Cuore di ghiaccio

di Baudelaire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Villa Bunkie Beach ***
Capitolo 2: *** Confidenze ***
Capitolo 3: *** Ritorno ad Amtara ***
Capitolo 4: *** I mutaforma ***
Capitolo 5: *** Morgana ***
Capitolo 6: *** L'Incantesimo Irriverente ***
Capitolo 7: *** Il concorso ***
Capitolo 8: *** Mago Merlino contro Fata Turchina ***
Capitolo 9: *** Alvis ***
Capitolo 10: *** Una brutta influenza ***
Capitolo 11: *** Un Natale diverso ***
Capitolo 12: *** L'Incantesimo Incandescente ***
Capitolo 13: *** Tom e Camilla ***
Capitolo 14: *** La Premonizione ***
Capitolo 15: *** Alamberta ***
Capitolo 16: *** La verità ***
Capitolo 17: *** La confessione della Rudolf ***
Capitolo 18: *** Coraggio e viltà ***
Capitolo 19: *** Lotta in acqua ***
Capitolo 20: *** Rivelazioni ***
Capitolo 21: *** Alyssa ***
Capitolo 22: *** Chiarimenti ***
Capitolo 23: *** "Deleo Convicium!" ***
Capitolo 24: *** Punizione ***
Capitolo 25: *** La resa dei conti ***
Capitolo 26: *** Macabra scoperta ***
Capitolo 27: *** Sensi di colpa ***
Capitolo 28: *** Il funerale ***



Capitolo 1
*** Villa Bunkie Beach ***


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Era un caldo pomeriggio d’agosto e il termometro sfiorava i trentacinque gradi. La barca scivolava leggera sulla superficie del mare, liscia come seta.
Le due ragazze remavano piano, in direzione del mare aperto. La costa, dietro di loro, appariva frastagliata e sfuocata, sotto gli implacabili raggi del sole.
“Non è che ci stiamo allontanando troppo?” – chiese la ragazza mora.
“Non avrai mica paura?” – la canzonò l’altra, con un lampo di malizia negli occhi.
“Certo che no! Ma comincio ad essere stanca. Non possiamo fermarci qui?”
Rebecca Bonner depose i remi e lanciò un’occhiata alla costa, schermandosi gli occhi con una mano.
“Mmm… sì, penso di sì.” – rispose, alzandosi per gettare l’ancora.
Elettra Gambler era arrivata tre giorni prima.
Si erano conosciute alla Scuola di Protezione per Streghe Bianche Prescelte “Amtara”, un anno prima.
Come tutte le studentesse di Amtara, le due ragazze non erano Streghe Bianche comuni. Erano chiamate “Prescelte” perché possedevano il dono dell’Antiveggenza, cioè delle Premonizioni.
Proprio questa loro particolarità aveva indotto la presidentessa del Consiglio Superiore di Stregoneria Bianca, Calì Amtara, ad istituire una scuola, che avrebbe portato il suo nome, che formasse ed addestrasse le Prescelte a difendere dalle Streghe Nere i Protetti, cioè i figli di Streghe Bianche e Stregoni.
Le Streghe Nere miravano allo sterminio dei Protetti e agivano per conto di Posimaar, chiamato anche Demone Supremo, che le aveva riportate in vita nonostante, anni prima, le Streghe Bianche le avessero sconfitte durante la Guerra dei Due Mondi.
Nessuno era a conoscenza del motivo per il quale il Demone intendesse distruggere il mondo della Magia Bianca, ma proprio l’anno prima Rebecca era venuta a sapere dal suo professore di Gestione Antiveggenza, Gustav Cogitus, rivelatosi poi spia ed alleato di Posimaar, che il Demone Supremo la stava cercando per ucciderla.
Rebecca non ne conosceva il motivo, ma era stata costretta a fare i conti con la realtà. Se il Demone voleva lei, presto o tardi avrebbe dovuto affrontarlo faccia a faccia.
Aveva paura, naturalmente. Ma sapeva di non avere scelta.
Da allora, la sua vita aveva assunto un nuovo significato. Solo un anno prima, Rebecca si sarebbe lasciata sopraffare dalla disperazione. Ora, invece, guardava avanti, cercando di vivere il presente come meglio poteva. E aveva deciso di relegare le preoccupazioni in fondo ad un cassetto e godersi le meritate vacanze estive. A tutto il resto avrebbe pensato a tempo debito.
Aveva invitato Elettra a trascorrere qualche giorno nella sua casa sull’oceano, Villa Bunkie Beach, una grande costruzione antica, eredità dei suoi genitori, che dominava la collina sopra la spiaggia da cui prendeva il nome.
Rebecca aveva sempre vissuto lì con sua madre, Banita. Suo padre, lo Stregone Anshir, era morto quando lei aveva solo due anni e l’unico ricordo che Rebecca aveva di lui erano alcune foto racchiuse in un album di famiglia.
Banita era morta pochi mesi prima che Rebecca fosse ammessa ad Amtara e, da quando aveva cominciato a frequentare la scuola, Rebecca vi trascorreva solo le vacanze estive.
Al termine dei tre anni di studio, come tutte le Prescelte, Rebecca sarebbe stata assegnata ad un Protetto e Villa Bunkie Beach sarebbe rimasta vuota.
Il solo pensiero le provocava una fitta allo stomaco. Non era facile rassegnarsi all’idea di dover abbandonare per sempre la casa dove aveva vissuto i momenti più felici della sua vita.
Forse anche per questo, Rebecca era felice di ospitare Elettra. A volte quella casa le sembrava troppo grande e silenziosa per lei e il pensiero di avere qualcuno con cui condividere le sue giornate di vacanza le riempiva il cuore di gioia.
Non aveva mai ospitato nessuno a Villa Bunkie Beach e si era data un gran daffare per mettere in ordine e tirare a lucido la casa, fatica premiata dalle molteplici lodi espresse da Elettra dopo il suo arrivo.
Trascorsero i primi due giorni ad oziare in spiaggia. Elettra, che non era mai stata al mare, si crogiolava al sole come una lucertola. La pelle candida di Rebecca, purtroppo, non le permetteva di esporsi troppo a lungo al sole, senza l’inevitabile comparsa di fastidiosi eritemi che le causavano un tremendo prurito. Si cospargeva il corpo di crema solare, riparandosi il viso con un grande cappello di paglia e osservava, con una buona dose di invidia, Elettra, che non batteva ciglio sotto gli impietosi raggi del sole.
Il terzo giorno Elettra aveva espresso il desiderio di noleggiare una barca. Le previsioni annunciavano una giornata torrida e Rebecca aveva tentato di dissuaderla, proponendo di rinviare la gita ad un giorno meno caldo. Ma Elettra aveva tanto insistito che, alla fine, Rebecca era stata costretta a cedere, premurandosi di prendere tutte le precauzioni per ripararsi dal sole.
Mentre Rebecca gettava l’ancora, Elettra depose i remi e si sdraiò a prua.
Restarono in silenzio per un po’, cullate dalle onde e accarezzate da un vento leggero che alleviava solo in minima parte la calura. Quando il caldo si fece insopportabile, si tuffarono in acqua e nuotarono a lungo, senza mai allontanarsi troppo dalla barca.
“Dove passerai il resto delle vacanze?” – le domandò Rebecca quando furono risalite a bordo, sdraiandosi accanto a lei.
“Dalla nonna.”
Rebecca corrugò la fronte. “Credevo fosse morta.”
“Cosa? Oh no, non lei. L’altra. Vado a stare dalla mamma di papà.”
Lo scorso Natale Rebecca aveva scoperto che i genitori di Elettra erano separati. Sua nonna, che si era sempre presa cura di lei, era venuta a mancare. Per questo, Elettra trascorreva le vacanze natalizie a scuola. Rebecca fu lieta di sapere che c’era un’altra persona, in famiglia, che potesse aver cura di lei. I suoi genitori pareva avessero sempre di meglio da fare che occuparsi della figlia.
“Ricordi la bionda che stava con mio padre?”
Rebecca annuì. Come avrebbe potuto dimenticarla? L’anno prima, quando Elettra, insieme ad altre Streghe, era stata rapita dal professor Cogitus, suo padre si era presentato a scuola con la sua compagna, una bionda in minigonna che era stata la causa di un’imbarazzante discussione tra lui e la sua ex moglie, cui avevano assistito la preside e altre persone, tra cui la stessa Rebecca.
“L’ha mollato.” – annunciò Elettra, in tono piatto.
Rebecca sgranò gli occhi, mettendosi a sedere. “Cosa!?”
“Già.”
“E come mai?”
Elettra si alzò a sedere e cominciò a giocherellare distrattamente con il bordo dell’ asciugamano.
“Non ne ho idea. Papà si tiene per sé certe cose. Ma è molto cambiato, da allora. Mi chiama quasi ogni giorno. All’improvviso, si è ricordato di avere una figlia.”
Rebecca avvertì un’amara ironia in quelle parole e la cosa non la stupì. Da quando si erano separati, i genitori di Elettra l’avevano completamente ignorata, come se la fine del loro matrimonio avesse significato, per loro, anche la fine delle responsabilità nei confronti della loro unica figlia.
Rebecca era orfana, ma i suoi genitori l’avevano amata smisuratamente. Era crudele che ci fossero genitori tanto insensibili e indifferenti. Elettra non meritava di soffrire in quel modo.
“Dovrei essere contenta delle sue attenzioni.” – continuò Elettra. “Ma non posso fare a meno di chiedermi cosa accadrà il giorno in cui troverà un’altra donna.”
Rebecca cominciò a spalmarsi una generosa dose di crema solare sulle gambe. “Magari non accadrà.”
“Magari sì.”                     
Elettra sospirò, guardando il mare. “Sono stanca di soffrire.”
Rebecca non rispose. Si pentì di aver cominciato quella conversazione. L’ultima cosa che voleva era rattristare Elettra.
“Facciamo un altro bagno?” – propose.
Elettra scosse la testa.  “Se non ti spiace, preferirei tornare indietro.”
“Come vuoi.”
Rebecca levò l’ancora e, in silenzio, ripresero a remare verso riva.
 
Quando rientrarono in casa, l’umore di Elettra era decisamente migliorato. Evidentemente, l’esercizio fisico le aveva giovato, nonostante la fatica e il gran caldo.
Rebecca prese mentalmente nota di non affrontare più l’argomento. In fin dei conti, Elettra era lì per divertirsi e lei aveva tutte le intenzioni di rendere il suo soggiorno il più piacevole possibile.
Cucinarono arrosto con patate e cenarono in veranda, guardando il sole calare all’orizzonte.
Ad un certo punto, Rebecca si accorse che Elettra la stava fissando in modo strano.
“Che c’è?” – le domandò.
Elettra esitò. Aveva riflettuto molto, chiedendosi se fosse o meno il caso di affrontare l’argomento.
“Allora?” – la incalzò Rebecca.
“Stavo pensando al tuo Potere.”
“Ah.” Rebecca depose la forchetta e si pulì la bocca con il tovagliolo.
“Ti dà fastidio se ne parlo?”
“No. La tua curiosità è più che lecita.”
Sotto lo sguardo di Rebecca, Elettra arrossì.
Ma Rebecca non era arrabbiata. Sapeva che sarebbe accaduto, prima o poi.
L’anno prima, Rebecca era caduta nel tranello del professor Cogitus e aveva raggiunto il nascondiglio dove questi teneva prigioniere Elettra e altre compagne, una caverna nel cuore della foresta. Con l’aiuto del professore di Storia della Stregoneria, Joseph Garou, era riuscita ad uccidere Cogitus e liberare le ragazze. Ma Garou aveva riportato gravissime lesioni nello scontro con Cogitus, trasformatosi in lupo mannaro e, per poterlo salvare, Rebecca era stata costretta ad usare il suo Potere davanti alle compagne.
Rebecca aveva un marchio di colore blu, a forma di stella, sul polso destro, che le permetteva di Spostarsi da un luogo all’altro semplicemente toccandolo. Era un Potere che apparteneva alla sua famiglia e che nessun’altra Strega Bianca possedeva. Era stato così che aveva portato immediatamente Garou in infermeria, salvandogli la vita.
Elettra, come le altre, li aveva visti sparire all’improvviso, senza capire. Solo successivamente era venuta a sapere che si trattava di un Potere speciale, che solo Rebecca possedeva. Le uniche due persone a conoscenza di questo segreto erano Brenda e Barbara Lansbury, due gemelle, amiche intime di Rebecca, che dividevano la camera con lei ad Amtara.
“In realtà, non c’è poi molto da dire.” – disse Rebecca, con noncuranza.
“Come l’hai scoperto?”
Rebecca cominciò a raccontare del giorno in cui, in punto di morte, sua madre le aveva rivelato questo segreto e di come, successivamente alla sua morte, avesse cominciato ad usarlo.
“Incredibile!” – esclamò Elettra. “E Brenda e Barbara, da quanto tempo lo sanno?”
“Più o meno dall’inizio dell’anno. E’ successo dopo una discussione, un pomeriggio sul fiume. Non so perché l’ho fatto. Credo di essermi sempre fidata molto di loro, così, a pelle. E poi, è stato un gran sollievo per me poterne parlare con qualcuno.”
“E la Collins?”
Rebecca fece una smorfia. “L’ha saputo alla fine dell’anno, come tutti gli altri. Dopo che avevo portato in salvo Garou.”
Elettra spalancò gli occhi. “Vuoi dire che per tutto l’anno lei non ne ha saputo niente?”
“E perché avrebbe dovuto, scusa?” – sbottò Rebecca, irritata. “In fin dei conti, questa è una cosa che riguarda solo me. Non ha niente a che vedere con lei o con Amtara.”
Elettra non rispose. Non era molto d’accordo con questa affermazione. Dopotutto, Rebecca era una Prescelta e tutto ciò che la riguardava includeva anche Amtara. Ormai il loro destino era legato a quella scuola, che a loro piacesse o meno.
“Dev’essere andata su tutte le furie quando lo ha scoperto.” – osservò.
“Non era molto contenta, in effetti.” – ammise Rebecca.
Evitò di aggiungere che la preside le aveva proibito categoricamente di usare di nuovo il suo Potere a scuola, per tenerla al sicuro da Posimaar. Il fatto che il Demone Supremo stesse cercando di ucciderla era qualcosa che preferiva tenere per sé. Era già tanto che ne fossero a conoscenza le gemelle e la Collins. Del resto, non era certo qualcosa da sbandierare impunemente ai quattro venti.
“Però è strano..” – cominciò Elettra, pensierosa.
Rebecca bevve un altro sorso di vino. “Cosa?”
“Il fatto che tu, una Prescelta, abbia un altro dono, oltre a quello delle Premonizioni. Non so, è come se… come se ci fosse un significato nascosto.”
Rebecca inarcò un sopracciglio. “Cosa intendi?”
Elettra alzò le spalle. “Che sei diversa da tutte noi.”
Rebecca non rispose.
Elettra continuò a mangiare, mentre Rebecca, dopo quelle parole, aveva perso improvvisamente l’appetito.
Lei era diversa da tutte le altre Prescelte, possedeva un dono che nessuna di loro aveva. Solo sua madre Banita aveva la stessa identica voglia a forma di stella sul polso. Cosa poteva mai significare tutto questo? C’era davvero un collegamento tra lei e il Demone Supremo? Per questo lui la stava cercando per ucciderla? Rebecca aveva forse qualcosa che Posimaar bramava con tutte le sue forze? E se il filo conduttore tra di loro fosse proprio il suo Potere? Ma in che modo quella piccola stella avrebbe potuto legarla ad un Demone tanto potente quanto mostruoso?
Posimaar si era rivelato un essere senza scrupoli, nato per distruggere la Magia Bianca. Non aveva esitato ad assoldare un’orda di Streghe Nere per uccidere i Protetti e le Prescelte e non aveva faticato molto per trovare qualcuno come il professor Cogitus, disposto a mettersi al suo servizio per compiere i suoi malvagi fini. Cogitus aveva ucciso due Gnomi e rapito quattro Streghe, solo per arrivare a lei. Quale disegno perverso e terribile aveva portato il Demone a spingersi a tanto, solo per distruggere Rebecca Bonner?
“Non mangi più?” – le chiese Elettra, riportandola bruscamente alla realtà.
Rebecca si alzò. “No. Vado a fare il caffè.”
Si allontanò in fretta, per nascondere il suo turbamento.
 
Elettra si fermò a Villa Bunkie Beach per un’intera settimana. Dopo la gita in barca, si dedicarono a lunghi giri in bicicletta e, su insistenza di Elettra, ad una gita al luna park, che evocò in Rebecca spiacevoli ricordi.
La scorsa estate, durante una delle sue esercitazioni per imparare a padroneggiare il suo Potere, Rebecca aveva commesso un terribile errore. Senza sapere come, si era Spostata su un ottovolante in corsa. Per fortuna, era finita sul sedile all’ultimo posto e nessuno si era accorto di niente. Si era aggrappata con tutte le sue forze alle protezioni, cercando di non urlare. Rebecca odiava i luna park e aveva un terrore folle della velocità. Aveva atteso, pazientemente, che la giostra si fermasse e aveva impiegato un bel po’ per riprendersi dalla brutta esperienza.
L’aveva raccontato solo alle gemelle, scatenando l’ilarità di Barbara, cosa che le aveva provocato una certa irritazione, ragione per la quale evitò di raccontare l’episodio anche ad Elettra. Quando questa la invitò a salire sulle montagne russe, addusse come scusa un leggero malessere. Elettra, allora, propose di tornare a casa, ma Rebecca disse che non era il caso. Non voleva certo rovinarle la giornata. Così andò a sedersi, restando a guardare Elettra che saliva da sola e se la godeva un mondo tra avvitamenti e giri della morte.
Alla fine della settimana Elettra ripartì e la casa tornò vuota e silenziosa. Ma Rebecca non ebbe nemmeno il tempo di sentirsi sola. I genitori di Brenda e Barbara l’avevano invitata nella loro casa in montagna e Rebecca aveva promesso di informarli, non appena Elettra fosse ripartita.
Il lunedì mattina li avvisò, annunciando il suo imminente arrivo.
Dopo aver trascorso un’intera giornata a preparare la valigia, il mattino seguente Rebecca chiuse Villa Bunkie Beach e si avviò in stazione per prendere il diretto delle nove, che l’avrebbe portata a destinazione poche ore dopo.

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Capitolo 2
*** Confidenze ***


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Quando Rebecca scese dal treno vide il signor Lansbury fermo sulla banchina ad attenderla.
“Le ragazze ti aspettano a casa.” – le disse, aiutandola con la valigia.
Rebecca aggrottò la fronte. “Ma non doveva essere una sorpresa?”
Ricordava molto bene che la signora Lansbury le aveva fatto promettere di non dire nulla alle figlie del suo arrivo.
L’uomo sospirò. “Già, doveva. Ma Barbara non ha fatto altro che fare domande per tutto il tempo. Alla fine ci ha preso per sfinimento e abbiamo dovuto dirglielo.”
Rebecca rise.
“A quella ragazza non si può nascondere proprio niente.” – borbottò il signor Lansbury.
“E come ha reagito?”
“Oh, non sta più nella pelle. Non vede l’ora di vederti. Dice che vi divertirete un mondo, anche senza la neve. Naturalmente anche Brenda è felicissima del tuo arrivo. Non se l’aspettavano, è stata davvero una bella sorpresa.”
“Signor Lansbury, io davvero non so come ringraziarvi per la vostra gentilezza e la vostra ospitalità.”
“Non dirlo nemmeno, mia cara. Per noi è un piacere.”
Rebecca avrebbe voluto esprimere meglio a parole quello che provava, ma temeva di metterlo in imbarazzo. Da quando lei e le gemelle avevano stretto amicizia, i loro genitori si erano comportati con lei come se fosse la loro terza figlia. Non le avevano mai fatto domande, l’avevano subito accolta con calore come se facesse parte della famiglia, l’avevano invitata a casa loro lo scorso Natale e ora l’avrebbero ospitata per le vacanze estive. Rebecca aveva il cuore colmo di gratitudine per quelle persone così semplici e generose.
La vita era stata molto buona con lei. Le aveva tolto i genitori, ma le aveva regalato una nuova famiglia.
Salirono in macchina e, lungo tutto il tragitto, Rebecca ammirò incantata il paesaggio. Era così diverso da Bunkie Beach! Attraversarono verdi pascoli e limpidi ruscelli e Rebecca abbassò il finestrino per respirare a pieni polmoni l’aria pulita di montagna.
“Non immaginavo fosse così bello, qui.”
“Beh, immagino sia un po’ diverso da Bunkie Beach.”
“Il mare mi piace, ma questo posto…. Questo posto ha qualcosa di magico.”
Il signor Lansbury annuì. Tenne lo sguardo fisso sulla strada. Non aveva bisogno di guardarla in faccia per capire quali sentimenti stesse provando in quel momento. Erano gli stessi che aveva provato lui quando aveva visto quel posto per la prima volta.
“Sai, è per questo che io e mia moglie abbiamo deciso di prendere una casa qui, molti anni fa. Non lo capisci fin quando non lo vivi. La montagna va vissuta, per essere compresa.”
Rebecca si voltò verso di lui. “Crede che tutti la capiscano?”
“No. Ma chi lo fa, se ne innamora per sempre.”
La strada cominciò ad inerpicarsi. Il signor Lansbury cambiò marcia e Rebecca ebbe la netta impressione che la vecchia auto faticasse parecchio su quella salita.
“Da come me ne ha parlato Barbara, deve amare molto questo posto.”
L’uomo sorrise. “Oh sì. E’ rimasta incantata fin dal primo momento. È stata lei ad insistere tanto per comprare una casa qui.”
“Per questo ci teneva tanto che venissi qui, lo scorso Natale.” – mormorò Rebecca. “Certo, con la neve dev’essere un incanto.”
“Lo vedrai anche con la neve. Abbiamo tutto il tempo.”
Rebecca non rispose.
Era davvero così? Quanto tempo restava a lei, Brenda e Barbara, prima che la loro vita cambiasse per sempre? Due anni. Ancora due maledetti anni, prima di essere assegnate ad un Protetto. Due anni ancora, per poter vedere la neve, prima di essere seppellita in una casa qualunque, in una famiglia qualunque, a proteggere un perfetto estraneo. A meno che…
A meno che non fosse riuscita a scovare Posimaar e ucciderlo, come aveva fatto con Cogitus. Se avesse ucciso il Demone, tutta quella storia sarebbe finita. Non ci sarebbero più stati ragazzi da proteggere, le Streghe Bianche sarebbero tornate libere, le Streghe Nere sarebbero scomparse una volta per tutte e tutto sarebbe tornato come prima. Lei sarebbe potuta tornare a Villa Bunkie Beach e avrebbe potuto vedere la neve ogni volta che voleva. Sarebbero tutte tornate alla loro vita di un tempo…. Rebecca non ricordava nemmeno più com’era vivere senza quell’inquietante spada di Damocle sulla testa. Da quando Banita le aveva parlato del Demone e delle Prescelte, tutti i suoi pensieri avevano cominciato a ruotare intorno a questo. Ogni fibra del suo essere, da allora, era volta ad un unico scopo: Amtara e i Protetti. La sua vita cancellata per sempre, i suoi sogni infranti, la speranza per il futuro morta e sepolta. Non sarebbe più esistita Rebecca Bonner, ma solo una Strega qualunque che avrebbe dovuto sacrificarsi nel nome del bene superiore.
Era tutto talmente ingiusto…
Quando ripensava a Bonnie Stage, Rebecca fremeva di rabbia. Era una ragazza giovane, proprio come lei, sicuramente piena di sogni, di aspettative per il futuro. Una giovane vita spezzata, per colpa di Posimaar.
Oh, sarebbe stato talmente facile, se solo sua madre le avesse dato un altro piccolo aiuto, proprio come aveva fatto con Cogitus l’anno prima. Era stata sua madre a far comparire il piccolo pugnale in argento che le aveva permesso di uccidere il licantropo Cogitus, sotto gli effetti di una terribile maledizione di Posimaar. Rebecca aveva scoperto, da sua madre, che quella maledizione poteva essere spezzata solo da un’arma d’argento.
Se solo Posimaar fosse stato un licantropo, sarebbe bastato trovare un’altra arma in argento per poterlo uccidere…
Rebecca sorrise di se stessa. Era quanto meno improbabile che Posimaar fosse un licantropo e che sarebbe bastato questo ad eliminarlo. Dopotutto, Cogitus era suo alleato e il Demone doveva ormai aver saputo come era riuscita ad ucciderlo. Sicuramente possedeva altre armi nascoste che lei non conosceva, altri misteriosi poteri che avrebbe scoperto solo nel momento in cui l’avrebbe affrontato. Chissà, c’era anche la possibilità che decidesse di servirsi di altre spie… Cogitus non sarebbe certo stato l’unico disposto a mettere da parte i suoi buoni sentimenti, se mai ne avesse avuti, per mettersi al servizio di un Demone senza scrupoli, in cambio di una lauta ricompensa.
Non sarebbe stato così facile trovarlo, ma era assai probabile che lui avrebbe trovato lei, presto o tardi. E allora cos’avrebbe fatto? Come si sarebbe battuta contro di lui? Quali armi avrebbe usato? Chissà, forse sua madre sarebbe corsa nuovamente in suo aiuto… ma se non l’avesse fatto? Rebecca sapeva che doveva farsi trovare pronta, ora che aveva la certezza che il Demone la stava cercando.
Era tutto nelle sue mani, nonostante quello che potesse pensare la Collins, la preside di Amtara. Era arrivata a proibirle di usare il suo Potere a scuola, pur di proteggerla. Ma Rebecca sapeva che nessuno avrebbe potuto farlo per sempre. Prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con la realtà e sapeva che lo scontro finale sarebbe stato tra lei e Posimaar. Uno dei due avrebbe dovuto sconfiggere l’altro, non c’era altra soluzione.
Se avesse vinto lei, il Mondo della Magia Bianca sarebbe risorto.
Se avesse vinto lui….. Rebecca preferiva non pensarci.
Finalmente giunsero di fronte ad una casetta in legno, proprio dove la strada finiva.
Il signor Lansbury parcheggiò l’auto di fronte all’ingresso e Rebecca vide Brenda, Barbara e la signora Lansbury uscire e venirle incontro.
Scese dall’auto e corse ad abbracciarle.
“Non posso credere che sei qui!” – esclamò Barbara raggiante.
“Doveva essere una sorpresa, in effetti.” – puntualizzò Rebecca ridendo.
“Lo sai che con lei le sorprese sono impossibili.” – aggiunse Brenda, sorridendo.
“Benvenuta, cara.” – le disse la signora Lansbury.
“Buongiorno, signora Lansbury.”
“Hai fatto buon viaggio?”
“Sì.”
“Hai mangiato?”
“No.”
“Vieni dentro, ti preparerò qualcosa.”
Le seguì dentro casa, mentre il signor Lansbury portava di sopra i suoi bagagli.
Si guardò intorno. L’arredamento era semplice ed essenziale e l’ambiente accogliente e caldo. Si sentì subito a suo agio. Era molto diverso dallo stile antico e forse un po’ pomposo di casa sua.
“Ti piace?” – le chiese Barbara, mentre sedevano al tavolo.
“Molto.”
“Non è niente di speciale.” – disse la signora Lansbury, mentre si apprestava a tagliare pane e prosciutto, dando loro le spalle. “Ma è confortevole. Ed è casa.”
“Mi creda signora Lansbury, questo posto è bellissimo. Sono appena arrivata e mi sono già innamorata della montagna. ” – rispose Rebecca.
La donna si voltò a guardarla per un istante e Rebecca fu lieta di vederla sorridere.
“Vuoi vedere la nostra camera?” – propose Brenda.
“Certo!”
Salirono al secondo piano, tramite una scala in legno che cigolò sotto i loro passi.
La camera da letto era piuttosto grande. C’erano due letti e una grande finestra, un armadio e una scrivania piena di libri. Il pavimento in legno scricchiolava un po’ sotto i loro piedi e a Rebecca quel rumore piaceva.
“Vieni, ti mostriamo la tua camera.” – le disse Brenda.
La camera di Rebecca era quella degli ospiti, molto più piccola della loro, con un armadio in noce, un letto e un divanetto rosso, con tre cuscini dello stesso colore e un grande orsacchiotto di peluche.
“Il pranzo è pronto!” – gridò la signora Lansbury, dal piano di sotto.
Quando scesero, Rebecca notò che era apparecchiato solo per uno. C’era pane, formaggio, prosciutto e dolcetti alla mela.
“Voi non mangiate?” – chiese Rebecca, perplessa.
“Abbiamo già mangiato.” – rispose Brenda.
“Oh, ma non doveva disturbarsi apposta per me!” – esclamò Rebecca, rivolta alla signora Lansbury.
“Non dire sciocchezze. Ho solo affettato un po’ di pane e prosciutto. Spero sia sufficiente. Ma se vuoi, posso cucinarti qualcosa di caldo…”
“Questo andrà benissimo.” – rispose Rebecca.
Mangiò di gusto e scoprì che l’aria di montagna metteva appetito. La temperatura era ben diversa da quella di Bunkie Beach e i dolci alla mela erano squisiti.
“A che quota siamo?” – domandò, addentando un pezzo di formaggio.
“Duemila metri.” – rispose Barbara.
“Di notte dormiamo col piumone.” – aggiunse Brenda.
“Dovrò farci l’abitudine, dopo il caldo di Bunkie Beach.” – disse Rebecca, sorridendo.
“Com’è andata con Elettra?” – le chiese Barbara.
Rebecca raccontò la settimana appena trascorsa, dall’uscita in barca, alle lunghe passeggiate, fino alle chiacchierate sul divano dopo cena.
“Siete andate anche al luna park?” – domandò Barbara, con finta ingenuità.
“Solo un giro veloce.” – rispose Rebecca, ben sapendo dove voleva andare a parare.
“Ti sarai divertita.”
“Spiritosa.”
Barbara sghignazzò.
Rebecca finì di mangiare e trascorse il pomeriggio a disfare i bagagli e chiacchierare con le gemelle.
Nei giorni seguenti, scoprì che l’aria di montagna, oltre a procurarle un vorace appetito, aveva la straordinaria capacità di metterla di buonumore. Avrebbe voluto che il tempo si fermasse e che quei giorni non finissero mai.
Esplorò i dintorni insieme a Brenda e Barbara, che l’accompagnarono in lunghe e faticose passeggiate ad alta quota. Rebecca, abituata alla placida e tranquilla vita di mare, faticava a reggere il ritmo e arrivava a sera stanchissima.
“Mi sembra che l’aria di montagna ti faccia bene.” – osservò una sera il signor Lansbury.
Nonostante Rebecca avesse cercato di proteggersi dalle scottature, il sole ad alta quota era impietoso e il suo viso aveva assunto un colorito rossastro che accentuava ancora di più le lentiggini intorno al naso.
“Sì, ma non mi sono mai sentita tanto stanca in vita mia.” – rispose, soffocando uno sbadiglio.
Il signor Lansbury rise. “Ci vuole tempo, ma ti ci abituerai.”
“Anche Brenda e Barbara erano sempre stanche i primi tempi.” – disse sua moglie. “Sai, la vita in città è molto diversa.”
“Comunque, domani andiamo sulla seggiovia.” – annunciò Barbara, raggiante.
Il cuore di Rebecca sprofondò. Doveva ancora riprendersi dalla faticosa camminata di quel giorno. Dubitava che l’indomani avrebbe avuto le forze di ripetere l’esperienza.
“Ehm.. davvero?”
“Certo. Sarà divertente.”
“Ci sarà da camminare anche lì?” – chiese Rebecca, preoccupata.
Brenda rise. “No, facciamo solo un picnic.”
Rebecca tirò un sospiro di sollievo.
“Sei davvero così stanca?” – le domandò Barbara.
“Un buon sonno mi rimetterà in sesto.” – rispose.
Le si chiudevano gli occhi dalla stanchezza. Era convinta che sarebbero state delle vacanze riposanti, e invece quasi aveva nostalgia della tranquilla vita di mare cui era abituata.
La signora Lansbury servì la cena in tavola. “Adesso mangiate. E poi, subito a nanna.”
 
Il mattino dopo fecero colazione di buon’ora. Rebecca era sempre stata convinta che niente potesse eguagliare la cucina degli Gnomi di Amtara, ma si sbagliava. La signora Lansbury aveva preparato pane fatto in casa con marmellata di amarene, formaggio fresco di capra, salumi e latte appena munto, oltre ad una macedonia di frutta fresca e frullato al lampone.
Oltre alla colazione, trovarono già pronti tre sacchetti contenenti il loro pranzo al sacco.
Partirono a piedi, con gli zaini in spalla, e camminarono fino alla seggiovia.
Rebecca non ci era mai salita e scoprì che era divertente osservare il paesaggio da lassù. Quando arrivarono, si avviarono per un sentiero un po’ ripido, che le avrebbe condotte fino ad un pascolo, dove avrebbero trascorso il resto della giornata.
“Ma non doveva essere riposante, oggi?” – domandò Rebecca, arrancando in salita, col fiato mozzo.
“Dai, manca poco e siamo arrivate.” – rispose Barbara.
Brenda la seguiva di buon passo.
Rebecca, rimasta un po’ indietro, si stupì nel constatare quanto fosse fuori allenamento. O forse erano le due amiche ad aver acquisito quel passo da montanare.
Quando arrivarono in cima, però, capì che ne era valsa la pena. Non aveva mai visto nulla del genere. Dovevano essere almeno a 2.500 metri di altitudine. Faceva così freddo, nonostante fosse una giornata di sole, che furono costrette a tirare fuori le giacche a vento dagli zaini.
Rebecca si coprì per bene e si sdraiò sul prato. Erano così in alto che le case sembravano minuscole e le strade s’intravedevano appena.
Tirava un vento gelido, ma a Rebecca non importava. Non avrebbe mai voluto andarsene da lì. Era, semplicemente, estasiata.
A casa sua non si era mai sentita così. C’era qualcosa, in quell’atmosfera magica, che la faceva sentire bene, come non lo era mai stata. Tutto assumeva una dimensione diversa e i cattivi pensieri si dissolvevano come neve al sole.
“Adesso capisco perché amate tanto questo posto.” – mormorò.
“E’ come essere in paradiso.” – disse Brenda, sedendo accanto a lei. “Da quassù verrebbe quasi da pensare che il male non possa esistere, vero?”
“Già. Solo che invece esiste, purtroppo.” – replicò Rebecca amara.
“Beh, possiamo sempre fare finta che non sia così. Almeno per oggi.”
“E magari anche domani.”- aggiunse Barbara, venendo a sedersi insieme a loro.
Restarono in silenzio per un po’, contemplando la natura.
Rebecca chiuse gli occhi e si concentrò sul suono del vento, cercando di sgomberare la mente. Era così facile non pensare, lassù…
Più tardi, tirarono fuori il pranzo e mangiarono i panini giganteschi che la signora Lansbury aveva preparato.
Intanto, cominciò ad arrivare altra gente e il suono delle loro voci spezzò l’incanto.
Rebecca osservò, divertita, un cane correre verso il laghetto poco distante da loro e bere avidamente. Il suo padrone lo raggiunse e sedette in riva al lago, godendosi il tepore del sole.
“E’ sempre così.” – disse Barbara, infastidita. “Nel pomeriggio comincia sempre ad arrivare un sacco di gente.”
Un bambino arrivò di corsa al laghetto e cominciò a giocare con il cane. La madre lo raggiunse e si fermò a scambiare qualche parola con il padrone.
Rebecca ripensò a sua madre. Non era passato giorno, da quando aveva visto il fantasma di Banita ad Amtara, in cui non avesse pensato a lei.
Non aveva ancora raccontato l’episodio a Brenda e Barbara, sia perché non ce n’era stato il tempo, sia perché ci aveva impiegato un po’ per metabolizzare l’esperienza. Non era qualcosa che accadeva tutti i giorni, ricevere la visita del fantasma di tua madre che si metteva a chiacchierare con te come nulla fosse.
Chiunque sarebbe rimasto scioccato da una cosa del genere. Ma Rebecca si era ripresa in fretta e ora era pronta per raccontare alle sue migliori amiche quello che era successo.
Dopo che ebbero mangiato, sdraiate sotto l’impietoso sole dell’alta montagna, si decise a parlare.
“Sentite, c’è una cosa di cui vorrei parlarvi.”
Le ragazze si voltarono a guardarla, colpite dal suo tono improvvisamente serio.
“Spara.” – disse Barbara.
“E’ da un po’ che volevo dirvelo, ma non c’è stata l’occasione, con l’inizio delle vacanze.”
Le gemelle la fissarono, in attesa.
“Dobbiamo preoccuparci?” – le chiese Barbara, un po’ allarmata dalla sua esitazione.
“Che hai combinato stavolta?” – aggiunse Brenda.
“Perché pensi sempre che io abbia combinato qualcosa?” – sbottò Rebecca, irritata.
Brenda si strinse nelle spalle. “Perché ormai ti conosco. Quando vuoi sai essere peggio di mia sorella. AHI!”
Brenda si massaggiò piano il punto in cui Barbara le aveva dato un pizzicotto.
“Si tratta forse di Posimaar?” – chiese Barbara.
Rebecca scosse la testa. “No, stavolta lui non c’entra. Si tratta di mia madre.”
 
 
Rebecca cominciò a raccontare di quando, l’ultimo giorno di scuola, rientrata in camera per prendere il beauty case dimenticato da Barbara, lo spirito di sua madre era comparso davanti ai suoi occhi e le aveva parlato.
“Sei proprio sicura che fosse lei?” – domandò Brenda, sbigottita.
Rebecca la fissò. “Credo di essere ancora in grado di distinguere l’aspetto e la voce di mia madre.” – rispose, un po’ offesa.
“Scusa, ma la cosa ha dell’incredibile. Non si è mai sentito di fantasmi che tornassero indietro per parlare con i vivi. Beh, a parte le fate di Amtara, ma ovviamente è un altro discorso..”
Il castello di Amtara era ancora popolato dai fantasmi delle fate che vi avevano abitato un tempo. La Collins aveva faticato parecchio per convincerle a mettere a disposizione la loro antica dimora per farne una scuola. Le fate non avevano gradito, ma avevano comunque accettato. Il risultato era stato una più o meno pacifica convivenza tra le Prescelte e gli spiriti delle fate le quali, perlopiù, ignoravano le Streghe e tutto quanto avesse a che fare con il loro mondo.
“Brenda, ti dico che era lei.” – ripeté Rebecca. “E mi ha anche detto una cosa che ha dell’incredibile.”
“Cioè?”
“Ricordi che ho ucciso Cogitus con un pugnale d’argento?”
Brenda annuì. “Certo, l’hai trovato per terra mentre lui stava cercando di uccidere Garou.”
“Credevo appartenesse a Cogitus, ma mi sbagliavo. E’ stata lei a mandarmi quel pugnale.”
“Che cosa!?” – esclamò Barbara, incredula.
“Dici davvero?” – disse Brenda.
“Sapeva che solo un’arma d’argento avrebbe potuto uccidere una creatura come quella. Mi ha detto che Cogitus era un licantropo perché era sotto l’effetto di una maledizione di Posimaar.”
“Per questo non si trasformava con la luna piena come Garou…” – disse Barbara, con un’espressione di genuino stupore sul viso.
“Esattamente. Solo un’arma d’argento avrebbe potuto ucciderlo. Lei lo sapeva, e mi ha mandato quel pugnale.”
Brenda era sconvolta. “Ed è tornata indietro per dirtelo?”
Rebecca annuì. “Voleva che lo sapessi. Voleva farmi sapere che in tutto questo tempo non mi ha mai abbandonato. Capite? E’ tutto merito suo se alla fine tutto è andato per il meglio.”
“Questo è straordinario.” – disse Barbara.
“E sai una cosa? Ne avevo bisogno. Voglio dire… non so spiegarlo ma… da quando le ho parlato mi sembra di sentirmi meno sola. Anche se è svanita nel nulla, anche se non ho nemmeno potuto abbracciarla. Rivederla mi ha fatto bene.”
Brenda la guardò, senza dire nulla. Era commossa dalle sue parole, oltre che incredula per quanto era successo. Non aveva mai sentito di fantasmi che tornassero dall’oltretomba per parlare con i loro cari, ma era chiaro che Banita aveva avuto delle ottime ragioni per farlo. Ed era stato un bene per Rebecca, a giudicare dalla felicità che traspariva dal suo volto.
“Però, chissà che spavento trovartela lì all’improvviso…” – disse Barbara. “Credo che se fosse successo a me mi sarebbe venuto un infarto!”
“In effetti mi è quasi preso un colpo. Avevo appena recuperato il tuo beauty case in bagno, mi sono girata e lei era lì, avvolta da una luce accecante. Mi sono avvicinata e poi, quando ho visto il suo volto, per poco non sono svenuta. Ci ho messo un po’ a realizzare che fosse lei, ma quando mi ha parlato non ho più avuto alcun dubbio.”
“Cosa ti ha detto?”
“Voleva che mi avvicinassi, ma non ne ho avuto il coraggio. Poi mi ha parlato, ma non è stata una conversazione molto lunga. Ha detto… ha detto che le era stato dato il permesso di tornare da me, ma solo in via eccezionale.”
Brenda aggrottò la fronte. “Che vuol dire, in via eccezionale?”
“Che di solito agli spiriti non è concesso tornare indietro. Ma lei deve aver insistito, perché doveva dirmi quelle cose, capisci?”
“L’hai… l’hai toccata?” – chiese Barbara.
“No. Avrei voluto, ma non sarebbe stato come quando era viva, no?”
“No, immagino di no.” – rispose Barbara, in un sussurro. Poi spalancò gli occhi. “Ma allora non hai parlato con la Collins!”
Barbara ricordava perfettamente che Rebecca aveva raccontato, al suo ritorno, di aver parlato a lungo con la preside, per giustificare la sua prolungata assenza.
“Ehm…no. Non sono scesa subito…. Voglio dire, avevo bisogno di riprendermi un attimo prima di tornare da voi.”
“Beh, questo è comprensibile.” – disse Barbara, ragionevole.
“Avrei voluto dirvelo, ma non era quello il momento giusto. Di certo non di fronte ai vostri genitori.”
Brenda annuì, comprensiva. “Cosa ti ha detto quando ti ha salutato?”
Rebecca alzò gli occhi su di lei. Avrebbe ricordato per sempre le parole di sua madre.
“Mi ha detto che è fiera di me, che sono stata coraggiosa e …. Di vivere la mia vita meravigliosa, perché lei veglierà sempre su di me.”
Non aggiunse altro. Ricordava di averla implorata di non andare, di essere scoppiata a piangere, di averla supplicata di restare con lei, ma non era qualcosa che desiderava condividere con loro. Il suo dolore era e sarebbe sempre stato soltanto suo. Per quanto l’amicizia potesse essere forte e solida, c’erano cose che andavano tenute per sé, e questa era una di quelle.
Brenda e Barbara non sapevano cosa significasse perdere i genitori e lei era felice di questo. Si augurava che lo scoprissero il più tardi possibile, perché lei conosceva bene il vuoto che la loro perdita avrebbe lasciato. Era come se qualcosa si spezzasse dentro di sé e, dopo, la vita non sarebbe mai più stata uguale.
Ma non esistevano parole per esprimere tutto quel dolore. Era qualcosa che bisognava provare personalmente e lei, intanto, avrebbe celato quel dolore dinanzi al mondo.
Brenda aveva abbassato lo sguardo, per nascondere il luccichio dei suoi occhi. Riteneva quella di Banita un’immensa prova d’amore verso sua figlia. Si era battuta per tornare dall’aldilà solo per poter parlare pochi minuti con lei, per spiegarle quello che aveva fatto per lei, per dirle che, anche se si sentiva sola, non lo era affatto. Capiva come dovesse sentirsi Rebecca in quel momento.
“L’hai raccontato ad Elettra?” – le chiese Barbara.
“No. Siete le uniche persone a saperlo. E resterete le uniche.”
Rebecca aveva stretto un buon rapporto con Elettra, ma non se l’era sentita di condividere con lei qualcosa di così personale. Per quanto affetto provasse per lei, solo con Brenda e Barbara aveva stretto un rapporto tale da permetterle di aprire loro il suo cuore.
 
Nel pomeriggio si alzò un forte vento e le gemelle, temendo che la seggiovia chiudesse in anticipo, decisero di rientrare prima del previsto.
Rebecca era d’accordo, perché il vento gelido le stava congelando la faccia. Era talmente abituata a vivere in un clima caldo durante tutto l’anno, che il suo corpo faceva molta fatica ad acclimatarsi in un ambiente così diverso.
Quella sera la signora Lansbury cucinò uno squisito brasato con polenta. Dopo cena, sedettero tutti intorno al camino a sorseggiare sherry, parlando della giornata appena trascorsa. Un’ora dopo, complice il calore del fuoco e l’alcol che le riscaldava le vene, a Rebecca si chiudevano gli occhi.
La signora Lansbury le spedì tutte e tre a dormire e nessuna di loro protestò.
Rebecca si addormentò non appena mise la testa sul cuscino e quella notte sognò il fantasma di Banita.

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Capitolo 3
*** Ritorno ad Amtara ***


Quei tre mesi di vacanza volarono. Dopo la settimana a Bunkie Beach con Elettra e la vacanza in montagna con Brenda e Barbara, Rebecca tornò per qualche giorno a casa.
Ebbe giusto il tempo di sistemare le cose e preparare i bagagli per il ritorno ad Amtara, prima di salutare nuovamente la sua casa.
Un altro anno scolastico l’attendeva. Le sembrava che il tempo volasse e, prima di rendersene conto, avrebbe terminato la scuola e la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Ma non era ancora il momento di pensarci.
La mattina in cui i signori Lansbury vennero a prenderla per accompagnarla a scuola insieme a Brenda e Barbara, Rebecca chiuse a chiave Villa Bunkie Beach, insieme ad una parte del suo cuore che sarebbe sempre appartenuto a quella casa dove aveva vissuto gli anni meravigliosi della sua infanzia.
Quando arrivarono a destinazione, salutarono i signori Lansbury e si avviarono lungo il vialetto in ghiaia che conduceva all’ingresso.
Non fecero in tempo a mettere piede nell’atrio, che furono subito raggiunte da tre Gnomi che, lesti come sempre, si affaccendarono attorno a loro per prendere i bagagli e portarli di sopra.
“Sapete, mi piacerebbe sapere dove prendono tutta quell’energia.” – disse Barbara, osservandoli salire le scale, apparentemente senza il minimo sforzo.
Rebecca si strinse nelle spalle. “La Collins dice che è nella loro natura. Così piccoli eppure così forzuti.”
“Vorrei avere almeno un quarto di quell’energia, soprattutto quando mamma mi dice di mettere a posto la mia stanza.”
“Quando mai è successo che tu abbia sistemato la nostra stanza?” – le domandò Brenda, con un sopracciglio inarcato.
“Appunto.” – replicò Barbara, senza scomporsi. “Mi manca l’energia degli Gnomi.”
Brenda alzò gli occhi al cielo e Rebecca sogghignò.
“Oh, eccovi qui!”
Trasalirono tutte e tre quando la preside di Amtara, Dana Collins, sbucò dal suo ufficio.
Era una donna alta e magra, dal costante cipiglio severo, che amava indossare abiti decisamente fuori moda. Quel giorno portava una lunga gonna scozzese, che faceva a pugni con i colori sgargianti del maglioncino di cotone infeltrito che aveva scelto di abbinare. L’accostamento risultava talmente ridicolo che Rebecca dovette fare un notevole sforzo per non ridere.
“Buongiorno professoressa.” – la salutò Rebecca.
“Ciao Bonner. Signorine Lansbury.”
“Buongiorno professoressa.” – la salutarono in coro le gemelle.
“Avete passato delle buone vacanze?”
“Sì, grazie.” – rispose Barbara. “Ma dove sono tutte le altre?” – aggiunse, guardandosi attorno.
L’atrio era vuoto.
“Sono già arrivate. Ecco, questa è la chiave della vostra stanza. Andate a cambiarvi, tra non molto sarà ora di pranzo.”
E sparì nel corridoio.
“Se c’è una cosa che amo di lei è la sua incredibile loquacità.” – disse Barbara, guardandola andare via.
“Dai, muoviamoci.” – disse Rebecca, avviandosi su per le scale. “Facciamo in tempo a disfare i bagagli prima di pranzo.”
La loro stanza era la numero 49 al terzo piano.
Quando entrarono, a Rebecca sembrò quasi di essere tornata a casa. Certo, la sua stanza a Villa Bunkie Beach non aveva niente in comune con quella di Amtara, ma ora, rivedendo quelle quattro mura dopo tanto tempo, scoprì che si era affezionata a quel letto morbido, alle tende rose e alla tappezzeria a fiori.
Era tutto proprio come l’avevano lasciato.
Rebecca ebbe un tuffo al cuore ripensando all’ultima volta in cui era stata in quella stanza. Rivide molto nitidamente nella sua mente l’immagine di sua madre che le compariva davanti.
“Ti senti bene?” – le chiese Brenda, indovinando i suoi pensieri.
Rebecca annuì. “Era proprio qui.” – disse, indicando il punto in cui sua madre era apparsa.
Brenda le sfiorò il braccio con una mano, in un gesto gentile.
“Sto bene, non preoccuparti.”
Voltandosi per aprire la valigia, Rebecca si domandò se fosse proprio così.
Le aveva fatto un certo effetto rievocare quel momento. Non avrebbe mai dimenticato lo spirito di sua madre, le sue parole, la sua folle paura, le lacrime, il dolore, la sorpresa, lo spavento. Ogni emozione vissuta in quei pochi istanti era viva dentro di lei come se tutto fosse accaduto solo poche ore prima.
Si costrinse a non piangere e si concentrò sui vestiti da sistemare nell’armadio.
Brenda e Barbara si scambiarono una breve occhiata, ma non dissero nulla e cominciarono a disfare le valigie. Sapevano che Rebecca era scossa da quel ricordo e temevano che qualunque cosa avessero potuto dire sarebbe stata inutile e, probabilmente, inopportuna.
Sistemarono le loro cose e si cambiarono e, un’ora dopo, scesero per il pranzo.
La Sala da Pranzo era già piena e trovarono un solo tavolo libero.
“Hanno l’aria terrorizzata, vero?” – disse Barbara sogghignando.
“Chi?” – chiese Rebecca, senza capire.
“Quelle del primo anno! Guardale un po’. Le riconosci dalle facce.”
Rebecca seguì la direzione del suo sguardo.
Barbara aveva ragione. Un gruppo di ragazze sedeva ad un tavolo in fondo alla Sala. Stavano tutte insieme e si guardavano attorno intimorite, alcune rosse in viso, altre piuttosto pallide. Rebecca era pronta a scommettere che non avrebbero toccato cibo.
“Se non ricordo male, nemmeno tu un anno fa eri molto tranquilla.” – le fece notare Brenda, acida.
“Beh, ora è diverso.” – rispose Barbara, afferrando un pezzo di pane dal cestino che uno Gnomo aveva appena servito in tavola.
“Non credi, piuttosto, che abbiano bisogno di essere incoraggiate e, magari, tranquillizzate?”
“Certo, ma dove sta scritto che debba farlo io?” – rispose Barbara, masticando con la bocca aperta.
Brenda si mise una mano sulla fronte. “Lasciamo perdere.”
Come Rebecca aveva immaginato, quando gli Gnomi servirono il pasto alle nuove arrivate, nessuna di loro sembrava particolarmente interessata alle pietanze.
Le si strinse il cuore. Ripensò a quello che aveva provato solo un anno prima, quando era arrivata ad Amtara. Quella non era una scuola qualunque. Nessuna Prescelta aveva scelto di essere lì. Erano state costrette dalle circostanze.
Questo cambiava tutto. Certo, alcune di loro avevano reagito bene, adattandosi perfettamente alla situazione. Ma, per qualcun'altra, le cose non erano così semplici. Ed era tutto dannatamente difficile, soprattutto il primo anno.
Il mondo della Magia Bianca si comportava come se fossero Streghe qualunque. Dal momento in cui Calì Amtara aveva istituito quella scuola, tutti si aspettavano il meglio da loro e tutti si comportavano come se fosse la cosa più ovvia e naturale del mondo dover studiare lì per tre anni, prima che la loro vita cambiasse per sempre.
Nessuno aveva chiesto come si sentissero, cosa provassero, nessuno le aveva mai veramente sostenute psicologicamente.
No. Erano tutti troppo occupati a pensare a Posimaar e alle sue dannate Streghe Nere che stavano sterminando i Protetti. Erano tutti troppo occupati con il mondo là fuori, per preoccuparsi realmente delle Prescelte, che, in fin dei conti, erano l’ultima speranza per la Magia Bianca. Ma, pensava Rebecca, forse proprio per questo, quel mondo non avrebbe dovuto avere maggior considerazione per loro?
Rebecca non disse nulla, ma proprio non riusciva a condividere l’ilarità di Barbara.
Brenda aveva ragione. Quelle ragazze avevano bisogno di sostegno, di comprensione e di amicizia. Ed era compito loro farlo. In fondo, erano una grande famiglia e avevano il dovere di sostenersi a vicenda.
“E quello chi è?”
La domanda di Barbara la fece tornare coi piedi per terra, distogliendola dai suoi pensieri.
Barbara stava fissando un buffo ometto con la testa pelata e i baffi che sedeva al tavolo dei professori.
Quando Rebecca lo vide, le scappò da ridere.
L’addome dell’uomo era talmente gonfio che sembrava che i bottoni del panciotto fossero sul punto di scoppiare da un momento all’altro, rischiando di cavare un occhio al primo malcapitato che si fosse trovato sulla loro traiettoria.
Stava mangiando di buon appetito, talmente concentrato sul piatto, da sembrare non accorgersi di tutto il resto.
“Il sostituto di Cogitus?” – ipotizzò Brenda.
“Per certi versi me lo ricorda.” – disse Rebecca, guardando l’ometto masticare lentamente ogni singolo boccone.
“Speriamo di no.” – replicò Barbara, reprimendo un brivido.
In quel momento videro entrare la preside, che andò a sedersi proprio accanto a lui.
Quando la vide avvicinarsi, l’uomo si alzò in piedi e fece un buffo inchino. Rebecca vide distintamente il riflesso della luce sulla sua testa pelata.
Barbara ridacchiò.
La Collins sembrò bloccarsi per un istante, probabilmente spiazzata da quel gesto. Ma si ricompose subito e, non appena sedette, uno Gnomo accorse per servirla.
“Hai visto?” – disse Barbara rivolta a Rebecca.
“Sì.” – rispose Rebecca, ridendo.
“Visto cosa?” – domandò Brenda che, dando le spalle al tavolo dei professori, non aveva potuto assistere alla scena.
“Si è inchinato al cospetto della Collins quando l’ha vista arrivare.” – rispose Barbara, senza riuscire a smettere di ridere.
“Davvero?” – fece Brenda, sbalordita.
“Ne vedremo delle belle quest’anno.”
Barbara riuscì a tornare seria solo quando, qualche istante dopo, uno Gnomo servì al loro tavolo un vassoio di arrosto con patate, seguito da uno colmo di gamberoni al forno.
Rebecca la guardò servirsi di un po’ di tutto e quando l’amica cominciò a masticare avidamente, per un istante le ricordò l’ometto che sedeva dietro di loro. Anche Barbara, quando mangiava, sembrava proprio perdere la cognizione del tempo e dello spazio.
Rebecca si servì una generosa porzione di gamberoni e si dedicò alla medesima occupazione di Barbara per parecchi minuti.
Quando fu sazia, voltandosi casualmente verso il tavolo accanto al loro, si accorse che due ragazze la stavano fissando con insistenza, in maniera piuttosto sgradevole.
Distolse lo sguardo.
“Non sono le uniche, sai?” – le disse Barbara.
“Cosa?”
“A fissarti in quel modo. Non volevo dirtelo, ma da quando siamo entrate non fanno che guardarti.”
Rebecca lanciò una breve occhiata attorno a sé, accorgendosi, sgomenta, che Barbara aveva ragione. Molte Streghe la stavano fissando e, non appena notarono che Rebecca se n’era accorta, distolsero subito lo sguardo, nervose.
Ma lei capiva perfettamente.
Era chiaro. Tutta Amtara ormai sapeva del suo strano Potere, per questo erano tutte così curiose. Probabilmente si stavano domandando dove nascondesse la stella che le permetteva di Spostarsi.
Con un gesto istintivo, appoggiò la mano sul tavolo, in modo che l’incavo del polso non fosse visibile a sguardi indiscreti.
Ma era ridicolo. Non poteva comportarsi in quel modo. Che senso aveva nasconderlo? Ormai tutte sapevano e lei non aveva la minima intenzione di tornare ad indossare quella fastidiosa polsiera che aveva usato per tutto l’anno precedente.
Al diavolo, non si sarebbe nascosta come una volgare ladra.
Non aveva fatto nulla di male, al contrario, doveva essere orgogliosa di quel Potere che, in fin dei conti, le aveva consentito di salvare la vita a Garou.
Decise di ignorare quelle occhiate furtive e tornò a concentrarsi sull’insalata che gli Gnomi avevano appena servito.
“Ignorale.” – le disse Brenda, in tono deciso. “La loro è solo curiosità morbosa.”
Con la coda dell’occhio, Rebecca vide due ragazze indicare nella sua direzione e confabulare tra loro.
Irritata, fu tentata di alzarsi e andarsene, ma non le sembrava carino lasciare lì da sole Brenda e Barbara.
Allontanò da sé il piatto di insalata, nauseata alla sola idea di mandare giù altro cibo.
Gli Gnomi servirono il dolce, budino alla vaniglia con salsa di lamponi.
“Non lo mangi?” – le chiese Barbara, dopo aver finito il suo e fissando avidamente il piatto di Rebecca.
“No.”
“Rebecca, non te la prendere.” – le disse Brenda, mentre sua sorella si avventava sulla porzione di dolce. “Vedrai che si stancheranno presto.”
“Tu dici?”
“Al massimo potrai dar loro una dimostrazione del tuo Potere, così soddisferanno la loro curiosità e la smetteranno di rompere.” – disse Barbara, mandando giù un boccone di budino.
“E come, visto che la Collins mi ha proibito di usarlo qui a scuola?” – ribattè prontamente Rebecca.
La preside le aveva tolto perfino quella soddisfazione.
“Ah già, me l’ero scordato.”
“E comunque non devo dimostrare niente a nessuno. E’ una cosa che riguarda soltanto me.”
“Giusto.”
“Hai finito?” – chiese Brenda a sua sorella.
“Sì, perché?”
“Perché se non devi ingurgitare altro, possiamo anche andarcene da qui.”
 
Più tardi, andarono in Aula Magna per la consegna dell’orario scolastico.
Rebecca passò in rassegna, con crescente preoccupazione, l’orario che la Collins le aveva appena consegnato.
“Sbaglio o ci hanno aumentato le ore?” – domandò alle gemelle.
“No, non sbagli.” – replicò Barbara, depressa. “Il prossimo anno che faranno, ci aggiungeranno lezioni notturne?”
“Beh, guardiamo il lato positivo.” – disse Brenda. “Con tutte queste ore di lezione, le Prescelte avranno altro a cui pensare e la smetteranno di fissarti tutto il tempo.”
“Magra consolazione.” – commentò Rebecca.
Il giorno seguente le lezioni cominciarono a pieno ritmo.
Rebecca scoprì che l’ometto grasso e baffuto che aveva visto il giorno prima a pranzo era proprio il nuovo insegnante di Gestione Antiveggenza.
“Il mio nome è Daniel Christie.” – annunciò alla classe in tono pratico, decisamente opposto a quello mellifluo e sognante di Cogitus. “La professoressa Collins mi ha informato che avete avuto qualche piccolo…ehm… problema con il vostro precedente insegnante.”
“Sì, proprio piccolo.” – mormorò Rebecca, a denti stretti.
Barbara soffocò una risata.
“Ora, non so quale sia stato il suo metodo di insegnamento, né mi interessa saperlo. Voglio solo che sappiate che sarò estremamente rigido con voi e anche poco tollerante con chi non mi dimostrerà il massimo impegno in questa materia.”
La classe lo fissò, ammutolita.
“Detto questo, direi che possiamo cominciare. Sono molto interessato alle vostre ultime Premonizioni. Chi vuole iniziare?”
Del tutto colte alla sprovvista, le ragazze si scambiarono occhiate nervose. Poi, un paio alzarono la mano. Solo in quel momento Rebecca si rese conto di non aver avuto Premonizioni da parecchio tempo.
“Il suo nome, signorina?” – chiese il professore a una ragazza coi capelli biondi e le lentiggini, che aveva il braccio alzato.
“Melissa Gray.”
“Bene. Quando ha avuto la sua ultima Premonizione?”
“Questa estate. Ho visto chiaramente Dan Gordon, un mio vicino di casa, finire sotto una macchina.”
“Sconvolgente.” – commentò il professore, con il tono di chi sembrava tutt’altro che impressionato. “ E cos’ha fatto?”
Melissa attaccò a descrivere il suo coraggioso salvataggio, ma Rebecca aveva smesso di ascoltarla. Seduta accanto a Barbara, aveva cominciato a sbirciare il giornale che l’amica stava sfogliando di nascosto sotto il banco. Evidentemente, nemmeno lei doveva essere molto interessata alla Premonizione di Melissa. C’erano dei disegni a fumetti e un articolo su un gruppo di Streghe rap che erano state arrestate per possesso di droga.
Brenda lanciò alla sorella un’occhiataccia, ma lei la ignorò, continuando a leggere il giornale.
In quel momento Rebecca si accorse che il professore stava guardando nella loro direzione, ma non fece in tempo ad avvertire Barbara che, in poche falcate, si ritrovarono l’ometto in piedi di fronte a loro.
Rebecca deglutì.
“Che cosa sta leggendo di così interessante, signorina Lansbury?”
Senza attendere la risposta, il professore afferrò la rivista.
“Mm, ci diamo a letture intellettuali, a quanto vedo. Top Witch.”
Alcune Streghe ridacchiarono.
Barbara arrossì fino alla radice dei capelli.
“Questo lo prendo io.” – disse il professore, infilandosi il giornale sotto il braccio e tornando a sedere in cattedra.
“Per punizione, Lansbury, scriverai un riassunto sulla Premonizione di Melissa.”
Barbara, allibita, sgranò gli occhi e fece per protestare, ma qualcosa nello sguardo del professore la indusse a tacere.
“E tu, Melissa, sei espressamente invitata a non rispondere alle domande sulla Premonizione, che certamente la signorina Lansbury ti rivolgerà nei prossimi giorni.”
Melissa, imbarazzata, annuì.
Barbara incassò il colpo ed evitò di guardare sua sorella, che la stava fissando come se avesse voluto prenderla a schiaffi.
 
“Quest’anno cominciamo presto con le punizioni.” – commentò Brenda acida, dopo la lezione.
“Brenda, non cominciare, per favore.” – la implorò Barbara, che si sentiva già abbastanza depressa per conto suo.
Poi si avvicinò a Rebecca. “Hai una vaga idea di cosa abbia visto Melissa nella Premonizione?” – le sussurrò, per non farsi sentire da Brenda.
“No. Ho smesso di ascoltare quando hai cominciato a sfogliare il giornale.” – replicò Rebecca mortificata.
“Grandioso.”
“Comunque era qualcosa a proposito di un salvataggio di un suo vicino di casa, ma non ricordo esattamente…”
“Credi che riuscirò a corrompere Melissa per farmelo raccontare?”
“Non lo so. Ma puoi sempre provarci. Tanto, peggio di così…”
Barbara soffocò un gemito.
“Cosa state confabulando, voi due?” – domandò Brenda, accorgendosi solo in quel momento che erano volutamente rimaste indietro.
“Niente.” – rispose Barbara.
“Non starai pensando di chiedere a Melissa di raccontarti la Premonizione? Hai sentito il professore, lei non ha il permesso di dirti nulla.”
“Magari potrai farlo tu.” – rispose Barbara speranzosa, con un sorrisino ammiccante.
“Scordatelo. Che ti è saltato in mente di portare quel giornalino in classe?”
“Mi stavo annoiando.”
Brenda alzò gli occhi al cielo. “Sei sempre la solita. Non cambierai mai.”
“Ed è per questo che mi vuoi così bene, vero sorellina?” – cinguettò Barbara melliflua.
Rebecca rise. Era sempre sorpresa dalla capacità di Barbara di ribaltare le situazioni a proprio favore. Era quasi sicura che sarebbe riuscita a farsi raccontare la Premonizione da Brenda, che non avrebbe mai permesso che sua sorella venisse punita ulteriormente.
Per quanto Brenda potesse apparire spesso scontrosa, Rebecca sapeva che amava profondamente sua sorella.
 
Nel pomeriggio avevano la prima lezione di Protezione, con la professoressa Rudolf.
Lo scorso anno Rebecca aveva avuto da ridire sui suoi metodi di insegnamento, in cui utilizzava come cavie dei topini bianchi per sperimentare l’effetto delle Cinque Maledizioni Assassine usate dalle Streghe Nere per attaccare i Protetti. Successivamente, Rebecca aveva compreso che gli animali non soffrivano particolarmente e che, dopotutto, quello era l’unico modo per permettere alle Prescelte di imparare a padroneggiare le Contromaledizioni in maniera efficace.
Le Streghe Nere non avevano pietà per le loro vittime innocenti e le Prescelte avrebbero dovuto essere perfettamente preparate a contrastare i loro attacchi.
“Prima di affrontare i nuovi argomenti di studio,” – esordì la Rudolf - “faremo un accurato ripasso delle tre Maledizioni Assassine che abbiamo studiato l’anno scorso: la Maledizione della Follia, la Maledizione Agghiacciante e la Maledizione Accecante.”
Rebecca non avrebbe saputo dire quale delle tre Maledizioni, studiate finora, fosse la più terribile.
La Maledizione della Follia mirava a far impazzire la vittima; quella Agghiacciante la riduceva all’ipotermia fino alla morte; quella Accecante ne incendiava gli occhi.
Non avevano ancora affrontato la Maledizione Dissanguante, ma Rebecca sapeva che era altrettanto spaventosa e letale. Gliene aveva parlato Elettra, che era un anno avanti a lei. L’anno prima una Prescelta, di nome Bonnie Stage e il suo Protetto, Jack Sommerville, erano morti per mano di questa Maledizione, inflitta da una Strega Nera poco prima di Natale.
Rebecca non avrebbe mai dimenticato la disperazione della Collins quando aveva avuto la notizia. Bonnie Stage era stata una sua allieva ad Amtara. Ma, in realtà, la notizia della sua morte aveva gettato nello sconforto tutte loro. Era chiaro a tutte le Prescelte che la prospettiva di finire come Bonnie diventava una possibilità sempre più realistica. Amtara era stata fondata proprio per scongiurare il peggio. Eppure, pensò Rebecca depressa, sembrava che nemmeno le Premonizioni servissero a molto, dopotutto.
Rebecca pensò che, nei mesi a venire, avrebbero studiato le due Maledizioni che ancora mancavano e che la Rudolf avrebbe impiegato il loro terzo e ultimo anno ad assicurarsi che ciascuna di loro padroneggiasse alla perfezione il Controincantesimo di ogni singola Maledizione Assassina.
Trascorsero l’ora successiva a prendere appunti e, quando uscì dall’aula, Rebecca aveva la mano destra dolorante.
“Perché ci costringe ogni volta a prendere appunti?” – si lamentò Barbara, massaggiandosi il polso.
“Per ficcarci bene in testa i concetti, immagino.” – rispose Brenda.
“Beh, potrebbe andare più piano. Facevo fatica a starle dietro.”
“Bonner.”
Rebecca si voltò.
Era la Collins.
“Hai finito la lezione?”
“Sì, perché?”
“Perché avrei bisogno di scambiare due parole con te. Nel mio ufficio.”
“Ehm, professoressa… abbiamo lezione con Garou…”
“Ti ruberò solo pochi minuti.” – rispose la preside, facendo cenno di seguirla.
“Ci vediamo dopo.” – le disse Brenda, a bassa voce.
Rebecca annuì e seguì la preside.
Sapeva che poteva esserci una sola ragione se la Collins desiderava parlare con lei: il suo Potere.
Quando, l’anno precedente, la preside aveva scoperto il suo Potere, aveva deciso di impedirle di utilizzarlo dentro i confini di Amtara, per la sua sicurezza ed incolumità.
Sulle prime, Rebecca non aveva accettato quell’imposizione, ritenendola ingiusta. Tuttavia, la Collins non le aveva lasciato altra scelta, perché in quella scuola le Prescelte erano sotto la sua responsabilità e lei aveva tutti i diritti di stabilire le sue regole.
Regole che ora, Rebecca ne era certa, la Collins desiderava sincerarsi che venissero rispettate.
Con un certo nervosismo, la sua mente cominciò a lavorare febbrilmente, alla ricerca di un valido motivo che potesse convincere la preside a cambiare idea.
Rebecca non capiva in che modo astenersi dall’usare il Potere avrebbe potuto proteggerla da Posimaar. Se era vero che il Demone la cercava, in un modo o nell’altro, l’avrebbe comunque trovata.
E lei non aveva alcuna intenzione di farsi trovare impreparata. Avrebbe lottato con ogni mezzo, proprio come aveva fatto con Cogitus, soprattutto ora che sapeva che sua madre l’avrebbe protetta e aiutata.
Nei suoi sogni di gloria, Rebecca si visualizzava nel momento in cui sconfiggeva per sempre il Demone Supremo e tutta Amtara celebrava il suo successo.
Nella realtà, Rebecca era ben lungi dal provare tanta sicurezza e la sua paura di Posimaar era più forte di quanto non fosse disposta ad ammettere.
“Entra.” – le disse la Collins, aprendo la porta del suo ufficio.
Rebecca obbedì.
 

