Maledictio: il Regno di Expatempem

di Captain Riddle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Lo strano sogno ***
Capitolo 3: *** Il re e i due principi ***
Capitolo 4: *** Eletto dagli dèi ***
Capitolo 5: *** La Volpe in trappola ***
Capitolo 6: *** La ninfea e l'anemone ***
Capitolo 7: *** L'unico schiavo ***
Capitolo 8: *** Il Terrore dei Boschi ***
Capitolo 9: *** Mandato a palazzo ***
Capitolo 10: *** L'ascesa del re ***
Capitolo 11: *** Lenzuola di seta e marmo rosso ***
Capitolo 12: *** Prigione di pietra ***
Capitolo 13: *** Toccata e fuga ***
Capitolo 14: *** Il cavaliere senza macchia ***
Capitolo 15: *** Corallina ***
Capitolo 16: *** Il principe della palude ***
Capitolo 17: *** Il domatore insanguinato ***
Capitolo 18: *** Viaggio senza fine ***
Capitolo 19: *** La palude di sangue ***
Capitolo 20: *** L'artista e il pirata ***
Capitolo 21: *** Una palude vuota e nera ***
Capitolo 22: *** La Casa della Carità ***
Capitolo 23: *** L'Erede e la Volpe ***
Capitolo 24: *** La sguattera, il soldato e la balia ***
Capitolo 25: *** Il castello di Selceno ***
Capitolo 26: *** L'ammonimento di Iris ***
Capitolo 27: *** Un ospite gradito ***
Capitolo 28: *** L'incubo d'inverno ***
Capitolo 29: *** Il fascino della dama scarlatta ***
Capitolo 30: *** Gli Hardex ***
Capitolo 31: *** Il Generale e la Volpe ***
Capitolo 32: *** L'ultima strada ***
Capitolo 33: *** La tenacia della ninfea ***
Capitolo 34: *** La confessione del signore ***
Capitolo 35: *** Le tenebre della mia anima ***
Capitolo 36: *** Il signore della terra e del ghiaccio ***
Capitolo 37: *** La regina che il popolo merita ***
Capitolo 38: *** La notte senza stelle ***
Capitolo 39: *** Due volpi con un solo cuore ***
Capitolo 40: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


C'era una volta un regno magico governato con saggezza da un re e una regina buoni e giusti; un giorno la regina rimase incinta e si festeggiò per settimane, settimane che divennero mesi e non appena ebbero finito di festeggiare la gravidanza dovettero ricominciare per festeggiare la nascita non di un erede ma di ben quattro gemelli. I sovrani erano fuori di sé dalla gioia, avevano avuto infatti due femmine e due maschi.

Alla notizia della nascita dei gemelli il popolo gioì, tutti erano a conoscenza di un'antica profezia che narrava dell'arrivo dello splendore del regno sotto quattro principi, il principe di ghiaccio, il principe di fuoco, la principessa di aria e la principessa di terra, ognuno di loro infatti possedeva poteri speciali con i quali riusciva a controllare il proprio elemento. I genitori da allora furono acclamati come il re sole e la regina luna, progenitori della vita e degli elementi stessi.

A palazzo però il consigliere del re era molto preoccupato, infatti l'ultima parte della profezia era stata celata ed era nota solo a pochi. Il consigliere si fece coraggio e si recò dai sovrani, raccontando dell'altra orrenda parte della profezia: uno dei quattro, geloso e timoroso degli altri tre, li avrebbe uccisi, così facendo avrebbe acquisito anche i loro poteri e sarebbe stato inarrestabile. Sarebbe divenuto noto come Re o Regina della Morte per essersi macchiato le mani con il sangue dei fratelli.

I sovrani turbati rassicurarono il consigliere e minimizzarono per poi congedarlo, tuttavia nessuno dei due riuscì a dormire quella notte. L'idea che i figli non fossero i bambini della profezia era improbabile, non poteva essere un caso che avessero avuto quattro gemelli, due maschi e due femmine, quando incombeva il presagio di una profezia così speculare alla loro storia. Ma loro non avrebbero permesso che tutto ciò si avverasse, avrebbero cresciuto i figli in modo che si amassero profondamente.

Passarono diversi anni e i bambini crebbero, mentre le condizioni salutari della regina peggioravano. I bambini erano tanto dissimili nell'aspetto quanto negli atteggiamenti; uno dei due figli, Gavriel, aveva capelli rossi e occhi marroni con riflessi dorati, come se nelle iridi vi risplendessero due piccoli soli e leggere lentiggini evidenziavano i suoi zigomi; una delle due femmine, Alisea, era bionda e i suoi capelli erano lisci e fluenti come la brezza primaverile, gli occhi erano di un intenso verde smeraldo, le labbra sottili e le guance rosee; Demetria invece era bruna con i ricci ramato-castani e occhi di un bel nocciola, mentre l'altro figlio, Ahriman, aveva i capelli nerissimi, la pelle era pallida e gli occhi di un intenso azzurro ghiaccio. Tre dei fratelli, un maschio e le due femmine, erano piuttosto uniti durante gli anni infantili, trascorrevano tutto il tempo a rincorrersi e a giocare con le spade, soprattutto il principe di fuoco e la principessa dell'aria, mentre l'altro figlio preferiva leggere tutto il giorno e raramente giocava.

I sovrani però mai avevano ritenuto che queste differenze potessero essere un problema, purché i figli si amassero. Tuttavia un giorno il principe di fuoco e la principessa d'aria litigarono durante uno dei loro 'duelli', tanto violentemente da turbare gli animi dei loro genitori già inquieti a causa della profezia. Le condizioni salutari della regina precipitarono, peggiorando irreversibilmente e la donna consigliò al marito di tenere uniti i figli in quel momento difficile più che mai. Furono mesi molto duri e i litigi tra il principe di fuoco, la principessa di aria e la principessa di terra si intensificarono. Il re era profondamente addolorato dalle precarie condizioni della moglie e dai frequenti litigi dei tre figli, ma per fortuna il quarto figlio era sempre lì ad aiutare lui e la regina, sostenendoli con parole gentili e gesti amorevoli.

Gli ultimi giorni della regina furono una sofferenza per tutti e il triste giorno in cui venne a mancare il regno la pianse con dolore. Ormai morta la madre i ragazzi reagirono diversamente alla perdita, il principe di fuoco Gavriel si allenava tutto il giorno con la spada, sperando di soffocare la sofferenza nella fatica, similmente agì la sorella Alisea, la principessa di aria, mentre la principessa di terra Demetria trascorreva i giorni tra il ricamo e la caccia. Il re era devastato ma doveva mettere da parte il dolore intenso che sentiva ardergli nel petto e trovare la forza per governare quel regno e nei momenti più difficili e sconfortanti solo il principe di ghiaccio Ahriman gli restò vicino.

Gli anni trascorsero celermente e sopraggiunse la maggiore età degli eredi al trono. Il re, peggiorato di anno in anno dalla morte della sua regina, era ormai sul punto di morire. Doveva decidere a chi affidare la corona. Pensò a tutti i figli, analizzando con calma e giudizio le qualità che ognuno dei suoi figli possedeva; il principe di fuoco Gavriel era diventato un valoroso cavaliere che avrebbe donato la vita senza la minima esitazione pur di difendere il suo regno e la sua gente, la principessa di aria Alisea era una temibile e agile guerriera, onesta e sincera e la principessa di terra Demetria una donna testarda e decisa, in grado di governare con saggezza. Poi c'era il suo quarto figlio, il principe di ghiaccio Ahriman, un ragazzo non ardito come il fratello ma di sicuro più astuto e serio, diplomatico e capace.

Quando finalmente fu giunto a una conclusione il re fece chiamare i figli nel letto di morte e al cospetto delle guardie reali firmò un documento che attestava il passaggio di corona al principe di ghiaccio Ahriman. Tre settimane dopo la morte del re una sfarzosa cerimonia festeggiò il nuovo sovrano, festeggiandolo con somma gioia. Il fratello e le sorelle non erano scontenti ma di certo ognuno si riteneva un regnante migliore, tuttavia accettarono la decisione del padre e festeggiarono il fratello. Quello che però non sapevano era che il re li voleva morti, infatti il principe di ghiaccio sapeva che gli altri tre avrebbero potuto reclamare il trono e spodestarlo in virtù dei loro diritti legittimi di nascita, inoltre ciascuno di loro poteva vantare doti carismatiche e poteri magici invidiabili.

Ahriman decise quindi di agire con cautela come aveva sempre fatto sino a ora nel corso della sua vita; la prima cosa che fece fu porre il fratello a guida di una spedizione al confine del regno, sui Monti Stiria, proprio nel passo tra i monti innevati, dove il potere di fuoco di Gavriel si sarebbe indebolito e ucciderlo sarebbe stato più semplice. Così, assoldati dei sicari, lo fece morire in una valanga di neve causata da questi ultimi durante il percorso dopo che essi ebbero gridato giustizia in nome del re. Poi fu il turno della sorella Demetria, la principessa di terra, la diede in sposa a un suo amico d'infanzia e poi incaricò quest'ultimo di soffocarla la notte del matrimonio in nome del re, con la promessa di renderlo un signore.

Quando toccò all'ultima sorella però la situazione si complicò. La principessa di aria Alisea era sempre stata una grande guerriera, veloce come il vento e dalla spiccata intelligenza. La ragazza aveva intuito che le morti del fratello e della sorella non erano state accidentali, anche se il re faceva attenzione a non lasciare indizi, così si mise in viaggio. Fuggì nascondendosi per mesi e venne a conoscenza della parte mancante della profezia. La principessa, allarmata dalla pericolosità del fratello, riunì un esercito di ribelli e marciò verso la capitale.

Il fratello però era più furbo di lei, le rivolse la profezia contro e il popolo ovviamente non indagò oltre, ritenendo la parola del re sacra e la sua figura paragonabile a quella di un dio sceso in terra a causa dei suoi poteri e del titolo di cui era investito. La principessa così dopo aver tentato di lottare venne catturata e portata al cospetto del re. I due fratelli restarono soli e il re si fece beffe di lei, spiegandole come avesse rubato i poteri agli altri due avendoli fatti uccidere in nome di sé stesso e rivelandole che presto lei avrebbe subito la stessa sorte.

La ragazza rise amaramente, rivelando di essere venuta a conoscenza di una seconda profezia: il re della morte avrebbe regnato per tutta la vita e avrebbe avuto una lunga discendenza, poi qualcuno si sarebbe ribellato a una tale violenza, la dinastia sarebbe finita e i poteri sarebbero andati perduti. Il re non si curò minimamente delle parole della sorella, accusandola di aver inventato la profezia che, anche se si fosse rivelata veritiera, non lo avrebbe riguardato in quanto già estinto da tempo. E fu così che il giorno seguente Ahriman fece giustiziare l'ultima dei suoi fratelli in nome del re.

Il re, ormai in possesso di tutti i poteri degli elementi, fece cadere il regno nel terrore e lui si spinse sempre più in là, distruggendo ogni oppositore con i suoi poteri illimitati. Ormai signore di gran parte del continente decretò che fosse giunto il momento di prendere moglie e da quel matrimonio nacquero due figli e una figlia. La sera in cui nacque il primo figlio però il re ricevette un'altra profezia: finché la morte regnerà sui vivi le forze della natura si sottometteranno, ma quando la morte sarà sconfitta solo chi avrà la forza necessaria, chiamato Protettore, sarà in grado di piegare la natura e liberare i popoli dal cataclisma.

Il re pensò per giorni a quelle parole, arrivando alla conclusione che finché lui, Re della Morte come lo chiamavano in tanti e come lo designava la profezia sulla sua nascita, e la sua stirpe avrebbero regnato, il potere degli elementi sarebbe stato loro, dopo la sconfitta della sua dinastia il potere sarebbe andato a qualcuno abbastanza forte da averlo, abbastanza forte da sottomettere la natura. L'avvertimento della sorella dunque era reale. Il re divenne sempre più feroce, istruì i figli affinché diventassero imbattibili in armi e astuzia mentre la figlia sarebbe divenuta un'abile tessitrice di inganni dall'aspetto innocente.

Per quattro secoli, come voleva la profezia, la stirpe del Re della Morte regnò, poi il popolo si ribellò sotto invasori stranieri. All'epoca sul trono c'era un re vedovo, arrogante e ottuso, con due figli. Il maschio erede al trono era un folle sadico, che traeva piacere nel vedere le sofferenze altrui, mentre la figlia secondogenita era una fanciulla maltrattata che avevano fatto sposare appena in età da matrimonio con uno degli spregevoli cavalieri del fratello, poi divenuto generale della guardia reale. Presto la principessa Merlena rimase incinta e nel momento della grande guerra che avrebbe determinato la successione al trono riuscì a fuggire con la sua più fidata dama di compagnia. Viaggiarono fino ai pressi di una foresta e lungo un ruscello, su un terreno arido e inospitale, freddo a causa della neve d'inverno, la principessa diede alla luce un bambino dai capelli neri e gli occhi color ghiaccio. La donna ormai in punto di morte pregò la sua dama di prendersi cura del bambino e di non rivelargli mai la sua vera identità, infine la pregò affinché bruciasse il suo corpo stremato per non lasciare alcuna traccia. La principessa infatti era ben consapevole del grave rischio che correvano, i soldati probabilmente la cercavano già e voleva dar loro l'impressione di essere spirata insieme al suo bambino.

La dama fidata giurò di fare come aveva chiesto la donna e, bruciato il corpo, fuggì con il bambino. Il re e il principe al castello vennero uccisi, gli invasori presero il trono e il potere degli elementi sparì da ogni essere vivente così com'era venuto quattro secoli prima. E' così che ebbe inizio la storia odierna del Regno di Expatempem.





 

Ciao a tutti, questa è la prima storia originale che scrivo, si tratta di una trilogia fantasy la cui narrazione è ispirata a quella delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, ovvero c'è la presenza di punti di vista multipli. Spero che possiate trovare questa storia appassionante e avvincente, buona lettura
Captain Riddle

 

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Capitolo 2
*** Lo strano sogno ***


Pov:Aurilda

Era una giornata tiepida, il mese di vinpiterno stava dando il benvenuto all'autunno e le foglie marroni prive di linfa ricoprivano le vie strette che circondavano il castello di Stablimo. I contadini aravano, infaticabili, presso le possenti mura di dura pietra grigia fortificate, mentre parte dell'esercito stava a guardia davanti all'ingresso del castello. Tutti salutarono con inchini ossequiosi la primogenita del signor Tenebrerus, prestando particolare attenzione considerato l'imminente matrimonio della fanciulla con il futuro re che si sarebbe celebrato la primavera successiva, all'inizio del mese di vigesio. Aurilda era sempre stata una bella ragazza, gli zigomi erano alti, i capelli scuri e ribelli come le radici sporgenti e intricate di un vecchio ebano e gli occhi erano scuri e grandi, profondi come pozzi. La fanciulla aveva l'abitudine di passeggiare con le sorelle minori Nomiva e Selina, sperando di rendere la noiosa passeggiata a cui era costretta ben più divertente. Anche le sue sorelle erano sempre state tanto belle, ma seppur fossero legate da un così stretto legame di sangue, nessuno guardandole fugacemente avrebbe potuto mai pensare che fossero anche solo lontanamente imparentate; la secondogenita Nomiva aveva capelli castani lievemente ondulati, gli occhi erano di un morbido marrone, vispi e desiderosi di avventura, mentre le guance erano un po' più piene di quanto-almeno secondo la sua condizione di fanciulla nobile in età da matrimonio-avrebbero dovuto essere e per giunta avevano qualche leggera lentiggine, visibile solamente durante la stagione estiva. Mentre nelle figlie maggiori si potevano scorgere delle somiglianze nella forma del viso e nel profilo, lo stesso non poteva dirsi della minore Selina; la ragazzina infatti aveva i capelli completamente lisci e fluenti, del colore che richiamava l'oro fuso, gli occhi erano verdi come le foglie primizie di primavera e il viso era allungato, dalla pelle pallida e setosa.

Tutte i giorni le signorine Tenebrerus seguivano il medesimo programma in quel castello maledetto, si svegliavano con l'aurora, preparandosi celermente e mangiando poco a colazione, lo stretto necessario, per preservare la propria avvenenza e non appesantire la loro figura longilinea, certamente più apprezzata da eventuali pretendenti. Dopo la colazione c'era il ricamo, ovvero una lunga agonia che annoiava Aurilda sino alla morte e proseguiva quasi sino all'ora di pranzo. Aurilda aveva rimpianto tanto le lezioni di storia con il precettore Diodorus che aveva terminato pochi mesi addietro e realmente non si capacitava di come sua sorella Selina potesse preferire il ricamo alle lezioni di storia. Al termine del pranzo andavano a riposare e Aurilda si era sempre domandata per quale motivo dovessero farlo dal momento che trascorrevano il loro tempo trascinandosi da una sedia all'altra e proprio per questo quando lei e le sorelle avevano il permesso di restare nella stessa camera, lo trascorrevano parlando e giocando. Al risveglio erano relativamente libere di fare quello che più desideravano, ma era pomeriggio inoltrato e alle otto si cenava, perciò bisognava essere a casa per prepararsi un'ora prima. Durante l'inverno non esisteva alcuna parvenza di liberta, quando Aurilda e le sue sorelle si svegliavano dal riposino era già buio e a loro non era concesso stare fuori quando non c'era il sole. E così la giornata volgeva al termine con la cena, per poi coricarsi un'ultima volta a dormire. Le sorelle avevano un programma analogo al suo, solamente che loro trascorrevano le mattinate a lezione con il precettore, mentre Aurilda, durante lo 'spiraglio di libertà apparente', era costretta da qualche mese a prendere ulteriori lezioni di postura e comportamento. Tutto perfettamente normale a sentire i suoi genitori, doveva pur sempre diventare regina, non poteva più passare oziosi e infruttuosi pomeriggi all'aria aperta. Sarebbe divenuta la sposa del principe erede al trono. Qualsiasi ragazza l'avrebbe invidiata per quella fortuna, tante fanciulle che le era capitato di conoscere al castello le rivolgevano sguardi di invidia, ma lei era assolutamente contrariata.

Suo padre Gamelius era sempre stato un uomo molto dedito alla famiglia che si preoccupava affinché rimanessero sempre in una buona posizione sociale, ma durante la guerra guidata dal re invasore e il suo popolo suo padre aveva avuto all'incirca la sua età e si era dimostrato piuttosto impacciato e inesperto di guerra e nella gestione di un castello, così, seguendo i consigli degli uomini più fidati, non si schierò a favore di alcun sovrano. A causa di questo motivo gli era stato necessario un tempo notevole per ingraziarsi il nuovo re. Le armate dei Tenebrerus non erano particolarmente grandi o potenti, ma era del tutto normale, i Tenebrerus erano signori dell'agricoltura, a loro occorrevano i terreni, ma nonostante ciò i genitori non avevano avuto grossi problemi per trovare dei pretendenti per le figlie, essendo queste ultime bellissime e di ottima famiglia. Aurilda era stata chiesta in sposa dal re in persona per il suo primogenito e Selina era fidanzata con il figlio del signore della guerra della loro provincia. L'unica a non avere ancora ricevuto una proposta da una nobile famiglia era stata Nomiva, ma non perché non fosse bella, il motivo principale era la fama di signorina sgraziata, non del tutto falsa, che Nomiva si era procurata nel tempo. Aurilda invece sin dall'infanzia si era dimostrata una bambina curiosa, intelligente e rispettosa delle regole ed estremamente guardinga nei confronti degli estranei. Crescendo si era dimostrata sempre tranquilla e curiosa verso tutti i tipi di storie e avventure, in seguito aveva sviluppato un dissidio interiore: sentiva di possedere due personalità, una era allegra e impetuosa, curiosa, combattiva e selvaggia mentre l'altra, molto più elegante, era rigida, sarcastica e perfezionista. Ovviamente non ci voleva molto per capire quale fosse la parte che alla fine aveva prevalso: rigidità e sarcasmo erano la sua armatura naturale, ma gli scatti d'ira colorivano la sua personalità come strisce rosse sul freddo metallo, non molto appropriato per una signorina. Aurilda aveva esibito un comportamento austero e annoiato per tanto tempo. A tavola era sempre seduta in modo impeccabile e scrutava tutto attraverso i grandi occhi apparentemente dolci, elargendo disapprovazione per qualsivoglia evento le accadesse intorno; ma il suo lato acido e severo era venuto fuori con il tempo, in particolare dopo l'avvenimento che aveva cambiato la sua vita. Il suo perfezionismo innaturale però veniva lodato e Aurilda riuscì a impressionare lo stesso re mostrando il rigido contegno che la contraddistingueva in tali eventi, e fu proprio così che il re verificò di persona ciò di cui era già venuto a conoscenza da altri. Quella nobile ragazzina dodicenne aveva una maturità e una grazia sconosciute, che sicuramente avrebbero supportato il figlio Morfgan erede al trono. Guardando il portamento e le maniere della giovane sembrava proprio di trovarsi di fronte a una regina, era seduta rigidamente, impeccabilmente, ma allora Aurilda non era ancora avvelenata dal rancore e mostrava una serena espressione benevola, non sapendo di firmare così la sua condanna. Ma Aurilda non era affatto felice di diventare regina, o meglio, avrebbe amato l'idea se le fosse stato permesso di fare a modo suo. Comandare le piaceva da sempre anche se non aveva avuto tante occasioni per dimostrarlo, inoltre si riteneva più intelligente di tante persone di sua conoscenza ed era testarda e talmente decisa da non desistere facilmente e rimanere ferma nelle sue posizioni anche quando sbagliava. Quello che veramente la spaventava era il suo promesso sposo.

Aurilda e Morfgan si erano già conosciuti diversi anni prima dell'accordo di matrimonio e la ragazza non aveva mai considerato il famigerato principe Morfgan degno di alcuna ammirazione. Quando era stato stipulato l'accordo il re e la sua famiglia erano in visita dai Tenebrerus dopo un viaggio di ritorno dal paese natale del re Fritjof. Non appena Morfgan seppe del fidanzamento si avvicinò ad Aurilda, non curante della differenza di età di otto anni che li separava, lei allora aveva solo dodici anni mentre lui ne aveva venti, e le dimostrò chiaramente la sua essenza riempiendola di minacce, lasciandosi andare a scatti violenti e risate beffarde in compagnia del fratello Drovan. L'aveva minacciata poi quando erano rimasti soli, rivelando quello che le avrebbe fatto subito dopo il matrimonio. I primi giorni Aurilda era rimasta terrorizzata, aveva una gran paura e non capiva come i suoi genitori l'avessero potuta vendere a quell'uomo tanto crudele. Prima della partenza però, nell'ultimo incontro con il principe, Aurilda si era fatta coraggio, stufa delle parole del principe e aveva esposto fermamente le sue idee, suscitando un'ira funesta nel futuro marito. Era stato precisamente da allora che le cose erano cambiate. Aurilda da quel giorno aveva sempre provato una forte paura per il suo futuro e si sentiva tremendamente furiosa con i genitori, persone che avrebbero dovuto amarla e proteggerla l'avevano condannata. Aurilda si era domandata allora come poteva essere veramente il genere umano se i genitori erano i primi a mettere in pericolo i figli. Si era chiusa del tutto in sé stessa, convertendo tranquillità e timidezza in cinismo, sarcasmo e acidità, per proteggersi. Aveva addirittura smesso di parlare con le sue sorelle, pur sapendo che loro erano innocenti. Ma alla fine guardando il suo più caro amico Ser Zalikoco le era venuta un'idea geniale, in grado di salvarle la vita. Oramai era giunto il tempo di partire, Aurilda aveva superato i diciassette anni da diversi mesi, poteva sposarsi adesso e il mattino seguente sarebbe partita per la capitale, preparandosi a sposare il principe alla fine dell'inverno. Presto sarebbero arrivati momenti difficili e la ragazza si sentiva soffocare, nonostante tentasse di nascondere la paura costantemente. Erano tanti i sentimenti che provava ma la rabbia prevaleva costantemente; era stata mesi a pensare attentamente ai lati positivi e a quelli negativi di quel matrimonio, ponderando con attenzione i pro e i contro di quell'unione. Essere regina sarebbe stato magnifico se avesse potuto comandare lei, sarebbe anche stata disposta a sacrificare la sua libertà e il suo spirito d'azione, ma poiché a comandare sarebbe stato il suo sposo Aurilda era giunta alla ferma conclusione che il matrimonio sarebbe stato un totale fallimento per lei.

"Signorine, è il momento di riposare". Adelynda, la balia delle tre ragazze, si fece avanti per guidarle nella camera adibita al riposo delle signorine, era una donnina bassa e un po' in carne con i capelli marroni legati in una morbida acconciatura, le guance erano paffute e gli occhi piccoli e insignificanti. 'Come se non conoscessimo la strada' pensò irritata Aurilda, con il volto contrariato e sprezzante. Attraversarono l'ingresso in ordine di grandezza e poi svoltarono sulla prima rampa di scale. Passarono davanti alla prima finestra, dove le tende erano tirate di lato. Aurilda avanzò, accompagnata dall'algida postura di gesso, voltandosi con fare annoiato per guardare il cortile dalla finestra. Sulle labbra sottili le comparve un sorriso divertito e pungente, si voltò vagamente, con disinvoltura, e fece un cenno alla sorella dietro di lei. Nomiva intercettò il messaggio e guardò dalla finestra. Aurilda la vide rallentare e sorridere, facendo sbattere Selina; Nomiva sorrideva a un ragazzino che lavorava nel piazzale del castello. Nomiva infatti durante i tranquilli giochi d'infanzia nei campi aveva fatto amicizia e poi si era innamorata del figlio di un contadino, un ragazzino buono e ingenuo che la ricambiava, cosa che senza dubbio avrebbe fatto infuriare i genitori se lo avessero scoperto. Nel momento in cui Aurilda lo aveva capito aveva deciso di coprire i due giovani, in questo modo i due innamorati potevano passeggiare insieme qualche volta a settimana. Certo era rischioso, ma Aurilda non avrebbe ripetuto lo stesso errore commesso dai suoi genitori con lei, non avrebbe anteposto il loro status alla felicità della sorella.

Le ragazzine entrarono nella stanza dedicata al loro riposo, era una stanza rettangolare con tre letti a baldacchino, c'erano due armadi di legno e un vecchio tappeto decorato, era la stanza in cui dormivano da bambine e i genitori non avevano pensato di rinnovare gli arredi, fatta eccezione per le coperte. La balia le guardò sfilare davanti a sé e poi chiuse la porta uscendo, senza aspettare oltre. Le tre si coricarono nei letti e chiusero gli occhi, fingendo di dormire, e quando poco dopo la donna tornò per controllarle parve soddisfatta. Aurilda sentendo la porta chiudersi definitivamente si alzò a sedere e poi si avvicinò alla finestra per scostare le tende. C'era un vecchio uomo, un cavaliere avvolto da un'armatura pesante. Si trovava all'ombra, privo dell'elmo che scintillava poco lontano su una botte di legno, lasciando intravedere i pochi capelli ai lati della testa magra e rugosa che ricadevano appena sulle orecchie come fili di lana. Le mani callose erano prive dei guanti che solitamente le celavano ed erano attente a lucidare una grossa spada. Lucidava la lama con mani carezzevoli, quella era la sua compagna di avventure e chissà quante storie avrebbe potuto narrare.

Ser Zalikoco era un uomo meraviglioso, era stato un grande cavaliere ed era anche stato maestro d'armi di suo padre e grande amico del nonno, tuttavia, a causa dell'età, non partiva più spesso per compiere imprese valorose, pur restando più agile di tanti giovani cavalieri. Ser Zalikoco era in assoluto la persona che Aurilda preferiva nel castello escluse le sue sorelle, fin dall'infanzia il cavaliere era sempre stato gentile con lei, tanto da poterlo definire il suo più caro amico. Durante l'infanzia il cavaliere le narrava tante emozionanti vicende belliche e Aurilda lo guardava mente si allenava, immaginando quanto dovesse essere liberatorio scaricare tutta la rabbia in quel modo. Dopo il fidanzamento con Morfgan però Aurilda aveva interrotto i rapporti con tutti, compreso il Ser, tuttavia l'uomo vedendola un giorno alla finestra l'aveva invitata ugualmente a scendere, ricevendo un brusco rifiuto. Aurilda lo invidiava per la sua libertà. La notte successiva la fanciulla aveva fatto un sogno, era a capo di un esercito, libera, potente, minacciosa. Il mattino seguente si era presentata dal cavaliere con un'idea ben precisa in mente: doveva imparare a combattere per difendersi da Morfgan. E alla fine Aurilda aveva convinto l'uomo e, dopo un po' di titubanza iniziale, Ser Zalikoco aveva iniziato a darle le prime lezioni con la spada in gran segreto. Di certo era stato difficile trovare lo spazio per allenarsi, tenendolo oltretutto nascosto, e ancor più complessi erano gli allenamenti pratici! Quando Aurilda si feriva durante un'esercitazione era sempre difficile inventare scuse credibili, ma la forza di volontà era stata tanto ferrea da permetterle di andare avanti. Aurilda non aveva idea di come avrebbe un giorno fronteggiato i suoi nemici reali e questo la spronava ad allenarsi sempre con molta tenacia. Con il trascorrere del tempo si era appassionata sempre più all'arte del combattimento e non appena poteva chiedeva all'uomo di raccontarle ancora delle guerre a cui aveva partecipato, come faceva da bambina, ascoltandolo sognante e immaginandosi al suo fianco all'azione.

Aurilda vide l'uomo alzare lo sguardo, gli occhi dello stesso morbido azzurro delle acque nelle mattine estive la scrutarono, accompagnati da un sorriso benevolo e fiero che stirò le labbra raggrinzite. Aurilda rispose al sorriso e con un cenno della mano salutò il suo cavaliere prima di voltarsi e tornare a letto per tentare di trovare quella serenità così sconosciuta, soprattutto in quel periodo. Si girò e si rigirò più volte, con i pugni serrati, i muscoli tesi e gli occhi strizzati tanto da poterne distinguere le pieghe della pelle sulle palpebre. Si sentiva sempre terribilmente arrabbiata; perché doveva sposarsi? Perché non poteva fare come desiderava ed essere libera? Non voleva più sottostare a regole né imposizioni, desiderava il potere e le avventure come Ser Zalikoco, non desiderava affatto essere la consorte consenziente del re! Con gli occhi chiusi si immaginò cavaliere, anzi meglio ancora, capitano di un esercito! Potere, libertà e azione furono il suo infuso rasserenante. La ragazza così si addormentò, cullata da questi dolci pensieri di libertà, dopo un tempo indeterminato, sperando di sognare la vita che desiderava. Ma neppure il sonno le fu amico, anzi, un orribile sogno la fece svegliare di soprassalto. Aurilda uscì dalle coperte tutta sudata, aveva il cuore che le batteva all'impazzata, come un leone affamato in una gabbia vuota. Corse giù infilandosi le scarpe e ignorando le domande delle sorelle che affermavano di averla sentita gridare nel sonno. Uscì dalla stanza di corsa, sbattendo la porta e poi si precipitò nel salone principale del castello, zigzagando tra inchini e domande dei domestici, cercando la madre oppure il padre. Amillia, sua madre, era al centro del salone a dare disposizioni per la partenza della figlia e del marito per il giorno seguente alla servitù, era una bella donna dai capelli scuri raccolti in una sobria acconciatura, aveva begli occhi dello stesso verde di quelli di Selina e labbra sottili di un rosa pallido, mentre gli zigomi erano alti come quelli della figlia maggiore. "Madre" sussurrò Aurilda, con il fiatone. Amillia si voltò, sorpresa nel vedere la figlia sveglia a quell'ora "Aurilda" sussurrò, evidentemente perplessa "Cosa ci fai in giro per il castello a quest'ora?" La figlia le si avvicinò quasi correndo, facendo voltare la maggior parte della servitù, poi le si aggrappò al braccio destro come se questo fosse la sua ancora di salvezza e lo tirò per condurre la madre in uno dei corridoi adiacenti al salone. "Aurilda, io pretendo delle spiegazioni per il tuo comportamento!" Le disse la madre, seria e confusa "Madre! Dovete assolutamente aiutarmi!" sussurrò Aurilda, in tono disperato "Cosa succede?" Domandò ancora la donna, questa volta nei suoi occhi si leggeva preoccupazione. "Non consentite che sposi Morfgan!" La madre la guardò esasperata, l'agitazione scemò veloce com'era venuta per lasciare il posto alla serietà e al rimprovero "Smettila con questa ridicola storia! È tutta la vita che tuo padre tenta di combinare questo matrimonio e tu non rovinerai tutto perché vuoi fare la ribelle! Questa è la sola occasione che abbiamo per riportare la nostra famiglia alla sua antica gloria."

La donna si voltò per andarsene ma la figlia la bloccò nuovamente "Vi prego di ascoltarmi!" supplicò Aurilda, così la madre dopo aver alzato gli occhi al cielo decise di restare ad ascoltarla. "Ho fatto un nefasto sogno" iniziò a narrare Aurilda "Se io sposerò Morfgan lui impazzirà del tutto, il popolo abbandonato e affamato razzierà il castello, i demoni ai confini del regno raggiungeranno la capitale subito per distruggere ogni cosa, io verrò uccisa ancora incinta e voi tutti morirete uccisi dai demoni."

La madre la guardò turbata ma evidentemente scettica "Era solo un sogno..." banalizzò la donna "I contorni erano azzurri e bianchi, come se si trattasse di un sogno profetico!" Puntualizzò Aurilda "Signora Tenebrerus, dove siete!?" Gridò una voce indistinta dal centro del salone. La donna si voltò "Hanno bisogno di me" disse solenne alla figlia "Tu smettila di vagheggiare su questo matrimonio, vedrai che il principe ti tratterà con il giusto riguardo e rispetto." Aurilda sentì la rabbia montare "Ma non mi sono inventata nulla!" tentò nuovamente, disperata e arrabbiata allo stesso tempo "Nessun ma!" La sgridò la madre severa "E non provare a parlarne con tuo padre! Domani partirete per la capitale e alla fine dell'inverno tu ti sposerai." Aurilda la guardò colma di rancore, con gli occhi brucianti di lacrime, così Amillia tentennò prima di andare e le si avvicinò, carezzandola sul volto teso, non voleva passare così gli ultimi momenti con la figlia "Lo so che hai paura" le disse dolcemente, con il volto inclinato di lato "Anche io ne ho" ammise, prendendole il volto tra le mani "So che hai paura di sposarti, ne avevo anche io al tempo, ma capisco che per te sarà tutto più difficile ed emozionante; non solo dovrai lasciare la tua casa, diventerai la regina di questo regno!" La donna aveva le lacrime agli occhi, commossa al solo pensiero "Sarà una grande avventura per te, ma sarai la nostra regina, non ti rende lieta questo pensiero? Già ti immagino con la corona in testa sulla grande ara, mano nella mano con il principe!" La donna strinse a sé la figlia, tentando a stento di non piangere. "Madre, non mi sto inventando nulla" sussurrò un'ultima volta Aurilda, ma Amillia si separò da lei e si asciugò velocemente le lacrime dal volto, facendole segno di tacere "Ora vai a riposare tesoro, ne hai bisogno per il lungo viaggio che dovrai intraprendere domani con tuo padre".

Detto ciò la donna tornò nel salone, lasciando la figlia sola e senza speranze. Aurilda inspirò a fondo e strinse tanto i pugni da sentire le unghie che si conficcavano nella carne, lanciò un ultimo sguardo furente nella sala e poi si decise a tornare in camera. Non poteva veramente credere che nonostante quell'evidente segnale i suoi genitori non volessero aiutarla, tutto ciò per rendere grande il nome dei Tenebrerus, nome che sarebbe ugualmente scomparso alla morte di Aurilda e le sue sorelle. Ma a pensarci razionalmente lei sapeva veramente poco sulle profezie. Il sogno le era parso una profezia ma per accertarsene avrebbe dovuto domandarlo direttamente a un profeta. Solo al Tempio dei Profeti le avrebbero dato la risposta, ma distava un mese di viaggio dal castello. Aurilda serrò la mascella e decise di tornare nella stanza da riposo senza neanche tentare di parlare con il padre, se la madre l'aveva ignorata poteva solo immaginare cosa avrebbe fatto suo padre! Tornò su spalancando la porta della camera socchiusa e vi trovò le sorelle sveglie ad attenderla, sedute sui loro letti "Dov'eri?" Le domandò subito Selina, preoccupata "Parlavo con nostra madre, o almeno tentavo di farlo" rispose abbattuta Aurilda, sedendosi sul letto a sua volta. "Sei preoccupata per il matrimonio?" Le domandò Nomiva, avvicinandosi con l'altra "Ti abbiamo sentita gridare mentre dormivi". "Ho fatto un sogno che sembrava una profezia" annunciò Aurilda a occhi bassi, fissandosi le mani. Le due spalancarono subito gli occhi e si avvicinarono ancor di più per ascoltare meglio il racconto della sorella.

"Se è così non puoi sposarti!" Concluse Selina, spaventata, dopo aver ascoltato il sogno di Aurilda "Raccontalo tu a nostro padre" rispose sarcastica la sorella maggiore, con il volto torvo. "Cosa intendi fare Aurilda?" Le domandò non meno preoccupata Nomiva "Solo al Tempio dei Profeti troveresti le risposte che cerchi". Aurilda guardò le sorelle con aria grave, erano ancora due bambine, Nomiva aveva quindici anni e Selina solo tredici, ma in quel momento le parvero molto più giudiziose dei genitori e infinitamente più lucide ed empatiche "Dovrei andare lì e non presentarmi nella capitale per il mio matrimonio. Tempuston è lontana all'incirca tre settimane da qui, mentre il Tempio dista un mese. Dovrei partire questa notte per il Tempio...".

Le sorelle ebbero reazioni diverse, Nomiva la guardava con orgoglio, amava le avventure lei, le sorrise e ne seguì un impercettibile cenno di assenso con la testa, mentre Selina sgranò gli occhi e la fissò spaventata "Fuggire!?" Sussurrò, agitata "È la cosa migliore, Gattina" la consolò Nomiva, stringendola facendo passare il braccio destro intorno alla vita esile della piccola. "Non avevo dubbi sul fatto che tu mi avresti appoggiata mia cara Volpe" sorrise debolmente Aurilda, scambiando uno sguardo di intesa con la sorella, era una magra, magrissima consolazione. "È la cosa giusta, è ovvio che ti appoggio" rispose Nomiva. Selina si alzò e le guardò come se fossero impazzite "Non capite quali saranno le conseguenze!?" Le sgridò, con i muscoli del viso contratti dall'agitazione, tentando di far rinsavire le sorelle più grandi "Il re e il principe saranno furiosi con nostro padre, i nostri genitori si arrabbieranno con noi e tu Aurilda saresti in pericolo e da sola!"

La minore tornò a sedere, bianca in volto e con i muscoli ancora tesi sul viso allungato, la vena sulla tempia pulsava pericolosamente "Selina, se la profezia fosse vera moriremmo tutti comunque!" La guardò severamente Nomiva, tentando comunque di mantenere un tono di voce morbido "Non sarei in pericolo, so usare la spada!" Si difese Aurilda, tentando di mascherare l'incertezza. Fra le sorelle calò il silenzio, in lontananza il vento ululava nel bosco adiacente al castello, finché Nomiva non si decise a parlare "La decisione spetta a te sorella, è il tuo matrimonio, non il nostro. Sappi però che se deciderai di farlo, io tenterò di coprire la tua assenza il più a lungo possibile". Aurilda sorrise alla sorella "Grazie Nomiva, so per certo che la Volpe della Palude Nera mi aiuterà il più possibile, ma ho come l'impressione che tentare di nascondere la sparizione della promessa sposa del principe sia una cosa leggermente complicata". Le due sorelle sorrisero in silenzio e Nomiva arrosi' leggermente per la sciocchezza che aveva detto, poi si strinsero forte il polso, in segno di accordo, mentre la minore le guardava pallida e insicura "Che vuoi fare Aurilda?" Le domandò spaventata Selina "E tu invece che farai, Selina?" La incalzò a sua volta Aurilda, rivolgendole uno sguardo penetrante ed enigmatico. La minore spalancò gli occhi sorpresa e si avvicinò abbassando la voce, incerta "Mi sembra un'idea molto pericolosa ma...". Si fermò per pochi attimi guardandosi le mani, erano pallide e tremanti "Ma non nego che se si tratta di una vera profezia, forse sarebbe meglio che tu non ti sposassi". "Grazie davvero, sorella" sospirò Aurilda, carezzando la guancia bianca della sorellina "So che hai paura, anche io ne ho, ma dobbiamo capire. Mi dispiace per te Nomiva, resterai sola dopo che Selina sarà partita". La sorella minore parve perplessa "Selina!" sbottò Aurilda "Ti sei dimenticata della lettera inviata appena due settimane addietro dai Malkoly che sollecitavano con decisione i nostri genitori a mandarti da loro come protetta per imparare la regole del castello?!" Selina ricordandosene emise un gemito silenzioso "Ma vedrai che sarà la cosa migliore" la incoraggiò Aurilda "Hanno un grosso esercito e ti sapranno proteggere al meglio se, insomma, se le cose dovessero volgere al peggio". Aurilda e Nomiva si scambiarono uno sguardo di intesa "Io starò bene, non dovete preoccuparvi" assicurò Nomiva con un cenno deciso e incoraggiante. Aurilda rispose al cenno della sorella e poi si alzò "Vado a preparare una sacca dove mettere il necessario per la partenza" e dopo quelle parole sparì per andare in camera sua. Selina fissò la sorella uscire e poi si buttò sul letto con gli occhi sbarrati "Non avere paura" le sussurrò Nomiva, avvicinandosi "Secondo te potrebbe essere che se lo sia inventato?" Domandò Selina vagamente arrabbiata, con lo sguardo indagatore e impaurito. Nomiva la fissò a bocca aperta ma non sembrava così sorpresa, evidentemente quel pensiero era affiorato anche nella sua di mente "Vuole scappare forse..." continuò Selina, guardando l'altra negli occhi "Io non lo so" ammise Nomiva, continuando a sussurrare "Ma dobbiamo fidarci di lei. Tu vuoi andare dai Malkoly?" Selina sbuffò " Non è il primo posto in cui desidererei passare il mio tempo" Nomiva sorrise sorniona, mettendosi a sedere al fianco della sorella "Nonostante lì ci sia il tuo innamorato!?" Scherzò la ragazzina, dando alla sorella una spallata d'intesa. Selina allora sorrise e arrossì un po' "Magari non sarà così male, sperando nella cortesia della signora ovviamente!" Nomiva rise e si alzò "Ce la farò però, non temere" la rassicurò la piccola, acquisendo sempre più coraggio.

A cena c'era un silenzio assoluto alla tavola dei Tenebrerus, i candelabri brillavano come le stelle nelle notti senza nuvole d'estate, le posate d'argento tintinnavano armoniosamente e ogni tanto i calici di cristallo si riempivano di acqua e vino, ogni membro della famiglia era talmente teso e pensieroso per qualcosa che sembrava aver dimenticato la presenza degli altri. "Domani partiamo" annunciò improvvisamente Gamelius, concentrato a tagliare la sua carne, come se si trattasse di una nuova notizia incredibile. "Sì" lo liquidò Aurilda, sfuggendo allo sguardo preoccupato della madre. "Padre?" Nomiva fece voltare tutti "Sì figliola?" Domandò stupito l'uomo, che pareva avesse dimenticato sino a quel momento di avere altre due figlie tanto era preso a organizzare la partenza della maggiore "Mi chiedevo se..." fece una breve pausa e scambiò uno sguardo di intesa con la sorellina che sorrise "Selina vorrebbe imparare a ricamare meglio". Gamelius si sistemò meglio sulla sedia tentando di non spazientirsi, non aveva certo tempo per quelle sciocchezze ora "Cosa vorresti Selina, sentiamo?" La ragazzina sorrise e usò il suo tono più persuasivo "Vorrei come insegnate di ricamo la signorina Mabrae...". L'uomo fece un sospiro, già spazientito "È la ricamatrice di corte dei Malkoly!" "Perché allora non mandate Selina da loro al più presto, come avevano richiesto i signori?" Propose Nomiva, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. La madre spalancò gli occhi "È troppo piccola!" Disse categorica "Ma madre!" La pregò Selina "Vi prego di farmi intraprendere il viaggio verso il loro castello al più presto! Potrei iniziare ad ambientarmi, tra qualche anno vivrò lì e non vorrei mai fare torto a quella che presto sarà la nuova parte della mia famiglia...".

Amillia guardò il marito con gli occhi sbarrati "Pensandoci bene non è una cattiva idea farti partire subito..." "Ma Gamelius!" Esclamò la donna "Vuoi portarmi via un'altra figlia!?" Disse sull'orlo delle lacrime e gli occhi verdi splendettero come smeraldi che affondano nel mare in tempesta. "Non fare tante tragedie, Amillia, è una buona idea mandarla lì per qualche mese. In questo modo inoltre potremmo concentrarci sull'educazione di Nomiva e trovarle finalmente un pretendente. Poi riporteremmo qui Selina quando ci sarà il matrimonio di Aurilda". Gamelius guardò la moglie, tratteneva le lacrime a stento e lo fissava implorante "Avanti!" Insistette l'uomo "Se proprio lo volete sapere bambine, già qualche mese fa i Malkoly ci avevano chiesto di mandare Selina da loro, sempre come protetta, ma vostra madre aveva detto un no categorico e io gli avevo risposto che ci avremmo pensato. Sarebbe scortese rifiutare nuovamente da parte nostra e sono sicuro che ti accoglieranno subito con gioia Selina, considerata l'insistenza della loro richiesta." Amillia guardò il marito con rancore, spostò gli occhi scintillanti di dolore sulle figlie che tuttavia le sorridevano impietose "Fate come volete!" Disse alla fine, riprendendo a mangiare mogia e imponendosi di non staccare lo sguardo dal piatto. Ad Aurilda contrariamente venne da ridere, ma era una risata rancorosa e sarcastica "Non capisco la vostra reazione, madre" disse pungente, in tono serafico "Non è la prima volta che in questa famiglia vengono prese delle decisioni importanti senza il consenso dei diretti interessati, perché ora fate tante tragedie?" La donna cambiò idea e tornò ad alzare il capo, la maggiore la sfidava apertamente con lo sguardo. "Cosa intendi dire, Aurilda?" Domandò severo Gamelius, vagamente irato "Le sue solite sciocchezze, Gamelius, non darle peso, non lasciamoci rovinare quest'ultima serata in famiglia" la liquidò la madre "Sei pronta Aurilda a partire, non è vero?" Aggiunse, con un'espressione gelida. La figlia maggiore le rivolse un sorriso ipocrita e annuì, irrigidendosi "Certo che è pronta!" Rispose al suo posto, solenne, il padre "Diventerà la nostra regina!" L'uomo prese un calice di vino e lo sollevò con orgoglio "Alla futura regina, mia figlia!" Le altre lo imitarono e bevvero.

"Dormi bene figliola" la salutò Gamelius "Sarà un viaggio lungo e dovremo svegliarci all'alba, quindi cerca di riposare il più possibile questa notte" e lasciò la figlia sulla soglia della stanza. Giunse poi il turno di Amillia che si avvicinò "Dormi bene figliola" disse preoccupata e guardinga, stringendola a sé, poi si voltò e guardò le altre due figlie "Siate celeri, vostra sorella ha bisogno di riposare. La saluterete domattina" e detto ciò se ne andò via anche lei. Aurilda osservò la madre inghiottita dall'oscurità dei corridoi del castello e poi entrò nella sua stanza, seguita dalle sorelle. C'era una sottile fiammella accesa, le ragazzine si misero a terra, sedute in cerchio "Bene" bisbigliò Aurilda "E' arrivato il momento di salutarci". Selina strinse le mani di Aurilda e di Nomiva e le altre due fecero lo stesso, formando un cerchio "Ci rivedremo molto presto, è una promessa". Nomiva e Selina si scambiarono uno sguardo teso "Non dovete temere" continuò Aurilda, la sua voce era un alito di vento, un sibilo "Ascoltatemi attentamente" continuò, facendole avvicinare di più "Non ho intenzione di dirvi che sarà facile, mentirei... non so cosa troverò durante il mio viaggio ma farò di tutto per arrivare in quel tempio e scoprire la verità. Voi dovete promettermi di fare attenzione e di prendervi cura di voi stesse. La vostra felicità, la vostra sicurezza è importante per me, quindi voglio una promessa. Sarete caute e non vi arrenderete, e così farò io". Nomiva annuì "Prometto che cercherò di essere ligia con nostra madre". Selina la imitò subito dopo "E io prometto di essere all'altezza del mio ruolo al castello dei Malkoly". Le ragazzine si sorrisero nella penombra della notte "Promettiamo alla nostra maniera" sussurrò Selina. Le sorelle si alzarono, restando in cerchio, poi parlarono a turno, incrociando le braccia e dandosi la mano l'un l'altra "Prometto di arrivare al Tempio dei Profeti sana e salva" esordì Aurilda "Non cederò mai alle avversità e grazie all'aiuto dei profeti comprenderò il reale significato del mio sogno" e chiudendo gli occhi strinse con forza le mani delle sorelle. "Io prometto di essere cauta" proseguì Nomiva "E di impegnarmi per mantenere segreta la mia storia con Filipphus" e strinse anche lei le mani delle sorelle. "Io cercherò di essere indulgente" terminò Selina "E di adattarmi alle regole della signora Malkoly" e così dicendo abbassò lo sguardo e sospirò. Le tre intrecciarono le dita in segno di accordo, concludendo con le loro frasi di rito "Sarò veloce e silenziosa, come la Lince" pronunciò con enfasi, ma sempre a voce bassa Aurilda "Sarò astuta e agile, come una Volpe" mormorò Nomiva "E io sarò flessibile e attenta come un Gatto" sottolineò Selina. Poi si lasciarono le mani e Aurilda sorrise "Adesso sarà meglio andare a letto prima che nostra madre torni per sgridarci". Nomiva annuì e si avvicinò alla porta, seguita da Selina; aveva la testa bassa e sembrava piuttosto triste. Aurilda le raggiunse alla porta e le tre si strinsero un'ultima volta in un affettuoso abbraccio "Ci rivedremo presto" sussurrò, guardando prima una e poi l'altra negli occhi "Buonanotte" salutò Aurilda "Notte, Aurilda" si congedò Nomiva, sorridendo in modo incoraggiante "Buonanotte sorella mia" disse mogia Selina, sparendo dietro Nomiva nelle tenebre. Aurilda le guardò andare via, sentendo una morsa allo stomaco. Le sarebbero mancate tanto ma doveva conoscere la verità sul suo sogno e separarsi da loro era l'unico modo possibile. Scacciò quei pensieri e richiuse la porta con risolutezza, avvicinandosi al letto per controllare che la sua sacca ci fosse ancora, di fianco alla sua spada riposta nel fodero, la spada che le aveva regalato Ser Zalikoco di nascosto al suo diciassettesimo compleanno, poi si infilò sotto le coperte nell'attesa che tutti si mettessero a dormire per poter poi fuggire. Aspettò un'ora o forse due, poi tutte le luci si spensero. Il silenzio regnava nel castello mentre fuori i gufi disturbavano la quiete della notte e i pipistrelli volteggiavano nel cielo scuro, esibendosi in acrobazie che nessuno avrebbe ammirato. La fanciulla scese con cautela dal letto a baldacchino, si raccolse i capelli scuri, si legò la sacca sulle spalle, si infilò un paio di stivali trovati vicino alle stalle, fermò il fodero contenente la spada alla vita e indossò il mantello nero, tirando su il cappuccio. Si avvicinò poi cautamente alla porta e la aprì nel buio, con una piccola lanterna che aveva mantenuto accesa nella mano destra, nascosta sotto al mantello. Svoltò poi a destra nella semioscurità, urtando con timore contro una figura metallica che immediatamente riconobbe essere Ser Zalikoco "Signorina Aurilda!" Sussurrò l'uomo con gli occhi azzurri e mortificati "Ser..." disse impietrita lei.

"Vostra madre aveva ragione" rispose deluso "Volete fuggire". Aurilda strinse il freddo braccio dell'uomo "Ma non vi ha spiegato il perché" replicò mormorando la ragazza "Vi prego, ascoltatemi...". Così Aurilda narrò a Ser Zalikoco del sogno in maniera concisa, come aveva fatto con la madre, e quel racconto lasciò il cavaliere profondamente turbato "Quindi volete andare al Tempio dei Profeti" concluse il cavaliere "Sì!" confermò Aurilda "Solo lì sapranno darmi le risposte che cerco. Vi prego, se tenete un po' a me lasciatemi andare..." lo pregò Aurilda, prendendogli una mano in segno di supplica.

L'uomo si sottrasse alla stretta e la guardò in volto nella semioscurità "Non posso permettervelo" disse dispiaciuto, ma la sua voce era decisa. Aurilda abbassò lo sguardo delusa e sentì per la prima volta rabbia nei confronti del cavaliere, del suo amico "Non potete andare da sola" continuò l'uomo "Ma se me lo permetterete vi scorterò io". Aurilda rialzò lo sguardo con gli occhi spalancati, vergognandosi subito di aver provato sentimenti tanto negativi nei confronti del cavaliere "Veramente verreste con me?" "Certo signorina Aurilda" assicurò l'uomo senza la minima esitazione "Vi ho aiutata con la spada, non vi abbandonerò adesso". La ragazza sorrise gioiosa e grata "Vi ringrazio infinitamente Ser Zalikoco! Ma dobbiamo affrettarci..." aggiunse, pratica, senza perdere di vista l'obbiettivo.

I due furtivamente arrivarono a una delle uscite della servitù e si ritrovarono di fronte alle stalle "Selliamo due cavalli e andiamo" disse Ser Zalikoco, sussurrando. La coppia entrò di soppiatto e presero due destrieri, le bestie si agitarono un po' ma non ci volle molto per calmarli "Seguitemi" le fece cenno Ser Zalikoco, con la mano scintillante coperta dal mantello per non far riflettere la flebile luce lunare. Avanzarono fino a una delle porte, quella più piccola che dava sul bosco Nero. L'uscita era sorvegliata da due guardie, ma dalla postura dovevano essere a malapena sveglie. Aurilda li guardò preoccupata mentre il Ser avanzò con lo sguardo deciso "Siete?" Domandò uno dei due uomini al lato della porta, ridestandosi improvvisamente "Ser Zalikoco Lonor" rispose serenamente il cavaliere, avvicinandosi ai due con il cappuccio abbassato "E lì con voi c'è?" Domandò guardingo l'altro, ma sempre stordito dal sonno "La nipote di un mio amico che deve tornare a casa entro l'alba."

I due si scambiarono uno sguardo di intesa, decidendo sul da farsi "E' stata colpa mia se si è attardata tanto" spiegò il cavaliere "Accidentalmente mi ero addormentato e anche la ragazza si era assopita. Vi prego di lasciarci passare, non vorrete far concludere un'amicizia così duratura per una tale disattenzione". Ma i due soldati non si fidavano "Mostrateci la ragazza" decretarono. Aurilda sentì il sangue gelare, uno dei due si stava avvicinando, pronto per abbassarle il cappuccio, ma Ser Zalikoco si frappose "Vi prego, sono un uomo d'onore!" disse vagamente arrabbiato, ma più che altro offeso "Così mi offendete! Il sonno vi ha fatto forse dimenticare anche le buone maniere?!" I due soldati si guardarono nuovamente, vagamente a disagio e con gli occhi arrossati dal sonno "Andate" concordarono, troppo esausti per continuare quella discussione e il Ser tornò sul cavallo trionfante, e ad Aurilda parve di intravedere un sorriso sul volto dell'uomo brillare nell'oscurità. I due tornarono ai fianchi della porta e quando Ser Zalikoco uscì non gli badarono nemmeno, ma quando toccò ad Aurilda uno dei due le sbarrò la strada, improvvisamente vigile e sveglio "Un momento, Ser" bisbigliò, con la fronte corrugata "Voi non dovevate fare la guardia alla porta della signorina Aurilda questa notte?" Il compagno sbarrò gli occhi, alzò il braccio e con un gesto fulmineo abbassò il cappuccio ad Aurilda, rivelandone inevitabilmente l'identità. Gli occhi dell'uomo brillarono per la sorpresa e, prima che i due potessero fare o dire qualcos'altro, Ser Zalikoco sguainò la spada e gliela conficcò nella gola scoperta perché priva di elmo, poi con un agile movimento riservò il medesimo trattamento anche all'altro. Gli uomini si accasciarono a terra con il sangue che zampillava dalle loro gole, gli occhi sbarrati e le espressioni assenti. Erano morti. Ser Zalikoco li guardò brevemente, il suo sguardo era rammaricato ma fermo, fece cenno ad Aurilda di sbrigarsi ad andare, mentre lui pulì subito la lama della spada insanguinata nel mantello. La fanciulla non se lo fece ripetere due volte, si mise nuovamente il cappuccio per celare i capelli vaporosi e attraversò al trotto la porta che la separava dalla libertà, dando definitivamente iniziò alla fuga con Ser Zalikoco. Chiusero la porta e si addentrarono nel bosco Nero, pronti per raggiungere il Tempio dei Profeti.

 

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Capitolo 3
*** Il re e i due principi ***


Pov:Cleorae

Quella limpida mattina autunnale le strade della capitale brulicavano come di consueto di passanti affaccendati, mercanti che ostentavano le merci, fattucchiere che leggevano il futuro spacciandosi, senza successo, per profetesse, bambini che giocavano spensierati e ovviamente le guardie avvolte dei loro involucri scintillanti che ispezionavano la città pigramente. Il re Fritjof Raylon guardava tutto dall'ampia finestra della sua sontuosa camera con sguardo assente. L'uomo, ormai quasi sessantenne, aveva capelli corti e brizzolati quando non indossava la parrucca, le rughe erano pesanti come i solchi scavati da un aratro, le mani callose come quelle di ogni buon condottiero ed era esageratamente esile, come un torrente prosciugato nei torridi mesi estivi nella Provincia del Fuoco, in contrasto con il fisico possente che lo aveva invece caratterizzato in gioventù. La sua vita era stata piuttosto intesa a dire la verità; poco più che ventenne era succeduto a suo padre, diventando il re di un grande popolo guerriero, gli ephilti, oramai non più grandi conquistatori ma pur sempre pronti alla guerra se istigati. Ephiltus ed Expatempem avevano stretto dei patti commerciali da secoli, poi un giorno il grande regno vicino aveva assaltato due delle isole più grandi del loro arcipelago. Subito il popolo si era rivolto a lui, infuriato, ma poiché il re si era reso subito conto che non si trattasse affatto di un attacco pianificato per dare inizio a una guerra a causa di un'eccessiva disorganizzazione, ma bensì di una libera iniziativa di un gruppo di soldati di soldati irriverenti, Fritjof aveva quietato gli animi del popolo pur restando allerta, vigilando l'evolversi della situazione. Ovviamente questo non sarebbe bastato per quietare la furia popolare, ma Fritjof con la solita calma che lo contraddistingueva aveva trovato una soluzione da attuare se gli attacchi si fossero ripetuti. Purtroppo era successo ancora e poi un'altra volta, e ogni volta i soldati erano più numerosi e il loro comportamento più violento. Il re non poteva più restare indifferente dinnanzi a quegli attacchi, così chiese un incontro con il re di Expatempem per un chiarimento su quelle azioni ingiustificate. Non ricevette alcuna risposta e non avvenne alcun incontro. Allora l'uomo dovette agire, si imbarcò al più presto con una nutrita parte dell'esercito e persino dei volontari, dichiarando guerra. Fritjof attraccò con la sua flotta nel punto più vicino, sulle coste della provincia più vicina del regno nemico, la Provincia Magica, ma con suo grande stupore non venne accolto da una resistenza come sarebbe stato logico credere. Quelle persone strinsero un'alleanza con lui, chiedendo in cambio dell'aiuto dato l'indipendenza.

Era stata una guerra lunga due anni, ma alla fine con il prezioso aiuto degli abitanti della Provincia Magica e la potenza bellica dei suoi uomini, Fritjof aveva conquistato l'appoggio della maggior parte dei signori e del popolo, ancora scettico e superstizioso e al termine, in una fredda giornata di pieno inverno, dopo più di un mese di guerriglia alla capitale, la vigilia della nascita degli antenati più celebri del re, lui e suo figlio maggiore vennero uccisi da Fritjof stesso. Allora era diventato lui il sovrano di un territorio sconfinato, che mai sarebbe stato in grado di governare. Fu così che decise saggiamente di abdicare dal suo trono a Ephiltus a favore del fratello Killian e ovviamente dopo aver reso onore al patto stipulato nella città marittima di Appulso e aver concesso la libertà alla Provincia Magica, da allora divenuta il piccolo regno indipendente chiamato Provincia Libera, proprio per onorare la sua storia, da allora Fritjof era divenuto il re di Expatempem. Fritjof avevo narrato quella storia tante di quelle volte che ormai Cleorae la conosceva a memoria e pensava, quell'uomo era stato tanto abile a condurre una guerra, quanto incapace nella gestione del regno. La cultura di Fritjof era del tutto diversa da quella del suo nuovo popolo e lui non era mai riuscito a integrarsi del tutto. Non si trattava soltanto della religione diversa, la statuetta che Fritjof teneva nella camera raffigurante il suo dio, Belis, non faceva storcere il naso a nessuno purché lasciasse i cittadini liberi di adorare i loro dèi, si trattava di qualcosa di più profondo, l'uomo non era in grado di comprendere appieno la storia e le usanze del popolo di Expatempem. Il re non conosceva le buone maniere, almeno non quelle del regno che ora governava, per quanto si fosse sforzato per impararle al meglio, inoltre il vestiario era molto più pomposo ed eccessivo nel suo vecchio regno e tanti non riuscivano proprio ad imitare il re, indossando parrucche e pantaloni corti così diversi dalla loro cultura e dal loro concetto di 'bello' e 'signorile'. Certo, in un primo momento non era andata poi così male quando a Fritjof avevano dato in sposa la nobile Lirkoc. La sua sposa non era stata una grande bellezza ma era stata una donna molto responsabile e materna, esperta nella conoscenza delle buone maniere e delle tradizioni del suo popolo, paziente ed elegante. La coppia ebbe subito due figli, a distanza di un poco meno di un anno dalle nozze. Avevano avuto due maschi, nati con un anno di differenza l'uno dall'altro. Crescendo Morfgan e Drovan si erano rivelati due ragazzi indisciplinati e violenti che parevano prediligere la cultura del padre a quella del loro popolo. Il re si era dato la colpa ma la moglie lo aveva sempre sostenuto e incoraggiato, poi un giorno di quattro anni prima era misteriosamente morta. Da allora il re aveva perso la testa, due giorni prima stava bene e due giorni dopo era morta. Fritjof allora si era disperato, non sapeva come approcciarsi ai figli, né come gestire gli ormai frequenti attacchi dei demoni degli elementi, maledetti esseri mostruosi che avevano poteri di fuoco, ghiaccio, aria e terra, formatisi dopo la disfatta della dinastia del Re della Morte e aumentati di anno in anno dalla sua ascesa al trono.

Ormai esausto da tanti anni di guerre e impegni, Fritjof aveva preso l'ardita decisione di abdicare in favore del suo figlio maggiore, Morfgan, che era già promesso sposo alla figlia di uno dei signori del regno e si sarebbe sposato alla fine dell'inverno. La ragazza forse era già in viaggio, sarebbe arrivata e, terminati gli ultimi preparativi, lei e Morfgan si sarebbero sposati e Fritjof avrebbe ceduto la corona a suo figlio. L'ingresso di Cleorae, nascosta dietro la porta per assicurarsi di non disturbare, probabilmente distrasse il re dai suoi pensieri perché quando si fu voltato la donna vide i pensieri di lui rimpicciolire negli occhi "Come stai mio re, mio amore?" lo salutò cordialmente lei, rivolgendogli un elegante inchino reverente. L'uomo sorrise vedendola entrare e non poteva certo essere biasimato, Cleorae Powtion era una vera gioia per gli occhi. I capelli erano naturalmente rossi come le mele della tentazione, le labbra erano grandi e rosee, il volto proporzionato e il collo lungo e liscio, elegante. "Molto meglio ora che ti ho veduta, Cleorae" rispose l'uomo con un caldo sorriso di gioia sul volto vecchio e stanco. Il re infatti dopo aver trascorso due anni da solo aveva approfondito la conoscenza con una delle fanciulle che lavoravano al castello e se ne era innamorato, venendo incredibilmente ricambiato dalla ragazza.

Cleorae gli si avvicinò con passo leggiadro nonostante l'abito sontuoso e l'acconciatura alta, si fermò poi davanti a Fritjof e gli diede un bacio a stampo sulle labbra raggrinzite "Quando ci sposeremo, mio amore?" domandò con voce leggiadra e melodiosa "Non mi piacciono gli sguardi severi che mi rivolgono le mie vecchie compagne" termino, la sua voce ora pareva un triste lamento. "Presto" rispose l'uomo, carezzandole il bel volto, utilizzando il tono di voce più gentile che possedeva "Dopo che mio figlio si sarà sposato e sarà diventato re allora anche noi potremo coronare il nostro sogno". La donna parve rabbuiarsi ancora di più "Sei sempre convinto di voler rinunciare alla corona, mio re?" lo incalzò con voce soave "Sei ancora in tempo per cambiare idea, hai ancora tanti anni davanti a te, non sprecarli così! Io non vedo ancora la prontezza di spirito in tuo figlio, non mi sembra che sia pronto per farsi carico di un compito tanto importante e astioso. Tu ritieni veramente che possegga la saggezza e le conoscenze che hai tu!?" Fritjof le strinse le mani e scosse la testa "È la cosa migliore!" Le disse con convinzione "Potremo stare insieme tutto il tempo che vorremo così, solamente noi due. Io sono stanco di regnare e il modo migliore per imparare a governare per un giovane è fare pratica, posso assicurarlo per esperienza personale." Cleorae lo fissò con gli occhi sbarrati e l'espressione sofferente "Lo so che mio figlio non è pronto" ammise l'uomo "Per questo ho scelto quella ragazza per lui" spiegò con convinzione " Vidi in lei la stessa prontezza che ebbe mia moglie e sono sicuro che Morfgan aiutato dalla giovane signorina Tenebrerus imparerà presto a governare questo regno, ma io sarò sempre disposto a consigliarlo per qualunque questione".

La donna lo fissò rigida e contrariata attraverso occhi dello stesso colore del mare quieto, pur essendo inquieti e dubbiosi. Si mise a sedere sul letto e chinò il capo in segno di sconfitta, tentando di non manifestare il suo disappunto, anche se di cose da dire ne avrebbe avute sin troppe. Come poteva un re abbandonare il suo popolo nelle mani di un ragazzo stupido e incapace solo perché era stanco e riteneva di aver selezionato una ragazza in grado di governare senza la minima esperienza, dopo averla giudicata quando era solo una bambina? "Forse hai ragione tu, mio re" si limitò a rispondere Cleo, sorridendo mentre nella testa si figurava un'altra rivoluzione, peggiore di quella avvenuta sette secoli prima, finita con la morte di centinaia di persone e gli antenati del Re della Morte sul trono. "Certo che ho ragione!" Rispose lui con enfasi e quella sicurezza guadagnata negli anni. Prese il volto della donna tra le mani "Anzi, sai cosa posso assicurarti!?" Cleorae sorrise ancora, preoccupata, dissimulando perfettamente come era solita fare "Dopo il nostro matrimonio andremo via dalla capitale, dal castello, e vivremo in campagna! Solamente tu e io. Vivremo in uno di quei bei castelli abbandonati e lo faremo come tu vorrai!" La donna annuì biecamente "Come desideri tu, mio amore". L'uomo abbassò le mani e la strinse, baciandola sulla fronte come avrebbe fatto con una figlia "Pensavo che non sarei stato più felice dopo la morte di Lirkoc" ammise dolcemente "Credevo che non avrei più conosciuto una donna così buona e dal cuore tanto grande, ma ho avuto la fortuna di incontrare te, la regina del mio cuore, la luce dei miei occhi."

Cleorae si sforzò nuovamente di sorridere, nonostante dentro si sentisse devastata da tutte quelle imprudenti decisioni che stava prendendo il suo re "Sì, è stata una fortuna lavorare qui e ottenere l'amore del mio re" si affrettò a rispondere, carezzando l'uomo con i suoi occhi azzurro-verdi. Le campane in lontananza suonarono, nella torre della città, una torre alta venticinque metri o più di mattoni rossi e pietre, ma nonostante l'altezza era nulla in confronto al palazzo reale, arroccato su una collina di pietra. "È ora che io vada" disse Cleorae alzandosi dal letto e sistemandosi l'abito dall'ampia gonna prima di uscire dalla stanza. Vide l'uomo salutare e ammirarla mentre usciva, dallo sguardo tenero si percepiva chiaramente quanto amasse quella donna, si trattava di un amore sincero e puro. Voleva sposarla il prima possibile e magari darle un figlio, poi avrebbero vissuto finalmente in pace nel loro piccolo castello in campagna, circondati dal sole e dalla gioia, senza pensieri e preoccupazioni.

Anche Fritjof uscì dopo la ragazza, Cleorae segui l'uomo a distanza e lo vide dirigersi nella sala del trono. Cleo lo seguì a debita distanza, perdendolo di vista per un tratto prendendo il corridoio che l'avrebbe condotta alla porta di servizio della medesima sala in cui era diretto il re. Cleorae accelerò un po' il passo e quando si fu fermata dietro la porta vide Fritjof fare il suo ingresso nella sala del trono. Subito gli si avvicinò il consigliere insieme al vicegenerale della guardia reale "Maestà" salutarono i due uomini all'unisono con inchini reverenti "Miei signori" rispose Fritjof, sistemandosi la parrucca che minacciava di cadere "Maestà, siamo purtroppo venuti a conoscenza di uno spiacevole fatto, i demoni di terra stanno causando dei problemi ai confini ovest del regno" disse il vicegenerale della guardia reale, un uomo alto con il casco sotto al braccio che lasciava scoperto un viso squadrato con una sottile barba marrone, due sopracciglia folte, la carnagione olivastra e gli occhi piccoli e scuri "Cosa hanno fatto questa volta?" Domandò stancamente il sovrano, con voce quasi disinteressata "Demoliscono le periferie del regno, causano frane sulle scogliere e nei pressi dei villaggi più remoti causano scosse di terremoto e devastamento dei raccolti". Il re non sembrava stupito dalla notizia, sembrava che gli stessero dicendo che d'inverno pioveva e nevica e d'estate faceva caldo e c'era il sole, nulla di nuovo insomma "Cosa facciamo, maestà?" Domandò il consigliere, un uomo vestito impeccabilmente, con la parrucca in perfetto ordine, i baffi corti neri e curati perfettamente, gli zigomi alti e lo sguardo serio ma quieto "Aspettiamo" sentenziò semplicemente Fritjof "O meglio" precisò l'uomo "Aspetterete ordini dal nuovo re" continuò, lasciando sconcertati gli interlocutori e profondamente delusa Cleorae. "Ma maestà" tentò il vicegenerale Waltyer Orlens "Ci vorranno mesi..." tentò l'uomo scambiando uno sguardo con l'altro, Alfred Servrero "Io oramai non posso più aiutarvi" ribadì il re che ormai aveva deciso di non arrovellarsi minimamente per pensare ai problemi del regno. I due allora furono costretti ad andarsene, delusi. Ormai quello non era un re, solo una delusione profonda e amara, un uomo stanco che aveva cessato di lottare in nome di ciò che era più giusto.

Cleorae continuò a guardare l'uomo da lontano, Fritjof salì la scalinata e si mise a sedere sul trono di cui non era più purtroppo degno; il trono era in marmo nero come le notti d'inverno, ma, almeno secondo le dicerie, quando era solo con un sovrano degno di questo nome, benevolo o malevolo che fosse, mostrava la magia dei quattro elementi che lo permeava, lasciando intravedere screziature di rosso, azzurro, verde e grigio, tutti intarsi dei colori degli elementi. La magia dei colori nel marmo nero era comparsa insieme ai poteri, con il Re della Morte, ma nessuno sapeva se quella storia fosse reale o solo l'ennesima diceria inventata solamente per esaltare la stirpe dei re, proprio come le voci che erano circolate su una presunta stanza in cui il re Sole e la regina Luna avevano fatto esperimenti. Di una stanza del genere però mai nessuno aveva trovato alcuna traccia. In alto nella parete dietro al trono c'era una finestra circolare raffigurante un sole splendente, era stata costruita ai tempi del Re della Morte e rinnovata pochi mesi addietro dal miglior artista del regno, un certo Leucello Argis; era stata costruita lì solo per rendere ulteriormente evidente quanto fosse splendido il sovrano, superiore a tutti, e quando il trono era solo e al buio con il sovrano degno si diceva che i colori risplendessero tanto nel marmo da sembrare fuochi colorati intrappolati nel ghiaccio, e sembrava contenessero veramente gli spiriti dei quattro elementi. A Cleo non interessavano quelle sciocchezze estetiche, lei il trono lo vedeva nero ed elegante, tetro questo sì, tanto da sembrare un minaccioso vortice in grado di risucchiare i raggi, anche di sera con la luna non rifletteva neanche la luce bianca ma appariva vagamente più quieto e signorile, come il fondale di un oceano e risplendeva in maniera sinistra e inquietante.

Mentre pensava a tali sciocchezze su quella che in fondo era solo una banale sedia, Cleorae continuò a guardare dalla postazione discreta che aveva scelto il suo re venire raggiunto dal maggiore dei figli, il futuro re, che aveva appena fatto irruzione dal corridoio principale. Morfgan era un ragazzo abbastanza alto e muscoloso, i capelli erano marroni e impastati di sudore e odiava coprirli con le parrucche di moda tra l'altro società proprio per imitare suo padre, l'abito era sfarzoso ma malmesso, un bottone era persino saltato e gli stivali erano come al solito pieni di fango, probabilmente era tanto impresentabile a causa della recente battuta di caccia. "Padre" disse forzando un inchino talmente sgraziato da far impallidire quello di un qualsiasi contadino, come per schernirlo "Come sta il mio re preferito?!" L'uomo gli rivolse un sorriso stanco, senza badare alle pessime maniere del primogenito "Tu come mi trovi, figliolo?" Il ragazzo si limitò a fare un sorriso sghembo che illuminò il volto certamente non brutto ma poco curato e spesso contorto in espressioni poco aggraziate per un principe "Quando arriverà la mia sposa?" Domandò prendendo a fischiettare con fare annoiato "Presto la signorina Tenebrerus sarà qui, probabilmente sarà già in viaggio verso la capitale. Ne sei felice figliolo?" Domandò il re, sperando in una buona risposta "L'ho vista qualche volta, non posso essere felice di vedere una mezza sconosciuta" rispose scocciato il ragazzo, sguainando la spada per soffermarvi sulla lama ancora sporca di sangue oramai secco "Sai cosa intendevo dire" disse il padre "Se sei felice dell'idea di un matrimonio con una brava ragazza". Il giovane guardò con sufficienza uno degli uomini che portava le panche nella sala grande, disprezzando tanta debolezza fisica "Certo che lo sono. Sono sicuro che se farà come dico io ci divertiremo" rispose poi con un ghigno "Ma da quello che ho visto ci vorranno le maniere forti".

L'uomo guardò il figlio afflitto e preoccupato "Ti prego di trattare bene la tua sposa, la nostra alleanza finirebbe se sapessero che maltratti la signorina e inoltre non dimenticare che le donne si trattano con rispetto e gentilezza, tutte loro." Morfgan lo guardò con un ghigno beffardo "Come sei tenero, padre!" lo schernì apertamente "Mi stupisce veramente pensarti come un valoroso condottiero. Perché non la sposate voi quella stupida ragazzina, le donne giovani vi piacciono d'altronde" rispose con forza il figlio, con lo sguardo cattivo e provocatorio. Fritjof ci rimase male ma non abbassò lo sguardo, incassò il colpo con dignitosa compostezza "Bada a come parli dinnanzi al tuo re, ma soprattutto al cospetto di tuo padre!" Lo sgridò aspramente e il volto del re divenne duro e autorevole "I miei sentimenti per Cleorae sono sinceri e nobili! E tu tratterai con i guanti la tua regina!" Morfgan roteò gli occhi con strafottenza "Per il poco che ricordo di lei non sembrava molto incline alla collaborazione né tanto meno all'obbedienza!" replicò "E se anche ricordassi male, ditemi padre, cosa dovrei fare per farla obbedire!?" Il padre scosse il capo "Se la tratterai con rispetto, pazienza e gentilezza sono sicuro che sarete felici e vivrete serenamente, nonostante gli impegni non mancheranno" ma il ragazzo non lo ascoltava "Ci vorrebbe troppo tempo padre e io non sono mai stato molto paziente, inoltre mi deve obbedienza e reverenza, è un suo preciso dovere in quanto moglie e regina!" disse con ovvietà, poi si voltò pronto ad andare via "Ora se mi scusate padre ho altro da fare. Ci vediamo a pranzo". La voce di Fritjof però lo inseguì, risuonando minacciosa com'era probabilmente stata una volta in guerra "Se ti azzarderai a fare qualcosa di male a quella ragazza te ne pentirai amaramente!" Morfgan si voltò ancora e fissò il padre con un gli occhi ridotti a fessure "Mi state minacciando?" Sussurrò, sfidandolo apertamente con lo sguardo. Cleorae vide chiaramente la fierezza e la giustizia che avevano sempre contraddistinto Fritjof venire fuori come avrebbero dovuto fare poco prima per affrontare il problema dei demoni "Non ho mai avuto molto tempo per le minacce" disse, senza mai mutare espressione o distogliere lo sguardo dal figlio "Quanto per le azioni figlio mio, dovresti saperlo, tuttavia mai minaccerei la mia famiglia, ma voglio effettivamente ammonirti, perché questo è un serio avvertimento" rispose con lo sguardo fisso, poi continuò "Agendo in modo barbaro e violento mi costringeresti ad affidare la corona a tuo fratello o a qualche mio fidato consigliere". Il ragazzo lo fissò furioso, lampi iracondi attraversarono i suoi occhi come fulmini prima di una tempesta; Morfgan si voltò con uno scatto irato e sparì lungo il corridoio principale borbottando, senza tuttavia avere il coraggio per replicare alle parole del padre, a Cleorae tuttavia parve per un istante di vedere il principe indeciso se sputare o meno ai piedi del padre prima di lasciare la stanza, ma a quanto pareva Morfgan aveva compreso che se voleva la corona quella non si sarebbe certamente rivelata la strada vincente da percorrere. Probabilmente avrebbe sfogato la rabbia nell'allenamento con la spada prima di prepararsi per il pranzo.

Fritjof guardò il figlio allontanarsi con preoccupazione, non gli sembrava di sicuro un buon re né tantomeno un buon marito ma doveva avere fiducia, lui era stanco oramai e voleva iniziare una nuova vita. Cleorae lesse seppur da lontano negli occhi dell'uomo i pensieri che dovevano invadere la sua mente, la sorte della signorina Tenebrerus lo impensieriva, ma in conclusione avrebbe abbandonato la ragazza alla sua infausta sorte perché alla fine era il suo riposo ad avere la priorità. Fritjof e la sua buona futura sposa sarebbero stati così felici che avrebbe dimenticato tutti gli altri e ogni loro problema, era quello che gli importava, solo quello, una vita serena prima della morte. Ancora delusa Cleorae decise di tornare nella sua stanza, quando un nuovo arrivato entrò nella sala del trono la fece attendere ancora.

Il ragazzo che aveva varcato la porta del salone si era inchinato "Maestà" aveva poi detto quello "Il pranzo è quasi pronto". Il re lo congedò gentilmente e Cleorae si stupì dell'ora tarda, aveva passato tanto tempo ad osservare Fritjof che non si era minimamente resa conto dell'orario. Avrebbe potuto entrare dalla porta principale e attendere il pranzo discorrendo tranquillamente con il re, tuttavia decise di andare incontro all'altro, al servo. Il ragazzo aveva un fisico asciutto, aveva anche lui i capelli rossi appena di qualche tonalità più chiari di quelli di Cleo, aveva poi qualche lentiggine sul viso allungato e gli occhi azzurri. Sembrava un ragazzo impacciato e reverente a primo impatto, camminava con la testa dritta ma gli occhi bassi, inoltre le bracci erano spesso strette al corpo, almeno lo erano quando si trovava al cospetto del re o più in generale quando era al castello. Cleorae gli afferrò un braccio e lo tirò in uno dei corridoi. Il ragazzo di nome Sipo si illuminò immediatamente non appena l'ebbe messa a fuoco "Cleorae!" Sussurrò felice "Mi hai visto? Mi sono inchinato bene questa volta?" Cleorae sorrise "Ma certo che sì, cuginetto" disse con voce affettuosa "Sei stato perfetto. Ma d'altronde sono stata proprio io ad insegnarti a farlo". Il ragazzo la guardò divertito e i due risero a voce bassa, per non essere scoperti, poi lei si avvicinò di più per sussurrare "Tutto bene con il pranzo?" L'altro annuì facendosi serio "Bene. Ora però devo andare, non voglio fare tardi. A dopo Cleo". Cleorae tuttavia trattenne l'altro per un braccio prima che andasse via "Tu che cosa mangerai?" Sipo sorrise "Non devi preoccuparti per me" le assicurò Sipo con noncuranza "Il solito pasto che facevi anche tu quando ancora servivi, zuppe. Oggi in particolare mangeremo zuppa di patate e zucca" allora la cugina sorrise dopo aver carezzato l'altro a mo' di saluto e poi se ne andò a pranzo tranquilla. Svoltò nei vari corridoi del castello, dirigendosi a passo spedito ma elegante verso la sala da pranzo poco lontana. La sala era rettangolare e luminosa, c'erano grosse finestre nella parte alta del soffitto, mentre il soffitto era affrescato da disegni che narravano alcune celebri imprese della stirpe del Re della Morte e dei suoi antenati come Connor il Grande. Era arredata in modo abbastanza semplice in realtà, nonostante fosse la sala da pranzo del castello reale, c'era un grosso tavolo in legno di mogano massiccio che occupava tutta la stanza, un paio di mobili ai lati della stanza con qualche sedia lavorata-tre per la precisione- e un trono d'oro a capo tavola. Il re era in piedi e parlava con due servitori, dal sorriso di entrambi però parlavano di frivolezze, poi vedendo la donna Fritjof si mise a sedere rivolgendo alla nuova arrivata un sorriso di benvenuto mentre i due servi si allontanarono velocemente per portare le vivande a tavola. C'era una tovaglia di lino bianca, orlata d'oro stesa sul tavolo, decorato da stoviglie d'oro e un vaso di ceramica azzurro, laccato e brillante, contenente rose. Alla destra del re si era posizionata Cleorae facendogli un ampio sorriso, poi arrivò il figlio minore del re, il principe Drovan, che si era posizionato a sinistra "Tuo fratello non viene?" Domandò il re al secondogenito dopo aver fatto un cenno della testa per salutarlo. Drovan era un ragazzo poco più giovane di Morfgan, di appena un anno e somigliava veramente tanto al fratello maggiore. Come Morfgan e come il padre in gioventù aveva un fisico muscoloso, seppur poco più asciutto di quello del fratello maggiore che teneva costantemente in allenamento, i capelli erano scuri e più corti di quelli di Morfgan, i lineamenti erano meno duri e gli occhi di un marrone più chiaro. Quello posò la forchetta con il pollo già infilzato e gli rispose con fare frettoloso, vagamente infastidito "Farà tardi ha detto". Il re si incupì e assunse un'espressione severa "Quel ragazzo deve imparare a comportarsi come si conviene, è cattiva educazione arrivate a tavola tardi, specie se con un re e un padre".

Il figlio minore scrollò le spalle e bevve dal suo calice di vino, ignorando le lamentele del padre, similmente a come era solito fare Morfgan. Cleorae invece strinse una mano intorno al polso di Fritjof per dargli conforto, quei due ragazzi che aveva avuto la sfortuna di avere come figli erano dei selvaggi maleducati "Non temere, vedrai che cambierà" gli sussurrò Cleo prima di iniziare a mangiare, ricevendo un cenno triste dell'altro in risposta. L'uomo tuttavia attese e si limitò a bere il vino con espressione malinconica e stanca, così anche Cleorae decise che fosse meglio attendere nonostante la fame "Mangiate padre o si fredderà" lo incoraggiò l'altro figlio, parlando con la bocca piena, leccandosi addirittura le dita "Mio fratello l'ha cacciata per voi questa fagiana". A sentire quelle parole Fritjof parve rincuorato "Hai ragione, ogni tanto mi pensa tuo fratello" disse più a sé che all'altro, quasi a volersi consolare " Forse non ha senso aspettarlo oltre".

Il vecchio re afferrò le posate e iniziò a tagliare la carne profumata della fagiana e Cleorae allora fece lo stesso "Quando vi sposerete?" Domandò improvvisamente Drovan dopo aver bevuto un abbondante sorso di vino per liberarsi la gola dal pollo secco. Fritjof smise di tagliare e alzò gli occhi "Dopo le nozze e l'incoronazione di tuo fratello ci sposeremo anche io e Cleorae". Il ragazzo fece una smorfia, come se avesse trangugiato qualcosa di amaro al posto del vino "Cosa c'è Drovan?" Domandò ancora il padre "Lo sapete!" Sbottò Drovan, non riuscendo a trattenersi oltre "Io sarei un re migliore di lui!" Fritjof sospirò con la pazienza di ferro di chi è abituato a sopportare sempre i medesimi lamenti "Come puoi dire una cosa del genere?" "Padre, io sono più rispettoso di mio fratello, non vi faccio mai aspettare come fa lui!" Argomentò giustamente il ragazzo "Il fatto che sia il maggiore non significa che debba essere per forza il re! Inoltre io sono molto meno avventato di lui." Fritjof tentò di rilassare la schiena sullo schienale mentre Cleorae spostava compostamente lo sguardo dall'uno all'altro dei commensali che le facevano compagnia, mangiando in silenzio ma ascoltando con attenzione, cosa che, ne era certa, stavano facendo anche le guardie e i servitori nella stanza. "Drovan" iniziò il re, unendo le punte delle dita in un gesto caratteristico "Non essere così ostinato con questa storia figlio mio, tu sarai un grande generale o se lo volessi potresti sposare la figlia di uno dei signori ed essere a capo di un castello tutto tuo!" Tentò di consolarlo il padre "È diverso!" Si incaponì il figlio, scrutando l'altro con gli occhi velati di rancore e sistemandosi il parrucchino con vaga stizza "Sarà la cosa migliore, vivrai senza troppe responsabilità o aspettative" lo rassicurò il padre "Non è piacevole come puoi pensare gestire un regno, sobbarcarti di responsabilità di tale portata. E poi è una tradizione" "Voi non sapete nulla di ciò che mi diletta o di ciò che mi annoia, padre!" Disse sfrontato Drovan, alzando la voce "Siete pigro e ipocrita! Non considerate minimamente le mie abilità, non avete spina dorsale e per questo io vi disprezzo! Voi non siete il condottiero che sconfisse la stirpe dei re dai grandi poteri!"

Il principe si alzò e si diresse verso l'uscita della stanza buttando a terra il parrucchino in segno di disprezzo "Drovan, ti prego!" Tentò di richiamarlo il padre inutilmente, con gli occhi sofferenti e la voce rotta. Fritjof guardò impotente il figlio andare via come aveva fatto l'altro poco tempo prima e abbassò lo sguardo sentendosi incapace e triste "Non prendertela tanto, mio amore" lo rassicurò Cleorae nuovamente e la sua voce risuonò dolce e melodiosa come un canto consolatorio "Anche Morfgan la pensa come lui, ne sono sicuro" disse sempre più abbattuto Fritjof, scuotendo lentamente il capo. La donna strinse più forte la presa sulla vecchia mano di lui "Hai fatto tutto il possibile dalla morte della loro madre" "Ma c'è stato un periodo in cui mi lasciai vincere completamente dal dolore, pur sapendo che i due ragazzi avrebbero preso il sopravvento su di me comportandomi in tale modo..." si incolpò ancora Fritjof, portandosi le mani sul volto come se provasse vergogna per sé stesso. "La mia grande debolezza è sempre stata l'amore" tornò a parlare poi, alzando lo sguardo verso l'altra. Si ricompose poco dopo, rendendosi conto di non essere solo con Cleorae, allora con il briciolo di dignità che gli era rimasta riprese le posate per tornare a mangiare, quando il figlio maggiore varcò il salone con la testa alta.

"Padre" disse sedendosi dove prima stava il fratello, scansò il piatto mezzo vuoto e il calice del tutto vuoto, poi con un gesto esigente della mano si fece portare il suo pranzo. "Figliolo" disse con un sorriso triste il re e gli occhi accesi dalla speranza "Dov'è mio fratello?" Domandò con il boccone l'altro, noncurante dell'espressione sofferente del vecchio padre. "È uscito" rispose Fritjof vago, irrigidendosi istantaneamente, troppo distrutto e umiliato per ripercorrere l'accaduto. Il figlio fissò l'uomo e poi spostò lo sguardo sulla donna, allora tornò con il capo basso per tagliare la sua carne. Morfgan corrugò le sopracciglia "Non mangiate quello che vi ho fatto preparare?" Il re alzò lo sguardo perplesso, il suo udito iniziava a non essere buono come una volta "Cosa?" Domandò "Perché non mangiate?" Ripeté il giovane. L'uomo abbassò nuovamente il capo e iniziò a mangiare guardando il figlio di sottecchi, adesso che suo padre obbediva Morfgan esibiva un sorriso compiaciuto sul volto "Com'è padre? Buona?"

L'uomo annuì sorridendo nel vedere il figlio tanto felice, sembrava proprio che ci tenesse a sapere che suo padre apprezzava quello che gli aveva fatto preparare. "Io padre vorrei parlarvi di una cosa" disse ancora Morfgan "Sì figliolo?" Domandò l'altro in allerta "Volevo..." il principe si fermò e guardò davanti a sé, poi tornò a fissare il padre, sembrava in difficoltà "Volevo chiedervi perdono per tutto quello che ho detto e fatto prima, per il mio pessimo comportamento nei vostri riguardi". Fritjof lo guardò fermamente e a Cleo parve di scorgere lacrime in quegli occhi scaturite dalla gioia di tali parole, l'idea dell'inadeguatezza del figlio maggiore come re lo abbandonò per un momento e Fritjof pensò che il ragazzo nel profondo del suo animo fosse premuroso e cortese. Cleorae lesse chiaramente negli occhi scuri di Morfgan un malcelato divertimento nel mentire in modo tanto sfrontato al padre ma Fritjof non vide nulla, al contrario il sovrano si alzò, continuando a masticare il boccone, per andare incontro al figlio e perdonargli l'ennesimo sfregio. Gli si avvicinò col passo stranamente celere, senza riuscire ad attendere altro, poi tossì per far scendere il boccone che faceva fatica a ingoiare. Il fastidio parve non alleviarsi e allora un ragazzo previdente della servitù posizionato vicino alla parete, gli versò prontamente del vino nella coppa. Il re mandò giù il vino in un sorso, allora continuò ad avanzare in direzione del figlio, ma questa volta con l'aria barcollante. L'uomo fece un altro passo quando il medesimo fastidio alla gola lo fece ricominciare a tossire, questa volta convulsamente. Fritjof si accasciò lentamente a terra in ginocchio, come un burattino senza fili, si portò poi le mani sulla gola, tremante. In un attimo le guardie e i servi nella stanza gli furono addosso allarmati, mentre Cleorae e Morfgan si alzarono di scatto per inginocchiarsi al capezzale del re "Padre!" Urlò Morfgan con gli occhi spalancati e il volto corrucciato dalla preoccupazione "Amore mio!" Strillò Cleorae con le mani sulla bocca, assalita dall'ansia, dal terrore e con gli occhi gonfi di lacrime.

L'uomo si contorse dal dolore e poi si piegò in avanti, prostrandosi dinnanzi alla sofferenza, tossendo sangue, poi rimase qualche altro secondo accasciato, con gli occhi spalancati fuori asse. Le guardie si allontanarono e poi lo stesso fecero i servi, tutti visibilmente sconvolti. Morfgan si avvicinò ancora, rivoltando il corpo del padre per vederlo in volto. Guardò il corpo rigido di quello che sino a pochi istanti prima era stato il suo re e suo padre. Guardò l'uomo negli occhi vacui, occhi che non potevano più vederlo, poi carezzò senza affetto la guancia del vecchio. Fu allora che il ragazzo poggiò le dita sulle palpebre del padre per chiudere gli occhi di Fritjof Raylon un'ultima volta, poi si alzò, senza versare una lacrima. Cleorae era in piedi, sconvolta e scossa da singhiozzi, mentre fissava la salma pallida di Fritjof. Tornò in ginocchio accanto all'uomo e iniziò a gridare disperata "Hanno ammazzato il mio re! Assassino! C'è un assassino nel castello!"

Due guardie tentarono di tirarla su di forza per separarla dal vecchio uomo, ma Morfgan fece loro cenno di lasciarla dov'era "Trovate mio fratello" disse con voce bassa e incolore "Ditegli che nostro padre è morto e dobbiamo organizzare un funerale degno, allora celebreremo la cerimonia della mia incoronazione e poi ci prodigheremo per trovare e giustiziare il colpevole di questo omicidio". Una parte delle guardie uscì dopo un inchino di riverenza, scambiandosi sguardi di puro sconcerto, chi per timore, chi perché disapprovava qualcosa, probabilmente l'impassibilità di Morfgan, le grida di Cleo oppure entrambe le cose. "Voi portate via la salma del re e fatelo preparare per la cerimonia funebre" disse ancora Morfgan, sempre con voce inflessibile e subito venne obbedito. "Il mio re!" sussurrò ancora Cleorae disperata, con il volto chino sul petto vuoto di Fritjof e le lacrime che le rigavano le guance, sciogliendo il trucco.

Morfgan la guardò curiosamente "Accompagnate la signorina nella sua stanza" disse infine, rivolgendosi a due serve. Cleorae venne portata via poco dopo, sentendo lo sguardo di Morfgan ardere su di sé come il fuoco dei camini d'inverno e la ragazza giurò di aver visto un lieve ghigno sulle labbra di quello che oramai a tutti gli effetti stava per diventare il re.

 

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Capitolo 4
*** Eletto dagli dèi ***


Pov:Teurum

Quel pomeriggio tirava un vento particolarmente rigido, nonostante fosse appena cominciato l'autunno infatti faceva insolitamente freddo quel giorno. Certo, il Tempio dei Profeti non era mai stato un posto tanto caldo, era costruito completamente in pietra e non aveva camini, solo un focolare in pietra situato al centro dell'edificio che, essendo abbastanza grande, spesso restava immerso nel freddo. Il Tempio aveva una struttura architettonica particolare, piuttosto recente a dire la verità, visto dall'alto doveva ricordare un sole di pietra bianco. Al centro c'era la stanza principale, era la più grande e come tutte le altre parti era a forma di sfera, simile a un igloo, con le pareti intonacate e lasciate bianche. La stanza sferica centrale fungeva anche da punto di incontro di tutte le altre sfere disposte in modo da avvolgere sei corridoi equidistanti che formavano i raggi. Le sfere più piccole lungo i corridoi formavano delle sporgenze che terminavano a loro volta con delle sfere più grandi che avevano i muri più spessi perché scavati in modo da ricavare delle nicchie dove far dormire coloro che ci abitavano. Sulle pareti delle stanze c'erano delle opali, soprattutto nella stanza al centro che era dedicata allo studio della materia; le pietre erano da sempre importanti nella lettura del destino, le opali in particolare erano state scelta perché erano di buon auspicio, i profeti pensavano potessero favorire la lettura del futuro. Il Tempio non era abitato da tante persone, in parte perché la struttura era piccola, in parte perché l'accesso non era consentito a chiunque. C'erano meno di cento abitanti e conducevano una vita piuttosto noiosa a ripetitiva, atarassica e servizievole. Un profeta infatti doveva imparare come leggere le profezie, ovvero probabilità sul futuro, che potevano essere fatte in verità da chiunque, ma venivano spesso male interpretate, persino le più chiare che erano solite apparire nei sogni. Un tempo quando la magia era forte e permeava tutto il regno non era stato così, le profezie apparivano come parole nitide nella mente della gente, come parole di fumo fluttuanti, poi avevano iniziato a essere difficili da decifrare e le parole erano svanite, sostituite dalle immagini. La probabilità di vedere un possibile futuro era un dono magico eccezionale, ma come stava avvenendo lentamente con le piante e gli animali, anche quel dono stava mutando, si stava affievolendo a causa della cupidigia della gente. Un vero profeta era in grado di indursi delle probabilità sul futuro, per questo poteva essere essenziale per il popolo, poteva scongiurare eventuali catastrofi nonostante la fuggevolezza e la scarsa conoscenza dell'arte delle profezie che per lo più costringeva i profeti a tentare di capire di più sui loro studi. L'arte delle profezie era stata insegnata agli uomini dai centauri, creature intelligenti e sagge ma anche fiere, coraggiose e generose, infatti per loro la profezia era un talento naturale e avevano voluto aiutare gli uomini affinché potessero tentare di avere le stesse opportunità che avevano loro. Non tutti però potevano essere profeti, ci volevano in media una decina di anni per imparare, sette o otto per i più bravi, inoltre bisognava seguire le rigide regole del Tempio che non erano di certo semplici o sopportabili da tutti gli individui.

La prima regola, probabilmente la più importante, era quella di non tentare mai di vedere il proprio futuro perché un profeta era un umile servitore del popolo e non doveva favorire sé stesso ma accettare il destino che gli sarebbe capitato con rassegnazione, per questo era la prima cosa che i novizi dovevano giurare solennemente durante la cerimonia che consentiva loro di poter iniziare a studiare lì, inoltre si vociferava che il destino punisse chi avesse osato tentare di imbrigliarlo con la forza e si ritorceva contro il malintenzionato. Reinhold ripeteva quelle parole quasi tutti i giorni, tanto da farle sembrare una specie di preghiera che tutti ripetevano con lui per non cadere in tentazione. A Teurum non erano mai piaciute molto le regole, fin dall'infanzia quando la balia Succelyn gli ripeteva di non andare in giro da solo o di mangiare ma lui non ne aveva voglia, tuttavia raramente finivano per litigare. Era sempre stato un bambino talmente furbo da causare preoccupazioni Teurum, in grado di nascondere le sue negligenze, tuttavia quando lo avevano accettato come allievo nel Tempio si era dovuto dimostrare obbediente suo malgrado e aveva dovuto sottostare alle regole come gli altri. O almeno così si era sempre fatto vedere dagli altri profeti, ligio e rispettoso, quasi zelante.

Teurum detestava tutto ciò che lo rendesse uguale gli altri, lui era nato speciale ed era sempre stato fermamente intenzionato a rimanervi. Teurum era infatti il figlio di Merlena Marvlum, l'ultima principessa della dinastia del Re della Morte e del marito, il generale dell'esercito reale Teereth Rerensy. Merlena non aveva mai voluto che suo figlio conoscesse le sue vere discendenze e Teurum era venuto a conoscenza di questo fatto perché era stata Succelyn stessa a raccontarglielo. Sua madre infatti era stata talmente disperata che in punto di morte aveva fatto giurare alla sua dama di non rivelare mai a Teurum chi fosse veramente perché, secondo lo sciocco pensiero di Merlena, il potere rovinava e lei voleva una vita felice per il figlio, quel figlio che mai avrebbe visto crescere. Ma Succelyn nonostante il giuramento aveva deciso diversamente e infranse il giuramento. Quando Teurum aveva quindici anni Succelyn, vedendo fiorire in lui sempre più beltà, una beltà che superava addirittura quella delle statue raffiguranti il Re della Morte e vedendo intelligenza e l'ambizione del ragazzo, gli aveva rivelato la sua vera identità, incitandolo poi a riprendersi il regno che era suo per diritto di nascita. Teurum non aveva avuto dubbi a riguardo, avevano la stessa idea sul suo futuro, peccato solo che la donna subito dopo avesse tentato di sedurlo per indurlo a sposarla e farla diventare regina, minacciandolo che se non avesse accettato lei avrebbe rivelato l'identità di Teurum a dei soldati, condannandolo quindi a morte certa. Questo a Teurum non era piaciuto per niente, lo aveva ripugnato a tal punto da indurlo in un primo momento a mentire e fingere di accettare la proposta della donna, poi aveva stretto l'altra in un abbraccio, l'aveva guardata languidamente e subito dopo l'aveva gettata sulle sponde del fiume che scorreva alle loro spalle, tenendole il volto fermo nell'acqua, affogandola. Da allora Teurum aveva iniziato a pianificare la sua ascesa e aveva ritenuto che la prima cosa da fare fosse andare al Tempio dei Profeti dove sapeva che avrebbe acquisito le conoscenze che si confacevano a un sovrano e poi avrebbe ottenuto gradualmente il potere.

Però Teurum non aveva messo in conto tutte le difficoltà che avrebbe dovuto affrontare per lasciare quel luogo senza destare sospetti, dal momento che il servizio al Tempio era per la vita. Teurum non amava perdere tempo in inutili frivolezze, tuttavia sapeva anche di non essere ancora del tutto onnisciente come voleva sulle profezie e perciò si era detto che restare lì ancora un po' non si sarebbe rivelato una completa perdita di tempo. Aveva ventisei anni ed era un ragazzo straordinariamente bello, un vero figlio dell'inverno; era alto e pallido, aveva i capelli neri come il carbone ma lucidi e appena ondulati come il mare nelle notti d'inverno, le labbra erano sottili e di un rosa tenue, ma il tratto più caratteristico erano gli occhi di un azzurro talmente glaciale da parere incisi nel cuore di un ghiacciaio, identici a quelli del suo illustre quanto temuto antenato. Crescendo la poderosa intelligenza di Teurum si era accresciuta esponenzialmente, e così le sue abilità nella persuasione e nel calcolo attento e razionale, inoltre il ragazzo era un oratore eccezionale e un grande guerriero, silenzioso e veloce come la morte. Reinhold, il Sommo Maestro dei profeti, lo adorava per le sue enormi doti. Lo vedeva non come un profeta ma come il profeta, come il figlio che non aveva mai avuto e non voleva assolutamente che il giovane lasciasse il Tempio per andare nei villaggi vicini a comprare qualcosa qualora si ritenesse necessario, temeva infatti che le donne gli avrebbero fatto infrangere il giuramento fatto, bello com'era sicuramente gli sarebbero saltate tutte addosso e questo non poteva accadere per nessun motivo. Ma Reinhold non era il solo ad adorare Teurum, anche Elamon e Sigmut rientravano in quelli che lo adoravano, anche se a dirla tutta nessuno era mai sfuggito all'aura fascinosa del giovane in tutti quegli anni. A Teurum non importava veramente di nessun altro che non fosse se stesso, tuttavia pur non tenendo conto dell'opinione degli altri dava la vaga impressione di tenere in considerazione quella di quei tre vecchi stolti, per il semplice motivo che erano i più importanti al Tempio e di conseguenza potevano servirgli.

Elamon era colui che insegnava a controllare le profezie, a indurle a piacimento ed era rimasto sbalordito dalle capacità di Teurum che solo dopo tre anni ci era riuscito molto meglio di chi stava per terminare gli anni di addestramento. Sigmut invece si occupava principalmente di istruire i profeti affinché sapessero combattere, nel raro caso in cui un malvivente qualsiasi li avesse attaccati. Teurum era bravissimo nel combattimento, era arrivato al Tempio già in grado di sostenere un semplice duello, anche se quando gli domandavano dove avesse imparato lui non rispondeva mai, e lì aveva affinato la sua tecnica tanto da avere una leggerezza e un'agilità nel combattimento da far impallidire chiunque, sembrava quasi che volasse. Tutti immaginavano che avesse due genitori provenienti da province diverse, magari uno proveniente dalla Provincia di Ghiaccio per gli occhi e l'altro da quella di Aria per l'agilità innaturale, ma si trattava ovviamente solo di sciocche supposizioni per ingannare il tempo, fandonie inventate dal popolino ignorante. Stava di fatto che se Teurum attaccava era quasi impossibile difendersi, per questo era diventato l'addetto alla caccia, perché era quello che faceva meno fatica a catturare prede e spesso si ritrovava ai limiti del boschetto lì vicino con la folla che lo guardava e gli impediva di fuggire. La vanità era sempre stato uno dei più grandi difetti di Teurum, tuttavia si era subito reso conto della sconvenienza di tutta quella folla adorante.

Anche quel pomeriggio Teurum si stava incamminando verso l'uscita del Tempio per cacciare, accompagnato però solamente da Reinhold, Elamon e Sigmut che chiacchieravano di noiose, inutili faccende senza importanza "Teurum, sapessi come sono affamato" disse il vecchio Elamon dai capelli rossicci, poggiando la mano destra sulla spalla del ragazzo e arricciandosi la barba con l'altra "Cercherò di tornare presto" rispose il ragazzo con un sorriso tanto ipocrita quanto ben simulato stampato sul bel volto. "Se avessi la tua agilità ragazzo verrei con te a cacciare subito, ma chiunque di noi ti rallenterebbe" disse Sigmut, grattandosi la barba dorata "Saresti una guardia formidabile" concluse poi, quasi sovrappensiero. Teurum rise in modo elegante e cristallino "Con tutto il dovuto rispetto, ma non penso proprio che sarei una brava guardia..." questo non poteva essere aggiunto, ma non si sarebbe mai preso la briga di difendere qualcuno al di fuori di sé stesso in cambio di nulla. "Lui è un profeta Sigmut, capito!? Un profeta!" Lo rimproverò Reinhold, agitandosi esageratamente tanto da far comparire sulla pelle decadente e flaccida tante macchioline rosse, come se fosse stato colpito da un'improvvisa allergia "Non vi arrabbiate con lui Maestro, i complimenti fanno sempre piacere" sorrise sornione Teurum, rassicurando uno e tentando di discolpare l'altro. Reinhold a sentire le parole del suo pupillo parve calmarsi un po', pur rimanendo turbato dalle parole dell'altro "Non vi preoccupate" continuò il ragazzo, vedendolo ancora agitato "Io non ho la minima intenzione di abbandonare il Tempio se non per cacciare" finì, con il tono più rassicurante e falso di cui fu capace.

Il Sommo Maestro sorrise rassicurato da quelle parole, rivolgendo un ampio sorriso al suo prediletto "È questo il tuo posto" asserì con convinzione " Tu sei un profeta, sei nato per fare questo." Teurum annuì, convincendo tutti che stesse dicendo il vero anche se era del tutto in disaccordo con le parole del vecchio uomo "Ora vado" disse sbrigativo, non voleva sorbirsi altre chiacchiere inutili da quei tre vecchi "Torna presto ragazzo" lo salutò Sigmut con un grosso sorriso mentre gli altri due lo imitavano agitando la mano. Il giovane si voltò stupito "Non rimanete?" Domandò perplesso e speranzoso "Ti predi gioco di questi poveri vecchi!? Fa un freddo tremendo e le mie povere ossa iniziano già a protestare" disse Sigmut con voce gracchiante "Se morissi ora con questo vento non potreste nemmeno accendere un fuoco per farmi un funerale degno!" Finì Elamon, allontanandosi poi celermente per rientrando di corsa con gli altri. Teurum sorrise compiaciuto e si incamminò nel bosco con spada e lancia nei foderi attaccati alla cintura e arco, frecce e un gran sacco sulle spalle. Non sapeva tra quanto sarebbe fuggito, ma di certo non mancava molto, se le sue previsioni erano giuste il gelo sarebbe arrivato presto con l'inverno vicino e lui una volta preparato l'occorrente sarebbe andato via. Nella seconda profezia che si era indotto aveva visto chiaramente che tanti avrebbero bramato avere un profeta nelle corti, per piccolezze come il possibile buon esito di un investimento e di certo Teurum non si sarebbe tirato indietro perché corti significava potere e potere significava riconquistare il suo regno. Aveva passato quasi dieci anni in quel Tempio isolato e aveva il disperato bisogno di vedere altro, ma Teurum sapeva quale fosse il momento giusto per agire e di sicuro non era quel pomeriggio in cui tirava un vento tanto gelido che per poco con face rabbrividire anche lui che non soffriva facilmente a causa delle intemperie.

Pur essendo piuttosto realista Teurum fantasticava tante volte sul giorno della sua incoronazione, immaginando come sarebbe stato quando tutti lo avrebbero acclamato e avrebbe riavuto i poteri... Nella prima profezia che aveva visto di nascosto infatti aveva scoperto che qualcuno si sarebbe ripreso i poteri degli elementi a breve, sarebbe stato degno di averli e il suo potere sarebbe stato superiore a quello di qualsiasi uomo o donna esistente. A Teurum sembrava più che ovvio che la persona della profezia fosse proprio lui, doveva solo riprendersi i poteri-pur non sapendo minimamente come questo fosse possibile- ma per la sua scalata al potere aveva un piano, una volta lasciato quel patetico luogo si sarebbe fatto passare come un profeta inviato dal Tempio per aiutare il popolo nella corte più vicina, giusto per non perdere tempo, si sarebbe guadagnato la fiducia dei signori e del popolo per poi giungere a corte e creare una falsa profezia su di sé, rivelando a tutti la sua vera discendenza. E pur non sapendo della sua esistenza gli avrebbero creduto, perché i suoi occhi erano rivelatori per chi guardava con attenzione le statue che c'erano in giro e ricordava l'aspetto della sua stirpe, il suo aspetto fisico sarebbe stato una prova incontestabile, inoltre i poteri sarebbero tornati certamente da lui e allora Teurum sarebbe stato il re anche nella remota possibilità in cui non gli avessero creduto o non lo avessero accettato come legittimo sovrano. Si figurava sulla scalinata di marmo del castello reale di cui aveva sentito parlare, mentre il popolo si inchinava per la venuta del salvatore, del dio in terra, del prediletto dalla fortuna e discendente dell'unico vero re.

Mentre il ragazzo si beava nei suoi pensieri un cervo in lontananza attirò la sua attenzione. Teurum afferrò immediatamente l'arco e preparò la freccia, pronto a scoccare, tuttavia la creatura filò via con uno scatto. Teurum sbuffò e iniziò a corrergli dietro, silenzioso come il vento leggero di primavera, veloce come un falco mentre insegue la sua preda e subdolo come un'ombra nel buio della notte. Il cervo però non voleva saperne di fermarsi, era talmente veloce che il ragazzo neanche riusciva a vederlo distintamente, cosa che lo fece subito innervosire. Improvvisamente l'animale si fermò al centro della foresta e allora Teurum poté vederlo, non era un cervo normale, era il cervo delle quattro stagioni, uno dei pochi animali magici del regno ancora in vita. La caratteristica del cervo delle quattro stagioni erano le corna, possenti e presenti sia nei maschi che nelle femmine, ma semplicemente più piccole, che erano lunghe e folte come rami di un albero e in base alla stagione cambiavano. D'estate erano ricoperte di foglie verdi e rigogliose, in primavera fiorivano, l'inverno erano ricoperte da fili di ghiaccio e stalattiti, mentre ora che era autunno erano quasi del tutto spoglie se non per qualche piccola foglia secca.

Il ragazzo rimase immobile, gli occhi colore del ghiaccio erano fissi sulla creatura che a sua volta lo guardava e sembrava sfidarlo con la tranquillità con la quale lo osservava. Teurum con uno scatto posizionò la freccia nell'arco, ma quando si preparò a scoccare notò che il cervo era già corso via. Teurum strinse i pugni e riprese a inseguirlo, aveva sempre odiato essere preso in giro e, per quanto potesse sembrare impossibile, aveva la vaga impressione che quel cervo si stesse facendo beffe di lui, inoltre detestava perdere e avrebbe preso quel cervo comunque pur di non lasciarlo sopravvivere. Il cervo era veramente agile, era abituato a tutti i tipi di terreni e climi e questo lo rendeva quasi sinuoso tra le fronde, inoltre l'abitudine a scappare dai predatori l'aveva reso incredibilmente rapido. I due corsero e corsero e Teurum si stupì di quanto fosse profondo quel bosco tanto si erano addentrati. Chiunque lo avesse visto in quel momento gli avrebbe detto che era pazzo innanzitutto a pensare che un animale si stesse prendendo gioco di lui, e gli avrebbe detto anche di desistere e tornare vicino al Tempio per cacciare qualcos'altro. Ma Teurum non avrebbe ascoltato, più il cervo si allontanava e più lui aveva voglia di catturarlo, voleva assolutamente vincere e dimostrare di essere sempre il migliore, doveva assolutamente vincere quella sfida. Ogni tanto il cervo si voltava e lo guardava, come per accertarsi che Teurum lo stesse ancora seguendo, cosa che stimolava ancora di più il ragazzo a catturarlo, d'altronde più difficile era la mèta e più dolce sarebbe poi stata la soddisfazione una volta raggiunta. Poi improvvisamente il cervo si fermò. Teurum che iniziava a sentire le gambe stanche si stupì a tal punto di quella mossa che quando vide l'animale fermarsi e brucare tranquillo la poca erba strabuzzò gli occhi per la sorpresa e rimase qualche istante fermo a guardare, quasi aspettandosi che il cervo scomparisse da un momento all'altro. Accertatosi che la stanchezza non gli stesse giocando brutti scherzi, incoccò la freccia e con la precisione e la tecnica di un arciere esperto centrò l'animale nel ventre.

Guardò la bestia emettere un lungo bramito di dolore, poi dopo qualche secondo lo vide esalare l'ultimo respiro per poi cadere con leggerezza innaturale sul suolo che tante volte aveva percorso. Teurum si avvicinò dopo essersi sistemato l'arco intorno alle spalle, con un sorriso trionfante che gli alleggiava sulle labbra sottili. Prese il sacco che aveva portato con sé e si piegò sul terreno. Mise la bestia nel sacco, ripiegandola per quanto possibile su sé stessa, poi chiuse il sacco e lo caricò sulle spalle pronto a tornare al Tempio. Non vedeva l'ora di darsi una pulita, sentiva il sudore che si asciugava sulla pelle e la terra attaccata a piedi e caviglie. Detestava essere sporco come quei cavalieri o quei mercenari assoldati che dovevano obbedire ai nobili e al re, d'altronde lui era il vero re e mai avrebbe voluto ridursi in quel pietoso stato. Ci mise tanto per fare la strada a ritroso, Teurum si era fatto l'andata quasi completamente di corsa e ora tra la stanchezza e il peso per nulla trascurabile del cervo sulle spalle era diventato innaturalmente lento. Dopo aver camminato per un tempo indeterminato, che però a lui nei momenti di lucidità dai sogni di dominio era sembrato eterno, iniziò a riconoscere il boschetto dove solitamente cacciava. Si sentì sollevato, d'altronde aveva camminato talmente tanto che quel misero tratto gli parve esiguo.

Teurum si inoltrò nel boschetto figurandosi nella mente un bel catino d'acqua dove potersi lavare, quando iniziò a sentire un freddo ancora più pungente, innaturale forse persino per il pieno inverno. Il ragazzo inizialmente non ci fece tanto caso, ma poi il freddo divenne ancora più intenso, talmente intenso che Teurum si chiese cosa stesse accadendo. Più si avvicinava al Tempio e più sentiva freddo. Iniziò a correre per un breve tratto spinto dalla curiosità, poi la prudenza gli consigliò di rallentare. Il terreno sembrava freddo e arido, una roccia dove era solito sedere per aspettare che gli uccelli si appollaiassero presentava sottili crepe sulla superfice esterna ed era inoltre ricoperta da una sottile brina ghiacciata. Scosso da un brivido di freddo pungente Teurum guardò verso la cima degli alberi per vedere le foglie dei sempreverdi ghiacciate e i rami spogli degli altri alberi ricoperti dalla stessa patina che c'era sulla roccia. Fu allora che si decise, abbandonò il sacco a terra e in dieci minuti uscì dal bosco. Gli si parò davanti agli occhi uno scenario apocalittico, il prato autunnale era ricoperto di brina mentre da lontano vide il Tempio ricoperto di ghiaccio. Tornò tra gli alberi e si arrampicò su un albero robusto per avere una visuale migliore e casomai per stare al sicuro anche perché immaginava di cosa si trattasse; vide delle sagome congelate tra cui quella di Reinhold, Sigmut e altri, alcuni intenti a fuggire, altri tentavano di combattere. Era abbastanza evidente che avessero perso, in giro non c'era più nessuno e loro erano tutti morti, chi presentando corpi perforati da lame ghiacciate, chi completamente immerso nel gelo, morto ibernato dal freddo improvviso e divoratore. Teurum si voltò e scrutò i dintorni, non c'era anima viva ma sapeva che i demoni talvolta attaccavano tutti in un luogo alternandosi, perciò presto quelli di fuoco, terra o aria sarebbero potuti arrivare e quelli di ghiaccio potevano essere ancora nei paraggi. Teurum si decise a scendere dall'albero, fece il percorso correndo, i muscoli erano quasi addormentati dal freddo. Uscì dal lato del bosco da cui era venuto, ritrovò il suo sacco e lo riprese. I demoni di ghiaccio dovevano essere passati di lì per poi sparire come facevano sempre, lasciandosi dietro morte e distruzione, ma dovevano essere stati un numero incredibilmente elevato per uccidere tutti così e dovevano essere arrivati di soppiatto perché nessuno era riuscito a difendersi. Sì, facevano sempre così, i demoni dei quattro elementi attaccavano i confini del regno e ne distruggevano sempre una parte, ma ormai iniziavano a spingersi sempre più dentro, seppur in gruppi più piccoli. Come i demoni di terra ai confini ovest, era sempre un disastro quando arrivavano e il regno di quel passo sarebbe morto molto presto.

C'erano momenti in cui Teurum si sentiva arrabbiato e desiderava solo che i demoni distruggessero sino all'ultimo stolto abitante di quel regno, d'altronde era per colpa loro se i demoni erano comparsi, erano loro che avevano permesso l'uccisione di suo nonno Orbaal e di suo zio Ovrinome e avevano così indirettamente provocato la morte della madre che per fuggire dalla guerra era arrivata al momento del parto stanca e senza le giuste cure. Era solo perché avevano ucciso e quindi sconfitto la sua famiglia che da secoli controllava i poteri della natura se ora si erano formati i demoni. Ma poi, ripensandoci bene, sarebbe stato molto più vantaggioso per lui salvare quegli stupidi traditori, allora tutti si sarebbero inchinati com'era giusto che fosse e tutto sarebbe tornato all'ordine naturale delle cose. Teurum pensò che quello fosse un segno, un messaggio che gli diceva che era pronto per riprendersi il regno, d'altronde era l'unico superstite, se non era un segno quello! Teurum aveva riconosciuto anche un segno astrale sul suo destino, era nato infatti nel mese dei re, rextio, l'ultimo mese dell'anno, il mese in cui erano nati Ahriman, suo fratello e le sue sorelle, però Teurum era nato sei giorni dopo l'anniversario della loro nascita, precisamente Teurum era nato il trentuno del mese di rextio, mentre Ahriman il venticinque. Quello poteva stare a indicare che con lui l'era dei re volgeva al termine, ma Teurum aveva preferito interpretare la data della sua nascita diversamente, pensando che potesse essere l'ultimo dei re o meglio ancora la fine di una stirpe ma l'inizio di un'altra. Ma anche senza dare peso alla lettura di date e stelle lui sarebbe diventato il re comunque, adesso si sarebbe diretto alla corte più vicina, quella dei Tenebrerus, che distava circa un mese da lì e finalmente avrebbe iniziato la sua scalata al potere. Per Teurum trovando un cavallo-rubando un cavallo-una volta libero dal peso morto del cervo, con la giusta organizzazione ci sarebbero volute tre settimane o magari anche poco meno. Non era mai stato molto credente nel favore degli dèi, aveva molta più fede nelle sue capacità, tuttavia quel cervo lo avrebbe consacrato al primo tempio trovato perché era stato il cervo a portarlo lontano, al sicuro dalla furia dei demoni, e chissà che veramente gli dèi non volessero aiutarlo per incitarlo a perseguire il suo proposito e ripristinare l'ordine naturale del regno.

Teurum compiaciuto della sua fortuna e deciso il piano da seguitare si incamminò verso il primo villaggio sulla sua strada. Il re sarebbe tornato, avrebbe dominato gli elementi com'era sempre stato nei gloriosi secoli passati e la pace sarebbe tornata nel regno. Teurum pensò distrattamente all'idea che qualcuno potesse opporsi a lui, ma la cosa gli sembrava altamente improbabile, era irresistibile per chiunque e, se anche qualche povero sciocco avesse osato ribellarsi, lui lo avrebbe eliminato senza difficoltà. Sarebbe diventato il sovrano più grande di tutti i tempi, usando qualsiasi mezzo a sua disposizione, fosse stato questo lecito oppure illecito non faceva alcuna differenza.

Perché lui era più di un uomo, era il loro dio in terra, il giudice supremo, il dominatore (o meglio Protettore, secondo la profezia) degli elementi. Un ghigno di compiacimento gli illuminò il bel volto pallido e gli incurvò le labbra sottili, da quel giorno iniziava la storia dell'ascesa al potere di re Teurum Rerensy primo.

 

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Capitolo 5
*** La Volpe in trappola ***


Pov:Nomiva

Quella mattina autunnale era più fredda di quella precedente, sembrava quasi che la notte si fosse portata via l'ultimo calore dell'estate appena trascorsa, lasciando la Palude Nera vicino alla quale sorgeva il castello di Stablimo in un freddo invernale piuttosto che autunnale. Gli alberi sembravano più spogli del giorno prima e un branco di nuvoloni grigi come pecore sporche si spostavano velocemente nel cielo mattutino. Nomiva si stava svegliando, la balia era entrata già un paio di volte chiamando la ragazzina, ma dal momento che quest'ultima aveva sempre avuto un sonno piuttosto pesante si era svegliata solamente adesso. Nomiva scese dal letto a baldacchino stropicciandosi gli occhi e guardandosi nello specchio di fronte al giaciglio, soffermandosi distrattamente per guardarsi i capelli spettinati. Sbadigliò e con l'aiuto di una serva si preparò abbastanza in fretta rispetto al solito, ricordando quello che doveva essere accaduto durante la notte. Quando ebbe aperto la porta Nomiva notò subito che nel castello si respirava tensione e ovviamente lei sapeva il perché, sua sorella Aurilda doveva essere effettivamente fuggita come da piano e dal momento che avrebbe dovuto mettersi in viaggio verso la capitale per raggiungere il principe ereditario suo promesso sposo per approntare gli ultimi preparativi per il matrimonio che avrebbe dovuto svolgersi la primavera imminente, non era una sorpresa che tutti fossero agitati per l'accaduto.

Quando la ragazzina arrivò nel salone notò subito che la sorella minore era tesa e immobile vicino alla madre e al padre "Nomiva finalmente!" Esclamò il padre facendole cenno di avvicinarsi non appena l'ebbe vista "Sapevi qualcosa della fuga di tua sorella?" la incalzò subito Gamelius con il volto turbato, senza neppure salutarla. La ragazzina simulò un'espressione sorpresa, sentendo lo sguardo dei genitori bruciarle addosso. Si rivolse alla sorellina con gli occhi spalancati dallo stupore "Aurilda è fuggita?" Le domandò, fingendosi incredula e ignara. Nonostante l'evidente tensione che sentiva Selina resse il gioco con convinzione e annuì "E perché?" Domandò ancora Nomiva, tornando a rivolgersi ai genitori "Non voleva sposarsi!" Sbottò Gamelius spostandosi una ciocca di capelli mossi dal volto con stizza, furioso come poche volte Nomiva lo aveva visto "Tua madre dice che aveva fatto un sogno strano e voleva andare al Tempio dei Profeti. Ne sapete qualcosa voi due?" domandò, fissandole con sguardo indagatore.

Le ragazzine si scambiarono un'occhiata sorpresa, accompagnata da un vistoso battito di ciglia, come a voler sottolineare la loro completa innocenza "No! O meglio..." precisò subito Nomiva "Ci aveva detto di non volersi sposare..." "Ma lo sapevate anche voi!" Finì Selina per supportare le parole della sorella. Gamelius non sembrava del tutto convinto ma non era certo quello il momento per investigare, doveva partire per andare dal re con una scusa convincente che potesse giustificare l'assenza di Aurilda e doveva mandare qualcuno a cercare la figlia prima che il re capisse cos'era successo veramente. "Ora io partirò" disse alla moglie e alle figlie mentre queste lo seguivano fuori "Io andrò dal re e inventerò una scusa per l'assenza di Aurilda, dirò che è malata. Il re è sempre stato un uomo paziente e sono sicuro che capirà, d'altronde c'è ancora tempo per portare Aurilda alla capitale, mancano ancora diversi mesi prima del matrimonio". Una volta fuori Gamelius si voltò e indicò una porticina poco lontana "Lì c'erano due soldati morti" annunciò alle figlie "Ser Zalikoco è sparito...". L'uomo era tornato a guardare nella loro direzione, incontrò lo sguardo della moglie e scosse il capo "Maledizione a lui e a vostra sorella!" asserì con rabbia, stringendo i pugni. Detto ciò, dopo essersi guadagnato uno sguardo di dissenso dalla moglie Gamelius si voltò nuovamente e guardò l'esercito schierato e compatto, ma abbastanza esiguo "Dieci di voi verranno con me, il resto si dividerà in tre parti. Il primo plotone resterà a proteggere il castello, il secondo cercherà Aurilda e l'ultimo partirà oggi pomeriggio con mia figlia Selina per scortarla al castello dei Malkoly. Porterete ai signori questo mio messaggio." Gamelius si avvicinò e dalla tasca della giacca estrasse una lettera chiusa che consegnò a uno degli uomini. I soldati annuirono senza rimostranze, le armature scintillavano raramente a causa delle nuvole scure che coprivano il sole.

L'esercito si divise velocemente in quattro parti e i dieci soldati che sarebbero partiti seduta stante con il signore si avviarono alle mura, seguiti da quelli che sarebbero partiti per cercare Aurilda, mentre quelli che dovevano accompagnare Selina si rilassarono perché la partenza era prevista per il pomeriggio e per concludere quelli che dovevano rimanere al castello presero le solite postazioni. "Ci rivedremo presto" Gamelius si voltò con un'espressione consuetamente seria sul volto, solo vagamente preoccupato, sforzandosi poi di accennare un sorriso alle figlie, cosa alquanto sorprendente per lui e perciò Nomiva pensò che dovesse celare i suoi reali timori e la cosa bastò per provocarle agitazione. Gamelius salutò Amillia con un composto cenno con la mano e poi si avvicinò alle figlie, baciando sulla fronte prima una e poi l'altra, pizzicandole un po' con la sottile barba che gli ricopriva il mento e le gote magre. "Buon viaggio Gamelius" lo salutò la moglie agitando la mano e Nomiva lesse nello sguardo della madre sempre più preoccupazione, ora a tutti i pensieri che già aveva per la testa si aggiungeva anche il timore di un castello quasi senza protezione. "Buon viaggio padre" "A presto padre" salutarono le ragazzine, sforzandosi di apparire serene. Gamelius sul punto di montare in sella al sul cavallo nero e dal pelo lucido venne raggiunto e bloccato dalle figlie che gli corsero incontro e lo abbracciarono, l'agitazione stava facendo sussultare stranamente lo stomaco di Nomiva e neppure lei sapeva il perché, la sera precedente non era stata così tesa. "Arrivederci padre" disse Nomiva, stringendolo forte "Vi vogliamo bene" aggiunse Selina, stringendolo a sua volta e Nomiva notò che la piccola sembrava se possibile ancora più preoccupata di Amillia. Nomiva fece un sospiro separandosi dal padre e poi aggiunse senza riuscire a trattenersi oltre "Anche Aurilda ve ne vuole, nonostante sia fuggita" e Selina annuì vigorosamente, evidentemente in accordo con il pensiero appena espresso dalla sorella. Gamelius le strinse ancora a sé, le occhiaie sembravano più pronunciate e lo facevano sembrare più vecchio di quanto non fosse "Lo so piccole mie" disse quasi con voce morbida "Quando ritroveremo vostra sorella sistemeremo tutto, ve lo prometto".

Allora l'uomo allontanò le figlie dopo quell'ultima rassicurazione e dopo averle baciate sulla fronte un'ultima volta salì sul cavallo agitando la mano e, mentre la moglie e le figlie rispondevano al saluto, si mise davanti all'esercito e varcò il cancello di ferro battuto, affiancato da due soldati che reggevano lo stemma dei Tenebrerus, la ninfea su fondo ottanio. La madre e le due figlie restarono ferme nel cortile a guardare il padre e marito che si allontanava. Lo fissarono per molto, vedendolo rimpicciolire progressivamente e poi confondersi con il paesaggio, allora dopo un tempo indeterminato la madre si decise a parlare "Selina, dobbiamo andare" disse con la voce rotta ma tentando ugualmente di non perdere di vista i suoi doveri "Devi lavarti e bisogna fare i bagagli, presto partirai". Amillia sembrava molto diversa dal solito, nella sua voce si scorgeva chiaramente il dolore, tuttavia erano ben percepibili anche rabbia e rassegnazione, che la facevano risuonare stranamente risoluta. La figlia minore annuì ed entrò dopo aver guardato di sottecchi la sorella, con lo sguardo vago e spaventato. "Tu bada bene di non darmi altre preoccupazioni" la ammonì la madre senza prestarle stranamente attenzione, probabilmente era l'ultima delle sue preoccupazioni in quel momento ed era comprensibile. Nomiva annuì "Faccio una passeggiata qui intorno". La madre annuì distrattamente "Non ti allontanare troppo e fai attenzione" e dopo quelle parole rientrò per andare da Selina.

Nomiva sospirò e iniziò a girovagare, tutti lì intorno erano intenti a lavorare, lei quel giorno sembrava essere veramente invisibili e la cosa se di solita le avrebbe dato un po' fastidio quel giorno la lascio addirittura grata. Attraversò lo spiazzale del castello e poi varcò senza difficoltà il cancello con le guardie, per uscire nelle campagne che separavano il castello dalla città e i villaggi adiacenti. Nomiva schizzò fuori e quando fu certa di non essere vista improvvisamente prese a correre più veloce del vento, corse tra i canali ai lati dei campi che circondavano il castello e la vicina Palude Nera, saltando da una sponda all'altra come aveva fatto diverse volte con le sue sorelle durante l'infanzia, Aurilda stava davanti a lei e Selina dietro, come formiche in fila per l'ingresso del formicaio.

Dopo minuti di corsa a perdifiato per sfogare la tensione accumulata Nomiva decise di fermarsi dietro qualche albero sempreverde e un paio di cespugli di mirtilli blu e rossi, intenzionata a riprendere fiato prima di raggiungere Filipphus che stava arando lì vicino. Silenziosa come un gatto si nascose dietro a un cespuglio quando un sottile rumore di rami spezzati la fece voltare. Si trovò davanti una bellissima creatura, era una volpe a nove code, aveva il pelo di un azzurro talmente intenso da sembrare che brillasse nell'ombra, le zampe artigliate erano nere come le notti d'inverno, il muso bianco, gli occhi rossi come due rubini incastonati e le caratteristiche nove code dal bordo rossiccio. La creatura la fissò, sorpresa, poi ringhiò incerta e guardinga. Nomiva rimase immobile a guardarla, le volpi a nove code erano creature molto ambigue, alcune erano buone e altre cattive, dipendeva dal soggetto e da chi si trovassero davanti, o almeno questo si diceva su di loro nelle credenze popolari, ma ormai erano piuttosto rare perché se mangiate pareva creassero una sorta di protezione su chi si fosse nutrito di quella carne e così i cacciatori le tormentavano senza tregua.

"Non voglio farti del male" sussurrò Nomiva alla volpe, come se questa potesse capire le sue parole. Nomiva aveva sempre amato gli animali, in special modo i cani e i cavalli, ma nessuno era così bello e particolare come quella volpe. Una volta da bambina aveva trovato un pipistrellino tra i campi e se lo era portato al castello, la balia aveva subito gridato e i genitori le avevano proibito di tenerlo, poi avevano cambiato idea e le avevano detto che avrebbe potuto tenerlo nella sua stanza solo finché l'animale non avesse imparato a volare. Nomiva era stata contenta, con i bambini che conosceva si era vantata nello spiazzale del castello durante i pochi giorni in cui l'animaletto era rimasto vivo. Il quinto giorno infatti il piccolo pipistrello era morto e la bambina ci era rimasta molto male, aveva avvolto il pipistrello in un fazzoletto e poi lo aveva seppellito nel campo vicino, in compagnia delle sue sorelle e di Filipphus. Amava tutti gli animali allo stesso modo ma non si era mai trovata di fronte a uno di quelli magici come la volpe a nove code. La creatura era più grossa di una volpe normale e continuava a mostrare i denti, ma Nomiva non aveva paura, non aveva mai paura degli animali lei, in realtà erano pochi i momenti in cui aveva veramente paura.

Nomiva era sempre stata una bambina coraggiosa, non aveva mai avuto paura del buio e non era mai rimasta sveglia dopo aver sentito una storia spaventosa, le sorelle e tanti altri bambini la invidiavano per questo, per questa apparente o reale mancanza di paura. Un'altra caratteristica che la faceva spiccare era la furbizia, Nomiva era sempre dietro qualche angolo con le orecchie pronte e attente come falchi durante la caccia, quando i suoi genitori se n'erano resi conto avevano fatto molta più attenzione durante le conversazioni, inoltre Nomiva era una bugiarda sufficientemente esperta, ma era stata la furbizia a valerle il soprannome di Volpe della Palude Nera. Non era per nulla strano perciò che si sentisse così attratta da una volpe, inoltre una volpe magica e adesso divenuta così rara. Nomiva fece un passo in avanti e la creatura ringhiò di più, mentre i begli occhi rossi brillavano intensamente, minacciosamente. La ragazzina sorrise e allungò un po' la mano in modo incauto per accarezzarla, per nulla intimorita dall'ostilità che l'altra le stava mostrando, ma allo stesso tempo senza riporre speranze fondate di riuscire nel suo intento. Con suo grande stupore però la volpe non si allontanò né le balzò addosso per attaccarla, contrariamente la creatura richiuse la bocca e rimase a guardarla immobile, come stregata dall'insolita reazione di Nomiva dinnanzi al suo ringhiare. Dopo qualche secondo passato a studiarla la volpe si mise a sedere e sporse una zampa in avanti, come se volesse avvicinarsi. Nomiva spalancò gli occhi per l'eccitazione, con la mano tesa verso il corpo caldo della bestia, quasi con il fiato sospeso e gli occhi colmi di speranza.

"Nomi!" Una voce improvvisa fece scattare la volpe, tanto che alla ragazzina parve di vedere i muscoli dell'animale tendersi e il respiro farsi affannoso. La guardò fuggire via veloce come un'ombra e sparire tra i cespugli del bosco lì dietro com'era apparsa, come se non fosse mai stata lì "Filipphus!" Nomiva si voltò con la voce carica di risentimento e i lineamenti induriti dalla delusione e dalla rabbia. Il ragazzo che si trovò davanti era magro e non molto più alto di lei, aveva i capelli dello stesso colore del grano che seminava e raccoglieva, delle leggere lentiggini e la pelle abbronzata dal sole sotto cui lavorava costantemente. Filipphus la guardò perplesso, con gli occhi marroni persi e vagamente mortificati "Cosa ho fatto?" Nomiva sbuffò e si mise a braccia conserte "C'era una volpe a nove code" rispose quasi arrabbiata. Il ragazzo aprì la bocca per la sorpresa "Veramente!?" domandò stupito "Già" rispose l'altra malamente "Ma ora è fuggita. Era meravigliosa" nella voce di Nomiva c'era del risentimento, pur sapendo che il ragazzo era stato solo inconsapevolmente responsabile della fuga della rara bestiola. "Poteva attaccarti..." rispose lui subito, allarmato, ma Nomiva sbuffò, sapeva benissimo che Filipphus come la maggior parte delle persone non riusciva a comprendere la bontà degli animali, contrariamente lei ci riusciva persino con gli animali considerati più selvatici e all'apparenza aggressivi "Lasciamo stare" tagliò corto Nomiva per non indisporsi ulteriormente ed essere scortese più di quanto già non fosse stata. La ragazza si voltò e fissò il punto in cui era sparito l'animale, come se si aspettasse di vederlo riapparire da un momento all'altro "Ho sentito di tua sorella" la distrasse Filipphus "Sì" rispose atona Nomiva, era ancora troppo presa dalla volpe per cambiare argomento. "Tu lo sapevi che sarebbe scappata, non è vero?" Insistette però Filipphus. Nomiva lo guardò nuovamente, tentando di distogliere i pensieri dalla volpe che stava per accarezzare "Non è scappata, doveva andare per un motivo". Il ragazzino la guardò perplesso, per nulla convinto "Cosa c'è di più importante che andare a sposare il re?" Nomiva roteò gli occhi "Sai come la pensa mia sorella" disse con ovvietà "Ma lui sarà il nostro re, gli dèi lo hanno scelto, gli dobbiamo obbedienza e rispetto". Nomiva dovette trattenersi dal ridergli in faccia "Sai, in momenti come questo penso che Aurilda abbia ragione a sostenere che, dèi o non dèi, noi dobbiamo pensare con le nostre teste e portare rispetto solo a chi lo merita, non a chi detiene un qualche titolo". Filipphus corrugò le sopracciglia "È una sciocchezze" disse piano "Il re è il re e se gli dèi lo decretano" "Per cortesia, basta! Aurilda aveva un buon motivo per andarsene!" Lo rimproverò la ragazza, perdendo del tutto la pazienza "Non ti fidi di me!?" Disse l'altro vagamente offeso "Certo che mi fido, ma si tratta di una questione delicata. Una profezia pare...".

Filipphus trattenne il fiato per la sorpresa "Una profezia!?" "Sì. O almeno così ci è parso che potesse essere" confermò Nomiva in tutta sincerità "Mia sorella è partita per recarsi al Tempio dei Profeti per cercare le risposte ai suoi dubbi". Filipphus annuì con gli occhi spalancati "E il vostro cavaliere?" Domandò d'un tratto. "Ser Zalikoco?" Disse Nomiva, ricordando distintamente lo sguardo di fuoco del padre poco prima "Pare che sia andato con lei, abbiamo trovato due guardie morte e lui non c'era. Mia madre pare che gli avesse affidato la guardia della camera di Aurilda e i loro cavalli non c'erano alle scuderie...". Il ragazzino la fissò un po' contrariato "Cosa c'è!?" Domandò la ragazzina vedendo chiaramente il vago dissenso sul volto dell'altro "Non sarà forse che sono fuggiti insieme, prendendovi tutti in giro...?" Nomiva lo guardò freddamente, come se l'avesse insultata o avesse ingiuriato contro di lei con chissà quali orrende parole "Non dire sciocchezze!" lo rimproverò aspramente "Mia sorella non è innamorata di Ser Zalikoco, lo considera uno di famiglia. Si vogliono bene, si stimano vicendevolmente, ma nulla in più di questo".

Filipphus abbassò lo sguardo, aveva l'aria afflitta, come se pensasse di star sbagliando ogni parola quel giorno "Scusami, non avevo intenzione di offendere l'onore di tua sorella..." si scusò a disagio. "Non l'hai offeso" precisò Nomiva, in tono più morbido, rendendosi conto dei continui attacchi che stava rivolgendo al povero ragazzo già stanco, la pressione che Nomiva aveva subito al castello la stava rendendo insopportabilmente scortese. "Ma devi capire che non pensano tutti a fuggire per inseguire l'amore..." finì, accennando un sorrisino. L'altro a sentire quelle parole alzò il capo e la guardò negli occhi con il volto velato di tristezza e preoccupazione malcelate "Se cambi idea lo capisco, puoi dirmelo, lo sai. Anzi, credo che dovresti..." Nomiva però si avvicinò e gli strinse le mani sporche di terra "Non cambierei mai idea, lo sai" lo rassicurò lei, aumentando la stretta sulle mani dell'altro "Ma non vivrai mai come vivi ora!" Insistette Filipphus, quasi tentando di mettersi in difficoltà da solo, come se desiderasse punirsi per aver fatto fuggire la volpe. Nomiva alzò gli occhi al cielo senza riuscire a trattenere un sorriso "Lo sai che non sono fatta per vivere in questa maniera" ammise come doveva aver già fatto tante volte con lui " Amo la mia famiglia e tanti dei vantaggi che possiedo, ma non sono una signorina né lo sarò mai veramente. Non ho l'entusiasmo e la delicatezza di Selina, né tantomeno il portamento e le maniere di Aurilda, per non parlare del fatto che non posso mai fare quello che voglio, sono costantemente in trappola. Io non sposerò un uomo che non amo, ma te, di cui sono innamorata. Voglio la libertà, non vivere incatenata da regole e impedimenti, perché quello per me non sarebbe vivere, ma morire in una lenta, soffocante agonia. Ho sempre voluto arrampicarmi sugli alberi tutti i giorni, giocare con i cani in giardino senza timore di essere scoperta, ho desiderato nuotare nella palude e nei fiumi e poi rotolarmi nella terra fino a essere così sporca da far invidia ai maiali". Il ragazzo la guardò senza sapere cosa dire, con le gote dolcemente arrossate "Non voglio andare via per te" continuò Nomiva "Scusa per la franchezza. Tu mi piaci, sia ben chiaro, ma ho bisogno di andarmene per altri motivi. Io, come mia sorella Aurilda, ho bisogno di mettere alla prova le mie abilità e in un castello, nella mia posizione sociale, questo non è veramente possibile". Si fermò un attimo e guardò l'altro negli occhi "Ma già so che con te sarà tutto più bello" concluse dolcemente.

Filipphus le rivolse un timido, triste sorriso "Questo mi fa sentire meno colpevole" ammise lui "Tu non sei colpevole di nulla" rispose Nomiva sincera, sorridendo con decisione "Potremmo andare a vivere vicino a qualche mulino, faremmo pane e avremmo un orticello e magari un cane". Il ragazzo sorrise " Tu vorresti avere veramente un cane dopo essere stata morsa al braccio quindi!?" Domandò il ragazzo pur conoscendo la risposta di Nomiva, ricordando quello che era accaduto diversi anni prima quando erano andati insieme a esplorare una vecchia casa fatiscente. Nomiva annuì con convinzione "Comunque sarebbe meraviglioso... ma la tua famiglia?" Domandò ancora Filipphus, sentendosi a disagio nel fare la domanda. La ragazza tornò a essere seria "Li amo molto" disse subito "Ma questa è la strada che ho scelto di seguire. Selina vuole essere una signora, Aurilda non so cosa voglia realmente, ma io voglio la libertà e se mi amano veramente mi lasceranno andare, perché l'amore dovrebbe essere più forte della distanza o delle differenze sociali. Quando sarà passato del tempo tornerò a trovarli e spero capiranno la mia scelta". Filipphus annuì piano, ancora incerto "Sei veramente unica, Nomi" sussurrò dolcemente. L'altra sorrise "Ora basta parlare di queste faccende incerte, mettiamo da parte questi discorsi sul futuro così confuso, parliamo di altro".

Il giovane annuì, visibilmente allietato, e i due iniziarono a passeggiare vicini, nascosti dagli altri contadini, provando a pensare a cose più piacevoli e futili, tuttavia i pensieri, le preoccupazioni, erano tante e non cadere in trappola risultava quasi impossibile. "Come sta tuo nonno?" Domandò Nomiva all'altro "Non benissimo, anzi, temo che potrebbe morire a breve" rispose il ragazzo rassegnato. Filipphus viveva con suo nonno da quasi tutta la vita, il padre era morto prima della sua nascita, la madre appena dopo il parto e nella loro umile, piccola casa c'erano rimasti solo il nonno e la zia. La zia di Filipphus però si era ammalata ed era morta non molto tempo dopo, quando il bambino aveva tre anni, così era rimasto solo suo nonno Ted a prendersi cura di lui. Nomiva gli diede un colpetto sulla spalla, con intento consolatorio, immaginando cosa dovesse passare il ragazzo "Mi dispiace, è tutta la tua famiglia". Il ragazzo fece un sorriso triste "Già. Purtroppo però ha un'età avanzata e sono mesi che sta male. Se dovesse morire sarei preparato" disse il ragazzo facendosi ancora più triste "Quando è lucido mi dice che è dispiaciuto per quello che mi sta facendo e ...". Filipphus si fermò con le mani pallide e sporche sul volto stanco senza riuscire a continuare, ma iniziò a piangere lentamente e silenziosamente, senza riuscire a trattenersi oltre. Nomiva lo abbracciò e lui pianse più forte "Sarò io la tua famiglia" lo rassicurò lei stringendolo "Se non ci fossi tu sarei solo" ammise disperato il ragazzo, asciugandosi il volto bagnato sulle maniche dell'abito lacero.

"Mi dispiace così tanto" disse in tono sconsolato la ragazzina, con la voce rotta "Quando andremo via lavoreremo e staremo bene insieme, te lo prometto" disse Nomiva con enfasi, con l'intento di consolare entrambi "Non vivremo senza problemi, ma li affronteremo insieme, tu con gentilezza e impegno, io con coraggio e furbizia. Non ci faremo mai mancare il sostegno l'uno dell'altra". Filipphus la strinse nuovamente, più forte di prima "Grazie" le sussurrò, allungò una mano con l'intento di accarezzarla, ma poi ci ripensò a causa della terra che aveva sulle mani "Devo tornare a lavorare" ricordò "Spero che potrai venire presto a trovarmi ancora". Nomiva assunse un'espressione titubante "Cosa c'è?" Domandò il ragazzino "Oggi pomeriggio Selina partirà per il castello dei Malkoly, non so se lo sai, quindi si concentreranno sulla mia istruzione con più assiduità, ma dopo qualche giorno dalla partenza di mia sorella troverò il modo per venire da te, è una promessa". I due si guardarono preoccupati, sembrava impossibile in quel momento trovare un attimo di serenità e felicità.

"Ci vediamo" salutò Nomiva, senza trattenersi oltre per paura che la madre mandasse qualcuno per cercarla "Ciao Nomiva" rispose l'altro tornando nei campi. Nomiva aveva voglia di correre ancora per la strada che portava al castello ma sapeva che avrebbe potuto attirare l'attenzione poiché doveva essere passato del tempo da quando era andata via, probabilmente più di quanto non fosse saggio stare lontano da casa, per di più nella situazione nuova in cui si erano andati a trovare. La ragazzina così si limitò a camminare cautamente vicino agli arbusti e ai sottili alberi, nei lembi di terreno tra i vari appezzamenti, facendo ben attenzione a non correre e a non accelerare il passo. Era veramente stanca, lei non era fatta per quella vita di regole e programmi, voleva essere libera, sentire il vento tra i capelli, poter correre nel fiume e sentire la stoffa del vestito lacerarsi senza preoccuparsi delle conseguenze. Tuttavia era in gabbia, lo era sempre stata e ora voleva liberarsi, si sentiva come un'aquila in gabbia che guardava il cielo senza poter volare, forse era stato per questo che aveva appoggiato l'idea di sua sorella Aurilda di fuggire per andare al Tempio dei Profeti, perché capiva cosa dovesse provare la sorella maggiore. Lei e Aurilda non erano poi così diverse forse, due ribelli seppur in modo diverso, ma pur sempre ribelli, Selina al contrario voleva tutto quello.

Intravedendo l'ingresso del castello Nomiva fece uno scatto, le guardie la fecero passare annoiate, si domandavano cosa avesse fatto di tanto interessante là fuori per essere così piena di energie, ma ovviamente non glielo domandarono, un po' per sconvenienza, un po' perché in fondo non gli importava veramente. Nomiva entrò sistemandosi il vestito e nel salone trovò subito la madre che parlava a più servi contemporaneamente, impartendo ordini su quello che la signorina Selina dovesse portarsi dietro e dovesse o non dovesse fare, come se quelli avessero improvvisamente dimenticato i compiti che avevano sempre svolto. Non appena Amillia si fu voltata notò la figlia mezzana che la fissava "Nomiva, vieni!" La chiamò subito la madre. Nomiva si avvicinò "Sì?" domandò con poca enfasi "Vai da tua sorella e aiutala a prepararsi per la partenza" ordinò la donna con gli occhi agitati. La figlia annuì e salì senza dire nulla, raggiungendo la stanza della sorellina che era in una grossa tinozza, intenta a farsi insaponare da serve e dalla balia Adelynda.

Selina subito sorrise alla vista della sorella, senza tuttavia riuscire a celare la tristezza "Nomi" sussurrò e l'altra subito si avvicinò, ricambiando il sorriso debole della sorella. Selina senza cessare di sorrise iniziò a piangere, non riuscendo a trattenere le lacrime "Piccola!" La abbracciò Nomiva, bagnandosi le maniche e il corpetto del vestito pur di stringere e rassicurare la sorella "Possiamo ancora tentare di dissuadere nostra madre, sai che non vuole che tu vada!" Tentò Nomiva, immaginando come dovesse sentirsi Selina, strappata dalla sua casa e dalla sua famiglia. Ma Selina scosse la testa e si asciugò le lacrime con risolutezza "No, vado. Semplicemente sentirò la vostra mancanza, nulla sarà più come prima da adesso. Ma ci rivedremo presto, al matrimonio di Aurilda" finì con un sorriso di circostanza per via delle serve e della balia che sembravano ascoltare le loro parole con avidità, ma Nomiva ebbe l'impressione che Selina lo avesse fatto più per consolare sé stessa che non per rabbonire le malelingue sul loro coinvolgimento nella fuga di Aurilda. Nomiva annuì flebilmente con lo stesso sorriso di poco prima e si avvicinò al letto della sorella per ammirare i campi dalla finestra. Desiderava ardentemente essere lì libera invece di trovarsi in quella gabbia di pietra che era il castello, senza avere più problemi con la famiglia. Sospirò e tornò a guardare Selina che ormai si era imposta di sorridere, sicuramente si era vergognata di aver pianto davanti a chi non apparteneva al suo nucleo familiare, cosa che la sorella minore detestava da sempre e quelle poche volte che era accaduto poi se ne era pentita, provando un disagio opprimente. Nomiva ricambiò il sorriso e si impose anche lei di concentrarsi quel giorno solo sulla partenza di Selina e successivamente sul suo programma che sarebbe inevitabilmente cambiato, senza lasciarsi travolgere dai problemi che temeva avrebbero tentato di sommergerla presto come una valanga di neve sciolta dai primi caldi primaverili.

 

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Capitolo 6
*** La ninfea e l'anemone ***


Pov:Selina

La mattina si annunciò dolcemente facendo penetrare un raggio di sole tiepido tra le tende della camera dell'ospite dei Malkoly, Selina aprì flebilmente i begli occhi verdi e poi si girò dall'altra parte, si sentiva veramente stanca nonostante avesse dormito profondamente per tutta la notte. Il viaggio da casa sua al castello dei Malkoly era durato due settimane e lei non essendo abituata a viaggiare tanto si era stancata più di quanto non avesse immaginato, essendo per giunta munita di un corpo esile e delicato. La sera precedente Selina era arrivata al vespro, il castello alle sue spalle risplendeva della luce rossastra del sole e le pietre quasi candide risaltavano come diamanti tanto che a Selina sembrò un castello magico. Davanti alle porte di castel Fastio la attendevano i padroni di casa fieri e impettiti, con le teste alte e gli abiti impeccabili. Il signore Alarus Malkoly era un uomo abbastanza alto dal fisico asciutto e il viso allungato, aveva occhi grigi duri e freddi come pietre e indossava una parrucca sobria per imitare il re, che gli copriva i capelli biondi. L'uomo stava al centro con la schiena dritta ed era affiancato alla destra dal promesso sposo di Selina, l'unico figlio Luddan, un ragazzino poco più grande di lei che somigliava molto al padre tranne per la parrucca che ancora non indossava e perciò si potevano vedere i capelli biondi e lucenti, mentre alla sinistra c'era la moglie di Alarus, Jesebell Anhon. La donna era rigida e impettita probabilmente più di quanto non fosse stata mai alcuna regina, aveva la pelle pallida, le labbra chiare leggermente truccate, i capelli biondi intrecciati in un'elaborata acconciatura e portava con grazia un vestito dal busto particolarmente stretto e una gonna ampia di un tenue verde. La vista della donna subito mise Selina in soggezione, non tanto a causa del portamento decoroso o l'abito sfarzoso, quanto per lo sguardo gelido che la futura suocera le aveva rivolto con gli occhi azzurri e freddi.

Selina si era avvicinata ostentando quanta più grazia potesse, scortata dalle guardie del padre e poi si era fermata a qualche metro dal trio in segno di saluto, tenendo il viso alto a sua volta "Signorina Tenebrerus" la accolse con un saluto formale Alarus "Signor Malkoly" rispose subito la ragazzina, accennando un grazioso inchino "È stata un'immensa gioia per noi tutti sapervi in viaggio verso il nostro castello" aveva continuato poi l'uomo "L'onore di essere accolta in casa vostra è mio" aveva replicato Selina a voce bassa e cortese. Per qualche secondo aveva incontrato lo sguardo di Luddan e aveva temuto di essere arrossita; a Selina era sempre piaciuto Luddan e a lui sembrava piacesse lei. Rivedendolo dopo mesi le era parso ancor più bello di quanto non ricordasse, nonostante le sue sorelle continuassero a prenderla in giro e a ripetete che Luddan era talmente pallido da ricordare un fantasma. Effettivamente Luddan era dotato di un fisico particolarmente esile, che però sembrava tenesse allenato grazie agli esercizi con la spada. Era un ragazzino abbastanza tranquillo almeno al cospetto di altri, ma sapeva dimostrarsi veramente arrogante e altezzoso davanti ai popolani, cosa che di certo non migliorava la sua reputazione dinnanzi a Nomiva che non si limitava dal dispensargli aspre critiche.

Poi l'aveva scrutata nuovamente la signora e Selina si era sentita nuovamente in soggezione "Selina cara" l'aveva accolta con un sorriso falso e tirato, continuando a scrutarla con quello sguardo che tanto intimidiva Selina. Mai era stata una bambina timida, ma al cospetto di quella donna Selina sentiva da sempre un vago timore "Mia signora" aveva prontamente risposto Selina, tentando di sorridere in modo spontaneo "Speriamo di renderti al più presto una perfetta signora e darti degli insegnamenti come si conviene dal momento che non li hai ancora ricevuti, o almeno non insegnamenti degni per il ruolo che andrai a ricoprire". Subito il marito l'aveva guardata con disappunto "Jesebell!" "Coso ho detto, mio caro?" Aveva risposto la donna guardando il marito con un glaciale sguardo di sfida "Scusate Selina" aveva detto poi il signore "Non intendeva offendere i metodi educativi della vostra famiglia" "Non vi preoccupate, non è stata arrecata alcuna offesa, né alla mia persona, né tantomeno ai miei genitori o alla mia istruzione come futura signora" aveva subito assicurato Selina, sentendo il peso dello sguardo della donna bruciare su di sé. "Intendevo solamente evidenziare un dato di fatto, l'istruzione imposta dai tuoi signori genitori purtroppo non è adeguata... insomma, tua sorella promessa sposa al nostro principe ereditario è effettivamente fuggita" aveva continuato la donna, con un sorriso pungente sulle labbra sottili. "Andiamo, sarà il caso di far sistemare la signorina, sarà stanca a causa del lungo viaggio che ha dovuto intraprendere" aveva replicato freddamente Alarus, ignorando quell'ennesimo sgarbo che la sua sposa aveva arrecato alla famiglia Tenebrerus. Poi mentre entravano Selina aveva scorto lo sguardo di uno dei soldati bruciarle addosso. Lo aveva ignorato non per scortesia quanto per agitazione e poi se ne era scordata del tutto.

La cena era stata decisamente più gradevole, soprattutto perché Selina e Luddan avevano avuto il permesso di trascorrere qualche minuto in solitudine a conversare davanti al caminetto della sala e quella mattina lui l'avrebbe accompagnata a passeggiare per i sentieri adiacenti al castello. Il pensiero della passeggiata ridestò completamente Selina che si stiracchiò e scese dal letto. La camera che le avevano riservato era grande e bella, addirittura più di quella che aveva al suo castello. Selina si era appena alzata e stava per lavarsi il viso quando una ragazzina entrò senza bussare nella sua stanza. Era molto simile a lei fisicamente, notò, aveva gli occhi verde-marroni, le labbra sottili e i capelli di un biondo cenere, doveva avere su per giù anche la stessa età perché era poco più bassa di lei. Selina fissò la nuova arrivata con la strana impressione di guardarsi in uno specchio distorto, finché l'altra non parlò "Scusa" disse poi, facendo una smorfia preoccupata "Cioè, scusate" replicò imbarazzata "Dovevo bussare, signorina". Selina sorrise benevolmente all'altra "Non ha importanza" le disse con un sorriso di incoraggiamento "Tu chi sei?" Domandò poi Selina, curiosa.

La ragazzina sorrise "Io sono Belia" si presentò con un sorriso dolce e allegro "Ma di solito mi chiamano Lia. Sarò la tua... cioè, la vostra aiutante credo". Selina guardò il volto perplesso della ragazzina e le venne da ridere, sembrava piuttosto gradevole, ma anche piuttosto inesperta "È la prima volta che vieni al castello?" Domandò Selina amichevolmente "No" rispose l'altra "Di solito venivo con mia madre a portare le uova e altri prodotti ai signori, poi mio padre è andato ad aiutare mio zio e ...". La ragazzina si fermò col volto triste e l'aria spaventata "Non è più tornato" disse con gli occhi bassi "Cosa gli è accaduto?" Domandò Selina, rendendosi conto della domanda inopportuna solo dopo averla posta "I demoni di fuoco" sussurrò Belia guardandosi intorno, quasi temesse che quelli potessero sentirla e arrivare da un momento all'altro. "Mi dispiace" disse Selina, non trovando parole migliori per esprimere il rammarico che sentiva "Purtroppo la vita è colma di disgrazie" disse l'altra con aria rassegnata "Io e mia madre non eravamo in grado da sole di arare i nostri piccoli campi e così quando i signori hanno domandato di una bambina che facesse compagnia alla nuova signorina io mi sono proposta e grazie all'aiuto degli dèi mi hanno assunta!"

Selina sorrise vedendo l'espressione gioiosa di Lia "Scusate signorina, ho già parlato troppo!" Disse Belia fermandosi improvvisamente "Non fa niente" la rassicurò sincera Selina "Mi piacerebbe che diventassimo amiche". Le labbra di Lia si stirarono in un sorriso "Magari signorina, ne sarei onorata!" Esclamò "Ma la signora si arrabbierebbe molto, non permetterebbe mai una cosa del genere" continuò Lia, con espressione lieta ma rassegnata "Ma se glielo celassimo?" sussurrò furbescamente Selina e Belia le rivolse un ampio sorriso. La porta si spalancò di colpo ed entrò la balia del castello, Romya, una donna bassa e massiccia con i capelli ricci e scuri legati appena per scansarli dagli occhi e con un'espressione feroce che a Selina ricordò quella di un cane che ringhia. "Stai importunando la signorina Belia, non è vero?!" Disse la donna con la voce roca, avvicinandosi senza grazia, con rapidità e praticità. Spostò Belia di lato afferrandola per un braccio e si assicurò che Selina si lavasse per poi aiutarla a vestirsi e a legare bene il corsetto azzurro con i ricami d'oro che le avevano regalato come dono di benvenuto i Malkoly "Siete magnifica signorina" aveva poi detto la donna, accennando un mezzo sorriso che lasciò scoperti i denti storti e gialli "I signori già vi attendono per la colazione". Selina fece con la testa un cenno in segno di saluto e poi uscì, sentendo Romya urlare rimproveri alla povera Belia.

Quando Selina fu arrivata nel salone da pranzo i Malkoly erano già seduti e attendevano che arrivasse lei per iniziare a mangiare "Ben alzata signorina Selina" la accolse con un cenno il padrone di casa a capo tavola. Selina si avvicinò e dopo un inchino fu costretta a mettersi a sedere vicino alla signora. Una parte di lei si sentì in soggezione per quell'infausta compagna ma d'altra parte si sentì lieta, in questo modo non era costretta ad averla davanti durante la colazione. "Cosa ne pensate della ragazzina che abbiamo scelto per la vostra compagnai?" Aveva domandato a un tratto il signore, senza mostrare un reale interesse "La trovo perfetta" rispose prontamente e col sorriso Selina "A me sembra una zotica sfaccendata" replicò subito Jesebell " È pur sempre una campagnola, ma sciaguratamente non siamo stati in grado di trovarvi una compagna più adeguata" replicò il marito "L'importante è che non vi importuni e vi faccia compagnia, al resto penseremo noi". La colazione trascorse in modo abbastanza tranquillo nonostante Jesebell trovasse un modo per contestare tutto, cosa che a Selina fece venire nostalgia di casa perché le ricordava tanto sua sorella Aurilda a cui raramente andava bene qualcosa.

Finita la colazione Selina e Luddan come promesso si erano incamminati appena fuori dalle mura del castello, era incredibile quanti soldati avessero i Malkoly, Selina era certa di non averne mai visti tanti e arrivò a pensare che i soldati per numero equivalessero agli abitanti del castello e della città vicina al castello dei Tenebrerus. Il signor Malkoly d'altronde era il signore della guerra della loro provincia e quindi era normale che avesse tanti soldati, dove abitava Selina invece c'erano tanti campi coltivati perché suo padre era signore dell'agricoltura ed era suo preciso compito occuparsi delle colture. Lei e Luddan si incamminarono lungo vie decisamente più signorili e meno fangose di quelle alla quale era abituata lei, gli esigui campi che circondavano il castello dei Malkoly erano affiancati dastradine  incredibilmente ordinate e pulite, quasi in maniera innaturale. "Mi ha reso molto lieto la notizia del tuo arrivo" disse Luddan, vagamente imbarazzato per averle fatto quella confessione "Anche io sono felice di poterti rivedere" ammise lei, arrossendo. "Sai, nella lettera di tuo padre si accennava al nostro matrimonio". Selina fece un piccolo sorriso timido e impacciato "Sentirne parlare mi ha reso più lieto di quanto avrei potuto immaginare" continuò Luddan, fermandosi per guardarla negli occhi "Insomma" disse ancora, con gli occhi un po' bassi "Io credo di provare per te qualcosa di sincero e bello da quando ti vidi anni fa". Dopo quelle parole Luddan era lievemente arrossito e Selina aveva fatto un ampio sorriso, con gli occhi che brillavano per la contentezza "Per me è lo stesso, Luddan" rispose lei, sfiorando la mano di lui "Provo un inteso calore nel cuore quando penso a te, quando ti guardo negli occhi. Sento quasi mancarmi il fiato".

Luddan si avvicinò di qualche passo e Selina fece lo stesso, erano vicini a un albero dalla chioma folta che gli faceva da scudo contro occhi indiscreti. I due si sfiorarono i volti con le mani pallide e poi si scambiarono un lieve bacio. Selina chiuse gli occhi e sentì scariche elettriche attraversarle la schiena, mentre le labbra morbide di Luddan sfioravano le sue. Riaprì gli occhi e si perse in quelli grigi del suo promesso sposo "Non volevo essere troppo avventato, perdonami se ti ho arrecato offesa" "Non preoccuparti, non mi hai offesa in alcun modo" rispose subito Selina, sempre con il medesimo sorriso giocondo che le illuminava il volto, così i due si scambiarono un altro lieve bacio e poi ripresero a passeggiare vicini e lieti. "Hai timore della mia signora madre?" Domandò improvvisamente Luddan. Selina incassò le spalle senza volerlo "Non direi proprio timore, ma devo dichiararti effettivamente che mi sento in soggezione al suo cospetto" rivelò Selina "Mi fa sentire come se fossi fuori posto". Luddan annuì, con fare comprensivo "Lo fa con tutti, tranne che con me. Anche con mio padre si comporta in modo sconveniente e scortese talvolta, ma tenta di controllarsi. Penso che detesti le persone".

Selina sorrise vedendo la sincerità di lui "Mi dispiace per quello che ha detto ieri sul tuo castello e per quello che ha detto riguardo alla tua famiglia" continuò lui a capo chino. "Non temere, anche i miei signori genitori dicono sempre che Nomiva non dimostra le maniere adeguate per il suo ruolo sociale" ammise Selina "Mia sorella è abbastanza disastrosa con le buone maniere, è per questo che ancora non è stata chiesta in sposa da nessuno dei signori per qualcuno dei loro figli". Il vento soffiò forte in direzione dei due che rabbrividirono per il freddo "Ma penso che odi di più Aurilda" concluse Selina senza riuscire a trattenersi.

