Ritorno

di moira78
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Africa ***
Capitolo 2: *** Italia ***
Capitolo 3: *** America, Chicago ***



Capitolo 1
*** Africa ***


Grazie mille a Tiger Eyes per le sue preziose informazioni e conoscenze sull'Africa condivise con me e a Sonietta74 per l'attenta betalettura!
 
I miei occhi si aprono lentamente nella luce quasi arancione che filtra attraverso la tenda. Il lenzuolo aderisce al mio corpo sudato e, prima ancora che cominci a chiedermi come mai ho la netta sensazione di essere nudo, lei si muove accanto a me lamentandosi nel sonno. Faccio un sospiro profondo.
Il profumo della sua pelle mi solletica le narici e decido di darle le spalle per evitare tentazioni che non vorrei assecondare.

Sono sempre stato ligio ai miei principi, molto più che agli insegnamenti che mi sono stati imposti quale patriarca di famiglia. Ma la natura imperfetta di un uomo, specie se si trova in un ambiente così libero e selvaggio come l'Africa, a volte può farlo vacillare.

Annabelle è bella come il suo nome.

È americana ma il padre è francese, il che mi ricorda le origini di Georges. Fisicamente è quasi identica a Candy e questo è stato il problema maggiore. Mi sono ripetuto mille volte, prima di cedere ai suoi occhi luminosi e alle sue labbra piene e incurvate in un perenne sorriso, che non era per quel motivo che mi sentivo così attratto da lei.

Che siamo entrambi soli e senza legami e desideravamo solo lasciarci un po' andare.

Ma, mentre le sue braccia sottili mi serpeggiavano dietro alla schiena per stringermi in un abbraccio timido, mi inebriavo del suo aroma baciandole un punto dietro l'orecchio, facendola ridacchiare: "Mi fai il solletico!", aveva mormorato con la voce, di solito così limpida, arrochita per l'emozione di ciò che stavamo per vivere.

"Vuoi che la smetta?", le ho chiesto scostandomi per guardarla.

"No", mi ha risposto fissandomi con un sorriso lieve e l'espressione ferma.

"Lo sai che mi piaci e ti voglio bene. Ma...", avevo cominciato.

"Ma non sei innamorato di me, lo so. Neanche io so bene cosa provo per te. Vogliamo discuterne fino all'alba?". Aveva alzato le spalle e per un attimo mi è sembrata davvero disposta a farlo.

Ovviamente, non ne abbiamo parlato. Non più, fino a stamattina.

Non mi pento di ciò che c'è stato fra noi, perché bello e delicato, ma soprattutto sincero. Io non la giudico affatto per le sue scelte: ha quasi vent'anni e non vuole legami fissi per il momento, troppo concentrata sulla sua missione.

Mi ha confessato che non vuole sposarsi e non vuole avere figli, almeno per ora, ma non per questo intende rimanere sola.

"Prima di te mi ero innamorata di un uomo che mi ha spezzato il cuore. E ha preso anche la mia virtù. Pensavo avesse intenzioni serie, invece è stato un mascalzone". Quando mi ha fatto quella confessione mi sono irrigidito, ma lei mi ha sorriso: "Tu sei stato l'unico a dirmi la verità. Per questo mi piaci... beh, non solo per questo, è ovvio".

Sono scoppiato a ridere anche io e le ho ricordato che sarei partito entro qualche ora. Posso avvertire ancora la sensazione della pelle della sua spalla sotto ai polpastrelli mentre l'accarezzavo.

"Lo so", ha sospirato quasi con tristezza, "peccato non avere avuto più tempo per conoscerci. Saremmo potuti diventare una bella coppia. Siamo molto simili". Ed era vero.

È ancora vero, dannazione. Eppure, mentre i venti di guerra rischiano di farmi rimanere bloccato qui per chissà quanto tempo, mi ritrovo a fuggire per tornare a casa prima che diventi troppo tardi. Prima che io non sia più in grado di tornare dalla mia famiglia alla quale ancora devo palesarmi.

Mi ripeto, mentre mi alzo cercando di non svegliarla e rivestendomi con gesti lenti, che il motivo per cui mi sto affrettando è solo questo e non riguarda il timore di non vedere lei per troppo tempo. Una lei di cui dovrei essere tutore o persino patrigno. Una lei che è ancora una ragazzina, ma già mi ha marchiato così a fondo nel cuore che nessun affetto per altre donne sarà mai paragonabile a ciò che somiglia in modo così delizioso all'amore.

Quello vero.

Quello che non dura il tempo fittizio di un abbraccio intimo, così raro nella mia vita frenetica e piena solo di dolori e fughe.

Quello che mi porterebbe a desiderare che stia al mio fianco per tutta la vita.

Sto cercando delle parole da lasciarle su un foglio: Annabelle si merita il mio rispetto più profondo per quello che mi ha donato senza alcuna pretesa e voglio trasmetterle il mio affetto sincero. Non desidero che veda nel mio messaggio il freddo ringraziamento di un uomo con cui ha solo passato la notte.
Desidero che sia felice e che non ripensi a me più del dovuto. Sono abbastanza inesperto, ma non stupido: ho compreso bene che il trasporto che l'ha portata fra le mie braccia era molto, troppo vicino a quel sentimento che io stesso sto cercando di reprimere con tutte le mie forze. L'ho riconosciuto nel suo sguardo: era come se mi vedessi allo specchio.

Capisco che tra noi l'attrazione e l'intesa sono stati presenti fin dal primo giorno, tuttavia è come se entrambi avessimo atteso di concretizzare il nostro rapporto solo in vista di un addio imminente. Il rischio che lei si innamorasse di me col tempo, specie dopo un passo del genere, era troppo alto. Fino all'ultimo, infatti, non ero convinto che fosse una buona idea assecondare i nostri desideri.

Spero solo di averle lasciato un bel ricordo e che, alla fine, Annabelle trovi invece un uomo tanto intelligente e devoto da seguirla nella sua missione e sposarla.

Le suole dei miei stivali fanno rumore sul fondo sabbioso mentre mi avvio verso l'uscita della tenda e mi volto a guardare la sua schiena ancora una volta. La immagino che finge di dormire. Forse sta piangendo, ma se mi fermo a consolarla o parlarle so che le farei ancora più male, così rispetto la sua muta decisione e mormoro un addio appena percettibile prima di andarmene.

Fuori, il sole africano splende e scalda già con tutta la sua forza.
 
- §-
 
Il capo tribù Abasi mi viene incontro per salutarmi e regalarmi delle provviste da portare in viaggio: si tratta soprattutto di noci di cocco, però vedo nella cesta anche del mais e alcune piante di piretro, che dovrebbero proteggermi dagli insetti e dalle zanzare.

Ma il regalo più grande consiste in una coppia di bellissimi dromedari.

"Non posso accettare!", protesto scuotendo la testa e cercando di utilizzare la lingua locale per farmi capire meglio.

Ma Abasi insiste e fa ampi gesti verso i due animali. Poupee, sulla mia spalla, emette dei gridolini in risposta, come se volesse convincermi a sua volta ad accettare.

"Hai molta strada da fare prima di arrivare al porto di Alessandria", dice con veemenza. Non ha tutti i torti, devo attraversare almeno altri due Stati dopo essere uscito dai confini del Kenya e non sono sicuro di trovare animali o mezzi adeguati, anche se la mia intenzione è quella di risalire il Nilo. Potrei viaggiare per mesi solo nel tentativo di raggiungere le coste.

"So quanto siano rari i dromedari qui, me ne basta uno solo. Lo lascerò riposare a giorni alterni", cerco di patteggiare.

Il capo tribù continua a scuotere la testa: "Puoi rivenderli se trovi un carovaniere poco prima del Nilo Bianco".

Dietro di lui ci sono anche gli altri membri della tribù che, vedendomi con la sacca in spalla, si stanno avvicinando, uscendo man mano dalle loro capanne, di certo per salutarmi. Conosco quasi ognuno di loro, compresi i bambini che ho contribuito a visitare con l'aiuto di Annabelle e di un medico volontario.

Mi dispiace lasciarli, mi ero davvero affezionato a tutti, ma sento l'impellente necessità di tornare in America quanto prima. Forse un giorno tornerò. Magari non ci sarà nessuna guerra e tutto si risolverà, oppure la mia presentazione sarà rimandata.

Non so cosa mi riserverà il futuro, però so che non è un addio definitivo.

Alla fine, commosso e grato, accetto il dono che mi fa Abasi e comincio a salutare tutti. All'improvviso, Poupee salta via dalla mia spalla e si getta fra le braccia di uno dei bambini che più le si è affezionato in questo lungo periodo di permanenza.

I saluti si spostano su di lei e io rimango per un attimo a osservare la scena. Un nodo mi si stringe in gola e capisco che sto per prendere una decisione che invece rappresenterà un vero addio.

Ho trovato Poupee nei boschi di Lakewood quando ero ancora un ragazzino, quindi non è proprio un cucciolo, ma una signora anziana almeno quanto la zia Elroy, nonostante la sua vitalità.

"Ehi, Poupee!", la chiamo e lei mi salta in braccio, abbandonando i membri della tribù con una velocità sorprendente. Le accarezzo il pelo e guardo il musetto mentre le parlo: "Vuoi rimanere qui con loro?".

Come sempre, sembra capirmi e ancora dopo tanti anni resto impressionato dalla sua intelligenza, che è paragonabile solo a quella di certi primati. Annusa l'aria davanti al mio viso, sfiorandomi il naso con il suo, poi mi lecca la guancia come per salutarmi. In un impeto di emozione, me la stringo al petto.
"Addio, amica mia. Grazie per essermi stata accanto fino ad oggi. Sii felice", le mormoro con voce arrochita, posandole un bacio sulla testolina.

Lei mi riserva un ultimo squittio e salta di nuovo in mezzo al gruppetto di bambini che l'accolgono con gioia. Mi basta vederli così felici per essere definitivamente sicuro di aver preso la decisione giusta.

"Non ti mancherà il tuo animale?", mi domanda Abasi accostandosi un poco a me.

"Sì, ma so che starà bene con voi. Mi darete sue notizie?". So che il capo tribù è un uomo abbastanza moderno, che se necessario è in grado di recarsi in paese per telegrafare. In pratica gli sto chiedendo di avvisarmi su come saranno gli ultimi anni della sua vita e la vista mi si appanna.

"Certo che lo farò, signor Albert. Ti prego, avvisa anche tu quando sei a casa sano e salvo", mi prega lui. "Non sapremo mai ringraziarti abbastanza per quello che hai fatto per noi".

Prendo un respiro profondo prima di parlare: "Sono io che ringrazio voi per avermi accolto con tanto calore e fatto sentire utile, nel mio piccolo. Qui ho imparato valori che dubito ritroverò in America. Mi state donando più di quanto meriti", concludo accennando alle provviste che tengo in mano e ai dromedari.

Lui scuote la testa e sorride. Un sorriso sincero, pieno di sole come quello che picchia implacabile sulle nostre teste.

Sistemo la cesta con la frutta e il mais sulla groppa di uno dei dromedari e ne afferro le briglie prima di montare sull'altro. Il gruppo ora è più numeroso e tante mani si agitano per salutarmi.

L'ultima immagine che colgo, prima di allontanarmi, è quella di un bambino, guarito per miracolo da una polmonite circa due mesi fa, che accarezza con amore la mia piccola Poupee.
 
- §-
 
Man mano che mi addentro nella Rift di Gregory riesco ad assistere allo spettacolo dei geyser, rimanendone affascinato come la prima volta che li vidi, al mio arrivo. In più di un'occasione mi sono fermato ad ammirare la colonna di acqua e vapore che s'innalza imponente fino a svariati metri, spruzzando goccioline e creando piccoli arcobaleni.

Ed è stato proprio in una di queste occasioni che ho allungato la mano sulla mia spalla per esclamare: "Guarda, Poupee! Non ti sembra...?". La mia voce si è affievolita e il sorriso è scomparso dal mio volto, mentre con un sospiro mi sono dato dello stupido sentimentale.

Non è facile abituarmi a stare senza la mia piccola amica, dopo tanti anni insieme. Ma mi abituerò, come ho imparato a farlo per tante altre cose, nella mia vita: d'altronde, Poupee è felice e con lei tutti gli abitanti del villaggio.

Mentre procedo, mi rendo conto che l'unico lato negativo di queste zone è che mi sono lasciato alle spalle il fiume Tana e l'acqua dolce da queste parti scarseggia, specie perché quella della maggior parte dei laghi, qui, è salata.

So che però, se mi avvicino ai Monti Mau, troverò fiumi e laghi di acqua dolce e il Turkana mi accompagnerà almeno fino al confine. Ora la vegetazione non è molto rigogliosa, ma i dromedari trovano abbastanza cibo e io ho ancora le mie scorte, per cui è tutto sotto controllo.

Mentre accatasto della legna per accendere il fuoco in una vallata che pare abbastanza sicura, mi rendo conto di quanto sia in errore. Avevo visto il branco di leoni prendere il sole, ore fa, molto lontano da qui, e solo ora mi accorgo che una leonessa ha avuto la mia stessa idea sull'ospitalità di questa piccola radura.

Esce dal nascondiglio, una specie di buca naturale creata da un affossamento del terreno, e mi fissa con i suoi occhi felini. La guardo affascinato e per nulla spaventato, posando uno dei grossi ceppi che tengo in mano con gesti lenti e calcolati.

Cercando di non incontrare in maniera diretta i suoi occhi, mi ritrovo a sorriderle e a parlarle: "Fammi indovinare: sei qui con i tuoi cuccioli appena nati nascosti da qualche parte e io sono venuto a romperti le uova nel paniere, dico bene?".

La sua bocca si arriccia in una specie di ringhio basso che mi ricorda il miagolio di un grosso gatto e capisco che è il suo modo di avvertirmi: "Sì, e ti consiglio di sparire prima che decida di farti diventare la mia cena". I suoi denti aguzzi scintillano come perle sporche contro i raggi del sole morente.

Naturalmente la leonessa non può aver capito quello che ho detto, ma di certo ha compreso che mi stavo stabilendo qui vicino e la cosa non le va a genio.
Sospiro, rassegnato a lasciare alla mia ospite felina tutto lo spazio di cui necessita, anche se sono piuttosto stanco e dovrò allontanarmi con il buio, che ormai è imminente. Lei abbassa il muso e quello che vedo mi fa capire che non sto rischiando di essere attaccato, almeno non nell'immediato: tra i denti, stringe i resti di quello che sembra uno gnu. Le zampe sono tese come bastoni e, mentre lo trascina cominciando a voltarsi, vedo una scia di sangue disegnarsi sul terreno colando dal collo squarciato.

Non è la prima volta che osservo scene del genere e non mi impressiono più di tanto.

"Buon appetito, allora", la saluto accennando ad andarmene. Una parte di me vorrebbe seguirla e vederla allattare i piccoli mentre consuma la sua cena, ma so che non mi lascerebbe neanche avvicinare alla tana, così come non lascerà avvicinare altri maschi della sua specie per timore che possano uccidere i cuccioli.

Cammino per più di un miglio a est da qui tenendo i dromedari per le briglie e mi adopero per accendere il fuoco prima di mangiare qualcosa e infilarmi nel sacco a pelo per la notte.

Mentre sto per chiudere gli occhi, sopraffatto dalla stanchezza, noto alla mia destra una fila di animali con delle lunghe corna muoversi alla luce della luna. Sono solo ombre lontane, molto di più di quanto mi si sia avvicinata la leonessa solo un paio d'ore fa. Alcune sembrano più piccole e mi ritrovo a immaginare che possano essere giovani gnu cui la leonessa abbia appena ucciso il padre o la madre, oppure solo un membro del branco.
 
- §-
 
Mi chino per sciacquarmi il viso cercando di non disturbare i fenicotteri che stanno facendo il loro bagno serale nel lago Turkana, o Rodolfo, come l'hanno ribattezzato due esploratori del secolo scorso per celebrare un principe austro-ungarico. Il fatto che sia stato proprio quel regno, con una dichiarazione di guerra, a scatenare tutto questo caos che mi sta facendo letteralmente fuggire dall'Africa mi porta a fissare quest'acqua un po' salata che scorre fra le mie dita come se potessi trovarvi delle risposte.

Perché gli uomini si ostinano a combattere e uccidersi, fin dalla notte dei tempi? A volte mi sembra una domanda ingenua, altre mi sembra il quesito più intelligente che un essere umano possa porsi su questa Terra.

Mi alzo in piedi, deciso a tornare in tenda a bollire dell'acqua dolce che ho raccolto dall'ultima pozza che ho incontrato per renderla potabile e mi ritrovo a desiderare di immergermi per fare un bagno. Scruto la superficie del lago, osservando gli uccelli rosa che appaiono tranquilli, e quasi comincio a spogliarmi, ma quelli volano via di colpo in un frusciare d'ali.

Riabbasso le braccia con cui mi stavo sfilando la maglietta alzando lo sguardo verso di loro, poi osservo ancora il pelo dell'acqua. Non vedo sagome di coccodrilli, ma come posso avere la certezza che uno di loro non si sia avvicinato di soppiatto per poi andarsene?
E se capita a me, di certo non ho ali per scappare così velocemente. No, direi che il mio bagno può aspettare, anche se non profumo certo di fiori dopo la lunga traversata di oggi. Torno in tenda e prendo il necessario per accendere il fuoco poco lontano, creando una specie di cerchio scavato nel terreno per impedire alle fiamme di fuggire e attecchire dove non dovrebbero. 

