lo sconvolto e l’indispettito. Lanciò un’occhiataccia alla figlia di Venere, che le sogghignò beffarda dall’alto. «E resta lì. Ti cerco dell’ambrosia.»

Svanì dietro le tende prima che Camille potesse urlarle dietro. La figlia di Trivia mugugnò infastidita e sprofondò nel materasso. Sì, aveva davvero bisogno di quell’ambrosia. Rimase a osservare il soffitto, mentre al di là delle tende poteva sentire Kiana che sbottava contro qualcuno, forse proprio nel tentativo di mettere le mani sul medicinale.

Più tempo trascorreva così, più si sentiva inquieta. Doveva correre da Ashley per avvisarla del sogno che aveva fatto. Aveva bisogno di raccontare quello che aveva visto. Clizio, la donna misteriosa, Trivia, anzi, Ecate in catene… rischiava di impazzire tenendosi tutto dentro. 

Camille cercò l’orecchino a forma di triquetra con la mano. Quei gioielli con il simbolo della madre erano il suo porto sicuro, ogni volta che si sentiva male per qualcosa le bastava sfiorarli e si sentiva subito meglio. 

Quando aveva scoperto di essere una semidea, aveva pensato alle volte in cui quando era bambina si era sentita da sola, smarrita, senza un luogo dove andare o dove stare; ogni volta che aveva creduto di non avere vie di scampo, aveva sempre trovato una nuova strada da percorrere. E strada dopo strada era arrivata al cospetto di Lupa, che l’aveva indirizzata verso la sua nuova casa.

All’inizio aveva pensato di essere stata fortunata, ma dopo aver saputo che Trivia era anche la dea delle scelte e dei percorsi, aveva capito che la fortuna non c’entrava un bel niente: era stata sua madre ad aiutarla, guidandola con la sua mano invisibile.

Per questo motivo, nonostante tutto, si sentiva orgogliosa di essere una figlia di Trivia e aveva accettato a testa alta tutte le implicazioni che la cosa portava: essere figlia di una dea vergine, l’unica in tutto il campo, e possedere il dono della magia, qualcosa che i romani non vedevano proprio di buon occhio. La magia era un’arma pericolosa, volubile e imprevedibile, che andava contro ai principi su cui si basava la legione. 

Trivia l’aveva aiutata e l’aveva protetta. Adesso, però, era lei ad avere bisogno di sua figlia. E Camille l’avrebbe salvata, a qualsiasi costo.

Si rese conto di avere solo un orecchino, quello sinistro. L’altro, quello che si trasformava nella daga, mancava all’appello. Trovò la sua spada poggiata a terra, contro il comodino accanto al letto, e si sporse per raccoglierla. Quell’arma era come lei, l’unica in tutto il campo. Se la girò tra le mani, accarezzando la lama di pregiato Oro Imperiale. Sfiorò poi il simbolo inciso sull’elsa, la Ruota di Ecate, per riconvertirla in orecchino, ma non accadde nulla. Camille corrucciò la fronte, confusa. Riprovò svariate volte, ma la spada continuò a non cambiare forma. 

«Non funziona.» La voce di Kiana la fece trasalire. Era appena rientrata, con un incarto di ambrosia tra le mani. Lo posò sul comodino, poi accennò alla spada con il mento. «Le armi non si trasformano più in oggetti. E gli oggetti non si trasformano più in armi. Ce ne siamo accorti poco dopo la battaglia, mentre ci occupavamo dei feriti» spiegò, tornando a sedersi.

Camille fu scossa da un brivido. Ripensò a quello che Clizio aveva detto dopo la battaglia, sul fatto che avevano la dea, e il controllo della Foschia, e anche e a quello che aveva sentito da Ecate, nel sogno. Un’idea di quello che stava succedendo prese forma nella sua mente e si augurò con tutta sé stessa di starsi sbagliando. Agguantò l’ambrosia e la divorò senza troppi complimenti. Mentre il sapore della mousse al cioccolato si diffondeva nel suo palato cercò di nuovo di alzarsi, senza nemmeno aspettare che l’ambrosia facesse davvero effetto. Non c’era più un solo istante da perdere.

«Aiutami, Kiana. Devo… vedere Ashley.»

«Non esiste Cam, prima devi…»

«Adesso, Kiana» ordinò. Cercò di apparire determinata, ma era sicura di essere apparsa più angosciata che altro. E anche l’amica sembrò accorgersene, perché si fece seria e la aiutò ad alzarsi senza perdere altro tempo. 

«Ma che succede, Cam?» le domandò, reggendola al fianco mentre faceva i primi passi.

«Te lo spiego strada facendo» sussurrò Cam. Non le andava di parlarne lì, con il rischio che qualcun altro la sentisse. Anche se il rischio era minimo, constatò, perché nell’infermeria erano tutti presi dalle loro faccende, o dai loro amici feriti. Vide Kyle Greenwood in compagnia di alcuni figli di Apollo e Asclepio, intenti ad occuparsi di un ragazzo che non conosceva, della Prima Coorte forse, coperto di bruttissimi tagli. E poco distante vide anche David, seduto al capezzale di Travis, che aveva la testa fasciata e il viso gonfio e tumefatto, sfumato di nero, blu e viola. Per un attimo rimase immobile, a osservare il suo compagno della Quinta Coorte, dimenticandosi perfino del problema più urgente.

«Cosa… cosa gli è successo?» domandò a Kiana, con un soffio di voce.

Anche lei stava guardando il figlio di Mercurio, mesta. Scosse la testa. «Un ciclope l’ha colpito con un masso. Gli si è accartocciato l’elmetto sulla testa. Il metallo ha…»

«Basta.» Camille non volle sapere altro, sentendosi in procinto di scoppiare a piangere. E la sensazione peggiorò quando si accorse dello sguardo devastato di David, che aveva gli occhi arrossati. Si era rimesso la medaglia che Ashley gli aveva dato, la stessa che Travis ancora indossava, e quel dettaglio le lacerò il petto.

Ricordava Travis sempre con quel sorrisetto beffardo, da figlio di Mercurio, che però era sempre stato molto diverso da quello dei suoi fratelli più grandi. Non aveva mai tradito alcuna cattiveria, o malizia, era sempre divertito, rilassato, e soprattutto entusiasta. Vederlo così, fasciato, ferito, quasi irriconoscibile… non riusciva ad accettarlo.

«Dai, vieni» mormorò Kiana, avvolgendole le spalle e parandosi quasi di forza tra lei e il letto, per nasconderlo alla sua vista. Camille era certa che se non ci fosse stata lei sarebbe crollata. 

Mentre attraversavano l’infermeria, nessuno le fermò per domandare nulla. Erano tutti troppo impegnati. Una cosa che Camille notò, era che, a parte Travis e Allen, non c’era nessun altro ricoverato della Quinta Coorte. Non appena lo fece notare a Kiana, lei riuscì a sorridere di nuovo. «La Quinta Coorte non ha riportato nessun decesso o ferito durante la battaglia. Solo Allen e Travis sono ricoverati.»

Camille rimase genuinamente sorpresa. Sapeva che la quinta era valida, proprio come tutte le altre, ma non si sarebbe aspettata una simile notizia nemmeno dalla prima. Sapere che tutti i suoi amici stessero bene riuscì a rincuorarla un po’. 

C’era un’aria grigia nel campo, come Camille mai aveva visto. A giudicare dal cielo al di sopra della Via Principalis, doveva essere tardo pomeriggio. Tutti i passanti non le degnarono di una seconda occhiata, continuando per la loro strada. Nonostante avessero ricacciato gli invasori, c’erano comunque state perdite, ed era evidente dalle espressioni cupe di tutti i legionari che nessuno credeva che quell’attacco sarebbe stato l’unico.

I fauni giravano senza meta come sopravvissuti dall’apocalisse. Kiana le disse che anche diversi di loro non ce l’avevano fatta. Gus si avvicinò per chiedere notizie di Travis e se ne andò con aria mesta dopo aver saputo delle sue condizioni. Almeno anche lui stava bene.

I lari fluttuavano in aria come spiriti in pena, questa volta in tutti i sensi della parola. Nemmeno Vitellio sembrava in vena di urlare contro i passanti della Quinta Coorte. Sembrò “ravvivarsi” soltanto quando vide Camille.

«Oh, grazie agli dei, almeno lei sta bene!» gridò, inchinandosi di fronte a lei. «È un vero sollievo, principessa!»

«Principessa?» domandò Kiana, con una vena di divertimento nella voce. 

Camille seppellì il volto tra le mani. «Ti avevo detto di non chiamarmi così, Vitellio…»

«Le mie umili scuse!» Il lare chinò così tanto la testa che per poco non la infilò nel terreno.

«E non essere così formale!»

«Chiedo umilmente perdono!»

Vitellio si defilò, mentre Kiana faticava a trattenere una risatina. Man mano che si avvicinavano alla Principia, Cam raccontò il proprio sogno a Kiana. Strinse la presa sulla daga, facendo fatica a trovare le parole, mentre parlava di sua madre incatenata. 

L’espressione divertita di Kiana svanì molto in fretta. «Quindi… quindi senza Ecate… è scomparsa la Foschia?»

Camille abbassò lo sguardo. «Ho paura di sì.»

«Questo… è un bel casino.»

Nessuno avrebbe potuto trovare parole migliori.

«Significa che… che i mortali possono vedere i mostri, ora?! E che possono vedere il campo? E che…»

«Non lo so» tagliò corto Camille, inorridita al solo pensiero di quali conseguenze la scomparsa di sua madre avrebbe potuto avere. «Non voglio nemmeno pensarci.»

Le guardie della Principia sbarrarono loro la strada, incrociando le lance di fronte alla porta. 

«I centurioni e i pretori sono in riunione. Nessuno può entrare» asserì una di loro, un ragazzino esile tutto sommato, con l’armatura che sembrava grossa il doppio di lui. Stringeva la lancia con forza, la testa alta, il petto all’infuori, ma sembrava nervoso. E il suo collega non era da meno. Non facevano altro che lanciare occhiatine a lei e a Kiana, ad intermittenza. 

Certo, erano la strega e la figlia di Venere con l’abitudine sgradevole di alzare le mani, il loro nervosismo era comprensibile. Camille tentò di spiegare di avere un’urgenza, di dover parlare con Ashley al più presto, ma quelli non sentirono ragioni. 

«I pretori non hanno tempo da perdere con quelli della Quinta Coorte» sbottò l’altra guardia, dopo essere rimasta in silenzio.

Camille storse il naso, molto più punta dal commento di quanto avrebbe voluto. Kiana, invece, sospirò e fece un passo avanti. Non disse una parola: afferrò i due per gli elmetti, strappandogli dei gemiti sorpresi, e poi li fece scontrare in un riverbero metallico. Entrambi stramazzarono come manichini da allenamento, le lance che rotolavano sul pavimento, sotto lo sguardo atterrito di Cam. Rimasero a terra a tenersi per gli elmetti e a mugugnare storditi. 

«Entra, forza, io rimango a fare compagnia a questi due» mugugnò Kiana, accennando con la testa alla porta. 

«Ma… ma hai… hai…»

«Sbaglio o avevi fretta?» la interruppe la sua amica. «Muoviti, me la vedo io qua fuori.» 

Camille lanciò un altro sguardo angosciato a quei due poveretti riversi a terra, che con tutta probabilità erano stati messi lì in fretta e furia per via della situazione straordinaria in cui erano capitati. Si augurò che Kiana non avesse fatto loro troppo male, e soprattutto che Kiana stessa non finisse nei guai per averli stesi. 

Farfugliò delle scuse e passò oltre. Infilò la daga nella cintura e spalancò la porta, entrando così nel quartier generale del Campo Giove. Sopra la sua testa, l’immenso affresco di Lupa assieme a Romolo e Remo sembrò scrutarla severa.

Al fondo della stanza vide i centurioni disposti di fronte al tavolo a cui sedevano i pretori, da cui poteva chiaramente udire la voce di Ashley. Erano tutti quanti lì, gli unici a mancare all'appello erano Kyle Greenwood e Allen. Poco distante, appoggiato contro la parete, con la testa bassa ed estraneo a tutta la discussione, c’era anche Dante.

Non appena il portone si richiuse alle sue spalle con quel tonfo secco che riecheggiò in tutta la stanza, Camille cominciò a sentire la mancanza del mondo esterno. Otto centurioni, i due pretori e l’augure si voltarono verso di lei. Ventidue paia di occhi diversi che la scrutarono con stupore, diffidenza e disgusto.

«Gray.» Ashley si alzò dal suo scranno. «Che ci fai qui? Perché Amedeo e Ian ti hanno fatto passare?»

«I-Io…» Camille esitò. Ora conosceva i nomi di chi Kiana aveva steso. Mentre osservava tutti i presenti le sembrò di essere di nuovo nella galleria angusta e soffocante del suo sogno, solo che quella era la realtà, ed era molto peggio: quei centurioni delle coorti più alte non si sarebbero fatti scrupoli a farla a brandelli per davvero. Cercò lo sguardo amico di Marianne, ma pure lei sembrava confusa. 

«Ho… ho bisogno di parlare con te ed Elias» riuscì a dire.

«Ma sei cieca?» sbottò una ragazza con una coda di capelli castani e un bustino d’armatura. Cassie Collins, figlia di Marte, centurione della Prima Coorte. La numero uno dopo Elias e Ashley. «Non vedi che siamo in riunione?»

Un brusio di approvazione si sollevò in aria, ma Ashley lo zittì sollevando una mano. Cercò di usare un tono più amichevole: «Gray, adesso non possiamo parlare. Ho cose urgenti di cui discutere con i tuoi compagni. Ma se tu…»

«So come hanno fatto a varcare i confini.»

Il silenzio scese all’improvviso. Ora tutti la squadravano come se fosse pazza. Camille deglutì, poi prese coraggio e cominciò ad avvicinarsi a tutti loro. 

«Ho… fatto un sogno» cominciò, incerta. «Ho visto Clizio. E una donna con i capelli neri e un tatuaggio sulla spalla. Non so chi fosse, però erano chiaramente alleati, e avevano…»

«Tatuaggio?» si intromise Dante, che aveva gli occhi arrossati. Pareva essersi appena ripreso da una pennichella. «Che tatuaggio?»

Camille si interruppe, sorpresa dalla domanda. «Ehm… era una specie di stella, non so bene come descriverlo.»

«Carino» fu l’unico commento dell’augure, prima che se ne tornasse a fissare il pavimento come se fosse la cosa più incredibile che avesse mai visto.

La ragazza corrucciò la fronte, confusa.

«Gray» cercò ancora di dire Ashley, con voce tesa. «Sei davvero sicura di non poter aspettare?»

«Non posso» affermò Camille, affondando le unghie nei palmi. «Non c’è un solo attimo da perdere.»

Il pretore la osservò in silenzio, mentre i centurioni borbottavano tra di loro, in dissenso. «Andiamo, Ashley» disse uno di loro. «Vuoi davvero darle retta? È soltanto…»

«Camille ha contrastato i poteri di Clizio» asserì Marianne, lanciandogli un’occhiataccia. «Se c’è qualcuno che dovremmo ascoltare, quella è proprio lei.»

«Certo, tu e i tuoi amici della Quinta Coorte dite così, ma chi ci dice che invece non vi siete solo svegliati per primi?»

Marianne strinse i pugni. In quel momento, assomigliò molto a Kiana. Soprattutto per lo sguardo omicida che lanciò a quel tizio.

«Basta» ordinò Ashley, alzando di nuovo una mano, prima di riportare lo sguardo su Camille. «Ti ascolterò, Gray. Voialtri, uscite tutti.»

I centurioni fecero dei versi sorpresi. 

«Ma…» provò a dire Cassie, prima che Ashley la liquidasse. 

«Andate, forza. Riprenderemo la riunione questa sera.»

Vi furono altri mugugni di dissenso, poi i centurioni cominciarono ad allontanarsi. Rivolsero diverse occhiatacce a Camille, mentre le passavano accanto. Marianne le posò una mano sulla spalla, cercando di esserle di conforto, poi anche lei seguì gli altri. 

«Tu rimani, D’Amico» sbottò Ashley, rivolta a Dante, che si era infilato in mezzo ai centurioni. Difficile non notarlo, visto che era un altro dei pochi ad essere alto come Kiana. 

L’augure si voltò con un sorrisetto colpevole e si massaggiò dietro la testa. «Avevo capito male, mea culpa.»

Ritornò sui propri passi con la stessa energia di un morto vivente. Sembrava Daniel di mattino presto, anzi, pure peggio. Camille sollevò un sopracciglio, sempre più stranita da quel tizio, poi sussultò quando il portone si chiuse di nuovo alle sue spalle, lasciandola sola con Ashley, Dante, e anche Elias, che era rimasto seduto per tutto il tempo, senza dire una sola parola.

«Siediti, forza.» Ashley indicò una delle sedie rimaste vuote di fronte al tavolo, prima di riaccomodarsi con un sospiro. 

Camille si avvicinò seguendo Dante, che invece tornò a rimettersi con la schiena al muro, le braccia conserte e un’espressione di sconforto puro dovuta a chissà che cosa. Cam si chiese cosa gli passasse per la testa. Non aveva parlato spesso con lui, lo conosceva giusto di nome, e di fama, o infamia. Sapeva però che il ruolo dell’augure era malvisto da quando uno di loro, impazzito per il potere, per poco non aveva causato una guerra tra greci e romani. Magari Dante era dispiaciuto per quello, ma non poteva saperlo con certezza.

Si sedette di fronte ai due pretori e venne scrutata dalla testa ai piedi da entrambi. Avvampò, realizzando che quella doveva essere la prima volta in assoluto in cui Elias la degnava di uno sguardo per più di un secondo. 

Ashley appoggiò le mani sui braccioli dello scranno. «Ciò che ha detto il tuo centurione è vero, Gray. Hai resistito al potere di Clizio, ed è grazie a te se ora siamo in possesso di informazioni preziose, quindi ti ascolterò. Parlami di questo sogno.»

Camille inspirò profondamente, poi raccontò ogni cosa, senza tralasciare nulla. Come con Kiana, sentì una fitta al petto parlando di sua madre imprigionata, ma si fece forza e andò fino in fondo. Credeva che i due pretori avrebbero accolto con più coraggio la notizia, ma anche loro sembrarono sconvolti tanto quanto lei. Quando finì di parlare, un silenzio pesantissimo si abbatté sulla Principia. Una sfumatura di angoscia sembrò baluginare perfino sul volto sempre impassibile di Elias, mentre la sicurezza di Ashley vacillava. 

«E al richiamo della dea imprigionata…» Dante fu il primo a rompere il silenzio, sporgendosi dal muro e allungando il collo verso Camille. Si grattò la barba, scrutandola dall’alto con espressione quasi spiritata. «… dovrà accorrere la figlia abbandonata. Ma certo! Ora è tutto chiaro!»

Ashley cercò di intromettersi: «Aspetta, Dante…»

«Con la sparizione del velo invisibile, apparirà la minaccia più temibile. E al richiamo della dea imprigionata, dovrà accorrere la figlia abbandonata! Tutto combacia, Ashley! Dobbiamo subito…»

«D’Amico!» esclamò Ashley, alzandosi in piedi. Ogni traccia di entusiasmo svanì dal volto dell’augure, che si ammansì come un cagnolino spaventato.

«Non possiamo esserne certi» disse la figlia di Giove, grave, mentre Dante indietreggiava. Il pretore riportò lo sguardo su Camille, e annuì. «Grazie per avermene parlato. Ne proferirò anche con i centurioni, e cercheremo di capirne di più. Puoi andare.»

Camille schiuse le labbra. «Ma… e mia madre? Mi ha detto di trovarla, che ho un legame con lei, che…»

«Gray.» Ashley appoggiò i palmi al tavolo, rivolgendole un sorriso stanco. «Non preoccuparti per tua madre. In quanto pretore, è mio dovere farmi carico di questa faccenda. La troverò, e risolverò questa situazione. O forse non hai fiducia in me?»

«Sì, certo che mi fido, però…»

«Che cosa? “Però” che cosa?» Il tono di Ashley assunse una strana sfumatura. «C’è qualche problema, Gray?»

Quella voce dura fu come una sassata. Camille rimase in un silenzio attonito, sotto l’esame degli occhi severi del pretore. Non c’era più alcuna traccia del suo sorriso, mentre nelle sue iridi celesti stava lampeggiando una durezza che Camille aveva scorto soltanto quando il campo si era trovato sott’attacco.

«Siamo appena stati attaccati, Gray, e abbiamo scoperto che una dea molto importante è stata rapita. L’ultima cosa di cui ha bisogno il Campo Giove in questo momento, è insubordinazione.»

«I-Insubordinazione? Ma… ma io…»

Un colpo di tosse la zittì. Si voltò verso di Dante, che si stava battendo il pugno sul petto, tossicchiando e schiarendosi la gola.

«Oh, perdonami» le disse, abbozzando un sorriso di cortesia, ma il suo sguardo tradì la sua emozione di reale angoscia. Scosse la testa impercettibilmente. «Non volevo interromperti. Davvero.»

Camille schiuse le labbra, sempre più confusa dal comportamento assurdo di tutti quanti.

«D’Amico» lo richiamò Ashley infastidita. «Potresti sforzarti di essere professionale almeno in una situazione di emergenza come questa?»

«C-Chiedo scusa.» Dante chinò la testa con fare nervoso.

Ashley alzò gli occhi verso il regno di suo padre, poi riportò l’attenzione su Camille. «Che stavi dicendo, Gray?»

Sembrava quasi che la stesse sfidando con lo sguardo a ripetere la stessa frase di prima. Camille, però, non era affatto in vena di accettare quella sfida. «N-Niente.»

«Bene.» Ashley annuì soddisfatta. Sorrise di nuovo, ma non fu uno dei suoi sorrisi abituali. Parve invece che si stesse sforzando di mantenere l’immagine gentile di sé intatta. Si lisciò gli abiti sotto il corpetto d’armatura e tornò a sedersi composta. Per tutto il tempo, Elias era rimasto immobile come una statua.

«Siamo tutti nella stessa barca, Gray. Se ci intralciamo a vicenda, finiremmo soltanto con l’affondare. Lo capisci, vero?»

Camille non capiva proprio niente, invece. Lei non voleva intralciare proprio nessuno! Stava per parlare di nuovo, ma si rese conto di avere gli occhi di Dante puntati su di lei. Ripensò al modo in cui l’aveva interrotta poco prima e deglutì. «S-Sì… capisco, Ashley.»

«Allora non hai niente di cui preoccuparti, Gray. Mi occuperò di questa faccenda, puoi stare tranquilla. Sono stata contattata anche io da mio padre, questa mattina. Mi ha detto che qualcosa di importante stava per accadere, e deduco che parlasse proprio di questo.»

Elias mostrò finalmente un’altra traccia di emozione. Corrugò la fronte e rivolse alla sua collega uno sguardo interrogativo.

«Davvero?» domandò anche Dante. «Ma non ce ne hai…»

Un’occhiataccia da parte di Ashley lo zittì all’istante.

«In ogni caso…» proseguì lei, con un tremolio nella voce. «… presto farò in modo che tutti voi riceviate direttive su come comportavi in questa situazione di emergenza, e mi aspetto che le seguiate alla lettera. Ma terrò conto del tuo prezioso contributo, Gray. Ora puoi andare a riposarti. Hai fatto e subito molto, di certo sarai stanca. Ti chiedo solo di non parlare del tuo sogno con nessun’altro. Non possiamo rischiare di seminare il panico tra le nostre fila. Posso avere la tua parola?»

Ancora una volta, Camille sapeva che c’era solo una risposta che poteva dare. Dopo aver avuto la sua parola, Ashley si rivolse al ragazzo accanto a lei: «Elias, accompagnala fuori.»

Il figlio di Plutone rimase fermo per qualche istante, a osservare ora Camille, ora Ashley.

«Elias? Che cosa stai aspettando?» lo incalzò ancora una volta la sua collega.

Elias serrò le labbra, ma si alzò comunque in piedi, cupo in volto. Si avvicinò a Camille, che si sentì piccola come mai era stata in vita sua. Le gambe cominciarono a tremarle e il cuore minacciò di schizzarle fuori dal petto, ma non era per via della gigantesca cotta che aveva per lui. Cominciò a sentirsi di troppo in quella stanza, come se l’aria fosse diventata ostile all’improvviso.

Il pretore le indicò con il mento la porta e lei non poté fare altro che voltarsi e obbedire. Mentre usciva, incrociò ancora lo sguardo di Dante, rimasto in disparte, e si accorse delle sue spalle rilassate, ma anche dei suoi occhi tristi e angosciati.

«D’Amico» lo chiamò ancora Ashley, facendolo sussultare. «Dobbiamo parlare.»

La reazione dell’augure fu la stessa che avrebbe avuto un condannato al patibolo. L’ultima cosa che Camille vide, prima che Elias chiudesse la porta della Principia di fronte a lei, fu Dante che si sedeva a testa bassa di fronte ad Ashley.

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Capitolo 7
*** Profezia ***


VII

Profezia

 


Camille avrebbe di gran lunga preferito che Kiana non la piantasse. Quando era uscita dalla Principia non l’aveva vista da nessuna parte, né lei né Marianne, a dire il vero. In compenso aveva trovato Amedeo e Ian, che con una semplice occhiatina omicida le avevano fatto capire che non sarebbe mai più stata la benvenuta nella Principia – anche se per fortuna non dipendeva da loro – e poi il resto dei centurioni, che invece l’avevano tempestata di domande in maniere più e meno – soprattutto meno – cortesi.

Anche se Ashley le aveva vietato di parlare con gli altri del suo sogno, dubitava che l’avrebbe fatto in ogni caso. Non le andava di parlare di nuovo di sua madre, non voleva rievocare quell’immagine orribile nella sua mente e soprattutto non voleva farlo con le stesse persone che l’avevano sempre guardata dall’alto verso il basso proprio per via del suo genitore divino. Non esisteva proprio che raccontasse loro che Ecate era stata rapita, non avrebbe permesso che le mancassero di rispetto in sua presenza con chissà quali insinuazioni. Per quel pomeriggio ne aveva abbastanza.

Si districò tra le domande dicendo che Ashley avrebbe detto a loro tutto quello che c’era da sapere e se ne andò per la Via Principalis con l’umore sotto la suola dei suoi anfibi neri. Avrebbe tanto voluto sapere dove diamine era finita Kiana. Aveva bisogno dei suoi commenti stupidi per farla pensare a qualcosa che non fosse quello che era appena successo. Si sarebbe accontentata anche solo di essere chiamata “fricchettona” un paio di volte.

Era di umore così nero che solo una cioccolata calda avrebbe potuto tirarla su, ma purtroppo la gelateria era chiusa durante quel periodo dell’anno. E in ogni caso, dopo una giornata come quella, lo sarebbe stata comunque.

Non aveva idea di che cosa fare, Marianne era sparita, Allen era fuori gioco, quindi non potevano darle dei lavori da fare, e perfino Daniel non si vedeva, e con lui sì che avrebbe voluto parlare. Voleva raccontargli del sogno, voleva dirgli quello che era successo con Ashley e… beh, voleva solo vederlo e accertarsi che stesse bene.

In un mondo perfetto, lo avrebbe visto e poi si sarebbe gettata tra le sue braccia per baciarlo, ma quello non era un mondo perfetto. Il rapimento di sua madre e la quasi distruzione del campo erano una dimostrazione piuttosto chiara di ciò.

Ashley le aveva detto di andare a riposarsi, ma ripudiava l’idea di starsene ferma con tutto quello che era successo, con tutti i pensieri che le vorticavano nella mente e con la sua iperattività maledetta.

Decise infine di tornare in infermeria, a fare compagnia a David e Travis. Il fratello di Kiana sembrò felice di vederla, ma non disse molte parole, e lei nemmeno pretese che lo facesse. Era legato a Travis, erano amici da sempre, poteva comprendere perché fosse così in pensiero per lui.

Camille cercò di mostrarsi forte, per fargli coraggio, ma perfino lei era sconvolta da ciò che era successo a Travis. Ogni istante passato a vederlo ridotto così era uno strazio. Ed era ancora più straziante leggere il dolore negli occhi di David.

Nell’infermeria notò anche Allen, seduto sul bordo di un lettino, intento a discutere con Kyle. Loro erano gli unici due centurioni che non aveva visto nella Principia, e non ci mise molto a capire perché: Allen era ferito, Kyle invece era rimasto lì per il motivo opposto, lui doveva occuparsi, dei feriti. Sembrava essersi ripreso del tutto dallo spiacevole incontro che aveva avuto con lei, Kiana e i gemelli. Di tutte le persone su cui avrebbe voluto usare i suoi poteri, lui era tra le ultime. Era della Prima Coorte, ma era un bravo ragazzo, un medico figlio di Esculapio che aveva molto a cuore il suo dovere. Era anche carino, doveva ammetterlo, ma aveva già una ragazza, una specie di super modella della Prima Coorte.

Camille riportò la sua attenzione su Allen. Quando lei era arrivata al campo, sei anni prima, lui era già centurione assieme a una ragazza che poi si era ritirata per iniziare il college a Nuova Roma, lasciando il posto a Marianne. Era un figlio di Vittoria allenato, muscoloso, con i capelli rasati. Anche lui era piuttosto carino. E anche lui non l’aveva mai degnata di uno sguardo di troppo.

In quel momento sembrava guarito del tutto, ma pareva ancora scosso. Di fronte a lui, Kyle stava scuotendo la testa con aria mesta. Allen abbassò il capo e non disse più niente, e a Camille fu subito chiaro che qualcuno a lui caro non ce l’aveva fatta. Forse un suo amico, o magari… la sua ragazza? Allen aveva una ragazza? Camille si rese conto di non averci mai pensato. Non che fosse affare suo. Come poteva pensare a qualcosa del genere in un momento come quello? Forse Kiana aveva ragione, forse era davvero un caso disperato.

Distolse lo sguardo da quei due, con un sospiro afflitto. Non seppe quanto tempo ancora trascorse lì dentro. A un certo punto vide entrare anche Marianne, che puntò proprio verso il suo collega centurione. Si dissero qualcosa e la discussione parve infervorarsi in pochi istanti, prima che Allen si alzasse dal letto e se ne andasse a passo pesante, lasciando da sola Marianne, la cui espressione era a metà tra l’infuriata e l’angosciata.

Camille intuì che andarle a chiedere dei lavori sarebbe stato utile forse solo a farsi urlare addosso. Salutò David dandogli qualche colpo di incoraggiamento sul braccio e se ne andò, stanca dell’aria di desolante tristezza che opprimeva quel luogo. Il figlio di Venere le aveva detto che i Vega, Daniel e i suoi pochi altri amici erano tutti tornati nei dormitori, perciò decise di andare anche lei da loro.

Durante il tragitto non fece altro che pensare al suo colloquio con Ashley. Non riusciva ancora a credere a come l’avesse liquidata, con quello sguardo così freddo e minaccioso. Si fidava di lei, certo, era il pretore, figlia di Giove, e l’aveva vista abbattere Encelado con i suoi stessi occhi. Se c’era qualcuno che davvero avrebbe potuto entrare in quella caverna, sconfiggere Clizio e la donna misteriosa, quella era proprio lei.

Eppure, Camille non poteva fare altro che pensare a sua madre, a come avesse detto a lei di trovarla.

Un legame. Aveva parlato di un legame. Solo lei poteva sentirlo, e solo lei poteva trovarla. Camille chiuse gli occhi e inspirò, liberando la mente da ogni altro pensiero, estraniandosi dall’ambiente che la circondava. Si concentrò, su cosa, nemmeno lei poteva saperlo. Cercò di avvertire di nuovo quella sensazione, la stessa provata nel sogno, in presenza di sua madre, ma non avvertì nulla.

Solo angoscia e preoccupazione di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

Qualcuno la afferrò alle spalle. Sgranò gli occhi, ma non riuscì a fare altro: venne trascinata di forza in uno dei vicoletti tra i dormitori e sbattuta contro il muro. Stava per urlare a perdifiato, credendo di essere sotto attacco, ma poi si accorse di chi l’aveva portata lì. Osservò allibita Dante, intento a scrutarsi attorno guardingo.

«Ma che cavolo stai facendo?!» sbottò. «Ti sembra forse il modo di…»

«Shhh

Dante le posò l’indice sulle labbra, facendola trasalire. Si chinò su di lei per via della loro abissale differenza di statura e la scrutò intensamente, come se la stesse studiando con un microscopio. Camille si ritrovò quegli occhi scuri e caldi stagliati su di lei, il viso del ragazzo a pochissima distanza dal suo, e pregò tutti gli dei che conosceva, e non, di non essere arrossita.  

«Vieni con me» disse lui, afferrandola per mano senza troppi complimenti. Camille squittì per lo stupore e l’indignazione, ma non riuscì a liberarsi dalla presa del ragazzo.

«M-Ma dove stiamo andando?!» domandò, sconvolta. Si accorse che Dante stava tenendo un malloppo gigantesco di fogli sotto braccio, che frusciavano ad ogni passo.

«Al Tempio di Giove Massimo. Devo farti vedere una cosa.» Dante le lanciò un’occhiata veloce, mentre sgattaiolavano tra i vicoli attorno ai dormitori, ancora stretti per mano. «Non abbiamo molto tempo, quindi sbrighiamoci!»

«No, aspetta, perché devo venire con te?!»

«Riguarda tua madre! Ho capito che cosa sta succedendo, ma Ashley non vuole che tu lo sappia!»

«Che… che cosa?»

Dante le disse di portare pazienza, di aspettare che raggiungessero il tempio, e Camille decise di non insistere più, troppo scossa da quello che aveva appena sentito. Nessuno sembrò accorgersi dei due ragazzi appartati per i vicoli dei dormitori e che si tenevano per mano. Per fortuna avrebbe voluto aggiungere, anche se, con tutto quello che era successo quel giorno, dubitava che a qualcuno sarebbe davvero importato qualcosa.

La sua mano venne liberata solo quando raggiunsero la Collina dei Templi. Nonostante Dante non fosse praticamente allenato, e l’unica arma usata da lui era un pugnale per squartare pupazzi, Camille faticò a tenere il passo di quelle gambe lunghe. Fu costretta a quasi corrergli dietro finché non arrivarono al Tempio di Giove Ottimo Massimo.

«Va bene» esordì Dante, gettando il malloppo di fogli sopra l’altare. «Per prima cosa, ho bisogno che mi racconti di nuovo tutto il tuo sogno, da capo, bene. Mi serve tutto, ogni cosa, ogni dettaglio, tutto quello che ricordi. Ok?»

Camille sbatté le palpebre. «Ehm…»

Dante la prese per le spalle. Il suo alito sapeva di caffè forte. «Concentrati. È importante» disse ancora, quasi dando per scontato che lei avesse già accettato. La osservò di nuovo negli occhi. Sembrava davvero serio, e anche angosciato. L’immagine di lui a testa bassa di fronte ad Ashley balenò nella mente di Camille, facendola esitare. E le tornarono anche in mente le parole che aveva detto, qualcosa riguardo una dea imprigionata, e una figlia abbandonata. 

La ragazza venne scossa da un brivido. «Davvero… davvero sai che cosa sta succedendo?»

«Per esserne sicuro, ho bisogno che tu mi ripeta quello che hai detto ai pretori. Se le cose sono come credo di aver capito, allora forse potrei aiutarti. In caso contrario, ci separiamo qui e fingiamo che non sia successo niente. Ci stai?»

Non sembrava avere cattive intenzioni, affatto, e a differenza di molti altri ragazzi che l’avevano guardata, non c’erano malizia o indifferenza nel suo sguardo. E poi le aveva detto che l’avrebbe lasciata andare via se non avesse trovato quello che cercava. Decise di accontentarlo, anche perché voleva davvero capirci di più.

Mentre ripeteva il sogno all’augure, pensò al fatto che l’avesse cercata e portata lì solo per avere quella discussione con lei, in privato, e a come sembrasse davvero interessato alla vicenda, molto più interessato di quanto l’avesse mai visto. Voleva davvero aiutarla. Chissà quanto tempo aveva passato ad aspettarla, vicino ai dormitori.

Tutto quello la lasciò di sasso. Era sempre stata convinta, come tanti altri, che Dante fosse un lavativo, uno scansafatiche, ma forse si era sbagliata su di lui. Lei per prima avrebbe dovuto tenersi alla larga da certi pregiudizi.

A racconto concluso, Dante le lasciò le spalle e si voltò verso l’altare, cominciando a rovistare tra i fogli. «Allora è proprio come sospettavo.»

«Che… che intendi dire?»

Dante si voltò verso di lei, reggendo un post-it tra le dita. Glielo porse. «Tieni, leggi.»

Sempre più confusa, Camille obbedì. C’erano delle frasi scritte a mano, in un corsivo frettoloso, ma comunque ordinato:

 

Con la sparizione del velo invisibile

Apparirà la minaccia più temibile

E al richiamo della dea imprigionata

Dovrà accorrere la figlia abbandonata

 

Più leggeva quelle frasi, più Camille sentiva il sangue gelarle nelle vene. Ogni parola era una freccia che si conficcava nel suo cuore.

«Sembra… sembra una profezia» sussurrò stupita, e intimorita. Non le era mai capitato di leggerne una, ed era da molto tempo che i semidei non se ne servivano.

«È una profezia» chiarì Dante. «O, almeno, sono due pezzi di profezia che sono riuscito a mettere insieme dopo che ho sentito la tua storia nella Principia. Credo che sia incompleta, però. Manca… qualcosa, non so se mi spiego. Sto ancora cercando di capire quale sia l’ultimo verso, sempre se ce ne sia uno. In ogni caso…» Si mise accanto a lei, ed indicò i primi due versi. «Guarda. Il Velo Invisibile. È un altro nome per chiamare la Foschia. E Ecate ha detto che è sparita, giusto?»

Camille cominciò a capire dove l’argomento stava andando a parare. E non era molto sicura di voler rimanere lì. Dante, però, stava già andando avanti. «La minaccia più temibile. Non so a cosa possa riferirsi, ma se non c’è più la Foschia, significa che non ci sono nemmeno più i confini del campo, o mi sbaglio? Questa minaccia potrebbe trattarsi di un altro attacco, molto più violento, che sta per arrivare. Anche se, stando a quello che avete sentito da Clizio, forse prima vogliono aspettare questa “Notte Eterna”, qualunque cosa significhi. Comunque sia, io ti ho chiesto di venire qui per questo…»

Indicò gli ultimi due versi. «La dea imprigionata. Non può essere che tua madre. La figlia abbandonata invece…» Dante si piazzò di fronte a lei, scrutandola dall’alto con espressione critica.

Camille avvertì un sussulto al petto. «Pensi… pensi che sia… io?»

«Ecate ha cercato te. Avrebbe potuto chiamare chiunque altro, ma ha scelto te. Forse l’ha fatto perché sei sua figlia, ma potrebbe esserci un motivo ben preciso, e quel motivo è che tu sia già stata scelta dal fato. Pensaci bene. Sei stata abbandonata da qualcuno? Non lo so, un amico, un parente, o cose del genere? Sforzati. È importante che tu ricordi, per capire come muoverci.»

Accorgendosi del silenzio della figlia di Trivia, l’augure si accigliò. «Andiamo, dì solo “sì” oppure “no”, non è così difficile! Devi solo…»

Si interruppe quando Camille abbassò lo sguardo, incapace di osservarlo in faccia. Un dolore lancinante al petto cominciò ad assalirla, seguita da una collera altrettanto travolgente. Strinse i pugni con forza e sentì il corpo tremare, non sapeva se per la tristezza, per la rabbia, per la magia che cominciò a scorrerle nelle vene come luce liquida e incandescente, oppure un misto di tutte quelle cose.

«Ah, cavolo…» mormorò Dante. «Sono stato indelicato, vero?»

Camille drizzò la testa. Si accorse dell’espressione mortificata dell’augure, che questa volta distolse lo sguardo per primo, grattandosi dietro al collo.

«Ti chiedo scusa. Avrei dovuto immaginare che potesse essere un argomento difficile. Sono la solita frana, perdonami... è solo che… per la prima volta dopo mesi, anni di nulla, mi sembra finalmente di scorgere un significato a questo ammasso di profezie sconclusionate e senza senso. Ashley ed Elias continuano a chiedermi se ho scoperto qualcosa, e mio padre non vuole mandarmi nemmeno un segno. Il Senato mi odia, vorrebbero bandire il ruolo di augure, e mi trovo bloccato in questo limbo in cui mi sembra che ogni cosa che faccio o è sbagliata, oppure…»

«Ehi, calmati» lo interruppe Camille, alzando le mani, mentre un piccolo accenno di sorriso nasceva sul suo volto e la rabbia provata poco prima sfumava. «Non mi hai offesa. Non preoccuparti.»

Dante sollevò di nuovo lo sguardo, sorpreso. «Non… sei arrabbiata con me?»

«Ma no, sta tranquillo.» Camille cercò di sorridere più sincera. Avrebbe dovuto capirlo subito che lui non aveva tentato di ferirla di proposito. E a giudicare da come le avesse appena parlato, era chiaro che era davvero mortificato.

Anche Dante cominciò a sorriderle, prima di grattarsi di nuovo dietro al collo, imbarazzato. «Davvero?»

«Ma certo. E comunque… non sei una frana. A me sembra che tu abbia molto a cuore quello che fai.»

«Davvero??» Questa volta Dante apparve genuinamente sorpreso, ma in senso positivo.

Camille si sentì in imbarazzo di fronte a sguardo così carico di aspettative. «Ma sì, certo.»

Per tutta risposta, l’augure chiuse gli occhi e le rivolse un sorrisone enorme, a trentadue denti. «Grazie!»

«P-Prego» bisbigliò Cam, avvertendo uno strano sussulto al petto, rimanendo per alcuni istanti a osservarlo. Nessun ragazzo le aveva mai sorriso così. Di solito la ignoravano, o facevano come Daniel, qualche parola, qualche sguardo, e poi lei tornava a essere invisibile. Dante invece sembrava davvero felice.

«Posso riaverlo?»

Camille trasalì, rendendosi conto che lui si era avvicinato, e aveva teso il palmo verso il post-it ancora tra le sue mani. Si affrettò a restituirglielo. «S-Sì, certo…»

Le loro mani si sfiorarono, facendola rabbrividire, e poi Dante tornò a chinare la testa sull’altare per armeggiare di nuovo con i fogli.

«Sono… tutte quante profezie?» domandò Camille massaggiandosi la punta delle dita divenute roventi all’improvviso.

«Sì, all’incirca. Non sono complete, però. Sono… pezzi. Come un gigantesco puzzle da mettere insieme.» Dante le mostrò il plico nella sua interezza, facendo scivolare l’indice tra le pagine. «Crediamo che Clizio cercasse proprio queste, durante l’attacco.»

Camille schiuse le labbra per lo stupore. «E perché avrebbe dovuto?»

«Beh, le profezie non sono soltanto un excursus sul futuro. È il volere degli dei, anzi, del Fato, espresso a parole, o lettere nero su bianco, nel caso di questi pezzi di carta qui. Se i mostri ci mettessero le mani sopra, disporrebbero di un’arma molto più potente di quanto chiunque di noi potrebbe mai immaginare.»

«Ma… come faceva Clizio a conoscere quelle profezie? Io non ne avevo mai sentito parlare!»

«Perché io e i pretori avevamo deciso di tenerle nascoste. Nemmeno noi sappiamo come hanno fatto i nostri nemici a scoprirle.»

Un brivido percorse la schiena di Camille. La talpa. Ecco come.

 L’augure diede un rapido colpo sul plico con le nocche. «Se è davvero questo il bersaglio dei nostri nemici, allora chiunque abbia orchestrato quell’attacco proverà ancora a metterci le mani sopra, in tutti i modi più orribili che possono venirci in mente. Per questo motivo, dobbiamo trovare Ecate al più presto. Abbiamo bisogno dei confini magici del campo, per proteggere queste pagine a ogni costo.»

Camille serrò le labbra. «Perciò… se la “figlia abbandonata” fossi io…»

«Dovrai rispondere al richiamo di Ecate» concluse Dante, annuendo. «Tua madre ti ha cercata, e abbiamo una profezia. Se le cose dovessero combaciare, allora non avremo più dubbi.»

Camille abbassò la testa. Anche Ecate gliel’aveva detto. Avevano un legame che solo lei poteva sentire. Solo lei poteva trovarla. Non si sarebbe palesata a lei in sogno, altrimenti. Non avrebbe avuto alcun motivo di avvisarla di essere stata rapita, se poi non voleva che fosse proprio lei ad andare a cercarla.

Figlia abbandonata.

Tutta la vita aveva trascorso così, portandosi dietro quella maledetta nomea. Anni e anni di vessazioni, paura, dolore e lacrime, passati con la consapevolezza di non essere state volute nemmeno dal proprio padre.

Credeva di essersi liberata di quel maledetto stigma, quando si era ritrovata di fronte a Lupa, e lei le aveva detto che era pronta per il Campo Giove. Credeva che avrebbe ricominciato da capo, con una nuova famiglia, nuovi amici, qualcuno che non le avrebbe mai fatto pesare quello che era accaduto. E invece, il passato era tornato a bussare alla sua porta, come sempre, riportandole alla mente tutto ciò che aveva cercato di superare, a partire da quello stupido nomignolo, strega, fino a quello.

Tuttavia, ora capiva che cosa intendeva dire Dante. Ora capiva molte cose. Prese un profondo respiro, poi annuì. «Mio… mio padre mi ha abbandonata quando ero appena nata» mormorò. «Non l’ho mai conosciuto. Sono cresciuta in un orfanotrofio, e poi…»

«Ehi, ehi, ferma.» Dante le posò di nuovo una mano sulla spalla, facendola sussultare ancora una volta. Le sorrise ancora, un sorriso molto più ampio, caldo e rassicurante, che le mandò in subbuglio lo stomaco. «Non serve che racconti tutto, soprattutto se è qualcosa che ti turba. Mi basta solo sapere che la profezia parla di te.»

Camille si sforzò di ignorare il cuore che le batteva all’impazzata nel petto e cercò di ricambiare il sorriso, provando genuino sollievo. «Credo… credo di sì.»

Dante strinse una mano a pugno, entusiasta. «Sì! Lo sapevo! Allora non c’è un solo attimo da perdere!»

«In che senso?» domandò la figlia di Trivia, corrugando la fronte.

«Devi partire per andare a cercare Ecate! Forza, va a prendere il tuo zainetto o quello che è, fatti prestare un pegaso e…»

«No, no, aspetta!» Camille agitò le mani. «Guarda che non funziona così!»

Dante sbatté le palpebre. «Ah no?»

«No! Per uscire dal campo ci vuole un’impresa! Bisogna presentare la questione al Senato, e soltanto dopo, se il Senato accetta, potrò andarmene!»

«Oh…» Dante sembrava davvero sorpreso. Camille non capiva se faceva sul serio o se la stava solo prendendo in giro. Se era uno scherzo, allora era davvero bravo a recitare la parte dell’ignorante.

La figlia di Trivia si passò la mano tra i capelli, inspirando a fondo. Se non altro, ora non aveva più dubbi: doveva essere lei a partire per cercare Ecate. Ashley aveva cercato di tagliarla fuori, non comprendeva il motivo, ma non aveva importanza: sarebbe tornata a parlarle e l’avrebbe convinta che doveva partire. Era spaventata, certo, ma era una legionaria, si era addestrata proprio per quello, e in ogni caso, era sua madre ad essere in pericolo. Non se ne sarebbe rimasta con le mani in mano a osservare qualcun altro correre per aiutarla.

Tutte quelle domande che voleva farle, quelle risposte che non aveva mai avuto, quell’approvazione materna che tanto aveva cercato, era la sua occasione per ottenerle. Non l’avrebbe sprecata.

«Ehm… ci sei?»

Camille si rese conto che Dante la stava chiamando. Sembrava aver già fatto un paio di tentativi.

«S-Sì, ci sono.»

«Dicevo, non puoi andare da Ashley» asserì lui, come leggendole nel pensiero. «Te l’ho già detto prima, lei non voleva nemmeno che venissi a parlarti della profezia.»

Quelle parole la lasciarono di sasso. «Ma… perché?»

L’espressione angosciata riapparve sul volto di Dante. «I-Io… non posso dirlo…»

Camille sollevò un sopracciglio. «Però così non mi aiuti molto…»

«Ti prego.» Dante le afferrò la mano. «Fidati di me.»

Le guance di Camille bruciarono come non avevano mai bruciato prima di quel giorno, superando ogni limite conosciuto. Le sarebbe piaciuto rispondergli che si fidava, ma purtroppo aveva dimenticato come parlare. E anche come respirare. Dalle sue labbra uscirono alcuni versi sconnessi che potevano essere un assenso, oppure un sibilo di dolore, non era molto chiaro. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era a quanto calda fosse la mano affusolata di Dante.

«Che sta succedendo qui?» domandò una voce all’improvviso, che li fece gridare entrambi.

 

 

 

Salve gente, grazie per aver letto!

Chiedo scusa per il capitolo nano, non mi ero accorto di averlo tagliato così tanto (ho scritto questo capitolo e lo scorso insieme) in ogni caso spero che vi sia piaciuto. Direi che ormai la situazione è piuttosto chiara, la storia sta prendendo forma e spero davvero che per ora vi stia coinvolgendo.

Io come sempre ringrazio chi legge, ringrazio Roland e Farkas di cuore per le recensioni e nulla, alla prossima!

 

p.s. avevo già postato i disegni di Dante e Camille, ma li rimetto qui perché erano le due star del capitolo:

Dante

Camille

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Capitolo 8
*** Alcune regole sono fatte per essere infrante ***


VIII

Alcune regole sono fatte per essere infrante



Kiana sapeva che sarebbe finita nei guai per aver steso quei due. Insomma, avevano appena subito un attacco, il primo dopo non sapeva nemmeno quanto tempo, e lei aveva avuto la brillante idea di buttare giù come birilli le guardie della Principia, che mai come in quel momento davvero dovevano essere vigili e attente.

Forse era stato il loro commento sulla Quinta Coorte a infastidirla. Forse.

In ogni caso, Camille era sembrata così turbata che pur di aiutarla avrebbe steso altre cento di quelle guardie se fosse servito. Quando aveva sentito che cosa aveva visto in quel sogno era rimasta sconvolta. E se era successo a lei, non poteva nemmeno immaginare che cosa stesse provando Cam, la figlia della dea che era stata rapita.

Mentre aspettava la sua amica, il sogno che aveva fatto prima di essere svegliata ritornò nella sua mente.

 

***

 

Non era stato il classico sogno da semidei. Non aveva visto nel futuro, né scene che stavano accadendo in quel momento ma da qualche altra parte: aveva visto il passato. 

Si era rivista da bambina, di fronte allo specchio di quel suo bagno grande quanto una sorgente termale, mentre si sistemava l’hijab sopra i ciuffetti ribelli. Suo padre l’aveva raggiunta poco dopo, scrutandola tramite il riflesso con uno scintillio astuto negli occhi.

«Brava la mia piccola» le aveva detto in inglese, accarezzandole la testa.

Era certamente un bell’uomo, Amir Farhat. Alto, ben definito, sempre elegante e con un sorriso di cortesia stampato sul volto dalla barba rada. Ed era certamente anche suo padre: avevano la stessa forma del naso e degli occhi e lo stesso neo sopra il labbro. Questo, però, un estraneo non avrebbe mai potuto saperlo, visto che raramente lui c’era per lei. Aveva sempre lasciato fare tutto alla badante, o al maggiordomo, o all’autista o chi per loro. Loro l’avevano sempre accompagnata a scuola, andati a prenderla, portata a casa delle compagne di classe, al cinema, ovunque lei avesse desiderato, insomma. Era praticamente stata cresciuta da altri.

«Allora, Kiana, che cosa dirai agli zii e ai nonni, oggi?»

«Che abbiamo recitato la ṣalāt questa mattina presto, fatto colazione insieme e poi recitato il Corano.»

«Quale verso?»

Kiana aveva ripetuto il verso a memoria, come suo padre l’aveva istruita. L’uomo aveva annuito soddisfatto, come se lei avesse appena superato un test, e l’aveva accarezzata di nuovo sopra il velo. «Brava, piccola mia. Comportati bene e obbedisci agli zii in mia assenza.»

«Tu non vieni?»

«No. Devo lavorare.»

Kiana aveva annuito senza dire altro. Ormai conosceva la prassi. Da quando il nonno si era ammalato, suo padre si dedicava anima e corpo all’impresa di famiglia, trascurandola ancora di più di quanto già facesse. 

«Però lo sai che penserò ad Allah tutto il giorno, vero?» Non era sembrata nemmeno una domanda, ma più una sfida ad affermare il contrario. 

Kiana, come lui le aveva insegnato, aveva annuito di nuovo. «Sì. Lo dirò ai nonni.»

Un’altra carezza sulla testa. «Brava.»

Amir era quindi uscito dal bagno, lasciandola sola, e la bambina si era osservata allo specchio, chiusa in quel vestito lungo, che le copriva il corpicino intero. Si era sfilata l’hijab per studiarlo con occhi spenti, tristi. 

Si era sempre domandata che senso avesse tutto quello. Perché suo padre aveva sempre dovuto mentire in quel modo? A lui non era mai importato nulla di tutto quello. Non gli era mai importato della fede, della religione, delle tradizioni, era sempre stato spinto solo dall’avidità, dal denaro, dal successo. 

Perché era sempre stato così importante per lui apparire come un’altra persona di fronte agli altri?

I pensieri di Kiana si erano interrotti quando il suo maggiordomo, Rashid, l’aveva chiamata. A quel punto si era rimessa il velo e aveva lasciato il suo lussuosissimo bagno.

 

***

 

La ragazza si strinse nelle spalle. Ogni volta che pensava a suo padre, ricordava scene come quella. Lei che, come un soldatino, appariva come una figlia perfetta agli occhi degli altri per far fare a lui bella figura.

Aveva trascorso una vita di menzogne e bugie per causa sua, questo finché lui non l’aveva portata alla casa del Lupo e abbandonata lì come un cucciolo trovatello. Non aveva idea di che storia avesse raccontato ai loro parenti per giustificare la sua “scomparsa”, e nemmeno le interessava.

I gemiti delle due guardie la fecero distogliere da quei pensieri.

«Smettetela di lamentarvi» borbottò incrociando le braccia e scrutandoli dall’alto. Certo che per essere addetti alla sicurezza di uno dei luoghi più importanti del Campo Giove, erano piuttosto scarsini. E avevano pure il coraggio di dirne a proposito della Quinta Coorte. «Era un’emergenza. La mia amica aveva bisogno di vedere i pretori.»

Uno di loro, Kiana non seppe quale perché erano grossi uguali e con indosso la stessa armatura, le lanciò un’occhiataccia. «Lo diremo ad Ashley» sibilò.

Kiana sollevò le spalle. «Che sei stato steso con un colpo solo? Certo, accomodati pure. Sono sicura che non vede l’ora di rimpiazzarti con qualcuno di più… adatto» concluse, con un sorrisetto beffardo. Se voleva zittirlo ci riuscì in pieno, perché quello sembrò avvampare e si riguardò dal dire altro.

Le porte della Principia si spalancarono in quel momento, eruttando fuori più o meno tutte le persone che Kiana avrebbe voluto vedere meno in assoluto, mancavano giusto Maxwell e i suoi lacchè. Tutti i centurioni delle cinque coorti, eccetto Kyle e Allen, osservarono allibiti la scena di lei che torreggiava sopra le due guardie.

«Ma… ma che è successo qui?!» domandò uno di loro.

Kiana notò tutti i loro sguardi critici, incluso quello di Marianne, e realizzò di essere in un bel guaio. Sfoderò il suo miglior sorriso innocente e disse: «Ragazzi, non vi sembrerà vero, ma quando sono arrivata qui ho trovato questi due già a terra.» Indicò le due guardie, che fecero versi indispettiti. «E allora ho deciso di rimanere nei paraggi, casomai chiunque li abbia attaccati si rifacesse vivo. Sono stata brava, vero?»

Da come la squadrarono, intuì subito che nessuno se l’era bevuta.

Beh, c’ho provato.

«Questa volta non la passi liscia, Farhat!» sbottò quella vacca di Hailey Spears, della Seconda Coorte, vestita da testa a piedi in panoplia per nascondere i denti storti, le pustole sulle guance e quella cartapesta rossiccia che aveva al posto dei capelli. «Sono stanca di vederti girare come se fossi la padrona di questo posto! Non appena Ashley avrà finito con la tua amichetta noi…»

«Me ne occupo io» affermò Marianne, facendo un passo avanti e alzando una mano. «È nella mia coorte, è mia responsabilità.» Si avvicinò alla figlia di Venere e la afferrò per il braccio senza troppi complimenti. «Andiamo, Farhat.»

«Aspetta! Cam è ancora dentro, non posso…»

«Ora.» La voce di Marianne non ammise obiezioni. Kiana sapeva di poter vincere una discussione con lei, se davvero avesse voluto, tuttavia sapeva riconoscere quando Mary era tesa, e in quel momento lo sembrava eccome.

«Sissignora» borbottò, prima di lasciarsi trascinare via dalla Principia, ma non senza che potesse rivolgere un saluto militare agli altri centurioni, specialmente a quell’oca di Hailey che ancora la osservava furibonda.

«Dovresti metterci il guinzaglio ai tuoi compagni» sbottò Cassie Collins, mentre si allontanavano. Kiana si voltò e fece per risponderle che l’unica con un guinzaglio era lei, con scritto sopra “Proprietà di Ashley Flare”, ma Mary le strinse con forza il braccio e scosse la testa, intimandole di stare zitta.

«Perché lasci sempre che ci parlino così?» domandò Kiana, adirata, una volta che furono abbastanza lontane.

«E tu perché non riesci a comportarti come una persona civile?» ribatté Marianne, prima di sospirare. «Avrei dovuto sapere che c’era il tuo zampino dietro l’irruzione di Gray.»

Kiana sentì il palato farsi amaro all’improvviso. «Puoi anche chiamarla per nome, sai? O siamo diventate così insignificanti per te?»

Si aspettò una reazione da lei, una qualsiasi, invece nulla.

«Visto che hai parecchio tempo libero, ho un incarico per te. Serve qualcuno sulle torri di guardia.»

La figlia di Venere non seppe se definirsi più infastidita da quell’indifferenza o da quell’incarico. «Posso gentilmente rifiutare?»

«No.»

«E ti pareva.»

Marianne non la lasciò andare anche se aveva dimostrato di essere collaborativa. Forse per precauzione, ma Kiana preferiva pensare che in realtà a Mary piacesse toccarle il bicipiteLa accompagnò alla scaletta della torre di guardia ad ovest, che si affacciava sul Piccolo Tevere.

«Sai già come funziona. Se noti minacce, suona il corno.» Marianne accennò con il pollice alla scala. «Tra qualche ora manderò qualcuno a darti il cambio.»

«Che significa “qualche ora”?»

«Non lo so. Qualche ora. Siamo tutti quanti un po’ incasinati, come vedi.» Mary accennò alla via affollata di legionari che trasportavano compagni caduti avvolti in drappi funebri e altri che andavano e venivano dall’infermeria o dall’armeria, chi tutto intero e chi non proprio.

«Ci vediamo dopo.» Marianne se ne andò senza dire altro e la figlia di Venere afferrò i pioli con un sospiro.

Arrivò in cima alla torre e si sedette sullo sgabello accanto ad un tavolino basso, con appoggiati sopra il corno da suonare per dare l’allarme e un bicchiere della mensa vuoto. Afferrò il secondo e gli ordinò di riempirsi di cherry coke, poi cominciò a sorseggiare mentre fissava a malavoglia il Piccolo Tevere in lontananza. Erano passate poche ore dall’attacco, e il fiume sembrava ancora inquieto. L’acqua era calma ma pareva una calma fittizia, come se stesse per implodere da un momento all’altro. O forse la sua era solo suggestione.

Una parte di lei avrebbe voluto infischiarsene e rimanere ad aspettare Cam fuori dalla Principia, un’altra sapeva che Marianne le aveva affibbiato quell’incarico solo per non farla finire nei guai con gli altri centurioni.

In ogni caso, dubitava che Camille avrebbe cavato un ragno dal buco, parlando con Ashley di quello che aveva visto. Il campo era un delirio, presto tutta la faccenda sarebbe stata portata al Senato e sicuramente qualche testa sarebbe rotolata. Ancora non riusciva a credere che quei mostri si fossero avvicinati così tanto al campo senza che nessuno se ne accorgesse.

O meglio, qualcuno se n’era accorto, ed era sopravvissuto per miracolo. Anche lei non era riuscita a rimanere indifferente alla vista di Travis ridotto in quelle condizioni. E Kyle non era stato molto ottimista riguardo. Non l’aveva detto a David per non distruggerlo più di quanto già non fosse, ma Kiana dubitava che Travis sarebbe arrivato al giorno dopo.

Aveva visto anche altri ragazzi cadere per poi non rialzarsi più, durante la battaglia. La Quinta Coorte era rimasta intatta, ma le altre non erano state così fortunate, nemmeno le prime. Le rive del Piccolo Tevere erano sporche del sangue di tutti i legionari caduti. Le coorti per loro non contavano più, ormai. Si augurò che trovassero la pace nell’aldilà, a prescindere dalla coorte di appartenenza. Era solo uno stupido numero, alla fine, che per qualche motivo aveva molto più peso di quanto in realtà avrebbe dovuto averne.

Fece vagare lo sguardo sulle colline e andò anche oltre, fino a scorgere il profilo distante dell’autostrada che portava a San Francisco. Se Camille aveva detto la verità, e se davvero la Foschia era svanita, allora non sarebbe passato molto prima che i mortali si accorgessero del Campo Giove. Magari l’avrebbero scambiato per un magazzino, o cose del genere, ma lo stesso non sarebbe mai e poi mai successo con Nuova Roma.

Spostò lo sguardo verso la città, che sembrava farsi ogni giorno più grande, per accogliere sempre più semidei in “pensione”. Quella non sarebbe mai passata inosservata. I mortali si sarebbero accorti molto presto di avere una vera e propria “Mini Roma” a pochi chilometri di distanza da San Francisco, con tanto di acquedotto e Colosseo, e a quel punto come avrebbero reagito? Sarebbero arrivati in massa a curiosare, e poi, quando avrebbero visto anche il Campo Giove e scoperto che era abitato da ragazzi che amavano andarsene in giro in panoplia e armati di antiche armi romane d’oro purissimo, che diamine avrebbero fatto?

Forse era proprio di questo che in quel momento Camille e Ashley stavano discutendo. Di una cosa poteva essere certa, Ecate andava trovata al più presto, da loro, dagli dei, o dai greci, non aveva importanza, ma andava fatto. Con tutta probabilità, sarebbe dovuta essere Cam ad andare a cercarla: era sua figlia, dopotutto, l’aveva sognata per un motivo, e si era sentita malissimo all’improvviso, così dal nulla, proprio poco prima di scoprire che sua madre era stata rapita.

Se davvero sarebbe toccato a Camille andare a cercarla, Kiana l’avrebbe seguita. Non riusciva nemmeno a immaginare quello scricciolo di ragazza in un’impresa, da sola oltretutto. Le avrebbe guardato le spalle, come aveva sempre fatto e come, era certa, Camille avrebbe fatto per lei a ruoli invertiti.

Il cielo grigio coperto di nubi cominciò a scurirsi, segno che la giornata stava volgendo al termine. Era autunno, l’inverno era alle porte, il sole si tratteneva sempre meno e le notti si allungavano. A quel pensiero, le tornarono in mente le parole di Clizio. Notte Eterna. E per una sorta di qualche fortuita coincidenza, mancavano appena due mesi al famoso solstizio d’inverno, la notte più lunga di tutto l’anno.

Già, proprio una bella coincidenza. Non potevano mica essere collegate le cose, no? Che sciocca che era a pensarlo.

Trangugiò la bibita con una smorfia infastidita. Quanto tempo erano stati in pace, vent’anni? Trenta? Quaranta? Perché proprio quando lei era una legionaria dovevano ricominciare i problemi? Spostò lo sguardo tra le nubi. Si domandò come avrebbe reagito lei se la dea rapita fosse stata sua madre. Si sarebbe preoccupata tanto quanto Cam? Non ne aveva idea.

Camille ammirava Ecate, o Trivia, non ne aveva mai fatto un segreto. Kiana non era certa di poter dire lo stesso. Da quando era stata riconosciuta tutto quanto le era franato sotto ai piedi. Nessuno la prendeva più sul serio, lo facevano da davanti, perché faceva paura con la sua altezza e il suo fisico, ma lo sapeva quello che dicevano alle sue spalle. Era una figlia di Venere, una bambolina, anzi, una bambolina fit.

Glielo do in testa il “fit”, a quelli…, pensò, stringendo i pugni per la rabbia.

Un rumore alle sue spalle la fece voltare di scatto. Vide la testa mora di Marianne fare capolino dalla scaletta e rimase immobile. Era rimasta così presa dai suoi pensieri che non aveva nemmeno fatto più davvero caso ad eventuali minacce. Per fortuna tutto attorno al campo sembrava tranquillo, quindi non avrebbe potuto coglierla in flagrante.

«Devo già scendere?» domandò, stupita. Non le era sembrato di essere rimasta lì tanto a lungo.

Marianne finì di salire e andò ad affacciarsi oltre la sporgenza della torre. Non le rispose subito, prima diede anche lei una rapida occhiata ai dintorni.

«Hai notato nulla?» chiese, ignorando la sua domanda. «Mostri superstiti, movimenti sospetti, altre minacce?»

«Tutto libero.»

Mary continuò a scrutare l’orizzonte, assorta, il viso che pareva quello di una statua di ceramica, inespressivo, pallido, ma così bello da parere scolpito. Affondò le mani sul cornicione, rigida e severa come poche volte l’aveva vista. Per un lungo momento, gli unici suoni a riempire l’aria furono il fruscio del vento leggero che tirava in cima alla torre e il vociare che arrivava dalla Via Principalis. Kiana la studiò incuriosita e anche, un po’, preoccupata. Non aveva mai visto quella ragazza così impensierita. Eppure, in qualche strano e incomprensibile modo, rimaneva comunque affascinante.

O almeno, l’avrebbe pensato se non l’avesse piantata in asso.

«Allen si ritira» disse Marianne all’improvviso, rompendo quel silenzio.

Quell’affermazione così dal nulla colse Kiana alla sprovvista. «Che cosa?»

«Allen si ritira. Ormai ha fatto abbastanza anni di servizio. Inizierà il college a Nuova Roma» spiegò Marianne, stringendo le mani a pugno.

«Un momento… adesso? Dopo un attacco diretto?!» domandò Kiana, sorpresa. «Ma i mostri potrebbero tornare! Non può andarsene così!»

«È quello che ho cercato di dirgli, ma non ha voluto sentire ragioni. Credo che quello che è successo a Travis l’abbia sconvolto più di quanto non dia a vedere.» Marianne non sembrava arrabbiata per la cosa, sembrava solo tesa. E soprattutto sembrava che ci fosse anche altro che voleva dire.

Kiana la affiancò, appoggiandosi al cornicione come lei. Malgrado la battaglia appena vissuta, emanava un odore gradevole. Non che le importasse.

«E adesso che farai?» le domandò.

Mary si strinse nelle spalle. «Da sola non posso gestire una coorte. Qualcuno dovrà sostituire Allen.»

«Hai già qualche idea su chi potrebbe farlo?»

La figlia di Bellona si voltò verso di lei. «A te andrebbe?»

Kiana schiuse le labbra per lo stupore, colta alla sprovvista da quella richiesta così improvvisa. «Ma… pensavo che ci volessero un maschio e una femmina.»

«Di solito è così, per tenere le cose in parità, ma non c’è nessuna regola ad imporlo. Pensavo che… insomma…» Marianne esitò, prima di rilassare le spalle con un lungo sospiro. «Pensavo che così avremmo potuto di nuovo essere insieme.»

La confessione rimase ad aleggiare nell’aria ancora per qualche istante, mentre Kiana si riprendeva dallo stupore. Abbassò gli occhi, sentendo una stretta allo stomaco, e si mordicchiò un labbro. Aveva passato settimane, mesi, a sognare un momento come quello solo per poterle dire un secco “No”, per farla sentire proprio come si era sentita lei, eppure c’era qualcosa che la frenava. E quel qualcosa era la consapevolezza che Mary si sentisse in colpa almeno tanto quanto lei si sentiva triste ogni volta che pensava a come le cose tra loro fossero finite.

Mary era una figlia di Bellona, era nata per quello, per il comando, per essere un leader e per ispirare gli altri. Era inevitabile che prima o poi sarebbe diventata centurione, e soprattutto che tentasse di riportare a galla la Quinta Coorte. Era lo stesso motivo per cui non era mai salita di coorte, e anche per cui aveva rifiutato di unirsi prima alle Cacciatrici e poi alle Amazzoni. Magari sognava anche di essere pretore, un giorno. E non c’era niente di sbagliato in tutto quello.

Lo stesso non si poteva dire per Kiana. Non era mai stato nei suoi piani quello di diventare centurione, o addirittura pretore. Non era mai stata ambiziosa come Cam, o Mary. L’idea di trascorrere più tempo con lei però non suonava male. Allo stesso tempo, se l’avesse fatto avrebbe dovuto mollare Cam proprio come Mary aveva fatto con lei, e qualcosa la frenava anche dal fare quello.

«Non… non saprei» mormorò. «Non mi ci vedo affatto come centurione. Nessuno mi prenderebbe sul serio. La ragazza che tutti vorrebbero che dà gli ordini. Riderebbero tutti alle mie spalle.»

«Certo, riderebbero di te prima di essere presi a calci nel sedere» sbottò Mary. «Non dare retta a quegli idioti, Kiana. Sei una guerriera eccezionale. Nella battaglia sei stata grande, e sai anche come farti rispettare. Saresti un ottimo centurione.»

Kiana avvertì una fitta al petto udendo quelle parole. Si ritrovò a sorriderle senza nemmeno accorgersene, gesto che Mary ricambiò.

«Grazie» mormorò imbarazzata. Ripensò al modo in cui Marianne aveva combattuto armata prima di soltanto quel pugnale, e poi con indosso soltanto l’elmetto. La sua voce risuonava ancora nitida nella sua mente, assieme al modo in cui aveva guidato la Quinta Coorte con coraggio e determinazione. Anche lei era una guerriera eccezionale, ma dopotutto ce l’aveva nel sangue. «Anche tu sei stata grande. E… sono felice che tu stia bene.»

«Anch’io.»

Le due ragazze si scambiarono un altro sorriso e Kiana avvertì di nuovo quel bruciore al petto che già una volta l’aveva colta in castagna, come un fulmine a ciel sereno.

«So che non è una domanda semplice a cui rispondere così su due piedi» proseguì Marianne, riportando l’attenzione sul fiume. «Pensaci, ok? E fammi sapere cosa decidi.»

«Certo.»

Rimasero di nuovo in silenzio, a scrutare il paesaggio. Kiana si rese conto di avere il cuore che batteva e si domandò se per Mary fosse lo stesso.

«Ci… ci sono stati danni a Nuova Roma?» domandò.

«Alcuni mostri si sono avvicinati mentre noi eravamo distratti, ma sono stati polverizzati da Terminus.»

«Terminus sta bene?»

«È un dio. Certo che sta bene.»

«È una testa su un piedistallo» corresse Kiana. «E il suo aiutante è un moccioso sdentato. Perdonami se mi preoccupo.»

«Hai sempre avuto un debole per lui.»

«Che posso dire, mi piacciono gli uomini tutti d’un pezzo.»

Mary le diede una spintarella, ridacchiando. Kiana replicò con un sorrisetto, anche se vederla con quell’espressione rilassata le fece molto più bene di quanto avrebbe potuto immaginare.

«Comunque, ho sentito che si sono presi tutti un bello spavento, e a ragione» proseguì il centurione, riacquisendo una smorfia preoccupata. «Credo proprio che domani si terrà un’udienza al Senato per discutere la situazione.»

«Forse ci sarà un’impresa» osservò Kiana.

«Un’impresa? E perché?»

La figlia di Venere avrebbe voluto darsi una sberla. Marianne non poteva sapere dell’incubo di Cam, l’aveva raccontato solo a lei. Ormai, era troppo tardi, e intuì subito di aver lasciato trasparire più del dovuto, perché Mary assunse la sua classica espressione da Centurione Hartman. «Che cosa mi nascondi, Farhat?»

Pure il cognome. Faceva davvero sul serio. Kiana sapeva che non sarebbe riuscita a nasconderle la verità. Si voltò verso di lei, ma un istante prima che potesse spiccicare tutto, si accorse di qualcosa di assolutamente incredibile. In lontananza, vide due puntini quasi impercettibili, ma non a lei: Camille e Dante che correvano, mano nella mano, verso il Tempio di Giove Ottimo Massimo.

Uno stecchino alto un metro e novanta e una crocerossina di trenta centimetri più bassa di lui.

Un sorriso che andava da orecchio a orecchio le apparve sul volto.

«Cosa? Che hai visto?» domandò Marianne, osservando verso la stessa direzione, prima di schiudere le labbra. «Ma… ma che stanno facendo?!»

«Andiamo a scoprirlo!» Kiana andò verso la scala senza nemmeno attendere risposta.

«Ehi! Fermati, Farhat! Non puoi lasciare la postazione scoper…»

Kiana cominciò a scendere prima che Mary finisse la predica. Non le importava un accidente del turno di guardia, doveva scoprire cosa stava combinando Cam con quel pazzoide. Riuscì a sentire il sospiro esausto di Marianne e alzò la testa, accorgendosi di come anche lei stesse scendendo. «Ritiro tutto, saresti un pessimo centurione…»

«Anch’io ti voglio bene.»

Mentre accelerava il passo lungo la Via Principalis, riuscì ad udire alle sue spalle Marianne che ordinava al primo poveraccio della Quinta Coorte che passava di lì di andare sulla torre di guardia senza fare storie, o si sarebbe ritrovato a pulire le stalle per il resto della vita. Le scappò un ghigno divertito e affrettò il passo, conscia del fatto che anche Mary, per quanto si sforzasse di negarlo, era curiosa tanto quanto lei.

Dei, quanto amava la Quinta Coorte.

Le due ragazze imboccarono la strada verso la Collina dei Templi. Kiana non ci passava spesso da quelle parti, perciò si ritrovò a indugiare con lo sguardo verso il tempio dedicato a Venere, con statue di marmo raffiguranti la dea e colonne bianche ed eleganti. Non era maestoso come i templi dedicati a Giove, Marte o Bellona, ma rimaneva comunque uno dei più importanti templi nella collina, molto più di tanti altri dei. Venere, nel bene e nel male, era sempre stata una dea rilevante, sia tra i greci che tra i romani. E poi Roma era stata fondata da un figlio di Venere, un dettaglio piuttosto ingombrante a cui spesso in molti cercavano di non pensare.

Passarono anche accanto al Tempio di Bellona. Una costruzione imponente, con colonne altissime, statue d’oro afflisse agli angoli del tetto e un intaglio nel marmo sulla parete frontale che raffigurava Bellona stessa, nei panni di una donna in armatura, armata di lancia e scudo, con il volto coperto da un elmetto e un’espressione severa e autoritaria che Marianne sembrava copiare a piè pari ogni volta che doveva dare un ordine a qualcuno.

Mentre si avvicinavano al Tempio di Giove Massimo, entrambe si paralizzarono alla vista di qualcuno che stava sbirciando dentro, nascosto dietro alle colonne.

«Zombie?!» domandò Kiana, facendo sobbalzare Daniel.

Si voltò verso di loro con gli occhi iniettati di sangue e la piega del cuscino ancora sui capelli. Sembrava caduto dal letto prima di precipitarsi lì.

Anche Marianne era stupita. «García, cosa stai…»

Lui si portò l’indice sulle labbra e accennò al tempio con la testa. Da dietro le colonne, provenne la voce agitata di Camille: «Guarda che non funziona così!»

«Ah no?» Questo era Dante, che invece pareva confuso.

«No! Per uscire dal campo ci vuole un’impresa! Bisogna presentare la questione al Senato, e soltanto dopo, se il Senato accetta, potrò andarmene!»

Kiana corrucciò la fronte. Ma di che diamine stavano parlando? Si scambiò un’occhiata perplessa con Mary, che sembrava confusa tanto quanto lei. Si avvicinarono all’ingresso del tempio e affiancarono Daniel. Ci fu un attimo di silenzio in cui tutti e tre tesero le orecchie.

«Che ci fai qui?» bisbigliò Kiana a Daniel.

Lo zombie esitò. «Ero… qui per caso, e li ho visti entrare, così sono venuto a… ehm…»

«A ficcanasare» concluse Kiana, prima di sorridere divertita. «Non ti facevo interessato agli intrighi amorosi di Cam, zombie.»

«C-Cosa? N-No, io stavo solo…»

«Zitti voi due» sbottò Marianne, che tra tutti sembrava la più interessata a quello che stava accadendo nel tempio. Naturalmente avrebbe negato fino alla fine dei tempi se Kiana gliel’avesse fatto notare.

«Dicevo, non puoi andare da Ashley» stava dicendo Dante. «Te l’ho già detto prima, lei non voleva nemmeno che venissi a parlarti della profezia.»

Profezia?! 

Kiana e Marianne si scambiarono un altro sguardo. Quindi quei due non erano scappati per pomiciare di nascosto nel tempio. La figlia di Venere doveva ammetterlo, si sentiva un po’ delusa.

Si sporse con lo sguardo e vide Dante afferrare la mano di Camille. Avvertì gli occhi inumidirsi. La sua amica crocerossina assieme a un ragazzo. Le sembrava giusto ieri quando lei se ne stava lì a perdere la testa per Daniel, o per Elias.

Come crescono in fretta.

«Andiamo» borbottò Marianne all’improvviso. Kiana fece per gridarle di non farlo, di non rovinare il momento tra quei due, ma l’impicciona ormai era già partita.

«Che sta succedendo qui?» domandò, ad alta voce.

Entrambi gridarono di terrore, lasciandosi le mani. Camille era così rossa da sembrare un gamberetto bollito. Non appena si accorse del sorriso sornione di Kiana, sembrò voler sprofondare sotto terra.

Dante agitò le mani all’impazzata. «N-Niente! Non sta succedendo niente!»

Era chiaro che non conoscesse Mary: dirle “niente” equivaleva a dirle “stiamo tramando qualcosa di losco, per favore ficca ancora di più il naso, grazie!”

«Vi abbiamo visto correre qui…»

«Mano nella mano» si intromise Kiana, beccandosi un’occhiataccia sia da Mary che da Cam.

«… e vi abbiamo sentito parlare di profezie, e imprese» concluse il centurione. «D’Amico, esigo sapere di cosa stavate parlando.»

Dante sembrava volersi mangiare una mano per la tensione. Era impallidito di colpo e scrutava i nuovi arrivati come se fossero stati appena eruttati dal Tartaro. La cosa più divertente di quella faccenda era che, in quanto augure, avrebbe potuto ordinare a tutti loro di smammare, Mary inclusa, ma sembrava terrorizzato, da lei soprattutto.

«Dante…» cominciò Camille. Gli posò una mano sulla spalla, facendo sogghignare di nuovo Kiana. Lei se ne accorse e fece di tutto per ignorarla. «Sono miei amici. Possiamo fidarci di loro. Non parleranno con nessuno di questa faccenda. Vero?» Lanciò un’occhiata eloquente a Kiana, come se in realtà si stesse riferendo solo a lei.

La figlia di Venere si portò una mano sul cuore. «Non mi permetterei mai.»

«Facciamo così» si intromise Marianne, incrociando le braccia. «O mi dite tutto, subito, oppure vado a riferire quello che ho sentito ad Ashley e chiedo a lei se può illuminarmi.»

Dante scattò come una molla. «NO! Va bene, va bene, vi dico tutto, ma niente Ashley!»

Nemmeno a Kiana piaceva Ashley, però quella reazione le sembrò un po’ eccessiva.

Nei minuti successivi, rimasero in silenzio ad ascoltare il resoconto di Dante e il sogno di Camille. Kiana di questo era già a conoscenza, quindi non se ne curò molto, anche se comunque l’immagine di Ecate, di qualsiasi dea in realtà, in catene, continuava a turbarla.

A racconto concluso, Marianne si affondò le dita nelle braccia. «Quindi è così che sono entrati nel campo» mormorò, per poi tendere una mano verso Dante. «Posso leggere la profezia?»

«Ehm… in realtà solo l’augure dovrebbe…»

«Ora, D’Amico!»

«S-Sì! Non c’è bisogno di urlare!»

Dante le passò il foglietto senza dire altro e la figlia di Bellona lo esaminò con attenzione, nel silenzio che era calato nel tempio. Kiana sbirciò da sopra la sua spalla e schiuse le labbra. Il velo invisibile, la dea imprigionata… la “minaccia più temibile”… niente di tutto quello prometteva bene.

«Perché non vuoi che Ashley sappia di tutto questo?» domandò Marianne, sollevando un sopracciglio.

«N-No, Ashley sa già tutto» rispose Dante. «Però non… non vuole che io parli della profezia con qualcun altro.»

«Perché?»

«I-Io non… non posso dirlo…»

Kiana si accorse della sua espressione tesa. Stava scrutando tutti loro come se stessero cercando di disinnescare, bendati, una bomba di fronte a lui.

Daniel fece un passo avanti, cogliendola alla sprovvista: si era perfino dimenticata che c’era anche lui.

«Perché Ashley non vuole che noialtri sappiamo le cose?» domandò diffidente. «Per caso c’entra con quello che ti ha fatto Elias questa mattina?»

L’aria nervosa di Dante si tramutò in una di terrore puro. Fece un passo indietro, scrutando Daniel come si fosse appena trasformato lui nella bomba. «T-Tu ci hai visti?!»

«Sì.»

Il ragazzo spostò i suoi occhi incavati verso le altre ragazze e raccontò che cosa aveva visto quella mattina. Un silenzio tombale scese nel tempio quando finì di parlare. Un silenzio reso ancora più pesante dal fatto che Dante non si era intromesso nemmeno una volta, mentre Daniel parlava di come Elias lo avesse picchiato.

«Ma… perché l’ha fatto?» sussurrò Camille, così sconvolta da sembrare lei quella che era stata torchiata. Osservò Dante, con le labbra che tremavano. «L’ha… l’ha fatto anche altre volte?»

L’augure teneva la testa bassa e i pugni contratti. Non disse nulla, annuì e basta.

«Qua… quante?»

«Non… non lo so. Non le ho contate…»

Quindi parecchie…, pensò Kiana, con un nodo allo stomaco. Quel tizio non le era simpatico, anzi, era proprio strambo, però sentire quella storia le aveva fatto accapponare la pelle.

Camille lo abbracciò, strappandogli un verso sorpreso. Gli affondò la faccia nel petto e gli avvolse le braccia attorno alla schiena, in una scena tanto carina quanto assurda.

«Deve averti terrorizzato…» gli disse, con voce rotta, la crocerossina che usciva allo scoperto con prepotenza.

«O-Oh… beh…» Tutto ad un tratto Dante non sembrava più molto spaventato. Ricambiò l’abbraccio di Camille, impacciato, poi tentò di sollevare le spalle. «Non… non mi ha fatto così paura, in realtà…»

Kiana scambiò uno sguardo con Daniel e Marianne. Avrebbe voluto fare un mucchio di domande, ed era chiaro che anche Mary ne avesse parecchie.

«Li hai visti questa mattina, quando ti ho mandato qui?» chiese Mary a Daniel, che denegò con la testa. «Dopo, in realtà. Mentre stavo tornando indietro mi sono imbattuto in Elias. Ho visto che stava venendo qui, e allora l’ho seguito perché… ehm…»

«Per evitare i lavori mattutini» tagliò corto Kiana. «Sì, sì, l’abbiamo fatto tutti almeno una volta.»

«Fingerò di non aver sentito» mugugnò Marianne, prima di appoggiare il mento al petto e incrociare le braccia. «Ecco perché Dante ed Elias non c’erano, nel momento dell’attacco.»

Kiana controllò di nuovo Dante, temendo che potesse andare in frantumi da un momento all’altro. «Quanto tempo è rimasto qui a tartassarlo…?» domandò più a sé stessa che agli altri due.

«Quante volte l’ha fatto, mi viene da chiedermi» borbottò Daniel.

«Perché non ce l’hai detto prima, García?»

La domanda di Marianne fece voltare Kiana verso lo zombie, che divenne perfino più buio del solito. «Oh, certo, di sicuro mi avreste creduto tutti! Nemmeno io ci stavo credendo, e l’ho visto coi miei stessi occhi!»

Mary assottigliò di nuovo le labbra, ma non disse altro, e la figlia di Venere capì che era appena stata punta sul vivo. «Ma che cavolo è successo a questo posto?» bisbigliò invece, con voce affranta.

Sembrava davvero amareggiata, e Kiana non poteva biasimarla. «Dovremmo… denunciare Elias?» domandò, dopo un altro attimo di silenzio.

Marianne scosse la testa. «No. Nessuno ci crederebbe. Penserebbero che stiamo cercando di screditarlo e gli dei solo sanno cosa ci farebbero dopo. Cosa lui farebbe a Dante soprattutto» aggiunse, accennando con la testa all’augure, che sembrava essersi abituato all’idea di avere quello scricciolo di ragazza incollato al petto.

«E in ogni caso, siamo nel bel mezzo di qualcosa di mai visto prima» proseguì la figlia di Bellona. «Siamo senza Foschia, senza confini nel campo. Non possiamo metterci a far girare voci su Elias in questo momento, soprattutto se c’è anche una talpa. Dobbiamo restare uniti.»

Era ovvio che avrebbe pensato al problema più grande. Anche in momenti come quello, la sua razionalità era sempre quella a prevalere. Kiana avrebbe voluto che Elias venisse punito per quello che aveva fatto, ma Mary aveva ragione, denunciarlo avrebbe fatto solo scoppiare un putiferio di cui non avevano bisogno.

Dante e Camille si avvicinarono. L’augure pareva ancora un po’ pesto, ma anche più tranquillo dopo essere stato coccolato per bene. Camille gli posò una mano sul braccio, riuscendo a strappargli un altro sorriso.

«Immagino di dovervi un po’ di spiegazioni…» Il figlio di Apollo mostrò a tutti il plico di fogli che aveva tra le mani. «Ve… vedete, Elias e Ashley… mi hanno dato il compito di decifrare queste profezie. Solo che è un lavoro praticamente impossibile, visto che sono tutte scritte a casaccio. Quello che hai visto sta mattina…» Lanciò uno sguardo eloquente a Daniel. «… era Elias che… che voleva sapere se avevo fatto progressi.»

Kiana fece una smorfia. Bel modo di sapere le cose…

«Da dove escono fuori quelle?» Marianne indicò i fogli. «Non sapevo esistessero.»

«I-Io…» Le labbra di Dante tremolarono. «… sono… sono profezie che ho recitato io.»

Consegnò i foglietti a Camille, poi si scoprì il braccio: mostrò loro il tatuaggio della Legione, un simbolo della lira di apollo seguito da undici tacche. Era il numero più grande di anni di servizio al campo che Kiana avesse mai visto. Dieci era il limite, di norma. Era rarissimo che qualcuno si fermasse per più tempo.

Kiana era arrivata al campo quasi quattro anni prima, quando aveva compiuto da poco tredici anni, Camille invece era lì da sei, da quando ne aveva dieci. Daniel da nemmeno uno, ma pareva un legionario fatto e finito, tolto il suo caratteraccio. Per finire Mary era lì da otto, anche lei da quando aveva dieci anni.

«Solo… solo tre persone hanno così tanti anni di servizio» spiegò Dante, come leggendole nel pensiero. «Io, Ashley ed Elias. Ci… ci conosciamo da tanto tempo. Eravamo tutti nella Prima Coorte, tutti ancora in attesa di essere riconosciuti. Eravamo… amici. Sette anni fa… partecipai assieme a loro a quell’impresa.»

«Aspetta, c’eri anche tu?!» domandò Kiana, incredula. «Ma loro non l’hanno mai detto!»

«Beh… ero andato con loro soltanto perché bisognava essere in tre e nessun’altro voleva accompagnare due non riconosciuti. Non ho fatto molto, anzi… però… però, dopo che Ashley ha ucciso quel mostro, ho recitato una profezia. La prima profezia che io abbia mai recitato. Ashley ed Elias l’hanno sentita, ma io… io non me la ricordo. Non… non ricordo nulla.»

Tese la mano a Camille, per farsi restituire i fogli. Tutti quanti erano pietrificati, Cam per prima. Dante si riprese i fogli da solo con delicatezza.

«Così quel giorno ho scoperto di essere un figlio di Apollo con il dono della profezia. Perciò quando Ashley è diventato pretore mi ha reso il suo nuovo augure. Vuole… vuole che trovi profezie per lei.»

Dante sollevò il plico di fogli. «Ashley è convinta che una di queste profezie riguardi lei, per questo mi ha messo qui, per questo lei ed Elias continuano a chiedermi se ho fatto progressi, ma io… io non ho niente. Niente di niente. Tutte queste profezie sono incompiute. Tuttavia…» Sorrise di nuovo a Camille. «… quando tu sei entrata nella Principia… e hai parlato del tuo sogno… è stato come se avessi aperto gli occhi dopo tanto tempo.»

La prese di nuovo per mano, facendola squittire imbarazzata.

«Per la prima volta da quando sono augure, sento di essere sicuro di qualcosa» le disse, con la stessa veemenza di qualcuno che dichiarava il proprio amore alla persona dei suoi sogni. «Tu sei l’eroina di questa profezia, Camille. Tu devi andare a cercare Ecate, non Ashley. Sei tu che devi salvarci.»

Camille era tanto rossa quanto senza parole. Dante la lasciò andare e si rivolse agli altri tre. «Se Ashley scoprisse che ne ho parlato con voi… non… non lo so cosa mi farebbe. Dopo quello che è successo quest’estate, con quella faccenda di San Francisco, mi tiene d’occhio per sapere di ogni mio minimo progresso. Non vuole più permettere che qualcun altro le rubi la gloria. Non permetterà a nessuno di partire per salvare Ecate. E… temo… nessuno della Quinta Coorte in particolare.»

«Ma se non ricordo male, era lei quella che non voleva andare a San Francisco e immischiarsi con i greci!» sbottò Kiana, stringendo i pugni. «Non è mica colpa della Quinta Coorte se è stata un’idiota!»

Dante si irrigidì. «N-Non dirglielo in faccia, per favore.»

«Ma… ma per partire ci vuole un’impresa» obiettò Camille. «Dobbiamo dirlo ad Ashley. È l’unico modo. Tu sei l’augure, Dante, hai un peso non indifferente! Sono sicura che se le spieghi tutta la situazione come hai fatto a noi lei capirà! E Marianne, tu sei un centurione, dovrà pur ascoltare anche te! Se unite le forze sono sicura che…»

«Se c’è una persona che Ashley non ascolterà mai, quella sono io» la interruppe Marianne con uno strano tono di voce. Non aveva più detto una parola durante tutto il racconto di Dante e aveva un’espressione funebre addosso. Sembrava che la storia di Dante fosse stata un necrologio, per lei.

Kiana sapeva di cosa Mary stesse parlando. Lei era una figlia di Bellona, Ashley di Giove, i due dei principali del pantheon romano. Se una di loro fosse stata un ragazzo, allora entrambe avrebbero potuto essere pretori, sempre per quel discorso di equilibrio, e quindi non ci sarebbero stati problemi tra loro. Invece erano entrambe ragazze e l’altro ruolo di pretore era toccato a Elias. Era inevitabile quindi che nascesse una sorta di rivalità intrinseca tra loro due. Bastava pensare a come Ashley avesse reagito durante l’attacco a ogni frase pronunciata da Marianne.

Ashley si sentiva minacciata da Mary e faceva bene, dopotutto la loro disciplina non era nemmeno paragonabile. Ashley faceva spalancare la bocca di tutti e dire “Wow” quando sparava i suoi fulmini, ma finiva tutto lì; Mary era un leader nato e l’aveva dimostrato ampiamente durante l’attacco. Se la Quinta Coorte non aveva subito perdite, era solo merito suo e della sua leadership infallibile.

A peggiorare le cose poi c’era anche il fatto che Mary fosse rimasta nella Quinta Coorte, quella che tanto tempo prima aveva fatto passare in cattiva luce tutte le altre, inclusa la prima. Soprattutto la prima. Per Ashley non era un problema rifarsi su Marianne e la sua coorte a ogni occasione valida. Bastava pensare a come facesse finta di niente ogni volta che la quinta veniva presa di mira dalle altre, o la mole di lavori in più che toccavano sempre a loro mentre la prima era a rilassarsi nelle terme.  

Gran bel capo.

Era davvero triste ammetterlo, ma le cose stavano così: Ashley non avrebbe mai e poi mai dato retta a nessun membro della Quinta Coorte, Marianne in primis.

«Ma… Dante, almeno tu…»

«L’augure non conta più nulla, Camille. È solo un… ruolo fantoccio. Un’appendice dei pretori e del Senato. Una volta l’augure era anche centurione, io invece sono a malapena un legionario. Non… non valgo niente.»

Camille era mortificata. Sembrò volerlo abbracciare di nuovo, ma si trattenne. «E… e allora che cosa facciamo? Mia… mia madre non ha molto tempo.»

Marianne incrociò le braccia «E nemmeno il campo ne ha. Senza confini siamo alla mercé di tutti.» Un lungo sospiro le scappò dalle labbra. «Forse un altro modo c’è. Ma non mi piace per niente. Dovremo… infrangere la regola principale del campo.»

Kiana corrugò la fronte. «Vuoi dire…»

Incrociò lo sguardo di Marianne, che annuì. «Sì. Dovrete uscire dal campo di nascosto.»

«Che cosa?» domandò Camille, impallidendo.

«“Dovrete”?» fece eco Daniel.

Kiana non disse nulla. Un piccolo sorriso nacque sul suo volto mentre osservava gli ingranaggi mettersi in moto nel cervello di Mary-Mary.

«Ecate ha scelto Gray per questa missione, ma Ashley non le permetterà di partire. L’unica cosa che si può fare, è farla uscire di nascosto, ma non può andare da sola, non se ad aspettarla c’è anche Clizio. Le servirà aiuto e voi due siete i suoi migliori amici. Tre è il numero perfetto per un’impresa. Anche se questa non sarà ufficiale, visto che non ci sarà alcun processo al Senato.»

«N-No, un momento…»

«Io ci sto» affermò subito Kiana.

Camille e Daniel stavano facendo a gara a chi fosse più bianco.

«Ah, va bene. Ci sto anch’io» mugugnò lui con l’aria di uno che si sarebbe pentito presto della sua scelta. «Che c’è? Perché mi guardate così? È così strano che anch’io voglia salvare questo posto?»

Kiana si morse la lingua per non dire quello che pensava realmente. Mary alzò le mani e si riguardò dall’aggiungere altro.

«Ma se partissimo di nascosto, Ashley capirà che Dante ha parlato» protestò ancora Camille.

«Non è detto. Potrebbe pensare che tu e i tuoi amici avete agito per conto vostro.»

«Ma…»

«Camille» si intromise Dante, posandole una mano sulla spalla. Le sorrise dall’alto. «Non mi interessa di finire nei guai, se è per una buona causa. Io non voglio che ne parliate con Ashley perché poi, oltre a punirmi, vi impedirebbe di partire e nemmeno io che… ehm… vedo nel futuro, ho idea di che cosa succederebbe a quel punto. Ma se partite per andare a salvare Ecate senza dire niente, Ashley non potrà impedirvelo. Quello che conta è che tu ti metta in marcia al più presto.»

«Dante…» Camille si strinse nelle spalle, angosciata. «Sei… sei davvero sicuro che debba partire?»

«Non potrei esserne più certo. Ashley non può trovare Ecate da sola e non accetterà l’aiuto di nessuno al di fuori della sua cerchia più stretta. Tu sei l’unica che può farlo. Ti prego Camille, fallo per il campo. Non avremo un’altra possibilità.»

Cam si mordicchiò il labbro inferiore, gli occhi viola puntati su quelli dell’augure. Kiana non aveva mai sentito così tanta tensione provenire da due individui. Era quasi contagiosa. Si ritrovò perfino a sperare che Camille dicesse di sì, anche se non era proprio quel “sì”.

«Va bene» convenne infine. «Per il campo. E quando torneremo… denunceremo Elias. E… e diremo anche ad Ashley che come ti ha trattato è sbagliato. Non è giusto quello che ti hanno fatto.»

Ora fu Dante quello a impallidire.

«Fidati di me» disse Camille, stringendogli di nuovo la mano. Gli sorrise e lui ricambiò timidamente.

«V-Va bene. Mi fido.»

Kiana rimpianse di non avere dei popcorn.

Oh miei dei, baciatevi e basta! 

«Però… come faremo a uscire senza farci vedere?» interrogò ancora Camille, facendo vagare lo sguardo su di loro.

Un sorriso scaltro apparve sul viso di Marianne. «Lasciate fare a me. Tempo questa notte e sarete fuori di qui.»

«Mary…» commentò Kiana, imitando la sua espressione. «… non ti facevo così… irresponsabile.»

Marianne ridacchiò e le strizzò l’occhio.

«Davvero? Eppure mi conosci. C-Cioè…» si schiarì la voce, rendendosi conto forse di aver detto troppo. E soprattutto di essere sembrata una ragazza normale e non una vecchia ciabatta rompiscatole per troppo tempo. «… insomma, Farhat, ti sembra questo il modo di rivolgerti a me?»

Kiana alzò gli occhi al cielo. «Ti prego…»

Daniel incrociò le braccia; come sempre, pareva annoiato, o infastidito, o entrambe le cose. «Ma da dove cominciamo? Ecate potrebbe essere ovunque e non abbiamo molto tempo.»

Tutti osservarono Camille, che deglutì.

«Gray.» Marianne si avvicinò a lei. «Davvero riesci a sentire la presenza di Ecate?»

«È… è molto debole» mormorò Cam. «Ma sì… la sento.»

«Sai dov’è?»

«Non conosco il punto preciso, mi dispiace. Però… forse se mi avvicinerò diventerà più preciso.»

«“Forse”» ripeté Marianne, prima di sospirare. «Va bene. Dovremo farcelo bastare. Non abbiamo molte alternative.»

Camille sembrava mortificata. Kiana le posò una mano sulla spalla per rincuorarla e le sorrise. «Tranquilla Cam. La troveremo.»

La sua amica era perfino più bianca del solito. Forse l’idea di partire di nascosto la stava mandando al manicomio. Comprensibile, quella piccoletta era sempre stata un soldatino modello. Era ora che entrasse anche lei a far parte del lato oscuro.

«Allora è deciso.» Dante li scrutò tutti uno per uno, gli occhi che luccicavano e un sorriso stampato in faccia. «Voi sarete i nostri eroi.»

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Capitolo 9
*** Alla ricerca di Ecate ***


IX

Alla ricerca di Ecate 



Avevano stabilito di non raccontare a nessuno quello che avevano in mente, ma Kiana non aveva potuto escludere David. Doveva dirgli che sarebbe sparita per un po’, anche se non spiegò il perché. Avrebbe voluto, però: con quello che era successo al suo migliore amico, David meritava di essere reso partecipe.

Tuttavia, proprio perché era suo fratello ed erano legati, doveva escluderlo da quella storia il più possibile. Ashley avrebbe potuto interrogarlo e se lui avesse giurato sullo Stige di non sapere niente, lei non avrebbe potuto fargli nulla.

Almeno, se lo augurava.

In realtà, doveva ammetterlo, era più preoccupata per Marianne. Lei era coinvolta tanto quanto loro in quella storia, li avrebbe aiutati a scappare dal campo di persona e poi sarebbe rimasta indietro, a beccarsi chissà quali conseguenze per proteggere loro le spalle.

Era tosta, se c’era qualcuno che avrebbe potuto reggere una situazione come quella era proprio lei, ma Kiana si sentiva comunque in pensiero. Stavano per infrangere una delle regole maggiori del campo, se non la più grande in assoluto.

Era anche vero che se non avessero fatto così, non sarebbero mai potuti andare a cercare Ecate. Avrebbero dovuto rimanersene fermi mentre Ashley tentava di risolvere una situazione che non poteva risolvere, perché la profezia non riguardava lei, con chissà quali conseguenze catastrofiche.

Lei e Camille stavano nella stessa stanza del dormitorio, assieme ad altre tre ragazze di cui conosceva giusto il nome e il cognome. Al termine di quella giornata d’inferno erano crollate tutte dal sonno, quindi non fecero caso alle altre due quando sgattaiolarono fuori.

Cam era ancora piuttosto tesa all’idea di cosa stavano per fare, ma ormai era tardi per ripensamenti; chissà, magari la vita da ribelle le sarebbe piaciuta. Non era la prima volta che Kiana sgattaiolava di nascosto dalla stanza, invece. L’aveva fatto spesso in passato. Proprio per andare da Mary. A quel pensiero, Kiana sentì le guance bruciare.

«Pensi che Daniel riuscirà ad uscire senza farsi notare?» bisbigliò Camille.

«Pensiamo noi ad uscire senza farci notare, per adesso» rispose Kiana, facendole strada lungo il corridoio. Avrebbe potuto camminare ad occhi chiusi, tanto bene conosceva quel percorso. Per fortuna non lo fece, o non si sarebbe mai accorta dell’ombra che si mosse di fronte a loro all’improvviso, facendole gelare il sangue nelle vene.

Prese Cam e la trascinò dietro la parete più vicina, tappandole perfino la bocca. Quella emise un verso sorpreso, ma per fortuna sembrò capire cosa stava succedendo, perché non tentò di liberarsi né di parlare. Kiana la tenne stretta a sé e si impose perfino di non respirare, mentre dal fondo del corridoio udiva quel rumore di passi che si avvicinavano. Erano pesanti e lenti, come di qualcuno che stava sostenendo un grande peso. Piuttosto azzeccato come paragone, visto che si trattava di Elias. Kiana era riuscita a malapena a scorgere la sua imponente figura prima di trascinare Cam al riparo. Non doveva averle viste, altrimenti i suoi passi non sarebbero stati così tranquilli. Però stava proprio marciando verso la loro direzione. La figlia di Venere trattenne un’imprecazione. Che cavolo ci faceva quel manesco lì? Voleva picchiare qualche altro poveraccio?

I passi erano sempre più vicini. Kiana avrebbe voluto urlare per la frustrazione; stavano per fallire ancora prima di cominciare. Un sussurro le fece accapponare la pelle: «Qui non c’è niente.»

Camille era rannicchiata contro di lei, le palpebre serrate, e continuava a farfugliare quella frase a voce bassa, ma neanche troppo. Nel silenzio tombale di quel corridoio, anche Elias, ancora distante, avrebbe potuto udirla: «Qui non c’è niente. Qui non c’è niente. Qui non c’è niente...»

Non sembrava nemmeno una frase. Dal modo in cui la pronunciava, e da come sembrava concentrata, pareva di più una litania, o una formula. Stava anche parlando in latino, si rese conto Kiana. La sua mente portata per capire quella lingua non le aveva nemmeno fatto cogliere la differenza.

I passi di Elias si fermarono all’improvviso. Kiana trattenne il fiato: erano appena dietro l’angolo. Un metro ancora, e il pretore le avrebbe viste.

«Non venire qui!» ordinò Camille, gridando a voce bassa. «Qui non c’è niente

Kiana fu travolta all’improvviso da una forte sensazione di vertigini. Se non fosse stata appoggiata al muro, sarebbe sicuramente caduta. Le parole di Cam si insinuarono nelle sue orecchie, come i bisbigli di uno spirito dalla voce calda e sensuale, che le fecero formicolare l’intera spina dorsale. Lo stomacò le si attorcigliò e iniziò a fare fatica a tenere gli occhi aperti.

Lì… non c’era niente. Ma se non c’era niente… lei come faceva a esserci?

Era… davvero lì?

Le scappò un mugugno appesantito. Perché… perché era lì? Che stava facendo? Forse… forse doveva tornare indietro.

Camille le strinse il piumino con forza, tanto da afferrarle anche la pelle e farla riprendere da quella trance. Si guardò attorno, spaesata, realizzando di trovarsi ancora nel corridoio. Nello stesso istante, il rumore dei passi riprese all’improvviso. Kiana divenne più rigida di un morto e si appiattì contro la parete, assieme a Cam. Elias però non apparve dietro l’angolo. Nel giro di pochi attimi, la ragazza realizzò che il rumore dei suoi stivali sul pavimento si stava affievolendo sempre di più.

Quel bestione se ne stava andando.

Ci volle ancora un po’ di tempo prima che si riprendesse dallo stupore e si accorgesse anche delle mani ancora contratte a pugno di Camille, che tiravano con forza la sua giacca a vento.

«Cam.» Le toccò una spalla e quella sussultò di colpo, grazie agli dei trattenendo all’ultimo istante un grido. La scrutò come se fosse stata uno spettro. Poi, come un fulmine a ciel sereno, la abbracciò con un gemito spaventato, affondando la testa contro il suo petto senza troppi complimenti.

«C-Cam!» sibilò Kiana, con il volto in fiamme. «Che ti prende?!»

Camille tremava come una foglia, la fronte imperlata di sudore. Sembrava davvero che avesse visto un mostro orribile. La sua voce premuta contro la sua giacca uscì come un mugugno sommesso: «Credevo… credevo di non farcela.»  

«Sta… sta tranquilla.» Kiana ricambiò l’abbraccio, dandole qualche colpetto sulla schiena. Non aveva idea da cosa la stesse rassicurando, ma non aveva importanza. In quel momento sembrava la cosa più giusta da fare. «Va… va tutto bene adesso.»

Camille non sembrava avere affatto intenzione di staccarsi da lei. Sempre più imbarazzata, Kiana aggiunse: «Dobbiamo andare, Cam. Elias potrebbe tornare.»

La sua amica si riscosse. Annuì, poi la lasciò andare. Si asciugò le lacrime e avanzò per il corridoio per prima, senza dire altro. Kiana la seguì, questa volta sentendosi lei quella ad aver visto un fantasma. Tutta quella situazione le ricordò quello che era successo giusto quella mattina, nelle terme, con Kyle. Cam l’aveva fatto di nuovo, aveva… “ipnotizzato” Elias.

