Ladro in legge

di _uccia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***
Capitolo 22: *** 22 ***
Capitolo 23: *** 23 ***
Capitolo 24: *** 24 ***
Capitolo 25: *** 25 ***
Capitolo 26: *** 26 ***
Capitolo 27: *** 27 ***
Capitolo 28: *** 28 ***
Capitolo 29: *** 29 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


                                                                                                     ---------------VITTORIA-----------------

Era una mite mattina di Aprile a Brownsville. Il quartiere della immensa metropoli di New York.
La città è da sempre conosciuta per essere pullulante di passanti e taxi, sfavillante e meravigliosa da visitare almeno una volta nella propria vita, per quanto però non esente dai pericoli.
Brownsville nonostante gli affanni delle agenzie immobiliari per rivalutare il quartiere in luogo familiare, sicuro e idilliaco, si posizionava tra i più pericolosi e malfamati di New York. I suoi punteggi avevano subito una grossa impennata tra il 2009 e il 2010 per quanto riguardava crimini violenti e crimini relativi alle proprietà.
Questo tipo di guerriglia urbana svalutava e svuotava di clientela le piccole realtà commerciali che tentavano di dare un volto legale e sano all'intero sistema malato che amministrava la città.
Vittoria De Stefano stava in piedi sul marciapiede accuratamente ripulito da poco da mozziconi di sigarette e gomme da masticare. Le braccia conserte e la testa leggermente inclinata su un lato, mentre fissava il cartellone pubblicitario affisso sull'impalcatura del palazzo in ristrutturazione proprio davanti a lei dall'altro lato della strada.
"La comunità ha un grande potenziale, aiutaci a sostenerla!".
Belava la gigantografia cristallizzata di una ragazzetta bianca dal sorriso smagliante, affissa lassù in alto sopra al traffico, i clacson, gli starnuti, le urla e le imprecazioni delle 9 del mattino.
A Vittoria sfuggì un leggero sbuffo dalle narici mentre pensava a quanto potenziale potesse avere quel particolare quartiere nelle mani giuste.
Il futuro si prospettava in risalita per Brownsville, pian piano le nuove famiglie di gay e lesbiche insieme alle cattolicissime famiglie bianche eterosessuali si sarebbero piazzate vantaggiosamente in sempre più edifici e avrebbero facilitato l'avanzata del progresso a sfavore delle minoranze etniche considerate così nocive al buon costume.
Ma fino a quel momento... c'erano ancora così tanti piccoli negozi prossimi a chiudere le saracinesche per sempre a causa della microcriminalità, che a Vittoria tremavano le mani dalla voglia di buttarcisi addosso, come un lupo contro un agnello.
"Ed eco la mia colazione", sussurrò soddisfatta abbassando lo sguardo dal cartellone pubblicitario al negozietto da estetista piazzato proprio alla base del palazzo, seminascosto dalle impalcature dei lavori in corso.
La temperatura per il pomeriggio prometteva dei rassicuranti 22 gradi, ma per chi come Vittoria era in piedi dalle prime luci, non era saggio sfidare le gelide correnti d'aria del mattino senza un adeguato cappotto color miele.
Si rendeva conto di aver esagerato un pochino nell'acconciarsi i capelli in un alto e ben laccato chignon, nell'aver scelto la nuance rosso Chanel per il rossetto, nell'aver scelto una camiciola bianca  accostata a dei lunghi pantaloni a palazzo e aver concluso il look con eleganti tacchi alti a spillo.
Ma era così che doveva presentarsi se voleva darsi un tono. Della sua immagine ne aveva fatto un arma, sapeva benissimo cosa i suoi abiti griffati accostati al suo nome puramente italiano avrebbero suscitato sui piccoli titolari esercenti.
Era lì davanti al negozio di estetica in missione conclusiva. Dovevano andare così le cose, inutile affidarsi a intermediari quando si aveva a che fare con un ostinato proprietario così affezionato al suo monolocale del cazzo da rifiutare una vantaggiosa ciambella di salvataggio nel suo mare di debiti sottoforma di assegno a più zeri.
Gli affari erano cosa delicata e di affari non si parlava mai al telefono, Vittoria doveva presentarsi di persona e concludere lì la questione.
Non ci sarebbe stata una seconda offerta in denaro, non dopo aver scoperto che il suo primo assegno era stato strappato in due proprio sotto gli occhi del suo emissario legale mandato lì la settimana prima.
Un taxi giallo si ferma proprio davanti a lei e ne scendono due persone.
Il primo a mettere i piedi a terra è il consulente legale di Vittoria, nel suo cappotto grigio chiaro lungo fino alle ginocchia e con in mano una valigetta racchiudente la documentazione da controfirmare per il passaggio di proprietà.
La seconda a scendere è Carly, giunta direttamente dall'ufficio di Vittoria a Manhattan. E' una giovane ragazza di vent'anni, curata e ben disposta a prendersi carico di piccole faccende come quella di farsi il giro dei negozietti acquisiti da Vittoria a compiere il suo dovere per mezze giornate a stipendio pieno e senza fare domande.
Ragazza tranquilla Carly, troppo ingenua per capire fino in fondo cosa stia facendo ma affidabile.
"Buongiorno!" cinguetta la ragazzina.
"Spero di non averla fatta attendere molto, c'é stato un tamponamento sulla superstrada venendo quì". Si giustifica il legale in cappotto.
Vittoria scese dal marciapiede per apprestarsi ad attraversare le automobili in colonna senza perdere ulteriore tempo. Fissava dritto il suo obiettivo, come se avesse tutta l'intenzione di sfondare la vetrina del negozio con una testata.
"Avevo detto alle 9.00 e alle 9.00 siete arrivati", sbottò pratica. "Non perdiamo altro tempo, Mr. Williams. Per questo pomeriggio abbiamo appuntamento a Manhattan per quel nuovo ristorante italiano che mio padre vuole acquisire, a quanto pare il business della catena di ristorazione stà decollando e voglio aggiungere una nuova perla alla sua collezione".
Mr. Williams la seguiva a passo di carica. "Certamente, signorina". Si affaccendò a risponderle. "Ho tutta la documentazione in valigetta, finito quì possiamo andare anche subito".
La porta del salone "Essenza estetica" suonò con un lungo e fastidioso DIN-DON quando si aprì al loro ingresso.
Lo spazio era piccolo ma non angusto, il monolocale era stato diviso da separè in cartongesso per garantire la privacy a un gruppo di due o tre clienti per volta.
Tutto era stato dipinto e ornato da varie tonalità di viola e gelsomino.
Davvero rivoltante ma era chiaro che alla allampanata proprietaria piaceva, dato lo smalto alle unghie e il camice dello stesso colore.
Rimase interdetta dall'ingresso improvviso del gruppo, protetta dietro al bancone parve valutare per un scioccante istante di premere il pulsante di emergenza 911 posto sotto al piano in compensato.
"Buongiorno a tutti e buonanotte a tutti, potete anche fare ritorno da dove siete venuti. La mia risposta non è cambiata nel giro di quattro giorni!". Fu il seccante saluto della donnetta.
Vittoria le dedicò uno dei suoi più accondiscendenti sorrisi e si tolse gli occhiali da sole marcati Gucci. Se li girò tra le mani per un istante prima di partire all'attacco.
"Non sono quì per fare altre offerte, mi avete profondamente offesa nello strappare il mio assegno. Mr. Williams, quì presente, mi ha riferito lo spiacevole accaduto. Devo dire, signora mia, che siete stata davvero avventata".
La mandibola della signora parve contrarsi, ma in un atto di ammirevole determinazione non si lasciò andare all'emozione. "Mai minaccia fu così dolce, dato che chi a dirla è una donna così elegante e sorridente".
La risata di Vittoria squillò argentina riempiendo tutto il piccolo locale. "Voglio esserle amica e socia in affari. Lei signora mia potrà restare a comando di questa...", fece una pausa guardandosi attorno. "Questa bellissima nave che ormai va affondo e in cambio io la acquisisco sollevandola da ogni debito".
"Non voglio i soldi degli italiani!", sibilò la signora che ormai stava assumendo un colorito paurosamente simile al suo camice.
Vittoria non batté ciglio e continuò a fissarla dritto negli occhi, lanciandole una silenziosa sfida come nel famoso gioco per bambini. Chi batte le palpebre per primo, perde.
"Allora...sapete chi sono io?"
"Per favore signorina De Stefano, non mi insulti credendomi una sprovveduta. Non voglio i soldi degli italiani o russi o dei fottuti cinesi!".
Vittoria  si appoggiò al bancone, riducendo visibilmente lo spazio tra lei e la signora.
Doveva concederle che aveva fegato, non c'erano dubbi che si rendesse pienamente conto con chi aveva a che fare ma il suo orgoglio le imponeva di rischiare il tutto e per tutto.
Aveva una figlia a cui badare, a casa. In un squallido appartamento, in uno squallido palazzo di una trentina di unità.
Se la passava male la signora, non poteva più permettersi l'affitto e aveva cercato in tutti i modi di ritardare lo sfratto.
Questo Vittoria lo sapeva, come sapeva che la figlia della cara signora era gravemente malata. Di una malattia assai costosa, sopratutto per una donna che giusto l'anno prima aveva dovuto disdire l'assicurazione sanitaria.
Un'assicurazione che, comunque, copriva a malapena il dentista.
Vittoria sapeva l'indirizzo di casa della signora, sapeva a quanto ammontavano i suoi debiti, quando la figlia si era ammalata, quanto dovevano costare le sue cure. Sapeva persino quanti soldi aveva in banca, sapeva che il marito della donna se ne era andato molti anni prima e che non sborsava un soldo per il mantenimento della minorenne.
Vittoria sapeva tutto perché aveva fatto i compiti e si era presentata alla porta di "Essenza estetica" solo quando era pronta a farlo.
Non si sarebbe mai scomodata se c'era anche solo una possibilità di ricevere un no come risposta.
Con un volutamente lungo gesto, si infilò la mano nella tasca interna del cappotto e ne estrasse una brochure dai colori blu e azzurro. La distese sul bancone e aspettò che la signora ne esaminasse il contenuto prima di parlare.
In copertina c'era raffigurato un bel ospedale privato, di quelli che sembrano palazzi storici e con inferiate tanto alte all'ingresso da far togliere dalla mente delle persone comuni anche solo il pensiero di potersi curare proprio lì.
"Gran brutto affare la leucemia", miagolò Vittoria.
La signora riportò in fretta lo sguardo ostile su di lei. "Lei lo chiama affare?".
Vittoria tornò a sorridere. "Tutto è un affare, compreso quello che le propongo".
"Come fa a sapere di mia figlia?"
"So' ogni cosa e sono quì per darle aiuto. Come ho già detto non ci sarà un altro assegno, mi ha fatto ben capire che si lascerà morire di fame in strada piuttosto di accettare soldi da me".
Vittoria ora stava tamburellando le dita sul bancone mentre parlava. "Suppongo... che questo non valga per la dolce Lilly, dico bene?".
La signora fece un passo in dietro, gli occhi colmi di angoscia.
Si, Vittoria sapeva anche il nome della figlia.
"Dia una possibilità di vita a Lilly, accetti il mio aiuto. E' già tutto spesato, ogni cura necessaria a tenere con lei la bambina è già stata anticipata da me. La stanno aspettando signora, devo solo fare una telefonata e lei deve solo porre un paio di firme".
Vittoria schioccò le dita, Mr. Williams appoggiò la valigetta sul bancone e fece scattare con due colpi le chiusure. Preparò tutta la documentazione sul piano, ormai era fatta.
Lo sapeva Vittoria e lo sapeva anche la signora, che chiese:
"Resterò io la titolare del negozio?".
"Lei lo amministrerà, io ne avrò la proprietà. A lei spetteranno le entrate pattuite nel contratto di cessione"
"Perché?"
"Convenienza", Vittoria fece leggermente le spallucce. "Ora non ci prenda in giro, ha preso una decisione, firmi!".
"Se non dovessi farlo? Se dovessi invece aspettare offerte più vantaggiose da... qualcun'altro?".
Mr. Williams e Carly stavano a guardare il botta e risposta muovendo lo sguardo da una parte e l'altra del bancone come se stessero seguendo una partita di tennis. Non proferirono parola.
Vittoria prese la penna a sfera di Mr. Williams, premette il pulsante di apertura della punta con un CLICK e la porse alla signora con un gesto impaziente.
"Crede davvero che i russi saranno più clementi nella loro offerta? Faccia pure allora, dica pure di no alla 'Ndrangheta a favore dell'Organizacija. Vediamo che succede!".
Seguì qualche istante di imbarazzo, ma la firma alla fine fu scontata.
La signora stava apponendo giusto le ultime iniziali quando Vittoria diede disposizione sul da farsi:
"La signorina Carly, quì presente, verrà a farle visita il primo di ogni mese. Dovrà solo battere qualche scontrino e aggiungere qualche soldo in cassa, non si preoccupi signora. Non dovrà trattenersi allungo e le assicuro che sarà assolutamente discreta".

-----

Dieci minuti dopo, Vittoria e i suoi due accompagnatori erano già fuori sul marciapiede.
Carly si sbracciò per chiamare un taxi mentre Vittoria e Mr. Williams esaminavano l'agenda fitta di impegni.
Era così che Vittoria si guadagnava il suo posto all'interno della famiglia De Stefano, il suo era un compito delicato che richiedeva piccoli giochi d'astuzia e molta burocrazia.
In quel momento, in un magazzino della periferia di New York, stava marcendo dall'umidità e dall'incuria un ammasso di banconote equivalente a mezzo milione di dollari in piccolo taglio.
Il ricavato di qualche settimana di spaccio nei sobborghi criminali. Roba da poco, solo quello che poteva essere considerato un lavoretto per arrotondare, dato che i De Stefano non si occupavano di microcriminalità e non intendevano abbassarsi a tanto nemmeno in futuro.
Vittoria doveva assolutamente impedire che facessero la fine dei soldi chiusi e sepolti in bidoni di Pablo Escobar. Quelli, di Escobar, erano finiti per marcire del tutto e ridursi a carta straccia.
Il lavaggio del denaro era cosa da risolvere in maniera meticolosa, ma Vittoria sapeva che suo padre le aveva assegnato quel compito perché sapeva che non avrebbe combinato grani casini affiancata com'era sempre da legali, consulenti e finanzieri.
La teneva in disparte, suo padre. Lontana dai veri circoli dove si decideva seriamente del futuro politico ed economico malavitoso.
Vittoria sapeva gran poco di quel mondo, dove a quanto pareva si doveva essere uccello muniti per farne parte.
I pezzi grossi, la gente che contava. I Narcoboss, quelli sì che davano profitto.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per scoprire in che modo i De Stefano tenevano in scacco i loro rispettabili clienti internazionali. Ma era solo la bimbetta ventiseienne di papà.
Suo padre, il Boss. Come tutti all'interno della grande famiglia allargata lo chiamavano.
Il suo era un dominio che si manteneva saldo come una roccaforte a Boston, non a New York. Ma i suoi affari andavano ampliati e intendeva trarne guadagno anche dalla movida benestante newyorkese.
C'era un problema però e questo Vittoria lo sapeva. Se a Boston i padroni incontrastati si mantenevano da più di vent'anni gli italiani, a dare un morso alla Grande Mela c'erano anche la Yakuza e l'Organizacija"organizzazione" russa.
Il taxi chiamato da Carly interruppe la sequenza di incontri snocciolati da Mr Williams. Il trio si apprestò a salire quando nella tasca del soprabito di Vittoria, squillò il suo cellulare.
"Pronto, Papà!", salutò Vittoria al telefono con vivacità. Abbandonò la lingua inglese, finché parlava con lui non c'era motivo di coinvolgere pure i presenti americani in ciò che si dicevano.
Mantenere il parlato italiano era motivo di vanto per i De Stefano, una ostentazione e un continuo ricordare da dove provenivano.
Vittoria viveva in America da poco dopo la nascita ed era in grado i camuffare l'accento quando parlava inglese, suo padre se ne era assicurato pagando profumatamente insegnati e lezioni di dizione.
Ma quando parlava con papà o con qualsiasi altro membro degli uomini di suo padre... l'italiano era istituzionale.
"Ciao, bambina mia", la sua voce era profonda, roca dalle sigarette fumate a ripetizione e così famigliare.
Non vedeva papà da capodanno e cominciava a non poterne più di Manhattan.
"Pensavo di chiamarti stà sera, papà. Volevo aggiornarti sui nuovi acquisti di questi giorni e ho una sorpresa per te!". Sarebbe stato così felice nel scoprire che aveva ottenuto la proprietà di quel ristorante italiano in centro.
"Ho bisogno che ti prepari, bambina". Ora la voce di papà si era leggermente incrinata, Vittoria poteva percepire i movimenti dell'uomo al di là della cornetta. Poteva visualizzarlo nella sua mente mentre si alzava dalla poltrona dietro alla sua immensa scrivania in mogano e cominciava a camminare avanti e in dietro per l'ufficio.
"Devi tornare nel tuo appartamento e fare le valige, ho appena fatto partire un paio di ragazzi da quì. Contando il traffico, da Boston per arrivare da te ci metteranno circa sette ore e mezzo. Forse otto". Pareva preoccupato, sovrappensiero.
Vittoria si aggrappò al maniglione interno della portiera del taxi con una mano, la strinse forte.
"Cosa succede? I piani erano che sarei tornata a casa a Luglio, ho ancora molte cose da sbrigare quì. Lo sai, ti mando la mia agenda elettronica aggiornata ogni mese. Ho una scaletta da rispettare e ...".
"Mi manchi e voglio che torni a casa!"
Questa sì che era una novità, si ritrovò a pensare la ragazza. Suo padre non aveva mai dato peso a smancerie, c'era sempre qualche incontro da organizzare e qualche nottata da passare fuori.
Vittoria non era certo così al centro dei suoi pensieri da volerla a casa su due piedi perché gli mancava.
"Ma proprio oggi, all'improvviso? Potresti, per favore attendere fino a sera? Ho una cena di lavoro oggi e al massimo posso partire subito dopo".
La risposta di suo padre fu immediata e intransigente: "No! I ragazzi saranno sotto al tuo palazzo per circa le cinque di stasera. Dovrai essere pronta con valige in mano".
"Ma non si fermeranno durante il viaggio? Niente pause?".
"Arriveranno lì diretti!", taglio corto lui.
Vittoria cominciava a preoccuparsi, si era sempre mossa in autonomia a Manhattan. Il suo appartamento al quindicesimo piano era sorvegliato da alcuni uomini e sistemi di allarme, come lo era anche il suo ufficio. Ma era parere di tutti che non fosse il caso di attirare l'attenzione facendola affiancare h24 da guardie di sicurezza armate.
Non ce ne era bisogno e sarebbe stato troppo sospetto, tipo cartello appiccicato in fronte con su scritto "FIGLIA DEL BOSS!".
"Mi manchi anche tu, papà", sospirò alla fine stando al gioco. Non si parlava mai di affari al telefono e quello, per come stava prendendo provvedimenti la famiglia De Stefano, aveva tutta l'aria di essere un affare pericoloso.
"Farò il possibile per tornare presto da te".

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Capitolo 2
*** 2 ***


                                                                                       ---------------VASILJ-----------------

La risposta russa alla mafia italiana si chiamava Vory V Zakone.
Ma le persone dell'est Europa preferivano non nominarne il nome direttamente, perciò fin dai tempi dell'Unione Sovietica optavano per un più generico termine: Organizacija .
A quei cari vecchi tempi andati, l'Organizacija consisteva in piccoli gruppi con basso grado di concezione gerarchica ma tutti erano versati a sabotare il regime comunista.
Migliaia finirono nei gulag ma anche da lì, l'Organizzazione dirigeva i fili di tutte le sue marionette in libertà, minacciando le famiglie dei secondini e ingaggiando sicari.
Con la Russia Post-sovietica le cose si fecero interessanti, si ebbe un salto di qualità.
Ciao ciao semplice ma glorioso traffico d'alcool e prostituzione e ben venuto controllo statale.
Tutte le attività illegali potevano essere fatte alla luce del sole, non c'era più paura o carcerazione coatta. L'intero sistema venne corrotto a tal punto che per l'Organizacija non bastava più l'est ma da quel momento guardò a ovest.
Stati Uniti e Europa furono i naturali obiettivi.
Molti dei malavitosi russi conducevano una doppia vita: una pubblica di uomini d'affari di successo con interessi nei campi più disparati e una nascosta da criminali.
Molti erano industriali, ma molto più spesso immobiliaristi e costruttori. Infatti il settore immobiliare era uno dei campi più redditizi e più vantaggiosi per quanto riguardava riciclaggio di denaro e truffe milionarie.
Vasilj era nato e cresciuto sotto questo antico regine autoritario, proveniva da una comunità siberiana di "criminali onesti". Per lui, le regole Vory della malavita organizzata erano legge.
Nessun impegno con la società.
Nessuna collaborazione con il potere statale.
Il sicario sarà il boia, a nessun'altro sarà permesso di compromettere la propria nobiltà.
Capacità di adattamento.
Abilità nel raccogliere informazioni.
Punizione dei traditori.
Lealtà al signore e capo Vor.
Crudeltà ed eroismo, se la paura sarà dimostrata l'uomo perderà i suo potere.
Ogni proprietà materiale appartiene al Vory V Zakone.
Più anni si passano in catene, più sarà glorioso il proprio posto all'interno del Vory V Zakone.
 
Ricordava bene il giorno in cui dovette lasciare il suo piccolo paese della Siberia.
Fu caricato in una camionetta logora, incrostata di fango congelato e puzzolente, insieme ad altri ragazzi della sua età in una gelida mattina.
Aveva undici o forse dodici anni e suo nonno, capo clan, dovette cederlo all'Organizacija per iniziare il suo obbligatorio periodo in catene.
Quando l'Organizacija chiamava alle armi, tutti i capi dovevano rispondere inviando quanti più uomini e se non ne avevano... fornivano reclute.
Quando dieci anni dopo aveva fatto ritorno nella sua terra desolata del nord, non era più il bambino spaventato che era. Ne tornò da uomo, con cicatrici e tatuaggi che ne dimostravano i crimini commessi.
Aveva perso anni, innocenza e pezzi di anima per la Vory V Zakone russa.
Lo avevano segnato e spezzato. Promise sulla tomba di suo nonno che non avrebbe dimenticato ciò che aveva dovuto sopportare e vendette al diavolo il piccolo pezzo di sé stesso che aveva ancora conservato, solo per giurare col sangue che avrebbe reclamato ciò che poteva essere suo.
Nelle vene gli scorreva il sangue di capo Vor. Forse aveva davvero speranza di farcela nella scalata che si prefissava di fare.