Nell'ultimo villaggio che ho incontrato, questo pomeriggio, mi hanno donato della carne di gnu appena cacciata e, dopo essermi accertato che fosse davvero fresca, ho ringraziato di cuore. D'altronde, aiutare queste genti a costruire capanne o a fare qualsiasi altro lavoro sia necessario rappresenta l'unico modo che ho per approvvigionarmi.

Ho provato a cacciare un paio di volte, ma la verità è che odio uccidere gli animali, è qualcosa che va oltre la mia natura. Preferisco nutrirmi con i frutti offerti dalla terra come grano, frutta o riso, anche se non sono vegetariano e se posso mi metto a pescare senza problemi.

Scuoto la testa mentre guardo le lingue di fuoco prendere vita, sorridendo della mia palese contraddizione: se a Chicago mi presentano della carne la mangio di gusto, ma se devo guardare negli occhi un animale intrappolato e poi ucciderlo mi attanagliano disgusto e senso di colpa.

Un boato lontano mi indica che un branco di elefanti è in avvicinamento e guardo all'orizzonte per capire da quale direzione provengano. Costeggiano il lago sul lato opposto e sembrano diretti verso nord.

Chiudo gli occhi e ripercorro con la mente la mappa che ho consultato solo un'ora fa: se voglio affrettarmi, devo deviare un poco verso ovest per cercare di varcare il confine con il Sudan, anche se suppongo che mi possa accadere di sconfinare fino in Etiopia per qualche miglio.

Sto cercando di seguire percorsi battuti, dove possa trovare accampamenti abitati da qualcuno e acqua. Soprattutto acqua. Eppure, la fretta di giungere fino ad Alessandria diventa sempre più urgente: nonostante le notizie che riesco a raccogliere sulla situazione europea siano frammentarie e imprecise, non posso fare a meno di pensare che dovrò ancora attraversare l'Italia e la Francia, prima di imbarcarmi per l'Inghilterra e da lì procedere fino in America. A meno di non trovare una nave che parta direttamente dalle coste francesi.

All'andata ci ho messo quasi tre mesi, prima di potermi inoltrare nelle savane africane, ma me la sono anche presa comoda godendomi il viaggio a ritmo non troppo sostenuto.

Ora devo sbrigarmi, o non potrò...

"...vedere Candy che ha deciso di frequentare la scuola per infermiere", concludo in un sussurro, mentre un barrito lontano sembra sottolineare la mia frase.

Pensavo che sarei rimasto qui molto più a lungo, a volte ho sognato che fosse per sempre. D'altronde, lei era inarrivabile e io volevo solo vivere come mi piaceva. Ho accarezzato a lungo il desiderio di stabilirmi in Africa rinunciando al mio nome, anche a costo di ricevere le maledizioni del clan e soprattutto di zia Elroy, fino in Kenya o ovunque fossi arrivato. E sapevo che altri membri molto più anziani di me sarebbero stati ben lieti di prendere il mio posto, se i Cornwell non si fossero fatti avanti.

Ma questa maledetta guerriglia che preoccupa il continente non mi ha fatto titubare un attimo sulla necessità di tornare a casa prima che fosse tardi. Continuo a ripetermi, come il giorno in cui sono partito dal villaggio, che lo sto facendo per la mia famiglia e non solo per vedere Candy.
Però il mio cuore non riesce a mentire e l'uomo che è in me mi ha gridato, forte e chiaro più volte, che non sarei mai potuto davvero stabilirmi qui senza tornare almeno qualche volta.

Per vederla diplomarsi, se quella fosse stata sul serio la sua strada. Per vederla sposarsi... forse proprio con Terence e magari accompagnarla all'altare come suo tutore.

Questo pensiero spegne di nuovo il mio sorriso e mi rendo conto che, anche se non scoppierà davvero una guerra così pericolosa, mi attenderà comunque qualcosa di simile nella mia vita.
 
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Negli anni ne ho provate tante di esperienze uniche, specie in questi ultimi mesi in Africa. Ma fare una doccia sotto la pioggia del Sudan mi mancava. Mi sono reso conto che sarebbe venuto a piovere poche ore dopo aver lasciato l'accampamento dove mi sono fermato per un paio di giorni a rifornirmi di provviste e far riposare i dromedari, così ho avuto un'idea.

Ho cercato di mettere al riparo sotto al telo della tenda non ancora montata la mia sacca e il cibo, come fosse un grande impermeabile, quindi ho predisposto alcuni contenitori per raccogliere altra acqua e mi sono semplicemente spogliato dopo essermi accertato che intorno non ci fosse nessuno.

William Albert Arlday, nudo come un verme con i piedi affondati nella sabbia del deserto: penso che persino Georges sgranerebbe gli occhi per l'incredulità e l'indignazione, se mi vedesse ora.

Ma la sensazione di stare sotto una doccia gigante offerta dalla natura è stata così elettrizzante e impagabile che ho alzato il viso al cielo e ho cominciato e ridere di cuore, come un ragazzino che si stia divertendo un mondo.

Ripensandoci ora, mentre ormai indosso vestiti asciutti, è stato un bene che il fenomeno non sia durato molto, o avrei rischiato di rimanere bagnato davvero troppo a lungo.

Ora però l'umidità è diventata insopportabile e, come mi aspettavo, sto ricominciando a sudare e bere più spesso. Voglio stare attento alle scorte d'acqua perché qui ne ho in abbondanza, ma una volta arrivato più a nord la siccità potrebbe crearmi qualche noia.
 
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Ero convinto che il mio maggior problema sarebbe stato attraversare le zone paludose dove il tasso di umidità mi avrebbe portato a bere di più, invece mi sto rendendo conto che ho sottovalutato le zanzare. Sto cercando di ripetere tutti i gesti preventivi che ho fatto anche all'andata, ma sembrano più aggressive del solito e non c'è piretro o zanzariera che tenga.

Stamattina mi sono svegliato avvolto proprio nella zanzariera come fosse un lenzuolo e mi sono ritrovato con una decina di punture sulla fronte, sulle tempie e persino sulle palpebre: basta offrire un millimetro di pelle scoperta e queste succhiasangue si mettono a banchettare senza essere mai sazie.
Nonostante il fastidio, ridacchio pensando che sarebbe molto peggio se fossi pelato, allora sì che sarebbero... grattacapi! Sono alcuni giorni che non mi rado perché appena mi avvicino a uno specchio d'acqua arrivano orde di questi insetti e l'altra sera ho visto di nuovo i coccodrilli.

Avevo un piccolo specchio ma l'ho perso, quindi rimanderò l'operazione a quando troverò un po' di civiltà dalla quale rifornirmi. Il grosso guaio è che il prurito mi sta facendo davvero impazzire.

Le punture di zanzara, la barba che ricresce... mi sembra di avere un'orticaria perenne in ogni angolo del corpo. L'altro ieri mi sono grattato tanto la schiena che ho trovato del sangue secco sotto le unghie: devo davvero sbrigarmi ad abbandonare questi luoghi prima di perdere il senno.
E prima di fare incontri ben più sgradevoli con qualche mosca tse tse: mi manca solo di beccarmi la malattia del sonno!

Salgo sul dromedario avendo cura di essere coperto almeno fino al collo, poi ci ripenso e uso un lungo foulard per avvolgermi anche la faccia. Infilo gli occhiali scuri ma so che le zanzare penetreranno dove possono: mi stanno già massacrando le mani.

Il caldo e l'umidità, bardato così, mi asfissiano e mi trovo nell'impasse di dovermi scoprire un poco per non svenire, ma di dare così a queste molestatrici più possibilità. Cerco anche di dominare la sete causata dal fatto di sudare così tanto.

Tutto questo va avanti da troppo tempo e comincio davvero a perdere la pazienza: ho incontrato leoni, elefanti, coccodrilli e persino una mandria di gnu, ma nessun animale potenzialmente letale mi ha mai causato tanto fastidio.

In alcuni momenti, vorrei urlare per la frustrazione, ma non sono tipo da perdere la calma per così poco. All'ennesima palude smonto dal dromedario e mi tolgo la maglietta zuppa di sudore, prendo del fango e me lo spalmo sul torace e sulle braccia come fanno col proprio corpo gli elefanti o gli ippopotami: la sensazione di fresco è immediata e riesco a tenere lontane le zanzare per quasi un minuto intero prima che ricomincino a ronzarmi nelle orecchie con quel suono che ho imparato a odiare.

Prendo altro fango e me lo metto sul viso e persino tra i capelli, quindi riprendo il viaggio imprecando contro gli insetti più inutili del mondo. Amo la natura e tutti gli animali del creato, ma le zanzare devono essere frutto di un errore nell'evoluzione.
 
- §-
 
La vegetazione è sempre più scarsa a mano a mano che mi inoltro nella zona nord del Paese, dove tutto appare più arido: quando arrivo a Rabak decido che è ora di cominciare a navigare sul Nilo, così scambio i miei dromedari per delle provviste e un po' di soldi, necessari per affittare una feluca.

C'è qualcosa di magico nel navigare su questo fiume che si snoda per miglia e il movimento costante di questa piccola imbarcazione a vela rende tutto più affascinante. La prima sera ho chiesto di poter dormire a bordo e l'equipaggio e i pochi passeggeri mi hanno guardato come se fossi impazzito.
All'andata non l'ho fatto ed era un'esperienza che volevo provare.

La mattina dopo ero in un bagno di sudore e, tanto per cambiare, le zanzare avevano banchettato con me. Il mio orgoglio ha accusato il colpo quando gli altri mi hanno raggiunto e hanno scoperto la mia notte insonne.

"All'interno è più fresco e anche sicuro, qui c'è troppa umidità", mi ha detto uno dei rematori indicando la sponda, usando la sua lingua madre che ho compreso più che altro per i gesti eloquenti, visto che era un dialetto piuttosto diverso da quello masai.

"Già, me ne sono accorto", ho ribattuto ripetendomi che mi meritavo tutte le loro risatine più o meno discrete.

Ormai siamo nei pressi di Khartoum, dove ho intenzione di unirmi a una carovana per evitare le due grandi anse del Nilo che renderebbero il viaggio molto più lungo. Dovremo tagliare per il deserto, ma sono fiducioso: non voglio che il cammino duri più del dovuto e sono disposto a trasformarmi in un tuareg per arrivare quanto prima al porto.

L'unica carovana in cui m'imbatto non è molto numerosa e questa tribù parla un dialetto che non ho mai sentito, quindi la comunicazione è abbastanza difficile. Ho sempre sostenuto che non bisogna mai giudicare nessuno dalle apparenze, ma a dirla tutta questi uomini mi ispirano poca fiducia: forse per il loro numero ridotto, o forse per gli sguardi indagatori su uno straniero come me, eppure sono una scelta obbligata se non voglio stare qui ad attendere di meglio.

L'intento è quello di arrivare almeno fino ad Al Ghabah evitando le anse e le cateratte del corso del fiume percorrendo una linea retta.

La vita nel deserto non è facile, anche se ormai ci ho fatto l'abitudine. Per evitare il sole cocente abbiamo deciso di avanzare durante le ore serali e parte della notte: i primi tempi è stato complicato, perché si è trattato di invertire le abitudini vivendo quasi come vampiri, ma ora le cose sono più semplici.

Sono tentato di fare a modo mio e ricominciare la marcia più velocemente ma sarebbe una specie di suicidio avanzare da solo: nonostante non sia mai stato una persona fatalista, sento comunque la necessità di accelerare il passo. Non riesco a non pensare che la guerra potrebbe bloccarmi in qualunque momento e io non ho notizie da settimane, visto che mi trovo in mezzo al nulla.

Cerco di non pensarci e mi concentro su questo cielo trapuntato di stelle che ci domina e illumina il nostro cammino. Resto incantato come sempre dalla sua magnificenza, è uno di quegli spettacoli che più mi mancherà dell'Africa: qui non ci sono alberi e montagne che ne nascondono una parte, è come se tutto il firmamento fosse sopra la mia testa e ovunque guardi ne sia circondato.

Ma tu... vieni dallo spazio?   

La voce di una Candy bambina mi fa sorridere d'improvviso. Il ricordo è così vivido che mi pare quasi di sentire il profumo dell'erba fresca lì, sulla Collina di Pony. Chissà che faccia farebbe se sapesse, se solo sapesse...

Una voce concitata, proveniente da un uomo che si trova quasi a capo della carovana, interrompe in modo brusco quei ricordi così dolci. Lo vedo gesticolare e altri si accodano alle sue urla, indicando l'orizzonte, così scruto nella medesima direzione.

All'inizio non mi sembra di vedere nulla di anomalo, poi li noto anche io: sembrano membri di una seconda carovana ma si aggirano in modo disordinato a una certa distanza da noi, come se ci spiassero.

Non ho bisogno di capire cosa stiano dicendo i miei compagni di viaggio, mentre tiro piano le briglie per rallentare.

Potrebbero essere predoni e l'attenzione, da qui in poi, dovrà essere massima.
 
- §-
 
Alla fine, nonostante tutte le accortezze e i turni per dormire, di certo grazie anche al numero esiguo di uomini, i predoni ci hanno derubati.

C'erano un paio di noi che dovevano rimanere svegli a fare la guardia, invece a quanto pare si sono addormentati e ci hanno portato via quasi tutte le provviste e la maggior parte dei dromedari. Quando sono uscito dalla tenda, verso sera, e ho visto i membri della carovana discutere in maniera animata ho compreso immediatamente ciò che era accaduto e ho fatto un sospiro frustrato.

Forse, dopotutto, la mia prima impressione era corretta.

E non ci voleva, dannazione! Tutto questo è molto pericoloso perché, nonostante siamo non troppo lontani da Al Ghabah, ci troviamo ancora nel pieno del deserto e i nostri unici punti di riferimento sono le bussole, le stelle e il sole.

Ma il problema peggiore è l'acqua: centellinarla per tutti potrebbe creare problemi e tensioni non indifferenti e, naturalmente, i predoni ci hanno portato via anche quella.

Come sempre, cerco di concentrarmi sul cammino, ora più lento perché molti di noi sono rimasti a piedi e anche di notte la fatica è triplicata.

Mentre avanziamo nell'ennesima notte stellata sento un urlo straziante dietro di me.
Parole concitate e incomprensibili mi fanno imitare gli altri e avvicinarmi al capannello di persone nella parte posteriore della carovana. Vedo un uomo gridare e illuminare con la torcia un serpente che sta zigzagando sinuoso tra le dune.

Il sangue mi si gela nelle vene.

Le grida continuano e individuo subito l'uomo che è stato morso. Il che è tragicamente inopportuno perché, se la vista non mi ha ingannato, il rettile somigliava tanto a una vipera delle Piramidi. Siamo lontani chissà quanto dal primo villaggio attrezzato, figuriamoci da un vero ospedale ed è notte.
Deglutisco con difficoltà, e mentre qualcuno si premura di avvicinarsi con le proprie torce per fare più luce, mi avvicino con cautela. Il poveretto si lamenta in modo pietoso ed è seduto a terra, una gamba tesa che un altro sta cercando di pulire con degli stracci. Un terzo membro della carovana si china su e si appresta a fare qualcosa che mi fa reagire senza più pensare.

Capisco che qui la medicina sia molto indietro rispetto alle grandi città, ma non posso lasciargli fare una cosa inutile e persino pericolosa. Mi precipito accanto a lui e lo scosto prima che possa portare la bocca a contatto con il sangue infetto dal veleno: "No! Non è la maniera corretta!", esclamo rimediando una spinta.

Sono inginocchiato accanto al ferito e basta quella pressione per sbilanciarmi ma, prima che possa cadere, l'altro mi afferra sotto le ascelle e mi tira su sferrandomi un pugno che schivo all'ultimo momento. Dannazione, non so come farmi capire! Provo a spiegare che ho lavorato in una condotta medica nella lingua masai, ma continuano a blaterare e spintonarmi.

Di sicuro, se prima mi guardavano con un certo distacco, ora devo essermi appena attirato la loro diffidenza eterna.

Non amo alzare la voce, né essere violento, però se non comprendono la mia lingua devo usare quella del corpo per farmi capire. Diffidenti o meno dovranno ascoltarmi se vogliono dare una possibilità di sopravvivenza al loro compagno: "Non si succhia il veleno da una ferita! Va fasciata e immobilizzata!", dico a voce alta, gesticolando nel tentativo di indicare la gamba del ferito e muovendo le mani in aria per simulare un nodo.

Finalmente mi pare di attirare la loro attenzione, così mi adopero per cercare quello che mi serve, mentre il poveretto continua a gemere di dolore. Forse la mia determinazione è servita a scuoterli e darmi fiducia.

Cerco dei fazzoletti più puliti frugando nella mia sacca. Li trovo e chiedo agli altri di farmi spazio, piegandomi di nuovo sul ferito.

Non abbiamo disinfettante e non possiamo usare l'acqua potabile per lavarci, così ripiego il fazzoletto quasi nuovo senza toccare con le mani la parte che andrà a contatto con la ferita e ve lo appoggio con fermezza. Quindi comincio a fare una fasciatura piuttosto stretta partendo dalla caviglia e risalendo fin dove la lunghezza me lo consente.