Luddan annuì "Trova assurdo che lei sia fuggita a quel modo quando doveva partire per ultimare il matrimonio con il nostro futuro re" spiegò Luddan con ovvietà. "Ma io ho sempre avuto l'impressione che mia sorella non le piacesse da sempre, ma forse era solo una mia impressione o ero troppo piccola per ricordare e interpretare i suoi sguardi". Luddan corrugò le sopracciglia e Selina temette di aver esagerato con le parole, poi lui parlò "Non lo so, può essere che..." poi però smise di parlare "Se non ti dispiace preferirei cambiare argomento" sentenziò, e Selina ebbe l'impressione che temesse di parlare male della madre. I due continuarono a passeggiare per quasi mezz'ora, spostando la conversazione su argomenti più leggeri, parlando degli abiti e dei modelli in voga del momento, dei balli e ricordarono i tempi passati in cui si erano visti, inoltre vagarono su quello che avrebbero o non avrebbero voluto per il loro matrimonio. Insomma, al ritorno dalla passeggiata con Luddan Selina si sentiva così felice e leggera da aver dimenticato perché fosse stata così nervosa e timorosa il giorno precedente per la presenza della signora. Quando ormai i due innamorati erano giunti vicino al castello Selina pensò alla ragazzina che le avrebbe fatto compagni, Belia, e allora decise che decisamente poteva sopportare la signora con la preziosa compagnia di Luddan e Belia. Poi mentre entravano a Selina parve di notare lo stesso soldato del giorno precedente guardarla di nascosto, ma quando si fu voltata per accertarsene non c'era nessuno. Perplesse decise nuovamente di ignorare quella che probabilmente era solo una banale impressione per dedicarsi a fatti reali e decisamente più importanti.

Quando lei e Luddan tornarono al castello era già ora di pranzo così vennero sollecitati entrambi a cambiarsi, soprattutto a causa delle scarpe sporche di fango. Selina salì le scale con i piedi doloranti ma di buon umore e quando aprì la porta trovò Belia davanti allo specchio, era veramente bella, aveva un abito abbastanza semplice ma di un blu intenso e i capelli raccolti secondo la moda del momento. Romya era di fianco a lei e la guardava vagamente soddisfatta, ma con i soliti tratti duri e feroci. Quando videro entrare Selina, Romya provò a fare un sorriso e Lia le andò incontro "È incredibile!" Disse riferendosi all'abito e al suo aspetto in generale "Sei veramente incantevole!" Le disse sincera Selina "Sei molto bella". Belia arrossì teneramente "Mai quanto voi". Selina rispose al sorriso "Di cosa avete bisogno, signorina?" Le interruppe pratica Romya "Devo cambiare le scarpe per il pranzo". Romya senza perdere tempo tirò fuori dall'armadio un altro paio di scarpe e le infilò alla signorina.

Il pranzo non fu nulla di speciale, mangiarono cose simili a quelle che Selina mangiava al suo castello, alcune più buone e altre meno. Durante il pomeriggio Luddan aveva lezione di spada e quindi sarebbe stato impegnato per quasi tutto il pomeriggio, notizia che non piacque molto a Selina poiché ebbe timoredomandando con chi avrebbe dovuto trascorrere il pomeriggio. La ragazzina aveva sperato di passare il pomeriggio con Belia naturalmente, ma i programmi erano ben diversi e molto meno gradevoli. Le dissero che nel pomeriggio lei e la signora avrebbero ricamato con la bravissima signorina Mabrae, la famosa ricamatrice del loro castello, citata dal padre Gamelius nella lettera che annunciava l'arrivo di Selina, descrivendo la fanciulla come desiderosa di poter imparare dalla signorina Mabrae tutti i segreti che ancora le erano celati sul ricamo. Selina si sforzò di apparire di buon umore, ma l'idea di trascorrere l'intero pomeriggio a ricamare, per di più in compagnia di Jesebell che sembrava non attendesse altro che restare sola con lei per riempirla di domande sgradevoli, fecero rimpiangere a Selina la decisione di partire.

Quando poco dopo si incamminò verso la sala del ricamo scortata da Romya, nella mente Selina si figurò il sorriso di Nomiva vispo e allegro e poi quello sarcastico e pungente di Aurilda e provò un soffocante senso di malinconia, sconosciuto e sgradevole che la fece sentire male. Suo malgrado entrarono nella stanza da ricamo, era grande, aveva una grossa finestra, le pareti di pietra erano coperte da arazzi raffinati e il pavimento da tappeti. C'erano due vetrine con l'argenteria in bella mostra, due tavolini e tre divani di diversa grandezza, due piccoli e uno grande di una stoffa dorata e lucida, bella come Selina non aveva mai visto prima. Seduta su uno dei divanetti c'era la signorina Mabrae, doveva avere all'incirca trent'anni, era magra, aveva i capelli scuri e mossi, simili a quelli di sua sorella Aurilda, il naso adunco, le guance troppo colorate di rosa e un forte profumo di lavanda. Selina non aveva mai conversato con quella donna ma aveva sentito dire che era molto gradevole parlarle e dal sorriso benevolo che aveva sulle labbra fucsia sembrava proprio che fosse vero.

Al centro del divano più grande, come una regina su un trono, stava impettita e algida Jesebell. Quel giorno aveva un vestito di un rosa pastello, il corpetto era bellissimo, più bello di quello che aveva il giorno precedente, era ricamato con fili d'argento e bianco candido, la morbida scollatura era orlata da un merletto pregiato e al collo la donna portava una collana di perle. Squadrò con freddezza la ragazzina e poi fece un sorriso falso, ma appena accennato, differente da quelli ampi che evidentemente riservava per le occasioni in cui erano presenti il marito e il figlio. "Accomodati pure, Selina" disse la signora fissandola e Selina si sentì gelare il sangue nelle vene nell'incontrare quello sguardo superbo e severo. Si avvicinò all'altro divanetto, ma Jesebell la invitò ad accomodarsi alla sua destra, vicino a Mabrae. Selina così si avvicinò e si mise a sedere rigidamente, temendo persino di respirare "Romya" la esortò la signora e l'altra subito sparì velocemente per tornare con tre telai e diversi aghi e fili in una scatola di legno finemente intagliata "Signora" disse la donna con un mezzo inchino, con la solita voce roca "Puoi andare" rispose atona Jesebell, senza sognarsi minimamente di poter ringraziare l'altra.

Romya uscì e chiuse la porta, lasciando le tre dame da sole. La luce che proveniva dalla finestra penetrava nella stanza illuminandola vivacemente, a tal punto da non rendere necessario l'utilizzo di candele. "Iniziamo signora?" Domandò Mabrae alla donna "Sì, iniziamo" rispose l'altra con il solito sguardo superbo e algido. "Signorina Selina" disse Mabrae rivolgersi a lei "Se avete bisogno di qualche consiglio domandatemi pure, sono a vostra completa disposizione" disse con lo stesso sorriso benevolo di poco prima "E se lo desiderate controllerò passo per passo il vostro lavoro, così da correggervi se doveste sbagliare". Selina annuì con un sorriso e prese il telaio che le porse la donna, prendendo poi un ago e un filo. Lei e Mabrae iniziarono a ricamare, ma notò subito che Jesebell non si univa a loro, così Selina si chiese perché mai fosse rimasta lì con loro e l'idea la preoccupò ancora di più. Jesebell infatti una volta avviato il lavoro partì all'attacco "Selina" disse dopo qualche minuto "Ti piace il nostro castello?" Selina annuì, tentando di guardarla negli occhi e contemporanea di non pungersi con l'ago. "Lo trovi più bello di quello in cui vivevi?" "Direi di sì, è costruito con pietre splendide ed è arredato meravigliosamente" annunciò Selina, tentando di far piacere all'altra.

La donna parve compiacersi "Immagino che questa pace sia innaturale per te, dal momento che vivi con due ragazzine". Selina corrugò le sopracciglia "Ragazzine?" Domandò perplessa "Le tue sorelle, no?" Disse con ovvietà l'altra. Selina annuì e sorrise "Mi mancano molto le mie sorelle" disse senza riuscire a trattenersi oltre. Jesebell la guardò quasi disgustata "Come possono mancarti?" Domandò perplessa "Due ragazze che cercano di superarti in tutto quello che fai, con cui devi lottare per ottenere quello che ti spetta per diritto di nascita". La donna si fermò un attimo, indecisa, poi aggiunse "Io odiavo mia sorella". Selina fissò fermamente il telaio, non poteva credere a quello che stava sentendo, ma avrebbe dovuto immaginare una cosa simile da quella donna "Tua sorella maggiore ad esempio" continuò Jesebell "Quell'ingrata ragazzina che è fuggita quando poteva sposare il futuro re, non ti senti in collera con lei che ha usurpato un posto che potevi avere tu, ma che non hai potuto ottenere solamente perché lei è nata prima!?" "Il re ha scelto mia sorella come fidanzata per il principe Morfgan per il suo carattere, non per l'età".

Jesebell la ignorò e andò avanti "E invece cosa si può dire di quella rozza, sgraziata di Nomiva? È troppo abbondante per il suo stato sociale ed è del tutto priva di buona educazione, per questo a quindici anni nessuno l'ha ancora chiesta in moglie per il figlio". Selina serrò la mascella "Nomiva non è abbondante, è poco più paffuta di me, ma non è abbondante" ribadì piano "E se non la vogliono come fidanzata per ..." "Cosa state ricamando di bello, signorina?" Mabrae l'aveva interrotta malamente, Selina alzò lo sguardo e lesse negli occhi della donna dissenso, le stava chiaramente facendo capire che era meglio non rispondere alla signora. Selina ispirò piano e si obbligò a seguire quel consiglio, per vivere serenamente "Lo stemma della famiglia Tenebrerus" disse tra i denti, con la voce bassa. "Le ninfee sono molto belle, signorina" rispose sorridendo Mabrae. "La ninfea" ripeté annoiata Jesebell "Sono degli insulsi fiori acquatici. Il nostro stemma invece" e indicò l'arazzo di fronte a sé sul muro, lo sfondo era blu e al centro c'erano tre spade, una dritta e due oblique una a destra e una a sinistra, sopra fluttuava una corona d'alloro, similmente alle corone sugli stemmi reali. "Uno stemma deve saper mostrare la forza ma anche l'eleganza" continuò la donna "Non come quell'orribile stemma degli Hardex con il coccodrillo sopra, è del tutto grossolano e privo di ogni eleganza".

Selina veramente non sapeva cosa dire, avrebbe voluto rispondere, magari ricordando alla signora che lo stemma della sua famiglia di nascita, gli Anhon, era un'anemone, un fiore esattamente come la ninfea, ma sapeva che era molto più saggio tacere, perché quella conversazione stava prendendo proprio la brutta piega che temeva "Come mai voi non ricamate?" Domandò a un tratto. Jesebell le lanciò uno sguardo gelido "Oggi non ne ho voglia" rispose semplicemente "Sono venuta per controllare il tuo ricamo, devo accertarmi che la moglie di mio figlio sia all'altezza". Selina abbassò lo sguardo e riprese a ricamare senza gioia "Tra qualche anno dovrai sposarti, lo sai no, Selina". La ragazzina annuì "Non sarai mai la regina come tua sorella, ma non starai male qui" si fermò e la fissò con un sorriso soddisfatto sul volto spigoloso "Sempre se il principe decide ancora di sposarla..." si fermò e il sorriso perfido si allargò "O se sopravvive nei boschi". Selina a sentire quelle parole si punse il dito che iniziò a sanguinare, posò la tela per non sporcarla e si guardò il dito sanguinante, imponendosi di non rispondere malamente né tanto meno di guardare la donna. "Vi siete fatta male" disse dolcemente Mabrae "Romya!" Chiamò e l'altra subito arrivò "Potresti portare un fazzolettino per la signorina per cortesia, si è punta mentre ricamava". Romya annuì e sparì, mentre Mabrae continuò "Ora vi prendo un ditale, così non potrete pungervi più". Selina annuì e mentre la donna cercava nella scatola si voltò per guardare Jesebell, teneva lo sguardo gelido su di lei e aveva ancora un sorriso soddisfatto e perfido a incurvarle le labbra sottili.
Selina si voltò verso Romya che era tornata con il fazzoletto e ispirò con rabbia. Non sapeva per quanto sarebbe riuscita a resistere senza replicare di fronte alle parole tanto crudeli e ingiustificate di quella donna orribile se avesse continuato a provocarla in quel modo, perché la sua pazienza non era infinita e la signora la stava provocando senza ritegno, quasi invocando guerra tra di loro.

 

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Capitolo 7
*** L'unico schiavo ***


Pov:Damian

Il padrone Pontroius rideva. Ogni volta che Damian lo sentiva ridere gli si accapponava la pelle, nonostante il suo padrone non fosse prestante dal punto di vista fisico. Il padrone era basso per essere un uomo, sin troppo magro per non dire emaciato e i capelli gli arrivavano appena sopra le scapole, erano marroni e sbiaditi, rigati di bianco con la frangetta e aveva inoltre due occhiaie abbastanza pronunciate sotto agli occhi che sembravano condannare lo sguardo dell'uomo in una perenne ombra. Ma a Damian nonostante la fragilità fisica faceva ugualmente paura. Non che il padrone ridesse in modo così spaventoso o rumoroso, tutto l'opposto, ed era proprio questo tentativo di celare la sua crudeltà a renderlo ancor più terrificante. Pontroius aveva una risata soffusa, talmente leggera e pulita che illudeva, facendo credere che il motivo del suo buon umore fosse legato a qualcosa di veramente bello. Era così che ingannava, quella era la trappola, perché tutte le volte che lui rideva era perché aveva fatto capitare qualcosa di orribile agli altri. Damian non capiva cosa ci trovasse il padrone di divertente nel causare tante sofferenze, ma quell'uomo si divertiva invece, si divertiva eccome.

Damian lo aveva poi sentito parlare con la moglie, la padrona Matara, e lui aveva sentito ridere anche la donna. Matare aveva una costituzione simile a quella del suo sposo, anche lei era magra e bassa con i capelli bruni tirati all'insù in modo troppo eccessivo e appariscente, intrecciati con gioielli di ogni sorta, come se sperasse di diventare una persona migliore riempendosi di oggetti preziosi. Allora erano proprio brutte notizie, dopo aver sentito ridere anche la signora Damian ne era più che certo. Damian viveva al castello di Aspergo da quanto era nato, ma non perché fosse un nobile, assolutamente nulla di più lontano dalla realtà. Damian non sapeva perché ma, nonostante la schiavitù fosse stata abolita da secoli nel regno, lui era uno schiavo, ma cosa ancora più curiosa era che lui era l'unico schiavo. Certamente i contadini che vivevano al servizio del suo padrone non ricevevano un trattamento tanto migliore del suo, ma loro almeno godevano della libertà, Damian invece era uno schiavo a tutti gli effetti e perciò non aveva il permesso di lasciare quel posto. Si ricordava che i maltrattamenti dei padroni erano iniziati sin dalla più tenera età, gli facevano svolgere lavori inadatti a un bambino e lo fustigavano quando sbagliava, il che era avvenuto di frequentare perché Damian era abbastanza incapace e scoordinato, a tal punto da aver addirittura rotto una volta un prezioso vaso di ceramica. I padroni lo avevano frustato a sangue e le ferite ci avevano messo più di due mesi per cicatrizzarsi per bene.

Insomma Damian si era chiesto perché lo lasciassero in vita se era così incapace, aveva pensato che fosse solo un gioco sadico per torturarlo, ma poi crescendo aveva capito che c'era qualcosa che non sapeva che gli avevano nascosto i padroni e lo facevano rimanere in vita presumibilmente proprio per quel motivo a lui ignoto. Quando Damian aveva provato a domandare qualcosa ai contadini, questi ultimi avevano taciuto, visibilmente spaventati e lo avevano lascito senza risposte. Damian così si era rassegnato come faceva sempre e aveva continuato il supplizio quotidiano che era la sua vita. I suoi padroni non erano proprio nobili, o meglio, il signore era nipote di nobili decaduti e con il padre si erano ripresi il potere mentre la padrona era figlia di ricchi mercanti. Quando si erano ripresi il potere il padrone e il padre avevano creato un nuovo stemma per la famiglia, uno che facesse paura ma al contempo facesse subito capire che erano signori dell'allevamento. Così dopo mesi sul castello si era innalzata una bandiera con lo sfondo azzurro e un coccodrillo al centro. Di sicuro i coccodrilli facevano paura e i padroni non si limitarono a porli come simbolo del loro stemma, ma li fecero catturare e poi rinchiudere in un fossato strettamente recintato con mura di pietra nella stalla. L'idea di quei folli era addestrare i coccodrilli e liberarli come cani fedeli in caso di necessità.

Ma ovviamente c'erano stati subito dei problemi per realizzare quell'idea scellerata, addestrare un coccodrillo non era certo una cosa facile. Vennero diversi uomini per tentare di addomesticarli e uno dopo l'altro morirono tutti, chi resistendo per più tempo e chi meno. Poi i padroni avevano costretto lui a tentare. Damian era stato terrorizzato, aveva sedici anni allora e non sapeva assolutamente nulla sugli animali. I coccodrilli avevano ovviamente cercato di sbranarlo e lui la notte non aveva chiuso occhio, ma il giorno successivo l'avevano mandato di nuovo nel recinto. E ancora incubi. Il corpo di Damian era pieno di cicatrici, graffi e lividi, compresi quelli delle codate dei coccodrilli cosparse in diversi punti del corpo. Il ragazzo stando a contatto con i coccodrilli e spostando pesi continuamente era diventato forte, aveva ormai ventisette anni e un fisico invidiabile, ben piazzato. I muscoli erano grossi e scolpiti, ma allo stesso tempo perennemente doloranti e si intravedevano da sotto gli indumenti leggeri che indossava, il viso era sciupato, con guance incavate cosparse da qualche lentiggine, gli occhi marroni spenti dalla rassegnazione e i capelli corti rosso-arancio. Damian dormiva tutte le notti nelle stalle tra la paglia maleodorante piena di topi, che era particolarmente fredda durante le notti d'inverno.

Con il trascorrere del tempo lui e i coccodrilli avevano preso confidenza, erano sempre animali feroci ma talvolta guardandoli negli occhi al ragazzo sembrava quasi di riconoscere il medesimo timore che provava lui stesso. Certamente i padroni erano soddisfatti del lavoro che era riuscito a svolgere in quella circostanza, per questo motivo da allora lo frustavano raramente, solo nei periodi di noia o di rabbia. Quella mattina Damian sapeva che a qualcuno sarebbe accaduto qualcosa di brutto a giudicare dalle risate dei padroni. Uscì dalle stalle scosso da tremori per il freddo e si incamminò in cerca di qualcosa da mangiare dal momento che con ogni probabilità quel giorno nessuno si sarebbe ricordato di lui proprio a causa del misterioso fatto che metteva i padroni così di buon umore. L'enorme diga vicino al castello dominava la scena, i contadini e i pastori sgobbavano da una parte all'altra e lui corse veloce a raccogliere le poche bacche che gli animali dei pascoli avevano lasciato sui cespugli vicini. Gli Hardex erano infatti i signori dell'allevamento, ogni provincia aveva tre signori che si occupavano delle cose più importanti per il sostentamento: la guerra, l'agricoltura e l'allevamento. Il castello degli Hardex oltre alla caratteristica diga disposta lateralmente al castello era circondato da pascoli di ogni tipo, ovini, bovini, suini e i tre tipi di equini che c'erano, i cavalli comuni perché privi di caratteristiche speciali, i cavalli grossi e muscolosi che erano perfetti per i traini e spesso erano più forti dei tori e i cavalli che servivano a mandare i messaggi, soprannominati dal popolo zoccoli alati per la loro velocità. Questi ultimi sapevano correre fino a cinque volte più velocemente dei cavalli normali e per questo erano usati per spedire messaggi insieme ai cavalieri che li cavalcavano, ed erano stati sostituiti a uccelli oramai estinti, ovvero i fulgrum, uccellini in grado di sparire e riapparire dal mittente al destinatario in poco tempo, variabile per la lunghezza della distanza. Purtroppo i cavalli zoccoli alati non potevano essere impiegati per andare in guerra a causa della loro esile costituzione che sicuramente avrebbe ceduto sotto il peso di un'armatura. Solo un fantino leggero riusciva a essere sostenuto dai cavalli, per questo di solito i messaggeri erano dei ragazzi esili. Un tempo il regno brulicava di creature magiche, mentre adesso erano quasi tutte estinte.

Damian mangiò velocemente le bacche guardando lo scenario, i contadini e i pastori realmente non conducevano una vita tanto migliore della sua e spesso il ragazzo si era domandato se la vita fosse tanto dura in tutte le province e i castelli o se fossero esclusivamente gli Hardex a promuovere delle condizioni tanto misere. Si avvicinò con la solita aria mansueta alla stalla che era la sua casa e rimase lì ad aspettare che qualcuno gli ordinasse cosa fare. I soldati gli passarono davanti con le teste alte, alcuni ignorandolo, altri canzonandolo come al solito, poi si fermarono al centro del cortile in attesa probabilmente del signore. Pontroius infatti si avvicinò pochi istanti dopo e quelli subito si ammutolirono e si schierarono. Il padrone indossava un abito composto da giacca, gilè e pantaloni marroni, che sembravano abbinarsi ai capelli dal colorito spento, portava poi scarpe basse e lustre con un piccolo tacco e una cravatta beige ricamata con un piccolo fiocco dorato sopra. Pontroius e i soldati parlarono per pochi minuti, in maniera piuttosto concisa e frettolosa, poi dopo un cenno del signore gli uomini si prepararono per andarsene, ma poi uno di loro si fermò per domandare un'ultima cosa, tuttavia questa volta non ebbe la premura di tenere la voce bassa "Se dovessimo trovarla la uccidiamo o la catturiamo, mio signore?" Sentì infatti in maniera distinta Damian. Pontroius non ci pensò su "Uccidetela" rispose con il solito sorriso falsamente innocente che gli increspò le labbra sottili. Il soldato annuì e si incamminò insieme agli altri che lo avevano aspettato verso le stalle per prendere i loro cavalli e andare.

Subito Damian rientrò e si mise a spalare fieno come se niente fosse, sperando di essere ignorato. Purtroppo il gruppo entrò e subito lo puntò, indicandolo con risate maligne sui volti ancora privi d'elmi "Guardate chi c'è qui" lo apostrofò uno, mentre gli altri ridevano sguaiatamente "Lo schiavo!" terminò con soddisfazione, causando nei compagni un nuovo, ingiustificato, scoppio di ilarità. Damian fece finta di non aver sentito e continuò a spalare il fieno con gli occhi bassi. "Addirittura pensa di essere tanto importante da negarci il saluto dopo essere stato chiaramente interpellato!" disse ancora quello, avvicinandosi "State vedendo tutti, compagni, la superbia di questo misero parassita, non è vero?!" Continuò, sempre rivolto ai suoi compagni "Ma quanta alterigia, non ti hanno insegnato a essere umile oppure a rispettare i tuoi superiori!?" Il soldato si avvicinò definitivamente, annullando ogni distanza che c'era tra di loro. Lo afferrò forte per i capelli sporchi di terra, gli passò velocemente la mano coperta dai guanti dell'armatura sulla testa e il ragazzo prima sentì la cute graffiarsi e poi sentì la stretta aumentare sui capelli corti "Ancora osi ignorarmi, essere inutile?" gli sussurrò il soldato con voce cattiva. Damian continuò a tenere gli occhi bassi e a non rispondere, gli altri intanto si erano avvicinati e avevano formato un mezzo cerchio intorno a lui, una barriera impenetrabile da cui fuggire fatta di ferro e crudeltà "Ora ti insegno le buone maniere" sussurrò nuovamente l'uomo, mentre un ghigno gli increspava le labbra.

Spostò la mano dai capelli e strinse a Damian una spalla, assestandogli poi un pugno nello stomaco con la mano libera. Damian si piegò in due senza emettere un lamento, come faceva sempre, e il soldato gli assestò un secondo colpo più forte che fece crollare Damian definitivamente a terra, sempre avvolto dal dolore e dal silenzio. In un attimo li sentì tutti addosso, alcuni gli tirarono calci e altri pugni, sfogandosi su di lui come più li aggradava. "Cosa ci fate ancora qui voi?" La voce vellutata di Pontroius li colse alle spalle, i soldati si disposero su due file e lasciarono Damian al centro, esposto e dolorante "E' stato quest'uomo, signore" disse quello che lo aveva picchiato per primo. Pontroius si voltò a guardarlo, rivolgendogli uno sguardo freddo con il medesimo sorriso che a Damian fece gelare il sangue "Quando imparerai a comportarti in modo civile, Damian?" Domandò l'uomo guardandolo dall'alto "Ora voi andate" disse rivolgendosi ai soldati "A lui penserò io".

Damian vide i soldati prendere velocemente i loro cavalli per poi dileguarsi sogghignando crudelmente, sicuramente il padrone aveva validi alleati per tormentarlo. Il ragazzo si mise in piedi a fatica, sentendo fitte di dolore su ogni parte del corpo, evitando accuratamente di guardare nella direzione del padrone "Tu li diverti, ragazzo" gli disse banalmente Pontroius, stupendolo "Tormentarti è il loro gioco preferito" continuò l'uomo "Ma dimenticano che tu appartieni a me e me soltanto". L'uomo si avvicinò, era talmente basso che nemmeno tenendo il volto alto i suoi occhi arrivavano a fronteggiare quelli di Damian "Andiamo" disse con la solita falsa dolcezza nella voce. Damian subito lo seguì, senza fare domande "Partono alla ricerca di una ragazzina" disse con leggerezza l'uomo "Ci è giunta notizia che è la promessa sposa del nostro futuro re e pare che sia fuggita" continuò "La figlia più grande di Tenebrerus". L'uomo a questo punto si fermò e si voltò per guardarlo negli occhi "La ragazzina che il re ha preferito a mia figlia, quella che ha sfidato il mio onore". Damian lo guardò spaventato "E tu lo sai cosa accade a chi è tanto sciocco da osar sfidare il mio onore?" terminò la frase in un morbido sussurro, quasi un sibilo. Il ragazzo annuì appena per tornare subito dopo con gli occhi bassi. Pontroius soddisfatto riprese a camminare, sempre facendogli cenno di seguirlo.

Automaticamente i pensieri di Damian andarono alla ragazzina, sperava che non la trovassero poverina, avrebbe fatto una fine tremenda. Pensò poi alle parole del padrone sul re, a come si era inchinato, alla reverenza che gli aveva rivolto quando il sovrano era venuto a far loro visita, a come Pontroius aveva adulato il re, a tutti i modi in cui aveva tentato di nascondergli i problemi del castello, da quelli amministrativi a quelli strutturali, sino ovviamente alle misere condizioni di vita in cui si trovavano tutti quelli che lavoravano per lui. Gli Hardex avevano nascosto ogni cosa, mentendo con in dosso abiti sfarzosi e sfavillanti sorrisi ipocriti sui volti. Insomma, quando si trattava di mentire e salvare le apparenze Pontroius era il migliore, ma tutti in fondo lo sapevano quanto fosse falso e bugiardo, semplicemente non ci badavano perché anche loro lo erano. Il padrone poi sembrava odiasse chiunque, in primis il re e gli altri signori poiché pensava cospirassero contro la sua famiglia con il solo tentativo di farla estinguere. Era veramente spaventoso quanta rabbia potesse trattenere quell'uomo tanto piccolo. Certe volte Damian si domandava come facesse una persona all'apparenza tanto benevola e fragile a nascondere tanta crudeltà e tante bugie.

Pontroius si fermò di colpo e per poco Damian non gli urtò contro "Come stanno i miei coccodrilli?" Domandò l'uomo guardando fissamente dall'alto delle pareti dure del recinto di pietra che aveva fatto ergere tempo prima per imprigionare le bestie "Bene, padrone" sussurrò Damian in risposta "Parla a voce più alta" lo rimproverò seccato l'uomo "Ho detto che stanno bene, padrone" ripeté allora Damian. "Fammi vedere" ordinò l'uomo "Ma dormono padrone..." lo avvertì Damian "Voglio che tu li svegli allora" insistette Pontroius "Ma padrone" tentò ancora Damian "Potrebbero reagire male" "Non sono problemi miei" sentenziò il padrone, lanciandogli uno sguardo penetrante "Adesso entra e svegliali". Damian abbassò la testa con la consueta rassegnazione, il recinto era di pietra ma non così alto, c'era un cancelletto ma con il timore che i coccodrilli potessero fuggire nessuno lo apriva mai e così l'unico modo per entrare era scavalcare il recinto. Damian con le gambe lunghe non dovette fare grandi sforzi e rimase seduto con le gambe a penzoloni nel recinto "Sono io" bisbigliò "È ora di svegliarsi".

Nel recinto c'erano quattro coccodrilli, erano lunghi e silenziosi come l'agonia prima della morte, immersi nell'acqua bassa del recinto. Erano due maschi e due femmine e una delle femmine avuto delle uova, quindi presto sarebbero nati altri coccodrilli. I coccodrilli ignorarono del tutto il richiamo di Damian e continuarono a tenere un occhio chiuso. Il ragazzo così si lasciò scivolare nell'acqua con una grazia sconosciuta, si abbassò in ginocchio e rimase fermo "Venite da me" disse ancora "Skiza" sussurrò poi in direzione di quella che aveva avuto le uova. Sentì la risata soffusa del padrone che sicuramente doveva trovare ridicolo il fatto che avesse dato dei nomi ai coccodrilli. Non appena Damian ebbe chiamato Skiza subito aprì l'occhio, con i denti affilati che le uscivano dalla lunga mascella. Il coccodrillo avanzò piano sotto lo sguardo attento di Pontroius "Brava Skiza, sono io" sussurrò ancora Damian. Skiza era uno splendido esemplare agile, forte e veloce, anche se al momento era sempre in allerta per le sue uova. Si fermò con la mascella a pochi centimetri dalla mano del ragazzo e lo guardò senza la minima forma di aggressività, mentre le squame scintillavano. Damian allungò la mano e sfiorò le squame cangianti e ruvide del coccodrillo, sentiva una sorta di attaccamento a quell'animale e agli altri tre, sicuramente più di quanto non avesse mai provato per un essere umano.

"Sono in grado di attaccare, vero?" Domandò improvvisamente Pontroius "Certamente padrone, sono aggressivi per natura" rispose Damian, continuando a sfiorare la bestia "Non si direbbe dalla penosa scena che mi stai mostrando" replicò il padrone continuando a fissarlo. Da una porta lì vicino arrivò direttamente dalle cucine un ragazzo con un cesto pieno di carne cruda, Damian e Pontroius erano talmente presi dal coccodrillo che non se ne resero conto. Il ragazzo si avvicinò al recinto e salutò Pontroius "Signore" disse facendo un cenno con il capo in segno di saluto, poi vuotò il cesto di carne nell'acqua. In pochi secondi i coccodrilli che sembravano addormentarmi scattarono, le zanne scintillarono nella penombra e le zampe guizzarono veloci nell'acqua. Pontroius fece un balzo indietro per lo stupore, mentre Damian spalancò gli occhi e scattò in piedi, si aggrappò con le mani alla pietra scivolosa e levigata, tentando con i piedi di fare presa per mettersi a sedere e uscire. I coccodrilli gli andarono incontro e lui che si era appena seduto sul bordo si sbilanciò all'indietro e cadde fuori dal recinto, al sicuro.

Diede una forte botta alla colonna vertebrale e alla testa, talmente forte da fargli lacrimare gli occhi e poi fargli emettere un lieve lamento al momento dell'urto, fatto quantomai raro per lui che mai osava lamentarsi. Dopo qualche secondo il ragazzo riaprì gli occhi e si mise a sedere, mettendo a fuoco gli sguardi divertiti degli altri due "Ne hai acquisita di abilità, Damian, ma c'è poco da fare, non sarai mai il servo degno e serio che meriterei" disse divertito il padrone "Scusate signore, non pensavo ci fosse qualcuno nel recinto" disse ghignando il ragazzo con il cesto ormai vuoto. Pontroius lo lasciò andare e poi tornò a guardare Damian "Ora che so che i coccodrilli stanno veramente bene vai e renditi utile" disse con voce sprezzante "La tua padrona vuole fare il bagno e tu le andrai a prendere l'acqua pura dalla diga. Prendi due secchi e sii celere" continuò soddisfatto "Hai un'ora di tempo, ma prima di entrare in casa mia ti ordino di lavarti. Puzzi in maniera insopportabile e non permetterò che tu disonori in questo modo la mia signora". Damian lo guardò con aria affranta "L'acqua è fredda, padrone..." "Chi ti ha dato il permesso di parlare, misero schiavo ingrato!?" Lo rimproverò subito Pontroius "Tu ora prenderai quei due secchi, andrai al fiume e ti laverai, poi porterai l'acqua alla tua padrona e ripulirai questa stalla dal fieno. Sono stato sufficientemente chiaro!?"

Damian incassò le spalle e chinò il capo, annuendo appena, allora Pontroius soddisfatto se ne andò lasciandolo solo. Damian non perse tempo e si alzò, sentiva dolore in ogni parte del corpo, come se vi fossero conficcate mille spine, ma non ci fece caso, prese i due secchi e uscì al freddo, chiedendosi quante altre disgrazie avrebbe dovuto sopportare in quella maledetta vita che gli era capitata.

 

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Capitolo 8
*** Il Terrore dei Boschi ***


Pov:Aurilda

Erano passate più di due settimane dalla fuga di Aurilda e Ser Zalikoco, i due avevano trascorso quei giorni viaggiando quasi ininterrottamente e gli unici momenti in cui si erano concessi una pausa erano stati per cacciare qualcosa, per mangiare e per dormire. Aurilda aveva sempre trovato affascinanti i viaggi e le avventure, ma all'atto pratico si era presto resa conto delle differenze evidenti che c'erano tra i viaggi narrati nei libri e quelli nella vita reale. Differentemente da quanto avrebbe infatti pensato Aurilda, lei non era per niente una viaggiatrice. Sin dall'infanzia era sempre stata servita, con tutte le comodità a portata di mano e al momento, nonostante tentasse in ogni modo di non risultare polemica, era terribilmente seccata da ogni singolo elemento di quel viaggio. L'amore e la curiosità per l'avventura erano sfumati via già nei primi tre giorni e la ragazza si era resa conto sempre più di quanto fossero edulcorate le storie d'avventura confrontate alla realtà e si sentì quasi presa in giro da tutti i passaggi dei viaggi volutamente saltati dai narratori, come se avessero voluto nascondere la verità. Le gambe e la schiena le facevano male non essendo abituata a cavalcare tanto, il cibo era poco, solamente quello che Ser Zalikoco riusciva a procacciare per loro e nonostante gli sforzi dispendiosi non era neanche lontanamente buono quanto i piatti del castello. Dormire era un'altra cosa che si era rivelata complessa oltre che incredibilmente scomoda. Aurilda e Ser Zalikoco non potevano dormire contemporanea, sarebbe stato troppo rischioso considerata la recente fuga e per questo facevano i turni di notte e di conseguenza dormivano entrambi poco e male, inoltre non di rado Aurilda si addormentava sul cavallo, con la testa a ciondoloni in avanti, sbattendo di conseguenza e talvolta facendosi anche male oppure semplicemente innervosendosi. Raramente i due si allenavano a duello, si trattava di momenti sporadici e brevi perché non potevano perdere tempo ed energie in tal modo, dovevano sbrigarsi per arrivare al Tempio e anche quando riuscivano ad allenarsi lo facevano male perché erano entrambi stanchi. La coppia evitava ogni tratto abitato per timore di incontrare qualcuno. Erano fuggitivi, probabilmente i soldati dei Tenebrerus li cercavano e, come se non fosse stato già sufficientemente arduo il viaggio, Aurilda non indossava neppure abiti da uomo, non c'era stato tempo di cambiarsi la sera della fuga per la fretta e loro dovevano essere stati descritti dettagliatamente da sua madre Amillia, rendendo semplice il loro riconoscimento.

Insomma, Aurilda iniziava a detestare quel viaggio con tutta sé stessa, ma poi ripensava al motivo della partenza e così stringeva i denti, doveva arrivare a qualunque costo al Tempio dei Profeti e ci sarebbe andata anche a piedi se mai si fosse rivelato necessario, era troppo importante sapere quello che aveva visto per tornare indietro solamente a causa della fatica. Il Ser era un ottimo compagno di viaggio, era una persona che stimava, gentile, di buon cuore e un valido combattente, Aurilda non avrebbe potuto chiedere un compagno migliore e nei momenti di sconforto pensava a quanto fosse stato lodevole il suo compagno di viaggio per aver deciso autonomamente di accompagnarla e rischiare tanto, nonostante l'età avanzata. Aurilda poteva solo immaginare la stanchezza che doveva provare il cavaliere, nonostante si sforzasse di apparire sempre sorridente e bendisposto. Avevano poi incontrato durante il cammino alcune difficoltà nei tratti che erano costretti ad attraversare tra un bosco e l'altro, come un lupo solitario il sesto giorno di viaggio, che aveva procurato ai due non pochi problemi oltre a un grande spavento. C'erano poi stati due malviventi che avevano tentato di aggredirli per rubare i loro cavalli, ma Ser Zalikoco con un esiguissimo aiuto da parte di Aurilda era riuscito a ucciderli. Quella mattina invece erano stati costretti a una fuga precipitosa dopo aver sentito un vento improvviso nelle vicinanze, i demoni dell'aria dovevano essere vicini.

I problemi insomma sembrava non finissero mai, si susseguivano con una regolarità tanto disarmante quanto deprimente, per non considerare i cavalli che erano stanchi della marcia quasi costante e delle fughe improvvise. Quando non passavano per i boschi Aurilda e Ser Zalikoco attraversavano colline deserte, ricoperte di sterpaglie secche, che attraversavano di corsa. Le zone tanto esposte erano temute da entrambi, gli pareva di essere bramati da chiunque. Quel pomeriggio dopo essersi divisi una tortora denutrita e bruciacchiata accompagnata da qualche fungo si erano messi in marcia per il sentiero più diretto per il Tempio, era un terreno battuto dalla maggior parte dei rari pellegrini e di coloro che volevano diventare profeti. Aurilda e il cavaliere avevano discusso a lungo se usare o meno quella strada, era una via piuttosto percorsa e perciò più rischiosa, ma proprio per questo motivo anche più comoda e rapida.

Alla fine avevano concordato di usare quella via, nonostante gli evidenti dubbie e timori che assalivano entrambi, ma Aurilda e il cavaliere erano talmente stanchi da essere scioccamente disposti ad esporsi a un tale rischio. Arrivati allo svincolo rimasero nascosti nel bosco per osservare la strada e casomai cambiare idea. Rimasero nascosti per dieci minuti, osservando un uomo su un carro che trasportava cereali, poi un mugnaio e due fidanzati felici. "Andiamo Ser Zalikoco?" Domandò Aurilda, tentennante ma impaziente di procedere. L'uomo lanciò un'ulteriore occhiata alla via, preoccupato, poi annuì. Tirarono i cavalli per le briglie, pronti per uscire allo scoperto, ma un rumore di zoccoli li fece restare fermi dov'erano. Un gruppo di circa dieci uomini in armatura scese dai cavalli e si guardò in giro. "Sono gli uomini degli Hardex" sussurrò Aurilda con il fiato sospeso, attenta a guardare il coccodrillo sulla bandiera sventolante che teneva stretta uno di quelli. Ser Zalikoco le strinse forte un braccio, tirandola versò di sé "Più dentro" le sussurrò, con occhi sbarrati e il volto pallido.

I due si voltarono, tentando di non causare il minimo rumore e iniziarono a confondersi tra la vegetazione, pregando gli dèi affinché il gruppo di soldati non li vedesse, né tantomeno che si avvicinasse al bosco. Gli Hardex erano forse la famiglia peggiore del regno, quando gli invasori avevano attaccato il re erano stati i primi a ribellarsi, ma non perché non trovassero ingiusto il modo di governare del monarca, il vero motivo era che loro volevano il potere a qualunque costo e avevano il desiderio di uccidere ogni nobile esistente per conquistare prima o poi il regno, per giunta l'allora signore era inferocito con il re per non aver scelto suo figlio come marito per la principessa Merlena. E come Aurilda aveva sentito dire dai suoi genitori, un nobile pronto a tradire il suo re sarebbe sempre stato pronto a fare altrettanto con gli altri nobili. I soldati erano piuttosto lontani dalla diga e dal castello del loro signore e probabilmente se si era sparsa la voce-come immaginava Aurilda- della sua fuga almeno nella Provincia di Ghiaccio, erano certamente lì per cercare proprio lei.

"Dobbiamo sbrigarci, dobbiamo andare via da qui" sussurrò preoccupato Ser Zalikoco. Aurilda si tirò su il cappuccio del mantello e tirò il cavallo per la briglia, sentendo l'ansia crescerle nel petto. Gli uomini intanto stavano ispezionando il territorio circostante, uno di loro poi si avvicinò agli alberi e distinse il bagliore dell'armatura del Ser che era mal coperta del mantello. "Ma guardate" disse con un ghigno compiaciuto, chiamando gli altri a sé "Ho trovato un cavaliere con due cavalli e un misterioso compagno al suo fianco". Gli uomini montarono a cavallo con le spade sguainate e si diressero verso i due viaggiatori.

"Salve!" Esclamò uno dei soldati a voce alta, con il solo scopo di farsi sentire dai due, per incutere timore. Ser Zalikoco sbarrò gli occhi dal terrore "Che facciamo?" sussurrò Aurilda, il respiro affannato e le mani tremanti. "Salite sul cavallo, penserò io a loro" disse conciso e preoccupato ma non per questo meno risoluto Ser Zalikoco, radunando tutto il coraggio che possedeva "No! Non voglio che voi moriate per causa mia!" Rispose con voce tremante Aurilda. Sentiva una paura tangibile e violenta scuoterle i muscoli, farle battere i denti, sentì persino le lacrime agli occhi per il terrore intenso. Ma oramai era troppo tardi, gli uomini li avevano accerchiati e allora sì che la paura divenne soffocante, talmente forte da rendere i muscoli rigidi e tesi come mai prima d'ora. "Diteci Ser" lo canzono con voce maligna uno dei soldati "Chi avete l'onore di scortare lì con voi?" domandò l'uomo, chiaramente compiaciuto " Noi cerchiamo una certa signorina Aurilda Tenebrerus, non sarà per caso la vostra compagna, non è vero, Ser!?" Gli altri risero sguaiatamente dinnanzi a una tale messa in scena. Ser Zalikoco lo guardò negli occhi, mentre Aurilda chiuse i propri e strinse forte le briglie del cavallo, sentendo i muscoli tornare a tremare convulsamente "Non è affatto cortese il vostro tono, signori" rispose in tono autorevole Ser Zalikoco, tentando di non lasciar trasparire la preoccupazione "E con chi viaggio non è affar vostro, con tutto il rispetto naturalmente". Le parole del Ser non solo vennero ignorate, ma causarono uno scoppio di ilarità "Dove credete di andare!?" disse con un ghigno il soldato che aveva parlato prima "Il nostro signore vi vuole morti, quindi...". Poi però parve ripensarci "Anzi, no" si corresse "Il nostro signore vuole morta solo la ragazzina, non voi. Magari potreste aiutarci, ricevereste un buon compenso dal nostro padrone, sa essere piuttosto generoso in certe circostanze". Ser Zalikoco per tutta risposta si parò dinnanzi ad Aurilda, facendole scudo col corpo e lei si sentì tanto grata, eppure così spaventata. Gli uomini risero di nuovo "Molto bene allora" concluse un altro di quelli "Avete scelto da che parte stare". Si rivolse poi ai compagni "Uccidetelo" disse con voce annoiata "Dopo ci divertiremo un po' e uccideremo anche lei" terminò e Aurilda pur voltata e con il cappuccio tirato sentì gli occhi dell'uomo bruciare su di sé.

La ragazza automaticamente fece scivolare le dita intorno al manico della spada, sempre tremando, e alle sue spalle sentì Ser Zalikoco sguainare la spada. Il gesto dell'uomo causò l'ennesimo scoppio di ilarità nei soldati. Aurilda voleva togliersi il cappuccio e sguainare la spada, voleva affiancare il Ser e mostrarsi coraggiosa, tuttavia l'unica cosa che riusciva a fare era stringere il manico della spada e tenere gli occhi serrati, per impedire che le lacrime cadessero. "Che coraggioso cavaliere!" sentì dire "Peccato che siate anche tanto ottuso" e Aurilda sentì smontare i soldati dai cavalli, brandendo le spade sguainate. Ser Zalikoco iniziò a combattere subito, era agile e competente, ma la stanchezza, l'età e soprattutto il numero di sfidanti non permettevano che desse il meglio di sé. Aurilda aprì gli occhi e con il dorso della mano che non stringeva la spada si asciugò le lacrima, poi deglutendo si voltò con la spada sguainata. Aurilda non aveva mai affrontato un vero duello, aveva combattuto sempre e solo con il Ser e in quel momento l'inesperienza, il timore e il numero di sfidanti le paralizzavano i muscoli, ma certamente il suo gesto stupì non poco i soldati poiché si fermarono per guardarla. Il cappuccio le era scivolato, lasciandole il volto terrorizzato del tutto esposto. I soldati vedendo l'espressione intimorita di lei risero ancora "Sei mia" parlò tra i denti l'uomo che dava ordini. Si avvicinò e colpì Aurilda. Lei riuscì a parare maldestramente e quello ne approfittò per colpire ancora. Doveva apparire abbastanza ridicola, Aurilda se ne rese conto da sola, era molto differente da come si era sempre sognata di mostrarsi durante un duello. Decisamente non era una brava spadaccina, ma al momento lo stile non era la cosa più importante. Tre soldati attaccarono il Ser e uno Aurilda, mentre gli altri restarono a guardare divertiti da quel penoso spettacolo, con i ghigni beffardi e compiaciuti sui volti. I loro avversari erano talmente disperati che non c'era la necessità di attaccarli tutti insieme. Aurilda guardò il suo sfidante, la sottovalutava palesemente, giocava con lei, con il timore che Aurilda sentiva e si divertiva anche. Mentre uno combatteva con Ser Zalikoco, un altro soldato di quelli fermo a guardare si avvicinò da dietro, assestando un calcio al cavaliere che lo fece cadere a terra, poi un altro infierì con secondo calcio che fece volare la spada a Ser Zalikoco poco lontano, ma abbastanza affinché l'uomo non potesse riprenderla. Quasi subito i soldati lo tirarono su di peso e lo colpirono sul volto con un pugno, d'altronde dovevano pur divertirsi un po' anche con lui, dovevano umiliarlo. Intanto Aurilda era ancora in piedi a duellare meglio che poteva con lo stesso uomo. Con il trascorrere del tempo sentiva di star migliorando, l'adrenalina nel sangue le dava coraggio, ma poi l'uomo si stancò e la ragazza si sentì afferrare alle spalle da un altro. Vide quello con cui duellava sorridere, poi sentì le mani del soldato che la stringeva scendere lungo le curve dei fianchi "Adesso capisco perché il re ha scelto proprio te" rise "Non potresti essere più diversa dalla figlia del padrone". Allungò una mano e le afferrò il mento, poi la fece scivolare più giù. Aurilda strinse forte la spada e con una forza improvvisa donatale dalla paura sollevò la spada e con la lama ferì maldestramente l'uomo sul volto, facendolo sanguinare copiosamente. Quello gridò, poi le assestarono un colpo sul fianco e lei, che non indossava un'armatura, cadde in ginocchio con un tonfo, emettendo un grido strozzato.

Gli uomini compiaciuti proruppero in una nuova risata collettiva di scherno, persino quello che Aurilda aveva ferito rise, per poi tornare vicino alla ragazza mentre Ser Zalikoco veniva tenuto fermo "E adesso ci divertiamo" disse l'uomo ferito, alzando il volto ad Aurilda e stringendole il mento con forza. La ragazza tremava da capo a piedi, era impallidita in maniera preoccupante, sapeva solo che qualsiasi cosa le fosse accaduta sarebbe stata orribile. L'uomo prima si tolse il sangue che grondava copiosamente dal volto, poi la schiaffeggiò con rabbia e le strappò il mantello dalle spalle "Prega gli dèi, perché nessuno ti aiuterà" disse con voce rabbiosa "Potevi avere la vita migliore che ci fosse, ma hai scelto la fuga. Sei finita!" Vide l'uomo che si avvicinava con un sorriso crudele che gli deformava la maschera di sangue, poi senza che apparentemente fosse mutato nulla, questo si accasciò a terra con gli occhi sgranati, cadendo sul terreno con un tonfo: una freccia spuntava come un avvertimento minaccioso da dietro la nuca priva di elmo. "Chi diavolo c'è!?" Gridò uno dei soldati stringendo nuovamente la spada, con la voce colma di timore. Subito gli altri lo imitarono e sia Aurilda che Ser Zalikoco vennero lasciati.

Quello che accadde dopo fu molto rapido e confuso, dapprima furono tutti avvolti da una sorta di nebbia nera, così i soldati si divisero, confusi e spaventati, spostando gli occhi sbarrati dal terrore in tutte le direzioni. Aurilda e il cavaliere restarono vicini, per non perdersi di vista si strinsero un braccio, anche loro preoccupati da quel nuovo, ignoto, pericolo. Improvvisamente una pioggia di frecce arrivò dall'alto, poi nel buio della nebbia nera si sentirono vaghi rumori di morsi, calci, pugni e le lame delle spade che affondavano, seguite da gemiti di dolore e grida. Quando la nebbia si fu un po' diradata, veloce com'era arrivata, Aurilda notò che solo un uomo era rimasto vivo ed era in ginocchio a pregare "Risparmiami!" Supplicò. Aurilda finalmente poté distinguere una sagoma misteriosa vestita in modo buffo: indossava un mantello scuro con il cappuccio che le arrivava appena sotto la vita, aveva una specie di corsetto marrone in pelle con le maniche di ferro, come quelle di un'armatura, pantaloni grigio topo, guanti senza dita, stivali impermeabili neri e una bandana che copriva metà volto, aveva poi due borse a tracolla di dimensioni diverse, un arco e una faretra dietro la schiena, delle boccette piene di polveri colorate lungo una cintura che portava a tracolla e attaccati alla cintura vera e propria alcune spade e pugnali. Sembrava incredibile che una persona con indosso tante cose fosse così agile, doveva essere molto forte, pensò Aurilda. Dalla bandana tirata per celare mezzo volto si intravedevano solo due occhi grigi. "Non ci penso nemmeno" rispose la figura misteriosa con la voce dura e decisa e poi si avvicinò all'uomo "Ti scongiuro!" Aurilda sentì ancora pregare il soldato e trovò la sua voce supplicante più melodiosa di qualsiasi canto "Tu lo avresti fatto?" Domandò retoricamente la figura, e la sua voce adesso risuonò limpida e chiara come la verità, ma ugualmente decisa e concisa "Tu li avresti risparmiati?" Aurilda vide gli occhi dell'uomo brillare di lacrime "Voi siete diverso da me, lo so!" Tentò in estremo di salvarsi il soldato, ma la figura incappucciata si era già piegata e subito dopo il soldato si era accasciato a terra con il sangue che volava dal collo, esanime.

Ser Zalikoco si era rialzato e la guardava perplesso e spaventato, mentre Aurilda fissava la figura con gli occhi sbarrati, temendo quasi che potesse svanire da un momento all'altro. La figura si voltò e li fissò attraverso gli occhi grigi "State bene?" Domandò cortesemente, per nulla scossa, riprendendosi le armi con la quale aveva colpito i soldati. Ser Zalikoco annuì incerto, mentre Aurilda ormai sicura che non si trattasse di un sogno la guardò colma di ammirazione, avvicinandosi "Perché ci avete aiutato?" Domandò guardingo il Ser mentre tratteneva Aurilda per un braccio "State tranquillo, Ser opportunismo" rispose la figura, il suo tono di voce era diretto e vagamente beffardo "Io non sono come voi, non faccio tutto questo per ottenere qualcosa in cambio". Il cavaliere parve offeso e arrossì per la rabbia "Cosa va insinuando?" La figura incappucciata lo guardò intensamente "So solo che Ser Zalikoco Lonor un tempo non è sempre stato nobile come appare adesso" rispose acida la figura, ancora coperta in volto. Ser Zalikoco fu sorpreso che conoscesse il suo nome, e così Aurilda, ma non per questo l'uomo dispensò l'altra da un'occhiataccia, decisamente troppo dura secondo il parere di Aurilda considerato l'enorme aiuto che quella persona gli aveva appena dato, aveva salvato la vita a entrambi. "Non so chi voi siate, ma non vi permetto di parlarmi in questo modo irrispettoso, di macchiare il mio onore in un tale modo menzognero!"

"Io forse lo so chi siete voi!" Li interruppe Aurilda, mettendosi stranamente in mezzo alla discussione. "E' incredibile pensare che tanti vi reputino solo il frutto di una recente leggenda, invece esistete veramente. Siete voi che chiamano il Terrore dei Boschi! Andate di bosco in bosco e salvate donne e uomini dai pericoli!" La figura parve compiacersi di quelle parole, ma non più di tanto, sicuramente meno di quanto avrebbe fatto Aurilda "Vi prego, mostrateci il vostro volto, vorremo ringraziarvi come si conviene" continuò Aurilda, dal momento che Ser Zalikoco non sembrava intenzionato a parlare. Finalmente la figura abbassò il cappuccio e la bandana, rivelando il volto di una giovane donna non più vecchia di trent'anni anni. Aveva la pelle olivastra e i capelli corti neri e leggermente mossi, due belle labbra rosse e carnose e ovviamente gli occhi grigi, ma il suo volto non era per nulla grazioso, anzi, aveva un che di rozzo. Rivolse un lieve sorriso ad Aurilda e alla sua espressione stupita "Dite bene, signorina Tenebrerus" rispose "Vi ho visti vagavate per i boschi qualche giorno addietro e potremmo dire che vi ho tenuti d'occhio. Gli Hardex invece cercavano qualcuno da giorni e devo presumere che foste proprio voi" annunciò la giovane donna.

"Non signorina Tenebrerus, Aurilda è sufficiente" disse con un sorriso stranamente spontaneo la ragazza. Si sentiva così grata e poi l'inaspettato colpo di scena l'aveva resa ancora più felice, tanto da spingerla a stendere la mano in segno di saluto, cosa quantomai rara da parte sua. L'altra la strinse con un sorriso "Io sono Omalley " rispose, presentandosi finalmente. "Ammetto di essere rimasta colpita quando ti ho vista usare la spada, nonostante i tuoi maldestri tentativi devo presumere che non fosse la prima volta che usi la spada dal modo in cui la brandivi" disse ancora, quasi distrattamente "E mi sorge un dubbio spontaneo. Come mai una signorina ha imparato a usare un poco la spada?" Aurilda sorrise e indicò Ser Zalikoco che intanto stava lucidando la sua spada caduta poco prima "Lui mi ha insegnato di nascosto quando gliel'ho domandato" spiegò Aurilda. Omalley scrutò l'uomo e poi tornò a guardare la ragazza "In effetti avete stili simili" disse quasi con ovvietà, più a sé stessa che all'altra "Sei stata coraggiosa" disse ancora ad Aurilda "Lo siete stati entrambi. Ma dimmi" continuò, rivolgersi nuovamente ad Aurilda " Da quello che ho avuto modo di sentire su di voi in questi giorni, tu sei la promessa sposa del principe ereditario e sei fuggita la notte prima della partenza per la capitale. Perché la futura regina è fuggita nei boschi con un cavaliere?"

Ma prima che Aurilda potesse rispondere Ser Zalikoco era tornato e si era bruscamente frapposto fra di loro, tornando finalmente a parlare "No!" disse duramente "Non possiamo fidarci di voi! Arrivate qui all'improvviso e iniziate a porci tante domande a cui tanti desidererebbero ricevere una risposta. Desiderate consegnarci a qualcuno in cambio di denaro!?" "Ser Zalikoco!" Lo rimproverò Aurilda, veramente non capiva perché Ser Zalikoco, che di solito era sempre cortese, adesso si comportasse in modo tanto sgarbato con la loro salvatrice "Voi non conoscete le storie che raccontano su di lei, inoltre ci ha salvato la vita!" "Da quel che ne sappiamo, signorina, potrebbero benissimo essere solo storie e lei potrebbe essere al servizio di qualcuno!" rispose duramente Ser Zalikoco. Ma Omalley non sembrava per nulla sorpresa, né tantomeno offesa da quelle insinuazioni infamanti "Mi sembra più che logico, cavaliere, che pensiate siano tutti come voi" rispose serenamente Omalley, vagamente provocatoria "Ma sappiate che non è così, ci sono persone migliori". La giovane donna guardò l'uomo con durezza e quello parve capire cosa volesse dire, perché il volto gli si contrasse in una malcelata espressione di timore. Aurilda non sapeva cosa volesse dire Omalley, ma di certo non era quello il momento di chiedere, anche se la curiosità era tanta Aurilda sapeva benissimo tenersi fuori dagli affari altrui, differentemente dalle sue sorelle.

"Voi... Tu invece come hai imparato a combattere?" Domandò Aurilda per spezzare il silenzio che si era creato, in modo piuttosto insolito dal momento che di consueto era lei a tacere o a creare silenzi imbarazzanti. "No!" Scherzò bonariamente l'altra "La mia identità è segreta, non posso narrare la mia storia alla prima persona che incontro" rispose Omalley con lo sguardo duro e severo, poi però sciupò l'effetto con un nuovo sorriso e allora Aurilda arrossì e continuò a insistere "Dai, per cortesia. Vorrei sapere solo qualcosa!" Insistette a bassa voce, quasi timorosa. L'altra finse di pensarci per qualche attimo, poi rispose sorridendo "D'accordo" disse "Ma prima voglio duellare con te, se sarò soddisfatta ti dirò qualcosa su di me". Aurilda subito acconsentì, sentendosi felice dopo settimane, il ricordo dei soldati sembrava appartenesse a un'altra vita. "Va benissimo" rispose con entusiasmo, ma il Ser era contrariato e si intromise malamente, nonostante l'agitazione causata dalle parole che poco prima gli aveva rivolto l'altra "No! Rischiereste di farvi del male!" Omalley gli rivolse uno sguardo irritato "Sarà un duello amichevole. Non vi ho salvati per poi uccidervi io stessa, almeno non lei" replicò Omalley, con un sorriso ironico e divertito impresso sul volto. Il cavaliere spalancò gli occhi e ammutolì, limitandosi a guardare le ragazze che si posizionavano per duellare, entrambe con le spade sguainate nella penombra del bosco. Iniziarono a combattere quasi subito, girarono in cerchio e le lame delle spade si scontrarono più volte. Omalley era agile e veloce, si notava chiaramente quanto si stesse trattenendo, se lo avesse voluto avrebbe potuto sferrare il colpo finale in qualsiasi momento. Poi a un tratto cambiò arma, si attaccò al ramo di un albero e colpì alle spalle, facendo finire l'avversaria a terra "Questo non è valido!" Protestò Aurilda mettendosi a sedere, mentre l'altra con la mano tesa la aiutava a rialzarsi "Assolutamente d'accordo!" Disse subito Ser Zalikoco in tono pungente, quasi stesse aspettando un motivo buono per scagliarsi contro la sua salvatrice.

Omalley sorrise "Sapete, non sempre un combattimento leale porta alla vittoria, l'incontro con quei soldati dovrebbe avervi insegnato qualcosa". Il Ser era del tutto in disaccordo con le parole della ragazza "Siete senza onore!" Sbottò, furente, ma subito si pentì di quanto aveva detto dopo aver ricevuto un'occhiata penetrante da Omalley "Voi dite, Ser?" Gli domandò beffarda. L'uomo non rispose ma si limitò ad abbassare gli occhi e così Omalley gli diede le spalle e tornò a guardare unicamente Aurilda "Penso che la nobiltà di un combattimento stia non tanto nei mezzi quanto nell'intento" disse con ovvietà. Aurilda sorrise, pensando che Omalley avesse ragione "Penso che tu abbia ragione!" Disse con entusiasmo. L'altra rispose al sorriso e poi si girò per guardare ancora Ser Zalikoco, presumibilmente con il solo intento di provocarlo. Il cavaliere infatti era abbastanza contrariato, ma temeva di parlare, così si limitò a restare in silenzio. "Comunque non combatti così male come sembrava prima" disse Omalley ad Aurilda " Probabilmente le emozioni hanno influito negativamente sull'esito del duello. Ma dovrai fare ancora tanta pratica e dovrai imparare il combattimento di sopravvivenza, non quello d'onore prima di affrontare un vero duello" concluse, sempre guardando con la coda dell'occhio Ser Zalikoco per stuzzicarlo "Pensi che potresti insegnarmi qualcosa?" Domandò speranzosa la giovane, tenendo gli occhi rivolti verso il basso. Non riusciva a comprendere perché si stesse sbilanciando tanto con quella donna, lei che di solito era tanto guardinga e silenziosa, ma probabilmente lo spavento di poco prima e la gratitudine che sentiva la rendevano più cordiale e aperta al dialogo di quanto solitamente non fosse. Omalley sorrise, tornando a ignorare il cavaliere "Qualcosa di semplice penso che farò in tempo a insegnartela" concluse, strizzandole l'occhio in modo complice.

Aurilda sorrise nuovamente, colma di gioia "Quindi puoi dirci qualcosa di te oppure no?" Omalley ci pensò un attimo "Va bene" rispose "Per l'impegno che hai dimostrato durante il nostro duello direi di poterti confidare qualcosa, ma che rimanga segreto, mi piace quel soprannome che hai detto, non voglio rovinare tutto rivelando chi sono veramente!" Omalley rise, non parlava sul serio e Aurilda la trovava piuttosto divertente. Le due giovani stavano davanti mentre il cavaliere le seguiva, guardarle poco convinto, che Omalley non gli piacesse era più che evidente. "Stai pur certa che non ne farò parola" assicurò Aurilda "Dove hai imparato a combattere?" Domandò subito, forse con troppa foga "Da mio padre" disse l'altra passando agilmente tra le radici degli alberi "Era un pirata" aggiunse poi. Aurilda spalancò gli occhi per la sorpresa "Veramente!?" "Sì. Ero la sua unica figlia, sono cresciuta con lui e stavo spesso sulla torre di controllo, sull'albero maestro, per questo so arrampicarmi così bene, sono abituata da sempre ad arrampicarmi".

Aurilda era meravigliata "Poi cos'è accaduto?" "Mio padre è morto sulle coste di questo continente, di un paesino della Provincia dell'Aria, Maresca, dopo un assalto finito male e sono rimasta sola. Avevo tredici anni. Sono rimasta nascosta sugli alberi per diversi giorni, poi una donna mi convinse a scendere. Mi offrì di vivere con lei e io per sdebitarmi e non gravare ulteriormente su di lei andavo a caccia. Era come una madre per me" concluse. Sul volto della ragazza comparve un dolce sorriso che presto si tramutò in tristezza "Un giorno andò nel bosco a cogliere un po' di legna e lì la aggredirono e la uccisero, perché la gente del paese non accettò mai che lei avesse accolto in casa sua la figlia di un pirata, così si vendicarono". Aurilda spalancò gli occhi "Mi dispiace..." "Non mi perdonerò mai per non averla potuta salvare, così da quel giorno decisi di salvare le donne e gli uomini, chiunque vagasse nei boschi e fosse in pericolo. Per onorare la memoria di lei".

Aurilda la guardò con ammirazione "Ti sei imposta un compito importante e lodevole. Devi essere molto orgogliosa di te. Sei un'eroina e chissà quante persone avrai salvato". Omalley tuttavia scosse il capo con modestia ammirevole "È il rimorso a farmelo fare" "Sei ugualmente una benefattrice" ripeté Aurilda "Un aiuto prezioso. Dove saremo noi adesso senza di te?" continuò a lodarla Aurilda. L'altra sorrise "Grazie davvero. Tu perché sei in viaggio?" Domandò curiosa Omalley "Ho fatto un sogno particolare, credo che potrebbe trattarsi di una profezia e voglio andare al Tempio dei Profeti per scoprire qualcosa di più". Omalley la guardò sorpresa "Ma tu non sei promessa sposa al futuro re, non ti interessa diventare regina?" "No" rispose con troppa fretta la giovane, per poi correggersi "O meglio, mi piacerebbe. Ma ho conosciuto il principe e sarebbe un incubo sposarlo, sarei solamente una prigioniera rinchiusa in una prigione di marmo. Inoltre se questo sogno dovesse rivelarsi davvero una profezia, credo di aver preso la decisione giusta sfuggendo da quel matrimonio".

La voce di Aurilda tremò, era come se temesse qualcosa "Di cosa hai paura?" Le domandò a bruciapelo l'altra, leggendo distintamente la preoccupazione negli occhi scuri della ragazzina "Temo per la mia famiglia" ammise Aurilda "Potrebbero essere in pericolo per causa mia. Io non ci ho pensato due volte e sono andata via, ma loro potrebbero essere in pericolo a causa della mia decisione o potrebbero cadere in disgrazia a causa del mio rifiuto di sposare il principe. Forse sono stata troppo avventata...". La ragazza si fermò e poi sussurrò con il volto velato di tristezza e senso di colpa "Credo proprio di essere stata egoista e sconsiderata" terminò abbattuta. Omalley si avvicinò, incoraggiante "Sono certa che staranno tutti bene" iniziò a dire "E poi se dovesse trattarsi di una profezia come dici, nonostante io ne sappia poco quanto te delle profezie, credo comunque che tu abbia fatto bene a partire per andare al Tempio. Conoscere è sempre la scelta più saggia da intraprendere". Aurilda però non era del tutto convinta "Forse hai ragione, ma la verità è che non ho pensato alle conseguenze che il mio viaggio potrebbe causare. Non appena ho avuto un'occasione me ne sono andata senza assicurarmi che i miei cari fossero al sicuro e senza riflettere sulla profezia che magari non significa nulla." Restò un attimo in silenzio, indecisa, poi il suo volto si indurì "Ma nulla di questo sarebbe mai accaduto se i miei genitori non mi avessero costretta" ammise, desiderando dire quelle parole da anni "Se i miei genitori avessero ascoltato le mie parole invece di ignorarmi!" La sua voce tremò di collera e risentimento nei confronti dei genitori, erano stati così ottusi e ingiusti!

Ser Zalikoco le seguiva ascoltando in silenzio, ma dal suo sguardo torvo e cogitabondo si poteva percepire quanto il cavaliere fosse in pena, quanto la coscienza e il rimorso lo tormentassero, tuttavia le sue compagne di viaggio non parvero farci caso e lui ne fu ben grato. All'improvviso Omalley fece loro segno di fermarsi "Ci accamperemo qui. Accendiamo un fuoco e mangiamo, ma dobbiamo essere svelti, non è prudente lasciare il fuoco acceso per tanto tempo, né restare fermi in un posto a lungo, potrebbero esserci altri soldati nelle vicinanze da quel che sappiamo o magari demoni degli elementi". Avevano camminato e parlato per tanto tempo e ormai era il vespro "Voi raccogliete un po' di legna" disse Omalley "Io vado a cacciare qualcosa e torno". Aurilda e Ser Zalikoco raccolsero la legna senza dire una parola, la ragazzina voleva domandare al Ser cosa avesse, ma qualcosa le suggeriva che quello non era il momento adatto. Omalley tornò poco tempo dopo con una mazzetta di otto volatili, li cucinarono senza perdere ulteriore tempo. Era da quando erano partiti che non mangiavano veramente in modo da potersi definire sazi e quella sera finalmente lo furono. Quando calò la notte Omalley si arrampicò sugli alberi ed estrasse da una delle sue grosse borse dei teli spessi. La videro legare i lembi stretti nel punto in cui si dividevano i rami di tre alberi, in modo che ognuno avesse un albero a sorreggere il peso del proprio corpo, poi la ragazza scese, saltando giù agilmente "Chi si fa portare su per primo?" Domandò sorridendo. Aurilda sorrise di rimando mentre Ser Zalikoco ebbe da ridire "E i cavalli? Come facciamo con loro?" Omalley lo guardò esasperata "Saranno nascosti dall'oscurità e poi noi siamo qui su, vi assicuro Ser che se qualcuno provasse a rubarli sarebbe la sua ultima azione. Ora volete dormire o avete altro di cui lamentarvi?" Ser Zalikoco ammutolì e dopo aver visto dal basso Omalley issare Aurilda con l'ausilio di una delle corde che teneva nella seconda borsa, fu il suo turno. Salire non era molto comodo in due, Omalley aveva una corda robusta che arrotolava chissà come intorno ai rami e poi si tirava su. Quando furono tutti e tre saliti poterono finalmente sdraiarsi, faceva abbastanza freddo lassù, ma si stava molto più comodi che sul terreno duro, inoltre si intravedevano le stelle oltre le chiome folte degli alberi. Omalley si addormentò quasi subito, al contrario degli altri due che, nonostante la stanchezza, erano pensierosi. I dubbi li assillavano, impedendogli di prendere sonno. Dopo un tempo indeterminato entrambi si addormentarono, ma quando la coscienza iniziava a parlare non era possibile fare nulla per metterla a tacere.

 

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Capitolo 9
*** Mandato a palazzo ***


Pov:Leucello

Quella sera sicuramente si poteva ammirare uno dei tramonti più belli mai visti, il cielo era viola come i petali di un iris e il sole rosso fiammeggiante, il paesaggio circostante si sposava perfettamente con quel cielo incantato, creando una cornice naturale che pareva fosse magica. Il prato verdeggiante brillava ancora per la recente pioggia e illuminata dei raggi solari la rugiada pareva avesse cosparso l'erba di diamanti, mentre la macchia costituita dagli alberi era eterocromatica, composta da alberi sempreverdi e chiome tinte da sfumature arancio. Senza alcun dubbio quella era la gioia per gli occhi di chiunque fosse in possesso di un animo sensibile o desiderasse ammirare la quieta bellezza della natura, ma mai nessuno avrebbe potuto essere tanto grato per quello spettacolo come un artista, soprattutto se l'artista era sensibile e attento. Questo era quello a qui stava pensando Leucello mentre dipingeva quella meraviglia della natura. Leucello Argis era sicuramente il pittore migliore del regno, aveva ventinove anni e già poteva vantare una fama invidiabile. Aveva dipinto per tutti i signori delle province e anche per il re, ma Leucello stranamente si rifiutava di vivere in una dimora maestosa e degna della sua fama o da qualche protettore e continuava a voler restare nella sua casa. Leucello era rimasto nel suo paese natale, Vriento, e aveva ampliato e restaurato la piccola casa in cui aveva vissuto sin dall'infanzia, pur facendola restare semplice. Tutti lo avevano guardato con incredulità, senza comprendere quella che, giudicando i loro sguardi, dovevano considerare una scelta folle. Di sicuro lo avevano criticato, ma mai avevano avuto il coraggio di dirglielo di persona perché lo avevano considerato come la maggior parte degli artisti, ovvero bizzarro e non del tutto sano di mente quando si trattava di prendere decisioni sensate. Leucello si poteva definire a buon merito una mente geniale oltre che un artista a tutto tondo, era sempre pensieroso, desideroso di creare qualcosa di nuovo per aiutare gli altri e spesso la gente non riusciva a stare dietro alla frenesia delle numerose idee di Leucello. Il ragazzo era versatile in ogni tipo di arte manuale, si occupava di pittura, scultura e architettura, poi studiava costantemente libri antichi per ammirare le opere realizzate dai grandi artisti del passato e non disdegnava tentativi per nuove invenzioni in grado di aiutare la comunità, come l'aratro in ferro che aveva aiutato notevolmente i contadini e gli aveva fatto guadagnare molte lodi soprattutto da parte dei signori dell'agricoltura. Leucello era sempre disposto a imparare cose nuove, l'unica cosa che non lo aveva mai attirato particolarmente era l'arte del combattimento, che per lui si poteva a malapena definire arte.

Insomma Leucello era uno spirito libero, sempre pronto a mettere la libertà di espressione davanti a tutto ed era in possesso di un ingegno creativo invidiabile. Abitava nella Provincia dell'Aria e nel suo paese poteva godere di paesaggi incantevoli come quello splendido tramonto che quella serata d'autunno gli stava regalando. Mentre Leucello era intento a mescolare i suoi colori per creare la giusta sfumatura un uomo poco più grande arrivò sventolando una lettera "Leucello!" Urlò emozionato "Cosa c'è di così importante, Mondrik?" Domandò Leucello, spostandosi i capelli biondo cenere dalle guance incavate "Una lettera per te" rispose l'altro. Mondrik era più corpulento di Leucello ma muscoloso, con le mani tozze e una barba leggere che copriva parte del viso pallido e squadrato, mentre i capelli scuri gli ricaddero sulle sopracciglia folte. Leucello prese la lettera e riconobbe istantaneamente l'elmo incoronato impresso nella ceralacca "Una lettera dal re" sussurrò, abbandonandola poi sul tavolino che aveva accanto, riprendendo a dipingere come se nulla fosse accaduto.

Mondrik restò in piedi vicino a lui e lo guardò con i profondi occhi scuri spalancati, visibilmente perplesso, se non vagamente arrabbiato dal comportamento dell'amico "Ma Leucello!" Protestò subito "Non puoi reagire così al cospetto di un messaggio reale!" L'altro rise leggermente, con la voce intrisa di una soffusa ironia "Cosa dovrei fare, dimmi?" lo esortò "Un ritratto di me stesso che danza per una gioia che non sento, oppure dovrei ritrarmi mentre mi prostro ai piedi del nostro sovrano?" Mondrik non parve gradire quelle risposte, dal suo sguardo si poteva evincere cosa stesse pensando del suo amico, era un folle e uno sciocco. Quella volta però Mondrik decise di non dirglielo direttamene e continuò a scrutare Leucello con uno sguardo sarcastico e severo "Va bene, se ti importa così poco di quello che ha da dirti il nostro re allora dammi la lettera, la apro io" disse Mondrik con decisione. Leucello conosceva Mondrik Androtte da sempre, anche Mondrik era nato a Vriento ed erano cresciuti quasi come fratelli, soprattutto da quando il padre di Mondrik, Giolite, pittore anche lui, allora abbastanza noto nel regno, aveva deciso di tramandare a Leucello e Mondrik il suo sapere artistico, istruendoli nel disegno e nella pittura. Il suo amico sapeva essere piuttosto prepotente e testardo quando voleva, lo era sempre stato e Leucello lo sapeva bene. Leucello allora tirò un profondo sospiro "Non dire questo, certo che mi importa del nostro re, semplicemente volevo terminare il mio dipinto con calma" rispose, vagamente irritato. Mondrik lo guardò duramente, poi scosse il capo e gli restituì la busta "Ma sappi che la apro subito solo perché insisti tanto. Il re poteva aspettare qualche altro minuto, il tramonto al contrario non aspetta nessuno" rivelò. Leucello fece cenno a Mondrik di avvicinarsi, poi delicatamente ruppe la busta senza macchiarla di pittura dal momento che le sue mani erano pulite, poi aprì il foglio piegato a metà e lesse velocemente il messaggio. Quando ebbe terminato di leggere passò la lettera al suo amico e si alzò, perdendosi con occhi vacui ad ammirare l'orizzonte.

Mondrik dopo qualche minuto sussultò, non appena ebbe concluso di leggere la lettera "Il nostro re è morto" disse inarcando le sopracciglia "Possa ora la sua anima riposare in pace. Comunque adesso vogliono che tu faccia un dipinto al nuovo re, è un buon lavoro questo, una buona notizia nonostante tutto". Ma Leucello non lo ascoltava "Leucello?" Lo chiamò Mondrik "Ricordi quando ti dicevo di volermi trasferire nella Provincia Libera?" Domandò improvvisamente, continuando a scrutare l'orizzonte. La sua voce era carezzevole e lontana, come un eco "Penso che sia giunto il momento di apportare questo cambiamento alla mia vita". Mondrik spalancò gli occhi "Cosa?" Esclamò, incredulo "Ma perché dici follie del genere? Io veramente non riesco a capirti quando ti comporti in questo modo ottuso!" Leucello si voltò per guardarlo, la sua mente acuta gli aveva suggerito molti validi motivi da tempo per intraprendere quel viaggio "La condotta del nostro nuovo sovrano mi preoccupa" disse con ovvietà "L'ho già incontrato altre volte, sempre per dipingere ritratti del padre o suoi e del fratello e posso assicurarti che quell'uomo non è adatto a governare. Dobbiamo fuggire finché siamo ancora in tempo, per difendere la nostra incolumità e la libertà d'espressione di cui tutti sempre dovremo poter godere." Mondrik lo fissava sempre più stravolto, come se fosse pazzo "Ma Leucello" provò a farlo ragionare "Parli a sproposito, era un ragazzino e non conosci il suo attuale operato! Non puoi giudicarlo così! Fai quel dipinto, in questo modo potrai giudicare com'è adesso, allora potrai prendere una decisione assennata, senza giungere a conclusioni affrettate. Non partire prevenuto, sei tu a dire sempre che non bisogna giudicare a priori! Inoltre se vuoi trasferirti avere un po' di denaro a disposizione ti sarà utile!" "Lo dici come se non avessi denaro a disposizione" rispose velocemente l'altro, senza riuscire a trattenersi. Leucello poi restò in silenzio per un attimo e allora tornò a parlare "Pensate tutti soltanto al denaro", poi Leucello sospirò e distolse lo sguardo dall'amico, voltandogli le spalle per tornando a guardare il tramonto. "Allora?" Lo spronò l'altro con insistenza "Guarda questa tonalità di viola" gli disse Leucello "È veramente meravigliosa. Non penso che basterebbe tutto l'oro del regno per replicarne la bellezza". Mondrik continuò a fissarlo colmo di irritazione, infastidito da quei discorsi per la sua opinione alquanto sconclusionati "Se potessi catturare questo tramonto per com'è veramente nella mia tela, allora sì che spenderei bene il mio denaro". Detto ciò Leucello si voltò per guardare l'espressione di Mondrik a metà tra il perplesso e il contrariato "Va bene" disse spazientito Leucello "Domani partiremo" disse, come se avesse dovuto recarsi ad assistere a un'esecuzione pubblica.

Mondrik sorrise "Non essere così tragico" disse, scrutando l'espressione di Leucello "Ti pagheranno bene e potrai alloggiare al castello, poi sarai libero di andartene dove vorrai" insistette ancora per spronarlo, ma invano "Sai cosa penso del denaro, Mondrik" lo frenò subito l'altro "È un ignobile mezzo di corruzione e non voglio averci niente a che fare. Fosse per me torneremo al baratto". Mondrik corrugò le sopracciglia e rise "Non fare il retrogrado proprio tu, il nostro grande genio avanguardista, visionario!" disse in tono cattivo Mondrik, con voce beffarda. "Ora ti prego di lasciarmi finire quest'ultimo ritratto" lo pregò Leucello, tentando di ignorare i modi sgarbati dell'amico. L'altro annuì piano, con una strana espressione infastidita sul volto "Comunque la cena è quasi pronta" disse ancora "Quindi appena avrai finito rientra. E prova a non impiegarci troppo, altrimenti la cena si fredderà" e dopo quelle parole Mondrik si avviò verso la casa ai limiti del villaggio da cui era venuto. Leucello immerse il pennello nella tavolozza, continuando a dipingere preso dai suoi pensieri, mescolando i colori alla ricerca della sfumatura perfetta. Forse Mondrik aveva ragione, perché partire prevenuto su un ragazzo che conosceva così poco? Magari il trascorrere del tempo, la morte del padre e l'enorme responsabilità di guidare un regno che gravava sulle sue spalle avevano cambiato il principe ereditario e ora si stava rivelando un sovrano giudizioso e saggio. Per qualche minuto Leucello dipinse tentando di non pensare più, tentando unicamente di immergersi nei colori meravigliosi della natura, ma presto fu costretto a rinunciare. Chi voleva prendere in giro, lo aveva studiato attentamente il principe quando era stato al castello, era arrogante, violento, ignorante e di idee antiche, non era per nulla incline al progresso. Solo un miracolo poteva farlo cambiare e i miracoli non erano così frequenti come tanti credevano, o si sforzavano di sperare pur di andare avanti.

Quella era una vera e propria tragedia, ma Leucello temeva di essere uno dei pochi a vedere la gravità di quella situazione, la reazione di Mondrik ne era un chiaro esempio. Tutti tacevano davanti alle ingiustizie e ai favoritismi più evidenti solo perché era il re a parlare. Leucello odiava questa cosa, non capiva perché il popolo non decidesse di pensare autonomamente invece di andare dietro a tutto quello che dicevano il re o la regina di turno. Perché tutti quelli che gli stavano intorno non usavano il più grande dono mai fatto alla specie umana, la ragione? Perché erano tutti così ipocriti e attaccati al male più ignobile e potente che affliggeva il mondo, il denaro? Leucello tornò a guardare il suo dipinto oramai concluso, senza che se ne fosse reso conto aveva ricoperto il bel cielo viola del tramonto di nuvoloni scuri, i tipici nuvoloni che si vedono nel cielo prima di una tempesta.

L'artista si alzò stiracchiandosi, poi prese la tela e la tavolozza e si incamminò verso la sua casa, sentendo il familiare profumo di cinghiale provenire dalla porta accostata. Accelerò il passo rabbrividendo per il vento autunnale che gli sfiorò la pelle ed entrò dalla porta di legno che lui stesso aveva intagliato con fiori, foglie e bacche "Eccoti finalmente!" Lo accolse la madre vedendolo entrare. Mondrik era già seduto e mangiava distrattamente, senza curarsi di celarlo agli altri due. Leucello vedendolo trattenne un sorrisino colpevole, forse non doveva far attendere l'amico. Si abbassò poi per stringere la madre in un abbraccio "Perdona il mio ritardo, madre" disse scoccandole un bacio sulla fronte. La vecchia donna sorrise e gli scompigliò i capelli con affetto "Avanti, mettiamoci a sedere prima che il tuo amico Mondrik finisca tutto".

Mondrik sentendo quelle parole alzò gli occhi senza la benché minima forma di vergogna per aver iniziato senza domandarlo prima degli altri, al contrario rivolse alla donna un sorriso mordace e uno sguardo pungente. Si misero a sedere accanto a lui senza indugiare oltre e anche Leucello e la madre iniziarono a mangiare. "Mondrik mi ha detto che partirete molto presto per la capitale perché il nuovo re ti ha commissionato un suo ritratto" disse poi la donna a metà della cena. Leucello annuì con gli occhi bassi e la madre gli strinse il polso con la mano morbida, ma ugualmente dalla stretta forte "Cosa c'è Leucello?" Gli domandò dolcemente, guardandolo attentamente con i grandi occhi scuri. Leucello alzò lo sguardo e strinse la mano della madre "Il nostro nuovo re non mi piace" ammise subito "Mi fa paura sia per i suoi modi violente, che per i suoi pensieri bigotti. Temo che a causa del suo carattere bellicoso possa condurre il regno sull'orlo di una nuova guerra". Gli occhi della donna si velarono di paura, ricordava bene com'era stata la guerra tra i Raylon e i Marvlum e il solo pensiero la fece scuotere da capo a piedi "Spero che tu non abbia ragione figlio mio" rispose, tentando di celare l'angoscia che le premeva nel petto mentre si spostava una ciocca di capelli grigio-biondi dal volto. "A ogni modo ravvedetevi e prestate sempre la massima attenzione quando sarete giunti nella capitale" il ammonì "Posso solamente immaginare quanti malviventi potrebbero circolare per le strade di quella città". Leucello annuì con un cenno e tornò a mangiare pensieroso, senza lasciare la mano della madre. Terminata la cena la madre e l'amico andarono a dormire, Leucello invece rimase in salotto.

Tirò fuori da un baule di legno vari attrezzi, erano un bastone cavo che ricordava una canna, composto da più parti e una piccola scatola contenente due lenti, una era concava e l'altra era biconvessa. Aveva avuto un'intuizione, credeva che unendo le lenti insieme con le parti del bastone avrebbe portato alla creazione di un oggetto singolare che ovviamente Leucello sperava potesse rivelarsi utile alle masse, anche se non sapeva ancora come avrebbe potuto aiutare precisamente. "Leucello, non vieni a dormire?" domandò Mondrik comparendo dalla camera, assonnato e con il volto stanco. A dire la verità non sembrava fosse realmente interessato alla domanda che aveva appena posto a Leucello, più che altro sembrava si sentisse obbligato a preoccuparsi per l'altro "Domani dobbiamo partire presto". Leucello annuì "Lo so, è per questo che voglio capire cosa posso ottenere unendo queste lenti questa sera stessa. Non so poi quando potrò lavorare nuovamente al mio progetto una volta che saremo partiti". Mondrik allora se ne andò a dormire non del tutto convinto, per nulla interessato a indagare oltre e Leucello giurò di averlo visto fare una smorfia di disgusto, ma al momento l'importante era che l'avesse lasciato al suo lavoro.

Leucello si rigirò le lenti tra le mani, lucidandole con un panno delicatamente per paura di graffiarle, poi sistemò quella biconvessa in una delle aperture e mise quella concava nell'altra apertura. Chiuse poi le aperture per bloccare le lenti e ci guardò dentro. Sussultò per la sorpresa e subito dopo si allontanò, il tavolo a pochi metri era un pessimo soggetto da osservare. Si guardò intorno in cerca di qualcosa di più meritevole di attenzioni e poi guardò la finestra di vetro che aveva fissato proprio sul soffitto della casa, similmente alla finestra che faceva luce nella sala del trono del palazzo reale. Avvicinò una sedia e ci salì, aprendo la finestra e lasciando entrare il freddo della notte autunnale. Scese con calma per non cadere, poi spostò la sedia e si mise a sedere, con quella sorta di canna unita in più pezzi tra le mani. Si portò quella canna-occhiale davanti all'occhio e guardò il cielo. Non appena ebbe messo a fuoco Leucello rimase paralizzato e con il fiato mozzato, era la cosa più bella che avesse mai immaginato di poter ammirare, talmente bella che gli sembrava di essere finito in un sogno. Ammirava l'immensa distesa scura che era il cielo, era sconfinato e di un blu fitto e impenetrabile che sfidava il nulla assoluto del nero, dell'infinito. La grande tela scura era cosparsa di puntini luminoso come gli schizzi su un dipinto, tuttavia le stelle non apparivano più semplici puntini ma piccoli cerchi luminosi. Era incredibile, le stelle erano vicine, sembrava quasi di poterle toccare! Leucello eccitato spostò poi quella canna-occhiale verso la luna, curioso di vedere quanto sarebbe apparsa più grande e non appena la trovò davanti a sé deglutì per l'emozione e poi spalancò gli occhi, grato e meravigliato. La natura era meravigliosa, di questo ne era sempre stato cosciente, ma non poteva immaginare che lo fosse fino a un tale livello, tanto da causare i brividi per la meraviglia. Si sentì vicino al cielo come mai era stato in vita sua, sembrava quasi che sarebbe bastato alzare un braccio per carezzare la superfice scoscesa e pallida della luna.

Un sorriso incurvò le labbra di Leucello che balzò in piedi trepidante dopo vari minuti in estati. Voleva correre a svegliare Mondrik, ma poi ripensò all'espressione dell'amico poco prima di andare a dormire e quindi finì per ripensarci. Leucello si disse che probabilmente l'amico non avrebbe gradito molto essere svegliato per guardare quella che per lui sicuramente era una sciocchezza per nulla meritevole di qualcheduna attenzione. Leucello decise quindi di tornare a sedersi, rigirandosi un'altra canna cava tra le mani, voleva realizzare una seconda canna-occhiale, poi magari le avrebbe unite e avrebbe visto tutto più da vicino. Chissà quante cose avrebbe potuto scoprire sulle stelle e sullo spazio! Leucello aprì nuovamente il baule e rovistò tra i sui attrezzi in cerca di altre lenti uguali, sobbalzando al russare improvviso di Mondrik. "Leucello" la voce sussurrata ma ugualmente limpida di sua madre lo fece voltare "Madre, che cosa ci fate ancora sveglia?" Domandò stupito "E' molto tardi" "Potrei farti la stessa domanda" rispose lei con un sorriso "Domani devi anche partire, non così tardi per giunta". Leucello rispose al sorriso e strinse le mani della madre, avvicinandola a sé "Dal momento che siete ancora sveglia, posso farvi vedere una cosa meravigliosa?"

Fece sedere la donna sulla sedia, porgendole la canna-occhiale, inclinandola poi delicatamente verso il cielo mentre aiutava l'altra a tenerla. La donna dopo un cenno del figlio guardò dentro senza fare domande, Iris si era sempre fidata a buon motivo del suo unico figlio, Leucello era sempre stato sin da bambino ferocemente sincero e insopportabilmente affidabile, motivazioni che lo avevano fatto apparire noioso e addirittura detestato dagli altri bambini di Vriento. Non appena ebbe messo a fuoco anche lei il cielo, Leucello vide sua madre spalancare la bocca per la meraviglia, proprio come aveva fatto lui poco prima. Dopo diversi istanti la vecchia donna si allontanò dalla canna-occhiale e guardò il figlio con lo stesso sorriso che lui aveva avuto poco prima e Leucello le fu veramente grato per essere lì a condividere quel momento con lui "È meraviglioso!" Sussurrò la donna felice "E' proprio così, madre!" Rispose Leucello eccitato, prendendo una sedia per mettersi accanto a lei "Le stelle sembrano enormi! Come se fossero vicine a noi!" Leucello la strinse a sé, felice come un bambino "Voglio realizzare una seconda parte, in questo modo potrò guardare perfettamente e tutto sarà ancora più stupefacente e dettagliato!"

Leucello si alzò e riprese a cercare le altre lenti nel baule, però altre lenti lì non c'erano "Lo porterai nella capitale con te?" Domandò la donna vagamente allarmata "Penso di sì" rispose Leucello continuando a frugare "Perché lo chiedete?" Iris fece una smorfia "Stai attento che non lo vedano" lo ammonì lei "In una guerra sarebbe un'ottima arma per guardare il nemico da lontano". Leucello spalancò gli occhi, sentendo lo stomaco stringersi in una morsa "Non ci avevo pensato" disse impallidendo nella penombra, che stupido ingenuo era stato a non ragionarci su. "Basta che non lo vedano" lo rassicurò con praticità sua madre, leggendo la preoccupazione negli occhi del figlio. Leucello tornò a sedere e prese le mani della madre tra le proprie, stringendole nuovamente "Non vuoi andare, non è vero?" Domandò lei, conoscendo già le angosce che assillavano l'animo di suo figlio. "Madre" sussurrò Leucello con voce rotta "Mi sento un codardo. Ho paura, ma mi sento uno sciocco perché concretamente non ho motivi tangibili per cui dover temere questo viaggio". La madre sfilò una mano dalla stretta e gli prese piano il mento tra le dita, tenendolo voltato verso di lei "Avere paura non significa essere codardi" sussurrò dolcemente "Tutti hanno paura, anche gli eroi più coraggiosi" continuò " Il coraggio non deve essere confuso con la temerarietà. Il coraggio è sapere affrontare le proprie paure". Leucello tentò di rispondere, ma lei lo fermò "Se andare nella capitale ti sembra un atto temerario non ci andare" disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo "Devi fare quello che pensi sia giusto, quello che senti nel cuore. Se lo ritieni giusto e sicuro vai, parti domani e vai a fare al re il più bel ritratto che abbia mai visto. Ma se senti dentro che quell'uomo potrebbe costituire un pericolo per te, per noi, allora non ci andare. Se senti che la tua strada è nella Provincia Libera allora vai là senza ripensamenti".

Leucello la guardò negli occhi intensamente nonostante il buio quasi totale in cui era avvolta la stanza "Voi verreste insieme a me?" Domandò dolcemente, con la voce intrisa di speranza. La donna scosse il capo "Io sono vecchia" rispose "Non riuscirei a viaggiare. Inoltre questa è la mia terra madre, il posto dove sono nata ed è giusto che io muoia qui". Leucello le rivolse uno sguardo sofferente "Quindi anche se tornassi tra qualche tempo, dopo aver fatto il dipinto al re per poter partire serenamente, voi non verreste con me comunque?" La madre scosse piano la testa e lo carezzò "No, Leucello" confermò "Ma questo non deve impedirti di seguire i tuoi sogni". Gli occhi di Leucello brillarono nel buio "Ma madre" disse con un fil di voce "Se dovesse accadervi qualcosa... se voi doveste". Si interruppe senza riuscire a continuare, indugiando col capo basso "Se dovessi morire?" Finì lei al suo posto e Leucello trattenne il fiato "La morte è una cosa normale, dovresti saperlo. È il ciclo naturale della vita figlio mio e non si può fare nulla per impedirla". Leucello restò in silenzio, sospirando, poi strinse la madre "Non essere così triste" disse dolcemente la donna "Ovunque tu sarai, io verrò sempre con te. Anche quando sarò morta il mio ricordo vivrà nel tuo cuore... e ovviamente nei tuoi dipinti".

Leucello sorrise e la baciò sulla guancia "Voi siete veramente l'arcobaleno della mia vita, madre" disse teneramente "È per questo che i nonni vi hanno chiamata Iris". Lei sorrise e gli baciò la fronte, poi spalancò gli occhi e lo fece scansare per alzarsi, aprì lo sportello di un armadio basso della cucina e dopo aver cercato per vari minuti trovò finalmente quello che cercava. Tornò vicino al figlio con un sacchetto chiuso e glielo porse "Ecco" disse "Qui ci sono dei semi di fiori di iris. Ogni volta che sentirai la mia mancanza o avrai bisogno del mio aiuto quando saremo lontani basterà che tu pianti uno di questi semi". Leucello strinse il sacchetto nella mano come se fosse colmo di pietre preziose, se lo cacciò in tasca e abbracciò ancora una volta Iris "Grazie veramente, madre" sorrise assonnato. Iris annuì e si diresse verso la sua camera da letto "Madre?" chiamò ancora una volta il giovane uomo "Sì?" Leucello la fissò nel buio "Domani partirò per la capitale" annunciò con voce decisa "A cosa si deve adesso tanta decisione?" Domandò curiosa Iris "Se me ne andassi senza dare nemmeno un'opportunità al re sarei come quelli che disprezzo" spiegò Leucello con ovvietà "Sarei uno che giudica senza neanche conoscere, sarei un superficiale. E io non voglio essere superficiale" finì Leucello con convinzione.

Iris lo guardò, sostenendo la decisione del figlio "Se così hai deciso, allora molto bene. Io non mi opporrò alla tua decisione" disse la donna "Ma guardati bene dal re se nutri anche solo un minimo sospetto nei suoi confronti, perché vigilare non è reato. Adesso però andiamo a dormire o non ci sveglieremo!" Leucello annuì e si avvicinò in direzione della sua camera, tenendo il sacchetto di semi nella tasca e la canna-occhiale di legno nella mano "Leucello un'ultima cosa" lo chiamò ancora la madre "Sì?" Domandò lui sbadigliando, incontrando poi lo sguardo della madre fermo e serio nell'ombra della notte "Presta attenzione anche a Mondrik". Leucello la fissò perplesso "Mondrik?" Ripeté confuso "Lo sai che sin da quando eravate alla bottega e suo padre vi istruì nel dipingere insieme è sempre stato invidioso di te, perché tu sei un talento naturale mentre lui non lo è mai stato" sussurrò la madre "Lo dicevano tutti quelli che vi vedevano che Mondrik era invidioso di te, lo è sempre stato e temo che sempre lo sarà. Guardati le spalle da lui figlio mio" disse ancora "Spesso i nemici peggiori sono quelli più vicino a noi. Quelli che si fingono amici sono molto più pericolosi di un nemico dichiarato. I nemici non ti ammaliano e non conoscono i tuoi punti deboli, i tuoi falsi amici sanno ogni cosa, possono colpirti alle spalle, proprio quando sei più vulnerabile. L'invidia e la gelosia sono due pericolosi nemici e Mondrik non ha mai risparmiato cattiverie nei tuoi confronti, pur apostrofandole come pura e semplice ironia". Leucello annuì, attento "So che non vi siete mai fidata di lui e vedo il modo in cui mi guarda, ma non penso che possa essere pericoloso come temete. Siamo cresciuti insieme come fossimo fratelli, cosa potrebbe farmi?" Domandò Leucello, pensando lui stesso di parlare forse troppo ingenuamente "Non lo so, Leucello" ammise la madre "Ma guardati le spalle da lui e dal suo desiderio di primeggiare su di te. Adesso però basta indugiare e andiamo a dormire" terminò la donna rapidamente. I due si strinsero in un ultimo abbraccio e poi si separarono, recandosi ognuno nella propria stanza. Leucello si cambiò e poi si infilò a letto, si rigirò per diverso tempo prima di addormentarsi, con la testa satura di pensieri inquieti su guerre e complotti, poi finalmente si addormentò e sognò un mare di stelle, finalmente la pace e la serenità.

 

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Capitolo 10
*** L'ascesa del re ***


Pov:Teurum

Era oramai sera, le stelle brillanti si intravedevano appena tra le nuvole scure del vespro autunnale, la luna era una sottile falce luminosa e non faceva freddo, o forse era solo Teurum che non lo soffriva particolarmente. Teurum non era infreddolito ma era stanco, da quando era partito se l'era fatta tutta a piedi e nonostante fosse ben allenato era stato piuttosto faticoso. Era rimasto a dormire nei boschi per quanto più tempo possibile, ma adesso aveva veramente bisogno di dormire in un letto vero, perché la schiena iniziava a risentirne di tali misere condizioni. Purtroppo però Teurum doveva fare i conti con l'ennesimo problema, ovvero non possedeva tesli con cui poter pagare. Il ragazzo era su una delle strade principali, davanti a una biforcazione, da una parte la strada continuava, mentre l'altra conduceva a poco più di dieci minuti di camminata a un paese, Solitaro. Teurum non ci pensò su due volte e imboccò la strada che conduceva al paese, sicuramente avrebbe trovato una soluzione per risolvere il problema dell'assenza del denaro.

Quando Teurum fece il suo ingresso nel paese come si aspettava tutte le luci erano spente, fatta eccezione per quelle della locanda e di qualche abitazione. Il ragazzo si diresse verso l'unica locanda del paese, l'insegna recitava 'Locanda delle due oche' e aveva dipinte due oche proprio ai lati della scritta. Teurum si avvicinò alla porta di legno e la spinse, entrando. Dentro faceva caldo, c'erano un gran numero di lanterne accese, uomini ai tavoli di legno che giocavano e bevevano, altri che mangiavano frettolosamente, uno stava in un angolo a sorseggiare piano la sua zuppa, un altro lucidava un pugnale al centro di una tavolata e raccontava agli amici di cosa stesse architettando per uccidere un tale che gli aveva arrecato un grave torto. Al bancone c'era un uomo con i baffi neri, una stempiatura di capelli neri e grigi che gli ricadevano sulle orecchie rosse del faccione pieno, le mani erano grandi e forti, mentre gli occhi piccoli, scuri e si spostavano freneticamente da una parte all'altra, impartendo ordini ai vari aiutanti. Poco lontano c'erano due ragazze che stavano sedute su un tavolo vuoto e parlottavano allegramente guardando i vari uomini e ridendo tra loro. Teurum chiuse la porta e si fece avanti, poggiandosi al bancone con un portamento flessuoso ed elegante. Subito la puzza di fumo gli riempì le narici "Buonasera" disse cortesemente "Avete per caso una stanza libera?" L'uomo grosso lo guardò mentre strofinava energicamente la superficie già lustra di un piatto "Credo di sì" rispose "Ma è piccola" precisò onestamente "Non sarà un problema" disse subito Teurum.

"Ma devo mettervi a parte di un reale problema che mi affligge, momentaneamente irrisolvibile". Teurum si sistemò meglio il ciuffo nero dato che le due ragazze lo guardavano e si sussurravano qualcosa tra un sorriso e l'altro "E sarebbe?" Domandò l'uomo con la voce roca e calda, agitata ma non scortese "Non posso pagare adesso, non ho denaro con me, sono stato derubato" mentì con massima disinvoltura "Ma vi prometto che non appena mi sarà possibile vi porterò quanto vi devo, con tutti gli interessi". L'uomo al bancone allora posò il piatto e si pulì le mani sul grembiule ormai giallo e sporco "Allora non ci siamo proprio, buon uomo" gli disse scuotendo la testa, con vaga ironia nel tono di voce "Volete fregarmi" "Non dite così" rispose Teurum placido, sorridendo in modo affabile "Sono un uomo per bene, non potrei mai pensare di truffare un povero locandiere onesto come siete voi". Mentre i due parlavano le due ragazze scesero dal tavolo e si avvicinarono "Padre, chi è questo bel ragazzo?" Domandò una di loro sorridendo, senza staccare gli occhi da Teurum "Non lo state trattando con scortesia, vero?" Domandò l'altra. Teurum rivolse alle due un sorriso smagliante e quelle ridacchiarono "Figliole tornate al vostro posto!" Le sgridò l'uomo "Questo cortese signore non ha denaro, quindi non può restare" poi tornò a rivolgersi a Teurum "Qualsiasi cosa vi sia accaduta mi dispiace, ma non posso offrire le mie stanze a tutta la povera gente senza ricevere un pagamento".

"Ma padre" disse una delle due ragazze "Poverino, dove andrà a quest'ora e con questo freddo?" Teurum sorrise ancora "Inoltre ho promesso che vi renderò il denaro che vi devo non appena mi sarà possibile con tutti gli interessi, non ho colpa se sono stato derubato". L'uomo si mise le mani sui fianchi e lo guardò malamente, assottigliando lo sguardo "E allora sono sicuro che riceverò il mio denaro!" sbottò "Ma chi volete prendere in giro!" Teurum alzò gli occhi al cielo con strafottenza, ma continuando a esibire il solito sorrisino cortese "Guardate che le persone da cui mi sto recando non saranno affatto liete quando verranno a conoscenza del trattamento che mi avete riservato" disse tranquillo Teurum "E sentiamo, da chi state andando?!" Domandò subito l'altro, spazientito "Dai Tenebrerus" rispose con ovvietà Teurum. Le ragazze sussultarono e si coprirono la bocca ammirate "E cosa dovete fare voi dai nobili signori Tenebrerus, sentiamo!?" Continuò a interrogarlo l'uomo, ancora sospettoso "Signore" rispose Teurum, mentre il suo sorriso si allargava, facendosi vagamente beffardo "Questo non posso proprio dirvelo" rispose con ovvietà, poi si avvicinò e abbassò la voce per sussurrare "Sapete, questioni private che riguardano unicamente me e il signore". Le ragazze lo guardavano con crescente ammirazione e con curiosità, mentre il padre non era ancora convinto "Sentite" disse ancora Teurum, lievemente spazientito "Se decidete di concedermi una stanza non avrò bisogno di mangiare alcunché, ma se non volete darmi la stanza vi pregherei di comunicarmelo subito, senza ulteriori giri di parole, poiché capirete da voi che dovrò cercarmi un alloggio per la notte al più presto".

Le ragazze tirarono il padre "Non lasciatelo andare via, padre!" "È solo una stanza in fin dei conti e questo poveretto è stato derubato!" L'uomo guardò le figlie contrariato, poi tornò a scrutare Teurum che tentava di non ridergli in faccia e si limitava a un sorridere innocentemente, compiacendosi della sua abilità e della stupidità di tutti gli altri. "Va bene!" Esclamò finalmente l'uomo esasperato, facendo voltare tutta la locanda "Ma potrete restare solo e unicamente per una notte!" Precisò con il grosso dito puntato "Ovviamente" sorrise Teurum trionfante "I Tenebrerus mi attendono e io non ho alcuna intenzione di prolungare ulteriormente l'attesa dei cortesi signori" precisò senza esitazioni. Le ragazze esultarono e il padre le guardò severamente "Sedetevi" sbuffò l'uomo di malavoglia, rivolgendosi sempre a Teurum "Vi faccio portare una zuppa, non posso lasciarvi senza cena" borbottò più a sé stesso che all'altro "Ne vale della mia reputazione". Il sorriso sul volto di Teurum si allargò ulteriormente al cospetto di quella nuova vittoria che lo portò a pensare con più intensità a quanto lui fosse superiore rispetto a tutti gli altri. Teurum andò a sedersi a un piccolo tavolo libero e subito le ragazze si avvicinarono con due sedie, mettendosi una alla sua destra e l'altra a sinistra. "Siamo state scortesi" disse suadente una delle due "Non ci siamo presentate. Io sono Giniviev" disse quella a destra, aveva i capelli scuri raccolti morbidamente che ricadevano sulla spalla sinistra, un neo vicino al naso, le labbra carnose e le forme prosperose. Teurum le prese una mano e le sfiorò il palmo con le labbra "Incantato di fare la vostra conoscenza, signorina" disse fissandola negli occhi. La ragazza rise e subito la sorella parlò "Io invece sono Calinda" si presentò l'altra ragazza, anche lei dai capelli scuri, ma con le labbra più sottili, gli occhi più grandi e la pelle olivastra "È un onore fare la vostra conoscenza" ripeté Teurum, sfiorando con le labbra anche il palmo della mano di lei.

Uno dei ragazzi che aiutavano il padrone si avvicinò con una ciotola di zuppa in una mano e un calice nell'altra, li posò sul tavolo e si rivolse alle ragazze "Attente a quello che fate" le ammonì severamente "Vostro padre mi manda a dice che vi guarda". Entrambe lo guardarono visibilmente annoiate "Tu pensa a non immischiarti nei nostri affari" rispose Calinda "Ben detto!" La sostenne Giniviev. Il ragazzo scosse il capo e tornò al bancone "Perché non ci raccontate qualcosa su di voi?" Propose Giniviev, avvicinandosi un po' "Signorine, io non posso svelare i miei segreti" disse loro Teurum con un sorriso astuto "Si disperderebbe tutta la magia che mi porto dietro. Il mistero è quello che mi rende ciò che sono e io sono un enigma per chiunque e così voglio continuare a essere conosciuto. Ma vi prometto che un giorno scoprirete chi è il vostro ospite e allora rimarrete veramente meravigliate". Le due risero e Teurum iniziò a mangiare, la serata fu abbastanza tranquilla, durante la cena due uomini ubriachi si picchiarono dopo aver perso una partita e così fu necessario l'intervento di altri che dovettero cacciarli fuori, ma fu l'unico episodio degno di nota in tutta la sera. Terminata la cena Teurum parlò ancora un po' con le due ragazze, poi si fece consegnare la chiave della sua camera e salì per dormire. Il padrone era stato più che onesto, la stanza era un rettangolo stretto e lungo con un letto e un piccolo armadio in legno, insomma era una stanza completamente spoglia, ma per una notte sarebbe andata più che bene. Non appena si fu sdraiato Teurum si addormentò subito, senza neanche essere riuscito a togliersi gli abiti.

La mattina seguente quando Teurum si svegliò non era ancora l'alba, il cielo era ricoperto ancora di nuvole e i raggi del sole faticavano a farsi spazio in quella coltre scura e fitta. L'aria era stranamente fredda e il vento soffiava forte. Teurum si svegliò con i capelli scuri come fossero stati baciati dalla notte un po' scomposti sulla fronte e le coperte tirate fin sull'incavo del collo, non a causa del freddo quanto per la forza dell'abitudine. Teurum si girò per fissare il muro, stupito per essersi addormentato la sera precedente senza neppure essersi spogliato dagli abiti polverosi di dosso. Si girò ancora e restò disteso per fissare il muro annerito del soffitto. Sentì d'improvviso l'umidità e la muffa a cui la sera precedente, per la stanchezza probabilmente, non aveva prestato alcuna attenzione. Si alzò subito e si stiracchiò, lavandosi il viso con l'acqua nella brocca al lato della porta d'ingresso, versandola in una bacinella. Dopo essersi rinfrescato il volto si tolse la camicia e si rinfrescò anche i muscoli delle braccia e del petto.

Quella mattina sarebbe subito ripartito. Teurum doveva raggiungere al più preso il castello più vicino, quello dei Tenebrerus, allora sì, la sua ascesa al potere sarebbe stata inarrestabile. Teurum però aveva bisogno di un cavallo se voleva procedere a velocità ragionevole, ma era sicuro che non appena avesse messo piede fuori dalla locanda avrebbe sicuramente trovato quel cavallo di cui tanto aveva bisogno per andarsene. Però prima di andare una cosa l'avrebbe fatta, al Tempio era sempre stato vietato indurre profezie per sé o per quelli vicini, pena l'espulsione se qualcuno l'avesse scoperto. Ovviamente lui aveva ignorato bellamente quella regola ogni qualvolta ne avesse avuto occasione e purtroppo non era accaduto molte volte. Adesso però Teurum poteva fare quello che desiderava, poteva finalmente provare a vedere qualcosa di importante, nessuno lo controllava più se non quelle ammonizioni e dicerie a cui però era sempre prudente dare un minimo di credito, non potendo conoscere la verità. Certo, restavano dei problemi, perché le profezie indotte al contrario di quelle avute spontaneamente come in sogno adesso erano solo simboli vaghi da interpretare e perciò le possibilità di interpretare erroneamente erano molto più alte, inoltre, se non si chiedeva di poter vedere un momento specifico, la profezia poteva mostrare la possibilità di un momento ignoto del futuro.

Teurum però non sapeva cosa volesse sapere di preciso, né quando si sarebbe potuto avverare, così si limitò a desiderare una profezia su un futuro non specificato, pensando solo alla capitale. Si mise a sedere sulle coperte del letto, incrociò le gambe per concentrarsi meglio e tentare di avere una profezia più dettagliata possibile. Chiuse gli occhi e distese i muscoli, svuotando la mente da tutto ciò che non fosse il desiderio di poter conoscere il suo futuro. Dopo qualche minuto di infruttuosa tranquillità finalmente accadde qualcosa, nella mente del ragazzo comparvero immagini bluastre, un vorticoso sfondo sfocato con una singola immagine chiara: era uno stemma, lo sfondo forse era blu-violaceo e al centro c'era un'immagine, erano un bastone stilizzato con due serpenti sinuosamente attorcigliati, sormontati da due ali.

Teurum spalancò gli occhi colore del ghiaccio e fece un profondo respiro, come se si fosse appena svegliato da un incubo. Scese dal letto e iniziò a cambiarsi per andare via, pensando a quello che aveva appena visto. Sicuramente la figura nello stemma era un caduceo, un simbolo mitologico dai significati molteplici, tra cui quello di dominatore della natura, di equilibrio tra bene e male, tra sole e luna, era un simbolo di armonia tra i quattro elementi e derivava dal leggendario serpente piumato, forse l'animale più forte che fosse mai esistito-ammesso e non concesso che fosse esistito veramente-almeno secondo il parere di Teurum, perché l'idea che esistesse una sorta di enorme serpente munito di ali che viveva cento anni esatti, ermafrodita, trascorrendo la sua esistenza in una grotta per tutta la durata della vita pur essendo in grado di volare e dominare i venti, sputare fuoco, strisciare sotto terra causando terremoti e nuotare nei mari controllandone le acque a Teurum sembrava alquanto improbabile, nonostante alcuni dei suoi antenati avessero affermato nei loro scritti di averlo visto, soprattutto una certa Bradamante, di cui addirittura si vociferava avesse affidato la sua spada magica a questo serpente come custode.

Tralasciando queste bazzecole Teurum si sentiva veramente eccitato dalla visione, si sistemò il colletto della camicia e pensò rapidamente, fuori di sé dalla gioia. Non ne era del tutto certo, ma nello sfondo sembrava ci fossero i palazzi della capitale, o magari era lui a essere troppo speranzoso e quelli erano solo alberi sfocati. Lui era un esperto di lettura delle profezie che tanto spesso venivano fraintese, ma anche focalizzando l'attenzione sull'immagine nello stemma il significato gli era parso tanto ovvio da risultare banale. Teurum rappresentava il caduceo! Da bambino la balia lo paragonava spesso a un serpente perché Teurum si aggirava sempre in modo silenzioso e astuto, le ali rappresentavano il suo potere di vedere il futuro, quindi di vedere oltre. Quello nello stemma era un simbolo di potere e Teurum era l'ultimo discendente della famiglia più importante del continente e per concludere l'animale era simbolo di dominio sulla natura, sugli elementi, e questo era un chiaro riferimento ai poteri della sua famiglia che avrebbe recuperato.

Sarebbe diventato re, dopo quella visione Teurum ne era più che certo. Un sorriso compiaciuto gli illuminò il bel volto, tutto stava andando come doveva, come lui voleva, adesso aveva il suo futuro, doveva solo trovare la strada per arrivarci. Decise di scendere nonostante stesse a malapena albeggiando, ma probabilmente la cosa migliore era andarsene proprio adesso, con un po' di fortuna non avrebbe trovato nessuno giù a trattenerlo inutilmente. Aprì la porta della stanza e avanzò verso la rampa di scale con passo veloce ma leggiadro. Teurum non si era reso conto la sera precedente di quanto il legno cigolasse, così fu costretto ad avanzare ancor più lentamente per non far rumore. Con stupore vide il proprietario della locanda già sveglio e concentrato sul lavoro, era dietro al bancone e lucidava un calice energicamente, similmente a come Teurum lo aveva visto lucidare il fondo di una scodella la sera precedente. Non appena l'uomo lo vide scendere con maestosità dall'alto della rampa, corrugò le sopracciglia "Vi sei alzato presto" disse semplicemente, senza rivolgergli un vero e proprio saluto. Teurum gli sorrise di rimando "Non voglio far attendere oltre i cortesi signori Tenebrerus come vi ho già detto ieri" rispose lui cortesemente. L'uomo lo scrutò dalla penombra del bancone, illuminato solamente da due mozziconi di candela consumati e dalla luce naturale che filtrava dalle poche finestre "Non me li porterete mai i soldi, dico bene?" Disse con ovvietà, ma guardandolo con un sorriso amaro che gli incurvava malamente le labbra piene. "Perché vi ostinate tanto a pensare male del sottoscritto?" Domandò vagamente esasperato Teurum "Dovevo chiamare qualcuno e farti portare via" continuò l'uomo. Teurum sorrise e alzò gli occhi al cielo con malcelata strafottenza "Non mi avrebbero fatto nulla" disse semplicemente "Voi dite!?" Rispose l'uomo, sporgendosi in avanti per guardarlo più da vicino "Avreste raggirato anche loro con i vostri discorsi eloquenti, probabilmente avete ragione" disse poi più a sé stesso.

Teurum scosse il capo, divertito "No, semplicemente io non vi ho costretto ad accogliermi, voi alla fine avete accettato liberamente" rispose con ovvietà il ragazzo e l'altro rise "Voi dovete essere un mercante" ipotizzò l'uomo "I mercanti riescono a incantare chiunque con la loro parlantina, quelli bravi almeno ne sono capacissimi. Oppure siete un arringatore". Teurum scosse la testa "Non avete indovinato, mi dispiace" gli rivelò "Ma un giorno lo scoprirete, parola mia. Ma non dovete preoccuparvi, ci rivedremo quando vi porterò il denaro". L'uomo assottigliò lo sguardo "E tra quanto tempo avverrà?" Si informò l'altro, continuando a usare un tono sarcastico. Era buffo, era certo di essere stato imbrogliato dal primo momento che aveva parlato con Teurum, eppure faceva ugualmente conversazione e finiva per assecondare tutte le richieste di Teurum. "Non so darvi una data indicativa" rispose Teurum vagamente "Ma posso assicurarvi che più tempo trascorrerà, più denaro vi porterò per sdebitarmi per la fiducia che avete finto di riporre nel sottoscritto e l'ospitalità che effettivamente mi avete offerto". L'uomo lo fissò e scoppiò a ridere, pur preoccupandosi di mantenere un tono di voce basso per non disturbare gli ospiti che ancora dormivano al piano superiore "Siete un bugiardo di talento!" disse "Usate un tono così rassicurante, potreste convincere chiunque di star dicendo il vero!" Teurum rispose al sorriso "Sto dicendo la verità" ripeté ancora "Ma se volete continuare a diffidare fate pure, non insisterò oltre. Ora se non vi dispiace devo proprio andarmene". Si avvicinò alla porta per uscire, ma l'uomo lo bloccò, mettendosi davanti "Volete andarvene senza mangiare?" domandò perplesso l'uomo corpulento, alzando poi le mani al cielo "Sedetevi imbroglione, vi porto quello che trovo di già pronto per la colazione, ho capito che avete fretta, ma la mia reputazione con i clienti non verrà ugualmente rovinata per così poco!". Teurum allora acconsentì e si mise a sedere piuttosto compiaciuto del suo operato al tavolo più vicino al bancone. Vide l'uomo tornare dopo qualche minuto, tra le mani teneva una zuppa di cereali cotti in acqua zuccherata e una caraffa di latte. Li porse a Teurum e poi lo guardò mangiare velocemente, scrutando ogni movimento "Voi siete un nobile" sussurrò all'improvviso "Perché dite così?" Domandò tranquillo Teurum "Sedete rigido come un uomo d'alto rango e mangiate in maniera educata e composta, proprio come ho visto fare una volta a un signore. Magari provenite da una famiglia nobile decaduta, per questo vi hanno rubato il poco denaro che portavate e adesso i Tenebrerus vogliono che vi rechiate da loro, forse per concedervi la mano di una delle loro figlie. Ho ragione?" L'uomo lo guardò intensamente, in attesa di una risposta. Teurum non disse nulla, ma alzò gli occhi al cielo "Ho detto che lo scoprirete, basta insistere". L'uomo fece una smorfia "Che arrogante siete" gli disse "Siete un signorotto imbroglione e sfacciato".

Teurum si alzò e portò il piatto e la caraffa al bancone "Grazie per l'ospitalità" disse con garbo "Vi prometto che non ve ne pentirete. Porgete i miei più sentiti saluti alle vostre care figliole" finì. Si voltò per andare una volta per tutte, ma la voce dell'uomo lo costrinse a voltarsi ancora una volta "Quando mi riporterete il denaro voglio che sappiate il mio nome" spiegò "Io sono Geppo, ma gli amici mi chiamano Occhi di Brace". A Teurum venne da ridere "E perché?" "Dicono che i miei occhi scuri sembrano le braci spente di un falò, in special modo alla luce delle candele durante la sera". Teurum sorrise e scosse il capo, pensando a quanto i popolani potessero essere miseri e scontati "Io sono Teurum" i due si strinsero la mano in segno di saluto, poi Teurum aprì la porta "Teurum!" Lo chiamò ancora l'uomo "Sì?" "Buona fortuna" disse Geppo con un vago sorriso sul faccione "So che solo in questo modo forse riceverò il denaro che mi dovete". Teurum annuì, sorridendo per le parole dell'uomo "E tanti anche, statene certo. In questo modo potrete ristrutturare questa locanda. Arrivederci cortese amico" "Arrivederci persuadente imbroglione" rispose di rimando Geppo e Teurum lo vide sorridere ancora.

Quando finalmente Teurum fu uscito tirava vento, il paese era deserto a causa dell'ora, ma questo era un vantaggio, così lui senza fretta iniziò a passeggiare tra le vie. Doveva rubare un cavallo e stava cercando il recinto giusto. Girò senza trovare nulla per le prime vie, immaginando che le case con le stalle fossero vicine al bosco. Si avviò a passo rapido verso la zona più periferica di Solitaro, avvolto dalla semi-oscurità che gli faceva da complice e come aveva immaginato trovò in alcune case dei recinti malridotti. Ispezionò diversi cavalli da lontano, poi guardò fissamente una casa. Il legno del recinto era scorticato e il tetto della casa era bucato, ma lo stallone lustro che stava solitario al centro era il più bello che Teurum avesse mai avuto modo di vedere. Guardò meglio la casa, prima doveva essere bella, forse la casa di un ricco mercante caduto in disgrazia e probabilmente il cavallo bianco era l'ultimo lusso che potevano permettersi di avere, o più veritieramente l'unico mezzo di sostentamento che avevano, magari per arare i campi. Era uno stallone dal pelo bianco talmente terso che pareva fosse di gesso, o meglio ancora come il marmo. Sembrava fosse in ottima salute e Teurum immaginò che i padroni si curassero più di lui che non di loro stessi per assicurarsi la sopravvivenza e forse salvare la reputazione ostentando una parvenza di ricchezza.

Il ragazzo si guardò ancora in giro, una mela era nascosta sotto una sedia nell'ombra e lui la afferrò, strofinandola poi per incoraggiare il cavallo a seguirlo. Notò vicino a un sacco quasi vuoto di semi che c'era una specie di bambola di pezza oramai piuttosto malridotta. Probabilmente c'era anche una bambina in casa. Teurum tuttavia non ci badò minimamente, il potere era qualcosa di difficile da ottenere, era necessario sacrificare le vite di chiunque pur di ottenerlo e quelli che adesso per giunta erano solo miseri contadini per lui erano del tutto insignificanti. Teurum aprì il cancello tenuto chiuso da un laccio di spago che tagliò con un coltellino e iniziò ad agitare la mela davanti allo stallone. L'animale dopo qualche attimo di esitazione si lasciò sedurre da quel serpente che era Teurum e si decise a seguire l'uomo e la mela della tentazione. Dopo aver fatto qualche metro il ragazzo si fermò e fece mangiare la mela al cavallo, mentre lo carezzava sul muso "Ora tu sarai il mio destriero" sussurrò all'animale ormai docile.

Anche senza sella Teurum salì agilmente e con i talloni lo spronò ad avanzare tra l'erba secca delle colline. Prima lo fece andare al trotto per timore di destare qualcuno dal sonno mattutino, poi una volta allontanatosi abbastanza dal villaggio lo spronò affinché lo stallone andasse al galoppo. Iniziò a galoppare senza fermarsi, sempre più veloce, sentendo il vento che gli spettinava il ciuffo nero e i raggi di sole che gli baciavano le guance incavate. Teurum giunse poi a un fiume stretto e allora rallentò. Scese dal cavallo e si avvicinò alla superficie dell'acqua per bere, imitato dal suo nuovo destriero. Teurum si figurò nella mente il castello dove presto si sarebbe recato, non distava così tanto adesso che aveva un cavallo, inoltre lui non si sarebbero fermati quasi mai, neanche con il buio. Avrebbe raccontato ai signori cos'era accaduto e si sarebbe messo al loro servizio come ultimo profeta del Tempio, nonostante i profeti non avessero più il permesso di stare né a corte né ai castelli da più di un secolo oramai.

Doveva agire d'astuzia e questo non era di certo un problema per lui, tutto l'opposto! Teurum era l'astuzia fatta persona e nel giro di pochi mesi sarebbe diventato re. Un problema però c'era, doveva capire come ottenere nuovamente i poteri della sua famiglia che sembrava fossero spariti nel nulla con la morte del nonno e dello zio. Magari se fosse andato oltre la Foresta delle Anime, il confine che divideva le province del regno di Expatempem dal regno dalla Provincia Libera, lì avrebbe avuto qualche risposta. La Provincia Libera prima di stipulare l'alleanza con Fritjof e ottenere poi l'indipendenza era chiamata Provincia Magica e magari qualcuno sapeva come fare per riprendere i poteri degli elementi in quel luogo ancora intriso di tanta magia. Teurum si mise a sedere su una roccia, cogitabondo, andare oltre la Foresta delle Anime era un'idea allettante, ma Teurum ci avrebbe impiegato tanto e doveva prima ottenere la fiducia dei signori, perché una volta attraversata la foresta senza subire conseguenze dall'altra parte avrebbero capito subito le sue reali discendenze e magari questo avrebbe potuto essere rischioso, recarsi in un regno che aveva voluto ribellarsi al dominio della sua famiglia senza avere l'appoggio di qualcuno dal potere consolidato e riconosciuto era troppo persino per Teurum l'astuto. Inoltre una cosa del genere comportava chiedere apertamente aiuto a quei traditori della Provincia Libera e sicuramente chiedere aiuto era una delle cose che il ragazzo detestava di più.

Così Teurum decise definitivamente che sarebbe andato al castello dei Tenebrerus come già pianificato, alla Provincia Libera si sarebbe recato in futuro. Aveva atteso anche per troppi anni per mettersi in moto, era lui il legittimo re e la brama di riavere il suo regno lo divorava internamente, giorno dopo giorno, corrodendogli l'anima. Quei maledetti invasori e quei dannati traditori della Provincia Libera aiutati da altri signori ribelli e cospiratori delle altre quattro province avevano lasciato che Fritjof Raylon uccidesse la sua famiglia, privandolo del prezioso trono che gli spettava per diritto di nascita e uccidendo la famiglia avevano permesso che si creasse i demoni che adesso minacciavano il regno. Teurum avrebbe voluto che morissero tutti quegli ingrati traditori, ma poi su chi avrebbe regnato? No, doveva riprendersi i poteri e il regno, allora lo avrebbero visto come un salvatore, ma lui poi si sarebbe tolto la maschera che sempre indossava, rivelandosi per quello che era veramente, un monarca assoluto. Avrebbe restituito nuova gloria alla stirpe del Re della Morte.

Teurum si alzò e guardò le colline lì intorno del tutto deserte, anche se era solo sapeva che presto sarebbe stato tutto suo quel regno, tutte le nobili famiglie traditrici si sarebbero prostrate al cospetto del loro re, davanti al caduceo e Protettore degli Elementi. Teurum Rerensy stava arrivando e presto tutti lo avrebbero temuto. Salì nuovamente sul cavallo e ripartì veloce come il vento, diretto verso il castello dei Tenebrerus per compiere il suo destino.

 

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Capitolo 11
*** Lenzuola di seta e marmo rosso ***


Pov:Cleorae

Era una bella mattina nella capitale e tutto sembrava straordinariamente ordinario e quieto nonostante il mese di demetrio avesse definitivamente portato l'autunno, l'aria era più rigida ma non fredda e il sole era tiepido e piacevole, tutte queste caratteristiche rendevano quella giornata perfetta per passeggiare. Quando Cleorae si svegliò aveva i capelli rossi che le ricadevano a piccole ciocche sul viso, aprì i begli occhi azzurro acqua e rimase immobile. Subito riconobbe la figura muscolosa di Morfgan che era seduto sul bordo del letto, era di spalle e indossava una vestaglia lustra dorata che gli copriva il corpo. La ragazza si alzò con delicatezza, stiracchiandosi tra le lenzuola di seta, così da far voltare il giovane re "Mio re" lo salutò lei con un cenno reverente, accompagnato da un dolce sorriso sulle belle labbra.

L'altro sorrise di rimando, spostandosi i capelli marroni dagli occhi "Buongiorno, Corallina" rispose il ragazzo, chiamandola con il soprannome che le aveva dato. Cleorae e Morfgan erano diventati amanti, dopo il funerale del re la ragazza aveva bevuto un po' troppo secondo l'opinione comune (o almeno era quello che aveva fatto credere a tutti i presenti), e il nuovo re, da sempre affascinato da quella bellissima ragazza, si era offerto di accompagnarla in camera e non vi era più uscito sino al mattino successivo. La mattina seguente la ragazza aveva finto una crisi di pianto, simulando di sentirsi in colpa per quello che aveva fatto e così Morfgan l'aveva consolata meglio che aveva poteva. I due poi si erano messi insieme in modo non del tutto ufficiale, ma ugualmente noto a tutta la corte che aveva immediatamente bollato quella relazione come una viscida ingiuria alla memoria di Fritjof. Cleorae aveva detto che Morfgan le ricordava il suo amore appena morto e d'altro canto a Morfgan non interessavano tanto le reali motivazioni della fanciulla, era sempre stato attratto da lei e qualsiasi motivazione gli sarebbe andata bene.

Da allora i due si vedevano quasi tutti i giorni e, se il castello non aveva visto di buon occhio la relazione di Cleorae con Fritjof, adesso aveva condannato senza pietà la relazione della ragazza con il figlio del defunto re, però tutti erano ugualmente consapevoli della loro impotenza, perché di fatto non potevano fare altro che tacere e accettare le volontà del nuovo, impetuoso, re. Morfgan era felice, sapeva che con tutta probabilità non sarebbe andato d'accordo con la moglie, ma poteva sempre contare sulla sua amante che si era rivelata essere una donna più intelligente e furba di quel che gli era sempre parso, oltre che una compagnia gradevolissima. La giovane aveva iniziato a confidare a Morfgan che, per quanto avesse amato Fritjof, forse lui era migliore, e che probabilmente lei lo aveva sempre amato, ma si era dovuta accontentare sino a quel momento della brutta copia di Morfgan che era Fritjof. Ovviamente questo aveva colmato di orgoglio il ragazzo che si era sempre domandato come potesse una donna in possesso di una bellezza fuori dal comune come Cleorae ad aver scelto un vecchio come compagno di vita.

"Siete turbato, mio re?" Domandò Cleorae spostandosi una ciocca dal volto e avvicinandosi all'uomo "Di cosa dovrei essere preoccupato, Corallina?" Chiese il ragazzo avvicinandosi a sua volta con un ghigno divertito sul volto "Non sarai gelosa dell'arrivo della mia sposa?" Morfgan afferrò il mento della donna e la baciò senza darle la possibilità di rispondere. Quando i due si separarono Cleorae sorrise, ma senza perdere la serietà "No! Ovvero, devo ammettere che la signorina Aurilda sarà molto fortunata ad avervi, ad averti mio re" disse con voce suadente, sforzandosi di apparire convincente "Ma io mi riferivo ai demoni ai confini del regno che minacciano la serenità del regno e si spingono ogni giorno più dentro". Morfgan cessò subito di sorridere, ma non per la preoccupazione, più che altro per il fastidio che quei pensieri gli causavano, dalla sua espressione seccata sembrava tentasse di scacciare una mosca molesta "Quei maledetti mostri prima o poi li abbatteremo" disse annoiato, con noncuranza, come se stesse parlando di banali cani randagi che gironzolavano per le strade della capitale. La ragazza poggiò la testa sulla spalla di lui e sospirò sconsolata "Vorrei tanto vivere nella Provincia Libera" sussurrò astutamente, mantenendo un tono candido e sognante "Perché mai!?" Domandò Morfgan sottraendo la spalla alla pressione della giovane, per poterla guardare negli occhi, evidentemente turbato da quella confessione.

"Ma come, mio re" rispose lei mestamente " In quel luogo tutto è lieto e spensierato, posseggono la magia e non ci sono i demoni a minacciare le loro vite". I due si fronteggiarono in silenzio, Morfgan attendeva di sentire un continuo e Cleo pensò bene di non farlo attendere oltre "Vostro padre era un uomo buono" disse Cleorae con ovvietà "E molto generoso, ma quando concesse l'indipendenza alla Provincia Magica e sconfisse il re e la sua famiglia che erano i dominatori degli elementi causò inconsapevolmente la formazione dei demoni che oggi minacciano noi tutti." Morfgan la guardava attentamente "Quindi che vuoi dire con queste parole?" La ragazza si alzò e si coprì il corpo avvolto in una morbida camiciola con una vestaglia più pesante e vistosa, orlata di pizzi e merletti "E se gli abitanti della Provincia Libera avessero manipolato il potere della Foresta delle Anime non solo per creare un confine naturale tra noi e loro ma per nasconderci qualcosa di più importante? Magari sono loro a mandare i demoni, per questo non distruggono i loro territori!"

Morfgan spalancò gli occhi e la guardò colpito, ma proprio allora qualcuno bussò alla grande porta di legno massiccio della camera reale "Maestà, il signor Tenebrerus è quasi giunto al portone" disse un ragazzo da fuori alla porta, che Cleorae riconobbe dalla voce essere suo cugino Sipo "Che attenda, arriverò tra poco!" Urlò di rimando Morfgan, con il solito tono scortese e irritato. Cleorae si avvicinò nuovamente a lui, decisa a terminare la conversazione. Gli prese le mani con delicatezza e si sporse in avanti, dandogli un bacio a stampo. Subito il re le cinse la vita per avvicinarla di più a sé e per approfondire quel lieve bacio. Cleorae fece un piccolo scatto verso l'alto e i due si staccarono "Cosa mi stai dicendo, Corallina?" Domandò lui con gli occhi che brillavano, scostandole dal volto una ciocca di capelli baciati dal fuoco. La ragazza si piegò su di lui e gli sussurrò all'orecchio "Riprenditi la Provincia Magica". Morfgan spalancò di più gli occhi "Ma Corallina? Come farò!? E soprattutto perché dovrei muovere guerra contro quella gente senza la minima prova, per giunta dopo che mio padre ha loro donato la libertà in segno di riconoscenza per l'aiuto che gli offrirono?"

Cleorae assunse un'espressione di impazienza che subito camuffò con un sorriso, da brava simulatrice qual era "Ma se invece fossero loro, mio re!? Se fossero loro a mandare i demoni?" insistette "Sono sempre stati egoisti pensando a difendere loro stessi per abbandonare noi altri alla nostra sorte infausta. Sono dei ribelli e traditori che hanno approfittato della bontà di vostro padre". Morfgan non sembrava essere troppo convinto dalle parole della ragazza perché aggrottò le sopracciglia, ma la cosa che piacque di meno a Cleorae fu una vaga rabbia sul volto di lui " Non mi importa un'accidenti di quei miseri fattucchieri" disse in tono sprezzante "Al tempo si rivelarono utili al loro scopo, per consolidare il regno di mio padre che oggi è il mio. Un regno che adesso voglio solo godermi". Cleorae tentò di replicare ma lui la zittì con un cenno stizzito della mano "Inoltre ricordavo la storia in maniera differente, furono le altre province a voler restare fedeli al re, la Provincia Magica non ebbe alcuna colpa delle loro scelte. La mia famiglia oggi è in debito con loro per l'aiuto che ci hanno offerto in passato e senza una valida scusa io non ho la minima intenzione di muovere guerra contro il popolo che ha aiutato mio padre a consolidare il mio potere semplicemente perché una serva come te ha patetiche supposizioni! Lasciamo pure che quei mostri tormentino chi è più debole e inutile, prima che giungano alla capitale forse io sarò già morto e tutto questo non sarà più un mio problema". La donna lo fissò con disappunto, cosa che di certo Morfgan aveva notato perché la strinse con forza, tanto da farle male "Cosa vuoi ancora da me, Cleorae?" Domandò minaccioso "Ti sto concedendo sin troppo, ma non dimenticare mai che, nonostante tu mi piaccia, sei sempre una serva e io sono il tuo re". Cleorae vide chiaramente l'ira incontrollabile di Morfgan, così decise di cambiare strategia. Si piegò piano su sé stessa e tentò di accasciarsi sul letto, ancora stretta da lui. Morfgan la lasciò andare con lo sguardo disgustato e così lei iniziò a tremare "Mio re" disse con la voce rotta "Vi chiedo perdono per avervi turbato!" Continuò, iniziando a piangere. Morfgan la fissò inespressivo, vagamente irritato "Ma non è stata colpa mia!" Continuò lei, piangendo più forte "È la paura a farmi parlare in questo modo!" Morfgan sollevò le sopracciglia "E di cosa hai paura?" Cleorae tentò di asciugarsi gli occhi "Dei mostri degli elementi! Verranno a prenderci! Io non voglio morire, vi prego, ti prego, salvaci mio re!" Scese dal letto e si mise in ginocchio ai piedi di Morfgan, baciandogli le mani. L'uomo la fissò con lo sguardo meno duro "Vi prego" disse ancora lei, singhiozzando.

Morfgan con una mano afferrò la vestaglia della donna e poi la tirò verso di sé, affondando con l'altra nei capelli rossi di Cleorae e baciandole con forza le labbra "Tu sei mia, solo mia!" Disse eccitato alla ragazza che sorrise di rimando, con le guance ancora rigate dalle lacrime "Vorrei poter dire lo stesso di voi..." pigolò lei, sospirando. Morfgan sentendo quelle parole ricordò di dover andare a incontrare il signor Tenebrerus e la sua promessa sposa Aurilda, così fece cenno alla ragazza di spostarsi per farlo passare. "Mio re, allora penserete a una soluzione per proteggerci dai demoni?" Domandò a bassa voce Cleorae, temendo un nuovo scatto d'ira. Morfgan parlò distrattamente "Ci penserò, ci penserò" rispose vago e Cleorae ebbe la sensazione che l'altro non sapesse minimamente quello che diceva "Adesso però ho questioni ben più importanti di cui dovermi occupare". Si diresse verso la porta, ma poi si voltò nuovamente prima di uscire "Sbrigati a cambiarti, voglio vederti nella sala del trono al più presto" disse ammirando il corpo dell'altra da sotto la veste.

Detto questo Morfgan uscì sbattendo la porta come era solito fare. Cleorae rimase a guardare la porta per qualche istante, poi si alzò e sorrise, finendo di asciugare le lacrime che ancora le inumidivano le guance. Non era decisamente soddisfatta della risposta ricevuta ma era un inizio per Morfgan. Si avvicinò allo specchio e iniziò a prepararsi, qualsiasi altra dama avrebbe richiesto aiuto ma non lei, piuttosto che farsi vestire da tutte le altre serve che avevano solo brutte parole per lei preferiva fare da sola, inoltre le era sempre piaciuto essere indipendente e per tutta la vita era stata in grado di vestirsi da sé, quindi non vedeva il motivo per cui dover cambiare le cose adesso. Per prima cosa si truccò, dopo iniziò a vestirsi con fatica a causa del bustino stretto che doveva legare da sé e alla fine si sistemò i capelli, raccogliendoli morbidamente di lato e lasciando due ciocche corte sul collo, dal momento che Morfgan non portava praticamente più la parrucca non vedeva il motivo di continuare a portarla anche lei. Cleorae aveva un abito verde scuro orlato d'oro e una collana con un pendente, era un regalo di Morfgan, una collana con una conchiglia; dato che si ostinava a chiamarla Corallina non appena il re aveva visto quella collana gliela aveva donata. Cleo si specchiò distrattamente e poi uscì.

Svoltò tra i corridoi di marmo del castello, sentendo come di consueto gli occhi delle altre vecchie colleghe su di sé, vedeva il loro disprezzo e il disgusto che nutrivano nei suoi confronti ma nulla di ciò la fermava, non poteva lasciarsi fermare da così poco. Arrivò nella sala del trono entrando dalla porta di servizio e si mise in disparte, notando subito che il signor Tenebrerus doveva ancora arrivare. Il re era sulla piccola terrazza a strapiombo sul lato destro della stanza, apparentemente intento ad ammirare la città. "Maestà, stanno entrando" annunciò un uomo, così Morfgan si allontanò dallo strapiombo e si mise a sedere sul trono senza grazia, aveva la schiena abbassata e le gambe divaricate, come un ubriaco al tavolo dell'osteria. Cleorae distolse lo sguardo dal re e si concentrò sui nuovi arrivati, aspettando soprattutto di vedere la tanto nominata sposa. L'esiguo gruppo di soldati del signore fece il suo ingresso con l'uomo al centro, scortato da servi e guardie reali. La donna cercò attentamente, spostando lo sguardo dalla manciata di soldati all'uomo che stava al centro. Il signor Tenebrerus sembrava un uomo piuttosto stanco nonostante dovesse avere non più di quarant'anni, aveva i capelli scuri e ondulati che gli ricadevano appena sulle spalle, due occhiaie scure e l'espressione abbattuta. Cleorae continuò a cercare, ma era piuttosto evidente che non ci fossero donne nel gruppo.

Cleorae che era un'ottima osservatrice per tentare di svelare l'arcano tornò a concentrarsi sul volto dell'ospite e notò meglio un misto di timore, preoccupazione e disagio sul volto, mascherati malamente da un sorriso tirato "Maestà" si inchinò l'uomo in segno di saluto e reverenza e il manipolo di uomini che si era portato dietro subito lo imitò "Sono terribilmente addolorato per la vostra perdita, avrei desiderato con tutto il mio animo poter assistere alla funzione funebre di vostro padre e poter dare un degno saluto a" "Grazie signor Tenebrerus, ma può bastare così" lo interruppe malamente Morfgan, spazientito. Gamelius si rialzò con gli occhi bassi e a Cleo parve di vederlo impallidire "Siamo tutti dispiaciuti per la morte di mio padre e stiamo cercando, perché sembra proprio che si sia trattato di un veleno o qualcosa del genere, il colpevole di un tale crimine aberrante. Ovviamente quando il colpevole verrà trovato, subito io e mio fratello ci preoccuperemo di farlo giustiziare con una pubblica esecuzione per il crimine efferato che ha commesso contro il suo legittimo re. Ma, fintanto che il colpevole non verrà trovato, temo proprio che la vita debba andare avanti" continuò Morfgan quasi annoiato. Gamelius fece un lieve cenno di assenso col capo "E ora" disse ancora Morfgan con voce chiara e limpida, raddrizzandosi sullo schienale "Dov'è vostra figlia? Dov'è la mia promessa sposa?" Il volto di Gamelius a sentire quelle parole si fece più pallido "Maestà" disse con voce rotta, appena udibile "Vi domando infinitamente perdono, ma non ho potuto portarla con me, quando sono partito mia figlia era gravemente malata".

Cleorae scrutò l'uomo, le sembrava ovvio che stesse mentendo, era troppo agitato e spaventato per star dicendo la verità e lei sapeva che le persone sincere non avevano nulla da temere. "Vi sembra un buon motivo per non portarla al cospetto del suo futuro sposo e del suo re!?" Lo aggredì verbalmente Morfgan, nervoso e arrabbiato per la notizia appena ricevuta "Dovevate portarla da un re! Da un re, rammendate, non da un mercante di seta per un nuovo vestito!" Tuonò il re facendo eco con la voce furiosa per tutto il lungo corridoio. Gamelius cadde nuovamente in ginocchio "Vi prego di perdonarmi, mio re!" disse disperato e supplicante. Morfgan furioso si voltò e incrociò lo sguardo di Cleorae, lei era dubbiosa, si capiva chiaramente che non credeva all'uomo. Morfgan dopo averla guardata in viso si voltò nuovamente verso Gamelius "Mi state mentendo!" Urlò, sputacchiando saliva per la rabbia incontrollata "Volete prendervi gioco di me con questa misera farsa, e sapete benissimo i costi per il matrimonio che è stato fissato da tempo al termine dell'inverno!?" Gamelius si alzò lentamente e tentò di replicare, ma non gli fu permesso "Maledetto bugiardo! Pensi di poter disobbedire e infrangere così l'accordo che stipulasti con mio padre, il tuo legittimo re! Tua figlia deve sposarmi! Aurilda mi appartiene, e lei deve recarsi al castello prima delle nozze, è improrogabile!"

Cleorae spostò lo sguardo dalla furia di Morfgan a Gamelius, l'uomo adesso aveva lo sguardo stranamente fermo e serio, come se improvvisamente avesse ritrovato il coraggio "Vi porterò mia figlia non appena sarà guarita" disse pazienza, a voce bassa "Ma vi pregherei di non mostrarvi tanto iroso nei suoi confronti, è solo una povera ragazza indifesa e malata...". Morfgan si alzò dal trono e rise dall'alto della scalinata mentre il sole della vetrata alle spalle lo illuminava, mentre il volto divenne arrossato "Quella patetica ragazzina che è tua figlia, signor Tenebrerus, mi appartiene e se non me l'hai portata allora me la farò portare da qualcun altro con la forza!" Cleorae distolse lo sguardo e notò Drovan nell'angolo opposto, guardava il fratello maggiore con un misto di approvazione, ma inspiegabilmente al contempo con disappunto, come se fosse indeciso sul da farsi. Gamelius aggrottò le sopracciglia, il suo sguardo questa volta era del tutto fermo e convinto, Cleorae ne era certa "Maestà, io vi obbedisco e questo la sapete bene, ma non potete parlare così di mia figlia, lei è malata e voi non potete farle rischiare tanto, mancano dei mesi al matrimonio..." si fermò un istante, poi inspirò e alzò la testa per guardare Morfgan in volto "E diffidando delle mie parole, offendete me!" "Adesso ho timore, signor Tenebrerus!" Lo schernì Morfgan, scendendo dalla scalinata con sprezzo per raggiungere l'altro "Mi avete mentito e questo io non posso accettarlo" disse "Ma ora mi avete offeso e questo è inaccettabile!"

I due si fronteggiarono, gli occhi dell'uno puntati in quelli dell'altro, la tensione era tangibile "Sapete, io vi ho sempre difeso al cospetto della mia famiglia, vi ho dipinto come un uomo valoroso e impetuoso, non iroso e possessivo come siete in realtà. Ma inizio a pensare che veramente voi non tratterete mia figlia con il giusto rispetto che merita se avete così poco a cuore la sua salute". Morfgan rise sguaiatamente, mentre Cleorae guardava la scena allertata "Non mi interessa un accidente di cosa pensate, sei solo un vecchio signore e io sono il tuo re" disse con la risata nervosa e colma d'ira "Ma possiamo smascherare facilmente il tuo inganno" sorprese poi tutti con tali parole, facendo strabuzzare gli occhi a Cleo "Mio fratello si recherà al castello e se tua figlia non sarà più malate, sarà la prova incontrovertibile del tuo tradimento!" Cleorae inarcò le sopracciglia, decisamente non si era aspettato un tale ragionamento da parte di Morfgan che era sempre distratto e superficiale. Il signore si irrigidì "Mia figlia potrebbe perfettamente essere guarita durante il tempo del viaggio!" replicò giustamente. Per Morfgan però fu la prova sufficiente e definitiva per smascherare la menzogna dell'altro " Come credevo!" disse trionfante "Mi hai mentito signor Tenebrerus e così facendo hai insultato la mia persona". Restò un attimo in silenzio e i due continuarono a fronteggiarsi, torvi e astiosi" Ed è per questo che io, re Morfgan Raylon primo, figlio del legittimo re Fritjof ti condanno a morte per tradimento e ingiuria nei riguardi del tuo attuale sovrano e per l'accordo che stringesti con il mio defunto padre!" Gamelius spalancò gli occhi e l'altro ghignò compiaciuto "E non è tutto" continuò con il viso deformato dal ghigno "I Tenebrerus ci hanno traditi, tutti loro, ed è per questo io ti dico, fratello" si voltò e incrociò lo sguardo con Drovan "Recati al loro castello, adiacente a quella pozza scura della Palude Nera e dopo uccidili tutti!" Disse gridando. Drovan fece un lieve cenno di assenso con il capo e Morfgan sorrise soddisfatto. "Uccidi la moglie, poi quelle stupide ragazzine e non risparmiare neppure la sorella di questo traditore, la sposa di Erysch " si voltò per bearsi del terrore negli occhi di Gemelius "E non farti scrupoli, se necessario uccidi anche i figli della donna e il marito! E infine" disse lentamente "Riportatemi Aurilda! Lei mi appartiene! Che sappia cosa accade a chi osa ribellarsi a me! Al suo re!"

Cleorae spalancò gli occhi, capì subito che quei propositi erano pessimi e dettati dalla rabbia, ma non poteva fare nulla al momento, non aveva legami ufficiali con il re, così si limitò a seguire la vicenda come una spettatrice costretta ad assistere a un brutto spettacolo teatrale. "Waltyer" disse Morfgan, rivolgendosi a quello che sino a poco prima era stato il generale delle guardie, adesso declassato a vicegenerale solamente per affidare quel compito fondamentale a Drovan e dargli una minima consolazione rispetto al ruolo ricoperto dal fratello "Arrestali e portali nelle segrete, domani questi uomini verranno giustiziati". Poi Morfgan ghignò compiaciuto e si rivolse a Gamelius "Spero che sentirai le grida della tua povera figlia, ovunque andrai, signor Tenebrerus!" Cleorae notò il consigliere Servrero, che sino a quel momento aveva osservato la scena in silenzio poco distante dal re, ebbe l'idea di farsi avanti e intervenire, ma si fermò sul posto quando vide Gamelius che estraeva la spada con lo sguardo fiammeggiante e il suo esercito fece lo stesso, addirittura quelli che reggevano lo stemma con la ninfea su fondo ottanio lo lasciarono cadere per rendere il combattimento più agevole. Morfgan fece lo stesso, estrasse la sua spada e così fecero le guardie e Drovan. Cleorae rimase a guardare la scena con il fiato sospeso, i colpi delle lame affilate delle spade dei soldati e il sangue che schizzava sul pavimento lustro della sala del trono insieme alle grida echeggiarono per il corridoio come un presagio nefasto. "Siete un miserabile!" Sbottò il signore, urlando distintamente e sovrastano il rumore dell'acciaio "Mia figlia non sarà mai vostra! Verrete punito per quello che state facendo, dai miei dèi oppure dal vostro dio! Per la vostra ossessione morbosa e per la vostra innata crudeltà!"

Drovan essendo un abile spadaccino era intento a duellare con due soldati contemporaneamente. Infilzò la spada lungo il collo di uno e poi tagliò di netto il collo all'altro. La luce proveniente dalla finestra circolare raffigurante il sole dall'alto rifletté sul sangue come avrebbe fatto con marmo rosso, Cleorae invece era a dir poco disgustata da tanta violenza ingiustificata. Il signor Tenebrerus era ferito alla gamba e zoppicava, ma non dava segno di cedimento, lui e Morfgan continuarono a scontrarsi con ferocia. Morfgan senza smettere di duellare lo guidò sul lato destro della stanza, di fronte al balcone. Il re lo ferì al braccio destro e la spada di Tenebrerus volò a terra con un tonfo sordo. L'uomo spalancò gli occhi e guardò Morfgan, poi parlò con la voce colma di disprezzo e terrore, pur riuscendo a mantenere una certa dignità "Io vi maledico, re Morfgan!" Esclamò l'uomo, capendo che quelle erano le sue ultime parole "Non siete degno di vostro padre! Non siete degno di questo regno e soprattutto non siete degno di mia figlia! Ma vi giuro che tutto quello che farete vi si ritornerà contro! Se proverete a perseguire il vostro scellerato proposito, a fare del male alle mie figlie e al resto della mia famiglia, morirete in preda a dolori atroci! Gli dèi vi maledicano, il vostro dio e tutti i miei antenati possano condannare la vostra anima in eterno!" Morfgan si avvicinò e con la spada alta tra le mani trapassò il torace dell'uomo con una crudeltà inaudita e spaventosa, accompagnata da un grido di rabbia incontrollabile. Il signor Tenebrerus cacciò un urlo terribile, rimanendo incastrato nella lama della spada " Voi non farete del male alle mie figlie!" Disse annaspando, con il sangue che gli riempiva la bocca e le lacrime che gli facevano brillare gli occhi scurissimi. Morfgan rise e lo afferrò con una mano, stringendogli la spalla per liberare la lama ancora incastrata nel torace del signore, poi con un calcio lo fece precipitare giù. Le guardie spalancarono gli occhi, la servitù gridò, alcuni addirittura si avvicinarono cautamente alla balconata.

Cleorae guardò la scena impassibile, aveva calcolato una reazione del genere in seguito a una conversazione tanto violenta e incivile, mentre sul pavimento il sangue dei cavalieri morti si mescolava come acque di fiumi diversi "Drovan" disse Morfgan con un sorriso a increspargli le labbra "Se lo vorrai, ti nomino signore di quella miserabile palude oppure affidala tu a chi preferisci. Parti subito e uccidi la moglie di quel traditore miserabile, poi portami Aurilda! Sono più che certo che gli Hardex ti aiuteranno volentieri a compiere la mia volontà". Drovan annuì e uscì per prepararsi a eseguire l'ordine appena ricevuto, mentre Morfgan si affacciò per vedere dall'alto come si era ridotto il corpo di Tenebrerus. Laddove si era schiantato il corpo l'uomo si era presto accalcata una folla di popolani curiosi, adesso che avevano visto cos'era precipitato dall'alto del castello reale però si portavano le mani alla bocca, sconvolti per l'accaduto. Alcuni poi guardavano con insistenza verso l'alto, tentando di individuare qualcuno o qualcosa, mentre altri parlavano tra loro, sconvolti dalla macabra visione che si erano trovati davanti. Cleorae scrutò Morfgan preoccupata, una tale avventatezza era pericolosa per un re e non lo era meno quella fissazione per la sua promessa sposa, ma ci avrebbe pensato Cleorae a tranquillizzare Morfgan, lei che era intelligente e astuta, accorta e diplomatica, così avrebbe salvato il regno da caos e violenza. Si avvicinò a Morfgan non appena le fu possibile e gli parlò "Mio re, se volete la signorina Tenebrerus come dite non sarebbe meglio catturare le persone che ama per ricattarla e costringerla a sposarvi?" Morfgan la guardò colpito e concentrato "Ma sì" disse poi "Una o due persone possiamo tenerle vive finché non avrò raggiunto il mio scopo. Sceglie tu, Corallina" disse poi fischiettando, mentre puliva la spada dal sangue di Gamelius. Cleorae non ci pensò neanche un secondo "Cattura le sorelle". Morfgan annuì "Drovan!" Urlò "Vieni!" Il fratello comparve con il mantello da viaggio sulle spalle "Nuove disposizioni, fratello?" Domandò l'altro vagamente seccato "Cattura le sorelle della mia promessa sposa e tienile in ostaggio finché lei non verrà da me, riparando quest'onta al mio onore". Drovan corrugò le sopracciglia, stupito "Corallina ha proposto questa procedura del ricatto" spiegò Morfgan guardando Cleorae "Così Aurilda per salvarle sarà costretta a tornare da me". Drovan annuì, colpito "Allora parto subito" si voltò per andare, ma il fratello lo trattenne ancora e si avvicinò per sussurrare qualcosa che però Cleorae riuscì a sentire distintamente "Se vuoi uccidine una e lascia viva solamente la ragazzina che ti causa meno problemi, sarebbe uno spreco inutile lasciare viva più del dovuto un'altra figlia di traditori". Drovan annuì nuovamente e poi se ne andò. Cleorae quando Morfgan le sorrise ricambiò il gesto, consapevole del notevole impegno che avrebbe dovuto impiegare per salvare quel regno, ma ci sarebbe riuscita ugualmente, si sarebbe dimostrata cortese e servizievole con Morfgan, lo avrebbe aiutato e infine lo avrebbe sposato, allora avrebbe potuto aiutare senza bisogno del permesso del re, portando al termine il suo glorioso proposito.

 

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Capitolo 12
*** Prigione di pietra ***


Pov:Nomiva

Nomiva si stava annoiando, era talmente annoiata che scarabocchiava sulla carta da diversi minuti. Non ce la faceva più, se non avesse fatto qualcosa di vagamente divertente si sarebbe senza dubbio addormentata per la noia. Da quel che le era parso potevano essere trascorse ore da quando il suo precettore, il signor Diodorus, aveva iniziato a parlare senza interruzioni. Narrava di battaglie, trattati e paci con l'uno e poi con l'altro dei protagonisti della storia, ma Nomiva della storia non sapeva proprio cosa farsene. Un'altra cosa che proprio Nomiva non riusciva a comprendere era perché andasse studiata. Erano sempre gli uomini-eccetto le regine, le principesse e le donne-centauro-a decidere le sorti dei popoli, e secondo il parere di Nomiva lo studio della storia era pressoché inutile per gli uomini, figurarsi per una giovane donna, era un dispendio di energie, di memoria, del tutto inutile. Nomiva era abbastanza sicura che Diodorus fosse giunto a narrare eventi vicini alla storia contemporanea del regno, di certo il Re della Morte lo avevano superato, quindi il precettore era sicuramente giunto alla narrazione degli ultimi quattro secoli dall'anno attuale, ma quando di preciso?

Nomiva alzando il volto finalmente si degnò di ascoltare il suo precettore "E così nel 376 dopo la cacciata dalla grande invasione il re Vitronio, che si vociferava avesse scritto un manuale sull'uso dei poteri degli elementi, morì quasi sicuramente a causa di sua figlia, la futura regina Aracnea, uno dei monarchi più crudeli della storia". Nomiva sbuffò talmente forte da farsi involontariamente sentire "Signorina!" Diodorus la sgridò, fissandola negli occhi arrabbiato. Era un uomo piuttosto serio e non più vecchio di suo padre, aveva due piccoli occhi marroni, la barba corta e i capelli marroni, portava una lunga giacca grigia con una toppa discreta e una sorta di fazzoletto intorno al collo a imitazione delle cravatte eleganti dei signori "So perfettamente che non mi ascoltate" la rimproverò ancora "Quantomeno abbiate la decenza di non manifestare la vostra maleducazione in maniera tanto evidente!" Nomiva si sistemò meglio sulla sedia "È che non capisco" disse all'uomo "Non ascoltate, che è molto diverso!" Continuò ad ammonirla lui "Non la storia" spiegò subito Nomiva "Non capisco a cosa possa mai servire studiare queste cose. Penso che sia inutile per i ragazzi, io che sono una ragazza che mai dovrei farmene?"

Diodorus storse la bocca e corrugò le sopracciglia, contrariato "Voi non capite la vostra situazione, non è vero signorina!?" Disse l'uomo alzando un poco la voce "La mia situazione?" Domandò perplessa Nomiva "Ma sì!" Insistette lui "La vostra situazione!" "Di cosa parlate?" Ripeté Nomiva, seriamente sconcertata. L'uomo la fissò esasperato "Non capite che avete un grosso problema!?" Domandò agitandosi ancora, come se il misterioso problema avesse afflitto lui "Avete oramai superato dalla scorsa estate i quindici anni di età e nessun signore vi ha ancora chiesta in sposa per suo figlio!" Nomiva sorrise "Ah, quel problema dite" disse con vaga strafottenza "E io, sciocca, pensavo fosse qualche cosa di grave!" Diodorus la fissò sempre più contrariato "Non riuscite proprio a comprendere che la vostra è una situazione che causa disonore alla vostra famiglia?" Domandò piano l'uomo "Vostra sorella Selina è già promessa in sposa da diversi anni nonostante sia più piccola di voi e vostra sorella Aurilda al tempo venne promessa in sposa al principe ereditario quando aveva dodici anni, ovvero quando era più giovane di voi di ben tre anni!" Nomiva lo fissò tranquilla, con il principale scopo di far irritare di più l'altro "E voi dite che questo problema si può risolvere imparando a memoria tutte le guerre e le paci della storia del nostro regno?" domandò "Magari perché narrando tutti questi fatti inutili e noiosi potrei inebetire tanto un povero ragazzo da assuefarlo, rendendolo del tutto dipendente dal mio volere?" Le parole di Nomiva furono volutamente provocatorie e lei riuscì a stento a trattenersi dal ridere.

Diodorus la guardò furente, alzando le mani al cielo "Siete un'arrogante e un'impertinente!" La sgridò, poi si rese conto di aver alzato la voce più del dovuto e, visibilmente in imbarazzo, tentò di calmarsi "Voglio augurarmi che vi siate esercitata almeno con l'arpa e con il canto, non è così, signorina?" Domandò il precettore, temendo la risposta. Nomiva lo fissò a bocca aperta "Quindi dovevo suonare ancora l'arpa?" domandò facendo affiorare un piccolo sorriso vagamente beffardo sulle labbra "Io pensavo che fossero terminate le lezioni di musica". Diodorus divenne rosso, strinse le labbra e ringhiò, poi afferrò la bacchetta che aveva nell'angolo e utilizzava solo per i discepoli maschi, ma che dall'espressione furiosa che aveva sul volto probabilmente avrebbe tanto desiderato usare su Nomiva "Ne ho a sufficienza di lavorare con voi!" Ruggì furioso "Io vado a chiamare vostra madre e ci penserà lei a voi... io i miracoli non sono in grado di farli! Ma se continuate così una pazzia la compirò eccome! Mai vista tanta impertinenza prima d'ora, né da un ragazzo e tantomeno da una ragazza!" Nomiva lo vide uscire sbattendo la porta, per poi allontanarsi a passo pesante. A Nomiva però scappava da ridere. Quell'uomo le faceva sempre venire da ridere quando si arrabbiava, ma la ragazzina sapeva che adesso avrebbe subito un noiosissimo rimprovero da sua madre e quel solo pensiero le fece passare la voglia di ridere.

Dopo qualche minuto in cui Nomiva continuò indisturbata a scarabocchiare, tentando di imitare i bei disegni di Selina, Nomiva alzò gli occhi sentendo dei rumori. Sua madre Amillia era alla porta, era bella e seria, con i capelli neri semi-raccolti, gli occhi verdi e un bell'abito di un verde tenue che aveva dei ricami dorati sulle maniche e sul corpetto e la faceva sembrare una regina. Il volto dolce della madre era contratto in un'espressione di dissenso "Grazie Diodorus per avermi chiamata" disse, e allora Nomiva vide l'uomo alla destra della madre che la fissava soddisfatto "Ora ti prego di lasciaci sole". Diodorus si stupì della richiesta, ma annuì subito e le lasciò sole, non prima però di aver guardato Nomiva vittorioso. Nomiva lo guardò male e poi rivolse lo sguardo verso la madre Amillia "Sediamoci, dobbiamo parlare" le disse seria e Nomiva si mise a sedere vicino a lei. "Nomiva" iniziò la madre "Capisci che il tuo comportamento è sbagliato?" Come si era immaginata Nomiva, sua madre stava per propinarle uno dei soliti noiosi rimproveri "Tu devi imparare ad ascoltare e fare quello che ti viene imposto dal tuo precettore, non puoi ignorarlo e tantomeno mancargli di rispetto come fai adesso".

Nomiva si affrettò a rispondere "È che non riesco a comprendere a cosa mi serviranno queste cose in futuro". La madre scosse la testa "Le ragazze solitamente hanno poco a che fare con la guerra, perché devo imparare tutto questo se non mi servirà?" Amillia sospirò esasperata "A proposito di questo" disse guardandola negli occhi "Veramente non capisci quanto sia grave il fatto che tu non abbia pretendenti?" Domandò Amillia con apprensione, mentre Nomiva si limitò a scrollare le spalle "Credo di no". La madre scosse nuovamente il capo "In questo sei sempre stata tanto diversa dalle tue sorelle " continuò la donna come faceva sempre e Nomiva si stupì di come Amillia stessa non riuscisse ad annoiarsi nel ripetere sempre le stesse cose "Loro nonostante i numerosi difetti che posseggono sono sempre state in grado di imparare le buone maniere e tutto quello che è giusto sappia fare una signorina del tuo rango. Ma tu, Nomiva" si interruppe con un sospiro "Ti arrampicavi sugli alberi e portavi a casa gli animali. Sei addirittura stata morsa da un cane selvatico al braccio! Questo potevamo a malapena tollerarlo un tempo, quando eri una bambina, ma adesso che sei quasi una donna non possiamo più farlo per il tuo bene". "Ma, madre" tentò Nomiva "Io non faccio più quelle cose da tempo ormai" "Ma non fai quello che dovresti fare" la rimproverò Amillia duramente "Tuo padre ama molto te e le tue sorelle e questo lo sai, ma è sempre stato dispiaciuto nel sapere che il cognome Tenebrerus si estinguerà in linea maschile con la sua morte" spiegò la madre, ricordando a Nomiva qualcosa che già sapeva.

"Ma se questa era una cosa alla quale poteva rassegnarsi, tuo padre non può sopportare che nessun signore desideri una delle sue figlie come sposa del proprio erede. Questo è un dolore che tuo padre non può sopportare, soprattutto adesso che tua sorella ha macchiato per sempre il nostro onore con la sua fuga scellerata". Nomiva si sentì vagamente in colpa, ma poi ripensò a Filipphus, al suo sorriso e ai loro sogni di vivere liberi e insieme "Mi dispiace, madre" rispose piano, e in parte era vero, era sincera "Posso provare a comportarmi meglio se lo desiderate" disse poco convinta delle sue stesse parole. Amillia la guardò dritta negli occhi "Ti converrà iniziare presto, Nomiva" disse la donna, con la voce più dura di quanto non fosse stata poco prima "Perché io e tuo padre tenteremo un accordo e tu dovrai essere pronta se questo dovesse essere accettato". Nomiva fissò la madre perplessa e curiosa, vagamente sospettosa "E di che cosa si tratta?" Amillia stava rigida e seria, era talmente algida e morigerata da spaventare la figlia "Tuo padre prima di partire per la capitale ha deciso insieme a me di fare una richiesta al re". Nomiva la guardava attentamente, con il fiato sospeso "Tuo padre chiedere al nostro re di prendere in considerazione l'idea di farti sposare con il suo secondogenito, il principe Drovan, ancora celibe".

Nomiva restò immobile e la rabbia prese a pulsare forte dentro di lei "Cosa avete fatto!?" Disse con la voce dura e rabbiosa, ma era bassa, un sibilo rabbioso "Abbiamo tentato di risolvere il problema del tuo fidanzamento" rispose la madre seria e soddisfatta. "È questo che sono per voi quindi, un problema!?" Le parole le uscirono senza che potesse fermarle, la rabbia era forte e ora Nomiva riusciva a comprendere distintamente cosa dovesse aver provato sua sorella Aurilda. "Non capisco questa reazione spropositata da parte tua Nomiva, veramente!" La sgridò la madre "Non lo capite, vero!?" Fissò la madre e respirò a fondo, come se quel gesto potesse impedirle di esplodere "Ora capisco perché Aurilda è scappata!" Rispose Nomiva a voce alta, questa volta gridando "Abbassa la voce signorina, che non sei una venditrice in piazza e io sono perfettamente in grado di sentirti!" La riprese nuovamente Amillia "Avete ragione" rispose la figlia con sarcasmo "Io non sono una venditrice, bensì una becera merce di scambio!" Rispose in quel modo appositamente per imitare i discorsi di sua sorella. "Non ho intenzione di farlo!" Disse ancora "E invece io ti dico che lo farai!" rispose a sua volta la madre, con forza, sfidandola con lo sguardo "Se gli dèi lo vorranno e tuo padre riuscirà a convincere il re, tu sposerai il principe Drovan al compimento dei diciassette anni di età!"