E non solo. La voce di Camille era stata così ferma e decisa che anche lei per un attimo aveva sentito il desiderio di ascoltarla e di credere ad ogni parola pronunciata. Avrebbe voluto chiedere a Camille che diamine avesse fatto, ma sapeva che non avrebbe mai avuto risposte, o almeno non in quel momento.

Se non altro non avevano fallito prima di cominciare. Anche se avrebbe preferito un inizio un po’ migliore di quello.

 

***

 

Una nuvoletta di fiato condensato uscì dalle labbra di Kiana, che erano screpolate per il freddo. «Ci sta mettendo troppo.»

La Via Principalis era deserta, i fauni dormivano e i lari pensavano che Camille fosse la loro sovrana, quindi non avrebbero detto nulla se l’avessero vista in giro. Avevano comunque scelto di incontrarsi con Daniel tra i vicoletti dei dormitori, in modo da non rischiare di essere visti in alcun modo. Peccato solo che dello zombie non ci fosse nemmeno l’ombra, ed era quasi mezzanotte.

Se non fosse arrivato per l’ora stabilita, allora sarebbero dovute andare da Mary e attenderlo là ancora per mezz’ora. E se nemmeno a quel punto si sarebbe fatto vedere, significava che si era fatto beccare – o che era rimasto addormentato – e a quel punto tutto quanto sarebbe saltato e sarebbero dovute tornare indietro, pregare che nessuno si fosse già accorto della loro assenza, e fare finta di nulla finché non avrebbero studiato la mossa successiva.

Perlomeno, ora Camille non sembrava più spaventata come nel corridoio, ma solo angosciata dall’assenza del loro complice. Come al solito, le bastava pensare in qualsiasi modo a Daniel e la sua mente non badava più a nient’altro, nemmeno al fatto che fino a un secondo prima stava per scoppiare a piangere, o che aveva mandato in trance Kiana ed Elias.

Doveva ammetterlo, quando nel corridoio aveva avvertito quella sensazione così assurda e inquietante, la figlia di Venere aveva avuto paura. Aveva perso il controllo del proprio corpo, della propria volontà, ed era stata convinta, al cento percento, che davvero non si trovava più in quel luogo. Per quei pochi istanti la sua mente si era piegata al volere di Camille, senza alcuna via di scampo. Lanciò un’occhiata fugace alla sua compagna, che non sembrò accorgersene, e deglutì.

Che cosa poteva fare quello scricciolo di ragazza, veramente?

Rimase a studiarla per qualche istante. Aveva la daga appesa alla cintura, sopra quei vestiti assurdi costituiti da gonna che arrivava alle ginocchia, calze di lana lunghe, anfibi e un maglione sotto allo spesso bomber sbottonato. Pure in una missione per salvare la madre doveva essere fricchettona.

Almeno lei era riuscita a portarsi dietro la sua arma, Kiana invece era stata costretta a separarsi dalla lancia, troppo lunga e ingombrante da trasportare, specie se non poteva nemmeno trasformarla in un oggetto come un fermaglio o cose del genere. Si era quindi portata dietro un gladio e due pugnali, tenendoli nascosti nello zaino. Non le piaceva combattere con quelle armi, ma non aveva avuto molta altra scelta.

Un cigolio fece drizzare la testa ad entrambe. Una finestra proprio sopra di loro si aprì in quel momento e Kiana afferrò Cam per farla appiattire contro la parete assieme a lei. Cominciava a credere che fosse destino che venissero beccate da qualcuno, poi, però, realizzò chi avesse aperto la finestra.

Daniel sbucò fuori come un’ombra. Salì in piedi sul davanzale e si voltò, richiudendosi dietro la finestra con una calma e una naturalezza che lasciarono Kiana a bocca aperta. Dopodiché, lo zombie che però non sembrava affatto tale cominciò a muoversi lungo la parete, aggrappandosi ad appigli invisibili, mattoni sporgenti, davanzali, persiane. Più che uno zombie, sembrava un gatto. Un gatto nero, per rimanere in tema. Il gatto zombie raggiunse la grondaia sul lato del palazzo e la usò come palo dei pompieri per calarsi giù.

Atterrò proprio accanto a loro e si batté le mani sulla giacca a vento per pulirsele. Non batté ciglio quando si rese conto che le sue compagne di viaggio erano proprio lì, entrambe atterrite. Anzi, fece qualcosa che Kiana mai gli aveva visto fare in vita sua: sorrise.

«Ehi.» Si indicò lo zainetto che aveva alle spalle con il pollice, e poi fece un’altra cosa inaudita: si scusò. «Scusate, ho perso tempo per prepararmi lo zaino. Allora, andiamo?» La sua voce era incredibilmente gioviale, malgrado il tono basso. Non attese nemmeno risposta: sgusciò tra i vicoletti e cominciò a muoversi con passo rapido e felpato, rendendo azzeccato il paragone con il gatto di poco prima.

Kiana si scambiò uno sguardo con Camille, che sembrava sconvolta tanto quanto lei.

Raggiunsero Marianne all’ingresso della galleria che portava al Tunnel Caldecott, il passaggio più rapido tra il Campo Giove e il mondo esterno. Arrivare lì fu semplice, visto che era un punto controllato dalla torre che Marianne si era gentilmente “offerta volontaria” di occupare per quella notte.

«Alla buon’ora» mugugnò Mary con il suo solito tono severo, e Kiana capì che era di buon umore. «Sbrighiamoci.»

Li condusse nella galleria semibuia e dall’aria viziata.

«Un momento, ma chi c’è di guardia all’ingresso del tunnel?» domandò Camille.

Marianne non rallentò. «I Vega.»

Dopo quella risposta, nessuno ebbe nulla da aggiungere. Malgrado l’ora tarda l’autostrada era affollata come al solito, in un viavai interminabile da, e verso, San Francisco.

Thia e Minho erano all’ingresso della galleria, ma non erano in strada. Erano rimasti dentro il corridoio e si affacciavano fuori con l’aria di due reduci da una rapina in banca. Aria accentuata dai due borsoni che tenevano a tracolla.  

«Esa gente nos ve! Qué está sucediendo??» domandò Thia, con un soffio di voce. A Kiana sarebbe piaciuto molto capire che diamine avesse detto.

«La bruma se ha disipado» rispose Marianne, senza nemmeno guardarla.

«QUÉ?!»

Kiana osservò Mary a labbra schiuse. «E da quando parli spagnolo?»

Lei le strizzò l’occhio, senza rispondere. «Avete tutto quello che vi serve?» chiese invece.

«Vestiti, nettare, ambrosia, cibo e acqua.» Kiana sollevò le spalle. «E armi, ovviamente. Direi che non serve altro.»

«E per dormire?»

«Ehm…»

«Cosa faresti senza di me?»

Marianne fece un cenno ai Vega, che si avvicinarono con i borsoni. Li consegnarono ai tre ragazzi e dentro trovarono sacchi a pelo e anche una tenda montabile.

«Wow…» mormorò Kiana, genuinamente senza parole. «Ti sei data da fare.»

«Non sarà un viaggio semplice, avrete bisogno di tutto il necessario.»

Kiana si mise il borsone a tracolla, assieme allo zainetto. Mentre Daniel e Camille confabulavano con i Vega, osservò Mary dritta negli occhi, sincera come mai era stata. «Grazie.»

«E di che?» Marianne le sorrise, facendole sussultare il petto. «Era il minimo che potessi fare per aiutarvi. Dovete trovare Ecate, e salvare questo posto.»

«Perché non vieni anche tu?» Kiana non stava scherzando. «Ci saresti di grande aiuto.»

«Non posso lasciare la Quinta Coorte. Soprattutto ora che Allen non c’è più. Inoltre, quando Ashley scoprirà che tre della quinta sono spariti…» Marianne serrò le palpebre, e un velo di tensione le coprì il volto. «… sicuramente pretenderà risposte. Dovrò farmi carico di tutto, in modo da proteggere gli altri.»

Kiana schiuse le labbra. Quella pazzoide aveva appena ammesso che si sarebbe presa il proiettile al posto loro. «Mary…»

«Cos’è quella faccia, Farhat? Pensi che il centurione esista solo per dare ordini?» Marianne si avvicinò. Profumava di vaniglia. «Devo proteggervi. Come centurione, come figlia di Bellona e anche come legionaria. È il mio dovere. Voi, però, dovrete fare il resto. Posso contare su di voi?»

La figlia di Venere stritolò la tracolla del borsone. «Certo.»

«Bene.» Mary l’abbracciò a tradimento. «Bonam fortunam

La mente di Kiana registrò a malapena quelle parole, troppo presa dal profumo inebriante di Mary. Il suo petto si trasformò in un tamburo da guerra. L'abbraccio fu veloce, troppo veloce pensò Kiana, così veloce che non riuscì nemmeno a ricambiarlo. Avrebbe voluto dire qualcosa. Avrebbe voluto dire così tante cose che non sapeva nemmeno da dove iniziare. E quindi scelse la più infelice di tutte: «Abbiamo… incrociato Elias, prima.»

L’espressione rilassata del centurione si dissipò in una nuvola di vapore. «Che cosa? Vi ha viste?»

«No. Cam…» Kiana esitò. Non era sicura di come spiegarlo. Non era nemmeno certa che fosse la cosa giusta dire quello che era successo. «… Cam e io ci siamo nascoste. Non c’ha viste.»

Vi fu un attimo di silenzio, in cui la figlia di Bellona si corrucciò.

«Pensi… pensi che abbia sospettato qualcosa?» le chiese Kiana, incerta.

«Non lo so. Ma di tutte le sere in cui poteva trovarsi lì, perché proprio questa?»

Se Kiana avesse avuto una risposta, di certo non l’avrebbe cercata da qualcun altro. Forse Elias era passato davvero di lì per caso, ma ne dubitava. Mary aveva detto esattamente quello che pensava lei.

«Che… che Dante abbia cantato?» mormorò, per non farsi sentire da Cam, che stava ancora chiacchierando con gli altri tre.

Marianne scosse la testa. «Non avrebbe alcun senso. Non dopo tutto quello che ha fatto per rivelare la verità a Camille.»

«Magari ha avuto un ripensamento.»

«Dante sapeva anche del ritrovo al tunnel Caldecott. Se davvero avesse rivelato tutto, non sareste riusciti ad arrivare fin qui.»

«Magari Elias pensava di coglierci in castagna ancora prima.»

Un profondo sospiro scappò dalle labbra del centurione. «Non lo so, Kiana. So solo che dovete andare. E io devo tornare alla torre prima che qualcuno noti la mia assenza.»

Notando la sua espressione afflitta, Kiana maledisse la sua idiozia. Avrebbero potuto salutarsi prima, memori di quell’abbraccio, e invece aveva rovinato tutto quanto.

«Hai fatto bene a dirmelo» disse Mary, come leggendole nel pensiero. Le sorrise di nuovo e Kiana intuì il suo tentativo di farla sentire più tranquilla. «Terrò gli occhi aperti. E magari discuterò con Dante, per capire se davvero ha detto qualcosa oppure no.»

«Va… va bene.» Come prima, Kiana sentiva di volerle dire ancora qualcosa. Un “mi dispiace”, forse.

«Mi dispiace di essere stata una stronza colossale quando tu volevi solo il meglio per tutti noi.»

La voce di Cam che la chiamava interruppe quella frase che, Kiana era certa, non avrebbe mai visto la luce del giorno in ogni caso: «Dobbiamo andare, Kiana.»

«S-Sì, arrivo…» Kiana incrociò un’ultima volta lo sguardo di Mary.

Il centurione si portò la mano sul petto. «Senatus Populusque Romanus.»

«Senatus… Populesque Romanus» ripeté Kiana, riuscendo a sorridere di nuovo.

«Senatos Popolske Romanos» gracchiò anche Thia, giusto per completezza, mentre Minho teneva giusto la mano sul petto.

Daniel e Camille si aggregarono al coro, e poi, infine, i sei ragazzi si separarono. Mentre Kiana procedeva sulla linea di mezzadria assieme ai suoi compagni di viaggio si voltò un’ultima volta, sperando di incrociare ancora quegli occhi azzurri, ma erano già spariti dentro la galleria. Le scappò un sospiro affranto e proseguì.

Adesso che erano ufficialmente fuori dal campo, la loro impresa poteva avere inizio. Loro tre erano appena diventati gli eroi che avrebbero dovuto salvare Ecate, il campo e forse pure il mondo intero. Agli occhi di tutti quanti, però, sarebbero stati soltanto dei fuggiaschi. Avrebbero avuto tutti contro, ne era certa, e proprio per questo non potevano permettersi di fallire.

Una figlia di Venere con la mania di alzare le mani, una piccola e gracile figlia di Trivia che però aveva chissà quale potere nascosto e per finire uno zombie gatto con l’abitudine di non sorridere mai.

La squadra perfetta, insomma.

 

***

 

Non era sparita solo la Foschia astratta, il Velo Invisibile, quella che studiavano sui libri e che non potevano vedere.

La nebbia vera e propria era sparita. Il tunnel non era mai stato più lindo e tinto di quel momento. L’ideale per una scampagnata pericolosissima sul ciglio di un’autostrada. E, soprattutto, l’ideale per ottenere occhiate stranite dagli autisti di passaggio. A un certo punto Kiana si ritrovò perfino a salutare le macchine di passaggio. Un po’ di buona educazione, come il suo caro padre le aveva insegnato.

«Dobbiamo toglierci da qui» mugugnò Daniel, dopo un centinaio di metri. «Diamo troppo nell’occhio.»

«A proposito, dove stiamo andando?» chiese Kiana, affrettandosi per mettersi a fianco di Camille, in cima al gruppo. «Hai detto di percepire la presenza di Ecate, ma dov’è di preciso?»

Camille si scostò la ciocca di capelli più lunga, facendola ricadere lungo la tempia sinistra. «Non… non conosco la posizione esatta. Per adesso pensiamo ad arrivare a San Francisco. Da lì potremo prendere un treno, o un taxi per spostarci più in fretta. Più saremo vicini e più il legame con mia madre sarà forte, come una bussola.»

«Non… non dobbiamo andare in Canada, vero?»

«Che hai contro il Canada?»

«Nulla. Sono solo… strambi.»

«Tutti sono strambi per te.»

«Sì, come il tuo nuovo ragazzo.»

«Dante non è il mio nuovo ragazzo!»

«E come sai che parlavo di lui?»

Nessuna risposta. Camille sembrava reduce da un’abbuffata di peperoncini habanero, rossa e madida di sudore.

«Cam? Tutto ok?»

«… ti odio.»

Un sospiro provenne alle loro spalle. La voce di Daniel arrivò soave e melodiosa come il gracido di un ranocchio: «Se tutto il viaggio sarà così, farò meglio a tornare indietro e farmi malmenare da Elias.»

Kiana si voltò per rivolgergli un sorrisetto di sufficienza. «Nessuno ti ferma, zombie.»

«Mh-mh. Dì un po’, ti rimetterai con Marianne dopo che avremo salvato Ecate?»

L’aria venne risucchiata via dal corpo di Kiana. Scrutò Daniel come se fosse stato un morto che camminava nel vero senso della parola, e rimase paralizzata di fronte al suo sorrisetto beffardo.

«Cos’è, pensi che non abbia capito che tra voi c’era qualcosa?»

«Aspetta!» Camille sembrava ancora più sconvolta di Kiana. «Tu stavi con Mary?!»

Ovviamente l’unica che non l’aveva capito era la sua migliore amica. Kiana si voltò, più rigida del morto parlante dietro di lei, e tenne lo sguardo fisso davanti a sé. «Non… mi va di parlarne» riuscì a gemere, e accelerò il passo prima che arrivassero altre domande.

Nessuno disse più nulla, e tra i tre calò un silenzio carico di imbarazzo in cui Daniel dovette crogiolarsi compiaciuto per almeno il successivo chilometro e mezzo di camminata.

 

***

 

Riuscirono a trovare un punto in cui scavalcare la recinzione dell’autostrada, per togliersi dalla vista di tutti i passanti prima che arrivassero i soccorsi stradali, o la polizia, a controllare che diamine ci facessero lì tre ragazzini a piedi nel cuore della notte.

Daniel, che come capacità fisiche era sempre stato alla pari, se non peggio, di Cam, scavalcò la parete di ferro e plastica in un batter di ciglia e saltò dall’altra parte come se nulla fosse, per poi proseguire nell’erba alta delle colline di Oakland.

«Ehi, zombie!» protestò Kiana. «Fermati!»

Lui sembrò realizzare solo in quel momento che loro due dovevano ancora scavalcare. Si voltò verso di loro con aria colpevole e si scusò.

Kiana scosse la testa, domandandosi da dove tutta quell’energia gli fosse uscita tutto ad un tratto. Si issò in cima alla barriera stradale e tese un braccio a Cam per assisterla, poi la spinse dall’altra parte senza troppi complimenti, facendola gridare inviperita, e saltò giù accanto a lei. La aiutò a rimettersi in piedi mentre si massaggiava il fondoschiena e si beccò un’occhiataccia, a cui rispose con il suo solito sorrisetto.

Erano sul limitare di San Francisco quando si fermarono per la notte, in uno spiazzale spoglio, celato tra i boschi e le colline. Daniel disse che forse era meglio andare avanti, arrivare almeno fino alla città, poi però dovette rendersi conto che nel cuore della notte e dopo due ore di camminata le due ragazze non erano più in grado di continuare. Ancora una volta Kiana si domandò se quello fosse lo stesso tizio emo che avevano conosciuto nella Quinta Coorte o se fosse un suo clone malvagio che amava sorridere e camminare. Siccome era così energico decisero che sarebbe toccato a lui fare la guardia. La cosa non sembrò turbarlo, incredibilmente. Sì, era per forza un clone malvagio.

La figlia di Venere aprì il borsone che le aveva lasciato Mary, per prendere i sacchi a pelo, e non appena finì di tirare la cerniera le scappò un grido indispettito: «Non è possibile!»

Tra i sacchi a pelo, come per farsi beffe di lei, c’era il maledetto beauty case che Venere le aveva donato. Lo afferrò con la mano tremante per la rabbia e lo scrutò con quanto odio avesse in corpo.

«Ti… ti ha seguito anche qui?» domandò Camille, sbalordita.

«A quanto pare.» Kiana strinse la mano attorno all’astuccio, poi si alzò in piedi e lo scaraventò il più lontano possibile, dandolo in pasto alle fronde di Oakland, anche se sapeva che prima o poi sarebbe riapparso, proprio come aveva sempre fatto.

Si sdraiò non appena finirono di montare la tenda e disporre i sacchi a pelo al suo interno. Daniel e Camille la fissarono attoniti, ma lei non badò a loro: dopo quello scherzetto di Venere aveva perso ogni desiderio di parlare con qualcuno almeno fino al mattino successivo.

 

***

 

Per fortuna, si addormentò in fretta. Per sfortuna, fece un sogno. 

Un’altra cena di famiglia, l’ennesima in cui si era ritrovata a fare l’esclusa.

Era sola, come sempre. Aveva cinque cugini, figli dei suoi zii, che si rincorrevano per la mastodontica villa, giocavano a nascondino o sfoggiavano le loro collezioni di videogiochi e giocattoli, il tutto rigorosamente senza invitarla a partecipare. 

All’epoca Kiana era poco più che una bambina e non sapeva davvero quello che stava succedendo. Rivedendo quella scena con gli occhi di una ragazza più grande, poteva accorgersi di quanto falso e meschino fosse tutto quello.

Suo padre discuteva con gli zii di affari, qualcosa su come aumentare i profitti del trimestre, perché probabilmente centinaia di milioni non erano sufficienti: forse voleva comprarsi un’altra villa, oppure un’altra Bugatti. 

E poi c’erano sua nonna e le sue zie, sedute a tavola a farle compagnia con i loro discorsi. Ogni tanto le rivolgevano dei sorrisi gentili, ma per tutto il tempo non facevano che confabulare tra loro. Kiana non conosceva il persiano, solo qualche parola, tipo “madre”, “padre” e “figlia”, e per qualche fortuito caso del destino erano proprio le tre parole del momento, spesso condite da quegli sguardi all’apparenza gentili rivolti proprio verso di lei e suo padre, ma che in realtà erano tutt’altro.

Credevano che lei non capisse che stavano parlando di sua madre, del fatto che se ne fosse andata, che fosse un’eretica, una “poco di buono” che li aveva abbandonati. 

Dicevano che si era approfittata del buon cuore e della ricchezza di Amir per assaggiare la bella vita e poi fuggire non appena si era ritrovata con una figlia indesiderata in grembo. E perciò da quel momento Amir aveva tentato di colmare il vuoto dentro di sé dedicandosi anima e corpo al lavoro. Su quest’affermazione in realtà Kiana si trovava parzialmente d’accordo, solo che secondo lei Amir non stava cercando di colmare il vuoto con il lavoro, ma con i soldi. Peccato solo che nel suo petto non ci fosse soltanto un vuoto, ma una voragine, un pozzo senza fondo, una bocca impossibile da saziare.

Le storie che si erano inventate di sana pianta su suo padre erano davvero strappalacrime, non c’era che dire. Lui che non voleva rinunciare al bambino, a differenza di quella donna che l’aveva abbandonato, lui con il cuore spezzato, lui che si faceva forza per crescere da solo una figlia inaspettata – “indesiderata” forse era un termine più appropriato. 

E come in ogni storia con un eroe protagonista, ci voleva anche qualcuno da antagonizzare. E quel qualcuno era proprio Kiana, il lascito di quella donna che era entrata nelle loro vite, che aveva avuto l’ardire di non partecipare mai a un pranzo o una cena con il resto della famiglia Farhat e che poi era scomparsa senza lasciare tracce.  

Accusavano Kiana di essere nata, di essere una figlia bastarda che aveva privato Amir di un primogenito maschio che potesse portare avanti l’attività di famiglia. 

Kiana era certa che anche se fosse stata un maschio quell’attività non l’avrebbe voluta. Lei non sarebbe mai stata come suo padre, mai. Non si sarebbe trasformata in un uomo d’affari senza scrupoli, disposto a tutto pur di guadagnare qualche dollaro in più, anche a mandare famiglie intere sul lastrico e a morire di fame.

Non sarebbe mai caduta in quel baratro.

In tutto questo, lei era costretta a tenere per sé la verità su suo padre. Non poteva dire che in casa loro si mangiava la carne, o che si saltavano tutte le preghiere giornaliere, o che lui non le faceva indossare l’hijab se non per andare dai parenti. Non poteva né fare né dire nulla. Poteva solo subire quelle continue vessazioni e basta.

La sua unica cugina, Afareen, arrivò all’improvviso a chiederle se voleva giocare con loro. Lei rimase in silenzio per la sorpresa, ma poi accettò con gioia. Era la prima volta che succedeva, ed era genuinamente felice di essere stata considerata da loro.

Non aveva idea di quello che stava per succedere.

All’inizio andò tutto bene. Fecero qualche partita a nascondino e lei, come per paura inconscia di essere dimenticata, scelse nascondigli pessimi giusto per farsi trovare subito. La presero anche in giro per questo, ma lei cercò di riderci sopra e di assecondarli. Era felice di essere quella che cercava, diceva.

Le cose precipitarono non appena si ritrovarono in un’ala della villa deserta e lontana dai loro genitori. Il più grande dei suoi cugini, Darius, si avvicinò a lei. Aveva dodici anni ed era considerato il primogenito, anche se in realtà non lo era affatto, perché era nato qualche mese più tardi di Kiana. Tuttavia era un maschio, perciò un giorno lui sarebbe diventato parte dell’impresa di famiglia, a differenza di lei, e quindi si comportava già come se fosse il proprietario indiscusso. 

«È vero che tua madre ti ha abbandonata?»

Kiana si pietrificò, sorpresa per quella domanda a bruciapelo. 

«Dai, lasciala stare» mormorò Afareen, che era la sorella minore.

L’idiota di suo fratello la ignorò. Si avvicinò a Kiana e la spintonò. «Ehi, ti ho fatto una domanda. Devi rispondermi.»

«N-Non mi ha abbandonata» mormorò Kiana.

«Davvero? E allora perché lei non c’è?»

«Non… non lo so. Ma non mi ha abbandonata.»

Suo cugino rise, mentre tutti gli altri iniziavano a circondarla. In mezzo a loro c’era anche Afareen, che sembrava spaventata. 

«I miei genitori dicono che era una poco di buono, e che si è soltanto approfittata di tuo padre» proseguì Darius, con quel tono insopportabile.

Kiana si irrigidì. Non aveva mai conosciuto sua madre, ma detestava quando gli altri parlavano in quel modo di lei. «Non è vero.»

«Però se n’è andata. Forse si è sentita in colpa di aver avuto una figlia.»

«Smettila…»

Lui la spintonò con più forza. Qualcuno le fece lo sgambetto e precipitò a terra, sbattendo violentemente la testa e gridando per il dolore. 

«Kiana!» esclamò Afareen, mentre le risate degli altri si sollevavano. 

Kiana si alzò a fatica, gli occhi inumiditi a causa del dolore lancinante alla testa. Si accorse degli sguardi carichi di malizia di quelli che avrebbero dovuto essere i suoi cugini, i suoi parenti, sangue del suo sangue. La sua famiglia

«Sei solo una femmina. Non conti niente» sogghignò Darius. «E non hai nemmeno una madre. I miei genitori dicono che è una vergogna che tu porti il nostro cognome e che non dovresti essere qui.»

Afareen si chinò accanto a lei. Era così piccola e minuta, non assomigliava affatto a suo fratello. «Stai bene?»

«Che stai facendo? Non aiutarla» ordinò Darius, con voce dura. «Noi non dobbiamo mischiarci con lei.»

La bambina sussultò. Guardò Kiana con espressione mortificata. «Scusa…» 

Si rialzò in piedi senza più guardarla e tornò accanto ai loro cugini, tenendo la testa bassa.

«Avanti, vattene!» Darius indicò a Kiana il corridoio che portava alla sala da pranzo. «Noi non ti vogliamo!»

La testa di Kiana faceva un male pazzesco. Ma non era niente in confronto al dolore che sentiva al petto. Cominciò ad andarsene senza guardare nessuno di loro, massaggiandosi sul punto dove aveva sbattuto e lottando contro le lacrime che cercavano di riversarsi dagli occhi. 

Non era giusto. Perché facevano così con lei solo perché non aveva più sua madre? Come se non le facesse già abbastanza male sapere di non averla mai conosciuta, sapere che non l’avrebbe mai vista.

Non era colpa sua. Non l’aveva scelto lei. Perché la trattavano in quel modo?

Perché… perché sua madre se n’era andata? Perché l’aveva lasciata sola?

Perché… non l’aveva portata con lei?

Un verso spaventato la fece fermare all’improvviso. Si voltò di scatto e vide i suoi cugini che ora se la stavano prendendo con Afareen. 

«Cosa ti è saltato in testa?» stava dicendo Darius, strattonandola. «Perché hai invitato la bastarda a giocare con noi?!»

«I-Io…» Afareen provò a rispondere, ma Darius le fece lo stesso che aveva fatto a Kiana e la spinse a terra. Un altro dei bambini le tolse l’hijab, scoprendole i capelli ricci e neri; i bambini cominciarono a passarselo, divertendosi di fronte ai tentativi inutili della bambina di riprenderselo. 

«Dirò a papà che te lo sei tolto» sogghignò Darius. Sollevò il velo come un trofeo e le diede un’altra spinta.

Afareen cadde a sedere con le lacrime agli occhi. «N-No, per favore…»

«Sì invece. Così imparerai a…»

«Ehi!»

Darius si voltò. Il crepitio delle nocche di Kiana che si infrangevano sul suo naso permeò l’aria. La bambina poteva sopportare che se la prendessero con lei, ma non sarebbe mai rimasta indifferente alla scena di sua cugina che veniva tormentata solo perché aveva cercato di essere gentile. 

Suo cugino finì con la schiena sul pavimento e cominciò immediatamente a piangere, coprendosi il naso storto e sanguinante, di sicuro rotto. Prima che qualcun altro potesse fare qualsiasi altra cosa, Kiana afferrò l’hijab di Afareen, che era caduto a terra, e osservò il resto dei bambini con odio. Sollevò la mano coperta del sangue di Darius. «Ne volete anche voi?!»

Le grida e il pianto di Darius lacerarono l’aria. Gli altri indietreggiarono spaventati, mentre Afareen la osservava con gli occhi spalancati per lo stupore. 

«Che sta succedendo qui?!»

Kiana si pietrificò. Suo padre e i suoi zii entrarono nella stanza proprio in quel momento, trovando lei con una mano insanguinata, l’hijab di Afareen stretto nell’altra e Darius a terra che piangeva. I loro sguardi valsero più di mille parole. 

«Kiana» mormorò Amir. «Che stai facendo?»

Kiana avrebbe potuto dire di essere innocente. Avrebbe potuto dire che era tutto un malinteso. Chiedere scusa, magari. Invece restituì l’hijab ad Afareen, che lo prese senza dire nulla, e incrociò lo sguardo di suo padre. La realtà dei fatti si palesò finalmente di fronte a lei. Erano stati i genitori di Darius a inculcargli quei pensieri in testa. I fratelli di suo padre, le zie sedute al tavolo a spettegolare assieme a sua nonna e chissà quanti altri, tutti a trasmettere lo stesso messaggio: lei non era voluta, lì. Non lo era mai stata. 

Le parole le uscirono dalla bocca sotto forma di un sussurro venato di rabbia: «Ti odio.»

Per la prima volta da quando era nata, vide Amir fare un’espressione di puro stupore. «Che cosa?»

«Ti odio. Ti odio! TI ODIO!» Cominciò a gridare, a riversare tutta la sua rabbia su quel bugiardo e anche sui suoi zii, su tutta quella maledetta famiglia. «VI ODIO TUTTI! TUTTI!»

Non si era mai sentita così arrabbiata. Odiò suo padre, per essere un vile uomo d’affari senza scrupoli, senza anima, senza cuore, marcio fino al midollo. Odiò i suoi zii, per aver cresciuto quei mostri che l’avevano trattata in quel modo. Odiò le sue zie e sua nonna per tutto quello che avevano detto su di lei alle sue spalle. 

E odiò anche sua madre, per essere scomparsa. 

In quel momento, mentre urlava con tutto il fiato che aveva in corpo, la sua rabbia bruciante e le sue lacrime amare erano rivolte soprattutto a lei, a sua madre.

Odiò quella donna, chiunque ella fosse. La odiò con tutta sé stessa per averla lasciata con quei mostri, per averla costretta a vivere quella vita che non aveva mai chiesto, a subire tutti quegli insulti, quelle vessazioni ingiuste e a cui non aveva mai potuto rispondere. 

Non ricordava di preciso cosa fosse successo dopo quell’incidente. Nella sua mente c’era solo un’immagine sfocata di suo padre che la portava via di peso, blaterando scuse, dicendo che era “una figlia difficile” e facendo il suo solito vittimismo.

Quel sogno maledetto finì così, con lei e suo padre che si allontanavano con la limousine e lui che la osservava come se fosse stata una creatura pericolosa. 

Kiana avrebbe voluto svegliarsi. Non voleva più rivivere quei momenti. Invece, il sogno si trasformò. 

Da una visione orribile passò ad un’altra. 

Non era più bambina. Ora si sentiva adulta. Ragazza. Insomma, era lei al presente. Ed era sul bordo di un precipizio. Non aveva idea di dove fosse, né di che burrone si trattasse; tutto era nero, scuro, e le pareti dell’abisso erano di roccia granitica e affilata.

Poteva guardare solo da una parte, ossia verso il fondo. Non appena lo fece, realizzò che il detto “Quando osservi dentro l’abisso, l’abisso osserva dentro di te” non poteva essere più reale. Venne colpita da un brivido che la scosse dalla testa ai piedi.

C’era qualcosa là sotto. Qualcosa che era certa di non voler conoscere.

«Che cosa pensi di fare?» La voce di una donna risalì il baratro, rimbalzando sulle pareti e uscendo con uno sbuffo d’aria che le scompigliò i capelli.

Kiana indietreggiò, smettendo di guardare, ma continuò comunque a sentirsi osservata. 

«Tipico di voi figli di Venere. Soltanto perché siete dalla parte romana, pensate che vostra madre sia speciale, e che voi siate dei guerrieri. Ma non lo siete. Dovreste imparare a stare al vostro posto.» La voce della donna proseguiva, proveniente dal nulla, raschiante e tagliente. «Perché sei partita anche tu, Kiana Farhat? Davvero credi che servirai a qualcosa?»

Lo stomaco di Kiana andò in subbuglio. Sentì la rabbia schizzare dalle vene fino al cervello. La voce di quella donna era come vento che soffiava sopra un incendio che non intendeva fermarsi finché non avrebbe consumato tutto quanto.

«La tua amichetta, Camille Gray? Lei sì che può essere utile. Ha un legame con Ecate. Possiede poteri interessanti. Il vacuo Daniel, invece? Nemmeno lui ha idea di quanto sia potente in realtà. E tu, Kiana Farhat? Tu che cos’hai, oltre che quel bel faccino?»

Kiana avrebbe voluto urlarle che aveva due gambe per prenderla a calci nel sedere finché non l’avrebbe implorata di smettere, ma si sentì drenata di ossigeno all’improvviso. Le parole si rifiutarono da uscire dalla sua bocca.

«Quando Ecate morirà, toccherà a tutti gli altri. E tua madre sarà la prima, Kiana. Distruggerò Venere personalmente, e mi prenderò il suo posto, ciò che è mio di diritto. Ma non temere: quando accadrà, tu, e i tuoi amici, sarete già spacciati. La tua amichetta Camille non troverà mai la sua adorata madre. E Daniel… non potete neanche immaginare che cosa vi sta nascondendo, mentre tu, Kiana… tu sarai la prima a cadere.»

L’abisso cominciò ad allargarsi, inglobando tutto quanto. Kiana spalancò gli occhi e tentò di fuggire, ma era pietrificata. L’ultima cosa che udì, prima di precipitare nel vuoto, fu la risata intrisa di crudeltà della donna.

 

***

 

La voce di Daniel che le chiamava fu la prima cosa che udì: «Ragazze! Ragazze svegliatevi!»

Kiana scosse Camille, sdraiata nel sacco a pelo accanto a lei, riuscendo a svegliarla. Uscirono dalla tenda, armate di gladio e daga, e si ritrovarono di fronte una scena del tutto inaspettata.

Daniel era in piedi, armato anche lui di spada. Di fronte a lui, sul limitare dello spiazzo dove si erano fermati a dormire, c’erano cinque ragazze bellissime. Kiana non credette ai propri occhi. Erano tutte vestite allo stesso modo, con uniformi da cheerleader arancioni e bianche, pompon e le iniziali di chissà quale istituto ricamate sopra. Tutte tranne una, quella al centro.

Quella indossava un giubbotto di pelle pesante, sbottonato, una cintura borchiata sopra gli shorts scuri, anfibi e calze lunghe fino a metà coscia strappate, entrambe seguite da calze a rete che salivano fino al ventre scoperto, passando sotto agli shorts.

I capelli erano asimmetrici, più corti su una tempia e molto più lunghi sull’altra, di un verde fluo con diverse mèche lunghe gialle, rosse e viola. Il viso era bello ma spigoloso, incattivito quasi, con rossetto e ombretto neri come la pece.

Avrebbe potuto fare coppia con Daniel: l’emo e la punk. Peccato solo che lui la stesse osservando come se fosse il male personificato, e anche Camille sussultò: «Empuse!»

Daniel rispose con un grugnito, senza distogliere lo sguardo dalle nuove arrivate. Kiana sbatté le palpebre, ma l’aspetto di quelle cinque non cambiò. Si accorse che i suoi compagni erano pronti a combattere e anche lei sollevò il gladio, anche se con un attimo di esitazione.

«Come mai non siete nel vostro campo?» domandò l’empusa punk, con un sorrisetto divertito. Si sfilò il giubbotto, scoprendo un top rosso mattone senza spalline e le braccia abbronzate e ricoperte dai tatuaggi più variegati – teschi, fiamme, tribali, serpenti e un mucchio di altri simboli sconosciuti – al punto da far sembrare quello di Cam una misera macchiolina di inchiostro.

Appoggiò la giacca sopra la spalla e si portò l’altra mano sul fianco, esaminandoli uno ad uno con espressione beffarda. «Non che faccia molta differenza, ormai, che siate nel campo o meno. Le vostre stupide barriere non vi proteggono più.»

«Che cosa volete?» domandò Camille.

«Non è ovvio? Siamo qui per uccidervi, sorellina.»

Kiana spalancò gli occhi. «Sorellina?» sussurrò a Cam.

Voleva essere udita solo da lei, ma la punk rise. «Le empuse sono figlie di Ecate, bellezza. Proprio come la tua amica. Anche se in realtà, lei è una figlia di Trivia. È un gradino più in basso rispetto a noi.»

Camille affondò le dita sul manico della daga, divenendo più rigida di un chiodo. «Nostra madre è stata rapita. Perché volete ucciderci? Non volete che la trovi?»

«Proprio così.» L’empusa sogghignò di fronte all’espressione sconvolta di Camille, poi si rivolse alle sue compagne. «Io mi occupo di loro due. Voi quattro, pensate a lui» e indicò Daniel, che non si era mosso di un centimetro. «È un maschio. Sarà una preda facile.»

«Sì, Ruby!»

Le empuse si divisero. Ruby si avvicinò a Kiana e Camille, con le mani che si incendiavano e gli occhi che si tingevano di rosso sangue. Kiana strinse i denti e fletté le gambe. Non riusciva a non pensare a quanto incantevole fosse quella tizia, e la cosa cominciava a darle sui nervi.

Ruby scattò all’improvviso, piombando in mezzo a loro in una tempesta di fiamme. Le due ragazze si divisero, schivando gli artigli dell’empusa. Mentre indietreggiava, Kiana scorse le altre quattro ragazze mentre continuavano ad avvicinarsi a Daniel con calma innaturale. Lui non si era ancora mosso di un passo.

«Questo è carino per davvero» commentò una di loro, una biondina, leccandosi le labbra.

«Avanti tesoro, vieni» disse un’altra, una con la carnagione scura come l’ebano. «Fatti dare un bacio…»

«Daniel!» lo chiamò Camille, mentre schivava un altro attacco di Ruby. «Non farti imbrogliare! Sono mostri!»

«Ma come ti permetti?!» Ruby si fiondò su di lei, sogghignando in maniera innaturale. Per un istante, apparve la sua vera forma: capelli fiammeggianti, una gamba di bronzo e uno zoccolo equino. Durò poco, però: un secondo dopo, era di nuovo la punk scostumata e dalle forme molto generose. «Noi siamo stupende!»

Camille gridò, scansandosi un attimo prima che gli artigli dell’empusa le forassero la faccia. Inciampò e cadde sulla schiena, con Ruby che torreggiava su di lei. Kiana si frappose prima che potesse finirla, sferzando l’aria con il gladio. La punk saltò all’indietro, schivando il colpo con facilità.

Lo sguardo di Kiana scivolò da lei a Daniel, che ormai era stato accerchiato dalle altre empuse. La bionda si avvicinò a lui, ridacchiando, e gli accarezzò la guancia. «È fin troppo semplice…»

Lo zombie rimase immobile, a ricambiare lo sguardo seducente di lei. Kiana avrebbe voluto gridargli di svegliarsi, di non farsi fregare, ma non ci riuscì. Le bastò guardare quella ragazza di sfuggita per rimanere stregata da lei. Una folata di vento fece arrivare al suo naso un odore così intenso da essere quasi nauseante, un profumo inebriante, di petali di rose, pesche e vaniglia.

La testa cominciò a girarle. Strizzò le palpebre, cercando di concentrarsi, ma si sentì come se le fosse venuto sonno all’improvviso. Barcollò stordita, ma per fortuna Ruby non sembrò farci caso, anche lei concentrata sulle sue quattro amiche alle prese con Daniel.

«È tutto vostro ragazze» commentò divertita.

«Sei proprio un bocconcino…» bisbigliò l’empusa con la pelle d’ebano, afferrando Daniel per il mento. I suoi denti divennero affilati all’improvviso e si avventò su di lui.

«Daniel!» gridò Camille inorridita, prima che un urlo lacerante perforasse la notte.

«Levati dai piedi» sibilò Daniel, con voce roca, il gladio conficcato nello stomaco dell’empusa. Lo ritirò e spinse via la ragazza, che esplose in una nube di polvere.

Il ghigno divertito svanì dal volto di Ruby. «Ma cosa…?!»

Prima che le empuse si riprendessero dallo stupore, Daniel ne aveva già uccisa un’altra, decapitandola con un taglio netto. Le altre due indietreggiarono.

«Che succede?» Daniel scattò verso di loro. «Non sono più una preda facile?»

Un’altra cadde con la pancia trafitta. La bionda, l’ultima, si inciampò e lo guardò dal basso terrorizzata.

«A-Aspetta!» implorò, alzando le mani. «Non… non vorrai fare del male ad una fanciulla indife…» Il gladio le trapassò la gola, trasformando la frase in un gorgoglio soffocato. Kiana sussultò di fronte a quella vista. Per lei era stato come se Daniel avesse davvero trucidato una ragazza qualsiasi.

«Sparisci.» Il ragazzo ritirò la spada e l’ultima empusa si dissolse. Dopodiché, spostò lo sguardo su Ruby. «Tocca a te adesso.»

Ruby si riscosse dallo stupore e strinse i pugni. «Pensi di farmi paura, moccioso? Io sono molto più potente di quelle quattro!»

Daniel fece un passo verso la sua direzione e la punk strillò, indietreggiando. «F-Fermo dove sei!»

«Credevo di non farti paura» mugugnò Daniel, sollevando un sopracciglio.

Ruby serrò la mascella. Se lo sguardo avrebbe potuto uccidere, Daniel sarebbe stato disintegrato. Camille si rialzò in quel momento, imitata da Kiana, e tutti e tre la circondarono. La figlia di Venere si massaggiò la tempia, stordita. Aveva una leggera sensazione di vertigini, e non riusciva a capire perché. Non poteva essere la magia di Ruby.

Oppure sì?

La sua immagine continuava a sfarfallare, passando dalla bella ragazza punk al suo vero aspetto di empusa. Il suo odore era inebriante, rischiava di farla svenire. Kiana strinse i denti e si concentrò, cercando di scacciare via quella sensazione, ma era difficile, tremendamente difficile.

«Pensate davvero di poter salvare Ecate?» domandò Ruby in quel momento, facendo vagare lo sguardo su tutti loro, e riacquisendo il suo ghigno beffardo. «Siete già morti. Lo sapete, sì?»

Camille si fece avanti, dura. «Perché vuoi ostacolarci? Chi ti ha mandata?»

«E ti aspetti che te lo dica, sorellina?» L’empusa ridacchiò. «Vi basta solo sapere che l’attacco è già cominciato. Tempo una settimana, ed entrambi i campi saranno distrutti. Non resterà altro che polvere. Divide et impera, come dite voi. E voi sarete molto divisi.»

Ruby fece il segno delle corna con la mano, mentre il suo corpo veniva coperto di fiamme. «Ci si becca.» Esplose in una coltre di fiamme, costringendoli a distogliere lo sguardo. Quando la luce si diradò, l’empusa era scomparsa.

Un silenzio irreale scese nella radura, interrotto solo dagli sbuffi del vento. L’odore intenso della punk si dissolse poco dopo. Kiana si sentì più snebbiata, ma la sensazione di vertigini non passò.

«Smontate tutto» affermò Daniel, avviandosi verso la tenda. «Dobbiamo andarcene da qui.»

Osservarlo aiutò Kiana a riprendersi dallo stordimento. «Aspetta, zombie! Che cavolo era quello?!»

«Mh? Quello cosa?»

La figlia di Venere indicò il punto in cui le quattro empuse erano morte. «Quello! Insomma, hai… hai ucciso quelle quattro da solo! Ma come ci sei riuscito?!»

«Infilzandole con una spada.»

«Non mi riferisco a quello! Voglio dire… come hai fatto a non farti abbindolare da loro?»

Daniel sollevò le spalle. «Non lo so. Non mi sono fatto abbindolare e basta.»

Quella risposta non era esattamente quello che Kiana si aspettava. Il modo in cui lui si era comportato… era stato proprio come se la loro illusione non lo avesse nemmeno scalfito. A lei era bastata soltanto Ruby per mandarla in confusione, lui invece aveva resistito ai poteri di quattro di quelle mezze vampire combinate. Ripensò al sogno che aveva fatto, quel baratro maledetto, e la voce che aveva sentito. Aveva detto che Daniel era molto più forte di quanto pensassero. Che si riferisse a quello?

Spalancò gli occhi. Il sogno! Doveva raccontarlo ai suoi compagni, appena possibile. La voce aveva chiamato Daniel anche in un altro modo, “vacuo”. Se Kiana non fosse stata così angosciata dopo quell’attacco, avrebbe trovato quel soprannome piuttosto divertente, nonché calzante.

Mentre finiva di smontare la tenda, il suo sguardo scivolò su Camille, che non aveva più detto una parola. Se ne stava china a ripiegare i sacchi a pelo, e sembrava davvero turbata. La voce nel sogno aveva detto anche qualcosa su di lei, sul fatto che avesse poteri interessanti, e in effetti nemmeno quello si poteva negare. Avrebbe voluto parlargliene, ma Daniel aveva ragione, quel posto non era più sicuro.

Aveva appena finito di chiudere il borsone, quando un gemito sfuggì da Camille. Kiana si voltò allarmata. «Cam! Stai bene?»

L’amica la osservò con sguardo improvvisamente vitreo, pallida come un lenzuolo, cioè, ancora più pallida. «Ra… gazzi…» biascicò. «A… ttent…» Stramazzò con la testa sopra il sacco a pelo prima che potesse finire la frase.

«Cam!» Kiana fece per soccorrerla, ma la testa ricominciò a girarle. La sensazione di vertigini di poco prima ritornò, dieci volte più intensa, anche se Ruby era sparita. Quindi non era opera sua. Il mondo cominciò a vorticare attorno a lei, le sembrò di trovarsi in una centrifuga. Cercò di rimanere concentrata, ma sentì le palpebre incredibilmente pesanti.

«Ehi! Kiana! Camille! Che cavolo vi prende?!» Daniel corse verso di loro. Scosse Cam per la spalla, senza risultati. Il suo volto divenne una macchia sfocata e indistinta. I lineamenti si distorsero, lo sforzo di Kiana di tenere gli occhi aperti divenne insostenibile.

«Z-Zombie…» riuscì a mugugnare, prima di crollare su un fianco, il corpo incapace di reggersi da solo.

Poco prima che tutto quanto svanisse attorno a lei, udì un’altra voce sconosciuta provenire in una zona indefinita attorno a lei, seguita da un grido di Daniel.






 

 

Ehilà gente, grazie per aver letto!

Non mi dilungherò molto. Dunque, progettavo di far uscire questo capitolo dopo l’Epifania, ma poi ho pensato che sarebbe stato un po’ troppo, e poi per alcuni le vacanze non sono ancora finite, quindi perché non farlo uscire adesso, in questa tranquilla domenica. 

Succedono un po’ di cose in questo capitolo, proprio come nella Spada del Paradiso, ogni personaggio avrà il suo piccolo arco, qui abbiamo intravisto quello di Kiana, con il suo passato burrascoso con la sua famiglia, e una misteriosa voce che la deride. Chi sarà mai costei? Sarà forse la stessa che parla anche con Daniel? E chi lo sa. 

Qua lascio un disegno che ho fatto di Ruby l’empusa, penso sia l’unico personaggio che ho disegnato subito dopo aver scritto perché il design mi piaceva tantissimo. Naturalmente la rivedremo, dopotutto è la sorella di Camille, nonché figlia di Ecate. 

https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Ruby-l-empusa-il-Velo-Invisibile-902584687?ga_submit_new=10%3A1641142509

Mentre che ci sono, lascio anche altri due disegni che ho fatto in questi giorni.

Edward (finalmente): https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Edward-Model-l-Araldo-di-Amaterasu-902263568

E Rosa (finalmente): https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Rosa-Mendez-la-co-capocasa-di-Apollo-902370795

Presto rivedremo entrambi nella raccolta. So che continuo a ripeterlo, ma è solo perché non mi sono ancora deciso a sistemare il prossimo capitolo che deve uscire. Appena lo farò, aggiornerò la raccolta. 

Bene, ho detto tutto, grazie a Roland e Farkas per le recensioni e alla prossima!

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Capitolo 10
*** Un nuovo amico ***


X

Un nuovo amico



«Ragazze!» gridò Daniel. «Ragazze, sveglia! Che cavolo vi prende?!»

Cominciò a scuotere Kiana e Camille con tutta la forza che aveva, al punto che la figlia di Venere gli avrebbe sferrato un cazzotto e lanciato un insulto da record, ma non ottenne alcun risultato: gli occhi di quelle due rimasero sigillati, senza dare alcun segno di volersi riaprire.

Temette il peggio, ma si rese conto presto che respiravano ancora. Erano solo svenute. Anzi… sembravano perfino addormentate. Il ragazzo rimase immobile, a scrutarle impotente. «Ma che è successo?»

«In nome di Somnus…» Una voce si alzò tra i fruscii del vento. «… dormi

Una lieve sensazione di vertigini percorse il corpo di Daniel, ma il ragazzo serrò le palpebre e scosse la testa, scacciandola subito. Strinse i denti e si alzò in piedi, voltandosi verso il limitare della radura. Un ragazzino era in piedi laggiù, le mani tese verso di lui, e un’espressione sbalordita malcelata dall’elmetto sopra la testa bionda. Nonostante l’armatura completa che aveva indosso, lo riconobbe comunque: era Nathan Miles, unico figlio di Somnus, il centurione della Terza Coorte.

«Ma… ma cosa…» sussurrò quello, prima di gridare spaventato quando Daniel sguainò il gladio. Indietreggiò di scatto e finì con l’inciampare.

Prima che Daniel potesse avventarsi su di lui udì altri fruscii, ma questi non erano causati dal vento: da ogni lato della radura cominciarono a spuntare fuori alcune persone. Non appena Daniel si accorse della loro pelle semitrasparente, sotto la quale poteva scorgere i loro crani, gridò per la sorpresa. Erano scheletri, con le ossa che rilucevano alla luce pallida della luna. Indossavano armature da legionari e uniformi sbrindellate della guerra di secessione. Alcuni erano armati di baionette e fucili, altri di spade. Li aveva visti solo qualche volta prima di quel giorno, durante le esercitazioni. La loro presenza lì poteva significare solo una cosa.

Un’ombra si plasmò nel bel mezzo della radura, di fronte a Daniel. Elias spuntò fuori come un’estensione del terreno, l’oscurità che si dissolveva attorno a lui in rigoli neri che colavano a terra. Non appena lo vide, Daniel soffocò un’imprecazione: li aveva trovati. Non si erano allontanati abbastanza dal campo e il trambusto che avevano fatto con le empuse doveva averli attirati dritti da loro.

«Maledizione» sibilò mentre gli scheletri, Elias e anche Nathan si avvicinavano a lui, circondandolo.

«N-Non capisco…» mormorò il figlio di Somnus, nascosto alle spalle del pretore. «Dovrebbe… dovrebbe dormire anche lui!»

Elias non staccò gli occhi da Daniel per un solo istante. A differenza del mantello e dell’armatura, indossava un lunghissimo cappotto di cuoio marrone e sbottonato, che mostrava la camicia bianca con bretelle e i pantaloni da cacciatore beige al di sotto di esso. Al cinturone attorno alla vita teneva appeso il fodero di un gladio e diversi pugnali, mentre sulla testa rasata portava una coppola. Sembrava un becchino che per hobby partecipava a risse in pub inglesi.

Le sue iridi brillarono di luce color oro: all’improvviso, il gladio nelle mani di Daniel divenne più pesante di un carro armato, al punto che avrebbe finito con lo spezzarsi il braccio o la schiena se non l’avesse lasciato andare. La spada cadde a terra con un tonfo pesantissimo e affondò nel suolo come un biscotto nel latte.

Daniel indietreggiò incredulo, mentre gli occhi di Elias smettevano di brillare. Il pretore si sgranchì il collo e le nocche, mostrando i guanti di pelle che coprivano le mani; attorno al collo aveva una collana fatta con un cordino nero, il ciondolo nascosto sotto il colletto della camicia.

Gli scheletri si avvicinarono ancora di più, assieme al figlio di Plutone che li comandava. Nel giro di pochissimi istanti Daniel era stato disarmato e neutralizzato senza nemmeno combattere. E sapere che tutto quello era avvenuto per mano di Elias, lo stesso che si divertiva a malmenare chi non poteva nemmeno difendersi, gli fece ribollire il sangue nelle vene.

«Dimmi un po’, è stata Ashley a mandarti?» domandò Daniel. «Pensi mai con la tua testa, o è sempre lei a dirti cosa devi fare?»

Elias non rispose. Sguainò il gladio, uno spadone grosso almeno il doppio di quello di Daniel, con il manico d’oro massiccio e la lama nera come la pece, di Ferro dello Stige. Come se i suoi maledetti scheletri non fossero una polizza assicurativa più che sufficiente.

«In nome del Senato e il Popolo di Roma, vi dichiariamo in arresto!» esordì Nathan, ancora nascosto dietro a Elias, con voce che tradì diverse vene di tensione.

«L’unico che dovreste arrestare è lui» sibilò Daniel, accennando con il mento a Elias. «Visto che nel tempo libero si diverte a pestare il nostro augure.»

Elias spalancò gli occhi, finalmente mostrando un’emozione di stupore. Nathan però era alle sue spalle, quindi non ci fece caso. «Bene, possiamo anche aggiungere la calunnia alla lunga lista dei crimini a cui devi rispondere!»

Daniel ignorò il figlio di Somnus, concentrandosi su Elias. «Tu sai che è tutto vero, però.»

Nessuna risposta. Un sorrisetto sghembo nacque sul viso di Daniel. «Dimmi, è divertente essere il cagnolino di Ashley? Credo proprio di sì, altrimenti non saresti così bravo a farlo.»

Elias fece una smorfia, ma continuò a non rispondere. Fece un cenno agli scheletri, che chiusero ancora di più le distanze con Daniel. Il ragazzo osservò prima loro, poi il pretore, con quanto odio avesse in corpo.

Non ci sarebbe tornato al campo, era escluso. Non dopo il sogno che aveva fatto quel pomeriggio. Qualunque fosse il significato che quegli incubi maledetti avevano, qualunque fosse il motivo per cui era arrivato al Campo Giove senza passare per la Casa del Lupo, qualunque fosse la ragione per cui per lui era così difficile vivere in quel mondo, era certo che avrebbe trovato le risposte che cercava una volta trovata Ecate. E quindi l’avrebbe trovata, a qualsiasi costo.

Non era giorno. Non si sentiva debole, fiacco, stanco. In mezzo alla notte, tra quelle ombre, con la sola luce della luna, si sentiva un’altra persona. Si sentiva potente. Dei mucchietti di ossa e un gigante figlio di Plutone non sarebbero bastati per fermarlo. Strinse i pugni, sentendo le proprie interiora attorcigliarsi. Tutto a un tratto cominciò a sentirsi più leggero, come se il suo corpo si stesse liberando di chissà quale zavorra inutile che lo teneva ancorato a terra.

L’espressione di Elias cambiò ancora una volta. I suoi occhi color oro si spalancarono e fece perfino un passo indietro, sembrando spaventato. Daniel corrugò la fronte, prima di accorgersi del lago di oscurità che stava cominciando ad invadere la radura: una gigantesca pozzanghera di acqua nera e stagnante, da cui perfino gli scheletri si tennero alla larga, emettendo degli strani versi simili a sibili. E non appena Daniel si accorse che quell’oscurità stava uscendo da lui, filtrando fuori dal suo corpo e gocciolando dai suoi vestiti, gli scappò un grido spaventato. La pozza si arrestò all’improvviso, bloccandosi a metà strada tra lui e tutti i suoi inseguitori.

«Deos meos» bisbigliò Nathan, pietrificato. Osservò Daniel sconvolto. «Ma chi diavolo sei, tu?»

Magari lo sapessi, pensò il semidio in fuga, paralizzato tanto quanto loro. Non aveva idea di che cosa avesse appena fatto. Sapeva solo che aveva seguito l’istinto, aveva pensato a quanto bene si sentisse, a quell’energia che gli scorreva nelle vene, ed era successo tutto quello. Quell’oscurità… era sua? Poteva… controllarla?

Non riuscì a pensarci, perché si accorse degli scheletri che, riprendendosi dallo stupore, ricominciarono ad avvicinarsi, camminando sopra la pozzanghera. Prima che Daniel potesse fare qualsiasi cosa, però, un altro rumore forò la notte, scuotendogli le ossa fino al midollo.

«BAU!»

Daniel sgranò gli occhi.

Non è possibile…

Dalla boscaglia spuntò fuori un’altra figura, molto più grande di tutti i presenti messi assieme. Un gigantesco segugio infernale che cominciò ad attaccare a vista gli scheletri. Prima che potessero reagire, uno di loro era già stato scaraventato con una zampata dall’altra parte della radura, mentre un altro si era ritrovato incastrato nella mandibola del molosso, sballottolato come un osso giocattolo di gomma.

«Ma cosa…?!» ululò Nathan, con voce più alta di un’ottava, prima che il segugio si voltasse verso di lui, con le orecchie alzate. Il figlio di Somnus gridò e si nascose dietro Elias, che invece aveva sollevato la spada con un’espressione di pura incredulità stampata in faccia.

Il segugio sputò lo scheletro che aveva in bocca e si voltò verso di Daniel, schiudendo le fauci e facendo penzolare la lingua di carta vetrata rosa tra quei denti così affilati da affondare nel cemento. «BAU!»

Daniel realizzò cosa stava per succedere.

«No no no no, fermo, fermo!» urlò disperato, mentre il molosso lo caricava a muso duro.

Esattamente come quel pomeriggio lo cilindrò in pieno. Il ragazzo gridò, un dolore atroce lo colpì al petto, e si aspettò qualcosa di perfino peggiore quando si sarebbe schiantato sulla schiena, con il segugio a schiacciarlo con il suo peso, tuttavia accadde l’inaspettato: non appena toccò terra con la schiena si sentì affondare nel terreno, mentre l’oscurità che fino a un istante prima aveva invaso la radura cominciava a ricoprire ogni cosa.

Tentò di urlare disperato, ma non uscì un solo sibilo dalla sua gola. L’unica cosa che riuscì a fare, fu osservare impotente le tenebre che circondavano lui e il segugio infernale.

E l’ultima cosa che ricordò, fu la lingua graffiante del molosso che gli assaliva la faccia.

 

***

 

Una raffica di immagini diverse apparve di fronte a lui.

La terra che ribolliva. Figure oscure che lo circondavano, gli occhi bianchi lattiginosi, i corpi neri come la notte, senza forme, senza tratti fisici. Un salone dal pavimento di marmo nero lucido, le pareti avvolte di tenebre che ribolliva su di esse, plasmandosi e cambiando forma come se fossero vive. Un trono di ossidiana vuoto esattamente al fondo di esso, da sopra il quale provenne la voce di una donna: «Sarai tu il mio prescelto.» 

Quando le immagini finirono, rimase soltanto oscurità. Daniel sentiva dolore dappertutto. Le ossa erano a pezzi, lo stomaco gli faceva male, ogni cosa bruciava così tanto che gli pareva di essere appena uscito da un vulcano.

«Daniel.»

Un'altra voce lo chiamò all'improvviso. Era di una donna, dal timbro gentile. Era anche familiare, ma non riuscì a riconoscerla. «Svegliati, Daniel. Non abbiamo molto tempo.»

Daniel riaprì gli occhi. Ancora una volta, non vide altro che buio, un nero senza fine, denso come la notte più profonda. Il buonsenso delle persone le portava a credere che il buio fosse una cosa negativa, mentre la luce una cosa positiva. Quel luogo, quelle tenebre senza fine, avrebbero dovuto spaventarlo, farlo sentire in pericolo, invece avevano l’effetto opposto. Si sentiva… bene, lì. Come se fosse a casa. Quel luogo buio, di qualunque cosa si trattasse, ovunque fosse, gli trasmetteva una sensazione di pace e nostalgia che non credeva di aver mai provato prima.

Le tenebre di fronte a lui cominciarono a muoversi, ad assumere una forma. Non seppe come, ma Daniel riuscì a distinguere chiaramente la donna che gli apparve di fronte. Era avvolta in un mantello fatto di piume, intriso dell’oscurità che la circondava. Indossava un cappuccio da sotto il quale spuntava una lunga coda di capelli che ricadeva morbidamente sulla sua spalla, come una macchia di inchiostro. Nonostante lui non prestasse mai attenzione a quei dettagli, il suo viso era davvero bello, dalle labbra carnose e la pelle di un'insolita tonalità violacea. 

Quando aprì gli occhi, Daniel rimase senza parole: erano due fari luminosi, che squarciarono le tenebre e che gettarono un bagliore sul sorriso gentile e scaltro della donna. Si rese conto che in realtà non erano veri occhi, ma… stelle. Stelle in miniatura, brucianti di luce ed energia, impossibili da non notate, impossibile non rimanere incantati da esse.

Il ragazzo rimase pietrificato di fronte alla sconosciuta. Non perché catturato dal suo aspetto, dalla sua bellezza, o rapito dai suoi occhi, ma perché quella donna… aveva qualcosa di familiare. Se lo sentiva dentro, una sensazione fortissima, che stava occupando tutto quanto. L’istinto gli stava urlando a pieni polmoni che lei non era una donna qualsiasi. 

Come se le stelle al posto degli occhi e il corpo fatto di oscurità non fossero un segnale abbastanza chiaro. Ma c’era qualcosa di più. Camille aveva raccontato di come si fosse sentita quando aveva incontrato Ecate e a lui sembrò di provare proprio quella sensazione nonostante non fosse certo di cosa significasse davvero. 

«Chi… chi sei tu?» riuscì a domandare, con voce tremante.

Lei gli sorrise. I denti erano così bianchi da essere accecanti, una fila di perle d’avorio candido. Si avvicinò a lui senza che nemmeno se ne rendesse conto. Non era molto più alta di lui, eppure si sentì comunque un bambino di fronte a lei. Le mani della donna si posarono sulle sue spalle, calde, morbide. Gli accarezzò delicatamente una guancia, e la sua espressione si addolcì. «Quando verrà il momento, Daniel, lo scoprirai. Adesso, però, per la tua sicurezza devi sapere il meno possibile.»

«Sei… sei una dea?»

«Sì. Sono una dea. Non una dea conosciuta, però. O almeno… non sono conosciuta come lei.»

«Chi… chi è “lei”?»

La donna gli sorrise di nuovo, ma questa volta sembrava triste. «Devi promettermi una cosa, amore mio.» 

Quando lo chiamò in quel modo, Daniel sussultò. Le mani della donna tornarono a stringerlo per le spalle, con presa salda, forte. La sua espressione era di angoscia, ma cercava comunque di sorridergli, come se per lei lui fosse più importante di qualsiasi altra cosa. «Non ascoltare lei. Mai. Cercherà di usarti, di controllarti. Vorrà che tu faccia tutto quello che ti ordinerà, ma tu non sei suo. La tua... vita appartiene solo a te. Trova il tuo percorso, la tua strada. Trova la tua persona.»

«Io… non… non capisco» sussurrò lui. Gli venne da piangere e non seppe nemmeno il perché. In qualche modo, sentiva come se il dolore della donna fosse anche il suo.

«Vorrei poterti dire di più, Daniel, ma non posso espormi troppo, o lei potrebbe accorgersene. Devi adempiere al tuo destino e arrivare alla verità con le tue forze. Mi dispiace.»

Lo lasciò andare e cominciò ad indietreggiare, senza smettere di guardarlo e di rivolgergli quel sorriso venato di tristezza. «Volevo solo che tu sapessi questo, amore mio. Sappi che veglierò sempre su di te. Finché potrò fare qualcosa per aiutarti, ti prometto che la farò. Tu però devi aiutare la tua amica a salvare Ecate.»

Daniel fu scosso da un fremito. 

Salvare Ecate. Perché gli sembrava che ci fosse qualcosa di sbagliato in quella frase?

Chi era quella donna? E chi era la “lei” da cui lo stava mettendo in guardia? C’erano così tante domande che ancora avrebbe voluto fare, ma le parole si rifiutarono uscirgli dalla bocca. Le tenebre che li circondavano cominciarono a sfaldarsi, pareva di osservare inchiostro che colava lungo una tela, una tela che però era fatta di inchiostro a sua volta: una scena irreale e impossibile da descrivere.

L’immagine della donna cominciò a mischiarsi con le tenebre, affievolendosi poco per volta. Tese un’ultima volta la mano verso di lui, carezzandogli appena la guancia con la punta delle dita. «E non avere paura del tuo agitato fratello» disse ancora, poco prima di scomparire. «Gli ho chiesto io di venire a cercarti. Ti proteggerà.»

Daniel schiuse le labbra. Fratello? Quale fratello?

Quel mondo svanì. L’oscurità coprì l’oscurità, poi apparve la luce, e si ritrovò strappato via da una forza invisibile da quel rifugio caldo e accogliente.

 

***

 

Prima ancora che riaprisse gli occhi, capì che c’era luce. Lo capì perché, oltre a sentire caldo, si sentiva anche un autentico straccio.

E poi, arrivò la carta vetrata.

Gridò per la sorpresa, e per il dolore, mentre quella roba umida e ruvida gli scorticava la faccia, insudiciandolo e inondandolo con una zaffa nauseabonda. Spalancò le palpebre e si ritrovò con il muso di quel segugio infernale a un palmo dal naso, la lingua ancora a penzoloni e l’espressione giocosa.

«O-Ok…» riuscì a gemere. Avvicinò le mani, cauto, al collo del molosso, e cercò di spingerlo via delicatamente. Ci fu in istante di stallo, ma poi quello decise di separarsi da lui, anche se forse l’aveva fatto per sua volontà e non perché lui l’aveva allontanato. Daniel era abbastanza sicuro che se il segugio avesse scelto di rimanere sopra di lui, allora ci sarebbe rimasto.

Si rimise a sedere a fatica, di nuovo, e ogni movimento gli arrecò un male pazzesco, di nuovo. Tuttavia, a differenza della visione di poco prima, ora non era circondato da calde e accoglienti tenebre, ma era sdraiato su un prato in mezzo a chissà quale bosco sotto al sole autunnale. Doveva essere arrivato il mattino mentre era svenuto. Non faceva caldo, ma gli sembrò comunque di essere in procinto di trasformarsi in una pozzanghera come quella che aveva creato quella notte.

La prima cosa che fece, fu andare a mettersi all’ombra di un albero, prima gattonando e poi riuscendo a rialzarsi in piedi, con tutte le ossa e tutti i muscoli del corpo che protestavano per lo sforzo. L’ombra non migliorò molto la sua situazione, ma sempre meglio che starsene sotto il sole. Dopodiché si accorse del segugio che trotterellava per quella piccola radura in mezzo agli alberi, marcando il territorio, annusando l’erba, e annusando anche le due ragazze svenute poco distanti.

«Cam! Kiana!»

Daniel corse da loro proprio mentre il nasone del segugio infernale era ad un centimetro di distanza dai capelli di Kiana. D’istinto cercò il gladio, ma si ricordò di averlo perso. Capì ben presto, comunque, che non ci sarebbe stato bisogno della spada. Il segugio non sembrava ostile, anzi, tutt’altro. Non appena Daniel lo vide mentre leccava per bene anche la figlia di Venere, intuì che poteva stare tranquillo.

Certo, a meno che non la stesse solo assaggiando prima di mangiarsela, ma se fosse successo il ragazzo se ne sarebbe fatta una ragione.

Oltre a Kiana e Camille c’erano anche i borsoni, la tenda smontata e i sacchi a pelo. E di Elias, Nathan e gli scheletri non c’era più alcuna traccia. Daniel ripensò a quello che era successo, al segugio che gli saltava addosso facendolo sprofondare in mezzo alle tenebre, e ripensò a quello che aveva fatto Elias quando era apparso dal nulla.

«Tu… tu ci hai aiutati» mormorò sbalordito, verso il molosso. Quello si voltò verso di lui e piegò le orecchie, emettendo un guaito confuso. Daniel sorrise senza nemmeno rendersene conto, avvicinandosi al cane. «Hai… hai fatto un viaggio nell’ombra!»

«Bau?» Il segugio cominciò ad inseguirsi la coda all’improvviso, trasformandosi in una mortale centrifuga alta tre metri.

Una risatina scappò dalle labbra del ragazzo, sempre più incredulo. «Quindi non vuoi mangiarci!»

Il cane smise di correre in tondo e si sedette, per ispezionarsi là dove Daniel avrebbe preferito non mettere mai gli occhi.

«Oh, beh…» mugugnò, grattandosi la tempia. «… almeno ora so che sei un maschio.»

«BAU!» Il segugio saltò in piedi e gli leccò la faccia, strappandogli un altro grido, alimentato dal fatto che quella lingua era appena stata dove non sarebbe mai dovuta stare.

«Per favore, basta leccate» implorò Daniel, rabbrividendo. E pensare che anche i cani normali facevano quel genere di cose abitualmente, prima di leccare beati i loro padroni. Possibile che nessuno la trovasse una cosa disgustosa?

«Allora… ehm… quindi ora sei dei nostri?» domandò, anche se non si aspettava davvero una risposta. Il molosso, infatti, piegò la testa e lo osservò come se la creatura bizzarra fosse lui. Doveva essere poco più che un cucciolo, non uno di quei cagnoni spietati e assetati di sangue. Forse aveva preso Daniel in simpatia, per chissà quale motivo, e lo aveva risparmiato nella battaglia, e poi lo aveva seguito di nascosto.

«Beh… in ogni caso, grazie per l’aiuto» concluse il ragazzo, regalandogli qualche buffetto sul collo. Gli diede le spalle e tornò a concentrarsi sulle ragazze svenute.

Se nemmeno la lingua graffiante del cane era bastata per svegliare Kiana, dubitava che lui ci sarebbe riuscito. Provò a concentrarsi su Camille, ma fu tutto inutile, nemmeno lei volle saperne di riaprire gli occhi. Respiravano ancora, quindi se non altro erano vive, ma erano così rigide da sembrare morte. L’incantesimo di Nathan per il sonno doveva essere stato molto più potente di quanto avrebbe potuto immaginare. Su di lui, però, non aveva funzionato. Daniel storse le labbra, corrucciato. Perché su di lui non aveva funzionato? Forse per lo stesso motivo per cui le empuse non lo avevano ingannato.

No… sapeva bene perché le empuse non l’avessero fregato, e non era affatto lo stesso motivo.

Lasciò perdere con un sospiro. Pensarci su era inutile. E anche tentare di svegliare quelle due era inutile. C’era la magia di Somnus, il dio del sonno, di mezzo, non sarebbe mai riuscito a ridestarle. Forse solo Nathan poteva spezzare l’incantesimo, ma di tornare indietro non se ne parlava. Doveva cercare aiuto. Ma dove? Da chi? 

Daniel si passò la mano tra i capelli con un sospiro esausto. Le cose erano precipitate così in fretta che nemmeno gli sembrava vero. Dov’erano, a venti chilometri dal campo, neanche? Nemmeno a San Francisco erano riusciti ad arrivare. Forse avrebbero davvero dovuto lasciare ad Ashley le redini della situazione.

«Sì, come no» gracchiò.

Afferrò prima Camille e poi Kiana e le trascinò dietro dei cespugli, nascondendole da sguardi indesiderati. Non aveva idea di quanto si fossero allontanati con quel salto nell’ombra, ma di sicuro Elias era ancora là fuori, a cercarli assieme ai suoi maledetti scheletri.

Nel frattempo il segugio infernale era ancora lì, a trovare tutto quanto interessante: foglie, ramoscelli, ciuffi d’erba, era come se non avesse mai visto niente di così incredibile. A un certo punto cominciò a camminare attorno alle due ragazze, annusandole e poi scavando buche. Augurandosi che non avesse frainteso e che ora stesse creando delle fosse, Daniel gli diede le spalle e si guardò attorno per pensare a una soluzione.

Il sogno che aveva appena fatto balenò nella sua mente all’improvviso. Provò a ricordare il viso di quella donna nel mantello e con suo enorme stupore realizzò di riuscirci. Poteva immaginarsela alla perfezione, di fronte a lui, con quegli occhi e quel sorriso brillanti.

Una strana sensazione cominciò a farsi largo dentro di lui, un moto di sconforto che non riuscì a spiegarsi. Quella donna aveva un aspetto familiare. Anche la sua voce. Eppure, niente. La sua mente giocava con lui: gli sembrava di trovarsi di fronte a un puzzle incompleto. 

Però gli aveva detto di salvare Ecate. Daniel si inumidì le labbra e fissò il suolo.

Qualcosa non tornava. Ma cosa? E chi era il fratello che lei aveva mandato ad aiutarlo? 

Si voltò verso il segugio infernale. Lo osservò mentre teneva il muso infilato in una buca a mo' di struzzo e scosse la testa.

Certe volte aveva proprio dei pensieri assurdi.

Un grido si alzò in aria all’improvviso, facendolo sobbalzare. Sembrava una donna ed era allarmato.

«Bau?» Il segugio drizzò le orecchie. Subito dopo si era già tuffato in mezzo alle fronde. L’urlo di quella donna si ripeté, ora terrorizzato, e Daniel realizzò che era molto vicino. Imprecò tra i denti e cominciò a correre, sperando che non si trattasse di una mortale di passaggio che era stata assalita da un furgoncino peloso a quattro zampe.

Corse tra le frasche, rinvigorito dalle ombre che gli altri alberi gettavano su di lui, scavalcò un mucchietto di cespugli e sbucò in un’altra radura. Ritrovò il segugio infernale chino sopra una figura, le zampe premute su di essa per tenerla ferma. Non appena la vide, Daniel spalancò gli occhi. Era una donna, sì, ma solo per metà: la parte posteriore era quella di un cavallo nero come la pece.

«L-Lasciami! Lasciami andare mostro!» si stava lamentando quella, tentando di spingere via, inutilmente, il segugio infernale.

«Una… una centaura» sussurrò Daniel, incredulo.

Lei si accorse di lui. Il suo viso era grazioso, tutto sommato. Magro, dello stesso colore della sua parte equina, con grandi occhioni marroni, da cerbiatto. I capelli invece erano lunghi e color caramello, intrecciati con ramoscelli. «Ti prego, aiutami!»

Daniel trasalì, e si rivolge al segugio. «Ehi… ehm… lasciala andare.»

Quello non l’ascoltò subito. Prima avvicinò i denti alla centaura, strappandole un altro grido. Le annusò i capelli, emise un ringhio baritonale, forse per farle capire chi comandava, ma poi la lasciò andare e si rimise accanto al ragazzo.

«Quel… quel coso è tuo?!» domandò la centaura, incredula. Aveva una vocetta squillante, con un forte accento californiano.

«Ehm…» Il ragazzo provò a rispondere, ma poi si rese conto che la centaura era a petto nudo, con le sue forme di donna umana – molto, molto generose – in bella vista.

«Oh, cavolo!» Distolse lo sguardo, il sangue che schizzava al cervello per l’imbarazzo.

La centaura tentò di rialzarsi, ma gemette per il dolore e rimase bloccata a terra. Daniel si accorse che aveva una freccia conficcata nella coscia posteriore.

«Aspetta, ti aiuto» si offrì, avvicinandosi.

«N-No! Non ti avvicinare!» gridò lei, con voce allarmata. «S-Sto bene così! V-Vattene ora!»

Daniel corrugò la fronte, domandandosi perché stesse rifiutando il suo aiuto. Poi, però, si ricordò che aveva altri problemi e scrollò le spalle. «Come ti pare.»

Si voltò e fece per andarsene, quando un fruscio provenne dall’altra parte della radura. Il segugio infernale cominciò a ringhiare e anche la centaura fece un verso spaventato. Un uomo incappucciato spuntò tra i cespugli, con un arco pronto a scoccare stretto tra le mani. Mugugnò stupito quando si accorse di quell’improbabile trio. La centaura, invece, riuscì a rialzarsi giusto per barcollare al riparo dietro a Daniel. Non ci volle molto prima che il semidio collegasse l’arco dell’uomo alla freccia conficcata nella sua coscia.

«Spostati, ragazzino» disse quello infatti, scrutandolo da sotto il cappuccio. «Sto dando la caccia a quella preda da giorni. Non la perderò per causa tua.»

Daniel lanciò una rapida occhiata alla centaura, con la coda dell’occhio, e si accorse del suo sguardo terrorizzato, gli occhi da cerbiatto spalancati.

«Sei un cacciatore?» domandò all’uomo, calmo, studiando i suoi vestiti. Pantaloni lunghi e cappotto spesso, marroni scuro, una faretra piena di frecce e una cintura a cui erano appesi un coltello e una scarsella di pelle.

«Quello che sono non è affar tuo» sbottò l’uomo, prima di dare una rapida occhiata al segugio infernale, che nel frattempo aveva piegato le zampe, pronto ad attaccare.

«Io odio i cani. Sono solo dei bastardi ingrati.» Infilò la mano nella scarsella. «Questa volta però sono preparato.»

Daniel pensò che avrebbe estratto un’altra arma, invece tirò fuori qualcosa di molto diverso: un grosso pezzo di carne, avvolto nell’alluminio, di un intenso colore rosso. Non appena lo vide, il segugio emise uno strano guaito.

«Ehi bello, guarda qui. Lo sai cos’è questa? Questa è carne di vacca rossa. Rarissima da trovare, da quando il Ranch è stato chiuso, ma deliziosa, davvero, davvero, deliziosa. La vuoi?» Cominciò ad agitarla e il molosso la seguì con lo sguardo, rapito. «Bene.» L’uomo la scaraventò in mezzo alla vegetazione, rendendola un puntino invisibile tra gli alberi. «Valla a prendere allora!»

«Oh, andiamo» commentò Daniel. «Pensi davvero che…»

La terra tremò, tanto forte il segugio cominciò a correre. Si tuffò di nuovo tra i cespugli e svanì alla vista in un batter di ciglia. Il ragazzo rimase immobile, atterrito, mentre l’uomo rideva soddisfatto. «Visto? Non ci si può fidare dei cani. Sono solo bestie prive di cervello.»

«Ma… tu te ne vai in giro con pezzi di carne nella borsa?» domandò a quel punto Daniel, non sapendo nemmeno che cosa lo sbalordisse di più.

«Dopo quello che mi è successo? Sarei stupido a non farlo.» La voce del cacciatore era carica di veleno. Sembrava proprio nutrire un odio profondo per i cani, anzi, per ogni cosa in realtà. Sollevò l’arco, puntandolo verso di Daniel. «Non che la cosa ti riguardi.»

La centaura gridò spaventata e Daniel, per qualche, stupido, motivo, decise di farle da scudo. «Ascolta, non ho idea di che cosa tu voglia da lei, ma…»

Uno schiocco improvviso, seguito da un sibilo. Qualcosa perforò l’aria, rapido come una freccia, e punse il petto di Daniel trasformando la sua frase in un mugugno soffocato. Barcollò all’indietro, le labbra schiuse e gli occhi spalancati. Abbassò lo sguardo, credendo di essere in preda alle allucinazioni.

Rapido come una freccia. Sì, come frase si addiceva piuttosto bene.

Con la mano tremante per i brividi, tentò di staccarsi quella freccia apparsa improvvisamente nel suo petto, ma non appena la sfiorò sentì le forze mancargli. Stramazzò prima in ginocchio, poi su un fianco.

«Levati di mezzo» disse il cacciatore, mentre un altro grido terrorizzato proveniva dalla centaura. In mezzo al fortissimo fischio delle sue orecchie, però, entrambe le loro voci furono poco più che bisbigli ovattati.

Una disarmante sensazione di freddo lo colpì al petto, mentre avvertiva tutte le forze abbandonarlo, insorgendo dalla prigione del suo corpo attraverso la ferita sanguinante. Nella periferia della sua visuale, vide nubi di tenebre cominciare a danzare, tracciando archi e piroette nell’aria come ballerine fatte di ombre.

Iniziarono a coprire ogni cosa, il cielo, il bosco, tutto. Un ultimo gemito gli scappò dalle labbra, poi le sue palpebre divennero di cemento, e tutto il mondo scomparve.



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Capitolo 11
*** Un destino oscuro come pochi... tanto per cambiare ***


XI

Un destino oscuro come pochi… tanto per cambiare 



Daniel non era mai stato un grande sostenitore dell’“andarsene con onore” o cose del genere, però… che schifo.

Che razza di fine patetica. Ucciso da un cacciatore sconosciuto, in un bosco senza nome, con Camille e Kiana prive di sensi, rimase indietro, alla mercé di chiunque le avrebbe trovate lì.

Quanto avrebbe voluto alzarsi in quel momento stesso, farla pagare a quel tizio e tornare dalle sue compagne. Non poteva. Il corpo non rispondeva ai comandi. Era come cercare di trascinare un peso mille volte superiore a lui. Una battaglia persa in partenza, uno sforzo inutile. Non c’era energia nelle sue braccia, nelle sue gambe.

Che schifo, si ripeté.

Poi si rese conto di una cosa. Se era morto…. come faceva ancora a pensare?

Forse era nella sala d’attesa di Caronte, o quello che era, in attesa di essere processato. Funzionava così, no? Avrebbe dovuto fare più attenzione durante le lezioni.

Certo, perché studiare dove si finisce quando si muore è il sogno di tutti.

Almeno il sarcasmo non lo aveva abbandonato.

No, però. C’era qualcosa di strano. Si sentiva uno schifo, cioè, molto più del solito, ma non si sentiva così tanto uno schifo. Cercò di concentrarsi, di trovare un appiglio, qualcosa, qualsiasi cosa in grado di lenire quel senso di disorientamento che lo pervadeva, quella sensazione di spossatezza infinita che lo teneva intrappolato come una farfalla in una ragnatela.

La freccia. Riusciva a sentire la freccia conficcata nella sua carne, proprio in mezzo ai polmoni, nel centro esatto del petto. Pungeva, ma non faceva male. Com’era possibile?

«Non avere paura delle tenebre, Daniel. Ti proteggeranno, sempre.»

Quella voce… era quella della donna nel suo sogno. Ma l’aveva sentita davvero, o era frutto della sua mente delirante?

Non lo sapeva. Sapeva solo che aveva appena trovato il suo appiglio. Si concentrò su quell’oscurità attorno a lui e si rese conto che fino a quel momento non aveva fatto altro che proteggerlo, come un bozzolo. La sentì scorrere sul suo corpo e un brivido lo percorse, mentre poco per volta riacquisiva la sensibilità alle gambe, alle braccia, e diventava più cosciente di quello che lo circondava.

Fu come un bagno caldo dopo una durissima giornata di allenamenti e lavoro. Una sensazione piacevole, appagante, il canto di gioia del suo corpo che rinasceva lentamente, centimetro dopo centimetro, accarezzato dal tocco delicato dell’oscurità più profonda, gentile tanto quanto le carezze di quella donna misteriosa. C’era forse lei, dietro tutto quello? O stava partendo tutto da lui?

Ancora una volta, non ne aveva idea. Però non si sarebbe fermato. Sentì l’oscurità scivolargli sul petto, raggiungendo il punto in cui era stato colpito da quella freccia, e una scossa elettrica lo pervase, facendogli spalancare gli occhi.

Gli alberi gettavano una fitta ombra su di lui, facendolo sentire a suo agio. Delle voci giunsero alle sue orecchie, e le riconobbe subito: erano il cacciatore e la centaura.

«… senza fare storie!» stava dicendo l’uomo, con voce brusca.

Subito dopo, arrivò quella acuta e dall’accento marcato della centaura: «T-Ti ho già detto che ti sbagli! Il mio sangue non può curarti! Solo perché sono una femmina non significa che…»

«Sta’ zitta! Non ti ho inseguita per tutto questo tempo solo per farmi abbindolare dalle tue chiacchiere! Sta ferma e fammi lavorare, altrimenti…»

Un lunghissimo mugugno scappò dalle labbra di Daniel, strappando un grido ad entrambi. Il ragazzo si mise a sedere, con la testa che ciondolava e una voglia incredibile di vomitare.

«Perché non vi tappate la bocca tutti e due?» rantolò infastidito, mentre il suo sguardo si posava sulla freccia ancora piantata nel petto. Con un gesto del tutto meccanico l’afferrò e la strappò via, secco e veloce. Fece male all’inizio, ma passò subito. Si aspettò che la ferita cominciasse a grondare sangue, invece non accadde nulla del genere.

Anzi, accadde l’esatto opposto. L’oscurità che aveva visto poco prima, la stessa nel sogno, la stessa che gli era uscita dal corpo quando Elias lo aveva trovato, si manifestò di nuovo: spuntò dal terreno, germogliando dalle ombre che gli alberi proiettavano sulla radura, e si avvicinò a lui. Daniel la lasciò fare mentre saliva sul suo petto. Da una parte, era troppo stordito per capire cosa stesse davvero succedendo; dall’altra si sentiva come se tutto quello fosse normale.

E, soprattutto, aveva bene impresse nella mente le parole di quella donna: doveva fidarsi delle tenebre.

L’oscurità lo ricoprì come una coperta. Gli strappò un gemito sorpreso e gli trasmise una sensazione di dolce torpore. Dopodiché si tuffò nel buco nel suo petto, mozzandogli il respiro: gli sembrò che tutte le energie che aveva perduto gli stessero tornando in un solo istante. Più l’oscurità si infiltrava dentro di lui, più si sentiva… bene. 

Infine, la ferita sul petto si rimarginò senza lasciare nemmeno un graffio. E, con suo enorme stupore, anche i vestiti si ricucirono da soli. L’oscurità era anche una brava sarta, a quanto pareva.

«Tu… tu dovresti essere morto!» esclamò il cacciatore, rimasto chino sulla centaura con un pugnale sguainato. La creatura aveva gli occhioni spalancati per la paura e per lo stupore.

«E tu lo sarai presto» ribatté Daniel, la voce calma e roca che tradiva vene di pura e semplice rabbia. Si alzò in piedi, senza sentire più dolore o stanchezza, e si avvicinò a lui.

L’uomo indietreggiò di corsa e afferrò l’arco. Gli scagliò un’altra freccia, che però sbatté contro l’oscurità che circondava Daniel come un’armatura. Rimbalzò a terra, con la punta spezzata, e il cacciatore sussultò. «Ma… ma che…»

«Ora tocca a me.» Daniel alzò una mano, di nuovo senza sapere esattamente cosa stava facendo. Era guidato dall’istinto, e basta. Si stava fidando delle tenebre che lo circondavano, e loro stavano facendo buon uso della sua fiducia.

L’immagine del cacciatore sfarfallò, rimpiazzata ancora una volta da una di quelle figure scure, senza tratti fisici, con gli occhi fatti di sclera bianca. Non appena la vide, qualcosa si smosse nel corpo di Daniel, partendo dal cuore fino ad arrivare alla sua mano: un proiettile di oscurità uscì dal suo palmo e si abbatté sul cacciatore, che stramazzò a terra con un grido agonizzante. Il cappuccio gli si abbassò, scoprendo il volto. Non appena lo vide, Daniel si pietrificò.

Entrò in conflitto con sé stesso. Da una parte sarebbe voluto scoppiare a ridere. Da un’altra, invece, era così sconvolto che si dimenticò perfino come respirare.

«Maledetto… impiccione…» rantolò l’uomo, rimettendosi a fatica in ginocchio. Si accorse dell’espressione di Daniel e si tastò i capelli, realizzando di essere rimasto senza cappuccio. Spalancò gli occhi e impallidì. O almeno, forse era impallidito: era difficile capirlo, visto che aveva la faccia da capra. Anzi, no. Da cervo, con il muso allungato, il naso nero e gli occhietti scuri.

«N-Non guardare!» sbraitò terrorizzato. Emise un grugnito che ricordava proprio il verso di un cerbiatto spaventato e sollevò di nuovo il cappuccio sopra i riccioli neri. Afferrò di nuovo l’arco e si rimise in piedi, pronto a scoccare di nuovo. «V-Va bene, schifoso bastardello! Sei stato fortunato la prima volta, ma non ti andrà bene anche la seconda! Vattene finché sei in tempo, o…»

«BAU!»

Il segugio infernale riapparve in quello stesso istante, con dei pezzettini di carne tra i denti. Ringhiò verso il cacciatore, che emise un altro strano gridolino e cominciò a rovistare nella scarsella. «A-Aspetta! Ho altra carne di vacca rossa, devo solo… e-ehm… e-era qui, ne sono sicuro!»

«Ehi, bello» mugugno Daniel, verso il segugio, prima di indicare con il mento il cacciatore. «Se hai ancora fame, è tutto tuo.»

Il molosso non se lo fece ripetere due volte: piegò le zampe e scattò verso l’uomo, che gridò di nuovo di terrore e gettò via l’arco per darsela a gambe in mezzo al bosco. Entrambi svanirono di nuovo tra gli alberi e un silenzio irreale scese nella radura. Daniel si esaminò il palmo da cui aveva scagliato quel proiettile di luce nera come se fosse una pistola ancora fumante. Da dove gli era uscita quella roba? Era sempre stato capace di farlo? Era a quello che si era riferita la donna, quando aveva parlato di fidarsi dell’oscurità?

In effetti, era stata davvero una bella sensazione. Non si era mai sentito così forte, potente, vivo. Buffo che per sentirsi in quel modo avesse quasi dovuto morire. Adesso, però, si sentiva inarrestabile. Sogghignò sollevando entrambe le mani, ed entrambe vennero coperte di oscurità. Ordinò all’oscurità di svanire, e quella scomparve. Le ordinò di riapparire, e quella riapparve. Le ordinò di farsi più intensa e quella obbedì, ribollendo sulla sua pelle. Ogni suo pensiero era un ordine e ogni ordine veniva eseguito alla lettera.

Tutto ad un tratto gli parve di aver avuto quelle capacità da sempre e di averle già maestrate in ogni minima sfaccettatura. Gli sembrò che quei poteri non avessero alcun segreto per lui e tutto quanto nel giro solo di pochissimi minuti.  

Che altro poteva farci, con quegli assurdi poteri?

Sentì la sua armatura di tenebre agitarsi attorno a lui, come rispondendo a quel pensiero. Cominciò a pensare a un mucchio di scenari piuttosto interessanti. Per prima cosa avrebbe potuto affrontare Elias, e dargli una bella lezione. Era davvero curioso di vedere i suoi maledetti scheletri combattere contro qualcosa che non potevano nemmeno scalfire. E poi era curioso di sentire le grida di dolore di quel gigante muto.

Sarebbe stato molto divertente ascoltarle.

E poi… Ashley. Le avrebbe cancellato quel sorriso dalla faccia. Avrebbe smesso di osservare tutti dall’alto verso il basso solo perché era la figlia del grande capo sopra le nuvole. Le avrebbe insegnato per bene il significato della parola “umiltà”. E una volta fatto quello… beh, come diceva il detto: “Il cielo è il limite.”

“O forse nemmeno quello” pensò, con le ombre che si plasmavano attorno a lui facendolo sentire potente come mai era stato.

«M-Ma… ma come hai fatto?» Quella voce lo fece trasalire. Si voltò di scatto e realizzò che la centaura era ancora lì, a terra, a osservarlo. Sembrava spaventata, sorpresa e sollevata tutto assieme. Sussultò quando lui la guardò, però deglutì e si fece coraggio: «Quella freccia… ti aveva colpito in pieno! Come hai fatto a sopravvivere?»

Daniel sbatté le palpebre un paio di volte. Gli sembrò che la mente gli venisse strappata a metà. Sussultò e barcollò, premendosi una mano sulla tempia, mentre l’oscurità si dissolveva attorno a lui veloce come se non ci fosse mai stata. La sensazione di benessere svanì, così come tutti i pensieri di poco prima, finché non tornò ad essere il solito di sempre, stanco, spossato e infastidito da cosa, non lo sapeva nemmeno lui.

«Non lo so come ho fatto» mugugnò, sospirando profondamente. «Quanto… quanto tempo sono rimasto svenuto?»

«Non molto… qualche minuto. Però… sembravi davvero morto.»

Un grugnito sfuggì dalle labbra del ragazzo. «Quindi nulla di insolito.»

Ci fu un attimo di silenzio. Daniel si sforzò di guardare la centaura negli occhi. «Chi… chi era quell’uomo? Perché… ehm… aveva il muso di un cervo?»

La centaura scosse la testa. «So solo che era un cacciatore che è stato trasformato in un cervo dalla divina Diana, e poi sbranato dai suoi cani da caccia.»

«Questo spiega molte cose» commentò Daniel. «E perché ce l’aveva con te?»

«Perché… era convinto che il mio sangue potesse farlo tornare umano.»

«Ma il sangue di centauro non era velenoso?»

«È quello che ho cercato di dirgli! Però, visto che sono una femmina, era convinto che il mio sangue avesse l'effetto opposto di quello dei maschi!»

Il ragazzo si grattò la tempia. Non era sicuro che funzionassero davvero così le cose. Forse quel tizio aveva confuso il sangue di centaura con quello di gorgone.

«Beh… non credo che ti darà più fastidio» concluse, con un’alzata di spalle.

La creatura rimase in silenzio, continuando a scrutarlo con quei suoi grossi occhioni marroni.

«Ehm…» Daniel cominciò a sentirsi a disagio. «Allora… ho lasciato le mie amiche senza protezione, quindi…»

«Hai un’aura malvagia.» Quell’affermazione molto gentile lo lasciò interdetto. La centaura tentò di nuovo di rimettersi in piedi, ma la zampa ferita le cedette per prima, costringendola a terra con uno sbuffo infastidito. Incrociò di nuovo il suo sguardo. «Sei… malvagio?»

Daniel esitò. Che razza di domanda era quella?

E perché non riusciva a risponderle?

«I-Io…»

«Mi farai del male?» chiese allora lei, con voce calma. Sembrava intimorita, ma allo stesso tempo reggeva il suo sguardo senza mostrare traccia di incertezza.

«No, certo che no. Perché dovrei?»

Lei sollevò le spalle. Non rispose, ma Daniel intuì subito la sua difficoltà nel fidarsi degli altri.

«Non ti farò del male» la rassicurò. Indicò la freccia ancora conficcata nella sua coscia. «Se vuoi posso aiutarti con quella, e poi… possiamo salutarci.»

«Va… va bene» annuì lei, appoggiando una mano vicino al punto ferito.

Daniel si avvicinò con passo lento e le si inginocchiò accanto, evitando movimenti bruschi. Afferrò un lembo della maglietta e lo strappò, per poi porgerlo alla centaura. «Tieni. Mordi forte.»

Lei reagì con sorpresa. «Oh… v-va bene…»

Il ragazzo chiuse la mano attorno alla freccia. «Al tre la tiro via. Pronta?»

Con la stoffa in bocca, la centaura annuì.

«Uno… due… tre!»

Un grido soffocato uscì dalla bocca tappata della centaura, mentre la freccia veniva estratta con un gesto secco.

«Tranquilla, era una freccia semplice. La punta non si è rotta. Però non ho niente per disinfettare.»

«Ah… non… non preoccuparti per quello. Guarirò.»

Daniel gettò via la freccia, mentre la centaura, zampa dopo zampa, riusciva a rimettersi in piedi. Lo sovrastò completamente con la sua statura.

«G-Grazie» bisbigliò riconoscente, con quel viso scuro e magro incastonato tra le lunghe ciocche color caramello.

Malgrado tutto, Daniel riuscì ad abbozzare un sorriso. «Figurati. Beh, buona fortuna.»

Stava per allontanarsi, domandandosi che fine avesse fatto il segugio infernale, quando lei lo afferrò per il braccio. «A-Aspetta! Vuoi davvero abbandonarmi così?!»

«Eh?» Daniel si voltò e il petto della centaura si trovò esattamente di fronte a lui, strappandogli un grido di sorpresa. I capelli le scendevano lungo il busto, coprendo in parte quello che andava coperto, tuttavia non era abbastanza. Ma non le conosceva le magliette, quella?!

«Mi salvi la vita e poi mi abbandoni?!» protestò ancora lei, strattonandolo.

«Ma… non ero malvagio?»

«Lo saresti ancora di più se mi lasciassi sola!»

Daniel sentì la testa girare. Quella tizia ci aveva messo poco a cambiare idea su di lui.

«Credevo che i centauri vivessero in branchi» riuscì a dire, districandosi dalla sua presa prima che gli spezzasse il braccio. «Dov’è il tuo?»

La centaura si rabbuiò. «Sono scappata dal mio tanto tempo fa. Non ho nessun branco.»

«E… perché sei scappata?»

Lei rimase in silenzio ancora per diversi istanti, e fu così che Daniel intuì che non era un argomento che le andava di trattare. Alla fine, quella sospirò. «Erano dei selvaggi. Volevano solo… divertirsi, e spaccare cose. E bere. Bere un sacco.» Rabbrividì. «E poi… insomma… ero l’unica femmina.»

Avrebbe potuto dare subito quella risposta, e Daniel avrebbe compreso tutto. Conosceva i centauri, erano una specie violenta. Alcuni erano buoni, certo, primo tra tutti il tizio greco, Chirone, ma la maggior parte di loro… non proprio. Giusto il giorno prima il Campo Giove era stato attaccato anche da dei centauri. Alcuni suoi compagni erano stati uccisi, per causa loro. Di certo lei non aveva un aspetto pericoloso come i suoi simili, ma anche dopo aver saputo la verità non poteva portarsela dietro.

«Ascolta…» cominciò. «… sono già piuttosto inguaiato di mio. Non posso proteggere anche te.»

«N-Non devi mica proteggermi! Non ti sarò d’intralcio, te lo prometto!»

Daniel inarcò un sopracciglio. Stava per domandarle che cosa le avesse fatto cambiare idea così drasticamente su di lui, quando il segugio ripiombò nella radura con un balzo, facendola gridare di spavento. Il molosso sputò a terra qualcosa e fissò il semidio carico di aspettative, probabilmente in attesa di una ricompensa. Peccato solo che Daniel fosse troppo sconvolto da cosa avesse appena sputato.

Una testa. Per un secondo pensò che fosse quella del cacciatore di prima, ma poi si rese conto che era umana. O meglio, credeva fosse umana, finché la sua pelle non cominciò a rilucere, mostrando le ossa del cranio. Era una testa di scheletro. Daniel sussultò e tappò la bocca della centaura, che stava ancora gridando. «Non fare rumore!»

«M-Ma… è una testa, quella?!»

«Non è umana, sta tranquilla.»

«Questo non mi tranquillizza affatto!»

«Basta! Va bene, puoi venire con me, ma smettila di fare casino!»

«Sì!» esultò lei, con un sorriso enorme, prima di incrociare il suo sguardo. Si voltò subito, per non guardarlo più in faccia, anche se Daniel poté giurare che fosse arrossita. «C-Cioè… g-grazie» aggiunse imbarazzata.

Daniel fece una smorfia, e cercò di ignorare il fatto che si stesse comportando esattamente come Camille quando gli ronzava intorno. Forse ora capiva perché avesse deciso di punto in bianco di seguirlo. Cominciò a camminare. «Dai, andiamo.»

«Aspetta!» La centaura si mise al trotto dietro di lui. «Non so nemmeno come ti chiami!»

«Daniel» mugugnò lui.

«Io sono Penelope, molto piacere!»

«Sì, okay.»

«Bau!» Anche il segugio infernale cominciò a seguirli e Penelope rabbrividì.

«Viene anche lui?» domandò a bassa voce, forse per sembrare scortese di fronte al molosso che poteva staccarle la testa con un morso, e Daniel rispose che non ne aveva la più pallida idea.

«Credo che faccia un po’ quello che gli pare» ammise. «Speriamo che non si decida che gli andiamo stretti tutto a un tratto e provi a mangiarci.»

Penelope emise un verso spaventato che assomigliò allo uno squittio di un topolino. Continuò a lanciare occhiatine di sfuggita al segugio, ma non si lamentò più della sua presenza. Lui, d’altra parte, sembrava averla già accettata, perché non le ringhiò più contro e anzi, per la somma gioia di lei, provò anche ad annusarla.

«C-Come si chiama?» domandò ad un certo punto, allontanandolo prima che si avvicinasse troppo con il suo nasone.

«Il cane? Non ne ho idea.» Daniel scrollò le spalle. «Chiediglielo tu. Non potete parlare con gli animali, voi?»

Lei si indispettì. «Quello lo fanno i fauni! Non i centauri!»

Daniel rispose con un’altra alzata di spalle, tuttavia non gli sfuggì il fatto che avesse detto “fauni” e non “satiri”. E anche prima, aveva detto Diana e non Artemide. Quindi era una centaura romana.

Romana, ma con un nome greco. Buffo.

Era sorpreso, in realtà, di aver incontrato un esemplare come quello. Le femmine di centauro erano piuttosto rare. Al detto di tutto quello, Daniel poteva capire perché lei non volesse rimanere sola, e anche perché all’inizio era stata diffidente di lui. Essere una rarità poteva sembrare divertente nella teoria, ma nella pratica era tutta un’altra storia. Lui lo sapeva bene, dopotutto era l’unico al Campo Giove ad avere quasi diciassette anni senza essere stato riconosciuto. E non doveva guardare molto lontano per trovare qualcuno con una situazione simile alla sua. Camille, per esempio, era l’unica figlia di Trivia, la prima che il campo avesse visto dopo chissà quanto tempo.

Per alcuni, non lui, essere osservati come delle specie in via di estinzione poteva essere allettante, ma non ci voleva molto prima che diventasse fastidioso e basta.

«Comunque, lui non ce l’ha un nome» concluse Daniel. «Potremmo chiamarlo… Jack.»

«Jack

«Che ha che non va?»

«Non è un po’ troppo… banale?»

«Almeno è facile da ricordare.»

«Bau!» Jack sembrò gradire il suo nuovo nome, perché cominciò a saltellare attorno a loro, alternandosi tra annusatine e cappatele tra i cespugli per marcare il territorio, facendo la gioia di chissà quante driadi. Almeno, Daniel decise di interpretare quel comportamento come una dimostrazione di gioia, e di chiudere lì la questione. «E Jack sia.»

 

***

 

Dopo tutto quello che era successo – empuse, scheletri, salti nell’ombra, donne fatte di tenebre, due nuovi compagni di viaggio, essere quasi morto – avrebbe preferito che la giornata si concludesse senza altre sorprese.

L’ironia della sorte stava per abbattersi su di lui come un meteorite.

Quanto tornò indietro, non trovò Kiana e Camille da nessuna parte. A compensare la loro assenza c’era qualcun altro.

Penelope sobbalzò e anche Daniel indietreggiò, mentre studiava con astio la figura imponente stagliata nel punto esatto in cui aveva lasciato le due ragazze svenute. Era di certo un uomo, chiuso in un lungo mantello nero e sbrindellato. Indossava un elmo greco di bronzo, senza pennacchio. Puntò la sua attenzione su di lui non appena fu abbastanza vicino; Daniel venne percorso da un brivido, ma non riuscì a capire se l’istinto gli stesse dicendo di prepararsi a combattere oppure no.

«Bau!» Jack corse incontro all’uomo, emettendo un’altra cannonata di abbaio. Daniel avrebbe voluto gridargli di starsene fermo, ma si interruppe quando sentì l’uomo ridacchiare. Il segugio cominciò a fargli le feste come se fossero migliori amici: si sdraiò per terra e scoprì la pancia, facendosi grattare e tirando fuori la lingua compiaciuto.

«Sei piuttosto lontano da casa, eh?» La voce dello sconosciuto era bassa e cavernosa, ma non sembrava ostile. In maniera parecchio inquietante, assomigliava a quella di Daniel.

Per accarezzare il segugio aveva scostato il mantello, sotto al quale il semidio poté scorgere un’armatura di Ferro dello Stige e i foderi di due grosse sciabole, probabilmente dello stesso materiale. L’uomo misterioso spostò di nuovo la sua attenzione da Jack a lui, e un’altra scarica di brividi lo assalì.

«IIIK!» Penelope emise un altro squittio spaventato e si rannicchiò dietro di Daniel. «Malvagio malvagio malvagio malvagio!»

Daniel cercò zittirla, ma ci volle ancora un po’ prima che quel cuor di leone si calmasse. Dopodiché il ragazzo incrociò lo sguardo celato dall’elmetto dello sconosciuto. «Chi… chi sei? Dove sono le mie amiche?»

Quello continuò ad osservarlo impassibile. Diede un’altra grattatina sulla pancia di Jack, poi nascose di nuovo il braccio sotto il mantello. «Sono state prese.»

«P-Prese?!» Daniel sentì le sue interiora annodarsi. «Che significa?!»

«Prese. Portate altrove. Non sono più qui.»

Le gambe di Daniel rischiarono di cedere sotto il suo peso. Cominciò a tremare, le orecchie gli fischiarono. Non poteva dire sul serio. Era stato via pochissimo. Come avevano fatto a portarle via? E perché non avevano preso anche lui?

«C-Chi le ha prese?»

L’uomo non gli rispose. Rimase in silenzio, a osservarlo come un avvoltoio pronto a banchettare su una carogna. Quel tizio avrebbe fatto scappare perfino Elias. Daniel sentì le interiora attorcigliarsi e il suo corpo ribollire dall’interno. Quella sensazione di oscurità ricominciò a farsi sentire, sempre più forte, e lui ebbe la forte sensazione che lo stesse avvisando di prepararsi a combattere.

«Rispondi» ordinò, con tono deciso, ma senza impedire alla sua voce di tremolare. «Chi le ha prese? E dove le hanno portate?»

«Il tuo destino è oscuro come quello di pochi, Daniel García.»

Un pugno allo stomaco lo avrebbe fatto sussultare di meno. Il modo in cui disse quella frase gli fece gelare il sangue nelle vene.

«D-Destino? E tu che ne sai del mio destino?» Poi realizzò che lo aveva anche chiamato per nome. «Come fai a conoscermi? Che cos’hai fatto a Camille e Kiana?!»

«A loro non ho fatto nulla. Quando sono arrivato, loro erano già state portate via dai vostri nemici. Non è il loro destino, quello di cui sono venuto a farmi carico. Sono qui per te.»

«Per… me.» Un altro lungo brivido attraversò la spina dorsale di Daniel, mentre sentiva il petto sempre più oppresso da due morse stringevano senza lasciare scampo. L’oscurità cominciò a vorticare dentro di lui, un tornado di pura energia buia. Sentì le dica formicolare e si accorse delle nuvolette nere che si stavano propagando dai suoi palmi, sospinte dal battito del suo cuore.