Il pover'uomo, però, si agita tanto che devo ricominciare un paio di volte, così mi rivolgo agli altri due che sono d'improvviso ammutoliti e mi guardano restando in piedi: "Aiutatemi a tenerlo fermo!", ordino in tono più duro di quello che vorrei, facendo il gesto di bloccargli un piede perché capiscano meglio.
L'effetto è immediato e si chinano ai due lati per tenergli fermi la gamba e le braccia. Il sudore e la sabbia mi entrano negli occhi mentre procedo, concentrandomi sul mio compito e cercando di ignorare i suoi mugugni di dolore.

Quando ho finito, mi passo il braccio sulla fronte con un sospiro e mi lascio cadere seduto. I lamenti non cessano e gli altri due cominciano a parlottare tra loro.

Le mie poche conoscenze sono sufficienti perché io comprenda che, a meno che non accada un miracolo, quest'uomo senza cure rischia di morire. Di certo lo hanno capito anche loro e magari è proprio quello che stanno dicendo.

D'improvviso mi rendo conto che c'è un'unica soluzione: qualcuno deve andare avanti portando con sé il ferito, ciò significa che la carovana dovrà dividersi. Sto per suggerirlo, preparandomi a farmi capire in ogni modo possibile, quando mi accorgo che stanno già prendendo proprio questa decisione.

Caricano l'uomo su un dromedario e un paio di suoi compagni prendono altri due animali mettendosi ai lati per tentare di tenerlo fermo mentre si muovono al suo fianco: non sarà affatto facile, perché il dolore dovuto alle emorragie interne a breve sarà insopportabile e forse si contorcerà rischiando di cadere.
Nel silenzio della notte africana, vediamo il trio allontanarsi con le grida del ferito come unico, inquietante suono. Anche quando sono troppo lontani per scorgerli, mi pare di udirle ancora.
 
- §-
 
La canicola è insopportabile e un paio di uomini della carovana sono venuti alle mani per via dell'acqua: le scorte sono quasi finite e per muoverci in maniera più rapida abbiamo cominciato a viaggiare anche di giorno, fermandoci solo nelle ore più calde.

Anche il cibo scarseggia e le energie sono diminuite per tutti così, nonostante un maggior numero di ore di cammino, abbiamo comunque rallentato. Io cerco di non lamentarmi e accontentarmi delle razioni che mi riservano, ma comincio ad avvertire i morsi della fame, per non nominare la sete che pare consumarmi come una febbre.

Nel paesaggio piatto fatto solo di dune che sembrano sfrigolare al sole, individuo una sagoma proprio davanti a noi. Bastano pochi passi per capire che si tratta degli uomini che un paio di giorni fa si sono allontanati con il ferito. L'uomo non è più con loro e il terzo dromedario giace morto su un fianco, forse sfiancato dalla corsa e dalla fame.

Chiudo gli occhi, frustrato, chiedendomi se almeno abbiano dato degna sepoltura al poveretto. Sono talmente stanco che non mi accorgo del colpo finché non mi arriva, forte e deciso sulla guancia.

Cado a terra di peso, portandomi la mano alla parte lesa in un gesto istintivo e incontro gli occhi scuri del membro della carovana che mi ha colpito: il suo ghigno lascia scoperti i denti e mi sembra di rivedere la leonessa che ho incontrato in Kenya qualche settimana fa.

Mi urla parole incomprensibili, indica dietro di sé e il suo compagno si avvicina, minaccioso: davvero devo mettermi a fare a pugni in mezzo al deserto con questo caldo? E per quale motivo, poi? Mi stanno forse incolpando di aver contribuito a far morire il loro amico?

Cerco di concentrarmi sulle parole e scopro che, nel loro dialetto, la parola 'veleno' si pronuncia come in quello masai. Per me è la conferma che ho ragione: secondo loro, se li avessi lasciati succhiare via il veleno, il loro compagno sarebbe ancora vivo.

Potrei spiegare che si sbagliano, che forse ho persino salvato anche le loro, di vite. Se avessero avuto una ferita in bocca avrebbero potuto rimanere avvelenati a loro volta e di certo non avrebbero impedito a quello inoculato dal serpente di agire.

Ma sono così furiosi che posso solo difendermi senza sprecare fiato. Sono lontani i tempi in cui Terence è stato aggredito da un gruppo di ubriachi a Londra: allora, la mia forza fisica non aveva risentito di una marcia forzata nel deserto con acqua e cibo razionati.

Per mia fortuna, anche i loro colpi sono lenti e imprecisi e gli altri non sembrano intenzionati a partecipare, forse anche loro sono sfiniti. Più che colpire, cerco di evitare i pugni e uno di loro cade sotto il suo stesso slancio dopo che mi sono spostato.

Sospiro, scuotendo la testa: "Non serve a niente tutto questo, adesso", dico in tono calmo, sperando che almeno colgano l'inflessione tranquilla della mia voce.

Alla mia destra, un uomo grida una parola che ho imparato a riconoscere dopo tanti giorni: "Attenzione!".  

Sono sempre stato ottimista di natura. Eppure, quando in lontananza vedo un gran polverone che sembra sollevato da una mandria di bufali inferociti, quasi mi preparo per spostarmi assieme agli altri per non esserne travolto quando appariranno.

Gli altri cominciano a parlare ad alta voce e a muoversi in maniera scomposta come in cerca di un rifugio.

Allora capisco.

Capisco che quelli non sono bufali perché siamo in pieno deserto, ben lontani dalle savane, bensì una tempesta di sabbia in piena regola dalla quale non sappiamo come proteggerci. Imitando gli altri e secondo quello che ho imparato, mi affretto ad avvolgermi il foulard su tutto il viso e indosso anche gli occhiali scuri che ho nella sacca.

Mi domando, confuso, come faranno i dromedari e rimango impietrito quando vedo che li stanno disponendo in cerchio, raccogliendosi all'interno di quella specie di muro improvvisato. Senza dare loro tempo di discutere, mi aggrego anche io mentre i primi venti sabbiosi cominciano a colpire ferendomi gli occhi nonostante gli occhiali.

Il tempo diventa relativo. Anche se i dromedari sono uno scudo inaspettatamente efficace, il boato del vento copre il mio mondo e non mi azzardo nemmeno ad aprire gli occhi. D'improvviso, nonostante l'emergenza, rannicchiato come sono su me stesso, avverto la stanchezza invadermi le membra.

Non so bene se sto perdendo i sensi o mi sto solo addormentando.
 
- §-
 
Continuo a camminare verso quell'orizzonte dove il fiume mi attende, con il suo refrigerio e la promessa di un insediamento dove potrò finalmente trovare acqua e cibo. Soprattutto acqua.

Ma, nonostante cammini o, meglio, mi trascini ormai da ore, la distanza sembra sempre la stessa. La mia mente è sempre più annebbiata e continuo a domandarmi quando le cose hanno cominciato ad andare storte.

Ricordo l'inizio della tempesta di sabbia e la sensazione di esaurimento fisico che doveva essere colpa della disidratazione. Devo essere svenuto mentre la mano implacabile del vento penetrava in quella sorta di nicchia offerta dai dromedari.

Quando mi sono svegliato pensavo di essere stato sepolto vivo: sentivo la sabbia in bocca, nelle narici e persino nelle orecchie e ho tossito a lungo fino a vomitare prima di riuscire a respirare in maniera normale.

Mi sono guardato attorno, attonito, e mi sono reso conto di essere solo.

Quegli sciagurati mi hanno abbandonato nel deserto senza altro che i miei vestiti e la sacca da viaggio. Ho subito frugato dentro, notando con orrore che avevo pochissima acqua e delle fave secche. Oltre alla mia indispensabile bussola.

Nonostante il momento tragico, ho sentito una risatina nervosa salirmi alle labbra: pensano davvero che con questo banchetto, una bussola e pochi altri oggetti sopravvivrò a lungo?

Ho scosso la testa, lasciandomi cadere in ginocchio. È evidente che mi vogliono riservare lo stesso destino che ha avuto il loro compagno morso da una vipera, anche se io non morirò avvelenato, ma di sete ancor prima che di fame.

E ormai non li sento neanche più i morsi della fame. Però sto per morire di sete, e non in senso figurato: sono almeno due giorni che ho terminato la poca acqua che avevo. So che, per trattenere al massimo le scorte dell'organismo, camminare sotto la canicola è la cosa peggiore che possa fare, ma non posso fermarmi perché ogni miglio percorso può portarmi più vicino alla meta.

Se mi fermo rischio di morire. Se cammino accelero il processo. Ironico, no?

Resistendo all'impulso irrazionale di sfilarmi gli stivali e strapparmi i vestiti di dosso per diminuire il senso di caldo soffocante, cerco invece di concentrarmi su ricordi gradevoli, mentre mi rendo d'improvviso conto che il fiume che vedo in lontananza non è che un dannato miraggio.

La mia casa nei boschi di Lakewood, con gli animali che mi accolgono ogni volta che vi entro. Il sorriso di Candy. La pelle profumata di Annabelle che si stringe a me offrendomi la morbidezza dei suoi seni. L'ultima carezza a Poupee prima di lasciarla in Kenya.

Amica mia, ancora oggi mi capita di alzare la mano sulla spalla per toccarti, ma incontro solo il vuoto.

Inghiotto le lacrime perché piangere significherebbe disidratarmi ancora di più: d'altronde ho imparato a non farlo per anni. Ma il mio corpo minato da giorni di arsura non ha più il controllo dei movimenti, né delle emozioni.

Un passo, un altro passo, la sabbia mi è penetrata fin dentro la camicia e decido di usare la giacca come parasole per non prendere un'insolazione. Avrei dovuto pensarci ore fa! Ieri, forse. Ora, di certo, brucio già di febbre. E meno male che non ho davvero tolto i vestiti altrimenti sarei già ustionato.

Una forma sinuosa saetta verso di me sulla sabbia e riconosco un serpente. Un'altra vipera? Un aspide? Non lo so, ma devio per evitare di essere morso e spero di non svenire mai qui in mezzo perché diventerei con facilità vittima del veleno di serpenti e scorpioni, avverando questa sorta di contrappasso ingiusto che mi hanno riservato.

E, forse, cibo per le iene.

Ho tagliato tutti i collegamenti con Georges perché volevo mettermi alla prova e ci sono riuscito fino ad oggi: ho superato tutti i miei timori e insicurezze ma mi è bastato commettere un errore per cacciarmi in guai seri.

Se non trovo dell'acqua entro oggi, gli Ardlay rimarranno senza patriarca e forse non troveranno mai nemmeno il mio corpo.

Alzo il volto verso il cielo, dove il sole implacabile sembra una palla infuocata e quasi mi aspetto di vedere gli avvoltoi che mi svolazzano intorno. Mi gira la testa e con un verso strozzato mi accascio sulla sabbia rovente, lamentandomi di dolore quando viene a contatto con la bocca e il mento.

Cerco di tirarmi in piedi prima di perdere i sensi e mi guardo ancora una volta attorno per tentare di individuare una fonte d'acqua qualsiasi: una pianta, un sasso umido. Ma qui non piove anche per decenni e, a parte la sabbia, non c'è altro.

Senza che io me ne renda conto, i miei pensieri vanno di nuovo a lei: sarà già fidanzata con Terence? Si saranno riuniti dopo la fuga da scuola? L'ho già persa per sempre?

Non è mai stata tua, se non come una protetta, una figlia addirittura.

Scuoto la testa, ridendo di me stesso, cercando di ignorare il dolore alle braccia per la posizione innaturale in cui cammino, con la giacca sopra la testa come una specie di tenda e la sacca stretta in una mano. Mi fermo, confuso: la disidratazione mi sta facendo davvero sragionare.

Muovendomi come un ubriaco che debba concentrarsi, lascio cadere la sacca a terra, posiziono la giacca sul capo come il velo di una suora e faccio due passi prima di rendermi conto che sto lasciando il mio bagaglio. Mi volto imprecando tra i denti e lo recupero, sentendomi davvero come se avessi bevuto troppo.

Bere. Acqua. Acqua...

Ho sentito alcuni indigeni raccontare che, dopo giorni nel deserto, sono stati costretti a bere le loro stesse urine pur di non morire e il mio volto si contrae in una smorfia di disgusto.

Sono certo che non dovrò arrivare a tanto, così come sono certo che difficilmente nel mio corpo ci sia altro liquido se non qualche litro di sangue denso e imbevibile. Oppure si può bere anche quello?

Non posso morire a un passo dalla meta...

Quanto è lontana davvero Al Ghabah? Quando sono partito con la carovana ero certo che, una volta attraversato il deserto, tutto sarebbe stato più facile. Invece il deserto sta diventando la mia tomba.

Un altro miraggio mi fa sbattere le palpebre, che bruciano per il sudore che mi finisce negli occhi. Incredibile che io abbia ancora del sudore, magari è un buon segno.

Eppure, anche se sono certo che sia una pia illusione dettata dalla sete, la pozza mi sembra proprio vera e i miei piedi accelerano prima ancora che io formuli un pensiero coerente.

Come, ad esempio, che quell'acqua possa provocarmi una dissenteria mortale o non sia affatto reale.

La mia faccia affonda nella sabbia e mi penetra nella bocca aperta, secca e rovente, prima che la risputi via disgustato, le labbra in fiamme. Non ho mai sentito di uomini che vedono pozze d'acqua inesistenti, forse sono il primo caso al mondo: devo essere più grave di ciò che temevo se ho addirittura le allucinazioni. Oppure la sabbia che mi è finita negli occhi con la tempesta mi ha parzialmente accecato.

Se l'episodio non fosse così drammatico, riderei di me stesso e della mia idiozia. Semmai dovessi sopravvivere, penso che non avrò neanche il coraggio di raccontarlo.

Non trovo più la giacca, né la sacca dove ci sono il sacco a pelo e qualche altra cosa che non ricordo più. Mi rendo conto che sono steso sulla sabbia e che non mi brucia sulla guancia solo perché sono posizionato su un fianco con un braccio sotto la testa.

Lotto strenuamente per tenere gli occhi aperti ma il sole è troppo forte e mi ferisce la vista. Dopo la mia recente performance sento la lingua secca ed enorme in bocca e il sapore disgustoso simile a quello della terra mi indurrebbe a vomitare di nuovo, ma non ho più neanche la forza di emettere un singulto.

Però ne trovo per sussurrare un nome, con una voce arrochita che non riconosco come mia. Forse, dopotutto, sono davvero giunto alla fine. La zia Elroy mi ucciderà... no, non può farlo di nuovo.

"Candy", gracchio prima che la mia coscienza mi abbandoni.
 
- §-
 
Le voci parlano una lingua che non conosco. Il Paradiso deve essere una specie di Babele, oppure sono in Purgatorio per qualche peccato che ho commesso.

Come fuggire dalle mie responsabilità tagliando i ponti con tutti.

Con sommo affanno, cerco nella mia mente motivi per essere all'Inferno, visto il caldo che sento, ma per quanto mi sforzi non credo di essere stato tanto cattivo nella mia vita.

Ho abbandonato Annabelle.

Mentre mi incolpo e mi scagiono subito dopo, ripetendomi che lei era più che consenziente e sapeva della mia imminente partenza, qualcosa di umido e fresco sulle mie labbra mi fa acuire i sensi e sento un fiotto di adrenalina scorrermi nelle vene.

Capisco così che sono ancora vivo.

E che qualcuno mi sta facendo gocciolare dell'acqua sulla bocca. D'istinto, la apro per averne di più, le palpebre che scattano in alto come tapparelle. Un uomo semi-nudo che tiene in mano ciò che bramo allontana all'improvviso la metà di noce di cocco nella quale è immerso un pezzo di stoffa: forse è con quello che stava facendo cadere le gocce sulle mie labbra.

Con un gesto di rabbia, frustrazione e maleducazione dettati dal bisogno nudo e crudo di bere, gli strappo dalle mani la noce di cocco e scolo il contenuto in un unico sorso. Mentre lui protesta ad alta voce con parole che solo lui e i membri della sua tribù possono comprendere, alfine comprendo anche io.

Ma è troppo tardi.

Il mio stomaco vuoto di acqua e cibo da giorni si ribella, anche se il liquido è potabile: però è davvero troppo tutto in una volta e mi ritrovo con le ginocchia bagnate e la gola che brucia. Disgustato da me stesso e più assetato di prima, mi lascio ricadere sdraiato su quello che sembra un giaciglio di erba secca e rametti.

Non sono mai stato attratto dalle ricchezze materiali, ma al momento darei un braccio per una doccia e una tavola imbandita.

"Ho sete...", imploro sull'orlo delle lacrime. Mi sentivo quasi meglio quando credevo di essere morto: con la coscienza, il mero bisogno fisico di bere sta rischiando di farmi impazzire.

L'uomo sta dicendo qualcosa ad altre persone vicino a lui e sembra concitato. Tra le sue mani scure vedo comparire di nuovo la semisfera che immagino colma di liquido.

Mi lecco le labbra a secco, anelandolo, e lui me lo porge dicendo qualcosa in un modo così accorato che mi sembra davvero di capirlo, stavolta. In realtà so benissimo che ora devo essere più cauto e mi limito a un piccolo sorso.

Mi sembra di assaporare il più dolce dei nettari e non distinguo bene se si tratti di acqua di sorgente o di acqua di cocco, ma so che ogni cellula del mio corpo mi ringrazia profusamente e che mi sento commosso da tanto sollievo.