Nomiva scattò in piedi e guardò la madre con un'espressione feroce, la guardò negli occhi con fiero disprezzo e poi uscì a passo svelto "Nomiva! Torna subito qui!" Sentì la voce della madre inseguirla, ma lei si allontanò ugualmente. Percorse a passo svelto il cortile del castello, facendo un cenno di saluto a tutti quelli che incontrava perché-come era solita dire sempre sua madre-gli altri non centravano niente con i suoi problemi e quindi doveva mantenere le buone maniere nonostante la rabbia, perché era questo che faceva una cortese signora. Nomiva uscì dal cortile e iniziò a camminare a passo svelto per i campi. Voleva assolutamente vedere Filipphus, doveva parlargli e raccontargli di quello che avevano fatto i suoi genitori. Dovevano scappare prima che fosse troppo tardi, prima che lei fosse per sempre prigioniera, proprio come aveva fatto Aurilda. Nomiva camminò tra gli alberi e i cespugli al lato dei campi, tentando di restare nascosta nonostante l'abito giallo e vaporoso. Detestava veramente tanto quegli abiti, stretti sul busto e ampi sulla gonna, erano delle trappole di stoffa. Mentre camminava in fretta tra le frasche infatti rimase impigliata ai rami di un cespuglio spinoso. Già nervosa per la conversazione appena avuta con la madre, Nomiva iniziò a tirare l'abito senza attenzione "Maledetto vestito!" Esclamò, poiché quello continuava a restare impigliato.

Nomiva si decise quindi e si abbassò, nonostante le difficoltà nei movimenti che quell'abito le causava. Non ne poté più e si abbassò malamente, sentendo la parte superiore del vestito lacerarsi sulla schiena. Si abbassò con un'espressione torva, tentando di non perdere l'equilibrio a causa della gonna e poi allungò una mano e tolse le spine dall'orlo del vestito. Nomiva sospirò, pensando a come la madre si sarebbe arrabbiata nuovamente vedendola tornare tanto malridotta e allora desiderò andarsene subito con Filipphus. La ragazzina stava per rialzarsi quando sentì un rumore appena accennato. Si voltò velocemente e si ritrovò davanti la volpe a nove code che aveva visto non tanto tempo prima, intenta a mangiare delle bacche. L'animale la fissò guardingo, con le nove code che scintillavano nella penombra. Nomiva, che voleva alzarsi fino a un attimo prima, si adagiò delicatamente a terra e rimaste come ipnotizzata a guardarla. Questo era l'effetto che le avevano sempre fatto gli animali, le facevano dimenticare di tutti i problemi e la facevano sentire felice.

La volpe riprese a mangiare senza staccarle gli occhi di dosso. Nomiva la trovava incredibilmente bella "Scusami se ti ho disturbato" le sussurrò Nomiva, come se l'animale potesse risponderle "Ma mia madre mi ha fatto arrabbiare veramente tanto, sai" continuò a parlare Nomiva "Vuole costringermi a sposare un uomo che non mi piace proprio, ti rendi conto?!" La volpe abbassò lo sguardo e si leccò il muso con la lingua rosa "A te non importa vero di quello che accade a noi uomini" disse ancora Nomiva, riflettendo ad alta voce "Gli uomini uccidono le volpi a nove code come te, immagino che ci odierai tutti". La volpe si mise a sedere e iniziò a leccarsi tranquilla "I tuoi problemi sono tutti legati ai cacciatori, non è vero?" Domandò Nomiva, inclinando un poco la testa per guardare meglio l'altra. La volpe sembrava che fosse del tutto a suo agio, ormai non badava neanche più a Nomiva e si lavava come se fosse stata sola. Nomiva vedendola così serena si trascinò un pochino in avanti e poi si fermò, attaccandosi la terra umida al vestito.

Rimase immobile temendo che la volpe fuggisse via, ma quella sembrava non essersi minimamente accorta del movimento di Nomiva e, seppur l'aveva fatto, non doveva averla allarmata perché restò dov'era. Nomiva allora si avvicinò di più, e poi ancora, dato che la volpe la ignorava. Quando si trovò a pochi centimetri dalla volpe Nomiva la osservò attentamente, il pelo azzurro era brillante, esattamente come gli occhi rossi di brace "Sei bellissima, Ruby" disse Nomiva, apostrofando l'altra con un nuovo nome. L'animale continuò a ignorarla e così Nomiva pensò di poterla accarezzare. Allungò piano la mano in avanti, con la voglia di affondare le dita nel pelo morbido e lucente. Quando si trovava a tre o quattro centimetri dal mando della volpe però quella alzò la testa e la fissò con gli occhi rossissimi. Nomiva la fissò a sua volta, poi avvicinò di più la mano e quando stava per sfiorare quel pelo lucido la volpe scattò in piedi e corse via "No!" Urlò Nomiva "Ti prego, non lasciarmi!" Ma la volpe era sparita. Nomiva si alzò e cercò tra i cespugli ma inutilmente, l'animale non c'era più, sembrava quasi che fosse svanita nel nulla.

Sospirando Nomiva riprese a camminare, questa volta lentamente, pulendosi le mani sporche di terra sull'abito oramai irrecuperabile. Proseguì accelerando poco dopo e si ritrovò dinnanzi alla zona dove era solito lavorare Filipphus. Sondò il campo con attenzione, ma poté affermare con certezza che il ragazzo non c'era. Corrugò le sopracciglia e decise di cercarlo. Camminò per un tempo indeterminato e poi arrivò davanti alla casupola dove viveva Filipphus. Si avvicinò preoccupata, sperando che lui fosse lì, si avvicinò alla porta di legno marcescente piena di spifferi, poi si fermò davanti a una finestra chiusa. Guardò dentro e vide che non c'era nessuno. Un brivido di paura la attraversò e mille pensieri negativi le balenarono nella mente. Che Filipphus fosse andato via senza neanche salutarla? O magari la madre e il padre avevano scoperto la loro relazione e lo avessero cacciato di persona... oppure addirittura ucciso!?

Nomiva scosse la testa, non era possibile una cosa del genere, i suoi genitori non potevano essere degli assassini. "Nomiva" la ragazza sospirò di sollievo nel sentire la voce di Filipphus alle sue spalle "Che ci fai qui?" Domandò il ragazzo, sembrava molto stanco, aveva due occhiaie pronunciate sotto agli occhi, era pallido e aveva un abito troppo leggero per il freddo che l'autunno si stava portando dietro. "Sono venuta a cercarti nei campi ma non c'eri" spiegò lei "Allora ho camminato per un po' e sono arrivata davanti a casa tua" continuò la ragazzina "Quando non ho visto nessuno dentro casa mi sono spaventata" ammise "Temevo che te ne fossi andato senza di me". Filipphus sorrise "Non potrei mai andare via senza di te, Nomi" disse dolcemente. Nomiva si avvicinò e lo strinse, sentendo che l'altro era gelido e tremava "Non mi lavo da giorni, è meglio se ti allontani" disse lui a disagio. Nomiva tuttavia scosse il capo "Questo non ha importanza" lo rassicurò lei "Sei gelido, e poi non hai visto il mio vestito?" L'altro la guardò e sorrise vagamente "Ma perché non sei a lavoro?" domandò Nomiva "Che succede Fil, sei malato e non me lo hai detto?"

Il ragazzo scosse la testa "Non io" disse con un fil di voce e Nomiva allora rammentò, sentendosi in colpa per aver dimenticato una cosa tanto importante "Tuo nonno" disse lei e il ragazzo annuì flebilmente "È peggiorato?" "Sì, non riesce più a lavorare a causa dei dolori" annunciò Filipphus abbattuto "Così l'ho messo a letto prima che peggiorasse ancora. Ma temo che non basti, mio nonno è troppo vecchio e stanco, però forse posso fare qualcosa per tenerlo con me per qualche anno, o almeno per pochi mesi". Nomiva gli sorrise dolcemente "Ma certo che puoi!" Lo rassicurò lei "Stavo andando a prendere un po' d'acqua al pozzo per lui" spiegò Filipphus, mostrando il secchio vuoto che aveva poggiato a terra "Ti accompagno" propose Nomiva, seguendolo. I due camminarono qualche minuto e poi si ritrovarono davanti al pozzo, Filipphus attaccò il secchio alla corda e lo buttò giù. Si avvicinò alla manovella per tirarlo su, ma Nomiva gli si parò davanti "Lo prendo io" annunciò lei, stringendo la manovella per tirare su il secchio. Quando ebbe tirato sul il secchio Nomiva lo staccò dalla corda e lo prese per trasportarlo "Nomi" disse l'altro piano "Lo porto io, non c'è bisogno" "Posso portarlo anche io, ce le ho le mani, proprio come te e funzionano benissimo, inoltre non sono stanche come le tue!" rispose Nomiva decisa.

Filipphus rispose con un sorriso "Grazie Nomi" disse grato "Tu perché eri venuta a cercarmi? È successo qualcosa?" Nomiva rimase un attimo in silenzio, pensierosa e indecisa "No" disse poi "Volevo solo vederti, inoltre senza le mie sorelle sto sempre sola al castello e lo sai che mi piace state insieme a te". Non poteva dirgli la verità, si disse Nomiva, Filipphus stava male sia fisicamente a causa del troppo lavoro, che mentalmente per le condizioni di salute del nonno. Non poteva dirgli quello che avevano pensato i genitori, né tantomeno parlargli della fuga immediata che aveva desiderato fare. Nomiva si sentì tremendamente in colpa vedendo Filipphus così stanco e preoccupato "Posso entrare a salutare tuo nonno?" Domandò Nomiva, ferma con il secchio in mano davanti alla porta "Va bene" disse con la voce stanca Filipphus. I due entrarono, Filipphus le fece strada nella piccola casa malridotta fino alla camera del nonno. Filipphus spinse piano la porta e fece cenno a Nomiva di seguirlo, sul letto attaccato alla parete divorata dalla muffa c'era un uomo magro e pallido, aveva pochi capelli grigi sulla testa, un paio di baffi e due piccoli occhi scuri, era sdraiato con gli occhi aperti e fissava il soffitto, visibilmente contrariato della situazione infausta in cui versava.

Non appena ebbe visto entrare il nipote, ma soprattutto dopo aver posato lo sguardo su Nomiva, il volto del vecchio si illuminò "Nipote!" Disse con la voce sottile "E la signorina Nomiva, che onore!" Si mise a sedere e allora vide che la ragazzina portava il secchio d'acqua "Ragazzo" disse rivolto al nipote, in tono di rimprovero "Che maniere sono queste? Lasci trasportare il secchio alla signorina?" Lo sgridò "Lo sai bene che le donne vanno trattate con garbo e gentilezza, e tu invece la costringi portare l'acqua al posto tuo!" Filipphus arrossì e scrollò le spalle "Ho insistito io, signor Laniger" ammise Nomiva sorridendo. L'uomo sorrise di rimando "Non avreste dovuto compiere un tale sforzo, signorina" disse, ma Nomiva si era abbassata, aveva posato il secchio ed era inginocchiata davanti al capezzale dell'uomo per stringergli le mani. "Signorina" disse lui con la voce più cupa "Così vi rovinerete il vestito", poi guardò meglio e restò sorpreso dall'abito lacerato e sporco che Nomiva indossava. La ragazza alzò gli occhi al cielo "Quante volte vi ho detto di chiamarmi Nomiva!? E poi guardate con maggiore attenzione, questo abito è irrecuperabile!" L'uomo rise e le accarezzò il viso "Scusate se è trascorso tanto dalla mia ultima visita" si scusò mogia Nomiva "Ma senza le mie sorelle ad aiutarmi è difficile uscire". I due uomini la guardarono comprensivi "Voi come vi sentire?" Domandò ancora Nomiva "Io non mi sento male" protestò l'uomo "E' Filipphus che insiste! Vuole per forza che io mi riposi" disse lanciando un'occhiataccia a Filipphus. Nomiva sorrise "Ha ragione, signore" confermò lei "È meglio riposare un poco adesso per evitare di ammalarsi gravemente in futuro".

L'uomo la guardò con una smorfia e poi annuì riluttante, ma era chiaro che la pensava diversamente "Sentite, io cercherò di venire a trovarvi il prima possibile" annunciò Nomiva "E riuscirò a portarvi qualcosa di buono da mangiare" "Non dovete rischiare tanto, signorina" disse Ted vagamente polemico "Non voglio che finiate nei guai per colpa nostro. Inoltre quello è il vostro cibo". La ragazza scosse il capo "Siamo stracolmi di cibo al castello" rispose subito Nomiva "Molto più di quanto ne abbiamo veramente bisogno. Voi, come immagino tutti i contadini del paese, avreste bisogno di mangiare di più, soprattutto ora che sta facendo freddo e l'inverno è alle porte. Magari riuscirò a portarvi anche qualcosa di caldo per coprirvi...". Filipphus e Ted si scambiarono uno sguardo preoccupato "Voi siete una benedizione, Nomiva" disse l'uomo "Non è vero" lo corresse subito lei "Cerco di aiutare chi amo, è una cosa normale. Se fossi buona come mi descrivete voi, aiuterei tutti indipendente da cosa provo per loro, solo perché ne hanno bisogno".

Filipphus si avvicinò "Da quanto tempo hai lasciato il castello?" Domandò allarmato "Se ti venissero a cercare?" Nomiva pensò che Filipphus avesse ragione, così si alzò e si avvicinò alla porta, voltandosi prima di uscire per salutare "Arrivederci signore" disse rivolgendosi a Ted "Vi prego, rimanete a letto e riguardatevi". Ted tornò sotto le coperte e le sorrise "Lo farò" assicurò lui "Arrivederci Nomiva". I due ragazzini uscirono dalla casa e si fermarono a parlare davanti alla porta "Cerca di farlo rimanere a letto" disse Nomiva, tentando di mascherare la preoccupazione "Anche tu lo vedi stanco, non è vero?" Domandò mogio Filipphus "Purtroppo sì" ammise lei con il capo chino. Il ragazzo scosse la testa "Se prenderà la febbre come temo, sarà dura farlo guarire, quasi impossibile credo". Nomiva gli strinse la mano per dargli coraggio "Se dovesse succedere ti prego, cerca di avvertirmi" lo pregò lei "Io voglio aiutarvi, magari posso prendere qualcosa di utile dal castello, un infuso. Se avrai bisogno di me inventerò qualcosa".

Filipphus annuì, aveva freddo e tremava, così Nomiva si tolse la mantella che aveva sulle spalle e gliela porse. Lui spalancò gli occhi "Tua madre..." "Ti prego" lo fermò lei "Guarda il mio vestito. Pensi che farà fatica a credere che io l'abbia persa!?" Filipphus rise e la carezzò "Grazie veramente, Nomi" disse ancora "Non so cosa farei senza di te". I due si avvicinarono l'uno a l'altra, poi si sfiorarono le labbra, dandosi un bacio. Rimasero per qualche secondo a guardarsi negli occhi, poi Nomiva si allontanò "Ora devo andare" disse dispiaciuta "Cercherò di tornare il prima possibile. Se tuo nonno dovesse avere la febbre cerca di venire ad avvertirmi". L'altro annuì e la salutò tristemente, stringendosi nel piccolo mantello che le aveva appena donato Nomiva. La ragazza si allontanò lentamente dalla casa di Filipphus, voltandosi di tanto in tanto per salutarlo ancora, finché lui non entrò e lei fu costretta ad andarsene definitivamente. Allora Nomiva riprese a correre come aveva fatto all'andata, non sapeva di preciso per quanto tempo fosse stata lontana dal castello, sapeva soltanto che doveva essere trascorso tanto tempo, troppo.

Il castello era sempre più vicino, Nomiva si guardò il vestito fin dove riuscì e sospirò, sentendo già i rimproveri della madre. Decise allora di rallentare, non aveva la minima voglia di litigare ancora con lei, ma sapeva che la sgridata per il vestito sarebbe stata senza dubbio dura. Quella senza dubbio era stata una pessima giornata per Nomiva, dai rimproveri di Diodorus a quelli della madre, poi c'era stata la notizia del tentativo di farla fidanzare con il principe Drovan, sino alle condizioni di Ted e alla fatica di Filipphus. Era stata una giornata dura, costellata da pensieri e preoccupazioni continue. Solo in un momento la mente di Nomiva era stata esente da pensieri e da tutti quei problemi, quando la volpe l'aveva distratta e fatta sorridere e in quel momento, mentre stava tornando al castello, Nomiva desiderò avere la volpe a nove code accanto a sé, anche solo per vederla scappare a un soffio da una carezza.

 

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Capitolo 13
*** Toccata e fuga ***


Pov:Leucello

Alla fine erano partiti per la capitale, Leucello e Mondrik erano partiti nonostante Leucello non fosse del tutto certo della scelta che aveva intrapreso. La mattina della partenza Leucello si era sentito intorpidito dal sonno, ma d'altronde era stata una cosa ovvia, lui e sua madre erano rimasti svegli sino a notte fonda, guardando le stelle e riflettendo sul futuro. Sicuramente ciò che più sarebbe mancato a Leucello durante il viaggio sarebbe stata la compagnia di sua madre, era sempre lei l'unica cosa che gli mancava veramente durante i suoi viaggi. Iris era sempre stata pronta a elargire consigli saggi e parole di incoraggiamento nei momenti difficili, era gentile ma mai fragile, sapeva mostrare la forza pur restando cortese. Leucello e Mondrik si erano svegliati abbastanza presto per preparare tutto l'occorrente che sarebbe servito per il viaggio e per poter poi fare colazione con calma. Mondrik al contrario di Leucello era di buon umore, sembrava non vedesse l'ora di raggiungere la capitale e i suoi algidi abitanti benestanti e superficiali.

Leucello era sceso dal letto con gli occhi che bruciavano e uno sgradevole mal di testa causato dal bisogno di riposare, si era poi cambiato in silenzio, evitando di indossare subito gli abiti eleganti in attesa di arrivare al castello e poi era uscito dalla camera sbadigliando. Decidere cosa portare dietro sarebbe stato complicato, una complicazione a cui non aveva minimamente pensato la sera precedente. Leucello aveva preso il baule di legno che aveva costruito suo padre in gioventù e lo aprì. Gli sembrò incredibilmente inadatto, troppo piccolo per contenere tutto quanto, sicuramente non ci sarebbe entrata una tela grande, degna di questo nome neanche con l'ausilio di un miracolo. Leucello era rimasto a fissare l'interno del piccolo baule con le dita di una mano affondate nei capelli e lo sguardo vacuo, reagendo probabilmente in maniera esagerata dinnanzi a un problema di discutibile serietà, ma proprio non riusciva a scegliere cosa lasciare quando si trattava di colori per dipingere. Si decise a infilare dentro qualche camicia, due giacche e due pantaloni e ovviamente l'abito elegante che avrebbe usato al cospetto del re, poi aveva riposto con cura una manciata di pennelli dalle dimensioni differenti, correndo poi in camera sua prendendo uno degli scalpelli che era solito usare per cimentarsi in sculture. Aprì l'armadio sulla parete destra della sua camera e prese sotto braccio cinque tele, tentando di non farle cadere mentre tornava nella stanza principale.

Aveva preso poi la canna-occhiale cava con le lenti e l'aveva nascosa tra gli abiti, sistemando vicino anche il pezzo senza lenti. Quando Iris e Mondrik entrarono nella sala Leucello stava tentando di infilare nel baule saturo diversi colori. I due lo guardarono, era inginocchiato davanti a una panca e faceva colare un colore in una piccola ciotola. I nuovi arrivati avevano poi spostato gli occhi sul baule, il piccolo contenitore di legno traboccava di abiti diversi, molte più tele di quante ne potesse evidentemente contenere, pennelli, persino una tavoletta e chissà che altro. I due si erano guardati evitando di ridere a stento "Buongiorno figliolo" si era annunciata poi la madre "Buongiorno a voi" aveva risposto Leucello distrattamente "Mondrik" aveva poi aggiunto rivolgendosi all'amico, tutto concentrato a non far colare fuori il colore dalla piccola ciotola. Iris si era avvicinata e dalla cucina aveva preso diverse cose da mangiare, tra cui un cesto di frutta e del pane, poi si era messa a scaldare del latte in un pentolino di rame. "Prepari il necessario per la partenza, giusto amico?" Aveva domandato con un sorriso canzonatore Mondrik "Oppure hai deciso di trasferirti lì? Perché devo ammettere che mi sorge un dubbio sulle tue reali intenzioni guardando tutto quello che stai portando". "Sì. Devo stare attento a non dimenticare nulla" aveva risposto Leucello "Ho bisogno di tutte queste cose, sono importanti".

"Figliolo, temo ci sia un problema" aveva poi detto la madre, ridendo a imitazione di Mondrik "Non riuscirai mai a mettere tante cose nel baule, almeno non riuscendo a chiuderlo" aveva aggiunto, facendo notare a Leucello l'evidenza "E se anche tu riuscissi a portare tutto" ipotizzò la donna "Hai una vaga idea del peso con cui saresti costretto a viaggiare?" Mondrik allora era scoppiato in una risata chiaramente beffarda "Sei pazzo a pensare che possano servirti tante cose! E' un viaggio, non una sistemazione temporanea per un trasferimento permanente". Leucello si era alzato con la ciotola tra le mani piena del colore rosso, esibendo uno sguardo chiaramente sconfortato "Sono consapevole di aver preparato troppi oggetti" aveva ammesso sospirando "Ma veramente non riesco a decidere cosa portare! Sento che tutto potrebbe servirmi". Iris scosse la testa con un sorriso divertito sulle labbra, mentre Mondrik aveva alzato gli occhi al cielo "Pensi veramente che a palazzo siano degli sprovveduti?" aveva domandato con serietà Mondrik "Credi che non ti daranno tele, oppure colori o ancora pennelli? Le stesse persone che ti hanno chiamato esplicitamente per farti dipingere?" Leucello aveva abbassato gli occhi, sentendo un chiaro disagio dinnanzi alle parole di Mondrik "Non sono lo stesso..." farfugliò Leucello, tentando di giustificare i suoi gesti. "Temo per te che dovrai trovare il modo per farteli andare bene" aveva risposto l'amico con praticità "E ora mangia e scegli solo quello di cui non puoi fare a meno e poco altro, altrimenti partiremo tardi e io non vedo l'ora di arrivare nella capitale".

Così Leucello aveva fatto colazione, aveva mangiato tanta frutta come sempre, la frutta gli piaceva sia da mangiare che da dipingere, poi Mondrik era uscito a prendere i cavalli e lui era rimasto a sistemare il baule. I colori non li aveva più messi, aveva tolto tutti i pennelli tranne uno, tenuto solo per precauzione, ovviamente aveva lasciato i vestiti, l'attrezzo di legno con le lenti e quello senza lenti (aveva deciso di prendere le lenti per terminare l'altra metà nella capitale) e poi aveva lasciato tre piccole tele e si era messo in tasca insieme al sacchetto di semi che la madre gli aveva dato e al denaro un carboncino per disegnare.
Quando era tornato Mondrik, Leucello aveva finito di preparare tutto ed era pronto a partire. Mondrik aveva preso due cavalli che avevano già usato altre volte per viaggi o cavalcate nei dintorni del paese, due stalloni marroni appartenenti a Mondrik, poi si erano diretti verso il paese davanti alla strada diretta per la capitale, la Strada Trionfale. Quando era giunto il momento di andare una forte fitta allo stomaco aveva colto Leucello in fallo. D'istinto aveva spostato lo sguardo sulla madre, come se temesse che quella fosse l'ultima volta. Iris, perspicace come al solito, doveva essersene accorta perché aveva fatto allontanare Mondrik con una scusa per rimanere sola con il figlio giusto qualche altro minuto.

"Tutto bene, Leucello?" Gli aveva domandato dolcemente "Sei ancora in tempo per cambiare idea se non sei sicuro". Leucello guardò la madre con un sorrisino tirato "Sono sicuro, madre" rispose "Questa è la cosa giusta da fare. Solo..." si fermò un attimo e poi sollevò il volto per guardarla negli occhi "Sento già la vostra mancanza" ammise. La donna lo strinse e sorrise "Hai i semi che ti ho dato?" Leucello annuì "Allora puoi stare tranquilli". Il ragazzo annuì piano, Mondrik stava tornando "Allora partiamo?" Domandò l'altro tenendo una sorta di sacco in pelle stretto al fianco del cavallo, contenente i suoi abiti e il denaro "Sì" aveva risposto Leucello dopo un profondo sospiro che lo aveva preso allo stomaco, sentendo l'aria mancargli nei polmoni. I due erano saliti sui cavalli ed erano avanzati di qualche passo vicini a Iris, poi avevano aumentato il passo e si erano allontanati definitivamente, agitando le mani in segno di saluto.

Dopo aver salutato la donna erano partiti, Leucello era rimasto voltato per guardare la madre finché aveva potuto, poi, quando la donna era stata troppo piccola e lontana, Leucello si era voltato per guardare davanti a sé. Da allora era iniziato il vero viaggio. Leucello non si era mai lamentato tanto per le intemperie o per la scomodità dei lunghi viaggi a cavallo e nemmeno quella volta si era lamentato, quello che veramente gli dava fastidio era non avere spazio e materiali per lavorare. La sera dormivano sempre nella locanda di turno, erano troppo stanchi e Leucello non riusciva a fare quasi nulla, crollava a causa della stanchezza e il mattino seguente si arrabbiava con sé stesso. La prima sera aveva iniziato a fare un disegno con il carboncino che si era messo nella grande tasca interna della giacca, aveva iniziato a raffigurare sua madre su una delle tre piccole tele. Aveva addolcito un po' gli zigomi spigolosi, ma per tutto il resto aveva lasciato immutato il volto della madre, ritraendo il naso adunco e le labbra piccole e strette, così come aveva raffigurato esattamente come erano gli occhi grandi e la fronte pronunciata dall'attaccatura alta. Ogni sera Leucello tentava di andare un po' avanti prima di addormentarmi per la stanchezza. Mondrik era abituato ad andare a cavallo molto più di quanto non lo fosse Leucello nonostante quest'ultimo facesse vari viaggi ogni anno per realizzare i dipinti che i nobili gli commissionavano. Mondrik andava a cavallo frequentemente da quando era un bambino, suo padre sin dalla più tenera età gli aveva regalato un puledro che Mondrik amava cavalcare incessantemente, forse proprio perché ad andare a cavallo era sempre stato molto più agile di Leucello, per questo la sera riusciva a restare sveglio molto più tempo rispetto a Leucello. L'amico era veramente felice di visitale finalmente la capitale, lui era sempre stato attratto da quel posto al contrario di Leucello, ma non aveva avuto occasione di recarvisi prima, nessuno lo chiamava per fare ritratti. A Leucello avevano chiesto più volte di trasferirsi nella capitale o meglio ancora di vivere al palazzo, re Fritjof aveva insistito diverse volte ma Leucello aveva sempre declinato ogni offerta con garbo ma fermezza. Gli piaceva la città, c'erano molti soggetti da poter ritrarre, tuttavia le persone che vi abitavano non gli piacevano per niente. Più volte il timore che il nuovo re Morfgan avrebbe potuto tenerlo prigioniero al palazzo per costringerlo a dipingere per lui aveva fatto dormire male Leucello per tutta la durata del viaggio, facendogli addirittura trascorrere delle notti in bianco. Leucello si ostinava a scacciare con fermezza questi pensieri infausti, non doveva essere né sciocco, né tantomeno precipitoso, ma era difficile nella quiete della notte non lasciarsi trascinare da pensieri infausti.

Quella mattina Leucello e Mondrik erano usciti tardi perché la capitale distava poco dalla locanda in cui si erano fermati per dormire, infatti al vespro si trovarono dentro la grande città. Probabilmente se non ci fossero stati tanta corruzione e sopruso in quella città Leucello ci si sarebbe potuto trasferire senza troppi ripensamenti, nonostante amasse la quiete di Vriento infatti il giovane uomo sentiva di aver bisogno di nuove sfide e nel suo paese d'origine purtroppo questo non era possibile. Tempuston era sicuramente la città più bella e maestosa del regno considerando i confini che adesso lo separavano dalla Provincia Magica, era situata in una posizione strategica e singolare, talmente singolare da sembrare quasi che fosse uscita direttamente da una delle favole che si dilettavano a cantare i musici o i poeti, o meglio ancora dalla mente di qualche abile generale che aveva pensato bene di far sorgere Tempuston in quel preciso punto per renderla impenetrabile. Tempuston si trovava al centro del continente, come la maggior parte delle capitali, ma poi sopraggiungevano elementi che sottolineavano l'unicità della posizione geografica in cui si trovava la città. Innanzitutto Tempuston si trovava su un'isola, era emersa da un lago formato dal fiume Tiverian che ancora circondava l'isola, ma le sponde della terraferma erano molto vicine, tuttavia soprattutto quando il fiume era agitato era possibile raggiungere la città solo con l'ausilio di uno dei quattro ponti situati nei punti cardinali, che collegavano quell'insolita isola al resto del regno. Essendo circondata da un fiume la città non aveva mura difensive perché assai difficoltoso sarebbe stato assediare una città del genere, ma tuttavia non impossibile con i giusti mezzi, fatto che aveva causato il rammarico di molti sovrani che invano avevano tentato di far ergere mura difensive mai concluse a causa della continua guerra della famiglia reale. I ponti in corrispondenza dei quattro punti cardinali erano lunghi pochi metri, costruiti in pietra e impreziositi da elementi diversi. Ogni ponte era dedicato a uno dei principi, il principe di ghiaccio, il principe di fuoco, la principessa di aria e la principessa di terra ed erano ornati di conseguenza. C'era il ponte d'inverno, situato verso nord che era di pietre bianche candide come neve, impreziosito da pietre blu incastonate; c'erano statue raffiguranti cristalli di neve e sul corrimano, che si ergevano come alte fontane congelate. Il ponte della primavera era situato a est, era di una pietra chiara, leggermente giallina, i cui corrimano erano finemente intagliati con ornamentali floreali e sorgevano vasi incastonati nella pietra, sempre ricolmi di piante e fiori veri. Il ponte dell'estate era situato a sud, le sue pietre erano rosse, ma la sua particolarità era l'edera che ci cresceva sopra e avvolgeva i corrimano; le statue su questo ponte raffiguravano fiamme danzanti dipinte di ocra e vermiglio. Il ponte d'autunno era infine situato a ovest, le pietre erano grigio cenere e sul corrimano c'erano intagliati grappoli d'uva avvolti in foglie, castagne e calici colorati, mentre le statue raffiguravano alberi dai rami spogli ma dorati e intrecciati con grazia.

Tempuston aveva anche un altro vantaggio geografico non di poco conto, al centro dell'isola c'era una collina di roccia e terra, una montagna erosa nel tempo, ed era lì sopra che il castello era situato. L'edificio sembrava quasi fosse fuso nella roccia, incastonato come un diamante prezioso in una corona. Da lassù Leucello, ne era certo, un buono stratega sarebbe stato in grado di tenere tutto assolutamente sotto contro. Chi aveva fatto costruire il castello lassù sicuramente aveva intuito l'enorme potenziale di quell'altura, ma doveva essere stato un compito arduo erigere un castello tanto grande e maestoso là in cima per gli architetti e Leucello sarebbe stato lieto di complimentarsi con loro per il lavoro che avevano compiuto. I sovrani però sembravano veri e propri dèi da lì, soprattutto nelle giornate nebbiose da lontano il castello pareva fosse sospeso tra le nuvole. Certamente era stato un altro trucco per accrescere l'alone di superiorità che avevano creato i sovrani intorno a loro, il popolo doveva vederli come veri e propri dèi avvolti dalle nubi.

Mentre pensava a quanto fosse bella quella città, Leucello constatò che lui e Mondrik fossero arrivati al ponte più vicino, in quel periodo di quiete non c'erano le guardie ai ponti per controllare chi entrava e chi usciva dalla città, contrariamente a quanto avveniva durante le feste o le celebrazioni reali, o come spesso era avvenuto quando c'era stato Fritjof. Leucello continuò a guardarsi in giro, ammirando i palazzi vecchi e i marmi lavorati, oppure le statue e le fontane, poi fermò lo sguardo su Mondrik. L'amico aveva un sorriso sul volto e i suoi occhi brillavano "Muoviti Leucello!" Gli disse con voce eccitata "Non vedo l'ora di arrivare al castello!" Mondrik spronò il cavallo per farlo andare più veloce, quando la voce di Leucello lo fece voltare "Non questa sera, Mondrik". L'altro lo guardò torvo e deluso "Perché no!?" Domandò bruscamente, la rabbia crescente sul suo volto "Non mi sembra educato presentarmi alle porte del palazzo a quest'ora, è contro il buon costume delle nostre usanze e lo sai bene" spiegò Leucello con convinzione "Anche se sono stato invitato da loro preferisco presentarmi lì a un orario ragionevole". Mondrik sbuffò "Quindi dobbiamo andare in un'altra stramaledetta locanda questa notte!?" Il suo sguardo era cupo e contrariato, ma sapeva infondo che Leucello sul buon costume diceva il vero "Non fare così, Mondrik" disse piano Leucello, tentando di consolarlo "Domani mattina ci andremo. Ma se proprio ci tieni ad andare subito tu vai, io ti raggiungerò domani". Mondrik fece una risata di scherno "Ti piace prendermi in giro, non è vero!?" Disse guardandolo male, amareggiato "Lo sappiamo tutti e due che aspettano te e non me, anche se io lo meriterei più di te che sei un ingrato".

Leucello guardò Mondrik senza rispondere, con un vago sguardo cupo e irritato e poi cambiò strada, diretto verso la solita locanda a cui alloggiava tutte le volte che si recava alla capitale. Pensò a Mondrik, era irritato da quella continua scortesia ma non gli sembrava il momento per affrontare l'argomento, così distolse i suoi pensieri da lui. Leucello abbassò lo sguardo e si fermò a studiare i sampietrini colorati che ricoprivano interamente le vie di Tempuston, disposti in modo da formare figure geometriche e decorative come spirali. Mentre indirizzava il cavallo verso la stradina si fermò a guardare i bambini che giocavano da una parte, i venditori in una delle piazze e i poveri in un angolo, sentendo il cuore stringersi per la pena. Si avvicinò a loro e tirò fuori il denaro dal sacchetto, consegnando una bella manciata a quelle povere persone che gli sorrisero e lo lodarono. "Ma cosa fai!?" Lo rimproverò al contrario Mondrik, già infastidito "Lo sai bene che il re non vuole che vengano dati soldi ai poveri, devono occuparsene i sacerdoti e le sacerdotesse" disse "E non dirmi che prima non lo hai letto quel manifesto perché non ci credo, era proprio davanti a noi". Leucello gli rivolse uno sguardo cupo "Se il re non vuole che io dia i miei soldi a chi ne ha più bisogno, che ci pensasse lui a dare lavoro e cibo a quelle povere persone" rispose vagamente scortese. "Tu che ne sai, magari ci ha già provato e questi miserabili hanno declinato per rubare il denaro alla gente?" Domandò con arroganza Mondrik, principalmente per far infastidire Leucello, evidentemente aveva voglia di litigare "E tu invece come fai a sapere che il re si è interessato veramente di questa gente!?" Rispose Leucello a tono, ricambiandolo con la stessa moneta. I due si scambiarono uno sguardo torvo "Non voglio litigare con te" disse poi Leucello, riprendendo la strada per la locanda, pur sentendo la rabbia rodergli l'animo. Leucello con i talloni spronò il cavallo particolarmente forte e quello si imbizzarrì, facendolo cadere di lato. Non si fece male, tuttavia la risata di Mondrik lo irritò ancora di più "Smettila!" disse a voce più alta "Se vuoi ti ho detto di andare in quel maledetto castello, ma per gli dèi, smettile di trattarmi come se fossi un idiota!" Mondrik sentendo quelle parole tacque e lo fulminò con lo sguardo dall'alto del suo stallone, evidentemente furioso, ma deciso a entrare a palazzo il giorno successivo secondo il loro buon costume.

Dopo aver vagato per qualche altra strada, svoltando ora a destra ora a sinistra, i due amici arrivarono davanti alla locanda, c'era un'insegna di legno sporgente con incisa la scritta 'Castello bello'. I due scesero dai cavalli e si diressero dallo stalliere al lato destro della struttura "Ah" esclamò il suddetto non appena ebbe riconosciuto Leucello "È tornato l'artista. Che ci dipingi questa volta, raccontami artista!?" Lo stalliere era un uomo rozzo, con la barba grigiastra e la voce roca ma calda, portava un cappello marrone e uno stuzzicadenti tra le labbra carnose e scure. Leucello sorrise modestamente, costringendosi a dimenticare la discussione sventata con Mondrik e il nervosismo che questa aveva causato nel suo animo "Il re in persona lo ha mandato a chiamare!" Rispose Mondrik al posto di Leucello, vantandosi come se il re avesse mandato a chiamare lui "Il nostro nuovo, magnifico sovrano, Morfgan" aveva detto Mondrik a voce più alta, vedendo due guardie passeggiare tranquille poco lontano. I due si accorsero appena di lui, fecero un cenno di saluto con la testa e poi continuarono per la loro strada. "Niente di meno!?" Rise lo stalliere "Quanto ti invidio, artista. E dimmi" continuò, rigirandosi lo stuzzicadenti tra le labbra "E' bello come dicono il castello al suo intero?" Leucello annuì "Molto bello, un capolavoro dell'architettura".

Mondrik si era avvicinato alla porta della locanda, facendogli cenno di entrare, Leucello lo seguì a ruota. Lo stalliere pur essendo rozzo era un uomo simpatico e allegro, tuttavia Leucello era di cattivo umore e non aveva molta voglia di parlare, nonostante seguire Mondrik potesse degenerare ancora in una vera discussione coniderata la tensione che c'era adesso tra i due. Non appena Leucello ebbe raggiunto la porta il familiare calore e il profumo tipico della locanda lo travolse, non era di certo un caso se tutte le volte che si recava a Tempuston Leucello sostavano nella stessa locanda. La locanda era grande, le pareti interne erano rivestite da pietre, il pavimento foderato di legno. Il locale aveva due piani, una scala di legno lucida e robusta conduceva al piano superiore. C'erano cinque grossi lampadari che facevano luce, diverse finestre su tutte le pareti, una quantità incredibile di tavoli, sedie e panche e ovviamente un grosso bancone dietro al quale si muovevano da una parte all'altra un sacco di persone. Mondrik si avvicinò al bancone per primo, Leucello lo seguì svogliatamente. Mondrik si fermò al bancone e vi picchiettò allegramente sopra, in attesa di essere notato. Dopo qualche attimo il padrone alzò lo sguardo, focalizzò Leucello e poi gli si avvicinò sorridendo "Leucello!" Esclamò "Quale piacere!" Mondrik cessò di sorridere, irritato "Edmure" sussurrò Leucello di rimando. L'uomo gli stese la mano in segno di saluto e Leucello fece lo stesso "Che ci fai di bello nella nostra capitale? Volevi scappare da quel posto sperduto nella tua provincia!?"

Leucello si sforzò di sorridere mentre Mondrik fissava Edmure in attesa di essere presentato, ascoltando la conversazione distrattamente. Edmure era un uomo sulla quarantina, era molto socievole, sembrava perfetto per gestire una locanda, per socializzare con la gente, era ospitale con i suoi clienti e quando poteva li faceva ridere. Non era sicuramente una persona raffinata né colta e Leucello lo considerava un opportunista, sempre pronto a dare ragione al cliente di turno, ma in giro Leucello era certo che ci fosse gente ben peggiore. "Allora, artista!?" lo incalzò, usando lo stesso nomignolo che era solito usare lo stalliere. "Questo è il mio amico Mondrik" presentò finalmente l'altro scorgendo l'impazienza di Mondrik. I due si strinsero la mano con un sorriso "E' un piacere conoscervi". Mondrik non perse l'occasione "Forse avrete conosciuto mio padre" disse "Il grande Giolite Androtte". Edmure dilatò gli occhi dalla sorpresa e annuì vigorosamente "Ma certo!" confermò "E' un onore avervi qui, il figlio di un grande artista!" Adesso era Leucello a essere ignorato "Allora" continuò Edmure "Cosa ci siete venuti a fare qui nella capitale?" Leucello vide Mondrik avvicinarsi al bancone per sussurrava qualcosa vicino ai capelli ondulati e scuri che arrivavano appena sotto le orecchie di Edmure, poi quest'ultimo si voltò con la bocca spalancata e l'espressione sorpresa.

"Ah, l'artista!" Esclamò, voltandosi a guardare Leucello "Sei una garanzia per i re, tu e la tua arte fate faville!" Leucello ignorò quelle parole vedendo l'espressione di Mondrik e andò al punto "Avresti due" "Due stanze per voi?" Lo anticipò l'uomo al bancone "Ma certo amico mio. Vorrete anche cenare, dico bene!?" Mondrik annuì ed Edmure gli strizzò l'occhi e poi rise da solo "Avete sentito, no?" Disse agli aiutanti più vicini che andavano da una parte all'altra con piatti, posate, bicchieri e brocche "Portate due ciotole di spezzatino di carne di cinghiale innaffiato di vino e speziato ai nostri ospiti!" I ragazzi posarono quello che avevano e schizzarono nuovamente in cucina "Arrivano subito" assicurò Edmure allegramente "Voi andate a sedere e rilassatevi" i due si voltarono per andare a sedersi a uno dei tavoli vuoti, quando Edmure li chiamò ancora "Io arriverò da voi non appena la situazione si sarà un po' calmata, quando avrò fatto portare la cena a tutti".

I due annuirono e si misero a sedere a uno dei tavoli di legno all'angolo della locanda "Sei più calmo ora?" Domandò improvvisamente Mondrik. Leucello lo fissò per un attimo spaesato "Io sì, ma non ero l'unico a essere nervoso" rispose atono, infatti Mondrik scosse la testa in segno di dissenso e assottigliò lo sguardo. I ragazzi dalla cucina si avvicinarono rapidamente a loro "Signori, la cena" dissero concisi, tornando subito a lavoro. Leucello e Mondrik iniziarono immediatamente a mangiare, lo spezzatino era tenero e caldo, sicuramente la cosa più buona che avessero mangiato dalla loro partenza, il vino che lo bagnava poi era eccezionale e le spezie conferivano un sapore intenso e donavano un profumo inebriante. Inzupparono nella crema che si era formata il pane croccante e poi bevvero acqua e vino, senza lasciare nulla. Dopo cena Leucello si sentiva veramente sereno, forse era l'effetto del vino ma la sua coscienza continuava a rimproverarlo per essersi fatto tante paranoie prima di arrivare alla capitale. Si fissò a guardare degli uomini sulla sua traiettoria che giocavano a carte, non era il genere di cose che di solito amava dipingere ma in quel momento se avesse potuto avrebbe fatto un ritratto di quegli uomini che giocavano nella penombra dell'osteria.

Senza che se ne rendesse conto Edmure gli stava venendo vicino, l'ora di punta del servizio serale era finalmente passata, fuori ormai il solo era tramontato da diverso tempo e le stelle ricoprivano il manto scuro del cielo. Il desiderio di uscire e tirare fuori la canna-occhiale con le lenti fu forte, così come il fastidio per non essersi ricordato subito delle lenti da comprare per terminare l'altra parte. Edmure avvicinò una sedia di fronte a loro e si mise a sedere "Allora" iniziò "Siete intrepidi all'idea di recarvi domani al castello?" Domandò curioso "Deve essere un sogno". Mondrik si sporse in avanti esibendo un sorriso arrogante, come aveva fatto con lo stalliere "Mio caro Edmure" disse, in totale confidenza "Dalle nostre parti incontrare il re non suscita questa grande gioia come potresti pensare". L'uomo si stupì "Ah, no?" Domandò ancora, rivolgendo perplesso uno sguardo a Leucello "Non capisco". Il compiacimento di Mondrik fu massimo "Nostra maestà Morfgan non è ritenuto degno di ammirazione da parte del nostro brillante artista!" Edmure fece un'espressione sorpresa e fischiò "Niente di meno!" Rispose "Il nostro nuovo re non ti piace quindi, Leucello!?" Mondrik tornò a poggiarsi allo schienale con aria compiaciuta. Leucello lo guardò malamente e l'altro lo sfidò con lo sguardo, mentre Edmure sembrava pensieroso "Certo non farlo sapere in giro" lo avvertì "Il nostro nuovo re è lievemente suscettibile agli scatti d'ira" disse Edmure con una risatina preoccupata che allarmò subito Leucello. Si sporse in avanti e spalancò gli occhi, come se il torpore del vino fosse sparito di botto "Cosa intendi dire?" L'uomo deglutì e si avvicinò a sua volta, imitato da Mondrik "Lo sapete no, re Morfgan da quando era un giovane principe è promesso sposo della primogenita dei Tenebrerus, le nozze sono fissate alla fine dell'inverno".

I due uomini annuirono "E anche dopo la morte del padre lui ha voluto onorare l'accordo che lo lega alla signorina. Il signor Tenebrerus e il suo seguito non molto tempo addietro si sono presentati qui, li abbiamo visti passare per le strade della città, dovevano scortare la futura sposa, sapete, perché terminasse gli ultimi preparativi prima delle nozze e iniziasse ad ambientarsi nel castello. I Tenebrerus sono entrati nel castello e tutto sembrava perfettamente tranquillo. Però poi, ecco..." Edmure deglutì nuovamente e abbassò ancora la voce, guardandosi prima in giro per assicurarsi che nessuno stesse ad ascoltarlo "Il signore e il suo manipolo di soldati non sono più usciti". Leucello spalancò gli occhi "Che cosa vuoi dire con questo?" Domandò turbato Mondrik "Le sue guardie non si sono più viste. Il signor Tenebrerus, ecco lui invece..." "Invece cosa?" Lo esortò Leucello e il terrore si dipinse negli occhi di Edmure, addirittura l'uomo perse un po' del colorito sul volto "È precipitato dalla bellavista nella sala del trono in pieno giorno, si è schiantato a terra e la folla ha accerchiato il suo cadavere, incuriosita da quella macabra visione". Leucello rimase raggelato da quella notizia, talmente tanto che vedendo la sua espressione Mondrik parlò al suo posto "E allora?" Disse brusco, tentando evidentemente di divagare e sminuire l'accaduto "Non significa che sia stato per forza il re a ucciderlo" ma Edmure scosse la testa piano, abbassando ancora la voce di un tono "La folla accorta lì sotto ha guardato verso l'alto, il re era affacciato e sorrideva soddisfatto, si compiaceva del suo operato". Leucello a sentire quelle ultime parole scattò in piedi come se la sedia fosse divenuta all'improvviso rovente, il sangue contrariamente gli si gelò nelle vene. La sedia cadde e si ribaltò e per il frastuono alcune persone si voltarono per vedere cosa fosse successo, ma quando si resero conto che non si trattava di nulla di rilevante tornarono alle loro questioni. "Ma che fai?!" Lo rimproverò Mondrik sussurrando, facendogli cenno di tornare a sedere "Io me ne vado!" Annunciò di rimando Leucello, con voce tremante ma decisa "Tu sei pazzo!" Replicò l'amico "Se il re lo scopre ho la vaga impressione che diventerà una furia" disse agitato Edmure, evidentemente preoccupato per sé stesso.

Leucello avanzò a passo svelto verso il bancone, inseguito da Edmure e da Mondrik che lo costrinse a voltarsi per la stretta sul braccio "Non puoi fare così!" Disse ancora Mondrik, guardandolo negli occhi "Vai contro il volere del tuo re se te ne vai!" Edmure era lì dietro e li fissava ancora pallido "Lui non è il mio re" scandì chiaramente Leucello e sentì il coraggio e l'orgoglio tornare in nome di verità e giustizia "È solo un uomo crudele e violento. Non mi interessa cosa gli hanno fatto i Tenebrerus, né tantomeno il titolo di cui è stato investito. Un uomo che reagisce in un tale modo non può essere definito uomo, chi reagisce con una tale violenza è una bestia, non un essere dotato di raziocinio. Non merita il mio rispetto e io non ho intenzione di mettermi al suo servizio!" Leucello si mise una mano nel taschino per prendere il denaro, ma si sentì ancora strattonato, questa volta da Edmure "Lo capisci quanto è pericoloso quello che vuoi fare!?" Domandò il locandiere a denti stretti e a voce bassa, guardandolo negli occhi "Se il re ha scoppi d'ira così forti come si vocifera e scopre che tu, di cui lui aveva chiesto espressamente i servigi, sei fuggito, potrebbe riservati un trattamento simile a quello di Tenebrerus". Leucello prese il denaro e glielo porse ugualmente "Allora sarà il caso che io inizi la mia latitanza quanto prima, non credi?" Edmure scosse la testa "Allora te ne vai!?" Domandò incredulo "Sì" rispose deciso Leucello "Adesso". Edmure gli rivolse uno sguardo sofferente "Leucello, tu sei pazzo!" disse a voce più alta, poi il timore e l'imbarazzato tornarono a farlo sussurrare "Mi dispiace, ma se venissero a domandare di te qui... non è contro di voi, lo sai, ma io gli direi quello che so. Non voglio mettere a rischio la mia vita a causa tua. Volevo che tu lo sapessi, non ti voglio mentire perché ho stima di te e della tua arte". Leucello lo guardò negli occhi e annuì, nonostante la notizia apprezzò sinceramente quella schiettezza "Lo capisco" disse senza rancore "Addio Edmure". Si diresse verso la porta e poi si voltò, Mondrik era dietro di lui "Vengo con te, maledetto testardo" disse sbuffando "Ne sei sicuro?" Domandò stupito Leucello "Ma sì" rispose l'altro sbuffando leggermente "Desideravi tanto venire nella capitale..." disse Leucello fissandolo negli occhi. Mondrik scrollò le spalle "È vero" ammise "Ma che razza di amico sarei se ti lasciassi andare da solo?"

Leucello sorrise grato, decisamente sorpreso da quel comportamento leale. Mondrik rispose al sorriso e poi aprirono la porta salutando un'ultima volta Edmure. Fuori faceva abbastanza freddo, le stelle splendevano alte nel cielo e lo stalliere era appoggiato al recinto con gli occhi chiusi, doveva aver quasi terminato il suo turno "Scusi signore" la voce di Leucello gli fece aprire gli occhi "C'è stato un cambio di programma". L'uomo lo guardò perplesso "Ce ne andiamo" spiegò Mondrik "Abbiamo già pagato, per cortesia ci restituisca i cavalli". Lo stalliere prese i cavalli e li fece uscire dal recinto, restituendoli ai proprietari "Voi gente di campagna siete proprio matti" disse lo stalliere scuotendo la testa, con l'aria di chi la sa lunga "Buon viaggio campagnoli svitati che non siete altro!" Parlò ancora in segno di saluto "Addio" risposero all'unisono Mondrik e Leucello, diretti verso il ponte più vicino per lasciare la capitale.

 

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Capitolo 14
*** Il cavaliere senza macchia ***


Pov:Aurilda

Quel giorno piovoso di fine demetrio era oramai autunno inoltrato e il freddo iniziava a farsi sempre più pungente. Pioveva spesso, ma la pioggia non durava mai più di una o due ore, fatta eccezione per quel giorno che sembrava non voler più smettere di piovere. Aveva iniziato la mattina presto, allora era stata una pioggerella soffusa e delicata, ricordando gocce d'argento, poi lentamente era mutata in un violento acquazzone e non aveva più smesso. Omalley era abituata alla pioggia e inoltre aveva un mantello che sembrava impermeabile per quanto era doppio, Ser Zalikoco aveva l'armatura che gli faceva da scudo all'acqua e faceva scivolare via le gocce di pioggia, mentre Aurilda aveva solo il vestito e il mantello e stava congelando. Era perfettamente consapevole della loro fortuna, era autunno e avrebbero potuto incontrare molti più temporali come quello, ma quel pensiero non faceva sentire ugualmente alla ragazza meno freddo. Il vento gelido le schiaffeggiava la pelle del volto, arrossandole le guance, le mani erano talmente fredde e bagnate da non sentirle quasi più, e il vestito sin troppo leggero le si era appiccicato alla pelle come una corazza di gelido ghiaccio. I piedi dolevano ad Aurilda, ma almeno con gli stivali l'acqua non penetrava in profondità, lasciando almeno una parte del corpo meno fredda e bagnata.

Erano in viaggio da nemmeno Aurilda sapeva più quanti giorni, se prima era riuscita a tenere il conto, ora l'aveva perso del tutto. Omalley gli aveva fatto cambiare strada, quando Aurilda le aveva confidato la sua volontà di intraprendere la via più diretta, l'altra le aveva risposto dicendo che lei e Ser Zalikoco erano stati due stupidi avventati e che dovevano rimanere nei boschi, non importava quanto ci avrebbero messo ad arrivare, l'importante era che arrivassero e usare i boschi come copertura era l'unico modo per essere più protetti. I giorni in compagnia di Omalley erano trascorsi velocemente, la ragazza era un'ottima compagnia, era scaltra, ironica e le aveva insegnato qualche trucchetto che aveva reso Aurilda entusiasta e Ser Zalikoco contrariato. Ser Zalikoco, lui sì che si stava rivelando un mistero. Aurilda non riusciva a comprendere il comportamento del cavaliere, da una parte sembrava disprezzasse Omalley, ma dall'altra sembrava spaventato da lei e non era di certo a causa delle notevoli abilità nel combattimento di cui poteva vantare il 'Terrore dei Boschi'.

Era come se i due si fossero già conosciuti e Omalley sapesse qualcosa su di lui, un segreto sul passato del cavaliere magari, che sembrava terrorizzasse Ser Zalikoco al solo pensiero che la donna potesse rivelarlo. Quando Aurilda e il Ser erano soli, ad esempio durante le cacce di Omalley, Ser Zalikoco si comportava sempre in modo strano e mutevole, c'erano volte in cui si metteva a elencare tutti i motivi per cui non avrebbero dovuto fidarsi di Omalley e per cui invece avrebbero dovuto andarsene subito, continuando senza di lei e ammutolendosi non appena da lontano la vedeva tornare, e poi c'erano volte in cui parlava in modo gentile e dolce con Aurilda, più del solito, e alla ragazza talvolta era parso di intravedere lacrime trattenute a stento negli occhi del cavaliere. "Voi siete la mia famiglia, signorina Aurilda" le aveva detto qualche giorno prima, con dolcezza "Farei qualunque cosa per proteggervi, non dimenticatelo mai". Aurilda era sempre più perplessa, non riusciva a comprendere quegli strani sbalzi d'umore, ma voleva assolutamente capire qualcosa, per questo motivo più volte aveva tentato di chiedere spiegazioni a Omalley che divagava e taceva, facendo insospettire Aurilda ancora di più.

Aurilda stava sul cavallo aggrappata al dorso come se potesse assorbire il calore dalla bestia e scaldarsi, quando Omalley parlò forte per tentare di sovrastare la pioggia intensa che batteva incessantemente sul terreno "Da questa parte" urlò dall'albero. Si calò giù e si avvicinò ai due "Cambiamo direzione" disse e poi tornò sugli alberi. Passarono un tempo indeterminato nel bosco, Aurilda intanto sentiva sempre più freddo, la pelle era pallida e fredda da sembrare marmo, in perfetto contrasto con le guance sempre più rosse, i muscoli erano paralizzati e i capelli che uscivano dal cappuccio erano appiccicati al viso. Quando Aurilda tremava ormai da una mezz'ora abbondante Omalley finalmente tornò giù "Da questa parte!" Gridò ai due, facendogli un cenno vigoroso per farsi vedere distintamente. Fecero un breve tratto e poi si ritrovarono al limitare del bosco, appena nascosti. Dagli alberi si vedeva distintamente una casa abbastanza grande, il tetto era in pietra e le pareti color ocra spento, ma sembrava intatta e probabilmente calda. Omalley tornò vicino a loro "Aspettatemi qui, torno subito" scese con un balzo da un ramo basso e poi la videro allontanarsi in direzione della porta della casa. Ad Aurilda parve di vederla bussare e poi la videro entrare dopo che la porta si fu aperta, per essere inghiottita dalla luce che veniva da lì dentro.

Aurilda alzò appena la testa e il cavaliere le si avvicinò "Andiamocene" le disse chiaramente e con decisione. Aurilda sospirò, troppo infreddolita per rispondere malamente come avrebbe voluto fare "Non dite sciocchezze" rispose con ovvietà, ma l'uomo continuò "Cosa pensate che sia andata a fare lì dentro?" Domandò in modo retorico "Vorrà sicuramente venderci, d'altronde è pur sempre figlia di un pirata, ha l'ossessione per il tesoro nel sangue". La ragazza scosse piano la testa "Se anche fuggissimo quanto pensate che ci metterebbe a riprenderci?" L'uomo chinò appena il capo, vagamente in imbarazzo, poi tentò di replicare, ma Aurilda fu più veloce "E poi, non dico che possiamo fidarci di lei, ma si è comportata bene fino ad ora con noi". Il Ser non tardò a replicare "Rimane una piratessa, non vedo perché dovrebbe aiutarci senza motivo. Inoltre avrebbe potuto attendere sino a ora appositamente per ricevere più denaro assicurando la nostra cattura". Aurilda alzò nuovamente lo sguardo verso il profilo sfocato dalla pioggia del cavaliere "Forse è stanca di tutte le ingiustizie che ci sono in giro" disse con la voce dura e decisa, pur mantenendo un tono basso, quasi sussurrato "Il mondo, le persone sono colme di opportunismo e ipocrisia" scandì senza esitazione "Sono tutti falsi, maligni e si rassegnano alle ingiustizie senza neanche tentare di cambiare le cose. È per questo che disprezzo il genere umano Ser Zalikoco, sono tutti uguali, senza distinzione. Persino le persone che dovrebbero aiutarti, la tua famiglia. Tutti pensano solo alle apparenze e al denaro". Aurilda ripensò con rabbia ai suoi genitori e al maledetto accordo che avevano stipulato con Fritjof, l'accordo che la legava a Morfgan, fu probabilmente per questo che non fece caso all'uomo, la guardava terrorizzato e lei continuò come se nulla fosse accaduto "Ma forse in Omalley ho visto qualcosa di diverso, una tenue luce nel buio della tempesta" disse con lo sguardo perso "Vedo per la prima un genuino desiderio di portare giustizia senza domandare nulla in cambio. Vedo in lei la forza di andare contro i pregiudizi a cui la sua condizione la condanna e una purezza nell'animo sconosciuta in chiunque altro io abbia mai conosciuto. È per questo che la minuscola parte di me che ancora spera nell'umanità crede in lei, la parte più ingenua e bambina che continua a vivermi dentro nonostante tutto. E la speranza mi fa paura, perché so che è quasi sempre un semplice miraggio".

Ser Zalikoco la guardò meno timoroso vedendola tanto serena, ma restò ugualmente turbato da quelle parole "Non tutte le persone sono cattive, signorina" rispose lui con voce carezzevole e rassicurante "Tutti sbagliano, ma non sempre per crudeltà e opportunismo, e anche quando lo fanno, esiste una miracolosa cura contro tutto questo male". Aurilda lo guardò poco convinta "E sarebbe?" Il volto di Ser Zalikoco si strinse in un'espressione di sofferenza "Il rimorso" disse con voce rotta e la ragazza non riuscì a capire se l'uomo stesse piangendo debolmente oppure no a causa della pioggia incessante. "I miei genitori allora?" domandò subito Aurilda, vagamente alterata "A loro importa solo della stirpe, non gli interessa né di me, né delle mie sorelle!" Aurilda sentì la rabbia montare "Loro vi amano, non dite queste cose!" tentò di giustificarli il cavaliere "Hanno semplicemente commesso un errore". Aurilda fece una smorfia disgustata "Un errore piuttosto grave oserei dire" replicò amaramente. Senza che se ne fossero accorti Omalley gli stava venendo incontro e così Aurilda cessò di parlare "Venite" disse allegramente l'altra. "Perché dovremmo seguirti in quella casa?" Domandò nuovamente astioso Ser Zalikoco "Ho capito, se non vi dico dove voglio portarvi non vi fiderete". Omalley alzò platealmente gli occhi al cielo e spiegò velocemente "Spesso le persone che salvo vogliono sdebitarsi con me. La donna che gestisce questa locanda è una di quelle, ha promesso di offrire alloggio a chiunque avesse bisogno di aiuto. È una grande famiglia, vedrete che bella locanda hanno". I due la seguirono ancora guardinghi, soprattutto il Ser, ma alla fine entrarono, spinti dal desiderio di sottrarsi alla pioggia.

Dentro l'ambiente era molto diverso da come era apparso fuori, il casale si era rivelato una casa una volta abbastanza maestosa che ora era in parte in decadenza. Era suddiviso su due piani, il piano terra aveva il pavimento di legno, diversi tappeti sparsi per l'ampia sala, c'erano tre panche e un piccolo divano tenuto abbastanza bene, diverse credenze di legno massiccio e consumato dal tempo, un grosso tavolo di legno scuro e un bel camino che ad Aurilda sembrò un miraggio. Il resto del piano terra era suddiviso in stanze e poi c'era una scala che portava al piano superiore dove c'erano altre camere. La ragazza si guardò intorno e fermò lo sguardo prima su un rosone colorato al piano superiore che rappresentava un albero rigoglioso e poi su un albero vero e proprio che svettava al centro della stanza. Su due piedi Aurilda temette di star delirando, poi si rese conto che si trattava proprio di un albero, era un bell'ulivo, i rami solleticavano appena il soffitto e su quelli più bassi erano appese delle candele che illuminavano la stanza come uno dei lampadari del castello, ma in modo decisamente più originale e più bello.

Aurilda spostò gli occhi sul cavaliere e vide che anche lui era rimasto meravigliato a tal punto da aver dimenticato per pochi istanti tutti i dubbi e i timori che lo assalivano. "Benvenuti alla 'Locanda dell'ulivo'" a parlare era stata una donna sulla destra, era dietro un bancone e lucidava l'interno di un calice con uno strofinaccio. Era bassa e tarchiata, aveva i capelli biondo-dorati che teneva leggermente raccolti con semplicità, portava poi un grembiule che copriva la gonna dell'abito rossiccio che indossava. Il volto era pieno, illuminato da un sorriso incoraggiante e due occhi brillanti, doveva avere pochi anni di differenza con sua madre, notò Aurilda guardando distrattamente le rade rughe che segnavano il viso della donna. "Lei è Zenobia" li presentò Omalley, con il volto illuminato dal momento che aveva calato il cappuccio "È un piacere avere gli amici di Omalley come ospiti" disse con un sorriso di benvenuto la padrona di casa "Potete rimanere qui per tutto il tempo di cui avrete bisogno, per rimettervi in sesto". Ser Zalikoco dopo il primo momento di stupore si ridestò e tornò guardingo "Cosa vi ha detto la ragazza?" Domandò il cavaliere con gli occhi assottigliati, senza togliersi l'elmo dal capo "Che siete amici e avete bisogno di aiuto" rispose Zenobia posando l'ultimo calice e venendogli incontro.

"Non vi ha detto i nostri nomi?" Domandò il cavaliere, togliendosi definitivamente l'elmo per rivelare il viso contratto e sospettoso "Perché avrebbe dovuto? Solitamente sono i forestieri a presentarsi di persona" rispose la donna con ovvietà. Aurilda si sentiva decisamente meglio nella locanda, ma le fiamme danzanti del camino la richiamava con prepotenza. Voleva avvicinarsi di più al camino, ma le sembrava scortese senza aver ricevuto il permesso e mentre gli altri parlavano. Omalley fortunatamente la vide fissare il camino con cupidigia e le sorrise "Andiamo a scaldarci" disse rivolgendosi a Zenobia, stringendo poi la mano intorno al polso di Aurilda per guidarla. "Come posso sapere che le guardie degli Hardex o del re non varcheranno quella porta da un momento all'altro?!" Domandò in tono minaccioso Ser Zalikoco "Gentile e nobile cavaliere" lo apostrofò serenamente Zenobia "Sono lieta per voi se potete vantare conoscenze di una tale rilevanza, ma purtroppo devo confessarvi che io non li ho mai neanche visti e temo che mai li vedrò. Sono solo una locandiera e la mia è tutto sommato una misera locanda sperduta. Quale signore o sovrano potrebbe desiderare alloggiarvi?" rispose la donna sincera e diretta. Aurilda si decise a seguire Omalley, troppo infreddolita per attendere oltre, ma il cavaliere glielo impedì "Aspettate vi prego, non possiamo fidarci di questa gente con una tale facilità!"

E proprio allora dal divano vicino al camino arrivarono dei rumori indefiniti. Aurilda guardò istintivamente Omalley e la vide sorridere. Con uno scossone si liberò il polso dalla stretta, guardando l'altra colma di risentimento. La prima cosa che pensò fu che Ser Zalikoco aveva ragione e Omalley fosse una traditrice opportunista come tutti gli alti e la rabbia, la paura e la delusione le offuscarono la mente. Ser Zalikoco si fece avanti, la spada sguainata e il volto in fiamme, balzò dall'altro lato con la lama tesa e rimase immobile. Due bambini lo guardavano sorridendo, erano un bambino sui quattro anni e una bambina poco più grande. Il cavaliere sinceramente sconcertato restò interdetto con la spada sollevata a guardare i due piccoli "Fermatevi, ve ne prego!" Si voltarono e videro un gruppo di ragazzini, erano quattro, tre femmine e un maschio. A parlare era stata la femmina che sembrava essere la più grande e a una prima fugace occhiata poteva ben essere considerata coetanea di Aurilda, dietro di lei c'era il fratello più giovane di due o tre anni e poi altre due ragazzine, gemelle identiche che dovevano avere dieci anni circa. Ser Zalikoco ritrasse la spada e rimase a guardare "Scusami madre, non sono riuscita a trattenerli" si scusò col capo chino la più grande, prendendo per mano i due piccoli. "Scusateli se vi hanno spaventati" disse imbarazzata la padrona della locanda "Sono i miei figli, avevo chiesto loro di restare nelle camere, ma i piccoli sono un po' disobbedienti".

Il bambino si divincolò dalla mano della sorella e si avvicinò al cavaliere "Signore, quella era proprio una spada vera che taglia?" Domandò il bambino con le guance paffute e gli occhi speranzosi. Ser Zalikoco sorrise "Sì piccolo, una spada vera" "Che bello!" Esclamò quello, alzando le mani piccole e pallide verso l'alto. Aurilda sorrise debolmente, sentendo il timore svanire veloce com'era venuto e guardò Omalley, vergognandosi subito di aver pensato male delle sue intenzioni. Omalley la invitò nuovamente ad avvicinarsi per mettersi finalmente a sedere davanti al fuoco. La ragazza non se lo fece ripetere ancora, andò a sedere davanti al fuoco e si sentì finalmente bene, nonostante gli abiti zuppi ancora attaccati alla pelle. "Qui non vi accadrà nulla di male" disse piano Zenobia, rassicurandoli "Non dovete temere". "Se loro me lo consentiranno vi racconterò chi sono i vostri ospiti e perché diffidano tanto, a buon motivo" disse Omalley a Zenobia "Sapete, li cercano e non devono essere trovati". I bambini e i ragazzi sussultarono tutti, parlottando disordinatamente tra di loro. Aurilda scambiò uno sguardo col cavaliere che sospirò e annuì "Grazie della fiducia" disse Zenobia "Vi assicuro che non ve ne pentirete". Il Ser annuì e poi si avvicinarono tutti intorno al fuoco ad ascoltare Omalley. I fratelli, le sorelle e la madre proprietari della locanda al termine della chiara esposizione di Omalley guardavano sia Aurilda che il cavaliere con espressioni stupefatte.

"Che storia incredibile" disse una delle gemelle "Lei sarà la regina" "Voi? Dov'è vostro padre?" Domandò il Ser, temendo di ricevere brutte notizie "Nostro padre Valdis lavora qui vicino in paese" disse il ragazzino "A Orviello. Ci viene a trovare appena può, lì abbiamo un'altra locanda che frutta decisamente più denaro trovandosi nel paese" continuò la sorella. "Perdonate, non vi ho ancora presentato i miei figli" disse Zenobia, poi fece mettere i suoi figli in ordine di grandezza e iniziò a presentarli "La mia primogenita Angelika" indicò la ragazza che aveva parlato per prima, sembrava una versione giovane e più sottile di Zenobia, ma aveva lineamenti un po' più dolci e una vaga aria sognante "Hamisi" e indicò il ragazzino dai capelli castani e un sorriso accennato "Kady e Kiera" indicò le gemelle con i capelli castani e gli occhi grandi "E infine i piccoli Milagros e Coraney" terminò la donna, indicando la bimba con i capelli marroni che le danzavano sulle spalle e il bambino che aveva domandato della spada, che aveva un ciuffo del medesimo colore della madre che gli ricadeva davanti agli occhi vispi e curiosi. "Ma andate a cambiarvi, sarete infreddoliti. Angelika, per cortesia" Zenobia si rivolse alla maggiore "Dà alla signorina un tuo abito e metti il suo ad asciugare. Tu Hamisi porta il cavaliere a cambiarsi, dagli i vestiti di tuo padre. Io vi preparo qualcosa da mangiare. Voi ragazze" disse alle gemelle, poi si voltò a guardare Omalley "Avranno dei cavallo devo presumere" Omalley annuì "Voi sistemate i cavalli nella stalla ma prima mettetevi i mantelli, fuori piove di brutto". Omalley le fermò "Vado io, non voglio che si bagnino per nulla, io invece sono già fradicia di pioggia. Torno subito" e sparì fuori velocemente.

Aurilda seguì Angelika e il cavaliere senza opporsi andò dietro al ragazzo. Camminarono lungo il corridoio al piano terra e poi entrarono in stanze diverse. La stanza in cui Aurilda entrò con Angelika era più grande di quanto si aspettasse, c'erano quattro letti e tre armadi disposti in modo da lasciare un ampio quadrato coperto quasi interamente da un tappeto sfrangiato al centro della camera. Angelika aprì uno degli armadi e si mise a cercare tra i suoi vestiti. Aurilda la vide cercare, scavava tra i vari abiti tutti simili tra loro e lei non capì perché l'altra ci mettesse tanto, Aurilda stava congelando e voleva solo levarsi quel vestito "Per favore fai presto, sto congelando. Non appena il mio abito sarà nuovamente asciutto te lo restituirò subito" disse quasi battendo i denti. L'altra si voltò per guardarla "Stavo cercando qualcosa di bello per la promessa sposa del re" annunciò Angelika "Ti ringrazio, ma veramente non serve" la rassicurò Aurilda, ansiosa di potersi cambiare. Angelika vedendola tremare tirò fuori un vestito rosa pallido e glielo porse, poi cercò una sottoveste e le porse anche quella "Vi aspetto fuori" annunciò la ragazzina, uscendo. Aurilda si sfilò tutti gli abiti in un lampo e poi si rivestì continuando a tremare. Appallottolò i vestiti zuppi senza cura e uscì, desiderosa di tornare a scaldarsi davanti al camino.

Il cavaliere arrivò poco dopo nella stanza principale, strizzarono i loro abiti in una bacinella e poi li misero ad asciugare di fianco al camino. Aurilda e Ser Zalikoco rimasero seduti per un po' a scaldarsi in silenzio, ascoltando Omalley chiacchierare allegramente con i figli di Zenobia. Finalmente Aurilda si sentì vicina a casa, il calore del camino, le risate e le chiacchiere dei bambini e il profumo della zuppa le ricordarono le sere d'inverno trascorse con Nomiva e Selina prima di addormentarsi. Sentì la stanchezza piombarle addosso all'improvviso, insieme alla serenità e a un senso di torpore. "È pronta la zuppa!" La voce di Zenobia che si avvicinava con un'enorme pentolone di zuppa profumata la ridestò, il suo stomaco si contorse per la fame e lei balzò in piedi. La donna posò il pentolone sul tavolo di legno e i figli arrivarono veloci come i piccioni quando si avvicinano a beccare il grano. In un lampo la tavola fu apparecchiata, si riunirono tutti intorno sedendosi sulle panche e poi passandosi le ciotole affinché Zenobia le riempisse, allora finalmente iniziarono a mangiare. Aurilda si infilò il cucchiaio in bocca, sentendo il sapore dei fagioli, delle patate e di vari legumi. Il calore del cibo le scaldò lo stomaco e la fece rilassare ancora di più, nonostante il silenzio interrotto solo dalla pioggia era bellissimo stare in compagnia. Per quanto Aurilda fosse sempre stata una persona solitaria era pur sempre cresciuta in un castello ed era abituata alle voci e alle persone intorno e quel lungo periodo nei boschi era stato molto solitario, addirittura desolante.

La ragazza spostò lo sguardo su Ser Zalikoco e con gioia lo vide tranquillo e felice, lui e Coraney si scambiavano sorrisi di complicità e il bambino quando vedeva la madre distratta sussurrava all'ammirato cavaliere ciancicate frasi di stima. Omalley era seduta in mezzo alle gemelle e sembrava felice e quieta come Ser Zalikoco. "Non dovrebbe venire nessuno con questo brutto tempo, ma per sicurezza se non vi offende vi farò sistemare nelle camere nei sotterranei" annunciò Zenobia "C'è un sotterraneo anche qui?" Domandò sorpresa Aurilda "Sì" confermò la donna "Non è molto grande ma ci sono abbastanza stanze per far sistemare due persone". Il cavaliere alzò gli occhi " La reputo una grande un'idea. Non ci troverebbero facilmente. Signorina Aurilda, voi cosa ne pensate?" Domandò rivolgersi a lei "Credo anche io che sia un'ottima idea" rispose Aurilda senza esitazioni. Il resto della cena trascorse placida, fuori continuò a tuonare e piovere per ore e Aurilda ricordò quanto le piacesse la pioggia, soprattutto dentro le mura del castello davanti al camino con le sorelle. La nostalgia per Selina e Nomiva la rattristò improvvisamente, con prepotenza, e persino i volti dei suoi genitori le causarono tristezza. Quando fu il momento di andare a dormire però Aurilda scacciò quei pensieri aiutando gli altri a ordinare le due stanze sotterranee che dovevano usare lei e Ser Zalikoco.

Lì sotto c'erano una grossa stanza per le provviste e poi quattro stanze piccole, dentro una di queste c'erano piatti, bicchieri e pentole, mentre nelle altre tre c'erano dei letti. Cambiarono le lenzuola nella camera che avrebbe utilizzato e poi in quella dove avrebbe dormito il Ser, allora dopo essersi salutati andarono tutti a dormire. Fu una notte molto serena, la pioggia prese a picchiettare dolcemente sul tetto e sulle finestre e cessando poi del tutto, andandosene con il buio della notte. Aurilda si svegliò presto come di consueto, rimanendo diversi minuti nel letto caldo pensando al lungo viaggio che ancora la attendeva, poi prima che la malinconia di casa tornasse si alzò e si lavò il viso nella bacinella che le avevano lasciato la sera prima al lato della porta. Uscì senza far rumore e salì al piano terra aspettandosi di essere sola. Con sua sorpresa invece trovò Omalley seduta di fronte al fuoco a gambe incrociate. Subito la giovane donna si voltò per guardarla, le sorrise e la incoraggiò ad avvicinarsi.

Aurilda si mise a sedere accanto a lei con piacere "Già sveglia?" Sussurrò Omalley "Sì. Io mi sveglio sempre presto, era così anche al castello" le raccontò Aurilda. "Io pensavo che fosse a causa della scomodità del letto" le rispose Omalley, avvicinandosi di più al fuoco. "Ti piace stare al caldo" notò Aurilda "A chi non piace?" domandò l'alta. Aurilda tacque pochi istanti, guardando il profilo illuminato dal fuoco di Omalley "Come fai?" Domandò poi Aurilda. Omalley si voltò per guardarla "Come faccio a fare cosa?" chiese. Aurilda sospirò appena "A stare sempre al freddo nella natura in balia delle intemperie. Senza mai avere un letto comodo in cui passare le notti più fredde, continuamente in allerta per tutto. Non ti senti mai stanca? Non desideri mai avere una vita normale come gli altri?" Omalley sorrise "Vuoi sapere se sono stanca?" Disse voltandosi meglio per fronteggiarla. Aurilda annuì lentamente "Lo sono tutti i giorni" ammise Omalley, accompagnando quell'affermazione con un piccolo sospiro "Ma che altro dovrei fare?" Aggiunse subito "Sai, quando ti fermi a pensare a quello che patiscono alcune persone, forse puoi capire in parte. Quando ti capita di vederlo di persona rare volte le ingiustizie e la miseria puoi comprendere meglio e magari ci stai un po' male addirittura". Omalley si fermò un attimo e un sorriso triste le si dipinse sul volto "Ma quando lo vedi tutti i giorni, come fai a fare finta di niente? Come fai ad andare avanti sapendo che potresti fare qualcosa per aiutare e non l'hai fatta, peggio ancora non ci hai mai neanche provato?" Aurilda guardò negli occhi Omalley e nel grigio degli occhi dell'altra le parve di vedere un guizzo, come un lampo nelle nuvole scure di una tempesta "Io posso aiutare le persone" continuò, sincera ma umile, senza arroganza nella voce "Che altro dovrei fare sapendo quanti sono in pericolo? Dovrei pensare a quello che è meglio per me e abbandonare chi ha bisogno di aiuto? Non potrei farlo, ho visto troppe persone sofferenti per restare indifferente".

Omalley tornò a guardare il fuoco e Aurilda la guardò con ammirazione sempre crescente "Come hai conosciuto Zenobia?" Domandò quasi di getto "Lei e suo marito Valdis stavano raccogliendo i funghi nel bosco e hanno cercato di aggredirli. Allora i due piccoli non erano ancora nati" rispose Omalley, ricordando quell'episodio con un sorriso. Aurilda annuì e sorrise a sua volta "Come fanno ad avere una casa così grande, con quel bel rosone?" Domandò ancora Aurilda, guardandosi in giro incuriosita "Il padre del marito di Zenobia era un contadino abbastanza benestante ed era riuscito a comprarsi questo bel casale con i soldi che aveva guadagnato con gli ulivi nel paese qui vicino, Orviello. Poi c'è stata la guerra e hanno iniziato ad avere dei problemi economici, così hanno trasformato la casa in una locanda. Pensa che l'ulivo lo piantarono non solo per onorare la fonte della loro fortuna, ma anche perché a causa di un incidente si era creato un buco nel legno del pavimento, così come simbolo della speranza di pace per la guerra appena finita piantarono l'ulivo" "Che idea magnifica che hanno avuto" ammise Aurilda, voltandosi nuovamente ad ammirare il maestoso albero che catturava tutta l'attenzione. Le due poi rimasero in silenzio davanti al camino, tranquille e al caldo, poi la stessa domanda affiorò nella mente di Aurilda, l'aveva posta sin troppe volte e continuava a bruciarle nella mente con insistenza e costanza. Ormai era impossibile scacciarla o ignorarla persino per lei, inoltre quella situazione in cui si trovava, da sola con Omalley e senza Ser Zalikoco in agguato facilitava decisamente le cose, magari Omalley avrebbe finalmente parlato. Non voleva togliere al cavaliere l'occasione per parlare lui stesso, ma Aurilda temeva che non avrebbe risposto se gli avesse domandato qualcosa. Forse quella era la sola occasione per comprendere la stranezza del suo compagno di viaggio. Aurilda allora si schiarì la voce per sussurrare meglio, poi si fece poco avanti per essere più vicina all'altra "Omalley, potresti spiegarmi una cosa?" Omalley si voltò subito per ascoltarla, irrigidendosi un poco, probabilmente perché immaginava già cosa Aurilda le avrebbe domandato "Si?"

Aurilda annuì, poi sentì una strana e improvvisa inquietudine, ma non ci fece caso e continuò "Perché Ser Zalikoco ha paura di te? Cosa sai tu di lui che lo fa essere tanto timoroso?" Omalley si irrigidì di più, come se le avessero versato una secchiata d'acqua gelida sulla testa "Ma nulla, te l'ho già detto" disse piano, sfuggendo dallo sguardo di Aurilda "Veramente nulla di importante. Semplicemente non si fida di me". Aurilda la guardò freddamente, offesa da quella palese menzogna "Mi stai mentendo ancora" disse a denti stretti, rivolgendo un'occhiata gelida alla sua salvatrice "Ser Zalikoco ha paura che tu mi riveli qualcosa sul suo passato. Se è una cosa così importante e terribile come appare dal terrore che leggo nei suoi oggi, credo sia meglio che io lo sappia subito". Omalley le rivolse uno sguardo sofferente "Sarebbe come se tradissi la sua fiducia" mormorò "Esattamente come temeva... non posso dirtelo, lo capisci?" "No" le disse Aurilda con decisione, scuotendo il capo con vigore "Io ti ho domandato di raccontarmi la verità. Non me lo riveleresti per screditarlo, ma perché io, la figlia dell'uomo a cui ha giurato fedeltà, lo voglio sapere" Aurilda assunse involontariamente un'espressione algida e arrogante come spesso i nobili erano soliti fare nei confronti dei popolani, tuttavia non le dispiacque poi tanto. Forse l'autoritarietà era l'unico modo per ottenere quello che voleva, nonostante non ritenesse Omalley una che si lasciava intimorire da cose simili "Per favore, dimmelo. Penso che sia giusto che io sappia" disse più gentile e meno altera, fissando intensamente l'altra. Omalley la scrutò, soppesandola. Era evidentemente indecisa, poi dopo alcuni lunghi attimi di silenzio ed esitazione finalmente annuì, pur restando poco convinta della sua decisione. Si sistemò di fronte ad Aurilda e mordicchiandosi un labbro iniziò la narrazione sussurrando "Ricordi che ti ho raccontato come dopo la morte di mio padre per qualche tempo ho vissuto con una donna?" Aurilda annuì "Il suo nome era Chartry Lonor. Era la cugina di Ser Zalikoco". Lo stupore si dipinse sul volto di Aurilda "Il tempo che abbiamo trascorso insieme mi parlò della sua famiglia, povera ma onesta. Poi mi parlò di questo suo cugino" continuò Omalley "Aveva il desiderio di essere cavaliere sin dall'infanzia. Si allenava giocando con le spade di legno tutti i giorni, ma quando crebbe i genitori non avevano abbastanza denaro per comprargli tutto il necessario per essere un vero cavaliere e lui dovette accontentarsi. Aveva talento il ragazzo, trovò lavoro presso la tua famiglia dopo aver conosciuto tuo nonno in una locanda. I due divennero una sorta di amici, nonostante le differenze sociali". Aurilda aveva il volto teso e gli occhi assottigliati, era stupita da quelle vicende mai conosciute prima e curiosa di comprendere cosa avesse spinto il cavaliere a tacere una storia del genere "Però Ser Zalikoco era invidioso" disse Omalley e i suoi occhi parvero brillare nella penombra della locanda "Invidiava il suo amico tanto facoltoso e, a sua detta, fortunato".

Aurilda restò col fiato sospeso, concentrata, e Omalley continuò con una smorfia di dolore dipinta sul volto "Tuo nonno gli disse che con un duro lavoro e tanti anni di servizio sarebbe potuto diventare cavaliere. Ma a Zalikoco Lonor non andava bene, era ambizioso e voleva subito diventare un cavaliere. Il caso volle che in una locanda, in preda a rabbia e frustrazione, incontrasse i cavalieri degli Hardex. Si scambiarono confidenze e lui gli raccontò della sua spiacevole situazione. I cavalieri subito gli offrirono un incontro con il padrone che allora era Demogorn Hardex, il padre dell'attuale signore. Questi gli proposero un patto: gli Hardex volevano uccidere il maggior numero di nobili per tentare di combinare con totale certezza il matrimonio tra il figlio Pontroius e la principessa Merlena, offrendo a Zalikoco di farlo cavaliere, ma in cambio lui avrebbe dovuto rivelare loro dove sarebbe andato a caccia tuo nonno, così da poterlo sorprendere e poi uccidere quando fosse stato senza la scorta a proteggerlo. E allora, ecco... lui accettò l'accordo". Silenzio, Omalley non ebbe il coraggio di aggiungere altro, semplicemente si lasciò scappare un lieve gemito senza lacrime e poi soffocò il volto nelle mani, evidentemente pentita per quello che aveva rivelato. Aurilda guardò fissamente le fiamme che ardevano nel camino, sentiva il fiato mozzato e le lacrime che bruciavano insieme alla rabbia, l'incredulità e la delusione. Non era possibile, non poteva credere che l'uomo che tanto stimava, il suo maestro d'armi, il suo compagno di viaggio e amico fosse un traditore, per giunta l'uomo che aveva causato la morte di suo nonno Jano. Aurilda sentiva gli occhi di Omalley che la fissavano in attesa di una reazione "Allora è per questo che continuava a diffidare di te" disse piano Aurilda, con un sussurro tremante "Perché pensava che tu fossi come lui, una traditrice". Omalley fece una nuova smorfia di dolore e strinse la mano di Aurilda in un gesto istintivo "Ti prego, lo so che è difficile, ma non puoi lasciare che questa vecchia storia rovini il vostro rapporto di fiducia reciproca! Sono più che certa che lui si sia pentito per quello che ha fatto" provò l'altra, ma Aurilda era troppo arrabbiata per ascoltarla. "E dimmi" disse furente, con sarcasmo "Che tipo di rapporto di fiducia dovrebbe esserci tra di noi? Lui ha tenuto nascosta a tutti questa storia. E' alto tradimento e quello era il padre di mio padre. Ed è morto solo per colpa sua" finì, scandendo ogni parola con durezza. Omalley scosse il capo "Sapevo che non avrei dovuto dirtelo!" disse ancora, rammaricata "Ma Chartry mi raccontò di un uomo egoista e ambizioso. L'uomo che ho conosciuto io non è così, è un cavaliere vero, un cavaliere nell'animo. Si è pentito sicuramente per il suo tremendo errore di gioventù!"

"Certo che mi sono pentito, da quel giorno fino a oggi e per tutti i giorni della mia vita mi pentirò sempre per quello che ho fatto". Entrambe le ragazze si voltarono contemporaneamente, a parlare era stato lui, Ser Zalicoko, era in piedi sulla porta del corridoio con l'armatura in dosso e lo sguardo basso. Aurilda lo fissò con disprezzo, gli occhi ancora lucidi di dolorosa rabbia "Non so cosa farmene del vostro pentimento" sputò piano, come se quelle parole fossero veleno. Le veniva sia da piangere che da gridare per la rabbia, unito a un forte desiderio di distruggere tutto "Vi prego signorina, permettetemi di parlarvi, di spiegare da me" domandò l'uomo con un fil di voce. Aurilda era sconvolta da una tale richiesta "Cosa dovete spiegarmi ancora?! Sentiamo!?" Lo esortò a voce più alta, il volto era teso e la mente si annebbiava velocemente a causa della furia "Siete un traditore, un opportunista e un uomo senza onore!" Lo attaccò arrabbiatissima e delusa come poche volte era stata prima in vita sua "Ho sbagliato" disse l'uomo e ad Aurilda quelle parole parvero deplorevolmente banali "Ma subito mi pentii del mio disonorevole comportamento. Per questo motivo da quell'infausto giorno ho trascorso la mia intera vita al servizio della vostra famiglia. Ho giurato fedeltà, ho promesso di difendere le persone care al mio povero amico e non sono mai venuto meno di fronte al mio giuramento di fedeltà perpetua" tentò di giustificarsi l'uomo. Teneva il capo chino e la sua voce era un lamento, ma gli occhi guardavano ugualmente il volto della ragazza. Aurilda ignorò sia le parole di scuse che la sofferenza e il rimorso che il volto del cavaliere dimostravano chiaramente "Al servizio di una famiglia che avevate distrutto!" Lo corresse Aurilda, impietosa e dura come la roccia. "Vi ho sempre reputato un uomo onesto, puro, leale. Per me voi eravate il cavaliere perfetto. E invece scopro che siete esattamente come tutti gli altri, un viscido opportunista".

A Ser Zalikoco brillarono gli occhi dal dolore che quelle parole tanto dure gli stavano causando "Voi siete la mia famiglia" disse con la voce rotta "No" lo corresse ancora Aurilda. Ricacciò tutte le lacrime e lasciò spazio solo alla crudeltà più impietosa, esibendo l'espressione più dura e sarcastica di cui fu in grado "Non prenderete mai il posto di mio nonno, per quanto ci abbiate disperatamente provato in tutti questi anni. Non sarete mai lui, non siete niente voi. E men che meno siete un cavaliere" disse ancora, tentando di mettere più veleno possibile in ogni singola parola, scandendo nonostante la rabbia volutamente ogni parola con lentezza, cosicché Zalikoco non perdesse neppure una parola. "Voi siete solo un traditore, avete causato un assassinio. E mio padre si è sempre fidato di voi" continuò Aurilda, scuotendo il capo con disgusto "Ditemi, com'è stato vederlo piangere quando era solo un bambino?" incalzò Ser Zalikoco che adesso teneva gli occhi chiusi, continuando a esibire un'espressione di sofferenza pura "Avete visto piangere mio padre e sua sorella, due bambini innocenti per la morte del loro padre, una morte che voi avete aiutato a organizzare! Come avete fatto a vivere con quei bambini a cui avevate sottratto uno dei genitori, a cui avevate distrutto la famiglia senza provare un minimo di disprezzo per voi stesso!?" Aurilda adesso aveva iniziato a urlare, le lacrime erano tornate a farle scintillare gli occhi scuri. Ser Zalikoco non parlò ma cadde in ginocchio, piangendo lentamente, con dignitoso silenzio, invocando supplicante perdono. Solo allora Aurilda si rese conto che Zenobia e i suoi figli si erano svegliati probabilmente a causa delle sue grida e ora ascoltavano senza conoscere bene i fatti della porta del corridoio, senza il coraggio di parlare o farsi avanti. "Avete sempre dubitato di Omalley perché combatteva senza onore e perché è figlia di un pirata" disse ancora Aurilda, questa volta tornando a sussurrare "Avete tentato in ogni modo di infangare lei che ha sempre e solo fatto del bene, temendo che mi rivelasse la sporca verità che vi siete sempre ostinato a tacere. Non avete neanche avuto il coraggio di confessare subito, nonostante mi abbiate detto che vi siete subito pentito, probabilmente per timore di essere giustiziato per il vostro crimine o chi può saperlo, semplicemente perché non volevate perdere tutto quello che avevate ottenuto". Si avvicinò all'uomo prostrato in ginocchio "Mi avete detto ieri che il rimorso è la cura contro tutto il male". Vide il cavaliere tornare a chiudere gli occhi "Voi non avete servito la mia famiglia per rimorso. L'avete servita sempre e solo per paura di perdere tutti i vostri privilegi. Avreste detto la verità subito e avreste avuto il coraggio di affrontare le conseguenze se veramente aveste sentito rimorso. Ma non l'avete fatto, avete mentito e vi siete nascosto nella vostra armatura di bugie". Lo guardò dall'alto, era lontano come un misero ratto, allora Aurilda si voltò e gli diede le spalle "Io vi disprezzo" finì semplicemente, esausta per aggiungere altro.

Ser Zalikoco alzò la testa "Vi prego" mormorò "Vi prego, concedetemi un'altra possibilità!" la pregò, senza osare alzarsi. Aurilda si voltò a guardarlo, il volto era una fredda maschera di disprezzo "Andatevene e non fatevi mai più vedere" sibilò piano, con estrema durezza "Signorina..." gemette l'uomo "Andatevene!" Urlò allora Aurilda e sentì la rabbia montare nuovamente con prepotenza "Se oserete tornare al castello giuro che vi farò giustiziare per i vostri crimini!" lo minacciò seria e fredda "Ma come farete a continuare il viaggio da sola?" domandò ancora l'uomo, con il volto contratto dal dolore "Questo non è un problema di cui voi dobbiate farvi carico" rispose Aurilda acida e scortese "E sappiate che preferisco di gran lunga viaggiare da sola, piuttosto che in compagnia di un traditore come voi". Ser Zalikoco la guardò con gli occhi lucidi e arrossati, tanto da far apparire l'azzurro delle sue iridi cupo come il mare in tempesta, era distrutto "Vi prego..." tentò per l'ultima volta "Va bene" continuò Aurilda inscalfibile "Se non volete andarvene voi, allora lo farò io". Si voltò per dirigersi verso il sotterraneo per andare a cambiarsi, ma il cavaliere parlò "Non ce ne sarà bisogno, adesso me ne andrò io". Si alzò con l'elmo sotto al braccio e fece un passo verso l'uscita "Aspettate, vi do qualcosa da portare via" disse Zenobia facendosi avanti "Grazie veramente" rispose pallido e triste il Ser. Zenobia sparì velocemente in cucina e l'uomo si fermò davanti alla porta, sembrava più vecchio e più stanco di molti anni "Ricordate che il vostro onore sarà sempre macchiato dal sangue versato ingiustamente di mio nonno, e sarà così per sempre. Non ha importanza quanto vi ostiniate a celarlo, perché a voi stesso non potete mentire e lo sapete bene" scandì ancora Aurilda, sempre inflessibile. Il volto dell'uomo si contrasse in una nuova espressione di dolore e prima che potesse rispondere Zenobia tornò con un panno bello grosso colmo di provviste "Spero che vi durino il più a lungo possibile, ovunque voi andrete" disse la donna. Ser Zalikoco le rivolse un sorriso triste ma ugualmente grato "Vi ringrazio veramente. Che gli dèi vi proteggano sempre". Incrociò lo sguardo di Omalley che tentò di parlare, di scusarsi, ma lui sorrise e le fece cenno di no con la testa "Grazie per tutto l'aiuto, Omalley" disse invece con dolcezza "Adesso riesco a comprendere per quale motivo Chartry ti amasse tanto. Ti domando perdono per il trattamento ingiusto che ti ho riservato, non lo meriti" poi guardò in direzione di Aurilda che lo fissava dagli occhioni scuri come i pozzi profondi senza fine e ugualmente privi di speranza, come chi vi precipita dentro "Signorina" sussurrò "Avete parlato a sufficienza, non credete?" lo fermò subito Aurilda "Ora andatevene una buona volta e non fatevi mai più rivedere". Il Ser abbassò lo sguardo "Addio" disse con voce rotta, poi aprì la porta della locanda e uscì alle prime luci dell'alba.

Rimasero tutti a guardare nel punto in cui era sparito l'uomo per qualche secondo, poi uno dopo l'altro distolsero gli sguardi "Ma cosa è successo, se non siamo troppo indiscreti?" Domandò una delle gemelle. Omalley guardò Aurilda che con un cenno le consentì di spiegare cosa fosse accaduto "Perdonatemi" disse prima che Omalley cominciasse "Io vado a cambiarmi, non ho voglia di sentire ancora tutto questo" annunciò, avviandosi alla piccola scala che conduceva al piano inferiore. Mentre scendeva Aurilda sentì le lacrime bruciare ancora negli occhi, ma ancora le ricacciò con risolutezza com'era fin troppo spesso abituata a fare. Ser Zalikoco non le meritava. Entrò nella stanza per rimettersi il suo abito, tentando contemporaneamente di ignorare la voce di Omalley che raccontava al piano superiore. Dopo diversi minuti finalmente cessò di raccontare, ma Aurilda decise ugualmente di rimanere giù "Mia madre ha detto di riferirvi che la colazione è pronta". Era stata Angelika a parlare, era sulla soglia della stanza e la guardava in evidente imbarazzo "Grazie, ora arrivo" rispose Aurilda incolore, senza guardarla. Angelika però non se ne andò, si mordicchiò il labbro, indecisa su qualcosa, e poi parlò "So che non sono affari che mi riguardano, signorina" iniziò a dire "Ma forse, nonostante l'errore, se il cavaliere ha dimostrato un sincero pentimento in questi anni, magari poteva avere un'altra possibilità". Aurilda la fulminò con lo sguardo, ma si sforzò di mantenere un tono pacato "Infatti dici bene" le disse altera e algida "Non sono affari che ti riguardano, ma se proprio vuoi saperlo, no, quell'uomo non ha dimostrato nulla in questi anni, se non la paura di essere scoperto". Angelika si irrigidì, adesso in forte imbarazzo e arrossì "Probabilmente avete ragione" si affrettò a rispondere "Però sembrava che ci tenesse veramente a voi" aggiunse, senza osare guardare Aurilda in volto. Aurilda si voltò e la guardò con freddezza "Sembrava che tenesse anche a mio nonno e hai sentito com'è finita, no?" disse sarcastica. Angelika abbassò lo sguardo e Aurilda seccata le passò oltre. Quando salì al piano superiore tutti apparentemente erano intenti a fare dell'altro, ma quando attraversò la stanza Aurilda sentì gli occhi di tutti su di sé. Andò a sedersi accanto a Omalley, poi gli altri le raggiunsero e iniziarono a mangiare. Di tutti i giorni di viaggio trascorsi sino a ora non aveva mai mangiato nulla di così amaro, ma era ben consapevole del fatto che l'amaro non provenisse dal sapore del cibo, ma della delusione per quello che aveva scoperto. Nulla era mai come appariva, nemmeno le persone che sembravano le più affidabili e questo fece sentire Aurilda ancora più esposta e delusa. E le mancavano le sue sorelle.

 

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Capitolo 15
*** Corallina ***


Pov:Cleorae

Non andava affatto bene. Cleorae era seduta sul letto della sua camera e leggeva le lettere arrivate al castello risalenti a qualche mese prima. La situazione stava evidentemente precipitando e nessuno sembrava intenzionato a risolverla. Ovviamente tutte le lettere tentavano di puntare l'attenzione sul medesimo problema: i demoni dei quattro elementi. I demoni dei quattro elementi Cleorae non li aveva mai visti di persona, ma non per questo aveva deciso di sottovalutava il problema come aveva fatto Fritjof e come adesso faceva Morfgan. Da quello che avevano raccontato gli uomini e le donne che li avevano incontrati ed erano sopravvissuti si poteva ben intendere che i demoni non fossero null'altro se non dei mostri. Avevano forma antropomorfa e di fatto alcuni erano addirittura alti come uomini, ma non era sempre stato così, l'unica cosa certa era che ne esistevano quattro tipi differenti e ognuno di loro aveva i poteri di un elemento. C'erano i demoni di fuoco fatti di magma incandescente che erano in grado di appiccare incendi e di fatto bruciavano le campagne e i raccolti, c'erano poi quelli di terra, formati da fango e rocce che causavano frane, tremori e talvolta addirittura spaccature nel terreno, i demoni di ghiaccio erano composti da schegge e blocchi di ghiaccio ed erano soliti congelare territori, e poi c'erano i demoni di aria, i più curiosi che si presentavano sotto forma di nubi scure e potevano persino creare una tromba d'aria.

Purtroppo erano deplorevolmente esigue le informazioni che avevano sui demoni e la causa era molto semplice: i mostri si erano creati dopo la disfatta dei discendenti del Re della Morte, quindi solo ventisei anni prima, casualmente appena dopo la nascita di Cleo. Ma inizialmente da quello che Cleorae aveva sentito dire i mostri si presentavano come improvvisi geloni su di un albero, oppure un cespuglio andava a fuoco apparentemente senza motivo. Insomma all'inizio i mostri non potevano neppure essere definiti tali a causa della loro inconsistenza fisica, poi col tempo erano iniziati i guai. Nei luoghi più reconditi del continente presero a formarsi lentamente delle pozzanghere o per quanto riguardava i demoni d'aria delle piccole nubi dense ai piedi delle colline, che iniziarono ad assumere le forme di uomini bassi come neonati. Negli anni i mostri crescevano sempre più, ma se durante i primi anni crescevano con una lentezza quasi esasperante, negli ultimi tempi erano diventati abbastanza grandi da eguagliare la stazza di un uomo adulto. Era possibile eliminarli, Cleo aveva sentito di un uomo che si erano battuti addirittura con tre mostri da solo. Certo però era complesso, inutile tentare di duellare contro un demone d'aria o di terra, mentre i demoni di fuoco rischiavano-se non si fondeva la lama-di ustionare, rendendola incandescente, e i demoni di ghiaccio si diceva fossero in grado di far esplodere una lama in schegge. Di solito nessuno sopravviveva se incontrava un demone d'aria, erano inconsistenti e scaraventavano contro i malcapitati raffiche di vento talmente forti da poterle trasformare in piccole trombe d'aria che potevano trascinare in alto e poi lasciar cadere da altezze notevoli, uccidendo o ferendo gravemente tutti quelli che ricevevano un tale trattamento.

I demoni d'aria erano particolarmente astiosi da sconfiggere, ma di certo gli altri non erano meno temibili. Chiunque riuscisse a vincerli in combattimento non doveva rallegrarsi poi tanto della cosa, al contrario doveva fuggire quanto più lontano fosse in grado. I demoni infatti non morivano, non potevano morire essendo scaturiti dalla natura stessa. Venivano inghiottiti dal terreno e dopo un tempo variabile riemergevano dal terreno com'erano spariti e spesso sembrava prediligessero luoghi attaccati in precedenza. Erano insomma incontrollabili, nessuno sapeva quando sarebbero comparsi né dove, l'unica cosa che avevano notato era che procedevano dai limiti del regno verso il centro e prediligevano poco le città o i grandi villaggi, almeno per il momento, essendo costituiti sempre da gruppi sommariamente ridotti. Cleo non riusciva a capire come potesse il re non curarsi minimamente di quella grave situazione in cui il suo regno versava da anni. Non c'era una soluzione immediata per risolvere il problema, era un dato di fatto, e forse non l'avrebbero mai trovata perché non c'era, ma come potevano saperlo se non avevano mai provato a cercarla? Avevano mai tentato veramente di scoprire di più sulle origini dei mostri? Per Cleorae era chiaro che non stavano facendo abbastanza.

Certamente i demoni degli elementi non erano l'unico problema che affliggeva il regno. La verità era che la situazione economica era un altro tarlo piuttosto grave di Expatempem. Il regno era in deficit di bilancio dai tempi dell'ultimo re appartenente alla dinastia del Re della Morte, il predecessore di Fritjof, Orbaal. La terribile guerra contro gli invasori aveva prosciugato del tutto le casse del regno, come accadeva assai di consueto durante le guerre, ma mai il debito era stato sanato e nessuno aveva ancora pensato a risolvere la situazione. Però, se Cleo al momento non poteva offrire soluzioni concrete al problema dei demoni, forse aveva trovato una soluzione valida per risolvere il problema del denaro e risanare almeno in parte le casse dello stato. Temeva solo che Morfgan la liquidasse nuovamente, come faceva di consueto, troppo preso dai suoi futili problemi e dalla negligenza con la quale svolgeva ogni compito. Cleorae a questo proposito trovava veramente inaccettabile il comportamento del re, un regno sempre necessitava del buon governo del suo sovrano, il loro regno a maggior ragione considerati i gravi problemi da cui era afflitto, richiedeva impegno e attenzione costanti.

Ma Morfgan evidentemente aveva di meglio da fare che curarsi dei veri problemi. Al momento era ossessionato da una ragazzina, l'aveva vista probabilmente una manciata di volte nella sua vita e voleva per forza che lo sposasse, blaterando questioni di onore e di disonore nei confronti suoi e di suo padre. Cleo proprio non riusciva a comprendere perché si fosse tanto incaponito con quella questione di poco conto, non solo si era infuriato quando la ragazza non si era presentata al suo cospetto, aveva ucciso uno dei signori nel castello senza pensarci due volte e poi lo aveva spinto di sotto in mezzo alla strada. Quel becero idiota di Morfgan poi si era anche affacciato, ridente e compiaciuto, togliendo ogni dubbio sulla sua colpevolezza. Ma non era finita lì, sarebbe stato un danno troppo esiguo da parte sua, il così detto re infatti aveva incaricato il fratellino di sterminare tutta la famiglia del povero signor Tenebrerus, la moglie, la sorella con marito e figli. Voleva anche le altre due ragazzine, ma Cleo aveva consigliato di prenderle in ostaggio, sperando di poter quantomeno salvare le loro giovani e innocenti vite. Come se l'avessero ascoltata, forse avrebbero lasciato che una delle due restasse viva per qualche tempo, l'altra-l'aveva sentito distintamente-l'avrebbero subito uccisa.

Cleorae era stanca di tutta quella stupidità e incompetenza, le fissazioni del re erano ridicole e la situazione del regno era grave. Sembrava insomma uno scenario disperato, sull'orlo della guerra o magari di una rivolta civile, ma allora quale sarebbe stato il suo compito? Il suo compito era precisamente quello, risolvere i problemi del regno e salvare la situazione. Cleorae si alzò richiudendo le lettere e riponendole nel piccolo scrigno decorato in cui si trovavano, si stiracchiò e si mise il vestito elegante per uscire. Non appena fu fuori dalla sua camera intravide il cugino Sipo passare come di consueto tra i vari corridoi, sovrappensiero ma non per questo meno vigile. Adesso non poteva andare da lui, aveva questioni più urgenti di cui farsi carico. Andò spedita nella sala principale, decisa a comunicare al re la sua pensata per risolvere il problema riguardante il denaro. Entrò di lato, come di consueto, nell'entrata spesso utilizzata dai servitori e poi si avvicinò. Morfgan era stravaccato sul trono con un completo rosso acceso, i capelli marroni erano raccolti in un codino e i bottoni d'oro risplendevano alla luce del sole, alle sue spalle la grossa vetrata circolare pareva farlo splendere di luce propria.

Quando si accorse della presenza di lei, Morfgan le rivolse un sorriso compiaciuto "Corallina" la salutò "Te la prendi comoda mia dama scarlatta da quel che posso vedere" disse ancora, ma il suo non sembrava affatto un rimprovero, era piuttosto divertito "Beate voi donne" aggiunse poi "Non avete nulla di cui dovervi preoccupare se non di far risplendere la vostra bellezza. Non avete questioni spinose di cui dovervi occupare e potete permettervi di oziare tutto il giorno". Cleorae si impose di stare calma e mantenere il solito portamento elegante e pacato nonostante l'offesa che quelle parole le avevano causato. Gli rivolse invece un sorriso innocente e benevolo "Non dormivo, mio re" precisò subito però "Riordinavo i miei abiti". L'uomo la guardò con sufficienza e poi guardò davanti a sé, notando che un gruppo di tre guardie si stava avvicinando, seguito dal consigliere Alfred Servrero che aveva un'espressione vagamente allarmante oltre che seria. Morfgan vedendoli entrare si sistemò meglio sul trono e li guardò soddisfatto "Maestà" si inginocchiarono i tre e Servrero fece altrettanto. Morfgan con un cenno permise a tutti di alzarsi e dopo un nuovo cenno del capo Servrero si defilò, restando fermo vicino alla parete in ascolto "Miei fidati soldati" rispose Morfgan "Possiamo sperare nell'attenzione del nostro integerrimo sovrano per riferire una notizia purtroppo poco piacevole?" Domandò quello che stava davanti "Ma certo. Parlate" li autorizzò Morfgan e il volto cambiò, da annoiato divenne attento e minaccioso, pur senza aver ancora conosciuto la notizia che i soldati portavano. "Maestà" disse quello a destra "Ieri sera una volta terminata la nostra guardia, mentre eravamo a cena in una locanda, abbiamo visto e sentito un tale mancarvi di rispetto pubblicamente e senza ritegno".

Morfgan si raddrizzò sul trono, con lo sguardo sempre più minaccioso e attento "Avete sentito il suo nome oppure avrete indagato mi auguro!?" Domandò il re, gonfiando il petto con lo sguardo indagatore e furente "Certamente, maestà" confermò il soldato che stava a sinistra "Purtroppo lo conoscete di persona, mio re" disse l'uomo al centro. Gli occhi scuri di Morfgan dardeggiarono "E di chi si tratta? Parlate!?" Sbottò "Il pittore a cui avevate ordinato di recarsi a palazzo, mio re" continuò la guardia centrale "Leucello Argis" mormorò Morfgan "Ha osato apostrofare nostra magnificenza chiamandolo violento, crudele. Privo di raziocinio. Infine ha detto che mai si sarebbe messo al vostro servizio perché non siete il suo re". Cleorae guardò istintivamente Morfgan e lo stesso fece il consigliere, negli occhi del re c'era lo stesso sguardo furioso che aveva avuto prima di uccidere Gamelius e quando aveva ordinato a Drovan di uccidere il resto dei Tenebrerus. "Siete assolutamente sicuri che quell'uomo abbia detto questo?" Intervenne Cleorae a voce bassa " Gli ho parlato una volta e mi era parso fosse assennato e giudizioso". I soldati la fissarono perplessi, probabilmente si stavano domandando perché lei stesse parlando senza titolo né consenso "Ah, taci donna!" Gli urlò malamente Morfgan, umiliandola "Non immischiarti in affari che non ti competono!" Cleorae abbassò lo sguardo, serrò la mascella e continuò a mantenere la calma, sentendo gli sguardi dei soldati sfiorarla e poi quello più insistente di Servrero "E così" disse Morfgan alzandosi dal trono e scendendo le scale "Il nostro misero artista pensa di poter osare tanto da screditare e rinnegare pubblicamente il suo sovrano, per di più al cospetto di miseri popolani nel buio di una taverna, nella notte come un ratto pauroso" disse a voce bassa, tuttavia la furia era ben percepibile nella sua voce "Pensa di potersi beffare in questo modo del suo re, ritiene di poter rifiutare una mia richiesta...!?"

Morfgan era talmente arrabbiato che i suoi occhi sembrava brillassero "Uccidete quella feccia d'uomo!" Strillò poi il re perdendo il controllo e le sue parole riecheggiarono nella sala del trono e poi lungo tutto il corridoio principale "Uccidete lui e ogni lurido cane osa seguirlo od offrirgli il suo aiuto, anche se dovesse trattarsi di un pezzo di pane!" Morfgan si fermò davanti alle guardie e le fissò, gli uomini sembravano spaventati da quello scoppio d'ira "Un servo!" Urlò ancora "Che venga subito qui un servitore!" Sipo comparve dal corridoio principale con il capo chino "Avete domandato, maestà?" "Sì!" Rispose Morfgan conciso "Comando che tu porti ai miei soldati, al mio cospetto, subito tre secchi. Voglio che siano capienti e brutti, i più brutti che riesci a trovare. Ma sii celere!" Sipo corse via senza domandare altro, evitando di guardare Cleo per non rischiare di insospettire Morfgan già furioso. Le guardie restarono ferme dov'erano, senza osare domandare nulla sul possibile impiego dei secchi, temendo di irritare ulteriormente il re. Cleorae voleva parlare, voleva almeno provare a fermare Morfgan dal quella nuova crudele pazzia, ma non poteva rischiare di irritarlo oltre, non tanto perché lo temesse, nonostante l'imponenza fisica di Morfgan e le sue abilità da spadaccino che lo rendevano abbastanza temibile soprattutto quando era arrabbiato, quanto piuttosto perché non voleva rischiare di perdere il suo favore. Purtroppo per salvare la moltitudine doveva essere disposta ad accettare la morte di pochi innocenti, era impossibile salvare tutti, qualcuno andava necessariamente essere sacrificato "Maestà" intervenne invece Servrero, stupendo tutti. Morfgan, le guardie e Cleo si voltarono per guardarlo, Cleorae a dire la verità lo scrutò con curiosità. L'uomo aveva come di consueto un'espressione severe ma lasciava appena trasparire il timore "Permettete?" domandò ancora "Permettete una parola dal vostro consigliere?" Morfgan parve pensarci su, poi annuì di malavoglia "Sentiamo". Alfred annuì e fece un passo avanti "Maestà, comprendo il vostro sdegno e concordo con voi nel ritenere le parole del signor Argis del tutto inappropriate alla vostra persona, ma non pensate che la prigionia potrebbe essere una pena sufficiente? Il signor Argis non ha commesso un crimine fisico, non merita la morte, inoltre agendo in questo modo non state confermando le accuse che il signor Argis ha mosso contro la vostra nobile persona?" Le guardie lo scrutarono con gli occhi spalancati e Cleo sentì ammirazione per quell'uomo, per le sue rischiose parole. Tutti attesero la risposta del re e Cleorae ebbe l'impressione che Servrero stesse trattenendo il fiato nell'attesa di una risposta. Morfgan prima di rispondere si avvicinò, spinse Servrero alla parete e lo fronteggiò, tenendolo per i lembi della giacca "Ascoltate attentamente le mie parole, consigliere" gli disse a voce bassa e minacciosa, scandendo oggi parola lentamente "Il vostro compito è consigliarmi, questo è vero, quindi vi ordino di farlo bene e vi assicuro che difendere un uomo che ha osato denigrare la mia persona in un tale modo non merita alcuna pietà!" Servrero impallidì e aprì un po' gli occhi per il timore "Se volete svolgere nel modo corretto il vostro mestiere" disse ancora Morfgan "Pensate piuttosto a un modo più creativo per farmi eliminare quel parassita, oppure limitatevi a tacere. Sono stato sufficientemente esaustivo?" Servrero annuì appena e solo allora Morfgan lo lasciò andare, guardandolo con sdegno. Sipo era tornato e aveva assistito in parte alla scena, ma aveva avuto il buon senso di non interrompere, nonostante i suoi occhi bruciassero di dissenso. Portava con sé tre secchi arrugginiti e ammaccati "Lasciali qui!" disse malamente Morfgan quando lo vide e Sipo obbedì, posizionandoli a terra con volto inespressivo, probabilmente stava detestando Morfgan sempre di più e faticava a non parlare "Ora" continuò il sovrano, cacciando malamente Sipo con un cenno frettoloso della mano "Voglio che troviate e uccidiate quel maledetto artista" annunciò, rivolgendosi unicamente alle tre guardie "Porterete con voi questi secchi e dopo che lo avrete ucciso raccoglierete per me il suo sangue in questi contenitori". Sul volto di Morfgan comparve un sorriso macabro "Voglio che prima di averlo ucciso gli diciate che il suo sangue non verrà sparso invano. Al contrario saprà che desidero onorarlo, contrariamente a come lui ha fatto con me" disse Morfgan delirando, ignorando gli sguardi raggelati che avevano Cleorae e Servrero "Desidero intingere il mio nuovo mantello candido nel rosso scarlatto del suo sangue!"

I tre soldati raccolsero i secchi in silenzio "Ora andate" disse con la voce più cupa Morfgan "E non tornate finché non lo avrete ucciso. E non fatevi alcuno scrupolo, uccidete chiunque pur di arrivare a lui" precisò ancora "Che capisca fino in fondo cosa significa denigrare il suo re!" I tre soldati annuirono e si allontanarono dopo un inchino reverente, facendosi sempre più piccoli mentre si allontanavano lungo il corridoio sino al momento in cui sparirono del tutto, svoltando a sinistra. Cleorae chiuse gli occhi e respirò a fondo, ci mancava solo quella. Ci mancava giusto un'alta persona da perseguitare, un altro da cui il re dovesse essere ossessionato, come se tutti i Tenebrerus già non fossero bastati. Cleo doveva assolutamente fare qualcosa e per prima cosa doveva parlare a Morfgan della sua idea per sanare il deficit di bilancio, non poteva farsi spaventare da lui, doveva andare avanti per la sua strada, portare a termine la sua missione. Rimase dov'era, decidendo come iniziare una conversazione con lui. Attese qualche minuto, aspettando che Morfgan si calmasse, poi parlò "Mio re?" Tentò a voce bassa "Che cosa vuoi?" Rispose lui decisamente più quieto. La rabbia, come di consueto, era andata via veloce com'era venuta, dopo essersi accertato di aver emesso la giusta sentenza per punire chi lo aveva offeso.

Cleo si avvicinò di qualche passo per poterlo guardare meglio, sentendo lo sguardo di Servrero su di sé "Non vorrei turbare la serenità del mio re, ma temo che abbiamo un problema piuttosto greve da risolvere". Morfgan tornò a sedersi in cima alle scale, la guardò e poi rise sguaiatamente, come se avesse potuto scaricare tutta la tenzione che lui stesso aveva creato con quel semplice gesto "E quale sarebbe?" Domandò sghignazzando in maniera assai poco elegante "La mia Corallina rimettendo a posto i suoi abiti si è resa conto di non averne abbastanza?!" Il suo tono era canzonatorio, a tal punto che le guardie appostate ai lati del portone della sala del trono sogghignarono. Cleorae continuò a guardarlo con fermezza, ferita nell'animo ma ugualmente decisa a continuare "No, maestà" rispose con la voce più fredda "Temo che sia molto più che una misera quisquiglia come questa, purtroppo. Abbiamo un vero problema, anche piuttosto serio se non oso troppo". Morfgan alzò gli occhi al cielo "Corallina" disse in tono leggero e Cleorae seppe da subito che non l'avrebbe ascoltata seriamente "Perché non vieni qui dal tuo re?" Cleo sbuffò ma decise di assecondarlo e, anzi, fece di tutto pur di far volgere a suo favore quella richiesta. Si fermò qualche scalino più in basso di lui e si mise a sedere ai piedi di Morfgan, guardandolo adorante dal basso, come piaceva a lui "Desiderate?" Domandò poi sorridendo. Morfgan le afferrò un polso con possesso, costringendola a salire, le afferrò la vita, circondandola con un braccio e facendola poi piegare verso di sé. L'uomo allora la baciò con ardore, e Cleo si costrinse ad approfondire quel bacio, per assicurarsi quantomeno l'attenzione di lui riguardo alla questione che avrebbe dovuto esporgli.

I due poi si staccarono e Morfgan sorrideva soddisfatto "Perché non dai un altro bacio al tuo re?" Domandò sorridendo ancora, stringendole di più la vita "È stato un po' scomodo" disse candidamente Cleo, carezzandogli il collo e subito l'altro si prodigò per risolvere il problema. La tirò di più versò di sé, facendola sedere sulle sue gambe, e i piedi di Cleo sporgevano sul lato destro del trono. "Maestà!" sussurrò lei costringendosi a ridere, vedendo le balze della gonna scoperte e intravedendo lo sguardo imbarazzato di Servrero "Non siamo soli" sussurrò lei, carezzandolo con sguardo complice "Suvvia, a chi vuoi che importi!?" Rise lui, continuando a stringerla "E inoltre, mio re, non sono degna di essere seduta quasi sopra al vostro trono" disse umilmente, sbattendo le ciglia per accattivarsi meglio Morfgan "Se io lo desidero puoi sederti invece" rispose lui, continuando a sorridere. Cleo lo guardò languidamente negli occhi "Oggi siete particolarmente bello, mio re" lo adulò abilmente e infatti lo vide mentre gonfiava il petto, orgoglioso di sentirsi parlare in quel modo "Nessuno vi merita". Morfgan sorrise ancora "Tu sei la più bella e riconoscente fra le donne" rispose "Sei l'unica che possa meritare veramente la mia compagnia". Cleo sorrise compiaciuta del suo operato "Il mio re è troppo grande, troppo misericordioso!" Esclamò sempre nel medesimo tono di adulazione "Ma di cosa volevi parlarmi, dimmi pure, Corallina?" Cleorae si fece più seria, ma senza cessare di esibire un sorrisino ammaliatore "Mio re" disse dolcemente, sfiorandogli il volto con le punte delle dita "Ho sentito dire che ci sono dei problemi alle casse dello stato" disse cautamente "È la verità?"

Morfgan esibì un'espressione annoiata "Sì" rispose atono "Temo che sia così da tempo" continuò "Da quando mio padre ha conquistato il regno o forse addirittura nel regno antecedente al suo. Quindi non c'è alcun motivo di cui preoccuparsi, il regno è sempre riuscito ad andare avanti". Cleorae puntò i suoi occhi azzurro acqua in quelli scuri del re, come se tentasse di ipnotizzarlo con un semplice sguardo "Ma se ci fosse una soluzione per risolvere in parte questo problema?" Domandò lei, sussurrandogli all'orecchio per creare una maggiore intimità tra di loro "Io non vedo soluzioni" rispose lui, con i soliti modi spiccioli e privi di qualsiasi impegno, tuttavia sorrise di più a lei e le baciò dolcemente il collo "Quindi direi di non preoccuparsi" concluse, sussurrandole a sua volta "Se siamo sopravvissuti per tutti questi anni, sono certo che potremmo farlo anche ora". Cleo inclinò la testa di lato per guardarlo meglio "Io non oserei mai immischiarmi in affari che non mi competono, maestà" disse in tono dimesso, continuando a carezzarlo "Io non so neanche leggere" mentì poi "Ma so di alcune miniere traboccanti d'oro e di pietre preziose nella Provincia di Fuoco, sotto al vulcano Vesuna. Magari l'oro che c'è lì potrebbe risolvere la situazione del nostro regno?" domandò lei candidamente, come se effettivamente con capisse quello che stava domandando. Morfgan la guardò negli occhi, la ascoltò attentamente, squadrandola con attenzione e vaga curiosità per quella trovata, poi quando lei ebbe finito le rispose dopo alcuni attimi di silenzio "Ma che brava la mia Cleorae" disse sorridendo "Sotto quella bella testolina c'è qualcosa di molto utile allora" rise sprezzante "Dovresti usarlo più spesso il tuo cervello se è in grado di trovare soluzioni tanto semplici ed efficaci!" Poi si voltò a guardare Servrero "Tu cosa dici, consigliere, non ha avuto un'idea brillante la mia Cleorae?" L'uomo annuì con impassibile serietà "Certamente, maestà" confermò, lanciando una breve occhiata a Cleo "Una trovata piuttosto perspicace e semplice".

Cleorae fece un sorriso falso, meccanico, prima al consigliere e poi a Morfgan. Se avesse potuto rispondere avrebbe detto a Morfgan che quello a dover usare il cervello-ammesso e non consesso che ne avesse uno-quello era proprio lui, non lei che stava tutto il giorno a rimuginare per trovare una risoluzione ai problemi del regno. "Dite che è una buona idea quindi, mio re?" Domandò con le solite maniere gentili e innocenti "Direi proprio di sì. Anzi, ti dirò di più" esclamò soddisfatto "Qualcuno mi porti subito un foglio, dell'inchiostro e una penna. Il re ha da scrivere una lettera!" Sipo spuntò come di consueto da un lato del grosso portone del corridoio, portando in un cestino quello che Morfgan aveva appena chiesto. Cleorae gli aveva detto tante volte di evitare l'ingresso principale, lei ci aveva impiegato del tempo per prendersi una tale libertà, ma Sipo pur essendo un ragazzo intelligente era più impulsivo di lei e spesso per mostrare la sua insofferenza dinnanzi alle ingiustizie finiva per cacciarsi nei guai. Insomma, suo cugino si ostinava a voler entrare passando dall'ingresso principale, non quello riservato alla servitù, rischiando una sfuriata di Morfgan. "Maestà" disse con un profondo inchino ma senza sorriso, porgendo ai piedi dell'uomo quanto richiesto. Cleorae scese dalle gambe di Morfgan, poi scese di qualche gradino e si mise apparentemente a guardare altrove, tenendo invece attentamente d'occhio l'uomo. Con la coda dell'occhio lo vide scrivere, non poteva sapere di preciso cosa avesse scritto, ma sperava solo che Morfgan non stesse trasformando la brillante soluzione che lei gli aveva porto in un'altra fonte di problemi.

"Servitore!" urlò ancora il re, in modo decisamente scortese e irritante "Maestà, comandate?" Disse Sipo, tornando con la mascella serrata "Voglio il mio timbro e la ceralacca!" "Subito maestà" Rispose con efficienza lodevole Sipo e sorridendo finalmente, facendo sentire Cleo estremamente orgogliosa del modo in cui lei gli aveva insegnato a comportarsi. Il ragazzo tornò poco dopo, questa volta tenendo in mano ceralacca e timbro come richiesto dal re. Morfgan allora sigillò la busta e con il timbro vi impresse il simbolo della sua famiglia, ovviamente ispirato al dio del suo popolo, Belis. Era un elmo con una corona d'oro e intorno una d'alloro che fluttuavano sopra di esso, a indicare la vittoria perpetua in battaglia con la corona d'alloro e la sottomissione della stirpe di Ahriman con la corona d'oro. Prese la lettera e la ripose nel piccolo cesto, poi guardò distrattamente il ragazzo "Portala subito a uno dei miei soldati" ordinò "Digli che il suo re comanda affinché prenda un cavallo di quelli veloci, quegli zoccoli alati, credo si chiamino in questo modo. Digli di partire per la Provincia di Fuoco. C'è una nuova ordinanza dal loro re che dovrà essere attuata subito". Sipo prese il cesto, si inchinò e andò via. Morfgan scese dal trono e si fermò a metà della scalinata, proprio accanto a Cleo "Ora sei soddisfatta, Corallina?" Domandò lui, fissandola attentamente.

Cleorae sorrise "Sono sempre lieta di essere utile al mio re" rispose lei, con il solito fare lusinghiero "Mio re" disse subito dopo, tristemente "Io provo imbarazzo per una certa questione" disse lei abbassando lo sguardo "Che cosa ti causa un tale imbarazzo?" Domandò lui, alzandole il mento con una mano in modo affettuoso. Cleo sorrise "Vorrei tanto imparare a leggere e scrivere, mio re" mentì ancora, ma sapeva che quella bugia al momento apparentemente inutile poteva rivelarsi utile invece in futuro "Se la cosa ti causa un tale fastidio a me non costa nulla chiamare un precettore che ti insegni a leggere e scrivere" disse Morfgan, non del tutto disinteressato al problema. Finì di percorrere la scalinata e si diresse verso il corridoio davanti a sé, così Cleo scese dalla scalinata a sua volta e lo seguì, rimanendo qualche passo più indietro. Mentre passavano il resto della servitù si inchinava reverente al passaggio del re e poi guardavano malamente lei come di consueto. Cleo al solito li ignorò tutti, con la sicurezza che è propria a chi sa di essere nel giusto e si avvicinò di più a Morfgan "Mio re" disse a voce bassa "Cosa desideri?" "Potrei porvi una domanda un po' indiscreta?" Morfgan quasi rise "Credevo che tra noi non ci fossero domande indiscrete" Cleorae sorrise "Che cosa vorresti chiedermi?"

Cleo ponderò con attenzione sia il tono che le parole "Mio magnifico re" iniziò con la solita adulazione esasperata "Per quale motivo un uomo eccezionale e superiore come siete voi" lo vide riempirsi d'orgoglio e alzare la testa "Ecco, desidera in maniera così ardente sposare una fanciulla, certo, appartenente alla nobiltà, ma pur sempre mediocre e soprattutto irrispettosa come la signorina Tenebrerus? Non è degna della vostra persona, non vi riverisce come meritate, mio re." Morfgan assunse una strana espressione, sembrava quasi fosse a metà tra l'arrabbiato e l'annoiato "Io non ho mai desiderato sposarla" ammise, stupendosi anche lui della tranquillità con cui era risuonata la sua voce "Mio padre ha scelto così. Ho provato a parlare con la ragazzina, le ho fatto normali richieste di obbedienza e sottomissione. All'inizio sembrava solo una stupida spaventata, poi l'ultima volta che l'ho vista ha osato mancarmi di rispetto". Questa volta la rabbia si percepì chiaramente e Cleo imprecò mentalmente, ancora con quel maledetto onore macchiato!? "Tutta colpa della scelta di mio padre" finì quasi ringhiando Morfgan, a denti stretti "Bisognerà che la ragazzina paghi l'affronto di aver disobbedito a due dei suoi re, per aver mancato di rispetto a me allora e adesso di nuovo! Il danno al mio onore deve essere sanato!" Cleorae cambiò discorso senza volerlo "Le indagini sulla morte di vostro padre stanno procedendo con qualche sospettato?" Domandò curiosa, quasi senza riuscire a trattenere quella domanda "Non hanno scoperto ancora nulla" rispose lui scuotendo la testa "Non si sa assolutamente nulla. E non ci sono sospetti pare".

Cleo lo guardò negli occhi e poi abbassò lo sguardo come era solita fare quando voleva dire qualcosa che temeva potesse causare l'ira di Morfgan "Non avete sospetti?" Domandò innocentemente, seppur incredula "No" confermò lui "Eppure" continuò lei, sempre a voce bassa "Il principe Drovan... ma che dico maestà, perdonatemi" finse subito di correggersi "Lui è fuori per una missione affidatagli da voi in persona. Perdonatemi". Ma vide, come immaginava, che Morfgan non era per nulla scandalizzato o stupito "Io sospetto di lui in verità" ammise "Per questo è meglio che si renda utile lontano da me". Cleorae assunse un'espressione comprensiva e dolce "Ma certo, mio re" rispose "Sarebbe una tragedia pensare che ha assassinato il suo stesso padre, figuriamoci se dovesse attentare anche alla vita di suo fratello. Avete fatto bene ad allontanarlo se non siete sicuro della sua innocenza" disse "La sicurezza del nostro sovrano è la cosa più importante, l'unica che veramente conta" finì guadagnandosi uno sguardo di approvazione da Morfgan. "Ma io non credo che mio fratello abbia fatto veramente una cosa del genere" la stupì Morfgan "E sono sicuro che lui non potrebbe mai fare del male a me. Siamo molto legati, anche se potrebbe non notarsi tanto da qualche anno a questa parte".

Morfgan sospirò e poi riprese a camminare e Cleo continuò a restare un passo in dietro, studiando lui. Effettivamente non si era mai soffermata sul rapporto di fiducia che c'era tra i due fratelli, ma forse avrebbe dovuto prestarvi maggiore attenzione. Comunque archiviò quel pensiero e pensò alle parole che voleva formulare adesso "Maestà" disse nuovamente "Che altro c'è!?" Domandò lui annoiato e vagamente infastidito questa volta "Ho altro da fare che stare tutto il giorno a sentite tutte le tue lamentele". Cleorae fu nuovamente costretta a incassare quel nuovo colpo, l'unica cosa che voleva fare quell'uomo era compiere sciocchezza a concatenazione e oziare con la caccia e il combattimento "Mi domandavo, mio re" andò avanti lei "Se la vostra promessa sposa non vi aggrada, non vedo perché dobbiate sposarla". La reazione di Morfgan fu inattesa e spaventosa, la sbatté al muro similmente a come aveva fatto poco prima con Servrero e la tenne stretta per le braccia "Ascoltami bene" disse con il solito tono iracondo nella voce "Mio padre ha deciso così" scandì chiaramente "E questa era una delle sue ultime volontà" disse a voce più alta "E io sono costretto a rispettarla!" Due gocce di saliva le arrivarono sulla guancia mentre lui la scuoteva. Cleo rimase immobile, senza dire o fare nulla, paralizzata dalla paura spontanea.

Morfgan con il viso contorto in una smorfia di rabbia la lasciò e riprese a camminare. La cosa migliore sarebbe stata andarsene, ma non solo dalle vicinanze del re, proprio dal castello, dalla città e infine dal paese. Più si stava lontani da quel pazzo e meglio era. Ma Cleo contrariamente a chiunque altro riprese a seguirlo, avvicinandosi sempre di più "Non intendevo minimamente mancare di rispetto alla memoria di vostro padre" continuò a voce bassa "Dicevo solo che quella ragazza non vi merita, mio re, non vi porta il giusto rispetto e declassa la vostra autorità". Morfgan questa volta se la prese con una sedia, la sollevò con le braccia forti e la scagliò lontano "E io che dovrei fare secondo te, dimmi!?" Urlò. Cleo deglutì "Prima maestà non potevate fare nulla perché non eravate voi il re" spiegò Cleorae "Prima eravate sottomesso al volere di vostro padre, ma ora siete voi ad avere il potere" disse con voce ipnotica "Un problema nuovo non si può risolvere con una soluzione vecchia" spiegò lei con convinzione "Prima la ragazza poteva andare bene, ma ora che vi ha mancato di rispetto in modo tanto grave e avete il potere non più. Liberatevi semplicemente di lei e cancellatela per sempre dalla vostra memoria". Morfgan la guardò con attenzione "E quindi dovrei limitarmi a ucciderla?" Domandò più calmo "Il tuo re deve sposarsi alla fine di questo inverno e non conosco candidate giuste disponibili per sostituire quella ragazzina". Cleo allargò il sorriso che le increspava le labbra carnose e si avvicinò con grazia "Qualcuna in effetti ci sarebbe, ovviamente se nostra maestà fosse disposto ad accettarla come legittima sposa". Morfgan la guardò e proruppe in una risata di scherno "Tu, Cleorae?!" Disse ridendo "Veramente!? Ma non farmi ridere. Tu devi solo stare al tuo posto e non immischiarti in questioni di corte che non ti riguardano".

Cleo lo guardò appena "Perdonatemi ma non riesco a comprendere perché non sarebbe possibile, mio re" disse a voce bassa "Io vi porto sempre il massimo rispetto, quello che meritate, penso che vi troviate in sintonia con la sottoscritta e inoltre io..." si fermò e lo guardò dolcemente "Io vi amo" confessò simulando perfettamente. Morfgan però parve non sentire, o meglio, sembrò considerare solo una parte "Io e te in sintonia!?" Domandò beffardo "Torna a riordinare i tuoi abito e rammenta da dove provieni". Cleo alzò lo sguardo e lo fissò intensamente "Però il mio suggerimento per il trasporto dell'oro delle miniere si è rivelato utile" osò. Morfgan le si avvicinò minaccioso, alzò una mano e con quella le strinse la mascella facendole male "Non azzardarti a prenderti il merito di un mio ordine" le sussurrò ancor più minaccioso prima di lasciarla. "Non lo farei mai, maestà" disse lei senza demordere "Ma se riuscissi ad avere sempre buone idee, diventando la vostra consorte non sarei di un aiuto maggiore?" disse convincente "Una volta imparato a leggere e scrivere potrei anche scrivere lettere al vostro posto, dispensandovi da questo noioso compito". Morfgan la guardò male "Vattene, Cleorae" disse con una leggera rabbia nella voce che non prometteva nulla di buono "Vattene prima che io mi arrabbi veramente. Manderò da te un precettore e tu rimarrai qui a corte, ma non sarai mia moglie!"

Cleo abbassò la testa, apparentemente abbattuta e poi se ne andò "Saluto, maestà" disse prima di allontanarsi. Percorse a ritroso il corridoio rivestito di marmo e girò alla sua destra, diretta nella sua stanza. Poteva dirsi soddisfatta per il momento, la lettera per la Provincia di Fuoco era stata inviata, una delle sue idee presto sarebbe stata messa all'opera. Per quanto riguardava il matrimonio Morfgan si sarebbe convinto, fosse stata costretta a subire umiliazioni e avesse dovuto abbassarsi a suppliche e trucchetti, lei sarebbe diventata regina a qualunque costo.

 

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Capitolo 16
*** Il principe della palude ***


Pov:Teurum

Finalmente lo vedeva, era quasi l'ora di pranzo e lui finalmente vedeva il castello dei Tenebrerus, il castello di Stablimo. Teurum adesso era felice, dopo tutti quei giorni di lungo viaggio finalmente vedeva avvicinarsi il castello. Era una bella mattina autunnale, una di quelle mattine in cui-fatta eccezione per il freddo-sembrava di essere in primavera piuttosto che in autunno. Il sole brillava alto nel cielo, coperto appena da qualche candida nuvola di passaggio e tirava un vento fresco che spirava tra i rami degli alberi, tentando di far cadere le ultime foglie che ancora resistevano. A giudicare dalla grandezza delle torri Teurum non avrebbe impiegato più di una decina di minuti per raggiungere l'imponente edificio. Il castello dei Tenebrerus, come d'altronde tutti i castelli dei signori delle province, esternamente aveva mantenuto l'antico aspetto della sua prima costruzione, senza subire cambiamenti architettonici, aspetto che inesorabilmente cozzava con l'interno ben arredato con mobili attuali ed eleganti.

Il castello di Stablimo era poco distante da una palude, la Palude Nera, e proprio a causa delle ninfee che crescevano rigogliose nella palude di fianco al castello che la ninfea era la protagonista nello stemma della nobile famiglia. Sommariamente era un bel castello, le pietre con cui era edificato erano scure e svettavano diverse torri a punta e sulle mura si vedevano in lontananza le bandiere con lo stemma della ninfea su fondo ottanio. Dietro al castello c'era poi un bosco fitto e sempre ombreggiato, dove i raggi del sole sembrava non filtrassero mai e tutto intorno c'erano tantissimi appezzamenti coltivati essendo i Tenebrerus i signori dell'agricoltura della Provincia di Ghiaccio. Non molto lontano c'era una città dove vivevano tante delle persone che lavoravano al castello, mentre la maggior parte dei contadini avevano piccole casupole sparpagliate in mezzo a quelle stesse campagne in cui lavoravano. Insomma, quel castello non aveva nulla di speciale, era un comunissimo castello come gli altri, o almeno questo era quello che a Teurum era parso sino a quel momento. Teurum passò con il suo bel cavallo rubato tra i vari appezzamenti di terra, notando di volta in volta esigui gruppo di contadini che si voltavano per ammirarlo. Se solo quei miseri stolti avessero saputo di chi si trovavano al cospetto come minimo sarebbero accorsi a inchinarsi ai suoi piedi, com'era giusto che fosse.

Il ragazzo continuò ad avanzare a passo lento ed elegante, voleva fare un ingresso trionfale e se avesse spronato il cavallo a correre non avrebbero potuto ammirarlo, come era giusto che facessero dinnanzi al loro legittimo sovrano e come si confaceva alla sua prodigiosa bellezza. Con i soliti pensieri vanesi nella mente Teurum si trovò a percorrere la via principale che conduceva al castello, era molto più affollata di qualunque posto avesse mai visto fino a quel momento e ricolma di miseri popolani affaccendati. Tanti però si voltarono a guardarlo, facendolo sentire ancor più importante di quanto già non si sentisse e accrescendo il suo ego smisurato. Quando fu in prossimità del portone, vedendo le guardie nelle vicinanze, Teurum pensò di smontare da cavallo per proseguire a piedi, tenendo la cavalcatura per le briglie. Il cavallo era evidentemente stanco per il viaggio quasi ininterrotto a cui era stato costretto, infatti si fermò e Teurum con lui, spronandolo a continuare "Avanti" disse piano, carezzandogli il muso "Siamo arrivati. Non puoi fermarti proprio adesso" lo incoraggiò come avrebbe potuto fare con un amico.

E proprio quando il cavallo finalmente si decise ad avanzare Teurum si fermò bruscamente, una ragazzina frettolosa, con i capelli castani e un bel viso leggermente paffuto, gli venne addosso e lo urtò con forza. Non si prese neanche la briga di scusarsi, passò oltre e riprese a correre "Attenta a dove vai!" Le disse Teurum infastidito. Lui e il cavallo ripresero il cammino e si fermarono tre metri prima dell'ingresso che conduceva nel cortile del castello, anch'esso ricolmo di gente indaffarata. I soldati di guardia erano poggiati ai lati dell'entrata delle mura e chiacchieravano tranquillamente, in maniera piuttosto negligente. Teurum si sistemò il ciuffo nero che stava su un lato della fronte e si avvicinò di più, in modo da ottenere l'attenzione dai soldati. I due come previsto lo notarono e si ricomposero in modo piuttosto svogliato, tornando al loro posto per poi avvicinarsi a Teurum "Cosa possiamo fare per voi, signore?" Domandò del tutto disinteressato e atono quello a destra "Desidero parlare con il signor Tenebrerus" rispose prontamente Teurum.

I due uomini alzarono gli occhi al cielo "Per tutti gli dèi!" Esclamò quello a sinistra "Ma voi dove vivete!?" disse poi l'uomo con scortesia "Il signor Tenebrerus è partito da settimane" "Sì" confermò l'altro "È andato alla capitale dal re". Teurum si incupì e si irritò, sia a causa dell'assenza del signore e ovviamente perché il re legittimo che era lui era giunto al castello di Tenebrerus e quello si era recato alla capitale, a fare visita al falso re! Ma Teurum si impose di mantenere la calma, ci doveva essere qualcun altro con cui poter parlare in quel castello "Allora potrei avere un colloquio con la signora?" domandò loro con estrema cortesia. I soldati lo fissarono dubbiosi "Cortese signor?" "Teurum" rispose lui, notando subito il tono irriverente del soldato "Cortese signor Teurum" continuò l'uomo "La signora ha questioni ben più importanti che stare qui ad ascoltare le richieste di un forestiero indisponente come siete voi". Teurum incrociò le braccia e inarcò le sopracciglia "Ma davvero!?" Domandò beffardo "Ad esempio?" I due sbuffarono "Ad esempio ritrovare la figlia maggiore che era promessa sposa al principe ereditario e sembra essere fuggita per raggiungere il Tempio dei Profeti". Teurum spalancò gli occhi azzurri, sorpreso e compiaciuto della sua fortuna "E voi dite che la signora ha cose più importanti da fare!?" disse con strafottenza, senza riuscire a mascherare un sorrisino di scherno "Mi pare ovvio" rispose il soldato a destra "Vi prendete gioco di noi?" Domandò l'altro brusco. "Non mi sorprende affatto che una signorina sia riuscita a eludere le attente guardie di questo castello" li canzonò Teurum, ma vedendo che i due non sorridevano distolse per un attimo lo sguardo, pensando rapidamente.

Teurum allora allargò il sorriso che aveva sul volto "E ditemi" chiese ancora, sempre più divertito "Da dove pensate che stia giungendo io!?" I due lo fissarono, spiazzati, poi si scambiarono uno sguardo perplesso. Poveri idioti, erano penosi e patetici, pensò Teurum, era incredibile pensare che gente del genere fosse incaricata di proteggere i nobili "State dicendo che voi siete un profeta?" Domandò quello a destra, con un'espressione palesemente ebete impressa sul volto "Precisamente!" Asserì impettito e compiaciuto Teurum. I due si guardarono ancora "E chi ci assicura che voi non ci stiate mentendo?" Teurum alzò platealmente gli occhi al cielo "E cosa siete venuto a riferire di tanto importante alla signora? Avete incontrato per caso la signorina?" "Tutto quello che so lo dirò solo e unicamente alla signora!" Rispose Teurum con arroganza, infastidito "Potete stare certo che non passerete se non ci dimostrerete di non essere un impostore!" Si incaponirono i soldati, annoiando molto Teurum. "E cosa dovrei fare, sentiamo?" Sbuffò il ragazzo con le braccia conserte. L'uomo a destra lo guardò prima vagamente imbarazzo, poi sembrò illuminarsi "Fateci una profezia" disse come se fosse la cosa più semplice e ovvia del mondo.

Teurum sbuffò sonoramente "Volete una profezia? Bene" domandò retorico "La signora sarà sicuramente felice delle informazioni che le fornirò" disse con gli occhi semichiusi, come se stesse tentando di interpretare una vera profezia "Ma se dovesse scoprire che voi mi avete trattenuto inutilmente per tanto tempo" disse con voce grave "Vi farà giustiziare!" I due lo fissarono come se avessero visto un fantasma, pallidi e vagamente tremanti, mentre lui riaprì gli occhi e li guardò serio e stufo "Non era una profezia vera!" Disse quello a destra, poi guardò il compagno spaventato "Non era una profezia, vero?" Teurum quasi gli rise in faccia, forse non era necessario avete tanta fretta, poteva restare ancora un po' a divertirsi con quei due mentecatti, ma proprio in quel momento dalla porta principale del castello uscì proprio la signora Tenebrerus. Era una bella donna, aveva il viso con gli zigomi alti, i capelli neri raccolti morbidamente sulla spalla sinistra e gli occhi di un verde inteso. Aveva un portamento elegante, da vera signora e indossava un abito grazioso che tendeva sul grigio; la donna si guardava intorno con attenzione e a Teurum parve che cercasse qualcuno.

Non appena i soldati la videro, immediatamente la chiamarono "Signora!" "Signora Tenebrerus!" esclamarono, facendo voltare i popolani più vicini. La donna si avvicinò distrattamente, continuando a cercare con lo sguardo "Cosa desiderate?" Domandò con garbo e serietà "Signora, quest'uomo chiede di parlare con voi" disse quello a sinistra "Afferma di essere un profeta e di provenire dal Tempio". Finalmente la donna cessò di cercare e focalizzò l'attenzione su di lui, come se lo avesse visto solamente ora "Provenite veramente dal Tempio?" Chiese speranzosa "Sì, mia signora" rispose gentilmente Teurum, facendo un inchino rispettoso ed elegante "Giungo al vostro cospetto dopo aver compiuto un lungo viaggio per portarvi delle notizie". La donna spalancò gli occhi "Sarà meglio parlare in separata sede" decise "E immagino che gradirete di potervi sedere dopo questo lungo viaggio" aggiunse "Seguitemi pure da questa parte" terminò, gentile come prima "Farò portare il vostro destriero a riposare nelle stalle, ovviamente se me lo consentirete". Subito Teurum annuì "E dopo avermi parlato, se non avete fretta di ripartire, concedetemi di offrirvi ospitalità nel mio castello". Teurum le rivolse un nuovo inchino in segno di ringraziamento "Sarà un onore per la mia persona essere al vostro servizio, mia signora" rispose adulante. La donna si voltò per tornare al castello e lui la seguì, non prima però di aver rivolto delle ultime parole ai due soldati "Buon lavoro miei signori e grazie ancora" disse con un sorriso di scherno soddisfatto. Le due guardie a loro volta gli rivolsero uno sguardo a metà tra l'arrabbiato e il timoroso. Teurum si vide venirgli incontro un uomo, probabilmente un servitore a giudicare dagli abiti consumati che indossava "Signore, buongiorno" gli disse cordialmente "Se desiderate lasciarmi il cavallo, me ne prenderò cura durante il vostro soggiorno al castello". Teurum annuì e gli affidò lo stallone bianco, raggiungendo poi la signora dentro al castello.

I due avanzarono percorrendo due o tre corridoi, poi la donna si sistemò su di un piccolo divano verde scuro, decorato da fili d'argento, facendo cenno a Teurum di accomodarsi sulla poltrona di fianco al divano affinché potessero parlare. Teurum non se lo fece ripetere due volte, si accomodò sulla bella poltrona, comoda come null'altro prima di allora, poi iniziarono a parlare. "Signor... scusatemi, potreste ripetermi il vostro nome?" Così la donna iniziò il discorso "Non l'ho detto" le annunciò lui "Sono Teurum, Teurum Gravel". L'altra annuì e continuò "Signor Gravel, avete detto di giungere dal Tempio dei Profeti". Lui annuì e la donna andò avanti "I profeti non lasciano il Tempio di frequente, ma voi avete detto di dovermi riferire qualcosa di importante" si sporse un po' in avanti, come se temesse di perdere qualche parola "Avete per caso notizie sulla mia primogenita, Aurilda?" domandò agitata e speranzosa "Sono settimane che è scappata e nessuno ha sue notizie, probabilmente è diretta proprio nel posto da cui voi giungete". Teurum scosse il capo e gli occhi della donna parvero farsi cupi, parvero velarsi di tristezza e sconforto "Su vostra figlia non posso dirvi nulla purtroppo, mia signora" rispose lui "Ma temo ugualmente di dovervi portare cattive notizie che potrebbero riguardare la sua sicurezza". La donna si portò una mano davanti alle labbra, sfiorandole per l'apprensione "Purtroppo il suo viaggio sarà inutile" disse Teurum "E, se dovesse raggiungere il Tempio, temo che potrebbe addirittura rivelarsi mortale". La donna adesso si portò una mano sul petto, con gli occhi sgranati dal terrore e lasciò fuoriuscire dalle labbra schiuse un piccolo gemito di disperazione "Vi prego, non torturatemi a questo modo restando vago, parlatemi con chiarezza, è della sicurezza di mia figlia che stiamo parlando, merito di conoscere tutta la verità!"

Teurum annuì sospirando e poi si sistemò meglio sulla poltrona "Il Tempio non c'è più". Quando disse quelle parole lesse chiaramente perplessità e terrore negli occhi della donna e lui fece una pausa per creare più tensione "È stato distrutto, mia signora" continuò, anticipando le domande di lei "È stato distrutto dai demoni di ghiaccio". La donna, se possibile, sbarrò ancora di più gli occhi e impallidì "Io allora non c'ero, ero impegnato nella caccia nei boschi adiacenti al Tempio" continuò a spiegare Teurum in tono vagamente tragico "Stavo inseguendo un cervo e mi sono allontanato molto dai pressi del Tempio. Ma quando sono tornato" la sua voce si fece più bassa, con vaghe sfumature di disperata drammaticità, principalmente per suscitare un maggiore patetismo e una crescente angoscia nella donna "Era tutto distrutto e congelato e ogni altro uomo era morto". Alzò il volto per vedere la paura intensa sul volto della signora "Sono l'unico superstite di questa immane tragedia, mia signora" annunciò "Sono stato molto fortunato a essere risparmiato dagli dèi. Così mi sono recato al castello più vicino, il vostro, per poter informare voi nobili signori di questa disgrazia che si è abbattuta sui vostri umili servitori del Tempio. E quando ho appreso del viaggio di vostra figlia qui al cancello attraverso le guardie...". Teurum non terminò la frase ma sospirò, mentre il volto della donna era di un pallore spettrale e le mani erano tremanti "Provo immenso rammarico per la notizia che vi porto, mia signora" soggiunse Teurum in tono dimesso "Ma forse il luogo adesso è sicuro, immagino che i demoni dopo tante settimane se ne saranno andati" tentò, rassicurante. Amillia tentò di non scomporsi, anche se, era chiaro, sentiva un timore tangibile e assoluto per le sorti della sua figliola fuggitiva.

"Forse avete ragione" tentò di consolarsi da sola "Magari mia figlia non è mai giunta in quel luogo. Inoltre potrebbero esserci ancora delle speranze per lei, non è partita da sola, il nostro buon cavaliere ha avuto la premura di farle da scorta". Teurum si sentì vagamente a disagio, non sapeva bene né cosa dire né cosa fare perché la donna necessitava di parole calorose e confortanti ma lui non poteva digli nulla di tutto ciò perché non gli importava minimamente delle premure di una madre nei confronti della sua sciocca figlia. Questa era una situazione nuova per lui, inesplorata dal momento che mai aveva taciuto durante una conversazione in vita sua, soprattutto in una conversazione importante com'era quella. La donna parve quasi leggergli nel pensiero e notare il suo disagio perché fece un sorriso forzato e si alzò quasi di scatto, rischiando di perdere l'eleganza che accompagnava ogni suo singolo gesto "Vi ringrazio per le preziose informazioni che mi avete fornito indirettamente su mia figlia" si sforzò di parlare la donna, di apparire serena e cortese, imperturbabile "Come vi avevo preannunciato siete nostro ospite al castello e potrete restarvi per tutto il tempo di cui avrete bisogno". Teurum sorrise elegantemente "Grazie veramente, mia signora" e accennò un nuovo inchino "Sarete stanco" disse ancora la donna "Vi faccio preparare una camera e vi faccio portare degli abiti puliti. Se c'è qualcosa che desiderate o di cui avete bisogno vi prego di rendermene partecipe e io tenterò di farvelo avere". La donna si diresse verso il corridoio, ma lui la fermò parlando "Non vorrei recarvi alcun fastidio" precisò Teurum "Né vorrei infastidirvi con le mie richieste, ma se fosse possibile farei volentieri un bagno". La donna si voltò e annuì "Certamente" rispose cortesemente "Nessun disturbo". Si voltò nuovamente per andare, ma lui le parlò ancora "Immagino che non debba essere facile per voi, signora" disse "Ma non state tanto in pena per vostra figlia" si sforzò di simulare pietà "Sono certo che gli dèi e il vostro cavaliere vegliano su di lei".

Amillia fece un singhiozzo senza lacrime e annuì, grata di quelle parole di falso conforto "Grazie" disse con la voce flebile "Adesso perdonatemi, vado a dare ordini per la vostra camera e il vostro bagno" e la donna sparì, lasciandolo in quel salotto da solo. Teurum si guardò intorno, osservando da vicino per la prima volta quello che gli sarebbe dovuto spettare per diritto di nascita. Lusso, bellezza e comodità, invece non aveva mai avuto nulla di tutto ciò prima nella sua vita. I suoi occhi di ghiaccio scrutarono la stanza con disprezzo, con rancore per quella vita rubata, poi un rumore lo fece voltare "Signore prego, da questa parte". A parlare era stata una donna un po' abbondante, non era molto alta e i capelli scuri erano raccolti morbidamente in una crocchia. Teurum la seguì lungo il primo corridoio e poi su lungo le scale. "Voi chi siete?" Domandò Teurum, disinteressato "Sono Adelynda, la balia del castello" rispose la donna, nonostante non sembrasse molto agile era veramente veloce a salire. A un certo punto si fermò davanti a una porta che spalancò, facendo cenno a Teurum di seguirla "Riposatevi pure, signore" lo accolse la donna "Troverete già degli abiti nell'armadio" disse indicando un armadio grosso e lucido sulla destra "La tinozza per il vostro bagno è quasi piena" indicò una grossa tinozza circolare "Vi prego di scusarci, dovranno entrare ancora qualche volta per finire di riempirla" e detto ciò, dopo un inchino, andò via.

Teurum la guardò andare via chiudendosi la porta alle spalle, poi si ricordò dei servi e della sua tinozza e la riaprì. Poco dopo giunsero tre o quattro ragazzi, non badò a quanti fossero, portavano due secchi ognuno e quando li ebbero vuotati finalmente lo lasciarono solo. Teurum si avvicinò alla finestra e guardò il piazzale colmo di gente, inespressivo e sprezzante. Erano tutti patetici, per colpa di quella misera feccia lui, l'erede di Ahriman, doveva stare nascosto per timore di essere ucciso proprio a causa delle sue discendenze ed era costretto a fraternizzare con ogni tipo di gentaglia pur di ottenere quello di cui aveva bisogno. Dopo diversi minuti distolse lo sguardo, infastidito, e degnò la sua tinozza di uno sguardo traboccante di desiderio. Teurum però prima di spogliarsi ebbe un'idea, tornò a guardare il cortile, come gli era parso un attimo prima uno dei due soldati era voltato, così dall'alto Teurum decise di salutarlo con la mano, sorridendo in segno di scherno. L'uomo non appena lo ebbe riconosciuto tirò per un braccio il compagno facendolo voltare. I due lo fissarono con gli occhi ridotti a fessure, indicandolo e poi parlando tra di loro. Il sorriso di Teurum si allargò, sino a trasformarsi in una risata vera e propria.

Divertito e soddisfatto si allontanò dalla finestra e si spogliò frettolosamente, sistemò con cura gli abiti sul letto e poi si immerse nell'acqua. Il bagno non era caldo ma per lui era perfetto, l'unica cosa che contava era potersi finalmente lavare di dosso la fatica del viaggio, come se quel bagno fosse stato un rito purificatorio, una sorta di simbolo di rinascita verso la scalata al potere. Si strofinò la pelle per pulirla bene, poi passò ai capelli neri e corti. Il ciuffo che gli ricadeva morbidamente al lato con un'onda mossa gli finì davanti agli occhi e lui lo spostò dolcemente. Solitamente non amava perdere tempo né tantomeno rilassarsi, ma quel bagno se lo godette tutto, rimanendo a mollo finché i capelli non si furono asciugati al vento che entrava dalla finestra da lui stesso lasciata aperta. Quando fu soddisfatto e riposato si alzò e si asciugò accuratamente, poi aprì l'armadio e guardò dentro. Teurum era sempre stato abituato a un vestiario semplice ed essenziale, piuttosto diverso da quello che sempre aveva desiderato avere per accrescere la sua beltà e nutrire la sua vanità, per questo quando si trovò davanti quella moltitudine di abiti restò felice per la manifattura pregiata degli abiti, ma perplesso a causa della loro bruttezza. Ne prese tre e li stese sul letto per esaminarli accuratamente. Teurum non desiderava assolutamente indossare abiti scialbi come quelli a cui suo malgrado era stato costretto sino ad allora, ma quelli erano veramente esagerati e di cattivo gusto per lui, pacchiani. Gli abiti prima di tutto erano di colori intensi, uno blu, uno rosso e uno bianco. Solamente per le tonalità sgargianti dei vestiti Teurum giudicò la situazione tragica, quello spettacolo per lui costituiva un vero scempio, lui che prediligeva tonalità sobrie dell'azzurro, del blu, del verde e del grigio, senza mai disdegnare il sobrio ed elegante colore nero, inoltre quegli accurati abiti di alta sartoria erano ricolmi di fronzoli e ricami, con orli dorati. Ma l'elemento peggiore del vestiario era certamente costituito dai corti pantaloni e i calzini lunghi che coprivano la parte lasciata scoperta dai pantaloni, arrivando sino al ginocchio. Una smorfia spontanea di disgusto gli si dipinse sul volto, non avrebbe mai indossato quei patetici abiti!

Teurum tornò all'armadio cercando con più attenzione, rovistando tra i vestiti eccessivi e ridicoli riuscì a trovarne uno nero. L'abito era costituito da una giacca lunga similmente agli altri abiti, con un piccolo ricamo argentato al bordo delle maniche, il panciotto era di un grigio chiaro, c'era una cravatta di mussola bianca, mentre i pantaloni neri avevano una parte raccolta verso l'alto da un grosso bottone argentato per farli apparire corti e lasciare così che si vedessero i calzini. Teurum si infilò tutto velocemente, tirando giù i pantaloni per coprire gli orridi calzini che invece sembrava andassero mostrati chissà per quale assurdo motivo, poi scartò diverse scarpe con un piccolo tacco quadrato e optò per qualcosa di decisamente più sobrio e consono, un paio di stivali scuri. Finalmente vestito Teurum si avvicinò allo specchio, riflettendo sul duro lavoro che gli sarebbe spettato per cambiare quei costumi che re Fritjof aveva malauguratamente portato dalle sue terre d'origine. Guardandosi nello specchio però Teurum non poté far altro se non trovarsi bellissimo, ma d'altronde lui avrebbe fatto apparire maestoso tutto, anche un vestito con i calzini in mostra e i pantaloni alzati fino al ginocchio, solo che neanche sotto tortura li avrebbe indossati.

Aprì la porta e uscì dalla stanza che gli avevano riservato appositamente, iniziando a scendere la scalinata a ritroso per tornare di sotto. La balia gli passò accanto e lo ignorò del tutto, così Teurum si voltò e la vide bussare alla sua camera "Cosa c'è?" Domandò lui pochi gradini più in basso. La donna spalancò gli occhi e lo guardò impalata "Scusatemi, signore!" Disse andandogli incontro "Non volevo! Ma non vi avevo riconosciuto vestito così!" Teurum piegò la testa di lato per guardarla "Devo essere tanto brutto con questi preziosi abiti da signore, altrimenti mi avreste riconosciuto subito" mentì Teurum, principalmente per mettere l'altra in imbarazzo. Adelynda infatti scosse subito il capo con vigore "Tutto il contrario, signore" si affrettò a dire, con convinzione "Permettete, ma mai i miei occhi hanno avuto la fortuna di poter ammirare qualcuno di più bello di voi". La donna si rese conto di aver effettivamente osato troppo, ma ormai era troppo tardi. Teurum inarcò le sopracciglia e sorrise, soddisfatto, mentre lei abbassò il volto arrossendo vistosamente "Signore, io" balbettò "Domandò il vostro perdono, non avrei dovuto". Teurum però le sorrise "Suvvia" rispose lui "Un complimento sincero è sempre ben gradito da chiunque". Poi si fermò a guardare la donna falsamente perplesso e dubbioso "Perché era sincero" domandò, usando un tono indagatore "O vi beffavate della mia persona!?" Disse lui assottigliando gli occhi, solo per divertirsi ancora. La balia scosse vigorosamente la testa, quasi con disperazione "No!" Disse a voce alta "Vi assicuro che era sincero, siete bellissimo!"

Teurum allora sorrise ancora alla donna "Allora vi posso solo ringraziare se le cose stanno così". Non poteva farci niente, farsi adulare lo divertiva troppo, trovava estremamente divertente poi vedere come le donne cadessero tutte ai suoi piedi dopo un solo sorriso "Avevate un messaggio per me?" Domandò lui "Oh, sì!" Ricordò la donna "La signora chiede di voi" "Come mai?" Domandò perplesso Teurum "Vuole presentarvi la signorina Nomiva, l'unica delle sue tre figlie che è rimasta al castello". Adelynda guidò giù Teurum, passando tra i vari corridoi per poi tornare nel salotto principale "Signora, ecco il signore" si inchinò Adelynda al cospetto di Amillia, per poi andare via. "Spero di non avervi disturbato" disse la signora e Teurum notò che era molto più tranquilla di quanto non fosse stata prima "Non dovete nemmeno porvi un tale quesito, mia signora" rispose Teurum con un'umiltà che mai avrebbe avuto. La donna lo squadrò e sorrise "State veramente bene con questi abiti" disse sincera "Sembra che siate nato per portare un abito di tale manifattura". Teurum replicò subito "A me non piace" disse con semplicità e la signora si stupì "Trovo tutti questi abiti eccessivi" specificò Teurum "Ma certamente voi non avete alcuna colpa di ciò. Al contrario, non posso fare altro che ringraziarvi immensamente per tanta generosità e cortesia nei miei riguardi".

Amillia rise appena "A nessun uomo ho mai sentito contestare degli abiti, solitamente mio maritò così come mio fratello e mio padre al tempo hanno sempre mostrato disinteresse per i loro abiti" disse vagamente divertita. Teurum rispose al sorriso "Dico solo quello che penso, mia signora. I pantaloni sono terribili". Amillia scosse la testa, sempre più divertita "Se lo desiderate possiamo farvi cucire degli abiti su misura" "Non vi scomodate ulteriormente" si affretto Teurum, benché non avesse desiderato altro se non di accettare quella proposta "Nessun problema, veramente". La donna annuì "Se ne siete proprio sicuro". Teurum annuì a sua volta con riluttanza e poi notò che l'altra non lo ascoltava per guardare in direzione del corridoio, avvicinandosi "Adelynda, dov'è?" Domandò la signora all'altra donna "La faccio scendere subito, signora" disse la balia schizzando via. Amillia tornò a guardare lui "Scusate" mormorò "Si tratta della mia secondogenita" disse sospirando "È una brava figlia, ma di seguire le buone maniere proprio non se ne fa una ragione" continuò col viso contrariato "Prima è scappata dopo l'ennesima lite con il suo precettore, indossando un abito da popolana per confondersi tra la folla". Amillia si fermò e scosse la testa, si notava chiaramente la rabbia che sentiva nei confronti della figlia "Signora, la signorina" disse Adelynda entrando, poi uscì e fece cenno alla ragazzina nel corridoio di entrare.

Quando Teurum la vide gli scappò da ridere, lì davanti a lui c'era la ragazzina che non molto tempo prima lo aveva urtato malamente, senza neanche domandare scusa. Quella probabilmente lo aveva riconosciuto a sua volta perché quando lo vide rimase un momento impietrita, poi subito dissimulò "Signor Teurum Gravel" disse la donna "Vi presento la mia secondogenita, Nomiva Tenebrerus. Nomiva, questo è il signor Gravel dal Tempio dei Profeti, sarà nostro ospite per diverso tempo". Nomiva lo fissò senza sapere bene cosa fare "Signorina" disse invece Teurum, facendo un mezzo inchino in segno di saluto "È un onore fare la vostra conoscenza". Nomiva allora rispose "Il piacere è il mio, signore". Continuò a guardarlo fissamente, sembrava sicura e tranquilla ma lui riusciva a scorgere chiaramente la preoccupazione ben celata negli occhi di lei "Bene" disse la signora "Direi che è giunto il momento di pranzare. Vogliate scusarmi ma vado a domandare a che punto sono con la preparazione del pranzo. Nomiva" disse la donna prima di uscire, rivolgendosi unicamente alla figlia "Fai sentire a proprio agio il nostro ospite" e detto ciò uscì.