«Sì, Daniel. Il tuo ruolo sarà molto importante nella guerra che sta per arrivare. Ma tutto questo si può ancora evitare» disse lo sconosciuto, con un tono che non tradì alcuna emozione, ma Daniel intuì subito a cosa stesse alludendo.

L’energia oscura non smise di fuoriuscire dal corpo del ragazzo, che strinse i denti animato da una rabbia del tutto nuova. «Vuoi… vuoi uccidermi?»

«Gli dei non possono interferire in maniera diretta. Dovresti saperlo.»

Daniel spalancò gli occhi: quindi quel tizio era un dio.

«Tuttavia, se dovessi farlo…»

L’uomo, o dio, fece un passo avanti e Daniel indietreggiò di riflesso, sbattendo contro Penelope, alla quale scappò un gridolino spaventato.

«… nessuno mi recriminerà tale azione. Perfino il re degli dei, Giove stesso, ha timore di me. Il mio operato non può essere contenuto nemmeno dalle regole stabilite nella creazione del mondo.»

Le mani di Daniel fremettero. L’oscurità pulso dentro di lui, desiderosa di riversarsi sul dio, di cancellarlo. Lo sconosciuto sollevò una mano all’improvviso, e fu come se ogni traccia di energia fosse stata risucchiata dal corpo di Daniel. Sentì i polmoni in fiamme, il mondo cominciò a vorticare attorno a lui, le ossa che si trasformavano in vetro e i muscoli che implodevano dall’interno.

Gridò, ma non uscì altro che un verso strozzato da lui. Cadde in ginocchio. La voce dell’uomo risuonò nell’aria, grave e straziante: «Questa stessa oscurità di cui credi di poterti fidare, sarà ciò che ti consumerà. Ti porterà a fare azioni di cui ti pentirai profondamente. Sarà causa di dolore, e morte. Le tue amiche, e tutti coloro che incontrerai sul tuo percorso, saranno in pericolo costante fintanto che tu rimarrai accanto a loro. Se ti uccidessi qui, Daniel, risparmierei molta sofferenza. Sarebbe la soluzione più semplice per tutti, incluso te.»

Il palmo dello sconosciuto pareva quasi un buco nero verso cui convergeva ogni cosa. Daniel vide come quella stessa oscurità che l’aveva fatto sentire potente venisse risucchiata senza alcuno sforzo dal dio e si sentì piccolo, insignificante, un puntino minuscolo all’interno di qualcosa di così grande da poterlo spazzare via con la sola forza del pensiero.

Scene terribili balenarono nella sua mente, di uomini morti in battaglia, di malattia, o in incidenti di tutti i tipi tra atroci sofferenze. Grida lancinanti, condite da persone che si strappavano i capelli in preda a chissà quali dolori, seguiti da corpi che cadevano mutilati da proiettili, spade o esplosioni. E, assieme ad ogni vita che veniva spezzata, era presente anche l’uomo di fronte a lui, che osservava come uno spettatore esterno, inespressivo e indecifrabile dietro il muro del suo elmo.

«Vuoi davvero proseguire con questo viaggio e arrivare fino in fondo, Daniel? Vuoi davvero scoprire la verità su di te, sulla tua identità?» Il dio abbassò la mano, e l’aria ritornò nei polmoni di Daniel, che si accasciò a terra in preda a tosse e spasmi, con la gola arsa e i muscoli che dolevano. Le immagini smisero di apparirgli in testa, ma era certo che non sarebbe mai riuscito a dimenticarsele.

«Vuoi sapere dove sono le tue amiche? Vuoi andare a salvarle, Daniel? Sei davvero sicuro di volerlo?»

Daniel provò a raddrizzarsi, tremolante. Attorno a lui non percepiva più nulla, né Penelope, né Jack, né il bosco. Erano soltanto loro due.

«Non potrai tornare indietro, una volta che avrai preso la tua decisione» continuò il dio. «Io ti sto offrendo una scappatoia. Una soluzione più semplice, e un destino molto meno austero di quello che ti attende.»

Daniel strinse i pugni. Tutto quello era assurdo. Il modo in cui gli stava parlando… sembrava davvero che la sua morte fosse la cosa migliore. Ma come poteva quel tizio apparire dal nulla, parlargli del suo destino pieno di morti e dolore, e poi domandargli se voleva essere ucciso così?!

Drizzò la testa, stringendo i pugni per la rabbia. Prima che potesse rispondergli, qualcosa si mosse nella boscaglia.

Il ragazzo trattenne il respiro, pensando che gli scheletri li avessero trovati di nuovo. A quel punto, non aveva idea di che cosa sarebbe potuto accadere. Ciò che si fece strada tra i cespugli invece fu molto diverso, ma non per questo meno sconvolgente.

«Fermo dove sei!» gridò un uomo, puntandogli contro un fucile. Era vestito da testa ai piedi con una tuta mimetica, nera, come un soldato, un berretto a visiera e un auricolare all’orecchio. Il resto del viso era coperto da un passamontagna nero. Un’altra dozzina di individui vestita proprio come lui si fece largo tra le fronde, apparendo da ogni angolo della radura per circondarli.

Daniel non credette ai propri occhi: erano mortali. Ma non sembravano poliziotti, o soldati dell’esercito. Non avevano loghi, simboli, distintivi, nulla che potesse permettergli di capire chi fossero davvero.

«Alza le mani!» gridò uno di loro, rivolto verso Daniel.

Jack cominciò a ringhiare e Penelope gemette di nuovo spaventata, nascondendosi dietro il semidio. I soldati non parvero per niente turbati dalle due creature, o dal dio. Fu come se non li avessero nemmeno visti.

Un soldato si premette il dito sull’auricolare e scavò un buco con lo sguardo nel petto di Daniel. «Signore, abbiamo trovato l’ultimo.»

L’ultimo?! 

Daniel spalancò gli occhi. Camille e Kiana erano state prese. Lui era l’ultimo. Dei boati assordanti lo fecero gridare di sorpresa: uno dei soldati aveva appena sparato in cielo. «Sei sordo?! Alza le mani!»

«Che cosa scegli, Daniel?» Il dio non aveva più mosso un muscolo. «Posso porre fine a tutto quanto qui. Tu morirai. Molte sofferenze verranno risparmiate.»

Jack cominciò a ringhiare più forte. Affondò le zampe nel terreno, le zanne scoperte, la bava che scivolava tra le fauci.

«D-Daniel» sussurrò Penelope, terrorizzata.

«Non hai più tempo, Daniel. Mi serve una risposta adesso.»

«Alza le mani!»

Daniel volle urlare per la frustrazione. Ma come diamine aveva fatto a finire in quella situazione? Perché aveva scelto di accompagnare Camille e Kiana in quella stupida impresa? A lui non importava niente di tutto quello! Voleva solo… voleva solo…

Rimase immobile, con le labbra schiuse.

Che… che cosa voleva?

«Io… io non morirò qui» sussurrò, come in trance. Incrociò lo sguardo nascosto dall’elmo del dio e serrò la mascella. «Non morirò qui. Hai capito?»

«Sì.» Il dio sollevò una mano. «Ho capito.»

Delle urla strazianti si sollevarono nella radura, seguiti dai latrati di Jack. I mortali caddero in ginocchio uno dietro l’altro, premendosi le mani sulle tempie, gli occhi fuori dalle orbite. Nugoli di oscurità si sollevavano da terra, circondandoli in sbuffi di fumo nero.

Il dio strinse le mani a pugno e le grida crebbero di intensità. Le tenebre ricoprirono i corpi dei soldati. Jack continuò ad abbaiare verso gli uomini in ginocchio, mentre Penelope si rannicchiò dietro di Daniel, premendo la fronte contro la sua schiena. Un brivido gli attraversò l’intera colonna vertebrale quando la sentì piangere.

Quando l’uomo riaprì le mani, tutto finì. Venti corpi senza vita stramazzarono a terra, le palpebre sgranate. Sotto i loro passamontagna, Daniel era certo ci fossero espressioni di puro terrore.

Lo sconosciuto marciò verso uno dei soldati morti e gli sfilò l’auricolare. Se lo rigirò tra le dita, studiandolo meticolosamente. «Questi uomini hanno fatto la scelta sbagliata, Daniel. Proprio come te.»

Il dio si portò le mani dietro la testa. Cominciò a rimuovere l’elmetto. Secondo dopo secondo, lembi di pelle di un pallore cadaverico apparvero di fronte agli occhi sempre più sconvolti di Daniel.

Era un uomo trasandato, con i capelli spettinati, un’ombra di barba rada sulle guance, occhiaie perfino più profonde di quelle di Daniel e il mento pronunciato. Il viso sarebbe stato perfino bello, se solo non fosse stato così… incattivito.

«Ma se il tuo desiderio è davvero quello di proseguire, io non ti intralcerò» concluse, gettando via l’elmo e scrutando Daniel dall’alto con un’espressione stanca che aveva un che di familiare.

«M-Ma… tu chi sei?» riuscì a domandare il ragazzo, con un sussurro.

«Io sono colui che guida gli uomini verso le fini tragiche a loro predestinate. Il dio del destino avverso e inevitabile.» Lo sconosciuto lo trafisse con uno sguardo in grado di leggergli l’anima. «Immagino che tu abbia sentito parlare delle Parche, coloro che tessono il destino degli uomini, e recidono il filo della loro vita. Loro, però, sono solo una faccia della medaglia. Io sono l’altra. Il mio nome è Moros. Fatum per i romani.»

 

 

  

 

 

Salve gente, scusate per la lunga attesa, ma sono stato molto impegnato con un altro progetto in questi giorni. Potrebbero verificarsi altri ritardi nei giorni e settimane a venire, perciò chiedo scusa già in anticipo. E chiedo anche scusa a Roland e Farkas per non aver risposto alle recensioni, sappiate però che vi ringrazio davvero di cuore. 

Poi, quando ho pianificato la storia, mi ero totalmente dimenticato che anche nella Spada del Paradiso c’è stato un rapimento simile a questo, perciò chiedo scusa per la similitudine, però vi posso garantire che le cose andranno in modo mooooolto diverso rispetto alla Spada (e ci saranno altre belle sorprese, con altri personaggi greci inediti simil Moros, che spero vi sia piaciuto). 

E sì, il cacciatore era Atteone, ma non mi sono dilungato molto su di lui, ho pensato solo che fosse un cameo carino (per dare a Cesare quel che è di Cesare, ho scoperto dell’esistenza di Atteone grazie al Crepuscolo degli Idoli di Roland, il suo mito mi ha intrigato e quindi eccolo qui. Perciò grazie Roland). 

Per finire, le centaure esistono nella mitologia, ho dovuto scavare un bel po’ tra pagine wikipedia in inglese e italiano, ma sono riuscito ad accertarmi della loro esistenza, e siccome non ne avevamo mai vista una, ecco qua. Volevo aggiungere una… “Ella” della situazione, assieme a un “Signore O’Leary”. 

Ho scoperto di recente che anche la spada di Magnus Chase si chiama Jack, ma il fatto che il segugio si chiami così in questa storia è solo una coincidenza, avevo in mente di chiamarlo così fin dall’inizio. Era solo un modo carino per mostrare la grande fantasia di Daniel in fatto di nomi. 

E niente, grazie per aver letto e ci vediamo alla prossima!

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Capitolo 12
*** La prigione ***


XII

La prigione



L’ultima cosa che Camille ricordava prima di chiudere gli occhi, era quella voce che le ordinava di dormire. Non appena l’aveva udita il suo corpo si era piegato al suo volere ed era crollata dal sonno, neanche fosse stata reduce da una camminata di mille miglia. 

Era stata colpa sua, lo sapeva. Era rimasta troppo sconvolta dall’incontro con le sue “sorelle” e si era distratta. Era rimasta con la mente altrove quando invece serviva che fosse vigile, e aveva fallito a difendere i suoi compagni da un attacco che altrimenti avrebbe potuto provare a contrastare.

Ora non aveva idea di dove fosse, o di chi li avesse attaccati. Sentiva dolore alle mani e alla bocca, ma non riusciva a capire perché. E guardarsi attorno non serviva a niente, perché era in un altro sogno. Lo stesso posto che già aveva visto, la stessa galleria buia. Camille non voleva proseguire, conscia di quello che la attendeva, ma sapeva di non avere altra scelta.  

Andò avanti, sperando di riuscire a sopportare la vista, ma non ci riuscì. Gemette di dolore non appena varcò la soglia della prigione di sua madre. Perché era di nuovo lì, costretta, impotente, a osservare quella scena?

«Camille» sussurrò Ecate all’improvviso, alzando lo sguardo. Era scarna ed emaciata, la pelle sembrava perfino più pallida della volta precedente, le labbra stirate in un’espressione di dolore puro. 

Camille sentì le lacrime agli occhi: non voleva nemmeno immaginare che razza di potere ci volesse per far soffrire un dio in quel modo. Provò a parlare, ma si sentì come se avesse qualcosa di premuto contro la bocca, e gli uscì soltanto un verso soffocato. 

«Fai presto, Camille» mormorò Ecate, con la testa che ricadeva a penzoloni. Se non fosse stato per le catene ai polsi agganciate al soffitto, probabilmente sarebbe stramazzata a terra. «Si… sta aprendo. Non… c’è più tempo.»

Il cerchio di simboli attorno alla dea si illuminò di rosso all’improvviso, facendola gemere. «I sigilli… stanno per cedere. Tre… tre giorni. È… tutto quello che mi rimane. Poi… poi mi distruggeranno. Trovami. Presto, Camille…»

La ragazza tentò di parlare ancora, ma di nuovo le fu impossibile. Avrebbe voluto gridare per la frustrazione. Voleva dirle che l’avrebbe trovata, che l’avrebbe salvata, che l’avrebbe resa orgogliosa di lei, ma non poteva. Poteva soltanto osservare sua madre in preda a quell’agonia, senza fare niente.

«Il legame… segui il legame… e… non avere paura.» Ecate riuscì a sollevarsi di nuovo. Nonostante il dolore, le lanciò uno sguardo carico di determinazione, gli occhi scuri e duri come blocchi di granito. «Ti… ti aspetta una prova difficile. Sii coraggiosa… figlia mia. Sfrutta… il tuo dono. So che… che non mi deluderai.»

La terra tremolò in quello stesso istante. Camille sussultò e vide le pareti cominciare a screpolarsi, pezzi di soffitto caddero, attraversando lei, e rimbalzando contro il campo di energia invisibile attorno ad Ecate. Le tenebre cominciarono a ricoprire la stanza. Poco prima che tutto svanisse, la ragazza scorse la figura mastodontica di Clizio, rimasto in un angolo per tutto il tempo a scrutare in silenzio.

Per un istante, rimase solo il buio. Camille pensò di starsi per svegliare, ma una risata improvvisa lacerò l’aria, facendola rabbrividire. Il tono era quello di una donna, ma non era la carceriera, e di certo non era Ecate. 

«Ed ecco la figlia di Trivia di cui tanto ho sentito parlare.»

Le tenebre si amalgamarono, dando origine ad una figura che la lasciò esterrefatta. Era una donna con la pelle violacea, gli occhi che brillavano come diamanti e un lungo abito a spalle scoperte su cui erano affissi degli strass luccicanti. 

Anzi, no. Non erano strass… erano stelle. Come quelle che si vedevano in quei pochi luoghi dove non c’era inquinamento luminoso. Tantissime e bellissime. E anche i suoi occhi sembravano stelle, corpi celesti pulsanti di luce ed energia. Il bagliore emanato dall’abito e dagli occhi fece sì che Camille si accorgesse del tatuaggio sulla spalla della donna: lo stesso simbolo che aveva visto sulla spalla della carceriera di Ecate. 

«Finalmente ho l’occasione di incontrarti, Camille Gray.» 

La sconosciuta rischiarò l’ambiente ancora di più con il suo sorriso, ma non era affatto amichevole. Nonostante gli occhi non fossero altro che sclera brillante, era impossibile non accorgersi dell’immensa freddezza che emanavano, assieme alla crudeltà sprigionata dal volto. «Lo sai, tua madre si sta opponendo molto più ferocemente di quanto mi aspettassi, ma non è un problema. I suoi sforzi non faranno altro che prolungare la sua sofferenza. Nessuno, nessuno, può opporsi a me. Perché vedi, Camille…» 

Si avvicinò a lei. Il suo viso era di una bellezza fredda e pericolosa. «… tutti… sono miei figli. E tutti quanti…» L’oscurità cominciò a diffondersi nuovo, sprigionandosi dal corpo della donna. «… si piegheranno a me!»

Camille si coprì il volto, ma non servì a niente: l’oscurità la raggiunse comunque, sotto lo sguardo brillante e divertito della donna oscura. 

«I guerrieri più forti di ben tre mondi diversi…» cantilenò la donna. «Non vedo l’ora di incontrarvi di persona.»

La ragazza tentò di urlare, ma ancora una volta non ci riuscì. Si sentì trascinare in un baratro senza via di fuga, circondata da tenebre che non l’avrebbero mai più lasciata andare.

 

***

 

Camille riaprì gli occhi con la sensazione di star precipitando nel vuoto. Si dimenò e tentò di urlare, ma non riuscì né a muoversi, né ad urlare.

«Mhhh! Mhhhh!»

Si rese conto di avere la bocca tappata da qualcosa. Sgranò gli occhi e provò a muovere le mani per liberarsi, ma anche quelle erano bloccate dietro la sua schiena, i polsi cinti da dei nodi strettissimi. Si agitò, sbatté il fianco a terra e mosse le gambe, anch’esse immobilizzate alle caviglie.

Sentì la fronte imperlarsi di sudore. Il panico cominciò ad impadronirsi del suo corpo, mentre realizzava dove si trovava e soprattutto in che condizioni.

Era stesa su una scacchiera di piastrelle rotte o mancanti, in uno stanzino angusto dalle pareti macchiate e screpolate. Da una parte c’erano dei servizi inutilizzabili, dall’altra una brandina verticale al muro, distrutta.

Di fronte a lei… sbarre. Era… in una cella di prigione. Legata. E imbavagliata.

La paura si riversò a fiumi nel suo corpo, priva di alcun controllo. Provò a dimenarsi, a roteare i polsi e a gridare, soprattutto gridare: «MHHHHHHH!»

«Ma non ti sei accorta di avere la bocca tappata?» disse una voce acida all’improvviso. «Che cosa gridi a fare?»

Camille sollevò lo sguardo e sussultò sotto il bavaglio per la sorpresa. Dall’altra parte delle sbarre erano apparse due ragazze. Riconobbe subito una di loro: vestiti da punk, capelli verdi, rossetto nero. Quella era Ruby, e la osservava dall’alto con freddezza, a braccia conserte.

Assieme a lei c’era un’altra ragazza, con indosso stivali lunghi e neri, una minigonna azzurra glitterata e un top dello stesso colore sotto una giacchetta argentata. A giudicare dall’espressione divertita, e da come fosse appoggiata alle sbarre, era stata lei a parlare. I suoi capelli erano rosa shocking, ben pettinati e raccolti in una coda sotto una tiara sempre d’argento, o forse oro bianco. Sembrava un misto tra una reginetta del ballo e una idol.

«Guardala. Non riesco a credere che nostra madre abbia incaricato lei di salvarla» disse ancora, con quella vocetta squillante.

«Dovremmo ucciderla adesso che è immobilizzata» mugugnò Ruby. Camille sentì il sangue gelarle nelle vene.

«Pazienza, Ruby, pazienza.» La ragazza con i capelli rosa si separò dalle sbarre, per poi sorridere all’empusa. «Hai sentito Encelado. Da viva ci sarà più utile.»

Ruby fece una smorfia. «Mi sembra solo una gran perdita di tempo.»

«Come sei noiosa, sorellina. Si può sapere che ti è preso? Una volta eri molto più divertente.»

«Il tempo di divertirsi è finito da un pezzo, Sapphire. Se vogliamo davvero vincere questa guerra, dobbiamo fare sul serio.»

«E chi ti dice che non lo stiamo facendo?» Sapphire sogghignò. «Ti manca la visione d’insieme, Ruby. Vedrai, quando arriverà il momento…» Lanciò un’altra occhiata carica di malizia a Camille. «… capirai perché non abbiamo ucciso né lei né la sua stupida amica.»

Camille sussultò sotto al bavaglio. Parlavano… di Kiana?! Lei dov’era?! Aveva detto che non l’avevano uccisa. Non era molto, ma riuscì a rassicurarla un poco, solo un poco. Da come parlavano, era chiaro che anche Sapphire fosse un’empusa. La figlia di Trivia non poté non notare come il colore dei loro capelli non rispettasse affatto il colore delle pietre da cui prendevano il nome.

«Bah. Fate come vi pare» gracchiò infine Ruby, prima di rivolgere un sorrisetto a Camille. «Sono felice di averti rivista, sorellina. Spero che la tua nuova sistemazione ti piaccia.» Le fiamme la circondarono e gli occhi brillarono intensamente, gettando sfumature spettrali sul suo sorriso, prima che esplodesse in una vampata di calore.

«Che esibizionista» si lamentò Sapphire, scacciando via le fiamme rimaste ad aleggiare nell’aria. Poi anche lei riportò lo sguardo su Camille. «Guardati. Così… convinta di poter salvare Ecate. Così… determinata. Sei davvero adorabile, sai?» Si appoggiò di nuovo alle sbarre, distendendo quel ghigno crudele e innaturale. «Mi divertirò un mondo a smembrarti pezzo dopo pezzo.»

Camille resse il suo sguardo sentendo la rabbia che vorticava dentro di lei. Come poteva parlare così? Come poteva essere così felice di quello che stava facendo? Era sbagliato, era tutto sbagliato. Ecate era anche sua madre. Non avrebbe dovuto trovarsi lì. Avrebbe dovuto essere anche lei là fuori, a cercarla.

«Ecate sarà solo la prima. Annienteremo gli dei uno dietro l’altro, in modi che nemmeno potete immaginare.» Sapphire si allontanò dalle sbarre, sempre con quel sorriso odioso, senza interrompere il contatto visivo. «Ma prima, raderemo al suolo i vostri stupidi campi.»

Le fiamme circondarono anche il suo corpo, poi svanì come aveva fatto anche Ruby. Camille rilassò le spalle e abbassò la testa, afflitta. L’unica cosa che riuscì a fare negli istanti successivi, fu domandarsi perché. Perché le sue sorelle avevano voltato le spalle ad Ecate? Perché erano dalla parte di chi aveva rapito la loro madre? Come potevano volere la sua distruzione? Non pensavano alle conseguenze che la scomparsa definitiva della loro madre avrebbe scatenato?

Avrebbe potuto farsi domande di quel tipo per ore e ore, ma sapeva di non avere tempo. Doveva andarsene da lì. Non l’avevano uccisa, per qualsiasi motivo che non voleva nemmeno conoscere, perciò doveva approfittarne.

Certo, prima doveva liberarsi dalle corde che la legavano. E uscire dalla cella di una prigione. Certo, sì, facile. La classica attività che i semidei svolgevano nel weekend.

Un verso irritato le uscì dalla bocca tappata. Che senso aveva immobilizzarla in quel modo se già era dentro una cella? Se l’avevano fatto, significava che credevano potesse scappare se avesse avuto le mani libere. Le sarebbe piaciuto se le avessero detto come, perché nemmeno lei lo sapeva.

Provò a rilassarsi, a calmare il respiro, e il battito del suo cuore. Doveva concentrarsi, pensare a quali risorse aveva e a come sfruttarle. Era imprigionata, con le mani legate, ma era sveglia, viva, e non le sembrava nemmeno di essere ferita. Il resto doveva essere una passeggiata, giusto?

Lo sconforto la assalì. Come diamine avrebbe fatto ad uscire da lì? E le rimanevano soltanto tre giorni per trovare sua madre. Si senti una vera idiota. Ma cosa le era saltato in testa? Scappare dal Campo Giove in quel modo, di nascosto, per cosa, poi, per essere rapita in quel modo, divisa dai suoi compagni, che in quel momento erano chissà dove e chissà in quali condizioni?

Avrebbe davvero dovuto lasciare che Ashley si occupasse di tutto. Questo era quello che si meritava per non essersi fatta gli affari suoi e basta.

“Ma Ecate ha scelto me” si disse. “Poteva chiedere aiuto a chiunque altro, ma ha scelto me.” 

Quel pensiero riuscì a farle riacquistare un po’ di coraggio. Ecate aveva altri figli, al Campo Mezzosangue. Ed erano figli suoi, non erano come lei, che era figlia della parte romana. Loro si addestravano con la magia, sapevano controllarla, di sicuro erano più bravi di lei. Eppure, sua madre non aveva scelto loro. Aveva scelto lei. 

«So che non mi deluderai» le aveva detto. «Ti aspetta una prova difficile.»

Quindi, in qualche modo, sua madre sapeva cosa stava succedendo, e le aveva detto di essere forte. E anche che si fidava di lei. Camille chiuse gli occhi: non avrebbe lasciato che quella fiducia venisse sprecata.

Si concentrò a fondo, estraniandosi da tutto il resto. Come unica figlia di Trivia, non aveva ricevuto alcun addestramento su come usare i suoi poteri. Li aveva scoperti da sola, e poco per volta aveva imparato ad usarli. La prima volta che si erano manifestati le avevano rovinato la vita. E poi… era successo l’incidente.

Non avrebbe mai smesso di pensarci. Ed era stato in quel momento che aveva capito quanto pericolosi fossero. Da quel momento aveva capito che doveva imparare a controllarli e usarli responsabilmente. Da quel momento, aveva capito di avere qualcosa. Una maledizione, o un dono, questo ancora non l’aveva capito.  

Sentì qualcosa smuoversi dentro di lei. Sussultò per la sorpresa, e la paura, ma rimase concentrata, rigida come un chiodo. Cercò con la propria mente quella luce dentro di lei, che giaceva dormiente nel suo corpo, ma allo stesso tempo vigile e sempre pronta ad obbedire ai suoi ordini. La magia.

Il cuore accelerò all’impazzata, sentì le tempie pulsare, ma non si fermò. Il fiato le si mozzò all’improvviso, strappandole un gemito sorpreso: le sembrò di essersi appena schiantata con la testa contro un muro. La luce dentro di lei si affievolì. Strinse i denti attorno al bavaglio così forte da sentire male alla bocca, per non perdere la concentrazione. Non aveva idea di cosa fosse appena accaduto, non le era mai successo prima. Era stato come se ci fosse qualcosa ad impedirle di usare la magia. La fronte le si imperlò di sudore per quanto si sforzò di superare quella barriera invisibile: non poteva fallire.

Richiamò con ogni fibra del suo essere quella luce liquida che scorreva dentro di lei. All’inizio non ci fu risposta, ma poi, con il passare dei secondi, la percepì cominciare a muoversi, facendo fremere il suo corpo. Era debole, quasi impercettibile, ma mano a mano che si sforzava di mantenere il controllo su di essa la sentì sgorgare con più insistenza, finché non la sentì scorrere nelle sue vene assieme al suo sangue.

Le tornò in mente la sua discussione con Kiana, nella stalla dei pegasi. Le aveva detto che non bastava recitare una formula magica per ottenere qualsiasi risultato, e non le aveva mentito.

In realtà… bastava solo pensarla. Dirla a parole serviva solo per rimanere concentrati su quello che si voleva ottenere. Strizzò le palpebre per la paura di quello che stava per succedere. «Inshindere

Il suo intero corpo fremette. Un’onda sismica si generò dentro di lei e si riversò fuori dalla sua pelle, mandando scossoni in ogni muscolo e facendole vibrare le ossa. Gridò sotto la benda non appena sentì i polsi e le caviglie bruciare. Balzò in piedi, le corde che si strappavano come steli d’erba appassiti, e poté davvero ringraziare con tutta sé stessa la benda alla bocca che impedì al suo urlo di disperdersi al di là delle sbarre. Calciò via le corde cadute a terra, che ancora stavano andando a fuoco, e le osservò con il fiatone e la fronte madida di sudore finché non si ridussero in cenere.

Un orribile odore di carne bruciata pervase l’aria. Abbassò lo sguardo, accorgendosi della pelle spaccata e annerita dei suoi polsi. Si tolse il bavaglio. Fu così sollevata di riuscire di nuovo a respirare con la bocca che per un istante fu ubriaca d’aria. Inspirare a fondo la aiutò anche a non pensare a quel bruciore agonizzante.

Riportò lo sguardo sui polsi e deglutì. La magia vorticava ancora dentro di lei, priva di alcun vincolo, pronta per essere utilizzata. «Gu… guarigione.»

Sussultò, forse per la sorpresa, forse per la paura, quando vide il tessuto della propria pelle ricomporsi di fronte ai suoi occhi increduli. Lo stupore non durò molto. Le gambe le si afflosciarono in quel momento e cadde in ginocchio, con un altro gemito.

Inspirò ed espirò finché il tremolio e la sensazione di vertigini non si affievolì, poi si rimise a fatica in piedi. Si massaggiò i polsi, di nuovo lisci e intatti. Era guarita, però quell’incantesimo per un momento l’aveva drenata di ogni energia. E l’aveva usato solo per delle ustioni su pochi centimetri di pelle.

Non aveva più il suo zainetto, né la daga. Sicuramente si li erano tenuti i suoi rapitori. Barcollò verso la porta della cella e osservò la serratura, assorta. Prese una grossa boccata d’aria, poi puntò la mano. «Ghiacciati.»

Una patina di ghiaccio si generò dal nulla, crepitando mentre ricopriva la porta da cima a fondo. Camille accasciò la testa, colpita da un forte dolore alle tempie. Si massaggiò con un mugugno, poi fece la sua migliore imitazione di Clint Eastwood quando irrompeva in un saloon e sferrò un calcio alla porta. Pensò che si sarebbe solamente aperta, invece saltò via dai cardini e si schiantò a terra con un rumore devastante.

«Oh-oh» fu il suo commento, mentre realizzava che quel boato dovevano averlo sentito perfino in Cina.

Si allontanò lungo il corridoio senza perdere altro tempo, prima che Ruby e Sapphire arrivassero a controllare cosa fosse successo. Doveva trovare Kiana, scoprire dove diamine fossero finite e andarsene da lì il più presto possibile.

Quanto avrebbe voluto non aver mentito. Quanto avrebbe voluto sapere davvero dove diamine stavano andando. Ecate aveva di nuovo menzionato il legame, ma lei non aveva la più pallida idea di come sentirlo. Sentì un nodo allo stomaco per l’angoscia, ma provò ad ignorarlo. Prima doveva trovare la sua amica e fuggire da lì, poi avrebbe pensato al resto. In tutto quello, non aveva nemmeno pensato a Daniel. Dov’era finito lui?

Attraversò una fila di celle tutte uguali tra di loro, vuote e malmesse. Qualunque prigione fosse quella, doveva essere abbandonata da molto tempo. Ed era anche piuttosto vecchia, visto che le celle avevano le sbarre, e non le porte magnetiche.

Quel luogo aveva un’aria familiare, assomigliava in maniera parecchio sgradevole a quelle prigioni che i cacciatori di fantasmi con i loro ridicoli programmi televisivi andavano a visitare. Che ingenui, poi. Perché erano sempre convinti che i fantasmi amassero manicomi, ospedali e prigioni? Perché non cercarli in qualche hotel di lusso, o cose del genere? Se fosse stato un fantasma, Camille avrebbe di certo preferito infestare una camera d’albergo con jacuzzi.

Un braccio spuntò da una cella all’improvviso. «Ehi, tu!»

Camille si lasciò scappare un gridolino e per poco non cadde all’indietro per lo spavento, temendo di aver appena incontrato uno dei suddetti fantasmi.

Non era un fantasma colui che stava dall’altra parte di quelle sbarre. L’uomo che le aveva fatto quasi venire un infarto ritirò il braccio, per poi rivolgerle un sorriso cortese. «Salve! Sei una delle prigioniere, giusto? Non è che potresti liberare anche me?»

La ragazza non rispose, ancora troppo sconvolta. Quindi… c’erano altri prigionieri. Ricambiò lo sguardo dell’uomo, e si accorse che tutto sommato era veramente attraente. Era un adulto, su questo non aveva dubbi, nei suoi tardi trent’anni, o forse primi quaranta, con il viso squadrato e la mascella ampia. Aveva i capelli nerissimi, tirati all’indietro in modo da lasciare scoperta la fronte corrugata, e una barba rada e curata del medesimo colore, che facevano da cornice a due stupendi occhi verdi, intensi e brillanti come smeraldi, leggermene inarcati verso l’alto agli angoli. Malgrado fosse in prigione, indossava un completo a tre pezzi nero, con la cravatta rossa. Era un po’ sgualcito, ma comunque molto elegante, in una maniera che Camille trovava perfino innaturale.

Si avvicinò a lui con passo moderato, ma tenendosi a distanza di sicurezza dalle sbarre, per non farsi agguantare. Nonostante tutto, non poteva davvero fidarsi di lui. «M-Ma… tu chi sei? E che ci fai qui?»

«Beh, mia cara, sul perché sono qui, è una lunga storia. E non credo che tu abbia il tempo o la voglia di ascoltarla. Sul chi sono…» L’uomo si pettinò i capelli dietro l’orecchio con un fare meccanico, quasi innaturale. «… il mio nome è Shinjiro, ma tu, solo tu, mia cara, puoi chiamarmi Shinji. Onorato di fare la tua conoscenza.»

«Che… nome strano…» riuscì a mormorare Camille, stregata dai suoi occhi, rendendosi anche conto che quel tizio aveva un accento che non aveva mai sentito prima.

Shinji ridacchiò. «Non è la prima volta che me lo dicono. A me piace, però. È… caratteristico.»

Camille nemmeno lo sentì. La sua attenzione rimase focalizzata sui suoi canini affilati come rasoi. «Ma… non sei umano!»

«Uh, no, affatto. Sono… beh, ero, finché la mia magia non ha smesso di funzionare di punto in bianco, un gatto mutaforma. Bakeneko. Conosci?»

«Ehm… no…»

«Beh, mia cara, sarò onorato di spiegarti tutto quanto, ma prima potresti farmi uscire?»

«No, aspetta.» Camille sollevò una mano. Quel tizio non gliela raccontava per niente giusta. Aveva l’aria di essere un truffatore di prima categoria, e un sorrisetto da fare invidia a quelli dei figli di Mercurio. «Prima ho alcune domande da farti.»

«Mhh…» Gli occhi verdi la scrutarono così intensamente che Camille sentì il collo formicolare. Poi Shinji sogghignò in maniera poco rassicurante. «Pur di uscire di qua, mia cara, risponderò a ogni domanda. Avanti, sono tutt’orecchi.» E mosse le orecchie per dimostrare che non stava mentendo.

«Hai… detto che ci sono “delle” prigioniere? Quindi non sono l’unica?»

«Esatto mia cara. Questa mattina ne hanno portata una. Cattiva. Molto, molto cattiva. Non l’ho vista, ma l’ho sentita ruggire. Se avessi ancora avuto la mia coda, sarebbe diventata enorme.» Shinji ridacchiò, ma sembrava una risatina nervosa, folle persino. Si grattò sotto il collo così forte che Camille si chiese come non facesse a scorticarsi la pelle. «E poi ne è arrivata un’altra, e a questo punto suppongo che fossi proprio tu.»

«Non… non c’è nessun altro?»

«Uhm… no, non mi pare proprio.»

Questa volta nulla impedì alla figlia di Trivia di farsi assalire dal panico. In qualche modo riuscì a non crollare in ginocchio, ma fu un’impresa molto più ardua di quanto potesse immaginare. Kiana… non era lì. L’aveva persa.

«Allora, posso uscire adesso?» La voce di Shinjiro riuscì a riportarla alla realtà, prima che il mondo le crollasse addosso. Camille cercò di darsi un contegno. Cedere alla disperazione non sarebbe servito a nulla. Kiana era forte, se Cam era riuscita a liberarsi, allora di sicuro anche lei ci sarebbe riuscita, ovunque lei fosse. Tutto quello era solo un contrattempo, ma si sarebbero ritrovate, ne era sicura. Non poteva pensare altrimenti, o sarebbe impazzita.

Al momento l’unica cosa che poteva fare era continuare a fare domande a quel tizio nella speranza di scoprire informazioni importanti.

«Hai… hai detto che la tua magia… non “funziona” più?» chiese. «Che intendi dire?»

«Che non riesco a usare i miei poteri di bakeneko. A quanto pare questo piccolo problema ha a che vedere con questa dea scomparsa che si è portata via anche la magia. Alcuni riescono comunque a usarla, come quelle due simpatiche signorine vestite in modo buffo, altri, come il sottoscritto, no. E sinceramente, la cosa è piuttosto… seccante. Mi manca il mio corpo da gatto, sai? Essere umani è orribile!» E per mettere il punto esclamativo definitivo, si leccò il palmo della mano e cominciò a strofinarsi dietro l’orecchio, in una visuale che Camille trovò quasi ipnotica, ma non seppe se in senso positivo o negativo.

«O-Ok…» sussurrò, distogliendo lo sguardo da lui. Ecco cos’era successo, mentre era in cella. La scomparsa di Ecate non aveva causato solo la sparizione della Foschia. La magia era scomparsa. Alcuni, come lei, riuscivano ancora a usarla, ma altri no.

Ma se la cosa non si fermasse solo ai maghi? Quante altre cose nel loro mondo funzionavano con la magia? E quante avevano smesso di funzionare con la scomparsa di sua madre?

«Dunque, sono libero no, mia cara?» Shinjiro si sporse dalle sbarre, distendendo quel sorriso inquietante che ricordava il gatto del Cheshire.

Camille ricambiò il suo sguardo. Osservandolo meglio, ricordava davvero un felino. Era bello e affascinante, ma il suo sguardo era freddo e anche il suo sorriso non tradiva alcuna reale emozione. La figlia di Trivia deglutì. «Perché sei chiuso qui?»

«Beh…»

Delle luci accecanti si accesero all’improvviso, rosse come il sangue. Un lamento straziante risuonò nell’aria: la sirena di un allarme. Tutte le celle si aprirono all’unisono accompagnate da un segnale acustico, un fortissimo BIIIP graffiante.

Camille sussultò per la sorpresa e anche Shinjiro drizzò la testa sbigottito. Un urlo poderoso provenne dal fondo del corridoio, sovrastando completamente quell’allarme assordante. Camille sentì ogni singolo centimetro di pelle accapponarsi. Fu la cosa più orribile e spaventosa che avesse mai sentito, un grido di dolore, rabbia e disperazione che si impresse a fuoco nella sua mente.

«Ecco, questo è il ruggito di cui ti ho parlato» commentò Shinjiro, con le orecchie dritte. «L’altra prigioniera non sembra affatto felice.»

«M-Ma chi è?!» riuscì a balbettare Camille.

«Non ne ho idea, ma se tutte le gabbie sono aperte, probabilmente lo scoprirai quando verrà qui per mangiarti.» Shinji sogghignò verso di lei. «Beh, mia cara, che dire, è stato un piacere conoscerti, ma ora sono libero, quindi…» Le passò accanto e cominciò a correre per il corridoio. «… ci vediamo!»

Camille lo seguì con lo sguardo mentre svaniva dietro l’angolo, incredula.

Un altro grido agonizzante fece tremare le sbarre delle celle, e la ragazza pensò che non era affatto in vena di essere mangiata. Cominciò anche lei a correre verso la direzione opposta da cui quel ruggito era arrivato.

 

***

 

Non ci mise molto a ritrovare Shinjiro. Era fermo, le mani sui fianchi, di fronte ad una porta sigillata. La accolse come una vecchia amica: «Oh, di nuovo salve! Non è che tu riesci ad aprirla? Normalmente lo farei senza problemi ma… sono senza poteri.»

«Ghiacciati.»

La porta congelata crollò a terra con un tonfo assordante. Shinjiro l’aggirò con passo felpato, poi sorrise di nuovo. «Niente male. Posso sapere il tuo nome, mia cara?»

«Camille.»

«Che nome delizioso. Che dici, ci togliamo dai piedi?»

Camille ignorò il fatto che giusto un paio di minuti prima quel tizio avesse cercato di scaricarla e proseguì assieme a lui. Non era molto sicura di volerci rimanere assieme, ma aveva detto di essere senza poteri, quindi non poteva essere una minaccia. E poi, se gli stessi che l’avevano rapita avevano chiuso lì anche lui, significava che era un loro nemico.

“Il nemico del mio nemico è mio amico” concluse lei.

Il rumore dei loro passi riecheggiò lungo quei corridoi tutti uguali tra loro. Quel posto era enorme, un vero labirinto, e Camille perse il conto di tutte le porte che dovette congelare per andare avanti. Ogni incantesimo era come un’accoltellata al petto, ma si sforzò di ignorare la fatica per andare avanti. Non sapeva per quanto tempo avrebbe resistito, però. Si augurò di essere ormai vicina all’uscita.

«Che… che posto è questo?» domandò, attraversando l’ennesimo corridoio.

«Una specie di prigione museo abbandonato, nel Nevada» rispose Shinjiro, con quel ghigno spropositatamente largo. Per qualche motivo sembrava trovare molto divertente la cosa, o forse stava solo ammattendo. «Dimmi, sembro pessimista se ti dico che probabilmente stiamo correndo dritti verso una trappola?»

Camille fece una smorfia. Ci stava pensando anche lei, in realtà. Le venne da porsi una domanda: se le celle erano destinate tutte ad aprirsi, e se c’era questa prigioniera misteriosa molto arrabbiata in circolazione… cosa sarebbe accaduto se lei non fosse riuscita a uscire?

Venne percorsa da un brivido di terrore. Non voleva sapere la risposta.

«Allora, mi dici adesso perché sei qui?» domandò a Shinjiro.

«Beh, mia cara, devi sapere che quest’estate una mia… amica mi ha gentilmente… ceduto il suo negozio. Si occupava di collezionare, allevare e vendere creature preziose. Un giorno si sono presentati quelle due ragazze strane e un tizio alto otto metri. Ho cercato di fare affari con loro, ed è saltato fuori che loro erano più interessati a me. Ho cercato di scappare, ma i miei poteri sono scomparsi e combattere è diventato inutile. Mi hanno fatto qualche domanda e quando hanno capito che io stavo cercando di barattare le mie informazioni per avere qualcosa in cambio, si sono rivolti al mio “socio in affari” e mi hanno sbattuto qui dentro. A loro non servivo più, temo. A proposito, tu conosci quel tizio?»

«Il… il tizio alto otto metri? Aveva capelli e barba neri e grosse zampe verdi?»

«Proprio lui.»

Camille strinse i pugni. «Encelado.»

Quel tizio doveva proprio amare i rapimenti.

«Comunque sia, questo “Encelado” è sembrato molto interessato alle storie riguardo la mia gente. Temo che stiano tramando qualcosa di brutto. Due culture diverse unite in questo modo… diciamo che non promette affatto bene.»

«Due… culture? Cioè greca e romana?»

Questa volta il sorriso di Shinjiro sembrò di scherno. «Classici americani. Sempre convinti di essere al centro dell’universo. Oh, guarda, l’uscita!»

Si fermarono di fronte a un pesante portone di ferro a doppio battente. Al di là delle finestre con la grata, Camille riuscì a scorgere quello che doveva essere il cortile del penitenziario, sotto a un celo striato di nubi. Prese una grossa boccata d’aria, poi si concentrò per congelare quell’ultima porta. Si fermò quando vide Shinjiro appoggiarsi al maniglione antipanico e spalancarla senza problemi. Le rivolse un altro sorrisetto. «L’hanno lasciata aperta. È sicuramente una trappola. Andiamo avanti?»

Il ruggito dell’altra prigioniera arrivò di nuovo alle loro spalle, ed era molto vicino. Camille pensò che tra martello e incudine, preferiva quello che non le avrebbe mangiato la faccia. «Andiamo avanti.»

Entrarono nel cortile del penitenziario. Vista da fuori, la prigione era un complesso di tre edifici che sorgeva ai lati di quella ampia steppa arida e due campetti da basket. Una recinzione di filo spinato alta venti metri circondava tutta la zona, offrendo una visuale del deserto del Nevada al di fuori di essa.

I due improbabili compagni camminarono lungo il cortile, guardandosi attorno in cerca di minacce.

«Sento puzza» commentò Shinjiro, dilatando le narici infastidito.

Come richiamate da lui, due coltri di fiamme si sollevarono all’improvviso, costringendoli a fermarsi. Sapphire e Ruby apparvero di fronte a loro, entrambe con l’aspetto di empuse, con gli occhi rossi incandescenti, lo zoccolo di asino, la gamba di bronzo e i canini più affilati di quelli di Shinjiro.

«La tua “visione d’insieme” era questa, Sapphire?» ringhiò Ruby, incrociando lo sguardo di Camille. «Ribadisco che avremmo potuto ucciderla mentre era in cella.»

«Aspetta, sorella. Il bello deve ancora venire» replicò Sapphire, per nulla turbata.

«Mie care!» Shinjiro si inchinò. «Siete davvero… incantevoli, stamani. Ditemi, non è che potreste considerare l’idea di farmi uscire da qui senza combattere?»

«No» risposero entrambe, con aria piuttosto infastidita.

«Capisco. Beh, mia cara…» L’uomo indietreggiò, portandosi dietro a Camille. «… sono tutte tue.»

«Grazie tante» mugugnò lei. Piegò le gambe, pronta a combattere, anche se non era molto certa sull’esito di quello scontro. Aveva già incontrato Ruby, era piuttosto forte, e sua sorella non sembrava da meno. Due empuse per un semidio disarmato erano una minaccia piuttosto grave, ma non poteva mostrarsi insicura. Sua madre, Kiana, l’intero Campo Giove dipendevano da lei.

«Tranquilla, sorellina, non siamo qui per combattere.» Sapphire distese quel sorriso gelido. «Dobbiamo solo… assicurarci che tu non scappi.»

Prima che Camille potesse fare domande, quel ruggito lancinante arrivò ancora alle loro spalle, facendola tremare di paura. Era vicino, troppo vicino. Arrischiò uno sguardo dietro di lei e vide qualcosa uscire dalla prigione.

«HIIIIIIIISSS!» Shinjiro soffiò e si piegò sulle gambe come un gatto pronto ad attaccare. In qualche modo, Camille riuscì ad immaginarsi la sua coda metaforica che diventava gigantesca.

Anche la sua si sarebbe gonfiata come un palloncino, se ne avesse avuta una. Si dimenticò completamente di Ruby e Sapphire e rimase concentrata soltanto sulla figura che si stava trascinando fuori dall’edificio. Non sapeva nemmeno come descriverla. Era un’immagine così orribile e raccapricciante che la sua mente rifiutava di collaborare con gli occhi.

La creatura assomigliava ad una sirena, se le sirene fossero state creature di terra e avessero avuto una lunghissima coda di serpente anziché di pesce. Ma non era la coda la parte peggiore: quella era proprio la parte umana. Il busto era coperto di scaglie e squame, che lasciavano scoperte solamente il petto completamente nudo. Le braccia parevano zampe, le mani erano munite di artigli lunghissimi e affilati, diversi dei quali rotti. I capelli erano lunghi e crespi come fruste, incrostati di sporco, mentre il volto avrebbe popolato gli incubi di Cam per il resto della sua vita, ne era certa.

Era di un pallore cadaverico, con gli occhi incavati rossi come il sangue, la fronte ampia e il naso schiacciato, quasi impresso nella carne. La bocca era spaventosa, così larga che avrebbe potuto inghiottire Camille in un solo boccone, quei denti affilati come coltelli sembravano in grado di affondare perfino nel cemento. Attorno al collo e ai polsi aveva pezzi di catene di Ferro dello Stige spezzate, proprio come quelle che tenevano imprigionata Ecate. Incrociò subito lo sguardo di Camille, e la ragazza si sentì pietrificata per la paura, con il cuore che minacciava di esploderle nel petto e il corpo che rifiutava di rispondere ai suoi comandi.

«Ma… ter…» Parlava in latino. La sua voce era roca e gracidante, intrisa di dolore, come se stesse soffrendo sempre di più ogni secondo che passava. «Ma… ter…»

Sapphire parlò di nuovo, facendola ridestare da quella trance: «Sorellina, ti presento un altro membro della nostra meravigliosa famiglia: nostra sorella maggiore, Lamia. Un’altra povera stolta che sperava di trovare Ecate e liberarla, e che è caduta dritta nella nostra trappola.»

Camille si voltò verso di lei, inorridita. «Che cosa?!»

Il ghigno sadico di Sapphire occupò tutto il resto.

«Sorella!» urlò, attirando l’attenzione di Lamia. Subito dopo, indicò Camille. La sua espressione e la sua voce mutarono drasticamente, trasformandosi in una agitata, spaventata perfino. «È stata lei! È lei che ha rapito nostra madre!»

La figlia di Trivia pensò che fosse impazzita. «C-Come?! Ma che stai dicendo?! Io non…»

Ruby e Sapphire svanirono in altre due vampate di calore. Nello stesso momento, il ruggito di Lamia fece tremare la terra. Camille riportò l’attenzione su di lei, e sentì le gambe trasformarsi in purea. Lamia teneva lo sguardo fisso sulla sua testa albina, furente di rabbia.  

«Mia cara, siamo nei guai» mormorò Shinjiro, un attimo prima che Lamia si fiondasse su di loro.

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Capitolo 13
*** La figlia abbandonata ***


XIII

La figlia abbandonata



Shinjiro non ci mise molto a tagliare la corda. Scartò di lato con un “MEOW e si diede a gambe levate, mentre quell’orripilante donna serpente puntava su Camille.

Un’orripilante donna serpente che però era anche sua sorella e che voleva salvare Ecate.

«Aspetta!» implorò, mentre si gettava a terra per evitare quel treno merci con la coda e le squame. Rotolò inzaccherandosi di polvere e si rimise in piedi affannosamente. «Non ho rapito io Ecate! Ti hanno mentito!»

«Zitta…» sibilò Lamia, in latino, inarcandosi verso l’alto ed ergendosi in tutta la sua statura. Con la coda distesa a mo’ di gamba arrivava ad almeno tre metri di altezza. Torreggiò su di lei e la soffocò con quello sguardo cremisi e straripante di collera. Puntò le mani verso di lei; la sua voce era come una frustata: «… hai il suo odore addosso. La sua energia. Sei stata tu

Camille rimase paralizzata. «T-Ti sbagli! Io non…»

«Incendere

Due lingue di fuoco apparvero dai palmi di Lamia, fiondandosi su di lei. Camille gridò e si gettò di nuovo di lato per schivarle, prima di essere di nuovo caricata dalla donna. «Dov’è mia madre?!»

La figlia di Trivia rimase in ginocchio, con Lamia che stava per travolgerla. Fu costretta a pensare sul momento. Sollevò le braccia di fronte al busto e chiuse gli occhi. «Incendere

Avvertì caldo attorno a sé. Un urlo frustrato provenne da Lamia, che si ritirò di scatto. Camille riaprì le palpebre e la vide allontanarsi, con fiammelle accese sulle squame. Se le spense con dei muggiti di rabbia, poi si preparò di nuovo ad attaccare.

«Per favore, non voglio combattere!» la supplicò Camille. «Anch’io sto cercando Ecate! Possiamo collaborare!»

«Sei una figlia degli dei…» Un pavimento di ghiaccio si dissipò sotto alla mastodontica coda della donna. «… non ti ascolterò mai! Ghiaccio

La lastra ricoprì tutto quanto, raggiungendo i piedi di Camille, che non poté fare nulla. Le caviglie furono immobilizzate in quella tagliola congelata, inchiodandola a terra. Gemette di sorpresa e tentò di liberarsi, ma fu tutto inutile: il ghiaccio era troppo spesso. Lamia spiccò un balzo, artigli e fauci protese verso di lei. Camille strinse i denti. «Ghiaccio

Una parete congelata si alzò dal pavimento e Lamia ci andò a sbattere contro, facendola tremare. Un altro ruggito feroce si liberò nell’aria.

Camille aprì le mani. «Fuoco

Le fiamme cominciarono a sciogliere il ghiaccio che la teneva bloccata.

«Terra

Il suolo fu scosso all’improvviso da poderose ondate. Camille venne sbalzata all’indietro e si schiantò sul pavimento. Fu come atterrare sopra una lastra di vetro, congelata però. Schegge affilate come rasoi si conficcarono nella sua schiena, facendola urlare di dolore.

«Vortice.»

Le schegge di ghiaccio cominciarono a turbinare attorno a Camille a velocità stratosferica. La figlia di Trivia tentò di evocare il fuoco, ma fu lacerata alle braccia e al viso. Tentò di proteggersi come meglio poteva, mentre il vortice si abbatteva su di lei con la stessa furia di un uragano di coltelli. Gridò fino ad esaurire il fiato, le braccia, la schiena e l’addome che si trasformavano in un mosaico di tagli e i vestiti che finivano a brandelli.

Non seppe per quanto tempo continuò. Sapeva solo che desiderò di morire, pur di far cessare quello strazio. La tempesta si dissipò all’improvviso, e a seguire un altro ruggito frustrato si alzò la voce di Shinjiro: «Stai bene mia cara?»

Camille riaprì gli occhi, il corpo che tremava per il dolore e la fatica. Si accorse di Shinjiro con tra le mani diversi pezzi di ghiaccio, e di Lamia che si stava coprendo il volto, gridando furiosa. L’uomo le rivolse un ghigno nervoso. «Non credo abbia apprezzato il mio scherzetto.»

«Bastardus!» tuonò Lamia, prima di beccarsi un altro blocco di ghiaccio sul naso.

Shinjiro si caricò le mani di munizioni e gridò qualcosa in una lingua incomprensibile. Scagliò un altro frisbee congelato. «Faito, monsutā

Un mulinello di fuoco si sollevò attorno a Lamia. Il calore fu così intenso che Camille sentì la pelle sussultare e i vestiti bagnarsi per via del ghiaccio che cominciò a squagliarsi in tutto il cortile, incluso quello che Shinjiro stava usando come arma di fortuna. Ritrovandosi tutto a un tratto disarmato, l’uomo sollevò le mani e sorrise. «Dal più profondo del cuore, ti chiedo scusa per averti colpita.»

«RAAAAAAAAAAAAAAAR!»

«MEOW!» Shinjiro corse via all’impazzata. Lamia urlò di rabbia e puntò una mano verso di lui. Camille provò ad evocare il fuoco per fermarla, ma dai suoi palmi uscì uno sprazzo esiguo di fiamme e poi stramazzò a terra, priva di ogni energia. La magia l’aveva del tutto prosciugata.

Lamia si accorse del suo tentativo patetico.

«Del tuo amico mi occuperò più tardi» rantolò, questa volta in inglese, mentre si voltava verso di lei. «Pensavi davvero di poter battere la mia magia?» le domandò con disgusto. «Dimmi dove avete portato mia madre, e ti ucciderò in fretta.»

Camille si mise in ginocchio a fatica, i vestiti sudici di terra e bagnati per il ghiaccio e il sangue, il viso e il corpo scorticati dalle schegge affilate. Avrebbe voluto piangere e gridare per la frustrazione. L’aiuto di Shinjiro non era servito a niente. Lamia l’aveva annientata. Era troppo debole, troppo inesperta per combattere con la magia. Non aveva mai avuto una vera speranza contro di lei.

«N-Non l’ho rapita io…» cercò di dire, con un filo di voce. «… E-Ecate… è anche mia madre. Devi credermi.»

«Un’altra?»

Il tono di voce di Lamia parve sorpreso. Camille drizzò la testa e si accorse dello sguardo combattuto della sorella. «Sei una figlia di Ecate. Ecco perché il tuo potere le assomiglia.»

«Sono… una figlia di Trivia, in realtà. Però… sì. Noi… siamo… sorelle.» Camille tentò di reggere il suo sguardo, lottando contro il corpo che minacciava di cedere da un momento all’altro, e contro i brividi che le suscitava il pensiero di avere quel mostro di fronte a lei come sorella. «Anch’io… sto cercando nostra madre. Sono… dalla tua parte. Non dobbiamo… combattere tra di noi.»

Lamia si accarezzò una guancia. «Anch’io sono… ero, una semidea. Proprio come te. Ma poi…» Indicò il proprio corpo coperto di scaglie. «… Era mi ha fatto questo. Prima ha ucciso i miei figli, e poi mi ha trasformata in un mostro solo perché quel bavoso di suo marito si è invaghito di me. Nessuno ha mai fatto niente per aiutarmi. Nemmeno nostra madre.»

«Mi… mi dispiace…»

«No.» Gli occhi di Lamia brillarono di nuovo di rabbia. «No, non è vero.»

Puntò entrambe le mani verso di Camille. «Non ho scelto io di diventare così. Sono stati gli dei a farmi questo. Così come Era ha ucciso i miei figli…» La sua voce era carica di veleno. «… io ucciderò tutti i figli degli dei che incontrerò sul mio cammino, inclusi i miei stessi fratelli. Tutti devono patire quello che ho patito io.»

Camille sentì le lacrime agli occhi. E non solo perché stava per morire.

Perché? Perché era costretta a combattere con le sue sorelle? Erano tutte dalla stessa parte. Erano tutte figlie di Ecate, o Trivia. Perché dovevano uccidersi tra di loro? Era quello, ciò che le faceva più male.

E anche la storia di Lamia l’aveva sconvolta. Il suo dolore, il fatto che avesse perso i suoi figli, che fosse diventato un mostro, così arrabbiata da arrivare perfino ad uccidere i suoi stessi fratelli, era tutto una raffica di stilettate nel suo cuore.

«Ti prego…» sussurrò ancora. «Posso aiutarti… quando salverò Ecate… le dirò quello che mi hai detto. Possiamo fare qualcosa. Ti prego, sorella… non dobbiamo combattere tra noi…»

«Basta» ordinò Lamia. «Io sono la figlia abbandonata. Troverò nostra madre da sola. E avrò le risposte che cerco.»

I palmi si illuminarono. Camille, però, a malapena ci fece caso.

«Io sono la figlia abbandonata.»

Sentì il fiato mancarle. «A-Aspetta… che… che cosa?!»

Il fuoco si riversò dalle mani di Lamia. Camille gridò. Attese una vampa di calore che la annientasse e serrò gli occhi, troppo debole per fuggire. Ciò che arrivò, invece, furono un fruscio, un urlo furibondo e una forza invisibile che la strappò via da terra di peso.

La figlia di Trivia spalancò gli occhi, con l’aria che sferzava su di lei e il mondo che tremava.

«Ciao!» disse una voce gioviale all’improvviso. «Io sono Penelope!»

Camille realizzò di essere sulla groppa di un centauro. Anzi, centaura. Quella si voltò verso di lei per scrutarla con la coda dell’occhio, sorridendo smagliante. «Tu sei Camille? Piacere di conoscerti! Adesso reggiti forte!»

Prima che la ragazza potesse domandare cosa stesse succedendo, quella aveva già accelerato. Fu costretta ad aggrapparsi alla sua vita con tutta la forza che aveva per non venire scaraventata via.

Un altro urlo furioso di Lamia la fece sussultare. Si voltò e nonostante la velocità riuscì a vederla alle prese con una nuova minaccia, una grossa macchia nera che le correva attorno, saltando e mordendo. E abbaiando, anche.

«Ma… quello è un segugio infernale?!» domandò, atterrita.

«Tranquilla, è… nostro amico. Credo.»

«Nostro

«Sì, noi…»

Una vampa di calore si abbatté su di loro all’improvviso. Penelope gridò e Camille si ritrovò sbalzata dalla groppa. Tutto si capovolse, poi si schiantò a terra sulla schiena e una fitta di dolore agonizzante la paralizzò.

«Lo sapevo che avremmo dovuto uccidervi subito.»

La figlia di Trivia sollevò la testa, combattendo contro le vertigini e la voglia di vomitare, e vide Ruby di fronte a loro, le mani infuocate e gli occhi cremisi fiammeggianti.

«Ahi, ahi, ahi, ahi» gemette Penelope, poco distante, riversa a terra. Aveva un fianco ustionato e la maglietta bruciacchiata.

Ruby si avvicinò. «Pazienza, vorrà dire che mi occuperò io di te.»

Camille si rimise in ginocchio, i denti stretti per la fatica e per tutte le ferite accumulate. «Perché… lo stai facendo, Ruby?» riuscì a domandarle. «Perché aiuti quelli che hanno rapito nostra madre?!»

«Perché lo dici come se fosse la cosa più orribile che tu abbia mai sentito?» L’empusa fece una smorfia infastidita. «Non le studi le leggende, al tuo stupido campetto estivo? Gli dei e i loro figli si combattono di continuo. Non c’è niente di nuovo.»

«Solo perché è successo altre volte non significa che sia giusto!»

«Ed è giusto essere abbandonate da nostra madre dopo averla servita per tutta la vita?»

Camille sussultò quando udì quella parola. Incrociò lo sguardo di Ruby, che si affondo le unghie nei palmi. «Ci siamo fatte massacrare per lei, durante la Seconda Guerra dei Titani. Lei era schierata contro gli dei, ha tramato contro di loro, li ha intralciati in ogni modo possibile, e poi che è successo quando hanno vinto? L’hanno forse punita? No. Hanno creato una casa per i suoi figli al Campo Mezzosangue. È diventata una di loro. E chi ne ha pagato le conseguenze?»

L’empusa si puntò l’indice al petto. «Noi. Io, Sapphire, le ragazze che il tuo maledetto amico ha ucciso, lei.» Indicò Lamia. «Hai sentito la storia di Lamia. È giusto secondo te quello che le è successo? È giusto che nostra madre sia schierata dalla parte degli stessi che l’hanno ridotta così?!»

Ruby fece un altro passo verso di lei e Cam si accorse che non sembrava solo arrabbiata. La sua voce era intrisa di amarezza: «E dimmi, sorellina, se i Titani avessero vinto la guerra, cosa sarebbe successo a te e a quelli come te? Ecate ti avrebbe voltato le spalle, proprio come le ha voltate a noi. A lei non importa dei suoi figli, che siano mostri o umani. Li usa soltanto per i suoi comodi. Ecco per chi stai combattendo. Una bugiarda, traditrice e ipocrita. Mi sembra appropriato, dopotutto è la dea con tre facce. Non puoi mai sapere quale sarà quella che ti ficcherà un coltello nella schiena.»

Quando finì di parlare, Camille non trovò più la forza di guardarla. Avrebbe voluto dirle che si sbagliava, che le cose non stavano così, ma non ci riuscì. Le empuse erano mostri, erano nemici, però erano anche figlie di Ecate, le sue ancelle. E lei, dopo essere stata servita da loro per così tanto tempo, le aveva abbandonate. Chiunque si sarebbe risentito dopo un simile trattamento. Ma questo non significava che le cose dovessero per forza andare in quel modo.

«Non… non deve per forza andare così, Ruby. Se… se trovassi Ecate, potrei dirle quello che mi hai detto. Possiamo cambiare le cose. Non dobbiamo massacrarci a vicenda.»

«Certo, quando vi fa comodo volete aiutare anche noi, vero? Siete tutti uguali voi semidei. Un branco di egoisti che si credono i buoni proprio come i vostri genitori. Guardate sempre avanti convinti di stare salvando il mondo e delle vite, e nel frattempo ignorate la scia di distruzione che vi lasciate alle spalle. Ma le cose cambieranno.» Le fiamme nei palmi di Ruby si ampliarono. «Adesso, serviamo una nuova padrona. Una che non ci tradirà. Nostra nonna ci libererà di questa piaga una volta per tutte.»

Camille ripensò alla donna di oscurità nel suo sogno. E ripensò anche alla carceriera di Ecate, che si era definita sua “sorella”. Sentì il palato inaridirsi. «Chi… chi è la tua nuova padrona?»

«Saperlo non ti servirà a molto.» Ruby puntò i palmi, con un sorriso acido. «Addio, sorellina. Non preoccuparti, ovunque andrai non rimarrai sola. I tuoi amici ti raggiungeranno pre…»

Un oggetto nero non ben definito si abbatté su di lei prima che potesse concludere quella frase ad effetto. Camille poté davvero ringraziare Ruby di cuore, per questo. Per essere una che voleva ucciderla subito, aveva sprecato un mucchio di tempo a chiacchierare. L’urlo furioso dell’empusa si smarrì in un tonfo secco.

«Cam!» gridò una voce molto familiare.

L’aria sfarfallò a pochi metri di distanza da lei, come in un’interferenza televisiva. Un ragazzo apparve praticamente dal nulla, il palmo rivolto verso il punto in cui fino a un attimo prima si trovava Ruby. Era circondato da un nugolo di tenebre che parevano intrise sui suoi abiti, simili a una mimetica, o a un’armatura.

Camille non credette ai propri occhi. «D-Daniel?»

Osservò incredula il suo amico, apparso come un miraggio proprio nel momento del bisogno. Le ombre scivolarono via dal suo corpo, ricadendo a terra. Era trasandato e spettinato, i capelli gli ricadevano a ciuffi color carbone sopra il viso pallido, dandogli quell’aria da cattivo ragazzo scappato di casa. Sembrava un angelo fatto di tenebre.

Dei, quanto era bello.

«Stai bene?» domandò Daniel. Non a lei, però.

«S-Sì, credo di sì» mormorò Penelope, mentre il ragazzo la aiutava a rimettersi sulle zampe.

«Tirati su, Cam» disse poi lui, senza nemmeno guardarla. «Dobbiamo andarcene da qui!»

Camille schiuse le labbra, il sangue che colava dalle ferite e tutto il corpo che implorava pietà dopo le botte prese prima da Lamia, e poi da Ruby.

«S-Sì» riuscì a rispondere, alzandosi a fatica in piedi. «A-Arrivo…»

«Dov’è Kiana?» domandò Daniel, non appena lo raggiunse.

«N-Non lo so… so solo che non è qui.»

«Grandioso» sbottò lui. «E adesso come diamine la troviamo?»

Un altro ruggito si levò in aria, seguito da un guaito molto poco rassicurante. Il segugio infernale si schiantò rovinosamente accanto a loro, con la lingua a penzoloni e il fianco ferito.

«Jack!» gridò Daniel.

«Jack?!» domandò a quel punto Camille, sempre più sconvolta, mentre scrutava l’amico chino su quella che avrebbe dovuto essere una creatura pericolosa, e che invece lui stava accudendo quasi come se fosse il suo cucciolo.

«Voi…» Lamia strisciò verso di loro, con uno sguardo che non prometteva niente di buono. «… me la pagherete…»

Il quartetto improbabile si ritrovò a una decina di metri di distanza da quella donna spaventosa.

«La nostra via di fuga è andata» mugugnò Daniel, dando qualche colpetto di consolazione al segugio infernale ferito. «Rimani con lui» disse a Penelope mentre si alzava. Dopodiché il ragazzo guardò Camille. «Ce la fai a combattere?»

No” avrebbe voluto dirgli. Non ci riusciva proprio. Però non voleva mostrarsi debole, quindi annuì appena. «S-Sì… però sono disarmata…»

Daniel le passò uno dei pugnali di Kiana. «Temo che dovrai accontentarti. Ho perso anch’io la mia spada.»

Camille lo prese con incertezza, combattendo contro il disagio causato dal pensiero della sua amica smarrita. «Non… non vuoi ucciderla, vero?»

«Che razza di domanda è?»

Il grido straziante di Lamia squarciò il cielo prima che Camille potesse rispondergli. Si fiondò su di loro, gli artigli protesi pronti a farli a brandelli. I due ragazzi scartarono di lato prima che potesse squartarli e presero direzioni diverse. La donna ordinò al fuoco di ucciderli e una lingua rossa fuoriuscì dal suo palmo, biforcandosi. Camille pensò di svenire per lo sforzo, ma riuscì a proteggersi dalle fiamme creando una barriera magica, mentre Daniel svanì di nuovo in uno sfarfallio nell’aria, lasciandola senza parole. Anche Lamia parve sbalordita. «Che razza di magia è mai questa?!»

Daniel riapparve all’improvviso poco distante. Sollevò i palmi, il corpo circondato di tenebre. «Magia? No, niente del genere.»

Due ombre si proiettarono fuori dalle sue mani, colpendo Lamia in pieno e strappandole un altro muggito furioso. Erano uguali a quella che aveva steso Ruby. Camille spalancò gli occhi. «Ma che hai fatto?!»

«Ti spiego dopo!»

Il ragazzo svanì di nuovo, mentre Lamia ruggiva furibonda. Scatenò una tempesta di ghiaccio su di lui, ma non c’era niente da colpire: i proiettili affilati si piantarono a terra in un turbinio di tintinnii. Ci fu un istante di silenzio, poi l’aria sfarfallò di nuovo, proprio dietro di Lamia.

«Sono qui!»

Lamia commise l’errore di voltarsi, trovandosi il palmo di Daniel aperto proprio di fronte al suo volto. Il proiettile di luce la colpì in pieno, scaraventandola via. Il suo urlo di dolore lancinante si disperse per tutto il penitenziario, facendo accapponare la pelle di Camille.

La donna giacque immobile, in mezzo a un solco di terra. Daniel si avvicinò a lei. La figlia di Trivia lo seguì con lo sguardo, accorgendosi dei nugoli di oscurità che tutt’attorno a lui si stavano sollevando da terra per poi convergere nei suoi palmi. Era come se il ragazzo fosse una calamita per le tenebre, un vortice nero che risucchiava ogni ombra gettata in tutto il cortile dal cielo coperto di nubi. Una scena incredibile, quasi impossibile da descrivere, e che lasciò Camille atterrita. Non aveva mai visto niente del genere, mai. Da quando Daniel sapeva farlo?

Si rese conto che Lamia si stava rialzando a fatica, il viso grondante di sangue grumoso e scuro. Daniel si stava avvicinando a lei, il vortice di tenebre che ancora stava affluendo nel suo corpo, e uno sguardo che raccontava tutto quello che c’era da sapere sulle sue intenzioni.

Lottando contro la fatica, il dolore e le ferite, Camille corse verso di lui proprio mentre si preparava a finire Lamia con i suoi proiettili. «Fermo!»

«Uh?» Daniel si voltò verso di lei, confuso.

Camille per poco non si inciampò, ma continuò a correre. «Non ucciderla!»

«Che cosa?! Perché diamine non dovrei uccidere questo mostro?!»

«È mia sorella!» gridò lei, con quanto fiato aveva in corpo. «Non ucciderla!» ripeté.

Daniel assottigliò le palpebre, diffidente, ma non attaccò. Camille lo raggiunse con il fiatone. Si avvicinò poi a Lamia, che era appoggiata sui gomiti, e alzò le mani per dimostrare di non avere cattive intenzioni. Cercò di usare il tono di voce più calmo e rassicurante possibile, ma il risultato fu un bisbiglio tremolante e insicuro: «Per favore, sorella, smettiamola qui. Non dobbiamo ucciderci tra di noi.»

Lamia ringhiò di rabbia, scrutandola dal basso. Era ferita gravemente, ma non sembrava affatto darci peso: la sua rabbia era più forte di qualsiasi altra cosa. «È tardi per la pace. Demetrio e Alteia erano innocenti.»

Camille sentì un tuffo al cuore. Non conosceva quei nomi, ma capì subito che stava parlando dei figli che aveva perduto.

«Ti prego.» Si mise in ginocchio, tenendo entrambe le mani alzate. Dovette attingere a tutta la sua forza di volontà per riuscire a sostenere lo sguardo di quel viso mostruoso. «Prima… prima hai detto di essere “la figlia abbandonata”. Che cosa intendevi dire?»

Gli artigli di Lamia affondarono nella terra. Emise un ringhio sommesso come quello di un lupo messo all’angolo. Camille si fece coraggio e disse: «“Al richiamo della dea imprigionata, dovrà accorrere la figlia abbandonata”.»

Un mugugno sorpreso scappò dalla donna. «Tu… conosci la profezia?»

«Sì. La… la conosci anche tu?»

Lamia la scrutò con un interesse del tutto nuovo. «Ho ricevuto il dono della profezia da Zeus in persona, quando mi corteggiò.»

«Quindi… conosci anche l’ultimo verso?»

«Perché me lo domandi?»

Camille esitò. Udì un suono gutturale provenire dalla gola di Lamia. Stava ridendo.

«Tu non conosci la profezia completa, dico bene? Stai brancolando nel buio.» La risata crebbe di intensità: un suono orribile, graffiante, intriso di rabbia, pazzia e sadico divertimento. «Ecco perché stai cercando nostra madre. Non hai idea di quello che accadrà quando la troverai.»

«Che… che intendi dire?»

«Zeus scatenerà la sua furia… e sarà solo colpa vostra. A meno che…» L’urlo di Lamia sovrastò ogni cosa. «… io non vi uccida per prima!»

Si avventò su Camille: in un solo istante quelle fauci affilatissime si ritrovarono a un palmo del suo viso. I proiettili di oscurità si abbatterono di nuovo su Lamia, perforandole il fianco, la schiena e il collo. La donna gettò il capo all’indietro, gridando il suo dolore al cielo. Indietreggiò, incalzata dagli attacchi di Daniel, il corpo che si ricopriva di ferite orribili, finché non stramazzò a terra inerme.

Camille rimase immobile, i denti di Lamia ad un passo dal dilaniarle il volto ancora impressi nella mente, il suo alito che sapeva di marcio e di veleno che si rifiutava di abbandonare il suo naso. Osservò Daniel torreggiare su Lamia, ormai irriconoscibile a causa del sangue grumoso che le usciva dalla bocca e dal viso. Un lungo rantolio provenne dalla gola della donna.

«Sarei io il mostro?» riuscì a gemere, roca, le braccia che tremavano e uno sguardo che pareva quasi impaurito. «E allora… tu cosa sei?»

Daniel serrò la mascella. Il suo palmo brillò di luce nera. Camille sgranò gli occhi. «NO!»

Provò a correre, ma non riuscì a fare un solo passo: il dardo si abbatté sul volto di Lamia producendo un rumore orribile. Un ultimo grido provenne dalla donna, potente come un tuono, ma molto più raccapricciante. Dopodiché Lamia si accasciò a terra e lì rimase, con un buco orribile che le copriva l’occhio e la guancia.

Camille sentì il mondo crollarle addosso. Le sue gambe cedettero, schiacciate dal peso del dolore.

«No…» sussurrò. Non riuscì a distogliere lo sguardo dal cadavere di Lamia mentre si trasformava in polvere sospinta dal vento. Il viso mostruoso della donna si dissolse, assieme a tutto il suo lunghissimo corpo, finché di lei non rimase più alcuna traccia.

«Non ho scelto io di diventare così. Demetrio e Alteia erano innocenti.»

«Non è giusto» sussurrò la figlia di Trivia, con voce rotta, le parole di Lamia impresse nella mente, cicatrici indelebili che non avrebbe mai più potuto rimuovere. «Non è giusto…»

«Stava per ucciderti, Cam» disse Daniel, grave. «Non avevo scelta.»

Camille drizzò la testa, incrociando i suoi occhi severi. Le sue mani erano ancora coperte di oscurità, che usciva dalle dita come pennacchi di fumo. Poco prima, aveva trovato il suo amico attraente. In quel momento, invece, sembrava solo spaventoso. I suoi occhi parevano più affossati del solito e la sua espressione era dura come il granito, minacciosa perfino, al punto che Cam cominciò a pensare che avrebbe potuto attaccare anche lei.

«Smettila di fare così, Camille. Qui tutti sono fratelli di tutti. E tutti cercano sempre di uccidersi.» Daniel si avvicinò a lei e le tese la mano. «Ora alzati. Non abbiamo più tempo da perdere.»

La figlia di Trivia lottò contro l’angoscia che le stringeva lo stomaco e gli prese la mano. Quanto avrebbe voluto avere la sua stessa freddezza di spirito. Si sforzò di metabolizzare quello che era appena successo e, soprattutto, riflettere sulle ultime parole di Lamia.

Furia di Zeus. Colpa loro. 

Che cosa significava? Che… che cosa diceva l’ultimo verso della profezia?

«State bene?» domandò Daniel a Penelope e Jack. La prima annuì, mentre il secondo abbaiò felice. Una sfumatura di sollievo attraversò il volto del ragazzo. «Forza, dobbiamo…»

«Voi non andrete da nessuna parte!» tuonò una voce molto familiare all’improvviso.

Camille e Daniel si voltarono verso il lato del cortile da cui era provenuta quella voce, e la ragazza sbiancò.

Un gigante barbuto era apparso come dal nulla, con un ghigno enorme stampato in faccia, e Shinjiro stretto al petto da una delle sue possenti braccia. Encelado. E non era solo: accanto a lui, Sapphire si rivolse a Ruby con tono divertito: «Ehi, sorella, ti serve una mano?»

«Ah… ma vattene al Tartaro» mugugnò Ruby, che proprio in quel momento si stava rimettendo faticosamente in piedi. Il bernoccolo enorme sulla sua tempia cominciò a ritirarsi, le labbra contorte in un’espressione rabbiosa invece rimasero invariate.

Penelope fece uno strano verso e corse a nascondersi dietro ai due semidei, mentre il segugio infernale cominciava a ringhiare verso i nuovi arrivati.

Camille si concentrò su Shinjiro, che stava cercando senza successo di liberarsi dalla presa di Encelado. Come diamine aveva fatto a finire in quella situazione? No, non voleva nemmeno saperlo. L’uomo-gatto si accorse che lo stava guardando e le rivolse un sorrisetto imbarazzato. «Ehm… mia cara? Potresti liberarmi, onegaishimasu

Encelado lo stritolò al suo petto, strappandogli un mugugno di dolore. «Zitto, gatto mannaro.»

«Mutaforma! Gatto muta-forma!»

Il gigante lo stritolò ancora. «Ho detto zitto

Daniel scrutò Shinjiro. «E quello chi cavolo è?»

Camille non rispose, troppo sconvolta dalle nubi nere che stavano fuoriuscendo dal corpo del suo amico. Assomigliavano in maniera molto inquietante a quelle della donna di tenebre del suo sogno.

«Ehi, Shinji.» Un piccolo serpente apparve sulla spalla di Encelado. Puntò il muso verso l’uomo-gatto e fece fremere la lingua. «Com’è trovarsi dall’altra parte? Non è divertente, vero?»

«Ma… quel serpente ha parlato?!» bisbigliò Penelope alle loro spalle. Camille era sconvolta tanto quanto lei.

«Chono! Maledetto traditore! Te la farò pagare ca-aaah!» La minaccia di Shinji si trasformò in un grido quando Encelado lo stritolò di nuovo.

«Sei tu che mi hai tradito per primo, kuso yarō

«Voi due discuterete dopo» si intromise Encelado, con voce che non ammetteva obiezioni. Entrambi si ammansirono. Camille aveva così tante domande da sentire la testa esplodere, anche se era abbastanza sicura che questo fantomatico “socio in affari” di Shinjiro fosse proprio quel serpente parlante.

«Hanno detto qualcosa in giapponese» mormorò Daniel. «Le creature che hanno incontrato David e Travis… non erano giapponesi anche loro?»

Camille schiuse le labbra. Non aveva fatto quel collegamento, ma Daniel aveva ragione. E Shinjiro aveva parlato di due culture che si univano. Anche la donna nel suo sogno aveva detto una cosa simile, in realtà: aveva parlato di tre mondi diversi.

«Allora, Vacuo, si può sapere come hai fatto a trovare questo posto?» domandò Encelado. Si avvicinò, imitato da Sapphire e Ruby. Camille si rese conto che stavano tutti fissando Daniel.

Vacuo. Non era la prima volta che sentiva quel nomignolo, in riferimento a Daniel. Anche la carceriera l’aveva chiamato così. Il suo compagno di viaggio non sembrò affatto prendere bene quel soprannome, perché strinse i pugni.

«Buono Jack» sussurrò cavernoso al segugio infernale, che sembrava a un passo dal saltare addosso ai nemici che li stavano circondando.

Se fossero usciti vivi da lì, la prima cosa che avrebbe fatto Camille sarebbe stata chiedergli perché aveva chiamato Jack un segugio infernale. Sì, perfino prima di chiedergli perché diamine un maledetto segugio infernale fosse dalla loro parte.

«La tua presenza qui, come dire, ha intralciato il nostro piano.» Encelado sogghignò, accennando con il mento al punto dove Lamia era scomparsa e poi a Camille. «Vedi, Vacuo, la tua amica avrebbe dovuto uccidere Lamia, o viceversa, non aveva importanza. Il punto è questa era una faccenda privata. Non avresti dovuto impicciarti. Non nascondo, però, la mia soddisfazione riguardo come sono andate le cose. Da quando la mia cara madre è morta dopo averla riportata in vita, Lamia è sempre stata una scheggia impazzita. Impossibile da controllare, difficile da uccidere. Quando Ecate è stata rapita, poi, ha perso del tutto il senno. Pensate che voleva addirittura salvarla. Ah! Divertente, vero?»

Il gigante scrutò Daniel con interesse. «Vi ringrazio per averla uccisa al posto nostro. Adesso, però, dovete morire anche voi. A meno che tu non voglia unirti a noi, Vacuo. Sono sicuro che la nostra nuova protettrice non vede l’ora di conoscerti di persona.»

«E perché diamine dovrei unirmi a voi?!» sibilò Daniel, sollevando entrambe le mani, puntandone una verso Encelado e Sapphire, l’altra verso Ruby. Shinjiro e quest’ultima sussultarono, gli altri due invece risposero con dei ghigni.

«Oh, Daniel, la nostra protettrice ti conosce molto bene» rispose Sapphire, melliflua. «Dopotutto, è grazie a lei se esisti.»

«Ma di che state parlando?!»

Sapphire rise. «Guardati, VacuoSei così… ingenuo. E ignaro. Sei talmente adorabile…» L’empusa assunse il suo aspetto reale, con i denti aguzzi, i capelli infuocati e gli occhi incandescenti. «… che potrei mangiarti!»

Camille sapeva che avrebbe dovuto prestare attenzione a cosa si stavano dicendo, ma non poteva. Non dopo aver sentito cosa aveva detto Encelado. I palmi le fecero male da quanto forte ci conficcò le dita dentro. Sentì la stanchezza e il dolore causato dalle ferite affievolirsi e la magia dentro di sé trasformarsi in un tornado capace di cancellare ogni cosa dalla faccia della Terra.

«Era… questo il vostro grande piano?» domandò a Ruby, ignorando completamente gli altri due. Si voltò, per osservarla dritta negli occhi. «Volevate… volevate che io e Lamia ci massacrassimo a vicenda?»

Ruby resse il suo sguardo, senza rispondere.

«Sei venuta a parlarmi di giustizia. Dimmi, è giusto quello che voi avete fatto a Lamia? L’hai sentita la sua storia, no? È giusto prendere il dolore e la disperazione di qualcuno e usarli a proprio favore? È giusto che mi abbiate costretto a combattere contro di lei?!» La voce di Camille tremolò per la rabbia. «L’avete usata. E poi… avete voluto guardarci mentre ci uccidevamo a vicenda. Volevate liberarvene come spazzatura. Beh, ci siete riusciti. Adesso è morta. Era nostra sorella… voleva… salvare Ecate… e l’avete uccisa. Tu l’hai uccisa. Dimmi, Ruby, sei contenta adesso? È stato abbastanza giusto per te?!»

All’ennesimo silenzio, Camille perse le staffe: «RISPONDI!»

«Chiudi la bocca…» sibilò Ruby.

«Ehi, sorellina, che ti prende? Perché sei così arrabbiata?» si intromise Sapphire, con quella sua vocetta squillante e irritante. E il suo ghigno era perfino peggio, una calamita per schiaffi. «Lamia non si è fatta gli stessi problemi che ti stai facendo tu. Ti avrebbe uccisa senza esitazione. Ma se sei così triste che sia morta, possiamo rimediare, e mandarti da lei proprio adesso.»

Camille fece vagare lo sguardo tra le empuse ed Encelado, che continuava a ridacchiare come uno stupido. «Lo trovi divertente?» bisbigliò Cam proprio a quest’ultimo. «Trovi così divertente il fatto che ci abbiate costrette a combattere tra di noi?!»

«Sì.» Encelado distese il suo sorriso crudele. «Assolutamente sì.»

Qualcosa si smosse nel petto di Camille non appena udì quella risposta, come un blocco di granito che veniva rimosso. Scrutò con quanto odio avesse in corpo prima lui, poi Sapphire, poi Ruby. Cominciò a tremare come una foglia, la magia che turbinava furiosa nel suo corpo, un fiume di fuoco liquido che le ribolliva nel sangue. «La pagherete…»

«Cam… Cam, che stai facendo?» sussurrò Daniel, ma lei a malapena lo sentì. Nella sua testa, non c’era altro che il desiderio ardente di far svanire quei sorrisi dai volti di Sapphire ed Encelado.

La terra cominciò a tremare. Le mani le bruciarono. Il petto le si congelò. Sentì delle scosse elettriche attraversarle la schiena.

«Io… io vi maledico» sussurrò, prima urlare a perdifiato, lacerandosi la gola, bruciandosi i polmoni e le guance: «Voi, la vostra padrona, i vostri alleati, che la furia di mia madre si abbatta su di voi attraverso di me e vi annienti tutti dal primo all’ultimo! IO…»

Camille spalancò le braccia. La magia fuoriuscì da lei come risucchiata da una forza invisibile. Il cielo tuonò. Le fiamme si riversarono fuori dalle sue mani. Il mondo di scosse sotto ai suoi piedi e una raffica di vento gelato tagliò l’aria, scompigliandole i capelli. Rovesciò la testa all’indietro mentre tutto il suo dolore, la sua furia e la sua rabbia si riversavano fuori da lei sotto forma di magia pura e incontrollabile: «… VI MALEDICO!»

Daniel gridò terrorizzato, assieme a Penelope. Jack cominciò ad abbaiare. Una parete della prigione crollò come un castello di carte.

Camille sbraitò verso il cielo con quanto fiato aveva in corpo, mentre tutto si trasformava in una macchia indistinta. «Morite! MORITE TUTTI!»

Tutto quanto svanì attorno a lei. Rimasero solo colori sfocati, un vortice di immagini e suoni indistinti, incomprensibili. Grida, la terra che si spaccava, il vento che soffiava, il fuoco che crepitava.

E poi, tutto si fece buio.

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Capitolo 14
*** La vera Foschia ***


ATTENZIONE: verso la fine del capitolo è presente una scena che potrebbe disturbare alcuni lettori. Voglio soltanto precisare che il mio intento non è né di spettacolizzare certe azioni, né di giustificarle, ma solo quello di raccontare una storia. Grazie e buona lettura.

XIV

La vera Foschia




«Tieni.»

Kiana sollevò lo sguardo, e vide Mary mentre le porgeva un cono gelato. Stava sorridendo. Quella ragazza non sorrideva quasi mai. Ma per lei faceva sempre un’eccezione. 

«Grazie Mary-Mary» rispose, accettando il gelato.

Mariane ridacchiò e si sedette sul muretto accanto a lei. «Non chiamarmi così.» 

Era una giornata splendida. E calda. La Via Principalis era un agglomerato di ragazzi che andavano e venivano dalla gelateria o dalle terme. Tutti avevano finito i loro lavori e stavano semplicemente cercando di combattere il torrido clima estivo. Camille era sparita chissà dove assieme ai gemelli Vega, David e Travis. Con tutta probabilità stava cercando di attaccare bottone con uno dei ragazzi. Kiana non le aveva ancora detto che David non era disponibile, e con tutta probabilità nemmeno Travis. Voleva lasciare che lo scoprisse da sola.

Affondò i denti nel cono e per poco non sentì le sue papille gustative sciogliersi assieme al gelato. Non aveva detto a Mary che gusti prendere, ma lei, come sempre, aveva preso il suo preferito: crema catalana e mandorle.

«Come ti sembra?» le domandò Mary.

Kiana ripensò ai gelati preparati da chef stellati che mangiava nella sua mega villa. «Beh… non è come quelli che mangiavo da bambina.» Diede di gomito a Mary e le strizzò l’occhio. «È molto meglio.»

Marianne, che per un secondo aveva perso il sorriso, ridacchiò di nuovo e le diede una spintarella. «Stupida.» 

Anche Kiana ridacchiò. Non resisteva senza punzecchiarla, era più forte di lei. «Tu piuttosto…» disse, accennando con il mento alla coppetta di Mary. «… da quando mangi il gelato?» 

«Questo è scremato. E senza zucchero.»

«Wow. Scommetto che è il gelato al gusto “niente” più buono del mondo!»

Questa volta Mary le rivolse un verso di scherno. «Non siamo mica tutte come te, Miss “Mangio ma non ingrasso”.»

«Immagino che essere figlie della dea delle bambole abbia i suoi vantaggi» rispose Kiana con un’alzata di spalle.

«Non essere così dura con tua madre.» 

«Credimi, nei miei panni anche tu lo saresti.»

Marianne si strinse nelle spalle, ma non disse altro in merito. «Guarda che disastro che stai combinando» si lamentò invece. Tirò fuori una manciata di tovaglioli dalla tasca e cominciò a pulire la guancia di Kiana, che si era sporcata mangiando il gelato. «A volte sembri proprio una bambina.»

Per tutta risposta, lei le rivolse un sorrisetto colpevole. «Per fortuna ci sei tu a occuparti di me.»

Mary sorrise, ma quando finì di pulirla il suo sguardo sembrò farsi vacuo all’improvviso. Kiana se ne accorse subito. «Ehi, va tutto bene?»

La figlia di Bellona si morse un labbro. 

No, non va bene” pensò Kiana, avvertendo una fitta allo stomaco.

«Charlotte… Charlotte si ritira» disse Mary, piano. 

Kiana ci mise un po’ a capire di chi diamine stesse parlando. «Il… il nostro centurione?»

«Sì.»

«Tsk. Beata lei. Se ne va da questa gabbia di matti…» borbottò Kiana, prima di rendersi conto, effettivamente, che cosa stesse succedendo. «Un… un momento… perché me lo stai dicendo?»

Vide Mary abbassare la testa. Le interiora di Kiana si trasformarono in granito. «… Mary?»

«Mi… mi sono offerta volontaria per prendere il suo posto» buttò fuori Marianne. Ritornò a guardala, ora con quell’espressione severa che l’aveva sempre caratterizzata, e che le fece capire che stava dicendo sul serio. 

Kiana non riuscì a trattenere la rabbia nella propria voce: «Ma… perché?!» 

«La Quinta Coorte ha bisogno di un vero leader. Non possiamo continuare così. Stiamo cadendo a pezzi ogni giorno sempre di più.»

«E tu vorresti essere quel leader?!»

«Sono una figlia di Bellona. Sono nata per questo.» Nonostante il peso delle sue parole, Mary continuò a reggere lo sguardo di Kiana. «Mi dispiace, ma devo farlo.»

La mano di Kiana diventò fredda all’improvviso; aveva schiacciato il cono fino a romperlo e ora il gelato le stava scivolando fra le dita. 

«Kiana…» Mary prese un altro tovagliolo. Afferrò la mano di Kiana e fece per pulirgliela, ma lei la ritirò di scatto. Non gliene importava niente delle macchie di gelato. Non le importava niente di nulla.

«Così non potremo più frequentarci!» esclamò furiosa.

«Ma certo che potremo ancora.»

«No, invece, e lo sai meglio di me! Dovrai gestire i lavori di tutti, fare i tuoi stupidi rapporti, compilare le tue maledette scartoffie! Quanto tempo avremo per noi, un’ora alla settimana?!»

Mary assottigliò le labbra. Kiana aveva ragione ed entrambe lo sapevano. Sperò che l’ascoltasse, che realizzasse che era una follia, che non poteva farlo, non poteva mollarla così. Era vero, la Quinta Coorte era un caso disperato, ma era stato proprio in mezzo a quel caso disperato che si erano conosciute. Finché erano insieme il resto non aveva importanza ed era sempre stata convinta che Marianne pensasse lo stesso. 

Per un istante, credette che la sua ragazza stesse davvero riflettendo sulle sue parole. Ma poi, abbassò la testa. Per la prima volta da quando la conosceva, Mary non ebbe il coraggio di guardare qualcuno in faccia. «Mi dispiace.»

Una pugnalata nel cuore le avrebbe fatto meno male. A Kiana sembrò davvero di sentire qualcosa spezzarsi dentro di lei, mentre guardava la persona con cui credeva di aver condiviso qualcosa di speciale per così tanto tempo, la stessa persona che l’aveva appena piantata in asso. 

Proprio come suo padre. Proprio come sua madre. Proprio come tutti gli altri.

Non disse altro. Sentiva che se fosse rimasta lì un secondo di troppo avrebbe potuto urlare. Gettò quello che rimaneva del gelato a terra e se ne andò. Mary la chiamò, ma lei non si voltò. Si fece largo tra la folla a spintoni, senza curarsi dei versi di protesta che ricevette in cambio. 

Voleva solo trovare un anfratto buio dove chiudersi e piangere fino a esaurire le lacrime.

La scena cambiò. 

Il Campo Giove era in subbuglio. Legionari andavano e venivano da ogni direzione, cupi in viso. La tensione era palpabile nell’aria, era la calma prima della tempesta come mai l’aveva vista prima. Pareva una polveriera pronta ad esplodere. 

Il sogno di Kiana si spostò lungo la Via Principalis, la cui atmosfera cupa era diametralmente opposta rispetto a quella della visione precedenteArrivò fino alla Principia e oltrepassò le pareti, fino a scendere nelle prigioni al piano sotterraneo. Non le aveva mai viste, ma sapeva che esistevano; solo, non credeva le avessero mai usate per davvero. Invece vide due volti familiari uscire da una delle celle: erano le guardie della Principia, quelli che aveva steso. E non erano soli. Stavano trascinando di peso una persona che se ne stava con la testa bassa e a penzoloni. Non appena la riconobbe, Kiana inorridì. 

Era Marianne. 

«Mary…» sussurrò, con voce incrinata. 

Le due guardie non sembrarono accorgersi di nulla. La figlia di Bellona invece drizzò la testa, mostrando i suoi stupendi occhi celesti e le tracce di sangue secco sopra le guance e le labbra. Non appena vide in che condizioni era, il petto di Kiana fu trafitto da una lancia. 

Non riusciva a credere a quanto fossero crudeli quei sogni. Prima aveva visto il momento in cui Mary le aveva spezzato il cuore. E ora, era costretta a osservare quella stessa ragazza ridotta in quel modo. Non sapeva cosa pensare. Avrebbe voluto odiarla per come l’aveva abbandonata, ma allo stesso tempo non poteva. Anzi, si sentiva ancora peggio per aver provato tanta rabbia. L’unica persona che voleva odiare mentre osservava Marianne ridotta in quel modo, era sé stessa.

Marianne corrugò la fronte e guardò proprio verso la sua direzione, ma non disse niente. Kiana si sbalordì: l’aveva sentita? Aveva percepito che lei era lì?

I due legionari la trascinarono lungo i gradini, portandola al piano di sopra. Non appena entrarono nella sala principale, qualcuno venne spinto a terra proprio di fronte a loro, sotto all’affresco di Romolo e Remo sul soffitto. Un ragazzo alto, spilungone, anche lui con i polsi legati dietro la schiena. 

«Dante!» Mary si divincolò dalle guardie e si inginocchiò accanto a lui. «Stai bene?»

Il ragazzo sollevò la testa e sia Marianne che Kiana poterono constatare che no, non stava affatto bene. La sua faccia era un miscuglio di lividi gonfi e viola, con tracce di sangue ancora fresco. Provò a parlare, ma non uscì altro che un boccheggio dalle sue labbra spaccate. Dopodiché si accasciò a terra con un gemito. 

Marianne strinse i denti furiosa e sollevò lo sguardo verso di Elias, che torreggiava sulla scena in silenzio. «È così che trattate i prigionieri?!»

«Voi non siete prigionieri.» Ashley apparve accanto al suo collega, un sorriso glaciale dipinto sul volto. «Siete traditori di Roma. Non meritate alcun rispetto.»

La rabbia che provò Kiana nell’osservare quel viso odioso non doveva essere nemmeno paragonabile a quella di Marianne. 

«L’unica traditrice, qui, sei tu Ashley» sussurrò il centurione, rimettendosi in piedi e fronteggiandola senza alcun timore, nonostante fosse circondata e con le mani legate. «Tratti me e i miei compagni come nemici, quando dovremmo essere tutti dalla stessa pa…»

Ashley la zittì con uno schiaffo. Se Kiana fosse stata presente di persona, avrebbe spezzato ogni singolo osso del corpo di quella bambolina di ceramica coi boccoli d’oro. 

Mary incassò il colpo, ma non gridò. Ashley la afferrò per le guance e la costrinse a guardarla. Kiana non aveva idea del perché fosse costretta a osservare quella scena. Avrebbe voluto urlare, insultare Ashley, spaccare qualcosa, ma non poteva. Poteva solo guardare quella ragazza che tanto aveva significato per lei, e tanto significava ancora, trattata così da quella psicopatica.

Marianne cercò di opporre resistenza, ma alla fine fu costretta a cedere e a incrociare il suo sguardo dall’alto, visto che superava Ashley di un paio di centimetri. 

La figlia di Giove, però, compensava quei centimetri di altezza che le mancavano con l’ego, e l’arroganza. «Attenta, Moreau. Vuoi forse aggravare la tua posizione?» 

Si allontanò da lei e diede qualche colpetto con il piede a Dante, che rispose con un lamento. Storse le labbra disgustata e si voltò verso le due guardie. «Riportate questo rifiuto di sotto. Io ed Elias dobbiamo fare due chiacchiere con la traditrice.» 

«Che stai facendo, Crowe?» sibilò Marianne, mentre il figlio di Plutone l’afferrava per la spalla. «Ecate è stata rapita, i nostri nemici si stanno muovendo per distruggerci tutti, e tu assecondi Ashley in questa follia! Che razza di pretore è uno che obbedisce ciecamente agli ordini dell’altro?!»

«Uno furbo» fu la risposta di Ashley, mentre richiudeva la porta che conduceva al piano di sotto. 

Elias fece una smorfia, ma non disse nulla. Obbligò Marianne a sedersi di fronte alla scrivania dei pretori e la tenne immobile, le mani premute sulle spalle, mentre Ashley, impettita come un pavone, andava a sedersi sul suo scranno con tutta la calma del mondo. 

«Dunque, Marianne. Il tuo amico Dante ha subito giurato sullo Stige di non sapere dove si sono diretti i tuoi amici.» Il pretore ridacchiò. «Credeva che così facendo non avremmo cercato di cavargli le informazioni con la forza. Ma immagino tu abbia capito che il suo piano non ha funzionato.»

Kiana pensò ai lividi che aveva appena visto sul volto di Dante, e capì subito di cosa Ashley stesse parlando. Non le importava di avere informazioni o meno: voleva solo “punire” e basta. Quel pensiero le diede il voltastomaco. 

La bionda psicopatica si appoggiò alla scrivania coi gomiti, sporgendosi verso Marianne. «Allora, tu sai dove sono andati i tuoi compagni?» 

«Perché vuoi saperlo?»

Ashley adagiò la guancia sul palmo della mano, con lo stesso sorriso di un bambino di fronte a un regalo da scartare. «Perché abbandonare il campo per qualsiasi motivo è proibito, fuorché non ci sia un’impresa di mezzo. E siccome nessuno di quei tre ha ricevuto un’impresa, il mio compito e trovarli e riportarli qui. In alternativa ci sarebbe il bandirli per sempre, ma non voglio certo ricorrere a qualcosa di così drastico.»

Kiana non poteva crederci. Bandire loro tre era drastico, ma picchiare Dante e imprigionare Marianne invece no?!

«Questo è il motivo di facciata» rispose Mary, dura. «Perché non mi dici quello reale, adesso?»

«Non capisco di che parli.» Ashley si osservò le unghie, tutto a un tratto sembrava disinteressata, ma Kiana intuì il suo tentativo di dare sui nervi a Marianne. 

La figlia di Bellona però non ci cascò. Si sporse verso di lei, nei limiti concessi dalle presse idrauliche che Elias aveva al posto delle mani. «Lascia che ti illumini, Flare. Tu vuoi trovarli e riportarli indietro perché hai paura che possano trovare Ecate. Hai paura che, ancora una volta, dei ragazzi della Quinta Coorte ti rubino la scena, proprio com’è successo quest’estate a San Francisco. È anche lo stesso motivo per cui non li hai solamente banditi. Se trovassero Ecate diventerebbero eroi, e saresti costretta a riammetterli. Anzi, peggio. Saresti costretta ad ammettere, di nuovo, che qualcun altro al di fuori di te può essere un eroe. Dimmi, ci sono andata abbastanza vicina?»

Ashley abbassò la mano. Fissò truce la prigioniera, mentre perfino in sogno Kiana avvertiva la pressione nella stanza mutare di colpo. Pareva che dalle nuvole dipinte negli affreschi stesse per scoppiare una tempesta. Poi il pretore ridacchiò e l’aria sembrò alleggerirsi. «Ah, Moreau, Moreau, Moreau… precisa e dritta al punto come sempre

Si alzò in piedi e si incamminò fino al piedistallo con sopra l’Aquila della Legione. Accarezzò con delicatezza la testa della statuetta. «Sai, è vero un peccato che le cose siano finite così. Davvero. Hai così tanto potenziale… avremmo potuto perfino essere amiche. Non saresti stata pretore, certo, però avrei potuto renderti centurione della Prima Coorte. Saresti stata il mio braccio destro non ufficiale. La figlia di Giove e la figlia di Bellona, i due principali dei romani. Avremmo potuto fare grandi cose insieme, io e te. E invece guarda come ti sei ridotta. A difendere allo stremo delle forze una coorte morta. Chissà cosa penserebbero le tue sorelle più grandi di te.»

«Non menzionarle nemmeno» sibilò Marianne. «Tu non meriti lo stesso posto avuto da Reyna. Dovresti vergognarti.»

Un’altra risata fuoriuscì dalla gola di Ashley, molto più pronunciata. Diede le spalle all’aquila, riportando lo sguardo sulla prigioniera. «Vergognarmi? E perché? Perché io, a differenza di quell’ingrata di mia sorella maggiore, rispetto mio padre? Perché io non sono fuggita dai miei doveri di pretore, a differenza dalla tua tanto adorata Reyna, o del mio adoratodefunto…» Ashley indicò il pavimento, con uno strano sorrisetto. «… fratello?» 

Mary assottigliò le labbra. Kiana, invece, ascoltò sorpresa. Era la prima volta in assoluto che sentiva Ashley menzionare i suoi fratelli più grandi. Era accaduto molto spesso, però, che i vecchi senatori e i lari paragonassero lei a loro due. Molte volte avevano anche detto che Ashley era molto simile a Jason Grace, come leader e perfino come aspetto, ma alla luce degli ultimi avvenimenti, Kiana non poteva essere più contraria.

Le storie che erano rimaste di Jason Grace parlavano di un guerriero coraggioso, forte, ma che sapeva anche farsi da parte e accettare l’aiuto degli altri, non di un folle assetato di gloria e potere e convinto di essere al centro dell’universo. 

Ora Kiana riusciva a comprendere perché, quando le cacciatrici passavano al campo, Talia girasse sempre alla larga da quella biondina riccioluta col viso da putto. Sicuramente aveva già capito da tempo che persona fosse davvero. Forse si vergognava di lei, e aveva tutte le ragioni per farlo.

«Non ho assolutamente nulla di cui vergognarmi, Mary» disse proprio Ashley, sempre con quel maledetto sorriso. «Sono una figlia di Giove, il più potente degli dei. Sarò io la salvatrice di Roma. Troverò io Ecate e sempre io sconfiggerò i nostri nemici. Sarò io l’eroina, non voi, non quei tre traditori.» Si toccò il petto. «Io. A proposito, Elias…»

L’interpellato si irrigidì. L’espressione di Ashley si indurì all’improvviso. «I tuoi servigi non sono più richiesti. Torna a cercare quei tre. Li rivoglio qui entro questa sera. Se mi deluderai ancora… beh, non serve che ti dica cosa accadrà. Tanto vale che tu non ti faccia più rivedere. Tutto chiaro?»

Elias assottigliò le labbra. Era grosso almeno il triplo di lei. Avrebbe potuto spezzarla come un grissino. Eppure, annuì goffamente, sembrando perfino… intimorito. Lasciò le spalle di Marianne e si ritirò, il mantello nero che svolazzava dietro di lui.

Non appena la porta della Principia si richiuse, Ashley fece una smorfia disgustata. «Quell’idiota incapace. Almeno è obbediente. Sa stare al suo posto…» Sogghignò di nuovo a Mary. «… a differenza tua.»

«Tu… tu l’hai mandato nei dormitori, la sera in cui Gray e gli altri sono partiti» disse la prigioniera. «Sapevate della partenza. Vero?»

Ashley liquidò la faccenda con un gesto della mano. «Doveva essere un lavoro semplice. Elias avrebbe dovuto intercettare Gray e Farhat, mentre quel parassita di García andava avanti da solo e, con un po’ di fortuna, si faceva beccare e ci dava un pretesto per chiuderlo in una gabbia una volta per tutte e gettare via la chiave. Ma, in qualche modo, il mio inutile collega si è fatto fregare come un idiota, e ha permesso a quelle due di scappare. Il tuo arresto si sarebbe potuto evitare, se lui avesse svolto bene il suo incarico.»

Marianne spostò lo sguardo verso il punto in cui avrebbe dovuto trovarsi Kiana, se fosse stata lì fisicamente. A quel punto la figlia di Venere non ebbe più dubbi: sapeva che era lì. 

«E come sapevate della partenza?» domandò. 

Ashley ridacchiò. Si sedette di nuovo sul trono e le strizzò l’occhio, senza dire nulla. Era chiaro che quella domanda sarebbe rimasta senza risposta. Di sicuro non era stato Dante a spifferare tutto, o non l’avrebbero conciato in quel modo. 

«Se sapevate tutto, perché non sei venuta anche tu a fermarci?» domandò allora Marianne. 

«Avevo altro da fare.» Ashley appoggiò i gomiti sopra a scrivania. «Hai finito con le domande, Moreau? Sono io che devo interrogarti, non il contrario.»

«Come speri di trovare Ecate se la profezia di Dante nemmeno ti riguarda?» insistette Marianne. «Devi avere fede in Gray e i suoi compagni, devi lasciare che siano loro a trovare Ecate e pensare soltanto a come difendere il campo ora che siamo senza confini! Non dobbiamo intralciarci tra noi, ma collaborare!»