Contro ogni mio impulso, allontano da me il liquido, perché stavolta ho intenzione di andare piano e dare al mio corpo il tempo di riprendermi. Sto per sdraiarmi di nuovo, desideroso solo di dormire, quando l'uomo mi avvicina al naso qualcosa di zuccherino che, ancora una volta, mi risveglia i sensi.
Addento la polpa con avidità e riconosco il sapore dolce di un dattero. Se non ricordo male sono frutti ricchi di acqua e vitamine e per poco non mando giù il grosso nocciolo al centro mentre lo spolpo. Intorno a me sento delle risate e un battere di mani, oltre ad altre parole divertite che continuo a non comprendere.

"Grazie... grazie di cuore", mormoro prima di svenire in una specie di torpore che è un sonno profondo.

Quando riapro gli occhi, il firmamento mi riempie lo sguardo. La notte africana è calda ma provo anche un certo sollievo ora che il sole è calato e ho bevuto e mangiato qualcosa. Ancora intontito, mi tiro a sedere e mi rendo conto che sono in un campo piuttosto ben attrezzato dove è stato anche acceso un fuoco.

Accanto a me, trovo il mio sacco da viaggio e la mia giacca, oltre a una mezza noce di cocco piena di liquido e alcuni datteri divisi a metà. Prima di cercare qualcuno con cui parlare, nella speranza di riuscire a comunicare, bevo quella che scopro essere proprio acqua di cocco e mangio un paio di datteri.
La sensazione di rinascita è potente e impagabile, anche se sono ancora lontano dal fare un pasto completo. Mi sento davvero rigenerato e sono grato a questi uomini per avermi salvato la vita.

"Bianco di nord Europa, sì?", la voce di un uomo pelle e ossa, scuro come il tronco di una quercia, mi fa voltare di scatto.

D'istinto gli rispondo: "No, sono americano. Però ho origini scozzesi".

Lui fa una faccia pensierosa, arricciando il naso camuso: "Americano di scozzese?", ripete.

Annuisco, capendo che sarebbe inutile spiegarmi. Immagino che sappia solo qualche parola nella mia lingua, quindi non potremo fare grandi conversazioni.
"Grazie. Grazie dal profondo del mio cuore", gli dico inchinandomi dalla mia posizione seduta.

Lui annuisce con un grande sorriso e mi dice che il suo nome è Ghali. Da quello che capisco aiuta il capo tribù che è molto anziano, come fosse una sorta di braccio destro. Sorrido, pensando a Georges: chissà se è preoccupato per me, in questo momento.

A causa della mia condizione fisica mi trattengo qui per un paio di giorni, per riprendere le forze ma anche per aiutare come posso: non solo voglio sdebitarmi perché mi hanno salvato la vita, ma ho anche necessità di fare provviste e soprattutto cercare un altro mezzo di trasporto.

Per fortuna mi trovo di nuovo vicino al Nilo, quindi posso seriamente pensare di usare un'altra feluca. Ho provviste e acqua a sufficienza ma devo prima capire bene dove mi trovo: spiego la cartina davanti al capo villaggio, un anziano che somiglia in modo sorprendente a Ghali e ad alcuni ragazzini che sembrano esperti di questi luoghi.

Punto l'indice sul porto di Alessandria e loro mi indicano un punto vicino a una località chiamata Goshabi, dove di certo mi trovo ora. E io che speravo di essere arrivato ad Al Ghabah! Invece sono poco più a sud. Mi è chiaro che devo procedere per oltre mille miglia prima di arrivare a destinazione e ci vorrà tempo.

Sospiro, frustrato, e decido di rimettermi subito in cammino, sperando che, dopo aver visto la morte da vicino, non debba incontrare altri imprevisti.
 
- §-
 
Il mio arrivo ad Alessandria mi porta gioia e tensione allo stesso tempo. Il viaggio è stato lungo e al Cairo ho preso un cavallo perché volevo muovermi più veloce: nonostante le tappe obbligate, infatti, continuavo ad avvertire questo senso di urgenza che non sapevo come definire, se non la superstizione di un uomo che ha qualcosa di molto importante da raggiungere e teme di non poterlo più fare.

Candy...

E, infatti, le notizie che ho ricevuto appena arrivato in città mi gelano il cuore: nel conflitto, scatenatosi circa tre mesi fa, sono entrati anche il Regno Unito e la Francia che io devo attraversare obbligatoriamente per tornare in America. Anche se l'Italia, al momento, pare rimasta neutrale, non sono certo di poter varcare le Alpi senza rischi.

Chiudo gli occhi davanti al poliziotto che è stato così gentile da aggiornarmi e indicarmi dove acquistare dei giornali e faccio un profondo sospiro: il porto è qui vicino e devo pensare solo a prendere una nave per raggiungere le coste della Sicilia.

Una volta rimediato il biglietto, decido di concedermi una notte in una piccola pensione vicino al porto per rigenerarmi dalla lunga traversata sul fiume e per prepararmi a quella via mare. Sarà per la guerra che incombe, sarà per la fretta che ho, ma questo viaggio di ritorno non ha molto della spensieratezza di quello dell'andata.

Nonostante ciò, ora che sono più vicino all'Europa ripenso quasi con nostalgia al percorso sul Nilo: in altri tempi, avrei rallentato il viaggio per godermi le bellezze del paesaggio e della natura, specie una volta giunto in Egitto.

Se ero rimasto affascinato già in Sudan, lì la meraviglia era costante: dal centro del mondo d'acqua su cui navigavo, non potevo fare a meno di cogliere con l'avidità di un affamato l'imponenza delle pareti e delle tombe rupestri, la dolcezza delle zone più verdi costeggiate dalle palme ma, soprattutto, i tramonti.
Vale la pena vivere solo per guardarli, per sentirsi parte di questo dipinto naturale immersi nella luce arancione del sole che termina la sua corsa. Anche se ero preoccupato, tanta bellezza mi commuoveva e calmava i miei sensi.

Alla fine, posso dirmi soddisfatto, pur se ho avuto difficoltà e rischiato di morire nel deserto. A partire da Goshabi, le soste obbligate ogni sera per montare la tenda all'interno e le deviazioni per evitare le cataratte non hanno inficiato troppo sui tempi.

Mentre mi trovo, dopo mesi, immerso in una vera vasca da bagno e cerco solo di rilassarmi, mi rendo conto che ho fatto ciò che volevo: mi sono messo in discussione, mi sono misurato con me stesso e ho capito che posso cavarmela davvero in qualunque situazione. Però è ora di superare questa fase egoistica per tornare non solo da Candy, ma anche dalla mia famiglia.

Certo, l'idea di passare dalla savana direttamente in un freddo ufficio di Chicago mi mette i brividi. Eppure, so che devo prendermi le mie responsabilità e smettere di comportarmi come un ragazzo ribelle per diventare un adulto.

Questa parte libera di me non cesserà di esistere, è certo, però devo imparare a farla convivere con la realtà che tanto ho cercato di rifuggire. Non so cosa mi riserverà il destino, ma sono cosciente che cercherò di essere diverso da mio padre: semmai deciderò di sposarmi e avere gli eredi come tanto implora la zia Elroy per trasmettere il nome degli Ardlay ad altre generazioni, di certo sarò un padre più presente.

Infilo il pigiama e mi butto sul letto con un verso di stanchezza. Dietro le palpebre, che si chiudono inesorabili, si avvicendano le immagini di mio padre, con il viso altero, che mi riserva una carezza sul capo con una luce piena d'affetto negli occhi; di mia sorella, col suo sguardo innamorato rivolto a un imbarazzato Vincent che le tiene le mani; della zia Elroy, che fa un verso di stizza e mi ordina di tornare in camera mia; e di Candy, che entra nella capanna del Blue River e mi porge una piccola tartaruga da accudire.

I ricordi si susseguono diventando sogni lucidi mentre scivolo nel sonno, senza un filo logico o temporale e i volti delle persone amate sembrano chiamarmi.
Eccomi, penso, sto tornando. Ma la mia coscienza, ancora in bilico tra sonno e veglia, mi suggerisce che alcuni di loro non potrò più vederli.
 
 

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Capitolo 2
*** Italia ***


Dopo tanto tempo in Africa, dove l'acqua scarseggiava, trovarmi in mezzo al mare è quasi surreale. Devo dire, però, che nonostante la stagione autunnale e le piogge occasionali, il tempo è stato piuttosto clemente e la traversata quasi gradevole: ci sono stati momenti in cui me la sono goduta al pari di una crociera.

Oggi, finalmente, abbiamo avvistato le coste della Sicilia e i problemi legati al mio ritorno, che avevo cercato di accantonare, tornano a invadere i miei pensieri. Sulla nave ho sentito vociferare di presunte tensioni tra l'Austria-Ungheria e l'Italia che, pur non essendo entrata in guerra contro la Serbia, sta valutando di farlo in cambio di territori.

In italiano ho colto anche qualche parola riguardo navi provenienti proprio dalla Serbia, dove disperati di ogni età cercano di fuggire dagli attacchi e sperano di trovare asilo in un Paese neutrale: si tratta di una mossa molto pericolosa, perché l'Italia è comunque legata in qualche modo al Regno austro-ungarico dalla Triplice Alleanza.

Perso nei miei ragionamenti, mi accorgo a malapena che stiamo toccando terra e siamo pronti a sbarcare: il mio mondo ondeggia ancora quando scendo dalla scaletta e mi chiedo di nuovo perché i popoli debbano combattere fra loro. La guerra non porta altro che morte, distruzione e carestie.

Il villaggio adiacente al porto è molto piccolo e per un istante mi sembra quasi di essere di nuovo ad Alessandria. Qui i caseggiati sono bassi e bianchi e per strada vedo solo qualche rara carrozza: chissà se sarò abbastanza fortunato da trovare una vettura qui, a Siracusa.

Mi siedo su una panca di pietra, con il rumore delle onde del mare alle spalle e apro ancora una volta la mia cartina: ho un altro breve tratto di mare da fare prima di arrivare nella penisola vera e propria e ciò significa raggiungere Messina.

Sto cercando di ripercorrere a ritroso il viaggio di andata per avere gli stessi punti di riferimento e spero di essere fortunato. Intanto devo trovare una carrozza o un passaggio per ricominciare a muovermi: è pomeriggio ma preferisco fare un po' di strada prima di fermarmi per la notte.

Inizio a camminare e scorgo un uomo rubicondo e tarchiato che trasporta della frutta su un carro. Gli chiedo di fermarsi e gli spiego in italiano che ho bisogno di raggiungere Messina.

"Io arrivo solo fino ad Augusta", mi risponde in quel dialetto che è quasi complicato come quelli africani. Per fortuna mastico l'italiano meglio della lingua masai, così riesco a chiedergli un passaggio fin dove vorrà.

Al tramonto si ferma in una locanda sulla strada e chiediamo due stanze e un riparo per il carro e i cavalli. Dalla finestra della camera piccola ed essenziale posso vedere il cielo stellato, che è incredibilmente simile a quello africano. Nonostante la fretta di tornare a casa e le vicissitudini negative, il mal d'Africa ha colto anche me.

Qui, in questa piccola cittadina di un'isola italiana, mi trovo a sperare di potervi tornare, un giorno. Magari al fianco di qualcuno con cui condividere la mia stessa passione. I volti di Annabelle e Candy si sovrappongono di nuovo sull'ultimo quarto di luna che occhieggia tra le stelle: la prima, una compagna allegra e preparata con la quale ho condiviso pochi mesi della mia vita; la seconda, una ragazzina che ha sempre inseguito i suoi sogni anche se le avversità hanno cercato di piegarla.

Proprio come me.

"Peccato non avere avuto più tempo per conoscerci. Saremmo potuti diventare una bella coppia. Siamo molto simili".     

Sì, Annabelle, siamo molto simili. Ma forse io e Candy lo siamo ancora di più, anche se ci dividono più anni di età. Anche se lei è innamorata di un altro uomo.

Le labbra s'incurvano in un sorriso amaro: alla fine, se i miei sospetti sui sentimenti di Annabelle fossero reali, potrei quasi dire di trovarmi nel bel mezzo di un triangolo amoroso. Il sorriso si spegne in un lampo, non appena formulo questo concetto.

Dio mi aiuti, ormai non riesco più a pensare a Candy se non in questi termini. Non è più un sospetto o un sentimento in evoluzione.
Adesso, questo amore è chiaro e luminoso come lo spicchio di luna che splende nel cielo novembrino.
 
- §-
 
Il panico e il caos si respirano ormai ovunque: non si parla che della guerra, qui. Gruppi di uomini e donne che gesticolano animatamente e si portano le mani al viso, bambini tenuti in braccio o per mano come se lo spettro delle battaglie potesse strapparli via. Gente che discute all'entrata delle botteghe o bisbiglia con gli occhi sgranati ai banconi dei mercati rionali come quello che ho visitato mezz'ora fa.

Appena sceso dal treno che mi ha portato a Napoli ho anche comprato dei giornali per avere un quadro più chiaro: e per fortuna che i miei istitutori di un tempo hanno insistito tanto a farmi studiare le regole più difficili di questo idioma così simile allo spagnolo! Ora, almeno, posso leggere senza troppi problemi i loro quotidiani, oltre ad ascoltare i discorsi spesso colmi di leciti timori e supposizioni degli italiani che incontro.

La verità è che hanno ragione a essere spaventati.

La guerra si sta man mano allargando anche a oriente, persino il Giappone si è mosso contro la Germania e qui, in pratica, siamo fra due fuochi.

Mentre entro in città, camminando con la sacca su una spalla e i giornali tra le mani, mi scontro con qualcuno che mi cade quasi tra le braccia.

"Mi perdoni, ero distratto!", mi scuso aiutando il malcapitato a raddrizzarsi.

"Certo, se invece di guardare il marciapiedi leggi il giornale!". Il malcapitato è una ragazza mora che mi guarda con cipiglio severo. I capelli sono tenuti indietro da un nastro, rosso acceso come l'abito modesto che indossa. È davvero molto bella ma, soprattutto, molto arrabbiata.

"Ha ragione, è vero. Spero non si sia fatta male", ribatto mentre lei si spolvera le maniche della giacca logora che sembra grigia ma che forse, una volta, è stata marrone.

Mi liquida con un gesto stizzito e dice delle parole in dialetto stretto che non comprendo, ma non mi sembrano affatto gentili. Alla fine, capisco il motivo di tanta furia: a terra giace un incarto da cui fuoriesce un liquido che, a prima vista, sembra quello di uova rotte.

"Ti ripagherò", dico subito. Per fortuna, ho in tasca ancora qualche soldo dell'ultimo lavoro svolto in Sicilia grazie al quale ho potuto acquistare anche il biglietto del treno e un po' di frutta fresca.

Alle mie parole, lei finalmente sembra calmarsi e mi rendo conto che comincia a squadrarmi con attenzione. Forse sta valutando quanto può chiedermi in cambio di quelle uova.

"Non sei di qui", dice come fosse un'ovvietà.

Scuoto il capo: "No, sono americano e sto tentando di tornare a casa".

Lei rovescia la testa indietro e scoppia a ridere come se le avessi detto la battuta più divertente del mondo: "Amico, hai scelto un pessimo momento per tornartene a casa, anche se dalle tue parti è di certo più tranquillo. Comunque il tuo accento non è male, c'ero quasi cascata".

Comincio a essere impaziente. Non voglio perdere più tempo di quanto già non ne abbia perso e ne perderò, visto che devo lavorare di nuovo per continuare il viaggio.

"Allora, quanto vuoi per le uova?", chiedo in tono pratico, tirando fuori il portafogli da una tasca interna della giacca.

"Per cinquanta lire ti concedo tutta la notte con me". Resto gelato, con la mano bloccata nel portafogli e la mascella contratta.

"Non mi interessa, voglio solo ripagarti e riprendere il viaggio", dico seccato, omettendo che con me ho solo pochi dollari e non lire, perché li ho cambiati prima di ripartire. Provo pena per questa ragazza costretta a vendere il suo corpo per non so quali motivi, ma non posso davvero fare altro che cercare di risolvere la questione prima possibile.

Per tutta risposta, lei riprende a guardarmi dall'alto in basso e inizio a innervosirmi: "Oh, no, non me lo dire! *Nu' uaglione bellu comm' o sole comm te...".

Socchiudo gli occhi a mezz'asta: di tutto quello che ha detto carpisco solo la parola 'sole'. La ragazza pare capire che non arrivo così lontano con il mio italiano e ripete la frase senza usare il suo dialetto.

Io bello come il sole? Beh, questo sì che è un complimento...

"Senti, dico davvero. Ho solo qualche dollaro e devo cercare un lavoro. Non ho tempo da perdere", insisto con palese impazienza.
Lei sbuffa e mi dice che ha speso due lire. Stavolta sono io quello perplesso, perché ho avuto modo di acquistarne anche io durante il viaggio di andata e costavano di meno. Decido di non discutere, tiro fuori un dollaro e glielo porgo.

"E con questo che dovrei farci?", mi domanda come se le avessi dato un sasso.

"È l'equivalente di... uhm... più del doppio di ciò che hai speso per le uova, se non vado errato. Non ho altro, mi dispiace, vicino al porto puoi trovare qualcuno che te lo cambi". Faccio per andarmene via ma lei mi richiama indietro, facendomi voltare.

