La stella dell'Est

di thewanderess
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ishval - 1908 ***
Capitolo 2: *** 1929 - Ritorno ***
Capitolo 3: *** 1929 - In Cauda Venenum ***



Capitolo 1
*** Ishval - 1908 ***


Tui congiunse le mani e chiuse gli occhi in segno di preghiera. 

Il sole era già alto e scottante da un pezzo e chi era ancora rimasto in città era immerso nelle sue attività quotidiane da diverse ore. All’esterno della piccola casetta di mattoni si udivano distintamente le voci di alcune donne e di un paio di bambini piccoli. 

“Grande Ishvala, guidaci nel nostro cammino. Fa’ che il tuo popolo non soccomba, donaci salvezza e saggezza, e aiutaci ad adorare la tua misericordia, anche in momenti difficili come questo. Proteggi questa casa...” La giovane donna inginocchiata in direzione del sole parlò con voce supplichevole, come faceva ogni mattina ormai da anni. Il bambino accanto a lei sbirciò qualche secondo, avvertendo un tremolio preoccupante nella voce della sua mamma.

“E fammi un favore: proteggi papà. Grazie.” 

La donna rise piano, cercando di contenersi. “Tui, non puoi chiedere favori durante una preghiera. Se vuoi che Ishvala ti ascolti devi dimostrare rispetto.”

“Già mamma, scusa. Ora posso andare?” 

Lei sospirò paziente, poi fece cenno a Tui di andare, scuotendo la testa. Quel bambino era la sua vera, unica salvezza.

La luce lo accecò qualche istante, ma Tui non aspettò di vedere bene nuovamente per correre via, attraversando il cortile e salutando distrattamente le poche persone che si trovavano lì. Percorse stradine semi deserte e silenziose, non senza qualche esitazione, fermandosi qua e là ad osservare i luoghi della sua infanzia che erano ormai un lontano ricordo. C’era l’emporio del vecchio bisbetico Armin, a cui lui e i suoi amici facevano sempre un sacco di scherzi. La porta era sbarrata e l’insegna pendeva come morta. Casa di Stefan e sua moglie era vuota da mesi, qualcuno ne aveva smantellato completamente l’interno. Il bar di Philip, l’unico del villaggio, era stato bruciato dopo che lui se ne era andato a combattere coi ribelli. Ma non erano stati i soldati, almeno a quanto ne sapeva lui.

La collina di Ruya era il punto più alto della città. Dalla collina si poteva osservare gran parte della prateria su cui sorgeva il villaggio, ma tutti i bambini erano talmente abituati a salire lassù che farlo di corsa non era per loro di nessuna difficoltà. 

“Pum! Pum! Siete morti, soldati! Bastardi, aaahh!”

Tre ragazzini si voltarono, udendo Tui risalire a tutta velocità la collina. Urlava minacce di morte e parolacce con la sicurezza che nessun adulto l’avrebbe sentito. Ogni mattina, lui e i suoi amici si ritrovavano lì per guardare il villaggio, l’immensa distesa di erba gialla e, ancora più lontano, le montagne sacre che in inverno si riempivano di neve. I bambini giocarono per diverse ore, mangiarono a sazietà le pere del piccolo e storto albero lì accanto e giocarono ancora, fingendo che tutto fosse come prima. La guerra non era lontana da quel piccolo angolo di mondo, ma quasi non la si avvertiva, come se al contrario di tutto il resto del paese lì, in quella che era considerata la regione più bella del territorio di Ishval, la distruzione avesse deciso di entrare in punta di piedi, solo per portarsi via con estrema cortesia chi era disposto e capace di combattere la sua battaglia senza senso.

“Secondo voi che vuol dire essere un Ishvalan?”

Tui era sdraiato accanto agli altri, sull’erba riscaldata dal sole e smossa dalla brezza serale, fresca e pura. 

“Vuol dire che abbiamo la pelle scura e gli occhi rossi.” Disse uno dei bambini, alzando una mano verso il cielo, osservandosi con attenzione il braccio. “Siamo diversi dagli altri. Non c’è nessuno come noi. Siamo speciali e i soldati ci invidiano, per questo ci odiano. Me l’ha detto mia madre.”

“Si, probabilmente è vero… chi non vorrebbe essere come me? Sono troppo bello.” disse un altro.

Tui si addormentò ridendo. Sognò di essere un bambino di Amestris, con degli occhi azzurri come il cielo, la pelle chiara e la pancia piena. Di correre sulla collina come sempre, ma una collina molto più verde, e poi di guardare fuori dalla finestra la neve, quella che aveva sempre visto da lontano sulle montagne. Sognò suo padre che tornava felice, pieno di cicatrici e zoppicante ma vivo. Vivo.
Era veramente la sua vita?

“Tui svegliati! Ragazzi forza! Sta succedendo qualcosa. Abbiamo dormito troppo!”

Il sogno beato di Tui venne interrotto bruscamente, così come quello degli altri. Era già buio, un buio in qualche modo lucente. Il bambino pensò subito ai guai che avrebbe passato a casa se ci fosse stato ancora suo padre, e alla preoccupazione – concreta, quella – di sua madre. Si tirò a sedere con fatica, mentre il suo amico scuoteva rudemente lui e gli altri, piangendo.

“Cos’è questo odore?”

Si alzarono tutti, e uno dopo l’altro rimasero inorriditi. Il villaggio in fondo alla collina era totalmente in fiamme. Il fumo copriva gran parte della vallata e delle montagne e la puzza di bruciato raggiungeva persino la collina. A Tui sembrò di aver dormito per un mese intero. Non riusciva a capacitarsi di come, in poche ore, la sua casa potesse essersi trasformata in quell’inferno. 

“Ishvala, cosa succede?!”

“Hanno bruciato tutto, sono stati i soldati…”

Uno dei bambini si accucciò a terra e si tappò le orecchie per non sentire le urla, gli spari e le esplosioni in lontananza. Dondolandosi, serrò gli occhi e contò fino a dieci ma, quando li riaprì, le fiamme c’erano ancora.

“Tui cosa facciamo?”

“Io vado da mia madre.”

“Ma è pericoloso! Andiamo a chiedere aiuto.”

“E a chi?” Gli diede man forte Roan, il suo migliore amico. “Io scendo”

Tui annuì, e insieme cominciarono a ruzzolare alla massima velocità giù per la collina. 
Non poteva aver lasciato sua madre da sola per tutto quel tempo. Suo padre gli aveva detto di proteggerla. Doveva stare bene. Doveva essere viva. 

I soldati erano ovunque e circondavano la città. Per qualunque estraneo sarebbe stato difficile intrufolarsi nel villaggio senza essere visti, ma Tui conosceva ogni antro, ogni via e ogni scorciatoia esistente. La città era nelle sue mani e quindi aveva un vantaggio sui soldati. Il suo amico era già scomparso, probabilmente per tornare a casa sua, ma lui non ci badò. Non aveva mai visto tanti soldati tutti insieme, soprattutto così armati. La gente per le strade fuggiva terrorizzata. Riconobbe persino qualcuno. Ma a che scopo bruciare tutto? Non c’era nessun combattente in città, l’avevano detto i pochi adulti rimasti, per rassicurare lui e gli altri giovani. Per questo nessuno veniva a disturbarli, non erano un pericolo per nessuno. Sua madre non era un pericolo.

Un paio di colpi di fucile esplosero proprio accanto a lui. Era evidente che volessero beccarlo, ma ringraziò Ishvala per averlo creato così rapido e scattante. Casa sua era ancora distante, ma fu costretto a fermarsi nella piazza centrale. Brulicava letteralmente di soldati armati fino ai denti, che accerchiavano un gruppo di persone terrorizzate.