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Capitolo 4
*** I mutaforma ***


 
Rebecca aveva sempre pensato che l’ufficio della Collins rispecchiasse pienamente la sua personalità. Non era la prima volta che vi metteva piede e anche stavolta provò una strana sensazione di disagio. La luce filtrava appena dalla piccola finestra a forma romboidale e l’arredamento era austero ed essenziale. Rebecca sprofondò nella lucida poltrona in pelle, lanciando un’occhiata distratta allo scaffale dietro la scrivania, pieno di libri.
La preside sedette davanti a lei e congiunse le mani. Rebecca aveva abbastanza esperienza di colloqui con lei da sapere che quel gesto significava solo una cosa: l’argomento era serio.
“Verrò subito al dunque.” – esordì.
“Non ce n’è bisogno.” – la interruppe Rebecca. “So già cosa vuole dirmi.”
“Davvero?”
“Vuole parlare ancora del mio Potere, giusto?”
Rebecca si sentiva inquieta. Era già abbastanza difficile sopportare l’idea che il Demone la stesse cercando per ucciderla, senza bisogno che la preside rincarasse la dose con le sue preoccupazioni.
“Esatto, Bonner.  Mi sento in dovere di ricordarti che ti è fatto assoluto divieto di usare il tuo Potere qui ad Amtara. Senza alcuna eccezione.”
“Nemmeno in caso di vita o di morte?”
“Se mi darai ascolto, non ti troverai nella malaugurata situazione di dover scegliere.”
“Come fa a dirlo?” Un lampo d’ira fiammeggiò nei suoi occhi. “Come fa a sapere esattamente cosa accadrà? Per quel che ne sappiamo, Posimaar potrebbe essere là fuori, molto più vicino di quanto pensiamo.”
L’ultima cosa che voleva era intavolare un’altra discussione su Posimaar con la Collins. Era sfiancante discuterne con lei, dal momento che sembrava non voler sentire ragioni.
Ma Rebecca temeva che il suo tentativo di proteggerla, alla fine, avrebbe potuto ritorcersi contro di loro e l’unica a farne le spese sarebbe stata lei. Si sentiva in trappola e senza vie d’uscita.
“Esatto, Posimaar potrebbe essere là fuori, pronto ad attaccare.” – replicò la Collins, senza perdere la calma. “Proprio per questo, tu non gliene darai motivo e non ti Sposterai. Non finchè sarai sotto la mia protezione.”
Rebecca emise una risatina sarcastica. “Crede davvero di potermi proteggere da lui? Crede che questo sia sufficiente?” Si sporse sulla sedia. “Vuole uccidermi. Mi troverà, prima o poi.”
“Se lo farà, lo affronteremo insieme.”
Rebecca non rispose. Respirava affannosamente, in preda alla rabbia.
Aveva bisogno di calmarsi, o avrebbe finito per dire cose di cui poi si sarebbe pentita.
“Il mio compito è proprio questo.” – continuò la Collins. “Impedire che ti accada qualcosa di male.”
“No, il suo compito è istruire le Prescelte a combattere, non metterle sotto una campana di vetro.”
La Collins trasalì a quelle parole.
Ma Rebecca era ormai inarrestabile.
“Si aspetta che io me ne stia qui buona buona, aspettando il momento in cui lui mi troverà. Ma cosa accadrà quando io me ne andrò da qui? Cosa accadrà quando avrò finito i miei studi ad Amtara? Chi mi proteggerà allora?”
“Per allora sarai una Prescelta perfettamente istruita.”
“Proprio come lo era Bonnie?”
Le parole le erano uscite quasi senza rendersene conto.
Rebecca arrossì, consapevole di essersi spinta troppo oltre.
La Collins avvampò, gli occhi socchiusi come due fessure.
Per alcuni istanti, nessuna delle due parlò.
Rebecca era pentita delle sue parole. Non voleva rievocare il doloroso ricordo di Bonnie Stage, ma la sua morte era la chiara dimostrazione che i tre anni di studio ad Amtara non sarebbero stati una garanzia di salvezza per nessuno. Ormai la Collins avrebbe dovuto capirlo, per quanto quel pensiero potesse farla stare male. Tuttavia, Rebecca sapeva che la preside non avrebbe mai ammesso che la scelta di Calì Amtara avrebbe potuto rivelarsi un clamoroso buco nell’acqua.
“Ascoltami, Bonner.” – riprese la Collins, in tono pacato – “Io non voglio che tu faccia qualcosa di avventato. L’ultima cosa che desidero è che Posimaar riesca a catturarti. So che un giorno, forse non troppo lontano, sarete destinati ad incontrarvi. Ma io non credo tu sia pronta. Non ancora. Non adesso.”
Rebecca sospirò, senza dire nulla.
“E per quanto riguarda la morte di Bonnie Stage…” – aggiunse la preside, abbassando la voce – “ Posso assicurarti che era un’allieva molto preparata. Io stessa le ho insegnato personalmente la maggior parte degli Incantesimi che conosceva. Purtroppo, questo non è bastato. Tuttavia, posso affermare con certezza che molte altre vite sono state risparmiate, grazie alle Prescelte, e sono certa continuerà ad essere così. Mi piacerebbe che tu avessi maggiore fiducia in noi, Bonner.”
Rebecca, punta sul vivo, non rispose.
La Collins le aveva parlato con il cuore in mano, lo percepiva. Sapeva quanto era stata dolorosa la morte di Bonnie per lei, eppure credeva ancora fermamente negli ideali di Amtara. Non si sarebbe mai arresa e avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per proteggerla.
“Professoressa, io non volevo…”
La preside alzò una mano per fermarla. “Non serve che tu aggiunga altro. Non ce n’è bisogno. Sono certa che hai compreso pienamente il senso delle mie parole.”
Rebecca annuì.
“Non intendo rubarti altro tempo prezioso.” – disse la Collins, alzandosi in piedi. “Ricorda quello che ti ho detto… e cerca di stare lontana dai guai.”
Dall’espressione della preside, Rebecca capì che non era il caso di replicare.
Le sue parole dovevano averla ferita, in qualche modo, ma ormai era tardi per rimediare.
Si alzò e si congedò da lei, un po’ abbattuta.
 
Quando uscì dall’ufficio della preside, Rebecca diede un’occhiata all’orologio e si accorse di essere in ritardo per la lezione di Storia della Stregoneria.
Mentre correva verso l’aula di Garou, ripensò a quella breve ma intensa conversazione e all’espressione apparsa sul volto della preside quando lei aveva nominato Bonnie.
Rebecca si morse le labbra. Era stato davvero un colpo basso, da parte sua, ma quelle parole le erano sfuggite a causa di tutta la frustrazione accumulata.
Rebecca non si sentiva più libera e la Collins cercava di rendere quella prigionia ancora più opprimente. Per un istante, pensò che sarebbe stato meglio non usare il suo Potere quel giorno nella grotta. Ora nessuno avrebbe saputo nulla, né la preside, né tantomeno le sue compagne, che non perdevano occasione di fissarla di sottecchi in qualunque momento della giornata. Ma questo avrebbe significato lasciar morire Garou, e Rebecca non se lo sarebbe mai perdonata.
Arrivò in classe per ultima, ma per fortuna il professore non era ancora arrivato.
Ebbe, quindi, il tempo di raccontare a Brenda e Barbara il suo colloquio con la Collins.
“E’ preoccupata per te.” – commentò Brenda.
“Sì, questo l’ho capito. Resta il fatto che il Potere è mio e di nessun altro. Dovrei essere io a decidere.”
Brenda alzò gli occhi al cielo. “Ne avevamo già parlato, se non mi sbaglio…”
“Già, e la mia opinione non è cambiata.” – replicò seccamente Rebecca.
Le dava sempre sui nervi ogni qual volta Brenda dava ragione ai professori.
Il più delle volte, le veniva voglia di contraddirla quasi solo per il puro gusto di farlo.
“Comunque quella cosa su Bonnie te la potevi risparmiare.” – disse Barbara.
Rebecca si rabbuiò. “Sì, lo so. Mi sono pentita subito dopo averlo detto.”
“Lei come ha reagito?”
“Non ha detto niente. Ma poi mi ha liquidata in maniera piuttosto sbrigativa. Credo davvero che non se l’aspettasse.”
Rebecca era amareggiata. La Collins non aveva raccolto la sua provocazione, ma era sicura che non l’avesse affatto presa bene.
Non ebbero più modo di parlarne, perché in quel momento il professor Garou entrò in classe.
Rebecca lo guardò. Quei tre mesi di vacanza dovevano avergli giovato parecchio. Si era pettinato all’indietro i capelli e indossava un elegante abito grigio. Non c’era più alcuna traccia del colorito pallido e dell’aspetto malaticcio dell’anno prima. Certo, i segni della lotta contro Cogitus spiccavano ancora sul volto scarno, ma i lineamenti marcati erano ora più distesi e a Rebecca sembrò perfino che i suoi occhi brillassero di una luce nuova.
Era davvero così, o era lei a vederlo con occhi diversi?
Senza dire una parola, Garou andrò a sedersi e aprì il libro di testo.
Le Prescelte lo imitarono, senza alcun bisogno che lui parlasse. Ormai sapevano bene come funzionavano le sue lezioni.
“Pagina 235. I mutaforma.” – disse il professore.
“Buongiorno, professore, passate bene le vacanze?” - sussurrò Barbara pianissimo in direzione di Rebecca, seduta accanto a lei. “Anche noi, grazie, è un piacere rivederla.”
Rebecca ridacchiò sommessamente.
Quello che non era cambiato era l’atteggiamento un po’ pomposo e arrogante di Garou, esattamente quello che l’aveva spinta fin da subito a non prenderlo troppo in simpatia lo scorso anno. Ed era anche il motivo per cui, alla fine, l’aveva indotta a credere che fosse lui l’aggressore delle Prescelte.
“I mutaforma sono esseri viventi dotati di un particolare potere.” – spiegò Garou. “Possono cambiare forma e aspetto in qualunque momento, e possiedono una propria identità fissa che può essere modificata a loro piacimento, senza recare danno alla loro struttura fisica.
“Possono diventare animali, esseri umani, vegetali o ultraterreni, ma pare che alcuni riescano anche a trasformarsi in cose inanimate. Essi assumono non solo la forma, ma anche i poteri di ciò in cui si trasformano. Nel mondo della Magia Bianca, vengono considerati degli abomini della natura e, per questo, portatori di sfortuna. Spesso sono reietti della società e non hanno il senso di appartenenza in nessuna razza o comunità. Ma ogni carattere dipende dalla persona e da come è stata cresciuta.”
Il professore fece una pausa e alzò gli occhi sulle allieve che aveva di fronte e che lo fissavano con grande serietà.
“C’è qualcuna tra voi che potrebbe farmi un esempio di mutaforma? Sì, signorina Apple?”
“I… vampiri?” – disse Jessica, un po’ insicura.
“Naturalmente. E sa dirmi in cosa possono trasformarsi?”
“In pipistrelli.”
“Precisamente. Qualche altro esempio?”
Garou fece girare lo sguardo sulle altre.
Rebecca ci pensò su, ma non le venne in mente niente. Non aveva mai letto nulla a riguardo ed era un argomento di cui era totalmente all’oscuro.
“Sì, signorina Watson?”
Jennifer Watson, una ragazza minuta con folti capelli ricci, aveva alzato la mano.
“I licantropi.” – disse.
Il cuore di Rebecca fece un balzo. Lei, Brenda e Barbara si scambiarono un’occhiata nervosa e, istintivamente, si girarono verso il professore.
Senza volerlo, Jennifer aveva toccato un nervo scoperto.
Garou era visibilmente impallidito e Rebecca provò un istintivo moto di pietà per lui. Durante la loro conversazione, Garou non era entrato nei dettagli, ma Rebecca aveva capito quanto dovesse essere dolorosa per lui la sua condizione fisica. Nessuno ne era a conoscenza, naturalmente, a parte lei, le gemelle e la Collins.
Rebecca si augurò che nessuna delle compagne avesse notato il suo improvviso turbamento che, ai suoi occhi, era fin troppo evidente.
Ma, con suo grande stupore, il professore si riprese quasi subito e alzò la testa, rivolgendosi direttamente a Jennifer.
“Sono spiacente di doverla contraddire, signorina Watson.” – replicò con voce ferma.
Jennifer, evidentemente convinta della sua tesi, lo fissò, contrariata.
“I licantropi, o lupi mannari,” – spiegò Garou, con voce neutra, “si trasformano solo nelle notti di luna piena e lo fanno perché sono stati contagiati dal morso di un altro licantropo. A differenza dei mutaforma, quindi, non possono mutare il proprio aspetto a loro piacimento.”
Questa, pensò Rebecca, era esattamente la differenza tra Garou e Cogitus. Cogitus era stato maledetto da Posimaar, le aveva detto sua madre, ed era diventato un mutaforma in grado di trasformarsi in lupo in qualsiasi momento, come aveva avuto modo di constatare lei stessa con i suoi occhi.
Garou, purtroppo, non aveva scelta. Ad ogni plenilunio, il suo corpo mutava aspetto, indipendentemente dalla sua volontà. Rebecca si domandò chi fosse stato ad infliggergli quella sorte dannata. Non aveva avuto il coraggio di chiederglielo e, probabilmente, non l’avrebbe mai fatto, a meno che non fosse stato lui a dirglielo spontaneamente.
Jennifer Watson aveva cominciato a prendere appunti, ascoltando con grande attenzione il professore.
“I lupi mannari,” – continuò Garou, “sono da sempre considerati esseri abominevoli, fautori del Male, creature demoniache. Alcuni ritengono, addirittura, che la loro condanna sia una sorta di punizione divina, per qualche peccato imperdonabile da essi commesso.” Si lasciò sfuggire una smorfia di disgusto. “Leggende metropolitane. Purtroppo, l’origine di questa specie si perde nelle leggende antiche. Nessuno conosce la verità e, forse, non la sapremo mai. Quel che è certo, è che i licantropi non hanno niente a che vedere con i mutaforma. Non sono altro che vittime di un destino avverso. Una maledizione che sono costretti a portare con sé fino alla tomba.”
Calò un gelido silenzio.
A Rebecca non era sfuggita l’enfasi con la quale Garou aveva pronunciato quelle ultime parole. Era chiaro che l’argomento provocava in lui sentimenti contrastanti e poco piacevoli.
Lanciò un’occhiata a Brenda e Barbara e capì che stavano pensando la stessa cosa. Quanto tempo ci avrebbero impiegato altre persone ad intuire che le assenze mensili di Garou avevano un motivo ben preciso?
Ai suoi occhi, soltanto un cieco avrebbe potuto non capire il nesso.
“Altri esempi di mutaforma?” – domandò Garou.
Nessuna alzò la mano.
“Bene, vi suggerisco di leggere tutto il capitolo. Troverete molti altri esempi. Per la prossima lezione voglio un riassunto, poi approfondiremo l’argomento.”

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Capitolo 5
*** Morgana ***


 
Una settimana dopo, Rebecca era già entrata così a pieno ritmo nell’attività scolastica da avvertire già la stanchezza. La scuola era iniziata solo da pochi giorni e già lei e le gemelle avevano una quantità impressionante di compiti.
Di questo passo, pensava Rebecca avvilita, arrivare sana di mente a Natale sarebbe stata una vera sfida. Con l’aumento delle lezioni, inoltre, il tempo che le rimaneva a disposizione per studiare era veramente esiguo. Ormai avevano giusto il tempo di cenare, prima di tornare di sopra e rinchiudersi in camera a studiare. Non c’era più nemmeno il tempo di andare a fare quelle passeggiate lungo il fiume che amava tanto, nonostante il tempo clemente lo permettesse.
La sua stanchezza era tale che, una mattina, non sentì la sveglia suonare.
La sera prima lei, Brenda e Barbara avevano fatto le ore piccole sui libri e, finito di studiare, si era infilata subito a letto, crollando immediatamente in un sonno senza sogni. La complessa traduzione di Vampirese della Poliglotter l’aveva messa duramente alla prova. Con il costante pensiero dello studio, perfino Posimaar era relegato in fondo alla sua mente.
Si stropicciò gli occhi, assonnata, e si accorse che Brenda e Barbara non c’erano.
Sgomenta, guardò l’orologio e imprecò.
Era tardissimo.
Si precipitò fuori dal letto, vestendosi in fretta e furia.
Forse avrebbe fatto in tempo ad ingollare qualcosa di commestibile in Sala da Pranzo, prima che le lezioni cominciassero.
Ma dov’erano le gemelle? E perché non l’avevano svegliata?
Prima di uscire, si guardò velocemente allo specchio, resistendo alla tentazione di pettinarsi quella chioma scarmigliata e ignorando i tremendi cerchi scuri attorno agli occhi.
Non c’era più tempo.
Maledicendo tutti i professori e giurando a se stessa che non avrebbe mai più tirato così tardi per studiare, si precipitò a rotta di collo sulle scale.
Giunta al piano terra, si bloccò.
Di fronte al portone d’ingresso vide la Collins, in compagnia di una ragazza che non aveva mai visto. Ai suoi piedi, c’era una tale quantità di valigie che sarebbe stata sufficiente a contenere l’intero guardaroba suo e di Brenda e Barbara.
La Collins parlava con lei a voce troppo bassa perché Rebecca riuscisse a sentirla ma, dimenticandosi completamente del suo spaventoso ritardo, qualcosa la spinse ad indugiare sulla nuova arrivata, studiandola attentamente.
Era alta e slanciata, aveva capelli lisci neri, la carnagione chiara e il portamento fiero.
L’abbigliamento era impeccabile. Indossava una lunga gonna grigia e un’elegante camicia bianca e reggeva sul braccio destro un soprabito blu.
Tutto in lei, il suo aspetto leggiadro, la sua eleganza, il suo sguardo fiero, contrastava con l’ambiente informale che la circondava e con il logoro abito color magenta della preside che le stava di fronte.
Rebecca la scrutò attentamente, mentre sorrideva in maniera forse un po’ troppo forzata. C’era qualcosa in lei che non la convinceva. Quella ragazza era come una nota stonata in un capolavoro di musica classica.
Era una Prescelta? A giudicare dai bagagli ai suoi piedi, sembrava di sì. Ma per quale motivo si presentava a scuola con oltre una settimana di ritardo?
Doveva essere indubbiamente di buona famiglia e il denaro certo non le mancava. Era bastato quello per concederle quel privilegio?
Rebecca sapeva che doveva andarsene da lì. Ormai non avrebbe più fatto in tempo a fare colazione e non poteva permettersi di beccarsi una punizione per colpa del suo ritardo.
Ma poi accadde qualcosa che la stupì.
Una fata si avvicinò alla Collins e alla ragazza.
Rebecca conosceva ormai molto bene quello che le fate pensavano delle Prescelte. Potevano già ritenersi fortunate se avevano il permesso di alloggiare nel castello di loro proprietà. Era chiaro che consideravano le Prescelte e gli insegnanti dei veri e propri usurpatori della loro dimora e non mancavano mai occasione di rimarcarlo, anche semplicemente attraverso i loro atteggiamenti sfrontati e ben poco amichevoli.
La Collins aveva suggerito loro, in più di una occasione, di non badare alle provocazioni delle fate, consiglio che Rebecca riteneva piuttosto difficile da mettere in pratica, soprattutto quando accadeva che qualcuna, inavvertitamente, ne trapassasse una per sbaglio. Le fate si scagliavano sempre con inaudita ferocia contro la malcapitata di turno cosa che, a Rebecca, sembrava profondamente ingiusta, dal momento che spesso risultava veramente difficile riuscire a schivarle nei corridoi. Le fate scivolavano sul pavimento lente e silenziose e non sempre si riusciva ad avere l’accortezza di evitare di passarci attraverso.
A Rebecca era capitato una sola volta e pensava che non l’avrebbe mai più dimenticato. Trapassare lo spirito di una fata era una di quelle esperienze che sperava vivamente di non dover ripetere. Ci aveva messo un po’ prima di riprendersi dai brividi di freddo che avevano cominciato a scuoterla, tanto da ignorare bellamente gli epiteti che il fantasma le aveva urlato di rimando.
In linea di massima, comunque, le fate preferivano stare per conto loro ed evitavano accuratamente qualunque contatto con le Prescelte.
Per questo le sembrò molto strano il comportamento di quella fata con la nuova ragazza.
Le si era avvicinata e avevano cominciato a parlare. Entrambe si comportavano come se si conoscessero già, il che le parve piuttosto strano.
Quando la fata scoppiò in una fragorosa risata, Rebecca trasalì. Era la prima volta, da quando aveva messo piede ad Amtara, che sentiva una fata ridere. Non pensava nemmeno fossero in grado di farlo, dal momento che le aveva viste sempre serie o arrabbiate. Rammaricandosi che Brenda e Barbara non fossero lì con lei ad osservare quella scena inusuale, vide due Gnomi correre verso la ragazza e farsi carico del suo bagaglio.
Quando li vide venire verso di lei, in direzione delle scale, Rebecca capì che era arrivato il momento di andarsene.
Entrò in Sala da Pranzo e sussultò sorpresa quando vide Brenda e Barbara che si stavano alzando. Evidentemente avevano appena finito di fare colazione.
“Ma che fine avete fatto?” – esclamò, marciando verso di loro. “E si può sapere perché non mi avete svegliata?”
“Hai una sveglia, mi pare.” – rispose Brenda.
“Già, ma stamattina non ha suonato.”
“Dai, fai ancora in tempo a mangiare qualcosa.” – le disse Barbara.
Rebecca afferrò una brioche a caso dal tavolo e ingoiò qualche sorso di caffelatte ormai freddo, guadagnandosi un’occhiata torva dello Gnomo che stava sparecchiando la tavola.
“Devo dirvi una cosa.”
Rebecca raccontò di quello che aveva visto, mentre si avviavano verso l’aula del professor Christie.
Arrivarono in classe appena in tempo. Il professore si era appena seduto e stava tirando fuori i libri dalla borsa.
“Ma se è una Prescelta, perché diavolo è arrivata soltanto ora?” – chiese Barbara, tirando fuori dalla borsa il riassunto sulla Premonizione di Melissa da consegnare al professore.
Come Rebecca aveva previsto, alla fine Brenda, dopo parecchie insistenze da parte loro, aveva ceduto, raccontando alla sorella i dettagli della Premonizione. Non era stato particolarmente difficile. Perfino Brenda si rendeva conto che, con la mole spaventosa di compiti che già avevano, Barbara non poteva permettersi di beccarsi ulteriori punizioni. Ed era quello che sarebbe accaduto, se il professor Christie non avesse gradito il riassunto.
“Magari non è una Prescelta. Potrebbe essere venuta a far visita a qualcuno.” – buttò lì Brenda.
“Portandosi dietro tutti quei bagagli?” – le chiese Rebecca, scettica.
Brenda si strinse nelle spalle. “L’hai detto tu che sembra una ragazza molto raffinata. Evidentemente ci tiene molto al suo abbigliamento.”
“Proprio come la Collins.” – commentò Barbara, ridacchiando.
Brenda e Rebecca la ignorarono.
“Mi sembra strano, comunque, che fosse tanto in confidenza con una delle nostre fate.” – aggiunse Rebecca, pensierosa.
Brenda e Barbara si voltarono a fissarla contemporaneamente.
“Che c’è?”
“Le nostre fate?” – ripeté Barbara.
Rebecca arrossì. “Beh, nostre… non in quel senso…”
Barbara ridacchiò, ma fu costretta a ricomporsi subito perché il professore la stava chiamando.
“Hai portato il compito, Lansbury?” – le chiese.
“Sì, professore.”
Barbara si alzò e consegnò il riassunto all’insegnante.
“Molto bene. Sappi, Lansbury, che ho ritenuto opportuno informare la preside del tuo comportamento scorretto. Nemmeno lei gradisce che si portino giornaletti di infima categoria in classe.”
Barbara arrossì fino alla radice dei capelli, irritata da quel commento poco carino verso il giornale cui era abbonata da una vita.
“Sì, professore.” – mormorò, prima di tornare a sedersi.
Barbara assunse un cipiglio scontroso per tutta la durata della lezione, durante la quale, Rebecca ne era certa, non ascoltò una sola parola.
Il suo atteggiamento non cambiò nemmeno durante l’ora successiva, quando la Poliglotter, dopo aver ritirato le loro traduzioni di Vampirese, attaccò con una noiosa spiegazione su usi e costumi dei Vampiri nel Medioevo.
“Ce l’hai con lui perché ha parlato con la Collins, vero?” – le chiese Rebecca, più tardi, in pausa pranzo.
“Poteva evitare di dirglielo.” – replicò Barbara, in tono cupo.
“Già. Ma non te la prendere. La Collins avrà già dimenticato.”
“Cosa te lo fa pensare?”
“E’ più preoccupata di ricordarmi continuamente che non posso usare il mio Potere ad Amtara, fidati.”
Arrivò al tavolo uno Gnomo per servire da bere e Rebecca, scostandosi per fargli spazio, vide con la coda dell’occhio un movimento sulla porta.
Si voltò e rimase di stucco nel vedere la nuova arrivata, ferma sulla soglia, insieme ad altre tre ragazze dall’aria molto spavalda.
“Eccola, è lei.” - disse.
“Allora avevi ragione tu.” – disse Brenda. “E’ una Prescelta.”
“Già.”
Gli occhi di Rebecca incrociarono quelli della ragazza per un breve istante e lei si sentì stranamente a disagio. C’era qualcosa in lei che non la convinceva e le incuteva uno strano malessere. Il suo sguardo non le piaceva e, quando una delle sue amiche le bisbigliò qualcosa all’orecchio, i suoi occhi si ridussero a due fessure, senza smettere di fissarla.
Fu Rebecca a distogliere lo sguardo.
“Non sembra particolarmente simpatica, vero?” – disse Barbara.
“No.” – convenne Brenda.
“Oh-Oh!” – fece Barbara.
“Che c’è?” – le chiese Rebecca.
“Sta venendo verso di noi.”
Rebecca ebbe appena il tempo di voltarsi che le quattro ragazze erano lì, in piedi, di fronte a lei.
Alzò la testa per guardarla e si stupì nel notare il colore dei suoi occhi. Erano di una tonalità di grigio talmente chiaro da sembrare quasi trasparenti. Ma non esprimevano nessun calore. Erano due occhi di ghiaccio.
“Ciao.” – la salutò Rebecca.
“Siete sedute al nostro tavolo.” – ribattè la giovane in tono tagliente, senza ricambiare il saluto.
Per qualche secondo, Rebecca si limitò a fissarla, con aria un po’ stupida.
Che diavolo stava dicendo?
“Prego?”
“Ho detto che state occupando il nostro tavolo. Sei sorda, per caso?”
“Ehi, come ti permetti?” – sbottò Barbara, alzando la voce.
“Ci conosciamo?” – le chiese la ragazza, spostando lo sguardo su di lei.
Rebecca notò che non c’era traccia di rancore sul suo viso. Era tranquilla e il suo tono pacato, ma i suoi occhi erano gelidi.
“No. Non ho ancora avuto questo dispiacere.” – ringhiò Barbara, lieta di poter scaricare il suo malumore contro qualcuno.
“Questo tavolo è nostro.”
“Ah sì? E da quando?”
“Da quando lo dico io. Levatevi dai piedi.”
Barbara si alzò in piedi così bruscamente da far traballare il tavolo.
Si scambiarono un’occhiata di puro disprezzo.
“Credi di farmi paura?” – fece la ragazza.
Rebecca, a cui non sfuggì il lampo furioso nello sguardo di Barbara, capì che era arrivato il momento di intervenire.
Tutta la Sala da Pranzo era avvolta nel silenzio. Solo in quel momento Rebecca si rese conto che tutte stavano fissando la scena, ammutolite.
Barbara respirava affannosamente e Brenda le aveva appoggiato una mano sulla spalla, forse per trattenerla, o forse solo in segno di solidarietà.
Rebecca conosceva molto bene il carattere di Barbara e sapeva che non ci avrebbe messo molto prima di compiere qualche azione sconsiderata.
Cercando di mantenere la calma, si rivolse alla ragazza.
“Credo ci sia stato un grosso malinteso. Questo tavolo è il nostro ma, come puoi vedere, ce ne sono molti altri liberi. Perché non vi sedete, così noi possiamo continuare il nostro pranzo e gli Gnomi potranno servire anche voi? La loro cucina è davvero squisita, sai?”
Così dicendo, Rebecca sfoggiò il suo sorriso migliore.
Aveva fatto del suo meglio, nonostante la profonda naturale antipatia che sentiva per quella ragazza arrogante e prepotente. Ma l’aveva fatto soprattutto per evitare che l’ira di Barbara prendesse il sopravvento.
Da come Barbara la stava guardando, Rebecca capì che non condivideva affatto il suo tono diplomatico. Aveva la faccia di chi non vedesse l’ora di prendere a schiaffi quell’insolente e le sue amiche. Ma Rebecca aveva imparato a sue spese che la diplomazia era la strategia migliore da adottare, in certi casi.
“Apri bene le orecchie, cresta rossa.” – ringhiò quella per tutta risposta. “Io non voglio sedermi ad un altro tavolo. Io voglio questo. E prima vi toglierete di mezzo, meglio sarà per voi. Sono stata abbastanza chiara?”
Rebecca, basita, soppesò quelle parole.
Decise di sorvolare sull’epiteto, usato solo per il mero gusto di offenderla.
Aveva tentato con le buone maniere, ma era chiaro che non se la sarebbe cavata così a buon mercato.
Quell’idiota aveva tutte le intenzioni di metterle i bastoni tra le ruote e ci stava riuscendo.
Prima che Rebecca potesse rendersene conto, Barbara si era lanciata come una furia verso la ragazza, trattenuta a stento da Brenda.
“MA COSA STA SUCCEDENDO QUI? LANSBURY, COSA CREDI DI FARE?”
La professoressa Rudolf era apparsa dal nulla.
C’era mancato poco, pensò Rebecca. Se non fosse intervenuta, era certa che Barbara avrebbe messo le mani addosso a quella ragazza, finendo in guai grossi. Tuttavia, non potè fare a meno di pensare che se lo sarebbe meritato e che le avrebbe dato volentieri manforte. Rebecca non aveva mai conosciuto una persona tanto odiosa in vita sua.
“Allora, volete spiegarmi che sta succedendo?” – ripetè la Rudolf, scura in volto.
Le guardò, una ad una, in attesa di una risposta.
Nessuna rispose.
Rebecca lanciò un’occhiata alla ragazza, che ora sfoggiava una curiosa espressione soddisfatta. Era quello il suo scopo? Fare in modo che si guadagnassero una bella punizione per colpa sua?
Ma cosa mai le avevano fatto di male, in nome del cielo, dal momento che nemmeno si conoscevano?
“Bonner, voglio sapere cos’è questa storia.” – tuonò la Rudolf, rivolgendosi direttamente a lei. “E lo voglio sapere ORA.”
Rebecca imprecò mentalmente. Perché lo stava chiedendo proprio a lei?
“Si è trattato solo di un malinteso, professoressa.”
“Che genere di malinteso?”
“Forse dovrebbe chiederlo a lei.” – rispose, indicando la nuova arrivata.
La giovane arrossì ed un lampo di trionfo balenò nello sguardo di Rebecca. Voleva metterla in imbarazzo di fronte a tutti e c’era riuscita.
Ma la ragazza non rispose, limitandosi ad abbassare la testa.
Con grande irritazione di Rebecca la Rudolf, invece che fare domande a lei, si rivolse di nuovo a Barbara.
“Lansbury, si può sapere che ti è preso? Sai che non tolleriamo nessun genere di azioni violente qui.”
“Ma… professoressa…”
“Niente ma. La prossima volta che farai una cosa del genere, finirai dritta dalla preside. Chiaro?”
“Sì, professoressa.” – rispose Barbara, paonazza per la rabbia.
“E tu.” – aggiunse la Rudolf, rivolta alla ragazza. “Morgana Curter, dico bene?”
“Sì, professoressa.” – rispose la ragazza, in tono fintamente cordiale.
“Faresti bene ad andare a sederti, visto che dopo pranzo avranno inizio le lezioni. E anche voi. Non ricordo i vostri nomi…”
“Il mio nome è Alyssa.”
“Io sono Margaret.”
“E io Viola.”
“Bene, andate.”
Mansuete come agnellini, le quattro andarono a sedersi al primo tavolo libero, come se nulla fosse accaduto.
La Rudolf, senza aggiungere altro, girò sui tacchi e tornò al tavolo dei professori.
“Siediti, Barbara.” – disse Brenda a sua sorella.
Barbara, ancora rossa in viso, obbedì.
Ci avrebbe impiegato un po’ per calmarsi e Rebecca non poteva darle torto. La scena cui avevano appena assistito era a dir poco surreale.
Brenda versò a Barbara un generoso bicchiere d’acqua, che lei trangugiò tutto d’un fiato.
“Maledetta Strega rozza, ignorante, deficiente…” – borbottò Barbara, a denti stretti.
“Calmati.” – disse Brenda.
“Hai capito perchè andava così d’accordo con quella fata?” – aggiunse rivolta a Rebecca.
Rebecca la guardò. “Già. Ora mi spiego molte cose.”
Morgana le aveva fatto una cattiva impressione fin dal primo momento in cui l’aveva vista. Poteva indossare i migliori abiti e sfoggiare la sua ricchezza, ma era chiaro che era una persona di una pochezza ineguagliabile.
“Non ho ancora capito perché se l’è presa con noi.” – ragionò Brenda.
“Per provocarci, è evidente.” – rispose Rebecca.
“Ma perché? Tu la conoscevi già?”
“Niente affatto. L’ho vista oggi per la prima volta.”
“E allora tutta questa storia non ha una spiegazione logica. Avrebbe potuto prendersela con chiunque altro. Perché proprio con noi?”
Rebecca si strinse nelle spalle. “Non ne ho la più pallida idea.”
“E perché è arrivata qui una settimana dopo le altre?” – intervenne Barbara, ancora schiumante di rabbia. “Cos’è, la più bella del reame?”
Rebecca sospirò. C’erano tante cose che non quadravano.
Chi era Morgana Curter?
Cosa voleva da loro?
Perché l’aveva fissata con odio, non appena i loro sguardi si erano incrociati?
“Rebecca, sei proprio sicura di non conoscerla?” – ripartì all’attacco Brenda.
Rebecca strinse gli occhi, infastidita. “Ti ho già detto di no. Perché continui a chiedermelo?”
“Perché sembrava quasi che ce l’avesse con te.”
Rebecca sgranò gli occhi. “Con me? Ma che stai dicendo?”
“Non hai visto come ti ha guardata quando è entrata?”
Il cuore di Rebecca perse un battito. Dunque l’aveva notato anche lei. Morgana le aveva lanciato uno sguardo colmo di disprezzo nell’attimo stesso in cui una delle sue amiche le aveva fatto notare la sua presenza. A Rebecca non era sfuggito quel particolare ed evidentemente nemmeno a Brenda. Significava che la conosceva? Cosa sapeva di lei? C’era di mezzo un’altra volta Posimaar?
“Ma cosa stai dicendo?” – le chiese Barbara che, al contrario, non aveva notato nulla.
“Quando si è avvicinata si stava rivolgendo a te.” – insistette Brenda rivolta a Rebecca.
“E con questo cosa vorresti insinuare?” – replicò Rebecca, che ora cominciava ad irritarsi sul serio.
“Rebecca, stai calma. Non sto insinuando proprio niente. Dico solo quello che ho visto. Se dici di non conoscerla, ti credo.”
“Secondo me è matta da legare.” – disse Barbara, come se quella fosse l’unica spiegazione possibile e anche la più logica.
In quel momento gli Gnomi cominciarono a servire il pranzo e non parlarono più.
Rebecca lanciò un’occhiata in direzione del tavolo di Morgana, che ora stava mangiando e chiacchierando amabilmente con le sue amiche.
All’improvviso era come se si fosse dimenticata di lei. Con una vaga sensazione di disagio, si domandò cosa mai potesse volere da lei quella misteriosa ragazza.

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Capitolo 6
*** L'Incantesimo Irriverente ***


 
Con grande sollievo di Rebecca, i giorni seguenti trascorsero tranquilli. Evidentemente, la strigliata della Rudolf aveva prodotto i suoi frutti. Morgana non cercò più di avvicinarsi né a lei, né a Brenda e Barbara.
Il professor Christie riconsegnò a Barbara il riassunto sulla Premonizione di Melissa Gray, dicendosi abbastanza soddisfatto. La Collins non aveva fatto parola con Barbara dell’accaduto e Rebecca pensò di aver fatto centro: la preside aveva troppe cose di cui occuparsi, che pensare ad uno stupido giornalino.
Continuarono ad approfondire i mutaforma durante le lezioni di Garou e nessuno fece più alcun riferimento ai licantropi. Rebecca si sentiva a disagio ogni volta che saltava fuori l’argomento, sia perché aveva il timore che qualcuno potesse scoprire il segreto di Garou, sia perché le ricordava i terribili momenti trascorsi in quella grotta, appesa tra la vita e la morte. Non aveva mai dimenticato le immagini del professor Cogitus che si tramutava in quella bestia enorme e spaventosa, né la dura lotta che aveva dovuto sostenere contro di lui. Non ne faceva mai parola nemmeno con Brenda e Barbara ma, nonostante alla fine avesse avuto la meglio, quell’esperienza aveva messo a dura prova i suoi nervi.
Seppur gravata dai compiti, quella settimana trascorse piacevolmente per Rebecca e le gemelle, fino a quando la professoressa Cornell, insegnante di Incantesimi, non decise di rompere l’incanto il giorno in cui decise di affrontare un nuovo argomento di studi: l’Incantesimo Irriverente.
Bastò il nome stesso dell’Incantesimo per scatenare l’ilarità di tutta la classe.
“Non c’è proprio niente da ridere!” – tuonò la Cornell, visibilmente contrariata, costringendole al silenzio.
Tra tutte le materie, la sua era quella che veniva presa più alla leggera dalle Prescelte e lei ne era perfettamente consapevole. Lo studio degli Incantesimi generici non era considerato prioritario, al fine della salvezza dei Protetti, almeno non quanto Protezione o Gestione Antiveggenza. Ma il Consiglio Superiore di Magia Bianca aveva stabilito una formazione completa per le Prescelte, e questo includeva anche Incantesimi e Storia della Stregoneria, due delle materie che, agli occhi di Rebecca, apparivano totalmente inutili. A dirla proprio tutta, non capiva nemmeno il senso di dover studiare le Lingue dei Demoni. Le Streghe Nere non parlavano le lingue demoniache, per quanto ne sapeva. A cosa sarebbe servito conoscerle? Avrebbe avuto senso solo nel caso in cui avessero dovuto affrontare direttamente Posimaar. Beh, in questo caso, molto probabilmente sarebbe servito più a lei che a qualunque altra Prescelta, pensò depressa.
“L’Incantesimo Irriverente, per quanto la cosa al momento susciti la vostra ilarità, può avere effetti disastrosi sulla vittima.” – annunciò la Cornell. “La persona che viene colpita può arrivare a commettere azioni terribili, delle quali non avrà alcuna memoria, una volta esaurito l’effetto dell’Incantesimo.”
Rebecca avvertì una lieve gomitata allo stomaco. “Ricordati di lanciarmi questo Incantesimo, la prossima volta che incontreremo Morgana.” – le sussurrò Barbara.
Rebecca ridacchiò.
“La formula è “Contumelia Afficio” e il Controincantesimo “Erudio”.
La Cornell invitò la classe a ripetere due volte entrambe le formule.
“Molto bene. Ora possiamo iniziare con le esercitazioni. C’è qualcuna che si offre volontaria per cominciare?”
Rebecca distolse volutamente lo sguardo, così come molte altre.
In cosa sarebbe consistita l’esercitazione? Con ogni probabilità, la Cornell avrebbe scagliato l’Incantesimo contro di loro, e non era sicura di voler dare spettacolo di fronte a tutta la classe, non sapendo esattamente in cosa si sarebbe tramutata. D’altra parte, era anche possibile che loro avrebbero dovuto lanciare l’Incantesimo contro la professoressa, ipotesi che non la faceva comunque stare tranquilla. Se avesse sbagliato la formula o qualcosa fosse andato storto, era certa che la Cornell non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
Rebecca pensò che le sue compagne avessero i suoi stessi timori, perché nessuna aveva alzato la mano.
“Bene, in questo caso, suppongo di dover scegliere io.” – disse la Cornell. “Garrett, vieni tu.”
Rebecca emise un lieve sospiro. Se Angela avesse avuto le stesse difficoltà che aveva incontrato in Protezione, ne avrebbero viste delle belle… Ma se la Cornell avesse deciso di essere lei a lanciare l’Incantesimo, pregò che Angela ne uscisse incolume.
La ragazza si lasciò sfuggire un gemito. Poi, con l’aria di un condannato a morte, si alzò e si avvicinò all’insegnante, sotto lo sguardo attento delle altre.
“Bene, ora pronuncerò l’Incantesimo.”
A quelle parole, Angela impallidì.
“Non fare quella faccia, Garrett, non c’è niente di cui aver paura.” – aggiunse la Cornell, irritata.
Angela, che non sembrava per niente convinta, annuì piano, concentrandosi sull’insegnante, pronta a lanciare l’Incantesimo.
“Contumelia Afficio!” – gridò la Cornell.
Con il cuore in gola, Rebecca vide il volto di Angela trasformarsi, letteralmente. Roteò gli occhi, spingendo la testa all’indietro. Le guance si infiammarono e digrignò i denti in un ghigno diabolico.
Tutta la classe fissava, sconvolta dalla paura, quella che solo un attimo prima era stata la loro compagna e che ora era diventata a tutti gli effetti un essere demoniaco, pronto all’attacco.
Ma, all’improvviso, la scena divenne surreale perché Angela, invece che attaccare, cominciò a lanciare insulti, maledizioni, epiteti e oscenità irripetibili alla Cornell, con una violenza ed una ferocia tale da far drizzare i peli sulla nuca a Rebecca. Le sarebbe quasi venuto da ridere, non fosse stato per l’aspetto assolutamente terrificante della ragazza.
La dolce, piccola, timida Angela si era tramutata, dinanzi ai loro occhi, nella più oscena delle creature. Perfino la Cornell, che indubbiamente conosceva gli effetti dell’Incantesimo, sembrava visibilmente impressionata da quella trasformazione.
Rebecca pensò che l’insegnante fosse sul punto di lanciare il Controincantesimo, ma non fu così. La Cornell aspettò, per quello che a Rebecca sembrò un tempo infinito, mentre Angela continuava a gridare senza sosta, il volto paonazzo per lo sforzo.
A Rebecca vennero i brividi. E se qualcosa fosse andato storto? C’era il rischio che Angela passasse dalle parole ai fatti? Si augurò mentalmente che la Cornell sapesse quello che stava facendo.
“Erudio!”  - tuonò finalmente l’insegnante.
Angela tornò in sé. Il suo volto si rilassò, il rossore sulle guance scomparve. Con aria smarrita, fissava la Cornell.
Rebecca era sicura che non avesse la minima idea di quello che aveva fatto.
“Come ti senti, Garrett?”
“B-bene.”
“Ricordi qualcosa?”
“N-no.” – mormorò la ragazza, tremando.
La Cornell si voltò verso la classe. “E questo è esattamente quello che intendevo.”
Barbara emise un fischio sommesso. “Questa sì che è roba forte.” – sussurrò.
Angela, un po’ malferma sulle gambe, tornò al suo posto.
Rebecca vide la sua compagna di banco bisbigliarle qualcosa all’orecchio. Vide Angela spalancare gli occhi in un’espressione che era un misto di disgusto, incredulità e vergogna ed ebbe la certezza che l’amica le aveva appena raccontato tutto.
Immaginando come dovesse sentirsi la povera Angela, Rebecca tornò a guardare la Cornell, implorandola mentalmente di non chiamarla. Non aveva nessuna voglia di dare spettacolo di sé come aveva fatto Angela.
“Voglio che facciate un po’ di esercizio con questo Incantesimo.” – disse la Cornell. “E’ solo con la pratica che imparerete ad usarlo e a difendervi in caso di attacco.”
Si scambiarono tutte delle occhiate preoccupate.
“Apple e Bonner! Comincerete voi.”
Rebecca sussultò, soffocando un’imprecazione.
Con il cuore in gola, si alzò, lanciando un’occhiata a Jessica, che aveva fatto lo stesso. Nemmeno lei sembrava particolarmente entusiasta.
“Bonner, tu lancerai l’Incantesimo.” – annunciò la Cornell, quando entrambe si furono avvicinate.
Rebecca annuì, passandosi la lingua sulle labbra e preparandosi al peggio.
Jessica, visibilmente nervosa, spostava lo sguardo da lei all’insegnante, con l’aria di chi sapeva che qualcosa di terribile stava per accadere.
“Non c’è bisogno di essere così nervosa, Apple.” – le disse la Cornell, accortasi del suo stato.
Rebecca si voltò verso la compagna, per un brevissimo istante. Proprio come Angela, poco prima, era impallidita e spostava il peso del corpo da una gamba all’altra, in un chiaro segno di nervosismo.
Non poteva darle torto. Rebecca non aveva mai pronunciato quell’Incantesimo. Sarebbe potuto accadere di tutto. Si sentì intimamente grata di non essere lei la vittima ma, allo stesso tempo, era nervosa almeno quanto lei.
Jessica le lanciò uno sguardo implorante e Rebecca cercò di abbozzare il migliore dei suoi sorrisi, in un patetico tentativo di sdrammatizzare l’intera faccenda. Alzò le spalle, cercando di farle capire che non era colpa sua e che, proprio come lei, avrebbe fatto volentieri a meno di trovarsi lì.
“Sei pronta, Bonner?” – la incalzò la Cornell.
Rebecca annuì, mentendo spudoratamente.
“Contumelia Afficio!” – gridò.
Accadde nello stesso identico modo. Jessica, il volto contratto, roteò gli occhi, rovesciò la testa all’indietro e si trasformò in una creatura selvaggia, cominciando a urlare contro Rebecca parole e insulti da far accapponare la pelle a Posimaar in persona.
Un po’ spaventata, Rebecca, d’istinto, indietreggiò.
“Va tutto bene, Bonner. Non c’è nulla da temere.” – cercò di tranquillizzarla la Cornell.
Rebecca avrebbe voluto strozzarla.
Ignorando quelle parole, fece un altro passo indietro. C’era qualcosa che non andava… la furia di Jessica non aveva niente a che vedere con quella di Angela.
Era molto peggio.
Ripensandoci poi a mente fredda, Rebecca pensò che fosse stata una fortuna aver avuto i riflessi pronti, altrimenti l’avrebbero spedita dritta in infermeria, con una commozione cerebrale.
Proprio in quel momento, infatti, veloce come un lampo, Jessica afferrò un portapenne in metallo dalla scrivania della Cornell e, senza alcun indugio, lo lanciò contro di lei.
Rebecca vide l’oggetto arrivare e lo schivò per un soffio. Il portapenne passò a pochi centimetri dal suo orecchio sinistro, finendo contro la parete dietro di lei.
“Erudio!” – urlò la Cornell immediatamente.
Rebecca, con il cuore a mille, respirava affannosamente.
Di fronte a lei, Jessica la fissava, tranquilla.
Rebecca sapeva che non ricordava nulla e che non poteva darle alcuna colpa, ma aveva comunque una gran voglia di prenderla a pugni.
“Stai bene, Apple?”
Rebecca si voltò a fissare la Cornell, arrabbiata. Lei aveva appena rischiato di prendersi un portapenne in fronte, e la Cornell si preoccupava di Jessica?
Jessica annuì.
“E’ stato un piccolo incidente, Bonner.” – aggiunse subito la Cornell, notando l’espressione contrariata di Rebecca. “Questo è quello che intendevo prima, quando parlavo di cose terribili.”
Potevi essere più specifica.
“Sì, me ne sono accorta.” – rispose, non riuscendo a trattenersi.
“Potete tornare a posto.”
Scura in volto, Rebecca obbedì.
“Per oggi è tutto.” – annunciò l’insegnante che, nonostante il suo tentativo di minimizzare, appariva un po’ scossa dall’incidente. “Riprenderemo l’argomento la prossima volta.”
Rebecca sapeva che se le fosse accaduto qualcosa di grave, l’unica e sola responsabile sarebbe stata lei. Lo aveva detto molto chiaramente la Collins, sotto il tetto di Amtara la responsabilità delle Prescelte ricadeva su di loro, preside e insegnanti.
Preferiva non pensare a cosa sarebbe successo se non avesse avuto i riflessi pronti e quel portapenne fosse finito dritto sulla sua faccia.
Quando uscì dall’aula, le gambe le tremavano.
 
“Per un attimo ho creduto che sarebbe finita veramente male.” – le confessò Brenda più tardi.
“L’abbiamo pensato tutte.” – aggiunse Barbara in tono lugubre. “Se non avessi schivato il colpo…”
“…sarei finita dritta in infermeria, lo so.”
“Ma che razza d’Incantesimo stupido e idiota!” – esclamò Barbara, furente. “Si può sapere a che diavolo può servire un Incantesimo del genere a noi Prescelte?
Rebecca si strinse nelle spalle. Si era fatta la stessa domanda e non aveva saputo darsi una risposta.
“E’ un buon modo per vendicarsi dei nemici, senza alcun dubbio.” – rispose. “Ma di certo non ci servirà a nulla contro le Streghe Nere.”
“A proposito di nemici” – disse Barbara –“potremmo usarlo contro quella perfida di Morgana. E magari anche con le sue tre amichette del cuore, che ne dici?”
Brenda la fissò, incredula. “Non starai dicendo sul serio, vero?”
“Beh, se lo meriterebbero.” – rispose Barbara, scrollando le spalle.
“E tu verresti espulsa.”
Barbara sospirò. “Non te la prendere, stavo scherzando. Anche se l’idea non mi dispiacerebbe…”
Brenda la fulminò con gli occhi.
“…ma naturalmente non lo farò. Non sono pazza fino a questo punto.” – si affrettò ad aggiungere Barbara.
Brenda la guardò, scettica.
Rebecca sorrise.
“Comunque, avete visto la faccia di Angela dopo l’Incantesimo?” – domandò Barbara.
“Sì, era sconcertata.” – replicò Rebecca.
“Ormai qualcuno avrà raccontato anche a Jessica quello che ha fatto.”
“Si sentirà terribilmente in colpa.” – disse Brenda.
“Beh, l’unica che dovrebbe sentirsi in colpa, in realtà, è la Corn…Ehi!”
Stavano camminando nel corridoio e Barbara era andata a sbattere contro la schiena di Rebecca, che era davanti a lei.
Rebecca si era fermata all’improvviso.
“Ma che ti prende?” – le chiese Barbara.
“Ssht. Guardate là.” – bisbigliò Rebecca.
Brenda e Barbara fissarono il punto da lei indicato.
“Ma quella è una fata.” – disse Barbara.
“Già. E non una fata qualunque.”
Poco distante da loro, Morgana e la fata che Rebecca aveva visto parlare con lei la mattina del suo arrivo ad Amtara, stavano parlando.
“Vuoi dire che quella è…” – disse Brenda.
“La fata amica di Morgana di cui vi avevo parlato, sì.” – confermò Rebecca.
“Da quando le fate sono amiche delle Prescelte?” – chiese Barbara, aggrottando la fronte. “Non si è mai vista una cosa del genere.”
“Credo sia un’eccezione.” – rispose Rebecca. “Secondo me si conoscevano già.”
“Tu dici?” – fece Barbara, poco convinta.
“Venite, avviciniamoci.” – disse Rebecca piano.
Con molta cautela, per non farsi sentire, si avvicinarono ulteriormente e si nascosero dietro un angolo.
Da lì, senza essere viste, riuscirono ad ascoltare la conversazione.
“E tua sorella come sta?” – domandò la fata.
“Bene. Non ha molta voglia di studiare.”
“Come sempre.” – rispose il fantasma, sorridendo.
Poi, la fata scrutò attentamente Morgana per alcuni istanti. “Sei sicura di stare bene?”
Morgana, sovrappensiero, sussultò. “Cosa? Oh sì, certo.”
“Mmh, guarda che a me non la dai a bere. C’è qualcosa che ti tormenta, lo so.”
Morgana si voltò a guardarla, con occhi attenti e indagatori.
“E’ qualcosa che ha a che fare con la scuola?” – la incalzò la fata.
Morgana abbassò gli occhi, senza rispondere.
“Morgana?”
La ragazza alzò la testa.
“Lo sai che con me puoi parlare di qualunque cosa.” – la incoraggiò la fata, in tono conciliante.
Rebecca osservava la scena senza perdersi una sola parola. Non aveva mai sentito una fata parlare così a qualcuno. Un legame speciale doveva legare Morgana a quello spirito. Forse la fata era stata una sua parente, quando era in vita? Per questo le dava tutta quella confidenza e sembrava conoscerla da sempre?
“Puoi fidarti di me.”
Morgana esitò. Poi, un nome sfuggì dalle sue labbra.
“Rebecca Bonner.” – disse in un soffio.
Rebecca si sentì sprofondare. Con la coda dell’occhio vide Brenda e Barbara voltarsi verso di lei, con gli occhi sgranati.
“Ah. La rossa.” – disse la fata, con una smorfia.
Se non si fosse trattato di uno spirito ma di un essere umano in carne e ossa, Rebecca sarebbe andata lì per mollarle un ceffone in faccia.
Stringendo i pugni, si impose di mantenere la calma.
“La rossa.” – ripeté Morgana, con aria assorta. “L’eroina di Amtara.”
“Eroina?”
“Senti, Clio, so cosa è accaduto lo scorso anno qui. Non passa giorno senza che io non senta qualcuno parlare di lei. Rebecca Bonner qui, Rebecca Bonner là. Tutte le attenzioni sono per lei.”
“E questo ti infastidisce.”
“Parecchio.”
“Guarda che non hai nulla da temere.”
“Io non la temo affatto.”
“Allora qual è il problema?”
Morgana abbassò lo sguardo, senza rispondere.
Clio sospirò. “Senti, dai tempo al tempo. Sono sicura che…”
In quell’istante la campanella suonò.
Morgana trasalì. “Devo andare.”
“Ne riparleremo!” – le gridò alle spalle Clio, mentre correva via.
Ma Morgana non rispose.
Rebecca, Brenda e Barbara restarono a guardarla, sbigottite, mentre correva verso le scale.

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Capitolo 7
*** Il concorso ***


Nei giorni seguenti, Rebecca, Brenda e Barbara parlarono spesso della conversazione tra Clio, questo era dunque il nome della fata, e Morgana. Clio sapeva che Morgana aveva una sorella, era quindi probabile che conoscesse tutta la sua famiglia. Probabilmente erano parenti, oppure, semplicemente, Clio era amica della sua famiglia. Quel che era certo, era che un legame speciale le univa. Era evidente che Clio era molto affezionata alla ragazza e avrebbe fatto tutto il possibile per proteggerla. Rebecca l’aveva capito dal tono con cui le aveva parlato, dalla preoccupazione che traspariva dalla sua voce e dall’astio con il quale aveva pronunciato la parola con cui l’aveva definita: la rossa.
Quello che, in realtà, più la infastidiva era che, almeno a giudicare da quanto aveva ascoltato, sembrava quasi che Morgana nutrisse una specie di gelosia nei suoi confronti. Pensandoci bene, a Rebecca veniva quasi da ridere. Di cosa poteva mai essere gelosa, in nome del cielo? Del fatto che Posimaar le desse la caccia? O forse del suo Potere? Sì, probabile. Rebecca aveva un dono che nessun’altra Prescelta, nemmeno Morgana, possedeva. Morgana doveva essere una ragazza abituata ad avere tutto ciò che voleva, probabilmente era invidiosa del suo Potere speciale.
Ma era una cosa semplicemente ridicola. Rebecca avrebbe dato tutto l’oro del mondo magico per essere una Prescelta come tutte le altre. Anzi, a dirla tutta, avrebbe preferito non essere una Prescelta, ma una Strega normale. Si sentiva un po’ in colpa ogni volta che la sua mente veniva attraversata da quei pensieri, perché sapeva quanto Banita credesse in lei e fosse orgogliosa di lei. Ma questa era la realtà dei fatti e non poteva mentire a se stessa. Se avesse potuto scegliere, avrebbe di gran lunga optato per una vita normale, piuttosto che per una vita da Prescelta. Morgana non si rendeva conto di cosa significasse essere nel mirino costante del Demone Supremo.
No, decisamente non c’era nulla di cui essere gelose. Morgana era folle se pensava di doverle invidiare qualcosa.
Brenda, tuttavia, sosteneva che il discorso non era chiaro. Morgana non aveva approfondito l’argomento, era scappata via prima che Clio potesse aggiungere altro. In effetti, sembrava quasi felice che la campanella fosse suonata, come se, di fatto, la infastidisse parlare di Rebecca.
“Dev’esserci dell’altro, ne sono certa.” – aveva affermato Brenda, con decisione.
Ma Rebecca evitò di arrovellarsi il cervello sull’argomento. Era stato già abbastanza imbarazzante scoprire che Clio e Morgana trascorrevano il tempo libero parlando di lei. Questo la faceva sentire nervosa e preferì archiviare l’argomento, almeno per ora, per dedicarsi a ben altri pensieri molto più attraenti.
Le festa di Halloween, infatti, si avvicinava sempre di più e Rebecca, come tutte le altre, era elettrizzata.
L’anno prima aveva festeggiato Halloween per la prima volta nella sua vita. Si era vestita da Strega del Medioevo, grazie all’aiuto di Brenda, che le aveva procurato il costume, ed era stata molto soddisfatta del risultato finale. Quest’anno, però, non aveva intenzione di farsi trovare impreparata e avrebbe scelto il costume con largo anticipo. Ma più ci pensava, più le idee nella sua testa si facevano sempre più confuse.
L’anno prima Brenda si era travestita da lupo e Barbara da Orco. Alla festa aveva visto costumi più o meno terrificanti, ma lei avrebbe voluto qualcosa di non troppo eccentrico ma, allo stesso tempo, originale, che non passasse inosservato.
Ma intanto i giorni passavano e non aveva ancora deciso quale costume indossare.
Fu la Poliglotter ad indurla a darsi una mossa, un mattino in classe.
Stavano copiando dalla lavagna un brano in Ciclopese, quando la professoressa diede un annuncio.
“Sono stata incaricata dalla preside di darvi una notizia che riguarda la festa di Halloween.” – annunciò, prendendole del tutto in contropiede.
Tutte smisero di scrivere, fissandola curiose.
“Quest’anno, per la prima volta ad Amtara, verrà premiato il costume più bello.”
Un brusio eccitato si sparse per tutta la classe.
La Poliglotter attese che tornasse il silenzio, prima di parlare di nuovo.
“La giuria sarà composta dal corpo insegnante. Vincerà il primo premio chi si sarà presentato con il costume più originale, creativo e innovativo. Sì, Lansbury?”
“Professoressa, quali sono i premi in palio?” – chiese Barbara, eccitata.
“La terza classificata si aggiudicherà un cesto di dolci. La seconda un paio di pattini a rotelle. E la vincitrice avrà un paio di sci e una tuta da sci.”
“Wow!”- esclamò Barbara.
Rebecca si chiese quale dei tre premi avesse suscitato tanto entusiasmo nella sua amica ed era in dubbio tra il terzo e il primo. Sapeva che Barbara avrebbe fatto carte false per un completo da sci e un paio di sci nuovi, dal momento che amava sciare. Ma nutriva anche un amore viscerale per il cibo, in particolare per i dolci.
Ne ebbe conferma più tardi, dopo la lezione, mentre camminavano verso la Sala da Pranzo.
“Scommetto che vorresti vincere il primo premio.” – le disse Brenda.
“Altrochè! Te l’immagini che figurone ci farei sulle piste con degli sci nuovi di zecca e una tuta nuova?”
“Cos’hanno che non va i tuoi sci?”
Barbara la fissò, sgranando gli occhi. “Oh, vuoi dire a parte il fatto che negli ultimi cinque anni non li ho mai cambiati?”
Brenda si strinse nelle spalle. A Rebecca fu evidente che la smisurata passione per lo sci non era qualcosa che le accomunava.
“Hai già pensato al costume?” – le chiese Rebecca.
Barbara ci pensò su. “Beh, avevo già delle idee, ma naturalmente il concorso cambia tutto. Devo assolutamente trovare un’idea originale, qualcosa che nessun altro sia in grado di concepire…”
Rebecca e Brenda si scambiarono un’occhiata preoccupata. Rebecca immaginò che anche lei stesse pensando alla Pozione Orcheggiante, che lo scorso Halloween Barbara aveva avuto la brillante idea di spruzzarsi addosso, per dare maggiore risalto al suo costume da Orco. Il risultato era stato un terribile e nauseante odore di fumo che aveva invaso la stanza e perfino i loro stessi abiti. Brenda aveva costretto la sorella a togliersi di dosso l’odore con una bella lavata, prima di presentarsi alla festa. Quando ci ripensava, a Rebecca veniva ancora da ridere, anche se, a ben pensarci, non aveva riso molto quando la loro camera era stata invasa da un odore di fumo talmente acre da farle lacrimare gli occhi, costringendola a tenere aperta la finestra, a dispetto del freddo.
“In questo caso, ti converrà inventarti qualcosa di meglio di un banale costume da Orco.”
Si voltarono tutte e tre nel medesimo istante.
Morgana era proprio dietro di loro e le guardava con un ghigno malefico. Accanto a lei, Alyssa, Margaret e Viola.
“Sparisci.” – fu la gelida risposta di Barbara.
“Sai, fossi in te lascerei perdere.” – insistette Morgana.
“Ah sì? E perché?”
“Perché sarò io a vincere il primo premio.”
Barbara si lasciò sfuggire una risata maligna. “Davvero?”
“Davvero. E tu, Bonner? Hai già pensato a cosa indosserai? Un bel costume da lupo, magari, in onore del caro vecchio professor Cogitus?”
Alyssa, Margaret e Viola scoppiarono in una risata sguaiata.
“E tu come sai di Cogitus?” – Rebecca non poté trattenersi dal chiederle.
“Tutti sanno quello che è successo l’anno scorso in quella grotta.”
Rebecca inarcò un sopracciglio. “Cos’è, esattamente, che ti infastidisce, Morgana? Il fatto che io sia riuscita, contemporaneamente, a salvare le Prescelte, uccidere Cogitus e portare in salvo Garou? Non sarai mica gelosa di me?”
Dall’espressione di Morgana, Rebecca capì di aver fatto centro.
Udì Brenda e Barbara sogghignare, divertite, mentre le quattro ragazze la fissavano, furenti.
“Taci…” – mormorò Morgana, livida.
“Che sta succedendo qui?”
Silenziosa come un gatto, Clio si era avvicinata.
Sobbalzarono tutte nell’udire la sua voce.
“Morgana, tutto bene?” – le chiese.
“No, Clio, non va tutto bene. Rebecca Bonner mi sta dando molto fastidio.” – replicò la giovane, senza distogliere gli occhi da Rebecca.
Clio si voltò verso Rebecca, gli occhi arcigni puntati su di lei. “Cosa vuoi?”
“Cosa voglio? Voglio essere libera di camminare liberamente per i corridoi senza che la tua pupilla mi rompa le scatole.” – replicò Rebecca, seccamente.
Clio sgranò gli occhi. “Come osi?”
“Oso, perché non sono stata io a cominciare.”
Clio non rispose, fissandola con astio, gli occhi ora ridotti a due fessure.
“Non avete lezione, voi?”
“No.” – rispose Barbara, candidamente.
“In ogni caso, sarebbe meglio se giraste alla larga.”
“Noi non andiamo da nessuna parte. E’ stata Morgana ad infastidirci, è lei quella che dovrebbe andarsene.” – replicò Barbara.
Clio strisciò lieve verso di lei. “Stai molto attenta, Lansbury.” – sussurrò, mentre una folata di aria gelida investì Barbara, facendola rabbrividire.
Ciononostante, la ragazza non si fece intimidire. “Se credi di farmi paura, ti sbagli di grosso.”
Clio proruppe in una risatina glaciale. “Giusto perché tu lo sappia, Morgana è una Curter, la famiglia più ricca e influente di tutto il mondo della Magia Bianca. E si dà il caso che io appartenga alla stessa famiglia.”
Rebecca trattenne il fiato. Dunque era così, proprio come aveva sempre sospettato. Ora si spiegava tutto.
“Io non li ho mai sentiti nominare.” – disse Rebecca, sfidandola.
Brenda e Barbara sghignazzarono.
“No?” – fece Clio, avvicinandosi a lei. “Eppure potrei farti sbattere fuori di qui con un semplice schiocco delle dita.”
“Mi riesce alquanto difficile immaginarlo, dal momento che le tue dita non possono più schioccare.”
Morgana esalò un sospiro. Doveva riconoscere che Rebecca aveva fegato.
“Attenta, Bonner…” – la minacciò Clio, arrabbiata. “Ti senti forte perché la Collins è dalla tua parte, non è vero?”
Rebecca strinse gli occhi. “La Collins è dalla parte delle Prescelte. Tutte. Non si può dire lo stesso delle fate, dico bene? Per te l’unica Prescelta che conta è Morgana. Non credo tu abbia voce in capitolo, quando si parla delle Prescelte. E di certo non puoi paragonarti alla Collins.”
Clio non rispose, ammutolita di fronte a quelle parole.
“Dai, Rebecca, andiamocene.” – le disse Brenda. “Non vale la pena continuare a perdere altro tempo qui.”
Rebecca non distolse gli occhi da quelli di Clio. Per alcuni istanti, l’orgoglio le impedì di muoversi. Ma Brenda la prese gentilmente per un braccio, conducendola via.
Senza aggiungere altro, si allontanarono.
 
Rebecca restò di malumore per tutta la settimana. La discussione con Clio e Morgana l’aveva parecchio infastidita. Era ormai chiaro che Morgana era gelosa di lei e il modo in cui Clio prendeva le sue parti le dava ai nervi. Non le importava niente se Morgana veniva da una famiglia influente, non si sarebbe lasciata intimidire dalle vaghe minacce di Clio e non avrebbe tollerato ulteriori affronti da parte di Morgana.
Tutto quello che desiderava era essere lasciata in pace.
Eppure….eppure c’era qualcosa che non quadrava. Era assurdo che entrambe ce l’avessero con lei per semplice gelosia.
Brenda aveva ragione, il quadro non era completo. Doveva esserci dell’altro.
Ma cosa?
“Rebecca!”
Rebecca sussultò.
“Ci stai ascoltando?”
“Cosa?”
“Lascia perdere.” – disse Barbara, rassegnata, a sua sorella.
“Si può sapere che hai?” – chiese Brenda. “Non hai detto una parola nemmeno a cena.”
Erano salite subito in camera a studiare, ma chiaramente la testa di Rebecca era altrove.
“E’ ancora per Morgana, vero?” – le chiese Barbara.
Rebecca sospirò. “Non riesco a capire perché ce l’abbia tanto con me.”
“E’ davvero così importante?” – fece Barbara, allargando le braccia.
“Non può essere semplicemente gelosa. Dev’esserci qualcosa sotto, qualcosa che io non so.”
“E che, probabilmente, non saprai mai.” – puntualizzò Brenda. “Perché stiamo ancora parlando di lei?”
“Perché mi dà fastidio che non perda occasione di darci il tormento. Soprattutto ora che ha Clio dalla sua parte.”
“Quel deficiente di un fantasma può dire e fare quello che vuole.” – disse Barbara. “A me la cosa non tange minimamente. E poi hai sentito quell’idiota di Morgana? E’ convinta di vincere il primo premio. Tzè… Gliela farò vedere io.”
Presa dal pensiero di Clio e Morgana, Rebecca aveva quasi dimenticato il concorso di Halloween. “Hai già scelto il costume?” – le chiese.
“Beh, non è ancora nulla di definitivo ma…. Ci sto lavorando.”
“E sarebbe?” – la incalzò Rebecca, curiosa.
“Mago Merlino.”
Brenda e Rebecca sgranarono gli occhi.
“Ma non è a tema di Halloween.” – obiettò Brenda.
“Oh, credimi, il mio lo sarà.”
“Mica male come idea.” – disse Rebecca. “Ma in pratica dovrai travestirti da uomo.”
“Già. Sto ancora sistemando i dettagli. Niente dovrà essere lasciato al caso. Quella cretina mangerà la mia polvere.”
Rebecca rise.
“E voi? Ci avete già pensato?”
“Io pensavo ad un costume da vampiro.” – disse Brenda.
“Ma non è molto originale.” – obiettò sua sorella. “C’erano vampiri anche l’anno scorso…”
“Ma a me non importa un accidenti del concorso.”
Barbara spalancò gli occhi. “E perché?”
“Sarai tu a portare la vittoria in famiglia. Mi accontenterò di questo.”
Barbara allargò le labbra in un sorriso soddisfatto. “E tu, Rebecca?”
“Io sono completamente in alto mare.” – ammise Rebecca, cupa.
“Beh, se la smettessi di pensare a Morgana forse riusciresti a concentrarti su cose più serie, come questa.” – la rimproverò Barbara.
Rebecca sospirò. “Vedrò di darmi una mossa.”

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Capitolo 8
*** Mago Merlino contro Fata Turchina ***


La festa di Halloween era sempre più vicina e Rebecca si era finalmente fatta un’idea del costume che avrebbe indossato. Non era niente di particolarmente eclatante, ma sicuramente meglio del banale abito da Strega del Medioevo che aveva sfoggiato l’anno prima. E, in fondo, non le importava poi molto del concorso. Proprio come Brenda, avrebbe preferito che fosse Barbara a vincere, visto il suo grande entusiasmo. L’importante era che non vincesse Morgana.
Qualche giorno prima della festa, incontrarono Elettra e Justine, un pomeriggio, in biblioteca.
“Voi da cosa vi travestirete?” – chiese loro Barbara, senza mezzi termini.
Rebecca aveva il sospetto che lo chiedesse a tutte nel timore che qualcuna potesse aver scelto un travestimento migliore del suo.
“E’ una sorpresa.” – rispose Elettra.
“Ah. Quindi ci tenete anche voi a partecipare al concorso.” – constatò Barbara, delusa.
“Certo che sì. Perché, voi no?”
“A me non importa molto.” – rispose Rebecca.
“Perché?”
Rebecca si strinse nelle spalle. “E’ Barbara quella che ci tiene di più. Faremo il tifo per lei.”
“Beh, mi dispiace, ma io ho tutte le intenzioni di vincere.” – disse Elettra, determinata.
Barbara si morse le labbra, senza dire nulla. Sarebbe stata una dura lotta…
“C’è parecchio fermento in questi giorni.” – riprese Elettra. “Nella nostra classe due ragazze si sono picchiate perché avevano scoperto di aver scelto lo stesso identico costume.”
“Che cosa?!” – esclamò Barbara.
Elettra sogghignò. “Già. Quando la preside è venuta a saperlo non era molto contenta…”
“Addirittura picchiarsi. Mi sembra un po’ esagerato.” – considerò Brenda.
“Beh, io credo che questo concorso sia un tentativo di distrarci un po’. Penso che la Collins abbia voluto creare un diversivo… sapete…. Dopo quello che è successo l’anno scorso….” – disse Elettra, soffermandosi a guardare Rebecca.
Rebecca capì cosa intendeva. A scuola non si faceva che parlare di lei e del suo Potere e nessuno aveva dimenticato Cogitus. Probabilmente era vero, la Collins stava cercando di fare il possibile per distrarre le Prescelte da quello che era diventato un ambiente assai poco piacevole. C’era un gran bisogno di alleggerire l’atmosfera e quale migliore occasione della festa di Halloween?
“Questo però sta creando un po’ troppa rivalità tra alcune di noi.” – continuò Elettra. “Perlomeno nella nostra classe.”
“Mica solo nella vostra.” – disse Barbara.
“Davvero?” – chiese Elettra, sorpresa.
“A noi tocca sopportare un pallone gonfiato del primo anno.” – precisò Barbara.
Elettra corrugò la fronte. “Cioè?
“Lupus in fabula.” – disse Brenda, girandosi verso la porta.
Morgana era appena entrata. Non appena vide Rebecca, stranamente, andò a sedersi dalla parte opposta della stanza, senza degnarla più di uno sguardo.
“Chi è?” – domandò Justine.
“Ah, non avete ancora avuto il piacere di conoscerla?” – fece Barbara, in tono sarcastico.
“No.” – rispose Elettra. “L’ho vista in giro ma non so chi sia. E’ al primo anno, vero?”
“Già.”
“Ed è lei la persona di cui stavi parlando?”
“Proprio così.”
“Morgana Curter.” – disse Rebecca. “E’ parente di una fata.”
“Davvero?” – mormorò Elettra, sorpresa.
“Già. La fata si chiama Clio e ormai il suo unico scopo è proteggere la sua pupilla.” – aggiunse Rebecca, con malcelata ironia.
“Che problema avete con lei?” – chiese Justine.
“Che problema ha lei con noi, vorrai dire.” – puntualizzò Barbara.
Rebecca sospirò. “E’ una lunga storia.”
“Siamo tutt’orecchie.” – disse Elettra.
Rebecca raccontò tutto dal principio, dal suo primo incontro con Morgana fino all’ultimo spiacevole colloquio con lei e Clio.
“Ma non capisco.” – disse Elettra, quando Rebecca finì di parlare. “Come mai tutto questo astio nei tuoi confronti?”
“E’ gelosa di Rebecca.” – rispose Barbara al posto suo. “Rebecca ormai è famosa qui dentro, lei no.”
Rebecca si voltò a guardarla. “Io non so se le cose stanno proprio così.”
“Oh andiamo! Che altro motivo vuoi che ci sia? E’ solo uno stupido pallone gonfiato, abituata ad avere tutti ai suoi piedi, ne sono certa. Il fatto che ci sia qualcuno ad Amtara che la mette in ombra non le va giù. E’ tutto qui il problema.”
Rebecca e Brenda si scambiarono un’occhiata. Brenda appariva scettica, proprio come lei, ma non disse nulla.
“Beh, se le cose stanno così, lasciala perdere, Rebecca.” – disse Elettra.
“A me non importa niente di lei.” – rispose Rebecca, in tono deciso.
Stavolta fu Barbara a fissarla con evidente scetticismo, ma lei la ignorò.
Elettra si girò verso Morgana, che stava studiando china sui libri. “Comunque, al momento, non mi pare molto interessata a te.”
“Speriamo continui così.” – replicò Rebecca.
 