Teurum subito guardò la ragazzina sorridendo, ricordando l'incontro avvenuto prima. La signorina lo guardò per qualche istante, e questa volta, notò lui, non c'era traccia di preoccupazione in quegli occhi "Sì, ero proprio io" disse lei, senza che lui le avesse domandato qualcosa "È inutile che vi prendete gioco di me" continuò senza timore "Prima ero di fretta e non ho guardato dove andavo, né ho pensato a scusarmi con voi. Scusate. Ora la smetterete di canzonarmi fissandomi in quel modo?" A sentire quelle parole però a Teurum venne ancora più da ridere "Siete veramente divertente, signorina" disse ridendo soffusamente "Scappate dal vostro castello travolgendo i visitatori e non appena vostra madre è costretta ad assentarsi dimenticate l'uso delle buone maniere. Siete veramente esilarante!" Nomiva gli rivolse uno sguardo torvo "Ma una cosa posso saperla?" Domandò Teurum curioso "Dove eravate diretta così frettolosa?" La ragazzina lo fissò negli occhi, visibilmente seccata "Non penso siano affari che vi riguardino" disse a voce bassa ma chiara, e Teurum rise ancora, principalmente per farla innervosire "Sono più che certo che mi divertirò moltissimo qui al castello con la vostra gradevole compagnia!" Disse guardandola divertito. Nomiva non pareva della stessa opinione e quando parlò la sua voce assunse una sfumatura arrogante "Volete dire qualcosa a mia madre vero, è questo che intendete" poi però quell'idea parve sconfortata. Teurum però scosse la testa e si avvicinò "E poi dove starebbe tutto il divertimento?" Le domandò alzando le sopracciglia. Nomiva lo guardò stupita "Dite davvero o mi prende ancora in giro?" Teurum scosse il capo "Sono sincero. Sono sicuro che mi divertirò molto di più alleandomi con voi piuttosto che con vostra madre. Inoltre tacendo il nostro piccolo inconveniente potrei avere sempre un modo per ricattarvi in caso voi mi doveste far arrabbiare veramente. Cosa ne pensate, signorina Nomiva?" Domandò alla ragazzina, sfoggiando un abile sorriso ammaliante "O posso osare e chiamarvi semplicemente Nomiva?" L'altra lo guardò attentamente, sempre più stupita "Direi che potrebbe andare bene la vostra idea, signor... Teurum può bastare?" Lui annuì e allora i due si sorrisero con nascente complicità "Sempre se per voi va bene, ovviamente" insistette Teurum "Mi è sembrato di capire che le buone maniere vi causino problemi e così volevo rendere le cose più semplici". Nomiva lo studiava attentamente, poi domandò semplicemente "Perché?" "Cosa?" Chiese lui a sua volta "Perché siete gentile con me? Intendo dire, in modo diverso dagli altri, senza mettermi in imbarazzo per i miei modi un po' rozzi. Perché volete mettermi a mio agio?"

Teurum le sorrise, piacevolmente colpito da quel ragionamento "Perché credo che questo sia il modo migliore per ringraziare tua madre, far sentire sua figlia veramente a proprio agio" spiegò con convinzione "E perché apprezzo sempre chi ha il coraggio di essere sé stesso, senza uniformarsi alla moltitudine. Nutro una profonda ammirazione per le persone coraggiose come te". Dopo aver sentito quelle parole, esattamente come Teurum aveva previsto, la ragazzina si convinse definitivamente e gli sorrise con sincera benevolenza "Allora va bene?" Domandò ancora Teurum "Va benissimo!" Confermò Nomiva. Allora Amillia tornò, prima che potessero dirsi altro "Stanno portando il pranzo in tavola, andiamo?" domandò con cortesia la donna. Nomiva seguì la madre dopo aver sorriso a Teurum e allora anche lui le seguì. Teurum si sentiva già perfettamente a suo agio in quel castello ed era appena arrivato. Forse era stato fortunato anche in quel caso, con l'amicizia della ragazzina e la benevolenza della signora le cose sarebbero state ancor più semplici di quanto non si fosse immaginato, ma Teurum non poté fare a meno di pensare che gli dèi avessero interceduto in suo favore anche quella volta, esattamente come era accaduto al Tempio e quello era solo uno dei molti segnali che indicavano come la volontà divina fosse in accordo con il suo desiderio di tornare a essere il re.

 

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Capitolo 17
*** Il domatore insanguinato ***


Pov:Damian

Non si erano più visti, erano trascorse delle settimane da quando Pontroius aveva mandato i soldati a cercare la ragazzina e non si erano fatti più vedere. Questo al padrone non era piaciuto per niente, Pontroius si era arrabbiato ogni giorno di più, al punto che se fossero tornati in quel momento probabilmente l'uomo li avrebbe puniti duramente. Da una parte Damian sperava che tornassero per poter assistere alla loro punizione, ma dall'altra sperava che non tornassero mai più, in questo modo almeno loro non avrebbero potuto più torturarlo. Senza considerare il cattivo umore del padrone causato proprio dalla misteriosa scomparsa dei soldati le cose al castello di Aspergo procedevano come di consueto. I contadini, i pastori e chiunque altro avesse avuto la sfortuna di dover lavorare nei pressi del castello era costretto a sgobbare a causa del lavoro senza sosta, dalle prime ore dell'alba sino alle ultime del tramonto. Insomma tutto sprofondava nel grigiore della normalità più deprimente.

Era quella la consueta vita alla quale la gente di quel castello era costretta, vivevano tra fatica e dolore, senza speranza di cambiamento, unicamente accompagnati da tanta rassegnazione. Damian sicuramente era il primo a vivere in quel modo con il capo sempre chino, non si sarebbe mai sognato neppure di poter confidare le sue fatiche a un alto bracciante, figurarsi poi se avrebbe mai osato tentare di cambiare le cose. Inoltre, riflettendo attentamente, la situazione di Damian era già mutata notevolmente nel corso degli anni, precisamente da quanto era riuscito a domare i coccodrilli. Se lo ricordava ancora quel giorno, i graffi grondanti sangue sulle sue braccia appena acerbe di giovane uomo e lo sguardo incredibilmente quasi soddisfatto del padrone. Poi Pontroius si era avvicinato e l'aveva fatto, finalmente gli aveva dato un nome "Tu da oggi sarai Damian" aveva detto "Perché li hai domati e quindi ti chiameremo domatore, Damian". Il ragazzo si era sentito quasi felice, finalmente aveva qualcosa che gli apparteneva, anche se non era materiale era bello poter dire di essere qualcuno invece che 'lo schiavo'. Da quel giorno e prima di quel giorno però Damian non ricordava di essersi mai sentito così vagamente felice.

La parte che Damian preferiva della sua giornata era quando doveva prendersi cura degli animali, dava da mangiare e puliva le stalle dei cavalli insieme allo stalliere e poi ovviamente c'erano i coccodrilli. Skiza era la sua preferita, forse perché gli ricordava sé stesso. Skiza era un coccodrillo tranquillo, prima di avere le uova se ne stava tutto il giorno nell'acqua, non badando agli altri né a qualunque cosa le capitasse intorno. Quando gli altri si attaccavano o succedeva qualcosa che li faceva scattare sull'attenti, lei al contrario stava sempre buona e ferma. Non che non fosse feroce, lo era eccome, soltanto che preferiva la tranquillità e solo nei momenti di vera difficoltà mostrava i lunghi denti. Quella mattina Damian stava pulendo le stalle quando si presentò una delle rare occasioni in cui Skiza dimostrava tutta la sua aggressività. Subito Damian era corso vicino al recinto, temendo che i coccodrilli potessero ammazzarsi a vicenda. Skiza era davanti alle uova e mostrava i denti agli altri che evidentemente avevano provato ad avvicinarsi. "Skiza, calmati" disse lui dolcemente dall'alto, ed ebbe l'impressione che lei lo avesse guardato male, così aggiunse "Per cortesi non avvicinatevi alle uova" disse rivolto agli altri "Potrebbero rompersi". Damian ebbe l'impressione che tutti e quattro lo stessero fissando con sufficienza, poi però si allontanarono da Skiza e tornarono nell'acqua.

Damian sorrise debolmente e si rivolse nuovamente alla sua prediletta "Se hai bisogno di aiuto, sono qui" disse come se quella potesse veramente rispondere. "Ti diverti a parlare con i coccodrilli, vero Damian!?" la voce soave di Pontroius lo fece voltare, era davanti alle scuderie con la moglie e la figlia. Pontroius e Matara durante gli anni del loro matrimonio avevano avuto solo un figlio, una figlia per essere precisi. La padroncina era Dasha, una ragazza poco più che ventenne che aveva un serio problema che mandava su tutte le furie i genitori. Dasha era minuta e bassa come il padre, i capelli erano dello stesso marrone spento, le sopracciglia abbastanza folte e il naso un po' storto, di certo non si poteva dire che fosse una bellezza, tuttavia le imperfezioni fisiche non erano colmate dallo spirito della ragazza. La padroncina era una ragazza abbastanza pacata, proprio come suo padre, ma era viziata e superba come la madre, inoltre non si poteva certamente dire che fosse una persona con cui poter affrontare un discorso vagamente serio perché la ragazza si preoccupava unicamente di frivolezze e di null'altro.

Insomma la padroncina non era bella e non possedeva alcuna caratteristica comportamentale che la rendessero gradevole, per questo era ancora nubile alla sua età. Questo fatto era veramente scandaloso, sia a causa dell'età che per la condizione sociale a cui apparteneva Dasha. Era anche a causa di questo che Pontroius era furioso con tutti gli altri nobili, quelli che avevano figli maschi perché non chiedevano in moglie la sua figliola, quelli con figlie femmine perché 'rubavano' alla sua unica erede tutti i pretendenti. "Per forza parla con gli animali" disse la padrona con un sorriso cattivo sul volto "Tu non parli ai tuoi simili, Pontroius?" L'uomo guardò la moglie e rise con la solita voce sottile ma tagliente come una lama ben affilata, insieme alla consorte e alla loro figlia. "Vieni subito qui e smettila di perdere tempo con queste sciocchezze" ordinò la donna con lo sguardo perfido. Damian si avvicinò docilmente al trio "Cosa desiderano i padroni?" Domandò con gli occhi rivolti a terra "Voglio che tu selli il mio cavallo" annunciò Pontroius "Quel buono a nulla dello stalliere sembra sia svanito nel nulla" disse infilandosi i guanti, con un'espressione contrariata. "Padre!" Parlò la ragazza, con la voce acuta che la contraddistingueva "Mia adorata?" Simulò premura l'uomo "Credete che i soldati ci abbiano traditi in questo modo?" Domandò la ragazza con le grandi sopracciglia corrugate "Mi auguro di no per il loro bene, mia adorata" rispose Pontroius con voce ferma "Ma se così fosse puoi stai certa che li troveremo e riceveranno una punizione esemplare" intervenne la padrona, come al solito esageratamente imbellettata.

La ragazza parve perplessa "E perché mai qualcuno che vive qui al castello dovrebbe voler andare via?!" Si domandò scandalizzata, come se le avessero arrecato un torto personale. Damian tacque come era solito fare e sellò il cavallo come gli era stato detto, senza osare dire una parola "Mi auguro che l'abbiano uccisa almeno" disse Pontroius senza rispondere alla figlia "Se proprio se ne sono voluti andare, che almeno abbiano ucciso la sposina del re! Usurpatrice maledetta e ingrata!" Disse turbato il padrone, avvicinandosi poi al cavallo sellato. L'uomo salì con l'ausilio di un rialzo a causa delle sue piccole dimensioni e poi venne seguito a piedi dalle due donne. Uscirono dalle stalle e Pontroius si avvicinò a un gruppo di soldati, radunati lì davanti per accompagnare il signore a cercare i compagni spariti misteriosamente. Damian li guardò mentre continuava a pulire la stalla, il padrone e la padrona parlavano con i soldati mentre la figlia interveniva ogni tanto, probabilmente facendo domande di poco conto. Damian distolse lo sguardo e continuò a lavorare senza guardarli, quando un rumore di zoccoli che correvano lo fece voltare nuovamente.

Una manciata di soldati stava correndo sui cavalli incontro al signore tenendo oggetti nelle mani, parti di armature sventolate come fossero vessilli, chi stringeva una spada, chi un elmo, chi invece un vero stemma, quello degli Hardex. Nonostante fossero ancora un po' lontani subito l'attenzione si catalizzò su di loro. Quando furono più vicini Damian guardò vagamente i volti di qualcuno dei nuovi arrivati e gli parve che quelli fossero desiderosi di parlare. Damian buttò un'occhiata fugace anche ai padroni, si scambiarono uno sguardo perplesso e preoccupato, al contrario Dasha guardava altrove. Gli uomini finalmente arrivarono, si fermarono davanti ai signori e smontarono dai cavalli piuttosto velocemente. Damian non era mai stato un impiccione, quello che succedeva agli altri non era affar suo, ma dal momento che lui era il bersaglio delle crudeltà di quegli uomini svaniti nel nulla si sentiva direttamente chiamato in causa. Cautamente uscì dalle stalle per prendere altro fieno da dare ai cavalli, con l'orecchio teso e la carriola posizionata davanti per spalarvi dentro il fieno. "Cosa è successo?" Domandò subito la padrona "Signori" iniziò uno dei soldati "Li abbiamo trovati". Sembrava preoccupato, cosa che certamente non sfuggì ai padroni "Allora dove sono?" Chiese impaziente Pontroius. I soldati si scambiano uno sguardo allarmato "Sono morti, signore".

Pontroius spalancò gli occhi per la sorpresa, così come Matara che si portò una mano sul petto e Dasha che emise un piccolo sussulto per lo stupore, non diversamente da loro Damian spalancò la bocca per la sorpresa. "Sono stati uccisi?" Domandò ancora l'uomo "Sì, signore" assicurò uno dei nuovi arrivati. Il padrone si fece più serio "I demoni?" Domandò istantaneamente, quasi senza nutrire dubbi sulla sua ipotesi, ma incredibilmente l'uomo con cui parlava smentì l'ipotesi scuotendo la testa "E allora chi è stato Olberg, chi?" Lo spronò a parlare la signora. Il generale scambiò uno sguardo di intesa con i compagni, probabilmente per decidere chi dovesse continuare a narrare "È stata un animale?" Intervenne Pontroius "Nemmeno signore" rispose prontamente uno dei soldati "E allora chi è stato!" Sbottò la donna "Non vorrai forse dirci che sono stati uccisi in combattimento!?" Continuò Pontroius. I soldati annuirono "Pare di sì, signori. C'erano segni di armi, ma erano armi diverse" "Come se fossero stati uccisi da un gruppo di persone" spiegarono "Avevano colpi di spada sui corpi e frecce, alcuni addirittura segni di morsi e di pugni".

L'uomo e la donna erano senza parole e così la figlia "Però" interruppe un altro soldato "Una spiegazione ci potrebbe essere". Pontroius assottigliò lo sguardo con sospetto, domandandosi probabilmente chi avesse osato arrecargli un torto simile "Il Fantasma dei Boschi". Lì per lì Damian rimase spiazzato, al punto che si voltò a metà per veder il viso del padrone, li guardava come se fossero pazzi, probabilmente credeva lo prendessero in giro. In effetti anche Damian credeva fosse una specie di scherzo, ma vide che i soldati erano seri, tutti eccetto il generale che aveva un'espressione contrariata "Ma che dici!" Lo corresse un altro "Non Fantasma" precisò "È il Terrore dei Boschi!" Pontroius li fissò quasi disgustato "Che accidenti state blaterando!?" Domandò confuso e arrabbiato "Non ne hai mai sentito parlare?" Era stata Matara questa volta a parlare "Ma certo che no!" Rispose l'uomo come se la moglie lo avesse accusato di un crimine infamante "Che storia è mai questa!?" Uno dei soldati si fece più avanti "Si narra che nei boschi si aggiri una creatura" disse con voce grave "E quando qualche bandito osa tentare di aggredire un sereno viaggiatore nei boschi, cercando di attaccarlo o derubarlo, il Terrore dei Boschi uccide il malvivente e salva la vittima che quello aveva scelto".

Pontroius scosse la testa "Mi sembra null'altro che una misera leggenda, inventata al solo scopo di spaventare i malviventi e i bambini" disse sprezzante "Una di quelle che vengono tramandate da secoli e servono solo a far spaventare, senza alcun fondamento di verità. Inoltre i miei soldati erano uomini rispettabile, non di certo briganti o mercenari!" "No, signore" lo corresse un altro "Questa non è una leggenda. Il Terrore dei Boschi è comparso negli ultimi dieci anni, prima mai era stata narrata una storia del genere" disse come se quella fosse una prova evidente di quello che avevano appena raccontato. "E' una sciocchezza, nulla di più" ripeté Pontroius con decisione. Damian aveva la bocca aperta, era voltato verso di loro e spalava il fieno sulla carriola ormai stracolma, per quanto potesse essere una storia il ragazzo trovava bellissimo pensare che 'il Terrore dei Boschi' fosse al servizio delle povere persone in difficoltà, chi aveva inventato quella bella favola doveva avere a cuore il bene della gente. Pontroius tuttavia dopo aver sentito quella storia parve ancora più nervoso, era irritato all'idea di aver perso i suoi soldati e ora voleva assolutamente sapere chi li aveva uccisi, ma sembrava che il colpevole fosse inafferrabile tanto quanto lo era una nuvola di fumo.

Il padrone si voltò sospirando e sorprese Damian con la bocca aperta a riempire la carriola stracolma, da cui il fieno stava cadendo, intento quindi ad ascoltare "Guardate un po'!" Esclamò Pontroius facendo voltare tutti "Il mio schiavo prediletto, Damian, si diverte a origliare!" Disse ancora "Pur di conoscere fatti riguardanti altri finge di riempire la carriola di fieno!" Damian abbassò lo sguardo, sapendo di avere gli occhi di tutti su di sé, e la cosa bastò per farlo arrossire dall'imbarazzo "Ti sei divertito a sentire questa bella storia?" Domandò con voce calma Pontroius, mascherando la rabbia "Deve essere bello per te sapere che i soldati che ti picchiavano sono morti, non è forse così? Rispondi!" L'uomo si avvicinò e lo fissò fermamente dal basso della sua statura "No, padrone..." bisbigliò impaurito Damian "Bugiardo" disse con la voce ferma Pontroius "Ti sei divertito a sentire la misera sorte che gli è capitata" disse ancora "Hai gioito della loro morte, della morte di uomini distinti e degni di vivere, al contrario di te!"

Damian aveva gli occhi chiusi e tremava "Padrone, io vi giuro che mai" "Non giurare!" Disse a voce più alta Pontroius "Non giurare il falso davanti al tuo padrone!" Era furioso, ma come sempre aveva quasi il pieno controllo di sé, solo dagli occhi duri si poteva percepire la reale entità della rabbia che sentiva il padrone "Olberg" disse calmo al generale del suo esercito "Raduna questa gente miserabile" disse ancora "Dategli una lezione. Che gli tirino addosso terra e sassi, lapidatelo" disse soddisfatto, con il solito sorriso falsamente benevolo sul volto piccolo e magro "E guardati bene, non deve essere ucciso! Lascia solo che si sfoghino e lo puniscano." Guardò Damian negli occhi e, leggendo il terrore sul volto del ragazzo, il sorriso di Pontroius si allargò. Dopo aver dato l'ordine Pontroius tornò dalla moglie e dalla figlia e insieme gli Hardex si diressero verso il castello, disinteressati dalla sorte a cui avevano condannato quello che per loro non era nient'altro che un misero schiavo.

Olberg lo fissò con un vago sorriso, crudele e soddisfatto. Allora il vicegenerale Fisty passò lì davanti e notando quel frastuono si fermò per indagare sulla sua causa "Raduniamoli tutti!" Diceva intanto il generale ai compagni, e vide i soldati afferrare le persone che lavoravano lì intorno senza fare distinzione tra uomini, donne e bambini, per metterli in riga davanti al ragazzo schiavo. Damian venne messo davanti alle stalle, tremante e solo "Fermi e zitti!" Urlò Olberg, i capelli marroni appena sotto le orecchie e le labbra carnose distese in un sorriso di fredda malvagità "Il vostro signore ha comandato che voi svolgiate un compito per punire questa bestia che ha osato disubbidirgli". Le persone docili e quiete come le pecore di in gregge fissarono prima Olberg e poi Damian "Il vostro signore comanda che voi lo lapidiate con sassi e zolle di terra, finché io non vi comanderò di smettere. Sono stato sufficientemente esaustivo!?" Le persone annuirono debolmente, consapevoli di non avere scelta sul da farsi, o non avrebbero avuto una sorte tanto diversa da quella del disgraziato ragazzo. "Iniziate" disse piano Olberg, guardando con un sorriso compiaciuto Damian, mentre in lontananza Fisty guardava la scena con gli occhi spalancati, ma tuttavia impotente.

Al via le persone iniziarono a tirargli sassi e zolle di terra, i soldati vicino ai bambini li spronavano a fare altrettanto. Damian si coprì automaticamente il volto, iniziando a sentire il dolore dei colpi sul corpo. Teneva le mani davanti agli occhi, l'unica parte che, se colpita, non sarebbe più potuta guarire veramente, mentre il resto del corpo rimaneva inerme. Olberg Ratino restò lì vicino, guardando Damian con un vago sorriso, controllando soltanto che gli ordini dati dal padrone venissero eseguiti. Il generale di Pontroius era un uomo piuttosto altero che mai si era degnato di rivolgere a Damian neppure uno sguardo, questa poteva sembrare una cosa spiacevole, ma in confronto a quello che gli avevano fatto penare gli altri soldati Damian era sempre stato ben lieto della cosa. L'uomo semplicemente lo ignorava, probabilmente considerandolo pari a nulla, ma quella volta doveva occuparsi della punizione di Damian direttamente e in quanto a crudeltà certamente non si trattenne. Nonostante l'espressione vagamente compiaciuta nei pochi istanti in cui Damian era riuscito a metterlo a fuoco il ragazzo era stato grato di non vedere il generale ridere sguaiatamente come avrebbero fatto i soldati ormai morti, perché nonostante tutto Olberg Ratino non era un uomo rozzo.

Insomma, non si poteva dire certamente che fosse una brava persona, ma almeno aveva un minimo di contegno e non aveva come vizio la persecuzione di poveri innocenti, o almeno così era sempre sembrato al ragazzo. Damian indietreggiava lentamente, il battito era accelerato e la paura, il dolore, erano forti. Sentiva i lividi sul torace lasciati dai sassi, una pietra particolarmente appuntita gli colpì con forza la spalla sinistra. Gli fece veramente male, probabilmente si sarebbe formato un grosso livido violaceo, contemporaneamente Damain sentì il pizzicore della carne scorticata a contatto con il suo abito leggero. L'abito già logoro era sporco di terra e polvere, ma divenne ancora più sporco durante la punizione, però insieme alla terra la povera stoffa si macchiò anche di sangue. Mentre indietreggiava piano e di conseguenza la folla avanzava per averlo sotto tiro, un sasso lo colpì proprio sul labbro superiore. Damian subito sentì la pelle strapparsi e il sapore salato del sangue gli riempì la bocca. Con la lingua tentò di fermarlo, ma quella distrazione inutile gli costò una zolla di terra sullo zigomo destro. Un po' di terra gli finì nell'occhio e la pelle del volto si aprì, lasciando che il sangue si mescolasse con la polvere marrone. Continuando a indietreggiare Damian si voltò automaticamente verso destra, si piegò prima a causa di un sasso che lo centrò precisamente nello stomaco, facendolo gemere dal dolore pur senza emettere un fiato, poi il ragazzo quasi cadde a terra a causa di un forte colpo sul ginocchio. La zolla di terra appuntita che lo aveva colpito lacerò la parte interessata del pantalone, poi minuscoli sassi si attaccarono alla pelle viva insieme alla polvere. Bruciava da morire, a Damian parve di avere un tizzone ardente infilato nel ginocchio, ma non emise un fiato, tuttavia la sua anima devastata dal dolore urlava preghiere, voleva solo che smettessero. Poi qualcuno, un soldato considerata la precisione del colpo, probabilmente anche lo stesso Olberg, chi poteva dirlo con certezza, con una pietra lo colpì sul ginocchio già ferito. Damian a quel punto sentì le lacrime bagnargli il volto sporco di sangue e terra e nonostante il dolore saltellò indietro con l'altra gamba. Voleva soltanto avere un po' di sollievo, un minimo di pace, chiedeva solamente quello dalla sua miserabile vita.

Una nuova zolla di terra gli finì sopra al naso, nascondendogli il volto in quella nube scura e lui tossì, temendo di soffocare. Poi ancora, un sasso sul braccio destro, una zolla di terra sulla fronte, un sasso sul piede, un altro sul collo. Damian sentì aprirsi tagli e ferite su tutto il corpo, ma la ferita al ginocchio era quella che pizzicava di più, doveva togliersi quei sassolini dalle pieghe della carne aperta. Sentì la gola farsi sempre più secca a causa della terra che aveva inalato e gli occhi in fiamme per il dolore intenso che stava subendo, dolore e disperazione si mescolavano perfettamente come il sangue e la terra, le lacrime bruciavano negli occhi a malapena coperti. Un grosso sasso gli finì sul piede, Damian emise un breve urlo strozzato e si tolse le mani dagli occhi, chiudendoli subito e chinandosi per tastarsi il piede con le mani. Fece un saltello all'indietro, tentando di poggiarsi sul tallone, ma un nuovo colpo lo fece sbilanciare con la schiena all'indietro. Damian allora perse l'equilibrio, si sentì cadere e sbatté forte la schiena, bagnandosi.

Riaprì gli occhi, era caduto nel recinto dei coccodrilli e la folla si era fermata, indecisa sul da farsi "Basta" disse finalmente il generale, calmo e deciso, in tono autorevole "Basta così, ha avuto la sua punizione". Si fermò un attimo a guardarlo dall'alto, poi distolse nuovamente lo sguardo "E poi fareste male ai coccodrilli" aggiunse maligno, andando via con la folla che si disperse veloce come si era radunata. Avrebbero fatto del male ai coccodrilli. Damian a sentire quella frase rimase raggelato, era considerato molto meno di un animale. I coccodrilli erano lì con lui, tre di loro lo guardarono per pochi istanti e poi distolsero lo sguardo, Skiza invece era vicina alle sue uova. Damian subito si tastò la ferita al ginocchio. Chiuse gli occhi dal dolore e pianse in silenzio, ma si lavò via i sassi dalla carne ferita. Si immerse poi nell'acqua e dolorante rimase sdraiato dov'era caduto, lasciando che l'acqua alleviasse il dolore che sentiva. Con la testa appena sollevata dal pezzetto di terra su cui potevano salire i coccodrilli e su cui c'erano le uova Damian si rannicchiò un poco sulla desta. Per un istante lo attraversò l'idea che i coccodrilli attratti dall'odore del suo sangue lo avrebbero divorato, ma forse non gli importava, al contrario magari sarebbe stata la cosa migliore diventare il pasto dei suoi unici amici.

Iniziò a piangere, ma questa volta non silenziosamente come era solito fare, si mise a piangere lasciando sentire i suoi sussulti di dolore, non piangendo quanto avrebbe voluto, ma comunque tanto rispetto a quello che faceva di solito. Si sentiva disperato, la sua vita non poteva essere definita tale, era un incubo in cui le ingiustizie si susseguivano senza motivo e senza fine. Mentre continuava a piangere con gli occhi serrati e le mani strette al petto, un'ombra proveniente dall'altro gli fece riaprire gli occhi e lo portò a spostarsi un po' per vedere di chi si trattasse. Pontroius era lì, era davanti al recinto e lo guardava con il solito sorriso falsamente benevole e appena qualche passo più dietro stavano Matara e Dasha che lo fissavano con espressioni simili. Dopo averlo osservato per alcuni attimi, soddisfatti, contemplando il risultato dell'ordine dato, se ne andarono lasciandolo solo, ancora più compiaciuti. Damian, che non aveva ancora smesso di piangere, tornò sul fianco destro a disperarsi da solo. Che senso aveva vivere? Perché doveva patire tutto quello senza aver fatto nulla per esserselo meritato? Damian se lo era sempre domandato, ma in momenti come quello il dubbio era incessante: perché doveva vivere se significava solo soffrire?

Mentre piangeva e pensava alla morte qualcun altro gli si avvicinò. Era Skiza, si era allontanata un po' dalle uova e adesso era davanti a lui, con gli occhi fissi davanti a sé. Damian la guardò, si era avvicinata senza un apparente motivo e aveva lasciato le uova, ma non sembrava volesse attaccare. Damian vedendola chiuse la bocca e sorrise dolcemente, piangendo come di consueto in totale silenzio. Forse era solamente un povero folle disperato senza nessuno che lo amasse, ma in quel momento Damian ebbe l'impressione che Skiza gli si fosse avvicinata solo per consolarlo, per fargli capire che lei c'era. Il ragazzo provò un intenso senza di gratitudine verso quel grosso animale feroce, tanto che non gli sembrò tale, forse perché era abituato a bestie molto più feroci dei coccodrilli, i suoi padroni. Si tirò su piano, mettendosi a sedere sentendo dolore da ogni parte. Si spostò un po' verso di lei e sfiorò le squame del coccodrillo. Skiza spostò gli occhi su di lui, fermandosi a guardarlo e Damian lesse molto più calore in quegli occhi assassini che in quelli di tanti uomini e donne che aveva avuto la disgrazia di conoscere. "Grazie, Skiza" sussurrò Damian "Grazie veramente". Il coccodrillo allora andò via lentamente, tornando vicino alle sue uova e a Damian tornarono in mente le parole che poco prima le aveva rivolto proprio lui, 'Se hai bisogno di aiuto, sono qui'.

 

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Capitolo 18
*** Viaggio senza fine ***


Pov:Aurilda

Ormai c'era quasi, doveva mancare veramente poca strada prima di arrivare finalmente al Tempio dei Profeti. Aurilda era partita dalla locanda di Zenobia circa una settimana dopo il suo arrivo e da lì il Tempio dei Profeti distava non molti giorni di viaggio. Omalley se ne era andata lo stesso giorno in cui Aurilda aveva costretto Ser Zalicoko ad andare via, inizialmente la ragazza dei boschi voleva aspettare di più prima di andarsene considerato l'accaduto, ma Aurilda le aveva assicurato che sarebbe stata bene e aveva detto a Omalley che era giusto che andasse da chi ne aveva veramente bisogno, perché per lei aveva fatto a sufficienza. Era partita appena dopo pranzo Omalley, Aurilda l'aveva ringraziata sinceramente e prima che quella se ne fosse andata l'aveva presa da parte e le aveva domandato un favore "Prima che tu parta vorrei osare e approfittare ancora del tuo buon cuore, domandandoti un favore" le aveva detto. Omalley subito si era dimostrata bendisposta "Se posso, perché non dovrei aiutarti!?" le aveva risposto con semplicità. Aurilda, grata, si era avvicinata di più per sussurrare "È per le mie sorelle" aveva detto "Se tu dovessi capitare nei pressi del castello di Stablimo o di quello dei Malkoly, il castello di Fastio, ti pregherei di avvicinarti quanto possibile per accertarti che loro stiano bene" aveva detto Aurilda, sentendosi vagamente allarmata dalla sua stessa richiesta "E, se io non dovessi essere ancora tornata, ti prego di digli che sto bene".

Omalley aveva annuito con un sorriso "Lo farò con piacere" aveva assicurato "Come le riconoscerò?" "Nomiva è più bassa di me di qualche centimetro" aveva spiegato Aurilda "Mia arriva poco sopra la spalla, ha i capelli più chiari dei miei, marroni, quasi del tutto lisci. Ha le guance un po' paffute, ma non tanto. Ha gli occhi marroni e... credo possa bastare per lei". Omalley aveva annuito, appuntandosi mentalmente le caratteristiche della ragazzina "Lei sta al vostro castello?" Domandò "Sì" aveva confermato Aurilda "Selina invece sta al castello dei Malkoly" aveva proseguito Aurilda "Lei è più bassa di" "Aurilda" l'aveva fermata Omalley "Come pensi che da lontano possa vedere quanto sono più basse di te?" Le aveva giustamente fatto notare. Aurilda si era sentita a disagio dinnanzi al sorriso pungente di Omalley "Hai ragione" aveva asserito ancora, sentendosi una sciocca "Selina è più bassa di me e più magra. Ha il viso a cuore, gli occhi di un verde intenso e i capelli dorati completamente lisci".

Omalley aveva memorizzato anche quella descrizione "Grazie per avermi ascoltata" l'aveva poi ringraziata Aurilda "E ovviamente per il salvataggio e tutto il resto. E non preoccuparti se non dovessi riuscire ad accertarti delle loro condizioni" le aveva assicurato Aurilda, pur sentendosi inquieta al pensiero che Omalley potesse non accertarsi delle loro condizioni "Sono certa che stanno bene e sono io ad avere timore per il loro benessere senza reali motivazioni". Omalley aveva sorriso "Non ci proverò" aveva detto con convinzione "Ci andrò di certo se ti farà sentire meglio. E per il resto figurati, è questo il mio compito, aiutare". Aurilda l'aveva guardava in difficoltà, non sapendo cosa dire, rigida come suo solito. Voleva ringraziare Omalley in maniera più calorosa ma non ci riusciva, così Omalley le aveva stretto la mano calorosamente, in segno di saluto "Buon viaggio, Aurilda" aveva detto mettendosi il cappuccio sui corti capelli neri "Presta molta attenzione. I soldati non sono gli unici di cui devi avere timore in questi boschi" l'aveva poi ammonita Omalley "I demoni degli elementi vagano, nascosti dalle ombre, e mai questi nemici vanno sottovalutati". Aurilda aveva annuito, sentendo l'agitazione e il timore crescere esponenzialmente dento di lei "E non temere per le condizioni delle tue sorelle, mi assicurerò che stiano entrambe bene e diro loro che stai bene anche tu" aveva aggiunto ancora Omalley "Da un albero a un altro sono molto più veloce di qualsiasi cavallo e molto prima di quanto tu possa pensare giungerò da una e poi dall'altra". Aurilda aveva sorriso "Mi mancherai" disse infine, rigidamente, non riuscendo a manifestare le emozioni positive che sentiva in quel momento come avrebbe voluto. Omalley aveva riso "Mi mancherai anche tu!" Invece di salire sugli alberi le tornò vicino e la strinse in un abbraccio. Aurilda le fu grata di quel gesto e ricambiò con un sorriso spontaneo che le incurvò dolcemente le labbra serrate "A presto, Omalley Terrore dei Boschi" l'aveva salutata al termine della conversazione. La giovane donna si era arrampicata con un'agilità incredibile, senza la corda che probabilmente usava solo quando doveva far salire anche altri sugli alberi con lei "Arrivederci signorina Tenebrerus" aveva detto dall'altro "Addio, Aurilda". Poi si era rivolta a Zenobia e ai ragazzi "Ci vediamo presto Zenobia! Arrivederci ragazzi!" Disse agitando la mano in segno di congedo temporaneo "A presto e grazie ancora!" "Ciao Omalley!" Avevano risposto Zenobia e i suoi sei figli in coro, agitando le mani a loro volta.

Poi Aurilda era rimasta alla locanda per altri sei giorni, compreso il giorno della partenza di Omalley, per rimettersi in sesto al meglio. Quando si era guardata allo specchio aveva visto i duri segni che il viaggio già le aveva lasciato. Era dimagrita, gli zigomi erano evidentissimi, appuntiti, aveva due pesanti occhiaie a farle apparire gli occhi ancora più scuri e duri e i capelli mossi e lucidi erano sfibrati e gonfi, simili a una nuvola di fumo. Le giornate alla locanda erano state abbastanza tranquille, solo due persone avevano alloggiato una notte ciascuna, una il secondo giorno della sosta di Aurilda e l'altra il quinto. Aurilda era rimasta nella stanza sottoterra e aveva trascorso il tempo ad allenarsi con la spada o esercitandosi con i trucchetti e le mosse mostratele da Omalley. Doveva rimanere alla locanda per riposarsi, ma non riusciva proprio a stare senza fare nulla. Nei momenti in cui si sdraiava sul letto per rilassarsi i pensieri le invadevano prepotentemente la mente. Erano intricati e tutti negativi, rabbia, nostalgia, delusione e preoccupazione si mescolavano nella sua mente creando una miscela di pessimismo e disincanto, come al solito d'altronde.

Alla locanda erano gentili con lei, Zenobia cercava di fare qualsiasi cosa pur di metterla a proprio agio, cosa abbastanza difficile a dire la verità, poiché la ragazza era tornata alla solita freddezza e al consueto distacco che mostrava nei confronti degli estranei e, travolta dal pessimismo, temeva sempre che quelle persone potessero tradirla. Quando c'erano Ser Zalikoco e Omalley si era sentita molto più a suo agio, ma con persone nuove era difficile aprirsi, soprattutto con gente tanto rumorosa. I figli di Zenobia erano molto vivaci, soprattutto i due piccoli e le gemelle e Aurilda detestava tutto il caos che facevano. Rimaneva chiusa della sua stanza, guardando la porta chiusa che non era sufficiente per isolare i rumori e provava irritazione e dissenso. Quando la chiamavano per il pranzo o la cena Aurilda rimaneva impettita e vagamente altera, mangiando in silenzio e sfoggiando appositamente le sue buone maniere propriamente con l'intento di suscitare imbarazzo nei confronti soprattutto delle fastidiose gemelle, scrutando poi tutti con lo sguardo freddo e sfuggente. Zenobia era imbarazzata a causa del comportamento di Aurilda, proprio non sapeva come rivolgersi alla signorina senza importunarla, la diversa condizione sociale e la freddezza della ragazza la mettevano in seria difficoltà, ma era a causa delle fastidiose figlie di Zenobia se Aurilda si mostrava tanto altera.

Kady e Kiera erano insopportabili. Inizialmente Aurilda aveva creduto che fossero due vivaci ragazzine, poi con il trascorrere dei giorni aveva iniziato a detestarle del tutto. Ridevano, parlavano, cantavano e correvano ovunque, mai sembravano essere stanche di tutto il frastuono che generavano e non erano propriamente eleganti, si comportavano come selvagge. Ogni tanto facevano persino incursione nella stanza della loro ospite senza neanche degnarsi di bussare, facendo infuriare Aurilda veramente tanto e poi iniziavano a farle domande e a toccare tutto. Ormai le due dovevano aver capito che i modi che usavano irritavano non poco Aurilda, d'altronde quegli sguardi taglienti erano difficili da ignorare, ma sembravano trovarci ancora più gusto e ogni giorno facevano di peggio. La sera prima della partenza Aurilda non era riuscita più a tacere e limitarsi a occhiatacce, aveva invece risposto per le rime con somma scortesia. Si, era sbagliato, questo lo sapeva benissimo, ma era veramente stufa del comportamento di quelle ragazzine e di doversi trattenere tanto a causa della sua condizione sociale e per il fatto che fosse un'ospite. La verità era che Aurilda si era divertita a essere tanto sgarbata, ma era vero che avrebbe potuto evitare una tale scortesia, d'altronde loro l'avevano aiutata e lei non aveva fatto altro se non lamentarsi per ogni cosa di cui avesse avuto l'occasione. Sicuramente sua madre Amillia si sarebbe arrabbiata se fosse mai venuta a conoscenza di un tale sgarbo, ma Aurilda non poteva farci nulla, non riusciva a sopportare quando gli altri non facevano quello che voleva lei e le gemelle la provocavano di proposito. Se le gemelle erano per lei fastidiose e dispettose, Angelika era di tutt'altra pasta. Zenobia si era resa conto di non poter fermare le figlie, ma si era anche resa conto di come stessero rovinando il soggiorno della loro ospite, così aveva fatto intervenire la figlia primogenita.

Angelika era una ragazzina molto diversa dalle sorelle, era gentile e riflessiva, ma da come la vedeva Aurilda era molto-troppo secondo il parere di Aurilda-ingenua e per giunta era dannatamente ottimista. Diverse volte era scesa in camere di Aurilda e le aveva parlato di quanto fosse bello viaggiare nonostante le scomodità, o le aveva parlato di quanto fossero meravigliose le persone, tentando di difendere Ser Zalikoco. Aurilda detestava quando Angelika iniziava con quei discorsi, poi quando Angelika tentava di difendere Ser Zalikoco la mandava su tutte le furie, i tratti del volto le si indurivano, gli occhi marroni diventavano ancora più scuri e i pugni si stringevano in una stretta ferrea. Spesso Aurilda non aveva avuto bisogno di rispondere a parole, l'espressione fredda e severa era valsa più di qualsiasi parola, ma la mattina della partenza era stata una delle poche volte in cui Aurilda aveva dovuto replicare a parole, ed era stato il confronto più aspro che, nonostante la presenza delle gemelle, aveva avuto alla locanda.

Angelika era entrato nella stanza con un bel sorriso che le illuminava il viso dolce e armonioso, aveva rifatto il letto e si era messa a spazzare, mentre Aurilda si allenava con la stessa spada che le aveva regalato Ser Zalikoco pochi mesi prima, al diciassettesimo compleanno di Aurilda, spada che per ovvi motivi non aveva avuto modo di cambiare. L'altra aveva iniziato a parlare di quanto fossero buone le persone ed era finita col parlare del cavaliere, facendo degenerare la situazione. "Oggi ripartite" aveva detto Angelika serena e gioiosa, in un modo che Aurilda mai avrebbe potuto comprendere. "Sì" aveva risposto atona Aurilda, parlando per monosillabe, per poi aggiungere con voce sarcastica "Finalmente tolgo il disturbo". La ragazza l'aveva guardata tristemente, mortificata da tanta durezza "Voi non avete causato alcun disturbo" aveva detto "Vi abbiamo accolta con gioia". Aurilda aveva inarcato le sopracciglia, beffarda e sardonica "Sono stata una parassita" aveva replicato "Sono rimasta qui a occupare la vostra locanda e a mangiare il vostro cibo senza pagare nemmeno un teslo". Angelika aveva smesso del tutto di spazzare e aveva spalancato gli occhi "Ma cosa dite" aveva subito risposto "Per noi è stato un piacere immenso potervi offrire il nostro aiuto, per noi è sempre un piacere aiutare chi ne ha bisogno. E i guadagni non hanno alcuna importanza" aveva poi asserito con convinzione "La nostra vita non sarebbe mutata per poco denaro e gli dèi sanno quanto siamo grati di poter aiutare". Aurilda aveva scosso la testa "Senza soldi non è possibile sopravvivere" aveva risposto, schietta a realista "È molto onorevole quello che fate, ma non potete ospitare tanta gente senza farvi pagare, oppure sarete costretti a chiudere questa locanda e ti assicuro che gli dèi non vi aiuteranno". Angelika aveva scosso la testa a sua volta, in disaccordo "I soldi non sono così importanti" aveva detto ancora "Se ci sono l'amore, la gentilezza e lealtà la vita di ogni persona è piena e soddisfacente" "Sì, peccato che l'amore, la gentilezza e la lealtà non possano sfamare nessuno, contrariamente a quanto può fare il denaro" aveva risposto freddamente Aurilda, cinica.

Angelika le si era avvicinata "Perché fate sempre così?" Aveva chiesto, mossa da sincera curiosità "Perché nulla vi rende mai felice? Come mai siete sempre così pessimista verso tutto e tutti?" Aurilda l'aveva fissata con la solita espressione imperturbabile "Non sono pessimista" aveva risposto "Sono realista. Tendo sempre a pensare al peggio per non rimanere delusa dalle cose. Ma a quanto pare dovrò impegnarmi di più" aveva detto sarcastica "Perché sono stata tradita dalla maggior parte delle poche persone di cui mi fidavo". Il volto della ragazza si era fatto più cupo e triste "Parlate del vostro cavaliere, non è vero?" Aveva subito detto Angelika "Non dovete pensarla queste cose" aveva continuato imperterrita "Sono certa che sia un bravo uomo, ha solo sbagliato, ma è capitato tanto tempo fa. Se poteste perdonarlo sono sicura che non ve ne pentireste. Secondo il mio parere siete stata crudele nei confronti di quel povero uomo". Quelle parole avevano fatto infuriare Aurilda veramente "Io sarei stata crudele nei suoi confronti?" Aveva domandato pacata come una serpe prima di balzare "Io!?" Angelika aveva annuito poco convinta sul da farsi, vagamente timorosa dall'espressione dell'altra.

Aurilda aveva riso senza gioia "Ah, allora è proprio come penso!?" Aveva continuato Aurilda "Io cerco di infliggere una misera punizione a un assassino che ha causato morte e disgrazia nella mia famiglia e devo subire le accuse di una popolana ignorante per il trattamento che ho riservato a quel povero assassino. Il volgo è veramente ridotto peggio di quanto pensassi" aveva sputato sprezzante Aurilda "Viviamo veramente in un paese senza la minima giustizia!" Angelika aveva abbassato il capo imbarazzata e timorosa, per tornare poi a guardarla con la solita espressione docile e innocente "Io intendevo solo dire che magari il cavaliere è cambiato veramente" "Cambiato veramente" aveva ripetuto pungente Aurilda, con la voce intrisa di disprezzo "Tu pensi che siano tutti come Omalley, vero!?" Poiché l'altra non aveva effettivamente risposta Aurilda aveva continuato a parlare "Voglio farti una triste confidenza: nessuno è come Omalley, anzi, sono tutti l'opposto di lei!" aveva detto ancora Aurilda, dura come la roccia "Le persone sono crudeli. Tutti cercano il modo migliore per approfittare della tua bontà e delle tue debolezze, ogni situazione può essere ideale per screditare e umiliare il prossimo. I soldi poi, sono il dio a cui tutti sono veramente votati, ma che nessuno ha osato includere nel nostro culto. Perché senza denaro mai avrai speranze di essere felice nella tua vita e ti assicuro per esperienza che molto spesso anche se avrai il denaro, tanto denaro, non avrai ugualmente la felicità". La ragazzina era rimasta a guardarla con gli occhi sempre più tristi e mortificati "Tu vivi in questo piccolo mondo felice e protetto in mezzo al bosco, tra gli uccelli che cantano, i tuoi irritanti fratelli e qualche povero visitatore ogni tanto, ma non sai niente del mondo esterno!" Aveva ancora detto Aurilda ad Angelika, oramai implacabile "Vivi in questa favola ovattata di amore e innocenza senza aver mai visto niente. Ma sai una cosa? Basterebbe che tu vivesse qualche settimana in un piccolo paese o meglio ancora in una città vera per comprendere da te che non sai niente della vita. Sei solo un'ingenua sciocca e non appena oserai mettere piede nel mondo reale i lupi ti sbraneranno senza avere alcuna pietà!"

A quel punto gli occhi di Angelika si erano colmati di lacrime "Allora è questo che pensate di me" aveva risposto la ragazzina con un fil di voce "Che sono una sciocca ingenua". E prima che l'altra avesse potuto replicare, Angelika era uscita in lacrime. Aurilda aveva sospirato forte, ci mancava giusto quella. Non vedeva l'ora di andarsene, nonostante il tepore e le comodità della locanda non vedeva l'ora di lasciare quel posto. Fortunatamente quello stesso giorno era partita dopo la colazione, ma dispiaciuta per il modo sgarbato in cui aveva parlato ad Angelika aveva pensato di farle un dono "Questo vorrei che lo tenessi tu" aveva detto prima di partire, congedandosi dalla sua coetanea "Non è un vestito così bello o pregiato, ma penso ti piaccia lo stesso, quindi tienilo pure". Aurilda aveva pensato di lasciarle il suo vestito e partire con uno di quelli scialbi che indossava Angelika, era uno scambio che sperava facesse felice l'altra ma a essere sincera con sé stessa aveva avuto un doppio fine anche quel dono, qualcosa che andava ben più oltre di un banale ringraziamento oppure di un gesto di scuse. La verità era che Aurilda aveva sperato di potersi nascondere meglio adesso, cercavano un cavaliere e una fanciulla facoltosa e adesso era sola e magari se avesse indossato un abito tanto semplice nessuno avrebbe sospettato della sua vera identità. Aurilda aveva anche pensato di tagliarsi i capelli per nascondersi meglio, ma le pareva un pedaggio troppo oneroso quello, barattare i suoi bei capelli per qualche tempo nei boschi. "Non serve" aveva comunque replicato Angelika "È il vostro abito e io non merito di indossare stoffa tanto pregiata" aveva continuato Angelika con umiltà "Sono sicura che a te starà meglio, quel colore non mi dona affatto e poi finirei col rovinarlo ulteriormente durante il viaggio" aveva però insistito Aurilda. Angelika non ce l'aveva con lei, al contrario aveva sorriso dolcemente e alla fine aveva accettato, immensamente grata. Zenobia aveva insistito perché portasse via due sacchi ricolmi di cibo e Aurilda aveva accettato senza troppe storie. Poi la ragazza si era allontanata salutando ed era sparita tra gli alberi fitti del bosco, esattamente come un animale selvatico.

E da allora Aurilda aveva ripreso il viaggio. Non era stato per niente facile, al contrario viaggiare da sola era stato molto più arduo di quanto si fosse immaginata. Spesso le era capitato di addormentarsi sul cavallo, infatti per il timore di fermarsi la notte era tesa e in allerta, dormiva decisamente male e durante il giorno era esausta. Fortunatamente però a parte la preoccupazione non aveva fatto spiacevoli incontri con bestie selvatiche, soldati o demoni. Certamente il viaggio era stato molto noioso, persino per una solitaria come lei passare tutti quei giorni da sola non era stato il massimo. Ovviamente Aurilda aveva avuto tanto tempo per pensare e non era riuscita a decidere se si fosse trattato di una cosa positiva oppure di una negativa. Aurilda aveva molte questioni irrisolte a cui dover pensare, forse la più urgente riguardava proprio il suo arrivo al Tempio. Sperava che una volta giunta al Tempio avrebbero potuto accoglierla e aiutarla, ma non escludeva affatto che avrebbero potuto rispedirla direttamente a casa senza darle soccorso e risposte. L'importante era almeno provarci, si era detta, per non buttarsi giù, d'altronde se la mandavano via non poteva di certo impedirglielo, ma di certo le avrebbe dato fastidio un trattamento del genere. Però la ragazza voleva considerare quella possibilità, lei sempre teneva in considerazione che le cose potessero andare male, giusto per non rimanere più delusa del necessario se le cose fossero effettivamente andate diversamente da come desiderava.

Poi aveva pensato a come dovesse stare la famiglia, a come avrebbero potuto reagire al suo ritorno, a quanto si sarebbero arrabbiati e così si impose di conservare quei pensieri nefasti per il viaggio di ritorno. Aurilda aveva anche pensato al suo comportamento, a com'era mutato negli anni, ai modi sgarbati che aveva usato con le persone che l'avevano aiutata alla locanda. Era sgarbata e arrivista, come le persone che diceva di detestare, solipsista avrebbe osato dire. Ma proprio Aurilda non vedeva come poter tornare la ragazzina quieta che era stata un tempo lontano, doveva mostrarsi dura e prevenuta con il resto del mondo oppure avrebbero distrutto ogni cosa di lei. Qualche rara volta si era esercitata, voleva diventare veramente brava con la spada e si era resa conto quando Omalley l'aveva salvata dai soldati degli Hardex che non era nemmeno discreta in duello, come invece aveva sempre sperato di essere. Era veramente una frana, brava nelle esercitazioni semplici che faceva con Ser Zalikoco, ma piuttosto deludente in duello, probabilmente perché non aveva mai affrontato un vero duello e al castello solo pochi degli esercizi che eseguiva con l'ausilio del cavaliere erano veramente utili, la maggior parte invece erano negligentemente banali e insignificanti a causa delle misere condizioni in cui erano costretti a combattere. Ser Zalikoco, lui sì che pareva intrufolarsi con fastidio nei pensieri di Aurilda, sembrava quasi che più lei tentasse di dimenticarlo e più il ricordo di quello si insinuasse con prepotenza. Aurilda pensava a quando lui aveva accettato di accompagnarla al Tempio senza esitazione, pensava a come avesse tradito i Tenebrerus anni prima, all'insaputa di tutti e poi pensava alle loro lezioni di combattimento, ai tempi lontani in cui lui le narrava storie passate sulla guerra. Lui c'era sempre nei pensieri di Aurilda e si ripresentava ogni volta come una sgradevole sorpresa. Alla fine Aurilda si era arresa e aveva deciso di pensarci senza evitare la questione, nonostante questa le provocasse non poca rabbia e molto dolore. Perché Ser Zalikoco aveva tradito così il suo amico? Perché aveva preferito fingersi l'uomo onesto che non era invece di ammettere la verità? Perché poi era rimasto al castello a servire i Tenebrerus?

La verità era che Ser Zalikoco era sempre parso ad Aurilda un uomo fuori dal comune, dotato di un tale coraggio e di una fedeltà cieca da sembrare un'illusione, un raggio di luce nell'oscurità. Era un eroe nella sua mente da quando Aurilda era una bambina, dotato di una morale talmente giusta ed elevata da costituire lui stesso una sorta di mito, di colonna portante, un simbolo di speranza per le ingiustizie che vessavano la società. Ma alla fine anche questo sogno d'infanzia si era sgretolata via, con una rapidità e una violenza deludenti, che avevano reso Aurilda ancora più aspra e diffidente, disincantata, nonostante l'incontro con un vero eroe, Omalley. Ma Aurilda sapeva di aver fatto la cosa giusta cacciandolo in quel modo, nonostante l'uomo le fosse sempre parso sincero e le avesse dimostrato un affetto reale, questo non poteva celare per sempre quello che veramente Zalikoco Lonor era stato, ovvero un traditore bugiardo e ciò meritava una punizione. Per Aurilda l'averlo lasciato in vita era un'enorme dimostrazione del suo affetto nei confronti del cavaliere. O almeno questo era quello che la fanciulla si ripeteva, che aveva fatto bene a cacciarlo via. Aurilda non poteva mentire a sé stessa, oltre a tenere ancora al suo amico era stata tremendamente ipocrita, perché quando si poneva le solite domande sul cavaliere sapeva che lei avrebbe agito come aveva fatto lui. Avrebbe tradito un amico, perché mai aveva avuto un vero amico e forse, anche se ne avesse avuto uno sincero, il desiderio di ottenere quello che voleva l'avrebbe spinta a un gesto tanto scellerato. Neppure lei avrebbe avuto il coraggio di ammettere la verità, non solo per la vergogna o per la condanna sociale, ma per sfuggire alla morte. Ma la cosa che ad Aurilda faceva più male era sapere che se Ser Zalikoco aveva avuto la premura di giurare fedeltà perpetua alle persone che aveva rovinato per fare ammenda, probabilmente lei non ci sarebbe riuscita. Non era forse per quello che era fuggita via, per essere libera di fare quello che voleva? Provava vergogna per quello che sapeva di sé e del suo animo, ma questo la portò a una chiara consapevolezza: mai sarebbe stata un eroe, o meglio un'eroina, nemmeno se avesse imparato a usare veramente una spada. Non avrebbe sacrificato la sua vita per aiutare come faceva Omalley e neppure si sarebbe votata a qualcuno se mai avesse arrecato qualche grave torto, avrebbe agito sempre da egoista, altrimenti avrebbe ignorato quel dannato sogno e sarebbe rimasta ad adempiere ai suoi doveri di figlia, vicino alle sue amate sorelle.

Quella tarda mattinata fredda il cielo era nuvoloso e cupo, ma non minacciava di piovere, né faceva troppo freddo, quindi era una bella giornata dopotutto, Aurilda poteva ritenersi fortunata. Con il cavallo avanzava lentamente tra gli alberi del bosco, il Tempio era vicino, probabilmente più di quanto credesse. Dopo qualche tempo fece svoltare il cavallo un po' a sinistra. Avanzò in sella al destriero per diversi minuti, poi avanzò sin quasi a farlo fuoriuscire dal bosco, fermando il cavallo affinché tenesse solo la testa fuori dalla schiera verdeggiante. Aurilda smontò cautamente da cavallo e poi restò ferma, ispezionando il prato. Un senso di vuoto le strinse lo stomaco, legò la briglia a un tronco e avanzò sempre cautamente, con la mano sull'impugnatura della spada. Più si avvicinava e più il senso di vuoto aumentava. Un senso di disperazione la avvolse e così decise di non avvicinarsi più, perché la disgrazia che era accaduta si vedeva con sufficiente chiarezza anche a quella distanza: il Tempio non c'era più. Il Tempio dei Profeti, il motivo del suo viaggio, era completamente distrutto. Davanti ad Aurilda c'era un ammasso di rocce sparse, c'erano chiazze di erba secca annerite dal fuoco e naturalmente la ragazza capì subito cosa dovesse essere accaduto, i demoni degli elementi dovevano essere stati lì e dovevano aver distrutto il Tempio in profondità, c'erano persino alcuni resti sparsi di ossa annerite.

Dopo aver contemplato con gli occhi sbarrati dallo sgomento quel disastroso paesaggio, arresa, Aurilda si decise a tornare dal cavallo. Teneva il volto chino e avanzava a passo svelto, sentendo la collera aumentare a ogni passo. Ricoprì il percorso in un tempo brevissimo, con il volto contratto dalla rabbia e nascosto dai capelli scuri, poi quando fu tornata dal cavallo estrasse la spada. La furia cieca prese completamente il sopravvento e Aurilda iniziò a colpire a casaccio il tronco di un albero con la lama lucente della sua spada, con l'espressione feroce. Perché!? Era l'unica cosa che riusciva a domandarsi, perché lei aveva fatto quel viaggio e il Tempio doveva essere distrutto, quando era rimasto perfettamente in piedi per tanti anni? Perché la sorte doveva essere così ingiusta e avversa nei suoi confronti, da spingerla a partire per ricevere risposte e impedirle poi di poterle ottenere una volta giunta a destinazione? Perché i demoni non potevano aspettare di più per attaccare il Tempio? Aurilda ripetendosi nella mente quei quesiti destinati a non ricevere risposta sentiva la rabbia scorrere nelle vene, facendole colpire l'albero con violenza crescente e facendo addirittura volare via parti della corteccia. Era ingiusto, era maledettamente ingiusto, oppure lei era sfortunata, solo queste due opzioni le sembravano sensate in quella storia, era opera di un'ingiustizia feroce che si era abbattuta su di lei. E mentre Aurilda colpiva il tronco inferocita, un lieve rumore di zoccoli la fece voltare di scatto, con la spada tesa in avanti.

Quando inquadrò la fonte del rumore quasi ringhiò per la rabbia, strinse le mani intorno al manico della spada talmente forte da sentire male ai muscoli "Che cosa ci fate qui!?" Urlò furente "Vi avevo detto di non farvi più vedere!" Ser Zalikoco era davanti a lei con il suo cavallo tenuto fermo alla destra e gli occhi bassi "Io speravo di potermi ancora riappacificarmi con voi, magari dopo che vi fosse passata la rabbia...". Aurilda sentì il sangue ribollire nelle vene, sembrava che le scorresse lava incandescente nel corpo invece che sangue "Avete pensato male!" Gridò di rimando "Malissimo!" Precisò poi. Il cavaliere fece un passo in avanti e lei tese meglio la spada che lui stesso le aveva donato "Non vi azzardate ad avvicinarvi ancora o vi uccido!" lo minacciò duramente Aurilda. Ser Zalikoco la guardò abbattuto, senza tuttavia chinare il capo "Vi prego" disse testardo "Sono perfettamente consapevole di aver commesso un terribile errore in passato, ma mi sono pentito subito e sono rimasto al servizio della famiglia che avevo rovinato servendola al meglio che potessi" disse con il tono pacato e sincero che lo contraddistingueva "Vi scongiuro, permettetemi di riportarvi al castello, vi scorterò come ho fatto nel viaggio d'andata e sarete al sicuro". Lo sguardo di Aurilda era una spessa lastra di dura pietra nera, fissava l'uomo con tanto odio da causargli un dolore limitandosi a guardarlo "Voi non capite" rispose lei inflessibile "Se osato solo avvicinarvi al castello dei Tenebrerus, io vi faccio giustiziare". Allora il cavaliere la stupì "È giusto così" rispose "È giusto che io paghi per il crimine che ho commesso. È giusto che mi facciate giustiziare".

Aurilda, dopo un iniziale smarrimento dinnanzi a quella coraggiosa affermazione, continuò a scrutarlo con ostilità "E io dovrei credere alle vostre parole di traditore!?" Rispose con freddo disprezzo "Ve lo dico io perché volete accompagnarmi" continuò "Perché volete uccidermi mentre dormo, così nessuno saprà mai il vostro segreto!" Ser Zalikoco la fissò con la bocca semi aperta, era seriamente addolorato da quell'idea scellerata "Signorina Aurilda" rispose con un fil di voce "Come potete pensare che io sia in grado di commettere una simile aberrazione..." rispose con la gola secca. Aurilda continuò a guardarlo con il solito cipiglio arrogante e con la consueta ostilità "Perché non dovreste farlo?!" Disse ancora "D'altronde avete tradito mio nonno, io non sono diversa da lui" "Voi magari no, ma io sì!" Insistette il vecchio uomo e Aurilda alzò platealmente gli occhi al cielo "Vi concedo un'ultima opportunità" asserì con durezza la ragazza "Andatevene e non tornate mai più!" L'uomo però scosse la testa con fare paziente "Io non me ne vado, signorina" disse con voce dimessa ma ugualmente decisa "Io vengo con voi". Aurilda strinse i pugni in una morsa ferrea e contrasse la mascella, sentendo i muscoli irrigidirsi dalla rabbia "Voi volete proprio morire allora!" esclamò furente "Va bene" aggiunse Aurilda con decisione "Allora faremo così dal momento che nessuno dei due è intenzionato a cedere" continuò, tentando di ragionare lucidamente.

"Duellate con me adesso!" Disse in tono imperatorio "Cosa?" Si stupì l'uomo "Ma perché?" "È molto semplice" spiegò Aurilda "Se vincete voi potete accompagnarmi" annunciò con un sorriso sarcastico e tirato "Ma se vinco io" a quelle parole Aurilda cessò di sorridere e si incupì, abbassando il tono della voce "Se vinco io vi ucciderò qui e ora, senza ulteriori ripensamenti". Vide l'espressione sconvolta e addolorata dell'uomo, ma non se ne curò "Accettate, Ser Zalikoco!?" Pronunciò la parola Ser nel modo più beffardo e sprezzante di cui fu capace e poi restò a guardarlo con un'espressione truce sul volto. L'uomo aveva il volto pallido, era evidentemente ferito da ogni singola parola pronunciata dalla ragazza, ma non aveva altra scelta se voleva riuscire nel suo intento "Accetto, signorina" proclamò a voce bassa. Aurilda parve soddisfatta, strinse meglio la spada tra le mani e vide il suo avversario estrarre la propria, poi si posizionarono e dopo un cenno di entrambi iniziarono.

Aurilda era più giovane, quindi era più agile e veloce, ma Ser Zalikoco era molto più allenato e capace di lei. Il bosco era silenzioso, i cavalli erano tranquilli e il vento inondava le fronde. Aurilda colpiva forte, tutte le volte che cercava di colpire ci metteva tutta la forza che aveva nelle braccia, accecata dalla furia com'era. Era arrabbiata, arrabbiata per il Tempio, ma soprattutto era arrabbiata con lui, quell'uomo traditore testardo che preferiva farsi uccidere piuttosto che fuggire. Sfiorò finalmente il Ser, sentendo appena la sua lama scivolare sull'armatura di lui. Maledetta armatura! Come se non fosse stata sufficiente l'inesperienza di Aurilda, ci si metteva anche l'armatura a complicare il combattimento. L'unico modo per ferire l'avversario era cercare di colpire i punti dov'era scoperto. Aurilda si avvicinò con un abile passo di gambe, giungendo vicino al collo di Ser Zalikoco e provò a colpire. In un istante la spada le volò via dalle mani e cadde con banale solennità sul terreno poco lontano dal punto in cui stava la sua proprietaria. Aurilda restò pochi attimi interdetta, fissando la sua spada lontana, poi si girò per guardare l'avversario negli occhi. Il cavaliere aveva deciso appositamente di disarmarla allora, quando avrebbe potuto almeno ferirla, essendo lei così vicina e senza alcuna protezione.

Aurilda tornò a guardare fugacemente la spada a terra e lontana, sentendo un senso di impotenza. Aveva perso, aveva perso e adesso lui doveva riportarla a casa. Tornò a guardare lui, aveva rimesso la spada nel fodero e la fissava con uno sguardo innocente dalla visiera sollevata, proprio lui che invece era il carnefice. "Signorina" disse a voce bassa, cordiale "Sarà un onore per la mia persona riaccompagnarvi a casa". Allora Aurilda non riuscì a trattenersi oltre, gli si avvicinò furibonda e umiliata e lo fermò con la schiena al tronco di un possente albero "Io vi odio!" Urlò "Vi detesto! Vi detesto!" Poi lo lasciò e si impose di calmarsi, allontanandosi con le mani sulla testa per recuperare la sua spada. Ser Zalikoco chinò il capo e sospirò lentamente, con il volto contratto dal dolore, mentre la ragazza oltre alla spada recuperava anche il cavallo legato al limite del bosco. Quando vide Ser Zalikoco tanto mesto ma speranzoso provò una strana sensazione di repulsione e tenerezza "Finitela di guardarmi così" disse, tornando alla consueta freddezza "Siete patetico e ingenuo se sperate di recuperare la mia fiducia" terminò con la voce glaciale. Aurilda salì sul cavallo e guardò l'uomo, impettita e algida "Andiamo!?" disse impaziente. L'uomo annuì con un'espressione rassegnata sul volto, salì a sua volta sul cavallo e si misero in cammino verso casa.

Aurilda doveva essere in un nuovo incubo si disse, doveva essere per forza un incubo tutto quello, non poteva accadere ciò nella realtà. Eppure lei e il cavaliere avanzavano nel bosco passando tra gli alberi, eppure il vento si alzava e le schiaffeggiava il volto, eppure il sole e la luna si alternavano nel cielo. Non era un sogno, era solo il preludio di un nuovo, tremendo, incubo. Ma questo Aurilda non poteva ancora immaginarlo.

 

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Capitolo 19
*** La palude di sangue ***


Pov:Nomiva

Era giunto il mese di brumalio e la situazione al castello Stablimo era migliorata notevolmente nell'ultimo periodo, da quando era arrivato Teurum quel vecchio castello sembrava un posto diverso, un posto nuovo. Teurum era arrivato solo poche settimane prima eppure si poteva ben dire che avesse conquistato tutti con i suoi incantevoli modi di fare. La signora lo trovava un giovane educato e divertente, oltre che molto intelligente, i contadini e tutti coloro che lavorava nello spiazzale del castello non appena lo vedevano passare si voltavano per salutarlo, sorridendo benevolmente nonostante la stanchezza che si portavano addosso, sperando che il ragazzo si avvicinasse e li facesse ridere come avveniva spesso e Nomiva si trovava nella medesima situazione della madre e di tutta quella gente: adorava Teurum letteralmente. Lei e Teurum potevano già definirsi buoni amici e se Nomiva prima dell'arrivo di lui trovava il castello immensamente noioso, oramai si divertiva talmente tanto che incredibilmente la divertivano anche le lezioni di storia.

Amillia aveva raccontato a Teurum dell'avversione della figlia mezzana per lo studio, in particolar modo per la storia, e il ragazzo aveva stupito la signora quando le aveva annunciato che lui avrebbe risolto il problema. Quando la mattina seguente era entrato nella stanza dove era consuetudine venissero impartite le lezioni, Diodorus e Nomiva l'avevano guardato perplessi, poi durante la spiegazione il ragazzo era intervenuto iniziando a narrare i vari eventi con un coinvolgimento tale da lasciare a bocca aperta lo stesso precettore. Teurum aveva continuato interrompendo le vicende che stava narrando per fare delle imitazioni delle stesse vicissitudini narrate nel libro di storia, simulando discorsi volutamente comici tra i protagonisti degli eventi. Quando Amillia aveva sentito risate provenienti dalla stanza si era accostata alla porta e aveva visto Diodorus e Nomiva che ridevano di gusto, mentre Teurum recitava abilmente un monologo per celebrare la morte del sovrano di turno. Insomma, da quando c'era lui al castello si respirava un'aria di leggerezza e allegria che nemmeno durante i tempi migliori della famiglia Tenebrerus avevano potuto vantare di possedere. Tutti erano grati di avere lì quel ragazzo, talmente grati da considerarlo quasi un dono degli dèi.

Oltre alle lezioni Teurum e Nomiva trascorrevano molto tempo insieme, Teurum faceva sempre ridere Nomiva e le raccontava tutto quello che lei voleva sapere sul misterioso Tempio da cui era giunto. Nomiva stava talmente bene in compagnia di Teurum che era giunta a domandarsi se nutrisse più di una semplice amicizia nei confronti del suo bell'amico, poi però ripensava a Filipphus e si sentiva in colpa anche solo per aver pensato una cosa del genere. Nomiva era innamorata di Filipphus non di Teurum, nonostante amasse trascorrere il suo tempo con il nuovo arrivato a Nomiva bastava ripensare ai tempi felici con Filipphus per capire che era lui quello di cui era innamorata veramente. Durante la prima uscita di nascosto che Nomiva aveva tentato di fare dal castello dopo l'arrivo di Teurum, lui subito l'aveva scoperta. La ragazza così era stata costretta a raccontargli tutto e lui le aveva promesso di non rivelarlo mai a nessuno e, anzi, le aveva assicurato il suo aiuto mentre Nomiva era fuori, l'avrebbe coperta lui, proprio come un tempo erano solite fare Aurilda e Selina. Era stato da allora che Nomiva aveva iniziato a fidarsi veramente di Teurum e in breve tempo la fiducia si era trasformata in un forte sentimento di amicizia e in gratitudine nei confronti del suo nuovo complice, perché sì, il ragazzo era stato di parola e aveva sempre aiutato Nomiva quando era uscita dal castello. Addirittura vedere Filipphus era stato decisamente più semplice grazie all'aiuto prezioso di Teurum, molto più di quanto non fosse mai stato con l'aiuto delle sorelle.

Nomiva era riuscita perfino a presentate il suo amico Teurum a Filipphus e quando erano stati tutti e tre insieme si era sentita bene come non si sentiva da tempo, come se i problemi non potessero più tornare. Quel pomeriggio, appena terminato il pranzo, Nomiva grazie agli esiti positivi dei suoi studi aveva avuto la concessione di poter trascorrere il pomeriggio nel modo che più l'avesse allietata. Durante la mattina le lezioni con Diodorus e Teurum erano andate splendidamente, così adesso Nomiva aveva del tempo per sé ed era immensamente lieta della cosa. Nomiva nonostante fosse così felice si sentiva anche abbastanza indecisa sul da farsi, rimanere con Teurum o andare da Filipphus? Quel pomeriggio tirava un vento abbastanza freddo, tanto da farle abbandonare subito l'idea di andare a visitare Filipphus per restare al caldo nel castello a discorrere con il suo amico. Nomiva e Teurum si sistemarono nel salotto a piano terra e iniziarono a conversare serenamente "Ora che non puoi più stare al Tempio, che cosa pensi di fare?" Domandò Nomiva curiosa "Pensò che lavorerò in ambito amministrativo" le spiegò il ragazzo "Penso di cavarmela bene con l'organizzazione di qualsivoglia tipo" "Tu sai fare tutto" disse piano Nomiva, alzando le mani al cielo con un sorriso.

Teurum rise "Certo che so fare tutto" rispose di rimando con un sorriso canzonatorio e provocante, come faceva spesso quando scherzavano insieme "D'altronde qualcuno dovrà pur mostrare al mondo cos'è la perfezione, non credi anche tu, Volpetta?!" Nomiva rise a sua volta, il soprannome affettuoso che le aveva dato Teurum le ricordava tanto quello delle sorelle, infatti la ragazza aveva raccontato di come lei, Aurilda e Selina si fossero soprannominate usando i nomi degli animali che più somigliavano a ognuna di loro, per giunta quando Teurum aveva visto la volpe a nove code che gironzolava intorno a Nomiva le aveva detto che doveva essere un presagio e da allora quando erano soli la chiamava spesso con quel soprannome. "Sei dispiaciuto per non poter più stare al Tempio?" Domandò ancora Nomiva, ma subito Teurum scosse la testa "Sai" iniziò a raccontare "Non ho mai voluto essere un profeta" "Veramente?" Si stupì Nomiva, sporgendosi in avanti "Già" "E allora perché sei andato al Tempio?" Teurum fece una smorfia "Mi hanno costretto" disse mestamente, vagamente tragico "I tuoi genitori?" Continuò Nomiva sempre più curiosa.

"No" rispose lui "I miei genitori sono morti. Mio padre morì prima che io nascessi e mia madre perse la vita dandomi alla luce" "Mi dispiace" disse sincera Nomiva "Mi ha cresciuto un'amica di mia madre e, quando sono diventato abbastanza grande da poter entrare nel Tempio, mi ha portato lì. Ma non era certamente la mia ambizione quella di diventare un profeta". Nomiva lo guardò più attentamente "E cosa volevi fare veramente tu che sei in grado di fare tutto?" Teurum le sorrise brillantemente, scostandosi una ciocca scura che gli era caduta davanti ai meravigliosi occhi color ghiaccio "Quello che voglio fare è molto difficile da realizzare" disse soavemente e Nomiva lo guardò, aveva l'aria vagamente sognate "Talmente difficile che pensi di non poterci riuscire?" Gli domandò ancora lei, mettendosi più comoda per poterlo ascoltare meglio. Teurum si fece più serio, ma senza perdere l'affascinante sorriso che gli increspava lievemente le labbra sottili "Ho sempre trovato sciocche le persone che trascorrono la loro vita inseguendo sogni, ancor più se si tratta di sogni assurdi e talmente ardui da poter raggiungere da apparire irrealizzabili alla moltitudine" le disse, poi si sporse in avanti per scrutarla meglio negli occhi "Ma penso che con il duro lavoro, la persistenza, il talento, tanta furbizia e un pizzico di fortuna siano poche le cose impossibili da realizzare".

Nomiva lo guardò incantata, allora sorrise e lui rispose al sorriso di lei e le strizzò l'occhio "Spero che tu riesca a realizzare il tuo sogno" rivelò Nomiva con estrema sincerità "Se posso fare qualsiasi cosa per aiutarti, non esitare a domandarmelo" continuò "Perché è questo che fanno gli amici, si aiutano l'un l'altro". Teurum annuì piano e le sorrise in modo decisamente enigmatico. Nomiva si domandò il motivo per cui Teurum le avesse rivolto uno sguardo tanto misterioso ed era sul punto di ripartire con le domande, ma lui la anticipò "Tu invece come desidereresti trascorrere la tua vita?" Nomiva restò interdetta, rispondere che avrebbe desiderato trascorrere la vita in una casa in campagna in compagnia di Filipphus le parve estremamente banale, ma fortunatamente un rumore proveniente dalla finestra alle loro spalle li fece voltare entrambi. Filipphus era là fuori, gli occhi arrossati e il volto stanco visibilmente teso per qualcosa. Subito i due si alzarono per andargli incontro "Filipphus" sussurrò Nomiva guardandolo negli occhi, sentendo come se l'avesse tradito abbandonandolo al freddo mentre lei restava con Teurum "Che cosa è accaduto?" "Mio nonno" mormorò l'altro con la voce rotta e gli occhi velati di lacrime "Ti prego vieni, vieni subito" disse dopo, riprendendo fiato "Se non puoi aiutarmi, ti prego di sostenermi!"

Nomiva annuì tristemente " E' così grave?" Purtroppo Filipphus annuì "Arrivo subito" assicurò Nomiva, con gli occhi bassi. Si allontanò dalla finestra per uscire, poi si fermò un attimo per guardare Teurum "Non preoccuparti" le disse lui, anticipando i dubbi di Nomiva "Se dovesse occorrere inventerò io una scusa per giustificare la tua assenza. Prima di andare però vorrei consigliarti di vedere se tra gli infusi che ci sono nella dispensa ce n'è uno quantomeno in grado di alleviare il dolore di quel pover'uomo" consigliò Teurum, con estrema dolcezza nella voce "Così soffrirà di meno". Nomiva annuì con un sorriso triste, estremamente grata "Grazie" disse prima di andare a cercare l'infuso "E' il minimo che possa fare per la mia amica" rispose lui. Allora Nomiva si voltò e d'impulso strinse Teurum in un abbraccio, sentendosi al sicuro quando lui rispose rigidamente all'abbraccio di lei. Nomiva imbarazzata non lo guardò in volto quando si fu scostata, ma a passo svelto e cauto si diresse nella dispensa situata nei sotterranei del castello. Dopo aver percorso i corridoi scese dalle scale strette, svoltò a destra e cercò la boccetta nell'armadio. Lesse velocemente le varie etichette e poi finalmente trovò quella che le serviva, che aveva scritto su un pezzo di pergamena legato intorno alla boccetta 'contro il dolore'. Nomiva la prese e tornò su di corsa, ma rallentando abilmente quando si trovava nelle vicinanze di chi sarebbe potuto andare dalla madre per avvertirla dei movimenti indiscreti della figlia. Nomiva uscì tentando di mantenere un passo lento, nonostante fosse assalita dall'ansia.

Attraversò l'ingresso e camminò col cappuccio sulla testa per nascondersi dagli altri, accelerando per le fretta, senza guardarsi indietro. Quando fu quasi del tutto sola Nomiva iniziò a correre tra gli alberi come di consueto, l'abito quel giorno era uno dei più discreti che aveva, perciò non si impigliò e Nomiva ne fu ben grata perché avrebbe lacerato malamente il vestito se questo si fosse impigliato. Continuò a correre angosciata, era quasi senza fiato ma sapeva di non potersi fermare. E fu allora che proprio tra gli alberi che coprivano la casa di Filipphus vide la sua volpe, stava seduta tranquillamente, nella semioscurità, con gli occhi rossi che brillavano e le code azzurre, ma quando vide Nomiva farsi vicina si alzò, come se fosse stata lì ad attenderla tutto quel tempo "Ora non posso proprio fermarmi Ruby, ti domando perdono" disse la ragazzina, rallentando per poter parlare affannosamente. La volpe socchiuse gli occhi, come se avesse avuto l'intento di valutare le parole dell'amica, poi si allontanò agilmente e sparì tra le ombre. Nomiva rimase immobile a fissare il punto in cui era sparita la volpe per appena pochi attimi, riprendendo fiato, poi rammentò di avere questioni più importanti della quale doversi occupare in quel momento e riprese a correre.

Nomiva corse verso la casetta che le era familiare e spalancò la porta, correndo diretta nella camera da letto. Ted era sdraiato con gli occhi rivolti verso il soffitto, era pallido, aveva il volto cereo imperlato di sudore, due occhiaie scure ad appesantire il suo volto smunto e piccolo. Si vedeva chiaramente che il vecchio non stesse bene, che stava per lasciare quella vita. Non appena Ted si rese conto dell'ingrasso di Nomiva subito il vecchio uomo voltò la testa per quanto possibile e le rivolse un sorriso stanco ma accogliente "Nomiva" disse con un fil di voce. Nomiva si avvicinò automaticamente, inginocchiandosi accanto al capezzale di lui. Ted parve contrariato da quel gesto "Signorina, vi prego non" "Shhh" le fece lei "Per favore" disse piano Nomiva "Non badate a me, a quello che faccio. Sono qui per vedere voi perché vi considero un amico, non dovete essere contrariato se mi permetto di inginocchiarmi al vostro capezzale". Ted tornò con il capo dritto sul cuscino, si teneva le mani pallide e tremolanti, poi sospirò con la poca forza che aveva nel corpo fragile, decidendo di conservare le sue energie per parlare invece di lamentarsi per qualcosa che non poteva impedire. Nomiva lo guardò attentamente, l'uomo iniziò a piangere in silenzio, lentamente "Perché piangete?" Domandò Nomiva sussurrando, accarezzandogli la fronte, mentre un soffocante senso di tenerezza la opprimeva il torace "Avete paura di morire?"

L'uomo scosse piano la testa "Non temo per me stesso" rivelò lui "Io sono vecchio, la mia vita è conclusa. È per Filipphus che ho timore". Si voltò verso Nomiva e la guardò negli occhi, lei era perplessa "Che tipo di timore provate per vostro nipote?" Domandò ancora a voce bassa "Filipphus starà bene insieme a me". Ted le rivolse un sorriso triste "Lo so che con te starebbe bene" rispose con un tono malinconico "Ma non ci sei solo tu purtroppo, ci sono tante persone crudeli e approfittatrici, e mio nipote è un ragazzo tanto buono. Non riesce mai a vedere il male negli altri". Nomiva gli prese le mani e le strinse tra le proprie calde e morbide "Filipphus non sarà mai solo" gli assicurò lei con somma e solenne fermezza "Io e lui staremo sempre insieme e ci aiuteremo a vicenda. È una promessa quella che vi sto facendo, un giuramento solenne" continuò con la stessa solennità così strana per lei e per la misera casa in cui si trovavano "Vi prometto che mi prenderò cura di lui come lui si prenderà cura di me". Il vecchio uomo emise un singhiozzo senza lacrime "Cara ragazza" disse con la voce rotta dall'emozione "Se tutti i nobili lo fossero anche nell'animo come sei tu, sono certo che noi tutti vivremo in un regno migliore di questo".

Gli occhi di Nomiva si velarono di lacrime e la ragazzina sorrise a sua volta all'uomo. Allora Filipphus tornò dentro con un secchio d'acqua stracolmo "Nomi" disse affannato vedendola, tentando di accennare un sorriso. Era evidentemente stanco e stravolto, così Nomiva gli si avvicinò per parlare a voce bassa "Da quanto ha la febbre?" Domandò subito "Tre giorni" rispose l'altro "Non dormo da allora, ho trascorso ogni notte a vegliarlo e a cambiargli le pezze umide, sperando che la temperatura si abbassasse". Nomiva lo fissò, attendendo un continuo "E invece?" Lo incalzò, vedendo che lui non continuava, esitante e affaticato "Niente da fare" sussurrò Filipphus, rassegnato. Nomiva si avvicinò di più "Magari c'è ancora speranza per lui" mentì "Forse può ancora guarire" tentò di utilizzare le consuete parole che si usavano in circostanze tanto spiacevoli "Se ha resistito per tre giorni forse" "No, Nomi" la interruppe Filipphus fermamente "Non c'è più niente da fare ormai e quanto prima lo accetterò, meglio sarà per tutti". Era veramente distrutto, tanto nel corpo quanto nell'anima, a tal punto che Nomiva si domandò come facesse a rimanere in piedi "Da quanto tempo non mangi?" Domandò guardando gli zigomi affilati di Filipphus. Era irriconoscibile, non era il bambino con cui Nomiva aveva passato le giornate durante l'infanzia, il ragazzino paffuto, allegro e sempre gentile con cui giocava a nascondino dietro ai salici piangenti che ricoprivano le sponde della Palude Nera. Era un cumulo di dolore e fatica e neppure un'ombra del bambino che era stato sembrava rimasta in lui.

Filipphus abbassò il capo "Devi mangiare qualcosa" disse Nomiva "Io intanto penso a cambiarli la pezza per fargli scendere la febbre". Sfilò il secchio dalla mano di lui e tornò vicina a Ted dopo aver carezzato il volto grigio di Filipphus. Nomiva immerse la pezza abbandonata sul tavolo di legno nel secchio, la strizzò e la posizionò sulla fronte dell'uomo. Era bollente. Filipphus si mise a sedere nell'angolo, mangiando del pane secco senza un minimo di appetito "Perché non mi avete chiamata prima?" Domandò Nomiva a voce bassa, rivolgendosi a entrambi senza riuscire a trattenersi oltre. "Tu avevi detto che avrei dovuto chiamarti solo se fosse accaduto qualcosa di grave" rispose dall'ombra dell'angolo il ragazzo. Nomiva alzò lo sguardo su di lui, distinguendo i lineamenti nella penombra "Ma magari avrei potuto aiutarvi già prima" rispose Nomiva, in tono vagamente polemico. "Non litigate per causa mia" intervenne la voce fioca di Ted.

I due tacquero per diverso tempo, Filipphus continuò a mangiare il suo pane secco senza appetito, Nomiva inumidiva costantemente la pezza e il silenzio fuori dalla finestra regnava sovrano, avvolgendo la campagna in una quiete spettrale e funerea. Solo il vento bussava di tanto in tanto alla porta e alle finestre, ignorato da tutti i presenti nella piccola casa. Il silenzio però non durò per tanto, la febbre non si abbassava e Ted iniziò a delirare "Il campo" disse a voce alta improvvisamente, facendo sobbalzare i due ragazzi "Ara meglio quel campo!" Filipphus si avvicinò, allarmato "Nonno, che cosa c'è?" Domandò, inginocchiandosi accanto a Nomiva "Di che campo parli?" "Ara il campo" ripeté l'uomo con voce dura e severa "Dobbiamo piantare il grano. Ormai è la stagione giusta" ripeté convinto "Va preparato il campo per seminare il nuovo raccolto, oppure il signore ci punirà per il ritardo".

Nomiva e Filipphus si guardarono negli occhi, erano preoccupati e spaventati "Nonno" ripeté Filipphus "Va tutto bene, siamo quasi in inverno e non c'è grano da piantare". Ma Ted non lo ascoltava "Giada, Giada!" Nomiva fissò Filipphus con sguardo interrogativo "Mia nonna" sussurrò lui, chiarendo i dubbi della ragazzina "Giada dove sei! Ti ho raccolto un fiore meraviglioso amore mio, il tuo preferito!" Nomiva e Filipphus rimasero fermi ad ascoltare "Oh, Giada!" disse ancora il vecchio "Sei bella proprio com'eri il giorno del nostro matrimonio. Mi sei mancata tanto, ma dove sei stata? Ti eri forse dimenticata di me?" Nomiva si voltò verso Filipphus, aveva gli occhi chiusi e le lacrime lentamente gli solcavano il volto. Preso da un impulso di disperazione si alzò velocemente, asciugandosi gli occhi "Filipphus..." sussurrò Nomiva affranta "Scusami, torno subito" disse con la voce tremante, per poi correre fuori e Nomiva lo seguì senza esitazioni. "Filipphus, dove vai!?" domandò, trattenendolo stringendogli una mano. Il ragazzo si coprì il volto con l'altra mano e Nomiva si avvicinò e lo circondò con le braccia, stringendolo in un abbraccio stretto "Filipphus" sussurrò allora lei con voce rotta "Mi dispiace" rispose l'altro "Non volevo correre via, non volevo lasciare lui e neppure te" disse tentando maldestramente di trattenere le lacrime "Ma non ce la faccio a vederlo così, sento il cuore andare in pezzi! E non voglio che tu continui a vedermi così, ti sto causando solo problemi!"

Nomiva lo strinse più forte, scuotendo il capo "Tu mi piaci esattamente come sei!" gli assicurò "Tu non mi causi e non mi causerai mai problemi. Io sono innamorata di te e non devi mai sentirti inadeguato perché i tuoi abiti sono logori a causa dei lavori che svolgi nei campi, oppure perché le tue mani sono sporche di terra o ancora perché sei esausto dopo aver vegliato per tre giorni e tre notti tuo nonno malato!" affermò Nomiva con sicurezza e in quel momento fu come se Teurum e il suo fascino non fossero mai esistiti, c'era solo Filipphus com'era stato sempre in tutti quegli anni. Il ragazzo restò fermo a guardarla senza fiato "E io sono grata che tu sia come sei, perché tu sei buono, generoso e gentile, ed è per questo che io sono innamorata di te! Amo il tuo buon cuore e finché quello sarà puro, candido, non dovrai mai avere vergogna di come appari ai miei occhi". Nomiva si rese conto solo allora di tutto quello che aveva appena detto, era una vera dichiarazione d'amore e si sentì arrossire lievemente per l'imbarazzo. Filipphus tuttavia sorrise come non faceva da tempo e poi la stinse forte a sé. Non era il momento più appropriato considerando le condizioni critiche di Ted per baciarsi, ma in quel momento il trasporto fu tale che i due restarono stretti per diversi, lunghi, meravigliosi attimi.

Allora Nomiva senza lasciarlo lo carezzò, tornando più seria e concentrata su Ted nonostante si sentisse molto più beata e leggera "Mi dispiace così tanto per entrambi" sussurrò lei, carezzando il volto di Filipphus "Vorrei fare qualcosa per aiutarvi veramente, magari con la cerimonia del falò quando sarà spirato potremmo onorarlo come merita". Mentre Nomiva tentava di consolare Filipphus un frastuono lontano costrinse entrambi a voltarsi per individuare la causa di quel rumore. Da lontano si intravedeva una scia metallica di armature esposte al timido sole, era un corteo, un corteo di soldati "Chi sono?" Domandò Filipphus, vagamente curioso. Nomiva assottigliò lo sguardo, scrutando da molto lontano uno stemma dallo sfondo bordeaux con un'immagine indistinta al centro "Forse soldati provenienti dalla capitale" suppose Nomiva, ricordando il colore dello stemma dei Raylon, era proprio bordeaux come quello che vedeva appena da quella distanza. Filipphus spalancò gli occhi "Allora devi andare da loro" disse stranamente lucido "Non se ne parla" sentenziò senza dubbi Nomiva "Loro stanno benissimo anche senza di me, tu invece hai bisogno del mio aiuto" disse indicando la porta con un cenno. Filipphus la strinse nuovamente in un abbraccio e le diede un bacio a stampo "Grazie, Nomi" sussurrò con un sorriso triste e grato, sfiorandole una guancia. Nomiva lo accarezzò a sua volta e lo baciò ancora, avvicinando poi la fronte a quella di Filipphus "Ce la fai a tornare dentro?" Gli chiese con dolcezza "Sì" rispose lui senza indugiare oltre "Non voglio lasciarlo solo proprio adesso".

I due allora tornarono dentro aprendo piano la porta cigolante della casa, lasciando che il corteo sparisse del tutto per fermarsi dinnanzi al castello, lasciando che il silenzio tornasse ad avvolgere i dintorni. Quando Nomiva e Filipphus furono rientrati, Filipphus spalancò gli occhi terrorizzato, si avvicinò veloce al letto dove stava disteso il nonno e lo trovò tranquillo con gli occhi rivolti verso il soffitto. Non appena il vecchio uomo lo ebbe visto gli rivolse un sorriso mestissimo "Filipphus" sussurrò con leggerezza, con fatica "Nomiva. Avvicinatevi". I due obbedirono senza pensarci e si inginocchiarono nuovamente ai piedi del letto per avere l'uomo davanti "Io credo di avere avute delle allucinazioni" disse consapevole "Ormai sto per andarmene" disse ancora e Filipphus tentò di replicare, ma il nonno lo fermò "È inutile tentare di ingannarmi" gli disse con quieta rassegnazione "Non rivedrò il sole sorgere domani mattina, né probabilmente lo vedrò tramontare questa stessa sera. Tua nonna è venuta da me proprio per dirmi questo, perché io sto per raggiungerla ancora una volta". Filipphus tirò un profondo sospiro di triste rassegnazione e tornò a piangere lentamente. Ted vedendolo lo accarezzò a fatica, sollevando la mano come se questa fosse stata di pietra anziché di carne e ossa "Non piangere bambino mio" gli disse con una tale dolcezza che Nomiva sentì una stretta ferrea allo stomaco "Andrà bene, Filipphus" tentò di consolarlo "Veglierò dall'alto su di te, su di voi" disse guardando anche Nomiva "Ho trascorso una lunga vita, semplice e quieta, ma non per questo meno lieta. Non devi essere triste per la mia dipartita, non pensare mai a questo, perché io sono grato della vita che ho avuto e sono grato adesso di poter riposare per sempre".

Filipphus si sporse in avanti e lo baciò sulla guancia, abbracciandogli il petto e fermandosi pochi attimi a piangere lì. L'uomo lo carezzò e poi guardò Nomiva "Stagli vicina, te ne prego" le disse dolcemente. Nomiva annuì vigorosamente, senza la forza di parlare, semplicemente pensò che l'uomo avesse ragione dal modo in cui parlava: la morte infondeva in lui una dolcezza tale da apparire invitante ed era così probabilmente perché, nonostante tutto, la vita di Ted Laniger era stata piena e felice. "Sentite dolore?" Domandò improvvisamente Nomiva, ricordandosi della boccetta. Ted annuì piano e allora lei tirò fuori la boccetta che aveva portato con sé "Se lo desiderate" disse piano "Potete bere questa. Allevierà le vostre sofferenze". Ted parve rinvenire "Ti prego" le disse lucidamente "Fammela bere subito". Nomiva la stappò e Filipphus lo aiutò a sollevarsi appena "Ecco, nonno" disse soavemente mentre l'uomo vuotava il contenuto della piccola ampolla. I muscoli parvero subito distendersi e il vecchio chiuse un poco gli occhi. Filipphus agitato gli si avvicinò e allora l'uomo con tutte le forze rimaste gli strinse forte la mano "Lasciami andare" gli sussurrò "Io starò bene. Hai fatto il possibile per trattenermi ancora qui e ti ringrazio di cuore, ma ora devi lasciarmi andare anche se ti sembra difficile, perché il mio tempo è concluso". Spostò la mano sulle guance rigate del nipote, Filipphus sorrise nonostante tutto, sapendo che probabilmente era la cosa migliore da fare. Ted fu lieto di poter vedere quell'ultimo sorriso e asciugò le lacrime dal viso di Filipphus "Io starò bene" disse ancora "Ma dimmi addio adesso, perché temo che il delirio stia tornando per condurmi in un luogo dal quale mai più farò ritorno". Filipphus scosse la testa "Non fa niente" disse "Rimarrò con te comunque". Ted sorrise prima a Filipphus e poi a Nomiva "Addio, ragazzi cari" sospirò.

Filipphus e Nomiva lo fissarono attentamente, l'uomo li guardava quieto e sereno, sorridendo. Sembrava incredibilmente rilassato, sorrideva e guardava davanti a sé "Un po' di acqua fresca per cortesia" li stupì poi con una nuova richiesta. I due si alzarono e si diressero verso l'uscita, quando l'uomo riprese a parlare, ancora in preda alle allucinazioni "Vuoi restare?" Domandò Nomiva guardando Filipphus "Vado io a prendere l'acqua per lui". Filipphus annuì senza esitazioni, voleva rimanere con suo nonno sino all'ultimo momento "E' meglio che io resti con lui" disse con decisione, sorridendo. Nomiva rispose al sorriso e annuì, uscendo poi a prendere l'acqua con un altro secchio più piccolo per essere più veloce. Corse fino al pozzo e tirò su l'acqua, doveva fare presto, doveva esaudire l'ultimo desiderio di Ted. Tornò indietro col passo inevitabilmente più lento, per non far cadere l'acqua, ma sforzandosi ugualmente di essere rapida. E proprio quando intravide il tetto della casa tra gli alberi, un fruscio tra i cespugli bassi la fece voltare allarmata: la volpe la fissava con gli occhi scarlatti spalancati. Nomiva si rasserenò immediatamente "Cosa vuoi?" Le domandò badandole appena "Mi era parso di averti già detto che ho altro da fare".

La volpe però fece qualcosa di inaspettato, si avvicinò e addentò l'orlo della gonna dell'abito, tirandola verso di sé. Nomiva, stupita e felice insieme, non riusciva a capire cosa stesse succedendo "Vuoi giocare?" Domandò con un sorriso inopportuno, poi tornò concentrata "Mi dispiace ma ora non posso" disse ancora più seria "Hanno bisogno di me. Ma quando tutto sarà finito ti prometto che potremo giocare insieme". La volpe però continuò a tirarla verso di sé "Ruby!" La sgridò allora Nomiva con voce dura "Ti ho detto che è un brutto momento, ora non posso giocare con te. Potevi approfittare di tutte le volte che ci siamo incontrate per giocare. Io ci ho provato sempre ad avvicinarmi, ma tu sei scappata ogni singola volta. Adesso non posso giocare". Nomiva riprese a camminare e la volpe le restò attaccata all'orlo della gonna, rallentando il suo incedere. La ragazzina si voltò arrabbiata, ma senza fermarsi, quello non era il momento di perdere tempo "Vattene via!" Strillò, ma fu tutto inutile.

Nomiva arrivò finalmente al lato della casa e Filipphus le corse incontro, fu allora che la volpe la lasciò e sparì tra i cespugli, mentre il ragazzo la strinse prima che lei potesse domandare qualcosa, anche se era abbastanza chiaro quello che fosse accaduto. Nomiva lo strinse a sua volta e rimase in silenzio, non sapendo se fosse il caso di parlare ancora "Ci ha lasciati" disse a voce bassa Filipphus, fronteggiando poi Nomiva con gli occhi vitrei, ma senza più piangere. Lei scosse il capo e lo carezzò "Mi dispiace tanto" disse senza riuscire a trovare parole migliori per confortarlo. Solo due lacrime segnarono silenziosamente le guance di Filipphus, che le asciugò delicatamente e poi sorrise sospirando "Ha vissuto una vita lunga e abbastanza felice dopotutto, anche se faticosa, lo ha detto lui stesso e per questo non voglio piangere più, perché so che ha avuto tutto quello che voleva" disse il ragazzo, triste ma consapevole. Nomiva annuì "Devi solo essere fiero di lui, ha sempre vissuto in modo onesto ed era un uomo dal cuore buono". Filipphus annuì vigorosamente in segno di assenso "Sì" rispose semplicemente "Ora voglio organizzare un bel funerale per onorarlo come merita" disse ancora il ragazzo "Voglio bruciarlo tra le foglie e i semi, tra le spighe del grano che lo hanno accompagnato in tutta la sua vita, in modo da poter segnare la sua rinascita nell'aldilà".

Nomiva gli strinse la mano quieta e felice nonostante tutto "Se lo merita. Adesso occupiamoci di questo falò". Nomiva e Filipphus stavano per rientrare in casa, quando videro i cespugli alti davanti alla casa muoversi. I due giovani si guardarono preoccupati, quietandosi subito dopo vedendo uscire dagli arbusti solo Teurum. Nomiva si rilassò vedendo lì il suo fidanzato e il suo migliore amico insieme, ma quando guardò meglio Teurum la ragazzina tornò a preoccuparsi, Teurum aveva gli occhi spalancati, i capelli spettinati di chi ha corso, il fiatone e gli abiti un po' coperti dalla fuliggine. Teurum si avvicinò ai due e li strinse entrambi per un braccio con le mani, stringendoli nervosamente "Dobbiamo andarcene subito!" Annunciò ancora con il fiatone, ma la sua voce era ugualmente ferma, stava impartendo loro un ordine e la sua era una decisione improrogabile. "Cosa!?" Rispose Nomiva con le sopracciglia corrugate "Il nonno di Filipphus..." "Non ha importanza!" La strattonò malamente Teurum, facendole male e gridando, cosa che Nomiva mai gli aveva sentito fare prima di allora "Dobbiamo andarcene subito!" Nomiva si divincolò e lo guardò male, veramente quel comportamento non era da Teurum che di solito era sempre pacato e ragionevole anche davanti ai problemi "Che cosa vuoi, Teurum!?" Lo aggredì lei, riconoscendo però paura nella voce che le uscì "Abbiamo da fare, tornatene al castello!" "No!" Ripeté lui fermamente "Non capisci che sei in pericolo!?" Nomiva corrugò le sopracciglia nuovamente e così anche Filipphus che già era pallido e stanco "Spiegati!" Lo esortò lei, sentendosi sempre più inquieta.

Teurum parlò velocemente dopo aver ripreso fiato, ma scandì ogni parola in modo molto chiaro "Re Fritjof è morto" iniziò a spiegare "Il principe Morfgan gli è succeduto" Nomiva spalancò gli occhi sentendo inspiegabilmente il timore crescere "Il fratello del re è qui al castello" continuò Teurum "Ha detto che tuo padre è stato ucciso dal nuovo re, suo fratello Morfgan, perché ha osato prendersi gioco di lui". Nomiva sentì il fiato venirle meno, i polmoni erano due sacchi vuoti, gli occhi si fecero umidì e spalancò la bocca, notando appena Filipphus fare altrettanto. Teurum però non badò alle loro reazioni e andò avanti "Morfgan è furioso con Aurilda, è furioso con tutta la vostra famiglia. Vuole uccidere tutti tranne te e la tua sorella minore per il momento, voi sarete in ostaggio per il tempo che il re vorrà, per ricattare vostra sorella e farla tornare da lui". Filipphus scattò in avanti con gli occhi spalancati, come se avesse dimenticato il nonno che fino a poco prima riempiva tutti i suoi pensieri "Hai ragione Teurum" ammise senza esitazioni "Dobbiamo scappare subito". Nomiva si voltò a guardare la casa "E tuo nonno?" mormorò con la gola secca, ripensando a quello che aveva appena saputo sul suo povero padre. Il volto di Gamelius le si figurò nella mente, il loro abbraccio prima della partenza di lui, non lo avrebbe mai più rivisto.... Filipphus sorrise tristemente "Purtroppo non avrà il funerale che merita, ma sono certo che preferirebbe che tu ti mettessi in salvo. Abbiamo fatto il possibile per lui, sono certo che è felice così". Nomiva lo guardò e annuì, sentendo i muscoli tremare e le lacrime bagnarle le guance paffute "Vi prego, dobbiamo andare via subito!" Li esortò ancora Teurum. Nomiva con gli occhi appannati dal dolore spostò casualmente gli occhi dietro la testa di Teurum "Mia madre!" Mormorò poi terrorizzata, portandosi una mano alla bocca con gli occhi nuovamente spalancati "Dobbiamo andare da lei!" Focalizzò meglio lo sguardo in direzione del castello e vide distintamente quello che aveva visto solo di sfuggita da dietro la testa di Teurum, una coltre di fumo scuro andava mescolandosi con l'azzurro del cielo insieme alle fiamme. Nomiva si sentì mancare, la gola era arida e i polmoni chiusi, il cuore le parve che avesse cessato addirittura di battere. Nomiva tentò subito di fare uno scatto per correre il più velocemente possibile, ma Teurum la trattenne prontamente per la vita con le braccia magre ma forti, come se già avesse previsto quello che voleva fare la ragazzina "Madre!" Urlò Nomiva iniziando a scalciare per liberarsi dalla presa di Teurum "Madre! Voglio andare da mia madre!" Continuò a gridare disperata, mentre le lacrime cadevano con insistenza "Non puoi fare più nulla per lei" sentì dire a Teurum con la voce bassa e fredda che sussurrava come il vento gelido d'inverno, lontana come un eco in una grotta completamente buia e senza vie di uscita "Lasciami andare da mia madre!" Strillò ancora Nomiva, continuando a scalciare malamente.

"Ti prego! Filipphus ti prego, aiutami! Digli di lasciarmi andare da lei!" Nomiva si rivolse disperata a Filipphus, era l'unico in grado di poterla aiutare. "Filipphus, aiutami" sentì dire subito dopo a Teurum "No, Filipphus!" Lo supplicò la ragazzina continuando a divincolarsi e a piangere disperatamente "Mia madre! Devo andare da mia madre! Devo aiutarla!" Ma Filipphus scosse la testa addolorato e si avvicinò per aiutare Teurum a portarla via. Nomiva continuò a urlare, non poteva credere che tutto quello stesse succedendo veramente "Madre! Padre!" urlò con tutta la forza che aveva nei polmoni, la gola era in fiamme e gli occhi rossi e doloranti, ma lei continuava ugualmente a gridare, come se in quel modo la sorte dei genitori avesse potuto cambiare "Imbavagliamola o ci scopriranno" sentì dire da Teurum "No! Lasciatemi!" Urlò ancora Nomiva, senza curarsi di poter essere sentita dai soldati. Rischiava di morire? Allora voleva morire, la morte sembrava una quieta benedizione a giudicare dal volto di Ted, perché lei doveva soffrire da sola senza i suoi genitori? Non aveva paura, ma voleva che quel dolore intenso che le lacerava l'anima a brandelli terminasse. Però i due ragazzi non glielo consentirono, tennero ferma Nomiva e la imbavagliarono strettamente, nonostante lei avesse tentato di divincolarsi in tutti i modi dalla loro stretta.

Le legarono poi anche i polsi e i polpacci, per farla stare ferma, allora Teurum se la caricò sulle spalle come un sacco e iniziarono a fuggire, allontanandosi sempre più dal castello di Stablimo. Nomiva con il bavaglio stretto continuò a fare rumore, non erano più grida, ma i lamenti di un animale ferito. Con il volto rivolto verso la schiena di Teurum continuò a lamentarsi, a piangere e a divincolarsi, erano le uniche cose che poteva riusciva a fare. Nomiva continuò in quel modo per un lungo tratto, poi troppo stanca e con la gola dolorante continuò solo a piangere in silenzio, lasciando che le lacrime bagnassero la sua terra del suo dolore. Nomiva tremava ed era scossa da singhiozzi, mai aveva pensato prima in vita sua che fosse possibile patire una tale disperazione, un senso di perdizione e un dolore intensi come sentiva in quel momento. Perché era capitata quella misera sorte ai suoi poveri genitori? Cosa avevano fatto di veramente male per patire quella fine? Suo padre Gemelius era un uomo burbero, si lamentava sempre di tutto e si arrabbiava spesso, ma non era una persona cattiva, mentre sua madre Amillia era apprensiva e troppo tradizionalista, talvolta severa, ma neppure lei era una persona cattiva. Perché quindi? Perché non li avrebbe mai più rivisti?

Tante persole avevano detto che Nomiva era molto coraggiosa, i genitori e le sorelle in primis. Forse era vero o forse non lo era, ma in quel momento Nomiva non sentiva il coraggio per vivere una vita senza di loro, una vita da sola senza il supporto della sua famiglia, senza poter decidere di rivederli. Si figurò nella mente i volti dei suoi genitori, il volto stanco e burbero del padre, poi quello ansioso e composto della madre e pianse più forte, pensando a come fosse possibile la distruzione di una famiglia in un solo giorno.

 

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Capitolo 20
*** L'artista e il pirata ***


Pov:Leucello

La fuga era iniziata in modo abbastanza anomalo per essere propriamente definita come tale secondo il parere di Leucello. A dire la verità non era sicuro neanche che si potesse definire fuga, insomma, se nessuno li inseguiva che fuga era? E nessuno li stava inseguendo, almeno non da quel che Leucello sapeva, quindi non c'era stato alcun motivo per continuare il viaggio con la stessa fretta con cui avevano abbandonato Tempuston, si erano detti Leucello e Mondrik una sera. Leucello e Mondrik avevano dormito in una locanda fuori dalla capitale la prima notte, poi avevano continuato il viaggio a ritroso sempre con minor fretta. Erano stranamente silenziosi durante il viaggio, Leucello in un primo momento aveva temuto che Mondrik ce l'avesse con lui dato che non gli parlava più, poi si era tranquillizzato vedendo che l'amico di tanto in tanto gli sorrideva e quando gli parlava non aveva un tono scontroso, semplicemente sembrava stanco.

Del resto Leucello aveva pensieri più urgenti nella mente che preoccuparsi della scontrosità di Mondrik, ad esempio doveva trovare un modo per convincere sua madre a partire con loro per il regno della Provincia Libera. Sì, Iris gli aveva chiaramente detto di voler rimanere nella Provincia dell'Aria, ma lui doveva riprovarci, era troppo legato alla madre per partire senza di lei senza aver tentato di convincerla a seguirlo un'ultima volta. Il paese di Vriento era un luogo tranquillo e confortevole per una signora, ma Leucello era certo che sua madre sarebbe stata molto meglio con lui nella Provincia Libera. Lì nel regno c'era tanta gente che era meglio evitare, che poteva pugnalare alle spalle da un momento all'altro, per questo era necessario cambiare aria, inoltre nella città marittima di Appulso che si trovava sul versante più esterno della Provincia Libera era possibile raggiungere altri continenti come Cortrage o Ephiltus, il paese natale di re Fritjof, significava quindi poter avere libertà perpetua.

Almeno questo era quello che continuava a ripetersi incessantemente Leucello. Una parte non tanto piccola del suo animo gli diceva chiaramente che quel desiderio di costringere Iris a lasciare la sua terra madre era solo dettato dall'egoismo, la cosa migliore da fare probabilmente sarebbe stata desistere e intraprendere lui stesso una nuova vita altrove. Quell'idea aveva tolto il sonno a Leucello per diverse notti, ma quando l'aveva detto all'amico Mondrik gli aveva risposto dicendo che forse era proprio Iris quella egoista a volerlo abbandonare in quel modo, ma aveva continuato dicendo che se la donna non voleva seguirli Leucello avrebbe dovuto farsene una ragione. Non poteva limitare la sua vita per rimanere sempre vicino alla vecchia madre, nonostante lo adorasse Leucello doveva essere pronto a dirle arrivederci e partire senza di lei. Quel pomeriggio Leucello era agitato, quando aveva visto il paese da lontano subito aveva iniziato a pensare a quali sarebbero state le parole più adatte da usare con la madre, sia per tentare di convincerla, sia per salutarla se le cose fossero andate diversamente da come Leucello avrebbe desiderato.

Mondrik andò avanti come era solito fare, era trascorsa l'ora del pranzo, era il primo pomeriggio e loro avevano tutto il tempo per fare scorta di cibo e ripartire, oppure aspettare che Iris preparasse i suoi bagagli se avesse accettato di seguirli, poi sarebbero ripartiti. "Ci fermiamo a mangiare qualcosa?" Domandò distrattamente Leucello. Mondrik lo guardò perplesso "Mi prendi in giro?!" Gli chiese subito "Abbiamo appena mangiato alla locanda qui vicino, non avrai già fame di nuovo?" Leucello lo guardò e annuì "Sì, hai ragione". Mondrik scosse il capo "Vai a parlare con tua madre e accetta la sua decisione, qualunque questa sia. Sei un uomo da anni e sai vivere benissimo senza la sua presenza continua" disse l'amico sorridendo in modo incoraggiante, o volendo apparire come tale "E prendi tutti i tuoi tesli, io prenderò tutti i miei. Se dobbiamo trasferirci ci servirà molto più denaro di quanto ne abbiamo portato sino a ora". Leucello annuì e Mondrik fece una strana smorfia preoccupata "Sarà meglio che io prenda anche la mia spada" decise "Se viaggeremo con tutto questo denaro sarebbe da stupidi essere disarmati, peccato solo che tu non sappia duellare". Quello, Leucello lo sapeva bene, era un rimprovero evidente.

Leucello annuì piano dinnanzi all'occhiata di Mondrik e poi guardò l'altro andare via sul suo cavallo, in direzione della sua casa. Mentre sia avvicinava alla propria abitazione Leucello si sentì pervaso da un quieto senso di rassegnazione, a tal punto che pensò seriamente di non importunare oltre sua madre con la richiesta di seguirlo. Era quella la cosa giusta da fare, era giusto che si separassero, perché il loro legame sarebbe rimasto indissolubile, il loro era un legame di sangue e neppure la morte avrebbe potuto infrangerlo. Leucello avrebbe continuato a inviare messaggi alla madre, questo avrebbe fatto e sarebbe stato libero nel nuovo regno dove avrebbe vissuto. Certo, l'idea di non poter più rivedere Iris lo rese triste, come se gli avessero sottratto tutti i colori dalle sue tele, perché in fono Iris significava proprio arcobaleno e una vita lontano da lei in quel momento pareva a Leucello una tela senza colore e lui per quanto realista era sempre stato amante della vita, dei colori e della speranza. Ormai le poche foglie sugli alberi erano marroni e arancioni, i prati erano fangosi a causa delle piogge di stagione e tirava il consueto vento, tipico della loro provincia proveniente dai Monti Stiria.

Leucello sospirò e poi si fece coraggio, avvicinandosi ancora alla soglia della sua casa. Decise che avrebbe improvvisato e poi sarebbe andata com'era giusto che andasse, lui avrebbe solamente dovuto accettare la cosa e iniziare una nuova vita. Prima di entrare Leucello indugiò ancora, pensando a come avrebbe fatto a portare via tutti i suoi numerosi progetti, probabilmente avrebbe dovuto lasciare a malincuore qualcosa necessariamente. "Mi auguro che tu sia già entrato" gli disse Mondrik alle spalle in tono seccato, era tornato e stava impettito sul suo cavallo, con la spada nel fodero attaccata al fianco. Leucello lo guardò interrogativo "Come hai fatto a essere così veloce?" Mondrik sorrise "I miei servitori stanno radunando la maggior parte dei miei averi" disse con orgoglio. Leucello alzò gli occhi al cielo ma sorrise a sua volta "Io preparerò i bagagli da me" annunciò con lo stesso tono orgoglioso che aveva utilizzato l'amico "Allora mi auguro per il tuo bene che tu sia più celere dell'ultima volta, oppure" e facendo una smorfia divertita Mondrik fece cenno a Leucello di mozzargli la testa.

Leucello rise e scuotendo il capo arrivò alla porta per bussare, mentre Mondrik teneva i cavalli e li faceva mangiare fuori dalla casa. "Non metterci una vita!" gli gridò dietro Mondrik e allora Leucello aprì la porta che era stranamente accostata di giusto due centimetri. Quando Leucello ebbe aperto la scena che gli si parò dinnanzi gli mozzò il fiato e subito dopo la paura si impadronì del suo corpo, annebbiandogli il cervello. Iris era a terra al centro della stanza, era raggomitolata in posizione fetale e sotto di lei si espandeva una macchia di sangue. Leucello le corse vicino e si inginocchio "Madre" sussurrò con voce tremante. La ferita proveniva dal lato poggiato a terra del ventre, aveva macchiato l'abito azzurro, lasciando un buco dal qual era possibile intravedere la lesione. Sembrava profonda, probabilmente era stata causata da una piccola spada o più probabilmente da un pugnale. Leucello tentò di sollevare il capo della madre, per guardarla meglio in volto, mentre le lacrime gli appannavano la vista "Madre" ripeté con voce tremante "Che cosa vi è capitato?" Iris girò gli occhi per poterlo guardare, aveva il volto carico di dolore a causa della ferita che continuava a sanguinare copiosamente. Una fitta intensa colpì allo stomaco Leucello "Madre, ti prego" balbettò sconvolto "Chi è stato a farti questo e perché!?"

Iris si portò una mano sul fianco ferito, poi parlò "Ve ne dovete andare subito" sussurrò chiaramente, con la voce distorta dalla sofferenza "Cosa?" rispose piano Leucello "No. Io non posso, non posso lasciarti. Non così!" mormorò guardando la ferita senza avere idea di come fare per far cessare il sangue di grondare. "Dovete andare via subito" Ripeté la vecchia donna con la poca forza rimastale in corpo "I soldati del re vi cercano" rivelò finalmente Iris "Sono entrati e mi hanno pugnalata, dicevano che stavi arrivando e così ti avrebbero catturato e ucciso". Leucello la fissò con gli occhi spalancati e la mente offuscata dalla paura "Io non..." Non riuscì a dire altro, sentiva la gola secca e il sudore freddo scendere dai corti capelli. Si voltò per guardare la porta, fortunatamente Mondrik era lì e aveva ascoltato, infatti lo guardò con gli occhi sbarrati, mentre le mani erano strette intorno all'impugnatura della spada. "Hanno detto qualcosa riguardante il re. E' lui che ha ordinato di farti uccidere e io non so il perché, ma ti prego" le parole di Iris erano una supplica e con le mani si aggrappò ai vestiti di Leucello, macchiandoli un po' del suo sangue "Scappa!" gemette, con le lacrime agli occhi.

Leucello era sconvolto, lui non ci era mai arrivato al castello dal re, veramente Edmure oppure qualcun altro aveva riferito le parole che si era incautamente lasciato sfuggire nella locanda al re?! E, come se gli avesse sondato quel dubbio nella mente, Mondrik gli rispose con fredda disperazione "C'era un sacco di gente alla locanda. Magari c'erano dei soldati, oppure hanno chiesto qualcosa a Edmure e lui gli ha rivelato quello che sapeva, ti aveva detto che se glielo avessero domandato avrebbe rivelato ogni cosa. Dev'essere andata così e adesso abbiamo i soldati del re che ci pedinano". Leucello sentì il timore crescere, nonostante tentasse di trovare una soluzione razionale non riusciva proprio a trovarla nella disastrosa situazione che lui stesso aveva involontariamente generato per uno stupido errore. "Madre" si decise finalmente a parlare, asciugandosi gli occhi con scarsi risultati "Dobbiamo portarti via di qui, adesso!" disse ancora, testardo e troppo cieco per capire che sarebbe stato tutto inutile. "Leucello" lo disilluse subito la madre "Ormai il mio destino è segnato" disse con convinzione nonostante il dolore intenso che la flagellava "Voi potete ancora provare a scappare. Ma dovete fare presto! I soldati del re sono al paese, saranno di ritorno molto presto!" Leucello scosse la testa con convinzione "No!" Ripeté ancora, non voleva rassegnarsi in quel modo "Non posso andarmene! Voi state male, devo trovare qualcuno che possa curarvi!" La madre nonostante il dolore gli scoccò un'occhiata severa di rimprovero "Non dire assurdità figlio mio! Sappiamo entrambi che nessuno potrà guarirmi! Ma tu sei giovane e hai ancora tante cosa da poter realizzare in questa vita. Ti prego, lasciami e scappa, prendi tutto il denaro e vattene, sparisci per sempre e non farti mai più ritrovare dal re!" Le parole della donna erano sempre più sofferte, la voce fioca e il volto pallido, la macchia rossa si espandeva copiosamente sotto al corpo fragile.

"Ho detto che non vi lascio!" Ripeté il ragazzo piegando il volto sul petto della madre per bagnarlo di dolore. Leucello sentì il volto di Iris scostarsi debolmente, scambiò uno sguardo con Mondrik e l'altro parve capire subito cosa la donna morente gli stesse domandando di fare. Mondrik entrò e aprì velocemente un armadio, tolse poi il doppio fondo e tirò fuori un enorme sacco colmo d'oro, lo lasciò in un angolo e poi fece altrettanto con il cibo, buttandolo malamente dentro un sacco. "Andate!" Ripeté Iris in un ennesimo gemito di dolore e disperazione, vedendo che Mondrik era pronto "Madre" sussurrò Leucello alzando il volto per guardarla negli occhi. Iris guardò nuovamente Mondrik e quello si avvicinò, presumibilmente per portare via Leucello con l'ausilio della forza. Leucello intercettò lo scambio di occhiate e si arrese "Va bene" sussurrò con la voce piegata dal dolore, facendo a Mondrik un cenno con la mano per pregarlo di fermarsi "Permettimi di dirle addio, prometto poi che verrò via con te". Mondrik allora si fermò e poi annuì "Addio Iris" disse Mondrik, voltandosi con il sacco d'oro e quello di cibo stretti tra le mani "Addio Mondrik" sussurrò flebilmente la donna, poi con un gesto pregò il figlio di piegarsi in avanti in modo che potesse sentirla chiaramente nonostante il tono di voce basso. Leucello subito obbedì senza esitazione, mentre le lacrime continuavano a rigarli il volto "I semi, Leucello" sussurrò la donna "Ricordati dei semi di iris che ti ho donato". Lui sorrise dolcemente e le baciò la fronte, la donna sorrise di rimando e gli strinse debolmente la mano "Addio figlio mio" sussurrò ancora, con estrema fatica "Scappa e non voltarti mai indietro" Leucello pianse e annuì "Addio, madre" rispose "Mi mancherete ogni giorno" disse con sincero dolore "Ma io sarò sempre con te" rispose con voce ancora più fioca l'altra "Adesso vai, vai Leucello".

Così, dopo averle dato un ultimo bacio sulla fronte pallida e fredda, Leucello fu costretto ad andare via, senza neppure poter assistere la madre nel momento della morte. Era orribile essere costretto ad abbandonarla così, Leucello avrebbe voluto rassicurarla fino all'ultimo momento, ma non avevano tempo per quello, dovevano andarsene al più presto. Leucello uscì con il volto stravolto e lucido di dolore, poi salì sul cavallo e Mondrik fece lo stesso "Vi amo, madre!" Urlò Leucello prima di partire al galoppo, sentendo il cuore andare in frantumi. Spronò forte il cavallo con i talloni, stringendo le briglie, sentendo le lacrime volare all'indietro a causa della velocità. Era stato uno stupido a parlare male del re a quel modo nella capitale ed era stato ancor più inetto a voler fuggire senza essersi presentato a palazzo dal re, causando di conseguenza la morte della madre e quella fuga precipitosa. Leucello e Mondrik accelerarono, diretti verso i boschi per sparire nella fitta boscaglia, ma proprio quando stavano per addentrarsi tra le fronde un brusco rumore di zoccoli li fece voltare. Erano i soldati reali, venivano verso di loro veloci e armati, celeri e minacciosi come la furia di un tornado. Mondrik e Leucello fuggirono velocemente inoltrandosi del bosco, sperando invano di lasciare indietro i loro inseguitori. I rami in quel punto erano particolarmente fitti e intricati, per questo faticarono a passare e alcuni rami sottili finirono per graffiare sia loro che i cavalli. Leucello sentendo i soldati avanzare provò una paura intensa, mescolata al dolore che provava a causa della morte della madre. Per pochi istanti pensò banalmente di voltarsi per lasciare che i soldati lo uccidessero. Sarebbe stato semplice così, non avrebbe più temuto che lo prendessero e avrebbe raggiunto sua madre, poi però tornò a ragionare lucidamente. Non poteva fare una cosa del genere, sua madre aveva ragione, doveva andarsene e vivere, non poteva lasciare che Morfgan vincesse con i suoi metodi codardi e crudeli. Doveva sopravvivere e lottare, per lui e per onorare la memoria di sua madre. Doveva dimostrare che veramente l'ingegno e la cultura prevalevano sulla violenza e sulla forza bruta.

Mondrik sguainò la spada mentre continuava ad avanzare, con il volto contratto in un ringhio di gelida rabbia. Leucello anche se avesse voluto non avrebbe potuto fare altrettanto non avendo mai voluto imparare a utilizzare la spada essendo sempre stato contrario alla guerra, la trovava solo l'ennesima delle barbarie inventate dal genere umano per sfogare la rabbia, ma in quel momento forse sarebbe stata la cosa migliore aver imparato. Leucello subito scosse il capo, in collera con sé stesso a causa di quello scellerato pensiero; non avrebbe lasciato che Morfgan lo avvelenasse con i suoi metodi violenti. "Ti uccideremo traditore, stanne certo. Pagherai per il disonore che hai arrecato al tuo re!" Gli urlarono da dietro i soldati. Leucello percepì l'esigua distanza che li separava, i soldati avevano le spade sguainate e un'espressione feroce da sotto le visiere alzate, sembravano in trepidante attesa di uccidere. Quella sembrava proprio che fosse la fine del pittore più bravo del regno, di un uomo dalla mente tanto brillante e aperta alle innovazioni, tutto a causa di un re dall'infima moralità, un uomo misero finito nella massima posizione di potere.

Leucello si voltò ancora dietro, i soldati erano sempre più vicini. Leucello si vide scorrere la sua vita davanti, vide i colori scivolare via della memoria per lasciare il posto al nero della morte, eterno e imbattibile. Ormai era finita. I soldati li fiancheggiarono e altri li superarono, accerchiandoli "È finita" dissero soddisfatti e Leucello nonostante la paura si trovò a domandarsi perché mai avessero dei secchi con loro. Mondrik tenne alta la spada davanti a sé, coraggioso e fiero, sprezzante com'era sempre stato "Non è ancora finita" disse tentando di mascherare la paura, sentendo il coraggio crescere mentre stringeva a sé la spada. I tre soldati si avvicinarono di più con i loro cavalli, stringendoli in un triangolo con le spade sguainate. Con un gesto fluido uno dei tre disarmò Mondrik con banale solennità, lasciandolo interdetto perché evidentemente non si era aspettato una mossa del genere ex abrupto. Adesso sì che era veramente la loro fine. I tre soldati alzarono le spade in contemporanea, preparandosi a eseguire la coreografia della morte, quando furono tutti-Leucello e Mondrik compresi- avvolti da una foschia scura, totale e improvvisa.

Leucello si guardò intorno spaesato e impaurito, tentando di ragionare velocemente sul da farsi. Leucello quasi d'istinto tentò di afferrare con una mano la nuvola nera per capire cosa fosse "Scappate" sentì dire poi alle sue spalle con chiarezza "Mi occupo io di loro, voi scappate". Era difficile dire chi avesse parlato, in realtà era anche difficile capire se si trattasse di una voce reale o una immaginaria nella testa di Leucello, ma era limpida e chiara come la verità e lo metteva a suo agio. Senza pensarci oltre Leucello spronò il cavallo e lo fece galoppare neppure lui sapeva in quale direzione, iniziando dopo poco a intravedere qualcosa da quella coltre nera. A Leucello parve di scrutare Mondrik che si allontanava come gli era stato detto di fare, ma sul suo volto si notava un vago disappunto, probabilmente considerava un salvataggio un'onta al suo onore. Quando Mondrik vide Leucello gli si avvicinò "Sono stato un incapace!" disse duramente "Dovevo aspettarmi che mi avrebbero attaccato dal cavallo, senza degnarsi di scendere per duellare". Leucello tacque ma i due si scambiano uno sguardo timoroso, tornando a scrutare la foschia nera e poi continuarono ad avanzare come gli era stato detto di fare, allontanandosi ancora da quei soldati. Leucello non aveva la minima idea di cosa fosse accaduto, si sentiva solo grato per essere ancora vivo e quando si rilassò un poco gli tornò alla mente la dolorosa consapevolezza della morte della madre e lui tornò a sentire le lacrime inumidirgli gli occhi. Continuarono ad avanzare per un tratto senza fermarsi e senza parlare, Leucello pianse in silenzio, col capo chino, poi qualcosa parve cadere da un albero davanti a loro, così i due si fermarono bruscamente, allarmati.

Era una persona, aveva abiti sicuramente inusuali e il volto era coperto da un cappuccio nero. Lo abbassò scoprendosi il volto, poi iniziò a parlare "State entrambi bene, non è vero?" Domandò la donna e Leucello riconobbe la voce limpida e chiara che avevano sentito poco prima. Era una donna giovane, doveva avere più o meno la loro stessa età, li fissava tranquilla e pareva ignorare i loro volti sconvolti. "Siete stata voi?" Riuscì a domandare incredulo Leucello, con il volto ancora umido e la voce distorta dal dolore "Voi ci avete salvati?" La ragazza annuì "Ma come avete fatto?" Continuò a domandare Leucello, seriamente stupito e ammirato. Lei sorrise "Passavo da queste parti e mi era parso di avervi scorto in una situazione di difficoltà" parve scherzare lei, poi si fece più seria "È il compito che mi sono data" spiegò loro "Aiutare le persone, per questo vi ho raggiunti quanto ho visto che quei soldati vi inseguivano". Leucello si sentiva frastornato, ma la gratitudine che sentiva era tanta, l'unica cosa certa che distingueva insieme al dolore per la morte di Iris in tutto quello "Non avevamo bisogno di voi, donna scoiattolo!" disse scortese Mondrik, altezzoso e aspro, con il solito tono che usava per mettere in difficoltà. La ragazza però parve non darci il minimo peso e, contrariamente da quanto ci si sarebbe potuti aspettare, rispose a tono dopo aver riso "Scusatemi signore" disse sarcastica e beffarda "La prossima volta interverrò per salvare la vostra testa penzolante" disse con un sorriso di sfida "Ma, se vi reputate tanto bravo, vi offro l'opportunità di duellare con la vostra salvatrice, qui e ora!" e gli buttò la spada che aveva recuperato ai piedi.

Mondrik la fissò inferocito, punto nell'orgoglio, abbassandosi e rialzandosi in un attimo con la spada stratta nel pugno "Voi siete sleale" disse subito con totale disprezzo nella voce "Usate dei trucchetti simili a quelli dei pirati per vincere i vostri avversari, come quel popolo inferiore di briganti e ladri" poi fortunatamente ripose la spada nel fodero. L'altra lo fissò acremente "Non osare insultare la stirpe di mio padre!" Rispose feroce come una pantera "Lo sapevo che eravate uno sporco pirata!" Esclamò trionfante Mondrik, spuntando per terra "Ma anche se non foste appartenuta a un popolo inferiore non avrei mai duellato con voi!" disse ancora "Io non duello con le donne!" La ragazza gli rivolse uno sguardo di puro disprezzo, ma non sembrava essere così toccata dalle parole sprezzanti di Mondrik "Potete dirvi quello che volete per ingannarvi" sospirò con tono di sfida "Ma lo sapete voi, come lo sappiamo io e il vostro amico, che vincere io senza il minimo dubbio né sforzo, è solo per questo che vi rifiutate di sfidarmi in duello". Mondrik si arrabbiò di più, ma prima che potesse replicare Leucello si intromise, ricacciando altre lacrime "Potrei conoscere il nome della mia salvatrice?" Domandò con garbo, con la voce un po' bassa e molto triste.

La donna annuì distrattamente "Omalley" disse "Ma mi è stato riferito da altri che ho tratto in salvo che sono nota come 'Terrore dei Boschi' " finì, lanciando un nuovo sguardo di sfida a Mondrik. "Io sono Leucello" disse lui tentando di non far scontrare i due e di non figurarsi nella mente il volto sofferente di sua madre "Leucello Argis dal paese qui vicino, Vriento". Leucello e Omalley si strinsero una mano in segno di saluto, mentre Mondrik li scrutava con gli occhi ridotti a fessure. "È un piacere fare la vostra conoscenza, Leucello Argis da Vriento" rispose Omalley e Leucello guardò attentamente gli occhi grigi di lei, erano cupi ma dinamici come una tempesta "E il vostro simpatico amico?" Domandò con il medesimo sorriso di sfida sul volto "Qual è il suo nome?" "Mondrik" rispose l'altro a voce alta, con somma arroganza "Mondrik Androtte, figlio dell'illustre pittore Giolite Androtte!" Omalley parve pensierosa "No" disse poi, scuotendo il capo con noncuranza "Non penso di averne mai sentito parlare". Mondrik si infuriò ancora di più se possibile "Mi pare ovvio" rispose con freddezza "I pirati non sono mai stati associati a qualcosa di nobile come l'arte!" Omalley lo ignorò del tutto e si voltò a guardare Leucello "Dove siete diretti miei prodi signori, se mi è concesso saperlo?" Lo disse in tono vagamente canzonatore, ma Leucello in altre circostanze l'avrebbe trovata divertente. Sicuramente a giudicare dall'espressione di Mondrik lui non doveva aver pensato a nulla di simile.

"Nella Provincia Libera" rispose Leucello, guadagnandosi un'occhiataccia dall'amico "Posso scortarvi per un tratto se lo desiderate" annunciò Omalley "Fino a un posto di fiducia situato nella Provincia di Ghiaccio, poi dovrò lasciarvi, non avete idea di quanti criminali girovaghino nei boschi". Leucello annuì sentendosi molto più sereno all'idea di avere quella ragazza con loro, ma Mondrik intervenne prontamente "E chi vi ha detto che a noi serve una scorta?!" Domandò sempre aspro e infastidito "Inoltre chi vi ha assicurato che vogliamo una come voi in viaggio insieme a due uomini distinti come siamo io e il mio amico, voi, un pirata e una donna!" Omalley lo fissò con le sopracciglia inarcate e un'espressione strafottente sul volto non precisamente armonioso né bello "Avete ragione" disse con il solito finto tono "Siete perfettamente in grado di difendere la vostra persona e il vostro onore da solo" continuò a canzonarlo "Peccato che a quest'ora senza l'intervento di questa brutta piratessa non ci sareste più, Mondrik Androtte! Ma posso solo vagamente immaginare che tremenda umiliazione dev'essere stata per un uomo distinto come siete voi essere salvato da una donna, per di più appartenente a un popolo inferiore!" Disse vagamente drammatica, con il solo scopo di irritare di più Mondrik "Anche se, devo essere sincera" continuò imperterrita "Non riuscirò mai a comprendere pienamente quello che avete provato, nonostante io mi sia trovata in passato a dover essere battuta da qualcuno che disprezzavo tanto, almeno in parte..." terminò vaga e per un istante i suoi occhi parvero brillare di una luce diversa.

Anche gli occhi di Mondrik ebbero un guizzo, ma brillarono a causa della rabbia. Mondrik impugnò la spada da poco riposta nel fodero e si scagliò verso di Omalley senza pensarci due volte "Fermati Mondrik!" Lo pregò Leucello, venendo bellamente ignorato dall'amico. La ragazza con un'abile mossa salì sul ramo più basso di un albero vicino, si distese comodamente e guardò Mondrik mentre saltava tentando di raggiungerla con la spada tesa che non fece altro se non scorticare un poco il ramo nella parte bassa. Omalley scoppiò a ridere "Smettetela di umiliarvi al cospetto di una piratessa, signor Androtte!" disse continuando a ridere "Non volete che io vi batta, quindi riponete la spada prima di farmi perdete veramente la pazienza, altrimenti vi umilierei talmente tanto che il vostro orgoglio ferito potrebbe restare tale per sempre, e non voglio che una cosa del genere accada, per il vostro bene ovviamente". Mondrik ringhiò "Scendete subito e affrontatemi, piratessa imbrogliona!" Omalley balzò giù in un istante, con un piccolo pugnale nella mano destra "Come desiderate voi, signore" bisbigliò con il sorriso divertito ancora sulle labbra carnose.

Leucello si parò dinnanzi a Mondrik "Possiamo evitare questo, te ne prego, per rispetto al mio dolore e a mia madre che è appena morta!" lo implorò, cupo e stanco "No!" Rispose fermamente l'altro, senza curarsi minimamente del dolore di Leucello "Adesso levati di mezzo!" aggiunse Mondrik, per poi spintonarlo bruscamente di lato. Leucello restò con la schiena contro il tronco di un grosso albero a guardare quei due con occhi vacui, sua madre era appena morta, loro avevano rischiato di morire e Mondrik si curava di quelle sciocchezze. Li vide avvicinarsi per duellare, Mondrik con la spada lunga e la ragazza con un pugnale che era meno della metà della lama di Mondrik. Leucello sprofondato nuovamente nella tristezza e si chiese per un momento come avrebbe fatto l'altra a combattere con un'arma così corta in un duello, considerando inoltre che avrebbe potuto sceglierne una alla pari di quella di Mondrik dato che portava delle spade strette nei foderi legati a una singolare cintura alla vita. Mondrik attaccò per primo, Omalley lo schivò agilmente e si spostò di lato, poi l'amico colpì ancora e lei schivò nuovamente, con una semplicità talmente esagerate da apparire imbarazzante. Pur non essendo colto in fatto di duelli Leucello rimase ugualmente colpito, quella donna aveva una rapidità e una flessibilità impressionanti e notevoli.

Anche Mondrik doveva essere stupito, notò distrattamente Leucello, e la cosa fece arrabbiare Mondrik ancora di più e Leucello seppe che l'amico avrebbe impiegato al massimo le sue forze pur di battere Omalley. Mondrik riprovò a colpire ancora e ancora, compiendo uno strano e sgraziato ballo in mezzo al bosco. La ragazza era tranquilla e dal sorrisino che sfoggiava pareva canzonasse Mondrik a ogni schivata. Poi quando si sentì annoiata fece lei un passo in avanti, con una strana manovra del polso diede una botta alla mano con cui Mondrik impugnava la spada e la fece volare lontano. Mondrik si fermò con il fiatone, gli occhi fissi nella direzione in cui era volata la spada. Si girò a fissare la ragazza, aveva riposto il pugnale ed esibiva un'espressione di pura soddisfazione "Signor Androtte" disse facendo un buffo inchino appositamente sbagliato e sgraziato "È stato un onore duellare con un uomo della vostra risma, facente parte per giunta di un popolo tanto superiore rispetto al mio".

Mondrik strinse i pugni nervosamente, si voltò verso Leucello e lo vide con la schiena contro un albero con la testa bassa e le lacrime sulle guance. "Siete sicuro di stare bene?" Domandò Omalley avvicinandosi dopo aver scorto le lacrime sul volto di Leucello, mentre Mondrik andava a recuperare la sua spada irritato. Leucello scosse la testa "Scusate" disse subito, asciugandosi con un gesto rapido gli occhi "Mia madre" continuò piano "L'hanno appena uccisa quei soldati". La ragazza lo guardò tristemente, il sorriso beffardo di poco prima pareva un ricordo lontano "Mi dispiace tanto" disse mettendogli una mano sulla spalla per incoraggiarlo "Altrimenti non sarei stata tanto sgarbata con il vostro amico, non era mia intenzione turbarvi" Leucello scrollò le spalle "E come potevate saperlo?" disse sincero "Quale era il suo nome?" domandò Omalley e Leucello sollevò il viso per poterla guardare "Iris... ovvero arcobaleno" spiegò con voce mestamente dolce. Omalley sorrise "Un nome bellissimo" confermò "Io non ho mai conosciuto mia madre" gli rivelò poi, sempre pensierosa "Ma anche lei aveva un nome dal significato molto bello. Il suo nome era Alyssa" continuò a raccontare "Significa creatura del mare". Leucello si fermò a guardarla, Omalley aveva il volto rivolto verso l'alto, come se la madre potesse vederla "Forse è per questo che mio padre si è innamorato di lei" disse ancora, abbandonando il tono malinconico per tornare a uno più scherzoso.

"Voi di cosa vi occupate per guadagnarvi da vivere?" Domandò curiosa "Io ero un'artista" rispose tristemente Leucello "Non lo siete più?" "No" assicurò affranto Leucello "È per questo che mia madre è morta" le confidò "Il re Morfgan mi ha convocato a palazzo per fargli un ritratto, lì ho scoperto che aveva ucciso violentemente il signor Tenebrerus". La ragazza lo fissò attenta "Il signor Tenebrerus?" Domandò con gli occhi ridotti a fessure "Lo conoscete?" Si stupì Leucello "No, non direi" rispose la ragazza, senza aggiungere altro. Mondrik era dietro di loro e ascoltava stranamente senza parlare, Leucello anche se Omalley aveva taciuto ebbe l'impressione di sapere perché la ragazza avesse avuto quella strana reazione sentendo il nome dei Tenebrerus. "E così avete salvato anche la sposina fuggitiva del re" intervenne Mondrik come di consueto, con aria di sfida "Non so di cosa state parlando" rispose tranquilla Omalley, i due non insistettero oltre ma ebbero entrambi il vago sospetto di poter avere ragione nonostante la dissimulazione di Omalley.

"Poi cos'è accaduto?" Lo esortò a continuare Omalley "Qualcuno deve aver riferito al re che prima di andarmene dalla capitale l'ho apostrofato con parole vere a lui sgradite, come spesso è sgradita la verità. Poi sono fuggito per non dovermi porre al suo servizio, così adesso il re desidera la mia morte". Omalley scosse il capo, comprensiva "E quei soldati hanno ucciso mia madre per tendermi una trappola" disse ancora Leucello, sentendo il cuore farsi pesante "È morta perché sono scappato invece di sottomettermi al volere del re". Mondrik lo affiancò sulla destra, tenendo il suo cavallo e quello di Leucello per le briglie "È una delle cose più stupide che tu abbia mai detto" disse tranquillamente "Pensare di non dipingere più perché tua madre è morta per colpa tua! Come se l'avessi pugnalata di persona, sei proprio uno stolto certe volte". Leucello abbassò la testa "Penso che vi abbia espresso il concetto in modo del tutto sbagliato" intervenne Omalley, guardando freddamente Mondrik "Ma di per sé ritengo che il concetto sia giusto. Non avete colpa della morte di vostra madre, se il re è un uomo malvagio voi non avete colpe. Non conoscevo vostra madre, ma penso che vi avrebbe detto di continuare a dipingere, perché se voi doveste smettere è come se loro avessero vinto" spiegò Omalley con convinzione "Vi avrebbero veramente privato di tutte le cose che più amate".

Leucello con gli occhi ancora lucidi la guardò colpito da tali parole "Avete ragione" disse con un sorriso flebile ancora umido di dolore "Allora volete che vi scorti sino alla Provincia di Ghiaccio oppure no?" Domandò ancora Omalley. Mondrik lo guardò con ostilità "Io credo che sarebbe la cosa migliore" rispose a voce bassa Leucello. La ragazza annuì "Allora salite sui vostri cavalli e seguitemi, io vi scorterò dagli alberi" annunciò "Vado molto più veloce e vedo i pericoli da lontano. Ma vi avverto" disse mentre si arrampicava "Non ci fermeremo spesso. Di notte dormirete sugli alberi con me e non uscirete mai fuori dal bosco se non per entrare in un altro bosco. Manterremo un ritmo spedito. Tutto chiaro?" Leucello salì sul cavallo e annuì e Mondrik fece lo stesso, seppur con riluttanza, senza annuire. La libertà richiedeva sempre un prezzo, pensò Leucello mentre cavalcava nel bosco dietro a Mondrik, ma troppo spesso quel prezzo era sangue.

 

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Capitolo 21
*** Una palude vuota e nera ***


Pov:Selina

La vita al castello dei Malkoly sommariamente non procedeva così male, Selina si era quasi abituata a vivere lì, dopo i primi giorni aveva imparato a convivere meglio con le cattiverie gratuite di Jesebell, probabilmente non avrebbe mai tollerato le maniere della signora ma Selina stava imparando lentamente a conviverci. Certo non era facile, Jesebell si dilettava a elargire cattiverie su chiunque e la famiglia di Selina sembrava fosse diventata il suo bersaglio prediletto da quando la ragazzina era lì. Selina lo detestava, detestava tutte quelle brutte parole verso la sua famiglia, soprattutto detestava non poterli difendere, lei avrebbe voluto replicare a ogni parola malevola, ma sapeva che un atteggiamento simile non le avrebbe causato null'altro che problemi e probabilmente avrebbe solo peggiorato la situazione perché era l'altra ad avere il coltello dalla parte del manico, così Selina incassava ogni colpo con muta rassegnazione.

Oltre alle tensioni con la signora era tutto tranquillo, Luddan era proprio come lo ricordava e sentiva ogni giorno un intenso calore al cuore quando stavano insieme, le passeggiate nei dintorni del castello erano diminuite progressivamente con l'incedere del freddo, ma si erano sostituite a delle serene conversazioni davanti al camino del salottino, decisamente più comode e calde. Selina pensava più di frequente al suo matrimonio da quando era andata a vivere dai Malkoly, un giorno sarebbe stata lei al posto di Jesebell e il tempo trascorso al fianco di Luddan sarebbe stato per sempre. Prima di arrivare al castello Selina non ci aveva mai pensato veramente, a casa l'idea del matrimonio era come se fosse un miraggio lontano, tra le chiacchiere con le sorelle, i litigi e i rimproveri con i genitori Selina si sentiva sempre impegnata e impossibilitata a riflettere veramente. Ma d'altronde non c'era stato un reale bisogno di pensare a tutto quello prima, lei era stata sino ad allora considerata ancora come una bambina, era la piccola di casa e prima di sposarsi avrebbe assistito ai matrimoni delle sue sorelle.

Adesso però le cose erano cambiate, Selina ne era certa. La lontananza dal nido familiare le aveva fatto sentire sentimenti contrastanti, la libertà da una parte, l'oppressione dall'altra, il tepore dal camino del salottino in cui chiacchierava con Luddan, contrapposto al freddo della nostalgia che i ricordi trascorsi in compagnia di Aurilda e Nomiva le causavano, come quando si rincorrevano sotto i salici lungo le sponde della Palude Nera; questi ricordi le trafiggevano il cuore di dolorosa malinconia. A Selina infatti mancava tremendamente la sua famiglia, le mancava veramente ognuno di loro, ogni singolo giorno. Quando la sera Selina rimaneva da sola nella grande camera indugiava sulla sua vita al castello di Stablimo dove aveva sempre vissuto. Le mancava la voce della madre, le sue carezze incoraggianti, le mancava il volto teso del padre, ricordava il loro abbraccio prima della partenza di lui e Selina scoprì che in fondo le mancavano persino i rimproveri dell'uomo. Quando si coricava nel grande letto della sua camera a Selina capitava di consueto di sentire timore sincero, solitamente questo accadeva se non riusciva ad addormentarsi prima che spegnessero tutte le luci del castello. Quando restava sveglia, inghiottita dal buio della notte, desiderava avere sua sorella Nomiva di fianco. Quando Selina al castello non riusciva a dormire a causa del timore del buio andava sempre nella stanza di Nomiva sin da quando era stata una bambina e aveva mosso i primi passi, apriva appena la porta e guardava dentro, spalancando progressivamente la porta sempre di più.

La sorella lo sapeva che era lei e non aveva mai paura quando nel buio della notte sentiva cigolare piano la porta della sua stanza, anzi, si metteva a sedere e rideva tentando di non far rumore, divertita da quell'intrusione. Alcune volte Nomiva semplicemente le faceva cenno di entrare e le due si mettevano a dormire, altre volte invece, quando erano particolarmente allegre, uscivano dalla stanza e, tentando di confondersi con le ombre, strisciavano verso la stanza di Aurilda. Allora sì che era divertente, Aurilda infatti solitamente si arrabbiava molto quando osavano disturbarla e le cacciava via in malo modo, costringendole a fughe precipitose tra le risate, tentando di non inciampare, ma c'erano anche delle volte in cui la sorella non si arrabbiava e quelle erano le sere più belle. Aurilda afferrava il suo cuscino e le altre due prendevano altri cuscini nella stanza, allora iniziavano a giocare al buio e tentando di non svegliare nessuno.

Dai Malkoly ovviamente tutto quello non sarebbe mai stato possibile e se anche Selina avesse tentato di trasgredire qualche regola come faceva al suo castello, le sue sorelle non c'erano, quindi era un piano irrealizzabile. La cosa che a Selina mancava di più in assoluto erano le risate che si faceva a casa, le battutine pungenti e sarcastiche di Aurilda, le sciocchezze e i dispetti con Nomiva e le prese in giro. Selina arrivò a domandarsi persino come dovesse trascorrere le sue lezioni adesso il precettore Diodorus, l'uomo che lei e Nomiva si divertivano tanto a prendere in giro, l'uomo che non ascoltavano mai durante le inutili lezioni di storia. Chissà come dovevano essere peggiorate le lezioni di Nomiva. Il solo pensiero fece sorridere Selina, povera Nomiva! Quel pomeriggio insomma Selina era sola in camera sua e non aveva nulla da fare, Luddan era come di consueto a lezione di spada, lei aveva ricamato e adesso non c'era nulla da fare, così i ricordi le vorticavano nella mente, sciolti e vaghi come cavalli imbizzarriti. Selina si alzò e guardò annoiata fuori dalla finestra. Eccolo lì, lo riconobbe subito il soldato cortese che si dimostrava sempre disposto ad aiutarla, forse Vrisco era il suo nome. Quando l'uomo la vide immediatamente sorrise attraverso la visiera alzata dell'elmo, poi agitò la mano e la saltò. Selina rispose al saluto con un cenno e sorrise a sua volta, poi un altro soldato si avvicinò a Vrisco e quello fu costretto ad andarsene, così Selina si voltò e si avvicinò al letto.

Si sdraiò e sospirò annoiata, quei momenti di noia le parevano eterni, quasi sentiva di prediligere gli infausti momenti in compagnia di Jesebell piuttosto che essere costretta a tutta quella noia infruttuosa. Fortunatamente per Selina però Belia bussò ed entrò senza aver atteso di ricevere il permesso "Selina!" La salutò entrando "Belia!" sorrise con entusiasmo Selina "Dov'eri?" Le domandò poi con un sorriso di benvenuto "Da mia madre" rispose la ragazzina "È meglio se mi cambio prima che la signora mi veda con in dosso questi abiti miseri" disse Lia aprendo l'armadio in preda all'agitazione. "Come stava tua madre?" Le domandò Selina quasi con disinteresse "Bene" rispose Belia "Era dal tuo arrivo che non ci vedevamo". Selina sorrise a annuì piano "Mi piacerebbe conoscerla" disse quasi distrattamente, nonostante fosse sincera "Magari!" Rispose l'altra con il consueto entusiasmo nonostante la tensione nella voce. Belia allora tirò fuori un abito e si sfilò quello misero da popolana che aveva indossato per fare visita alla madre "Vorresti un aiuto?" Le domandò istintivamente Selina, vedendo l'altra in difficoltà.

"Meglio di no" rispose subito Lia, tentando di sistemarsi le balze della gonna al meglio "Se la signora dovesse scoprirlo sarebbe la fine per me". Selina le si avvicinò e alzò gli occhi al cielo, sentendosi audace "A chi vuoi che importi della signora!" Disse senza riflettere, con lo stesso coraggio di Nomiva "Sono stanca di lei e delle sue regole! Se ho voglia di aiutare la mia amica la aiuto, non ho bisogno del consenso di nessuno per farlo!" Belia spalancò gli occhi sorpresa "Se dovessero sentirti..." Selina sbuffò "Non ce la faccio più a sopportare tutte le cose brutte che dice la signora sulla mia famiglia" rivelò Selina, sentendo un misto di rabbia e impotenza "Ma se dovesse scoprire che mi hai aiutata cosa ti potrebbe fare?" Domando l'altra impaurita "Di certo non potrebbe farmi né torturare né uccidere" affermò Selina con sicurezza "Ma non temere, non sono così sciocca da farle scoprire nulla che potrebbe causarle un tale fastidio" e dopo quell'affermazione Selina sospirò con riluttanza a causa della sua rassegnazione e dell'impotenza a cui era costretta. Belia parve visibilmente allietata da quelle parole "E' la cosa migliore obbedirle" affermò con sicurezza Lia "La signora può essere molto..." abbassò la voce e si avvicinò per sussurrare "Crudele" finì e a Selina parve chiaramente di vederla tremare. Selina sospirò "Anche io ho un po' di paura" ammise "Ma non più tanta come ne avevo nei primi giorni. Adesso mi sento molto arrabbiata con lei per il modo sgarbato in cui parla della mia famiglia" confidò Selina mentre aiutava Belia a sistemare il vestito.

Belia la guardò ammirata "Io invece ho da sempre un enorme timore della signora" si confidò a sua volta l'altra "I suoi occhi mi fanno veramente paura, sono così freddi e... insensi?" Domandò a Selina, non sapendo come descrivere la donna. Selina sorrise "Si dice intensi" la corresse dolcemente "Ma penso di aver compreso che cosa intendessi dire" rispose "Però non può farti nulla, può solamente guardarti". Belia scosse la testa "La signora può mandarmi via" disse subito con timore "Oppure può far cacciare mia madre, allora moriremmo di fame". Belia parve scossa e sconsolata dalle sue stesse affermazioni e a Selina parve che un brivido di timore la scuotesse nuovamente "Per cortesia" la pregò Belia con voce tremante "Non parliamo più della signora o di chiunque altro qui al castello, non voglio rischiare di finire nei guai". Selina annuì comprensiva, non aveva tutti i torti la sua amica "Cosa facevi prima che arrivassi io?" Le domandò Belia sistemandosi i capelli.

"Niente di importante" rispose Selina "Mi annoiavo, così mi sono messa a ricordare le mie sorelle". Belia le rivolse un grosso sorriso "Quanto mi piacerebbe conoscerle" ammise trasognante "Ti andrebbe di narrarmi qualcuna delle cose che facevi insieme a loro?" Selina annuì, tornando a sedere sul letto mentre Belia finiva di raccogliersi i capelli "Cosa ti piacerebbe sapere?" domandò Selina con disponibilità "In realtà non lo so di preciso" rispose Belia "Ma ho sempre desiderato avere una sorella e penso che debba essere bellissimo averne una, figurarsi due!" Selina provò una forte tenerezza nei riguardi dell'amica "Allora inizio a narrarti quello che mi viene i mente" propose Selina, lasciandosi guidare dal flusso di pensieri "Ma se dovesse venirti in mente qualcosa di specifico, non avere remore e interrompimi pure". Vide Belia annuire dallo specchio e quindi Selina iniziò a raccontare "Inizierei dicendo che quando i genitori si arrabbiano per qualcosa che ha fatto una di noi sorelle, solitamente fanno sempre il paragone con le altre" disse pensosa "Alcune volte i miei genitori mi dicevano frasi come 'Perché non puoi essere come tua sorella?', altre volte frasi come 'È uguale alla sorella!', così erano i rimproveri spesso per me e le mie sorelle ".

Belia rise "Immagino che debba essere divertente" disse "Alcune volte lo è molto" confermò Selina "Poi credo che tutti i fratelli e le sorelle, quelli che si vogliono bene almeno" precisò Selina, ripensando alle crudeli parole che Jesebell aveva rivolto alla sua stessa sorella "Cedo abbiano delle... oserei quasi definirle tradizioni e usanze". Belia si voltò per guardarla con sincera perplessità "Che intendi dire?" "Intendo dire che fanno delle cose speciali che nessun altro fa". Belia continuò a fissarla con un'espressione confusa "Forse è meglio se ti racconto" decise Selina "Una delle cose che facevo con le mie sorelle era un gioco" "Che gioco?" Domandò curiosa Belia, sedendosi sul letto vicino a Selina, ormai del tutto pronta e vestita da dama da compagnia qual' era "Sai, io e le mie sorelle da piccole amavamo molto gli animali" raccontò Selina "Così una sera d'inverno, mentre eravamo davanti al camino a inventare storie abbiamo iniziato a mimare gli animali di queste storie. Con certi animali eravamo più brave, con altri eravamo pessime" continuò Selina davanti agli occhi sognanti dell'amica.

"Abbiamo poi cambiato gioco" disse, perdendosi nei suoi stessi ricordi "Il gioco era riuscire a trovare l'animale giusto per ognuna, quello che ci rispecchiasse al meglio. Per decidere a quale animale fossimo più affini ci basavamo sulle nostre caratteristiche, sui suggerimenti delle altre due e a quello che trovavamo più somigliante noi stesse". Belia sorrise "È un gioco bellissimo!" Esclamò felice, come se Selina le avesse raccontato chissà quale meraviglia "E poi?" Domandò ancora l'altra "Poi cosa?" Chiese a sua volta Selina "Che animali avete scelto l'una per l'altra alla fine?" "Ah, quello! " disse Selina, capendo "Io sono il Gatto" iniziò a elencare "Nomiva è la Volpe e Aurilda la Lince". Belia continuò a guardarla meravigliata e sognante "Che bello!" esclamò con puro e genuino entusiasmo nella voce. Selina sorrise, lieta di aver suscitato una tale gioia nell'amica, poi le venne un'idea "A te che animale piacerebbe essere?" domando con sincera curiosità.

Belia si stupì della domanda "Io non lo so" rispose subito la ragazzina "E se anche potessi immaginarlo, questo è il tuo gioco speciale, con le tue sorelle. Io non voglio rubare il vostro gioco speciale". Selina le strinse una mano con sincero affetto "Magari il nostro gioco potrebbe essere esteso anche alle amiche vere". Gli occhi di Lia brillarono per l'emozione "Dici veramente?" Domandò la ragazzina e a Selina parve estremamente tenera, come una sorella minore "Ma certamente" le assicurò "Che animale ti piacerebbe essere?" Lia guardò in alto pensierosa, mordicchiandosi il labbro come se quel misero gesto bastasse per aiutarla a trovare una risposta valida "Mi piacerebbe volare" disse con un sospiro sognante "E mi piacciono gli animali carini, delicati e colorati, come i passerotti, anche se non sono così colorati". Selina ci pensò un attimo, poi le parve di aver trovato la risposta perfetta "Che ne dici di una farfalla?" Propose all'amica. Belia spalancò gli occhi con entusiasmo "Una farfalla!?" sussurrò, quasi incredula per essere stata associata a un animale tanto bello "Sì" assicurò Selina "Le farfalle sono colorate, sono belle e volano".

Belia però dopo un primo momento di entusiasmo scrollò le spalle in un gesto di dissenso "Le farfalle solo eleganti e delicate" disse Lia "Io non sono per nulla elegante e non sono bella come una farfalla". Selina scosse la testa a sua volta "Forse non lo sei ancora" disse con dolcezza "Ma le farfalle non nascono belle ed eleganti. Prima di diventare così sono bruchi e solo chi ha la pazienza di aspettare vedrà la bellezza e l'eleganza fiorire anche esteriormente". Belia era rimasta a guardare Selina con la bocca spalancata, era arrossita dolcemente e aveva abbassato il viso, sentendosi indegna di parole tanto lusinghiere "Ti ringrazio veramente per queste belle parole di incoraggiamento" replicò Lia "Solo i miei genitori mi hanno detto cose così belle, ovviamente usando parole molto più semplici". Selina sorrise "Di solito è questo che fanno le amiche" disse all'altra "Si sostegno a vicenda".

Belia la guardò "Quindi mi consideri veramente un'amica?" Domandò, stupendo Selina "Non lo fai solo per prendermi in giro e farmi rimanere male?" Il viso di Selina si incupì "Perché pensi che io possa essere tanto crudele nei tuoi confronti?" Le disse con la voce triste ma dolce "Perché mi è capitato in passato" rivelò Belia con la voce triste "Quando giocavo con altri bambini nei campi loro hanno fatto finta di essere miei amici solo per prendermi in giro". Belia cercò di ricacciare le lacrime dagli occhi, ma con scarso successo, così Selina si avvicinò e strinse l'amica in un abbraccio. Belia rispose all'abbraccio "Io non farei mai una cosa del genere" la rassicurò Selina, carezzandole la schiena "Sai, succede spesso che le persone si comportino male, a volte molto male, perché sono invidiose o semplicemente perfide, per questo i miei genitori dicono sempre di non fidarsi di nessuno".

Belia si sciolse dall'abbraccio per poter guardare negli occhi l'altra "E com'è possibile non fidarsi mai di nessuno?" Domandò con sincera perplessità "Di qualcuno puoi fidarti quasi sempre e senza avere paura" le rivelò Selina "E di chi?" Chiese l'altra ingenuamente. "Della tua famiglia" rispose semplicemente Selina "I miei genitori mi dicevano sempre che gli altri bambini erano cattivi e invidiosi, ma avrei sempre avuto le mie sorelle al mio fianco per un aiuto". L'altra a quel punto abbassò gli occhi "Ma io ho solo mia madre" disse Belia abbattuta. Selina questa volta le strinse entrambe le mani "Da adesso hai anche me se ti serve aiuto. D'altronde gli amici, quelli veri almeno, sono un po' come un'altra famiglia. E a volte la famiglia di sangue non vale quanto un vero amico, immagina la sorella della signora poverina, per lei qualsiasi amico sarà meglio di sua sorella". Belia si commosse di nuovo e poi ridacchiò quando Selina parlò della sorella della signora "Ti ringrazio veramente, Selina" disse poi Lia in tono dimesso e grato "Anche se ci conosciamo da poco ti sei dimostrata sempre una vera amica nonostante le differenze sociali che ci sono tra di noi. So che non potrei aiutarti a fare nulla, ma se tu mai dovessi avere bisogno, io prometto che sarei disposta a fare qualsiasi cosa per aiutarti".

Selina sorrise di rimando "Preferirei mille volte il tuo aiuto che quello di qualunque altro ragazzino o ragazzina nobili e arroganti" le disse con sincerità "Meglio un'amica sincera che una ricca". Le due si guardarono e si sorrisero e Selina sentì nell'abbraccio che ne seguì il calore dell'abbraccio di una sorella. "Grazie veramente Selina" ripeté l'altra dolcemente "Con te mi sembra di poter capire come dovrebbe essere avere una sorella". Ma prima che Selina potesse rispondere un frastuono proveniente dall'esterno spinse le due a interrompere il discorso per avvicinarsi a guardare dalla finestra. Si avvicinava velocemente un corteo, i soldati erano allineati, le corazze metalliche risplendevano sotto il sole debole di brumalio, riflettendo i suoi raggi. I soldati che sfilavano non erano di certo una vista inusuale per quel castello, il signore faceva sfilare spesso i suoi soldati per tenerli in ordine e allenati, ma la cosa che colpì le due ragazzine fu lo stemma, l'inconfondibile elmo sovrastato dalla corona d'alloro intorno a quella d'oro, bandiera del re, fece stupire entrambe.

"Quello davanti a tutti è il re?" Chiese ingenuamente Lia, spostandosi prima a destra e poi a sinistra per tentare di vedere meglio "No, solitamente un re annuncia il suo arrivo " rispose Selina, mettendo a fuoco l'uomo davanti alla fila che avanzava senza elmo, era decisamente giovane. "È uno dei due principi allora?" domandò ancora Belia a Selina che si sforzava di mettere a fuoco "Ormai c'è solo un principe" le spiegò Selina "Il re Fritjof è morto di recente da quello che hanno saputo i signori e il suo primo figlio adesso è re". Belia spalancò la bocca "Quindi tua sorella sposerà il re!?" Domandò con entusiasmo "Non lo so" rispose Selina dubbiosa, ripensando alla fuga di Aurilda "E quello quindi potrebbe essere il principe, il fratello del re?" Domandò ancora Lia, insistendo sull'argomento. Selina a mano a mano che l'uomo si avvicinava lo inquadrò meglio "Non mi sembra il principe Drovan" rispose pur non essendo del tutto certa. "Secondo te cosa vorranno le guardie reali dai signori?" Continuò con le domande Belia, fissando gli occhi sullo stemma dei Raylon "Proprio non lo so" rispose Selina pensierosa, sospirando "Credi ci sia concesso di scendere per porgere i nostri omaggi ai soldati? Non ho mai visto lo stemma reale da vicino e persone tanto familiari al re!" Esclamò felice ed emozionata Lia, alzando le mani al cielo per l'entusiasmo crescente. "Meglio di no" rispose Selina, triste di dover essere costretta a smorzare l'entusiasmo dell'altra "Temo proprio che i signori potrebbero arrabbiarsi, meglio attendere che ci mandino a chiamare, d'altronde non c'è neppure Luddan".

Le due rimasero alla finestra e poi si abbassarono un po' per non rendere evidente che stessero spiando, temendo che i signori le vedessero e di conseguenza che potessero sgridarle. I signori Malkoly erano usciti, erano nello spiazzale del castello e sembravano emozionati e agitati per quell'inaspettata visita. Selina vide i due fermarsi davanti all'uomo che era alla testa dell'esercito, si scambiarono i saluti reciproci e poi, a giudicare dai pochi gesti che i signori si permettevano di fare, stavano tentando di invitare l'uomo a entrare, ma quello sembrava fosse molto di fretta e quindi con cenni lievi ma decisi a Selina parve dall'alto di vederlo declinare l'offerta. Lo vide poi estrarre un mandato, con tutta probabilità un mandato reale, e quando doveva star leggendolo a Selina parve di vedere i signori irrigidirsi, entrambi infatti cessarono di sorridere. Il signore assunse un'espressione fredda e tesa, mentre la moglie sembrava incredula e scandalizzata.

Selina si allontanò dalla finestra sentendosi improvvisamente allarmata e Belia fece lo stesso, nonostante fosse evidente dalla sua espressione che avrebbe preferito restare a guardare "Perché sei andata via?" Le domandò subito l'amica "Credo che quell'uomo non porti buone notizie" rispose Selina, sentendo lo stomaco farsi più pesante "Credo che la cosa migliore sia restare fuori dagli affari di corte che riguardano il re e signori" disse semplicemente, tornando a sedere sul letto mentre tentava di riacquistare la calma. Belia subito la raggiunse per starle più vicina "Tu l'hai vista la famiglia reale, non è vero?" Chiese ancora, curiosa e sorridente. Selina si limitò ad annuire senza troppa enfasi "I due principi erano gentili e coraggiosi come alcuni dei principi delle storie che si narrano?" Domandò arrossendo, forse credendo di apparire sciocca. Selina scosse nuovamente il capo, dispiaciuta di dover deludere ancora la sua amica "Sicuramente Morfgan, quello che adesso è re" precisò "Non lo è per niente" assicurò a voce bassa e vagamente cupa, temendo che i soldati la potessero sentire nonostante l'altezza che li separava. Belia sembrò particolarmente delusa "L'altro invece?" Domandò senza demordere, conservando un po' di speranza "Non so molto sul principe Drovan" ammise Selina con onestà "Ma neppure lui mi era parso così nobile, inoltre lui e suo fratello andavano molto d'accordo, erano molto uniti, quindi non devono essere così diversi". Belia adesso era veramente delusa, sospirò in silenzio e poi chinò il capo, guardandosi le punte delle mani "Ma i principi non dovrebbe essere i più gentili e buoni?"

Selina scosse la testa, guardando il voltò triste della sua amica "Essere gentili è difficile" le rispose con onestà "È molto più semplice essere crudeli". Poi Selina guardò ancora Lia "Ma ci sono delle persone talmente buone e speciali che non hanno bisogno di sforzarsi per essere gentili, perché è una cosa che gli viene naturale" disse rivolgendosi a Lia "Ma purtroppo sono veramente poche queste persone, per questo sono speciali ed è meraviglioso incontrarle". Le due si sorrisero nuovamente, ma prima che Belia potesse rispondere la porta della stanza venne spalancata. Subito dopo Romya entrò veloce come una furia e quando le vide vicine i suoi occhi lampeggiarono "Signorina Selina" disse con la voce roca stranamente preoccupata "Il signore comanda che voi saliate nella stanza più alta della torre e rimaniate chiusa lì finché non vi sarà ordinato diversamente. E' nella camera di Belia che dovete restare. Inoltre il signore si è raccomandato" continuò la donna con voce inflessibile e veloce, come se temesse di parlare o magari di lasciarsi sfuggire qualcosa che non avrebbe dovuto dire "Non fate il minimo rumore e non vi azzardate a guardare fuori dalla finestra, dovete rimanere ferma nella camera finché qualcuno non verrà a chiamarvi". Selina e Belia si scambiarono uno sguardo perplesso e preoccupato, Selina sentì tornare l'agitazione più forte di prima "Subito signorina!" Aggiunse con durezza Romya, dal momento che Selina non si muoveva.