“Perché ci state facendo questo? Il villaggio è sempre lo stesso dall’ultima volta che siete venuti! Non c’è nessun ribelle qui.” Era il Monaco Anziano ad aver parlato. Tui lo ammirava e lo chiamava Maestro, come tutti, per la sua autorevolezza e per la fiducia che ispirava a chiunque. Eppure appariva minuscolo, rispetto agli uomini in divisa blu che lo sovrastavano, quella sera. Quasi patetico mentre pregava loro e il Dio Ishvala di lasciarli in pace. “Ci sono solo donne, bambini e vecchi. I pochi giovani non possono combattere. Vi prego!”

Un ufficiale di alto grado, parlò ad alta voce al piccolo gruppo di Ishvalan spaventati e impossibilitati a scappare. “Ordine esecutivo 3066. Tutti gli alchimisti di stato sono chiamati dal Comandante Supremo King Bradley a scendere in battaglia contro i dissidenti, ribelli e combattenti di etnia Ishvalan.”

“Ma noi non-“

Un soldato sferrò un colpo col calcio del proprio fucile al volto del vecchio, che cadde svenuto immediatamente. 

“Maestro!” Urlò un giovane monaco tentando di soccorrerlo. Un altro avanzò di un passo, preso dalla rabbia, con le lacrime che gli rigavano il viso disperato. 

“Ma che razza di gente siete?!”

Il cerchio di soldati con i fucili puntati si strinse ancora di più attorno al gruppo di monaci e donne. Le fiamme  divampavano lì attorno e l’ufficiale decise che era meglio sbrigarsi. Si limitò ad un breve gesto della mano, per ordinare ai suoi uomini di fare fuoco. Tutte quelle persone caddero all’istante, morte. Roan e sua madre erano lì.

Tui corse via sperando di non essere notato, superando altri soldati, altre fiamme ed innumerevoli esplosioni. Il cortile della sua casa era vuoto, così come tutte le abitazioni. Solo il cadavere di una donna, uccisa con un colpo di fucile all’addome, spuntava a metà da una finestra. La porta di casa sua era spalancata, ma lui ci si fiondò comunque, ritrovandosi nella cucina immersa nel buio. I mobili erano divelti e i pochi oggetti della mamma erano in mille pezzi sul pavimento. Un tremore lo colse e gli impedì di correre nuovamente alla ricerca di sua madre. Magari era scappata davvero. Forse lo stava cercando… doveva andarsene. 

Ma poi dal retro della casa, quello che dava sul torrente, udì distintamente delle voci maschili. 
Erano ancora lì e ridevano.


Sentì una rabbia tremenda montargli addosso. Avrebbe voluto raccogliere uno dei coltelli da cucina di sua madre e andare lì fuori ad ucciderli tutti, punirli per quello che avevano fatto. Ishvala l’avrebbe voluto, ne era certo. Come poteva permettere che quelle persone morissero senza che ve ne fosse una ragione?

Il coltello per fortuna era appeso al solito posto, sopra la stufa. Gli balenò per la testa il pensiero che, fino ad un anno prima, non era in grado di raggiungere quel punto così in alto. Un segno in più che stava facendo la cosa giusta. Anche suo padre sarebbe stato d’accordo. La loro casa era stata profanata e ora lui doveva vendicarla. Poi avrebbe raggiunto la sua mamma ovunque fosse fuggita.

E infine li vide. Erano nel giardino, coi loro inseparabili fucili. Si asciugavano il sudore dalla fronte madida e sporca di terra e guardavano con interesse un ammasso di vestiti sotto di loro.  

 Sua madre era a terra. Ne era sicuro, perché solo lei al villaggio aveva quei bei capelli corti e ricci, candidi e morbidi. Cercò di ricordarne il profumo, ma riuscì solo a sentire l’odore soffocante del sangue e dei corpi bruciati. I soldati stavano cominciando a perdere interesse e si allontanavano dal corpo. Ma uno di loro rise ancora e prese la rincorsa. Si gettò con gli stivali su di lei, spappolandole il cranio sotto gli occhi di suo figlio. 

Tui lasciò andare il coltello e cadde in ginocchio davanti ai soldati.

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Capitolo 2
*** 1929 - Ritorno ***


 La luce fioca del fiammifero illuminò per qualche istante il volto di Sam, accendendo il tabacco della sigaretta e trasformandolo in un fumo denso e aromatico. August accanto a lui rifiutò un tiro con disgusto. Da qualche parte qualcuno suonava dei tamburi e una chitarra. Si udivano distintamente giovani voci ridere e cantare e mani ansiose battere a ritmo di quella melodia ipnotizzante. 

Sam riusciva quasi a vederla: una ragazza bellissima dalla pelle scura e gli occhi cremisi girare attorno al fuoco, la lunga gonna danzarle sulle caviglie magre, la fronte madida di sudore e un intero villaggio ad ammirarla in adorazione.

“Sai che dovresti fare?” Lo interruppe il compagno di ronda, rubando la cicca accesa tra le sue labbra e buttandola via. “Smetterla di viaggiare con la mente e starmi a sentire.”

Sam lo guardò storto, ma era troppo svogliato per cominciare un litigio. “Che problemi hai?”

“Il mio problema è che se ti beccano a fumare è a me che chiedono spiegazioni… recluta” 

“Come ti pare...” Sam si sistemò meglio il fucile in spalla. “Tanto tra poco finisce il turno. Piuttosto andiamo a fare l’ultimo giro prima di chiuderci dentro.”

August ridacchiò. “Stai pensando ad una ragazza. Si vede.”

Sam si avviò senza rispondere. Non sopportava le chiacchiere fini a loro stesse. Forse era proprio per questo che non amava essere assegnato alle ronde notturne. 

“Già… siete tutti uguali voi soldatini di città. Venite qui tesi, neanche aveste una scopa su per il culo, convinti di potervi rendere utili e chissà quali altre cazzate, con l’uniforme tutta appuntata e lavata dalla mamma…” L’omaccione continuò a blaterare a voce bassa, seguendolo a ruota, senza la minima intenzione di tacere. “E poi invece finite per crollare davanti al primo paio di occhietti dolci.”

“Non ho idea di cosa tu stia parlando.” Sussurrò Sam poco convinto. Svoltarono l’angolo dell’armeria deserta, ritrovandosi nel cortile principale. Era illuminato da alcuni fari puntati sull’ingresso principale e sul parcheggio. Per il resto l’oscurità dominava.

“Parlo delle ragazze di Ishval, broccolo. Quelle piccole sgualdrinelle farebbero girare la testa a chiunque, lo so benissimo. Alla tua età ero qui durante la guerra. A quei tempi non dovevi nemmeno chiedere il permesso. Se una ragazza ti piaceva te la prendevi e finiva lì. Se capisci che intendo…”  August gli assestò una poderosa gomitata sullo stinco levandogli il fiato per pochi secondi, giusto il tempo per farlo desistere dal rispondere a tono a quelle idiozie. August si schiarì la voce e continuò. “Comunque che non ti venga in mente di combinare qualche guaio con una di loro. In tempo di guerra tutto è concesso, ma ora-”

Si interruppe bruscamente, zittito da Sam. Il ragazzo aveva avvertito qualcosa, uno strisciare tra le auto di servizio parcheggiate ordinatamente.

“Sì, ho sentito anche io… ma stai tranquillo, sarà una volpe in cerca di qualche pollaio da saccheggiare. Questa zona ne è piena.”
Avrebbe preferito tramortirlo con un colpo sferrato con il calcio del suo fucile, ma si limitò a scuotere la testa e a precisare che il rumore era stato provocato da qualcosa di decisamente più grosso di una volpe.