Il giorno della festa finalmente arrivò. Rebecca aveva trascorso l’ultima settimana impegnatissima nei fervidi preparativi per il suo costume. Era molto soddisfatta del risultato ed era elettrizzata al pensiero delle facce che avrebbero fatto Brenda e Barbara.
Proprio come l’anno prima, Barbara cominciò a prepararsi con largo anticipo.
La sua ansia era alle stelle. Aveva deciso che sarebbe stata lei a vincere il primo premio ed era essenziale non tralasciare nessun dettaglio e curare tutto fin nei minimi particolari. Qualunque errore, anche il più piccolo, avrebbe potuto vanificare in un battibaleno tutti i suoi sforzi e lei non se lo sarebbe mai perdonata.
“Barbara, ho bisogno del bagno!” – gridò Brenda, dando dei sonori colpi alla porta.
Barbara si era chiusa lì dentro da almeno un’ora e non si decideva ad uscire.
“Non ho ancora finito!” – la sentirono gridare.
“Allora datti una mossa!” – replicò sua sorella, esasperata.
Brenda andò a sedersi sul letto, prendendosi la testa tra le mani.
“Coraggio.” – le disse Rebecca, con un sorriso. “Stasera sarà tutto finito.”
“Sì e non vedo l’ora.” – mugugnò Brenda.
Qualche minuto dopo, finalmente la porta del bagno si aprì.
Rebecca e Brenda si voltarono e rimasero letteralmente incantate.
“Allora? Che ve ne pare?” – chiese Barbara, sfilando davanti a loro e mettendo in mostra il suo vestito.
Rebecca pensò che non aveva mai visto nulla del genere e il suo primo pensiero fu che se la giuria non l’avesse fatta vincere il primo premio, sarebbe stata semplicemente fuori di testa.
Barbara indossava una lunga veste azzurra con stelle argentate ricamate sopra e un cappello a cono blu. Aveva applicato una protesi sul naso per renderlo lungo e adunco e delle sopracciglia grigio chiaro. Portava piccoli occhiali a mezzaluna e una lunga barba bianca che le arrivava fino al petto.
Quello che però aveva davvero impressionato Rebecca era l’aggiunta di piccoli particolari, in perfetto stile Halloween, che la giuria non avrebbe certo potuto ignorare.
Barbara aveva disegnato una lunga striscia rossa sul viso, dal lato destro, che le arrivava fino al collo, dando l’incredibile effetto di una profonda ferita sanguinante. Anche le mani erano dipinte di rosso e piccole chiazze rosse punteggiavano  qua e là la lunga veste. L’effetto d’insieme era davvero notevole.
“Geniale.” – mormorò Rebecca, visibilmente sorpresa. “Assolutamente geniale.”
Barbara sorrise. “Lo pensi davvero?”
“Altrochè!”
“E tu Brenda?”
Brenda, senza dire una parola, le si avvicinò. La squadrò da capo a piedi, con sguardo così serio che per un istante Barbara pensò che non apprezzasse la sua scelta.
“Mia cara sorellina, il primo premio sarà tuo.” – annunciò.
Le labbra di Barbara si aprirono in un largo sorriso.
 
Rebecca e Brenda si vestirono senza fretta.
Alla fine Brenda aveva tenuto fede alla sua decisione di vestirsi da vampiro. Indossò un semplice paio di pantaloni neri e una camicia bianca e si spalmò sul viso un fondotinta chiarissimo che rese la sua pelle di latte. Poco prima di uscire mise un paio di lenti a contatto rosse e una protesi sui denti con due canini aguzzi. Terminò con una dose generosa di rossetto rosso, senza dimenticare qualche sbavatura agli angoli della bocca, per dare l’effetto del sangue che colava.
“Sei bellissima.” – le disse Barbara. “E fai paura.”
Brenda sorrise soddisfatta.
“Rebecca, ti manca molto?” – la incalzò Barbara.
Rebecca si era chiusa in bagno. Fino all’ultimo, aveva voluto tenere per sé il suo segreto. Voleva assolutamente che fosse una sorpresa.
Impiegò una buona mezz’ora per vestirsi e truccarsi.
Poi, dandosi un’ultima occhiata allo specchio, finalmente aprì la porta.
“Oh mio Dio…” – mormorò Barbara, a bocca aperta.
“Non ci posso credere…” – disse Brenda, a bassa voce.
“Vi piace?” – chiese Rebecca emozionata, assolutamente estasiata nel constatare le loro reazioni.
Rebecca indossava un costume bianco da infermiera, con lunghe strie rosse lungo il tessuto. Ma il piatto forte era il trucco sul viso.
“Un’infermiera Zombie?” – chiese Barbara.
“Già.”
“Potresti darmi del filo da torcere al concorso, sai?”
“Naa. Nessuno può reggere il confronto con Mago Merlino assassino.” Poi si rivolse a Brenda. “Che ne pensi?”
“Assolutamente suggestivo. A questo punto, quella che ha avuto meno fantasia di tutte sono stata io.” – disse, cupa.
“Non preoccuparti sorellina, ti farò provare la mia tuta nuova fiammante e magari avrai anche il permesso di usare i miei sci…” – la canzonò Barbara.
“Sempre che tu riesca a vincerli.”
Barbara si adombrò. “Hai qualche dubbio?”
“Sai che faccio il tifo per te.”
“Allora muoviamoci. Non voglio arrivare tardi.”
 
Quando raggiunsero i sotterranei la sala era già piena. Come l’anno prima, la lunga tavolata al centro della stanza era imbandita con cibi e bevande di ogni tipo.
La figura alta e magra della preside spiccava in mezzo alle altre. Rebecca notò che, anche stavolta, la Collins aveva deciso di non indossare nessun costume. Se fosse dipeso da lei, Rebecca le avrebbe consentito di partecipare al concorso anche con gli abiti che indossava quotidianamente ed era certa che avrebbe dato del filo da torcere a Mago Merlino assassino in persona.
La preside stava chiacchierando con il professor Christie il quale, più che altro, l’ascoltava senza smettere di mangiare. Rebecca notò che si era riempito il piatto di salsicce e patate. Un po’ disgustata, distolse lo sguardo.
“Oh mio Dio.” – mormorò ad un tratto, spalancando la bocca.
Morgana aveva appena fatto il suo ingresso in sala, seguita da Clio.
La presenza della fata la indispettì. Nessuna fata aveva mai preso parte alla festa di Halloween delle Prescelte e Rebecca pensò che sarebbe stato opportuno, da parte di Clio, evitare di presentarsi. Ma naturalmente Clio era ormai l’ombra di Morgana e non si sarebbe certo lasciata sfuggire l’occasione per accompagnarla.
Ma quello che raggelò Rebecca fu il costume di Morgana.
Non appena la ragazza entrò nella sala, tutti si voltarono a guardarla.
Era vestita da Fata Turchina, con una veste di finissimo raso azzurro tempestata di brillanti. Lo stretto corpino faceva risaltare ancora di più la sua esile figura e la pelle del décolleté brillava come sotto l’effetto di un Incantesimo. I lunghi capelli neri erano pettinati all’indietro, lisci e lucidi come seta. Reggeva in mano una bacchetta azzurra con la punta a forma di stella color argento e indossava un cappello a cono, anch’esso azzurro, dal quale partiva un ampio velo turchino che le arrivava fino alla schiena. Il suo viso era luminoso, la pelle candida come un giglio, le labbra leggermente dipinte di un rosso tenue e i grandi occhi color ghiaccio sapientemente truccati in modo da sembrare ancora più grandi.
“Qualcuno le ha spiegato che è Halloween?” – domandò Brenda ad alta voce.
Rebecca non poteva darle torto. Il vestito era senza alcun dubbio splendido, ma non era assolutamente idoneo al tema della serata.
In quel momento, Rebecca si rese conto, trionfante, che Barbara aveva senza alcun dubbio la vittoria in pugno.
“Ma che diavolo si è messa?” – esclamò Barbara, fissandola imbambolata.
“Mia cara sorellina, preparati a festeggiare.” – le disse Brenda.
“Tu dici?” – fece Barbara, incerta.
Brenda strabuzzò gli occhi. “Ma l’hai vista? Certo, è bellissima, ma nessuno sano di mente potrebbe decretare quel costume il migliore della festa. Che diavolo ci azzecca Fata Turchina con Halloween?”
“Sì, in effetti non hai tutti i torti…”
In quel momento, due persone si avvicinarono. Una indossava un abito grigio gessato, scarpe nere di vernice e un cappello a tesa larga. Aveva folte sopracciglia nere e un paio di baffetti sottili.
L’altra portava una lunga gonna marrone, una camicia bianca e una lunga collana di perle, un paio di stivaletti neri e un basco bianco.
Rebecca non le riconobbe subito, ma poi sgranò gli occhi e scoppiò a ridere.
“Non ci posso credere! Siete proprio voi!”
Elettra e Justine risero.
“Bonnie e Clyde al vostro servizio, infermiera Bonner!” – esclamò Elettra, facendo un inchino. “A proposito, gran bel costume!”
“Grazie.”
“Io però ci avrei messo anche un bel pugnale, proprio lì, dentro il taschino.” – aggiunse Elettra, indicando la tasca della camicia di Rebecca.
“Magari un pugnale vero.” – intervenne Barbara. “Casomai qualcuno ti infastidisse anche stasera…”
Rebecca rise.
“Il tuo costume è inquietante.” – disse Justine rivolta a Barbara.
Barbara aggrottò la fronte. “Devo prenderlo come un complimento?”
“Sì, naturalmente.” – si affrettò ad aggiungere Justine. “E’ notevole e molto originale. Mago Merlino, giusto?”
Barbara annuì. “Spero proprio che la giuria sia del tuo stesso parere, perché ho intenzione di vincere il primo premio.”
“Non cantare vittoria tanto in fretta, Merlino.” – l’ammonì Elettra. “Anche Bonnie e Clyde sono in lizza per il primo posto.”
Barbara si morse un labbro. Credeva, in tutta onestà, che non avessero la minima possibilità contro di lei, ma non era il caso di distruggere in maniera tanto repentina i loro sogni di gloria.
“E di Fata Turchina, laggiù, che ne pensi?” – le chiese.
Elettra lanciò un’occhiata di sufficienza a Morgana, che sorseggiava una bevanda vicino al tavolo, parlando con Clio.
“Oh, lei non ha alcuna possibilità. La escluderanno dal concorso, per forza.”
“Mi sembra strano, però, che abbia scelto quel costume. Sapeva benissimo che il tema era Halloween.”
“Forse non è poi così intelligente come crede di essere.” – rispose Elettra.
Tutte risero.
“Mi dispiace solo che abbia speso tutti quei soldi per agghindarsi a quel modo.”
“Oh, ma lei è una Curter.” – disse Rebecca, acida. “Se lo può permettere.”
“Chi è che ha voglia di ballare?” – propose Justine all’improvviso.
“Io.” – rispose Elettra.
Rebecca, Brenda e Barbara declinarono l’invito e andarono a sedersi mentre, nel mezzo della pista, Morgana e il professor Christie, con immenso stupore di Rebecca, si erano appena lanciati in un ballo scatenato.
Rebecca non potè fare a meno di sorridere. La grazia e la leggiadria di Morgana facevano a pugni con la goffaggine del povero professore, strizzato in un abito marrone sotto il quale sudava copiosamente. Guardandolo, Rebecca pensò che somigliava molto a un otre ricolmo, in procinto di scoppiare.
Di tanto in tanto, l’ometto tirava fuori dalla tasca un fazzoletto bianco, con il quale si tamponava in fretta la fronte, cercando allo stesso tempo di non perdere il ritmo.
Con una punta di perverso piacere, Rebecca si rese conto che Morgana non era propriamente a suo agio e cercava, per quanto possibile, di tenere le distanze dal suo accompagnatore. Era probabile che fosse stata costretta ad accettare il suo invito, suo malgrado.
In un angolo, Clio li osservava, annoiata.
“Non sono ridicoli?” – esclamò Barbara, fissandoli divertita.
“Beh, a dire la verità, solo lui lo è.” – rispose Brenda.
“Sì, ma lei non sembra molto a suo agio, non è vero?”
“Ben le sta.” – disse Rebecca, in tono aspro.
Ormai il suo astio nei confronti di Morgana Curter aveva raggiunto livelli esagerati. Sperava vivamente che Barbara avrebbe vinto il primo premio. Non vedeva l’ora di prendersi la sua rivincita.
“Che facciamo, scendiamo in pista anche noi?” – propose Brenda, alcuni minuti dopo.
Avevano mangiato qualcosa dal buffet e bevuto un po’ di vino.
A Rebecca girava leggermente la testa.
“Non mi va molto.” – rispose Barbara.
“Oh andiamo! C’è ancora tempo per la premiazione! Non vorrai startene seduta qui tutto il tempo?”
Barbara sbuffò. “E va bene.” – disse, di malavoglia.
Si alzarono tutte e tre e si unirono alle danze.
Rebecca, stordita dal vino, si lasciò andare al ritmo della musica.
Ballarono a lungo, fino a quando, tutte sudate, non decisero di tornare a sedersi. Barbara non voleva rovinare il vestito e se avesse ballato ancora un po’ temeva che il trucco avrebbe cominciato a colarle sul viso.
“Buonasera Mago Merlino!”
Barbara sussultò.
Morgana era proprio dietro di loro e la fissava con un ghigno divertito, che contrastava decisamente con l’aspetto aggraziato ed etereo della sua figura.
Prima che Barbara potesse rispondere, si sentì afferrare il braccio da Rebecca. “Vieni, andiamocene.”
“Oh mio Dio, Bonner!” – esclamò Morgana.
Ora diverse persone avevano smesso di ballare, attirate dalla voce di Morgana.
Rebecca si bloccò.
“Non ci posso credere! Un’infermiera Zombie! Ma come diavolo ti sei conciata?”
Morgana rise.
Rebecca si sentì avvampare.
“Sei stata informata che il tema della festa è Halloween?” – intervenne Brenda, in tono gelido. “Perché a giudicare dal tuo vestito, non si direbbe.”
“Taci, Lansbury.”
“Morgana! La premiazione sta per cominciare!” – gridò Clio, poco distante.
“Beh, a quanto pare siamo alla resa dei conti.” – disse Morgana, rivolgendosi a Barbara.
“Sì e non vedo l’ora di godermi la scena, quando verrai esclusa dal concorso.”
Morgana fece una smorfia. “Tu credi?”
Barbara la fissò, con gli occhi ridotti a due fessure.
“Ci vediamo dopo.” – disse Morgana, dando loro le spalle per raggiungere Clio.
“Dio, non la sopporto…” – mormorò Barbara.
“Su, muoviamoci.” – fece Brenda.
 
La Collins aveva fatto allestire un piccolo palco con un tavolo, dove i professori, membri della giuria, erano già seduti.
La preside salì sul palco e si avvicinò al microfono. Tutti i presenti in sala si accalcarono, ansiosi di conoscere i nomi dei vincitori.
Rebecca, Brenda e Barbara, insieme ad Elettra e Justine, restarono un po’ in disparte. Dal lato opposto della sala, Morgana e Clio avevano gli occhi puntati sulla preside.
Rebecca non vedeva l’ora di assistere alla disfatta di Morgana. Eppure, la ragazza appariva tranquilla, come se pensasse di avere già la vittoria in tasca.
Rebecca corrugò la fronte. Possibile che fosse davvero tanto stupida? Non avrebbe mai potuto competere con gli altri, con quel ridicolo costume. Perfino il suo travestimento da infermiera Zombie aveva più chance di lei.
Poco male, pensò.
Ti aspetta una bella lezione…
La preside si schiarì la voce, attirando l’attenzione di tutti.
“Come sapete, per la prima volta, quest’anno, abbiamo deciso di indire un concorso che premierà i tre costumi di Halloween più creativi, più innovativi e più ricercati. Ma prima di dare inizio alla cerimonia di premiazione, lasciate che io mi complimenti con voi per il sincero entusiasmo con cui avete accolto questa iniziativa e soprattutto per l’impegno con cui avete deciso di affrontare questa sfida. Devo dire che mai come quest’anno sono stati scelti dei costumi originali e fantasiosi oltre ogni dire. Complimenti a tutte!”
Ci fu un lungo e sentito applauso, poi tornò il silenzio.
Rebecca percepiva la tensione nell’aria. Tutti trattenevano il fiato, ansiosi di conoscere il verdetto.
“La scelta è stata molto difficile.” – riprese la Collins. “Avete sfoggiato tutte dei costumi meravigliosi, non è stato semplice decidere. Ma, dopo un’accurata analisi, i membri della giuria hanno scelto.”
La Collins indossò un paio di occhiali e aprì una busta.
Rebecca trattenne il fiato.
Un silenzio tombale calò in sala.
“Si aggiudica il terzo posto, quindi questo meraviglioso cesto…” – disse indicando un grande cesto pieno di dolci che due Gnomi avevano appena portato sul palco. “A pari merito…. I costumi di Bonnie e Clyde! Ovvero Elettra Gambler e Justine Delacroix, del terzo anno!”
La sala esplose in un fragoroso applauso.
Rebecca corse ad abbracciare le due amiche. Sapeva che Elettra aveva sperato nel primo premio, ma non vide traccia di delusione sul suo viso. Justine era talmente emozionata da avere le lacrime agli occhi.
Salirono sul palco per ritirare il premio e ricevere i complimenti della Collins e di tutti i membri della giuria.
“E il terzo posto è andato…” – bisbigliò Barbara a Rebecca.
Rebecca riusciva a percepire la sua tensione.
“Abbi fede.” – le disse, per incoraggiarla.
Barbara non rispose, limitandosi a scrollare le spalle.
Elettra e Justine scesero dal palco con il premio tra le mani.
Rebecca sorrise ad Elettra. Era felice per lei.
“Molto bene!” – disse la Collins. “Ancora complimenti alle nostre Bonnie e Clyde! Ed ora…. Il secondo classificato…”
Di nuovo, silenzio.
“Si aggiudica il secondo premio, ovvero questi pattini a rotelle…. Mago Merlino, cioè Barbara Lansbury, del secondo anno!”
Il cuore di Rebecca sprofondò. Si girò a guardare l’amica, che fissava il palco imbambolata, senza accennare a muoversi.
“Barbara, per l’amor del cielo!” – le gridò Brenda, spingendola verso il palco.
Le ci volle qualche istante per riprendersi, poi la ragazza obbedì e salì sul palco.
Era chiaramente sconvolta.
Rebecca si mise una mano sulla fronte e lanciò un’occhiata verso Morgana, che la stava fissando con un sorrisino malvagio sulle labbra. Era ancora convinta di vincere? Se Barbara non aveva ottenuto il primo premio, di certo non l’avrebbe avuto lei. Era impossibile…
“Congratulazioni, Lansbury!” – gridò la Collins a Barbara che, con le gote arrossate, riceveva i pattini a rotelle.
Rebecca pensò che non avesse ancora metabolizzato la notizia. La delusione per non aver vinto il primo premio traspariva chiaramente dall’espressione del suo viso. Ma la preside non sembrò farci caso.
“Non l’ha presa molto bene, vero?” – chiese Rebecca, avvicinandosi a Brenda.
“No.” – rispose Brenda, sconsolata. “E sinceramente nemmeno io. Mi auguro solo che non vinca…lei.” – aggiunse indicando con un cenno Morgana.
“Già.”
Rebecca deglutì.
Ormai il momento era arrivato.
Finalmente avrebbero scoperto il nome del vincitore.
Barbara scese dal palco, tra gli applausi e le congratulazioni del pubblico.
“Ehi, Barbara, alla fine non possiamo lamentarci, no?” – le disse Elettra, che appariva molto più felice per il terzo posto di quanto non fosse lei per il secondo.
“No, direi di no.” – rispose Barbara, tristemente.
Poi, senza aggiungere altro, tornò da Rebecca e Brenda, lasciando Elettra un po’ perplessa.
“E finalmente, tra poco conosceremo il nome del vincitore!” – riprese la Collins.
Un brivido di paura percorse la schiena di Rebecca. I giochi erano ormai fatti, ma se Morgana avesse vinto…. Come l’avrebbe presa Barbara?
No, era impossibile. Il costume di Morgana era fantastico, ma la giuria non poteva essere tanto stupida da premiare un abito che di Halloween non aveva assolutamente niente. C’erano una marea di costumi decisamente migliori, originali, creativi. La Collins aveva ragione, quest’anno le Prescelte avevano dato il meglio di sé.
Per un folle istante, Rebecca pensò che avrebbe perfino potuto vincere lei. In fondo, si era data parecchio da fare per trovare quel costume e ci aveva impiegato mezz’ora per truccarsi il viso da Zombie. Tutti le avevano fatto i complimenti. Certo, probabilmente non era il massimo dell’originalità, ma sicuramente Barbara se la sarebbe presa molto meno se avesse vinto lei, piuttosto che Morgana. Senza contare che Rebecca le avrebbe regalato la tuta e gli sci, visto che lei non sapeva sciare.
“Si aggiudica il primo premio del concorso per il costume migliore di Halloween….”
Rebecca chiuse gli occhi.
“Fata Turchina, ovvero Morgana Curter, del primo anno!”
Ci fu un boato e la sala esplose in un fortissimo applauso.
Rebecca riaprì gli occhi, convinta di aver sentito male.
Ma quando vide Morgana salire sul palco, con un sorriso radioso, capì di aver sentito benissimo.
Con un colpo al cuore, vide Barbara scoppiare a piangere, accanto a lei.
Brenda, livida, fissava Morgana, scuotendo ripetutamente la testa.
Come diavolo era possibile una cosa del genere? Che razza di raggiro era mai questo?
“Che ne pensi?”
Rebecca sobbalzò. Non si era nemmeno accorta che Elettra le si era avvicinata.
“Cosa penso? Che i professori hanno la segatura nel cervello, ecco cosa penso.” – rispose, arrabbiata, mentre Brenda cercava, invano, di consolare Barbara.
Le si strinse il cuore.
“Potrebbe essersi comprata la vittoria, secondo te?”
Rebecca non ci aveva pensato. “Non lo so. Tutto potrebbe essere, ma tanto non lo scopriremo mai.”
Ormai che importanza aveva? Morgana aveva vinto, era tutto finito.
Si allontanarono dal palco, nessuna di loro aveva voglia di unirsi ai festeggiamenti per la vincitrice.
Un concorso chiaramente truccato, ecco cos’era, pensò Rebecca, amareggiata.
Che andassero al diavolo tutti quanti.
Brenda, avvicinatasi al tavolo del buffet, prese del succo d’arancia per sua sorella.
“Senti, Barbara…” – cominciò Rebecca.
“No, non c’è proprio niente da dire, Rebecca. Va bene così.” – rispose Barbara, asciugandosi le lacrime. “Adesso voglio solo andarmene.”
“Sì, certo. Come vuoi.”
Tutte cercarono di consolare Barbara, incluse Elettra e Justine, ma il loro tentativo non fece altro che accrescere la sua insofferenza.
Rebecca pensò fosse opportuno togliersi dai piedi, prima che Morgana o Clio, o peggio entrambe, venissero lì a gongolare. Dubitava che avrebbe avuto l’autocontrollo necessario per non saltare al collo di Morgana. Non avrebbe tollerato le sue battute, non in quel momento. E non era il caso di guadagnarsi una punizione o, peggio, l’espulsione per causa sua.
Ora aveva solo bisogno di uscire da lì.
“Che ne direste di togliere il disturbo, prima che Fata Turchina ci trovi?” – propose Brenda, quasi leggendole nel pensiero.
Tutte si dissero d’accordo.

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Capitolo 9
*** Alvis ***


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La mattina seguente dormirono fino a tardi.
Rebecca si svegliò alle dieci. Barbara dormiva ancora e Brenda, a giudicare dal rumore proveniente dal bagno, doveva essere sotto la doccia.
Rebecca si stiracchiò e rimase a letto, ripensando alla strana serata appena trascorsa.
Quando erano risalite in camera Barbara non aveva proferito parola e, dopo essersi tolta il costume, si era infilata subito a letto, senza nemmeno dar loro la buonanotte.
Rebecca capiva perfettamente come dovesse sentirsi. Morgana l’aveva spuntata, senza alcuna valida ragione.
Elettra aveva detto la verità? Morgana aveva comprato la vittoria? Rebecca dubitava che la preside avrebbe mai permesso una cosa del genere, ma ormai erano ben poche le cose che la stupivano.
Quando, più tardi, scesero per colazione, Barbara era taciturna ma appariva comunque un po’ più tranquilla. Rebecca si chiese come si sarebbe comportata con Morgana. La ragazza non si sarebbe certo fatta scappare l’occasione per pavoneggiarsi di fronte a loro, non dopo che l’avevano canzonata, sicure che sarebbe stata esclusa dal concorso. Invece, non solo non era stata esclusa, ma aveva addirittura vinto!
Giunsero di fronte alla porta della Sala da Pranzo, che trovarono chiusa.
Rebecca, corrugando la fronte, abbassò la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave.
“Ma che…”
“Non c’è niente da fare. Stamattina ci tocca saltare la colazione.”
Rebecca si voltò. Un gruppo di Streghe era apparso dal nulla. Era stata una di loro a parlare.
“Che significa?”
“La Collins non ci fa entrare. Ha detto che oggi la cucina è chiusa.”
“Come sarebbe? E cosa dovremmo mangiare, secondo lei?”
Rebecca era incredula. La preside non poteva tenere le Prescelte a digiuno per un giorno intero.
“Sei sicura che ha detto così?” – le chiese Brenda.
“Certo. Ma credo sia successo qualcosa, perché era molto strana.”
Rebecca, Brenda e Barbara si scambiarono un’occhiata allarmata.
Rebecca ripensò a tutte le volte in cui aveva visto la Collins in evidente stato di agitazione. Ogni volta era accaduto qualcosa di grave.
Avvertì una fitta all’altezza dello stomaco.
“Dov’è adesso la preside?”
“Nelle cucine.”
Rebecca inarcò le sopracciglia. “Nelle cucine? E perché?”
La ragazza si strinse nelle spalle. “E io che ne so?” – ribatté, infastidita.
Il gruppetto si allontanò.
“Dobbiamo scoprire che sta succedendo.” – disse Rebecca alle gemelle, cominciando a correre.
“Che vuoi fare?” – domandò Brenda, mentre lei e Barbara la seguivano.
“Devo parlare con la Collins.”
“E cosa ti fa pensare che ti parlerà, ammesso e non concesso che sia accaduto qualcosa?”
Rebecca si bloccò di colpo, girandosi verso di lei. “Brenda, non hanno mai chiuso la Sala da Pranzo. E’ successo qualcosa di grave, ne sono certa.”
Brenda non rispose. Ormai sapeva che quando Rebecca si metteva in testa qualcosa, tutto quello che le restava da fare era assecondarla. D’altra parte, cominciava ad avere fame e non avrebbe resistito rimanendo a digiuno per l’intera giornata. Sarebbe stato meglio andare a verificare di persona.
Arrivarono di fronte alla porta delle cucine.
Rebecca esitò. Udiva dei rumori provenienti dall’interno, ma non ebbe il coraggio di bussare.
Ma non ce ne fu alcun bisogno, perché in quel momento la porta si spalancò.
Fecero appena in tempo ad arretrare di un passo, quando la preside apparve di fronte a loro.
“Che cosa ci fate voi, qui?” – chiese la Collins, sbalordita.
“Professoressa, abbiamo saputo che la Sala da Pranzo è chiusa.” – disse Rebecca.
“Sì, Bonner. Almeno per il momento.” – fu la secca risposta.
“Ma… è quasi ora di pranzo…”
La preside si spazientì. “Lo so perfettamente, Bonner. Ho un orologio.”
Rebecca arrossì violentemente.
“Non dovreste essere qui. Tornate in camera vostra.”
Rebecca capì che qualcosa non quadrava. Che motivo aveva la preside di essere lì?
“Professoressa, cos’è successo?”
La Collins la guardò e Rebecca notò la sua espressione contrita.
La donna sospirò. “Questa mattina uno Gnomo è stato trovato morto nelle cucine.”
Barbara si portò le mani alla bocca.
Brenda soffocò un grido.
“Morto?” – ripeté Rebecca, attonita.
“Sì. Uno degli Gnomi è sceso in cucina all’alba per preparare le colazioni, come sempre. Ha trovato il cadavere a terra.”
Solo lo scorso anno, Cogitus aveva ucciso due Gnomi, dopo aver rapito Brenda.
Ora, la storia si ripeteva.
C’era di nuovo lo zampino di Posimaar? Non immaginava nessun altro che potesse desiderare di fare del male agli Gnomi. Erano le creature più innocue e pacifiche che lei avesse mai incontrato, onesti ed instancabili lavoratori.
Cosa stava succedendo, di nuovo, ad Amtara?
“Ora devo andare.” – disse la preside. “Tornate di sopra. Faremo in modo di riaprire le cucine per servire il pranzo.”
Rebecca dubitava che sarebbe riuscita a mangiare, sapendo che, proprio lì dove veniva cucinato il loro cibo, era appena stato commesso un cruento omicidio.
Obbedirono e tornarono di sopra.
A mezzogiorno, tutte le Prescelte sostavano di fronte alla porta della Sala da Pranzo.
Rebecca, Brenda e Barbara non dissero nulla a nessuno. Ci avrebbe pensato la preside ad informare la scuola dell’accaduto, a tempo debito.
La Sala da Pranzo fu riaperta all’una.
Andarono a sedersi al loro tavolo. Contrariamente al solito, le portate servite furono poche. Era chiaro che gli Gnomi erano stati costretti ad imbastire il pranzo all’ultimo minuto, arrangiandosi come potevano.
Rebecca osservò il vassoio di arrosto con patate che era appena stato servito, e nella sua mente si delineò l’immagine del corpo di uno Gnomo ricoperto di sangue.
L’appetito si dileguò.
“Non vedo Morgana.” – disse Brenda.
Rebecca, totalmente presa dalla sconvolgente notizia, aveva completamente dimenticato Morgana.
Brenda aveva ragione. Non c’era.
Margaret, Alyssa e Viola stavano mangiando al loro tavolo, senza di lei. Rebecca notò quanto sembrassero molto più tranquille, in sua assenza.
“Sarà in camera sua a lucidare gli sci.” – replicò Barbara, in tono cupo.
 
Nel pomeriggio uscirono a passeggiare lungo il fiume, approfittando della giornata di sole.
Rebecca aveva un disperato bisogno di aria fresca, dopo la notizia ricevuta quella mattina.
Il suo cervello lavorava febbrilmente, cercando di immaginare chi mai avesse potuto desiderare la morte di uno Gnomo. L’intera faccenda non aveva alcun senso e il cuore le martellava nel petto quando pensava che, forse, Posimaar era tornato ad Amtara.
Quanto ci avrebbe impiegato per trovarla e ucciderla?
E se lo Gnomo si fosse semplicemente trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato?
E se la sua morte fosse stata davvero solo un incidente?
Se il Demone fosse nascosto proprio lì, da qualche parte, pronto alla resa dei conti?
La Collins non aveva ancora informato la scuola dell’accaduto. Prima o poi, Rebecca sapeva che avrebbe dovuto farlo. E allora la paura del Demone avrebbe ripreso a serpeggiare per tutta la scuola.
Incontrarono il professor Garou, seduto sotto una quercia a leggere un libro.
Rebecca lo tartassò immediatamente di domande sullo Gnomo assassinato.
“E tu come lo sai?” – le chiese il professore, sorpreso.
“Abbiamo incontrato la Collins giù nelle cucine.”
“Cosa ci facevate nelle cucine?”
“Alcune Prescelte ci hanno detto che la Sala da Pranzo era chiusa. E così siamo scese in cucina per saperne di più. Lì abbiamo visto la Collins, che ci ha raccontato tutto.”
“Non avrete visto il cadavere?” – mormorò l’uomo, allarmato.
“No, non ci ha fatto entrare. E comunque non ci tenevo…” – rispose Rebecca, disgustata al solo pensiero.
Garou prese un respiro profondo. “Si chiamava Alvis. So solo questo. Non lo conoscevo personalmente.”
“Chi potrebbe essere stato, secondo lei?”
Garou la fissò. Rebecca sapeva che stavano entrambi pensando la stessa cosa.
“Lui?” – azzardò Rebecca, con voce sottile.
“Che motivo avrebbe per uccidere uno Gnomo?” – replicò il professore.
“Nessuno, almeno in apparenza. E se fosse stato un incidente?”
“Ho visto il corpo, non è stato un incidente.”
“Ha visto il corpo?” – ripeté Rebecca, sbalordita.
“Sì. E credimi, mi sarei volentieri risparmiato lo spettacolo.” – rispose Garou, reprimendo un brivido.
Garou chiuse il libro e volse lo sguardo verso il fiume. Tirava un vento gelido e si strinse di più nel cappotto.
L’inverno era ormai alle porte.
Il professore tacque per alcuni istanti, perso nei suoi pensieri.
Rebecca non gli toglieva gli occhi di dosso.
“Ero in cucina con la preside, stamattina.” – riprese il professore. “Non appena è stato ritrovato il corpo hanno dato subito l’allarme. Io e la preside siamo stati i primi ad arrivare. E’ stato orribile. E c’era un odore terribile. Abbiamo trovato della carne sul tavolo della cucina, qualcuno deve averla tirata fuori dalle celle frigorifere. L’abbiamo buttata e abbiamo aiutato gli Gnomi a ripulire.”
“Aspetti un momento. Chi ha tirato fuori la carne dalle celle frigorifere?” – chiese Rebecca, corrugando la fronte.
“L’ipotesi più accreditata, al momento, è che Alvis sia sceso in cucina per prepararsi uno spuntino. Dev’essere allora che è stato colpito.”
Rebecca rabbrividì.
“Il suo corpo era pieno di graffi e morsi.”
“Ma è orribile…” – mormorò Barbara, pianissimo.
“Non potrebbe essere stato un animale?” – chiese Brenda.
“Forse.” – rispose il professore. “Abbiamo pensato ad un orso.”
Rebecca spalancò gli occhi, inorridita. “Ci sono orsi nella foresta?”
“Personalmente non ne ho mai visti, nemmeno nelle mie lunghe notti da lupo mannaro. Ma potrebbero essere scesi dalle montagne.”
“Ma è un’ipotesi poco probabile.” – disse Brenda.
Garou alzò le spalle. “Non escludiamo nulla, per il momento.”
“Un lupo?” – domandò Rebecca.
Garou la guardò. “Spero tu non stia pensando a me.” – disse, scoppiando in una risatina nervosa.
Rebecca arrossì, accorgendosi solo in quel momento del suo commento poco opportuno.
“No, io non intendevo…”
“Sta’ tranquilla, stavo scherzando!”
L’espressione divertita del professore la tranquillizzò.
Garou tornò serio. “Potrebbe essere stato chiunque, per quanto ne sappiamo. Ad ogni modo, ci risulta alquanto improbabile che un animale selvaggio possa essere riuscito a penetrare all’interno della scuola. Come sai, è ben protetta da qualunque intrusione esterna, soprattutto di notte.”
“Ma allora…”
“Allora non possiamo avanzare ipotesi fino a che non verranno effettuate ulteriori indagini.”
“Che tipo di indagini?”
Garou esitò per qualche istante, incerto se rispondere o meno.
“Professore?” – lo incalzò Rebecca.
“Vogliamo studiare le ferite sul suo corpo. Solo così riusciremo a capire meglio la loro origine.”
 
Alcuni giorni dopo, furono celebrati i funerali di Alvis.
Sotto una pioggia torrenziale, il feretro fu trasportato da quattro Gnomi fino al fiume Silos, dove il corpo fu tumulato nei pressi di una grande quercia.
Alla cerimonia presenziarono tutti gli Gnomi, i professori e le Prescelte e, con grande sorpresa di Rebecca, perfino le fate.
I quattro Gnomi depositarono la bara nella buca scavata accanto all’albero, mentre i genitori di Alvis, due vecchi Gnomi molto piccoli e con la schiena un po’ curva, piangevano sommessamente lì accanto.
Rebecca provò un impeto di affetto per quelle creature, così composte anche nel dolore.
Quando la sepoltura fu terminata, si voltò per tornare ad Amtara. Aveva sempre odiato i funerali e non aveva voglia di intrattenersi oltre il dovuto. Inoltre, la pioggia era aumentata d’intensità e avvertiva un disperato bisogno di scaldarsi al tepore del camino.
Mentre si avviava verso la scuola con Brenda e Barbara, notò le tre amiche di Morgana, con l’ombrello in mano.
Di lei non c’era traccia.
“Come mai Morgana non c’è?” – chiese alle gemelle.
“Chi se ne importa.” – rispose Barbara, che evidentemente non aveva ancora digerito l’amara sconfitta al concorso di Halloween.
“Non è strano, però?” – insistette Rebecca. “Non l’abbiamo vista nemmeno a pranzo.”
“Scusa, ma perché ti preoccupi tanto?” – sbottò Barbara, irritata. “Hai bisogno di lei?”
Rebecca aggrottò la fronte. “No, io…Ma perché te la prendi tanto? Ho solo fatto una domanda.”
Barbara alzò gli occhi al cielo. “Lascia perdere.” – disse, massaggiandosi una tempia. “Comunque è malata.”
Rebecca e Brenda la fissarono, sorprese.
“E tu come lo sai?” – le domandò Brenda.
“Ho sentito le sue amiche che ne parlavano, prima. Sono due giorni che è a letto con il mal di testa. Si rifiuta di andare a farsi vedere dalla Anderson, però.”
“E perché?” – chiese Rebecca, con un sopracciglio inarcato.
“E io che ne so? Ti dico solo quello che ho sentito.”
Rebecca aggrottò la fronte. Per quale motivo Morgana non voleva andare in infermeria?
Forse perché il mal di testa era solo una scusa?
Mentre tornavano verso Amtara, non perse di vista Margaret, Alyssa e Viola che, tutto ad un tratto, sembravano avere una gran fretta di rientrare.
Appena entrarono nell’atrio, le vide salire le scale, quasi di corsa.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** Una brutta influenza ***


Rebecca ebbe nuovamente occasione di parlare con Garou a proposito dell’aggressione di Alvis e lui le comunicò che, a seguito di un’attenta analisi delle ferite da lui riportate, tutto sembrava ricondurre ad un animale. Per questo motivo, la Collins aveva deciso di far setacciare l’intera foresta, alla ricerca della pericolosa bestia che doveva averlo attaccato.
“In classe ormai non si parla d’altro.” – disse Justine, un mattino a colazione.
Lei ed Elettra si erano sedute al tavolo con Rebecca, Brenda e Barbara.
“Già.” – confermò Elettra. “Ma molte pensano che non si sia trattato di un animale.”
“Ah no?” – disse Rebecca.
Elettra scosse la testa. “Siamo in tante a credere che sia stato Posimaar.”
A Rebecca andarono di traverso le uova strapazzate. “Credi sia stato lui?”
“Dai, nessun animale sarebbe potuto entrare ad Amtara, tantomeno arrivare fino alle cucine.”
“Ma forse è stato attirato dall’odore del cibo.” – disse Brenda. “Alvis aveva tirato fuori della carne dal frigo, questo potrebbe aver attirato l’animale.”
Rebecca la guardò. Anche lei si rifiutava categoricamente di credere che Posimaar fosse ad Amtara.
“Nessuno riuscirebbe ad entrare qui, in piena notte, senza un Incantesimo adeguato.” – ribatté Elettra, ostinata. “E a quanto ne so, gli animali non sanno fare Incantesimi.”
“Eppure l’anno scorso io e Barbara siamo andate nella foresta di notte, e non abbiamo incontrato nessuna bestia feroce.” – replicò Rebecca.
“Non è detto che si facciano vedere per forza.” – disse Elettra. “Magari siete state solo fortunate.”
“Sì, e anche noi.” – aggiunse Justine. “Se un animale le avesse attaccate, ora noi non saremmo qui a parlarne.”
“Già.” – fece Elettra, con un sorrisetto.
“Comunque,” – riprese Rebecca – “se, come dici tu, è stato veramente Posimaar, perché uccidere uno Gnomo?”
Elettra si strinse nelle spalle. “Non ne ho idea.”
“Se accettiamo questa ipotesi,” – disse Barbara – “significa che il Demone non è molto diverso da un animale. Il professor Garou ha detto che Alvis aveva profondi tagli e segni di morsicature sul corpo.”
Justine rabbrividì.
“Potrebbe essere un mutaforma.” – ipotizzò Elettra.
“Questo sì che è rassicurante.” – disse Barbara.
Rebecca sentì gli occhi di Brenda su di sé.
Sapeva cosa stava pensando. Se davvero Posimaar era lì, da qualche parte, lei era in pericolo. E l’idea che potesse perfino essere un mutaforma non la tranquillizzava per niente. D’altra parte, aveva trasformato Cogitus in un licantropo. L’ipotesi che fosse egli stesso un mutaforma era assolutamente plausibile.
Cercando di ignorare lo sguardo perforante dell’amica, represse un brivido di paura. Per quanto ne sapeva, il Demone avrebbe potuto attaccare in qualunque momento, quella notte stessa, perfino.
Era pronta ad affrontarlo? Che genere di Incantesimi avrebbe potuto usare contro di lui? Certo, aveva pur sempre il suo Potere, che le avrebbe consentito di fuggire rendendosi invisibile, nonostante il divieto della preside. Ma non era nel suo stile scappare di fronte al pericolo.
No. L’avrebbe affrontato con coraggio, esattamente come aveva fatto con Cogitus.
Guardandosi le mani, si accorse che tremavano. Le nascose in grembo, sotto al tavolo, imponendosi di calmarsi.
Elettra e Justine si alzarono e le salutarono, per avviarsi a lezione.
“Ti senti bene?” – le chiese Brenda, quando si furono allontanate.
“Sì, perché?” – replicò Rebecca, con noncuranza.
“Le tue mani hanno smesso di tremare?”
Rebecca la fulminò con gli occhi.
“E’ inutile che mi guardi così. Me ne sono accorta.”
Barbara aggrottò la fronte. “Qual è il problema?”
“Il problema” – rispose sua sorella, con gli occhi ancora puntati in quelli di Rebecca – “è che se Elettra ha ragione e Posimaar è davvero ad Amtara, Rebecca rischia la vita.”
“Sto bene.” – disse Rebecca.
“Per ora.” – puntualizzò Brenda.
“Sai, il tuo ottimismo è confortante.”
“Che intenzioni hai?”
“In che senso?”
Brenda sgranò gli occhi. “Come, in che senso? Il minimo che tu possa fare è dirlo alla Collins.”
Rebecca emise una risatina sarcastica. “Cosa? Ma la Collins crede sia stato un animale ad uccidere Alvis.”
“La Collins ha giurato di proteggerti. Non puoi nemmeno usare il tuo Potere per difenderti, per colpa sua. Deve saperlo.”
“Brenda, sono solo congetture.” – rispose Rebecca, stancamente. “Non sappiamo se lui sia qui.”
“Già, ma non possiamo nemmeno aspettare che tu sia morta, per saperlo.”
“In un modo o nell’altro, prima o poi mi troverà. A che serve scappare?”
“Non ti sto dicendo di scappare!” – ribatté Brenda, spazientita. “Ti sto dicendo di parlarne con la Collins.”
“E lei cosa credi che potrà fare?” – esclamò Rebecca, alzando la voce. “Pensi che possa davvero proteggermi? Fino a quando? Forse nemmeno mia madre potrà farlo per sempre. Prima o poi dovrò affrontare le mie paure e fronteggiarlo, una volta per tutte. Non capisci? Dovrà succedere!”
Brenda non rispose e abbassò la testa.
Per alcuni istanti nessuna parlò.
Poi, Barbara sospirò profondamente. “Ti senti pronta?” – le chiese, in un soffio.
Rebecca la guardò. Si era posta quella domanda un’infinità di volte. No, non si sentiva pronta e probabilmente non lo sarebbe stata mai. Era semplicemente una cosa che andava affrontata e, per un folle istante, si augurò che quel momento arrivasse presto, perché la lunga attesa era assai più snervante. Rebecca si sentiva morire giorno dopo giorno, divorata dall’ansia. Da quando aveva scoperto di essere nel mirino di Posimaar, tutta la sua vita era cambiata, lei stessa era cambiata.
“No, e forse non lo sarò mai. Ma di questo si tratta, no? Avere coraggio.”
 
Nessuno vide Morgana per tutta la settimana. Rebecca venne a sapere che una brutta influenza l’aveva costretta a letto, e le sue condizioni si erano talmente aggravate che era stato necessario ricoverarla in infermeria.
Dunque, contrariamente a quello che Rebecca aveva pensato, quella del mal di testa non era una scusa. Ormai ce l’aveva talmente tanto con lei, che era sempre prevenuta nei suoi confronti.
La rivide a colazione il lunedì mattina della settimana successiva. Il suo aspetto faceva quasi paura. Le guance erano, se possibile, ancora più pallide e scarne, e aveva profonde occhiaie sotto gli occhi. Era anche molto dimagrita e a Rebecca sembrò di intravedere un leggero tremolio nelle mani.
Decisamente non era più la ragazza spavalda che aveva conosciuto. Possibile che una semplice influenza avesse potuto ridurla in quel modo?
“Non è che ha avuto qualcosa di contagioso?” – si chiese Barbara, preoccupata del suo aspetto.
“Speriamo di no.” – rispose Brenda.
“Io comunque le girerei al largo. Non si sa mai.”
Rebecca non disse nulla. Fissò Morgana mentre si versava una tazza di tè. Nemmeno le sue tre amiche sembravano avere molta voglia di parlare con lei. Facevano colazione in silenzio, gli occhi sul piatto.
Sorpresa da se stessa, Rebecca sentì di provare pena per lei.

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Capitolo 11
*** Un Natale diverso ***


 
Novembre passò in un lampo, e presto le umide giornate autunnali cedettero il posto ad una gelida aria invernale.
Con l’arrivo del mese di dicembre, la Collins diede comunicazione a tutta la scuola che le ricerche della presunta pericolosa belva che si credeva avesse ucciso Alvis, si erano rivelate infruttuose. Nessun animale fu avvistato nella foresta, nonostante le ricerche fossero durate settimane, e alla fine la Collins fu costretta a dichiarare la morte dello Gnomo come “accidentale”, con grande irritazione di Rebecca.
Non poteva credere che la preside si comportasse in maniera tanto superficiale. Qualcuno era penetrato ad Amtara, fin nelle cucine, e aveva ucciso barbaramente. Come poteva liquidare il tutto in quel modo? Non sarebbe stato meglio parlare onestamente davanti a tutte e confessare che esisteva la possibilità che Posimaar fosse ad Amtara? O, forse, la Collins preferiva far finta di niente, dal momento che non esistevano prove?
“Beh, l’hai detto tu stessa che non ci sono prove,” – la rimproverò Brenda quando Rebecca esternò il suo pensiero – “quindi non vedo perché allarmare tutta la scuola inutilmente.”
A Rebecca non sfuggì il tono pungente.
“Ok, hai ragione. Ma credo che tutte le Prescelte sospettino del Demone Supremo. Voglio dire, se non è stato un animale, non restano molte alternative, no?”
“Sei sempre dell’idea di non chiedere la sua protezione?”
“Non sono così codarda.”
Brenda sospirò. Ormai aveva capito che lei e Barbara avrebbero dovuto starle vicino e cercare di non perderla mai di vista. Se la Collins non fosse riuscita a proteggere Rebecca da Posimaar, avrebbero dovuto farlo loro. Non sarebbe stato poi tanto difficile, dal momento che trascorrevano praticamente tutto il tempo insieme. Se le fosse accaduto qualcosa, o lei o Barbara avrebbero subito dato l’allarme.
 
Fu un periodo piuttosto duro per Rebecca, che cominciò ad avere incubi notturni sul Demone. Spesso si svegliava nel cuore della notte, madida di sudore e con il cuore in gola. Per quanto cercasse di nascondere i suoi sentimenti alle gemelle, in realtà non si sentiva affatto tranquilla. Era certa che Posimaar fosse lì fuori, da qualche parte, che la stesse osservando e aspettasse solo il momento giusto per attaccare. Si sentiva inerme e indifesa ma sarebbe morta piuttosto che seguire il consiglio di Brenda e andare a parlare con la preside. Ce l’aveva ancora con lei per la storia del Potere e non aveva alcuna intenzione di chiedere il suo aiuto, soprattutto perché pensava che nessuno sarebbe stato in grado di aiutarla davvero, se Posimaar avesse attaccato. Avrebbe dovuto contare solo sulle sue forze, confidando nella protezione di sua madre.
Per fortuna, un paio di settimane prima di Natale, Rebecca ricevette una notizia che contribuì a risollevarle il morale, distogliendola, almeno in parte, dal pensiero fisso di Posimaar.
Brenda e Barbara ricevettero una lettera dai loro genitori, con la quale la invitavano a passare le vacanze di Natale in montagna con loro.
Rebecca, che l’anno prima aveva declinato l’invito, stavolta decise che non si sarebbe lasciata scappare l’occasione di trascorrere il Natale in montagna. Era già stata loro ospite durante l’estate e non vedeva l’ora di godersi il suggestivo panorama con la neve.
Stavolta non ci pensava nemmeno di restare ad Amtara, da sola. Aveva un disperato bisogno di andarsene da lì, di respirare l’aria pura e frizzante di quel luogo incantevole. Era sicura che un po’ di tempo a stretto contatto con la natura era quello di cui aveva bisogno per ritrovare se stessa e, anche se non avrebbe certo dimenticato la minaccia costante rappresentata da Posimaar, se non altro avrebbe allentato un po’ la tensione.
Dall’arrivo della lettera, Rebecca cominciò a contare i giorni che la separavano dalla partenza.
Dalla morte di Alvis, Amtara era diventato un luogo opprimente per lei. Aveva notato che Brenda le lanciava spesso occhiatine furtive, credendo di non essere vista, e questo cominciava a darle sui nervi. Anche Barbara, contrariamente al suo solito, le rimaneva quasi sempre incollata addosso, cercando di non perderla mai di vista.
Rebecca era piuttosto irritata dal loro comportamento, tuttavia decise di non dire nulla, perché sapeva quello che stavano cercando di fare. Aveva anche notato l’espressione sollevata di Brenda quando Rebecca le aveva detto che stavolta avrebbe accettato l’invito. Era quasi certa che, se avesse rifiutato, le due amiche avrebbero accampato una scusa qualunque per rinunciare alla vacanza e rimanere con lei ad Amtara.
Se il Demone l’avesse attaccata in loro assenza, non se lo sarebbero mai perdonato.  Ma se una parte di lei apprezzava la loro preoccupazione, l’altra parte era profondamente infastidita dalla loro ossessiva e costante presenza durante la giornata.
Purtroppo, la felicità di Rebecca per le vacanze imminenti ebbe vita breve.
Alcuni giorni prima di Natale, Brenda e Barbara ricevettero una comunicazione urgente da mamma e papà.
“Che succede?” – chiese Rebecca allarmata, notando l’espressione sgomenta di Barbara mentre leggeva la lettera.
“Non ci posso credere…”
Brenda, seduta accanto a Barbara, le si accostò, per leggerla a sua volta. Un’ombra di delusione passò sul suo viso.
“Volete dirmi che accidenti è successo?” – sbottò Rebecca impaziente, irritata dal loro silenzio.
“Nonna non sta bene.” – rispose Barbara. “Mamma e papà dovranno occuparsi di lei e non potranno portarci in montagna.”
“Oh.” – fu tutto quello che Rebecca riuscì a dire.
“Accidenti!” – esclamò Brenda.
“E’…è molto grave?” – domandò Rebecca.
“No.” – rispose Barbara. “Ma è molto anziana, non possono lasciarla da sola.”
Diede la lettera a Rebecca, che poté leggere le poche righe vergate dalla calligrafia della signora Lansbury.
 
“Care Brenda e Barbara, purtroppo questa settimana nonna Emilia si è ammalata. Nulla di grave, state tranquille, ma abbiamo paura che non potremo portarvi in montagna per le  vacanze. Ci dispiace di non poter passare il Natale con voi. Porgete le nostre scuse a Rebecca. Vi spediremo i regali a scuola. Vi abbracciamo forte. Mamma e papà.”
 
Era curioso, pensò Rebecca amaramente. Esattamente un anno prima aveva rifiutato quell’invito, mentre ora che non vedeva l’ora di partire sarebbe stata costretta a rinunciarvi.
Avrebbe passato il suo secondo Natale ad Amtara.
“Ma…voi potete partire comunque.” – disse. “Potete passare il Natale con loro e con vostra nonna.”
Barbara scosse la testa. “Non è così semplice. Nonna richiede cure costanti, e mamma non avrà nemmeno il tempo di cucinare. Credimi, è meglio se restiamo qui.”
“Mi dispiace.” – rispose Rebecca, avvilita.
“E di cosa?” – fece Brenda. “E poi, in qualunque caso, non ti avremmo mai lasciata qui da sola. Non adesso.”
“Sì, lo sospettavo.”
“Volevi passare un altro Natale senza di noi?” – la canzonò Barbara, osservandola con sguardo critico.
“Ma che dici?”
“Forse non vede l’ora di liberarsi di noi.” – disse Brenda, ammiccando verso sua sorella.
“Ma la volete finire?”
Si scambiarono un sorriso. Rebecca pensò che, nonostante tutto, non avrebbe mai voluto trascorrere il Natale senza di loro. Brenda e Barbara erano la sua famiglia, ormai.
“E dimmi, com’è il pranzo natalizio degli Gnomi?” – le chiese Barbara, mutando espressione.
“Oh, lo vedrai. Ti sorprenderà.”
Il viso di Barbara s’illuminò.
“Ma è giusto che tu sappia che ci sarà un’unica tavolata.”
Barbara s’incupì. “Cosa?”
“Beh, siamo in pochi. E’ normale stare a tavola tutti insieme.”
“Noi e i professori?”
“Noi e i professori.” – confermò Rebecca, trattenendosi dallo scoppiarle a ridere in faccia, di fronte alla sua espressione sgomenta.
“Il pranzo di Natale con la Rudolf e la Collins.” – mormorò,infine, Barbara in tono lugubre. “Non vedo l’ora…”
 
La mattina della partenza delle Prescelte per le vacanze natalizie ci fu un grande trambusto in tutta la scuola. L’atrio pullulava di ragazze con le valigie e gli Gnomi si davano un gran daffare per trasportarle nelle auto parcheggiate fuori dal cancello.
Rebecca, Brenda e Barbara osservavano la scena un po’ in disparte, non senza provare un po’ d’invidia per le compagne che avrebbero avuto la fortuna di evadere per un po’ da Amtara. Le gemelle si erano dette entusiaste di passare il Natale con lei, ma Rebecca sapeva che avrebbero di gran lunga preferito la montagna, se avessero potuto scegliere.
Rebecca scoprì con immenso sollievo che anche Morgana sarebbe partita. Sapere che non le sarebbe stata tra i piedi in quelle due settimane la mise di buonumore.
La vide scendere le scale, accompagnata come sempre da Margaret, Alyssa e Viola.
Negli ultimi giorni il suo aspetto era decisamente migliorato, le occhiaie erano sparite e le guance avevano ripreso colore. Aveva anche riacquistato l’atteggiamento sprezzante e arrogante di prima, ma a Rebecca importava poco. Tra poco se ne sarebbe andata, e lei era sicura che avrebbe passato delle vacanze meravigliose con Brenda e Barbara. Certo, Clio sarebbe rimasta, ma Rebecca aveva il sospetto che, senza la presenza della sua pupilla, non l’avrebbe infastidita e sarebbe tornata ad ignorarla come faceva una volta.
Contrariamente alle altre, non fu la famiglia di Morgana a venirla a prendere.
Rebecca la vide avvicinarsi ad un uomo, alto e distinto, in giacca e cravatta, che si fece carico del suo bagaglio. Non era sorpresa del fatto che Morgana avesse un autista privato. Era ricca e di buona famiglia e se lo poteva permettere. Ma Rebecca pensava non ci fosse paragone tra l’essere accolti dai propri familiari e da un algido e impettito autista.
Perché nessuno della sua famiglia era lì? Morgana avrebbe affrontato il viaggio in macchina da sola, probabilmente senza scambiare nemmeno due parole con l’uomo alla guida, mentre tutte le altre avrebbero viaggiato con i loro genitori.
 
Amtara si svuotò e, di colpo, un silenzio surreale invase i corridoi.
Rebecca era felice. Stavolta aveva Brenda e Barbara con lei e non vedeva l’ora di trascorrere le successive giornate rilassandosi e divertendosi.
Fecero lunghe passeggiate sul fiume, ebbero modo di godersi i pasti, per la prima volta senza dover tenere d’occhio costantemente l’orologio e trascorsero lunghe serate a chiacchierare in camera loro, come non accadeva da tempo.
Per qualche giorno accantonarono lo studio, decise a prendersi del tempo per loro e questo giovò moltissimo all’umore di Rebecca, che ritrovò la serenità che negli ultimi tempi aveva perduto.
La mattina di Natale, appena sveglie, aprirono i regali.
Rebecca aveva regalato una trousse per il trucco a Brenda e un libro dal titolo “Pozioni Mostruose” a Barbara.
“Così le tue prossime Pozioni saranno meno puzzolenti.” – disse a Barbara con un gran sorriso.
Sia lei che Brenda non avevano dimenticato l’odore della Pozione Orcheggiante che solo un anno prima Barbara aveva ideato per la festa di Halloween. Ora, se non altro, avrebbe avuto indicazioni precise su come ottenere pozioni perfette.
Fecero colazione tardi e furono quasi cacciate a pedate fuori dalla Sala da Pranzo, da uno Gnomo particolarmente solerte, che doveva preparare la tavola per il pranzo di Natale.
Decisero di andare a fare una lunga passeggiata, pregustando già le deliziose pietanze che gli Gnomi avrebbero servito in tavola.
Quando rientrarono, Barbara gettò un’occhiata curiosa in Sala da Pranzo e rimase senza fiato. Gli Gnomi avevano steso sul tavolo una lunga tovaglia rossa e ad ogni tovagliolo era appuntato dell’agrifoglio decorato con bacche rosse. I piatti e i bicchieri erano orlati in oro e sul tavolo i candelabri in ottone erano già accesi.
Tutto era pronto.
“Via! Sciò! Sciò!” – la cacciò via uno Gnomo, accortosi della sua presenza, costringendola ad uscire.
Barbara guardò l’orologio. Erano le undici e trenta. C’era ancora tempo, ma lei aveva già una gran fame, soprattutto dopo la lunga camminata mattutina.
Salirono in camera a cambiarsi e quando entrarono in Sala da Pranzo gli Gnomi avevano già servito il pranzo in tavola.
Barbara adocchiò, nervosa, la preside e la Rudolf che stavano parlando sedute al tavolo.
“Dobbiamo proprio sederci con loro?” – bisbigliò a Rebecca.
“A meno che tu non voglia mangiare per terra.”
Anche il professor Christie era presente, seduto poco distante da loro, con gli occhietti vispi puntati sui vassoi pieni di cibo di fronte a lui.
Rebecca era sicura che non aspettasse che l’arrivo di tutte le Prescelte per gettarsi a capofitto su tutto quel ben di dio.
Andarono a sedersi e furono raggiunte poco dopo da Elettra.
“Anche tu qui?” – le chiese Brenda, sorpresa.
“Certo, come ogni anno.”
Brenda lanciò un’occhiata interrogativa a Rebecca, che non disse nulla.
Non aveva parlato con nessuno della delicata situazione familiare di Elettra. I suoi genitori erano separati e lei passava sempre il Natale ad Amtara, da sola.
Rebecca prese mentalmente nota di passare del tempo anche con lei nei giorni a venire. La presenza di Elettra a scuola, lo scorso Natale, le era stata di grande conforto, non l’aveva dimenticato. Justine, la sua compagna di stanza, non c’era. Doveva essere tornata a casa per le vacanze.
Le avrebbe fatto compagnia, decise mentre cominciava a servirsi dal grande vassoio di antipasti.
Un gruppo di ragazze del primo anno si erano sedute vicino ad Elettra e lei le aveva accolte con un gran sorriso.
Elettra, come Rebecca, sapeva bene come ci si sentiva il primo anno ad Amtara. Per quelle ragazze non doveva essere facile nemmeno dover passare il Natale, per la prima volta, lontano dalle loro famiglie. Imitando Elettra, rivolse loro un sorriso d’incoraggiamento, che però risultò del tutto inutile, dal momento che le giovani sembravano letteralmente terrorizzate dalla presenza della preside e della Rudolf accanto a loro.
“Un momento, per favore.”
Tutte si girarono verso la preside, che aveva parlato.
“Gradirei dire due parole, prima dell’inizio di questo sontuoso banchetto.” – esordì la Collins, alzandosi in piedi. “Vorrei dirvi che sono molto felice di trascorrere qui con voi questo giorno di festa. Certo, la perdita del nostro amato Alvis è ancora una ferita lancinante nel nostro cuore. Non possiamo dimenticare, ed è per questo che voglio rivolgere il nostro pensiero e la nostra preghiera a lui, quest’oggi. Che la sua anima possa riposare in pace, ovunque lui si trovi.”
Nell’udire il nome di Alvis, tutti si erano rabbuiati. Anche gli Gnomi che stavano servendo in tavola si erano bloccati, evidentemente sorpresi dalle parole della preside. Rebecca vide un paio di loro asciugarsi le lacrime nella manica della camicia, commossi dal gesto della Collins.
“Auguro un buon Natale a tutti noi!” – disse, infine, la Collins in tono gioviale.
Tutti si rilassarono e cominciarono a mangiare.
Barbara si riempì il piatto di tartine al salmone, prosciutto crudo e vol au vent farciti con maionese e funghi. Rebecca si gettò su pizzette e mozzarelline impanate, le sue preferite.
Brenda assaggiò del paté di fegato e un po’ di insalata russa.
Elettra cominciò a chiacchierare con una ragazza del primo anno seduta accanto a lei. Rebecca fu felice di notare che, passato il primo attimo di smarrimento, ora le Streghe del primo anno apparivano molto più rilassate e mangiavano di gusto.
Quando arrivarono i primi piatti, Rebecca si servì di fusilli al forno e crespelle vegetariane, e quando gli Gnomi portarono il secondo, non c’era più spazio nel suo stomaco per nient’altro. Barbara, invece, si servì una generosa porzione di arrosto e gamberoni in agrodolce, con contorno di patatine fritte.
Quando arrivò il carrello dei dolci, colmo di torta di mirtilli, crostata di pesche e crème brulée, Rebecca pensò di essere sul punto di vomitare. Non sarebbe riuscita a mangiare nulla di tutte quelle squisitezze.
Lei e Brenda osservarono, costernate, Barbara servirsi di un po’ di tutto.
“Come fai ad avere ancora posto, lì dentro?” – le chiese Brenda, indicando il suo stomaco.
“E’ Natale.” – rispose Barbara, masticando un pezzo di torta ai mirtilli.
Rebecca rise.
Si rilassò sulla sedia, mentre un vago torpore cominciava ad impossessarsi di lei.
Dando un’occhiata all’orologio, si accorse che erano sedute lì da almeno quattro ore.
Probabilmente, più tardi, avrebbe fatto due passi in giardino, per smaltire il pranzo, prima di chiudersi in camera e ficcarsi sotto la doccia.
Non vedeva l’ora di mettersi a letto, al calduccio, riassaporando ogni momento di quello splendido Natale.

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Capitolo 12
*** L'Incantesimo Incandescente ***


Le due settimane di vacanza passarono in un lampo.
Le Prescelte tornarono ad Amtara e i corridoi si ripopolarono, con grande irritazione delle fate.
“E’ finita la pacchia.” – commentò Barbara, osservando depressa il gran viavai di Streghe davanti a lei.
“Noto con piacere che hai apprezzato anche tu la pace e la quiete di Amtara senza le Prescelte.” – le disse Rebecca.
“Già. Non avrei mai pensato di dirlo, ma mi è piaciuto passare il Natale qui.”
“Quindi la montagna non ti è mancata?” – le chiese Brenda.
“Adesso non esageriamo.”
Morgana tornò a scuola abbronzata, rilassata e serena. Rebecca sperò che l’avrebbe lasciata in pace, almeno per un po’.
Con la fine delle vacanze, le lezioni ripresero a pieno ritmo.
Elettra e Justine si eclissarono completamente, rinchiudendosi tutti i pomeriggi in biblioteca a studiare, come tutte le ragazze del terzo anno.
Rebecca non ci aveva pensato, ma quello era il loro ultimo anno ad Amtara. Per quello che le riguardava, erano ormai alla resa dei conti. Entro pochi mesi, passati gli esami finali di giugno, sarebbero state assegnate ad un Protetto e tutto sarebbe cambiato.
Non le avrebbe più riviste e questo pensiero le spezzò il cuore. Aveva stretto un solido legame con Elettra e sapeva che le sarebbe mancata da morire.
Senza contare che aveva paura per lei. Le Streghe Nere non conoscevano pietà e il ricordo di quanto successo a Bonnie era fin troppo vivo nella sua mente. Rebecca tremò al pensiero che potesse succedere qualcosa del genere ad una di loro.
“E così, il prossimo anno toccherà a noi.” – commentò Barbara in tono tetro, fissando Elettra e Justine entrare in biblioteca, chiudendosi la porta alle spalle.
“Temo di sì.” – rispose Rebecca. “A meno che tu non voglia essere bocciata.”
“Quasi quasi non la trovo una cattiva idea.”
“Preferiresti essere rispedita a casa piuttosto che assegnata ad un Protetto?” – le chiese Brenda, inarcando un sopracciglio.
“A casa sicuramente non rischierei la vita.”
“Ma non credo che mamma e papà sarebbero contenti. No, nemmeno mamma.” – aggiunse, in risposta all’occhiata scettica della sorella. “Sono sicura che preferirebbe vederti combattere, piuttosto che rinunciare.”
“Beh, non sarebbe mica una rinuncia. Se ti bocciano ti mandano a casa, mica lo scegli tu.”
“Se non studi, ovvio che sarai bocciata.” – puntualizzò Brenda.
“Sta tranquilla, sorellina, farò il mio dovere, come sempre.” – ribattè Barbara, stancamente. “E’ solo che…”
“Solo che…?” – la incalzò Rebecca.
Barbara si girò verso di lei. “Beh, esiste pur sempre la possibilità che tu riesca a distruggere il Demone, prima che ci assegnino ad un Protetto.”
Rebecca impallidì. Sapere che Barbara si aspettava questo da lei la fece sentire a disagio.
“Barbara, per favore…” – cominciò Brenda, intuendo l’imbarazzo di Rebecca.
“Beh, che ho detto di male? In fondo è quello che tutte ci aspettiamo, no? E se Posimaar si farà vivo, dovremo aiutarla a sconfiggerlo.”
“Io non ve l’ho chiesto.”
“Ma noi lo faremo comunque.”
Rebecca sospirò. “E tu non vedi l’ora che accada, giusto?”
“Che cosa?”
“Che lui si faccia vivo. Così potrò mettere fine a tutta questa storia una volta per tutte. Ma hai considerato, per un solo momento, che le cose potrebbero non essere così semplici? Hai pensato che potremmo rimetterci tutte le penne?”
“Beh, in quel caso, non farebbe alcuna differenza.”
“Ah no?”
“No. Che differenza c’è tra morire per mano di una Strega Nera o di Posimaar stesso?”
“Lo dico perché a volte mi sembrate tutte fin troppo ottimiste. A sentire voi, basterà che il Demone faccia la sua comparsa e voilà, ecco che Rebecca Bonner risolve come per incanto tutti i problemi delle Prescelte!”
Le gemelle si scambiarono un’occhiata nervosa.
“Beh, in fin dei conti, con Cogitus non te la sei cavata tanto male…” – azzardò Barbara, in tono conciliante.
“Con Cogitus sono stata aiutata da Garou. Se lui non gli avesse tenuto testa, rischiando di morire, non sarei mai riuscita ad ucciderlo. E sicuramente, se mia madre non avesse fatto apparire quel pugnale, non avrei mai potuto farlo. Non saremmo qui a parlarne, ora.”
“Già, ma tua madre ti ha aiutato. E lo farà ancora.”
Barbara capì di aver detto le parole sbagliate, dal modo in cui Rebecca la fulminò con lo sguardo. Evidentemente non aveva gradito il riferimento a Banita.
“Non posso fare affidamento solo su mia madre.”
Barbara tacque.
“Rebecca…” – intervenne Brenda, cauta – “Sappiamo che Posimaar ti sta cercando. Tu sei quella da proteggere, ora. Se c’è una sola possibilità di distruggerlo, sei tu ad averla tra le mani. E noi faremo tutto il possibile per aiutarti. Hai ragione, non ci sarà solo tua madre. Ci saremo anche noi. Non sei sola.”
Rebecca si massaggiò le tempie. “Già. E hai una vaga idea di come io mi senta con questo peso sulle spalle?”
“Io non volevo addossarti nessun peso.” – disse Barbara, mortificata.
“Tu non c’entri. Sappiamo che le cose stanno così. Brenda ha ragione, solo io posso mettere fine a tutta questa storia. È solo che non mi sento all’altezza delle aspettative. E ho una grandissima paura di sbagliare.”
Brenda le posò una mano sulla spalla. “Vedrai che ce la faremo.”
 