"Ehi, toglimi una curiosità", dice. "Ti piacciono gli uomini o sei innamorato di una donna?".

Spalanco gli occhi, certo di aver capito male: "Come, scusa?".

Lei allarga le braccia in un gesto d'impotenza: "Per rifiutare una proposta del genere avendo persino dei dollari a disposizione o hai altri gusti o sei tanto cotto che non hai occhi per nessun'altra".

Scuoto la testa, ridacchiando divertito. Decisamente non mi era mai capitata una donna così spigliata e capisco anche che nel suo ambiente deve essere normale. Mi dispiace per lei, con questo piglio deciso potrebbe avere successo in mille altri modi nella vita.
"La seconda che hai detto, bella ragazza". Le faccio l'occhiolino e lei si porta le mani al petto in un gesto plateale e appassionato, colpita forse dal complimento, mentre mi allontano di qualche altro passo.

"Peccato!", esclama con tono tragico. "Una volta che il mio lavoro poteva essere interessante!". Adesso ride anche lei.

"Puoi fare molte altre cose se solo lo desideri", aggiungo a mo' di saluto alzando la mano e dandole le spalle.

Non mi volto più e non so che espressione abbia o cosa pensi della mia osservazione. C'è un mondo di storie intorno a me, ma al momento io devo pensare alla mia. E la mia è negli Stati Uniti, a Chicago.
 
- §-
 
Sento il ferro freddo nel palmo della mano mentre salgo sulla scaletta della carrozza che mi hanno riservato in terza classe: se volevo partire oggi non c'era di meglio e la cruda verità è che volevo sbrigarmi ma non sono riuscito a lavorare tanto quanto avrei voluto.

Ho curato dei cavalli e una stalla per una settimana e la maggior parte del guadagno ho dovuto investirlo in abiti più consoni alla stagione: non sono più in Africa e, man mano che mi sposto verso nord, le temperature si faranno più rigide con l'inverno imminente.

Così mi sono accontentato di questo treno malconcio e vagamente spettrale dove, una volta entrato, mi accorgo che arrivano degli spifferi che di certo non saranno salutari. A ogni passo, il pavimento cigola e sembrano cigolare persino le pareti e i sedili quando ci muoviamo. L'odore di chiuso e sudore degli altri passeggeri mi penetrano nelle narici.

Pazienza, sono abituato a ben altro: l'importante è che io mi muova subito da Roma e giunga perlomeno fino a Bologna. Da lì spero di trovare un altro treno che mi porti fino al confine con la Francia e poi... poi sarò nelle mani di Dio, perché lì si sta combattendo.
Mi siedo su una panca dura e scomoda; accanto e di fronte a me si posizionano due uomini e una donna, altri occupano i sedili dello scompartimento finché non è pieno. Pensavo che ci sarebbe stata altra gente costretta a rimanere in piedi, ma per il momento sono occupati solo i posti a sedere. Immagino che ciò sia dovuto al fatto che ci troviamo in mezzo alla settimana e che eventuali pendolari si spostino solo di venerdì o sabato.

Guardo fuori dal finestrino, pensando che sarebbe bello tornare in questa città per visitarla meglio: anche se amo la natura in ogni sua forma, non posso rimanere indifferente alle bellezze millenarie che sono racchiuse nella capitale d'Italia. Nei miei sogni più arditi, vorrei immergermi in questa culla di storia e arte insieme a lei... e poi spostarmi in altre città meravigliose come Firenze, che ho avuto modo di vedere durante il viaggio di andata, o i villaggi di pescatori così caratteristici della Sicilia...

Chiudo gli occhi, mentre il paesaggio sfugge sempre più veloce alla mia vista, proprio come questi sogni così eterei che svaniscono in un battito di ciglia. Sto letteralmente fuggendo dalla guerra per rivedere Candy anche se so che non mi guarderà certo con occhi diversi e, se arriverò a casa sano e salvo, dovrò prendere presto il mio posto al patriarcato degli Ardlay.

Sospiro forte, sistemando la mia sacca in mezzo alle ginocchia in modo che non dia fastidio agli altri: qui è davvero molto stretto e i volti sofferenti di alcuni uomini e di un paio di donne mi raccontano storie tragiche che non mi sono state raccontate, ma che comprendo dal suono della lingua che parlano.
Quelli accanto a me hanno pronunciato solo brevi frasi, però è chiaro che provengono proprio da quell'est da cui ha avuto origine tutto.

Il rumore costante e il dondolio del vagone mi gettano in uno stato di torpore e sento la testa pesante. Il sedile di legno è scomodo e l'uomo che mi siede vicino non fa che gesticolare verso quello di fronte, mentre alla nostra sinistra un altro gruppo di quattro persone sta frugando rumorosamente nel bagaglio parlando in italiano.

Appoggio il capo sul finestrino e, prima di rendermene conto, scivolo in un sonno inquieto e poco profondo.
 
- §-
 
Il rumore forte di una porta scorrevole che si apre e poi si richiude mi fa sussultare in modo così violento che per poco non cado a terra. Il cuore accelera nel petto e mi rimbomba nelle orecchie, mentre mi guardo attorno cercando di capire dove mi trovo.

Finalmente ricordo che sono sul treno che da Roma mi sta portando verso Bologna ma qualcosa non va: nello scompartimento è appena entrato un uomo che in apparenza sembra spaventato a morte. Con la mente ancora annebbiata dal sonno, lo osservo mentre volge gli occhi sgranati prima nella direzione dei nostri quattro sedili e poi nell'altra, dove si rivolge al gruppo che poco fa cercava qualcosa nelle valigie.

Lo sguardo che ho visto quando ci ha fissati mi ha gelato, era come se si sentisse in trappola e si aspettasse da me o da questa povera gente qualcosa di terribile.

Si china accosciandosi il più vicino possibile agli altri passeggeri e comincia a bisbigliare. Parla in italiano e capisco che è convinto che nessuno di noi quattro possa comprenderlo, anche se cerca di non farsi sentire.

Fingo noncuranza ma vedo che i miei vicini, invece, lo guardano con aria interrogativa, scambiandosi qualche parola. Cerco di cogliere il senso del suo discorso e odo in maniera netta le parole "Serbia" e "spia". Subito dopo, cala un silenzio surreale e mi trovo a trattenere il respiro.

Quest'uomo è convinto che ci sia una spia serba su questo treno? Oppure glielo hanno riferito con certezza? E quale dovrebbe essere il fine di questa spia? Comincio a immaginare vari scenari, in questa assurdità che è la guerra: possibile che qualcuno voglia penetrare fin nei territori austriaci per studiare le mosse dell'esercito o addirittura organizzare un attentato? Oppure suppone che questo Paese, ancora neutrale, possa essere un pericolo? Se non sbaglio nel nord Europa hanno proprio attaccato un Paese neutrale, ma non ricordo se fosse il Belgio o l'Olanda...

La verità è che le notizie che ho letto non sono sempre aggiornate e io mi sono informato in maniera frammentaria concentrandomi perlopiù sul mio viaggio, quindi ogni mia congettura può essere parimenti giusta o errata.

Qualunque cosa stia accadendo, la tensione si taglia con un coltello e il treno mi sembra all'improvviso lentissimo mentre, con gesti altrettanto lenti, l'uomo che ha fatto irruzione qui si raddrizza dandoci le spalle.

"Non possiamo sapere chi sia, ma tenete gli occhi aperti". Di nuovo, parla in un sussurro e non si preoccupa che uno di noi possa capirlo. Credo supponga solo dai nostri lineamenti e dal colore chiaro dei capelli che proveniamo tutti dallo stesso luogo.
E che chiunque di noi possa potenzialmente essere questa fantomatica spia.

Sono tentato di fare una domanda e apro persino la bocca prendendo fiato. Ma all'ultimo istante decido di tacere. Non so perché, però ho la sensazione che parlare possa essere anche peggio: potrebbe insospettirsi se uno straniero che parla la sua lingua chiede informazioni e rischierei di mettere nei guai sia me stesso che queste persone, forse le crede legate a me in qualche modo. Inoltre, preferisco che pensi ancora che io non lo capisca, così posso ascoltare indisturbato sia lui che gli altri.

L'uomo esce dallo scompartimento senza più guardare verso di noi e i miei vicini iniziano a parlottare nel loro peculiare idioma che riconosco appartenere all'est dell'Europa ma che non conosco, a differenza dell'italiano.

Vorrei sgranchirmi le gambe ma non voglio disturbare nessuno, così per ora resto seduto cercando di allungarle solo un po' di più, fissando le campagne che corrono veloci ma non tanto quanto vorrei. Continuo ad avvertire questa sensazione sgradevole alla bocca dello stomaco che mi impedisce di sentire persino i morsi della fame, nonostante l'ora di pranzo sia ormai passata.
Una sorta di presagio pesante, che cerco di razionalizzare con la palese situazione di allarme che stiamo vivendo e con l'aggiunta, davvero inquietante, della presunta spia che viaggia su questo treno.

La mia indole pragmatica mi tiene a galla, ma faccio sempre più fatica a rimanere tranquillo e ottimista. I miei pensieri oscillano di continuo tra il pericolo reale e qualcosa di inafferrabile cui non so dare un nome.

Magari si tratta di una condizione normale che sto esacerbando a causa degli eventi e della mia costante preoccupazione di dover attraversare delle zone di guerra.

Sì, è così. Dev'essere certamente così.
 
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Il boato è come l'ansito pesante e rovente di un felino feroce che si avvicina a me alla velocità della luce: sento la pelle d'oca e ogni pelo del mio corpo rizzarsi. Il calore mi solletica il collo per un breve istante.

Non ho neanche il tempo di voltarmi.

Mentre sto per farlo e alzarmi in piedi, i muscoli già tesi e l'adrenalina che scorre a fiotti prima ancora che il pericolo si palesi, una mano gigante mi spinge con una forza sovrumana.

Persino i rumori, che sono infernali quasi quanto quello dell'esplosione, nella mia testa sembrano azzerati. Eppure sento distintamente il legno che si spezza. Eppure mi feriscono le orecchie le urla di terrore e di dolore. Eppure è immenso il ruggito ardente del fuoco che soffia il suo alito mortale contro di noi come fosse un drago assassino.

Il tutto in un battito di ciglia.

Ora so cosa si prova a volare. Il mio corpo viene scagliato attraverso lo squarcio della parete e riesco persino e pensare che, perlomeno, non impatterò contro la struttura dello scompartimento.

Una seconda esplosione prolunga il mio volo e, misericordiosa o impietosa, oscura di colpo tutti i miei sensi in una tenebra di dolore.
- §-
 
Respirare. Voglio solo respirare. Non so altro.

Ma qualcosa mi entra in gola e nelle narici

...terra?

provocandomi degli accessi di tosse non appena ci provo e il petto non si solleva come dovrebbe, forse perché ho la netta sensazione di essere prono. Emetto un gemito frustrato e cerco di muovere la testa ma il dolore è accecante e, nonostante sia tutto buio perché non riesco ad aprire gli occhi, lampi di luce intensa si accendono come micce dietro le palpebre.

Fa male. Tutto fa male, sono immerso in una specie di tenebra dove ogni singolo osso e muscolo del corpo sembra essere stato abilmente pestato da un oggetto contundente.

La coscienza sta svanendo di nuovo mentre perdo la lotta con l'ossigeno che non vuole saperne di arrivare ai miei polmoni. Non c'è aria. Non c'è sollievo.

Luce.

Forte, intensa, mi ferisce gli occhi.

"Bisogna reidratarlo, veloci con quella flebo!". La voce è quella baritonale di un uomo, ma la sento come ovattata, lontana. Mi rendo conto che mi fischiano le orecchie e che ogni suono intorno a me sembra attutito.

Rumori metallici, voci, passi. Qualcuno che grida. Qualcun altro che tossisce.

"Ehi, mi senti? Puoi sentire la mia voce?", alza il tono e io annuisco di riflesso facendo sì che il dolore ottenebri i miei sensi ancora e ancora. "Bene, questo è già qualcosa, significa che con l'esplosione non hai riportato gravi danni all'udito".

Esplosione? Quale esplosione?

Riapro gli occhi con lentezza, socchiudendoli per abituarmi man mano alla luce che non è poi così forte. Mentre cerco di capire dove sono, l'uomo, che scopro avere un camice da medico sporco e uno stetoscopio agganciato storto intorno al collo, mi chiede quante dita vedo, alzando il pollice, l'indice e il medio della mano sinistra.

Cerco di schiarirmi la gola che sento arida e secca e rispondo con voce gracchiante: "Tre. I suoni... sono offuscati".

Lui aggrotta le sopracciglia, perplesso. Probabilmente pensa che io abbia appena confuso il senso della vista con quello dell'udito. La realtà è che sono in grado di esprimere solo concetti semplici, perché riesco a malapena a parlare e la testa è l'unica cosa che mi sembra in procinto di esplodere.

Come diavolo ci sono finito qui?

"Come ti chiami?", mi domanda e succede una cosa strana. Nonostante sia la stessa persona di meno di un minuto fa, il tono della sua voce mi sembra diverso. No, non ha a che fare con la voce, sono piuttosto le sue parole ad avere qualcosa di... sbagliato. Eppure sono giuste. "Sei italiano o inglese?".

Il mio cervello, di certo danneggiato, coglie solo ora il senso della prima domanda. Subito dopo, anche quello della seconda.

E il panico s'impossessa di me.

Comincio ad ansimare, come se fossi a corto d'aria. Il dolore alla testa diventa intollerabile e lo stomaco si ribella con furia. Sento il corpo incendiarsi e sussultare, scosso da conati o da convulsioni, non lo capisco.

Mi sembra di impazzire.

Mi sembra di morire.

E la morte, mentre i miei sensi vengono di nuovo meno, mi pare quasi una liberazione.

Sono sott'acqua, non c'è aria respirabile. Qualcosa mi ferisce la gola e va giù, soffocandomi. L'istinto di sopravvivenza mi farebbe contorcere per lottare ma sono come una statua di cera. Non un arto risponde ai miei comandi ed è come se galleggiassi fuori dal mio stesso corpo, ammesso che ne abbia ancora uno.

D'improvviso, avverto la sensazione netta di cadere e ho un brivido. La sensazione svanisce quasi subito e adesso sto correndo a una velocità pazzesca dentro a una fitta nebbia: intorno a me non c'è paesaggio e voglio solo arrivare alla fine di questa specie di tunnel per rivedere la luce.

Qualcosa di simile a un raggio di sole squarcia per un breve istante lo spazio alla mia destra e riconosco una fila di alberi. Cerco di spostarmi in quella direzione ma il mio corpo non risponde e continua questa folle corsa verso il nulla.

Sento delle voci ma non ne riconosco nessuna. Quella di un uomo, ferma ma affettuosa. Quella di una donna, altera e stizzita. E quella di una ragazza, che ha un suono così melodioso che mi commuove. Cerco di fermarmi su quella voce, di sentirne di nuovo il suono, di ordinare alla nebbia di svanire per capire a chi appartenga e soprattutto cosa stia dicendo, ma nessuno dei miei sforzi va a buon fine.

Parole pronunciate di fretta, con ansia. Mormorate con somma tristezza. Gridate con rabbia. Tutto si mescola in una cacofonia che mi fa sentire a disagio.

Finalmente mi sembra di rallentare e il mondo lattiginoso intorno a me diventa un'oscurità sconcertante che mi inquieta ancora di più. Vorrei gridare, vorrei sapere se c'è qualcuno ma non vedo le mie mani, né i miei piedi sul terreno: a dirla tutta, non lo sento neanche il terreno, è come se stessi ancora galleggiando nel nulla siderale. Senza neanche una stella a illuminare la via.
Devo muovermi di nuovo, devo andare via di qui. Devo raggiungere... cosa? Chi? Quali luoghi?

Se avessi degli occhi si sarebbero appena spalancati perché un lampo luminoso attraversa la mia testa come una meteora. So dove voglio andare! Voglio dirlo a qualcuno, prima di dimenticarmelo, ma devo aprire bocca e non so come fare.

Comando alla mia mente di muovere le labbra ma rimango muto. Ho bisogno di dire quel nome, però non trovo la via per emettere suoni. Mi viene da piangere, mi sento vulnerabile e privo di forze.

In un ultimo, spasmodico sussulto odo alfine un suono, anche se non posso dire di averlo fatto io: "Chicago... America... Chi..ca... go".

E il buio mi inghiotte di nuovo.
 
- §-
 
"Il medico che l'ha visitato, quando ha ripreso conoscenza la prima volta, ha detto che comprendeva l'italiano, ma quando ha parlato lo ha fatto in inglese. La vista era intatta, però lamentava problemi di udito". La voce è quella di una donna, adesso.

"Non mi sorprende, vista l'entità dell'esplosione che l'ha colpito. Con tutta probabilità era abbastanza distante dallo scompartimento dove c'era la bomba da non ricevere danni permanenti, ma piuttosto vicino da riportare le ferite che ha per via dello spostamento d'aria". Questo è un uomo, invece. Un altro medico?

Un'esplosione in uno scompartimento? Ero su un treno? C'era... una bomba?