“Uno sciacallo allora”

“Diamine, vuoi stare zitto?!”
Sam imbracciò il fucile e, con passi controllati e gli occhi azzurri puntati verso la fonte di quei suoni sospetti, vi si avvicinò intimando il compagno di rimanere indietro. Esplorò lo spazio tra le auto con cautela, aguzzando i sensi, ma non riuscì a sentire più nulla. Se qualcosa c’era se ne era andato. Nemmeno la terra sotto ai suoi piedi sembrava smossa, né si notavano tracce fresche. 

“Te l’avevo detto, si sentono sempre rumori strani da queste parti” Esordì August quando Sam tornò accanto a lui col fucile sulla spalla. “Hanno anche cominciato a circolare delle strane dicerie…”Ridacchiò, notando l’improvviso interesse dell’altro. Soddisfatto, si preparò a sciorinare una storia che sperava fosse lugubre abbastanza da spaventare il ragazzo. August era realmente deciso di fargli abbassare la cresta una volta per tutte.

“E’ iniziato tutto circa un anno fa. Avevano appena completato i lavori alla ferrovia, tonnellate di casse arrivavano ogni giorno da tutta Amestris e dovevano essere smistate. Ovviamente avevano dato a me il compito di sorvegliare i carichi più importanti, specialmente quelli che dovevano finire qui all’armeria. Una sera il turno di guardia toccava a me e ad un ragazzo più o meno della tua età, anche lui fresco fresco di accademia. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.”

“Continua.”

August annuì e il suo volto si fece dannatamente serio. “Era una sera proprio come questa, la luna era luminosa e non c’erano nuvole. Era piena estate ma il vento del deserto sferzava come non mai. Hans – era questo il nome del ragazzo – sentì dei rumori provenire da uno dei convogli. Era come se qualcuno stesse armeggiando con dei catenacci o qualcosa di simile, raccontò poi. Fu allora che lo vide, nascosto nel buio, all’interno di un vagone. Lo illuminò con la torcia… era uno spirito, uno jiwaa, come lo chiamano qui. Aveva la pelle di un pallore cadaverico e gli occhi iniettati di sangue. Sibilò contro di lui e lo spinse giù dal vagone, trapassandogli lo stomaco. Lo sentii urlare e accorsi immediatamente, trovandolo a terra tremante con gli occhi spalancati. Quel poveretto si era pisciato addosso dalla paura.”

Sam sbuffò. “Stronzate. Probabilmente si è inventato tutto per giustificare di essersi pisciato nei pantaloni come un neonato.” Si stiracchiò, pronto per chiudere lì la questione, ma fu interrotto da August che alzò la voce.

“Fammi finire! Hans non si fece più rivedere, tornò a casa due giorni dopo. A poche settimane di distanza altri soldati dissero di aver visto lo spirito di nuovo alla ferrovia e dopo qualche mese anche all’interno degli edifici dell’esercito. Sbucava fuori e poi spariva alla velocità della luce attraversando i muri.”

“Solo balle. I fantasmi non esistono, è solo una stupida suggestione. Un fantasma bianco con gli occhi rossi, tornato dal mondo dei morti per… cosa? Vendicarsi con i soldati per i morti di guerra?”

“Esattamente” Annuì August. “La gente di Ishval ha iniziato a parlarne, alcuni lo pregano ogni notte perché venga e si porti via qualcuno di noi come scambio per le vite dei loro cari morti in battaglia. Chiedilo a chiunque, ti confermerà la cosa.”

“E perché allora io non ho sentito nessuno parlarne?”

“Circa tre mesi fa il custode dell’armeria, un uomo di Ishval, disse di averlo visto e di avergli rubato un pezzo della veste strappata e ricoperta di sangue. Ma quando fu il momento di mostrarla a tutti, questa si era volatilizzata. L’uomo decise di sottrarsi all’incarico e il Maggiore Miles vietò a chiunque di parlare di questa storia.”

“Quindi perché me ne parli?” Chiese Sam provocatorio. 

August aprì la bocca per rispondere ma ogni suono gli si bloccò in gola. All’interno dell’armeria si udì distintamente, nel silenzio cupo della notte, un fracasso di vetri rotti, come se qualcuno stesse distruggendo una finestra o un vaso di cristallo. I due soldati si guardarono attoniti. Sam, per dimostrare ad August di non avere alcuna paura, fu il primo ad intervenire. Spalancò la porta d’ingresso dell’armeria e, seguito dall’altro, corse su per le scale col fucile tra le mani tremolanti. August tentò più volte di accendere le luci dell’edificio ma erano stranamente fuori uso. “Attento Sam!” 

Accompagnato solo dalla luce della torcia, il giovane superò la prima rampa di scale, poi la seconda. Il piano di sopra era deserto, fatta eccezione per un’inquietante statua di marmo che in un primo momento lo impaurì, facendogli alzare il fucile d’istinto. August sopraggiunse dietro di lui, poggiando una mano sulla sua spalla per rassicurarlo, sussurrandogli di fare silenzio. Non c’erano vetri rotti in vista ma la porta di fronte alle scale era socchiusa. 

L’omaccione soppesò i propri passi, risultando più silenzioso di un gatto selvatico, nonostante la mole decisamente più grande. Sam, appena dietro di lui, era quasi pietrificato. Di botto una rabbia tremenda lo pervase. Non avrebbe fatto la figura del fesso, non la sua prima settimana di lavoro. Era un soldato addestrato, diamine; un militare che non si lasciava abbindolare da aneddoti inventati su fantasmi e spiriti.

Ringhiò, armandosi di tutto il coraggio di cui era capace e scaraventandosi inavvertitamente su August, spingendolo via, per poi fiondarsi sulla porta. La spalancò con una spallata e al suo interno vide ciò che non avrebbe mai immaginato fosse reale. 

Quello spirito, quel jiwaa, era accanto alla finestra rotta, curvo dietro una scrivania. Lo vide solo per pochi secondi illuminato dalla torcia: biancastro e spettrale, la stazza di un bambino scheletrico e i capelli bianchi. Sparò senza guardare in quella direzione, sospinto indietro dal rinculo dell’arma. Quando riaprì gli occhi e August entrò nella stanza stravolto la creatura era ormai scomparsa.

 

Edward Elric aveva dimenticato quanto fosse soffocante l’aria di Central City. La città, in quegli anni di assenza, si era ingrandita e ingrigita a vista d’occhio ed era più caotica e fumosa che mai. Niente a che vedere con l’aria pura dell’ovest o, tanto per non allontanarsi troppo, del suo villaggio natale.

Su Central era caduto un sottile strato di neve rapidamente trasformatosi in ghiaccio e poi, a causa della pioggia, in una poltiglia marrone che le automobili lanciavano senza alcun ritegno addosso ai passanti. Non c’era niente che avrebbe potuto riportare Edward in quel luogo, soprattutto con i dolori alla gamba che si facevano più acuti man mano che ci si inoltrava nel gelido mese di Novembre. 
Nulla, tranne Alphonse Elric. 

Suo fratello minore gli era seduto di fronte al tavolo della caffetteria, gustandosi famelico una torta panna e fragole e interrompendosi solo per tracannare sorsi bollenti di cioccolata calda. Edward lo fissò tutto il tempo, compiaciuto.

“Mi ci voleva, fratello!” Al si massaggiò lo stomaco pieno e si ripulì un angolo delle labbra sporco di cioccolato. “mi mancava proprio il cibo di Amestris. Mei ci prova ad accontentarmi, ma non è la stessa cosa, eh…” Si interruppe. Ed guardava fuori dalla finestra del locale. “A che pensi?”