La professoressa Cornell, insegnante di Incantesimi, entrò in classe per la loro prima lezione dopo le vacanze.
Anche lei, come Morgana, era abbronzata e il suo volto rilassato.
La Cornell era uno dei professori che trascorreva il Natale lontano da Amtara, proprio come Garou.
“Oggi affronteremo un nuovo argomento di studio.” – annunciò. “L’Incantesimo Incandescente.”
Un lieve mormorio si sparse per tutta la classe.
Rebecca non l’aveva mai sentito nominare.
“Si tratta di un Incantesimo che le Streghe Bianche conoscono molto bene.” – continuò l’insegnante. “E’ stato utilizzato più volte, durante la Guerra dei Due Mondi, per eliminare le Streghe Nere. Con buoni risultati, direi.”
Il cuore di Rebecca perse un battito. A giudicare da quelle parole, questo Incantesimo sembrava decisamente peggiore dell’Incantesimo Irriverente, se le Streghe Bianche l’avevano usato per sconfiggere le loro rivali.
“Con questo Incantesimo potete dare fuoco al vostro avversario. Può essere perfino più potente della Maledizione Accecante, se pronunciato correttamente. Ed è altrettanto difficile da contrastare.”
Rebecca si rese improvvisamente conto che le lezioni della Cornell, contrariamente a quanto aveva pensato finora, non andavano affatto prese sottogamba. In quel momento, perfino le lezioni con la Rudolf le apparivano assai meno complicate e pericolose.
L’insegnante si alzò e aprì l’armadio alla sua destra. Prese un manichino logoro e impolverato che, pensò Rebecca, probabilmente non vedeva la luce da molto tempo.
“Ecco,” – disse, rivolta alla classe – “questo ci permetterà di esercitarci con l’Incantesimo senza pericolo d’incidenti.”
Rebecca e le gemelle si scambiarono un’occhiata. Evidentemente, nemmeno la Cornell aveva dimenticato che Rebecca aveva quasi rischiato di perdere un occhio con l’Incantesimo Irriverente.
“La formula è Ignis”, mentre il Controincantesimo è Exstinguo”. – disse l’insegnante. “Ora vi darò una dimostrazione pratica, senza che nessuna di noi si faccia male.”
Tutte trattennero il fiato, in attesa.
La Cornell sollevò una mano, rivolgendo il palmo verso il manichino.
“Ignis!” – gridò.
Sotto gli occhi spaventati delle ragazze, il manichino prese fuoco all’istante. Le Streghe sedute nei banchi davanti fecero un balzo all’indietro, terrorizzate dall’improvviso calore delle fiamme.
Ma il calore fu talmente forte da investire in un attimo tutta la classe, fino alle Prescelte sedute in fondo.
Rebecca, in terza fila, sentì un caldo tremendo. I suoi occhi erano fissi sul fantoccio in fiamme.
“Exstinguo!”
Le fiamme si spensero all’istante e un forte odore di bruciato investì tutta l’aula.
Alcune Streghe tossirono.
Rebecca, colta dalla nausea, si mise una mano sulla bocca.
La Cornell, in un gesto repentino della mano, fece tornare come prima il manichino bruciacchiato.
“Come vedete, il nostro amico è di nuovo tutto intero.”
Rebecca capì che ora sarebbe toccato a loro.
“Garrett! Vieni tu.”
Angela arrossì.
Rebecca non capiva per quale motivo i professori si ostinassero a chiamarla per prima. Angela non aveva mai brillato negli Incantesimi, perché ci tenevano tanto a metterla in imbarazzo di fronte alla classe?
Angela si avvicinò alla Cornell.
“Ricordi le formule?”
La ragazza annuì.
Rebecca si accorse che tremava.
“Bene, allora quando te lo dirò, solleva la mano e ricordati di scandire bene le parole.”
Al cenno della Cornell, Angela lanciò l’Incantesimo e arretrò di un passo nell’attimo in cui le fiamme avvolsero nuovamente il manichino.
Ci fu un breve applauso e Angela si volse verso la classe con espressione stupita. Probabilmente, pensò Rebecca, nemmeno lei immaginava che l’Incantesimo avrebbe funzionato al primo colpo.
“Ottimo lavoro, Garrett! Davvero un ottimo lavoro!” – pigolò la Cornell, soddisfatta.
Angela fissava le fiamme, con espressione incantata.
In quel momento bussarono alla porta.
Rebecca si voltò e, stupita, vide Morgana.
“Che cosa c’è, Curter?” – le chiese la Cornell.
Ma Rebecca era certa che la ragazza non l’avesse sentita. Immobile sulla soglia, fissava le fiamme, con espressione terrorizzata.
“Curter?” – ripeté l’insegnante.
Tutte si girarono a guardare Morgana, che non si era mossa di un millimetro e continuava a fissare le fiamme, come ipnotizzata.
Exstinguo!” – gridò la Cornell.
Il fuoco svanì.
Morgana, ancora intontita, fissava il manichino bruciacchiato. Stavolta i segni dell’incendio erano ancora più evidenti e dalla testa del fantoccio fuoriusciva una nuvola di vapore nero.
In quel momento, Morgana si ridestò, come risvegliata da un brutto sogno.
Guardò la Cornell. “Professoressa, ho qui un documento da firmare per la preside.” – disse con voce sicura.
“Vieni pure.” – rispose la Cornell.
Morgana entrò e si avvicinò alla cattedra, con passo malfermo.
Rebecca notò che la ragazza evitava accuratamente lo sguardo delle Streghe, tenendo gli occhi bassi. Cosa le stava succedendo?
La Cornell firmò il foglio e la congedò.
Rebecca, seppure ad una certa distanza, vide chiaramente le dita di Morgana che tremavano mentre afferrava il documento.
“Ti senti bene, Curter?” – le domandò la Cornell, con gli occhi a fessura.
“Sì, professoressa.” – rispose lei, ostentando una sicurezza che, Rebecca ne era certa, non provava.
“Bene. Puoi andare.”
La ragazza, tenendo sempre gli occhi bassi, uscì.
Rebecca rimase a fissare la porta a lungo, persa nei suoi pensieri.
Cos’era successo a Morgana?
Cosa l’aveva spaventata tanto?
E perché tremava?
Qualcuno le aveva fatto un Incantesimo? Eppure, il suo terrore era durato solo un battito di ciglia, il tempo di spegnere l’incendio ed era tornata quella di sempre, nonostante il tremore delle gambe e delle mani.
L’incendio.
Era possibile che fosse stato il fuoco a spaventarla?
Rebecca vide Brenda e Barbara voltarsi verso di lei. Dalle loro espressioni capì che nemmeno loro avevano idea di cosa le fosse successo.

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Capitolo 13
*** Tom e Camilla ***


“Comunque, la cosa non mi convince.” – ripeté Rebecca.
“Sì, Rebecca, l’abbiamo capito.” – esclamò Barbara, spazientita. “Sarà la centesima volta che lo ripeti.”
Rebecca non si dava pace. Per tutto il resto della giornata non aveva fatto altro che parlare di quello che era accaduto a Morgana, portando le due amiche allo sfinimento.
Erano da poco salite in camera, dopo cena, e lei era tornata all’attacco.
“Voglio dire, appena è entrata in classe e ha visto il fuoco era terrorizzata. Poi, non appena la Cornell l’ha spento, è tornata in sé. Vi sembra una cosa normale?”
Barbara si voltò verso Brenda e alzò gli occhi al cielo.
Brenda poteva capirla. Erano ore che Rebecca non parlava d’altro.
“Forse non è stato il fuoco a spaventarla.” – azzardò Brenda.
“E cosa, allora?”
Brenda si strinse nelle spalle. “Magari non si aspettava di vedere quel manichino. O forse stava pensando ad altro.”
“Un po’ troppo debole.” – rispose Rebecca. “No, sono sicura che è stato il fuoco.”
Barbara chiuse con decisione il libro di Incantesimi, che aveva aperto nel vano tentativo di studiare.
“Scusa, ma se anche fosse, a te che importa?” – sbottò.
“M’importa perché quella ragazza non mi convince. Ha qualcosa di strano. E il suo comportamento di oggi non era normale.”
“Ma tutti abbiamo delle paure…”
“Quella non era semplice paura. Era puro terrore.”
“Allora perché non vai da lei e glielo chiedi?” – suggerì Barbara.
“E secondo te mi direbbe la verità?”
“No, ed ecco un buon motivo per lasciar perdere.”
Rebecca tacque, accigliata.
“Anzi, sai che ti dico?” – continuò Barbara, prendendosi il mento con la mano – “Che se questa storia è vera, mi sta venendo un’idea per uno scherzetto…”
“Non starai pensando all’Incantesimo Incandescente, vero?” – disse Brenda, allarmata.
“Proprio a quello.” – sogghignò Barbara.
“Se ti metterai di nuovo nei guai…” – la minacciò Brenda.
“Beh, certo se lo meriterebbe.”
Rebecca smise di ascoltare, lasciandole ai loro battibecchi.
Era assolutamente sicura che Morgana fosse spaventata dal fuoco e aveva intenzione di scoprirne il motivo.
 
Il giorno seguente, però, Rebecca fu totalmente assorbita dall’inquietante mole di compiti che lei e le gemelle avrebbero dovuto portare a termine entro sera. Stavolta ci si era messa anche la Poliglotter, che aveva dato alle Streghe del secondo anno una serie di brani da tradurre dall’Orchese, lingua che Rebecca odiava.
Rebecca non aveva dimenticato il primo giorno di lezione con la Poliglotter, quando le aveva fatto leggere un brano in Orchese, di fronte a tutta la classe, ancora prima che cominciassero a studiare la lingua. Si era guadagnata perfino una punizione, che reputava profondamente ingiusta, dal momento che, ne era certa, nessuna delle compagne avrebbe saputo fare di meglio.
Quel ricordo le bruciava ancora.
Nel pomeriggio, dopo le lezioni, trovarono un tavolo libero in biblioteca e si misero al lavoro.
“Che ne dite di una pausa?” – disse Barbara dopo un tempo indefinito, stiracchiandosi sulla sedia.
“Ma siamo qui da neanche un’ora!” – esclamò Brenda. “E non siamo nemmeno a metà del lavoro.”
“Appunto. Una bella tazza di tè è quello che ci vuole.”
“Non ci conviene lasciare libero il tavolo.” – replicò Brenda. “Guarda, sono tutti occupati. Se ce ne andiamo non troveremo più un posto libero.”
Brenda aveva ragione. Rebecca non aveva mai visto la biblioteca così piena, perlopiù di ragazze del terzo anno prossime agli esami di fine anno.
Avevano deciso di studiare lì perché ad Amtara era ormai arrivato l’inverno e le temperature erano troppo rigide per pensare di andare a studiare lungo il fiume, come facevano spesso nella bella stagione. Con tutta quella mole di compiti, non potevano nemmeno permettersi il lusso di ammalarsi.
“Ci penso io.” – disse Rebecca.
“A cosa?” – domandò Brenda.
“Al tè. Vado a prenderlo e lo porto qui.”
“Ok.”
Rebecca si alzò e uscì.
Brenda tornò a concentrarsi sul compito, mentre Barbara si lasciò distrarre da un gruppo di ragazze sedute al tavolo accanto, chine sui libri da oltre un’ora.
Si massaggiò il collo, soffocando uno sbadiglio. Si pentì di non essere andata ad aiutare Rebecca con il tè. Le faceva male la schiena e aveva un urgente bisogno di uscire dalla calura opprimente della biblioteca affollata.
Guardò sua sorella che scriveva.
“Come fai a non essere stanca?” – le domandò.
“Cosa ti fa pensare che non lo sia?”
“Mmm…Forse il fatto che non alzi la testa da quel dannato compito, nemmeno ora che tua sorella ti sta parlando?”
Brenda smise di scrivere e la guardò. “Barbara, se non finiremo queste traduzioni entro sera, la Poliglotter ci ucciderà.”
Barbara si massaggiò piano le tempie. “Lo so, ma non ce la faccio più a stare qui dentro.”
“E dove vorresti studiare? In camera nostra?”
“Non riuscirei a concentrarmi neanche lì.”
“Facciamo prima a dire che non hai voglia di studiare.” – ribatté Brenda, stizzita. “Non importa il luogo.”
E tornò a dedicare la sua attenzione al compito.
In quell’istante la porta si aprì ed entrò Morgana.
Barbara seguì i suoi movimenti, senza parlare.
La vide guardarsi intorno con aria contrariata. Sogghignò. Evidentemente aveva sperato di trovare un tavolo libero.
Per un istante, Barbara ripensò al primo giorno di scuola, quando Morgana era entrata in Sala da Pranzo e aveva preteso che le lasciassero il loro tavolo.
Barbara era prontissima, stavolta. Sapeva come affrontarla, se solo avesse osato chiederlo di nuovo.
Ma Morgana non si mosse. Barbara la vide scambiare due parole con le tre amiche che ormai la accompagnavano ovunque.
Poi uscirono.
Tornò a guardare sua sorella, che non si era accorta di nulla.
“Che ne pensi di quello che è successo a Morgana ieri?” – le chiese.
Brenda alzò la testa. “Ti riferisci al fuoco?”
Barbara annuì. “Sei d’accordo con Rebecca? Voglio dire, è stato per via del fuoco, secondo te?”
“Rebecca ha una fantasia galoppante.”
“Allora credi sia stata solo un’impressione?”
Brenda sospirò. “Non lo so. In realtà era molto strana. Ed è vero, appena il fuoco si è spento, è tornata in sé. Però… non lo so… in fondo che c’è di male ad avere paura di qualcosa?”
“Credi che Rebecca sia paranoica?”
“Paranoica è un termine esagerato. Ma non dimentichiamoci che non più tardi di un anno fa lei credeva che Garou fosse l’aggressore delle Prescelte rapite.”
“Già, però su una cosa aveva ragione, è un licantropo.”
“Sì, certo, ma…. Non ti sei accorta di come cerchi sempre di trovare il pelo nell’uovo? Voglio dire, è fin troppo sospettosa, su tutto e tutti. E per quanto riguarda Morgana, poi…”
“Beh, non possiamo darle torto, ti pare? Quella ragazza si è comportata in modo odioso con lei, fin dal primo giorno! E senza alcun motivo!”
“Sì, questo lo so.”
“Credi che questo suo atteggiamento abbia qualcosa a che vedere con quello che ha scoperto su Posimaar?” – le chiese Barbara.
“Barbara, tutto quello che riguarda Rebecca ha a che fare con Posimaar, ormai. E comunque, la mia risposta è sì. E’ cambiata tantissimo da quando sa che il Demone la sta cercando.”
“Puoi darle torto?”
“No, ma noi dobbiamo rimanere lucide anche per lei.” – rispose Brenda.
Barbara respirò profondamente. “Sai, comincio ad essere preoccupata per lei. Credo che l’ansia la stia uccidendo, soprattutto dopo la morte di quello Gnomo.”
“Ha paura di Posimaar. E sinceramente anch’io.”
“E’ strano, però. È passato del tempo, se fosse stato veramente qui ad Amtara l’avrebbe già attaccata, non credi?”
“Forse. O forse sta ancora aspettando il momento giusto.”
Barbara fece una risatina. “E quale sarebbe il momento giusto?”
“Non lo so. Barbara, mi stai facendo domande a cui non so dare una risposta. Io non sono nella testa del Demone Supremo e non so che accidenti di piani abbia in serbo per Rebecca. Ma ho una paura folle per lei. Dobbiamo starle vicino, ora più che mai.”
 
Brenda e Barbara non ebbero più modo di parlare di Rebecca. In effetti, stavano mantenendo il loro proposito di seguirla ovunque e di non perderla mai di vista. Apparentemente, la vita a scuola proseguiva tranquilla e Posimaar non aveva dato alcun segnale della sua presenza. Se davvero la morte di Alvis era avvenuta per mano sua, era davvero strano che non avesse ancora agito contro Rebecca.
Brenda e Barbara cercavano di rimanere concentrate nello studio, senza mai perdere di vista l’amica e tenendo gli occhi sempre ben aperti.
Poi, una mattina, accadde qualcosa che scatenò nuovamente il panico ad Amtara e fece ripiombare nella paura le Prescelte.
Rebecca, Brenda e Barbara stavano facendo colazione, quando videro Elettra entrare in Sala da Pranzo diretta verso di loro con in mano un giornale.
Il cuore di Rebecca accelerò. Sapeva che Elettra era abbonata al “Corriere delle Streghe” e l’ultima volta che glielo aveva visto tra le mani, con quell’espressione seria in volto, era stato quando aveva scoperto della morte di Bonnie Stage.
Con un terribile presentimento, Rebecca deglutì a fatica il pezzetto di toast al formaggio che stava masticando.
“Che succede, Elettra?” – le chiese, con il cuore in gola.
Per tutta risposta, Elettra aprì il giornale sul tavolo, indicando con un dito l’articolo in prima pagina.
Rebecca cominciò a leggere ad alta voce, in modo che anche Brenda e Barbara potessero sentire.
“Un’altra tragedia ha colpito il mondo della Magia Bianca. Ieri sera una Prescelta, di nome Camilla Sanchez e il suo Protetto Tom Ross, sono rimasti uccisi durante l’ennesimo attacco di una Strega Nera. Dalle prime fonti, pare siano stati colpiti da una Maledizione Agghiacciante, che non ha lasciato loro scampo. Anche i genitori del ragazzo sono rimasti gravemente feriti.”
“Dio mio…” – mormorò Rebecca. “Di nuovo…”
Non riusciva a crederci. Sembrava davvero che le Maledizioni Assassine non lasciassero scampo a nessuno.
Rebecca alzò la testa e i suoi occhi incontrarono quelli di Elettra, sconvolta quanto lei.
Brenda e Barbara, scure in volto, erano senza parole.
“Camilla Sanchez aveva la stessa età di Bonnie Stage.” – disse Elettra.
“Quindi erano in classe insieme.” – disse Rebecca.
Elettra annuì.
Anche Camilla, dunque, era stata allieva della Collins.
Per alcuni istanti, nessuna parlò, troppo sconvolte per riuscire ad articolare una sola parola.
Rebecca non riusciva neanche a pensare, scossa dalla paura.
Quante altre vite si sarebbero dovute sacrificare, nel nome di Posimaar?
“La Collins non si è vista, stamattina.” – disse Elettra dopo qualche istante, prendendo una sedia.
Rebecca corrugò la fronte. “Credi sia andata dal Consiglio?”
“Probabile. La situazione si fa sempre più grave.”
“Sarà sconvolta.”
“E non è la sola.” – disse Brenda, con gli occhi lucidi.
Elettra prese un profondo sospiro. “Se penso che questo è l’ultimo anno, per me…”
Rebecca la guardò. Non sapeva cosa dire.
Di nuovo, pensò a cos’avrebbe provato se le fosse accaduto qualcosa. Era affezionata ad Elettra, non avrebbe sopportato l’idea di perderla.
Ma, in fin dei conti, l’anno successivo sarebbe toccato anche a loro. Era una cosa che riguardava tutte. Quello che era successo a Bonnie e Camilla e ai loro Protetti sarebbe potuto capitare a una qualunque di loro, dal momento in cui avrebbero messo piede fuori da Amtara.
Rebecca si ritrovò a pensare a come tutto sarebbe potuto cambiare, se solo lei avesse ucciso Posimaar. Quell’ipotesi le stuzzicava la fantasia. Sarebbe tornata a Villa Bunkie Beach, stavolta per sempre. Avrebbe invitato Elettra, Brenda e Barbara nella sua casa e sarebbe tornata, di tanto in tanto, in montagna con le gemelle. Avrebbe trovato un lavoro qualunque che le avrebbe dato quella stabilità che cercava. Avrebbe, in una parola, avuto finalmente una vita normale, quello a cui aveva sempre aspirato.
Per un istante, si domandò come sarebbe stato svegliarsi la mattina senza la paura che ti attanagliava le viscere, senza il pensiero di doversi guardare le spalle continuamente, senza visualizzare il futuro come una grande, tremenda incognita.
Rebecca non sapeva più cosa significasse vivere una vita tranquilla, l’aveva dimenticato da molto tempo, ormai.
Ma se l’avesse ucciso, tutto questo sarebbe finito.
Per sempre.
Restarono sedute al tavolo per un tempo indefinito, con la colazione ormai fredda nei piatti. Né Rebecca né le gemelle avevano più fame, ormai.
Rebecca pensava a quelle due giovani vite stroncate e pregò per loro, sperando che, ovunque fossero, potessero finalmente trovare la pace.
La vita poteva essere così crudele…
Forse lassù, da qualche parte, esisteva un mondo senza il male, un mondo giusto dove gli uomini potessero vivere in pace, senza rischiare la morte ogni santo giorno.
“Rebecca, dobbiamo andare.”
La voce di Brenda la ridestò dai suoi pensieri.
Lei e Barbara si erano alzate.
“Tra poco cominciano le lezioni.”
Le lezioni.
Le scappò quasi da ridere.
Un’altra Prescelta era morta e loro pensavano alle lezioni.
“Non ho nessuna voglia di andare a lezione.” – replicò, asciutta.
Era talmente ridicolo tutto questo… Amtara… le lezioni … gli Incantesimi…
Era tutto inutile… Amtara non serviva a niente…
“Anche se non ne hai voglia, devi farlo.” – insistette Brenda, intuendo perfettamente quali pensieri le stessero passando per la testa.
Solo in quel momento Rebecca si accorse che Elettra era sparita.
“Dov’è Elettra?”
“A lezione.” – rispose Barbara. “A dire la verità ti ha anche salutato, ma credo tu non l’abbia nemmeno sentita.”
Rebecca era talmente assorta nei suoi pensieri da non accorgersi di nulla.
“Che ci è andata a fare a lezione?” – replicò, in tono amaro. “Tanto non serve a niente…”
“Rebecca, ti prego…” – la implorò Brenda.
“Senti, se non vuoi seguire la lezione, per noi va bene, ma almeno accompagnaci.” – disse Barbara in tono deciso. “Se non altro, non rischierai una punizione.”
A Rebecca non sarebbe importato nulla di beccarsi l’ennesima punizione.
All’improvviso, ogni cosa che riguardava quella dannata scuola le faceva ribrezzo, dandole il voltastomaco.
Ma era pur vero che non poteva rimanere lì seduta in eterno.
La Sala da Pranzo si stava svuotando e gli Gnomi erano già all’opera per sparecchiare e pulire.
Con il cuore gonfio di dolore ed uno sforzo immenso, si alzò e seguì le due amiche.

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Capitolo 14
*** La Premonizione ***


 
“Rebecca, è lui, è arrivato!”
“Chi?”
“Il Demone! E’ qui! Scappa!”
Rebecca corse fuori dal letto e seguì Brenda fuori dalla stanza.
Nei corridoi era il caos.
Le Prescelte, urlanti, correvano da ogni parte, in preda al panico.
In quella confusione, Rebecca perse di vista Brenda.
Decise in fretta. Bisognava scendere e cercare di uscire dalla scuola, era l’unico modo per potersi salvare. Ma prima doveva trovare Brenda, non se ne sarebbe andata senza di lei.
Fu allora che lo vide.
Un enorme mostro di fuoco, talmente alto da sfiorare il soffitto, dalle sembianze umane, con la bocca spalancata che eruttava fiamme.
Stava salendo lentamente le scale, incendiando ogni cosa.
Sotto lo sguardo inorridito di Rebecca, due ragazze che stavano correndo dalla parte opposta, cercando di sfuggirgli, furono raggiunte da una lunga lingua di fuoco che incendiò i loro vestiti.
Rebecca urlò.
Rimase immobile a guardare i loro corpi contorcersi dal dolore.
Poi, una delle due si rialzò e cominciò a correre alla cieca, urlando. Senza vedere dove stesse andando, la ragazza inciampò e precipitò giù dalle scale.
Le sue urla echeggiarono nel corridoio, fino a svanire.
L’altra ragazza rimase a terra, continuando a gridare.
Rebecca era inchiodata al suolo, inorridita.
Posimaar raggiunse la ragazza, pronto a sferrare il colpo finale.
Sputò un’altra lingua di fuoco e le grida della ragazza raddoppiarono d’intensità.
Rebecca si tappò le orecchie con le mani, ma non servì a niente. Le urla della giovane erano impossibili da ignorare. Non le avrebbe dimenticate mai più, per il resto della sua vita.
Poi, fu il silenzio.
Rebecca guardò il corpo giacere a terra, immobile.
In quell’istante, il Demone si girò verso di lei.
Rebecca deglutì.
Era la fine.
Si guardò attorno.
Era rimasta sola.
Capì di essere in trappola. Nessuno sarebbe venuto a salvarla, nemmeno Brenda e Barbara. Brenda era sparita e di Barbara nessuna traccia.
Ma, in fondo, era meglio così. Non voleva che rischiassero la vita per lei.
Arretrò di qualche passo, mentre Posimaar avanzava lento.
Le sue spalle toccarono la parete dietro di lei. Appoggiò la testa contro il muro e chiuse gli occhi.
Era quella, dunque, la fine?
Respirò a pieni polmoni, ma le mancava l’aria. Il calore del Demone, sempre più vicino, non le dava tregua. Sentì il sudore colare lungo la schiena, sulle gambe, sulla fronte.
Era stato tutto inutile, quindi. Alla fine, avrebbe vinto lui.
Ripensò a sua madre, a quanto era stata fiera di lei. Se solo l’avesse vista in quel momento, ad un passo dall’essere uccisa dal nemico…
Non avrebbe voluto che finisse così, ma non sarebbe mai riuscita a sconfiggerlo, non in quel modo.
Che potere aveva, contro di lui?
Il Potere….
Ma certo! Il Potere! Come aveva potuto essere tanto stupida?
Posimaar si fece ancora più vicino.
Il fuoco le scottava la pelle. Ancora pochi istanti e sarebbe morta soffocata dall’opprimente calura. Non avrebbe resistito ancora a lungo…
Lo vide chinare leggermente la testa, facendosi ancora più vicino.
Poi, la sua bocca si spalancò, pronto a lanciare l’ultima, fatale ondata di fuoco.
Rebecca non aspettò oltre.
Sollevò la mano sinistra, si toccò il polso destro e urlò.
 
“Rebecca! Rebecca!”
Rebecca si svegliò di soprassalto, madida di sudore.
Spaventata, si sollevò.
Barbara era seduta accanto a lei, sul suo letto.
“Si può sapere che diavolo ti ha preso?”
Rebecca strinse gli occhi, infastidita dalla luce che entrava dalla finestra.
“Che vuoi dire?” – chiese, con voce impastata.
“Stavi urlando. E sei tutta sudata. Hai fatto un brutto sogno?”
“Sì, credo di sì. Che ore sono?”
“Le sette e mezza.”
Aveva la camicia da notte intrisa di sudore. Era stato solo un incubo, ma talmente vivido da sembrare reale. Riusciva a sentire ancora il calore delle fiamme sul viso e l’odore della paura nel momento in cui il Demone stava per ucciderla.
Fu scossa da un brivido.
“Ti senti bene?” – le chiese Brenda, che la stava fissando preoccupata.
“Sì, ho solo bisogno di una doccia calda.” – rispose, scostando le coperte per alzarsi.
“Che cosa hai sognato?” – insistette Brenda.
“Niente di importante.” – rispose, chiudendosi la porta del bagno alle spalle.
Quando si fu lavata e vestita, Brenda e Barbara non fecero altre domande, mentre scendevano le scale per andare a fare colazione, ma si accorse che continuavano a fissarla di sottecchi, evidentemente in ansia per il suo stato.
La doccia calda le aveva giovato, ma non riusciva a scrollarsi di dosso l’orribile sensazione che si fosse trattato di qualcosa di più di un semplice sogno.
Ad ogni modo, tenne per sé i suoi pensieri. Le due amiche erano già abbastanza preoccupate per lei, non se la sentiva di raccontarlo. Era sicura che Brenda ne avrebbe tratto le conclusioni sbagliate e, per l’ennesima volta, avrebbe cercato di convincerla di andare a riferire tutto alla Collins. Secondo Brenda, parlare con la preside sarebbe stata la soluzione a tutti i suoi mali. Non riusciva a capire che le cose erano molto più complicate di così…
Eppure, Rebecca non poteva mentire a se stessa. Quel sogno l’aveva allarmata. Non era la prima volta che le capitava di avere un incubo, ma non aveva mai sognato Posimaar prima d’ora.
Per un istante, si chiese se potesse essersi trattato di una Premonizione, e il solo pensiero l’atterrì. Se Posimaar era davvero un Demone di fuoco e fosse entrato ad Amtara, avrebbe scatenato l’inferno.
Nessuno conosceva il suo aspetto ma, per qualche motivo, Rebecca l’aveva sempre immaginato con sembianze umane. Forse era davvero un mutaforma, in grado di mutare aspetto in qualunque momento.
Se aveva davvero avuto una Premonizione che riguardava il Demone, non avrebbe potuto tenerla per sé. Ma doveva prima essere sicura che non si fosse trattato di un semplice sogno.
Eppure, ripensando alla Premonizione avuta l’anno prima sul rapimento di Elettra, Rebecca pensò che stavolta si era trattato di qualcosa di diverso. Nella stanza di Elettra aveva assistito alla scena dall’esterno, da semplice spettatrice.
Nel sogno di quella notte, invece, Rebecca era protagonista e aveva vissuto sulla propria pelle l’attacco del Demone di fuoco.
Doveva essere quella la differenza tra le Premonizioni e i sogni, ma come avrebbe potuto esserne sicura?
Forse avrebbe dovuto parlarne con il professor Christie. In fondo, si trattava della sua materia, chi meglio di lui avrebbe potuto aiutarla a far luce su quanto aveva visto?
Avevano lezione proprio con lui quella mattina.
Tuttavia, entrando in classe e vedendolo seduto in cattedra, il coraggio le venne meno.
Se il professore avesse scoperto che Rebecca aveva effettivamente avuto una Premonizione su Posimaar, non solo la preside, ma tutta la scuola l’avrebbe saputo.
Ma come si sarebbero difesi dall’attacco di quel Demone incendiario? Rebecca aveva visto morire due Prescelte, ma il ricordo era troppo confuso per riuscire ad identificarle. Inoltre, lei disobbediva molto chiaramente all’ordine della Collins di non utilizzare il suo Potere ad Amtara. Se non l’avesse fatto, Posimaar l’avrebbe arsa viva, pensò con crescente irritazione. Quello era esattamente il motivo per cui non voleva parlare con la preside di tutto questo, qualunque cosa potesse pensare Brenda.
La lezione cominciò, ma Rebecca non ascoltò una sola parola. Non faceva che rivivere nella sua mente ogni particolare di quel maledetto sogno. Rivedeva Brenda sparire, le due povere ragazze uccise dal fuoco, le loro urla disumane e poi il mostro di fuoco che la fissava con quei terribili occhi neri e che si avvicinava sempre di più… sempre di più…
“… e così ho capito che dovevo fare qualcosa.” – stava dicendo Jennifer Watson con occhi lucidi e la voce incrinata. “Quando ho visto mia madre in quel letto di ospedale, moribonda, sapevo che era una mia responsabilità impedire che accadesse. Non potevo perderla, capisce?”
“Certo, mia cara, capisco benissimo…” – rispose il professore.
Rebecca, ridestandosi momentaneamente dai suoi pensieri, ascoltò quelle parole e capì che Jennifer stava raccontando una sua Premonizione, come accadeva di solito durante le lezioni di Gestione Antiveggenza.
Jennifer si asciugò gli occhi. “E così, sono riuscita ad evitare che andasse in banca proprio nel momento in cui i due malviventi sarebbero entrati per fare una rapina. E’ così che ho salvato la vita a mia madre. Se non fossi stata una Prescelta, ora mia madre sarebbe morta.”
Rebecca la fissò. L’ultima frase l’aveva colpita profondamente, forse perché era la prima volta che una di loro esprimeva gratitudine per il fatto di essere una Prescelta. Ogni volta che lei e le gemelle avevano affrontato la questione, il più delle volte era stato per lamentarsi del loro destino avverso e di quanto avrebbero voluto che la loro vita fosse stata diversa.
Nessuna di loro aveva mai veramente accettato la decisione di Calì Amtara.
Jennifer, invece, grazie al fatto di essere una Prescelta, aveva salvato sua madre.
Era per questo che Calì Amtara aveva scelto loro. Attraverso le loro Premonizioni avrebbero potuto salvare molti più Protetti, e poco importava se a volte le cose non andavano per il verso giusto, come era accaduto a Bonnie e Camilla.
Eppure, Rebecca non riusciva ancora a dire grazie. A nessuno.
Comprendeva perfettamente i sentimenti di Jennifer, ma nonostante tutto le Prescelte e i Protetti continuavano a morire. Era una guerra spietata, senza vincitori né vinti. Una carneficina mai vista prima d’ora.
E, sentendosi un po’ in colpa, provò una grande rabbia per la compagna, che aveva ancora la fortuna di avere accanto la madre, mentre Banita l’aveva abbandonata.
Accadde in quell’istante.
Un capogiro violentissimo la colse, costringendola ad aggrapparsi al banco fino a farsi sbiancare le nocche.
Spaventata a morte, Rebecca chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, l’aula del professor Christie era sparita.
Si trovava in una piccola stanza, illuminata dalla luce fioca di una candela. L’arredamento era spoglio, composto solo da un letto, un vecchio armadio e uno scrittoio.
In quella stanza, con lei, c’era una donna, che le dava le spalle. Indossava una veste bianca e d’istinto Rebecca pensò ad una fantasma.
Banita?
Ma, osservandola meglio, si rese conto, delusa, che non si trattava di sua madre.
La donna aveva i capelli scuri, annodati in un alto chignon. Indossava una camicia da notte chiara e un paio di pantofole ai piedi.
Rebecca non la riconobbe.
Perché si trovava lì?
Chi era quella donna?
Per un attimo, pensò di palesare la sua presenza, ma poi qualcosa la indusse a non farlo.
La donna si mosse verso la porta della stanza. La luce della candela creava sinistri giochi di ombre sulla parete.
Trattenendo il fiato, Rebecca vide la donna avvicinare, con cautela, l’orecchio alla porta.
Rebecca rimase in ascolto ma non sentì nulla. Il silenzio era totale.
Poi, la donna aprì lentamente la porta.
E tutto accadde velocemente.
La porta si spalancò e Rebecca fece appena in tempo a vedere il corpo della donna steso a terra, prima che la stanza piombasse nel buio.
Terrorizzata, Rebecca udì le urla della donna e qualcosa di molto simile ad un ringhio feroce.
Sentì il rumore di vestiti che si strappavano e poi un odore familiare.
Era lo stesso odore che aveva sentito nella grotta di Cogitus.
L’odore del sangue.
Poi, fu di nuovo silenzio.
Rebecca respirava affannosamente. Sapeva che la cosa che aveva aggredito quella donna si trovava ancora lì, in quella stanza. Aveva percepito la sua presenza? Riusciva a sentire il suo odore? Stava per attaccare anche lei? Come avrebbe fatto a difendersi?
Il buio era totale. Rebecca non sentiva più nulla, ma non seppe interpretare quel silenzio. Forse se n’era andata? Oppure era ancora lì e tratteneva il fiato, pronta a sferrare il suo attacco? E che ne era stato di quella donna? Rebecca non udì nessun suono, nessun lamento. L’aveva uccisa?
All’improvviso, qualcosa le sfiorò la pelle e lei gridò.
 
“Rebecca! Rebecca! Oh santo cielo!”
Chi era? Rebecca non riusciva a distinguere da dove venisse quella voce. Sembrava così lontana…
Aprì gli occhi e una luce intensa la colpì, costringendola a socchiuderli.
La stanza era svanita.
Vide alcune persone in piedi attorno a lei. Distinse dei volti familiari. Barbara e Brenda, i volti tesi e preoccupati, Angela, Jessica, Melissa… le sue compagne, e il faccione rotondo del professor Christie.
“Sia ringraziato il cielo, figliola!” – esclamò l’insegnante, visibilmente sollevato. “Ci hai fatto prendere un bello spavento!”
L’uomo era tutto rosso in faccia e grosse gocce di sudore gli colavano dalla fronte. Una atterrò sul maglione di Rebecca.
“C-cos’è successo?” – mormorò Rebecca, un po’ stordita.
Di colpo, ricordò tutto. Era lì seduta al suo posto, quando tutto aveva cominciato a ruotare attorno a lei e si era ritrovata all’improvviso in quella stanza.
“Sei svenuta, credo.” – le rispose Barbara, molto seria.
Rebecca si toccò la testa.
“Ti fa male?” – le chiese il professore.
“No. Sto bene.”
“Ce la fai ad alzarti?” – le chiese Brenda.
“Sì, credo di sì.”
Brenda e Barbara l’aiutarono a sollevarsi, con molta cautela.
Rebecca evitò di incrociare i loro sguardi preoccupati. Si sentiva tremendamente in imbarazzo.
La fecero sedere su una sedia.
Uno ad uno, Rebecca guardò quei volti in ansia.
Cosa avrebbe potuto dire? Di aver avuto un’altra maledetta Premonizione?
Cosa le stava succedendo?  Era la vicinanza di Posimaar a provocarle quei sogni così ravvicinati?
“Raccontatemi cos’è successo.” – disse.
Ricordava molto bene quel capogiro violento, ma aveva bisogno di sapere, di conoscere i dettagli.
“Non c’è molto da dire.” – rispose Barbara. “Sei praticamente svenuta sul banco e sei caduta a terra. Eri pallidissima e non rispondevi più. Credevamo stessi male, stavamo per andare a chiamare la Anderson.”
Rebecca annuì. Dunque, aveva perso i sensi e aveva vissuto quella strana scena in quella stanza, con una donna sconosciuta, attaccata da una qualche bestia feroce.
Sì, senza alcun dubbio, si trattava di una Premonizione.
Ma chi era quella donna?
E da chi era stata aggredita?
Di nuovo Posimaar?
“Per favore, qualcuno l’accompagni in infermeria.” – disse il professore.
“Ci pensiamo noi.” – rispose subito Barbara.
“No, non ce n’è bisogno.” – protestò Rebecca. “Sto bene.”
“Questo lasciamolo decidere all’infermiera Anderson, se non ti dispiace.” – ribatté l’insegnante, in tono severo.
Rebecca, docile come un agnellino, non rispose e seguì Brenda e Barbara fuori dalla classe.
 
La Anderson la visitò molto accuratamente, nonostante le ripetute proteste di Rebecca. Sapeva di aver avuto una Premonizione, non era stata la fine del mondo, ma a nulla valsero le sue lamentele. L’infermiera decise di trattenerla per la notte e Rebecca fu costretta a cedere.
Le somministrò diverse pozioni dal colorito scuro e il sapore dolciastro, di cui Rebecca ignorava il nome e il mattino seguente fu dimessa.
Brenda e Barbara furono sorprese di vederla fuori dall’infermeria.
“Ti ha già fatto uscire?” – le chiese Brenda, stupita.
“Brenda, sono solo svenuta, non è successo niente di grave.”
“Bene, allora sei fuori pericolo.” – disse Barbara con un sorriso.
Rebecca la guardò, scura in volto. “Già, ma qualcun altro invece lo è.”
Ci aveva pensato tutta la notte. Non poteva tenere per sé quello che aveva visto. Chiunque fosse quella donna, presto sarebbe stata attaccata e lei doveva impedire che accadesse. Era quasi certa che nella Premonizione la donna fosse morta, sotto i terribili colpi dell’aggressore.
“Di cosa stai parlando?” – fece Brenda, spaventata.
“Venite, dobbiamo parlare lontano da orecchie indiscrete.”
E le condusse fuori in giardino.
Era ancora molto presto e non c’era nessuno. Tutte le Prescelte, in quel momento, stavano facendo colazione e gli Gnomi erano tutti impegnati in cucina o in Sala da Pranzo.
“Perché, ogni volta che ci porti fuori per parlare, ho sempre un brutto presentimento?” – le chiese con amara ironia Barbara, stringendosi nel cappotto per il gran freddo.
“Rebecca, che è successo?” – domandò Brenda in tono grave.
“Credo di aver avuto una Premonizione.”
“Cosa?!” – esclamò Brenda.
“E’ per questo che sei svenuta?” – fece Barbara.
Rebecca annuì e raccontò nei dettagli la Premonizione.
“Ma chi era quella donna?” – chiese Brenda.
Rebecca non rispose subito. Aveva continuato a visualizzare nella mente l’immagine della donna, di spalle. I capelli scuri, legati in alto, erano molto vaporosi. E non era molto alta.
Aveva un sospetto sulla sua identità, ma ovviamente non poteva esserne certa, perché non l’aveva vista in faccia.
“Credo di saperlo, ma non ne sono sicura.”
“E’ stato Posimaar ad aggredirla?” – domandò Barbara, con il cuore in gola.
“Non lo so. Può essere. Era una specie di animale, questo è sicuro.”
Non aveva raccontato del sogno di quella notte, in cui Posimaar compariva sotto le sembianze di un Demone di fuoco. Ma ormai era quasi certa che potesse trasformarsi a suo piacimento e questo, ovviamente, complicava le cose. Con ogni probabilità, era la stessa persona che aveva ucciso Alvis.
“Chi era la donna, Rebecca?” – le chiese di nuovo Brenda.
Rebecca alzò la testa. “Credo fosse la Rudolf.” – rispose, in un soffio.
 
Rebecca omise di raccontare a Brenda e Barbara il suo sogno di quella notte. Quello avrebbe potuto aspettare. Ora la cosa più urgente era correre ad avvisare la preside che, con ogni probabilità, la professoressa Rudolf era in grave pericolo.
Rebecca non sapeva quando la sua Premonizione si sarebbe avverata, nessuna Prescelta lo sapeva mai. Per questo, bisognava agire tempestivamente.
Lei e le gemelle tornarono dentro, di corsa, dirigendosi verso l’ufficio della Collins. A quell’ora doveva già aver finito di fare colazione.
Bussarono ripetutamente, ma non rispose nessuno.
“Forse sta ancora mangiando.” – disse Rebecca.
Entrarono in Sala da Pranzo e si avvicinarono al tavolo dei professori.
Tutte le Prescelte si girarono a guardarle, incuriosite.
La Collins non era nemmeno lì.
La professoressa Poliglotter, intenta ad imburrare una fetta di pane, alzò lo sguardo sulle tre ragazze, sorpresa. Accanto a lei, il mansueto professor Christie sorseggiava pigramente il suo caffè.
“Bonner.” – disse la Poliglotter. “Posso fare qualcosa per te?”
“Sì, professoressa. Sto cercando la preside.”
“Non è qui.”
Rebecca impallidì. “Come sarebbe a dire, non è qui?” – ripeté in tono brusco.
La Poliglotter la incenerì con lo sguardo e Rebecca si pentì immediatamente di aver usato quel tono.
“Ho bisogno di parlarle con urgenza.”
“E io ti sto dicendo che non è ad Amtara.” – replicò l’insegnante, irritata.
“E dov’è andata?”
“Al funerale di Camilla Sanchez e Tom Ross.”
“Oh.”
Rebecca non aveva idea che il funerale si sarebbe svolto proprio quel giorno. Ovviamente, la Collins non sarebbe mancata per nulla al mondo. Ma perché era sparita proprio nel momento in cui aveva bisogno di lei?
Non c’era tempo da perdere.
“Allora può dirmi dove si trova la professoressa Rudolf?”
La Poliglotter inarcò un sopracciglio. “Ha accompagnato la preside al funerale.”
Rebecca si sentì morire. Udì Barbara, accanto a lei, lasciarsi sfuggire un gemito.
“Sa…sa dirmi quando torneranno?”
“Stasera.”
Sarebbe stato troppo tardi. C’era la concreta possibilità che la Rudolf venisse aggredita quella notte stessa. Non poteva aspettare.
“Bonner, si può sapere cosa sta succedendo?” – tuonò la Poliglotter, esasperata da tutto quel mistero.
Rebecca la guardò. Doveva pur dirlo a qualcuno. Certamente, i professori avrebbero saputo cosa fare.
Forse, non tutto era perduto.
 
“Buon cielo, figliola, è terribile!” – esclamò il professor Christie. “Perché non me l’hai detto subito?”
Rebecca, Brenda e Barbara erano state condotte nell’ufficio della Collins e lei aveva raccontato, sotto gli occhi esterrefatti della Poliglotter e del professore, della Premonizione avuta durante la lezione.
“Mi dispiace, professore, io… non ero sicura che fosse una Premonizione. Ci ho pensato dopo…”
“Non è una giustificazione. Tutto quello che succede nella mia classe è affare che mi riguarda. Avresti dovuto dirmelo subito.” – ribattè l’insegnante, contrariato.
La Poliglotter sbuffò. “Daniel, non mi pare questo il momento più adatto. La nostra collega è in serio pericolo…”
Il professor Christie avvampò. “Ma sì, certo, naturalmente…” – mormorò, in tono di scusa.
“Dobbiamo avvisarle subito.” – aggiunse la Poliglotter.
Rebecca, Brenda e Barbara seguirono i due professori fuori dall’ufficio.
Nessuno di loro si accorse di Morgana, nascosta in un angolo, che aveva origliato tutta la conversazione.

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Capitolo 15
*** Alamberta ***


Usciti dall’ufficio della Collins, la Poliglotter e il professor Christie spedirono Rebecca e le gemelle a lezione.
“Ma professoressa!” – protestò Rebecca.
“Non voglio sentire una parola, Bonner. Hai fatto quello che dovevi, ma ora spetta a noi occuparcene.”
“Ma sono stata io ad avere la Premonizione!”
Gli occhi della Poliglotter lampeggiarono. “Lo so benissimo, Bonner. Ho ascoltato ogni tua parola e ti garantisco che sarò perfettamente in grado di riferire il tutto alla preside.” – rispose in tono perentorio.
Rebecca non potè fare altro che avviarsi verso l’aula del professor Garou, insieme a Brenda e Barbara.
“Riusciranno ad avvertirle?” – chiese loro Rebecca, quando si furono allontanati.
“Abbi un po’ di fiducia, Rebecca.” – rispose Brenda. “Sono professori e sanno usare la magia.”
Ma Rebecca non riusciva a darsi pace. Avrebbe preferito parlare personalmente sia con la preside che con la Rudolf. Avrebbe potuto raccontare nei dettagli la Premonizione, sicuramente meglio di quanto avrebbe fatto la Poliglotter.
Ed era profondamente in ansia per quello che aveva visto. La stanza in cui si trovava doveva essere la camera della Rudolf ad Amtara. Tutto sarebbe avvenuto quella notte?
Non sapeva a che ora sarebbero tornate, probabilmente tardi.
Rebecca non aveva idea di dove si sarebbero svolti i funerali, né a che ora. Forse si sarebbero fermate più a lungo, certo avrebbero voluto scambiare due parole con i parenti delle vittime.
Ripensò alle parole di Jennifer, che aveva salvato sua madre grazie ad una Premonizione. Forse ora sarebbe toccato a lei salvare qualcuno, e trovava curioso che si sarebbe trattato proprio dell’insegnante con la quale aveva instaurato un rapporto problematico, all’inizio dello scorso anno.
Se la Rudolf avesse perso la vita per causa sua, non se lo sarebbe mai perdonato…
Doveva impedirlo, a qualunque costo. Avrebbe chiesto a qualcuno dove si trovava la stanza della Rudolf e avrebbe fatto la guardia per tutta la notte davanti alla porta, se necessario. Qualunque cosa, pur di impedire che la Premonizione si avverasse.
In fondo, pensò con amarezza, se davvero di Posimaar si trattava, gli avrebbe facilitato il compito. Era lei quella che stava cercando, quindi si sarebbe fatta trovare. Non gli avrebbe permesso di torcere un solo capello alla Rudolf.
Si sarebbero scontrati, finalmente, faccia a faccia.
Cercò di scacciare dalla mente l’immagine del Demone di fuoco che le si avvicinava. Non doveva pensarci, o non sarebbe mai riuscita a mantenere fede ai suoi propositi.
Rebecca trascorse una giornata terribile, che peggiorò ulteriormente nel tardo pomeriggio quando la Poliglotter la avvicinò per informarla che non erano ancora riusciti ad avvisare la preside e la Rudolf.
Rebecca sbiancò. “Ma…. Com’è possibile?” – mormorò, incredula.
“Mi dispiace, Bonner. Non le abbiamo trovate. Non possiamo fare altro che aspettare il loro ritorno.”
Rebecca non riusciva a crederci. Erano o non erano maghi? E dove potevano essere finite le due donne, tanto da risultare irrintracciabili?
Un pensiero terribile si affacciò alla sua mente. E se Posimaar avesse agito lontano da Amtara?
No, impossibile. La stanza era ad Amtara, ne era certa. E le Premonizioni non mentivano mai. Il Demone avrebbe atteso il ritorno della Rudolf per attaccare.
Probabilmente era già lì attorno, da qualche parte, che la stava spiando, facendosi beffe di lei.
“Bonner, ti garantisco che non andrò a dormire finchè non saranno tornate. Mi assicurerò che la professoressa Rudolf sia al sicuro. Io e il professor Christie ci daremo il cambio, se dovessero tardare troppo.”
Rebecca avrebbe voluto risponderle che ci avrebbe pensato lei a difendere la Rudolf, ma sarebbe stato fin troppo azzardato. I professori non le avrebbero mai permesso di mettere a repentaglio la sua incolumità.
Doveva fidarsi di loro.
Restò a guardare la Poliglotter mentre si allontanava, con un peso insopportabile sul cuore.
 
Quella sera Rebecca, Brenda e Barbara restarono sveglie fino a tardi. Anche volendo, non sarebbero riuscite a dormire.
Rebecca non faceva che pensare e ripensare al ringhio udito in quella stanza. Le ricordava i suoni emessi da Cogitus, una volta trasformato in lupo. Che si fosse trattato di qualcosa di simile? Ripensò al rumore degli abiti lacerati e poi a quell’odore terribile. La bestia doveva aver attaccato ferocemente, senza pietà, e la povera donna non aveva avuto nemmeno la possibilità di difendersi.
Tutto era accaduto troppo in fretta. La donna aveva appoggiato lievemente l’orecchio alla porta, poi l’aveva aperta piano, molto piano… ed era stato allora che quella si era spalancata di colpo. Questo significava che lei doveva aver sentito qualcosa e che Posimaar si trovava esattamente dietro la porta. La stava aspettando, sapeva che era lì. E aveva aspettato il momento più propizio per attaccare.
Rebecca guardò l’orologio, domandandosi se le due donne fossero già tornate.
Pensò alla Poliglotter e al professor Christie, reprimendo l’istinto di infilare la vestaglia e scendere a dare un’occhiata.
D’altra parte, c’era anche la possibilità che il Demone non avrebbe attaccato quella notte. Ma quale momento migliore, se non quello in cui la Rudolf sarebbe rientrata tardi nella sua stanza?
Lei e le gemelle restarono sveglie ancora a lungo, parlando di quello che sarebbe potuto accadere. Poi, la stanchezza ebbe il sopravvento e alla fine, esauste, si addormentarono.
 
“Vai pure a dormire, Ignatia. Resterò io di guardia.”
Il professor Christie aveva raggiunto la Poliglotter, nell’atrio di fronte al portone d’ingresso.
“Non ti preoccupare, Daniel. Non riuscirei comunque a dormire.” – rispose, stringendosi addosso lo scialle.
Tutto il castello era avvolto nel silenzio. Di tanto in tanto, qualche fata spuntava dal buio e scivolava loro accanto, senza far rumore. Ormai erano tutti abituati alla loro discreta presenza, a qualunque ora del giorno e della notte.
“Stai pensando alla Premonizione di Rebecca Bonner, vero?” – le chiese il professore.
La Poliglotter annuì. Il suo volto pallido appariva quasi spettrale alla tenue luce delle torce.
“E’ terribile. Dobbiamo assolutamente avvisarla. Non posso pensare che le possa accadere qualcosa di terribile.”
“Siamo qui per questo.”
L’insegnante sbuffò. “Solo non capisco perché ci stanno mettendo così tanto. Il funerale si è tenuto questa mattina.”
“Si saranno trattenute con le famiglie. Lo sai come vanno queste cose.”
“Sì, ma è molto tardi. Dovrebbero già essere di ritorno, ormai.”
“Vedrai che saranno qui a momenti.”
Il professor Christie, deciso a non lasciarla sola, aspettò insieme a lei il ritorno delle colleghe.
Un’ora dopo, ancora nessuna traccia della preside e della Rudolf.
Stanca e provata, la Poliglotter stava per imprecare ad alta voce, quando un fruscio proveniente dalle scale la fermò.
Si voltarono entrambi, spaventati. Qualcuno stava venendo verso di loro e fu solo quando la figura passò oltre le torce che la riconobbero.
Era la Collins, avvolta in una lunga vestaglia di lana color amaranto e i capelli intrecciati dietro la nuca.
La Poliglotter si portò una mano sulla bocca, per soffocare un grido.
“Dana! Che cosa ci fai qui?” – esclamò, atterrita.
Il professor Christie fissava la preside imbambolato.
“Come sarebbe a dire?” – replicò la Collins, irritata. “Voi, piuttosto, che ci fate lì davanti al portone? Si gela qui dentro.”
“Vi stavamo aspettando.”
“Siamo rientrate da un bel pezzo.”
“E da dove siete entrate?” – domandò la Poliglotter, mentre un terribile presentimento cominciava a farsi strada dentro di lei.
“Dall’ingresso posteriore. Perché?”
I due professori impallidirono.
“A… a che ora siete tornate?” – mormorò la Poliglotter.
“A mezzanotte.”
La Poliglotter guardò l’orologio. Era la una passata.
“Oh mio Dio…” – gemette.
La Collins si adombrò. “Ignatia, vuoi dirmi che sta succedendo?” – tuonò minacciosa.
“Dana, dov’è Alamberta?” – domandò la Poliglotter, con il cuore in gola.
Ora anche il professor Christie pareva essersi ridestato e spostava lo sguardo dall’una all’altra con espressione angosciata.
“In camera sua. Starà dormendo, credo. Ed è quello che dovremmo fare tutti.”
In quel momento, udirono un grido terrificante provenire dai piani superiori.
Si guardarono, atterriti.
Poi, il professor Christie si lanciò su per le scale, seguito a ruota dalle colleghe.
Arrivarono al piano dove si trovavano le camere degli insegnanti, ma le luci erano spente.
Avanzarono nel buio, alla cieca.
“Daniel!” – gridò la Collins.
“Da questa parte!” – rispose lui.
La preside e la Poliglotter avanzarono, seguendo il suono della sua voce.
“Dio, speriamo non sia troppo tardi.” – mormorò la Poliglotter, angosciata.
“Troppo tardi per cosa?” – le chiese la Collins. “Vuoi spiegarmi che diavolo sta succedendo?”
“Temo che lo scoprirai molto presto.”
Avanzarono ancora nel buio, tenendosi per mano.
Poi, improvvisamente, la Collins si fermò e la Poliglotter andò a sbattere col naso contro la sua testa.
“Che succede?”
“Ssht. Ho sentito qualcosa.”
Restarono immobili, in ascolto.
Ora anche la Poliglotter lo avvertì. Un suono sommesso, come un respiro strozzato.
C’era qualcuno, proprio lì accanto a loro.
Con il cuore che le martellava nel petto, la Poliglotter tremava.
“Venite, presto!”
La voce del professor Christie le fece sobbalzare.
Tesero di nuovo l’orecchio, ma non sentirono più nulla.
Con grande cautela, avanzarono ancora.
Poi, il corridoio si illuminò e videro una luce provenire dalla stanza della Rudolf.
Si voltarono entrambe, per verificare se ci fosse qualcuno dietro di loro.
Erano sole.
Entrarono nella camera della Rudolf e quello che videro le fece inorridire.
La Poliglotter si appoggiò allo stipite della porta, così pallida che la Collins pensò sarebbe svenuta da un momento all’altro.
“Siediti, Ignatia.”
La Poliglotter obbedì.
Di fronte a loro, il professor Christie era chino sulla Rudolf, che giaceva a terra in un lago di sangue. Il suo corpo era stato lacerato da graffi e morsi, con una ferocia inaudita.
La Collins comprendeva perfettamente lo stato della sua collega. Lei stessa non aveva mai assistito ad uno spettacolo tanto raccapricciante.
“Daniel…è…è….?”
“No. Respira ancora.” – rispose il professore. “Ma non c’è un minuto da perdere. Dobbiamo portarla dalla Anderson.”
La Poliglotter piangeva.
“Ignatia, non è questo il momento.” – le disse la Collins, in tono più rude di quanto non avesse voluto.
La Poliglotter annuì, asciugandosi in fretta le lacrime.
Senza guardare il corpo straziato della Rudolf, seguì il professor Christie, che con un semplice movimento della mano l’aveva sollevato in aria, davanti a sé.
La Collins camminava dietro di loro, sconvolta e incredula. Solo un’ora prima lei e Alamberta si erano salutate, prima di andare a dormire. Ora, l’aveva ritrovata in un bagno di sangue, la vita appesa ad un filo.
Chi mai poteva aver usato tanta violenza contro di lei?
E per quale ragione?
Era la stessa persona che aveva ucciso Alvis?
Amtara non era più un luogo sicuro, ormai doveva riconoscerlo. Il Consiglio stesso aveva espresso i suoi dubbi, a tale proposito.
E come mai aveva la sensazione che la Poliglotter sapesse che qualcosa di terribile stesse per accadere alla Rudolf?
Che ci facevano lei e il professor Christie davanti al portone, in piena notte?
Stavano aspettando il loro ritorno, ma perché?
Ora, però, doveva pensare solo ad Alamberta. La Anderson doveva salvarla, a qualunque costo.
Di tutto il resto, se ne sarebbe occupata dopo.
 
Per quanto fosse abituata al sangue e alle ferite, la Anderson si spaventò quando vide le condizioni della Rudolf.
Adagiarono il corpo sul letto.
La Rudolf emise un debole gemito e per un istante tutti pensarono che stesse per svegliarsi, ma subito tornò al suo stato d’incoscienza.
Era pallidissima.
La Collins si rivolse alla Anderson. “Salvala. A qualunque costo.”
“E’ in uno stato pietoso. Non posso garantirti nulla.” – replicò l’infermiera, seria.
“Non importa. Fa quel che devi.”
“Chi…chi è stato a farle questo?”
“Non lo sappiamo.”
“E’ proprio come Alvis.”
La Collins aggrottò la fronte. “Che vuoi dire?”
“Le ferite sono le stesse. Identici segni, identici morsi. Sono sicura che chi ha ucciso Alvis è la stessa persona che le ha fatto questo.”
La Collins barcollò. “Sei…sei sicura?”
La Anderson annuì. “E’ il mio lavoro. Sono sicura.”
I tre professori si scambiarono un’occhiata preoccupata.
Poi, senza ulteriori indugi, la Anderson li invitò ad uscire e cominciò ad occuparsi della Rudolf.
 
Fuori dall’infermeria, la Collins guardò in faccia i due colleghi.
“Lo so che siete esausti, e lo sono anch’io. Ma ho bisogno di sapere cos’è successo mentre eravamo via.”
“Sì.” – rispose la Poliglotter.
Seguirono la Collins nel suo ufficio, che preparò il caffè per tutti.
Sarebbe stata una lunga notte.
“Rebecca Bonner è venuta a cercarti, questa mattina.” – esordì la Poliglotter. La Collins la fissò, sorpresa. “E’ venuta a cercarmi? E perché?”
Sapeva quanto Rebecca fosse restia a chiedere l’aiuto di chiunque. Se l’aveva fatto, doveva esserci un buon motivo.
“Ha avuto una Premonizione, ieri, durante la mia lezione.” – intervenne il professore. “E’ svenuta in classe e quando si è ripresa l’ho mandata in infermeria. Ma non ha raccontato niente a nessuno. Solo questa mattina abbiamo saputo che aveva avuto una Premonizione.”
“E che cosa ha visto, esattamente?” – chiese la Collins.
“Si trovava nella stanza di Alamberta.” – rispose la Poliglotter. “L’ha vista avvicinarsi alla porta, poi qualcuno è entrato e l’ha aggredita. Ma era tutto buio, purtroppo, non è riuscita a vedere chi fosse.”
“Dio mio…” – mormorò la preside.
“Vi abbiamo mandato un messaggio, non appena l’abbiamo saputo, ma credo non l’abbiate ricevuto.”
“No, non ho ricevuto niente. Siamo rimaste con le famiglie, per tutto il giorno.”
“Sì, lo immaginavo. Così abbiamo deciso di aspettare il vostro ritorno, ma…”
“… ma noi siamo entrate dal retro, e non ci avete visto.” – concluse la preside.
“Già.”
“Sono sicuro che siamo comunque arrivati in tempo.” – disse il professor Christie. “Ce la farà.”
La Collins non rispose. Non si dava pace. Rebecca Bonner aveva avuto bisogno di lei e lei non c’era.  Si malediva per questo, ma non avrebbe mai potuto non presenziare al funerale. Era stato pietoso. Aveva porto le sue condoglianze alle famiglie, sentendosi in qualche modo responsabile per quelle morti assurde. Camilla, come Bonnie, era stata una sua allieva. Non era stata in grado di insegnare loro a difendersi dal Demone come avrebbero dovuto. Aveva fallito.
E ora, il pericolo era dentro la scuola.
Per fortuna, i suoi due colleghi avevano preso la decisione giusta. Si erano comportati egregiamente. Se solo loro fossero entrate dal portone principale, forse ora Alamberta non si sarebbe trovata in infermeria, a lottare tra la vita e la morte.
Ripensò alle parole della Anderson. L’aggressore era lo stesso di Alvis.
Qualcuno minacciava la tranquillità di Amtara.
Ma chi?
Posimaar?
Se fosse stato lui, per quale motivo colpire uno Gnomo e un insegnante?
Rebecca Bonner era proprio lì, ad Amtara.  Perché non aveva attaccato lei?
C’era la possibilità che Cogitus avesse mentito? Il Demone non voleva uccidere Rebecca Bonner? Ma che ragione poteva avere Cogitus di mentire su una cosa del genere? In fondo, lui stesso aveva ammesso di aver rapito le Prescelte proprio per attirare Rebecca in trappola.
“Ignatia.” – disse ad un tratto la Collins, ripensando a tutto quello che era accaduto quella notte. “Hai sentito anche tu quel respiro, prima nel corridoio, non è vero?”
La Poliglotter la guardò, pallida. “Io… ho sentito qualcosa, sì. Ma non so esattamente cosa.”
“C’era qualcuno lì accanto a noi.”
“Quando? Dove?” – domandò il professor Christie, perplesso.
“Mentre stavamo per raggiungerti.” – rispose la preside, senza smettere di guardare la Poliglotter. “Il corridoio era al buio. Avanzavamo piano, fin quando non abbiamo sentito qualcuno che respirava vicino a noi. Sono sicura che se solo avessi allungato la mano, sarei riuscita a toccarlo.”
“Per fortuna non l’hai fatto.” – mormorò la Poliglotter.
La Collins inarcò un sopracciglio. “Se l’avessi fatto, forse ora avrei catturato l’assassino.”
“Se l’avessi fatto, forse ora saresti morta.” – replicò il professore, asciutto.
La Collins scosse piano la testa, sospirando profondamente.
“E’ stata una fortuna che non vi abbia attaccato.” – continuò il professor Christie.
“Già, ma perché non l’ha fatto?” – si domandò la Poliglotter a voce alta. “Se davvero era lui, perché non ha cercato di uccidere anche noi?”
La Collins alzò le braccia. “Questo è un altro mistero da risolvere. Sentite, si è fatto molto tardi e ormai mi avete detto tutto quello che volevo sapere. Andate a dormire. Domani ci aspetta una lunga giornata. Tutte le Prescelte sapranno quello che è successo, in qualche modo dovrò spiegare la situazione.”
“Quando lo verranno a sapere i genitori, saranno guai grossi.” – disse la Poliglotter.
“Sì. Affronterò anche questo.”
Li mandò a dormire, pensando che avrebbe dovuto farlo anche lei.
Era stata una lunga giornata, conclusasi nel peggiore dei modi.
Tuttavia, non sarebbe riuscita a dormire, senza sapere come stava Alamberta.
Decise di lasciar perdere il sonno e di tornare in infermeria per parlare con la Anderson.
 
Il mattino seguente, com’era prevedibile, le voci su quello che era successo alla professoressa di Protezione fecero presto il giro della scuola.
A colazione, tutti già sapevano.
Il cuore di Rebecca quasi si fermò. Non poteva credere che i suoi peggiori timori si fossero avverati. Evidentemente, la Poliglotter non era riuscita a mantenere la sua promessa. Qualcosa doveva essere andato storto.
Non appena la vide, seduta al tavolo dei professori, insieme al professor Christie, Rebecca decise di andare a parlare con loro. Aveva tutto il diritto di sapere com’erano andate le cose.
Ma non fece in tempo ad alzarsi che la Collins entrò in Sala da Pranzo, dirigendosi verso di lei.
“Bonner.”
“Buongiorno, professoressa.”
“Buongiorno. Ho bisogno di parlare con te. Ora.”
Rebecca annuì.
Non aspettava altro.

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Capitolo 16
*** La verità ***


Rebecca seguì la preside nel suo ufficio e sedette di fronte a lei.
Si scrutarono per una manciata di secondi, poi Rebecca fece la domanda che più le stava a cuore.
“Come sta la professoressa Rudolf?”
“E’ viva, grazie al cielo, ma non ha ancora ripreso conoscenza. Le sue ferite erano molto gravi.”
“Si salverà?”
“La Anderson sta facendo tutto il possibile. Non ci resta che aspettare.”
La Collins aveva parlato con l’infermiera quella notte, ma le condizioni della Rudolf erano stabili. Non dava ancora segni di miglioramento, ma c’era da aspettarselo. Solo con il tempo la Anderson avrebbe potuto sbilanciarsi un po’ di più. Per il momento, preferiva mantenere il riserbo.
“So che sei venuta a cercarmi, ieri mattina.”
“Sì. Le hanno detto della mia Premonizione?”
La preside annuì. “Perché non ne hai parlato subito con il professor Christie? Avremmo potuto fare qualcosa subito.”
Rebecca s’irrigidì. “Perché non sapevo se fosse o meno una Premonizione. Ci ho pensato un po’…”
“E hai voluto parlarne prima con le gemelle Lansbury.”
“Beh, sì.” – rispose Rebecca, un po’ esitante.
La Collins sospirò. “Mi rendo conto che tra voi c’è un forte legame, ma sarebbe opportuno, data la situazione, parlare subito con noi professori, specialmente se c’è di mezzo la vita di qualcuno. Se avevi dei dubbi, il professor Christie avrebbe potuto dipanarli alla svelta. Avrebbe capito che si trattava di una Premonizione e mi avrebbe avvisata subito.”
Rebecca tacque. Era prevedibile che la Collins ce l’avesse con lei.
Ripensò alle parole di Brenda, a tutte le volte in cui le aveva consigliato di andare dalla preside.
Eppure, la Poliglotter le aveva detto che sarebbero state di guardia tutta la notte. Cosa non era andato secondo i piani?
“Ho parlato con i professori.” – disse Rebecca, ritrovando il coraggio. “Un po’ tardi, ma l’ho fatto. La professoressa Poliglotter mi aveva assicurato che avrebbero fatto la guardia. Come mai la Rudolf è stata aggredita comunque?”
“E’ stato uno spiacevole inconveniente.”
Uno spiacevole inconveniente?
Era quello il suo modo per definire l’aggressione che aveva portato la Rudolf al confine tra la vita e la morte?
“Il professor Christie e la professoressa Poliglotter ci hanno aspettato fino a tardi, davanti al portone d’ingresso. Per uno strano scherzo del destino, però, io e Alamberta siamo rientrate dal retro.”
Rebecca sgranò gli occhi.
“Per puro caso, un’ora dopo il nostro ritorno, sono uscita dalla mia camera e li ho trovati lì, in piedi, infreddoliti ed esausti, che ci stavano aspettando per avvisarci del pericolo.”
“E la professoressa Rudolf dov’era?” – chiese Rebecca, immaginando già la risposta.
“Nella sua camera, naturalmente. Quando l’abbiamo sentita gridare, siamo corsi di sopra.”
Rebecca chiuse gli occhi. Riusciva benissimo ad immaginare la scena. I tre professori che correvano per le scale a rotta di collo e arrivavano nella stanza della Rudolf.
“In che condizioni era?”
“Dovresti saperlo. L’hai vista nella Premonizione.”
Rebecca scosse la testa. “Nella Premonizione la stanza era al buio.”
Solo in quel momento la Collins si ricordò di un piccolo particolare. Era stato il professor Christie ad illuminare la camera della Rudolf.
“Quindi non hai visto quello che lui le ha fatto?”
“Non ce n’era bisogno. Ero lì quando l’ha aggredita. Ho sentito che le strappava i vestiti e poi….e poi… le sue urla… e l’odore del sangue…”
La preside tacque, inorridita. Doveva essere stato terribile assistere, seppure al buio, all’attacco di quel mostro.
“Mi dispiace che tu abbia dovuto vedere tutto questo. Ma è anche vero che, senza la tua Premonizione, ora la professoressa Rudolf sarebbe morta. E’ la seconda volta che salvi la vita ad un professore di Amtara.”
Rebecca trasalì. La Collins aveva ragione. L’anno prima aveva salvato Garou, ora, se tutto fosse andato bene, la Rudolf.
“Spero sia così.” – rispose. “Posso andare a trovarla?”
“Dubito che la Anderson ti faccia entrare. La situazione è ancora molto delicata. Inoltre, non credo sia un bene per te vederla in questo stato. Credo sia meglio aspettare che le sue condizioni migliorino.”
Rebecca annuì.
“Ti ho convocata nel mio ufficio perché volevo spiegarti di persona come sono andate le cose. Però, Bonner, te lo ripeto: la prossima volta che avrai una Premonizione, o che farai un sogno, di qualunque tipo, sei pregata di parlarne con noi. Capisci anche tu che Amtara sta vivendo una situazione estremamente delicata. Non ti nascondo che il Consiglio è sul piede di guerra. Dalla morte di Alvis, Amtara è nell’occhio del mirino. Qualcuno sospetta che Posimaar si aggiri nei dintorni. E la morte di Camilla Sanchez non ha certo aiutato a rasserenare gli animi.”
“Professoressa, lei ci crede?”
“A cosa?”
“Al fatto che Posimaar sia qui. E’ stato lui a colpire la professoressa Rudolf?”
“Questo non posso saperlo, Bonner. Ma c’è la concreta possibilità che sia effettivamente così.”
“Allora perché non mi ha ancora preso?”
Quelle parole spiazzarono totalmente la Collins. Ci aveva pensato anche lei e non era riuscita a darsi una risposta. Cosa avrebbe dovuto dirle?
Rebecca la guardava dritto negli occhi e la preside si sentì a disagio, sotto quell’azzurro limpido che cercava una risposta.
“Sono sincera con te, Bonner. Non ne ho proprio idea.”
Rebecca abbassò la testa, senza dire nulla.
Poi, si riscosse. “Professoressa, non avete visto l’aggressore?”
“No, purtroppo. Quando siamo arrivati era già scappato.”
La Collins decise di non parlare di quello che lei e la Poliglotter avevano udito nel corridoio. Non c’era alcun bisogno di spaventarla con quel particolare. In fondo, l’avevano fatto scappare e non sapevano nulla sulla sua identità.
“Ricordati le mie parole, Bonner. Qualunque cosa accada, io devo saperla.”
Rebecca, in quel preciso istante, ripensò al sogno riguardante il Demone di fuoco.
Avrebbe dovuto dirglielo? Probabilmente sì. Ma qualcosa la trattenne dal farlo.
Quando la preside la congedò, ebbe solo un attimo di esitazione.
Poi, senza aggiungere altro, la salutò e uscì.
 