«Disse quella che ha aiutato tre legionari a fuggire clandestinamente» rispose Ashley con fare annoiato. «Risparmiami la paternale, Marianne. Non ho bisogno di ascoltare una traditrice della Quinta Coorte che mi dice cosa devo o non devo fare.»

«Tu sei pazza. Devi lasciare che Gray trovi sua madre, o ci condannerai tutti! Non puoi fare tutto da sola!»

«Da sola ho sbaragliato Encelado in pochi minuti. Da sola ho fatto fuggire il suo intero esercito con la coda tra le gambe. Da sola sono più forte di te, di Elias, della Legione interaCredo proprio di poter fare non solo tutto, ma anche di più, da sola. Però ti ringrazio per la tua preoccupazione. È davvero toccante. Ora torniamo alla domanda iniziale, prima che perda davvero la pazienza. Dove sono andati i tuoi amici?»

Mary strinse i pugni dietro la schiena. Abbassò lo sguardo, celando la sua espressione di sconforto, mista a rabbia. Kiana pensò che l’avrebbe mandata a quel paese. Invece sorprese non solo lei, ma anche Ashley stessa. «In Alaska.» 

«Che cosa?» Ashley si drizzò sul trono, genuinamente stupita. 

«In Alaska» ripeté Mary, senza guardarla. «Gray ha un legame con sua madre. Ha detto di poter sentire dov’è rinchiusa. E ha detto di averla percepita a nord. Tanto tempo fa, anche Thanatos è stato rapito, ed è stato portato in Alaska. È la terra oltre i confini degli dei, dopotutto. È probabile che ad Ecate sia successo lo stesso.» Un sorrisetto apparve sul volto della figlia di Bellona. «Per essere una che da sola può fare così tante cose, mi aspettavo che anche tu ci saresti arrivata, Ashley.»

Questa volta, Ashley sembrò punta sul vivo. Rimase in silenzio, a scrutare Marianne minuziosa per quelle che parvero eternità. Kiana tenne il fiato sospeso anche se non ce n’era bisogno. E poi, Ashley fece un’altra smorfia. «Certo che ci avevo pensato. Ma non credevo che i nostri nemici fossero così stupidi da rifare la stessa cosa.»

Mary alzò le spalle. «La storia tende sempre a ripetersi.»

«Bah!» Ashley si rimise in piedi e se ne andò verso la porta. Chiamò le guardie ad alta voce e ordinò loro di cercare Elias prima che partisse, mentre il sorrisetto di Marianne si distendeva. Guardò di nuovo verso la direzione di Kiana e le strizzò l’occhio. Mai come in quel momento avrebbe voluto stringerla e baciarla. E poi strangolarla per come continuava a ficcarsi nei guai per loro. 

E poi baciarla di nuovo. 

«Va bene, Moreau.» Ashley tornò da lei, con quel sorriso freddo. La afferrò per le guance come aveva fatto prima e la obbligò di nuovo a guardarla. Più Kiana osservava la propria donna venire toccata in quel modo da un’altra oca e più voleva far ingoiare i denti alla suddetta oca. «Sarà meglio che tu non mi abbia detto una bugia. Altrimenti…» Una scarica elettrica si sprigionò dal suo palmo e si abbatté su Marianne. La figlia di Bellona rovesciò la testa all’indietro, gridando a squarciagola. 

«MARY!» urlò Kiana inorridita. 

«Uh?» Ashley separò la mano di colpo e si guardò attorno. «Ma cosa…» 

Kiana tacque, mentre Marianne accasciava la testa e tossiva priva di controllo. Il pretore continuò a scrutare lungo la Principia, con le palpebre sottili. Non poteva vederla, però Kiana ebbe comunque il timore che avesse capito che era lì, e che quindi Mary potesse pagarne le conseguenze. 

«Ashley!» La porta della Principia si spalancò all’improvviso. Cassie Collins entrò trafilata, i capelli legati nella sua solita coda e il bustino d’armatura indosso. Per un momento, Kiana sperò che dicesse qualcosa sul fatto che Marianne era accasciata sulla sedia, scomposta e sofferente, invece il centurione la ignorò completamente. Puntò dritta verso il pretore e annunciò: «Gli altri centurioni ti stanno cercando. Vogliono parlarti subito.»

Ashley fece un mugugno poco felice. «Sì, arrivo. Ci vediamo più tardi…» Tirò Marianne per i capelli, strappandole un altro gemito. «… Mary.»

Per Kiana quella fu una dichiarazione di guerra a tutti gli effetti. Solo lei poteva chiamarla Mary. Era ufficiale: avrebbe fatto ingoiare i denti ad Ashley. 

«Tienila d’occhio fino al mio ritorno, Collins. Capito?»

Cassie si inchinò. «Sissignora.»

Mentre Ashley si allontanava, Marianne drizzò un’ultima volta la testa verso Kiana. Non disse nulla, ma il suo sguardo parlava per lei: «Non fallire.»

Le rivolse un ultimo cenno, prima di accasciarsi con un verso di dolore. Kiana avrebbe voluto correre da lei, aiutarla ad alzarsi, portarla fuori da lì, stringerla con forza, ma non poteva. 

Poteva solo obbedire a quell’ordine. E l’avrebbe fatto, a qualsiasi costo. Non avrebbe fallito per nessun motivo. Avrebbe aiutato Cam a trovare Ecate e sistemare quel maledetto disastro. 

E poi sarebbe tornata al Campo Giove a salvare Mary e a farla pagare ad Ashley.

Il mondo cominciò a dissolversi attorno a lei. La Principia scomparve, le tenebre inghiottirono Marianne e Cassie. Una risata glaciale si sollevò, mentre tutto si faceva buio. Pareva quella di una donna.

Poi, la figlia di Venere fu strappata via dal sogno.


 

***


 

Riaprì gli occhi a fatica, sentendo la testa che girava come una trottola. Aveva una tremenda sensazione di vertigini, si sentiva a un passo dallo svenire di nuovo. Le serviva decisamente un caffè.

«Ben svegliata!» disse una voce.

Kiana si raddrizzò di scatto e il corpo la punì per questo. Le tempie le fecero un male pazzesco e la vista le si appannò. Un mugugno di dolore le scappò dalle labbra. Tra le macchioline nere che baluginavano di fronte ai suoi occhi, riuscì a distinguere il volto sorridente di un uomo, seduto su una sedia davanti a lei.

Il suo primo pensiero fu che aveva un livido sul volto. Invece no, era il suo naso: una gigantesca patata rotonda, in mezzo a due guance magre coperte da una barba irta e malcurata. La fronte, invece, non avrebbe affatto sfigurato come pista aeroportuale, mentre sopra la testa… Kiana non riuscì a credere ai suoi occhi. Quel cappello grigio scuro che indossava… era forse un fedora?!

Ma chi diamine è questo psicopatico?!”

«Allora, come ti senti?» le domandò.

«I-Io…» Kiana provò a muoversi, ma si accorse con orrore di avere le mani legate ai braccioli di una sedia di plastica. Tentò di strattonare i polsi, ma senza successo. Le corde erano così strette che sentiva la carne bruciare. Il panico cominciò ad assalirla. «C-Chi diamine sei tu?! Dove mi trovo?!»

Si guardò attorno freneticamente, e si rese conto di trovarsi in una stanza lussuosa, forse una suite. L’arredamento era post moderno, con plafoniere a led che mandavano un’illuminazione soffusa, il parquet di mogano lucido coperto da tappeti pregiati, quadri appesi alle pareti, un grosso divano ondulato di fronte a un televisore di almeno 100 pollici e un tavolino di vetro con un cesto di frutta sopra. In un angolo, poi, c’erano anche una jacuzzi spenta, un minibar e mensole cariche di liquori e vini.

La luce del giorno filtrava dalle immense vetrate che si affacciavano sopra un paesaggio arido e brullo, con colline e montagne in lontananza. Il cielo nuvoloso gettava cupe ombre grigie sopra ogni cosa, dando un certo squallore a quella vista.

«Rilassati.» Lo sconosciuto alzò la mano, distendendo il sorriso. Aveva dei bei denti, nonostante tutto, e anche un bel completo spezzato, tolto quell’orrore di cappello. Si alzò dalla sedia e spalancò le braccia per indicarle quella suite. «Sei nell’hotel casinò Atlantis di Reno, in Nevada. Quanto a chi sono…» Si tolse il fedora, scoprendo i capelli castani e ingellati, e le rivolse un inchino. «… mi chiamo Alexandre Tomopoulos. Ma puoi chiamarmi Alex, per abbreviare.»

Quello era il nome più inventato che Kiana avesse mai sentito. E se non era inventato, allora i genitori di quel tizio dovevano davvero odiarlo.

«Che… che cosa ci faccio qui? Che cosa vuoi da me? E perché sono legata?!» Kiana spalancò gli occhi. «Dove sono Cam e Daniel?!»

«Immagino siano i tuoi amici.» Alex indossò di nuovo il cappello. «Lei l’abbiamo lasciata in prigione, lui invece… non ne ho idea. Morto, forse? Chissà.»

«C-Che cosa?!»

L’uomo ridacchiò. «Non preoccuparti, non c’è bisogno che ci siano anche loro. La nostra è una festicciola…» Allungò una mano verso la sua guancia. «… privata.»

Kiana si ritrasse di scatto, ma non poteva andare da nessuna parte. Si irrigidì come una statua, mentre la mano gelida di Alex percorreva la sua guancia.

«Tranquilla» sussurrò lui, con uno sguardo che tutto era fuorché rassicurante. «Non ti farò del male. Ecco, voglio farti vedere una cosa.»

Allontanò la mano da lei e Kiana si trattenne dal tirare un sospiro di sollievo troppo forte. Non poteva rischiare di mostrare che l’aveva turbata. Non doveva mostrarsi debole in nessun modo.

Alex afferrò un telecomando da sopra il tavolino di vetro e accese il televisore. «Dai un’occhiata.»

Con il cuore che rischiava di esploderle nel petto, Kiana obbedì. L’aveva acceso sul canale del notiziario. Non appena la figlia di Venere vide le immagini e lesse le scritte in sovrimpressione, sentì il sangue gelarle nelle vene.

“Strani avvistamenti.”

“Attacchi.”

“Mostri.”

C’erano immagini di telecamere della sicurezza che raffiguravano ciclopi, lestrigoni e centauri camminare per strada, seminando il panico tra la gente. Filmati amatoriali di segugi infernali che attaccavano pedoni a passeggio per i parchi o di dracene che aggredivano passanti per i marciapiedi, in turbinii di grida terrorizzate e imprecazioni.

Telecamere del traffico mostravano grifoni e lupi mannari abbattersi su chiunque capitava a tiro, perfino una chimera saltò fuori dal nulla, cominciando a schiacciare macchine su macchine come lattine.

Aerei ed elicotteri che precipitavano, serpenti marini e calamari giganti che trascinavano navi negli abissi, karpoi che aggredivano contadini nei campi.

Era il caos. Ovunque. Strade, città, cielo, terra, mare.

«L’attacco è cominciato!» disse Alex, con voce elettrizzata. Cambiò canale un paio di volte, facendole vedere come tutti quanti mostrassero una qualche edizione straordinaria di notiziario, con immagini sempre più desolanti e raccapriccianti.

«C-Che cos’era quello, un coccodrillo?!» domandò una voce anziana, nell’ennesimo video amatoriale, l’inquadratura che tremava come se ci fosse un terremoto. L’obiettivo era puntato su un ragazzo vestito di nero, con il manico di una spada che spuntava da dietro le spalle e una cicatrice su un occhio. Dai lati della fronte spuntavano due corna, di cui una spezzata, e tra le labbra schiuse in un’espressione confusa si intravedevano dei canini aguzzi come lame.

Kiana rimase sgomenta. Non aveva mai visto una creatura del genere. La cosa peggiore era che quel tizio sembrava comunque meno zombie di Daniel.

Il titolo di quella notizia era: “Un mostro che salva un bambino?”

Alex cambiò di nuovo canale e apparvero una caterva di persone esagitate, le pupille dilatate come se fossero in overdose di caffè ed eccitanti, testimoni oculari di avvenimenti uguali a quelli dei video. Alcuni dicevano di aver visto i mostri proprio come Kiana li vedeva, altri invece davano descrizioni più confuse, parlando di animali selvatici, o di uomini impazziti, o eventi climatici improvvisi che secondo chissà quale contorta logica avrebbero dovuto giustificare innocenti che venivano aggrediti per strada o automobili che venivano distrutte.

C’erano poi giornalisti, opinionisti, esperti e scienziati in giacca e cravatta e camice da laboratorio, quattrocchi e non, che dicevano la loro su quello che stava succedendo. 

C’era chi parlava di “video fake”, chi di “flash mobs” – non l’avevano nemmeno scritto bene – chi di scherzi di cattivo gusto, o isteria di massa.

Quest’ultima parte lasciò Kiana interdetta. «Isteria di massa?!» 

Avevano appena visto una chimera distruggere venti macchine e quell’idiota di “esperto” parlava di “isteria di massa”?!

Alex si voltò verso di lei, ridacchiando. «Beh, mi sembra ovvio. I mortali hanno trascorso millenni e millenni nella totale cecità. La scomparsa di Ecate non è di certo sufficiente per far svanire la Foschia. La Foschia, la vera Foschia…» L’uomo si indicò una tempia. «… è qui dentro. Un fungo parassita radicato nella mente. Ci vorranno ancora un paio di giorni prima che tutti quanti inizino a vedere il mondo com’è realmente. In questo momento… molti stanno ancora cercando di fare resistenza. Cristiani, atei, agnostici, induisti…» La scrutò attentamente, distendendo il suo sorrisetto. «… musulmaniChi è nato e cresciuto credendo a qualcosa in particolare, non può accettare su due piedi un cambiamento così drastico nel mondo. È impossibile.»

Kiana fece una smorfia. «Non sono musulmana.»

Non aveva idea di cosa fosse, ma di sicuro non era musulmana. Al massimo era capace a fingere di esserlo. A distanza di così tanto tempo, si vergognava di aver partecipato alle frottole di suo padre.

«Oh, lo so, Kiana Farhat.» Alex fece un ghigno divertito, di fronte allo sguardo sorpreso di Kiana. «So molto bene chi sei. Figlia di Venere e di Amir Farhat, uno dei più grandi produttori di gioielli del mondo, nonché uno dei cento uomini più ricchi d’America. Mi sono… informato, su di te. A proposito, ti piace la stanza? Immagino che quando abitavi con tuo padre tu sia stata in parecchi hotel come questo.»

«No, affatto» sibilò Kiana. «Questo posto è una stamberga rispetto ad altri che ho visto.»

L’uomo piegò la testa. «Sì, potevo immaginarlo.»

«Chi sei tu, davvero?» domandò la figlia di Venere. Quel tizio aveva parlato di Ecate e della Foschia come se fosse ben informato su tutto quanto. Non poteva essere una persona qualsiasi. «Sei… un dio?»

Una risata scappò dalla gola di Alex, che finì col rovesciare la testa. «Ah, quanto mi piacerebbe poterti dire di sì! Ma no, purtroppo devo deluderti. Sono solo un mortale. Ma, a differenza di loro…» ed indicò quei tizi che in televisione continuavano a blaterare parole. «... io ci vedo molto bene. Vedi, dolcezza… posso chiamarti dolcezza?»

«No.»

«Vedi, dolcezza, io ho sempre potuto vedere attraverso la Foschia. Sono nato con questo dono. E, immagino tu te ne sia accorta, il mio nome non è molto… comune da queste parti. Questo è perché sono greco, nato a Kastoria, ma la mia famiglia è emigrata qui circa… settant’anni fa’.»

«Cosa?!» Kiana spalancò la bocca. «Ma ne dimostri cinquanta!»

Alex si incupì. «Ne ho trentanove.»

«Oh.»

«Comunque, se mi lasciassi finire, te lo spiegherei anche com’è possibile.»

Sembrava perfino offeso. Kiana avrebbe alzato le mani, ma era legata, quindi si limitò a borbottare delle scuse poco sincere.

«Dunque, con il dono della vista, ho subito capito come funzionava il mondo attorno a noi. E sono giunto alla conclusione, rivelatasi veritiera, che se i mostri erano reali, anche gli dei dovevano esserlo. E quindi…» Un altro sorriso inquietante apparve sul suo volto, mentre scrutava Kiana. «… anche la donna più bella che fosse mai esistita doveva esserlo. Sai di chi sto parlando, vero?»

Un brivido percorse la schiena di Kiana, che non rispose.

«Non lo sai? Beh, te lo dico io allora: tua madre, Kiana Farhat. La dea dell’amore. Afrodite, come la chiamo io, Venere, come la chiami tu. Sapevo che era reale, ne ero convinto. E quindi… il mio obbiettivo è diventato conquistarla. Volevo la dea dell’amore, la volevo davvero. Però… guardami.» Si indicò il volto, adesso con espressione amareggiata. «Non sono esattamente Adone, purtroppo. O per fortuna, se pensiamo a quello che gli è capitato. Il mio aspetto non sarebbe mai bastato per lei. E quindi, ho optato per qualcos’altro.»

Tirò fuori il cellulare dalla tasca e lo mostrò a Kiana. Sullo schermo apparve un video, un gruppo musicale sopra un palcoscenico, la qualità della ripresa lasciava presagire che fosse un filmato di almeno trent’anni prima. Il problema, però, era che sul palco c’era Alex, con lo stesso aspetto che aveva in quel momento.

La band cominciò a suonare, una melodia bizzarra, creata da strumenti diversi e variegati, da flauti e mandolini alla classica coppia chitarra elettrica e batteria. Kiana non era un’esperta di musica, ma intuì che la musica doveva essere un misto tra rock e folk, condita però da stili musicali di altre etnie: greco, spagnolo, arabo.

«Creai qualcosa di unico, di meraviglioso. Persone diverse, di culture e mondi lontani, unite sotto il tetto della musica, la cosa che bene o male ci accomuna tutti» raccontò Alex, mentre la versione di sé stesso nel video cominciava a cantare. Aveva una bella voce, Kiana doveva ammetterlo. La canzone era in inglese e parlava di una donna bellissima. Una donna chiamata Afrodite.

Kiana rabbrividì, gli occhi incollati sull’Alex cantante. Quella canzone… era una dedica ad Afrodite. Un miliardo di campanelli di allarme si accesero nella sua mente. Sussultò contro il proprio volere, ma Alexandre non sembrò farci caso, troppo preso dal video. Pareva smarrito nei ricordi, nostalgico. Fece scorrere il dito sullo schermo, mostrandole diversi video, in quel turbinio di canzoni diverse tra loro ma tutte con lo stesso filo comune.

«Afrodite…» sussurrò Alex, sognante. «Tutte le canzoni che scrissi erano per lei, per la tua meravigliosa madre. Ma lei non fece mai caso a me. Mi ignorò per anni. Nonostante non ottenni l’amore di tua madre, il nostro successo fu senza eguali. Diventammo icone. La nostra musica accomunò persone dai quattro angoli del globo. Ottenemmo fama, successo, soldi. Pensai perfino di poter voltare pagina, di rinunciare all’idea di conquistarla. Ma poi…»

Alex mise via il telefono. Il suo sguardo si indurì, le dita affondarono nei palmi. «… la voce di una donna è risuonata nella mia testa. Disse di essere proprio lei, Afrodite. Mi disse che aveva sentito le mie canzoni, e che voleva conoscermi.»

Nonostante stesse parlando di come avesse ottenuto proprio quello che voleva, la sua voce era intrisa di rabbia e delusione. «Mi disse di incontrarla in un posto, a Las Vegas. Un certo… “Hotel casinò Lotus.”»

Kiana schiuse le labbra.

«Immagino tu lo conosca.» Alex fece un altro sorriso tirato. «Io non l’avevo mai sentito nominare, invece. Ma ero così determinato a incontrare Afrodite che mi sono fiondato laggiù come uno stupido. Non ho pensato per un solo istante che dietro potesse esserci una fregatura. Alla reception mi hanno detto che avevo già una stanza, tutto quanto era stato prenotato per me. Credevo fosse stata lei. E ne sono ancora convinto. L’ho aspettata lì, per… quanto? Cinque, sei giorni? Ma lei non è mai arrivata. Al suo posto, invece, è arrivata un’altra donna. Non era Afrodite. Era bella, bellissima, ma non era lei. Mi ha fatto uscire da quell’hotel maledetto e una volta fuori ho scoperto che non avevo trascorso lì solo qualche giorno. C’avevo trascorso trent’anni.»

L’uomo si osservò le mani come se temesse potessero ricoprirsi di rughe da un momento all’altro. Ridacchiò di nuovo, ma questa volta parve a tutti gli effetti la risata di un folle. «Trent’anni della mia vita… rubati. Portati via. I miei amici della band… diventati tutti settantenni. I miei genitori erano defunti. E io ero stato dato per smarrito, morto perfino. La mia casa discografica non esisteva più, tutto l’impero da me creato si era sbriciolato al passaggio del tempo. Non potevo farmi rivedere. Come diamine avrei potuto spiegare il fatto che non ero invecchiato di neanche un giorno dopo tutto quel tempo? Tanto valeva essere morti per davvero. Tuttavia… la fortuna mi è venuta incontro. Saltare trent’anni nel futuro può fare comodo, se prima di svanire hai fatto gli investimenti giusti. Trent’anni fa ero molto benestante, ma oggi sono anch’io uno degli uomini più ricchi del paese. Non come tuo padre, certo, ma diciamo che non me la passo male. Vedi questo?» Indicò la suite. «Ho prenotato l’hotel intero. Non c’è nessun altro qui oltre a me, te, e un piccolo esercito là fuori pronto a fare a brandelli qualsiasi ospite indesiderato. Vedi, dolcezza…»

Alex la osservò dritta negli occhi. Uno sguardo molto diverso da quelli divertiti e beffardi di poco prima. Era diventato duro come il cemento: l’espressione di un uomo arrabbiato, disperato, pieno di rancore ma soprattutto senza più niente da perdere. Il genere di persona più pericolosa in assoluto. «… non ho mai incontrato tua madre, purtroppo. In compenso, ho incontrato altre persone che, come me, sono state ferite da lei. Persone a cui lei ha distrutto l’esistenza. Perché vedi, lei non era tenuta a farmi quello che mi ha fatto. Non era tenuta a farmi sparire solo perché le mie canzoni le causavano imbarazzo tra gli altri dei. Avrebbe potuto ignorarmi e basta, e invece ha scelto di farmi questo. Quella donna che mi ha fatto uscire dal casinò Lotus, anche lei era una dea, una dea molto arrabbiata con tua madre. E mi ha promesso che avrei avuto la mia rivincita su Afrodite se avessi finanziato i suoi alleati.»

Kiana era sempre più incredula. «D-Dea? Alleati?»

«Non preoccuparti.» Alex andò dal minibar per servirsi da bere. «Li conoscerai presto. Sono ansiosi di conoscere la figlia preferita della dea che li ha rovinati.»

Figlia preferita?!”

Da quando Kiana aveva memoria, non c’era stato un solo istante in cui essere figlia di sua madre non le avesse causato problemi. Prima era stata trattata come immondizia dalla sua famiglia perché era una bastarda e poi, al Campo Giove, non appena era stata riconosciuta era diventata il premio ambito di tutti i viscidi bavosi in piena tempesta ormonale che le erano capitati a tiro.

Se lei era la figlia preferita, che diamine era successo a quella più odiata?!

«Io non sono la figlia preferita di nessuno» cercò di dire. Non voleva sembrare amareggiata, ma dubitò di esserci davvero riuscita. «Senti, Alex. Mi… mi dispiace per quello che ti è successo, ok? Hai tutto il diritto di essere arrabbiato con mia madre. Ma io non c’entro niente con questa storia. E… hai visto cosa sta succedendo là fuori, no? Devi lasciarmi andare. Devo trovare i miei amici e dobbiamo trovare Ecate prima che…»

«Sì, sì, conosco la trafila di voi semidei.» Alex tornò a sedersi di fronte a lei, con in una mano un calice pieno fino all’orlo, e nell’altra una bottiglia di champagne Moët & Chandon.

Quella vista urtò Kiana. Quel calice era da vino, non da champagne. La ragazza strizzò le palpebre. Con tutto quello che stava succedendo, perché diamine pensava a quelle scemenze?

Alex sorseggiò incurante. «Ma è proprio questo il punto, dolcezza. Io non voglio che troviate Ecate. Io voglio che il mondo sprofondi nel caos. Voglio che gli dei vengano distrutti. Voglio guardare tua madre negli occhi, almeno per una volta, prima che lei venga annientata.» Svuotò il bicchiere e sorrise, con il naso leggermente arrossato. «Gli dei pagheranno per tutto quello che hanno fatto. Una nuova era avrà inizio. Nuovi dei. Nuovi sovrani. Nuovi padroni. E anche quelli come me ne faranno parte.»

«Quelli… come te? Che significa?»

«Mortali. Mortali che, proprio come me, sono stati feriti e umiliati dagli dei. Siamo tanti, sai? Molti più di quanto tu possa credere.» Alex si riempì di nuovo il bicchiere. «La padrona ha promesso che anche noi avremmo avuto un ruolo di spicco, dopo la Notte Eterna, se avessimo collaborato.» Trangugiò il secondo bicchiere in un solo sorso. «Distruggere Afrodite… e diventare un dio in un nuovo mondo, tutto in cambio di un paio di milioni di dollari che per me non significano più niente? Sarei stato un folle a non accettare.»

Ridacchiò di nuovo, senza apparente motivo, anche se questa volta sembrava una risata che rischiava di sfociare in un pianto. «Afrodite mi ha portato via tutto. L’amore mi ha portato via tutto. La mia famiglia, i miei amici, la mia passione per la musica. Tua madre mi ha colpito dove faceva più male. E quindi… ora io colpirò lei.»

Fece vagare di nuovo lo sguardo su Kiana, questa volta però i suoi occhi arrossati per l’alcol avevano una luce diversa al loro interno. Posò il bicchiere e la bottiglia e cominciò a tastarsi nelle tasche.

«C-Che stai...» Kiana si interruppe quando vide Alex estrarre un coltello.

«Lo stai per scoprire, dolcezza.»

Il corpo di Kiana si atrofizzò per la paura. Spalancò gli occhi, il cuore stretto in una morsa di ferro, mentre Alex cominciava a marciare verso di lei, con quello sguardo folle negli occhi. Era come se si fosse trasformato all’improvviso in un’altra persona. «Purtroppo, ci servi viva. Ma nessuno ha specificato in che condizioni.»

La sua mano scivolò sul ginocchio di Kiana, le dita che ricordavano le zampe di un ragno mostruoso.

«S-Stammi lontano!» gridò lei. Gridò aiuto e tentò di dimenarsi, ma si ritrovò la mano di Alex premuta sulla bocca, e il suo viso orribile a un palmo dal naso.

«Shhhh.» L’uomo emise una risatina. «Ho detto alle guardie di andare a fare due passi, prima che ti svegliassi. Urlare non ti servirà a nulla.»

Le lasciò andare la bocca. La punta del coltello le sfiorò la guancia. Kiana sentì le lacrime spingere per uscirle dagli occhi. «T-Ti prego, io…»

Alexandre la colpì con uno schiaffo. «Sta’ zitta.»

Kiana gridò per il dolore, ma ancora una volta l’uomo la zittì, afferrandola per entrambe le guance con la mano a mo’ di tenaglie. La costrinse a guardarlo dal basso. «Che bel faccino che hai. Immagino che tu ne sia orgogliosa. Sarebbe un vero peccato...» La lama tornò ad appoggiarsi contro la sua carne. «… se qualcuno lo rovinasse. No?»

Nulla riuscì più a impedire alle lacrime di Kiana di riversarsi. Avrebbe voluto ribellarsi, ma non ci riuscì. Era paralizzata per la paura, non riusciva a respirare, il corpo rifiutava di rispondere ai suoi comandi. Aveva combattuto mostri, stava andando a cercare una dea rapita, era stata addestrata per affrontare i pericoli più disparati. Eppure, in quel momento, il pensiero che quell’uomo potesse farle qualsiasi cosa la spaventava più di qualsiasi mostro, qualsiasi dio, perfino più dell’idea che il mondo potesse finire da un giorno all’altro.

‘‘Ti prego! Ti prego no!’’

Il coltello penetrò la carne, strappandole un altro grido soffocato. Sentì la guancia farsi fredda e bagnata all’improvviso. Non riuscì più a vedere il volto di Alexandre, a causa delle lacrime che cominciarono a riversarsi fuori dai suoi occhi. 

«Scommetto che ti sei sempre sentita la padrona del mondo. La ricca e viziata figlia di papà, che osserva tutti dall’alto verso il basso, nascosta dietro un faccino di porcellana. Pensi che tutto ti sia dovuto solo perché sei carina, vero? Proprio come quella puttana di tua madre.» 

Kiana avrebbe voluto urlare che non era così, che non aveva la più pallida idea di cosa stesse parlando, ma le dita strette contro le sue guance le impedirono di parlare. 

«Me la pagherete. Quando avrò finito con te, andrò a cercare le tue sorelle. Figlie di Venere, figlie di Afrodite, non ha importanza. Se non posso colpire lei, colpirò voi. Farò a pezzi voi proprio come vostra madre ha fatto a pezzi me. Anche se forse… potrei tenermi qualcuna di voi. Per usi… personali

La mano le sfiorò il petto. Kiana trasalì. Udì un verso di approvazione provenire da Alexandre. «Però… niente male, piccola Bastani. Sai, non ho mai incontrato tua madre, ma devo dire che… tu potresti essere un ottimo rimpiazzo.» Percepì le labbra di Alex proprio accanto al suo orecchio. La sua voce si ridusse a un sussurro: «Tranquilla, dolcezza. Non farà male. Non a me, almeno.»

Kiana spalancò gli occhi. La paura sfumò all’improvviso. Qualcosa si smosse dentro di lei, uno scossone che dalla testa arrivò fino ai piedi.

No. Non sarebbe finita così. Piuttosto sarebbe morta.

Morse le dita di Alex con quanta forza aveva in corpo. Quello urlò per la sorpresa e provò a ritirare la mano, ma lei non mollò finché non sentì il sapore del sangue in bocca.

«Ah! Lasciami schifosa…»

Kiana gli sferrò una testata con lo slancio di una catapulta, centrandolo in pieno su quel naso enorme. Alex venne spedito grossolanamente a terra e si afferrò il naso insanguinato con un grugnito di dolore.

Un’ondata di forza improvvisa assalì il corpo di Kiana. Durò per poco, solo un istante, ma le fu più che sufficiente. Staccò i polsi dai bracciali della sedia e le corde che li tenevano legati si lacerarono come erbacce. Accadde tutto così in fretta che si alzò in piedi dalla sedia senza nemmeno volerlo, precipitando addosso ad Alex, che stava ancora provando ad alzarsi.

Si ritrovò sopra di lui a cavalcioni e prima che quel pervertito potesse dire o fare qualsiasi altra cosa, gli sferrò un’altra testata.

«Ugh.» Alex sbatté le palpebre un paio di volte, il volto coperto da una maschera cremisi. Incrociò di nuovo lo sguardo di Kiana, con gli occhi vacui per la botta. Tentò, inutilmente, di sollevare il coltello. «Tu… maledetta… putta...»

Le nocche di Kiana affondarono sul suo naso. La testa di Alex sbatté sul pavimento, producendo un tonfo secco, seguito da un altro grugnito. Ma Kiana non aveva ancora finito. Non seppe quanti pugni gli sferrò. Sapeva solo che non le sembrarono mai abbastanza. L’unica cosa su cui riuscì davvero a concentrarsi fu la rabbia crescente dentro di lei, un calore insostenibile nel suo petto, unito al battito irregolare del suo corpo, e soprattutto il rumore delle nocche che scricchiolavano man mano che le abbatteva sul viso di quell’essere disgustoso.

Si fermò soltanto quando vide l’uomo immobile, il volto quasi irriconoscibile a causa di tutti i lividi e il sangue presenti su di esso.

«Ah… ah… ah…» La ragazza rimase immobile sopra di lui, con il respiro pesante, il cuore che stava per esploderle nel petto e la testa bassa, la fronte impregnata di sangue. «Porco… bastardo» sibilò ancora, prima di sputargli addosso un grumo di sangue e saliva.

Si spostò da sopra di lui e stramazzò a terra. Rimase supina, a fissare il soffitto, mentre ogni centimetro del suo corpo continuava a tremare senza freni. Tutta l’adrenalina accumulata fino a quel momento la abbandonò. La stanza vorticava attorno a lei, sentiva le orecchie fischiare. Credeva di poter svenire da un momento all’altro.

Poi, le scappò un gemito. Si immaginò di nuovo seduta, legata, alla completa mercé di quel pazzo armato di coltello, e avvertì ancora una volta le lacrime che tentavano di farsi strada fuori dai suoi occhi. Se non si fosse liberata… cosa diamine sarebbe successo?

Serrò le palpebre. Un altro gemito le sfuggì. E poi un altro, e un altro ancora. Si girò su un fianco e si strinse con forza le spalle. Fu trafitta da un’agonizzante fitta di dolore al petto. Strinse i denti e si asciugò le lacrime, ma quelle tornarono al doppio dell’intensità. Tirò su con il naso, ma non servì a nulla.

Cercò di opporsi in tutti i modi, con il poco di forze che le erano rimaste.

Ma alla fine, non poté fare nulla per arrestare quel dolorosissimo pianto.








Salve gente. Scusate per l'attesa, ma ero indeciso se pubblicare o meno questo capitolo, all'inizio per motivi di insicurezza mia, nel senso che non lo reputavo abbastanza bello, e poi, dopo aver apportato alcune migliorie, perché non ero sicuro se fosse un buon momento continuare con la pubblicazione di storie, visto... insomma, l'andazzo generale nel mondo.
Non sapevo nemmeno se menzionare o meno la cosa in una nota, e in effetti è la prima volta che faccio una cosa del genere, alla fine tutti noi apriamo EFP o coviamo i più svariati hobby per evadere dalla realtà, però credo sia giusto da parte mia non fare finta di nulla e dire soltanto, in breve, che anche se continuerò a pubblicare e in superficie tutto sembrerà invariato, non smetterò di pensare a chi, in questo momento, non è fortunato come me.
Spero davvero che un giorno questa nota sarà superflua e chi la leggerà si domandi di che cavolo sto parlando.
Scusate per avervi trattenuti e grazie per aver letto. Alla prossima cari, statemi bene.

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Capitolo 15
*** Divisi ***


XV

Divisi 



Lo scroscio dell’acqua che scendeva dal rubinetto si mischiò con i gemiti di Kiana. Strofinò gli occhi, il naso, il viso intero almeno un centinaio di volte. Voleva, doveva togliersi quella sensazione di dosso. E soprattutto sperava che l’acqua potesse lavare via anche la vergogna, e la paura.

Non riusciva a darsi un contegno, nonostante i suoi sforzi. Il bagno roteava attorno a lei e le orecchie le fischiavano. Il tremolio alle mani non le era ancora passato e le lacrime stavano ancora cadendo copiose dai suoi occhi. Non aveva idea di come facesse a reggersi ancora in piedi. Le sembrava di poter svenire da un momento all’altro. 

Ogni volta che serrala le palpebre ritornava con la mente sopra quella sedia, con quel pazzo che la minacciava con un coltello. Si era liberata, lo aveva neutralizzato prima che potesse farle qualsiasi cosa, ma la paura continuava ad artigliarla. 

Come si era ridotta in quel modo? Perché non riusciva a uscire da lì? Perché era così spaventata?

Alcuni volti balenarono nella sua mente. Camille, Daniel, David. Mary. Come avrebbero reagito le stesse persone con cui si era sempre mostrata forte e coraggiosa, perfino arrogante, se l’avessero vista ridotta in quelle condizioni? 

«Ragazzi» sussurrò. «Mi dispiace...» Le gambe le cedettero. Cadde in ginocchio davanti al lavabo, gli occhi serrati. Altre lacrime le scivolarono lungo le guance. «Non… non riesco… n-non posso...»

Perché? Perché… Alexandre le aveva fatto quello? Perché era carina? Bella? Sviluppata?

Una risata improvvisa la fece sobbalzare. Si rialzò e puntò lo sguardo verso il proprio riflesso; per poco non gridò. La ragazza che la fissava di rimando nello specchio era sempre lei, ma stava ridendo. Kiana rimase a bocca aperta. C’era qualcosa di maledettamente sconcertante nel guardare il proprio riflesso comportarsi in maniera diversa da lei. Per un attimo pensò di essere impazzita del tutto, ma quando la ragazza nello specchio parlò, capì che era tutto reale.

«Guarda come ti sei ridotta, figlia di Venere» le disse, con una voce molto diversa dalla sua, dal timbro più adulto, e crudele. La riconobbe subito: era la stessa voce che aveva sentito quando aveva sognato quella voragine. «Dov’è il tuo orgoglio adesso?»

Kiana era troppo sconvolta per parlare. Il riflesso sfarfallò. Al suo posto, apparve un’immagine orribilmente familiare: Ashley che folgorava Marianne.

«Osserva, Kiana Farhat» disse ancora la voce. «Osserva ciò che sta accadendo alle persone che ami.»

«Mary...» sussurrò Kiana. Non poteva sentire le grida di Mary attraverso l’immagine nello specchio, ma non ne aveva bisogno. Erano ancora molto nitide nella sua mente.

Una strana nebbia si sollevò, andando a coprire le due ragazze nella Principia. Nello specchio tutto si fece bianco, come se il vetro si fosse appena appannato. Quando si spannò, apparve un’altra immagine: Camille in mezzo a una tempesta di schegge affilatissime che le precipitavano addosso, strappandole i vestiti e ricoprendola di tagli. Anche lei stava urlando e per fortuna Kiana non poté sentirla, perché altrimenti non sarebbe riuscita a reggere quella vista. Altre lacrime le scivolarono dagli occhi. «Cam… no...»

La nebbia tornò. Quando Camille scomparve, venne rimpiazzata da Daniel che barcollava all’indietro con una freccia piantata nel petto, le labbra schiuse e lo sguardo vitreo.

«DANIEL!» Kiana si coprì la bocca. Quell’immagine non poteva essere reale, era impossibile. Se lo fosse stata… Daniel sarebbe morto.

«Non potete opporvi» incalzò ancora la donna, da un punto imprecisato nell’aria.

Altre immagini apparvero, questa volta di persone che non conosceva. Una ragazza con i capelli ricci in lacrime, inginocchiata accanto a un altro ragazzo, questo con i capelli rossi, che giaceva a terra ferito. Doveva essere un semidio greco, a giudicare dalla maglietta arancione, e forse anche lei lo era.

«Nessuno verrà ad aiutarvi.»

Un altro semidio greco, con delle cicatrici sulla faccia, armato di una spada dalla lama bianca e brillante. Aveva la felpa nera ridotta a brandelli, sangue che colava dalle braccia e dagli angoli della bocca e un’espressione di pura rabbia. Alle sue spalle c’erano diversi altri ragazzi, chi con la maglietta arancione e chi no, quasi tutti nelle sue stesse pessime condizioni. Tutti loro erano circondati da decine, forse centinaia di mostri.

«Siete soli. Deboli. Divisi

Riapparve il Campo Giove. La Via Principalis era gremita di legionari. Tra di loro riconobbe David, i Vega, perfino Allen. L’intera Quinta Coorte era stipata al di fuori della Principia, separati dall’edificio da un cordone di semidei muniti di scudi e armatura. Tutti loro stavano urlando furiosamente in direzione di Ashley, che se ne stava dall’altra parte della barriera a scrutare in silenzio la scena. Sembrava una rivolta da stadio, però con armi affilate e, soprattutto, i suoi amici.

Quella scena fermò il cuore di Kiana. Dopo aver visto quello che Ashley aveva fatto a Marianne, provò genuino terrore per quello che avrebbe potuto fare a David e al resto dei suoi compagni. Una luce balenò su tutti i legionari, che alzarono lo sguardo. Diverse espressioni sorprese apparvero sui loro volti. Ashley, invece, serrò le labbra. 

Prima che potesse vedere altro, il suo riflesso tornò nello specchio, ancora con quel sorriso sadico. «Pensi ancora di poterci fermare, Kiana Farhat? Proprio tu, che ti sei piegata con così poco. Sei qui, a piangere come una neonata, mentre là fuori tutti i tuoi amici stanno combattendo battaglie ben più grandi della tua. Sei patetica.» 

Kiana si irrigidì. «Sta’ zitta...»

«Pensavi di essere forte. Un’eroina, perfino. Ma è questa la realtà, Kiana Farhat. Sei debole. Sei fragile. Sei spaventata.» Il riflesso distese il suo ghigno. «Sei falsa. Una bugiarda che recita una parte. Proprio come tuo padre.»

«STA’ ZITTA!» 

Kiana sferrò un pugno contro lo specchio con tutta la forza che aveva, accecata dalla rabbia. Una ragnatela di crepe si formò sul vetro. La ragazza rimase immobile, col fiato pesante, a fissare il proprio riflesso ora deturpato in decine e decine di scaglie. Un dolore atroce le perforò la mano.

«Cazzo!» Allontanò le nocche dal vetro e le trovò coperte di sangue e schegge. Se non altro, il suo riflesso era tornato normale, e anche quella voce maledetta non si fece più sentire. Era di nuovo sola.

Sola, con il suo dolore. E con la sua vergogna.

Mise la mano sotto l’acqua gelata e si trattenne dall’urlare un’altra imprecazione molto più colorita, dettata più dalla rabbia che dal dolore. Più osservava le sue nocche insanguinate, più le veniva da pensare alle parole di quella donna. L’avevano colpita molto più forte di quanto avrebbe mai voluto ammettere. Ogni sua frase era stata una pugnalata al cuore. E il paragone con suo padre era stato il colpo di grazia.

E il peggio era che non poteva nemmeno negare ciò che le aveva detto. Si era mostrata forte, si era mostrata coraggiosa e sicura di sé, ma era stata tutta una grandissima bugia. Era debole. Era spaventata. Ed era patetica.

Ma non sarebbe rimasta immobile di fronte a un amico in difficoltà. E se c’era una cosa che odiava con ogni fibra del suo essere, era dare ragione a chi si prendeva gioco di lei. Osservò di nuovo il proprio riflesso e la sua immagine frammentata la scrutò di rimando, lo sguardo severo e la bocca serrata. Camille, Daniel, Mary, David, perfino quei greci che non conosceva. Quella donna le aveva mostrato quelle immagini e le aveva detto quelle cose per piegarla, per spezzarla. Beh, avrebbe avuto una cocente delusione: non aveva fatto altro che spronarla.

«Non avresti dovuto provocarmi, stronza» sussurrò verso quella donna, chiunque ella fosse, sperando che l’avesse sentita. 

Le tornò in mente Marianne su quella sedia, lo sguardo fisso verso di lei.

«Non fallire» le aveva detto. E non l’avrebbe fatto.

Fece alcuni passi indietro e strinse i pugni. La stanza aveva smesso di vorticare. Tremava ancora, ma era molto più calma, e il cuore aveva rallentato i battiti affannati. Doveva uscire da quel posto maledetto e ritrovare i suoi amici.

Quando tornò nella stanza, vide Alexandre mentre strisciava come un verme verso il coltello a serramanico, caduto poco distante. Come un verme. Mai paragone fu più azzeccato. Proprio quando l’uomo riuscì a metterci la mano sopra, si ritrovò lo scarponcino di Kiana a calpestargliela. Alexandre fece un verso sorpreso e alzò lo sguardo verso di lei, appena in tempo per beccarsi un calcio su quella pista d’atterraggio che aveva al posto della fronte. 

Un secondo dopo, il coltello era tra le mani di Kiana. 

Alexandre cominciò a blaterare: «A-Ascolta, m-mi dispiace, i-io non volevo...»

«Cosa?!» interrogò Kiana. Si accovacciò su di lui e gli tappò la bocca. «Non volevi cosa?!»

Il verme muggì qualcosa contro la mano che gli premeva sul viso. Aveva gli occhi gonfi di lividi, spiritati e rigati di lacrime. 

«Dovrei tagliarti le palle, bastardo» ringhiò Kiana. Sventolò il coltello di fronte al suo naso. «Non farà male. Non a me, almeno.”»

Uno strano verso provenne da Alexandre. Altre lacrime gli scesero dagli occhi, assieme ad alcuni singulti. Stava piangendo. Kiana ebbe appena il tempo di battere le palpebre che la sua mano era già zuppa di lacrime e probabilmente moccio. 

«Miei dei. Quanto in basso vuoi scendere ancora?» domandò, schifata. «Ascolta bene, idiota. Adesso ti libero la bocca. Risponderai a tutte le mie domande. Se gridi ti taglio le palle. Se non mi dai le risposte che voglio ti taglio le palle. E se provi a fare qualcosa di stupido, qualsiasi cosa, ti taglio le palle. Tutto chiaro?» 

Il verme annuì come un forsennato. Nonostante fosse un uomo adulto, sembrava comunque intimorito da lei. Forse dalla prospettiva di essere castrato, o forse perché la scarica di legnate di prima gli aveva fatto capire che con lei era meglio non scherzare. 

«Dove sono i miei amici?» cominciò Kiana.

«I… i nostri uomini hanno trovato il ragazzo diverse ore fa’, ma non abbiamo più avuto loro notizie. Probabilmente è riuscito a scappare. La ragazza invece è a Carson City, nella prigione abbandonata. Quel tizio, il gigante, aveva detto di avere un piano per lei. Giuro che non so altro!» 

Il gigante… che fosse Clizio? O magari Encelado, visto che era fuggito assieme a lui. Il pensiero che Camille fosse in una prigione assieme a uno di loro le fece accapponare la pelle. Il fatto che Daniel, invece, potesse essere ancora in fuga riuscì a farla sentire più tranquilla. Forse lui le stava cercando, in quel momento. Non era ancora tutto perduto. Lei era libera, Daniel pure, e Camille, per quanto gracile, sapeva il fatto suo. Senza considerare il fatto che aveva anche quegli strani poteri. Sì, non era ancora finita. Erano stati divisi, ma si sarebbero ritrovati, ne era sicura. 

«Per chi lavori?»

«N-Non so chi sia. Alcune cose non le hanno dette nemmeno a me. So solo che è una dea. Tutti si riferiscono a lei come padrona”.»

Kiana si mordicchiò un labbro. Non era la prima volta che sentiva quel termine. Che fosse la donna che la perseguitava?

«Prima hai parlato di un esercito» proseguì. «A cosa ti riferivi?» 

«Q-Questo posto, è una delle nostre roccaforti. È una base per i nostri soldati. Ci sono uomini e mostri.»

«Vuoi dire che ci sono mortali e mostri, insieme?!» Kiana era incredula. «Ma vi siete bevuti il cervello?! Quelli vi mangeranno tutti alla prima occasione!»

«C-Credi che non c’abbia pensato?! Mi sono fatto preparare apposta delle armi per difendermi anche da loro!» Alexandre accennò con il mento al coltello. Solo in quel momento Kiana si rese conto che la lama non era interamente di metallo, ma aveva anche alcune striature d’oro. E anche il nome di Alexandre inciso sopra, come se avesse avuto paura di perderlo.

«Davvero credi che quest’affare da solo basti per difenderti?» sbottò Kiana. «Faresti prima a cospargerti di salsa barbecue.»

«Non mi serve la tua approvazione» ribatté Alexandre, con una punta di risentimento nella voce.

«Tsk. C’è un motivo se gli umani non dovrebbero immischiarsi in queste faccende. Avete stretto un patto col diavolo. Un giorno ve ne pentirete.»

«Me ne sono già pentito. Il giorno in cui ho scoperto di aver perso trent’anni di vita» sibilò Alexandre, facendosi impavido tutto a un tratto. «Non ho più nulla di cui pentirmi. Non ho più nulla da perdere.»

Kiana serrò la mascella. «A parte le palle.»

«Finiscila con questa recita, ragazzina. Fammi il resto delle tue stupide domande, forza.» Alexandre sogghignò. «Anche se non te lo consiglio. Le guardie torneranno presto.»

La ragazza spostò d’istinto lo sguardo verso la porta. Non appena lo fece, sentì un fruscio. Si voltò appena in tempo per afferrare la mano di Alexandre, che aveva di nuovo cercato di aggredirla. Il verme spalancò gli occhi per la sorpresa. Kiana lo trafisse con lo sguardo. «Cosa ti avevo detto?» 

Gli conficcò il coltello nel braccio. Il verme emise un urlo straziante, che si interruppe quando lei gli sferrò una gomitata sul naso. A quel punto stramazzò a terra e non si mosse più. 

Bene, addio informazioni pensò Kiana.

Mentre era privo di sensi, il pensiero di castrarlo per davvero attraversò la mente di Kiana. Quel bastardo se lo sarebbe meritato. Ma lei non era un mostro, a differenza sua. E comunque, non aveva più tempo da perdere con una nullità. Si limitò a legarlo e imbavagliarlo con le corde che avevano usato per legare lei, senza curarsi di quanto stretti fossero i nodi. Richiuse il coltello e se lo mise in tasca; le sarebbe tornato utile. 

Nei corridoi fuori dalla stanza non vide nessuno, ma questo non bastò per rassicurarla. Alexandre avrebbe anche potuto mentire riguardo all’esercito, ma qualcuno in quel luogo doveva avercela portata e non poteva essere stato lui da solo. Chiunque fossero i suoi collaboratori, non era affatto ansiosa di conoscerli. 

Andò avanti per quelli che le sembrarono chilometri in mezzo a quei corridoi spogli finché non trovò la porta di un ascensore, accanto a quella che invece conduceva alle scale. Scartò l’idea di prendere l’ascensore: non voleva correre il rischio di finire nel piano sbagliato. Si infilò nella tromba delle scale e si affacciò dal cornicione. 

Ma quanto è alto questo posto?! pensò, con una lieve sensazione di vertigini. Doveva essere al cinquantesimo piano.

Cominciò a scendere. A ogni pianerottolo, la paura che le porte si spalancassero e uscisse qualcuno si faceva sempre più forte. Non poteva essere passata inosservata, era impossibile. Dovevano esserci telecamere, qualcuno doveva essersi accorto di quello che era successo ad Alexandre. Si aspettò il peggio. Invece, non accadde nulla.

Continuò a scendere finché non arrivò al piano terra. Avanzò con passo incerto, togliendosi dal grigiore delle scale ed entrando in una zona molto più colorata, e rumorosa, anche.

Il soffitto di vetro era un caleidoscopio di luci, a causa dei bagliori emanati dalle centinaia, forse migliaia di slot machine accese, le insegne sfavillanti e i lampadari a led. Tutti quei colori sgargianti le fecero male agli occhi. Era tutto così intenso e accecante che fuori non sembrava nemmeno giorno.

Una musica si alzava dagli altoparlanti sparpagliati un po’ ovunque, assieme a grosse palme piantate in dei vasi che davano un pizzico di verde in mezzo a quel tripudio di colori senza senso. Non appena Kiana sentì la voce di Alex che cantava, l’ultima cosa di cui aveva bisogno, avvertì un brivido lungo la schiena, accompagnato anche da un conato di vomito. Dovevano aver messo la sua discografia nella playlist per quella sera.

Si fece largo nel casinò deserto, vagando tra quelle macchinette spillasoldi e i bar e i ristoranti che sbucavano un po’ ovunque come funghi. C’erano anche degli acquari a forma cilindrica, vuoti, e per finire una cascata artificiale, una di quelle grosse fontane che risucchiano l’acqua nella vasca e la trascinano verso l’alto per poi sputarla di nuovo giù, solo che questa era interamente fatta di roccia finta, per emulare davvero la parete di una montagna.

Era tutto così… esagerato. Come se, nel tentativo di copiare i casinò di Las Vegas, chiunque avesse progettato quel luogo avesse cercato di buttarci dentro più roba possibile.

Quel piano si interrompeva in due rampe di scale mobili che scendevano accanto ad altre pareti di roccia finta, anche loro condite da cascate. Stava per scendere, ma poi vide bene che cosa c’era al piano di sotto e si immobilizzò.

Il grosso salone era come quegli angoli nei centri commerciali fatti interamente di bar e ristoranti, con decine e decine di tavolini sparpagliati fuori, separati da cordoni rossi e stracarichi di cibo: vassoi con tramezzini, panini, cocktail di gamberi e bicchieri di champagne. E radunati tutt’attorno, intenti ad abbuffarsi, c’era una parte del famoso esercito menzionato da Alexandre: ciclopi, lestrigoni, dracene e anche qualche coso con la testa di cane, di cui non conosceva il nome.

La ragazza trattenne un’imprecazione e si accovacciò. Quello era il catering più mostruoso del mondo.

Indietreggiò lentamente per non fare rumore, quando una voce muggì all’improvviso: «Guarda guarda…»

Kiana si voltò di scatto. Il sangue le si gelò nelle vene. Un gruppetto di tre lestrigoni era apparso di fronte a lei, gli sguardi famelici e le mani che formicolavano.

«Che cosa abbiamo qui?» domandò uno di loro, quello in centro. Indossava una camicia hawaiana sbottonata troppo piccola per lui, che lasciava scoperti i pettorali muscolosi e pelosi – troppo pelosi.

«Una piccola pecorella smarrita!» gracchiò quello alla sua destra, che invece indossava solo una cravatta rossa e un paio di occhiali da sole.

«Mangiamo?» concluse l’ultimo, conciato con una lunga tuta blu come quella degli inservienti.

«No, ci serve viva.» Quello con la camicia si passò la lingua tra i suoi denti da squalo. «Però possiamo comunque divertirci un po’ con lei. Sono sicuro che ha un sapore davvero delizioso.»

Kiana avvertì dei movimenti alle sue spalle e arrischiò un’occhiata, per poi accorgersi con orrore crescente che anche gli altri mostri si erano accorti di lei e si stavano radunando al fondo delle scale mobili. Diversi di loro sguainarono le armi.

«Non avresti dovuto lasciare la tua stanza, bambolina» la canzonò ancora quello con gli occhiali da sole. «Il mortale ti voleva tutta per lui, ma adesso… sei qui con tutti noi.»

«Figlia di Venere…» Quello vestito da bidello annuì. «… bocconcino.»

La paura di Kiana sfumò all’improvviso. Incrociò lo sguardo di ciascuno di quei colossi con il cervello indirettamente proporzionale ai muscoli, e si affondò le unghie nei palmi.

«Arrenditi bellezza. Sei circondata.»

Bambolina, bocconcino, bellezza. Mancava solo “bel faccino” e le avevano dette tutte. Ancora una volta, ripensò alla voce di quella donna, e sentì il sangue incendiarsi nelle sue vene. Fece un passo indietro mentre i lestrigoni accorciavano le distanze e si voltò verso i mostri radunati al piano di sotto. Individuò una dracena in mezzo al gruppo, armata con una lancia seghettata d’Oro Imperiale. Riportò la sua attenzione su quei tre idioti e sorrise.

«Che hai da sorridere?» incalzò l’idiota con la cravatta. «L’idea ti aggrada?»

«No, è solo che...» Kiana si fiondò su di lui e gli conficcò il coltello nel pettorale. «… avete scelto delle pessime ultime parole!»

Mentre il mostro ululava di dolore e gli altri due esitavano, colti alla sprovvista, Kiana si voltò e corse giù dalle scale, così veloce da non dare a nessuno di loro il tempo di reagire. La ragazza saltò verso la folla sottostante. Il mondo si allontanò dai suoi piedi mentre incrociava lo sguardo di quella dracena. Poi la gravità fece il suo corso e precipitò sul suo muso squamoso. Le conficcò il coltello nel collo, uccidendola all’istante. Rotolò a terra per attutire la caduta e si rialzò con la lancia stretta tra le mani. Quattro mostri caddero a terra, distrutti prima ancora che se ne rendessero conto.

Un boato di ruggiti si sollevò, assieme allo scroscio delle armi che venivano sguainate e dei mostri che si fiondavano su di lei. Kiana era troppo arrabbiata per far davvero caso a quanti fossero. Potevano essere due come duemila, non le importava nulla: li avrebbe fatti a pezzi tutti.

Avrebbero capito che non dovevano nemmeno azzardarsi a guardarla nel modo sbagliato, tantomeno rivolgersi a lei con quel tono e quei nomignoli. Era come se il mondo intero amasse prendersi gioco di lei. Ed era stanca di essere trattata così.

I mostri caddero uno dietro l’altro, polverizzati dalla lancia. La attaccarono in massa, ma non c’era niente che potessero farle: era più veloce di tutti loro messi insieme, si muoveva come se fosse nata per quello, nata per combattere, i sensi affinati al massimo, il cuore che batteva a mille e l’adrenalina che scorreva a fiumi nelle sue vene.

Non era più la ragazza in lacrime nella suite di Alexandre, e non era nemmeno la dura che recitava solo una parte: era davvero furiosa, era davvero determinata, era davvero pronta a tutto. Non aveva paura né di combattere, né di quei mostri, né di morire, perché sapeva che non sarebbe successo.

Avvertì nel proprio corpo una sensazione che non aveva mai provato prima di quel momento; il cuore le ardeva nel petto, carico del desiderio di spazzare via tutti quei mostri e poi fuggire da lì.

Avrebbe salvato Cam. Avrebbe cercato Daniel. Insieme avrebbero salvato Ecate. E poi sarebbe tornata al Campo Giove, avrebbe dato una lezione ad Ashley e per finire avrebbe preso Mary e l’avrebbe baciata come non aveva mai baciato nessun altro.

Tutti loro stavano combattendo duramente: lei non sarebbe stata da meno.

Era una semidea. E in quel momento, si sentì molto più dea che semi.

«Avanti! AVANTI!» urlò.

Schivò, saltò e affettò, evitando colpi di ascia, spade, mazze e lance e amputando braccia, gambe, perforando petti e gole. I lestrigoni e i ciclopi non potevano nulla contro di lei, e le dracene tentavano di fuggire non appena realizzavano di essere senza speranze, rendendo molto più semplice trafiggerle alla schiena.

All’ennesimo mostro che crollava a terra Kiana lanciò un urlo liberatorio: «Che vi prende? Tutto qui quello che sapete fare?!»

Lo stupido lestrigone con gli occhiali da sole apparve di fronte a lei, i denti protesi pronti a ghermire la sua pelle. Non trovò quello che sperava, però: al posto del suo collo, la sua mandibola si chiuse attorno alla punta della lancia.

«E questo bocconcino? Ti piace?!» Kiana gli spinse la lama seghettata in gola. Il mostro fece un verso soffocato, prima di dissolversi.

«Chi è il prossimo?!» tuonò la ragazza, voltandosi e roteando la lancia, prima di spalancare gli occhi.

Non c’era più nessuno lì. Soltanto lei, tavoli rovesciati con cibo sparso ovunque, cumuli di polvere sul pavimento e silenzio. La figlia di Venere schiuse le labbra. «W-Wow…»

Si osservò le mani con cui reggeva la lancia e si accorse che stava tremando come una foglia. Le gambe le cedettero all’improvviso. Cadde in ginocchio con un gemito e realizzò che era stata colpita, molte più volte di quanto potesse immaginare. Era ferita sulle braccia, sulle gambe e sull’addome, i vestiti strappati e tagli freschi. Il suo fianco era completamente intriso di sangue.

Eppure, le venne comunque da ridacchiare. Mollò la lancia e si passò la mano libera tra i capelli, mentre quella risata continuava a crescere, dettata dal nervoso e dall’adrenalina che le avevano avvelenato il cervello.

«Hai visto?» bisbigliò al vuoto, verso quella donna. «Ecco di cosa sono capace.»

Si rimise in piedi a fatica, con una mano premuta sulla ferita sul fianco e l’altra a stringere la lancia. Ora che l’eccitazione della battaglia era finita tutti gli acciacchi cominciarono a farsi sentire. Non era proprio una bella sensazione, ma si sforzò di ignorarla. Non era ancora finita, doveva andarsene da lì prima che…

Uno scroscio di passi provenne dal piano superiore. Kiana drizzò la testa, appena in tempo per vedere venti mortali affacciati dalla balaustra, in divise nere, i volti coperti da passamontagna e soprattutto le armi puntate verso di lei.

Il cuore smise di batterle nel petto. «Oh… no...»

Una voce poderosa si sollevò, accompagnata da dei pesanti tonfi: «Getta l’arma e arrenditi.»

Qualcosa si erse al di sopra di tutti i mortali, prima una testa, poi un corpo intero, gigantesco, che si piazzò proprio in cima alle scale mobili.

Un brivido gelato percorse la schiena di Kiana. Era un Gigante. Anzi, una Gigantessa, una donnona con lunghi spaghetti castani per capelli, il viso imbruttito dall’espressione corrucciata e il naso schiacciato come se l’avesse sbattuto contro una vetrata. Aveva un bustino di bronzo celeste color rame pieno di tribali e un pugnale grosso quanto uno spadone appeso alla cintura. Le gambe erano due zampe enormi, coperte di squame verdi.

Accanto a lei apparve una donna con indosso un vestito arancione con le spalle scoperte, la scollatura ampia e uno spacco che le scopriva una gamba intera. Non dava molto spazio alla fantasia. Qualcosa suggerì a Kiana che quella fosse la donna che aveva incontrato Alexandre. Bella lo era, su questo non c’erano dubbi, con le sue guance tonde, le labbra piene, le ciglia folte e la pelle ambrata. I capelli ramati le ricadevano delicatamente sulle spalle, con una rosa intrecciata tra di essi, mentre ai polsi portava due spessi bracciali d’oro.

«Si può sapere come hai fatto a scappare?» domandò con vocetta squillante, indirettamente proporzionale a quella della gigantessa. Scrutò Kiana con lo stesso sguardo che qualcuno avrebbe rivolto a un cagnolino che l’aveva fatta sul tappeto.

«Io lo sapevo che non dovevamo lasciarla sola con quell’idiota di Alexandre.» La Gigantessa saltò giù dalla balaustra con un boato che parve un piccolo terremoto. Sollevò una mano e fece un cenno ai mortali. «Avanti, prendetela.»

Gli uomini cominciarono a scendere le scale, bracciando le armi. Non sembravano appartenere a un’organizzazione o esercito particolare, le divise erano anonime e non avevano alcun simbolo. Dovevano essere semplici mercenari. Kiana lasciò andare la lancia e indietreggiò, la mente che fumava nel tentativo di trovare una via di uscita da quella situazione schifosa.

«Chi diamine siete voi due?» domandò per guadagnare tempo. «Siete voi i soci di Alexandre?»

«Ma come, non mi conosci?» La Gigantessa fece un ghigno orripilante, un primo piano dei suoi denti giallognoli e nauseanti. «Strano. Eppure io sono stata creata proprio per distruggere tua madre. Il mio nome è Periboia.»

Non appena sentì quel nome, a Kiana tornò in mente una vecchia storia che aveva sentito a riguardo. «Sei… quella che è stata uccisa da dei petali di fiore, giusto?»

Quella pestò un piede a terra così forte da far tremare di nuovo la sala. Dilatò le narici come un toro imbizzarrito, un’altra scena che la ragazza avrebbe preferito non vedere. «Sì, è così. Da tua madre e una tua stupida sorella! Ma come puoi vedere, sono tornata. E questa volta non me ne andrò molto presto.»

Kiana spostò lo sguardo sulla donna, che era scesa fino a raggiungere il fianco della gigantessa. Avvertì la pelle formicolare. Non poteva essere una mortale come Alexandre. Irradiava energia, sembrava perfino che la sua pelle brillasse sotto le luci della sala. «E tu invece?»

«Già, mi sembra ovvio che tu non abbia idea di chi io sia» sibilò lei tra i denti. «Gli dei sono molto capaci a dimenticarsi di chi li ha aiutati. O forse hanno scelto di accantonarmi per far felice quell’arpia di tua madre. Beh, quando il giorno non troverà più spazio in questo mondo, capiranno che non avrebbero mai dovuto farlo.» Si indicò il petto. «Il mio nome è Eos. Sono la dea dell’alba. E conosco molto bene tua madre, figlia di Venere. Mi odia a morte da quando ho giaciuto con il suo compagno Ares. Ma non è certo colpa mia se lui mi ha trovata più attraente di lei» concluse, con un sorrisetto compiaciuto.

Ma cos’è, il club privato ‘Odiamo Venere’?” pensò Kiana. Prima la donna nel sogno, poi Alexandre, ora quelle due. Ovunque andasse c’era quell’elefante nella stanza di nome Venere a perseguitarla. La odiavano o le davano colpe che non aveva o solo perché era sua figlia. 

«Arrenditi» intimò Periboia. «Non puoi scappare.»

Kiana osservò gli uomini che si avvicinavano lentamente.

«Fatemi indovinare…» provò ancora a dire. «… voi lavorate tutti per questa nuova fantastica “padrona”, giusto? Quand’è che capirete che è tutto inutile e che perderete sempre?»

Periboia strinse i pugni. «Questa volta non falliremo. Gli dei sono deboli, divisi. Il mondo è nel caos. La Notte Eterna si avvicina. E quando arriverà, la terra si squarcerà riversando tutto il male che è stato sigillato al suo interno. Nessuno potrà fermarci.»

Ancora quella parola, divisi. Era piuttosto gettonata tra di loro.

«Capito per chi state lavorando?» domandò Kiana, rivolta ai mortali armati. «La terra che si squarcia, il male che si riversa, la Notte Eterna, non vi pare qualcosa di, non saprei, pericoloso

I mortali si guardarono tra loro per qualche momento, ma Kiana non aveva ancora finito: «Pensate davvero che finirà bene per voi? Vi state facendo nemici potenti. Avete idea di che cosa possano fare gli dei? Sono dei, maledizione. Potrebbero farvi scoppiare le teste con un solo pensiero. E voi state puntando le armi contro una delle loro figlie. Credete davvero che la farete franca?»

Non aveva la lingua ammaliatrice, ma non significava che non potesse provare a mettere un po’ di buonsenso nelle teste vuote di quei mercenari. Anche se sperava che non sapessero quanto assenteisti fossero davvero i genitori divini.

Un alone di incertezza sembrò aleggiare tra i mortali, ma terminò prima che Kiana potesse anche solo sperare di averli convinti. Gli sguardi e le armi tornarono ad essere puntati verso di lei.

«Bel tentativo, ma non hai la lingua ammaliatrice» la schernì Periboia. «Questi uomini sono fedeli. Non ti ascolteranno solo perché sei carina.»

Kiana si irrigidì. Periboia ridacchiò e la ragazza si domandò se non l’avesse detto apposta per provocarla.

I mortali si avvicinarono, facendole capire di essere spacciata. Da lì non poteva andarsene in alcun modo. Non poteva correre più veloce di quelle armi, soprattutto se era ferita. E anche se ci fosse riuscita, c’erano comunque una dea e una gigantessa a cui doveva pensare. Forse Eos non poteva davvero combattere, per via delle leggi antiche, ma Periboia non era vincolata. E aveva ragione, non aveva la lingua ammaliatrice.

L’unico dono che sua madre avrebbe potuto farle, l’unica cosa che davvero le sarebbe stata d’aiuto, lei non ce l’aveva. L’ennesima presa in giro di cui non aveva bisogno. Abbassò la testa, stringendo con forza i pugni.

«Volete… volete i soldi?» domandò, con voce tremolante. Deglutì. «Mio padre è ricco sfondato. Vi darà tutti i soldi che volete, se mi lasciate andare. Quanto vi paga Alexandre? Mio padre può darvi il doppio, il triplo anzi.»

«Sì, lo sappiamo» rispose Periboia, con una risatina che ricordò il rumore di un masso che rotolava lungo un pendio. «Perché credi di essere qui, Kiana Farhat?»

«Con i soldi di Alexandre e i nostri finanziatori possiamo pagare i mortali» disse Eos. «Ma per finanziare un esercito che comprende anche i mostri, i soldi mortali non bastano. Esiste una lingua che tutti parlano, Kiana Farhat, e quella è la lingua dell’oro. E Amir Farhat, tuo padre, potrebbe farci avere tutto l’oro di cui abbiamo bisogno. Ma per farlo, occorre un piccolo…» La dea la dissezionò con lo sguardo, distendendo il suo sorrisetto. «… incentivo. Sono sicura che quando scoprirà che abbiamo messo le mani su sua figlia, sarà molto felice di darci tutto quello che chiediamo.»

«Pensate… pensate davvero che lui vi finanzierà?!» domandò Kiana, incredula. «A lui non importa niente di me! Non vi darà nemmeno un centesimo!»

«Vorrà dire che in tal caso ti uccideremo. Dopotutto, non ci sarai di alcuna utilità.» Eos ridacchiò. «Non è poetico? Tuo padre è il motivo per cui vogliamo tenerti in vita, tua madre quello per cui vogliamo ucciderti. Ah, l’ironia della sorte.»

I mortali si avvicinarono, ormai erano a pochi metri di distanza. Kiana abbassò la testa.

Suo padre non avrebbe mai pagato quei tizi, e anche se l’avesse fatto, sarebbe stato tutto inutile. Era spacciata in ogni caso. Se non l’avessero uccisa subito, sarebbe morta comunque. Qualche giorno di vita in più non faceva differenza. Osservò tutti quei nemici che la circondavano e chiuse gli occhi con un respiro tremante. Tentò di ricacciare le lacrime, ma non ci riuscì.

Era finita. Era tutto finito. 

Non poteva salvare Cam. Non poteva salvare Ecate. Non poteva rivedere Mary. Aveva fallito. Era arrivata così vicina… ma alla fine non era bastato.

L’unica cosa che le rimaneva era rivolgere delle scuse mute a tutte le persone che sapeva di aver deluso, o con cui non aveva avuto dei buoni trascorsi. I suoi amici, David, Mary, Amir. Pensare a suo padre le provocò un noto allo stomaco, intriso di amarezza e nostalgia per quel rapporto turbolento che avevano avuto, quella vita vissuta come due estranei sotto lo stesso gigantesco tetto e tutti quei momenti tra padre e figlia che non avevano mai davvero vissuto.

Ironico, a suo modo, come loro due fossero stati così incapaci di provare amore l’uno per l’altra nonostante il passaggio della dea dell’amore stessa nelle loro vite.

Mi… mi dispiace.”

Si aspettò che la afferrassero e che la ammanettassero, una parte di lei preferì che le sparassero e basta, per alleviare le sue sofferenze, invece non accadde nulla di tutto quello. Anzi, delle grida sorprese si sollevarono facendole spalancare gli occhi.

Un odore fortissimo si sollevò in aria, come di rose, pesche e vaniglia mischiate con i profumi da donna più intensi e costosi che esistessero al mondo. Una nebbia rosa si sollevò dal nulla invadendo il salone. Kiana si coprì il viso per timore di inalarla, ma quella non sembrò fare caso a lei: avvolse tutti i mortali, creando un muro tra lei e loro.

Delle urla spaventate provennero dal banco di nebbia, facendole accapponare la pelle. Vide le figure degli uomini dimenarsi attraverso le nubi rosa, alcuni si misero le mani tra i capelli, altri sollevarono le armi ma non c’era nulla a cui sparare, poi tutto cessò.

Quando la nebbia si diradò, non c’erano più venti mortali armati e pericolosi: c’erano venti colombe bianche come la neve che tubavano e beccavano i rimasugli del catering più mostruoso del mondo sul pavimento.

Kiana per poco non inciampò per l’incredulità. La colomba… era il simbolo di Venere. La sua reazione però non fu nulla a confronto di quella di Periboia.

«In nome della mia potente zia, cosa diamine è successo?!»

Alcune colombe volarono via spaventate, mentre la gigantessa urlava furibonda. Accanto a lei, Eos sembrava aver appena visto un fantasma.

«Trasformali di nuovo!» le ordinò Periboia.

«E-Eh?!»

«Sei sorda?! Trasformali di nuovo in uomini!»

«Ma non sono capace!»

«Com’è possibile che tu non sia capace?! Sei una dea! Avanti, fallo!»

«E-Ehm…» Eos puntò le mani contro le colombe e si morse il labbro inferiore. I palmi le brillarono e due raggi di luce si riversarono fuori di essi, facendo esplodere diversi pennuti in mille pezzi. La dea dell’alba gridò terrificata quando un brandello di carne le cadde sulla fronte.

Periboia si strappò i capelli per la rabbia. «AAAAARRRRGGGH! Maledetta Afrodite, perfino i tuoi nemici sono degli idioti!»

«M-Ma come osi?! G-Guarda che io…» Periboia sventolò un pugno di fronte a Eos e la dea si zittì con uno squittio.

Kiana era sconvolta. Quelle colombe… erano opera di Venere? L’aveva aiutata?!

Sentì le labbra tremolare, ma ricacciò indietro le lacrime quando vide Periboia sguainare il pugnale: non era ancora finita.

«Vorrà dire che me ne occuperò io, come sempre.» La Gigantessa si avvicinò a Kiana, livida di rabbia. «Se sei sopravvissuta così a lungo puoi solo ringraziare il tuo cognome, Kiana Farhat. Ma sappi che non ho più intenzione di sprecare il mio tempo con te. Morirai, qui e ora, per mano mia.»

Kiana incrociò il suo sguardo e strinse i pugni. Con il corpo che tremava per via di tutto quello che era successo, afferrò la lancia caduta a terra e si preparò a combattere. Venere l’aveva aiutata con i mortali, ma non poteva fare niente per Periboia, non da sola almeno. Ora toccava a lei. Era stanca, ferita, spaventata, ma non si sarebbe arresa. Non avrebbe fallito. Non poteva fallire. Sarebbe uscita viva da lì, per Cam, per Daniel, per Mary… e anche per Venere.

Periboia muggì e la caricò con la forza di un maremoto. Kiana saltò all’indietro un attimo prima che quell’asteroide a forma di pugnale si schiantasse su di lei. Fece una capriola di lato e puntò la lancia verso il fianco di Periboia, ma quella si voltò e la deviò prima che potesse affondarla, in un clangore metallico. Sollevò il coltello e lo abbatté come una ghigliottina, ma ancora una volta Kiana scartò di lato; lo stridio del metallo che si abbatteva sul pavimento di marmo le fece scoppiare i timpani.

Periboia usò la sua forza bruta per sovrastarla, ma la ragazza rilanciò con la sua rapidità. Non poteva batterla sul suo stesso campo, doveva aspettare che la attaccasse e approfittare di quei momenti per ferirla e ritirarsi. Le saltò attorno, schivando quella lama grossa come l’elica di un elicottero e rispondendo a ogni assalto con la lancia. In un paio di occasioni ferì le gambe di Periboia, ma non sembrava fare altro che infastidirla.

Ben presto, Kiana capì che di quel passo la battaglia sarebbe finita a favore di Periboia. Non poteva ucciderla da sola, le serviva l’aiuto di un dio, ma sua madre non sembrava volersi palesare di nuovo.

Saltò all’indietro per evitare l’ennesimo pugno. Il pavimento si sfondò come se fosse stato fatto di polistirolo. Kiana fece una smorfia, conscia del fatto che presto avrebbe fatto la stessa fine se non si fosse inventata qualcosa.

«Sta’ ferma!» tuonò Periboia, caricandola di nuovo.

La vocetta squillante di Eos provenne da oltre le spalle della Gigantessa, ricordando a Kiana la sua presenza: «Uccidila, uccidila!»

Un’idea folle attraversò la mente della figlia di Venere. Si gettò a terra prima di essere investita e sgusciò tra le gambe di Periboia, conficcando la lancia in uno dei suoi polpacci. La donnona gridò di dolore e cadde in ginocchio, rimanendo fuori uso per un istante.

Kiana si voltò verso di Eos e le puntò contro la lancia. «Ehi, gallina! Avanti, fatti sotto!»

Cominciò a correre verso di lei e la vide fare un’espressione di sconforto puro. «C-Che stai facendo?! Stammi lontano!»

Kiana non era affatto intenzionata a rispettare la sua richiesta. Corse verso di lei finché quella non gridò spaventata e sollevò le mani. Non appena vide i palmi illuminarsi, si gettò a terra di lato. Sollevò lo sguardo appena in tempo per accorgersi dei raggi di luce di Eos che si abbattevano su Periboia, trafiggendole l’armatura.

Un poderoso muggito provenne dalla gigantessa, che barcollò all’indietro con due fori grossi come palle da bowling nello stomaco, sotto l’armatura sciolta e fumante. Osservò Eos con sguardo vitreo. «Tu… stupida… idiot…»

Il suo corpo enorme si schiantò a terra, facendo tremare la sala. Poco dopo, si stava già dissolvendo.

Un grido di sconforto provenne dalla dea dell’alba. «Che cos’ho fatto? Che cos’ho fatto?!»

Kiana ridacchiò mentre si rimetteva in piedi. Quella tizia, Eos, non era affatto capace di combattere. Le era bastato uno sguardo per capirlo. Ma rimaneva pur sempre una dea: il tassello mancante per uccidere Periboia.

«Ora siamo solo tu e io, bellezza» le disse, mentre si avvicinava roteando la lancia.

Eos gridò terrorizzata. Il suo corpo cominciò a brillare di luce splendente e Kiana si coprì gli occhi un istante prima che un boato facesse tremare la terra. Quando osservò di nuovo il salone, lo trovò deserto.

La lancia le scappò dalle mani e crollò in ginocchio, con il fiato pesante e la fronte madida di sudore.

Osservò tutto quell’atrio distrutto, con alcune colombe che svolazzavano qua e là, e un’altra risatina nervosa le scappò dalla gola.

Ce l’aveva fatta. Ce l’aveva fatta!

La sua risata crebbe. Rovesciò la testa all’indietro, mettendosi le mani tra i capelli. Tremava come una foglia e sentiva di poter svenire da un momento all’altro, ma era viva. Aveva vinto.

Quando riuscì a rialzarsi si avvicinò ad uno dei tavoli rimasti intatti, con ancora i vassoi di cibo sopra. Ignorò i panini imbottini, le tartine e le torte salate – troppo volgari – e individuò qualcosa che faceva al caso suo: una teglia piena di cocktail di gamberetti gourmet. Quelli sarebbero andati bene.

Entrò in uno dei ristoranti e si diresse verso la cucina. Accese il fornello elettrico, sperando che anche le fiamme del gas andassero bene, poi cominciò a rovesciarci sopra i bicchieri di gamberetti in salsa rosa, insalatine e fette di limone, uno ad uno.

«Per Venere.»

Il cibo andò in combustione, dissolvendosi in nuvolette di vapore rosa. Quell’odore di profumo forte la investì di nuovo, provocandole un brivido lungo la schiena, un profumo che in qualche modo le trasmise una sensazione di nostalgia, di ricordi felici che però non aveva mai avuto.

Rimase in silenzio, quasi sperando in un ultimo segno, ma non accadde nulla. Kiana si mordicchiò un labbro e abbassò la testa.

«Grazie… mamma» mormorò infine. Tutta la gioia della vittoria sfumò, rimpiazzata dal peso della realtà dei fatti. «Non meritavo il tuo aiuto, ma me l’hai dato comunque. Grazie.»

Di nuovo, nessuna risposta. La ragazza si sentì come se un macigno le fosse appena sceso nello stomaco. Con tutto quello che aveva detto di Venere… non riusciva a credere che l’avesse aiutata, senza che nemmeno glielo avesse chiesto

L’aveva sempre odiata per quello che le aveva fatto, per quello che aveva patito per causa sua, ma dopo quello che era appena successo, realizzò che il suo comportamento era stato egoista e infantile. Venere era una dea, era ovvio che non potesse rimanere con lei e Amir, era ovvio che non potesse essere una madre come tutte le altre. Però l’aveva salvata. Significava che l’aveva tenuta d’occhio. Per tutto quel tempo in cui aveva creduto di essere sola, Venere era rimasta a vegliare su di lei.

«Mi dispiace» sussurrò, mentre un’altra lacrima le rigava la guancia.

Uscì dal ristorante a testa bassa. Aveva vinto, era sopravvissuta, eppure si sentiva comunque sconfitta. Aveva odiato Venere, ma era arrivata per lei quando davvero aveva avuto bisogno. Era stata arrogante e presuntuosa. Quella donna aveva ragione su di lei. Era patetica. E soprattutto, non era così diversa da suo padre.

Rimase così occupata ad autocommiserarsi che non si accorse della nube di oscurità che le apparve di fronte finché questa non fu abbastanza grande da sovrastarla completamente. Sgranò gli occhi e indietreggiò di scatto.

Dall’ammasso sbucò fuori un segugio infernale, che percorse qualche metro nell’atrio fiutando il pavimento finché non si accorse di lei. Non appena la vide, la puntò con il muso e mostrò una fila di zanne grosse quanto la sua testa. Abbaiò e il boato che emise ricordò quello di un’esplosione: «BAU!»

Kiana cercò le sue armi, ma erano rimaste a terra assieme ai resti del catering più mostruoso del mondo.

«BAU!» Il segugio produsse ancora quella cannonata, poi si fiondò su di lei a tutta velocità. Kiana provò a scansarsi ma una fitta di dolore al fianco le mozzò il respiro. Rimase immobile, mentre quell’ammasso nero si fiondava su di lei.

«Oh cav-AHHHH!» 

Due milioni di chili la travolsero in pieno, disperdendo il suo grido nell’aria. 


 


 


 


 


 

Ehi, salve gente! Scusate per l’attesa, ma questo è stato un altro di quei famosi capitoli che, non importa come, non riescono a soddisfarmi. Non avete idea di quante volte io l’abbia modificato. Ho paura di aver reso Kiana troppo OP all’improvviso, specie dopo quello che ha subito, allo stesso tempo però ho cercato di giustificare la cosa con la rabbia per tutto quello che le è capitato. Non so, fatemi sapere voi.

Lascio un po’ di disegni fatti da me, che l’altra volta mi son scordato.

Ashley (con un occhio più grande dell’altro, vabbé): https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Ashley-Flare-Figlia-di-Giove-902998812

Elias: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Elias-Crowe-figlio-di-Plutone-904008214

Marianne (gli occhi sono la mia maledizione): https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Marianne-Moreau-centurione-della-Quinta-Coorte-903132555

Qui lascio il link di una bellissima fanart che Roland ha realizzato: https://www.deviantart.com/rlandh/art/Mary-and-Kiana-905996820

E parlando di Roland, la scena di Kiana allo specchio è molto ispirata a una scena che ha scritto lei nella sua storia, il Crepuscolo degli Idoli, non scendo nei dettagli per spoiler e cose del genere, ma sono sicuro che lei abbia capito. Per finire, ringrazio la stesa Roland e Farkas per le loro bellissime recensioni. Grazie infinite, siete voi il cuore che batte di tutti i miei lavori. 

Alla prossima!


 


 


 


 

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Capitolo 16
*** Riunione ***



XVI

Riunione

 


Quando il mondo smise di rivoltarsi contro sé stesso, Daniel alzò la testa.

Aveva sentito il vento ululare feroce per minuti interi, mentre la terra era sembrata sul punto di squarciarsi per inghiottire tutti loro e cancellarli dall’esistenza. L’arancione delle fiamme divampava ancora di fronte a lui, e il boato dei fulmini che si schiantavano a terra con violenza si stava ancora ripercuotendo nelle sue ossa.

Adesso però tutto taceva.

Il ragazzo si rese conto che l’oscurità lo aveva protetto, creando una bolla attorno a lui e Penelope. La centaura era rannicchiata a terra, la testa tra le mani, e stava tremando terrorizzata. Jack invece era sparito. Lo aveva sentito abbaiare quando Camille si era messa a gridare in quel modo, ma poi le sue cannonate si erano perse nel riverbero del mondo che impazziva e scatenava la sua furia tutt’attorno a loro. Daniel si augurò che fosse soltanto scappato e che stesse bene.

Toccò il fianco di Penelope. «Tutto ok?»

Lei gridò di spavento e si rimise in piedi di scatto, per poco non spedendolo a terra: era timida e facilmente spaventabile, ma aveva pur sempre la forza di un centauro.

«O-Oh, scusa» mormorò, accorgendosi del ragazzo che si massaggiava un braccio.

«Tranquilla…» mugugnò lui, prima di osservare quella barriera di oscurità che gli aveva salvato la pelle. Di nuovo. 

La voce di Penelope risuonò come un nitrito spaventato: «Ma… cos’è successo?»  

«Vorrei saperlo anch’io.»

Daniel puntò le mani verso l’oscurità senza nemmeno sapere cosa fare con esattezza, ma quella si mosse seguendo il suo volere e si diradò per mostrare il cortile del penitenziario. Non appena lo rivide, rimase senza fiato.

«Miei dei» sussurrò.

Non c’era più la prigione. Le altissime mura di cemento armato erano state abbattute come cartongesso, la recinzione di filo spinato attorno al penitenziario era saltata via, le torri erano crollate e in mezzo al cortile c’era un cratere enorme. Pennacchi di fumo si levavano da più punti, provenienti dalle fiamme che ancora stavano crepitando. Cavi squarciati emanavano scintille da sotto le macerie mentre fontane d’acqua schizzavano fuori dalle tubature scoppiate.

Attorno al cratere la terra era spaccata in una ragnatela gigantesca che ricopriva il cortile intero, con crepacci lunghi anche mezzo metro nei quali avrebbero potuto precipitare nell’oblio se non avessero fatto attenzione.

Daniel non aveva mai visto niente del genere. Quale forza mostruosa aveva fatto tutto quello?!

Un rumore si levò nell’aria, percepito dalle sue orecchie disabituate al silenzio di quel luogo dove, fino a pochi minuti prima, era parso che stesse arrivando l’Apocalisse. Erano dei gemiti. Anzi, di più: era un pianto. E proveniva da dentro il cratere.

«Stai dietro di me» sussurrò a Penelope, che annuì freneticamente senza dire altro.

Cominciò ad avvicinarsi al cratere con passo incerto. Avvertì l’oscurità formicolare dentro il proprio corpo e si domandò se il suo istinto non lo stesse mettendo in guardia da un pericolo. Dopo quello che era appena successo, non avrebbe faticato a crederci.

Raggiunse il bordo con i palmi illuminati di nero e si sporse con la testa: non appena lo fece, l’oscurità si affievolì da dentro di lui. «Cam!»

Saltò nella conca profonda qualche metro e cominciò a correre verso la ragazza rannicchiata proprio in mezzo ad essa. Se ne stava in ginocchio, le braccia strette attorno allo stomaco e la testa china, la schiena in preda a sussulti.

«Di nuovo…» la sentì dire, quando la raggiunse. «… è successo di nuovo…»

«Cam.»

Daniel le toccò la schiena e quella gridò terrorizzata. Si voltò verso di lui e lo squadrò con le sue ametiste arrossate per il pianto. La sua voce fu un sussurro tra le lacrime: «D-Daniel…»

Lo abbracciò di getto, senza dire altro. Daniel sussultò per la sorpresa e si irrigidì. Il suo primo desiderio fu spingerla via, ma poi capì che lei era solo spaventata, e che aveva bisogno del conforto di qualcuno. Ricambiò la stretta con un movimento lento, stringendo il corpo minuto, graffiato e sporco di terra di quella fragile ragazza.

La stessa fragile ragazza che aveva appena raso al suolo quel posto.

«D-Daniel…» pianse lei. «M-Mi dispiace, Daniel…»

Daniel non aveva idea di come comportarsi. Le diede qualche colpetto alla schiena. «Sta’… sta’ tranquilla, Cam… va… va tutto bene.»

Lei continuò a piangere, affondando il volto contro il suo petto e rannicchiandosi contro di lui con ancora più insistenza.

«Non… non è successo niente, Cam. Calmati.»

I singhiozzi di Camille si fermarono all’improvviso. Poi cominciò a produrre altri versi soffocati contro il suo petto, con la schiena che si alzava e abbassava ad intermittenza. Sembrava un altro pianto, però era diverso. Era molto più nervoso e scostante. Era… una risata. Cam stava ridendo.

«Che hai da ridere?» domandò Daniel, sorpreso.

«“N-Non è successo niente”?» disse lei, riuscendo a staccarsi da lui. Gli sorrise tra le lacrime, e non fu più chiaro se stesse ridendo, piangendo o entrambe le cose. «H-Ho… ho quasi causato la fine del mondo, e tu… tu mi dici “Non è successo niente”?»

«B-Beh…»

Camille si separò da lui con delicatezza e si asciugò le lacrime con le mani insanguinate. «Fai… fai proprio schifo a consolare la gente, sai?»

Glielo disse continuando con quella risatina nervosa e con un sorriso che sembrava rimanere a fatica sul suo viso pallido. Daniel realizzò che quella risata era il suo modo per non scoppiare di nuovo a piangere e si sforzò di essere accomodante.

«Te ne sei accorta adesso che faccio schifo con queste cose, Cam? Faccio sempre schifo quando sono con altre persone.» Non riuscì più a reggere il suo sguardo. «Anche come amico faccio schifo.»

«Non… non è vero.» Camille gli prese una mano e Daniel si raddrizzò, notando il suo sorriso gentile. «Sei… sei venuto a cercarmi. Mi… mi hai salvato la vita. Senza di te… non sarei qui. Non è vero che fai schifo come amico.»

Lentamente, Daniel si ritrovò a ricambiare il sorriso. «Grazie Cam.»

Camille finì di asciugarsi le lacrime. Tirò su con il naso e annuì. «Prego.»

Rimasero a guardarsi per qualche istante. Daniel doveva ammetterlo, gli occhi di Cam erano davvero belli, di quel colore così unico e particolare. Rimase per un istante fermo a guardarli, finché non vide la sua compagna socchiuderli e avvicinarsi a lui.

«Cam?» domandò, notando le labbra di lei leggermente protese in avanti. «Che stai facendo?»

«Niente!» Camille si tirò indietro di colpo. Sembrava quasi che uno dei fulmini di poco prima l’avesse centrata in pieno. Fece di tutto per non guardarlo più e cominciò ad arrampicarsi per uscire dal cratere. «F-Forza, usciamo di qui!»

Daniel finse di non aver visto nulla e la seguì. Una volta fuori, Cam rimase paralizzata di fronte alla prigione distrutta. Si coprì la bocca e parve in procinto di piangere di nuovo, ma lui le posò una mano sulla spalla. «Quel posto era vuoto. Nessuno si è fatto male, Cam. L’importante è questo.»

Le guance di Camille erano verdognole. Rimase in silenzio, limitandosi solo ad annuire.

«È successo di nuovo» aveva detto poco prima. Daniel avrebbe voluto farle qualche domanda in più, ma perfino lui sapeva che non sarebbe stato delicato.

«Ma si può sapere cos’è successo?!»

Penelope si avvicinò trafilata a loro due, gli occhi da cerbiatta spalancati oltre ogni limite. La sua vocetta squillate e californiana gli ricordò che non era da solo. «C’erano un terremoto, e il vento, e poi fiamme, e…»

«Penelope.» Daniel scosse la testa. «Non adesso.»

La centaura dovette realizzare di essere stata un po’, giusto un po’, avventata, perché arrossì e farfugliò delle scuse.

Camille si avvicinò a lei. «Non… non avevo mai visto una centaura prima di oggi. Sei… sei davvero bellissima, lo sai?»

Penelope divenne ancora più rossa e dischiuse le labbra per lo stupore. «Come sei dolce… grazie!»

Daniel alzò gli occhi al cielo. Avrebbe potuto prevedere che quelle due si sarebbero trovate subito. La ragazza sembrò rasserenarsi, finché non ricominciò a guardarsi attorno. «Dove… dove sono Encelado e le altre?»

Con tutto quello che era appena successo, Daniel aveva perfino smesso di pensare ai loro nemici. Scosse la testa. «Non credo siano rimasti nei paraggi quando…» si interruppe prima di dire quello che stava per dire, ma Cam parve capirlo comunque, perché si rattristì.

«Ho… ho fatto un disastro» mormorò. «Mi… mi disp…»

Una macchia di oscurità si abbatté su di loro all’improvviso.

«BAU!»

Daniel si ritrovò placcato a terra da Jack e dalla sua lingua mortale. «N-No! Buono Jack! Buono! Sta giù! Giù, maledizione!»

«Daniel!» gridò Camille preoccupata.

«Ah, non pre-Agh! Preoccuparti…» la rassicurò Daniel, mentre lottava per la propria vita. «Lo fa sempre...»

Provò a liberarsi ma era come cercare di scollarsi di dosso una locomotiva. Fu costretto a subire finché Jack non decise di graziarlo e togliersi di sua volontà. Daniel si mise a sedere, reduce da una doccia di bava e senza più la sensibilità a metà del volto. Se non altro aveva avuto la conferma che, sì, Jack stava benone.

Udì un grido di Camille.

«Jack! Sta fer…» Daniel si interruppe, accorgendosi di Jack che stava facendo le feste a Camille, saltellandole attorno scodinzolando e con la lingua a penzoloni. La figlia di Trivia gli accarezzò il muso, l’unica cosa che poteva accarezzare di quel cucciolo alto tre metri, e lui mugugnò soddisfatto.

«Ok, è davvero molto… strano» disse, mentre Jack si sdraiava per scoprire la pancia. Camille ridacchiò, mentre gli dava qualche grattata sul petto e dietro le orecchie. «Però è anche forte. Non avrei mai pensato di coccolare un segugio infernale.»

«Siamo in due…» borbottò Daniel.

«Ma…» Camille osservò prima lui, poi Penelope e infine Jack. «… come vi siete conosciuti voi tre? E come avete fatto a trovarmi? E perché questo segugio infernale si chiama “Jack”?!»

Penelope pestò a terra con gli zoccoli e lanciò un’occhiata contrariata a Daniel. «Visto? Te l’ho detto che era un nome strano!»

Daniel sospirò profondamente, poi raccontò tutto quanto a Cam, a partire da Jack che lo attaccava durante la battaglia al Campo Giove, lasciandolo in vita, fino al suo non molto felice colloquio con Fatum, dove lui gli aveva detto che sia Cam che Kiana erano in quella prigione. Non scese molto nei dettagli riguardo la freccia che avrebbe dovuto ucciderlo, ma non ce ne fu bisogno perché l’attenzione della figlia di Trivia rimase incentrata su tutt’altro.

«Kiana!» Camille smise di grattare Jack sulla pancia e saltò in piedi, prima di inorridire. «I-Io… io non lo so dov’è! Come facciamo a trovarla?!»

«Non ne ho idea» borbottò Daniel. «Per prima cosa, dobbiamo andarcene da qui. Poi…»

«BAU!»

Jack balzò sulle zampe, per poco non buttando Camille a terra. Si fiondò addosso a Penelope, che gridò terrorizzata, ma lui le diede solo un’annusatina veloce, in particolare al petto, come se avesse trovato qualcosa di interessante. La poveretta era sconvolta e anche Daniel non era molto sicuro di cosa diamine stesse succedendo. Lo guardò mentre, una volta lasciata in pace Penelope, cominciava ad annusare il terreno, muovendosi quasi rasoterra come un serpente. Una scena che avrebbe avuto perfino un che di esilarante se solo non fosse stato tutto così… strano.

«Jack, che cavolo stai...»

«BAU! BAU!» Il segugio tirò fuori la lingua e cominciò a correre come un forsennato. Un secondo dopo, era scomparso in mezzo alle ombre gettate in tutto il penitenziario dal cielo nuvoloso.

Vi furono alcuni istanti di silenzio. Camille era immobile per lo stupore, Daniel non aveva idea di cosa pensare. Era successo tutto troppo in fretta e troppo dal nulla. Poi, un’altra macchia di oscurità comparve nel cortile, subito seguita da un verso che ricordò più un grido: «AAAAAAAH

Quando Jack spuntò fuori dalle tenebre, non era più da solo. La ragazza che si era trascinato dietro cadde accanto a lui con un grido furibondo. Quando drizzò la testa si ritrovò i dentoni di Jack a un palmo dal suo naso. Gridò di nuovo e si allontanò strisciando. «Ma che diavolo…?!»

Daniel era così incredulo che non disse nulla; Camille si riscosse per prima, con voce squillante di felicità: «Kiana!»

Kiana drizzò la testa verso di loro e fece un verso sorpreso, che si trasformò presto in uno di gioia: «Ragazzi!»

Le due ragazze si corsero incontro e la più piccola si gettò tra le braccia della nuova arrivata, ridendo sguaiata.

«Miei dei, Cam!» esclamò Kiana, la voce incrinata per la gioia e il sollievo, ma anche venata di preoccupazione. Sembrava perfino che stesse per piangere. «Stai bene?»

Cam non si era fatta molti scrupoli, invece: aveva le guance già rigate di lacrime. «Sto bene, Kiana, tranquilla. Sono così felice di vederti…»

«Anch’io Cam.» Kiana la stritolò così forte da sollevarla da terra di qualche spanna. «Ho… ho avuto così tanta paura di perderti…»

«N-Non lasciamoci più, ti prego…»

«Non succederà, te lo prometto.»

Kiana la posò a terra come un bimbo ed entrambe si sorrisero così calorosamente che perfino per Daniel fu difficile rimanere indifferente. Sembravano davvero terrorizzate e felici al tempo stesso. Sapeva che erano amiche, ma non le aveva mai viste dimostrare così tanto affetto l’una per l’altra. Gli venne quasi da chiedersi che cosa si provasse. E anche se avessero pensato lo stesso di lui, ma di questo ne dubitava.

A quel pensiero avvertì una stretta allo stomaco. Un forte fastidio che non riuscì a comprendere, ma che aumentava man mano che osservava quelle due ragazze felici l’una della presenza dell’altra.

«Zombie! Che bello rivederti!»

Daniel si rese conto che adesso Kiana stava guardando lui. Provò a cercare del sarcasmo nella sua frase, ma se c’era, era ben nascosto. La cosa lo sbalordì, ma ancora più sorprendente fu il fatto che lui invece non sapeva cosa pensare del fatto che Kiana stesse bene. Era felice di averla rivista? La risposta sarebbe dovuta essere sì. Dopotutto, era corso fino a lì in groppa a Penelope proprio per salvare sia lei che Camille.

Eppure, non gli sembrava di sentire alcun sollievo, o felicità. Né per lei, né per Cam ora che ci pensava. Era come se nulla fosse cambiato rispetto a quando era rimasto solo.

«Ehm… anch’io… sono felice» riuscì a borbottare, rendendosi conto di essere rimasto in silenzio.

Kiana si piazzò di fronte a lui e batté il pugno contro la sua spalla, ridacchiando. «Attento a non mostrare troppo affetto, zombie. Non sia mai.»

Ancora una volta, non notò malizia né nella sua voce né nella sua espressione. Eppure, Daniel si accorse ben presto che c’era qualcosa di strano in lei. Stava sorridendo, ma i suoi occhi, il suo sguardo… avevano qualcosa di diverso.

«Ma stai sanguinando!» esclamò Camille.

«Uh?» Kiana abbassò lo sguardo sul proprio fianco, dove Daniel notò uno squarcio nella maglietta, sotto cui si poteva scorgere una grossa chiazza rossastra. «Ah… non è niente, non preoccupatevi…»

«BAU!»

Jack fece un altro dei suoi attacchi a sorpresa, questa volta mirando la nuova arrivata. Kiana sobbalzò e sembrò cercare un’arma con cui combattere, ma poi si accorse che sia Daniel che Camille non erano spaventati e deglutì. «Ma… questo… coso, è con voi?!»

«È… una storia lunga» mugugnò Daniel.

Anche Penelope si avvicinò alla nuova arrivata con un sorriso cortese. «Così sei tu Kiana? Piacere di conoscerti, io sono Penelope!»

Kiana riuscì a scostarsi il muso di Jack di dosso e rimase esterrefatta alla vista della centaura. «Ma… ma…» Divenne livida di rabbia all’improvviso e puntò l’indice verso di lei. «Ma quella è la mia maglietta!»

Daniel sgranò gli occhi e trattenne il respiro, mentre Kiana faceva vagare lo sguardo freneticamente tra il viso di Penelope e la maglietta azzurra con strass che aveva indosso – e che le stava a malapena.

«O-Oh, ti chiedo scusa, i-io non lo sapevo» mormorò la centaura, facendosi piccola piccola. «È stato Daniel a darmela, ma non mi ha detto che era tua…»

«Zombie! Tu non hai niente da dire?!»

All’improvviso, Kiana sembrava di nuovo la solita di sempre.

«Ehm… ecco, Penelope non aveva niente addosso e… i-insomma, tu hai… ecco…» Daniel si portò le mani chiuse a coppa di fronte al petto, pensando di poter svenire per l’imbarazzo. «… le tue… forme… sono le più simili alle sue e quindi…»

«Simili?!» Kiana osservò il petto di Penelope poi il proprio, ad intermittenza, per almeno dieci volte. «Ma sei cieco?! Questa tizia ha due mongolfiere! In che modo ti sembriamo “simili”?!»

Sembrava un po’ invidiosa.

«M-Mi dispiace» farfugliò Daniel, provando uno strano bruciore al viso.

«Non potevi darle uno dei tuoi giacconi da emo o cose del genere?!»

«Cos’è una mongolfiera?» si intromise Penelope.

«Uhm… ragazzi?» Camille si schiarì la gola. «Possiamo… parlare di cose importanti per un momento?»

«Questa è una cosa importante!»

«Kiana!»

Kiana lanciò un’ultima occhiataccia a Daniel, poi al petto di Penelope, infine incrociò le braccia sotto al proprio con un mugugno contrariato. «Tsk… va bene.»

«Cos’è successo, Kiana? Dove ti hanno portata?»

«È una… storia lunga. Forse… forse è meglio se…» Kiana cadde in ginocchio all’improvviso, con un verso di dolore. Si portò la mano sul fianco, ormai pregno di sangue.

«Miei dei, Kiana!» Camille s’inginocchiò accanto a lei e scambiò uno sguardo con Daniel. «Avevo dell’ambrosia nel mio zaino, ma non so dove…»

«Tranquilla, ho lasciato tutto in un posto sicuro.» Daniel fece un cenno a Penelope. «Penelope, va' a prendere le nostre borse, presto.»

La centaura non se lo fece ripetere e partì al trotto verso il punto dove avevano lasciato i bagagli, poco prima di raggiungere la prigione. Quando tornò, Camille afferrò il suo zainetto ed estrasse subito quello che stava cercando.

«Ah… grazie» mugugnò Kiana, mentre le porgeva un pacchetto di ambrosia. Anche la figlia di Trivia ne mordicchiò un pezzetto, mentre Daniel attendeva che entrambe si rimettessero in sesto.

«Comunque…» riprese a dire Kiana. «… forse dovremmo ripartire, prima che vi spieghi tutto. Ho… scoperto parecchie cose e non c’è altro tempo da perdere. Cam, tu sai ancora dove dobbiamo andare, giusto?»

Camille divenne più pallida di un cencio. «E-Ehm…»

Quell’esitazione non piacque per niente a Kiana. E Daniel per una volta si ritrovò a concordare con lei. «Cam… lo sai, vero?» riprovò Kiana, con voce più incerta.

La loro compagna di viaggio abbassò la testa e lasciò cadere le braccia a peso morto lungo i fianchi. «Mi… mi dispiace, ragazzi» bisbigliò. «Io… io… non lo so…»

Kiana trasalì. «Che cosa?»

Daniel si coprì il volto con una mano e sospirò profondamente. «Magnifico. Davvero magnifico.»

«Mi dispiace ragazzi…» Camille si abbracciò lo stomaco. All’improvviso sembrava di nuovo appena uscita da quel cratere. «Mi dispiace…»

«Scusate» si intromise ancora una volta Penelope. «Andare dove? Forse posso aiutarvi. Conosco bene queste zone.»

«È questo il punto. Non lo sappiamo dove.» Daniel incrociò le braccia e scosse la testa. E meno male che Camille aveva un legame con Ecate. «A questo punto, Ecate potrebbe essere ovunque.»

Se prima Camille era parsa una tazzina di porcellana pronta a spaccarsi, ora sembrava un set da tavola intero. Da come aveva reagito, era chiaro che si stesse tenendo dentro quel segreto dalla partenza e che l’avesse logorata dall’interno peggio di una lama di rasoio. «Mi dispiace» ripeté, con voce rotta.

«Cam…» Kiana assottigliò le labbra. «Perché non ce l’hai detto subito?»

«Io… io speravo che… che muovendoci avrei avvertito il legame e che… che…» La ragazza si mise le mani tra i capelli. «Sono un’idiota… sono un’idiota! Ci ho solo fatto sprecare tempo!»

«Su, dai.» Kiana le avvolse un braccio attorno alle spalle. Non sembrava arrabbiata, anzi, le rivolse un sorriso. «Benvenuta nel club, suppongo.»

«Non c’è niente da scherzare, Kiana» sbottò Daniel. «Come diamine facciamo adesso?»

Kiana lo folgorò con un’altra occhiataccia, questa volta molto più dura, mentre Camille piegava la testa e singhiozzava più rumorosamente. Daniel non si lasciò impietosire. Se avesse commesso lui un errore simile Kiana lo avrebbe mangiato vivo.

“Camille però mi avrebbe perdonato.”

A quel pensiero sussultò.

«Se non hai niente di gentile da dire, allora taci» sibilò Kiana, mentre stringeva Cam con più forza.

Il ragazzo distolse lo sguardo da loro con una smorfia infastidita. Ecco, ora sì che erano tornati proprio ai bei vecchi tempi in cui lui era l’estraneo, il terzo incomodo, l’intruso che nemmeno voleva essere lì e che sbatteva la fronte contro quella di Kiana per colpa di quella piccoletta albina che piagnucolava di continuo. Per un momento nessuno disse nulla e gli unici rumori furono quelli di Jack mentre rovistava tra i detriti della prigione e abbaiava soddisfatto ogni volta che trovava qualcosa di interessante, quindi quasi tutto.

«Ehm… scusate.» Penelope ci riprovò ancora una volta, incerta. «Io… non credo di aver ancora capito qual è il problema. State… cercando qualcuno?»

Daniel sospirò e le raccontò tutto quanto. «E quindi se non troviamo Ecate moriremo tutti» concluse frettoloso e con voce molto più dura di quanto avrebbe voluto.

Penelope però non sembrò infastidita dalla cosa, perché si prese il mento. «Capisco. Io… io non so dove si trovi Ecate, però… però qualche giorno fa ho visto un altro di quei giganti. Non era da solo, c’era anche una donna con lui. Ma non era una mortale, emanava tantissimo potere. Forse era Ecate.»

Camille drizzò la testa, gli occhi arrossati ma l’espressione stupefatta. «O forse… la donna col tatuaggio!»

«No, un momento, che significa “un altro” di quei giganti? Ne avete visto uno anche voi?!» domandò Kiana.

«Che significa “anche” noi?» ribatté Daniel.

I tre si guardarono tra loro un paio di volte, prima che Kiana schiudesse le labbra. «Oh… mer… coledì.»