Edward tornò in se rapidamente e cominciò a rovistare nella tasca del suo soprabito. 
“Sono tanti anni che non metto piede in città e mi sembra tutto diverso.” sghignazzò, estraendo del denaro e lasciandolo sul tavolo sotto un piattino da caffè. “So che è normale, ma non riesco a farmene una ragione.” 

Rimettendo apposto il portafogli l’occhio gli cadde sulla foto di famiglia che teneva sempre con sé. Sorridevano tutti. Al tempo dello scatto a Nina mancavano i due denti davanti ed Alexander la prendeva sempre in giro.  

“Credo che la difficoltà più grande sia accettare che siamo noi ad essere cambiati. Sono successe talmente tante cose.” Si alzò per stiracchiarsi, mugugnando di dolore. “Viaggiare tutta la notte attraverso il deserto è stancante anche ora che esiste la ferrovia. Mi chiedo quando inventeremo modi di viaggiare più comodi e veloci.”

“Almeno non devi andartene in giro con una protesi d’acciaio…” Ed lo seguì, spostando manualmente la gamba a cui era installato l’automail. “O con un’armatura.”

“Mi tengo stretto il mio dolore alla schiena.”

I due si avviarono verso l’uscita salutando rapidamente. Il personale del negozio, composto da giovani donne trafelate, non mancò di rispondere al saluto con entusiasmo. Era passato tantissimo tempo ma da quelle parti si parlava ancora di lui, l’Alchimista d’Acciaio, e del fratello che improvvisamente aveva iniziato a farsi vedere in giro senza quell’ingombrante armatura.

All’esterno la temperatura era notevolmente più bassa e nonostante un timidissimo sole avesse fatto capolino tra i nuvoloni ancora carichi di pioggia, il vento sferzante vanificava ogni tentativo dei raggi di portare sollievo e calore. Da quasi ogni palazzo si ergevano nuvolette di fumo nero, segno che anche così presto gli abitanti avevano acceso il camino.

“Abbiamo ancora qualche ora prima che il treno per Resembool riparta, che facciamo?” Chiese Alphonse, scansando un passante particolarmente di fretta. Erano arrivati da neanche un’ora dopo circa dodici ore di viaggio e diversi cambi. Per chiunque altro sarebbe stato un tragitto infinito, ma l’avere suo fratello accanto dopo quasi un anno senza vederlo aveva fatto volare il tempo. 

“Un’idea ce l’avrei, Al.” 


La villa in cui vivevano Gracia ed Elicia Hughes si trovava poco lontano dal centro, in un quartiere residenziale abitato principalmente da famiglie di giovani ufficiali e veterani in pensione. Un luogo tranquillo e pulito, come notarono i due fratelli aprendo il cancello e percorrendo il vialetto che conduceva alla porta d’ingresso dipinta di bianco. Bianche erano anche le pareti esterne della casa, sotto l’edera rampicante spoglia, e c’era solo un po’ di neve accumulatasi in ghiaccio sul giardino curato. Il caos della grande città era scomparso in quella zona per dar spazio alla quiete.

Alphonse teneva in mano un pacco sottile appena acquistato in un vecchio negozio di dolci e la sua valigia, ma fu comunque lui il primo a bussare alla porta. Edward, imbarazzato, rimase dietro di lui con le mani ben calcate in tasca. 

Gracia Hughes non era cambiata affatto dall’ultima volta che si erano visti, alcuni anni fa. La donna aveva mantenuto un aspetto giovanile e gli irrimediabili segni dell’età sembravano non aver avuto alcun effetto su di lei. In quella casa il tempo si era fermato. “Edward, Alphonse!”

Un sorriso le aveva illuminato il volto. Non l’avevano mai vista più solare. 
“Che sorpresa gradita, sono così felice di vedervi! Cosa vi porta qui?”

“Siamo sulla strada per Resembool e abbiamo pensato di venire a trovare te ed Elicia.” Esordì Al dopo aver ricambiato il saluto con un gesto impacciato della mano. Il darle del tu gli parve oltremodo bizzarro.

“Ci siamo permessi di portare un regalo.” Edward era solito riservare quel garbo e le buone maniere a pochissime persone. Una di quelle era proprio Gracia. “Come scusa per il disturbo.”

“Non lo siete affatto. Venite dentro: in casa il camino è acceso” 
La dimora della signora Hughes era proprio come la ricordavano, ordinata e dalla pulizia impeccabile, sicuramente merito di chi vi abitava. Alphonse ed Edward seguirono Gracia nel grazioso salottino. L’aria era tiepida e lo scoppiettare del camino li fece sentire come a casa. Si sedettero su uno dei due divanetti di velluto verde scuro, mentre la donna scartava il suo regalo proprio davanti a loro.

“Oggi siamo stati anche al Quartier Generale.” Al tolse il soprabito, sfoggiando una camicia xingese di seta blu scuro, che per un attimo attirò l’attenzione della donna. “O almeno ci abbiamo provato. Il Generale non era presente.”

“Non ci vede da anni e non si degna neanche di mostrare il suo muso baffuto.” Aggiunse Edward indispettito.

Gracia sorrise comprensiva. “Sono sicura che se avesse potuto vi avrebbe ricevuti. E’ sempre così disponibile e gentile! Pensate: qualche settimana fa è stato il sedicesimo compleanno di Elicia e lui le ha fatto recapitare a scuola un enorme bouquet di fiori. Le altre ragazze erano così gelose!”

Edward pensò che tali dimostrazioni plateali erano proprio da Mustang, così come il candore faceva parte della personalità della moglie di Maes Hughes.   

Gracia, però, si incupì all’improvviso. “A Central City la situazione non è facile. Ci sono scontri quasi ogni giorno, anche violenti, tra gruppi di Ishvalan e cittadini di Amestris. E la cosa peggiore è che I giornali non fanno altro che fomentare la rabbia. Sono convinta che la gente di Ishval si sia guadagnata il diritto di dire la propria ma per molti qui non è così.”

Ed rimase esterrefatto e rinunciò a servirsi di un cioccolatino che Gracia aveva offerto.

Alphonse notò l’espressione perplessa del fratello. “Sei fuori dal mondo, Ed? A Xing giungono sparute voci, so che Ishval strepita per l’indipendenza.”

“Era già difficile lavorare alla ricostruzione di Ishval… adesso deve in parte occuparsi dell’ordine pubblico” Riprese Gracia. “Senza contare tutte le altre incombenze militari. E’ decisamente sotto pressione, non credo di averlo mai visto così esausto… ma vi prego di non dirglielo, se vi capita di incontrarlo. Non vorrebbe mai che qualcuno lo sapesse.”

Entrambi promisero di non farne parola. Continuarono a chiacchierare amabilmente delle rispettive famiglie, del lavoro e del clima glaciale di quell’anno, quando avvertirono la porta d’ingresso aprirsi e, poco dopo, un piccolo cagnolino bianco schizzò dentro il salotto.
Poi entrò Elicia, accompagnata da un anonimo ragazzino dai capelli neri.

“Guarda chi è venuto a farci visita!” 

Elicia non diede il tempo ai due uomini di alzarsi e corse loro incontro, cingendoli in un abbraccio caloroso.

“Elicia sei così…”

“…Alta!”

In effetti la ragazzina era diventata decisamente più alta della madre. Se, durante l’infanzia, la figlia di Hughes era la copia spiccicata di Gracia, crescendo I tratti paterni si erano fatti più prepotenti. E lei sembrava andarne fiera. “Tutti mi dicono che più cresco più somiglio a mio padre” Disse, sfoggiando un’improvvisa timidezza. “Spero sia vero.”

Ed e Al non poterono fare a meno di guardarsi ed esclamare, all’uniscono, “Lo è!” 