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Vasilj si guardò allo specchio e con un respiro profondo andò a calmare i nervi tesi di tutto il corpo. Batté le nocche fasciate strette da grezze bende bianche e fece roteare le spalle.
Non poteva essere in una forma migliore ed era più pronto che mai.
Tutto il suo corpo aveva sopportato anni di calvario fisico per raggiungere la perfezione, la sua dieta e la preparazione fisica lo avevano portato a una corporatura asciutta con pelle tirata su muscoli definiti da boxer professionista e minima percentuale di grasso.
I pettorali scolpiti nel marmo erano stati marchiati dall'inchiostro quando otto anni prima, all'età di ventidue anni, aveva giurato fedeltà all'Organizacija.
Un immenso crocefisso con nostro signore Gesù Cristo era stato raffigurato per sempre sulla sua pelle, le mani inchiodate sulla croce si aprivano come ali da spalla a spalla.
Un tatuaggio in bianco e nero che significava molto di più della fede in cui credeva. Faceva parte di una serie di marchi che lo ricoprivano pesantemente in tutto il corpo ed era stato proprio un tatuatore ufficiale della malavita russa a farglieli.
Tutti rigorosamente senza l'utilizzo di colori al di fuori del bianco e il nero.
Ai piedi della croce, all'altezza dello stomaco, erano raffigurati due angeli in ginocchio.
Sopra all'inguine, che facevano capolino proprio dall'elastico dei pantaloncini elasticizzati Nike neri, c'erano due ramoscelli di alloro.
Altre due croci stilizzate erano state tatuate in corrispondenza delle ginocchia, sul dorso della mano destra aveva una pistola e su quella sinistra una rosa.
Sulle dita, in corrispondenza di ogni falange, erano stati tatuati simboli di guerra come spade incrociate, stemmi, numeri e ossa.
Sull'avambraccio sinistro, tra il gomito e il polso, c'era una corona da Re impreziosita da pietre sfaccettate. Sull'avambraccio destro aveva elencati decine di nomi maschili scritti in cirillico.
Sui polpacci e sulle cosce aveva innumerevoli teschi, fiori, lettere, ali, visi di donna in stile vecchia scuola.
Sulla schiena a caratteri enormi, erano elencate le dieci regole fondamentali. Le dieci leggi inviolabili che aveva dovuto ripetere ad alta voce durante quella maledetta notte in cui aveva giurato.
Sotto alle scritte fra le scapole si avvolgeva, in altrettante dieci spire, un serpente con la bocca spalancata e i denti aguzzi protratti in avanti.
Ogni signore malavitoso Vor aveva tatuaggi diversi, ognuno personalizzava la sua pelle come fosse una carta di identità, ma quel serpente e quelle leggi sulla schiena ce li avevano solo i sicari poiché solo loro dovevano esserne i diretti esecutori.
Ora che Vasilj si concentrava davanti allo specchio, scalzo e vestito solo con i pantaloncini, poteva contare ogni singolo tatuaggio e ripensare ad ogni fottuta morte che aveva imposto per ordine di grassi uomini ricchi.
Le sue ambizioni andavano ben oltre dell'essere un sicario, doveva solo trovare l'occasione adatta. Rimandava da troppo tempo.
Poteva letteralmente sentire l'energia ronzare attraverso ogni fibra del suo essere, mentre saltellava prima su un piede e poi sull'altro.
"Lo ucciderai". Ivan sorrise dietro di lui. Il suo accento era totalmente differente da quello di Vasilj , forse moldavo o ucraino.
Vasilj questo non poteva giurarlo, non aveva mai chiesto a Ivan del suo passato da ragazzino libero.
 "Ma stà attento, ho sentito dire che l'incontro di sta sera è truccato", stava dicendo.
Vasilj gli rivolse un'occhiataccia dal riflesso dello specchio. "Lo dicono ogni volta".
Ivan si strinse nelle spalle e si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni del completo nero. "Sta volta è diverso, credo che dicano la verità. Andrai a combattere contro Dorian, il figlio di un Vor. E' un pezzo grosso, questa sera deve farsi vedere invincibile e non te la darà vinta".
"Sono quì per questo", gli rispose Vasilj non smettendo di saltellare sul posto. "Prima o poi doveva succedere, devo vedermela per forza con Dorian. Mi danno un'occasione unica, posso fargli saltare i denti senza per forza trovare una scusa".
Ivan annuì  per tranquillizzarlo ma si poteva capire dalla sua espressione corrucciata che ci stava ancora pensando.
Si grattò distrattamente la lacrima tatuata sotto all'occhio destro prima di ritentare:
"Aspettati ogni sorta di colpo basso, non badare all'arbitro. Non farà niente che impedisca a Dorian di farti sanguinare violentemente. Io sarò all'angolo del ring che cercherò di impedire di farti uccidere, ti avviso Vasilj che getterò la spugna se lo riterrò opportuno".
Vasilj finalmente si voltò in sua direzione, smise di saltellare e, a gambe divaricate in una posa statica, stette a guardarlo. "Non farlo. Questa sera saranno presenti alte cariche dell'Organizacija, se mi dimostrerò all'altezza potrò incontrarli e salire di livello. Potrò lasciare New York e tornare in patria, ho abbastanza uomini dalla mia parte e abbastanza rabbia da riuscire a entrare nei circoli che contano!".
Ivan scosse la testa desolato. "Se anche vincessi l'incontro, credi che il padre di Dorian ti lascerà andare? Siamo sul suo libro paga e quando avrai aperto in due il suo pupillo non credo che ti stringerà la mano".
Vasilj non avrebbe potuto fermarsi nemmeno se avesse voluto. Per come la vedeva, gli ultimi anni avevano portato a quell'incontro inesorabilmente.
Quando dalle palle di un boss schizzava un figlio legittimo, non si poteva certamente ignorarlo. Ne andava dell'onore dell'intera famiglia, il bambino doveva seguire il business e Dorian ne era pienamente coinvolto.
Quell'aborto a lungo termine, senza avere un minimo senso di praticità, si presentava quella sera alla platea come prossimo padrone di uno dei rioni più grandi di San Pietroburgo.
Per Vasilj invece sarebbe stata la scusa per far vedere quanta gente era dalla sua parte, quanta gente lo avrebbe seguito e quanti lo ritenevano un capo.
Alle sue spalle non c'era alcuna raccomandazione, solo un doloroso passato.
Si era fatto un nome nella strada e una reputazione autentica.
"Ho sentito dire che l' Organizacija si stà indebolendo", buttò lì senza pensarci troppo. "La capitale si stà rivoltando, i ragazzini delle piazze di spaccio stanno prendendo il sopravvento e si ribellano per via della scarsa qualità della coca che ricevono. Non riescono più a piazzarla".
Ivan accolse la notizia con espressione neutra. "E con ciò?".
Vasilj si controllò le fasciature alle mani facendo le spallucce."Dico solo, che questo può significare che la guerra tra trafficanti in Honduras stà prendendo piede più velocemente del previsto. Il fornitore dell'Organizacija stà perdendo qualità nella merce e ai vertici questo non piace. Le alleanze cominciano a farsi precarie. San Pietroburgo, Mosca, Ekaterinburg,... cominciano a litigare sugli approvvigionamenti".
"Ti sei tenuto informato, vedo". Ivan non si lasciava trasportare dai giochi di potere, non gli era mai interessato nulla che non si potesse trovare in mezzo alle gambe di una donna o sul fondo di un bicchiere.
Come sicario, il suo stipendio e la sua fama gli aprivano molte porte di bische, bordelli e bar. Ivan era sempre stato un soldato e contrariamente di Vasilj, a lui questo piaceva molto.
"Se riesco a farmi notare, ho l'autentica occasione di farmi assegnare il controllo delle piazze in una delle maggiori città di Russia. Hai sentito cosa diceva la gente l'altro giorno? I grandi capi sono quì sta sera per vedermi!"
Vasilj indossò l'accappatoio tirando il cappuccio fin sopra alla testa rasata, nascondendo il volto.
Ivan sospirò ma non aggiunse altro, non insisteva mai oltre il necessario. Faceva parte di lui, Ivan il gregario. Ivan il compagno di scazzottate, frustate, bevute.
Di sangue.
Perciò Ivan non fece altro che tenere aperta la porta degli spogliatoi mentre Vasilj usciva. "Sono dalla tua parte, testa di cazzo di un Siberiano. Lo sono dai tempi del carcere e ancora mi domando il perché!".
Il ritmo di musica pompava forte dagli alto parlanti, la palestra era gremita di uomini di ogni età e stato sociale.
Il fumo di sigaro fluttuava in alto sulle luci al neon, le urla della folla sovrastavano le piazzate dei scommettitori al tavolo addossato su un lato del Ring.
La box era incentrata sulla postura e sebbene il pubblico non potesse ancora vederne il volto, Vasilj era determinato a dar loro lo spettacolo per cui erano venuti.
L'avversario era già al centro del Ring, gonfiava il petto e contraeva i bicipiti in una esibizione che doveva essere intimidatoria.
Vasilj lo aveva già visto combattere in passato, il che gli dava un vantaggio visto che Dorian non aveva mai visto combattere lui.
Il coglione figlio di papà non proveniva da anni di violenta educazione corporale, non aveva conosciuto la privazione dei più elementari generi di prima necessità come punizione se non abbatteva il nemico.
Dorian aveva stile però, era piuttosto bravo nel menare pugni alla vecchia maniera della strada. Era allenato e non avrebbe disdegnato colpi fallosi.
Il suo punto debole era l'arroganza, lasciava che il suo temperamento avesse la meglio su di lui.
Glielo si vedeva scritto in faccia, pensava di potercela fare.
Chissà quante ore si era spaccato di pesi preparandosi solo per quella sera.
Entrambi gli sfidanti erano coetanei, lui e Dorian avevano una differenza di età di un anno.
Vasilj trenta e Dorian ventinove, quella sera la differenza di età non avrebbe favorito nessun pretendente.
La musica si ferma e l'arbitro inizia il suo discorso, l'intera folla esplode in esuberanti applausi infondendo nell'atmosfera un'energia selvaggia.
Il fetore di sudore stantio permea l'aria, insieme al calore dei troppi corpi stipati.
Eccolo, il momento per cui un uomo potrebbe vivere e morire.
L'ovazione, l'adrenalina... roba da fare rizzare il cazzo e prudere le mani.
Vasilj ricominciò a saltellare sul posto, impaziente di cominciare mentre l'arbitro presentava il primo sfidante:
"Viene direttamente da San Pietroburgo... è alto un metro e ottanta, pesa sessantotto chilogrammi... Dorian Kozlov, detto 'il Gancio'".
L'idiota agitò i pugni e cominciò a girare in cerchio per aizzare la folla, mentre tutto in torno il pubblico rispondeva con incitamenti e altre urla incomprensibili.
"Viene dall'estremo nord, è conosciuto per essere il lupo dell'Organizacija...è alto un metro e ottantacinque per un peso di settantacinque chilogrammi... Vasilj Volkov, detto 'il Siberiano'".
Come previsto sembrò che l'intera dannata palestra venisse giù, il pubblico comincio battere i piedi a terra e la mano sul petto a ripetizione mentre emettevano quasi in coro il verso UH-UH profondo. Come degli hooligans allo stadio durante la partita di calcio della loro squadra.
Una volta che l'accappatoio venne tolto e che il tatuaggio delle dieci leggi con serpente annesso venne ben illuminato alla luce dei paletti al neon, fu subito chiaro che tutta quella gente era venuta solo per vedere un sicario in azione.
Per Dorian quell'incontro valeva tutto, se fosse riuscito ad abbattere un vero sicario avrebbe potuto conquistarsi la gloria che tanto ambiva. Nessuno avrebbe mai messo in dubbio la sua ferocia, si avrebbe parlato di lui con rispetto e si sarebbe conquistato un primo passo in avanti nella gerarchia per diventare un Vor.
La fama come anche l'onore erano cose fondamentali per la scalata al potere e sentiva tutto il peso dell'impresa che doveva affrontare proprio alla bocca dello stomaco.
Percependo in quel momento tutta la sua apprensione, Vasilj gli rivolse un sorrisetto di scherno.
"Qual è il problema? Hai paura?".
Dorian serrò la mascella con i bicipiti che tornarono a contrarsi, il suo sguardo vagò tra la folla in modo febbrile prima di fermarsi sul gruppo di tre uomini di mezza età seduti sulle seggiole in prima fila.
Dal lato opposto dei scommettitori, curvati a parlare l'un con l'altro senza prestare troppa attenzione allo scambio di battute sopra di loro, sedevano alcuni dei Vor più temuti.
Tra il gruppo in camicie nere sbottonate sul collo quello che valeva di meno era il padre di Dorian, il boss Kozlov.
Era dalle sue piazze che si doveva partire per far carriera, gestiva i vicoli di San Pietroburgo periferia. Dominava dall'attico di un casermone condominiale abitato interamente da famigliari di vario grado.
Praticamente era sempre circondato da consanguinei a fargli da guardia e il fatto che si fosse scomodato fino a New York solo per dare al figlio una possibilità di visibilità la diceva lunga sulle ambizioni che il padre riversava nel giovane rampollo.
Vasilj questo lo sapeva perché, come facente parte delle guardie di Kozlov, era stato obbligato a prendere un aereo e partecipare al match.
Gli altri due boss erano abituali pendolari tra Russia e Stati Uniti, la loro ragnatela di affari li costringeva a rimbalzare da un continente all'altro più volte durante l'anno ma nell'ultimo periodo si erano molto interessati alla nuova area portuale della metropoli ed era per quel motivo che quasi casualmente tre membri del Vory si trovavano tutti nella stessa città.
Era un evento così raro vederne più di due insieme che sembrava di assistere a un allineamento di pianeti.
La campanella di inizio incontro colse Dorian alla sprovvista, ma Vasilj era già su di lui con un balzo portentoso. Gli sferrò subito un primo gancio destro, giusto per dare il via alle danze stabilendo chi comandava.
Quando l'idiota piegò la testa, era stordito da morire e la folla rise a crepapelle.
"Andiamo", sbottò in quel momento il Siberiano. "Concentrati su di me, lascia perdere tuo padre. Ti darà il bacino su dove ti fa più male a fine incontro!".
"Stà zitto, pezzo di merda!" fu il ringhio di Dorian in risposta.
Non c'erano round stabiliti, sarebbero andati avanti fin quando qualcuno non fosse stato messo k.o.
Una regola rimaneva in vigore per tutto l'incontro: non colpire le parti intime. Che branco di femminucce.
Senza ulteriori esitazioni, Dorian gli si avvicinò e si lasciò andare a una serie di combinazioni tra ganci e pedate alla cintola
Vasilj bloccò e schivò ciascuna di esse e questo fece incazzare il suo avversario ancora di più sottoponendolo a un inutile speco di fiato.
Aveva un buon gioco di gambe per essere il classico bullo di quartiere ma era davvero troppo emotivo. Per essere un combattente si doveva essere centrati e in equilibrio, ogni respiro e scatto ben controllato. Uccidere spesso richiedeva una maratona, non uno sprint.
Quando finalmente Dorian si decise a crollargli addosso cercando di afferrarlo per la testa, nel tentativo di trovare un momento di pausa dal suo sfogo, Vasilj ne approfittò con un gancio sinistro e un basso calcio destro.
Un respiro sibilante sfuggì dai polmoni di Dorian, quando il tallone del Siberiano si collegò al suo stinco. Il volto gli si deformò in una maschera di furia.
In mezzo al frastuono tutto intorno a loro, Vasilj riuscì a distinguere la voce del suo compagno d'armi Ivan provenire dall'angolo del Ring.
Ivan era salito sulle corde e con l'asciugamano in spalla si sbracciava e sgolava nel dirgli qualcosa:
"Il pugno.....! Tira..... pugno!"
Vasilj non ebbe modo di capire abbastanza in fretta cosa quelle parole volessero dire ma ne ebbe subito la spiegazione. Quando si voltò verso Dorian, schivò in un repentino scatto riflesso un devastante gancio destro armato da una anelliera in acciaio cromato.
Il pugno gli era passato talmente tanto vicino alla bocca che un pezzetto di labbro inferiore se ne volò via da qualche parte.
Il mento di Vasilj si inondò presto di sangue scarlatto.
La folla si lasciò andare in un delirante ruggito per poi ricominciare con il battito di mani al petto e il coro di UH-UH-UH.
I Vor, ai piedi del Ring, risero e batterono le mani compiaciuti dallo spettacolo.
L'arbitro era andato a farsi fottere fuori dalla visuale di Vasilj, non che si aspettasse l'interruzione del match per illecito utilizzo di arma.
"Non parli più Lupo?", lo sbeffeggiò Dorian tra una ansimata e l'altra.
Il coglione non ne aveva più, il fiato gli era corto. Voleva concluderla al più presto.
Vasilj raccolse il grumo di sangue e saliva che aveva in bocca e sputò a terra rabbiosamente. Gonfiò il petto, fece schioccare la schiena raddrizzando ogni vertebra... fece un respiro profondo.
Ivan dall'angolo ululò completamente su di giri. Si protese verso l'alto,sopra le corde e cominciò a battersi il petto incitandolo gorillescamente con UH-UH-UH.
Fu una sorta di segnale per il Siberiano che costrinse tutte le sue percezioni su Dorian davanti a lui. Non sentiva niente, non capiva niente.
Aveva osato versare il suo sangue.
Prima caricò un destro che venne parato, poi mandò a segnò un sinistro dritto all'altezza dello stomaco di Dorian che ebbe un sussulto e perse ogni traccia di colore dal volto.
Vasilj gli sferrò un implacabile pedata alla pancia che lo fece piegare in avanti e fu in quel momento che caricò la sua rabbia nel destro dritto alla testa ad altezza tempia.
Dorian detto 'il Gancio', stramazzò a terra in un attacco epilettico. Braccia e gambe che tremavano convulse in angolazioni innaturali.
Knockout, fine dell'incontro.
Era durato quanto? Quindici minuti?
Suo padre salì sul Ring insieme ad altri uomini a prestare soccorso mentre Vasilj veniva raggiunto e portato via da Ivan.
Con l'asciugamano datogli dall'amico si tamponò il labbro inferiore squarciato, già lo poteva sentire mentre tra una pulsazione e l'altra si gonfiava e prendeva una sfumatura sempre più intensa di viola e nero.
"Torniamo in spogliatoio prima che Kozlov decida di spararti proprio quì davanti a tutti", stava dicendo Ivan attraversando il pubblico in festa che si apriva come il Mar Rosso al loro passaggio.
Per quanto la folla apparisse bramosa di farlo, non una pacca di congratulazioni gli piovve sulle spalle e la schiena sudata. Nessuno osò toccare direttamente i due uomini mentre passavano, era normale così. Non andavano toccati.
Vasilj aveva già la mente oltre.
Prima di rientrare in spogliatoio si voltò verso il lato del Ring più lontano dalla confusione.
I restanti due Vor dell'Organizacija lo stavano osservando avidamente.
 
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Quando la mattina dopo il match, Vasilj venne convocato nella stanza d'hotel dove momentaneamente risiedeva Kozlov, per lui non fu niente di scioccante.
Due energumeni dai corpi di scimmioni e musi schiacciati da carlino, lo accompagnarono nella stanza del boss, prima di uscire chiudendosi la porta alle spalle.
Era prevedibilmente comprensibile che il padre cercasse di riscattare la virilità del figlio con minacce e riduzione della paga.
Forse Vasilj si aspettava un paio di taglietti in gola e addirittura un proiettile in una gamba ma decisamente non un ingaggio:
"Oggi ho un lavoro da sbrigare", aveva iniziato Kozlov guardando fuori dalla finestra il frenetico traffico della città a una decina di piani più in basso. Scostò il pesante tendaggio damascato.
"A Manhattan, è previsto che un auto blindata trasferisca d'urgenza Vittoria De Stefano a casa del padre a Boston".
"Volete mandare un messaggio?". Si azzardò a chiedere Vasilj, nessuna morbosità, solo raccolta di dati importanti per la portata a termine dell'ingaggio. La ragazza, figlia i un mafioso, andava rapita o uccisa? Quale condanna le sarebbe toccata per essere anche lei schizzata fuori dalle palle del padre?.
"Quei finocchi di Italiani non si devono permettere di entrare negli affari immobiliari russi. De Stefano si stà ripulendo i guadagni comprandosi attività di ogni genere dalle parti di Brownsville. L'Organizacija ordina che la ragazza sia rapita, portata fuori da sguardi indiscreti e fatta sparire. Il padre sà che stiamo arrivando, è abbastanza furbo da immaginarlo per lo meno".
Si voltò verso di lui, improvvisamente molto interessato alla reazione del Siberiano. "Ho fatto il tuo nome, credo che questo genere di lavori richiedenti rapidità e efficienza nell'eliminare le prove entrino comodamente nelle capacità di un sicario. Dico bene?".
Vasilj unì le mani dietro la schiena, alzò il mento in atteggiamento fiero, le orecchie sturate e pronte all'ascolto: "Per quando vuole che sia fatto?".
"Per circa le cinque di stasera, arriveranno a prenderla sotto il palazzo del suo appartamento".
Vasilj si prese un attimo per pensare. "Sarà proprio in orario di punta, troppa gente...".
Kozlov lo interruppe agitando la manona abbellita da ricchi anelli in oro giallo: "Prenderai una delle due Denali nere in garage e verranno con te anche i ragazzi".
Vasilj lanciò una rapida occhiata alle sue spalle, verso la porta che Pinco-Panco e Panco-Pinco sorvegliavano ottusamente da fuori.
"Con tutto il rispetto, l'ingaggio è mio e io voglio i miei uomini".
Kozlov si appoggiò allo scrittoio addossato al muro, incrociò caviglie e braccia. "Portati con te Ivan e un altro che vuoi, ma saranno i miei ragazzi ad affiancarti. Non voglio errori, non lascerò nulla al caso e loro ti terranno d'occhio".

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Alla fine, a prendere la signorina Vittoria De Stefano, si presentarono in cinque alla guida di due affidabili Suv.
Vasilj era seduto sul sedile del passeggero anteriore, nella Denali nera di Kozlov, in compagnia dei sue due accompagnatori senza cervello. Erano le cinque e venti minuti del pomeriggio e i tre attendevano all'imbocco della Quinta Strada di Manhattan.
Si era fatto rapidamente buio, in quel periodo dell'anno al riparo dei grattaceli, il sole calava presto in una delle più famose vie del centro.
Il parco era solo in fondo alla via e le luci dei negozi sfavillavano di vita nel bel mezzo della frenesia da shopping.
I marciapiedi pullulavano di gente con borsoni e cappotti firmati, i semafori scattavano con odiosi cicalini per gli attraversamenti pedonali e la sfilata di automobili si stava facendo sempre più densa.
"Stanno uscendo, porta sul retro dell'edificio", avvertì Vasilj alla radio agganciata alla propria pettorina anti proiettile.
Vittoria De Stefano venne fatta accomodare sul retro del secondo Suv, con lei sui sedili anteriori c'erano due uomini vestiti in maniera informale. Giacche paravento e cappellini con frontini.
"Bel telaio", commentò con una sghignazzata Pinco-Panco accanto a lui, alla guida.
Chiaramente non si riferiva al Suv.
La De Stefano era un bella giovane donna e insolitamente alta per la media delle femmine. In proporzione ai suoi accompagnatori non deludeva le aspettative di fisicità che ci si potrebbe aspettare da una principessa della 'Ndrangheta.
Dalla camicetta aderente si riusciva a dedurre la gonfia dimensione dei seni e la stretta circonferenza della vita. Nonostante portasse lunghi pantaloni larghi a vita alta, accostati ai tacchi a spillo, sembrava che avesse un paio di gambe che non finivano più.
Rispecchiava quello che il mondo chiamava bellezza Mediterranea, folti capelli scuri raccolti in un chignon e pelle abbronzata.
"Magari ci facciamo un giro su di lei prima di farla fuori", ridacchiò Panco-Pinco dai sedili dietro.
Vasilj a malapena li ascoltava, piuttosto si apprestò ad avvertire rapidamente Ivan in attesa dall'altra parte della radio.
"Sono partiti, dovresti vederli passare tra quindici minuti. Li seguiamo a qualche auto di distanza, state pronti!".
Con ciò, diede un paio di pacche al cruscotto per esortare l'idiota al volate a partire.
Ivan era scortato all'imbocco della superstrada verso Boston, da un ragazzo di nome Nicolaj. Un Boevik che Vasilj aveva imparato a rispettare. In quanto soldato semplice, Nicolaj vedeva nelle figure di sicario di Vasilj e Ivan dei punti di riferimento.
Era un buon combattente e un fedele alle leggi Vory, si doveva solo dargli tempo. Era uscito dal carcere solo da sei mesi, doveva ancora farsi lo stomaco per le sparatorie di strada e gli inseguimenti.
Fin che si mantenevano in scia degli italiani, Panco-Pinco ci tenette a precisare all'orecchio del Siberiano: "La ragazza, verrà con noi. La terrò io, quì dietro. Ivan e il Boevik potranno ritirarsi e tornare al punto di ritrovo".
Vasilj si voltò con uno scatto. "Non era questo il piano".
"Il piano è cambiato, ordine diretto da Vor Kozlov. Vatti a lamentare da lui!"
Non prometteva niente di buono.
Era forse questa la punizione per aver colpito brutalmente il figlio di un Vor?
Stava per succedere qualcosa e Vasilj non era stato informato.
Avevano ormai raggiunto l'imbocco della superstrada, il luogo dell'agguato.
I Suv degli italiani rallentarono e si apprestarono a immettersi nella colonna di auto del casello.
Era giunto il momento e a Vasilj non era stato dato il tempo per riflettere, su ciò che potevano avere in mente i suoi due accompagnatori e quel maiale di Kozlov.
Così, quando con un stridore di pneumatici e un rombo di motore la Denali guidata da Ivan irruppe nella visuale provenienti da destra in direzione secondo Suv italiano. Lo schianto che ne risultò impattando sul fianco del mezzo, provocò l'orribile sensazione in Vasilj che stesse sbagliando ogni cosa.
 