«Dov’è questo posto?» Camille balzò in piedi, animata da un’energia del tutto nuova.

Penelope indicò un punto imprecisato oltre le colline aride che circondavano il penitenziario. «A sud. Non conosco il nome, ma ricordo benissimo dov’è. Posso portarvici tutti in groppa. Dovremmo arrivare entro questa sera.»

Kiana seguì con lo sguardo il punto indicato da Penelope. «Che cavolo c’è laggiù?»

Daniel fece una smorfia. «Altro deserto. Come in tutto il resto del maledetto Nevada.»

«Va bene, andiamo» stabilì Camille, un attimo prima di incrociare lo sguardo di Daniel. Tutto a un tratto, il suo rinnovato vigore sembrò svanire nel nulla. Daniel rimase a fissarla in silenzio, finché lei non abbassò di nuovo la testa. «Mi dispiace… di avervi mentito…»

Daniel serrò le labbra e annuì. Avrebbe potuto dire qualcosa anche lui, ma non gli uscì nemmeno un suono. Distolse lo sguardo senza dire altro, ignorando il sospiro abbattuto della sua compagna di viaggio.

«Va bene…» Kiana si alzò in piedi con un grugnito di dolore, la mano premuta sul fianco. «… andiamo a fare una scampagnata nel deserto.»

Qualche minuto dopo, i tre ragazzi si ritrovarono tutti assieme in groppa a Penelope, al galoppo verso sud e inseguiti dal tornado di sabbia e polvere dovuto alla strabiliante velocità della centaura. Daniel temette che potesse fare fatica a reggerli, invece non batté ciglio, nemmeno con i bagagli.

Camille era davanti, Kiana in mezzo e Daniel chiudeva la fila. Jack invece li rincorreva felice e beato, ansioso di partecipare alla prossima mirabolante avventura. Di tanto in tanto Daniel si voltava per vedere come se la passasse; a volte si allontanava perché attratto da qualcosa, ma presto o tardi riappariva sempre alle loro calcagna, con le fauci scoperte e la lingua a penzoloni. In qualsiasi altra circostanza, sarebbe parso che loro stessero scappando da una creatura famelica e pericolosa.

Durante il tragitto Kiana raccontò tutto quello che le era successo e che aveva scoperto. Non furono informazioni semplici da digerire, soprattutto se ricevute tutte in una volta sola.

Daniel non seppe dirsi quale fosse la cosa più sconvolgente: Kiana che abbatteva trenta mostri e una gigantessa da sola, i mortali che collaboravano con i loro nemici, i mostri che attaccavano le città oppure Ashley che ubriaca della sua stessa arroganza pestava Dante e Marianne alla ricerca di informazioni. E la cosa peggiore era che il campo sembrava dalla sua parte. Quasi tutto, almeno, con l’eccezione della Quinta Coorte, ma viste le premesse, quella dei loro compagni pareva una battaglia a vuoto.  

Lei era l’eroina, come sempre. Loro tre, tutta la Quinta Coorte, Marianne inclusa, erano nemici e traditori.

Quella stronza” pensò Daniel con rabbia.

«Non riesco a crederci» bisbigliò Camille a racconto concluso. «Come può Ashley aver fatto tutto questo?! Dovrebbe essere dalla nostra parte!»

«Non lo so» rispose Kiana, con alcune vene di tensione nella voce. «So solo che se non troviamo Ecate in fretta, tutto il paese, forse il mondo intero, vedrà i mostri per come sono davvero. E a quel punto non ho idea di che cosa accadrà. Perciò Penelope, spero davvero che tu sappia dove ci stai portando.»

«Sì… ho capito… certo che lo so!» ansimò la centaura.

Daniel corrugò la fronte. «Stai bene Penelope?»

«A-Ah-ah! Mai… stata meglio!»

Quella risposta non lo convinse per niente.

«Sei stata grande, Kiana» disse a quel punto Camille. «Hai affrontato tutti quei mostri… e ci hai portato tutte queste informazioni! È incredibile!»

«O-Oh… b-beh, non ho…» Kiana sembrò genuinamente imbarazzata. «Non ho fatto niente di che…»

«“Niente di che”?? Chi sei tu, che ne hai fatto della vera Kiana?»

La figlia di Venere non disse nulla. Da dietro di lei, Daniel si accorse di come abbassò la testa e ancora una volta intuì che c’era qualcosa che non andava in lei. Forse Cam aveva solo fatto una battuta, ma aveva ragione, Kiana aveva qualcosa che non quadrava. Sembrava… scossa. Spaventata, perfino.

L’aria che ruggiva fu l’unico rumore che per diverso tempo coprì il silenzio tra i tre ragazzi. Quello, e i gemiti di Penelope che stavano diventando sempre più forti ed evidenti.

«Voi invece?» chiese infine Kiana.

«Che cosa?»

«Cos’è successo mentre io non c’ero?»

«Beh…»

Daniel si intromise prima che Cam parlasse: «Fermiamoci.»

«Come?»

«Penelope non ce la fa più. Fermiamoci.»

Kiana arrischiò un’occhiatina incuriosita verso di lui, mentre arrivava la risposta di Penelope: «T-Tranquillo, ce la facc…»

«No invece» sbottò Daniel, irritato. «Non ho nessuna intenzione di schiantarmi a terra solo perché tu sei un’incosciente. Fermati subito.»

La centaura sembrò voler ribattere, ma anche dal proprio posto Daniel la vide mentre rilassava le spalle. Cominciò a rallentare gradualmente finché non si fermò del tutto.

«Tutti giù.» Daniel smontò per primo, faticando a mantenere l’equilibrio a causa delle gambe intorpidite dalla cavalcata e dalle vibrazioni continue. Controllò poi il fianco di Penelope e sbuffò irritato alla vista della ferita dovuta a quella freccia che si stava riaprendo. «Come pensavo. Non sei ancora guarita del tutto.»

«Zombie? Di che parl…»

«Cosa ti è saltato in testa?» sbottò Daniel, zittendo Kiana e facendo sussultare Penelope. Camminò fino a mettersi di fronte alla centaura, ignorando completamente le sue compagne appena scese. «Mi hai portato fino alla prigione e poi ti sei caricata tutti noi sulla groppa anche se eri ancora ferita. Mi dici cosa speravi di ottenere?»

Il viso di Penelope si tramutò in una maschera di imbarazzo. «I-Io… io volevo aiutarvi…»

«E in che modo ci saresti d’aiuto se stramazzi per la fatica, o se ti azzoppassi? Poi che ti aspetti, che ti portiamo sulle spalle? Diventeresti solo un peso.»

«Ehi, zombie! Dacci un taglio per una buona volta!» Kiana lo raggiunse e indicò Penelope con un braccio. «Voleva solo aiutarci, perché devi sempre avere il tatto di un elefante?»

Prima Daniel potesse risponderle per le rime, stanco del suo solito impicciarsi, Penelope si sdraiò a terra con uno sbuffo esausto e abbassò la testa in modo che i capelli le ricadessero di fronte al volto. «No, ha ragione lui» mormorò. «Se avessi continuato a correre avrei fatto solo del male a voi e a me stessa. Sono stata un’incosciente. Fa bene ad essere arrabbiato. E poi…» La centaura si raddrizzò e rivolse un ampio sorriso a Daniel. «… sono felice se si arrabbia. Significa che si preoccupa.»

Di fronte a quel sorriso gentile, Daniel sussultò. E la sua reazione non passò affatto inosservata di fronte all’occhio impiccione di Kiana, che assottigliò le palpebre.

«Aspetta un attimo…» cominciò a dire, prima di sorridere spocchiosa. «Ma sì, ora ho capito! Il nostro zombie ha una cotta!»

«E-EH?!»

Kiana lo stritolò attorno alle spalle. «Sono state le mongolfiere a conquistarti, vero?»

«M-Ma che stai dicendo?! Non ho nessuna cotta!»

«Ah capisco, sei uno zombie gentiluomo, tu. Il sorriso, allora. Penelope ha un gran bel sorriso, vero?»

«Perché devi sempre dire scemenze?! E lasciami andare!»

«Ehi, Cam! Hai capito lo zombie? Cam? Cam!»

I due ragazzi smisero di bisticciare e si accorsero della loro amica in piedi poco distante, in cima ad una piccola duna e girata di spalle.

«Uhm… Cam?»

Kiana e Daniel si scambiarono uno sguardo perplesso. Lei lo lasciò andare e insieme si avvicinarono alla ragazza. Non appena la affiancarono videro la sua espressione sconvolta, le labbra schiuse e lo sguardo smarrito nel nulla del deserto del Nevada. Al fondo della collina una strada asfaltata si smarriva tra le dune aride. A quanto pareva erano tornati nei pressi della civiltà, anche se a vedere così non sembrava proprio, perché non si vedeva anima viva in giro.

La figlia di Venere sfiorò il braccio di Camille. «Va… va tutto bene?»

«Lo sento» sussurrò Cam come in trance, senza nemmeno voltarsi. Cominciò a scendere la collina all’improvviso, cogliendoli entrambi alla sprovvista.

«Cam! Aspetta, Cam!» le gridò Kiana, mettendosi all’inseguimento. Daniel rimase immobile, sorpreso dal comportamento di Camille e, soprattutto, dal fatto che stesse dando filo da torcere a Kiana nella corsa. Le vide attraversare la strada e raggiungere l’altro lato.

«Bau!» Anche Jack cominciò a correre, passandogli accanto con la sua delicata andatura da treno merci.

Daniel si accertò che Penelope riuscisse ancora a muoversi e poi anche loro arrivarono dall’altra parte della strada, trovando Camille, Kiana e pure Jack fermi di fronte a un cartellone con una cornice di legno, eretto sopra un muretto di pietre.

«È qui» stava dicendo Camille. «Lo sento.»

«Non promette molto bene» mugugnò Kiana, le mani sui fianchi e il tono smorto.

Daniel diede un’occhiata al cartellone, dove una grossa scritta sorgeva sopra le immagini stilizzate di alcune dune desertiche:

 


Death Valley

National Park

 


«La… Valle della Morte?» domandò. «Non è un nome rassicurante.»

«No, affatto» convenne Kiana.

«È solo un parco naturale» spiegò Camille. «Si chiama “della morte” perché qui piante e animali fanno fatica a vivere, ma non è mortale per le persone.»

Kiana non sembrò colpita dalla cultura di Cam. «E per i semidei, invece?»

Camille si strinse nelle spalle. «Il legame viene da questa parte. Dobbiamo proseguire di qui.»

«Il legame?» Daniel schiuse le labbra. «Quello con Ecate? Riesci a sentirlo?»

«Sì. È debole, ma lo sento. Questa è la direzione giusta. Forse prima ero troppo lontana per avvertirlo, ma ora che siamo più vicini non è più un problema.» Camille sorrise verso Penelope. «È tutto merito tuo, Penelope!»

Nonostante l’espressione esausta, la centaura ricambiò il sorriso. «Sono… felice di esservi stata utile!»

La figlia di Trivia corse ad abbracciarla. O almeno, a tentare di abbracciarla visto che le arrivava appena alla vita. «Grazie Penny, grazie!»

«Penny?» domandò Penelope.

«È un soprannome. Non ti piace?»

La centaura sorrise di nuovo e si accovacciò di fronte a Cam per ricambiare meglio l’abbraccio. «Lo adoro!»

Daniel guardò quelle due e ancora una volta gli venne da alzare gli occhi al cielo. Diede loro le spalle e si accorse di Kiana, rimasta in disparte. «Di questo passo Cam si troverà una nuova migliore amica» la provocò.

Si aspettò una risposta a tono, invece lo sguardo della figlia di Venere si fece mesto. «Farebbe solo bene…»

Quella risposta sorprese Daniel, e non poco. Kiana non disse altro e si allontanò da lui, seguita dal suo sguardo confuso. Sì, le era decisamente successo qualcosa mentre era sola. Qualcosa di brutto. Fece per controllare di nuovo il cartello, e invece si ritrovò viso a muso con Jack.

«Bau!»

«WOAH!» Daniel saltò all’indietro per la sorpresa, esattamente un secondo prima di essere leccato per bene da cima a fondo.

«Bau!» E dopo quell’attacco Jack si dileguò.

Il ragazzo accasciò le braccia lungo i fianchi, il viso intriso di bava maleodorante, e sospirò ancora una volta. «Grazie mille Jack. Mi stavo giusto chiedendo quando l’avresti fatto di nuovo.»

 

 

 

 

 

 

Salve gente. Questo capitolo è di una bruttezza immane, ma ora che è finalmente finito non dovremo più preoccuparcene. Purtroppo far riunire i nostri eroi è stata una cosa molto più difficile di quanto vorrei ammettere, e anche far riprendere il viaggio non è stato così semplice. Ma finalmente ci siamo tolti la parte ostica, ora l’impresa può proseguire. Piccola nota personale: niente più rapimenti per… almeno un po’, ecco. Ora parte il countdown per il giorno in cui ritornerò sui miei passi, e so che succederà, perché ho già delle idee in merito. Sono un masochista. 

Spero che comunque il capitolo vi sia piaciuto, ovviamente ci saranno altre spiegazioni nel prossimo, perciò non mancate! Riguardo Camille e il suo legame, ecco, alla fine ho deciso di renderla una cosa influenzata dalla distanza e di non complicare troppo tutto quanto, anche perché comunque la storia viste le premesse si preannuncia molto più lunga di quanto vorrei e non voglio inserire troppe cose superflue e/o evitabili. 

Grazie per aver letto e alla prossima! 

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Capitolo 17
*** Death Valley ***



XVII

Death Valley


 

Si fermarono poco più avanti, tra alcune dune, per permettere a Penelope di riposare. La centaura crollò a terra e si addormentò quasi subito. Aveva un modo buffo di dormire, con la testa a ciondoloni e le zampe piegate di lato. Faceva anche degli strani versi, una sorta di nitrito con tanto di accento californiano.

Nel frattempo i ragazzi montarono la tenda. Uno per volta, Kiana per prima e Daniel per ultimo, la usarono per cambiarsi i vestiti e darsi una ripulita.

Mentre tutti e tre mettevano qualcosa sotto i denti, Daniel e Cam raccontarono a Kiana la loro parte della storia. Daniel cominciò per primo e raccontò di come il gruppo si fosse allargato, ma proprio come con Camille non parlò della donna di oscurità e della sua piccola esperienza vicina alla morte. Non seppe perché, ma qualcosa gli diceva che avrebbe fatto meglio a tenere quell’informazione per sé. E con Penelope addormentata, non dovette preoccuparsi della sua bocca larga.

«Quindi… adesso hai dei poteri anche tu, zombie?»

Daniel rimase con i denti incastrati nel panino, con gli occhi cangianti di Kiana puntati su di lui. Si scostò dallo spuntino e annuì dopo un attimo di esitazione.

«E… ti sono usciti così? Dal nulla?»

«Ehm… beh… è un po’… complicato…» Daniel si rese conto che anche Camille lo stava guardando. Non gli disse nulla, ma era chiaro che anche lei fosse curiosa di sapere nel dettaglio come avesse scoperto i suoi poteri.

«Sono… usciti fuori quando Elias mi ha scagliato contro gli scheletri. Non so come ci sia riuscito, ho soltanto… pensato che volevo distruggerli e…» Mostrò a Kiana il proprio palmo mentre si ricopriva di oscurità.

La figlia di Venere rimase a bocca aperta per la sorpresa. «Wow.»

Daniel abbassò la mano e si strinse nelle spalle. «E poi è arrivato Jack a tirarci tutti fuori di lì con un salto nell’ombra.»

«Non riesco a credere che quel segugio sia nostro… “amico”» borbottò Kiana.

Malgrado tutto, a Daniel venne da abbozzare un sorriso. «Già… nemmeno io» convenne, mentre guardava Jack intento a innaffiare alcuni cespugli spogli e arbusti che parevano fatti di grissini, anche se probabilmente non lo stava facendo perché aveva a cuore la vita delle piante.

Alla sua storia si accodò quella di Cam, che in effetti Daniel ancora non aveva sentito. La figlia di Trivia parlò del suo incontro con Ruby e un’altra empusa e sorella, Sapphire, che doveva essere la psicopatica coi capelli rosa che aveva proposto a Daniel di diventare il suo spuntino.

Mentre Camille parlava di come si fosse liberata grazie alla magia, spalancò gli occhi.

«Shinji!» gridò, prima di mettersi le mani nei capelli. «Oh miei dei! Mi sono totalmente dimenticata di lui!»

Daniel corrugò la fronte. «Shinji? Vuoi dire quell’uomo giapponese?»

Camille era così devastata che sembrava avesse appena finito di comunicare loro la più terribile delle notizie. «Si chiamava Shinjiro. Mi ha salvata da Lamia e per ripagarlo mi sono dimenticata di lui! Ahhhh sono una persona orribile!»

«Giapponese hai detto?» si intromise Kiana, rivolta a Daniel. «Come… come le creature che hanno affrontato David e Travis?»

«Così parrebbe.»

La figlia di Trivia cominciò a sgranocchiarsi le unghie al posto del panino. «Starà… starà bene?»

Daniel sollevò le spalle. «Beh, se Encelado avesse voluto avrebbe potuto ucciderlo subito, no? Probabilmente l’ha portato in qualche altra prigione.»

«Dobbiamo liberare mia madre. Così anche lui riavrà i suoi poteri e potrà scappare!»

Come al solito, Camille pensava a come salvare la pelle di tutti, mostri inclusi. Daniel scosse appena la testa, ma non disse niente in merito.

«Quindi voi avete rivisto Encelado» commentò Kiana. «Ma che è successo alla prigione? Era già distrutta in quel modo?»

Camille trasalì molto più forte di quanto probabilmente avrebbe voluto.

«Cam? Va tutto bene?»

Dal suo sguardo sembrava proprio che la figlia di Trivia stesse tutto meno che bene: pareva sul punto di vomitare. Tuttavia tenne i nervi saldi e annuì a fatica. Daniel ripensò a come quella piccoletta avesse reagito quando si era resa conto di quello che aveva fatto e immaginò che non volesse più parlarne. Tuttavia, Camille si strinse nelle spalle e tirò un profondo sospiro. «Sono… sono stata io» sussurrò, abbassando la testa. «L’ho… l’ho distrutta io…»

Kiana ridacchiò. «Sì, ok. Dai, seriamente ragazzi, che cavolo è success…»

«Non sto scherzando, Kiana.» Camille si raddrizzò: il suo sguardo era severo come mai l’avevano vista prima. «Sono… sono davvero stata io.»

Aprì i palmi di fronte a loro. Chiuse gli occhi e inspirò: in una mano si accese un fuocherello, l’altra invece si ricoprì di brina sotto gli occhi basiti di Kiana e anche quelli colti alla sprovvista di Daniel.

«Posso… posso farlo da quando sono bambina» spiegò Camille, facendo fatica a tirare fuori le parole. «La magia… è sempre stata dentro di me. Però… ecco…» Abbassò le mani, facendole tornare entrambe normali, e scosse la testa con espressione mesta. «… non sono mai stata brava a controllarla. Posso fare cose semplici, come accendere un fuoco, o creare una lastra di ghiaccio, o anche…»

Puntò il dito contro il panino di Daniel e quello scivolò via dalle sue mani per mettersi a levitare di fronte a tutti loro. Camille lo pilotò per qualche istante, mentre gli altri due ragazzi rimanevano ad osservare esterrefatti. Per un istante Cam sembrò ritrovare il buonumore, forse per via delle loro reazioni meravigliate, ma non passò molto prima che si rannuvolasse di nuovo.

Fece tornare il panino tra le mani di Daniel e sembrò che la brina nelle sue mani le avesse ricoperto il corpo intero, perché rabbrividì. «Ho sempre cercato di usare i miei poteri il meno possibile per… per paura di perdere il controllo. Non… non è semplice, specialmente quando sono… sotto pressione.» Diede un’occhiata a Daniel e avvampò quando vide che lui la stava guardando.

«Potrebbero… sembrare “forti” se visti dall’esterno ma… credetemi, non è una cosa che vorreste davvero. Quando sei consapevole che con le tue sole mani potresti… distruggere una prigione intera o…» esitò di nuovo. «… insomma, fare chissà che altro… diventa davvero difficile convivere con il proprio potere. Hai sempre paura di rischiare di fare del male a qualche innocente. Ti sembra di essere una bomba ad orologeria pronta a esplodere in qualsiasi momento. Sei… sei un pericolo.» La sua voce si incrinò. «Un pericolo per tutte le persone a cui vuoi bene.»

«Cam…» mormorò Kiana, quando si rese conto che non avrebbe aggiunto più nulla. «Perché non ce l’hai mai detto?»

Camille si abbracciò le gambe, appoggiando il mento sulle ginocchia. «Non volevo spaventarvi.»

Kiana si avvicinò a lei e le avvolse un braccio attorno alle spalle. «Scherzi? Spaventarci, uno scricciolo come te?»

Nonostante la tristezza evidente, Cam riuscì comunque a sorridere. Appoggiò la testa sulla spalla di Kiana e chiuse gli occhi. «Se… se vi facessi del male non potrei mai perdonarmelo.»

«Non succederà, Cam. Hai perso il controllo, ma sono certa che non accadrà di nuovo. Io mi fido di te.»

Camille si irrigidì. Annuì con un po’ di incertezza, mentre alcune lacrime le scivolavano lungo le guance. Gemette e si voltò, affondando il viso sulla spalla di Kiana. Si lasciò andare in un pianto sofferto, mentre Kiana la stringeva con più forza e le mormorava parole di incoraggiamento. Per tutto il tempo che Daniel passò a guardarle, non riuscì a fare altro che pensare a quello che invece Camille aveva detto dopo aver distrutto la prigione: era successo di nuovo.

Aveva già perso il controllo in passato, invece. Quella non era stata la prima volta. Cam lo sapeva. E anche Daniel, adesso, lo sapeva.

Quella piccoletta stretta tra le braccia ben più grosse di Kiana cominciò ad assumere tutto un altro aspetto agli occhi di Daniel. Anche lei era pericolosa. Molto, molto più pericolosa di quanto avrebbe mai potuto pensare. Forse tanto quanto Ashley ed Elias.

“Potrebbe essere un problema.”

Daniel serrò le palpebre, avvertendo un lieve dolore alla tempia.

“Un… problema? E perché? Anzi… per chi?”

«Quindi… è per questo che non hai voluto usare la magia, nelle stalle?» domandò Kiana.

Camille annuì senza staccarsi da lei. Un sospiro scappò anche dalle labbra della figlia di Venere. «Ti chiedo scusa, Cam. Io… non immaginavo che la cosa ti spaventasse così tanto. Mi dispiace di averti chiesto di usarla.»

«Non preoccuparti.» Camille si separò da lei e si asciugò le lacrime con il dorso della mano. «Non… non potevi saperlo. Non hai fatto nulla di male.»

Kiana assottigliò le labbra e annuì, ma non disse altro. Tutt’un tratto pareva diventata una competizione tra loro due per chi fosse più triste.

«C’è dell’altro. Ho… fatto un sogno, prima di svegliarmi nella prigione.»

Camille raccontò che aveva visto Ecate, che le aveva detto che avevano solo tre giorni di tempo per salvarla, cosa che corrispondeva anche con quello che Alexandre aveva detto a Kiana. Ma la parte più sorprendente per Daniel fu quando Cam menzionò la donna fatta di oscurità. Non appena sentì parlare di occhi di diamanti brillanti e sorriso bianco come perle, gli sembrò che l’aria gli fosse stata risucchiata dal corpo.

Però… da come la descrisse, non sembrava la stessa donna che aveva visto lui. Parlò di un’aura malvagia, di potere immenso, di una voce fredda e tagliente. E soprattutto parlò di un vestito lungo, con le spalle scoperte e ricoperto di stelle. Non era lo stesso che aveva visto Daniel: la donna nel suo sogno non aveva alcun abito elegante ma un mantello coperto di piume e cappuccio. E soprattutto era stata gentile con lui.

«Mia madre… ha anche detto un’altra cosa. Ha parlato di… di qualcosa che si sta aprendo. Ma… non so a cosa si riferisse» proseguì Camille.

«Periboia ha detto qualcosa di simile» rifletté Kiana. «Ha parlato della “terra che si apre per rigettare fuori il male”.»

Un brivido percorse il corpo di Daniel. Non seppe perché, ma sentì che avrebbe dovuto sapere che cosa significasse tutto quello, la donna di oscurità, la terra che si squarciava, perfino la Notte Eterna. Gli sembrava che la risposta alle sue domande fosse lì, a portata di dita, ma era come se ogni volta che lui provava ad avvicinarvisi quella sgusciava di qualche centimetro più in là, rimanendo sempre fuori dalla sua portata.

«Tu non hai sentito nulla?»

Daniel trasalì, rendendosi conto che Camille lo stava guardando. «Quel dio… non ti ha detto nulla, Daniel?»

«Chi, Fatum? No.» Daniel fece una smorfia. «Solo dove vi avrei trovate… e qualche frase criptica sul fatto che mi aspetta un destino peggiore della morte. Nient’altro.»

«Quel tizio farà un figurone alle feste…» borbottò Kiana.

Camille ormai aveva mangiato più unghie che panino. «Non… non può trattarsi di Ga… della “Madre Terra”, giusto? Non può essere lei la padrona, è stata sconfitta pochissimo tempo fa!»

«Vent’anni» mugugnò Daniel.

«È comunque troppo poco per una dea come lei. Ha dormito millenni! Ed è scoppiata in mille pezzi, non può essersi già riformata!»

«Nessuno vuole convincerti del contrario, Cam» chiarì il ragazzo. «Ma direi che a questo punto nessuna ipotesi può essere esclusa.»

Kiana si stritolò le tempie tra le mani. «Mi sta scoppiando il cervello…»

«A chi lo dici…» Camille chiuse la discussione con un lunghissimo sospiro. «È… è anche per questo che dobbiamo trovare mia madre. Mi servono… ci servono risposte. Dobbiamo capire chi sta tramando alle nostre spalle e io devo capire perché lei mi abbia dato un potere così grande solo per lasciarmi da sola al Campo Giove, senza nessun fratello che potesse insegnarmi a controllarlo. Ho bisogno di sapere… che cosa devo fare, come controllare i miei poteri per fare del bene e non del male.»

«La troveremo, Cam» affermò Kiana con decisione. «Troppe persone dipendono da quest’impresa. Non possiamo deluderle. Mary…» Sussultò. «C-Cioè, v-voglio dire… cioè…»

Un sorrisetto nacque sul volto di Daniel. E ovviamente lei se ne accorse subito. «C-Che hai da sorridere tu?!»

«Non posso sorridere adesso?»

«Non sorridi mai! Perché devi farlo proprio ora?!»

«Kiana, calma!» Ora fu Camille a posarle una mano sulla spalla, anche lei faticando a trattenere un sorriso. «Non preoccuparti, aiuteremo anche Mary. È una promessa.»

«O-Okay…» mormorò Kiana, angosciata. «È solo che… lei si è messa nei guai per noi… non… non riesco ad accettare il modo in cui l’hanno trattata. Come se lei fosse un mostro, o peggio. Non è giusto…»

«Ashley la pagherà» sibilò Daniel. «Questa è una promessa che ti faccio io.»

Questa volta Kiana incrociò il suo sguardo e annuì, anche se sembrava incerta. Nello stesso momento, Camille abbassò la testa con espressione buia. «Anche Dante è finito nei guai per colpa nostra…»

«Ragazze.» Entrambe sussultarono. Daniel si sporse verso di loro, stanco di sentirle parlare in quel modo. «Sia Marianne che Dante conoscevano i rischi che correvano e sono comunque andati fino in fondo. Adesso noi dovremo fare lo stesso. Tutto chiaro?»

«Sì, hai ragione» annuì Camille, riscuotendosi.

«Veloce e dritto al punto» commentò anche Kiana, prima di abbozzare un altro sorriso. «Così mi piaci, zombie.»

Daniel fece una smorfia. Diede l’ultimo morso al panino, poi si ripulì dalle briciole. Penelope stava ancora sonnecchiando e non sembrava vicina a svegliarsi. Un silenzio tombale scese nel loro piccolo accampamento, consumato solo dal respiro buffo di Penelope e dal rumore di Jack che saltellava tra le dune, felice come una contadinella alla ricerca di nespole.

Il ragazzo chiuse gli occhi. Senza nient’altro che potesse distrarlo, finì con il ripensare a tutti i suoi problemi, cosa in cui in fin dei conti era diventato piuttosto bravo. Ciò che continuava a tormentarlo maggiormente era quel maledetto nome con cui l’avevano chiamato.

Vacuo. Perché proprio quel nome? Che cosa significava?

Pensò a come si fosse sempre comportato con le altre persone. Gli sembrava di non sentire mai… nulla. E anche la sua vita prima del campo era una gigantesca immagine sbiadita. Che i nemici si riferissero a quello, quando lo chiamavano “vacuo”? Ma come facevano loro a sapere del suo passato?

Chi diavolo era la padrona e perché Sapphire aveva detto che avrebbe dovuto conoscerla?

E Fatum… perché l’aveva cercato? Il dio del destino avverso… perché era andato proprio da lui?

Sollevò una mano di fronte a sé e fece apparire di nuovo l’oscurità dal suo palmo. Stando a Fatum, sarebbe stata proprio quell’oscurità la causa di tutto il dolore e la sofferenza di cui gli aveva parlato. Ripensò al suo scontro con Lamia. L’aveva annientata in pochissimo tempo, proprio con quell’oscurità, senza nemmeno sapere che cosa avesse fatto di preciso. Aveva soltanto agito seguendo l’istinto e i suoi poteri avevano fatto tutto il resto. Era a quello che Fatum si era riferito?

Gli venne da pensare agli incubi che faceva, alle voci che sentiva e che gli ordinavano di distruggere il Campo Giove. Si era sempre chiesto come diamine avrebbe potuto fare una cosa del genere, anche se l’avesse voluto. Beh, ora che aveva scoperto i suoi poteri quell’idea non sembrava più così irrealizzabile.

Sentì l’oscurità smuoversi dentro di lui non appena ebbe quel pensiero e rabbrividì. Il Campo Giove… quel luogo non gli era mai sembrato una “casa” vera e propria. E Ashley… l’aveva sempre visto come un problema, come spazzatura da buttare via. Per non parlare di Elias o…

Daniel scrollò la testa. Ma che diamine stava pensando? Lui non avrebbe distrutto proprio un bel niente. La donna di oscurità aveva parlato chiaro: se voleva ottenere risposte sul suo passato, avrebbe dovuto salvare Ecate e di conseguenza il campo.

“Salvare… Ecate?”

Una sensazione di vertigini assalì Daniel all’improvviso.

“No… io devo… devo…”

Si premette una mano sulla tempia e mugugnò molto più rumorosamente di quanto avrebbe dovuto.

«Daniel? Va tutto bene?»

Daniel drizzò la testa e si accorse degli sguardi perplessi di Camille e Kiana.

«S-Sì, sì…» mugugnò lui, per poi dare loro le spalle. «Mi faccio anch’io una dormita. Svegliatemi quando dobbiamo ripartire.»

Si sdraiò sul sacco a pelo senza aspettare una risposta. Nonostante fossero nel deserto, un brivido gelato gli attraversò la spina dorsale.

 

***

 

La luce delle torce mandava un bagliore fioco su quell’immenso salone scuro, dalle piastrelle di marmo nero lucido. Le pareti erano ammassi di ombre che si plasmavano e continuavano a cambiare forma, come se fossero creature viventi pronte a trascinare nell’oscurità chiunque fosse stato abbastanza stupido da avvicinarsi. 

L’odore di incenso era così forte da essere nauseante, l’aria era rarefatta, rendendo quasi impossibile respirare. 

Una voce profonda provenne dal fondo del salone: «Daniel.»

Il ragazzo sentì la propria pelle accapponarsi. Conosceva quella voce: era quella che continuava a ripetergli di uccidere i suoi compagni.

Un nugolo di oscurità si mosse dal punto in cui era provenuta la voce. In mezzo alle ombre, Daniel intravide un trono di ossidiana vuoto. O almeno, pensò che fosse vuoto. Poi si rese conto che invece era proprio l’oscurità ad esserci seduta sopra. Ed era proprio l’oscurità a parlare: «Che cosa stai aspettando, Daniel? Perché non hai ancora svolto il tuo lavoro?»

Daniel sentì la bocca piena di sabbia. La paura gli stritolò il cuore, impedendogli di parlare. Non si era mai sentito così smarrito, fragile, insignificante. Era certo che, qualunque cosa ci fosse di fronte a lui, avrebbe potuto disintegrarlo con il pensiero. 

Alcune risate si levarono nel salone, provenienti dai punti più disparati. Dalle ombre iniziarono ad apparire alcune figure che si avvicinarono a lui. Ne contò quattro.

«Vacuo, da che parte stai?» disse una di loro. Aveva una voce maschile graffiante e divertita. «Sei con i vincenti, o con i perdenti?»

«Non hai più molto tempo» mormorò la seconda, che invece sembrava una ragazza, con tono flebile, quasi triste.

«Secondo me l’hanno già traviato» si intromise la terza ombra, con voce molto più roca e anche ovattata, come se a parlare fosse un vecchietto con qualcosa di premuto sopra la bocca. «Percepisco una certa riottosità in lui. Sarebbe stato più opportuno lasciare che…»

La voce al fondo del salone si sollevò così forte da far sfarfallare le luci delle torce: «Metti forse in dubbio il mio controllo su di lui?» 

L’ombra misteriosa emise un sussulto. «N-No, certo che no, madre. Ma Moros, lui…»

«Di lui me ne sono occupata personalmente. Non ci intralcerà più. Quanto al Vacuo…» Due luci si accesero in mezzo alle tenebre sul trono. «… lui obbedisce soltanto a me. Vero, Daniel?»

Daniel rimase immobile, a osservare quelle luci, quei due diamanti brillanti che lo scrutavano con insistenza, leggendogli nell’anima. «S-Sì» bisbigliò contro il proprio volere. 

«Allora fa come ti ho detto, Daniel. Devi…»

«Daniel! Daniel!»

«Ehi, zombie! Sveglia!»

La stanza cominciò a tremare. Le ombre si dissolsero, anche le luci sul trono scomparvero, mentre le voci di Kiana e Camille lo chiamavano con sempre più insistenza.

 

***

 

«Accidenti, zombie. Sei l’unica persona che conosco che più dorme e più sembra stanco» fu il commento molto gentile di Kiana non appena riaprì gli occhi. 

«Va tutto bene, Daniel?» domandò Camille, più apprensiva. 

Daniel non aveva idea di che aspetto avesse, ma a giudicare dalle reazioni delle sue compagne non doveva essere dei migliori. «Sì, sì…» mentì. 

Kiana gli passò lo zainetto. «Dai, prendi le tue cose. Stiamo per partire.» 

Il ragazzo si accorse di Penelope di nuovo sveglia, intenta a prendere i borsoni. Gli rivolse un sorriso timido non appena si accorse di lui. La mano di Camille gli apparve di fronte al naso. «Sei… sei sicuro di stare bene?» gli domandò. 

«Sì, certo» ripeté Daniel, rimettendosi in piedi senza accettare l’aiuto della ragazza.

«Hai… fatto qualche incubo?»

Daniel le scoccò un’occhiata stranita. Che razza di domanda era quella? 

«Nessun incubo» rispose, stanco di tutta quella preoccupazione. Le passò accanto. «Dai, non perdiamo altro tempo.»

«S-Sì, scusa…» 

Non ci misero molto a ripartire. Penelope disse di stare meglio, ma Daniel continuò a dubitarne. D’altra parte, farsi trasportare da lei era l’unico modo. Potevano saltare nell’ombra assieme a Jack, ma non aveva idea di come ordinargli di farlo, visto che sembrava agire per conto suo tutte le volte – ancora si domandava come diamine avesse fatto a trovare Kiana – e comunque non sapevano nemmeno dove andare, quindi non aveva una destinazione precisa da dirgli. L’unica che conosceva quel posto era Penelope. Lei promise solennemente che si sarebbe fermata al primo cenno di cedimento e lui fu costretto a crederle. 

Procedettero ad altissima velocità sopra delle dune di sabbia immense. Se non fosse stato per il profilo delle montagne che si stagliava in lontananza, Daniel avrebbe creduto di essere nel deserto del Sahara.

La sua pelle si arricciò all’improvviso, mentre attraversavano una lunga stradina battuta costeggiata da zolle steppose, i primi accenni di vegetazione più pronunciata che si vedevano dopo tanto tempo. Spostò lo sguardo verso alcune dune lontane, che sorgevano a malapena dal terreno, e assottigliò le palpebre.

La strana sensazione cominciò a svanire non appena quelle dune diventarono un puntino indistinto alle sue spalle. Per un attimo pensò di chiedere alle sue compagne di viaggio di fermarsi e andare laggiù a controllare cosa ci fosse, ma alla fine decise di non farlo. Non c’era altro tempo da perdere.

Si stava facendo ormai sera quando si lasciarono alle spalle quel deserto in miniatura e raggiunsero una piazzola di terra battuta circondata da una staccionata, oltre la quale si trovava un paesaggio molto diverso rispetto a quello da cui erano appena arrivati.

C’era una passerella di legno che non sembrava avere fine, costeggiata da zolle di terra e sabbia con cespugli che apparivano sporadici. Un cartello affisso vicino all’inizio della passerella recitava: “Salt Creek Trail.”

Penelope si fermò vicino al cartello per far scendere Camille, che aveva chiesto di lasciarle dare un’occhiata.

«Questo è l’unico corso d’acqua rimasto nella valle» spiegò loro, dopo una rapida lettura. «Una volta era un lago, ma si è prosciugato… più di diecimila anni fa!» Lo disse come se fosse la cosa più incredibile del mondo.

Kiana fischiò. «Accidenti!»

«Sì, okay…» borbottò Daniel.

Camille si rabbuiò. «Potreste almeno fingere che vi interessi.»

«Ah-ah.»

«Sì, okay.»

Un sospiro esausto provenne dalla ragazza. «Stupida io che ancora ci provo…»

«Direi di attraversare questo posto e fermarci per la notte» stabilì Kiana, mentre attraversavano la passerella. «Sono stanca morta.»

«A chi lo dici» fece eco Camille. «Non avrei mai pensato che cavalcare fosse così estenuante. Senza offesa, Penny.»

Penelope ridacchiò. «Non mi hai offesa, tranquilla! Noi centauri non siamo abituati a trasportare le persone, quindi so di non essere molto comoda. Cercate di resistere ancora un po’.»

«Senza di te non saremmo mai arrivati fin qui» rispose Cam, dandole qualche pacca sul braccio. «Non potrò mai ringraziarti abbastanza.»

Daniel percepì Penelope sussultare, quindi intuì che si fosse imbarazzata, o che fosse perfino arrossita.

«Non… non serve che mi ringraziate» mormorò. «Mi basta sapere di essere stata d’aiuto.»

«Certo che lo sei stata!»

«Allora… sono io a ringraziare voi. Per avermi accettata in squadra.» Penelope si voltò e li scrutò tutti e tre con la coda dell’occhio, sorridendo gentile. «Sono rimasta sola per quasi tutta la vita. Sono… felice di avere dei nuovi amici.»

«Davvero sei sempre rimasta sola?» domandò Kiana. «Niente amici, o famiglia, o… ehm… compagni?»

«Vivevo in un branco, come quasi tutti i centauri» spiegò Penelope, prima di esitare. «Ma sono scappata tanto tempo fa… loro… non erano gentili con me.»

Kiana si irrigidì all’improvviso. Abbassò la testa dopo un lungo istante e annuì sommessamente. «Capisco.»

«Oh, non preoccuparti!» la rassicurò Penelope, per via del suo tono smorto. «Ormai è acqua passata! Stare da sola mi ha fatto bene, e adesso che vi ho conosciuto non potrei essere più felice!»

La figlia di Venere non sembrò nemmeno sentirla. Rimase con le spalle abbassate, in silenzio.

Lo scalpiccio degli zoccoli sul legno fu l’unico rumore che per diverso tempo rimase ad aleggiare nell’aria; Jack era scomparso di nuovo, ma l’aveva già fatto prima, quindi Daniel non era troppo preoccupato per lui.

Si guardò attorno, facendo vagare lo sguardo su quel paesaggio molto più verde e rigoglioso rispetto ai deserti attraversati fino a quel momento. Doveva essere per via di quel piccolo fiumiciattolo che scorreva a filo con la passerella di legno su cui si trovavano. Non poteva essere profondo più di qualche centimetro, a tratti si interrompeva perfino in pozzanghere frammentate, però quella poca acqua era bastata alle piante abituate al clima secco.

Un’altra strana sensazione cominciò a farsi strada dentro di lui man mano che procedevano. Non era come quella che aveva avvertito nel deserto, però: era perfino peggiore.

La sensazione che qualcosa stesse per andare storto da un momento all’altro.

Forse era figlio di un dio veggente, perché non appena ebbe quel pensiero qualcosa emerse dal fiumiciattolo, emettendo un grido agghiacciante. Penelope si arrestò di colpo e si impennò per lo spavento, per poco non rovesciandoli tutti, mentre dal fiume emergevano altre figure, sollevandosi con delle esplosioni di acqua salata e sporca.

Daniel rimase pietrificato per lo stupore. Erano delle naiadi. O almeno, credeva fossero naiadi, era difficile capirlo viste le condizioni penose in cui si trovavano. Avevano tutte la pelle avvizzita e biancastra, cadaverica, che cadeva a brandelli in tutti i sensi della parola. I capelli, pochissimi, erano ridotti a ciocche sfuse e sparpagliate in maniera disordinata sui crani che avevano le stesse sembianze di dei mandarini schiacciati. I vestiti erano laceri, ridotti a poco più che stracci, mentre i volti erano prosciugati, con le guance incavate, gli occhi arrossati, le labbra quasi inesistenti a fare da contorno a pochi denti marciti.

Penelope indietreggiò spaventata, mentre un verso sorpreso proveniva da Kiana: «Ma che diamine…?»

«A… cqua…» gemette la naiade più vicina a loro, sollevando un braccio. Cominciarono a muoversi tutte insieme per chiudere le distanze, avanzando passo tremante dopo passo tremante. Sembrava che dovessero tutte quante crollare a terra prive di forze da un momento all’altro. Nonostante le naiadi fossero di solito pacifiche, l’immagine di quel piccolo esercito di cadaveri viventi che si avvicinava a loro aveva del raccapricciante.

«Sono… sono tutte…» provò a dire Camille.

«Mezze morte» concluse Kiana al posto suo, lo sguardo magnetizzato a quelle creature ripugnanti che si facevano sempre più vicine.

«Disidratate» corresse Cam, anche se parve farlo solo per nascondere il proprio nervosismo. «Deve essere per via del lago che si è prosciugato…»

«Ma… non avevi detto che è successo diecimila anni fa?»

«Sì, ma le ninfe sono immortali. Devono aver resistito solo con… aspetta, ma quindi mi stavi ascoltando?» domandò Camille, e Daniel non capì se fosse più stupita o infastidita.

«Ac… qua…» ripeté la ninfa. «Vi… prego…»

«A-Aspettate.» Camille scese da Penelope e cominciò a trafficare nel proprio zainetto.

«Che stai facendo?!» sbottò Daniel, incredulo. «Andiamocene da qui!»

«Ma non possiamo abbandonarle!»

Camille tirò fuori la sua borraccia, ma Daniel la raggiunse prima che potesse farci qualsiasi stupidaggine avesse in mente. Gliela strappò di mano con un gesto secco. «Quella ci serve!»

«Acqua…» gemette la naiade più vicina. Allungò la mano verso la borraccia ma Daniel la allontanò con uno spintone, rispedendola nel fiume.

«Levati dai piedi!» gridò, prima di puntare il palmo che si stava ricoprendo di oscurità verso tutte le altre. «Levatevi tutte dai piedi!»

Le naiadi sibilarono adirate, ma smisero di avvicinarsi.

«D-Daniel!» Camille lo costrinse ad abbassare il braccio. «Smettila! Così le spaventi!»

«Lasciami!» Daniel si scostò dalla presa di Camille. All’improvviso, si sentì furibondo con lei. «Ma si può sapere che cosa ti passa per la testa? Non lo vedi che sono spacciate?! Non c’è niente che tu possa fare per loro!»

Camille sussultò, ma non distolse gli occhi dai suoi. «Magari… magari posso usare i miei poteri, creare del ghiaccio e…»

«E cosa? Cosa?! Vuoi creare un lago di ghiaccio grosso come la valle?!»

«Ehi, voi due!» li chiamò Kiana. «Dateci un taglio, o…»

«Almeno io ci provo a fare qualcosa!» gridò allora Camille. «Non me ne sto ferma a guardare gli altri che soffrono come fai tu!»

«Già, come tua sorella. La stessa che se non fosse stato per me ti avrebbe staccato la testa. Anche lei soffriva, giusto?»

La ragazza sussultò. Alcune lacrime cominciarono a scivolarle dagli occhi. «Sei crudele…»

Daniel serrò la mascella. «Sarò crudele quanto vuoi, ma almeno non sono un ingenuo che crede di poter salvare tutti.» Le gettò la borraccia. Camille la prese al volo, reagendo come se le avesse appena passato una granata inesplosa, dopodiché Daniel le diede le spalle.

Stava per tornarsene in groppa a Penelope, che assieme a Kiana era rimasta ad osservare la scena in silenzio sbigottito, quando la voce di Camille provenne di nuovo da dietro di lui: «Perché fai così?!»

Il ragazzo si fermò di scatto. Camille continuò a gridare con quella sua vocina incrinata forse per la rabbia, forse per la tristezza, forse per entrambe: «Perché ti comporti in questo modo?! Come puoi essere così insensibile?!»

Un sorrisetto nacque sul volto di Daniel. «Insensibile?» Si voltò di nuovo verso Camille, che trasalì. Marciò verso di lei con passo pesante finché non si ritrovò a scrutarla dall’alto con i pugni contratti. «Va bene, Cam. Vuoi che aiuto queste bastarde a smettere di soffrire?»

Si voltò verso una naiade e puntò il palmo verso la sua testa. Un dardo di luce nera le trapassò il cranio uccidendola sul colpo. Decine e decine di urla terrorizzate si alzarono come uno tsunami, mentre le altre ninfe si gettavano nel fiume per non fare la stessa fine. Daniel spostò lo sguardo su tutte loro e all’improvviso gli sembrò di vedere delle ombre nere al loro posto. Digrignò i denti e l’oscurità formicolò dentro di lui.

Ne colpì altre due. Una morì sul colpo, l’altra invece venne solo ferita alla spalla. Ne avrebbe colpite anche altre se Camille non si fosse frapposta con la forza, urlandogli di smetterla.

«Volevi che le aiutassi? Questo è l’unico modo!» tuonò lui.

Puntò la mano verso l’ultima ninfa rimasta, ma qualcosa lo colpì alla guancia. Piegò la testa, colto alla sprovvista, la pelle che bruciava. Poi si voltò lentamente verso Camille, che stava ancora tenendo alzata la mano con cui l’aveva appena schiaffeggiato. Aveva gli occhi zuppi di lacrime e i denti stretti tra loro in un’espressione di puro dolore.

I due compagni si osservarono per quelle che parvero eternità. Daniel vide le dita fumanti di Cam e sentì la schiena formicolare. La figlia di Trivia sembrava di nuovo sul punto di esplodere, ma a lui non importava minimamente. Poteva provarci, a usare la sua stupida magia su di lui: avrebbe avuto una brutta sorpresa.

«Avevi… avevi ragione, Daniel» disse invece Camille, asciugandosi le lacrime e distogliendo lo sguardo da lui. Tirò su con il naso e mormorò affranta: «Fai schifo come amico.»

Non aggiunse altro. Gli diede le spalle e si incamminò spedita lungo la passerella, continuando ad asciugarsi le lacrime, la borraccia ancora stretta in una mano. Daniel rimase con gli occhi conficcati sulla sua schiena, in silenzio.

«Cam! Cam!»

Soltanto quando la chiamò, Daniel si ricordò che lì c’era anche Kiana.

«Maledizione!» sbottò la figlia di Venere. «Penelope, va con lei.»

«E-Eh? E voi…»

«Ora, Penelope.» Kiana saltò giù dalla groppa. «Sbrigati, prima che faccia qualche stupidaggine.»

«V-Va bene…» Penelope trotterellò via, lasciandola sola con Daniel.

«Si può sapere che problema hai?!» gli sibilò quando Penelope fu abbastanza lontana.

Daniel alzò gli occhi al cielo. Ecco che ricominciavano. «Non ho nessun problema» replicò, gelido, prima di rimettersi a camminare. «Forza, diamoci una mossa prima che…»

Le dita di Kiana si serrarono attorno al suo braccio. Prima che lui potesse dimenarsi, quella lo trascinò all’indietro, costringendolo a voltarsi verso i suoi occhi cangianti. «Ma ti importa di qualcosa? Qualunque cosa? Possibile che tu non ti renda mai conto di nulla?!» Kiana lo lasciò andare. Il suo sguardo arrabbiato sembrò trasformarsi in uno deluso. «Almeno provi delle maledette emozioni, ogni tanto? Oppure per te è tutto un osservare gli altri con quell’espressione annoiata come se ogni cosa fosse una seccatura? Come se ogni cosa esistesse solo per darti noia?»

Il ragazzo rimase in silenzio, con le labbra schiuse. Non si era affatto aspettato una domanda del genere. Non capì nemmeno se Kiana si aspettasse una risposta seria oppure no.

La figlia di Venere sospirò, alzando le mani al cielo. «Senti. Se io scoprissi di non piacerti affatto, lo capirei. Non sono stata sempre… gentile, con te. Lo ammetto. E capirei anche se mi dicessi che odi il campo, odi la Quinta Coorte, Ashley e tutti gli altri. Sul serio, lo capirei. Perché ci sono passata anch’io. Tutti ci siamo passati. E tutti quanti abbiamo avuto bisogno di aiuto, ad un certo punto. Mi sta bene però che tu non lo voglia. Non siamo tutti uguali, e se tu vuoi stare solo, per i fatti tuoi a odiare il mondo, a me va bene. Okay? Non verrò a implorarti in ginocchio di uscire fuori dal tuo buco nero di rabbia. Ma Camille…»

Kiana puntò il braccio verso la passerella ormai avvolta nella penombra. «… lei non è così. Lei ti vuole bene, per qualsiasi stupido motivo, lei vuole davvero aiutarti, vuole esserti amica. E io… io sono stanca di guardarla sprecare le proprie forze dietro qualcuno a cui, chiaramente, non importa niente dei suoi sentimenti. Perché… perché se esiste qualcuno, una sola persona in questo bidone di pianeta che davvero, davvero non si meritava quel trattamento che le hai appena riservato… quella è proprio Camille.»

«Ma hai visto anche tu cosa stava cercando di fare, no?» disse Daniel. «Pensava che la nostra acqua avrebbe aiutato quelle naiadi. Erano già tutte morte! Camille cerca sempre di aiutare tutti, ma non può farlo!»

«E allora, qual è il problema? Ti da così fastidio che possa esistere qualcuno di gentile in questo mondo? Qualcuno che ogni tanto prova a fare del bene? O pensi che dovremmo essere tutti come te? “Quelle naiadi sono rimaste disidratate per diecimila anni, sono già morte, perché dovrebbe importarmi qualcosa?” È così che ragioni tu, vero? “Nessun altro ha fatto niente per loro, perché dovrei pensarci io?”» Kiana abbozzò un sorrisetto. «Sei un maledetto sociopatico, lo sai?»

«Ma ti senti quando parli?!» domandò Daniel. «Ti rendi conto, vero, che se continuerà così Camille si farà ammazzare? Già oggi c’è andata vicino, cosa pensi che sarebbe successo se io non fossi stato lì?»

«Quindi l’hai trattata come spazzatura per questo? Perché sei preoccupato per lei?»

Daniel esitò. «Sì… no… cioè…»  

«Se davvero sei preoccupato per lei, allora puoi aiutarla in mille modi diversi. Calpestare i suoi sentimenti e sputarci sopra non è uno di questi.» Kiana abbassò lo sguardo e Daniel si rese conto che anche lei stava piangendo. «Ma non lo capisci, Daniel?» sussurrò, scuotendo la testa e strizzando le palpebre per cacciare via le lacrime. «C’è bisogno di persone come Cam in questo mondo. Se tutti fossimo come te… o anche me… varrebbe davvero la pena combattere per proteggerlo?»

«Che… che significa “anche te”?»

«Non ha importanza.» Kiana tornò ad osservarlo negli occhi, senza alcun timore. Di solito Daniel era sempre rimasto indifferente al suo aspetto, ma in quel momento… c’era qualcosa di diverso in lei. Nonostante la voce incrinata e le lacrime, aveva un’aria molto più sicura, minacciosa e determinata di quanto l’avesse mai vista. Perfino durante la battaglia al Campo Giove non era sembrata così decisa. Pareva pronta a combattere e perfino a morire pur di difendere quella piccoletta lagnosa.

«Io non lo so quello che vuoi. Non posso saperlo. E non sono nemmeno sicura che tu lo sappia davvero. Ma ti posso dire una cosa: prova a fare ancora una volta uno scherzo del genere e ti assicuro che te la farò pagare cara. Non mi interessa dei tuoi stupidi poteri, nemmeno quelli ti serviranno a qualcosa. Hai la mia parola: ferisci ancora una volta Cam in quel modo…» Kiana lo puntellò al petto all’improvviso, facendolo sussultare. «… e ti farò a brandelli, Daniel.»

Gli passò accanto senza dire più nulla. Il fatto che non l’avesse chiamato con quello stupido soprannome lo toccò molto più forte di quanto avrebbe potuto immaginare. Si voltò e la guardò mentre si metteva al seguito delle altre due. Una strana fitta di dolore lo colpì al petto, improvvisa e letale, da mozzare il respiro.

Rimase immobile, nella passerella solitaria, con l’oscurità che calava lentamente ricoprendo ogni cosa e le sue compagne ormai distanti che procedevano in quel viaggio schifoso nel cuore della Valle della Morte.

«Mi… dispiace…» sussurrò.

La testa gli si abbassò contro il proprio volere e un lungo sospiro si librò dai suoi polmoni, ma nemmeno quello bastò per placare la stretta opprimente che l’aveva assalito allo stomaco.

 

***

 

Si accamparono una volta superato il Salt Creek Trail, sulla cima di alcuni pendii scoscesi che formavano un luogo chiamato Mustard Canyon. Forse si chiamava così per via del colore delle rocce, ma era difficile capirlo visto che ormai non c’era quasi più luce, fatta eccezione per quella delle stelle e della luna.

Camille non gli rivolse più la parola, Kiana neppure, però almeno lei continuò a guardarlo di tanto in tanto, forse per assicurarsi che lui non facesse del male a Cam, o magari perché si aspettava che si facesse avanti per scusarsi; non accadde nessuna delle due cose.

La figlia di Trivia accese un fuoco con i suoi poteri e qualche sterpaglia rinvenuta in giro, ma non vi rimase vicino a lungo. Quanto la notte si infittì e la stanchezza ebbe la meglio, sia lei che Kiana si ritirarono nella tenda, lasciandolo ad accudire il fuoco assieme a Penelope.

Nemmeno la centaura gli aveva più detto nulla, però il suo silenzio era molto meno pesante rispetto a quello delle sue compagne di viaggio. Rimase sdraiata sulla pancia dall’altra parte del fuoco, la luce arancione delle fiamme che gettava ombre baluginanti sul suo viso color cioccolato e facendo sembrare i suoi capelli rossi accesi anziché castani.

Daniel sollevò lo sguardo. Il cielo si era schiarito quando era calata la sera e se c’era una cosa veramente bella in quel luogo arido e desolato, era che lì si potevano scorgere le stelle in tutta la loro interezza.

L’inquinamento luminoso non era presente nemmeno al Campo Giove, perciò il cielo stellato si poteva scorgere bene perfino là, tuttavia la presenza di San Francisco poco distante in qualche modo influiva comunque; lì, invece, non c’era proprio nulla che potesse rovinare la distesa meravigliosa di stelle su quel manto nero e senza fine. Fu soltanto quando rimase a guardarle, concentrandosi su di esse senza alcuna distrazione, che cominciò a sentirsi meglio, al punto da credere che tutti i suoi problemi fossero scomparsi.

Aveva sempre amato la notte, le stelle, e soprattutto odiato il sole e il caldo, ma in quel momento la sensazione di benessere che quello spettacolo gli stava trasmettendo era indescrivibile. Gli sembrava di essere al sicuro, guardandole, come protetto da una bolla. In un certo senso… gli sembrava di essere a casa. Era assurdo, perché “casa” di certo non era la Valle della Morte, però quel tetto sulla sua testa lo faceva sentire come se “casa” potesse essere qualsiasi cosa: finché ci sarebbe stato quel cielo, ci sarebbe stata casa.

Quel viaggio doveva averlo fatto impazzire, era chiaro.

Adesso che era fermo, poteva riflettere meglio su quello che aveva fatto a quelle naiadi. Non aveva idea di che cosa gli fosse preso all’improvviso, sapeva solo che ad un certo punto si era stancato di sentire Camille parlare e si era sentito pervaso da una rabbia accecante. Si guardò i propri palmi, deglutendo. E se… se anziché quella naiade, avesse colpito Cam?

Le parole di Kiana risuonarono nella sua mente. Gli importava davvero di qualcosa? Perché era lì?

Che cosa voleva davvero?

Daniel sospirò pesantemente. Si era fatto le stesse domande così tante volte da aver perso il conto. Non sapeva perché avesse accettato di partire per l’impresa. Non sapeva perché avesse scelto di combattere, non sapeva nemmeno chi fosse. Un orfano che vagando senza meta si era trovato in un campo di ragazzi che ammazzavano mostri come passatempo, mostri che lui non aveva mai visto in vita sua se non dopo averne scoperto l’esistenza.

A tutte le domande di Kiana avrebbe potuto dare la stessa identica risposta: «Non lo so.»

«Stai… stai bene, Daniel?» La voce di Penelope interruppe i suoi pensieri. Si accorse che lei lo stava guardando con aria angosciata. «Sembri… giù.»

Un verso di scherno scappò dalla gola del ragazzo. «Davvero? Da cosa l’hai dedotto?»

Si pentì di averle risposto così nel momento esatto in cui quelle parole uscirono dalla sua bocca. «Scusa» mormorò, prima di massaggiarsi le palpebre esausto. «Sto bene, comunque. Non preoccuparti per me. Non serve.»

«Mi… mi fa piacere.»

Daniel rimase con lo sguardo conficcato sulle fiamme, distratto dallo scoppiettio della legna. «Ascolta, Penelope…» cominciò a dire. «… sei… sei davvero sicura di voler rimanere con noi?»

«Perché mi fai questa domanda?» chiese lei, stupita.

«Perché… più ci avvicineremo a Ecate e più correremo rischi. Non so se potremo proteggerti se le cose si mettessero male. Tu non c’entri con questa storia, non devi farti male, o peggio, per noi. Non ci devi niente.»

«Ma… se non salvate Ecate, tutto il mondo sarà in pericolo, giusto?»

«Beh, sì, però…»

«Allora rimarrò con voi.» La determinazione nella sua voce fece drizzare di nuovo la testa di Daniel. Incrociò lo sguardo di Penelope, che gli rivolse un cenno con il capo. «Per la prima volta… nella mia vita, sento di fare parte di qualcosa, Daniel. E poi… io mi fido di te. Mi fido di voi. So che correremo pericoli, ma sono pronta. Anch’io voglio aiutarvi.»

Daniel schiuse le labbra, per poi scuotere la testa con un sorriso mesto. «Hai visto anche tu quello che ho fatto, no? Non puoi fidarti di me, Penelope. L’hai detto tu stessa. Ho un’aura “malvagia”.»

Penelope scosse la testa con insistenza. «No, Daniel. Tu mi hai salvata. Mi hai accolto nel tuo gruppo. Quando hai saputo che le tue amiche erano in pericolo ti sei precipitato per salvarle. E… anche quando ti sei accorto che io non riuscivo a trasportarvi, ti sei preoccupato per me. Anche adesso ti stai preoccupando per me. Non sei malvagio. Però… penso che tu sia turbato. E arrabbiato.»

Il viso di Penelope era improvvisamente diventato una maschera severa, qualcosa che cozzava di molto con l’immagine di lei timida e spaventata a cui li aveva abituati tutti. «Io… non so perché tu sia così arrabbiato, Daniel. E non… non devi nemmeno dirmelo, se non ti va. Però penso… penso che se c’è qualcosa che ti turba, dovresti parlarne con le persone a cui vuoi bene. Io non ho mai avuto nessuno, sono sempre stata sola. Non so cosa significhi… avere qualcuno con cui parlare. Tu però hai delle amiche. Sei fortunato.»

«Non credo proprio di averle più…» rispose Daniel, avvertendo l’ennesimo nodo allo stomaco.

«Secondo me sì. Devi solo… parlare con loro. Puoi ancora aggiustare le cose, Daniel. Sei una brava persona. Non lasciare che… che la tua rabbia ti renda qualcosa che non sei.»

Il ragazzo rimase in silenzio, in parte per lo stupore, in parte perché davvero non sapeva cosa dire. Aveva decisamente sottovalutato Penelope: quella creatura era molto più intelligente di quanto il suo aspetto indifeso avrebbe potuto lasciar trasparire.

«Ma… è questo il punto, Penelope: io non lo so che cos’ho. Non lo so perché sono arrabbiato, o perché sono… così. Io…» Daniel si guardò di nuovo i palmi, prima di scuotere la testa sconsolato. «… io non lo so. So solo che a volte mi… mi vengono questi pensieri e…»

Daniel esitò. Avvertì un lieve dolore alle tempie. Strizzò le palpebre e un altro mugugno gli scappò dalle labbra.

Che… cosa stava dicendo? Non riusciva più a ricordarlo.

«Forse… forse è di questo che devi parlare con loro, allora. Forse c’è bisogno di… cercare più a fondo. No?» suggerì Penelope, interrompendo il suo silenzio.

«Sì…» Daniel abbassò le mani, sollevato dal fatto che lei non avesse notato il suo tentennamento. «… può darsi.» Incrociò di nuovo lo sguardo di Penelope e riuscì ad abbozzare un tenue sorriso. «Ti… ti ringrazio, Penelope. Avevo… avevo bisogno di parlare con qualcuno.»

La centaura si illuminò. «Prego! Ora però… ehm… posso farti una domanda?»

«Sì, certo.»

«Cosa… cosa vuol dire che hai una “cotta” per me?»

Il sorriso svanì dal volto di Daniel, mentre le guance iniziavano a bruciare ma non per via del fuoco. «N-No, ascolta, io non ho nessuna cotta! È stata Kiana con le sue stupide insinuazioni che…»

Un rumore improvviso lo fece interrompere: sembrava un rumore di passi. Si voltò di scatto, verso un anfratto buio dove la luce delle fiamme non arrivava. «Jack? Sei tu?» domandò. Si aspettò una delle sue cannonate di abbai, invece non arrivò niente del genere. Al contrario, il rumore di poco prima si ripeté, però amplificato di dieci volte. Realizzò che non erano solo passi: era come un rumore di ciottoli che sfregavano tra loro.

Ciottoli… o denti. 

«Ragazze!» urlò, alzandosi in piedi. Sguainò il pugnale, mentre decine di figure sbucavano fuori dalle tenebre, illuminate dalla luce sanguigna delle fiamme: scheletri.

Daniel serrò la mascella, mentre alle sue spalle proveniva il rumore di Kiana e Camille che si precipitavano fuori dalla tenda. «Che succe…» Kiana si interruppe, accorgendosi dei nuovi arrivati.

«Scheletri!» gridò Camille.

«Ah, magnifico…» fece eco la figlia di Venere.

«Ma… ma se questi scheletri sono qui, allora…»

Anche la riflessione di Camille non trovò conclusione: si trasformò in un verso di sorpresa nel momento in cui un’ombra si sollevò di fronte a loro tre, eruttando fuori una figura imponente, che li scrutò dall’alto con quei suoi occhi che sembravano lucenti monetine d’oro.

Non appena lo vide, Daniel avvertì tutta l’oscurità gettata su di lui dal cielo notturno ribollire, come se reagisse al suo stato d’animo. 

Si affondò le unghie nei palmi, prima di ringhiare con quanto odio avesse in corpo: «Elias…»







Piccola parentesi per alleggerire un po' la tensione dopo questo capitolo un po' edgy e dark, ecco come mi immagino Jack in versione "contadinella":

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Capitolo 18
*** Rivelazioni ***



XVIII

Rivelazioni



Camille non credeva di essersi mai sentita peggio. Aveva incontrato le sue sorelle, era stata costretta a combattere con una di loro, aveva visto una di loro morire di fronte a lei e poi aveva perso il controllo.

Di nuovo. 

Non ricordava bene cosa fosse successo. Sapeva solo che quando aveva riaperto gli occhi e si era trovata dentro quel cratere ancora fumante, si era sentita soffocare all’improvviso. La consapevolezza di aver fallito l’aveva travolta, schiacciata. Tutto il suo lavoro, la sua fatica, il suo rimanere calma e controllata… non era servito a niente. Aveva distrutto una prigione intera, mettendo perfino in pericolo i suoi amici.

Era una totale incapace.

E poi… poi era successo quello che era successo con Daniel. Più pensava al suo sguardo, alle sue parole, più sentiva dolore al petto. Non riusciva a credere a quello che aveva visto. E la cosa peggiore era che forse… forse aveva ragione lui. Era un’ingenua a pensare di poter sempre aiutare tutti, anche chi forse non se lo meritava. Allo stesso tempo, però, era più forte di lei: sentiva di doverlo fare, o quantomeno di provare a farlo.

Dopo tutto quello che lei aveva patito… non riusciva a rimanere ferma di fronte a chi aveva bisogno di aiuto. Nessuno aveva mai aiutato lei, conosceva quel dolore, quella sensazione desolante, quella solitudine opprimente e nei limiti delle sue capacità voleva impedire ad altre persone di provare lo stesso.

Non era giusto quello che Lamia aveva patito. Lei non era un mostro, non aveva mai voluto esserlo, ma era stata resa così da qualcun altro. Non era giusto quello che era successo a quelle naiadi, che avevano perso la loro casa per cause fuori dal loro controllo. Non era giusto quello che era successo a lei, a Kiana, perfino a Daniel. Non era giusto che alcuni fossero costretti a soffrire mentre altri no.

E poi, c’era stato l’incidente. Dopo quella volta, il pensiero di aiutare gli altri era l’unica cosa ad impedirle di impazzire per il dolore e per i sensi di colpa. Forse era una stupida, un’ingenua, forse Daniel aveva davvero ragione, ma non le importava. Ne aveva bisogno. Doveva crederci. Non sapeva cosa avrebbe fatto altrimenti.

Ripensò alle parole di Kiana, quando l’aveva chiamata crocerossina. L’aveva fatto per scherzare, lo sapeva, però non aveva tutti i torti. Era davvero una crocerossina.

Anzi, peggio: era davvero un caso disperato.

Perché nonostante Daniel l’avesse ferita, spaventata perfino, lei continuava comunque a desiderare che lui fosse suo amico. Continuava a sperare che lui accettasse il suo aiuto. Voleva ancora… essergli vicino, anche se era palese che lui non volesse avere niente a che fare con lei, non in quel senso, almeno.

Daniel non la voleva. Non l’aveva mai voluta. Potevano essere conoscenti, “amici” fino a un certo punto, ma niente di più. Anzi… ormai dubitava perfino che lui l’avesse mai vista davvero in quel modo. Forse più che una sorta di amica, lei era stata una seccatura che lui aveva deciso di sopportare.

Non appena finirono di montare la tenda, Camille si infilò al suo interno senza dire una parola. Avrebbe voluto rimanere da sola, a piangersi addosso come una poppante, invece Kiana la seguì. L’aveva sentita parlare con Daniel, prima. Non aveva idea di cosa si fossero detti, ma poteva immaginarlo. Non si sorprese quando la vide sedersi vicino a lei.

«Cam… stai bene?»

Le labbra di Camille cominciarono a tremolare. «Avevi ragione, Kiana.»

«Su… su cosa?»

«Su tutto. Su Daniel. Su di me. Sul fatto che sono una crocerossina.» La figlia di Trivia si abbracciò con forza le gambe, tirando su con il naso. «Una… una causa persa. Avevi ragione su tutto.»

«Cam, no.» Kiana l’avvolse attorno alle spalle. «Io non ho ragione proprio su un bel niente. Non sei una causa persa. E non sei nemmeno una crocerossina. Non devi prendere sul serio le idiozie che ti dico. Non c’è assolutamente niente di male in quello che fai e che vuoi fare. Non c’è niente di male in te. È solo che… lo conosci, Daniel, no? Lui… lui è fatto così, lo sai.»

«Nel senso che è un gigantesco stronzo?» domandò Cam.

«L’hai detto tu. Non io.»

Camille riuscì a ridacchiare, imitata da Kiana. La vicinanza dell’amica riuscì a farla sentire meglio. Era felice della sua compagnia. La faceva sentire meno sola e la faceva sentire anche come se a qualcuno importasse davvero qualcosa di lei. La guardò dal basso e si accorse dei suoi occhi che si facevano tristi e smarriti all’improvviso, dopo quella breve risata. Non la stava nemmeno più guardando, ora fissava la parete della tenda con aria angosciata.

«Kiana?» Le toccò una spalla e la ragazza sobbalzò, con uno scatto così veloce che a Cam per poco non scappò un gridolino sorpreso. Ritirò la mano, spaventata, mentre la figlia di Venere tornava a scrutarla con una strana espressione. Sembrava spiritata.

«C-Cam…» le sussurrò. «S-Scusa… ti ho spaventata?»

«N-No…» bisbigliò Camille, con il cuore che batteva all’impazzata nel petto.

Ma come faceva a essere così fifona?

«Stai… stai bene tu, invece?» domandò. «Sembri… preoccupata. È per via di quello che è successo?»

Kiana non rispose. La guardò ancora per qualche istante, mordicchiandosi le labbra, poi abbassò la testa. «Non… non preoccuparti, Cam. Sto bene.»

«Lo sai che puoi parlare con me, Kiana. Sei preoccupata per l’impresa? Per quello che ha fatto Ashley? O… ehm… per Mary?»

La figlia di Venere si irrigidì, segno piuttosto inequivocabile. O almeno, Camille pensò di aver capito che Mary fosse il motivo delle sue angosce, invece Kiana scosse lentamente la testa. «Non… non si tratta solo di questo.»

«Che succede? Dimmelo, magari posso…»

Vide Kiana affondare i denti nelle labbra e stringere con più forza il tessuto del sacco a pelo. A quel punto, Camille intuì di aver esagerato ancora una volta. «Scusa» mormorò. «Non… non volevo farmi i fatti tuoi. Parlamene solo se…»

Kiana appoggiò la fronte sulla sua spalla all’improvviso. Camille trasalì per lo stupore. Poi sentì i gemiti. Vide la schiena di Kiana cominciare a sussultare, accompagnata dai suoi singhiozzi soffocati. La figlia di Venere si aggrappò ai suoi fianchi e quello che all’inizio era solo un pianto leggero cominciò a farsi molto più forte e insistente, al punto che Cam pensò che perfino Daniel potesse sentirlo da fuori.

«K-Kiana…» mormorò, cambiando posizione in modo da trovarsi di fronte a lei e ricambiare quell’abbraccio sofferente. Le accarezzò la schiena e si accorse che la sua amica stava tremando come una foglia. Non sapeva cosa le fosse preso, ma non glielo domandò subito. Si limitò a ricambiare il suo abbraccio e ad accarezzarle la schiena con delicatezza.

«I-Io…» mormorò la ragazza in lacrime, tra un singhiozzo e l’altro. «Q-Quando… quando ero nell’hotel… c’era un uomo… lui… lui ha…»

Un lungo brivido le percorse il corpo, facendo sussultare anche Cam di conseguenza. Non aveva mai visto Kiana così. Sembrava terrorizzata.

«Non serve che ne parli, se non vuoi» provò ancora a dire Camille, ma Kiana scosse la testa contro la sua spalla.

«Sto per impazzire, Cam. Ho… ho bisogno di dirlo a qualcuno. Però… però ho bisogno che tu… non lo dica a nessun altro. Va… va bene?»

Cam assottigliò le labbra. Doveva fidarsi davvero tanto per chiederle una cosa del genere. «Non lo dirò a nessuno. Te lo prometto.»

Kiana si separò da lei, asciugandosi le lacrime. Era stravolta. E non appena le raccontò quello che le era successo, Camille capì che aveva ogni ragione di esserlo.

«Kiana…» la abbracciò di nuovo con forza. «Mi… mi dispiace così tanto…» bisbigliò, inorridita da quello che aveva appena sentito. E lei solo quello aveva fatto, ascoltare. Non aveva idea di che cosa potesse provare Kiana in quel momento.

«Sono… sono patetica» singhiozzò Kiana, rannicchiata contro di lei, spaventata come mai l’aveva vista prima.

«No, non è vero.» Camille la accarezzò tra i capelli, mormorandole all’orecchio: «Ti sei liberata da quel… quel maniaco. Hai sconfitto tutti quei mostri, hai sconfitto pure un gigante. Non sei patetica. Sei la persona più forte e coraggiosa che abbia mai conosciuto.»

Kiana singhiozzò di nuovo. Camille la strinse con più forza, cercando di infonderle quanta più sicurezza possibile, ma sapeva che nessun gesto o parola sarebbe riuscito a farla stare meglio in quel momento.

Lasciò che piangesse, che si sfogasse, senza dire più nulla. Voleva farle capire che poteva contare su di lei, che poteva piangere, su di lei, senza nessun timore. Per la prima volta da quando la conosceva, toccò a lei proteggerla e farla sentire al sicuro, e lo fece. Non doveva avere paura di niente, era sua amica e per lei ci sarebbe stata, sempre e comunque.

Passarono ancora diversi minuti, ma alla fine il pianto di Kiana si smorzò. Lentamente, e con delicatezza, le due ragazze si scostarono. La figlia di Venere si passò le dita sotto gli occhi venati di rosso, poi strizzò le palpebre ed espirò a fondo. «Io… io… ti chiedo scusa, Cam.»

Camille fu colta alla sprovvista. «Perché?»

«Perché… perché ti ho mentito. Ho… ho mentito a tutti quanti. Ho sempre cercato di… di sembrare forte, e arrogante e… e di dare quest’impressione di me che non ho paura di niente.» Kiana scosse la testa, incapace di reggere il suo sguardo. «Questa sono io, Cam. Questa è la vera me. La verità è che io… io ho molta più paura di quanto voglia dare a vedere. Io… sono terrorizzata. Ho paura di non farcela, ho paura di… di morire. Sapere che… là fuori ci sono… cose che potrebbero ucciderci solo con il pensiero…» Kiana si strinse allo stomaco. «… credevo… credevo di farcela. Credevo di… di poter dimostrare a mio padre, a mia madre, a tutti quanti che io… non sono quello che pensano. Volevo dimostrare di non essere solo un bel visetto. Ci… ci ho provato in tutti i modi. E alla fine è bastato un pervertito qualsiasi per… per…»

«Kiana.» Camille afferrò entrambe le mani della sua amica, strappandole un altro sussulto. Incrociò di nuovo quegli occhi macchiati di genuina paura e serrò le labbra. Stava per dirle quello che pensava davvero, ma poi esitò.

Invece di dire altro, lasciò andare le mani di Kiana per prenderle il viso caldo e ancora umido per le lacrime. Si avvicinò a lei e appoggiò la fronte contro la sua. Chiuse gli occhi con forza.

«C-Cam? Cosa stai…»

«Shh. Voglio… voglio farti vedere una cosa. Fidati di me.»

Sentì il suono della bocca di Kiana che si spalancava, ma non le disse altro. Camille si concentrò. Non aveva mai provato a fare qualcosa del genere prima di allora, ma sapeva che avrebbe funzionato. Era arrivato il momento di usare l’altro potere che aveva ereditato da Trivia, lo stesso con cui aveva convinto Kyle ed Elias a fare ciò che lei aveva chiesto.

Avvertì il proprio corpo reagire alle richieste della mente, la magia che cominciava a formicolarle nelle vene, agitata ma pronta per rispondere ai suoi comandi. La sentì riversarsi fuori dai palmi e sentì un gemito sorpreso di Kiana, che per poco non le fece perdere la concentrazione, ma si costrinse a rimanere focalizzata su quelle immagini sempre più nitide, e sempre più orribili, che stavano riaffiorando tra i suoi ricordi più dolorosi.

Quando infine riaprì gli occhi, non era più in quella tenda assieme a Kiana. Erano entrambe in un posto molto lontano, molto diverso e, soprattutto, molto più vecchio. Deglutì, osservando il piccolo parco giochi stagliato di fronte a loro due, occupato da una decina di bambini che stavano giocando con lo scivolo e le altalene. Il cielo era splendente, senza nemmeno una nuvola, e sullo sfondo si poteva scorgere un grosso edificio anonimo e squadrato, di cemento, con le pareti sporche e incrostate e sbarre di ferro arrugginite alle finestre.

Kiana si guardò attorno sbalordita. «Ma… dove diamine siamo finite?!»

«È solo una visione. Non… non siamo davvero qui» spiegò Camille. «Questo… è il mio vecchio orfanotrofio.»

«Che cosa? Ma come…»

«Te lo spiego dopo. Ora guarda.»

Camille indicò un punto di fronte a loro, dove diversi bambini se ne stavano radunati a parlottare tra loro con fare circospetto, come se stessero tramando qualcosa di spiacevole. E lei sapeva esattamente di cosa si trattasse. Si voltarono tutti all’improvviso verso loro due e cominciarono ad avvicinarsi con dei sorrisetti meschini.

«Ma… ma ce l’hanno con noi?» sussurrò Kiana, sempre più sconvolta.

«Non con noi» rispose Camille. «Con me.»

I bambini le raggiunsero. Quello più grande si fece avanti per primo. «Strega! Che ci fai qui? Ti avevamo detto che non potevi più uscire!»

«Ma… ma io…» mormorò Camille, strappando un altro sussultò a Kiana.

«C-Cam? Che cavolo stai facendo?!»

Camille a malapena la sentì. Kiana era un ospite nel suo ricordo, perciò lei avrebbe visto tutto quello che era accaduto quel giorno come uno spettatore esterno, senza poter dire o fare nulla che potesse cambiare il corso degli eventi.

«M-Mi dispiace» disse, mentre i bambini la circondavano. «A-Adesso torno dent…»

Qualcuno la spinse. Camille gridò e cadde a terra, sbucciandosi le ginocchia, mentre gli altri bambini si avvicinavano attratti dal rumore.

«Noi non ti vogliamo qui, strega!»

«Sì, vattene!»

«Strega! Strega! Strega!»

Tutti quanti cominciarono a chiamarla così. Quella parola si conficcò nelle sue orecchie così forte che le sembrò che stessero sanguinando.

Era sempre così, con loro. Tutti i giorni. Una volta Camille aveva bruciato il proprio letto con i suoi poteri, durante una delle prime occasioni in cui si erano manifestati, e da quel giorno avevano iniziato a raccontare le storie più disparate e orribili su di lei. Gli adulti pensavano che avesse usato un accendino e che fosse una bambina piromane e problematica, gli altri bambini invece dicevano che era un mostro, una strega, e che suo padre era scappato dopo che lei aveva bruciato sua madre.  

Da quel giorno non avevano fatto altro che metterla da parte e trattarla in quel modo, spingendola, picchiandola e lanciandole addosso pietre e altri oggetti.

Nessuno l’aveva mai aiutata. Nessun adulto era mai intervenuto per fermare quei bulli e nessun bambino aveva mai avuto il coraggio di prendere le sue parti, per paura di fare la stessa fine.

Era rimasta sola. Abbandonata. Proprio come da suo padre. Gray non era un cognome vero. Gliel’avevano affibbiato all’orfanotrofio, ma non era il suo reale cognome. Non aveva idea di quale fosse quello vero e probabilmente non l’avrebbe mai scoperto.

Quella era sempre stata la sua vita, prima del Campo Giove. Una bambina sola, spaventata, presa di mira dai bulli e osservata dagli adulti come un problema. Una seccatura con cui erano costretti a convivere.

A volte, durante momenti come quello in quel parco giochi, in cui i bambini si accanivano su di lei, si domandava se i responsabili dell’orfanotrofio non sperassero soltanto che una pietra la colpisse troppo forte, in modo che lei non potesse più rialzarsi.

Sarebbe stato un problema in meno. Una bocca in meno da sfamare. Quel luogo, l’orfanotrofio, nemmeno aveva un nome reale. Era semplicemente conosciuto come “Orfanotrofio di Jackson”, perché si trovava nella Contea di Jackson, in Oregon.

Non era una casa, neanche un luogo felice, non ci provava nemmeno a esserlo. I bambini che abitavano lì o erano orfani dei loro genitori, o erano stati abbandonati come Camille. Crescevano soli, incattiviti come animali, accanendosi gli uni contro gli altri e raramente venivano adottati. Qualche fortunato c’era stato, ma Camille non era una di loro

Lei era lì, in quel parco giochi, picchiata e umiliata dagli altri, come sempre. Era a terra e la stavano prendendo a calci, ignorando le sue grida, il suo pianto, le sue suppliche di smetterla. A loro non importava. Erano arrabbiati perché erano soli, come lei, e volevano sfogarsi su qualcuno. Come in ogni altro singolo giorno che Camille aveva trascorso lì. Ogni giorno che aveva passato a piangere ed essere ignorata, ogni giorno che aveva trascorso sperando in un aiuto che non sarebbe mai arrivato.

Accanirsi su quello che per loro era un mostro li faceva sentire meno in colpa, forse.

Questo, almeno, fino a quel momento. Il momento in cui dopo settimane, mesi, anni di abusi ne aveva avuto abbastanza.

I bulli gridarono terrorizzati all’improvviso e corsero via, mentre lei si rialzava in piedi piena di lividi, con i vestiti strappati e il corpo intero circondato dalle fiamme. Urlò furiosa verso il cielo, avvertendo la terra tremare e un calore immenso investirla.

Voleva che pagassero per come l’avevano trattata. Voleva che capissero che non avrebbero mai dovuto farle del male. Voleva che morissero. Puntò le mani verso il parco giochi, verso i bambini che scappavano gridando aiuto, e non desiderò altro che annientarli, farli sparire, fare in modo che non ferissero mai più nessuno.

Il fuoco si liberò in ogni direzione, investendo lo scivolo, i dondoli, le altalene, e schiantandosi contro la parete dell’orfanotrofio mentre un violento terremoto mandava in frantumi tutte le finestre. Un vento fortissimo cominciò a soffiare, lampi squarciarono il cielo sereno all’improvviso, il mondo intero sembrò rivoltarsi contro sé stesso.

Quando tutto finì Camille si ritrovò dentro un cratere, proprio come nella prigione. Uscì fuori con le lacrime agli occhi, il corpo tremante e le mani insanguinate. Il parco giochi era distrutto, altalene e scivoli erano saltati via, anche una parete dell’orfanotrofio era crollata. Dal fondo della strada proveniva un frastuono infernale di antifurti e sirene, accompagnato dal vociare sconvolto dei passanti che si stavano avvicinando per controllare cosa fosse successo. Anche diverse macchine si erano fermate. Non appena si accorse di tutto quel movimento, Camille fuggì da quel luogo senza più voltarsi indietro, il petto lacerato dal dolore, dalla paura e dai sensi di colpa.

Il ricordo si interruppe così, con lei che correva in lacrime tra i vicoli di Jackson e le sirene della polizia e dei camion dei pompieri che rimbombavano tra le strade della città.

L’immagine sbiadì, lasciando di nuovo posto alla tenda. Camille si separò da Kiana, rendendosi conto di avere la fronte imperlata di sudore e il cuore che martellava con furia nel petto.

«C-Cam…» sussurrò Kiana, con gli occhi spalancati. «Cosa… cos’è successo…?»

Camille mandò giù il groppo alla gola che si era formato alla vista di quelle immagini orribili. «Era… era un ricordo. Di quello che mi è successo tanto tempo fa.»

«Ma… come hai fatto a…»

«Ho manipolato la Foschia. Per… per farti vedere quello che vedevo io.»

La mascella di Kiana sembrò sul punto di staccarsi e cadere a terra. «Tu… tu cosa?!»

«Non… non vi ho detto tutta la verità, prima. Non so soltanto usare la magia, so… so anche manipolare la Foschia.»

Camille si strinse nelle spalle. L’aveva capito poco dopo l’incidente, quello. Alcuni adulti l’avevano trovata ferita e con i vestiti strappati, ma lei si era messa a dire che non aveva bisogno di aiuto, che non dovevano chiamare la polizia, o l’ambulanza, e quelli avevano strizzato le palpebre confusi. Approfittando della loro distrazione era riuscita a fuggire di nuovo; loro non l’avevano inseguita. Si era resa conto che funzionava su tutte le persone che la trovavano, le bastava dire che non l’avevano mai vista e loro si dimenticavano di lei, come per… magia. 

In questo modo era sopravvissuta da sola per molto tempo, tra le stradine di Jackson, allontanando adulti e malintenzionati con semplici parole, fino a quando i lupi non l’avevano trovata e portata alla Casa del Lupo, dove aveva scoperto le sue radici.

«Ecco che hai fatto, quella volta con Kyle» mormorò Kiana. «E anche con Elias!»

La figlia di Trivia annuì, mesta. «Non… sono molto brava, però. È… proprio come con la magia, devo stare attenta quando lo faccio. Sulle persone comuni è semplice, loro non vedono attraverso la Foschia come noi, ma sui nostri compagni è molto più difficile instillare un falso ricordo. Se… calcassi troppo la mano, potrei convincerli per sempre di quello che dico loro. Potrei creare danni permanenti.»

«Ma… perché non me l’hai mai detto?»

«Saresti stata comunque mia amica se avessi saputo che potevo farlo? Magari… avresti pensato che ti ho fatto credere di essere mia amica per tutto il tempo, o che i momenti che abbiamo trascorso insieme fossero solo un falso ricordo creato da me.»

«Ah, sì, tipo tutte le fantastiche volte che abbiamo pulito le stalle?»

«Ehm…»

Kiana ridacchiò. Con quel piccolo gesto, Cam sentì la tensione stemperarsi e realizzò che la sua amica non era affatto arrabbiata, o spaventata. «Non potrei mai pensare questo di te, Cam. Sei stata la mia prima vera amica. Avresti potuto usare i tuoi poteri in così tante situazioni diverse per toglierti dai problemi, ma non l’hai mai fatto. So che non m’imbroglieresti mai.»

Camille riuscì a sorridere. «Grazie… grazie Kiana.»

«E di che?» Anche Kiana le sorrise e la figlia di Trivia si sentì incredibilmente meglio, non solo perché l’aveva accettata per quello che era, ma anche perché sembrava più tranquilla rispetto a prima.

«Anche se forse potresti usare i tuoi poteri per convincere Maxwell di essere un pollo, o qualcosa del genere…»

«Dai, non scherzare…»

«O magari un maiale… ah, no, lo è già.»

«Kiana!»

Quella sollevò le mani. «Ehi, è solo un suggerimento. Fanne ciò che vuoi.»

Camille le diede una spintarella, ridacchiando contro il proprio volere. Ogni volta che Kiana riusciva a farla ridere in quel modo si sentiva in colpa, ma non poteva farci nulla.

«Quei… quei bambini… cosa gli è successo?» domandò poi Kiana, quando il momento di quiete si esaurì.

Camille serrò le labbra. Sapeva che prima o poi quella domanda sarebbe arrivata. Non riuscì a guardare Kiana negli occhi mentre rispondeva: «Non… non lo so. Non ho mai avuto il coraggio di controllare. Se… se scoprissi che qualcuno non ce l’ha fatta io… io…» non terminò la frase. I sensi di colpa tornarono a divorarla ancora una volta.

Quei bambini… erano stati crudeli con lei. Ma questo non giustificava ciò che aveva fatto. Lei voleva, sperava che stessero tutti bene, che fossero tutti cresciuti e che magari avessero anche trovato delle famiglie, lo sperava davvero. Ciò che aveva fatto… non le dava pace. Non le avrebbe mai dato pace.

«Mi dispiace, Cam. Non avrei mai pensato che per te fosse stato così difficile» sussurrò Kiana. «Perché… perché mi hai fatto vedere quelle cose?»

«Perché così siamo pari. Tu mi… mi hai detto quello che ti è successo, quindi io ho fatto lo stesso. Sarà… sarà il nostro segreto.»

Vide Kiana distogliere lo sguardo. All’improvviso, sembrò farsi molto pensierosa.

Camille sentì un groppo alla gola. «Hai… hai paura di me, adesso?»

La figlia di Venere si raddrizzò. La scrutò per quelli che le parvero attimi interminabili, tuttavia la sua espressione non tradì nessuna emozione. Infine, scosse lentamente la testa. «No, Cam. Con tutto quello che hai passato… non posso biasimarti per quello che hai fatto. Avrei fatto lo stesso. Forse pure peggio. E il fatto che tu abbia resistito per tutto questo tempo, di fronte a tutte le ingiustizie che hai subito, mi fa capire che posso davvero fidarmi di te. Sei… sei molto più forte di quanto pensassi.»

Quelle parole rassicurarono Camille, che riuscì a trovare di nuovo la forza di sorridere. «Anche tu sei forte, Kiana. E non devi preoccuparti di avere paura. Sarebbe strano non averla. Anch’io… ho paura, ma sapere che… che ti fidi di me, mi fa sentire meglio. Sappi che su di me potrai sempre contare. Posso… contare anch’io su di te?»

«Ci puoi scommettere» rispose subito Kiana.

Camille distese il suo sorriso e sollevò il mignolo. «Insieme?»

Kiana intrecciò il mignolo con il suo. «Fino alla fine. Salviamo Ecate e torniamo a casa!»

Il cuore di Camille si colmò di felicità. Con Daniel le era andata da schifo, ma aveva ancora Kiana, la sua migliore amica, e infondo non credeva di poter davvero chiedere di meglio. Se c’era qualcuno che non l’avrebbe mai delusa, o abbandonata, quella era proprio lei. Era fortunata ad averla conosciuta.

«Perché… perché non mi hai mai detto di te e Marianne?» chiese poi, quando si separarono.

Kiana reagì come se l’avesse appena punta con un ago rovente. Distolse lo sguardo da lei, imbarazzata. «Io… non lo so, Cam. Ti vedevo così presa dai ragazzi… avevo paura che se te l’avessi detto… ti avrei messa a disagio. Non volevo allontanarti.»

«Non mi sarei mai allontanata, Kiana» rispose Camille, incredula. «Perché avrei dovuto? Le tue scelte sono tue e tue soltanto.»

Kiana si mordicchiò un labbro. «Non… non si tratta solo di questo. La… la mia famiglia era molto radicale. E mio padre… lui voleva un erede maschio. Voleva qualcuno che potesse portare avanti l’attività familiare. E quando sono nata io… beh, puoi immaginare com’è andata. Mi trattavano come un rifiuto solo perché non ero quello che volevano loro. Mi hanno fatto pesare così tanto il non essere un maschio che ho iniziato a odiare tutto quello che mi rendeva una ragazza. E puoi immaginare cosa significhi tutto questo se sei pure una figlia di Venere.»  

Un brivido la percorse. «E i ragazzi nel campo… loro sono sempre stati dei viscidi con me. All’inizio… non ero molto sicura di cosa mi piacesse davvero, ma poi, quando ho conosciuto Mary, ho capito che lei... lei era… diversa. È sempre stata buona con me e mi ha sempre accettata così com’ero, senza farsi paranoie sul mio aspetto, sul mio comportamento, senza dirmi come dovevo o non dovevo essere. E poi… beh, ecco…» Kiana arrossì e cominciò a balbettare: «I-Insomma… mi sono accorta che lei… mi piaceva davvero, e poi ho scoperto che io piacevo a lei e allora…»

Camille soffocò una risatina. Non avrebbe mai creduto di vedere Kiana, la stessa ragazza che non si faceva problemi a dire parolacce e a sferrare cazzotti, così imbarazzata. «Sì, ho capito.»

Le strinse il braccio con forza, rivolgendole un cenno d’intesa. «Sta’ tranquilla. Non ti giudico per questo. E… e mi dispiace di averti assillata con quei discorsi sui ragazzi. Se avessi saputo che per te era un argomento così delicato non avrei mai…»

«Non preoccuparti. Era divertente guardarti perdere la testa per chiunque.» Kiana batté il pugno contro la sua spalla, con un sorrisetto. «Crocerossina.»

«No. Chiamami pure “caso disperato” se vuoi, ma non sarò più una crocerossina» mugugnò Camille. «Con Daniel ho chiuso. Se lui non vuole saperne niente di me, allora io non voglio più saperne di lui.»

«Nonostante aspettassi di sentire queste parole da molto tempo…» Kiana sospirò. «… non puoi reagire così, Cam. Lo so che vuoi ancora bene a Daniel, e che ancora speri che lui ricambi i tuoi sentimenti. Dovete… dovete parlare. Chiarirvi. Forse le cose non finiranno come vuoi tu, ma… non puoi metterci un taglio netto di punto in bianco in questo modo. Finirai solo con lo stare peggio.»

Camille corrugò la fronte. «Kiana? Ti senti bene?»

«Uh? Perché?»

«Stai… stai difendendo la tua nemesi?»

«C-Cosa?! Daniel non è la mia nemesi! E non lo sto “difendendo”!» Lo disse come se fosse la più grande eresia che qualcuno avrebbe mai potuto commettere. Poteva leggerglielo nella mente: “Difendere quello zombie? Io?! Mai!”

Dopo il divertimento, però, arrivò la realtà dei fatti: Kiana aveva ragione. Camille sapeva di non potersi davvero dimenticare di Daniel, non così all’improvviso. Anche se era stato crudele con lei doveva parlarci ancora, capire cosa gli fosse preso e perché. E poi, se le cose non fossero andate come sperava, avrebbe potuto mettersi il cuore in pace. Non sarebbe stato semplice, ma l’avrebbe superato. Aveva superato ben di peggio, alla fine.

Sorrise di nuovo a Kiana. «Non pensavo che… insomma, che mi avresti… dato consigli di questo tipo.»

«Sono pur sempre una figlia di Venere. Di alcune cose me ne intendo. Anzi, se posso darti un altro consiglio…» Un sorrisetto malizioso illuminò il viso di Kiana. «Dante sembrava molto… felice, quando l’hai abbracciato. Secondo me…»

«S-Smettila con questa storia!» sussultò Camille. «Dante non mi piace!»

«Però sei arrossita.»

La figlia di Trivia si coprì il viso e si voltò da un’altra parte. «D-Dacci un taglio!»

«Non capisco che male ci sia. A me sembra un bravo ragazzo. E sono io a dirtelo. Certo, è un po’ pazzo, ma non lo siamo tutti alla fine?»

Camille fece una smorfia. «Potresti tornare a essere un’anti Venere, per favore?»

«Magari più tardi, adesso dobbiamo parlare del tuo guardaroba. Dimmi, hai visto come ti sei conciata? Come puoi accostare quella gonna a quella giacca?»

«Okay, ora inizi a farmi paura.»

Le due ragazze si scambiarono uno sguardo, poi cominciarono a ridere insieme. Camille non pensava di averne così bisogno, ma quella risata, quel piccolo momento trascorso assieme a un’amica, la fece sentire molto meglio, specie dopo quello che si erano appena raccontate. Kiana aveva messo a nudo la sua coscienza e lei aveva fatto lo stesso. Adesso erano unite anche nel dolore, insieme si sarebbero fatte forza, e insieme avrebbero trovato Ecate e salvato il mondo.

La classica lista delle faccende domestiche di un semidio.

Kiana si stravaccò sul sacco a pelo, con un sospiro esausto. «Sono distrutta. Penso che mi metterò a dormire. Svegliatemi quando…»

«Ragazze!»

Entrambe sobbalzarono. Quella era la voce di Daniel, e sembrava preoccupato.

«Oppure no, non svegliatemi» borbottò Kiana, afferrando la lancia che era rimasta nella tenda assieme a loro. Anche Camille afferrò la daga e insieme si precipitarono fuori.

Trovarono Daniel in piedi accanto al fuoco, con Penelope rannicchiata dietro di lui che gemeva spaventata: tutt’attorno al loro accampamento, c’erano uomini con i volti di un candore innaturale, con le ossa che baluginavano sotto i lembi di pelle scoperta dalle uniformi strappate e sgualcite.

«Scheletri!» gridò inorridita.

«Ah, magnifico…» borbottò Kiana.

Camille si ricordò quello che aveva raccontato Daniel e deglutì. «Ma… ma se questi scheletri sono qui allora…»

Una massa di oscurità si generò dal suolo all’improvviso, torreggiando su tutti loro. Come richiamato da lei, Elias fuoriuscì da essa e li scrutò con i suoi occhi scintillanti.

«Elias…» sibilò Daniel. Cam lo vide stringere con forza i pugni, mentre i suoi palmi cominciavano a mandare pennacchi di fumo nero come la notte. Le ombre generate dalla luce delle fiamme e della luna si animarono in risposta al ragazzo e, proprio come nella prigione, Camille le vide cominciare ad affluire verso di lui, riversandosi nelle sue mani.

Anche Kiana se ne accorse, perché sussultò: «C-Che sta facendo?»

Prima che potesse risponderle, Elias sguainò un gladio di Ferro dello Stige lungo almeno un metro. Fece un cenno agli scheletri e quelli si avvicinarono a loro, brandendo coltelli da caccia, spade e baionette. Alcuni di loro avevano uniformi da soldato, forse della guerra di secessione, altri invece parevano dei cowboy usciti da un film di Sergio Leone, con stivali, speroni, cappelli e cinturoni.

Le due ragazze sollevarono le armi, mentre Daniel si irrigidiva.

«Elias, a-ascoltaci…» mormorò Camille, schiena contro schiena con Kiana, la daga sollevata tra le mani tremanti e puntata verso gli scheletri. «So che… che credete che siamo dei traditori, ma…»

«Perché lo stai facendo, Elias?» sbottò Kiana, con voce carica di rabbia. «Ashley sta torturando Dante e Marianne! Ha fatto iniziare una caccia all’uomo senza eguali solo per catturare qualcuno che sta cercando di salvarvi! Si può sapere perché la stai assecondando?!»

«Perché è il suo cagnolino» ringhiò Daniel. «Lui obbedisce agli ordini della padroncina senza fare storie. E se fa il bravo, lei lo premia. Vero, Fido?»

Un profondo grugnito provenne dal figlio di Plutone, che però rimase in silenzio, imperterrito.

«Elias…» ci riprovò Camille. «… non siamo vostri nemici. Devi credermi. Sappiamo dove si trova Ecate. Posso sentirla, è qui da qualche parte, oltre questo canyon! Ti prego, lasciaci passare. Puoi… puoi venire con noi, se non ti fidi. Potremmo… potremmo perfino unire le forze! Per favore, Elias, non dobbiamo combatterci tra di noi!»

Gli scheletri continuarono ad avvicinarsi. Camille si ritrovò a sussurrare disperata: «Elias, ti prego, noi…»

La voce di Daniel, profonda e cavernosa, la costrinse ad interrompersi: «Ora basta. JACK

Il suo grido si smarrì lungo il canyon, rimbombando tra le pareti, affievolendosi nella notte. Ci fu un attimo di silenzio, in cui anche gli scheletri rimasero fermi. Poi, in lontananza, risuonò un boato: «BAU!»

Prima che chiunque potesse fare qualsiasi cosa, dall’oscurità era apparso il segugio infernale con le fauci spalancate, impossibile da capire se fosse la sua espressione giocosa oppure quella aggressiva. Forse era un misto di entrambe. Balzò in mezzo agli scheletri e cominciò ad attaccarli: staccò la testa di uno con un morso e tirò una zampata ad un altro, scaraventandolo via.

Subito dopo fu il caos: i non morti soffiarono adirati e si fiondarono all’attacco, alcuni su di lui, altri sulle ragazze, altri due invece puntarono Daniel e Penelope.

Camille allontanò uno di loro con un colpo di daga, mentre da qualche parte imprecisata provenivano le grida spaventate di Penelope e le urla furibonde di Daniel. «Levatevi di mezzo!»

Nella periferia del suo campo visivo, Camille scorse alcuni dei proiettili di luce nera di Daniel, che sibilavano nell’aria producendo suoni simili a frustate. Tre scheletri si piazzarono di fronte a lei, costringendola a distogliere l’attenzione da quello che stava succedendo altrove.

Rotolò per schivare un affondo di baionetta e azzoppò uno di loro, scattò verso un altro e lo decapitò con un colpo secco, infine mozzò il braccio dell’ultimo, rendendolo inoffensivo, ma dopo quei tre ne apparvero altri. Alle sue spalle provenivano i versi furiosi di Kiana, anche lei impegnata nel combattimento.

Gli scheletri attaccarono da ogni lato. Camille realizzò ben presto che non importava quanti ne mutilasse, o abbattesse: quelli continuavano a combattere. Se non avevano più un braccio usavano l’altro, se non li avevano entrambi cercavano di mordere, se erano senza testa andavano a riattaccarsela, per poi ricominciare imperterriti.

Un colpo di baionetta la ferì alla spalla, facendola gridare. Indietreggiò con una mano premuta sulla ferita, mentre gli scheletri la circondavano. Si sentì impotente. Non riusciva a credere che le cose potessero finire così, sconfitta, o peggio, per mano di quegli scheletri… anzi, per mano di Elias. 

«Cam! Resisti!»

Tre scheletri finirono catapultati a terra, mentre Kiana si faceva largo urlando furiosa pur di raggiungerla. Dimenò la lancia con incredibile maestria, usando l’asta per stordire i nemici e poi sminuzzarli con la lama.

«Tornatevene sotto terra!» sbraitò, sferrando un calcio nello stomaco a uno di loro e scaraventandolo contro gli altri tipo palla da bowling.

Gli scheletri che avevano circondato Cam si voltarono verso la nuova minaccia e nel giro di poco tempo fu Kiana ad essere circondata. Stava combattendo come una furia, sola contro tutti, ma erano troppi anche per lei.

Uno di loro arrivò alle sue spalle e sollevò un coltello. Non appena Camille vide la lama scintillare nella notte, puntata alla schiena della sua amica, inorridì: «FERMI!»

Il suo urlo risuonò tra le colline, così forte che la terra sembrò tremare. Le fiamme sfarfallarono, come se anche loro avessero reagito alla sua voce, e tutti gli scheletri si arrestarono all’improvviso, all’unisono. Lo zombie cowboy che stava per pugnalare Kiana si fermò con il coltello a un soffio dalla sua schiena. La figlia di Venere se ne rese conto e gridò per lo spavento. Lo scacciò via con un’altra pedata allo stomaco e quello stramazzò a terra con un sibilo infastidito, tuttavia quando si rimise in piedi non attaccò; rimase fermo, proprio come tutti gli altri.

Venti volti spettrali, con gli occhi vacui e la pelle semitrasparente non mossero più un solo muscolo – o osso – e se ne restarono a guardare Camille, che solo in quel momento realizzò di aver puntato la mano verso di loro.

«C-Cam?» Kiana deglutì. «Che… che sta succedendo?»

«N-Non lo so…» bisbigliò la figlia di Trivia, tanto spaventata quanto sorpresa. Aveva gridato loro di fermarsi… e si erano fermati. Non aveva idea di come fosse possibile, perché avrebbero dovuto ascoltarla? Lei non era mica…

«Oh miei dei.» Camille spalancò gli occhi. «T-Trivia… Trivia è anche la dea dei morti…»

«La “Regina dei fantasmi”» bisbigliò Kiana, sconvolta tanto quanto lei. «A-Aspetta un momento! Quindi adesso puoi anche controllare i morti?»

«G-Giuro che non lo sapevo!»

«Ma quanti poteri hai?! Danne uno anche a me!»

«Te li darei anche tutti se potessi…»

Kiana la affiancò, lo sguardo fisso su quel piccolo esercito di non morti obbedienti. «Ehm… e adesso che si fa?»

«Non lo so» mormorò Camille, prima di schiarirsi la gola. «Andate… andate via, per favore. Tornate… ehm… sotto terra, grazie.»

Gli scheletri si guardarono tra di loro. Sembravano confusi tanto quanto Camille, finché uno di loro non alzò le spalle e cominciò a sprofondare nel suolo come se si stesse immergendo in un lago. Nel giro di poco tempo, tutti quanti lo imitarono.

«Okay. Questo è davvero forte. E inquietante, anche» commentò Kiana.

Non appena l’ultimo scheletro si fu ritirato, Cam riuscì a respirare di nuovo correttamente. Prima che le due ragazze potessero cantare vittoria, però, il rumore di un’altra colluttazione le fece voltare entrambe. Accanto al fuoco videro Jack che faceva la guardia a Penelope, ringhiando verso il punto in cui alcuni scheletri dovevano essersi ritirati nel suolo. Il segugio pareva un po’ arruffato, ma stava bene, la centaura invece sembrava solo spaventata. Poco più distante, invece…

Camille spalancò gli occhi. Daniel ed Elias stavano combattendo furiosamente, il primo circondato dalle tenebre, il secondo con il gladio di Ferro dello Stige. E le cose si stavano mettendo davvero male.

Per Elias.

«Che succede, Elias?!» rantolò Daniel proprio in quel momento, avventandosi sul pretore. «Ti senti perso senza la tua padroncina?!»

L’oscurità sulle sue braccia si plasmò assumendo la forma di due lame affilatissime, perfino più lunghe dello spadone di Elias. Il figlio di Plutone indietreggiò, ferito e sanguinante in più punti, incalzato dai brutali attacchi di Daniel. Provò a difendersi con il gladio, era uno spadaccino di gran lunga migliore di Daniel, ma la sua tecnica e la sua bravura non poterono nulla contro la forza bruta del suo avversario, che lo disarmò con un colpo secco sul piatto della spada.

L’oscurità su una delle braccia di Daniel assunse una forma tondeggiante come quella di una mazza, con la quale colpì con forza Elias allo stomaco. Il pretore emise un grido con la sua voce baritonale e venne scaraventato a terra, sulla schiena. Provò a rialzarsi sui gomiti, mentre Daniel marciava verso di lui.