Quella mattina la Collins convocò tutta la scuola in Aula Magna per raccontare quello che era accaduto alla professoressa Rudolf. La voce si era già sparsa fin dalle prime ore del mattino, proprio per questo la preside ritenne opportuno comunicare personalmente alle Prescelte la verità dei fatti. Non voleva che ad Amtara corressero voci infondate o che qualcuno venisse accusato ingiustamente. Sorvolò sulla Premonizione di Rebecca, perché non voleva che a scuola si parlasse ancora di lei. Era già sulla bocca di tutti, da quando si era scoperto del suo Potere, preferiva tenerla al sicuro, per quanto le fosse possibile.
Raccontò, molto semplicemente, che l’insegnante di Protezione era stata attaccata nel cuore della notte nella sua stanza e che ora era ricoverata, in gravi condizioni, in infermeria. Era ancora viva, ma le sue condizioni erano tuttora molto critiche.
La preside non si risparmiò. Non aveva senso prendere in giro le sue allieve, raccontando loro delle favole. Erano donne adulte e avevano il diritto di sapere la verità.
Come prevedibile, la loro reazione fu molto forte. Dopo la morte di Alvis, ora tutte temevano di essere in serio pericolo. E tutte pensavano che Posimaar fosse il colpevole.
“Abbiamo valide ragioni di ritenere che l’assassino di Alvis e l’aggressore della vostra insegnante siano la stessa persona.”
A quelle parole, Rebecca vide alcune Streghe impallidire. Qualcuna si portò una mano sulla bocca. Non doveva essere facile per la Collins ammettere la verità, davanti a tutte. Tutto quello che stava accadendo ad Amtara sarebbe, inevitabilmente, ricaduto su di lei, che era la responsabile della scuola.
“Per questo motivo, invito tutte voi alla massima prudenza. Non allontanatevi dall’edificio, non uscite dalla vostra camera nelle ore notturne e, se doveste vedere qualcosa di sospetto, di qualunque tipo, venite a riferirlo a me o a uno dei vostri insegnanti.”
Rebecca dubitava che sarebbe bastato a placare gli animi.
Le Prescelte confabulavano tra loro con espressioni ansiose, per nulla rasserenate dal tono conciliante della preside. Non se la sentiva di dar loro torto. Era esattamente così che si sentiva anche lei. Con ogni probabilità, il Demone Supremo era ad Amtara, e non era certo con quelle misere raccomandazioni che l’avrebbero fermato.
Ma perché non si decideva a prendere lei? Rebecca non faceva che chiederselo. Che cosa stava architettando? Perché aveva ucciso uno Gnomo innocente e ora se l’era presa con la Rudolf?
Chi sarebbe stato il prossimo?
Quando la preside le congedò, il mormorio si fece ancora più intenso. Le Prescelte erano sconvolte.
Rebecca uscì con Brenda e Barbara, quando qualcuno la chiamò.
“Hai un minuto?” – le chiese il professor Garou.
“Sì, certo.” – rispose, un po’ sorpresa.
Mentre tutte uscivano dall’Aula Magna, si allontanarono un po’.
“Ho saputo della tua Premonizione.” – le disse Garou.
“E’ stata la preside a dirglielo?”
Garou annuì. “Forse non lo sai, ma hanno trovato dei peli, sui vestiti lacerati della professoressa Rudolf.” – le disse lui, a bassa voce.
Rebecca corrugò la fronte. “Che genere di peli?”
“Gli stessi che c’erano sul corpo di Alvis.”
Rebecca spalancò la bocca. “Allora è proprio così. Sono la stessa persona.” – mormorò sconvolta.
“O lo stesso genere di bestia.” – la corresse Garou.
“C’è un modo per capire di cosa stiamo parlando? Voglio dire, si potrebbero analizzare i peli e…”
“E’ quello che stiamo facendo. A dire la verità, è una cosa della massima segretezza. Nessuno deve saperlo, per il momento.”
“E perché lo sta dicendo a me?”
Garou la guardò dritta negli occhi. “Perché mi fido di te. E perché sei stata tu ad avere la Premonizione. Ritengo giusto che tu sappia. Ma, per l’amor del cielo, non farne parola con nessuno.”
“Ehm, d’accordo.” – rispose Rebecca, un po’ a disagio.
Sapere che Garou aveva fiducia in lei la lusingava. Probabilmente la Collins non avrebbe gradito che lui le aveva raccontato la verità. Apprezzava infinitamente la sua sincerità.
“Avete già degli indizi? Voglio dire…”
“Stai pensando a Posimaar, non è vero?”
“Potrebbe essere un mutaforma?”
“Potrebbe essere qualunque cosa. Quel che è certo è che, se è stato lui, ha attaccato entrambi sotto la stessa forma.”
“E perché lo avrebbe fatto?”
“Che intendi dire?”
“Che male hanno fatto Alvis e la Rudolf?” – sbottò Rebecca, alzando un po’ la voce.
“Rebecca…”
“Perché non ha ancora attaccato me? Cosa sta aspettando?” – aggiunse, con le lacrime agli occhi.
Odiandosi per quel momento di debolezza, si asciugò gli occhi con la manica del maglione.
“Ascolta,” – disse Garou, in tono gentile – “so come ti senti…”
“No, io non credo.”
“Devi fidarti di noi. Non sei sola. La preside si sta dannando l’anima per venire a capo di tutta questa faccenda.”
Garou sospirò. “Non è un buon periodo per lei. Sarò sincero con te, tutti gli occhi sono puntati su di lei. Il Consiglio la tiene costantemente d’occhio. Le Prescelte là fuori stanno morendo e Amtara, che doveva essere una roccaforte inespugnabile…. Beh, si sta scoprendo che non lo è affatto. L’anno scorso c’era Cogitus, quest’anno ci sono già state due aggressioni. Ed è stato solo un puro caso che non sia morta anche la Rudolf. Se non fosse stato per la tua Premonizione…”
“Sì, lo so. La preside me l’ha detto, anche se….”
“Anche se?”
“Beh, avrei dovuto parlarne subito. Invece ho aspettato.”
“Ma alla fine l’hai salvata comunque.”
“Sì.”
“Quello che sto cercando di dirti è che non si tratta solo di te.” – riprese Garou. “Sì, è vero, probabilmente sei il suo primario obiettivo, ma questa guerra riguarda tutti noi e non ti lasceremo mai da sola.”
Rebecca scosse piano la testa. Avrebbe tanto voluto credere alle sue parole, ma non ci riusciva. Credeva alle parole di Cogitus. Posimaar voleva lei. Sì, probabilmente era una guerra che stava coinvolgendo tutti, anche persone innocenti. Ma era lei che, alla fine, avrebbe dovuto affrontarlo.
Ripensò al suo sogno, al Demone di fuoco.
Sì, sarebbe andata esattamente così.
E non ne avrebbe fatto parola con nessuno. A cosa sarebbe servito? Spettava a lei combatterlo.
E l’avrebbe fatto.

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Capitolo 17
*** La confessione della Rudolf ***


Nel mese di marzo la professoressa Rudolf, dopo le prime difficili settimane, fu dichiarata fuori pericolo dalla Anderson, con grande sollievo da parte della Collins e di Rebecca.
Trascorse una convalescenza lunga e molto dolorosa, durante la quale rimase priva di conoscenza per molto tempo.
Alla fine la Anderson le aveva concesso di andarla a trovare e Rebecca era inorridita di fronte al suo stato di salute. Aveva ferite ovunque e profonde cicatrici le deturpavano il viso. Non era ancora cosciente e Rebecca era rimasta lì a fissarla a lungo, persa nei suoi pensieri.
Si sentiva un po’ in colpa nei suoi confronti. Probabilmente la Collins aveva ragione. Se  non avesse atteso il giorno dopo per confessare la Premonizione, le cose sarebbero andate diversamente. Si domandò come avrebbe reagito la Rudolf nel sapere la verità.
Diverse settimane dopo l’insegnante, finalmente, riprese conoscenza.
Rebecca, però, evitò di tornare in infermeria. Aveva paura della sua reazione. Era certa che la Collins le avesse già raccontato tutto e non ebbe il coraggio di affrontarla.
Ma sapeva che non avrebbe potuto evitarla per sempre. Le sue condizioni miglioravano di giorno in giorno e presto sarebbe tornata a fare lezione.
Accadde proprio alla fine di marzo.
La Rudolf fu dimessa dall’infermeria. Zoppicava leggermente ed era molto dimagrita, ma il suo atteggiamento era lo stesso di sempre, notò Rebecca osservandola entrare in classe il primo giorno di lezione. Se qualcuna di loro aveva pensato di ritrovare un’insegnante meno severa, fu irrimediabilmente costretta a ricredersi. L’insegnante di Protezione non risparmiò a nessuna rimproveri e frecciatine, mentre si esercitavano di nuovo e con maggior vigore nelle Contromaledizioni.
Quando la campanella suonò, al termine della lezione, Rebecca si alzò per seguire le compagne fuori dall’aula.
“Bonner!”
Il cuore di Rebecca perse un battito.
“Sì, professoressa?” – rispose voltandosi.
“Vorrei parlarti un minuto. Puoi chiudere la porta?”
Rebecca non rispose, lanciando un’occhiata ansiosa alle gemelle.
“Ti aspettiamo qui fuori.” – le disse Brenda.
Rebecca annuì.
Aspettò che tutte le Streghe fossero uscite, poi chiuse la porta.
“Siediti.”
Rebecca obbedì.
“Ho saputo che sei venuta a trovarmi spesso, quando ero in infermeria.”
Rebecca s’irrigidì. La Collins, a volte, parlava un po’ troppo.
“Ehm, sì, professoressa. E sono davvero contenta che si sia ripresa.”
“Però quando ho ripreso conoscenza, non ti ho vista.”
“Sì…. Ecco… io…. Avevo un po’ da fare.”
La Rudolf annuì. “Capisco. E non hai niente da dirmi?”
Rebecca la guardò. “Che intende dire?”
“La preside mi ha raccontato tutto. So della tua Premonizione.” – disse la Rudolf, senza altri giri di parole.
“E… è arrabbiata con me?”
“Cosa?!” – esclamò l’insegnante, totalmente spiazzata da quelle parole. “E perché dovrei?”
Rebecca esitò. “Beh, la preside le avrà anche detto che ho raccontato della Premonizione solo il giorno dopo, la mattina in cui voi siete partite per il funerale.”
“Sì, so tutto. Certo, avresti potuto parlare subito, non lo nego. Ma sei stata tu a salvarmi. Se non avessi avuto quella Premonizione, ora probabilmente non sarei qui.”
Rebecca la fissò. C’era una marea di domande che avrebbe voluto farle, riguardo a quanto le era successo, e non sapeva da dove cominciare.
“Professoressa…. Nella Premonizione, io ero dietro di lei, in quella stanza. Io…l’ho vista avvicinarsi alla porta, e poi aprirla piano. E’ stato allora che lui l’ha attaccata.”
“Sì.” – rispose la Rudolf, un po’ scossa nel rievocare quel momento. “Eravamo tornate da poco, la mezzanotte era passata da un pezzo, credo. Ero molto stanca. Era stata una giornata estenuante. Il viaggio era stato lungo e, dopo il funerale, ci siamo fermate a parlare con i familiari. Ho salutato Dana e sono andata in camera mia. Mi sono preparata per la notte, ma stranamente, nonostante la stanchezza, non riuscivo a dormire. Così, ho deciso di mettermi al lavoro. Avevo un po’ di compiti da correggere, quindi ne ho approfittato. Stavo lavorando da un po’, quando, ad un tratto, ho sentito un rumore fuori dalla porta.”
“Che genere di rumore?” – chiese Rebecca, attenta.
La Rudolf esitò. “Beh, per la verità era molto simile ad un respiro molto affannoso, una specie di ringhio, non saprei come definirlo.”
Rebecca impallidì. “Un ringhio?”
“Sì. Allora mi sono alzata per andare a controllare. Ero sicura che ci fosse qualcuno, là fuori. E poi… Beh, poi, in realtà, ho un ricordo molto confuso. Ho sentito un dolore lancinante e credo anche di aver perso i sensi, ad un certo punto, perché poi ricordo solo di essermi risvegliata in infermeria.”
Rebecca annuì, pensando fosse stata una fortuna che avesse perso i sensi. Quello che le aveva fatto quel mostro era semplicemente agghiacciante.
La Rudolf aveva sentito un ringhio. A Rebecca tornò in mente Cogitus e il terribile lupo in cui si era trasformato. Ripensò alle ferite riportate da Alvis. Poteva trattarsi di nuovo di una specie di licantropo? La storia si ripeteva? Poteva essere che Posimaar avesse assoldato qualcun altro per seminare il terrore ad Amtara?
“Lei… lei ricorda che aspetto aveva?” – le chiese Rebecca, a bruciapelo.
“No. È successo tutto troppo in fretta, e poi ricordo che era tutto buio…”
“Sì, credo sia stato lui.” – disse Rebecca. “Probabilmente non voleva essere visto. E ha raggiunto il suo scopo, a quanto pare.”
“Quindi, nemmeno tu l’hai visto, nella Premonizione.”
Rebecca scosse la testa. “No, e nemmeno la preside e la Poliglotter. Quando sono arrivati da lei, lui era già fuggito.”
“Sono stata un’idiota ad aprire quella porta.”
“Ma lei non poteva sapere…”
“Avevo sentito molto chiaramente un ringhio. C’era qualcuno fuori dalla mia stanza e non era sicuramente un essere umano. Avrei dovuto rimanere chiusa dentro, senza farmi prendere dalla mia maledetta curiosità.”
“Sarebbe riuscito ad entrare comunque. Se voleva attaccarla, in qualche modo ci sarebbe comunque riuscito.”
La Rudolf sospirò. “Hai ragione. Ma per quale motivo voleva attaccare proprio me?”
Rebecca non rispose. Non sapeva se la Rudolf sapesse che si trattava dello stesso mostro che aveva ucciso Alvis e, nel dubbio, decise di tacere.
Non seppe cosa rispondere. Negli ultimi tempi, si era posta la stessa domanda almeno cento volte al giorno, lambiccandosi il cervello nel vano tentativo di venire a capo degli oscuri piani del Demone Supremo.
“Non lo sa nessuno.” – rispose.
 
 
 

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Capitolo 18
*** Coraggio e viltà ***


 
In quelle ultime settimane, Rebecca era stata talmente assorbita dagli ultimi avvenimenti, da non aver più prestato attenzione a tutto il resto. A malapena si ricordava di fare i compiti, nonostante ci pensasse Brenda a ricordarglielo tutte le sere, prima di andare a dormire.
Quello che era accaduto all’insegnante di Protezione l’aveva scossa fin nel profondo. Rebecca continuava a pensare alla Premonizione e al racconto della Rudolf. Aveva anche pensato che, dal momento che l’insegnante era sopravvissuta, il mostro ci avrebbe riprovato, sferrando un altro attacco.
Ma si sbagliava. Ad Amtara la vita continuò tranquilla e non ci furono nuovi attacchi.
A che gioco stava giocando il loro nemico?
Con tutti quei pensieri in testa, Rebecca si era completamente dimenticata di Morgana.
Fu Brenda a riportare a galla il discorso, una mattina.
“Avete notato che da quando è stata attaccata la Rudolf, Morgana non ci ha più dato fastidio?”
“La cosa ti dispiace?” – le chiese sua sorella.
“No, però mi sembra strano. Prima non perdeva occasione di lanciare frecciatine, ora ci ignora totalmente.”
“Anche il suo aspetto fisico è cambiato.” – disse Rebecca, che fino a quel momento non ci aveva fatto troppo caso.
L’aveva vista di recente nei corridoi e aveva notato che era dimagrita parecchio. Gli abiti le stavano troppo larghi, aveva le occhiaie e una luce febbricitante negli occhi che non le aveva mai visto prima. Rebecca stentava a riconoscerla. Quando la vedeva chiacchierare con Clio, pensava che non c’era più molta differenza tra le due: Morgana stava diventando sempre più simile ad uno spettro.
“E’ vero.” – confermò Barbara. “Adesso sembra uno zombie. Scommetto che in quelle condizioni non vincerebbe una seconda volta il primo premio come Fata Turchina.”
“Stai ancora pensando a quello stupido concorso?” – le chiese Brenda.
“No, sto solo considerando i fatti. E comunque, qualunque cosa abbia, ben le sta.”
“Barbara!” – esclamò sua sorella. “Potrebbe anche essere qualcosa di grave!”
“E allora che si curasse! Basta che non sia contagiosa…”
Brenda la fissò, incredula.
“Non guardarmi così. Non provo nessuna pena per lei, per come ci ha trattate finora.”
“Sai, a volte penso che dovrei sciacquarti quella bocca con l’acido muriatico.”
Rebecca non intervenne nella discussione. Comprendeva molto bene la rabbia di Barbara, ma Brenda aveva ragione, era crudele gioire delle sue condizioni, soprattutto se era davvero malata. Ma per quale motivo non si faceva curare dalla Anderson?
“Credo che anche Clio se ne sia accorta, sapete?” – disse Rebecca.
“Di cosa?” – chiese Brenda.
“Del cambiamento di Morgana. Non avete notato che passano sempre più tempo insieme?”
Dalle loro espressioni perplesse, capì di essere l’unica ad averlo notato. Clio passava molto più tempo di prima in compagnia di Morgana, al punto che, Rebecca ne era sicura, aveva scatenato la gelosia delle sue tre amiche. La seguiva ovunque, quando studiava, in biblioteca, in giardino. Solo in classe le era proibito entrare. Chissà, forse Clio sapeva che Morgana era malata e cercava solo di prendersi cura di lei.
Ma Rebecca, Brenda e Barbara non ebbero più molto tempo per pensare a lei.
La Rudolf aveva ripreso le lezioni a pieno ritmo, dando loro una marea di compiti. Complice l’insolita aria calda che tra marzo e aprile aveva causato un repentino cambio di stagione, Rebecca cominciò a sentirsi stanca e svogliata. Faceva una fatica tremenda a svegliarsi la mattina e non riusciva mai ad addormentarsi prima di mezzanotte.
A complicare la situazione, ci si mise anche la Poliglotter con le sue stupide traduzioni di Orchese. Per quanti sforzi facessero, sia Rebecca che Barbara incontravano molte difficoltà in quella materia, soprattutto con la lingua degli Orchi. Brenda se la cavava decisamente meglio, ma era sempre molto restia ad aiutarle. Diceva che avrebbero dovuto cavarsela da sole, altrimenti non avrebbero imparato niente. In quei momenti, Rebecca le avrebbe volentieri dato una martellata in testa.
Sentiva di avere un disperato bisogno di vacanza. Aveva attraversato un periodo molto stressante. Prima aveva avuto quella che, a tutti gli effetti, sembrava essere una Premonizione sul Demone di fuoco (Posimaar?) ad Amtara. Poi, a distanza ravvicinata, aveva avuto la Premonizione riguardante la Rudolf. Poi, la Premonizione si era avverata, scatenando le sue più antiche paure. Aveva scoperto, grazie al professor Garou, che Alvis e la Rudolf erano stati attaccati dalla stessa persona. E ormai nutriva la profonda convinzione che si trattasse del Demone Supremo.
Non aveva parlato con nessuno del sogno sul Demone di fuoco, nonostante la preside avesse rimarcato più volte di voler essere messa al corrente di qualunque fatto nuovo. Non sapeva il motivo per il quale aveva taciuto. Non ne aveva parlato nemmeno con Brenda e Barbara, probabilmente perché quel sogno la riguardava molto da vicino. Il Demone, dopo aver ucciso due Prescelte, si avvicinava a lei. Era sicura si trattasse di Posimaar, venuto apposta per ucciderla.
Ma non era stato un Demone di fuoco ad uccidere Alvis e aggredire la Rudolf.
Evidentemente, a Posimaar piaceva giocare. Doveva essere divertente potersi trasformare continuamente, sorprendendo continuamente il proprio avversario. Aveva giocato bene le sue carte anche con Cogitus. Chissà, probabilmente Posimaar sapeva che Garou era un lupo mannaro… forse per quello aveva trasformato Cogitus in un lupo? Per confondere le tracce e condurre eventuali sospetti sull’insegnante di Storia della Stregoneria? Rebecca non ci aveva mai pensato ma, a quel punto, si aspettava di tutto da un essere viscido come lui.
Con l’arrivo di quel caldo anomalo, le Prescelte cominciarono a trascorrere più tempo all’aria aperta. Era piacevole potersene stare sedute in riva al fiume a studiare, o fare una passeggiata in giardino prima di cena. Rebecca si rese conto che il contatto con la natura aveva la straordinaria capacità di farla rilassare e lei ne aveva un bisogno disperato, in quel periodo. Riusciva sempre a stemperare un po’ la tensione e lo stress quando usciva dalle quattro anguste mura di Amtara. Esternamente, l’edificio era di un bianco accecante, specie quando i raggi del sole si riflettevano contro la pietra bianca, ma all’interno l’illuminazione era scarsa e la luce del giorno filtrava appena dalle alte finestre decorate.
Anche quel giorno, Rebecca fu lieta di uscire all’aperto, dopo le lezioni. Lei e le gemelle uscirono in giardino, lo attraversarono e camminarono in direzione del fiume. Trovarono un punto un po’ isolato e sedettero lontano dalle altre compagne. La maggioranza, notò, era del terzo anno. Erano tutte profondamente assorte nello studio, con il naso affondato nei libri.
“Guarda un po’ chi c’è!” – esclamò Barbara, facendo trasalire Rebecca.
Rebecca alzò la testa.
Elettra e Justine stavano venendo verso di loro, con una pila di libri sottobraccio.
Sedettero sull’erba accanto a loro, sotto la piacevole frescura di un albero.
“Siete venute qui anche voi per studiare?” – domandò Rebecca.
“Già.” – confermò Elettra. “Storia della Stregoneria, per la precisione.”
Barbara fece una smorfia.
“E tu cosa stai studiando di bello, visto che non apprezzi la materia di Garou?” – le domandò Elettra.
Barbara le mostrò il libro. “Traduzione di Orchese. E, per la cronaca, non è che io non apprezzi la materia di Garou. Io non apprezzo nessuna materia.”
Elettra sghignazzò. “Non è poi così male, l’Orchese, una volta che ci hai preso la mano.”
“Ah sì? Allora il problema mio e di Rebecca dev’essere proprio quello. Prenderci la mano.”
“Hai problemi con l’Orchese?” – chiese Elettra a Rebecca.
“Giusto qualcuno…” – mormorò Rebecca, arrossendo.
Non aveva molta voglia di parlare delle sue difficoltà scolastiche.
“E’ solo che non si impegnano a sufficienza.” – intervenne Brenda.
Rebecca e Barbara la fulminarono con gli occhi, ma lei le ignorò.
Elettra e Justine, cui non erano sfuggite le loro espressioni furenti, trattennero a stento una risata.
Elettra si sdraiò sull’erba, schermandosi gli occhi con una mano dalla luce del sole che filtrava attraverso le fronde dell’albero.
Justine ricominciò a leggere il libro di Storia della Stregoneria, mentre Barbara giocherellava con una margherita.
Rebecca non aveva molta voglia di studiare. Forse non era stata una buona idea venire lì. Sarebbe stato meglio andare in biblioteca, dove sarebbe riuscita a concentrarsi di più.
Tornò a guardare le Streghe del terzo anno che, a quanto pareva, non si lasciavano minimamente distrarre da niente e da nessuno. L’anno successivo, pensò Rebecca amareggiata, sarebbe toccato a lei. Probabilmente avrebbe avuto così tanta paura di non passare gli esami, che si sarebbe messa a studiare di buona lena, proprio come loro.
Ma mancava ancora un anno, c’era ancora tempo…
Chiuse gli occhi, ascoltando assorta il cinguettio dei passeri e lo scorrere pigro del fiume.
Dopo un po’, udì un lieve russare.
Si girò e si accorse che Elettra si era addormentata.
Non riuscì a trattenere una risatina.
“Che c’è? Perché ridi?” – le chiese Barbara.
Rebecca indicò con un cenno Elettra, che dormiva beatamente accanto a lei.
“Poverina, doveva essere stanca morta.”
“Dovremmo svegliarla.” – disse Justine. “Abbiamo così tanto da studiare.”
“Oh, lasciala stare.” – fece Brenda. “Che male c’è se si riposa un po’?”
Justine sospirò. “Sì, hai ragione. Ultimamente siamo sempre molto stanche. Sapete, gli esami si avvicinano, c’è molta tensione…”
Rebecca pensò che si trovava nelle medesime condizioni di Elettra, pur non avendo gli esami di fine anno da affrontare. Aveva tanta voglia di sdraiarsi vicino ad Elettra e schiacciare un pisolino…
Invece, avrebbe dovuto riprendere in mano il dannatissimo libro della Poliglotter e ricominciare la traduzione di Orchese, ben sapendo che Brenda, che aveva finito il compito da un pezzo, non avrebbe mosso un dito per aiutare lei e Barbara.
Soffocò uno sbadiglio, obbligandosi a prendere in mano il libro.
“Ma guarda un po’ chi c’è qui!”
Rebecca si voltò di scatto.
Da dietro un cespuglio, erano appena sbucate le quattro persone che meno avrebbe desiderato incontrare: Morgana, Alyssa, Margaret e Viola.
La voce di Morgana fece svegliare Elettra che, con occhi stanchi e velati, si tirò su a sedere. Non appena vide le nuove arrivate, il suo viso si deformò in un’espressione di puro disgusto.
“Stavate fingendo di studiare?” – chiese Morgana, aspra.
“Che diavolo vuoi, Morgana?” – ribatté Barbara, in tono duro.
Morgana sghignazzò maligna. “E’ da quando ho vinto quel concorso che ce l’hai con me, non è vero Lansbury? Andiamo! Non avrai pensato davvero di poter vincere il primo premio con quel ridicolo costume di Mago Merlino?”
Le sue tre amiche risero.
Barbara strinse gli occhi, furiosa. “Io ce l’ho con te da quando hai messo piede qui dentro.” – sibilò. “E comunque, dimmi, perché sono curiosa… in che modo hai corrotto i giudici per aggiudicarti il primo premio? Non vorrai farci credere che Fata Turchina c’entri qualcosa con Halloween? Perché non siamo così stupide…”
“Taci…” – mormorò Morgana, livida.
Rebecca la guardò. Era ancora un po’ pallida, ma aveva riacquistato un po’ dell’antico vigore. L’arroganza era la stessa di sempre. Non era ancora guarita del tutto, ma stava decisamente meglio rispetto all’ultima volta che l’aveva vista.
“Beh, perdonateci, ma noi dovremmo tornare a studiare.” – le interruppe Elettra alzandosi, subito imitata da Justine.
Non aveva nessuna voglia di assistere a quei battibecchi, e l’ultima cosa che desiderava in quel momento era mettersi a discutere con Morgana. Lei e Justine erano uscite per trovare qualche attimo di pace e di relax ma, dal momento che non era più possibile, era meglio rientrare a scuola e chiudersi in biblioteca a studiare.
“Non ve ne andrete per colpa nostra?” – chiese Morgana.
Ma Elettra non raccolse la provocazione. “Ci vediamo Rebecca. Brenda. Barbara.”
Passò oltre Morgana senza degnarla di uno sguardo e lei e Justine s’incamminarono verso Amtara.
“Oh, che peccato.” – disse Morgana, guardandole andare via. “Non volevo interrompere il loro pomeriggio di relax.”
“Sei ancora in tempo per non rovinare il nostro.” – disse Barbara. “Sparisci.”
Morgana sorrise, sprezzante. “Sai, è un vero peccato che tu abbia un atteggiamento così ostile nei miei confronti. Sono certa che le cose potrebbero essere diverse, Lansbury. Potremmo perfino diventare amiche, io e te.”
Barbara rise. “Io e te… amiche? Nemmeno se tu fossi l’ultima Strega sulla faccia della terra.”
“Certo, ovviamente… Tu e tua sorella preferite la compagnia di gente come Rebecca Bonner…”
Rebecca strinse i pugni.
“Tu non sei degna nemmeno di pronunciare il suo nome.” – sibilò Brenda tra i denti.
Rebecca fu piacevolmente sorpresa di quelle parole, del tutto inaspettate. Era la prima volta che Brenda la difendeva in pubblico.
“Davvero commovente.” – commentò Morgana, acida.
Rebecca, decisa a non sopportare oltre, si rialzò. “Ragazze, credo sia meglio seguire l’esempio di Elettra e Justine. Qui non riusciremo più a studiare.”
“Oh, eri venuta per studiare?” – disse Morgana, in finto tono sorpreso. “Ma non credi che, date le circostanze, dovresti impiegare meglio il tuo tempo?”
Rebecca aggrottò la fronte. “Che vuoi dire?”
“Che forse dovresti cercare di scoprire chi ha ucciso quello Gnomo e aggredito la professoressa Rudolf, non credi?”
Rebecca la fissò. Dove voleva andare a parare?
“E perché, secondo te, dovrei essere io a scoprirlo?”
“Oh, ma è evidente! Tu sei Rebecca Bonner, la stella di Amtara, la regina delle Prescelte!” Fece una pausa. “La cocca della preside.” – aggiunse, sottolineando le ultime parole.
“Sai una cosa? La tua stupida invidia finirà per divorarti. Inoltre, cosa ti fa credere che io non conosca già la risposta?”
Morgana la fissò per qualche istante, cercando di soppesare le sue parole.
Rebecca si stupì di quanto fosse facile ingannarla. Morgana non era altro che una maschera, una facciata di odio, invidia e arroganza. Ma, nel suo cuore, doveva essere fragile come una piuma.
“Stai bluffando.”
“Pensa quello che vuoi. Non m’importa.”
“Sei una bugiarda.”
“Come credi.”
Si fissarono per lunghi istanti.
Morgana cercava di capire se Rebecca fosse sincera o stesse solo fingendo.
Rebecca, dietro quell’atteggiamento spavaldo, aveva il cuore in tumulto. Sfoggiava una calma apparente che era ben lungi dal provare.
Perché Morgana le aveva detto quelle cose?
Stava indagando su chi potesse essere il colpevole?
Aveva forse dei sospetti?
Dietro di lei, Margaret e Viola tenevano lo sguardo basso.
Rebecca inarcò un sopracciglio. Dov’era finita Alyssa? Era sicura di averla vista accanto a loro, solo un attimo prima.
In quel preciso istante, udirono un tonfo nell’acqua.
Si voltarono immediatamente verso il fiume.
“Alyssa!” – urlò Viola.
Alyssa era caduta in acqua e la corrente impetuosa la stava trascinando via. Rebecca la vide annaspare, cercando disperatamente di restare a galla. Il fiume Silos era noto per la pericolosità delle sue acque. Nessuno aveva molte possibilità di sopravvivere, nemmeno un provetto nuotatore.
Viola urlò di nuovo.
Senza indugio, Rebecca si tolse le scarpe e si tuffò.
“Rebecca!” – gridarono all’unisono Brenda e Barbara, completamente spiazzate da quel gesto repentino.
Rebecca, al contatto con l’acqua, rabbrividì. Cominciò a nuotare con foga, in direzione della ragazza. Non era facile, la forza della corrente era spaventosa.
Il movimento l’aiutò a scaldare i muscoli e, gradualmente, acquistò velocità. Le bracciate a pelo dell’acqua divennero regolari e il respiro accelerò.
Alyssa era ormai poco distante da lei, ma non doveva perdere il ritmo o non l’avrebbe raggiunta. La ragazza si teneva a galla molto a fatica, e Rebecca pensò che non doveva essere molto abile nel nuoto.
Non sapeva per quanto tempo avrebbe potuto resistere.
Doveva tentare il tutto per tutto.
Ora.
Se Alyssa fosse finita sott’acqua, Rebecca dubitava di riuscire a salvarla. L’acqua era troppo torbida e la visibilità molto scarsa.
Doveva raggiungerla, subito.
Prese un profondo respiro e accelerò l’andatura.
Brenda e Barbara correvano lungo l’argine, senza perdere di vista la testa rossa che spuntava dall’acqua. Sapevano che Rebecca era un’abile nuotatrice. Il mare era sempre stato il suo elemento, fin da piccola. Le lunghe nuotate a Bunkie Beach avevano temprato il suo fisico snello e vigoroso.
Ma il fiume Silos era insidioso e anche il nuotatore più esperto rischiava di soccombere di fronte alla forza dirompente delle sue acque. Inoltre, l’acqua del fiume era molto fredda. Nessuno avrebbe potuto resistere a lungo senza rischiare l’ipotermia.
Con possenti bracciate, la videro accelerare l’andatura, avvicinandosi di più ad Alyssa. Rebecca stava tentando il tutto per tutto per salvarla. La sua forza e la sua resistenza erano impressionanti.
Trattennero il fiato.
Ormai mancava poco.
Ancora un paio di bracciate e l’avrebbe raggiunta.
“Forza Rebecca! Ci sei quasi!” – urlò Barbara.
Rebecca la udì. Era confortante sapere di non essere sola.
“Aiutami! Ti prego!” – gridò Alyssa, vedendola arrivare.
“Sto arrivando! Resisti!”
Ormai era a pochi metri da lei. Con un ultimo, supremo sforzo, la raggiunse, sfiorandola con la mano, ma la presa era troppo debole e la mano scivolò via.
Ritentò e l’allungò di nuovo, cercando di prenderla per le spalle, in modo da avere una solida presa su di lei per poterla trascinare verso riva.
Ma proprio in quel momento, la testa di Alyssa sparì sott’acqua.
Rebecca imprecò.
“No!!” – urlarono Brenda e Barbara.
Disperata, Rebecca si guardò intorno, pregando che il corpo della ragazza riaffiorasse dall’acqua.
Ma non accadde.
Non aveva scelta, doveva immergersi, o Alyssa sarebbe annegata.
Prese un lungo respiro e si tuffò sott’acqua.
Brenda e Barbara urlarono quando videro la testa di Rebecca scomparire sotto la superficie.
“Oddio!” – gemette Barbara.
“E’ andata a cercarla.” – ragionò Brenda, cercando di mantenere la calma. “Vedrai che tra poco riemergeranno entrambe. Rebecca sa quel che fa.”
Ma lei stessa non era molto sicura delle sue parole. Rebecca era abile nel nuoto, ma Brenda temeva che una simile prova di resistenza potesse risultare eccessiva perfino per lei.
Pregò in cuor suo che tutto andasse bene. Non poteva nemmeno immaginare cos’avrebbero fatto lei e Barbara se a Rebecca fosse successo qualcosa. Ormai la considerava la sua seconda sorella…
Passarono i minuti e le ragazze erano ancora sott’acqua.
Barbara era sull’orlo delle lacrime. “Non può metterci tutto questo tempo…” – gemette. “Affogherà.”
“Non dirlo nemmeno per scherzo.” – disse Brenda in tono duro. “Ce la farà.”
Ma più il tempo passava, più le probabilità che Rebecca e Alyssa fossero ancora vive diminuivano drasticamente.
Margaret e Viola erano accanto a loro, ma non dicevano una parola, forse troppo sconvolte per parlare. Brenda pensò fosse un bene che tacessero. Una sola parola di troppo, ed era sicura che Barbara sarebbe saltata loro al collo. Non l’avrebbe potuta biasimare, lei stessa ce l’aveva con loro. Rebecca stava cercando di salvare la vita alla loro amica e, in fondo al suo cuore, Brenda non era sicura che Alyssa meritasse il rischio che Rebecca stava correndo per lei.
Ma Rebecca aveva un cuore generoso, aiutare il prossimo senza aspettarsi nulla in cambio era scritto nel suo DNA. Perfino rischiare la vita per qualcuno che non lo meritava, era tipico di lei.
Brenda ripensò agli avvenimenti dell’ultimo anno. Quando lei era stata rapita da Cogitus, Rebecca non aveva esitato a mettere a repentaglio la sua vita per venire in suo aiuto. Non le importava cosa sarebbe successo, aveva rischiato il tutto per tutto in nome della loro amicizia.
Allo stesso modo, sapeva perfettamente a cosa andava incontro portando via Garou dalla grotta usando il suo Potere davanti a tutte. Ma non aveva esitato un secondo.
Rebecca era così, la vita degli altri veniva prima della sua.
Forse anche per questo sua madre, dal cielo, la stava aiutando.
E anche per questo, Banita era tornata indietro per dirle che era orgogliosa di avere una figlia come lei.
Dopo quelle che sembrarono ore, finalmente, qualcosa si mosse nell’acqua.
“Guardate!” – gridò Margaret, indicando un punto vicino alla riva opposta del fiume.
Brenda le vide.
Rebecca era riemersa e teneva tra le braccia il corpo di Alyssa, che sembrava aver perso conoscenza.
“Rebecca!” – gridò Brenda, gesticolando con foga per attirare la sua attenzione.
Rebecca fece un cenno con la mano, per farle intendere che l’aveva vista.
Era stremata, ma doveva compiere un ultimo sforzo e riportare Alyssa dall’altra parte del fiume.
Esausta e tremante di freddo, cercando di non perdere la presa sul corpo della ragazza, ricominciò a nuotare verso di loro.
Era difficilissimo. La corrente la spingeva in là e vide Brenda e Barbara correre per starle dietro e non perderla di vista.
Rebecca si teneva a galla a fatica e nuotava con un braccio solo, mentre con l’altro cercava disperatamente di tenere sollevata la testa di Alyssa sopra il pelo dell’acqua.
Aveva perso i sensi ma le sembrava che respirasse ancora, anche se non poteva esserne del tutto certa.
Impiegò un tempo infinito, ma alla fine riuscì ad avvicinarsi alla riva opposta. Brenda e Barbara le lanciavano continuamente grida di incoraggiamento.
Era stremata, ma ormai mancava poco.
Ancora un ultimo sforzo, e avrebbe portato in salvo Alyssa.
Era stato quasi un miracolo che fosse riuscita a distinguere la sagoma del suo corpo sott’acqua. L’aveva afferrata al volo, prima che la corrente la portasse lontano. In quel caso, non sarebbe mai riuscita a recuperarla e la ragazza sarebbe morta affogata, senza alcun dubbio. Tenendola stretta per la vita, aveva scalciato per tornare in superficie. Rebecca non sapeva quanto tempo ci aveva impiegato, sapeva solo che, quando la sua testa era riaffiorata dall’acqua, aveva i polmoni in fiamme e il cuore sembrava volerle uscire dal petto. Non aveva mai provato niente di simile in tutta la sua vita. Nemmeno quando si era ritrovata nel mezzo dell’oceano, poco prima che il vecchio Harry White la recuperasse sulla sua barca. Ancora pochi secondi e, probabilmente, sarebbe annegata insieme ad Alyssa.
Brenda e Barbara si chinarono per aiutarla, trascinando il corpo di Alyssa sulla terraferma, insieme a Margaret e Viola.
Alyssa era pallida e le sue labbra erano di un preoccupante colore blu.
Brenda e Barbara aiutarono Rebecca ad uscire dall’acqua.
“Come ti senti?” – le chiese Brenda.
“Sto bene. Non preoccuparti. Pensate a lei.”
Rebecca si sdraiò sull’erba, stremata.
Brenda e Barbara si avvicinarono ad Alyssa. Viola accostò l’orecchio alla sua bocca e un’espressione di orrore comparve sul suo viso.
“Che succede?” – le chiese Brenda, in ansia.
“Non respira!”
Brenda si inginocchiò accanto ad Alyssa e le tastò il polso. Si chinò su di lei e cominciò la respirazione bocca a bocca.
“Aiutami!” – gridò a sua sorella, voltandosi di scatto.
Barbara sussultò. Accovacciandosi accanto a Brenda, cominciò il massaggio cardiaco, mentre la sua gemella cercava con tutte le sue forze di inalare aria nei polmoni della povera ragazza. Barbara dava forti colpi alle costole, ogni volta che Brenda glielo ordinava.
Andarono avanti così, a lungo, fino a quando Brenda non ebbe quasi più fiato. Barbara era tutta rossa in faccia, per lo sforzo.
Rebecca si era sollevata a sedere e fissava, ammirata, le due amiche cercare di salvare la vita ad Alyssa.
Brenda ordinava a Barbara di effettuare il massaggio, con una freddezza e un distacco che Rebecca non aveva mai conosciuto. Barbara dava colpi secchi, duri, mentre Brenda inspirava quanta più aria poteva nella bocca di Alyssa. Erano una squadra perfetta. Non le aveva mai ammirate tanto come in quel momento.
Ma più passava il tempo, più Alyssa non si risvegliava. Non era un buon segno.
Margaret e Viola, in disparte, fissavano la scena, con ansia crescente.
Brenda e Barbara continuarono, instancabili. Barbara aveva la fronte imperlata di sudore e Brenda cominciava a dare segni di cedimento. Stava compiendo uno sforzo non indifferente da parecchi minuti, ormai.
Rebecca avrebbe tanto voluto aiutarle, ma non sapeva in che modo. Non aveva mai effettuato né un massaggio cardiaco né una respirazione bocca a bocca. Prese mentalmente nota di farsi dare lezioni dalle gemelle a riguardo, non appena quell’orribile pomeriggio sarebbe finito. Alyssa non poteva morire, dovevano salvarla…
Doveva aver bevuto troppa acqua, nonostante lei avesse fatto tutto il possibile per tirarla fuori dall’acqua in fretta e furia. Probabilmente non era bastato. Si maledisse per la sua mancata tempestività. Avrebbe dovuto avere i riflessi pronti, e invece aveva esitato. Se si fosse tuffata subito sott’acqua, forse ora Alyssa sarebbe stata viva…
No, non voleva nemmeno pensarci. Non poteva morire… Sarebbe stata tutta colpa sua…
Chiuse gli occhi e cominciò a pregare.
“Forza Alyssa! Non mollare!” – gridava Brenda, tra un respiro e l’altro.
“Ti conviene conservare il fiato, Brenda.” – le consigliò Barbara, continuando a dare forti colpi sul torace della ragazza.
Ormai erano giunte al limite, pensò Rebecca, guardandole con un misto di compassione e ammirazione. Non avrebbero resistito a lungo, ma se si fossero fermate…
E poi, finalmente, accadde.
Alyssa tossì forte, sputando acqua.
“Sia ringraziato il cielo!” – gridò Margaret.
Brenda e Barbara l’aiutarono a mettersi seduta, mentre riprendeva a respirare, con molta fatica.
“Ce l’hai fatta!” – gridò Viola, scoppiando a piangere.
Alyssa tossì ancora un po’, mentre fissava le amiche con aria stravolta.
Barbara si accasciò sull’erba, tremante.
“Come stai?” – le chiese Brenda.
“Ho solo bisogno di riprendermi.” – mormorò.
Margaret e Viola si chinarono su Alyssa e l’abbracciarono forte.
Brenda e Barbara le guardarono. Alyssa avrebbe avuto bisogno di una visita dalla Anderson, ma per il momento decisero di lasciarla in balia delle sue amiche. Era salva e stava bene, solo questo contava.
“E’ stata dura, eh?” – le disse Barbara.
Brenda sorrise. “Già. Ma siamo una grande squadra, vero?”
“Sì. E’ la prima volta che salvo la vita a qualcuno.”
Brenda si voltò a guardarla. “E come ti senti?”
“Onnipotente.”
Brenda rise.
Tornò a guardare Margaret e Viola, che accarezzavano piano la testa di Alyssa, ancora molto pallida. Brenda pensò che la ragazza avesse urgente bisogno, ora, di togliersi di dosso quei vestiti bagnati, di una bella doccia calda e di abiti asciutti, esattamente come Rebecca.
Ma dov’era finita Rebecca?
Si guardò attorno, senza vederla.
“Dov’è Rebecca?” – chiese a sua sorella.
Barbara si guardò intorno. “Era sdraiata lì.” – disse, indicando un punto non molto lontano.
Si alzarono in piedi, di scatto.
Margaret, Viola e Alyssa le guardarono.
“Avete visto Rebecca?” – chiese loro Brenda, con una punta di panico nella voce.
“No.” – rispose Viola.
Alyssa aggrottò la fronte. “Mi ha salvato la vita. Come sta?”
“Stava bene, fino a un minuto fa.” – replicò Barbara, in ansia.
“Ma non può essere svanita nel nulla.” – commentò Margaret.
“Anche Morgana è sparita.” – notò Viola.
Brenda e Barbara si scambiarono un’occhiata. Solo in quel momento realizzarono che Morgana era sparita da un bel pezzo.
Un terribile presentimento si fece strada nella mente di Brenda.
Si rivolse a Margaret e Viola. “Portate Alyssa a scuola. Deve cambiarsi i vestiti e andare dalla Anderson.”
“Ma… voi dove andate?” – le urlò dietro Viola.
Ma Brenda aveva afferrato Barbara per un braccio, correndo via.
Quando furono abbastanza lontane dalle altre, Brenda si fermò.
“Morgana.” – disse.
“E’ sparita da quando Rebecca si è tuffata in acqua.” – disse Barbara. “O almeno, io non l’ho più vista.”
“Nemmeno io. E non credo sia rientrata a scuola.”
“Ma perché è scappata?”
“Non lo so, ma qualcosa non torna.”
“A cosa stai pensando?”
“Sto pensando che sia Rebecca che Morgana sono sparite e la cosa non mi piace per niente.”
Barbara corrugò la fronte. “Allora che facciamo?”
“Dobbiamo trovare Rebecca, presto!”
Brenda l’afferrò nuovamente per un braccio e si mise a correre.

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Capitolo 19
*** Lotta in acqua ***


Barbara faticava molto a tenere il passo di sua sorella. Si stavano addentrando sempre più nella boscaglia, allontanandosi dalla riva del fiume, e ormai gli unici suoni che si udivano erano i loro passi sui rami spezzati lungo il sentiero.
Barbara era stanchissima. Effettuare quel massaggio cardiaco così a lungo aveva messo a dura prova la sua resistenza fisica. Non era abituata ad uno sforzo fisico tanto intenso e prolungato. In realtà, nemmeno Brenda lo era, per questo non capiva da dove prendesse tutta quell’energia per correre a perdifiato nel bel mezzo della foresta, dopo aver dato fondo a tutte le sue riserve polmonari. Evidentemente, pur essendo gemelle, c’erano molti aspetti che le differenziavano, anche dal punto di vista fisico.
“Brenda, ti prego, puoi rallentare almeno un po’?”
“Rallentare? Rebecca è sparita e tu vuoi rallentare?”
“Ma non ce la faccio più!”
Brenda si bloccò di colpo. “Barbara, tutta questa storia non mi piace per niente. Non mi fido di Morgana. E non capisco dove possa essere andata Rebecca.”
Barbara corrugò la fronte. “Credi che Morgana le abbia fatto del male? Ma Rebecca era lì con noi…”
“Sì, dici bene. ERA. Non sappiamo dove sia finita e con Morgana in circolazione c’è poco da stare tranquille.”
“Morgana non le farebbe mai del male…” – mormorò Barbara, con voce sottile.
Brenda la fissò, scura in volto. “Non ne sarei tanto sicura.”
“Credi che Rebecca, non vedendo Morgana, sia andata a cercarla?”
“Conoscendola, temo di sì.”
“Ma dove potrebbe essere andata?”
“Forse è qui intorno, da qualche parte. Non può essere andata molto lontano, non dopo quello che ha fatto. L’ho vista, era sfinita quando l’abbiamo tirata fuori dall’acqua. Non credo sia riuscita ad allontanarsi troppo. Non ne aveva le forze.”
“Allora continuiamo a cercare.” – disse Barbara, risoluta. “Dobbiamo trovarla.”
Ignorando la stanchezza, continuarono a camminare nel bosco, cercando qualunque indizio che potesse dar loro prova che Morgana e Rebecca fossero passate da lì.
Mentre camminava, Barbara ripensò a tutto quello che era successo. Probabilmente, proprio in quel momento, Margaret e Viola stavano accompagnando Alyssa in infermeria, raccontando dello strepitoso salvataggio di Rebecca, prima, e di lei e Brenda, poi.
Con un sorrisino, immaginò la reazione delle Prescelte, quando si sarebbe sparsa la voce che avevano salvato la vita ad una di loro. E non una Prescelta qualunque, ma un’amica intima di Morgana Curter, che tanto le detestava!
Si erano comportate in maniera esemplare. Soprattutto Rebecca, era stata magnifica! Aveva affrontato l’acqua gelida e la corrente impetuosa, tuffandosi senza pensarci due volte. Era curioso che fosse accaduto proprio con un’amica di Morgana, che solo fino al giorno prima non aveva fatto altro che tormentarla in ogni occasione.
Alyssa sarebbe stata in debito con loro per il resto dei suoi giorni. Con ogni probabilità, Morgana aveva appena perso un’alleata e non era da escludersi che anche Margaret e Viola non seguissero il suo esempio. In fondo, era solo grazie a loro se avevano riavuto la loro amica sana e salva.
Barbara non capiva come mai Morgana fosse sparita proprio nel momento in cui la sua amica era caduta nel fiume. O, forse, se n’era andata prima che accadesse? Il suo ricordo era confuso, eppure aveva l’impressione che Morgana stesse ancora parlando con loro quando avevano sentito il tonfo nell’acqua. Chi mai avrebbe potuto abbandonare un’amica proprio nel momento del bisogno?
Ormai cominciavano a farle male i piedi. Il sole doveva essere quasi sul punto di tramontare, a giudicare dai raggi obliqui, sempre più deboli, che filtravano attraverso la boscaglia.
L’aria cominciava a farsi pungente e Barbara rabbrividì leggermente. Ci avrebbero impiegato un’eternità a tornare ad Amtara e di Rebecca ancora neanche l’ombra.
Ma non potevano abbandonarla. Presto sarebbe stato buio e dovevano assolutamente ritrovarla prima che calasse la notte nella foresta. Barbara aveva già sperimentato personalmente un’esperienza di quel genere e non ci teneva a ripeterla. La foresta, di notte, si popolava di rumori sinistri che le facevano accapponare la pelle e riportavano a galla i suoi peggiori incubi. No, decisamente dovevano ritrovare subito Rebecca e andarsene da lì al più presto.
“Hai sentito?” – le chiese Brenda all’improvviso, fermandosi di colpo.
Barbara rimase in ascolto, ma udì solo il suono del vento.
“No.”
Brenda si voltò in direzione del fiume. “Veniva da quella parte.”
Barbara gemette. “Di nuovo il fiume?”
Brenda ricominciò a correre e lei fu costretta a seguirla.
In pochi minuti raggiunsero le sponde del fiume.
Fu un attimo, questione di una frazione di secondo.
Ma entrambe la videro.
Una testa rossa affiorò improvvisamente a pelo dell’acqua.
Una testa rossa che conoscevano bene.
In un lampo, la testa tornò sott’acqua.
“Rebecca.” – mormorò Brenda.
 
Rebecca si sentiva un po’ in colpa nei confronti di  Brenda e Barbara. Non appena si era sincerata che Alyssa fosse fuori pericolo, era sgattaiolata via in silenzio, approfittando del momento di distrazione delle altre.
Sapeva che non avrebbero capito, soprattutto Brenda. Riusciva ad immaginare la sua reazione, le sembrava perfino di sentire la sua voce. “Ti caccerai di nuovo nei guai.”
E probabilmente aveva ragione, ma in cuor suo Rebecca sentiva di aver fatto la cosa giusta. Morgana era semplicemente scomparsa nel nulla, anche se non avrebbe saputo dire esattamente quando. Sapeva solo che quando era uscita dall’acqua, lei non era lì.
Morgana sapeva che una delle sue migliori amiche era caduta nel fiume, rischiando di annegare? Rebecca non ne era sicura, ma non ricordava di averla vista sulla sponda del fiume, insieme alle altre, mentre lei nuotava disperatamente per salvare Alyssa. Era fuggita come un ladro, abbandonando le sue migliori amiche.
Alyssa era ormai fuori pericolo, ci avrebbero sicuramente pensato Margaret e Viola a riportarla ad Amtara. Quanto a Brenda e Barbara, era quasi certa che sarebbero corse a cercarla. Non sarebbero tornate a scuola senza di lei, soprattutto dal momento che anche Morgana era sparita.
Rebecca era orgogliosa di loro. Avevano salvato la vita ad Alyssa, tutte e tre insieme. Indubbiamente, il fatto che tra loro ed Alyssa non fosse mai corso buon sangue, avrebbe reso quell’impresa ancora più grandiosa. Ma Rebecca sapeva che avevano semplicemente fatto quel che andava fatto. Nessuno meritava di morire in quel modo. L’avrebbero fatto anche se si fosse trattato di Morgana, per quanto potessero odiarla.
Eppure, era davvero strano che, proprio nel momento del pericolo, Morgana fosse scomparsa. Perché non era accorsa anche lei, quando Alyssa era caduta in acqua? Dove diavolo si era cacciata? Possibile che si fosse talmente spaventata che aveva deciso di scappare? Era davvero così vigliacca? Che fosse tornata a scuola? Rebecca ne dubitava. Qualcosa le diceva che doveva trovarsi ancora nei dintorni, anche se non avrebbe saputo spiegarsi il perché.
Camminò a lungo nella foresta, fino a quando, senza rendersene conto, si ritrovò di fronte al castello di Amtara. Aveva vagato senza una direzione precisa, immersa nei suoi cupi pensieri. La pietra bianca e scintillante di Amtara svettava dinanzi a lei, alta e solenne come una chiesa gotica.
Alcune Streghe in giardino, sedute accanto ad un cespuglio di rose, chiacchieravano animatamente. Presto sarebbero rientrate, perché il sole era ormai prossimo al tramonto e cominciava a fare freddo. Nonostante il caldo anomalo, per quella stagione, quando il sole scompariva all’orizzonte un freddo pungente tornava a farsi sentire. La primavera era ancora lontana.
Alcune Prescelte attraversarono il cancello, dirigendosi verso l’ingresso. Chissà se Alyssa era già tornata a scuola. Rebecca si augurò che stesse meglio. Probabilmente l’avrebbero accompagnata in infermeria, per precauzione. Si domandò se la sua supposizione fosse esatta, o se magari Brenda e Barbara avevano deciso di riportarla a scuola personalmente, insieme a Margaret e Viola. Forse volevano assicurarsi che venisse raccontata la verità, riguardo a quello che le era accaduto. Ma Rebecca dubitava che Margaret e Viola avrebbero mentito. Non stavolta. La loro amica era stata sul punto di morire ed era viva solo grazie a lei e alle gemelle. Nemmeno loro avrebbero potuto mentire, riguardo a questo.
Con uno sforzo che le costò parecchio, represse l’impulso di rientrare a scuola. Solo il cielo sapeva quanto avrebbe voluto farlo! Voleva scoprire se Brenda e Barbara erano rientrate, sapere come stava Alyssa e raccontare alla Collins quello che avevano fatto. E, soprattutto, aveva un disperato bisogno di indossare abiti asciutti e mangiare qualcosa di bollente per scrollarsi di dosso il freddo che le era penetrato nelle ossa, nonché il torpore che si era impossessato di lei nel corso di quell’interminabile pomeriggio.
Invece si voltò dalla parte opposta e percorse a ritroso il cammino appena compiuto.
Non era quello il momento di farsi prendere dalla debolezza.
Doveva trovare Morgana.
Stavolta si diresse verso il fiume. Morgana non era nella foresta, inutile illudersi. Probabilmente aveva costeggiato a piedi la sponda del fiume. Se non l’avesse trovata, allora avrebbe rinunciato e sarebbe tornata a scuola.
Rabbrividendo nei vestiti umidi, Rebecca accelerò il passo.
Quando arrivò sul fiume, camminò a lungo, fino a farsi dolere i piedi. Non c’era nessuno. Ormai tutte le Prescelte dovevano aver fatto ritorno a scuola.
Si fermava, di tanto in tanto, per scrutare l’acqua. Ripensò al momento in cui si era tuffata e l’acqua gelida le aveva trafitto la pelle come mille spilli infuocati. Osservò la corrente del fiume e non potè fare a meno di pensare di essere stata maledettamente fortunata. Sarebbe bastato un solo attimo di distrazione e né lei né Alyssa avrebbero avuto scampo.
Non era stata la sua bravura come nuotatrice a salvarla, ma solo un puro colpo di fortuna. Rebecca non aveva idea di come avesse fatto ad attraversare la corrente incolume.
Per un istante, si domandò se non ci fosse lo zampino di sua madre. Le aveva detto che l’avrebbe protetta per sempre. Lo aveva fatto anche stavolta? Rebecca era convinta che fosse così.
Grazie, mamma.
All’improvviso, avvertì un rumore alle sue spalle.
Stava per voltarsi, quando qualcuno le diede una forte spinta. Rebecca barcollò in avanti. Cercò con tutte le sue forze di non perdere l’equilibrio, ma non ci riuscì.
Cadde in acqua.
Riemerse subito dopo, annaspando. Qualcuno si era appena tuffato in acqua, dopo di lei, ma non aveva fatto in tempo a vedere chi fosse. Senza alcun dubbio, la stessa persona che l’aveva fatta cadere.
Rebecca si aspettò di vederlo riemergere, pronta ad attaccare.
Chi diavolo poteva essere? E cosa voleva da lei?
Ma non vide nessuno.
Eppure, qualcuno si era tuffato dopo di lei, ne era sicura.
Ad un tratto, un campanello d’allarme risuonò nella sua mente. Chiunque fosse, l’aveva spinta in acqua per un motivo ben preciso.
Doveva nuotare alla svelta, allontanandosi da lì. Doveva raggiungere la riva al più presto!
La corrente le era favorevole e si lasciò trasportare, avanzando con lunghe bracciate.
Si sentiva esausta. Era la seconda volta, nel giro di poche ore, che il suo corpo si ritrovava a dover compiere uno sforzo sovrumano, ben oltre le proprie capacità.
Ma non aveva scelta. Non poteva morire tanto stupidamente, non dopo aver salvato la vita ad Alyssa. Sarebbe stato a dir poco ridicolo…
Nuotò con foga, maledicendosi mentalmente per non essere tornata a scuola. Che diavolo le era saltato in mente di andare alla ricerca di Morgana? Perché non era rimasta sulla riva, insieme a Brenda e Barbara, dopo aver salvato Alyssa? Perché voleva sempre fare di testa sua, cacciandosi ogni volta nei guai?
E chi diavolo era la persona che ora stava cercando di ucciderla?
Ancora un paio di metri e avrebbe raggiunto la riva. Ce l’aveva quasi fatta.
Ma in quel momento qualcosa sott’acqua le afferrò le gambe. Ebbe appena la prontezza di prendere un respiro profondo, prima di essere trascinata sotto con violenza. Con uno sforzo sovrumano, si costrinse a non urlare. Se l’avesse fatto, sarebbe annegata. Ma il dolore fu tremendo. Qualcosa le aveva morso la gamba e l’acqua attorno a lei divenne rossa. La ferità era profonda e Rebecca sentì le forze venire meno.
Ma non poteva mollare adesso. Se fosse svenuta sott’acqua, sarebbe morta.
Cercò di divincolarsi, ma il suo nemico la teneva stretta. La fitta di dolore aumentò, facendole perdere la concentrazione.
Aria, aveva un disperato bisogno d’aria. La vista le si annebbiò e le girò la testa.
No, doveva resistere, a qualunque costo. Non poteva morire così.
Ripensò ai volti sorridenti di Brenda e Barbara. Voleva rivederle, un’ultima volta. Doveva rivederle. Doveva spiegare loro il motivo per cui si era allontanata…
Mentre il torpore s’impossessava di lei, una serie di immagini si sovrappose nella sua mente. Lo spirito di Banita che le parlava, nella sua stanza ad Amtara… Brenda e Barbara vestite da Orco e Lupo alla festa di Halloween…Elettra mollemente sdraiata su una barca al largo di Bunkie Beach… lo chalet di montagna dei signori Lansbury… il professor Garou che lottava selvaggiamente contro un lupo… il volto di Morgana ipnotizzato dalla vista del fuoco…la professoressa Rudolf stesa a terra in un bagno di sangue…
Una voce dentro di lei urlò. Non poteva finire così la sua vita. E, se proprio doveva morire, allora l’avrebbe fatto lottando fino all’ultimo. Non si sarebbe arresa, non fin quando avrebbe avuto fiato nei polmoni e cuore per combattere.
Lei era Rebecca Bonner, non una Strega qualunque.
Digrignando i denti, con un ultimo, supremo sforzo, diede un violento strattone, ignorando la fitta di dolore alla gamba.
L’aggressore mollò la presa.
Rebecca approfittò di quella frazione di secondo per darsi una spinta verso l’alto e la sua testa riaffiorò in superficie.
Respirò avidamente, inalando quanta più aria possibile. Sentiva i polmoni bruciare.
Per un istante, i suoi occhi si spostarono sulla riva e le sembrò di intravedere qualcuno, ma non fece in tempo a capire chi fosse perché fu di nuovo sospinta sott’acqua.
Trattenne di nuovo il fiato, ma ormai era allo stremo delle forze. La ferita sanguinava copiosamente e il dolore le annebbiava il cervello, impedendole di pensare con lucidità.
Non avrebbe potuto resistere ancora a lungo sott’acqua. Non riuscì nemmeno a riconoscere l’identità del suo nemico, perché l’acqua era troppo torbida. Quel che era certo era che lui era in netto vantaggio. Stava cercando di ucciderla e sembrava intenzionato, a tutti gli effetti, a portare a termine il suo compito entro la fine di quella giornata.
Di nuovo, le afferrò la gamba e Rebecca, con orrore, sentì chiaramente la carne lacerarsi.
Trattenne un grido, mentre ora un puro terrore s’impossessò di lei. Se fino a qualche attimo prima aveva creduto di morire affogata o per la troppa perdita di sangue, ora seppe che qualcuno stava cercando di mangiarla viva. Non poteva trattarsi che di questo. Non era sicuramente un essere umano quello che le stava strappando la carne a morsi, banchettando col suo corpo straziato.
Non poteva essere un licantropo, stavolta. Forse un orso? Gli orsi erano provetti nuotatori, senza alcun dubbio. Ma nessuno aveva mai visto orsi nella foresta. Un leone? Una tigre? Impossibile, quel genere di animali non popolavano i dintorni di Amtara.
Stavolta non avrebbe avuto scampo. Solo un miracolo avrebbe potuto salvarla e Rebecca pregò nel suo cuore che sua madre intervenisse, anche stavolta. Non poteva lasciarla morire così. Le aveva detto che non l’avrebbe abbandonata, mai, per nessun motivo. Ora era il momento di dimostrarlo. Altrimenti, quella figlia di cui si era detta tanto orgogliosa, l’avrebbe presto raggiunta nell’aldilà per tenerle compagnia per sempre.
Se ne avesse avuto la forza, Rebecca avrebbe pianto. Ormai non le restava che pregare, aspettando che il suo aguzzino sferrasse l’ultimo attacco, che avrebbe messo fine a quella sofferenza per sempre. Si augurò che quel momento arrivasse presto, il dolore era divenuto ormai insopportabile.
Ma poi accadde qualcosa che la spiazzò completamente. Del tutto inaspettatamente, l’aggressore mollò la presa.
Rebecca non avrebbe mai ricordato come, ma, in qualche modo, riemerse in superficie, forse guidata solo dall’istinto di sopravvivenza.
Riaprì gli occhi, in uno stato di semi incoscienza. Doveva nuotare verso riva, approfittando di quell’attimo di distrazione del suo nemico. Avrebbe potuto attaccare di nuovo, in qualunque momento, e allora sarebbe stata la fine.
Ma aveva perso troppo sangue, si sentiva troppo debole anche solo per muovere un muscolo. Si teneva a galla per miracolo, mentre la corrente la trascinava via. Sarebbe morta così, stupidamente. Tutti avrebbero saputo della sua mossa avventata, proprio dopo il suo attimo di gloria per aver portato in salvo Alyssa. Aveva salvato una Prescelta, ma non avrebbe salvato se stessa. Tutta la scuola avrebbe riso di lei e se lo sarebbe meritato.
“Rebecca!”
Rebecca credette di sognare. Forse era già morta e gli angeli del paradiso la stavano chiamando per condurla da sua madre.
Sorrise.
Presto avrebbe rivisto Banita.
No, non era morta. L’acqua gelida e il dolore straziante alla gamba le ricordarono che era più viva che mai. Ed era ancora in acqua, in una disperata lotta tra la vita e la morte. Non era ancora finita.
Eppure, le era sembrata una voce familiare. Possibile che…?
Poi, in un barlume di lucidità, le vide.
Brenda e Barbara erano lì, sulla riva, a pochi metri da lei. O era solo frutto della sua immaginazione? Un’allucinazione causata dalla sofferenza immane che stava provando? Non seppe dirlo con certezza.
Ormai incapace di pensare, a malapena si accorse che qualcuno la stava afferrando per la vita. Non poteva trattarsi del suo aggressore, perché quella stretta era dolce e gentile. Non sentì nuovamente gli artigli conficcarsi nella carne, ma solo un tocco morbido che, dolcemente, la trascinava via. Avrebbe tanto voluto voltare la testa, per guardare in faccia il suo salvatore, ma non ne ebbe la forza.
Si abbandonò tra quelle braccia confortanti, prima di chiudere gli occhi e perdere i sensi.
 
Il professor Garou cinse dolcemente la vita di Rebecca e, avendo cura di tenerle la testa fuori dall’acqua, nuotò verso riva. La ragazza perdeva moltissimo sangue e aveva perso i sensi. Doveva sbrigarsi.
Con poche bracciate raggiunse la riva e, con l’aiuto di Brenda e Barbara, depose il corpo sull’erba bagnata.
Inorridirono. Rebecca aveva tagli evidenti e graffi su tutto il corpo, ma la cosa più spaventosa e raccapricciante era la carne lacerata della gamba destra. Il suo aggressore, chiunque fosse, le aveva letteralmente strappato via un pezzo di gamba.
“E’ ancora viva?” – mormorò Brenda, con voce acuta.
Rebecca sembrava non respirare più.
Garou le si avvicinò, le tastò il polso e accostò l’orecchio alla sua bocca.
“Respira ancora, ma è molto debole. Posso fermare l’emorragia con un Incantesimo, ma bisogna portarla subito dalla Anderson.”
Una chiazza rossa si allargò a macchia d’olio sull’erba.
Barbara distolse lo sguardo. Non riusciva a guardare Rebecca in quello stato. Non poteva morire, non poteva…
Garou mormorò alcuni Incantesimi, a loro sconosciuti e, come per miracolo, la ferita smise di sanguinare. Ma Rebecca era ancora pallidissima e il suo respiro era lieve.
“Chi può essere stato a farle questo?” – domandò Brenda, sconvolta.
Nel medesimo istante, si voltarono tutti e tre in direzione del fiume. Le sue acque erano calme e non c’era traccia del colpevole, che pareva essersi volatilizzato nel nulla.
“Dev’essere scappato quando mi sono tuffato in acqua.” – rispose il professore.
“Ma chi era?” – lo incalzò Barbara. “Lei l’ha visto?”
“No. Ma non è sicuramente stato un essere umano.”
Brenda e Barbara lo fissarono, troppo sconvolte per parlare. Era chiaro che Rebecca era stata attaccata da una specie di bestia mostruosa, ma di che genere? Esisteva un essere pericoloso ad Amtara, che aggrediva Gnomi, insegnanti e Streghe? Possibile che nessuno l’avesse mai visto? Poteva davvero trattarsi di Posimaar, sotto mentite spoglie? Il fatto che avesse attaccato Rebecca non lasciava adito a dubbi, ma era molto strano che avesse aggredito anche Alvis e la professoressa Rudolf.
Garou cominciò ad avviarsi verso Amtara, con il corpo di Rebecca tra le braccia. Il suo corpo possente non dava segni di cedimento, sotto il peso della ragazza.
Camminò velocemente e le gemelle gli trotterellavano dietro, tenendo il passo. Era una fortuna che avessero deciso di andare alla ricerca di Rebecca, invece che tornare a scuola. Se non l’avessero fatto, ora la loro amica sarebbe morta. Ed era una fortuna che il professor Garou sapesse il fatto suo.
Barbara represse un singhiozzo. Brenda le afferrò la mano, sorridendole dolcemente.
“Se la caverà, vero?” – mormorò con le lacrime agli occhi.
“Rebecca è forte. Ce la farà.”
Abbandonarono le sponde del fiume, addentrandosi nella foresta.
In quel momento, nel punto esatto dove poco prima avevano adagiato il corpo ferito di Rebecca, una figura imponente, appena uscita dalle acque del fiume Silos, respirava affannosamente. Si attardò solo qualche istante, respirando l’odore del sangue sparso sull’erba.
Poi, veloce come un gatto, camminò verso la foresta, in direzione opposta a quella di Garou e delle gemelle.