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Capitolo 3
*** 3 ***


                                                                                        ---------------VITTORIA-----------------

Il Range Rover con cui gli uomini di suo padre erano venuti a prenderla, era largo e accogliente.
I sedili in pelle nera su cui se ne stava placidamente adagiata, erano ideali per affrontare il viaggio di ore che si preannunciava da New York fino a Boston.
Vittoria appoggiò il gomito sul finestrino, la mano sotto al mento e si perse nello sfrecciare delle luci cittadine all'esterno dell'abitacolo.
Le due guardie davanti a lei erano silenziose e all'erta. Mentre l'autista si manteneva concentrato alla guida, l'altro sembrava avere una sorta di tic nervoso. Guardava a intervalli regolari il riflesso nel specchietto laterale esterno.
Alla autoradio era stata collegata una chiavetta USB con musica per il viaggio e il ritmo incalzante del rapper italiano unito alla voce trasognata di donna nel ritornello, infondevano all'ambiente un'atmosfera quasi ovattata.
"Restiamo svegli fino all'alba
Col mondo che ci guarda
Mordimi il collo finché si taglia
Così il nero del mio corpo viene a galla
Ti sei innamorata di un uomo morto che parla"
 
Vittoria sorrise colpita. "Pleasantville, di Nitro", ne ricordò il titolo. "Davvero?".
Gli uomini le restituirono due sorrisetti sghembi dallo specchietto retrovisore.
"Non è il suo genere, signorina De Stefano?".
Lei accolse la sfida con altrettanto divertimento. "Al contrario, potrei sorprendervi con la mia conoscenza in merito. Ma non ditelo a mio padre, non credo che approverebbe visto i suoi gusti decisamente più classici".
Poi tutto collassò, fu come essere risucchiati in un vortice.
Un enorme mezzo corazzato impattò con brutalità sul fianco destro dell'auto su cui stavano viaggiando.
Vittoria venne sbalzata contro il finestrino del lato opposto, la testa le sbatté violentemente contro il vetro e il Suv fece una nauseante giravolta su sé stesso.
Sulla fronte della ragazza si aprì un taglio profondo, il sangue le colò fino agli occhi e ne fu subito stordita.
All'uomo dal lato passeggero in cui erano stati colpiti, era andata decisamente peggio. Lo sportello era imploso e il corpo dell'uomo era rimasto imprigionato in un groviglio di lamiere.
L'autista scese all'esterno con la rapidità di un gatto e, protetto dal cofano dell'auto, sparò all'impazzata in ogni direzione.
Le fischiavano le orecchie, la testa le girava e lottò con tutta se stessa per non vomitare. Il corpo era sconquassato da tremori. Non riusciva a muovere il collo e aveva difficoltà a mantenersi lucida.
Aveva solo una vaga idea che all'esterno si era scatenato l'inferno.
Le automobili tutt'attorno cominciarono a scontrarsi e a cimentarsi in frettolose accelerate pur di togliersi dai piedi il più velocemente possibile.
C'erano urla, spari, puzza di bruciato e il suo stesso sangue la accecava.
Con un ultimo orribile botto, anche la seconda guardia di sicurezza crollò a terra.
Vittoria lo vide cadere sull'asfalto a braccia aperte e gli occhi spalancati senza vita, con un'espressione di sorpresa.
Come se non riuscisse a crederci nemmeno lui che fosse finita così.
Urlò con tutto il fiato che aveva, sentendosi la gola raschiare e i polmoni rimpicciolirsi nel petto.
I tremori le tolsero capacità di coordinazione e a parte dimenarsi sul sedile, non riusciva a concentrarsi per fare null'altro.
Lo sportello accanto a lei si spalancò improvvisamente e una folata di gelido vento la schiaffeggiò portandola a voltarsi sgomenta verso chi era venuto a prenderla.
Uno sconosciuto si stagliava a un palmo da lei, un uomo vestito in tenuta d'assalto nera. Pettorina anti proiettile, guanti in pelle, lunga pistola lucida d'argento in pugno e passamontagna a coprirgli il volto.
La dove doveva esserci la bocca, c'era l'orribile stampa di un sorriso aperto da teschio. Solo gli occhi leggermente a mandorla restavano scoperti.
Con la prontezza di riflessi che solo l'adrenalina poteva infonderle, Vittoria ebbe un improvviso colpo di reni e si fiondò verso lo sportello opposto.
Il suo aggressore fu altrettanto lesto, le agguantò una caviglia e le fece perdere una scarpa.
Con la gamba libera, la ragazza provò ad assestargli pedate a raffica mirando prima alla testa e poi in ogni dove riuscisse a colpire.
L'uomo grugnì di disapprovazione e le puntò proprio in mezzo gli occhi l'arma.
Ebbe un effetto paralizzante sulla ragazza che si bloccò immediatamente, alzò le mani in segno di resa e scongiurò mentalmente se stessa di non farsela nei pantaloni.
"Ubiraysya!", ordinò con veemenza il suo assalitore. In quella cavernosa e scattosa lingua che tanto la terrorizzava fin dal primo giorno che era giunta a New York.
I russi. Erano venuti ad ucciderla.
Questa consapevolezza la gettò nel più profondo dei baratri. Era disperata, senza speranza.
Si ritrovò tetramente a pensare se non fosse meglio che la uccidessero subito invece di portarla via. Sapeva che se i russi l'avessero rapita, la sorte sarebbe stata ben peggiore dell'incontro fra una pallottola e il suo cranio.
"UBIRAYSYA!"
Urlò ancora il russo, questa volta indicando con un gesto della pistola lo sportello spalancato dietro di lui.
Vittoria non conosceva la sua lingua ma dai gesti era chiaro. "Esci!", le stava ordinando.
Lei sussultò e le lacrime presero a scendere senza controllo.
"Ok!", singhiozzò facendosi largo accanto al russo che si fece in dietro e la lasciò uscire dall'abitacolo continuando a tenerle l'arma puntata.
"C-cazzo!", imprecò senza fiato tenendo sempre le mani alte sopra le spalle.
Vittoria si guardò attorno.
La piazzola al casello della superstrada era sgombra di testimoni civili ma altri quattro uomini in tenuta d'assalto militare nera si aggiravano fra i Suv italiani e le loro Denali crivellate di colpi.
Tutti con passamontagna, tutti irriconoscibili.
Tutti assassini.
I corpi inanimati del resto della sua scorta giacevano flosci come sacche di carne a terra.
Un'ultima guardia di sicurezza era sopravissuta.
Fecero inginocchiare l'uomo proprio di fronte a Vittoria, uno del squadrone della morte gli puntò la pistola alla nuca e fece fuoco.
La testa dell'uomo di aprì in due, come un cocomero caduto dal terrazzo.
Vittoria non era stata abbastanza rapida a chiudere gli occhi. Urlò ancora, con l'anima che si spezzava per il senso di colpa.
Fece un balzo in dietro e finì contro il muro di granito che altro non era che il petto del suo rapitore.
Il russo la tenne ferma per la vita finché la ragazza cercava di dare battaglia dimenandosi furiosamente.
Seguirono una sequenza di frasi in russo da parte di tutto lo squadrone, incomprensibili e totalmente insignificanti per Vittoria.
Se l'era forse meritato? Meritava di morire in quel modo?
Era l'universo che le diceva di andarsene all'inferno insieme a tutto quello schifo della malavita?
Le ficcarono un sacco scuro in testa e l'attrito del ruvido tessuto sul taglio della fronte le provocò un'emicrania.
Le gambe le cedettero e cadde in ginocchio.
Qualcuno dietro di lei, le prese i polsi dietro la schiena e li legò insieme con una fascetta. La legò così stretta che le mani presero a formicolare.
Non si azzardò a dire nulla, non una supplica le uscì dalle labbra. Sarebbe stato inutile oltre che avvilente, era sicura che avrebbero riso e ne avrebbero goduto ancora di più.
Altri ordini in russo, questa volta a parlare fu 'Faccia da teschio' dietro di lei che la sollevò con un strattone e la fece salire sui sedili posteriori di una delle loro auto.
Vittoria si fece in disparte mentre un bestione la seguiva subito dopo, accomodandosi accanto.
Partirono in un rombo di motore e lei fece del suo meglio per cercare di carpire quanti più particolari possibile.
Non poteva vedere con certezza al di là del sacco che la bendava ma riusciva a riconoscere delle sagome  e poteva dedurre che oltre all'uomo accanto aveva altri due uomini davanti.
Analizzò la sensazione di torpore alle mani legate e come doveva tenersi leggermente curvata in avanti per non schiacciarsele contro lo schienale.
Facendo leva con il piede scalzo, si tolse anche la seconda scarpa. L'unica che le rimaneva.
Doveva essere pronta a correre.
Ma per andare dove?
Era pienamente consapevole che una volta lasciatasi portare via dai rapitori le probabilità di scappare precipitavano verso lo zero.
Prima che le oscurassero la vista aveva individuato un secondo Suv Denali corazzato, oltre a quello in cui stavano viaggiando.
Gli altri due uomini armati li stavano seguendo?
Una mano le scivolò nell'interno coscia, per poi farsi largo a forza verso la sua vagina.
"Non toccarmi!". Avvertì lei, ritirandosi immediatamente.
L'uomo sul sedile anteriore del passeggero, lanciò qualche ammonizione distrattamente.
Con grande sollievo della ragazza, il maiale accanto a lei rispose con una risatina ma non provò più a sfiorarla.
Rimasero in silenzio per minuti che si protrassero verso l'eternità. Nessuna sirena della Polizia avvertì che fossero rincorsi e a un certo punto Vittoria percepì che stavano abbandonando le ampie strade per immettersi in una serie di vie più piccole e interrotte da molte svolte.
Oramai fuori dal finestrino era notte e nell'abitacolo brillavano solo le spie segnaletiche.
Faceva sempre più freddo e i tremori non avevano ancora finito di scuoterla.
A quel punto prese il via una discussione tra i tre uomini davvero strana.
Sembravano in disaccordo sul da farsi.
L'uomo che l'aveva fiaccamente difesa qualche minuto o ore prima, stava interrogando gli altri.
Quest'ultimi rispondevano alle domande con sbuffi e schiocchi di lingua stizziti. Vittoria si convinse che forse in quell'auto non era la sola a non sapere dove stavano andando.
Inchiodarono di colpo, proprio quando la discussione stava salendo di tono.
Vittoria sbatté la spalla contro il sedile davanti e poi ricadde all'indietro.
"Ubiraysya!".
Ancora quell'ordine: "Esci!". Ma questa volta non era rivolto a lei.
Nonostante ciò, gli sportelli si aprirono e Vittoria fu agguantata per la collottola, trascinata fuori e con uno slancio fatta scivolare di faccia sull'asfalto.
La caduta fu volutamente orribile, con le mani legate non aveva potuto pararsi il volto.
Rimase a terra senza fiato e con tanti lampi luminosi che le passavano davanti agli occhi.
Qualcuno le tolse via il sacco dalla testa, lo chignon si sciolse e alcune ciocche le ricaddero arruffate ai lati del viso gonfio.
Si trovavano in una isolata zona industriale. Al centro di un enorme parcheggio per camion, illuminato da un unico alto lampione da stadio posizionato proprio al centro.
C'erano solo loro quattro e il silenzio in quel posto dimenticato da Dio la impressionò come se si fosse ritrovata in un cimitero.
La seconda auto dei rapitori non c'era.
L'uomo con il passamontagna con il sorriso da teschio era tenuto sotto tiro di Kalashnikov dal suo compagno, anch'esso ancora bardato e coperto da passamontagna.
'Faccia da teschio' sembrava tranquillo, si manteneva stoicamente in piedi con una mano alla pistola infoderata sotto l'ascella ma che non osava estrarre.
A quanto sembrava, Vittoria era involontariamente incappata in una esecuzione in pieno stile Vory V Zakone.
L'omone che l'aveva buttata a terra si piazzò proprio davanti alla scena e si curvò su di lei, sovrastandola.
Le afferrò il mento col la mano guantata e gli occhietti, stranamente posizionati lontani dal naso, gli brillarono maligni da sotto la bardatura.
"Pizda", la apostrofò, per poi continuare in uno stentato inglese. "C'é l'ho duro... vuoi giocare con me?".
Raddrizzò poi la schiena e prese ad armeggiare con la cintura dei pantaloni. Dietro di lui, il compagno con la mitraglietta stava dicendo qualcosa.
"Mi lascerai andare in cambio di un pompino?", lo sfidò maliziosamente Vittoria.
Era consapevole di avere un aspetto orribile. Fronte gonfia, sporca di sangue, sudata e con il trucco colato sulle guance.
Ma cercò di darsi un'aria da puttana esperta mentre lascivamente si leccava le labbra e si metteva in ginocchio... in posizione favorevole.
Ancora il compagno con il Kalashnikov si intromise con dure parole ma il coglione ce l'aveva veramente toppo duro per avere anche solo vagamente idea di concentrarsi a cose ben più urgenti.
Gran bel problema per gli uomini, quando il sangue defluisce dal cervello e si raccoglie tutto in mezzo alle gambe.
Abbassano la guardia.
In più, lei era una donna legata. Del tutto inoffensiva e terrorizzata.
Tirò fuori il membro turgido, già bello che umido.
Quando venne richiamato per l'ennesima volta, stupidamente si voltò per urlare qualcosa in rimando.
Vittoria aveva già in mente che cosa fare ma non si sarebbe potuta aspettare occasione migliore. Voleva provocargli dolore, voleva indurlo a farla finita con lei in fretta.
Avrebbe fatto di tutto per evitare di essere violentata, avrebbe preferito decisamente la morte.
Forse... con un colpo ben assestato, non sarebbe riuscito a farselo venire duro per un bel po'.
Approfittando della momentanea distrazione, la ragazza cautamente ma velocemente, alzò un ginocchio da terra e caricò come un ariete. Con la sommità del capo andò a incornare l'uccello del bastardo che non aveva pensato a una così improvvisa aggressione.
Grugnì più di sorpresa che per vero dolore ma perse l'equilibrio e fece qualche passo in dietro.
Perfetto, ora l'aveva fatto incazzare e Vittoria non aveva un piano B.
Qualcun'altro, invece, aveva saputo cogliere meglio l'occasione al volo.
'Faccia da teschio' agguantò con una manata l'arma dell'avversario, da cui partirono colpi a raffica.
Venne puntata verso l'alto e il rimbombo degli spari continuò a perdersi fra gli alti muri in cemento dei fabbricati, anche quando 'Faccia da teschio' tirò una poderosa testata al naso dell'avversario.
Vittoria si sentì imbarazzata dal suo goffo tentativo intentato poco prima.
'Faccia da teschio' non aveva finito. Con ancora la mano sinistra a tener ferma l'arma verso il cielo, mosse rapidamente la destra in un lampo argenteo.  Piantò il pugnale con abilità e precisione nella trachea dell'altro uomo. Una,due e tre volte.
Quest'ultimo cominciò gorgogliare parole sanguinolente e lunghi zampilli gli volarono dai tagli ad ogni pulsazione del cuore.
Cercò di tamponarli con una mano mentre barcollava.
Dal canto suo, il compagno con ancora il pene esposto, armeggiò solo per qualche secondo con la fondina della pistola.
La impugnò con destrezza e fece fuoco proprio mentre Vittoria, del tutto mossa dall'istinto di sopravvivenza, gli si fiondava contro con uno spintone.
Fu come sbattere contro un cartello stradale. Rimbalzi in dietro stordita e il palo vibra solo leggermente, quasi indifferente al tuo affanno.
Ma quell'ennesimo goffo tentativo da parte di una ragazza troppo leggera per un placcaggio, riuscì comunque a far perdere la mira all'uomo che per un soffio mancò la testa dell'altro per colpirlo invece alla spalla destra.
La spalla di 'Faccia da teschio' scattò dal contraccolpo all'indietro, ma mentre cadeva puntò con la sinistra il Kalashnikov davanti a sé. Fece partire tre colpi e tutti andarono a segno centrando gambe, petto e testa.
Anche il secondo uomo cadde per mano di chi evidentemente ne sapeva abbastanza del mestiere e con tutto il coraggio necessario da riuscire a far fuori due persone nel giro di pochi secondi.
Vittoria si ritrovò ad essere l'unica in piedi e circondata di nuovo dall'agghiacciante silenzio.
Il suo aggressore giaceva a pancia in sù, con ancora le braghe calate sul davanti e l'uccello rattrappito fra i testicoli.
Gli sputò in faccia e gli assestò un calcio alle costole con quanta più forza potesse raccogliere. Giusto per stare tranquilla.
Il corpo si scosse ma non reagì, sotto di lui si stava pian piano allargando una pozzanghera scura e densa.
Era finita? Si erano eliminati a vicenda?
Quello accoltellato alla gola, spirò con un ultimo orribile risucchio e il suo corpo smise di gonfiarsi sù e giù.
Vittoria non osò avvicinarsi a 'Faccia da teschio', rimase immobile con gli occhi sgranati e con il cuore che le palpitava nelle orecchie da quanto era all'erta.
"Oh, no! Decisamente, no!". Esclamò, non appena 'Faccia da teschio' con uno borbottio si tirò a sedere.
Con la mano sana andò a sincerarsi della ferita.
Vittoria era già partita a tutta velocità a nascondersi dietro la Denali.
Si sentì il BIP di una radio accesa e la profonda voce del russo suonò incrinata dal dolore mentre evocava il nome "Ivan" alla trasmittente.
Seguirono brevi frasi incomprensibili dove a Vittoria fu chiaro che il russo stava via via per perdere le forze.
Si azzardò a spiare da sotto il Suv.
L'uomo era ancora seduto a terra, la mano premuta sul foro sgrondante alla spalla destra. Il respiro gli si stava facendo sempre più corto e rapido.
Perdeva troppo sangue. I suoi compagni sarebbero arrivati in tempo per salvarlo?
L'uomo sospirò e buttò la testa all'indietro piegano il collo, forse arrendendosi al proprio destino.
"Io vedo te", disse improvvisamente con un orribile accento marcato. "Io non fare male a te. Vieni quì".
Vittoria si rizzò subito in piedi ma non abbandonò il nascondiglio.
Non la stava nemmeno guardando, quando l'aveva vista correre a nascondersi?
"Per favore", stava riprovando lui. "Tu vieni qui".
"No!", rispose prontamente lei.
"Io liberare te".
Vittoria rise istericamente contro lo sportello della macchina. "Ovviamente, certo! Dovrei crederti?".
"Tu..." parve esitare cercando la traduzione corretta. "Tu con mani dietro, io presto morto. Tu non puoi scappare".
Aveva ragione.
Poteva prendere la macchina e correre finché non fosse arrivata abbastanza lontano per fermarsi, chiedere aiuto e chiamare suo padre. Ma con le mani legate dietro la schiena come intendeva farlo?
Vittoria valutò rapidamente l'eventualità di guidare mordendo il volante.
Silenzio.
La ragazza si sporse a spiare da sopra il cofano.
Il russo se ne stava ancora seduto a gambe larghe e con lo sguardo rivolto al cielo, troppo inquinato dalle luci artificiali per riuscire a distinguere le stelle.
La maschera gli copriva il volto, non riusciva a capire che espressione dovesse avere.
A cosa poteva pensare un uomo nei suoi ultimi istanti di vita?
"Perché vuoi liberarmi?".
Non le rispose.
Vittoria esitò ancora. Quanto ci avrebbero messo i suoi compagni ad arrivare?
"Ok, va bene", si arrese. "Non fare scherzi cazzo o ti prendo a calci!".
Furtivamente, sgattaiolò fuori dal suo nascondiglio e gli si avvicinò.
"Allora?", domandò burbera quando lo sovrastò.
Il russo raddrizzò il capo e la congelò con solo l'intensità dello sguardo.
"Tu gira", ordinò.
"Dovrei pure darti la schiena?".
L'uomo lasciò la presa alla spalla ferita. Ora si poteva notare come l'articolazione fosse uscita fuori sede dal contraccolpo e come il braccio gli pendesse floscio.
Con la mano sinistra si sfilò goffamente il guanto da quella destra, appoggiata delicatamente sulla coscia.
Fletté leggermente le grosse dita tatuate... e stette a guardarle. Forse valutando quanto la mano si fosse sbiancata e intorpidita a causa del dissanguamento.
Quando la ruotò, Vittoria notò il grosso tatuaggio di una pistola disegnata sul dorso.
Una Tokarev TT-33.
Poteva ancora sentirne la descrizione in un angolo della mente.
Una volta, al poligono di tiro, il suo insegnante le diede in mano una di quelle.
Il suo insegnante di allora aveva combattuto in Afghanistan ed era stato scelto da suo padre perché aveva abbastanza esperienza sul campo da potergli affidare l'istruzione della figlia.
L'arma era ergonomicamente ben progettata, facile da impugnare e confortevole allo sparo. Con poco rinculo e una precisione più che sufficiente per le distanze d'impiego. Caricatore a carrello e assenza di una sicura manuale, questo ne rivelava l'impostazione tipicamente militare.
Era una pistola originariamente ideata all'epoca dell'Unione Sovietica.
L'uomo parve finalmente riscuotersi dai suoi pensieri e con la sinistra afferrò il pugnale caduto poco lontano da lui.
"Tu gira", ordinò nuovamente.
Vittoria dovette fare un enorme atto di fede nel voltarsi e abbassarsi al suo livello.
Tenne però la testa voltata, non perdendolo di vista.
Lui non fece una piega, con due scrollate tagliò la fascetta che impediva i polsi della ragazza.
Non appena si sentì libera, lei si rizzò subito in piedi e si massaggiò la pelle arrossata.
Non sapeva cosa dire. Certamente non un grazie, visto che stava decisamente meglio prima che la rapissero.
"Chi ha le chiavi della macchina?", chiese invece.
Il russo alzò il mento in direzione del tizio accoltellato alla gola, riverso a qualche metro più in là.
Vittoria procedette a una rapida perquisizione del corpo, trovò le chiavi e si appropriò di una pistola troppo grande per lei ma che poteva andare benissimo come ultima difesa.
Si voltò ancora verso l'uomo seduto e fece per dire qualcosa ma... preferì correre alla macchina.
Quando mise in moto e partì premendo l'acceleratore a tavoletta, non riuscì a trattenersi dal guardarsi in dietro.
'Faccia da teschio' era finalmente passato a miglior vita, riverso a pancia in sù mentre guardava il triste cielo notturno.
 
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La sua folle corsa durò per tre ore, non aveva un navigatore satellitare perciò dovette gestirsi consultando i vari cartelloni stradali.
A un certo punto, con la vescica che le scoppiava e una tremenda sensazione di sonnolenza che la sopraffaceva, dovette fermarsi in un minimarket.
Pretese dal cassiere che le fosse consegnato un telefono e con quello provvide ad avvisare il padre raccontando brevemente la sequenza di eventi che l'avevano portata a farsela sotto tra la corsia sei e sette di un supermercato aperto H24.
"Vi aspetto quì", concluse riagganciando.
Volò al bagno sul retro, si liberò la vescica e si diede una sistemata al lavello.
Era pallida, con le labbra cianotiche e spaccate da vari tagli.
Il senso di allarme non accennava a diminuire in lei. Ciò che le era accaduto continuava a passarle davanti come immagini di diapositive: il suo Suv che faceva testa coda, gli spari, le voci incomprensibili. Poi il parcheggio, la paura, il sangue... la pistola tatuata sul dorso di una mano.
Si lanciò dell'acqua addosso cercando di lavare via la sensazione di essere ancora braccata.
Cominciò a iperventilare con il bagno che le vorticava attorno.
Istintivamente portò una mano alla tasca del cappotto ma già sapeva che non avrebbe trovato le gocce di Lexotan che tanto le servivano.
Aveva già provato a rovistarsi finché guidava, ma la tasca dove teneva il suo ansiolitico doveva aver ricevuto una botta di troppo perché la boccetta era andata in frantumi e il liquido era andato irrimediabilmente perso.
"Cazzo, merda, 'fanculo!", imprecò contro il suo disastrato riflesso allo specchio.
Quando uscì dal gabinetto quasi le venne un infarto nel sentire le porte automatiche dell'ingesso al supermercato che si aprivano e richiudevano.
Ma erano solo un trio di diciottenni decisamente in vena di fare casino. Ridevano e si spintonavano mentre vagavano fra le corsie in chiaro atteggiamento da rapinatori d'alcol.
Vittoria si fece avanti e lanciò la chiave elettronica della Denali a quello che doveva essere il capo della gang.
Il ragazzino la prese al volo stampandosi un'espressione da beota in volto.
"Te la regalo", gli sorrise per poi indicare fuori dalla vetrata trasparente l'enorme bestione nero parcheggiato su due posti auto contemporaneamente.
"A patto che tu e i tuoi compari ve la portiate via subito, il più lontano possibile".
 