«Ci hai sempre guardati tutti dall’alto» gli disse. «Tu e Ashley ci avete sempre trattati come insetti. Adesso, però, lei non è qui per proteggerti. Sei da solo, Fido.»

Premette un piede sul petto di Elias, per tenerlo immobile, e sollevò un braccio, dove la lama di oscurità tornò a plasmarsi. Il figlio di Plutone non provò nemmeno a opporsi. Daniel digrignò i denti. «Adesso, tocca a me guardarti dall’alto.»

Camille non aveva mai visto Daniel così arrabbiato. Anzi, l’aveva già visto invece. La sua espressione, la sua voce, la sua irruenza, erano le stesse di quando aveva attaccato quelle naiadi. Lo sguardo di Cam cadde sulla lama di Daniel e un brivido le percorse la schiena. Un istante dopo, stava correndo verso di lui. «Non farlo!»

Daniel trasalì come colpito da una scarica elettrica. Si voltò verso di lei e la ragazza avvertì il desiderio impellente di scappare il più lontano possibile da lui. Il suo sguardo, l’oscurità che gli vorticava attorno, la sua espressione furibonda, ogni cosa di lui era terrificante. Non sembrava nemmeno più in sé. Quello non era Daniel. Non il Daniel che credeva di aver sempre conosciuto.

Smise di correre e si fermò a una decina di metri da loro. Alzò le mani e incrociò il suo sguardo, con le gambe che tremavano. «F-Fermo, Daniel. Non ucciderlo.»

Daniel assottigliò le labbra e allontanò il piede da Elias per fronteggiarla. L’oscurità della notte affluiva nel suo corpo, diramandosi come in scie e scie di rovi, le lame erano ancora presenti al posto delle braccia e aveva pure una sorta di armatura di tenebre che continuava a ribollire e ad agitarsi in protezione del torace. Il viso era scoperto, pallido sotto la luce della luna, l’espressione durissima e le iridi degli occhi nere come pozze di petrolio.

«Vuoi che lo lasci in vita?» le domandò. «Ci ha attaccati lui per primo. È per colpa sua e di quel suo stupido compare se siamo stati divisi la prima volta. Vuole impedirci di trovare Ecate. Non è nostro amico.»

«N-Non puoi dire sul serio, Daniel!» disse Camille. «È un semidio proprio come noi! Siamo tutti dalla stessa parte!»

«Davvero? Non mi pare proprio che lui e Ashley la pensino come te.»

«D-Daniel, ascolta. Se salviamo mia madre, Ashley sarà costretta a riammetterci nel campo. Ma se uccidi Elias… diventerai davvero un nemico. E accuseranno anche noi di complicità. Ti prego… ti scongiuro… non lo fare.»

Il ragazzo la esaminò ancora per diversi istanti, stoico, impossibile capire che cosa stesse pensando davvero.

Kiana apparve accanto a Camille all’improvviso, le nocche bianche da quanto forte stava stringendo la lancia. Fece un passo avanti e si frappose tra loro due, come per proteggerla. Camille si rese conto che era la stessa cosa che aveva fatto solo pochi giorni prima, quando l’aveva difesa da Maxwell, nelle stalle.

Sembrava passato così tanto tempo… come avevano fatto a ridursi così? Lei, Kiana e Daniel non sembravano nemmeno più le stesse persone. Tutto era cambiato così velocemente che non le sembrava vero. Lei aveva perso il controllo, aveva scoperto di poter controllare i morti, Daniel aveva imparato a controllare l’oscurità e perfino Kiana sembrava diversa, aveva ammesso le sue paure e la cosa, in qualche modo, la faceva sembrare perfino più coraggiosa. Da dietro di lei, Camille riuscì a scorgere il suo sguardo determinato. Stava osservando Daniel senza alcuna paura, senza dire o fare nulla. Era quasi come se gli stesse dicendo qualcosa semplicemente con quegli occhi, quell’espressione. E qualunque cosa fosse, Daniel sembrò capirla, perché rilassò le spalle e l’oscurità cominciò a dissiparsi attorno a lui.

Non appena Camille pensò che fosse tutto a posto, però, Daniel si mosse di scatto. La ragazza gridò spaventata, mentre lui sferrava un calcio in faccia a Elias, che nel frattempo aveva di nuovo provato a rialzarsi sui gomiti. Il pretore stramazzò a terra con un grugnito e non si mosse più.

Daniel si voltò di nuovo verso di loro ed entrambe le ragazze sussultarono. Kiana sollevò la lancia, i denti stretti; Camille si sentiva il cuore in gola, mentre una goccia di sudore freddo le scivolava lungo la fronte. Dopo un altro breve istante, Daniel diede loro le spalle e tornò a sedersi accanto al fuoco senza dire nulla. Jack abbaiò felice e andò a stendersi accanto a lui, scodinzolando così forte che i sassolini sobbalzavano ogni volta che la coda sbatteva a terra.

Un lungo sospiro scappò da Kiana e Camille intuì che Daniel l’aveva spaventata tanto quanto aveva terrorizzato lei.

«Stupido zombie…» mugugnò, prima di voltarsi verso di lei e accennare con la testa a Elias. «Forza, occupiamoci di lui.»

Camille si riprese dallo stupore, o almeno, ci provò, e annuì.

Kiana trovò una corda da arrampicata nei borsoni che Mary aveva dato loro e la esaminò con attenzione. «Mary… ti piacciono le corde, eh?» Un sorrisetto nacque sul suo volto, per poi svanire alla rapidità della luce quando si accorse che Camille la stava guardando. Diventò più rossa di un pomodoro. «E-Ehm, c-cioè… e-ecco, possiamo usare questa.»

La figlia di Trivia decise di dimenticare quello che aveva visto, e sentito. 

Non era mai stata così vicina a Elias prima di quel momento. Non l’aveva nemmeno mai sfiorato. Era… strano, per non dire perfino inquietante, vederlo così, privo di sensi, esanime. Aveva sempre emanato un’aura dura e perfino di invincibilità, con quel suo fisico possente, il suo cipiglio e il portamento rigido e autoritario. In quel momento invece era fragile e vulnerabile.

Quando finirono di legarlo, arrischiò un’occhiata verso Daniel, che stava attizzando le fiamme, e deglutì. Aveva annientato Elias, il pretore, uno dei loro leader in un niente. In effetti, perfino Lamia era stata sconfitta subito da lui. Era… era sempre stato così forte?

Che altro poteva fare, veramente?

Il fuoco crepitava nel silenzio della notte. Camille alzò lo sguardo verso quel cielo buio, le cui stelle ricordavano parecchio l’abito della donna di oscurità, e deglutì. Avevano solo più due giorni per trovare Ecate.








Salve gente. Era da un po' che non lasciavo una nota al fondo del capitolo. In realtà non ho molto da dire, voglio solo cercare di fare il punto della situazione. Questo capitolo forse ha deluso un po' di aspettative, visto il finale dello scorso, magari vi aspettavate botte da orbi, invece ho voluto dare un po' di spazio a Camille e il suo passato, e mentre che c'ero, chiudere alcune parentesi che sono state aperte in scorsi capitoli. Spero che l'introduzione del potere di Camille vi sia piaciuta, così come il suo dialogo con Kiana, mi rendo conto che è stato lungo ma c'erano tante cose da dire. Spero anche che lo scontro vi sia piaciuto, per quanto breve, sarò sincero, dopo la Spada del Paradiso e L'Elisir di lunga vita, la mia voglia di scrivere combattimenti è calata drasticamente ahaha (ma non c'è niente da ridere, sigh...), cercherò di rimediare in futuro, tanto questo è lungi dall'essere l'ultimo scontro che vedremo. Non odiatemi, pls. 

E scusate per la frase trash di Kiana alla fine, pure io sto odiando me stesso per averla messa.

Grazie per aver letto, spero che il capitolo vi sia piaciuto, e alla prossima!

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Capitolo 19
*** Vecchi amici ***



XIX

Vecchi amici



Non appena vide le sbarre, Camille pensò che avrebbe potuto dare di matto. Addormentarsi e svegliarsi di nuovo in una cella era di gran lunga l’ultima esperienza che avrebbe voluto ripetere, a parimerito col perdere il controllo dei poteri, poi però si rese conto che quella non era una cella qualsiasi. C’erano una brandina e dei servizi posti ai lati della stanza, dal corridoio proveniva una luce biancastra di lampade al neon, mentre il pavimento di mattonelle di marmo era disseminato di scarabocchi rossi, parole scritte con una grafia così frettolosa e disordinata che per lei furono impossibili da leggere, complice anche la dislessia. 

Poi si rese conto di non essere da sola. Esattamente al centro della stanza, rannicchiato a terra, c’era un ragazzo. E non appena lo vide, Camille sentì il cuore saltarle di un battito: quello era Dante.

Stava scrivendo sulle mattonelle con della sanguigna, borbottando tra sé e sé parole sommesse. Non sembrò accorgersi di lei e a quel punto Camille comprese di non essere davvero lì, ma di stare sognando. Da un lato si sentì sollevata, ma la sensazione sfumò non appena si rese conto dell’aspetto dell’augure. Era spettinato, arruffato, con borse gigantesche sotto gli occhi e lividi sparpagliati sul viso, assieme a tracce di sangue secco. 

La figlia di Trivia soffocò un gemito di sconforto. Kiana non aveva mentito, l’avevano davvero picchiato di nuovo. Come avevano potuto? Come potevano essere così crudeli con lui?! Era un bravo ragazzo, cercava solo di fare la cosa giusta. Non meritava tutto quello.

«Fioriranno… o moriranno?» domandò Dante proprio in quel momento, la sanguigna che strideva sul pavimento. Sbatté le palpebre un paio di volte. «No… germoglieranno? Uccideranno? Ah, dannazione!» Posò la sanguina e si premette le mani sulle tempie. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. «Andiamo, andiamo, stupido cervello! Dammi una mano ogni tanto, solo ogni tanto! Perché deve essere tutto così complicato?!» Cominciò a martellarsi la testa. «Sono morto… sono morto!»

«Dante» sussurrò Camille, angosciata.

Il ragazzo spalancò gli occhi. «Chi ha parlato?!»

Camille sussultò, sorpresa tanto quanto lui. «Riesci… riesci a sentirmi?»

Dante cominciò a guardarsi attorno, muovendo la testa così velocemente da sembrare una trottola. «Oh, no… oh no! Adesso sento anche le voci! Lo sapevo, lo sapevo che non dovevo bere quel caffè al ginseng! Faceva pure schifo!»

«No, Dante, sono io! Sono Camille!»

«Camille?» Dante si ammansì all’improvviso. «Sei… sei davvero tu?»

«Sì, Dante. Sto… sto sognando. Non sono davvero lì» mormorò lei, sollevata del fatto che lui si fosse tranquillizzato. 

«O-Oh. Stai sognando… me? Non… non pensavo di essere così importante…»

Nonostante fosse in un sogno, Camille sentì le guance pizzicare. «Ma… certo che lo sei, Dante. Sei il nostro augure.»

Dante riuscì ad abbozzare un sorriso. «Sono felice di riveder… di risentirti.» 

«Anche… anche io» mormorò lei, imbarazzata come poche volte si era sentita. E non riusciva proprio a capire il perché, di tale imbarazzo. Dante non le piaceva mica.

«Allora, come sta andando il viaggio? Avete trovato Ecate??»

Lo stomaco di Camille si contorse per i sensi di colpa. Quel poveretto si era cacciato nei guai per lei, per loro, per consentirgli di partire per quel viaggio, e ancora non avevano trovato Ecate. Ed era solo colpa sua. Non aveva detto la verità, era partita senza un piano, senza avvertire nessun legame, e si era perfino fatta colpire a tradimento dalla magia di Somnus. Se non fosse stato per Penelope non avrebbero mai trovato la pista nella Valle della Morte. 

Non sarebbe mai dovuta partire. Ancora non riusciva a spiegarsi perché Ecate avesse dato quell’incarico proprio a lei. 

«Non ancora» mormorò, senza il coraggio di guardare Dante in faccia nonostante lui non potesse vederla. «Però… ci stiamo avvicinando. Sento dove la tengono nascosta. Non manca molto. Dovete… dovete resistere ancora un po’.»

«Dovete sbrigarvi!» disse l’augure. Non sembrava arrabbiato, o deluso, soltanto agitato. «Non vi rimane molto tempo!»

Camille drizzò la testa. «Come sai che mancano solo due giorni?»

Dante strizzò le palpebre. «Due giorni per cosa?»

«Per… trovare Ecate. Se non la troviamo entro due giorni… ehm… non so cosa succederà, ma non sarà piacevole.»

«Oh… non mi riferivo a quello, in realtà.» Dante sembrava perfino un po’ imbarazzato. 

La figlia di Trivia si domandò se fosse saggio o meno chiedergli a cosa si riferisse davvero. Sapeva di non avere davvero una scelta. «E allora a cosa?»

Dante cominciò a gesticolare come una marionetta pazza. «Il campo! Qui stanno impazzendo tutti! Ieri mattina quelli della Quinta Coorte hanno scoperto che Ash…» Il ragazzo si interruppe di scatto. Abbassò di molto la voce, fino a ridurla ad un sussurro. «… hanno scoperto che Ashley stava tenendo Marianne prigioniera e si sono imbestialiti! Alcuni centurioni si sono messi dalla loro parte e c’è stata una rivolta, però Ashley l’ha sedata quasi subito e ha fatto rinchiudere tutti i dissidenti nel Carcere Marmentino!»

«C-Che cosa?» rispose Camille, anche lei con un sussurro. 

«Sì! E poi si è proclamata Pontifex Maximus! È completamente andata!»

«No…» Camille pensò di poter svenire dentro al sogno. 

Il Carcere Marmentino, nel Foro di Nuova Roma. Avevano creato una copia identica del carcere originale, ma non credeva fosse mai stato usato davvero. Era lì solo per scopi… storici. O almeno, così aveva creduto. L’idea che tutti i suoi amici della Quinta Coorte fossero stati rinchiusi là dentro la fece inorridire. E non solo, Ashley si era proclamata Pontifex Maximus, la più alta carica esistente. Nemmeno Elias ora contava più quanto lei: adesso era praticamente un’imperatrice. 

«Non dovevamo partire» mormorò la ragazza, con la voce incrinata. «Dovevamo parlare con Ashley. Dovevamo dirle della profezia, dirle tutto quanto! Dovevamo…»

«No, Camille.» Dante fece un passo avanti. «Non sarebbe cambiato nulla. Io conosco Ashley, credimi, non vi avrebbe mai fatti partire. E se dici che adesso mancano solo più due giorni, vuol dire che il nostro tempo era perfino meno di quello che credevamo. Se ne avessi parlato con lei, ti avrebbe impedito di andare e avrebbe cercato di fare tutto da sola. Fidati di me, se abbiamo una possibilità di salvarci tutti, è solo perché voi siete partiti di nascosto.»

Sembrava davvero determinato. Camille avrebbe trovato il modo in cui aveva cercato di rassicurarla perfino carino… peccato che stesse guardando da un’altra parte.

«Ehm… sono qui, Dante.»

Lui si voltò e arrossì. «Oh, scusa.»

Nonostante tutto, a Camille venne da ridacchiare, anche se forse fu più una risatina nervosa, o perfino isterica. Anche Dante riuscì a sorridere di nuovo, ma entrambi sapevano che quel momento sarebbe durato molto poco. 

«Cosa… cosa stavi facendo? Cosa sono queste scritte?» domandò Camille, osservando le frasi sul pavimento. Si accorse che erano scritte in latino. Sembravano… versi. 

Dante sospirò. «È sempre Ashley. Vuole… vuole che io trovi il verso mancante della profezia.» Raccolse la sanguigna da terra e la osservò con espressione triste. «Non mi lascerà andare finché non avrà quello che vuole.» Strinse il pastello nella mano e abbassò la testa, affranto. «È tutta colpa mia se siamo in questo casino, Camille. Non vostra. Di certo non tua. Se solo… se solo avessi un maledetto dono funzionante…»

Camille lo guardò sedersi contro il muro. Era come se ci fossero due Dante diversi, il primo era il ragazzo sorridente e sbadato che tutti vedevano all’esterno, il secondo invece era quello che si trovava di fronte a lei, l’augure affranto che davvero teneva al campo e che davvero voleva aiutare i suoi compagni nonostante le difficoltà.

«Dante…» mormorò afflitta. Si avvicinò, non potendo fare altro che rincuorarlo con le parole: «Non è colpa tua. Io li vedo i tuoi sforzi. Ci stai provando più di chiunque altro.» 

«“Provare” non è sufficiente» rispose lui. «Soprattutto non per Ashley. Vuole una profezia completa. Non mi farà uscire finché non l’avrà. Ma non si tratta solo di questo. Se… se fossi in grado di recitare profezie complete… potrei aiutare anche voi con la vostra ricerca. Avrei potuto scoprire io dove si trova Ecate. Avrei potuto… fare così tante cose… e invece…» Non concluse la frase, ma era chiaro cosa volesse dire. La tristezza nei suoi occhi parlava da sé.

La figlia di Trivia sentì di nuovo lo stomaco annodarsi. Avrebbe tanto voluto fare di più per lui, ma non poteva. «Troveremo Ecate, Dante. Te lo prometto.»

«Sì…» L’augure sollevò la testa, riuscendo a sorridere di nuovo. «Non mi serve la preveggenza per sapere che la troverete. Mi fido di te, Camille.»

Quelle parole la fecero sussultare, specie perché aveva incrociato il suo sguardo nonostante fosse incorporea. Adesso più che mai ne era certa: non avrebbe fallito. Non poteva fallire. Troppe persone erano coinvolte e troppe lo sarebbero state. Il campo… il mondo intero dipendevano da lei. 

«Hai… hai detto che il tuo dono non… “funziona”» disse Cam, paralizzata di fronte agli occhi di Dante. Erano marroni e arrossati, come quelli di un cucciolo smarrito. 

Non che a lei piacessero i cuccioli. 

«Cosa… cosa significa?» domandò.

L’espressione di Dante si fece di nuovo buia. Gli scappò un altro pesante sospiro. «Non… non sono stato del tutto onesto con voi. È vero che ho il dono della profezia, ma è… disturbato. Riesco a vedere scorci del futuro, sì, ma è tutto confuso, gli eventi si sovrappongono, si mischiano con parole a caso e il risultato è…» Accennò agli scarabocchi sul pavimento. «… questo.»

Camille osservò i graffiti, e si ricordò anche dei foglietti sparsi di Dante, con tutte quelle frasi che sembravano scritte senza alcun nesso logico. A quel punto molte più cose le furono chiare. E soprattutto capì, ancora una volta, che Dante non era davvero un pigro, o un incapace. C’erano forze più grandi di lui di mezzo. 

«Come… com’è possibile? Perché non funziona?»

Dante scosse la testa. «Non ne ho idea. Forse è opera degli dei. L’ultimo augure con un potere come il mio… per poco non c’ha rovinati tutti. Magari avevano paura che io potessi fare lo stesso.»

«Mi… mi dispiace così tanto…»

«Tranquilla.» Dante le sorrise di nuovo. «Una profezia sono riuscito a trovarla, alla fine. Non era completa, ma è bastata per farci capire cosa fare.»

Anche Camille sorrise, poi però si ricordò delle ultime parole di Lamia, poco prima di essere uccisa da Daniel, e spalancò gli occhi. Anche lei aveva visto quella profezia. Aveva creduto di essere lei la figlia abbandonata. Conosceva l’ultimo verso… e aveva detto che Zeus avrebbe scatenato la sua furia. 

«Dante, ascoltami» esordì, credendo di essere vicina a qualcosa di davvero grosso. Ripeté tutto quello che aveva sentito da Lamia, e a racconto concluso Dante schiuse le labbra, reagendo come se si fosse trovato lui stesso di fronte alla figlia mostruosa di Ecate.

«A-Aspetta… aspetta un momento…» bisbigliò, prima di alzarsi in piedi e cominciare a vagare come uno zombie per la cella, la testa bassa sugli scarabocchi. «I-Io… credo… credo di aver visto qualcosa…»

Una voce provenne fuori dal corridoio all’improvviso, folgorante come una scarica elettrica: «D’Amico? Che stai facendo?»

L’augure si paralizzò e perfino Camille si tappò la bocca. Ashley fece capolino da dietro l’angolo e si fermò proprio di fronte alla cella. Aveva le braccia conserte e uno sguardo così duro e crudele che Camille ebbe un brivido solo a guardarla. Non c’era alcuna traccia dei suoi occhi cristallini e sereni, tantomeno del suo sorriso gentile e luminoso: c’era il volto di una persona cupa, arrabbiata, che scrutava chi stava dall’altra parte delle sbarre come se fosse la causa di tutti i suoi mali. 

Per un momento Camille temette che si accorgesse di lei, ma era solo una paura irrazionale. Tuttavia, si riguardò dall’emettere una sola sillaba, per paura di essere sentita. Ashley non avrebbe potuto farle nulla, ma avrebbe potuto prendersela con Dante, e questa era l’ultima cosa che voleva. 

Il pretore indossava una cotta di maglia, senza nessuna medaglia appesa, e il mantello rosso era sgualcito. Sul viso aveva anche diversi graffi, forse dovuti alla rivolta menzionata da Dante. Il fatto che avesse dei segni significava che era stata ferita, e a Camille venne da domandarsi come fosse possibile. Aveva visto la figlia di Giove affrontare Encelado dentro a una tempesta e uscirne inerme. 

Chi… o cosa era riuscito a ferirla?

«Ti sei messo pure a parlare da solo, Dante?» cominciò lei, la voce più velenosa del morso di un basilisco. «Sei impazzito del tutto?»

«I-Io…»

«Ci sono novità sulla profezia?» Ashley sollevò una mano, da cui alcune scintille cominciarono a crepitare. «O forse ti serve qualche altro incentivo?»

Dante indietreggiò di scatto, sembrando genuinamente terrorizzato. Ora che la vedeva di persona, Camille non ebbe più dubbi: quella non era Ashley. Non era la ragazza che aveva conosciuto tanto tempo prima e di sicuro non era il pretore gentile e di buon cuore che aveva palesato di essere. Nessun leader avrebbe trattato in quel modo un ragazzo come Dante. 

«A-Ashley…» Dante sollevò le mani. «Ascolta, io…»

«No, Dante.» Il pretore si avvicinò alle sbarre. Era così pallida da sembrare uno degli scheletri di Elias. «Sono anni che continui a ripetermi le stesse cose. “Ascoltami Ashley, dammi ancora un po’ di tempo Ashley, non è così semplice Ashley.” Sono anni che sprechi il mio tempo. Non ti darò altre possibilità. Hai solo più un giorno. Se non mi darai quella profezia entro le prossime ventiquattr’ore…» Ashley indicò con il pollice un punto alle sue spalle. «… farò in modo che al Carcere Marmentino si liberi un posto speciale solo per te. Sono stata chiara?»

L’augure serrò le labbra e annuì mesto, di fronte al sorriso compiaciuto di Ashley. Camille non credeva di essersi mai sentita così furiosa. Almeno, non senza esplodere di rabbia con i propri poteri. Era convinta che se si fosse trovata lì di persona, le cose sarebbero precipitate in fretta.

«Ashley!» 

Qualcun altro arrivò di corsa, affiancando il pretore. Camille riconobbe il bustino d’armatura e la coda di capelli castani che sbucava da sotto l’elmetto di Cassie Collins. Nonostante il viso coperto, la figlia di Trivia si accorse comunque del naso gonfio del centurione, probabilmente un altro risultato della rivolta. «Elias non è ancora tornato» riferì, scattando sull’attenti. 

Ashley fece schioccare la lingua, anche se non sembrava davvero sorpresa. «Non mi dire…» 

Cassie deglutì. «Cosa… cosa facciamo adesso, signore?» 

«Metti insieme una squadra. Voglio i migliori che riesci a trovare. Uomini fedeli, non come quei ratti della Quinta Coorte. Domattina andremo noi a prendere quei tre traditori.»

La figlia di Marte fece un saluto militare. «Sissignore!»

«No, ferme!» gridò Dante, sollevando la testa all’improvviso. «Non potete andare!»

Un sorriso incredulo nacque sul volto di Ashley. «Come, scusa?»

«L’ultimo… l’ultimo verso» bisbigliò Dante, afferrando le sbarre e sporgendosi verso il pretore. «L’ho… l’ho trovato…»

«Che cosa?» Ashley spalancò gli occhi, imitata da Camille. Perfino Cassie schiuse le labbra. 

«“Con la sparizione del Velo Invisibile, affronterete la minaccia più temibile. Al richiamo della…”»

«Fermo, D’Amico.» La figlia di Giove scoccò un’occhiata diffidente a Cassie, che sussultò, poi tese l’orecchio a Dante. «Dillo solo a me.»

Il centurione si schiarì la voce. «Se… se volete io vado…»

«No. Tu rimani. D’Amico, muoviti.»

Dante s’irrigidì. Non sembrava davvero propenso ad obbedire, ma era ovvio che non avesse scelta. Si avvicinò all’orecchio di Ashley e sussurrò in maniera inudibile quello che aveva da dirle, finché la ragazza non sgranò gli occhi. Lo afferrò per il colletto, strappandogli un verso sorpreso. 

«Mi prendi in giro?!» sibilò, ad un millimetro dalle sue labbra. 

«N-No! Lo giuro…»

Ashley strattonò Dante con forza, facendogli sbattere la fronte contro le sbarre in un clangore orribile. 

«Sta’ zitto» rantolò, per poi spingerlo a terra. «Tu e i tuoi stupidi giuramenti.»

L’augure cadde sulla schiena, con un livido sulla fronte. Camille dovette trattenersi con tutto il suo autocontrollo per non chiamarlo allarmata. Spostò la sua attenzione su Ashley, che ora se ne stava nel corridoio con il respiro pesante, furibonda come un toro ferito. Nonostante non fosse lì di persona, il pretore incusse timore perfino in lei. Non l’aveva mai vista così, sembrava sul punto di scoppiare da un momento all’altro. 

«Che ci fai ancora qui?!» tuonò Ashley verso Cassie. «Va’ a fare il tuo lavoro!»

«S-Sissignore!» Cassie fece un altro saluto militare. Da come si allontanò, pareva che non stesse aspettando altro. 

«A-Ashley…» mormorò Dante, rimettendosi in ginocchio. «Ti prego, ascoltam…»

«Chiudi la bocca» lo zittì lei. Alcune scintille sprizzarono dai suoi capelli. «Sei l’essere più inutile che abbia mai conosciuto. Quando mi sarò occupata di questa faccenda, mi assicurerò che tu non possa più far perdere tempo a nessuno.»

Se ne andò senza dire altro. Dante rimase a terra, con la testa chinata. Camille aspettò che i passi di Ashley smettessero di risuonare, poi si avvicinò all’augure. «Dante… stai… stai bene?»

«Camille.» Lui si raddrizzò, voltandosi verso di lei con un’espressione talmente seria che la ragazza fu colta alla sprovvista. Non l’aveva mai visto così prima di allora. «Se Ashley dovesse trovarvi…» Scosse la testa. «Scappate. Non potete batterla. Trovate Ecate…» Si rimise in piedi, tossicchiando, e fronteggiò la ragazza incorporea. «… e tornate tutti interi. Siete la nostra unica speranza.»

Il modo in cui lo disse non ammetteva obiezioni. Non c’era alcuna incertezza nel suo tono, o nei suoi occhi. 

«Cosa… cosa dice l’ultimo verso, Dante?» bisbigliò Camille. 

Le labbra dell’augure si ridussero a una linea sottile. «Fai attenzione Camille. Se ti succedesse qualcosa… non me lo perdonerei mai.»

«D-Dante…» Camille sentì la gola inardirsi. «L-L’ultimo verso, che cosa…»

«Bonam Fortunam.» Dante le sorrise un’ultima volta. «Grazie… per esserti preoccupata per me. Significa molto.»

L’augure sferzò l’aria con la mano, colpendola in pieno, e tutto si fece buio. Poco prima che il sogno si interrompesse, dall’oscurità provenne la risata glaciale di una donna.

 

***

 

Camille si svegliò di soprassalto. Si mise a sedere, gli occhi di Dante ancora impressi nella mente, assieme alla sua espressione severa e angosciata. Strinse i pugni sulla superficie del sacco a pelo, mordendosi un labbro. L’ultimo verso della profezia… Dante l’aveva trovato.

E se aveva deciso di non rivelarglielo, doveva essere qualcosa di davvero brutto.

Un mugugno la portò a voltarsi verso il sacco a pelo di Kiana, dove la figlia di Venere stava dormendo come al solito con la bocca aperta e un rivolo di bava che le scivolava dal bordo delle labbra. Vederla così la fece sorridere, ma non durò a lungo. Quando si sarebbe svegliata avrebbe dovuto raccontare cosa fosse successo ai loro compagni della Quinta Coorte e quella prospettiva la angosciava, soprattutto perché nemmeno lei riusciva a crederci.

Anzi, sì, poteva crederci eccome. Specie dopo aver visto come si era comportata Ashley. Dante non aveva mentito, era… davvero impazzita.

Il cuore di Cam si strinse in una morsa al pensiero dell’augure, di quel sorriso che le aveva rivolto in particolare. Si riscosse quando sentì Kiana russare. Sì, certe cose davvero non cambiavano mai, come il suo sbavare mentre dormiva o il suo russare forte come un camion.

La figlia di Trivia sapeva che non sarebbe più riuscita ad addormentarsi, non dopo tutto quello che aveva visto. Uscì fuori dalla tenda, trovando ad accoglierla lo stesso panorama notturno. Erano rimasti ad attendere che Elias si riprendesse, ma poi la stanchezza aveva ricominciato a farsi sentire e sia lei che Kiana erano andate a dormire. A giudicare dal cielo stellato, non doveva essere passato molto tempo da quando si era addormentata.

Di fronte a lei trovò Jack, Penelope e Daniel, i primi due addormentati accanto al fuoco, l’ultimo invece sveglio e vigile, ad accudirlo. Si voltò non appena la sentì uscire. I due ragazzi si osservarono per qualche istante e Camille si sentì a disagio sotto il suo sguardo critico, ma poi lui non badò più a lei. Riportò l’attenzione sul fuoco e le fiamme arancioni gli illuminarono il viso pallido. Era impossibile capire cosa gli stesse passando per la mente. Se era successo qualcos’altro, durante l’assenza delle due ragazze, lui non lo diede a vedere.

Camille osservò il sacco a pelo destinato a Daniel, in cui invece avevano sistemato Elias per non farlo congelare. Erano pur sempre con l’inverno alle porte, e di notte la Valle della Morte non era poi così calda. Il figlio di Plutone era ancora privo di sensi, con gli occhi e le labbra serrate. Pure da svenuto manteneva comunque il suo cipiglio. Camille si domandò se lui avesse idea di quello che Ashley stava facendo nel campo, e soprattutto se lui non avesse mai fatto nulla per farla ragionare.

Lo stomaco che brontolava la portò a distrarsi pensando al cibo. Controllò nello zainetto e trovò un pacchetto di biscotti un po’ sbriciolati, ma ancora validi. Ne addentò uno, sperando che l’ottima pasticceria del Campo Giove riuscisse a farla sentire meglio, poi però si rese conto che non erano biscotti con gocce di cioccolato, ma con uvetta. Per poco non sputò fuori tutto quanto. Odiava i biscotti con l’uvetta. Chiunque avesse inventato quella colossale fregatura si meritava i Campi della Pena, se non il Tartaro. Staccò tutti i chicchi che trovò e poi mangiò il resto; la pastafrolla almeno era buona.

«Hai preso quelli sbagliati?» le domandò Daniel, facendola sobbalzare.

«Ehm… sì…» riuscì a rispondere, pietrificata sotto lo sguardo ora incuriosito del compagno di viaggio.

«Aspetta.» Daniel le lanciò un pacchetto di biscotti dal suo zaino. «Tieni. Così non devi staccare l’uvetta da quelli.»

Camille osservò il pacchetto di Monster Cookies che aveva tra le mani, sbigottita. Erano integrali e con le gocce di cioccolato. «G-Grazie…»

«Prego.» Daniel abbozzò un sorriso, ma non durò molto. Sorrideva così raramente e quando lo faceva era sempre per pochissimo tempo. Aveva sempre quell’espressione severa, arrabbiata, perfino un po’ triste. Ma soprattutto… spenta. Smarrita. Come se non sapesse nemmeno lui a cosa pensare, o a cosa essere. 

Però… però le aveva appena dato i suoi biscotti preferiti. Integrali, con gocce di cioccolato. E lei non aveva mai detto che erano i suoi preferiti. «Come… come sapevi che mi piacciono proprio questi?»

Daniel sollevò le spalle. «Ti piace il cioccolato. E mangi sempre integrale. Ho fatto due più due.»

La figlia di Trivia abbassò il pacchetto. Tutto a un tratto, non aveva più fame.

«Io non ti capisco» disse. «Prima… sei crudele con me. E poi ti comporti… così.» Lo osservò dall’altra parte delle fiamme. «Perché? Perché sei così… caldo e freddo, con me?»

Il ragazzo schiuse le labbra. Sembrò sinceramente spaesato dalla domanda. «Io…»

«Stai… cercando di scusarti con me per quella faccenda con le naiadi?»

«No… sì… cioè… io…»

«Che cosa cerchi di fare, Daniel?» domandò Camille. «Prima… prima mi allontani… e poi cerchi di riavvicinarti. Lo fai sempre. L’hai fatto al campo, quando hai saputo che avevo detto ad Ashley dei tuoi problemi. L’hai fatto in quella prigione, quando… quando non mi hai nemmeno degnata di uno sguardo, e poi sei venuto a consolarmi. E adesso questo. Perché… perché fai così?»

Daniel la osservò senza rispondere, con un’espressione di genuino stupore. Camille sentì lo stomaco attorcigliarsi. «Tu… tu non mi parli. Non mi dici niente. Non so mai se… se sto facendo qualcosa di giusto o di sbagliato, se ti sto dando fastidio oppure no. Se non ti piace quello che faccio, perché non me lo dici e basta?»

Altro silenzio. Il suo compagno la scrutava con la stessa aria smarrita di Dante, peccato che lei fosse lì, in carne e ossa di fronte a lui. Quando ripensò all’augure, il petto cominciò a farle male. Strinse il pacchetto di biscotti senza nemmeno rendersene conto. «Non… non capisco se… mi odi… o mi vuoi bene. Se sei arrabbiato con me oppure no.»

«No, Cam. Io… io non ti odio…» mormorò Daniel.

«E allora perché fai così? Mi sembra… mi sembra che tu mi stia prendendo in giro.» Camille incrociò il suo sguardo. «Che… che cosa sono io, per te? Un’amica? Una conoscente? Una… seccatura? Vuoi… vuoi che sia tua amica, ma senza che mi impicci? Perché… perché se è così…» Abbassò la testa. «Mi dispiace, ma non posso accontentarti. Io non… non voglio solo essere una conoscente che saluti e poi chi si è visto si è visto. Non voglio solo essere… un volto come tanti. Io voglio… voglio essere tua amica. Vorrei… vorrei tanto che tu… che io… che noi…»

Si morse le labbra con forza, con il cuore che martellava nel petto. Aveva detto di voler chiudere con lui, ma sapeva di non poterci davvero riuscire. Anche Kiana le aveva detto di non farlo, non così almeno. E poi… con tutto quello che stava succedendo nel mondo, con tutto quello che ancora dovevano affrontare, non poteva nemmeno essere certa che sarebbero sopravvissuti. Avevano solo più poche occasioni come quella per parlare. Doveva essere sincera, dire tutto quello che aveva da dire e togliersi quel peso dalla coscienza una volta per tutte.

«Vorrei tanto che tu… mi notassi. Vorrei che noi fossimo… qualcosa di più. Perché tu… tu mi piaci Daniel. Mi piaci davvero» disse, con un filo di voce. «Ma tu… tu lo sapevi già… giusto? Dopotutto…» Un sorriso amaro nacque sul volto della ragazza. Si asciugò una lacrima mentre scuoteva la testa. «… solo un cieco non l’avrebbe capito.»

Tornò a guardare Daniel con il viso che bruciava, questa volta però non per l’imbarazzo, ma per via del fuoco e di quel pianto che voleva riversarsi fuori da lei come un torrente. «Dimmi cosa vuoi, Daniel e io… io ti accontenterò. Se non mi vuoi tra i piedi… svanirò non appena avremo salvato mia madre. Se… se mi vuoi come amica, allora dovrai accettare il fatto che mi preoccupo per te. Se… se invece… tu ricambiassi i miei sentimenti… beh, potrei morire per la felicità, ma cercherò di non farlo perché per salvare Ecate dovrei essere viva» disse, riuscendo a ridacchiare tra le labbra tremolanti. «Ma ti prego, Daniel, parlami. Tu… sai cosa vorrei io. Adesso devi dirmi cosa vuoi tu. Non… non riesco più a sopportare questo silenzio. Non riesco a capirti se… se ogni volta che ti parlo… da parte tua c’è solo uno sguardo.»

Daniel rimase ancora in silenzio, con le labbra schiuse. Camille resse i suoi occhi scuri, macchiati di stupore, e attese una risposta, una risposta qualsiasi. Voleva soltanto capire una volta per tutte quel ragazzo. Dopo, avrebbe potuto mettersi il cuore in pace.

E quindi attese. E attese ancora, e ancora, con il fuoco che crepitava, gli sbuffi di Jack e il respiro pesante di Penelope, nella solitudine e nella desolazione di quel deserto.

Ma non arrivò nessuna risposta. Daniel serrò la bocca e abbassò gli occhi, incapace di guardarla ancora. Un pugno nello stomaco le avrebbe fatto meno male.

«Niente?» domandò incredula. «Non… non dici niente?»

Il ragazzo tacque. Non mosse nemmeno un muscolo. Non fece nulla. Niente. Niente di niente. Camille sentì le viscere annodarsi per la rabbia, ma mantenne il controllo. «Va bene. Ho capito. Ecco…» Gli lanciò di nuovo il pacchetto di biscotti. «… tieniteli pure. Non li voglio più. Non voglio più niente da te.»

Daniel prese la confezione al volo e la guardò di nuovo. Ecco un’altra cosa che non era cambiata: quello sguardo maledetto, privo di espressività, privo di tutto. Un paio d’occhi, che lei aveva reputato belli, e un viso con le guance pallide, che lei aveva reputato bellissimo, e nient’altro.

«Sono stata una stupida» disse ancora lei, affondando le dita nella pietra su cui si era seduta. «Scusa… se ti ho dato fastidio, Daniel. Non accadrà più. Te…» Le labbra le tremolarono, gli occhi bruciarono di nuovo; rischiava di piangere ancora, ma si impose di non farlo. Non gli avrebbe dato quella soddisfazione. E di sicuro non sarebbe sembrata ancora più patetica di quanto già non fosse. «… te lo prometto.»

Riportò la sua attenzione sulle fiamme e afferrò un biscotto con l’uvetta, mangiandoselo per distrarsi. Nemmeno il loro saporaccio riuscì a scacciare l’amaro nella sua bocca.

«YAWN

Sia Daniel che Camille sobbalzarono. Kiana uscì dalla tenda proprio in quel momento, ergendosi in tutta la sua statura e stiracchiandosi come un gatto. I suoi capelli erano una criniera disordinata, come se fosse appena uscita da una centrifuga. «Ah, ragazzi… certo che si dorme proprio da schifo lì dentro. Ho male dappertutto. Allora, il nostro amico si è svegliato o…» La figlia di Venere si accorse dei loro sguardi e si interruppe. «Ehm… che c’è? Che avete da guardare? È… per i miei capelli? Mi sono svegliata nel cuore della notte, santi numi!»

Andò a sedersi accanto a Camille, facendo schioccare la lingua. «Tsk… dovreste guardarvi voi due, anziché giudicare… oh, uvetta, buona! Ti dispiace, Cam?» Le fregò il pacchetto di biscotti e se ne caccio due in bocca assieme. «Munch munch glashie mille munch munch…»

Se non altro, la sua presenza molto “scenica” aiutò Camille a non pensare a Daniel. Almeno per quei quindici secondi.

«Allora…» disse proprio la figlia di Venere, mandando giù i biscotti. «Ehm… che si dice di bello?»

Naturalmente Daniel non rispose. Camille invece pensò al sogno che aveva fatto e si strinse nelle spalle. Non sapeva cosa la facesse sentire peggio, quello che aveva visto nel sogno, o il fatto che Daniel non le avesse detto nulla nonostante si fosse aperta in quel modo con lui. Sapeva che doveva concentrarsi di più sulle cose importanti, salvare Ecate, prevenire la fine del mondo e cose così, però allo stesso tempo, egoisticamente, il pensiero che lei per Daniel non significasse nulla le faceva molto più male.

Dovette sembrare davvero angosciata, perché Kiana le posò una mano sulla spalla. «Cam? Tutto ok?»

La ragazza si sforzò di ricacciare indietro un’altra lacrima e annuì. «Ho… ho fatto un sogno. Sarà… sarà meglio che ve ne parli.»

«Cose brutte?» domandò Kiana, con uno strano tono di voce, come se sperasse in una risposta negativa.

Purtroppo, non la ottenne.

«Cose molto brutte.»

«E ti pareva…»

Camille si accorse che Daniel la stava guardando di nuovo, in attesa, e si sentì terribilmente a disagio. Cercò di non guardarlo e raccontò il sogno che aveva fatto.

«Il… Carcere Marmentino?» sussurrò Kiana a racconto concluso. Rimase con il biscotto vicino alla bocca. «David… no…»

«Dobbiamo… dobbiamo continuare a muoverci» disse Camille. «Ashley verrà a cercarci, dobbiamo trovare Ecate prima che…»

«Non avete speranze.»

La figlia di Trivia sobbalzò, mentre a Kiana scappò un gridolino e il biscotto le volò via dalle mani, finendo dritto nel fuoco. Entrambe si voltarono verso il sacco a pelo di Elias, dove il pretore era seduto, gli occhi aperti e le labbra serrate; pareva volerli incenerire tutti con lo sguardo.

«Ben svegliato, Fido» riaprì bocca Daniel, mostrando l’unica emozione che sembrava in grado di provare, ossia la cattiveria. «Dormito bene?»

Elias strinse i denti. «Lasciatemi andare. È un ordine.» La sua voce era profonda, baritonale, con tanto di accento britannico. Ricordava quella di un uomo adulto. Lui stesso, alla veneranda età di diciott’anni, sembrava già un uomo.

«A-Aspetta un secondo!» Kiana era sconvolta. «Tu parli?!»

«Certo che parlo! Come pensi che comunichi con Ashley e i centurioni?»

«Non lo so… scrivendo?»

Il figlio di Plutone corrugò la fronte. Il suo sguardo sembrava dire: “Come ho potuto farmi catturare da questi idioti?”

«Non ve lo ripeterò un’altra volta. Liberatemi, subito!» Nonostante il tono severo, la voce di Elias tradiva alcune vene di agitazione.

«Perché non ti liberi da solo?» suggerì Daniel. «Vuoi forse dirmi che il secondo miglior pretore del Campo Giove non può liberarsi da due nodi ai polsi?»

Elias si irrigidì e scoccò un’occhiata incendiaria a Daniel. «Voi non capite la gravità della situazione. Ashley sa che siete qui. Non ci metterà molto ad arrivare.»

«E come fa a saperlo?»

«Perché gliel’ho detto io.» Elias fece vagare lo sguardo su tutti loro, soffermandosi su Camille per ultima. La ragazza sussurrò, calamitata a quegli occhi così lucenti e particolari. Il ragazzo parlò proprio mentre guardava lei: «Moreau ci ha parlato di una potenziale pista in Alaska. Stavo per partire, ma poi ho percepito la presenza di voi tre.»

«Cosa? E come?» domandò Kiana.

Elias grugnì. «Lo sapete perché questo posto si chiama “Valle della Morte”?»

«Per… le piante e gli animali che… fanno fatica a vivere qui?»

«Idioti. Si chiama così perché è il punto del paese che si trova esattamente sopra il regno di mio padre. A sud della valle c’è l’Averno.»

«L-L’Averno?» bisbigliò Camille. «Non… non è un punto d’accesso per gli Inferi?»

«Sì. Il Bacino di Badwater. Il punto più basso in assoluto di tutti gli Stati Uniti. Il Lago D’Averno si è trasferito lì, proprio come la porta di Morfeo a New York, o l’ingresso che tutti conosciamo a Los Angeles. Siete nel mio territorio. Credevate davvero di poterci scorrazzare senza che me ne accorgessi?»

Camille inorridì. Quindi, per tutto il tempo… avevano proseguito sotto gli occhi di tutti. O, quantomeno, di quelli di Elias. Per tutto il tempo… erano stati ad un passo dagli Inferi, in tutti i sensi. Il pensiero le fece accapponare la pelle.

«E tu hai detto ad Ashley che eravamo qui, proprio come un bravo cagnolino» concluse Daniel, l’unico che non sembrava affatto turbato da tutto quello.

Il figlio di Plutone sembrava un toro imbizzarrito pronto a esplodere proprio come Ashley nel sogno di Camille.

«Aspetta un momento, Elias» si intromise Kiana. «Se Ecate si trova nella Valle della Morte, perché non hai sentito anche la sua presenza?»

«Ecate è qui?» domandò il pretore, ora sembrando solo confuso. «Dove?»

Kiana e Camille si scambiarono uno sguardo.

«Come non detto…» borbottò la prima.

«Forse… forse Clizio maschera la sua presenza» suppose Camille, mentre si mordeva le unghie per la tensione. «Se Ecate ha detto che solo io posso sentirla, allora deve essere così e basta.»

Nessuno sembrava avere teorie migliori. Di sicuro non Daniel, che pareva tutto fuorché interessato alla vicenda. Quando Camille si rese conto di essere rimasta a guardarlo, trasalì e distolse lo sguardo.

Elias riprese la parola: «Sentite, lads. Ashley mi ha detto che se non vi avessi riportato al campo entro questa notte, ci avrebbe pensato lei a voiE quando vi troverà, perché vi troverà, se la prenderà anche con me per aver fallito. Se siamo fortunati, ci ucciderà tutti subito. Se siamo sfortunati, prima ci porterà nella Principia per divertirsi con noi come ha fatto con D’Amico e Moreau, poi ci ucciderà.»

«Non… non puoi dire sul serio!» sbottò Kiana.

Elias non rispose. Si limitò a guardarla dal basso, mantenendo il contatto visivo senza muovere nemmeno un muscolo. La sicurezza di Kiana vacillò secondo dopo secondo, finché non abbassò le spalle. «Oh, cavolo… dici sul serio…»

«Avete visto cos’è in grado di fare Ashley.» Il figlio di Plutone si dimenò dal sacco a pelo, senza risultati. «E immagino abbiate saputo cosa sta succedendo in tutto il paese. Sono stato in alcune città, mentre vi cercavo. La situazione è precipitata. I mortali sono nel panico, stanno scoppiando rivolte dappertutto. I morti dicono che presto verrà indetta la legge marziale.»

«I… i morti?» sussurrò Camille con un filo di voce, credendo di aver sentito male. In realtà, sperava di aver sentito male tutto.

Lo sguardo di Elias le fece capire che invece aveva sentito benissimo. «Sì, Gray, i morti. Sono ottime fonti di informazioni. Dovresti saperlo, dopotutto…» Le rivolse una strana smorfia. «… sei riuscita a controllare i miei scheletri, “regina dei fantasmi”. O forse dovrei dire “principessa”.»

In qualsiasi altra circostanza, sentirsi chiamare “principessa” da Elias sarebbe stato un sogno che diventava realtà, per Camille. In quel momento, invece, la cosa le incusse solamente una forte inquietudine, oltre che il desiderio di non sentire mai più per il resto della sua vita le parole “principessa” e “fantasmi” inserite nella stessa frase.

«Ho… ho solo avuto fortuna…» bisbigliò lei, incapace di sostenere ancora la vista di quelle monete lucenti che aveva al posto delle iridi. «Non ho idea di come si controllino i morti. Né di come si possa comunicare con loro.»

Udì lo schiocco della sua lingua. «Sì, certo. In ogni caso, presto l’esercito verrà schierato in tutto il paese, e potete stare certi che troveranno anche il Campo Giove. Alcuni mortali si sono già avvicinati troppo. Siamo riusciti a tenerli lontani, ma ne arriveranno altri. L’unica possibilità che tutti quanti abbiamo per salvarci la pelle, è lasciare che sia io a portarvi da Ashley. Quando vedrà che vi ho catturati, potrò convincerla a non farvi niente se ci direte dove hanno nascosto Ecate. Vi lasceremo sotto sorveglianza nel campo, in attesa di processo, e nel frattempo noialtri cercheremo Ecate e la libereremo. È l’unico modo per evitare il peggio.»

«Oppure possiamo andare avanti e trovare Ecate da soli» replicò Daniel, con un’alzata di spalle. «O, ancora meglio, potremmo aspettare che Ashley ci trovi e dare una bella lezione anche a lei. Proprio come abbiamo fatto con te.»

Il figlio di Plutone gli lanciò un’altra occhiataccia e Daniel per tutta risposta sogghignò di nuovo. Sembrava che infastidire Elias fosse l’unica cosa a dargli un briciolo di soddisfazione. Camille rimase uno spettatore silente di fronte a loro. Ripensò a quello che Dante le aveva detto nel sogno: non potevano battere Ashley. E, bene o male, era la stessa opinione che anche Elias aveva. Allo stesso tempo, però… fino al giorno prima non era nemmeno sicura che loro potessero battere lo stesso Elias, eppure c’erano riusciti, e anche in brevissimo tempo. O meglio, Daniel c’era riuscito.

Se Daniel avesse combattuto contro Ashley con la stessa irruenza con cui aveva combattuto contro Elias… che cosa sarebbe successo?

Il solo pensiero le faceva accapponare la pelle. La forza inarrestabile e l’oggetto inamovibile. Una tempesta potentissima che si scagliava contro un muro di oscurità indistruttibile.

E non stava nemmeno considerando sé stessa in tutto quello. Non era brava con i suoi poteri, questo era senza dubbio il suo difetto più grande, ma aveva visto i risultati di quando erano stati sprigionati al massimo. O almeno, credeva che fosse il massimo.

Se avesse imparato a controllarli al meglio… avrebbe potuto affrontare Ashley?

Strinse i pugni. Ma a che cavolo stava pensando? Ashley era pur sempre una semidea. Che fosse impazzita o meno, non doveva vederla come una nemica. Quel tipo di pensiero era proprio ciò che i loro veri nemici volevano. Volevano che si dividessero, che si combattessero tra di loro. Prima c’era stato l’attacco per spaventarli, poi la faccenda della talpa, ora quello. Volevano instillare panico e dubbi nella Legione, e ci stavano riuscendo.

Tutto a un tratto, le tornarono in mente le parole di Ruby: «Divide et impera, come dite voi. E voi sarete molto divisi

«No» affermò all’improvviso, drizzando la testa.

Kiana inarcò un sopracciglio. «No?»

Anche i due ragazzi interruppero la loro gara di sguardi per voltarsi verso di lei. Camille mandò giù il groppo alla gola, poi si alzò in piedi, ergendosi nel suo imponente metro e sessanta. «No» ripeté, guardando prima Daniel, poi Elias. «No a entrambe le cose. Non affronteremo Ashley. E non ci faremo nemmeno portare da lei.» Osservò tutti loro, uno ad uno. «Ma non capite? Stiamo facendo il gioco dei nostri nemici. Ci... ci stanno facendo combattere tra di noi. Ci stanno… dividendo…»

Tutto a un tratto, fu come se un altro tipo di nebbia fosse appena scomparso da di fronte a Camille. Spalancò la bocca, osservando il vuoto, il rumore della legna che scoppiettava a riempirle le orecchie.

«Cam?» Kiana si avvicinò per pungolarla al braccio «Stai… stai bene?»

La figlia di Trivia inclinò la testa verso di lei. «Hai… hai visto dei greci sotto attacco, giusto?»

«Sì…»

«E… e allora… perché, se siamo senza confini, il Campo Giove è stato attaccato solo una volta?»

«Ehm…»

«E se non fosse stato un vero attacco? Dante ha detto che cercavano le sue profezie, ma se invece… invece avessero avuto un altro scopo?» La figlia di Trivia osservò Elias dall’alto. «L’attacco… era per valutare le nostre difese. Clizio ha detto che… che i pretori ci hanno salvati. Hanno capito che tu e Ashley eravate i più pericolosi. E adesso che tu sei qui, e Ashley sta per lasciare il campo, assieme a un gruppo dei migliori legionari… e adesso che una coorte intera è fuori uso...»

«Miei dei…» Kiana spalancò gli occhi. «Il campo rimarrà sguarnito!»

Camille serrò le labbra, incrociando il suo sguardo angosciato.

«Quindi… Ashley ci rovinerà tutti» concluse Daniel, con un altro sorrisetto. «Ah, l’ironia…»

«Ti sembra il momento di scherzare?» sbottò Kiana. «Non l’hai mai fatto in vita tua, devi proprio cominciare adesso?!»

Il sorriso svanì dal volto di Daniel. «Scusa tanto» bofonchiò, per poi gettare altra legna in quel fuoco che ormai era più alto di Camille. Le fiamme lanciarono sfumature arancioni sui suoi occhi scuri, nei quali rimase ancora quel pizzico di malizia che non li aveva più lasciati da quando Elias si era risvegliato. Era come se, in qualche perverso modo, Daniel trovasse divertente tutta quella situazione così disastrata.

«Elias» proseguì Camille, sforzandosi di ignorare il suo compagno di viaggio – e il suo stomaco che continuava ad annodarsi imperterrito ogni volta che lo guardava. «Devi tornare indietro. Devi dire ad Ashley che sta commettendo un errore.»

Elias serrò le palpebre e scosse la testa. «Non posso farlo, Gray. Non posso tornare al campo senza di voi.»

«Elias, ascolta…»

«No, tu ascolta» Ia zittì il pretore. «Al momento la situazione è questa: da una parte c’è Ashley che vuole tutte le nostre teste, dall’altra abbiamo isteria di massa, mostri che attaccano città e che minacciano di invaderci il campo e dulcis in fundo la fine del mondo. Qualunque cosa io faccia, non servirà a niente. Le cose sono messe così male che probabilmente me ne starei più al sicuro negli Inferi che qui. Negli Inferi. Capisci cosa voglio dire?»

L’idea che gli Inferi fossero un luogo sicuro in qualsiasi modo era così assurda da far perfino ridere. Peccato solo che in quel momento le risate fossero l’ultima cosa di cui Camille aveva bisogno. Anzi, dopo quelle parole, l’unica emozione che riusciva a provare era una rabbia accecante. Affondò le unghie nei palmi. «Vuoi davvero mollare tutto così? E che ne sarà del campo? Che ne sarà di tutti i nostri amici?! Sei il nostro pretore, Elias, devi fare qualcosa! Non puoi…»

«Ci penso io.» Kiana le posò una mano sulla spalla. L’amica la tranquillizzò con un cenno del capo, che la lasciò stupita, dopodiché posò i suoi occhi cangianti su quelli del pretore. Andò ad accovacciarsi di fronte a lui, l’espressione stoica come un muro di marmo. «“Che razza di pretore è uno che esegue ciecamente gli ordini dell’altro?” Questa frase ti dice niente?»

Elias sussultò, apparendo genuinamente sorpreso. «E tu… tu come…»

«Hai sempre svolto ogni lavoro che Ashley ti ha assegnato senza fare storie» lo interruppe Kiana. «Ogni volta che c’era da sporcarsi le mani, Ashley mandava te. Te la sei perfino presa con Dante, uno che non potrebbe difendersi nemmeno se lo volesse. Lui era tuo amico. E tu l’hai aggredito solo perché era quello che voleva Ashley.»

Il figlio di Plutone sembrò colpito da quell’ultima parte, ma resse comunque lo sguardo di Kiana. Anche Camille si rattristì al pensiero di Dante che veniva torchiato da Elias, soprattutto se accostava tutto quello all’immagine di lui ferito che aveva visto nel sogno. E, soprattutto, se pensava a come nonostante i suoi problemi, nonostante le sue difficoltà, lui avesse comunque cercato di fare sempre la cosa giusta per tutti loro.

«Perché, Elias? Perché l’hai fatto? Qual è il senso di avere due pretori, se tanto è solo uno a comandare?» Kiana non sembrava arrabbiata. Aveva un tono di voce fermo, deluso perfino. «Ti ha ricattato con qualcosa? Ti ha minacciato? O c’è dell’altro?»

Elias non rispose. Distolse lo sguardo da lei e rimase chiuso in quel silenzio ermetico.

«Elias. Elias!» lo chiamò Kiana. Tutto a un tratto, divenne lei quella furibonda. Lo strattonò per il colletto della camicia. «Pretore Crowe! Hai appena detto che Ashley ci farebbe tutti fuori! Che ti farebbe fuori! È una maledetta psicopatica, eppure tu l’hai aiutata! Perché l’hai fatto?!»

Camille sobbalzò quando Kiana alzò la voce in quel modo. Meno male che voleva pensarci lei. «K-Kiana, calmati…»

«Io non mi calmo, Cam!» gridò la figlia di Venere. «Quella stronza ha fatto del male a Mary! Ha imprigionato tutti i nostri amici, e lui l’ha aiutata! Avrebbe potuto fermarla, e invece l’ha aiutata. È colpevole tanto quanto lei!»

«Credi che non lo sappia?!» tuonò a quel punto Elias, facendo sobbalzare Camille per la seconda volta. Riportò gli occhi su quelli di Kiana, i denti stretti in un’espressione di pura rabbia, in cui però la figlia di Trivia riuscì anche a scorgere un velo di tristezza, per non dire di dolore. «Credi… che non sappia che quello che ho fatto è sbagliato? Credi che ne vada fiero?!»

«Non ne ho idea, Crowe. Sei tu quello che deve decidersi ad aprire quella maledetta bocca» replicò Kiana, senza battere ciglio. Aveva detto a Camille di avere paura, ma in quel momento sembrava tutto fuorché spaventata. «Perché hai aiutato Ashley se sapevi che quello che faceva era sbagliato?»

«Perché anche lei era mia amica» sibilò Elias. «Quando l’ho conosciuta era una brava persona. Ci siamo sempre guardati le spalle. Ma poi… poi è cambiata. E quando le cose sono… scappate di mano… non ho avuto il coraggio di dirle di smetterla. Io… non volevo fare del male a Dante. Non volevo fare del male a nessuno.»

Sospirò profondamente. Tutto a un tratto, sembrava davvero dispiaciuto. «Ho fatto quello che ho fatto perché volevo aiutarla, perché speravo che… che se l’avessi fatto, lei sarebbe tornata come prima. Rivolevo solo la persona che ho conosciuto…» Abbassò la testa. «Mi… mi dispiace. Sono stato un pessimo pretore.»

Kiana rimase in silenzio. Anche Camille per un istante non seppe cosa dire. Se le avessero detto che un giorno Elias avrebbe avuto quell’espressione così mesta, lei non c’avrebbe mai creduto: non assomigliava nemmeno lontanamente all’augure severo e autoritario che tutti conoscevano. Ma adesso sapevano la verità. Ashley non l’aveva minacciato, non l’aveva ricattato, e allo stesso tempo lui non era mai stato d’accordo con lei. Semplicemente, le voleva bene. E soprattutto rivoleva la sua vecchia amica.

«Puoi ancora aiutarci, Elias» disse, accovacciandosi di fronte a lui. «Devi parlare con Ashley. Convincila a tornare indietro. Se è davvero tua amica, deve ascoltarti. Possiamo salvare Ecate, ma devi fidarti di noi.»

Gli occhi di Elias non si staccarono dai suoi. La sua espressione abbattuta mutò, facendosi più assorta, ma poi scosse di nuovo la testa. «Ashley… Ashley non mi ascolterà mai. Mi dispiace. Però…» aggiunse, prima che Camille si demoralizzasse. «… posso tornare al campo mentre lei non c’è, imbastire le difese e liberare la Quinta Coorte. Se davvero i nostri nemici vogliono attaccare, ci sarà bisogno di tutto l’aiuto possibile. Il Campo Giove non deve cadere per nessun motivo.»

La figlia di Trivia si strinse nelle spalle. Quell’idea era comunque meglio di niente, anche se avrebbe di gran lunga preferito non avere Ashley alle calcagna.

«Com’è che hai così tanta paura di Ashley?» domandò Daniel con uno strano tono di voce. Era rimasto in silenzio per tutto quel tempo, accanto al fuoco, la luce delle fiamme che lo faceva sembrare uno spettro.

Le braccia di Elias fremettero; aveva stretto le mani a pugno dietro la schiena. «Non ho paura di nessuno, García. E non ha senso che ti spieghi perché non posso convincerla, perché tanto non capiresti. Nessuno di voi capirebbe. Posso solo dirvi che lei non si fermerà di fronte a niente e a nessuno. Non volete trovarvi sulla sua strada. E adesso liberatemi. Non c’è più tempo da perdere.»

Camille si scambiò uno sguardo coi suoi compagni. Daniel fece schioccare la lingua e si girò di nuovo verso il fuoco, Kiana invece sollevò le spalle. La figlia di Trivia avrebbe voluto fare altre domande a Elias, soprattutto perché la sua ultima frase ricordava un po’ la stessa cosa che le aveva detto Dante. Era come se Elias e l’augure sapessero qualcosa riguardo Ashley che però loro non sapevano. Ma infondo, erano stati amici. Avevano completato insieme un’impresa. Chissà quante altre cose sapevano gli uni degli altri, cose che forse loro non avrebbero mai scoperto.

Però Elias aveva ragione, non c’era più tempo da perdere. E in ogni caso, non sembrava desideroso di parlare ancora con loro. Camille si inginocchiò dietro di lui e tagliò i lacci che gli legavano i polsi con la daga. Elias si rialzò massaggiandosi e si voltò verso di lei: ora che era di nuovo in piedi la sovrastava di almeno trenta centimetri, facendola sentire insignificante. La ragazza deglutì, sentendosi vulnerabile sotto a quegli occhi così profondi. Fece per indietreggiare, ma il pugno di Elias si strinse attorno al suo polso all’improvviso. Vi furono dei fruscii alle loro spalle, Kiana e Daniel che estraevano le armi forse, ma Camille non poté voltarsi per controllare. Elias la tirò a sé e chinò il capo su di lei, sezionandola con lo sguardo.

«Lasciala andare!» ordinò Kiana. Ostentò sicurezza, ma la sua voce tremolò.

Elias non l’ascoltò. Rimase concentrato soltanto su Camille, che dal canto proprio non mosse più un muscolo, forse per lo stupore, forse per la paura. La daga le era caduta dalla mano quando il ragazzo le aveva stretto il polso; era disarmata e alla sua mercé. L’aura di invincibilità di Elias era riapparsa quasi dal nulla, risucchiando via ogni suo desiderio di ribellarsi.

Deglutì, con le gambe che tremolavano, guardandolo come una preda braccata dal lupo. Si accorse però che il suo sguardo non era severo, o arrabbiato, anzi: era quasi come… se la stesse rivalutando. Elias serrò le labbra, poi si infilò la mano libera sotto il colletto, per sfilarsi una collana che Camille prima non aveva notato, un cordino a cui era appeso uno strano ciondolo.

«Hai potere sui morti. Come me. Pochi lo possiedono. Per qualcuno è un dono, per qualcun altro è una maledizione» esordì lui, gli occhi conficcati nei suoi, la voce così profonda che la fece fremere. «Per me, è un monito.»

Le prese la mano con un tocco così delicato che non sembrava nemmeno più il suo e gliela girò, invitandola a scoprire il palmo verso l’alto. Camille si lasciò guidare da lui e dalla sua presa ferma e calda, consapevole di essere diventata più rossa di un peperone. Elias le posò la collana sul palmo, poi chiuse entrambe le mani sulla sua, facendole stringere le dita sopra il ciondolo aguzzo e freddo.

«Se dovessi trovarti in difficoltà…» proseguì. «… piantalo a terra. So che non è molto, ma mi sembra il minimo che possa fare.» Le lasciò la mano e fece diversi passi indietro, allontanandosi da lei. «Più avanti c’è un’oasi sicura dove potrete fermarvi per la notte, se vi può interessare. La proprietaria è una mia amica, ditele che vi ho mandato io e lei vi farà rimanere. Buona fortuna Gray. Trovate Ecate.»

Camille abbassò la mano, realizzando che lui stava per andarsene. «Devi liberare Dante» disse all’improvviso, con tono severo. «Lui era tuo amico. Devi liberarlo. E chiedergli scusa. E poi devi chiedere scusa anche a Marianne e alla Quinta Coorte.»

Elias non rispose. Si limitò ad annuire, gli occhi di nuovo velati di tristezza. Chissà cosa gli stava passando per la testa. Svanì con un salto nell’ombra subito dopo. Il sibilo leggero del vento fu l’unico suono a riempire il silenzio che scese con la sua sparizione. Camille scoprì il palmo: in mezzo a esso si trovava il ciondolo di Elias, bianco e appuntito, poco più piccolo di una punta di lancia.

Kiana sbirciò da sopra la sua spalla. «Ehm… che cavolo è?»

«Un dente di drago» mormorò Camille, incredula.

«Ah, sì, certo…»

«Serve per evocare gli scheletri» spiegò Cam, alzando gli occhi. «Ma hai mai aperto un libro, tu?»

«Sì… certo…»

La figlia di Trivia scosse la testa. E poi il caso disperato era lei. Mise il dente nella tasca della giacca e osservò il cielo stellato.

«Forza. Andiamo a dare un’occhiata a quest’oasi.»

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Capitolo 20
*** Furnace Creek ***


XX

Furnace Creek




Kiana sognò le terme del Campo Giove. C’era stata solo una volta in tutta la sua permanenza nel campo, ed era stato solo per pochi minuti: quando aveva scoperto che era la casa-base di tutti quegli arroganti della Prima e Seconda Coorte, aveva deciso di evitare quel luogo come la peste. 

Quella sera, però, fu diverso. Quella sera, non c’era nessun altro nelle terme.

«Dai, vieni» bisbigliò Marianne, facendole strada. «Ci siamo quasi.»

Kiana la seguì senza fare storie, troppo concentrata sul calore e la morbidezza della mano di Mary stretta nella sua. 

Non aveva la più pallida idea di come si fosse ritrovata lì assieme a lei. Sapeva solo che era stata tutta un’idea di Marianne. La professionale, soldatessa modello Marianne, che durante il suo turno di guardia era piombata in camera sua, l’aveva svegliata e obbligata a seguirla. Se non l’avesse visto di persona, Kiana non ci avrebbe mai creduto. Però era stata felice di seguirla.

Quando entrarono nell’ennesima stanza, Kiana sentì il rumore dell’acqua che scorreva, e il calore e l’umidità diventarono così intensi da farle sentire i vestiti bagnati. Mary accese le luci e per la seconda volta le terme apparvero di fronte ai suoi occhi. 

Il salone era gigantesco, decorato con colonne di marmo lungo i bordi e statuette da cui sgorgavano fiotti d’acqua che andavano a tuffarsi nella vasca posta al centro di esso. Era come un’enorme piscina interna, scavata nel marmo.

Mary la guidò verso alcuni gradini che scendevano fino a immergersi nella vasca. Le lasciò andare la mano e si sedette sul bordo, accovacciandosi in modo da tenere gli scarponcini a filo con l’acqua. Kiana andò a sedersi accanto a lei e si accorse del suo sorriso rilassato, una rarità che occorreva soltanto quando si trovava in una compagnia. 

«Perché siamo venute qui?» le domandò.

«Hai detto che non ci vieni mai. Volevo farti una sorpresa.» 

«Hai lasciato scoperta la postazione solo per farmi una sorpresa?»

«Sì… devo essere impazzita.» Mary alzò le spalle. «Ti conviene goderti questo momento finché dura. In alternativa, possiamo tornare indietro anche adesso.»

Per Kiana fu impossibile non notare la finta noncuranza con cui le rivolse quelle parole. Le fu subito chiaro che Mary tenesse davvero a quel momento, dal modo in cui l’aveva presa per mano, fino al rischiare di finire nei guai solo per stare assieme a lei, da sole, nella quiete di quel luogo che raramente era quieto. 

Forse… più che al momento, teneva a lei.

Il suo cuore sussultò a quel pensiero. Si schiarì la voce. «Beh… allora penso che mi godrò il momento.»

Si tolse le scarpe e buttò le calze alla rinfusa, per poi mettere i piedi a mollo nell’acqua. Le scappò un mugugno di soddisfazione quando il tepore delle terme le avvolse la pelle. 

Mary ridacchiò. «Allora, che te ne pare?»

Kiana fece finta di pensarci su. «Beh… non è tanto male. È giusto un po’ più piccola del bagno di casa mia.»

Il sorriso svanì dal volto di Marianne. Distolse lo sguardo da lei. «Non sei divertente.»

Sembrava davvero infastidita, al che Kiana realizzò che forse quella avrebbe potuto risparmiarsela. Tuttavia, fu comunque costretta a trattenere un sorrisetto nel vedere la reazione offesa di Mary. 

«Ehi.» Le posò una mano sul ginocchio, facendola raddrizzare. Incrociò il suo sguardo e di fronte a quegli occhi azzurri si sentì quasi nuda, ma non in maniera negativa: era come se tra lei e Mary non ci fossero barriere, come se quella ragazza potesse capirla in ogni sua minima sfaccettatura, come se la conoscesse meglio di chiunque altro, forse perfino meglio di sé stessa. 

Quello che aveva fatto quella sera non era nulla di speciale in sé, ma l’aveva fatto per lei. Si era messa a rischio, per lei. Nessun’altro aveva mai fatto nulla del genere. Solo Mary.

«Grazie» le disse, con un sorriso molto più sincero.

Un altro sorriso nacque anche sul volto di Marianne. La sua mano scivolò sopra quella di Kiana, facendola irrigidire. L’aveva presa per mano soltanto un attimo prima, eppure quel contatto le sembrò diverso. Anche l’espressione di Mary le sembrò diversa, come se ci fosse qualcosa di più all’interno di quegli occhi cristallini.

«Continui a non essere divertente» le disse, distogliendo lo sguardo da lei.

Kiana si sentì come se si fosse appena ripresa da una trance. Sbatté le palpebre un paio di volte, senza sapere come replicare, poi si rese conto che le loro mani erano ancora unite sopra il ginocchio di Mary. A quel punto, sorrise di nuovo. Con il cuore che le martellava nel petto, si abbassò lentamente, fino ad appoggiare la testa sul grembo della figlia di Bellona. La sentì ridacchiare e incrociò di nuovo il suo sguardo, questa volta dal basso. Non credeva di aver mai visto Mary così felice. L’accarezzò tra i capelli e nessuna delle due ragazze disse più nulla.

Rimasero così, in silenzio, avvolte nella pace e la quiete del Campo Giove dormiente e nel tepore delle terme e della reciproca compagnia.

 

***

 

Svegliarsi in un letto vero senza ricevere sorprese spiacevoli fu una sensazione indescrivibile. Nessun sacco a pelo scomodissimo, nessun suolo dissestato, nessun mostro che voleva farle la pelle.

Quando Elias aveva parlato di un’oasi, di sicuro Kiana non si sarebbe aspettata una cittadina con tanto di hotel a 5 stelle con alberi, giardini e piscine nel bel mezzo della Valle della Morte. Furnace Creek, così si chiamava. E la sua proprietaria… beh, di certo era una persona interessante.

Le avevano spiegato la situazione, detto che era stato Elias a parlargli di quel luogo, e lei aveva deciso di aiutarli. Aveva dato loro due stanze, una per lei e Cam e una per Daniel, con tanto di strizzata d’occhio mentre gli consegnava le chiavi – era andata in brodo di giuggiole per lui nel momento esatto in cui l’aveva visto – ma lui aveva deciso di dormire in tenda, fuori, per non lasciare soli Penelope e Jack. E forse per evitare che quella stramba si infilasse in camera sua mentre dormiva.

Kiana si mise a sedere sul bordo del materasso e sbadigliò. Attraverso le serrande abbassate filtrava un po’ della luce mite del primo mattino.

Il cuore le batteva ancora nel petto, al pensiero del sogno che aveva appena fatto. Gli occhi di Mary erano impressi nella sua mente, assieme al calore indistinguibile di quella serata.

E subito dopo, come un fulmine a ciel sereno, nella sua mente apparve l’immagine di lei nelle grinfie di quella psicopatica di Ashley.

Sospirò profondamente per scacciare quei pensieri e spostò lo sguardo sul letto accanto al suo, dove trovò Camille stesa supina, le braccia fuori dalle coperte che scendevano lungo i fianchi e i capelli sciolti che giacevano sul cuscino accanto al viso rotondo.

L’aveva vista addormentata così profondamente in diverse occasioni, al Campo Giove. Non gliel’aveva mai detto per non spaventarla, ma ogni volta che la trovava in quelle condizioni, temeva che non avrebbe più riaperto gli occhi. Pallida com’era, con quei capelli nivei e il viso smorto sembrava uno spettro, per non dire altro.

E dopo averla vista controllare proprio i morti, forse ora Kiana comprendeva il perché di tutto quello: Cam era pur sempre la figlia della “regina dei fantasmi”. Discendeva da una divinità degli Inferi, anche se non allo stesso livello di Elias, e ora la cosa si notava più che mai.

Eppure, nonostante potesse controllare i morti, nonostante avesse poteri così potenti e imprevedibili da radere al suolo interi edifici, nonostante potesse convincere le persone a fare tutto quello che voleva, aveva comunque un’aria fragile, innocua perfino. Chiunque la vedesse avrebbe pensato che quella ragazzina piccola e mingherlina non avrebbe potuto fare del male a una mosca. Kiana stessa l’aveva creduto, pensandola soltanto come una dalla cotta facile, e fricchettona, quel pensiero non se lo sarebbe mai tolto dalla testa. In un certo senso, le aveva ricordato sua cugina Afareen, una bambina di buon cuore che aveva cercato di esserle amica. Forse era per questo che si era sentita così protettiva nei suoi confronti, all’inizio.

Mai avrebbe creduto che, invece, avrebbe potuto farla svanire dalla faccia della Terra con la stessa semplicità con cui lei avrebbe calpestato una formica. Camille era proprio come quella rosa che aveva tatuata sul collo, innocua e delicata all’apparenza, bella perfino, ma con spine così affilate da ferire gli incauti. Si domandò se non avesse pensato la stessa cosa, quando aveva deciso di farsela. Forse, per tutto quel tempo, la verità su di lei era rimasta proprio lì, nascosta in bella vista.

Si erano messe d’accordo che la prima a svegliarsi avrebbe dovuto svegliare anche l’altra, ma Kiana non ebbe il cuore di farlo, non dopo tutto quello che era successo. Con tutto quello che aveva passato, non solo negli ultimi giorni, ma anche in tutta la vita, Camille meritava un po’ di riposo, non le importava se avevano poco tempo.

Le rimboccò le coperte, lanciandole uno sguardo angosciato al pensiero di ciò che le aveva mostrato. Non aveva idea di come facesse a essere così buona dopo tutto quello che aveva patito. L’unica cosa che Kiana sapeva era che l’avrebbe protetta, ora più che mai. Non aveva i suoi poteri, non aveva le sue stesse capacità, ma in compenso sapeva menare le mani. Sarebbe stata il suo braccio, il suo scudo, e l’avrebbe aiutata a salvare sua madre a qualsiasi costo, perché sapeva che Camille avrebbe fatto lo stesso per lei.

Dopo essersi fatta una doccia veloce per lavare via il sudore e la polvere accumulati durante il viaggio, Kiana si posizionò di fronte allo specchio del bagno. Incrociò lo sguardo del proprio riflesso e rimase immobile, a studiare le differenze rispetto al giorno prima. A volte, le sembrava di sentire ancora quelle mani che la toccavano, quella voce a un soffio di distanza dal suo orecchio. Venne percorsa da un brivido e chiuse gli occhi. Inspirò profondamente, per scacciare quella sensazione. Non poteva lasciare che quello che era successo continuasse a tormentarla. Aveva ancora molto da fare, doveva aiutare Cam, doveva salvare Ecate, ma soprattutto doveva tornare da Mary. Doveva tirarla fuori da quella prigione, a qualsiasi costo.

Si accorse del beauty case di Venere appoggiato sul lavabo. Non ce l’aveva messo lei, lì. L’ultima volta che l’aveva visto, era stato quando lo aveva scaraventato tra le colline di Oakland. Rimase immobile, a fissare quell’affare come se fosse stata una granata inesplosa. Poi, avvicinò la mano e lo prese.

Non aveva idea di che cosa aspettarsi, una volta aperto. Magari qualche arma segreta con cui abbattere tutti i mostri in un sol colpo, o qualcosa del genere. Si sentì un po’ delusa quando ci trovò soltanto quello che avrebbe dovuto trovarci, ossia una quantità infinita di trucchi e accessori, dalla crema idratante, alla cipria, all’illuminante.

Controllò di nuovo il proprio riflesso e si morse un labbro. Infine, sospirò.

“Va bene, mamma. Hai vinto tu.”

Aprì l’acqua e si sciacquò bene la faccia, nonostante fosse appena uscita dalla doccia. Espirò profondamente, poi, poco per volta, dapprima con incertezza e poi sempre con più coraggio, si mise all’opera. Non aveva mai fatto niente del genere, eppure sapeva alla perfeziona cosa fare con tutti quei prodotti e soprattutto quale ordine seguire. All’inizio pensò che sarebbe stato semplice, ma più andava avanti, più si rendeva conto che in effetti il suo viso aveva molte più imperfezioni di quanto credesse.

Non che le importasse, a lei non interessavano quel genere di cose.

Ci mise molto più di quanto avrebbe potuto immaginare, ma quando chiuse il beauty case dopo avervi riposto dentro tutti gli “utensili del mestiere”, rimase immobile di fronte allo specchio. All’inizio, per poco non si riconobbe. Le sembrava di trovarsi di nuovo di fronte alla Barbie mediorientale di un paio di anni prima, quando era stata riconosciuta da sua madre. All’epoca aveva odiato con tutta sé stessa quell’aspetto. L’aveva visto come uno scherzo di cattivo gusto, una presa in giro per colpa di tutto quello che aveva patito in quanto primogenita femmina. Adesso, però, dopo tutto quello che era successo, si sentiva diversa.

Era una figlia di Venere. Era una ragazza. Era una bella ragazza. Ed era spaventata da quello che sarebbe potuto succedere. Aveva paura di combattere, di ferirsi, di morire. Non era la guerriera coraggiosa che credeva di essere, o che voleva essere, forse non lo sarebbe mai stata, ma andava bene così. Non doveva vergognarsi di quello che era e soprattutto non doveva più mentire agli altri e, soprattutto, a sé stessa. Aveva commesso degli errori, si era sbagliata su Venere, su Camille, perfino su Daniel, ma finalmente aveva aperto gli occhi. Non era troppo tardi. La ragazza che la osservava di rimando attraverso lo specchio era una persona nuova, diversa, una pronta ad accettare le conseguenze delle sue azioni. E poi, in effetti… col trucco stava davvero bene. Si accarezzò una guancia e sorrise al proprio riflesso. Ripensò al sogno che aveva fatto su Mary e arrossì. Chissà come avrebbe reagito se l’avesse vista così.

Quando uscì dal bagno trovò Camille che si stava stropicciando le palpebre. «Buongiorno» la salutò, anche lei con uno sbadiglio gigantesco.

«Buongiorno a te» rispose Kiana, andando a sedersi sul bordo del suo letto. «Dormito bene?»

Cam stava ancora sbadigliando. «Ah-ah… tu invece?» Poi la guardò meglio e corrugò la fronte. «Aspetta un momento… ma ti sei truccata??»

Kiana si sentì un po’ in imbarazzo mentre annuiva. Non aveva mai nascosto il suo disprezzo per quel genere di cose, perciò comprendeva lo stupore di Camille. Durò molto meno di quanto si aspettasse, però, perché la sempre gentile e supportiva Cam le rivolse un sorriso enorme. «Stai bene!»

Anche se sapeva che gliel’avrebbe detto perfino se col trucco fosse sembrata un clown, Kiana le sorrise. «Grazie.»

La sua amica sbadigliò per la terza volta consecutiva. «Mi faccio una doccia e partiamo subito. Non dobbiamo perdere altro tempo.»

«Oh, dai! Almeno colazione possiamo farla?»

«Potremo farla in viaggio.»

«Ma io voglio farla al bar dell’hotel!»

Camille le scoccò la migliore occhiata di sufficienza della storia. Kiana rispose con un sorrisetto innocente, e la piccoletta sospirò. «Va bene, tu comincia ad andare, io arrivo appena ho finito.»

«Sei la migliore!» Kiana l’abbracciò di getto, strappandole un grido, forse di sorpresa, forse di dolore.

«M-Mi spezzi la schiena, Kiana…»

Poco dopo, Kiana si trovò seduta nel bar, in attesa della sua mega ordinazione. Fece vagare lo sguardo in quel locale, incuriosita dall’arredamento. Gli sgabelli, il bancone, i tavoli e il pavimento erano ricalcati da quelli dei classici film western, tipo saloon. Lungo le pareti invece erano appese cartoline e fotografie provenienti da ogni angolo della Valle della Morte.

C’erano diversi altri clienti, ma se ne stavano tutti concentrati sui loro cellulari, o tablet, o laptop. Kiana non doveva sbirciare i loro schermi per capire che stavano guardando i notiziari. Probabilmente era gente che aveva deciso di fare un tour della Valle della Morte e di punto in bianco aveva scoperto che il mondo era sprofondato nel caos nel giro di ventiquattr’ore. Anche durante la strada tra camera sua e il bar aveva incrociato diverse persone con le borse agli occhi e gli sguardi vitrei. Perfino i camerieri e il barista erano cupi in volto e parlottavano tra loro come se stessero tramando qualcosa. Avevano cercato di seguire la loro classica etichetta quando era andata a ordinare la colazione, ma aveva subito notato la tensione nei loro sguardi e nei loro sorrisi. Con tutto quello che stava succedendo là fuori, era difficile rimanere calmi.

Con l’eccezione della proprietaria di quel posto, l’unica persona che Kiana aveva visto comportarsi come se niente fosse, l’umore generale di tutti quanti rispecchiava molto bene quel cielo nuvoloso che fuori da quell’albergo non voleva più saperne di sparire.

Tutto a un tratto, un fortissimo odore di guai avvolse l’aria, camuffato da dolce profumo da donna.

«Buongiorno cara.»

Kiana drizzò la testa, trovandosi di fronte il viso sorridente di qualcuno che non aveva mai visto prima.

Era una donna con indosso un abito primaverile bianco come la neve, un cappello leggero a tesa larga e degli occhiali da sole. Accanto a lei teneva un gigantesco trolley che probabilmente conteneva più vestiti di un centro commerciale. Il suo sorriso era più radioso dei raggi di luce di Eos. 

La ragazza rimase immobile, paralizzata di fronte alla bellezza mozzafiato di quella sconosciuta. Perfino con quei vestiti così semplici sembrava una supermodella.

O una dea.

«Ti spiace se mi siedo con te?» le domandò, abbassandosi gli occhiali da sole.

Non appena vide i suoi occhi, Kiana sentì il respiro mozzarsi. Erano come quelli di Mary. Anzi, erano gli occhi di Mary. Anche il modo in cui le sorrideva le ricordava la figlia di Bellona.

Per un istante, pensò che quella donna fosse proprio lei, Bellona. Tuttavia, un’altra teoria sul perché le ricordasse così tanto la ragazza che le piaceva le balenò nella mente. Sentì la gola farsi arida all’improvviso. «Ma... mamma?»

La sconosciuta si portò un dito sulle labbra. «Shhh, tesoro. Nel caso in cui te lo chiedessero, io non sono mai stata qui.»

Rimise gli occhiali e si sedette di fronte a lei, sempre con quel sorriso smagliante che continuava a ricordarle Mary e che la stava assolutamente mettendo a disagio. Venere dovette accorgersi del suo stupore, perché ridacchiò. «Sorpresa di vedermi?»

Kiana non rispose. Sorpresa era un eufemismo. Incontrare sua madre era diventato un qualcosa che aveva dato per scontato non sarebbe mai e poi mai accaduto. Con tutto quello che aveva detto e fatto, poi, si era convinta che perfino Venere stessa non volesse avere nulla a che fare con lei.

«Sono felice che tu abbia usato il beauty case» proseguì Venere. «Sei davvero incantevole.»

Incrociò il suo sguardo e, questa volta, alla ragazza sembrò non più di vedere Mary, ma Venere stessa, nel suo reale aspetto, o quantomeno l’aspetto che aveva deciso di avere, come una donna con lunghi boccoli color miele, dagli zigomi delicati e le labbra carnose. Era completamente acqua e sapone, eppure avrebbe fatto impallidire Eos a suo confronto. Nessun abito scollato e nessun trucco spropositato avrebbero potuto competere con la bellezza naturale della dea dell’amore in persona.

«Che… che ci fai qui?» sussurrò Kiana.

Il sorriso di Venere si fece più amaro. «Niente convenevoli, eh?»

La ragazza sentì le guance pizzicare per l’imbarazzo. «N-No, è solo che… credevo che non ti avrei mai incontrata di persona. Dopo tutto quello che ho detto… e fatto… e… pensato…»

Più parlava e più si sentiva in colpa. Certo che era stata davvero pessima. Specie se considerava che quella di fronte a lei era la stessa donna che l’aveva salvata da morte certa, o forse peggio. Alexandre era ancora vivo, dopotutto. Se quegli uomini l’avessero riportata da lui… rabbrividiva al solo pensiero.

«Non devi sentirti in colpa, Kiana» disse Venere, come se le avesse appena letto nella mente. «So di non essere stata presente. Ma purtroppo, in quanto dei, non c’è concesso intrometterci nelle vite dei nostri figli. Dobbiamo lasciare che troviate la vostra strada da soli. Capisco che non sia semplice per voi. Non lo è nemmeno per noi.»

Kiana ripensò a quello che era successo a Camille. Perfino lei era rimasta da sola per tutta la vita, prima del Campo Giove, e le era andata perfino peggio, perché non aveva mai avuto una vera casa, o una famiglia. Eppure, lei non aveva mai provato alcun risentimento per Trivia. Al contrario, era sempre stata molto devota a sua madre.

Forse avrebbe dovuto prendere esempio da lei. E poi, Venere l’aveva aiutata, quando ne aveva davvero bisogno. Osservò sua madre e le sorrise. «Però… tu mi hai salvata, in quell’hotel.»

«Non so di che parli. A me risulta che tu abbia fatto tutto da sola» replicò Venere, prima di abbassarsi gli occhiali e strizzarle l’occhio. Le sue iridi non erano più azzurre, ma cangianti come quelle di Kiana. «Sei stata brava. Non tutti sarebbero usciti da quella situazione come hai fatto tu.»

La ragazza sentì le guance bruciare. Dei complimenti non se li aspettava proprio. «Gra… grazie, mamma.»

Venere le rivolse un sorriso più tenue, ma non rispose. Rimase a scrutarla per diversi istanti, e Kiana si sentì sezionata da quegli occhi celati sotto gli occhiali da sole. Spostò il proprio peso sulla sedia, a disagio. «Ehm… allora… perché prima hai detto di non essere mai stata qui? Sei… in incognito, o qualcosa del genere?»

«Qualcosa del genere, sì.» 

Quella risposta non fu di molto aiuto. Prima che Kiana potesse chiederle altro, un cameriere apparve accanto al tavolo e posò il piatto di pancake che aveva ordinato. Kiana sentì lo stomaco in subbuglio. Amava i pancake. 

«Mi porteresti un thè, caro?» domandò Venere a quel tizio, un ragazzo tutto sommato di bell’aspetto, dai lineamenti quasi elfici, che non appena si accorse di lei divenne rosso dalla testa ai piedi.

«S-Subito» farfugliò inchinandosi.

Non appena si allontanò, Venere tornò a guardare la figlia. «Non ti spiace se ti faccio compagnia, vero?»

«N-No, no…»

La dea si tolse il cappello, scoprendo i lunghi capelli color miele. «Non rimarrò qui a lungo, Kiana. Gli altri dei non sanno nulla di questa mia visita e preferirei che le cose rimanessero così.»

«Ma… perché?»

Venere si imbruttì. Nel senso che la sua espressione divenne più cupa, non che diventò più brutta. Anche se con quello sguardo angosciato sembrava quasi che mancasse una parte fondamentale di lei. «Sono tempi bui, questi. La scomparsa di Ecate ci ha colti tutti alla sprovvista. E l’evasione di tutti questi mostri dal Tartaro… oh, ma queste cose già lei sai, cara. Io sono venuta qui per metterti in guardia da un altro pericolo.»

«Oh… un altro…»

«Qualcuno sta cercando di dividere i semidei. Vuole che litighiate tra di voi, vuole che i campi si dividano dall’interno. E ci sta riuscendo. Ha trovato la pedina perfetta per farlo, con cui manovrare l’intero Campo Giove.»

Un brivido percorse la schiena di Kiana. La pedina perfetta per manovrare il campo Giove. Solo un nome le veniva in mente: «Ashley…»

Venere annuì. Proprio in quell’istante, il cameriere tornò con la sua tazza di thè, facendola sorridere. «Molte grazie.»

Il tizio chinò di nuovo goffamente la testa e si defilò, continuando tuttavia a lanciare occhiatine verso di lei. 

«Tu non mangi, tesoro?»

Kiana si rese conto di non avere ancora toccato i pancake. Tutto a un tratto non aveva più molta fame. Però… forse un boccone o due poteva mangiarli. Afferrò la forchetta, mentre Venere sorseggiava il thè. Sembrava piuttosto calma, nonostante tutto. 

«Ashley è la chiave» riprese a dire. «La più potente figlia di Giove che si sia vista negli ultimi secoli, perfino più dei suoi fratelli. È una semidea modello, rispetta suo padre e tutti gli altri dei e ha sempre svolto ogni incarico senza mai creare problemi. Perfino Giunone la adora alla follia. Giunone. Riesci a crederci?»

«Ehm…»

«Ashley vuole essere la più forte, la più importante e la migliore, sempre e comunque. Vuole dimostrare agli dei di essere una sorta di prescelta. È convinta di far parte anche lei dell’ultima Grande Profezia.»

«Grande… Profezia?» 

Venere spalancò gli occhi. «I-Il punto…» proseguì con incertezza. «… è che Ashley, a differenza di molti eroi prima di lei, vuole tutto questo. Vuole combattere. Vuole rappresentare gli dei. È disposta a tutto pur di diventare un’eroina, la più grande eroina. Tuttavia… il suo spirito non è forte come il suo corpo. È terrorizzata dall’idea che qualcuno possa rubarle la gloria.»

Ciò che Kiana aveva visto e sentito nel sogno tornò nitido nella sua mente. Ashley che sorrideva a Mary, dicendole che lei era più forte dell’intera legione. «Quella schizzata…» 

«No, Kiana, non si tratta di questo. Lei la sta usando. L’ha convinta che solo lei può salvarci e l’ha trasformata nella sua marionetta. Ashley è convinta di essere dalla parte del giusto, di essere la buona, e più a lungo si farà soggiogare, più ci sarà il rischio che le conseguenze siano irreparabili.» 

«Chi… chi la sta manipolando?»

«Qualcuno di spietato. Qualcuno che non conosce limite alcuno. Qualcuno che per mero divertimento è disposto a vedere il mondo intero bruciare. Prima della nascita di Roma, è riuscita a dividere gli dei. Ciò che ne è scaturito è stato uno dei conflitti più cruenti e sanguinosi di sempre. Ora vuole farlo di nuovo, vuole farci litigare tra di noi, utilizzando voi

«Non… non è Eos, vero?»

Venere fece una smorfia. «Per favore, Kiana. Quella non potrebbe nemmeno lustrarmi…» S’interruppe di scatto, schiarendosi la gola. «Cioè… no, non è lei.»

Malgrado tutto alla ragazza scappò un sorrisetto divertito. Forse Venere non era poi così diversa da lei. 

Cominciò a riflettere su quello che le aveva detto. La storia “prima della nascita di Roma” non era qualcosa su cui era molto ferrata. A malapena conosceva le storie su Roma in generale. Tuttavia, una cosa la ricordava. E riguardava proprio una guerra che aveva portato, indirettamente, alla nascita di quello che era stato l’antico impero romano. Una guerra che aveva coinvolto mortali, semidei e perfino dei, a cui la stessa Venere, al tempo Afrodite, aveva preso parte.

«La guerra di Troia…» sussurrò, come in trance. Sperò di sbagliarsi, ma purtroppo Venere annuì. 

Kiana sentì la gola farsi arida all’improvviso. Se ricordava bene, tutto era partito da un semplice dono. 

Una mela completamente d’oro, per la più bella delle dee.

«Quindi… la persona che vuole dividerci…» Kiana sollevò lo sguardo e incrociò quello di sua madre. All’improvviso, la voce di quella donna che la tormentava balenò nella sua mente, assieme alle sue provocazioni e a tutte le immagini che le aveva mostrato. Quella risata carica di sadico divertimento, e follia. Le parole le uscirono di bocca contro la sua volontà. «Discordia…»

«Sì, Kiana. È Lei.» 

«Ma… perché gli altri dei non fanno niente, allora? Insomma, se sapete che Ashley è sotto il suo controllo, perché…»

«Suo padre non l’accetta. Nemmeno Giunone e con loro diversi altri. La mia famiglia è inquieta, Kiana. Questa situazione ci sta rendendo tutti nervosi. C’è chi pensa che Ashley stia sbagliando, chi che invece le dà ragione. Ma ammettere che un nostro nemico possa avere il controllo su una semidea potente come lei, credere che una risorsa così preziosa possa essere usata contro di noi…» non concluse la frase, ma lasciò bene intendere che se l’Olimpo non era ancora imploso, poco ci mancava.

Kiana ripensò all’immagine di Ashley che folgorava Marianne. Si domandò se Bellona fosse al corrente di quello che stava accadendo alla figlia. Se sì, non doveva averla affatto presa bene. Quella vista aveva fatto imbestialire lei, non poteva nemmeno immaginare cosa pensasse la madre di Mary. 

Tuttavia, ora che sapeva cosa stesse succedendo, non sapeva più cosa pensare di Ashley. Da un lato si sentì sollevata. Dall’altro, se la semidea più potente del Campo Giove era caduta tra le grinfie del nemico in quel modo, significava che le cose erano messe veramente male.

«Perché… perché sei venuta a dirmelo?» chiese a Venere, incerta. «Insomma… ho sentito che di solito tu appari per… parlare di ragazzi con le eroine, o cose del genere. Perché mi stai dicendo tutto questo?»

Uno strano sorriso apparve sul volto di Venere. «Vuoi che parliamo di ragazzi?»

Le guance di Kiana bruciarono di nuovo. «N-No, no, però ho sentito che tra tutti gli dei tu sei quella meno interessata a imprese, battaglie e… insomma, eccetera eccetera.»

«Non è proprio così. È vero, preferisco parlare di argomenti a me più consoni, ma anch’io ho a cuore il destino del mondo. E soprattutto ho a cuore te.»

Kiana sussultò, incrociando lo sguardo della madre. Pregò di non avere le labbra sporche di pancake.

«Fate attenzione» la mise in guardia Venere. «Se Discordia dovesse carpire le vostre debolezze, potrebbe fare lo stesso con voi. Non esiterà un solo istante a trovare il modo di colpirvi dove siete più vulnerabili.»

Kiana si portò d’istinto una mano sulla guancia. Gli occhi della madre la scrutavano proprio come se al suo posto ci fosse ancora quello specchio in frantumi, nella suite di Alexandre. «L’ha… l’ha fatto anche con me… vero?»

Venere non disse nulla, si limitò a osservarla con sguardo enigmatico. Kiana abbassò gli occhi, sentendosi in procinto di scoppiare. Si era creduta forte e coraggiosa, proprio come le aveva detto la voce nel baratro, e per poco era stata spezzata non dai mostri, non dai giganti, ma da un umano qualsiasi. Le scappò un gemito contro il suo volere.

«Però stai bene. Sei ancora qui.» Venere cercò la sua mano sotto al tavolo, stringendogliela con forza. Kiana trovò di nuovo conforto nel viso sorridente della madre. Intrecciò le dita con le sue, con gesto delicato, dolce. «L’amore che provi per i tuoi amici ti ha aiutata a superare quel momento, Kiana.»

Kiana pensò di poter scoppiare di nuovo, ma questa volta per l’imbarazzo. 

«Hai… hai davvero… detto ad Alexandre di incontrati all’hotel Lotus?» domandò ancora.

«Ho commesso tanti errori, Kiana. Ma distruggere la vita di un uomo che ha soltanto provato a conquistarmi senza fare del male a nessuno è troppo perfino per me. No, non sono stata io. Anche lui è stato manipolato.»

Kiana annuì. Sentirlo fu un sollievo. E, allo stesso tempo, sentì le viscere contorcersi per la rabbia. «Perché Discordia ce l’ha così tanto con me?»

Ancora una volta quell’espressione lugubre marciò sul volto di Venere, questa volta però era diversa: sembrava triste, sofferente. Con enorme stupore, Kiana si rese conto cosa le fosse preso. Grazie al sangue che condivideva con quella donna, capì che c’era proprio l’amore di mezzo. 

«Perché vuole arrivare a me attraverso di te. Perché io rappresento tutto ciò che lei non è.» Venere le lasciò andare la mano, abbandonandosi a un lungo sospiro. «Io sono la dea dell’amore. E l’amore è l’emozione più potente che esista. Ma ogni medaglia ha due facce. Così come esiste l’amore… esiste l’odio. E anche l’odio può essere distruttivo, se usato nel modo giusto.»

Kiana abbassò la testa. Lei aveva odiato Venere, per quello che credeva le avesse fatto. Perché l’aveva abbandonata, perché l’aveva lasciata sola, perché era sparita. E quando Alexandre aveva cercato di farle del male, l’aveva fatto per vendicarsi proprio di Venere. Anche in quel momento Kiana aveva odiato sua madre con ogni fibra del suo corpo. Era stata una vera stupida.

«Sono felice di averti potuto parlare da donna a donna.» Venere indossò il cappello e gli occhiali da sole, prima di illuminarla con un altro ampio sorriso. «Sappi che sei molto più importante per quest’impresa di quanto tu possa immaginare. I tuoi amici sono forti, ma non potranno completare questo viaggio senza di te. Sarai indispensabile per loro.»

Kiana la guardò mentre si alzava dal tavolo e realizzò che era arrivato il momento dei saluti. E pensò che non voleva affatto separarsi da sua madre. Aveva finalmente avuto modo di parlarle, ma era durato poco, troppo poco. Sapeva, però, che Venere non poteva trattenersi. Sapeva che non avrebbero mai potuto essere una famiglia come quelle che si vedevano in televisione. 

Saperlo, però, non rendeva la realizzazione di tutto quello meno dolorosa. Si alzò dalla sedia e si ritrovò di fronte a lei. «A-Aspetta!» 

Venere piegò la testa. «Sì?»

Quando si trovarono faccia a faccia, Kiana si rese conto di essere più alta di lei di qualche centimetro. Non seppe cosa pensare di quel dettaglio. Incrociò ancora una volta lo sguardo caleidoscopico di sua madre e si massaggiò un braccio. «Non… non sono stata giusta, con te.» 

Le parole le uscirono a fatica, costandole uno sforzo molto più grande di quanto potesse immaginare. Solamente lì, in quel momento e con gli occhi di quella donna a un palmo di distanza, realizzò quanto era stato sbagliato tutto quello che aveva fatto. Più pensava a tutte le volte in cui aveva provato rabbia o odio nei confronti di Venere e più le sembrava di sprofondare a terra, schiacciata dal peso della colpa. 

«È… è solo che… la mia famiglia diceva tutte quelle cose orribili su di te e io avrei… avrei voluto poter dire che non erano vere, che si sbagliavano, che tu… che tu non eri come dicevano loro.» Kiana abbassò la testa, incapace di sostenere ancora l’espressione incolore di sua madre. «Mi… mi odiavano solo perché tu non c’eri e io… io ho finito col… col prendermela con te. Mi… mi dispiace, mamma. Sono una persona orribile, perdonami…»

Venere si strinse a lei all’improvviso, facendola trasalire. Si irrigidì come il marmo, mentre sua madre le avvolgeva le braccia attorno alla schiena e appoggiava il mento sulla sua spalla. Profumava di petali di rose e shampoo. 

«Stai tranquilla, Kiana. Non devi vergognarti delle emozioni che provi.» Venere si separò da lei, carezzandole una guancia mentre la osservava dal basso. «E non sei una persona orribile. Sei solo sensibile, ed emotiva. Tendi a giungere in fretta a conclusioni, ma è normale, perché sei mia figlia, e le emozioni che provi tu sono molto più forti di quelle di chiunque altro, che siano rabbia, tristezza, o amore. E così come le tue emozioni possono essere usate contro di te… possono anche darti la forza di superare i momenti più duri.»

Kiana schiuse le labbra. Pensò a quando aveva litigato con Mary, a come aveva creduto che l’avesse piantata in asso, quando in realtà non era stato affatto così. Pensò anche a quando aveva affrontato quell’esercito di mostri da sola, o a quando aveva confrontato Daniel ed Elias. Con quelle semplici parole, Venere l’aveva aiutata a conoscere sé stessa molto più di quanto avesse fatto in tutti quegli anni. 

«Mi dispiace per quello che è successo tra te e tuo padre» proseguì sua madre, lasciandola andare. «Ti posso assicurare che Amir è un brav’uomo. Ma è anche molto orgoglioso. Sapeva molto bene che non saresti potuta rimanere con lui fin dal principio, e forse, a suo modo, ha cercato di rendere più semplice la vostra separazione.»

«Quindi… lui ha sempre saputo chi eri davvero?»

«Non tutti gli uomini sono forti abbastanza da accettare la verità, Kiana. Tuo padre è stato uno dei pochi che invece l’ha fatto. Anzi, diciamo che è stato proprio lui a capire per primo che c’era qualcosa di strano in me.» Venere ridacchiò, con una malizia nello sguardo che Kiana riconobbe immediatamente. «Mi ha praticamente obbligata a dirgli tutto. Sa essere molto… persuasivo quando…»

«Ferma, ferma, non mi interessa quello che combinavate!» la frenò Kiana, con la pelle che si accapponava. 

Ora sì che erano come una famiglia della televisione a tutti gli effetti. 

Venere ridacchiò e chiese scusa, anche se non sembrava tanto dispiaciuta. La ragazza ricacciò una smorfia. Incrociò un’ultima volta lo sguardo di sua madre e sorrise. «Grazie… grazie di tutto, mamma.»

Sua madre ricambiò il sorriso. «Contiamo su di voi. Trovate Ecate. E, tesoro, parla con Mary appena puoi. Anche lei tiene ancora a te.»

Con le orecchie che fumavano per l’imbarazzo, Kiana osservò sua madre mentre si allontanava con il suo gigantesco trolley, regalando sorrisi a chiunque le capitasse a tiro. Non sembrava aver alcun problema con l’essere al centro dell’attenzione. Ecco, su quello sì che erano totalmente diverse. 

Sospirò e tornò a sedersi di fronte alla sua colazione ormai semifredda. Ormai la fame le era passata del tutto.

Ripensò al rapporto con suo padre. Si era sempre comportato come se lei fosse stata invisibile ai suoi occhi. Il giorno in cui l’aveva portata alla Casa del Lupo, le aveva detto che da quel momento in poi “loro” si sarebbero presa cura di lei, e se n’era andato. Lo aveva guardato salire sulla limousine e svanire dalla vista, come un cucciolo che veniva abbandonato dalla famiglia. Si era sempre domandata se lui fosse stato al corrente di averla spedita al Campo Giove, oppure se credeva che fosse solo una specie di collegio dal quale però non avrebbe mai più fatto ritorno.

Scoprire la verità gettò una luce diversa su quell’uomo. Forse era per questo che se ne infischiava della loro cultura. Forse… forse aveva perso la fede, dopo aver conosciuto una dea in carne e ossa. E il fatto che fosse stato così freddo con lei… forse era come aveva detto Venere, forse l’aveva fatto solo per rendere meno doloroso il loro inevitabile addio.  

Kiana strinse i pugni, sentendo le labbra tremolarle. Avrebbe voluto piangere, urlarle, chiedergli perché. Perché non le aveva detto niente, perché aveva deciso di fare così? Lei voleva solo un padre. Una figura su cui contare. Invece l’aveva allontanata da sé. Il fatto che avesse avuto dei motivi per comportarsi così non cancellava tutto il dolore che aveva provato. E la cosa peggiore, era che adesso non riusciva nemmeno più a biasimarlo. Proprio come con Venere, aveva passato la vita a odiare qualcuno senza sapere la verità. Si era sbagliata, di nuovo. 

Non si accorse dell’arrivo di Camille finché lei non la chiamò. Vedere la sua amica riuscì a farla sentire meglio. Soprattutto perché era vestita da super fricchettona come al solito, con gli anfibi marroni, le calze di lana grigie lunghe fino alle cosce e una combinazione di gonna nera e bomber color panna. Per una volta, pensare a quanto avrebbe voluto rifarle l’intero guardaroba l’aiutò a calmarsi.

«Ehi, va tutto bene?» le domandò Cam.

Kiana si strinse nelle spalle. «Ho… scoperto un po’ di cose.»

Camille si sedette di fronte a lei. «Cose buone?»

La figlia di Venere non riuscì a sopprimere un sorrisetto di scherno. «Direi di no.»

Stava per raccontarle quello che era successo, quando una terza persona si unì a loro. «Buongiorno ragazze!»

Una donna gracile prese posto al tavolo. Indossava un lungo abito plissettato verde scuro, mentre i capelli che ricordavano steli d’erba secca cadevano disordinati di fronte al viso magro. «Posso unirmi a voi?»

Kiana ci mise un istante per realizzare che quella era Flora, la proprietaria dell’albergo, e non una pazza che le aveva scambiate per qualcun altro. Scambiò uno sguardo con Camille, che sembrava incerta tanto quanto lei.

«Ehm… sì, certo» rispose infine.

Flora le rivolse un sorriso sfavillante, anche se con quelle guance così scavate sembrava più il ghigno di uno scheletro, totalmente diverso dai sorrisi calorosi di Venere. Non era una brutta donna, Flora, però sembrava… “appassita”. Come se avesse visto giorni migliori di quello.