Quel ragazzo smilzo rimasto all’ingresso del salotto, invece, cominciò a mostrare segni di disagio. “Vieni Selim, ti presento i miei amici.”

Selim salutò timidamente. Teneva un pesante libro sotto il braccio. Era pallido e smunto, ma i tratti del viso erano inconfondibili. Era perfettamente identico a quello che, una volta, era stato l’homunculus Pride. Solo un po’ cresciuto.

Ed e Al restarono interdetti e guardarono Gracia nel disperato tentativo di ricevere supporto, ma la donna si limitò a sorridere come sempre e ad invitare la figlia e l’amico a sedersi e mangiare qualche leccornia. Entrambi si fiondarono sulla scatola senza farselo ripetere due volte, iniziando a scartare più praline possibili.

Elicia, con ancora la bocca piena, chiese ai due uomini: “Vi ricordate di Mira? L’ultima volta che siete venuti era così piccola!”

Ed si distrasse a malapena dal guardare  Selim che, visibilmente imbarazzato da quell’attenzione sgradita, continuava ad ingurgitare cioccolata ripiena. “Certo. Non somiglia per nulla ad Hain.”

Elicia notò l’espressione del ragazzino, cercando di mediare. “Loro sono Edward e Alphonse Elric, te ne avevo parlato.”

Lui deglutì a fatica, annuendo. “Ssì. Beh, piacere”

“Selim, come sta tua madre?” Edward, ancora frastornato, suonò inavvertitamente inquisitorio.

“Mia madre sta bene, sì. Stiamo bene.”

“Se puoi, mandale i nostri saluti!” Alphonse corresse il tiro.

Selim annuì, un po’ sospettoso. “Lo farò volentieri. Forse ora però dovrei andare…”

Elicia si lamentò ma il ragazzo non attese oltre. Raccolse un paio di dolci dal tavolino in mezzo ai divani e corse via. “A domani Elicia! Arrivederci signora Gracia!” I presenti lo sentirono fermarsi di botto all’ingresso, per poi tornare indietro ed inchinarsi, conciliante, coi due ospiti per salutarli. Poi andò via davvero.

“Credo che non mi riprenderò più da questo incontro…”

Al e Gracia risero di gusto mentre Elicia chiese confusa di cosa stessero parlando, senza ricevere risposta.

 

Fuori dalla finestra il vento ululava forte e I fiocchi di neve roteavano vorticosamente prima di posarsi.

Alexander Elric era appoggiato, braccia conserte, al davanzale della finestra. La sua camera era immersa nel buio e nemmeno Nina era sveglia. Hain, probabilmente, dormiva sotto la scrivania dell’officina mentre la mamma era al lavoro. 

Aspettare suo padre era diventata più una necessità che un piacere. Vederlo ritornare trionfante dopo un lungo viaggio gli donava un senso di serenità familiare che, durante le sue assenze più o meno lunghe, ogni tanto rischiava di perdersi. 

Alex aveva davvero provato a dormire, quella sera, ma come era prevedibile non era riuscito a prendere sonno. E non aveva neanche avuto il coraggio di raccontare a qualcuno dei suoi incubi. Nina l’avrebbe sicuramente raccontato alla mamma. E la mamma l’avrebbe sicuramente trattato come un bambino piccolo, pauroso e bisognoso di protezione. In parte era vero, Alex stava per compiere solo dieci anni. Ma poi suo padre sarebbe venuto a saperlo e di conseguenza chissà che avrebbe pensato di lui.
Un ragazzino orfano costretto dalle circostanze ad unirsi all’esercito, contro un bimbo che prova terrore per qualcosa di irreale che avviene solo durante I sogni?

Erano circa due settimane che continuava a sognare la guerra civile di Ishval. Era sicuro fosse colpa del maestro che gliene aveva parlato a scuola, d’altronde era già successo. Eppure I sogni erano così vividi, ricchi di particolari e di storie che sembravano tremendamente reali. Era quello ad inquietarlo di più.

In ogni caso, solitamente, gli incubi sparivano quando suo padre tornava a casa. Quindi non c’era motivo di preoccuparsi. Alexander avrebbe atteso, come sempre, di rivedere Ed attraverso il vetro della finestra, stanco ma felice, e poi avrebbe potuto prendere sonno una volta per tutte.

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Capitolo 3
*** 1929 - In Cauda Venenum ***


L’unica cosa che era rimasta la stessa a Central City era il Quartier Generale militare. Il che era piuttosto bizzarro, considerando che l’intero complesso era stato in gran parte distrutto durante le battaglie del Giorno della Promessa, molti anni prima. L’aria di austerità che si respirava all’interno delle sue mura e le enormi vetrate che permettevano la vista sul giardino erano le stesse. I suoi corridoi erano ancora interminabili, colossali. Le centraliniste e i custodi perennemente annoiati, le segretarie oberate di lavoro. Persino le uniformi dei militari erano rimaste identiche. 

Roy Mustang non riusciva a farsi piacere la banalità di quella nostalgia. Quel luogo era stato certo importante per gran parte della sua gioventù, ma rappresentava la quasi totale distruzione di una nazione e la scomparsa di tantissime persone che non lo meritavano. Non tutte, comunque.

Riza era al suo fianco, come sempre, mentre percorreva l’ala ovest del palazzo in direzione dell’ufficio del Comandante Supremo. Riusciva a scorgere la sua espressione corrucciata lanciandole rapide occhiate furtive. I movimenti del suo corpo erano controllati, seppur lenti, e l’uomo poté quasi notare che le braccia al di sotto dell’uniforme erano un fascio di muscoli in tensione. Lui non era meno teso.

Un colloquio privato con l’uomo più potente del paese, in quel contesto, significava solo guai. Le comunicazioni, almeno quelle ufficiali, da quando Grumman era stato promosso a nuovo Comandante si erano fatte meno informali ed erano diventate decisamente rare. Mustang aveva scelto - per mera convenienza personale  - di interferire il minimo indispensabile con le azioni dell’uomo e, almeno fino a quel momento, era stata una cortesia ricambiata con tacita approvazione. Ma il Generale sentiva che quella tregua non sarebbe durata ancora a lungo. 

Si chiese cosa stesse pensando Riza di preciso.

Forse pensa che, invitandola a presenziare a questo incontro, io l’abbia messa in una posizione scomoda.

Bussò rozzamente un paio di volte e il segretario di Grumman lo invitò ad entrare. Il militare che li accolse con un saluto di routine pregò Riza di chiudersi la porta alle spalle e poi li accompagnò senza indugio verso la grande sala che ospitava lo studio del Comandante.

L’ufficio era lo stesso in cui, tanti anni prima, King Bradley aveva minacciato l’incolumità dei suoi sottoposti e soprattutto di Riza. Ma non era più la sala spoglia e minimalista che l’homunculus non aveva avuto interesse nell’arredare. Grumman amava circondarsi di opere d’arte ed oggetti che tradissero una certa opulenza. Eppure, in un angolo, la solita vecchia scacchiera.

“Ah, vedo che sei arrivato subito. E hai portato il colonnello Hawkeye” Grumman si alzò dal divano al centro della stanza per accoglierli con un gesto gentile. “Accomodati mia cara, ti faccio portare una tazza di tè. E’ appena fatto.” 

Notò che Riza si limito a sorridere, evidentemente disagio per quelle premure eccessive che sicuramente trovava fuori luogo ma che non avrebbe mai rifiutato. Roy sapeva, anche se non gli era mai stato detto chiaramente, che Riza provava per quell’uomo una sorta di primordiale affetto.

“Mi dispiace averti convocato ad un orario così spiacevole, Generale. Ma se l’ho fatto ci sono delle ragioni ed immagino che tu l’abbia capito”.