"Posso andare su con lei?" Domandò Belia accennando un sorriso "No!" Disse categoria la donna, con rabbia e stizza, stranamente agitata "Tu devi rimanere qui e fare tutto quello che ti verrà ordinato, senza osare disobbedire o dissentire". Selina si alzò dal letto e si avvicinò all'uscita, poi Romya la fermò "Salutatevi" disse con uno stranissimo tono cupo e Selina notò che non osava guardarla in volto. Nonostante sentisse una preoccupazione tale da sentire il fiato mozzato, Selina si avvicinò ugualmente a Belia e la strinse in un abbraccio di sincero affetto, proprio come se fossero state sorelle "Ci vediamo dopo" disse tentando di mascherare la preoccupazione con un sorriso. Vide la stessa preoccupazione sul volto dell'altra "A dopo, Gatto" la salutò Lia, tentando di rompere la tensione utilizzando il soprannome più confidenziale che aveva Selina. Selina sorrise di rimando "A dopo, Farfalla" rispose usando a sua volta quel soprannome speciale appena affidato all'amica, poi Romya tirò Selina appena per un braccio, per spronarla ad andare via celermente. Selina uscendo salutò un'ultima volta Belia con un cenno della mano, poi sentì la stretta di Romya aumentare intorno al polso. La vecchia balia la condusse su per le scale insieme a lei, quasi correndo. Selina riuscì appena a guardarla in volto di scorcio e le parve di vedere gli occhi della donna brillare. La ragazzina sentì lo stomaco contorcersi di più. Cosa stava accadendo veramente? "Ma che sta succedendo?" azzardò a domandare a voce bassa "Io non posso fare né più né meno di quello che mi è stato ordinato dai signori" rispose la donna con fermezza "Quindi non posso dirvi nulla, mi dispiace".

Selina continuò a seguirla a passo svelto, finché non si trovarono davanti alla stanza. Romya aprì la porta di legno rovinata ed entro con Selina, chiudendola alle loro spalle "Sedetevi pure" disse tentando di apparire cortese e serena, anche se, era chiaro, la donna non era affatto tranquilla. Selina si mise ugualmente a sedere sul letto, magari il tremore delle sue gambe sarebbe finalmente cessato se si fosse messa a sedere. Selina si guardò intorno, era una stanza piccola ed essenziale, molto diversa da quella che i signori avevano riservato alla loro protetta, oltre al letto c'era infatti un tappeto abbastanza consunto, un vaso da notte, una bacinella per lavarsi, una sedia e un piccolo tavolino e per finire un armadio singolo, anch'esso vecchio. La finestra dalla tenda grigiastra un po' scostata dal vento attirò lo sguardo di Selina, chissà di che bella vista si poteva godere da lassù, pensò la ragazzina tentando di distrarsi da sola. Si alzò per guardare, ma la donna la fermò subito "Ho detto niente finestra!" Ribadì categorica. Selina tornò a sedere, aveva dimenticato del tutto quel divieto. Selina sospirò guardando Romya e notò che la donna aveva la solita espressione feroce, da cane da guardia, ma sembrava simulata questa volta. La vecchia balia tentava di nascondere qualcosa, il suo reale stato d'animo probabilmente e la cosa generò in Selina un'ansia sempre crescente.

Selina prese a respirare in modo affannoso, che cosa stava succedendo veramente? Cos'erano tutti quei misteri, quelle cose non dette e quegli sguardi celati? Doveva capirlo oppure sarebbe esplosa da un momento all'altro. Romya si avvicinò cautamente alla finestra, sino ad attaccarsi al bordo e Selina non le staccò gli occhi di dosso. Si spostò poi per guardare meglio il profilo di Romya e Selina vide con sommo stupore che la donna piangeva lentamente con i pugni serrati e senza mutare l'espressione dura. L'ansia era forte e tangibile, si poteva quasi fendere l'aria con una lama, ma nonostante questo la ragazzina si decise a parlare "Che sta succedendo?" Insistette a voce bassa "Per favore, dimmi qualcosa... qualsiasi cosa!" "Vanno via" rispose la donna sospirando a voce bassa, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano per non farsi vedere, inconscia di essere già stata vista. Quando si fu voltata aveva la solita espressione feroce e nulla sembrava avesse turbato il suo animo duro.

Qualcuno poi bussò alla porta e Selina scattò inspiegabilmente in piedi, sentendo il cuore balzarle nel petto. Subito Romya si avvicinò a grandi passi, senza tuttavia aprire "Sono io, Romya, il tuo signore". La voce del signore arrivò chiara e limpida da dietro la porta, fu solamente allora che Romya si affrettò ad aprire e i due si fissarono curiosamente per pochi istanti, finché dalle spalle del signore non comparve anche la signora, allora Romya uscì e li lasciò soli con Selina dopo un inchino reverente. Selina guardò i due entrare con insopportabile grazia e lentezza, avevano espressioni differenti sui volti algidi, ma entrambe le aumentarono la forte ansia che già sentiva divorarle le membra. Alarus aveva lo sguardo fermo e duro e la bocca era rigida, lievemente incurvata verso il basso, mentre la moglie sembrava soddisfatta, come tutte le volte in cui diceva qualche cattiveria per screditare qualcuno.

Anche questa volta fu Selina a parlare dal momento che in quel castello sembravano divertirsi a torturarla in quel modo, tenendola all'oscuro di quelle che, con tutta probabilità, dovevano essere informazioni importanti "Cosa è successo?" Domandò per l'ennesima volta a bassa voce "Come mai c'era l'esercito reale?" I coniugi si scambiarono uno sguardo veloce, come se stessero prendendo una decisione, poi l'uomo si avvicinò e si fermò davanti a Selina, mentre Jesebell rimase qualche passo più indietro, fissandola intensamente. Selina la ignorò e rivolse lo sguardo verso l'uomo "Ti consiglio di prestare la massima attenzione, perché non ho il tempo, né la voglia per ripetere una seconda volta quello che sto per dire" iniziò a dire l'uomo con estrema freddezza, visibilmente irritato "Purtroppo non so come poterti comunicarti questa notizia nel modo più consono, ma, poiché ho molte questioni di cui dovermi occupare, mi accingerò a ripetere quello che mi è stato riferito". Si fermò un attimo e tirò fuori un fazzoletto ricamato, per poi porgerlo inspiegabilmente a Selina che lo fissò ancora più perplessa se possibile. "Signorina Tenebrerus" disse l'uomo in tono freddo e solenne, indugiando ancora per un attimo "Sai che tuo padre si è recato a palazzo dal re per comunicargli dell'assenza di tua sorella".

Selina annuì brevemente "E sai anche che il re Fritjof è morto e il principe Morfgan gli è succeduto". Lei annuì ancora, stringendo il fazzoletto nervosamente tra le mani "Mi dispiace essere fautore ti una notizia tanto infausta, ma devo riferirti che il nuovo re non ha accettato di buona lena l'assenza della sua promessa sposa, tua sorella maggiore". L'uomo si interruppe nuovamente e Selina lo fissò con gli occhi spalancati, sentendosi ardere dal desiderio di conoscere il continuo, nonostante si sentisse al contempo terrorizzata "Il re dopo aver svelato la menzogna che tuo padre ha tentato di raccontargli per giustificare l'assenza di tua sorella lo ha ucciso, con le accuse di menzogna e tradimento per non aver mantenuto la parola data al defunto re Fritjof e macchiando così la sua memoria e l'onore del nostro nuovo re" disse Alarus vagamente in difficoltà. Selina si sentì sprofondare, fissò un punto indefinito davanti a sé e sentì la terra mancarle da sotto i piedi, la stoffa del fazzoletto venne tirata quasi al punto di lacerarsi "Ma non è terminata qui la punizione del re" continuò l'uomo e Selina alzò gli occhi vitrei su di lui, tentando di inspirare nonostante le paresse oramai che fosse divenuto impossibile "Il re ha accusato tutti i Tenebrerus di tradimento" rivelò Alarus "Re Morfgan ha comandato a suo fratello, il principe Drovan e generale delle guardie reali, di recarsi al vostro castello, lì il principe ha eseguito l'ordine di dare alle fiamme il castello di Stablimo e di uccidere tua madre". Selina lasciò il fazzoletto sulle gambe tremanti e impugnò le coperte del letto, come se queste fossero un'ancora di salvezza. Si sentiva male, non poteva essere vero, dovevano star mentendole necessariamente! Selina sentì la nausea, un dolore intenso alla testa e i polmoni in fiamme, tuttavia Alarus non aveva terminato perché andò avanti "Il principe è già in viaggio e forse ha addirittura raggiunto il castello Selceno dove vive la sorella di tuo padre, sposata con il signor Erysch. Il principe ucciderà tua zia perché Tenebrerus è il suo cognome e lo stesso sangue di tuo padre scorre nelle sue vene. Con tutta probabilità verranno uccisi anche i suoi figli, perché anche in loro scorre il sangue dei Tenebrerus e se il marito di tua zia dovesse tentare di opporsi, non penso che il principe si farà scrupoli nell'uccidere anche lui".

Selina si portò le mani alla bocca con le guance rigate dalle lacrime, mai avrebbe potuto pensare di raggiungere picchi di disperazione così elevati, mai avrebbe potuto immaginare di sentire un tale dolore nell'anima. "Ma c'è ancora dell'altro" disse ancora l'uomo e Selina si domandò che altro avessero potuto fare, perché tutto quello che le aveva detto il signore le sembrava già un'atrocità inimmaginabile, frutto di un piano sadico che l'avrebbe condotta alla follia "Il principe Drovan catturerà tua sorella Nomiva non appena giungerà al castello dove viveva la sorella di tuo padre" rivelò "Rimarrà per un tempo indeterminato come prigioniera, per tentare di far tornare Aurilda, poi verrà uccisa anche lei". Selina si tolse le mani dalla bocca e riuscì a parlare appena, sconvolta e tremante "E io allora?" Domandò tra le lacrime e si domandò dove avesse trovato la forza per parlare "Perché non hanno preso anche me?!" Chiese disperata come non era mai stata e come non immaginava si potesse mai arrivare a essere "Ti hanno catturata" disse sorprendendola l'uomo "Perché credi siano venuti qui?" Selina rimase sconcertata, doveva essere per forza un sogno, oppure uno scherzo tremendo, perché, se tutto il resto era sadico, quello era del tutto assurdo. L'uomo vedendola perplessa continuò a parlare "Ti uccideranno subito" disse "Davanti a tua sorella Nomiva quando ti avranno portata da lei".

Selina riuscì a parlare nuovamente, mentre le lacrime continuavano a bagnarle il volto "Ma cosa dite!?" Urlò disperata "Io sono qui con voi!? Vi state beffando del mio tormento!?" L'uomo continuò a fissarla freddo e impassibile "Loro sono certi di averti catturata e ti giustizieranno presto" disse Alarus ancora maledettamente vago. Selina scosse il capo, sentendo i brividi "Gli abbiamo consegnato Belia" spiegò finalmente l'uomo "Gli abbiamo detto che quella era la figlia minore di Tenebrerus e loro, considerata la somiglianza che vi lega, hanno creduto alle nostre parole e l'hanno presa al tuo posto". Selina si passò le mani sul volto, quello fu il massimo della sopportazione per lei "Uccideranno anche Belia!?" Disse senza fiato e l'uomo annuì piano "Non dovranno mai scoprire che sei viva" disse ancora in tono minaccioso "Da oggi tu sarai Belia se non desideri morire". Alarus poi si voltò per andarsene, ma parve ripensarci e si voltò nuovamente "Mi dispiace" disse con una voce così gelida che Selina pensò dovesse star mentendo per forza "Ma è questo che accade a chi osa sfidare chi è più forte. Non si può vincere, non si può sfuggire al volere del re".

L'uomo si voltò nuovamente per andare, ma sulla porta aggiunse dell'altro ancora, incitato dalla moglie che Selina notò essere soddisfatta e si poteva quasi dire felice per le disgrazie che stavano affliggendo la ragazzina "Ti offriremo ospitalità al castello, ma dovrai guadagnarti questo posto come qualunque altra ragazzina, perché ormai non hai più nulla. E ovviamente il tuo fidanzamento con Luddan è sciolto". Selina rimase a fissarlo mentre piangeva disperata, Alarus era una sagoma sfocata "Hai tre giorni liberi" disse ancora l'uomo "Per metabolizzare la morte dei tuoi cari. Romya ti porterà da mangiare se ne avrai bisogno". Stava per andare, ma Selina lo fermò con una nuova domanda "Perché?" Balbettò con gli occhi arrossati e la voce tremante e l'uomo la fissò perplesso "Perché?" Ripeté confuso "Perché mi avete salvata, per quale motivo avete mentito e non mi avete consegnata a quei soldati?"

Selina si aspettava allora di sentire una parola vagamente calorosa, magari il motivo per il quale i Malkoly avevano rischiato tanto per salvarla era che avevano segretamente nutrito della stima nei confronti dei suoi genitori, ma la risposta raggelò Selina esattamente come tutte le parole che già le aveva rivolto "Perché, nonostante tu non abbia più nulla e la tua famiglia sia stata condannata, in te scorre sangue nobile" disse l'uomo con fierezza "E un nobile vale sempre più di un popolano". Detto questo Alarus se ne andò, seguito da Jesebell che prima di chiudere la porta rivolse un sorriso perfido alla ragazzina. Rimasta del tutto sola, Selina si lasciò scivolare a terra. Si mise in ginocchio e pose le braccia sul letto, poggiandoci sopra la testa per continuare a piangere. Non era possibile pensò, non era possibile ricevere tante notizie di disgrazie in così poco tempo, eppure era successo, in pochi minuti aveva perso ogni cosa, la famiglia, la casa, l'amica, il fidanzato, il nome e la libertà.

Intanto il sole tramontava fuori da quella maledetta finestra di quel maledetto castello e Selina si domandò se l'essere rimasta lì viva fosse una benedizione o una maledizione. Continuò a piangere per tutto il tramonto e poi dopo, quando si fece notte, finché non si fu addormentato per il dolore, con il fazzoletto di Alarus sotto le ginocchia. Forse Selina avrebbe rivisto il sole sorgere tante altre mattine, ma la gioia e la speranza morivano con quel tramonto.

 

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Capitolo 22
*** La Casa della Carità ***


Pov:Cleorae

Faceva freddo per le strade della capitale, il mantello pesante non era più sufficiente e Cleorae avrebbe dovuto cambiarlo al più presto con uno più spesso per contrastare il freddo intenso che stava provando quel pomeriggio. Tirò il cappuccio nero sulla testa per celare il volto e i capelli fiammeggianti, ogni tanto rischiava di scivolate, costringendo Cleorae a tirarlo ancora su dopo l'ennesima volta. Nonostante il freddo e il costante stato di allerta in cui versava a causa della ronda dei soldati, Cleo si poteva ritenere soddisfatta. Dopo pranzo aveva messo le sue boccette nel sacco ed era scesa dalle scale di servizio nascoste su un versante della roccia su cui sorgeva il castello, spostandosi poi lungo le strade nei soliti punti strategici. I clienti abituali stavano portavano sempre nuovi clienti, ma si lamentavano delle lunghe assenze di Cleo apparentemente ingiustificate e per coloro che avevano più bisogno Cleorae non poteva fare altro che scusarsi. Ma se solo avessero saputo, pensava Cleorae, chissà quando le sarebbero stati grati e probabilmente tutti avrebbero compreso i motivi delle sue lunghe assenze.

Una vecchia donna si avvicinò lentamente, scrutando Cleorae con attenzione "Donna misteriosa" disse tentando di guardarla in volto con scarsi risultati dal momento che Cleo oltre al mantello nero indossava anche una maschera scura che copriva tutto il volto eccetto gli occhi sempre ombrati dal cappuccio "Vorrei la solita boccetta per mio marito" dichiarò, tentando ancora di poterla guardare. Cleorae annuì ed estrasse dal sacco ormai pressocché vuoto una delle ultime boccette rimaste "Eccola" rispose a voce bassa "Contro il dolore alla schiena" disse porgendo la boccettina tra le mani della vecchia. La donna cenciosa cercò il denaro nel grembiule logoro, tirando fuori il teslo d'oro che cercava e allungandolo in avanti per porgerlo a Cleo. Cleorae le consegnò la boccetta, senza tuttavia accettare il denaro che la donna le stava giustamente consegnando. La vecchia la fissò perplessa, senza ritirare la mano "Cosa fate?" Domandò incredula, corrugando le sopracciglia.

Cleorae scosse il capo "Tenetela voi" disse semplicemente riferendosi alla moneta "Ma dovrò pur pagare quello che compro" protestò la donna, senza ritirare la mano tesa "Ne avete molto più bisogno di me" rispose Cleorae occhieggiando con sguardo carezzevole la figura della vecchia "Veramente, voglio che la teniate voi. La boccetta è un regalo, con la speranza che vostro marito possa guarire al più presto". La donna sembrava seriamente sconvolta da un gesto tanto gentile "Ma se lui guarisce" replicò prontamente la donna "Io non comprerei più da voi e quindi perdereste una cliente!" Spiegò la vecchia signora con convinzione e un lieve imbarazzo. Cleorae scosse la testa "Sarei molto più lieta di sapere un uomo in salute piuttosto che vedere il mio guadagno aumentare". La donna le si avvicinò e la strinse, costringendo Cleorae a tenersi il cappuccio con la mano per non farlo cadere, scoprendo i capelli fiammeggianti, e a piegarsi a causa della piccola statura dell'altra "Che gli dèi vi benedicano" disse la vecchia sciogliendo l'abbraccio "Siete una salvezza. Grazie infinite, ormai siete pochissimi a rischiare ancora con la vendita illegale di infusi, se anche voi smetteste tutti saremmo disperati".

Cleo sorrise da sotto alla maschera "Addio signora" la salutò "Addio" rispose quella e Cleorae la vide andare via lieta. Allora Cleo iniziò a sentirsi bene, così raccolse il sacco, lo ripiegò e se lo infilò in una delle tasche interne del mantello, iniziando ad allontanarsi. Era felice di poter aiutare quelle persone, d'altronde era per quello che si era impegnata tanto a studiare sul quaderno di suo padre e adesso si impegnava tanto a sperimentare nuovi infusi. Cleorae aveva iniziato a studiare su quel quaderno da quando aveva sei anni, poco dopo aver imparato a leggere a circa cinque anni, per continuare quello che sua madre Uxia aveva tentato, riprendere a produrre infusi come aveva fatto suo marito, il padre di Cleo, Briais, ucciso durante la guerra da soldati di fazione ignota, nonostante Fritjof avesse poi vietato il commercio di infusi dopo essere diventato re, poiché da lui considerati nocivi. Ovviamente questo avrebbe potuto rivelarsi una cosa positiva dal momento che pochi intraprendenti avrebbero tentato di perseguire quel commercio vietato e tutta la gente che aveva sempre usufruito degli infusi avrebbe arricchito enormemente i pochi commercianti temerari come aveva tentato di diventare Uxia. Poi però la madre era morta durante uno dei suoi esperimenti errati e Cleorae da allora aveva iniziato a studiare su quel quaderno, imparando e comprendendo sempre di più. Imparò e comprese il valore di ogni singola parola, numero e formula, imparando a memoria come realizzare ogni infuso il cui procedimento fosse segnato sul quaderno, poi Cleo aveva iniziato a sperimentare e provare nuovi infusi, di sua invenzione.

Era uno studio molto affascinante, creare tutti quegli infusi dai mille colori che sembravano in grado di curare tutti i mali, tranne ovviamente la morte. Cleorae accelerò il passo, diretta verso la casa vicina al tempio. Si tolse la maschera e ripose anche quella in una delle tasche interne; adorava quel mantello, era l'unica cosa che le fosse rimasta della madre Uxia e, pur non essendo prezioso quanto era il quaderno del padre, Cleorae lo aveva sempre custodito e indossato gelosamente, rattoppandolo e aggiungendo le numerose tasche interne che lo avevano reso veramente insostituibile. Cleorae attraversò celermente le vie della capitale, intravedendo sopra i tetti delle case il cielo scurirsi leggermente, per annunciare l'imminente arrivo della notte e delle tenebre. La giovane donna continuò a camminare a passo sostenuto, non sarebbe mancata anche oggi, era già trascorso sin troppo tempo dall'ultima volta che si era recata lì, ma quella lunga assenza era causata unicamente dall'impegno che stava mettendo pur di trovare una soluzione definitiva per aiutare quella gente una volta per tutte.

Cleorae svoltò a destra e si ritrovò davanti a uno dei templi principali della città, c'erano cinque tempi in città, quattro erano dedicati ai principi di ghiaccio e fuoco e alle principesse di aria e terra, mentre il quinto era dedicato a tutti i loro dèi. Quello davanti a lei era il tempio dedicata alla principessa d'aria, Alisea, e poco dietro c'era un grosso edificio. Le due costruzioni erano in forte contrasto l'una con l'altra, il tempio era circolare, era sorretto da tante colonne in marmo bianco alte e sottili, sormontati da capitelli a volute che volevano simulare i soffi del vento, la cupola era bella e armoniosa, di un bianco che risplendeva alla luce del sole, mentre nelle porte erano incastonate pietre colorate. L'edificio poco lontano era invece fatiscente, il tetto si reggeva a malapena su travi di legno consumate dal tempo, le pareti sottili pareva potessero cedere da un momento all'altro, ma Cleo sapeva-o meglio sperava-che rimanessero ancora in piedi, d'altronde avevano già resistito per tanti anni, molti più di chiunque si fosse mai aspettato che facesse e questo poteva solo voler significare che quel posto era molto più solido di quanto non apparisse.

Cleorae si avvicinò decisa, svoltò al lato dell'edificio e poi entrò dalla porta principale accostata, era rotta e dal legno consumato e vecchio. L'ambiente interno all'edificio non era grande quanto sarebbe stato necessario, ma poteva comunque contenere un buon numero di persone. Era suddiviso su due piani oltre al sotterraneo, il piano terra era quasi del tutto spoglio se non fosse stato per le panche vecchie e qualche tappeto e armadio vicini alle pareti, mentre al piano superiore c'erano diverse stanze piccole e fredde. Cleo conosceva alla perfezione quel posto, un tempo si diceva fosse stato il granaio della capitale, poi non si era ben capito per quale motivo ma era stato lasciato abbandonato da chi si occupava di raccogliere il grano dal resto del regno per depositarlo lì, così i poveri avevano iniziato a frequentare quel posto disabitato, facendone la loro casa.

I sacerdoti e le sacerdotesse col tempo iniziarono a visitare il luogo, almeno i più sensibili e caritatevoli, e questi avevano finito per gestirlo direttamente. La 'Casa della Carità', così l'avevano chiamata da allora, ed era risaputo che chiunque avesse bisogno lì avrebbe trovato sempre un pasto caldo e, se lo spazio nella struttura lo consentiva, persino un letto in cui poter dormire. Cleo si guardò in giro, tutte le panche erano occupate e alcune persone erano in piedi o sedute per terra. Era l'ora della cena per loro, c'erano quattro persone a servire la minestra e davanti a ognuno di loro c'era una lunga fila, erano due sacerdoti e due sacerdotesse. Cleorae si avvicinò, passando tra le persone infreddolite che mangiavano, guardando distrattamente i più fortunati sulle panche, dirigendosi verso uno dei sacerdoti. Era un uomo piuttosto vecchio, doveva avere quasi settant'anni, era magro e rugoso, con pochi capelli bianchi sulla testa, una tunica grigia semplice e un paio di stivali, parlava con un uomo che piangeva mentre continuava a servire zuppa e tentava contemporaneamente di consolare quel pover'uomo.

Cleorae si fermò poco distante dai due, per non interromperli, poi quando l'uomo si allontanò asciugandosi le lacrime di disperazione finalmente il sacerdote la vide. Spalancò gli occhi e con un cenno del capo invitò Cleo ad avvicinarsi con un sorriso sul volto "Cleorae!" Disse stringendole le mani "Da quanto tempo figliola! Ma di' a questo povero vecchio, come stai?" Cleo sorrise a sua volta "Io sto bene, padre Ridaldo" rispose la giovane donna "Voi invece?" L'uomo scosse piano il capo, ma senza smettere di sorriderle "Io sto bene" disse senza lamentarsi, come aveva sempre fatto "Sono queste povere persone a stare male". Cleo si guardò intorno con aria abbattuta "Mi dispiace" rispose tristemente "Manco da questo posto da troppo tempo". Il sacerdote le rivolse un sorrisino triste "Servi ancora al castello, giusto?" Lei annuì, senza aggiungere altro "Allora è più che normale che tu non possa venire spesso. Immagino che debba essere impegnativo servire a palazzo".

Da una delle poche stanze al piano terra uscì una donna, doveva avere tra i quaranta e i cinquanta anni, i capelli scuri erano raccolti, il volto stanco sorrideva al bambino che teneva per mano alla sua destra, indossava anche lei la stessa tunica grigia e mortificante di Ridaldo. Il bambino dopo averle detto qualcosa all'orecchio, costringendola ad abbassarsi, era corso via dalla madre. Allora la donna si accorse di Cleo e si avvicinò sorridendo "Cleorae!" La salutò felice "Da quanto tempo non ti vedo! È bellissimo riaverti qui". La sacerdotessa si avvicinò e le strinse le mani proprio come aveva fatto poco prima l'uomo "Visto che bella sorpresa ci ha fatto la nostra piccola, Elbeth?" Disse l'uomo "La cara Cleo è venuta a trovarci". La donna sorrise di più "Ma come stai, fanciulla?" "Bene madre, bene" assicurò Cleorae all'uomo e alla donna che dalla morte della sua vera madre si erano sempre presi cura di lei e di Sipo "E mi scuso per essere mancata tanto a lungo, ma il lavoro al castello mi tiene veramente molto occupata".

I due annuirono con fare comprensiva e Ridaldo con un cenno del capo pregò un altro sacerdote affinché questo prendesse il suo posto per servire la zuppa. Allora Cleorae tirò i suoi interlocutori in disparte, poi tirò fuori da una delle tante tasche interne del mantello un sacchetto pieno e pesante, per porgerlo ai due. Entrambi la guardarono con dissenso "Cleorae" disse l'uomo guardandola negli occhi "L'ho guadagnato per voi, lo sapete" rispose subito lei, poi si guardò intorno "Anzi" si corresse subito "Per tutti loro". L'uomo e la donna sembravano commossi "Ma questi soldi li hai guadagnati con la tua fatica" disse la sacerdotessa, carezzando il volto di Cleo "Sì" rispose Cleorae "Per contribuire affinché qualche persone in più possa godere di una ciotola di zuppa calda". I due scossero la testa quasi in maniera sincronizzata "Non possiamo accettare altro denaro da te" disse l'uomo sospirando "Esattamente" affermò la donna "Ne abbiamo già accettato sin troppo, abbiamo approfittato a sufficienza della tua generosità".

Cleorae sbuffò appena, spazientita da quelle rimostranze "Sentite" rispose loro, sforzandosi di mantenere la calma e la gentilezza, perché sapeva che i due non parlavano in quel modo per darle noia o farla irritare, quanto perché ritenevano ingiusto utilizzare il denaro guadagnato da un'altra persona che non possedeva cospicue somme di denaro "Questo denaro è guadagnato onestamente" disse semplicemente Cleorae "Ho trascorso pomeriggi a preparare infusi da poter vendere al solo scopo di donarli a voi. Vi prego quindi di non rendere vani i miei sforzi e di accettarli". I due la fissarono dolcemente, nonostante fossero ancora dubbiosi sul dà farsi "Per piacere" ripeté Cleo "L'ho guadagnato per loro. So cosa provano e voglio aiutarli come posso".

La coppia parve decidersi finalmente, afferrarono il sacchetto che Cleo gli porgeva e lo aprirono, trovandolo pieno di tesli d'oro. Cleo rimase a guardarli, studiando le loro reazioni stupite e grate "Sono più di quelli dell'ultima volta" notò Elbeth meravigliata "È da tanto che non passo" spiegò Cleorae "Il denaro si è accumulato nel tempo e l'ho portato tutto in una volta". Li vide richiudere il sacchetto strapieno per tornare a guardarla colmi di gratitudine "Spero che duri per un po'" disse ancora Cleo, pur sapendo che con tanti poveri il suo denaro non sarebbe durato tanto più a lungo di una settimana "Vedo che sono aumentati". Sia la donna che l'uomo annuirono abbattuti "Sono aumentati eccome" confermò Ridaldo "Il re ha vietato ai mendicanti di chiedere l'elemosina e ha ordinato a noi sacerdoti di occuparci di questa povera gente promettendo di aiutarci. Però ancora non ha mandato denaro" spiegò Ridaldo a Cleorae che ovviamente stando al castello era già a conoscenza di quell'ingiustizia. I tre rimasero per diversi istanti a guardare l'ampio spazio pieno di gente infreddolita e stanca con sguardi vacui e sconfortati "Mi ricorda quasi il periodo della guerra" disse il vecchio sacerdote "Sì" parlo a sua volta la sacerdotessa "Allora la situazione era veramente tremenda, ai mendicanti si aggiunsero numerosi sfollati e tanti feriti, ma quando c'eri anche tu le cose non erano migliorate poi tanto".

Cleo si fermò a guardare un uomo, era seduto su una panca e teneva sulle gambe i due figli, un bambino di circa cinque anni e una bambina poco più piccola, avevano pochi stracci logori e sporchi come vestiti ed erano sciupati e tristi, sembravano completamente grigi, dagli abiti alla pelle pallida, sino ai capelli sporchi. Cleorae strinse i pugni e tornò a guardare Ridaldo ed Elbeth "Sto cercando una soluzione che sia definitiva per risolvere questa situazione" annunciò a voce bassa rivolgendosi ai due "Una soluzione che sia definitiva veramente, almeno finché io sarò in vita" aggiunse. "Che cosa intendi dire?" Domandò Elbeth perplessa da quelle parole vaghe "Intendo dire che, se le cose andranno come ho pianificato, presto mi servirà il tuo aiuto" rispose Cleo, mantenendosi sempre sul vago, con fare misterioso. Padre Ridaldo sembrava preoccupato "Cleorae" disse allarmato "Che stai combinando?" Domandò guardandola in volto, colmo di timore e di sospetti "Non dovete preoccuparvi" li rassicurò lei, lapidaria "Ho la situazione perfettamente sotto controllo".

"Non ne dubito" rispose l'uomo guardingo "Sei sempre stata sin da bambina incredibilmente intelligente e curiosa" disse l'uomo perdendosi nei ricordi "L'impegno e la tenacia che hai dimostrato quando mi hai chiesto di insegnarti a leggere non potrò mai scordarle. Ma c'è molta differenza tra le piccole cose che hai fatto qui negli anni e nel piano sicuramente ambizioso e probabilmente non privo di rischi che hai in mente adesso" la ammonì l'uomo "Potrebbe essere veramente pericoloso". Cleorae sorrise, il suo era un sorriso vagamente sarcastico "So badare a me stessa" assicurò "Non ne ho mai dubitato" rispose subito l'altro con sguardo fermo, quasi severo "Solamente, stai ben attenta". Poi Ridaldo si ammutolì un attimo per poi domandare altro "E Sipo invece come sta? Serve anche lui ancora al castello?" Cleo annuì "Sì, si trova bene al castello, lì l'importante è obbedire ed essere efficienti e Sipo con il mio aiuto si sta sforzando non senza fatica per adeguarsi al meglio".

L'uomo parve felice della notizia e così anche la donna "Salutalo da parte nostra" disse Elbeth sorridendo "Lo farò di certo" assicurò Cleo. I tre presero a camminare tra le panche, scambiando parole di incoraggiamento alle persone e distribuendo coperte malconce ai più infreddoliti. Alla fine di una panca un uomo che sbracciava attirò inevitabilmente l'attenzione di Cleo e degli altri due. Cleorae si avvicinò e riconobbe dopo un attimo di esitazione l'uomo che stava sbracciando per farla avvicinare "Resta un po' a parlare con lui" le domandò sospirando Elbeth "Te ne prego" aggiunse subito Ridaldo "Tenta di far ragionare il tuo amico". Cleo annuì e si mise a sedere, intanto i due sacerdoti continuarono a camminare tra i poveri "Cleo!" La salutò l'uomo calorosamente "Da quanto tempo non ti vedo!" Frabio era poco più grande di Cleorae, era cambiato molto da quando erano bambini, era ingrassato, si era fatto crescere una leggera barba e nonostante non avesse neanche trent'anni i capelli grigi spuntavano già tra i ricci marroni dei capelli.

"Ciao Frabio" rispose Cleo sorridendo, lieta di poter rivedere uno dei suoi più cari amici d'infanzia "Come stai?" "Non c'è male" rispose l'altro bevendo la zuppa "Finiamo sempre per ritrovarci qui, non è vero!?" Scherzò lui con un sorriso un po' triste "Ma ho saputo che servi al castello!" Cleo annuì, poi assunse un'espressione severa "Io ho saputo che sei stato in prigione diverse volte, l'ultima volta pochi mesi fa" disse duramente. L'uomo cessò di sorseggiare il brodo della zuppa e si asciugò la bocca con la manica, guardandola a sua volta serio "Devo sopravvivere anche io in qualche modo" rispose "Ho dovuto rubare e tu lo sai bene che per necessità si è disposti a fare qualsiasi cosa. Lo hai fatto anche tu in passato, anche se sei sempre stata più brava di me". Cleo scosse la testa "Se proprio non puoi farne a meno tenta almeno di non farti sorprendere dai soldati" lo ammonì vagamente preoccupata. L'altro rise brevemente, era una risata senza gioia "Non te lo posso assicurare" disse sincero e abbattuto "Se sono ubriaco o finisco per trovarmi in una situazione che non sono in grado di gestire. Inoltre il carcere mi piace, lì ho sempre qualcosa da mangiare e non fa troppo freddo, sicuramente meno freddo di quanto non faccia dormire sotto il cielo d'inverno" ammise Frabio. "E allora tu non finire in queste brutte situazioni" ripeté Cleo "E non voglio sentirti dire sciocchezze, non è vero che il carcere è un bel posto!" lo ammonì severamente Cleorae e l'altro sbuffò appena, del tutto scoraggiato. Cleorae sospirò e continuò "Frabio" disse con lo stesso tono duro "Il re Morfgan è diverso da Fritjof" gli spiegò, ed era sincera purtroppo "Lui non è un re magnanimo con chi ha commesso crimini lievi, lui non esita due volte a far uccidere o torturare un uomo e ho saputo che sta facendo trattare i prigionieri in modo terribile, disumano".

L'uomo abbassò la testa ancora, guardando davanti a sé con occhi vacui "Non voglio vederti finire come quella gente" disse ancora Cleo, questa volta in tono morbido, poggiando una mano sulla spalla dell'amico. Frabio sospirò piano e tornò a guardarla negli occhi "Cosa dovrei fare allora, dimmi Cleo?" Domandò sconsolato "Potresti smettere di bere quando non trovi una via d'uscita" propose Cleorae "In questo modo smetteresti di trovarti immischiato nelle risse. Hai già trovato degli impieghi in passato" gli ricordò Cleorae speranzosa "Magari ne troverai un altro e con duro impegno riuscirai a vivere di quello senza più finire nei guai". L'altro non pareva essere molto convinto "Sai che non ne sono capace, Cleo" disse semplicemente "Non lo vuoi" lo corresse lei "Se ti impegnassi veramente sono sicura che smetteresti di bere nei momenti di difficoltà. Non reagiresti più in modo così impulsivo e, se pondererai con attenzione le varie proposte, capirai da te quali sono gli impieghi onesti e validi, invece di accettare quelli che possono cacciarti nei guai". Frabio tuttavia ancora non pareva convinto dalle parole dell'amica "Tu sei sempre stata brava in queste cose" ripeté con monotonia, in tono veramente pigro e strascicato "Io non ne sono in grado".

"E perché no!?" Si arrabbiò allora Cleo, vedendo che l'altro non voleva proprio ragionare "Hai forse qualcosa in meno agli altri, in meno a me? Hai qualche impedimento fisico o mentale?" L'amico le rivolse un sorriso impacciato "Esatto" concluse Cleorae "È solo forza di volontà. Tu impegnati e vedrai che migliorerai la tua vita, esattamente come sto tentando di fare anche io" disse convinta e vagamente persuasiva "Hai tutte le capacità per migliorare la qualità della tua vita. Non sprecare le occasioni che ti capitano, sfruttale al massimo e ottieni quello che vuoi o almeno provaci, ma, in nome degli dèi, non lasciarti trascinare dagli eventi e dal vino!" lo spronò Cleorae con grinta "Sii l'artefice della tua vita, non fare lo spettatore inerme e non permettere a nessun'altro di decretare quello che puoi o non puoi fare". Frabio la fissava con gli occhi che brillavano di ammirazione, forse era ispirato da quelle parole "Ho sempre voluto avere la tua grinta" le rivelò "Quando tu parli riesci sempre a convincere tutti che quello che stai dicendo è la cosa giusta".

Cleo sorrise "Significa che penserai alle mie parole?" Domandò senza giri di parole "Potrei prenderle in considerazione, sì" ammise l'amico sorridendo "Mi hai fatto venire voglia di raccogliere così tanto denaro da poter aprire un'attività mia". Cleorae sorrise ancora "Sarebbe bellissimo" rispose con sincerità "Che tipo di attività ti piacerebbe aprire?" L'altro non parve avere esitazioni a riguardo "Una taverna" rispose "Un luogo dove i clienti possano sentirsi a casa pur non essendo a casa" continuò e Cleo annuì per incoraggiarlo "La chiamerei 'Vino Divino' forse". Cleorae rise e Frabio con lei "Troppo ridicolo come nome?" Domandò l'uomo ridendo ancora "No" rispose allegramente Cleo "È divertente. Mi piace, mette già allegria". Frabio annuì, poi si rattristò "Ma siamo realisti" disse all'amica "Non accadrà mai". Cleorae gli prese le mani e le strinse "Essere sognatori non è un errore" riprese a parlare "Essere irrazionali invece è sbagliato. Ma se un sogno ha una minima possibilità di essere realizzato, tu devi almeno provarci". I due si guardarono negli occhi "Stai tentando di fare qualcosa di grosso, non è vero?" Domandò l'uomo, scrutandola con intensità.

Cleorae annuì "Se riesco a fare quello che ho in mente" rispose "Riuscirò a risolvere definitivamente molti problemi". L'uomo parve inquieto come erano stati il sacerdote e la sacerdotessa poco prima "Se non ti conoscessi bene, mi verrebbe quasi da pensare che tu stia architettando qualcosa di pericoloso". Cleorae stemperò la preoccupazione di lui con un sorriso "Ma tu mi conosci e sai bene che per me niente è veramente pericoloso. Furbizia e accortezza possono fare miracoli e una buona conversazione può convincere chiunque a fare qualsiasi cosa". Frabio non sembrava convintissimo, ma annuì ugualmente "Sipo invece? Come sta?" Domandò l'uomo con sincero interesse "Sta bene" rispose subito Cleo "Lavora con me, quindi non c'è alcun motivo di preoccuparsi".

Frabio sembrò molto sollevato dalla notizia "Per fortuna" disse "Sipo è sempre stato un ragazzino impulsivo, come te ha sempre detestato le ingiustizie ma non ha mai posseduto i tuoi modi accorti, per questo ha spesso rischiato di essere preso di mira da chi si credeva più forte". Cleo annuì "Mi ricordo quante volte hai fatto a botte per difendere lui che tentava di difendere altri" Frabio annuì, sorridendo "Finivo solo per metterci di più nei guai e non risolvere nulla" disse, ricordando i tempi passati "Poi picchiavano me quando mi trovavano da solo nei vicoli o nelle strade". Lui e Cleo ridacchiarono, come fanno tutti i vecchi amici quando ricordano qualcosa che in passato era brutto e preoccupante, mentre nel presente si rivelano essere una misera bazzecola "Ci pensavi tu a salvarci" disse dopo Frabio con un colpetto di tosse "Tu non avevi paura dei ragazzini prepotenti e anche se ne avevi non lo facevi mai vedere. Ti paravi davanti a noi e iniziavi a parlare, ricordo ancora che parole strane usavi. Rimanevano tutti frastornati già per quello" ridacchiò Frabio "Le loro espressioni erano spassose. Poi con tanti giri di parole gli facevi dimenticare perché volevano picchiarci e così li mandavi via, perché non avevano motivo di importunarci oltre".

Cleorae annuì piano, persa nella dolcezza di quei ricordi infantili, turbati da piccolezze facilmente risolvibili "A volte vorrei tornare a quei momenti" le confidò malinconico Frabio "Magari potrei essere migliore, potrei imparare di più come facesti tu e oggi non sarei così". Cleorae scosse il capo "Purtroppo non siamo più bambini e non possiamo tornare indietro per cambiare il nostro passato" lo disincantò Cleo con prontezza "Ci sono troppi problemi di cui doversi occupare nel nostro presente incerto. Indugiare nel passato non ci aiuterà a decidere il nostro futuro, ci mostrerà solamente lo spettro di quello che saremmo potuti essere e ci renderebbe più fragili, ci condurrebbe alla perdizione e potremmo finire con lo smarrire noi stessi per sempre". L'altro sorrise, tentando di seguire con attenzione ogni parola che Cleorae gli aveva detto "Ho sempre avuto l'impressione che la tua infanzia fosse durata pochissimo" rivelò Frabio "Tu dicevi sempre cose del genere, non ti sei mai fermata da quando tua madre è morta. Dovevi imparare a leggere perché dovevi capire cosa ci fosse scritto sui libri, poi dovevi imparare a fare gli infusi dal quaderno di tuo padre per curare le persone, poi dovevi lavorare per non usare il cibo e i letti dei più bisognosi" il suo tono era soffuso e un sorriso gli emerse dalla barba corta "Adesso sono proprio curioso di sapere che altro devi fare, che cosa hai in mente". Ma Cleo nonostante lo sguardo curioso del suo amico non risponde "È una sorpresa" si limitò a dire "Una grande sorpresa che spero tu possa vedere al più presto insieme agli altri".

Prima che Frabio avesse il tempo per rispondere la porta si aprì e tutti si votarono a causa dei lamenti e delle grida. Un uomo era sorretto da altri due, dietro c'erano una donna che probabilmente doveva essere la moglie e un bambino che doveva essere il figlio. L'uomo che si lamentava camminava su una sola gamba, l'altra si intravedeva penzolante dallo strappo sui pantaloni, era sanguinante dal polpaccio fino al ginocchio. Padre Ridaldo e madre Elbeth gli corsero incontro e sia Cleo e che Frabio li imitarono, scattando in piedi "Cos'è successo?" Domandò Elbeth guardando il pover'uomo. La donna piangeva e il bambino era spaventato, teneva il volto rivolto dall'altra parte e gli occhi erano serrati per non essere costretto a guardare il sangue "Un soldato" disse uno dei due uomini che lo sorreggevano quello ferito "E' entrato e ha detto che voleva delle nuove ciotole di legno, ma non voleva pagare". L'altro annuì "Lui" e con il capo indicò l'uomo ferito "Gli ha detto di no e quello allora ha sguainato la spada, gli ha ferito la gamba e poi se n'è andato con le ciotole". L'uomo tacque un istante e poi ringhiò "Bastardo" disse tra i denti.

"Stendetelo qui" disse Elbeth, mentre le persone si alzavano dalla panca per fare spazio al nuovo arrivato "Vi prego, aiutatelo. Guarite la sua ferita!" Urlò la moglie disperata. I sacerdoti scostarono la stoffa lacera dalla ferita, era lunga ma fortunatamente non così profonda, ma perdeva ugualmente molto sangue "Va ricucita" sentenziò senza esitazioni Elbeth. L'uomo tratteneva a stento le lacrime a causa dell'intenso dolore che doveva provare "Fa troppo male" disse "Non lo so se ce la faccio". Elbeth sospirò "Dobbiamo ricucirla subito" ripeté "Non deve perdere altro sangue, temo che abbia reciso una vena se non peggio". L'uomo scosse la testa terrorizzato "Posso fare un infuso contro il dolore". La voce di Cleorae ebbe per l'uomo lo stesso effetto di un raggio di luce nel buio di una prigione "Sì, ti prego!" Rispose l'uomo supplicante. Cleo si tolse il mantello con praticità e lo affidò a Frabio "Mi serve un mortaio" disse rivolgendosi ai sacerdoti "Poi mi servono della valeriana, la camomilla e qualche seme di papavero" elencò Cleorae sulla punta delle dita "Ah" disse ancora, stava per dimenticare la cosa più essenziale "E ovviamente un po' d'acqua".

"Vieni, è tutto da questa parte" la guidò Elbeth "Vi prego, fate presto" disse l'uomo con la voce contorta dal dolore. Le due entrarono in una stanza, la sacerdotessa velocemente le prese tutto l'occorrente e poi lo pose sopra a un piccolo tavolo. Cleo si mise a sedere e iniziò a pestare i vari ingredienti, togliendo certe parti e mescolando in sensi diversi. Versò l'acqua e alla fine versò dentro anche un petalo di margherita che parve squagliarsi non appena ebbe toccato la superfice dell'acqua colorata. Cleo uscì di fretta e si ritrovò gli occhi di buona parte delle persone della stanza addosso, Elbeth le veniva dietro e aveva una candela, un ago e del filo per ricucire la ferita. Cleo si inginocchiò accanto all'uomo e lo fece bere.

Aspettarono ancora qualche minuto, poi il voltò dell'uomo si distese "Posso iniziare?" Domandò Elbeth, bruciando la punta dell'ago, inserendo poi il filo nella cruna "Sì" rispose l'uomo serenamente. Non un lamento uscì dalla sua bocca mentre la donna gli ricuciva la ferita, lui sorrideva e parlava con il bambino, tentando di tranquillizzarlo. "L'hai salvato" la voce di Frabio fece voltare Cleo "Elbeth l'ha salvato" lo corresse Cleorae "Non io, io ho solamente alleviato il suo dolore" "Se non avesse bevuto il tuo infuso non si sarebbe mai fatto ricucire la ferita e forse sarebbe morto" le fece notare Frabio. Cleo sorrise e allungò le braccia per riavere il mantello "Ora devo tornare al castello" annunciò Cleorae "O inizieranno a chiedersi dove io sia finita".

Frabio annuì e le restituì il mantello "Ciao Fra" lo salutò Cleorae "Ciao Cleo" rispose lui. La moglie del ferito però seguì Cleo e la fermò "Come potremo fare per sdebitarci con voi?" Domandò grata, guardandola negli occhi "Continuate a lottare" disse Cleo sorridendo "Aiutate vostro marito a guarire e non vi piegate mai alle ingiustizie, ai soprusi. So che non è facile, ma lottate sempre per ciò che è giusto". Poi Cleo si congedò dalla donna e prima di uscire salutò con un gesto della mano Ridaldo ed Elbeth, poi uscì. Doveva assolutamente cambiare le cose in quella città, in quel regno, e lo avrebbe fatto in un modo o nell'altro, ma intanto Cleorae poteva dirsi soddisfatta per l'esito di quella giornata, in fin dei costi aveva aiutato abbastanza persone in un singolo giorno per essere ancora una semplice popolana.

 

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Capitolo 23
*** L'Erede e la Volpe ***


Pov:Teurum

Era una fredda mattina di pieno autunno, il mese di brumalio era quasi volto al termine, il freddo pungente si faceva sentire e il vento scuoteva le fronde degli alberi. Quella mattina Nomina e Filipphus erano ancora addormentati quando Teurum si era svegliato, ma era una consuetudine, lui si svegliava sempre prima di chiunque e quei due ragazzini non facevano certamente eccezione. Avevano viaggiato molto dal giorno dell'incendio al castello dei Tenebrerus, praticamente senza sosta, infreddoliti e senza i mezzi necessari per affrontare un simile viaggio, ma non avevano ceduto, avanzando con convinzione e tenacia. Nomiva aveva continuato a piangere per giorni, e con lei Filipphus, ognuno per i propri lutti, fortunatamente però avevano pianto in silenzio. Questa tristezza generale annoiava decisamente Teurum, non che amasse particolarmente il baccano o l'allegria, ma decisamente quei volti tristi lo infastidivano, poteva accettare di trovarsi in situazioni degradanti, ma non aveva intenzione di consolare nessuno. Purtroppo i suoi desideri non si erano realizzati, infatti anche dopo aver cessato di piangere i due ragazzini erano rimasti mesti e malinconici e le loro espressioni abbattute sarebbero state sufficienti per scoraggiare chiunque e far passare la voglia di vivere anche a un sasso.

Teurum continuava a spronare i due senza perdersi d'animo, con pazienza e tenacia, e se il viaggio fosse stato più lungo probabilmente non gli sarebbe parso strano se lo avessero apostrofato un giorno con l'epiteto di Re Paziente. I primi giorni li avevano trascorsi viaggiando a ritmo più che spedito, diretti verso il confine della provincia in cui erano diretti, quella di Terra, come se fosse stato un regno a sé stante, dove poter essere al sicuro senza temere la furia del re. Teurum dopo una serie di domande insistenti era riuscito a farsi raccontare da Nomiva di alcuni dei suoi parenti, la ragazzina aveva accennato alla sorella del padre, Andra Tenebrerus, che era sposata con uno dei tre signori della provincia in cui erano diretti, il signor Senec Erysch, signore dell'allevamento della Provincia di Terra. Avevano deciso allora di recarsi al castello dove viveva questa zia, lì forse avrebbero ritrovato la pace e lui sicuramente la considerazione e la posizione privilegiata che aveva momentaneamente perduto. Teurum non aveva voglia di aspettarli a dire la verità, ma essendo costretto a farlo decise di sgranchirsi un po' le gambe indolenzite girovagando per il bosco, senza però allontanarsi troppi dal punto in cui dormivano i due ragazzini.

Teurum aveva un solo punto fisso nella mente, recuperare il suo titolo. Teurum era il re per diritto di nascita, era inaccettabile che quelli che lui considerava con disprezzo alla stregua di barbari stranieri avessero usurpato il suo posto. I pensieri di Teurum si soffermarono sugli abitanti della ex Provincia Magica, l'attuale regno indipendente denominato Provincia Libera. Teurum non ci era mai stato, né aveva mai avuto un particolare interesse nel vedere quel posto, quanto nel riconquistarlo piuttosto. Nonostante avesse sentito dire quanto fosse spettacolare il piccolo regno indipendente, gli abitanti erano pur sempre i primi traditori del regno di suo nonno e come tali andavano puniti duramente. Quello che decretava il re secondo la non modesta opinione di Teurum doveva essere legge, per quanto giusta o sbagliata questa potesse essere, ma probabilmente la pensava in questo modo solo perché il re sarebbe stato lui, perché altrimenti insofferente alle regole e sprezzante come era sempre stato avrebbe trasgredito la legge con tutte le precauzioni, come d'altronde aveva sempre fatto quando si trovava al Tempio.

Teurum aveva sentito raccontare tante cose sulla Provincia Libera durante la sua vita e gli era sempre parso un luogo piuttosto affascinante. Tutte le terre del regno erano magiche, ma pareva che il territorio equivalente alla Provincia Magica fosse molto più intriso di magia delle altre province e della capitale stessa. A questo riguardo Teurum aveva sentito raccontare da alcuni dei profeti al Tempio che probabilmente era così perché gli abitanti di quella chi sino a pochi anni prima era stata la Provincia Magica erano sempre stati molto più rispettosi della natura degli altri, soprattutto grazie al gran numero di centauri che da secoli viveva lì, sino a trasferirvisi tutti quando il regno era divenuto indipendente. Sicuramente la magia degli elementi che da secoli permeava le terre del loro regno era andata affievolendosi nelle altre province, causando l'estinzione di molte piante e animali magici. Erano stati gli uomini che sfruttando al massimo la magia che permeava la natura ne avevano causato la scomparsa, perché non erano degni di quei doni, avevano prosciugato tutto il buono che c'era, lasciando la terra quasi del tutto arida. Teurum era sempre stato piuttosto scettico a riguardo, ma quando un giorno sarebbe andato nella Provincia Libera e l'avrebbe riconquistata avrebbe giudicato da sé se tutte quelle dicerie fossero vere oppure no e se fossero state vere Teurum avrebbe trovato un modo per far tornare la magia florida com'era stata un tempo in ogni angolo del regno e poi avrebbe imposto che venisse stabilito un limite allo sfruttamento di questi beni.

Raccontavano del deserto nella provincia, il Deserto Sabulario e di vallate verdeggianti. Narravano poi le meraviglie delle città, dalla perla marittima che era la città di Appulso, alla maestosa città di Lamiand che Teurum aveva avuto la fortuna di vedere ritratta. C'erano statue e le meravigliose quattro zigurat con la piramide bianca, che si diceva fossero ispirate ai templi dedicati ai principi e alle principesse dei quattro elementi che c'erano nella capitale, ma erano decisamente mozzafiato in confronto ai templi. Ma chi aveva portato un tale splendore nella città di Lamiand? Ovviamente i suoi antenati! Un giorno molto vicino Teurum avrebbe riconquistato il regno, si sarebbe ripreso ogni città e avrebbe fatto erigere dei monumenti in suo onore che avrebbero superato in beltà ogni altro, facendo impallidire le opere che la sua gloriosa stirpe aveva realizzato prima di lui e poi avrebbe riannesso la Provincia Libera, imponendo regole ben più severe a quei miseri ribelli. Certo erano stati bravi, ragionò Teurum, dopo aver tradito suo nonno Orbaal e aver ottenuto l'indipendenza dal nuovo re avevano ampliato in modo impressionante la foresta più singolare del regno, che avevano avuto la fortuna di avere vicina, con chissà che rito, probabilmente servendosi della misteriosa e imprevedibile magia del sangue. La foresta era chiaramente stregata, dalla morte del suo antenato il principe Ojaus che era stato ucciso insieme a degli amici centauri dal fratello maggiore, il re Ikuturso, si diceva vagassero dei fuocherelli bluastri tra un albero e l'altro.

Ma la cosa più inquietante e singolare che era parsa a dei fortunati viaggiatori che erano usciti indenni dalla foresta era che i fuocherelli causassero la morte di tutti quelli che osavano mettere piede nella foresta, tutti eccetto i membri della famiglia reale, dotati di poteri oppure sprovvisti di questi e i centauri. Perché? Probabilmente dal sangue versato del principe e da quello dei centauri, entrambi sangui magici, doveva essersi generata una sorta di magia di sangue senza che alcuno avesse tentato alcun rito, permettendo il passaggio di quel tratto indenne solo a chi avesse sangue reale o sangue di centauro. I centauri, già, Teurum non li aveva mai visti, ma secoli prima c'erano state guerre sanguinose tra gli uomini e i centauri, prima dei consoli e della repubblica, poi avevano stretto un accordo e centauri e uomini avevano dominato insieme, portando il regno in preda al caos e alla corruzione. I centauri conoscevano molte arti magiche, avevano insegnato loro agli uomini a preparare gli infusi guaritivi e a leggere le profezie e conoscevano tante altre cose sulla magia del regno, inoltre Teurum aveva saputo che suo padre, il grande generale Teereth Rerensy, era stato vinto in combattimento e ucciso proprio da un centauro. Insomma, Teurum nutriva una sincera curiosità nei confronti dei centauri e della Provincia Libera, ma probabilmente sarebbe andato a visitare quei luoghi e quella gente traditrice solo nel momento della riconquista del regno.

Teurum sbuffò, aveva aspettato a sufficienza che quei due si svegliassero, tutti quei pensieri sul futuro gli fecero venir voglia ancor più di raggiungere il castello vicino, ma non poteva proprio andare senza Nomiva e Filipphus. Senza indugiare, incapace di attendere oltre, Teurum si decise a tornare indietro, verso il punto in cui aveva lasciato i due a dormire. Si fermò poco lontano da Nomiva e Filipphus, le loro mani si sfioravano. Teurum distolse lo sguardo e intravide tra i cespugli la volpe che li seguiva, o meglio, la volpe che seguiva Nomiva, tuttavia l'animale non appena notò che Teurum si era accorto della sua presenza scappò via come una saetta e sparì tra i cespugli. La ragazzina era voltata di lato, con la testa rivolta nel punto in cui era appena sparita la volpe e Teurum comprese che Nomiva doveva essere sveglia. Teurum si avvicinò per farsi vedere, Nomiva teneva gli occhi bassi con la solita espressione abbattuta "Buongiorno, Nomi" la salutò Teurum con un sorriso incoraggiante e gentile sul bel volto. Nomiva vedendolo abbozzò un lieve sorriso "Buongiorno a te, Teurum" rispose a voce bassa. "Oh, no" disse subito Teurum scuotendo il capo "Non tenere la voce bassa, dobbiamo svegliarlo" e con un cenno indicò Filipphu che era ancora addormentato.

Subito dopo scosse il capo, trattenendo a stento il dissenso "Lo svegli tu?" Domandò a Nomiva "Sì" rispose lei alzandosi "Bene" continuò Teurum, estraendo l'arco e puntandolo verso l'alto, teso e con la freccia incoccata e ferma. Scoccò poi la freccia, subito dopo un'altra e due uccelli caddero giù "La colazione è servita, signorina" le disse Teurum, accennando un mezzo inchino. Nomiva gli rivolse un nuovo sorriso, sempre velato di tristezza ma comunque sincero "Mi piacerebbe tanto imparare a usare l'arco così bene" ammise, mentre si metteva in ginocchio accanto a Filipphus e lo scuoteva per svegliarlo. "E cosa ti piacerebbe fare con un arco?" Domandò Teurum ridacchiando, mentre accendeva un piccolo fuoco per cuocere la colazione "Ancora non lo so" rispose la ragazzina, salutando contemporanea Filipphus con un cenno della mano "Ma quando lo deciderò sarai il primo a saperlo. Per il momento so soltanto che mi affascinano gli archi, proprio come a mia sorella piacevano le spade".

Teurum le rivolse un sorriso divertito "Non è facile come potresti immaginare" la avvertì "Ci vuole molta pratica per diventare bravi e agili. E la cosa più difficile è scoccare mentre ti muovi o sei a cavallo" aggiunse "Solo i migliori arcieri ne sono in grado, ma quando ci riescono sanno che non hanno più nulla da imparare sul tiro con l'arco" e allora Teurum inarcò spavaldamente le sopracciglia per far comprendere all'altra che lui ne era in grado e quindi per farle comprendere la sua somma bravura. "Filipphus" disse poi rivolgendosi all'altro ragazzo, dal momento che Nomiva non si complimentava con lui "Ben svegliato" disse con freddezza malcelata. I tre si misero a sedere, Teurum su di un piccolo troco sdraiato e Nomiva e Filipphus restarono a terra con le gambe incrociate. Quando furono riuniti tutti e tre intorno al fuoco piccolo ma ugualmente caldo che aveva acceso Teurum, allora iniziarono a mangiare quando la carne dei volatili si fu cotta "Raccontaci, Nomiva" la incoraggiò Teurum "Dicci di più sulle persone che stiamo per conoscere, parlaci della tua famiglia. Non sei forse curioso anche tu, Filipphus?" Finì Teurum, rivolgendosi all'altro per cercare sostegno. Il ragazzino annuì piano e Nomiva alzò lo sguardo mentre mangiava "Come volete" disse piano "Vi parlerò dei miei cugini" annunciò poi "Su mio zio e mia zia non c'è molto da dire, tranne che sono molto gentili e accoglienti e possono anche essere piuttosto simpatici".

Teurum si sistemò meglio, nonostante non gli importasse assolutamente nulla né degli zii, né tanto meno dei bambini, tuttavia doveva sforzarsi ancora per un po' di fingere "I miei cugini sono piccini" iniziò Nomiva sorridendo "Il più grande, Sindon, ha sei anni, il più piccolo invece, Mendeo, ne ha quattro" spiegò Nomiva "Sono molto teneri e sanno essere piuttosto divertenti, come molti bambini piccoli. Non ci siamo visti tante volte a dire la verità" ammise poi Nomiva "Ma dovrebbero riconoscermi ancora. Adorano giocare e mio zio gli ha fatto costruire due piccole spade di legno, perché adorano giocare alla guerra. Sindon ama sentire le storie sulle guerre, si incantava sempre ad ascoltarle". Nomiva si fermò e guardò in un punto indefinito davanti a sé "Chissà quanto sono cambiati" sussurrò più a sé stessa. Teurum annuì e inarcò le sopracciglia "Ammirevole" disse, tentando di mantenere un tono cortese "Se il maggiore resterà disposto all'ascolto e si impegnerà nello studio, sono certo che diverrà un signore molto capace". Nomiva parve disorientata, non capiva se Teurum la stesse prendendo in giro oppure se fosse sincero "Sono felice di rivederli" aggiunse quindi Nomiva, decidendo di ignorare ancora Teurum "Sindon e Mendeo mi riporteranno la serenità che ho perduto con la loro dolcezza".

Teurum si alzò, aveva finito di mangiare e non voleva sopportare quella situazione oltre, voleva andare al castello e dalle parole di Nomiva era certo che lei avrebbe acconsentito ad accelerare il passo dal momento che erano molto vicini "Direi di andare allora" disse Teurum pratico "Siamo quasi arrivati, tra poco rivedrai i tuoi cugini e noi potremo conoscere sia loro che i tuoi zii". Gli altri due annuirono e ripartirono pochi minuti dopo, senza opposizioni o dissensi "Quella volpe ti segue ancora" rivelò Teurum a Nomiva dopo una mezz'ora abbondante di cammino "Sì" rispose Nomiva, consapevole "L'ho notato". Teurum la guardò di profilo, pensoso "È strano" notò "Non credo sia un comportamento normale per una volpe dalle nove code, ma d'altronde sappiamo poco di loro, abbiamo sempre saputo poco di quelle bestie. Ma tu devi piacerle" aggiunse Teurum "Altrimenti non ti seguirebbe così, so che solitamente sono animali schivi" terminò, rivolgendo un sorriso brillante all'amica. Nomiva ricambiò il sorriso e per la prima volta da quando erano partiti la ragazzina sorrise veramente a Teurum, pareva proprio che l'idea di andare da qualcuno della famiglia la facesse stare concretamente meglio. Teurum parve parecchio soddisfatto della cosa e affrettò il passo, nascondendo un ghigno compiaciuto. Non voleva più viaggiare a piedi, di questo era più che certo, ma al castello di Selceno avrebbe riavuto finalmente il suo cavallo bianco e mai più sarebbe stato costretto a viaggiare a quel modo. I tre continuarono a camminare, come di consueto Filipphus era silenzioso, Nomiva invece sembrava più allegra e grintosa dopo aver parlato dei suoi cugini e tanto sarebbe bastato per farla giungere al castello celermente. "Cosa dirai di lui?" Domandò improvvisamente Teurum, riferendosi a Filipphue, e quella domanda fece voltare di scatto Nomiva che evidentemente non aveva pensato anche a Filipphus e a come poterlo presentare agli zii, così rimase un attimo in silenzio, indugiando per trovare una soluzione valida. "Gli dirò la verità" annunciò poi con decisione, senza indugiare oltre "Gli dirò che è il mio fidanzato".

I due ragazzi reagirono in modo diverso, Filipphus alzo gli occhi su di lei e le sorrise dolcemente, Teurum invece scosse la testa, contrariato "Pensi veramente che sia questa la cosa giusta da fare?" Le domandò poi, pur sapendo che quel problema non si sarebbe posto una volta giunti al castello, ma doveva continuare a fingere "Potrebbero reagire in modo sbagliato". Questa volta fu Nomiva a scuotere il capo "Questa è la realtà dei fatti" disse semplicemente la ragazzina "E faranno bene ad accettarla. Lui è il mio fidanzato e resterà al castello con me". Filipphus adesso sorrideva "Grazie, Nomi" disse dolcemente "Per fortuna ci sei tu al mio fianco, non saprei dove andare altrimenti". Nomiva annuì vigorosamente, stava decisamente meglio e Teurum pensò che fosse la cosa migliore, aveva bisogno di prontezza di spirito per riuscire ad affrontare quello che avrebbe trovato al castello.

"Fate come volete" disse Teurum alla fine "Non hai motivo di preoccuparti, Teurum" gli rispose Nomiva "Dirò ai miei zii quanto ci hai aiutato, ma non esiterebbero comunque a farti restare perché sei un profeta". Teurum annuì senza dire altro, era importante non far trasparire la minima emozione. Continuarono a camminare, il castello di Selceno si vedeva lungo la pianura tra i pascoli e Teurum si sentì felice, era quasi riuscito a portare a termine la sua prima missione. Si voltò a guardare i due ragazzini e notò che sorridevano dopo tanto tempo "Non vedo l'ora di riabbracciarli" annunciò Nomiva sorridendo "Acceleriamo il passo" propose Teurum allora, reprimendo un nuovo ghigno. I tre uscirono dal bosco, diretti a passo svelto verso l'imponente castello che si avvicinava a ogni passo "Nomi" parlò improvvisamente Filipphus "Sei sicura che ci faranno restare qui?" Domandò preoccupato.

Nomiva si fermò e gli strinse una mano "Tu sei parte della mia famiglia" gli disse con convinzione "Voi siete importanti per me" continuò, guardando anche Teurum "Se non vogliono voi, allora me ne andrò via anche io" disse stupendoli "O tutti o nessuno" concluse. Filipphus strinse Nomiva in un abbraccio, mentre Teurum rimase fermo, poco dietro di loro, mentre Nomiva gli sorrideva, ancora avvolta nell'abbraccio di Filipphus. Teurum si sforzò di sorridere ancora e si impose di resistere e di essere ancora paziente, ormai mancava veramente poco e sarebbe stato stupido lasciare che qualcosa trapelasse proprio adesso. Aspettò pazientemente che Nomiva e Filipphus si fossero sciolti dall'abbraccio per poi continuare a camminare "Chi siete più curiosi di conoscere?" Domandò allegramente Nomiva, scioccamente Nomiva, secondo l'opinione di Teurum.

Filipphus fu veloce a rispondere "I tuoi cugini" disse senza esitazioni "Sembrano due bambini adorabili da come li hai descritti, magari somigliano ai bambini che avremo noi un giorno". Nomiva gli sorrise e annuì, arrossendo lievemente, poi si voltò per ascoltare la risposta di Teurum "Tu invece?" Domandò senza guardare davanti a sé. Ma, prima che Teurum avesse potuto rispondere, Nomiva si era voltata nuovamente per guardare davanti al loro, oramai erano molto vicini, erano a metà della via principale che conduceva al castello, ma la facciata e le mura basse erano già nitidamente visibili. Teurum non riuscì a guardare Nomiva in volto ma immaginò che avesse spalancato gli occhi prima di iniziare a correre "Nomiva, aspettaci!" Gli gridò lui dietro, ma la ragazzina non lo ascoltò e continuò a correre. Filipphus era sul punto di imitarla, pronto per raggiungerla, ma Teurum lo fermò in tempo "Dove credi di andare?" lo rimproverò duramente "Lascia che sia lei ad andare avanti". Filipphus abbassò gli occhi, imbarazzato "Sì, scusa" rispose, continuando a camminare al suo fianco lungo la strada.

"Teurum?" Lo stupì con una domanda "Sì? " domandò lui seccato "Grazie per tutto l'aiuto che ci hai dato" disse guardandolo negli occhi "Senza di te saremo morti, tu invece ci hai salvato la vita". Teurum non si voltò, ma continuò a guardare davanti a sé "È stato un piacere" rispose Teurum, mascherando il ghigno che rischiava di incurvargli i lati della bocca sottile "Sei il nostro eroe" continuò il ragazzino, sempre con gli occhi fissi sul profilo di Teurum. Avevano appena oltrepassato le mura di pietra troppo basse, passando dal cancello aperto, e si erano fermati perché Nomiva era ferma subito dopo l'ingresso. Allora Filipphus distolse lo sguardo da Teurum e si guardò intorno, rimanendo impalato e sconvolto come probabilmente era la fidanzata: il cortile era del tutto isolato, non una persona si intravedeva. "Che sta succedendo?" Sentì Teurum domandare da Nomiva. Filipphus rimase poco dietro di lei, ma abbastanza vicino da poterle mettere una mano sulla spalla per farle sentire che lui c'era.

Teurum guardò verso l'alto, c'erano le due guardie vicino alla bandiera con lo stemma degli Erysch, un toro che caricava su un fondo verde intenso. Teurum seppe che gli altri due compagni di viaggio stavano guardando la bandiera come stava facendo lui, poi velocemente la bandiera iniziò a calare e un'altra prese il suo posto: raffigurava lo stemma reale. Teurum si avvicinò alle spalle di Filipphus con un singolo passo lungo "Che sta succedendo!?" Sentì ripetere da Nomiva, con la voce allarmata, poi la ragazzina si voltò appena per guardare Filipphus alle sue spalle, ma quando lo vide il volto le si dipinse di orrore. Filipphus si portò le mani al ventre sanguinante, continuando a guardare Nomiva, gli occhi vacui e la bocca spalancata dalla sorpresa e dal dolore. Il ragazzo barcollò all'indietro e cadde a terra e subito Nomiva si lasciò cadere a terra al suo fianco "No!" Urlò Nomiva, guardando la ferita di Filipphus, gli perforava il torace per intero, sin dalla schiena, trapassandolo da parte a parte. Filipphus le strinse la mano con le ultime forze, guardando Nomiva negli occhi, le lacrime già scendevano "Filipphus" sussurrò lei, carezzandolo in volto "Fil!". "Nomi" riuscì a rispondere unicamente l'altro con la gola secca, poi chiuse gli occhi e il suo corpo cadde, venendo sorretto dalla disperata Nomiva.

La ragazzina sempre più confusa e disperata alzò gli occhi appannati dalle lacrime in direzione di Teurum, ignorato fino ad ora, e quando lo ebbe messo a fuoco rimase raggelata. Teurum la guardava con le sopracciglia inarcate, un ghigno beffardo e la spada dalla lama insanguinata che stava pulendo con disinvoltura. "Che cosa...?" sussurrò Nomiva sconvolta, con il fiato mozzato, alzandosi "Perché tu..." disse confusa, poi abbassò lo sguardo e osservò il corpo esanime del povero Filipphus. Tornò a guardare Teurum negli occhi, piangendo, col volto contratto da dolore e rabbia "Sei un mostro!" Gli urlò contro "Maledetto!" Cercò di corrergli contro, ma dal lato del castello accorsero tantissimi soldati che si erano appositamente nascosti sino ad allora. Due soldati corsero celermente e afferrarono Nomiva per le braccia, trascinandola lontano "Maledetto!" Continuò a urlare lei "Che cos'hai fatto!?" "Ma che brutte maniere, signorina Tenebrerus. A quanto pare dev'essere una caratteristica di famiglia". Quella voce fece voltare la ragazzina, il principe Drovan comparve da uno dei lati del castello con un sorriso sulle labbra "Non volevo credete che le voci sulle vostre cattive maniere fossero vere, ma a quanto pare lo sono eccome".

Drovan dopo essersi fermato davanti a lei per schernirla si avvicinò a Teurum e con un cenno fece avanzare un servitore che portò il cavallo bianco di Teurum, tirandolo per le briglie "Un ringraziamento sincero al mio nuovo amico che mi ha aiutato in quest'impresa" disse il falso principe sorridendo soddisfatto e Teurum vide con la coda dell'occhio il volto disperato e infuriato di Nomiva "Di questi giorni è un'impresa ardua riuscire a trovare un uomo di parola" continuò Drovan, lodando Teurum davanti a tutti "Ma voi lo siete stato e quindi riceverete tutto quello che vi ho promesso, per primo vi rendo il vostro cavallo che mi avete gentilmente domandato di salvare dalle fiamme per riportarlo da voi". Il sorriso di Teurum si allargò "È un onore per me potervi servirvi, maestà" finse abilmente, rivolgendo al falso principe un inchino reverente. Drovan non cessò di sorridere, sempre più compiaciuto "Avrete in premio questo stesso castello quando avrò terminato e con le onorificenze, prima fra tutte il titolo di signore" continuò a dire il principe "Fintanto che avrò bisogno di questo castello non dovete temere, perché so perfettamente da chi farvi accogliere" disse Drovan senza alcun dubbio. Drovan poi si avvicinò a lui per sussurrare in modo complice, in modo che nessun altro potesse sentirli "E vi dirò di più, questa situazione potrebbe rivelarsi più vantaggiosa di quanto crediate, signor Gravel. Gli Hardex, sapete, hanno una figliola in età da matrimonio che tentano di accasare al più presto". Nonostante non desiderasse convolare a nozze, Teurum non poté non ammettere che quell'idea avrebbe potuto rivelarsi vincente per consolidare il suo potere al cospetto di chiunque, così il suo sorriso si allargò "Sapevo che vi sarebbe piaciuto" commentò divertito il principe, scrutando l'espressione di Teurum "Due castelli. Ho compreso sin dal momento in cui vi siete avvicinato per propormi il nostro accordo che siete un uomo arguto" continuò Drovan "E alla capitale ci farà bene sapete di poter contare su di voi e sul vostro acume, sapete, la fedeltà dei nobili inizia a vacillare di questi tempi e mio fratello sarà ben lieto di sapere di poter contare su un uomo come voi".

Teurum si costrinse ad annuire ancora "Portate la prigioniera nelle celle" disse poi Drovan, riferendosi a Nomiva "E voi, amico Teurum" disse ancora il principe, sin troppo confidenziale "Potrete partire quando lo desidererete" "Partirò oggi stesso" annunciò Teurum senza la minima esitazione "Avrei giusto bisogno di fare un pasto decente, di cambiarmi e di far sellare il mio cavallo, poi sarò pronto a ripartire". Il principe annuì "E io vi fornirò un documento reale che possa attestare il vostro nuovo rango al cospetto degli Hardex". Teurum annuì nuovamente, stava quasi per scordare una cosa tanto importante "Ovviamente, maestà" rispose Teurum con voce serafica "Lo stilerò subito per voi" annunciò Drovan "E voi" disse ancora il principe con sgarbo, rivolgendosi a due servi "Assicuratevi che il signore abbia una colazione abbondante e preparategli subito una bacinella dove potersi lavare". Teurum allora venne guidato all'ingrasso del castello, non aveva la minima voglia di perdere tempo, così mangiò in fretta una piccola parte della colazione, si lavò velocemente e si cambio, poi scese immediatamente. Era quasi pronto a partire, ma un'ultima cosa doveva farla fintanto che il principe ancora non lo faceva chiamare per consegnargli il documento che attestava il suo nuovo rango. Il principe gli aveva assicurato diversi soldati come scorta e Teurum non poteva essere più d'accordo su quell'idea. Gli uomini lo aspettavano già, vicini alle mura, ma Teurum si diresse verso le prigioni.

Doveva parlare con Nomiva, non tanto perché si sentisse dispiaciuto per quello che le aveva fatto, quanto perché lo riteneva giusto, almeno meritava una spiegazione quella ragazzina. Le prigioni non erano molto grandi, c'erano sette o otto celle quadrare, tre sui lati e due al centro e le pareti irregolari erano in qualche modo rese appuntite, pezzi di pietre diverse per colore e tipologia sporgevano, infilate malamente nelle pareti, rendendole appuntite in alcune parti. Nomiva era in una delle due celle al centro, dietro le sbarre arrugginite, poggiata alla parete con le gambe raccolte, piangendo. Non appena lo vide entrare si alzò di scatto e corse alle sbarre, guardando Teurum con l'espressione feroce e gli occhi rossi per il pianto "Ciao Nomi" la salutò Teurum a voce bassa "Io ti ucciderò!" Urlò lei di rimando, continuando a piangere col volto contratto da dolore e rabbia "Entra nella cella con me, ti giuro che troverò il modo per ammazzarti anche adesso!" Teurum scosse il capo, vagamente divertito e capovolse un secchio vicino alla parete vicina alla cella, mettendosi a sedere di fronte a lei, scrutandola da fuori le sbarre.

"Nomiva" iniziò a dire "Lo so che sei arrabbiata con me". "Arrabbiata con te" lo interruppe lei furibonda, ma senza riuscire a cessare di piangere "Pensi solo che io sia arrabbiata!?" Urlò e le lacrime le colarono dal mento come rugiada. Teurum la fissò inespressivo "Perché lo hai fatto, Teurum!?" Continuò lei e per un momento la rabbia sparì e restarono solo dolore e delusione "Perché!?" Non fu necessario pensarci "Non è per te" rispose Teurum con sincerità "Ma avevo bisogno di questo titolo e non appena mi si è presentata quest'occasione". Nomiva continuò a scrutarlo con odio, interrompendolo nuovamente "Hai pensato bene di barattare la mia vita con il principe!" esclamò. Teurum annuì "Quando hai parlato di questo accordo con il principe?" Domandò ancora Nomiva, tentando di cessare inutilmente di piangere "Quando sono arrivati al castello di Stablimo" le spiegò Teurum " Tu eri da Filipphus, per suo nonno. Ho assicurato al principe che avendo la tua amicizia ti avrei convinta a raggiungere questo castello. In cambio sarei diventato signore al posto degli Erysch, perché il re gli ha ordinato di uccidere anche tua zia e i tuoi cugini perché avevano sangue Tenebrerus e tuo zio opponendosi alla loro esecuzione si è condannato alla stessa sorte". Nomiva apprendendo quella nuova disgrazia gemette dal dolore, poi il suo volto livido divenne una maschera di odio e dolore "Sei un bastardo" lo apostrofò devastata "Un maledetto bastardo. Un traditore!" disse ancora, questa volta urlando.

Teurum si sporse in avanti con un sorriso, veramente tutto questo lo divertiva "Avevi promesso che mi avresti aiutato a realizzare il mio sogno" le ricordò lui "Siate maledetti tu e il tuo sogno!" rispose lei colpendo le sbarre. Nomiva si fece male e si portò le mani alla testa "Hai ucciso Filipphus" gemette "Perché lo hai ucciso!? Cosa ti aveva fatto? Come hai potuto ucciderlo così a sangue freddo!?" Teurum scrollò le spalle "Non avevo nulla contro di lui" disse serenamente "Semplicemente, lui era un peso inutile. Lo avrebbero ucciso comunque". Nomiva strinse le sbarre, avvicinandosi al massimo che le fu possibile a Teurum "Ti odio, bastardo!" Urlò disperandosi ancora e allora Teurum la trovò noiosa e monotona. "L'avevi già detto" la informò freddamente, poi sorrise vedendo l'espressione di Nomiva, era sconvolta "Come hai potuto?" Sputò Nomiva, deglutendo per riuscire a parlare "Ti abbiamo offerto la nostra casa, la nostra ospitalità! Avevi detto che eravamo amici!"

Teurum sospirò e poi alzò gli occhi al cielo con strafottenza "Pensi veramente che ti dicessi la verità?" Rispose divertito, alzandosi "Oh, Nomiva" disse con un ghigno, in tono canzonatore "Quante cose avresti avuto da imparare, ma so per certo che le tue stupide sorelle ti hanno associato il soprannome sbagliato, perché non hai nulla della scaltrezza di una volpe" le rivelò con leggerezza "Ognuno pensa a sé e chi si rivela così sciocco da fidarsi troppo, deve essere disposto ad affrontare un destino tanto infame". Nomiva era disgustata dalle parole di Teurum "Te lo ripeto" disse ancora lui "Non ho fatto tutto questo per fare un torto a te, alla tua famiglia, oppure a Filipphus, siete solo state le persone giuste al momento giusto per la mia ascesa sociale, tutto qui. Lo avrei fatto con chiunque altro" affermò con onestà. Poi Teurum si avvicinò un poco alle sbarre "Ora devi proprio scusarmi" disse con cortesia "Ma devo partire. Addio Nomiva, forse un giorno ci rincontreremo nell'aldilà" e dopo queste parole Teurum le voltò le spalle con un gesto elegante e sinuoso, similmente a come fa il serpente dopo aver attaccato. La ragazzina però tentò un'ultima cosa, sputò attraverso le sbarre e lo mancò per poco "Noi invece ci rivedremo in questa vita, sappilo!" disse duramente, interrompendo per poco le lacrime.

Teurum si voltò nuovamente per tornare a guardarla, divertito "Ah, sì!?" Le chiese in tono canzonatorio "E quando ci vedremo" continuò Nomiva inferocita e gli occhi arrossati brillarono minacciosi "Ti giuro sulla mia famiglia e su Filipphus che io ti ucciderò". Teurum le tornò vicino, sempre più divertito "Non giurare invano, Nomi" le disse sorridendo, usando appositamente lo stesso soprannome che era solito usare Filipphus per lei "Lo sappiamo entrambi che i morti non tornano indietro". La ragazzina continuò a scrutarlo trucemente, trattenendo le lacrime a stento "Io giuro che la pagherai" continuò lei, imperterrita "E solo quando ti vedrò cadere a terra senza vita, allora potrò morire anche io. Resterò in vita, resisterò a tutto solo per poterti ucciderti". Teurum rise piano, schernendola "Anche tu mi aiuterai a realizzare il mio di sogno" sussurrò Nomiva in tono cattivo "E il mio sogno è la vendetta per la mia famiglia e per Filipphus".

"Veramente ammirevole" rise Teurum amabilmente, poi la sua risata mutò e divenne stridula e fredda, per nulla adatta al suo bel volto e ai modi garbati che esibiva "Ti aspetterò allora, Nomiva" rispose tronfio "Spero solo che le tue ceneri riescano a impugnare una spada o qualcos'altro, a meno che tu non voglia soffocarmi ovviamente". Nomiva lo fulminò nuovamente con lo sguardo, poi il suo sguardo divenne famelico "Allora riderò io, bastardo" rispose semplicemente la prigioniera e Teurum si stupì per tutto il disprezzo che la ragazzina riuscì a far trasparire da quelle parole. Teurum poi la guardò un'ultima volta "Addio Nomiva" si congedò nuovamente "Arrivederci, maledetto traditore" rispose lei, con gli occhi lucidi. Teurum le voltò le spalle, era di buon umore, si era divertito a sentire quelle minacce irrealizzabili e patetiche, così puerili, ma adesso aveva cose più importanti di cui doversi occupare.

I soldati non appena videro arrivare Teurum salirono sui cavalli e lui li imitò, mettendosi davanti in sella al suo stallone bianco. Con il cavallo percorse una parte del cortiletto, fermandosi poi davanti al principe che avanzava. Fugacemente Teurum pensò a quello che avrebbe potuto fare, avrebbe potuto travolgere il principe e poi ucciderlo. Era un'idea altamente allettante, ma era troppo stupida e impulsiva, quindi Teurum fu costretto a desistere. "Eccovi" Esclamò il principe vedendolo, lontanissimo dall'evenienza che l'altro avesse appena pensato di poterlo assassinare. Teurum smontò da cavallo e sfoggiò il solito sorriso garbato, indossò la sua maschera "Eccomi, maestà" rispose con eleganza. Drovan gli porse una lettera con il sigillo reale impresso sopra "Consegnala al signor Hardex" disse semplicemente Drovan "Avrete senza alcun dubbio la sua ospitalità e se sarete scaltro otterrete anche la figlia e il castello". I due si scambiarono uno sguardo di falsa intesa "Arrivederci, maestà" si congedò Teurum dopo un nuovo inchino "Arrivederci signor Gravel" rispose il principe con un sorriso "Sono certo che sentirò ancora parlare di voi, farete grandi cose".

Teurum che non poteva essere più d'accordo con le parole del falso principe, tornò sul cavallo e si avvicinò alla sua scorta "Andiamo" ordinò ai soldati e quelli partirono con lui senza esitazioni. Teurum guardò un'ultima volta il principe Drovan, sperava di rivederlo il giorno della riconquista della capitale e del regno, sperava di essere lui a uccidere il falso principe e poi il falso re, ma magari avrebbe avuto occasione prima di allora per incrociare la sua spada con quella di Drovan. Teurum ghignò e continuò ad avanzare, questo era lui, non si affezionava, non provava gratitudine per nessuno, mai aveva provato sentimenti simili e puntava di continuare a non provarne mai. Tutti per Teurum erano delle pedine, alcune erano più utili, come Nomiva, altre più inutili, come Filipphus, ma tutti erano solo utili alla sua ascesa e ritorno al potere. Perché, adesso che aveva un titolo, Teurum poteva veramente dire di aver iniziato ad attuare il piano per la riconquista del suo regno.

 

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Capitolo 24
*** La sguattera, il soldato e la balia ***


Pov:Selina

Da quel tramonto era stata veramente dura, Selina si era svegliata senza il minimo desiderio di vivere, d'altronde che senso aveva vivere senza avere vicina nessuna delle persone che amava con cui poter condividere i momenti belli e brutti? Selina era rimasta a letto quasi tutto il tempo durante i tre giorni concessi da Alarus, li aveva trascorsi piangendo in maniera quasi ininterrotta, senza quasi mai mangiare. Selina non aveva avuto idea di cosa potersene fare adesso della sua vita, attraversò stati d'animo differenti, prima le parve di essere in balia di una depressione forte, talmente forte da poter colmare il dolore di tutte quelle perdite; allora Selina aveva pensato che la soluzione giusta potesse essere quella di lasciarsi morire, ma, seppur debole come un raggio di luce nell'oscurità, sentiva dentro di sé la rabbia per tutte le ingiustizie che era stata costretta a subire. Aveva pensato ai suoi genitori, come avrebbero voluto che affrontasse quella situazione disperata in cui era capitata? Di certo non avrebbero acconsentito che lei morire. A Selina erano nitidamente tornati alla mentre i ricordi di quando all'età di appena otto anni le era venuta una febbre gravissima, era stata bollente e aveva sempre avuto gli occhi brillanti e pezze d'acqua bagnate sulla fronte e su buona parte del corpo per tentare di farle abbassare la temperatura. Selina era stata talmente male che tutti avevano temuto che non ce l'avrebbe fatta a sopravvivere, ricordava i volti delle sue sorelle che la guardavano dalla porta senza avere il permesso di avvicinarsi di più, avevano pianto tanto le poverette, avevano temuto e pregato per la sua vita.

La madre e il padre non erano certamente stati da meno, avevano pregato continuamente per lei e anche quando l'avevano data per spacciata loro non si erano arresi. Avevano rischiato ed erano riusciti a incontrare un uomo molto abile della preparazione degli infusi vietati dal regno di Fritjof. Loro avevano comprato l'infuso e lentamente Selina era guarita, solamente grazie alla tenacia e all'amore della sua famiglia. Selina aveva ricordato la madre inginocchiata ai piedi del letto che le cambiava la pezza bagnata sulla fronte, le sorelle che le urlavano parole di incoraggiamento dalla soglia della stanza, il padre che camminava incessantemente avanti e indietro davanti alla porta della camera mentre visitavano Selina, sperando che finalmente gli comunicassero che la sua piccola stava bene. Selina aveva ricordato insomma la lotta che aveva condotto la sua famiglia affinché lei potesse sopravvivere e arrivare dov'era adesso. Così alla fine del terzo giorno Selina aveva deciso che lasciarsi morire sarebbe stato un terribile insulto alla memoria di tutti loro e aveva deciso di continuare a vivere solo per onorare i solo sforzi di allora.

Sarebbe andata avanti, Selina avrebbe lottato proprio come avevano fatto loro per mantenerla in vita quando era stata malata e magari avrebbe onorato il ricordo dei suoi cari e della famiglia Tenebrerus. Trascorsi i tre giorni concessi da Alarus quindi Selina era scesa dopo essersi cambiata, con indosso gli abiti vecchi di Belia e aveva iniziato a lavorare, seguendo le direttive di Romya. Il compito che le era stato assegnato era quello di soddisfare qualsiasi richiesta avesse potuto avere la signora Malkoly, ma Selina non era rimasta affatto stupita, d'altronde era una cosa che si immaginava, il volto compiaciuto di Jesebell la sera in cui Alarus aveva narrato a Selina tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lei era stato ben eloquente a riguardo. C'era stato però qualcosa che aveva ferito ancora Selina, proprio perché la ragazzina non l'aveva messo in conto: l'atteggiamento di Luddan. Quando erano arrivati i soldati reali insieme alla loro scia di dolore, Luddan non c'era, e lui e Selina non si erano visti prima che fossero trascorsi i tre giorni di lutto concessi da Alarus. Scioccamente la ragazzina aveva pensato che Luddan mosso da sentimenti sinceri nei suoi confronti sarebbe passato a trovarla per poterla confortare o semplicemente per farle le condoglianze, invece nulla di ciò era accaduto e Selina aveva rivisto Luddan soltanto il giorno in cui era scesa.

Quando si erano incontrati nuovamente Selina nutriva ancora quella speranza, si sarebbe accontentata anche di un sorriso, ma quello che aveva ricevuto era stato un trattamento diverso. Luddan l'aveva guardata velocemente, poi aveva distolto lo sguardo e si era categoricamente rifiutato di tornare a guardarla, tenendo il capo rivolto verso l'alto, in modo algido. Selina non riusciva a comprendere quel comporta così freddo da parte di Luddan, certo aveva pensato che i genitori-soprattutto Jesebell-gli avessero imposto di troncare ogni rapporto con lei, ma Selina si aspettata uno sguardo furtivo di incoraggiamento, in nome dei sentimenti che il ragazzo aveva detto di provare per lei. Invece da parte di Luddan c'erano state una freddezza e un'indifferenza assolute, mortificanti secondo la povera Selina, che ben presto aveva dovuto imparare a rassegnarsi a quel nuovo stato delle cose, accettando di essere rimasta del tutto, inesorabilmente, sola.

Certo Selina aveva problemi ben più gravi da dover affrontare e il suo reale dolore era rivolto ad altre persone, ma non poteva negare che ci fosse rimasta veramente male per il repentino cambiamento di Luddan. Tutto quello che le sorelle le avevano sempre detto e che un tempo non le era parso vero, aveva assunto un nuovo valore, come se Selina avesse visto quelle parti di Luddan soltanto adesso. Luddan era un arrogante, trattava in maniera dignitosa solo chi riteneva fosse un suo pari, era poi un codardo che sottostava a tutto quello che gli veniva imposto e non aveva il coraggio di pensare di testa propria, inoltre era stato un bugiardo con lei, dicendole tante belle parole per poi fingere che Selina non esistesse adesso che la sua famiglia era caduta in disgrazia. Selina considerato il disprezzo che iniziò a nutrire nei confronti di Luddan si domandò persino come avesse fatto a innamorarsi di un ragazzo del genere.

Eppure Selina lo sapeva bene perché si era innamorata di lui, ma al momento provava un disprezzo e una delusione tali da non riuscire più a rammentare quali fossero le parti migliori di Luddan, quelle che le avevano fatto battere il cuore. Jesebell invece adesso poteva trattarla come aveva probabilmente sempre desiderato, parlava con sgarbo imperdonabile di tutti i familiari di Selina, senza fare distinzione tra i morti e i pochi rimasti vivi, ingiuriandoli con parole malevole non più velate. Selina era costretta a restare in silenzio, soprattutto i primi giorni era talmente abbattuta che non avrebbe trovato parole adatte a rispondere neppure se lo avesse voluto. Poi però Selina aveva iniziato a sentirsi irritata per quella mancanza di rispetto, le provocazioni continue di Jesebell la facevano sentire sciocca e arrabbiata per il silenzio a cui era costretta e stavano portando Selina a covare un odio ben profondo, radicato e celato nei confronti della signora. Quel pomeriggio la signora l'aveva fatta chiamare e, mentre scendeva per raggiungerla, Selina tentava di prepararsi a tutte le cattiverie ingiustificate che le sarebbero toccate sentire.

Bussò piano alla porta e attese una risposta, con il volto spento dalla tristezza in cui versava da tempo. La voce di Jesebell arrivò come un sibilo da dietro la porta e Selina si costrinse a entrare. Trovò la signora comodamente seduta su un divanetto, con un abito azzurro che le metteva in risalto gli occhi belli e freddi "Ce ne hai impiegato di tempo per arrivare, ami ancora farti attendere come se fossi una gran signora, sfaccendata" si lamentò puntualmente Jesebell "Scusate signora, non era mia intenzione mancarvi di rispetto" rispose Selina atona e col capo basso. Jesebell la guardò stizzita, ma senza scomporsi più di tanto "Voglio che tu pulisca subito questa stanza" ordinò la donna in tono esigente "Voglio testare di persona la tua abilità nelle pulizie. Vai a cercare Romya e fatti consegnare il necessario, poi torna da me e inizia. E non metterci un'eternità questa volta!" Selina annuì e si sporse fuori dalla porta "Romya, mi servirebbe uno straccio!" Domandò a voce un po' più alta del consueto.

"Ma cosa ti viene in mente, screanzata che non sei altro!" La riprese immediatamente Jesebell, inorridita e sconvolta "Perdonatemi signora, ma che cosa ho sbagliato questa volta?" Domandò sospirando Selina "Che cosa hai sbagliato mi domandi!?" ripeté drammatica la signora "Pensi di essere in una stalla o in una piazza che gridi così, come una selvaggia, come una popolana sgraziata!?" La fissò disgustata "Oh, dèi onnipotenti!" esclamò ancora "Tutto quello che ho sempre ritenuto fosse vero sul castello dei Tenebrerus si sta rivelando come tale. Quel luogo non è mai stato un vero castello, sicuramente tu e quelle rozze ragazze che erano le tue sorelle siete la prova evidente dello scarso livello di educazione che i tuoi defunti genitori vi hanno impartito. Un vero scempio, la dimostrazione tangibile di quanto la nobiltà stia cadendo in basso". Romya spuntò dal corridoio con un secchio colmo d'acqua e uno straccio. Romya si comportava in modo strano con Selina, da quando avevano portato via la povera Belia la balia la trattava talvolta da colpevole, come se Selina non si fosse sentita già tale! Selina afferrò secchio e straccio con il volto basso, mormorando un ringraziamento a Romya e poi si inginocchiò per iniziare a pulire "Aspetta" Romya si avvicinò e le legò uno fazzoletto marrone sui capelli dorati, per impedire che le ciocche più corte le cadessero davanti agli occhi.

Selina la guardò appena "Grazie" ripeté a voce bassa e la donna annuì senza dire una parola e poi andò via. La ragazzina immerse lo straccio nel secchio e lo estrasse zuppo, lo strizzò e iniziò a pulire il pavimento come le era stato ordinato di fare. Non guardò Jesebell, le dava troppo fastidio pensare che quella donna potesse restare soddisfatta vedendola inginocchiata, costretta a lavava il pavimento. "Strofina con più forza!" La riprese Jesebell, con un sottile sorriso di pura crudeltà sul volto. Selina si fermò e si voltò a guardarla, avrebbe voluto rispondere, magari sfidandola domandando perché non potesse mostrarle lei come pulire, poi però decise che la cosa più saggia da fare fosse di ignorarla. Selina distolse lo sguardo e riprese a pulire, senza tuttavia strofinare con più forza dal momento che altro non era che un patetico pretesto dell'altra per tentare di irritare Selina. Jesebell tuttavia la fissò inviperita, infastidita dal modo in cui Selina sopportava in silenzio "Piccola impertinente maleducata!" Esclamò scandalizzata "Come osi ignorare le parole della tua signora? Non meriti nulla di quello che abbiamo fatto per te, non meriti di avere salva la vita!" Selina continuò a tacere, strofinando con più forza a causa della rabbia che tentava di soffocare in ogni modo. Jesebell era però sempre più inferocita "Sei solo un'ingrata" disse ancora, senza desistere "Potevamo consegnarti alle guardi del re e non lo abbiamo fatto!"

Selina sospirò, esasperata da Jesebell che sembrava irritata da quel silenzio. Jesebell amava lamentarsi e ogni pretesto era quello buono per farlo. Probabilmente sperava di suscitare l'ira di Selina per far si che lei fosse sgarbata. Selina aveva infatti scoperto grazie alle poche parole che aveva scambiato con Romya che la signora era stata del tutto in disaccordo con il marito. Voleva che Selina morisse e probabilmente tentava di farla cadere in fallo proprio per convincere il consorte a giustiziarla o direttamente per avvertire il principe dell'equivoco. Selina le stava quindi rovinando tutto con il suo silenzio insopportabile. La donna infatti le rivolse uno sguardo di odio "Sei inutile!" le disse con freddezza "Stai facendo un disastro e ti ostini a ignorare le mie parole. Vattene subito dal mio salotto!" Ordinò con sdegno "Non voglio più vederti, vattene, esci e pulisci le stalle, perché è quello l'unico posto che si confà a una della tua risma!" Selina ripose lo straccio nel secchio e si alzò sempre in silenzio, pronta per uscire al freddo "E non osare tornare dentro il mio castello prima che sia calata la notte!" Disse ancora, incollerita "E non mi importa se dovessi morire assiderata! Avremmo una bocca in meno da sfamare." Selina uscì velocemente, incapace di ascoltare altro, rischiando di rovesciare il secchio per la fretta con cui si diresse verso l'esterno del castello. Non ne poteva più, il fatto che ora fosse sola e senza niente non consentiva a quella donna malvagia né a nessun alto di trattarla in un modo simile!

Selina uscì dalla porta di servizio, posando il secchio d'acqua al lato della porta e poi si diresse verso le stalle, costretta dalle parole di Jesebell. Non appena fu uscita venne avvolta da un freddo pungente che le penetrò sin dentro le ossa. Non era ancora pieno inverno ma lei indossava un vestito troppo leggero per la stagione, tuttavia le parole di Jesebell erano state esaustive, Selina non poteva più indossare i suoi abiti e non gliene sarebbero stati dati di più caldi, così Selina rabbrividì e continuò per la sua strada, tentando di ignorare il freddo, quasi sperando che questo si sarebbe stancato di tormentarla. Romya era lì, stava parlando a poca distanza, proprio davanti dalle porte della stalla con un'altra donna cenciosa. Non appena Romya vide Selina subito la donna cessò di sorridere e si voltò di più, dandole le spalle. La ragazzina sospirò, nonostante Romya talvolta fosse costretta ad aiutarla, erano molte le volte in cui la ignorava come allora o peggio ancora, la trattava con rabbia e sgarbo. Ovviamente quella rabbia era dovuta alla povera Belia, perché, seppur indirettamente, era Selina ad aver causato la morte della poveretta.

Povera Belia, Selina da quando Alarus le aveva comunicato la sorte che sarebbe spettata alla sua cara amica aveva sempre mantenuto un posto speciale per lei nei pensieri, d'altronde se la sua famiglia era stata accusata e condannata dal re, Belia non centrava assolutamente niente con quella storia, era una vittima ancor più innocente di Selina. E infatti Selina si ritrovava a pensare alla sua amica Lia molto spesso, le tornava alla mente il sorriso gentile, gli occhi dolci e poi pensava con nostalgia e dolore ai bei momenti che avevano trascorso insieme. Non era giusto, non era assolutamente giusto che una povera innocente morisse così, solo perché apparteneva a una classe sociale inferiore. Inoltre Selina non poteva fare a meno di pensare che un giorno la madre di Belia avrebbe domandato della figlia. Sicuramente i signori non le avrebbero dedicato neppure un secondo e Selina si domandava con disperazione come avrebbe trovato il coraggio di presentarsi davanti a quella donna per riferirle che la sua bambina era stata uccisa. Il solo pensiero faceva sentire male Selina, ogni genere di pensiero negli ultimi tempi non faceva altro che causarle dolore o rabbia, perciò lei tentava di non pensare, ma era una cosa quasi impossibile.

Certe volte Selina si domandava come fosse morta la sua famiglia, poi si era detta che era meglio non chiederselo più, perché probabilmente saperlo le avrebbe soltanto causato più dolore. Nella stalla cercò una spazzola, iniziando a spazzolare il pelo del primo cavallo, era lustro e grigio, e subito lo riconobbe: era il cavallo di Luddan. "Selina, che piacevole sorpresa". La voce viscida di un uomo la colse alle spalle, Selina si girò di scatto, allarmata nonostante l'avesse riconosciuta, anzi, era allarmata appositamente perché l'aveva riconosciuta. Vrisco Acole era un giovane uomo, doveva avere dai venti ai trenta anni, i capelli lucidi e scuri gli ricadevano sulle orecchie, gli occhi altrettanto scuri la fissavano sempre con morbosa attenzione, le labbra erano appena piegate da un sorriso inquietante. Vrisco era uno dei tanti soldati dei Malkoly, era sempre stato cortese con Selina e il primo giorno in cui era uscita dalla sua stanza per iniziare a servire i signori nelle stelle si era messa a piangere e si era rannicchiata vicino al fieno. Era stato allora che l'uomo le si era avvicinato e da quel momento aveva tentato di trascorrere sempre più tempo insieme a lei.

Era stato gentile con lei come era sempre stato prima di allora e Selina credeva che non ci fosse nulla più di questo da parte del soldato, semplice galanteria, ma presto aveva notato cose che l'avevano inquietata non poco, prima fra tutte la confessione fatta proprio da lui sul fatto che l'avesse osservata dal suo arrivo perché non aveva mai visto una bellezza tanto pura e rara. Selina si sentiva inquieta tutte le volte che lui era nei paraggi, Vrisco non le piaceva e Selina aveva timore che potesse farle qualcosa di male, ma non trovava il modo per evitarlo. "Saluti a te" rispose a voce bassa, sull'attenti. Lui sorrise di più, guardandola fissamente "Sono molto felice di vederti" disse ancora "Ma continua pure a fare quello che devi" la spronò "Io ho da fare qui dietro".

Selina tornò a dargli le spalle, con i muscoli tesi, vigile e attenta, riprendendo a spazzolare il cavallo di Luddan con un misto di agitazione e inquietudine. Vrisco era poco lontano, lo vide di spalle mentre si toglieva la parte superiore dell'armatura, quella volta a proteggergli il busto, poi si tirò su le maniche leggere della maglia che indossava sotto, lasciando scoperte le braccia e iniziando a lucidare la spada, sfidando il freddo con temerarietà. Selina distolse lo sguardo e tentò di concentrarsi sul cavallo, pur restando vigile, ma Vrisco parlò ancora "Deve essere difficile, vero?" domandò e Selina si voltò nuovamente, constatando che lui si trovasse dove lo aveva lasciato "È difficile imparare tutte queste cose, immagino che fatica starai facendo, una graziosa e delicata signorina come te, costretta a svolgere mansioni simili come una volgare popolana".

Vrisco si alzò e le si avvicinò piano, fronteggiandola a poco più di un metro di distanza "Sono stati molto ingiusti i signori" disse piano, fissandola attentamente "Sciogliere il tuo matrimonio con il loro figlio, veramente non capisco come si possa pensare di sciogliere un fidanzamento con te, una volta che gli dèi l'hanno concesso". Selina deglutì, lo sguardo fisso di lui la spaventava notevolmente, ma tentò in tutti i modi di non darlo a vedere. Vrisco si avvicinò di più, lasciando il recinto dove era poggiato per fermarsi a una misera manciata di centimetri da lei "Povera Selina" continuò a dire "Senza famiglia, senza nome. Chi baderà a te adesso?" La ragazzina si impose di continuare a fronteggiarlo e di non distogliere lo sguardo dagli occhi di lui, non doveva mostrare all'altro quanto avesse paura "Io baderò a me stessa" rispose a bassa voce, tentando di apparire convincente.

Vrisco sorrise e scosse il capo "Hai bisogno di un uomo che badi a te" disse con convinzione "Qualcuno che possa proteggerti" poi abbassò gli occhi sul collo appena visibile di Selina e si fece più avanti per sfiorarle una guancia con la mano. Selina si tirò indietro in un gesto di istintiva protezione, impallidendo "Il signore" rispose con la voce allarmata "Ormai io lavoro per lui e quindi è lui l'uomo che mi protegge". Il sorriso sul volto di Vrisco era sparito nel momento esatto in cui Selina si era sottratta a lui, come se gli avessero rubato qualcosa che gli apparteneva. Selina notò subito il cambiamento d'umore dell'uomo e si allarmò ancora di più, lui infatti si avvicinò ancora, senza desistere, afferrandole una mano in una stretta apparentemente delicata, ma di cui Selina riuscì a percepire la possessività "E chi ti assicura che lui ti vorrà sempre al suo servizio?" Domandò con uno strano, cupo tono di voce che spaventò veramente Selina, portandola quasi a tremare "Io lo so!" Si difese Selina, sottraendosi con convinzione alla stretta di lui, indietreggiando ancora.

"Il signore è un uomo di parola" balbettò ancora Selina. Vrisco la fissò con uno strano luccichio negli occhi "Ti sbagli, piccola" sussurrò con la voce suadente e viscida che lo contraddistingueva, la stessa voce che a Selina faceva venire i brividi. "Che sta succedendo?" I due si voltarono in contemporanea, Romya veniva verso di loro con la solita espressione feroce, ma la ragazzina fu infinitamente grata del suo arrivo "Cosa vuoi, balia!?" La apostrofò malamente Vrisco, irritato da quell'interruzione "Tornatene a fare le tue faccende che io stavo parlando con Selina". La donna lo fissò con disappunto, scrutandolo con disprezzo "Forse lo avrai dimenticato, ma anche lei ha delle faccende da svolgere, su preciso ordine della signora. Per causa tua rischierà di essere sgridata!"

Vrisco assunse un'espressione seria e sdegnosa "Non è il suo ruolo" disse rivolto a Selina "Non spetta a lei fare queste cose, lei è una signorina". Quelle parole fecero guadagnare a Vrisco un'occhiata irritata da Romya "E allora vallo a dire al signore se non ti sta bene!" Sbottò la donna, come di consueto poco paziente "Ormai non si può neppure lavorare in pace! Viviamo in tempi veramente assurdi!" Vrisco la fissò trucemente "Ho detto di levarti di mezzo, vecchia" ripeté a voce bassa, con una vaga sfumatura minacciosa nel tono di voce "Io devo finire di parlare con lei e non saranno certamente le parole di una vecchia serva come te a farmi desistere". Selina notò Romya farsi rigida, anche lei doveva aver provato paura oltre che rabbia per le brutte parole appena ricevute. Romya rimase nel mezzo, esitante, e Vrisco si incupì ancora di più "Che cosa sta succedendo? " i tre si voltarono verso l'ingresso immediatamente avendo riconosciuto quella voce soave, Luddan era all'ingresso della stalla e li scrutava con fredda attenzione.

Vrisco si inginocchiò subito al cospetto del nuovo arrivata "Signorino" disse "È un onore vedervi". Luddan continuò a fissarlo freddamente "Che sta succedendo?" Ripeté, questa volta guardando unicamente la balia "Alla signor... a Selina non è data la possibilità di svolgere le sue mansioni" rispose Romya, evitando accuratamente di guardare Vrisco. Luddan allora tornò a guardare il suo soldato, in attesa di una spiegazione "Signorino" parlò allora Vrisco, alzandosi "Io ritengo che la signorina Selina non dovrebbe svolgere queste mansioni. Lei è una nobile come siete voi e inoltre è una delicata, bellissima fanciulla, non mi sembra appropriato consentire che la sua pelle pregiata venga deturpata dalla fatica, né tantomeno ritengo che sia onorevole importunarla con simili richieste". Luddan rimase fermo e rigido come una statua, evitando accuratamente di guardare Selina "Devi rivolgere a mio padre le tue lamentele, soldato" disse con la medesima voce fredda e rigida che aveva usato poco prima "È lui che decide qui, non di certo io".

Vrisco si rialzò accigliato, ma annui consapevole, sapendo che quella era la verità "Ma fin quando non riuscirai a dibattere con mio padre la questione, devo domandarti di desistere e lasciare che... la fanciulla svolga le mansioni che le sono state assegnate" terminò Luddan più rigido che mai e Selina serrò la mascella, sentendo un dolore intenso al petto, adesso lei era la fanciulla. Vrisco annuì ancora, seppur riluttante, poi tornò a guardare Selina "Ora vai" aggiunse Luddan, rivolgendosi al soldato. L'uomo parve contrariato, ma alla fine si costrinse a uscire per obbedire all'ordine appena ricevuto dal suo signorino, non senza aver guardato un'ultima volta Selina. La ragazzina allora guardò fugacemente Luddan, reprimendo le lacrime e ignorando la rabbia, e notò che lui continuava a tenere con ostinazione lo sguardo rivolto altrove "Grazie signorino" ringraziò Romya con un inchino sgraziato. Luddan annuì rigidamente, più pallido del solito "È stato sellato il mio cavallo? E' stato spazzolato?" domandò atono e in imbarazzo. Selina si decise a parlare, sempre senza guardare Luddan in volto "Non ho avuto modo di spazzolarlo" rispose altrettanto rigida e pallida Selina "Vrisco me lo ha impedito. E per la sellatura non so, lo stalliere non c'era già quando sono arrivata". Allora gli occhi di Selina si incontrarono con quelli di Luddan. Fu un fugace istante, ma bastò a provocare una fitta al cuore della ragazzina. Si era aspettata di scorgere negli occhi grigi di Luddan la solita freddezza e indifferenza, invece le parve addirittura di intravedere paura.

Luddan subito distolse il contatto visivo, deglutendo "Allora ritengo sia consono che io attenda qui fuori" disse a voce bassa "E se il soldato dovesse tornare" disse rivolgendosi poi a Romya "Lo inviterò ad andarsene definitivamente". Selina si costrinse ad annuire e poi vide Luddan allontanarsi per rimanere fermo appena fuori dalla porta della stalla. Romya allora si voltò per guardarla "Ti ha fatto qualcosa?" Domandò allarmata "Quell'uomo ti ha fatto qualcosa?" "Mi ha stretto le mani ma io mi sono divincolata" spiegò Selina, ancora pallida. La donna parve ancor più allarmata "Devi fare in modo di convincere la signora a restare dentro il castello" disse a voce bassa Romya, guardando Selina con gli occhi spalancati "Non mi piace il modo in cui ti guarda, deve stare lontano da te". Selina annuì vigorosamente, ma poi si ricordò delle parole della signora "Non posso rientrare" pigolò piano, abbattuta "Perché no?" Domandò subito l'altra "La signora mi rivolgeva parole maligne, così io ho taciuto e non le ho risposto, ma lei si è arrabbiata e mi ha ordinato di stare nella stalla fino a sera...".

Selina vide gli occhi di Romya farsi più scusi "Sei una ragazzina sciocca, quella donna ti vuole morta, non devi darle modo di rimproverarti!" Le disse rabbiosa, strattonandola per un polso "Ti ho detto chiaramente di assecondare la signora!" Questa volta fu Selina ad accigliarsi "Quindi cosa dovrei fare secondo voi?" sussurrò "Dovrei rispondere a quelle ingiurie? Se io dovessi rispondere rischierei di essere più scortese e di peggiorare le cose". Romya la lasciò, guardandola con freddezza "Devi limitarti a darle ragione, non mi sembra così complesso!" Selina però non era per niente d'accordo "No!" disse con la voce poco più alta "Io riesco a stento ad ascoltare tante ingiurie sulla mia famiglia, domandarmi di assentire è una barbarie!" Rispose Selina "E se vi interessa saperlo non riesco più ad ascoltare la signora, continua a rinfacciarmi di avermi salvata e mi ripete che dovrei essere grata a tutti loro... ma io non gli ho chiesto nulla!" Sbottò, furente e con le lacrime agli occhi, sempre sussurrando "Non ho chiesto io di essere salvata, non ho chiesto io di essere l'unica della famiglia a rimanere viva, né tantomeno ho domandato che Belia morisse al posto mio! So che alla signora non importa, ma prego almeno voi di non ritenermi responsabile per la morte di Belia, perché le volevo bene anche io e sono stati i signori ad architettare tutto questo e vi ricordo che voi avete aiutato i signori a scambiare me e Lia, quindi dovreste incolpare voi stessa piuttosto che me per la morte di Belia!" Romya a sentire il nome di Belia si era irrigidita, aveva fissato Selina con gli occhi assottigliati e non appena Selina ebbe terminato di parlare la donna si avvicinò e le assestò un colpo sul volto. Selina si toccò la guancia e guardò l'altra con dolore e rancore, mentre gli occhi di Romya scintillavano e il volto era duro "Non azzardarti mai più a parlarmi in questo modo" disse a voce bassa e minacciosa la vecchia donna.

Selina la guardò senza parole, senza più riuscire a trattenere le lacrime di frustrazione, rabbia e dolore che le rigarono il viso pallido e mesto senza che riuscisse a impedirlo. Selina lasciò che le lacrime continuassero a scorrere, ma diede le spalle alla balia, si voltò verso il cavallo di Luddan e riprese a spazzolarlo piangendo in silenzio. Era un incubo, tutto e ogni singola persona in quel castello si stavano rivelando nient'altro che un incubo. Ma quando sarebbe terminato tutto quel dolore? Perché erano tutti così ostili, si ostinavano persino a mentire a loro stessi pur di causare dolore a Selina. "Hai ragione" la voce bassa di Romya le giunse come un abbraccio dalle spalle, nonostante fosse poco più di un sussurro Selina riuscì a scorgere in essa una traccia di calore che la portò a spalancare gli occhi verdi arrossati dal pianto "Tu non hai alcuna colpa per quello che è accaduto a Belia" continuò la donna e Selina ancora non osava voltarsi, timorosa che potesse trattarsi di un sogno o di uno scherzo crudele "Tu non hai colpa di nulla, piccola, di nulla". Selina ascoltava a testa bassa, con gli occhi rossi e il viso coperto dai capelli dorati e scomposti dietro la schiena, poi prese coraggio e si voltò lentamente per fronteggiare la donna. Guardò Romya, teneva il volto basso e quando la guardò negli occhi sorrise appena, tristemente, e i suoi tratti duri parvero deformati "Ti domando perdono per il modo in cui ti ho ingiustamente trattata" aggiunse la donna e le sue parole furono per Selina gradevoli come una carezza "E per il modo in cui ti ho colpita". Selina sorrise e cessò di piangere "Grazie" mormorò in risposta, ancora vagamente sospettosa che si potesse trattare di una menzogna "Sono stata molto ingiusta con te. Ma ti prometto sulla memoria della piccola Belia che ti aiuterò sempre d'ora in poi, ovviamente se tu me lo permetterai". Selina annuì senza remore "Potete starne certa" affermò. Romya annuì "Molto bene allora" disse poi "La prima cosa da fare sarà non indisporre più la signora" disse Romya pensierosa "non puoi rischiare di farti condannare e neppure devi restare con quel soldato" disse preoccupata, gettando un'occhiata all'ingresso della stalla. Selina sospirò "Non so se ce la faccio" rispose con sincera preoccupazione "Non riesco a sopportare di sentire la signora dire tante cose brutte sulla mia famiglia". Romya scosse il capo "Dovrai provarci" insistette l'altra "Può valerne della tua sopravvivenza".

Selina fissò Romya negli occhi "Perché sarebbe veramente uno spreco" continuò la balia con la voce magicamente raddolcita "Sarebbe uno spreco se anche tu morissi" disse "Se non vuoi restare viva per la tua famiglia, fallo almeno in memoria di Belia, se l'hai considerata veramente un'amica come sembrava". Selina abbassò gli occhi verso terra, sospirando con rassegnazione "Sai che le volevo bene" disse rialzando il viso in un attimo "Anche se non abbiamo avuto modo di trascorrere tanto tempo insieme, lei era speciale, era una vera amica". Selina si portò una mano al volto, parlando con voce tremante "Sarei tanto voluta diventare per lei la sorella che ha sempre desiderato avere" mormorò, mentre le lacrime riprendevano a rigarle il viso. Romya si avvicinò di qualche passo e, stupendola, la abbracciò lievemente "Sono sicura che tu abbia realizzato il suo desiderio" disse con una dolcezza inaspettata "Ma a quale costo!?" Disse con la voce rotta Selina, singhiozzando nuovamente.

Romya sospirò "Non possiamo fare niente per cambiare quello che è successo" disse con un tono più pratico, vicino a quello che era solita usare, mantenendo comunque una dolcezza sconosciuta prima "Puoi solo rendere onore alla memoria di tutti quelli che amavi e non ci sono più. Non puoi lasciare che l'orgoglio ti uccida, niente vale più della vita". Selina annuì piano "Ora devo andare" disse la donna "Ma sono qui fuori, controllerò che quel Vrisco non torni" e se ne andò, proprio come aveva appena detto. Selina tornò a spazzolare il cavallo di Luddan, con sguardo assente. Nulla valeva più della vita, sicuramente era un pensiero condiviso da molti, non solamente da Romya, ma Selina si domandò cosa intendessero tutti con vita, perché-ne era certa-doveva esserci differenza tra considerare la vita come l'espressione delle funzioni più basilari del corpo come respirare, mangiare e dormire e altro, e Selina sapeva bene che non era quello vivere, ma semplicemente sopravvivere, perché vivere significava provare un turbinio di intense emozioni e ogni azione era fatta per ricercare le felicità. Ridere, provare gioia, correre liberamente, questo era il vero senso della vita per Selina, vivere non significava di certo avere timore di ogni cosa e di ogni essere. Quindi Selina si domandò veramente cosa avesse inteso Romya per vita. Selina però aveva il forte timore che vita per la donna non significasse altro che sopravvivere alle sfide di ogni giorno, eppure per Selina quella non era vita, forse perché lei aveva avuto modo di vivere veramente prima di allora e adesso non poteva pensare di non provare più gioia. Vivere era altro che servire e subire, stare costantemente in allerta e avere timore.

Romya le aveva detto che doveva vivere per onorare le persone care che non c'erano più e Selina si trovò d'accordo con quelle parole. Lo avrebbe fatto, li avrebbe onorati, ma sapeva che lo avrebbe fatto solo se avesse vissuto veramente, solo così avrebbe reso onore a tutti loro, solo inseguendo la gioia avrebbe potuto chiamare la sua esistenza vita, così avrebbe reso onore a tutti i morti. Così Selina si fece una promessa, da allora avrebbe sempre cercato disperatamente gioia e libertà, e li avrebbe vissuti per tutti quelli che amava e non c'erano più, vivendo per loro quel tempo che gli era stato ingiustamente rubato dal fato crudele e beffardo.

 

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Capitolo 25
*** Il castello di Selceno ***


Pov:Nomiva

Era buio e faceva freddo. Il buio e il freddo sembravano aver intrappolato Nomiva in un vortice eterno, in una ragnatela scura e fitta. Ormai doveva essere inverno o comunque doveva mancare poco al suo arrivo perché faceva veramente freddo, sicuramente era giunto il mese di rextio, un mese considerato festoso, il mese della nascita di Ahriman e dei suoi fratelli. La sola idea che qualcuno potesse essere in attesa di festeggiare il venticinque di quel mese la festa che celebrava la nascita dei principi e delle principesse degli elementi a Nomiva parve impossibile, le idee di gioia e festosità, di ringraziamento le parvero assurde. Nomiva prima di allora non era mai veramente stata nelle carceri, anche al castello di Stablimo c'erano delle celle per i prigionieri se mai ve ne fosse stato bisogno, ma Nomiva era stata a visitarle appena tre o quattro volte in tutta la sua vita, quasi sempre per nascondersi mentre giocava o sfuggiva dai genitori, ma non aveva mai prestato attenzione a come fossero fatte. Le celle del castello degli zii erano poche, otto piccole celle quadrate, tre a destra, tre a sinistra e due al centro più grandi, lei era in una di quelle. Ai lati delle pareti c'erano quattro finestrelle appena aperte, ovviamente lontane dalle celle e un armadio vicino alla parete dove stava la porta d'ingresso. Nomiva credeva che lasciassero le finestre così accostate solo per costringere i prigionieri al freddo d'inverno e al caldo l'estate, da quelle piccole fessure infatti proveniva un freddo pungente che già doveva esserle entrato nelle ossa.

Il sole doveva esserci raramente in quel cupo inverno appena sbocciato, perché non passavano mai raggi di luce dalle finestre, solo il vento freddo penetrava dalle fessure esigue. Nomiva aveva iniziato a tossire da diversi giorni, indossava una sottoveste troppo leggera per la temperatura, ma non le importava più di tanto a dire il vero di quello che il corpo stava sopportando e anche se le fosse importato nessuno le avrebbe dato qualcosa di caldo da indossare, di questo ne era certa. Nomiva non sapeva nemmeno da quanti giorni fosse al castello, sapeva solo che provava una disperazione e un odio iperbolici, la disperazione ovviamente era causata da tutte le disgrazie che le erano capitate in un periodo così breve da apparire null'altro che un accanimento del destino per distruggerla. L'odio invece era chiaramente mirato, da una parte era rivolto alla nobile persona del re Morfgan e al suo adorabile fratellino, il principe Drovan, tanto nobili di titolo, quanto crudeli nell'animo, ma il centro attorno al quale gravitava l'odio che ardeva le viscere di Nomiva, sconquassandole con furia dal profondo, scaldandola quasi in quel freddo, era un altro.

Dal giorno in cui era arrivato al castello dei Tenebrerus Teurum si era dimostrato fin da subito un abile ingannatore, aveva finto di esserle amico, l'aveva aiutata con la madre, consigliata, e alla fine aveva tradito lei e ucciso a sangue freddo il povero Filipphus. Teurum si era dimostrato un maledetto opportunista, un incantatore in gradi di illude e poi di uccide. Si era dimostrato subdolo come un serpente velenoso nascosto tra i bei fiori di un prato. Lei e Filipphus si erano fidati, lo avevano considerato un amico, gli avevano aperto il loro cuore ed erano finiti ingenuamente nelle spire del serpente, per cadere poi vittime del suo veleno. Nomiva era stata ingannata in un modo così insospettabile e abile che iniziò a trovarsi in accordo con le parole che Teurum le aveva rivolto prima di andare via, non era degna del soprannome che portava, Volpe, perché dinnanzi agli intrighi di Teurum si era dimostrata ingenua e sprovveduta come un leprotto.

Inoltre Nomiva non riusciva a smettere di pensare al povero Filipphus, se gli zii e i cuginetti erano ingiustamente stati assassinato a causa del cognome che portavano e per il sangue, Filipphus non aveva alcuna di queste colpe, se non quella di essersi innamorato della ragazza sbagliata e poi di essersi fidato dell'amico sbagliato. Stava di fatto che tutti i sogni felici che Nomiva aveva immaginato con lui erano svaniti in una pozza di sangue. Quando Nomiva lo aveva guardato per l'ultima volta negli occhi aveva sentito un dolore insopportabile al petto, come se l'avessero dilaniato; in quel preciso momento qualcosa si era rotto dentro di lei, l'ultimo barlume di speranza. Nel tempo che già Nomiva aveva trascorso in cella aveva ricordato le parole che aveva rivolto al nonno di Filipphus, Ted, aveva giurato che lei e Filipphus si sarebbero presi cura l'uno dell'altra, si sarebbero aiutati in quel mondo crudele e invece Nomiva aveva fallito miseramente, era venuta meno a quella promessa solenne dopo un tempo miseramente breve. Nomiva stava male quando pensava a Filipphus perché ne era ancora innamorata, lui la completava, erano sempre stati complementari loro due, lui era onesto e gentile, lei coraggiosa e furba. Nomiva la sera prima di dormire al buio e al freddo in solitudine nella cella si era ritrovata a pensare con gli occhi chiusi alla vita che avevano sognato e che mai avrebbero potuto condurre, lei e Filipphus avrebbero potuto vivere tranquilli e felici in una bella casa di campagna, circondati da tanti animali. E allora invece di sprofondare nel sonno, cullata da quei dolci pensieri, Nomiva riapriva gli occhi e piangeva con rabbia, ormai era tutto svanito, la gioia, la speranza, Filipphus e la famiglia, non rimaneva più niente di buono nella sua vita, anzi, Nomiva si stupì ancora di averla una vita, ma non le piaceva affatto la tranquillità in cui l'avevano lasciata, nonostante il modo in cui si era lasciata ingannare da Teurum non era una stupida e sapeva che se non avevano ancora ucciso la prigioniera dovevano necessariamente avere un piano peggiore per lei, tenevano in serbo qualcosa di orribile prima di liberarsene.

Da quando l'avevano imprigionata infatti era stato tutto piuttosto tranquillo, non entrava mai nessuno nelle carceri, la porta era sempre chiusa e per questo la penombra inghiottiva la figura di Nomiva praticamente sempre. Solitamente quella porta si apriva due volte al giorno, una era per il pranzo e l'altra per la cena e la sera si occupavano anche di svuotare il catino per i bisogni che durante il giorno rendevano l'aria intrisa dell'acre odore dell'urina. Nomiva aveva presto imparato che per tentare di alleviare quel tanfo doveva trattenersi più che poteva e attendere il pomeriggio per usare veramente il catino, in questo modo non avrebbe dovuto sopportare troppo a lungo la puzza. Da mangiare invece le portavano una zuppa orribile, era fatta con pezzi di pane ammollato, cipolle e carote tagliate a pezzi grossi, mescolati con cereali e poco brodo che creavano una poltiglia disgustosa, che tuttavia la saziava sin troppo. Quell'intruglio puzzava e a Nomiva dava il voltastomaco, di per sé mai la ragazzina aveva amato le zuppe né tantomeno le verdure, ma, essendo quella l'unica sua fonte di sostentamento, Nomiva fu costretta a trangugiarla ugualmente se non voleva morire di fame. Purtroppo non le avevano mai dato carne, nemmeno un misero osso e Nomiva se ne rammaricava non tanto perché desiderasse fare un pasto decente, quanto perché avendo un osso appuntito avrebbe potuto tentare di aprire la serratura della sua cella. Nomiva aveva imparato ad aprire una serratura tanto tempo prima, quando era più piccola era andata con Filipphus in esplorazione di una vecchia casa e un cane aveva tentato di aggredire Filipphus, così Nomiva si era parata davanti ed era stata morsa al posto di lui al braccio. Era stata costretta dentro il castello per due settimane e poi i genitori non l'avevano lasciata uscire per punizione, era stato allora che nella dispensa Nomiva aveva visto un uomo aggiustare uno degli armadi e parlando quello le aveva mostrato come scassinare una serratura e l'aveva poi aiutata a scassinare la porta della stanza. Nomiva durante i pranzi e le cene al castello quando poteva nascondeva le ossa appuntite e le usava poi per raggiungere i dolci che desideravano lei e le sue sorelle e una volta aveva anche aperto la porta della camera di Aurilda, che non era per nulla vecchia. Insomma se avesse avuto un oggetto appuntito Nomiva avrebbe almeno potuto tentare di scassinare la vecchia serratura della cella, ma aveva iniziato a dubitare che le avrebbero mai portato della carne o qualsiasi altra cosa avesse una punta sottile. Nomiva trascorreva il resto del tempo rannicchiata al freddo sulla terra nuda, infatti non c'era un pavimento per le carceri e la terra restava intrisa dall'umidità e si formava una fastidiosa fanghiglia che si attaccava ovunque.

Dunque, perché non lasciarsi morire prima che le rivelassero cosa volevano farle prima di ucciderla? La verità era che Nomiva non voleva morire, non per qualche timore della morte, semplicemente non voleva morire perché almeno l'altra promessa che aveva fatto l'avrebbe mantenuta. Lei avrebbe ucciso Teurum, troppo era stato il male che il ragazzo le aveva causato, troppo grande il tradimento per non ricevere una punizione e se si fosse lasciata morire in quella prigione maledetta Teurum sicuramente sarebbe rimasto impunito. Lasciarsi morire sarebbe stato sicuramente più semplice, Nomiva si sarebbe risparmiata altro dolore e avrebbe riabbracciato la sua famiglia, ma sapeva di dover intraprendere la strada più faticosa quella volta e di doverla necessariamente battere con tutta la forza d'animo che aveva. Era il momento di far vedere a tutti quanto fosse coraggiosa, perché era di coraggio che aveva bisogno per uscire da lì, unito all'astuzia vera di volpe e ovviamente all'odio che nutriva nei confronti di Teurum. Lui adesso era il suo punto fisso, doveva sopravvivere e uscire da quell'incubo per uccidere Teurum e non aveva importanza se al momento Nomiva non avesse alcuna idea su come uscire dalla cella o ancora se non avesse la più pallida idea di come si usasse una spada, il modo per uccidere Teurum lo avrebbe trovato, adesso l'unica cosa importante era riuscire a sopravvivere lì dentro ed escogitare un piano per fuggire in minor tempo possibile.

Ma non si poteva negare che quella apparisse veramente una situazione senza via di fuga, la cella era come una grotta scura senza uscita, dove morire è l'unica cosa sensata da fare. Mentre Nomiva se ne stava rannicchiata in un angolo venne scossa da un rantolo e tossì, poi un leggero rumore la fece sobbalzare. Nomiva guardò nella direzione della cassa di legno che era nella sua cella, vicina al secchio, poi distolse nuovamente lo sguardo. Il rumore però si presentò nuovamente e Nomiva si disse che poteva voltarsi un'altra volta per guardare. Assottigliò gli occhi, riducendoli a fessure e poi si avvicinò un poco, coprendosi parte del viso con un braccio per proteggersi istintivamente quando vide chiaramente qualcosa di grosso muoversi. Quando ebbe messo a fuoco le labbra della ragazzina si stirarono dopo tanto tempo in un sincero sorriso di gioia "Ruby!?" sussurrò piano Nomiva, immaginando tuttavia che dovesse trattarsi di un sogno. Allungò ugualmente la mano in avanti, magari in sogno la sua volpe si sarebbe lasciata accarezzare e non sarebbe fuggita più via, ma con sua enorme sorpresa Nomiva sentì la mano affondarle nel soffice pelo azzurrino dell'animale. Nomiva allora si mise a sedere in ginocchio di fronte alla volpe, conscia del fatto di non stare sognando. Mille domande le attraversavano la mente, ma la più urgente era: come aveva fatto ad entrare? Da dove era passata?

Nomiva cessò di carezzare la volpe e si spostò verso la cassa di legno, la spostò sperando di trovare qualcosa di utile per scappare, magari un passaggio o una buca, ma con sorpresa notò che non c'era assolutamente niente, il terriccio umido era perfettamente intatto e la parete era come sempre, composta da pietre più o meno sporgenti, incastrate malamente nella parete. Ben lungi dal volersi aspettare qualcosa Nomiva non poté fare a meno di mostrare delusione e il volto sorpreso e speranzoso tornò a sprofondare nella disperazione. Sperare era pericoloso, Aurilda glielo aveva detto qualche volta, perché alimentare la speranza conduceva solo a una delusione più amare e mai come quella volta Nomiva pensò che sua sorella avesse ragione. Sospirando sconsolata tornò a sedere con la schiena poggiata malamente contro la parete scomoda e allungò la mano per chiamare a sé la volpe che le tornò vicina, sedendosi lì di fianco come un bravo cane fedele. Nomiva riprese a carezzarla, il pelo della volpe era soffice, talmente soffice che a Nomiva ricordò i cuscini e le coperte confortevoli del castello. La volpe era anche tanto calda, o più probabilmente Nomiva la percepiva come tale a causa della cella fredda in cui era costretta a stare da giorni. A Nomiva parve quasi che Ruby potesse leggerle nel pensiero dato che subito dopo le si avvicinò di più col muso umido fino a sfiorarle il petto, mandandole il fiato caldo sulle mani. Nomiva senti un piacevole tepore e rabbrividì per il piacere di sentire caldo sulla pelle gelata.

"Come hai fatto a entrare?" Sussurrò Nomiva guardando negli occhi scarlatti la sua amica, sorridendo mentre continuava a carezzarla. La volpe si leccò il muso e continuò a fissare Nomiva con gli inquietanti occhi di brace "Non ha importanza" disse ancora Nomiva, arruffando di più il pelo della volpe "Sono felice di vederti. Sei l'unica cosa bella che io abbia visto da giorni" terminò tristemente, chinando il capo. Le lacrime improvvisamente minacciarono di tornare a cadere, ma Nomiva si impose di rimanere com'era sempre stata almeno in una cosa, quando vedeva un animale niente al mondo poteva distrarla o renderla triste. La linguetta ruvida della volpe le inumidì i polpastrelli delle dita sulla mano destra, lavandole via il terriccio e Nomiva sorrise di più "Quanto sei buona, amica mia" continuò a sussurrare "Ma perché mi stai seguendo? I cacciatori ti vogliono forse uccidere?" Disse ancora, cambiando tono "Vogliono ucciderti perché sperano che li renderai fortunati?"

La bestiola si limitò a fissarla, non sarebbe mai sembrata un animale docile, era anzi abbastanza inquietante con quegli occhi rossi, ma per un'amante degli animali come Nomiva era la cosa più bella del mondo, soprattutto in una situazione disperata com'era quella. "Povera la mia Ruby" Nomiva continuò il suo monologo di sussurri imperterrita, aveva veramente bisogno di parlare con qualcuno "Forse essere una volpe causa tutti questi problemi" disse poi, quasi parlando sovrappensiero "Sai" iniziò a raccontare, come se parlasse a un'amica in grado di poterle rispondere "Il mio soprannome è la Volpe, non so se te lo aveva mai narrato prima. Ma hanno catturato anche me come puoi vedere" disse in tono triste e cupo "Un uomo, un cacciatore di potere, mi ha catturata e mi ha consegnata al principe". Nomiva si fermò e sul volto le si dipinse un sorriso amaro "Avermi incontrata sicuramente gli ha procurato la fortuna di cui necessitava".

Ruby continuò a fissarla con gli occhi color sangue che scintillavano nella semi oscurità, apparentemente ignara delle parole che l'altra le stava rivolgendo "Ma io scapperò!" Confidò all'amica, come se raccontarlo bastasse a garantire la riuscita di quel proposito "Me ne andrò da questo maledetto posto e poi mi vendicherò di quell'uomo!" terminò, riferendosi sempre a Teurum. La volpe aveva preso a leccarsi il pelo, come se fosse stata annoiata da tutte quelle parole e Nomiva rispose con un lieve sorriso e sentì i nervi distendersi, doveva aver proprio esagerato se stava annoiando persino una volpe. Si sistemò meglio, con la schiena poggiata lungo la parete, nonostante non facesse niente per tutto il tempo si sentiva molto stanca, non dormiva in un letto da quando aveva lasciato il castello e le ossa le facevano male. Si passò una mano sul volto, sentiva i capelli sporchi e la cute pruderle per questo, mentre la pelle era sempre ricoperta dalla fanghiglia nonostante Nomiva tentasse di tenere almeno le mani un po' pulite.

Dallo spiffero di una delle finestrelle arrivò una folata di freddo vento, Nomiva sentì i muscoli scuotersi senza che lo volesse e le uscì uno spasimo a causa di quel freddo, così pensò bene di contrastarlo rannicchiandosi su sé stessa, nell'inutile tentativo di riscaldarsi un po'. Ruby percependo i movimenti dell'altra cessò di leccarsi il bel pelo e tornò vicina a Nomiva, talmente vicina da acciambellarsi sulle sue ginocchia. Nomiva si sistemò meglio per stare comoda e far stare comoda anche la sua amica e quando ci fu riuscita non ci volle poi molto prima che il calore del corpo e la morbidezza del pelo della volpe le generassero una meravigliosa sensazione di tepore, nonostante il peso di Ruby la schiacciasse un poco, infatti l'amica essendo una volpe dalle nove code non aveva certamente le piccole dimensioni di una volpe normale. Senza quasi rendersene conto Nomiva aveva finito per farsi avanti e aveva circondato appena il corpo della volpe con le braccia, poggiando la guancia sul pelo soffice. Ruby si girò piano e rimase a fissarla come faceva sempre e in quegli occhi inquietanti a Nomiva parve di scorgere lo sguardo di un protettore.

Le due rimasero così a guardarsi, contemplandosi in silenzio nel freddo della cella, l'una persa negli occhi dell'altra. Nomiva sentì un forte senso di gratitudine verso quella volpe, quella bestiola la stava confortando in quei momenti difficili come forse nessun altro sarebbe stato in grado di fare. Ma d'altronde Nomiva lo aveva sempre saputo, aveva saputo sin dall'infanzia che gli animali sono sempre buoni, non attaccano mai per cattiveria, solo per difesa e la loro fedeltà non poteva essere comprata, solo conquistata. Tutti dicevano che gli animali erano istintivi, feroci e imprevedibili, ma Nomiva sapeva vedere tutto il buono che c'era in quelle affermazioni. Gli animali attaccavano solo per difendersi e per mangiare, alcuni uomini invece attaccavano per egoismo e perfidia, Teurum era l'esempio più evidente. Aveva attaccato in modo subdolo, studiando tutte le mosse da fare, fingendo e poi mettendo a segno il suo colpo con una violenza inaudita. Lui e tutti quelli che agivano nel medesimo modo erano le vere bestie, loro che attaccavano per il puro gusto di ferire gli altri, che si divertivano a veder soffrire i loro simili invece di aiutarli, o semplicemente che li sfruttavano per un tornaconto personale.

Gli animali invece vivevano in branco e se uno veniva attaccato gli altri lo difendevano, quelli che vivevano da soli invece non infastidivano mai se non per sopravvivere. Così voleva vivere Nomiva, come uno di quegli animali, feroce solo per sopravvivenza e adesso era il momento di mostrare tutta la sua ferocia, perché doveva sopravvivere. Ma c'era qualcosa che stava accadendo inesorabilmente, abbandonata a sé stessa e ferita com'era, Nomiva stava lasciando che il veleno dell'odio che Teurum le aveva lasciato nel cuore la avvelenasse lentamente, mutando la sua natura in qualcosa di differente, facendola giungere piano forse a un punto di non ritorno. Sulla scia del rancore perpetuo, ecco dove stava naufragando l'animo di Nomiva, verso la brama inutile e infruttuosa di vendetta, la brama che causa null'altro che distruzione. Nomiva si scostò un poco da Ruby, continuando ad accarezzarla sovrappensiero, ragionando su un possibile piano di fuga, quando un frastuono da fuori la porta la fece balzare in piedi sull'attenti non senza fatica a causa del peso della volpe e così facendo costrinse l'amica a fare altrettanto. Un flebile fascio di luce attraversò la stanza, illuminando appena una parte della parete rocciosa disomogenea. La porta rimase così per alcuni istanti, si vedevano solo le dita di una mano che la teneva aperta e si sentivano delle voci confuse provenienti dall'esterno.

Nomiva si voltò a guardare la volpe, sentendo il panico pervaderla nel timore che quella gente potesse fare del male alla sua amica, tuttavia Nomiva vide scappare la volpe dietro la cassa in un lampo "Aspetta!" Sussurrò, inginocchiandosi di colpo per fermarla. Spostò la cassa e con immensa sorpresa vide che Ruby non c'era più. Nomiva interdetta sollevò del tutto la cassa per guardare meglio e constatò certamente che la volpe era svanita. Nomiva rimase in ginocchio con la bocca aperta, com'era possibile? Dov'era finita la volpe, da dove era entrata e da dove era uscita? Ma non ebbe il tempo di pensare ancora, perché la porta si aprì di più e lei tornò in piedi, lasciando cadere la cassa con un tonfo. Era decisamente troppo presto per la cena, perciò dovevano volere per forza qualcos'altro da lei. Che avessero deciso di ucciderla veramente in quel momento? Dalla porta entrò qualcuno dopo tutta quell'attesa e Nomiva lo riconobbe all'istante, alto e muscoloso come il fratello, con i capelli scuri e spettinati ormai non più coperti dalla parrucca come faceva quando lo aveva visto al cospetto del padre, il principe Drovan Raylon le andava incontro con un sorriso soddisfatto sul volto.

L'uomo continuò ad avanzare lentamente, scrutando la sua prigioniera dall'esterno della cella e Nomiva constatò che l'altro sembrava divertirsi molto nel vederla in quella situazione; a Nomiva ricordò un cacciatore che contempla una preda particolarmente ambita prima di ucciderla e divorarla. Drovan poi si fermò a poco più di un metro dalle sbarre e rimase a fissarla soddisfatto "Signorina Tenebrerus" iniziò a dire con strafottenza "È bello avervi come ospite". Nomiva lo guardò acremente, d'altronde Teurum non era il solo responsabile della morte della sua famiglia, anzi, il principe Drovan era stato quasi sempre il diretto esecutore "Cosa vuoi da me, Drovan!?" Lo aggredì Nomiva con voce ferma e rabbiosa. Non avrebbe avuto paura perché non voleva avere paura, perché la paura inibiva e limitava e lei voleva essere libera da ogni cosa, voleva tentare ogni via pur di andarsene e se avesse avuto paura non avrebbe potuto farlo. Il principe restò qualche istante stupito da una tale reazione, poi però rise sguaiatamente "Osi veramente parlarmi in modo tanto confidenziale, stupida bambina!?" L'apostrofò l'uomo continuando a ridere "Allora facciamo come vuoi, d'altronde dovevamo essere quasi una famiglia adesso, se non fosse stato per il vostro tradimento, ma comunque scioglierò le formalità con te nella speranza che tua sorella un giorno possa sposare mio fratello".

Nomiva aprì la bocca per replicare, ma Drovan la anticipò "Comunque dovresti essermi grata" continuò, passeggiando davanti alla cella di Nomiva con una serenità che la fece irritare "Ti ho portato un regalo, sai?" Drovan finalmente si fermò a pochi centimetri dalle sbarre "Un regalo direttamente dal castello dei Malkoly" continuò con un sorriso malvagio sulle labbra. Guardò soddisfatto la disperazione e la paura dipingersi negli occhi di Nomiva e poi attese "Non è vero" rispose subito lei, sentendo la paura soffocante, ma provò ugualmente a mostrarsi impavida come si era preposta di apparire "Non ti credo" terminò, simulando una freddezza che non aveva. Drovan inarcò le sopracciglia in modo beffardo e le sue labbra si arricciarono di più e a Nomiva il principe ricordò spaventosamente Teurum "Non mi credi, Nomiva!?" Si finse rammaricato e sorpreso "Eppure dovresti sapere che sono un uomo d'onore e la menzogna è sempre fonte di disonore". Le labbra serrate di Nomiva si deformarono in un ringhio "Tu non sai neppure cosa sia l'onore!" spuntò con disprezzo. Drovan continuò a sorridere, questa volta senza scomporsi "Nonostante io sia addolorato dalle tue parole" continuò come se nulla fosse "Ti dimostrerò che ti sbagli e che il mio onore è ancora integro, perché io non ti sto mentendo. Adesso ordinerò che il dono ti venga portato, o dovrei dire portata". Nomiva spalancò di più gli occhi se possibile "Ma non devi temere" continuò serenamente Drovan "Perché non le è stato fatto alcun male, sono stati i signori stessi a consegnarmela. Solamente per te" terminò, quasi sussurrando. Drovan poi le voltò le spalle e attraversò la stanza esigua a grandi passi con gli stivali alti, Nomiva lo vide avvicinarsi alla porta e si aggrappò alle sbarre, sentendosi morire dalla paura. Non poteva essere vero, sicuramente Drovan stava mentendo, non potevano avere Selina... ma se l'avessero avuta veramente che cosa avrebbe potuto fare Nomiva per aiutare sua sorella!?

Prima che avesse avuto altro tempo per pensarci, Nomiva vide il principe con un cenno della mano invitare qualcuno a farsi avanti. La ragazzina si strinse più forte alle sbarre, da una parte avrebbe desiderato solo poter riabbracciare la sua sorellina, ma dall'altra si sentiva disperata all'idea che anche l'altra fosse costretta a essere prigioniera com'era lei. Drovan venne avanti con la solita espressione soddisfatta e Nomiva notò che dietro di lui avanzavano due guardie e al centro c'era una ragazzina con i capelli dorati che le coprivano il volto incatenata. Nomiva ignorò il ghigno del principe e guardò oltre, verso la ragazzina, stava alzando un poco lo sguardo per mostrare il volto, sollecitata dalle parole di Drovan. Non appena ebbe posato gli occhi sull'esile figura che portavano le guardie ed ebbe avuto il modo di studiarne il volto con il cervello congelato dalla paura, il cuore di Nomiva mancò un battito. La ragazzina incatenata aveva effettivamente capelli dorati, era bella e aveva gli occhi quasi del tutto verdi, ma non era la sua Selina! Nomiva tirò un sospiro di sollievo che non diede a vedere e subito tornò a guardare Drovan, immaginandosi che lui attendesse di vedere la reazione di lei e Nomiva si preoccupò bene di mostrarsi sia sconvolta che timorosa "Allora?" Domandò allegramente Drovan "Sei felice di rivedere la tua fragile, bella sorellina!?"

Nomiva tornò a posare lo sguardo sulla sconosciuta, piangeva e singhiozzava in silenzio "Selina" sussurrò Nomiva con la bocca secca, allungando un braccio oltre le sbarre in un gesto istintivo, pensando con tutta sé stessa a quello che avrebbe fatto se quella davanti a lei fosse stata veramente sua sorella. La ragazzina incatenata però scosse la testa continuando a piangere "Io non sono Selina!" Sussurrò tra le lacrime e Nomiva si stupì di quanto fosse dolce e melodiosa la voce di quella povera malcapitata. "Finiscila!" Urlò Drovan con stizza "Finiscila di ripeterlo, ormai ti abbiamo catturata, Tenebrerus!" disse ancora, avvicinandosi alla ragazzina "Non puoi fare niente per cambiare la tua sorte, piccola stupida!" La ragazzina si portò le mani incatenate agli occhi, continuando a piangere scossa da singhiozzi. Nomiva dal canto suo non poteva fare altro che essere confusa, cosa stava succedendo, ma soprattutto chi era quella ragazzina che pensavano fosse sua sorella? Era ovvio che quella non fosse Selina, Nomiva ovviamente sapeva riconoscere perfettamente sua sorella, eppure tutti gli altri erano convinti fermamente che quella fosse proprio Selina. Sua sorella quindi dov'era? Magari Selina era ancora viva, magari era scappata o si era nascosta. Bastò quel solo pensiero per far scaturire un profondo coraggio nel cuore dolorante di Nomiva, un coraggio di cui aveva disperatamente bisogno.

Ma ci fu qualcos'altro che fece tremare Nomiva, era la speranza, aveva paura di sperare che Selina fosse ancora viva, scoprendo poi che quello era solo un ennesimo scherzo sadico che il destino le aveva riservato. "Selina" ripeté più forte Nomiva, costringendosi a parlare e a fingere che quella fosse sua sorella. La ragazzina scosse ancora la testa e Drovan parlò "Andate" ordinò ai due soldati "Vi chiamerò dopo io stesso". Nomiva li vide uscire velocemente dopo aver rivolto all'uomo un cenno di reverenza e poi tornò a concentrarsi su quello che era necessario facesse e dicesse per non rischiare che Drovan sospettasse che quella non fosse Selina, esattamente come affermava la povera ragazzina innocente. "Sorella, ti prego, avvicinati!" Disse ancora Nomiva, ma l'altra scosse ancora il capo "Avanti, Selina" disse Drovan divertito "Vai da tua sorella, su, non farla attendere oltre!" Le strinse forte un braccio incatenato e la strattonò in avanti, a pochi centimetri dalla mano tesa di Nomiva oltre le sbarre.

La ragazzina però continuava a piangere in silenzio a capo chino, così Drovan si arrabbiò e le alzò la testa con violenza, costringendola a guardare Nomiva "Ti ho detto di obbedire!" Ripeté irato. Nomiva vide chiaramente il volto terrorizzato di quella poveretta, con le guance rigate di pianto "Non c'è bisogno!" ribatté Nomiva allarmata "Mi basta vederla da lontano!" Drovan si voltò per guardarla con freddo disprezzo "Ti è piaciuta questa sorpresa, Nomiva?!" Domandò "Rendimi felice e dimmi che la mia sorpresa ti ha reso lieta". Nomiva annuì piano, con freddezza, allertata "Ma immagino che non la lascerete stare in cella insieme a me, vero?" Drovan scoppiò nuovamente a ridere, con la testa alzata, poi tornò a guardarla, con i capelli lisci e lucidi che gli coprivano un po' gli occhi "Pensi veramente che io l'abbia portata qui per farla mia prigioniera?" I loro occhi si incontrarono per pochi istanti e lui parve deluso "Avevo sentito dire che eri furba" disse a voce bassa, canzonandola.

Nomiva rimase in silenzio a guardarlo, nella mente i pensieri galoppavano veloci per decidere le parole più accurate da usare "Cosa volete fare a mia sorella?" Domandò con gli occhi lucidi. Drovan aveva il volto avvolto dalla penombra, ma a Nomiva parve chiaramente di vedere gli occhi scuri del ragazzo brillare nel buio "Sai" disse lui, continuando a tenere la voce bassa "Mio fratello, il tuo legittimo re, voleva subito morta tutta la tua famiglia di traditori. Poi la sua amichetta gli ha fatto cambiare idea". L'uomo riprese a camminare lentamente, ma non senza aver ammonito l'altra "Tu vedi di restare ferma, sono stato chiaro, Selina?!" Disse con il dito alzato. La falsa Selina annuì senza smettere di piangere e Drovan allora si allontanò, ignorandola "Sì" riprese a parlare "Ci era quasi riuscita a farvi restare in vita entrambe, come esca per l'altra vostra sorella. Ma sai, mio fratello odia gli sprechi e si è detto che tenere due prigioniere si sarebbe rivelato un inutile spreco. Però tu puoi veramente ritenerti fortunata" concluse "Per mio fratello non dovrebbero esistere prigionieri, solo vivi e morti, tu sei un'eccezione. Una prigioniera è più che sufficiente".

Nomiva rimase con il fiato sospeso mentre Drovan la fissava con il petto gonfio "Ora" continuò e Nomiva sentì le labbra di lui stirarsi in un sorriso "Non mi è stato comandato chi dover uccidere e chi lasciare viva" disse tranquillo, come se stesse riflettendo su un abito da scegliere "Quindi presuppongono di poter scegliere io. Interessante" terminò, sempre sorridendo. Nomiva lo fissò con gli occhi sbarrati dalla paura, mentre l'altra singhiozzava più forte "Potrei far scegliere al caso" continuò, con le braccia dietro alla schiena "Ma perché sprecare l'opportunità di decidere io stesso" disse ancora, fingendo di riflettere. Poi Drovan tornò a guardare quella che pensava fosse Selina, con i capelli la ragazzina tentava di celarsi a tutti gli altri, tentava di proteggersi "Ritengo che tu ti lamenti troppo" disse con la voce dura, ma ugualmente divertita "E inoltre Nomiva è una secondogenita come me, dovremmo aiutarci, per giunta mi è parso che abbiamo una certa intesa io e lei".

Il principe dopo quelle parole prese l'altra per i capelli e la trascinò vicino alle sbarre, facendola cadere in ginocchio "Di' addio a tua sorella!" Ordinò Drovan "No!" Urlò Nomiva, sentendo la botta che l'altra diede alla testa "Lasciala stare! Lasciala stare!" Ma Drovan la ignorò e sbatté ripetutamente la ragazzina alle sbarre, facendole sanguinare la fronte. Nomiva la guardò da vicino, aveva gli occhi gonfi, arrossati e stravolti dal pianto, i capelli dorati erano spettinati e aveva due profonde occhiaie "Aiutami, ti prego!" La pregò la ragazzina con la voce rotta dalla disperazione. Nomiva sentì una fitta al cuore, tentò di afferrare la mano di quella ragazzina, avrebbe voluto tirarla dentro le sbarre insieme a lei per stringerla e proteggerla, non importava se non sapesse neppure chi fosse, ma Drovan fu più veloce a tirarla via prima ancora che Nomiva riuscisse a sfiorarle una mano "Selina! Selina!" Gridò con le mani tese oltre le sbarre, sentendo una pena profonda. Drovan la fissò con un ghigno "Addio, Tenebrerus" disse sussurrando, per poi scoppiare a ridete di nuovo dinnanzi all'espressione terrorizzata di entrambe le fanciulle. Nomiva continuò a fissarlo con gli occhi sbarrati, Drovan afferrò la ragazzina per un braccio e la strattonò verso di sé e quella emise un urlo acuto di dolore. Fu allora che Nomiva vide il luccichio nella penombra della spada che Drovan stava sguainando dal fodero.

Nomiva iniziò a gridare, capendo cosa avesse intenzione di fare subito il principe "No!" Strillò senza fiato "No, no, Selina! Lascia stare mia sorella!" e mentre gridava sentì gli occhi gonfiarsi di lacrime. Drovan la ignorò, con il sorriso soddisfatto sempre presente sul volto "Vi prego!" Gemette la ragazzina in catene "Non sono Selina! Lei è dai Malkoly, non sono io! Il mio nome è Belia!" Nomiva respirò a fondo, memorizzando ogni parola con la massima attenzione nonostante la pena intensa che le opprimeva il petto dinnanzi a un'immagine tanto straziante "Vi prego, per favore!" Un altro grido acuto uscì dalla bocca di quella poveretta "Selina!" Strillò in contemporanea Nomiva, lasciandosi cadere in ginocchio, non doveva lasciare che quelle nuove informazioni la distraessero dalla sua farsa, ma non ci voleva poi tanto impegno per provare pena sincera verso la ragazzina. Nomiva avrebbe voluto continuare a guardare quella poverina, voleva comunicare attraverso lo sguardo che non sarebbe stata sola nell'ultimo momento, eppure alla fine non né fu in grado, il panico la assalì e Nomiva chiuse gli occhi con il capo chino e la fronte poggiata alle sbarre, stringendo le dita intorno alle sbarre fredde della cella. Sentì un ultimo grido di implorazione della ragazzina e poi sentì uno strano rumore, lo stesso che aveva sentito quando era morto Filipphus, il rumore sottile della lama che affonda nella carne.

Nomiva respirò in modo affannoso, non voleva guardare, non riusciva a guardare figurandosi il volto di Filipphus nella mente, non voleva vede come quella povera innocente fosse morta esattamente come lui. Però in tutto quel dolore una piccola parte di sé riuscì ugualmente a sentirsi felice, forse era vero che sua sorella era viva, magari era veramente dai Malkoly come aveva detto quella ragazzina, inoltre adesso che pensavano che sua sorella fosse morta, avrebbero lasciato stare la vera Selina. Nomiva si sentì felice e grata a quel pensiero, tanto da sentire le lacrime, ma quelle lacrime non erano solamente di gioia, erano anche lacrime di disperazione per commemorare un'ultima volta quella povera sconosciuta morta al posto di sua sorella. Le lacrime bagnarono le guance di Nomiva e lei decise di dire un'ultima cosa "Selina" gemette, con la voce rotta dal dolore. Poi tornò a chiudere gli occhi, ma subito fu costretta ad aprirli nuovamente perché sentì una mano stringerle il vestito dalle sbarre, aprì gli occhi e si trovò vicino il volto del principe Drovan.

Si guardarono per un lungo attimo e fu proprio in quell'attimo che Nomiva sentì l'odio montarle dentro, un odio di poco inferiore a quello che sentiva per Teurum e Morfgan "Sappi che oggi è toccato a lei, ma presto toccherà anche a te" disse freddamente Drovan, senza più ridere "Trascorri una lieta notte, signorina Tenebrerus" terminò l'uomo e dopo quelle parole si alzò per andare via. Nomiva evitò accuratamente di guardare il corpo inanimato della ragazzina poco lontano, voltandosi e mettendosi di schiena poggiata alle sbarre, nonostante fosse consapevole che presto i soldati sarebbero tornati per portarlo via. Non riuscì a gridare il suo odio a Drovan, aveva paura veramente che potesse uccidere anche lei, impedendole di compiere la sua vendetta, così Nomiva si limitò a guardarlo con odio. In quella tragica vicenda alla quale era stata costretta ad assistere c'era però sempre la speranza che Selina potesse essere viva veramente e, probabilmente si disse Nomiva, anche Aurilda poteva ancora esserlo. Nomiva aveva trovato altri due buoni motivi per uscire da quella cella, così si asciugò gli occhi dopo che le guardie ebbero portato via il corpo della povera ragazzina e poi si rannicchiò, pensando furiosamente a un modo per fuggire.

 

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Capitolo 26
*** L'ammonimento di Iris ***


Pov:Leucello

Era una giornata fredda, il vento invernale spettinava i capelli di Leucello e passava tra le fronde degli alberi sempreverdi, generando un fruscio piuttosto melodioso. Dopo la morte della madre e il salvataggio di Omalley, Leucello insieme a Mondrik era sempre rimasto in compagnia della sua salvatrice, con buona pace di Mondrik. Omalley era una donna fantastica, questo Leucello lo aveva intuito fin dalle prime parole di lei, nonostante allora lui fosse affranto per il dolore a causa della morte della madre. A Leucello Omalley sembrava la perfetta applicazione della giustizia, viveva con l'essenziale in modo anche molto scomodo pur di salvare chi aveva bisogno di aiuto, senza fare alcuna distinzione tra la gente che incontrava e senza domandare nulla in cambio. Questa per Leucello avrebbe dovuto essere la giustizia, un'applicazione della legge chiara e semplice che puniva i colpevoli, senza secondi fini e senza favoritismi di alcun genere.

Omalley, c'era da dirlo, era anche piuttosto spassosa, faceva battute pungenti, sembrava non utilizzasse denaro da chissà quanto tempo ed era incredibilmente abile, sia nel combattimento che sugli alberi. Leucello la guardava spesso salire sugli alberi e districarsi tra i rami, raggiungendo gli uccelli; saliva fin sulla cima e poi guardava oltre la chioma, vedendo chissà che meraviglioso cielo da lassù. L'unico turbamento non da poco oltre ovviamente al doloroso ricordo del volto sofferente di Iris era Mondrik, lui non la pensasse affatto allo stesso modo riguardo alla straordinarietà di Omalley. Da quando era arrivata Omalley, Mondrik sembrava cambiato in paggio, o meglio, era sempre lo stesso di sempre, semplicemente che adesso tirava fuori prevalentemente la parte peggiore di sé. Sembrava proprio che Mondrik detestasse Omalley dal profondo del suo animo, nonostante lei li avesse salvati. Il fatto che fosse stata una donna ad avergli salvato la vita faceva tendere i nervi di Mondrik non poco, inoltre sapere che lei avesse sangue pirata nelle vene sembrava facesse aumentare l'ostilità di Mondrik nei confronti della ragazza.

Durante il viaggio Mondrik si era sempre mostrato assai poco collaborativo, se di consueto avrebbe rinunciato senza storie alle comodità, ora si lamentava per tutto, accusando Omalley di volerlo costringere a viaggiare in modo degradante al solo scopo di umiliarlo. Mondrik pretendeva di sdraiarsi di tanto in tanto per riposare e loro alla fine si fermavano, irritati ma speranzosi di poter continuare il viaggio più serenamente, impiegando ognuno il tempo come preferiva, nonostante le parole che Omalley aveva loro rivolto il giorno che si erano conosciuti alla fine la ragazza aveva deciso di assecondare Mondrik per non peggiorare la situazione. Leucello ringraziò di aver portato le tre piccole tavole con sé e il carboncino, nei tempi morti infatti si metteva a finire la bozza del busto della madre. Talvolta alzava lo sguardo e vedeva Omalley tra gli alberi, così aveva iniziato un disegno anche della ragazza.

Quel momento era proprio uno di quelli in cui Mondrik li costringeva al riposo. Leucello era seduto poco distante dal punto in cui era sistemato Mondrik, con la schiena contro il tronco di un albero e le gambe stese. Leucello invece era seduto su una roccia un poco ricoperta dal muschio e disegnare i particolari del volto della madre con il carboncino. Alzò la teletta e sorrise malinconico, somigliava proprio tanto a Iris, se sono avesse avuto i colori l'avrebbe avuta davanti a sé come fosse stata in carne e ossa. Leucello posò la teletta sulle ginocchia e guardò in giro, prima si soffermò su due funghi a terra, vicini a un albero vestito di muschio che a Leucello parve un uomo possente con in dosso un mantello di velluto, poi guardò verso l'alto, Omalley sembrava sparita ma probabilmente era sono sulla cima alta di qualche albero. Leucello guardò verso le fronde fitte e gli venne un'idea, estrasse il piccolo tubo di legno dalla tasca e lo puntò verso l'alto. Non appena ebbe guardato in quella canna che lui stesso aveva costruito, tutto gli si palesò in modo nitido davanti agli occhi.

Per vedere meglio le immagini lontane Leucello chiuse l'altro occhio e tutto si figurò ancora più chiaro. Le fronde erano belle, anche se il paesaggio era un po' monotono, ma con la sua canna-occhiale poteva catturare dei particolari mai visti prima. Mentre guardava nel tubo di legno improvvisamente la lente si oscurò, o meglio, il viso di Omalley gli si presentò talmente vicino alla lente che lo fece balzare all'indietro. "Leucello, cosa fate se mi è concesso saperlo?" Domandò spensieratamente la ragazza, poi si rese conto di averlo spaventato "Scusatemi" si affrettò a dire "Non era mia intenzione spaventarvi". Leucello scosse il capo "Non dovete scusarvi" rispose "Guardavo il paesaggio con la mia canna-occhiale". Omalley parve confusa e lo fissò con sguardo interrogativo "Cos'è una canna-occhiale?" Domandò perplessa.

Prima che Leucello potesse mostrarle il tubo di legno che faceva vedere da vicino lei già aveva ripreso a parlare "Ma se vuoi vedere veramente... scusate" si corresse "Se volete vedere". Leucello però scosse il capo "Nessun problema" assicurò "Non mi arrecate alcuna offesa dandomi del tu, Omalley". L'altra sorrise e annuì "Comunque dicevo che quassù c'è un bel vedere! E se me lo consentirete vi domanderei di seguimi" e la ragazza in un lampo passò sul ramo dell'albero vicino. Leucello la seguì da terra, fermandosi ai piedi di un grosso albero alto e forte, con la corteccia scura e spessa. Omalley era lì sopra e stava armeggiando con una corda. Il ragazzo la guardò perplesso e lei si calò giù "Avvicinatevi" disse in tono rassicurante. Leucello la fissò perplesso "Non avete motivo di temere" lo rassicurò ripetutamente lei "Credo proprio che vi piacerà, basta che voi facciate quello che vi dico, così non correrete il minimo rischio". Leucello spalancò un poco gli occhi e lei rise, vagamente divertita "Avanti" lo incoraggiò "Avvicinatevi".

Leucello allora obbedì e si avvicinò alla corda, poi Omalley fece lo stesso e gli strinse la corda con forza intorno al corpo. Un attimo dopo Leucello notò che si stava sollevano da terra, infatti i due stavano salendo. Leucello guardò giù e spalancò gli occhi, stringendosi di più alla corda, non era mai stato così in alto sospeso nel vuoto "Va tutto bene" la voce di Omalley gli arrivò leggera e tiepida come una carezza. Leucello la guardò negli occhi e sorrise, trovando il coraggio per tornare a guardare giù "Lo faccio sempre, non correte alcun pericolo". Lui annuì e un po' timoroso guardò un ramo poco più in basso, notando che c'era un piccolo scoiattolo, ma prima che avesse potuto farlo notare a Omalley, improvvisamente si fermarono. "Mettete i piedi dove vi indico" disse Omalley, afferrò un lembo della corda legata chissà dove e la strinse alla vita e alle spalle di Leucello con uno strano giro, fortificando la stretta "E se voi doveste cadere?" Domandò istintivamente lui, rendendosi subito conto di aver fatto una domanda stupida.

Omalley sorrise "Credo di avere abbastanza esperienza quassù" disse semplicemente "Ma a voi ripeto, mettete i piedi e le gambe dove vi dico io e non correrete il minimo rischio". Leucello annuì e iniziò a seguire la ragazza, domandandosi presto come fosse possibile per lei camminare in modo così agile sulla corteccia ruvida eppure scivolosa, poi si ricordò dello scoiattolo e temette di poterlo spaventare "Lì c'è uno scoiattolo" indicò, sporgendosi un poco. Omalley annuì senza enfasi "Oh, sì" rispose serenamente "Non scapperà se non facciamo rumore". Salirono di poco, su due rami testati personalmente da Omalley e poi Leucello si sbilanciò leggermente per afferrare la mano di lei e raggiungerla. Sentì un vuoto nello stomaco e afferrò con una mano un ramo fragile che gli si spezzò tra le dita. Omalley allora gli andò incontrò e lo fermò lungo il tronco. Leucello tirò un sospiro di sollievo e poi si ritrovò il volto ovale della ragazza dei boschi davanti "Attento" disse piano Omalley "Sì, grazie" rispose lui, tremando leggermente.

Omalley gli porse la mano "Venite, non voglio farvi cadere" disse "Sarebbe stupido da parte mia avervi salvato e poi farti precipitare da un albero". Leucello sorrise e le afferrò la mano, salendo molto più agevolmente grazie alla guida esperta dell'altra. "Prestate attenzione ai rami" lo avvertì ancora Omalley "Qui dovrebbe esserci un'apertura tra le chiome". Leucello senti gli aghi e le foglie dell'albero adiacente pungergli la pelle, poi seguì Omalley e si infilò nello spazio che gli stava indicando lei. Non appena ebbe infilato la testa in quello spazio aperto, Leucello sentì il vento gelido d'inverno schiaffeggiargli la faccia e nel tentativo di contrastare il freddo chiuse gli occhi. Omalley gli mise una mano dietro la schiena, incoraggiante come era stata sino a ora "Non avere paura" disse ancora "Ti assicuro che non te ne pentirai, Leucello... posso permettermi e chiamarti Leucello?" Leucello aprì gli occhi lentamente, annuendo alla domanda di lei, poi si voltò e rimase senza fiato, sembrava di essere immersi in una distesa verdeggiante e naturalmente si vedeva il cielo, eccome se si vedeva il cielo.