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Castello Famiglia De Stefano.
Non poteva esserci definizione migliore. Tetra muratura che si innalzava per metri, colorati mosaici alle finestre ad arco e persino statue raffiguranti santi e vergini a sorreggere il tetto spiovente ricoperto di tegole.
Per i ricchi esponenti della 'Onorata Società' italiana, il concetto di opulenza raggiungeva livelli da favola 'Mille e Una Notte'.
Andava bene così, considerando il giro di affari da 73 miliardi di dollari a livello globale che gli italiani gestivano.
Vittoria aveva raggiunto la casa di suo padre poco fuori Boston, accompagnata da un corteo di agenti di morte e quando il sole era ormai sorto all'orizzonte.
Scese dal mezzo saltando direttamente sui gradini in marmo d'ingresso alla magione. Essendo ancora scalza, il suo autista non volle farla scendere sul ghiaino del vialetto col rischio di ferire i suoi delicati piedi.
Il portone di accesso all'atrio si aprì prima ancora che lei potesse bussare.
La servitù si piegò in profonde riverenze e inchini, tutta schierata in riga mentre lei li oltrepassava a passo di carica senza dar loro particolare attenzione.
Calpestò e passò oltre anche al magnifico esemplare di decorazione antico romana al centro del candido pavimento e si diresse subito verso la cima della scalinata dove suo padre la stava aspettando.
Parve più solo e vecchio che mai, lì in alto contro la luce del gigantesco lampadario ornato da cristalli che illuminava il corridoio del primo piano dietro di lui.
"Nel mio ufficio", si limitò a dire non appena la ragazza fu a un gradino da lui.
Salvatore De Stefano era un facoltoso 'padrino' di settantacinque anni, gestiva gli affari proprio come gestiva il suo invecchiamento: con cocciutaggine e con nessuna intenzione di farsi da parte.
Anche da scalza, il padre le arrivava all'altezza del mento. Non era mai stato un uomo molto alto ma da qualche tempo cominciava a curvarsi, causa acciacchi da osteoporosi.
Guai a definirlo un debole, era pienamente capace di muoversi senza il sostegno di un bastone e di schiaffeggiare Vittoria con una velocità che ancora la spiazzava.
Nonostante il viso rugoso e i capelli ingrigiti, lo sguardo era ancora vigile e la mente lucida. Come se non fosse passato che un solo giorno dai gloriosi tempi in cui da guaglione sparava in sella al suo motorino, per le vie della provincia di Reggio Calabria.
"Comincia a parlare" la esortò finché raggiungeva la sua consueta postazione dietro la pesante scrivania.
Vittoria si servì dal carrello degli alcolici. Si versò in un bicchiere di cristallo una generosa quantità di Scotch whisky e lo trangugiò tutto, prima i andarsi a sedere di fronte al padre in attesa.
Raccontò ogni cosa con dovizia di particolari non lesinando su come quei russi di merda l'avevano umiliata e ferita.
Raccontò il tentativo di stupro e di come valorosamente avesse tentato di reagire.
Raccontò come uno degli uomini avesse fatto fuori gli altri e di come alla fine fosse morto anch'esso.
Quando smise di parlare le mancava l'aria, l'ufficio si era fatto troppo caldo e tutta la stanchezza di ventiquattro ore di veglia le arrivò addosso minacciando di farle chiudere le palpebre per un bel po'.
"E ti ha lasciata andare, così... semplicemente?".
"Lo ha fatto", confermò lei.
"Perché?".
"Non lo so', non ha importanza. Sono viva e tutta intera, no?".
Salvatore De Stefano rimase per un minuto in silenzio, chiaramente stava scandagliando come quegli ultimi eventi potessero danneggiare la sua posizione all'interno della 'Onorata Società'.
"Puoi andare a riposare", la congedò in fine annuendo.
Vittoria non si mosse dalla sedia.
"Hai qualcos'altro da dirmi?", si accigliò il padre.
"E' il momento di farti aiutare, papa!". Fece un respiro profondo e proseguì: "Stai invecchiando e quando non ci sari più chi baderà a me?".
Salvatore non fece nessun cenno per esortarla a continuare, ma già il fatto che non l'avesse mandata via era da considerarsi come un buon segno.
"Ieri notte ero esposta e vulnerabile. Non ho ancora capito perché volevano rapirmi, posso solo fare congetture ma non ho certezze e non so' come proteggermi".
E continuò ancora, come un fiume in piena.
" Ci sono solo io, papà! Per favore fattene una ragione e dammi fiducia, coinvolgimi nei tuoi affari. Ti dimostrerò che ne sono all'altezza, dammi una possibilità!".
Salvatore tamburellò con le dita sul bordo della scrivania, come faceva sempre quando una discussione richiedeva qualche riflessione.
Un gesto che Vittoria riconobbe come anche proprio.
Lei e suo padre erano così simili, perché non riusciva a vederlo anche lui?
"Una donna", disse in fine il vecchio tradizionalista. "In affari della 'Ndrangheta".
"Tua figlia", precisò lei.
Altre tamburellate contro il legno e poi... la speranza.
"Vai a riposare, è stata una lunga nottata. Domani parleremo del futuro della Famiglia".
 

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Capitolo 4
*** 4 ***


                                                                                                           ---------------IVAN-----------------
 
"Stammi a sentire, non dire una parola. Mi hai capito?"
Nicolaj, il Boevik, il soldato dell'Organizacija, in quel momento non sembrava nulla di più che un ventunenne terrorizzato.
A braccia incrociate davanti al petto muscoloso, si fissava intensamente la punta delle scarpe. Mandibola contratta e corrucciato in tetra espressione sofferente.
Lui e Ivan stavano attendendo all'ultimo piano, nell'atrio di un edificio in costruzione. Le finiture erano ancora a grezzo, muri spogli di malte e pavimento ruvido senza piastrellatura.
Presto tutto intorno a loro si sarebbe sviluppato un avanguardieristico sistema di uffici e sale conferenze.
Dalle vetrate alle finestre si riusciva a godere della vista di tutta la nuova zona portuale di New York.
Le luci delle imbarcazioni e delle aree di scarico container aperte e operative giorno e notte, brillavano nel riverbero delle acque scure. Lo sbocco del fiume Hudson con il suo sistema di baie ed estuari, quella notte risplendeva in una veduta spettacolare.
Ivan lanciò un'occhiata apprensiva in fondo al corridoio da cui dovevano tornare le guardie da un momento all'altro.
Doveva approfittare di quel breve momento di solitudine con il ragazzo per riuscire a convincerlo a infrangere un giuramento di sangue.
Praticamente una cosa impossibile.
"Non possiamo dirgli la verità su quanto è successo a Volkov, lascia parlare me. Tu annuisci quando devi".
Nicolaj non schiodò gli occhi dalle sue scarpe. "Mi stai dicendo di mentire al Organizacija! Questo vuol dire tradimento, mi scuoieranno!"
"No, non mentirai al Vory!". Lo corresse Ivan. "Ma solo a Kozlov!".
Nicolaj ne rimase scioccato, alzò subito lo sguardo su di lui. Forse cercando segnali di menzogna.
"Fidati", si limitò a dire Ivan.
Si udì il tetro rimbombo di scarponi proveniente dal corridoio e i due si zittirono all'istante.
Comparvero due guardie in borghese dinnanzi a loro che li scortarono di nuovo in dietro, verso il fondo del passaggio, dove al centro di una futura e immensa sala conferenze sedeva Vor Kozlov.
L'intero stanzone era avvolto dall'oscurità, l'impianto elettrico non era ancora stato montato perciò l'unica fonte di luce proveniva dal panorama portuale fuori dalle vetrate e dalla lampada da gioielliere accesa sul tavolino portatile su cui era curvato il boss russo.
Kozlov stava esaminando con una lente la qualità di una manciata di diamanti, di piccole dimensioni ma di una purezza accecante alla luce della lampada.
Quando il sicario e il Boevik si fecero avanti, il loro Vor fece cenno verso le due seggiole davanti a lui ma non abbandonò la concentrazione dalla lente e dalle pietre preziose.
Ivan e Nicolaj presero posto diligentemente.
Nell'oscurità tutt'attorno, Ivan prese mentalmente nota che non erano soli.
Per deformazione professionale aveva in pochi secondi capito che c'erano almeno altre sei presenze di grossa stazza, lì con loro.
Si aggiravano silenziose ma minacciose. Come pantere in agguato.
"Mi hanno riferito che ve lo siete fatto cappare", esordì Kozlov, senza ulteriori indugi. "Come lo giustificate?".
Nicolaj non aprì bocca e Ivan ne fu sollevato, forse il ragazzo aveva deciso di attenersi al copione.
"Le altre due teste di cazzo se lo sono fatto scappare", lo corresse glacialmente Ivan. "Quando io e Nicolaj siamo arrivati sul posto, Volkov e l'italiana erano già fuggiti con la macchina e i vostri uomini fidati giacevano in un lago di sangue. Gli ordini prevedevano che dovevamo aspettarli al punto di incontro, mentre loro si dovevano occupare di eliminare la ragazza e poi raggiungerci".
Ivan esitò un istante prima di osare ad aggiungere altro: "Mi sembrò un'idea folle il separarsi, ma mi dissero che era un vostro ordine Vor".
Kozlov portò la sua attenzione a loro, mise da parte diamanti e lente e rimase a fissare i suoi sottoposti con occhi spietati.
"Osi insinuare che sia tutto un mio sordido piano?".
Ivan non si lasciò tradire da alcuna emozione. "Stò dicendo, che loro avevano un piano. Forse volevano trarne qualche profitto dall'operazione ma qualcosa è andato storto. Forse solo Volkov voleva approfittare del rapimento della ragazza e gli altri due gli erano di intralcio".
"Sempre la risposta pronta, Ivan".
"Sono stato addestrato per attenermi ai fatti in simili situazioni. E' accaduto come abbiamo detto. Il Siberiano ha preso l'ostaggio ed è scappato prima che io e Nicolaj capissimo che qualcosa non andava e fossimo tornati in dietro per controllare".
Kozlov schioccò le dita e inaspettatamente una delle sue guardie, celate dall'ombra, si fece avanti per porgli una rivoltella. Poi si mantenne accanto il suo Vor a gambe divaricate e mani giunte davanti all'inguine. In posa statica ma allo stesso tempo minacciosa, da soldato in attesa.
Kozlov svuotò il tamburo di tutti i proiettili, tranne uno.
Fece in modo che tutti vedessero che effettivamente l'arma non aveva altri colpi nascosti in canna e poi fece girare come una trottola il tamburo prima di caricare l'arma con uno scatto.
"A quanto pare, solo Dio era testimone ieri notte. Perciò lasciamo che sia Dio a testimoniare per voi".
Spinse la pistola verso Ivan e Nicolaj.
"Un colpo a testa", sorrise malignamente indicando prima Nicolaj e poi Ivan. "Se dite la verità, Dio vi proteggerà e farà in modo che il colpo vada a vuoto. Risparmiandovi la vita".
Seguì un orribile silenzio colmo di significato.
"A meno che..." aggiunse astutamente il Vor soffermandosi volutamente con lo sguardo sul giovane e terrorizzato Nicolaj. "...non hai qualcosa da aggiungere, soldato".
Merda.
Ivan si voltò verso il compagno, ma dall'espressione del soldato non si poteva capire nulla di rassicurante.
Il ragazzo aveva la fronte imperlata di sudore e gli tremavano le spalle. La bocca era sigillata in una smorfia vagamente disgustata.
Stupì tutti, però, quando con un respiro profondo andò ad impugnare l'arma offertagli.
La guardia del corpo di Kozlov estrasse in risposta il suo ferro, ma non fece altro.
Nicolaj puntò l'estremità della canna sotto al mento, strinse gli occhi in un ultimo angosciato tremito, spinse in dietro la levetta del caricatore e premette il grilletto.
Il colpo scattò a vuoto.
"Molto bene ragazzo!", ridacchiò Kozlov.
Si riprese la rivoltella e fece fare un altro giro di giostra al tamburo.
Un altro scatto e il proiettile di fermò a chissà quale posizione.
Nicolaj intrecciò in grembo le mani e a capo chino cominciò a muovere le labbra in un quasi impercettibile movimento.
Stava pregando, il coglione?
"Tocca a te, sicario". Richiamò Kozlov.
Ivan afferrò la pistola offertagli .
Senza esitazione alcuna, la armò e puntò la canna alla tempia.
Altro CLICK e il colpo andò a vuoto.
Kozlov batté, con un sonoro boato, i palmi sul tavolino. "Quanto cazzo siete fortunati?".
"Dio ha testimoniato". Proclamò con voce sorprendentemente ferma, Nicolaj.
Il Vor radunò le pietre preziose in una saccoccia, la consegnò alla sua guardia e fece per alzarsi.
"Non state lì imbambolati come degli idioti! Stiamo per partire, un aereo ci aspetta per San Pietroburgo tra quindici minuti. Torniamo a casa!".
Detto ciò, lo stanzone si svuotò rapidamente in un corteo di uomini armati fino ai denti.
Ivan e Nicolaj non si scambiarono nemmeno un ultimo cenno o sguardo. Subito si alzarono e seguirono il corteo fin fuori dal palazzo e poi dritti verso l'aeroporto.
 

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Capitolo 5
*** 5 ***


                                                                                                   ---------------VASILJ-----------------
 
"Parla" diceva la guardia.
Il vetro scavava nella pelle sotto alle sue ginocchia, mentre cercava di ripetere le dieci leggi fondamentali ancora una volta.
Aveva sete e la lingua era secca, così gli si incollò al palato.
La pazienza della guardia si stava esaurendo e se non avesse parlato la punizione sarebbe stata peggiore.
Incespicò sulle parole e dimenticò a quale numero fosse arrivato. Aveva le palpebre pesanti e non aveva più la percezione di quanti giorni fossero passati dall'ultima volta che aveva dormito.
Stava iniziando a vedere delle cose.
Cose non reali... forse.
Aveva le braccia legate sopra la testa, ma non riusciva più a sentirle. Le gambe avrebbero voluto allungarsi dopo tutto quel tempo in ginocchio sul vetro rotto.
Nei due anni trascorsi da quando aveva iniziato il suo addestramento, aveva imparato che la vita era semplicemente uno scambio di dolore con un altro tipo di dolore.
Non c'era mai sollievo, neanche per un momento.
"Perché i sicari non sono fatti per stare in un letto di rose". Questo era quello che gli diceva la guardia.
Era due anni che se lo sentiva ripetere.
Aveva quattordici anni in quel momento.
Non se ne sentiva quattordici.
La guardia lo guardò con vergogna e questo gli fece male.
Vasilj posò lo sguardo sul pavimento e aspettò la punizione. Chinò il capo in segno di sconfitta.
Le palpebre si stavano facendo davvero troppo pesanti ma aveva paura di addormentarsi.
Gli facevano male tutte le ossa e la pelle gli bruciava nonostante tremasse di freddo.
Senza aggiungere altro, la guardia gli liberò i polsi ammanettati. La caduta che ne seguì, fece sbattere il viso del ragazzo sul pavimento.
Il suono degli stivali della guardia riecheggiò nello scantinato, mentre si muoveva dietro di lui.
Gli vennero tirati sù i pantaloni dalle caviglie e Vasilj tentò invano di allontanarsi.
La guardia gli premette lo stivale nella schiena, tenendolo inchiodato sul pavimento.
Poi sentì il rumore agghiacciante di una lama estratta dal fodero.
Vasilj trovò una macchia da fissare sul muro, prima che le piante dei suoi piedi venissero martoriate da tagli.
Ma non aiutava, niente aiutava mai.
C'era solo dolore e oscurità.
L'acqua gli schizzò sul viso e il ragazzo si svegliò di soprassalto.
La guardia era sopra di lui e gli stava urlando ordini.
"Alzati!".
"Non ci riesco!", gli rispose.
Non era una bugia.
Venne sollevato per le braccia e di nuovo ammanettato con le mani in alto.
La guardia andò a prendere il tubo e gli spruzzò acqua fredda addosso per molto tempo.
Il corpo del ragazzo tremava ma provò ugualmente a prenderne un po' con la bocca.
Era così assetato.
Il flusso si interruppe. "Non provare a svenire, Siberiano!"
La guardia frugò nella tasca e ne recuperò una pillola.
A Vasilj non piacevano le pillole. Tutto ma non le pillole.
Strinse le labbra ma la guardia gliela infilò ugualmente nella bocca.
Aveva un sapore amaro sulla lingua e non ebbe altra scelta che inghiottirla.
Il cuore prese a battere troppo velocemente e gli occhi minacciarono di uscirgli fuori dalle orbite.
La guardia gli sferrò uno schiaffo sulla guancia.
"Non addormentarti, amico mio" diceva sempre la guardia. "O non ti risveglierai più".
 
Vasilj si svegliò febbricitante con un sussulto.
Era di nuovo adulto e madido di sudore, con le lenzuola del letto aggrovigliate intorno alle gambe.
Era in mutande, il resto dei suoi vestiti era accuratamente impilato sulla sedia accanto alla porta della piccola camera da letto.
Grandi assenti... le sue armi.
La stanzetta doveva appartenere a una donna, a giudicare dagli ornamenti di pizzo unito a un forte profumo francese che permeava l'aria.
Non c'erano finestre.
Rimase un attimo interdetto dalle rappresentazioni artistiche di posizioni Kama Sutra affisse alle pareti.
Gli parve di udire gemiti di piacere provenire dall'atra parte del muro, in un altra stanza.
C'era poi il rimbombo di musica da night club che giungeva dal soffitto. Ovattata e che faceva vibrare la superficie dell'acqua nel bicchiere che qualcuno gli aveva lasciato sopra al comodino.
Accanto al bicchiere c'era un sacchetto di cellofan trasparente, contenente decine di pillole gialle e rosa.
Le pillole.
Tutto ma non le pillole.
Lo aveva detto, li aveva avvisati!
Niente droghe, era la regola. Non voleva essere drogato in nessuna maniera.
Afferrò il sacchetto e lo scagliò contro la porta.
Questo esplose e le pillole andarono a sparpagliarsi per tutto il pavimento e sotto al mobilio da camera.
Ecco perché aveva appena sognato. Lui non sognava mai.
I sogni lo riportavano sempre e solo alla prigione e Vasilj preferiva non dormire mai così profondamente da sognare qualcosa.
Non sarebbe più tornato in quel carcere fisicamente, figuriamoci se incosciamente.
Grugnì per il dolore alla spalla destra. Qualcuno gliel'aveva fasciata con parecchi giri di garza medica.
In quel momento, la porta della cameretta si aprì lentamente e a farne capolino fu una donna avvenente di circa mezza età.
Capelli tinti di un nero corvino che le arrivavano fino ai fianchi e abito lungo da sera sfavillante di paillettes.
"Chi sei?", le chiese burbero.
La donna si fermò all'ingresso e fece un inchino flettendo lievemente le ginocchia.
"Mi chiamo Katrina e sono la Madame di questo posto", si presentò in russo. Senza particolari accenti che potessero tradire altre provenienze.
Una straniera come lui, in terra americana.
"Sono in un bordello, quindi". Sbuffò seccato, prendendo coscienza dei colpi e ansiti provenienti dalla camera accanto. "Chissà perché, non mi stupisco che Ivan mi abbia portato quì".
"Il Signor Ivan è molto gentile e premuroso con tutte le mie ragazze", sorrise amabilmente Madame Katrina.
Vasilj non ne dubitava.
"Mi hai curato tu?", chiese.
Madame Katrina fece ancora quel suo elegante inchino da signora d'altri tempi. "Con l'aiuto del nostro discreto dottore e non si preoccupi... questo è un luogo di piacere non di guerra".
Vasilj si soffermò a fissarla, con già entrambi i piedi giù dal letto.
La Madame stava ancora parlando: "E' al sicuro quì, Signor Volkov. Glielo garantisco".
"Chi è il proprietario di questo posto?", la interruppe lui.
La signora sorrise. "Sono io la proprietaria".
"Chi è il tuo protettore?".
La risposta fu un pesante silenzio.
Vasilj scattò verso la donna con tale rapidità che lei non ebbe modo di sfuggire.
La prese per il collo e la piantò contro lo stipite della porta usando solo la forza del braccio sinistro sano.
"Chi mi devo aspettare al piano di sopra?", la interrogò sputacchiandole in faccia.
La signora boccheggiò e diventò rapidamente color blu.
"Ivan mi ha tradito? Parla!".
La presa fu lievemente allentata e Madame Katrina al secondo tentativo fu in grado di gracchiare: "Vor Titov".
Vasilj la lasciò andare e lei, tra un respirò e l'altro, disse: "Il mio locale è protetto dagli uomini di Vor Titov".
Il volto di Boris Titov balenò davanti agli occhi di Vasilj. Il ricco Vor era spettatore all'incontro di box che lui ebbe contro Dorian solo un paio di sere prima.
Titov era un pezzo grosso all'interno del Vory V Zakone.
Lo chiamavano 'Il Politico', benché di politica legale non se ne occupasse per niente. Veniva convocato dai membri della malavita quando doveva occuparsi del benessere socio economico del Vory, in altre parole teneva in mano la finanza.
Stringeva rapporti d'affari con Narcos e armaioli, comprava società in fallimento per risollevarle miracolosamente grazie al riciclaggio.
Normale amministrazione di quella che era a tutti gli effetti l'azienda Organizacija.
Questa era la sua vita oscura, per la buona società invece era un fortunato imprenditore più vicino ai sessanta che ai cinquanta.
Sposato con due bambine, un'avvenente moglie di seconde nozze con la metà dei suoi anni e con un impero immobiliare sempre in crescita.
Di recente si trovava a New York per il nuovo porto sull'Hudson.
"Ivan fa il doppio gioco con Titov?", ringhiò a denti stretti, Vasilj. "Mi ha venduto a lui?".
Non poteva crederci.
Impossibile.
Madame Katrina si affrettò a precisare: "No, davvero. Vor Titov è vostro amico. Per favore, permetta che lo avverta che siete sveglio. Vorrà parlarvi".
Vasilj non aveva intenzione di ascoltarla o perdere altro tempo. Si infilò i pantaloni e con maglietta e giaccone in mano, si precipitò verso le scale che portavano al piano di sopra.
Verso il rimbombo della musica da night.
Una volta in cima, si ritrovò nell'alcova di quello che sembrava il ritrovo dei gangster russi di mezza New York.
I divanetti erano affollati di uomini in atteggiamenti lascivi con le cameriere, sul palco volteggiava al palo una ballerina con perizoma, tacchi vertiginosi e gonfie tette scoperte.
Le luci lampeggiavano, la musica rimbombava nei timpani e l'olezzo di sesso e fumo opprimeva l'aria.
Vasilj non passò certo in osservato, in un attimo tutti e maledetti uomini si alzarono in piedi e presero a guardarlo con aria di sfida.
Era in trappola.
Madame Katrina si schiarì la voce dietro di lui.
"Per favore, Signore. Torni nella sua camera, Vor Titov sarà quì presto".
 