Roy prese posto accanto a Riza, unendo le mani sulle ginocchia con fare nervoso. “Credevo si trattasse della questione di Ishval.”

“E’ così, infatti!” esclamò l’anziano. “Il tuo lavoro ad Ishval è encomiabile. Così giovane, eppure così efficiente nell’impiegare le proprie risorse. E’ ancora più sorprendente considerare che hai coordinato la maggior parte del lavoro da qui.”

Sul volto del Generale affiorò un ghigno. “Eppure… sono sorti alcuni problemi con una frangia della popolazione di Ishval.” Tagliò corto il giovane.

“Non essere così duro con te stesso. Errare humanum est, dopotutto.”

Il segretario di Grumman raggiunse il gruppo e consegnò a Riza una tazza fumante e poi una a Roy, che la rifiutò.

“Colonnello Hawkeye, lei cosa ne pensa?”

La donna non fece una piega, sorseggiò il suo tè e rispose quieta. “Credo che si siano fatti innegabili passi avanti. Neslee è una città splendida, ospitale. L’economia tradizionale di Ishval coesiste pacificamente con un rinnovato commercio che si estende fino a Xing. La pressione militare sul Consiglio degli Anziani e sulla città è diminuita…” Ma poi si rabbuiò. 

Grumman squadrò entrambi con un’occhiata indagatrice. “E pensi che sia stato questo a dare vita ai moti di ribellione che come una piaga stanno infettando questo paese?” chiese provocatorio.

Il Generale intervenne “E’ stato ritenuto opportuno lasciare spazio agli stessi Ishvalan. Sono ancora convinto che sia stata la scelta più giusta ed è stata condivisa da molti ufficiali. Me ne sono sempre assunto la responsabilità in quanto coordinatore del progetto.”

“Generale, sarò schietto da ora in poi” Grumman aprì sul tavolino basso tra loro un paio di giornali. “La situazione, a ridosso della fine dei lavori sulla regione di Ishval non è confortante. La stampa e le radio marciano sopra questa incresciosa faccenda  - d’altronde è il loro lavoro  - fomentando le rivolte e gli scontri su entrambi I fronti.  Solo ieri abbiamo avuto quattro, quattro, manifestazioni non autorizzate in pieno centro cittadino. Più o meno violente, non è questo il punto.”

Il Comandante riprese fiato. “Sei uno dei pochi ufficiali che ha la capacità e le risorse umane per risolvere la questione. E mi aspetto che tu lo faccia prima che tutto questo finisca nel caos più totale.”

“Penso che il punto sia proprio la violenza, signore” Contestò Mustang. “Non è quasi mai servita la repressione, tanto meno la censura, in queste circostanze.”

“Beh, servirà a breve.”

Grumman si alzò e, appollaiato al bastone da passeggio, si avvicinò alla sua scrivania. Aprì un cassetto chiuso a chiave e ne estrasse un foglio piegato.
Nel frattempo, Riza guardò Roy. Sul volto duro del Generale non si leggevano particolari emozioni, ma era più che ovvio che non gli piacesse essere redarguito. Non su questo argomento. Inoltre, cosa aveva voluto dire il Comandante? 

Mustang diede uno sguardo distratto ad uno dei giornali, che titolavano rispettivamente ‘Ishval vs Amestris? Si inaspriscono I rapporti tra Central City e Neslee’ e ‘Ancora scontri in città: due Ishvalan arrestati.’ Non notò subito la lettera che Grumman aveva tra le mani. 

“Io non sono un homunculus, non mi considero senza cuore e comprendo il tuo idealismo. Ma questo non mi rende più tollerante nei confronti di chi mette a rischio le colonne portanti di questo paese.”

“Cosa intende dire?” Domando la donna, leggermente turbata, raccogliendo quel pezzo di carta.

Il foglio recava alcune frasi scritte in modo quasi infantile e abbastanza confuso, anche se non significava granché. Potevano aver provato ad occultare la calligrafia, o poteva averlo scritto un bambino sotto dettatura, per quanto ne erano a conoscenza. 

“Puoi leggere ad alta voce, mia cara?” Suggerì Grumman.

“Ultimatum per  Grumman e per Mustang l’assassino
La smilitarizzazione di Ishval e la libertà della terra che ci spetta di diritto è la nostra priorità
Se non vedremo a breve un impegno delle istituzioni militari agiremo di conseguenza
Il primo a morire sarete voi, comandante”


“Si firmano nella lingua di Ishval. Non so ancora leggerla abbastanza bene…” Il foglio nelle mani di Riza tremava leggermente, ma la voce non manifestava emozioni. Roy le sfiorò il ginocchio, attirando la sua attenzione. Fu allora che lei lasciò la presa sulla lettera, permettendo a Mustang di raccoglierla e poi posarla con sdegno sul tavolo. 

“Queste sono minacce. E lei vuole che scopriamo se sono concrete o meno.” 

“Ti sbagli, Generale Mustang” Grumman sembrava alterato. “Non mi importa se si tratta di uno scherzo di cattivo gusto o l’operato di un gruppo terroristico pronto ad uccidere. Trovateli, ed in ogni caso metteteli a tacere con ogni mezzo possibile.”


Lo scatto della maniglia le provocò un brivido, quando la porta dell’ufficio si richiuse dietro di lei.
Il corridoio era nuovamente frequentato dagli ufficiali e dai segretari che, completati I propri incarichi, si accingevano a tornare a casa. Qualcuno di loro si spinse ad un saluto, ricambiato distrattamente da I due. 
La vita fuori da quella stanza sembrava continuare come se nulla fosse e, almeno per quel momento, era meglio così. 

“Diamine, è ormai sera.” Roy evitò il suo sguardo, che era invece puntato sul finestrone che dava sull’esterno. “Quanto siamo rimasti?”

“Quanto basta.” 

L’uomo sorrise, stanco. “E’ ora di andare. Vieni con me.”

“Dove, signore?”

“A cena. Sto morendo di fame.”



Riza si ritrovò seduta al tavolo di un anonimo, seppur frequentato, locale in centro. Erano passati mesi da quando aveva condiviso una cena con il Generale e comunque non erano stati da soli. La richiesta dell’uomo era arrivata in modo inaspettato e Riza pensò che la situazione fosse fastidiosamente bizzarra. Non che non le facesse piacere  - questo doveva riconoscerlo - vederlo in abiti civili. Condividere del tempo con lui, senza le costrizioni del lavoro, era una cosa che apprezzava. Ma che fosse davvero quella, la sera giusta per un invito, lo dubitava fortemente.

Il duetto romantico dei due cantanti accompagnati dal piano, le luci soffuse, le risa dei commensali e l’ostentata cortesia dei camerieri cosa avevano a che fare con minacce di morte, con la paura? Era tutto troppo inadeguato.

“Spero che ti piaccia qui, vengo ogni tanto quando ho compagnia.”

Anche Roy, che con fare candido le chiedeva se si trovava a suo agio. 
No, non sono a mio agio. L’unico componente della famiglia rimastomi, nonché comandante supremo della nazione dove vivo e che dovrei proteggere, ha ricevuto serie intimidazioni. Il lavoro che abbiamo svolto per anni è messo a repentaglio non si sa nemmeno bene da chi. La popolazione di Ishval potrebbe essere nuovamente in pericolo. Direi proprio che “agio” non è la parola che userei.

“E’ carino, qui. Sono solo ancora un po’ scossa” Si limitò a dire. Sapeva di non poter parlare pubblicamente di quella faccenda, e infatti non lo fece. Anche perché non sembrava che l’altro volesse in qualche modo scambiare nemmeno un cenno d’intesa in proposito, con lei. 
Cosa diavolo stava succedendo? Era sveglia?