Le palpebre sono pesanti e oscillo tra l'incoscienza e il dolore. Mi rendo conto che qualcosa mi stringe intorno alle tempie, forse mi hanno avvolto delle bende. Provo ad aprire gli occhi ma è molto difficile. Appena ci riesco, mi accorgo che ci sento meglio, odo di nuovo voci basse e serie, e lamenti provenienti da altre persone.

Giro lo sguardo, tentando di muovere il capo il meno possibile e vedo tanti letti in fila, immersi in una luce giallastra. No, non è la luce a essere di quel colore, ma le pareti che riflettono l'illuminazione. In realtà ho la netta sensazione che siamo in una tenda e non in un ospedale.

Un dottore in camice bianco deve vedermi sveglio e si avvicina a grandi passi. Senza esitazioni, usa due dita per sollevarmi le palpebre e ci punta dentro una luce che mi fa venire voglia di strizzarli immediatamente. Mi lamento per il fastidio e lui dice: "Il riflesso pupillare è nella norma. Infermiera, mi porti il martelletto, per favore".

Ricordo le parole che ho udito prima di aprire gli occhi e comprendo all'improvviso che quest'uomo sta parlando in italiano. E io lo capisco. Cerco di deglutire, tentando di focalizzare la mente per afferrare ricordi e sensazioni ma sento qualcosa di freddo colpirmi il ginocchio dopo che qualcuno ha scostato le coperte.

"Anche i riflessi muscolari sono buoni", commenta di nuovo la voce femminile. L'infermiera è piccolina e ha i capelli scuri, la cuffietta è sporca di quello che sembra sangue e anche il camice non è in condizioni migliori.

"Ragazzo, sai dirmi come ti chiami e da dove vieni?". Il viso rugoso e accigliato del medico è d'improvviso davanti al mio e mi scruta con attenzione. I capelli grigi sono tagliati corti ma i baffi poco curati: sembra sfinito.

Mi ostino a concentrarmi su particolari senza rilevanza come se servisse a non rispondere alla sua domanda. Come se non pensarci allontanasse la nebbia che mi affligge ogni volta che la mia coscienza torna. Come se, così facendo, potessi evitare di affrontare questa realtà che somiglia più a un incubo.

Ma capisco che non posso continuare così, soprattutto se voglio che qualcuno mi aiuti. Quindi, cercando di schiarirmi la gola che mi sembra sempre arida, prendo un respiro tremante e mi accingo a rispondere mentre sento gli occhi bruciarmi di lacrime improvvise: "Io... io non lo so... non mi ricordo niente... niente!". La voce, a me sconosciuta, si spezza e le sento uscire, quelle lacrime. Bollenti, impietose, mi solcano le guance e cadono lungo il viso che non ho idea di che aspetto abbia.

Piango, prendendo lunghi respiri nel tentativo di calmarmi e fallendo miseramente. Ora che ho portato a livello cosciente questo semplice concetto mi sembra definitivo: non è come l'udito, che si è attenuato e poi tornato.

La mia memoria è del tutto cancellata, spazzata via, esplosa come quel treno di cui hanno parlato.

"Si calmi, ora. Preferisce che le parli in inglese?", mi domanda l'uomo. Non so neanche in che lingua gli ho risposto.

"Non lo so, non so che lingua parlo di solito... però la capisco in ogni caso", ribatto ritrovando un minimo di controllo.

Le sue mani vanno ai lati della mia testa, toccandola con gentilezza come se cercassero delle ferite: "Posso dirle che a parer mio il suo accento è più inglese o americano che italiano. Potrebbe essere anglosassone...".

Inglese? Sono inglese? E quanti anni ho? Chi diavolo sono?!

"Mi perdoni, dottore". L'infermiera lo interrompe e si allontana da me. Vuole forse dirgli qualcosa in privato o ci sono altri malati da seguire? Non lo so.

So solo che la mia coscienza torna pian piano a svanire. Ho sonno, tanto sonno. È come se nella mia vita, qualunque essa fosse, non avessi mai dormito.

Forse, dopotutto, è davvero il preludio alla morte.
 
- §-
 
Quando riapro gli occhi, l'oscurità è appena illuminata da una flebile luce a olio, appoggiata alla mia sinistra. Sono supino, come la prima volta in cui mi sono risvegliato e una coperta pesante mi arriva fino al mento. Non so neanche se ho ancora un corpo funzionante, intorpidito com'è, ma ricordo vagamente un medico che mi aveva controllato i riflessi... quando? Un'ora fa? Una settimana? Un anno?

Non ne ho idea. Il tempo è diventato tanto relativo che mi sembra di dormire da sempre e non riesco neanche a immaginarmi in piedi o in grado di camminare.

Sento un fruscio, come se qualcuno fosse appena entrato e si muovesse piano per non svegliarmi, però non ho voglia di muovermi: la testa mi duole ancora. E tanto.

E nulla del mio passato si riaffaccia alla mente.

Le uniche cose che rimembro sono conversazioni brevi e confuse con medici e infermieri, le uniche che mi abbiano dato dei punti fermi: sono stato vittima di un'esplosione su un treno e posso comprendere almeno due lingue, anche se secondo l'ultimo medico che mi ha visto il mio accento è inglese.

Dovrei fare delle prove, per capire come mi trovo meglio a esprimermi e magari questo mi aiuterebbe a ricordare. Ma sono così stanco che a malapena riesco a pensare e disperarmi per la mia amnesia.

"Come ti senti?". La figura esce dall'ombra ed entra nel mio campo visivo, dove l'illuminazione mi consente di vederla: ha una divisa da infermiera e delle ciocche bionde le sfuggono dalla cuffia, ma almeno non ci sono tracce di sangue.

"Ho... sete", riesco ad articolare a fatica. Mi sembra di aver usato tutto l'ossigeno e le forze di cui dispongo solo per aver detto questa frase.

"È normale che tu senta l'arsura, **c'est vraiment normal, tu es nourri et hydraté uniquemente avec des perfusions", mormora mentre prende una brocca piena d'acqua e riempie un bicchiere sullo stesso comodino dove c'è la lampada.

D'istinto, mi lecco le labbra e tento di mettermi seduto ma continuo ad avere una specie di macigno dal collo in giù, anche se non sono paralizzato. Lei capisce la mia difficoltà e, con una forza che non le avrei mai attribuito, mi solleva passandomi un braccio dietro le spalle e appoggiandomi quasi di peso sulla spalliera del letto. Mi aiuta a bere dal bicchiere perché mi tremano le mani, ma si raccomanda di sorbirne solo un po' alla volta.

Eseguo con lentezza, avvertendo finalmente la secchezza della bocca e della gola svanire come d'incanto. Mi lascio ricadere, col suo aiuto, sdraiato sul letto ed emetto un sospiro stanco: vorrei chiederle dove sono e quando recupererò la memoria, ma le tenebre stanno per risucchiarmi.

"Capisci anche il francese, ***n'est-ce pas?", domanda d'improvviso riportandomi alla realtà.

Riapro gli occhi che già si stavano richiudendo: "Eh?", domando stralunato.

"****Je te parle en français pour la troisième fois ma tu mi comprendi, vero?".

Annuisco piano e il mal di testa torna più feroce di prima: "Cosa dovrebbe significare questo?", chiedo senza preoccuparmi troppo del tono che uso. Voglio solo dormire di nuovo.

"Beh, che conosci almeno tre lingue. So che hai perso la memoria ma che l'inglese è la tua lingua madre, mi è stato riferito dai colleghi". Si muove per prendere una sedia e si accomoda vicino a me, di fianco al mio letto.

"Dove mi trovo? Cosa... come...". Non riesco a parlare molto, la stanchezza invade ogni fibra del mio essere ma ho bisogno di sapere qualcosa in più, ho bisogno di ritrovare me stesso oppure voglio solo che l'oblio mi inghiotta finché non sarà tutto più chiaro.

"Ti hanno soccorso a seguito dell'esplosione di un treno che viaggiava verso Bologna, all'altezza di Firenze più o meno. Adesso ti trovi a Genova", comincia a raccontare. Avevo immaginato di trovarmi in Italia, visto che tutti mi parlano in questa lingua, ma almeno ora so di preciso dove. "Hai spesso ripetuto la parola 'Chicago', durante il tuo delirio, così ti hanno portato sin qui per consentirti di varcare il confine qualora tu desiderassi viaggiare fino in America".

Si interrompe per un istante, come a darmi il tempo di assorbire tutte quelle informazioni. Sto lottando per rimanere sveglio: avrei tante domande da fare! Forse devo anche chiederle meglio quali siano le mie condizioni, però, con mia stessa sorpresa, questo al momento è l'ultimo dei miei problemi.

"Hai riportato molte ferite, specie alla testa, e forse ti si è incrinata anche qualche costola, tanto che per una settimana sei stato attaccato a un respiratore: è un vero miracolo che nel campo profughi dove sei stato portato ne avessero uno", continua come se mi avesse letto nel pensiero.

Quelle parole però mi fanno spalancare gli occhi come tapparelle: campo profughi?

"Perché non mi hanno portato in un ospedale?", chiedo senza capire.

L'infermiera abbassa lo sguardo, sembra a disagio e io sto facendo del mio meglio per mantenermi lucido. Quando ormai mi sono quasi arreso al sonno pesante che mi reclama, lei parla: "Perché sul treno in cui viaggiavi c'era una spia serba, o almeno così ci hanno riferito. E accanto a te c'erano altri feriti che provenivano da quel Paese".

Il respiro diventa affannoso e comincio ad annaspare pesantemente. Una spia? Sospettano che io sia una spia? Per questo non mi hanno curato in un vero ospedale?

"Calmati ora, non agitarti, sei ancora molto debole e hai bisogno di cure". Cerca di rimboccarmi la coperta che è caduta un po' di lato ma io faccio un gesto con una mano come ad allontanarla. Non voglio la sua pietà, ho bisogno di sapere, non di essere accudito.

"Documenti... non avevo dei documenti? E il mio accento inglese... perché pensano che io venga dalla Serbia? Ero privo di conoscenza, ma... e come mai una spia dovrebbe... dovrebbe...". Un accesso di tosse mi impedisce di continuare e mi offusca la vista. Tutto diventa nero.

Di nuovo.

Quando rialzo le palpebre lei è ancora lì, ma non c'è più la lampada ed è giorno: la testa è di nuovo una massa pulsante di dolore.
"Oh, bentornato fra noi!", esordisce strizzando una pezzuola in una bacinella e ponendomela sulla fronte. La sensazione di fresco mi da un minimo di sollievo. "Hai la febbre alta, non cercare di sforzarti a parlare. So cosa vuoi sapere, mi ricordo le tue domande, anche se sono passati tre giorni".

Tre giorni? Ho dormito per altri tre giorni? Quante settimane di vita sto perdendo? Ma poi, la vita di chi?

Fa un sospiro profondo e giunge le mani al petto, come preparandosi a un discorso importante: alla luce naturale, mi accorgo che è piuttosto pallida e alcune efelidi le punteggiano le gote. Sembra davvero molto giovane. "La prima cosa che devi sapere è che l'Europa è in guerra e che molti altri Stati esteri cominciano a essere coinvolti".

Il brivido che mi scuote non ha niente a che fare con la febbre. Mi sento gelato e in fiamme allo stesso tempo.

In guerra, Dio onnipotente, in guerra!

"Qui al momento siamo ancora neutrali, ma ti avviso che dovrai passare per la Francia che invece è impegnata nel conflitto, se vuoi imbarcarti per l'America. Non sarà affatto facile. In Italia stanno arrivando profughi da ogni dove, soprattutto dai paesi serbi perché la guerra è scoppiata proprio lì. Per questo abbiamo attrezzato alcuni campi, ma non tutti vedono questa cosa di buon occhio: l'Austria ha attaccato la Serbia ed è legata all'Italia da un'alleanza, quindi chiunque provenga da lì, anche se parla in modo fluente l'inglese o l'americano, è sospetto. Sul tuo treno viaggiava una spia, forse diretta proprio in Austria, per cui tutti lo erano".

Fa una pausa e io comincio a tremare. L'infermiera se ne accorge e prende un'altra coperta da un armadio di fronte a noi: è logora e non sento la differenza quando me la stende sull'altra.

"Purtroppo non avevi documenti o bagaglio con te, o almeno non te ne hanno trovato accanto. O l'esplosione lo ha distrutto o... beh, te lo hanno rubato".

Cerco di inghiottire qualcosa di pesante e di parlare: "Quanto...?". La voce mi esce soffocata, strozzata.

"È successo circa tre settimane fa", risponde prendendomi il polso come per controllare i battiti del mio cuore impazzito.

Non voglio cedere, non posso perdere i sensi di nuovo, non prima di aver fatto una cosa: "Uno specchio", gracchio con urgenza, "voglio vedermi allo specchio!".

Voglio vedere il mio viso, capire di che colore ho gli occhi e i capelli, anche se ho scorto delle ciocche bionde abbastanza lunghe sul cuscino. Lei annuisce e apre un cassetto. Forse capendo che non riuscirei ad afferrarlo, me lo mette davanti al viso e io trattengo il respiro.

Sono effettivamente biondo, con delle bende che mi avvolgono strette il capo. Lo specchio mi restituisce un volto scavato e due occhi cerchiati del colore dell'acqua di ruscello. Naso dritto, mascella decisa ma non troppo squadrata. Un viso anonimo, almeno per me. Un viso stanco. Una fronte su cui una ruga profonda si comincia ad approfondire, mentre le iridi diventano lucide.

Chiudo gli occhi, nel tentativo di contenere le lacrime.

Vedere il mio volto non è servito a nulla. Non riconosco quell'uomo di età indefinita che mi guarda da quello specchio, colgo solo la sofferenza di qualcuno che è lontano da casa e magari vive tanto distante da non potervi tornare. Perché c'è persino una guerra in corso.

Giro la testa da un lato e la pezzuola cade.
Di nuovo, penso che se dovessi morire ora sarebbe una vera liberazione.
 
- §-
 
"Dobbiamo farlo arrivare a Le Havre! Da lì parte una nave per New York".

"È rischioso, e lo sa!".

"È molto più rischioso farlo arrivare fino in Inghilterra, il suo viaggio durerebbe solo più a lungo e quest'uomo ha bisogno di cure. In America possono certo fare di più, visto che è casa sua e non c'è la guerra".

"Non ancora...".

America, Chicago... queste parole vorticano nella mia testa e non so se le sto pronunciando di nuovo o se è solo una mia sensazione. Di certo, le voci sono diverse da quelle che ho udito in altre occasioni. Mi stanno trasportando da un luogo all'altro come se fossi una specie di pacco postale e io me ne accorgo a malapena: mi sento grato e frustrato al contempo, perché se potessi stare in piedi e muovermi liberamente sarei molto più veloce e non causerei tanti problemi.

"Me ne occuperò io". Quest'uomo sembra anziano e socchiudo gli occhi per vederlo. Ha i capelli bianchi, la barba che sembra incolta da giorni e sta discutendo con altre due persone, forse quelle che parlavano di portarmi al porto di Le Havre poco fa. Un'infermiera e un medico, due costanti da quando mi sono risvegliato senza identità.

E non ho mai ringraziato nessuno di loro per prendersi cura di me.

Nonostante il desiderio di morire e abbandonare questo corpo pesante e questa mente difettosa siano ancora presenti, comincio a pensare che devo ringraziare Dio per avermi fatto incontrare solo persone gentili.

Chissà se mi trovo nell'ennesimo campo profughi, trattato come una spia o come un delinquente. E chissà che io non lo sia davvero, e il fatto di aver perso la memoria diventi una benedizione.

"Ehi, è sveglio! Come ti senti, giovanotto?". L'uomo, vestito come un soldato, mi si avvicina e dai gradi che ha sulla divisa sembra essere un ufficiale o un colonnello. E non è anziano come credevo.

Maledico per l'ennesima volta la mia incapacità di parlare come vorrei, complici il martellamento continuo al capo e la debolezza infinita. L'ultima infermiera mi ha detto che sono in questo stato da tre settimane: quante ne sono passate ora? Da quanto tempo non faccio un pasto e sono attaccato a una flebo?

"Voglio... tornare a casa", biascico rendendomi conto di quanto la mia voce si sia affievolita in modo drammatico. Non sono neanche certo che quella che nomino così spesso sia davvero casa mia, oltretutto. "Per favore".  Quella preghiera suona quasi come una supplica e mi strappa via l'ultimo brandello di dignità cui ero rimasto aggrappato. Sto supplicando un soldato di riportarmi in America in piena guerra.

D'altronde a che mi serve la dignità, quando non ho la più pallida idea di chi io sia in realtà?

"Non preoccuparti, figliolo, cercheremo di farti arrivare al porto con un treno che parte domani mattina". La parola 'treno' mi riempie di orrore e lui deve leggere qualcosa nei miei occhi, perché posa una mano confortante sul mio braccio. "Stai tranquillo, è riservato solo agli alleati e io garantirò per te".

La sua veemenza mi commuove nel profondo e posso solo chiedere, mormorando così piano che non so se mi oda: "Perché?".

Le sue labbra tremano impercettibilmente e sento che la barella viene adagiata su un letto. So che ora dovranno spostarmi afferrandomi per le gambe e sotto le ascelle, come un bambino troppo cresciuto: è qualcosa che inizio a odiare. Ma intanto mi concentro sull'uomo gentile che ho davanti, lasciando che i sanitari facciano quello che è necessario.