Ma non era certamente l'unica cosa da poter ammirare, si vedevano anche i campi, le nuvole e gli uccelli. Un sorriso si dipinse automaticamente sul volto di Leucello, insieme alla meraviglia "Ti piace, non è vero!?" La voce allegra di Omalley lo fece voltare "Ho, sì!" Rispose lui con entusiasmo "È bellissimo! Grazie veramente, Omalley." Poi a Leucello venne un'idea geniale, estrasse la canna-occhiale dalla giacca e se la mise davanti all'occhio. Questo era ancora più incredibile! Riusciva a vedere fino a chissà dove e si sentì felice. "Che cos'è quell'affare, dunque?" Domandò ancora Omalley, curiosa "Cos'è una canna-occhiale?". Leucello le sorrise "L'ho costruito io" spiegò "Non gli ho ancora dato un vero e proprio nome però. Serve a vedere le cose lontane, le mostra come se fossero vicine a noi". Allora Leucello stese la canna-occhiale verso di lei "Puoi provare a guardare se vuoi" sorrise. La ragazza afferrò la canna-occhiale con delicatezza, come se avesse temuto di poterla rompere, e poi la avvicinò all'occhio come aveva visto fare a lui. Leucello rimase in silenzio per diversi istanti, con gli occhi puntati su di lei "Ti piace?" Domandò poi. Omalley se lo tolse da davanti e guardò Leucello con un sorriso "È uno strumento incredibile!" Disse sinceramente ammirata "Ma non eri un'artista?" domandò poi con sincero interesse "Sì" confermò Leucello "Ma mi piace cimentarmi in tutte le arti".

Omalley annuì e tornò a guardare dentro alla canna-occhiale "Dove sei, Leucello!?" Dal basso arrivò la voce di Mondrik, sembrava arrabbiato "Adesso torno da te!" Si affrettò a rispondere Leucello di rimando "Siamo quasi arrivati" annunciò poi Omalley, porgendo a Leucello l'oggetto "Siamo quasi al confine con la Provincia Libera" continuò Omalley "Di solito scorto le persone fino a una certa lontananza di sicurezza, salvo rare eccezioni. Sono certa che il tuo amico sarà felice di vedermi andare via" aggiunse Omalley con un sorriso divertito. Leucello infilò la canna-occhiale nella giacca e poi seguì Omalley per arrivare nel punto dove potevano scendere. Leucello si sentì dispiaciuto sapendo che lei presto non sarebbe stata più loro compagna di viaggio, gli sarebbe mancata veramente la compagnia di Omalley.

Mentre scendevano Leucello guardò appena verso il basso e intravide chiaramente il volto di Mondrik, era contrariato e li aspettava giù con le braccia conserte. "Ma che accidenti ti è venuto in mente?" disse con sgarbo "Come ti è venuto in mente di salire lassù, per di più insieme a lei!?" Disse scortese e aggressivo, indicando Omalley con un dito. Leucello lo fissò interdetto "Stavo solo..." "Lasciamo stare e ripartiamo" lo interruppe però Mondrik "Prima arriviamo e meglio sarà per tutti!". Leucello rimase in silenzio e lo fissò da dietro alla schiena "Non preoccupatevi signor Androtte" intervenne Omalley nel solito tono provocatorio che usava con Mondrik "Presto non mi vedrete più! Vi lascerò a una locanda di fiducia, resterò qualche giorno con voi e poi andrò via e ognuno proseguirà per la propria strada". Mondrik la fissò acremente "Sarebbe il caso di liberarsi di te!" Rispose, con una tale scortesia che Leucello dovette trattenersi per non intimare a Mondrik di tacere e domandare perdono. Omalley però rise come suo solito "Posso dire lo stesso di voi!" rispose a tono "Ora svelti, ci siamo quasi".

I tre continuarono a viaggiare per qualche ora, forse due o più, poi finalmente Omalley disse loro che in pochi minuti avrebbero raggiunto la locanda di cui gli aveva parlato. Leucello fu lieto, voleva proprio riposare un po' e Mondrik doveva essere dello stesso parere perché sorrideva lievemente soddisfatto in cima al suo cavallo. Poi improvvisamente si alzò un forte vento alle loro spalle, un vento che allarmò istantaneamente tutti "Che sta succedendo?" domandò Mondrik voltandosi indietro "Fai piano" lo fermò però Omalley, stringendogli un polso con forza. Mondrik la fulminò con lo sguardo "Ma come osi misera" "Zitto!" sussurrò ancora Omalley "Sono i demoni del vento!" Non appena Leucello ebbe sentito quelle parole fu come se un vento gelido gli si fosse insinuato lungo la schiena e lui sentì i brividi. Mondrik spalancò gli occhi "Smettila di prenderci in giro, maledetto pirata!" Omalley però lo ignorò e si voltò lentamente dal ramo basso su cui era appollaiata. Leucello la imitò e si voltò con estrema lentezza, fu allora che li vide: avevano forma antropomorfa ma non erano uomini, erano fatti di fumo, intangibili ma in grado di uccidere.

"Zitti" sussurrò nuovamente Omalley "Se non si accorgono di noi penso che ci lasceranno stare". Leucello annuì e così fece Mondrik, tuttavia Leucello notò un alveare pendere qualche ramo più in alto, proprio sull'albero dietro al quale erano nascosti. I demoni stavano andando via, o meglio, sarebbero andati via se non fosse stato per una vespa, si avvicinò al muso del cavallo di Mondrik e lo punse. Subito il cavallo nitrì e a nulla valsero i tentativi del padrone di farlo tacere, perché il cavallo continuò ad agitarsi, facendo voltare i mostri. "Scappate!" gridò Omalley immediatamente e così fece Leucello, con i talloni spronò il suo cavallo, ma capì subito che qualcosa non andava perché non udiva gli zoccoli del cavallo dell'amico seguirlo. Fu così che Leucello si voltò, il cavallo imbizzarrito di Mondrik non gli permetteva di fuggire "Fermati! Fermati!" gridava Mondrik.

Omalley intanto tentava di scacciare i demoni, ma a nulla valevano i colpi di spasa contro il vento. Leucello allora galoppò nuovamente verso di loro "Queste vespe!" gridò ancora Mondrik, tentando di scacciare le vespe e di reggersi al cavallo imbizzarrito contemporaneamente. "Omalley!" urlò invece Leucello "Omalley, come ti posso aiutare?" La ragazza però non rispose subito, impegnata com'era a districarsi tra i rami "Dobbiamo dargli fuoco prima che ci mandino contro un tornado!" rispose lei "Come?" domandò ancora Leucello "Ho della polvere da sparo, distrai questi demoni così infiammo un ramo e li faccio saltare in aria". "E queste vespe?" strillò Mondrik "E il mio cavallo impazzito!?" Omalley non gli badò "Vai Leucello, avvicinati e portali lontano!" così Leucello spronò il cavallo e passò proprio davanti ai demoni, attirando la loro attenzione. Subito il ragazzo ebbe timore per quella decisione presa, adesso lo stavano seguendo e potevano ucciderlo.

"No!" udì poi l'urlo di Omalley e questo gli fece fermare il respiro "Che succede!?" "Ho finito la polvere da sparo... dannazione!" Leucello sentì il gelo delle raffiche di vento fortissime dei demoni e quel vento fu come una secchiata d'acqua gelida che tuttavia lo riscosse "Omalley!" gridò "Omalley, io lo so come possiamo fare!" "Come?" urlò lei in risposta "Ci serve qualcosa di alcolico!" Omalley attese un attimo prima di rispondere "Mi dispiace" rispose "Ma ho solo acqua nella mia fiasca" "Mondrik ha del cognac nella sua! Prendi quello per i demoni!" Era perfetto, si sarebbero liberati dei demoni "E' una buona idea" ammise Omalley "Ma non so se basterà impregnare un ramo per liberarcene, sono quattro!" E fu allora che a Leucello venne un'altra idea geniale "Mettilo sull'alveare, il favo lo tratterrà!" Per un attimo Leucello non ebbe risposta "Torna indietro allora!" gridò Omalley "Riportali da noi!"

Allora mentre Leucello galoppava con i demoni che lo tallonavano intravide Omalley sfilare a Mondrik la fiasca dalla tasca e poi vuotarla sull'alveare, per poi dare un forte colpo al cavallo che parve farlo rinsavire perché la bestia galoppò via, sfrecciando velocemente lontano dalle vespe. "Fermati!" urlò poi a Leucello e lui si fermò bruscamente, rischiando di farsi disarcionare. Omalley estrasse la sua spada più grossa e poi assestò due colpi al ramo con l'alveare che penzolò più in basso. "Vattene!" urlò Omalley e Leucello le obbedì, pur essendo preoccupato per lei. Omalley scoccò una freccia a uno dei demoni e questa lo trapassò, ma adesso lei aveva ottenuto quello che voleva, aveva catturato la loro attenzione. Leucello poi si fermò per guardare, forse in maniera imprudente, ma voleva guardare se il suo piano stava funzionando e voleva assicurarsi che Omalley stesse bene. Poi la vide salire in alto, usando solo le braccia per salire, si fermò sulla cima di un albero per infiammare una piuma fissata sulla punta di una freccia. Accese il fuoco, ma uno dei demoni con una raffica di vento lo spense.

Omalley riprovò e lo spensero di nuovo e poi ancora. "Omalley, scappa!" urlò Leucello "Vattene tu!" disse lei di rimando "Ci seguiranno se non li eliminiamo!" E allora Leucello notò che Omalley si era messa la freccia tra i denti e stava legando una delle sue corde in alto su un tronco. Fu in quel momento che Leucello capì e tutto accadde in pochi attimi: Omalley si lasciò andare stretta alla corda e poi mentre volava insieme a essa accese la punta della freccia e la scoccò, centrando in pieno l'alveare che esplose. Leucello trattenne il fiato, una nuvola di fumo si sollevò e poi udì gli zoccoli del cavallo di Mondrik alle sue spalle "Andiamocene" disse l'amico con freddezza. Leucello non si mosse "No" rispose con fermezza. Mondrik sbuffò sonoramente "Voglio aspettarla". Mondrik allora lo scosse per un braccio "E' morta, andiamo" gli disse, poi aggiunse con un sorriso "Ed era ora". Leucello si volò di scatto, estrasse la canna-occhiale e colpì forte Mondrik, poi, prima che l'altro potesse reagire, Leucello galoppò verso il fuoco, conscio del fatto che i demoni potessero essere ancora vivi.

"Omalley!" gridò "Omalley!" poi si fermò e tossì a causa del fumo. "Omalley!" tentò ancora, allarmato "Ti prego, rispondi!" C'era solo fumo, ma dal momento che non c'era vento Leucello immaginò che almeno i demoni fossero stati sconfitti "Omalley!" gridò un'ultima volta disperato, senza ricevere una risposta. Aveva ragione Mondrik, Omalley era morta tra le fiamme per salvarli ancora una volta, ma questa volta la colpa sulla coscienza di Leucello era più grave, d'altronde era stato lui a proporre quel piano. "Omalley" sussurrò, sentendo una stretta al cuore "Andiamocene, non farmelo ripetere un'altra volta" lo richiamò Mondrik "E non osare piangere per quella creatura inferiore!" Leucello si asciugò due lacrime solitarie e poi ispirò forte "Ritira subito quello che hai detto" disse con chiarezza, continuando a dare le spalle all'amico, assumendo una vaga sfumatura minacciosa nel tono di voce. Mondrik restò perplesso "Che cosa?" domandò infatti "Temo di non aver sentito bene" "Hai sentito benissimo invece" replicò Leucello, con maggiore durezza "Ritira quello che hai detto, ingrato stronzo".

Allora Mondrik furente gli si avvicinò e gli stritolò un braccio "Attento a quello che dici, Leucello" lo minacciò "Ti ricordo che potrai anche essere un artista migliore di me, ma sono io quello esperto di combattimento". Leucello non si lasciò intimorire "Dico solamente che sei un ingrato dal momento che lei ci ha salvato la vita per due volte. Faresti bene a mostrare un minimo di riconoscenza almeno una volta nella vita" terminò Leucello con disprezzo e durezza. Ma prima che Mondrik avesse il tempo per rispondere, come una visione comparve dall'alto, ancora un po' coperta dal fumo e sporca di fuliggine, Omalley. Leucello non appena la vide sorrise, era sporca di cenere da capo a piedi, ma sembrava illesa se non per qualche piccolo graffio sul volto e sul collo. "Omalley!" la accolse Leucello, avvicinandosi. La ragazza sorrise e scese con agilità "Mi dispiace signor Androtte" disse divertita dinnanzi all'espressione furente di Mondrik "Ma c'è bisogno di molto di più per liberarsi della mia presenza".

Poi Omalley tornò a guardare Leucello "Ho temuto che fossi morta" ammise lui e Omalley continuò a sorridere "Non devi temere per me" disse, scrollandosi un po' di cenere di dosso "E sappi che hai dato un gran contributo, senza la mia polvere da sparo e senza alcolici non avremo potuto liberarci di quei demoni facilmente. Sei molto intelligente". Leucello si sentì arrossire lievemente "Senza di te però sarebbe stato tutto inutile" rispose "Sei molto abile e forte e per questo i demoni non ci daranno più preoccupazioni". I due continuarono a sorridersi finché non intervenne Mondrik "Andiamo" disse cupamente "Non sopporto più questo fumo!" Così ripresero il cammino e arrivarono velocemente alla locanda vicina, intanto Mondrik continuava a fissare Leucello con aria minacciosa.

Omalley si fermò davanti a un casolare "Vado ad avvertire del vostro arrivo, aspettatemi qui" disse allegramente, scendendo dall'albero. Non appena Omalley si fu allontanata, Mondrik ricominciò a parlare "Non vedo l'ora che se ne vada" riprese con la consueta monotonia e, prima che Leucello potesse replicare, Mondrik gli aveva assestato un pugno sotto al mento. Leucello si tastò il mento e poi guardò Mondrik "Sei impazzito?" disse all'altro "Ti comporti in modo vergognoso. Perché lo fai, ci ha salvati!" "Avrei vinto io contro quei soldati" replicò Mondrik "Se quella non avesse osato intervenire!" Leucello rise cinicamente "Certo" rispose "Sarebbe andata proprio così, ma nei tuoi sogni!" Mondrik lo fissò con odio "Ho visto come la guardi, sai!?" disse inaspettatamente "Non capisco dove tu voglia arrivare con questa affermazione" rispose Leucello con indifferenza. Le labbra di Mondrik si arricciarono in un sorriso compiaciuto "Ti stai lasciando sedurre da quella misera fattucchiera selvaggia" rispose disgustato "È la figlia di un pirata e non sta mai al posto che le spetta! Vive come una selvaggia e non possiede una dimora fissa". Si fermò un attimo e poi aggiunse "Ho sempre ritenuto che i tuoi gusti fossero raffinati ma a quanto pare mi sbagliavo enormemente, se muori dietro a quella feccia".

Leucello lo guardò con rabbia, ma prima che potesse sputare tutto il suo disprezzo si ritrovò Omalley davanti "Vogliate seguirmi, miei gentili signori" disse la ragazza in tono falsamente reverente "E non sforzatevi di dissimulare" aggiunse, sempre in tono sereno e canzonatore "So perfettamente che parlavate male di me, signor Androtte. Tu non dargli ascolto, Leucello" si rivolse unicamente a lui "Perché nessuna delle sue parole mi tange" finì allegramente Omalley, camminando verso il casale. Leucello dovette sforzarsi per non sorridere, cosa che purtroppo non sfuggì all'altro e che rese Mondrik ancora più furente. Leucello smontò da cavallo e lo legò a un albero accanto alla locanda e Mondrik fece lo stesso in silenzio, con il volto fiammeggiante "Non temete" li rassicurò Omalley "Adesso porteranno i vostri destrieri a riposare nella stalla". Quando Omalley aprì la porta Leucello rimase con la bocca spalancata, c'era un bell'ulivo al centro della stanza che sfiorava il soffitto con i rami e dominava tutta la scena "Benvenuti alla 'Locanda dell'ulivo'" disse una donna dal volto gentile, che li aspettava davanti al bancone "Benvenuti" un corro di voci li fece voltare sulla loro sinistra, sei tra bambini e ragazzini li avevano appena accolti.

"Buongiorno a voi" rispose sorpreso Leucello "Lei è Zenobia" li presentò Omalley "È la proprietaria di questa splendida locanda e quelli sono i suoi figli". Leucello sorrise "È un piacere fare la vostra conoscenza, gentile signora". Il sorriso della donna si allargò "E' un onore fare la vostra conoscenza, signor...?" "Leucello" rispose lui "Leucello Argis". Non appena si fu presentato, Mondrik gli diede una spallata "Ma che diavolo fai!?" Lo rimproverò aspramente "Sei davvero così ottuso!? Sei ricercato, non puoi presentarti così a questa gente!" Leucello lo fissò con fastidio crescente "Se Omalley ha assicurato che questa è una locanda che gode della sua fiducia" replicò "Allora gode anche della mia di fiducia". "Non mi importa minimamente della gente di cui ha fiducia questa misera piratessa selvaggia!" Si impuntò furioso Mondrik.

"Signori" li interruppe cordialmente Zenobia "Perché non vi sistemate in una camera? Immagino che sarete stanchi, ma se non vi sentite al sicuro nelle camere che riserviamo ai clienti ci sono anche le camere nella cantina...". Mondrik si diresse senza aver ricevuto alcun invito verso le scale del piano superiore e sparì lungo il corridoio "Perdonatemi" si affrettò a dire Leucello "Sono profondamente rammaricato per il comportamento irrispettoso del mio amico" "E' stata colpa mia" rispose la donna "Non avrei dovuto nominare le camere nei sotterranei" si incolpò Zenobia "È ovvio che si sia sentito offeso, ma il mio intento era unicamente quello di offrirvi una sistemazione più discreta e sicura per la vostra condizione". Omalley scosse la testa "No Zenobia, ti assicuro che quell'uomo fa così continuamente" la rassicurò e Leucello annuì "E' scortese e arrogante per natura" "Sappiate comunque che io sarò lieto di occupare una delle camere nel sotterraneo" annunciò Leucello "Ovviamente se non vi abbiamo offesa troppo, perché lo capirei se mi domandaste di andare via" precisò Leucello. Zenobia scosse il capo "Non ci pensate neppure, signor Argis. Gli amici di Omalley sono sempre i benvenuti nella mia locanda e voi non fate eccezione". Leucello sorrise "Grazie veramente, gentile signora" rispose e dopo un cenno di assenso sparì nelle cantine.

Leucello si sentiva davvero grato per aver incontrato Omalley, aveva salvato sia lui che Mondrik per ben due volte e li aveva aiutati per tutto il resto da quando si erano incontrati. Erano persone come lei che meritavano di stare al comando, non iracondi crudeli come il re Morfgan, ma Leucello dovette ammettere che avrebbe trovato difficile immaginare Omalley vivere lontana dai suoi boschi. Leucello si spogliò del mantello, per poi stropicciarsi gli occhi stanchi. Controllò di avere ancora con sé le cose più importanti, ma portava nella giacca solamente la canna-occhiale, mentre il resto dei suoi averi erano fuori col cavallo. Leucello sentì bussare un attimo dopo "Posso entrare? Porto le tue cose". Era stata Omalley a parlare "Certamente" rispose lui, avvicinandosi per aprirle la porta "Non c'era bisogno, potevo portarli io" disse, trovandosela davanti. Omalley dopo aver lasciato i suoi averi sul tappeto scrollò le spalle "Nessun disturbo" assicurò, poi sorridendo tornò al piano superiore. Leucello fissò la porta con un sorriso e dopo si decise a controllare di avere con sé tutto, le tre telette c'erano ancora, come il carboncino, ma mancava qualcosa. Leucello constatò con tristezza che mancava il sacchetto di iris che gli aveva dato la madre. Poteva prenderne certamente un altro di sacchetto, con i medesimi semi, ma non era quella la cosa che gli importava, era la persona che glieli aveva dati ad aver reso quel sacchetto importante.

Sospirando tristemente pensando alla sua cara madre e alla disattenzione che aveva avuto per quel dono, Leucello estrasse la teletta dove il volto di Iris era quasi completo e la strinse a sé, pensando si abbracciarla. L'immagine di sua madre morente gli si presentò ancora chiara e nitida nella mente e lui sentì una stretta più forte al cuore. Dopo aver trascorso qualche istante con gli occhi chiusi, stringendo il disegno, Leucello si decise a tornare su, riscuotendosi dalla malinconia che rischiava di intrappolarlo. Quando salì trovò la padrona della locanda intenta a preparare qualcosa da mangiare per loro e Leucello poté ben affermare dal profumo che dovesse essere buonissima; tutti i ragazzini invece stavano sparsi per la stanza, parlando o giocando. Leucello li guardò con un sorriso, andando poi incontro alla donna "Ah, eccovi" lo accolse gentilmente Zenobia "Mi dispiace se la stanza nei sotterranei non è confortevole" si scusò subito "Non ditelo neanche" la interruppe Leucello "È una sistemazione perfetta".

La donna prese un pentolone e un mestolo, versando una generosa mestolata di zuppa in una ciotola che porse a Leucello "Ecco, mangiate pure. Ne avrete bisogno dopo questo lungo viaggio". Leucello sorrise "Grazie veramente, signora" disse in tono dimesso e garbato "Prego solo gli dèi affinché la vostra ospitalità non vi causi mai dei problemi, non potrei perdonarmelo" terminò lui, sentendo una varia inquietudine. La donna lo guardò vagamente accigliata "Vi riferite alle parole del vostro amico?" Leucello si fece più vicino "Esattamente" confermò Leucello con aria grave "Le guardie del re mi cercano". La donna però non si scompose minimamente nel sentire quelle parole "Non siete certo il primo ricercato dalla legge ingiustamente che nascondo nella mia locanda per aiutare la mia cara Omalley. Ma devo ammettere che ultimamente mi porta sempre ospiti con storie tragiche, da quando è succeduto il nuovo re".

Leucello la fissò, abbassando di più la voce per mormorare "E, se non oso domandare troppo, cosa vi spinge a correte rischi del genere?" Domandò Leucello, sentendo un vago imbarazzo per essere stato tanto ficcanaso "Omalley" rispose semplicemente l'altra "Ha aiutato anche me in passato, salvando la mia vita e quella di mio marito Valdis. Noi le dobbiamo la vita. Se lei non ci avesse salvati, io non sarei qui a parlare con voi. Ricambiare il suo gesto con un tale, misero aiuto è il minimo che io possa fare per sdebitarmi". Leucello sorrise, sentendo crescere l'ammirazione nei confronti di quella donna dall'animo nobile e generoso "Siete molto coraggiosa" disse con sincerità "Inoltre la gratitudine è un valore raro da trovare in questi tempi nefasti in cui siamo costretti a vivere". "Vi sbagliate" lo corresse dolcemente Zenobia "Non sono così coraggiosa, mi limito a offrire quel poco che possiedo a chi ne ha più bisogno. E quei pochi che ancora considerano la gratitudine sono quelli che ricordano gli antichi valori che resero grandi i nostri antenati". I due si sorrisero "Se non sono troppo indiscreta, di cosa vi occupate per sopravvivere?"

"Io ero principalmente un pittore" rispose Leucello in tono mesto "So anche scolpire e mi diletto a costruire oggetti curiosi, talvolta mi occupavo anche di architettura, ma dipingere era la mia principale occupazione. Per questo preciso motivo il re mi ha fatto dare la caccia dai suoi soldati" continuò Leucello, mentre la donna lo ascoltava attentamente "Mi aveva chiamato a corte per fargli un ritratto. Quando sono arrivato nella capitale ho appreso il modo barbaro in cui nostra maestà ha ucciso uno dei signori della Provincia di Ghiaccio, il signor Tenebrerus". Un tonfo fece voltare Leucello e Zenobia in contemporanea, la figlia più grande della donna aveva fatto cadere una ciotola di ceramica che era finita in frantumi e adesso la ragazza aveva le mani davanti alla bocca.

Leucello si stupì molto di quella reazione tanto esagerata, ma penso che dovesse trattarsi di una ragazza molto sensibile "Angelika" la sgridò nervosa la madre. La ragazzina raccolse i cocci e rimase in silenzio "Scusatemi, cosa dicevate del re?" Lo richiamò a sé Zenobia "Oh, sì" ricordò Leucello, tornando a guardarla "Nella locanda in cui sostavo devo essermi lasciato sfuggire troppo, ho detto tutto ciò che penso del re e vi posso assicurare che non è nulla di lusinghiero. Le mie parole sono giunte al castello reale e da allora sono ricercato per aver espresso la mia opinione" terminò Leucello indignato. Zenobia scosse la testa in segno di dissenso "La zuppa si fredda" disse poi, vedendo il fumo farsi più rado "Oh, perdonate, sono così maldestro". Leucello prese la ciotola che poco prima Zenobia gli aveva porto e si avvicinò al tavolo, iniziando a mangiare quando i bambini si misero vicino a lui "Omalley dov'è? " domandò Leucello, guardandosi in giro "È uscita, ma tornerà molto presto" rispose vaga la donna.

Leucello riprese a mangiare, per quanto la caccia di Omalley fosse sempre riuscita a sfamarli, non c'era paragone con una bella zuppa calda e nutriente. "È squisita" si complimentò Leucello, poi aggiunse tristemente "Mi ricorda tanto quella che faceva mia madre". Zenobia si mise a sedere di fronte a lui "Cosa le è successo?". Leucello cessò di mangiare per guardarla negli occhi "E' morta" disse solamente, tirando un sospiro "I soldati del re l'hanno ferita a morte per tendermi una trappola". Leucello sentì le lacrime riprendere a bruciargli negli occhi, ma non voleva intristire i bambini, così chiuse gli occhi e tirò un profondo respiro per calmarsi. Quando riaprì gli occhi questi brillavano, ma Leucello sentì di potersi trattenere senza sforzarsi troppo "La amavo così tanto, lei era veramente importante per me" e dopo quelle parole Leucello sentì una lacrima scendere, così chinò il capo e la asciugò, sorridendo tristemente.

Sentì una mano gentile posarsi sulla spalla e si voltò, trovando Zenobia di fianco a lui "Mi dispiace tanto" disse dolcemente la donna "L'amore che prova un genitore per un figlio spesso è lo stesso che sente un figlio" disse "Un'amore forte, talmente forte da andare oltre la morte. Magari vostra madre non è più insieme a voi, ma la sua anima e il suo ricordo vivranno in voi e la sua protezione non mancherà mai dal luogo in cui lei adesso si trova. In pace per l'eternità". Leucello rispose con un dolce sorriso alle belle parole della donna, voltandosi, i bambini e i ragazzini guardavano dolcemente la loro madre, felici e amorevoli "Tu non lasciarci mai nemmeno con il corpo, madre" disse una delle figlie gemelle della donna.

Zenobia si avvicinò a loro e si strinsero tutti in un abbraccio caloroso, mentre i due più piccoli si facevano prendere in braccio contemporaneamente dalla madre. Leucello rimase a guardare la scena con un sorriso e una dolce serenità si infuse nel suo animo "Ma che magnifico dipinto dal vero!" Leucello si voltò verso la porta d'ingresso, Omalley era appena tornata da chissà dove e sembrava piuttosto soddisfatta per qualcosa "Vieni anche tu, sorellona!" Disse la bambina più piccola "No, no! Mi schiaccereste e sapete che io sono abituata a spazi molto ampi!" Rispose ridacchiando Omalley "Ti prego, Omalley!" disse il bambino "Ti prego!" Dissero tutti insieme. La ragazza alzò gli occhi al cielo, fingendo di pensarci su "E va bene!" Disse alla fine "Ma questa è l'ultima volta che mi incastrato così, piccole pesti!" E detto questo Omalley si unì al gruppo. Leucello li guardò teneramente "Il vostro amico non scende più?" Domandò improvvisamente Zenobia, districandosi lentamente dall'abbraccio.

"E' evidente per chicchessia oramai, conto così poco per questo miserabile idiota che non si ricorda neanche più della mia presenza". La voce di Mondrik arrivò dall'alto, tagliente e scortese, facendo voltare tutti i presenti verso il piano superiore. Leucello lo guardò negli occhi, con un'espressione dura sul volto "Qualunque siano le pene che ti affliggono, Mondrik, ti prego di non usare queste parole davanti ai bambini!" Lo rimproverò Leucello in tono pacato ma fermo "E per questo motivo ritengo che sarebbe più appropriato se andassimo a parlare in una camera da soli, perché mi pare evidente che il tuo comportamento stia causando solamente disagi". Mondrik scese lentamente le scale e presto il disprezzo e l'orgoglio che aveva dipinti sul volto lasciarono il posto a una risata canzonatoria "Noi non andiamo proprio da nessuna parte" rispose in tono beffardo e furente "Ci sono i bambini" lo imitò Mondrik, poi ringhiò "Pensi veramente che mi importi di questa misera gentaglia, idiota!?" Gli urlò contro violentemente. "Io sono stanco di doverti sopportare, Leucello" gli sputò contro "Sono stufo di te e della tua misera morale! Sei un parassita da tutta la vita, mio padre ti ha insegnato a dipingere e tu, maledetto ipocrita ingrato, sei sempre stato più bravo di me!"

Il volto di Mondrik era contratto dalla rabbia "Hai sempre dichiarato che fossimo amici!" replicò Leucello con la stessa durezza "Amici?" Ripeté piano l'altro "Amici!?" E dopo averlo guardato con sgomento scoppiò a ridere "Sei uno mentecatto ingenuo!" affermò "Io non ti ho mai voluto come amico. Sei un uomo talmente debole da non poter neppure essere considerato come tale! Io non ti ho mai voluto vicino perché mi facevi provare vergogna per le tue idee strambe riguardanti il denaro e la giustizia! Ma poi hai fatto successo con l'arte che mio padre ti ha insegnato e finalmente ho ringraziato gli dèi per non aver tagliato con te i rapporti, finalmente saresti stato utile alla mia persona! Credi veramente che se non fossi diventato il pittore che sei io ti avrei mai considerato? Tu hai avuto successo" disse disgustato "Tu, così debole e ottuso da disprezzare il denaro!" Leucello lo guardò mortificato, ma al contempo con freddezza, doveva aspettarselo, ma sentirselo dire in tal modo non poteva che fargli ugualmente male. D'altronde lui e Mondrik erano vissuti quasi come fratelli, sin da bambini "Allora mia madre ha avuto ragione anche questa volta" gli disse con la voce ferma e lo sguardo immobile "Già, tua madre lo ha sempre sostenuto, non è vero!?" lo incalzò ancora Mondrik "Ha sempre visto come lo sguardo invidioso del sottoscritto deturpava il suo bambino prodigioso!"

I due rimasero in silenzio per vari attimi, mentre Omalley, Zenobia e i sei ragazzini li guardavano "E adesso a causa dei tuoi capricci, della tua ottusità e disattenzione io sono stato costretto a rinunciare alla capitale per fuggire come un criminale per tutto il regno! E per giunta adesso ti metti persino a fraternizzare con questa misera feccia e con quella maledetta piratessa, domandando a me di fare lo stesso! Dove arriverà ancora la tua arroganza, dimmi!?" "Adesso hai veramente passato il limite, Mondrik!" Lo sgridò con durezza Leucello, guardandolo con ostilità "Sei ingiusto e meschino". Mondrik però parve ignorarlo del tutto e riprese a parlare "Hai sempre sostenuto che ci fossero innumerevoli ingiustizie in giro, lo hai sempre notato meglio di me. Ma una cosa giusta è accaduta, adesso che ci penso" disse con un ghigno Mondrik e poi puntò gli occhi in quelli di Leucello, per scandire lentamente "Finalmente quando è morta tua madre hai sofferto anche tu!" Leucello piegò leggermente la testa e lo guardò con rabbia, sentendo per la prima volta il desiderio di picchiare qualcuno.

Ma prima che avesse il tempo per pensarci oltre, Leucello vide Omalley passargli vicino, diretta come un lampo verso Mondrik e prima che chiunque tra loro riuscisse a focalizzare la scena, Omalley aveva sferrato un cazzotto sul naso di Mondrik. Leucello vide Mondrik piegarsi per tastarsi in naso, dolorante e insanguinato, e poi Leucello vide scattare Mondrik a sua volta in avanti per rispondere al colpo. Istintivamente Leucello scattò in avanti come avevano già fatto gli altri due prima di lui per separarli e vide con la coda dell'occhio Zenobia tentare di fare lo stesso. Omalley e Mondrik provarono a picchiarsi, Mondrik provò a dare un cazzotto a Omalley e lei tentò di fare lo stesso, Zenobia strinse le spalle di Omalley per tentare di tenerla ferma e Leucello si avvicinò a Mondrik per tenere fermo lui.

Mondrik fermò Leucello prima che potesse bloccarlo da dietro, gli assestò un pugno nelle costole e Leucello quasi cadde a terra. Omalley si divincolò dalla debole presa di Zenobia e scattò verso Mondrik, gli assestò un nuovo pugno, questa volta nello stomaco, poi uno nel fianco e un altro sotto al mento. Mondrik si accasciò in ginocchio, guardò furiosamente Omalley e si rialzò dolorante "Rimani pure con questa maledetta selvaggia!" Urlò Mondrik sputando a terra "Io me ne vado!" Andò di corsa al piano superiore e prese i suoi averi, correndo giù con la medesima fretta "Aspetta" lo bloccò Leucello giù dalle scale. Mondrik lo spinse a terra con forza e passò oltre "Spero che tu non ci arrivi mai nella tua idilliaca provincia adorata" disse sulla porta, con sfrontatezza "E spero che tu cada da un albero e ti infilzi in un ramo appuntito!" disse rivolgendosi a Omalley.

"Non ti sono bastate!?" Rispose furente Omalley, con un pugno alzato "Crepa, maledetta!" Ringhiò Mondrik di rimando "Avrai quello che ti meriti, ne sono sicuro!" "Anche io sono sicura che tu farai la fine che meriti" rispose prontamente Omalley con la medesima furia. Mondrik li guardò con odio un'ultima volta e poi uscì, sbattendo la porta con violenza. Leucello sentì gli zoccoli del cavallo di Mondrik allontanarsi poco dopo, finché il rumore non sparì definitivamente. Leucello guardò gli altri nella stanza col capo chino "Vi domando umilmente perdono" disse mortificato "Me ne andrò subito se volete, sarebbe la cosa migliore per tutti" "Non pensateci nemmeno!" Rispose subito Zenobia "Voi non avete alcuna colpa per quanto è accaduto, quell'uomo è l'unico responsabile". Leucello scosse piano il capo, sospirando "Non meritavate di sentire tutto questo, voi non conoscevate la nostra storia e non meritavate di conoscerla in questo modo barbaro!" "Già, quell'uomo ha ben poco del signore, è lui l'unico selvaggio e l'ha dimostrato chiaramente" rispose Zenobia senza scomporsi "L'invidia e il rancore lo divoravano da anni".

"Se ti interessa conoscere la mia opinione, la cosa migliore che poteva capitarti è questa, separarti dalla sua aggressività nociva" rispose Omalley con freddo disprezzo sul volto "Era lui il parassita, non tu". Leucello guardò Omalley e i due si sorrisero "Grazie di tutto" disse semplicemente "A tutte e due e mi scuso ancora per aver fatto assistere i bambini a tutto questo". Zenobia scrollò le spalle e Omalley sorrise "Io non ho fatto nulla per aiutare" ammise "Dovresti ringraziare unicamente lei" disse Omalley con onestà, scoccando un bacio sulla guancia di Zenobia. La donna le sorrise "Tu però signorina cerca di restare più calma in situazioni del genere, almeno qualche volta". Omalley le sorrise in modo vagamente beffardo e non rispose di proposito per non deludere le aspettative della donna "Andiamo a mangiare e lasciamoci alle spalle questa brutta storia, cosa ne dite?" Propose la ragazza. Tutti annuirono e si misero intorno al tavolo a mangiare e fu allora che Leucello finalmente sentì l'ispirazione ritornare lentamente, se solo sua madre fosse stata lì con lui per poter assistere, allora tutto sarebbe stato nuovamente perfetto.

 

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Capitolo 27
*** Un ospite gradito ***


Pov:Damian

La vita al castello degli Hardex procedeva nel medesimo orribile modo, Damian era costretto a subire punizioni ingiustamente, veniva sobbarcato di compiti da svolgere e ovviamente veniva sempre trattato peggio delle bestie. I suoi coccodrilli si rivelavano sempre ottimi compagni, nonché la cosa migliore che ci fosse al castello, inoltre doveva mancare poco alla schiusa delle uova, quindi presto sarebbero nati dei nuovi coccodrilli. Insomma era tutto normale al castello di Aspergo nonostante fosse rimasto il mistero della morte dei soldati, ma questo non era un problema di cui Damian voleva o in cui doveva immischiarsi, era stato sufficientemente curioso da ricevere una punizione esemplare una volta e Damian era certo che mai più si sarebbe interessato degli affari dei padroni. Di certo il clima era teso al castello, i signori erano nervosi e tentavano di celare il nervosismo che li soffocava dietro sorrisi falsamente bonari, soprattutto Pontroius, perché anche volendo lasciar stare la questione dei soldati dovevano sempre fare i conti con un problema ineluttabile: il mancato fidanzamento della signorina Dasha.

I signori parlavano spesso dell'argomento, con il trascorrere del tempo era quasi diventata la loro ossessione. Damian li sentiva parlare, ripetevano continuamente che gli altri signori e il re erano dei miserabili e meritavano la morte, fatto strano a dirsi per chiunque non conoscesse gli Hardex considerata la reverenza e la falsità che ostentavano impeccabilmente ogni qual volta si fossero trovati davanti agli altri signori e in rare occasioni, persino il re. I padroni ritenevano che fosse inaccettabile e impossibile che una fanciulla di nobili origini e virtuosa come la loro Dasha non avesse pretendenti e per questo preciso motivo Pontroius e la padrona erano certi che tutti i nobili stessero ordendo un piano che avrebbe messo fine una volta per tutte alla gloriosa famiglia degli Hardex. Per Damian i nobili avrebbero fatto più che bene a non volere avere a che fare con gli Hardex, probabilmente anche quelli della medesima classe sociale del signore lo disprezzavano.

Quel giorno di rigido inverno insomma Damian stava spalando il fieno come di consueto nella stalla, rabbrividendo per il freddo che gli sfiorava la pelle attraverso il misero abito che indossava, quando un gruppo di persone dirette verso il castello subito catalizzò l'attenzione del ragazzo. Damian, ben lungi dal voler finire nuovamente nei guai, lanciò un veloce sguardo alla folla, non voleva rischiare di subire una nuova punizione, tuttavia non poté ignorare lo stendardo reale che si avvicinava; la curiosità per quell'insolito fatto gli causò non pochi problemi di concentrazione. Una moltitudine di domande colmò involontariamente la testa di Damian, perché arrivavano i soldati dalla capitale per vedere il padrone? Che cosa volevano quegli uomini? Portavano cattive notizie che avrebbero fatto infuriare ancora di più Pontroius?

Damian sperava fortemente che non fosse così, ma sapeva anche che sperare non era mai saggio, perché sperando avrebbe avuto più possibilità di restare deluso, inoltre non capitavano mai cose positive, quindi non aveva senso sperare neppure quella volta. Così Damian decise che si sarebbe limitato a svolgere le mansioni che doveva in silenzio e se ci fosse riuscito avrebbe tentato di ascoltare senza correre il rischio di essere visto dal padrone, altrimenti avrebbe lasciato stare. Continuò a ripulire la stalla dal fieno, pulì i due lati e poi toccò alla parte davanti all'ingresso. Damian tenne inizialmente gli occhi rivolti verso il basso, fissando la terra che appariva sotto al tappeto di fieno, poi lentamente alzò il volto. Vide ovviamente una schiera di soldati che avanzavano sui loro cavalli formando due file ordinate e compatte, con gli elmi che coprivano le teste e le visiere alzate, portavano lo stendardo del re alto e Damian notò che dal centro delle due file venne avanti un giovane uomo attraente. Damian si immobilizzò un attimo a guardarlo, l'uomo stava dritto su un cavallo bianco, con la postura algida e rigida, aveva la pelle pallida come la neve e gli zigomi un po' incavati e definiti, i capelli erano nerissimi ed era veramente bellissimo nell'abito verde, tanto bello ed elegante da sembrare un principe, ma la cosa che colpì di più Damian, anche se lo aveva visto da metri di distanza, furono gli occhi, erano azzurri come il ghiaccio, ma di un azzurro così limpido e definito da apparire irreale.

Damian distolse lo sguardo con rapidità e sentì la voce di Pontroius proprio allora "Quale onore!" mormorò il padrone "Quale immenso onore ricevere la visita dei soldati di nostra maestà illustrissima!" Disse ancora l'uomo e Damian immaginò che quello si fosse inchinato al cospetto delle guardie reali "Non siamo degni di un tale onore, il mio castello non è degno della vostra visita!" continuò il padrone, con quella pantomima ridicola. "Ma diteci" intervenne in tono vezzoso e servizievole Matara "A cosa dobbiamo un tale onore?" "E vi preghiamo" parlò ancora Pontroius "Abbiate l'accortezza di presentarci quest'uomo che è con voi, purtroppo io e la mia sposa non abbiamo l'onore di conoscerlo". Damian immaginò che il padrone si stesse rivolgendo al nuovo arrivato, l'uomo dagli occhi di ghiaccio. "Signori Hardex" fu allora che Damian udì per la prima volta la voce di quell'uomo, era una voce fredda, ma risultava comunque gentile "E incantevole signorina" probabilmente Dasha era dietro i suoi genitori nonostante non avesse parlato "Il mio nome è Teurum Gravel, sono il nuovo signore di quello che era il castello degli Erysch e quindi adesso sono il signore del castello Selceno che si occupa dell'allevamento della Provincia di Terra. Il re ha comandato l'uccisione dei precedenti signori per alto tradimento e sono stato ricompensato per aver offerto aiuto nella cattura di alcuni fuggitivi che tentavano di sottrarsi alla giustizia del re. E' proprio per questo che l'illustrissimo principe e generale Drovan Raylon mi ha investito del titolo onorario di signore, come segno di gratitudine per la lealtà che ho dimostrato al regno".

Damian alzò appena gli occhi, i signori erano di spalle e quindi non riuscì a vederli ma poté ben immaginare i loro volti stupiti, forse persino compiaciuti. "Porto un messaggio stilato personalmente dal nostro principe per voi" continuò l'uomo "Il mio castello al momento è necessario al principe Drovan per eseguire il volere di nostra maestà, quindi il principe vi domanda un aiuto frattanto che io non potrò prendere possesso del mio castello". Damian alzò nuovamente gli occhi, vedendo l'uomo che consegnava la lettera ai padroni. Era davvero strano, quel Teurum aveva avuto una voce fredda all'inizio, o così era parso a Damian, però adesso era del tutto morbida, gentile e carezzevole. Prima era un vento autunnale rigido, adesso un tiepido spiraglio speranzoso di primavera. Per qualche minuto ci tu silenzio e Damian immaginò a ragione che fosse causato dalla lettura dei signori del messaggio del principe e Damian poté constatare che non era affatto l'unico curioso, contrariamente tutti coloro che si trovavano nei pressi dei signori bisbigliavano tra loro. Damian alzò ancora gli occhi in modo fugace, osando e temendo di essere visto "Signor Gravel" concluse poi Pontroius, richiudendo il messaggio con calma "Sarà un sommo onore ospitarvi al nostro castello" terminò il padrone, lasciandosi sfuggire appena dal tono pacato l'entusiasmo che sentiva.

Damian comprese subito il motivo di tutto quell'entusiasmo, il nuovo signore sembrava fosse piuttosto in confidenza con il principe, ma soprattutto avrebbe potuto sposare la signorina Dasha con un po' di fortuna e abilità persuasiva da parte dei padroni. "Sarete il nostro ospite d'onore per tutto il tempo che desidererete!" Aggiunse Pontroius "Potete starne certo!" affermò la padrona Matara "Il nostro castello sarà come se fosse il vostro!" "Possiamo solo immaginare il coraggio e il valore che avete dimostrato nella cattura di quel tale fuggitivo per ricevere il titolo di cui siete stato investito dal nostro principe. Il titolo, un castello e parole di così grande stima dal nostro principe" e Pontroius indicò il messaggio del principe Drovan. Damian vide l'uomo dagli occhi di ghiaccio sorridere in modo dimesso "Il nostro principe è un uomo davvero eccezionale" rivelò "Non meritavo tanti riguardi per aver svolto il mio dovere nei confronti del reame". Pontroius sorrise "Siete così modesto!" notò il padrone "E sono piuttosto certo che il vostro aiuto sia stato fondamentale, perché non rammento che siano stati donati castelli per la fedeltà dimostrata al reame da molti anni" concluse con una sicurezza nella voce che stupì Damian, il signore parlava del suo ospite come se lo avesse conosciuto da una vita.

"E sono certo che tra di noi si creerà un rapporto altrettanto buono e durevole nel tempo" disse ancora il padrone, intendendo tutt'altro con quelle parole all'apparenza innocenti e confermando ogni dubbio di Damian "Ne sono più che certo, signor Hardex" rispose l'uomo con voce serafica "E magari instaureremmo un legame così stretto che andrà ben oltre la semplice amicizia". Damian alzò ancora gli occhi, stupito; il giovane aveva un sorriso ambiguo sulle labbra sottili e guardava il padrone negli occhi e allora i suoi occhi azzurri parvero brillare. Damian si domandò se quell'uomo apparentemente garbato e galante avesse colto il significato delle parole di Pontroius e si stesse dimostrando favorevole a un matrimonio con Dasha. Damian certamente non poteva saperlo, ma sentì la voce del padrone farsi più colma di entusiasmo "Magnifico!" Esclamò "E immagino gradirete visitare il castello, dico bene?"

"Sarebbe un immenso piacere potervi seguire, signor Hardex" rispose l'uomo con voce cristallina "Vi prego! Chiamatemi Pontroius, non serve tutta questa formalità tra uomini distinti come siamo noi, non vi pare? Soprattutto se desideriamo instaurare un rapporto di amicizia profondo, perché io sempre chiamai i miei amici più intimi per nome" "Mi onorate veramente concedendomi una confidenza di cui non sono meritevole" rispose sempre in tono dimesso quel bel giovane "Teurum, vorrei iniziare la visita del castello mostrandovi innanzitutto la stanza in cui vi faremo sistemare e ovviamente avrete tutto il tempo di cui necessitate per riposarvi dal viaggio, poi vi mostrerò il castello io stesso. Che ne dite, Teurum?" Pontroius sembrava veramente gentile e Damian si stupì moltissimo, mai l'uomo aveva utilizzato un tono tanto cortese e sincero verso qualcuno prima di allora "Lo trovo perfetto, mio buon signore" rispose con la solita cortesia pacata Teurum "Splendido. Allora andiamo" e Damian li vide allontanarsi insieme a Dasha e Matara, diretti verso l'ingresso del castello di Aspergo. Il ragazzo tornò a lavorare, pensieroso e curioso, quell'uomo sembrava molto garbato ed elegante, ma Damiano sapeva che era meglio non fidarsi di nessuno, soprattutto di chi si mostrava gentile come Pontroius, nonostante quel ragazzo sembrasse sinceramente cortese.

Damian però non poté fare a meno di domandarsi come facesse quel tale Teurum ad avere un portamento tanto regale, l'aveva detto lui stesso di aver appena ottenuto il titolo di signore, eppure sembrava che fosse stato un signore per tutta la vita, a dire la verità sembrava fosse molto più signorile di quanto Pontroius non fosse mai stato. Più Damian se lo figurava nella mente e più gli sembrava un principe, o meglio ancora un re, con l'abito elegante, i modi garbati e altezzosi, eppure così gentili. Damian si domandò quali cambiamenti avrebbe potuto portare al castello l'arrivo di quell'uomo, sperava solo che il buonumore del padrone durasse a lungo, magari in questo modo avrebbe lasciato lui un po' in pace. E Damian non poté fare altro se non figurarsi il matrimonio del nuovo arrivato con la padroncina Dasha. Sarebbe stato perfetto, i padroni sarebbero stati talmente felici dell'evento e presi dall'organizzare delle nozze che forse avrebbero smesso di tormentarlo.

Una volta aver terminato di togliere il fieno Damian diede da mangiare ai cavalli, per poi andare dai suoi adorati coccodrilli. La situazione era particolarmente tesa nel recinto, Skiza era aggressiva e agitata poiché le sue uova stavano ormai per schiudersi ed era sempre pronta a difenderle nel caso gli altri coccodrilli avessero tentato di avvicinarsi. Skiza teneva sempre d'occhio le sue uova, tenute al sicuro nella piccola buca che aveva scavato lei stessa sull'esigua porzione di terra che avevano a disposizione gli animali. Damian però non poteva del tutto biasimare l'atteggiamento aggressivo di Skiza, infatti molte delle sue uova erano già state schiacciate per svariati motivi, alcune volte era stata colpa del cibo lanciato senza cura nel recinto dalle cucine, quando non era Damian a darlo agli animali, una volta era stata proprio Skiza ad aver schiacciato tre uova per tentare di coprirle e per finire uno degli altri coccodrilli aveva distrutto tantissime uova in una volta in un momento in cui Skiza dormiva lontana dalle uova.

Damian aveva dovuto fare miracoli per impedire che Skiza uccidesse l'altro, era entrato di corsa nel recinto e si era guadagnato un colpo di coda sul braccio, più forte di qualsiasi altra frusta. Il segno si era aggiunto ai tanti altri che già gli segnavano la pelle, ma Damian non poteva biasimare il coccodrillo per la reazione che aveva avuto, da venti uova ne erano rimaste solo quattro. Damian si fermò davanti al cancello e guardò giù, tutto sembrava immobile, tre coccodrilli erano immersi nell'acqua e Skiza stava vicino alle sue uova, custodite gelosamente nella piccola buca. "Mi sembra che vada tutto bene per voi" mormorò sorridendo dolcemente "E tu, Skiza?" si rivolse poi unicamente alla sua prediletta "Immagino che desidererai vedere i tuoi cuccioli. Io lo desidero molto, sono sicuro che saranno bellissimi". Il coccodrillo lo guardò con la solita indecifrabile fermezza attraverso gli occhi neri e apparentemente gelidi come le notti d'inverno, ma Damian sapeva che quella freddezza era apparente, almeno lo era verso di lui.

"Ci toccherà dare dei nomi ai tuoi quattro piccolini" continuò Damian, sempre mormorando "Ho un'idea! Dal momento che sono rimasti in quattro potremmo dare loro i nomi dei principi e delle principesse degli elementi! Che te ne pare della mia idea, Skiza?" Domandò, entusiasta dell'idea. Il coccodrillo voltò appena la testa di lato con lo sguardo fisso "Lo sapevo che ti sarebbe piaciuto, Skiza!" Sussurrò ancora Damian, soddisfatto "Saranno meravigliosi e io ti aiuterò a prenderti cura di loro" Damian guardò fuori, doveva essere l'ora di pranzo e stranamente non era ancora stato portato da mangiare ai coccodrilli, così il ragazzo dopo diversi istanti di esitazione si decise e bussò alla porta di servizio nella stalla, quella da dove solitamente usciva l'uomo per portare la carne ai coccodrilli. Bussò con mano malferma e attese che qualcuno uscisse. Passarono vari istanti e poi la porta si aprì, dietro c'era un uomo con i baffi e i capelli neri che lo fissava con disprezzo "Che vuoi?" Domandò sgarbatamente "Non è ancora stato portato da mangiare ai coccodrilli" rispose timidamente Damian.

L'uomo sbuffò "Non so dove sia quel buono a nulla che lo porta di solito" rispose l'altro "Ma adesso non posso uscire dalle cucine, il signore sta facendo visitare il castello al nuovo ospite. Quelle bestie aspetteranno". Damian annuì e tornò indietro mentre l'uomo chiuse nuovamente la porta, fermandosi ancora davanti al recinto "Mi dispiace" disse Damian ai coccodrilli "Ma dovrete aspettare oggi per mangiare. Io vado a prendere l'acqua per i cavalli, torno tra poco". Damian prese quattro secchi contemporaneamente e si diresse verso il punto più vicino della diga del castello, mise a terra due secchi e iniziò a riempirli a coppie. Quando ebbe finito con i primi, Damian riempì anche gli altri due, ma lì lasciò sulla riva, li avrebbe trasportati dopo per non far rovesciare l'acqua. Prima di andare però rimase pochi istanti fermo a guardare giù, il paesaggio da così vicino al bordo della diga sembrava vastissimo, da quel punto alto sembrava di essere immensi ed eterni, probabilmente era per questo che gli altezzosi antenati di Pontroius avevano scelto quel punto per erigere il loro castello, per l'altura, per l'acqua del fiume che avevano sapientemente gestito facendo costruire una diga e in fine perché quell'altura rendeva il loro castello uno dei più alti e quindi meglio protetti.

Damian si disincantò in fretta e tornò dentro con i primi due secchi, sperando che nessuno prendesse gli altri che aveva lasciato sulla sponda. Ritornò nelle stalle e versò l'acqua per i cavalli, tenendo gli occhi bassi e sentendo un rumore provenire dal recinto dei coccodrilli. "Adesso chiedo nuovamente per il vostro pranzo, non vi agitate" mormorò quietamente. "Sei patetico, come al solito" la voce di Pontroius arrivò dalla direzione del recinto, sottile e tagliente come una lama. Damian si voltò e si trovò davanti i padroni e la padroncina con il nuovo arrivato, il bellissimo uomo dagli occhi di ghiaccio. "Padrone perdonatemi, non mi ero reso conto della vostra presenza" si scusò subito Damian, con gli occhi rivolti verso il basso "Sei il solito mentecatto, schiavo incapace e sfaccendato" rispose Pontroius con il solito lieve sorriso ingannevole sul volto e con la medesima voce sottile e tagliente di prima.

"Il tuo unico scopo è porre i tuoi padroni in imbarazzo" continuò l'uomo "L'unica cosa che dovresti dire a queste bestie è un ringraziamento sincerò, perché sta pur certo che se non fosse per loro tu saresti morto da un pezzo". Damian annuì continuando a tenere gli occhi rivolti verso terra come al solito "Padrone" mormorò poi "Potrei prendere gli altri secchi che ho lasciato alla diga?" Domandò, desideroso di andarsene "Ora mi servi qui" rispose inaspettatamente Pontroius "Per quanto tu possa essere utile a qualcosa, ovviamente" aggiunse, giusto per ribadire il disprezzo che provava per Damian. "Avvicinati e guardami in faccia" ordinò ancora l'uomo e Damian fece diversi passi in avanti e sollevò appena la testa per trovarsi davanti il quartetto. La sua attenzione fu subito catalizzata dal nuovo arrivato e notò che l'uomo da vicino era ancora più bello di quanto gli fosse parso "Questo è il signor Teurum Gravel, nuovo signore dell'allevamento della Provincia di Terra" lo presentò ufficialmente Pontroius "Da quest'oggi sarà nostro ospite finché il principe Drovan avrà bisogno del suo castello. Pretendo che tu lo tratti con la stessa riverenza, o forse dovrei dire irriverenza, considerate le tue maniere rudi" si interruppe il padrone, con aria disgustata "Comunque sia, trattalo come se fosse un Hardex. Sono sufficientemente esaustivo?"

Damian annuì vigorosamente "Bene. Mi auguro veramente che tu sia in grado di comprendere un ordine tanto semplice, ma non mi stupirebbe affatto il contrario considerata la tua evidente stupidità" "Io vi ringrazio veramente per la considerazione, signore" intervenne l'uomo dagli occhi di ghiaccio "Vi state prodigando eccessivamente per la mia persona, non merito un tale trattamento". Tutti si voltarono verso di lui, Damian compreso e poté ammirare più da vicino l'intensità e la bellezza degli occhi azzurri del signor Teurum "Sciocchezze" disse con leggerezza il padrone "E vi prego, non sono necessarie tante formalità, ve l'ho già detto, chiamatemi per nome". Il bel ragazzo sorrise "Vi domando perdono, gentile Pontroius" gli rispose con lo stesso tono cortese e cordiale e Damian vide il padrone sorridere compiaciuto "Nessun motivo per cui scusarvi, Teurum" gli rispose subito Pontroius "Ora, come vi avevo promesso, vedrete il nostro vanto maggiore dopo la diga. I nostri letali coccodrilli!" Esclamò in tono vagamente teatrale "Damian" parlò ancora, tornando ad apostrofarlo con sprezzo "Entra nel recinto e mostra al nostro ospite d'onore cosa sono in grado di fare i miei coccodrilli".

Damian annuì in silenzio e si avvicinò al bordo del recinto, lo scavalcò mettendosi prima a sedere sul bordo del recinto e poi calandosi dentro. Gli altri quattro si avvicinarono a loro volta e guardarono attentamente quello che succedeva "Skiza, vieni" tentò Damian, rivolgendosi come sempre prima alla prediletta. Il coccodrillo però non aveva la minima intenzione di lasciare le sue uova "Scusatela" disse Damian "Teme che gli altri possano rompere le sue uova" "Quante erano inizialmente?" Domandò Pontroius accigliato "Più di venti, padrone" replico a voce basse Damian "Dannazione! Com'è possibile che ne siano rimaste solo quattro?" "Gli altri coccodrilli le hanno schiacciate e altre volte la rottura è stata causata dalla carne lanciata dall'alto con poca accortezza". Pontroius scosse la testa, indignato "La prossima volta che uno dei coccodrilli avrà delle uova bisognerà che tu presti più attenzione. E fai in modo che queste ultime arrivino tutte alla schiusa, oppure farai una brutta fine" lo minacciò, guardandolo con impassibile freddezza, per poi aggiungere "Quanto manca alla nascita?"

Damian non esitò a rispondere "Penso che potrebbero schiudersi persino questa settimana, padrone" "Finalmente una bella notizia da parte tua!" Esclamò Pontroius, senza mai alterare troppo il tono della sua voce "Cosa ve ne pare dei nostri coccodrilli, Teurum?" domandò ancora il padrone al suo ospite. Damian si voltò a sua volta, curioso di sapere cosa ne pensasse il nuovo arrivato "Li trovo magnifici" disse quello con un lieve sorriso ad increspargli le labbra sottili "Non avevo mai visto dei coccodrilli prima d'ora, ma posso ben capire perché abbiate deciso di cambiare il vostro precedente stemma in questo attuale. Sono animali splendidi, potenti e pericolosi, gli animali giusti per rappresentare la forza e l'eleganza della vostra gloriosa famiglia". Pontroius e Matara sorrisero, piuttosto compiaciuti da quelle parole "Vi piacerebbe vedere le uova al momento della schiusa?" Domandò Dasha, intervenendo inaspettatamente "Io non le ho mai viste schiudersi, quindi questa sarebbe la prima volta anche per me".

Teurum sorrise alla ragazza "Sarebbe un vero onore poter vedere un tale spettacolo in una così piacevole compagnia, signorina Dasha". Damian vide Dasha ridacchiare e arrossire leggermente, dalle occhiate che lanciava al ragazzo era evidente che lo trovasse estremamente attraente e la sola idea di poterlo sposare doveva farla sentire su di giri. "Stupendo!" Esclamò Matara "Damian, al momento della schiusa vieni subito ad avvertirci" impose il padrone "Ora fai avvicinare uno degli altri tre". Damian si voltò per guardare gli altri coccodrilli "Artiglio, vieni" disse sentendosi arrossire, era sicuro che lo stessero schernendo per il nome che aveva dato al coccodrillo, ma era stato ineluttabile per lui farlo, sapeva in prima persona cosa significava non avere un'identità e nonostante quelli fossero solo animali per lui era importante che avessero un nome. Artiglio sentendosi chiamare si avvicinò lentamente a Damian "Cosa desiderate che io gli faccia fare, padrone?" Sussurrò il ragazzo.

"Voglio che tu dimostri a tutti noi che il coccodrillo obbedisce e che è in grado di attaccare su comando" "Ma padrone" rispose Damian "Come farò a farvi vedere che sono in grado di attaccare su comando?" domandò perplesso. "Allora mostraci che sei in grado di non farti uccidere" "Ma come, padrone?" Ribadì il ragazzo, sempre più perplesso "Non è un mio problema, basta che tu sia celere!" rispose l'uomo spazientito. Damian alzò la mano e la pose sul muso dell'animale che lo fissava degli inquietanti occhi scuri, mentre i denti aguzzi si vedevano dai lati della mascella. Finalmente a Damian venne un'idea "Ora gli farò aprire la bocca" mormorò al suo pubblico "Poi ci infilerò la testa dentro. Non hanno ancora mangiato, quindi sarà tentato di divorare me".

Pontroius annuì soddisfatto e Damian decise di procedere "Apri la bocca, Artiglio" disse togliendo la mano dal muso per carezzare la mascella inferiore della bestia. L'animale continuò a tenere gli occhi fissi su Damian e lentamente iniziò a spalancare la bocca come gli era stato richiesto di fare. Dasha cambiò velocemente postazione e si mise vicino a Teurum "Che paura!" Esclamò "Spero che non lo mangi. Secondo voi lo sbranerà veramente? Perché temo che potrei svenire altrimenti!" "Mi auguro davvero che non accada nulla di male" replicò pacatamente Teurum. Damian senza farsi distrarre infilò lentamente la testa nelle fauci aperte di Artiglio. Era rischioso, sapeva benissimo che nonostante tutto il coccodrillo avrebbe potuto disobbedirgli da un momento all'altro e dilaniarlo, ma decise di avere fiducia ugualmente nei suoi unici amici, anche perché non avrebbe potuto fare altrimenti. Damian vide le pareti lucide della bocca e i denti appuntiti, denti che in un secondo avrebbero potuto farlo a brandelli, ma non provò timore, contrariamente gli parve di essere al sicuro tra le fauci del coccodrillo, come se fosse stato in una gabbia protettiva "Padrone" parlò poi Damian a voce bassa, per non irritare il coccodrillo "Può bastare?"

Dopo qualche secondo Pontroius rispose "Direi di sì" affermò. Damian allora si tirò indietro piano, quando vide la mascella abbassarsi di poco trattenne involontariamente il fiato, ma poi si disse di rimanere calmo e continuare a indietreggiare, carezzando con una mano il collo del coccodrillo per fargli sentire il suo tocco, per ricordargli che era lui. Una volta uscito, Damian tirò un sospiro di sollievo e Artiglio abbassò la mascella, continuando a guardarlo "Bravo Artiglio" gli sussurrò Damain, sfiorandogli nuovamente il muso con affetto "Ora puoi tornare dagli altri". Un battito di mani fece voltare Damian per la sorpresa "Complimenti!" A battere le mani era Teurum, gli rivolgeva un sorriso che sembrava quasi ammirato. Damian lo guardò confuso e così lo scrutarono anche gli altri "Cosa c'è?" Domandò Teurum dinnanzi agli sguardi dei padroni "Non è forse stato bravo?"

"Certamente" si costrinse ad ammettere Pontroius, confuso e imbarazzato "Allora non vedo il motivo per cui dovremo tenerglielo nascosto" replicò Teurum con ovvietà. Damian sorrise lievemente, era la prima volta che un essere umano gli faceva un complimento sincero, per di più dinnanzi ai padroni "Come ci sei riuscito?" Domandò ancora Teurum e sembrava fosse veramente interessato "Come sei riuscito ad addomesticare delle bestie tanto selvagge e pericolose?" "Con molta pazienza e attenzione, signore" gli rispose Damian, incoraggiato da un sorriso benevolo che l'uomo degli occhi di ghiaccio gli stava rivolgendo "Sì" si intromissione Pontroius "È così che ha ottenuto il nome che porta" raccontò a Teurum "È l'unica cosa che sa fare questo mentecatto, prendersi cura delle altre bestie, persino di quelle più feroci" "Non mi sembra affatto un'abilità di poco conto" rispose con convinzione Teurum. Pontroius dall'espressione che esibiva doveva sentirsi spiazzato da tali affermazioni "Sì" si costrinse ancora a rispondere "Avete ragione, è stato bravo".

Damian quasi spalancò la bocca quando tutti e quattro si misero ad applaudire, ma le sue labbra si stesero in un timido sorriso stupito e piacevolmente colpito "Ora andiamo Teurum, cosa ne dite? Non voglio trattenervi oltre nella puzza della stalla" Disse poi Pontroius "Certamente" rispose l'altro uomo "Tu chiedi con insistenza la carne per i miei coccodrilli" disse Pontroius senza neppure guardare Damian "E di' chiaramente che è un mio ordine che mangino subito". Il ragazzo annuì e si alzò con gli abiti bagnati fino alla vita, poi scavalcò il muretto e uscì, il gruppetto era già vicino all'uscita. Damian subito tornò alla porta di servizio, questa volta bussando con più sicurezza perché era stato il padrone a dirgli di insistere e perché si sentiva vagamente orgoglioso di sé.

Ad aprire fu lo stesso uomo di prima "Ragazzo" disse irritato, guardandolo freddamente "Ancora tu! Ho detto che" "È stato il padrone a ordinarmi di insistere, vuole che i coccodrilli mangino subito" lo interruppe timorosamente Damian. L'uomo sbuffò "Vado a cercare quel buono a nulla che deve portare la carne allora" rispose l'uomo sentendo quelle parole, visibilmente seccato, e poi sparì dentro al castello. Damian sorrise e tornò vicino al recinto "Sentito!?" Sussurrò allegramente "Tra poco mangerete!" Si appoggiò poi al bordo del muretto e guardò fuori, Teurum era poco lontano dall'entrata della stalla a parlare con una delle guardie reali. Non appena ebbe finito di parlarle la congedò, poi si voltò e rimase a fissare Damian. I due si fissarono da lontano per qualche istante, poi Teurum sorrise e da lontano batté nuovamente le mani, per andarsene poco dopo sorridendo.

Damian sorrise a sua volta, pensando a quanto fosse strano quel Teurum. Però sembrava veramente gentile e faceva quasi sentire Damian a suo agio, cosa quantomai rara per lui. "Ragazzo, la carne!" Damian si avvicinò a passo svelto alla porta "Ecco" l'uomo gli porse il grosso cesto colmo di carne cruda "Grazie" "Sì. Ora vai" Damian si avvicinò di corsa al recinto e calò delicatamente i pezzi di carne uno per volta nell'acqua del recinto. Quando vide i suoi amici avvicinarsi a mangiare si sentì felice, ma quella volta la felicità che sentì era anche un po' merito della sua abilità riconosciuta dopo tanti sforzi e tanta fatica.

 

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Capitolo 28
*** L'incubo d'inverno ***


Pov:Aurilda

Era da tanto che viaggiavano, il vento gelido dell'inverno schiaffeggiava le fronde e la neve candida ricopriva il terreno, fortunatamente i sempreverdi rendevano i boschi un poco meno gelidi e rendevano la neve meno fitta. Da quando avevano iniziato il viaggio di ritorno verso casa Aurilda e Ser Zalikoco avevano sempre parlato poco, o meglio, il Ser aveva tentato diversi modi per iniziare una conversazione con Aurilda, sempre mantenendo un tono dimesso e dispiaciuto, ma non c'era stato proprio verso di convincere l'altra a iniziare una vera e propria conversazione. Tutte le volte che il cavaliere parlava Aurilda lo guardava dagli occhi scuri e profondi, con il cipiglio arrogante e altezzoso che la caratterizzava e l'uomo dopo non molto desisteva e taceva, le uniche parole che riusciva a scambiare con la compagna di viaggio riguardavano il cibo o altre cose essenziali di cui Aurilda non poteva evitare di parlare, per tutto il resto la freddezza dell'inverno era nulla in confronto a quella di Aurilda. Insomma, il viaggio oltre a essere poco confortevole si stava anche rivelando del tutto gelido e i continui silenzi riuscivano a renderlo ancor più monotono e noioso.

Aurilda non sapeva quanto mancasse al ritorno, i boschi le facevano perdere la percezione e non sapere dove si trovasse la innervosiva terribilmente, ma a giudicare dalla neve dovevano essere entrati nel mese di rextio. Durante il viaggio Aurilda si era domandata due cose principalmente, il perché della distribuzione del Tempio e cosa avrebbe fatto una volta tornata al castello. Per la distruzione del Tempio la ragazza era fermamente convinta di essere sfortunata, insomma, non che prima fosse stata ignara della questione, ma adesso era chiaramente evidente agli occhi di chiunque. Forse era stata maledetta, questo si era detta Aurilda, pur sapendo che non fosse la verità, ma solo una sciocchezza. Invece per quando fosse tornata al castello la fanciulla non aveva la minima idea di come avrebbe potuto reagire la sua famiglia vedendola tornare, ma era abbastanza sicura che si sarebbero arrabbiati tutti tremendamente. Aurilda si domandò anche se il suo matrimonio con Morfgan fosse ancora programmato oppure se la sua fuga avesse rotto il loro fidanzamento. Ovviamente Aurilda sperava che lo fosse, perché alla fine era stato proprio il timore di sposare quell'uomo ad averla spinta alla fuga e sperava in cuor su che almeno quel viaggio fosse valso qualcosa.

La verità era che Aurilda non aveva la minima idea di quello che stava succedendo nel regno, da quando era partita aveva vissuto nella completa disinformazione, guardando da lontano i paesi, scordando quasi del tutto come fossero fatte le città. Di consueto non le sarebbe importato niente di quello che succedeva in quel maledetto regno, ma immaginava che la sua fuga sconsiderata avesse potuto generare delle reazioni e persino a lei era venuta un po' di curiosità di sapere cosa si dicesse in giro. Tante volte Aurilda aveva pensato alla famiglia prima di dormire, tante volte aveva immaginato la sgridata furiosa dei genitori che l'avrebbe accolta al ritorno e il solo pensiero la irritava non poco. Le sorelle le mancavano ogni giorno di più, si pregustava le loro espressioni la sera del suo ritorno al castello, dopo la sgridata che avrebbe ricevuto dai genitori, Aurilda, Nomiva e Selina si sarebbero messe davanti al fuoco del camino e lei avrebbe iniziato a raccontare tutto quello che aveva visto e che le era successo.

Si figurava nella mente i volti stupiti delle sorelle quando avrebbero saputo che il Tempio era stato distrutto dai demoni, della meraviglia che avrebbero provato quando avrebbe descritto accuratamente la locanda con l'albero d'ulivo al centro della stanza, per non parlare poi di quando avrebbe raccontato di Omalley! Chissà come avrebbero reagito le sue sorelle sapendo che quella del Terrore dei Boschi non era solo una storia, ma che era una persona in carne e ossa, una ragazza per giunta! E quanto avrebbero sofferto e si sarebbero arrabbiate Nomiva e Selina sapendo quello che aveva fatto Ser Zalikoco alla loro famiglia. Sarebbero rimaste deluse come lei, Aurilda ne era certa, d'altronde Ser Zalikoco era sempre stato il cavaliere perfetto, quello delle favole, coraggioso, gentile, leale e onorevole, scoprire che era solo un traditore sarebbe stato un brutto colpo anche per loro come per Gamelius e Amillia.

Aurilda aveva pensato così intensamente a quando avrebbe rivisto le sue sorelle che si era quasi dimenticata che Selina non era più al loro castello, ma era dai Malkoly. Quando le fu tornato alla mente quel particolare Aurilda si rabbuiò, avevano insistito tanto per farla partire, al momento della sua fuga le era sembrata una buona idea, aveva considerato il castello dei Malkoly il posto giusto in cui la sorella potesse essere al sicuro, ma ormai le pareva solo un'idea idiota, dettata dalla fretta e dalla frenesia, senza capo né coda e Aurilda sperava sinceramente che la sua fuga avesse spinto allora i genitori a tenere Selina al castello di Stablimo, ma Aurilda non ci avrebbe giurato che avessero cambiato idea. Chissà che cosa era costretta a sopportare la povera Salina in compagnia della terribile Jesebell Malkoly e chissà quanto si stava annoiando Nomiva nella completa solitudine del castello, con la sola compagnia di Filipphus e del precettore Diodorus! Aurilda era stata una sciocca, aver separato le sorelle le sembrava ormai una scelta orribile, dettata anche dall'egoismo oltre che dalla fretta.

Già, d'altronde era una sua caratteristica agire in quel modo, per quanto fosse una persona disincantata e razionale quando era arrabbiata o preoccupata reagiva sempre in modo abbastanza impulsivo e imprevedibile, una caratteristica che Aurilda detestava di sé stessa. L'idea di non scoprire se il suo sogno avesse un qualche fine profetico la infastidiva non poco, insomma, era scappata di casa prima del matrimonio con un principe, aveva affrontato un viaggio estenuante e per giunta al castello avrebbe subito un rimprovero esemplare, tutto a causa di quel maledetto sogno! Aurilda era persino arrivata al punto di domandarsi se non fosse stato tutto frutto della sua mente agitata, uno scherzo crudele creato dalla paura con il solo fine di scompigliarle la vita ancora di più. Ma ormai Aurilda non lo avrebbe mai saputo, nel regno solo al Tempio dei Profeti erano in grado di interpretare quel tipo di sogni, c'erano anche i centauri che erano in grado di farlo, essendo stati proprio loro a insegnare quell'arte agli uomini, ma era infattibile pensare di rivolgersi a loro, i centauri adesso vivevano solo nella Provincia Libera da quando quella aveva ottenuto l'indipendenza e arrivare nella Provincia Libera adesso ad Aurilda pareva improponibile.

C'era una foresta, la Foresta delle Anime, così la chiamavano, era una foresta fitta e oscura in cui si diceva accadessero cose strane. Dicevano che i morti parlavano e quasi nessuno uscisse da quel luogo. La verità era che per la paura erano pochi quelli che osavano addentrarsi lì dentro ed era complicato capire se i pochi che entravano poi riuscivano a raggiungere l'altra parte oppure no. Comunque Aurilda non ci avrebbe provato, non sapeva se effettivamente la foresta fosse così pericolosa come si diceva, ma considerando la sfortuna che la perseguitava Aurilda immaginò che le sarebbe andata male anche in una foresta normale. No, ormai non c'era nulla da fare, lei e il cavaliere sarebbero tornati a casa e basta, abbandonando sogni di catastrofi e sogni di gloria, di indipendenza e chissà di cos'altro.

Quel pomeriggio le nuvole bianche ricoprivano il cielo d'inverno, il bosco era freddo e bianco e c'era poca luce nonostante la neve candida. L'ora di pranzo era passata e Aurilda aveva fame, così nonostante l'ostilità si voltò per parlare con il compagno di viaggio. Guardò il Ser con tutta la freddezza e l'arroganza di cui fu capace e poi parlò "Credo che dovremmo fermarci per mangiare qualcosa" decretò freddamente. L'uomo alzò il capo stupito come sempre quando lei gli rivolgeva la parola "Avete assolutamente ragione signorina Tenebrerus" disse il cavaliere in tono dimesso ma pratico "Vi chiedo perdono per la mia mancanza, vi prometto che non accadrà" "Può bastare" lo interruppe prontamente e malamente Aurilda "Cacciamo qualcosa e continuiamo il viaggio che non ne posso più di questi boschi e di questa neve".

L'uomo annuì con gli occhi bassi e in pochi minuti si poterono sedere su due rocce intorno a un piccolo fuoco acceso a fatica che minacciava continuamente di spegnersi a causa del freddo, per cuocere le due quaglie prese. Il loro pranzo fu come di consueto rapido e silenzioso, le nuvole nel cielo si scurivano e faceva sempre più freddo, il bosco calava in un'oscurità sempre più fitta e l'umidità stava gonfiando i capelli di Aurilda, rendendola impresentabili. La ragazza si spostò una ciocca da davanti agli occhi con stizza, alzandosi di scatto e temendo che potesse iniziare a nevicare "Andiamo?" Spronò frettolosa il Ser, intravedendo il cielo plumbeo. L'uomo si pulì le labbra e si alzò per tornare sul cavallo e riprendere il viaggio "Si può sapere dove siamo!?" Sbraitò Aurilda, sempre più irritata dal freddo e dalla stanchezza "Con tutti questi alberi identici non si capisce niente, dobbiamo sbrigarci prima che ricominci a nevicare e si coprano le nostre impronte. Allora si che saremmo irrimediabilmente perduti!"

Il Ser annuì pacatamente "Avviciniamoci un po' al bordo del bosco, giusto per vedere se c'è qualche indicazione a uno degli incroci delle strade, magari siamo vicini a qualche città e possiamo orientarci con esattezza. Sempre se siete d'accordo, ovviamente" aggiunse poi subito l'uomo, con gli occhi rivolti verso di lei. "A me basta che siamo rapidi perché voglio tornare a casa!" Rispose Aurilda esasperata "Non sopporto più la vista di tutti questi alberi, questo cibo malcotto, il mal dormire e il freddo! Maledizione al sogno e al Tempio!" I due spronarono i cavalli verso il bordo del bosco, con il vento freddo che gli penetrava nelle ossa. Aurilda sperava veramente che non nevicasse, perché tutte le volte che nevicava sentiva di congelare con quel vestito e quel mantello in dosso. Avanzarono per diverso tempo Aurilda e il cavaliere, forse un'ora o poco meno, mentre le nuvole correvano nel cielo scuro, trascinate senza sosta dal vento d'inverno. Avrebbe nevicato sicuramente.

Aurilda imprecò mentalmente mentre intravedeva finalmente una strada stretta ai limiti del bosco "Ci siamo signorina!" Esclamò il Ser "Non dovremmo correre il rischio di essere visti a causa del brutto tempo di questi giorni, ma per la nostra sicurezza credo sia meglio restare un poco nascosti e controllare". La ragazza annuì in modo impercettibile, principalmente per non dare soddisfazione all'altro, così l'uomo si avvicinarono al bordo del bosco e rimasero nascosti. Aurilda subito dopo lo raggiunse e tennero gli occhi fissi sulla strada per vari minuti, mentre il vento faceva svolazzare furiosamente i loro mantelli. Aurilda allora guardò in alto e vide i nuvoloni neri e minacciosi ricoprire il cielo. Scosse la testa arrabbiata e tornò a guardare il cavaliere "Usciamo a vedere se c'è un cartello o aspettiamo la neve?" Domandò scortesemente Aurilda, ma più che altro spazientita e irritata a causa della nevicata imminente "Certo, signorina" annuì prontamente l'uomo. I due si prepararono a uscire, quando una figura incappucciata arrivò dal lato sinistro della strada stretta.

Il Ser sbarrò il passaggio ad Aurilda con il braccio coperto dall'armatura "L'ho vista, grazie" sussurrò malamente la ragazza. Il cavaliere la fissò con la solita espressione mesta ma paziente "Scusatemi" replicò subito "È meglio se indietreggiamo". Mentre i due indietreggiavano piano la figura avvolta nel mantello si strinse meglio l'indumento in dosso per tentare di contrastare il freddo, ma il vento con un colpo le tirò giù il cappuccio, lasciandole la testa scoperta. Quando la riconobbero, sia la fanciulla che il cavaliere restarono molto stupiti e si fecero avanti senza ulteriori indugi "Adelynda!" Esclamò il Ser, sbarrando la strada alla donna con il suo cavallo. La donna sussultò per lo spavento prima di riconoscere sia lui che Aurilda "Ser Zalikoco Lonor?" Sussurrò sbalordita "E la signorina Aurilda Tenebrerus?"

I due annuirono "Siete proprio voi!" Disse la donna ormai certa, rivolgendo un sorriso a entrambi "Che cosa ci fate voi qui?" Domandò Ser Zalikoco "Sì" annuì Aurilda "Perché sei così lontana dal castello? È forse successo qualcosa alla tua famiglia e stai tornando al tuo paese d'origine per questo?" Gli occhi della balia luccicarono, aprì un poco la bocca e li fissò spaesata uno per volta "Oh, no" disse poi Aurilda, scrutando il volto addolorato della donna "Non ditemi che ho indovinato". Il volto della balia si fermò su di lei, le sopracciglia si abbassarono, gli occhi lucidi si strinsero e sul viso si dipinsero tristezza e compassione "Voi non lo sapete?" Mormorò con un fil di voce, rivolgendosi al cavaliere. L'uomo corrugò le sopracciglia, confuso "Che dovremo sapere?"

La donna chinò il capo e chiuse gli occhi, stringendosi di più nel mantello "Non avrei mai voluta essere io a riferirvi una notizia del genere" sospirò Adelynda riaprendo gli occhi "Ma se ve lo nascondo sicuramente porrei le vostre vite in un grave pericolo. E che gli dèi siano lodati se siete ancora vivi!" Aurilda la fissò perplessa, sentendo una vaga inquietudine "Che dovremo sapere?" domandò tesa "Per favore diccelo!" La donna le rivolse uno sguardo particolarmente triste "Oh, signorina" disse con la voce bassa "Sono cose che non si vorrebbero mai sentire, fatti talmente spiacevoli che possono distruggere completamente una persona. Ma voi siete forte e se non lo siete abbastanza, che gli dèi vi concedano la forza per superare tutto questo dolore!" aggiunse subito, con gli occhi ancora lucidi "Voi, vi prego, cavaliere" parlò ancora una volta unicamente al Ser "Restatele vicino" mormorò angosciata.

Aurilda spalancò gli occhi, allarmata, sentendo l'inquietudine crescere esponenzialmente "Vi prego, così mi spaventate!" Rivelò Aurilda, sentendo l'agitazione e la paura contorcerle lo stomaco "Cos'è successo?" La donna sospirò ma annuì, iniziando finalmente a parlare "Quando siete andata via si è scatenato il caos più totale al castello" iniziò a narrare "Lo immaginavo" rispose velocemente Aurilda "Vostra sorella Selina è partita come stabilito e così vostro padre. Ma nella capitale non c'era quello che il signore si aspettava". Aurilda e il Ser si guardarono perplessi "Che significa?" Domandò l'uomo "Il re Fritjof era morto e il principe Morfgan era già stato incoronato come nuovo re". Aurilda e il cavaliere la guardarono stupiti, Aurilda sentì un brivido di gelido terrore attraversarle la schiena "Il re non ha voluto sentire ragioni che giustificassero la vostra assenza, e così...". La balia si interruppe, scossa da un brivido e Aurilda temette che neppure il brivido di Adelynda fosse causato dal freddo "E cos'è successo?" La incoraggiò Ser Zalikoco "Il re... lo ha ucciso" disse in un soffio la donna "Il signore è stato ritrovato senza vita ai piedi dell'altura rocciosa dov'è arroccato il castello reale, i passanti hanno guardato in alto e hanno giurato di aver visto affacciato il re che rideva".

Aurilda rimase pietrificata, guardò il viso della donna e mille pensieri le passarono per la testa, primo fra tutti che il padre fosse morto a causa sua "Mio padre è ..." disse con la gola secca, senza riuscire a concludere la frase, perché sentì che il cervello le si era inceppato del tutto. Ser Zalikoco si avvicinò a lei con gli occhi tristi, indeciso se poterle posare una mano sulla spalla per dimostrare il suo sostegno "Ne sei assolutamente sicura!?" Mormorò Aurilda, meravigliata di essere riuscita a formulare quella breve frase "Chi te lo ha raccontato!?" continuò poi, in tono più aggressivo. Non era vero, sicuramente Morfgan aveva messo in giro quella voce per costringerla a tornare, ma non era possibile che suo padre fosse morto, non aveva il minimo senso. "Il principe Drovan" replicò la donna "Lui è venuto al castello perché il re gli aveva ordinato di uccidere tutti i Tenebrerus, accusati di alto tradimento. Non ha risparmiato dettagli per descrivere a vostra madre l'accaduto e io ero nella stanza assieme a lei". Aurilda strinse forte le briglie mentre la neve candida iniziava a cadere con una lentezza esasperante "E mia madre?" Domandò subito la ragazza come in trans, con una voce non sua "Come sta mia madre? Dov'è?" Adelynda scosse il capo in lacrime "Dimmelo!" Urlò Aurilda con gli occhi sgranati, sentendo il respiro affannato e gli occhi appannarsi per le lacrime.

"Il principe Drovan ha dato fuoco al castello e lei è stata incatenato all'interno delle mura, costretta a morire tra le fiamme". Un senso di nausea salì dallo stomaco di Aurilda e le parve di barcollare dal dorso del suo destriero "Nomiva!?" Domandò passandosi le mani sui capelli bagnati, inumiditi dalla neve "Dov'era Nomiva!?" disse con il respiro pesante "Le hanno preparato una trappola dalla sorella di vostro padre" spiegò devastata Adelynda "Hanno ucciso anche lei, insieme a suo marito e i loro bambini" "Ma Nomiva è viva!?" Strillò Aurilda, con il fiato mozzato "E Selina!? Lei è al sicuro dai Malkoly! Deve esserlo!" Aurilda si sentiva male, tremava e le veniva da piangere, eppure si sentiva debole, come paralizzata. Avrebbe avuto una crisi isterica da un momento all'altro se non fosse stata così debole e infreddolita, ne fu quasi certa. La balia però scosse la testa dinnanzi a quelle domande "Il principe ha mandato i suoi soldati a prendere la piccola Selina" mormorò, con gli occhi umidi "Lei e poi anche Nomiva..." e neppure la donna fu in grado di concludere la frase, ma il senso purtroppo era orrendamente chiaro. Aurilda rimase impalata sotto la neve che scendeva più fitta, pallida e fredda come un corpo morto prima della pira funerea "Signorina, state bene!?" Si preoccupò Ser Zalikoco, sfiorandole un braccio, doveva essere veramente pallida e sconvolta. La ragazza non si mosse, l'unica cosa che fece fu iniziare a piangere, prima lentamente e silenziosamente, poi con forza e disperazione, quasi a voler imitare l'intensità della bufera di neve che si stava sollevando rapidamente intorno a loro, come se stesse traendo la forza del suo dolore dalla neve.

"Signorina!" Si disperò la donna, vedendola così devastata "Dite qualcosa! Vi prego!" Aurilda la fissò appena, il suo volto era una maschera di dolore e disperazione "Non può essere vero!" Urlò disperata "Non possono essere tutti morti! Non per causa mia!" Guardò la donna con la vista appannato dal dolore e più il Ser "Loro... non è possibile! Tutta la mia famiglia!" "Signorina, mi dispiace!" Disse con la voce rotta Adelynda "Erano dei così bravi signori! Mi hanno presa a lavorare quando nessuno mi aveva voluta, da quando ero una ragazzina come voi. Mi hanno sempre trattata bene e io sono veramente addolorata per la loro prematura dipartita!" Ad Aurilda girò la testa, si portò le mani allo stomaco e si guardò intorno "Signorina!" Esclamò il Ser allarmato "Mi dispiace tanto!" Disse lui togliendosi l'elmo, posando un braccio sulla spalla della ragazza che piangeva con le braccia strette intorno al collo del cavallo "Che cosa farò adesso!?" Domandò Aurilda piangendo disperatamente "Che farò? Tutta la mia famiglia è stata uccisa a causa mia! E tutto per colpa di quel bastardo di Morfgan! Quel dannato assassino!"

Ser Zalikoco la carezzò dolcemente "Signorina" tentò di abbracciarla, ma lei si divincolò dalla stretta di lui "Perché!?" Strillò disperata, sentendo di poter impazzire dal dolore e dal senso di colpa da un momento all'altro "Ditemi perché quel bastardo li ha uccisi? Perché!? Perché!?" Adelynda e il cavaliere scossero la testa e la guardarono entrambi addolorati "Che dovrei fare adesso?" Domandò ancora Aurilda a voce bassa, mentre continuava a piangere "Io" mormorò, indecisa, poi nella testa le si presentò un'immagine veramente invitante. Un nuovo obbiettivo, un senso da dare alla sua vita "Io lo uccido" mormorò e dopo aver detto quelle parole si portò le mani al volto, tentando di asciugarsi inutilmente le lacrime che continuavano a scorrere con insistenza. Il Ser le strinse un braccio "Il fratello di vostra madre!" Esclamò con gioia "Lui ha un castello nella Provincia dell'Aria! E' il signore della guerra della Provincia dell'Aria! Lì sareste al sicuro, torniamo indietro e dirigiamoci al suo castello!" Aurilda tuttavia scosse il capo con decisione "No" disse con convinzione "Li hanno uccisi per colpa mia! Io non condannerò anche lui. Ma se io tentassi di uccidere Morfgan mi vendicherei e se dovessi avere la peggio lui si vendicherebbe e lascerebbe stare mio zio. Comunque vada così facendo sarò soddisfatta!" Aurilda era consapevole delle sue parole, o almeno credeva di esserlo, così sconvolta e piegata dal dolore. Era una condanna a morte quella, si stava condannando a morire per mano di Morfgan, ma in quel momento stava talmente male che la morte le sembrava l'unica via possibile e così facendo avrebbe impedito che suo zio Favian, il fratello di sua madre, rischiasse di morire.

"Non dite sciocchezze!" Replicò però subito il cavaliere sentendo quelle parole "Sapete che lui vi ucciderebbe!" "E cosa importerebbe!?" Replicò Aurilda tra la disperazione e la follia "Non è quello che merito? Di fare la stessa fine alla quale ho condannato la mia famiglia, solo per assecondare un mio maledetto capriccio!?" "Non vi fate uccidere!" Urlò Adelynda, spaventata alla sola idea che anche Aurilda potesse essere uccisa "Vi prego, non morite anche voi! Fate come ha detto Ser Zalikoco, andate da vostro zio, lì sarete al sicuro!" "Davvero!?" Disse Aurilda con amarezza, sentendo le lacrime sulle labbra, assaporando nel profondo il sapore della disperazione "E per quanto tempo sarò al sicuro? Quanto tempo impiegherà il re per scoprire il mio nascondiglio? E che cosa pensate che farà quando lo avrà scoperto? Pensate che risparmierà me o mio zio per avermi aperto le sue porte!?" La donna si portò le mani sul viso, emettendo un piccolo gemito senza lacrime "Vi prego, non vi consegnate a quel mostro! Scappare da vostro zio, i vostri genitori vorrebbero questo! Sono sicura che vostro zio troverà il modo di tenere segreta la vostra identità o la vostra presenza al castello!"

La ragazza intanto continuò a piangere, avvolta dal gelo della neve "Signorina" disse a voce bassa il Ser "Io posso capire quello che state provando" tentò "Comprendo che tutto possa sembrarvi finito adesso che le persone che amate non ci sono più. Ma nonostante la vostra famiglia sia finita, per voi questa non è la fine. Avete ancora tante possibilità davanti a voi. Non consentite al dolore e al rimorso di divorarvi l'anima. Non vi consegnate a Morfgan, perché in fondo io lo so e lo sapete anche voi che quel sogno era una profezia reale, perché lui li ha ucciso tutti!" "Perché sono stata io a farlo avverare!" Gridò Aurilda con la gola in fiamme dal dolore, le pareva di avere un coltello a raschiarle la pelle "Io sono partita e lui per vendicarsi li ha uccisi tutti! La profezia si è avverata per causa mia!" "Non è così!" Continuò a insistere Ser Zalikoco e la sua voce era calda e sicura, piacevole in quelle gelida desolazione "Vostro zio è vivo, ma soprattutto, voi siete vita! Quindi la profezia è stata scongiurata. Vi prego, andiamo al castello dei Rosyll! Salvatevi la vita, allenatevi e poi deciderete se andrete a uccidere Morfgan e vendicare la vostra famiglia! Se la vostra idea sarà ancora quella io giuro che non mi opporrò e vi lascerò andare, convincerò persino vostro zio se dovesse essere necessario. Ma non consegnatevi a lui adesso" continuò l'uomo, vagamente supplicante "Non consentitegli di vincere, perché ancora non vi ha portato via tutto. Ma se lascerete che vi uccida in modo tanto stupido lui lo farà, vi ucciderà e voi lo lascerete vincere senza aver neppure tentato di lottare. Allora avreste perduto ogni cosa e la vostra famiglia sarebbe veramente morta invano."

Per pochi istanti ci fu silenzio e tutto parve fermarsi dopo le parole del cavaliere. Il vento cessò, la neve cadde piano, i fiocchi divennero più leggeri e l'inverno sembrò risplendere di una beltà dimenticata. Il bosco e la strada si rivestirono di un manto bianco e candido e le parole del cavaliere parvero cristallizzarsi e attecchire sul suolo insieme ai fiocchi. Aurilda poco dopo si riscosse, fissò l'uomo tra le lacrime e le tornò un po' di lucidità grazie alle parole calde che l'uomo le aveva rivolto "Forse avete ragione" sussurrò, mentre le lacrime che le imperlavano le ciglia luccicavano come cristalli di ghiaccio "Io lo voglio uccidere. Lui e Drovan. E i Malkoly che hanno consegnato Selina. Tutti quanti devono morire e io mi allenerò duramente per essere in grado di ucciderli!" E scoppiò in un nuovo pianto disperato "Sì, signorina!" La spronò anche la balia "Scappate e nascondetevi da vostro zio. Poi allenatevi e andate a uccidere quei maledetti assassini!" Aurilda annuì piangendo, tentando di convincersi ad andare avanti "Adesso dovete perdonarmi, ma io devo andare" ricordò la donna, continuando a guardare Aurilda mestamente "Ma certo" annuì il Ser "Grazie per averci salvato la vita" mormorò piano Aurilda e i suoi occhioni scuri devastati dal dolore risaltarono così tanto da non sembrare gli stessi. La donna le strinse la mano con affettuosa reverenza "Mi dispiace tanto per voi e per la vostra famiglia, signorina" disse ancora, sincera "Vi stimavo tutti e nutrivo un profondo affetto per ognuno di voi. Non meritavate questo. Il re è un uomo spregevole e crudele, dovrebbe solo tornare nel paese natio di suo padre. Non so neanche se i nostri dèi potranno punirlo oppure no, dal momento che sia il re che il principe venerano un altro dio".

Aurilda nonostante tutto sentendo quelle parole non poté fare a meno di assumere un'espressione di duro disprezzo "Gli dèi non ci aiutano più da un pezzo, Adelynda" disse freddamente "Non so neppure se ci abbiano mai aiutato, considerando tutto il dolore che la stirpe di Ahriman ha causato al nostro popolo. Ma stai pur certa che io farò di tutto per punirli. Mi allenerò e diverrò la più abile mercenaria che abbiano mai visto, dovessi impiegare anni per perseguire il mio proposito. Allora raggiungerò il loro castello e gli farò patire una sofferenza tale che si prostreranno disperati ai miei piedi, disperati come sono adesso io a causa loro, allora quando mi supplicheranno di morire, dopo una lunga agonia, solo allora io li ucciderò. Allora giustizia sarà compiuta e il loro debito sarà pagato col sangue. Io lo giuro su mio padre" iniziò a dire con la voce che tremava per il dolore e per la rabbia "Lo giuro su mia madre, poi su mia zia, mio zio, i miei cugini. Lo giuro su Nomiva e Selina! Io lo giuro sulla mia vita, sulla terra dei miei antenati che mi è stata sottratta con l'inganno e bagnata dal sangue. Prenderò le loro vite e allora la mia vita potrà finire, perché la mia missione sarà stata compiuta". Ser Zalikoco e la balia annuirono con riluttanza, spaventati da tali parole d'odio "Addio Adelynda" salutò il cavaliere, guardando la donna "Addio Ser Zalikoco. Addio signorina Aurilda. Che gli dèi e la vostra famiglia possano vegliare sempre su di voi e rendere sicuro il vostro cammino. Che possiate tenere fede al vostro giuramento e trovare la pace e la felicità perdute. Addio". Aurilda le fece un cenno di saluto con la testa "Addio Adelynda" parlò con la voce sottile impregnata di dolore, era quasi un lamento "Grazie ancora per averci salvati. Che gli dèi veglino sul tuo cammino e proteggano sempre la tua bontà".

Il cavaliere però cambiò idea e disse altro "Accettereste un passaggio, cara Adelynda?" domandò con garbo. La donna però dopo aver sorriso dolcemente scosse il capo con vigore "Dovete scappare subito al castello dei Rosyll. Non vi fermate mai, siete in pericolo se vi trovano. Scappate e non vi voltate più indietro finché non sarete arrivati a destinazione. State sempre allerta, giorno e notte, e diffidate di tutti gli sconosciuti che doveste incontrare lungo il vostro cammino. Io sono certa che riuscirò a giungere al mio paese, ma vi ringrazio ugualmente per il vostro gentile invito. Resterete sempre un nobile cavaliere nel mio cuore come in quello di tutti quelli che hanno avuto il privilegio di fare la vostra conoscenza" finì la donna con la voce dolce e commossa. Ser Zalikoco visibilmente in imbarazzo per quelle parole gentili che aveva ricevuto al cospetto di Aurilda evitò di guardarla "Addio, cara balia" disse semplicemente "Addio Adelynda" disse infine Aurilda e poi lei e il cavaliere si allontanarono per tornare nel bosco. Subito spronarono i cavalli per farli andare più veloci, avanzando sotto la coltre di neve. Aurilda intanto continuava a piangere, ma non se ne fece una colpa, sapere tante cose orribili tutte insieme era devastante, sapere che tutta la sua famiglia non c'era più e che in fondo era tutto accaduto per causa sua non potevano fare altro che devastarla.

Immersa in quella tempesta di neve Aurilda si domandò se sarebbe mai arrivata da suo zio o se sarebbe morta assiderata. E c'era un'altra orrenda consapevolezza che si insinuava nella sua mente come una serpe velenosa: una parte di sé sapeva che era colpa dei suoi genitori e una remotissima e crudele parte della sua mente riteneva che la loro morte fosse causata dal loro egoismo. Non si erano curati della loro figlia, erano stati disposti a venderla a Morfgan, un uomo pericolose e crudele senza alcuna remora. E lui li aveva uccisi, li aveva uccisi perché lei era fuggita per sfuggire al matrimonio che loro avevano insistito per far celebrare. Si erano condannati da soli e cosa peggiore era che avevano condannato Nomiva e Selina. Era orribile da pensare, Aurilda ne era ben consapevole e avrebbe voluto dire che la pensava così perché stava veramente impazzendo, eppure non si era sentita tanto lucida dall'incontro con Adelynda. Dunque la morte era stata la punizione che gli dèi avevano inflitto a Gamelius Tenebrerus e Amillia Rosyll per aver posto la loro figlia in pericolo oppure quelle erano solo le farneticazioni di una povera egoista che tentava di addossare le sue colpe a degli innocenti?

Aurilda sentiva la testa esplodere, provava un dolore tale che pareva un carro di buoi le fosse passato sopra. Si impose allora di non pensare, ma era impossibile non pensare nella sua condizione, dopo quello che aveva saputo. Aurilda sapeva soltanto che aveva fatto un giuramento e doveva onorare quel giuramento solenne, o almeno doveva provarci. Doveva raggiungere il castello di suo zio e imparare a uccidere veramente, ma quanto tempo ci avrebbe impiegato? Sicuramente più di quanto non ci avrebbe messo il re a trovarla. E allora cosa avrebbe fatto? Ovviamente Morfgan avrebbe ucciso anche i Rosyll e poi lei. No, Aurilda decisamente non poteva andare dai suoi zii, non poteva condannare gli ultimi tre membri della sua famiglia a morte certa. Doveva infrangere il suo giuramento. Era certa che se ne avesse parlato con il Ser, lui sicuramente avrebbe insistito come poco prima per obbligarla a raggiungere il castello dei Rosyll, quindi era inutile parlare con lui.

Mentre galoppavano tra gli alberi, tra la neve resa rada dal soffitto di alberi e vento gelido, Aurilda decise una volta per tutte il da farsi. Sarebbe rimasta per un po' con il cavaliere, illudendolo di voler continuare il viaggio per raggiungere il castello dei Rosyll, poi sarebbe scappata di notte e si sarebbe diretta alla capitale. Non avrebbe ucciso Morfgan, non avrebbe vendicato la sua famiglia, ma avrebbe salvato da morte certa tre persone, tra cui un bambino, suo cugino Evral. Aurilda avrebbe guardato Morfgan con tutto l'odio e il disprezzo che fosse riuscita a raccogliere, gli avrebbe sputato conto gli insulti e poi gli avrebbe sputato in viso prima di morire.

Non c'era altro da fare ormai, non poteva più essere egoista e pensare di poter imparare a uccidere in breve tempo il re, era impossibile, com'era stata folle la sua idea di sfuggire al matrimonio con il re per decidere la sua vita da sé. Aurilda si sentiva una perdente, mai in vita sua si era arresa così al destino, mai si era lasciata trascinare dagli eventi senza neppure tentare di combattere. Ma non erano più i vecchi tempi, i Tenebrerus erano morti e presto sarebbe arrivato anche il suo turno. Il cerchio si sarebbe chiuso e la Palude Nera sarebbe rimasta senza fiori, nera e vuota come il buio della morte e il silenzio del dolore.

 

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Capitolo 29
*** Il fascino della dama scarlatta ***


Pov:Cleorae

Pioveva quel giorno nella capitale, il vento soffiava forte fuori dalle finestre e la pioggia batteva incessantemente sui vetri delle finestre. Cleorae era seduta sul divanetto della sua camera di fronte alla finestra e guardava fuori, non c'era quasi nessuno in giro, le guardie erano sparite dalle strade e le uniche persone che correvano per le vie della città dovevano essere dirette nelle loro case. Il fiume Tiverian che circondava la città quasi minacciava di straripare. Insomma era una normale giornata di tempesta invernale, almeno lo era per chi avesse un posto caldo in cui potersi riparare dal freddo. Il solo pensiero dei mendicanti e delle povere persone rifugiate alla Casa della Carità rendeva Cleo torva e triste, oltre che arrabbiata ovviamente.

Tutte le persone che erano costrette nella Casa della Carità si trovavano a dover sopportare il freddo; a Cleorae sembrava quasi di risentire il gelo che entrava degli spifferi e poi penetrava sin dentro alle ossa. Un rumore leggero la fece voltare verso la porta "Entra pure, Sipo" rispose immediatamente, riconoscendo all'istante il tocco di suo cugino alla porta. Il ragazzo poco più giovane di lei con i capelli corti e similmente rossi entrò nella stanza e le rivolse un sorriso "Credi che sia troppo rischioso se rimango un po' qui con te?" Domandò il nuovo arrivato, mettendosi a sedere con negligenza prima ancora di aver ricevuto una risposta. Cleo scosse la testa "Non credo se resti per poco tempo. Ma comunque tra non molto dovrò andare, quindi ti consiglio di non metterti troppo comodo" aggiunse, guardando Sipo steso sul letto.

Sipo sbuffò e si mise a sedere, guardando Cleorae in volto "Piove" disse con ovvietà, guardando fuori dalla finestra, sembrava fosse annoiato. "Non ti è mai piaciuta la pioggia" ricordò Cleo con un sorriso "Mi hanno sempre spaventato le tempeste in passato" annuì il ragazzo "Inoltre faceva un freddo tremendo durante le notti d'inverno alla Casa della Carità, soprattutto quando si scoprivano gli spifferi. Ti ricordi, Cleo?" La interpellò Sipo "E come potrei dimenticare" rispose subito lei "È così che siamo cresciuti". Il ragazzo annuì "Immagino che faccia ancora freddo alla Casa della Carità" disse con amarezza, poggiando mollemente il mento sul braccio mentre tornava a stendersi sul letto con la pancia rivolta sul materasso "Sai, ci sono stata non molto tempo fa. Te l'ho detto comunque, lo hai già dimenticato?" gli ricordò Cleo.

"È vero" annuì l'altro, sospirando "Fa ancora freddo, non è vero?" Cleorae annuì "Stavo proprio pensando a quanto debbano stare male quelle povere persone. Non c'è nessuno che si occupi di loro se non i sacerdoti e le sacerdotesse, ma noi due sappiamo bene che non basta". Sipo annuì vagamente "Immagino che dovrei essere felice adesso" replicò "Sono fortunato ad avere un posto caldo dove trascorrere le giornate fredde come questa. Ho da mangiare e non passo il mio tempo nelle strade a ciondolare". Cleorae lo guardò con serietà, sapendo perfettamente dove volesse arrivare suo cugino con quelle parole "Eppure" tentò lui "Eppure non sei soddisfatto" lo interruppe Cleorae. Sipo annuì "Esattamente" confermò "Non devi travisare le mie parole, Cleorae" tentò di giustificarsi "Io sono grato per tutto questo. Ma non è la mia strada" concluse, guardandola negli occhi con convinzione.

Cleorae sbuffò "Ancora speri di realizzare il tuo proposito e diventare un assassino!?" gli domandò aspramente. Sipo la guardò con freddezza "I soldati sono amministratori della giustizia, non sono semplici assassini!" replicò con forza il ragazzo "Sono eroi coraggiosi che si prodigano per difendere il popolo, o almeno è quello che dovrebbero fare, certamente è quello che farei io!" Cleorae era esasperata, veramente non riusciva a comprendere perché suo cugino insistesse con quell'idea che a lei sembrava solo malsana e pericolosa "Ci sono altri modi per essere eroi, per dimostrare il proprio valore e il coraggio" rispose serenamente Cleorae, tentando di far ragionare l'altro "Uccidere causa sempre la sofferenza di qualcuno, soprattutto uccidere un uomo a sangue freddo, guardandolo negli occhi".

Sipo si rabbuiò e la fissò con ferocia "Continui a ripetere le parole di tua madre" la accusò "Ma sappi che lei era cieca a causa del dolore per la morte di tuo padre, è per questo che ha sempre denigrato ogni tipo di guerra e i soldati, senza riuscire a comprendere che la guerra talvolta è l'unica via che può condurre alla libertà! Tu sei intelligente Cleorae, non comprendo come tu faccia a restare cieca come mi raccontasti fu lei. Voglio sforzarmi di credere che tu lo faccia solo per onorare la sua memoria e non perché lo pensi veramente!" Cleo lo guardò attentamente, con sguardo penetrante "E io spero che tu non insista con questa idea solo per onorare la memoria di tuo padre, un soldato!" Sipo la guardò malamente "Lasciamo stare" tagliò corto il ragazzo "Su questa questione temo che non troveremo mai un punto di incontro tu e io". Cleorae annuì "Penso proprio di no" ed era vero, per Cleo la guerra era la causa di ogni male, mentre per Sipo era fonte di onore.

Per un poco calò il silenzio tra i due cugini, lasciando che l'unico rumore presente nella stanza fosse quello della tempesta che infuriava per le strade della capitale, poi Sipo si alzò e si avvicinò alla finestra, guardando la Casa della Carità dall'alto. Sospirò e poi si voltò per tornare a guardare sua cugina "Tu li stai aiutando" disse con sicurezza, ma c'era una vaga dolcezza nella sua voce "Tutti i soldi che stai guadagnando per aiutare loro... sono sicuro che nessun altro oserebbe fare tanto!" Cleorae però non pareva molto convinta "Bisogna fare molto di più di questo per aiutare tutta quella povera gente" Disse con convinzione, raggiungendo Sipo vicino alla finestra.

"Ci hai provato" continuò Sipo "Con il re Fritjof, ma non ha funzionato. Non puoi fare più niente per aiutarli adesso che c'è Morfgan". Cleo gli rivolse uno sguardo ostinato "Si può sempre fare qualcosa se lo si vuole veramente!" Esclamò convinta. Sipo sbuffò e le voltò le spalle tornando vicino al letto per sdraiarsi "No" disse poi, guardandola dal basso "Non puoi fare altro, non puoi rischiare oltre" "Invece posso eccome" ribadì subito Cleorae con la stessa ostinazione "Cugina, no!" Insistette Sipo, mettendosi nuovamente a sedere. Quanto era irrequieto, a Cleo stava facendo girare la testa con tanti spostamenti! "Non puoi pensare di sposare veramente Morfgan!" Cleo sollevò le sopracciglia, sfidandolo con lo sguardo "Perché no!?" Domandò con le braccia conserte. Sipo la guardò impalato, interdetto "Perché hai visto tu stessa che genere di uomo è!" Rispose Sipo con ovvietà "È del tutto folle! È un assassino iracondo e perseguita chiunque osi disobbedirgli!" Cleo sbuffò "Non vedo dove sia il problema" disse con strafottenza "D'altronde è un po' come la guerra che ti piace tanto" rispose con freddezza "E' pericoloso per gli sciocchi e gli ingenui, ma io non sono né l'una né l'alta, quindi non vedo dove sia il pericolo".

Sipo però era seriamente preoccupato, tanto da stringerle un braccio con forza "Cleorae, ti prego di ragionare!" disse allucinato e allarmato "Sai cosa potrebbe farti!? Hai visto quanto è forte e come usa la spada! Se dovesse arrabbiarsi veramente con te, e sai perfettamente con quale facilità perde il controllo, cosa credi che potrebbe farti? Come pensi che reagirebbe se tu gli disobbedissi!?" Cleo alzò gli occhi al cielo "Cugina, ti prego! Non essere temeraria e ottusa!" Continuò il ragazzo, tentando di ferirla nell'orgoglio "Come te con l'idea di diventare un soldato?" replicò però prontamente Cleorae, con ostinazione. Sipo le lasciò il braccio, accigliato per quelle parole "Io parlo così unicamente perché ho a cuore il tuo bene! E per questo non voglio che quell'uomo ti faccia del male!" Cleo sorrise "E non pensi che sia quello che voglio anche io per te?" gli domando dolcemente, carezzando il volto appena lentigginoso del ragazzo "Lo so che sei in pena per me" continuò Cleorae "E che ti preoccupi tanto perché mi vuoi bene. Ma non devi temere" lo rassicurò "So cavarmela da sola. L'ho sempre fatto. Il re non è un pericolo per me, so come gestirlo senza suscitarne ire implacabili. Inoltre si è legato molto a me, soprattutto da quando è morto suo padre, più di quanto tu possa immaginare. Oserei addirittura dire che prova dell'affetto nei miei riguardi".

Sipo la guardava dritta negli occhi, scettico "Non mi piace" insistette "Io mi fido ti te, ma quell'uomo è imprevedibile. Se dovesse sfuggire dal tuo controllo e farti qualcosa di male non potrei perdonarmelo". Cleorae sorrise "E comunque sappi che non è la stessa cosa" replicò Sipo "Essere un soldato è diverso". Cleorae tentò di ignorare le parole di Sipo e continuò quello che stava dicendo "Ti devi fidare di me ancora più di quanto tu già non faccia" annunciò lei "Sono più brava di quanto immagini a trattare con lui. E se anche dovesse accadermi qualcosa di brutto, se dovesse accadermi per aiutare il nostro popolo lo farò con piacere". Sipo spalancò gli occhi "Non dire una cosa del genere!" Rispose allarmato "Non è giusto che tu soffra per garantire il bene degli altri! Non è questo un regno! Inoltre" protestò prontamente "Se tu puoi sacrificarti per il bene del popolo perché io non posso farlo!? Saresti ipocrita ed egoista impedendomi di realizzare il mio proposito per timore che possa accadermi qualcosa, mentre tu fai esattamente lo stesso!" Cleo si alzò, doveva aspettarsi un discorso del genere "Eppure io non rischierei la mia vita continuamente" replicò "Non sarei costretta a uccidere nessuno, tu contrariamente non potresti esimerti dall'eseguire una sentenza ingiusta al cospetto del tuo re! E sul mio bene personale" e Cleorae fu costretta ad alzare la voce, perché Sipo minacciava di voler interrompere "I regni sono così. Poche sono le persone naturalmente votate al sacrificio per un bene comune, la moltitudine predilige sempre obbedire e tacere, oppure prevaricare i deboli e approfittarsi di loro. È necessario che qualcuno garantisca il benessere della gente e io mi occuperò di questo compito, sacrificando la mia stessa vita se dovesse rivelarsi necessario".

Sipo la fronteggiò "Non è giusto che ti ponga in una situazione di pericolo per salvare tutti gli altri!" insistette "E ti consiglio di non evitare le mie domande, perché finirai solo per peggiorare le cose!" Cleorae lo fulminò con lo sguardo "Abbassa la voce" lo sgridò dapprima "Potrebbero sentirci! Inoltre sai perfettamente che mi feci assumere al castello unicamente con questo scopo!" Rispose Cleo, fronteggiando duramente suo cugino "Ma prima era diverso!" Continuò imperterrito Sipo "Prima con il re Fritjof era tutto diverso! E se usi questa patetica scusante allora posso farlo anche io, perché sai che ho sempre desiderato essere un soldato e se avessimo avuto le possibilità economiche mi sarei allenato e lo sarei già!" Cleorae ispirò lentamente, tentando di calmarsi "Il re Fritjof è morto" disse con voce incolore "Ormai il re è Morfgan e i miei piani non cambieranno di certo per questo. Certo cambieranno le modalità dell'attuazione, ma non di certo il mio fine. Non ho paura di quell'uomo" ripeté come se niente fosse "Perché chi ha ben fisso il proprio obbiettivo non teme gli ostacoli che incontra lungo il percorso".

Si voltò a guardare Sipo, era disperato eppure furibondo "Il dolore fisico non è così tremendo" continuò imperterrita la ragazza "Se mai dovessi provarlo in futuro sono certa che resisterei. Resisterei per tutte le persone che vivono al freddo, che non possono mangiare. Resisterei per i bambini che urlano esposti al gelo della notte e fanno a gara sotto al manto di stelle per sovrastare con le loro grida la voce del vento. Resisterei anche soltanto per concedere una casa vera a una persona in più" terminò, tornando di fronte al cugino "Perché non possono vivere così" continuò "Quella non è vita e tu lo sai. Ho l'opportunità di cambiare le cose, non posso tirarmi indietro. Non è questo il momento di avere paura. La paura è solo un altro ostacolo per il bene comune e io non posso lasciare che mi fermi. Il tuo è solo il desiderio di un bambino che tenta di compiacere un genitore che non potrà mai vederlo" concluse, forse con troppo cinismo ed eccessiva freddezza.

Sipo continuò a fissare Cleorae, stringendo i pugni per la rabbia, soprattutto a causa delle ultime parole "Allora è questo che pensi di me" disse tagliente, con la voce sfumata dalla collera "Che io sia soltanto un bambino capriccioso che tenta di emulare suo padre". Cleo non rispose, ma non fu necessario, Sipo non glielo avrebbe permesso "Sappi che ti sbagli" affermò il ragazzo "Ti sbagli veramente e sei così cieca da non riuscire a vedere che anche il mio è un nobile desiderio di aiutare il popolo con un altro mezzo. Forse volevi ferirmi perché speravi che avrei cambiato idea, ma temo di aver ereditato da mia madre la stessa testardaggine che tu hai ereditato dalla tua e quindi le tue parole non hanno neppure scalfito le mie idee di gloria". Cleorae sospirò, non serviva a nulla insistere con quella storia, così si limitò ad annuire lievemente, fingendosi arresa. "E mi sembra di aver compreso a ragione che neppure tu desisterai dal perseguire la tua idea folle. Quindi cosa farai? Convincerai Morfgan a sposarti?" Domandò duramente Sipo. Cleo annuì con la medesima impercettibilità "Diventerò la regina di Expatempem" confermò "Costi quel che costi". Sipo annuì meccanicamente, ma Cleoare vedeva chiaramente il suo timore negli occhi azzurri dell'altro "Lo convincerò a sposarmi oggi stesso" annunciò poi Cleorae, con solennità. Sipo spalancò prepotentemente gli occhi, del tutto frastornato da una notizia di tale portata "No!" quasi grido "Ti prego Cleorae, non farlo!" Sussurrò poi disperatamente "Vattene e basta, tu hai fatto tutto quello che potevi, puoi continuare a vendere gli infusi e aiutare così le persone, ma ti prego, ripensa a quello che vuoi fare!" Cleo gli lanciò uno sguardo severo "Non è abbastanza!" Ribadì categorica "Io so cosa posso fare, quanto posso aiutare quelle persone e non mi tirerò di certo indietro adesso perché il re è un idiota che ha problemi a gestire la sua rabbia! Questo è il piano che metto a punto da tutta la mia vita, ho lavorato duramente per arrivare dove sono adesso, lo sai tutto quello che ho fatto per arrivare qui, per arrivare così vicina al re e ottenere la sua fiducia! Io non sono una codarda né tantomeno una sprovveduta". Cleorae indugiò un attimo, scrutando negli occhi Sipo "Esattamente come te" decretò poi, costretta dalle circostanze ad ammettere ciò.

Sipo continuò a scrutarla torvo nonostante le ultime parole "Ti prego Cleo" ripeté "Se tu lasci stare quest'idea di sposare Morfgan, ti prometto che farò lo stesso con la mia idea di diventare un soldato. Così saremmo al sicuro entrambi". Cleorae però scosse il capo "Non possiamo farlo" disse semplicemente "Perché no?" il tono di Sipo era quasi una supplica. Cleo si voltò e sospirò "Perché non siamo dei codardi" replicò "E sappiamo entrambi cosa sta patendo quella povera gente". Sipo tacque, pensando a come poter rispondere e allora Cleoare ne approfittò per replicare "Io ora devo proprio andare, non ho tempo per restare ancora qui, continuando con inutili discussioni con te mentre nelle strade i bambini muoiono di freddo". Il ragazzo la guardò con un'espressione torva "Io diventerò la regina, Sipo" ripeté con sicurezza Cleo "Che tu lo voglia o no. Il re oggi accetterà di sposarmi e al termine di questo inverno io sarò la regina e finalmente mostrerò a tutti come si governa un regno. Se può rassicurarti augurami buona fortuna oppure prega gli dèi affinché possano proteggermi, ma ti assicuro che non ne avrò alcun bisogno".

Sipo serrò la mascella con rabbiosa rassegnazione "Non ti fidi di me, cuginetto?" Disse con voce morbida Cleo, avvicinandosi per carezzarlo, ma lui si scostò, colmo di rancore e con un'espressione dura sul volto "Veramente?" parlò ancora Cleorea, divertita "Con il tuo comportamento mi offendi..." terminò, con un lieve sorriso a incresparle le labbra generose. Sipo però non si scompose "Quindi non riuscirei a farti cambiare idea in nessun modo?" Tentò ancora lui "Esatto" annuì Cleo davanti allo specchio, constatando di essere impeccabile "Nulla di quello che dirò ti farà cambiare idea?" "Nulla" confermò lei "Andrai dritta per la tua strada comunque?" "Comunque". Sipo non poté fare a meno di sospirare "Allora tanto vale che io ti auguri veramente la buona fortuna e la protezione degli dèi" sospirò sconsolato per il fallimento. Cleo sorrise nuovamente "Sarà un matrimonio magnifico, non devi essere triste, inoltre potrai vantare una parentela con la regina!" scherzò Cleorae, principalmente per tentare di tirare su l'altro.

Sipo scosse il capo "Come sto?" Domandò ancora Cleo, voltandosi per farsi ammirare "Devo convincere il re a sposarmi, devo avere un bell'aspetto. Mi trovi bella?" Sipo alzò gli occhi al cielo, senza riuscire a trattenere un sorriso "Mi prendi in giro, non è vero!?" rispose con sarcasmo "Tu sei sempre incantevole, lo sei sempre stata" "Sì, ma oggi è particolarmente importante che io sia irresistibile" "Ti assicuro che lo saresti per chiunque" affermò Sipo, ammirandola per intero. Cleorae allora parve soddisfatta "Allora vado da Morfgan" annunciò serenamente, avvicinandosi alla porta seguita da Sipo. Si fermò prima di aprire la porta e lo fronteggiò un'ultima volta, subito lui la strinse e lei fece lo stesso "Andrà tutto bene. È una promessa" sussurrò Cleo.

Sipo la guardò ancora nei begli occhi chiari "Sì" rispose, sforzandosi di sorridere "A dopo, Cleo" "A dopo, Sipo" e i due cugini dopo quelle ultime parole uscirono dalla stanza, separandosi perché diretti in corridoi opposti. Cleorae per quanto potesse sembrare strano non era affatto preoccupata, era sempre stata una persona con una forte autostima e molta fiducia in sé, per questo non riusciva a capire i timori di Sipo. Insomma, Morfgan non era propriamente il migliore degli uomini, ma lei non era la prima sprovveduta che c'era in giro! Cleo era sempre stata un'esperta di eloquenza e manipolazione, capace di convincere persona scaltre a fare quello che desiderava; Morfgan non brillava di certo per intelletto, era uno stolto impulsivo e violento e sarebbe riuscita sicuramente a gestirlo senza troppi problemi.

Mentre avanzava lungo i corridoi di marmo Cleorae incedeva con un passo leggiadro e composto, per nulla agitato, la sua eleganza e quel portamento di cui la natura le aveva fatto dono e che lo studio rigoroso aveva aiutato a perfezionare la facevano sembrare ancor più una regina. Cleo passò davanti al corridoio principale dove c'era la sala del trono, ma Morfgan non era lì. Cleo allora continuò a camminare, vagamente accigliata, pensando a dove potesse essere andato il re. Cleorae sperava solamente che Morfgan non fosse andato a caccia oppure ad allenarsi, perché Cleo era molto impaziente e non sapeva se avrebbe potuto attendere tanto oltre.

Fortunatamente Cleo incontrò il vicegenerale della guardia reale, Ser Waltyer Orlens, che stava camminando con la solita espressione seria e diligente "Vicegenerale Orlens" lo salutò Cleorae con riverenza. L'uomo si voltò e la salutò con un cenno del capo "Signorina Powtion". Cleo scosse la testa "Quante volte vi ho detto che potete chiamarmi Cleorae?" disse serenamente. L'uomo però continuò a guardarla con serietà "Mi spiace signorina, ma non mi è concesso parlarvi con tanta confidenza, inoltre temo che non sarebbe opportuno". Cleo allora annuì, senza perdere ulteriore tempo in inutili convenevoli "Sapreste dirmi dov'è la nostra illustrissima maestà, re Morfgan Raylon?" Domandò Cleo in tono formale, ma ugualmente cortese. L'uomo annuì "La nostra serenissima maestà è nei suoi alloggi e lavora per il bene del nostro regno".

Cleorae si impose categoricamente di non ridere perché, insomma, Morfgan che lavorava per il bene del regno era un fatto irreale al quale mai avrebbe potuto credere "Vi ringrazio come al solito per la gentilezza e l'efficienza, vicegenerale Orlens" ringraziò lei "Sempre lieto di potervi servire, signorina" rispose meccanicamente l'uomo "Ora se volete scusarmi, continuo la mia ronda per il palazzo" "Ma certo" rispose subito Cleo, congedandolo "Arrivederci" "Arrivederci". Cleorae guardò l'uomo allontanarsi, accompagnato dall'armatura di metallo e dal portamento di gesso, poi quando fu abbastanza lontano Cleo si sistemò un'ultima volta le pieghe del vestito e poi bussò alla porta della camera reale. Attese lì fuori per alcuni istanti, ma non si preoccupò, la puntualità e l'efficienza nel rispondere erano solo altre delle qualità che il re non possedeva.

"Chi è?" La voce roca di Morfgan arrivò alta e chiara da dietro la porta "Sono Cleorae, maestà!" Rispose lei prontamente, in tono particolarmente suadente "Entra!" La ragazza sorrise trionfante e aprì la porta, richiudendosela alle spalle subito dopo. Morfgan era seduto su una poltrona nella sua grande camera, aveva diversi fogli sparsi sullo stretto tavolo basso e sui braccioli del divano vicino e teneva in mano un bicchiere di vino "Corallina" la salutò, chiamandola con il solito soprannome "È una gradevole sorpresa vederti qui a quest'ora. Ma dimmi" continuò, inarcando le sopracciglia con un vago sorriso "Quale motivo ti spinge a recarti nei miei alloggi per interrompere il lavoro del tuo re?" Cleo che era rimasta sulla porta si fece più avanti "Non era mia intenzione disturbarvi, maestà" disse con la voce zuccherosa e vagamente civettuola "Se me lo comandate me ne andò subito. Per nulla al mondo vorrei causarvi un fastidio e gli dèi lo sanno se mento!" Morfgan bevve un sorso di vino con calma, poi scosse il capo, divertito "Non dire idiozie" replicò subito "Tu ora resterai qui con me. Avvicinati, avanti. Non far attendere oltre il tuo re!"

Cleo allora si avvicinò di più, fermandosi davanti al divano dov'era seduto lui "Siediti, avanti!" Esclamò lui e la avvicinò cingendole la vita, facendola sedere sulle sue ginocchia. Cleorae lo guardò morbidamente "Cosa facevate di tanto importante, mio re? Ovviamente se non oso domandare troppo". Cleorae guardò Morfgan, lui sorrise e la strinse di più a sé "Tu sei sempre impudente" scherzò, avvicinando di più il volto a quello di lei "Sempre" e le circondò le labbra con le proprie. Quando si furono separati Cleo gli carezzò dolcemente il volto "A dire il vero mi preoccupavo di controllare tutte le procedure personalmente in merito all'operazione da te consigliatami" annunciò Morfgan, stupendo Cleo "Stanno arrivando le prime quantità d'oro dalle miniere della Provincia di Fuoco. E controllando i conti devo proprio ammettere che hai avuto un colpo di genio, Corallina, era da tanto che le nostre casse non erano messe tanto bene!"

Cleo gli rivolse un sorriso compiaciuto, pensando bene di sfruttare quel vantaggio a suo favore "Sono sempre felice di rendervi lieto, maestà" disse con la solita reverenza, sbattendo le ciglia "E, sempre se non oso domandare troppo, cosa pensate di fare con tanto oro?" Morfgan posò il bicchiere a metà "Non ho ancora deciso" ammise "Magari potrei coniare nuove monete, ma rischierei di svalutare l'attuale valore dei tesli così facendo, quindi per il momento ritengo che potrei usare un po' delle ricchezze del regno per organizzare una sontuosa festa di corte". Il sorriso di Cleo si allargò "E tutto il denaro che è stato speso per l'organizzazione del vostro matrimonio alla fine dell'inverno?" Domandò, in tono serafico. Morfgan subito si fece serio e Cleorae continuò a guardarlo "Oh, perdonatemi, maestà" recitò lei "Non avrei dovuto nominare quel matrimonio, so che per voi è fonte di rabbia e io, sciocca, ne ho parlato con così poca accortezza". Morfgan si incupì parecchio "Non farmi ripensare a quella dannata ragazzina impudente che era la mia promessa sposa!" Soffiò infuriato "Quella stupida ragazzina ha rovinato tutto! È inammissibile che un re sia costretto ad annullare il suo matrimonio organizzato da anni! Alla capitale si befferanno della mia persona a causa di questo torto che ho subito e chissà se un giorno riuscirò mai a sposarmi e a dare un erede a questo regno come fece mio padre!"

Cleo lo guardò perplessa "Chi oserebbe farsi beffe di voi, maestà?" Morfgan scosse il capo "Tutti!" decretò con convinzione "I popolani, i soldati, probabilmente persino i mendicanti! Tutti parleranno di come la ragazzina abbia deciso di fuggire, macchiando il mio onore e infrangendo il sacro accordo stretto tra mio padre e il suo. Chiunque si befferà di me, diranno che non sono in grado di trovare una donna da sposare neppure essendo il re. Che tremenda umiliazione, maledetti Tenebrerus!" Cleorae tenne gli occhi bassi e sfiorò appena la giacca raffinata di Morfgan "Quindi il mio re non si sposerà presto come desidera? Com'era stato accordato?" Domandò innocentemente "Non vedo come potrei se quella stupida ragazzina mi ha disonorato" annunciò Morfgan in tono sprezzante "Ci ho pensato attentamente e sono giunto alla conclusione che non appena la prenderemo, io la farò giustiziare per alto tradimento, come tutti i membri della sua famiglia. Non merita di vivere quella creatura ingrata!" Cleo si sentì soddisfatta, ma poi lui aggiunse altro "Sono certo che non troverò una signorina dell'età giusta, che possa essere bella, reverente ed elegante in così poco tempo. Tutte le figlie dei signori saranno sposate oppure troppo giovani per sposarsi al termine dell'inverno" disse, afflitto "Quindi, ahimè, sarò costretto a subire l'umiliazione e perderò tutto il denaro già speso per l'organizzazione del matrimonio".

Cleo lo fissò, tentando a stento di trattenere un sorriso "E se invece vi sposaste come è stato deciso, mio re?" propose lei, mantenendosi vaga. Morfgan corrugò le sopracciglia "Mi proponi di costringere una delle signore ad abbandonare il marito per sposare me?" domandò, lasciando Cleorae interdetta per il livello di ottusità che talvolta riusciva a raggiungere Morfgan con le sue parole "Farò così, non mi lascerò umiliare!" continuò Morfgan, senza dare modo a lei di replicare. Cleorae scivolò via dalle ginocchia di Morfgan e tornò in piedi, guardandolo con disappunto, esasperata "Quindi è deciso" disse con voce bassa "Vi sposate con una donna che non vi merita e che sottrarrete al marito e forse addirittura ai figli...". Il re annuì e la donna si voltò di spalle, iniziando a piangere, sforzandosi di piangere per continuare la sua recita "Ma che stai facendo?" Domandò Morfgan alzandosi a sua volta, sentendo i singhiozzi di Cleo "Perché ti sei alzata? Non eri venuta qui per compiacere il tuo re?" Quando l'uomo le fu davanti la trovò con le mani bianche sul volto per nascondere il pianto "Ma che stai facendo?!" Insistette "Perché adesso piangi?" domandò confuso. Cleo si scoprì lentamente il volto "Perché piangi?" Domandò ancora lui.

Per tutta risposta Cleo scosse la testa, con drammaticità "Piango perché dovremo dirci addio, maestà!" Morfgan corrugò le sopracciglia, confuso "Che assurdità vai dicendo mai!?" Sbraitò. Cleorae però non rispose subito e continuò a piangere, rendendo la sua disperazione più veritiera "Perché sarò costretta ad abbandonare questa città al più presto!" Annunciò poi, gemendo tra i singhiozzi "Non è possibile!" La sgridò subito lui "Non me lo avevi mai detto che ti saresti messa in viaggio alla fine dell'inverno. Per quanto tempo sarai via?" Cleo pianse più forte "Per sempre!" annunciò drammatica, struggendosi dal dolore. L'uomo le si avvicinò di più "Spiegami immediatamente che cosa stai dicendo, è un ordine del tuo re!" Cleorae annuì, senza smettere di piangere "Non ve ne ho mai parlato perché è una cosa che ho deciso adesso" iniziò a spiegare.

Morfgan era sempre più confuso "Allora non partire!" Disse con ovvietà "Perché partire senza motivo?" "Senza motivo, mi dite!?" Cleo singhiozzò in maniera disperata e si portò nuovamente le mani al volto "Oh, maestà" gridò "Come fate a non capirlo? O forse vi fate beffe di me e del dolore che mi affligge!?" Domandò "Cosa dovrei capire?" Domandò Morfgan ancora più perplesso "Ti ordino di parlare chiaramente, Cleorae, e senza ulteriori giri di parole!" Cleo annuì, tentando di fermare i singhiozzi insistenti da cui era scossa "Il mio cuore, maestà, sanguina" disse sospirando con gli occhi arrossati dal pianto "E l'unica cosa in grado di curare un cuore ferito, almeno da quel che ho sentito dire, è la lontananza. Solo in questo modo forse le ferite si cicatrizzeranno e io sarò in grado di andare avanti. Ma qui sarebbe impossibile, mio re" continuò a spiegare Cleo con convinzione "Il mio cuore sarebbe sottoposto a torture atroci ogni singolo giorno e io finire per morire di doloro. Finirei per togliermi la vita pur di non vedervi in compagnia di un'altra".

Morfgan se possibile era ancora più confuso di prima "Ma di che cosa stai parlando?" Domandò ancora "Chi è che ti fa sanguinare così il cuore?" Cleorae lo fissò sconvolta "Allora vi prendete davvero gioco di me, maestà!?" Domandò, fingendosi rancorosa "A me sembra che stia avvenendo proprio il contrario!" Si infuriò lui. "Io prendermi gioco di voi!?" Disse sempre più sconvolta Cleo "Oh, se solo il mio povero re sapesse! Oppure lo sa e si diverte a infierire contro una povera fanciulla innamorata?" Morfgan corrugò le sopracciglia "Ti ordino di dirmi chi è costui che ti fa soffrire tanto!" Cleo lo guardò dritto negli occhi "Ma siete voi, maestà!" Esclamò in modo teatrale, portandosi una mano sul petto "Oh, povera me!" Continuò ancora, riprendendo nuovamente a piangere "Il mio re e amore mi considera così poco da ignorare del tutto i sentimenti che dimostro continuamente di nutrire per lui! Devo andarmene via oggi stesso dalla città, oppure solo gli dèi sanno che follia potrei compiere per mettere fine a questo dolore!"

Cleorae si girò per uscire velocemente, conscia del fatto che Morfgan la stesse ascoltando con attenzione, poi lui la trattenne "Dove pensi di andare, Cleorae?!" Domandò scuotendo la testa "Non ti permetterò di andartene via così!" Cleo lo guardò con rabbia, tentando di divincolarsi dalla stretta di lui "E perché mai dovrei restare, maestà!?" Esclamò rancorosa "Per sottopormi alla tortura del vedervi amare un'altra donna? Oppure perché desiderate guardare mentre mi tolgo la vita per voi!? No, voglio andarmene via subito!" Morfgan allora la strinse di più a sé "Ma io e te potremmo continuare a vederci lo stesso!" Disse con ovvietà, ma Cleo parve ancora più sconvolta "Condividervi con un'altra donna!?" Disse senza parole "Piuttosto pugnalatemi voi stesso al petto qui e ora!" Il re spalancò gli occhi per la sorpresa; sembrava indeciso, ma la stretta forte con cui teneva Cleorae a sé aveva un qualcosa di caloroso "Veramente mi ami, Cleorae?" domandò infine "Veramente vedermi sposare un'altra ti causerebbe tutto questo dolore?" e le sfiorò una guancia umida di ben recitato dolore con un dito, con affetto.

"Possano gli dèi portarmi alla morte adesso se vi mento, maestà!" Rispose lei, sempre melodrammatica "Lo so che morirei di dolore" continuò imperterrita, fingendosi sconsolata "Quindi è meglio che io me ne vada lontano prima di sapere qualunque cosa sulla vostra futura sposa". Morfgan però non la lasciò andare neppure allora "Io non voglio che tu vada via" ammise quasi a malincuore, carezzandole ancora il volto "Voglio che tu rimanga qui con me, come hai fatto sino ad ora". Cleo sospirò "Lo vorrei tanto anche io, maestà" rispose a voce bassa e triste "Ma purtroppo non è più possibile, i vostri obbligo e doveri separano le nostre strade. Ma dovevate saperlo prima che io me ne andassi che vi amo, almeno non portò pentirmi di avervelo taciuto. Ora vi prego" continuò "È già abbastanza difficile pensare che non vi rivedrò mai più, non rendetemi le cose più difficili e lasciatemi andare ora che ho ancora un po' di forza per fuggire!"

Morfgan però la avvicinò di più a sé, portando i loro volti a pochi centimetri, per sussurrare "Non voglio che tu mi lasci, Corallina" ripeté con la voce bassa e calorosa, affettuosa "Rimani qui con me. E se l'unico modo per farti restare al mio fianco è sposarti, allora che sia, diventerai la mia regina. E sono certo che non troverei un'altra donna come te in nessun castello". Cleorae scosse la testa, divertita per la buona riuscita del suo piano e stupita, perché nonostante Morfgan si fosse affezionato a lei non si sarebbe aspettata una tale dolcezza da parte dell'altro "Ma io non sono una nobile e non ho l'istruzione adatta" mormorò, in tono mesto e dimesso "Il precettore che ho chiamato per istruirti mi dice che sai già leggere e hai quasi imparato a scrivere, immagino che finirai di imparare presto, e sono solo queste le cose che devi saper fare, perché grazie alla tua idea abbiamo l'oro delle miniere e nessuna signorina sarebbe in grado di eguagliare la tua beltà, la tua fedeltà e la tua grazia, per quanto il suo sangue possa essere nobile". Morfgan e Cleo si guardarono negli occhi "Allora resterai insieme a me e diventerai la mia regina, permettendomi di curare le ferite che sciaguratamente ho causato al tuo cuore?" Domandò Morfgan dolcemente, asciugandole le lacrime che ancora brillavano tra le ciglia della fanciulla.

Cleorae decise che fosse decisamente il caso di finirla con quella pantomima e che fosse giunto il momento di accettare la proposta del re, ormai era fatta. Lo guardò negli occhi scuri e accennò un sorriso "Non mi prendete in giro, vero maestà?" Domandò piano "Parlate sul serio? Volete veramente farmi dono di una tale gioia da rendermi la vostra sposa?" Morfgan annuì senza esitazioni "La mia sposa e la mia regina" precisò, sfiorandole le labbra con un dito "Allora mi sposerai, Corallina?" Cleo si sciolse in un sorriso "Ma certo che vi sposerò! Io vi amo da morire!" I due si abbracciarono e Morfgan la baciò con ardore e lei rispose con altrettanta passione, stringendolo forte. Quando si separarono gli occhi di Cleorae brillavano di gioia, di selvaggio trionfo "Dobbiamo subito far volgere al termine gli ultimi preparativi per le nostre nozze!" Esclamò Morfgan con un sorriso "E organizzeremo una festa con tutto l'oro delle miniere. Che tutti ci ammirino e ci invidino!"

"E gli altri signori?" Domandò Cleo distrattamente "Non è necessario invitarli!" Rispose Morfgan con la voce leggera e contenta "Inoltre dubito che quella massa di traditori ingrati meriti un invito. Sono solo dei miseri cospiratori e finirebbero per rovinare le nostre nozze. Se vorranno ci manderanno le loro felicitazioni e i loro doni e se non vorranno farlo certamente non me ne curerò, io sono il re! L'unica cosa che conta adesso è avviare gli ultimi preparativi. Manca veramente poco alle nozze, siamo quasi alla fine del mese di rextio e il matrimonio è previsto per l'inizio di vigesio!" Cleo sorrise a sua volta, annuendo "Sarà una giornata meravigliosa, mio re!" Esclamò "Il giorno in cui celebreremo il nostro amore eterno". Morfgan la strinse nuovamente e la baciò ancora "Adesso andiamo ad annunciare la lieta novella a tutta la corte!" Disse Morfgan senza cessare di sorridere "La prima cosa da fare sarà comunicare la notizia ai ministri che celebreranno la nostra duplice cerimonia" iniziò a elencare il re "E dobbiamo occuparci delle decorazioni dell'ara dove avverrà la nostra unione, l'Ara Magnificentia!"

I due si guardarono entusiasti e poi uscirono, avanzando frettolosamente lungo i corridoi del castello. Cleo guardava divertita i volti perplessi della servitù, li guardavano interdetti, ma non le importava affatto, era troppo felice per essere turbata da qualcosa o qualcuno. Il suo piano aveva funzionato eccome, lei e Morfgan si sarebbero sposati al più presto e lei sarebbe diventata la regina, proprio come aveva sempre pianificato. Adesso sì che sarebbe andato tutto bene, in un paio di mesi sicuramente Cleorae avrebbe risolto la maggior parte dei problemi che affliggevano il regno. Ora grazie a lei sarebbe andato tutto bene. Expatempem sarebbe stato salvo.




 

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Capitolo 30
*** Gli Hardex ***


Pov:Teurum

Erano trascorse quasi due settimane da quando Teurum era arrivato al castello degli Hardex e non c'era nulla che fosse andato storto. I signori Hardex si erano subito dimostrati più che ben predisposti nei suoi confronti, quasi avessero intuito chi si trovassero veramente davanti, mentre la loro figlia, la signorina Dasha, era già pazza di lui. Dal poco tempo che aveva trascorso insieme a lei Teurum aveva notato che oltre a non essere bella la ragazza non era neppure arguta, non possedeva quindi un buon cervello in grado di colmare le lacune esterne. Ma Teurum sapeva di doversi accontentare per il momento, avere una moglie era solo un accessorio necessario per la sua ascesa al potere, quando non ne avrebbe più avuto bisogno, quindi subito dopo il matrimonio, allora sarebbe tornato solo e senza fastidi di cui doversi occupare.

Crearsi una famiglia non era mai stata una delle principali ambizioni di Teurum, ma doveva accettare che per continuate la dinastia avesse bisogno di eredi e sposarsi era l'unico modo per averne. In futuro comunque Teurum si sarebbe occupato di avere dei figli, dopo essersi ripreso il regno e i poteri della sua famiglia, allora si sarebbe sposato con una bella ragazza, una degna di portare il titolo di regina e di stargli accanto in pubblico, contrariamente a quell'imbarazzo di Dasha e poi avrebbe avuto degli eredi, proseguendo la gloriosa stirpe della Morte. Ma adesso non era il momento per preoccuparsi di eventi tanto lontani, adesso Teurum doveva terminare di incantare gli Hardex, doveva renderli del tutto dipendenti da sé, perché aveva notato in così poco tempo l'immenso potenziale del castello di Aspergo. La diga sembrava una benedizione, oltre a essere sicuramente comoda per la vita degli abitanti era anche incredibilmente maestosa, il luogo giusto dove far sostare un sovrano insomma.

I padroni di casa si erano rivelati veramente cortesi e reverenti, ancor più di quanto Teurum avesse sperato immaginare. Aveva sentito dire molte cose degli Hardex, tutti dicevano che fossero dei complottisti assassini, interessati unicamente a uccidere gli altri nobili per arrivare al trono. Teurum non gli avrebbe probabilmente mai rivelato del suo vero lignaggio, sicuramente sarebbero impazziti per la gioia venendo a conoscenza di una notizia del genere, ma lui non aveva intenzione di avere a che fare con loro tanto a lungo, nonostante si sentisse osannato come si conveniva da quella patetica, fastidiosa famigliola. Per quanto si fossero dimostrati gentili e servizievoli infatti Teurum avrebbe sempre considerato gli Hardex come irritanti, sempre pronti a immischiarsi negli affari altrui e Teurum-che era sempre stato un uomo molto riservato-non gradiva tutte quelle domande, nonostante riuscisse sempre a trovare scusanti validi per non rispondere oppure mentisse.

Fortunatamente i signori parevano aver compreso il fastidio che generavano nel giovane con tante domande inopportune ed erano così disperati all'idea di allontanare l'unico pretendente possibile per la figlia che avevano iniziato a tacere nel preciso istante in cui si erano resi conto del fastidio che causavano in Teurum proprio rivolgendogli delle domande sul suo passato. Erano bravi a fingere gli Hardex, questo bisognava riconoscerglielo, soprattutto Pontroius era un attore talentuoso quasi quanto era Teurum. Lo vedeva mentre sorrideva agli altri e subito dopo lo avvicinava e ne parlava male. Il sorriso falso sul volto dell'uomo provocava un fastidio a Teurum, gli ricordava qualcosa di unto e viscido. Pontroius sembrava fosse sempre benevolo con tutti, ma per Teurum era chiaro che mentisse praticamente sempre, salvo rare eccezioni come quando era in sua compagnia.

Infatti Teurum piaceva sinceramente a tutta la famiglia, ma d'altronde non era una cosa di cui restò stupito, lui piaceva sempre a tutti, impiegando solo un minimo sforzo. Quella mattina sarebbe andato a fare una passeggiata con la signorina Dasha, la donna che sperava presto di sposare per ottenere a tutti gli effetti quel castello che gli piaceva tanto, non come quello che gli aveva affidato il principe Drovan, il castello di Selceno non esercitava la minima attrattiva su Teurum, addirittura se non fosse stato per il titolo che ne era conseguito per Teurum il principe avrebbe potuto tenerselo quell'insignificante castello. Il bel giovane si alzò dal letto e si vestì con calma, scegliendo un abito che facesse risaltare ancora di più i suoi incantevoli occhi color ghiaccio, poi dopo essersi guardato allo specchio con somma soddisfazione uscì per andare a fare colazione. Mentre scendeva per dirigersi nel salone tutti si inchinavano al suo passaggio, cosa che accresceva l'enorme ego e il desiderio di essere venerato che Teurum aveva sempre avuto. Nella sala principale trovò Pontroius che parlava con il suo generale dell'esercito, un certo Ratino, ma non appena lo ebbero visto entrare subito il vecchio uomo cessò di parlare e gli rivolsero un sorriso di benvenuto "Teurum!" Esclamò Pontroius con la fastidiosa vocetta "Che piacere vedervi! Mi auguro che abbiate trascorso una notte serena".

Teurum annuì, rivolgendo all'uomo un sorriso serafico "Una notte meravigliosa mio buon signore, come al solito" rispose "Ma, diciamocelo, in un castello come il vostro è impossibile non trovarsi a proprio agio". Pontroius gonfiò il petto esiguo come un vecchio tacchino e continuò a sorridere nel suo modo fastidioso e lezioso "Vogliamo solo il meglio per ospiti della vostra risma" rispose subito con convinzione "A proposito di questo" continuò l'uomo, vagamente a disagio "Vi domando perdono per il ritardo delle mie signore. Veramente non comprendo il motivo del loro ritardo e di una tale mancanza di rispetto nei vostri riguardi". Teurum gli strinse delicatamente una mano sulla spalla e lo guardò con fare comprensivo, complice "Non dovete darvi alcuna pena" lo rassicurò "Ricordavo che fosse una prerogativa tipica delle signore farsi attendere, soprattutto di quelle più nobili. Solitamente però so anche che con la loro bellezza riescono sempre a farsi perdonare questi piccoli ritardi. Non credete?"

Pontroius annuì, visibilmente allietato da tali parole "Avete perfettamente ragione" disse con un sorriso "Ma eccole che arrivano!" Esclamò poi, vedendo la moglie e la figlia fare il loro ingresso nella stanza "Perdona il nostro ritardo, caro" si scusò subito Matara, guardando il marito negli occhi "Aiutavo la piccola a finire di prepararsi per la passeggiata" e indicò Dasha con un cenno del capo. Teurum la guardò, la ragazza aveva i capelli intrecciati con perle di diversi colori, portava una collana di pizzo bianco e un ampio abito di un rosa tenue con una fantasia a fiori; dal sorriso che gli rivolse Teurum capì chiaramente che sperava in un suo complimento. Il ragazzo suo malgrado decise di assecondare le aspettative della giovane, nonostante la trovasse a dir poco bizzarra "Direi che avremmo potuto attendere in eterno" disse in tono candito, fingendo di ammirare Dasha "Perché la vostra beltà è un dono in grado di ripagare qualsiasi attesa" concluse, chinandosi poi per sfiorare il dorso della mano di Dasha con le labbra.

Dasha ridacchiò e arrossì, sentendosi lusingata "Voi siete troppo gentile, Teurum!" Esclamò, con le gote arrossate e gli occhi brillanti "Sono io a non meritare lusinghe" replicò subito Teurum "Perché non ho detto nient'altro che la verità" continuò ad adularla prontamente Teurum. Dasha arrossì ancora "Voi siete degna di ogni lode, anche io sono sincera" "Sarebbe il caso di prendere posto a tavola" si intromise timidamente Matara, sorridendo compiaciuta al cospetto di quella penosa scenetta che Teurum si era costretto a recitare "Ma avrete tempo per continuare la vostra conversazione durante la passeggiata". I quattro allora si diressero verso il tavolo riccamente imbandito, mentre il generale Ratino si congedava con un inchino riverente prima di uscire dalla stanza. Quando i quattro si furono sistemati intorno alla ricca tavola iniziarono subito a mangiare, i banchetti degli Hardex erano sempre stracolmi di cibo, ma Teurum aveva compreso presto che si trattava di un capriccio scenico poiché nessuno di loro aveva l'abitudine di abbuffarsi, anzi, mangiavano tutti lo stretto indispensabile.

"Il nostro serenissimo principe Drovan non vi ha dato una vaga indicazione sul tempo che ci avrebbe impiegato per liberare il vostro castello?" Domandò Pontroius a un tratto, quasi distrattamente "Nessuna indicazione" rispose atono Teurum "Non sapeva neppure lui quanto gli sarebbe stato necessario occupare il castello, ma sono certo che non sarò costretto ad abusare della vostra cortese ospitalità ancora per molto". Pontroius sentendo quelle parole posò la forchetta per guardarlo vagamente allarmato "Forse volete andarvene presto da qui?" Teurum si poggiò morbidamente con la schiena contro la sedia imbottita "Al contrario" replicò placido "Ma sapete, vorrei occuparmi al più presto dei conti, dei salari e dei soldati. È da tutta la vita che vorrei avere un castello di cui potermi occupare e, vi domando di perdonare la mia franchezza, ma effettivamente nutro un forte desiderio di poter tornare per imparare veramente a gestire una struttura del genere".

Dasha guardò prima la madre e poi il padre con un'espressione sofferente "E poi cosa farete lì, completamente solo?!" Domandò la ragazza, agitata "Voi non avete una famiglia, come farete a vivere da solo in un castello tanto grande e in cui non potete fare reale affidamento su nessuno?" Teurum si sporse in avanti e le rivolse uno di quei sorrisi che prendono allo stomaco "Non dovete temere per me, signorina" la rassicurò morbidamente "Ho intenzione di costruirmi una famiglia al più presto". Matara e Pontroius sentendo quelle parole si scambiarono subito un discreto sguardo complice "E diteci, Teurum" disse Pontroius in tono serafico "Avete già avuto modo di conoscere qualche nobile fanciulla di cui poter domandare la mano per costruire questa famiglia?" Teurum sorrise nuovamente, ammiccante "Sapete, purtroppo non ho avuto ancora l'onore di conoscere gli altri signori e le loro famiglie, ma speravo che i miei buoni amici potessero consigliarmi al meglio per una decisione così importante".

L'uomo e la moglie annuirono vigorosamente "Teurum caro" disse Matara, tentando di contenere il suo entusiasmo "State pur certo che troveremo per voi una moglie eccezionale" "Non ne dubito minimamente, mia nobile signora" rispose Teurum subito, esibendo un bel sorriso, passandosi appena la lingua sulle labbra mentre guardava fugacemente Dasha "Sono più che certo che i miei buoni amici mi presenteranno e consiglieranno la fanciulla più nobile e virtuosa per il matrimonio che desidero celebrare al più presto". I due signori continuarono a guardarsi tentando di nascondere il giubilo, mentre Dasha si portò una mano al petto e sorrise a Teurum, sventolandosi poi con il ventaglio per mascherare la gioia.

Il ragazzo si concesse il silenzio quasi per tutto il resto della colazione, d'altronde sapeva di essere riuscito nel suo intento, era solo questione di giorni prima che i signori trovassero il coraggio di proporgli la mano della figlia, inoltre era meglio assaporare e godere di quel silenzio il più a lungo possibile, perché Teurum era certo che durante la passeggiata Dasha lo avrebbe sommerso di chiacchiere inutili e lui non voleva iniziare la passeggiata già con la testa dolorante. Una volta terminata la colazione il gruppetto si alzò con calma e si diresse verso lo spiazzale del castello. Fuori faceva freddo, il sole era nascosto da una coltre fitta di nuvole bianche e le persone lì intorno lavoravano e si inchinavano con riverenza al loro passaggio.

Una carrozza era in attesa vicino alla diga; con quel gelo e con la neve i signori non avrebbero mai lasciato che la loro unica erede prendesse freddo o che si affaticasse, né tantomeno avrebbero lasciato che il loro prezioso ospite si stancasse camminando lungo i campi innevati. Teurum non aveva nulla da ridire sulla loro decisione, magari sarebbe stato meno snervante ascoltare le sciocchezze di Dasha da seduto piuttosto che in piedi. Un cocchiere gli aprì la portiera e attese che entrassero, tenendo il capo chino "Buona passeggiata" disse Matara, sorridendo alla figlia "Non annoiare il nostro ospite figliola" aggiunse in tono leggero Pontroius, tentando di nascondere al meglio l'imbarazzo che provava verso sua figlia. "Nessuna noia in compagnia della vostra bella fanciulla" li rassicurò Teurum "Non temete, padre!" Cinguettò Dasha tutta contenta "A più tardi!" li salutò la ragazza, agitò la mano avvolta dal guanto bianco e sventolò un fazzoletto "Signori" salutò semplicemente Teurum, salendo subito dopo di lei sulla carrozza.

Quando furono saliti il cocchiere chiuse la portiera e dopo un ultimo saluto degli Hardex partirono. L'interno della carrozza era ancora più bello dell'esterno laccato in nero lucido, i sedili erano ricoperti di velluto rosso e i fili dorati rifinivano il tutto, le tende di seta dorata erano morbidamente legate per permettere di guardare il paesaggio. Teurum guardò fuori per pochi istanti, ben consapevole del fatto che l'altra non aspettasse altro che un suo sguardo "Dasha, sapreste dirmi quanto è esteso il territorio che controlla vostro padre?" Domandò Teurum, sentendo nascere della sincera curiosità. La ragazza parve spaesato dalla domanda, ma Teurum non restò deluso, si aspettava una cosa del genere e si sarebbe stupito del contrario, ma almeno non poteva dire non aver tentato di iniziare con la ragazza una conversazione utile.

"Perdonatemi" disse subito Dasha, chinando il capo per l'imbarazzo "Non era mia intenzione mettervi in imbarazzo, Dasha" si scusò necessariamente Teurum "Sono stato inopportuno. Non si dovrebbero fare domande su questioni amministrativa a una fanciulla come siete voi, è normale che non conosciate questi dettagli sul castello". La ragazza sorrise, notevolmente allietata dalle parole di lui "Io sono piuttosto ignorante riguardo a queste questioni, ma so ricamare piuttosto bene" ammise la ragazza, arrossendo lievemente "So solamente che il nostro terreno è molto grande. Purtroppo però non è altrettanto bello" sospirò, delusa dalle sue stesse parole "Qui troverete solo orridi campi pieni di bestie selvagge e lezzose, niente di bello o raffinato. Mio padre però dice sempre che c'è poco da fare per migliorare l'aspetto di un campo destinato al bestiame e che l'unica cosa da fare è abbellire il nostro castello". La ragazza si scostò una ciocca di capelli dal viso, guardando Teurum attentamente "Mi ci abituerò presto, ne sono certo" rispose Teurum, mettendosi più comodo "Anche il mio castello si occupa dell'allevamento, quindi certamente potrò imparare molte cose qui da voi. Mi preparerete a tutti i problemi che può causare il bestiame".

Dasha annuì "Il problema più grave che causano le bestie è il lezzo!" Esclamò, tirando fuori un ventaglio per sventolarsi energicamente. Teurum scosse il capo, divertito "Ma voi non allevate solo animali di terra, dico bene? Voi vivete nella Provincia del Ghiaccio, avete molta acqua. Non allevate anche animali acquatici?" Dasha corrugò le spesse sopracciglia "Non so niente degli animali acquatici" rispose con il solito tono perplesso "Ma ci sono tanti pesci da quello che dicono, nel fiume imprigionato dalla diga. Vedo spesso degli uomini cenciosi con reti orribili e sporche piene di orridi pesci squamosi e viscidi". La ragazza rabbrividì al solo pensiero "I pesci sono orribili" ribadì con disgusto "Oltre a puzzare sono anche viscidi".

Teurum sospirò con fare divertito, consapevole del fatto di non poter minimamente sperare in una conversazione di spessore con una tale compagnia, poi improvvisamente una domanda che aveva da quando era arrivato gli si presentò alla mente "E il vostro stemma invece?" Domandò con curiosità e impazienza "Allevate anche i coccodrilli, no?" Dasha si sventolò con più vigore "Quelle bestie sanguinose!" Disse melodrammatica "Quando sono vicina a quel recinto mi sembra di svenire! Sono solo dei brutti mostri quei coccodrilli, ma i miei genitori insistono nel volerli tenere a tutti i costi perché dicono che ci aiuteranno a far comprendere agli altri signori che siamo i più forti".

Dasha si sporse un po' in avanti con vaga confidenza "Se fosse per me io farei uccidere subito quelle brutte bestie" annunciò sottovoce "Ma così facendo gli altri signori non avrebbero più timore di voi" rispose Teurum con ovvietà, nonostante trovasse quella trovata una misera sciocchezza, perché era evidente che il simbolo di uno stemma non potesse determinare la forza sostanziale di una famiglia. "Quei maleducati non ci hanno mai trattato come si conviene!" disse Dasha con alterigia e vago rancore "Mettono solo in giro voci crudeli sulla natura del mio povero padre! Lo accusano di complottare contro di loro quando è tutto il contrario. Sono loro a essere malvagi e cospiratori con noi! Il loro solo desiderio è di isolarci e poi ucciderci oppure vederci estinti! È per questo che nessuno ha voluto prendermi in moglie, perché vogliono che la nostra dinastia finisca. Ma io comunque non sposerei mai uno di loro" disse con il capo alto, con orgoglio "Perché gli altri signori non si meritano il nostro rispetto!"

Teurum si raddrizzò sullo schienale, guardando vagamente il paesaggio innevato fuori dal finestrino della carrozza "Avete assolutamente ragione, Dasha" affermò Teurum, tornando a guardarla negli occhi "Quelle persone rozze e crudeli non meritano il rispetto di nobili della risma dei vostri genitori, né tantomeno di quello di un raro gioiello di virtù come siete voi, Dasha". La ragazza lo guardò incantata, sventolandosi senza prestare attenzione e sfoggiando un sorrisino impacciato e pudico "Ma voi siete diverso da quei crudeli cospiratori!" Esclamò poi con convinzione la ragazza "Voi siete il migliore dei signori, poco importa se il vostro sangue non è nobile di nascita, è il vostro cuore a essere il più nobile e onorevole che io abbia mai visto!" Teurum le rivolse un caldo sguardo "Sarei qualsiasi cosa pur di ottenere la vostra stima, Dasha" esagerò decisamente, ma l'altra pareva gradire sinceramente "Sarei disposto a cambiare il mio volto, il mio sangue e il mio animo pur di avere la vostra ammirazione. Perché voi lo meritate, siete una fanciulla così coraggiosa e fiera, bella. Siete una musa per il mio cuore".

"Ma voi sei già perfetto, Teurum!" gli assicurò lei, con le lacrime di gioia agli occhi "Il principe vi ha voluto come amico perché ha rivisto in voi un suo simile, qualcuno in grado di eguagliarlo, forse addirittura in grado di superarlo. Per questo vi ha voluto come amico e vi ha reso un signore!". Il ragazzo si sentiva bene, tutti quei complimenti erano un balsamo per lui, Teurum si beava sempre delle lusinghe, le riteneva un suo diritto e quando gli venivano fatte era soddisfatto, ma stava sempre bene attento a non lasciarsi ottenebrare troppo da tali dolci parole per non mostrare il suo vero io. Eppure le lusinghe non erano neppure il suo vero amore, le lusinghe altro non erano che un piacere, ma il fulcro intorno alla quale ruotava tutta la vita di Teurum era il potere. "Forse avete ragione" rispose serenamente, sorridendo benevolo e fingendosi lusingato "Forse il principe ha veramente visto qualcosa in me e per questo mi ha ricompensato rendendomi quello che sono ora, o magari semplicemente sono stato leale e l'ho servito bene e ha voluto ringraziarmi generosamente. Non lo sapremo mai veramente, ma di certo oltre a un grande onore mi ha conferito anche grandi responsabilità e io non ho intenzione di deludere le aspettative che ha risposto sulla mia persona".

La ragazza annuì, tornando con lo sguardo vago e perplesso "Per quello che sapete, gli uomini danno tanti problemi quanti ne causano le bestie?" Domandò ancora Teurum, sempre guardando distrattamente la neve che scintillava fuori dal finestrino della carrozza. Dasha parve pensarci su un poco, poi rispose "Penso di sì" rispose poco convinta "Mio padre talvolta sembra davvero affaticato quando è di ritorno dai campi, nonostante tenti di non darlo troppo a vedere. Ma la verità è che mio padre detesta trascorrere il tempo nei campi e ci si reca lo stretto indispensabile". Teurum annuì, distogliendo lo sguardo dal paesaggio innevato "Lui si avvicina spesso ai coccodrilli?" Chiese, tornando sull'argomento che più lo incuriosiva "No" disse subito Dasha "È sempre attento a non tenersi troppo vicino al recinto, perché in fondo li teme anche lui" "Come fa allora a controllarli? Non sono ancora riuscito a comprendere se vostro padre tenga quelle bestie nel recinto solamente per incutere timore, oppure se lui stesso sia in grado di controllarli?"

Dasha annuì con sicurezza "Certamente è in grado di controllarli" disse con ovvietà "Lo schiavo sa farsi obbedire per lui, lo avete visto il giorno in cui siete arrivato". Teurum corrugò le sopracciglia "Lo schiavo?" Domandò perplesso, nella sua mente non c'era nulla che potesse aiutarlo a comprendere, d'altronde la schiavitù era una realtà che apparteneva a molti secoli prima "Quel ragazzo che avete visto nella stalla" spiegò Dasha "Quello che ha messo la testa nella bocca del coccodrillo". Teurum parve illuminarsi, ricordando l'impacciato ragazzone dai capelli rossi "Ma certo" ricordò con ovvietà "Come ho fatto a dimenticarlo, trascorsi la sera del mio arrivo proprio pensando a come avesse fatto quel ragazzo a non farsi sbranare". Dasha scrollò appena le spalle "Damian è solo un parassita disgustoso" disse con indifferenza e con vago disgusto "Mio padre lo tiene in vita solo perché è in grado di controllare i coccodrilli ed essendo molto forte svolge molti dei lavori più pesanti, altrimenti se ne sarebbe già sbarazzato, è un tale incapace!"

Teurum ascoltò attentamente, affascinato da quella singolare storia. Teurum si domandò subito come avesse fatto un ragazzo tanto robusto a divenire lo schiavo di un uomo piccolo e fragile come Pontroius e soprattutto ricordandone lo sguardo timoroso si domandò come facesse a essere tanto obbediente e leale nonostante il modo barbaro in cui veniva trattato. Avrebbe potuto uccidere Pontroius con una mano se lo avesse voluto, invece gli era lodevolmente leale "È l'unico in grado di controllare i coccodrilli?" La ragazza annuì "Negli anni tentarono molti uomini di sottometterli, ma morirono tutti" raccontò Dasha con scarso interesse. Teurum contrariamente era sempre più affascinato e fissava la ragazza con crescente interesse "E quel ragazzo come ha fatto invece?" Domandò, rapito "A fare cosa?" Chiese scioccante la ragazza, distratta e disinteressata "A rimanere vivo" rispose subito Teurum "E a farsi obbedire da quegli animali?". Dasha sospirò "Nessuno lo sa" disse con crescente noia "Ma ho sentito affermare dai miei genitori che tra bestie si comprendono, per questo i coccodrilli gli obbediscono. Per il resto nessuno sa con esattezza come abbia fatto e a nessuno è mai importato a essere sinceri, perché nessuno si cura di lui. L'importante è che Damian obbedisca ai miei genitori come ha sempre fatto, perché grazie a lui è come se i coccodrilli obbedissero direttamente a noi".

C'era qualcosa in quella storia che a Teurum non era veramente chiaro. Perché Damian era uno schiavo se la schiavitù era stata abolita da tempo? "Damian non lavora per vostro padre?" Domandò Teurum ancora perplesso "Oh, no" rispose subito Dasha, facendosi più misteriosa "Lui è uno schiavo". Teurum scosse il capo dinnanzi all'espressione di Dasha "Come fa ad essere uno schiavo? Gli schiavi non esistono più da tempo". Dasha parve tentennare nel rispondere, come se fosse preoccupata "Non dovete temere, Dasha" decise di rassicurarla subito Teurum "Non andrò di certo dagli altri signori né tantomeno dal re a raccontare le vostre confidenze". Dasha scosse il capo "Non mi preoccupo di questo" spiegò "Mio padre dice che tutti sanno di Damian, ma come vi ho detto a nessuno importa di lui" "Avete ragione" si affrettò a rispondere Teurum "Ma mi piacerebbe sentire questa storia, ovviamente se avrò l'onore di sentirvela raccontare".

La ragazza annuì, arresa al volere di lui "Vi racconterò tutto quello che so" disse "Ma sappiate che non è molto. Mio padre e tutti quelli che sanno si tengono sempre molto misteriosi su questa storia". Teurum si sistemò meglio per ascoltare "Mi hanno narrato che Damian sia nato già schiavo e lui è l'unico schiavo del castello. Da piccolo è sempre stato un disastroso e scoordinato, faceva cadere tutto. Una volta mi ha addirittura versato una brocca di vino sul vestito nuovo, ma non riesco a rammentare il perché mio padre e mia madre lo abbiano lasciato in vita dopo quell'incidente" aggiunse, pensierosa "Poi un giorno lo fecero entrare del recinto dei coccodrilli quando era poco più che un ragazzino e lui sorprendentemente non morì, così lo fecero tornare il giorno seguente e con il trascorrere del tempo i coccodrilli iniziarono a obbedirgli. Allora mi padre gli diede un nome, lo chiamò Damian perché è un domatore di coccodrilli". Teurum e Dasha rimasero in silenzio a fissarsi "Ma lui da dove arriva?" Domandò ancora Teurum, sempre più curioso "Avete detto che è nato schiavo, com'è possibile?"