---
Boris Titov si fece attendere per ore.
Un chiaro segnale che era solo per sua immensa misericordia che Vasilj fosse ancora vivo e che, di certo, gli avrebbe degnato di attenzione solo quando i suoi impegni l'avrebbero permesso.
Messaggio ricevuto.
Vasilj aveva voglia di urlare e spaccare tutto, ma la febbre doveva essere in allarmante risalita perché si sentiva accaldato e non volle coprirsi con la coperta offertagli dalla Madame.
Preferiva rimanere a torso nudo, fumante di rabbia e grondante di sudore.
Seduto sul materasso a fissare la porta della sua deliziosa cella.
Quando finalmente il Vor si fece vedere, si accomodò senza invito e prese posto sulla sedia della piccola toletta nell'angolo.
Accavallò le gambe e si accese un sigaro con tutta calma.
Se era un gioco per portare Vasilj allo sfinimento ci stava riuscendo.
"Come ti senti?", gli domandò placidamente dopo aver sbuffato una prima nuvoletta di fumo grigio.
"In splendida forma, Vor", gli rispose il Siberiano accennando a un inchino con la testa. Come richiedeva l'etichetta davanti a un superiore in carica.
Titov raccolse da terra una delle tante pillole sparse. "Dovresti prenderne un paio, hai un aspetto di merda".
"Non prendo droghe o farmaci pesanti".
Titov annuì e lasciò cadere la piccola compressa. "Ovviamente, certo. Non per niente sei uno dei migliori sicari che dell'Organizacija".
"Il migliore", lo corresse Vasilj. "Come posso ringraziarla per la sua... ospitalità?".
Titov diede un altra tirata di sigaro fingendo di soffermarsi sulla domanda, meditabondo.
Come se potesse ingannare qualcuno.
Se un Vor decide di salvarti la vita da un agguato organizzato da un altro Vor, c'era sempre un motivo.
Un motivo pericoloso, se la lealtà fra due vertici di una organizzazione così antica era stata messa in discussione.
"Sai chi ti ha portato quì?".
"Mi ci ha portato Ivan".
"E sai perché?".
Vasilj mosse il capo a destra e a sinistra in senso negativo.
Titov lo stava inchiodando con lo sguardo. Era un uomo distinto in costoso completo griffato, camicia e cravatta.
Le scarpe lucide allacciate da cordini in cuoio e ciuffo di capelli spinti all'indietro alla maniera di un divo del cinema.
Aveva quello che Vasilj una volta aveva sentito definire come: charme.
Vasilj non aveva capito bene cosa quella parola volesse dire ma non c'erano dubbi che Vor Titov ne avesse parecchio.
Lo invidiava.
Poteva sopportare quell'obeso di Kozlov perché era un obiettivo facile da uguagliare e poi superare.
Kozlov non aveva charme. Non era abituato a muoversi nell'alta borghesia e non trattava con gente che contava davvero perché sempre rinchiuso nella sua fortezza di cemento.
Vasilj per molto tempo aveva creduto che un Vor dovesse essere come Kozlov o per lo meno avere un qualche tipo di minimo rilievo, ma non era così semplice.
Il vero Vory era come una setta d'elite.
Persone autorevoli, terrificanti anche se non le avresti mai viste alzare la voce. Per loro bastava un schiocco di dita e le persone intorno potevano morire brutalmente.
Erano uomini con senso dell'eleganza e della cultura. Conoscenza negli affari e astuzia.
Per essere uno di loro ci dovevi nascere.
Vasilj si sentì un idiota di fronte a quello che si presentava come un vero e proprio esempio irraggiungibile.
Lui era un bifolco proveniente dal primitivo nord, poteva cacciare a mani nude e torturare per ore le sue vittime senza portarle all'agognata morte.
Ma restava sempre un sicario, troppo grezzo e ignorante.
Come gli era venuto in mente di pensare di avere anche solo una possibilità.
Era un nessuno.
Era stato bastonato per anni apposta per esserlo, fino a che non si era ridotto al cane che era.
"Il tuo compagno Ivan, frequenta molto spesso questo posto", stava spiegando Titov. "E' stato facile per uno dei miei uomini avvicinarsi a lui per avvisarlo giusto in tempo. Il Vory non era a conoscenza del piano di Kozlov per eliminarti, fortuna invece vuole che io sappia sempre tutto quello che succede nella mia città".
"Al Vory interessa di me?". Pareva impossibile.
Titov tirò ancora di sigaro. "Affatto, ma i tuoi servigi da sicario sono stati richiesti e sarebbe stato difficile per te compierli se fossi passato a miglior vita".
Vasilj si prese un attimo per riflettere e poi disse: "Non credo di potervi essere d'aiuto. Sono solo. Kozlov a quest'ora saprà che sono vivo, tenterà ancora di farmi fuori".
"Motivo in più per accettare l'ingaggio", sorrise il Vor.
Non prometteva nulla di buono quel sorrisetto da vecchia volpe.
"Quali sono le regole?", si informò Vasilj entrando pienamente nell'ottica da sicario professionista.
"Eliminare Kozlov, il figlio e il resto della sua famiglia... al completo".
Vasilj corrugò la fronte mentre mentalmente già scandagliava ogni scala anti incendio, ogni corridoio e ogni appartamento del condominio di Kozlov a San Pietroburgo.
Conosceva bene quel buco post sovietico, ci aveva abitato come facente parte della guardia armata del Vor.
Il fatto che l'Organizacija avesse commissionato una così colossale azione punitiva e che chiedessero proprio a un sicario l'arduo compito, indicava solo che quella doveva essere un'azione volta a sradicare la disobbedienza alle dieci leggi Vory.
Nessuno era sopra di esse.
Nemmeno i boss.
Nemmeno Kozlov.
 
Il sicario sarà il boia, a nessun'altro sarà permesso di compromettere la propria nobiltà.
Punizione dei traditori.
 
"Mi avete scelto perché conosco l'obiettivo", azzardò Vasilj guardingo. "Ma cosa ne sarà poi di me? Ribellandomi a Kozlov, trasgredirò alla settima legge: Lealtà al signore e capo Vor".
"Non sarai punito per questo". Uno dei più potenti signori della guerra lo stava guardando dritto negli occhi.
Questo provocava in Vasilj un certo disagio ma non volle far trasparire nulla. Non poteva dimostrarsi debole, non in quel momento che gli stavano dando un motivo per dimostrarsi utile altrimenti... Se non servivi a nulla...
Non potevi tirarti in dietro, la malavita russa era per la vita. Non c'erano scappatoie.
Titov allargò le gambe e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, curvandosi verso di lui come se con anche la postura potesse trasmettere l'intensità di ciò che stava dicendo.
"Kozlov non è più un fedele. Ha intrattenuto rapporti con un emissario del KGB. L'Organizacija non può permettersi il lusso di fidarsi più di quanto non lo abbia già fatto fino ad oggi".
La sentenza era data, l'ordine era perentorio.
Kozlov era un morto che camminava.
Vasilj inspirò profondamente e si perse nell'esaminare, senza vedere davvero, le cornici ornamentali appese al muro.
"Mi ci vorrà del tempo. Ho in mente un piano ma... quanto tempo ho?".
Titov si alzò in piedi apparentemente soddisfatto dall'esito del colloquio. "Kozlov è tornato a San Pietroburgo, sicuramente per rintanarsi nella protezione del suo rione. Ti organizzerò un volo diretto, una volta lì dovrà essere fatto in fretta e dovrà sembrare il risultato di una sommossa da parte dei 'Ragazzi del Vicolo'".
"Niente di riconducibile direttamente al Vory", annuì il sicario.
Il Vor si avviò alla porta. "La stampa russa crederà a una rivolta di spacciatori, dopotutto se lo aspettano. Le strade della città non sono mai state così in fermento da anni".
Detto ciò, uscì dalla stanza.
 

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Capitolo 6
*** 6 ***


                                                                                                                ---------------VASILJ-----------------
 
UN MESE DOPO
SAN PIETROBURGO - RUSSIA
 
Era una città con una storia affascinante, dove il tempo sembrava essersi fermato.
Vetrina della Russia Imperiale, San Pietroburgo era un importante centro artistico e culturale per i suoi monumenti e musei narranti il passato di una città che, nel corso dei secoli, più volte cambiò il suo nome.
Città di zar e antica capitale del paese, era un colosso sull'acqua. Conosciuta come 'la Venezia del nord' per l'impressionante quantità di canali e ponti che la attraversano.
Quella mattina sembrava uscita da una favola con i suoi palazzi da sogno perfettamente conservati, come il Palazzo d'Inverno che si riusciva a scorgere in lontananza e la sua atmosfera surreale caratteristica di quel periodo dell'anno in qui le albe si tingevano di oro impossibile.
Vasilj avanzava a piedi per le vie deserte nelle prime luci del mattino. Cappuccio della felpa nera calato fino agli occhi, capo chino, mani nelle tasche davanti.
Manteneva un passo sostenuto, appena sotto al livello della corsa.
Aveva fretta, doveva sapere come era andata.
Conosceva a menadito quei cunicoli nei sobborghi, conosceva la gente che ci nasceva, spacciava e ci moriva.
Era gente come lui.
Anime in un limbo suburbano, pedine nelle mani di persone spesso senza volto.
Quella mattina aveva dato loro una possibilità di uscire dal torpore ed assaporare quanto potevano aver di meglio.
Lo scoppio di risate e urla gioiose proveniente dall'interno di un ex magazzino con la saracinesca sollevata, lo fece camminare ancora più in fretta.
Erano tutti lì, i facenti parte del clan 'Ragazzi del Vicolo'.
Uomini e donne, ragazzini e puttane.
Li chiamavano 'Ragazzi' perché spesso non arrivavano a soffiare le quaranta candeline. Il loro era uno stile di vita pericoloso e al di fuori della protezione delle entità competenti o del Vory.
Per definizione il ghetto era simbolo di segregazione, di falsa libertà in cui venivano richiusi i 'diversi'.
Quella mattina i 'diversi' erano tutti riuniti in quel garage fatiscente con i muri in cemento armato e l'olezzo di benzina.
Quando Vasilj li aveva raggiunti solo un mese prima, li aveva scovati nell'ombra. Troppo stanchi per ribellarsi al sistema e troppo spaventati per ribellarsi all'Organizacija.
Messi all'angolo, rabbiosi come cani perché anche l'ultima fonte di guadagno dato dalla coca era stato ridotto a soli pochi tossici affezionati.
Da tempo dai fornitori arrivava solo roba inpiazzabile e loro avevano genitori, figli e fratelli da sfamare.
Ma quella mattina avevano un motivo per festeggiare e quando il capo di quei reietti si voltò e vide entrare l'oscura figura di Vasilj, cacciò un urlò per richiamare l'attenzione di tutti.
"Ed ecco l'artefice della nostra fortuna!", urlò teatralmente spalancando le braccia in sua direzione. "Il Lupo dell'Organizacija, cazzo!".
Partì un fragoroso applauso che fece piantare sul posto Vasilj.
Una simile manifestazione di accoglienza non era né apprezzata né richiesta, doveva arrivare rapidamente al motivo per qui si trovava lì. Ma capiva che lasciarli crogiolare nella vittoria appena ottenuta, giocava un grosso ruolo nel convincerli a fare quello per cui andava per forza fatto.
Vasilj scoprì il capo e li guardò tutti uno per uno.
Erano giovani uomini come lui, ma a confronto a lui potevano essere nati anche solo il giorno prima.
Si atteggiavano a gangster con motorini rubati, le pistole di piccolo calibro, gli atti di vandalismo e le nottate passate in carcere.
Ma erano anche incoscienti, impavidi e con tanto di quel veleno da poter devastare un intero quartiere solo con bombe carta e pugni.
A loro serviva una guida, qualcuno che sapesse canalizzare la loro ferocia verso obiettivi sempre più proficui.
Come poche ore prima quando, sotto l'accurata preparazione di Vasilì dovuta a giorni di osservazioni e mappe catastali rubate, aveva dato il via libera a una delle rapine più scenografiche che San Pietroburgo avesse mai visto.
La banca presa d'assalto non era certo un caposaldo di Wall Street, anzi era poco più di un sportello di provincia, ma il bottino era stato più che sufficiente a gasarli e arricchirli per quelle che si prospettavano le settimane più felici della loro vita.
"Ecco qua, guarda che roba!", stava dicendo il ragazzotto capo clan, mentre due donne poggiavano ai suoi piedi quattro borsoni carichi di banconote.
"Siamo sbucati dal pavimento, cazzo! E' andata come hai detto tu, l'apertura del caveau stabilita all'ora esatta e i dipendenti della banca che non avevano nemmeno avuto il tempo di spalancare la porta blindata del tutto, quando abbiamo rotto l'ultimo strato di pavimento e siamo emersi rapidi ed efficienti".
Già, efficienti.
Si ritrovò a commentare mentalmente Vasilj.
Se li poteva immaginare, sbucare dal buco nel pavimento come talpe in passamontagna e anfibi. Riempire di botte gli impiegati uomini e fare commenti osceni alle donne, rompere qualche vetro, lanciare qualche computer, caricare i borsoni facendo volare in ogni dove fogli da cento e poi tuffarsi carichi di adrenalina di nuovo dentro al buco da cui erano venuti per ripercorrere la fogna che ormai avevano imparato a conoscere dalle cartine disponibili in Google.
Dei veri maestri del crimine.
"E ora cosa volete fare?", domandò il sicario.
Calò il silenzio, mentre i 'Ragazzi del Vicolo' si soffermavano ad accarezzare l'idea di soddisfare qualche loro piccolo e passeggero desiderio.
"Ve li sniffate tutti in una settimana? Vi comprate quell'auto che avete sempre desiderato ma che non potete mantenere in un quartiere del genere? Date da mangiare ai vostri figli e fratelli per qualche giorno per poi ritornare nella povertà? Date un senso alla vostra vita solo per il tempo necessario a queste sacche di vuotarsi e poi? Cosa farete? Tornerete nell'anonimato, nella merda?".
Vasilj annuì e diede loro le spalle. "Chiamatemi quando vorrete essere veramente qualcuno".
Il ragazzotto capo, afferrò i borsoni e lo aggirò bloccandogli la strada.
Gli ributtò il bottino ai piedi e con tono formale disse: "Ne abbiamo parlato allungo. Siamo tutti d'accordo a seguirti, Siberiano. Non vogliamo più nasconderci e questi soldi saranno il nostro primo passo avanti".
Vasilj afferrò le borse, fece un cenno di saluto con il mento e si avviò verso la strada.
 
---
 
L'altarino eretto, in quello che doveva essere stato un tempo l'ufficio del magazzino, era illuminato da candele votive.
Nel buio della stanza le fiammelle tremavano in un bagliore aranciato lanciando spettrali ombre in movimento sul telo rosso scarlatto, steso come ornamento di un logo sacro.
I grani di un lungo rosario in legno, erano avvolti in dieci spire accanto alla croce di Nostro Signore e le innumerevoli cornici raffiguranti arcangeli in armatura e santi martiri erano state chiodate una sopra l'altra fino a raggiungere il basso soffitto.
Sull'altare, appoggiato al muro, c'era la raffigurazione dissacrante in olio su tela della Vergine Maria con le braccia incrociate al petto e una pistola Glock per mano.
Quella rappresentazione non aveva nulla di amorevole. L'espressione severa e il velo nero la facevano sembrare un angelo del male invece che la rincarnazione della purezza.
Vasilj teneva i palmi sull'altarino, le dita ben allargate come se fosse in quel momento in contatto diretto con l'oltretomba.
I tatuaggi del Vory, impressi su dorsi e falangi, erano ben illuminati alla luce delle candele.
A capo chino, sussurrava una preghiera tradizionale al codice. Una oscura minaccia ai nemici e un inno alla santissima Vergine.
Il voto che ogni sicario devoto era solito fare prima di compiere il suo dovere.
"Santa madre del santissimo Dio...", recitava con voce greve mentre teneva le palpebre calate. "... benedici le nostre armi, indirizza i nostri proiettili e consacra noi così che la nostra mira possa diventare la tua".
Qualcuno bussò alla porta e ne fece capolino una delle puttane dei 'Ragazzi'.
"E' ora", lo avvertì a bassa voce. Forse timorosa di interromperlo in quel sacro momento.
Vasilj la oltrepassò a passo di carica costringendola a farsi da parte in fretta.
Trovò tutto lo schieramento dei 'Ragazzi del Vicolo' vestiti in tenuta d'assalto al centro del loro garage.
Tutti in nero, tutti bardati e armati con il pieno di munizioni.
Erano in una cinquantina, praticamente un piccolo esercito sponsorizzato dal Dark web.
Tutta l'attrezzatura per la serata era stata comprata grazie al bottino della rapina.
I contanti erano stati convertiti in Bitcoin, criptovalute sicure e non rintracciabili.
Grazie Internet.
Per i giubbotti rinforzati anti proiettile, i fucili AK-47, le Glock, le granate e i fumogeni.
Per non farsi mancare nulla, alcuni di loro si erano messi in tasca tirapugni e altri si erano portati da casa persino delle mazze da baseball.
Anche Vasilj si era vestito in alta uniforme: ai piedi anfibi con suola carro armato, pantaloni militari neri, alla coscia destra era appeso il suo pugnale,  alla cintura due pistole, al petto il gilè anti proiettile, alle due fondine ascellari due Glock e sulla schiena, agganciato a tracolla, portava un fucile militare ad alta precisione. Roba adatta ad assalti su terreno urbano, con mirino a visione notturna.
"Questa notte, signori miei..." parlò forte e chiaro alla platea. "... sarà quella notte che tutti noi stavamo aspettando da troppo tempo. In una notte ci faremo finalmente vedere come i lupi che siamo e non più come deboli cani ".
"Si!", risposero tutti in coro.
"Questa notte tutto il Vory ci stà guardando e ci dà l'opportunità di prenderci uno dei rioni più grandi della città! Non voglio vedere paura o dubbio sui vostri volti perché se falliamo oggi, non ci saranno altre occasioni. Prendiamoci il nostro territorio e il nostro posto alla tavolata!".
"Si!", urlarono ancora una volta.
"Tutti ai vostri posti, si parte!", ordinò lui.
Gli uomini partirono alla volta di furgoni e auto, caricando quanta più gente possibile.
La saracinesca venne alzata e in stridore di gomme partirono verso la notte illuminata dalle luci artificiali.
Vasilj si coprì il volto, alzandosi dal collo il suo passamontagna con il sorriso da teschio stampato sulla bocca.
Era pronto per il suo grande ritorno.
 

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Capitolo 7
*** 7 ***


                                                                                                  ---------------IVAN-----------------
 
Era poco dopo l'orario di cena e, a qualche chilometro di distanza, una leggera pioggerellina cominciava a cadere sulle finestre dell'enorme condominio in cemento e ferro del Clan Kozlov.
Un casermone apparentemente e solo esternamente fatiscente, che si affacciava su una strada sudicia tra marciapiedi pieni di erbacce e rifiuti.
Un'immensa ciminiera, il rudere di una fabbrica in disuso, si innalzava cupa e minacciosa.
Non c'erano rumori, a parte il sussurro dell'acqua nera che scorreva placida in un fosso e il leggero ticchettio della pioggia sui tetti delle case adiacenti alla 'reggia' del Vor.
Con l'improvviso segnale acustico BIP-BIP, un camion di una compagnia di elettricisti attrezzati di gru, fece retromarcia proprio davanti al condominio e si piazzò accanto a un traliccio dell'alta tensione.
Due uomini vigilavano dall'alto del terrazzo all'ultimo piano, i cappucci degli impermeabili sollevati sulle teste in un vano tentativo di ripararsi dall'acqua.
Uno di loro si accese una sigaretta, mentre stava a guardare gli elettricisti in divisa prodigarsi a salire nella cabina elevatrice e attivare il sistema di sollevamento.
"Sono giorni che quel traliccio fa le scintille e quegli idioti decidono di venire proprio quando piove. Dovremmo dire agli uomini giù da basso di dare una occhiata, eh Ivan?".
Ivan si limitò a stringersi nelle spalle.
"Vado a pisciare", avvisò prima di avviarsi verso la porta di accesso al terrazzo.
L'ingresso del lussuoso attico, in fondo alla scalinata, era spalancato e Ivan quando ci passò davanti ebbe la visione completa del salotto di Kozlov.
Tappezzeria dorata, pavimento in marmo, arredamento pacchiano stile Luigi XIV.
Il boss era seduto a capotavola, dando le spalle all'ingresso e volgendosi proprio in direzione dell'enorme vetrata pesantemente drappeggiata di damasco.
Con lui, sedevano il figlio Dorian alla sua destra e la ristretta cerchia di cugini.
In quel momento stavano giocando a Poker, fumavano e ridevano.
Le pistole appoggiate sul tavolo accanto alle fiches ammassate in grossi mucchi colorati.
Dorian aveva ancora il viso segnato da qualche livido dovuto all'imbarazzante incontro avuto con un sicario esperto, ma la voglia di prenderle non gli era passata a giudicare da come si pavoneggiava del puntare tutto e nel prendere per il culo i parenti.
Accanto alla finestra, con una mano appoggiata all'arma, se ne stava in piedi il giovane soldato Nicolaj.
Cercava, senza farsi notare, di osservare la strada sottostante .
Era nervoso, Ivan lo capiva e se non si fosse dato una calmata presto lo avrebbero capito anche gli altri.
Il ragazzo si voltò, forse vedendolo nel riflesso del vetro e gli lanciò uno sguardo d'intesa.
Ivan passò oltre all'appartamento del Vor e proseguì lungo il suo percorso verso le scale a spirale interne allo stabile, come se stesse effettivamente andando alla sua unità per trovare un bagno.
Per aver accesso agli alloggi privati del Vor, una volta che avevi superato i sette piani sottostanti, dovevi per forza bloccarti davanti all'inferriata in ferro battuto che avevano saldato come protezione ultima a eventuali nemici.
Una sorta di portale che bloccava le invasioni proteggendo il Lord rinchiuso in cima della torre.
Il cancello era sempre chiuso a chiave e sorvegliato da una guardia.
Quando Ivan arrivò dall'alto, alle spalle del soldato, questo se ne accorse di soprassalto e lo squadrò dalla testa ai piedi.
"Dov'é che vorresti andare?". Gli chiese scocciato, incrociando le braccia al petto.
"Devo pisciare, non vorrai che la faccia in corridoio di sopra. Forza, apri. Devo scendere!".
"Hai lasciato un solo uomo di vedetta?"
Ivan alzò gli occhi al soffitto sospirando. "E' una serata tranquilla, fuori tutto tace e di sopra si stanno ubriacando giocando a carte. Questione di un minuto, torno subito".
Ma la serata si preannunciò tutt'altro che tranquilla.
Dal piano di sopra giunse il fragore di una raffica di colpi sparati da un mitra, vetri andare in frantumi e urla concitate di dolore e rabbia.
Il soffitto tremò sotto i passi degli uomini che correvano in ogni direzione cercando un riparo.
Gli "elettricisti" dovevano aver raggiunto l'ultimo piano grazie alla gru e in quel momento dovevano aver deciso che quello fosse il momento buono per fare fuoco. Dovevano aver fatto saltare per aria la finestra e centrato Kozlov con quanti più proiettili possibili.
Ivan sperava solo che il giovane Nicolaj si fosse messo in salvo prima che arrivasse il finimondo.
La guardia al cancello, spalancò gli occhi dal terrore e fece per prendere la via della risalita alla rampa di scale.
Ivan fu più veloce.
Lo prese per la collottola e gli fece schiantare la fronte contro il muro per due volte.
L'uomo scivolò a terra in un rantolo, il volto sfigurato dal sangue.
Rimase inginocchiato faccia al muro, inerte mentre Ivan gli ispezionava le tasche.
Trovò la chiave ovviamente solo dopo aver smadonnato. La infilò nella toppa e spalancò il cancello proprio quando, da in cima la gradinata, giungevano le voci degli uomini sopravissuti in fuga.
Ivan corse come se avesse le ali ai piedi.
Ai piani bassi si era scatenato un secondo inferno.
Giungevano altri spari e altre urla, questa volta provenienti da donne e bambini in lacrime.
Quando scese al terzo piano, la puzza di lacrimogeno gli tolse il respiro e appannare la vista.
Riusciva a distinguere solo forme indistinte di anime in pena, correre verso le uscite anti incendio. In fuga da cacciatori in nero equipaggiati da maschere antigas.
I civili erano presi a calci e sbattuti contro i muri, alcune guardie al piano avevano vigliaccamente ammutinato gettandosi dai terrazzi e ridiscendendo dalle grondaie.
Un bambino di non più di cinque anni tossiva debolmente raggomitolato in un angolo. Paralizzato dalla paura.
"Non i bambini!" urlò Ivan nell'agguantare per un braccio una losca figura armata di mazza da baseball.
Questa voltò il mascherone dotato di due enormi filtri d'aria in sua direzione e stava per rispondergli caricando un colpo quando parve riconoscere il sicario e decidere saggiamente di desistere.
"Ordini del Siberiano, nessuno dovrà uscirne vivo!". Disse con voce metallica, distorta dalla bardatura.
Detto questo si liberò dalla sua presa e alzò la mazza in direzione del bimbo mezzo svenuto ai suoi piedi.
"Levati dai coglioni, idiota!", lo minacciò Ivan spingendolo malamente con una spallata.
Il cacciatore optò per dedicare la sua occasione di sfogo ad un altra vittima. Corse dietro a una donna devastata dalla paura che istericamente correva in mutande su e giù per il corridoio in cerca dell'uscita anti incendio.
Ivan prese per la maglietta il bambino, sollevandolo facilmente come una valigia. Aprì l'uscita di sicurezza con una manata e lanciò fuori il corpicino.
Il bimbo rotolò come un salame cadendo sulla griglia metallica del piccolo pergolato esterno. Respirò aria pulita e riuscì a riacquistare la lucidità necessaria per darsela a gambe giù per la scala esterna con sorprendente prontezza.
Ragazzino giudizioso.
Ivan si concesse qualche istante per riempire i polmoni di ossigeno e per smettere di lacrimare.
Non riusciva più a vedere nitidamente.
Con tutto quel fumo irritante lanciato per l'edificio, gli era impossibile rientrare.
Si portò le mani ai capelli e si voltò in direzione delle finestre cercando di distinguere le figure in movimento nel corridoio.
Fu in quel momento che lo vide e fu... come vedere un demone dal volto coperto da maschera camminare nel fumo degli Inferi.
Al suo passaggio, i soldati d'assalto completarono l'opera sparando alla testa di ogni uomo o donna che avessero catturato.
Dietro di lui, il resto dell'esercito avanzava guardingo puntando i fucili verso ogni angolo e dentro ad ogni porta sfondata a pedate urlando "Libero!", subito dopo.
Vasilj Volkov camminava a schiena dritta, con il fucile d'assalto imbracciato a due mani ma puntato a terra.
Imperscrutabile e del tutto insofferente alla morte che lo circondava.
Era la legge fatto carne.
Impossibile non provare soggezione nel vederlo nel suo ambiente naturale.
Era come vedere un Generale guidare le sue truppe.
Quando arrivò davanti a Ivan, Vasilj girò lentamente il capo verso di lui.
"Ti serve una maschera", disse tranquillamente e con il cenno di un dito richiamò uno dei suoi uomini.
A Ivan venne dato un respiratore e tutti insieme si avviarono di gran carriera verso i piani superiori.
"Ti son sempre piaciute le entrate in grande stile", commentò senza alcuna ironia Ivan mentre infilavano una rampa dietro l'altra.
Vasilj ridacchiò e fu l'unico scambio di parole che si diedero prima di rientrare nella loro personale apocalisse.
Al cancello dell'ultimo piano ebbero l'incontro ravvicinato con una decina di guardie.
Ivan sparò con precisione tre volte al petto di una e menò il calcio della pistola alla nuca di un'altra, si voltò verso Vasilj che disarmò il suo avversario facendogli volare la Glock giù per la tromba della scale.
La guardia ebbe un momento di confusione rimanendo tragicamente disarmato. Guardò giù, impallidendo all'istante nel vedere la sua arma precipitare nel buio, in caduta libera.
"Vattela a prendere", ringhiò a denti stretti Vasilj prima di tirargli un spintone alla schiena.
La guardia si sbilanciò in avanti, si sporse al di là della balaustra e volò anch'esso nel precipizio.
Ivan lo sentì urlare, poi dei terribili GONG dovuti al corpo che si schiantava in altri parapetti.
Il tonfo lontano e poi... il silenzio.
Vasilj si tolse il respiratore dal volto e urlò al resto della compagnia: "Di sopra, muoversi!".
Nell'attico non trovarono altre guardie a difesa di Vor Kozlov. In salotto giacevano i corpi di Dorian e dei suoi cugini, crivellati di colpi.
Ma del boss non c'era traccia.
Ivan si chiese nuovamente che fine avesse fatto Nicolaj.
Dalla finestra sfondata, soffiava il vento della notte. La pioggia bagnava il marmo del pavimento ricoperto di vetri rotti e fiches da Poker, mentre le tende sventolavano come spettrali fantasmi.
"Di qua!" chiamò la voce famigliare di Nicolaj, proveniente dalla stanza adiacente.
Tutti si precipitarono verso la camera da letto padronale.
Trovarono Nicolaj ferito a una gamba ma con ancora abbastanza forze per tenere sotto mira la porta del bagno chiusa a chiave.
"Si è chiuso dentro, il codardo". Spiegò il ragazzo. "E' disarmato. Te l'ho tenuto in caldo, Siberiano".
"Ben fatto". Vasilj gli strinse una spalla in segno di gratitudine. Poi si voltò verso l'inutile nascondiglio del Vor, alzò il fucile e fece fuoco con due colpi ad altezza uomo proprio al centro della porta.
Poi mirò alla serratura, la vece saltare e lentamente girò la maniglia.
Kozlov gorgogliava esanime afflosciato sulla tavoletta del suo water d'oro massiccio.
Le braccia penzolanti ai lati del corpo, la testa appoggiata all'indietro contro le piastrelle bianche schizzate di rosso.
Respirava affannosamente ma era ancora vivo.
A Ivan sfuggì un grugnito di disgusto.
Un degno trono per una merda di uomo. Morire sul proprio water aveva un certo che di poetico.
Kozlov cercò di dire qualcosa.
Lo facevano tutti in quei casi. Cercavano sempre di ritardare l'inevitabile o di dire qualcosa di epico sul finale della loro triste vita.
Vasilj si fece avanti, gli scarponi che squittirono camminando sulle lisce piastrelle in ceramica.
Mise il fucile a tracolla dietro la schiena, estrasse il pugnale dal fodero alla coscia e si chinò sulla sua preda.
"Il Vory, ti manda i suoi saluti" disse e gli piantò la lunga lama sotto la mandibola. Dal basso verso l'alto.
Quando la ritirò fuori, una cascata di sangue fluì dal cranio di Kozlov.
Fu come assistere allo scannamento di un maiale.
Ivan ebbe appena la percezione di uno degli uomini accanto a lui farsi da parte prima di sentirsi male e uscire dalla stanza.
Un ragazzotto robusto andò verso Vasilj mentre questo ripuliva la lama sui pantaloni del cadavere.
"Ti salutiamo, Vor Volkov!", disse ad alta voce in modo che tutti i 'Ragazzi del Vicolo' potessero sentire.
Come un sol uomo, l'intera squadra presente nella stanza appoggiò il ginocchio destro a terra volgendosi verso il loro nuovo leader.
Capi chini, armi infoderate.
Vasilj guardò sconvolto Ivan che gli ricambiò l'espressione sconcertata.
Anche Nicolaj, nonostante il dolore alla gamba, volle chinarsi.
"Non sono un Vor", commentò Vasilj con voce roca.
Il ragazzotto a capo dei 'Ragazzi' si inchinò e disse: "Da oggi, per tutti noi sarai il nostro Vor... e ti seguiremo qualsiasi cosa tu voglia fare".
 