"Perché sono certo che tu non provenga dall'est e che sia davvero americano. E perché mi ricordi mio figlio, che aveva solo vent'anni ed è morto nella battaglia della Marna pochi mesi fa". I suoi occhi diventano lucidi ma mantiene una compostezza e dignità che mi danno forza. Ha visto l'Inferno e ha perso un figlio e ora sta aiutando me: Dio sta davvero operando tramite lui, adesso.

"Grazie", bisbiglio con voce rotta per lo sfinimento, per il dolore, per il pianto.

Stavolta, chiudo gli occhi su una nuova speranza.

Chicago... America...
 
- §-
 
Nel mio incubo c'è del fuoco.

Non più la nebbia o l'oscurità, né voci sconosciute che tento di identificare. Solo una sensazione di calore bruciante che mi fa scottare la pelle come se fosse stata strofinata con una sostanza urticante.

Ma la cosa peggiore è il dolore al capo: ricordo vagamente che mi hanno parlato di ferite, persino di trauma cranico che mi ha causato la perdita di memoria. In realtà è come se la mia testa fosse una ferita unica che pulsa al ritmo impazzito del mio cuore.
Vedo le fiamme e non capisco se sia un sogno lucido o se mi trovo ancora nel sito dell'esplosione e tutto quello che ho vissuto fino ad ora non è mai stato reale. Ho perso il contatto con il mondo esterno, mi sento appeso in un limbo nel quale la sofferenza fisica prevale su quella mentale.

Ancora una volta perdo il senso del tempo e dello spazio finché non avviene qualcosa di misericordioso. Forse è perché, senza quasi accorgermene, ho cominciato a pregare: il fuoco si allontana, anche se lo vedo scintillare ancora.

Una meravigliosa sensazione di freschezza si posa sulla mia fronte e, non so se nel sogno o nella realtà, vedo che si tratta di una mano. Una mano gentile, femminile, carezzevole.

"Andrà tutto bene...". La sua voce sembra venire da lontano ed essere pervasa da un'eco così forte che l'unica cosa che vorrei udire, ovvero il nome che pronuncia subito dopo, non è che un suono indistinto.

Il mio nome.

Cerco di aprire gli occhi per vederla ma il suo volto è opaco: la pelle sembra chiara e gli occhi del colore del mare. Però pare che si trovi dietro un vetro appannato, anche se la freschezza della sua mano è deliziosa. Si tratta dell'unica cosa tangibile che sento.

Frustrato, cerco di chiamarla, ma quando ci provo sono sempre le stesse parole che escono dalle mie labbra: "Chicago... America... Chicago...".
 
- §-
- §-
 
* "Un ragazzo bello come il sole come te!". Chiedo perdono agli amici napoletani, se ho scritto corbellerie fatemelo sapere!
** "è veramente normale. Sei nutrito e idratato solo da flebo".
*** "non è così?".
**** "Ti sto parlando in francese per la terza volta". Anche qui, perdonate il francese un po' arrugginito dagli anni.

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Capitolo 3
*** America, Chicago ***


America, Chicago.

"America... Chicago". Sto delirando, mi sento bruciare di febbre e il movimento che stanno facendo con la barella sulla quale sono adagiato mi fa venire voglia di vomitare.
Volto la testa di lato, scosso dai conati, cercando di sollevarmi senza riuscirci e voci concitate che parlano in francese dicono frasi così veloci che non le capisco quasi più. Mani mi afferrano, mi sostengono. Qualcuno mi passa un asciugamano sul viso ma la zaffata acida e maleodorante mi rivolta di nuovo lo stomaco.

"Lo stiamo perdendo, non può viaggiare in queste condizioni!", grida un uomo con voce tonante. Ora comprendo di nuovo il senso delle voci.

"Dobbiamo almeno tentare", risponde una seconda voce, che riconosco vagamente.

"Ma, colonnello Durand...".

"Fate in modo che sia sistemato sul treno!", ordina e per la prima volta ho un nome a cui aggrapparmi. Il colonnello Durand, quello che ha perso un figlio in questa guerra assurda e che mi sta aiutando ad arrivare al porto.

"Dobbiamo tenerlo in osservazione almeno stanotte nel campo numero sette, che è il più attrezzato". Ora l'altra voce è più pacata e ferma. Sembra non ammetta repliche: l'ennesimo medico? "Va reidratato ancora, la febbre lo sta consumando e dobbiamo verificare che non ci sia un'infezione in atto".

"Con questo freddo è più facile che abbia la polmonite", borbotta il colonnello. "Va bene, allora prenderò il mezzo che parte domattina anche io".

"Ma...".

"Date un letto a questo ragazzo e fate in modo che possa viaggiare", ordina. Ora è lui che non ammette repliche.

Grazie, vorrei dire, non sa quanto le sono grato... vorrei abbracciarla, davvero. Le labbra, aride come il deserto, si muovono ma non un suono ne esce. Chissà se mi sentirò mai meglio o se sono destinato a rimanere in questa specie di coma ancora a lungo, tra veglie brevi e sonno profondo quasi senza sogni.

Se almeno sognassi qualcosa del mio passato, invece della nebbia e del buio...

E torna, la nebbia, e con essa le ombre che credo siano le persone che ho dimenticato. Ho la sensazione di allungare le braccia per toccarle ma anche di galleggiare a mezz'aria, quindi capisco che è l'ennesimo incubo. In realtà mi sembra che qualcosa di solido tocchi i miei palmi e stringo forte come se si trattasse dell'ultima cosa cui mi aggrapperò.

"Ehi, credevo fossi privo di sensi! Non pensavo ti rivelassi tanto intraprendente di punto in bianco". La voce di scherno parla francese. "Mi spiace, ma potrei essere tua madre".

Non capisco, chi è? Mia madre? No, ha detto che potrebbe esserlo. Ho freddo, mi sento come se fossi bagnato e nudo. Tremo in maniera incontrollabile e sollevo le palpebre.
Mi rendo conto di due cose: sono nudo, in effetti, e ho la mano destra affondata nel braccio di una donna piuttosto in carne che mi sta all'apparenza lavando con una spugna.
All'improvviso mi sento in imbarazzo e mollo la presa avvertendo un calore inondarmi le guance: "Mi dispiace, forse stavo sognando", dico a bassa voce, accorgendomi che è flebile ma meno roca dell'ultima volta.

La donna, vestita da infermiera, scoppia a ridere: "Non preoccuparti, lo avevo immaginato! Ormai sono vent'anni che non spero più di essere oggetto delle attenzioni di un ragazzo bello come te".

Sbatto gli occhi, incredulo: bello? Non è quello che ricordo di aver visto nello specchio, né quello che mi pare di scorgere in questo corpo che finalmente ho l'occasione di vedere: costole sporgenti, gambe quasi glabre e altrettanto magre, braccia piene di lividi, forse in parte dovuti agli aghi.

Sospiro: "Penso di somigliare più a un relitto che a un uomo. Non so nemmeno quanti anni abbia".

Lei continua la sua opera in modo meticoloso, tamponandomi il petto, la pancia, l'inguine con la spugna umida. Sussulto, preda dell'imbarazzo e della pena per me stesso: avrei preferito perdere un braccio o una gamba che ridurmi a non poter più neanche provvedere alla mia igiene personale.

L'infermiera non sembra accorgersi del mio disagio e passa alle gambe e ai piedi: "In realtà direi che hai vent'anni o poco più. Prima di sbarbarti, stamattina, pensavo fossi sui trenta ma ho dovuto ricredermi".

Prende un asciugamano e inizia ad asciugarmi con dovizia, con gesti automatici che avrà fatto di certo centinaia di volte, quindi inizia a vestirmi.

"Grazie", dico piano lasciando che si prenda cura di me come fossi un bambino un po' troppo cresciuto. "Mi piacerebbe provare da solo", aggiungo sforzandomi di allungare di nuovo le mani per indossare almeno la biancheria.

"Oh, lo farai quando starai meglio, ora preferisco farlo senza indugi o ti raffredderai di nuovo". Ed è davvero veloce. In men che non si dica, mi ritrovo di nuovo vestito di tutto punto e coperto.

"Devo prendere un treno con un certo colonnello Durand... è già mattino?", chiedo guardandola irrigidirsi.

Quando volta su di me i suoi occhi d'improvviso stanchi capisco. Capisco che il colonnello non partirà con me e che sarò di nuovo nelle mani di Dio nel mio viaggio verso Le Havre.

"Purtroppo il colonnello è dovuto partire il giorno dopo il tuo ricovero qui ed è caduto in battaglia, pace all'anima sua", conclude facendosi il segno della croce.
Anche se già avevo capito, il respiro mi si blocca e un nuovo sentimento, diverso dal dolore e dalla gratitudine, si fa strada nel mio petto facendomi venire voglia di urlare: rabbia.

"Perché, quanti giorni sono passati? Quanti altri ne ho persi?!". Il mio tono non è mai stato così alto e mi chiedo se queste energie mi arrivino dall'adrenalina o dal cocktail di farmaci e nutrienti che mi stanno iniettando. 

"Sei qui da una settimana, ma non devi...".

"Una settimana? Un'altra settimana?!". Il mio grido sembra il gracchiare di un corvo o di un animale ferito. Non sono più abituato a parlare, figuriamoci a urlare.

L'infermiera si impettisce e si mette la mani chiuse a pugno sui fianchi prominenti: "Hai avuto un principio di polmonite e il colonnello ha fatto in modo che avessi altri vestiti e coperte. Inoltre ha predisposto tutto perché tu salga su una nave diretta a New York fra tre giorni. Dovresti ringraziare il Cielo di stare meglio e di poterti recare al porto per tempo!".

Il suo tono di rimprovero mi colpisce e la mia rabbia si sgonfia di botto. Lascio ricadere la testa, che avevo sollevato un poco, sul cuscino e mi accorgo con orrore che ho di nuovo voglia di piangere. Ero così sensibile anche prima o dipende dalla mia condizione fisica? Mi metto a fissare il soffitto che non è un soffitto ma è la parte superiore di una grande tenda bianca, serrando la mascella e deglutendo forte.

"Senti, lo so che ti dispiace per la morte di quell'uomo che è stato così gentile con te, posso vederlo dalle tue lacrime". Lacrime? Quali lacrime? Non le stavo trattenendo? "Ma non è infuriandoti col destino e col tempo che passa inesorabile che tornerai a casa tua, in America".

"America... Chicago", riesco a dire in un soffio, chiudendo gli occhi.

"Sì, è lì che andrai grazie a coloro che ti hanno fatto arrivare fin qui e soprattutto grazie al colonnello Durand. Quindi, anche se in ritardo, consideralo un miracolo di Nostro Signore che ha guidato le loro mani nonostante la guerra in corso. Sei stato molto fortunato e sei di fibra forte: ci sono uomini che non lo sono stati altrettanto".

Ha ragione e lo so. Ma non posso fare a meno di sentirmi come in preda a una marea che mi sballotta da un punto all'altro senza che io possa controllarla. Ho un bisogno disperato di sapere chi sono perché non so neanche chi mi stia aspettando in questa città che continuo a invocare. Per quanto ne so, potrebbe non essere nemmeno casa mia: potrei essere inglese o persino di qualsiasi altro Paese del mondo, lingua madre o no. Questa consapevolezza mi gela, ma ho anche bisogno di aggrapparmi a qualcosa.

Se Dio ha voluto che io ricordassi Chicago, allora devo dirigermi lì, non ho alternative.

L'infermiera mi si accosta e fa un gesto che mi commuove: mi asciuga il viso con un fazzolettino, mettendo fine al mio pianto silenzioso e mi sento di nuovo come un bambino indifeso. La ribellione inizia a farsi strada nel mio cuore. Voglio reagire, non devo lasciarmi sconfiggere, in nome di tutti coloro che mi stanno permettendo di tornare in America, se davvero provengo da lì.

"Tanto per cominciare è ora che inizi ad alimentarti da solo o le gambe difficilmente ti sosterranno". Si allontana fino a uscire dalla tenda e seguo il suo cammino rendendomi conto che alla mia sinistra c'è una fila di letti quasi tutti occupati. In alcuni vi sono uomini più o meno bendati. Uno è vuoto. E in quello accanto... ho la gola secca nel momento in cui mi accorgo che c'è una sagoma del tutto ricoperta da un lenzuolo.

Potrei essere io, quello.

Mi rimetto di nuovo a osservare la cima della tenda e rimango così finché l'infermiera torna con una ciotola fumante. Da quel che ho capito è circa un mese che non metto qualcosa sotto i denti e il mio stomaco emette un gorgoglio così forte che lei scoppia di nuovo a ridere: "Oh, questo sì che è un buon segno! Ma ti suggerisco di andarci piano, perché devi riabituarti a mangiare poco a poco".

Come è già accaduto con l'altra infermiera, anche lei mi sembra avere una forza superiore alla media ma capisco che sono semplicemente io a essere debole: mi tira su e mi appoggia al cuscino fino a farmi mettere seduto. Sono convinto che stia per porgermi la ciotola, invece prende un boccone con il cucchiaio e me lo accosta alla bocca.

Alla mia espressione perplessa si stringe nelle spalle: "Sono certa che anche mangiare da solo ti sarà più facile fra un po'. Ora, da bravo, apri la bocca".

Lo faccio e la sensazione di sapore e di calore è così potente che mi sento invincibile. All'improvviso, ho una fame da lupi.
 
- §-
 
Le grida sono strazianti e mi strappano dal sogno facendomi accelerare il cuore nel petto e rimbombare in gola e nelle orecchie. Senza fiato, mi tiro a sedere e benedico il fatto di riuscire finalmente a mandare giù cibo solido dopo un mese, perché mi sento più forte.

Ho smesso di concentrarmi solo sul fatto che ho perso la memoria e che, se fossi stato ricoverato in un vero ospedale e non tra un campo profughi e l'altro come un delinquente pericoloso o una spia, forse sarei stato meglio prima.

In me c'è posto solo per la gratitudine verso tutti coloro che mi hanno aiutato e la speranza che tornando a Chicago possa ritrovare il mio passato.

Ma queste urla mi trapanano il cervello e l'anima. Perché non accorre nessuno? Nei letti accanto e di fronte a me altri uomini si svegliano e cominciano a imprecare o a chiamare aiuto: un paio di loro si alzano e tento di farlo anche io.

Ieri, quando sono giunto a Le Havre, il medico mi ha costretto a camminare per verificare quanto si fossero atrofizzati i muscoli delle mie gambe e, nonostante io abbia fatto solo qualche passo appoggiato a lui e a un infermiere robusto, si è detto soddisfatto.

Ora è il momento della verità.

Faccio sporgere le gambe dal bordo del letto e poggio i piedi a terra, facendo forza su un braccio per sollevarmi. Resto un attimo così, mezzo piegato sul letto mentre l'uomo invoca la sua gamba come se l'avesse persa o gli facesse un male del diavolo.

"Poveraccio, gliela dovranno amputare", esclama un uomo con le stampelle, zoppicando nella sua direzione.

Sposto il mio peso e cerco di capire se riesco a stare in piedi da solo. Barcollo, ondeggio e mi accorgo che posso fare qualche passo appoggiandomi di tanto in tanto ai bordi dei letti.

Nella tenda entrano due medici e tre infermiere: "A letto voi! Non c'è niente da guardare!". Poi il loro francese diventa così concitato che colgo solo poche parole. Operare. Amputare. Etere.

Dio, vogliono amputargli la gamba dandogli solo dell'etere?

Colto dall'orrore, tento qualche altro passo anche solo per vedere quanto resisto in piedi. Ma, soprattutto, vorrei lenire la sofferenza di quell'uomo anche se non lo conosco. Davvero mi sono lamentato per la mia condizione? Chissà dove si trova la sua casa e se rivedrà mai la sua famiglia!

Medici e infermiere formano un capannello intorno a lui e all'improvviso capisco che hanno intenzione di operarlo qui. Gli altri uomini arretrano come di fonte a uno spettacolo inguardabile, ma io rimango in piedi, appoggiato a una branda con un lato della gamba, la bocca spalancata e il sudore che scende a rivoli.

"Noooo vi prego! Josephine! Oh... Dio!". Invoca e, finalmente, distolgo lo sguardo, la pietà e l'orrore che prendono il sopravvento su di me.

Mi volto e, mentre cerco di tornare a letto, le forze mi abbandonano e cado sulle ginocchia con un verso strozzato, inghiottito dalle grida del soldato cui stanno amputando una gamba a meno di *dieci piedi da me. Mi prendo la testa fra le mani, nel tentativo inutile di non sentirlo più, come se ciò potesse allontanare il suo dolore e la sofferenza che sento io stesso per lui.

Dio, aiuta quest'uomo. Quanta distruzione, quante lacrime porta questa guerra!

Invocando la sua Josephine ancora una volta e al grido di un medico che ordina altro etere, la voce cessa di colpo. Ora restano solo altri rumori e sono anche peggiori delle urla.
 
- §-
 
Il mal di mare mi sta uccidendo.

Cerco di mangiare e tenere giù il cibo ma sono più le volte che mi sento male che quelle in cui riesco a trattenerlo. Stamattina mi ha visitato un medico e mi ha detto che dovrei coprirmi bene e prendere un po' d'aria sul ponte, ma la verità è che non sono visto di buon occhio su questa nave, anche se è stato il povero maresciallo Durand a procurarmi il biglietto e raccomandarmi al comandante, giorni fa.