La ragazza scosse la testa "Questo non so proprio dirvelo" annunciò "Come vi ho detto prima sono sempre molto vaghi e misteriosi riguardo a questa storia. Credo che neanche Damian sappia chi fossero i suoi genitori" concluse Dasha. Teurum rimase in silenzio a pensare, assorto nei suoi pensieri "Oh, il giro è quasi finito!" La voce di Dasha lo riscosse, riportandolo prepotentemente alla realtà "Mi auguro che vi siate divertito" disse allegramente la ragazza, guardandolo con gli occhi che brillavano. Teurum sorrise e annuì "È stata una passeggiata incantevole, signorina Hardex" le assicurò "Siete stata veramente molto gentile a farmi compagnia, onorandomi della vostra gradevolissima presenza. Mi auguro che presto potremmo fare un'altra passeggiata insieme". Lei annuì con vigore "Se il principe non vi reclamerà al castello che vi ha affidato presto come temo" "Non temere" la rassicurò Teurum con un sorriso smagliante sul bel volto "Riuscirei a trovare qualsiasi scusa pur di trascorrere altro tempo in vostra compagnia".

Dasha arrossì nuovamente e lo guardò incantata prima di scendere dalla carrozza. Teurum si sistemò i capelli e scese a sua volta, gli Hardex non c'erano stranamente, ma la cosa gli sembrò perfetta "Dove andate, Teurum?" Lo richiamò Dasha, vedendolo dirigersi verso le stalle, mentre si stringeva nel mantello per il freddo "Vado a vedere come sta il mio cavallo" annunciò Teurum, lasciando le impronte sulla poca neve candida che c'era davanti alla stalla "Tornerò presto, voi rientra pure, non vorrei che prendeste freddo a causa mia". La ragazza annuì e si girò, diretta verso l'ingresso del castello, mentre Teurum entrò a passo svelto nelle stalle. Era stato così occupato a fingere al cospetto dei Hardex che aveva dimenticato il misterioso ragazzo che controllava i coccodrilli, eppure gli era parso così prodigioso quando lo aveva visto per la prima volta.

Si avvicinò ai cavalli, precisamente si avvicinò al suo e constatò che lì vicino il ragazzo possente e silenzioso non c'era, così Teurum continuò a guardarsi intorno, volgendo il capo in direzione del recinto dei coccodrilli. Il ragazzo corpulento era proprio lì, nella penombra al lato del recinto. Teurum lo guardò con intensità, era girato di spalle e sembrava non essersi reso conto della sua presenza. Teurum si avvicinò al ragazzo con cautela, voleva vedere cos'era che lo distraesse tanto. Arrivò alle spalle di Damian per poi affiancarlo sulla destra. Non appena si fu accorto di lui, Damian spalancò gli occhi e si inginocchiò, rischiando di cadere "Perdonatemi" mormorò a voce bassa, impaurito "Non preoccuparti" lo rassicurò gentilmente Teurum "Non c'è bisogno di inginocchiarsi, anzi, ti domando perdono per averti spaventato. Non avrei dovuto avvicinarmi di soppiatto".

Damian scosse vigorosamente la testa "Scusatemi veramente, padrone" ribadì. Teurum sospirò e distolse lo sguardo, rivolgendo gli occhi verso il recinto "Cosa guardavi di tanto interessante?" Domandò Teurum più a sé stesso che all'altro. Quando ebbe guardato meglio però schiuse appena le labbra sottile, con stupore "Si stanno schiudendo le uova" disse con un sorriso "La padroncina Dasha!" Disse agitato Damian "Voleva vederli, devo chiamarla subito!" Teurum lo fermò con un braccio e parlo a voce alta in direzione della prima persona che c'era fuori alla stalla "Per cortesia voi, chiamate subito la signorina Dasha" disse Teurum "Ditele che le uova si stanno schiudendo". L'uomo annuì e corse via "Perché avete mandato lui?" Domandò Damian, con il volto perplesso "Non è giusto che sia tu a perderti questo momento" rispose Teurum "Sei tu quello che si prende cura di loro, è giusto che tu possa assistere a un momento tanto importante".

Damian lo guardò confuso, stordito da una tale gentilezza "Hai pensato a dei nomi per loro, non è vero?" Continuò Teurum, ignorando l'espressione dell'altro "Io penso che sia giusto dare dei nomi agli animali, non lo trovo stupido". Damian continuò a fissarlo allucinato, quasi spaventato, come se avesse temuto che Teurum rivelasse la stessa natura subdola di Pontroius da un momento all'altro "Avanti" lo incitò Teurum "Lo so che ci hai pensato. Dimmeli". Quando l'altro ebbe appurato che non si trattasse di un sogno, solo allora si sforzò di parlare "Ecco, io" iniziò incerto, sempre con l'inconfondibile tono basso "Sono quattro, quindi avevo pensato di dargli i nomi dei principi e delle principesse degli elementi". Teurum annuì, ripensando a come dovessero essere stati i suoi antenati "Mi sembrano perfetti" disse semplicemente, ritenendo che animali pericolosi com'erano i coccodrilli fossero degni di portare nomi tanto importanti "Davvero?" mormorò incredulo l'altro "Certamente" assicurò Teurum. "Stanno nascendo!" La voce acuta di Dasha fece sobbalzare entrambi "Oh, Teurum! E' meraviglioso!" disse Dasha, avanzando sino al fianco di Teurum.

Così i tre rimasero intorno al recinto, Dasha e Teurum da una parte e Damian dall'altra. Teurum guardò il primo uovo rompersi e vide uscirne un piccolo coccodrillo con gli occhi enormi e scuri. Quello sicuramente sarebbe stato Ahriman, il Re della Morte, perché era stato il primo a nascere "Oh!" Esclamò Dasha, stringendosi appena al braccio di Teurum, temendo di osare troppo ed effettivamente faceva bene a pensarlo dal momento che Teurum detestava molto spesso il contatto fisico con un'altra persona "Sono orribili anche appena nati! E io che speravo fossero più carini!" Teurum scosse il capo divertito e incrociò gli occhi di Damian, era divertito anche lui, ma non poteva mostrarlo. Teurum gli sorrise e poi tornò a guardare le uova schiudersi, ignorando del tutto Dasha e mentre le uova si schiudevano Teurum decise che doveva sicuramente scoprire di più sul misterioso ragazzo in grado di controllare bestie tanto feroci, dotato di incredibile forza fisica e di una lealtà invidiabile. Damian poteva veramente essere il tipo di persona di cui Teurum necessitava per costruire il suo regno e doveva assicurarsi una lealtà sincera da parte dell'altro il prima possibile.

 

Note: Salve a tutti, come state? Volevo scrivervi per farvi sapere che oramai siamo giunti nel pieno della storia, proprio per questo mi farebbe piacere ricevere qualche parere o critica a riguardo. Grazie e al prossimo capitolo Captain Riddle

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Capitolo 31
*** Il Generale e la Volpe ***


Pov:Nomiva

I capelli erano ancora umidi eppure erano anche sporchi e impastati, le stavano appiccicati alla pelle del collo e del viso, ricadendo sul vestito anch'esso umido, facendole sentire più freddo di quanto già non facesse nel mese di pieno inverno che scandiva il passaggio a un nuovo anno, il mese di ahrimo. La semioscurità della stanza era qualcosa alla quale Nomiva ormai poteva dirsi abituata, anzi, la luce significava dolore per la sua mente, contrariamente al buio che era sintomatico di silenzio e quiete. Da quando Drovan aveva ucciso quella che pensava fosse Selina, il principe si era recato molto più spesso a far visita a Nomiva, più volte a settimana per essere precisi. Il principe pareva proprio divertirsi con lei, su questo non c'erano dubbi, anche se non rimaneva tutto il tempo ad assistere alle torture che le faceva infliggere; Nomiva aveva l'impressione che Drovan considerasse le sue grida disperate ben più melodiose e appaganti di qualsiasi altro suono.

Drovan si divertiva a farla torturare, d'altronde perché ucciderla subito fintanto che potevano giocarci ancora un po'? Il principe alcune volte entrava di persona, altre mandava dei soldati o altri scagnozzi, ma si godeva sempre con la massima partecipazione l'inizio delle torture. Era come se l'uccisione di Selina avesse dato inizio a quel rituale sadico, rituale che, Nomiva era certa, aveva come unico scopo quello di farla impazzire. C'erano diverse torture con cui il principe si stava dilettando, la frusta era una di quelle usate più di rado, perché Drovan prediligeva più di qualsiasi tortura quella con l'acqua. Quello che facevano era incatenare Nomiva con le braccia spalancate oppure unite dietro la schiena, dopo portavano una tinozza piena d'acqua e qualcuno le si metteva dietro e la costringeva a immergere la testa nell'acqua.

Nomiva soprattutto le prime volte aveva creduto di stare per morire da un momento all'altro, diverse volte era quasi svenuta a causa dell'affanno, una volta aveva vomitato per il freddo e poi si era accasciata al buio, senza forze né voglia di vivere, con il volto sofferente sporco di terriccio e rigato di lacrime. Ma la domanda che le martellava nella testa era sempre una: volevano ucciderla a forza di torture oppure semplicemente si divertivano prima di darle una morte rapida? Una malsana brama della morte era divenuta la compagna di sventure di Nomiva e al contempo la sua nemica, per quanto potesse sembrare impossibile e contraddittorio. Ma quel che era certo è che Nomiva trascorreva buona parte del suo tempo pensando alla morte, ed erano tutti pensieri vari, che si spostavano dalla sua morte a quella di altri. Nomiva sentiva un dissidio interiore, desiderava morire per cessare ogni sofferenza, ma non voleva morire per vendicarsi; pensava alla morte della sua povera famiglia e poi alle morti bramate, quelle di Teurum e Drovan. La pelle di Nomiva era sempre più pallida, umida e fredda come quella di un cadavere placido sulla riva di un lago. La consapevolezza che la morte potesse sorprenderla di continuo causava in Nomiva uno strano senso di angosciante, speranza e repulsione, ma la ragazzina era certa che in quelle misere condizioni non avrebbe resistito a lungo e presto la morte sarebbe arrivata.

Non le si erano mai presentate occasioni di fuga e se prima Nomiva doveva preoccuparsi solo di un po' di freddo, adesso le torture la sottoponevano a problemi ben peggiori. Le braccia erano rigate dai rari colpi della frusta e le ferite bruciavano, ma si preoccupavano sempre di non lasciarla mai in fin di vita, certamente però questo non alleviava il dolore. Le continue immersioni in acqua le toglievano tutte le forze e spesso Nomiva crollava distrutta dopo le torture, senza riuscire a tenersi in piedi né tantomeno a pensare. Continuavano a portarle quell'intruglio rivoltante come unica forma di sostentamento e lei sentiva l'appetito venire sempre meno, tuttavia si costringeva a mangiare per non restare del tutto debilitata. Nomiva non aveva paura di morire, la morte le sembrava una grande coperta nera, una pace avvolgente in cui stringersi e lasciarsi cullare per raggiungere presto la famiglia, ma era ineluttabilmente un impedimento per la sua vendetta.

No, non era la morte che temeva, quello che Nomiva temeva veramente era che quei maledetti che avevano fatto del male a lei e alla sua famiglia rimanessero impuniti. La sola idea che lei sarebbe potuta morire come il resto dei Tenebrerus, mentre farabutti come Teurum vivevano più che bene le faceva ribollire il sangue al punto da scaldarla un poco nelle notti gelide con i vestiti umidi in dosso. Non poteva morire così, non poteva infrangere un altro giuramento, eppure non vedeva proprio vie di fuga. L'unica cosa che faceva sentire meglio Nomiva era la volpe a nove code. Ruby compariva tutte le sere, Nomiva inizialmente credeva che si trattasse di un sogno causato dallo stato di follia che la sua mente stava generando per fuggire da quell'orrore, poi si era convinta che la volpe fosse veramente vicina a lei. Non faceva più caso al modo in cui la volpe sembrava apparisse e scomparisse continuamente dalla cella, d'altronde era risaputo che le volpi a nove code fossero dotate di grandi poteri magici.

Quando Ruby era con lei Nomiva si sentiva meglio, era come se fosse in un sogno e ricordava i tempi in cui poteva correre liberamente nei campi per parlare e passeggiare in compagnia di Filipphus. Quando carezzava il pelo lucido della volpe le veniva da piangere, quell'animale era la sua unica fonte di felicità e compagnia, di speranza. Diverse sere Nomiva le aveva trascorse con la volpe seduta accanto, sussurrandole ricordi che sembravano utopici, come se la sua amica avesse potuto capirla. Ma che altro avrebbe potuto fare? La disperazione era forte e quell'unico sollievo che era Ruby costituiva anche la sua ancora di salvezza e Nomiva ogni volta che vedeva Ruby temeva che potesse essere l'ultima.

Quel pomeriggio ancora non era entrato nessuno a squarciare l'oscurità della prigione, ma Nomiva immaginò che dovesse essere quasi giunta l'ora delle consuete torture. Nomiva si passò le mani sulla faccia e si stropicciò gli occhi, era meglio prepararsi per lo strazio imminente, per quanto fosse possibile una cosa del genere ovviamente. La ragazzina si massaggiò i polsi incatenati e feriti con i polpastrelli sporchi, trattenendo un gemito di dolore per poi mettersi a sedere con le gambe incrociate, era impossibile poggiare la schiena al muro per i segni che portava sulla schiena e a causa di quelle pietre sporgenti incastrate malamente nella parete. Nomiva chiuse gli occhi e ispirò, non doveva cedere anche oggi, non doveva urlare e dare soddisfazione ai suoi aguzzini, doveva trovare la forza per resistere. Si voltò appena e vide una pietra lunga poco meno del palmo della sua mano. Sembrava appuntita e affilata e si muoveva un poco, forse sarebbe riuscita a staccarla e avrebbe potuto tentare di colpire gli uomini prima che l'avessero incatenata per torturarla. Strinse le dita intorno alla roccia e tirò, ferendosi un poco le mani, la pietra era affilata, era selce. Nomiva si sistemò meglio in ginocchio e tirò ancora, ma fu tutto inutile, la pietra era ancora incastrata.

Mentre Nomiva rifletteva su come riuscire a estrarre quella pietra, allora sussultò e si voltò, Ruby era proprio di fianco a lei. La ragazzina spalancò gli occhi e lasciò perdere la pietra con le dita graffiate e un poco insanguinate "Ruby" sussurrò "Che ci fai qui a quest'ora? Stanno per arrivare e non possono vederti qui, lo sai! Devi andartene subito!" La volpe si leccò il muso con la lingua e poi leccò Nomiva "Ruby, ti prego!" Insistette la ragazzina, mentre la volpe le leccava le mani insanguinate "Te ne devi andare adesso, torna più tardi!" La volpe però la ignorò e continuò a leccare, arrivando sino alle ferite più profonde sui polsi. Nomiva strinse i denti per non urlare, la lingua ruvida e la saliva della volpe lì bruciavano da morire. Dopo un po' però la ragazzina iniziò a sentirsi meglio, il dolore sembrava alleviarsi, come se i tagli stessero sparendo.

Abbassò lo sguardo e rimase con la bocca aperta, le ferite si stavano lentamente rimarginando sui polsi, mentre i piccoli graffi sulle dita erano spariti del tutto. Nomiva si guardò i polsi incredula e poi spostò gli occhi sulla volpe "Ruby" mormorò "Tu come... come hai fatto?" La volpe si mise a sedere e la guardò con gli occhi rossi che scintillavano misteriosamente nella penombra. Nomiva sorrise flebilmente e allungò le mani, carezzando quella che ormai era la sua unica e più cara amica "Oh, Ruby" continuò a sussurrare "Mi hai guarito le ferite. Grazie mille". La volpe strofinò il muso contro il petto di Nomiva, poi però Ruby si allontanò con le orecchie tese "Arrivano?" Domandò Nomiva, guardandola negli occhi allarmata. Ruby un attimo dopo corse dietro la cassa e sparì, veloce com'era arrivata "Ti prego, se puoi torna da me dopo!" Disse Nomiva a voce più alta, facendo comunque attenzione affinché fuori non la sentissero.

La volpe aveva ragione ovviamente, da fuori arrivarono dei rumori, rumori che Nomiva aveva imparato a conoscere e a temere. Un attimo dopo la porta si spalancò con violenza, spingendo automaticamente Nomiva a coprirsi gli occhi a causa della luce improvvisa; davanti all'ingresso c'era Drovan e dietro di lui stavano tre guardie. Il principe non appena la vide rannicchiata arricciò le labbra in un sorriso "Buon pomeriggio, Nomiva" la salutò con soddisfatta crudeltà "Come si sente quest'oggi la mia ospite prediletta? Sei pronta per farmi divertire, oppure sei già rimasta senza voce? Ho sentito le tue grida due giorni fa e mi sembravano più soavi del solito." Il tono divertito di Drovan la disgustava, sembrava proprio che si divertisse di più quando Nomiva mostrava timore o tristezza, per questo lei stava tentando di lasciar trasparire meno emozioni possibili, ma questo durante le torture era davvero difficile. L'uomo la guardò intensamente, in trepidante attesa di una risposta "Non rispondi al tuo principe, signorina Tenebrerus!?" Domandò ancora, con una vaga sfumatura minacciosa nella voce "Mi deludi" aggiunse poi, vedendo l'espressione dura di Nomiva "Sei sempre la solita stupida ragazzina, i nostri metodi educativi non si stanno rivelando efficienti come avevo premeditato. Sei una delusione totale".

Nomiva lo vide prendere le chiavi della cella per poi entrare di persona "Andatevene" disse sgarbatamente alle guardie, senza neppure degnarle di uno sguardo "Oggi saremo soli io e lei. Se mi dovesse occorrere qualcosa vi chiamerò, quindi restate di ronda qui fuori. Posate la bacinella qui". I tre uomini annuirono in silenzio e dopo un inchino uscirono lentamente, chiudendosi la porta alle spalle. Drovan aprì la cella e poi ripose le chiavi all'interno del fodero della sua spada, facendole scivolare lontano dalle mani di Nomiva, poi la strinse forte per un polso e le legò le mani dietro la schiena, allora riprese le chiavi e portò dentro la bacinella, richiudendo la cella e rimettendo le chiavi al sicuro in fondo al fodero. Era accorto Drovan purtroppo per Nomiva, non si distraeva mai. Drovan poi si posizionò alle spalle di Nomiva per costringerla in ginocchio e poterle immergere il capo nell'acqua, ma quando guardò distrattamente i polsi di Nomiva si stupì molto "Com'è possibile?" Le domandò guardingo "Cosa com'è possibile?" Ripeté a sua volta Nomiva, tenendo gli occhi fissi in quelli di lui, con vaga aria di sfida "Dove sono le tue ferite?"

Lei continuò a fissarlo freddamente "Sono guarire, no? Dove dovrebbero essere". L'insolenza le costò uno schiaffo in pieno viso, che le fece girare il volto dall'altra parte a causa della violenza del colpo. Drovan poi la prese per il collo e la guardò negli occhi con ferocia "Se stai tentando di nascondermi qualcosa, ti giuro ragazzina che la pagherai cara". Nomiva di rimando sorrise con orgoglio e poi gli spuntò in un occhio. Drovan si portò subito una mano sul volto, si asciugò e poi tornò a guardare Nomiva con odio "Allora facciamo il tuo gioco, Nomiva!" Urlò inferocito. Nomiva pensò che l'avrebbe colpita ancora, invece Drovan aprì ancora una volta la cella e con uno scatto afferrò un grosso tronco accatastato insieme ad altri vicinò al muro vicino all'ingresso, poi tornò nella cella e la chiuse ancora una volta, con stizza.

Nomiva respirò a fondo, quando Drovan si fu voltato i suoi occhi erano braci ardenti e aveva in volto un'espressione sadica e rabbiosa. L'uomo le si avvicinò con due grandi passi e le si mise alle spalle; senza indugiare oltre le tirò un calcio sulla parte bassa della spina dorsale che la fece sbilanciare, portando Nomiva a barcollare in avanti. Nomiva trattenne il fiato con le lacrime agli occhi, ma fortemente decisa a non dare soddisfazione all'altro "È solo l'inizio" sussurrò Drovan ridendo brevemente, afferrò poi il bastone e le assestò una raffica di colpi sulla schiena e sulle costole, senza sosta e senza pietà. Nomiva tentò di resistere ancora, si morse il labbro sino a farlo sanguinare per non cedere al dolore, per non gridare, ma la sofferenza era troppo forte per tacere. Poi Nomiva sentì un rumore che la terrorizzò, seguito da un profondo e acuto dolore al lato destro del torace e lei non poté più resistere e gridò. Una costola le si era rotta, lo sapeva bene e lo sapeva anche Drovan considerato il sorriso sadico che esibiva con soddisfazione. Se avesse continuare a colpire, Drovan l'avrebbe condannata a una morte orribile e lenta se la costola avesse perforato un polmone.

"Hai capito chi comanda ora, ragazzina ottusa?!" parlò ancora Drovan, rabbioso, per poi infilarle di forza la testa nella bacinella. Nomiva vide tutto nero, l'acqua le circondava la testa e ne bevve un poco, era stata colta dalla sorpresa e aveva indugiato a chiudere la bocca. Non poteva divincolarsi, se ci avesse provato avrebbe rischiato di bucare il polmone, ma non respirava e il dolore era insopportabile, le faceva venire da vomitare per quanto era forte e pulsante. Drovan le tirò fuori la testa dall'acqua con una tale violenza che Nomiva temette che potesse strangolarla, ma fu comunque grata di non essere più nell'acqua. Non appena il principe ebbe guardato Nomiva in volto distinguendo chiaramente terrore e disperazione, allora sorrise e il suo era un sorriso di pura perfidia, di soddisfazione sadica "Avanti, Nomiva" disse in tono viscido "Non dirmi che sei già stanca, abbiamo appena iniziato a giocare e non penso che smetteremo tanto presto. Perciò signorina Tenebrerus vi consiglio di riprendere fiato finché ve lo concedo" e detto ciò le immerse nuovamente la testa nell'acqua. Nomiva tentò appena di scalciare, con gli occhi spalancati sotto l'acqua e il dolore pulsante in tutto il corpo. Poteva impazzire, l'acqua era gelida, il dolore fortissimo e non respirava. Era un incubo.

Drovan la tirò su di nuovo "Non è il tuo gioco preferito, Nomi?" disse sogghignante, avvicinandola a sé con falsa confidenza "Non ti diverte rendermi tanto lieto? Sono il tuo principe, dovrebbe essere un onore per te, ma temo che tu sia proprio com'era la tua famiglia. Traditrice, irriverente e orgogliosa". Ma Drovan non le diede la possibilità di rispondere neppure quella volta, a lui non importava che lei rispondesse, l'unica cosa che desiderava era vederla soffrire. Nomiva infranse velocemente il pelo dell'acqua, soffiando l'aria dalle narici e quando aprì appena la bocca l'acqua le finì di traverso nuovamente. Quella volta temette veramente di soffocare, fortunatamente Drovan la tirò su ancora una volta "Avanti, tossisci!" La spronò lui, mentre Nomiva sputacchiava l'acqua con gli occhi arrossati "Non puoi morire adesso, non avrei nessun altro con cui divertirmi. Un'ultima volta Nomiva, fallo per me! Immergiti ancora una volta!" Nomiva tossì, lasciando poi che la testa le ciondolasse sul collo per il dolore acuto che la rendeva fiacca, allora venne immerse di nuovo nell'acqua gelida, ma questa volta Drovan la tirò subito su per immergerla di nuovo, come uno straccio bagnato.

Dopo quella che a Nomiva parve un'eternità finalmente Drovan le lasciò il collo e la guardò con fare compiaciuto, a Nomiva veniva da piangere e questo causò nell'altro un sorriso che brillò nell'ombra "Ti vuoi riposare un poco, Nomiva?" domandò Drovan con voce falsamente dolce "Oh, Nomiva!" Esclamò subito dopo, non le dava tregua "Se sei stanca potevi dirmelo subito! Agli amici si può confidare tutto, Teurum non te lo ha detto?" Nomiva alzò gli occhi per guardarlo, era scossa da brividi e le faceva male tutto, in particolare il fianco dove aveva la costola rotta, ma le fu sufficiente sentire il nome Teurum per farle stringere i denti a causa della rabbia. Adesso sapeva che sarebbe potuta morire anche contro il volere di Drovan, sarebbe bastata una botta o un colpo di tosse più forte per bucarle il polmone e da lì alla morte ci sarebbero volute giusto un paio d'ore di lenta agonia, ma Teurum doveva morire, quindi lei doveva resistere. "Mi vuoi uccidere o no, principe Drovan?" Domandò con voce ferma, con tutto il disprezzo e la concentrazione di cui fu capace per non gridare a causa del dolore "Avanti!" Lo incoraggiò, riprendendo lentamente forza nella voce insieme al fiato "Sono certa che trovereste qualcun altro con cui giocare! Con me non vi siete divertito abbastanza? Rispondetemi!" osò, infiammata dalla rabbia e resa folle dal dolore. Doveva urlare in qualche modo, il dolore era troppo forte per resistere.

Quello sforzo imprudente le causò una fitta che la fece piegare su sé stessa, portandola a ignorare la reazione di Drovan "Vedi, Nomiva Tenebrerus" rispose pacatamente il principe, probabilmente aveva cambiato tono vedendo la prigioniera tanto dolorante "Mi piacerebbe ucciderti adesso, ma sono in attesa delle direttive di mio fratello sai, l'uomo che è il tuo legittimo sovrano. Purtroppo ritengo che sia opportuno chiedere il suo permesso prima di liberarmi della tua irritante presenza, quindi dovrò sopportarti ancora per un po' e questo è l'unico modo". Drovan mentiva, Nomiva sapeva che se lo avesse voluto avrebbe potuto ucciderla subito, Morfgan non avrebbe mostrato disappunto, ma il principe non voleva ucciderla perché non l'aveva ancora fatta soffrire abbastanza. Nomiva lo guardò con il volto torvo contratto dal dolore e Drovan vedendola così fieramente spezzata dal dolore le sorrise malignamente "Ma se sei tanto stanca possiamo riposarci un poco, Tenebrerus, perché, come ti ho già detto, questa sera non andrò via così presto e quindi ritengo che sia la cosa migliore per te riposare un poco prima di continuare. Tanto io non ho alcuna fretta" aggiunse. Drovan avvicinò la cassa dove era solita apparire e sparire la volpe Ruby e ci si mise a sedere sopra con un'espressione sfacciatamente annoiata considerando le torture alla quale stava costringendo l'altra. Nomiva si mise in ginocchio, era l'unica posizione vagamente comoda incatenata e dolorante com'era, mentre la costola rotta ondeggiava pericolosamente sotto la pelle "Sai" riprese a parlare il principe "In verità non dovresti sfogare contro di me il tuo rancore" affermò, quasi cogitabondo "Io non ho colpa per la misera condizione in cui ti trovi".

Nomiva lo fulminò con lo sguardo, come poteva essere così sfacciato e crudele, così ipocrita!? "Non hai colpa?" sussurrò in risposta Nomiva, tentando di mantenersi lucida nonostante la rabbia e il dolore "E allora chi dovrei incolpare per tutto questo!?" Drovan sbuffò, sempre più annoiato da quella situazione "Tua sorella" rispose con ovvietà "Mia sorella?" ripeté subito Nomiva "Ma certo" ribadì Drovan, con naturalezza "Lei è fuggita e solo a causa del suo gesto sconsiderato mio fratello ha condannato te e il resto della tua famiglia. Quindi è unicamente colpa di Aurilda se sei prigioniera, non mia". Nomiva restò un attimo raggelata da quelle parole, soppesandole rapidamente. Potevano essere considerate veritiere, ma Aurilda aveva avuto come unica colpa quella di avere timore, se Morfgan non fosse stato tanto violento lei non sarebbe fuggita da lui, così dopo essere giunta a quella rapida conclusione Nomiva scosse il capo "E tuo fratello allora?" replicò a voce bassa, respirando lentamente a causa del dolore al torace "Mio fratello cosa centra adesso?" rispose irritato Drovan "Non starai insinuando che lui sia innocente" si costrinse a rispondere Nomiva. Drovan scosse la testa "E' stato lui quello che ha subito l'affronto, lui quello che è stato tradito. In che altro modo avrebbe dovuto affrontare il disonore secondo il tuo parere da sciocca ragazzina!?" Nomiva si sistemò per tentare di alleviare il dolore, sempre respirando con affannosa lentezza "Tuo fratello Morfgan" disse, poi deglutì e si mise a sedere sui talloni "Lui ha terrorizzato mia sorella. Se non lo avesse fatto, se fosse stato gentile con lei mia sorella non sarebbe fuggita".

Drovan però era nuovamente in disaccordo con lei "Lui le ha imposto semplicemente quello che è richiesto a ogni brava moglie" spiegò "E cioè di essere obbediente. Non ha preteso da lei niente di così assurdo o sconvolgente" "Eppure io ho avuto un'impressione differente" replicò subito Nomiva, sentendo il dolore alleviarsi un poco così seduta "Tuo fratello l'ha minacciata! La reazione di mia sorella è stata del tutto normale, anche tu lo avresti fatte se ti avessero minacciato di rendere la tua vita un supplizio". Drova incrociò le braccia e inarcò le sopracciglia, scettico "Dovrebbero sentire la nostra conversazione!" Esclamò, cambiando del tutto discorso "Siamo qui a discutere per gli errori dei nostri fratelli!" rise senza gioia e si poggiò con la mano al bordo della cassa "Ma d'altronde che altro potremmo fare noi due se non questo? Essere attori nella storia scritta dai primogeniti delle nostre famiglie e da quelli di tutte le altre?" domandò retorico con un amaro sospiro rassegnato "A noi spetta solo questo compito" continuò "Districare i danni di cui non siamo colpevoli. Nessuno però terrà mai in considerazione la mia solerzia oppure i tuoi patimenti, quello che stiamo facendo per loro. A mio fratello non importa di quello che faccio per lui ormai da tempo. Sono mesi che trascorro viaggiando per occuparmi dei suoi affari, mentre lui resta sulla sua sedia imponente a essere glorificato senza che faccia niente. Sicuramente se tua sorella è viva non le importa di quello che stai patendo per causa sua, o di quello che ha sofferto Selina e se fosse morta certamente ha patito meno di te."

I due si guardarono negli occhi e Nomiva ebbe un sospetto dopo aver sentito quelle parole, che fosse stato Drovan il responsabile della morte di Fritjof, il suo stesso padre? Però Nomiva scacciò rapidamente quell'idea, non avrebbe avuto il minimo senso logico, perché se Drovan avesse desiderato la corona per sé avrebbe ucciso suo fratello per restare l'unico erede, non di certo il padre. Allora che fosse stato Morfgan l'assassino? Ma perché avrebbe dovuto farlo essendo il principe ereditario? Che il re avesse cambiato idea? Nomiva scacciò quei pensieri inutili dalla mente e continuò a fissare Drovan che riprese ancora a parlare "I primogeniti sono sempre stati glorificati " mormorò con la medesima amarezza "Loro si prendono tutta la luce del sole e condannano tutti gli altri all'oscurità perpetua". Drovan poi si sporse di più in avanti, verso Nomiva "Dev'essere bella la vita da primogenito, non trovi?" Nomiva lo fissò attentamente, avvolta nella crescente oscurità che li circondava "Pensi che mia sorella volesse tutto questo?" domandò a sua volta, senza rispondere veramente alla domanda che le aveva posto Drovan "Pensi che volesse essere sempre lei al centro dell'attenzione?" Droven la guardò con freddezza, con disprezzo "Ma è ovvio che l'abbia desiderato" rispose lui, come se fosse la cosa più ovvia del mondo "Tu non vorresti essere sempre posta al centro di ogni cosa? Non avresti desiderato avere schiere di persone che ti obbediscono e ti venerano come se fossi una divinità?"

Nomiva scosse il capo e addrizzò la schiena a causa di un lieve movimento della costola "No, non lo avrei voluto" rispose con sincerità "Non avrei mai voluto che avessero aspettative su di me, non avrei voluto obblighi e costrizioni. Inoltre essere secondi è un vantaggio" mormorò "Mi ha consentito di imparare le cose da mia sorella in un modo che mai avrei potuto imparare da mia madre. Ed essere colmi di responsabilità ti incatena a un destino che non puoi modificare, tarpa del tutto le ali alla libertà individuale". Drovan la guardò con una smorfia "Sei patetica e sentimentale" le disse con disprezzo evidente "Oppure sei ipocrita e mi stai mentendo, perché non posso credere che tu non avresti desiderato avere le opportunità che ha avuto tua sorella, è assurdo!" Nomiva scosse nuovamente il capo, con paziente rassegnazione "Non mi credere se non vuoi" disse con una nuova smorfia di dolore sul volto "Ma io non sono mai stata gelosa di mia sorella, o almeno non lo sono mai stata perché è nata prima di me. Le cose che invidiavo ad Aurilda erano certe sue abilità, non certamente la sua posizione privilegiata rispetto alla mia". Drovan la guardò serio e concentrato, sospettoso, come se tentasse di farla cadere in fallo "Potrai non dare alcun credito alle mie parole" disse ancora Nomiva "Ma io e le mie sorelle nutrivamo un sincero affetto l'una nei confronti dell'altra e non siamo mai state gelose".

Il principe scosse la testa con vigore "Io non sono geloso di mio fratello" chiarì subito "E sino a pochi anni fa io e lui trascorrevamo le giornate insieme come buoni amici, è stata la maggiore età e le responsabilità che lo hanno fatto allontanare lentamente anche da me e lo hanno reso superbo persino col suo stesso fratello, il sangue del suo sangue!" Drovan fece una breve pausa e poi continuò, con il volto scuro "Tu insinui che io sia geloso di lui!?" Esclamò con ironia "Non essere ridicola, patetica ragazzina!" "Non devo essere ridicola, questo dici, Drovan?" rispose Nomiva a tono, guardandolo con fermezza "Ma io dico solamente la verità! Tu sei geloso di tuo fratello e vorresti essere al suo posto, nonostante tu tenti di apparire ferito sappiamo entrambi che sei semplicemente geloso". Drovan rimase immobile e in silenzio nell'oscurità crescente, mentre Nomiva esultava. Forse non sarebbe sopravvissuta e forse Drovan era sincero, ma magari lei avrebbe potuto mettere i due fratelli contro e forse Drovan avrebbe potuto tradire Morfgan. "E perché non dovrei essere geloso?" disse finalmente Drovan, a voce bassa, come se avesse temuto che potessero sentirlo "Lui ottiene sempre il meglio senza il minimo sforzo. Mentre io? Basta che tu mi guardi ora. Io sono qui, in questo posto tremendo a parlare con una ragazzina ottusa come sei tu, mentre lui cosa pensi che stia facendo ora?" Le chiese in tono nervoso "Mio fratello sarà al castello, comodo e al caldo, circondato da persone che sarebbero pronte a fare di tutto per soddisfare ogni suo più insignificante capriccio. Tutti lo venerano e lui non sbaglia mai e anche se sbaglia nessuno osa mai contrastarlo. Questo è potere" disse con amara rassegnazione "Non fare assolutamente niente di utile per gli altri eppure decidere le loro sorti".

Drovan si voltò a guardare Nomiva e i suoi occhi scuri parvero quasi brillare "Mi chiedi se sono geloso di mio fratello?" ripeté in un sussurro "Adesso un po' potrei esserlo. Darei qualsiasi cosa per essere al suo posto in questo momento, senza avere te davanti agli occhi e questo freddo nelle ossa". Per pochi attimi rimasero in silenzio, Drovan teneva la testa bassa e i capelli scuri gli coprivano la fronte, impedendo a Nomiva di guardarlo in faccia completamente. "Che grande pena" si decise a parlare Nomiva con indifferenza, decidendo di osare ancora di più "Che cosa stai blaterando adesso?" rispose subito Drovan, con scortese freddezza "Dico solamente che provo pena, tutto qui" rispose lei, vaga. Drovan la guardò con gli occhi duri e indagatori "Per chi o cosa provi pena? E non pensare di ignorare la mia domanda, ragazzina irritante!"

Nomiva piegò la testa di lato e si sforzò di sorridere, nonostante fosse l'ultima cosa che desiderasse fare "Per il nostro regno" rispose sospirando "Se tuo fratello è tanto inetto come mi è parso di aver compreso, siete proprio spacciati, non trovi?" disse con leggerezza "Ma fortunatamente non sarà un mio problema" aggiunse subito, fingendosi indifferente "Io presto sarò morta e non sarò costretta ad assistere allo stato degradante in cui tuo fratello farà capitolare Expatempem. Il regno forgiato nel sangue e capitolato del fango, poetico non trovi anche tu? Forse la storia non sarà così lusinghiera con tuo fratello e tu sarai grato per non essere citato come generale di un sovrano idiota. Forse non sono così sfortunata come pensavo a restare all'oscuro della reale, miserabile fine del nostro regno" terminò, in tono soave. L'uomo continuò a fissarla in modo torvo, stordito da quelle parole "Che gioco tenti di fare, Nomiva Tenebrerus!?" ringhiò Drovan sempre più guardingo "Nessun gioco" assicurò lei cristallina, mentendo con abilità "Dico solo come stanno le cose, sono sempre stata abbastanza realista e non smetterò certo di esserlo nei miei ultimi giorni di vita".

Il principe non pareva per niente convinto dalle parole di Nomiva "Eppure continuo a nutrire il forte sospetto che tu ti stia prendendo gioco della mia nobile persona" insistette, parlando tra i denti, contraendo la mascella per trattenere l'irritazione crescente "Se anche fosse, noi non eravamo amici?" rispose prontamente Nomiva, con totale sfrontatezza, beffandosi di lui. Drovan corrugò le sopracciglia, guardandola con disgusto "Tu cerchi di mettermi contro mio fratello" sussurrò poi piano, comprendendo il gioco di Nomiva "Vuoi mettermi contro di lui, così da poterti vendicare attraverso di me". Nomiva rise, nonostante fosse rimasta un poco amareggiata dalla rapidità con la quale Drovan avesse compreso quello che aveva in mente "Io starei tentando di metterti contro tuo fratello!? Io non ho fatto nulla di male, sei stato tu ad ammettere di essere geloso e poi a saltare alle conclusioni". Drovan la fissò ancora, poi si alzò di scatto, con gli occhi duri che scintillavano di ferocia "Nessuna delle tue patetiche insinuazioni funzionerà" disse con una risata nervosa "Ah, ma certo!" esclamò Nomiva, inarcando la schiena perché la costola era tornata a sbattere "Non c'è bisogno che io insinui nulla, perché tu già lo odi abbastanza senza che io abbia fatto niente per metterti contro di lui!" "Io non odio mio fratello!" rispose prontamente Drovan, ma Nomiva notò che era sempre più nervoso.

"Forse non lo odi" replicò subito Nomiva "Ma faresti di tutto per essere al suo posto e chissà che la tua esasperazione non possa spingerti a compiere qualche follia col trascorrere del tempo". Drovan rimase di spalle in silenzio e Nomiva ne approfittò per continuare "Ammettilo a te stesso, Drovan!" lo persuase Nomiva "Non mentire anche a te stesso, puoi confidarti con me, d'altronde io tra poco sarò morta e nessuno verrà mai a sapere quello che vorrai rivelarmi, sarebbe il nostro piccolo segreto da falliti". Drovan si voltò lentamente e Nomiva notò come fosse sbiancato e teso "Da falliti" ripeté il principe, quasi in trance "Ma sì" annuì Nomiva "E' quello che siamo, no? Falliti, secondi. A nessuno importa della nostra opinione, neppure ai nostri fratelli" Drovan la guardò negli occhi "Io non odio mio fratello" ripeté con convinzione.

Nomiva lo fissò e poi scoppiò a ridere, inarcando ancora la schiena per il dolore e respirando lentamente, non poteva cedere adesso "Vuoi sapere che altro mi fa pena oltre al regno?" domandò senza attendere una risposta "Tu, principe generale, Drovan Raylon!" disse, costringendosi a ridere "Sei solo un bugiardo" continuò "Credi di dimostrare la lealtà verso tuo fratello sobbarcandoti dei suoi capricci, ma la verità è che lo odi e non potrai fare niente per cambiarlo. Forse è vero che lui è un idiota e che tu saresti un sovrano di gran lunga migliore di lui, è vero che una volta eravate uniti, ma non scoprirai mai se saresti stato un re migliore e probabilmente non recupererai mai più il rapporto che vi univa. Per quanto tu possa essere solerte e leale non verrai mai ricoperto di gloria eterna, nessuno ti guarderà mai come guardano lui. Tu starai sempre un gradino più in basso di lui, ad accontentarti dei suoi scarti e a crogiolarti nella tua gelosia. Potrai essere molto più bravo di lui in tutto, ma nessuno ti amerà mai come amano lui. Tuo fratello sarà sempre superiore a te e tu non potrai mai cambiare le cose". Nomiva poi fece una breve pausa scenica, fingendo di pensare e poi sorrise, anzi, ghignò malignamente "Oppure" disse suadente "Potresti seguire la strada dei grandi re e delle grandi regine dei tempi passati del nostro regno, che uccisero i fratelli e le sorelle pur di brillare e ottenere quello che i consanguinei tentavano di sottrargli, fama e gloria eterni! Ma temo che il tuo animo sia così insipido e codardo che mai avresti il coraggio di osare tanto e uccidere tuo fratello!" Terminò Nomiva, guardandolo con sprezzo, tentando di ferire l'orgoglio dell'altro "Non saresti mai in grado di uccidere Morfgan circondato com'è dalle sue guardie e anche se il tuo spirito divenisse risoluto e tu ci riuscissi, ti catturerebbero e poi ti giustizierebbero!"

Nomiva si fermò ancora, questa volta costretta dal dolore al fianco "Tu mi fai veramente pena, principe Drovan" scandì freddamente, stringendo i denti per tentare di contrastare il dolore "Sei solo una pedina senza importanza". Nomiva si fermò e lo guardò, troppo affaticata per continuare oltre; Drovan era voltato di spalle ed era impossibile vedere la sua reazione "Ammettilo almeno a te stesso che lo odi" concluse Nomiva, chiudendo gli occhi per il male che sentiva. Fu allora che Drovan si girò lentamente, aveva gli occhi lucidi e rossi, sembrava un pazzo dall'espressione che aveva sul volto "Stai zitta!" urlò "Devi solo tacere, miserabile!" "E perché mai dovrei farlo?!" replicò lei "La verità non è mai una cosa sbagliata, non credi scarto della corona?"

Uno schiaffo le arrivò in pieno viso, forte e bruciante da farla gemere dal dolore per la violenza. Nomiva dolorante sentì le labbra umide e nella bocca il sapore del sangue "Ti ucciderò presto, Tenebrerus" disse Drovan con la voce bassa e gli occhi spalancati "Sappi che troverò il modo più doloroso possibile per farlo, ma alla fine ti ucciderò con le mie stesse mani e tu in punto di morte, dopo ore di lenta agonia, mi supplicherai perdono per queste parole e mi implorerai di avere pietà e di toglierti la vita. Ma giuro sul dio Belis e sui tuoi patetici dèi che neppure allora avrò pietà per te!" Nomiva nonostante la sofferenza si sforzò ancora di sorridere "Non dimenticare di chiedere il permesso a tuo fratello" mormorò. Drovan allora si scagliò su di lei, la colpì alla spalla, poi sul collo e sugli zigomi, allora si tirò indietro e uscì velocemente, prima di ucciderla. Uscì dalla cella senza slegarla, semplicemente chiuse a chiave con stizza, andandosene definitivamente a passo svelto dopo aver sbattuto la porta. Nomiva chiuse gli occhi e inspirò a fondo, le faceva male tutto, i colpi di Drovan facevano veramente male, era stata fortunata a essere ancora viva e ne era consapevole. Ma doveva osare tanto, pur sapendo i rischi che avrebbe corso se le cose fossero fallite come era accaduto, però tentare di mettere Drovan contro Morfgan le era parso almeno doveroso. Pur non sapendo di preciso che reazione avesse suscitato in Drovan, Nomiva era certa che quello fosse rimasto scosso, molto scosso a essere sinceri.

Nomiva si accasciò malamente alle sbarre, leccandosi il sangue sulle labbra e gemendo sottovoce per la costola che la teneva in costante sofferenza. Nomiva si domandò come avrebbe fatto a dormire con quel dolore, poi però decise di non curarsene, forse dopo ore la stanchezza avrebbe vinto il dolore. Magari invece sarebbe morta presto proprio a causa di quella costola, allora Drovan si sarebbe pentito di averle rotto l'osso, perché se lei fosse morta lui non avrebbe potuto torturarla prima di ucciderla per quello che gli aveva detto. Comunque sarebbe andata Nomiva avrebbe tentato di resistere, ma se al termine la morte fosse stata inevitabilmente vicina quantomeno la ragazzina non avrebbe rimpianto di aver taciuto al cospetto del suo carceriere, non avrebbe provato vergogna per sé stessa perché era stata coraggiosa, proprio come avevano sempre detto le sue sorelle. La sola idea di aver anche solo ferito Drovan alleviò i patimenti fisici di Nomiva come un infuso benefico e lei sorrise flebilmente, stancamente. Se doveva morire lo avrebbe fatto con coraggio, almeno sarebbe morta con onore e avrebbe incontrato la sua famiglia senza vergogna. Nomiva sentì improvvisamente la stanchezza crollarle addosso e le palpebre si fecero pesanti, costringendola a chiudere gli occhi. Forse farsi giustizia era impossibile, ma magari un giorno le sue parole avrebbe fatto germogliare un desiderio in Drovan, l'unico che l'avrebbe soddisfatta: l'assassinio del re. E, cullata da questa esigua speranza lontana, Nomiva crollò.

 

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Capitolo 32
*** L'ultima strada ***


Pov:Leucello

Erano trascorse poche settimane da quando Mondrik era andato via e la locanda appena immersa nel bosco ricordava una pittoresca abitazione incantata, imperturbabile e quieta. Zenobia e i suoi figli erano gentili e gradevoli, probabilmente erano alcune delle persone migliori che Leucello avesse mai avuto la fortuna di conoscere. Leucello era stato estremamente lieto di poter trascorrere con loro quel tempo, nonostante fosse ancora turbato dal comportamento e dalle parole di Mondrik il calore che gli avevano manifestato si era rivelate un balsamo per il suo animo scosso e ancora addolorato a causa della morte della madre. Leucello era certo che a sua madre Iris sarebbero piaciuti tutti loro, avrebbe stretto amicizia con Zenobia, avrebbe trovato allegre e colme di vita le gemelle e ovviamente le sarebbe piaciuta la stupefacente e coraggiosa Omalley. Già Omalley, dopo che Mondrik se ne era andato lei aveva deciso di rimanere qualche giorno con lui avendolo visto scosso, nonostante avesse giurato di essere rimasta un poco di più principalmente per ristorarsi prima di ripartire e Leucello le fu grato di quel gesto, perché gli era parso di comprendere che lei dovesse partire con una certa urgenza, per un favore a un'amica.

Leucello non avrebbe potuto essere più felice di trascorrere altro tempo in sua compagnia, Omalley era una compagnia gradevolissima ed era una persona verso la quale nutriva una sincera stima. Trascorrere quei giorni nella locanda, per giunta con persone così gentili, protetto nel tepore dall'inverno faceva tornare l'ispirazione, la voglia di dipingere tutto il bello che c'era nel mondo. Intanto Leucello aveva terminato i ritratti realizzati con il carboncino su tutte le telette e genericamente poteva dirsi sufficientemente soddisfatto. La teletta raffigurante il volto della madre era stata la prima che Leucello aveva terminato, era un gioco prospettico di linee perfette e armoniose che riproducevano molto fedelmente quello che era stato il volto di Iris, mentre sulle altre due piccole tele Leucello aveva disegnato Zenobia e i figli stretti in un abbraccio e nell'ultima aveva disegnato Omalley, precisamente il volto di lei un po' ombrato dal cappuccio tirato sulla testa. Leucello adesso che stava per andarsene sperava solamente che accettassero i suoi umili doni, ma, nonostante il talento e l'esperienza che avrebbe potuto vantare, Leucello temeva ugualmente che i suoi lavori potessero non suscitare meraviglia.

Ma il suo timore era come amico, non come artista, in quei momenti non si sentiva neanche un artista, sono un uomo in debito. La Provincia Libera era abbastanza vicina, in un breve periodo avrebbe raggiunto quel luogo, ma Leucello sentiva una lieve inquietudine per il tratto che avrebbe dovuto attraversare prima di giungere nel piccolo regno indipendente della Provincia Libera. Si vociferava molto sulla Foresta delle Anime, sulla sua presunta pericolosità, ma Leucello doveva attraversarla ugualmente, nel peggiore dei casi sarebbe morto e avrebbe rivisto sua madre, mentre nel migliore sarebbe arrivato in quel luogo magico di cui aveva tanto sentito parlare. Ovviamente avrebbe fatto di tutto per sopravvivere e avrebbe lottato per la sua libertà, lo avrebbe fatto per sé stesso e per onorare la memoria di sua madre. Dopo pranzo Leucello sarebbe partito e per quanto gli dispiacesse pensare di lasciare i suoi amici sapeva bene che stavano rischiando veramente tanto per aiutare lui e quindi la cosa più saggia era salutarli il prima possibile.

Leucello finì di cambiarsi senza fretta e poi iniziò a radunare le sue poche cosa prima di andare, tenendo ben in vista le telette che voleva regalare. Dopo essersi un poco sistemato i capelli salì per il pranzo, trovando Zenobia che cucinava come era solita fare e la figlia maggiore Angelika che la aiutava, mentre il resto dei fratelli e delle sorelle gironzolavano per la locanda, i maggiori aiutando e i piccoli semplicemente giocando. Non appena Zenobia vide Leucello salire subito gli rivolse uno dei suoi calorosi sorrisi di benvenuto "Leucello" lo salutò la donna con la consueta gentilezza "Siete sempre sicuro di voler andare via?" Gli domandò per l'ennesima volta "Siete certo di voler tentare un viaggio tanto pericoloso? Conoscete tutto quello che si dice sulla Foresta delle Anime, pare che nessuno sia mai tornato da lì".

Leucello annuì con convinzione "Lo sapete Zenobia" replicò con la consueta calma che lo contraddistingueva "E' la cosa giusta da fare, voglio cambiare la mia vita, desidero essere libero e devo essere disposto a rischiare pur di ottenere ciò che voglio. Devo essere disposto a osare, perché non ho nulla da perdere, se il mio viaggio dovesse volgere a buon termine avrò solo da guadagnare" spiegò lui con convinzione "E in quel luogo non sarò perseguitato dal re e non rischierò di mettere in pericolo nessuno accettandone l'ospitalità e l'amicizia". La donna gli rivolse uno sguardo triste e preoccupato, ma lo celò velocemente con un lieve sorriso "Ma se dovesse accadervi qualcosa di brutto?" Domandò, senza riuscire a trattenersi oltre. Leucello le rivolse uno sguardo dolce e rassicurante, grato di tanta attenzione per il suo stato "Vi ringrazio veramente tanto per tutto quello che state facendo per me, non potrò mai sdebitarmi sufficientemente per tutto quello che voi avete fatto per aiutarmi" rispose "Ma come ho detto questo è un rischio che devo essere disposto a correre" disse in tono vagamente grave.

Leucello fece una breve pausa e notò la tensione che causava l'attesa delle sue parole "E se dovrò morire lo farò" concluse finalmente "Morirò tentando di ottenere la libertà che tutti meritano e rivedrò mia madre". Angelika sentendo quelle parole spalancò gli occhi "Non dite queste cose, per favore!" lo pregò la ragazza "Non parlate di morte!" Leucello le sorrise benevolmente "Mia madre disse che sarei dovuto essere coraggioso e avrei dovuto inseguire i miei sogni. E' questo il modo in cui voglio vivere d'ora in poi, senza avere mai timore di esprimere la mia opinione. Non posso più vivere in questa gabbia, io sono un artista per questo" spiegò con passione "L'arte è libertà, è poter esprimere sé stessi al massimo. Bisogna sempre lottare per questo, per poter esprimere la propria opinione liberamente e se questo per me dovrà significare morte, allora sarò lieto di essere morto da uomo libero".

"Ma che bel discorso, ricorda proprio quello di un eroe romanzesco! Oppure potrebbe essere l'arringa perfetta di un generale che incita i suoi soldati prima di affrontare una grande battaglia, o ancora l'incipit di un discorso rivoluzionario che incita la folla alla ribellione!" Leucello si voltò e arrossì lievemente per l'imbarazzo, Omalley era entrata con un sorriso divertito e lo guardava "Forse ho esagerato..." disse lui a voce bassa, sorridendo per stemperare l'imbarazzo "Era molto incoraggiante invece" affermò Omalley, continuando a sorridergli. "Se è questo quello che desiderate veramente" sospirò Zenobia "Purtroppo non posso fare nulla per fermarvi o per farvi cambiare idea, ma vi ammonirò ancora una volta su quella foresta".

Leucello annuì con vigore "Di questo potete starne certi, sarò accorto" assicurò "Allora direi di mangiare" disse sospirando Zenobia, rassegnata. In un batter d'occhio i ragazzi apparecchiarono il tavolo e si misero tutti a sedere. Quello era il suo ultimo pasto lì, Leucello lo sapeva bene, per questo decise di godersi la zuppa più di quanto non facesse di solito. Sapeva che avrebbe potuto non rivedere mai più quella brava gente e la cosa lo rattristò parecchio, sperava proprio di trovare persone come loro se mai fosse riuscito ad arrivare dall'altra parte della foresta. Aveva trascorso la festa più attesa dell'anno in loro compagnia, il venticinque rextio, la festa che celebrava la nascita dei principi e delle principesse degli elementi, avevano festeggiato insieme anche l'arrivo del nuovo anno pochi giorni prima, il primo di ahrimo dell'anno 698. Quello sarebbe stato un periodo molto triste per Leucello, avrebbe dovuto trascorrere le festività in solitudine e invece lo avevano fatto restare con loro, persino Omalley si era trattenuta quasi per un mese alla locanda, ritardando la partenza proprio in vista delle festività e tutti loro avevano fatto sentire Leucello come fosse stato parte della famiglia, rendendolo ancora più grato nei loro confronti di quanto già non fosse.

Ma adesso era giunto il momento di separarsi, tutti tenevano gli occhi bassi e mangiavano in silenzio, Leucello sentì una stretta allo stomaco e trangugiò lentamente la zuppa, ma non avrebbe cambiato idea, avrebbe tentato di ottenere la sua libertà e non avrebbe costretto quelle persone a correre altri pericoli ospitandolo. "Leucello, tu mi assicuri che il signor Tenebrerus è morto?" domandò improvvisamente Omalley, squarciando il silenzio e guardandolo con un vago sguardo indagatore. Leucello alzò lo sguardo e i loro occhi si incrociarono "Temo proprio di sì" confermò lui a voce bassa. Omalley sospirò "Non so se andare al loro castello oppure no a questo punto" disse con voce triste "Però è meglio passare da quelle parti, almeno sarò stata di parola, anche se vorrei potesse rivelarsi utile".

Leucello annuì piano "Ora però non parliamo di morte" si riscosse Omalley, notando il pallore di Angelika "Per esempio, come ti immagini la Provincia Libera?" Leucello sorrise "So che c'è una piramide e le quattro zigurat di marmo colorato" rammentò, facendo riferimento alle sue letture "Certamente dovrò vederle. Inoltre la Provincia Libera ha sempre presentato una grande varietà paesaggistica, c'è persino un deserto, il deserto Sabulario e io non ho mai visto un deserto. Oh!" esclamò poi, quasi sognante, lasciandosi trascinare dall'entusiasmo "E spero proprio di poter conoscere un centauro! Mia madre mi raccontò di alcuni centauri che conosceva personalmente e sarei lieto di avere l'onore di poterne conoscere anche io e di poterli ritrarre, perché devono essere magnifici". Leucello sorrise, realizzando solo allora quanto fosse pressante il suo desiderio di visitare quel luogo "Spero che voi possiate trovare la pace e l'ispirazione che cercate, perché lo meritereste veramente Leucello" disse Zenobia con dolcezza, sorridendogli.

"Madre, il nonno non ci era stato?" intervenne Kiera "Sì!" disse subito la gemella "Credo di sì" pensò Zenobia "Chissà se è veramente così bello come si narra questo posto. A me piacerebbe tanto vederlo un giorno" sospirò Hamisi. Leucello sorrise "Vi prometto che se riuscirò a raggiungere la Provincia Libera tornerò da voi tra qualche anno e vi guiderò io stesso, facendovi visitare i paesaggi più belli della Provincia Libera. Che ve ne pare della mia idea?" Tutti annuirono senza esitazioni "Sì!" disse Zenobia "Magari quando sarò più vecchia e non avrò più le forze per lavorare mi trasferirò lì per riposarmi insieme al mio amato Valdis". Leucello rise "Sarebbe bellissimo!" esclamò "Magari potreste trasferirvi tutti lì con me! La pace è sempre il nutrimento giusto per l'animo".

La famiglia annuì "Dovremmo parlarne a nostro padre" disse subito Kady. Leucello la guardò attentamente "Mi piacerebbe tanto conoscere anche lui un giorno" disse sinceramente, immaginandosi un cortese signore pacato e generoso "Non dovete avere fretta, ragazzi" intervenne Zenobia, ponendo un freno alle fantasie dei suoi figli "Non siamo in fuga da nessuno" "No" intervenne timidamente Angelika "Ma potremmo parlargliene lo stesso". Zenobia annuì stancamente "A proposito di nostro padre" continuò la ragazzina "Io vorrei trascorrere un po' di tempo con lui nella locanda di Orviello".

La donna guardò la figlia con attenzione, stupita "Perché mai vorresti andartene, Angelika?" domandò perplessa "Non sei più felice qui?" La ragazzina alzò lo sguardo verso la madre, con timorosa fermezza "Io starò sempre bene in vostra compagnia, madre" replicò "Ma credo che sia giunto il momento per me di vedere cosa c'è oltre il nostro idillio". Zenobia la guardò seriamente colpita "Non posso conoscere solamente la nostra locanda madre, perché un giorno sarò costretta a uscire da qui e non sarei in grado di affrontare qualcosa che non ho mai conosciuto. Per questo ritengo che sia arrivato il momento per me di iniziare a conoscerlo madre, adesso che sono quasi una donna". La ragazzina era in evidente difficoltà, ma tentava ugualmente di mantenere un'espressione sicura "Quindi le tue parole sono serie?" domandò Zenobia con un colorito pallido sul volto "Sì madre, sono serie".

La donna si portò una mano al petto, angosciata da quel nuovo, inaspettato fardello "Perché vuoi andare?" disse ancora "Cosa ti ha fatto venire questa idea?" Angelika era agitata, tutta la sala la osservava curiosa e desiderosa di sapere "Un'amica mi ha fatto comprendere la realtà in cui viviamo" rispose la ragazza vaga "Mi ha fatto comprendere come stanno veramente le cose e io voglio prepararmi per la vita. Qui sarebbe impossibile farlo". Il silenzio piombò nella stanza, Leucello percepì la tensione e come lui Omalley "Oh" disse flebilmente la donna "Ora comprendo. Ma sei certa di essere pronta? Sei sicura che sia una buona idea?"

La ragazzina la guardò con fermezza, costringendosi a non chinare mai il capo "Sono sicurissima madre" confermò "E' questo che voglio fare, è questa la cosa giusta da fare per la mia vita". Le due si guardarono "Vi prego, madre" disse la ragazzina implorante "Lasciate che vada, sarà la cosa giusta e sarò al sicuro con mio padre". Zenobia sospirò a fondo, era in seria difficoltà "Io penso che sia una buona idea se vi interessa conoscere la mia opinione, madre" intervenne una delle gemelle "Noi ce la caveremo anche senza di lei, lascia che Angelika vada per un po' a stare da nostro padre come desidera". La donna però scosse il capo "Omalley" chiamò improvvisamente la ragazza "Ti prego, dille qualcosa anche tu".

Omalley si sistemò meglio sulla panca e poi guardò in volto la donna "Io non credo che la mia opinione possa essere determinate" disse "E' una decisione che riguarda la vostra famiglia, non me" "Ma tu fai parte della nostra famiglia" intervenne Hamisi, anticipando le parole della madre e dei fratelli. La ragazza abbassò la testa e subito dopo la rialzò "Allora ti dirò cosa penso" si decise "Con la massima onestà e io ritengo che la cosa migliore sarebbe lasciare che Angelika vada". Zenobia sospirò, ancora più angosciata da quella situazione infausta in cui si stava trovando suo malgrado "E' questo che penso, è quello di qui Angelika ha bisogno per crescere veramente". Zenobia chiuse gli occhi "Un giorno dovrà pur avere una vita indipendente dalla sua famiglia e deve essere pronta".

Omalley dopo quelle parole si alzò per avvicinarsi alla donna "E' la cosa migliore" ripeté Omalley confortante "E poi adesso non sarà sola, sarà con suo padre". Le due si guardarono negli occhi, Omalley le strinse il braccio e Zenobia spalancò gli occhi "Lasciala andare" concluse Omalley. Zenobia chiuse gli occhi e sospirò, poi li riaprì lentamente e si voltò per guardare sua figlia "Va bene" mormorò stancamente "Andrai a stare per un po' da tuo padre". Angelika corse dalla madre e la strinse in un abbraccio "Grazie madre!" disse felice e commossa "Vi assicuro che starò bene e farò attenzione, sarò ubbidiente e aiuterò mio padre ". La donna sorrise e la carezzò, con le lacrime che le brillavano negli occhi "Lo so figlia mia, ho piena fiducia in te e in lui" rispose "Piango perché so già quanto sentirò la tua mancanza!"

Tutti rimasero a guardarle sorridendo e Leucello quasi dimenticò della sua partenza imminente, poi mentre tutti si alzavano per sparecchiare lui scese per prendere le due telette. Salì colmo di agitazione e trovò i ragazzini indaffarati come li aveva lasciati, mentre Omalley non c'era. Leucello tentennò un po' prima di parlare e poi si mise al centro della stanza, rasserenandosi dopo aver gettato un'occhiata al volto di sua madre "Zenobia" disse a voce bassa, ma abbastanza alta affinché l'altra potesse sentirlo "Potreste avvicinarvi per cortesia, c'è un oggetto che avrei piacere di potervi donare". La donna si voltò sorpresa "Non voglio denaro, lo sapete bene!" replicò ostinata e prevenuta "Oh, no" le assicurò Leucello "Non ho denaro, ma dell'altro".

Zenobia allora annuì e si avvicinò "Allora ditemi pure". Leucello sorrise e tirò fuori subito la teletta per scaricare la tensione "E' solo un simbolico gesto di ringraziamento, un simbolo della mia gratitudine perpetua per la vostra bontà" disse porgendo la teletta alla donna "E' uno schizzo che ho realizzato per voi e la vostra meravigliosa famiglia". Zenobia lo prese e guardò la tela con attenzione, rimanendo in silenzio per un po'. Leucello tenne il fiato sospeso, non riusciva a vedere l'espressione di lei ma si sentiva molto agitato, diversamente di quando fosse stato al cospetto dei signori che pagavano i suoi lavori.

"E' meraviglioso" la voce cortese e ovattata di Zenobia arrivò come una carezza "Dite veramente?" chiese sorridendo Leucello "Davvero vi piace?" Zenobia lo guardò negli occhi, sorrideva "Ma certo!" assicurò "E' talmente bello che merita un posto speciale per essere ammirato, quindi lo sistemerò proprio qui, dietro al bancone, in questo modo chiunque potrà ammirarlo". Leucello sorrise, lieto "Sono felice che vi piaccia, ma non siete costretta a esporlo" "E perché dovrei celare una meraviglia di tal genere?" lo interrogò Zenobia "Neppure una signora potrebbe vantare un'opera così bella nel suo castello. Lo espongo con orgoglio e con gioia, ve lo assicuro Leucello, la vostra fama è davvero ben meritata".

I due si sorrisero "Grazie veramente di tutto, Zenobia" disse Leucello stringendole una mano "E ovviamente grazie a tutti voi" disse rivolgendosi ai ragazzini nella stanza "Siete delle persone fantastiche e spero che gli dèi vi proteggano sempre". Si strinsero tutti intorno a lui come erano soliti fare con Omalley e lo abbracciarono, facendolo sentire ancora una volta parte della loro grande famiglia "Grazie veramente a tutti voi" ripeté "Ma Omalley dov'è?" domandò Leucello guardandosi in giro "Vorrei salutare anche lei prima di partire".

Zenobia sorrise "E' fuori, puoi andare da lei" rispose "Hamisi, intanto tu vai a prendere il cavallo del signor Leucello" e il ragazzo annuendo uscì con rapidità. Leucello si allontanò piano da loro e uscì con l'altra teletta nella tasca, alla ricerca di Omalley. Si mise a cercare in giro, guardando le cime degli alberi un poco innevate dal basso, ma lei sembrava fosse del tutto svanita, così si mise a chiamarla "Omalley!" gridò "Omalley, vorrei salutarti. Dove sei?" Improvvisamente si oscurò tutto, Leucello trattenne un attimo il fiato per la sorpresa, ma la voce di Omalley lo fece sorridere subito dopo "Perché mi hai messo questa benda?" domandò Leucello avanzando a tentoni, mentre la stoffa soffice gli carezzava il volto "Ho una cosa che vorrei donarti" "Anche io!" esclamò la ragazza allegramente "Seguimi e non fare domande, è una sorpresa!"

Senza vedere nulla Leucello continuò a seguire Omalley, stringendo la mano che l'altra gli aveva offerto per non cadere "Dove mi stai portando?" domandò curioso il ragazzo "Lo vedrai presto!" esclamò Omalley, sembrava davvero felice. I due fecero qualche altro passo e poi la ragazza lo fece fermare "Sei pronto?" domandò entusiasta. Leucello sentì un brivido sentendo la voce allegra di lei "Sì!" Subito Omalley gli tolse la benda e Leucello tornando a vedere spalancò la bocca per il paesaggio che gli si presentò davanti.

Davanti a lui c'era una piccola collina appena fuori dal bosco che era sgombera dal leggero manto di neve che tutto copriva, ma era cosparsa di fiori viola, di iris viola! Leucello sorrise per la meraviglia, senza parole. Si voltò per guardare Omalley e la vide sorridere "Ti piace?!" esclamò su di giri "Io non so cosa dire" rispose lui, sentendo i brividi per la contentezza "E' meraviglioso!" affermò poi "Ma come hai fatto?" "Mi scuso per averti sottratto il sacchetto di semi" spiegò la ragazza tirando fuori il sacchetto mezzo vuoto che Iris aveva donato a Leucello "Ecco i semi che sono rimasti. Ero in pena per la tua sofferenza e quel maledetto del tuo amico ha solo peggiorato le cose, così ti ho sottratto il sacchetto di nascosto. Sono riuscita a trovare nella dispensa di Zenobia una boccetta contenente un costoso e raro infuso, quello che accelera la crescita dei fiori. Allora mi sono recata qui ogni giorno per assicurarmi che la neve non impedisse ai fiori di sbocciare. Mi dispiace averti rubato i semi, spero che tu possa perdonarmi".

Leucello la guardò dolcemente, sentendosi grato "Come potrei non perdonarti" rispose piano "Mi hai sottratto i semi per rendermi felice. E ti assicuro che quella che mi hai fatto è' una sorpresa meravigliosa. Questi iris sono così belli, mi sembra di sentire mia madre vicina". Leucello chiuse gli occhi sorridendo commosso e si portò una mano al petto. Sentì le mani di Omalley sfiorargli la spalla, così lui riaprì gli occhi e la guardò "Grazie veramente Omalley" disse con dolcezza, studiando il volto irregolare della ragazza "Sei veramente speciale". Lei scosse appena il capo, divertita e vagamente imbarazzata da quei complimenti e sorrise.

Leucello rispose al sorriso, poi si fece coraggio e si allungò per stringerla in un abbraccio. La ragazza in un primo momento si irrigidì appena ma subito dopo ricambiò l'abbraccio. Leucello sentì un brivido di calore lungo la schiena e si sentì arrossire appena prima di sciogliersi dall'abbraccio "Ti chiedo scusa" disse poi imbarazzato "Non dovevo, è stato sconveniente da parte mia" "Non darti pena" lo rassicurò la ragazza che sembrava serena "Ora quello che ho preparato per te sembrerà ancora più insignificante..." mormorò Leucello, sentendosi strano "Ti assicuro che non lo sarà" disse Omalley con ostinazione "Avanti, sono curiosa".

Il ragazzo sorrise e si decise a tirare fuori la teletta, porgendola alla ragazza senza avere il coraggio di guardarla in volto, nonostante desiderasse ardentemente poterla ammirare ancora a lungo "E' bellissima" mormorò Omalley non appena ebbe visto il suo volto ritratto, sfiorando la tela con un dito con delicatezza, come se avesse temuto di poterlo deturpare "Ma temo che tu mi abbia resa più bella di quanto io non sia veramente" affermò poi, sorridendo. Leucello si sentì arrossire nuovamente "Eppure è così che appari ai miei occhi" replicò. Leucello si sentì la bocca secca, non gli era mai successo prima. Abbassò gli occhi e immaginò quello che dovesse pensare lei vedendolo tanto impacciato. Ma Leucello iniziò a comprendere cosa gli stesse accadendo e nonostante tutto sorrise, lieto di aver provato anche lui come fosse sentirsi innamorato.

"Avrei anche un'altra cosa in realtà" aggiunse a voce bassa, mettendo da parte i timori che sentiva. Aveva avuto quell'idea da qualche giorno ormai ed era certo di star facendo la scelta giusta "Ecco" e tirò fuori la canna con le lenti che avvicinava le cose lontane e la porse a Omalley. Vide la ragazza spalancare la bocca, meravigliata "No" disse subito lei, scuotendo il capo "Questo non posso proprio accettarlo!" Leucello corrugò le sopracciglia "Perché no!?" domandò "Perché lo hai costruito tu, è tuo e non ne hai un altro!" rispose subito Omalley. Leucello scrollò le spalle, continuando a sorridere "Posso sempre costruirne un altro" disse con ovvietà "E poi sarà più utile a te che a me. Io lo usavo solo per la mia arte e i miei studi del cielo, tu lo useresti per fare del bene".

Omalley lo guardò colpita e poi gli sorrise e Leucello sentì lo stomaco contorcersi piacevolmente, così Leucello continuò a parlare "Sarei onorato sapendo che questo attrezzo potrebbe aiutarti a salvare delle vite" affermò con sincerità, perdendosi a guardare gli occhi grigi della ragazza. Omalley gli rivolse uno splendido sorriso e Leucello fu ancora più lieto "Ti ringrazio veramente" disse lei colma di gratitudine "Sono io a essere onorata di ricevere un oggetto così raffinato e incredibile e ti assicuro che lo userò unicamente per fare del bene" "Di questo non ho alcun dubbio" rispose subito lui "Ma ora credo che sia proprio giunto il momento per me di andare" ricordò Omalley, riponendo la canna-occhiale nella tasca.

Leucello annuì tristemente, era giunto il momento della partenza anche per lui "Ti auguro tanta fortuna, Leucello Argis" continuò lei "Sei un uomo molto onesto e giusto, oltre che un brillante artista. Spero che tu possa avere la vita che desideri nella Provincia Libera, la libertà che meriti e che desideri tanto ardentemente". Il ragazzo annuì, grato di ricevere parole tanto belle "Io spero di rivederti un giorno" ammise "Sì, ma mi auguro che se mai dovessimo rivederci tu non sia in fuga da nessuno" rispose subito Omalley, ridendo. Leucello rise a sua volta "Credo che sarebbe meglio, sì" ammise, divertito. Omalley sorrise e tornò verso la locanda di Zenobia, verso il bosco e Leucello la seguì per congedarsi dalla brava gente che lo aveva ospitato.

Erano tutti lì fuori ad aspettarli nonostante il freddo, schierati come soldati in attesa dal loro generale e non appena li videro tornare li accolsero con gioia "Eccovi" disse Zenobia sorridendo "Spero di rivedervi presto e spero che entrambi abbiate fortuna, ma sappiate che pregherò gli dèi affinché veglino su di voi". Sia Leucello che Omalley si avvicinarono a turno, salutando i ragazzini uno per volta. Sul volto di Leucello si scorgeva chiaramente la volontà di poter restare, ma il desiderio di libertà era più forte, per lui come per Omalley "Addio!" Disse in coro la famiglia, girandosi ora a destra ora a sinistra per salutare i due amici che stavano intraprendendo sentieri opposti. Leucello li salutò dal cavallo e poi salutò un'ultima volta Omalley. La ragazza rispose al saluto di lui con un cenno della mano dall'alto di un albero e poi si allontanò velocemente, confondendosi tra le fronde macchiate di candida neve. Leucello si voltò e spronò il cavallo piano, per farlo avanzare. Leucello si sentiva leggero e felice, ma allo stesso tempo era malinconico, nulla sarebbe stato più come prima ormai.

Nonostante questa consapevolezza sorrise e strinse le briglie, spronando il cavallo ad andare più velocemente. Il vento d'inverno gli spettinò i capelli e l'aria gli riempì i polmoni, era giunto il momento di assaporare la libertà una volta per tutte, era il momento di iniziare una nuova vita senza più impedimenti e costrizioni. Leucello avrebbe sempre portato nell'animo il ricordo di sua madre, avrebbe fatto tesoro degli insegnamenti di lei e avrebbe tenuto nel cuore anche Zenobia e i bambini, riservando un posto speciale per Omalley, tuttavia avrebbe tentato lentamente di superare la malinconia e sarebbe tornato l'artista dall'ingegno vivace che era sempre stato, aperto a nuove sfide e a numerosi tipi d'arte nel nuovo posto che avrebbe imparato a chiamare casa. Ovviamente se fosse riuscito ad arrivare dall'altra parte.

 

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Capitolo 33
*** La tenacia della ninfea ***


Pov:Selina

Il mantello le scivolò piano dalle spalle e finì a terra, rischiando di farla inciampare "Raccoglilo subito piccola maldestra incapace!" La voce di Jesebell le arrivò come uno schiaffo in pieno volto. Selina si abbassò con rapidità e raccolse il suo mantello, per legarlo di nuovo sulle spalle. La donna algida le rivolse un gelido sguardo di disappunto "A cosa serve tenerti al mio servizio se sei incapace di fare qualsiasi cosa!?" Selina chiuse gli occhi e ispirò, non era il caso di rispondere e lo sapeva bene, ma quanto era difficile! La signora faceva di tutto per esasperarla e Selina dal canto suo faceva di tutto per tacere e non farsi punire, per evitare di finire fuori e restare sola con Vrisco. "Vi chiedo perdono, signora" si affrettò a rispondere "Vi assicurò che presterò maggiore attenzione a quello che faccio" rispose, tenendo la voce bassa e il volto rivolto verso la parete.

"Non credo che ci riuscirai" rispose Jesebell convinta "Non ci sei riuscita per tutto questo tempo, perché mai dovresti cambiare proprio adesso!? La verità è che sei una buona a nulla e io non ho intenzione di sopportare oltre la tua impertinenza e tanta inettitudine". Selina si voltò piano "Dovete comprendere che tante delle mansioni che mi affidate io non le ho mai svolte in vita mia" rispose, continuando a mantenere un tono di voce basso e cortese "Allora sei del tutto inutile, come ho sempre sostenuto, una sfaccendata!" Rispose prontamente Jesebell "Come volete signora, ma non sono stata io a chiedere tutto questo, avete deciso ogni cosa voi e il signore della mia sorte". Jesebell si portò una mano al petto, rivolgendole uno sguardo indispettito "Sei assolutamente irrispettosa, sciocca ragazzina!" la accusò "Ingrata e impertinente, dovresti essere grata del gesto misericordioso di mio marito e servirci con la massima reverenza" "Se non mi trattaste come una schiava potrei essere certamente più grata e potrei esserlo anche con voi, nonostante non mi sia parso di essere scortese, ma immagino che sia una mia mancanza di attenzione" sospirò Selina, esasperata.

La donna scosse il capo con vigorosa alterigia "E perché mai dovrei farlo?" Rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo, con una tale pomposità nella voce che Selina la trovò patetica "Tu non sei come me e non ti devo alcun rispetto, oramai sei solo una povera orfanella incapace". Selina serrò la mascella e ispirò piano, tentando di restare lucida "Siete voi a essere irrispettosa nei miei confronti, non vi sembra evidente?" Mormorò piano Selina, costringendosi a restare calma. Quelle poche, banali parole però furono sufficienti per farle guadagnare uno sguardo di odio da Jesebell "Tu sei solo una maleducata, esattamente come erano le tue sorelle! È unicamente per causa dell'avventatezza e stupidità della tua sorella maggiore se voi Tenebrerus siete morti. Ma effettivamente i colpevoli sono i tuoi genitori" si corresse "A causa dei loro inutili metodi educativi siete cresciute come delle ribelli e avete ottenuto la fine che meritavate prima di trascinare in basso la rispettabilità della classe nobiliare". Jesebell la guardò negli occhi con il solito sorriso perfido e compiaciuto sul volto, in trepidante attesa di una reazione "Non osate dire una parola contro i miei genitori" mormorò Selina, avvicinandosi con pericolosa lentezza.

Jesebell proruppe in una breve risa argentina di scherno, portandosi una mano alla bocca "Altrimenti cosa potrebbe accadermi di tanto terribile?" La canzonò "Devi solo accettare la realtà, Selina: sei nata in una famiglia disastrata con due genitori incompetenti e neppure il vostro sangue nobile e secoli di gloria sono stati in grado di riparare i gravosi errori dei tuoi defunti genitori. È solo colpa della loro inettitudine se la vostra stirpe è stata estinta". Allora la donna si fermò un attimo, lei e Selina si guardavano attentamente, studiandosi con silenziosa ferocia "Sì" riprese a parlare Jesebell "Ritengo che gli dèi avessero predisposto tutto questo da tempo per salvaguardare il normale ordine delle cose" disse lentamente, senza smettere di sorridere e dalla lentezza esasperante delle sue parole Selina capì che lo faceva di proposito, per assicurarsi che ogni singola parola penetrasse con precisione nella mente della ragazzina. "Nessuno può consentire il disfacimento del normale ordine delle cose e la decadenza della classe nobiliare porterebbe a questo, all'imbarbarimento della civiltà, per questo i nostri buoni dèi attraverso le opere del nostro re e del nostro principe hanno eliminato quella feccia, covo e fonte di disonore e disordini che stava diventando la tua famiglia. Hanno veramente agito con previdenza e buonsenso sterminandoli tutti e loro hanno avuto la punizione che meritavano per i crimini commessi, perché alla fine si pagano sempre i propri errori".

Selina la guardò rigida e con i pugni serrati, sentendo gli occhi brillare di rabbioso dolore "Io desideravo che l'opera degli dèi volgesse a buon fine e per questo volevo che il principe uccidesse te e non quella feccia di ragazzina" ammise la donna con onestà, senza la minima vergogna "Ma, ahimè, per un motivo sconosciuto a me ignoto mio marito ha impedito che ti portassero via". La donna fece una breve pausa e sorrise, maligna e disgustata "Poi dicono che sono le donne ad avere un cuore debole!" affermò con un ghigno "Ma sappi che se fosse dipeso da me, avrei lasciato che prendessero sia te che quella patetica contadina, perché in fondo condividevate le medesime maniere rozze e quindi avevate esattamente lo stesso valore" mormorò Jesebell, abbassando la voce per sussurrare le sue cattiverie. La donna si fermò di nuovo, i suoi occhi freddi parvero brillare e il volto pallido si coprì di ombra, poi sporse ancora un poco il busto in avanti per essere più vicina al punto in cui stava Selina e sibilò, infierendo con un ultimo colpo "Spero che il re e il principe abbiano fatto scontare alla tua famiglia tutti i loro errori facendogli patire le sofferenze più intense prima di morire" disse con un sorriso "Forse così mai più nessuno oserà svergognare la nobiltà ricordando la loro fine. Ma se ben rammento è giunta voce che i loro corpi non sono stati gettati alle fiamme, perché non sono stati ritenuti degni di raggiungere i loro antenati con la gloria che un vero funerale conferisce. Perché quei peccatori non lo meritavano". Tutto avvenne in un attimo, ogni cosa prese a vorticare nella mente di Selina e lei vide tutto nero, come se avesse avuto la vista appannata; avanzò e si gettò sulla donna prima che quest'ultima potesse fare o dire qualcosa per fermarla. Selina le salì addosso e le strinse le mani intorno al collo pallido e lungo, stringendo con forza crescente con l'ausilio di entrambe le mani. Jesebell non aveva voluto tacere? Allora Selina l'avrebbe obbligata a tacere.

Jesebell aprì la bocca e spalancò gli occhi, annaspando "Sperate che i miei genitori abbiano sofferto prima di morire, questo sperate!?" Disse Selina sussurrando, con il volto arrossato, la voce tremante di rabbia e gli occhi lucidi "Soffrirete anche voi allora!" Selina strinse di più la presa e vide il volto della donna farsi sempre più terrorizzato, mentre la pelle si tingeva pericolosamente di rosso. Era rimasta evidentemente sconvolta da quel raptus di follia di Selina, era come se avesse perduto le forze e neppure tentava di liberarsi spaventata com'era. "Ma che stai facendo?! Hai perduto il senno!?" Era stata Romya a parlare, aveva appena fatto irruzione nella stanza e sembrava del tutto sconvolta. Le ci volle un attimo per agire, lasciò cadere il secchio che portava a terra e corse celermente, prontamente verso Selina "Fermati subito!" Strillò, cercando di togliere le dita di Selina dal collo della signora. Selina sentiva i muscoli delle braccia bruciare, non era mai stata tanto forte e con l'intervento di Romya non avrebbe resistito ancora. Lasciò che le lacrime di rabbia, dolore e delusione le rigassero le guance e alla fine decise di desistere, lasciando il collo di Jesebell. Romya la allontanò malamente, quasi spingendola via e poi si inginocchiò ai piedi della signora. Jesebell aveva le mani alla gola, gli occhi arrossati e sbarrati dal terrore "Signora" mormorò Romya "State bene?" Jesebell però la ignorò del tutto e continuò a guardare Selina che piangeva silenziosamente e si abbracciava i fianchi "Tu" balbettò la donna "Tu l'hai vista?" Disse allora, rivolgendosi finalmente a Romya "Ha tentato di uccidermi!" Strillò poi "È un'assassina!" Gridò ancora "Portala via!" continuò, con isteria "Porta lontano dalla mia vista quell'assassina!" Urlò più forte. Romya si alzò e afferrò Selina, portandola via stringendola per le spalle, trascinandola allora giù lungo le scale a tutta velocità.

Le urla di Jesebell le raggiunsero anche dal fondo delle scale, inseguendole prima di svoltare per avvicinarsi all'uscita di servizio. Selina camminava con gli occhi sbarrati, incredula di sé: aveva tentato di uccidere una persona, stava per diventare un'assassina. La sola idea di aver perso la ragione in quel modo la rese disgustata, davvero poteva diventare un mostro con tanta facilita? Davvero avrebbe consentito che le difficoltà la rendessero tanto aspra? Jesebell era stata certamente crudele con lei, ma non le aveva fatto del male fisico contrariamente a quanto aveva tentato di fare Selina, quindi da vittima stava diventando anche lei una carnefice.... Rabbrividendo Selina continuò a seguire Romya e non appena le due si furono trovare nelle stalle, subito la balia la bloccò, stringendola per le spalle da davanti per spingerla, mettendola con la schiena contro la parete "Tu hai completamente perduto il senno!" Sussurrò Romya con gli occhi spalancati "Sai questo cosa potrebbe comportare, vero!? Potrebbero farti uccidere per quello che hai fatto!" Romya la fissava allucinata, come se non l'avesse mai vista veramente prima di allora. Selina la fissò a sua volta, il suo volto era ancora rigato dalle lacrime e la mente annebbiata. "Io" balbettò allora Selina "Io non volevo". Sentì la gola secca e gli occhi spalancati di Romya la fecero sentire piccola " Ha detto di aver sperato che i miei genitori abbiano sofferto prima di morire" disse poi, tentando di accampare una giustificazione vana alla sua follia momentanea "E quindi hai pensato bene di poterla aggredire così!?" replicò subito Romya. Selina la guardò con occhi vacui "Voi non avete la minima idea di cosa significhi perdere tutto, perdere la famiglia" mormorò "Non volevo farle del male, ma ho perduto il senno a causa del dolore e delle crudeli parole che mi rivolge di continuo".

Selina era sincera, non era sua intenzione fare del male, ma l'esasperazione e il dolore l'avevano resa cieca e violenta, le avevano annebbiato del tutto la ragione. Quello era stato un modo per difendere la memoria della sua famiglia tanto ingiuriata, ma un tale gesto era valso a qualcosa a conti fatti? Romya continuò a fissarla per pochi istanti con occhi vacui, per poi tornare alla solita espressione severa e feroce "Ascoltami bene, ragazzina" iniziò "Lo so bene tutto quello che sei stata costretta a subire e che stai ancora subendo, ma non puoi rischiare così la vita, sarebbe una mancanza di rispetto alla memoria sei tuoi cari defunti". Selina scosse il capo con vigore "Vi ho detto che non volevo farlo!" ripeté con convinzione "Ma questo non è vivere, questo è arrancare, barcollare trascinandosi nella terra in condizioni misere, sperando che possa finire presto". Selina sentiva di poter avere un nuovo crollo nervoso da un momento all'altro, si sentì mancare il fiato per il timore e respirò affannosamente, riprendendo a piangere mentre Romya la fissava "Mi dite di restare viva per onorare la mia famiglia" parlò piangendo "Ma forse la cosa più onorevole che io abbia mai fatto sino a ora è stata proprio aggredire la signora, piuttosto che restare muta mentre ingiuriava contro di loro!" E dopo quelle parole scoppiò a piangere in singhiozzi.

Romya intervenne a voce bassa "Non sto dicendo che sia stato semplice o piacevole per te stare a sentirla, ma" "Io preferisco morire piuttosto che vivere in questo modo!" La sovrastò Selina, singhiozzando più forte. Era finita e lo sapeva, tanto valeva essere sincera e non lasciarsi niente dentro "Io non potevo tacere e accettare oltre! Ho tentato di trattenermi, ho obbedito e ho fatto di tutto pur di compiacere la signora, ma la verità la sapete anche voi qual è! Perché la signora mi ha sempre voluta morta e ha fatto di tutto da quando hanno portato via Belia per eliminare anche me. Ero condannata anche io fin da quando venne il principe a riferire la tragica fine della mia famiglia!" Romya scosse piano la testa "Io non so cosa ti faranno adesso" insistette "Ma sono certa che non sarà nulla di bello!" Selina chiuse gli occhi mentre le lacrime continuavano a cadere, con rassegnazione "Veramente non ti importa di poter morire?!" Sussurrò la donna con gli occhi spalancati vedendo l'espressione di Selina.

Lei allora riaprì gli occhi verdi, il contrasto con il rosso li rendeva innaturalmente brillanti, creando uno strano contrasto. Dopo aver fissato per un attimo la vecchia donna Selina pensò con lucidità: le importava di morire? Ma certo che le importava, eppure che cosa c'era per lei ancora in quella vita, quali speranze? Nessuna, si disse semplicemente, perché era la verità e non aveva senso mentire a sé stessa, quindi non vedeva alcuna motivazione per cui ostinarsi ancora dopo quello che aveva fatto per tentare di sopravvivere. Dopo aver formulato quei tristi pensieri di amara consapevolezza Selina si decise a rispondere scuotendo il capo con lentezza, ma in modo molto chiaro, inequivocabile "Quanto potrà durare il dolore?" Domandò con un fil di voce, ormai senza più piangere "Sicuramente la morte sarà più dolce di qualsiasi cosa riceverò qui. E poi" tentò di consolarsi da sola "Rivedrò la mia famiglia e la mia dolce amica Belia". Romya scosse il capo con fermezza e poi si portò le mani sul volto, reprimendo quello che a Selina parve un gemito di dolore "No!" disse la donna con voce roca "Non dire nulla di simile!" Si scoprì il volto e Selina constatò che gli occhi le brillavano "Io non permetterò che uccidano anche te" disse con fermezza la donna, pur mantenendo un tono di voce basso "Cercherò un modo per giustificare la tua follia, dirò che il dolore ti ha lacerata, conducendoti alla pazzia" "No" rispose subito Selina "Non voglio più mentire. Inoltre non temete che se tenterete di difendermi potrebbero condannare anche voi?"

Romya restò ferma, eppure il suo sguardo brillò e sul suo volto la durezza mutò in orgoglio "Provavo dell'affetto per Belia" mormorò "E pur sapendo quello che le sarebbe spettato non ho tentato di salvarla in alcun modo. Sono stata una miserabile codarda lasciando che condannassero una ragazzina innocente. Ma ho commesso questo errore una volta" decretò "Non ho intenzione di ripeterlo una seconda volta e lasciar morire anche te". Selina sorrise dolcemente, sentendo gratitudine sincera nei confronti della donna "Ma se condannassero anche voi?" insistette "Io sono vecchia" rispose Romya con fiera rassegnazione "La morte verrà a prendermi comunque tra breve tempo". Ci fu un attimo di silenzio e poi la donna riprese a parlare, sembrava fosse in vaga difficoltà a formulare il suo discorso "Ho trascorso tutta la mia esistenza lavorando duramente, tenendo sempre il capo chino per eseguire gli ordini dei miei signori" ammise, quasi con vergogna "Ho visto le ingiustizie passarmi sotto al naso e le ho sempre ignorate per continuare a vivere un'esistenza placida. Ma ho vissuto una vita senza valori" sospirò tristemente, consapevole "Solo per preservare il mio lavoro e la mia integrità ho ignorato tutto il resto. La mia è stata la vita di una miserabile serva, fedele ai padroni ma meschina con i suoi pari. Però adesso basta" disse con orgoglio "La mia vita non sarà più quella di una misera servitrice. Ho sempre pensato che una serva non potesse fare nulla per cambiare il suo destino, non fosse destinata a vivere grandi eventi, contrariamente alle nobili. Eppure Belia ha cambiato il tuo destino seppur inconsapevolmente e con la sua dolcezza ha incantato i nostri cuori. Una serva può lasciare un segno di sé e il ricordo che voglio lasciare io non è questo" affermò con convinzione, fronteggiando Selina "Hai ragione quando dici di preferire la morte a questa vita che ti hanno costretta a vivere al castello, ma la tua storia non è ancora giunta al termine! Tu devi vivere, un giorno forse avrai l'opportunità di morire con valore, perdendo la vita per difendere i tuoi ideali, ma quel momento non è ancora giunto. Io nemmeno morirò da miserabile" ripeté "E se questo dovesse servire a salvarti, io stessa sarò lieta di aver sacrificato la mia vita per la tua di fanciulla giovane e buona, proprio come ha fatto Belia".

Selina guardò la donna, seriamente colpita da quelle parole e pensò che l'onore e il coraggio non fossero preclusi ai cavalieri, ma che fossero virtù raggiungibili da chiunque fosse volenteroso di fare del bene, come si stava prefissando allora di fare Romya, una vecchia serva. "Siete seria?" Domandò con incredulità Selina "Ma certo" rispose Romya a voce bassa e il suo sguardo era fermo "Ho colmato la mia vita di valori inutili e di lavoro, non continuerò così". Le due si guardarono e con naturalezza si strinsero in un delicato abbraccio un po' imbarazzato "Grazie veramente, Romya" disse Selina guardandola negli occhi. Prima che Romya potesse rispondere però Vrisco entrò nella stalla e si avvicinò a loro velocemente "Cosa hai fatto Selina?" Domandò confuso e agitato "Hai veramente aggredito la signora!?" Selina annuì lievemente in risposta e l'uomo corrugò le sopracciglia "Perché lo hai fatto?" Domandò ancora il soldato "Perché se lo meritava" mormorò piano Selina "Ha insultato i miei genitori, augurandosi che fossero morti soffrendo e io non sono riuscita a trattenermi oltre".

Vrisco contrariamente a quanto sarebbe stato logico fare le sorrise e poi si avvicinò ancora di più, fino a stringerle le mani "Hai fatto ciò che era giusto!" Esclamò, fuori di sé per l'entusiasmo "Sembri solamente belle e delicata, ma io l'ho compreso sin da subito quanto il tuo animo sia nobile, coraggioso e fiero. Sei una donna diversa dalle altre!" Vrisco si fermò a guardarla e poi sorrise di nuovo, mentre Selina sbarrò un poco gli occhi, come poteva fare l'altro a considerarla già una donna? "Ma non devi temere" continuò con sicurezza "Perché io non permetterò che ti accada nulla!" Disse ancora "Dovranno passare sul mio cadavere per farti del male, perché finché io sarò in vita tu non morirai Selina, te lo giuro sugli dèi!" Selina si costrinse a un sorriso forzato e si sottrasse alla presa dell'uomo per guardare Romya, era chiaro che alla donna quell'ulteriore problema non piacesse per niente. Gli occhi di Vrisco si spalancarono pericolosamente quando Selina si fu sottratta alla sua presa, cosa di certo non nuova, ma non per questo meno preoccupante.

In quel momento arrivò il generale dell'esercito dei Malkoly, aveva la visiera alzata e fissava Selina con uno sguardo truce "Tu verrai con me per ordine del signore e della signora" disse con la voce fredda e imperiosa "Non è prudente portarla dai signori" si intromise Romya "La ragazzina sta male, potrebbe addirittura rimettere" "Lo credo bene dopo quello che ha fatto" rispose conciso e sarcastico l'uomo "Forse è meglio che io venga con voi" tentò Romya. L'uomo la fissò con disprezzo, parlando poi con calma "E cosa vorresti fare tu, vecchia!?" la canzonò, avanzando per afferrare Selina. Romya però le si parò davanti e continuò a sostenere lo sguardo dell'uomo "Se dovesse sentirsi male potrei soccorrerla oppure pulire" replicò Romya "Inoltre se i suoi nervi dovessero avere un nuovo crollo potrei calmarla come ho già fatto, perché sono l'unica in grado di farle recuperare il senno". L'uomo la soppesò con freddezza "Non sono queste le disposizioni che mi sono state date" ribadì fermamente.

"Non vorrei contraddirvi generale" intervenne poi Vrisco "Ma soppesando la situazione riterrei che per salvaguardare la sicurezza della signora la cosa migliore sia lasciare che la balia vada con lei. Ovviamente io sarò lieto di seguirvi". Il generale si voltò appena, tenendo gli occhi fissi sul suo sottoposto "Faresti meglio a tacere tu" lo rimproverò aspramente "Adesso siate rapide e non mancate di rispetto ai signori più di quanto già non abbiate osato fare, oppure sarò costretto a portarvi di peso". Romya si illuminò "Significa che acconsentite affinché io segua la ragazzina?" L'uomo sbuffò "Solo per placare l'animo di questa bestia nel corpo di fanciulla se dovesse essercene bisogno, ma sappi che non sarà tollerata una parola da parte tua, balia". Romya annuì con convinzione e prese Selina sotto braccio, per portarla dentro casa. Vrisco tentò di seguirle ma l'altro gli si però davanti, impedendogli di passare "Cosa ti ho appena detto?" Sussurrò a voce bassa e con tutto il disprezzo di cui fu capace, con durezza.

Selina si voltò e vide gli occhi di Vrisco farsi scuri, tuttavia l'uomo annuì e rimase fermo, guardando Selina allontanarsi insieme a Romya e al generale. L'uomo le raggiunse rapidamente, si avvicinò a Selina e le strinse forte una spalla, obbligandola ad andare più veloce. Svoltarono dopo la porta di ingresso e poi entrarono in uno dei salotti più grandi. Nella stanza c'erano diversi domestici disposte in una fila ordinata vicino alla parete che la guardarono con ostilità e incredulità, c'erano poi altri due soldati che sostavano ai lati dei signori; Alarus era in piedi e la fissava rigido e impassibile come una statua di dura pietra, Luddan era appena dietro al padre e dopo averla vista abbassò subito gli occhi e poi ovviamente al centro c'era la donna. Jesebell era seduta sul divanetto più grande, aveva delle pezze bianche sul collo e diversamente dal solito era mollemente poggiata allo schienale, con un ventaglio e lo sguardo perfido abilmente celato da falso timore.

Quando vide Selina prima sorrise impercettibilmente, vittoriosa, e poi si portò una mano alla fronte "Ti prego, Alarus!" Disse disperata "Non voglio più vedere questa assassina! Perché mi torturi in modo così sadico costringendomi alla sua vista? Desideri forse la prematura dipartita della tua sposa!?" Alarus guardò freddamente la donna, imponendole di tacere con un gesto vagamente sgarbato e poi tornò a guardare Selina. "Selina Tenebrerus" scandì lentamente e chiaramente, con voce fredda e in tono grave "Secondo la mia opinione integerrima io ritengo che non possano esistere parole o giustificazioni adeguate per tentare di sminuire la gravità del tuo gesto, il tuo crimine folle" continuò "Noi ti abbiamo accolta diversi mesi fa, ti abbiamo trattata come una figlia e nel momento del bisogno ti abbiamo salvato la vita e dato un impiego che ti garantisse un sostentamento. E tu come hai ripagato il nostro nobile gesto?" Domandò sdegnato "Tentando di uccidere barbaramente la tua signora? Sei una bestia pericolosa, non una persona, tantomeno una fanciulla di nobili natali".

Jesebell annuì "È un mostro!" Esclamò, tossendo e portandosi una mano al collo "Io stessa l'ho trattata come una figlia, le ho offerto un posto di servizio vicino a me per consentirle di restare al caldo, senza dover patire ancora dopo la tragedia che già l'aveva colpita. Oh, se solo tutti voi aveste potuto vedere con quale odio mi guardava prima!" Disse melodrammatica, portandosi una mano sul petto "Sembrava avesse il male negli occhi, sembrava fosse la morte in persona! Oh, povera me! Come farò adesso a continuare la mia vita? Come potrò chiudere gli occhi senza temere di non riaprirli mai più, o peggio ancora, temendo di trovare il suo volto maligno davanti al mio, pronto a togliermi la vita?!" Selina la guardò con impassibilità e il suo sguardo di certo non sfuggì "Con quale superbia osi guardare noi dopo il crimine che hai tentato di compiere!?" La apostrofò Alarus con gli occhi ridotti a fessure "Mi sarà dato modo di fornire la mia versione dei fatti e una spiegazione per la mia reazione violenta oppure mi condannerete senza fornirmi questa opportunità?"

Alarus continuò a fissarla con freddo disprezzo "Nessuna spiegazione sarebbe in grado di giustifica una tale follia" rispose lui "Ma meritate di sapere quello che ho patito nel mio animo" mormorò Selina sofferente "Questa donna che voi chiamate moglie ha ingiuriato contro la mia defunta famiglia, sottolineando di aver sperato che i miei genitori siano morti tra le sofferenze!" Alarus non mutò espressione neppure sentendo quelle parole e in realtà Selina non disse quelle cose per farle sapere a lui, immaginava che dovesse già sapere, o comunque non gli importasse, il reale motivo per cui Selina disse ciò fu che desiderava che tutta la servitù e Luddan comprendessero la reale perfidia di Jesebell. "Non è di mio interesse ciò che hai da dire, le tue misere menzogne" disse incolore Alarus "Noi ti abbiamo offerto tutto e tu hai sempre ricambiato i nostri gesti con l'ingratitudine". Selina strinse i pugni "Io non vi ho mai chiesto niente!" Sbottò, guardando l'uomo in volto con gli occhi che brillavano "Continuate a ripetere di aver fatto tanto per me e dite che dovrei esservi grata, ma la verità è che io non vi ho chiesto di fare niente per aiutarmi e il modo in cui mi avete trattata sicuramente dimostra quanto vi sia sempre importato poco di me e della mia famiglia e che l'unico motivo per cui avete consegnato Belia al mio posto è che considerate una nobile superiore a una popolana".

Selina restò in silenzio a guardarli, sentiva il fiato mancarle e le lacrime continuavano a bruciarle negli occhi, ma non sarebbero cadute ancora, non avrebbe dato a quella gente anche quella soddisfazione. Poiché il silenzio persisteva Selina pensò di poter dire altro, ma non tanto per lei, quanto per onorare la memoria della sua amica "La verità è che il valore della povera gente come Belia è molto maggiore del vostro" disse "Trascorrete tutto il giorno nel vostro castello, avvolti da un alone di superiorità, senza mai rivolgere una parola gentile a nessuno. Guardate tutti dall'alto in basso come se foste figli degli dèi, disprezzando ricchi e poveri. I vostri cuori sono aridi e le vostre anime buie. Di nobile non avete altro che il titolo".

Alarus scosse la testa e sul volto di Jesebell balenò un fugace sorriso soddisfatto, sapendo che la ragazzina aveva definitivamente firmato la sua condanna a morte con quelle parole "Tu non meriti di vivere" scandì Alarus, continuando a fissare Selina freddamente "Io ho rischiato davanti al principe per proteggerti. Ma rimedierò seduta stante al mio errore" scandì chiaramente "Manderò una lettera al principe Drovan e gli spiegherò ogni cosa: di come tu fossi fuggita e di come noi ti abbiamo ripresa. Sono sicuro che il principe saprà perdonarmi quando gli mostrerò il sincero timore che mi spinse mentre ti cercavamo a consegnargli un'altra al tuo posto pur di non deludere le sue aspettative. Certamente con parole diplomatiche saprà comprendere e poi spetterà a lui decidere la tua sorte. Adesso portatela in una cella, non ho intenzione di vederla oltre tra le mura del mio castello!" Disse l'uomo, con la consueta sprezzante freddezza "La porterete tutti i giorni qui in catene, prima dei pasti affinché possiamo controllare le sue condizioni. Non voglio che il principe la trovi in condizioni miserabili finché starà sotto la nostra tutela, nonostante sia prigioniera. Mettete una guardia fuori dalla cella e assicuratevi che resti viva, deve essere il principe o chi ordinerà il re a ucciderla!" disse chiaramente. Fu così che le guardie le sì avvicinarono per ammanettarla, rendendola in tutto una vera prigioniera. Selina sentì il metallo stringerle la pelle delicata ma non disse nulla, si limitò a tenere il capo chino. Era ben consapevole che quelle sarebbero state le conseguenze delle sue azioni, almeno trovò una misera consolazione pensando di aver detto tutto quello che pensava, o quasi.

Si voltò per guardare quello che un tempo era stato il ragazzo di cui era innamorata, Luddan guardava altrove ed era pallido più del solito, ma aveva un'espressione strana sul volto. Selina guardandolo ebbe l'impressione che Luddan fosse sul punto di rimettere, guardava fermamente da una parte e sembrava assorto, indeciso, quando Jesebell lo chiamò a sé e lui si voltò. Vedendo ciò Selina sentì qualcosa rompersi dentro di lei "Come puoi acconsentire a tutto questo?" domandò piano, con voce affranta. Tutti si voltarono verso di lei e quando Luddan capì che si rivolgeva a lui si irrigidì ancora di più. "Non osare rivolgere mai più la parola a mio figlio!" disse Jesebell con ostilità "Lascia stare mio figlio, bestia!" Selina però la ignorò e continuò a guardare Luddan negli occhi, adesso lui la guardava in volto a sua volta ed era pallidissimo "Non hai vergogna, Luddan?" "Di cosa dovrebbe avere vergogna? Lui non è un criminale come sei tu, maledetta!" ruggì Alarus "Io ero innamorata di te" ammise Selina e sentì rancore dicendo quelle parole, ma verso sé stessa perché sentiva che una parte di lei era ancora innamorata "Pensavo che tu fossi straordinario, nonostante le brutte opinioni che le mie sorelle avevano di te io ti ho sempre difeso perché vedevo le parti migliori del tuo animo, accecata com'è dall'amore".

Selina si fermò un attimo, aveva la gola secca e Luddan aveva schiuso le sue labbra, ma sembrava ancora fosse sul punto di svenire. Selina sospirò e continuò a parlare con amarezza "Ma adesso ho visto chiaramente chi sei" decretò con delusione "Sei solo un ragazzino viziato e arrogante, a cui interessa solo di sé stesso e della classe sociale a cui appartiene. Sei un Malkoly in tutto e per tutto". Selina chinò il capo "E' deludente sapere di aver amato un'illusione, perché nel tuo animo non ci sono coraggio e neppure bontà o fierezza, solamente superbia e ipocrisia". "Ora basta!" tuonò Alarus con gravità "Portatela via, non accetterò altri insulti da parte sua né nei miei riguardi e tantomeno a nessun altro membro della mia nobile, rispettabile famiglia!" I soldati la presero per le spalle e Selina sentendo la loro stretta violenta provò un vuoto allo stomaco che la portò automaticamente a tentare di divincolarsi "Lasciatemi!" si lamentò "Non c'è bisogno che mi facciate male, so andare da sola" e i soldati la lasciarono, mettendosi uno davanti e uno dietro per scortarla. Selina si voltò per guardare un'ultima volta i Malkoly con risentimento, tornando a incrociare lo sguardo di Luddan: era fermo e le sembrò di vedere negli occhi lucidi di lui qualcosa di diverso, come se fosse uscito da una trance a avesse ripreso conoscenza di sé "Tutti prima o poi sono costretti a scontare i propri errori" disse loro "E un giorno verrà anche il vostro momento" disse incolore, poi si lasciò scortare nelle celle.

Selina vide Romya rimanere nella stanza mentre usciva, probabilmente la donna stava tentando di intercedere per lei, tentava di migliorare la sua situazione ormai irrisolvibile. Purtroppo Selina non poté sentire, i soldati la costrinsero ad andare velocemente, spazientiti, e la spinsero fuori dall'ingresso di servizio, portandola fino alle celle. I contadini che incontrarono attraversando il breve percorso la guardavano malamente e lei proprio non comprese il motivo di tanto astio, come facevano ad amare i signori? I soldati aprirono una cella e la spinsero dentro senza troppe cerimonie nonostante Selina si fosse mostrata collaborativa con loro, facendola finire a terra. Selina si mise a sedere con fatica a causa delle manette e guardò i soldati dalle sbarre, gli uomini chiusero la cella e la guardarono con disprezzo.

Subito dopo Alarus comparve inaspettatamente dalla porta d'ingresso, seguito da Romya "Voglio che uno di voi resti qui a sorvegliarla costantemente, non permetteremo che la prigioniera fugga adeso che il principe sarà avvisato". Uno dei soldati si mise subito di guardia, obbedendo al suo signore con lodevole zelo "Non far passare nessuno" precisò l'uomo "Adesso mi rivolgo a te, balia" disse Alarus rivolgendosi a Romya "Sei stata al servizio della mia famiglia per tutta la vita e quindi spero che la tua fedeltà continui a essere rivolta a me, ma se strane idee dovessero essersi insinuate nella tua mente voglio essere esaustivo: se dovessi osare aiutare questa ragazzina non avrò la minima pietà di te, non avrà importanza quanto tempo avrai trascorso al mio servizio, dimostrando fedeltà cieca. Giuro sugli dèi e sui miei avi che se tenterai di farla evadere io ti farò giustiziare per alto tradimento. Sono stato sufficientemente esplicativo, Romya?" Selina vide la donna annuire con rigida impassibilità, non sembrava per niente confusa dalle parole del suo signore "Lei è autorizzata a portare da mangiare e dell'acqua per lavarsi e a svuotare il catino della prigioniera" disse Alarus tornando a parlare col soldato "Ma quando verrà tu la chiuderai nella cella con la prigioniera e resterai di guardia. Sono stato sufficientemente chiaro?" L'uomo annuì "Entra e sii celere, falla mangiare, poi esci e non tornare fino a domani mattina".

Romya annuì nuovamente, guardarono poi Alarus allontanarsi "Entra" disse malamente il soldato e Romya subito entrò con il piatto di zuppa che dalle cucine una donna le stava porgendo tra le mani. Si abbassò piano, accovacciandosi mentre il soldato di guardia chiudeva la cella "Vi tengo d'occhio!" disse loro il soldato minaccioso, per poi girarsi sospettoso. Romya si avvicinò con il cucchiaio, facendolo tremare un poco "Mangia" sussurrò, vedendo che il soldato la guardava "Ti prometto che troverò un modo per farti uscire di qui" mormorò velocemente. Selina scosse piano la testa prima di mangiare "Non credo che sia possibile ormai" ammise, sempre a voce bassa, mentre masticava "Ma sta tranquilla, se così deve andare affronterò la morte. Ma ti prego" aggiunse, ripensando a Belia "So che quello che hai detto prima lo pensavi, ma non voglio che tu muoia per una missione impossibile come questa di tirarmi fuori di qui".

Romya la imboccò e il suo sguardo restò fermo "Io voglio aiutarti" sussurrò "Aiutami non facendoti uccidere. E prenditi cura di me, come se fossi anche Belia". Romya lasciò che una lacrima le rigasse il viso, era una lacrima di consapevolezza, ma la sua espressione dura non mutò. La nobiltà e il coraggio dell'animo non erano in grado di risolvevano i problemi e quello era decisamente un problema complesso, una situazione da cui difficilmente poter uscire indenne. Selina in quel momento comprese veramente che sarebbe dovuta morire e le lacrime rigarono il suo volto senza che potesse fare nulla per fermarle. Ma nonostante il timore e la disperazione fu allora che decise che avrebbe passato quell'ultimo periodo trovando il coraggio per morire, per farlo nel modo più onorevole possibile, per rendere fieri i suoi genitori un'ultima volta prima di rivederli e rendere una fine dignitosa all'estinta famiglia dei Tenebrerus.

 

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Capitolo 34
*** La confessione del signore ***


Pov:Damian

I piccoli coccodrilli occupavano quasi tutta la giornata di Damian ormai, ma non perché avessero bisogno di chissà quali cure, semplicemente perché erano sempre nei suoi pensieri. Damian aveva sempre adorato passare davanti al recinto e guardare i suoi amici, ma da quando erano nati i piccoli lo trovava ancora più invogliante. Skiza era sempre in allerta per i suoi piccoli, restava a guardarli e se gli altri si avvicinavano troppo scattava sull'attenti. Fortunatamente gli altri sembravano aver compreso che la cosa migliore da fare era lasciar stare i piccoli e continuare la loro vita come se niente fosse. Contrariamente a quello che pensava la padroncina Dasha, Damian pensava che i cuccioli fossero adorabili, nonostante l'aspetto inquietante per lui erano dei cuccioli teneri come quelli di un qualsiasi altro animale.

Ovviamente la presenza dei piccoli non consentiva a Damian di lavorare di meno, il suo lavoro doveva continuare in modo duro e assiduo, senza mutamenti e interruzioni. Damian tuttavia trovò un certo miglioramento delle sue condizioni e di quelle di tutti gli altri lavoranti del castello a essere sincero nell'ultimo periodo di tempo. Un chiaro esempio degli strani mutamenti che stavano avvenendo ultimamente erano i pentoloni di zuppa di pesce che erano stati offerti a tutta la povera gente che lavorava al castello la sera prima. Damian era rimasto a dir poco interdetto quando un uomo lo aveva fatto avvicinare e gli aveva porto frettolosamente una ciotola di zuppa dicendo che era un ringraziamento dei padroni per il buon lavoro che tutti si impegnavano a svolgere per loro. Dall'espressione felice ma sospettosa dell'uomo si capiva chiaramente che anche per lui quella storia aveva qualcosa di misterioso, ma al momento non ci avrebbe pensato e si sarebbe goduto la zuppa senza fare domande, così Damian aveva deciso di fare altrettanto.

Lui si era messo a sedere su un barile ed era rimasto per qualche minuto a fissare la zuppa fumante, lasciando che le mani si scaldassero in quella sera ancora fredda di vigesio, il mese più freddo insieme all'appena trascorso ahrimo. Che i padroni avessero deciso di avvelenarlo? Alla fine Damian aveva deciso di mangiare, non era nulla di così eccezionale ma gli aveva riempito la pancia e scaldato lo stomaco e Damian non ricordava neppure quando era stata l'ultima volta che aveva mangiato qualcosa di caldo che non avesse un cattivo sapore. Ma Damian era certo che i padroni, che Pontroius, non potesse avere avuto una simile idea, le gentilezze, soprattutto la gratitudine, non erano qualità che gli erano mai appartenute e Damian dubitava fortemente che tutto d'un tratto il padrone fosse diventato tanto misericordioso e caritatevole. In realtà Damian aveva il forte sospetto di sapere chi fosse stato il vero artefice, colui che aveva avuto quell'idea. Da quando era arriva d'altronde, da neppure due mesi a questa parte le cose erano migliorate al castello di Aspergo, l'umore era migliorato, quando lui passava tutti sembravano ritrovare il buon umore e sui loro volti quando lui li salutava con garbo sbocciavano sorrisi sorpresi, come i boccioli alle prime luci dell'alba di primavera dopo un lungo, gelido inverno. Teurum era veramente un ragazzo strano secondo Damian, oltre al fatto che sembrava fosse comparso dal nulla e avesse intorno a sé un alone di mistero, era sempre gentile e imperturbabile con tutti e aveva un'ottima influenza sui padroni.

Teurum sembrava proprio un nobile, era aggraziato nel portamento, portava gli abiti più raffinati alla perfezione e inoltre era incredibilmente attraente e affascinante, educato, sicuramente possedeva tante caratteristiche che avevano stregato i padroni e in particolare la padroncina Dasha. Damian era molto incuriosito dal loro ospite, non sapeva nulla sul passato di lui e da quel che aveva compreso Teurum non aveva parlato di ciò neppure con i signori e non sembrava minimamente intenzionato a parlarne. Inizialmente Damian era stato guardingo riguardo alla presunta gentilezza di Teurum, aveva temuto che fosse solo un trucco, proprio come lo era per Pontroius, ma ormai Damian aveva cambiato idea, vedeva tutti i giorni Teurum comportarsi nello stesso modo gentile ed educato ed era convito del fatto che un uomo non potesse celare tanto a lungo il suo vero animo senza commettere il minimo errore, non era possibile una tale bravura nell'arte della finzione, per questo motivo Damian era giunto alla conclusione che quella doveva essere la vera natura di Teurum.

Sperava che alla fine quel distinto gentiluomo avrebbe sposato veramente Dasha, magari così alla morte dei padroni Teurum lo avrebbe trattato meglio di come lo trattava Pontroius. Damian però aveva paura di quei pensieri, aveva trascorso tutta la sua vita obbedendo a capo chino, senza neppure provare ad alzare il capo, troppo rassegnato e piegato dalle ingiustizie. Si sentiva un albero cresciuto storto, l'unico sentimento che riempiva il suo cuore era sempre stata la rassegnazione e adesso aveva paura di quel germogliante senso di speranza che gli si stava instillando nel petto, non voleva illudersi senza motivo, non avrebbe sopportato anche una delusione, eppure i gesti di Teurum gli colmavano giorno dopo giorno l'animo di speranza crescente. Quella mattina Damian stava portando la legna dentro alla stalla mentre indugiava sui suoi pensieri, aveva male da ogni parte e trovava questa cosa incredibile: com'era possibile che dopo tanti anni di duro lavoro il suo corpo ancora non fosse abituato alla fatica?

Era la sfortuna pensava lui, Damian era nato sfortunato e rassegnato e sarebbe morto così. Non avrebbe mai incontrato nessuno che lo avrebbe amato veramente, avrebbe guardato da lontano gli altri costruirsi una famiglia mentre lui invecchiava nella stalla, tra i coccodrilli e i lavori forzati, finché un giorno il suo corpo avrebbe finalmente ceduto e lui sarebbe sprofondato nella pace eterna, o almeno sperava che dopo la morte ci fosse la pace eterna. Alcune volte gli ricapitava di pensare alla sua famiglia, Damian si domandava se quando sarebbe morto avrebbe mai conosciuti i suoi genitori. Chissà che aspetto avevano, oppure quali erano i loro nomi. Chissà cosa gli era accaduto, magari lo avevano abbandonato dagli Hardex perché non lo volevano, la cosa non lo avrebbe certamente sorpreso. A Damian però sarebbe piaciuto sapere cos'era un abbraccio prima di morire, peccato che probabilmente nessuno avrebbe mai esaudito il suo desiderio.

Damian sospirò e si decise a continuare il lavoro senza pensare ad altre sciocchezze, l'arrivo di Teurum di certo non lo sollevava dallo svolgimento dei suoi duri lavori. Continuò a spostare legna per una buona mezz'ora, i muscoli sudati rabbrividivano tutte le volte che incontravano l'aria fredda che c'era fuori e Damian notò mentre continuava a sgobbare che proprio Teurum era uscito insieme a diversi uomini. Damian restò un attimo fermo a guardarlo da lontano, notando che non era elegante come al solito ma non fu complesso comprendere il perché: portava un fodero attaccato alla vita e si vedeva chiaramente il manico di una spada. Damian notò anche che gli altri uomini che erano con lui erano vestiti in maniera analoga e tutti portavano delle armi, probabilmente Teurum andava ad allenarsi. Damian si riscosse velocemente e riprese a lavorare, dopo aver finito con la legna passò al fieno, decisamente più leggero e meno faticoso da trasportare, poi diede velocemente da mangiare ai cavalli prima di andare alla diga a prendere dell'acqua per far abbeverare i cavalli. Quella mattina fortunatamente non faceva più così freddo ma i suoi abiti erano talmente leggeri che solo durante l'estate Damian non sentiva veramente freddo. Si mise in ginocchio e riempì i due secchi, ma lo fece lentamente, perché oltre il fiume imprigionato dalla diga c'era Teurum che si allenava.

Damian non era mai stato interessato alla guerra e alla violenza in generale, aveva patito troppe sofferenze sulla pelle per essere desideroso di fare del male o di vedere gli altri farsene, eppure un allenamento innocuo lo incuriosiva. Non ne aveva mai visto uno perché il padrone non era più tanto giovane e Damian aveva sentito dire che Pontroius era stato pessimo nell'arte della guerra. A Damian non era parso tanto strano, infatti per fare del male non era sufficiente desiderare farne, era necessario essere agili e allenati per essere in grado di duellare e Pontroius aveva sempre avuto un fisico sin troppo esile, inadatto allo scontro fisico. Damian quindi restò fermo con i secchi nell'acqua fredda e osservò Teurum in mezzo alla radura. C'erano quattro uomini intorno a lui e si muovevano contemporaneamente. Teurum brandiva due spade, una per ogni mano e Damian restò sorpreso dalla sua agilità. Teurum si alzava e si abbassava rapidamente, la sua lama destra crosciò con quella dell'avversario che aveva davanti a sé, mentre quella sinistra parò di lato. Lo attaccavano da ogni lato, spostandosi velocemente e gridando, Teurum al contrario era celere e silenzioso e Damian si stupì di come riuscisse a risultare elegante persino in un duello.

Improvvisamente uno degli uomini avanzò in affondo e gridò talmente forte che molti si voltarono a guardare. Teurum non parve affatto spaventato o sorpreso, incrociò la lama con l'avversario e con una serie di abili mosse lo costrinse a indietreggiare. Era uno spettacolo guardarlo combattere, Damian era rimasto rapito ma si rese presto conto di non essere stato il solo a restare catturato da quel singolare spettacolo, infatti molti avevano interrotto il lavoro che svolgevano e si erano avvicinati a Teurum per guardare meglio. Damian pensò a come dovesse sentirsi in imbarazzo quell'uomo, sicuramente lui si sarebbe sentito in soggezione osservato da tanta gente, tuttavia guardando con più attenzione Damian capì che Teurum non doveva ritenerlo un problema perché continuò il suo allenamento come se nulla fosse accaduto. Damian si alzò e portò dentro i secchi, tornando nella sua stalla.

Fuori dal castello era come sempre pieno di persone, i contadini, i pescatori e tutti gli altri si affaccendavano avanti e indietro, senza mai degnarsi di salutarlo, anche se qualcuno ogni tanto gli sorrideva di sfuggita, ma molti di loro andarono unendosi a quelli che si erano già avvicinati a Teurum, creando una folla sempre più folta. Damian distolse lo sguardo e tornò ai suoi pensieri, imponendosi di non distarsi oltre rimembrando cosa gli fosse accaduto l'ultima volta che aveva osato distrarsi. Si era sempre domandato perché anche quelle persone così vicine alla sua condizione erano tanto fredde con lui, ma con il tempo Damian aveva smesso di porsi anche quell'interrogativo, d'altronde la sua filosofia era la rassegnazione. Versò l'acqua nell'abbeveratoio, vuotando i secchi con attenzione e sentì degli applausi provenire dall'esterno. Si affaccendò ancora per sistemare la stalla, spostando sacchi e attrezzi per quasi mezz'ora e la folla non si disperse durante tutto quel tempo. Dopo aver quasi terminato di sistemare la stalla Damian si concesse di rallentare, avvicinandosi ai cavalli con aria assorta, infatti adesso le persone si stavano allontanando e Damain si domandò il perché, immaginando che Teurum dovesse aver concluso il suo allenamento giornaliero, e allora voltò il capo e diede definitivamente le spalle al cortile. Anche i cavalli gli piacevano, spesso infatti Damian dispensava carezze amorevoli anche a loro nonostante avesse una chiara predilezione per i coccodrilli, i suoi più cari amici.

"Mangiate e bevete belli" sussurrò, mentre carezzava il cavallo bianco di Teurum "Vi ho portato fieno e acqua fresca" "Che cavalli fortunati" Damian si voltò di scatto, riconoscendo la voce di Teurum. L'uomo dagli occhi di ghiaccio infatti era proprio lì dietro, bello ed elegante nonostante fosse un poco trafelato a causa dell'allenamento e avesse i capelli nerissimi un poco scomposti rispetto al solito. Damian restò un istante a guardarlo, quasi pensando che fosse una visione, ma non appena ebbe guardato in volto Teurum, quello gli sorrise "Non penso che ci siano molti stallieri premurosi come sei tu" continuò il nuovo arrivato, sorridendogli benevolo. Damian abbozzò un sorrisino timido, chinando gli occhi "Non sono lo stalliere, padrone" spiegò "Ma lo faccio ugualmente con piacere, è il mio compito" minimizzò "E sono certo che tanti altri fanno quello che faccio io molto meglio".

Teurum annuì appena "Eppure sono certo che nessuno sia premuroso e gentile con loro come sei tu". Damian rimase un po' spiazzato da quelle parole, da quei complimenti, proprio perché non era mai stato abituato a riceverne "Io penso che questi animali sentano il calore e l'affetto sinceri che gli dimostri" continuò Teurum, carezzando il muso del suo cavallo per poi tornare a guardare Damian "Credo che siano troppe le persone che considerano gli animali solo bestie, ma io ritengo che in loro ci sia molto di più di quello che appare... e sono certo che tu lo sappia meglio di me". Teurum guardò oltre le spalle di Damian, verso il recinto dei coccodrilli.

Damian annuì nuovamente e abbassò gli occhi "Tu non parli molto, non è vero Damian?" disse ancora Teurum "No, padrone" rispose lui a voce bassa "Mi è stato insegnato qual è il mio posto, la mia opinione non conta nulla e non devo esprimerla, mi si chiede solo di lavorare e per lavorare non c'è bisogno di parlare molto". Damian subito si pentì di aver detto tali parole, ma ormai era troppo tardi, così abbassò la testa come di consueto e tornò a tacere. "Eppure a me piacerebbe conoscere la tua opinione" le parole di Teurum accompagnate da una leggera stretta sulla spalla gli fecero rialzare la testa "Tutti hanno un opinione" continuò l'uomo, fissandolo dagli occhi bellissimi e intensamente azzurri "Non è un crimine avere un'opinione Damian, neanche per te".

Damian però non era tanto certo che le parole di Teurum fossero vere, almeno vere per lui che era uno schiavo "Scusate ma io non credo di dover avere un'opinione, il padrone Pontroius" "Esatto!" lo interruppe bruscamente Teurum "Il padrone Pontroius. Io ti sembro il padrone Pontroius?" Damian era seriamente spaesato, non sapeva proprio cosa dire, e se quell'uomo avesse voluto solo ingannarlo per riferirlo poi a Pontroius? Se quella fosse stata una prova di fedeltà? "Damian, non avere timore di me" lo rassicurò gentilmente Teurum "Non ho la minima intenzione di riferire quello che mi dirai a Pontroius. Ovviamente ammesso e non concesso che tu mi dirai qualcosa".

Il ragazzo rimase in silenzio, ma come aveva fatto? Che Teurum sapesse leggere nella mente? No, non era possibile leggere nella mente delle persone, almeno per quello che sapeva Damian "Siete molto bravo a combattere" tentò di divagare Damian. Teurum lo fissò e scosse il capo, scostandosi il ciuffo che gli era caduto davanti agli occhi "Ti ringrazio ma ti pregherei di non divagare" rispose. Il ragazzo allora tornò a tacere "Damian, ti prego di dimmi qualcosa" continuò a insistere Teurum. "Perché?" domandò sinceramente Damian "Perché che cosa?" rispose subito l'altro "Perché vi interessa tanto sapere che cosa penso io? Sono solo uno schiavo che non sa niente del mondo, a cosa potrebbero mai servire le mie parole?" Teurum sorrise nuovamente "E questo forse ti rende meno umano di me?" I due si fronteggiarono in silenzio "Te lo dico con sincerità, Damian" riprese a parlare Teurum "Il tuo valore è pari al mio" "Oh no, padrone" disse subito Damian, scuotendo energicamente la testa "Io non potrei mai valere quanto voi, voi siete un signore mentre io solo uno schiavo! Voi siete eccezionale, il modo in cui avete duellato con tutti quegli uomini prima è stato incredibile. Io mai sarei in grado di fare una cosa del genere".

Teurum sorrise dolcemente "Sono assolutamente certo che in te ci sia molto più di quello che appare" disse con convinzione "Non è possibili amare tanto gli animali ed essere una persona senza valore. E io vedo con quale amore ti prendi cura di tutti questi animali, di come ti fai obbedire da loro, del modo in cui ti guardano. Sai, chi riesce a controllare così animali notoriamente feroci come i coccodrilli sono certo che sarebbe in grado di fare meraviglie tra gli uomini". Teurum tacque e poi il suo sorriso si allargò "E torno a ringraziarti per le gentili parole che mi hai rivolto riguardo al mio allenamento di poco fa" disse "Ho notato che molte delle persone che erano intente a lavorare si sono avvicinate e sono state veramente adorabili. Mi dispiace solamente di averli distratti, Pontroius è uscito proprio quando stavo terminando l'allenamento e ha sgridato quella povera gente. Ovviamente io mi sono subito prodigato per discolparli, erano solamente curiosi, ma purtroppo questa volta non c'è stato modo di far desistere il signore" sospirò Teurum, deluso del suo fallimento.

Damian lo guardò con la bocca spalancata, seriamente colpito da quelle parole e dal gesto che aveva fatto Teurum per tentare di discolpare la gente curiosa, ma nonostante questo il ragazzo si sentiva ancora guardingo "Con gli animali è diverso" balbettò con fare incerto "Che cosa intendi dire?" "Quando un animale viene trattato bene se lo ricorda per tutta la vita. Molte persone invece non ricordano o semplicemente non gli importa di ricordare". Teurum chinò un poco il capo di lato, assottigliando un po' gli occhi e continuando a sorridere in modo enigmatico "Quindi per te gli animali sono meglio delle persone, giusto?" Damian annuì piano, nonostante fosse certo che non tutte le persone fossero così, ma purtroppo quelle che lui aveva avuto la sfortuna di conoscere erano malvagie "Sai" continuò Teurum imperterrito "Avevo un'amica che la pensava come te". Damian lo guardò colpito "Dite sul serio?" "Oh, sì" confermò Teurum "Amava tutti i tipi di animali ed era riuscita ad avvicinare una creatura magica".

Damain lo guardò rapito "E com'è andata a finire?" domandò, curioso "Purtroppo è morta" disse Teurum tristemente "Mi dispiace" rispose Damian, doveva aspettarsi un finale tragico "Purtroppo non sono stato in grado di aiutarla. Era una ragazza molto coraggiosa e furba, ma non è bastato. Purtroppo quando la fortuna ti volta le spalle e la sfortuna si abbatte su di te non puoi fare nulla per cambiare le cose e devi soccombere al tuo triste destino". Teurum lo guardò negli occhi senza più sorridere "Mi dispiace" disse ancora, notando l'espressione abbattuta sul volto di Damian "Non era mia intenzione rattristarti" "Non vi preoccupate, padrone" rispose subito Damian, sorridendo flebilmente "Ma se non oso domandare troppo, che tipo di animale era quello della vostra amica?"

"Una volpe a nove code" rispose Teurum come se nulla fosse "Ma sono rarissime adesso!" disse ammirato Damian "Sì" rispose Teurum con improvvisa indifferenza "E si dice che portino fortuna, ma come sai per lei non c'è stato nulla da fare. Quando il destino è segnato è difficile salvarsi, persino possedendo aiuti tanto potenti". Damain era sempre più confuso, Teurum parlava come un uomo dalla grande esperienza sia della vita che dei problemi "Siete molto saggio" gli confidò Damain, rivelandogli quello che pensava sul suo conto. Teurum lo sorprese e rise brevemente "Mi definirei con molte parole, ma direi che saggio non sia proprio tra queste" rispose "Ho solo vissuto come tutti, semplicemente questo. Sono certo che, se ti decidessi a parlare, diresti cose molto più sagge di me, come hai fatto prima, perché i tuoi trascorsi sono molto più burrascosi dei miei".

Damain sfuggì a quello sguardo di ghiaccio "Le sofferenze e i problemi temprano l'animo e rendono esperti della vita. Per questo tante volte vorrei tornare bambino, al tempo in cui sapevo poco della vita, quando avevo attraversato pochi problemi e il mio animo era ancora candido e quieto" rivelò Teurum con un breve sospiro. I due ragazzi si fronteggiarono di nuovo, poi Teurum si allontanò e si fermò davanti al recinto dei coccodrilli, mentre la spada oscillava nel fodero attaccato al fianco "Sono molto fortunati" disse voltato di spalle "Ad avere una madre che si prende così cura di loro" e ovviamente Damian comprese che Teurum si riferiva ai piccoli coccodrilli. Una tristezza improvvisa gli avvolse il petto e allora Damian si avvicinò al recinto, tornando vicino a Teurum "Vostra madre non vi voleva bene?" domandò in modo indiscreto, con voce timorosa, temendo di aver osato domandare troppo "Mia madre è morta dandomi alla luce" gli confidò Teurum "E così anche mio padre, è morto poco prima che nascessi. Sono cresciuto con una sottospecie di balia".

Damian lo guardò tristemente "Mi dispiace molto, signore" disse sinceramente "Anche i tuoi genitori sono morti?" domandò Teurum a sua volta, inaspettatamente "Io non lo so" rispose Damian, sempre sincero e con la voce bassa "Non so assolutamente nulla di loro e nessuno, nessuno mi ha mai voluto dire niente su di loro. Magari perché neppure loro lo sanno" concluse Damian. Teurum lo guardò con le sopracciglia corrugate, sembrava fosse dubbioso "E' molto strano" asserì poi, mordicchiandosi un labbro prima di continuare "Qualcuno dovrà pur sapere qualcosa! Non posso credere che nessuno lo sappia, sono certo che ti stanno nascondendo qualcosa". Teurum si agitò parecchio e Damian si stupì nuovamente per quella reazione "Ti assicuro che farò delle domande e non appena avrò scoperto qualcosa te lo riferirò. Non hai conosciuto la tua famiglia, meriti almeno di sapere chi fossero".

Il ragazzo lo guardò dagli occhi azzurro ghiaccio con intensità e Damain si sentì trapassare l'anima e provò una vaga soggezione, ricordando le storie che si narravano sugli occhi di un intenso azzurro che avevano sempre caratterizzato il Re della Morte e la sua stirpe "Ti prometto che lo scoprirò, Damian" promise Teurum con somma convinzione "Perché volete aiutarmi?" chiese ancora Damian, sempre stupito dai comportamenti di Teurum "Io sono solo uno schiavo" "Non ripeterlo più" lo interruppe Teurum "Tu meriti più di quello che hai e sei più di quello che sembra". Damian però non era per niente d'accordo "No" tentò di opporsi con il medesimo tono di voce basso "Sì" controbatté Teurum "E come fate a saperlo? Chi ve lo assicura?" "Beh" disse semplicemente Teurum "Tutti meritano più di quello che hanno e possono essere meglio di ciò che sono. Devono lottare per questo e io voglio aiutarti a lottare perché vedo in te qualcuno che merita il mio aiuto".

Damain sospirò, non sapeva più come controbattere alle parole di Teurum che sembravano così vere e giuste "Non sono riuscito a farti cambiare idea, non è vero?" lo incalzò Teurum, scrutando il volto spaesato di Damian "Voi non siete come me" replicò debolmente Damian "Voi avete studiato e sapete tante cose, in non so fare nulla". Ma Teurum era pronto a controbattere anche quella volta "Ti assicuro che tutto quello che so e le cose che sono in grado di fare le ho imparate unicamente da me, apprendendo con perseveranza e tenacia" disse "Tutto quello che sono, lo sono solo grazie a me stesso. Nessuno mi ha regalato niente, te lo assicuro, e per arrivare dove sono ora ho dovuto lottare contro la vita e le sue avversità come tutti gli altri. Semplicemente ho usato al massimo le mie capacità, tutto qui".

Damian scosse il capo "Non dubito delle vostre capacità straordinarie, padrone" rispose "Ma delle mie. Come avete affermato voi stesso avete fatto affidamento sulle vostre capacità, io però non avrei capacità per cavarmela e se anche avessi la possibilità di cambiare la mia condizione io non saprei proprio come fare, padrone, perché non sono in grado di fare nulla". Teurum lo guardò con un'espressione vagamente beffarda sul bel volto e poi inarcò le sopracciglia, voltandosi per guardare i coccodrilli "Sbaglio oppure sei l'unico in grado di controllare questi amici così pericolosi?" disse Teurum, con voce suadente e allegra, vittoriosa "Ma padrone" tentò di replicare Damian "Mi sbaglio forse?" lo incalzò ancora Teurum, soddisfatto di aver finalmente dimostrato le sue ragioni sulle deboli parole dell'altro.

Damian si sentì nuovamente in difficoltà, era impossibile uscire vincente da una discussione con Teurum, l'altro era troppo ostinato e sapeva argomentare abilmente "Io sono uno schiavo, padrone" sospirò Damian, ripetendo le solite parole con pazienza, con la consueta rassegnazione che lo contraddistingueva "Sono sempre stato uno schiavo e non potrei fare mai nient'altro, non saprei immaginare una vita differente da questa che mi è toccata". Teurum era visibilmente contrariato da quella nuova affermazione "Se la pensi così non migliorerai mai la tua condizione!" lo rimproverò. Damian sospirò nuovamente "Non voglio importunarti con le mie parole, Damian" gli disse Teurum, notando l'espressione sofferente dell'altro "Voglio semplicemente aiutarti, ma capirai da te che se tu non me lo permetti non potrò fare nulla per te" "Perché volete aiutarmi!?" disse a voce più alta Damian, ripetendosi, ma si sentiva vagamente esasperato da una tale insistenza, perché temeva di finire nei guai "Dovete scusarmi" si corresse subito, tornando al consueto tono dimesso una volta essersi reso conto della variazione del suo tono di voce "Ma nessuno mi ha mai rivolto la parola se non per insultarmi e urlarmi ordini, quindi non capisco perché vi ostiniate tanto a perdere il vostro tempo con me".

Teurum però continuò a sorridere "Ti parlerò sinceramente, Damian" riprese "Così ci capiremo una volta per tutte e non ci saranno incomprensioni tra di noi". Teurum si fermò un attimo, per creare tensione nell'altro "Io ho visto il modo in cui Pontroius tratta tutti voi. Vi tratta come delle bestie, Damian" disse in tono vagamente tragico, triste "Voi tutti lo avete reso grande, senza di voi lui sarebbe solo un uomo ricco e solo". Damian spalancò la bocca "Non meritate questo trattamento, Damian" continuò Teurum "E' profondamente ingiusto da parte sua trattarvi così, perché siete persone e meritate di essere trattate come tali. Ma le crudeltà che sembra riservare solo a te, soprattutto a te, sono inaccettabili e atroci. Tu non sei una bestia, Damian" disse con lo sguardo deciso e i suoi occhi azzurri parvero brillare "Tu sei una persona, un incredibile ragazzo dalle grandi abilità che viene trattato in maniera disumana secondo l'opinione di ogni persona in possesso di sanità mentale e di una coscienza senziente".

Si fronteggiarono ancora, con gli occhi azzurri dell'uno fissi in quelli meravigliati dell'altro "Vuoi sapere perché voglio aiutarti?" continuò Teurum "Perché provo tanta rabbia per il modo in cui ti trattano, il mio cuore si è riempito di pietà per te. Come posso trascorrere una vita serena dentro al castello di Aspergo sapendo che tu e altri siete qui fuori al freddo, senza cibo e senza un posto caldo dove trascorrere la notte?" Damain si sentì mancare il fiato, era incredibile, non era possibile che un nobile stesse dicendo cose del genere, che si stesse interessando davvero del volgo, a lui! Sicuramente si trattava di un bel sogno e prestissimo Damian si sarebbe risvegliato per tornare alla triste e crudele realtà più deluso di quanto non fosse mai stato prima di allora.

"Gli dèi mi hanno concesso di arrivare fino a qui" continuò Teurum, senza mai distogliere lo sguardo dal volto di Damain "Sono certo che non si tratta di un caso. E se anche fosse io voglio usare la mia posizione privilegiata al meglio, per fare del bene. Credi veramente che io sia innamorato di Dasha?" domandò improvvisamente "Di quella ragazza viziata e superficiale? Ma certo che no" rivelò, quasi con disgusto "Ma io ho una speranza e un progetto. Se continuerò di questo passo sposerò presto Dasha, allora farò ufficialmente parte della famiglia e potrò iniziare ad apportare i giusti cambiamenti a questo posto. E quando Pontroius un giorno morirà potremmo tutti vivere in pace e senza più sfruttamenti e ingiustizie, almeno finché ci sarò io con voi".

Damian sentì un brivido percorrergli la schiena, la speranza era forte e così anche la paura della delusione "So che ora sembrano solo parole" Teurum anticipò i suoi dubbi con la consueta inquietante previdenza "Ma ti assicuro che sto agendo concretamente. La zuppa di ieri sera non era buona, ma spero che abbia almeno riempito la pancia di chi non ha abbastanza cibo per vivere in maniera dignitosa". Damian lo guardò negli occhi, sembrava così sincero "Ah" disse ancora l'uomo dagli occhi di ghiaccio "Stavo per dimenticare, ho preso una cosa per te". Teurum si avvicinò all'uscita delle stalle, su una staccionata c'era un mantello marrone "L'ho preso per te, spero che ti aiuti contro il freddo nonostante l'inverno sia quasi giunto al termine". E così Teurum gli porse il mantello con un sorriso e Damian si sentì come non si era mai sentito "Nessuno mi aveva mai regalato niente prima d'ora" confidò a Teurum, con le lacrime agli occhi.

"Spero di portarti altre cose in futuro, intanto credo che questo ti sarà utile, nonostante la brutta manifattura". Damian prese il mantello dalle mani di Teurum, era una stoffa così doppia che gli sembrò potesse essere perfetta addirittura per farsi scudo dalla neve che ancora scintillava nei campi "E' meraviglioso, padrone!" lo ringrazio Damian, trattenendo a stento le lacrime "Su, provate!" lo incitò Teurum con entusiasmo "Sono curioso di vedere come ti sta". Damain sorrise e si mise il mantello sulle spalle "Ma sì" rise Teurum "E' un po' piccolo sulle spalle ma ti sta bene". Damain rise a sua volta, era una risata bassa ma sincera "Ho le spalle grosse" "Non mi stupisce con tutte le cose che sollevi" rispose Teurum giocondo "Ora perdonami, ma devo proprio andare a cambiarmi" disse quasi sovrappensiero e Damian allora notò gli abiti che indossava l'altro e si domandò come potesse non avere freddo "Dopo devo andare a fare un giro a cavallo per vedere questi terreni per conto del signore e non vorrei che cambiasse idea, meglio approfittare della solitudine e di questo bel tempo".

Damian si sentì triste, era stato bello per una volta parlare con una persona "Ti prometto che tornerò presto a parlare con te, Damian" sorrise Teurum, vicino all'uscita della stalla e a Damian nonostante gli abiti ricordò proprio un re, uno di quelli delle favole, eterno e giusto, anzi, gli ricordò Connor Fremen detto il Grande, antenato del Re della Morte, primo re e liberatore degli invasori provenienti da Galtico, continente separato da Expatempem dal Mare del Nord. "Arrivederci padrone" Lo salutò allegramente Damian, tenendosi il mantello con una mano "A presto Damian, stammi bene!" E Teurum si allontanò con la solita grazia che lo contraddistingueva, dispensando saluti ai popolani. Damian si sentiva felice, talmente felice che corse al recinto dei coccodrilli "Avete visto che cosa mi ha donato?!" Esclamò, guardando i suoi amici "Spero solamente che lui sia quello che sembra, che faccia quello che dice. Perché se così fosse" Damian si fermò e sospirò, colmo di gioia "Forse c'è ancora un po' di speranza nonostante tutto".

 

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Capitolo 35
*** Le tenebre della mia anima ***


Pov:Aurilda

Aurilda doveva assolutamente andarsene, doveva raggiungere Tempuston e andare da Morfgan. Era incredibile come le cose fossero mutate tanto in così pochi mesi, prima il solo desiderio che Aurilda aveva era quello di allontanarsi il più possibile dalla capitale e dal suo promesso sposo quando doveva recarcisi, mentre adesso che sarebbe dovuta andare più lontano possibile stava progettando di andare da Morfgan. Sicuramente in tanti l'avrebbero presa per folle e probabilmente avrebbero avuto anche ragione, ma loro non potevano comprendere, Aurilda sentiva che era quella la cosa giusta da fare e avrebbe fatto esattamente quello che aveva fatto quando aveva deciso di partire per il Tempio, sarebbe fuggita di nascosto andando contro la volontà di tutti. Perché lei doveva andare alla capitale, doveva vedere Morfgan! Non poteva nascondersi ancora e far morire altri membri della famiglia, non poteva proprio agire in quel modo egoista ancora una volta.

Ser Zalikoco continuava a ripeterle che andare dallo zio era la cosa giusta da fare e Aurilda si era sempre impegnata per mostrarsi abbastanza d'accordo con il cavaliere, aveva mostrato giusto qualche segno di ribellione semplicemente per non destare sospetti dal momento che sarebbe parso strano non sentire le sue lamentele per qualcosa, ma in realtà era tutta una copertura che le sarebbe servita a preparare la sua fuga. Sì, un'altra fuga folle e rocambolesca dall'esito incerto, ma questa volta senza la persistente presenza di Ser Zalikoco. Questa volta sarebbero stati solo lei e i boschi fino alla capitale. Aurilda voleva essere sola quando si sarebbe trovata davanti a Morfgan, d'altro canto era una questione tra loro due ed erano rimaste coinvolte troppe persone innocenti.

Le possibilità di morire erano sicuramente molto elevate, Aurilda ne era pienamente consapevole e la cosa la spaventava non poco, ma sapeva che era la cosa giusta da fare, sicuramente l'unica in grado di placare il suo animo tormentato. Avrebbe ucciso Morfgan, oppure lui avrebbe ucciso lei, erano solo due le possibilità ma se anche fosse morta prima avrebbe sputato in faccia a quell'assassino maledetto, gli avrebbe detto quanto lo odiava e quanto lo trovava insignificante e incapace. Non era la vendetta che avrebbe meritato, ma la soluzione che avrebbe causato meno dolore.

Aurilda doveva affrontare le conseguenze delle sue azioni a testa alta, da donna, non da ragazzina. Quella sera lei e il Ser erano pronti per fermarsi a mangiare e poi dormire, per ripartire alle prime luci dell'alba. Aurilda continuava a far finta che tutto andasse bene, era essenziale adesso fingere bene, ne valeva della vita dell'ultima parte della sua famiglia. "Ci fermiamo qui?" Le parole del cavaliere la riscossero, Aurilda si voltò dall'alto del cavallo nella semi oscurità, incrociando gli occhi azzurri di quello che un tempo era stato l'uomo che più aveva stimato "Sì, sarà meglio, è quasi notte". Smontò da cavallo e cercò qualche ramoscello secco per accendere un fuoco mentre Ser Zalikoco portava tre fagiani per cuocerli.

L'uomo si mise a sedere sulla roccia di fronte ad Aurilda e infilzò i pennuti in un ramoscello prima di metterli sul fuoco. C'era sempre tanto silenzio tra di loro e la cosa, era chiaro, faceva soffrire molto il vecchio cavaliere. Aurilda lo notava con evidenza, Zalikoco cercava il suo sguardo e la sua approvazione costantemente, senza mai ricevere un segno di speranza, eppure lui non demordeva, era sempre stato tenace. Aurilda era segretamente compiaciuta di vedere l'uomo in quelle condizioni, struggersi tanto per tentare di riconquistare la sua stima, era una cosa che la faceva sentire meglio. Aurilda infatti era sempre stata piuttosto vendicativa, farle un torto significava vendetta oppure fine del rapporto. Si sentiva bene quando vedeva le persone che odiava soffrire, sapeva anche lei che era un piacere sadico, dettato solo dallo sterile desiderio di vendetta, un sentimento nocivo in grado di corrodere e avvelenare l'animo, portando ciascuno a diventare la parte peggiore di sé, ma Aurilda proprio non riusciva a non sentirsi bene quando vedeva gli occhi tristi dell'uomo.

Se lo meritava, era questa l'evidente realtà secondo il suo parere, il cavaliere aveva sbagliato ed era stato anni senza pagare e adesso era finalmente giunto il momento che qualcuno gli facesse scontare un tale crimine. "Mi farete uccidere al castello dei vostri zii, vero?" La domanda improvvisa dell'uomo fece voltare Aurilda nuovamente. Fissò l'uomo con la solita freddezza ed arroganza, poi dopo aver riflettuto brevemente si degnò di rispondere "Certo" disse con la voce atona, con ovvietà "Non pensate minimamente di essere risparmiato soltanto perché avete deciso di scortarmi, per giunta senza che io ve lo avessi chiesto". Ser Zalikoco sospirò e annuì, abbassando il capo privo di elmo con remissività "Lo comprendo" rispose "Solo, speravo in una cosa".

Aurilda sbuffò, palesemente seccata "E cosa speravate, sentiamo?!" Il cavaliere rialzò piano la testa e i suoi occhi dall'azzurro limpido ricordarono quelli di una serena mattina di primavera "Speravo che voi poteste perdonarmi prima di morire". Aurilda lo fulminò con lo sguardo, mostrandogli tutto l'odio di cui era capace "Voi siete un folle e uno sfrontato" disse irata, pur senza gridare "Dopo tutto quello che avete fatto ancora pensate che io potrei mai perdonarvi?! Siete completamente uscito di senno" lo sbeffeggiò con fredda indifferenza. L'uomo le rivolse uno sguardo triste "Io so di aver sbagliato" ricominciò a parlare, sempre con le solite parole che Aurilda riteneva vacue e persino noiose data la loro ripetitività "Ma mi sono pentito tempo addietro! Ho trascorso tutta la vita al servizio dei Tenebrerus per espiare la mia colpa, per questo coltivavo la speranza che voi avreste potuto cambiare idea con il trascorrere del tempo".

L'uomo le sorrise dolcemente, pateticamente speranzoso "Chiaramente vi sbagliavate" replicò fredda e impassibile Aurilda, tagliente come una lama appena affilata "Ma signorina" tentò ancora lui "Io nutro nei vostri confronti un sincero affetto e comprendo le vostre motivazioni, la mia condanna è giusta e mai ho pensato di oppormi alla vostra sentenza, il vostro disprezzo è la sofferenza peggiore perché mi sta uccidendo lentamente, giorno dopo giorno" "E allora andatevene" ribadì fermamente Aurilda, intransigente "Perché da me non avrete altro che disprezzo e brutte parole. La delusione che mi avete causato è talmente grande da essere mutata in disgusto. Voi eravate il cavaliere perfetto agli occhi della bambina che ero, quello di cui si narrano le imprese e di cui si esalta il valore. E invece ho scoperto che siete solo un opportunista e un imbroglione, esattamente come tanti altri. Non posso perdonarvi, sono troppo delusa".

Il cavaliere annuì piano ma non abbassò la testa "Non mi volete perdonare perché ho distrutto il vostro ideale di cavaliere, perché avete scoperto che la perfezione non esiste e che gli eroi non sono perfetti come sembrano nelle storie che vengono narrate?" Aurilda scosse il capo, sempre più arrabbiata "Io non sono delusa da un ideale di perfezione" disse "Sono sempre stata abituata a vedere le cose andare male, le aspettative che nutro sugli altri mi deludono costantemente, la cosa non mi sorprende. L'unica persona che mi delude meno sono io, quindi non pensare di aver infranto i miei sogni perché non è così. Però effettivamente vi stimavo e ho provato una forte delusione sapendo di aver stimato un'illusione, semplicemente questo. Senza tener conto di quello che avete fatto alla mia famiglia, quello è il vero crimine che avete commesso e che mi impedirà sempre di perdonarvi. Ma non posso negare che mi abbiate insegnato un'altra grande lezione" confidò Aurilda "Prima pensavo di potermi fidare della mia famiglia e di pochi altri, ora so per certo di pormi fidare solo e unicamente di me stessa, anche perché non ho più una famiglia su cui poter fare affidamento se anche volessi".

"Non dite queste cose, signorina" disse con la voce rotta il Ser "Non si può vivere contando solo e unicamente sulla proprie capacità" "Invece si può" lo corresse Aurilda "Pensate a Omalley, lei ne è perfettamente in grado". L'uomo rimase un attimo in silenzio, pensando alle parole giuste con cui replicare, poi le trovò e rispose "Anche lei però può contare sull'aiuto di alcune parsone" replicò il cavaliere "Zenobia è un chiaro esempio...". Aurilda non mutò espressione "Ma conta sull'aiuto di altri unicamente per aiutare altre persone" gli fece notare Aurilda con prontezza "Se Omalley smettesse di aiutare avrebbe bisogno solo e unicamente di sé stessa e di nessun altro per sopravvivere". Il cavaliere ascoltò e poi scosse piano la testa "Non potrebbe" rispose "Le persone hanno bisogno di vivere insieme, in comunità" "Ah!" esclamò Aurilda con sarcasmo "Ho già avuto modo di sentire simili insinuazioni" rispose sprezzante "Ma sapete come la penso io e finora quello che penso si è sempre rivelato corretto, contrariamente alla vostra teoria della vita comunitaria" "Non si può vivere come vorreste voi" insistette ancora il cavaliere "Non potreste contare per tutta la vita solo su voi stessa, il lento progredire dell'età prima o poi vi costringerebbe a farvi aiutare comunque". Aurilda lo sfidò con lo sguardo "E perché mai dovrei vivere con gli altri secondo la vostra lunga esperienza?!" Rispose Aurilda, sempre più spazientita "Per essere tradita? Per vederli morire? Per approfittarmi della loro ingenuità?" Si fermò e i suoi occhi scuri brillarono nell'oscurità "No" continuò "Non voglio più avere legami con nessuno".

L'uomo però era ancora disposto a replicare "E allora che cosa avete intenzione di fare da vostro zio?" Domandò, preoccupato e sospettoso "Voglio diventare la migliore nel combattimento" rispose lei, prontamente "Poi mi recherò alla capitale con l'esercito di mio zio, distruggerò Tempuston, entrerò nel palazzo reale e taglierò la testa a quel bastardo di Morfgan e poi a suo fratello, allora prenderò un panno bianco e lo colorerò con il loro sangue prima di fare di quel panno il mio mantello regale. Infine mi prenderò la corona e mi affaccerò, mostrando al popolo la loro nuova regina, quella che sarei divenuta tra poco tempo sposando Morfgan. In questo modo nessuno sarà più in alto di me e soltanto io potrò darmi degli ordini!"

Ser Zalikoco la guardò con aria grave, in evidente disaccordo con parole tanto violente "Non potete dire questo" disse piano e la sua voce parve vagamente severa "Tante atrocità non possono essere commesse ancora" "Eppure sono state commesse già tante volte" gli fece notare lei, indisponente "Non vorrete diventare un mostro come i numerosi sovrani che avete studiato!" Aurilda ghignò, immaginando il macabro piacere che avrebbe provato pugnalando Morfgan, poi lo stomaco le si attorcigliò figurandosi nella mente i corpi straziati dei suoi cari e immaginando la misera fine che lei stessa avrebbe fatto "E perché no?" Deglutì, tentando di non mutare tono ed espressione "Uno in più o in meno non sconvolgerà nessuno". Ser Zalikoco scosse la testa, con freddo dissenso "Voi non siete un mostro" disse con calma e una vaga durezza "Io vi ho vista crescere, siete ambiziosa e caparbia, ma non siete mai stata crudele". Aurilda sorrise amaramente "Evidentemente non mi conoscete bene come avete sostenuto" rispose lei con indifferenza "Vi state lasciando avvelenare dalla scia di sangue che ha iniziato Morfgan, ma vi imploro di non rovinatevi la vita per inseguire il futile desiderio di vendetta!" "Io infatti non voglio la vendetta" rispose Aurilda sempre con il solito tono arrogante ""E allora che cosa volete? Forse sono stato io a capire erroneamente le vostre intenzioni" disse l'uomo, sempre allarmato e severo.

Aurilda ghignò nuovamente, sentendo la stessa inquietudine di poco prima scuoterle le membra "Io voglio tutto quello che si può avere dalla vita" rispose "Voglio vendetta, voglio il potere, voglio il regno come pegno del torto che ho subito e se la crudeltà sarà l'unico mezzo necessario per ottenere quello che voglio allora non mi farò alcuno scrupolo e lo sarò". L'uomo la ascoltò e scosse il capo con lenta convinzione "Non ci credo" replicò "Voi non siete così crudele, non potete esserlo diventata in un così breve lasso di tempo". Aurilda alzò platealmente gli occhi al cielo "Io sarò la regina di Expatempem a ogni costo" continuò a mentire, torturandosi con quelle affermazioni, con quei sogni che mai si sarebbero realizzati "E' questo che mi spetta dopo quello che Morfgan mi ha fatto subire! Lui mi ha portato via tutto e io farò lo stesso con lui, ma gli toglierò una cosa che lui purtroppo non è riuscito a togliere a me: la vita".

"Voi non siete" "Basta!" Lo fermò Aurilda, esasperata dalle parole del cavaliere e dalle menzogne che stava dicendo e le trafiggevano il cuore, facendolo grondare sangue "Non ce la faccio più a sopportare le vostre misere sciocchezze! Mangiamo e corichiamoci senza parlare oltre". Il cavaliere nonostante tutto si costrinse ad annuire e allora i due iniziarono a mangiare in silenzio. Aurilda intanto si domandava cosa avrebbe pensato Ser Zalikoco se avesse saputo quale fosse veramente il piano che lei aveva in mente, perché la verità era che aveva narrato al cavaliere il suo sogno, un sogno che non si sarebbe mai realizzato, perché nonostante tutto la famiglia doveva essere al sicuro. Finirono di mangiare senza proferir parola e poi si misero a dormire come di consueto sul suolo duro, coperti dai mantelli. Aurilda non doveva addormentarsi, ma non era preoccupata di questo in verità, il sonno era sempre difficile per lei e inoltre la concentrazione e l'agitazione anche volendo non l'avrebbero fatta addormentare.

Rimase distesa per diverso tempo, era impossibile dire quanto, l'unica cosa che scandiva il tempo era un gufo su un albero poco lontano che Aurilda trovò odiosamente fastidioso. Attese rivolta verso Ser Zalikoco e attese del tempo prima di muoversi, temendo che lui potesse non dormire ancora. Mentre teneva gli occhi chiusi Aurilda continuava a pensare. Le veniva da vomitare, era agitata dal giorno in cui Adelynda le aveva narrato della misera sorte che la sua famiglia aveva subito. Aurilda era straziata dall'idea che le sue sorelle fossero state uccise a causa sua, ma c'era una questione che proprio non le consentiva di quietarsi: i suoi genitori. Aurilda infatti aveva provato rabbia per i genitori dal giorno in cui l'avevano promessa in sposa a Morfgan anni prima e da allora lei non era mai riuscita a perdonarli.

Adesso però Amillia e Gamelius erano morti, apparentemente a causa sua, della sua fuga, esattamente come Nomiva e Selina. Ma era veramente quella la verità? Aurilda aveva riflettuto molto sulla questione, era dolorosa, eppure una parte di lei non riusciva a non pensare che tutto quello fosse colpa dei suoi genitori, perché se loro non l'avessero promessa in sposa a Morfgan lei non sarebbe fuggita e loro non sarebbero morti. Da quel punto di vista Aurilda era una vittima e i genitori avevano avuto la punizione che meritavano per il loro errore, ma era quella la verità? Aurilda si sentiva una persona orribile, una parte di sé sentiva rabbia nei confronti dei genitori persino ora che erano morti, perché potevano essere considerati gli artefici di tutto quello.

Ma se Aurilda avesse iniziato a delirare e quella fosse stata solo una scusa per sopportare l'evidenza, ovvero che l'unica responsabile di tutto quel dolore era lei e unicamente lei? Sentiva di impazzire, aveva quei pensieri che le vorticavano nella mente, tormentandola dal maledetto giorno in cui avevano incontrato la balia. Perché non le dispiaceva semplicemente per la morte dei genitori? Perché si ostinava a pensare che fossero colpevoli? Era devastante tutto ciò, Aurilda avrebbe voluto avere un confronto con qualcuno su quella questione, ma era impossibile, c'era solo Ser Zalikoco insieme a lei. Aurilda represse nuovamente quei pensieri scomodi e dolorosi e quando le sembrò che fosse trascorso un tempo sufficiente iniziò a muoversi lentamente, senza staccare gli occhi dall'uomo. Si alzò in silenzio e si legò il mantello nuovamente sulle spalle, per poi avvicinarsi al cavallo. L'animale dormiva, così Aurilda lo carezzò piano, per svegliarlo dolcemente e non farlo nitrire. Il cavallo si lamentò ugualmente, facendo muovere il Ser e guadagnandosi di conseguenza un'occhiataccia da Aurilda.

Aurilsa slegò furtivamente le briglie dall'albero e poi salì sul dorso del cavallo, sempre facendo meno rumore possibile. Quando fu montata in groppa tirò un sospiro di sollievo e poi spronò piano il cavallo con i talloni. Subito il suo destriero iniziò ad avanzare nel buio del bosco e Aurilda si sentì contenta, forse era la volta buona che qualcosa andasse come voleva e come aveva programmato. Si sentì impaziente, voleva andare più veloce per mettere più distanza possibile tra lei e il cavaliere, ma doveva agire cautamente e freddamente, non era certo quello il momento dei colpi di testa e dell'impulsività, sarebbe bastato il minimo rumore per far svegliare l'uomo e mandare in fumo il suo piano di fuga. Il cavallo scuro avanzò nel buio, confondendosi con la notte per diverso tempo, mantenendo un'andatura lenta, poi finalmente si trovarono sul limitare del bosco.

Aurilda sorrise nel buio, trionfante, e si preparò finalmente a far correre il cavallo; dinnanzi a lei c'era una piccola distesa verdeggiante e poi c'era un ruscelletto e oltre questo Aurilda intravedeva un altro bosco dove potersi nascondersi. Spronò con forza il cavallo e quello partì. Subito Aurilda sentì il vento freddo della notte accarezzarle il volto, sentì la libertà per un attimo meraviglioso sotto quel cielo d'inverno e il freddo insieme al piacere di essere libera le causarono una scarica alla schiena, un brivido. L'aria le riempì i polmoni e lei si piegò sul collo del cavallo per aggrapparsi meglio, era in momenti come quello che si sentiva invincibile, che si sentiva libera e felice, spensierata. Ma come ben sapeva la felicità era solo un attimo fugace in un mare di ingiustizie, una fugace illusione in mezzo alla tristezza e alla sfortuna, non per caso sentì alle spalle il rumore di zoccoli prodotto da un altro cavallo che la inseguiva, con un uomo ritto in sella che le gridava di fermarsi e tornare indietro.

Aurilda ringhiò per la rabbia, com'era possibile essere così maledettamente sfortunati? Ser Zalikoco l'aveva raggiunta con rapidità, ma non c'era da stupirsi considerata la lentezza con cui lei era stata costretta ad attraversare il bosco. Aurilda però non si fermò, continuò a correre verso il piccolo ruscello per raggiungere il bosco lì dietro, ma il suo cavallo alla vista dell'acqua si fermò di colpo. Aurilda nonostante la sorpresa tentò ugualmente di aggrapparsi, ma fu tutto inutile e finì a terra, mancando per poco l'acqua. Diede una botta che le fece stringere i denti e poi si tolse i capelli che le erano finiti davanti al volto con un gesto stizzito e guardò il cavallo furiosa "Maledetta bestia inutile!" Tuonò, mentre si rialzava dolorante. Ser Zalikoco intanto l'aveva raggiunta e aveva fermato il cavallo accanto a lei, senza scendere "Non è possibile!" Continuò a sbraitare Aurilda "Nulla mi va bene! Tutto quello che voglio fare è destinato a fallire. Che problemi avete con me? Che maledizione avete scagliato sulla sottoscritta? Che cosa ho mai fatto per ricevere questa sorte!?" disse, guardando verso il cielo.

Ser Zalikoco scese da cavallo e la guardò con un'espressione a metà fra il severo e il pietoso "Signorina Aurilda" disse "Perché volete morire? Perché volete andare alla capitale? Avete così poca considerazione della vostra vita?" Aurilda sentì le lacrime bruciarle gli occhi e alzò il volto per guardarlo, sentendo tornare il senso di nausea che la opprimeva "Voi non capite perché voglio andare, non è vero!?" Disse e senza riuscire a trattenersi oltre sentì le lacrime cadere, arrabbiata e delusa "Pensate che io veramente nutra il desiderio di morire tanto giovane?" Lo incalzò ancora "Ma è ovvio che non lo voglio! Tremo di paura al solo pensiero!" Ammise schiettamente, senza però sentirsi colpevole per quei sentimenti "L'unica cosa che volevo dalla mia vita era poter cercare la mia strada liberamente, la mia felicità mettendomi alla prova" Spiegò, asciugandosi le lacrime con un gesto rapido e indelicato "E invece cos'è accaduto?" Continuò "Mi hanno promessa in sposa al principe, a quel dannato demone di Morfgan". Aurilda si fermò un attimo, indugiando sulle parole da usare perché non voleva apparire banale mentre Ser Zalikoco attese in silenzio, guardandola impietosito nonostante tutte le brutte parole che Aurilda gli aveva rivolto durante il loro viaggio "Io volevo scappare dal primo momento che l'ho saputo" ammise finalmente e non le importò di star parlando con quell'uomo che disprezzava, aveva un bisogno disperato di confidare le sue pene a qualcuno subito "Avevo paura di lui" disse ancora "Di Morfgan. Temevo che mi potesse fare del male e non mi sbagliavo, me ne ha fatto nel modo peggiore, uccidendo tutte le persone che amavo".

Si fermò nuovamente per asciugarsi una nuova lacrima che sino ad allora era rimasta impigliata nelle ciglia "Poi ho fatto quel sogno" disse, scuotendo leggermente il capo e i capelli mossi le ondeggiarono sulla schiena "Pensavo che fosse una profezia, credevo che gli dèi volessero aiutarmi. Era l'occasione che avevo sempre atteso e non ho perduto altro tempo domandandomi quale fosse la cosa più saggia da fare per tutti. L'unica cosa che desideravo era salvarmi dal matrimonio che tanto temevo e al quale i miei genitori mi avevano condannata". Aurilda si portò una mano sul volto e chiuse per un attimo gli occhi "Maledetto fu quel sogno!" Esclamò, sentendo rabbia e disperazione tornare a montarle dentro "È accaduto tutto a causa di quel sogno, no?" domandò retorica. Il Ser la guardò e annuì piano, poco convinto "No invece" replicò Aurilda, scuotendo ancora il capo "Quel sogno poteva essere ignorato". Ser Zalikoco continuò a guardarla in silenzio "E allora secondo il vostro parere chi ha causato tutto questo?" Domandò l'uomo, pur immaginando la risposta che la ragazza avrebbe potuto dare.