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Capitolo 20
*** Rivelazioni ***


Rebecca aprì gli occhi. Si trovava in infermeria, con la gamba completamente bendata.
La luce del giorno filtrava leggermente dalle tende oscuranti alle finestre. Doveva essere mattina inoltrata.
Provò a muoversi, ma digrignò i denti per il dolore alla gamba. C’era mancato poco che quel mostro gliela staccasse e se non fosse stata soccorsa, probabilmente sarebbe accaduto davvero.
Con la mente annebbiata, cercò di ricordare gli ultimi avvenimenti. La lotta in acqua contro il suo aggressore, il morso terribile alla gamba, il tentativo disperato di restare a galla, la lotta furiosa contro chi stava cercando di ucciderla. Poi ricordò che qualcuno era venuto in suo aiuto, afferrandola per la vita.
Poi, il nulla. Doveva essere svenuta e qualcuno doveva averla portata lì. Ma chi?
“Venite, si è svegliata! Ma vi avverto, solo pochi minuti. Ha bisogno di riposare.”
Rebecca aggrottò la fronte. Era la voce della Anderson.
In quel momento, entrarono Brenda e Barbara, con un sorriso luminoso stampato in faccia.
“Ti sei svegliata, finalmente!” – esclamò Barbara.
Rebecca sorrise, felice di rivederle.
“Come ti senti?” – le chiese Brenda.
“A parte il dolore allucinante alla gamba destra, intendi? Molto bene, grazie.”
Rebecca aveva parlato in tono scherzoso, ma i volti delle due amiche si adombrarono.
“Ehi, perché quelle facce? Sono ancora viva, no?”
“Già, per una serie di fortunate coincidenze, direi.” – replicò Brenda.
Rebecca tornò seria. “Ti riferisci a chi mi ha salvato?”
Aveva un ricordo piuttosto confuso di quanto accaduto, ma ricordava di aver visto qualcuno, sulla riva, mentre era in acqua.
“Siete state voi? Voi eravate lì?”
“Eravamo lì.” – rispose Barbara. “Abbiamo visto la tua testa emergere dall’acqua, per una frazione di secondo. Ma non siamo state noi a tirarti fuori dall’acqua, Rebecca.”
Rebecca alzò le sopracciglia. “E allora chi è stato?”
“Il professor Garou.”
Rebecca spalancò gli occhi. “E’ stato Garou?! E che ci faceva lì?”
“E’ stato un caso. Si aggirava nei dintorni, quando l’abbiamo visto. Gli abbiamo detto che eri in acqua e lui non ha esitato un attimo e si è tuffato.”
Rebecca era come ipnotizzata. “Garou mi ha salvato la vita…” – mormorò, cercando di imprimere nella mente la verità sconvolgente di quelle parole.
“Ascolta, Rebecca.” – disse Brenda in tono pratico. “La Anderson ci concede solo pochi minuti, ma abbiamo bisogno di sapere. Che è successo laggiù al fiume? Quando siamo arrivate eri già in acqua.”
Rebecca la guardò. Prese un profondo respiro, prima di rivivere con la mente quei terribili momenti. “Ero sulla riva. Poi qualcuno mi ha dato una spinta. Non ho visto chi fosse. Sono caduta in acqua e lui si è tuffato subito dopo di me. Poi ha cominciato ad aggredirmi sott’acqua.”
“Quindi non l’hai visto?” – domandò Barbara, con gli occhi spalancati.
Rebecca scosse la testa. “Come è riuscito a salvarmi?” – chiese, ansiosa di conoscere ogni dettaglio.
“Ti ha presa e ti ha riportata a riva.” – rispose Barbara semplicemente.
“E il mio aggressore?”
“Svanito nel nulla. Garou crede che sia scappato quando lui si è tuffato.”
Rebecca abbassò gli occhi, depressa. Aveva sperato che qualcuno fosse riuscito a scoprire chi l’aveva attaccata, ma evidentemente il loro nemico era più astuto di quanto pensasse.
“Da quanto tempo sono qui?”
“Qualche giorno.” – rispose Brenda. “La Anderson dice che la ferita è grave. Sei fuori pericolo, naturalmente, ma ci vorrà tempo.”
“Ci siamo spaventate a morte.” – aggiunse Barbara, in tono tetro. “Stavolta ho creduto davvero che non ce l’avresti fatta.”
“Mi dispiace. E’ tutta colpa mia.” – sussurrò Rebecca, affranta.
“Che ci facevi lì?” – le domandò Brenda, non riuscendo a trattenersi. “Quando abbiamo salvato Alyssa sei sparita. Dove sei andata?”
Rebecca la guardò negli occhi. “Immagino che tu lo sappia.”
Brenda fece una smorfia. “A cercare Morgana, dico bene?”
Rebecca annuì, piano.
“Ma perché?”
“Perché quando Alyssa è caduta nel fiume, lei si è volatilizzata nel nulla. Volevo scoprire dove fosse andata.”
Brenda sospirò. “Sei ossessionata da lei.”
“Nemmeno a te è mai andata a genio, mi pare.”
“Sì, ma io non sono la Prescelta che Posimaar sta cercando. Devi ammettere che la tua fuga improvvisa è stata quantomeno sconsiderata.”
Brenda aveva alzato la voce, senza volerlo. Non ce l’aveva con lei, ma Barbara aveva detto la verità. Stavolta si erano spaventate a morte e avevano davvero creduto che Rebecca sarebbe morta. Si era sentita malissimo al pensiero di perderla e doveva farle comprendere la gravità delle sue azioni.
Rebecca tacque, rendendosi conto, solo in quel momento, di quanto fossero state in ansia per lei.
“Dubito che Garou si sarebbe accorto di te, se non lo avessimo avvisato.” – rincarò Brenda. “Ed è stato un puro caso che io e Barbara siamo arrivate proprio nel momento in cui la tua testa è riaffiorata dall’acqua. Se non ti avessimo visto, probabilmente ce ne saremmo andate.”
Rebecca abbassò la testa. “Mi dispiace. Mi sono comportata come un’idiota.”
Brenda sospirò amaramente. Era felice di rivederla, ma lei e Barbara avevano passato momenti terribili.
“Amtara non è più un posto sicuro, Rebecca, tantomeno per te.” – riprese, in tono più dolce. “Finchè non si verrà a capo di questa storia, non puoi andartene in giro da sola come se niente fosse. Io e Barbara ci siamo ripromesse di starti accanto e di proteggerti, ma tu non puoi fare continuamente di testa tua.”
Rebecca sospirò. “Lo so. Hai ragione.” – ammise.
Sapeva che le volevano bene come ad una sorella e se Brenda le aveva parlato con quel tono era solo per la paura di perderla.
“Avevo sperato che almeno voi o Garou foste riusciti a vederlo. E invece siamo di nuovo in alto mare…”
“Sai, credo che molto presto lo scopriremo.” – disse Barbara. “La Collins è sul piede di guerra.”
“Ha saputo tutto, immagino.”
“Oh sì. Ed è fuori dai gangheri. Stanno succedendo troppe cose tutte insieme, quest’anno ad Amtara. Prima Alyssa che cade nel fiume, poi tu…”
“A proposito di Alyssa, come sta?” – chiese Rebecca.
“Bene, si è del tutto ripresa.” – rispose Brenda.
“Ne sono felice.”
“Credo anche che voglia parlare con te, sai?” – le disse Barbara, divertita.
Rebecca inarcò un sopracciglio. “Cos’è che ti diverte tanto?”
“Il fatto che non mi vorrei perdere la vostra conversazione per niente al mondo.”
“E perché?”
“Beh, non è chiaro? Alyssa si sentirà tremendamente in colpa nei tuoi confronti. Verrà da te in ginocchio sui ceci ad implorare il tuo perdono.”
Rebecca incurvò le labbra in una smorfia. “Se non fossi immobilizzata in questo letto, ti prenderei a pugni.”
Barbara sghignazzò. “Guarda che non scherzo! Devi vedere com’è cambiata con me e Brenda, da quando le abbiamo fatto la respirazione bocca a bocca e il massaggio cardiaco!”
“A proposito, dove avete imparato a farlo? Siete state semplicemente grandiose.”
“Abbiamo fatto un corso, molto tempo fa. Papà ha insistito tanto. A dire il vero, io non ero molto entusiasta, ma alla fine devo dire che è stato utile.”
“Già. Molto utile.”
“Avevo detto solo pochi minuti!”
Sobbalzarono tutte e tre al suono improvviso della voce della Anderson, che entrò a passo di marcia, spingendo verso la porta Brenda e Barbara con aria minacciosa.
Di fronte alle loro facce contrite, Rebecca rise.
“Ci vediamo, Rebecca!” – la salutò Barbara da lontano, sconsolata.
Rebecca le fece un cenno con la mano, continuando a ridere.
 
Trascorse una giornata molto noiosa. Ora che aveva ripreso i sensi, stare inchiodata in quel letto senza potersi muovere era a dir poco snervante. Provò più volte a dormire ma il sonno non arrivava e la cosa non le dispiacque più di tanto. Se avesse dormito durante il giorno, molto probabilmente avrebbe trascorso la notte in bianco, rimuginando su Morgana e su tutto quello che era successo.
L’infermiera Anderson compariva, di tanto in tanto, per somministrarle una pozione calmante per il dolore alla gamba. Ma, per la maggior parte del tempo, la lasciava sola con i suoi pensieri, dedicandosi agli altri pazienti dell’infermeria. Rebecca avrebbe tanto voluto chiederle di poter ricevere un’altra visita da Brenda e Barbara, ma sarebbe stato inutile. La Anderson era irremovibile quando si trattava dei suoi pazienti che, a suo dire, avevano costante bisogno di riposo e di tranquillità. Rebecca pensava che se avesse continuato con il riposo, avrebbe finito per morire comunque.
Di noia.
Tuttavia, prima di cena, ricevette una visita inaspettata.
La Collins e il professor Garou entrarono nella stanza, con sua grande sorpresa.
“Finalmente ti sei svegliata, Bonner.” – le disse la preside, sedendo accanto a lei. “Ci hai fatto stare molto in pensiero. Come ti senti?”
Garou rimase in piedi, dietro di lei, e le sorrideva.
Rebecca arrossì, distogliendo lo sguardo. Sapeva che era stato lui a tirarla fuori dall’acqua e avrebbe voluto ringraziarlo, anche se avrebbe preferito farlo senza la presenza della Collins.
“Meglio, professoressa. Anche se la gamba…insomma…fa male.”
“L’infermiera Anderson dice che sei viva per miracolo.”
Rebecca non rispose. La Collins sapeva che era andata a cercare Morgana?
Sentì gli occhi di Garou su di sé e si mosse leggermente sul letto, a disagio. Avrebbe tanto voluto parlare da sola con lui, senza dover rispondere alle domande che la preside, probabilmente, era in procinto di farle.
La Collins sospirò. “Ormai sono parecchi mesi che una terribile minaccia incombe su questa scuola. Ma siamo stati fortunati. La professoressa Rudolf si è salvata, e anche tu. Avrei voluto poter dire lo stesso del nostro povero Alvis…”
Rebecca aggrottò la fronte. Dunque, la preside era convinta che il responsabile delle aggressioni fosse la stessa persona.
Stava pensando a Posimaar? Se così era, non lo disse.
“Il professor Garou mi ha raccontato quello che è successo al fiume.”
Rebecca aprì la bocca per parlare, ma la preside l’anticipò.
“Ho parlato anche con la signorina Winters.”
Rebecca inarcò un sopracciglio. “Winters?”
“Alyssa Winters.” – precisò la Collins.
Rebecca annuì. La preside indubbiamente voleva dei chiarimenti. Sapeva che lei e le gemelle avevano salvato la vita della ragazza e probabilmente si stava chiedendo per quale motivo Rebecca non era rientrata a scuola insieme alle altre, e si trovava invece in prossimità del fiume.
Dall’espressione grave della preside, capì che era proprio così. Voleva sapere tutto e non se ne sarebbe andata da lì senza aver fatto luce su quella vicenda, nemmeno se la Anderson avesse cercato di trascinarla via con la forza.
“Sono qui, Bonner, perché voglio sapere cos’è successo quel pomeriggio. Voglio sapere che ci facevi lì a quell’ora e come sei finita in acqua.”
Rebecca lanciò un’occhiata a Garou, che annuì incoraggiante.
“Professoressa, lei…lei sa già quello che è successo ad Alyssa, non è vero?”
“Sì, Bonner. So che è accidentalmente caduta in acqua e che ti sei tuffata subito per salvarla. So che non è stato facile, ma sei riuscita a riportarla a riva. E so che le gemelle Lansbury l’hanno rianimata. Sappi che sono estremamente orgogliosa di voi tre, e soprattutto di te. Sei stata incredibilmente coraggiosa a tuffarti per salvarla. Avresti potuto morire, ma non ci hai pensato due volte.”
Rebecca arrossì, in imbarazzo. “Ho fatto quello che chiunque altro avrebbe fatto.”
“Io non ne sarei così sicura, ma non è di questo che voglio parlare, ora. Perché ti sei allontanata da sola?”
Rebecca abbassò gli occhi. Ecco, era arrivato il momento cruciale.
Spostò lo sguardo sulle mani che stringevano il lenzuolo, le labbra serrate in una smorfia quasi dolorosa. Doveva dire la verità.
“Professoressa, quando Alyssa è caduta in acqua, Morgana è sparita. Così, quando mi sono resa conto che Alyssa era ormai fuori pericolo, sono andata a cercarla.”
La preside spalancò gli occhi. “A cercarla. Ma perché?”
“Perché non si può scappare proprio quando una tua amica è in pericolo di vita.”
Ecco, l’aveva detto.
La preside si voltò verso Garou e i due si scambiarono un’occhiata.
“Non siete mai andate molto d’accordo, tu e Morgana, non è così?”
“Questo non c’entra niente.”
“Bonner, non è un bene per te andartene in giro da sola, specialmente lontano da Amtara e al tramonto.”
Rebecca sospirò. Erano le stesse parole che aveva usato Brenda. Pur sapendo di aver sbagliato, cominciava a darle sui nervi continuare a sentirselo dire.
“So di aver commesso un’imprudenza, ma…”
“Hai commesso molto più di un’imprudenza. Forse non ti rendi conto che se non fosse stato per il professor Garou, e per le gemelle Lansbury, ora saresti morta.”
Rebecca non rispose, sentendosi nuovamente avvampare. Sentiva lo sguardo di Garou su di sé e si domandò cosa stesse pensando. Probabilmente era d’accordo con la Collins e lei non poteva dargli torto. In fondo, lui stesso aveva rischiato la vita per salvarla. Se il mostro avesse aggredito anche lui, probabilmente sarebbero morti entrambi.
La Collins prese un profondo respiro, cercando di placare la rabbia. “Ad ogni modo, cos’è successo al fiume?”
“Io… stavo camminando, poi mi sono fermata sulla riva e qualcuno mi ha spinto in acqua.”
“Hai visto chi è stato?”
“No.”
La preside annuì. “Immagino tu abbia passato dei momenti terrificanti in acqua.”
Rebecca fu sul punto di scoppiarle a ridere in faccia. Terrificante non era il termine esatto per definire qualcuno che ti strappa a morsi la carne viva dal corpo, cercando di trascinarti sott’acqua e farti annegare. Aveva attraversato l’inferno e ne era uscita viva, quella era la definizione più appropriata.
“Eppure, mi domando come sia possibile che tu non l’abbia visto. Voglio dire, hai lottato in acqua contro di lui e sono sicura che c’era ancora luce sufficiente per poterlo vedere in faccia.”
Rebecca la fissò. “No, professoressa. La persona, o la cosa che mi ha aggredito, non è mai uscita dall’acqua.”
La Collins sgranò gli occhi. “Com’è possibile?”
“Le sto dicendo la verità. Sono riuscita a riemergere un paio di volte, riprendendo fiato, prima che mi spingesse nuovamente sott’acqua. Ma lui non è mai riaffiorato.”
“Ma per quanto tempo siete stati là sotto?”
“Non lo so. Parecchio tempo, credo.”
“Ragiona, Bonner, nessuno può rimanere sott’acqua tanto a lungo e riuscire a sopravvivere.”
“Nessuno, tranne lui.” – replicò Rebecca, freddamente, un po’ infastidita.
Si fissarono per alcuni istanti.
Rebecca sapeva che la Collins si stava domandando se Posimaar avesse anche quel dono, tra i tanti di cui non erano a conoscenza.
La preside sospirò. “E’ una fortuna che non abbia attaccato anche te, Joseph.” – mormorò.
Garou sorrise. “Avrebbe avuto pane per i suoi denti, comunque.”
La Collins si voltò a guardarlo. “La tua fiducia in te stesso è disarmante.”
Garou strinse le labbra. “Ad ogni modo, non dobbiamo più preoccuparcene. Rebecca è salva.”
“Certo, per ora. Ma il nemico non è stato catturato. Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere ovunque.”
Rebecca si agitò inquieta nel letto. “Lei…lei crede sia ancora nei paraggi?”
“Abbiamo cercato ovunque, ma non abbiamo trovato niente. O è bravissimo a nascondere le sue tracce, oppure si è allontanato. Ma, personalmente, propenderei più per la prima ipotesi.”
Il cuore di Rebecca accelerò.
“Sta tranquilla, Bonner.” – disse la Collins, avvertendo la sua agitazione. “Ho aumentato la sorveglianza. Nessuno si avvicinerà a te.”
Rebecca avrebbe tanto voluto crederle, ma aveva i suoi dubbi. Posimaar era incredibilmente astuto e possedeva mezzi che loro non conoscevano.
In quel momento, la Anderson entrò con un vassoio.
“Professoressa, mi scusi, ma è ora di cena.”
La preside si alzò. “Sì, certo. Stavamo andando via.” Si voltò di nuovo verso Rebecca. “Cerca di rimetterti presto, Bonner. E…sono felice che tu stia bene.”
“Grazie, professoressa.”
La Collins si avviò verso la porta, mentre la Anderson appoggiava il vassoio sul comodino accanto al letto.
Garou esitò un istante. Si avvicinò al letto, le prese una mano fra le sue e la strinse.
Rebecca lo guardò, senza dire nulla, con le lacrime agli occhi.
Garou le sorrise di nuovo. Poi le lasciò la mano e raggiunse la preside.
Quando furono usciti, Rebecca distolse lo sguardo dalla Anderson.
Non voleva che la vedesse piangere.

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Capitolo 21
*** Alyssa ***


Fu una notte orribile per Rebecca. Si agitò nel letto, sognando di essere sott’acqua, mentre Posimaar la trascinava a fondo, sempre di più…sempre di più… Tratteneva il fiato, ma il petto le faceva un male cane. Non avrebbe resistito a lungo. Cercò di dibattersi furiosamente, ma il Demone aumentò la sua presa. Non aveva scampo, ormai e le mancava il respiro. Aveva un disperato bisogno d’aria.
Aprì la bocca e inalò. I polmoni si riempirono d’acqua e, lentamente, perse conoscenza. Era così dolce il tepore della morte. Ora tutto era calmo e non sentiva più dolore.
Si svegliò di soprassalto, mettendosi a sedere sul letto e stringendo i denti per il dolore alla gamba, che aveva mosso d’istinto per tirarsi su. Respirava affannosamente e piccole gocce di sudore le imperlavano il viso.
Era stato solo un sogno, ma terribilmente realistico. Quello era ciò che sarebbe successo, se Garou non fosse venuto a salvarla.
Cercò di calmare il respiro e afferrò il bicchiere d’acqua che la Anderson le aveva lasciato sul comodino. Lo bevve tutto d’un fiato. L’infermeria era immersa nel silenzio. Doveva essere notte fonda. Si riadagiò sul cuscino e cercò di riaddormentarsi.
Quando si svegliò, era mattina inoltrata. Accanto a lei, il vassoio con la colazione. Evidentemente, la Anderson non aveva voluto svegliarla.
Lanciò un’occhiata all’invitante piatto di uova strapazzate e prosciutto, e al bicchiere di succo d’arancia, ma non aveva fame. Il sogno le aveva messo addosso un’inquietudine che non riusciva a scrollarsi di dosso, nemmeno dopo aver dormito.
Dov’era ora, Posimaar?
Voltò la mano destra e si guardò il polso. Aveva promesso alla Collins che non avrebbe usato il suo Potere e per il momento era riuscita a mantenere la promessa. Certo, lei e Brenda avevano ragione, non era stata una mossa azzeccata quella di allontanarsi da sola. La preside era in pena per lei e, ora più che mai, temeva per la sua incolumità, soprattutto ora che il Demone l’aveva attaccata apertamente ad Amtara. Non ne avevano parlato, ma Rebecca sapeva che anche la preside era convinta che si trattasse di lui.
La porta si aprì e Brenda e Barbara entrarono.
“Voi che ci fate qui?” – chiese, inarcando un sopracciglio.
“Anche noi siamo felici di vederti, Rebecca.” – rispose Barbara, con una punta di sarcasmo.
“Non dovreste essere a lezione?”
Non aveva idea di che ora fosse, ma sicuramente non era mattino presto.
“Abbiamo un’ora libera.” – rispose Barbara, sedendosi sul letto. “La Poliglotter non si sente molto bene e non c’è nessuno che la sostituisce.”
“E tu sei molto dispiaciuta, immagino.”
“Sono affranta, come puoi vedere.”
“Comunque siamo qui per un buon motivo.” – disse Brenda.
“E quale?”
“Non indovinerai mai!” – esclamò Barbara, ridacchiando.
“Spara.”
“Ieri sera, del tutto casualmente, siamo passate accanto alla porta della stanza di Morgana.” – disse Brenda.
“Del tutto casualmente?” – rimarcò Rebecca, con un sopracciglio inarcato.
“Beh… abbiamo sentito delle voci e ci siamo avvicinate.”
“In altre parole, avete origliato.”
“La vuoi sentire questa cosa, sì o no?” – sbottò Brenda, spazientita.
“D’accordo, d’accordo. Vai avanti.”
“Morgana stava parlando con Margaret, Viola e Alyssa.”
“E crediamo di non aver mai sentito nessuno così arrabbiato come lei!” – aggiunse Barbara.
“Morgana era arrabbiata?”
“No! Alyssa!”
Rebecca strabuzzò gli occhi. “Alyssa era arrabbiata? E con chi?”
“Con Morgana, naturalmente!” – rispose Barbara, ridacchiando.
“Stava dicendo che Morgana si è comportata malissimo con Rebecca Bonner.” – spiegò Brenda. “E che lei è viva solo grazie a Rebecca e alle gemelle Lansbury.”
“Davvero?” – mormorò Rebecca, incredula.
“E non è finita qui.” – aggiunse Barbara. “Morgana… Oh, che il diavolo se la porti! Morgana, quella sfacciata, ha avuto il coraggio di risponderle che anche se fosse morta non le sarebbe importato un accidenti!”
Rebecca la fissò. “Stai scherzando.”
“Assolutamente no.”
“Non può essere vero. Non può aver detto una cosa del genere. Alyssa è sua amica.”
“Oh, credimi! Qualunque cosa sia Alyssa per lei, di certo non è un’amica.”
“L’abbiamo sentito con le nostre orecchie, Rebecca.” – confermò Brenda. “Puoi crederci.”
“Ma…è una cosa orribile da dire! A chiunque!”
Brenda e Barbara si strinsero nelle spalle.
Non poteva credere che Morgana avesse detto una cosa del genere ad Alyssa, che era sempre stata dalla sua parte.
“Poi ne è nata una discussione senza fine.” – continuò Barbara. “Alyssa diceva che se non fosse stato per noi, lei sarebbe morta, mentre Morgana l’aveva abbandonata. Morgana ha risposto che non si era accorta che lei era caduta in acqua, altrimenti non se ne sarebbe certo andata, ma ormai Alyssa, dopo aver sentito le sue parole, non voleva più nemmeno starla a sentire.”
“Come darle torto?” – mormorò Rebecca.
“Margaret e Viola sono intervenute nella discussione, più che altro per calmare Alyssa, che era letteralmente fuori di sé. Dovevi sentirla, era una furia. Credo che le sue grida le abbiano sentite perfino gli Gnomi giù in cucina.”
“Poi che è successo?”
“Alyssa ha detto chiaro e tondo a Morgana che, per quanto la riguardava, la loro amicizia finiva lì.”
“Dici sul serio?”
“Altroché!”
“E Morgana come ha reagito?”
“Non ha fatto in tempo a dire niente. Alyssa ha aperto la porta e se n’è andata.”
Rebecca sgranò gli occhi. “E vi ha scoperto?” – domandò, con apprensione.
“No, ma c’è mancato un pelo. Siamo corse a nasconderci appena in tempo.”
Rebecca rifletteva su quello che aveva appena sentito. La reazione di Alyssa era più che normale, soprattutto dopo quello che Morgana aveva avuto il coraggio di dirle. Alyssa era in debito con loro e lo sapeva. E, forse per la prima volta, aveva capito di che pasta fosse fatta Morgana. A lei non importava di niente e di nessuno. L’unica persona al centro del suo universo era se stessa. Il suo mondo iniziava e finiva lì.
“E allora, che te ne pare di questo succoso racconto?” – le chiese Barbara, con un sorrisino divertito.
“La reazione di Alyssa mi sembra del tutto normale. Ma ancora non riesco a credere a quello che Morgana ha avuto il coraggio di dirle.”
“Quella è una vera arpia, credi a me.”
“Non le importa di niente e di nessuno se non di se stessa.” – disse Brenda. “Non è amica di quelle ragazze, le usa soltanto.”
“Sarebbe ora che anche Margaret e Viola aprissero gli occhi.” – commentò Barbara.
“A questo punto, credo che lo faranno presto.” – rispose Brenda.
“E a quel punto, l’unico suo riferimento qui ad Amtara sarà Clio.” – disse Rebecca.
“Bell’affare. Avere un fantasma per amico.” – ironizzò Barbara.
“Comunque, come ti senti oggi?” – le chiese Brenda.
Rebecca ripensò all’incubo di quella notte. Si sentiva uno straccio, ma decise di non farne parola con loro. Non aveva voglia di parlare ancora di Posimaar.
“La ferita là sotto comincia a pizzicare un po’.” – rispose.
“Credo sia un buon segno.” – disse Barbara. “Ho sentito dire che quando succede, significa che è in via di guarigione.”
“Davvero, dottoressa?” – la canzonò Rebecca.
“Davvero.” – rispose Barbara, facendole la linguaccia.
Rebecca sapeva che era euforica perché aveva appena saltato la materia che meno amava. E anche perché, Rebecca era pronta a scommetterci, Alyssa aveva finalmente dato il benservito a Morgana. Era solo questione di tempo, prima che lo facessero anche Margaret e Viola, sempre che non l’avessero già fatto.
“Come mai non hai mangiato?” – le chiese Barbara, guardando il vassoio intatto sul comodino.
“Non ho fame stamattina.”
“Ma devi mangiare, Rebecca. O non ti rimetterai.” – protestò Brenda.
“Me ne sto qui seduta tutto il giorno, senza fare niente. E’ un po’ difficile che mi venga fame.”
“Beh, devi sforzarti comunque.”
“Sei sicura di sentirti bene, oggi?” – le chiese Barbara, scrutandola con sospetto.
“Sono solo stanca di stare qui dentro.” – rispose, evasiva.
Non aveva dormito per niente bene ed era sicura di avere una faccia spaventosa.
“Piuttosto, sapete chi è venuto a trovarmi ieri pomeriggio?” – disse in fretta, per cambiare discorso.
“Chi?”
“La Collins e Garou.”
“Insieme?” – domandò Barbara.
“Insieme.”
“La Collins ti avrà fatto il terzo grado.”
“Più o meno. Me l’aspettavo, comunque. Voleva sapere che ci facevo al fiume a quell’ora.”
“E tu cosa le hai risposto?” – chiese Brenda.
“La verità. Che mi ero allontanata per cercare Morgana.”
“E lei?”
Rebecca sospirò. “E lei mi ha detto più o meno le stesse cose che mi hai detto tu.”
Brenda tacque, cercando di nascondere il suo compiacimento. Era lieta di sapere che la preside la pensava come lei.
“Lei hai detto che sei stata spinta in acqua?” – la incalzò Barbara.
“Sì. Credeva che fossi riuscita a vederlo, ma le ho detto di no. È rimasta anche sorpresa quando le ho raccontato che lui non è mai emerso dall’acqua, per tutto il tempo.”
“Come mai?”
“Beh, perché mi pare evidente che nessuno è in grado di trattenere il fiato tanto a lungo, senza morire annegato.”
“Quindi, secondo te, potrebbe trattarsi di Posimaar.”
“Sono sicura che anche la Collins lo pensa.”
Le gemelle tacquero, un po’ spaventate da quella constatazione.
“E lei che ha intenzione di fare, ora?” – domandò Brenda.
Rebecca alzò le spalle. “Ha rafforzato la sorveglianza. Ma nessuno di noi l’ha visto. Non sappiamo che aspetto abbia, né dove si sia cacciato. La Collins non crede se ne sia andato, secondo lei è solo maledettamente bravo a nascondersi.”
“Grandioso.” – mormorò Barbara. “Ora sì che ci sentiamo tutti meglio.”
“Tu come stai?” – le chiese Brenda.
Rebecca la fissò. Cosa avrebbe dovuto rispondere? Che si era appena svegliata da un incubo? Che non riusciva più a dormire sonni tranquilli?
“Bene.” – rispose, evitando il suo sguardo.
Brenda la fissò, con aria scettica, ma non disse nulla.
“Che ti ha detto Garou?” – le domandò Barbara.
“Niente. Ha parlato la Collins, tutto il tempo. Poi, prima di uscire, lui mi ha stretto la mano. Non c’è stato bisogno di parole.”
Barbara e Brenda annuirono. Solo un anno prima, Rebecca aveva salvato la vita a Garou. Ora, lui si era sdebitato allo stesso modo. Erano pari. Se in principio Rebecca l’aveva detestato, ora un legame speciale li univa.
“E voi cosa ci fate qui?” – gridò la Anderson, comparendo all’improvviso e facendo sussultare Brenda e Barbara.
“Che accoglienza, stamattina, qui dentro.” – commentò Barbara a bassa voce.
Rebecca ridacchiò.
“Non avete lezione?” – chiese la Anderson, avvicinandosi al letto di Rebecca.
“Avevamo un’ora libera, infermiera Anderson.” – rispose Brenda. “Ma ora ce ne andiamo.”
“Ragazza mia, cos’è questa storia?” – esclamò la Anderson rivolta a Rebecca, indicando il vassoio. “Non hai mangiato niente.”
“Mangerò a pranzo.” – rispose Rebecca, che non aveva per niente fame.
La Anderson sbuffò. “Devi mangiare, o la ferita non guarirà più. Su, forza, andate, voi! L’orario di visite è finito!”
Brenda e Barbara fecero un cenno di saluto a Rebecca, che le guardò uscire, rammaricata. Avrebbe tanto voluto stare in loro compagnia ancora un po’. Invece, l’unica compagnia che le rimase fu quella della Anderson, che portò via il vassoio, blaterando che le avrebbe subito portato il pranzo e non se ne sarebbe andata da lì fin quando Rebecca non avrebbe finito di mangiare tutto, fino all’ultima portata.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 22
*** Chiarimenti ***


 
I giorni passavano e Rebecca cominciava ad averne abbastanza di stare a letto. L’infermiera Anderson le medicava la ferita alla gamba due volte al giorno e, prima di dormire, aveva cominciato a darle da bere un intruglio dall’orrendo sapore di cavolo bruciato. Diceva che avrebbe accelerato la guarigione ed evitato eventuali infezioni. La ferita era molto profonda e c’era il serio rischio che si potesse infettare, specialmente una volta tolte le bende.
Rebecca, che faceva una gran fatica a mandare giù la disgustosa bevanda, chiese se non fosse possibile aggiungere un po’ di zucchero, ma la Anderson inorridì, affermando senza mezzi termini che lo zucchero avrebbe annullato il potente effetto miracoloso. Senza capire in che modo una puntina di zucchero avrebbe potuto avere effetti tanto disastrosi, Rebecca si impegnava ogni sera, con diligenza, a trangugiare il contenuto del bicchiere, senza fiatare. Del resto, la Anderson non accennava ad andarsene fino a che lei non svuotava il bicchiere, per accertarsi che il prezioso contenuto non finisse altrove.
Era, quindi, più che naturale che Rebecca non vedesse l’ora di essere dimessa e la bevanda serale non era l’unico motivo. Non avrebbe mai pensato di poterlo anche solo pensare, ma la vita scolastica le mancava. Sorrise tra sé pensando alla faccia che avrebbe fatto Barbara se solo l’avesse sentita dire una cosa simile, ma era la verità. Perfino le lezioni della Poliglotter sarebbero state preferibili a quelle tediose giornate a letto senza potersi muovere. Chi l’aveva aggredita aveva fatto un ottimo lavoro ed era quasi riuscito nel suo intento. Se il professor Garou non fosse intervenuto, Rebecca era convinta che avrebbe rischiato di perdere la gamba.
Era strano. La sua vita era sempre stata Bunkie Beach. Amtara non era che un tunnel che l’avrebbe condotta verso l’ignoto. Forse, proprio perché quell’ignoto la spaventava tanto, si stava in qualche modo affezionando al tunnel. Eppure, probabilmente, stava rischiando di più la vita ad Amtara di quanto non avrebbe fatto fuori di lì, una volta assegnata ad un Protetto.
Brenda e Barbara andavano a trovarla tutti i giorni, anche se le loro visite non duravano mai più di mezz’ora, grazie alla disciplina ferrea della Anderson che si premurava, come un orologio svizzero, di mandarle via una volta scaduto il tempo. Le raccontavano le loro giornate, anche se non c’era molto da dire, ma Rebecca, se non altro, aveva qualcuno con cui parlare e sfogare un po’ la sua frustrazione. Le mancava anche la sua camera, dove non aleggiava quel fastidioso odore di medicinale con cui conviveva tutti i giorni da settimane.
Aprile prese il posto di marzo e ad Amtara arrivò la primavera. Gli alberi in giardino cominciarono a fiorire e qualche margherita spuntava qua e là sui prati lungo il fiume.
Rebecca aveva ormai perso il conto del tempo che aveva passato in infermeria. Non passava giorno senza che chiedesse alla Anderson quanto ci sarebbe voluto, ancora, prima che potesse alzarsi da quel dannato letto. L’infermiera le dava sempre la stessa risposta. Le sue pozioni e i suoi medicamenti avevano bisogno di tempo per agire, ma tutto dipendeva anche dalla sua volontà di tornare a camminare.
Rebecca non capiva. Non c’era cosa al mondo che desiderasse di più che scendere da quel letto e stare in piedi sulle proprie gambe. Decise che avrebbe ricominciato a mangiare di più, nonostante la sua costante carenza di appetito. Ne aveva abbastanza di rimanere lì e avrebbe fatto tutto il necessario per essere dimessa il prima possibile.
Un mattino, Alyssa andò a trovarla. Era sabato e Rebecca stava mangiucchiando, un po’ di malavoglia, un pezzo di pane imburrato. La Anderson aveva notato che, ora, il vassoio veniva sempre svuotato diligentemente, prima che lei lo portasse via. Rebecca aveva seguito le sue istruzioni e mangiava di buon appetito.
“Disturbo?” – chiese Alyssa, facendo capolino dalla porta.
“Vieni, entra pure.”
“Stai mangiando. Posso tornare più tardi, se vuoi.”
“No, figurati. Tanto ho quasi finito. Almeno ho qualcuno che mi tiene compagnia.”
Era un po’ stupita di vederla lì. L’ultima volta che si erano viste, era il giorno in cui l’aveva tratta in salvo dalle acque del fiume. Da allora, Alyssa non si era più fatta vedere.
Alyssa sedette sulla sedia accanto al letto, tenendo gli occhi bassi.
Rebecca, intuendo il suo imbarazzo, pensò di incoraggiarla. “Come stai? E’ da un po’ che non ci vediamo.”
Le labbra di Alyssa si incresparono in un sorriso. “Beh, considerata la situazione, dovrei essere io a chiederlo a te.”
“Sto bene. Penso che la Anderson tra un po’ mi aiuterà a scendere da questo letto, per vedere se la mia gamba funziona ancora.”
“Ti fa tanto male?”
“Il peggio è passato, ormai.”
Alyssa esitò. “Tu…non sai chi è stato a farti questo?”
“No. Non sono riuscita a vederlo, l’acqua era torbida e io troppo impegnata a cercare di sopravvivere.”
“Capisco…”
“Tu ti sei ripresa, vedo.”
“Sì. Sto bene, ed è tutto merito tuo.”
“Mio e di Brenda e Barbara.”
“Sì, sono state fantastiche.”
Alyssa la guardò, poi abbassò di nuovo gli occhi.
Rebecca ebbe la netta sensazione che volesse dirle qualcosa, ma non trovava il coraggio di farlo.
“Senti, sono venuta qui per chiederti scusa.” – disse, infine.
Rebecca aggrottò la fronte. “Per cosa?”
“Per tutto quello che noi e Morgana ti abbiamo fatto, per averti trattato malissimo e riso di te. Mi sono comportata da vera idiota.”
“Ti stai scusando solo a nome tuo, o anche a nome delle altre?”
“Io non parlo a nome di nessuno, se non il mio. Delle altre non m’importa, tantomeno di Morgana.”
“Sei arrabbiata con lei?”
“Diciamo che non siamo più amiche.”
Rebecca tacque. Non voleva farle capire che sapeva della discussione che aveva avuto con Morgana.
“E perché?”
“Questo non ha importanza. Quello che conta, ora, è farti sapere che sono molto dispiaciuta per come mi sono sempre comportata con te.”
“Ascolta, non è il caso…”
“Sì, invece. Credevo fossero mie amiche, ma mi sbagliavo. Mi sono fidata delle persone sbagliate.”
“Sono felice che tu l’abbia capito. Ma voglio che tu sappia che non ho alcun problema nei tuoi confronti. Altrimenti non avrei certo rischiato la vita per venirti a salvare, ti pare?”
Alyssa non rispose, un po’ spiazzata da quelle parole.
Rebecca scoprì che ricevere le sue scuse non era qualcosa di cui le importava. Ricordava molto bene quello che Morgana aveva avuto il coraggio di dirle. Nessuno meritava di essere trattato così. Inoltre, aveva troppe cose a cui pensare, in quel momento della sua vita, per preoccuparsi ancora di Morgana e del suo stupido egocentrismo.
Capì, però, che Alyssa era venuta per parlare e lei l’avrebbe ascoltata, fino in fondo.
“Ho parlato con Morgana.” – le confessò Alyssa, di punto in bianco.
“Riguardo a cosa?”
“Riguardo a te. A come si è sempre comportata con te fin dal primo momento in cui ha messo piede in questa scuola. Le ho detto quello che penso di lei.”
“Non penso, però, che le sia importato molto, o sbaglio?” – azzardò Rebecca.
Alyssa sospirò. “Non sbagli. Ma non m’importa. Le ho detto che sono viva solo grazie a voi, cioè alle stesse persone che lei ha sempre trattato male, senza alcuna ragione. E io con lei.”
“Quindi avete litigato.”
“Sì. E ha avuto il coraggio di dirmi una cosa che non dimenticherò mai, finchè avrò vita.”
“Cioè?” – chiese Rebecca, fingendo di cadere dalle nuvole.
Alyssa alzò lo sguardo su di lei. I suoi occhi lanciavano fiamme. “Che se io fossi morta in quel fiume, non gliene sarebbe importato niente.”
Rebecca decise di recitare la sua parte al meglio delle sue capacità.
Sgranò gli occhi, senza dire nulla.
Alyssa era livida. “Puoi chiedere a Margaret e Viola, se non mi credi. C’erano anche loro.”
“Non ho alcuna ragione per non crederti. Credo di conoscere Morgana abbastanza bene da sapere che è capace di qualunque cosa.”
“Beh, io invece no.” – sbottò Alyssa con le lacrime agli occhi. “Credevo fosse mia amica. Mi fidavo di lei.”
Rebecca tacque, impressionata da quella reazione. Solo ora capiva quanto Alyssa stesse soffrendo.
“Lei non merita la tua amicizia.”
“Lo so.” – rispose Alyssa, tirando su col naso.
“Che è successo, poi?”
“Le ho detto che la nostra amicizia finiva lì, e me ne sono andata.”
“E… Margaret e Viola?”
Alyssa rise, sprezzante. “Quelle due imbecilli continuano a starle dietro.”
“Nonostante quello che ti ha detto?” – mormorò Rebecca, sorpresa.
“Già. Dicono che questa è una questione tra me e Morgana e che loro non hanno niente a che vedere con questo. Stupide idiote.”
Rebecca non poteva che darle ragione. Chiunque sano di mente si sarebbe allontanato da una persona come Morgana. Ma lei sapeva che, a volte, la paura era più forte del buon senso. Rebecca pensava che, forse, le due ragazze, in qualche modo, temevano Morgana e preferivano rimanerle accanto, piuttosto che fare la scelta coraggiosa di Alyssa. Non tutti trovavano il coraggio di restare soli, e preferivano tenere in piedi un rapporto, per quanto malato potesse essere.
“Senti, Alyssa, io sono contenta che tu sia venuta a parlarne con me. Ma penso sia il caso di metterci una pietra sopra e andare avanti, non credi?”
Alyssa annuì. “Brenda e Barbara mi hanno detto la stessa cosa.”
Rebecca inarcò le sopracciglia. “Hai parlato anche con loro?”
“Sì, certo.”
“Non lo sapevo.”
“Anche loro sono state molto comprensive con me. Siete delle vere amiche.”
Rebecca sorrise. Finì di mangiare in silenzio, fin quando Alyssa si alzò per congedarsi, promettendo di tornare a trovarla presto.
Quando fu uscita, l’umore di Rebecca era decisamente migliorato.
 
Nel pomeriggio anche Brenda e Barbara andarono a trovarla. A Rebecca faceva un enorme piacere ricevere quelle visite. Non parlava mai con nessuno, se non qualche scambio di battute con la Anderson, il più delle volte riguardo allo stato di salute della sua gamba. Si annoiava a morte e avrebbe tanto voluto che l’infermiera permettesse alle sue amiche di trattenersi più a lungo.
Quel giorno, comunque, non ebbe di che lamentarsi. Dopo la chiacchierata con Alyssa, la Anderson le aveva portato il pranzo e un paio d’ore più tardi arrivarono le gemelle.
Barbara si lasciò cadere sulla sedia accanto al letto, con l’aria distrutta.
Brenda sedette direttamente sul letto, sbuffando.
“Che vi prende, oggi?” – chiese Rebecca, corrugando la fronte.
“Due ore con la Poliglotter.” – borbottò Barbara funerea.
“Di sabato pomeriggio?”
“Già. Siccome manca poco alla fine dell’anno e, secondo lei, siamo indietro con il programma di studio, ha pensato bene di aggiungere due ore di lezione proprio oggi. Ha interrogato tutto il tempo, ti rendi conto?”
“E ti è andata male?”
“Non mi ha chiamata, per fortuna!”
Rebecca allargò le braccia. “Allora qual è il problema?”
“Il problema” – rispose Barbara, chinandosi verso di lei “è che ho passato le due ore più angoscianti di tutta la mia vita!”
Rebecca si voltò verso Brenda, con espressione interrogativa.
Brenda, per tutta risposta, alzò gli occhi al cielo. “Questo non succederebbe se ti applicassi un po’ di più nella sua materia.”
“Io mi applico! Ma non ci capisco un tubo, è quello il problema! Rebecca, ti prego, dimmi che mi capisci, almeno tu…”
“Beh, se proprio devo essere sincera, sono contenta di non essere stata presente, oggi.” – affermò accalorata.
Per quanto le mancassero le lezioni, due ore aggiuntive con la Poliglotter non erano sicuramente in cima alla sua lista dei desideri.
“Dovevi vederla.” – disse Brenda. “Ogni volta che la Poliglotter finiva di interrogare qualcuno, Barbara sprofondava nella sedia cercando di non farsi vedere.”
Rebecca rise.
“C’è poco da ridere.” – sbottò Barbara. “Tu avresti fatto lo stesso.”
“Ha funzionato, comunque, no?” – rispose Rebecca. “Non ti ha interrogata.”
“Sì, ma ho i nervi a pezzi.” – disse Barbara, accasciandosi sulla sedia. “Non è che per caso la Anderson ti deve portare la merenda?”
“Barbara!” – esclamò Brenda.
“Beh, ho fame!”
Rebecca rise ancora. “Di solito non mi porta niente, ma se vuoi posso chiederle qualcosa.”
Barbara stava per rispondere affermativamente, poi lo sguardo glaciale della sorella la indusse a tacere.
“Lascia perdere, mangerò qualcosa più tardi.” – borbottò, delusa.
Rebecca, percependo la tensione nell’aria, decise di cambiare discorso.
“E’ venuta a trovarmi Alyssa, stamattina.”
“Era ora.” – commentò Barbara.
“Perché dici così?”
“Perché è una vita che voleva parlarti, ma non si decideva mai. Ti ha fatto le sue scuse, immagino.”
“Sì e mi ha parlato del litigio con Morgana. Io, ovviamente, ho fatto finta di non sapere nulla.”
“E’ venuta a parlare anche con noi.”
“Sì, me l’ha detto.”
“Si sente in debito con tutte noi.” – aggiunse Brenda.
“Lo so. A quanto pare, invece, Margaret e Viola sono sempre dalla parte di Morgana.”
“Che due idiote.” – commentò Barbara acida.
“Già. Ma, se non altro, ora Morgana ha un’alleata in meno.” – constatò Brenda.
Rebecca la guardò. “Per quello che mi riguarda, Morgana può anche avere dalla sua parte tutta la scuola. Tutto ciò che ha a che fare con lei, da questo momento, non mi riguarda più.”

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Capitolo 23
*** "Deleo Convicium!" ***


Accadde senza alcun preavviso. Una mattina la Anderson svegliò Rebecca più presto del solito e le comunicò che le avrebbe tolto la benda.
Rebecca non riuscì a mandare giù niente dal vassoio della colazione che le portò qualche minuto più tardi, troppo in ansia per mangiare.
Scoprì presto, però, che i suoi timori erano del tutto infondati. Non sapeva se fosse merito dell’intruglio disgustoso che la Anderson la costringeva a bere tutte le sere da settimane, o del fatto che avesse ripreso a mangiare con regolarità o, semplicemente, delle lunghe noiose giornate che aveva trascorso immobile a letto. Qualunque fosse il motivo, Rebecca fu lieta di constatare che le condizioni della sua gamba erano decisamente buone. Laddove la carne era stata strappata, la pelle si era riformata e non rimaneva che una lunga cicatrice rossa che, a detta della Anderson, le sarebbe rimasta per sempre. A Rebecca non importava. La vera sfida, ora, era tornare a camminare.
Con l’aiuto dell’infermiera, appoggiò la gamba a terra, stringendo i denti per il dolore. Erano settimane che non si muoveva e aveva l’impressione che ogni muscolo del suo corpo gridasse vendetta. Ma decise di ignorare il dolore e concentrarsi sul suo obiettivo.
Appoggiò con cautela il peso del corpo sulla gamba, che cedette. La Anderson ebbe la prontezza di sorreggerla con fermezza per le braccia, impedendole di cadere.
Digrignò i denti, sentendosi un peso inerme. Ma non aveva intenzione di darsi per vinta.
Provò e riprovò, con tenacia e costanza, per i giorni a seguire. La Anderson le aveva detto che, se fosse riuscita a recuperare velocemente l’uso della gamba, sarebbe stata dimessa molto presto. E Rebecca aveva una gran voglia di riprendere in mano la sua vita.
Quando la gamba riuscì a sostenere il peso del corpo senza cedimenti, Rebecca ricominciò, lentamente e gradualmente, a camminare, prima con l’aiuto di una stampella e, successivamente, senza alcun sostegno. La Anderson evitava di aiutarla, per accelerare i tempi di guarigione.
E fu proprio così. Due settimane dopo, Rebecca tornò a camminare quasi del tutto normalmente, seppur zoppicando leggermente. La Anderson la dimise, dicendosi felice e orgogliosa dei suoi progressi e del fatto di essere riuscita a farle recuperare completamente l’uso della gamba. Rebecca era stata un osso duro e il suo era uno dei casi peggiori che le erano capitati da quando lavorava ad Amtara. Era la prima volta che la Anderson si era trovata di fronte ad una ferita del genere ma, naturalmente, non ne aveva fatto parola con nessuno, se non con la preside. La Collins non aveva ribattuto, limitandosi a fissarla con espressione grave.
Rebecca fu accolta come una vera e propria eroina dalle sue compagne. Tutte sapevano del salvataggio miracoloso di Alyssa e della brutta avventura nel fiume. Anche le Streghe delle altre classi venivano a complimentarsi con lei, quando la incrociavano nei corridoi o in Sala da Pranzo. Ma la vera vittoria, per Rebecca, era l’espressione furiosa di Morgana ogni volta che questo accadeva. Alyssa, ormai, le girava al largo, mentre Margaret e Viola le stavano appiccicate come due sardine. Eppure, Rebecca non potè fare a meno di notare che non c’era gioia sui loro volti. Ai suoi occhi era chiaro che le due ragazze le stavano vicino solo per paura, non perché si trovavano bene con lei. Alyssa, senza alcun dubbio, era stata molto più coraggiosa di loro.
Rebecca riprese le lezioni, quando mancava ormai poco meno di un mese alla fine dell’anno scolastico. Alla fine di maggio la Poliglotter annunciò alla classe che avrebbe anticipato il programma di studio del terzo anno, affrontando il Ciclopese. L’insegnante di Lingue Demoniache era riuscita a mettere in pari la classe con le lezioni aggiuntive del sabato pomeriggio, ma nessuna di loro si sarebbe immaginata che avrebbe addirittura anticipato il programma del terzo anno. Tutte insorsero, lamentandosi che ormai l’anno scolastico volgeva al termine, ma la Poliglotter non volle sentire ragioni.
Barbara fu quella che prese la notizia nel modo peggiore, non soltanto per la stanchezza mentale devastante che l’aveva assalita nelle ultime settimane, ma anche per la terribile scoperta che l’anno successivo avrebbe dovuto studiare il Ciclopese. Aveva avuto così tanti problemi con l’Orchese, che si sentì morire al pensiero di dover ricominciare da capo con una nuova lingua.
Eppure, qualcuno avrebbe dovuto spiegarle, prima o poi, per quale ragione erano costrette a studiare tutte quelle cose assurde. Le Streghe Nere non parlavano le Lingue Demoniache, e se anche l’avessero fatto, la cosa importante per le Prescelte era conoscere le Contromaledizioni delle Cinque Maledizioni Assassine. In effetti, ora che ci pensava, ad Amtara avrebbe dovuto esserci un solo insegnante: la Rudolf. Tutti gli altri, per quello che la riguardava, avrebbero potuto essere tranquillamente disoccupati.
La Poliglotter consegnò a ciascuna di loro il nuovo testo di Ciclopese di 200 pagine. Barbara l’osservò come se fosse un insetto da schiacciare. Lei e Rebecca si scambiarono un’occhiata significativa, senza dire nulla.
“Volete fare silenzio?” – bisbigliò Brenda, gelida.
Perplesse, si voltarono verso di lei, ma scoprirono che non ce l’aveva con loro, ma con Jennifer Watson e altre ragazze, sedute in fondo alla classe che, in effetti, stavano facendo un po’ troppo baccano.
“Vi consiglio di prestare la massima attenzione.” – annunciò la Poliglotter. “Molte cose che spiegherò non le troverete in quel libro e a settembre comincerò subito a interrogare.”
“Grandioso.” – commentò Barbara a bassa voce.
La Poliglotter cominciò la lezione, avviando una lunga dissertazione sulla lingua dei Ciclopi, mentre le ragazze prendevano appunti.
“BRUTTA RACCHIA BIZZOSA! VECCHIA GALLINA AMMUFFITA! CORNACCHIA! MATUSALEMME!”
Barbara per poco non cadde dalla sedia. Rebecca, seduta vicino a lei, aveva urlato così forte da farla spaventare.
La fissò, allibita. L’amica, senza alcuna apparente ragione, aveva preso ad inveire come una furia contro l’insegnante, lanciandole un insulto dietro l’altro.
“PEZZO D’ANTIQUARIATO! SERPE VELENOSA! VECCHIA ZITELLA INACIDITA!”
Barbara cercò con gli occhi Brenda, che ricambiò il suo sguardo con evidente apprensione. Rebecca era improvvisamente impazzita?
Videro la Poliglotter impallidire. Era chiaro che Rebecca si stava rivolgendo a lei.
“CERVELLO DI GALLINA! ROSPO! SCORFANO!”
Rebecca era paonazza. Se ne stava tranquillamente seduta al suo posto, con gli occhi fuori dalle orbite e le vene del collo tese e pericolosamente pulsanti.
Brenda e Barbara non l’avevano mai vista in quello stato.
“Ehm…Rebecca…” – mormorò Barbara, cauta.
Ma Rebecca non la udì.
In classe, le Streghe cominciarono ad agitarsi. Qualcuna rideva, qualche altra, semplicemente, fissava Rebecca con costernazione, domandandosi che diavolo le fosse preso.
Barbara vide Brenda girarsi verso Jennifer e le sue amiche e lanciare loro un’occhiataccia. Stavano ridendo come matte.
La Poliglotter, evidentemente scossa e completamente spiazzata dal comportamento di Rebecca, era immobile sulla sedia, la bocca semi aperta per lo stupore. Barbara si domandò quanto tempo avrebbe impiegato per tornare in sé e prendere a calci Rebecca.
“MOSTRO RINCRETINITO! MANICO DI SCOPA! FACCIA DA PESCE LESSO!”
Era davvero troppo.
“Rebecca, si può sapere che diavolo ti prende?” – esclamò Barbara, senza preoccuparsi di tenere bassa la voce.
Ma, di nuovo, Rebecca non sembrò nemmeno accorgersi di lei. Il suo sguardo vacuo era fisso sulla Poliglotter. Barbara pregò che non le saltasse in mente di alzarsi e aggredirla anche fisicamente, o stavolta niente e nessuno l’avrebbe salvata da un’espulsione certa.
Guardò Brenda, disperata. “Fa qualcosa!”
Brenda allargò le braccia. “Che vuoi che faccia? E’ impazzita!”
“VECCHIA STREGA RINCITRULLITA! PEZZO DA MUSEO!”
“REBECCA BONNER, ORA BASTA!”
Barbara non seppe dire chi delle due avesse urlato di più. Probabilmente, la Poliglotter, il cui colorito faceva ora concorrenza a quello di Rebecca.
L’insegnante respirava affannosamente, cercando di contenere la rabbia per l’affronto subito di fronte a tutta la classe.
Barbara chiuse gli occhi, aspettandosi il peggio.
Tutte ammutolirono.
Tutte, tranne Rebecca che, imperterrita e sorda a qualunque rimprovero, ricominciò con gli insulti, gridando più di prima.
Barbara, con un gemito, riaprì gli occhi. La Poliglotter sembrava quasi sull’orlo di una crisi isterica e pensò, con orrore, che fosse lì lì per scoppiare a piangere.
Poi, all’improvviso, l’insegnante si alzò in piedi e marciò a passo deciso verso Rebecca.
Barbara tremò.
La Poliglotter afferrò Rebecca per un braccio, costringendola ad alzarsi in piedi. Rebecca, stranamente, non fece opposizione.
“Ora tu vieni con me!” – tuonò.
Ma Rebecca non si mosse.
La Poliglotter tirò il suo braccio e Barbara temette che, se avesse continuato così, gliel’avrebbe spezzato. Rebecca non cedette e restò ferma al suo posto, come se i piedi si fossero incollati al pavimento.
Era una scena surreale: la Poliglotter, con le guance in fiamme, tirava Rebecca da una parte e lei, con espressione vacua, si aggrappava con tutte le sue forze al banco, fino a farsi sbiancare le nocche, per nulla intenzionata a cedere.
Brenda non potè sopportare oltre. Tutta la classe stava ridendo di Rebecca.
Si alzò e, cercando di aiutare l’insegnante, cercò di staccare le dita di Rebecca, una a una, dal banco.
“Aiutami!” – gridò a sua sorella.
Barbara scattò in piedi e, dopo un notevole sforzo da parte di entrambe, Rebecca finalmente mollò la presa e seguì la Poliglotter fuori dall’aula.
Aveva smesso di gridare e ora, mansueta e docile come un agnellino, non oppose resistenza alla presa sicura dell’insegnante che la stava conducendo fuori.
Ma fu solo una momentanea illusione. Appena furono uscite, per poco alla Poliglotter non venne un colpo quando vide Rebecca scagliarsi nuovamente contro di lei, ricominciando ad insultarla.
“Oh no!” – gemette Barbara.
L’insegnante non era disposta a tollerare oltre.
“Portatela subito in infermeria, e dite alla Anderson di somministrarle una pozione calmante, o uno qualunque dei suoi intrugli miracolosi. Qualunque cosa, pur di farla smettere. Poi, quando si sarà calmata, riportatela qui. Con lei farò i conti più tardi.”
E così dicendo rientrò in classe, sbattendo loro la porta in faccia, mentre tenevano saldamente Rebecca per le braccia, per impedirle di rientrare in classe e sbranare la Poliglotter.
Rebecca cercava di divincolarsi selvaggiamente e stava diventando sempre più difficile riuscire a domarla.
“La vuoi finire?” – sbraitò Barbara.
Ma Rebecca era sorda a qualunque richiesta. Non sembrava nemmeno vederla.
“Che facciamo?” – chiese Barbara, disperata, a sua sorella. “La portiamo dalla Anderson?”
Brenda non rispose. Aveva socchiuso gli occhi, come se stesse valutando il da farsi.
“Pronto? Terra chiama Brenda!”
“Sto riflettendo!”
“Allora rifletti alla svelta, sorellina. Ci stanno guardando tutte.”
Attirate da quel caos infernale, infatti, molte Prescelte di altre classi erano uscite dalle aule e fissavano Rebecca, a metà tra il sorpreso e il divertito.
“Va tutto bene!” – gridò loro Barbara. “Ha solo bisogno di una pozione calmante!”
E sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi.
Alcune Streghe rientrarono in classe, scuotendo la testa, divertite.
“Brenda, ti prego, andiamocene! Non resisto un minuto di più.”
Barbara era paonazza quasi quanto Rebecca, per lo sforzo di trattenerla. Brenda aveva allentato un po’ la presa, costringendola a raddoppiare i suoi sforzi per impedire a Rebecca qualunque gesto sconsiderato.
“Ma certo!” – esclamò Brenda, illuminandosi all’improvviso. “Ora è tutto chiaro! Come ho fatto a non pensarci prima?”
“Di che accidenti stai parlando? Ahia!”
Barbara imprecò. Rebecca le aveva appena dato un morso sul braccio, dopo l’ennesimo tentativo andato a vuoto di divincolarsi dalla sua stretta.
“Ho capito cosa le è successo.” – spiegò Brenda, colta da un’improvvisa ansia febbrile. “Senti, credi di riuscire a trattenerla da sola per qualche secondo?”
“Sei impazzita? Faccio già una fatica dell’accidenti così!”
“Solo per pochi secondi!”
“E se non ci riesco e scappa?”
Brenda ci pensò su.
“Si può sapere cos’hai in mente?” – le chiese Barbara.
“Proviamo ad incrociarle le braccia dietro la schiena.”
“Cosa?”
Brenda afferrò saldamente le braccia di Rebecca, che cominciò a gridare ancora più forte.
“Brenda, se non ce ne andiamo di qui la Poliglotter ci ucciderà.” – disse Barbara, disperata.
Brenda non mollò la presa. Spostandosi dietro Rebecca e ignorando le sue proteste, le incrociò le braccia dietro la schiena.
Rebecca urlò. Brenda capì di averle fatto male, ma non le importava.
“Tienila stretta. Così.”
Barbara obbedì, costringendo Rebecca a quella posizione scomoda e sicuramente dolorosa.
“Non so quanto potrò resistere.” – disse Barbara.
“Non ci vorrà molto.”
In un lampo, Brenda si allontanò di un passo, sollevò una mano e urlò “Deleo convicium!”
Tutto finì. Il corpo di Rebecca divenne un peso morto tra le braccia di Barbara che, non riuscendo a sostenerne il peso, la lasciò andare, facendola accasciare sul pavimento.
Barbara, improvvisamente, capì.
“L’Incantesimo Irriverente…” – mormorò. “Come ho fatto a non pensarci prima?”
“Già. Per fortuna me lo sono ricordato…”
“Ma chi diavolo può averglielo lanciato? E perché?”
“Io un’idea ce l’avrei…” – rispose Brenda, con un lampo di furia negli occhi.
“Davvero?”
Rebecca gemette debolmente, attirando la loro attenzione. L’aiutarono a sedersi, con le spalle contro il muro. Il rossore sulle guance era scomparso. Gli occhi avevano perso la luce febbrile di poco prima, ma il suo sguardo era vacuo.
“Quanto ci vorrà perché torni in sé?” – domandò Barbara, apprensiva.
“Lasciamola tranquilla per un po’, vedrai che si riprenderà.”
Aspettarono una decina di minuti, in silenzio, limitandosi ad osservarla mentre riposava, seduta contro la parete, con gli occhi chiusi. A Brenda fece una gran tenerezza. Chiunque fosse stato, le aveva giocato un tiro davvero perfido.
Poi, lentamente, Rebecca riaprì gli occhi. “Che…che ci faccio qui?” – mormorò, frastornata.
“Bentornata tra noi, amica mia.” – le disse Barbara, con un sorriso.
“Te la senti di alzarti?” – le chiese Brenda.
Rebecca annuì.
Con estrema cautela, l’aiutarono a rimettersi in piedi. Rebecca vacillò leggermente sulle gambe.
“Come ti senti?” – le chiese Barbara.
Rebecca si mise una mano sulla fronte. “Un po’ intontita.”
“E’ l’effetto dell’Incantesimo.” – spiegò Brenda. “Accompagnala dalla Anderson. Io spiegherò tutto alla Poliglotter.”
“Sei sicura? La Poliglotter ha detto di riportarla qui.”
“La riporteremo qui quando saremo sicure che sta bene. Lei stessa ci ha detto di accompagnarla in infermeria.”
“Ok, come vuoi.”
Barbara prese Rebecca sottobraccio e obbedì.
Brenda rimase a guardarle per un po’, poi il suono della campanella la riscosse.
Aspettò che le sue compagne fossero uscite dalla classe, prima di entrare.
La Poliglotter sedeva in cattedra e stava scrivendo qualcosa su un foglio.
Alzò la testa e, quando la vide, socchiuse gli occhi.
“Lansbury. Dov’è Bonner?”
“In infermeria, professoressa.”
“Non si è ancora ripresa?”
“Non del tutto.”
“Voglio vederla, in ogni caso. Devo parlare con lei. Non può farmi un affronto simile, nella mia classe, e aspettarsi di farla franca.”
Brenda esitò. La situazione era peggiore di quanto pensasse. La Poliglotter le avrebbe creduto? In fondo, non aveva prove.
“Ehm…professoressa… c’è una cosa che deve sapere.”
La Poliglotter inarcò un sopracciglio.
Brenda si fece coraggio. “Ecco… io… credo che Rebecca sia stata vittima di un Incantesimo Irriverente.”
L’insegnante la fissò. “Un Incantesimo Irriverente.” – ripeté, in tono neutro.
Brenda annuì.
“Nessuno lancerebbe mai un Incantesimo nella mia classe, signorina Lansbury.”
Oh, altrochè se lo farebbero…
“Tantomeno un Incantesimo come quello. La mia punizione sarebbe esemplare.”
“Rebecca non era in sé, professoressa. Non l’ho mai vista così. È evidente che era sotto l’effetto di un Incantesimo, e io credo proprio si tratti di quello.”
La Poliglotter la fissava con crescente fastidio.
“Altrimenti, dovremmo pensare che Rebecca è impazzita.” – continuò Brenda. “Perché non si sognerebbe mai di insultarla in quel modo, a meno che non sia diventata improvvisamente stupida.”
Quelle parole sembrarono fare centro, perché l’insegnante sembrò considerare la faccenda sotto un altro punto di vista.
“E’ stato un Incantesimo Irriverente.” – ripetè Brenda, confortata dall’espressione improvvisamente interessata dell’insegnante. “E credo anche di sapere chi è stato.”
La Poliglotter spalancò gli occhi.
Brenda sapeva di essersi spinta, forse, troppo in là. Stava per lanciare un’accusa ben precisa, ma non aveva alcun dubbio. Era sicura che Jennifer Watson e le sue amiche fossero le responsabili di quanto accaduto a Rebecca. Non le erano sfuggite le loro risatine, in fondo all’aula, guarda caso proprio un attimo prima che Rebecca cominciasse a dare i numeri.
Ma, proprio quando cominciava a pensare di averla convinta, la Poliglotter la spiazzò totalmente.
“Stai dicendo un mucchio di sciocchezze, Lansbury, e non intendo starti a sentire un minuto di più.”
Il cuore di Brenda sprofondò. “Ma… professoressa… ho pronunciato il Controincantesimo, proprio qui fuori dalla porta, e in un attimo Rebecca è tornata in sé. Sono sicura che si sia trattato di…”
“Non una parola di più, Lansbury. Vai a chiamare Bonner. La voglio nel mio ufficio tra venti minuti.”
Brenda, in quel momento, capì che, qualunque fosse stato il motivo del comportamento di Rebecca, la Poliglotter gliel’avrebbe comunque fatta pagare. Avrebbe perfino negato l’evidenza pur di far scontare a Rebecca gli istanti di profonda umiliazione che, per colpa sua, aveva dovuto subire di fronte alle sue allieve. Suo malgrado, Rebecca aveva osato troppo, spingendosi troppo in là. Poco importava che non avesse la minima colpa di quanto accaduto. Qualcuno doveva pagare, qualcuno doveva rimediare all’offesa subita. E non c’era niente che Brenda potesse dire o fare per impedirlo.
Brenda fu costretta ad arrendersi. A testa bassa, uscì dalla classe, domandandosi quale punizione avrebbe ricevuto Rebecca per una colpa che non aveva commesso.
Fuori dall’aula, con stupore, si accorse di non essere sola.
Jennifer e le sue amiche erano ancora lì. Quando la videro uscire, si voltarono a guardarla.
Brenda reagì d’istinto.
“Perché lo avete fatto?” – sibilò furente.
“Di che stai parlando?” – rispose Jennifer, con aria innocente.
“Lo sai benissimo.”
“No, direi proprio di no.”
La calma serafica di Jennifer la fece infuriare ancora di più.
“Sei stata tu a lanciare l’Incantesimo?”
Jennifer spalancò gli occhi. “Quale Incantesimo?”
Brenda dovette riconoscere che aveva grandi doti da attrice. Se non fosse stata sicura della sua colpevolezza, avrebbe quasi potuto credere alla sua espressione meravigliata.
“L’Incantesimo Irriverente. Quello che hai lanciato a Rebecca.”
Le ragazze la fissarono per qualche secondo, poi scoppiarono a ridere contemporaneamente.
Brenda le fissò, costernata. Di tutte le reazioni che avrebbe potuto aspettarsi, quella non era decisamente contemplata. Questo la fece arrabbiare ancora di più. Non solo si erano prese gioco della sua amica, facendole quasi sicuramente guadagnare una punizione che non meritava, ma ora osavano perfino prendersi gioco di lei. Ma Brenda non aveva alcuna intenzione di sottostare ai loro subdoli giochetti, né di permettere loro di prenderla in giro. L’avrebbero pagata cara.
“Ti ha dato di volta il cervello, per caso?” – fece Jennifer, con gli occhi che le lacrimavano per il gran ridere.
“So che sei stata tu. È inutile che fingi.”
“Ti assicuro che io non fingo proprio un bel niente. E non ho lanciato nessun Incantesimo. Ma come ti viene in mente una cosa del genere?”
“Ti ho vista, prima della lezione. Stavi ridendo di Rebecca, insieme a loro.” Brenda indicò le sue amiche, che erano tornate improvvisamente serie. “Guarda caso, subito dopo, Rebecca ha cominciato ad insultare la Poliglotter.”
Jennifer aggrottò la fronte. “Brenda, ti garantisco che non so di cosa stai parlando. E’ vero, stavamo ridendo, ma ti assicuro che non ridevamo di Rebecca. E non sono certo così stupida da scagliare un Incantesimo contro qualcuno durante le ore di lezione. Tantomeno con la Poliglotter. Conosciamo tutte molto bene il suo temperamento, quando si tratta di punire qualcuno, no?”
Brenda, per un istante, non seppe cosa rispondere. Era vero, la Poliglotter era nota per la sua severità. Chiunque avesse fatto una cosa del genere durante le sue lezioni sarebbe stato un vero idiota. E Jennifer Watson non era un’idiota.
Eppure, era sicura che si fosse trattato di quell’ Incantesimo. Qualcuno aveva deliberatamente attirato Rebecca in una trappola. Ma, se non si era trattato di loro, chi era stato? Chi poteva volerle così male?
Un solo nome le affiorò nella mente.
Morgana.
Ma Morgana non era in classe con loro. E nessuno era in grado di lanciare un Incantesimo a distanza, nemmeno un insegnante.
Brenda diede un’occhiata all’orologio. Doveva andare a chiamare Rebecca, ora. Non c’era tempo per discutere con Jennifer. Ma la questione non era certo finita lì. Avrebbe affrontato nuovamente il discorso, in un altro momento, e a mente più fredda. Chiunque fosse stato il responsabile, avrebbe pagato a caro prezzo quello che aveva fatto a Rebecca.
Senza aggiungere altro, si voltò e corse via.
Jennifer scosse lentamente la testa. “Quella è matta come un cavallo.”
 
Rebecca stava meglio. L’Incantesimo era durato un po’ e lei ci aveva impiegato più tempo del previsto a riprendersi del tutto. La Anderson le spiegò, chiaramente, che maggiore durata aveva un Incantesimo, più tempo impiegava la vittima a tornare in sé. Barbara pensò di averla accompagnata in infermeria inutilmente. Era bastato far stendere Rebecca per qualche minuto sul lettino per farla tornare quella di prima, anche se la Anderson aveva insistito per farle bere une delle sue pozioni.
La parte più difficile fu spiegare a Rebecca quello che era successo. Barbara scoprì, infatti, inorridita, che l’amica non ricordava assolutamente nulla di quello che aveva fatto. Solo in quel momento si ricordò che, durante le esercitazioni in classe con la Cornell, la vittima non ricordava niente dell’accaduto.
Barbara soffocò un gemito. Dov’era Brenda quando aveva bisogno di lei? Come avrebbe fatto a spiegare a Rebecca che aveva insultato la Poliglotter con epiteti irripetibili per almeno venti minuti buoni?
“Barbara, allora vuoi spiegarmi che è successo?” – la sollecitò Rebecca per l’ennesima volta.
Rebecca era impaziente di sapere. Erano ancora in infermeria, Rebecca seduta sul lettino, con in mano una tazza fumante (la pozione della Anderson), Barbara seduta su una sedia, gli occhi bassi e l’aria nervosa. Doveva accompagnare Rebecca dalla Poliglotter, secondo le indicazioni di Brenda. Ma non poteva farlo senza prima averle raccontato quello che aveva fatto, altrimenti Rebecca avrebbe chiesto perché la Poliglotter voleva vederla.
Sospirò, depressa. Perché toccava proprio a lei quel compito ingrato?
“Barbara, sto aspettando.”
Barbara alzò la testa. “Se te lo dico, mi prometti che non darai di matto?”
Rebecca inarcò un sopracciglio. “Perché dovrei farlo?” – chiese, sospettosa. “E’ qualcosa di così grave?”
“Beh… sì. Ma niente che non si possa risolvere, almeno spero.”
Rebecca cominciò ad agitarsi. “Che è successo?”
Barbara strinse i denti. “Sei stata vittima di un Incantesimo Irriverente.”
“Cosa? Quando?” – domandò Rebecca, con la gola secca.
“Durante la lezione della Poliglotter. Eri lì seduta, vicino a me, quando all’improvviso hai cominciato ad insultarla, senza alcuna ragione.”
Rebecca sgranò gli occhi. “Oh mio Dio…”
“Alla fine ti abbiamo portato fuori dalla classe, poi Brenda ha pensato all’Incantesimo Irriverente e ha lanciato il Controincantesimo. E ha funzionato.”
“Non ci posso credere…”
Rebecca aveva lo sguardo perso nel vuoto. Teneva ancora tra le mani la tazza fumante, senza vederla. La verità di quelle parole la colpì come un macigno. Aveva insultato la Poliglotter. Non un insegnante qualunque, proprio lei.
“Che cosa le ho detto?”
“Credimi, è meglio che tu non lo sappia.”
“Per quanto tempo sono andata avanti?”
“Un po’.”
“Un po’ quanto?”
“Non è poi così importante.”
“Io credo di sì.”
“E’ durato un po’. Abbiamo fatto fatica a trascinarti fuori dall’aula. Eri paonazza, sembrava avessi un diavolo per capello. Continuavi a lanciare un insulto dietro l’altro, e alla fine la Poliglotter si è alzata per mandarti fuori. Io e Brenda abbiamo dovuto aiutarla, perché non ti volevi muovere. Eri come ipnotizzata dall’Incantesimo. Poi quando siamo riuscite a portarti fuori, hai ricominciato.”
Rebecca si portò una mano sulla fronte, troppo sconvolta per parlare.
“Insomma, è stata Brenda ad avere il lampo di genio. Ho dovuto trattenerti con la forza perché lei potesse lanciare il Controincantesimo. Credimi, è stata una delle cose più difficili che io abbia mai fatto. Mi hai perfino dato un morso.”
Rebecca chiuse gli occhi. Non poteva credere alle sue orecchie. Doveva tutto a Brenda e Barbara. Se non fosse stato per loro, probabilmente nessuno avrebbe pensato all’Incantesimo Irriverente, e lei, con ogni probabilità, sarebbe stata ancora lì ad insultare la Poliglotter. Le vennero i brividi.
Riaprì gli occhi e alzò la testa.
“Chi può essere stato a farmi una cosa del genere?”
“Questa è una buona domanda.”
“Significa che non lo sai?”
“Credo che Brenda abbia qualche sospetto, ma non ne abbiamo ancora parlato. E’ successo tutto talmente in fretta. Ti ho portato qui perché me l’ha detto lei.”
“E dov’è Brenda ora?”
“Dalla Poliglotter. Credo stia cercando di spiegarle quello che è successo.”
“Non le crederà mai.”
Rebecca sapeva quanto fosse orgogliosa l’insegnante di Lingue Demoniache. Aveva osato sfidarla e oltraggiarla davanti a tutte. Non gliel’avrebbe fatta passare liscia, nemmeno se si era trattato di un Incantesimo.
“Sei stata vittima di un Incantesimo.” – precisò Barbara. “Abbiamo le prove. Il Controincantesimo ha funzionato.”
“Qualcuno era presente quando avete lanciato il Controincantesimo?”
Barbara impallidì. “Beh no, ma…”
Rebecca allargò le braccia, con aria impotente. “E’ la fine.”
“Non puoi essere punita per qualcosa di cui non hai colpa.” – protestò Barbara.
“Già.” – rispose, per nulla convinta.
In quel momento, la porta dell’infermeria si aprì.
Brenda entrò, un po’ trafelata. Le bastò un’occhiata a Rebecca per sapere che sua sorella le aveva già raccontato ogni cosa.
Le si avvicinò. “Sai tutto?”
“Sì.”
Brenda capì che Rebecca non si fidava del giudizio della Poliglotter. Era tesa e inquieta.
“Hai parlato con la Poliglotter?” – le chiese Rebecca, preparandosi al peggio.
“Sì.”
“E…?”
Brenda distolse lo sguardo. Doveva portare Rebecca via da lì, entro pochi minuti, ma non ebbe nemmeno il coraggio di guardarla in faccia. Era così ingiusto…
“Brenda?”
Brenda si morse le labbra e guardò sua sorella, cercando in lei un incoraggiamento. Barbara annuì leggermente.
“Le ho spiegato che è stato un Incantesimo Irriverente. Ma non ha voluto sentire ragioni. Ti vuole vedere, tra pochi minuti, nel suo ufficio.”
Rebecca si raggelò. Era esattamente quello che aveva temuto. Dalla Poliglotter, non si aspettava niente di meno.
“Capisco. Beh, direi che sono pronta.”
Rebecca posò la tazza sul tavolo accanto al lettino e si alzò in piedi.
“Hai idea di chi sia stato?” – chiese a Brenda.
“Ne parleremo dopo.”
Rebecca annuì.
“Veniamo con te?” – domandò Barbara, con ansia.
“No, vado da sola.”
Senza aggiungere altro, uscì dall’infermeria e chiuse la porta.
Mentre camminava verso l’ufficio della Poliglotter, si domandò quali altre sorprese avesse in serbo per lei quell’anno ad Amtara.
 