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Capitolo 8
*** 8 ***


                                                                                                ---------------VITTORIA-----------------
 
HONDURAS - AMERICA CENTRALE
 
L’Honduras era ancora nell'epoca moderna uno dei paesi meno sviluppati e industrializzati.
Una storia politica turbolenta e l’occidente che negli anni Ottanta cercò di affermare una base operativa per le operazioni degli Stati Uniti. Il lento sviluppo, le bellezze naturali e il turismo modesto rendevano il paese particolarmente attraente per quei viaggiatori ben forniti di repellente per insetti che amavano le destinazioni alternative.
Mari cerulei e verdi foreste, splendide rovine maya e vulcani fumanti.
Questo era un lato della medaglia, quello commerciale da rivista in sala d'attesa da un dentista.
Dietro c'era il peggio del peggio.
La fascia costiera sul Mar dei Caraibi poco sorvegliata, le isole della Bahia sostanzialmente invigilate, la tradizionale propensione al contrabbando e le decine di piste di atterraggio clandestine, presentavano da tempo le condizioni ideali come punto di trasferimento della cocaina verso il Nord America e il mondo a est.
Le rotte maggiormente utilizzate dai narcotrafficanti erano quella terrestre, al confine con il Nicaragua, quella lagunare  e, soprattutto, quella aerea.
Era proprio quì che, in punti prestabiliti, si effettuavano trasporti di cocaina da idrovolanti a navi o si realizzavano lanci di stupefacenti opportunamente sigillati in involucri impermeabili che venivano recuperati da piccole e veloci imbarcazioni a motore.
Era dagli anni Ottanta che il paese parallelamente costituiva una sorta di ponte naturale di transito della coca.
Agosto ai Caraibi non era il mese migliore, il clima quel giorno era appena sopportabile.
Il sole adorava farsi desiderare ed era facile imbattersi in improvvisi acquazzoni proprio come quello che stava scendendo in quel momento per le vie fangose del paese.
Per il popolino non era un grosso problema, continuava ad affollare le strette vie incespicando tra spazzatura e bancarelle di frutta e verdura.
Vittoria De Stefano si fece largo tra il capannello di gente ammassato in cerchio proprio al centro della piccola piazza di paese.
Urlavano e agitavano i pugni incitando prima l'uno e poi l'altro gallo combattente.
I due pennuti beccavano e graffiavano, compiendo alti balzi in un battito isterico d'ali.
Vittoria si soffermò un istante, sotto al diluvio riparata dall'ombrellino.
I combattimenti di qualsiasi genere affascinavano gli honduregni, che non disdegnavano di piazzare qualche scommessa.
Per loro era come, per gli inglesi, assistere a una corsa di cavalli.
Non importava a nessuno che i combattimenti fossero clandestini o legai oppure di esseri umani, cani o galli.
In quel momento si spintonavano e litigavano nel fango, carichi di energia da sfogare.
Quando un gallo finì al tappeto e l'altro gli fu addosso strazziandone le carni, Vittoria decise che per lei lo spettacolo era finito.
Proseguì verso la fine del mercato, dove si sarebbe ricongiunta con il padre.
Salvatore se ne stava riparato al di sotto di un grazioso porticato ad arcate colorate azzurro. Circondato dai suoi uomini, una mano nella tasca dei pantaloni e l'altra portata a reggere il telefonino all'orecchio.
Guardava il vuoto davanti a sé mentre ascoltava quello che il suo interlocutore gli diceva e rispondeva di conseguenza.
Parlava in inglese, non in spagnolo o italiano, perciò la ragazza dedusse che finalmente avevano ricevuto notizie dai loro probabili clienti.
Vittoria entrò nel porticato, richiuse l'ombrellino e si fece avanti mentre la sicurezza la lasciava passare.
Salvatore De Stefano agganciò proprio in quel momento.
"Novità dai russi?". Si accertò la ragazza.
"Ero al telefono con quello che chiamano 'Il Politico'. Ha accettato la nostra offerta. Noi forniremo al Vory la coca regolarmente e spartiremo il guadagno. Ottanta per cento loro e venti per cento noi. In più, si impegnano a cessare ogni ostilità negli Stati Uniti.
Non dovremmo più preoccuparci di altri attentati da parte loro".
Vittoria sospirò di sollievo, tuttavia non poté fare a meno di riservarsi qualche dubbio: "Possiamo davvero fidarci?".
Suo padre le accarezzò un braccio e le rivolse un debole sorriso rassicurante.
"Noi abbiamo i mezzi di trasporto e, dalla nostra, il nuovo Narcoboss honduregno. Il Vory ha perso una importante pedina della sua scacchiera, non si aspettavano che il loro contatto venisse fatto fuori dal nostro. Finché avremmo in mano noi le redini del commercio, i russi non possono toccarci".
Era vero.
Salvatore De Stefano aveva saputo scommettere sul gallo giusto, giocando d'anticipo sui russi.
Gli italiani avevano rifornito d'armi l'attuale capo del Cartello di Comayagua quando ne aveva avuto più bisogno. In cambio, strinsero con lui un'alleanza bilaterale.
Avrebbero sempre trovato nella 'Ndrangheta di Boston un affezionato rifornitore di armi e gli italiani avrebbero sempre trovato nel Cartello un ligio produttore di polvere d'angelo da rivendere ai clienti distributori.
Nella partita disputata tra le due 'Famiglie', con quella mossa gli italiani stavano a uno e i russi a zero.
Vittoria era fiera di suo padre, sperava un giorno di arrivare alla sua astuzia e lungimiranza.
"Ma ascolta bene", le stava dicendo abbassando il tono di voce. "La tregua con loro si limita sul terreno neutrale americano. Tutta la roba che spediremo, dovremmo controllarla a distanza. Non abbiamo il permesso di calpestare il suolo russo".
Vittoria corrugò la fronte, meditabonda. "Dovremmo affidarci a uomini di comprovata fedeltà, non potremmo controllare di persona che il carico non finisca nelle mani sbagliate".
"Ed ecco che entro in gioco io!", esclamò una voce con l'inconfondibile accento marcato calabrese.
Un uomo abbronzato dai capelli neri tagliati corti in un piccola cresta e camicia hawaiana sbottonata sul collo, fece la sua comparsa baldanzoso.
Strinse la mano a Don Salvatore e sorrise, esibendo una sfilza di denti bianchi, in direzione della ragazza.
Vittoria lo conosceva bene.
Luca era il pilota ufficiale di suo padre fin dai tempi in cui lei aveva quattordici anni e lui venticinque.
Si occupava di ritiri in idrovolante o aereo cargo. Aveva sempre saputo come affascinare tutti con la sua aria da Indiana Jones, tanto bravo in aria come lo era a letto.
Vittoria aveva perso la verginità con lui.
Si scambiarono convenevoli, ma la ragazza non ascoltava veramente.
La presenza di Luca la destabilizzava. Benché non provasse per lui nulla di più di un ricordo di quella che fu una cotta adolescenziale, la metteva a disagio il fatto che lui giocasse con lei sul filo delle battute a doppio senso in presenza del padre.
Luca godeva nel metterla in imbarazzo e considerava il rischio di far scoprire a Don Salvatore che si era scopato la figlia all'epoca minorenne ripetutamente, come il pepe che serviva a lui e Vittoria per tornare alle vecchie consuetudini.
Peccato che Vittoria negli anni aveva sviluppato un altro genere di gusti in fatto di uomini e il tipo 'bello e avventuriero' aveva fatto il suo tempo agli inizi degli anni duemila.
"Incontreremo il capo del Cartello, fra un ora. Meglio avviarci, ci attende in mezzo alla giungla e voglio essermene andato da lì prima che faccia buio", annunciò Salvatore De Stefano.
Il viaggio nelle Jeep sulle disconnesse strade selvagge, fu una vera tortura.
Vittoria sobbalzò tutto il tempo sul sedile del passeggero, maledicendo il tempo merdoso che le faceva arricciare i capelli e appiccicare la pelle come se fosse reduce da una maratona.
Luca non la smetteva di lanciarle sorrisini da completo coglione, ma Vittoria sapeva che se voleva dimostrarsi all'altezza di quel tipo di vita doveva comportarsi da superiore.
Perciò lo ignorò con quanta più concentrazione potesse trovare.
Hector Zambada Garcìa, il Narcoboss, li accolse sotto al diluvio fra le verdi felci con in testa un largo cappello da cowboy e una mitraglietta in mano.
Non faceva altro che ridere in maniera sguaiata mettendo i mostra i denti marci.
Li condusse all'interno della sua baracca, sorvegliata da uno stuolo di honduregni armati e incazzati.
A occuparsi del taglio e impacchettamento della coca, c'erano decine di donne e ragazzine vestite solo in intimo: mutande e reggiseno.
Erano sporche e lucide di sudore, per tenere lontano il caldo e l'umidità erano stati accesi dei ventilatori puntati verso l'alto nella speranza di far circolare un po' di aria.
Gli uomini di vedetta parevano braccia strappate all'agricoltura.
Vestiti in canotte e infradito, alcuni di loro succhiavano degli stuzzicadenti come se fosse un qualche tipo di sexy vezzo.
Vittoria, Luca e Don Salvatore presero posto in piedi davanti al tavolo stracolmo di pacchetti e banconote del Narcoboss.
Quest'ultimo parlava in spagnolo a raffica, faceva battute e pareva che volesse metterli a proprio agio.
Almeno fin che, una volta che si fu seduto, non estrasse da sotto il tavolo un grosso barattolo da sottaceti.
Con un tonfo lo sbatté davanti a loro e rimase in silenzio in attesa delle reazioni che sapeva non avrebbero tardato ad arrivare.
Con un sciabordio, la cosa gonfia ricoperta di alghe in ammollo nella salamoia si voltò lentamente.
"E'... è una...?", sussurrò senza fiato Vittoria.
"La testa del mio nemico", ghignò tetramente Hector Zambada Garcìa.
Quelle che aveva scambiato per alghe, erano in realtà lunghi capelli scuri e la grossa cosa gonfia era una testa mozzata e perfettamente conservata in un barattolo di vetro.
La testa aveva occhi e bocca spalancati.
Vittoria si focalizzò sul Narcoboss cercando di non soffermarsi con la coda dell'occhio sul barattolo.
Era impossibile non guardarlo.
Esercitava una macabra attrazione.
"Congratulazioni, Hector. Per la tua strabiliante supremazia". Se ne uscì semplicemente Don Salvatore.
Don Hector, stappò il barattolo da sottaceti e immerse nella purulenta brodaglia un bicchierino da tequila.
Si bevve lo shoottino buttando all'indietro la testa e non si scompose in alcuna espressione di disgusto, mentre buttava giù tutto.
"Da queste parti, gli indigeni hanno una particolare credenza". Cominciò a spiegare Don Hector. "Dicono che se ti cibi del corpo del tuo nemico, potrai vedere il mondo come lo aveva fatto lui. In questo modo, credevano di darsi un grosso vantaggio in battaglia.
E' davvero importante pensare come il nemico, non trovate?".
Ci fu un attimo di silenzio dove si poteva udire solo il ticchettio della pioggia sul tetto in lamiera della baracca.
A Vittoria veniva da vomitare ma non vacillò. Raddrizzò la schiena e rimase in assoluto ascolto.
Accanto a lei, Luca teneva le muscolose braccia incrociate al petto. Mandibola contratta e espressione fiera.
Don Salvatore, teneva le mani incrociate davanti all'inguine. Piedi ben piantati a terra, spalle dritte.
Si trovava tra due uomini abituati alla brutalità del mestiere e con anni di esperienza.
Vittoria trovava confortante l'essere proprio lì, con uomini di quel calibro.
"Che cosa ti turba, amico mio?", provò a chiedere Don Salvatore.
"Il mio predecessore, quì presente...", gli rispose Hector picchiettando sul vetro del barattolo. "...trattava con i russi".
Vittoria deglutì. Sentiva che le sudavano le mani.
"Io ho visto attraverso i suoi occhi e vi posso dire che i russi sono davvero delle bestie davvero infide". Hector richiuse il barattolo con la testa del suo predecessore e rimase a guardarlo pensieroso.
"Presto i russi vorranno la mia roba e verranno perciò a chiederla a voi".
"Sarai pagato puntualmente, Hector. Come stabilito...". Iniziò a rassicurarlo, Don Salvatore.
"Com'era pagato puntualmente lui?". Lo interruppe Hector, indicando con l'indice l'inquietante barattolo. "Ho bisogno di certezze, anzi... ho bisogno di una garanzia".
Ora Vittoria aveva il cuore in caduta libera verso il pavimento. Inconsciamente percepiva un terribile presagio di sventura.
"Avete davvero una deliziosa figlia, amico mio". Sorrise il Narcoboss.
Luca spinse in dietro la ragazza e le si piazzò davanti come se volesse farle da scudo. "Badate bene a ciò che dite, Don". Minacciò a denti stretti.
Don Salvatore gli poggiò la rugosa mano su un bicipite e con espressione bonaria tornò a guardare il suo ospite. "Tranquillo Luca, sono sicuro che Don Hector vorrà spiegarsi meglio".
"Vostra figlia seguirà la mia merce. Da quando partirà da quì a quando arriverà in quella merdosa Russia. Se vostra figlia non viaggerà con la mia coca, io non preparerò nessun carico. Lei sarà responsabile del mio pagamento e la garanzia che mi aspetto di avere".
Luca e Don Salvatore si girarono verso la ragazza e i tre si chiusero in un cerchio confabulatore.
I due uomini discuterono sull'impossibilità che una simile richiesta potesse essere accettata.
Nessun De Stefano era ben accetto in Russia, la tregua esisteva solo in suolo americano. Vittoria rischiava di essere ammazzata non appena avesse messo piede fuori dall'aereo.
Serviva una soluzione e in fretta.
L'accordo con i russi andava rivisto o l'affare con gli honduregni andava fatto saltare.
Cosa valeva più la pena tentare?
"Accettiamo!", esclamò risoluta la ragazza facendo un passo avanti verso il sudicio tavolo del boss.
Suo padre le afferrò un braccio e glielo strinse forte.
Vittoria sentì il suo cuore, precipitato prima sul pavimento, spezzarsi in quel momento a metà.
Si sentiva come una vergine offerta in sacrificio agli antichi dei della guerra, in cambio di pace e prosperità.
"Molto bene signorina... signorina?", chiese Don Hector alzandosi in piedi.
"Vittoria", si presentò brevemente lei.
Il boss ne rise di gran gusto. "Vittoria!" esclamò di nuovo di buon umore. "Davvero un nome di buon auspicio!".
Poi proseguì: "Tra tre mesi esatti, a partire da oggi, il primo carico sarà pronto alla spedizione".
Il gruppo uscì nuovamente sotto la pioggia in direzione delle Jeep con cui erano arrivati.
Quando Hector fu solo un puntino indistinto sul riflesso del specchietto retrovisore, suo padre seduto accanto a lei le strinse con decisione la mano.
"Troverò un accordo con il Vory. Dirò che abbasserò il nostro guadagno dal venti per cento al dieci, ma dovranno lasciarti atterrare a San Pietroburgo. Troverò qualcosa, vedrai".
Vittoria restituì la stretta al proprio anziano padre.
"Mi fido di te, papà". Disse con tutta la convinzione che aveva.
 
 