«Allora…» Flora cercò di darsi una sistemata ai capelli. Kiana si rese conto che si era truccata, anche se il risultato era piuttosto discutibile. O forse aveva ancora in mente l'aspetto perfetto di Venere che annebbiava il suo giudizio. «… il vostro amico non vi raggiunge per la colazione?»

«Lui… non fa mai colazione con noi» rispose, per non deludere troppo quella poveretta, e cercando di ignorare lo sguardo abbattuto di Camille, che chiaramente ancora pensava a quel maledetto zombie.

Perché ovunque si voltasse trovava qualcuno che perdeva la testa per Daniel?

«Peccato. Era proprio carino» sospirò Flora.

Kiana cercò di sorridere cortese, ma non fu molto sicura del risultato. «Grazie ancora per averci ospitate» disse poi, per cambiare discorso.

«Di nulla, cara. Gli amici di Elias sono anche amici miei.»

Le due ragazze si scambiarono un altro sguardo. “Amici di Elias” non era proprio il termine in cui si rispecchiavano.

«Come… come fa a conoscere Elias?» domandò Camille.

«Oh, è una storia lunga, vi annoierei un sacco a raccontarvela. Però posso dirvi che è sempre stato un vero angelo con me. Dopo che mio marito mi ha abbandonata per fuggire con un altro uomo è venuto spesso a trovarmi. È proprio un bravo ragazzo.»

Camille e Kiana si lanciarono una terza occhiatina di sfuggita. Nessuna delle due sembrava sapere quale informazione fosse la più strana.

«Ma non parliamo di me. Ditemi di voi. Siete semidee, vero? Come Elias.»

«Sì…» annuì Camille, dopo un attimo di stupore. «Ma allora… lei è una dea?»

«Per favore, dammi del tu. Mi fai sentire vecchia» ridacchiò Flora. «E sì, sono una dea. In realtà il mio vero nome è Clori. Ero una ninfa, abitavo nelle Isole dei Beati, finché un bel giorno un dio non ha avuto la brillante idea di rapirmi e trasformarmi nella sua consorte, per poi fuggire con Eros.»  

«Eos?» domandò Kiana.

«Eros. Voi romani lo chiamate Cupido. Un uomo pomposo e pieno di sé come pochi al mondo. Non che Eos sia tanto meglio.»

«La… la conosci?»

«Purtroppo sì. È mia suocera. Una donna insopportabile. Sono sicura che sia stata lei a convincere Zefiro ad abbandonarmi. Tra lei e i suoi figli c’è sempre stato uno strano rapporto.»

«Un momento…» si intromise Camille. «… ma sì, ora ricordo. Lei… cioè, tu sei la moglie di Zefiro, il vento dell’ovest, e sei la dea romana della primavera e della fioritura delle piante.»

«Esatto» sorrise Flora. «Anche se in questo momento non sono la dea di un bel niente. Immagino si noti, in autunno e inverno il mio aspetto non è proprio “rigoglioso”.»

«Giuro che non c’avevo proprio fatto caso» asserì Kiana.

«Sei una pessima bugiarda» ridacchiò la dea. «Ma del resto non possiamo essere tutte perfette come le figlie della magnifica Venere.»

Kiana sperò di non essere arrossita.

«Comunque, visto che mio marito ha tagliato la corda, ho decido di fare da me. Ho creato questo luogo per ricordarmi della mia vecchia casa nelle Isole dei Beati, e anche se mio marito mi ha abbandonato, in quanto sua moglie ho comunque potere sui suoi venti. Lev!»

Il cameriere che aveva servito Kiana e Venere si avvicinò con fare imbarazzato.

«Lui è Leveche, uno degli spiriti di mio marito. Lev, queste due ragazze non pagano nulla, chiaro? Offre la casa.»

«S-Sissignora» bisbigliò lui, sparecchiando i piatti di Kiana, che lo guardò incuriosita. Quindi quel tizio non era umano. E forse nemmeno gli altri dipendenti di quell’hotel.

«Cosa desiderate?» domandò.

«Per me un Martini, grazie» disse Flora.

«Ma… è ancora mattina…»

«Sì, hai ragione. Meglio del vino rosso.»

«Ehm… certo, divina Flora.»

Camille prese dei muffin integrali e Kiana decise di chiedere un altro caffè, giusto per fare compagnia alle altre due.

«E quindi, cosa vi porta qui?» riprese Flora, mentre sorseggiava dal suo calice di vino alle otto del mattino.

Più trascorreva il tempo con lei, più Kiana faticava a credere che quella fosse una dea. Almeno non era malvagia, di quelle ne avevano già abbastanza. Le spiegarono brevemente la situazione, e Kiana le parlò anche del suo incontro con Eos.

«Quindi, tu sei una figlia di Ecate» fece il punto della situazione Flora, indicando Camille. «E tu invece hai avuto il dispiacere di incontrare mia suocera» concluse, ora guardando Kiana. «Beh, che dire, vi siete ficcate in un bell’impiccio. Spero davvero che riusciate a risolverlo.»

«Lei… cioè, tu non puoi aiutarci?» domandò Kiana.

Flora emise una strana risatina starnazzante. «E come? Sono una dea di serie D. Non valgo niente. Tanto vale che mi rimuovano il titolo e ritorni a essere una ninfa. Ah, sarebbe tutto molto più semplice… però ti ringrazio per aver umiliato mia suocera. Se doveste sopravvivere, sarete sempre le benvenute qui.»

Kiana ricacciò una smorfia. Quello sì che era confortante da sentire.

Una volta finito si ritrovarono fuori dall’hotel, sotto a quel cielo grigio e desolante che si stagliava al di sopra della Valle della Morte.

Lasciare un albergo a cinque stelle per rimettersi in viaggio in una landa desolata verso una dea rapita con a guardia mostri e giganti: soltanto un semidio avrebbe potuto fare una cosa del genere.

 

***

 

Sulla strada del ritorno, Kiana raccontò a Camille del suo incontro con Venere. L’espressione di Cam mutò così tante volte tra stupore e angoscia che perse il conto. Quando finì di parlare, la sua amica spostò lo sguardo verso l’orizzonte. Ora sembrava soltanto molto pensierosa.

«Cam… va tutto bene?» le domandò, cauta.

Camille si strinse nelle spalle. «Sì, sì…»

«Sei… sei sicur…»

«Stavo pensando…» la interruppe Camille, prima di guardarla di nuovo con espressione indecifrabile. «… tu sai chi è la madre di Dis… cioè, di lei

«Uhm…» Kiana esitò, imbarazzata.

Cam alzò gli occhi. «Dei del cielo, Kiana!»

«Perché non me lo dici tu e basta?» si difese lei.

«La Notte.»

«Che cosa?»

«La Notte, Kiana.»

«Cosa c’entra la notte adesso?»

«Oh, santi numi! La dea della notte, Kiana! La dea della notte è la madre di Discordia!»

«Ohhh…»

«Ohhhh!» fece il verso Camille.

«Cavolo, scusa!» sbottò Kiana incrociando le braccia, prima di rendersi conto di una cosa. «Aspetta un momento. Quindi… la “Notte Eterna”…»

«Sì. Credo che ci sia un collegamento» annuì Cam. Prese un profondo sospiro, come se quello che stava per dire le costasse parecchio. «Credo… credo che Ny… cioè, Notte, sia la padrona che le mie sorelle hanno menzionato. Ruby l’ha chiamata “nonna”. Ha senso, se seguiamo la logica secondo cui Notte è anche la madre di Trivia.»

«Anche Periboia ha menzionato qualcosa, su una zia però» rifletté Kiana.

«Questo perché Notte è la sorella di Gaia, la madre dei giganti. Tutto combacia. Inoltre, non mi vengono in mente molte persone con un potere tale sul Tartaro da poter far uscire a piacimento mostri come i giganti. Gaia era una di queste, ma è stata sconfitta. Rimangono Tartaro stesso, Notte e pochissimi altri.»

«E la Notte Eterna? Che cosa significa?»

Camille si accarezzò l’orecchino. «Non ne sono molto sicura… quello che so, è che il giorno e la notte sono dovuti a Notte e a sua figlia Emera, per i greci, Dias, Giorno, per noi romani. Notte getta la sua oscurità su un lato del mondo, Emera invece getta la sua luce sull’altro. Si alternano in questo modo, creando quindi il “giorno” e la “notte”.»

«Aspetta un attimo. Il giorno non era dovuto dal passaggio del carro di Apollo?»

La figlia di Trivia scosse la testa. «Apollo controlla il sole, non il giorno. Sono due cose diverse. Però quello che hai detto non è errato. Il giorno è dovuto da un insieme di più fattori. Emera è la dea primordiale del giorno, ma ci sono anche il sole, la luce e… l’alba.»

Kiana spalancò gli occhi. «Eos ha detto di essere la dea dell’alba… e ha anche detto che il giorno sarebbe scomparso!»

«Sì.» Camille sembrava spaventata dalle sue stesse conclusioni. «Penso… penso che Notte voglia far svanire il giorno. In questo modo, ci sarà soltanto più la notte. La Notte Eterna.»

«Ma… come

«Non lo so. Però sappiamo che la dea dell’alba, una parte del giorno, è sua alleata. Forse anche Emera è dalla sua parte. Dopotutto è sua figlia. Quanto al sole…» Camille alzò lo sguardo verso il cielo grigio. «… è da due giorni che non si vede più. Da quando è scomparsa la Foschia.»

Kiana spostò lo sguardo su quei nuvoloni e deglutì. «Pensi… pensi che anche Apollo…?»

«Non lo so, Kiana.» Camille scosse la testa. «Non so nemmeno perché Notte stia cospirando contro gli dei. Stando a quello che si dice, lei non ha mai avuto alcun interesse per il nostro mondo.»

«Magari ha cambiato idea» mugugnò Kiana, ricacciando indietro un’imprecazione colorita. Nyx, Nox, Notte, come diamine volevano chiamarla, aveva deciso di conquistare il mondo perché sì proprio quando toccava a lei salvarlo. Era proprio nata nella generazione sbagliata.

«Credo che fosse lei la donna che ho visto in quel sogno. Quella che ha detto che tutti sono suoi figli» proseguì Camille. «Anche questo avrebbe senso. Notte è una delle dee con più figli in assoluto. Discordia, Nemesi, Cupido, Somnus, Thanatos, e moltissimi altri, sono tutti figli suoi.»

«Di bene in meglio…» borbottò Kiana, cercando di ignorare la stretta nel suo stomaco. Tutta quella faccenda la spaventava ogni secondo di più. «E… e tua madre, che ruolo ha in tutto questo?»

«Nessuno. Hanno rapito mia madre per distrarci. Con la Foschia scomparsa, non potevamo concentrarci su Notte e i suoi piani. “Con la sparizione del velo invisibile, apparirà la minaccia più temibile”. La minaccia non è semplicemente la sparizione della Foschia. La minaccia è Notte.» Camille strinse i pugni. «Ci… ci siamo cascati in pieno.»

Kiana pregò che la sua amica non si fermasse lì, che dicesse qualcos’altro, qualsiasi altra cosa, invece rimase in silenzio, a fissare il suolo con aria arrabbiata.

«Quindi… quindi che facciamo adesso?»

Camille drizzò la testa. «Il piano non cambia, Kiana. Distrazione o meno, la Foschia deve tornare, o il mondo sarà spacciato. E poi, forse… forse potremo chiedere aiuto a mia madre, riguardo a Notte.»

Lo disse con un tono così speranzoso che Kiana sentì lo stomaco in subbuglio. Non riusciva a credere a tutto quello. L’idea che anche il rapimento di Ecate fosse stata una distrazione la faceva sentire impotente. Da quando quel maledetto viaggio era iniziato i loro nemici si erano presi gioco di loro in ogni modo possibile. Li avevano divisi, li avevano fatti litigare tra di loro, e adesso quello. Non poteva nemmeno immaginare come si sentisse Camille.

«Kiana.»

La figlia di Venere si riscosse dai suoi pensieri. Quando incrociò lo sguardo della sua amica, avvertì un brivido percorrerle la schiena. Non l’aveva mai vista così severa, mai. Faceva quasi paura, specie se considerava quello che era in grado di fare con i suoi poteri.

«Ho bisogno che tu mi prometta una cosa.»

«Sì, certo» mormorò Kiana.

«Non… non dire niente a Daniel di questa storia.»

Kiana schiuse le labbra per lo stupore. «Che cosa? Perché?»

Camille appoggiò una mano sul petto, dove teneva il ciondolo che le aveva donato Elias. Ci giocherellò nervosamente. «Non… hai notato anche tu? Daniel… non è come noi. Voleva uccidere Elias. Ha… ha attaccato quelle driadi. Ha annientato mia sorella. E poi… Encelado e Sapphire… si sono rivolti a lui come se lo conoscessero. Io… avrei dovuto accorgermene prima che qualcosa non quadrava, ma ero troppo… stupida per capirlo.»

«Cam…» mormorò Kiana, angosciata per lei.

«Promettimi che non gli dirai nulla» disse Camille inflessibile. «Almeno finché le cose non mi saranno più chiare. Va bene?»

Kiana resse lo sguardo della sua amica e si mordicchiò un labbro, sentendosi travolta dalla sua aura severa. Aveva sempre detestato il modo in cui Daniel l’avesse ignorata, aveva sempre desiderato che lei rinunciasse una volta per tutte a lui, ma non così, non in quel modo, non trasformando i suoi sentimenti in rabbia. Afrodite aveva detto che l’amore era l’emozione più potente, assieme all’odio, e adesso Camille si trovava in un bilico estremamente pericoloso tra le due parti, in cui odiava Daniel per come l’aveva trattata e odiava sé stessa per aver provato quei sentimenti per lui – e forse, anche perché continuava ancora a provarne nonostante tutto.

«Va bene Cam» rispose. «Non gli dirò nulla.»

La figlia di Trivia sembrò più sollevata. Lasciò andare il ciondolo e rilassò le spalle. «Grazie. Andiamo adesso. Non c’è più tempo da perdere.»

Riprese a camminare e Kiana la seguì in silenzio, la mente intasata dai pensieri più disparati. Alzò lo sguardo verso quel cielo nuvoloso e cominciò seriamente a domandarsi se il sole sarebbe mai più riapparso.







Salve gente. Scusate per l’attesa spropositatamente lunga, ma è stato un periodaccio dal punto di vista creativo. Mi sento più arido della Death Valley, per restare in tema. E… insomma, il capitolo è quello che è, sono sicuro di aver fatto lavori migliori, ma al tempo stesso questo è il meglio che son riuscito a fare. Spero che sia stato di vostro gradimento. 

Ammetto che ci sono state tante spiegazioni e tante informazioni tutte insieme, però dobbiamo tenere a mente che metà di quello che abbiamo scoperto sono solo supposizioni delle nostre due eroine. Mi rendo conto che forse è un po’ difficile tenere il filo di tutto quello che sta succedendo, ma spero davvero di poter sbrogliare la matassa poco per volta con il proseguimento della storia. Nella mia testa è tutto molto più facile, poi quando comincio a scrivere… non proprio. 

Comunque, abbiamo scoperto qualcosa di più sulla nostra Kiana, come ormai saprete, ogni personaggio (di solito) ha la sua crescita, il suo arco, e direi che questo è stato il culmine della nostra cara figlia di Venere, con l’incontro con sua madre. Certo, ci sono ancora due o tre cosucce da fare, ma il grosso della sua storia l’ho raccontato. 

Grazie mille a Farkas, Roland e Cabin13 per aver recensito, e chiedo umilmente scusa per non avervi ancora risposto. Mi dispiace davvero, cercherò di rimediare, ma la vedo grigia. 

Un altro grazie in particolare a Roland, per la sua fanart su Kiana e Marianne (questo è il link: https://www.deviantart.com/rlandh/art/Mary-and-Kiana-905996820 ), la quale ha ispirato la scena che avete letto a inizio capitolo. Sì, è successo il contrario, la fanart ha ispirato la storia. Mi sembrava giusto mostrare un momento di dolcezza queste due ragazze, senza nessun finale tragico e/o imprevisti di mezzo. 

Per finire, un grazie a tutti voi che avete letto, spero che il prossimo aggiornamento sia più rapido di questo. Alla prossima! 

p.s. ho fatto un disegnino del nostro uomo-gatto dimenticato: https://www.deviantart.com/edoardo811/art/Shinjiro-il-Bakeneko-915175768

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Capitolo 21
*** Rimpatriata ***


XXI

Rimpatriata





Daniel le stava aspettando nel bel mezzo del nulla, appoggiato contro un albero in una delle numerose zone verdeggianti attorno a Furnace Creek, i borsoni chiusi per terra e Penelope che si ispezionava gli zoccoli poco distante. Non chiese perché ci avessero messo così tanto, a malapena rivolse loro un cenno. Aveva un aspetto perfino più trasandato del solito, sembrava anche che non avesse dormito.

Penelope fu più calorosa con loro, dicendo che sarebbe piaciuto molto anche a lei vedere l’hotel, ma che comprendeva perché non avesse potuto farlo. Kiana cercò di rassicurarla dicendole che non si era persa niente di che. Aveva quasi fatto una battuta su lei e Daniel che trascorrevano la serata assieme, al chiaro di luna e sotto le stelle, ma si era resa conto che l’umore generale era nerissimo, e aveva lasciato perdere. E poi, dopo tutto quello che aveva detto Camille, fare battute non era l’idea migliore.

Non c’era nemmeno Jack, forse se n’era andato di nuovo a zonzo nell’ombra, quindi nemmeno quel cagnaccio col muso buffo avrebbe potuto stemperare un po’ la tensione.

Ripartirono poco dopo, in un silenzio carico di tensione. Nel bene e nel male, quello sarebbe stato il loro ultimo tratto di viaggio, l’ultimo sprint verso la loro meta finale, e la cosa angosciava Kiana da una parte, ma la faceva sentire più leggera dall’altra. Sapevano cosa dovevano fare, sapevano chi erano i loro nemici, sapevano cosa volevano, non restava altro che vedere chi avrebbe vinto e di una cosa lei poteva essere certa: non se ne sarebbe andata senza combattere.

Per Cam, per il Campo Giove, per i suoi compagni della Quinta Coorte, per Mary, per Venere, avrebbe fatto ogni cosa in suo potere per salvare Ecate.

Il paesaggio cominciò a cambiare mentre avanzavano lungo quelle lande desolate. Le dune tondeggianti e sabbiose e le lande desertiche cominciarono a essere rimpiazzate da grosse pareti rocciose e nel giro di poco tempo Penelope stava galoppando nel bel mezzo di un canyon. Diverse volte fu costretta a rallentare per via del terreno dissestato e poco pratico per una centaura con duecento chili di carico sulla groppa.

Camille aveva recuperato una cartina della Valle della Morte a Furnace Creek e, stando a quanto riportato sopra, quello doveva essere l’Echo Canyon.

«Ferma!» esclamò proprio la figlia di Trivia all’improvviso.

Penelope si arrestò di colpo, con un nitrito spaventato, e per poco tutti e tre i passeggeri non furono scaraventati a terra.

«Cam!» protestò Kiana. «Che ti è preso?»

«Il legame…» mormorò Camille. «Non… non so più dove dobbiamo andare.»

«Che cosa?!»

Tutto a un tratto, Camille era più bianca dei propri capelli. «N-Non so cosa stia succedendo. Sento il legame ma è… disturbato. Come se ci fosse un’interferenza.»

«E adesso che facciamo?» domandò Kiana.

«D-Datemi un istante.» Camille scese da Penelope. «Devo… devo provare a concentrarmi.»

Si allontanò di una ventina di metri e si inginocchiò a terra, prendendosi la testa tra le mani. Kiana non capì se stesse meditando o impazzendo. Forse un misto delle due. Si augurò davvero che riuscisse a ritrovare la strada giusta, perché in caso contrario erano fregati. Mancavano due giorni, uno e mezzo ormai, ed Ecate era in chissà quale caverna sotterranea nel bel mezzo di quel deserto gigantesco.

Smontò anche lei da Penelope e fece qualche passo, guardandosi attorno nervosamente. Se erano vicini a Ecate, significava che erano vicini anche ai loro nemici, e quell’imprevisto sembrava studiato a tavolino da qualcuno per farli fermare proprio lì. Cominciò a immaginarsi decine e decine di mostri che sbucavano fuori dal nulla dalle pareti di quel canyon. Quello sì che sembrava il luogo adatto a un’imboscata.  

«Kiana.»

La maledetta voce roca di Daniel la fece sussultare. Sperò che lui non se ne fosse accorto e si voltò. «Che c’è?»

Daniel scese da Penelope e la scrutò direttamente negli occhi. Non era basso come Cam, ma comunque più basso di lei. Eppure, sembrava comunque più grande. «Posso parlarti per un momento?»

La domanda colse Kiana alla sprovvista. L’ultima volta che si erano parlati da soli era stato dopo il caso delle naiadi, e di certo quella non era stata una conversazione amichevole. Ora che ci pensava bene, forse era perfino stata l’unica. Daniel non l’aveva mai cercata al Campo Giove e lei aveva fatto lo stesso. Camille era stato il tramite tra loro due per tutto il tempo, praticamente, perciò quella richiesta, per quanto semplice, la fece sentire comunque in soggezione.

«Sì, dimmi» rispose.

«Da soli» puntualizzò Daniel, voltandosi verso Penelope.

La centaura con cui madre natura era stata molto generosa trasalì e annuì. Borbottò qualche parola di scuse e trotterellò via. Cominciò a ispezionarsi gli zoccoli e a guardare il cielo, ma rimase comunque abbastanza vicina, per poter origliare tutto quanto, suppose Kiana. Se Daniel se n’era accorto, non lo diede a vedere. Ancora una volta la scrutò dal basso, con quello sguardo che faceva quasi credere che lui non stesse pensando niente. Sembrava assente, distaccato, perfino in quel momento.

«Ieri sera…» cominciò a dirle. «… hai sentito me e Camille parlare, vero?»

Kiana si irrigidì. Non credeva che se ne fossero accorti. O almeno, Cam non sembrava essersene accorta. A quanto pareva, Daniel sì. Annuì lentamente.

«Sì, vi ho sentiti» ammise. «È stato solo un caso. Mi ero appena svegliata.»

«Per questo sei uscita fuori» proseguì Daniel. «Per questo hai cercato di distrarre Camille. Non volevi che lei soffrisse di nuovo per causa mia. Vero?»

Dopo diversi istanti, Kiana annuì una seconda volta, ignorando la rabbia che cominciò a pervaderla. Non era intervenuta subito la sera prima perché non voleva impicciarsi negli affari di Cam, ma ascoltare la loro discussione, ascoltare il silenzio di Daniel, era stato un boccone molto duro da mandare giù. «Perché me lo chiedi?»

«Perché…» Daniel abbassò lo sguardo. «Devo… dirti una cosa. Riguarda proprio quello che è successo ieri sera.»

Kiana emise un mugugno poco convinto, ma annuì. «Ti ascolto.»

Vide Daniel esitare, come se volesse parlare ma allo stesso tempo non riuscisse a trovare il coraggio di farlo. Non appena notò quell’imbarazzo, si alterò: «Non vorrai mica dichiararti a me! Dopo tutto quello che è successo!»

«N-No!» Le guance di Daniel si tinsero leggermente. «Però… però è di questo che voglio parlarti. Io… io non… non sento… niente.»

Kiana corrugò la fronte. «Cioè?»

«Non… non provo sentimenti per nessuno. Amore, attrazione o… insomma, altri… impulsi di questo tipo. Niente di niente.»

«Quando dici “nessuno”, intendi dire “nessuna ragazza” oppure…»

«Nessuno» specificò Daniel. «Né ragazze né ragazzi.»

«Ne sei davvero sicuro? Magari inconsapevolmente anche tu sei…»

La ragazza s’interruppe quando Daniel mostrò la sua emozione preferita, il fastidio, tramite un’occhiataccia. Alzò le mani in difesa. «Ehi, per me mica è stato chiaro fin dall’inizio.»

Si beccò un’altra occhiata infastidita e decise di mollare l’osso. «Va bene, va bene, non ti piacciono i ragazzi. Peccato.»

Questa volta Daniel roteò gli occhi, ma non disse nulla.

«Quindi… è per questo che hai sempre ignorato Cam» proseguì Kiana, calma.

Daniel perse di nuovo il coraggio di guardarla in faccia e annuì. Kiana sentì lo stomaco annodarsi, di fronte a quell’espressione mesta a lei tristemente familiare. Sapeva bene cosa significava provare emozioni come quella, sentirsi non adatti, non adeguati, diversi da quello che gli altri si aspettavano.

«Perché non gliel’hai mai detto?» domandò allora, con voce più morbida. «Lei sperava davvero di piacerti. Perché non sei stato subito onesto con lei?»

«È quello che voglio capire anch’io» mormorò Daniel. «Non so perché mi sia comportato così. È sempre stato come se… come se non ci pensassi nemmeno. Me ne sono accorto ieri sera, dopo che io e te abbiamo discusso. Avevi ragione, Kiana. Non mi è mai importato niente di nessuno. E… e non ho idea di che cosa voglia davvero. Non so… cosa ci faccio qui. Non so perché prendo le decisioni che prendo, non so perché faccio le cose che faccio. Non mi sento davvero mosso da qualcosa. Non sento di provare nulla per nessuno di voi, né in senso positivo né negativo. Non ho… stimoli. Sono sempre andato avanti in maniera automatica, senza mai interessarmi a niente, senza mai pensare al fatto che così facendo avrei potuto ferire qualcuno, come… come ho fatto con Cam. Soltanto dopo che tu mi hai parlato me ne sono davvero reso conto. È… è una cosa folle?»

Kiana realizzò che quella non era una domanda retorica e trasalì. Ascoltare quelle parole l’aveva mandata in panne per un istante. Era stata la dichiarazione più assurda, ma allo stesso tempo sentita che avesse mai udito. In qualsiasi altra situazione, con qualsiasi altra persona, avrebbe pensato a uno scherzo. Peccato che Daniel sembrasse davvero serio, e anche spaventato, dalla sua stessa domanda.

Era la prima volta che Kiana vedeva quel lato di lui, un lato che sembrava… vulnerabile, bisognoso di aiuto, perfino. Daniel si era sempre nascosto dietro quella maschera di indifferenza e apatia ma adesso Kiana aveva avuto la conferma che davvero si era trattata solo di una maschera. Solo che lui, stando alle sue stesse parole, non era mai stato consapevole di indossarla.

«No» rispose lei. «Di certo… non è una cosa comune, la tua, ma almeno adesso posso spiegarmi un mucchio di tuoi comportamenti strani.»

Daniel avvampò di nuovo. «Ne ho così tanti?»

«Ho perso il conto di quanti ne hai» ridacchiò Kiana, prima di mettersi una mano sul fianco e scoccargli un’occhiatina dall’alto. «Zombie

Un piccolo sorriso nacque sul volto di Daniel, che ben presto la figlia di Venere replicò. Era la prima volta che loro due discutevano in quel modo, soprattutto sorridendosi, soprattutto senza che ci fosse Camille a fare da ponte. Era… strano, ma uno strano bello, una piacevole sorpresa.

«Mi dispiace… per quello che ho fatto ieri» proseguì Daniel. «Non volevo spaventarvi. E soprattutto non volevo ferirvi.»

«Non mi hai ferita. Spaventata… forse un pochino, ma ferita no. E comunque…» Kiana scosse la testa. «… non è a me che devi queste scuse, lo sai.»

Daniel allungò il collo verso Cam, ancora concentrata, prima di riabbassare lo sguardo. «Le ho… le ho fatto male. Vero?»

«Tu che ne pensi? Era innamorata di te, Daniel.»

Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Mi dispiace. Sono stato un idiota.»

Kiana batté il pugno contro la sua spalla. «Ehi, zombie. Puoi ancora sistemare le cose. Devi solo parlarle e dirle le stesse cose che hai detto a me. Sono sicura che capirà.»

«Lo… pensi davvero?» domandò lui, tornando a guardarla speranzoso. Vederlo così le fece capire che non era vero che non provasse nulla. C’era un lato di lui che teneva davvero a Camille, magari anche a lei, però forse nemmeno lui riusciva a scorgerlo.

Le tornò in mente la discussione che aveva avuto con Camille, quella sul tenergli nascoste le cose che avevano scoperto, e si sentì un po’ in colpa, specie perché lui si stava finalmente aprendo. Ingoiò il groppo alla gola e si sforzò di rispondere: «Certo. Fidati di me.»

Un altro sorriso nacque sul volto di Daniel. «Grazie… Kiana.»

La ragazza lo ricambiò. «Grazie a te. Era ora che ti decidessi a parlare.»

«Sì, beh… qualcuno mi ha pressato» ammise Daniel.

Lanciò un’occhiatina a Penelope, che trasalì. «S-Sì, e-ecco…»

Kiana sollevò un sopracciglio. Per qualche motivo, la cosa non la sorprendeva affatto. «Non male, Penelope. Sei riuscita a sbloccare il nostro zombie.»

Penelope era paonazza. Farfugliò qualche convenevole mentre teneva gli occhi bassi e Kiana ridacchiò. Non le importava se erano un umano e una centaura: quei due erano adorabili.

«E comunque, non è vero che non sei mosso da nulla, zombie. Hai scelto tu di partire per cercare Ecate, no?»

«Sì… è vero…» mormorò Daniel, facendosi pensieroso tutto a un tratto. «L’ho… scelto io…»

Kiana sollevò un sopracciglio. «Ehi, tutto bene?»

Daniel schiuse le labbra, ma non rispose. Tutto a un tratto, il suo sguardo sembrava vitreo.

«Da… Daniel?»

Kiana avvicinò una mano a lui, ma un grido la fece sobbalzare. Era la voce di una ragazza. Ed era piuttosto familiare.

«Avete… avete sentito?» domandò Camille, voltandosi verso di loro.

«Sì…» mugugnò Kiana.

Lanciò uno sguardo verso la direzione da cui l’urlo era provenuto, che casualmente era proprio dove erano diretti loro.

All’improvviso, la puzza di guai si fece più forte che mai.

 

***

 

Al termine della stradina si trovava un grosso spiazzale ai piedi di quello che, stando alla cartina di Cam, si chiamava “Occhio dell’Ago”. Kiana non ebbe bisogno di una lezione di storia sulla Death Valley per capire come mai quel luogo si chiamasse così: le bastò vedere l’enorme arco naturale che spiccava nel bel mezzo di una delle pareti rocciose.

Non era la geologia di quel luogo, però, la cosa che doveva importarle di più in quel momento.

Penelope emise un nitrito spaventato, ma per fortuna si tappò la bocca prima che la ventina di mostri radunata nel mezzo dello spiazzale potesse sentirla.

Il gruppetto rimase nascosto dietro un’alta roccia, da cui poterono sbirciare quello che stava accadendo. Kiana c’aveva visto giusto sull’imboscata. Per fortuna, o sfortuna, a seconda dei punti di vista, loro quattro non erano stati i primi a caderci.

«Voi avete idea di chi sia io?!» stava sbottando la ragazza legata schiena contro schiena ad un altro poveraccio, che invece aveva anche la bocca tappata con qualche straccio di dubbia provenienza.

Tutt’attorno a loro si trovavano i resti di alcuni mostri uccisi, diversi altri a terra privi di sensi, mentre un altro gruppetto si stava dividendo il corpo di un pegaso morto. Quest’ultima scena in particolare fece venire il voltastomaco a Kiana.

«Il mio nome è Cassie Collins, figlia di Marte! Centurione della Prima Coorte della Legione Fulminata! E vi ucciderò tutti, dal primo all’ultimo!»

Cassie continuò a sproloquiare e a scalciare, mentre l’altro prigioniero se ne stava a testa bassa. Kiana riuscì a riconoscerlo: era Nathan Miles, il figlio di Somnus. Era riuscito ad addormentare un po’ di mostri, ma alla fine avevano reso inoffensivo anche lui.

«Grandioso» sbottò Kiana. «Si sono fatti beccare.»

«Se loro sono qui, Ashley non può essere lontana…» aggiunse Daniel, con uno strano tono di voce.

Anche Kiana l’aveva pensato. La sosta a Furnace Creek aveva permesso alla squadra di Ashley di raggiungerli.

“E non ho nemmeno finito i pancake…”

«Dobbiamo aiutarli» concluse Camille, ovviamente. 

«Ma… dobbiamo proprio?»

«Kiana!»

«C’eri anche tu quando Cassie e i suoi hanno trattato a pesci in faccia la Quinta Coorte, no?»

«Non significa che possiamo abbandonarli!»

Kiana alzò gli occhi al cielo. Sapeva fin dall’inizio che non l’avrebbe spuntata. Però c’aveva provato. «Va bene, va bene… allora, che facciamo?»

Dal terreno cominciò a sorgere del fumo nero, attorno alle gambe di Daniel, che ringhiò: «Li uccidiamo tutti.»

Se Kiana non l’avesse afferrato per il braccio, quello sarebbe uscito allo scoperto. «Che stai facendo?! Se li attacchiamo frontalmente potrebbero uccidere Cassie e Nathan!»

Daniel si voltò verso di lei. «E allora?»

La domanda sembrava sincera. Come se davvero non vedesse il problema in quello.

«E allora… come li salviamo se muoiono?»

«Mh… sì, giusto.»

Kiana si augurò che Daniel stesse solo scherzando per smorzare la tensione. Sì, Daniel, che provava a smorzare la tensione. Era probabile quanto la neve negli Inferi, ma lei si sforzò di non pensarci. Non era quello il momento per mettersi a decifrare la mente di quel maledetto zombie.

«Aspettate» disse proprio lui. «Forse ho un’idea.»

Sollevò una mano di fronte a sé e la osservò con insistenza. Kiana stava per domandargli se fosse impazzito del tutto, ma poi per poco non le scappò un grido: Daniel era svanito nel nulla.

«D-Daniel?»

Pensò di essere lei quella impazzita, ma la voce del ragazzo riecheggiò nel nulla: «Sono qui.»

Riapparve di nuovo nel punto esatto in cui era svanito, circondato da delle ombre. La mascella di Kiana per poco non cadde per lo stupore.

Daniel apparve e scompare un paio di volte, a intermittenza, sotto lo sguardo esterrefatto delle sue compagne di viaggio.

«L’ha fatto anche in quella prigione» mormorò Camille, più a sé stessa che a loro.

«Ma… ma come ci riesci?» riuscì a domandare Kiana.

«Non ne ho idea» replicò Daniel.

«O-Ohh…»

«Posso avvicinarmi senza farmi scoprire. Se li aggiro, e voi li distraete, potrò attaccarli alle spalle.»

«… e salvare Cassie e Nathan» aggiunse Kiana.

«E salvare Cassie e Nathan, sì.»

La figlia di Venere si strinse nelle spalle. «Per me può funzionare.»

Guardò Camille, aspettandosi una risposta simile, ma lei non disse nulla. Si limitò ad annuire mentre faceva di tutto per non guardare Daniel. Ancora una volta, quel velo di amarezza trapelò sul suo volto, e Kiana sentì il sangue ribollirle nelle vene. Non per il suo comportamento, o per quello di Daniel, ma perché lei sapeva la verità su di lui e avrebbe tanto voluto dirla alla sua amica, ma quello non era né il luogo, né il momento.

«Va bene.» Daniel svanì di nuovo alla vista. «Aspettate il mio segnale.»

Sentire il nulla che parlava era maledettamente inquietante. Soprattutto se il nulla aveva la voce di zombie.

«E qual è il segnale?» domandò Kiana.

«Lo capirete.»

E detto quello, se ne andò. O, perlomeno, Kiana pensò se ne fosse andato. Si scambiò un’altra occhiata con Camille e provò un po’ di sollievo nel vedere che aveva di nuovo alzato la testa, anche se l’aria mogia non l’aveva ancora abbandonata. Le tornarono in mente le parole di sua madre, riguardo l’odio e l’amore.

“L’odio può essere distruttivo. E anche l’amore.”

Promise a sé stessa che alla prima occasione avrebbe fatto in modo che quei due chiarissero le cose una volta per tutte.

Un verso si alzò in aria. Non proveniva da Cassie, e non sembrava il segnale di Daniel. Kiana sbirciò oltre la parete e si accorse di uno dei mostri, un lestrigone alto più di due metri che sbatteva i piedi a terra.

«Questa esca è rumorooooosaaaa» si lamentò. «Non possiamo ucciderla??»

«Idiota!» lo rimproverò un altro… o meglio, altra, dandogli uno scappellotto«E come fa’ a chiamare aiuto da morta?!»

«Ah! Papà! Fulvia mi ha picchiato!»

«Non è vero!» La lestrigona gli sferrò un cazzotto allo stomaco. «Questo è picchiare!»

«AHIA! Maledetta succhiaossa!»

I due cominciarono a bisticciare – cosa che consisteva nel cercare letteralmente di uccidersi a vicenda, tra pugni, gomitate e tentativi di strangolamento – finché un lestrigone molto più grosso, una specie di sosia mal riuscito di Tony Montana ma con più peli sul petto, ruggì: «Fulvio! Fulvia! Fatela finita subito! Se vostra madre vi vedesse ora… ah, per fortuna la riabbraccerò presto, la mia dolce Trudy.»

«Scusa papà» mormorarono entrambi, ammansendosi.

«Ma che scena patetica! Da quale circo siete evasi?!» sbottò Cassie, mentre continuava a scalciare come un’ossessa e Nathan dietro di lei veniva strattonato ad ogni movimento. «Che gli dei mi siano testimoni: non appena mi libererò vi rispedirò tutti nel buco da cui siete usciti!»

«Ahhh! Papà, davvero non posso ucciderla?»

«No figliolo. Non puoi.» Papà Lestrigone si accovacciò di fronte a Cassie e sfoderò un ghigno gigantesco. «Ci serve per attirare i suoi amici. Quando uccideremo la figlia di Giove, la padrona ci darà ricompense inaudite.»

Kiana corrugò la fronte. Perché i mostri avrebbero dovuto uccidere Ashley se lei era già sotto il controllo di Discordia?

Cassie gli sputò addosso. «Porta questo alla tua padrona. Senatus Populusque Romanus

Papà Lestrigone lasciò che la saliva gli scivolasse lungo la guancia, senza battere ciglio. «Hai carattere, figlia di Marte. Sono sicuro che la tua carne è deliziosa.»

Cassie digrignò i denti; non sembrava per niente spaventata. Per quanto Kiana la detestasse doveva dargliene atto: aveva dei cosiddetti di ferro.

«Davvero pensate di poter catturare Ashley? Le vostre teste sono già trofei da esporre nella Principia. Quando arriverà qui rimpiangerete di averci incrociati. Ammesso che non vi uccida prima io.»

Il mostro ridacchiò. «E come pensi di fare? Sei legata.»

«Lei sì.» L’aria sfarfallò e Daniel apparve proprio dietro a Cassie, il palmo rivolto verso Papà Lestrigone. «Io no.»

Prima che il mostro potesse muovere anche solo le palpebre, la sua testa era già esplosa. Le tenebre avvolsero istantaneamente il corpo di Daniel, che cominciò a scagliare dardi di energia nera verso ogni cosa che si muoveva.

«Papà!» sbraitò Fulvia. «NO!»

«Alla faccia del segnale!» sbottò Kiana. «Penelope, resta qui!»

«M-Molto volentieri.»

Kiana uscì allo scoperto con la lancia tra le mani, accompagnata da Camille, che invece aveva cominciato a sprigionare fiamme dalle mani. Si accorse di Fulvia mentre si fiondava molto intelligentemente sull’assassino di suo padre, come se si aspettasse di avere qualche speranza. Naturalmente, fece la sua stessa fine.

«Ehi, mostri!» Kiana conficcò la lancia nel petto di un ciclope rimasto distratto dal trambusto. «Avanti, fatevi sott…»

Il suo grido venne sovrastato dalle urla disperate di cinque cinocefali che prendevano fuoco nello stesso momento. Di fronte a loro, Camille aveva le mani spalancate, i palmi rivolti verso i loro resti. Kiana schiuse le labbra, sbalordita. Non avrebbe mai pensato di vedere Cam usare i suoi poteri per combattere, visto che ne era sembrata spaventata, eppure era proprio quello che stava succedendo. E a giudicare da come stavano andando le cose, pareva avere tutto sotto controllo.

Altre grida si sollevarono, queste provenienti dai mostri che stavano avendo a che fare con Daniel. Proprio come nel suo scontro con Elias, le sue braccia erano ricoperte di oscurità che dava loro la forma di due lame affilatissime, con le quali stava smembrando chiunque gli capitasse a tiro.

Ben presto, la figlia di Venere realizzò che le sue braccia e la sua lancia non erano richieste: Camille e Daniel stavano praticamente facendo a gara a chi facesse fuori più mostri. Era uno spettacolo incredibile. E anche spaventoso.

Decise di occuparsi dei prigionieri. In mezzo alle urla, le fiamme e i raggi di luce che fischiavano, riuscì a intravedere gli occhi strabuzzati di Cassie, che tutto a un tratto aveva perso la voglia di gridare. Quando la raggiunse, si accovacciò di fronte a lei con un sorriso sornione. Di sicuro, quella non era la rimpatriata che si era aspettata quando aveva abbandonato il campo di nascosto. «Ti trovo bene, Collins.»

«F-Farhat?!» domandò quella. «Che diamine state facendo?!»

«Siamo in vacanza. La Death Valley è molto bella in questo periodo dell’anno.»

Cassie batté le palpebre un paio di volte, come se il suo piccolo cervello non riuscisse a cogliere il sarcasmo. «Siete… siete nemici di Roma. Siamo qui per arrestarvi!»

Kiana non riuscì a reprimere una risatina. «Come scusa?»

«Hai sentito. Siete tutti in arresto. E adesso liberami, così posso portarvi da Ashley!»

La figlia di Venere guardò prima lei e poi Nathan, che mugugnò qualcosa di incomprensibile a causa della bocca tappata. Erano proprio una bella coppia quei due, ora che ci faceva caso. La strillona rompiscatole e il tizio in grado di far addormentare chiunque: un match scritto nelle stelle.

«Ah-ah. Va bene, arrestatemi pure. Ma loro come pensi di convincerli?» Kiana indicò a quella babbuina Daniel e Camille mentre polverizzavano la poca resistenza rimasta.

«Da quando García ha i poteri?» bisbigliò Cassie, prima di dare di gomito a Nathan. «Allora… non c’avevi mentito. Non ti è scappato solo perché sei un incapace.»

Nathan diede un altro paio di strattoni. «MH! MH MH MH

«Ma… quella è Gray?!»

Camille era avvolta dalle fiamme, che in qualche modo non avevano intaccato i vestiti. I suoi occhi viola riflettevano la luce incandescente, mentre il viso era una maschera inespressiva. Perfino Kiana faticò a riconoscerla per un istante. La vide incenerire una dracena che stava implorando di essere risparmiata. Non l’aveva mai vista così, mai. Avrebbe mentito se avesse detto con non la intimoriva nemmeno un po’.

Poco distante, Daniel decapitò quello che restava della Famiglia Lestrigone. Anche lui era circondato dalle tenebre.

Un silenzio irreale scese nello spiazzale. Era quasi assordante, dopo tutte le grida battagliere – e terrorizzate – dei mostri.

Poi, come attratti l’uno dall’altra, i due ragazzi incrociarono gli sguardi. Kiana sentì la pelle accapponarsi. I suoi compagni, ai lati opposti di quel campo di battaglia improvvisato, si scrutarono per quelle che parvero eternità. Le fiamme non svanirono dal corpo di Camille, così come le tenebre da quello di Daniel. La figlia di Venere ebbe una sgradevole sensazione.

«Ra… ragazzi?» li chiamò, incerta. «Che… che state facendo?»

Entrambi si voltarono di scatto verso di lei, facendola sobbalzare. Il pensiero che potessero farla a pezzi senza nemmeno versare una goccia di sudore le attraversò la mente. Sapeva che non sarebbe mai successo, erano suoi amici dopotutto. In un angolino del suo cervello, però, quel timore continuò a perseguitarla.

«Che cavolo prende a quei due?» domandò Cassie.

Kiana la zittì con un’occhiataccia, poi tornò a guardare i suoi compagni. «È… è finita, ragazzi. Spegnete… ehm… i poteri adesso. Okay?»

Passarono ancora altri secondi, durante i quali Kiana sentì il battito del proprio cuore accelerare. I corpi di Daniel e Camille stavano ribollendo di energia, così forte che anche Kiana poteva avvertirla, come una forza invisibile che opprimeva l’aria.

Poi, come un fulmine a ciel sereno, le tenebre si diradarono dal corpo di Daniel. Vederlo ammansirsi per primo fu la cosa più sconvolgente che Kiana avesse mai visto. Perfino Camille sembrò colta alla sprovvista.

«Fa attenzione con quello» disse Daniel mentre si avvicinava ai prigionieri. Accennò con il mento a Nathan. «Ci ha già fregati una volta.»

Il figlio di Somnus cominciò a sudare come una fontana. Osservò Daniel come se avesse appena visto un fantasma.

«García!» esclamò Cassie. «Razza di buono a nulla di un probatio, liberami subito!»

Daniel le scoccò un’occhiata gelata dall’alto. «Potes meos suaviari clunes.»

«Ma… come osi rivolgerti così a un centurione?! Lo sai che potrei…»

«Mh! Mh mh mh mh

Nathan cominciò a dimenarsi e dare di gomito a Cassie, nei limiti delle sue possibilità. Sembrava spaventato. Arrischiò anche diverse occhiate a Daniel, che sogghignò.

«Ehi, ragazzi» li chiamò Camille, raggiungendoli in quel momento. Nonostante lo scontro fosse finito, sembrava ancora tesa. «Avete sentito cos’ha detto quel lestrigone, prima?»

«Che voleva… mangiare Cassie?» suppose Kiana, mentre la diretta interessata digrignava i denti.

«Giuro che se mi libero…»

«Ha detto che presto avrebbe riabbracciato sua moglie» tagliò corto Cam. «Non l’avete notato?»

Ora che Kiana ci rifletteva sopra, sì, Camille aveva ragione. Osservò i resti di Papà Lestrigone: soltanto la camicia hawaiana era rimasta. Alla faccia delle spoglie di battaglia. «Beh, direi che c’ha preso. Ora riabbraccerà sicuramente sua moglie.»

«Non credo proprio che fosse consapevole di stare per morire» sbottò Cassie.

«E chi ha chiesto la tua opinione, Collins?» la rimbeccò Kiana.

«Odio ammetterlo, ma Cassie ha ragione» proseguì Camille. «Credo che… in qualche modo, sapesse che sua moglie stesse per tornare.»

«E allora? I mostri non risorgono di continuo?»

«Sì, però…» Camille si strinse nelle spalle. «Non saprei. Non sembrava nemmeno che si riferisse a quello.»

La figlia di Venere si scambiò un’occhiata con Daniel, che sembrava incerto tanto quanto lei. Un grugnito arrabbiato provenne da Cassie: «Mi liberate o no?!»

«No!» esclamarono i due ragazzi contemporaneamente.

Kiana si strofinò le dita sopra le palpebre. «Sentite. Abbiamo salvato la pelle a questi due, come avevamo detto. Adesso però dobbiamo andarcene, prima che arrivi Ashley.»

«Cosa? Volete lasciarci legati qui?!»

«Penelope, avvicinati.»

La centaura obbedì, timida come suo solito. «Ehm… s-salve.»

«Quel coso è con voi?» domandò Cassie.

«Non è un “coso”» ringhiò Daniel. «Si chiama Penelope.»

Sembrava davvero infastidito. Al punto che Cassie bofonchiò: «Scusa tanto…»

Kiana cercò un pugnale dentro uno dei borsoni in groppa a Penelope e lo gettò a qualche metro di distanza da lei. «Ecco, tieni.»

Il centurione la scrutò come se avesse avuto due teste. «È troppo lontano, Farhat!»

«Prova a usare l’ingegno, Collins. Sono sicura che ce la farai. Ah, e magari mostra un po’ di gratitudine, visto che se non fosse stato per noi saresti diventata cibo per lestrigoni.»

Il gruppetto cominciò ad allontanarsi, sotto lo sguardo furente di Cassie. «Davvero pensate di poter scappare?! Non appena Ashley vi troverà vi farà pentire di averci traditi!»

Nonostante fosse un’ovvia provocazione, Kiana non riuscì a fare a meno di fermarsi e di lanciarle un’altra occhiata. «Lo sai che lavori per una psicopatica, vero?»

«Ashley non è una psicopatica. È giusta.»

«Giusta?!» Kiana non riuscì a credere alle proprie orecchie. Quella parola la fece accendere come un incendio. «Quello che ha fatto a Mary ti sembra giusto?!»

Tornò ad accovacciarsi di fronte a Cassie e la puntellò sul bustino, scrutandola dritta negli occhi scuri. «Tu eri lì. Hai visto cosa le stava facendo. E non hai battuto ciglio! Le hai permesso di farle del male! Perché?! Perché sai che nel profondo non potresti nemmeno lustrarle gli stivali?!»

Cassie serrò le labbra. «Marianne ci ha traditi. Come voi.»

«Ti sbagli!» urlò Kiana, molto più forte di quanto avrebbe voluto. «Lei non ha tradito proprio nessuno! E se tu avessi la più vaga idea di cosa stai parlando lo sapresti benissimo!»

«Io so che lei ha infranto la regola principale del campo. Vi ha aiutati a fuggire dopo un attacco diretto, con una talpa nel campo e decine di morti e feriti. Sono i fatti che parlano, Farhat, non i tuoi stupidi sentimenti.»

La figlia di Marte ridacchiò di fronte all’espressione sbalordita di Kiana. «Pensavi che le vostre fughe romantiche sarebbero passate inosservate? Ashley ha chiuso un occhio su di voi molte più volte di quanto possiate immaginare.»

Kiana sentì il sangue ribollirle nelle vene. Stava per tirarle un ceffone così forte da rompersi una mano, ma qualcuno l’afferrò per il braccio. Si voltò aspettandosi di vedere Camille, ma ancora una volta con sua enorme sorpresa vide Daniel che la guardava dall’alto.

«Lasciala perdere» le disse. «Lei è soltanto una pedina. L’ennesima pedina.»

Pedina. Non appena udì quella parola, Kiana si ammansì.

«No» rispose, alzandosi in piedi. «Non è lei la pedina. E non lo sono nemmeno Elias, Nathan, e tutti gli altri. L’unica pedina è Ashley.»

Daniel corrugò la fronte. «Che cosa?»

Kiana si morse la lingua. Quello non avrebbe dovuto dirlo. Ricambiò lo sguardo perplesso di Daniel e sentì il cervello andare in panne nel tentativo di trovare una spiegazione plausibile. «Ehm…»

«Ashley è sotto il controllo di Discordia» buttò fuori Camille, rimasta in disparte. «È lei che ci sta mettendo tutti gli uni contro gli altri.»

La figlia di Venere osservò l’amica, esterrefatta, e quella le rivolse un cenno della mano per farle capire che era tutto ok.

«Discordia…?» domandò Daniel nel frattempo, con sguardo confuso. «E tu come lo sai?»

«Non ha importanza.» Camille si piazzò proprio tra Kiana e Daniel. Per la prima volta da quando avevano avuto la loro discussione, lo guardò dritto in faccia. «Il punto è che qualcuno ci sta davvero tradendo. Non possiamo fidarci gli uni degli altri.»

Daniel incrociò le braccia. «E da quando sapevate questa cosa?»

«Nemmeno questo ha importanza.»

«Quindi da un po’» intuì Daniel. «E quando pensavate di dirmelo?»

Calò il silenzio. Daniel fece vagare lo sguardo tra Camille e Kiana e quest’ultima alzò le mani, mortificata. «Daniel, ascolta…»

«Adesso lo sai» disse Camille. «Qual è il problema?»

«Come sarebbe “qual è il problema? Come possiamo fidarci se non ci diciamo le cose?»

Di nuovo, Cam rimase in silenzio, senza staccargli gli occhi di dosso. Kiana l’aveva vista guardarlo almeno un milione di volte, ed erano state tutte occhiatine di nascosto, imbarazzate, provenienti da una ragazzina impacciata e con le farfalle nello stomaco.

L’esatto opposto di come lo stava fissando proprio in quel momento. Gli stava scavando un buco in mezzo agli occhi solo con lo sguardo.

«Aspetta…» disse Daniel. «… voi… voi non vi fidate di me?»

Cercò conferma guardando verso Kiana, e lei si sentì soffocare per l’ennesima volta.

«Ultimamente ti comporti in modo strano, Daniel» cominciò Camille. «Diventi… aggressivo ogni volta che si parla di Ashley. Per non parlare di quello che hai fatto a Elias, o a quelle ninfe. E questi poteri che ti sono apparsi dal nulla…»

Daniel strinse i pugni. «Cosa vorresti insinuare?»

«Che cosa sappiamo di te, Daniel? Da dove arrivi? Chi sono i tuoi genitori?» Camille fece un passo verso di lui. «Perché Encelado ti conosce?»

Uno sbuffò di oscurità spuntò dal terreno, vicino alle gambe di Daniel. Il suo viso era diventato quello di una statua.

«Mi prendi in giro?» sibilò a denti stretti.

«R-Ragazzi?» bisbigliò Kiana, provando una sensazione di déjà-vu mentre quei due si scrutavano in cagnesco. L’aria divenne di nuovo satura di energia, al punto che le sembrò perfino di sentirne l’odore. «P-Per favore, calm…»

Il cielo crepitò. Tutti quanti, nessuno escluso, sollevarono la testa all’unisono. Solo in quel momento Kiana si rese conto dei nuvoloni neri che si erano addensati sopra le loro teste.

«Bene, bene, bene!» esclamò una voce orribilmente familiare.

Kiana spostò lo sguardo verso una delle pareti del canyon, vicino all’Occhio dell’Ago. Una decina di figure erano apparse proprio sulla cima di essa. In mezzo a loro, ne spiccava una con un’armatura d’oro massiccio e un mantello rosso che sventolava. Era lontana, ma la figlia di Venere poteva immaginare alla perfezione quegli occhi azzurri che la scrutavano divertiti.

«Ashley…» ringhiò Daniel.

Un coro di grida si sollevò: «Senatus Populusque Romanus

Le figure si alzarono in volo, a cavallo di dei pegasi e alcune bighe. Ashley invece non aveva nessuna cavalcatura: cominciò a fluttuare in aria da sola, proprio come aveva fatto durante lo scontro con Encelado.

I legionari atterrarono di fronte a loro e smontarono, tutti sguainando le armi. Penelope sussultò e indietreggiò fino a nascondersi dietro Kiana, mentre Cassie ridacchiava deliziata. «Adesso sì che siete nei guai...»

«Mh mh mh mh

«E sta’ un po’ zitto tu!»

Il vento ruggì sui tre ragazzi finché Ashley non toccò terra, un sorrisetto sardonico dipinto sotto l’elmetto.

«Maledizione…» sibilò Kiana.

Non avrebbe mai pensato che le cose sarebbero precipitate ancora di più. Se prima era nella padella, ora era dentro un falò alto quattro metri. Strinse la presa sulla lancia, mentre la figlia di Giove li osservava uno per uno, il corpo crepitante di elettricità e il cielo sopra le loro teste che continuava a borbottare.

«Ed ecco i nostri traditori.»  

 

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Capitolo 22
*** Un unico obiettivo ***



XXII

Un unico obiettivo 




Daniel osservava le fiamme baluginare nella notte. Le luci di Furnace Creek arrivavano da lontano, ricordandogli che non erano più nel bel mezzo del nulla. Quel luogo sembrava un miraggio, qualcosa di irreale nel silenzio e nella quiete di quel deserto.

Penelope si era appisolata accanto al fuoco, producendo quel suo strano nitrito mentre dormiva, e Jack era sparito già da un po’ ormai. Elias aveva detto che erano vicini agli Inferi, perciò forse il loro amico a quattro zampe aveva fiutato la strada di casa e aveva deciso di andare a dare un’occhiata.

Elias. Non appena Daniel pensò a lui, avvertì uno strano brivido percorrerlo. Le emozioni che aveva provato affrontandolo erano state qualcosa di totalmente nuovo per lui. Adrenalina, eccitazione. Aveva affrontato diversi nemici, perlopiù mostri, e non si era mai sentito così. Era stato come se affrontare Elias avesse acceso qualcosa in lui.

Si era sentito bene. Soprattutto al pensiero di averlo annientato.

Sollevò una mano e osservò l’oscurità fuoriuscire dal suo palmo. Se Camille e Kiana non lo avessero fermato, l’avrebbe ucciso. E non avrebbe avuto nessun rimpianto. Se l’era cercata, per come si era sempre comportato. Aveva creduto di essere superiore a tutti loro, e lui gli aveva fatto capire che invece la realtà era molto diversa.

Quanto avrebbe voluto fare la stessa cosa anche ad Ashley…

Una fitta di dolore alla testa lo fece piegare. Si premette le mani sulle tempie e grugnì con forza, mentre di fronte a lui apparivano quelle immagini che già aveva visto innumerevoli volte: corpi neri, occhi bianchi, alcuni in piedi, altri riversi a terra. La terra che ribolliva, una sala buia, un’ombra seduta sopra un trono.

«Tu mi servirai.»

Il dolore cessò. Daniel prese una grossa boccata d’aria. Quella voce… perché era così familiare? Chi era quella donna?

Perché vedeva quelle cose? Che cosa significavano?

«Che cavolo mi succede…?» mormorò, osservando le tenebre che gli ricoprivano le mani quasi a mo’ di guanti.

Aveva perso il conto di quante volte si era fatto quelle domande. L’unica cosa che sapeva, era che da quando aveva lasciato il campo tutto si era fatto molto più strano. I suoi ricordi si erano fatti più confusi, annebbiati, e adesso lui stesso stentava a credere a quello che aveva sempre raccontato.

Orfano di madre, padre sconosciuto, cresciuto da solo senza mai incontrare mostri. Era strano. Troppo strano. Aveva sempre mentito? Perfino a sé stesso? Ma perché?

Chi era lui, veramente?

Si stropicciò le palpebre, con un sospiro esausto. Avrebbe potuto continuare all’infinito, la verità non sarebbe piovuta dal cielo. La cosa migliore che poteva fare era parlare con qualcuno di quei sogni e di quelle visioni. Allo stesso tempo, si sentiva come se ci fosse qualcosa a frenarlo. Non poteva dire di vedere quello che vedeva. Che diamine avrebbero pensato di lui? Che era un pazzo, o forse anche peggio. E poi… con tutto quello che aveva fatto loro, dubitava che Camille e Kiana avrebbero avuto la premura di ascoltarlo.

Si accorse di aver finito le sterpaglie da lanciare nel fuoco e decise di andare a prenderne altre, per smettere di pensare a quelle cose. Sapeva che forse avrebbe dovuto dormire, ma non aveva sonno. Nonostante il lungo viaggio e lo scontro che aveva avuto da poco, non si sentiva stanco.

Alzò lo sguardo verso il cielo stellato. Come tutte le altre volte gli trasmise una sensazione di tranquillità. Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente. L’aria fredda e pungente della notte lo rinvigorì. Staccò qualche ramo dagli arbusti spogli sparpagliati qua e là attorno all’accampamento e tornò indietro.

Ad attenderlo trovò una sorpresa del tutto inaspettata.

Una bambina era accovacciata di fronte al fuoco, con in mano un lungo ramoscello con il quale lo stava attizzando. Aveva i capelli corti e biondi, e indossava un vestitino bianco. Era piccola e gracile, tanto che un soffio di vento avrebbe potuto scaraventarla via, eppure non sembrava per nulla intimidita da quel falò grosso il doppio di lei.

«Che bel fuoco» disse proprio quando Daniel si avvicinò, prima che lui potesse chiederle chi diamine fosse. Si voltò e gli rivolse un sorriso. «L’hai acceso tu?»

Daniel rimase immobile per lo stupore. Si guardò attorno, alla ricerca di qualcosa di insolito, ma non vide nulla. Quella bambina apparsa dal nulla era completamente sola.

«… sì» rispose, lasciando cadere le sterpaglie. «Chi sei? Che ci fai qui?»

La bambina si strinse nelle spalle. «Mi ha attirato il fuoco.»

«Okay…» Daniel fece un passo avanti. «La tua famiglia sa che sei qui?»

«Me ne sono andata tanto tempo fa. Loro non badano più a me.»

Daniel rimase in silenzio. Una bambina apparsa nel bel mezzo della Valle della Morte gli stava dicendo di essersene andata di casa, con una voce e un tono così calmi da far credere che fosse la cosa più normale di sempre. Per non parlare del fatto che il suo sguardo non sembrava affatto quello di una bambina. Nei suoi occhi c’erano una durezza e una sicurezza pari a quelli di un adulto che aveva visto molte più cose di quante potesse raccontarne.

Qualcosa non quadrava. Il ragazzo avvertì un brivido lungo la schiena mentre reggeva lo sguardo della sconosciuta, ma lei non sembrò fare caso alla sua tensione. Tornò a concentrarsi sul fuoco.

«E tu invece? Dov’è la tua famiglia?»

«Non… non ho una famiglia.»

«No? Che gli è successo?»

Daniel si guardò attorno ancora una volta. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, né di come comportarsi. Poteva davvero essere una mortale che si era persa? Forse arrivava da Furnace Creek e si stava prendendo gioco di lui. Eppure… qualcosa gli suggeriva che invece non era affatto una mortale.

«Non l’ho mai conosciuta. Sono cresciuto in orfanotrofio.»

La bambina tornò a guardarlo. Nonostante lo sguardo serio, il suo viso sembrò rattristirsi. «Mi dispiace. Tutti, almeno una volta, meritano di radunarsi attorno a un fuoco come questo con i propri cari.»

Si alzò in piedi e cominciò ad avvicinarsi a Penelope, che ancora stava dormendo ignara di tutto. Daniel spalancò gli occhi: solo in quel momento si ricordò di lei. Avrebbe voluto dirle di starle alla larga, ma la bambina non fece nulla alla centaura. Si limitò soltanto a osservarla con un sorriso rilassato, per poi rivolgersi nuovamente a Daniel: «Purtroppo non possiamo scegliere le nostre famiglie. Ma questo non significa che dobbiamo essere come loro. Non pensi anche tu?»

Daniel assottigliò le labbra. «Non mi hai ancora detto chi sei.»

Malgrado il suo tono duro, la sconosciuta fece un sospiro divertito. Fece il giro attorno al fuoco e tornò verso di lui. «Tutti credono che ci sia del male in te, Daniel García. Ma io non penso che sia così.»

«Come… come sai il mio nome?»

«Io penso che ti serva solo una spinta verso la giusta direzione» proseguì la bambina. «Per fare di quel male... un bene. Ecco. Voglio farti un regalo.»

Allargò le braccia e chiuse gli occhi. Daniel pensò che fosse impazzita del tutto, ma poi vi fu un fascio di luce proprio in mezzo a loro due, seguito da uno strano rumore simile a un risucchio d’aria. Il ragazzo fu costretto a distogliere lo sguardo per un istante, a causa del forte bagliore.

Quando la luce si diradò, un grosso vaso era apparso al suo posto. Era alto un metro, circa, e largo un po’ meno della metà. Era nero con decorazioni bianche, simboli, forse anche parole di una qualche lingua dimenticata. Daniel lo scrutò con le labbra schiuse per lo stupore. «Che cos’è?»

«Lascerò che sia tu a scoprirlo» rispose semplicemente la bambina. «Quando verrà il momento saprai cosa farci, filius noctis.»

«C-Come?»

Daniel si voltò verso la bambina, ma lei era scomparsa.

Allora si voltò di nuovo verso il vaso, ma era scomparso pure quello. Indietreggiò per la sorpresa. Non si era immaginato tutto, ne era sicuro.

Quella bambina… chi diamine era? Che cosa gli aveva detto? E quel vaso, che cosa…

Una fitta di dolore alla testa gli mozzò il respiro, ma questa era diversa rispetto a prima. Gli occhi cominciarono ad appesantirsi. Un lungo mugugno gli scappò dalle labbra, poi tutto si fece nero.

Si svegliò nel suo sacco a pelo, con la luce del giorno che faticava a filtrare attraverso gli spessi nuvoloni grigi sopra la sua testa. Nonostante il corpo appesantito, riuscì a mettersi a sedere. Fece vagare lo sguardo lungo l’accampamento. Cercò di nuovo quello strano vaso che la bambina gli aveva “regalato”, ma non lo vide da nessuna parte. Si era… sognato tutto?

Il fuoco si era spento e Penelope ancora dormiva, quindi non poteva chiederle se avesse visto qualcosa. Forse era davvero stato un sogno. Eppure, ricordava alla perfezione tutto quello che la bambina gli aveva detto. Specialmente la parte sull’essere diversi dalle proprie famiglie. Perché avrebbe dovuto dirgli qualcosa del genere? Lui non conosceva nemmeno la propria famiglia! Ma forse… forse lei sì. Non sarebbe stato così strano. Dopotutto, conosceva anche il suo nome.

Spostò lo sguardo su Penelope.

«Hai un’aura malvagia» gli aveva detto.

Quella bambina… pensava che la sua famiglia fosse malvagia? Pensava che lui fosse malvagio? Aveva avvertito le stesse cose che aveva avvertito Penelope?

Aveva detto anche qualcos’altro. Qualcosa in latino. Filius… 

Un’altra fitta alla testa gli mozzò il respiro. Fece un verso di dolore molto più forte di quanto avrebbe voluto, perché la vocetta allarmata di Penelope lo chiamò: «Daniel, stai bene?»

Il ragazzo tornò a guardarla. Nonostante si fosse appena svegliata, sembrava preoccupata per lui.

«S-Sì, sì…» riuscì a rispondere, un po’ imbarazzato.

Lei si avvicinò a lui. «Sicuro?»

«Io…»

Daniel esitò. Poi un grosso sospiro gli scappò dalle labbra. Non poteva andare avanti così. Si stava tenendo tutto dentro. Non sapeva chi fosse, non sapeva cosa volesse, non provava nemmeno dei sentimenti. Con il suo comportamento aveva ferito e allontanato le uniche due persone che gli erano state vicine.  

Era stanco di mentire, ed era stanco di fingere di non aver bisogno di aiuto.

«Sai, Penelope… credo che sia arrivato il momento che io segua il tuo consiglio.»

«Intendi dire… parlare con qualcuno?»

«Sì.»

Penelope strinse le mani di fronte al petto e saltellò sul posto con un sorriso che andava da orecchio a orecchio. Esultò come se avesse appena ricevuto la notizia più bella di sempre e Daniel non riuscì a reprimere un sorriso di fronte a quella scena.

Così, quando si trovò da solo con Kiana mentre Cam meditava, pensò che quella fosse l’occasione che stava cercando.

Tra lui e Kiana c’era sempre stato un rapporto… strano. Anzi, forse avrebbe potuto dire che non c’era mai stato alcun rapporto. Era sempre stato convinto di essere lui quello che “sopportava” la presenza delle due ragazze, ma dopo la discussione che aveva avuto con Kiana a Salt Creek Trail, aveva capito che in realtà era lei a tollerare lui.

Sapere che la figlia di Venere non l’aveva mai davvero voluto tra i piedi l’aveva in un certo senso tranquillizzato. Non gli avrebbe mai mentito, perché non ne aveva bisogno, e di certo non aveva paura di lui. Per questo decise di parlarle. Forse lei l’avrebbe aiutato. E in ogni caso, si sarebbe tolto quel peso dalla coscienza.

Kiana non lo giudicò per quello che le disse, ma un lato di lui se l’aspettava. Non era mai stata una persona superficiale, malgrado la nomea della sua famiglia. La cosa che lo sorprese di più fu il fatto che, nonostante tutto quello che era successo, non era più arrabbiata con lui. Anzi, lo trattò quasi come un vero amico per una volta. Vederla così l’aveva fatto sentire meglio, come se ci fosse ancora speranza di aggiustare le cose con lei e Cam.

Naturalmente, tutto era precipitato non appena aveva avuto quel pensiero.

«Ed ecco i nostri traditori» disse Ashley, mentre lei e i suoi legionari li accerchiavano.

Più Daniel la guardava, più sentiva la rabbia crescere dentro di lui. Dalle sue labbra uscì un ringhio sommesso: «Ashley…»

La figlia di Giove spostò lo sguardo su di lui e distese quel sorrisetto irritante. «Non posso credere che voi mi abbiate costretta a venire a riprendervi di persona. Come avete fatto a sfuggire a quell’incapace di Elias?» Schioccò la lingua. «Immagino di essermi già risposta da sola.»

«Lasciaci andare, Ashley» s’intromise Kiana, i pugni stretti e la mascella contratta. Se c’era qualcun altro con dei motivi per detestare Ashley, quella era proprio lei. «Solo Camille può trovare Ecate. Se ci riporti indietro adesso condannerai il mondo intero!»

«Non rivolgerti a me così. Sono il tuo Massimo Pontefice.» Ashley si posò una mano sul petto, saccente. «Dovreste inchinarvi al mio cospetto.»

«Neanche morto» sbottò Daniel, strappando una risatina ad Ashley, che lo scrutò proprio come aveva fatto il giorno in cui si erano conosciuti, quando era arrivato al Campo Giove: come un topo fuggito da una gabbia.

«Sai, García, credo che sia giunto il momento di dirti che non mi sei mai piaciuto.»

Anche a Daniel venne da sorridere. «Il sentimento è reciproco.»

«Ashley! Ashley, siamo qui!» starnazzò Cassie, dimenandosi nelle corde. 

Solo in quel momento Ashley sembrò accorgersi dei due centurioni legati. 

«Tradire il campo… fuggire di nascosto… adesso prendete pure ostaggi?» domandò verso i tre ragazzi. «Pensate davvero che funzionerà?»

«Che… che cosa?!» sbottò Kiana. «No! Non li abbiamo catturati noi! Questi due idioti…»

«Ashley.» 

Camille fece un passo avanti, tenendo le mani alzate e ben lontane dalla daga alla cintura. Come se avesse bisogno di quell’arma, dopo aver bruciato vivi tutti quei mostri. 

«Ascoltami, ti prego. Non dobbiamo metterci gli uni contro gli altri. È proprio quello che vogliono i nostri nemici. Stanno solo cercando di dividerci. Se litighiamo, faremo il loro gioco.»

Ashley spostò lo sguardo su di lei, e questa volta, al posto di un topo, sembrò che stesse guardando un cucciolo abbandonato. «Lo sai, Gray, eri una legionaria così promettente. Obbedivi agli ordini, sapevi stare al tuo posto… non riesco a credere che proprio tu abbia fatto questa fine. Che peccato.»

«Ashley, ti scongiuro. La profezia riguarda me. Riguarda mia madre! Se tu…»

«Ammanettateli» ordinò la figlia di Giove, senza ascoltarla. «Abbiamo perso già abbastanza tempo a causa loro.» 

Alcuni legionari si avvicinarono a loro stringendo delle manette. 

«Perché lo stai facendo, Ashley?!» domandò Cam, con la voce incrinata. «Io… ti ammiravo così tanto! Perché non vuoi lasciarmi andare da mia madre?!»

Ashley sorrise di nuovo. «Sei proprio adorabile, Gray. Farò in modo che la tua punizione sia meno severa rispetto a quella dei tuoi amici.»

Camille sembrava sul punto di scoppiare a piangere, ma Daniel non capì se per la tristezza o per la rabbia. 

«Avresti dovuto accettare la mia proposta, Kiana» disse qualcuno. Daniel osservò uno dei legionari muniti di manette che si era avvicinato: era Maxwell, anche lui con un sorriso da idiota stampato in faccia. «Ora è troppo tardi. Non ci sarà alcuna pietà per i disertori.» 

«Tu?!» domandò Kiana, con un tono di voce che sembrava arrabbiato, incredulo e offeso tutto assieme. «Che ci fai qui?!»

Il figlio di Mercurio gonfiò il petto come un bambino che aveva appena ricevuto delle caramelle. «Ashley voleva uomini fedeli. Di certo non traditori come voi.»

«Fedele? Tu?» Daniel non riuscì a reprimere un altro sorriso. «Ma non ti eri nascosto nell’armeria durante l’attacco?»

Maxwell si voltò verso di Ashley. «Non ho idea di cosa stia parlando.»

«Sì che lo sai, Maxwell Freeman.» Daniel sogghignò. «Ma dopotutto, tu sei fatto così. Te la prendi con quelli delle coorti inferiori, perché sai di essere in una posizione privilegiata. Sai che nessuno di quelli che ami tormentare ti darà mai la lezione che ti meriti, perché sono con le mani legate. E quando le cose si mettono male, trovi un cunicolo in cui rannicchiarti e lasci che quelle stesse persone che hai guardato dall’alto ti proteggano le spalle. E poi, quando è tutto finito, ti attacchi come una zecca a persone come lei…» e indicò Ashley. «… per dimostrare di essere un soldatino modello.»

Si avvicinò a quel codardo, fino a trovarsi faccia a faccia con lui. Proprio come aveva sospettato, un barlume – o meglio, un faro – di incertezza gli attraversò il volto. 

«Potrai anche ingannare loro, ma puoi ingannare me. Sei solo un parassita, Maxwell. Uno scarafaggio.» Lo puntellò sull’armatura e avvicinò il viso al suo, scrutandolo direttamente negli occhi. La voce gli uscì in un sussurro roco: «L’unico motivo per cui non ti ho ancora calpestato è perché non voglio sporcarmi le scarpe.»

Maxwell rimase in silenzio, esterrefatto. Tutta la sua spavalderia era svanita nel nulla. Daniel si rese conto che anche Kiana e Camille lo stavano fissando sbalordite, ma lui non badò a loro. Tornò a rivolgersi al resto dei legionari: «Siete qui per arrestarci, ma io ho un’altra proposta. Voi vi levate dai piedi adesso, oppure vi faccio tutti a brandelli uno per uno e getto quello che rimane di voi ai coyote.» 

Nonostante la tensione che si era accumulata, Ashley rise, imitata da alcuni dei suoi lacchè. «Farò in modo che tu riceva la pena di morte, García.»

«Ma davvero?» L’oscurità cominciò a sollevarsi da terra, circondando Daniel. Alcuni legionari fecero dei versi di sorpresa e indietreggiarono. Non Ashley, però: lei rimase impassibile. Meglio così. L’ultima cosa che Daniel voleva, era che anche lei fosse una codarda.

«È ora che qualcuno ti dia una bella lezione, Ash…»

Vi fu un rumore, una specie di crepitio che interruppe Daniel. E poi una luce blu seguita da un boato.

Daniel gridò, mentre qualcosa lo colpiva al petto con una forza sovrumana. Fu sbalzato all’indietro, mentre un disgustoso odore di bruciato permeava l’aria. 

«Daniel!» gridò qualcuno, ma lui non riuscì a capire chi fosse per via del forte fischio nelle sue orecchie. 

Si ritrovò a terra, pietrificato. Non sentiva alcun dolore, tuttavia la sua mente per un istante andò in panne.  Gli sembrò di rivivere il momento in cui una freccia l’aveva trafitto, ma amplificato di mille volte. Tutto il corpo non rispondeva più ai suoi comandi, era un miracolo perfino il fatto che riuscisse ancora a pensare. Cominciò a temere che non si sarebbe più mosso, che sarebbe rimasto così, consapevole di essere immobile, intrappolato in una prigione da cui non poteva evadere.

Un angolo del suo cervello, probabilmente rimasto integro, gli fece capire che Ashley doveva appena averlo colpito con un fulmine. La puzza di bruciato e il sapore di metallo che aveva in bocca erano anche degli indizi piuttosto inequivocabili. 

Ashley.

Non appena pensò a quel nome qualcosa dentro di lui si smosse, come un lungo scossone che lo percorse dalla testa ai piedi. Centimetro dopo centimetro riuscì di nuovo a percepire il proprio corpo, i muscoli contratti per la scossa appena ricevuta, ma di nuovo pronti agli ordini. 

«Che cosa aspetti, Daniel?» domandò quella voce che per tanto tempo l’aveva perseguitato. «È arrivato il momento. Dimostra da che parte stai.»

Daniel riaprì gli occhi di scatto. Proprio sopra di lei, Kiana sobbalzò per la sorpresa. «Daniel! Stai… ehm… stai bene?»

Lui non rispose. Alzò lentamente la testa e si rese conto che i legionari erano rimasti immobili. Camille stava gridando a tutti di non avvicinarsi e quelli, per qualche motivo, la stavano ascoltando, mentre Ashley osservava con un sorriso compiaciuto tutta la scena. Fu proprio quando la vide, che Daniel fu sicuro di quello che doveva fare.

La prima mossa era stata fatta. Lui era lì per quello. Doveva farlo. 

Non si sarebbe tirato indietro.

Si rialzò faticosamente in piedi, saggiando il terreno con le gambe tremolanti e fragili, come se in quei pochi istanti si fosse dimenticato come camminare. La puzza di bruciato continuava ad appestargli le narici. Non sembrava odore di pelle, però, ma di… gomma? Plastica? Qualcos’altro? 

Ashley si accorse di lui. «Di nuovo in piedi? Eppure credevo di averti…» 

Il sorriso svanì dal suo volto all’improvviso, rimpiazzato da un’espressione di stupore. Anche i legionari spalancarono gli occhi. Perfino Camille, accorgendosi di lui, sembrò impallidire ancora di più.

«D-Daniel?» domandò Kiana, rimastagli accanto, atterrita come tutti gli altri. «Ma… ma che cosa…»

L’oscurità cominciò a sorgere dal terreno. Non appena Daniel la sentì strisciargli lungo le gambe, sogghignò. Incrociò lo sguardo di Ashley e nella sua mente fu come se tutto e tutti fossero scomparsi: c’erano soltanto più loro due. 

«Ora tocca a me.» 

Non aveva idea di quanti metri li separassero. Non potevano essere molti, visto che li coprì tutti con un solo scatto. Un attimo prima Ashley era lontana, con le labbra schiuse per lo stupore: ora era di fronte a lui, con gli occhi strabuzzati. 

L’afferrò per il collo, strappandole un grido soffocato. Sentì il vento ululare su di loro, ma doveva essere per via della velocità con cui si stavano muovendo. Subito dopo, arrivarono alla parete del canyon. 

Schiantò Ashley con tutta la sua forza contro la roccia. La figlia di Giove gridò con quanto fiato aveva in gola, mentre alcuni detriti franavano su di loro. 

Daniel distese il ghigno. Quel grido… voleva sentirlo ancora. E più forte. 

Le sferrò un pugno nello stomaco, ignorando il fatto che avesse un’armatura. La colpì ancora e ancora, con il suono del metallo che si accartocciava che giungeva alle sue orecchie, seguito dai mugugni soffocati di Ashley. Distese il braccio e l’oscurità formò una lama. Prima che potesse affondargliela nel petto, Ashley gli afferrò la mano con cui la stava tenendo per il collo e gridò di nuovo, il corpo che si illuminava d’azzurro. Vi fu un’esplosione di elettricità e Daniel venne scaraventato via. Ruzzolò a terra per qualche metro, stordito e con il braccio indolenzito e bruciacchiato. 

Si rimise in piedi tossendo, mentre di fronte a lui Ashley si allontanava dalla parete, l’armatura e l’elmetto accartocciati. 

«Come… hai osato?» gli domandò, con la voce carica di rabbia e una tempesta negli occhi. Si sfilò l’elmetto e i capelli le caddero arruffati sulle spalle. «Me la pagherai.»

Daniel sogghignò e si raddrizzò. Non disse nulla: le fece soltanto cenno di farsi avanti. 

«Ashley! Ashley!!» 

Alcuni schiamazzi provennero alle sue spalle. Daniel arrischiò un’occhiata e si accorse dei legionari che correvano verso di loro. Fece una smorfia e sollevò una mano, la quale cominciò a ricoprirsi di oscurità.

“Dannati impiccioni.”

Diversi fulmini piombarono dal cielo proprio in quel momento, abbattendosi di fronte ai legionari e arrestando la loro corsa. 

«State tutti indietro!» urlò Ashley, anche lei con una mano alzata, dalla quale ancora si stavano sprigionando scintille. Incrociò di nuovo lo sguardo di Daniel. «Ci penso io.»

Un altro sorriso nacque sul volto di Daniel. Per la prima volta dopo tanto tempo, gli sembrò di sentire qualcosa.

Ashley cominciò a levitare nell’aria, accompagnata da delle forti correnti d’aria. «Andiamo da un’altra parte.»

Sfrecciò verso il cielo, fino alla cima del canyon. Daniel la seguì con lo sguardo e avvertì l’oscurità formicolare dentro di lui. 

«Sì…» sussurrò. «Andiamo.»

«DANIEL!»

In mezzo alla folla di legionari apparvero i volti agitati di Camille, Kiana e Penelope. La figlia di Venere si fece largo a spintoni, seguita a ruota dalle altre due. Nessuno protestò o cercò di fermarle, per motivi che Daniel non comprese, e che francamente nemmeno gli interessava sapere. 

«Daniel» disse Kiana, raggiungendolo per prima. Aveva ancora quello sguardo, come se… come se lui la spaventasse. «A-Avanti, Daniel. Non… non fare idiozie. Ok? Cerca… di calmarti. Non c’è bisogno di combattere.»

Daniel la scrutò in silenzio. Non l’aveva mai guardata davvero, non fino a quel momento. Era consapevole che fosse una bella ragazza, ma non gli era mai importato. Quella volta, però, fu diverso: quella volta lui la guardò. E sì, era bella come un fiore. Ma non solo quello. Era anche coraggiosa, forte, e leale. Era… una bella persona. Avrebbe dovuto capirlo prima.

«Ashley se n’è andata! Possiamo scappare! Dobbiamo salvare Ecate, ricordi? Tu… tu sei voluto venire con noi. Ci volevi aiutare a trovare la madre di Cam. Avanti, sono certa che… che… possiamo trovare una soluzione per… per…» 

«Basta così, Kiana» s’intromise Camille, che a differenza dell’amica non sembrava spaventata o intimidita, ma solo… arrabbiata. 

Se Kiana era un fiore, Camille era una rosa. Graziosa, ma spinosa. Le spine di Cam erano così affilate da far pentire a chiunque di essersi avvicinato troppo. Aveva visto coi suoi stessi occhi cosa quelle spine erano in grado di fare. 

Era sempre stata buona con lui. Con lui non aveva mai usato le spine. Ma poi, lui l’aveva ferita una volta di troppo. E quello sguardo furente era il risultato.

«Non l’hai ancora capito?» proseguì Camille. «Lui non è qui per questo. Non ha mai voluto salvare Ecate.»

«N-No, un momento…» Kiana sventolò un braccio con fare nervoso. «So di sembrare ripetitiva ma… cosa

«Sei uno di loro. Vero?» Camille strinse i pugni, gli occhi conficcati in quelli di Daniel. «Sei un figlio di Notte.»

Uno strano verso provenne da Kiana. «Lui… COSA?!»

«Ma come ho fatto a non capirlo prima…» bisbigliò Cam. «I tuoi poteri, il fatto che Encelado ti conoscesse, Jack, Fatum… era tutto così… ovvio.»

Daniel rimase in silenzio. Quelle parole… non riusciva davvero a capire che cosa gli stesse dicendo. 

“Figlio… di Notte?”

«Perché sei qui, Daniel? Se questo è il tuo vero nome.» Camille si avvicinò a lui. «Qual è il tuo vero scopo?»

Ancora una volta, lui non rispose. Lei lo spintonò all’improvviso.

«RISPONDI!» urlò. «Per una volta, una sola, RISPONDI!»

Il ragazzo indietreggiò. Strinse i pugni, l’oscurità ai suoi piedi che ribolliva pronta a colpire. Poi si accorse delle lacrime che rigavano le guance di Camille. Stava piangendo. 

«Ci hai presi in giro. Per tutto questo tempo tu… tu…» Le sue mani si infuocarono. Le puntò verso di lui. «Sei tu il traditore. Sei tu la talpa. Tu.»

«Mi… dispiace» riuscì a dire Daniel.

«Ti… dispiace? Ti dispiace? È tutto quello che hai da dire?! Dopo tutto quello che hai fatto! Tutte le bugie, il male che hai fatto… che mi hai fatto…»

«Abbassa le mani. Non voglio farti del male. Ma lo farò se mi costringi.»

Camille digrignò i denti. Sembrava un animale messo all’angolo, ferito, furioso, senza più niente da perdere. Le fiamme crebbero d’intensità. «Tu… del male… a me

«Ragazzi, basta!» Kiana si frappose tra loro. La sua voce era agitata, il suo sguardo pure. Osservò prima Daniel e poi Camille. «Ma che cavolo vi prende?! Siamo amici, ricordate? Perché non…»

«Non siamo amici, Kiana» disse Daniel. «Non lo siamo mai stati.»

Lei si voltò verso di lui. Adesso, sembrava solo mortificata. «Daniel…»

Anche Cam abbassò le mani. Le fiamme si spensero, così come la sua rabbia. Rimase soltanto sconforto. Forse quella era la certezza che fino quel momento aveva cercato.

«E ora levatevi dai piedi.» Daniel diede le spalle a entrambe e osservò il cielo, verso il punto in cui Ashley era rimasta ferma, ad osservarlo. Diversi nuvoloni neri si erano radunati sopra di lei, colmi di elettricità. 

«Fammi un favore…» disse ancora la voce tremolante di Cam. «… non tornare.»

Non appena udì quel tono di voce triste, ferito, il petto di Daniel fu colto da un sussulto. Si voltò di nuovo verso di loro. Camille aveva gli occhi arrossati, Kiana invece stava scuotendo la testa dicendogli, implorandolo, di non farlo, di non andare via. 

E poi, Penelope. La centaura non aveva detto una sola parola. Era rimasta immobile, in silenzio, a scrutarlo con quegli occhioni scuri e una mano premuta sul petto. Non appena la vide, ebbe un sussulto. La sua mente lo riportò al momento in cui l'aveva conosciuta, a quando lei, timida e goffa, l'aveva ringraziato per averla aiutata. Da quella volta aveva sempre cercato di parlare con lui, di farlo aprire. Perché… perché adesso non diceva nulla?

«Penelope…» mormorò.

Tese una mano verso di lei, ma la centaura indietreggiò con un nitrito spaventato. Solo in quel momento si rese conto della paura nei suoi occhi. 

Perché lo guardava così? Perché lo guardava come se… come se fosse malvagio?

Daniel schiuse le labbra. Sollevò le mani tremati e le osservò. Cosa… cosa gli era preso? Perché stava facendo così? Quelle… quelle erano le sue amiche! Perché…

L’oscurità crebbe dal terreno e gli avvolse le gambe. Non appena lo fece, fu come se un’altra scarica elettrica l’avesse attraversato. Chiuse gli occhi e serrò la mascella.

«Va’, Daniel. Non perdere altro tempo.»

«Sì…» sussurrò lui, distogliendo l’attenzione da quelle che forse erano state sue amiche, ma che ormai non lo erano più.

Il suo obiettivo era uno e uno soltanto: Ashley.

Come tutte le altre volte che aveva usato i poteri, si lasciò guidare unicamente dal suo istinto. Qualcosa dentro di lui sapeva cosa fare e come farlo. Come una specie di riflesso incondizionato.

Gli sembrò di sprofondare nella terra, come se il suo corpo non fosse più solido. E poi, tutto si fece nero.

Era un salto nell’ombra. Stava… saltando nell’ombra, proprio come Jack. 

Quando riaprì gli occhi si trovò sulla cima del canyon, esattamente dove Ashley lo stava aspettando. Lei non sembrò per nulla sorpresa da quello che aveva appena fatto. Anzi, gli rivolse un ghigno divertito mentre continuava a fluttuare qualche metro più in alto di lui. «Ce ne hai messo di tempo. Stavi dicendo addio alle tue amiche?»

«Non pensi che sia stato incauto andartene per prima in quel modo?» domandò Daniel per tutta risposta. «Sarei potuto fuggire. O avrei potuto attaccare i tuoi compagni.»

Ashley atterrò di fronte a lui. «Sapevo che non avresti fatto nessuna delle due, Daniel. O forse dovrei dire Vacuo.» 

Daniel si irrigidì. Ancora quella maledetta parola. Lo stava perseguitando.

«Oh, sì» ridacchiò Ashley. «Adesso non ho più dubbi: sei tu quello di cui mi hanno parlato.»

«Che vorresti dire?» 

«Quest’estate ho fatto un sogno.» Ashley cominciò a camminare attorno a lui, tenendolo per tutto il tempo sotto il proprio sguardo. «Qualcuno mi ha detto che “il Vacuo sarebbe venuto per uccidermi”. Poche settimane dopo, sei arrivato al campo. All’inizio non ero certa che fossi tu, ma non c’è voluto molto prima che lo capissi. Voglio dire, un ragazzo senza genitori, senza passato, che trova il Campo Giove per puro caso e non batte nemmeno ciglio quando gli spieghiamo che cosa ci facciamo lì e perché. Sarei stata una stupida a non sospettare di te. Hai anche detto di non aver mai incontrato mostri. Forse perché erano stati istruiti a non farti del male. O magari perché ti riconoscevano come loro simile.»

Daniel rimase in ascolto, per nulla impressionato. «È stata Discordia a dirtelo?»

Ashley si fermò. L’espressione beffarda le svanì di dosso all’improvviso. «Discordia? Perché proprio lei?»

«Rispondi e basta.»

La figlia di Giove abbozzò un altro sorrisetto. «Non so chi fosse. Era solo una voce. Ma mi ha detto tutto quello che dovevo sapere. Ha detto che ci sarebbe stata una profezia e che tu avresti manipolato diversi di noi, in modo da uscire dal campo, e anche che avresti cercato di metterci gli uni contro gli altri.»

«Io ci ho messi gli uni contro gli altri?»

Ashley ignorò la domanda. «E adesso che siamo qui…» Il suo corpo sprigionò alcune scintille. «… posso distruggerti.»

Il ragazzo riuscì a emettere una risatina. «Quindi… tutto questo teatrino, la storia dei traditori, la tua caccia all’uomo… serviva a questo? A farmi uscire allo scoperto?»

«Oh, no. Io salverò comunque Ecate. Ma prima mi occuperò di te. Così avrò sia scovato e sconfitto il vero traditore, lo stesso che ha convinto Gray, Farhat, Moreau e D’Amico a cospirare contro il campo e gli dei, e poi ripristinato la Foschia. Sarò un’eroina. L’unica eroina. E nessuno potrà negarmelo.»

«Non stai considerando un dettaglio, però.» L’oscurità cominciò ad avvolgere il corpo di Daniel, proprio come l’elettricità con quello di Ashley. «Cosa succederebbe se tu dovessi fallire?»

«È semplice.» Il viso di Ashley divenne duro come il marmo. «Non fallirò.»

Puntò le mani verso di lui. Il cielo ruggì così forte da far tremare la terra. Due lampi lo illuminarono di azzurro. 

Daniel sogghignò. Nemmeno lui avrebbe fallito.



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Capitolo 23
*** Il Vacuo ***


XXIII

Il Vacuo



I fulmini precipitarono su di lui. Daniel cominciò a correre, alternandosi tra i salti nell’ombra, mentre il vento ululava su di lui e la terra esplodeva in mille pezzi sotto il peso degli attacchi di Ashley.

«Questa storia finisce ora!» urlò proprio lei, alzandosi in volo.

Lo inseguì sfruttando le correnti d’aria, i capelli che svolazzavano, il corpo circondato da un’aura di elettricità e gli occhi che lampeggiavano di blu. 

«Io salverò Roma!»

Daniel si voltò e sollevò le mani. «Tu non salverai nemmeno te stessa.»

Due proiettili di luce nera sfrecciarono nell’aria. Ashley li scansò per un soffio, per poi gridare ancora. Un altro fulmine precipitò su Daniel, questa volta partendo proprio dal corpo della figlia di Giove. Il ragazzo creò una barriera d’oscurità, contro la quale s’infranse senza arrecare nessun danno.

Ancora una volta, non ebbe idea di come ci riuscì. Il suo corpo, i suoi poteri, gli davano quello di cui aveva bisogno ogni volta che era necessario. Se voleva colpire un bersaglio lontano, partivano i dardi; se voleva combattere da vicino, creava le lame con le braccia; se voleva difendersi, creava una barriera, oppure l’oscurità formava un’armatura su di lui. 

E ogni volta, si sentiva invincibile. I mostri erano poco più che insetti per lui, Lamia era stata una passeggiata nel parco, nemmeno Elias era riuscito a sfiorarlo: Ashley non aveva alcuna speranza.

La figlia di Giove si tuffò in picchiata su di lui, la punta della lancia che mirava alla sua gola. Daniel sollevò il braccio. L’impatto fu così forte che sentì i piedi sprofondare nella terra, ma almeno aveva parato quell’assalto. Ashley rimase sopra di lui, a fare pressione con la mascella serrata, e Daniel riuscì a sogghignare.

«Tutto qui?»

Trasformò anche il secondo braccio in una lama e tentò di colpirla al fianco, ma Ashley si ritrasse in tempo. Atterrò a qualche metro di distanza da lui, ma Daniel non le concesse il lusso di riposarsi: si fiondò su di lei e cominciò a tempestarla di attacchi, obbligandola a indietreggiare.

La lancia e le spade di oscurità si scontrarono tra loro per decine, centinaia di volte, sotto al cielo che crepitava e con il vento che ruggiva.

Daniel era convinto che tutta la forza di Ashley risiedesse nei suoi poteri, invece stava combattendo molto bene anche con la lancia. Forse non era sopravvalutata come credeva. Tuttavia, non poteva nulla contro di lui. Non era uno spadaccino, non aveva mai imparato a combattere, ma sentiva sempre di sapere cosa fare e quando farlo, in qualsiasi momento, come se fosse nato per quello.

Come se il suo unico scopo fosse stato quello di combattere contro di lei, un giorno.

Schivò un affondo di Ashley e rispose con un colpo mirato al suo fianco, che però lei deviò con l’asta della lancia. Roteò su sé stessa e dimenò la lancia, ma Daniel la bloccò un attimo prima che potesse squarciargli il petto. Vi fu un attimo di stallo, in cui le lame rimasero premute tra loro e gli occhi dei due avversari rimasero incastonati gli uni sugli altri.

«E tu saresti questa grande eroina?» domandò Daniel, accorgendosi delle braccia tremanti di Ashley nel tentativo di vincere quella prova di forza con lui. 

La ragazza digrignò i denti. «E tu saresti umano?»

«Ma che razza di domanda…»

Ashley urlò di nuovo. Un fulmine piombò dal cielo proprio su di loro. Attraversò la ragazza senza farle nemmeno un graffio e si scaricò su Daniel, che invece fu scaraventato via. Passarono diversi secondi prima che toccasse di nuovo terra. Rotolò incontrollabile, ferendosi sul terreno dissestato. 

Riuscì a rimettersi in ginocchio, stordito, appena in tempo per sentire un altro crepito. Il vento si alzò, spingendolo a terra e impedendogli di rimettersi in piedi. Un altro fulmine piombò su di lui. Sollevò un’altra barriera d’oscurità, ma questa volta l’impatto con il fulmine fu molto più violento, tanto che sentì il respiro mozzarsi. 

Rimase bloccato sulle ginocchia, con quello che gli sembrava il peso del cielo sopra le spalle. Digrignò i denti, mentre le scintille azzurre del fulmine si sprigionavano lungo l’arco oscuro che aveva creato sulla sua testa. Per tutto il tempo continuò a sentire il grido di Ashley. Non sarebbe riuscita a controllare quel fulmine ancora per molto. Doveva resistere ancora un po’, anche se si sentiva l’intero corpo in fiamme. Digrignò i denti fino a sentire male alla bocca. Gli sembrò di sprofondare centimetro dopo centimetro nella terra, ma non demorse. Non poteva fallire. 

Il peso diminuì all’improvviso. Il fulmine si dissolse, lasciandolo finalmente libero. Dissolse la barriera e cadde carponi, il fiato pesante e la fronte madida di sudore. 

«E pensare che per un attimo mi avevi perfino intimorita.» 

Daniel alzò la testa e vide Ashley marciare verso di lui, la lancia stretta nel pugno e un sorrisetto beffardo stampato in faccia. 

«Che ingenua. Ho rispedito nel Tartaro mostri molto più pericolosi di te quando ero ancora una bambina. Tu non sei nulla, Vacuo.» Sollevò la lancia. «E adesso, torna da dove sei venuto.»

Affondò la lama per finirlo, ma Daniel non aveva alcuna intenzione di accontentarla. Sollevò una mano e afferrò la lancia a mezz’aria, fermandola un istante prima che potesse affondargli nella gola. Con il braccio che tremava per lo sforzo si rimise in piedi, mentre il sorriso di scherno di Ashley andava pian piano affievolendosi. 

«Io… non mi farò fermare da te.» Cominciò a camminare verso di lei, costringendola a indietreggiare. 

Quelle immagini tornarono a tormentare la sua mente. I corpi neri che lo attaccavano, la terra che ribolliva, la donna che lo chiamava suo servitore. 

«Io… sono stato scelto. Sono… l’ultimo rimasto. Io sono… oscurità

Gridò con quanto fiato avesse in corpo e tranciò a metà la lancia di Ashley con il braccio libero. Vi fu un’esplosione assordante, seguita dalle urla di entrambi. Daniel sentì la terra staccarsi dai piedi per poi tornare poco dopo, mentre cadeva rovinosamente per la seconda volta. 

Rimase con il viso puntato verso il cielo, le orecchie che fischiavano e ancora quella puzza di plastica bruciata che avvolgeva l’aria. Tossì e si girò su un fianco. Poco distante, udì i gemiti della sua avversaria. Quel suono infuse in lui la scarica di adrenalina di cui aveva bisogno. 

Le gambe gli tremarono per lo sforzo, ma riuscì a reggersi in piedi. Vide Ashley a terra, con un taglio sulle labbra e tra le mani soltanto più la parte inferiore della lancia. Anche lei si stava rimettendo in ginocchio. Lo scrutò con quanto odio avesse in corpo. «Non avresti dovuto farlo…»

Gettò via ciò che restava della sua arma e sguainò la spatha che teneva al fianco. «Me la pagherai.»

A Daniel scappò un altro sorrisetto. Nonostante lo scontro pressappoco alla pari, non sembrava per nulla spaventata. Doveva ammetterlo, ammirava la sua tenacia. Tuttavia c’era una linea molto sottile tra coraggio e stupidità e lei si stava pericolosamente avvicinando sempre di più alla seconda categoria. 

«Fatti avanti, figlia di Giove.» 

Ashley non si fece pregare. Si fece sospingere dal vento e sfrecciò verso di lui come una freccia. Se Daniel non si fosse abbassato in tempo, l’avrebbe decapitato in un sol colpo. 

Indietreggiò mentre Ashley urlava furibonda e dimenava la spada d’Oro Imperiale, che scintillava nonostante il cielo nuvoloso. Le loro lame rintoccarono ancora e ancora, anche se questa volta gli attacchi di Ashley erano molto meno precisi e molto più irruenti, dettati dalla rabbia. A differenza sua, Daniel si sentiva incredibilmente calmo. Deviò un fendente e sferrò un affondo. Ashley scartò di lato per evitarlo, ma la lama d’oscurità le aprì uno squarcio sul fianco. Grugnì di dolore e quel verso fu come un segnale, per Daniel.

Cominciò lui a incalzarla, obbligandola a rimanere sulla difensiva. All’inizio lei riuscì a resistere ai suoi attacchi, ma stava rallentando, stava esitando, e i primi barlumi di incertezza stavano cominciando ad apparire nei suoi occhi. 

Forse, in un angolo della sua mente, il pensiero che qualcosa che non avrebbe mai creduto potesse accadere, il pensiero di perdere, aveva cominciato a germogliare.

Forse, aveva paura.

Ancora una volta la spatha balenò di fronte al suo volto. Bloccò il polso di Ashley a mezz’aria e le sferrò un calcio allo stomaco. La figlia di Giove barcollò all’indietro con il respiro mozzato, ma Daniel non aveva ancora finito. Ormai era come uno squalo che aveva fiutato il sangue della preda. Nulla l’avrebbe fermato.

Ashley si difese al limite delle sue capacità, ma più lo scontro proseguiva e più Daniel si sentiva forte. Più la figlia di Giove si mostrava vulnerabile, più lui si sentiva motivato. Diverse ferite apparirono sul corpo di Ashley, sul viso, sul fianco, sotto i vestiti strappati. La vista del suo sangue non fece altro che animarlo ancora di più.

«E adesso? Ti intimidisco?» le domandò, mentre lei indietreggiava quasi annaspando in cerca d’aria.

La ragazza serrò la mascella. I suoi denti erano macchiati di rosso, per via del sangue che le colava dal labbro. «Non mi farò sconfiggere da te!»

Urlò di nuovo a perdifiato. La terra tremò da quanto forte il vento cominciò a soffiare. Terra e sassolini cominciarono a sfrecciare su Daniel, che fu costretto a proteggersi il volto e soprattutto gli occhi, per non farsi accecare. Indietreggiò, ma mantenne l’equilibrio nonostante le forti folate d’aria. Ashley approfittò dello spazio ottenuto e si staccò da terra con un balzo. Fluttuò sopra di lui, mentre tutto attorno a loro il vento si addensava in un gigantesco tornado. Adesso erano nell’occhio del ciclone e in mezzo ad esso gli occhi azzurri e spettrali di Ashley brillarono come i lampi che domava. 

«Ti distruggerò, Vacuo!»

Un altro fulmine piombò all’interno del tornado, e questo sembrava molto più grosso e potente di tutti gli altri. Daniel creò un’altra barriera e l’impatto tra le due forze fu così assordante che non si sarebbe stupito se l’avessero sentito fino a Furnace Creek. L’energia che si sprigionò probabilmente fu sufficiente ad alimentare da sola una città intera. 

Daniel avvertì l’oscurità scorrergli nelle vene come il sangue. Le braccia gli tremarono, non per lo sforzo di sostenere quel fulmine, ma per la fatica nel contenere tutto quel potere dentro di sé. Schiuse la bocca in un sorriso sadico. Non avrebbe perso, mai. Lui era lì per quello. Era lì per uccidere. 

Urlò a perdifiato, sovrastando perfino il grido di Ashley, e le tenebre salirono verso il cielo, respingendo il fulmine con loro. Non riuscì a vedere la reazione della figlia di Giove, ma l’esplosione che si susseguì gli fece capire che aveva centrato il bersaglio. 

Ashley gridò, ancora, ma questa volta fu un verso di dolore così straziante da far accapponare la pelle. Non quella di Daniel, però. 

Il tornado svanì nel nulla, il mondo smise di tremare e sabbia e sassolini tornarono a riadagiarsi a terra, mentre l’autoproclamato Pontifex Maximus precipitava dal cielo. La vide agitare le mani, forse nel tentativo di chiamare a sé altre correnti d’aria, ma anziché mantenere il volo riuscì a malapena ad attutire la propria caduta. Si schiantò a terra ed emise un ultimo urlo, per poi rimanere lì, a contorcersi e a gemere, l’armatura, i capelli e il viso sporchi di sangue. 

Il respiro di Daniel si calmò poco per volta, mentre ammirava la scena. Rilassò le spalle e distese il suo sorriso. Era finita. Aveva vinto lui. Ora, mancava soltanto il colpo di grazia.

Si avvicinò alla ragazza con tutta la calma che poteva permettersi. La vide girarsi su un fianco e provare a strisciare, ma riuscì appena a muoversi di qualche centimetro prima di stramazzare del tutto. 

«Che scena patetica. Sarebbe questa la potente figlia di Giove?» gracchiò. «Dimmi, sei ancora convinta di poter…»

Smise di camminare. Tutto a un tratto, gli sembrò di avvertire la presenza di qualcuno: un’aura di potere così forte da spazzarlo via con un solo soffio. Si voltò di scatto e sentì il respiro mozzarsi.

Fatum era apparso dal nulla dietro di lui. Il suo aspetto era lo stesso del loro primo incontro, l’armatura, le spade, il mantello e l’elmo di Ferro dello Stige. 

«T-Tu?!» domandò Daniel. «Che ci fai qui?!» 

«Il mio dovere.»

Il dio cominciò a camminare verso di lui. Daniel sussultò e sollevò una mano di riflesso, anche se sapeva di non poterlo battere davvero. «Avevi detto che mi avresti lasciato andare! Adesso vuoi rimangiarti così le tue parole?!»

«Non sono qui per te, Daniel.» 

Fatum si fermò. Accennò con il mento in un punto oltre le spalle di Daniel e il ragazzo sussultò. Gli fu subito chiaro cosa intendesse dire. 

«N-Non… non può finire così…» sussurrò Ashley proprio in quel momento. 

Daniel si voltò e la vide mentre tentava di nuovo di strisciare, alternandosi tra gemiti di dolore e pianto, la stessa scena che poco prima aveva trovato così tanto soddisfacente e che adesso, tutto a un tratto, gli trasmetteva la sensazione opposta. Rimase così preso da lei che a malapena si accorse di Fatum che gli passava accanto. Torreggiò sopra di Ashley, ma lei non sembrò nemmeno accorgersi di lui. Continuò a strisciare e a mormorare: «I-Io… io non morirò qui…»

«Non si può fuggire dal proprio destino» disse Fatum, senza nemmeno alzare la testa dalla ragazza morente. Sembrava che parlasse con lei, ma Daniel ebbe l’impressione che si stesse riferendo anche a lui. 

Gli sembrò di avere della sabbia nella bocca. «Che… che cosa vuoi farle?» 

«Nulla che tu non abbia già fatto. Il mio compito è solo quello di accompagnarla nel suo ultimo viaggio.»

Non appena udì quelle parole, un brivido percorse la schiena di Daniel. Gli tornarono in mente le parole che proprio Fatum gli aveva rivolto. Avrebbe fatto del male. Avrebbe ucciso. L’oscurità lo avrebbe consumato. 

Daniel sollevò di nuovo le mani. Le tenebre scivolarono lungo le sue dita. Ripensò al modo in cui Camille, Kiana e Penelope l’avevano guardato. Ripensò anche a come si era comportato con loro, quando aveva attaccato le ninfe, e quando aveva combattuto contro Elias. 

La sua attenzione scese più in basso, verso il suo petto, dove Ashley l’aveva colpito con il primo fulmine. A quel punto spalancò gli occhi. Un lungo sfregio gocciolante partiva da appena sotto al collo fino ad arrivare in mezzo ai pettorali. Però non era un taglio. Sembrava… una crepa. La pelle pallida tutt’attorno alla ferita era diventata ancora più bianca, anziché annerirsi per le bruciature, e il liquido che stava uscendo da lì… non era sangue. Era nero come la pece, come l’oscurità che lui controllava.