“Chi pensi sia stato?” – chiese Barbara a Brenda, non appena Rebecca fu uscita.
“Ho incontrato Jennifer Watson e le sue amiche, fuori dalla classe.”
Barbara inarcò un sopracciglio. “Credi siano state loro?”
“Ricordi che facevano rumore e ridacchiavano, prima della lezione?”
Barbara annuì.
“Guarda caso, due minuti dopo, Rebecca impazzisce.”
“Ma che motivo avrebbe Jennifer per fare del male a Rebecca? Sono sempre andate d’accordo, mi pare.”
Brenda si strinse nelle spalle. “Forse aveva solo voglia di divertirsi un po’.”
Barbara la guardò, scettica. “Non mi sembra un motivo sufficiente.”
Brenda non sapeva cosa dire. Improvvisamente, anche a lei quella storia sembrò fare acqua da tutte le parti.
“Lei hai parlato?” – le domandò Barbara.
“Sì.”
“E cosa ti ha detto?”
Brenda sospirò. “Che non si sognerebbe mai di lanciare un Incantesimo proprio durante una lezione con la Poliglotter. Dice che non è così stupida.”
“E allora?”
“E allora può darsi stia mentendo.”
“Tu credi?”
“Io… non lo so. Non so più cosa pensare.”
Fino a un’ora prima era assolutamente convinta della colpevolezza di Jennifer. Ora, la sua convinzione era svanita in una bolla di sapone.
“Ho pensato fosse stata lei, perché stava confabulando con le sue amiche e ho creduto che stessero fissando Rebecca. Ma ora non sono più sicura di niente.”
“Forse è stata solo una coincidenza.” – ragionò Barbara. “Forse è stato qualcun altro.”
“Sì, ma chi?”
“Conosciamo solo una persona, al momento, ad Amtara, che vorrebbe fare del male a Rebecca.” – disse Barbara.
Si guardarono negli occhi.
“Morgana.” – dissero all’unisono.
“C’è solo un piccolo problema: Morgana non era in classe con noi.” – disse Brenda.
“Già. Cosa credi che deciderà di fare la Poliglotter, ora?”
Brenda prese un profondo respiro.
“Da come mi ha parlato, è assolutamente decisa a non fargliela passare liscia.”
“Ma è assurdo! Non è stata colpa sua!” – protestò Barbara, veemente.
“Che ci fate voi due, qui?” – esclamò la Anderson, entrando nella stanza.
Si erano talmente lasciate trasportare dall’argomento, che avevano completamente dimenticato dove si trovavano.
Balzarono in piedi. “Infermiera Anderson… noi… abbiamo accompagnato Rebecca Bonner.” – spiegò Brenda, imbarazzata.
La Anderson si guardò attorno. “E dov’è finita?”
“La professoressa Poliglotter la voleva nel suo ufficio.”
L’infermiera adocchiò con aria minacciosa la pozione, ormai fredda, nella tazza sul tavolino.
“Senza nemmeno finire la sua pozione.” – brontolò.
“Comunque, si sentiva molto meglio.” – disse Barbara.
“Questo starebbe a me deciderlo.”
Brenda e Barbara si scambiarono un’occhiata imbarazzata.
“Avete intenzione di rimanere qui tutto il giorno?” – sbraitò la Anderson.
Senza farselo ripetere due volte, le sorelle uscirono di corsa.
 
 

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Capitolo 24
*** Punizione ***


Brenda e Barbara decisero di aspettare Rebecca fuori dall’ufficio della Poliglotter. Non se la sentivano di lasciarla sola in un momento tanto delicato, sicure che avrebbe avuto bisogno del loro sostegno dopo il colloquio con l’insegnante.
Aspettarono a lungo e ad un certo punto Barbara, stanca dell’attesa, si avvicinò alla porta.
“Che fai?” – le chiese Brenda, allarmata.
“Cerco di capire che sta succedendo là dentro.” – bisbigliò Barbara.
“Allontanati da lì! Ci manca solo che la Poliglotter ci scopra mentre origliamo!”
“Non sento niente. Forse hanno finito.”
“Motivo in più per allontanarti.”
Barbara non se lo fece ripetere due volte e fece qualche passo indietro, per sicurezza.
Come previsto, qualche istante dopo la porta si aprì e ne uscì una Rebecca piuttosto abbattuta.
A Brenda si strinse il cuore. Non riusciva a capire per quale motivo le circostanze sembravano, sempre più spesso, volgere a suo sfavore, soprattutto ora che aveva salvato la vita ad una Prescelta e aveva rischiato di morire nel fiume. Rebecca non meritava l’ira della Poliglotter.
“Com’è andata?” – le chiese, pur conoscendo già la risposta.
“Malissimo.” – rispose Rebecca, affranta.
“Perché?”
“Devo tornare qui stasera alle otto, per scontare la mia punizione.”
Barbara strinse i pugni. “Non ci posso credere…” – mormorò, livida. “L’ha fatto davvero.”
“Che genere di punizione?” – domandò Brenda.
“Non lo so. Non me l’ha detto.”
“Quella vecchia megera.” – sibilò Barbara. “Sa benissimo che non è stata colpa tua, e nonostante tutto…”
“Barbara, ti prego.” – la interruppe Rebecca, esausta. “Non mi va di parlarne. E comunque ormai le cose sono andate così, non possiamo farci niente.”
Brenda apprezzò il modo in cui Rebecca stava affrontando la questione, ma provava la stessa rabbia cieca di sua sorella. Rebecca era vittima di una tremenda ingiustizia. Aveva cercato di far ragionare la Poliglotter, ma si era rivelata più testarda di un mulo.
“Mi dispiace.” – mormorò Brenda.
“Non importa.”
“Ma tu le hai spiegato che non ricordavi nulla?” – le domandò Barbara, poco incline a lasciar perdere il discorso.
“Sì. Le ho detto che sicuramente Brenda aveva ragione, qualcuno deve avermi lanciato un Incantesimo Irriverente. Ma lei ha detto che il suo ruolo le impone di non lasciar cadere la questione, e in pratica si vede costretta a punirmi ugualmente.”
“Si vede costretta?” – ripeté Barbara, incredula.
“Già, queste sono state le sue parole.”
Barbara si voltò verso Brenda, allargando le braccia, impotente. “Io mi arrendo.”
Rebecca si rivolse a Brenda. “Hai idea di chi sia stato?”
Brenda esitò. Doveva dirle quali erano i suoi sospetti? E se Jennifer fosse davvero innocente?
“Brenda?” – la incalzò Rebecca.
“Brenda ha dei sospetti.” – rispose Barbara al posto suo.
“Cioè?” – chiese Rebecca, con un sopracciglio inarcato.
Brenda sospirò profondamente e le raccontò di Jennifer.
“Credi sia stata lei perché mi guardava e rideva?” – le domandò Rebecca, dopo averla ascoltata.
“Beh, è la cosa più logica da pensare!”
“Forse.”
Rebecca era pensierosa.
“Tu hai qualche altra idea?” – chiese Brenda, incuriosita dalla sua reazione.
“Non saprei. Io non ho mai litigato con Jennifer, né con nessuna delle sue amiche. Per quale motivo avrebbe dovuto farmi questo?”
“E’ esattamente quello che ho detto io.” – intervenne Barbara.
“Beh, non lo so.” – rispose Brenda, punta sul vivo. “Ti dico solo quello che ho visto. Prima della lezione stavano facendo un gran baccano, mi sono girata verso di loro e stavano ridacchiando, guardando verso di te. Me lo ricordo molto bene.”
“Non sto mettendo in discussione quello che hai visto.”
“Inoltre, erano dietro di te, sedute in fondo alla classe. Nessuno avrebbe potuto vederle lanciare un Incantesimo contro qualcuno.”
“Ma Jennifer ti ha anche detto che non avrebbe mai fatto una cosa così stupida in classe.” – puntualizzò Barbara.
“Beh, se anche fosse colpevole, dubito che confesserebbe, tanto meno a me. E’ più che logico che abbia negato.”
Per qualche ragione, Brenda avvertiva l’improvviso bisogno di giustificare in tutti i modi la sua accusa contro Jennifer. Era infastidita dal fatto che sia Rebecca che Barbara mettessero in dubbio i suoi sospetti.
“Io non credo sia stata lei.” – disse infine Rebecca.
“Perché no?” – chiese Brenda.
“Perché non aveva alcun motivo di farlo.”
Brenda alzò le spalle. “Come credi. Secondo me in classe non c’era nessun altro che avrebbe potuto fare una cosa del genere.”
A quelle parole, Rebecca divenne estremamente seria. “E se non fosse successo in classe?”
“Che vuoi dire?”
“E’ possibile lanciare un Incantesimo a distanza?”
“Non che io sappia.”
Rebecca si adombrò.
“Cosa stai pensando?” – le chiese Brenda, scrutandola con sospetto.
“Niente.”
 
Quella sera, alle otto in punto, Rebecca bussò alla porta dell’ufficio della Poliglotter.
“Avanti.”
Rebecca entrò.
La professoressa sedeva alla scrivania.
“Sei puntuale.” – le disse. “Siediti.”
Rebecca obbedì.
La fissò, in attesa. Nelle ultime ore aveva provato ad immaginare che genere di punizione l’attendesse. Era convinta che avrebbe dovuto cimentarsi in una qualche difficile traduzione di Orchese o Vampirese, o trascrivere qualche brano piuttosto complesso. Si augurava che la Poliglotter non le facesse tradurre dal Ciclopese, visto che era un argomento ancora perlopiù inesplorato. Ma Rebecca sapeva che l’insegnante sarebbe stata capace anche di questo. Era una sua prerogativa pretendere dalle sue allieve cose ben superiori alle loro effettive conoscenze e capacità, come Rebecca aveva avuto modo di constatare fin dal suo primo giorno di lezione.
Aveva deciso di accettare stoicamente quell’ingiustizia, senza battere ciglio, perché non voleva dare modo alla Poliglotter di potersi lamentare del suo comportamento. Avrebbe affrontato la sua punizione con dignità, per quanto sbagliata e ingiusta fosse.
Invece, l’insegnante la spiazzò completamente. “Stasera pulirai questo ufficio, da cima a fondo.” – sentenziò.
Rebecca sprofondò nella sedia. Che razza di punizione era mai quella?
“Io resterò qui con te, per assicurarmi che tu faccia un buon lavoro. Là c’è uno sgabuzzino. Troverai tutto quello che ti serve per pulire.”
Rebecca fremette, ma ingoiò il rospo e si costrinse a tacere. Avrebbe preferito tradurre un brano dal Ciclopese, piuttosto che mettersi a pulire quell’ufficio come una comune sguattera. La Poliglotter voleva umiliarla fino a quel punto? Sapeva che era stata vittima di un Incantesimo, eppure doveva farle pagare l’umiliazione che le aveva fatto subire in classe, davanti alle sue allieve. Era una donna molto orgogliosa, Rebecca lo sapeva bene, ma lo era anche lei. Non le avrebbe concesso la soddisfazione di vederla lamentarsi, per nessuna ragione al mondo.
Senza dire una parola, si alzò e si diresse verso lo sgabuzzino.
Sarebbe stata una lunga serata.
 
Un’ora dopo, Rebecca era esausta. Quella lunghissima giornata sembrava proprio non finire mai. Era cominciata nel peggiore dei modi e stava per finire anche peggio.
Mentre la Poliglotter leggeva un libro, o fingeva di farlo, mentre teneva d’occhio ogni suo movimento, Rebecca aveva lustrato l’ufficio da cima a fondo. Aveva spolverato i mobili, pulito i vetri fino a farli brillare, spazzato e lavato il pavimento. Asciugandosi il sudore dalla fronte, pensò di aver fatto un buon lavoro. Le facevano male le braccia, ma sorrise, soddisfatta.
L’insegnante diede un’occhiata all’ufficio pulito e brillante. “I vetri non sono puliti. Vedo degli aloni. Ripassali, per favore. E già che ci sei lava di nuovo il pavimento, è ancora un po’ sporco.”
Rebecca avrebbe voluto strozzarla. Si voltò verso le finestre e non vide alcuna traccia degli aloni di cui parlava. Anche il pavimento le sembrava perfettamente pulito, ma non protestò, ferrea nel suo proposito di non fomentare la rabbia dell’insegnante. Voleva che i vetri e il pavimento brillassero? Bene, li avrebbe resi così luccicanti che la Poliglotter avrebbe dovuto indossare un paio di occhiali da sole la prossima volta che fosse entrata nel suo ufficio.
Afferrò lo straccio e si diresse verso le finestre, pronta a ricominciare.
“Io devo uscire per qualche minuto.” – le disse l’insegnante, alzandosi. “Torno tra poco.”
“Sì, professoressa.” – rispose Rebecca, senza voltarsi, strofinando con decisione il vetro.
Fu un sollievo rimanere sola, senza gli occhi della Poliglotter continuamente puntati su di lei. Aveva controllato ogni suo movimento, ogni respiro, ogni istante in cui si era fermata per asciugare il sudore dalla fronte.
Pulire senza sentirsi i suoi occhi puntati addosso era molto meno snervante. Non ci avrebbe impiegato molto. Una volta finiti i vetri, avrebbe spazzato di nuovo per terra e lavato accuratamente il pavimento. Poi, finalmente, se la Poliglotter fosse stata soddisfatta del risultato, sarebbe andata a dormire. Aveva dolori ovunque e non vedeva l’ora di buttarsi sul letto.
Mentre strofinava con vigore per togliere i presunti aloni, che lei continuava a non vedere, pensò a Jennifer Watson. Ripercorse mentalmente i momenti in cui, in quei due anni, aveva avuto a che fare con lei e scoprì di ricordarne ben pochi. La verità era che lei e Jennifer si erano quasi sempre ignorate. Rebecca passava tutto il tempo insieme a Brenda e Barbara, e Jennifer si era creata un giro di amicizie con cui Rebecca poco aveva da spartire.
Alla luce di queste considerazioni, per quale motivo Jennifer avrebbe dovuto lanciarle quell’Incantesimo? Più ci pensava, più la cosa non aveva senso. Brenda aveva incolpato la prima persona che le era venuta in mente, ma senza una giustificata ragione.
Rebecca ripensò al racconto di Barbara. Era felice di non ricordare nulla di quello che aveva fatto, perché se ne sarebbe vergognata per il resto dei suoi giorni. Riusciva ad immaginare molto bene la scena, lei che lanciava improperi ed insulti contro la Poliglotter, davanti alle risate divertite delle sue compagne e agli sguardi attoniti e sconvolti di Brenda e Barbara. Immaginava la scena in cui lei si aggrappava al banco, mentre le gemelle cercavano di strattonarla con forza per condurla fuori. Doveva essere stato a dir poco umiliante. Con quale coraggio avrebbe rimesso piede in classe? Tutte avrebbero riso di lei, ricordando quello che era successo.
Ripensò al portapenne che Jessica le aveva lanciato contro, quel giorno ormai lontano. Era una fortuna che Rebecca non avesse colpito la Poliglotter con un oggetto contundente, come aveva fatto Jessica. Se lo avesse fatto, ora non si sarebbe ritrovata in quella stanza a pulire i vetri, ma direttamente sulla strada di casa.
Chi mai poteva averle fatto questo? Nessuna delle sue compagne era colpevole, Rebecca ne era certa. Aveva pensato a Morgana, l’unica che covava abbastanza rancore nei suoi confronti da poterle fare una cosa del genere. Ma Brenda le aveva detto che era impossibile lanciare un Incantesimo a distanza e Morgana non era presente in classe.
Rimaneva tutto ancora avvolto nel mistero e Rebecca non si sarebbe data pace fino a che non avesse fatto luce su quella strana faccenda.
Aveva appena finito di pulire i vetri, pensando che non avrebbe potuto fare di meglio. Se la Poliglotter avesse di nuovo visualizzato fantomatici aloni, avrebbe dovuto toglierseli da sola.
Si dedicò al pavimento. Prese in mano la scopa e spazzò con energia. Quando ebbe finito, bagnò e strizzò lo straccio e lo passò con vigore su tutto il pavimento, avendo cura di soffermarsi su alcune piastrelle particolarmente sporche.
Mentre stava pulendo una macchia di sporco particolarmente tenace, udì un rumore fuori dalla porta.
Si fermò per ascoltare.
Erano dei passi.
Sicuramente la Poliglotter stava tornando. Aveva fatto in fretta.
Laddove aveva passato lo straccio, il pavimento era quasi asciutto, perché Rebecca aveva avuto cura di aprire le finestre. Ancora qualche minuto e avrebbe terminato, poi sarebbe stata finalmente libera! Dando le spalle alla porta, passò lo strofinaccio sotto le finestre.
In quel momento, udì la porta aprirsi dietro di lei e il suono dei passi dell’insegnante entrare nella stanza.
Non si voltò.
“Buonasera, Rebecca.”
Rebecca si raggelò.
Quella che aveva appena sentito non era la voce della Poliglotter.
Lentamente, si voltò e i suoi occhi si spalancarono per lo stupore.
 
 
 
 

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Capitolo 25
*** La resa dei conti ***


“Che diavolo ci fai tu, qui?”
Rebecca non credeva ai suoi occhi. Davanti a lei c’era Morgana, l’ultima persona al mondo che si sarebbe aspettata di veder entrare in quella stanza. Dovevano essere le nove passate e si presumeva che tutte le Prescelte fossero nelle loro camere.
Sapeva che lei si trovava lì? Per questo era venuta?
La Poliglotter sarebbe rientrata da un momento all’altro e non avrebbe certo gradito la sua presenza lì. Rebecca era quasi certa che l’insegnante avrebbe incolpato lei, facendole guadagnare, probabilmente, un’altra punizione. Magari un altro ufficio da pulire.
Morgana doveva andarsene, e alla svelta.
“Qualunque sia il motivo per cui sei venuta, vattene.” – le disse, senza mezzi termini.
Morgana non rispose. Chiuse la porta dietro di sé e tornò a guardarla, suscitando l’irritazione di Rebecca.
Poi, andò a sedersi sulla sedia di fronte alla scrivania.
Rebecca imprecò mentalmente. Cosa avrebbe dovuto fare per togliersela dai piedi?
“Non so se te ne sei accorta, ma sto pulendo. Anzi, ho quasi finito e la Poliglotter tornerà da un momento all’altro. Non ti conviene farti trovare qui. E, sinceramente, sono stanca morta e non vedo l’ora di andare a dormire.”
Morgana girò la sedia e la guardò in faccia.
Rebecca trasalì. Qualcosa, in quello sguardo, la fece rabbrividire. Non seppe dire esattamente cosa, ma i suoi occhi avevano qualcosa di diabolico, qualcosa che Rebecca non aveva mai visto.
Morgana la squadrò da capo a piedi, soffermandosi sui suoi vestiti sporchi.
Rebecca arrossì. Probabilmente era venuta lì per umiliarla. Non sapeva come fosse venuta a conoscenza della punizione della Poliglotter, ma ormai era evidente il motivo per cui si era data il disturbo di raggiungerla. Voleva prendersi gioco di lei, non solo per gli effetti disastrosi di quello stupido Incantesimo, ma anche per quell’ultima, terribile umiliazione.
Abbassò lo sguardo, sentendosi una vera idiota. Sapeva che non aveva nulla di cui vergognarsi, ma quegli occhi impietosi che la squadravano come se fosse un’umile serva qualunque, la ferirono. Perché non se ne andava e la lasciava in pace, una volta per tutte?
Rebecca prese un profondo respiro, cercando di dominare la rabbia. Non sarebbe servito a niente aggredirla o prenderla a male parole. Avrebbe solo peggiorato la situazione.
Decise di adottare la strategia migliore. Ricominciò a strofinare il pavimento con decisione. Forse, se l’avesse ignorata, alla fine Morgana avrebbe desistito nel suo proposito e avrebbe alzato i tacchi.
Il pavimento era lustro, ma Rebecca, senza pensarci due volte, afferrò nuovamente lo straccio, lo bagnò, lo strizzò, e ricominciò a passarlo nello stesso punto sotto le finestre. Di questo passo, pensò afflitta, le piastrelle avrebbero finito col consumarsi.
Dove diavolo era finita la Poliglotter, proprio ora che aveva bisogno di lei?
“Cos’hai combinato, stavolta, per ridurti a fare la sguattera?”
Morgana si era finalmente decisa a parlare.
Rebecca si era aspettata un commento simile. Strinse i denti, senza rispondere.
“Strano che la Collins permetta una cosa del genere. Non eri la sua cocca?”
Rebecca le dava le spalle, strofinando energicamente con lo spazzolone. Lo strinse con tale forza da farsi sbiancare le nocche.
Evitò accuratamente di voltarsi, altrimenti Morgana avrebbe notato il suo livore e questo l’avrebbe resa ancora più audace. Rebecca voleva a tutti i costi evitare uno scontro. Se la Poliglotter fosse entrata e le avesse viste accapigliarsi nel suo ufficio, sarebbe stata la fine.
“Devi averla fatta proprio grossa stavolta, eh?”
Morgana rise.
Rebecca continuò a pulire, ostinandosi ad ignorarla. Se avesse continuato a non raccogliere le sue provocazioni, presto Morgana si sarebbe stancata e se ne sarebbe andata. Forse, anche prima che tornasse la Poliglotter, almeno questo era quello che Rebecca sperava. Non aveva molta voglia di giustificare la sua sgradita presenza lì.
Morgana, però, non sembrava minimamente intenzionata ad andarsene. Allungò le gambe e si sistemò meglio sulla sedia, incrociando le braccia.
“Sai, Bonner, è stato veramente uno spasso vederti abbaiare in quel modo contro la Poliglotter. Scommetto che non ricordi niente, vero? Un vero peccato! Dovevi vedere come ti schiumava la bocca! E come ti guardava la Poliglotter! Sei stata fortunata ad esserti guadagnata solo una misera punizione come questa. Io, al posto suo, avrei fatto molto peggio. Una bella espulsione coi fiocchi, magari.”
Rebecca impiegò una buona manciata di secondi prima che il suo cervello registrasse quell’informazione. Ma, quando lo fece, i suoi occhi si spalancarono per l’orrore.
Si voltò lentamente verso di lei. Le labbra di Morgana erano piegate in un ghigno malvagio, ma il suo sguardo era visibilmente divertito.
“Sei stata tu…” – mormorò piano.
Rebecca era talmente sconvolta da quella rivelazione, da riuscire a malapena ad articolare le parole. In più di un’occasione aveva pensato a lei, l’unica persona all’interno della scuola che potesse volerle così male da lanciare quell’Incantesimo contro di lei. Ma era impossibile. Morgana non era nella loro classe, come poteva averlo fatto?
Eppure, glielo stava confessando, e Rebecca non aveva alcun motivo per non crederle.
“Sei sorpresa, a quanto vedo.” – continuò Morgana.”Non te l’aspettavi, vero? Sai qual è la verità, Bonner? Che una come me è fin troppo in gamba per un posto come questo. Nessuna di voi sarà mai come me. Per non parlare di quella Lansbury. Credeva fosse stata la Watson! Che razza di idiota…”
“Ma…come hai fatto? Tu…tu non eri lì…”
“Già, non ero lì perché non mi hai visto. Ma vedi, le aule hanno delle finestre. È piuttosto facile nascondersi dietro una finestra e lanciare un Incantesimo senza essere visti.”
“Ma l’aula di Lingue Demoniache non è al piano terra. Come hai fatto ad arrampicarti fin lassù?”
“Questa è esattamente una di quelle cose che mi rende speciale, Bonner. Quello di cui parlavo poco fa. Una come me non ha niente da spartire con voi Prescelte.”
“Una come te.” – ripeté Rebecca, sprezzante. “Se sei qui, è perché sei una Prescelta anche tu, come tutte le altre. Forse non ti sei accorta che qui la tua posizione economica non conta niente. Ad Amtara siamo tutte uguali e tutte finiremo nello stesso identico modo.”
“Vedi, è qui che ti sbagli. Io non finirò come voi. Il mio futuro sarà decisamente…diverso.”
Rebecca aggrottò la fronte. Che intendeva dire con quelle parole? Forse pensava di riuscire a cavarsela, evitando di venire assegnata ad un Protetto come tutte le altre? La sua famiglia era davvero tanto potente? Ma allora che senso aveva la sua permanenza ad Amtara? Perché non se ne andava e non tornava alla sua vita di Strega tanto speciale?
C’erano tante cose che Rebecca non capiva. Prima fra tutte, come avesse fatto Morgana a rimanere sospesa nel vuoto, fuori dalla finestra, e riuscire a lanciare un Incantesimo.
Ma non era sicura di voler conoscere la risposta. Non le piaceva per niente la piega che stava prendendo quella conversazione, così come non le piaceva l’espressione diabolica di Morgana, che non lasciava presagire nulla di buono. Per la prima volta da quando la conosceva, vedeva in lei qualcosa di sinistro che la intimoriva, senza sapere perché. In fondo, si trattava semplicemente di Morgana, l’altezzosa, arrogante, presuntuosa, ricca e viziata Morgana di sempre.
No, non era la Morgana di sempre. C’era qualcosa di diverso in lei e Rebecca rabbrividì pensando che, forse, non era un caso che si trovasse lì con lei, da sola, a tarda sera, mentre tutta la scuola era avvolta nel silenzio.
All’improvviso, Rebecca ebbe paura. Dov’era finita la Poliglotter? Le aveva detto che sarebbe tornata entro pochi minuti, ma era sicura che fosse passata almeno mezz’ora.
Un lampo le attraversò la mente. E se le fosse successo qualcosa?
Ripensò alla sera in cui la Rudolf era stata attaccata. Posimaar poteva essere ancora nei paraggi. E se avesse attaccato anche la Poliglotter e nessuno avesse sentito niente? Per qualche ragione, provò l’irrefrenabile impulso di lanciarsi fuori dalla porta e andare a cercarla.
“Sai, sei veramente un’ingenua, Rebecca Bonner.” – continuò Morgana.”Per certi versi, mi deludi. Sei talmente scontata che ormai non mi diverto nemmeno più…”
Morgana scuoteva piano la testa, fissandola come se Rebecca fosse veramente l’essere umano più stupido del pianeta.
“Perché l’hai fatto?” – chiese Rebecca, in un soffio.
Aveva bisogno di sapere, di capire. Morgana la odiava, questo era ormai un dato di fatto. Voleva solo capire il perché. Non poteva trattarsi semplicemente di invidia o gelosia. Doveva esserci qualcosa di più.
“Lo scoprirai presto.”
“Che vuol dire? E poi non mi hai ancora spiegato come hai fatto a lanciare quel dannato Incantesimo stando attaccata alla finestra. Hai dei superpoteri di cui nessuno è a conoscenza?”
A quelle parole, Morgana ridacchiò.
Rebecca ne aveva abbastanza. Morgana non avrebbe mai risposto alle sue domande. Era evidente che si divertiva un mondo a rispondere in maniera evasiva, tenendola in sospeso con mille dubbi nella testa. Quella conversazione era del tutto inutile.
Morgana aveva ormai oltrepassato il limite. Fin dal suo arrivo ad Amtara, non aveva fatto altro che darle fastidio, cercando di importunarla in tutti i modi e di mettere i bastoni fra le ruote a lei, Brenda e Barbara. Ed ora era per causa sua se Rebecca si trovava lì, a tarda sera, nell’ufficio della Poliglotter, stanca, sporca, avvilita. Avrebbe dovuto essere nella sua camera, in compagnia delle sue migliori amiche, quasi pronta per infilarsi a letto e farsi una lunga e rigenerante dormita.
Era colpa sua se si trovava lì. Avrebbe dovuto esserci Morgana, al suo posto, con lo spazzolone in mano e i vestiti sgualciti. Lentamente, Rebecca avvertì la rabbia montare. Fu assalita da un’irrefrenabile voglia di prenderla a schiaffi.
“Adesso hai veramente passato il limite.” – disse, rabbiosa. “Non hai fatto altro che darmi il tormento da quando sei arrivata qui, ma ora basta. Non ho più intenzione di tollerare i tuoi sporchi giochetti. Quando tornerà la Poliglotter le racconterai quello che hai fatto. Non te ne andrai da qui senza prima averle confessato tutto. Deve sapere la verità.”
Morgana scoppiò in una risata sguaiata.
“Lo trovi divertente? Vedrai come ti divertirai quando la Collins ti sbatterà fuori a calci!”
Il riso sulle labbra di Morgana svanì.
Si alzò e mosse qualche passo verso di lei e le arrivò talmente vicina che Rebecca riuscì a sentire il suo alito caldo sulle guance.
Rebecca represse l’impulso di arretrare. Non le avrebbe concesso quella soddisfazione.
La sua mente, per qualche ragione, tornò alla grotta di Cogitus. Rebecca provò esattamente la stessa paura di allora. Si sentì come presa in trappola. Morgana non la stava nemmeno sfiorando, eppure il suo sguardo ipnotico le diede i brividi.
“Osi minacciarmi, Bonner?”
Rebecca non fiatò, limitandosi a sostenere quello sguardo diabolico. Respirava affannosamente e il suo respiro si confondeva con quello di Morgana, talmente erano vicine.
“Credi davvero che m’importi quello che la preside potrebbe farmi? Credi davvero che il peggio che mi possa capitare sia venire espulsa da questa dannatissima scuola?”
“Cosa ci sarebbe di peggio? Coraggio, dimmelo.”
Rebecca si stupì della sua stessa audacia. Morgana stava parlando di qualcosa a lei ignoto. Di cosa aveva paura? Cosa poteva accaderle di peggio di un’espulsione? Temeva forse la morte? Per mano di chi?
“Tu non sai niente. Niente!” – sibilò Morgana, allontanandosi da lei di scatto.
Rebecca si accorse di tremare.
Morgana le diede le spalle. C’era qualcosa, in quella strana ragazza, che ora le faceva una maledetta paura. Non sapeva spiegarsi il motivo, ma si fidava del suo istinto e l’istinto le suggerì di fuggire, finché era in tempo. Un campanello d’allarme scattò nella sua testa. Quella conversazione sarebbe presto degenerata in qualcosa di peggio, lo sentiva.
Sarebbe bastato un attimo. Ci avrebbe impiegato un paio di secondi a raggiungere la porta e squagliarsela. Doveva correre a cercare la Poliglotter e fare in modo che venisse a conoscenza della verità. Doveva sapere che Brenda aveva avuto ragione fin dall’inizio e che Morgana meritava di essere punita. E doveva anche sapere che, molto probabilmente, quella ragazza non aveva tutte le rotelle a posto. Forse, consultandosi con la Collins, avrebbero potuto fare qualcosa per lei, aiutarla, parlare con la sua famiglia. Un comportamento come il suo non poteva essere considerato normale. Morgana doveva avere seri problemi e qualcuno doveva aiutarla. Ma Rebecca non poteva fare nulla per lei. Tutto quello che poteva fare, al momento, era uscire di lì e dare l’allarme.
Ma Rebecca indugiò un momento di troppo.
Morgana si voltò nuovamente verso di lei e ora il suo sguardo sembrava quello di un folle. Sì, ora Rebecca non aveva più alcun dubbio: era pazzia quella che traspariva dal suo volto scarno.
“Sai cosa faremo, ora?” – riprese Morgana, con voce pericolosamente calma. “Qualcosa che avremmo dovuto fare molto tempo fa. Personalmente, ho già provato a risolvere la questione da sola ma purtroppo, per una serie di sfortunate circostanze, non ho potuto farlo.”
“Di che accidenti stai parlando?”
Rebecca si accorse del tono acuto della sua voce. Aveva una maledetta paura, ora.
“Ora la risolveremo insieme, come è giusto che sia.”
Prima che Rebecca riuscisse a registrare quelle parole, Morgana, agile come un felino, scattò verso la porta, chiudendola a chiave.
“Perché l’hai fatto?” – gridò Rebecca.
Morgana, per tutta risposta, agitò la chiave che aveva estratto dalla serratura, sotto il suo naso. Poi, sotto lo sguardo inorridito di Rebecca, la mise in bocca e la ingoiò.
Rebecca era inchiodata al pavimento. Quella chiave doveva essere lunga almeno quattro centimetri. Nessuno poteva ingoiarla rimanendo illeso.
Perlomeno, nessun essere umano.
L’improvvisa consapevolezza di ciò che quel gesto significava la colpì come un macigno. Chi aveva di fronte?
Disperata, cominciò ad arretrare, mentre Morgana avanzava verso di lei.
Dove diavolo era la Poliglotter? Le sembrava fossero passate ore da quando se n’era andata. Morgana aveva chiuso a chiave la porta, ma se l’insegnante fosse tornata Rebecca avrebbe gridato per chiedere aiuto. In qualche modo, avrebbe saputo come aprire quella dannata porta. Avrebbe potuto mettersi a gridare ora, in quell’istante, ma chi l’avrebbe sentita? A quell’ora dovevano essere già tutti a letto, perfino gli Gnomi, che Rebecca sapeva si alzavano molto presto al mattino per preparare la colazione delle. Amtara era immersa nel silenzio, non l’avrebbe sentita nessuno.
Morgana avanzò e Rebecca arretrò ancora, fino a quando le sue spalle cozzarono contro la finestra dietro di lei. Era in trappola.
La guardò. Aveva ingoiato una chiave come fosse una caramella. L’aveva mandata giù senza battere ciglio, come la cosa più naturale del mondo. Cosa si celava dietro quegli occhi di ghiaccio? Quale creatura si animava dietro quello sguardo inquieto e terrificante? Chi, o meglio, cosa era veramente Morgana Curter?
Rebecca non era sicura di voler conoscere la risposta, ma era certa che stava per scoprirlo.
Terrorizzata, decise di utilizzare l’ultima arma a sua disposizione.
La Poliglotter non avrebbe potuto abbandonarla lì fino al mattino seguente, prima o poi sarebbe tornata nel suo maledettissimo ufficio. Doveva pur controllare che Rebecca avesse compiuto il suo dovere. Non doveva fare altro che prendere tempo, pregando Dio di far comparire l’insegnante entro i prossimi cinque minuti.
“Senti, perché non proviamo a ragionare? Siamo partite fin dall’inizio col piede sbagliato. Sono sicura che, parlandone, possiamo chiarire ogni cosa.”
Morgana sorrise. “Hai paura, vero? Te lo leggo negli occhi. Ne sento perfino l’odore.”
Rebecca digrignò i denti. Morgana aveva ragione. Se la stava facendo sotto dalla paura.
“Bel tentativo, comunque.” – aggiunse Morgana. “Un po’ patetico, forse. Potevi fare di meglio.”
“Non stavo scherzando.” – riprovò Rebecca. “Possiamo ancora risolverla in maniera civile, non credi? Forse, potremmo perfino diventare amiche.”
Morgana scoppiò a ridere.
Rebecca stava tentando il tutto per tutto. Ormai non aveva più niente da perdere. Non ragionava più, inchiodata contro la finestra, il cuore che batteva impazzito.
“Credi davvero che questo servirà a risparmiarti la vita?”
Quella parole la raggelarono. Impietrita, Rebecca la fissò, cercando di capire se stesse scherzando. Ma non c’era ombra di divertimento sul suo volto adombrato.
Morgana era seria.
Voleva ucciderla.
Ma perché, in nome del cielo?
La paura di Rebecca si trasformò in panico.
Pensò a Brenda e Barbara, di sopra, nella loro stanza, rannicchiate sotto le coperte a domandarsi dove fosse finita e per quale motivo la sua punizione stava durando così tanto. O forse si erano già addormentate, pensando che l’avrebbero ritrovata il mattino dopo nel suo letto.
Con ogni probabilità, invece, avrebbero ritrovato il suo cadavere in quel piccolo e angusto ufficio. Gran bel modo di morire. Non le aveva nemmeno salutate, o almeno, non ricordava di averlo fatto. Era tutto talmente confuso, nella sua testa.
Morgana voleva ucciderla. Doveva essere impazzita, non c’era altra spiegazione. Era quello, dunque, il motivo per cui l’aveva presa di mira, fin dal primo giorno. Ma perché non l’aveva fatto subito? Perché aveva aspettato tutto quel tempo? Avrebbe voluto chiederglielo, ma le parole le morirono in gola. Aveva la gola secca e faceva fatica a respirare. In fondo, era davvero importante saperlo? Sarebbe comunque tutto finito entro pochi minuti. La sua vita, il suo futuro, tutto svanito in una bolla di sapone. Avrebbe raggiunto sua madre, avrebbe rivisto il suo viso angelico. L’avrebbe riabbracciata.
No, non poteva arrendersi così. Doveva lottare. Aveva già combattuto contro Cogitus, Morgana non poteva essere più pericolosa di un licantropo, anche se aveva ingoiato una chiave di quattro centimetri.
No, Rebecca non era una codarda. Avrebbe sputato sangue e gliel’avrebbe fatta pagare cara, a suo modo. Se proprio doveva morire, avrebbe venduto cara la sua pelle. Non importava se nessuno lo avrebbe mai saputo, era importante per lei. Non sarebbe morta senza lottare, senza combattere. Non era nel suo stile.
Fu allora che accadde, e il suo cervello si svuotò di ogni pensiero. Sentì solo la paura che le paralizzava le gambe.
Di tutti gli avvenimenti accaduti nella sua breve vita, Rebecca aveva sempre pensato che niente era stato peggio che vedere il professor Cogitus trasformarsi in un gigantesco lupo di fronte ai suoi occhi. Era qualcosa che non avrebbe mai dimenticato per il resto della vita. Si trattava di Magia Nera, qualcosa di talmente oscuro che le Streghe Bianche evitavano perfino di parlarne. Prendere il pieno comando del corpo di qualcuno, piegarlo ai propri voleri, fino ad indurlo a trasformarsi in una belva terribile, era quel genere di cose che segnava il confine tra Magia buona e Magia oscura. Era la differenza tra il bene e il male. Posimaar era il male e il povero professor Cogitus, in fondo, solo una vittima molto ingenua e molto stupida.
Rebecca credeva che mai le sarebbe capitato di vedere qualcosa di peggio.
Si sbagliava.
Morgana era di fronte a lei e la fissava con sguardo truce. Per un folle istante, Rebecca pensò che ci avrebbe ripensato. In fondo, non era quello né il momento né il luogo più adatto per commettere un omicidio. Erano nell’ufficio di un professore, che sarebbe potuto rientrare da un momento all’altro. Morgana non avrebbe avuto scampo. Avrebbe trascorso probabilmente il resto della sua vita in prigione. Era davvero questo quello che voleva? Gettare al vento la sua intera esistenza per quello che, agli occhi di Rebecca, era solo uno stupido capriccio? Sì, perché non c’era altra ragione per spiegare quella follia assurda. Più ci pensava, più tutto quello non aveva alcun senso. Rebecca non conosceva Morgana, prima del suo arrivo ad Amtara. Non c’era alcuna ragione valida perché lei volesse ucciderla. A meno che… a meno che Morgana, proprio come il professor Cogitus, non fosse in sé… a meno che non fosse posseduta da qualcuno…
Rebecca fece appena in tempo a formulare questo pensiero nella sua mente, che i suoi peggiori timori si rivelarono fondati.
Sotto i suoi occhi impietriti, il volto di Morgana cominciò, gradualmente, a cambiare colore, fino a diventare marrone. Gli occhi grigi assunsero una tonalità giallo ocra e si assottigliarono, simili a quelli di un’aquila. Ma la cosa più terrificante fu vedere il suo corpo cambiare forma, raddoppiare di dimensioni, mentre gli abiti si laceravano in più punti. Il suo corpo cominciò a ricoprirsi di una folta peluria marrone e al posto delle unghie spuntarono lunghi artigli affilati. I lunghi, setosi capelli neri lasciarono il posto ad un cespuglio di peli marroni e le labbra si aprirono in uno spaventoso ghigno diabolico, scoprendo i lunghi e affilati denti gialli.
Non c’era più alcuna traccia della minuta ragazza che fino a un attimo prima le stava di fronte. Ora davanti a lei c’era un mostro, che la sovrastava in altezza di almeno mezzo metro.
Rebecca tremò.
Il mostro ringhiò, facendosi ancora più vicino.
Disperata, Rebecca lanciò un’occhiata alla porta. Non sarebbe mai riuscita a raggiungerla in tempo, e se anche lo avesse fatto aveva poche speranze di scappare, dal momento che Morgana aveva fatto sparire la chiave.
Rimaneva la finestra, dietro di lei, come unica possibilità di salvezza. Ma se si fosse gettata di sotto, sarebbe morta comunque. Se invece fosse rimasta, il mostro l’avrebbe sbranata viva. In un caso o nell’altro, non aveva scampo.
Rebecca, paralizzata dalla paura, fissava i denti gialli, talmente vicini, ora, da poter sentire il fetido alito sulla sua pelle. Represse un conato di vomito, imponendosi di non muoversi. Non aveva alcun senso scappare, non sarebbe andata da nessuna parte.
Dov’era sua madre? La stava guardando? Aveva promesso di proteggerla, sempre e comunque. Perché non le mandava un aiuto, un segnale, qualunque cosa che l’avrebbe aiutata a salvarsi, come aveva fatto con quel pugnale d’argento? Era forse davvero arrivata la fine? Per questo sua madre non interveniva?
Rebecca chiuse gli occhi. Aveva sentito dire che, poco prima di morire, le persone rivivono nella mente tutta la loro vita, in un rapido flashback. Davanti a lei scorsero diverse immagini, il corpo di Alvis, l’aggressione della professoressa Rudolf, se stessa nel fiume mentre trascinava a riva il corpo di Alyssa e, infine, la lotta nel fiume, il morso alla gamba, i tagli sul corpo, la lotta per restare a galla e non affogare.
Riaprì gli occhi, di scatto.
Ora era tutto chiaro. Dopo mesi e mesi di domande che non avevano avuto risposta, era bastato un attimo per far combaciare alla perfezione tutti i pezzi del puzzle.
Finalmente sapeva quello che era accaduto ad Amtara. Non era Posimaar, ma Morgana, la responsabile della morte di Alvis, dell’aggressione alla Rudolf ed era sempre lei che aveva cercato di ucciderla, nel fiume. Lei, o meglio, quel mostro indefinibile in cui si era appena trasformata. Non era un lupo, anche se per certi versi vi somigliava. Non camminava a quattro zampe ed era molto più gigantesco e spaventoso perfino di Cogitus. Rebecca non aveva mai visto niente del genere in tutta la sua vita.
Adesso sapeva chi era il responsabile, ma le scappò quasi da ridere pensando che non avrebbe mai potuto confessare la verità a nessuno. Stava per morire e quel segreto sarebbe stato sepolto con lei. Il mostro avrebbe avuto campo libero ad Amtara. Avrebbe potuto attaccare e uccidere le Prescelte, i professori, gli Gnomi. Avrebbe compiuto una strage e lei non avrebbe potuto fermarla, perché sarebbe stata la prima a morire per mano sua. Pensò nuovamente a Brenda e Barbara e le venne da piangere.
Se solo avesse scoperto la verità prima, ora non si sarebbe trovata in quella situazione. Se solo non fosse stata così cieca… Era chiaro che solo Morgana poteva essere il colpevole, il suo odio nei suoi confronti era risaputo da mesi. Perché non ci aveva pensato? Aveva pensato sempre e solo a Posimaar, senza immaginare che il pericolo, in realtà, era proprio sotto i suoi occhi, ogni santo giorno.
Ma ormai era troppo tardi…
Il mostro, all’improvviso, spalancò la bocca ed emise un grido agghiacciante, lanciandosi contro di lei. Nonostante tutti i suoi ultimi pensieri di arrendevolezza, l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e Rebecca schizzò via, rifugiandosi dalla parte opposta della stanza.
Con un balzo, il mostro la raggiunse e alzò un braccio per colpirla. Rebecca schivò il colpo e corse sotto la scrivania.
“Ruber bulla!” – gridò, alzando una mano verso di lui.
Rimase in attesa per alcuni secondi fin quando si rese conto, con un misto di frustrazione e raccapriccio, che l’Incantesimo Imbollitore non aveva funzionato. Aveva sperato di riuscire a ricoprire il suo corpo di pestilenziali e dolorose bolle rosse, che lo avrebbero tenuto a bada per un po’, ma evidentemente quel genere di Incantesimo non funzionava con un gigante di quella taglia.
Che razza di mostro si celava dietro Morgana? Non era un Orco, tanto meno un Vampiro e nemmeno un Ciclope. Non somigliava a nessuna creatura magica che Rebecca conosceva. Si maledì mentalmente, pensando che se solo avesse letto qualche libro in più, probabilmente avrebbe potuto riconoscerlo e annientarlo.
La bestia, aizzata da quel tentativo andato male, s’infuriò ulteriormente. Lanciò un urlo agghiacciante che le fece drizzare i capelli sulla nuca.
Ora, però, era impossibile che nessuno, là fuori, l’avesse sentito. Il mostro avrebbe dovuto svegliare tutta la scuola. Ormai era solo questione di attimi, prima che qualcuno venisse a controllare che stava succedendo nell’ufficio della Poliglotter. Magari la Poliglotter stessa, che sarebbe dovuta rientrare, secondo le stime di Rebecca, ore prima.
Doveva solo trovare il modo di tenere a bada il suo aguzzino fino a quando non sarebbe arrivato qualcuno. E doveva fare il possibile affinché, al loro arrivo, non trovassero il suo cadavere.
Le venne un’idea improvvisa.
Volse le mani verso di sé e gridò “Obscuro!”
Rebecca capì che l’Incantesimo aveva funzionato, nel momento stesso in cui vide il suo nemico bloccarsi. Da sotto la scrivania, le scappò quasi da ridere osservando, non vista, il mostro roteare gli occhi e guardarsi intorno, con aria smarrita. L’Incantesimo Oscurante era stata un’idea grandiosa. Se solo ci avesse pensato prima, si sarebbe risparmiata attimi di puro terrore.
Ma doveva agire alla svelta. Il mostro non era così stupido da pensare che lei fosse svanita nel nulla, e la stanza non era grande abbastanza per permetterle di sfuggirgli troppo a lungo. Prima o poi, visibile o invisibile, il mostro sarebbe comunque riuscito ad acciuffarla.
Cercando di non far rumore e trattenendo il fiato, Rebecca sgusciò da sotto la scrivania e, a passi lenti e misurati, si avvicinò alla porta, passando proprio dietro di lui.
Rebecca sapeva che stava rischiando grosso. La porta era chiusa a chiave e la chiave era sparita. Ma doveva tentare. Afferrò la maniglia e la tirò verso il basso. Era una vecchia porta di legno, di un edificio antico e datato. Forse, se la fortuna fosse stata dalla sua parte, sarebbe riuscita a scardinare la serratura prima che il mostro, che si trovava pochi passi dietro di lei, se ne accorgesse. Aveva a disposizione una manciata di secondi, lo sapeva.
Rebecca provò a tirare con forza e un rivolo di sudore le imperlò la fronte quando la porta fece rumore, troppo rumore perché il suo nemico non lo sentisse.
Si voltò e il suo cuore sprofondò.
La bestia si era girata di scatto e fissava la maniglia abbassata.
Fu questione di un attimo. Rebecca scartò di lato, proprio un istante prima che il mostro le piombasse addosso. Sapeva che lei era lì, momentaneamente protetta da un Incantesimo che l’aveva resa invisibile, ma non incorporea. Avrebbe potuto ucciderla anche così, sarebbe bastato un attimo, una frazione di secondo, un colpo assestato al momento giusto con quegli artigli lunghi e affilati.
Ci aveva già provato in acqua, nel fiume. Le aveva quasi tranciato una gamba e Rebecca non aveva dimenticato i graffi e i lividi riportati in quella tremenda lotta. Se non fosse stato per il provvidenziale arrivo del professor Garou, non sarebbe sopravvissuta. Stavolta, però, avrebbe dovuto cavarsela da sola. Era chiaro, ormai, che nemmeno Banita sarebbe venuta in suo aiuto.
Il mostro si voltò ancora, irritato dalla sua fuga. Quel gioco non era di suo gradimento e cominciava a spazientirsi.
Rebecca si era rifugiata in un angolo accanto alla finestra. Trattenne il fiato, cercando di placare i battiti accelerati del suo cuore, quasi temendo che il mostro potesse sentirli.
Appoggiò una mano sul suo cuore e chiuse gli occhi. Non doveva permettere al panico di prendere il sopravvento. L’effetto dell’Incantesimo non sarebbe svanito tanto presto. Aveva ancora tempo, tempo durante il quale avrebbe ancora potuto contare sull’effetto sorpresa.
Ma dove diavolo si era cacciata la Poliglotter? Che fosse andata a dormire lasciandola lì, da sola? Si era dimenticata di lei? E perché nessuno era accorso, dopo che il mostro aveva gridato? Era impossibile che avessero tutti il sonno così pesante!
Attese che il battito del suo cuore tornasse regolare, poi avanzò lateralmente, tenendosi rasente al muro. Sapeva che muoversi era pur sempre un rischio, perché, anche se era diventata invisibile agli occhi del mostro, questi aveva un ottimo udito.
Si fermò per lanciargli un’occhiata e trattenne il fiato. Ebbe l’impressione che il mostro stesse annusando l’aria. Forse cercava di seguire il suo odore, per individuare il punto esatto in cui si trovava?
Rebecca soffocò un gemito. Aveva passato tutta la sera a pulire e la temperatura nella stanza era piuttosto alta. Non ebbe il coraggio di odorare i suoi abiti, ma sapeva che non profumavano certo di primavera, in quel momento. Inoltre, aveva sudato parecchio, soprattutto negli ultimi minuti. Perfino un essere umano, probabilmente, in quel momento avrebbe riconosciuto il suo cattivo odore da una certa distanza. Quanto ci avrebbe impiegato una bestia di quel genere, che doveva avere l’olfatto sviluppato come quello di un animale?
Rebecca ormai non ce la faceva più. Era esausta. Era in piedi da ore, aveva pulito tutta la stanza, le dolevano i piedi, i muscoli e aveva un principio di mal di testa. Nonostante questo, era costretta a rimanere vigile e all’erta come un gatto, se non voleva morire. Ma la stanchezza poteva prendere il sopravvento da un momento all’altro, e sarebbe bastato un minimo passo falso per decretare la sua fine.
No, non poteva mollare proprio adesso. Doveva tenere duro e combattere. Prima o poi sarebbe arrivato qualcuno… doveva solo resistere ancora un po’… solo un po’…
Ma cos’avrebbe fatto se, nel frattempo, l’Incantesimo Oscurante fosse svanito? Allora la bestia non avrebbe avuto più alcun bisogno di cercare, di annusare… l’avrebbe uccisa e tutto sarebbe finito.
In un attimo di stanchezza, Rebecca chiuse gli occhi. Vide il volto sereno di sua madre che le sorrideva, avvolto dalla luce, nella sua camera. Si abbandonò a quel dolce ricordo e la tensione l’abbandonò, i muscoli si rilassarono e un lieve sorriso le increspò le labbra. In un attimo, tutto si dissolse come neve al sole. Come d’incanto, non esisteva più nulla, se non il sorriso di sua madre e quell’incredibile sensazione di pace.
Poi, un secco rumore alla porta la riportò alla realtà.
Riaprì gli occhi, di scatto.
Finalmente, le sue preghiere erano state esaudite. Finalmente era arrivato qualcuno.
Era salva. Le venne quasi da piangere.
Il mostro si era voltato di scatto verso la porta.
“Bonner! Bonner! Apri subito questa porta!”
La Poliglotter!
Rebecca non era mai stato tanto felice di sentire la voce di qualcuno come in quel momento. Era talmente felice che ebbe voglia di correre verso la porta, buttarla giù a calci e abbracciare la sua insegnante di Lingue Demoniache.
Fu proprio quello che cercò di fare, guidata dall’istinto. Si gettò verso la porta, abbassò di nuovo la maniglia e tirò con tutte le sue forze.
La porta era bloccata.
Aprì la bocca per rispondere all’insegnante, quando una fitta di dolore al braccio destro la costrinse a mollare la presa.
Il mostro aveva agito in un lampo. Aveva sollevato gli artigli e colpito alla cieca, riuscendo a graffiarle il braccio.
Rebecca abbassò lo sguardo sull’arto ferito e si rese conto, con orrore, che non si trattava di una ferita leggera. Sanguinava copiosamente e dovette fare un enorme sforzo su se stessa per non svenire. Nemmeno in acqua aveva sofferto così tanto.
“Bonner! Sei lì? Rispondimi! La porta è bloccata!” – urlò di nuovo la Poliglotter.
In quel preciso istante, Rebecca si accorse che l’effetto dell’Incantesimo stava svanendo. Ancora pochi istanti e sarebbe tornata visibile. Non poteva farsi uccidere proprio adesso. Aveva resistito, aveva combattuto, era di nuovo rimasta ferita... non avrebbe mollato proprio ora.
“Professoressa, mi aiuti! Deve aprire questa porta!” – gridò.
Il mostro, davanti a lei, la fissava con occhi famelici.
Rebecca era tornata visibile.
Era la fine.
Indietreggiò, cercando di restare in piedi, nonostante le forze venissero meno. Stava perdendo troppo sangue e bisognava assolutamente fare qualcosa per bloccare l’emorragia.
Non c’era più tempo.
Il suo sguardo si posò su una piastrella. Un rivolo rosso era colato lungo il bordo. Si era impegnata tanto per tirare a lustro il pavimento e ora avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo.
Ma cosa andava pensando? Era quello, forse, il principio della pazzia? Le venne da ridere. Sì, forse stava proprio impazzendo. La follia che s’impossessava di lei, un attimo prima che la morte venisse a prenderla.
Il pavimento era sporco di sangue, qualcuno doveva pulirlo. Ci avrebbero pensato gli Gnomi, il mattino dopo, e avrebbero anche portato via il suo corpo, coperto da un lenzuolo…
Che fine terribile… Non avrebbe mai più rivisto Brenda e Barbara… Avrebbe tanto voluto salutarle un’ultima volta… Se non altro, si sarebbe ricongiunta con mamma e papà, anche se era così triste dover morire a soli diciannove anni. In fondo, pur avendo un destino segnato come Prescelta, la vita non le dispiaceva affatto… C’erano ancora così tante cose che avrebbe potuto fare…
All’improvviso, udì un latrato, vicino, vicinissimo…
Capì di non essere morta, dal fetore del respiro della bestia sopra di lei. Spostò la testa di lato e chiuse gli occhi.
Senza nemmeno rendersene conto, doveva essersi accasciata a terra, ormai priva di forze e di energia per difendersi. Non era riuscita ad arrestare l’emorragia e il mostro ora incombeva su di lei, pronto ad attaccare.
Rebecca respirava affannosamente, in preda ad una cieca disperazione. Ormai era completamente nelle sue mani. La Poliglotter non avrebbe potuto fare niente per salvarla.
Era la fine.
Avvertì un rumore secco e si voltò appena, riaprendo gli occhi. Nel suo campo visivo intercettò la Poliglotter, che, non si sapeva come, era riuscita a forzare la porta ed entrare.
Il mostro si volse di scatto, spaventato.
Rebecca, indebolita dalla perdita di sangue, non potè fare nulla per fermarlo. La bestia si allontanò da lei per avventarsi sulla povera insegnante, che non fece in tempo a reagire e fu colpita in pieno petto dai suoi artigli.
“No…” – mormorò Rebecca, inorridita.
Il colpo fu tale che la Poliglotter fu scagliata fuori dalla stanza. Rebecca udì distintamente il suo urlo disumano, poco prima di ricadere a terra, forse ferita a morte.
In un ultimo barlume di lucidità e con uno sforzo sovrumano, Rebecca si rialzò in piedi e si lanciò fuori dalla stanza, alla disperata ricerca della salvezza. Sapeva che quella sarebbe stata l’ultima occasione per farlo. Senza l’aiuto dell’insegnante, non avrebbe avuto scampo.
Ma il mostro si voltò di scatto, attirato dai suoi passi veloci.
“Attenta!” – urlò la Poliglotter.
La bestia era dietro di lei e si lanciò in avanti, tendendo gli artigli.
“Il fuoco! Usa il fuoco!”- gridò la Poliglotter.
Rebecca non capì dove trovasse la forza di gridare. Il suo petto era squarciato e respirava a stento.
Che diavolo voleva dire con quelle parole?
Poi, la sua mente s’illuminò. Nel suo cervello apparve l’immagine di Morgana, terrorizzata da un fantoccio in fiamme.
Perché non ci aveva pensato prima? La Poliglotter aveva ragione! Il mostro temeva il fuoco, avrebbe dovuto usare quello per sconfiggerlo!
“Ignis!” – gridò girandosi verso di lui, proprio un attimo prima che quello la colpisse.
Un lampo di fuoco si sprigionò dalle dita di Rebecca e il mostro arretrò, terrorizzato, ma ormai preso in trappola.
Le fiamme lambirono il suo corpo e la bestia cominciò a contorcersi dal dolore, lanciando terribili ululati.
Rebecca non aveva più forze in corpo, ma non mollò la presa e restò a guardare il corpo gigantesco di fronte a lei soccombere dinanzi alla potenza delle fiamme.
Un intenso odore di carne bruciata invase la stanza. Poi, una violenta esplosione scagliò il corpo di Rebecca fuori dalla stanza.
La Poliglotter era accanto a lei. La ferita era profonda, ma la donna era ancora viva. Si scambiarono un’occhiata, in silenzio, mentre il fumo all’interno della stanza cominciava a diradarsi.
Rebecca non sentiva più alcun rumore. Forse ce l’aveva fatta, forse era riuscita ad ucciderlo, finalmente.
A fatica, si rialzò in piedi e mosse qualche passo incerto verso l’ufficio, zoppicando e respirando affannosamente.
“Sta attenta.” – l’ammonì la Poliglotter, con voce flebile.
Rebecca non rispose, ma rimase in allerta. Se il mostro era ancora vivo, stavolta l’avrebbe uccisa, perché era ormai troppo stremata e debole per reagire nuovamente ai suoi attacchi.
Ma nella stanza regnava un silenzio surreale.
Rebecca esitò. Aveva paura a muovere un altro passo e rimase immobile, sulla soglia.
Il fumo provocato dall’esplosione stava svanendo lentamente.
Si guardò intorno ma non vide nessuno. Possibile che il mostro fosse svanito nel nulla? L’Incantesimo Incandescente non aveva quel potere.
Poi, il suo sguardo si spostò verso il basso e il respiro le si mozzò in gola.
Il corpo di Morgana giaceva a terra, immobile e composto.
 
 
 
 

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Capitolo 26
*** Macabra scoperta ***


Rebecca non ebbe il coraggio di avvicinarsi al corpo di Morgana.
Era morta?
O stava solo dormendo?
Se l’Incantesimo Incandescente aveva funzionato, doveva averla uccisa.
Mille pensieri attraversarono la sua mente, ma non ebbe la forza di indugiare su di essi. Aveva qualcosa di più urgente di cui occuparsi, al momento. Cercare la salvezza per lei e la Poliglotter. Entrambe avevano perso molto sangue, soprattutto l’insegnante, tanto che Rebecca si domandava come potesse essere ancora viva.
Doveva chiamare i soccorsi, o non sarebbero vissute abbastanza per raccontare quello che era accaduto in quella spaventosa e lunghissima serata.
Uscì dalla stanza e si accovacciò accanto alla Poliglotter, che ora respirava a stento.
Rebecca si allarmò.
“Professoressa. Mi sente?”
La Poliglotter aprì gli occhi.
Era pallidissima.
“Ce l’hai fatta.” – mormorò.
“Ce l’abbiamo fatta.” – la corresse.
L’insegnante emise un lieve sospiro.
“Professoressa, devo andare a cercare aiuto.”
“Sì.”
“Farò il più in fretta possibile.”
Con le ultime forze che le rimanevano, Rebecca fu di nuovo in piedi. Per un istante, vacillò, in preda alle vertigini. Avrebbe bussato alla prima porta, gridando con quanto fiato aveva in corpo, pur di farsi sentire.
Era strano che nessuno fosse ancora accorso, dopo tutto il baccano che avevano fatto. Eppure, Amtara era avvolta nel silenzio. Si udiva solo il respiro strozzato della Poliglotter.
Doveva sbrigarsi, o sarebbero morte lì, assurdamente.
“R-rebecca.”
Rebecca si bloccò.
Non era la voce della Poliglotter.
Proveniva dal suo ufficio.
Morgana.
“Rebecca…ti prego…”
Era un suono flebile, quasi un sussurro, ma che Rebecca udì distintamente, nel silenzio ovattato di Amtara.
Il suo cuore accelerò.
Non si mosse.
Morgana la stava chiamando, ma la Poliglotter avrebbe rischiato di morire se avesse aspettato ancora.
Eppure, la ragazza doveva essere ormai in fin di vita. Quelli erano i suoi ultimi istanti e Rebecca non avrebbe potuto ignorarla tanto impunemente.
All’improvviso, un disperato ed urgente bisogno di conoscere la verità le fece dimenticare per un istante ogni cosa, dove si trovava, l’impellente necessità di chiedere aiuto.
Tutto.
Ignorando la vocina interiore che le suggeriva di lasciar perdere, Rebecca imprecò mentalmente ed entrò nella stanza. Aveva bisogno di sapere, di capire, di conoscere ogni aspetto di quella vicenda talmente assurda da sembrare completamente irreale. Si sentiva come parte di un sogno, come se tutto quello che aveva vissuto in quegli ultimi mesi non fosse accaduto veramente.
Doveva ascoltare quello che Morgana aveva da dirle, forse per l’ultima volta.
Avrebbe conosciuto la verità, finalmente.
Perché Morgana temeva il fuoco? Che genere di creatura era quella contro cui Rebecca aveva combattuto finora?
“Rebecca…”
Morgana giaceva ancora a terra. Non si era mossa, ma il suo volto era girato verso di lei.
Rebecca si avvicinò.
I suoi occhi grigi brillavano. Non c’era più traccia dell’astio e del rancore che Rebecca aveva conosciuto fino ad allora. Il suo volto era sereno. Non riportava ferite, eppure era sofferente come se fosse stata in punto di morte. I suoi abiti erano puliti e intatti, i capelli in ordine.
Capì di avere di fronte una persona completamente diversa da quella che aveva conosciuto.
Rebecca si accovacciò accanto a lei, senza parlare.
Si guardarono, per un attimo che parve infinito.
Rebecca era stanca, ma attese.
Morgana respirava piano, come se una forza misteriosa le stesse lentamente succhiando via la vita.
Rebecca non capiva. Era sopravvissuta all’Incantesimo, non riportava alcuna ferita, eppure era pallida e sembrava terribilmente sofferente. Cosa le stava accadendo? Il suo respiro era debole, affannoso, come se i polmoni dovessero scoppiarle nel petto da un momento all’altro. Ogni volta che inspirava aria, il suo viso si contraeva in una smorfia di dolore.
Rebecca provò pena per lei.
“E’…è stato Lui a farmi questo.”
Furono poche, semplici parole, ma colpirono Rebecca come un pugno nello stomaco.
Posimaar.
Come Rebecca aveva immaginato, fin dall’inizio, Posimaar si era nuovamente impossessato del corpo di qualcuno per ucciderla, proprio come aveva fatto con Cogitus. Solo che questa volta si era servito di una Strega innocente.
“Si è impadronito di me. Non ho potuto fare nulla. Dovevo ucciderti.”
Più Morgana parlava, rivelandole quella terribile verità, più Rebecca avrebbe voluto tapparsi le orecchie e scappare via.
Non voleva sentire. Non voleva sapere quanto grande fosse il desiderio del Demone Supremo di ucciderla, al punto da sconvolgere la vita di una ragazza qualunque.
Se non altro, Cogitus si era volontariamente unito a Posimaar, nell’ingenua convinzione che il Demone l’avrebbe debitamente ricompensato se avesse ucciso Rebecca Bonner.
Morgana, invece, era solo una vittima.
“Mi dispiace.”
Un attacco di tosse la investì, costringendola a sollevarsi leggermente sul gomito.
“Ssht. Sta’ calma.” – le disse Rebecca, d’istinto.
Era tutto chiaro, adesso. Ecco perché quella ragazza l’aveva sempre ostacolata, derisa, oltraggiata. Non si trattava di Morgana, ma di lui.
Non c’era mai stata una ragione valida per tutte le azioni che Morgana aveva compiuto contro di lei. Si trattava, semplicemente, del Demone Supremo.
La risposta era sempre stata lì, davanti ai suoi occhi.
E se Rebecca aveva immaginato che Posimaar fosse là fuori, da qualche parte, pronto a colpire, ma e poi mai avrebbe potuto pensare che il suo nemico agisse dall’interno, che vivesse sotto il suo stesso tetto. Il pericolo era sempre stato lì, a un passo da lei, ed era solo grazie ad una serie fortuita di circostanze che era riuscita a sconfiggerlo, non da ultimo il tempestivo intervento della Poliglotter.
La tosse si placò.
Rebecca capì che Morgana stava esalando i suoi ultimi respiri, ma non c’era più tempo.
La Poliglotter aveva bisogno di lei.
Doveva andarsene.
“Morgana, io…”
“No, lasciami finire. Devi sapere. Devi sapere ogni cosa. Non posso morire con questo rimorso… non posso.”
Rebecca esalò un lieve sospiro e annuì.
“Per tutto il tempo non mi accorgevo di quello che facevo. Era lui a comandare ogni mio gesto, ogni parola. Lui era dentro di me. Il mio odio era il suo, il mio risentimento era il suo.”
“Lo so.”
Rebecca non aveva la minima idea di cosa significasse essere posseduti da qualcuno. Posimaar aveva anche questo potere e il fatto che avesse osato usare Morgana la fece fremere di rabbia.
All’improvviso, si rese conto di non aver mai conosciuto la vera Morgana Curter e non avrebbe mai potuto farlo.
Aveva di fronte un’estranea, che le stava chiedendo perdono per una colpa che non aveva commesso.
“Mi dispiace.” – ripetè Morgana, con voce flebile.
Rebecca non riuscì a parlare. Gli avvenimenti degli ultimi mesi passarono nella sua mente, come un lampo, in rapida successione, senza una collocazione precisa. Tutto era confuso. Ci avrebbe messo un po’ per ricomporre esattamente tutti i pezzi del mosaico.
“Devo andare a cercare aiuto. Aspettami qui.”
“E’ troppo tardi…”
“No, arriverà qualcuno. Sono certa che…”
“No.”
Morgana chiuse gli occhi.
Rebecca soffocò un gemito, pregando in cuor suo che li riaprisse, che restasse con lei.
Non poteva morire così, non poteva…
Si avvicinò con cautela, sperando di sentire ancora il suo respiro.
Ma non c’era più alcuna traccia di vita in lei.
Morgana era morta.
Rebecca trattenne a stento le lacrime. Era tutto talmente ingiusto…
Ma doveva pensare alla Poliglotter, ora. A Morgana ci avrebbe pensato dopo. Ormai, non poteva fare più nulla per lei.
C’erano così tante cose che avrebbe voluto dirle, ma non ne aveva avuto il tempo. Ebbe voglia di urlare. Aveva bisogno di tempo per riflettere, per capire, per decidere, per perdonare e perdonarsi. Ma, ancora una volta, Rebecca fu costretta ad anteporre la necessità ai suoi bisogni. Non era quello il momento delle riflessioni.
Trascinò il suo corpo stanco e ferito, ancora una volta, fuori dall’ufficio e si accorse, con orrore, che la Poliglotter era svenuta.
“Professoressa! Professoressa! – gridò, scuotendola con forza, cercando di non guardare lo squarcio sanguinante sul suo petto.
“Dio, no!”
L’insegnante era immobile.
Era tutta colpa sua. Aveva aspettato troppo. Aveva preso la decisione sbagliata, attardandosi a parlare con Morgana e ora erano morte entrambe.
Non era riuscita a salvare la sua insegnante, la persona grazie alla quale era ancora viva.
Disperata, si guardò attorno.
“Dio, possibile che nessuno ci senta? AIUTO! AIUTO!”
Il corridoio era deserto.
 “Bon-ner…”
Rebecca sussultò.
“Professoressa! Dio ti ringrazio! E’ ancora viva!”
Senza ulteriori indugi, Rebecca si alzò, scivolando sul pavimento imbrattato di sangue.
Che ora poteva essere? Le sembrava fosse passato un secolo da quando era entrata in quel dannato ufficio per la sua punizione. Aveva perso completamente la cognizione del tempo. Da quando Morgana era entrata nell’ufficio, aveva smesso di contare i minuti, preoccupandosi solo di rimanere viva.
Doveva essere notte fonda, a giudicare dal silenzio in cui erano immersi i corridoi.
Dovevano essere tutti a letto.
Cominciò a scendere le scale, lentamente, reggendosi fermamente al corrimano.
Il sangue sul suo braccio si era raggrumato ed ebbe l’impressione che l’emorragia si fosse fermata. Forse, dopotutto, la ferita non era poi così grave.
La Poliglotter era decisamente messa peggio, tanto che era quasi un miracolo che fosse ancora viva. La sua tempra era davvero eccezionale, ma Rebecca non poteva più permettersi di farla aspettare ancora.
Scendendo, una nuova vertigine la colse. Si fermò, aspettando che passasse. Da quando aveva cominciato ad usare il suo Potere, si era abituata a quel genere di sensazioni e, col tempo, aveva imparato a gestirle.
Quando si sentì meglio, riprese a scendere. Si sentiva sempre più debole, ma doveva resistere.
Sugli ultimi gradini, inavvertitamente, mise un piede in fallo e scivolò. Allungò la mano per sorreggersi al corrimano, ma mancò la presa.
Ruzzolò giù e la sua testa andò a sbattere contro qualcosa di duro.
Un istante prima di perdere conoscenza, ebbe la fugace visione di qualcuno che le si avvicinava, ma fu solo un attimo.
Poi, il buio la inghiottì.
 