“So che non sembra, ma qui la cucina è ottima. Prendi pure quello che preferisci, offro io”

Il cameriere, un uomo magro e allampanato, li squadrò un po’ malizioso. Scoccò un’occhiata di intesa al Generale, come se lo conoscesse bene, e subito dopo una a Riza, come fosse solo l’ennesima conquista di un uomo potente ed affascinante. Questo la disturbò, ma non disse nulla.

Roy ordinò una specialità aerugoniana dal nome impronunciabile, mentre Riza si limitò ad ordinare una semplicissima zuppa. Se fosse stata a casa da sola, come tutte le sere, con tutta probabilità non sarebbe riuscita ad ingerire nulla.
Le sembrava assurdo essere dopo chissà quanto tempo a cena da sola con lui e non poter godere neanche un po’ della sua compagnia. Non era naturale. Roy le parlò tranquillamente di Falman, di come si trovasse bene a Briggs con la famiglia. Quel discorso la distrasse un po’ da quelle riflessioni e riuscì leggermente a rilassarsi, tanto da conversare tra un boccone e l’altro. Ma poi la discussione prese una strana piega.

“Allora, a proposito di Drachma… hai più visto Sacha?”

Non avevano mai parlato di lui così apertamente. Neanche sapeva se il Generale si ricordasse chi fosse, figuriamoci il diminutivo del suo nome. 
Aleksandr, detto Sacha, era stato il suo vicino di casa per quasi un anno, ma I saluti cortesi che si scambiavano per le scale si erano trasformati in occhiate incuriosite già pochi giorni dopo il suo trasloco. La loro relazione non era durata molto, ma Riza la ricordava con estremo affetto. Era stato lui a lasciarla, dopo averle detto “un gentiluomo sa quando farsi da parte”. Era stato uno dei pochi uomini della sua vita. Nonché proprietario della piccola Kya, con cui Black Hayate aveva avuto I suoi cuccioli.

“Di recente mi ha inviato un paio di lettere, adesso vive a nord e pensa di sposarsi”

Roy non osò parlarne ulteriormente. Riza, contrariata, avrebbe voluto controbattere chiedendo di qualche donna in particolare, ma la verità è che non aveva idea di chi quell’uomo frequentasse. E, considerato il rapporto che li legava, era davvero strano. E spiacevole. Si sentiva… esclusa? Perché lui poteva conoscere il nome degli uomini che si erano legati a lei ma il contrario era da escludere? Non era equo.

Dopo cena il locale si trasformava in una specie di sala da ballo, ma proporre a Riza partecipare sarebbe stato troppo anche per quel bizzarro Mustang.
Il vecchio cameriere, innaturalmente imperturbabile, si avvicinò un’ultima volta alla coppia. “Signore, posso portare ancora qualcosa a lei e alla sua compagna?” 

“Non sono la sua compagna” Si affrettò a chiarire lei, con un tono indispettito che stupì perfino Mustang. “Ci porti il conto, per piacere”

Il cameriere si defilò alla svelta, non prima di immaginare che in quella serata romantica non fosse andato proprio tutto come sperato.
Fu Riza a pagare durante un attimo di distrazione di Roy, e i due infine rientrarono in auto. Mentre lei lo guidava a casa, forse poco sobrio a causa del vino, ricominciò a dire cose strane.

“Riza, mi chiedevo se non ti senti sola. Qui nella grande città, sempre a lavoro. Abbiamo davvero poco tempo per svagarci e in tutta onestà ti dico che non so nemmeno se tu lo faccia.”

Riza fu presa alla sprovvista. Di nuovo. “Non sono sola”

“Non senti la mancanza di qualcosa?”

“Lei sì?”

Roy rise “Beh non posso dire di non essere un uomo realizzato. Sono quasi riuscito a prendere le redini di questo paese, una volta.”

“Adesso sembra il Comandante Supremo. Non vorrà darmi una cattiva notizia, dopo questa pungente ironia?”

“Ehi, non preoccuparti. Sei al sicuro con me.”

Riza non fu certa di cosa il generale volesse dire e tentò nuovamente di convincersi che fosse solo responsabilità dell’alcol. “Ha bevuto un po’ troppo, forse. E’ una fortuna che ci troviamo sotto casa sua.”

Roy sembrava lucido, a giudicare dalla camminata sicura, ma per il resto lei avrebbe giurato che fosse ubriaco fradicio. “Ci serviva una distrazione, non è vero? Magari, almeno stasera dormiremo I nostri ultimi sonni tranquilli.”

Riza durante tutto il viaggio di ritorno non poté far altro che sentirsi manipolata. E spaventata, principalmente. Lo aveva riaccompagnato a casa, ma come faceva ad essere certa che fosse al sicuro? Facile: non poteva. 
Salì le scale del suo appartamento nel minor tempo possibile, aprì la porta, d’istinto ebbe giusto il tempo di controllare che Hayate fosse nella sua cuccia, poi si fiondò sul telefono. Che squillò.
“Qui è tutto libero, Elizabeth. Buonanotte.”

 
~

Con il giaccone zuppo di pioggia e l’ultimo morso di ciambella della colazione tra le labbra, Heymans Breda accartocciò malamente la prima pagina del Daily Central, gettandolo nel primo cestino capitatogli a tiro. “Che razza di spazzatura…” Esclamò seccato e con la bocca piena.

“E tu smettila di comprarlo” Gli rispose Havoc, arrivato stranamente in anticipo a lavoro.

 “La minaccia di Ishval sempre più concreta: Mustang se ne lava le mani” Fury ricordò rapidamente il titolo appena letto. “E’ veramente terribile”

 “Beh, guarda il lato positivo… almeno è sul giornale” Scherzò Havoc distrattamente, controllando quante sigarette gli fossero rimaste.

“E in che modo questo sarebbe positivo?”

Riza sbucò da dietro di loro, superandoli velocemente senza neanche guardarli. “Il Generale ha qualcosa di importante da dirci, sbrighiamoci.”
La guardarono allontanarsi a passo spedito, confusi e presi alla sprovvista.

“Quindi cerchiamo di non dirgli del giornale…?” Chiese Fury.

“E come? Se non lo ha già scoperto lo scoprirà. E comunque deve sapere ciò che si dice di lui”

Il Generale Mustang era già in ufficio e, per una volta, non si trovava sommerso di scartoffie. Hawkeye, invece, portava alcuni dossier sottobraccio, che lasciò sulla scrivania del suo superiore che non le sfogliò nemmeno, come se ne conoscesse già molto bene il contenuto.

“Buongiorno, capo” 
Havoc salutò distrattamente, senza particolare enfasi. Quella tradita informalità era diventata la routine, dopo molti anni al servizio di quell’uomo, e nessuno di loro avrebbe mai rinunciato al privilegio di trattare il proprio superiore come fosse un vecchio amico. Questo con I dovuti limiti, s’intende. Rispettavano Mustang in quanto esempio da seguire, lo servivano come un vero leader, ma non in base ai gradi appuntati sulla divisa.

Sedendosi al suo posto, Fury notò il Tenente Hawkeye evitare con tutte le proprie forze non solo di incrociare lo sguardo del Generale anche per puro caso, ma di guardarlo proprio. Il più giovane della squadra percepì del disagio nell’aria e non si capacitò proprio come I suoi compagni non lo notassero e non si scambiassero sguardi d’intesa con lui, mentre si sistemavano sulle loro scrivanie. 
Mustang aveva risposto al saluto fugacemente ed era evidente avesse qualcosa in mente. Qualcosa di serio.