Le voci girano più di quanto credessi, a quanto pare.

Non ho che l'assistenza di un'infermiera che pare avere paura di me e che a volte mi controlla i segni vitali, e di un medico che mi avrà visto si e no tre volte in quattro giorni. Dovremmo arrivare tra domani e dopodomani al massimo, ma ho sentito parlare di una tempesta che potrebbe ritardarci. Forse è per questo che il mare è così mosso.

Mi affaccio dal piccolo oblò di questa cabina umida e cerco di fissare lo sguardo all'orizzonte, nel punto più lontano di questa distesa azzurra per dominare la nausea. Devo proprio uscire di qui e camminare un po', sono certo che mi aiuterebbe, però non mi piacciono gli sguardi delle persone che incrocio: per loro, sono sempre la potenziale spia che viaggiava su un treno tra Roma e Bologna e che forse ha contribuito a indurre qualcuno a piazzarci sopra una bomba.

Ormai mi sono tanto abituato ad avere le bende intorno alla testa, che credo non potrò più farne a meno: ho tentato di chiedere al medico qualcosa sulla mia memoria ma lui ha scosso il capo. "Lo shock dovuto all'esplosione dev'essere stato molto forte. Confido che a New York possa trovare un ospedale che le faccia esami più approfonditi, magari una lastra...".

Quasi sorrido a quell'affermazione: pensa che guardando dentro la mia testa i medici possano trovare i miei ricordi perduti?    

Con un sospiro, lancio un'occhiata al vassoio di frutta che mi hanno lasciato e prendo in mano una mela rossa, cominciando a giocherellarci, indeciso se morderla o meno. La nave ondeggia molto forte e le prime gocce di pioggia hanno cominciato a battere sul vetro dell'oblò.

Contro ogni logica, infilo il mio cappotto logoro e apro la porta della cabina per uscire di qui, con la mela ancora in mano e sostenendomi al muro del corridoio. La mia speranza è che i marinai siano tutti impegnati sul ponte superiore per ammainare le vele e che io possa affacciarmi indisturbato per qualche minuto da quello inferiore.
Quando apro la porta, il gelo mi investe e chiudo gli occhi, stringendomi il bavero tra le dita per proteggermi. Sono ancora molto debole e ammalarmi di nuovo non è una buona idea. In effetti, ho scelto davvero il momento peggiore per uscire: in giro non si vede nessuno, ma il vento è troppo forte.

Respirare l'aria fredda, però, non ha prezzo. Se non sbaglio ci troviamo già a Dicembre e sono certo che il prossimo sarà il Natale più strano della mia vita.
Sarò completamente solo, oppure riceverò un regalo inaspettato: il ritorno della mia memoria.
 
- §-
 
L'acqua è cheta e di un azzurro così intenso che è quasi abbagliante. Sono inginocchiato sull'argine erboso e sto per abbassarmi sul pelo dell'acqua quando odo un grido lontano che chiede aiuto. Alzo la testa di scatto, ma il fiume si estende a perdita d'occhio alla mia sinistra. Giro il capo a destra e vedo una cascata di cui, curiosamente, non odo il rumore.

Torno al mio intento di guardare la superficie dell'acqua e mi ci specchio. I capelli biondi, trattenuti da una benda, mi ricadono davanti a un viso regolare ma scarno e le labbra sono semiaperte in un'espressione di stupore. I miei occhi sono chiari e seri.

"Chi sei?", chiedo alla mia immagine abbassando una mano per toccarla. Lo specchio improvvisato s'increspa e il mio volto ondeggia, trasformandosi in una maschera grottesca. "Chi diavolo sei?!", grido affondando l'intero braccio e avvertendo la sensazione umida dell'acqua che m'inzuppa.

Dalla cascata l'urlo si ripete e all'improvviso ho urgenza di raggiungere la fonte della voce: sembra quella di una bambina spaventata. Mi alzo in piedi, senza più preoccuparmi di quell'immagine distorta e comincio a correre sull'argine per raggiungere la cascata ma più mi muovo più sembra allontanarsi.

Devo salvare quella bambina o sarà persa per sempre. E io con lei.

Non so da dove provenga questa bizzarra certezza, ma è una cosa così ineluttabile che non può essere altrimenti. Mentre corro, d'improvviso, tutto diventa buio e mi sento come sospeso in aria in mezzo al nulla assoluto.

Un gemito di rabbia esce dalle mie viscere e dalla gola: sono di nuovo al punto di partenza, dannazione!

"No, no!", urlo frustrato. "Devo salvare quella bambina! Devo tornare in America! Chicago! America!". Continuo ad alternare quelle due parole come se potessero far riapparire la luce e il paesaggio in cui ero immerso fino a poco fa, ma non succede nulla.

E lo ripeto ancora e ancora.

Solo che adesso la mia voce non è più un grido ma un mormorio indistinto. Tornano le voci, di nuovo, come in una giostra infinita dalla quale non riesco a scendere mio malgrado.

"Possibile che in tutta New York non ci sia uno straccio di posto in ospedale per quest'uomo?!". New York? E l'uomo che sta facendo la domanda parla inglese! Ma allora non sono più sulla nave!

D'improvviso, il ricordo di ciò che è accaduto negli ultimi giorni si accende come un lampo nel mio cervello: la nave su cui ero imbarcato ha dovuto fare i conti con una tempesta in pieno oceano e il viaggio è durato più del dovuto. 

Ricordo di essermi trascinato sul ponte inferiore poco prima che scoppiasse e poi di aver passato più di un giorno intero chiuso in cabina preda della febbre e del mal di mare. Ho cercato di mangiare e di bere ma è tornato anche il dolore al capo e ho chiesto all'infermiera che è tornata a controllarmi di darmi un analgesico.

"Mi spiace, non ne abbiamo a bordo, però posso chiedere al dottore se può uscire di nuovo non appena la febbre passerà".

Ma la febbre non è passata e le cure sommarie, la debolezza dovuta al mio malessere, nonché la sensazione opprimente di non poter uscire da quella cabina mi hanno fatto peggiorare di nuovo e quando ho alfine visto il porto di New York in lontananza devo essere svenuto.

Stavamo per toccare terra, le coste di questa America che continuo a invocare e io mi sono arreso di nuovo, minato nel corpo e nella mente da un'esplosione avvenuta a miglia da qui. Grazie al colonnello Durand e a tante altre persone gentili forse sono vicino casa e so che non mi basterà il resto della mia vita per essere grato a tutti loro e a Dio.

Mi ritrovo a pregarlo, mentre qualcuno mi sballotta per quella che mi pare una strada poco illuminata gettandomi addosso un'altra coperta. Se non sbaglio sono su una carrozza trainata da cavalli.

"Proviamo all'ospedale di Manhattan, se non lo accettano neanche lì lo portiamo a Chicago", ordina l'uomo.

In un momento di lucidità, tento di raccogliere le mie poche forze residue e sollevo un braccio per afferrargli un lembo del cappotto. Lui, che mi sovrasta e si sta rivolgendo a qualcuno alle sue spalle, si volta di scatto guardandomi da sotto la tesa del suo cappello nero: sembra stupito.

"Chi... ca... go", sillabo a denti stretti. Non voglio più aspettare, non voglio perdere altri giorni ora che sono così vicino alla meta. Anche se dovessi morire, lo farò nel tentativo di raggiungere la città che invoco da settimane.

È l'unico scopo che ho in questa strana vita che sto vivendo.
 
- §-
 
L'ennesimo treno, l'ennesimo spostamento sul quale non ho il controllo diretto. Ero riuscito a rimettermi in piedi e forse ci riuscirò di nuovo appena verrò curato e reidratato a dovere: nonostante l'esplosione, il fatto di viaggiare dall'Italia all'America in condizioni proibitive e con lo spettro della guerra sempre presente di sicuro non mi ha aiutato.
Una volta arrivato a Chicago, spero di potermi finalmente fermare, ricevere le cure di cui necessito senza più essere additato come spia e poi, magari, riprendere le redini della mia esistenza.

Mi hanno sistemato in una cuccetta assieme allo stesso medico che mi ha assistito a New York e al quale ho chiesto di portarmi a Chicago senza titubare. Oscillo di nuovo tra sonno e veglia, tra febbre e momenti di lucidità e ogni tanto vedo il suo viso accanto a me: mi scruta, osserva le mie reazioni, mi punta una luce negli occhi e mi ausculta con uno stetoscopio.

Non ho più flebo nel braccio e lui ha cercato a più riprese di farmi mangiare e bere, aiutandomi a sollevarmi. Per qualche motivo, è da solo e senza il supporto di un'infermiera: le voci devono essere giunte sin qui.

"Pensa che mi cacceranno anche dal prossimo ospedale?", domando mentre cerco di mandare giù un panino che sa di cartone.

Il medico sospira, togliendosi lo stetoscopio dal collo e stropicciandosi gli occhi con un gesto stanco: "Non lo so. Certo, il fatto che lei non abbia documenti e non ricordi il suo passato la addita come un potenziale pericolo visto che viene da una zona di guerra dove c'è stato un attentato".

"E non potrei essere io stesso una vittima?", domando appoggiando meglio la schiena ai cuscini.

Lui si limita a fissarmi: "Ha viaggiato per settimane da un campo profughi all'altro dove hanno sospettato che fosse una spia. Inoltre, non ha memoria del suo passato. È sicuro di non ricordare proprio nulla?".

Chiudo gli occhi, cercando di concentrarmi sugli incubi e sui sogni slegati che mi affliggono ogni volta che perdo i sensi: "Non so neanche come mai continuo a ripetere il nome della città di Chicago nei miei deliri, per quanto ne so potrebbe persino non essere quella casa mia. La ringrazio per essersi preso cura di me, comunque, ha pensato anche lei che potessi essere davvero io quella spia?".

L'uomo scuote la testa: "Chi si vota alla professione medica non si preoccupa di chi sia il paziente", mi spiega.

"Perché continuo a dormire e svegliarmi?". Finalmente faccio questa domanda a qualcuno che, forse, può darmi una risposta. "Capisco la debolezza, ma...".

"Credo dipenda dal trauma cranico che ha riportato e che le ha fatto anche perdere i ricordi", risponde con una certa sicumera, toccandomi le bende come per rimuoverle e rinunciando. "Meglio che lo facciano in ospedale, dove possono sostituirle", aggiunge quasi tra sé. "Mi assicurerò che l'accettino al santa Joanna, dove lavora il dottor Leonard che è un mio eminente collega".

Annuisco, augurandomi che questa sua piccola raccomandazione basti a farmi fermare fino a che non sarò guarito.

"Comunque, avrà capito che un viaggio tanto lungo e le continue febbri di cui ha sofferto per il disagio l'hanno prostrata in modo ulteriore", continua e io annuisco. "Forse le ricapiterà, ma se la cureranno bene potrebbero rimanere solo dei forti mal di testa e riuscirà a restare vigile abbastanza a lungo da nutrirsi in maniera adeguata e a muoversi in autonomia. Basta con le vacanze fuori programma finché la sua situazione clinica non si stabilizza, intesi?".

Mi sorride e si raccomanda, anche se sa benissimo che non dipende da me. La sua immagine si distorce nel momento in cui ho un capogiro: "Io... io...". La nebbia mi afferra di nuovo con le sue mani gelide e chiudo gli occhi mentre una fitta lancinante mi attraversa le tempie e sale su, fino alla fronte e arriva alla nuca, strappandomi un lamento di dolore.

"Ehi, mister Chicago, si sente male?". Mi accorgo che si muove, che mi si avvicina, mi prende un polso e vi pigia un dito forse alla ricerca della velocità del battito.

Ormai sono diventato mister Chicago, penso divertito anche se sto perdendo di nuovo la lotta con la realtà. Le parole del buon medico diventano suoni indistinti e senza senso, anche se li pronuncia in quella che deve per forza essere la mia madrelingua.

Mi sento come se fossi di nuovo in continuo movimento e, ancora una volta, il tempo diventa relativo. Non so se siano passate ore o giorni, ma so che laggiù, alla fine del tunnel di nebbia, vedo di nuovo la cascata.

"Chicago... America", articolano le mie labbra nella realtà o nel sogno, non lo so, davvero.

So solo che finalmente la sensazione di cadere si è attenuata e con essa la nausea e la morsa che mi stringe il capo.
 
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Silenzio, odore di chiuso, luce tenue come se fosse alba o tramonto. Sono queste le prime sensazioni che ho. Cerco di sforzare la mia mente a ricordare qualcosa e il dolore torna come un lupo affamato che non veda l'ora di affondare i denti nella preda.

Così smetto di pensare e apro gli occhi.

Quello che vedo mi sconvolge: sono di nuovo in una tenda, in uno di quei campi dove accolgono i profughi o in un ospedale da campo francese nel quale amputano gli arti in cancrena dei poveri soldati feriti in guerra.

Lacrime di rabbia mi bruciano come ferite e riabbasso le palpebre. Voglio solo morire. Un fruscio a sinistra mi costringe a riaprirle: per la prima volta dopo tanto tempo non ho sonno e non riesco a dormire per allontanare i miei spettri. Sono ben lontano dal sentirmi in forma, ma mi sembra di avere sufficienti forze per alzarmi da questo letto, come mi era capitato sulla nave. Anzi, persino di più.

Per fortuna seguo proprio l'istinto di guardarmi di nuovo intorno perché scopro che il fruscio è quello delle fronde di un albero: un albero che si muove al vento dietro alla vetrata di una finestra. E, dietro quella finestra, la vita di chissà quante persone si sta svolgendo nel 1915 che è entrato non so bene da quanto tempo, ma che finalmente mi vede fermo in un luogo.

È quella Chicago che tanto anelavo? Possibile che sia questo uno dei motivi per cui mi sento meno vulnerabile e debole, perlomeno fisicamente?
Con movimenti lenti e studiati per verificare le reazioni del mio corpo, mi siedo su quello che scopro essere un letto d'ospedale, anche se la stanza sembra piuttosto un magazzino: oltre alla finestra con una vecchia tenda appesa sopra, ci sono dei tavoli e delle sedie di legno accatastati in un angolo, assieme ad altri oggetti rotti che non riesco a individuare.

A terra giace una sacca e spero che dentro ci siano i miei vestiti, perché al momento indosso un pigiama. Perlomeno è pulito. A piedi nudi, mi alzo e ho un leggero capogiro.
Qualunque cura mi abbiano iniettato ha avuto effetto più di tutte le flebo che ho ricevuto in Italia e in Francia, perché sto quasi bene.

A parte che ho perso la memoria e se tento di ricordare l'emicrania torna implacabile.

Cammino fino alla finestra per guardare quello che scopro essere il tramonto: anche se non ho idea di chi diavolo sia, alla fine mi trovo in un luogo che non è né una tenda né un treno. Di nuovo, ringrazio silenziosamente tutti coloro i quali lo hanno permesso, in special modo il colonnello Durand  che avrei voluto tanto conoscere meglio: senza di lui, forse sarei rimasto bloccato a Le Havre.

Le fronde dell'albero lasciano filtrare a tratti gli ultimi raggi di sole e dal cortile dell'ospedale provengono le voci di alcune persone che stanno uscendo dal cancello principale.

È questo il Santa Joanna?

Poggio una mano sul vetro freddo, sentendomi di nuovo vivo dopo tanto tempo. Sentendomi di nuovo un uomo e non un malato con la vita appesa a un filo. La vetrata mi restituisce la mia immagine sbiadita, quella che per me rappresenta solo una fisionomia sconosciuta.

Ho una famiglia qui o sono solo al mondo? Qualcuno mi sta cercando e mi riconoscerebbe? Ho degli amici? La consapevolezza della mia solitudine mi crolla addosso di nuovo, stringendomi un nodo in gola: anche se guarissi, da chi dovrei tornare?

Mentre sono perso nei miei pensieri cupi sento la porta della stanza aprirsi. Un ansito sorpreso e passi indecisi sono gli unici suoni che fa la persona che entra.

Mi volto a mezzo busto, la mano ancora appoggiata alla finestra e la vedo: un'altra infermiera, con una pettinatura che definirei singolare e un enorme vassoio pieno di frutta e di coperte tra le mani. Mi chiedo come possa tenerlo sollevato, minuta com'è.

"Albert! Finalmente ti sei svegliato!", esclama gettandomi in confusione. Mi ha appena dato un nome? Mi conosce o vuole solo chiamarmi in qualche modo che non sia mister Chicago?

"E tu chi sei?", le domando, aggrottando le sopracciglia.

Quella domanda pare irrigidirla e rattristarla e il vassoio, che bilancia perfettamente, oscilla per un attimo tra le sue mani. Ma è una reazione che dura un battito di ciglia.
Le labbra s'incurvano in un sorriso e le lentiggini che le ricoprono il naso e parte delle gote sembrano seguirne il movimento mentre risponde, un po' tremante ma decisa: "Io... sono la tua infermiera".
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* circa 3 metri
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Si conclude così questa mia incursione in uno dei momenti più drammatici della vita di Albert, della quale l'autrice non fornisce che pochi elementi. Ci tengo a ribadire che tutto è frutto della mia fantasia, un tentativo di raccogliere questi elementi e dare loro un senso logico raccontando una storia. Il finale è volutamente sospeso, perché dal momento in cui entra Candy da quella porta sappiamo tutti come è andata, vero?

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