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Capitolo 9
*** 9 ***


                                                                                           ---------------VASILJ-----------------
 
Si stavano divertendo tutti quella notte.
Era stato facile renderli ben disposti, con puttane e Vodka disponibili.
Titov aveva dato una festa, aveva detto che c'era da festeggiare e lui con i suoi uomini avevano affittato una villa fuori San Pietroburgo.
Posto appartato con lungo vialetto d'accesso e telecamere perimetrali, vigilanza armata e servizio catering.
Pacchetto completo.
Titov non badava a spese quando c'era da ostentare davanti ai suoi sottoposti.
Quella notte, al citofono avevano suonato i suoi Avtoritet. Gli ufficiali di alto grado, con giacche a doppio petto e spalline da generale tatuate sulla sommità di entrambe le spalle.
Vasilj lo sapeva perché riusciva a vedere ogni tatuaggio in quel momento. Anche le stelle simili a rose dei venti marchiate sul petto ad altezza del cuore. Una a destra e una a sinistra.
Tutti i presenti alla festa ce le avevano e Vasilj riusciva a vederle perché... beh, era impossibile non farlo.
Nell'ampio salone arredato con grandi divani e tappezzerie, erano riuniti una decina di Vor.
Alcuni sedevano fra i cuscini a torso nudo con una puttana sulle ginocchia, altri se le fottevano in piedi direttamente contro il muro con le brache calate e versi gutturali.
Vasilj cercava davvero di non far caso al rumore delle loro palle che sbattevano sulle fiche messe a novanta gradi, perciò si concentrò sulla sua personale troia.
Non poteva avere più di quattordici anni.
Stava a cavalcioni su di lui, il rossetto sbavato e con in bella mostra le giovani tette simili a piccole mele mature.
I capelli biondi erano scompigliati in una coda raffazzonata, il corpetto che le fasciava la vita e la minigonna sollevata fino ai fianchi.
Sotto non portava niente e in quel momento adorava sfregarsela contro la patta chiusa di Vasilj.
Lo sguardo della bambina era vuoto, assente. Sembrava che con la mente fosse ben lontano da quel luogo e da quei osceni orchi.
Vasilj si augurava che fosse in un posto molto bello, dove non esisteva più dolore o paura.
Cercò di essere dolce con lei, ma sapeva che non era l'uomo adatto a far sentire a proprio agio una ragazzina.
La baciò sulla bocca come un amante, poi si sputò su due dita e gliele infilò dentro.
Cercò addirittura di farla venire, maledicendo l'erezione che gli doleva nei calzoni.
Non poteva farci niente, si disse. Era istinto primordiale.
La sentiva umida, calda nella sua mano e il suo cazzo reagiva di conseguenza.
Era un animale, lo sapeva. Si stava prendendo da una minorenne tutto ciò che gli pareva.
Cristo, aveva praticamente vent'anni in meno di lui.
La musica che fluttuava nel salone, in penombra illuminato dal fuoco nel camino, era davvero una presa per il culo.
Stavano ascoltando musica classica italiana. Titov aveva annunciato che la sublime voce da tenore di Luciano Pavarotti sarebbe stata la colonna sonora perfetta per la serata.
I violini, i tamburi, l'orchestra che accompagnava una voce potente e vibrante.
Una musica che strideva orribilmente a confronto dello sporco spettacolo che si stava svolgendo quella notte.
Titov aveva piegato una ragazzina poco meno che diciottenne sul bancone del bar, nell'angolo del salotto. Con un ultimo colpo di reni, spinse tutto il membro dentro la fica della ragazzina, la prese per i capelli e la fece inarcare all'indietro mentre veniva violentemente.
La ragazzina ansimò, nuda e tremante.
Gli occhi vagavano in ogni dove, come un topolino in trappola.
Quando ebbe finito, Titov la spinse via e si richiuse la patta dei pantaloni.
Stava ancora armeggiando con la fibbia della cintura quando si rivolse a Vasilj, non molto lontano.
Il Siberiano stava muovendo amorevolmente la lingua in bocca della bambina ma, attento com'era a ciò che lo circondava, quando Titov lo chiamò fu ben felice di staccarsi da lei per rivolgergli tutta la sua attenzione.
"Come avete detto?".
Titov si fece avanti, con una mano si ravvivò i capelli spingendoli all'indietro. Era sudato e a torso nudo.
Le stelle del Vory e le spalline da ufficiale in carica, ben visibili sulla pelle pallida.
"Ho detto, scopatela". Fu la risposta, detta con un mezzo sorrisetto sornione.
Vasilj si finse disinvolto e fece scivolare giù dalle sue gambe la piccola prostituta.
Questa si rialzò esitante, cercò di coprirsi i seni con un braccio e volse lo sguardo in un punto imprecisato dietro a Titov.
"Non ci riesco con un pubblico", provò a dire Vasilj.
Titov si chinò su di lui e gli puntò l'indice dritto in faccia. "Scopati la troia, adesso! Ho bisogno di vedere che non sei un merdoso finocchio. Dimostralo ora, davanti a tutti!".
"So' sbattermi una donna, se l'occasione lo richiede". Ringhiò a denti stretti il Siberiano, alzandosi in piedi.
"Beh, l'occasione lo richiede", gli rispose il Titov glacialmente.
In quel momento tutti gli uomini lo stavano guardando. Le puttane erano state messe momentaneamente da parte e ora si trovavano tutte in quel posto meraviglioso delle loro torbide menti, drogate da pillole e stordite dalla violenza.
"Non la bambina", sussurrò infine Vasilj. "Passamene un'altra, non una bambina".
Titov afferrò per il braccio la ragazzetta la lanciò di forza sul divano. Lei finì lunga distesa a singhiozzare contro un cuscino schizzato di alcol e sperma.
"Io sono il tuo Vor". Sibilò Titov, fissando il Siberiano dritto negli occhi. "Decido io ogni cosa. Perciò fallo entro mattina, cazzo!".
Vasilj obbedì.
Sollevò a pecora la ragazzina, piegò un ginocchio sulla seduta del divano e tenne l'altra gamba ben piantata a terra.
Si slacciò la cintura, si aprì la patta e montò la sua vittima proprio lì. Davanti a tutti.
Spinse violentemente, facendosi male e facendo male a lei. La sentiva secca e doveva, a un certo punto, averle aperto un taglio perché ogni volta che tirava fuori il pene lo vedeva striato di rosso.
La piccola pianse e si lamentò sommessamente mentre il Siberiano spingeva ancora e ancora. Avidamente, furiosamente.
Serrò le palpebre e cercò di immaginare una donna e non una bambina. Una bruna e non una bionda.
Adorava le brune.
Vasilj ansimò con tutti i muscoli in tensione, il cuore che gli martellava nel petto e le mani artigliate sul culo che aveva davanti.
Venne rabbiosamente, ma non volle profanare la bambina ulteriormente.
Si ritrasse giusto in tempo, si afferrò l'uccello nel pugno e strinse la punta prima che gli schizzi di sperma cominciassero a zampillare.
Stava ancora bestemmiando in un ringhio a denti stretti quando Titov batté le mani iniziando un breve applauso.
"Molto bene. Avete visto, Signori miei?", disse rivolgendosi al pubblico in sala. "Il ragazzo è pronto!".
Vasilj si pulì la punta dell'uccello, con l'angolo di una soffice coperta abbandonata sullo schienale del divano.
Non si azzardò a guardare la ragazzina.
Sarebbe stato decisamente toppo.
Aveva fatto cose orribili negli anni ma la violenza sessuale, proprio gli mancava nella lista delle cose per cui farsi schifo.
"Sono pronto a fare cosa?".
Titov si prese un istante per fissarlo, meditabondo. "Sei un fedele sicario, Siberiano. Ma, ora, ho bisogno di alleati".
Detto ciò, abbaiò l'ordine di uscire a tutte le puttane presenti e queste corsero alla porta come se il diavolo in persona le stessero rincorrendo.
Quando nella stanza rimasero solo gli uomini, la musica venne spenta e i vestiti rimessi alla bene e meglio.
Si parlava di affari.
Titov continuò: "Ti ho offerto le piazze di San Pietroburgo, prendendo il posto di Kozlov. Non è stato un gesto di puro altruismo da parte mia, ma immagino tu l'abbia già immaginato".
Vasilj rimase in piedi, fermo e all'ascolto.
"Quando un Vor viene a mancare, tutte le sue proprietà vengono passate al figlio. Ma grazie al tuo ottimo lavoro, l'intera famiglia di Kozlov è stata spazzata via".
Tutti gli ufficiali si stavano passando una bottiglia di Vodka e uno alla volta si riempirono i bicchierini.
"Quando un Vor muore e non ci sono eredi, ogni cosa torna al Vory. E' un'importante legge, Siberiano. Dovrebbe essere un buon momento per eleggere un nuovo Vor indipendente, ma sono anni che le cose stanno lentamente cambiando".
Fece una pausa, mentre la bottiglia e un bicchierino arrivavano a lui.
"Se delle piazze o delle proprietà restano scoperte, ogni Vor cercherà di mettere un proprio uomo a capo del territorio".
Vasilj riusciva a capire.
Da qualche anno, i vertici dell'Organizacija stavano giocando a una partita a scacchi tra loro.
Per legge Vory, un Vor non poteva essere detentore di troppo potere. Se un Vor oltre a commerciare armi, per esempio, si interessava di edilizia, veniva presto bloccato dalla maggioranza e obbligato a lasciare un titolo vacante a favore di un nuovo Vor eletto.
Questo sistema era antico, volto a impedire l'insorgere di un potere totalitario detenuto da un solo uomo: il Pakhan, il Capo di tutti i Capi.
L'Organizacija era pianificata come una società dove tutti gli azionari avevano apparentemente pari diritti, in realtà c'erano uomini come Titov che si trovavano in alto della piramide e altri che si trovavano decisamente in basso.
"Ve l'ho detto, Signore". Si rabbuiò Vasilj. "Le mie piazze saranno sempre al vostro servizio".
Titov lo zittì alzando una mano, trangugiò in un sorso la sua Vodka e continuò. "Non basta. I profitti delle tue piazze sono un disastro, ho dovuto intervenire incrementando la qualità della roba. Ho fatto affari con gli intermediari italiani di Boston e nuovi carichi arriveranno. L'intero Vory è entusiasta e faranno a pugni per eleggere un Vor preferito a occuparsi del commercio.
Io ho proposto te, Siberiano. Ufficialmente in quanto attuale possessore delle piazze, in realtà perché so' quanto profonda sia la tua lealtà verso di me".
Ci fu un istante di silenzio.
Vasilj non aveva nulla da replicare e si sentiva stordito dall'emozione.
In cambio del suo impegno a incrementare il potere di Titov all'interno dell'Organizacija, gli stavano proponendo 'le stelle'.
"Come farete ad assicurarvi che anche gli altri mi accettino?", chiese con voce roca.
Tutti gli uomini cominciarono a sghignazzare e a guardarsi l'un l'altro con occhiate di intesa.
Titov riempì uno shot e glielo porse.
"Ho fatto in modo che Don Salvatore De Stefano accetti la mia offerta e non quelle vuote promesse fatte da altri"
Vasilj si accigliò. "Cosa avete offerto?".
Titov sorrise e alzò in alto il suo bicchierino. "Un matrimonio!".
Vasilj trangugiò la sua Vodka come se fosse l'ultima della sua vita.
Imprecò in un sussurro.
I russi amavano i matrimoni combinati, praticamente nella loro perversa società non esistevano unioni spontanee. Solo affari.
Matrimonio e amore non erano per niente la stessa cosa e questo spiegava perché i bordelli erano sempre pieni di uomini insoddisfatti e le case amministrate da matrone sempre più frigide e odiose.
Titov si prodigò a riempirgli ancora il bicchierino. "De Stefano credeva di avere in mano le redini dell'affare cercando di obbligare me ad accettare che la merce fosse controllata e trasportata dalla figlia. Voleva che un Vor si assumesse la responsabilità dell'incolumità della ragazza, in cambio avrebbe dimezzato il suo guadagno. Sembrava che fosse di estrema importanza che ci fosse qualcuno dei nostri a garantire per lei".
Vasilj esaminò accuratamente il fondo del suo bicchiere prima di chiedere: "Perché è così importante che la figlia possa mettere piede sul suolo russo? Non può usare semplicemente i suoi uomini per il trasporto?".
"Non importa", sbuffò Titov passando la bottiglia ai suoi uomini. "Lui voleva una garanzia per la figlia, io volevo assicurarmi la fornitura prima di chiunque altro. Nessuno proporrebbe mai un figlio o sé stesso in matrimonio a una straniera, ma io ho te Siberiano. Mi appartieni, sei in debito con me e ti sei pure dimostrato capace di castigare una donna poco fa. Perciò in alto i bicchieri, Signori miei!".
"Vashe zrodovye!". Brindarono tutti insieme alla salute di Vasilj.
Poi Titov aggiunse: "Che possa mantenere il mio portafogli sempre gonfio e il suo letto sempre al caldo!".
Era fregato, non aveva via d'uscita.
Non che volesse opporsi.
Gli piacevano le brune.
 
 
 

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Capitolo 10
*** 10 ***


                                                                                    ---------------VITTORIA-----------------
 
Lui muoveva la bocca sul suo orecchio per mordicchiarlo, lei teneva le labbra chiuse mentre il suo corpo rispondeva.
Profumava di una costosa e forte acqua di colonia.
Molto virile.
Si era lustrato per bene, voleva fare colpo su di lei. Impregnarla con il suo odore.
Dei baci bollenti premettero sulla carne di Vittoria, così sensibile sul collo.
Luca lo sapeva, se lo ricordava mentre abbassava la mano e gliela infilava dentro i pantaloni dietro la schiena.
Le afferrò il perizoma e fece un sorriso aperto da bambino. "Ti sei preparata per me, dolcezza?".
Si trovavano all'aperto, contro il muro sul retro della rimessa per aeroplani. In quel paesino perso dalle cure di Dio, in Honduras.
L'aereo sarebbe stato carico e pronto alla partenza a momenti. Gli uomini erano all'opera a caricare statue di santi e Vergini Maria in gesso, tutte imbottite come muli e dirette a San Pietroburgo.
I tre mesi di attesa erano passati e Don Hector era stato di parola.
Suo padre Salvatore era tornato a Boston rimanendo in attesa di aggiornamenti.
L'erezione di Luca le stava spingendo contro la vagina e la parte selvaggia di lei adorava che l'avesse cercata senza sosta in quegli ultimi tre mesi solo per farle quello.
"Non darti troppe arie", sghignazzò lei lascivamente. "Non crederai che tu sia l'unico".
Lui gemette e le morse il lato del collo mentre iniziava ad abbassarle i leggins aderenti.
Continuò a massaggiarsi il cazzo duro contro il suo Monte di Venere, come se fosse un arma per tenerla inchiodata alla parete.
"Sei stata tu a causare questo", le disse. "Non sono riuscito a pensare lucidamente per tutta la mattina, questi pantaloni ti fanno un culo alto da favola. Adesso sistemiamo la questione".
La fece voltare, mani contro il muro come se volesse perquisirla.
Le sue dita ruvide spinsero il perizoma da una parte un momento, prima che il suono della sua cerniera raschiasse nel silenzio.
Luca si guardò scaltramente attorno per accertarsi che non li vedesse nessuno.
"Non abbiamo tempo per la galanteria, oggi". Fece scivolare il membro fra le sue cosce. "Ti scoperò velocemente, ma non temere. Ti farò urlare il mio nome, vedrai".
"Vediamo cosa sai fare, cominci ad invecchiare". Lo schernì lei. "Forse vuoi fare in fretta perché non sapresti durare neanche quindici minuti".
Luca le afferrò i fianchi e affondò dentro di lei non lasciandole neanche il tempo di terminare la frase.
Non fu dolce ne gentile, puntava a fare in fretta e si stava davvero impegnando valorosamente per farla venire alla stessa velocità.
Vittoria dovette farsi forza con i palmi delle mani per non picchiare la faccia ripetutamente contro il gelido muro, mentre le sbatteva i fianchi contro il sedere. Le palle che le rimbalzavano contro e lui che spingeva sempre più in profondità.
Lei gemette e lui grugnì a bocca chiusa cercando di non lasciarsi andare a suoni troppo forti che li avrebbero messi nei guai.
"Dimmi che ti piace", chiese lui.
"Stò per venire" gli rispose lei. Ed era vero.
"Dimmi che ti piace essere usata come una troietta".
"Uh", gemette lei. "'Fanculo e muoviti, non abbiamo tutto il giorno!".
Ora la stava scopando come un pazzo, lei non ragionò più. Si lasciò andare all'esplosione di benessere e sentì lui irrigidirsi e curvarsi pronto a spruzzarle il suo seme dentro.
"Esci, subito!". Gli ordinò lei divincolandosi.
"Ma, avevi detto che hai la spirale!".
"Esci, cazzo!".
Lui smadonnò in calabrese stretto come un camionista nel bel mezzo del traffico in autostrada. Si ritrasse all'istante, si afferrò l'uccello e diventando paonazzo costrinse l'eiaculazione a rimanere imprigionata nel suo pugno.
"Cazzo, merda, 'fanculo! Questo fa male ad un uomo, cazzo!". Concluse.
Vittoria sbatté innocentemente le palpebre mentre si rialzava i calzoni. "Solo perché porto la spirale, non ti da il diritto di inseminarmi".
Il telefonino della ragazza trillò e lei lesse la notifica comparsa sullo schermo.
"Il carico è pronto, ricomponiti. Hai un aereo da portare".
Fece per andarsene ma venne subito richiamata.
"Che altro c'é?", sbuffò.
Lui sospirò. "Hai mica un fazzoletto?".
Il viaggio in volo dall'America centrale a San Pietroburgo fu' letteralmente infinito. Sopratutto se si doveva condividere la cabina con un uomo irritante e, la zona di carico, con altre quattro guardie italiane sfinite e altamente suscettibili.
Quando raggiunsero una pista di atterraggio privata fuori dalla mastodontica città russa, il sole era alto e le forze di Vittoria erano a terra.
Cominciava a sentirsi irrequieta, mentre osservava i suoi uomini scaricare le statue votive. Una decina di uomini russi le prese e le distese tutte su tavolacci in legno scalfito dall'usura.
Suo padre le aveva assicurato che 'il Politico' aveva accettato i termini per l'affare. I guadagni degli italiani scendevano al dieci per cento, in questo modo l'Organizacija avrebbe potuto lucrarci ancora di più.
In cambio, l'unica figlia del boss italiano avrebbe potuto consegnare i pacchi e poi tornarsene a casa.
Davvero troppo facile. Troppo, troppo facile.
Vittoria osservava dall'alto di una balaustra in ferro, dominando su tutto l'hangar.
I russi non badavano nemmeno ai suoi uomini, tutti presi com'erano dal compito per cui erano stati mandati li.
Le statue, una volta fatte adagiare sui tavoli, venivano infrante a colpi di mazze e scalpelli. Dalle loro pance e teste, sgorgarono panetti ben impacchettati contenenti cocaina tagliata con chissà quale percentuale di merda.
Spesso la coca era esageratamente tagliata con gesso, latte in polvere o lassativo per bambini.
Don Hector assicurava che la sua roba era la migliore sul mercato e considerando a quanto la dovevano pagare i russi, Vittoria si augurò di gran cuore che gli honduregni non avessero tirato un'enorme bidonata.
Faceva un freddo cane.
Il respiro della ragazza usciva dalle sue labbra in nuvolette di condensa. Si strinse nel suo giubbotto parka, con la pelliccia sul cappuccio.
Indossava ancora i comodi leggins neri per il viaggio e ai piedi portava stivali dall'alta suola a carro armato.
Aveva un aspetto vagamente militare, con i lunghi capelli legati in un'alta coda di cavallo. Le ciocche ben tirate dalla piastra e laccate all'indietro in modo che nemmeno un capello fosse fuori posto.
Portava solo un filo di trucco, contava di apparire professionale e non avvezza a troppe frivolezze da donna.
Sapeva bene che quello era un mondo comandato da uomini e l'ultima cosa che voleva era essere considerata troppo innocente per farne parte.
Era affamata, stanca per il lungo viaggio ma, cosa ancora peggiore, era infreddolita da morire.
Il suo tremore generale non fece che peggiorare quando dall'esterno dell'enorme rimessa per aerei, giunse il rumore di auto dalla grossa cilindrata.
Le larghe marmitte scoppiettavano talmente forte, che Vittoria riusciva a sentirle anche al di sopra dell'assordante rumore da cantiere che gli uomini stavano facendo rompendo le statue a una velocità e dedizione disarmante.
Lei guardò prima giù in direzione di Luca che stava dirigendo le operazioni di scarico e poi si affrettò a raggiungere una finestra.
Dal parcheggio esterno stava giungendo una coppia di auto sportive e lussuose: una grossa BMW X6 G06 grigio antracite opaca e una molto più bassa e grintosa Audi RSQ8 totalmente nera lucida, finestrini oscurati e con la carena talmente bassa che sfiorava l'asfalto di un centimetro.
Era giunto il momento.
Ci aveva davvero sperato che nessun pezzo grosso si presentasse alla consegna ma capiva che era una speranza inutile.
Chiunque avrebbe voluto accertarsi di persona sulla qualità del prodotto, sopratutto se a dover sborsare era proprio quella persona.
Cominciò ad agitarsi. La consueta iperventilazione arrivò puntuale. Vittoria avrebbe tanto voluto calarsi qualche goccia di Lexotan ma le avrebbe tolto lucidità ed era vitale che apparisse totalmente controllata e sicura di sé stessa.
Mentre scendeva dalle scalinate fatte da grate metalliche, i suoi stivali facevano cigolare le giunture e le sue mani sudaticce scivolavano sui corrimani ghiacciati dal proverbiale inverno russo.
Ora riusciva a sentire i motori delle auto spegnersi, gli sportelli prima aprirsi e poi con una serie di tonfi richiudersi.
Deglutì sentendosi la gola improvvisamente arida.
Avrebbero rispettato l'accordo? L'avrebbero lasciata andare in pace?
Luca le fu' subito accanto, le sfregò le grandi mani ai lati delle spalle in un istintivo gesto che doveva riscaldarla e rassicurarla allo stesso tempo.
"Sono arrivati", annunciò.
"Lo so'", rispose in modo teso lei.
Stava per sentirsi male dalla tensione. La porta dell'hangar esitava ad aprirsi per far accomodare i nuovi ospiti e lei non voleva farsi trovare lì impalata, come se non avesse fatto altro che aspettarli per tutto il tempo.
Poco più in là, un giovane ragazzotto russo, bellamente in maniche corte nonostante il freddo glaciale, stava prendendo selvaggiamente a mazzate il petto della Vergine Maria.
Quella visione fu' troppo disturbante per lei che subito accorse verso il ragazzo agitando le braccia e cercando di farsi sentire al di sopra del frastuono.
"Stop, fermati subito!", urlò lei. "Così ti caverai un occhio con una scheggia, riesci a capirmi?".
Il ragazzo si bloccò sorpreso. Non portava nemmeno gli occhiali protettivi.
Aveva il viso pallido chiazzato di rosso per lo sforzo di spaccare tutto totalmente a casaccio ed esibiva un'espressione contrariata per l'interruzione.
Vittoria gli indicò il basamento ai piedi della statua. "Devi colpire quì, vedi? Non serve demolirla totalmente, una volta rotto il basamento i panetti usciranno da soli e potrai svuotarla. Un po' di rispetto, santo cielo!".
"Ehm... Vittoria?". La richiamò la voce di Luca, dal fondo della rimessa alle sue spalle.
Lei fece un respiro profondo e si voltò con aria falsamente innocente.
Il giorno dopo il suo rapimento, avvenuto mesi prima di quel giorno, suo padre l'aveva avviata nel suo business malavitoso partendo con il farle la descrizione dettagliata di chi avesse tentato di ucciderla.
"Il Vory V Zakone", l'aveva definito. "E' come una malattia, se ti tocca non c'é cura".
Alla vista degli uomini che Luca aveva accolto mentre lei era troppo occupata, la ragazza si rese pienamente conto di cosa suo padre avesse voluto dirle.
Doveva stare molto attenta, uomini del genere erano un virus per la società.
Alla consegna si erano presentati in quattro, di cui due dovevano essere di sicuro scagnozzi mentre gli altri due avevano tutta l'aria di essere i padroni della città.
Luca si stava intrattenendo in una formale conversazione con uno dei due capi, un uomo alto e possente sulla sessantina. Con capelli folti pettinati elegantemente all'indietro e cappotto grigio scuro lungo fino alle ginocchia.
L'ospite teneva la schiena dritta e sfoggiava un sorriso ammaliatore, in un atteggiamento dal risultato più intimidatorio che accondiscendente. Le braccia incrociate al petto e gli anelli in oro giallo che brillavano di riflessi luminosi sotto la luce mattiniera, proveniente dalle alte vetrate della rimessa.
Vittoria si stava già avviando verso di loro, quando ogni altra persona all'interno della rimessa smise di avere una qualche rilevanza.
Un uomo, dall'età indefinibile tra i trenta e i quaranta, la stava fissando insistentemente.
Lei lottò contro l'istinto di fermarsi a metà strada, il suo intuito le stava urlando di non avvicinarsi oltre.
Ogni campanella d'allarme nel suo cervello stava trillando.
Doveva essere giovane, almeno il suo fisico vigoroso dalle spalle larghe e gambe grosse come tronchi lo davano per scontato, ma il viso era segnato da alcune rughe dovute al freddo che lo invecchiavano molto e il labbro superiore era cicatrizzato malamente in un involontario e costante ghigno derisorio.
Forse ne aveva perso un pezzo durante un combattimento e le labbra, che dovevano essere state un tempo carnose e piene, ne erano rimaste sfigurate.
Vittoria non aveva mai incontrato un uomo così. Tutto di lui le stava lanciando il messaggio che qualcosa non andava. Qualcosa era... sbagliato.
Non rientrava nei canoni di bellezza a cui era abituata ma allora perché non gli levava gli occhi di dosso, man mano che si avvicinava?
Il suo corpo era attratto da lui come una calamita anche se la sua mente urlava il contrario. Come se tutto quello che aveva passato fino a quel momento fosse servito appositamente a farla arrivare proprio lì, in quel momento al suo cospetto.
Il sangue prettamente slavo scorreva prepotentemente in lui e le sue sembianze ne rispecchiavano fedelmente la provenienza.
La testa era rasata ma i capelli, di un biondo molto scuro, stavano ricrescendo e non erano più troppo corti.
La fisonomia del volto era esattamente come ci si poteva aspettare da un uomo dell'est: zigomi alti e spigolosi, mandibola squadrata e ricoperta da una corta barba scura, naso affilato e stretto, occhi di forma leggermente a mandorla (tipico della popolazione proveniente dalle zone più a nord della Russia, dove il vento soffiava impietoso e le palpebre si trasformarono di conseguenza a protezione degli occhi).
Pareva un combattente, di sicuro lo era. Forse un pugile a giudicare da come si teneva ben piantato sulle gambe leggermente divaricate, le mani giunte davanti all'inguine, espressione tenebrosa carica di cupidigia.
Ormai le mancavano giusto pochi passi per essergli proprio davanti.
Lei portava stivali dalle suole rialzate ma lui riusciva comunque superarla in altezza di una buona spanna.
Indossava un piumino nero corto di vita e pantaloni neri della tuta con le iconiche righe verticali bianche laterali dell'Adidas.
Le venne quasi istintivamente da ridere anche se di sicuro non si sarebbe mai azzardata a farlo. Quell'uomo era l'emblema dell'esemplare maschio slavo.
Era anche ricoperto pesantemente di tatuaggi. Alcuni erano stati fatti da poco sul collo, perché brillavano ricoperti da una pomata, forse vasellina. Uno di questi, era il muso di un lupo orribilmente sfigurato in un ringhio. In corrispondenza del pomo di Adamo.
In quel momento l'uomo teneva la mano sinistra sopra al dorso di quella destra, perciò riusciva a vedere solo che la sinistra aveva sul dorso una rosa fatta ad inchiostro che un tempo doveva essere stato nero ma che si era sbiadito in sfumature blu e azzurro.
Vittoria sapeva che il cambio di colore dell'inchiostro non era dovuto alla negligenza del tatuatore. La ragazza era pronta a scommettere che l'intero corpo del russo presentava tatuaggi della stessa sfumatura variante tra il nero, blu e azzurro.
Erano tatuaggi fatti in carcere, non in uno studio abilitato.
Erano fatti per raccontare una storia, non per moda.
Si fermò proprio davanti a lui, occhi negli occhi. C'era elettricità nell'aria.
Luca e il suo ospite avevano nel frattempo smesso di parlare.
Entrambi li stavano guardando come se si aspettassero che qualcuno dicesse qualcosa.
Vittoria era per la prima volta in vita sua... senza parole.
L'uomo non batteva nemmeno le palpebre. Aveva le iridi grigie, color del cemento armato.
"Vittoria...", iniziò le presentazioni Luca. "Ti presento il Signor Boris Titov e il Signor Vasilj Volkov". Indicò prima l'uomo sulla sessantina e poi l'uomo che tanto la incuriosiva.
Luca stava per continuare nel dire qualcosa ma Vittoria non seppe trattenersi. Lei e il russo si stavano ancora fissando.
"Lupo", disse improvvisamente prima che riuscisse a mordersi la lingua in tempo.
Vasilj Volkov parve sorpreso, poi batté le palpebre e si guardò attorno con aria disinvolta.
Lei sorrise in direzione del Signor Titov. "Volkov, vuol dire lupo. Corretto?".
Boris Titov sorrise in risposta e inclinò la testa su un lato, in un gesto benevolo. "Un cognome molto diffuso da queste parti, a dire la verità".
Non aveva un particolare accento, parlava fluentemente inglese.
Era un uomo avvezzo a trattare con persone da tutto il mondo, sicuramente.
"Sapete parlare il russo, Signorina?". Le chiese il boss.
In quel momento toccò a Vittoria inclinare il capo. "Non troppo tempo fa ho avuto occasione di conoscere uomini russi al quanto... irruenti. Immagino possiate capire cosa intendo dire".
Titov non fece un piega. Anzi, parve genuinamente divertito che si parlasse del suo rapimento proprio in quel momento.
"Da quella occasione ho voluto imparare qualche parolina, sono ancora al livello di nomi di animali e parolacce ma... imparo in fretta".
In quel momento, Volkov fece un movimento repentino ma che non sfuggì all'attenzione di Vittoria.
L'uomo decise che quello era un buon momento per infilarsi improvvisamente le mani nelle tasche del piumino.
Ma Vittoria la vide.
Vide la pistola Tokarev TT-33, l'arma sovietica, tatuata sul dorso della mano destra.
Fu' come ricevere un pugno nello stomaco.
Si rivide in quel parcheggio, nella zona industriale fuori New York. Per lei era passato solo un giorno.
Poteva giurare che era proprio la stessa pistola tatuata sulla mano del suo rapitore, quello che era rimasto ferito gravemente a una spalla e per questo motivo si era seduto a terra a gambe larghe e viso rivolto al cielo.
Porca, troia.
Volkov si accorse dell'improvvisa consapevolezza che doveva aver attraversato il viso della ragazza e parve rimanerne turbato.
Titov prese la parola e ordinò al suo accompagnatore qualcosa nella loro lingua madre.
Volkov obbedì e si avviò rapidamente verso a una delle montagnole di panetti, accumulata su un tavolo lì accanto.
Gli uomini raggruppati attorno per contare la merce si fecero subito da parte e Volkov sfoderò un lungo pugnale dalla tasca interna del suo giubbotto.
Aprì un piccolo squarcio su uno dei panetti, si leccò la punta di un mignolo e la immerse nella fine polverina bianca.
Portò poi il polpastrello in bocca sfregandosi il dito sulla gengiva dell'arcata dentale superiore.
Commentò qualcosa annuendo in direzione di Titov.
"Molto bene", si rallegrò quest'ultimo. "Vasilj, sì gentile. Occupati di controllare e radunare tutta la merce. Assicurati che ci sia tutta. Io e la Signorina Vittoria abbiamo alcune cosette di cui discutere".
Luca si fece avanti indicando la porta del piccolo ufficio, dal lato opposto della rimessa.
Titov lo inchiodò con una occhiataccia.
"Ho detto: io e la Signorina. Prego, dopo di lei". Disse, indicandole con un ampio gesto di precederlo.
Vittoria volette soffermarsi ancora su Volkov, ma questo sembrava essere troppo occupato a dispensare ordini per voltarsi verso di loro.
Perciò la ragazza sorrise brevemente a Luca mentre lo oltrepassava e fece strada a uno dei signori della guerra più potenti che lei avesse mai incontrato, verso la stanza più appartata dello stabile.
Una volta dentro, l'uomo richiuse la porta alle loro spalle.
Erano soli.
"Non ho intenzione di rubarle eccessivamente tempo, Signor Titov. Una volta fatto rifornimento di carburante, saremo pronti a ripartire verso Boston".
L'uomo tirò fuori dalla tasca un iPhone, lo appoggiò sopra alla scrivania e fece partire una telefonata in vivavoce.
"Sarebbe invece auspicabile che rimanesse ancora per un po'. Non vorrei venir meno alla mia celebre cordialità". Disse l'uomo, mentre attendeva con lei che dall'altra parte della chiamata rispondesse qualcuno.
Quando al terzo squillo una famigliare voce maschile rispose, a Vittoria vennero nuovamente a mancare le parole.
"P-papà?", chiese infine incredula.
"Stai bene?". Era sicuramente la voce di Salvatore De Stefano.
Lei si accigliò. "Si, ma... che significa? Cosa stà succedendo?".
Titov prese la parola, incrociando le possenti braccia al petto. "Buongiorno, Don Salvatore. Come stà?".
"Lei stà bene per davvero?".
Titov le fece l'occhiolino. "Assolutamente. Arrivata puntuale all'appuntamento e tutto il carico è presente alla conta. Stavo giusto per spiegarle che dovrà fermarsi quì da noi per... facciamo almeno fino Natale? Che dice?".
Vittoria strabuzzò gli occhi, totalmente confusa. "Non ho intenzione di fermarmi. Voglio tornare a casa!".
"Titov?". Chiamò Don Salvatore dall'altra parte. "Voglio che sia tutto riconosciuto nero su bianco".
Titov si dondolò placidamente sui talloni. "Ci sarà una firma, sarà tutto legale".
"Dovrà essere legittima. Dovrà essere accolta". La voce di Don Salvatore era resa tremula dall'emozione.
"Cosa cazzo vuol dire?". Sbottò, tremante di angoscia , la ragazza.
Titov non la finiva di dondolarsi, mentre la guardava bonariamente. "Lui è d'accordo. Ha accettato senza riserve. Sarà lui a prendersi tutta la responsabilità di vostra figlia, qualsiasi cosa dovesse ricadere su di lei sarà invece fatta a lui".
"Non sposerà un dannato sicario, sia ben chiaro!".
Titov sbuffò. "Non lo farà. Sarà fatto Vor prima del grande evento. Lo dice la legge Vory: solo ai Vor sarà permesso di prendere moglie e fare famiglia. Tutti gli altri dovranno votarsi celibi".
"NO!" urlò Vittoria dando una violenta manata sul piano della scrivania. Il telefonino sobbalzò con un buffo saltello.
"NO, NO, NO!". Urlò ancora cercando di trattenere l'orribile sensazione di umidità agli occhi.
Col cazzo che si sarebbe lasciata andare a lacrime di rabbia, avrebbe spaccato tutto piuttosto.
"Papà, mi stai vendendo? Come osi, sono sangue del tuo sangue e mi vendi come fossi una puttana?".
"Avrà rispetto per te, tutto il Vory lo farà. Ascoltami bambina mia, sono vincolati dalle loro stesse leggi. La moglie di un Vor diventa intoccabile, sarai libera di muoverti sul suolo russo senza che ti venga fatto del male".
Lei stava tremando. La sua capacità di autocontrollo stava vacillando.
Sentiva la rabbia montale dalle viscere, emergere come un serpente dall'erba alta.
Un fuoco proveniente dallo stomaco la faceva avvampare a tal punto da non sentire più la morsa del freddo.
"Non ne uscirò viva da questa situazione, stai mandando a morte la tua unica figlia!".
"E' per questo che le donne non sono adatte a portare avanti gli affari di Famiglia. Non sono capaci, non vedono il quadro generale delle cose. Possibile che non capisci che sarai una di loro?".
Nella sua mente stava urlando, stava rivoltando la scrivania e prendendo a pugni quel russo di merda che le stava davanti.
La vista le si strinse diventando un lungo tunnel oscuro puntato direttamente sul telefonino.
Le era già successo in passato e credeva di averla superata. Si era ripromessa che non sarebbe mai più riaccaduto.
Vittoria si curvò sovrastando il telefonino, palmi piantati ai lati dell'iPhone appoggiato sul ripiano. Fissava trucemente il piccolo monitor luminoso quando scandì a chiare parole:
"Ho cercato davvero in tutti i modi di essere accettata da te, Padre. Ci ho provato a fare ammenda dei miei peccati e a dimostrarti che potevo essere qualsiasi cosa di cui la Famiglia avesse avuto bisogno. Ma tu non ce la fai, vero? Dio perdona ma Don Salvatore no!".
Fece un profondo respiro e continuò: "Ma questo è troppo. E' troppo grave e mi fa troppo male. Quello che mi stai facendo fare, non me lo scorderò più. Spero solo che quando io non ci sarò e tu ti troverai da solo, vecchio e abbandonato come un derelitto inutile da quei uomini che paghi per proteggerti... in quel momento, magari, ti renderai conto di come la tua decisione di oggi abbia mandato in rovina la famiglia più potente di Boston!".
Titov fischiò sommessamente in un suono derisorio. "Però, che caratterino! C'è la siamo giocata, eh Don Salvatore?".
"Quello che mi importa è la sua incolumità. Un giorno saprà capire".
Vittoria si fece in dietro, scosse lentamente il capo e sospirando stancamente abbassò le palpebre.
Venduta come un animale.
Venduta in sposa a un uomo che ne avrebbe fatto cosa? Una schiava sessuale?
Le stava tremando il labbro inferiore.
Suo padre le aveva fatto questo.
Che Dio la aiutasse, non aveva nessuno.
Sola, contro il mondo intero.
Tra Titov e Don Salvatore ci fu' un rapido scambio di convenevoli e la telefonata venne fatta riagganciare.
"Posso conoscerlo?", chiese la ragazza quando il suo respiro si fu' fatto più tranquillo e la sua mente più silenziosa. "Il mio futuro marito, posso conoscerlo o dovrò vederlo il giorno delle nozze?".
Titov andò a riaprire la porta, la rimessa si era fatta molto più quieta. Gli uomini addetti alla manovalanza se ne erano andati insieme ai panetti di coca.
Restavano in attesa solo Luca, Volkov e gli altri due scagnozzi russi come guardie armate.
Fermi e silenziosi, era chiaro che erano rimasti in ascolto per tutto il tempo.
 Titov le fece cenno di precederlo fuori. "Tuo marito lo hai già conosciuto. L'ho portato quì apposta, per farvi incontrare".
Vittoria partì a passo di carica verso la spicciolata. Come un toro puntò dritta verso quell'inquietante slavo di un Volkov, come se lo volesse incornare.
Di contro, l'uomo la stava attendendo senza muovere un muscolo. Di nuovo era piantato in quella posa da soldato a riposo, gambe divaricate e mani incrociate davanti all'inguine.
Faceva paura. Aveva la mascella contratta e quel tipo di espressione che avrebbe ucciso a distanza.
Lo vide umettarsi il labbro sfregiato con la punta della lingua. Sembrava che fosse ben disposto a prenderla al volo se gli si fosse fiondata contro.
Già si era pentita di essere partita come una belva a quel modo. Per fortuna trovò la scusa per bloccarsi a metà strada, quando Luca si fece rapidamente avanti.
"Mi dispiace, Vi. Davvero tanto. Ho dovuto obbedire agli ordini ma so' che dovevo dirtelo. Perdonami, piccola".
A Vittoria girava la testa, li odiava tutti.
"Tu lo sapevi", sibilò a denti stretti. "Luca, grandissimo ammasso di sterco!".
Caricò il gancio destro puntandolo dritto in direzione delle palle dell'uomo. Purtroppo lui aveva i riflessi buoni, deviò con una manata il suo pugno e fece un saltello all'indietro.
"Ehi, piccola. Piano!".
 "Voi uomini siete tutti uguali", si disgustò lei puntando il dito contro a ognuno di loro. Compreso contro gli scagnozzi che da quando erano arrivati cercavano solo di mimetizzarsi con l'ambiente.
"Vi credete i padroni del mondo, credete di possedere le donne come fossero oggetti. Ma io...", puntò l'indice contro il proprio petto. "Io non sono di nessuno, capito?".
Fissò dritto negli occhi Volkov mentre giurava: "Non mi avrai mai!".
Per la prima volta da quando era arrivato, Vasilj Volkov proferì parola e la sua voce era così profonda che nell'enorme rimessa rimbombò come se fosse proveniente dal fondo di una caverna.
"Vedremo", promise storpiando la parola con il suo pesante accento dell'est.
A Vittoria si rizzarono tutti i piccoli peli della schiena.
Persino dicendo solo una semplice parola, il corpo di lei aveva risposto.
Lo odiava per questo.
Titov sospirò teatralmente alzando e abbassando le braccia. "Beh, il disprezzo e l'odio sono pur sempre sentimenti e alcuni matrimoni sono stati fatti partendo da molto meno. Coraggio Vasilj, portatela via".
Vittoria artigliò un braccio di Luca. "Fa qualcosa!".
Lui le accarezzò dolcemente una guancia, come il gesto di addio fra due amanti. Parlò velocemente in italiano, in modo da non farsi capire dagli altri.
"Fa quello che ti dicono di fare, arriva viva fino al matrimonio. Sfrutta l'occasione che ti viene data, potrai muoverti tra le file del nemico. Ricordati chi sei e da dove vieni, tuo padre sarà sempre dalla tua parte".
Poi la baciò sulle labbra. Fu' un bacio a stampo rubato, durato appena un secondo perché lei si fece in dietro all'istante.
Volkov arrivò su di loro come un demone. Diede uno spintone sul petto a Luca facendogli perdere l'equilibrio all'indietro, allontanandolo malamente da lei.
Poi fu' talmente rapido a chinarsi e a prendere per la vita la ragazza che Vittoria non si rese nemmeno conto di essere stata sollevata come se non pesasse nulla.
Volkov se la issò in spalla e lei si ritrovò a testa in giù a fissare le chiappe dell'uomo.
"Mettimi subito a terra, razza di disgustoso uomo delle caverne!", sbraitò scalciando come una puledra.
Lui grugnì e le strinse le cosce in una morsa d'acciaio, trattenendola usando entrambe le nerborute braccia.
Se la portò via come un sacco di patate, puntando verso il parcheggio e poi verso le due macchine lussuose in attesa.
Titov, dietro di loro, salutava tutti come se si stesse congedando da una festa.
Quando furono abbastanza vicini all' Audi RSQ8, questa reagì alla prossimità della chiave elettronica che Volkov doveva avere in tasca perché li salutò in un lampeggio di fari a led bianchi.
Le sicure dell'auto scattarono e l'uomo fece scivolare Vittoria davanti a sé, esitando per qualche istante sorreggendola con entrambe le mani artigliate sui suoi glutei prima di farle appoggiare i piedi a terra.
Per un paio di secondi i loro nasi si sfiorarono e Vittoria sentì il cuore mancare un colpo, mentre si perdeva in quelle iridi di un grigio così duro.
Le piaceva associare sempre un profumo agli uomini  e come l'istinto primordiale comandava, se l'odore di una persona piaceva abbastanza all'altra... attivava una serie di reazioni chimiche molto pericolose.
Aveva un buon profumo. Corposo come la calda quercia e speziato come i chiodi di garofano.
Sapeva di uomo pulito, nonostante il suo abbigliamento in tuta Adidas lanciasse il messaggio che fosse uno da palestra.
Lui si schiarì la gola e le indicò lo sportello del passeggero anteriore.
"Dove mi porti?", chiese lei fissando il proprio sconvolto riflesso sul lucido finestrino oscurato.
"Casa mia", le rispose lui fissandola cupamente.
 