“C’è qualcosa di molto sbagliato in questo paese. Questo qualcosa mi sfugge ed è una cosa che non riesco a sopportare.”

Nessuno disse nulla. Lo sguardo di Riza ancora perso nel vuoto.
Mustang si alzò e si avvicinò ai loro tavoli. “Ieri sera ho avuta una interessante discussione con il Comandante Supremo…”

“Se si riferisce all’articolo di giornale, noi-”

“Lo so, ma ciò che dice la stampa al momento è l’ultimo dei miei problemi.” Mustang si incupì. “Ieri qualcuno ha recapitato questo messaggio alla residenza di Grumman.” Passò il foglio a Breda, per primo, che cambiò espressione.

“A qualcuno non sta molto bene la politica di Amestris...” Breda rimase accigliato, rileggendo ancora e ancora quelle poche righe. “Non è che non lo sapessimo.”

“Che roba è questo scarabocchio?” Havoc girò diverse volte il foglio per capire.

Fury intervenne “non sono un esperto, ma… sembra scritto nella lingua di Ishval.”

“E’ esatto, Fury” Intervenne Riza. “Non conosciamo il significato di quelle parole ma potrebbe essere una specie di rivendicazione. Qualcosa che ha a che fare con il movimento indipendentista.”

“E il movimento si macchierebbe di omicidio? Di un alto ufficiale, per di più?”

Mustang si allontanò dai suoi uomini, con le braccia conserte e si piazzò accanto a Riza, che sussultò leggermente. “Potrebbero essere minacce a vuoto, ma sicuramente non voglio stare con le mani in mano per scoprirlo. Né si può andare incontro alle loro richieste assurde.”

“Vogliono smilitarizzare Ishval… iniziando con le vostre dimissioni”

“Sapevano benissimo che non l’avrei fatto. E’ un tentativo di portare scompiglio. Ma al momento l’operazione è top secret per chiunque oltre I qui presenti. Intesi?”

“Pensa possano essere coinvolti altri ufficiali?” Disse Riza, che gli parlò direttamente per la prima volta.

“Non voglio escluderlo… quegli avvoltoi non aspettano altro di mettere le mani sulla mia posizione. Non sono nuovi a certi mezzucci con l’unico fine di screditarmi. Per loro questo è un vero colpo di fortuna”

“Comunque, In pratica, ci sta dicendo che è compito nostro occuparci del colpevole”

“Ordini di Grumman.” Chiarì Roy. “Hawkeye ci ha fornito tutti I dossier su quello che sappiamo dei moti di indipendenza, dai nomi degli arresti ai rapporti del tenente colonnello Miles da Ishval. E spero non  abbiate impegni, perché ci sarà da lavorare.”

Riza divise le copie dei dossier a tutti I presenti, tenendone una per sé.

“Direi di iniziare da I primi episodi di ribellione.”

“Ricordo bene, siamo intervenuti io ed Havoc.” Ricordò Breda. “Erano dei ragazzini, studenti universitari che proponevano una manifestazione pacifica. Qualcuno si è sentito minacciato ed ha allertato le autorità, ma non ce n’era motivo. Siamo comunque stati costretti a schedare tutti I partecipanti”
“Le loro schede sono qui… ma non mi sembra di trovare niente di allarmante.”

“Non su di loro. Ad un certo punto, agli studenti si sono uniti alcuni lavoratori che hanno scioperato. Volevano solo essere ascoltati. Solo due di loro hanno avuto atteggiamenti riottosi.”

“E’ come se la situazione fosse peggiorata sensibilmente con l’improvviso interesse della stampa per la questione… alcuni nazionalisti amestresiani hanno scatenato risse con I manifestanti Ishvalan. E I giornali parlavano di come Ishval fosse nuovamente fuori controllo per i militari e la polizia civile.”

“Ma non è assolutamente vero! Stanno solo fomentando la rabbia da entrambe le parti. E’ inaccettabile.” Fury si alterò. 

Mustang ascoltò tutto molto attentamente. Poi interruppe Fury dicendo “Havoc, Breda… quell’uomo di Ishval arrestato e poi scarcerato subito perché estraneo alle manifestazioni… siete andati da lui, di recente?”

“Il suo nome è Isaac e sì, siamo stati da lui. Ma non ha mai niente di nuovo.”

Il biondo sbuffò.“E’ solo un idiota, non ci dirà niente di utile. Preferisce stare fuori dai guai”

“E vuoi forse biasimarlo?” Lo ammutolì Riza. “E’ un civile, non ha scelto di ritrovarsi in mezzo a questa storia”

“In ogni caso sarà il caso di fargli una nuova visita, chiedetegli se quella scritta per lui ha qualche significato”

“La stampa comunque ha alimentato lo scontento anche dalla parte degli Ishvalan. Non si sentono tutelati, gli episodi di razzismo aumentano e noi non possiamo farci granché, a parte intervenire a cosa fatta”

Roy sapeva che era vero. Ma non poteva farsi influenzare dalle manipolazioni faziose dei giornalisti. “Stiamo lavorando a Neslee anche per questo. E mi sembra che prima di questa storia le cose fossero tranquille. Bisogna capire da dove è iniziato tutto.”

“Quindi quali sono I nostri compiti?”

“Per ora io e Hawkeye resteremo qui a studiare ancora questi documenti, nonché ad organizzare l’inaugurazione di Neslee…”

“Quindi si farà comunque tra tre settimane? Non è un po’… fuori luogo?”

“Abbiamo discusso con il consiglio di Ishval e siamo arrivati a questa conclusione. La festa del solstizio è una festa troppo importante ed in questo periodo difficile è essenziale far sentire la popolazione di Ishval come parte di questo paese”

“Anche se non vogliono” 

 “Non tutti.” Ribadì Riza.  “solo una parte degli abitanti di Ishval vuole l’indipendenza. Tutti gli altri, compresi molti amestresiani, vorrebbero semplicemente una società più democratica e smilitarizzata…”

Un breve momento di silenzioso disagio venne interrotto da Roy.

“Insomma, Havoc e Breda, interrogate Rani e ditegli di tenere gli occhi aperti. Se trova qualche indizio non deve esitare a riferircelo. In cambio gli offriamo la nostra protezione. Fury tu dovrai mettere sotto controllo un certo numero di linee telefoniche. Ti farò avere una lista a breve. E anche tu occhi ed orecchie aperte, mi raccomando." 

 
~

Le notti all’interno della sua stanza erano sempre buie ed umide. 

Con le dita avvizzite della mano sinistra, consunte da una penosa vecchiaia e dalla fame, l’uomo grattava febbrilmente il pavimento mentre con la destra tracciava simboli e trascriveva vecchie formule su fogli consunti. Le ricordava tutte, quelle formule. Nonostante gran parte non fossero state sviluppate da lui ne conosceva tutti I misteri, tutte le sfaccettature. Eppure qualcosa sfuggiva ancora alla sua memoria.

Lo tenevano lì da mesi. Il delirio si era presto impadronito della sua mente già debole e ora il vecchio se ne stava seduto per terra sul pavimento freddo a cercare di ricordare. Avrebbe dovuto trovare una soluzione in fretta, o lo avrebbero ucciso. Senza la sua alchimia per loro era inutile tenerlo in vita.

Si accarezzò il volto sfigurato con la mano libera, per alleviare il dolore che lo tormentava ciclicamente. Le cicatrici della grave ustione sembravano pulsare nonostante la ferita gli fosse stata inferta quando era giovane. Il ricordo di quel giorno infausto era l’unica cosa veramente viva in lui, insieme alla voglia di vendetta mai davvero estinta.

Van Hanussen allora capì, in un frangente di inaspettata lucidità.

L’alchimia del fuoco non era mai stata nelle sue mani.

 

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