Con la mano che tremava come una foglia cercò di sfiorare la ferita. Non sentì alcun dolore quando la toccò. L’oscurità gli bagnò la punta delle dita. «Ma… ma cosa…?»

L’oscurità… era… dentro di lui? Letteralmente?

Fu come se la sua mente si fosse snebbiata all’improvviso. Osservò di nuovo Ashley, in quelle condizioni, e non provò più nessuna soddisfazione, nessun perverso orgoglio, ma solo una profonda inquietudine. Lui aveva fatto quello. L’aveva quasi uccisa, proprio come aveva fatto con Elias.

“Ma perché?”

Indietreggiò senza nemmeno rendersene conto, disgustato da quello che stava guardando, disgustato da quello che aveva fatto. Quello non era lui. Non poteva essere. Ma allora… chi era lui?

Che diamine stava succedendo?!

Si rivolse di nuovo a Fatum: «Tu… tu mi conosci, vero? Tu… tu sai chi sono? Che… cosa sono?»

Il dio spostò finalmente la sua attenzione da Ashley. L’aria sembrò raffreddarsi di venti gradi quando incrociò il suo sguardo. Daniel pensò che lo stesse scrutando dentro l’anima, ammesso che ne avesse mai avuta una e che non ci fosse oscurità perfino lì. Il dio annuì con singolo, lento movimento della testa.  

«Devi… devi dirmi tutto quello che sai» stabilì Daniel, calmo. 

«La verità ha un duro prezzo. Sei sicuro di volerla scoprire?»

«Non so chi sono, non so da dove vengo, ho trattato malissimo le uniche persone che mi hanno sopportato per tutto questo tempo, e ho una maledetta voce nella testa che continua a dirmi di uccidere chiunque capiti a tiro!» replicò Daniel. «Può essere la verità peggiore di tutto questo?!»

«Migliore o peggiore, non è di questo che si sta parlando.» Fatum si diresse verso di lui con passo lento. «Se vuoi la verità, dovrai accettare le conseguenze che essa comporta.»

Daniel strinse i pugni. Era stanco di tutti quei giri di parole. «Voglio la verità. Non m’importa delle conseguenze.»

Fatum rimase impassibile. Adesso era proprio di fronte a lui, e Daniel non ricordava che fosse così alto. Il dio emise un mugugno pensieroso: «Mh. Sai, Daniel. Credo che ucciderti sarebbe stato molto più semplice.»

L’oscurità salì da terra e li avvolse entrambi. Daniel gridò per la sorpresa e tentò di controllarla, per spingerla via, ma quella non rispose ai suoi comandi. Venne travolto e scaraventato a terra. Sentì il respiro mozzarsi. L’ultima cosa che vide, prima di esserne completamente avvolto, fu l’elmo nero di Fatum che lo scrutava imperterrito dall’alto. 

 

***

 

Si svegliò con la sensazione di star precipitando nel vuoto. Si tirò a sedere con un grido, ma realizzò subito che era tutto a posto. Non stava precipitando, anzi era seduto su una superficie scoscesa. Saggiò il proprio volto e il proprio corpo con le mani e non trovò nulla di fuori posto. Perfino lo squarcio sul petto era rimasto tale e quale. 

Però poi si rese conto che invece qualcosa era cambiato: tutto il resto. 

Non era più nella Death Valley. E non era più giorno. Il paesaggio desolante che lo circondava era molto simile a quello desertico della Valle, ma questa volta era fatto di montagne nere e granitiche, mentre il cielo era di un’inquietante color arancione. Di tanto in tanto era scosso da lampi rossi come il sangue.

Daniel si rimise in piedi, smuovendo il terreno pietroso su cui era seduto. Abbassò gli occhi. Nemmeno quelle pietre sembravano appartenere al mondo che conosceva. Avevano lo stesso colore delle montagne, un nero opaco, ed erano tutte acuminate e spigolose, come… cocci. Ne prese una e la esaminò sbalordito. Si rese conto che tutto quanto era formato da quelle strane pietre, forse perfino le montagne in realtà erano soltanto dei giganteschi cumuli di quegli affari.

«Che… che posto è questo?» sussurrò.

«Siamo nel Tartaro.»

Per poco a Daniel non scappò un altro urlo. Si voltò, trovandosi di nuovo di fronte a Fatum. Volle dirgli di smetterla di apparire dal nulla in quel modo, ma poi il suo cervello processò le parole che aveva appena sentito. 

«Il… Tartaro?!»

Fatum gli passò accanto e cominciò a camminare sul terreno dissestato. Ad ogni suo passo seguiva lo scroscio delle pietre. «Volevi la verità, Daniel. Questa è la verità.»

«Io… non capisco…»

«Questo luogo…» Fatum si voltò verso di lui. «… davvero non ti dice nulla?»

Daniel esitò. Perché doveva essere lui a rispondere alle domande? 

Un altro rumore di ciottoli distolse la sua attenzione. Poco distante da loro, qualcosa si stava sollevando da sotto le pietre. Una figura nera antropomorfa, gobba, senza dita delle mani e dei piedi, senza tratti fisici, senza nulla, soltanto due occhi bianchi come il latte, si issò da sotto terra e lo scrutò intensamente. Il ragazzo indietreggiò, sbalordito.

Era… uguale a quella delle sue visioni. 

Vi furono altri rumori di pietre. Poco per volta, figura dopo figura, da sotto il suolo se ne ersero almeno altre dieci, tutte pressappoco identiche. Antropomorfe, alcune gobbe, altre no, alcune alte, altre più basse, e tutte quante sembravano fatte di… 

«Oscurità…» sussurrò Daniel, per poi abbassare lo sguardo, sulla sua ferita ancora gocciolante. 

Quelle… quelle creature… lui…

Vi fu un sibilo. Tutte le creature erano scattate all’unisono verso di lui, così veloci che non riuscì nemmeno a reagire. Una lo colpì in pieno volto, scaraventandolo a terra. Riuscì a rimettersi carponi, prima che qualcosa si abbattesse sul suo fianco. Gridò di dolore, mentre nella periferia del suo campo visivo vedeva gli stessi proiettili di luce che aveva sempre usato per combattere dirigersi proprio su di lui.

Ordinò all’oscurità di proteggerlo. La barriera si sollevò appena in tempo per parare altri attacchi, ma non appena i proiettili si abbatterono su di essa per poco non perse la concentrazione per lo sforzo di mantenerla attiva: non erano forti come i fulmini di Ashley, ma erano dieci volte tanti. 

In mezzo ai raggi di luce che fischiavano, Daniel vide Fatum, immobile in mezzo alle creature che lo ignoravano bellamente. Sembrava del tutto disinteressato al fatto che stessero cercando di farlo fuori. Poi si ricordò che lui stesso aveva provato a ucciderlo, quindi intuì che poteva anche non aspettarsi aiuti da parte sua. 

Digrignò i denti per la rabbia. Non aveva idea di che cosa fossero quei mostri, perché avessero dei poteri come i suoi, tantomeno perché volessero ucciderlo, ma non gli importava. Non si sarebbe fermato a un passo dallo scoprire la verità su di lui. Urlò furioso e l’oscurità che opprimeva quel luogo si riversò dentro di lui per poi sprigionarsi verso l’esterno come un’esplosione. Quel potere gli era nuovo, ma almeno ottenne l’effetto desiderato.

L’onda d’urto respinse le creature, che rimasero stordite per qualche istante, il tempo necessario a Daniel per poter contrattaccare. Ne abbatté due con i proiettili di luce e ne tranciò una terza a metà. Gli sembrò di tagliare del latte addensato con un coltello. La creatura si divise in due parti e l’oscurità si ritirò sotto terra, ma Daniel non era davvero certo di averla uccisa. Forse l’aveva soltanto fatta sparire per un po’. Per un bel po’, si augurava.

Gli umanoidi rimasti tramutarono le braccia in lame, proprio come lui, ma nessuno riuscì a resistere alla sua furia. Secondo dopo secondo, Daniel si sentiva più forte e motivato. Quelli… erano solo degli ostacoli. Era molto più potente di tutti loro. Uno dopo l’altro, li distrusse tutti.

Quando anche l’ultima creatura venne sconfitta, Daniel rimase immobile in mezzo a quella landa desolata, a riprendere fiato.

«Che… che razza di posto è questo?!» domandò a Fatum, che per tutto il tempo non si era mosso di un millimetro. «Che cos’erano quelle… cose

«Tu sai già la risposta a ciascuna di queste domande, Daniel. La tua mente è stata corrotta, ti hanno impiantato falsi ricordi, credi di essere qualcosa che in realtà non sei. Ma nel profondo, la verità è sempre stata custodita dentro di te.» 

Daniel digrignò i denti. «Credevo che mi avresti detto tutto! Adesso vuoi dirmi che io devo capire tutto quanto da solo, soltanto perché mi hai portato nel Tartaro a vedere un mucchio di sassi?!»

«Questi non sono “sassi”, Daniel. Sono uova.» 

«Che… che cosa?!» Daniel fece vagare lo sguardo lungo tutta quella landa. Doveva distendersi per chilometri e chilometri. Tutto quel luogo… era tutto quanto formato da uova?!

«Centinaia di migliaia di uova. Deposte nell’Erebo, l’oscurità, dalla Notte. Da nostra madre.»

«Nostra… madre?!»

«Sì, Daniel. Tu sei un figlio di Notte. Proprio come me. Siamo fratelli.»

Filius noctis. 

Quelle parole gli perforarono la mente come una freccia. Quelle, e anche ciò che Camille gli aveva detto. Daniel indietreggiò come colpito da uno schiaffo. «Tu… tu menti. Tu menti!»

«No, Daniel. Questa è la verità. Tu sei nato qui. Da una di queste uova. E le creature che hai appena incontrato sono tuoi, nostri, fratelli.»

Daniel osservò il terreno dove le creature erano svanite. «F-Fratelli? I-Io... e loro?!»

«Siete stati creati con uno scopo. Nostra madre voleva il soldato perfetto. Un’arma. Ma soltanto uno di voi lo sarebbe diventato. Quando siete nati, nostra madre ha promesso al più forte che sarebbe andato con lei. Tutti gli altri sarebbero stati abbandonati qui. Vi siete massacrati a vicenda per anni, fino a quando il più forte ha prevalso su tutti gli altri.»

Le immagini balenarono di nuovo nella mente di Daniel. Ora… tutto aveva un significato diverso. Lui… era l’ultimo rimasto. Sentì una lacrima rigargli la guancia. «No…»

«Tu sei stato scelto. Ti è stato dato un corpo. Un contenitore. Qualcosa che potesse creare l'illusione che tu fossi senziente. Vacuo non è solo un soprannome. Vacuo è ciò che tu sei. Vuoto. Nessuna emozione. Nessun sentimento. Solo oscurità. Soltanto dei doveri da svolgere. Sei andato al Campo Giove. Hai fornito informazioni chiave. Il tuo compito era quello di uccidere tutti i semidei più potenti. Elias Crowe. Ashley Flare. Camille Gray.»

«Cam…» sussurrò Daniel, inorridito. Doveva… uccidere Cam?!

«Dovevi impedire che Ecate venisse liberata. Dovevi favorire l’ascesa di nostra madre. E per finire, come Araldo dell’Oscurità, avresti dovuto uccidere l’Araldo della Luce. E a quel punto, la Notte avrebbe regnato per sempre nel mondo.»

«Araldo… della luce?»

«Ma qualcosa non è andato come doveva» proseguì Fatum, inclinando la testa. «Tu... hai cominciato a dimostrare autonomia. Il tuo cervello, la tua mente, si sono sviluppate molto più di quanto avrebbero dovuto. Dovevi confonderti tra gli umani, comportarti come loro, ma hai finito anche col pensare come loro. Sei quasi diventato uno di loro. Non del tutto, ma quasi. Il tanto che bastava per iniziare a diventare problematico. Hai mostrato ritrosia verso gli ordini che ti sono stati dati. Hai anche sviluppato delle emozioni. Forse è per via di quelle due ragazze che hai conosciuto. Forse ti sei affezionato a loro. O forse, è stato qualcun altro a traviarti.»

Daniel pensò a quella donna che aveva sognato. Quella che l’aveva accarezzato e che gli aveva detto di essere ciò che voleva, di non seguire gli ordini di lei. 

Lei. Notte. Sua madre.

Credeva di poter svenire da un momento all’altro. Tutta la sua vita… era stata una menzogna. Non aveva sedici anni, o quelli che erano. Non era cresciuto in orfanotrofio. Non aveva nessun padre. Daniel non era nemmeno il suo vero nome. Come se García avesse mai potuto essere un cognome plausibile. La verità era sempre stata sotto il suo naso, ma era stato troppo stupido e cieco per capirlo. 

Si sentì insignificante come mai prima di allora. Avrebbe voluto sprofondare in mezzo a quei sassi, anzi, uova, e svanire per sempre assieme al resto dei suoi fratelli, fratelli che lui aveva massacrato per anni e anni.

Un’arma. Un assassino. Un carnefice. Ecco cos’era lui. Un mostro in tutti i sensi della parola. 

Cadde in ginocchio. Aveva ottenuto la verità. E quanto, quanto faceva male. Fatum non aveva affatto mentito sul prezzo salato che avrebbe dovuto pagare. 

«Mi dispiace, Daniel.»

Il mostro drizzò la testa. Fatum lo stava scrutando dall’alto, indecifrabile. Un moto di stizza crebbe dentro di lui. 

«No, invece. Non ti dispiace affatto» gli disse. Parlare, pensare, aveva tutto un altro sapore dopo tutto quello che aveva scoperto. Senza quel corpo che aveva, quel... contenitore, lui sarebbe stato proprio come i suoi fratelli, una creatura fatta di oscurità incapace di fare entrambe le cose, in grado solo di eseguire ordini. Non sapeva nemmeno se fossero maschi o femmina. Probabilmente nessuna delle due. «Fino a qualche giorno fa tu volevi uccidermi! Perché dovrebbe dispiacerti?»

Fatum abbassò la testa. Fece un lungo sospiro, poi si sfilò l’elmo, rivelando il suo volto pallido e scavato, e che in effetti, ora che Daniel conosceva la verità, gli assomigliava molto più di quanto potesse immaginare. Sembrava lui, o meglio, il viso che avevano creato per lui, ma più adulto e scavato.

«Li sento… continuamente, Daniel» cominciò a dirgli, con espressione stanca, quasi triste. «Ogni istante che passa, sento i sogni, le speranze, le preghiere degli uomini che si infrangono quando vanno incontro alle loro morti. Sento ogni loro rimpianto, ogni loro paura, quando il filo delle loro vite viene reciso dalle Parche. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, millennio dopo millennio. Soldati in guerra, uomini di tutti i giorni, persone comuni che vengono colpite da mali incurabili, perfino semidei. Tutti implorano di avere un’altra occasione, tutti promettono di comportarsi meglio, di essere diversi. Ma nessuno ottiene mai nulla. Tutti sono costretti a rassegnarsi all’unico destino che ci accomuna tutti quanti. È un dolore… insostenibile. È per questo che io non ho figli. Non potrei mai, in nessuna circostanza, lasciare che qualcun altro oltre a me sia costretto a patire questo fardello. Nessuno merita di vivere così. E tu, fratello… il dolore che causerai sarà superiore a qualsiasi altro, se aiuterai nostra madre a portare a compimento il suo piano. Non ci sarà più giorno, quando la notte coprirà il mondo. Sarà la fine di tutto, e tutti.»

«E per te non sarebbe meglio se tutto sparisse? Almeno non sentiresti più nulla.»

«Alcuni limiti non vanno superati. Il pensiero della morte ci aiuta ad apprezzare la vita. Cosa rimarrebbe del mondo senza nessuna delle due?»

Camille e Kiana tornarono nella mente di Daniel. Non era mai stato gentile con loro. Eppure non l’avevano mai abbandonato. Erano state buone con lui quando lui non meritava affatto che lo fossero. E adesso, con tutto quello che aveva scoperto, quei momenti che aveva trovato tanto fastidiosi adesso gli sembravano i ricordi più belli che aveva. Gli unici momenti in cui si era sentito… voluto. 

«Non possiamo scegliere le nostre famiglie» gli aveva detto quella bambina. «Ma questo non significa che dobbiamo essere come loro.»

Notte, i fratelli che aveva sconfitto, Fatum. Daniel… voleva davvero essere come loro? Voleva davvero continuare a vivere così? Ammesso che quella potesse chiamarsi “vita”. Alternava momenti di lucidità con momenti di follia pura. Quando aveva visto Elias e Ashley aveva perso il controllo, aveva allontanato le persone che lo avevano accettato, le aveva spaventate, e aveva anche scoperto di dover uccidere una di loro. 

Se davvero fosse sopravvissuto… sarebbe tornato da Cam? Per ucciderla

Poteva lui uccidere Cam? Si domandò se fosse proprio per questo motivo che fosse sempre stato così restio a lasciarla avvicinare a lui. Per tutto quel tempo… era rimasto accanto a una persona che gli voleva bene, che lo amava, e che lui invece doveva uccidere. 

Fece un sorriso amaro.

“Che schifo” fu l’unica cosa che gli venne da pensare. 

Che schifo che faceva lui, che schifo che faceva la sua famiglia, la sua vita, tutto quanto. Era un mostro nato da un uovoUn’arma. Una marionetta nelle mani di Notte, sua madre, la stessa che lo aveva obbligato a massacrare i suoi fratelli.

«La tua... vita appartiene solo a te. Trova il tuo percorso, la tua strada. Trova la tua persona» aveva detto la donna con il mantello.

Quella non era vita. Non aveva idea di che cosa fosse, ma di sicuro non era vita. Però… poteva ancora cambiare le cose. Poteva fare una scelta sulla quale Notte non avrebbe avuto alcun controllo. Camille e Kiana non meritavano di morire. Non meritavano di trovarsi di fronte a Fatum. Meritavano di vivere, di essere felici, e di andare incontro ai loro destini quando il tempo sarebbe arrivato. E con loro tutti gli altri, perfino le persone che odiava, o che aveva creduto di odiare, inclusi Ashley ed Elias. Lui non era nessuno per uccidere nessuno. Non era un soldato. O, almeno, non voleva più esserlo.

«Fallo» mormorò, drizzando la testa e incrociando lo sguardo di Fatum. «Uccidimi. Prima che… prima che lei mi controlli ancora. Prima che io faccia altro male.»

Fatum non batté ciglio di fronte a quella decisione. «Ne sei sicuro?»

«Sì. Sono sicuro.»

Aveva perso le uniche persone che avevano mai contato qualcosa per lui. Le sue uniche amiche, inclusa Penelope. Non poteva tornare indietro, non dopo quello che aveva scoperto, non con la consapevolezza che fosse una bomba pronta a esplodere in qualsiasi istante. Non poteva accettarlo. E poi, non aveva famiglia, non aveva amici, non aveva più nulla da perdere. Nessuno avrebbe sentito la sua mancanza. E nemmeno a lui sarebbe mancato vivere. O forse era meglio dire, esistere

«Molto bene» disse Fatum. Sollevò una mano verso di lui. «Sarà breve, fratello.»

Il ragazzo chiuse gli occhi e prese una grossa boccata d’aria, anche se dubitava che l’aria gli servisse davvero. Dubitava tante cose, ormai. 

«Cosa credete di fare?» domandò una voce all’improvviso. 

Daniel trasalì. Quella voce… la conosceva. Sia lui che Fatum si voltarono, e non appena il ragazzo vide quella gigantesca donna sospesa a mezz’aria sopra di loro si pietrificò per lo sgomento. 

Era proprio come l’aveva descritta Camille. L’abito nero con sfumature violacee, luci che pulsavano su di esso come stelle incandescenti, un viso bello ma glaciale e occhi brillanti come diamanti. Però non aveva menzionato le ali: due gigantesche protuberanze che le spuntavano da dietro la schiena, con l’apertura pari a quella di un aereo di linea, fatte di piume nere come inchiostro. O forse era meglio dire come la notte.

«Ma guarda un po’ se non sono i miei figli preferiti!» annunciò quella, agitando la frusta argentata, forse fatta di stelle pure quella, che stringeva nella mano. 

Daniel indietreggiò, gli occhi incastonati su di lei. Ad ogni battito, le sue ali irradiavano così tanta oscurità che si domandò come facesse a controllarla tutta. Ne sarebbe bastata una parte infinitesimale per sopraffarlo completamente.

Si sentì debole, minuscolo, insignificante. Ma soprattutto provò l'impulso irrefrenabile di chinare la testa e non alzarla finché lei non gli avrebbe dato il permesso di farlo. Come un guinzaglio invisibile che lo spingeva a eseguire ogni suo volere. Deglutì, e le parole gli uscirono di bocca di loro spontanea volontà: «Madre…»

 

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Capitolo 24
*** Corsa contro il tempo ***


XXIV

Corsa contro il tempo



Camille non credeva di essersi mai sentita peggio. Negli ultimi giorni le erano capitate una cosa più orribile dell’altra, per non parlare di tutto quello che le era successo da bambina. Eppure nulla di tutto quello sembrava comparabile a quello che stava provando in quel momento, mentre osservava il punto esatto in cui Daniel era svanito nel terreno. A decine di chilometri di altezza sopra di lei, sentiva il cielo che rimbombava, lampi e fulmini che si agitavano in mezzo ai nuvoloni scuri. Daniel e Ashley stavano combattendo, probabilmente. Forse lei avrebbe potuto raggiungerli. Forse avrebbe potuto intervenire, impedire che si uccidessero a vicenda… ma non le importava.  

Ashley, la persona che per così tanto tempo aveva ammirato, e Daniel, il ragazzo che tanto aveva amato… entrambi l’avevano delusa. Poteva sopportare le prese in giro dei ragazzi delle altre coorti, poteva accettare che qualcuno di insignificante come Maxwell le infilasse una gomma da masticare tra i capelli, o cose del genere, ma quello… quello no. Non da loro, non da due persone di cui aveva sempre creduto di potersi fidare.

Voleva diventare pretore, un’eroina, come Ashley, come Reyna, come Jason Grace.

«Ora sei una romana» si era detta un milione di volte, quando era arrivata al campo, per autoconvincersi ad andare avanti, a sopportare gli abusi e i soprusi di chiunque.

Un tempo, le sarebbe bastato quello per superare un brutto momento. Oppure pensare a sua madre, al fatto che lei l’avesse guidata, che l’avesse protetta. Ora non poteva fare nessuna delle due. Sua madre rischiava di essere distrutta e gli stessi romani che avrebbero dovuto aiutarla a salvarla la stavano ostacolando in ogni maniera possibile.

Era stata una stupida. Di nuovo. L’avevano presa in giro. Di nuovo. 

Non era giusto.

Non. Era. Giusto.

«Che fate lì impalati?!» gridò Cassie, ancora legata a Nathan. «Arrestate quelle due traditrici! E liberatemi, maledizione!»

I legionari si riscossero. Tutti quanti circondarono lei, Kiana e Penelope. Camille osservò tutte quelle persone, tutti quei volti che le avevano rivolto sorrisi di scherno, che l’avevano guardata dall’alto verso il basso fin dal suo primo giorno, che l’avevano chiamata “strega” e che si erano approfittati della sua gentilezza.

Era sempre stata il bersaglio preferito di tutti, perché sapevano che non si sarebbe mai ribellata. Era soltanto la piccola, stupida figlia di Trivia che perdonava qualsiasi crudeltà. Perfino in quel momento, era sicura che nel profondo si stessero prendendo gioco di lei.

Con che coraggio una sfigata come lei aveva deciso di lasciare il campo, per andare a salvare quella dea di serie B di sua madre? Avrebbe dovuto lasciare il posto ai veri eroi, come loro.

Glielo leggeva in faccia. Lo stavano pensando.

Piccola, stupida, strega. 

I legionari si avvicinarono. Maxwell sollevò le manette. Camille si conficcò le unghie nei palmi fino a sentire dolore. Al Tartaro Ashley, al Tartaro Daniel. Non le importava più nulla di loro. E soprattutto, non le importava nulla dei romani.

Nessuno si sarebbe più preso gioco di lei. Chiuse gli occhi. Sentì la magia ribollire nelle sue vene. Quando parlò, la sua voce giunse dieci volte più profonda alle sue orecchie: «Nessuno di voi riesce più a muoversi.»

Tutti i legionari smisero di avvicinarsi all’improvviso. Le loro espressioni si tramutarono in stupore. Cominciarono a tremare per lo sforzo di camminare.

«M-Ma… ma cosa…» sussurrò Maxwell. «S-Strega, che diavolo hai…»

«Nessuno di voi riesce più a parlare.»

«Mh… MHHHH!» La bocca del figlio di Mercurio si serrò come cucita da un filo invisibile. Per poco gli occhi non gli schizzarono fuori dalle orbite, e con lui quelli di tutti gli altri.

Alcuni pennacchi di fumo grigio si sollevarono da terra, mentre Camille osservava il suo operato. Provò un sadico piacere nel vedere tutti quei bulletti immobili come statue, con le labbra sigillate e gli sguardi incollati su di lei.

«Tu.» Fece un passo verso di Maxwell. Finalmente aveva perso quel suo ghigno beffardo. Ma non era abbastanza. Doveva pagare per tutto quello che aveva fatto. «Sei solo un maiale. Mettiti a quattro zampe.»

Poco per volta, con il corpo che tremava come se ogni movimento gli costasse uno sforzo immane, il ragazzo si mise carponi. Camille sorrise soddisfatta. Adesso era lei a guardarlo dall’alto, mentre lui sicuramente rimpiangeva di averla chiamata “strega”. Ma era troppo tardi. Se voleva chiamarla davvero così, allora gli avrebbe dato un valido motivo per farlo.

La nebbia grigia si alzò ancora di più mentre asseriva: «I maiali grugniscono. Avanti, bel maialino, grugnisci

«O-O… ink… oink…» gemette Maxwell, con una goccia di sangue che gli scivolava dal naso. «Oink… o-oink…»

«Ecco» commentò Camille soddisfatta. «Adesso sì che sei carin…»

«A… m…»

Quella voce la fece trasalire. Si voltò di scatto e inorridì quando si rese conto di Kiana, anche lei immobile, anche lei con il sangue che colava dal naso. «C… am…»

«Kiana!» Camille si riscosse dalla trance in cui lei stessa era caduta. «B-Basta così!»

Tutti quanti stramazzarono in ginocchio, ansimanti. La figlia di Trivia si fiondò subito accanto alla sua amica. Le posò una mano sulla schiena mentre si rialzava a fatica. «Stai bene?»

«S-Sì, sì…» Kiana si pulì il sangue dal naso e Camille realizzò che invece non stava per niente bene. Il suo viso aveva assunto sfumature giallognole e stava tremando come se non si trovassero più nel deserto ma sulla cima di una montagna.

«M-Mi dispiace, Kiana. I-Io non volevo…»

«Lascia perdere, dobbiamo… andarcene…» gemette Kiana, accennando con il mento ai legionari che si stavano riprendendo.

E nessuno di loro sembrava felice.

Camille indietreggiò di scatto. La sua mente andò in panne. Non aveva idea di cosa fare, come comportarsi. Tutta l’energia che aveva provato prima era svanita, lasciando spazio soltanto a un profondo sconforto. Se Penelope non fosse apparsa di fronte a loro, probabilmente avrebbe permesso ai romani di farle quello che avrebbero fatto a una vera strega

«Salite, presto!»

La figlia di Trivia riuscì a riscuotersi. Aiutò Kiana a salire e non appena furono sulla sua groppa, Penelope scavalcò i legionari con un salto, in un turbinio di grida di protesta e di sorpresa, e si precipitò il più lontano possibile da lì.

 

***

 

Si fermarono in un incavo tra le montagne, una specie di galleria a cielo aperto con le pareti che sembravano fatte di senape cristallizzata. C’era a malapena lo spazio per tre persone, figurarsi per due e una centaura alta due metri. Come nascondiglio però funzionò, perché sopra le loro teste udirono lo sfrecciare delle bighe e gli schiamazzi dei romani infuriati che sicuramente avrebbero con molta gioia voluto mettere le mani su Camille.

Quando vide le figure dei loro inseguitori smarrirsi nel cielo nuvoloso, la ragazza scivolò con la schiena lungo la parete fino a sedersi. Inorridiva al pensiero di quello che aveva appena fatto.

«Cos’è successo, Cam?» domandò Kiana. «Che… che cavolo ti è preso?»

Aveva riacquisito un po’ di colore durante quel breve lasso di tempo, ma sembrava ancora un po’ scossa. Per forza, l’aveva piegata al suo volere come una marionetta, contro la sua volontà. Camille non riuscì a reggere il suo sguardo. «Io… non… non lo so…» bisbigliò mortificata. «Ho… cominciato a parlare e… e…»

Ripensò al fumo grigio che si era sollevato. Deglutì. Sapeva benissimo che quello non era fumo. Era Foschia. Non l’aveva semplicemente manipolata, l’aveva usata su tutte quelle persone tutte insieme. Non aveva fatto distinzioni, aveva parlato, e tutti avevano obbedito. Se Kiana non l’avesse fatta rinsavire… non aveva idea di cos’altro avrebbe potuto fare. Chissà quanto le era costato parlare nonostante avesse detto che nessuno poteva farlo.

Dopo l’incidente nella prigione, aveva promesso, giurato che non sarebbe più successo, che non avrebbe più perso il controllo. Aveva fallito.

Tutti i discorsi che aveva fatto, sul fatto che i suoi poteri fossero pericolosi, sul fatto che dovesse fare attenzione, che avrebbe potuto causare gravi danni anche alle persone a cui voleva bene… era stato tutto inutile.

Era successo ancora. Quante altre volte sarebbe dovuto succedere prima che accadesse l’irreparabile?

Le immagini di quei bambini dell’orfanotrofio balenarono nella sua mente. I loro sorrisetti cattivi che diventavano sguardi di terrore puro. Chiuse gli occhi con un gemito spaventato.

«Mi… mi dispiace…» ripeté, e quella fu l’unica cosa che riuscì a dire. «Penserai che… che io…»

«Cam, ascoltami.»

Kiana si mise di fronte a lei. Le posò entrambe le mani sulle spalle e incrociò il suo sguardo. La figlia di Trivia pensò che le avrebbe rifilato un ceffone, o che le avrebbe sbraitato in faccia, e si sarebbe meritata entrambe le cose. Invece quando parlò usò un tono incredibilmente calmo: «So che… che sei arrabbiata. Infuriata. Per tutto quello che è successo con… con Daniel. Ma adesso lui non c’è più. Ashley è fuori controllo, i nostri amici sono rimasti al Campo Giove, a difenderlo da soli, mentre tutti gli altri ci stanno dando la caccia. E Ecate… insomma, non ci rimane molto tempo per salvarla. E solo tu puoi trovarla. Siamo… siamo solo tu e io, adesso. Ho… ho bisogno di te. Ma non di questa te. Non voglio la Cam arrabbiata. Ho bisogno… ho bisogno della vera Cam. Quella che ho conosciuto tanto tempo fa’. Quella buona, quella gentile, quella che si infastidiva quando la punzecchiavo. Mi serve… mi serve la mia amica. Okay?»

Camille sentì gli occhi inzupparsi di lacrime. «Kiana…»

Le due ragazze si abbracciarono. Camille affondò il viso sulla spalla di Kiana e cominciò a piangere, mentre lei le accarezzava schiena. Non aveva idea di come potesse ancora rivolgerle la parola dopo quello che aveva fatto.

«Insieme, ricordi?» domandò Kiana.

La figlia di Trivia si separò da lei e annuì. «Insieme.»

Kiana le sorrise e sollevò il mignolo. Anche Camille riuscì di nuovo a sorridere. Il loro sciocco saluto. Una cosa così semplice, così banale, e che eppure aveva cementato la loro amicizia. Intrecciò il mignolo con quello della figlia di Venere, sentendosi subito molto meglio. Tante cose potevano essere cambiate, ma non quello, non il loro saluto. L’ultimo appiglio che le rimaneva prima di superare il punto di non ritorno.  

Si rese conto che Penelope era rimasta in disparte, gli occhi tristi smarriti lungo la superficie del loro nascondiglio di fortuna. Tremolante, Camille si scostò da Kiana e si rimise in piedi. «Penelope.»

La centaura si voltò verso di lei.

«Scusa se… se t’ho spaventata, prima. Non volevo. E… e scusa anche per averti coinvolta in questa storia.»

«Non… devi scusarti. Ho scelto io di rimanere. E non preoccuparti per prima. So che… che eri arrabbiata per Daniel. Anch’io… anch’io mi fidavo di lui.»

Camille sentì il petto stringersi in una morsa. «Penny…»

«Anch’io voglio aiutarti a trovare tua madre.» La centaura si abbassò in modo da guardarla faccia a faccia. Sorrise determinata. «Puoi contare anche su di me.»

Kiana posò una mano sulla spalla di Cam e sollevò il pollice. La figlia di Trivia non riusciva a credere ai propri occhi. Si fidavano ancora di lei nonostante tutto. Dovevano essere davvero disperate. Anche lei lo era, in realtà. Chiunque probabilmente si sarebbe disperato in una situazione come quella.

«Però… però il legame è sparito quando siamo arrivati all’Occhio dell’Ago…» mormorò affranta. «Non so più dove dobbiamo…»

«Cam.» Kiana la fissò dritta negli occhi. «Nelle ultime ventiquattr’ore ti ho vista fare una cosa più incredibile dell’altra. Un po’ spaventose, anche, ma soprattutto incredibili. Se c’è qualcuno che può trovare Ecate, quella sei tu.»

Camille si morse un labbro. Il fatto che Kiana la vedesse sotto quella luce la faceva sentire in soggezione. Però era vero, lei era l’unica che poteva trovare Ecate. Il campo, i loro amici, forse il mondo intero adesso dipendevano da lei.

«Va bene… ci provo.»

S’inginocchiò, mentre Kiana e Penelope le lasciavano un po’ di spazio. Aveva creduto che la sua capacità di avvertire il legame con Ecate dipendesse dalla distanza, ma forse non era così. Forse dipendeva da qualcos’altro, e lei doveva scoprire cosa al più presto. Altrimenti i loro nemici avrebbero devastato il mondo.

Un pensiero molto rassicurante, considerando che qualche minuto prima stava per spaccare a metà il cervello di un poveraccio, non c’era che dire.

«Mi è venuta un’idea» disse a Kiana. «Ma ho bisogno che tu mi sorvegli per un po’. Va bene?»

«Ehm… certo, ma perché?»

«Ora vedrai.»

Camille prese un respiro tremolante e chiuse gli occhi. Quello che stava per fare la spaventava moltissimo, ma non aveva scelta. Era l’unica possibilità che aveva di trovare sua madre.

“Io ho… ho molto sonno” pensò. “Ho… bisogno di dormire. Solo un po’. Il tempo per trovare mia madre.”

Riaprì gli occhi. All’inizio non accadde nulla, al punto che in lei sorse il dubbio di non poter usare i suoi poteri su sé stessa. Poi arrivò la nebbia. Cominciò a sorgere dal terreno a circondarla. Era… fredda. Come se un gigante iperboreo le avesse appena alitato addosso.

«Cam? Che sta succedendo?» domandò Kiana, con tono spaventato.

«Tranquilla» la rassicurò lei. «Ho visto mia madre in sogno. Se dormo di nuovo, forse riuscirò a vederla ancora.»

«E se non dovesse funzionare?».

«Speriamo funzioni» tagliò corto Camille, con il batticuore. Stava correndo un grosso rischio, ma non vedeva altre soluzioni.

«Tranquilla» disse, più a sé stessa che Kiana. «È l’unico mooooooo…»

La nebbia le si infilò nel naso e il resto della frase si trasformò in un grugnito molto poco elegante. Camille sentì la testa appesantirsi e le palpebre trasformarsi in granito. La forza di gravità si fece cento volte più forte e il suo corpo fu trascinato pesantemente a terra.

All’improvviso le sembrò di levitare, come se il suo corpo si fosse trasformato in aria. Pregò gli dei e soprattutto sua madre che tutto filasse liscio, poi s’addormentò.

 

***

 

Non era sicura di cosa stesse succedendo. Era certa di aver riaperto gli occhi, ma allora perché era tutto buio? Li aveva ancora chiusi? O era davvero tutto buio?

Si guardò attorno, o almeno pensò di starsi guardando attorno. Dov’era? Che posto era quello? Stava dormendo? Aveva funzionato?

Una voce ruppe il silenzio: «Assassina.»

Camille gridò per lo spavento. Dall’oscurità cominciarono ad emergere alcune figure. Dei corpi bianchi come lenzuoli, il cui bagliore strideva tremendamente con l’ambiente circostante. La ragazza si sentì travolta dall’orrore. Erano dei bambini. Ed erano dei fantasmi. Come i lari del Campo Giove, anche se nessun lare aveva mai emanato una simile ostilità nei suoi confronti. 

«Assassina» ripeterono, mentre si avvicinavano a lei. 

La ragazza si sentì pietrificata per lo sgomento. Conosceva quei bambini. Li conosceva molto bene. Tutt’attorno a loro sorsero delle fiamme, che gettarono luci color sangue sui corpi pallidi, rendendoli ancora più spaventosi. Camille sentì gli occhi gonfiarsi di lacrime. Nella sua mente riapparve la scena in cui quegli stessi bambini fuggivano terrorizzati da lei, mentre lingue di fuoco incandescente si sprigionavano in ogni direzione. 

«No…» sussurrò, riuscendo finalmente a sbloccarsi. 

Indietreggiò, mentre loro continuavano ad avvicinarsi. 

«Tu ci hai ucciso» disse uno di loro.

«Assassina» fece un altro. 

«V-Vi prego» bisbigliò Camille. «N-Non l’ho fatto apposta…»

«Assassina.»

«Strega.»

«Mostro.»

Le voci continuarono a tormentarla. I visi vitrei dei bambini si cicatrizzarono nella sua mente. Occhi vuoti che non avevano mai conosciuto una vita al di fuori di quelle mura grigie dell’orfanotrofio, per colpa sua. Creature abbandonate, come lei, vite spezzate, da lei. 

«No…» sussurrò. Non era vero. Lei non era un’assassina. Lei… lei non avrebbe fatto del male a nessuno! 

«STREGA!»

«ASSASSINA!»

«MOSTRO!»

«NO!» gridò Camille. Si accovacciò a terra e si premette le mani sulle tempie. «Andate via! ANDATE VIA!»

Le urla cessarono all’improvviso. La ragazza rimase immobile, con il fiato pesante e il cuore che batteva all’impazzata nel petto. Non aveva il coraggio di riaprire gli occhi, per paura di trovarsi ancora di fronte quei volti spettrali, quei fantasmi letterali del suo passato che tornavano a perseguitarla: il memento di ciò che aveva fatto.

«Camille.»

Quella voce. Quella voce… la conosceva. Camille sollevò la testa e sentì le proprie gambe tramutarsi in gelatina alla vista di Daniel.

«D-Daniel?» bisbigliò incredula.

Attorno a lei nulla era cambiato. C’era ancora oscurità a perdita d’occhio, eppure riusciva a vedere bene il suo amico. Vecchio amico. Con quel viso inespressivo, i capelli mossi, gli occhi neri… il vecchio amico che le aveva fatto battere il cuore come nessun altro aveva mai fatto. 

«Non piangere Camille» disse lui. Camille si rese conto che Daniel stava sorridendo, ma era un sorriso sadico, cattivo, accentuato dal divertimento nel suo sguardo. «Smettila di essere così patetica.»

Tutto il sollievo provato alla sua vista svanì. Le sembrò che un ago incandescente le fosse appena stato conficcato nel petto. 

«Daniel…»

«Non fai altro che piagnucolare. Cresci un po’. Abbi un po’ di rispetto per te stessa.»

Le gambe di Camille cominciarono a tremare, non sapeva se per la tristezza, per la rabbia, o per chissà che altro. 

«Daniel» ripeté, con tono fermo.

«Pensavi davvero che avrei potuto amare una come te? Guardati. Sei ridicola. Una mocciosa. Un peso. Una seccatura.»

Camille strinse i pugni. Sapeva che quello non era reale. Sapeva che la sua mente le stava giocando brutti scherzi. Eppure non riusciva a non pensare al fatto che lui avesse ragione, che lei fosse davvero così. Più pensava a come si era comportata e più si vergognava. Doveva essergli sembrata così patetica, così disperata, che probabilmente aveva deciso di non cacciarla via soltanto per pietà.

E lei si era innamorata di lui. E anche in quel momento, nel profondo, sperava che lui tornasse, che tutto si chiarisse. Che chiedesse scusa, che l’afferrasse, che la baciasse, che tutto venisse dimenticato. 

Già. Pensava ancora a quello nonostante il mondo stesse per finire. 

Sì, era patetica. 

Daniel García. Il suo vecchio amico. Bello come un angelo. Spietato come un demone.

La scena cambiò di nuovo. Si ritrovò nel bel mezzo del Campo Giove, ma non era come lo ricordava. Il suo cuore si fermò quando vide i dormitori distrutti, i palazzi della Via Principalis rasi al suolo, la Principia ridotta a un cumulo di macerie fumante. Lungo la strada giacevano decine e decine di corpi senza vita, con indosso le armature della Fulminata. In mezzo alla devastazione, l’asta con l’Aquila della Legione era stata conficcata nel terreno, l’animale con un ala spezzata.

Avrebbe gridato con tutto il fiato che le rimaneva in corpo, se avesse potuto. Pensò che fosse troppo tardi, che il campo fosse già caduto, che non avevano salvato Ecate in tempo. Poi, vide ai suoi piedi i corpi di Dante, Kiana, Elias e perfino Ashley. 

Fu la scena più raccapricciante che avesse mai visto. Ma in un angolo del suo cervello, nella parte razionale che ancora non era caduta nel panico, prese forma la realizzazione che quello non poteva essere reale. Kiana era con lei. Le si era addormentata proprio accanto. Era tutto falso, come il resto di quello spaventosissimo sogno. 

Rimase così presa da loro, dal pensiero paralizzante che quella avrebbe potuto essere la realtà se non avesse salvato sua madre in tempo, che non si accorse dell’ombra che aveva cominciato a stagliarsi tutt’attorno a loro, andando a coprire l’intero Campo Giove, o ciò che ne rimaneva. 

Si voltò con il cuore in gola. In lontananza, dietro al cielo arancione coperto di nuvole e fumo, una figura gigantesca si stava innalzando lentamente. Un’ombra colossale da cui si diramarono diverse protuberanze, lunghe e sinuose, che andarono a toccare le stelle con la loro altezza. Realizzò che non erano soltanto ombre: erano teste. Sette teste di serpente gigantesche, con lunghe creste irte e occhi rossi sangue che brillavano come fari.

Ogni singolo millimetro del suo corpo fu pervaso da un brivido di terrore puro. Nonostante il sogno, nonostante non fosse una scena reale, quella cosa, qualunque essa fosse, le infuse un terrore nel corpo che non credeva di aver mai provato prima, nemmeno dopo la vista di Kiana morta. 

La creatura inarcò tutte le teste all’indietro e ruggì così forte da scuoterle le ossa. Quel verso si conficcò dritto nella sua testa, in un angolo da cui, era certa, non sarebbe mai più riuscita a rimuoverlo. Un verso rabbioso, potente, e soprattutto sconosciuto. Non sapeva cosa fosse quel mostro, e sperava di non doverlo scoprire mai. 

Quattordici occhi incandescenti si conficcarono su di lei e Camille rimase pietrificata come se si fosse trovata di fronte a Medusa in persona. Le teste si abbassarono con una calma straziante, consapevoli del fatto che il loro bersaglio non sarebbe potuto fuggire da nessuna parte. Poi spalancarono le bocche, e una valanga di fiamme travolse ogni cosa, divorandosi tutto il Campo Giove fino ad arrivare a lei. 

Il fiato le si mozzò e cadde a terra, mentre la luce arancione che l’aveva accecata si affievoliva, lasciando spazio, ancora una volta, all’oscurità. Le sembrò di essere stata colpita da un camion, il che era un notevole miglioramento rispetto all’essere incenerita.

Quanto riaprì gli occhi pensò di essersi svegliata. Invece, dopo quella lunga straziante maratona, vide proprio quello che stava cercando. Era di nuovo in piedi, ed Ecate era lì, a un palmo dal suo naso, ancora in catene. Era così bianca che la sua pelle riluceva sotto la luce flebile delle torce, e aveva la testa a penzoloni. Non sembrava nemmeno più viva.

«Mamma…» 

Era come se quel sogno avesse deciso di portarla in un viaggio attraverso tutti i suoi fallimenti, tutti i suoi rimpianti e tutte le sue paure. Aveva fallito a controllare i suoi poteri e aveva attaccato quei bambini, Daniel l’aveva tradita e abbandonata, e il pensiero che il Campo Giove avrebbe potuto essere distrutto la stava consumando dall’interno lentamente e inesorabilmente. 

Adesso, Ecate. Finalmente l’aveva trovata, ma non aveva idea di come fare per ripristinare il legame. Avvertiva l’energia di sua madre ma era offuscata, come se ci fosse un muro invisibile tra di loro. 

Si accorse che non erano sole. Clizio era lì, in un angolo della stanza, nascosto tra le ombre, ma gli occhi brillanti ben visibili. Sembrava un fantasma fatto di fumo, una figura incorporea appoggiata contro le pareti. 

Camille sentì il proprio cuore accelerare il battito. Quegli occhi la scrutavano dritto nell’anima. Ecate gemette proprio in quel momento, attirando la sua attenzione. Non credeva si fosse accorta di lei. Ormai sembrava al limite. Forse avevano perfino meno tempo di quello che si aspettavano. 

Il campo era in pericolo. Sua madre rischiava di non farcela. Non c’era più tempo. Il mondo intero non aveva più tempo. E l’unica persona che poteva fare qualcosa era lei. Si voltò di nuovo verso Clizio, che non aveva mosso un muscolo. Ripensò a Daniel, a Elias, ad Ashley, a tutti quelli che l’avevano trattata come spazzatura. La voce le uscì con un tremolio nervoso: «Riesci a vedermi?»

Passarono un paio di secondi e gli occhi si mossero lentamente, prima verso il basso e poi verso l’alto. Camille inghiottì la paura e cominciò a muoversi verso di lui. 

«Dov’è quella donna? Quella col vestito rosso.»

Clizio non si mosse e soprattutto non rispose. Camille si ritrovò ai suoi piedi. La stanza era abbastanza alta da permettergli di stare eretto in tutta la sua statura. Un gigante fatto di fumo, in tutti i sensi della parola, con zampe di drago color ebano e occhi di diamante. La sua armatura di Ferro dello Stige era tanto elegante quanto intimidante. Uno strato di materiale rarissimo e pregiatissimo, che soltanto i figli degli Inferi e del Tartaro potevano utilizzare.

«Non puoi parlare senza il permesso della padroncina?»

Vi fu uno sbuffo divertito da parte del gigante, ma ancora nessuna risposta. 

«Non importa. Non serve che tu risponda.» Camille incrociò il suo sguardo dal basso. Una parte di lei avrebbe voluto svenire per la paura. Un’altra parte, invece, era stanca di avere paura di tutto e tutti. E soprattutto era stanca di essere vista dall’alto. «Quando la vedi, portale questo messaggio: io vi troverò. E vi sconfiggerò. E salverò mia madre.»

Tra le ombre, Camille riuscì a scorgere il sorriso beffardo che prese forma sul volto del gigante. Poteva immaginare cosa stesse pensando. Era una piccola, sciocca figlia di Trivia che cercava di intimidire qualcuno.

La stessa piccola, sciocca figlia di Trivia che aveva raso al suolo una prigione intera con i suoi poteri.

La stessa piccola, sciocca, stupida, insignificante “strega” che avrebbe potuto spazzare via qualsiasi gigante si fosse parato di fronte a lei.

«Anche Encelado ha sorriso in quel modo. Vuoi sapere cosa gli è successo? L’ho fatto scappare con la coda tra le gambe. E so cosa stai pensando, tu sei più forte di lui. Molto più forte. Ma lascia che ti dica una cosa. Ti reputi “l’antimagia”, ma la magia non può essere contenuta da niente e nessuno. È la magia che ti permette di fare quello che fai. Tu non governi la magia. La magia governa questo mondo, incluso te. E presto te ne accorgerai.»

Camille espulse quelle parole come se fossero state una tossina velenosa dal proprio corpo. Daniel aveva ragione. Che si fosse trattato di una proiezione della sua mente o meno, non aveva importanza: era patetica. Ed era stanca, stanca, di esserlo. Era stanca di apparire debole ed era stanca di apparire vulnerabile. 

Notte, Discordia, i Giganti, Daniel, non aveva importanza, tutti loro avrebbero imparato a non sottovalutarla.

«Io ti distruggerò, Clizio. Vi distruggerò tutti.»

Clizio schiuse le labbra. Ora il suo sorriso era una fila di perle bianche. Anche Camille sorrise. 

Il guanto era stato lanciato. E lei non avrebbe perso. I suoi poteri erano pericolosi… ma lo erano anche per i suoi nemici. E gliel’avrebbe fatto capire.

Per sua madre, per il campo, per Kiana, per i suoi amici. Le sembrò che un peso le fosse scivolato via dallo stomaco. Forse per tutto quel tempo aveva soltanto avuto bisogno di dire quelle parole ad alta voce. Forse, aveva soltanto bisogno di un po’ di fiducia, e rispetto, in sé stessa. 

Diede le spalle a Clizio e tornò di fronte alla dea in catene. Il gigante non glielo impedì. Forse credeva che non rappresentasse davvero una minaccia, o forse non poteva fare nulla di concreto per allontanarla. Non aveva importanza. Approfittò del momento per concentrarsi su quella specie di barriera che avvertiva tra loro due. All’inizio pensò che fosse tutta opera di Clizio e della sua aura, poi si ricordò dei glifi dipinti sul pavimento. Trivia aveva detto che erano dei sigilli, probabilmente creati da lei stessa come protezione per guadagnare tempo. Forse anche loro stavano interferendo.

Camille rimuginò per qualche istante, poi si fece coraggio e avvicinò la mano a sua madre. Sentì il cuore aumentare i battiti. Non aveva idea di che cosa sarebbe successo se avesse provato a toccarla. Per un istante non accadde nulla, e pensò che forse i sigilli non la vedevano come una minaccia. Non appena arrivò quasi a sfiorare il viso della dea, però, una fitta di dolore atroce le percorse il braccio arrivando fino al cervello, strappandole un grido di dolore così forte da svegliare un morto. Le sembrò di avere del fuoco liquido iniettato nelle vene, una scia di veleno che la corrodeva dall’interno. Cominciò a vedere sfocato, credeva di avere la pelle in fiamme, sentiva la propria mente sgretolarsi. Non aveva mai provato niente del genere, mai. Il cuore batté così forte da scoppiare, mentre il corpo tremava e la fronte diventava fradicia di sudore nonostante fosse soltanto un sogno. 

In mezzo alle macchie rosse apparse di fronte a lei, riuscì a scorgere Trivia che riapriva lentamente gli occhi. 

«Camille…? Camille!» chiamò spaventata. «Fermati!»

La ragazza riuscì a incrociare lo sguardo di sua madre e strinse i denti. 

No. Non si sarebbe fermata.

Con un grido ancora più forte e con l’ultimo residuo di energia che le rimaneva in corpo, spinse il proprio braccio in avanti fino a toccare la fronte di Trivia. 

Una luce accecante la travolse. Diverse immagini cominciarono a scorrerle di fronte agli occhi. Vide la grotta in cui Trivia era stata rinchiusa, ma senza catene, senza simboli e senza torce. Vide la dea in mezzo alla stanza e le catene di Ferro dello Stige che uscivano dalle pareti, immobilizzandola. Vide l’ingresso di quella che aveva l’aria di essere una miniera abbandonata, in mezzo a colline desertiche sotto un cielo grigio, spento, mentre la risata di una donna si alzava nell’aria.

E poi la visione cambiò. Il dolore svanì, riducendosi a una pulsazione sorda. Sentiva il braccio sussultare, come se ogni centimetro di pelle le stesse lanciando maledizioni per aver fatto qualcosa di così stupido. Adesso era di fronte a Ecate, ancora incatenata, ma erano solo più loro due. La stanza era svanita, Clizio pure, rimanevano soltanto madre e figlia in mezzo a sconfinata oscurità. Un lieve bagliore argenteo sorgeva dalla dea, dirigendosi fino al petto di Camille, come un filo fatto di luce. La ragazza lo osservò con la bocca schiusa. 

Il legame. Riusciva a vederlo.

«Camille…» Trivia la stava ancora guardando. Questa volta però non c’era allarme nel suo tono, né nel suo guardo. Sembrava… colpita. Ammirata, perfino. «Non… rimane molto tempo. Fai presto.»

Camille si posò una mano sul petto. La luce le attraversò la mano senza che accadesse nulla. Annuì determinata. «Sto arrivando.»

Trivia chiuse gli occhi e abbassò la testa. La luce si fece accecante, fino a ricoprire tutto quanto. Camille sollevò un braccio per proteggersi il viso, e quella fu l’ultima cosa che riuscì a fare. 

 

***

 

Quando riaprì gli occhi, per un attimo pensò che ci fosse un terremoto, poi si rese conto che Kiana la stava strattonando e chiamando: «Cam! CAM!»

Camille drizzò la testa. Provò a rispondere ma le uscì soltanto un mugugno infastidito: «Mhhh!»

«Miei dei, Cam!» esclamò Kiana sollevata. «Ti stavi dimenando nel sonno! Che cavolo è successo?»

La figlia di Trivia si massaggiò la testa. «Io…»

Non terminò la frase, perché si accorse del cielo ormai scuro al di là delle nuvole. Il suo cuore saltò di un battito. «M-Ma quanto ho dormito?!»

«Non lo so. So soltanto che non ti svegliavi più.» Adesso Kiana sembrava angosciata. «Ti prego almeno dimmi che il tuo piano ha funzionato.»

Cam osservò il proprio petto. La luce c’era ancora, ma era molto, molto più flebile. Un lungo filo sottile che guidava verso l’uscita del canyon, dritta nel cuore della Death Valley. Quella vista le infuse coraggio.

Si rimise in piedi, e per poco non cadde a terra per lo sforzo. Per fortuna Kiana la prese al volo e l’aiutò.

«Grazie» mormorò, per poi tornare a guardare il cielo. Era sera, il tempo era sempre meno, ma ce n’era ancora. Poco, ma le sarebbe bastato. Doveva bastarle. «So dove dobbiamo andare.»

Kiana annuì. «Ti serve qualche minuto o…»

«No. Abbiamo perso troppo tempo.» La figlia di Trivia cercò Penelope con lo sguardo. Non dovette dire nulla però, perché la centaura le apparve subito di fronte.

«Salite.»

Camille salì sulla sua groppa e si strinse attorno alla sua vita. «Grazie, Penny.»

Penelope le rivolse un sorriso con la coda dell’occhio. «Fai strada. Sarò più veloce di un lampo.»

Cam ricambiò il sorriso, genuinamente grata. Si voltò verso Kiana, anche lei seduta, e le rivolse un cenno. «Insieme?»

«Insieme. Andiamo a salvare il mondo!»

Un senso di sicurezza si infuse nel corpo di Camille. Avrebbe sconfitto Clizio. Avrebbero prevalso e sarebbero tornate al campo, sane e salve. Con, o senza Daniel, non aveva importanza.

«Allora andiamo.»

Penelope scattò, il vento ululò contro di loro, e Camille abbandonò i propri rimpianti assieme alla polvere alle sue spalle.

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Capitolo 25
*** Clint Eastwood affronta l'Anti Ecate ***



XXV

Clint Eastwood affronta l'Anti Ecate



Anche se il viaggio non fu molto lungo, Camille si addormentò di nuovo. Sognò quella che aveva tutta l’aria di essere una città fantasma dei film western, con case di legno, una cisterna d’acqua e un campanile, mangiatoie e abbeveratoi per cavalli, perfino un vecchio saloon. Doveva essere da qualche parte all’interno della Valle della Morte, a giudicare dal paesaggio desertico e roccioso tutt’attorno. E, soprattutto, era un covo di mostri. Erano ovunque, tra le strade di terra battuta, appoggiati contro le pareti, alcuni trasportavano carretti pieni di armi, altri divoravano cosciotti di carne, e Camille non voleva sapere se fosse animale o meno. 

Fuori dalla chiesa della città, un edificio molto più grosso e appariscente, di marmo bianco anziché legno, vide anche dei patiboli. E appeso a testa in giù ad uno dei cappi, c’era Shinjiro. Il suo vestito elegante era sgualcito, aveva i capelli sfatti e le borse sotto gli occhi. Non appena lo vide Camille sentì il petto stringersi in una morsa. Certo, sembrava sempre un Truffatore con la T maiuscola, ma l’aveva aiutata contro Lamia, ed era stato gentile con lei. Si era ritrovato coinvolto in quella faccenda che non lo riguardava e ne stava pagando le conseguenze più di tutti. Non sembrava aver perso la sua verve, comunque, perché continuava a chiamare tutti i mostri che gli passavano vicino, sfoderando il migliore dei sorrisi affabili che potesse permettersi in quelle condizioni e domandando loro di liberarlo in cambio di chissà quali ricompense. 

Se non altro era ancora vivo. E presto sarebbe stato libero.

La vista cambiò e si ritrovò all’interno della Principia, dove Elias, Marianne, Dante e diversi altri centurioni stavano discutendo attorno al tavolo, di fronte a una cartina del Campo Giove. Avevano segnato con delle X rosse alcuni punti attorno ai Campi di Marte, probabilmente luoghi da cui si aspettavano degli attacchi. 

Vedere Mary e Dante assieme a tutti gli altri la rincuorò. Elias era stato di parola, li aveva liberati, e non sembrava che ci fosse alcun astio tra di loro. O forse avevano deciso di lasciarlo fuori dalla porta in vista di problemi ben più grossi. Non sembravano nemmeno feriti, giusto un po’ scossi, soprattutto Dante. Non credeva di averlo mai visto così cupo e severo, sembrava tutta un’altra persona. 

Mentre parlavano di come allestire le difese, l’augure drizzò la testa proprio verso Camille. Corrugò la fronte e la ragazza rimase immobile, a ricambiare il suo sguardo. Non era sicura che avesse capito fosse lì, o che fosse lei tanto per cominciare, però sentì di nuovo il petto stringersi, questa volta in modo diverso. Il momento non durò molto, e Dante riportò la testa sul tavolo come se non fosse successo nulla.

Resistete” pensò Camille. “Presto riavremo la Foschia.”

La visuale cambiò ancora. Si ritrovò tra delle alte dune desertiche sotto un cielo pieno di stelle brillanti come diamanti. Come gli occhi di Notte. Sentiva che qualcosa non quadrava. C’era una forza che opprimeva l’aria, una mano invisibile che la stava schiacciando a terra dall’alto. Ed era molto familiare. Abbassò lo sguardo e vide che nella conca in mezzo alle dune c’era qualcosa che spuntava dalla sabbia. Era una specie di grosso rettangolo così nero da non riflettere la luce, perfettamente dritto. Sembrava che qualcuno l’avesse piantato lì. O forse, stava spuntando da sotto terra. Un brivido le percorse la schiena non appena ebbe quel pensiero.

Alcune delle cose che aveva sentito in quei giorni le balenarono nella mente. Kiana aveva sentito Periboia dire che la terra avrebbe rigettato tutto il suo male. Ecate aveva detto che “qualcosa” si stava aprendo. E per finire, quel lestrigone aveva menzionato la sua defunta moglie, con cui presto si sarebbe riunito. Si sarebbe riunito con lei eccome, ma Camille non pensava che intendesse quello.

Nel profondo le sembrò di sapere cosa stesse succedendo, ma la sua mente si rifiutava di collaborare con lei. Non poteva essere davvero così. Forse si stava sbagliando. Forse…

«Cam. Cam, sveglia!»

Il sogno cominciò a dissolversi, mentre la voce di Kiana la chiamava distogliendola da quei pensieri.

 

***

 

Stavano ancora galoppando quando si svegliò. Kiana la stava scuotendo per la spalla. «Ehi, va tutto bene?»

«S-Sì, sì…» riuscì a mugugnare in risposta. «Quanto… quanto ho dormito?»

«Qualche minuto. Abbiamo seguito la strada che ci hai detto, ma poi non hai risposto se era quella giusta.»

Camille tentò di fare mente locale. Poteva ancora percepire il legame. Vide il fascio di luce che proseguiva dritto di fronte a loro, in mezzo a delle montagne acuminate. Sembravano delle stalagmiti gigantesche. «S-Sì, è la strada giusta…»

«Sicura di stare bene?» domandò Kiana. Non si girò per guardarla, ma sentiva il suo tono di voce preoccupato.

«Me la caverò» rispose Cam. Forse aveva esagerato prima, quando aveva ordinato a sé stessa di dormire, ma se non altro era riuscita a trovare la strada giusta. Non avrebbe lasciato che quello la ostacolasse. «Ho… ho fatto un sogno.»

Raccontò brevemente tutto quello che aveva visto. Qualunque cosa significassero quei mostri e quella specie di lastra nel terreno, Kiana non sembrò avere teorie in merito. Ancora una volta non vide il suo volto, ma poté immaginare la sua espressione sollevata quando le disse che Marianne stava bene e stava collaborando con gli altri.

«Sbrighiamoci a finire questa storia» tagliò corto. «Sono stanca di questo stupido deserto.»

«Siamo in due» rispose Camille.

Sentiva gli occhi pesanti. Avrebbe davvero voluto tornarsene a Furnace Creek per una tisana e una dormita in uno di quei comodissimi letti. Avanzarono tra le montagne lungo un sentiero che portava verso l’alto. Galopparono a lungo accanto alle altissime pareti scoscese, finché il legame non si fece ancora più forte. Sbucarono in una grossa conca di roccia e terra, che sembrava perfino più sperduta e desertica di tutti i paesaggi che avevano visto fino a quel momento. Al fondo di essa, si trovava l’ingresso di una miniera abbandonata, con delle assi di legno marcio a bloccare il passaggio. Proprio come quello che aveva visto nella sua visione.

«Ferma» mormorò. «È qui.»

«È… tranquillo» commentò Kiana. «Non dovrebbero esserci dei mostri di guardia o…?»

«Tutte le loro risorse le stanno già usando altrove» rispose Camille, cupa, mentre pensava alla città che aveva visto in sogno. Si stavano preparando a invadere il Campo Giove, e forse dall’altra parte del paese stavano facendo lo stesso con il campo greco. «E comunque, qui c’è già Clizio. Penseranno che sia sufficiente.»

«Tsk. Hai detto bene, “pensano”.»

Kiana smontò da Penelope con la lancia tra le mani. Sembrava tesa, ma non poteva biasimarla. Anche lei lo era. Le sue gambe indolenzite per il viaggio protestarono a gran voce quando la raggiunse a terra.

«Io… ehm…» provò a dire Penelope, con lo sguardo incollato sulla miniera.

Camille posò una mano sul suo braccio, gentile. «Non serve che scendi con noi. Hai fatto fin troppo, Penelope.»

La centaura sembrò genuinamente sollevata. Un conto era scarrozzarle in giro, un conto era andare faccia a faccia con un gigante. Quella poveretta aveva rischiato già troppe volte di finire nel fuoco incrociato. «Rimarrò qua fuori ad aspettarvi. Voi però dovete promettermi che tornerete!»

La figlia di Trivia sorrise. «Certo che lo promettiamo. Vero Kiana?»

Kiana sollevò il pollice. «Rimani nascosta Penny. Torneremo il prima possibile. E vedi di non perdere i nostri zaini in giro!»

«N-No, certo che no!» assicurò Penelope, prima di trotterellare via. «Ci vediamo dopo!»

«Pronta?» domandò Kiana quando rimasero sole.

Camille inspirò profondamente, poi annuì. «Pronta.»

La figlia di Venere sollevò il mignolo e Camille glielo strinse. Nel bene e nel male, sarebbero rimaste insieme.

Cam non ebbe difficoltà a entrare nella miniera. Kiana invece faticò un po’ di più, per via della sua statura, ma tra un’imprecazione e l’altra riuscì a infilarsi tra le assi di legno.  

Non passò molto prima che la luce del mondo esterno si affievolisse e l’odore asfissiante della galleria cominciasse a impregnare l’aria. Era esattamente il tipo di puzza che ci si può aspettare da un luogo da cui non si ha certezza di fare ritorno: un pizzico di chiuso, un po’ di muffa e una lieve aggiunta di morte.

Lungo le pareti erano appese vecchie torce e lampade ad olio, ma erano ormai spente, o rotte, così Camille accese un fuoco nelle proprie mani per illuminare la strada. Avrebbe potuto fare luce anche con altre magie, ma il fuoco era la cosa che le riusciva meglio.

Passarono accanto ad alcuni carrelli minerari, dentro i quali, con enorme orrore considerando ciò che aveva tra le mani, trovò dei candelotti di dinamite ancora intatti. Si voltò verso Kiana e si accorse della suo sguardo interessato.

«No» le disse subito. «A meno che tu non voglia che questo posto ci crolli addosso.»

La sua amica fece un verso deluso, ma non discusse. Proseguirono seguendo i binari della miniera. Più avanzavano e più sentiva il cuore salirle nella gola. Le sembrava che Clizio si stesse annidando in ogni ombra, ogni nicchia, ogni cunicolo. Raggiunsero diverse biforcazioni, ma non ebbe problemi a orientarsi: il legame le mostrò la strada giusta per tutto il tempo.

Ben presto, i binari sparirono da sotto i loro piedi, rimpiazzati da nuda roccia e terra. E ben presto, nemmeno il legame le fu più necessario per percepire il buco nero di energia che era Clizio. Anche le fiamme nel suo palmo reagirono alla sua presenza, perché cominciarono a sfarfallare. Mantenne la concentrazione per non farle spegnere, e la cosa fu molto più difficile di quanto avrebbe potuto, o voluto, immaginare.

Kiana non aveva più detto una parola da quando erano entrate. L’unica cosa che proveniva da lei era il rumore dei suoi passi sul terreno scosceso della galleria e il suo respiro.

«Forza» sussurrò, più a sé stessa che a Kiana. «Ci siamo quasi.»

Dopo quelle che le parvero ore trascorse in quel labirinto di cunicoli e gallerie, si sentì come se si fosse schiantata contro un muro invisibile di energia. Il respiro le si mozzò e il fuoco tra le mani si affievolì come una candela al ruggito del vento. Nonostante questo, non piombarono nel buio: dal fondo della galleria proveniva una flebile luce.

Per alcuni istanti non trovò il coraggio di proseguire. Ricordava quella luce, era la stessa che aveva visto nel suo sogno, la prima volta. Al fondo di quella galleria c’era la sala in cui Ecate era tenuta prigioniera.

«È… è lì?» bisbigliò Kiana, come se le avesse letto nel pensiero.

«Sì.» Camille inspirò, poi marciò verso la luce. «Andiamo.»

Era tutto come lo aveva visto. Le torce appese alle pareti, i simboli incomprensibili dipinti su di esse… e la dea imprigionata proprio in mezzo alla stanza. Aveva la testa a penzoloni, gli occhi sigillati ed era perfino più pallida di quanto ricordasse, con la pelle così bianca da ricordare uno degli scheletri di Elias.

«Mamma…» fu tutto quello che riuscì a dire Camille. Sua madre, la potente dea della magia, ridotta ad una pedina nelle mani dei loro nemici. Un ostaggio, un diversivo. Sentì la rabbia crescerle a dismisura nel corpo. E le cose non migliorarono affatto quando, dall’anfratto buio al fondo della stanza, comparve fuori quel gigante fatto di fumo dagli occhi di cristallo.

«Clizio» sibilò non appena lo vide.

Il gigante la scrutò dall’alto, stoico come una montagna. La sua aura opprimeva ogni centimetro di quella stanza, tanto che a Camille sembrava di sprofondare nel terreno, ma non avrebbe mai e poi mai mostrato esitazione o paura di fronte a lui. Sapeva che sarebbe arrivato quel momento, ed era pronta. Lo avrebbe sconfitto e poi avrebbe liberato Ecate. Non avrebbe fallito.

«Ciao sorellina.»

Quella voce la fece irrigidire. Arrischiò un’occhiata alle sue spalle: proprio in mezzo all’ingresso della stanza, c’era Ruby. «Ce ne avete messo di tempo.»

«Magnifico…» mugugnò Kiana, mentre l’empusa si avvicinava a loro.

Anche Clizio si mosse. Ben presto, si ritrovarono bloccate tra la padella e la brace. Camille strinse i pugni. Non si era affatto scordata quello che era successo in quella maledetta prigione.

«Dove sono Sapphire ed Encelado?» domandò alla sorella.

«Per sconfiggervi bastiamo io e Clizio.»

«Staremo a vedere. Kiana…» aggiunse Camille a bassa voce. «Tu pensa a Ruby. Io…»

«No, Cam. Tu pensa a Ruby.»

«Cosa? Ma…»

«Non posso affrontarla io» la interruppe Kiana, prima di schiarirsi la voce. «I… i suoi poteri… non riesco ad affrontarla.»

Camille ci impiegò molto più tempo di quanto avrebbe dovuto per capire di cosa stesse parlando. In effetti, anche la prima volta che avevano affrontato Ruby si era accorta di come Kiana avesse esitato.

«Ma… pensi di farcela con Clizio?» le domandò, ottenendo come risposta una strizzata d’occhio.

«Picchiare giganti stupidi è la mia specialità.»

Cam riuscì a sorridere. L’aveva già detto ma l’avrebbe ripetuto altre migliaia di volte: non poteva chiedere un’amica e un’alleata migliori di Kiana.

«Avanti, bestione» asserì la figlia di Venere marciando verso Clizio. «Tua sorella Periboia è stata una passeggiatina. Cerca di essere meno patetico!»

Clizio rispose con un mugugno. Dalle tenebre plasmò uno spadone grosso quanto un palo della luce, di Ferro dello Stige.

«Oh. Okay» mormorò Kiana. «Bene. Fatti sotto!»

La semidea si lanciò all’attacco, ma Camille non rimase a guardare. Spostò l’attenzione su Ruby, che nel frattempo si era avvicinata.

«Guarda, sorella» le disse, accennando con il mento a Ecate. «Nostra madre si credeva intoccabile. La dea della magia, un Titano, a detta sua. Osservala ora. Se siamo riusciti a imprigionare una dea potente come lei, cosa pensi che succederà a tutti gli altri? Combattere è inutile. Non avete speranze.»

«Hai detto le stesse cose anche a Lamia, quando l’avete imprigionata e imbrogliata?»

Ruby si irrigidì. «Lamia era solo un’ingenua. Pensava di poter avere la sua vendetta senza unirsi a noi. Alla fine ci sarebbe stata solo d’intralcio.»

«E quindi vi siete unite a Notte» proseguì Camille, la rabbia che le scorreva a mille nelle vene. «Pensi davvero che a lei importi qualcosa di voi? Vi sta solo usando. L’unica cosa che vuole è il controllo del mondo.»

«Ed Ecate che cos’ha fatto?!» tuonò Ruby. «Almeno Notte è stata onesta! Se la serviremo, lei ci proteggerà e ci darà una casa. Qualcosa che nostra madre ci ha tolto tanto, tanto tempo fa. A lei non importa di noi.»

«Ma a me importa!»

Camille strinse i pugni, mentre Ruby la osservava esterrefatta. Sentì gli occhi che faticavano a trattenere le lacrime e il petto che faceva male.

«A me importa di voi» ripeté, con un sussurro. «Non voglio combattere con te, Ruby. Né con Sapphire né con nessun’altra. Sei… sei mia sorella. E niente potrà mai cambiare questo. So che non ti fidi di Ecate, ma… ti prego, fidati di me.»

Tese una mano verso di lei. Non le importava se erano diverse, non le importava se erano schierate in fazioni opposte, non le importava se era un mostro: era sua sorella. Lei, che non aveva avuto nessun’altro in tutta la sua vita, ora aveva delle sorelle. E voleva conoscerle, e stare assieme a loro, ed essere loro amica, e avere tutto quello che non aveva mai avuto.

«Non dobbiamo combattere, Ruby. Io ti prometto che troverò una soluzione. Sistemerò le cose tra voi e nostra madre. Lo… lo giuro su…»

«No.» Ruby scosse la testa. Quando la guardò, non c’era più rabbia nei suoi occhi rossi, solo tristezza. «È troppo tardi, Camille. Non fare giuramenti che non puoi mantenere.»

«Ruby…»

«Basta. Combatti, o togliti di mezzo.»

Il braccio di Camille scivolò lungo il suo fianco. Osservò Ruby, poi Ecate, poi Kiana che combatteva contro Clizio con tutte le sue forze. Rotolava a terra per schivare lo spadone, si rialzava, colpiva con la lancia, poi ripeteva, in un circolo vizioso che, entrambe sapevano, non avrebbe avuto fine finché Ecate non sarebbe stata liberata.

«Non mi farò da parte» disse piano, tornando a guardare la sorella.

«Allora sarai distrutta.»

Il corpo di Ruby si coprì di fiamme, poi scattò verso di lei. Camille tentò di sollevare una barriera di energia, ma i suoi poteri non funzionarono. La presenza di Clizio annullava la sua magia. Strinse i denti e schivò l’attacco di Ruby con una capriola, poi sguainò la daga. Non era brava con quel tipo di combattimento, ma non aveva altra scelta. Vide delle fiamme saettare verso di lei e saltò all’indietro, tenendosene a distanza, ma subito dopo, tra le luci arancione, gli occhi rossi di Ruby balenarono assieme ai suoi denti affilati.

Indietreggiò, mentre la sorella l’attaccava con tutto quello che aveva. Non poté fare altro, l’empusa era molto più forte e veloce di lei. A tenerla viva furono l’addestramento romano e i suoi riflessi da semidea, che mai come in quel momento sembrarono così tanto vigili.

Uno degli artigli di Ruby riuscì a ferirla a un braccio, strappandole un grido, ma non si sarebbe mai lasciata fermare da qualcosa di così banale. In diverse occasioni riuscì a trovare delle aperture per contrattaccare, ma anche i suoi fendenti andarono a vuoto.

Sapeva che non avrebbe potuto continuare di quel passo. Era una schiappa a combattere e la fatica cominciava già a farsi sentire, mentre Ruby sembrava inarrestabile. Tuttavia, la sua mente iperattiva viaggiava alla velocità della luce, alla ricerca di qualsiasi modo per concludere quello scontro al più presto. Mentre indietreggiava, con le fiamme che danzavano attorno a loro, si accorse che l’empusa, dopo ogni sua artigliata, lasciava sempre un’apertura per contrattaccare.

Camille balzò all’indietro, rivoli di sudore che le colavano sulla fronte, sia per il fuoco che per la tensione, e attese il momento propizio. Ruby non si fece attendere. Ormai non c’era più nulla di umano nel suo aspetto: con gli occhi rossi, i denti affilati e le gambe da empusa pareva una mostruosità uscita da un libro dell’orrore.

Gridò e si fiondò su di lei lasciandosi dietro una scia infuocata. Camille piantò i piedi a terra e attese, consapevole di avere una sola possibilità. Il tempo sembrò rallentare, mentre pensava a tutto quello che c’era in palio. Se avesse fallito, nessuno avrebbe potuto salvare Ecate. Con un movimento fulmineo, si gettò di lato, schivando l'attacco di Ruby, e allo stesso tempo riuscì a colpire l'empusa sul fianco, tra le fiamme che la avvolgevano. Ruby emise un grido di dolore, il fuoco che la circondava si affievolì per un istante. Approfittando dell'apertura, Camille si lanciò verso Ruby con tutta la sua forza rimanente. Riuscì a infliggere colpi decisi, cercando di sfruttare al massimo quell'unico momento di vantaggio, ma malgrado le ferite, Ruby non si arrese.

Le due sorelle si scagliarono l'una contro l'altra in una furiosa lotta. Camille era guidata dalla sua determinazione, mentre Ruby cercava di recuperare dalla ferita subita. Ogni attimo era cruciale, ogni movimento contava. Mentre si muovevano tra le fiamme, l'energia e la volontà di Camille raggiunsero il loro culmine. Sentì qualcosa smuoversi nel suo petto, come se la magia rimasta assopita in lei si stesse risvegliando.

Quando fu Ruby a sottrarsi da lei, per colpirla con una palla di fuoco, la ragazza sollevò una mano di riflesso e una sfera ancora più grande di quella dell’empusa si propagò dal suo palmo. La stanza s’illuminò quando i due dardi si scontrarono tra di loro, per poi amalgamarsi in un unico proiettile incandescente che si precipitò su di Ruby.

Il mostro gridò per la sorpresa, ma non poté fare altro: le fiamme la investirono completamente, scagliandola a terra con un urto violentissimo. Ruby si premette una mano sulla ferita al fianco, annaspando, ma quando provò a rimettersi in ginocchio le gambe le cedettero.

Camille, sbalordita di quello che era riuscita a fare, per poco non crollò a terra a sua volta. Si sentiva svuotata, come se quell’unico sprazzo di magia le avesse prosciugato tutte le riserve di energia che le erano rimaste. Lottando contro la nausea, si avvicinò alla sorella con la daga stretta nel pugno. L'empusa era a terra, priva delle sue caratteristiche mostruose.

La ragazza sollevò la daga, ma si bloccò di fronte agli occhi della sorella, che la scrutavano rabbiosi, frustrati, e anche spaventati. Aveva perso, e lo sapeva. Nulla avrebbe potuto aiutarla, ormai.

«Avanti… fallo» le bisbigliò, mentre la ferita sul fianco gocciolava sul pavimento. «Che cosa aspetti?»

A un tratto, Camille non vide più Ruby, ma Lamia. Una semidea, divenuta mostro, che aveva perso ogni ragione per cui vivere quando i suoi figli erano stati uccisi. Una sorella abbandonata che non aveva mai avuto giustizia. Per Ruby le cose non potevano essere molto diverse. Ma sotto quella parte mostruosa, rimaneva comunque sua sorella. Ed era stanca di vederle morire.

«Basta, Ruby» sussurrò, mentre abbassava la daga con le mani tremanti. «Non voglio ucciderti. Voglio aiutarti.»

«Stupida!» esclamò Ruby. «Non l’hai ancora capito?! Non c’è niente che tu possa fare!»

«Ci devo provare.»

Ruby la guardò, gli occhi pieni di incredulità. «Io… tu… tu non puoi…»

Un urlo lacerò l’aria, interrompendola. Camille sentì il respiro mozzarsi. Si voltò, per poi trovarsi di fronte una scena che le trasformò le gambe in gelatina. «Kiana!»

La figlia di Venere era a terra, con la fronte che sanguinava e la lancia a qualche metro di distanza. Clizio torreggiava alle sue spalle. Camille strinse la daga e si fiondò verso di loro, senza nemmeno avere un piano preciso in mente, ma si bloccò quando il gigante sollevò il piede sopra il corpo di Kiana, abbastanza grande per schiacciarla completamente.

«Ferma dove sei, figlia di Trivia

A parlare non fu Clizio, ma Kiana. Proprio come quando l’Anti Ecate era apparso al campo Giove la prima volta e aveva usato Ashley come oratrice. La figlia di Venere muoveva le labbra nonostante fosse a terra priva di sensi, come se parlasse nel sonno. «O la tua amica muore.»

Camille sentì il cuore stringersi nel petto. Non poté fare altro che obbedirgli, oltre che incolparsi per non aver sconfitto Ruby abbastanza velocemente per poter aiutare Kiana.

«Deludente, Ruby. Ti sei fatta battere da questa insulsa semidea.»

«Sei tu che non hai annullato la sua magia!» sbottò Ruby inviperita, mentre Camille la sentiva rimettersi faticosamente in piedi.

«… ciononostante, hai fatto un pessimo lavoro. Non sarebbero dovute arrivare fin qui tanto per cominciare.»

L’empusa digrignò i denti, ma non disse altro. Camille poteva avvertirne la presenza alle sue spalle, ma non si voltò.

«Lasciala andare, Clizio!» esclamò invece. «Questa faccenda riguarda me e te.»

«E allora perché anche lei è venuta qui?» Clizio abbassò il piede fino ad appoggiarlo sulla schiena di Kiana, con un sorrisetto dipinto sul volto d’ebano. «Questo insetto ha cercato di interferire. Forse dovrebbe fare la fine che si merita.»

Camille inorridì. «Fermo!»

Il piede non si mosse. La figlia di Trivia sentiva il cuore rimbombarle nel petto. «L-Lasciala stare. È me che vuoi. Eccomi, sono qui.»

Clizio la scrutò dall’alto come se davvero fosse stata un moscerino. «Ammetto che sei stata abile ad arrivare fino a qui. Ma immagino che sia tutto merito di tua madre» alluse col mento alla dea incatenata. «Ma purtroppo per te, i tuoi sforzi sono stati inutili. Avanti, Ruby. Finiscila.»

La figlia di Trivia sentì Ruby irrigidirsi. Si voltò appena verso di lei, in modo da avere ancora Clizio nella coda dell’occhio, e incrociò il suo sguardo. Nei suoi occhi, vide ancora una volta quel barlume di incertezza e paura.

«Ruby…» sussurrò.

Ruby si irrigidì ulteriormente. I suoi occhi rossi baluginavano tra lei e Clizio.

«Adesso, Ruby!»

L’empusa abbassò la testa. Strinse i pugni con forza. Poi, quando rialzò lo sguardo, sollevò entrambe le braccia e due sfere infuocate esplosero dalle sue mani.

Ma non andarono verso Camille.

Il grido furibondo di Clizio si propagò dalla gola di Kiana per un istante, prima che quel contatto con lei s’interrompesse del tutto. Il gigante barcollò all’indietro, le fiamme sull’armatura di Ferro dello Stige che si estinguevano, mentre l’empusa si fiondava su di lui.

«Libera Ecate!» ordinò a Camille. «Io lo trattengo!»

Camille non riuscì a trattenere un enorme sorriso. «Sì!»

Prima di correre verso sua madre, però, si ricordò di una cosa. Afferrò il ciondolo che le aveva regalato Elias e osservò Ruby affrontare il gigante, in uno scontro che non avrebbe mai potuto vincere. Avvertì un brivido lungo la schiena. Il pretore le aveva detto che anche lei poteva controllare gli scheletri, ma non c'aveva mai provato prima. Deglutì. Doveva tentare. Si chinò e piantò il dente a terra, implorando chiunque fosse là sotto di aiutarla. Sentì un brivido lungo il braccio, una scossa elettrica che dalla spalla scendeva fino al palmo, e l'oggetto affilato sprofondò nel suolo come un coltello che tagliava il burro.

Subito dopo, la terra si squarciò e un bagliore violetto si alzò in aria, mentre due file di dita bianche come il latte si aggrappavano al bordo. Dalla crepa spuntò fuori uno degli scheletri di Elias, forse un cercatore d’oro rimasto intrappolato nella miniera, con poche ciocche bionde che spuntavano da sotto il cappello da cowboy, una bandana nera attorno al collo e i vestiti logori. Aveva un vecchio revolver arrugginito nella fondina e un fucile a tracolla.

Camille lo squadrò incredula. Sembrava la versione zombie di Clint Eastwood, e non sapeva bene cosa pensare di ciò.

«Ti… ti prego, aiuta mia sorella!» e indicò verso Clizio e Ruby. «Non… farle del male, okay? Occupati solo del gigante!»

Zombie Eastwood osservò il bersaglio ed emise uno strano scricchiolio con i denti. Si avvicinò a Clizio ed estrasse la pistola, anche se Camille non aveva idea di come potesse essergli utile. Non credeva nemmeno che funzionasse ancora, rovinata com’era. Per un attimo pensò che Elias le avesse rifilato uno scheletro difettoso, ma quando quello premette il grilletto non solo l’arma funzionò, ma i suoi proiettili perforarono anche l’armatura di Clizio, strappandogli un grido muto.  

Il gigante, e perfino Ruby, osservarono il nuovo arrivato esterrefatti, prima che questo si sfilasse il fucile dalla tracolla e cominciasse a riempirlo di piombo. Clizio indietreggiò, perdendo la presa sullo spadone, che cadde a terra con un fortissimo clangore metallico. Ruby, realizzando che lo scheletro non aveva alcun interesse per lei, si unì all'attacco assieme all’improbabile alleato, scagliando palle di fuoco contro l’anti Ecate. Insieme, riuscirono a intrappolarlo in un vortice di attacchi dal quale non poteva difendersi.

Camille, scioccata e meravigliata, si sforzò di distogliere l’attenzione dallo scontro per precipitarsi da Kiana. Sapeva di dover liberare Ecate, ma non poteva lasciare l’amica così vicino a quello scontro mortale. Alcuni colpi di tosse provennero dalla figlia di Venere, mentre la trascinava faticosamente via.

«C-Cam?» le domandò, con espressione confusa. «Ma… ma cosa…?»

«Va tutto bene» rispose Camille, colma di sollievo. «Ruby è con noi adesso. E… anche quello scheletro.»

I colpi di fucile dello scheletro sembravano cannonate all’interno di quella stanza claustrofobica, mentre le palle di fuoco di Ruby lasciavano striature rossastre nella penombra. Sembrava uno spettacolo pirotecnico di luci e suoni.

Kiana sembrò accorgersi solo in quel momento di cosa stesse accadendo. «Ho… ho battuto la testa e ho le allucinazioni?»

«Se è un sogno, non voglio svegliarmi» ribatté Camille, prima di alzarsi in piedi. «Resta qui. Io libero mia madre!»

La figlia di Venere non rispose nemmeno, troppo presa da quella battaglia che aveva di assurdo e di incredibile al tempo stesso. Perfino Camille si sarebbe stranita se al suo risveglio si fosse trovata di fronte due dei suoi nemici che combattevano tra loro e Zombie Eastwood a fare il terzo incomodo.

Arrivò di fronte alla gabbia invisibile di sua madre e provò un tuffo al cuore. Vederla da così vicino di persona faceva tutto un altro effetto rispetto ai sogni.

Adocchiò la luce dorata che sfarfallava tra lei e la dea e i sigilli dipinti a terra. Ecate aveva creato quella barriera per proteggersi da chi l’aveva rapita, adesso però l’energia si era quasi del tutto esaurita. Superare la barriera non sarebbe stato un problema, ma non aveva idea di come spezzare le catene che la tenevano prigioniera. La sua magia sarebbe stata abbastanza potente?

C’era solo un modo per scoprirlo. Ruby e lo scheletro potevano tenere a bada Clizio ma non l’avrebbero mai ucciso. Serviva l’aiuto di un dio. La ragazza inspirò profondamente. Prima di spezzare le catene, doveva rimuovere la barriera che sua madre aveva creato. Avvicinò le mani alla luce e chiuse gli occhi, più per paura di vedere le sue dita ridotte in poltiglia che altro.

Tentò di canalizzare la magia come sempre, ma subito non ci riuscì. La presenza di Clizio offuscava ancora i suoi poteri, come un velo oscuro frapposto tra di loro. Frustrata, Camille serrò le palpebre e ci riprovò, tentando di richiamare a sé la magia che scorreva nelle sue vene, ma era quasi come se lei stessa si stesse rifiutando di seguire le sue indicazioni.

Avvertì una fitta di paura, al pensiero di non riuscire a liberare Ecate a causa della presenza di Clizio. Non riusciva a capire. Contro Ruby era riuscita a usare la magia, perché adesso no?

Un grido lacerò l’aria. Si voltò di scatto e vide la sua sorella empusa cadere in ginocchio con una brutta ferita sul volto. Lo scheletro ancora resisteva, ma aveva perso entrambe le armi e combatteva solo più con un falcetto arrugginito. Perfino il suo volto stoico sembrava provare paura di fronte a un avversario che non poteva essere sconfitto. Tentò di colpire Clizio a una gamba, ma il gigante lo scaraventò via con un colpo del palmo della mano, come per allontanare una zanzara. A quel punto, si voltò verso Camille e sogghignò. Prima che potesse fare altro, però, Kiana apparve dal nulla accanto a lui e gli conficcò la lancia nel fianco, facendogli inarcare la schiena per il dolore.

«Dove guardi, ciccione?!» lo provocò lei. «Io sono qui!»

Con un altro urlo muto, il gigante si concentrò su di lei. Per il momento aveva ignorato Camille, ma lei sapeva che non c’era più tempo. Doveva concentrarsi. Doveva usare la magia, per salvare tutti quanti.

Richiuse gli occhi e ci riprovò. Si connesse con l’essenza stessa della magia che scorreva in lei. Un vortice di luce e calore, un torrente inarrestabile pronto a essere scatenato. Era lì, doveva solo raggiungerlo, controllarlo.

Pensò ai suoi amici al campo, pensò a Kiana, pensò a Dante, pensò perfino a Elias e Daniel, non ai momenti difficili passati insieme, ma a quelli felici. Voleva vivere di nuovo quei momenti. Voleva tornare al campo, a casa, rivedere i suoi amici, vedere che tutto era tornato al suo posto. Tutti si fidavano di lei, sua madre inclusa, non poteva deluderli.

Non poteva.

Sentì un fuoco accendersi nelle sue vene. Ogni centimetro del suo corpo cominciò a bruciare come se del veleno scorresse in lei al posto del sangue. Avvertì gocce di sudore freddo scenderle lungo la fronte, ma non si fermò. Un brivido le percorse la spina dorsale e sentì la pelle arricciarsi. Digrignò i denti per lo sforzo di controllare tutto quello. Faceva male, ma il pensiero di vedere tutto ciò a cui teneva distrutto faceva ancora più male.

Invece di respingere quel potere travolgente che stava crescendo dentro di lei, lo abbracciò. La sua paura divenne coraggio e la frustrazione determinazione.

Lei era più forte di Clizio.

Canalizzò la magia attraverso di sé e un bagliore intenso le avvolse le mani. Nello stesso momento, la barriera tremò.

Avvertì qualcosa muoversi attorno a lei, non sapeva se fosse Kiana, o se fosse Clizio che si era accorto di cosa stesse accadendo, ma non poteva lasciarsi distrarre. Con un ultimo sforzo, sprigionò tutto quello che aveva.

Prima sentì il rumore di una crepa che si espandeva. Poi, vi fu uno scoppio, e una pioggia di scintille si disperse nell’aria.

La ragazza riaprì gli occhi, col fiatone e la fronte madida di sudore. Le sembrava di essere appena stata dentro una sauna. La testa le girava e si sentiva più leggera dell’aria. Per un momento, la stanza vorticò anche attorno a lei. Si accorse di Ecate, con la testa accasciata verso il basso, ma un sorriso presente sul suo volto. Aveva capito cos’era successo.

Anche Camille sorrise. Prima che potesse occuparsi anche delle catene, però, avvertì di nuovo qualcosa muoversi verso di lei e si voltò per vedere Clizio che, liberatosi di Kiana e dello scheletro, le stava correndo incontro con molta più rapidità di quanto ci si sarebbe potuti aspettare da un gigante come lui. Sembrava un camion lanciato a duecento all’ora.

Una coltre di fiamme lo investì prima che potesse sfiorarla e Ruby apparve di fronte a lei. «Veloce Camille! Prima che…»

Clizio ruggì e corse tra le fiamme, per poi sferrare un colpo poderoso all’empusa. Vi fu un rumore orribile, quello di cento ossa che venivano frantumate tutte insieme, e Ruby si accasciò a terra in una posizione scomposta senza emettere un suono, con gli occhi serrati.

La scena accadde a rallentatore di fronte agli occhi di Camille. Vide il sorriso di scherno crescere sul volto del gigante. Non poteva parlare, altrimenti sicuramente l’avrebbe fatto. Avrebbe detto qualche frase ad effetto, o qualcosa del genere. I mostri erano tutti uguali, dopotutto.

Ma la parola chiave era quella: “Avrebbe”.

Non appena si voltò verso Camille il suo sorriso svanì. La ragazza affondò le unghie nei palmi, mentre i capelli cominciavano a sollevarsi sulla sua testa e una forte corrente d’aria si scatenava tutt’attorno a lei.

Nemmeno lei disse nulla. Lasciò che fossero il suo sguardo e le sue azioni a parlare. Sollevò entrambe le mani e con un urlo assordante riversò sul gigante un muro di fuoco alto tanto quanto lui, che lo sovrastò completamente.

La magia scorreva dentro di lei con l’intensità di mille soli. Era un calderone di potere, un tripudio di forza ed energia inarrestabile, impossibile da contenere, impossibile da fermare, nemmeno dall'anti magia.

Clizio, Encelado, Notte, non aveva importanza: li avrebbe sconfitti, tutti, dal primo all’ultimo.

Le sue urla crebbero, assieme al muro di fuoco, che lanciava ombre minacciose sulle pareti scure della caverna. Il gigante venne scagliato all’indietro, contro la parete opposta, dove si schiantò con il fragore di una frana. La terra tremò pericolosamente e una pioggia di polvere scese dal soffitto.

«Cam!» la chiamò Kiana.

La figlia di Ecate vide lei e lo scheletro poco distanti, entrambi mal messi ma ancora tutti interi. La sua amica la fissava con un misto di paura e stupore. Camille resse il suo sguardo, col fiato pesante. Vide poi Ruby a terra, ancora del tutto immobile, e sentì il cuore stringersi in una morsa. Fu costretta a lottare con tutte le sue forze contro il desiderio di correre da lei e aiutarla. Clizio non sarebbe rimasto fuori gioco a lungo. Quella era l’ultima occasione che aveva per liberare Ecate una volta per tutte.

Diede le spalle a tutti quanti e tornò da sua madre. Osservò le catene. Erano di Ferro dello Stige e poteva avvertire solamente guardandole la magia nera di cui erano intrise. Tentò, come aveva fatto in quella prigione, di congelarle e poi spezzarle, ma tutto fu inutile. La sua magia era completamente inefficace contro qualcosa di così oscuro.

Si morse un labbro, poi si osservò le mani. Forse doveva guardare la situazione da una prospettiva diversa. Tutto a un tratto ebbe un’idea, ma le sembrava assurda, e se avesse fallito allora non ci sarebbe stato più nulla da fare.

Scosse la testa per scacciare quel pensiero, inspirò di nuovo profondamente, e afferrò la catena più vicina, quella che teneva bloccata la gamba destra di sua madre. Sentì una scossa scorrere attraverso il suo braccio e tutte le sue energie venire prosciugate. La magia oscura cercava di avvolgerla, di consumarla, ma lei non avrebbe ceduto. Tremando per lo sforzo, esclamò: «Rumpo vinculum

Fu come se un incendio le fosse appena esploso nel petto. Le si mozzò il respiro e per poco non crollò in ginocchio. La mano con cui stringeva la catena bruciò così tanto che per un attimo fu tentata di lasciarla andare, anche se sapeva di non poterlo fare. Quella era l’ultima opzione che le restava. Non poteva arrendersi.

Richiamò a sé tutta la magia che scorreva nel suo corpo, ancora in fermento dopo ciò che aveva fatto a Clizio, e sentì la forza oscura della catena cominciare a venir meno. Stava funzionando.

La catena si sciolse in una pozza nera e un arto di sua madre fu finalmente liberato. Camille si sentì svuotata di ogni energia, ma prese una boccata d’aria e ripeté la stessa operazione anche con le altre tre. Ogni volta, dovette ripetere la stessa battaglia logorante, tuttavia, man mano che le catene si spezzavano, sentiva la determinazione crescere. Ce l’avrebbe fatta. Avrebbe liberato sua madre. Avrebbe riportato la Foschia e sarebbe tornata a casa con le persone a cui voleva bene.

Infine, l'ultima catena cadde. Camille crollò in ginocchio, lasciandosi scappare un verso esausto. Non si sentiva più il braccio con cui aveva toccato il Ferro dello Stige e credeva di poter vomitare da un momento all’altro.

Tuttavia, una luce accecante la abbagliò, e un calore intenso carezzò ogni suo lembo di pelle, facendola sentire subito meglio.

«Brava, Camille.»

Ecate era in piedi di fronte a lei, i capelli biondi che scendevano rigogliosi lungo le spalle, il volto dalla bellezza regale completamente composto, la testa alta, il vestito intatto, ma soprattutto gli occhi neri che brillavano d’orgoglio. Era come se, una volta libera dalla sua prigione, la dea fosse rinata, e ogni traccia del suo aspetto vulnerabile e sofferente fosse svanita senza lasciare traccia. Nel vedere quella dea con l’aspetto che le si addiceva di più, fiero, regale, potente, Camille si sentì come se qualcosa di sbagliato nel mondo fosse stato corretto. Osservò la madre dal basso, lasciando che il calore che emanava risanasse il suo corpo martoriato. Incrociò il suo sguardo e nulla le impedì di sorridere.

Aveva sognato tanto quel momento. Avrebbe voluto alzarsi e abbracciarla, avrebbe perfino voluto piangere per la gioia, ma non riuscì in nessuna di queste cose, per paura, per vergogna, o forse solo perché non voleva rovinare quel momento.

Lo sguardo di Ecate, così orgoglioso, rivolto verso di lei, valeva più di ogni altra cosa al mondo. Era quello, ciò che aveva voluto, ciò che aveva sempre desiderato.

Un rumore di detriti che cadevano catturarono l’attenzione di entrambe. Clizio si stava rimettendo in piedi, ancora del tutto ignaro di cosa fosse appena accaduto.

«Ci penso io ora» disse Ecate, dando le spalle a Camille.

La dea puntò un palmo verso di Clizio. Prima di fare quello che aveva in mente, però, si fermò. Abbassò la mano e lanciò un’altra occhiata verso Camille, prima di sorriderle. «È giusto che tu conosca l’altra me.»

Distese le braccia e gettò il collo all’indietro. Il suo vestito lungo e scarlatto cambiò, trasformandosi in una tunica bianca. I capelli divennero neri, decorati da una corona dorata, e, per alcuni istanti, il suo aspetto sfarfallò, lasciando credere che accanto a lei ci fossero due copie di aspetto identico al suo. Nelle sue mani apparvero due daghe d’Oro Imperiale, scintillanti alla luce delle fiaccole.

«Wow» sussurrò Kiana all’improvviso e solo in quel momento Camille realizzò che lei era ancora lì. Rivolse un sorriso alla sua amica e lei, dopo un attimo di incertezza, lo ricambiò. Neppure la figlia di Venere sembrava in grado di credere che tutto quello stesse accadendo veramente.

«Clizio» sentenziò Ecate. Anzi, Trivia. «Avete tentato di distruggere l’altra me. Preparati ad essere distrutto a tua volta.»

Clizio, ancora annerito dopo le fiamme scagliate da Camille, emise uno strano sbuffo, seguito da un ghigno. Recuperò il suo spadone di Ferro dello Stige e fece cenno alla dea di farsi avanti. Trivia non si fece attendere.

Con un balzo più rapido di un lampo, Trivia si fiondò sul gigante e gli aprì almeno mille squarci con le daghe lungo tutto il corpo. Il gigante spalancò la bocca, senza riuscire nemmeno a sollevare lo spadone per difendersi. Più che un vero scontro, fu un massacro a senso unico.

«C-Camille…» sussurrò una voce all’improvviso.

La figlia di Trivia si accorse di Ruby, ancora a terra, che la stava chiamando.

«Ruby!» Si precipitò da lei senza pensarci due volte. Le si inginocchiò accanto e si accorse delle sue condizioni. Aveva le labbra spaccate e il petto si alzava e abbassava a fatica, come se non riuscisse a respirare. I suoi occhi fiammeggianti ora erano a malapena un fuocherello tiepido.

«Ce… ce l’hai fatta…» bisbigliò. «B-Brava sorellina…»

«Ruby…» Camille sentì le lacrime agli occhi. Un colpo come quello che aveva ricevuto avrebbe dovuto polverizzare qualsiasi mostro all’istante. L’empusa era ancora viva, ma solo perché stava lottando con ogni fibra del suo essere per restarlo. Doveva costarle uno sforzo incredibile. «Mi dispiace» bisbigliò incapace di fare altro.

«D-Di cosa?» Ruby scosse la testa. «Sono io… che devo chiederti scusa. Per… per Lamia. E per tutto il resto. P-Prometti… prometti che lo farai. Prometti… che parlerai con nostra madre. I massacri... devono finire.»

«Lo prometto.» La figlia di Trivia annuì, soffocando il proprio pianto.

Ruby annuì lentamente, poi sollevò il braccio e stirò le labbra in un sorriso stanco. «Non fare quella faccia… sai che mi riformerò.»

«Sì… è vero.» Anche la ragazza riuscì a sorridere e afferrò la mano dell’empusa, stringendogliela forte. Era soffice, e calda. La mano di sua sorella.

«Ci vediamo, sorellina.»

Il corpo dell’empusa cominciò a dissolversi sotto gli occhi tristi di Camille. Nel giro di poco tempo, non rimase altro che polvere, e un piccolo oggetto nero sul pavimento. Camille lo prese e realizzò che era un rossetto nero. Non riuscì a trattenere una risatina nervosa. Forse sua sorella le stava suggerendo un restyling.

Una mano si appoggiò sulla sua spalla, e Kiana si inginocchiò accanto a lei. Non disse una parola, ma il suo sguardo fu sufficiente. Camille strinse il rossetto con forza, sentendo le labbra tremolare.

Vi fu un tonfo improvviso. Clizio cadde in ginocchio con un grugnito, centinaia di tagli da cui sgorgava sangue dorato lungo il corpo e le zampe squamose, e Trivia in piedi dietro di lui, con gli occhi che scintillavano e la daga sollevata proprio dietro al suo collo.

«Riferisci a chi ti ha mandato che questo è il destino di chi si oppone agli dei.»

La dea mulinò la daga. Un istante dopo, la testa di Clizio rotolava per terra, separata dal resto del corpo.

«Porca… vacca!» esclamò Kiana. Se Mary avesse visto il modo in cui stava guardando Trivia, probabilmente le avrebbe rifilato uno scappellotto. E anche Camille stava pensando di farlo.

La dea le strizzò l’occhio, poi si voltò, incredibilmente, verso Zombie Eastwood, rimasto immobile come una statua. Si avvicinò a lui e gli toccò la fronte. «Puoi riposare adesso. Ti siamo grati per il tuo aiuto.»

Lo scheletro emise quello strano rumore di denti che battevano, e una specie di sorriso inquietante prese forma sul suo volto. Sprofondò nel suolo come un sub che faceva un’immersione.

Infine, la dea si voltò verso sua figlia. Adocchiò prima lei, poi i resti di Ruby e il rossetto stretto tra le mani della ragazza. Nonostante fosse stata proprio lei a salvarla, Camille si sentiva comunque insignificante al suo cospetto. Si alzò in piedi, a testa bassa, in silenzio, in attesa che lei dicesse qualcosa per prima. Non riusciva a non pensare a Ruby. Nel profondo, credeva che avrebbe potuto fare di più.

«Testa alta, Camille» sentenziò Trivia.

La ragazza obbedì, e si rese conto che sua madre stava sorridendo calorosamente. Le appoggiò una mano sulla guancia. «Tieni sempre la testa alta.»

Camille, rigida per quel contatto inaspettato, serrò le labbra. Annuì soltanto, facendo nascere un sorriso più grande sul volto della madre. «Sei stata brava. Sono fiera di te.»

Udendo quelle parole, finalmente anche Camille riuscì a sorridere. Lei stava bene. Kiana stava bene. Sua madre era salva.

Era finita. Ce l’aveva fatta.

«Devo andare adesso. Devo ripristinare la Foschia, prima che i mortali impazziscano del tutto.»

«M-Madre…» disse Camille. «Quello… quello che Ruby…»

Trivia l’accarezzò lungo la guancia, un gesto dolce, ma allo stesso tempo deciso. «Lo so» disse la dea, semplicemente. Nei suoi occhi baluginava una strana luce, che Camille non riuscì a decifrare. «Sistemeremo tutto. Adesso, però, dobbiamo occuparci delle cose più importanti.»

Camille batté le palpebre. «Ma… ma Ruby… anche lei era importante. E anche Lamia, e…»

«Certo.» Trivia annuì, interrompendola. «È vero.» Le rivolse un altro sorriso, ma questa volta Camille notò qualcosa di diverso nella sua espressione. «Devo andare adesso. Ho molto da fare per sistemare il caos che i nostri nemici hanno creato. E lo stesso vale per te e la tua amica. Il vostro viaggio, temo, non è ancora finito.»

La lastra nera che Camille aveva visto in sogno le balenò nella mente. I loro nemici si stavano preparando per qualcosa di grosso. Il rapimento di Ecate era solo l'inizio. «Madre, che... che sta succedendo?» domandò. «Qual è il piano di Notte?»

Trivia serrò le palpebre. «Tornate a Furnace Creek. A suo tempo, ogni cosa vi sarà chiarita.»

Allontanò la mano da Camille e fece qualche passo indietro, troncando la discussione. Distese le braccia e il suo corpo cominciò a illuminarsi. Sul suo volto, balenò un ultimo sorriso. «Sarai una grande eroina, Camille.»

La ragazza distolse lo sguardo, il calore sprigionato dalla dea che le inondava il corpo. Subito dopo, Trivia era scomparsa.

Camille rimase a lungo a osservare il punto in cui fino a un attimo prima si trovava sua madre. Nonostante tutto, sentiva un retrogusto amaro in bocca. Trivia le aveva detto di essere fiera di lei, che a conti fatti era ciò che aveva sempre voluto, eppure le sembrava che tra di loro ci fosse stato qualcosa di non detto. Il modo in cui aveva liquidato il discorso su Ruby l’aveva lasciata di sasso.

Forse aveva ragione, forse quello non era il momento migliore per parlarne, tuttavia Camille non ne era così sicura.

«Camille?» la chiamò Kiana. «Stai bene?»

«S-Sì, sì…» rispose lei, tornando alla realtà. «Sto bene. Forza, torniamo a… torniamo… a…»

Tutto a un tratto, parlare le sembrò impossibile. La caverna cominciò a vorticare attorno a lei. Cadde in ginocchio, sentendosi svuotata di ogni energia.

«Cam!»

«S-Sto bene» ripeté la figlia di Trivia, sforzandosi di tirare fuori le parole di bocca. «La magia… mi ha prosciugata. Mi serve… solo… un momento per… per…»

La testa le ciondolò in avanti. Gli occhi si sigillarono. E la gravità trascinò il suo corpo a terra.

  

 

 

 

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