Aurilda si avvicinò con il volto sofferente "Sapete anche voi che l'unica colpevole potrei essere io" disse con ovvietà e con disperazione, ma all'altro non sfuggì quel 'potrei' "Non è vero" disse con una calma che Aurilda ritenne insopportabile in quel momento "Invece è questa l'amara verità!" Ribadì lei con forza "È accaduto tutto per causa mia!" "No!" "Perché sono una codarda" ripeté la ragazza, mentre il senso di colpa le annebbiava la mente "Non è vero!" continuò a dissentire il cavaliere "Perché ho preferito pensare solo alla mia salvezza invece di obbedire alle imposizioni dei miei genitori e così facendo ho causato la fine dei Tenebrerus!" "Non è vero!" Si ostinò il cavaliere "L'unico colpevole di questa immane tragedia che si è abbattuta sulla vostra nobile famiglia è unicamente re Morfgan. Voi potrete essere fuggita, ma sono state la crudeltà e la follia di quell'uomo che hanno causato la morte dei vostri genitori". Ma Aurilda scosse energicamente la testa "Tante fanciulle obbedirono al volere delle loro famiglie sposando uomini che non amavano".

"La famiglia non dovrebbe chiedere un pedaggio del genere" replicò Ser Zalikoco "Probabilmente no" rispose Aurilda "Ma le fanciulle obbedirono e le loro famiglie mantennero integro l'onore e salva la vita". Ser Zalikoco sembrava leggermente spazientito "Non dovete darvi la colpa per qualcosa che non avete fatto" ripeté "Non lo capite, vero?" Lo interruppe Aurilda "Non capite che cosa provo io?" I due si guardarono in silenzio, il cavaliere aprì la bocca per replicare, ma Aurilda lo anticipò "Non sapete che cosa significa rovinare una famiglia". Tacque e gli occhi tornarono lucidi e umidi "Andava tutto bene al castello. Mio padre era molto burbero, lo sapete bene anche voi, si lamentava sempre per qualcosa ma era un uomo buono, sapeva sempre aiutare gli altri. Mia madre invece era una signora vera, gestiva tutto come meglio poteva, con fermezza e gentilezza, non compiendo sempre le scelte migliori ma facendo del suo meglio. Però sapeva sempre dimostrare l'amore che sentiva per le sue figlie, almeno quando eravamo delle bambine fu sempre tanto affettuosa".

Aurilda si fermò ancora, respirando a fondo nel tentativo di riordinare i pensieri, poi continuò, sempre piangendo "Allora perché pur ricordando tutto questo una parte di me ritiene loro i reali colpevoli di tutto?" si decise a domandare Aurilda, a voce bassa, e dopo aver detto quelle parole si sentì leggera eppure più colpevole. Ser Zalikoco corrugò le sopracciglia "Non penso di comprendere le vostre parole" spiegò. Aurilda rise nervosamente, disperata "E come potreste farlo?" rispose "I miei sono i deliri di una povera sciocca che pur di non ammettere la propria colpa la addossa ai suoi defunti genitori!" Il cavaliere restò interdetto da quelle parole "Quindi voi pensate che i vostri genitori...?" Aurilda era stanca, talmente stanca che avrebbe voluto sdraiarsi lì sul prato e riposare, senza curarsi di nulla e di nessuno, ma era ben consapevole di non poter fare una cosa del genere, men che meno dopo aver rivelato cose del genere sui suoi genitori.

"E' incredibile, non è vero?" continuò Aurilda "Loro non hanno fatto nulla di differente da quello che fanno tutti, hanno combinato un matrimonio per la loro figlia. E' normale, tutti i genitori lo fanno. Ma allora perché io sento che una parte di colpa è la loro?" Domandò "Perché loro quando concessero la mia mano a Morfgan avevano visto la sua natura, non certamente così crudele, ma non ascoltarono le parole di implorazione della loro figlia quando li pregai di non farmi sposare Morfgan". Aurilda diede le spalle al cavaliere che la fissava sconvolto "Sono talmente stupida da pensare che questa potrebbe essere stata una punizione degli dèi" rivelò ancora Aurilda. "Una punizione dagli dèi!?" ripeté l'uomo "Sì" confermò Aurilda "Per aver avuto poca cura della loro figlia. Ma è assurdo" continuò Aurilda "le mie sorelle altrimenti non sarebbero morte".

Si voltò nuovamente, il volto del cavaliere era turbato "Sono orribile, è questo che pensate di me, non è vero?" gli domandò "Una figlia che pensa i genitori abbiano in parte meritato la morte. Sappiate che lo penso anche io di essere crudele e ingiusta, eppure questo folle pensiero mi tormenta costantemente. Ma probabilmente è solo un'ancora alla quale la mia mente tenta disperatamente di aggrapparsi per non lasciarmi sprofondare nell'abisso del senso di colpa" terminò la ragazza, tornando a sentire un gran freddo. Tornò a guardare il Ser, la guardava con fermezza "Non penso che siate folle" la stupì, parlando con serietà imperturbabile, probabilmente aveva meditato sino ad allora sulle parole da usare "Ritengo che abbiate ragione". Aurilda corrugò le sopracciglia "Non beffatemi di me" rispose "Non mi beffo affatto di voi" assicurò l'altro "Ritengo che i genitori non dovrebbero costringere i loro eredi a sposare qualcuno, qualunque sia il loro rango sociale".

Aurilda non rispose ma guardò l'uomo con curiosità, che fosse impazzito anche lui? L'uomo vedendo il volto confuso di Aurilda sorrise "Sto semplicemente dicendo che nessuno dovrebbe imporre a qualcun altro il suo destino" spiegò "Non credo che gli dèi abbiano punito i vostri genitori" disse ancora "Ma se penso che abbiano una parte della colpa per aver ignorato le vostre parole di supplica? Questo sì, assolutamente". Aurilda era confuta, eppure si sentì più leggera dopo quelle parole, meno colpevole, poi le tornarono alla mente i volti delle sue amate sorelle e tutto tornò a farsi scuro nella sua mente. "Nomiva e Selina invece erano del tutto innocenti" mormorò "Nomiva sapeva certamente essere terribile" disse, sorridendo tristemente "Era confusionaria e allegra, ci faceva spesso finire nei guai, ma era così coraggiosa e divertente come nessun altro ". Le lacrime tornarono repentinamente a bagnarle gli occhi "Selina invece era un poco vanitosa, chiedeva sempre vestiti nuovi, ma era così gentile e dolce, una bambina delicata e generosa". Aurilda tremava nel mantello, scossa dal pianto lento "E poi c'erano i miei zii" disse ancora "E i miei cugini. Erano solo due bambini" mormorò tristemente "Non sapevano neppure leggere, non conoscevano niente della vita se non i giochi e mai avranno l'opportunità di conoscerla".

Il sorriso di Aurilda si fece tremolante e poi si coprì il volto con le mani e pianse più forte mentre Ser Zalikoco la guardava con un'espressione pietosa e confortante, familiare. Aurilda si asciugò gli occhi arrossati dal pianto e tentò di continuare "La mia famiglia è morta perché non sono stata abbastanza obbediente e coraggiosa" disse ancora "Per quanto i miei genitori e Morfgan possano avere una parte della colpa alla fine sono stata io fuggendo a scatenare le conseguenze, quindi sono io la maledizione della famiglia Tenebrerus!" Sentenziò, dura come il granito e devastata dalle sue stesse parole. Mentre piangeva però Aurilda sentì la mano di Ser Zalikoco posarsi sulla sua spalla per stringerla delicatamente, nonostante i guanti "Certo che lo so che cosa significa distruggere una famiglia" le disse con serietà "Lo sapete che lo so, perché ancora una volta fu la vostra famiglia a essere la vittima".

L'uomo si fermò un attimo e poi continuò, sembrava in difficoltà "Quando compii quel tradimento a discapito di vostro nonno ero giovane" disse "Giovane, impetuoso e ambizioso, non vedevo altro se non la gloria che avrei potuto ottenere in battaglia. Desideravo che tutti mi amassero per le mie imprese eroiche e non mi rendevo conto di quello che stavo diventando pur di raggiungere il mio scopo". Aurilda lo guardò negli occhi, mentre la luce pallida della luna faceva brillare dolcemente le sue guance rigate dal pianto "Non stavo diventando l'eroe che avevo sempre sognato di essere" disse duramente "Stavo diventando tutto il contrario. Tante volte i desideri ci ottenebrano la mente. Quando desideriamo ardentemente qualcosa vediamo solo il nostro obbiettivo e non ci curiamo delle persone che dovremmo calpestare per raggiungerli". Ser Zalikoco abbassò la testa e poi la rialzò, guardando nuovamente Aurilda negli occhi "I desideri profondi del nostro animo possono renderci tanto egoisti" ammise "Soprattutto quando la forza della gioventù dà l'impressione di essere invincibili. Non capita spesso di sentire un giovane curarsi veramente di cose importanti, ma questo è normale, la spensieratezza altrimenti quando dovremmo averla?"

Il cavaliere tacque, sorridendo paternamente ad Aurilda "Capita a tutti di commettere degli errori" continuò "Certi errori sono insignificanti e neppure vengono ricordati, mentre altri" sospirò e scrutò la luna "Ti condannano e possono tormentarti l'animo per tutta una vita. Il rimorso può consumare lentamente un uomo" disse "Può ucciderlo giorno dopo giorno. Ma possiede anche il potere di far agire bene, spingendo a compiere grandi atti di coraggio" parlò ancora, tornando a guardare Aurilda continuando a sorridere. "È ovvio che voi non la pensiate come me, credete che io abbia trascorso il tempo al vostro servizio solo per mantenere i vantaggi che avevo ottenuto e io concretamente non posso fare nulla per costringervi a cambiare il vostro pensiero. Eppure io so bene come mutò l'animo mio quando mi sono reso conto del mio errore" il sorriso del cavaliere si fece triste "Il rimorso però salvò la mia vita" ammise con sicurezza "Salvò la mia anima, impedendomi di diventare un uomo opportunista e senza onore. Veramente vostro nonno fece di me un cavaliere e in memoria di lui, di quello che gli feci, giurai di diventare degno del titolo che avevo ottenuto con l'inganno.

Forse, anzi sicuramente, non sarò mai il cavaliere che ho sempre immaginato di poter essere da bambino, ma posso affermare con certezza di essere divenuto da allora un uomo migliore di quello che probabilmente sarei divenuto se il rimorso non si fosse insinuato dentro il mio animo". Ser Zalikoco si fermò nuovamente, sempre guardando Aurilda "Vi starete domandando perché vi abbia narrato la mia storia presumo?" Domandò, senza mai cessare di sorridere "Quello che avevo intenzione di dirvi con queste parole è, non consegnate la vostra vita nelle mani di Morfgan soltanto perché il rimorso vi opprime le membra. Potete ancora sperare di condurre una vita felice, potete trarre un insegnamento da quel che vi è accaduto per diventare una persona migliore". Aurilda continuò a guardarlo in silenzio, affranta "Non potete fare niente per cambiare il passato" continuò l'uomo "Ma forse e dico forse, potete ancora rendere grande il nome dei Tenebrerus". Poi Ser Zalikoco si mise davanti ad Aurilda e le strinse entrambe le spalle con fermezza, ma senza farle male "Non potete lasciarvi morire" disse senza più sorridere "Se proprio non riuscirete ad andare avanti potrete sempre tentare di vendicarvi, ma non lasciate che Morfgan vinca e consegnandovi a lui dimostrerete solamente che aveva ragione ed è più forte, dimostrerete che i suoi metodi violenti e ingiusti, che i soprusi riescono a piegare sempre". Il cavaliere spostò una mano dalla spalla di Aurilda e le sfiorò i capelli scuri e disordinati, carezzandole poi una guancia con estrema delicatezza, quasi temendo che l'altra potesse rompersi "Siete l'ultima dei Tenebrerus" mormorò "L'ultima ninfea rimasta della Palude Nera. La palude è grande da riempire da sola, lo capisco, e l'acqua è tanto scura, ma voi potete farcela ugualmente, perché ho sempre visto in voi la stessa tenacia delle ninfee. Quei bei fiori sembrano delicati, eppure riescono sempre a restare a galla, riescono a galleggiare senza mai sprofondare nell'acqua torbida e so che voi siete esattamente come quelle ninfee.

Non lasciate che il dolore consumi il vostro animo, non lasciate che Morfgan vinca. Non lasciatevi sprofondare in quella palude scura. Mostrate loro che basta un solo fiore per riempire quella palude. E non pensate mai più, neppure per un attimo di aver causato la morte della vostra famiglia" disse con decisione "Perché la vostra unica colpa è stata quella di decidere avventatamente le sorti future del vostro destino". Aurilda aveva ormai smesso di piangere e guardava il cavaliere in silenzio già da un po', profondamente colpita dalle parole dell'altro "Se voi lo desiderate veramente io vi lascerò andare alla capitale" ammise poi, sorprendendo Aurilda notevolmente "Non posso impedirvelo oltre, non voglio costringervi a fare nulla contro la vostra volontà, ma non potrò rimproverarmi di non aver tentato di farvi desistere" sospirò infine, mettendo fine al suo monologo. Aurilda continuò a rimanere in silenzio "Non avete nulla da dire?" Domandò il cavaliere un po' deluso "Neppure potete dirmi se il vostro intento è rimasto il medesimo?"

Ma prima che l'uomo avesse potuto rendersene conto, Aurilda lo aveva stretto in un abbraccio. Ser Zalikoco rimase un attimo fermo, sorpreso da una tale reazione, ma subito dopo rispose all'abbraccio stringendo morbidamente la ragazza, lieto per il buon esito che le sue parole avevano suscitato. Aurilda si allontanò dall'uomo e gli sorrise debolmente "Grazie" disse semplicemente "Grazie per tutto quello che avete detto, mi avete fatto comprendere di star commettendo una sciocchezza, seppur a fin di bene questa volta" ammise con sincerità "Ma adesso che ho capito" sorrise di più "Vi prometto che non tenterò più di fuggire per consegnarmi a Morfgan" disse fermamente, con convinzione "Nonostante il dolore mi tormenti voi avete ragione, non posso lasciare che Morfgan vinca, non posso lasciare che la famiglia Tenebrerus abbia fine in un modo tanto misero. Lotterò per onorare il ricordo di tutti loro e la palude non resterà mai vuota" terminò con orgoglio.

Ser Zalikoco le sorrise, sentendo un enorme sollievo avvolgerlo insieme una gioia intensa che gli si instillò nel petto, all'altezza del cuore "Allora torniamo a riposare?" domandò Aurilda "Domani dovremo svegliarci all'alba per raggiungere al più presto il castello di mio zio, non dovrebbero mancare tante settimane di viaggio" "Sono queste le parole che sognavo di sentirvi dire!" Esclamò l'uomo "Andiamo!" I due così montarono sui cavalli e tornarono indietro, mettendosi a riposare veramente questa volta. Aurilda aveva cambiato idea alla fine, Ser Zalikoco aveva ragione, le parole del cavaliere erano colme di verità e non potevano essere ignorate. I Tenebrerus dovevano sopravvivere, le ninfee non potevano sprofondare. Aurilda si sentì stupida per aver pensato di consegnarsi a Morfgan così, lui avrebbe ottenuto quello che voleva e lei invece non avrebbe ottenuto null'altro che morte. Che stupida era stata! Ma Aurilda giurò sui suoi antenati che mai più avrebbe consentito che il dolore le annebbiasse la mente, doveva lottare. Avrebbe trovato un modo per tenere al sicuro i suoi zii pur restando insieme a loro, ma non si sarebbe lasciata morire e un giorno, presto, Morfgan avrebbe pagato col sangue ogni cosa.

 

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Capitolo 36
*** Il signore della terra e del ghiaccio ***


Pov:Teurum

Quel bel pomeriggio di fine inverno iniziava a sentirsi il tiepido calore primaverile, il mese di vigesio era vicino, fuori splendeva un sole pallido a tratti nascosto da nuvole bianche, ma presto la primavera sarebbe arrivata del tutto, lasciandosi alle spalle l'inverno. Teurum era nella sua camera e già gli sembrava di sentir cantare gli uccelli, vedeva i fiori riempire i canali ai bordi dei campi e le farfalle svolazzare. A Teurum non era mai piaciuta molto la primavera, anche se in realtà erano veramente poche le cose che gli piacevano sul serio e ovviamente il primo posto era occupato da sé stesso, infatti Teurum era sempre stato un ragazzo particolarmente vanitoso ed egocentrico, adorava farsi adulare dagli altri e si compiaceva della frequenza con cui la cosa avveniva, ma d'altronde era impossibile non adorarlo, insomma, era eccezionale.

Teurum si stava guardando allo specchio compiaciuto anche quella mattina mentre finiva di vestirsi, ammirando la sua bellezza invidiabile e coprendosi i muscoli sottili ma forti con abiti della migliore seta, gli unici abiti degni del re che era. Quello poteva essere veramente un giorno importante per la sua vita, Teurum infatti aveva deciso di chiedere ufficialmente la mano di Dasha a Pontroius. Certamente non voleva sposarsi, tantomeno con quella ragazza insignificante ma poteva essere quella la scelta giusta per la sua scalata al potere.

Teurum però voleva essere certo, perché non si sarebbe esposto se non fosse stato sicuro di compiere la scelta giusta. Prima di affrettarsi a compiere il grande passo quindi avrebbe cercato di vedere il suo futuro tentando di indursi una profezia. Il ragazzo vestito di tutto punto si sistemò comodamente sul letto, con le gambe incrociate e iniziò a concentrarsi, con gli occhi chiusi.

Per diversi minuti non accadde nulla, Teurum continuò a vedere tutto nero ma poi iniziò a intravedere qualcosa, un biancore e un azzurro indefiniti sfocavano delle figure confuse. Teurum si concentrò di più, doveva capire cos'erano quelle immagini, doveva focalizzarle. E poi finalmente lo vide: era un velo da sposa in fiamme, lentamente il velo si inceneriva, divorato dalle fiamme, e al suo fianco cadeva una corona. Teurum riaprì gli occhi e si alzò in preda all'eccitazione.

Era fatta pensò, era evidente il significato di quella profezia per chi sapeva leggere i segni, il velo che bruciava era la morte di Dasha e la corona che cadeva lì accanto era ovvio, era la conferma che lui dopo la morte della ragazza sarebbe stato sempre più vicino al suo obbiettivo. Teurum si sentì molto soddisfatto di quello che aveva scoperto, o meglio, di quello che avrebbe potuto essere, aveva ricevuto esattamente la conferma che voleva e adesso avrebbe solo dovuto trovare il modo per uccidere Dasha, ci sarebbe riuscito senza neanche troppi sforzi, quello che importava era sapere che il matrimonio si sarebbe effettivamente rivelato utile.

Ma c'era un'altra cosa che Teurum avrebbe voluto sapere molto volentieri, il ragazzo dei coccodrilli sembrava un soggetto che avrebbe potuto rivelarsi molto utile per la fedeltà cieca che dimostrava, ma Teurum non ne era certo, era solo un'intuizione della sua mente geniale. Teurum sapeva che provare a indursi un'altra profezia, per giunta subito dopo averne fatta una poco prima sarebbe stato rischioso e stupido da parte sua e poi non era una cosa così essenziale, soprattutto non gli serviva saperlo subito. Intanto Teurum aveva scoperto quello che gli premeva maggiormente, con Damian avrebbe continuato a essere ugualmente gentile come era con tutti, quindi non ci sarebbero stati problemi a guadagnarsi la sua fiducia.

Teurum sorridente e soddisfatto si sistemò il colletto e poi si passò una mano tra i capelli per sistemarsi il ciuffo per l'ennesima volta, dopo di che uscì. Teurum non era assolutamente preoccupato per quello che stava per domandare, lui in realtà non era mai agitato per nulla, era talmente tronfio di sé che non aveva mai paura di sbagliare, inoltre non c'era il minimo motivo per essere preoccupato in quella situazione, insomma, era evidente che gli Hardex pendessero dalle sue labbra e non attendessero nell'altro che quello, era evidente dai sorrisi leziosi che gli rivolgeva Pontroius, sino ovviamente a Dasha che gli rivolgeva sguardi sognanti.

Teurum scese le scale con sicurezza e quando arrivò nel salone imbandito per la colazione trovò unicamente Pontroius ad attenderlo, come accadeva spesso, mentre la altre due erano con tutta probabilità ancora in camera a prepararsi. Tutto insomma in quella situazione era perfetto per Teurum, quando l'uomo lo vide fare il suo ingresso nella stanza gli rivolse uno dei soliti sorrisi benevolmente fastidiosi "Buongiorno caro Teurum" lo salutò soavemente "Come si sente questa mattina il più illustre dei signori?" Teurum rispose al sorriso con la consueta eleganza "Devo confidarvi che mi sento un po' agitato in realtà, ma non posso lamentarmi" mentì lui, utilizzando tali parole appositamente per scatenare la curiosità dell'altro.

"Agitato?" si sorprese infatti Pontroius "E cosa vi rende tanto agitato?" poi subito aggiunse "Ovviamente se non oso domandarvi troppo" "Assolutamente" replicò subito Teurum "Anzi" continuò, avvicinandosi "Non solo potete ma dovete saperlo, perché una parte della mia agitazione deriva proprio da qualcosa che vorrei domandarvi, ma temo di essere avventato e di fare richieste troppo pretenziose e inappropriate per la mia condizione". Teurum si fermò un attimo, tentando di non ridere in faccia all'altro.

Pontroius fortunatamente aveva capito, eccome se aveva capito! Sul volto magro dell'uomo aleggiava un sorriso soddisfatto, un sorriso di vittoria "Voi siete un illustrissimo ospite" rispose Pontroius, tentando di trattenere l'entusiasmo, ma Teurum comprese quanto dovesse essere difficile per l'uomo, finalmente stava per ottenere quello che desiderava da anni, forse addirittura dal giorno stesso della nascita di Dasha. "Sapete che per noi siete il più caro degli amici, il più stimato tra i signori, quindi non avete alcun motivo per darvi tante noie! Voi potete chiedermi qualsiasi cosa senza esitazioni e io mi prodigherò affinché ogni vostra richiesta possa essere esaudita prontamente, almeno finché è in mio potere farlo". Pontroius si fermò e sorrise, mostrando i denti ingialliti e un po' storti "Avanti, domandate pure" lo incoraggiò in tono affabile.

"Preferirei che ci mettessimo a sedere" disse Teurum "E' una questione piuttosto importante quella di cui vorrei discorrere insieme a voi, quindi potremmo impiegarci del tempo e preferirei che stessimo comodi. Sempre se non vi dispiace ovviamente" aggiunse, sempre sorridendo con eleganza e innocenza. Pontroius sorrise di più se possibile e annuì "Tutto quello che desiderate, accomodatevi pure qui di fianco a me" lo incoraggiò il suddetto giocondo, sedendosi e facendo cenno a Teurum di sedersi a sua volta. Teurum si avvicinò lentamente, godendosi la scena di quel vecchio entusiasta e impaziente, povero sciocco! Teurum riteneva che fosse un mentecatto, era troppo facile raggiungere i suoi scopi con gente simile intorno, eppure eccolo lì, Pontroius era pronto a fare qualsiasi cosa pur di compiacerlo. Facevano tutti così con Teurum, lo facevano entrare nelle loro vite, inconsapevoli di star portando una serpe che li avrebbe avvelenati con le sue false parole.

Teurum si mise a sedere lentamente ed elegantemente sullo schienale imbottito, rigido e composto come il re che era destinato a essere, notando appena la frutta disposta su vassoi decorati in oro, vicini a uno dei servizi da tè più sontuosi ed esagerati degli Hardex, quasi avessero saputo che proprio quel giorno Teurum avrebbe domandato la mano della loro figliola. Teurum sentì il profumo della cioccolata e si voltò, tornando a degnare il vecchio di uno sguardo "Mio buon signore" iniziò, con una tipica formula per accattivarsi l'altro nonostante non ce ne fosse alcun bisogno "Caro Pontroius" continuò "Vorrei iniziare quella che per me potrebbe essere una delle conversazioni più importanti della mia vita ringraziandovi per tutta l'ospitalità che mi avete concesso in questi mesi, sempre impeccabile e calorosa". L'uomo lo interruppe "Non dovreste neppure pensare a ringraziarmi per questo" disse, scuotendo un poco il capo e il suo caschetto danzò leggermente sopra le spalle sottili "Il sottoscritto è sempre onorato di poter servire il nostro re e maggiormente sono onorato di avere come ospite nel mio castello un ospite meritevole di ogni lode come siete voi, Teurum. Siamo noi Hardex a dover ringraziare voi per la compagnia che ci avete offerto".

Teurum era davvero divertito, era veramente troppo facile, talmente tanto che quasi non c'era gusto. Gli sarebbe piaciuto avere un avversario degno per una volta, uno in grado di stuzzicare la sua mente fina, ma in tanti anni Teurum non era mai riuscito a trovarne uno, così si era rassegnato e aveva imparato a beffarsi dei suoi burattini senza mai sperare in qualcosa di meglio. Alla fine l'importante era ottenere ciò che bramava, il divertimento vero poteva essere sacrificato. Teurum rispose al vecchio con un sorriso quasi pigramente, ma più che altro irritato per essere stato interrotto mentre parlava "Eppure non potrei fare altrimenti" rispose, simulando abilmente un tono dimesso che mai avrebbe usato davvero con qualcuno "Voi mi avete accolto a braccia aperte senza la minima remora" disse "Mi avete sempre riservato i massimi riguardi, ma non come ospite, mai mi sono sentito un ospite nel vostro castello. No, dal primo giorno mi sono sentito parte della vostra famiglia, come se fossi stato vostro figlio, e questo io non potrò mai dimenticarlo".

Teurum si interruppe un attimo e poi riprese, fingendo di trovare le parole giuste per continuare "Mi avete fatto comprendere cos'è veramente il calore di una famiglia e questo non vi era mai stato domandato dal principe ed è qualcosa che non avrei trovato da nessun'altra parte". Dopo aver detto quelle parole quasi Teurum si sentì male per essersi costretto a usare parole tanto sentimentali che normalmente lo avrebbe fatto inorridire, ma per ottenere potere avrebbe fatto ben di peggio che rivolgere patetiche moine a un vecchio. Mutò tono prima di continuare, per fingere meglio "Voi per noi siete diventato veramente come un figlio e come tale vi abbiamo trattato, come se voi foste sempre stato parte di questa famiglia" lo interruppe però ancora Pontroius, fremente. Teurum annuì piano "E per me voi siete stato come un padre" continuò "E vostra moglie Matata è stata come una madre". Si fermò nuovamente, godendosi a pieno lo sguardo del vecchio "Ma, ahimè" finse con un pizzico di teatralità che gli era sempre stata propria "Devo confessarvi una cosa" disse quasi tragico "Il sentimento di fratellanza che inizialmente mi legava alla vostra Dasha è mutato durante il mio soggiorno al castello e non potrò più pensare a lei considerandola al pari di una sorella".

Teurum si interruppe per un'ennesima pausa scenica, una pausa che mozzò il fiato a Pontroius, perché Teurum non voleva rinunciare del tutto al divertimento, voleva prendersi tutto quello che quel povero idiota aveva da offrirgli "Perché non si può provare per una sorella quello che io sento per Dasha senza essere maledetti dagli dèi e dall'opinione degli uomini" concluse Teurum col capo chino, abbassando un poco la voce per conferire una maggiore solennità alla sua confessione amorosa. Teurum poco dopo però rialzò lo sguardo verso il suo interlocutore: adesso la visione era meritevolmente spassosa, Pontroius aveva distolto lo sguardo dal ragazzo e fissava la parete tentando di celare una smorfia euforica, vittoriosa, e Teurum quasi temette che all'altro potesse venire un colpo al cuore per l'eccessivo coinvolgimento emotivo.

"Perché Pontroius" continuò allora Teurum, in tono vagamente drammatico e subito l'uomo si voltò verso di lui per tornare a guardarlo "Perché...No!" esclamò poi, sempre per divertirsi un poco e mettere alla prova le sue doti attoriali e continuare e beffare il vecchio "Non posso! Non posso confessare una cosa del genere proprio a voi, che siete il padre della ragazza!" esclamò, melodrammatico "Ma temo di non poter aspettare oltre, perché ho bisogno di ricevere una risposta, altrimenti la mia mente continuerebbe a vagare e rischierei di illudermi invano". Pontroius aveva gli occhi spalancati mentre lo guardava, le occhiaie erano ben evidenti sotto al volto piccolo e scavato e a Teurum ricordò prepotentemente un pazzo "Allora parlatemi!"" esclamò Pontroius a sua volta, senza riuscire a trattenersi oltre "Parlatemi Teurum e non affliggetevi oltre!"

Teurum trattenne con enorme fatica un ghigno compiaciuto e canzonatorio per simulare uno sguardo vagamente sognante, innamorato "Io credo che vostra figlia abbia fatto comprendere al mio animo arido cosa sia l'esperienza della passione amorosa" disse finalmente, con voce sommessa e trasognante, sospirata e morbida "Ne sono innamorato" disse ancora, a voce bassa "La mia mente indugia a pensare alla dolcezza del suo volto e desidererei trascorrere insieme a lei buona parte del mio tempo, dilettandomi a passeggiare insieme a lei, vicino ai campi. E l'idea che presto dovrò fare ritorno al mio castello per non vederla più così spesso affligge il mio cuore innamorato come mai avrei immaginato potesse accadere" concluse Teurum, sospirando silenziosamente.

Pontroius incredibilmente si alzò e rimase voltato, in silenzio, impedendo a Teurum di guardarlo in volto "Vi domando perdono se vi ho importunato con le mie ardite parole sfrontate e indecenti" disse ancora Teurum, sempre a voce bassa "Non era mia intenzione turbare la vostra serenità. Temevo di poter rovinare il nostro bel rapporto di stima sincera, ma tutto quello che ho vi ho detto è la verità e pensavo fosse giusto che voi foste il primo a sapere quali sentimenti mi legano a vostra figlia". Per un attimo continuò a esserci silenzio, ma Teurum neanche per un secondo si preoccupò della cosa, mai gli passò per la mente che l'altro avrebbe potuto reagire malamente, impedendogli di fare la vera richiesta.

"In conclusione che cosa mi state chiedendo?" parlò finalmente Pontroius, sempre voltato di spalle e a voce bassa e il ragazzo si stupì di come l'altro avesse ritrovato il contegno. Teurum si alzò e si fermò poco distante dal vecchio "Vi sto chiedendo di concedermi l'onore di prendere in moglie la vostra splendida figlia per farne la mia legittima sposa" rispose Teurum e la sua voce era leggere come un alito di vento. Quando Pontroius si voltò, Teurum si sentì vagamente allarmato perché per un momento il volto dell'uomo fu illuminato da un sorriso folle.

"Oh, Teurum" rispose l'uomo con voce soave "Concedetemi di rivelarvi che già avevo notato da qualche tempo l'affinità che si è venuta a creare tra voi e la mia Dasha" disse, con un sorriso appena trattenuto che irritò Teurum, veramente quell'uomo si credeva tanto scaltro? Che patetico! "E vi confiderò anche di aver sperato che voi poteste innamorarvi l'uno dell'altra". Si fermò nuovamente e sorrise senza remore "A quanto pare per una volta gli dèi hanno ascoltato le mie preghiere" parlò Pontroius con solennità, entusiasta ma contegnoso "Teurum" disse ancora "Voi e Dasha, questo sarebbe un sogno idilliaco per tutti noi". Si avvicinò e strinse la mano ossuta intorno a quella di Teurum "Questo significa che mi concedete il vostro bene placido per sposare vostra figlia?" domandò Teurum, simulando un sorriso speranzoso.

"Come potrei non concedervi la sua mano!?" rise amabilmente l'altro, trattenendo a stento la gioia "Oh, Pontroius!" rispose di rimando Teurum, continuando a fingere impeccabilmente "Questa è una notizia meravigliosa! Sarà un onore per me legarmi non soltanto a vostra figlia, ma al vostro glorioso casato". Il sorriso fastidioso si Pontroius si fece più ampio sul volto scarno "Siamo noi Hardex a essere onorati di potervi dare il benvenuto ufficiale all'interno della nostra famiglia" replicò Pontroius con somma soddisfazione "Voi siete un uomo onorevole e valoroso, nessuno potrebbe disprezzarvi, nessuno!" Teurum annuì, fingendo di sorridere con modestia e gratitudine "Dovremo iniziare subito i preparativi, in questo modo potremo celebrare il matrimonio durante la belle stagione che sta per arrivare!" continuò l'uomo, ansioso che la figlia prendesse marito.

Teurum però corrugò le sopracciglia "Aspettate un attimo" "Che cosa dovrei aspettare?" lo fissò perplesso Pontroius "Non starete riconsiderando la vostra richiesta?" disse, improvvisamente allarmato "Ma certo che no!" lo rassicurò subito Teurum "Solo, vorrei assicurarmi che questo matrimonio renda felice anche Dasha. Vorrei domandare a lei se desidera sposarmi, perché non potrei mai sposarla se lei non lo desiderasse, preferirei tirarmi indietro e saperla felice al fianco di un altro piuttosto che vederla infelice al mio fianco".

Pontroius parve seriamente confuso da quelle parole, infatti corrugò le sopracciglia "Non dovete neppure porvi un interrogativo tale" disse con noncuranza "E' ovvio che mia figlia desideri sposarvi!" Teurum lo guardò poco convinto "Ma se non vi dispiace preferirei comunque dichiararmi a lei e se acconsentirà a sposarmi come affermate voi allora potremmo iniziare i preparativi per le nostre nozze anche oggi stesso". Pontroius non capiva tanta premura per una donna, nonostante si trattasse della figlia, ma per acconsentire alla bizzarra richiesta di Teurum accettò senza aggiungere altro. Certo a Teurum non interessava veramente l'opinione di Dasha, sapeva già che la ragazza non desiderava null'altro che sposarlo e se anche non lo avesse voluto lui l'avrebbe sposata ugualmente, quella richiesta era solo un'altra parte della sua recita studiata con minuzia nei particolari e quello era solo un altro modo per mostrare a Pontroius quanto fosse affidabile e premuroso.

Niente di più falso della realtà insomma. Teurum e Pontroius continuarono a parlare per qualche minuto di come avrebbe potuto essere il matrimonio, poi finalmente arrivarono Matara e Dasha. Non appena le videro entrambi gli uomini si alzarono e gli andarono intorno, sorridendo "Buongiorno mie adorate!" le salutò Pontroius con il falso tono "Buongiorno!" disse a sua volta Teurum, simulando nuovamente una vaga agitazione. Le donne sorrisero a loro volta "Buongiorno a voi" li salutò Matara "A cosa si devono questi bei sorrisi?" Il sorriso di Pontroius si allargò "Oggi è una giornata splendida!" replicò con convinzione "A proposito di questo cara, perché noi due non ci dilettiamo a prendere un po' d'aria prima della colazione e lasciamo mangiare da soli questi due giovani?"

Matara sentendo quelle parole spalancò gli occhi e fissò il marito e un lampo di consapevolezza, o magari di semplice speranza, attraversò i suoi occhi; sembrava proprio che la donna avesse capito con un misero sguardo il vero significato delle parole del marito perché iniziò a fremere e Teurum restò stupito "E' un'idea splendida!" esclamò, improvvisamente su di giri "Buona colazione ragazzi!" e dopo averli congedati Teurum vide i due allontanarsi a braccetto, mentre mormoravano esagitati. Teurum distolse lo sguardo dalla coppia e tornò a guardare Dasha, la ragazza era seriamente confusa da quella nuova situazione che si era venuta a creare perché guardava i genitori che si allontanavano con un'espressione perplessa. La reazione di Dasha però non sorprese Teurum, d'altronde era risaputo che la ragazza non fosse dotata di grande acume.

Dasha si voltò verso Teurum con gli occhi vacui "Voi avete compreso il motivo del loro comportamento tanto bizzarro?" domandò la ragazza. Teurum scrollò le spalle con noncuranza "Ah, chi può saperlo" rispose lui "Ma sarà meglio accontentarli e mangiare come hanno chiesto, quindi perché non ci mettiamo a sedere?" Dasha annuì e i due si avvicinarono al tavolo. Teurum per iniziare al meglio spostò la sedia a Dasha in un gesto galante per farla accomodare "Signorina Hardex" disse con voce suadente e vellutata, avvolgendola nel suo sguardo. Dasha fece un risolino e ringraziò, sedendosi. Dopo aver aiutato Dasha, Teurum andò a sedersi di fronte a lei e quando le fu difronte le rivolse un sorriso abbacinante, prendendo una fetta di torta mentre una serva versava della cioccolata per Dasha.

"E' una bella giornata oggi a quanto pare" disse banalmente Dasha, mettendosi a discorrere sul tempo. Teurum annuì "Non immaginate minimamente quanto mia cara" rispose con voce soave. Dasha dopo aver bevuto un sorso di cioccolata guardò l'altro, interrogativa "Cosa intendete dire, Teurum?" Lui smise di mangiare e si raddrizzò sullo schienale della sedia, guardandola negli occhi senza degnarsi ancora di parlare. "Che sta succedendo, Teurum?" lo incalzò ancora Dasha "Perché siete diventato tanto serio? Forse conoscete la reale motivazione del bizzarro comportamento dei miei genitori e non volete rendermi partecipe per non turbarmi?"

Teurum dopo quelle parole tornò a sorridere "Mi avete scoperto signorina Hardex" rispose "E' impossibile nascondervi qualcosa, avete una mente troppo arguta" si beffò di lei "Effettivamente so cosa ha spinto i vostri genitori a comportarsi in modo tale, ma posso assicurarvi che non avete alcun motivo di temere, perché potrebbero esserci notizie magnifiche molto presto, talmente gioiose che porterebbero il castello e tutti i suoi abitanti in uno stato di festa. Ma la verità è che tutto questo dipende unicamente da voi" terminò, mantenendosi volutamente vago per accrescere la curiosità della sua interlocutrice. Dasha lo guardò allucinata, con la bocca mezza aperta, sempre più perplessa "Perdonatemi" gli disse "Ma io davvero continuo a non comprendere le vostre parole, quindi vi prego di essere più chiaro". Teurum annuì, mascherando un sorriso inopportuno di scherno che rischiava di arricciargli le labbra sottili e si preparò a recitare nuovamente, iniziando con un sospiro.

"Dasha, io vorrei parlarvi con la massima onestà, ma spero che voi non consideriate le parole che sto per rivolgervi troppo avventate, perché saranno parole dettate non dalla ragione ma da qualcosa di più profondo e travolgente". La ragazza si raddrizzò sullo schienale, improvvisamente attenta "Non tenermi sulle spine Teurum, vi prego di parlami!" lo pregò, allora lui annuì e sospirò brevemente "Vi confiderò, sono abbastanza agitato per la confessione che sto per farvi". Dasha si portò una mano al petto, mentre la cioccolata restante nella tazzina elaborata dal manico dorato si raffreddava lentamente "Mi state allarmando davvero, Teurum!"

"Non avete motivo di preoccuparvi, ve l'ho già detto!" la rassicurò lui "Dasha" disse con la testa un poco chinata "Io devo dirvelo ormai, ne ho già discusso con vostro padre, ma vorrei sapere la vostra opinione mia cara". La ragazza aveva il fiato sospeso "Io nutro nei vostri confronti un sentimento che si spinge oltre la semplice amicizia, questo sentimento causa in me un piacevole senso di agitazione quando mi trovo in vostra presenza e oserei apostrofarlo come un nascente sentimento d'amore se la cosa non vi offende".

Teurum guardò la ragazza, aveva la bocca aperta e gli occhi spalancati dallo stupore "Per questo ho chiesto a vostro padre di concedermi l'onore e la benedizione per avere il permesso di rendervi la mia legittima sposa, ma questo solo se voi doveste provare un sentimento affine al mio" precisò. Teurum si fermò nuovamente, unicamente per accrescere il pathos e sentì gli occhi dei servitori e soprattutto quelli delle serve posarsi su di lui "Perché nel mio animo sento sbocciare nei vostri riguardi un sentimento d'amore, Dasha" disse a chiare lettere "E dopo aver ricevuto la benedizione di vostro padre non posso più tacere i miei sentimenti. La vostra voce soave e i vostri occhi ridenti animano i miei sogni cupi rendendoli dolci da un po' di tempo a questa parte e desidererei sapere se posso nutrire qualche speranza che voi possiate ricambiarmi oppure no e mettere così a tacere questi pensieri per sempre".

Dasha aveva preso il suo ventaglio e adesso si sventolava con intensità, sembrava profondamente colpita da quelle belle parole "Oh, Teurum" mormorò e la sua voce fu sospirata "Voi quindi mi state chiedendo..." "Vi sto chiedendo di rendere i miei sogni reali, vi sto domandando di sposarmi! Ma badate bene" precisò ancora "Voglio che mi diciate di sì unicamente se sentite quello che sento io per voi, perché non potrei mai condannarvi all'infelicità eterna legando il vostro destino al mio senza che voi lo desideriate veramente. Questo per me sarebbe una sofferenza ben peggiore di potevi avere per sempre al mio fianco".

La ragazza parve sul punto di svenire, era impallidita e aveva le lacrime agli occhi, respirava a fatica "Non era mia intenzione causarvi un tale turbarti" parlò ancora Teurum, guardando in volto l'altra "Ma non potevo sopportare oltre di tenermi dentro questo dubbio. Ovviamente vi concederò tutto il tempo di cui avrete bisogno per pensare alle mie parole, perché questa potrebbe ben definirsi come una delle decisioni più importante della vostra vita". "Sì!" strillò invece la ragazza, alzandosi di scatto, perdendo momentaneamente il contegno "Sì!?" ripeté lui con un sorriso prontamente trattenuto sino ad allora "Ma certo che vi sposerò, Teurum!" replicò la ragazza, più composta ma sempre gioiosa "Potrei sposarvi anche oggi, adesso se fosse tutto pronto!" La ragazza spostò la sedia per raggiungerlo e così Teurum si alzò e le andò incontro, incontrandola a metà strada "Io vi amo, Teurum!" ammise la ragazza "Vi ho amato dal primo giorno in cui vi ho visto e nulla mi renderebbe più lieta che diventare la vostra sposa!"

La ragazza in uno slancio eccessivo di entusiasmo, nonostante l'abito un poco troppo ingombrante, lo strinse a sé. Teurum in un primo momento restò fermo e rigido, infastidito da quell'improvviso contatto fisico seppur lieve, poi si costrinse a rispondere appena, solamente per rendere felice l'altra, sentendosi comunque compiaciuto per la buona riuscita del suo piano anche quella volta "Evviva gli sposi!" I due si separarono velocemente e Teurum fu lieto di separarsi della ragazza; Matara e Pontroius erano proprio lì dietro alla porta del salone da pranzo a spiarli e Matara li aveva fatti scoprire con quell'incauto grido di giubilo. La donna non perse tempo a scusarsi o cose simili, semplicemente si avvicinò e si congratulò con entrambi "Quindi vi sposerete, giusto!?" Teurum e Dasha annuirono contemporaneamente "Splendido, veramente splendido!" Esclamò Pontroius al settimo cielo. L'uomo e la donna si misero a sedere e invitarono Teurum e Dasha a raggiungerli.

I quattro si sederono intorno al tavolo imbandito e si riempirono i piatti senza prestare attenzione "Dobbiamo subito iniziare i preparativi!" Disse Matara con voce più acuta del solito "Assolutamente!" confermò Pontroius "Se iniziamo subito potremo celebrare il matrimonio durante questa primavera, tra un paio di settimane al massimo!" Dasha si portò le mani al volto, emozionata e felice oltre ogni dire "Non posso ancora credere a quello che sta accadendo!" Cinguettò la fanciulla "Credici figliola mia, perché tra poco vi sposerete!" Gli rispose Pontroius con sommo orgoglioso. Teurum sorrise "Sarà una cerimonia memorabile" disse senza una particolare enfasi "Organizzeremo solo il meglio per voi!"

I tre Hardex trascorsero tutta la colazione parlando del matrimonio, del banchetto che ne sarebbe seguito e di altre frivolezze simili. Teurum elargiva sorrisi di approvazione, segni di assenso e ogni tanto diceva qualche parola, unicamente per rendere felici gli altri commensali, perché a lui non interessava granché dei preparativi sapendo che avrebbero organizzato tutto a regola d'arte. Teurum comunque aveva ben altri pensieri per la testa, pensieri molto più cupi e intricati: lui doveva progettare un omicidio, precisamente l'omicidio della sua futura moglie. Gli veniva da ridere, mentre quegli sciocchi pensavano a un matrimonio lui pensava a un omicidio, era lì che si vedeva quanto fossero diversi, quanto lui fosse superiore alle frivolezze mondane.

Gli Hardex non erano altro che dei buffoni, si divertivano a torturare i più deboli e si lamentavano tanto senza fare nulla di veramente concreto per ottenere tutto il potere che desideravano. Per quello erano le pedine perfette per Teurum, perché si credevano furbi e scaltri quando in realtà erano dei mentecatti. Ormai il re stava tornando e nonostante tutto forse Teurum avrebbe potuto concedersi un giorno di riposo prima dell'ideazione dell'omicidio di Dasha, per poi passare al piano per uccidere Matara e Pontroius, decisamente il re poteva concederselo. Teurum così si poggiò allo schienale e mangiò tranquillamente, godendosi quella placida situazione. Stava andando tutto secondo i piani, come sempre d'altronde, come era giusto che fosse per l'unico vero erede al trono e presto anche il presunto re Morfgan avrebbe avuto motivo di temere, perché il suo breve regno sarebbe giunto al termine.

 

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Capitolo 37
*** La regina che il popolo merita ***


Pov:Cleorae

Finalmente il tanto atteso giorno era giunto, Cleorae aveva aspettato anni, aveva passato tutta la sua vita pianificando come riuscire a farsi assumere al castello e poi aveva lavorato duramente per far innamorare di sé il re o comunque per affascinarlo a un tale punto da indurlo a sposarla. Ma finalmente era arrivato il grande giorno, era vigesio, il mese che poneva fine all'inverno per annunciare la primavera e tra poco Cleorae si sarebbe recata sull'Ara Magnificentia, la grande ara che si usava per celebrare matrimoni e riti funebri della famiglia reale, per questo nota anche come l'Ara dei Re. Cleorae tuttavia non si sentiva affatto agitata ma solamente felice, era lieta di poter dare finalmente al popolo la regina che meritavano, la guida di cui avevano bisogno. Un leggero bussare proveniente dalla porta della sua camera la fece voltare "Sì?" Domandò quasi distrattamente "Siamo venute per aiutare la sposa a vestirsi, su ordine del re".

Cleorae sbuffò, irritata e rassegnato "Entrate pure" si decise, perché a nulla sarebbe servito attendere oltre. Allora tre donne varcarono la soglia della porta, Cleo conosceva tutte e tre perché servivano lì al castello e un tempo erano state compagne. L'idea di averle lì non le piaceva molto, quelle come la maggior parte della servitù avevano sempre sparlato di lei e l'avevano vista di cattivo occhio, ma il suo futuro marito aveva dato quelle disposizioni quindi Cleorae doveva accettarlo, non poteva cacciarle rischiando di rovinare tutto, specie in un giorno tanto cruciale. Una cosa però era certa, Cleo non avrebbe lasciato che quelle donne le mettessero i piedi in testa, soprattutto quel giorno in cui sarebbe diventata la loro regina. Le guardò entrare in fila per fermarsi di fonte a lei, chi tentando di sorridere, chi mantenendo indifferenza e sfuggendo al suo sguardo.

"Se siete pronta, sarebbe il momento di mettervi l'abito" disse Cesarea, tentando di sorridere. Cleorae annuì e si alzò, facendosi sfilare la vestaglia lucida. La prima cosa che fecero fu infilare e stringerle forte il corsetto, per far risaltare al meglio il suo fisico sinuoso "Per favore allentatelo un po'" le pregò lei, quasi senza respiro. Le donne così allentarono un poco il corsetto e poi andarono a prendere l'abito, mentre Cleorae si specchiava in sottoveste. Cleo non era mai stata particolarmente vanitosa nonostante la sua bellezza invidiabile, ma dovette ammettere di sentirsi impaziente, infatti non vedeva l'ora di indossare quella meraviglia dell'alta sartoria che era il suo abito da sposa.

Aveva scelto tutto lei, dal colore ai materiali ed era venuto fuori un vero incanto, seppur non proprio in linea con la moda del momento. L'abito di Cleo era azzurro, un azzurro di qualche tono più scuro dei suoi occhi, era un tripudio di veli di stoffa leggeri sovrapposti uno sopra l'altro, di tonalità diverse di azzurro che ricordavano le onde del mare. Il corpetto era dell'azzurro più chiaro della gonna ed era ricamato con impunture bianco perla e rosso corallo, mentre le maniche erano un poco arricciate in su. Era bellissimo secondo Cleo, probabilmente non aveva tutti i particolari che ci si aspettava dal vestito da sposa di una regina ma i pochi ricami sul corpetto erano assolutamente perfetti e facevano risaltare il resto del vestito alla perfezione, rendendolo sobrio ed elegante proprio com'era la sposa.

Anche le altre donne dovevano trovare l'abito incantevole a giudicare dagli sguardi che si scambiarono e Cleorae fu ben lieta di poter constatare che il suo vestito fosse degno di ammirazione, degno della regina che sarebbe diventata. Adagiarono l'abito delicatamente sul letto, temendo di rovinarlo, e poi aiutarono Cleo a infilare la sottogonna di seta. Mentre la aiutavano a vestirsi a Cleo non sfuggirono gli sguardi delle altre e se Cesarea tentava di nascondere la sua ostilità, Berta e Vardea la ignoravano, probabilmente temendo di dire qualcosa di inopportuno. La situazione non piaceva per niente a Cleorae, non aveva intenzione di farsi rovinare quella giornata di festa e quelle donne la stavano facendo innervosire. Mentre Vardea le sistemava al meglio la sottogonna, proprio al suo fianco, Cleo poté vedere il disappunto e il disgusto dipinti sul viso della donna.

"Che cosa vi turba tanto?" Domandò, ormai nervosa, senza però alzare la voce. Vardea guardò le altre due e poi tornò a guardare Cleo "Cosa dovrebbe turbarci, stiamo solo lavorando" rispose la donna al limite delle buone maniere, con arroganza. Cleorae sospirò, evitando a stento di sbuffare "Eppure continuate a guardarmi con disappunto, con disprezzo oserei dire, persino oggi". Vardea alzò gli occhi e tornò a guardare Cleo, poi li riabbassò "Siete semplicemente agitata per la cerimonia, per questo vi immaginate le cose" replicò con freddezza. Cleorae però si inferocì ancora di più "Siete solo una bugiarda" disse, senza scomporsi minimamente "Sono mesi che mi guardate così, anzi, anni". Cesarea che stava lucidando le scarpe sembrava in imbarazzo "Ritengo che la cosa migliore per tutte noi sia quella di continuare a vestirvi in silenzio" disse "Ah" rispose Cleo con vaga impertinenza "E perché mai?" Le incalzò "Perché parlando temete di non trattenervi, confessandomi tutto quello che pensate?"

Vardea sembrava sempre più irritata "Non credo che dovreste scaricare la vostra agitazione su di noi" tentò di divagare "Ma se siete state voi a suscitare in me questo fastidio" rispose Cleo, guardandola con ostilità. Vardea guardò prima Cesarea che teneva gli occhi bassi sulle scarpe e poi Berta che stava lucidando la collana di perle che Cleo avrebbe indossato, Berta però percependo lo sguardo dell'altra su di sé si voltò "Vuole sapere il motivo del nostro disappunto" disse ancora Vardea, continuando a guardare Berta "Allora sarà accontentata". Cleo la guardò negli occhi "Sei solo un'approfittatrice" scandì con tutto il disprezzo di cui fu capace, senza più darle del voi, con lo scopo di manifestare il suo sdegno già da quel cambiamento "Ti diverti a irretire gli uomini per il puro gusto di saperti la migliore. Magari gli uomini non lo vedono, ma agli occhi esperti di noi altre è molto chiaro cosa sei, solo una sirena tentatrice e molto furba che sa usare al meglio le sue doti ammaliatrici per ottenere quello che desidera! Sei disgustosa, prima hai sedotto re Fritjof e ora re Morfgan, che per giunta è suo figlio!"

Cleo strinse un poco i pugni e respirò lentamente, fronteggiando l'altra con fierezza, senza mai perdere la calma, senza perdere di vista il suo vero obbiettivo "Occhi pronti a giudicare più che esperti, se me lo consentite" rispose lei "Volete disprezzarmi?" Domandò, sempre senza cessare il contatto visivo per dimostrare alle altre che non aveva né paura, né tantomeno vergogna "Siete libere di farlo, nessuno vi condannerà a morte perché avete un'opinione discordante, o almeno sicuramente io non vi condannerò per questo". Si fermò un attimo, tutte e tre la guardavano con attenzione "Ma se volete disprezzarmi in un tale modo vi toccherà farlo da un'altra parte" "Cosa intendi dire?" Domandò allarmata Vardea, spalancando un poco gli occhi "Intendo dire chiaramente che se desiderate mantenere il vostro impiego qui al castello dovrete smettere di trattarmi in questo modo. Non è accettabile che una regina venga trattata con un tale disprezzo dalla sua servitù, ma se io potrei limitarmi a sgridarvi come sto facendo ora o potrei mandarvi via, mi dispiace informarvi che mio marito, il vostro legittimo re, è molto meno incline alla clemenza di quanto non lo sia io".

Vardea dopo aver sentito quelle parole la fulminò con lo sguardo "Questa è una minaccia di morte!?" Sussurrò, incollerita e sdegnata "Vi sto semplicemente esponendo la verità dei fatti" replicò placida Cleorae, senza battere ciglio "Mio marito possiede innumerevoli virtù, ma la clemenza non è una di queste. Non appena scopre di aver subito un torto agisce con maniere molto drastiche e non immagino neppure come potrebbe reagire sentendo le vostre parole o leggendo il disprezzo che avete impresso sui volti, rivolti nei confronti della sua regina". Le donne si scambiarono uno sguardo allarmato e sdegnato al tempo stesso "Non è una minaccia" ribadì Cleo, con fredda sincerità "Semplicemente, considerata la natura irascibile del mio sposo, preferisco mettervi in guardi prima che sia troppo tardi, tutto qui". Il volto di Vardea si contrasse in un sorriso ironico "Che scaltrezza" disse amaramente "Adesso che ha il potere e non è più una serva come noi può decidere di vendicarsi".

Cleo però scosse subito il capo, irritata da una tale ottusità "Allora le mie non sono state altro che parole vane" rispose, senza nascondere poi tanto il tono esasperato "Io non desidero minacciarvi e neppure mandarvi via. L'unica cosa che desidero è mettervi in guardi e pregarvi di non farmi più sentire così in errore come avete fatto in tutto questo tempo, perché questa adesso è ufficialmente casa mia e non voglio trascorrere la mia vita sentendomi disprezzata". Le donne presero l'abito dal letto e lo avvicinarono a lei, per aiutarla finalmente a infilarlo "Io non sono contro di voi" assicurò Cleo "Vi assicuro che l'unica cosa che desidero fare è aiutare il nostro popolo, è sempre stato questo il mio unico scopo, nonostante potrete ritenere la mie parole una fandonia". Cleorae fu costretta a tacere, infilare l'abito era tutt'altro che semplice, ma quando si guardò allo specchio capì che ne era veramente valsa la pena.

"D'accordo" disse Vardea, guardando appena l'immagine di Cleo riflessa "Non ti dirò che ti apprezzerò da un momento all'altro perché mentirei, ma mi impegnerò per cessare di guardarti malamente quando ti scorgerò percorrere i corridoi del castello e proverò a mutare l'idea che ho sul tuo conto... ovviamente se avrò delle dimostrazioni reali del mio errore" rispose, con vaga impertinenza. Cleo tuttavia sentendo quelle parole accennò un lieve sorriso "Anche io farò come lei" assicurò Berta "E anche io, mia regina" le imitò Cesarea, accennando un inchino goffo. Cleorae sorrise, sapeva che ci sarebbe voluto del tempo ma quelle parole potevano essere un inizio e lei non aveva la minima intenzione di lasciare quelle donne in mezzo alla strada solo perché avevano una bassa considerazione della sua persona. "Vi ringrazio per lo sforzo" disse Cleo con sincerità "E posso assicuravi che non vi pentirete di avermi dato una seconda opportunità per conoscermi".

Dopo di che le donne la aiutarono con i capelli, raccolsero appena le ciocche davanti, crearono poi dei morbidi boccoli da lasciare sciolti sulla schiena e intrecciarono delle perle tra i capelli rossi per impreziosirle il capo sul quale presto sarebbe stata posata la corona. Cleorae chinò il capo, soffermandosi nuovamente sui ricami a volute che impreziosivano il corpetto e poi sui veli della gonna che scendevano morbidamente appena a terra, mentre Cesarea le si avvicinò e le mise la collana di perle.

Adesso era veramente perfetta, l'unica cosa che mancava alla regina era la sua corona, ma era una cosa che presto avrebbe ricevuto e proprio per non causare un ingombro aveva deciso di non mettere il velo "Siete meravigliosa, mia regina" disse Cesarea piano "Sì, effettivamente quest'abito vi sta bene" disse vagamente Vardea, tornando a darle del voi. Cleo sorrise nuovamente e qualcun altro bussò alla porta "Sì?" disse lei "Sono padre Ridaldo e con me c'è madre Elbeth". Cleorae si alzò e improvvisamente tornò a essere lieta e andò ad aprire di persona "Che gioia vedervi!" mormorò, abbracciando prima l'uomo e poi la donna "Vi lasciamo soli" disse Cesarea, mentre lei e le altre due uscivano con inchini.

Quando ebbero chiuso la porta Cleo rivolse ai due un ampio sorriso di sincera gioia "E' stata un'idea magnifica quella di venire da me prima della cerimonia!" disse, senza cessare di sorridere. Ridaldo rispose al sorriso "Non avrei mai lasciato che venisse solo lei a salutarti" le confidò l'uomo, indicando Elbeth "Anche se ovviamente sarò tra la folla a guardare la cerimonia volevo ugualmente vederti prima del matrimonio. Ma dicci cara, come ti senti?" Cleo scrollò le spalle, faticando un poco a causa del corsetto aderente "Io sto bene" assicurò "Non avete motivo di preoccuparvi per me".

Elbeth e Ridaldo si scambiarono uno sguardo di intesa "Entrate" dissero all'unisono e dalla porta di servizio entrarono uno dopo l'altro Sipo e Frabio. "Ragazzi, che ci fate qui!?" disse Cleo, quasi alzando la voce per la sorpresa "Siamo venuti a salutare la sposa più bella" disse Frabio, rispondendo al sorriso "E l'amica più cara, la sorella che non ho mai avuto" aggiunse sorridendo "E la cugina migliore" intervenne Sipo senza poter evitare di sorridere nonostante la sua idea sul matrimonio. Cleorae rise piano, ricordandosi sempre di non farsi distrarre dai sentimenti positivi che sentiva nel petto perché Sipo, ma soprattutto il suo amico, non dovevano essere lì "Sono molto felice di vedervi qui, tutti quanti voi, ma temo che possano scoprirvi". Sipo ghignò "Vorrei solo che ci provassero" disse con vaga strafottenza, con un ghigno "Ah" disse Ridaldo, guardando severamente Sipo, poi distolse lo sguardo "Non hai motivo di preoccuparti" la rassicurò "Fuori sono tutti indaffarati a ultimare i preparativi, talmente tanto che ci hanno appena salutati".

Cleo annuì non del tutto convinta ma decise di lasciare stare per il momento e sorrise, tornando a guardare gli ultimi arrivati "Tu sei sempre sicura di volerlo fare, giusto Cleo?" disse per l'ennesima volta Sipo a voce bassa, senza più sorridere. La ragazza alzò gli occhi al cielo "Sì Sipo, per la millesima volta, sono sicura!" Il ragazzo sorrise, vagamente deluso e amareggiato e scosse il capo, sospirando "Allora va bene" sembrò rassegnarsi finalmente "Spero che tu e il re sarete felici". Cleo rivolse al cuginetto un sorriso carezzevole e lo invitò ad avvicinarsi. Sipo un po' contrariato si avvicinò e i due si abbracciarono "Devi promettermi che starai tranquillo da adesso. Come dono di nozze pensi di poterlo fare per me?" domandò furbescamente Cleorae.

Sipo sorrise, scuotendo il capo "Sei sempre la solita imbrogliona" rispose, facendola ridere "Ma posso dirti che ci proverò al massimo delle mia capacità" concluse, guardandola fissamente negli occhi "Grazie" rispose lei, carezzandogli il viso per poi sporgersi un poco in avanti per baciare Sipo sulla guancia "Ora credo sia giunto il momento di lasciare la sposa e la sua cerimoniera da sole, potrebbero avere delle cose da chiarire" disse Ridaldo e sia Cleorae che Elbeth annuirono, Cleo a dire la verità fu grata di quelle parole soprattutto perché sapendoli esposti a eventuali pericoli non riusciva a restare veramente serena. "Bene" sorrise Frabio "Allora noi andiamo. A dopo amica mia!" "A dopo cugina". Cleo salutò entrambi "Ciao ragazzi, a dopo padre Ridaldo!" Dopo di che i tre uomini uscirono e le due donne rimasero sole nella camera "Vuoi fare una preghiera prima del matrimonio Cleo?" domandò prevedibilmente la sacerdotessa "Credo di sì" rispose lei e stranamente sentiva davvero il bisogno di pregare, ma non di certo per timore, quanto per sentire i suoi genitori più vicini "Molto bene allora".

Elbeth le posò le mani sulle spalle e chiuse gli occhi "Io, Elbeth sacerdotessa della città di Tempuston prego gli dèi affinché possano ascoltare le parole della loro fedele, Cleorae Powtion, prima che quest'ultima compia la sacra funzione del matrimonio". Cleo tenne gli occhi sulla donna e quando Elbeth li riaprì toccò a Cleo chiudere i propri "Puoi parlare cara" disse Elbeth. Cleorae annuì e parlò "Io ringrazio gli dèi del tempo che mi stanno concedendo" iniziò "Ma non desidero rivolgere loro le consuete preghiere che solitamente le spose rivolgono prima di un matrimonio".

Cleorae attese un attimo, in caso Elbeth avesse avuto qualcosa da ridire. Quando però capì di poter proseguire continuò a pregare "Morte, Vita, Sole, Luna, Magia, Aria, Terra, Acqua, Fuoco, io oggi vi prego, prego che voi possiate avvicinare le anime di mia madre e mio padre all'ara dove diverrò sposa e regina, vi prego di avvicinare i miei cari defunti affinché possano accompagnarmi dal mio sposo, in modo che possano proteggermi e gioire con me in questo giorno. Solo questo vi chiedo".

Cleo riaprì gli occhi e incontrò quelli di Elbeth che le sorrideva benevolmente "E' stato molto bello da parte tua pregare gli dèi per avere vivine le anime dei tuoi defunti genitori quando sarai sull'ara, hai avuto un pensiero bellissimo e posso dirti per esperienza che non molte spose chiedono questo agli dèi prima della cerimonia, o almeno nessuna delle spose delle cerimonie che ho ufficializzata io". Cleorae rispose con un sorriso triste "Forse perché quelle spose avevano la fortuna di avere i genitori al loro fianco, in carne e ossa a sostenerle".

Elbeth le accarezzò il volto con affetto materno, perché in fondo lei era stata per Cleorae una madre adottiva e Ridaldo nonostante fosse di quasi vent'anni più vecchio di Elbeth poteva essere considerato ugualmente un padre adottivo per Cleo "La tua supposizione è effettivamente corretta, cara" confermò Elbeth con un sospiro triste "Purtroppo tu non hai mai potuto conoscere la buona anima di tuo padre e hai potuto passare solo pochi anni con tua madre, ma sono più che certa che loro siano molto orgogliosi della persona che sei e oggi sicuramente gli dèi ti faranno sentire la vicinanza di tua madre e tuo padre in questo giorno così importante per tutti, ma soprattutto per te. Sappi comunque che potrai sempre contare su di me, su padre Ridaldo e su tutti i tuoi amici della Casa della Carità, anche se comprendo che non è molto da offrire a una regina".

Cleo le strinse le mani e la guardò negli occhi "Ti sbagli invece" replicò con sincera commozione "E' tutto quello che si potrebbe desiderare, o almeno quello che io ho sempre desiderato. E se la tua offerta in altri tempi non sarebbe stata considerata molto per una regina, direi che è giunto il momento di rivalutare questi valori, perché da oggi io sarò la regina e ti prometto che le cose cambieranno sostanzialmente. Per me loro" si riferì a Sipo, Ridaldo e Frabio "Tutti voi siete la cosa più importante per me, perché siete la mia famiglia, le persone che mi hanno tramandato con assiduità i valori che mia madre si è impegnata a insegnarmi. Siete sempre stati la mia famiglia e sempre lo sarete. Non dovete mai pensare che io possa cambiare ora che sono qui in questo castello, ora che diventerò la regina. Io sono orgogliosa delle mie origini e lo sarò sempre ed è proprio grazie al mio passato che diventerò la regina che il popolo merita di avere. Lo giuro, ho sempre lottato per questo e adesso dimostrerò che le mie non sono mai state solo parole. Io farò i fatti, perché sono i fatti a cambiare la storia, non le parole, sono le promesse mantenute a dare fiducia e io voglio che tutti voi possiate fidarvi sempre di me".

Elbeth la guardò con fiero orgoglio sentendo quelle parole "La tua è proprio la fierezza di una regina" disse, vagamente commossa "Tu possiedi la forza e l'intelligenza di un grande comandate e sono più che certa che tu abbia tutto quello che è necessario per apportare un vero cambiamento alla storia, per rivoluzionare la società stessa. Soltanto" si fermò un attimo, vagamente incerta "Voglio che tu mai smetta di sottovalutare tuo marito, ma immagino che tu sappia meglio di me quanto è pericoloso veramente quell'uomo quando è in preda alla collera e la sua ragione è annebbiata". Cleorae annuì vigorosamente "Ora, tornando a concentrarci sul matrimonio" disse ancora Elbeth, tornando a sorridere "Credo sia giunto il momento di andare" decretò, sentendo il suono delle campane "Prendi il vaso e il seme che avete scelto, così potrai spiegarmi il significato di questo seme, così anche io potrò spiegare a tutti il motivo di questo fiore come scelta durante la funzione".

Cleo prese un vasetto che aveva tenuto nell'armadio e poi un sacchettino di velluto rosso con dentro un seme "Eccoli qua" disse porgendo il vaso alla sacerdotessa. Il vaso era di ceramica pitturato d'oro, era piccolo e non così elaborato, aveva la bocca larga, adatta a piantare un seme con facilità e delicate volute decoravano il bordo. Elbeth prese il vaso e posò gli occhi sul sacchetto "Abbiamo scelto un seme di heliconia" raccontò Cleorae "L'heliconia ha molti significati, tra i più importanti è simbolo di prosperità, di immortalità e di amore eterno. Io e Morfgan abbiamo ritenuto che fosse il fiore più adatto per la nostra funzione, inoltre diventa molto bello, degno della camera di due reali".

Elbeth parve soddisfatta della spiegazione esaustiva "Mi sembra veramente una scelta perfetta" esclamò "Adesso dobbiamo solo attendere che ci chiamino per andare". Cleorae ed Elbeth attesero pochi minuti, poi un uomo le avvertì da dietro la porta, era arrivato finalmente il momento di recarsi all'ara per celebrare la funzione. "Sei pronta, Cleo?" domandò ancora la sacerdotessa "Assolutamente" rispose con voce decisa la ragazza. Le due così uscirono, fuori i soldati erano schierati lungo il corridoio principale e si inchinavano con reverenza al loro passaggio. Lentamente Cleorae scese lungo la ripida montagnetta dove era arroccato il castello, attraversando la scalinata principale con grazie e fierezza, mentre Elbeth avanzava poco più indietro di lei, poi ai piedi del piccolo monte trovarono una carrozza sfarzosa pronta per portarle all'ara poco lontana.

Cleorae sfoggiò un meraviglioso sorriso, intorno a loro le strade erano gremite di persone che la acclamavano. Elbeth si avvicinò alla carrozza, pronta per salire, mentre Cleo si era avvicinata alla folla e allungava le mani per salutarli tutti, stringendo le mani dei bambini "Maestà, dobbiamo andare" disse il cocchiere con vaga impazienza. Ma a Cleo era venuta una splendida idea "Voi andate pure" disse stupendo tutti "Io raggiungerò il mio sposo a piedi, così da poter camminare tra la mia gente". Il cocchiere aveva la bocca spalancata per lo stupore, mentre Elbeth si avvicinò a Cleo sorridente "Non avete sentito gli ordini della vostra futura regina?" disse Elbeth voltandosi per parlare al cocchiere che continuava a fissarle con incredulità "Noi vi raggiungiamo a piedi!"

L'uomo le fissò ancora perplesso, poi distolse lo sguardo e partì con la carrozza vuota. Elbeth si mise sotto braccio a Cleo e la guardò con un ampio sorriso "Cosa c'è?" domandò Cleorae, vedendo l'altra così gioiosa "Nulla" rispose la donna semplicemente "E' che sei una ragazza meravigliosa, tutto qui". Le due si sorrisero e iniziarono a percorrere la strada che portava all'ara, mentre salutavano il popolo tenuto lontano da loro da una schiera di guardie. A un certo punto le due dovettero accelerare notevolmente il passo, ma Cleo nonostante il corsetto un po' troppo stretto fu lieta di aver fatto quella scelta perché vedere il popolo acclamarla così la fece sentire infinitamente più appagata di quanto non avrebbe fatto una comoda passeggiata in carrozza.

Ma Cleorae stette ben attenta a non perdere di vista il suo obbiettivo, sapeva bene che era meglio non far innervosire Morfgan, quindi era meglio non farlo aspettare tanto. Quando lei ed Elbeth arrivarono finalmente ai piedi della lunga scalinata dove sorgeva l'Ara Magnificentia Cleo si fermò un attimo per riprendere fiato, senza smettere però di sorridere al suo popolo. Le scale erano tante, probabilmente più di cento, infatti l'ara sorgeva su una collina interamente ricoperta di scale di marmo, in cima c'era un piccolo spazio circolare e al centro, sotto due grandi archi che si incrociavano, c'era l'altare di marmo bianco.

Anche Elbeth si era fermata, dovette riprendere fiato anche lei e inoltre era giusto che salisse prima la futura regina. Cleo vide la cinta bianca di Elbeth svolazzare vicino a lei e allora si preparò a salire dopo essersi riposata pochi attimi. Tutto il popolo attendeva quel momento, tutti guardavano con attenzione e ammirazione la salita della futura regina sull'ara, infatti quella scalata stava a significare il suo passaggio da donna comune a semi-divinità, per questo l'ara sorgeva così in alto, per indicare lo stato dei re, a metà tra l'umano e il divino, perché i reali erano benedetti dagli dèi e come tali andavano trattati. Cleorae sapeva che tutti la stavano guardando e intendeva salire con tutta la fierezza di cui fu capace, da regina ma soprattutto da donna tenace quale era sempre stata. Salì con la testa alta, rivolta verso la cima, verso il cielo e fu allora che vide Morfgan che si era avvicinato al bordo per guardarla salire.

Morfgan indossava un abito sfarzosissimo, era dorato, le maniche erano impreziosite da orli di merletti e da sbuffi, i bottoni dorati brillavano grazie a dei piccoli diamanti posti al centro di ogni bottone della giacca, i pantaloni arricciati arrivanti circa all'altezza del ginocchio terminavano con strati di merletti ed erano impreziositi da fiocchi, il cui colore tendente al dorato contrastava con il bianco-panna dei calzoni. Morfgan non portava più la parrucca veramente dalla morte del padre e in poco tempo aveva cessato di portarla del tutto, i suoi capelli infatti erano sciolti e sarebbero arrivati a sfiorare le spalle, ma erano legati in un codino formato da un fiocco rosso, mentre la corona d'oro tempestata di diamanti posata saldamente sul suo capo rifletteva la luce del tiepido sole. Non appena ebbe incrociato il suo sguardo Morfgan sorrise, era soddisfatto e compiaciuto della sua sposa e non sembrava per niente infastidito dal lieve ritardo di quest'ultima. Quando Cleo arrivò all'ultimo gradino Morfgan le prese la mano come da tradizione e i due si voltarono verso la folla esultante. Elbeth era lì con lei, era salita subito dopo e si era posizionata vicino all'altro celebrante, Ersalco, il cerimoniere di Morfgan che li avrebbe sposati secondo la tradizione del popolo degli ephilti, poi sarebbe toccato a Elbeth che li avrebbe sposati con la tradizionale cerimonia che si celebrava nel loro regno.

"Sembri veramente una regina" le disse Morfgan, ammirandola "E tu sei e sarai per sempre il mio re" rispose lei con un sorriso. I due poi si avvicinarono all'Ara, con i due cerimonieri davanti e tutto il popolo intorno, disposto sulla grande scalinata in discesa. Ersalco iniziò "Siamo qui riuniti oggi per celebrare l'unione di quest'uomo e questa donna nel sacro vincolo del matrimonio" disse con solennità "Che il Dio Belis possa assisterci, che possa benedire questa unione e i figli che vi nasceranno". Morfgan e Cleorae si presero le mani e si guardarono negli occhi "Accetti tu, re Morfgan primo, figlio del re Fritjof Raylon e della regina Lirkoc Ocnis e legittimo re del regno di Expatempem prendere come tua legittima sposa la qui presente Cleorae Powtion?" "Lo accetto" rispose Morfgan sorridendo vagamente "Accettate maestà di proteggere questa donna tutti i giorni della vostra vita e promettete di esserle fedele sempre?" "Lo accetto" rispose nuovamente Morfgan, senza la minima esitazione nella voce.

Cleorae sorrise "E tu accetti Cleorae Powtion di prendere come tuo legittimo sposo il qui presente re Morfgan Raylon?" "Lo accetto" rispose lei con la medesima calma e sicurezza "Accetti di obbedirgli e prometti di essergli fedele ogni giorno della tua vita?" "Lo accetto" ripeté Cleorae. Ersalco annuì, tornando a guardare Morfgan "Maestà, la spada" disse l'uomo e Cleo vide Morfgan estrarre la spada col manico tempestato di gemme con un gesto sapiente, per mettersi in mostra più di quanto già non fosse. I rubini incastonati nel manico brillarono al sole esattamente come la lama e Morfgan la guardò, specchiandosi nel ferro. Cleo si inginocchiò lentamente, faticando un poco a causa del corsetto stretto, si fermò in ginocchio davanti a Morfgan e gli baciò la mano chinando il capo come segno di sottomissione. Allora Morfgan procedette, sollevò la spada e sfiorò prima la spalla desta e poi quella sinistra di Cleorae, dopo di che alla sposa fu concesso di rialzarsi "Questa cerimonia è conclusa" disse Ersalco "Secondo la nostra tradizione adesso siete marito e moglie con la benedizione del Dio Belis. Potete procedere con l'altra cerimonia" disse guardando con superbia Elbeth.

La sacerdotessa si fece avanti, li fece avvicinare all'Ara e lei si fermò di fronte, sull'Ara erano posizionati il vaso e il sacchetto di velluto rosso contenente il seme "Popolo di Expatempem!" disse con solennità "Siamo qui riuniti oggi per celebrare l'unione di quest'uomo e questa donna nel sacro vincolo del matrimonio" continuò Elbeth "Per questo motivo io invoco gli dèi e chiedo loro di assisterci, mostrandoci la loro presenza attraverso la forza dei quattro elementi, la terra, l'acqua, il fuoco e il vento". Elbeth alzò le mani al cielo e Cleo vide con la coda dell'occhio Ersalco che la guardava sogghignando, riuscendo appena a trattenere le risate "Cleorae Powtion" continuò la donna, guardandola negli occhi "Ti impegni oggi a rispettare quest'uomo, a essergli fedele, a essergli amica e confidente, bastone e roccia nei momenti del bisogno, luce e conforto nei momenti di dolore?" "Mi impegno a rispettare quest'uomo e a mantenere queste promesse solenni" rispose con fierezza Cleorae.

Elbeth sorrise impercettibilmente e si voltò verso Morfgan "E tu Morfgan Raylon, ti impegni a rispettare questa donna, a esserle fedele, a esserle amico e confidente, bastone e roccia nei momenti del bisogno, luce e conforto nei momenti di dolore?" Morfgan per un attimo non rispose, si era distratto "Ah? Sì, cioè, certo. Mi impegno a rispettare tutte queste promesse" disse celermente, con un'espressione vagamente beffarda sul volto. A Elbeth veniva da ridere e in realtà anche a Cleo, possibile che Morfgan non riuscisse a restare concentrato neppure in un momento del genere!? "Possiamo procedere con la cerimonia" disse la sacerdotessa, prendendo il vaso e il sacchetto.

Nel vaso c'era un po' di terra e c'era una piantina secca lasciata appositamente. Cleo e Morfgan presero il vaso e lo tennero insieme, poi Elbeth gli porse un ramoscello che bruciava, loro sradicarono la pianticella e dopo la diedero alle fiamme. Guardarono lentamente la pianta secca bruciare e poi tirarono fuori il seme dal sacchetto "Questo è un seme di heliconia" scandì a voce alta Elbeth, consentendo a tutti di sentirla, almeno a quelli sino a metà scalinata "È simbolo di prosperità, immortalità e amore eterno, sicuramente il fiore giusto per la nostra giovane coppia di sovrani". Cleorae e Morfgan piantano il seme e poi lo coprirono dolcemente con la terra, infine lo innaffiarono con dell'acqua portata dalla sacerdotessa.

Dopo aver ricevuto un cenno della donna alzarono il vaso al cielo e tutto il popolo attese, con gli occhi puntati verso l'alto, in un momento carico di tensione e speranze. Secondo il credo dei loro dèi infatti un matrimonio era considerato fortunato se il vento, l'unico elemento che non poteva essere catturare o creare, avesse soffiato quando il vaso veniva sollevato, per questo erano tutti così attenti in quel momento. Dopo qualche istante di silenzio e tensione però il vento fortunato spirò. Elbeth allora sorrise, era un sorriso orgoglioso e vagamente mistico, poi spalancò le braccia e alzò gli occhi al cielo, rivolgendoli presumibilmente agli dèi "È fortunato!" Esclamò e tutti esultarono, giubilanti e grati agli dèi per aver benedetto l'unione dei loro sovrani. La sacerdotessa allora gli consentì di posare il vaso sull'Ara e poi continuò a parlare "Con la benedizione degli dèi, io dichiaro valida la vostra unione. Adesso siete ufficialmente marito e moglie".

Ersalco si avvicinò a Elbeth, i due si scambiarono un bizzarro sguardo di intesa "Potete baciare la sposa, maestà" "Gli sposi possono scambiarsi un bacio in segno di sincero affetto" dissero l'uomo e la donna in contemporanea. Morfgan e Cleorae si avvicinarono e Morfgan la strinse forte a sé, baciandola. Gli applausi e gli urli di giubilo li avvolsero, stringendoli in un abbraccio immaginario che a Cleo fece venire i brividi di gioia e quando i due si furono separati consegnarono a Morfgan una corona appena più piccola della sua che lui posò sul capo della sua regina. Cleorae accolse la corona scintillante con solennità e con fierezza, portandola con grazia e fu come se i suoi capelli rossi facessero risaltare di più l'oro e gli zaffiri incastonati. Il re e la regina si sorrisero e si fermarono sulla cima della scalinata affinché tutti potessero ammirarli "Lunga vita a re Morfgan! Lunga vita alla regina Cleorae!" Furono sommersi da grida di giubilo di questo tipo mentre il popolo lasciava un varco e le guardie si disponevano di lato mentre i loro sovrani scendevano la scalinata salutando tutti con dei cenni delle mani.

Adesso era veramente fatta, pensò Cleorae con un sorriso gioioso, ormai non poteva più tornare indietro, era lei la regina di Expatempem! "Sei pronta per il giro in carrozza, Corallina?" Domandò con uno splendido sorriso Morfgan e per un momento Cleo rivide in lui la cortese eleganza di Fritjof nel corpo possente del suo primogenito "Ma certo che lo sono, amore mio!" Rispose lei con il medesimo sorriso smagliante che le illuminò il volto, come se irradiasse luce su tutti quelli che le stavano vicino. Morfgan stranamente rifiutò che il cocchiere aprisse loro la portiera della carrozza e preferì aprirla da sé, invitando poi Cleorae a entrare, probabilmente ostentando cavalleria "Viva il re! Viva la regina!" Continuava a urlare il popolo. Adesso potevano veramente gioire, si disse Cleo, la loro salvatrice era arrivata e non li avrebbe abbandonati per niente al mondo. Adesso il popolo di Expatempem sarebbe stato salvo.

 

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Capitolo 38
*** La notte senza stelle ***


Pov:Aurilda

Il castello di suo zio Favian era vicino, Aurilda e Ser Zalikoco avevano attraversato il confine che divideva la Provincia del Ghiaccio da quella dell'Aria già da qualche giorno e a giudicare dal volto soddisfatto del cavaliere e dal poco che ricordava Aurilda della strada, dovevano essere quasi arrivati. Aurilda non aveva più tentato di fuggire, il timore per la famiglia continuava a opprimerle il petto con forza, ma la ragazza aveva deciso che la cosa migliore da fare fosse lottare, vendicarsi e far tornare alto l'onore della famiglia Tenebrerus. Doveva sforzarsi di pensare a quelle cose, Aurilda non voleva scappare nuovamente, doveva rimanere ferma in quella decisione, decisa come era sempre stata e andare avanti nonostante il dolore, anche se era difficile, alcune volte il peso della rimembranza era insopportabile.

Da quando il cavaliere le aveva parlato Aurilda aveva sentito che qualcosa era tornato apposto tra di loro, ovviamente le cose non erano tornate come prima, era impossibile che tornassero tali perché troppe cose erano mutate, ma forse c'era qualcosa del loro legame di amicizia che poteva essere salvato con un po' di impegno da parte di Aurilda. Ser Zalikoco infatti si era sempre dimostrato disposto ad aiutarla, nonostante l'umidità dei boschi in quelle sere di fine inverno che di sicuro causava fastidi alle vecchie osservare del cavaliere e la scomodità del viaggio. C'era stato un momento in cui i due compagni di viaggio avevano veramente temuto per le loro viti, appena qualche giorno prima. Stavano proprio attraversando il ruscelletto che segnava il confine naturale alle due province quando tre demoni del fuoco li avevano aggrediti.

Aurilda e Ser Zalikoco ancora portavano le scottature, che fortunatamente erano superficiali e stavano guarendo lentamente. Nonostante fossero stati solo tre i demoni di fuoco erano molto veloci, li avevano accerchiati e avevano terrorizzato i cavalli, riuscendo persino a dare fuoco a una piccola radura dove l'erba era secca poiché la neve già da giorni si era sciolta. Quando avevano provato a distruggerli con le spade con uno aveva funzionato, poi però la spada era diventata incandescente e Ser Zalikoco l'aveva buttata a terra per non ferirsi ulteriormente. Fortunatamente Aurilda era riuscita a rompere la gamba a uno dei due mostri, questo era caduto nel piccolo ruscello e si era disgregato essendo già fragile a causa delle temperature ancora piuttosto rigide, cadendo nell'acqua fredda non aveva resistito oltre, finendo per essere riassorbito dalla terra che lo aveva generato, restando un ammasso di rocce e cenere. Ser Zalikoco aveva spinto anche l'altro a cadere nell'acqua con uno stratagemma e così si erano salvati. La mano del cavaliere però era piena di piaghe che si stavano assorbendo lentamente a causa delle ustioni che aveva subito tenendo in mano la spada incandescente per troppo tempo, mentre Aurilda aveva appena delle strisciate leggere sul dorso della mano che in qualche altro giorno sarebbero sicuramente guarite del tutto.

Dopo quel brutto incontro con i demoni fortunatamente era andato tutto bene, la fanciulla e il cavaliere avevano cercato di usare le mani ferite il meno possibile, probabilmente la cosa migliore da fare per il cavaliere sarebbe stata quella di fasciare le mani per aiutare le ustioni a guarire prima, ma non avevano delle fasce e Ser Zalikoco minimizzava, rifiutando la stoffa strappata dal mantello. Insomma erano tutti e due molto grati per essere quasi giunti alla loro destinazione, l'unica cosa che voleva Aurilda era farsi un bel bagno caldo che durasse anche un'ora, desiderava infatti lavarsi via la terra e il freddo dalla pelle, la fatica e poi un'altra cosa che desiderava intensamente era sdraiarsi su un bel letto morbido e dormire, perché dormire sul terreno le stava distruggendo la schiena.

Era quasi sera e i due erano assaliti da un interrogativo: meglio attraversare il bosco che li separava dal castello di corsa per presentarsi al sorgere della luna, oppure tenere duro ancora per una notte e arrivare all'alba? Ser Zalikoco non aveva dubbi a riguardo, sarebbe stato scortese presentarsi al castello a quell'ora tarda di notta, la buona educazione imponeva chiaramente di non presentarsi oltre il tramonto, perciò alla fine Aurilda si rassegnò all'idea di dover restare un'ultima notte nei boschi, d'altronde un'altra sera poteva farcela a dormire per terra. Smontarono da cavallo mentre la prima stella brillava nel cielo che loro non videro, coperti com'erano dagli alberi e poi si prepararono per l'ultima volta ad accendere un piccolo falò per cucinare il cibo, facilitati dalla neve che si era sciolta e dal vento che aveva potuto asciugare la legna "Immagino che sarete felice di mangiare qualcosa di diverso domani" disse Ser Zalikoco passandole uno scoiattolo. Aurilda sorrise "Effettivamente l'idea di fare un pasto vero mi rende molto felice" ammise lei.

Ser Zalikoco rispose al sorriso "Quale sarà la prima cosa che vi farete preparare?" Domandò, andandosi a sedere davanti al timido fuoco "Potrà sembrare strano ma credo che mi farò preparare una torta" rispose Aurilda, con l'acquolina in bocca "Ho bisogno di mangiare qualcosa di dolce, perché è davvero tanto tempo che non la mangio". Il Ser annuì e i suoi pensieri probabilmente si focalizzarono sulla torta di cui parlava Aurilda "Sarebbe fantastica una torta, inoltre pochi giorni fa è stato il vostro genetliaco e non avete potuto festeggiare" ricordò l'uomo, fermandosi per ingoiare il boccone "E credo siano trascorsi anni dall'ultima volta che ho mangiato una torta". Aurilda ingoiò, ignorando appositamente le parole riguardanti il suo compleanno avvenuto il quattro del mese da poco giunto di vigesio, perché il pensiero di averlo trascorso senza la sua famiglia rendeva il dolore più intenso, invece si focalizzò sulle restanti parole del cavaliere e lo guardò sorpresa "Ma al castello le facevano spesso" ricordò con le sopracciglia corrugate "Perché non ve ne siete mai preso una fetta? Ricordo chiaramente che mio padre e mia madre ve la offrivano spesso durante la merenda".

L'uomo annuì col capo "Certo" rispose "Ma non ho mai voluto accettare" "E perché no?" Domandò ancora Aurilda, senza comprendere "Non vi piacevano le torte del castello?" "Certo che mi piacevano" affermò lui "Solamente, non ritenevo che fosse opportuno per me, un semplice cavaliere, mangiare delle pietanze preparate appositamente per i signori che servivo, ma soprattutto preferivo che foste voi e le vostre sorelle a mangiarle, le torte rendono più felici un bambino o un ragazzo piuttosto che un vecchio come me". Aurilda scosse il capo "Il cibo, quando è buono ovviamente, può rendere felice chiunque. I vostri pensieri sono stati molto gentili e premuroso nei nostri confronti, ma dovete promettere che domani mangerete la torta che prepareranno insieme a me. La mangeremo noi due e poi sicuramente il mio cuginetto Evral, magari anche mio zio e mia zia si uniranno a noi".

Il volto di Aurilda si addolcì al pensiero di poter far merenda serenamente nel salotto del castello con suo zio, sua zia e suo cugino "Promettetemelo" disse poi, tornando a guardare l'uomo "Se proprio ci tenete tanto farò questo sforzo per compiacervi" rispose l'uomo con un sorriso, vagamente ironico. Aurilda annuì, soddisfatta "Altri cibi che gradirei mangiare sono frutta e verdura" rifletté Aurilda "E' da tanto che non ne mangio. Oh, e i legumi ovviamente, quanto mi mancano i fagioli, le lenticchie e i ceci, sento ancora il sapore delle zuppe di Zenobia. Ricordo anche quando al castello preparavano una buonissima zuppa di legumi, Nomiva e Selina litigavano sempre con i nostri genitori perché non volevano mangiarla".

Il cavaliere vide il sorriso di Aurilda spegnersi dopo aver parlato di quel doloroso ricordo, similmente alla luce flebile di un fuoco durante una tempesta che si spegne con rapida violenza. La ragazzina abbassò gli occhi e riprese a mangiare in silenzio, staccando piccoli pezzi e mangiando senza più voglia. Per quella volta l'uomo preferì non aggiungere altro, desiderava continuare a parlare e dire qualcosa per consolare la sua giovane amica, ma un'altra parte del suo animo sapeva di aver finito le belle parole di consolazione, ormai l'unica cosa da fare era sperare che il tempo potesse alleviare almeno un po' il dolore, per rendere il trascorrere della vita almeno sopportabile. "Non volevo rattristarvi, mi dispiace" le parole di Aurilda sorpresero molto il cavaliere, a dire la verità Aurilda parò in quel modo più per tentare di tirare su sé stessa, perché sentiva uno spiacevole vuoto allo stomaco, un opprimente senso di malinconia tentava di soffocarla in una morsa ferrea e se fosse rimasta in silenzio le cose non sarebbero certamente migliorate, tutto l'opposto "Avete tutto il diritto di pensare alla vostra famiglia" rispose subito lui, con gli occhi azzurri velati di tristezza e pietosa consapevolezza.

La ragazza annuì e riprese a mangiare, senza parlare per qualche minuto. Solo quando ebbero finito la cena Aurilda tornò a parlare " Voi cosa avete intenzione di fare adesso?" domandò sospirando. L'uomo spalancò gli occhi "Perché mi porgete una domanda del genere?" "Perché pensavo che aveste dei progetti" rispose Aurilda "Pensavo che magari aveste pensato di ritirarvi per vivere serenamente gli ultimi anni della vostra vita" concluse Aurilda, stringendosi nel mantello a causa di un improvviso vento stranamente freddo. "Io..." disse l'uomo piano e sembrava confuso "Io devo essere giustiziato per il tradimento a vostro nonno, non lo ricordate più?" Aurilda parve irrigidirsi, spalancò gli occhi e lo fissò, trattenendo il fiato. "No" mormorò poi, restando immobile.

"No?" Ripeté il cavaliere confuso, con il volto vagamente grave "Non sarete giustiziato" si decise Aurilda "Ma come no?" Rispose subito l'uomo stravolto e, perché no, contrariato "È giusto che io venga punito, sono un traditore e mi sono nascosto per troppi anni senza pagare. Devo essere giustiziato per rendere onore alla memoria di vostro nonno e perché è la cosa giusta da fare, quello che merito" "Ho detto di no!" Ripeté Aurilda con ostinazione. Guardò negli occhi l'uomo e sentì un brivido all'idea di perdere anche lui "So che avete sbagliato" rispose piano dopo aver deglutito a fatica "Ma forse non serve una punizione così dura. Avete scontato una grande parte della vostra punizione servendo con vera fedeltà la nostra famiglia durante tutti questi anni, salvato tante vite.... Il vostro buon servizio verso mio padre e la lealtà che avete dimostrato a me è la prova del vostro sincero pentimento, quindi ho deciso che non verrete giustiziato" concluse Aurilda, sentendosi incredibilmente più leggera dopo aver detto quelle parole. I due restarono a guardarsi negli occhi, Ser Zalikoco aveva gli occhi azzurri che brillavano di gratitudine, probabilmente anche di commossa gioia e senza parlare sorrise e chinò il capo in segno di ringraziamento.

Aurilda non aggiunse altro, si limitò solo a sorridere debolmente, poi di comune accordo spensero il piccolo fuoco e si prepararono a dormire per l'ultima notte sulla fredda terra, avvolti dall'umidità del bosco tornato verdeggiante. La ragazza si mise come al solito di lato, con la guancia sul palmo della mano per tentare di stare più comoda. Durante la cena si era alzata una brezza fredda, invernale nonostante l'inverno stesse volgendo al termine, il che era abbastanza strano ma più che altro era triste. Aurilda aveva sperato che l'arrivo della primavera potesse portarsi via tutte le disgrazie che erano capitate a lei e alla sua famiglia e quindi era stata molto felice del clima tiepido degli ultimi giorni, adesso però sembrava tornato il freddo e Aurilda lo collegò immediatamente all'incontro con Adelynda avvenuto sotto la neve al freddo, l'incontro che aveva cambiato tutto.

Ser Zalikoco era steso poco lontano dal punto in cui era lei e sembrava fosse già profondamente addormentato, mentre Aurilda era costretta a fare i conti con i consueti problemi con il sonno, accentuati dai ricordi tristi e dal freddo. Si girò sull'altro fianco e cercò una posizione comoda per dormire; oltre al freddo improvviso quella sera le sembrava quasi che il terreno si fosse fatto più duro e inospitale del solito. Aurilda si pentì presto per non aver insistito di più e di aver assecondato Ser Zalikoco, se era vero che l'educazione chiedeva di fare visita non oltre il tramonto, era altrettanto vero che le sue ossa stanche chiedevano di riposare decentemente subito.

Ma ormai era fatta, pensò, non poteva fare altro che aspettare il sorgere dell'alba, attendendo che il sonno sopraggiungesse per recarsi finalmente al castello. Aurilda sbuffò piano nel buio, irritata, la luce della piccola falce di luna filtrava debolmente attraverso i rami fitti degli alberi, impedendole di vedere più lontano di cinque o sei metri dal punto in cui era distesa. Aurilda chiuse gli occhi con stizza ma subito li riaprì, per tirarsi su il mantello che era scivolato giù. Irritata più che mai decise di alzarsi a sedere e si coprì i piedi con la mascella serrata, sbuffando ancora per il nervosismo. Stava per rimettersi giù, imponendosi di calmarsi e dormire quando aguzzò la vista, pensando di aver visto qualcosa muoversi poco lontano tra gli alberi. Restò immobile, non voleva svegliare Ser Zalikoco e allarmarlo per nulla, ma sentiva ugualmente che restare vigile fosse la cosa più saggia da fare.

Aurilda restò acquattata nelle tenebre come una lince prima di attaccare, tentando di penetrare l'oscurità con la sola flebile luce che la luna le offriva. Aveva ancora gli occhi fissi verso il lato destro del bosco quando un rumore più forte la fece scattare in piedi "Ser Zalikoco, c'è qualcuno!" si avvicinò all'uomo e lo scosse piano, allarmata e tesa "Siamo in pericolo?" domando assonnato il cavaliere, sforzandosi di tornare vigile e ben attendo nonostante la stanchezza "Non so lo" sussurrò in risposta Aurilda, sentendo i brividi dal freddo e a causa di quell'inquietudine che sentiva all'altezza dello stomaco "Allora la cosa più saggia da fare sarà recarci al castello, nonostante l'ora tarda" decise il cavaliere. L'uomo si tirò su un po' a fatica, dimenticando l'elmo vicino alle radici del grosso l'albero che gli stava vicino "Prendiamo i cavalli e andiamo" disse ancora il cavaliere ad Aurilda che annuì senza esitazioni. Aurilda slegò le briglie da un grosso ramo basso a cui erano legate e tirò i cavalli verso l'uomo "Saliamo" mormorò, sentendo un nuovo brivido lungo la schiena.

E proprio mentre montavano in sella li videro, erano simili a uomini ma più massicci, formati da blocchi di ghiaccio e sarebbero sembrate delle statue a chiunque se non fosse stato per gli occhi di un blu innaturale. Era sempre quello il modo per accertarsi di essere in presenza di un demone dei quattro elementi, i loro occhi erano di colori innaturali, ad esempio quelli che avevano davanti essendo demoni di ghiaccio avevano gli occhi di un azzurro intenso, mentre i demoni del fuoco avevano occhi di brace. Solo il Re della Morte sembrava avesse avuto gli occhi di un azzurro quasi identico a quello dei demoni che adesso avevano davanti, lui e poi tutti i suoi discendenti.

Aurilda e Ser Zalikoco vedendoli non persero altro tempo, spronarono i cavalli e partirono a tutta velocità, con il solo scopo di mettere più distanza possibile tra loro e quei mostri "Ecco perché faceva così freddo!" sussurrò Aurilda, comprendendo improvvisamente la causa dei suoi brividi "Dobbiamo andare più veloci, dobbiamo andare al castello" "Ma signorina, i cavalli come faranno a correre rapidamente nel bosco, di notte per giunta?" domandò legittimamente Ser Zalikoco, senza aspettarsi una risposta "Non lo so e non mi importa!" esclamò Aurilda spaventata "Ma dobbiamo trovare un modo per scappare".

Così continuarono ad andare, avanzarono correndo maldestramente nel bosco, impigliandosi qualche volta ai rami più sottili degli alberi che non riuscirono a vedere a causa della notte densa e poi finalmente videro le torri del castello di suo zio sulla collina lì vicino, il luogo che significava salvezza. Aurilda sorrise e si preparò a uscire dal bosco, pronta finalmente a riposare dopo tanta paura e tanta stanchezza. Continuarono a spronare i cavalli fianco a fianco e proprio quando erano giunti all'ultima fila di alberi che li separava dalla radura che portava alla collina, Aurilda si sentì sbalzare giù. Il cavallo l'aveva disarcionata un'altra volta, lei era rotolata lungo il prato e la spada le era caduta dal fodero, rimanendo poco lontana, mentre la luna si rifletteva nella lama come una fanciulla vanitosa che si specchia.

Aurilda si rialzò dolorante, sentendo il ginocchio destro e il fianco dove era caduta dolere particolarmente, voltandosi subito per assicurarsi che Ser Zalikoco stesse bene. Il vecchio cavaliere era poco distante da lei, a quanto pareva anche lui era stato disarcionato ed era caduto appena dopo gli ultimi alberi, sul limite del bosco. Aurilda guardò i cavalli, erano caduti a terra a causa di alcune ferite alla gola che li avevano uccisi. Aurilda fu scossa da un nuovo brivido di paura che si mescolò a uno di freddo, i cavalli erano stati uccisi da delle lame di ghiaccio che gli erano state conficcate nel petto. Aurilda corse indietro, inciampando nel vestito mentre camminava sulle ginocchia riprese la spada e poi si alzò per raggiungere il cavaliere. Stringendo i denti dalla disperazione aiutò l'uomo a rialzarsi "Dobbiamo andarcene" disse Aurilda e la sua voce tremava, mentre la bocca era secca.

L'uomo strinse la sua mano ma la sua non fu una stretta forte, non fu la stretta pronta di chi era grato per l'aiuto appena ricevuto, fu piuttosto la stretta di chi saluta i cari prima della morte. Aurilda lo fissò con gli occhi spalancati e le mani tremanti, comprendendo le intenzioni del cavaliere ancor prima che avesse proferito parola "Andate" disse infatti l'uomo, guardandola negli occhi senza la minima esitazione sul volto "Penserò io a loro, voi correte al castello e salvatevi. Vi prometto che li ucciderò o almeno li tratterrò per tutto il tempo di cui sarò capace, ma voi promettetemi che correrete come mai avete corso prima d'ora". Il volto del cavaliere era serio, ma Aurilda notò con grande rispetto che non aveva la minima paura, non per sé stesso almeno.

Questo però non bastò per calmare Aurilda che scosse il capo terrorizzata e sconvolta "No" disse velocemente "Come no!?" replicò subito il Ser, guardandola con un'espressione severa "Non capite che dovete scappare? Stanno arrivando e io non so quanti sono e neppure per quanto tempo sarò in grado di trattenerli!" "Ho detto di no!" ripeté Aurilda, urlando terrorizzata e disperata "Non capite che non posso lasciarvi qui!?" disse, sentendo il fiato farsi corto e gli occhi colmarsi di lacrime "E perché no? Volete morire!?" domando lui, tentando di dissuaderla dal restare "Io sono vecchio, ho vissuto la mia vita e inoltre ho un conto in sospeso con la vostra famiglia. Vi prego di ascoltare le mie parole, scappate, cerca almeno di salvarvi la vita!"

Aurilda tremava da capo a piedi per il timore, il respiro quasi le mancava e la testa le girava per la forte, asfissiante paura. Avrebbe voluto gridare e piangere, distruggere ogni cosa e scoprire che tutto quello era un incubo tremendo in cui era scivolata da tempo, eppure non era così e lo sapeva bene e sapeva bene anche che avrebbe rischiato di perdere la vita se fosse rimasta al fianco di Ser Zalikoco e solo gli dèi potevano sapere quanto la terrorizzava quell'idea. Allora perché non fuggiva come diceva il cavaliere? Perché Aurilda aveva paura persino di scappare, inoltre adesso che si erano riappacificati l'idea di abbandonare lì l'uomo, quasi certamente condannandolo a morte la faceva sentire colpevole esattamente come si era sentita quando le avevano detto della morte delle sue sorelle. "Voi non capite, non è vero!?" urlò finalmente con il poco fiato rimastole, sentendo la gola andare in fiamme "Ho già perso abbastanza membri della famiglia, ne ho condannati abbastanza per la mia salvezza, non lascerò morire anche voi, non permetterò che per il mio bene si sacrifichi un altro membro della mia famiglia! Farò tutto quello che è in mio potere pur di aiutarvi e raggiungeremo il castello insieme." Ser Zalikoco sguainò la spada e la guardò, questa volta nei suoi occhi brillavano vere lacrime di commozione "Aurilda" sussurrò, in un ultimo tentativo disperato di farla desistere dal suo proposito "Io non vi lascio solo" ripeté lei, sentendo una lacrima solitaria rigarle la guancia destra. L'uomo la accarezzò con la mano libera dalla spada, asciugandole il volto "Non voglio che moriate" disse lui con la voce rotta "E allora non moriremo" rispose lei a voce bassa, sorridendo mentre una nuova lacrima le rigava il volto.

I due si guardarono negli occhi e poi si prepararono, impugnarono saldamente i manici delle loro spade "Ricordate quello che vi ho insegnato" disse l'uomo e si percepì la tensione nella sua voce bassa "E quello che vi ha mostrato Omalley". Aurilda annuì e strinse le mani tremanti più saldamente intorno al manico della spada che proprio il cavaliere le aveva regalato appena un anno prima. Aurilda sospirò lentamente con l'inutile tentativo di calmarsi, vedendo i mostri arrivare di corsa tra gli alberi. Era con molta probabilità la fine quella, lo sapeva bene anche lei, era per questo che aveva così tanta paura. Morire sì, era propri quello che sarebbe successo se non fossero riusciti a distruggere quei demoni maledetti. Se avessero potuto sentire i suoi pensieri o solo guardarla negli occhi o ancora tenerle la mano per sentire quanto tremava, chissà cosa le avrebbero detto se fossero stati dotati di raziocinio o anche solo dell'uso della parola.

E pensare che sino a pochi giorni prima Aurilda si era detta pronta a morire nella capitale, dopo essersi consegnata a Morfgan. Che stolta era stata, che ingenua, che pazza! Si era mostrata così decisa, così coraggiosa, anzi, così impavida e temeraria, quasi sprezzante della morte. E invece ora? Lo aveva detto sì, aveva affermato di essere pronta a morire ma la realtà era molto diversa, perché Aurilda era terrorizzata all'idea di morire, la sola idea la faceva paralizzare, impedendole di muovere i muscoli per il terrore intenso che le scuoteva le viscere. Ma doveva farlo, doveva almeno provare a sopravvivere, a combattere. Se fosse andata male avrebbe rivisto sua madre, suo padre, ma soprattutto avrebbe rivisto Nomiva e Selina, mentre se fosse andata bene avrebbe rivisto gli zii.

Era quello il pensiero su cui focalizzarsi, sarebbe andato tutto bene comunque, qualsiasi cosa fosse accaduta. Quello in fondo era solo un gioco, un allenamento per testare le sue abilità come spadaccina, ma per il resto era solo un gioco. Di certo Aurilda non se lo sarebbe mai immaginato, mai avrebbe pensato che un giorno sarebbe stata costretta a pensare alla sua vita come un gioco per riuscire a muoversi. Ecco cos'era veramente la paura, quella era la disperazione e Aurilda avrebbe tanto voluto avere il coraggio di fuggire o magari il coraggio di buttare a terra la spada e lasciarsi uccidere, lasciare che tutto finisse subito. Invece la speranza maledetta l'aveva imprigionata in un limbo che l'avrebbe uccisa lentamente dal timore di non farcela. Dannata speranza!

Così Aurilda si impose di scacciare quei pensieri dalla mente e alzò la spada, tenendola alta al fianco di quella di Ser Zalikoco, guardando i demoni che gli venivano incontro. Ne uscì uno, poi ne uscì un secondo, poi un altro e infine un ultimo. Erano quattro quindi, quattro mostri di ghiaccio si frapponevano tra lei e la vita. I demoni non persero tempo quando li ebbero raggiunti, si scagliarono verso di loro e li travolsero. Ser Zalikoco subito scattò in avanti, la sua lama saettò e con una serie di colpi sapienti il mostro si frantumò in cristalli di ghiaccio "Il loro ghiaccio scheggia le lame, non so quando potrebbero resistere!" disse il cavaliere, preoccupato dalla sua scoperta.

Aurilda se ne trovò uno difronte, iniziò a muovere prima la spada a casaccio, terrorizzata com'era, poi tentò di ragionare lucidamente e iniziò un vero duello con quel mostro. Il demone la ferì al braccio sinistro, il sangue della ferita le colorò l'abito ormai logoro ma fortunatamente quel taglio non era così profondo e sarebbe guarito facilmente, tuttavia questo non significava che non facesse male. Aurilda strinse i denti ma continuò a combattere, non poteva lasciarsi fermare da un graffio, ne valeva della sua vita. Ser Zalikoco intanto stava duellando con un altro demone, quello che aveva fatto a pezzi prima era stato riassorbito dal terreno, ma non era semplice frantumare il ghiaccio spesso con cui erano fatti i demoni e inoltre non sapevano le loro lame quanto avrebbero resistito prima di distruggersi.

Aurilda con un colpo finalmente fece volare via la testa del demone e quando questa cadde a terra il corpo piombò tra l'erba e si sciolse velocemente. Un ghigno compiaciuto e trionfante illuminò il viso di Aurilda, ma subito la vista della lama spezzata della sua spada di manifattura inferiore rispetto a quella del cavaliere la fece temere, però si era staccato solo un pezzo, la parte mancante era sommariamente piccola quindi c'era ancora speranza. Aurilda non ebbe il tempo di pensare altro perché si voltò e fu costretta a iniziare un duello con l'ultimo mostro. Ser Zalikoco intanto era impegnato in uno splendido duello con uno dei demone, combattevano già da diversi minuti e ad Aurilda dispiacque di non poterlo osservare.

Presto lo perse dal campo visivo ma Aurilda sapeva che Ser Zalikoco era dietro di lei. Guardò negli occhi il suo avversario, Ser Zalikoco infatti le aveva sempre detto che guardando l'avversario negli occhi era possibile anticipare le sue mosse, ma Aurilda pensò che o lei era un disastro a capire le mosse che aveva in mente l'altro oppure quegli occhi azzurri erano indecifrabili. "Ah!" il gemito di dolore di Ser Zalikoco le fece trattenere il fiato "Siete ferito!?" domandò Aurilda, riprendendo a tremare visibilmente.

L'uomo non le rispose e Aurilda temette il peggio, tentò di voltarsi per controllare ma il demone non glielo permise e lei fu costretta ad affondare la spada in avanti per allontanarlo, tuttavia la lama si spezzò ancora come un misero ramoscello, facendola cadere a terra. Aurilda riprese il pezzetto di spada che le era rimasto e strinse forte l'impugnatura, voltando un secondo lo sguardo a destra per guardare Ser Zalikoco. E allora lo vide, il demone sfilò la lama dal corpo dell'uomo mentre teneva sotto i blocchi di ghiaccio che erano i piedi la spada di Ser Zalikoco, mentre il sangue colava dal ghiaccio della lama che il demone teneva in mano.

Il cavaliere si accasciò a terra e il demone riassorbì la lama, mentre la spada del Ser restava a terra. Il volto di Aurilda si contorse in una maschera di dolore e divenne di un pallore spettrale e subito dopo un grido di dolore e rabbia le uscì dal petto "No!" strillò disperata, mentre l'assassino del suo amico le si avvicinava velocemente, pronto a uccidere anche lei, proprio come l'altro demone contro cui stava combattendo Aurilda, quello che si stava avvicinando con calma, come se provasse piacere nel vederla così terrorizzata.

Aurilda strinse ancora i denti, mentre le lacrime per Ser Zalikoco le rigavano il volto. Doveva morire come avrebbe voluto lui, combattendo, il problema era solo scegliere l'avversario, continuare con quello contro cui stava duellando prima o sostituirsi al Ser? Optò per finire il lavoro che aveva iniziato, si alzò per andare incontro al demone quando l'altro, che stava sempre avanzando verso di lei, venne ucciso. Ser Zalikoco gli si era aggrappato alle spalle e lo aveva ucciso alle spalle, esattamente come avrebbe fatto Omalley.

Il demone scoppiò in mille cristalli di ghiaccio e Aurilda rivide il cavaliere un'ultima volta, era pallido e stanco ma incredibilmente coraggioso e fiero, onorevole e leale. La guardò con un dolce sorriso "Aurilda" sussurrò un'ultima volta e poi si accasciò a terra, esanime, lasciandola definitivamente sola alla mercé dell'ultimo mostro. La ragazza però non poté corrergli vicino per piangerlo, perché l'ultimo demone l'aveva raggiunta. Come prima cosa la colpì sul volto e lei con un istintivo gesto della mano riuscì a coprirsi l'occhio con due dita, sentendo il sangue colare da sopra al sopracciglio sinistro, poi dalle dita della mano che le avevano protetto l'occhio e per buona metà della guancia.

Aurilda si asciugò la ferita sul sopracciglio, sperando che il sangue non le colasse nell'occhio e non la ostacolasse durante il combattimento. Ma non ci fu tempo, prima che se ne fosse resa conto il demone le aveva conficcato una grossa lama di ghiaccio nella parte destra del ventre, ferendola irrimediabilmente. Aurilda trattenne il fiato per il dolore, digrignò i denti e restituì il colpo al demone, conficcandogli l'ultimo pezzettino di spada nel petto. La ragazza vide così scoppiare in mille cristalli anche l'ultimo nemico, l'ultimo di quei quattro maledetti demoni.

Stremata Aurilda si accasciò a terra di fianco al cadavere di Ser Zalikoco. Con la mano si asciugò nuovamente il sangue che colava sopra l'occhio sinistro, sorreggendo la testa dell'uomo e carezzandogli il volto, mentre il sangue brillava sul collo del cavaliere, in contrasto con la pelle pallida. Aurilda si sentiva male, guardando l'uomo le veniva da piangere per la tristezza, lui era un'altra parte della sua famiglia che se n'era andata, un altro che aveva visto andare via senza poter fare nulla per evitarlo. Sentì le lacrime bruciare negli occhi, erano lacrime salate, le lacrime di chi ormai non aveva più niente da perdere. Tanto valeva piangere adesso, si disse, perché non ci sarebbe più stato altro tempo per piangere. Ma in realtà non era solo la morte di Ser Zalikoco a farla piangere dal dolore, la lama di ghiaccio ancora conficcata nel suo ventre non aiutava di sicuro, le faceva talmente male che Aurilda faticava a respirare per il dolore. Guardò il castello dello zio arroccato sulla collina poco lontana, circondato da pini alti, poi distolse lo sguardo. Non ci sarebbe mai arrivata, anche se ci avesse messo tutte le forze che aveva e se anche ce l'avesse fatta Aurilda sapeva perfettamente che non sarebbe ugualmente servito a nulla perché non c'era infuso in grado di guarire la sua ferita.

Tornò la forte, asfissiante, paura che si impadronì di lei, unita a quella che orami era una certezza: sarebbe morta, sarebbe morta lì ai piedi del castello di suo zio senza poterci fare nulla, senza vedere l'alba di un nuovo giorno. Tutto finiva lì, in quella notte fredda e solitaria, senza conforto. La paura e la disperazione stavano per vincerla, quando la famigliare rabbia la pervase. L'idea che lei sarebbe morta lì e gli assassini dei suoi genitori, delle sue sorelle e di buona parte della sua famiglia no la rendeva furiosa. Il dolore e la rabbia combattevano senza riuscire a prevalere l'uno sull'altra, con il rischio di causare una battaglia. Poi Aurilda guardò ancora il volto pallido del suo compagno di viaggio e lo baciò sulla fronte, sapendo cosa dovesse fare.

Si rialzò barcollando e prese qualcuna delle rocce più piccole che erano sul prato, adagiandola intorno al corpo di Ser Zalikoco fino a formare un cerchio con le poche forze rimastele in corpo, non senza fatica. Vedeva a tratti nero, il prato e il cielo vorticavano intorno a lei e il dolore lancinante al fianco era talmente forte che Aurilda temette di perdere la ragione. Si costrinse però a restare concentrata ancora per poco, dopo avrebbe pensato a quello che sarebbe accaduto. Inginocchiata malamente a terra accese un fuoco a fatica e poi lo adagiò sulla pelle del cavaliere. Il fuoco iniziò a divorarlo, lasciando l'armatura intatta. Aurilda chinò il capo in preghiera, tentando per quanto possibile di ignorare il dolore lancinante al fianco "Miei dèi" disse, parlando a voce bassa e dolorante "Vi prego di ascoltare le mie parole. Quest'uomo ha sbagliato, tradì la famiglia che serviva ma poi trascorse il resto della sua vita servendola. Io vi prego quindi di perdonarlo, perché io, in nome della famiglia Tenebrerus, lo perdono. Che possa riposare in pace e avere la gloria che merita poiché è sempre stato un cavaliere leale e coraggioso e un uomo nobile e buono. Che Ser Zalikoco Lonor possa riposare in pace per l'eternità."

Aurilda chiuse gli occhi per pochi secondi, poi li riaprì, trattenendo a stento le lacrime "Inoltre vi chiedo, maledite gli assassini della mia famiglia! Io commisi un errore, ma i miei cari erano innocenti!" Aurilda aveva preso a urlare, in parte per la rabbia, in parte per il dolore, con gli occhi lucidi "Hanno ucciso degli innocenti e io vi prego, perché so che deve esistere una giustizia! Uccideteli! Fate morire quegli assassini!" Aurilda si sentiva sempre più debole, si lasciò cadere all'indietro con il sedere sui talloni, mollemente "E in fine vi prego" disse parlando in un sussurro strascicato, lasciando che le lacrime cadessero "Perdonatemi per tutti gli errori che ho commesso. Accoglietemi ora che morirò e fatemi riabbracciare la mia famiglia!"

Tremava, ogni parte del suo corpo tremava per il dolore, per il freddo e per la paura. Aurilda si guardò il fianco ferito con lo sguardo appannato dalle lacrime, il sangue continuava a imperlarle le ciglia dell'occhio sinistro, come la rugiada sulle foglie. La disperazione più assoluta si impadronì di lei, si portò le mani sul volto e pianse forte, rumorosamente, gridando persino. Non voleva morire, lei voleva vivere, aveva paura, ma come poteva impedire al destino inesorabile di compiersi? Ormai era in fin di vita! Si tolse le mani dal volto e le guardò, erano sporche di terra, umide di lacrime e macchiate dal suo stesso sangue. Aurilda le guardò e pianse ancora, gridando forte. Era tutto finito, non ci sarebbe stato altro. Si odiava per essere una codarda, era spacciata e il dolore al fianco era insopportabile ma pur di non finirsi preferiva soffrire, pur di restare viva ancora un po' preferiva torturare in quel modo atroce il suo corpo stremato.

Tremava convulsamente e il cielo, gli alberi e il prato vorticavano fortemente intorno a lei, dandole la nausea. Doveva smetterla di indugiare oltre, non sarebbe servito a niente. Aurilda tirò un profondò respiro con l'intento di calmarsi ma fu inutile, così guardò il cielo, la luna serena. Pensò ai volti di Nomiva e Selina, pensò che la stessero aspettando. E così Aurilda si decise, con mani tremanti e con gli occhi chiusi afferrò la lama di ghiaccio che aveva nel fianco e la estrasse. Cacciò un ultimo gridò di dolore, poi pianse, tenendo un attimo la lama stretta in mano. Scosse il capo in lacrime, non doveva aspettare oltre, Nomiva e Selina si ripeté, Nomiva e Selina. E fu così che Aurilda mentre le lacrime e il sangue le rigavano un'ultima volta le guance pallide si conficcò con forza la lama di ghiaccio che le aveva torturato il fianco nella parte sinistra del petto, proprio sopra al seno, all'altezza del cuore, prima di perdere il coraggio.

Aurilda riaprì gli occhi per l'ultima volta, piangendo sino all'ultimo attimo della sua vita, ammirando il castello poco lontano di suo zio, con la bocca schiusa e il volto contratto dalla disperazione più totale. Fu così che si tolse la vita trafiggendosi il cuore e non appena la lama ebbe raggiunto il suo cuore, Aurilda sentì le forze abbandonarla rapidamente mentre una lacrima le restava impigliata tra le ciglia. Il nero la avvolse dolcemente, come fa il sonno dopo una lunga giornata faticosa, poi la ragazza chiuse gli occhi per l'ultima volta e il suo corpo si afflosciò all'indietro, cadendo come un burattino senza fili, mentre il fuoco dalla pira di Ser Zalikoco sfidava il nero della notte e il fumo saliva alto nel cielo, per consegnare l'anima del cavaliere agli dèi.

 

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Capitolo 39
*** Due volpi con un solo cuore ***


Pov:Nomiva

Nomiva non riceveva quasi più visite in cella e non sapeva se fosse un bene o un male. Dalla sera in cui lei e Drovan avevano parlato non erano più venuti a torturarla, entrava solo un uomo per portarle da mangiare, da bere e per vuotarle il secchio per i bisogni. Nomiva era rimasta incatenata per diversi giorni, poi le avevano tolto le manette ma lei non aveva osato muoversi per timore che la costola rotta potesse perforarle il polmone. Continuava a fare abbastanza freddo nelle carceri nonostante fuori stesse arrivando la primavera, ma quello non era di certo il problema principale. Il cibo che le portavano era sempre più rivoltante e Nomiva aveva la nausea, alcuni giorni aveva saltato il pranzo o la cena pur di non mangiare quella roba, salvo poi sentirsi senza forze oltre che dolorante e infreddolita. Le ferite delle manette sui polsi faticavano a cicatrizzarsi, la pelle era pallida, fredda e vagamente giallognola a causa della lunga prigionia. Il fianco dove c'era la costola rotta le faceva sempre male, alcune volte Nomiva sentiva mancare il respiro e temeva di muoversi per la paura, mentre altre quasi non ci faceva caso, abituata a sopportare il dolore come stava diventando.

Quanto le avevano tolto le manette Nomiva si era toccata il viso, constatando come gli zigomi sul volto si fossero fatti appuntiti come mai li aveva avuti prima, poi si era tastata cautamente il torace e mai come allora aveva sentito le sue ossa così bene. Ogni tanto le veniva ancora da piangere lì dentro, era incredibile come tutto stesse finendo lentamente, con quella lenta agonia. Non si sarebbe mai vendicata di Teurum, tantomeno di Drovan o Morfgan, tutto si sarebbe spento e lei sarebbe diventato solo un mucchietto di cenere, solo un'altra dei Tenebrerus morti. Nomiva si era quasi pentita delle parole che aveva rivolto a Drovan, magari se fosse rimasta in silenzio lui l'avrebbe lasciata vivere alla fine.

Molto presto però Nomiva si era vergognata di quei pensieri, lei aveva fatto bene, magari Drovan non avrebbe mai toccato il fratello, ma sicuramente le parole di Nomiva lo avevano segnato e questa poteva già essere considerata una piccola vittoria, specie considerando le condizioni in cui era costretta Nomiva. Quella sera Nomiva era come di consueto con la schiena al muro e il capo chino, inspiegabilmente la volpe Ruby non era più andata a trovarla, Ruby, la sua unica fonte di consolazione, la sua ultima amica era sparita da un giorno all'altro e l'aveva lasciata sola come avevano fatto tutti. Nomiva aveva sentito un dolore all'altezza del petto quando se ne era resa conto perché le si era affezionata molto e quella sparizione improvvisa, probabilmente permanente, significava che non si sarebbero più riviste. Nomiva però non riusciva a sentirsi arrabbiata con la volpe, le aveva tenuto compagnia in tanti momenti difficili ed era più che normale che fosse tornata a vivere senza vincoli, come l'animale libero e selvatico che era, anzi, era stato strano e meraviglioso avere la sua compagnia per tanto tempo.

E ovviamente era inevitabile che senza Ruby ogni cosa fosse sprofondata in un grigiore e in una tristezza deprimenti. La stanza era sempre nella penombra, avvolta dalle tenebre e dal silenzio perpetuo, interrotto solo dalle voci dei soldati e dai cavalli provenienti dall'esterno. Ormai c'erano solo la desolazione e l'attesa della morte a fare compagnia a Nomiva. La ragazzina guardava spesso la porta, immaginando che da un momento all'altro potesse entrare qualcuno che l'avrebbe uccisa, mettendo fine a tutte quelle inutili, prolungate sofferenze. Nomiva non sapeva neanche più se desiderava sperare ancora, la speranza era troppo difficile da trovare in quei momenti, era molto più semplice lasciarsi trascinare nel freddo mare della morte.

Nomiva aveva persino iniziato a fare delle ipotesi sul modo in cui l'avrebbero uccisa, aveva ipotizzato molti modi differenti e aveva addirittura stilato una classifica nella sua mente del tipo di morte che avrebbe preferito ricevere. Sicuramente visto che voleva morire in modo veloce il primo posto della sua classifica era occupato da una pugnalata al cuore, ma era ben consapevole del fatto che Drovan avrebbe scelto per lei una morte molto più lenta e dolorosa. Drovan già, e pensare che i suoi genitori volevano chiedere al re Fritjof di farlo fidanzare con lei, al solo pensiero Nomiva capì cosa dovesse aver provato sua sorella, costretta a sposare Morfgan. Mentre Nomiva pensava alla sua dipartita la porta della stanza si aprì, rivelando il solito uomo che in quei giorni si era occupato di portarle i pasti e vuotarle il secchio "Come mai già la cena?" Domandò Nomiva sospettosa.

L'uomo non la degnò di uno sguardo, aprì la cella ed entrò con il solito bastone alla mano, lasciando a terra la ciotola con la poltiglia maleodorante, poi tornò fuori e chiuse a chiave "Queste sono le disposizioni stupida ragazzina" rispose con fredda scortesia "Le nuove disposizioni intendi dire" replicò Nomiva "E perché sono cambiate?" Insistette ancora "E cosa vuoi che ne sappia io, brutta impicciona!?" Disse quello malamente "Adesso taci e mangia". Nomiva guardò la ciotola "Non mi avete portato l'acqua" gli fece notare. L'uomo sbuffò "Vuoi chiudere la bocca una buona volta?!" Sbraitò "Non ne avrai bisogno" aggiunse "E poi, maledizione, non ti basta tutta l'acqua del brodo?"

Nomiva lo guardò fermamente nella penombra "Non avete più intenzione di sprecare beni essenziali per me" disse piano, con la bocca secca, riflettendo ad alta voce "Perché non aveva più intenzione di tenermi in vita, non è vero?" L'uomo si voltò, Nomiva distinse i suoi occhi brillanti nel buio "Domani mattina, ragazzina" rivelò l'uomo con voce atona, scrutandola attentamente mentre si grattava la fronte dalle spesse sopracciglia scure. Nomiva rimase a fissarlo senza mutare espressione "Maledizione!" Imprecò l'uomo "Non avresti dovuto saperlo! Adesso mi dici come farai a dormire?" Nomiva si avvicinò alla ciotola lentamente, sentendo una fitta al fianco e poi si portò il bordo alle labbra secche, iniziando a sorseggiare lentamente mentre la consueta puzza le riempiva le narici. Dopo aver bevuto un sorso Nomiva si staccò e si rivolse all'uomo "Tanto lo sapevo" gli disse e la sua voce parve trascinata a causa della stanchezza "Sono giorni, settimane che aspetto e non sono stupida, so bene che nostra altezza il magnanimo principe Drovan mi ha tenuta in vita solo perché sta architettando il modo migliore per uccidermi".

L'uomo restò fermo a guardarla, colpito "Dormirò come ho dormito tutte le altre notti che ho trascorso in questa cella" continuò Nomiva con fredda indifferenza, anzi, quasi con sollievo "Uno schifo". I due si guardarono negli occhi e Nomiva vide che era lui quello ad avere paura "Andate pure" lo congedò, troppo stanca per parlare ancora "Non vorrei mai che il principe potesse pensare che state cospirando per aiutarmi". L'uomo a sentire quelle parole si voltò e si avvicinò alla porta, poi prima di aprirla tornò indietro, cambiando idea "Sappiate che ho provato un sincero dispiacere" disse a voce bassissima, dandole improvvisamente del lei "Alcune volte mi capitò di parlare con i signorini, i vostri cugini" raccontò "Erano solo due bambini innocenti che sognavano ascoltando i racconti di guerre lontane". Nomiva sospirò, sentendo uno spiacevole vuoto allo stomaco "La vendetta non conosce limiti" disse con amarezza, sentendo improvvisamente una grande tristezza "Il sangue deve essere versato a ogni costo e non importa l'età, l'ingiustizia si accanisce in egual modo su tutti, senza alcuna distinzione di condizione sociale, età e genere. E' un mostro cieco che falcia chiunque si ponga sul suo cammino".

Nomiva sorseggiò un altro po' di quella brodaglia ma senza mangiare, proprio non ne aveva voglia e poi continuò "Ma state pur certo che gli dèi li guardano" disse Nomiva all'uomo che pareva spaventato "Magari lasceranno stare il principe e il re, ma i loro figli o i loro nipoti pagheranno per tutto questo male. Perché io sono sicura che esiste la giustizia, anche se è imperscrutabile e spesso noi uomini non riusciamo a capire quello che succede io voglio sperare che la giustizia lassù possa esistere. E se non sono neanche gli dèi a portare giustizia, significa che sarà la natura attraverso malattie e catastrofi ad amministrare la giustizia".

L'uomo la fissò in silenzio, poi annuì piano, tornando vicino alla porta "Buonanotte" disse prima di uscire "Pregherò per la vostra anima, affinché la paura se ne vada e vi permetta di dormire quest'ultima notte, signorina Tenebrerus". Nomiva sorrise flebilmente e scosse il capo "Perdereste soltanto tempo" lo ammonì "Perché io non sento alcun timore e dormirò come al solito, forse anche meglio sapendo che domani tutte le sofferenze saranno strappate via dal nulla inesorabile della morte. Ma se proprio volete pregare per l'anima di qualcuno pregate per quelle di Drovan e Morfgan" disse con disprezzo, sardonica "Anche se non credono nei nostri dèi quando moriranno qualcuno dovrà pure punirli a causa dei crimini che hanno commesso".

L'uomo annuì e andò via terrorizzato, senza osare aggiungere altro. Era brutto da dire ma a Nomiva tutta quella paura faceva ridere, trovava veramente divertente che quell'uomo così grosso potesse avere paura per la morte imminente di una ragazzina che conosceva appena. Lei era così tranquilla, si sentiva quasi sollevata di sapere quando tutto sarebbe finalmente finito. Certo, avrebbe gradito qualcosa di più buono come ultimo pasto ma sapeva di doversi accontentare, era pur sempre una prigioniera. Mentre finiva di bere quel brodo disgustoso si decise a mangiare un po' della poltiglia. La prese con le dita sporche di terra e la guardò e poi cambiò ancora idea.

Nomiva scosse il capo e dopo aver finito il brodo allontanò la ciotola. Chiuse gli occhi e pensò a tutte le cose che più le piaceva mangiare, la carne, le patate, i dolci e sentì lo stomaco contorcersi. Adesso che proprio non aveva niente da fare e che sapeva quando sarebbe morta Nomiva decretò che fosse giunto il momento di mettersi a dormire senza perdere tempo a rimuginare sui ricordi del passato. Si sdraiò sull'altro fianco attentamente e si raggomitolò per scaldarsi, come erano soliti fare gli animali, pur facendo attenzione alla costola rotta. Lo stomaco le brontolava per la fame ma lei si costrinse a ignorarlo e dopo una mezz'ora buona finalmente si addormentò, senza paura ma con tanti rimpianti, primo tra tutti quello per non essere riuscita a mantenere la promessa di uccidere Teurum.

E poi lo vide Teurum, gli inconfondibili occhi azzurro ghiaccio e il sorriso infame, Nomiva non sapeva dove fosse, lo vide solo correre tra i soldati in mezzo alla guerra, togliendosi il ciuffo nero dal viso pallido con una mano e brandendo una spada elaborata con l'altra. Nomiva lo stava inseguendo senza saperlo, zigzagando tra i soldati, passando in mezzo alla battaglia che infuriava. Ma lui era troppo veloce, era già arrivato alle scale arroccate su una sorta di colle roccioso, però prima di salire si voltò per guardarla, aveva sempre saputo che lei lo inseguiva e pareva fosse molto divertito dalla cosa. Le rivolse un ghigno soddisfatto e poi da lontano, con il labiale, scandì quel nome. Nomiva si alzò di scatto, mettendosi a sedere allarmata e subito si pentì del gesto avventato, sentendo una fitta di dolore dal solito fianco. Era solo un sogno, solo un maledetto sogno!

Nomiva sbuffò, con gli occhi incattiviti al pensiero di Teurum e si preparò per stendersi nuovamente a dormire, quando sentì una presenza alle sue spalle. Nomiva si voltò sull'attenti, era decisamente notte e l'uomo aveva detto che l'avrebbero uccisa di mattina, possibile che avessero cambiato idea? Ma non era un soldato o Drovan a essere lì, Nomiva si sporse in avanti e la abbracciò, stringendo i denti per trattenere un gemito di dolore causato dalla costola: Ruby era tornata. "Ruby, che bello vederti!" Sussurrò Nomiva accarezzandola "È bello vederti un'ultima volta". La volpe iniziò a leccarla, partendo dai polsi ancora feriti "Sei la cosa più bella che potessi vedere questa notte" disse ancora Nomiva, sorridendo, poi però si rattristò, sentendo gli occhi farsi lievemente lucidi "Ma forse sarebbe stato meglio se non fossi più venuta da me" le confidò tristemente, carezzando ancora la volpe mentre veniva leccata "Non dovrai mai più venire in questo posto" disse "Perché io non ci sarò e non vorrei mai che ti catturassero".

Ruby si allontanò e si leccò il muso "Promettimi che non verrai più qui, Ruby" sussurrò Nomiva "Vai lontano e non tornare mai più". Si avvicinò alla volpe ma quella si fermò davanti alla gabbia e grattò le sbarre con la zampa, voltandosi poi a guardare Nomiva con gli inquietanti occhi rosso sangue "Non posso uscire" disse Nomiva "Sono in trappola Ruby. Ma tu non lo sei, quindi voglio che te ne vada". La volpe a nove code però continuò a grattare "Non posso andare via ti ho detto!" Ripeté Nomiva stancamente "Mi piacerebbe tanto poter tornare a correre nei campi con te Ruby, ma purtroppo solo una volpe potrà andarsene questa notte, l'altra non rivedrà i campi mai più".

Nomiva si sporse in avanti e abbracciò la volpe, affondando il viso nel bel pelo azzurro della sua amica, contraendo il volto a causa del dolore che quel movimento un po' più avventato del solito le stava causando "Promettimi che scapperai Ruby, ti prego" disse nuovamente Nomiva supplicante, mentre guardava la volpe negli occhi rossi. Ruby si alzò e le strusciò il muso sul petto, sembrava proprio che avesse capito le parole di Nomiva, sembrava avesse compreso che quello era il loro ultimo incontro. "Ruby, così mi fai male" disse Nomiva piano, la volpe infatti spingeva con forza il muso sul suo stomaco, premendo vicino alla costola rotta e fluttuante "Ruby basta! Cosa c'è?" Domandò Nomiva alzando un poco la voce, nervosa e dolorante poiché la volpe le faceva sempre più male.

Ruby la guardò negli occhi e corse nuovamente alle sbarre, riprendendo a grattare con la zampa "Ti ho già detto che non posso uscire!" Ribadì Nomiva esasperata "Io non ho i poteri che hai tu, sono solo una ragazza, non posso uscire finché la cella è chiusa". La volpe allora fece un balzo e si strusciò nuovamente sullo stomaco di Nomiva e poi ancora tornò alle sbarre. Nomiva la guardò perplessa, che fosse solo impazzita? Poi la volpe unì un terzo elemento a quella sequenza e allora Nomiva finalmente capì. Ruby corse e sbatté con forza la testa contro al muro, finendo a terra per la forte botta. "No" sussurrò Nomiva terrorizzata, con gli occhi sbarrati dall'orrore "Non puoi farlo, io non te lo permetterò!" La volpe la guardò mentre tornava in piedi a fatica, pronta a correre ancora, ma Nomiva la trattene per quanto possibile "Io non lo farò, sappilo!" Gemette, sentendo gli occhi farsi lucidi dalla disperazione intensa "Io non potrei mai mangiare la tua carne, quindi smettila, perché se ti uccidessi sarebbe tutto inutile!"

La volpe le strusciò il muso sulla guancia e le leccò le lacrime che intanto erano scese "Ruby, ti prego!" Continuò Nomiva, piangendo "Tu sei la mia migliore amica, tu non puoi morire per salvare me! Io non voglio, io devo morire, non tu! Non puoi morire anche tu!" Per i singhiozzi non riuscì ad andare avanti ma si limitò a stringere forte Ruby, sicura che almeno così l'altra non avrebbe potuto continuare a correre contro il muro. Per un attimo Nomiva sentì la morbidezza del pelo e il calore di Ruby e la sua lingua rugosa sulla pelle, tutto in quel momento tornò quieto e Nomiva si sentì serena e felice, ma aveva sottovalutato la furbizia di una volpe e aveva dimenticato i poteri di quelle a nove code.

Infatti prima che Nomiva potesse rendersene conto Ruby era sparita dalle sue braccia ed era tornata a scagliarsi contro il muro. Per poco non gridò, Nomiva scattò in piedi ma subito ricadde in ginocchio a causa del dolore intenso che sentiva, allora avanzò sulle ginocchia e si fermò di fianco alla volpe, in lacrime. Ruby era distesa a terra, gli spaventosi occhi rossi la fissavano dolcemente, era in agonia, aveva dato una botta talmente forte che dalla parete erano cadute alcune rocce. "Ruby, no!" Gemette Nomiva, restando in ginocchio disperata, poi si portò le mani alla bocca per trattenere a stento un grido di orrore. Si piegò con gli occhi appannati dal pianto e guardò la sua amica, accarezzandola dolcemente "Perché lo hai fatto, Ruby!?" Pianse ancora, del tutto devastata. La volpe le leccò la mano con le ultime forze che le furono rimaste in corpo, poi guardò le sbarre e un'ultima volta la sua amica Nomiva attraverso gli occhi di rubino.

Era un messaggio molto chiaro il suo, la carne delle volpi a nove code portava fortuna e Ruby, che aveva compreso lo stato disperato in cui si trovava Nomiva, aveva deciso di sacrificarsi affinché Nomiva potesse mangiare la sua carne ed essere protetta, salva. La ragazzina continuò a piangere, carezzando il pelo morbido della sua amica finché il ventre della volpe non divenne freddo e immobile. Quando Nomiva fu certa che Ruby fosse morta si premette con forza le mani sulla bocca, desiderava tanto gridare, da sveglia la sua vita era un incubo e quando dormiva continuavano gli incubi, era tutto tremendo e doloroso, un turbine di sofferenza e rabbia che la stava trascinando sul fondo. La cosa peggiore era che la parte difficile non era ancora arrivata, lo straziante dolore per la morte di Ruby infatti non era altro che l'inizio.

Adesso Nomiva avrebbe dovuto mangiarla e non poteva di certo esimersi dal farlo, Ruby si era sacrificata per quello, ma la sola idea di mangiare la sua amica, per giunta cruda, le provocò un conato di vomito. Si inginocchiò senza smettere di piangere e con le mani che tremavano cercò di strappare la pelle del ventre. Pianse più forte, la pelle era dura e avrebbe dovuto tirare forte per lacerarla, così chiuse gli occhi e tirò. Si accasciò di lato alla parete e tentò di calmarsi respirando forte, ma le faceva troppo male il ventre, così si portò le mani sul volto, poi abbassò gli occhi e vide una delle rocce che si erano staccate dalla parete. Con le mani umide di lacrime Nomiva prese la pietra tra le mani, era spigolosa e sembrava resistente, era selce, così Nomiva deglutì e prese coraggio. Strinse una parte del ventre e con la parte più tagliente della pietra iniziò a scuoiare Ruby. Nomiva continuò a piangere, chiudendo gli occhi quando le fu possibile. Finì di dilaniare la carne quando ebbe aperto tutto il ventre e vedendo spuntare le ossa delle costole della volpe. Le viscere del ventre caddero e il sangue inzuppò per intero la terra arida della cella. Nomiva strinse i denti e chiuse con forza gli occhi, alzando il volto al cielo tentando di calmarsi e convincendosi di dover fare quello sforzo tremendo per non rendere vano il sacrifico della sua amica.

Quando si sentì più calma Nomiva tornò a guardare quello spettacolo macabro, evitando accuratamente di guardare le viscere che inzuppavano la terra. Deglutì e avvicinò il capo alla carcassa, cercando poi di strappare un pezzo di carne con i denti, sentendo il sangue riempirle la bocca. Senza mai smettere di piangere Nomiva lasciò che il sangue le colasse lungo il collo e poi si impegnò per mordere con più forza, mentre l'odore pungente della carne cruda e del sangue le penetrava nelle narici e il sangue continuava a colarle lungo il mento. Quando ebbe strappato il primo pezzo Nomiva dovette masticare per diverso tempo prima di poter ingoiare e quando lo fece dovette trattenersi per non rimettere, costringendosi a non pensare che quella fosse la sua Ruby, inoltre Nomiva non aveva mai mangiato carne cruda prima d'ora, alcune volte aveva mangiato carne non del tutto cotta, ma del tutto cruda proprio no. Nomiva staccò altri due pezzi e poi fu costretta a fermarsi nuovamente.

Le girava la testa per quello che stava facendo. Si guardò le mani sporche del sangue di Ruby e continuò a piangere in silenzio, urlando senza far rumore. Rassegnata e disperata Nomiva si piegò per mangiare ancora, mettendosi la mano davanti alla bocca per non rimettere e costringendosi a ingoiare ancora un po' di carne. Doveva farlo per Ruby, non doveva cedere per non rendere vano il sacrificio di Ruby. Poi lentamente Nomiva sentì il dolore al fianco alleviarsi progressivamente, probabilmente l'osso rotto si era aggiustato proprio grazie alla carne magica di Ruby. Allora Nomiva poté finalmente sistemarsi più comodamente e continuò a mangiare ancora qualche boccone con rassegnazione, finché oltre a essere disgustata non si sentì vagamente sazia. Adesso doveva essere fortunata per forza, aveva mangiato abbastanza si disse, ma allora perché era ancora in quella cella?

L'idea che Ruby fosse morta per nulla generò nel petto di Nomiva una rabbia cieca oltre che dolore, allora la ragazzina si abbassò e strinse il cadavere della volpe tra le braccia, non sapendo cosa fare. Si passò una mano sul ventre, era incredibile come un piccolo osso fuori posto potesse causare tanto dolore. E proprio mentre Nomiva pensava alla sua costola ebbe l'illuminazione, adesso aveva qualcosa di appuntito con cui provare ad aprire la cella! Tremante di eccitazione Nomiva staccò una delle costole di Ruby e si avvicinò alla serratura della cella, forse era troppo difficile da aprire e non ci sarebbe riuscita ma aveva pur sempre mangiato la carne di una volpe a nove code, magari era veramente fortunata, altrimenti perché Ruby si sarebbe sacrificata così per lei? Magari aveva ancora speranze e sarebbe riuscita ad aprire ugualmente la cella.

Nomiva rimase attaccata alle sbarre e infilò la parte appuntita dell'osso nella serratura, tentando di vedere quello che faceva. Purtroppo non si vedeva molto, ma voleva continuare a provare perché non era ammissibile pensare che gli sforzi di Ruby sarebbero stati vani. Continuò a provare per alcuni minuti, ma quella maledetta serratura non ne voleva proprio sapere di aprirsi "Ti prego!" Mormorò Nomiva, a metà tra l'imprecazione e la preghiera, come se la gabbia potesse decidere da sé se aprirsi oppure no "Non posso lasciare che gli sforzi della mia amica siano vani!" E proprio quando stava per sconfortarsi e desistere, lasciandosi vincere dalla disperazione, finalmente la serratura si aprì. Nomiva esultò in silenzio, pronta a filarsela. Non aveva un piano preciso a dire la verità, qualsiasi cosa sarebbe sembrata assurda, ma una cosa la sapeva per certo, doveva confidare pienamente nella fortuna e in un pizzico di furbizia se mai fosse servita.

Aprì piano la cella per non fare rumore e poi si abbassò per prendere la carcassa di Ruby, l'avrebbe portata via con sé e poi l'avrebbe seppellita o meglio ancora l'avrebbe consegnata alle fiamme, come si faceva nei veri funerali e forse avrebbe tenuto un pezzetto di pelliccia, ma si rese subito conto che tenendola in braccio la volpe avrebbe lasciato una scia di sangue non indifferente alle sue spalle. Nomiva meditando si avvicinò alla porta, c'era un piccolo armadio all'angolo in basso della stanza, lo aprì e trovò due secchi e tre sacchi. Afferrò uno dei sacchi e ci sistemò dentro Ruby, costringendo il corpo nello spazio non tanto grande del sacco, poi per sicurezza mise anche gli altri due sacchi intorno a quello, impedendo un poco che il sangue uscisse "Adesso ce ne andiamo, amica mia" disse dolcemente, come se la volpe avesse potuto sentirla ancora. Tolse lo spago che chiudeva uno degli altri due sacchi e lo usò per legarsi i capelli, per assicurarsi una visuale migliore, poi dopo essersi caricata il sacco sulle spalle si avvicinò alla porta con somma cautela.

La aprì appena e guardò fuori in allerta, ma non c'era nessuno, era piena notte. Nomiva sospirò e poi sgattaiolò fuori senza far rumore. Mentre camminava cautamente intravide la flebile luce di una lanterna avvicinarsi. Subito si acquattò al muro e portò una mano alla bocca, per celare il sottile rumore del suo respiro. Le guardie passarono poco dopo, erano due e parlavano tranquillamente, di sicuro non l'avevano vista. Nomiva aspettò che i due fossero andati e poi guardò all'angolo, assicurandosi di avere campo libero. Quando vide che non c'era nessuno fece uno scatto, preparandosi a uscire da una delle porte di servizio usate dai contadini e dai domestici.

Nomiva spinse la porta e uscì, fermandosi per tenere ferma la porta in modo tale che non potesse oscillare. Era fatta, pensò Nomiva, incredibilmente era riuscita a scappare e sapeva che era tutto merito di Ruby se era salva. Si sistemò meglio il sacco sulle spalle e si allontanò velocemente, diretta verso il bosco vicino lì dietro, tornando ad assaporare la libertà. Era bello respirare l'aria fresca, la luce della luna le parve bellissima e le stelle sembrava fossero ancora più luminose di quanto non le fossero mai parse, ma forse era solo il ricordo del buio costante a cui era costretta nella cella a farle sembrare tutto così bello e luminoso. Finalmente arrivò al limite del piccolo bosco, adesso sarebbe stata protetta dagli alberi e poteva restare nascosta per fuggire neanche lei sapeva ancora dove, però era fermamente convinta di volersi allontanare il più possibile da quel posto.

Ma ecco che mentre correva, zigzagando tra le radici degli alberi e tra il buio della notte, Nomiva si sentì afferrare da dietro. Qualcuno le tappò la bocca con forza e poi tentò di trascinarla dietro un albero. Non era possibile, pensò Nomiva, non era possibile che fosse ancora sfortunata dopo tutto quello che le era successo. Tentò di divincolarsi e di mordere chiunque le avesse messo la mano davanti alla bocca, ma chiunque l'avesse presa la voltò violentemente e la sbatté con la schiena al tronco di un grosso albero, facendole cadere il sacco con Ruby a terra "Sei Novima?" Domandò la figura scura, Nomiva tentò di divincolarsi, ma l'altra la teneva stretta e i suoi tentativi furono inutili "Sta calma" disse la voce femminile "Non ho intenzione di farti del male, te lo assicuro. Almeno rispondimi, sei o non sei Nomina?" "Cosa!?" Disse Nomiva confusa e spaventata, arrabbiata, faticando a rispondere per il fiatone e tentando di divincolarsi un'ultima volta.

La figura scura si abbassò il cappuccio, rivelando un volto un po' rozzo di giovane donna "Devo aver sbagliato nome" disse la ragazza tra sé "Sei la sorella di Aurilda?" Nomiva trattenne il fiato e il desiderio di tentare di colpire quella donna che si era trovata davanti tentennò, quasi cessò di divincolarsi per lo stupore "Tu conosci mia sorella!?" Domandò esterrefatta, senza riuscire a trattenere un vago sorriso speranzoso, senza tuttavia abbassare del tutto la guardia "Allora sei tu!" Disse la ragazza, visibilmente allietata tra le ombre del bosco "Non volevo spaventarti, scusami tanto" disse raccogliendo il sacco e porgendolo nuovamente a Nomiva "Ma tu chi sei e soprattutto come fai a conoscere mia sorella?" Domandò Nomiva, riprendendo il sacco che l'altra le porgeva, sentendosi quasi serena "Io sono Omalley" si presentò finalmente la sconosciuta "Tua sorella mi ha detto che mi chiamano 'il Terrore dei Boschi', è vero?"

Nomiva annuì e sorrise, ricordando le storie che avevano sentito da alcuni contadini "Allora non sei il frutto di una leggenda!" disse incredula "Ho aiutato tua sorella e Ser Zalikoco non molti mesi addietro e lei mi ha chiesto di assicurarmi che tu e la vostra sorella minore steste bene. Sai, avevo pensato di non venire perché ho saputo di, ecco". Omalley abbassò la testa, indugiando "Della morte di mio padre e di quella del resto della famiglia" concluse Nomiva per lei "Esatto. Mi dispiace tanto per voi" disse tristemente e Nomiva si sentì rassicurata dalla voce chiara e sincera della ragazza "Ma Aurilda sa che sto bene, che sono viva?" Domandò Nomiva, dubbiosa "Forse no" disse perplessa Omalley "E vostra sorella, mi dispiace tanto anche per lei". Nomiva sentendo quelle parole si illuminò "Forse Selina è viva!" Esclamò, stringendo con forza un braccio dell'altra. Omalley la guardò meravigliata "Ma com'è possibile!?" "L'hanno uccisa davanti a me" raccontò Nomiva "Ma quella non era mia sorella! La ragazzina che hanno ucciso prima di morire ha detto che Selina è ancora dai Malkoly e che si sono scambiate i ruoli. Io so che forse questo non è vero, ma".

"Ma se c'è anche solo una vaga speranza di poterla salvare, se c'è anche solo una speranza che lei sia ancora viva noi dobbiamo poterlo verificare!" Finì Omalley per lei. Le due si sorrisero nel buio del bosco "Puoi ripetermi il tuo nome?" Domandò Omalley "Nomiva" "Bene, Nomiva" sorrise la ragazza "Sei pronta per andare a salvare tua sorella?" Nomiva annuì vigorosamente "Solo una cosa" aggiunse "Come mai eri qui? Il castello dei Tenebrerus è lontano". Omalley scrollò le spalle "È una storia curiosa, sai" spiegò "Vagavo in questo bosco decidendo quale fosse il ramo migliore per dormire quando ho intravisto qualcuno correre e sapendo per esperienza che chiunque corra in direzione di un bosco, soprattutto nelle condizioni in cui sei tu, furtivamente e in piena notte non può significare nient'altro che pericolo, ho aspettato. Quanto ti ho intravista alla luce della luna prima che entrassi nel bosco mi hai ricordato vagamente tua sorella Aurilda, inoltre la descrizione corrispondeva e nonostante quello che avevo sentito ho voluto tentare ugualmente, comunque sembrava avessi bisogno di aiuto e senza domandarti se potevo aiutarti non sarei andata via".

Nomiva sorrise, improvvisamente tutto sembrava stesse migliorando magicamente "Che fortuna!" Esclamò, stringendo il sacco con forza, ben consapevole del fatto che tutto quello stesse accadendo unicamente per merito della sua Ruby. "Quello ti serve proprio?" domandò Omalley, rivolgendosi al sacco "Oh, sì" assicurò Nomiva, sentendo gli occhi brillare di gratitudine "La mia amica volpe a nove code è morta perché io potessi nutrirmi della sua carne magica ed essere fortunata, è solo grazie a lei se sono riuscita a scappare e voglio darle il saluto che merita, consegnando la sua carcassa alle fiamme". Omalley sorrise, colpita "Io ho un'idea migliore" rivelò "Sai, le persone che aiuto spesso desiderano ricambiare il favore e aiutare me quando ho necessità di qualcosa. Ho una vecchia amica bravissima a cucire che se lo vorrai potrà trasformare la pelliccia della tua amica in un bel mantello, così lei potrà essere sempre con te".

Nomiva schiuse la bocca per la meraviglia e annuì senza esitazione "Mi sembra un'idea meravigliosa" affermò sorridendo. Omalley rispose al sorriso e le porse la mano "Vuoi vedere come faccio a muovermi tanto celermente?" Disse misteriosa e Nomiva intravide un sorriso sul volto ovale della ragazza. Nomiva annuì "Afferra la mia mano allora!" La ragazzina obbedì e Omalley la portò su un albero in un lampo "Ti arrampichi sugli alberi!" Esclamò Nomiva "Eh, sì!" confermò Omalley con vaga arroganza, ma più che altro con grinta "Reggiti alle mie spalle!" Disse ancora Omalley "Ma peso troppo!" "Non credere, ho portato persone più pesanti di te e poi ti porterò solo per un po', giusto il tempo di allontanarci da questo posto, poi ci metteremo a dormire e continueremo domani il viaggio verso il castello dove dovrebbe esse tua sorella. Che ne dici?" "Dico che mia sorella Aurilda ha pochi amici, ma quei pochi che ha sono veramente sorprendenti!"

Omalley rise "Dai, reggiti forte!" Così Nomiva si aggrappò alla schiena di Omalley, con il sacco contenente Ruby stretto nella mano e poi partirono, spostandosi rapidamente da un albero all'altro. Il sacrificio di Ruby aveva funzionato, Nomiva era salva e adesso grazie alla sua nuova amica forse anche sua sorella Selina sarebbe stata salva. C'era veramente ancora speranza dopotutto.

 

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Capitolo 40
*** Epilogo ***


Al castello dei Rosyll erano sempre allerta ormai, precisamente da quando avevano saputo dell'uccisione degli Erysch, d'altronde se avevano ucciso la sorella di Gamelius Tenebrerus e la sua famiglia che motivo avevano loro di pensare che il fratello di Amillia non potesse subire lo stesso destino? Favian viveva nel timore da tempo, pensando che potessero giungere per uccidere lui e la sua famiglia da un momento all'altro, sopportando il dolore per la perdita della sorella e delle nipoti nel silenzio rabbioso della paura. Il re e il principe erano uomini vili e crudeli, privi di ogni sorta di pietà e questo spaventava Favian più di ogni altra cosa. Quella sera era tardi e lui si era ritirato nella sua camera con la sua signora Dara e con il loro piccolo Evral che correva allegramente per la camera. Lo faceva sempre sorridere il suo bambino, eppure Favian nonostante i tentativi non poteva più ignorare il fumo che si alzava minaccioso dal campo ai piedi della collina dove era arroccato il castello di Valirdo.

L'uomo rimase seduto, nonostante si sentisse profondamente inquieto non aveva intenzione di allarmare, ma era ben consapevole delle occhiate che sua moglie gli stava rivolgendo, spostando lo sguardo da lui al fumo fuori dalla finestra, per soffermarsi poi brevemente sul loro piccolo, sforzandosi di sorridergli. Favian respirò a fondo, pregando gli dèi affinché lì fuori non stesse giungendo un esercito su ordine del re, ma d'altronde chi poteva osare disturbare a quell'ora tarda? Poi accadde, bussarono alla porta della camera. Favian vide chiaramente gli occhi di sua moglie spalancarsi e la donna per un momento cessò di rispondere al bambino che non la smetteva più di parlare, trattenendo il fiato "Sì?" Rispose lui, sforzandosi di non mutare tono di voce "Chiedo perdono signore, ma il generale chiede di potervi vedere". Fravian chiuse gli occhi verdi e li riaprì in un attimo, spostandosi una ciocca dorata di capelli dalla fronte "Di' al generale che arrivo".

Si alzò sentendo uno spiacevole vuoto all'altezza dello stomaco e poi si costrinse ad avanzare verso la porta, ma la moglie gli serrò la strada "Non andare" disse semplicemente e la sua voce risuonò un sussurro supplicante, una preghiera dolorosa. Favian le sorrise debolmente, guardandola negli occhi "Sai che è mio dovere andare" replicò stancamente. La donna scosse la testa e i capelli marroni sciolti dall'acconciatura in cui era solita legarli a causa dell'ora tarda le danzarono sulle spalle "No che non devi!" Insistette "Pensa a lui" disse, voltandosi per guardare il loro figliolo "Pensa a noi! Se vai e sono loro pensi veramente che ti faranno tornare!?" La donna era terrorizzata alla sola idea di avere ragione "Dara" tentò di calmarla Favian, trovando pace anche per sé stesso "Andrà tutto bene" la rassicurò "Ma se anche fosse l'esercito reale ti prometto che io tenterò di fermarlo" disse e la sua voce aumentò di due toni, mentre il petto si riempì di orgoglio e coraggio "Combatterei per salvare voi e per vendicare la mia povera sorella e le mie povere nipoti. Erano solo delle bambine" tornò a mormorare tristemente.

Dara abbassò la testa, sospirando angosciata "Non temere" disse ancora Favian, tornando a sorridere dolcemente "Hai fiducia nel tuo sposo?" Domandò stringendola in un abbraccio e baciandola sulla tempia prima che potesse rispondere "È nel re che non ripongo fiducia" rispose la moglie con vago disprezzo nella voce "Lo so" affermò Favian "Neppure io ne ho, è per questo che devo andare. Però ripongo la massima fiducia nei miei uomini" disse tornando orgoglioso "Preferisco la morte tentando di proteggere la mia famiglia piuttosto che attendendo rintanato come un vile codardo!" La donna si allontanò e annuì "Buona fortuna allora" sussurrò "Spero di poterti rivedere e che gli dèi veglino su di te". Favian sorrise ancora "Farò di tutto per tornare da voi, lo prometto". Si voltò verso la porta ma Evral gli corse incontro "Dove andate, padre?" Domandò sorridendo. L'uomo lo accarezzò e lo baciò "Torno presto mio buon cavaliere, è una promessa" rispose "Va bene padre" cinguettò il bambino "A presto!"

Favian sorrise e poi uscì celando la tristezza al figlio, sentendo il cuore farsi più pesante a ogni passo. Aveva paura, una tremenda paura di non rivedere mai più il suo bambino, esattamente come era successo a sua sorella, ma non poteva certamente tirarsi indietro e mostrarsi timoroso, ne valeva del suo onore e di quello di tutta la sua famiglia. "Mio signore" lo salutò il suo generale "Perdonate la mia chiamata a quest'ora tarda, ma c'è un fuoco sospetto che viene dal prato, proprio vicino ai piedi della collina". Favian annuì lievemente, sentendo la tensione crescere sin quasi a divenire tangibile "Volete che vada a controllare mio signore?" Domandò l'uomo. Diversi soldati rimasero poco distanti ad aspettare, in attesa di sapere cosa fare "Sì" decretò Favian "La cosa migliore sarà che andiamo a controllare" disse al generale. L'uomo annuì e i soldati si avvicinarono, formando una piccola schiera compatta "Fai stare le vedette allerta" disse Favian al generale "Se vedono movimenti sospetti o non ci vedono tornare fagli allertare gli altri. Che si preparano a difendere il castello se dovesse essere necessario".

Il generale annuì in solenne silenzio "Avete sentito?" parlò agli altri "State allerta e se non ci vedete tornare o percepite moti violenti dai piedi della collina preparatevi a difendere il castello a tutti i costi!" Favian si fece portare il cavallo e poi salì, con il mantello scuro sulle spalle e la spada nel fodero al fianco della vita, poi partirono con lui davanti, il generale subito dietro e il resto della piccola schiera di soldati che lo avrebbero scortato in fondo. Favian pregò gli dèi in silenzio sentendo l'angoscia farsi più intensa. Era terrorizzato alla sola idea di quello che sarebbe potuto accadete se veramente avessero trovato mandanti reali o una buona porzione dell'esercito del re, neanche lui che era signore della guerra della Provincia dell'Aria sarebbe stato in grado di respingerli, per giunta a quell'ora tarda e senza una dichiarazione di guerra. Se veramente si trattava del principe-generale Drovan, venuto ad assediare il suo castello come aveva già fatto con quello di sua sorella, allora solo l'aiuto degli dèi avrebbe potuto salvarli da quel nefasto destino che stava per attenderli.

Iniziarono a scendere lentamente dalla collina e Favian sentì l'impulso di guardare verso l'alto, in direzione della finestra della sua camera che si allontanava lentamente. Dara era lì, vide la sua sagoma affacciata alla finestra che lo guardava dall'alto, probabilmente angosciata quanto lui. Favian voltò la testa e abbassò gli occhi, non voleva lasciarla ma che altro poteva fare? Non poteva di certo lasciare che i suoi soldati andassero da soli, lui non era un codardo. Continuarono la strada della discesa in silenzio, solo qualche gufo solitario squarciava il silenzio della notte. Quando la discesa finì Favian sentì un brivido di timore scuoterlo, ma fece finta di nulla, il fuoco era ben visibile nel prato e si innalzava come una pericolosa minaccia. "Mio signore" disse il generale "Non c'è bisogno che vi esponiate tanto, possiamo avanzare io e qualcun altro, voi aspettateci pure qui e se dovessero essere nemici nascosti nel bosco tornate al castello immediatamente".

Favian pensò bene di replicare, ma poi si figurò nella mente il visino allegro del piccolo Evral "Va bene" concordò alla fine, sentendo ugualmente un senso di vergogna "Vi aspetterò qui, ma voglio che prestiate attenzione anche voi". L'uomo annuì e i soldati che erano con lui fecero lo stesso, poi si allontanarono velocemente, cavalcando in direzione delle fiamme. Favian continuò a seguirli con lo sguardo, mentre il timore cresceva e si figurava ogni orrore possibile nella mente. Rimasero in silenzio per pochi minuti interminabili lui e i soldati che erano rimasti lì, poi finalmente Favian intravide nella notte le armature scintillanti dei suoi soldati avvicinarsi nuovamente.

L'uomo subito cercò il volto fidato del suo generale e non appena ebbe incrociato il suo sguardo l'uomo si tolse l'elmo, rivelando due occhi bassi e tristi " Mio signore" parlò a voce bassa, quasi mormorando "Cosa c'è?" Domandò Favian allarmato, smontando da cavallo per andargli incontro poiché il generale era sceso dal suo stallone per raggiungerlo a piedi. "Non ne siamo certi, io non la ricordo così bene quindi non posso assicurarvi nulla, ma se è lei... condoglianze mio signore" terminò l'uomo chinando il capo in segno di reverenza. Favian spalancò gli occhi, perplesso e preoccupato, poi si decise e spinse oltre lo sguardo. C'era una figura poco lontana, proprio vicino al fuoco, ma non era in grado di dire chi potesse essere così si avvicinò di più, mentre le fiamme si riflettevano negli occhi verdi, facendoli brillare nelle tenebre. Lentamente avvicinandosi con cautela Favian distinse i tratti della sagoma stesa a terra, era una donna giovane con abiti insanguinati, logori e persino laceri in alcuni punti e una massa di capelli scuri e mossi. Favian sentì un vuoto nello stomaco e spalancò di più gli occhi, non poteva essere lei ma se invece era proprio lei come sembrava, che lui potesse essere maledetto... che il re potesse essere maledetto!

Favian attraversò il breve tratto che lo separava da lei e poi cadde in ginocchio al fianco della ragazza che purtroppo riconobbe con certezza come la figlia maggiore della sua povera sorella. "Nipote!" Disse con voce rotta, abbassando la testa mentre gli occhi si inumidivano e il volto si contraeva in un'espressione di rassegnato dolore "Non anche tu, Aurilda!" Guaì dal dolore, in un sussurro disperato "Tuo padre, mia sorella, tua zia e la sua famiglia, con buona probabilità anche le anime innocenti delle tue sorelle... e adesso anche tu". I soldati si erano avvicinati lentamente creando un semicerchio alle spalle del loro signore, chinando il capo in segno di rispetto mentre Favian elencava tutti quei morti innocenti.

"Signore, con lei doveva esserci un uomo, forse un soldato, ma adesso il suo corpo è stato dato alle fiamme ed è rimasta solo l'armatura. Era dalla sua pira che si alzavano le fiamme, signore" parlo piano il generale alle sue spalle "Almeno non dovrete preoccuparvi di un attacco al castello" disse un altro soldato, guardando l'armatura tra le fiamme e tentando di consolare il suo signore. Il generale della guardia gli si avvicinò di più "Non ci sono tracce di aggressione, mio signore" comunicò, guardando il corpo della ragazzina che giaceva inerme "Nonostante le abbondanti tracce di sangue fresco sulla sua veste. Non ci spieghiamo come sia morta. Ha solo questa cicatrice che le segna il lato sinistro del volto, partendo dalla fronte sino alla guancia, ma è altamente improbabile che sia stata quella la causa della morte".

"Mia povera nipote" sussurrò Favian affranto, ignorando per poco tempo tutto il resto. "Non sarebbe meglio portare la sua salma al castello, mio signore?" Propose uno dei soldati. Il generale annuì "Almeno in questo modo domani potrete bruciare il suo corpo e garantirle un degno funerale". Favian si sforzò di ascoltarli e annuì, asciugandosi due lacrime colme di dolore che gli avevano rigato il volto "È il minimo che posso fare per lei" disse sconsolato. Il generale si inginocchiò per prendere la ragazza tra le braccia, ma Favian lo fermò con un gesto della mano "No" parlò con fermezza "La porterò io. È giusto che sia io a portarla. Lo devo a lei, alla sua famiglia e al ricordo di mia sorella." I soldati annuirono senza opporsi, il generale si alzò e detto ciò Favian si sporse in avanti, con le braccia allungate per prendere tra le braccia la salma di sua nipote.

Ma non appena ebbe sfiorato il collo della ragazza però Favian balzò all'indietro, come se si fosse scottato. I suoi uomini scattarono in avanti allertati, per vedere cosa avesse potuto spaventare tanto il loro signore. Si disposero in due ali, lasciando un varco per Favian e quando ebbero guardato anche loro, indietreggiarono proprio come aveva fatto l'uomo inginocchiato poco prima. Il generale si girò verso Favian, con le labbra schiuse dallo stupore intenso e gli occhi sbarrati e neppure lui seppe dire se quello sconvolgimento fosse stato causato dal terrore o dalla sorpresa. Favian chiuse e riaprì gli occhi in un attimo e deglutì, avvicinandosi a quattro zampe per tornare dalla ragazza. Quando le fu tornato davanti però fu assolutamente certo che non si trattasse di un'allucinazione, Aurilda aveva aperto gli occhi e fissava il cielo con sguardo assente, ma il fatto che fosse viva non si poteva neanche considerare la cosa più incredibile, gli occhi innaturalmente azzurri della ragazza avevano catalizzato tutta l'attenzione e lo stupore di Favian Rosyll e i suoi soldati.






 

Ciao a tutti, è qui che si conclude la trama del primo libro. Cosa ve ne pare? La storia vi è piaciuta? Avete un personaggio preferito o uno particolarmente odiato? Diciamo che mi farebbe piacere avere un riscontro da parte vostra (di qualunque tipo esso dovesse essere). Il secondo libro è ancora in revisione e non so con esattezza quando inizierò a pubblicarlo, ma ci sto lavorando. A parte questo grazie per chi ha letto questa storia, a presto.

 

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