Terminata la cena, Brenda e Barbara indugiarono a lungo in Sala da Pranzo, fino a quando non si svuotò del tutto. Erano terribilmente in pensiero per Rebecca e l’ultima cosa che volevano era chiudersi in camera aspettando il suo arrivo.
Barbara si fece portare due tazze di tè, sorseggiandole con tutta calma.
Alla fine, uno Gnomo, spazientito, si avvicinò al loro tavolo. “Dobbiamo preparare i tavoli per la colazione di domani.” – annunciò, burbero.
“Non può aspettare ancora cinque minuti?” – gli chiese Brenda, implorante.
“No.” – fu la secca risposta.
Brenda si rabbuiò.
“D’accordo,” – rispose Barbara, “finisco il tè e ce ne andiamo.”
Lo Gnomo mugugnò qualcosa e sparì in cucina.
“Che facciamo?” – domandò Brenda.
Barbara sospirò. “A questo punto, non ci resta che tornarcene in camera. Prima o poi, Rebecca tornerà.”
“Speriamo sia andato tutto bene.”
Rientrarono in camera e provarono a studiare un po’. Ma nessuna delle due riuscì a concentrarsi sui libri.
“E’ inutile! Non ce la faccio!” – esclamò Brenda, gettando sul letto il libro di Ciclopese.
“Nemmeno io. Che ore sono?”
“Quasi le undici.”
“Possibile che ci metta così tanto?”
“Sto cominciando a preoccuparmi.”
Brenda era tesa come una corda di violino. In genere, era lei quella in grado di gestire al meglio le emozioni e vederla così agitata faceva innervosire Barbara.
“Perché ti preoccupi?” – le chiese Barbara.
“Perché tre ore di punizione mi sembrano troppe, considerando che Rebecca è innocente e che la Poliglotter lo sa benissimo.”
“Ma stiamo parlando della Poliglotter. Per lei niente è mai troppo.”
Brenda inarcò un sopracciglio e assottigliò lo sguardo. “Da dove sbuca questo tuo lato così razionale?”
“Una di noi dovrà pur cercare di esserlo.”
Brenda prese un profondo respiro. “Non so… ho come un brutto presentimento…”
“Ti prego, Brenda, non cominciamo coi presentimenti…”
“Senti, perché non andiamo ad aspettarla fuori dall’ufficio della Poliglotter?”
“Sei impazzita? E’ tardissimo! Se ci scoprono…”
“Ma chi vuoi che ci scopra? A quest’ora non c’è in giro nessuno. Sono tutti a letto.”
“Che è esattamente dove dovremmo essere anche noi.”
“Non mi sento tranquilla. Non riuscirei a dormire.”
“Beh, se è per quello nemmeno io.”
“Allora cosa stiamo aspettando?”
“Che ne è stato del tuo amore per il rispetto delle regole?”
“Le regole vanno a farsi benedire, quando c’è di mezzo l’amicizia.”
“E se la Poliglotter ci vede?”
“Diremo la verità. Che eravamo in pensiero per Rebecca. E poi, da quando ti preoccupi di quello che pensano i professori?”
“Non mi preoccupo di quello che pensa, ma di quello che potrebbe fare. Ad esempio, punire anche noi.”
Brenda sbuffò. “Non succederà. Staremo attente a non farci vedere, ok?”
“Ok. Ma sappi che non ho nessuna intenzione di beccarmi una traduzione di Ciclopese aggiuntiva. Se succederà, farai il compito anche per me.”
“Sì, sì, d’accordo, ma ora muoviamoci.”
Brenda aprì con cautela la porta e uscì, seguita dalla sorella.
Di rado Barbara aveva visto Brenda così agitata. Le sembrava piuttosto inopportuno. In fondo, la Poliglotter avrebbe potuto inventarsi qualunque diavoleria di punizione, pur di tenere rinchiusa Rebecca nel suo ufficio fino a tarda ora.
Secondo lei, non c’era nulla di cui preoccuparsi, ma sapeva che non sarebbe comunque riuscita a chiudere occhio con sua sorella in quelle condizioni.
Tanto valeva assecondarla.
Barbara non seppe quanto fosse stato provvidenziale il presentimento di Brenda, fino a quando non giunsero ai piedi delle scale.
Erano scese in silenzio, cercando di non fare rumore, fino a quando poco ci mancò che Brenda non inciampasse contro qualcosa, rischiando di cadere a terra.
“Ma che…” – borbottò.
Barbara sgranò gli occhi. “Oh mio Dio…”
Ai loro piedi c’era il corpo di Rebecca, con gli abiti logori e un braccio sanguinante.
“Rebecca!” – gridò Brenda.
“Ma che le è successo?”
“Non lo so! Aiutami a sollevarla.”
Si accovacciarono accanto a lei, prendendola per le spalle.
“Rebecca! Rebecca!” – chiamò Barbara, mentre cercavano di sostenerla.
Rebecca aprì gli occhi. “S-siete voi…”
La fecero sedere su un gradino, continuando a sorreggerla.
Brenda era sicura che se l’avessero lasciata andare, sarebbe nuovamente crollata a terra.
“Ma che ti è successo? E cos’hai fatto al braccio?” – le chiese Barbara, in ansia.
Rebecca era in condizioni terribili.
“La Poliglotter. Dovete aiutarla. Lei…lei è…”
“La Poliglotter?” – ripeté Barbara, smarrita.
Brenda e Barbara si scambiarono un’occhiata allarmata.
“Dovete aiutarla. Sta…sta morendo…” – mormorò Rebecca, con un filo di voce.
Barbara e Brenda spalancarono gli occhi.
“Dov’è? Rebecca, dov’è la Poliglotter?” – chiese Barbara.
“Fuori dal suo ufficio. D-dovete fare presto…”
Barbara alzò gli occhi sulla sorella. “Ci penso io. Tu resta qui con lei.”
“Aspetta!”
Ma Barbara era già corsa via, in direzione degli uffici dei professori. Se era vero quello che Rebecca aveva detto, non c’era tempo da perdere.
Quando arrivò fuori dall’ufficio, per poco non si sentì male. L’insegnante aveva una ferita profonda sul petto e giaceva a terra, esanime.
Barbara si avvicinò, con cautela, pregando di non essere arrivata troppo tardi.
Si inginocchiò accanto a lei. “Professoressa. Mi sente?”
L’insegnante non rispose.
Dio, ti prego, fa che non sia morta…. Ti prego…
Provò a scuoterla dolcemente, facendo attenzione a non toccare la ferita.
“Professoressa…”
Era inutile, la donna non rispondeva.
Barbara si alzò di scatto e fu solo in quel momento che notò qualcosa nell’ufficio della Poliglotter.
I suoi occhi si spalancarono per l’orrore.
A terra c’era il corpo di Morgana.
Morta?
Ma che diavolo era successo quella sera?
Terrorizzata, corse via.
 
Quella sera Dana Collins non riusciva a prendere sonno. Gli ultimi avvenimenti che avevano scosso la tranquillità di Amtara le provocavano uno stato di agitazione tale da non permetterle più di riposare serenamente la notte. Aveva proibito a Rebecca Bonner di usare il suo Potere ad Amtara, sperando di metterla al riparo dalla furia omicida di Posimaar, ma tutto quello che era successo ultimamente portava a pensare che il Demone Supremo fosse arrivato ad Amtara per agire dall’interno. Sarebbe riuscita a salvare Rebecca Bonner dal suo nemico? Sarebbe bastato impedirle di Spostarsi, per evitare di farla cadere tra le sue grinfie? A quanto pareva no, visto che aveva da poco rischiato la vita nel fiume, attaccata da chissà chi, o chissà cosa.
La Collins nutriva il forte sospetto che si trattasse di Posimaar. Non aveva dimenticato le parole dell’infermiera Anderson. Quelle non erano delle ferite qualunque. Probabilmente, senza saperlo, Rebecca si era ritrovata a lottare contro il suo personale nemico nelle acque del fiume Silos e se non fosse stato per il tempestivo intervento del professor Garou, forse quel mostro sarebbe riuscito nel suo intento.
Era stata pura fortuna se Rebecca Bonner era ancora viva. Certo, era una Strega in gamba, particolarmente dotata e lo aveva dimostrato l’anno prima, quando aveva ucciso il professor Cogitus, sotto le sembianze di un licantropo. Ma quanto sarebbe durata la sua fortuna? Per quanto ancora avrebbe potuto sfidare la sorte, uscendone indenne?
La Collins aveva paura. Se ci fossero state altre morti ad Amtara, molto probabilmente avrebbero chiuso la scuola. E questo avrebbe significato la fine della speranza per la Magia Bianca. Alvis era morto, la professoressa Rudolf era viva per miracolo, proprio come Rebecca. Fuori da lì, le Prescelte continuavano a morire, così come i loro Protetti.
Avrebbe mai avuto fine tutta quella storia? Sarebbero mai riuscite a sconfiggere quel nemico senza volto, una volta per tutte?
Dana Collins sapeva che se c’era una persona che poteva farlo, quella era Rebecca. Il Demone stava cercando lei e doveva pur esserci un motivo per questo, anche se tutti lo ignoravano. Probabilmente, Rebecca era l’unica Prescelta che potesse fare veramente qualcosa di concreto per salvarli tutti. Anche se, forse, ancora non lo sapeva.
Quella sera la Collins si addormentò molto tardi e proprio per questo si risentì particolarmente quando udì qualcuno bussare con forza alla porta della sua camera.
Intontita, diede un’occhiata all’orologio. Erano le undici passate.
“Professoressa! Professoressa Collins! Sono Barbara Lansbury! La prego, mi apra! E’ un’emergenza!”
La preside si sollevò a sedere, di scatto.
Scese dal letto e si infilò la vestaglia.
Aprì la porta. Barbara Lansbury era di fronte a lei, il respiro affannoso e gli occhi sgranati dalla paura.
“Lansbury, che ci fai in piedi nel cuore della notte? Che è successo?”
“Venga con me. Non c’è tempo. Presto!”
La Collins la seguì.
 
Quando arrivarono fuori dall’ufficio della Poliglotter, Barbara pensò seriamente che alla Collins sarebbe venuto un colpo.
Quando vide la collega riversa a terra in quelle disperate condizioni, la Collins si portò una mano al cuore.
“Ignatia… Oh mio Dio…”
“Professoressa, non c’è più tempo. Bisogna portarla in infermeria.”
“Ma…che le è successo? Chi l’ha ridotta in questo stato?”
“Non lo so. Io e Brenda abbiamo trovato Rebecca sulle scale…”
La Collins si voltò a guardarla, sconvolta. “Bonner? E’ successo qualcosa anche a lei?”
“Io… lei è ferita al braccio, ma sta bene. È la Poliglotter che mi preoccupa di più, sinceramente.”
La preside sembrò riscuotersi. “Vado a chiamare la Anderson. Tu aspettami qui. Ce la fate a portare qui anche Bonner?”
“Io…sì, credo di sì. E…professoressa?”
La preside si voltò. “Sì?”
Barbara le indicò con un cenno l’interno dell’ufficio.
La Collins seguì il suo sguardo e si portò le mani davanti alla bocca.
“Curter…” – mormorò, sconvolta.
Poi tornò a guardare Barbara. “E’…?”
“Non lo so.”
La Collins soffocò un singhiozzo, poi corse via veloce.
 
Quella notte nessuno di loro andò a dormire.
Brenda e Barbara riuscirono a riportare Rebecca fuori dall’ufficio della Poliglotter e quando la preside tornò con l’infermiera Anderson, lei e l’insegnante furono portate subito in infermeria.
La ferita al braccio di Rebecca non era grave, anche se aveva perso molto sangue. Quello che preoccupava tutti era lo stato di salute della Poliglotter. Da quando aveva perso i sensi, non si era più risvegliata, nemmeno dopo le pozioni energizzanti della Anderson.
La situazione sembrava compromessa.
Dopo averle visitate entrambe, la Anderson uscì dall’infermeria.
“Come stanno?” – le chiese la preside.
“La ragazza sta bene. È di tempra forte. In qualche modo è riuscita da sola a bloccare l’emorragia e questo l’ha salvata.”
“E Ignatia?”
La Anderson sospirò, cercando le parole giuste da dire.
“Ti prego, dimmi la verità.” – le disse la preside.
La Collins era pronta al peggio, ma doveva sapere. La responsabilità per i suoi insegnanti ricadeva su di lei, proprio come per le allieve.
La Anderson trovò il coraggio di guardarla negli occhi. Non sarebbe servito a niente mentire. Prima o poi, la preside avrebbe comunque dovuto affrontare la realtà.
“Non ho idea di chi le abbia fatto questo, ma le hanno squarciato il petto. In tanti anni di carriera, non ho mai visto niente del genere. E’ già un miracolo che sia riuscita a sopravvivere tanto a lungo.”
La Collins assottigliò gli occhi. “Che cosa stai cercando di dirmi? Che morirà?”
La Anderson fece una breve pausa, prima di rispondere. “Ha perso moltissimo sangue e ha riportato gravissime lesioni interne. Ho fatto tutto quello che potevo. Ora non resta che aspettare.”
“Non hai risposto alla mia domanda.”
“E’ troppo presto per dirlo. Dobbiamo aspettare che le cure facciano effetto. Non posso fare più di questo.”
La preside abbassò gli occhi. “Capisco.”
Brenda e Barbara, accanto a lei, si scambiarono un’occhiata preoccupata.
L’infermiera rientrò, lasciandole lì da sole, in balia del loro dolore.
La Collins si voltò verso di loro. “Voi avete idea di cosa sia successo stasera? E di chi possa aver ridotto Rebecca e la vostra insegnante in quelle condizioni?”
Brenda la guardò. Si era aspettata quella domanda, naturalmente.
“No, professoressa. Siamo uscite dalla nostra camera perché volevamo aspettare Rebecca fuori dall’ufficio della Poliglotter. Era in punizione con lei, stasera, ma dopo tre ore, siccome non tornava, beh…ecco…”
“Eravate preoccupate e volevate controllare.” – terminò la Collins per lei.
“Sì, esatto.”
“E poi?”
“E poi l’abbiamo trovata ai piedi delle scale e ci ha detto che la professoressa Poliglotter stava male. Così Barbara è andata a vedere ed è subito venuta a cercarla.”
La preside annuì. “E che mi dite di Morgana Curter?”
Quando avevano trasportato in infermeria Rebecca e la Poliglotter, la Collins aveva mandato a chiamare alcuni Gnomi per portare via il corpo della ragazza.
“Non sappiamo niente, professoressa.” – rispose Barbara. “Quando sono andata a controllare, la professoressa Poliglotter era a terra e Morgana era là, morta.”
“Quindi non sappiamo nemmeno che cosa ci facesse lì.” – replicò la preside.
Barbara scosse la testa.
La Collins sospirò. “Suppongo che dovremo aspettare che Bonner si riprenda, per conoscere tutti i dettagli.”
 
 
 

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Capitolo 27
*** Sensi di colpa ***


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Disegno di Lucciola67


Il suo secondo anno ad Amtara si stava quasi per concludere e Rebecca rifletteva su quanto tempo avesse trascorso in infermeria durante gli ultimi mesi.
Tanto.
Troppo.
Era il prezzo da pagare quando eri la Prescelta cui Posimaar dava la caccia.
Stavolta ci aveva provato usando una Strega innocente, che era morta per causa sua. Un’altra vittima, un’altra vita spezzata. Non era riuscito nel suo intento, perché Rebecca era viva. Ma era riuscito, ancora una volta, a fare del male, a distruggere.
Rebecca non avrebbe mai conosciuto Morgana Curter, la ragazza che veramente era. Chissà chi si celava, davvero, dietro quella facciata di odio.
Non l’avrebbe mai scoperto.
E chissà perché Clio, che diceva di conoscerla da sempre, non si era accorta di niente. Possibile che non avesse capito che Morgana non era in sé? Possibile che nessuno di loro avesse mai avuto dei sospetti?
Rebecca rimproverava soprattutto se stessa. Ora che conosceva la verità, si malediceva per non aver capito, per essere stata tanto superficiale, per aver pensato semplicemente che Morgana non fosse altro che una stupida ragazzina viziata piena di rancore e invidia nei suoi confronti.
Era tutto talmente chiaro, adesso! Ma era troppo tardi.
Rebecca l’aveva uccisa. Sì, era stata costretta a farlo. Se non avesse lanciato quell’Incantesimo, sarebbe morta. Ma la realtà dei fatti era quella: aveva ucciso Morgana Curter.
Se solo avesse capito prima, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Morgana aveva paura del fuoco, questo le era chiaro da tempo, ormai, da quella volta in cui aveva letto il terrore nei suoi occhi quando era entrata in classe durante la lezione di Protezione. La Poliglotter le aveva detto di usare il fuoco per sconfiggerla, quindi l’insegnante doveva sicuramente sapere di che genere di mostro si trattasse.
Posimaar aveva trasformato Cogitus in un licantropo.
Che razza di creatura era quella in cui si era trasformata Morgana?
Rebecca avrebbe dovuto aspettare che la Poliglotter guarisse, per scoprire la verità.
Quando si era risvegliata, aveva subito chiesto di lei, ma la Anderson era stata piuttosto evasiva, cosa che l’aveva messa in allarme. Non aveva dimenticato la profonda ferita che il mostro le aveva inflitto e per un istante aveva temuto il peggio. Ma Brenda e Barbara, che la andavano a trovare ogni giorno, la tranquillizzarono dicendo che, dopo i primi giorni in cui avevano seriamente temuto per la sua vita, ora la Poliglotter era fuori pericolo, anche se avrebbe dovuto trascorrere parecchio tempo in infermeria.
Rebecca ne era felice. Aveva pensato seriamente che l’insegnante non ce l’avrebbe fatta. Quel mostro era stato impietoso con entrambe. Era un miracolo se erano ancora vive.
Rebecca si aspettava di ricevere una visita dalla preside quanto prima, e infatti la Collins, non appena la Anderson la informò che la ragazza si stava riprendendo rapidamente, arrivò in infermeria una mattina, mentre tutta la scuola era a lezione.
La primavera era ormai inoltrata e cominciava a fare caldo. La Anderson aveva aperto le finestre, per far entrare un po’ di aria fresca nella stanza.
“Comincia a diventare una specie di abitudine, Bonner, venire a farti visita in infermeria.” – esordì la Collins.
Rebecca abbozzò un sorriso, arrossendo leggermente. Non capì dove voleva andare a parare. Forse ce l’aveva con lei?
Eppure, anche stavolta, aveva ucciso colui che minacciava Amtara. E l’aveva fatto senza usare il Potere, quindi senza infrangere le regole che lei le aveva imposto. O, forse, la Collins era semplicemente nervosa perché non era ancora riuscita a sapere quello che era successo? La Poliglotter giaceva ancora nel suo letto, priva di conoscenza. Era chiaro che la preside fremeva dal bisogno di conoscere la verità.
Ed era venuta proprio per quello. Rebecca immaginava le pressioni a cui il Consiglio doveva averla sottoposta. Sicuramente erano venuti a sapere che una Prescelta e un’insegnante erano rimaste gravemente ferite, anche se non si conoscevano ancora i dettagli. Era probabile che avessero tempestato di domande la preside, la quale non aveva potuto dire molto, non conoscendo come si fossero svolti i fatti. Solo Rebecca e la Poliglotter avrebbero potuto far luce sull’accaduto.
“Come ti senti?” – le chiese.
“Bene.”
“L’infermiera Anderson mi ha detto che hai fermato l’emorragia da sola. Ti sei salvata con le tue stesse mani.”
“E’ stata solo fortuna. Il mostro mi ha preso solo di striscio. La professoressa Poliglotter, invece…”
Le parole le morirono in gola.
“Tu eri presente quando è stata colpita?”
Rebecca annuì.
La Collins sospirò. “Ho bisogno di sapere tutto, Bonner. Dall’inizio.”
Rebecca cominciò a raccontare, dal primo istante in cui aveva messo piede nell’ufficio della Poliglotter, al momento in cui era entrata Morgana, la lunga discussione con lei, prima che si tramutasse in quel mostro terribile.
“Un altro licantropo?” – la interruppe la Collins.
“No, non era un licantropo, ne sono certa.”
“E allora che cos’era?”
“Non lo so. Ma sono certa che la professoressa Poliglotter lo sa.”
La Collins aggrottò la fronte. “Perché dici questo?”
“Perché mentre lottavamo contro di lui, mi ha detto di usare il fuoco. E così ho fatto. Ho usato l’Incantesimo Incandescente. E ha funzionato.”
La Collins sembrava smarrita. “Ma, benedetta figliola, qualunque altro Incantesimo avrebbe potuto ucciderlo, non necessariamente quello.”
“No, professoressa. Prima che arrivasse la Poliglotter, ho provato ad usare l’Incantesimo Imbollitore contro di lui, ma non ha funzionato. Invece il fuoco sì. Altrimenti per quale motivo la Poliglotter mi avrebbe detto di usare il fuoco?”
La Collins la fissava come se non la vedesse.
“Il fuoco…” – ripetè, lo sguardo fisso verso un punto imprecisato alle spalle di Rebecca. “Il fuoco, ma certo!”
Rebecca sussultò.
“Doveva essere un Wendigo!” – esclamò la Collins.
“Un…cosa?”
“Un Wendigo. Non c’è altra spiegazione.”
“Professoressa… di…di cosa sta parlando, esattamente?”
“Non hai mai sentito parlare del Wendigo?”
“No.”
“E’ una creatura terribile.”
Sì, me ne sono accorta…
“Si dice si nutra di carne umana (Rebecca rabbrividì) e che possieda un cuore di ghiaccio. Per questo, l’unico modo per sconfiggerlo è usare il fuoco. Ignatia deve averlo riconosciuto subito. Per questo ti ha detto di usare il fuoco.”
Rebecca era senza parole. Morgana si era tramutata in un Wen... come diavolo si chiamava, per ucciderla. In effetti, tra lui e il licantropo dell’anno prima, non c’era che l’imbarazzo della scelta. Quale diavoleria si sarebbe inventato, la prossima volta, Posimaar?
“E’ stata una fortuna che Ignatia sia arrivata in tempo.” – commentò la Collins. “Anche se non le è andata molto bene.”
“Mi ha salvato la vita. Senza di lei, non avrei mai pensato di dover usare il fuoco.”
Per fortuna, Rebecca non aveva dimenticato la paura di Morgana per il fuoco, e aveva capito al volo il suggerimento della Poliglotter.
“Come hai fatto a sapere che dietro Morgana Curter si celava il Demone Supremo?” – le chiese all’improvviso la preside.
“Me l’ha detto lei, prima di morire.”
La Collins sgranò gli occhi. “Avete parlato?”
Rebecca annuì. “Mi ha chiamata. Stavo per andare a cercare aiuto. La professoressa Poliglotter sembrava in fin di vita, e nemmeno io ero messa troppo bene. Poi ho sentito la sua voce. Sono andata da lei. Sapevo che stava morendo, non potevo andarmene così… Voleva parlarmi, voleva dirmi perché l’aveva fatto. Mi ha detto che Lui l’aveva posseduta, per tutto il tempo. Non sapeva nemmeno perché lo facesse, era completamente nelle sue mani. Mi ha chiesto perdono. So che non è stata colpa sua. Mi dispiace solo di non averla potuta conoscere veramente. E mi dispiace così tanto che sia morta…”
Rebecca cercò di ricacciare indietro le lacrime, incapace di proseguire.
La morte di Morgana le appariva talmente ingiusta…
La Collins non disse nulla. Comprendeva pienamente il suo disagio, e lo rispettò.
Rebecca cominciò a piangere. In quel momento non le importava che la Collins la vedesse in quello stato. Era stanca di trattenere le emozioni, stanca per tutto quello che era successo, stanca di vedere le persone morire senza poter fare nulla per impedirlo.
Pianse a lungo, dinanzi ad una composta e rispettosa Collins, che non disse nulla eppure, con quel silenzio, disse tutto.
La preside le sfiorò la spalla con una mano, leggera, lieve, e in quel gesto Rebecca avvertì tutta la sua comprensione di quel dolore troppo a lungo celato.
“Nessuno di noi ha potuto conoscere la vera Morgana Curter.” – disse la Collins, quando Rebecca si fu un po’ ripresa. “Credo che questo sarà il nostro più grande rimpianto. Ma dobbiamo fare in modo che la sua morte non sia stata vana.”
Rebecca alzò la testa. “Si riferisce a Posimaar? Chissà dove si trova, ora. Colpirà ancora, lo sa questo, vero?”
“Sì, ma noi saremo pronte.”
Rebecca fece una smorfia. Non ne era affatto sicura. Non sapeva cos’altro aspettarsi da lui. Chi avrebbe posseduto, stavolta? Chi sarebbe stata la sua prossima vittima? Chissà, magari l’avrebbe raggiunta direttamente a Villa Bunkie Beach, la prossima estate, così avrebbero finalmente messo fine a tutta quella dannata storia.
“Ho apprezzato il fatto che tu non abbia usato il tuo Potere.” – disse la Collins. “Anche se… ci ho pensato, e credo che tu abbia tutto il diritto di utilizzarlo anche qui, se questo potrà aiutarti a salvare la vita a te e a chi ti sta intorno.”
Rebecca non credeva alle proprie orecchie. Aveva sentito bene? La Collins la stava autorizzando di nuovo ad usare il suo Potere ad Amtara?
“Professoressa, mi sta dicendo che…”
“Ti sto dicendo che potrai usarlo, ma solo in casi di estrema necessità. Non voglio vederti Spostare da una parte all’altra della scuola davanti alle tue compagne, Bonner, che questo ti sia chiaro.”
“Sì, certo.”
Rebecca era al culmine della gioia. Finalmente sarebbe stata libera di essere di nuovo se stessa.
“Hai rischiato troppe volte di morire, quest’anno, e sono successe troppe cose. Abbiamo perso Alvis, la professoressa Rudolf per poco non ci ha lasciato e tu…tu hai passato l’inferno. Da questo momento voglio che tu ti senta libera di affrontare il pericolo come meglio credi, usando tutti i mezzi a disposizione. Abbiamo un nemico da sconfiggere, Bonner, e dobbiamo essere unite per farlo.”
Rebecca era al settimo cielo. Finalmente, la Collins aveva capito.
Eppure, solo in quel momento le venne in mente che per tutto il tempo in cui era stata rinchiusa in quell’ufficio con Morgana, non aveva mai pensato ad usare il suo Potere. Avrebbe potuto infrangere la regola e Spostarsi, anche se era convinta che Morgana l’avrebbe seguita in capo al mondo, pur di portare a termine il compito affidatole da Posimaar. Ma forse la Poliglotter non avrebbe rischiato la vita per causa sua.
Rebecca si diede improvvisamente dell’idiota per non averci nemmeno pensato. Si era lasciata trasportare dalla paura e quando Morgana si era trasformata nel mostro, aveva perso completamente la testa. Non era riuscita a mantenere il sangue freddo e si era fatta sopraffare dalla paura, che si era trasformata in terrore quando il mostro aveva cominciato ad attaccare. La verità era che Rebecca non si sarebbe mai immaginata che dietro Morgana si nascondesse quella bestia enorme.
Un Wendigo, la Collins l’aveva chiamato così.
Voleva saperne di più.
“Professoressa… il mostro in cui si è trasformato Morgana…” – cominciò Rebecca, esitante.
“Il Wendigo.”
“Sì. Che sembianze ha, esattamente?”
“Questo dovresti dirmelo tu.”
Rebecca ripensò al terribile momento in cui aveva assistito alla trasformazione. Era stato anche peggio di quella di Cogitus. Vederla tramutare il suo corpo lì, di fronte a lei, le aveva gelato il sangue nelle vene, perché mai si sarebbe aspettata che dietro quel volto giovane e innocente potesse nascondersi una bestia. Rebecca non avrebbe mai dimenticato quel momento.
“Era alto. Quasi due metri, credo. Coperto di pelo marrone, due zampe enormi e gli artigli affilati. La sua bocca era gigantesca, spaventosa e gli occhi gialli, sottili. Eppure, nonostante la sua mole, era velocissimo nei movimenti, agile e scattante. Era impressionante anche solo guardarlo…”
La Collins annuì, compiaciuta. “Hai appena fatto una descrizione esatta di un Wendigo. Non mi sono sbagliata. E per fortuna non si è sbagliata nemmeno Ignatia.”
“E’ stata molto brava a riconoscerlo subito.” – confermò Rebecca.
“Chi meglio di un’insegnante di Lingue Demoniache avrebbe potuto farlo?” – scherzò la Collins.
Rebecca abbozzò un sorriso. “Già.”
“Sai, il Wendigo è una creatura mostruosa che ha origini molto antiche.” – spiegò la Collins. “Non so nemmeno quando è stata l’ultima volta che un essere umano ne abbia visto uno. Per fortuna, aggiungerei. Tutto quello che si sa è che è maledetto e vaga nella notte alla ricerca delle sue vittime. Pare si nutra di carne cruda. Questo, almeno, è quello che si racconta…”
Rebecca deglutì e un pensiero improvviso le attraversò la mente. “E’…è quello che ha fatto ad Alvis?” – mormorò piano. “Voleva mangiarlo vivo?”
Vide la Collins inorridire. “Oh no! Almeno, il suo corpo era ancora intatto quando l’abbiamo ritrovato.”
Rebecca si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Le faceva ribrezzo anche solo il pensiero che il Wendigo potesse aver fatto una cosa simile al povero Gnomo.
La preside sospirò profondamente. “Credo che il Wendigo sia fuggito prima del tempo. Forse ha sentito dei rumori, o forse aveva solo paura di essere scoperto. Non lo sapremo mai. Personalmente, penso che il Wendigo, che è notoriamente ghiotto di carne cruda, sia stato attirato nelle cucine dall’odore della carne che Alvis aveva tirato fuori dal frigorifero. Temo che il povero Gnomo si sia semplicemente trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Forse il Wendigo voleva solo rubare la carne. Forse, nella foga di difendersi, non ha potuto evitare di uccidere Alvis. Chi lo sa. Del resto, per quanto gli Gnomi siano forti e temprati, temo che nessuno di loro possa avere la meglio contro una creatura come quella.”
Rebecca rabbrividì. Non voleva pensare a quello che era successo nelle cucine. Alvis aveva avuto una morte tremenda…
“La professoressa Rudolf è stata più fortunata.” – disse, cercando di cambiare discorso.
“Sì, grazie alla tua Premonizione. Non oso pensare a quello che avrebbe potuto farle…”
La preside represse un brivido di paura. “E quanto a te, avrebbe potuto ucciderti molto prima, laggiù nel fiume.”
“Ci stava provando. Per poco non mi ha staccato una gamba.”
“Il Wendigo è un abile nuotatore, in grado di trattenere il respiro sott’acqua molto a lungo.”
“Me ne sono accorta. È rimasto sott’acqua per un tempo infinito, mentre cercava di trascinarmi con lui. Sapeva che sarebbe bastato poco, per farmi affogare. E intanto, colpiva alla cieca.”
La Collins si portò una mano alla fronte, in un gesto stanco. Quell’anno ad Amtara era stato particolarmente pregno di eventi terribili e inaspettati.
Rebecca ora sapeva il motivo per cui Morgana si era allontanata dalla riva, dopo che Alyssa era caduta nel fiume. Quale occasione migliore per attaccare Rebecca? Aveva aspettato che l’amica venisse portata in salvo. Forse sapeva che Rebecca, accortasi della sua assenza, sarebbe andata a cercarla. Aveva calcolato tutto nei minimi dettagli, conoscendo bene i punti deboli della sua preda.
“Professoressa, perché secondo lei Posimaar stavolta ha scelto una creatura come il Wendigo?”
“Non lo so. Quello che posso dirti è che un Wendigo non è minimamente paragonabile ad un licantropo, è molto più forte, più robusto, più resistente e più veloce. L’hai detto tu stessa, nonostante la mole, era agile e scattante come un felino.”
“Già. Forse stavolta voleva qualcuno di indistruttibile. È stato relativamente facile uccidere Cogitus, con quel pugnale d’argento. Ma un Wendigo…”
“Un Wendigo poteva essere ucciso solo da qualcuno che l’avrebbe riconosciuto. Forse il Demone sa che non viene studiato a scuola, non è una creatura molto comune e, come ti ho detto, non se ne vede uno in giro da tanto tempo. E’ una creatura dimenticata. Forse Posimaar contava su questo. Se tu non l’avessi riconosciuto, non avresti mai potuto pensare al fuoco come unica sua arma di distruzione.”
Il ragionamento non faceva una piega, pensò Rebecca frustrata. Posimaar doveva conoscere bene i suoi punti deboli. E aveva ragione, dannazione! Se non fosse stato per la Poliglotter, lei ora sarebbe morta.
“E’ una creatura rara, difficile da individuare.” – continuò la Collins. “Ma, sfortunatamente per il Demone, gli insegnanti di Amtara la sanno molto più lunga di quanto lui possa pensare.” – aggiunse trionfante.
Rebecca non riuscì a sorridere. Il pensiero che Posimaar avesse usato un mostro come quello per eliminarla, non la metteva troppo di buonumore.
“E sono assolutamente convinta che il mostro mi sia passato accanto, la notte in cui Alamberta è stata aggredita.” – aggiunse la Collins.
“A cosa si riferisce?” – domandò Rebecca, con la fronte aggrottata.
“Quando la professoressa Rudolf è stata attaccata, io, il professor Christie e Ignatia siamo corsi verso la sua camera. Il corridoio era buio. Il professor Christie ci ha precedute, noi avanzavamo con cautela. Prima che Daniel facesse tornare la luce, ho avvertito chiaramente qualcuno, lì vicino a noi. Ne potevo sentire il respiro. Sono sicura che era il Wendigo, che naturalmente aveva appena attaccato Alamberta e stava scappando.”
“Il Wendigo vi è passato accanto?” – mormorò Rebecca, sconvolta da quella notizia.
“Ne sono sicura. Anche Ignatia ha percepito qualcosa. Quando è tornata la luce, abbiamo controllato, ma ovviamente era già scappato.”
“Avete rischiato grosso, professoressa.”
“Non credo sarebbe stato conveniente per lui, ucciderci. In fondo, lui cercava te.”
“Ma allora perché ha attaccato e quasi ucciso la professoressa Rudolf?”
“Credo che anche lei, come Alvis, sia stata attaccata per puro caso. Ha sentito dei rumori e ha aperto la porta. Il Wendigo non ha fatto altro che difendersi. Non poteva permettere che qualcuno lo scoprisse. Ricordiamoci che il suo scopo era agire indisturbato, fino a quando non avrebbe raggiunto il suo obiettivo. Posimaar doveva aver dato istruzioni molto chiare a Morgana sul da farsi. Non doveva essere scoperta, per nessuna ragione al mondo. Avrebbe dovuto uccidere, piuttosto che farsi scoprire. Doveva essere pronta a tutto, pur di rispettare i piani del suo padrone.”
Rebecca era annientata. Lì, sotto i loro occhi, si era consumata una vera e propria tragedia, senza che nessuno di loro se ne rendesse conto. E non si riferiva tanto alla minaccia che incombeva su di lei, quanto, piuttosto, alla distruzione della vita di una Strega innocente. Morgana, per tutti quei mesi, era stata raggirata, manipolata, ingannata da un essere immondo, crudele, pericoloso. E, alla fine, lui aveva vinto. Nessuno ad Amtara si era accorto di nulla e Posimaar aveva potuto agire indisturbato. Erano stati tutti così ciechi e stupidi, a cominciare da lei… Non se lo sarebbe mai perdonato. Sì, lei era ancora viva, ma a quale prezzo? Aveva dovuto uccidere un’ anima innocente, per salvarsi. La vita di Morgana era stata sacrificata per la salvezza di Rebecca, questa era la verità.
“A cosa stai pensando?” – le domandò la Collins, cui non era sfuggita la sua espressione.
Rebecca si era improvvisamente rabbuiata.
“A Morgana. Sono stata io ad ucciderla. E credo che mi porterò dentro questo rimorso per tutta la vita.”
“Non sei stata tu ad ucciderla. E’ stato Posimaar.”
“Sono stata io ad usare l’Incantesimo Incandescente.”
“Che alternative avevi? Avresti preferito morire al posto suo? E lasciar morire la professoressa Poliglotter? Perché è di questo che stiamo parlando. Tu non avevi scelta e hai fatto quello che chiunque altro avrebbe fatto.”
“Morgana non avrebbe dovuto trovarsi lì.”
“Già. E il Demone non avrebbe dovuto impadronirsi del suo corpo. Ma, sfortunatamente, l’ha fatto. E se cerchi qualcuno da incolpare per non essersi accorto di nulla, rivolgiti a me.”
Rebecca alzò gli occhi su di lei.
“Oh sì. Sono io la prima colpevole di tutto questo, Bonner. Sono la responsabile della scuola e delle Prescelte. Io per prima avrei dovuto capire che Morgana aveva qualcosa che non andava. Quindi, non darti colpe inutili, perché ti assicuro che il mio senso di colpa è già sufficiente per entrambe.”
“Professoressa, io…”
La Collins alzò una mano, per metterla a tacere. “Molte cose sarebbero dovute andare diversamente, quest’anno. E me ne assumo la piena responsabilità. Ma questo, purtroppo, non ci porterà ad una soluzione del problema, e sicuramente non riporterà indietro Morgana Curter.”
Rebecca abbassò gli occhi. Sapeva che la preside aveva ragione, ma non poteva comunque fare a meno di provare rabbia e risentimento verso se stessa. Forse, solo con il tempo sarebbe riuscita a metabolizzare l’accaduto, proprio come stava facendo la Collins.
Ma su una cosa la preside aveva ragione. Incolparsi non avrebbe riportato indietro Morgana. Lei ormai faceva parte del passato, per quanto doloroso fosse quel pensiero.
“Morgana avrebbe voluto vederci combattere, Bonner. E dobbiamo continuare a farlo. Dobbiamo uccidere chi le ha fatto questo.”
Rebecca la guardò, stavolta con occhi diversi.
Annuì piano, senza dire nulla. La Collins aveva ragione. Doveva uccidere Posimaar, e doveva farlo per vendicare Morgana. L’avrebbe fatto, anche se fosse stata l’ultima azione che avrebbe compiuto nella vita. Lo giurò mentalmente a se stessa. E a Morgana.
“Ascolta, c’è un’altra cosa di cui vorrei parlarti.” – aggiunse la Collins. “Abbiamo convenuto con la famiglia Curter di celebrare qui ad Amtara il funerale di Morgana.”
Rebecca ne fu sorpresa. “Davvero?”
“Hanno espresso questo desiderio e non me la sono sentita di negarglielo. In fondo, Morgana era una Prescelta ed è una vittima di Posimaar. Quale luogo migliore per ricordarla, se non quello che è diventato il simbolo della lotta contro il Demone Supremo?”
Rebecca non avrebbe potuto essere più d’accordo.
“L’infermiera Anderson mi ha detto che stai meglio e che a breve verrai dimessa. Credo tu abbia piacere di partecipare al funerale.”
“Sì, professoressa, naturalmente.”
“Bene, credo che per il momento non abbiamo più nulla da dirci.” – annunciò infine la preside, alzandosi. “Il mio lavoro mi aspetta.”
“Professoressa.”
“Sì?”
“Come sta Clio?”
La Collins apparve stupita da quella domanda. Conosceva bene il rapporto che legava la fata a Morgana.
“E’ ancora un po’ scossa, ma si riprenderà.”
“Lei non trova strano che Clio non si sia accorta di niente? Voglio dire, la conosceva, erano parenti. Possibile che non abbia colto nessun segnale in Morgana che potesse ricondurre al Demone?”
“Non è così semplice. Erano parenti, è vero, ma non si vedevano da un sacco di tempo. Si può dire quasi che si conoscessero appena. Io credo che Morgana abbia trovato in Clio un alleato e che la fata abbia trovato in Morgana un’amica, nella solitudine della sua vita ad Amtara.”
“Ma le fate non sono sole.”
“Credimi, lo sono.”
“E perché Morgana aveva bisogno di un alleato?”
“Perché si sentiva sola. Quando sei posseduta da un essere come Posimaar, ti senti sola anche in mezzo alla gente. Morgana si è aggrappata all’unica persona che aveva vicino per non impazzire.”
“Ma anche Alyssa, Margaret e Viola le erano vicine.”
“Per convenienza, non per amicizia. E a quanto ne so, dopo quello che è accaduto al fiume, Alyssa è stata la prima a darle il benservito.”
Rebecca sospirò. “Sì, anche se ora sappiamo che Morgana non era in sé.”
“Già, anche se, purtroppo, Alyssa non poteva saperlo.”
“Questa storia è terribile.” – mormorò Rebecca.
“Riusciremo a trovare il Demone. E lo sconfiggeremo.”
La Collins sembrava davvero convinta di quelle parole.
Avrebbe tanto voluto condividere il suo ottimismo, ma in quel momento proprio non ci riusciva.
“Riposati, ora. Ci vediamo domani.”
Rebecca restò a guardarla, fino a quando non fu uscita.
Chiuse gli occhi, ascoltando assorta il cinguettio degli uccelli, fino a quando, esausta dopo quella lunga conversazione, si addormentò.
 

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Capitolo 28
*** Il funerale ***


Rebecca uscì dall’infermeria il lunedì seguente, il giorno prima del funerale di Morgana.
Scoprì di essere nuovamente al centro dell’attenzione di tutta la scuola, com’era prevedibile. Il suo nome era sulla bocca di tutti e le Prescelte erano morbosamente curiose di conoscere tutti i dettagli di quanto accaduto nell’ufficio della Poliglotter.
Rebecca si era aspettata quella reazione da parte delle compagne, ma era piuttosto restia a parlare, ogni volta che una di loro le si avvicinava, tempestandola di domande sulla vicenda.
Le voci erano circolate in fretta, e siccome Rebecca non era scesa troppo nei particolari, alcune Streghe cominciarono ad inventare dettagli assurdi, ben lontani dalla realtà.
Rebecca si rese conto di questo, quando una ragazza del primo anno le chiese se era vero che il Wendigo era esploso, provocando la distruzione dell’ufficio della Poliglotter.
Un’altra Strega le domandò, eccitata, se il Wendigo era davvero alto otto metri.
Tralasciando il fatto che, se fosse stato così, il Wendigo non avrebbe mai potuto stare in piedi all’interno dell’ufficio e ignorando volutamente la domanda, Rebecca si allontanò, irritata.
Sembrava proprio che l’unica cosa che interessasse alla gente fossero i macabri dettagli dell’accaduto. A nessuno importava del fatto che una Prescelta innocente avesse perso la vita, proprio lì, sotto il loro naso.
Rebecca si sentiva terribilmente in colpa, mentre il resto della scuola sembrava interessato solo a quei futili dettagli.
“Come si può essere tanto ciniche?” – sbottò Rebecca un giorno, dopo aver cacciato via in malo modo una ragazza che le aveva appena chiesto se era vero che anche la Poliglotter era esplosa insieme al Wendigo.
“Lasciale perdere.” – commentò Brenda.
“Beh, dopotutto, Morgana non era simpatica quasi a nessuno.” – disse Barbara.
Rebecca e Brenda di voltarono a guardarla, con sguardo truce.
Barbara avvampò. “Beh, è la verità!”
“Morgana era posseduta da Posimaar, in caso tu non l’abbia capito.” – precisò Rebecca.
“Sì, questo lo so benissimo. Ma non puoi aspettarti che si mettano a piangere per lei, in ogni caso.”
“Sai, la tua delicatezza è disarmante.” – fece Brenda, piccata.
“Sono solo obiettiva. Non piacciono nemmeno a me tutte queste storie che si stanno inventando. Comunque, come al solito, dimenticheranno presto. E poi, un po’ di curiosità è più che legittima. Non succede mica tutti i giorni che qualcuno si trasformi in un Wen… come diavolo si chiama.”
“Si chiama Wendigo.” – puntualizzò Rebecca. “E comunque più che curiosità io la chiamerei morbosità.”
“Ho sentito che dopo i funerali porteranno via il corpo.” – disse Brenda. “Morgana sarà tumulata nella tomba di famiglia.”
“Chi te l’ha detto?” – domandò Rebecca, sorpresa.
“Ho sentito Garou parlare con la Collins, per caso.”
“Per caso?” – le fece eco Barbara, con occhi maliziosi.
“Sì, per caso. Non sono mica come te, che spii le conversazioni degli altri.”
“Ah no? Mi pare che non ero sola ad origliare, quando Alyssa e Morgana litigavano in camera loro.”
Brenda arrossì. Aveva dimenticato quell’unica volta in cui si era concessa di mettersi ad origliare alla porta di qualcuno.
“Beh, non se ne poteva fare a meno. Alyssa urlava come una matta.”
“Sì, sì, certo.” – rispose Barbara, con aria di sufficienza.
“Comunque mi sembra carino, da parte dei genitori di Morgana, voler celebrare il funerale qui.” – disse Brenda, sviando deliberatamente il discorso.
“Sì.” – rispose Rebecca. “La Collins mi ha detto che sono stati loro a chiederlo, espressamente.”
“Beh, è strano.” – disse Barbara. “Voglio dire, come minimo dovrebbero essere arrabbiati per aver perso la figlia a causa di Posimaar.”
“Morgana sarebbe potuta morire ovunque, per colpa di Posimaar.” – disse Rebecca. “Le Prescelte continuano a morire anche là fuori, ogni giorno.”
“Questo è vero.”
“E poi, Amtara è il posto dove Morgana ha vissuto gli ultimi mesi della sua vita. Credo sia giusto darle il nostro ultimo saluto qui.”
 
Più tardi, nel pomeriggio, Rebecca incontrò Clio. Vagabondava sola nel corridoio, assorta nei suoi pensieri, con gli occhi un po’ arrossati. Rebecca si domandò se i fantasmi potessero piangere.
Quando la fata si accorse di lei, la trafisse con uno sguardo carico di odio.
C’era da aspettarselo. In fin dei conti, Rebecca aveva ucciso Morgana. Clio non l’avrebbe mai perdonata.
La fata si allontanò in fretta, cosa di cui Rebecca fu estremamente grata. Non avevano mai avuto nulla da condividere e tantomeno l’avrebbero avuto ora che Morgana non c’era più. Inoltre, Rebecca era già abbastanza depressa per conto suo, senza alcun bisogno che Clio rincarasse la dose.
Chissà, forse il tempo, lentamente, avrebbe sistemato le cose, anche se Rebecca aveva la sgradevole sensazione che per lei e Clio le cose sarebbero andate diversamente.
Decise di andare a parlare con il professor Garou.
Durante tutto il tempo che aveva trascorso in infermeria, lui non era mai andato a trovarla e Rebecca sentiva il bisogno di parlare con qualcuno, che non fosse la Collins, di quanto accaduto. Si sentiva ancora molto scossa e sperava che confidarsi con lui l’avrebbe aiutata a sentirsi meglio.
“Come va il tuo braccio?” – le chiese, invitandola con un gesto ad accomodarsi.
“Meglio, grazie.”
Garou sedette e rimase in attesa.
La guardò, sorridendole incoraggiante.
“Un Wendigo.” – disse lei, senza preamboli.
Garou increspò le labbra in un sorriso sghembo, annuendo.
“Già.”
“Lei l’avrebbe mai immaginato?”
“No.”
Rebecca sospirò. “Domani ci sarà il funerale. Sarà terribilmente difficile, per me.”
“Hai dovuto difenderti. Non avevi scelta.”
“No, immagino di no.”
“Hai salvato la professoressa Poliglotter.”
“Ma un’altra Prescelta è morta.”
“Non per colpa tua.”
Rebecca abbassò gli occhi. “Io… la odiavo.”
“Non odiavi lei. Odiavi ciò che il Demone aveva fatto di lei. Sono due cose diverse.”
“Lo so, ma questo non mi aiuta a sentirmi meglio.”
“Non sei costretta a presenziare, domani, se non te la senti.”
Rebecca alzò la testa, di scatto. “Non potrei mancare per nulla al mondo.”
“Allora fa quello che devi fare. Dalle l’ultimo saluto. Glielo devi. E parla con la sua famiglia. Sono certo che ti ascolteranno.”
Rebecca annuì. “Ci proverò.”
“Sei stata davvero coraggiosa.”
“Ho creduto di morire.”
“Posso solo immaginare cosa devi aver provato, chiusa là dentro, con un Wendigo. E’ una creatura particolarmente pericolosa, imprevedibile. Si nutre di carne umana. Tu e la professoressa Poliglotter siete vive per miracolo.”
Rebecca si rese conto, in quel momento, di essere stata fortunata a non sapere nulla di un Wendigo. Se ne avesse conosciuto l’effettiva pericolosità, probabilmente il suo inconscio le avrebbe giocato un pessimo tiro, inducendola ad arrendersi prima ancora di lottare. Invece aveva combattuto, aveva resistito, fino all’arrivo della Poliglotter e, infine, aveva tentato il tutto per tutto, riuscendo a salvare entrambe.
“Credo che non dimenticherò mai quei momenti.”
“Sei una Strega in gamba, Rebecca. Sono sicuro che, un giorno, sarai tu a liberare il nostro Mondo dalla minaccia di Posimaar.”
Rebecca gli lanciò un’occhiata penetrante.
Garou era sincero.
Si sentì lusingata da quelle parole e, al contempo, investita di una responsabilità che le pesava addosso come un macigno. Sarebbe andata effettivamente così? Avrebbe avuto la forza, da sola, di distruggere il Demone Supremo?
 
Il giorno dopo uscì un tiepido sole. Il funerale di Morgana si sarebbe svolto nei giardini di Amtara. La Collins aveva fatto allestire le sedie dinanzi al portone d’ingresso.
Quando Rebecca e le gemelle uscirono, subito dopo colazione, si accorsero che i posti erano già tutti occupati. In prima fila, i rappresentanti del Consiglio Superiore di Stregoneria Bianca, presidiato da una rigida ed altera Calì Amtara, seduta accanto alla preside. In seconda fila, c’erano tutti i professori della scuola.
Le Prescelte si erano già accomodate nelle prime file, insieme ai tanti genitori venuti a rendere omaggio, per l’ultima volta, a Morgana. Rebecca si stupì della loro presenza. Non ricordava tutta quella gente al funerale del povero Alvis. Forse perché si trattava semplicemente di un umile Gnomo? Quel pensiero la irritò.
“Ci sono dei posti liberi.” – disse Barbara.
Rebecca e Brenda la seguirono. Erano rimaste tre sedie vuote, in ultima fila.
Rebecca fu molto felice di sedersi lì, lontana da sguardi indiscreti.
La preside si alzò e si rivolse alla platea. “Miei cari, oggi siamo qui riuniti per dare il nostro ultimo saluto ad una ragazza davvero speciale, Morgana Curter. Morgana era una Prescelta e, come tutti sapete, è morta per colpa di Posimaar. Il Demone Supremo si è impadronito del suo corpo, inducendola con la forza a commettere azioni terribili e conducendola, infine, alla morte.”
Alcune persone si voltarono a guardare Rebecca, la quale si inquietò sulla sedia, a disagio. Conosceva perfettamente i loro pensieri. Era stata lei a lanciare l’Incantesimo che aveva ucciso Morgana. Abbassò lo sguardo, sentendosi avvampare.
“Morgana Curter non ha potuto mostrare il suo vero volto qui ad Amtara. Noi non sappiamo in quale momento il Demone si sia impossessato di lei. Sappiamo solo che per tutto l’anno è stata costretta a portare una maschera. Morgana non era la ragazza vuota e frivola che molte di voi hanno conosciuto, né la ragazza altezzosa e arrogante con cui alcune di voi si sono scontrate. Non era crudele, né cattiva, né odiosa. Tutto ciò che di negativo avete visto in lei, lo avete visto in Posimaar. Ora sapete di cosa è capace il nostro nemico. Ora sapete fin dove può spingersi il suo odio profondo verso le Prescelte.”
Rebecca fissava la Collins senza staccarle gli occhi di dosso, affascinata da quel discorso così sentito.
Tutti erano chiusi in un religioso silenzio, rapiti dalle sue parole.
“Oggi non siamo qui solo per dire addio a Morgana, ma anche per renderle omaggio e per dirle che la sua morte sarà giustamente vendicata. Noi continueremo a combattere, noi vendicheremo questo piccolo fiore spezzato, noi non ci arrenderemo!”
Uno Gnomo si avvicinò alla preside, porgendole un mazzo di fiori, che lei depose sulla bara bianca.
Ci fu qualche istante di silenzio, poi le persone cominciarono ad alzarsi. Ci furono abbracci, strette di mano, saluti.
Qualcuno piangeva.
Poi, gradualmente, la folla si disperse.
Rebecca rimase a guardare gli Gnomi mentre caricavano la bara su un’auto nera, con ogni probabilità della famiglia Curter.
Un uomo e una donna, che non aveva mai visto prima, si avvicinarono alla Collins.
“Credo che siano i genitori di Morgana.” – disse Brenda.
Insieme a loro c’era una ragazza, che non doveva avere più di quindici anni. A giudicare dai lunghi capelli neri, doveva essere la sorella di Morgana. Rebecca avvertì una fitta allo stomaco.
La preside scambiò alcune parole con loro. La signora Curter si soffiò il naso, mentre il marito le accarezzava la spalla. Poi, anche Calì Amtara si unì a loro.
Mentre parlavano, la sorella di Morgana si guardò attorno finchè i suoi occhi si posarono su Rebecca, indugiando su di lei per un lungo, infinito istante. Rebecca si trovava a parecchi metri di distanza, ma quello sguardo le penetrò l’anima.
Poi, la ragazza tornò a rivolgere l’attenzione a sua madre.
Rebecca si chiese cosa stesse provando. Odio? Desiderio di vendetta?
Il professor Garou le aveva consigliato di parlare con loro, ma Rebecca non riusciva nemmeno a muoversi. Cos’avrebbe potuto dire? Come avrebbe giustificato il fatto che, per difesa o meno, era stata lei a provocare la morte della figlia?
La Collins e Calì Amtara salutarono la famiglia Curter e si allontanarono.
Fu allora che il cuore di Rebecca perse un battito. Il signore e la signora Curter l’avevano individuata e stavano venendo verso di lei, insieme alla figlia.
Rebecca deglutì a vuoto.
“Ehm, Rebecca, noi rientriamo.” – le disse Barbara, in tono incerto.
“Sì, ci vediamo dopo.” – disse Brenda, in tono più deciso.
Rebecca non ebbe nemmeno la forza di rispondere.
Pochi secondi dopo, la famiglia Curter era di fronte a lei.
“Rebecca Bonner, giusto?” – le chiese il padre di Morgana.
Rebecca annuì.
“Volevamo conoscerti, prima di andare.”
Le strinsero la mano.
Rebecca scoprì che non c’era traccia di rancore sui loro volti. La donna aveva gli occhi arrossati dal pianto e la guardava, un po’ titubante. Rebecca pensò che dovesse sentirsi in imbarazzo almeno quanto lei.
Non sapeva cosa dire. La ragazzina la stava fissando con espressione seria, facendola sentire ancora più a disagio.
“Sono sicuro che se avessi conosciuto la vera Morgana, sareste andate d’accordo.” – disse l’uomo.
Quelle parole le gelarono il sangue nelle vene, gettandola nello sconforto più totale.
La donna tirò su col naso, asciugandoselo nel fazzoletto.
Cosa diavolo avrebbe dovuto rispondere? Perché la stavano mettendo in imbarazzo in quel modo? Perché non la odiavano a morte? Dopotutto, Morgana era morta per colpa sua.
“Signor Curter, io…”
“No, non dire niente, ti prego. Non ce n’è bisogno. Sappi solamente che non ce l’abbiamo con te.”
Rebecca fu investita da un immenso moto di gratitudine.
Il signor Curter le porse nuovamente la mano. “Addio.”
Rebecca gliela strinse calorosamente. “Addio.”
Poi accadde qualcosa di totalmente inaspettato.
La signora Curter l’abbracciò.
Per un istante, Rebecca si sentì come quando la signora Lansbury la stringeva a sé, ogni volta che la incontrava. Avvertì tutto il suo calore e un profumo inebriante, di mughetto e di rosa.
“Addio, cara.” – mormorò la donna, staccandosi da lei.
“Addio, signora Curter.”
“Ciao.” – la salutò la ragazza.
“Ciao.”
Rebecca restò lì a guardarli mentre si allontanavano.
Li vide salire in macchina e ripartire.
Era stato un colloquio brevissimo, ma che le aveva alleggerito il cuore di un pesante fardello. La famiglia di Morgana non ce l’aveva con lei. In realtà, era lei ad avercela con se stessa, per come erano andate le cose, per non aver capito, per aver detestato Morgana senza conoscere la verità.
Rebecca non aveva bisogno del perdono dei Curter, aveva solo bisogno di perdonare se stessa.
Si guardò attorno. Molti genitori se n’erano andati e le Prescelte stavano rientrando a scuola. I professori erano spariti, così come la Collins.
Brenda e Barbara la stavano sicuramente aspettando.
Si voltò per raggiungerle, quando una voce la fermò.
“Rebecca.”
Con un sussulto, si voltò.
Di fronte a lei c’era Calì Amtara.
“Scusa, non volevo spaventarti.”
Era una donna di media altezza, con un corto caschetto di capelli corvini, qualche ruga e le labbra sottili. I grandi occhi grigi la guardavano con dolcezza. Rebecca si accorse che somigliavano a quelli di Morgana, anche se lei non l’aveva mai fissata in quel modo. Morgana l’aveva sempre guardata con odio.
“Volevo solo sapere come ti senti.”
“Bene.” – mentì.
“Non hai bisogno di fingere con me. Ho parlato con la professoressa Collins.”
Chiedendosi cosa potesse aver raccontato la Collins a Calì Amtara, Rebecca distolse lo sguardo.
Calì la prese dolcemente per le spalle, costringendola a guardarla.
“Non hai niente di cui rimproverarti, cara. È stata solo una terribile tragedia.”
Rebecca cominciava ad essere stanca di sentirselo ripetere. Ma che potevano saperne tutti di come si sentisse veramente?
“Probabilmente starai pensando che nessuno di noi ti può capire.”
Rebecca la guardò, sbalordita, chiedendosi se la donna che aveva dato il nome alla scuola fosse in grado di leggere nel pensiero.
Calì Amtara sorrise. “Sai, anch’io ho perso alcune persone care, a causa di Posimaar.”
Rebecca aggrottò la fronte. “Davvero?”
Calì Amtara annuì. “Prima mia sorella e poi mio padre. Mia madre è sopravvissuta, ma il colpo è stato troppo duro per lei. Ha perso completamente la ragione.”
Rebecca era sconvolta. “M-mi dispiace. Non lo sapevo.”
“Due Streghe Nere particolarmente audaci. Non abbiamo potuto fare niente.”
“Credevo attaccassero solo i Protetti.”
“Non è sempre stato così. Molte persone sono cadute per mano delle Streghe Nere ma, naturalmente, i Protetti sono i bersagli più facili.”
Rebecca tacque. Non aveva idea che quella donna avesse vissuto una tragedia simile. Ora capiva per quale motivo si era tanto prodigata per istituire quella scuola.
“E’ stato terribile. Ma la vita continua, così come questa guerra. Lo sconfiggeremo, ne sono certa.”
“Mi dispiace, io non avevo idea…”
“Non preoccuparti, cara. Ormai fa parte del passato. Ma ci tenevo a raccontartelo, sai? E c’è stato perfino un momento in cui sono stata sul punto di mollare. Volevo abbandonare la presidenza del Consiglio. Non m’importava più nulla, soprattutto con mia madre in quelle condizioni.”
“E cosa le ha fatto cambiare idea?”
“Voi.” – rispose Calì, con semplicità.
Rebecca corrugò la fronte. “Noi?”
Calì sorrise. “Sì, voi Prescelte.” Alzò la testa indicando con un gesto il maestoso edificio dietro di loro. “Tutto questo. La scuola, la nuova generazione di Streghe. Volevo davvero lasciare campo libero a Posimaar? Potevo permettergli di distruggere anche questo? Potevo abbandonare la scuola che porta il mio nome e in nome della quale avevo tanto combattuto? No, non avrei mai potuto farlo. Vedi, Rebecca, a volte bisogna mettere da parte il proprio ego, e scegliere ciò che è giusto, piuttosto che ciò che è comodo.”
Rebecca era senza parole. Mai avrebbe creduto che dietro alla fondatrice della scuola si celasse un dolore personale tanto immenso.
“Sono sicura che hai ancora molto da dare ad Amtara.”
Rebecca assottigliò lo sguardo. Che cosa voleva dire, esattamente, con quelle parole? Era sicura che non si riferisse al suo rendimento scolastico.
Ma prima che potesse fare domande, Calì Amtara si congedò da lei.
“Abbi cura di te, cara. Spero di rivederti presto.”
Rebecca restò lì a guardarla mentre salutava la preside, prima di andarsene.
Quella donna aveva compiuto una scelta coraggiosa.
Sarebbe riuscita a fare lo stesso, nel momento in cui si sarebbe trovata faccia a faccia con Posimaar?
“Rebecca!”
Per la seconda volta, nel giro di pochi minuti, Rebecca si voltò nell’udire il suo nome.
“Ciao Alyssa.”
Alyssa si avvicinò. “Ciao! Hai un minuto?”
“Sì, certamente.”
“Che ne dici di fare due passi?”
“Sì, d’accordo.”
Si avviarono lungo il vialetto, verso il cancello.
Rebecca era un po’ a disagio. Non aveva più parlato con Alyssa da quando Morgana era morta.
“Come ti senti?” – le chiese.
“Malissimo.” – rispose Alyssa.
“Già, ti capisco.”
“Non oso immaginare cosa devi aver passato. Voglio dire, dover lottare contro di lei e poi… lanciare quell’Incantesimo…”
“Se non ti dispiace, preferirei non parlarne.” – la bloccò, con più fervore di quanto non avesse voluto.
Alyssa arrossì. “Oh, scusami.”
“Non fa niente.” – si affrettò a rispondere Rebecca.
Se Alyssa era venuta per parlare di quello che era accaduto nell’ufficio della Poliglotter, per quello che la riguardava, poteva anche andarsene.
“Io… non volevo…” – balbettò Alyssa.
“E’ tutto a posto. E’ solo che sono giorni che la gente continua a farmi domande su quello che è successo e, sinceramente, sono stanca di parlarne.”
“Sì, certo, lo capisco.”
“Però se hai voglia di parlare d’altro, sono qui.”
Alyssa si fermò e la guardò. Rebecca doveva aver intuito il suo tormento.
Si scambiarono uno sguardo penetrante, prima che Alyssa riprendesse a parlare, con gli occhi lucidi e la voce incrinata.
“Il fatto è…il fatto è che non riesco a darmi pace.” – confessò disperata. “Non riesco a perdonarmi di averla trattata così. Se solo avessi saputo che non era in lei, io…”
“Nemmeno io lo sapevo. Nessuna di noi poteva saperlo. Non è stata colpa tua.”
“Sì, lo so. Ma questo non mi fa sentire meglio.”
Non fa sentire meglio nemmeno me.
Rebecca sospirò. Quella situazione aveva qualcosa di surreale. Alyssa era venuta a cercare conforto proprio da lei, la persona che aveva ucciso Morgana e che, meno di tutte, poteva confortare qualcuno in quel momento. Possibile che non se ne rendesse conto? Possibile che nessuno, lì dentro, avesse un minimo di tatto nei suoi riguardi?
Improvvisamente, alzò gli occhi al cielo, provando un istintivo desiderio di rientrare a scuola, tra le rassicuranti mura di Amtara, al riparo da sguardi indiscreti, al riparo da tutto e da tutti e, soprattutto, lontano dai sensi di colpa di Alyssa, dal momento che ne aveva già abbastanza dei suoi.
“Scusa, mi dispiace.” – continuò Alyssa, tirando su col naso. “Lo so che non dovrei parlare di questo con te, dopo quello che hai passato. Ma Margaret e Viola non mi rivolgono più la parola.”
Rebecca sgranò gli occhi. “E perché?”
“Perché ho abbandonato Morgana. E ora che sanno che non era davvero in sé, è anche peggio.”
“Ma tutto questo è assurdo!” – sbottò Rebecca, irritata. “Proprio perché non era in sé dovrebbero capire che il tuo comportamento è stato più che giustificato. Morgana si è comportata malissimo mentre era posseduta dal Demone. E ora che tutta questa storia è finita, dovremmo smetterla di portare rancore le une verso le altre, una volta per tutte.”
“Vorrei che anche loro la pensassero come te.” – commentò Alyssa, depressa.
“Lasciale perdere. Non meritano la tua amicizia.”
“Sì, forse hai ragione.” – mormorò Alyssa.
“Sai, poco fa una persona di grande valore mi ha detto che, a volte, bisogna scegliere ciò che è giusto, piuttosto che ciò che è comodo. Io credo sia ora di guardare avanti. Non hai bisogno di loro, Alyssa. Non hai bisogno di nessuno.”
Rebecca le sorrise.
Alyssa si asciugò gli occhi. “Grazie, Rebecca.”
 
“Hai preso tutto?” – domandò Brenda a Barbara.
“Possa cadermi un fulmine sulla testa se ho dimenticato qualcosa!” – rispose Barbara.
“Allora forse è meglio se mi scanso.”
“Spiritosa.”
Era arrivato il giorno della partenza e, come sempre, nell’atrio c’era un gran via vai di gente.
In quel trambusto, Rebecca riuscì a scorgere Elettra e Justine e, gesticolando vistosamente, le chiamò a gran voce.
“Ciao Rebecca!” – la salutò Elettra con un sorriso luminoso.
“Come state? Nervose per gli esami?”
“Un pochino.” – rispose Justine.
“Io no.” – rispose Elettra. “Mi sento più tranquilla di quanto non mi aspettassi.”
“Davvero?”
“Davvero.”
“Quando cominciano gli esami?” – domandò Rebecca.
“Tra una settimana.” – rispose Justine.
“Oh, non manca molto.”
Elettra le lanciò un’occhiata profonda, che Rebecca le restituì.
Non c’era bisogno di dire nulla. Entrambe sapevano che quello, probabilmente, era l’ultimo giorno in cui si sarebbero viste.
Dopo gli esami, anche Elettra e Justine, come ogni altra Prescelta, sarebbero state assegnate ad un Protetto.
Certo, avrebbero potuto scriversi, rimanere in contatto, ma non sarebbe stata la stessa cosa.
Rebecca ricacciò indietro le lacrime.
Per fortuna intervenne Barbara a stemperare la tensione.
“Se penso che il prossimo anno tocca a noi, ho il voltastomaco.” – commentò depressa.
“E tu allora non pensarci.” – le disse Elettra. “Hai ancora un anno intero davanti. E possono accadere un sacco di cose…”
Con quelle ultime parole, Elettra si era voltata verso Rebecca, lanciandole un’occhiata penetrante.
Rebecca trasalì. Che cosa voleva dire, esattamente? Era forse convinta, anche lei, che durante l’ultimo anno ad Amtara Rebecca avrebbe potuto sconfiggere Posimaar? Se l’avesse fatto, avrebbe liberato per sempre tutte le Prescelte da un futuro di schiavitù e dal pericolo mortale delle Streghe Nere.
Rebecca avrebbe tanto voluto avere la medesima fiducia in se stessa. Il Mondo della Magia Bianca si aspettava molto da lei. Sarebbe riuscita a non deluderlo?
Elettra abbracciò stretta Rebecca.
“Ci rivedremo?” – le chiese Rebecca, in un soffio.
“Resteremo in contatto. C’è ancora tempo prima che mi trovino un Protetto. Potrei tornare a farti visita a Villa Bunkie Beach dopo gli esami, che ne dici?”
Il viso di Rebecca s’illuminò. “Dico che è un’idea fantastica!”
“Sono arrivati mamma e papà.” – disse Brenda. “Dobbiamo andare.”
Si salutarono tutte, tra abbracci e qualche lacrima.
Rebecca salì in macchina.
Il signor Lansbury mise in moto e l’auto partì.
Stavolta Rebecca non si voltò indietro.
Mancava un anno, un solo anno, prima che il suo destino cambiasse per sempre.
O forse no…
Se solo avesse scovato Posimaar, se solo fosse riuscita ad ucciderlo…
Ma c’era ancora tempo. Aveva davanti tre lunghi mesi torridi, durante i quali avrebbe potuto salutare meglio Elettra e passare del tempo in montagna dai Lansbury.
Sì, c’era ancora tempo.
Poi, avrebbe pensato al domani.




JACK
 
“Sei un idiota!”
Jack emise un mugolio e andò a rifugiarsi in un angolo.
“Mi dispiace…” – piagnucolò.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse!” – ringhiò la voce.
“La prossima volta non sbaglierò.”
“Puoi scommetterci! Finora ho lasciato la cosa nelle tue mani, ma vedo che ho sbagliato a fidarmi di te!”
Jack emise un gemito, che la voce ignorò.
“Da adesso in poi farai come dico io.”
“S-sì.”
Si alzò una folata di vento gelido e Jack sollevò la testa, quel tanto che bastava per avere la fugace visione di un’ombra indistinta, che si ergeva maestosa dinanzi a lui.
Jack spalancò la bocca per lo stupore.
In tutti quegli anni, era la prima volta che la voce si manifestava a lui. Fino ad allora, non aveva fatto altro che obbedire agli ordini.
Jack sapeva a chi apparteneva la voce e conosceva il motivo per cui l’aveva spinto ad agire. Ma mai, prima di allora, aveva avuto il coraggio di chiedergli di manifestarsi. Sapeva che, al momento giusto, l’avrebbe fatto di sua spontanea volontà.
E il momento era arrivato.
Ma le sue aspettative furono deluse. Tutto ciò che riusciva a distinguere era una forma oscura, dalle sembianze umane. Non aveva un volto, non aveva occhi né bocca. Jack udiva ancora la voce, ma era come ascoltare un fantasma.
“Sei troppo debole per questa missione. I sentimenti ti offuscano la mente.”
A quelle parole, Jack si ridestò. “Io non provo niente.” – ruggì arrabbiato.
“Ne sei proprio sicuro? Forse, la piccola Strega non è alla tua portata… Forse è troppo forte per uno come te…”
“NO!” – urlò.
“Allora dimostralo! Dimostra che intendi distruggerla con le tue stesse mani! Dimostra di essere figlio di tuo padre!”
Un barlume d’odio accese lo sguardo di Jack, che si rialzò in piedi, lentamente.
L’ombra scrutò attentamente quel volto così familiare e capì che le sue parole avevano raggiunto il loro scopo.
Sì, ora Jack era pronto a obbedire a qualunque suo ordine, pronto ad uccidere.
“Dimmi cosa devo fare.” – mormorò Jack, in tono pacato.
Nell’oscurità della stanza, un sorriso diabolico increspò le labbra invisibili dell’ombra.
 
 

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