 
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Note a margine.
Arrivati a questo punto ecco alcuni appunti:
1- L'organizzazione malavitosa Vory V Zakone esiste veramente ed è per davvero una delle organizzazioni mafiose russe più antiche.
2- La traduzione letterale di Vory V Zakone è: 'Ladro in legge' oppure 'Ladro di legge'. In quanto, i membri si basano da sempre su un loro complesso codice d'onore. Un codice violento e totalitario.
3- Le leggi che io riporto in questo racconto sono presto verificabili in Google. Cerco di essere più fedele possibile alla realtà.
4- Anche per la maggior parte dei tatuaggi da me descritti cerco di fare lo stesso. Significato, occasioni in cui vengono fatti e da chi vengono fatti sono anche questi verificabili. In alcuni casi mi prenderò una licenza poetica aggiungendone qualcuno di sana pianta.
5- Il personaggio di Vasilj è nato nella mia mente partendo da una esperienza personale.
Durante un viaggio in Russia mi è capitato di vedere un uomo distinto. Vestito elegante e con tatuaggi pesantemente evidenti, entrare e uscire rapidamente da un locale. Alcuni amici mi riferirono in quella occasione che stava facendo "il giro". Non dissero altro ma il significato mi parve abbastanza chiaro.
 
GRAZIE PER AVER LETTO FINO A QUI!
 
Il progetto è ancora in fase embrionale perciò vogliate gentilmente lasciarmi le vostre impressioni e suggerimenti. Ne sarei assai felice.
 

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Capitolo 11
*** 11 ***


                                                                                                ---------------VITTORIA-----------------
 
"Bella macchina, mi sarei aspettata qualcosa di molto più tamarro da un russo ma... può andare".
Quell'Audi era davvero una meraviglia, Vittoria aveva la bava alla bocca mentre apriva da sola lo sportello del passeggero.
Adorava le auto sportive e per quanto non volesse ammetterlo, quel russo aveva saputo giocarsi un buon asso.
Apprezzava gli uomini che sapevano guidare simili belve, la trovava una capacità molto virile.
Vasilj fece il giro del mezzo e salì al lato guida. Non la stava nemmeno ascoltando.
Forse non la capiva.
"Capisci quello che dico?", gli chiese mentre scivolava sul sedile.
Sapeva ancora di quell'odore inconfondibile di macchina nuova, oltre che a un accenno di legno e chiodi di garofano.
Volkov si sistemò accanto a lei e la guardò, la bestia sotto di loro prese vita facendo le fusa come un enorme gattone.
Vittoria sentì la vibrazione riverberarsi per tutto il corpo. Si aggrappò alla maniglia dello sportello con una mano.
"Capisco...parlo poco", le ripose lui dopo che furono partiti a una andatura desolantemente nei limiti di legge.
Per un minuto, lei si perse a guardarlo mentre si destreggiava per le strade di San Pietroburgo. C'era qualcosa di sexy in lui e, per questo, a Vittoria venne voglia di prenderlo a schiaffi.
L'aveva rapita, un'altra volta!
Si sentiva come una bambolina di pezza, passata di mano in mano per il puro divertimento di esseri più potenti di lei.
Questo tizio, con il suo labbro sfigurato in un ghigno raccapricciante e il suo cipiglio incurvato verso l'alto.
Anche se in quel momento stava guardando la strada, si era evidentemente accorto che lo stava fissando.
 "Ci siamo già incontrati, vero?". Lo interrogò lei guardinga.
Lui teneva la mano sinistra sul volante e il gomito appoggiato sul bordo del finestrino, in una postura disinvolta. Con l'indice e medio della mano destra, si tamburellava sulla coscia.
Il cambio era automatico, non gli serviva cambiare marcia.
Non le rispose.
Parlava poco le aveva detto.
"Tu sei 'Faccia da teschio'!". Vittoria sputò fuori quelle parole come se fossero un'accusa.
Lui le lanciò un'occhiata di sbieco fulminea.
"La Tokarev TT-33", spiegò lei indicandogli la sua mano. "L'ho riconosciuta e non è un tatuaggio comune".
"Ricordi me", disse cupamente lui continuando a guardare avanti. "Pensi sempre a me, Solnyshko?".
Solnyshko. Cos'era? Una parola per dire stronza o...
Lei rise mettendoci troppa enfasi per suonare naturale. "Per favore, mi sei venuto in mente solo oggi. Non dimentico chi cerca di uccidermi".
Non era vero.
Negli ultimi mesi faceva sempre il solito incubo ricorrente e solo le sue gocce prima di coricarsi le davano una possibilità di riposo.
Non funzionavano però per impedirle di sognare.
Ogni notte tornava in quel parcheggio e assisteva nuovamente all'impresa impossibile che 'Faccia da teschio' aveva compiuto.
Aveva agguantato l'arma dell'avversario e l'aveva puntata verso l'alto. Il rimbombo degli spari perdersi fra i fabbricati e il naso del suo nemico che si rompeva sotto a una poderosa testata.
Volkov aveva piantato il pugnale con abilità e precisione nella trachea dell'avversario e poi aveva preso a mitragliate l'aggressore di Vittoria.
Era un killer spietato e preparato.
Lo sognava ogni maledetta notte. Mentre era a letto, sotto le lenzuola.
Da sola.
Lei non volle dire più nulla, rivolse l'attenzione fuori dal finestrino e restò in silenzio.
Quando l'Audi girò allo svincolo per dirigersi verso i sobborghi malfamati della città, Vittoria si domandò se suo padre in futuro avrebbe fatto in modo di recuperare la sua salma.
Quei russi l'avrebbero buttata in un canale di scolo, ne era certa.
Quella zona era stata costruita nel periodo sovietico. Gli edifici erano tutti uguali, degli immensi casermoni in cemento armato con cancelli e scale esterne in ferro arrugginito.
Lui abitava li?
Cosa ci faceva un uomo con un auto del genere in quartieri come quello?
Barboni con cappotti logori e prostitute in calze a rete, si aggiravano in pieno gelido giorno facendo avanti e in dietro sui marciapiedi.
Riuscì persino ad assistere a uno 'scambio' fra un uomo in bicicletta che passando diede il cinque, senza apparente motivo, a un passante a piedi.
Entrambi si dileguarono quando l'auto di Volkov passò lentamente accanto a loro, come uno squalo a caccia.
"Umpf", sbuffò Vasilj. Si fermò accostando a lato strada e prese il telefonino lasciato nel porta oggetti sotto al monitor del cruscotto. Digitò un rapido messaggio pigiando su una tastiera digitale in alfabeto cirillico e poi si sporse verso Vittoria.
Per un orribile istante, lei credette che volesse baciarla. Si fece in dietro aderendo contro il sedile, ma l'uomo la oltrepassò con il busto, per vedere meglio fuori dal finestrino dal lato di lei.
Volkov la squadrò storto.
Aveva capito cosa avesse frainteso e ne sembrò infastidito.
Controllò l'uomo che aveva ricevuto una qualche droga dallo spaccino in bicicletta, mentre saliva le gradinate in ferro di un enorme sistema condominiale.
"Umpf". Commentò ancora, quando lo vide scomparire in uno dei corridoi esposti alle intemperie del terzo piano.
Il suo telefonino trillò con un messaggio di risposta e Volkov, dopo averlo letto, decise che il loro lento viaggio doveva proseguire.
"Tu comandi quì?", chiese Vittoria attorcigliandosi in grembo le dita.
Volkov annuì. "Dà".
"Non sembra un bel posto". Sussurrò lei, più a sé stessa che a lui.
"Umpf", sospirò nuovamente lui.
Proseguirono per le luride vie di quello che, senza ulteriori dubbi, doveva essere il ghetto di San Pietroburgo.
In quella zona, persino il Sole sembrava non voler comparire.
Sarà stato il cielo nuvoloso invernale e le tetre pareti verticali in cemento, ma il mondo intero pareva trovarsi sotto a un filtro fotografico freddo e desolante.
Ecco il regno degno di una principessa boriosa ed arrogante come Vittoria.
Sarebbe andata in sposa al Re degli emarginati, dei tossici e delle puttane.
Ecco che razza di Vor stava per sposare.
Di nuovo ripensò che l'avrebbero sicuramente buttata in un canale di scolo.
Rifletté anche se suo padre si fosse reso veramente conto a chi stava dando la propria figlia.
Passarono davanti a un immenso condominio annerito da un passato incendio. I vetri alle finestre, erano scoppiati. Lingue di nero fuliggine segnavano la facciata in cemento, dalla base fino ad arrivare al terrazzo dell'ultimo piano.
Le carcasse di auto esplose giacevano, come tetri monumenti sverniciati, davanti al cancello che portava al parcheggio interno. Compreso quello che doveva essere stato un camion con una gabbia elevatrice, una di quelle usate dagli elettricisti per raggiungere i cavi più alti dei tralicci.
Lì era stato fatto saltare in aria ogni cosa, spento il fuoco e lasciato tutto com'era.
In quella zona evidentemente nessuno si degnava di ripulire.
In fondo alla strada, il rudere di una fabbrica in disuso si innalzava minacciosa.
Svoltarono ancora un paio di volte, non fermandosi a nessun semaforo rosso e giungendo in fine davanti all'ennesima grigia e sporca facciata in cemento.
Alla fine di un viale di fabbricati in decadenza, sorgeva cupa una casetta a schiera. Era affiancata da altre due facciate gemelle, con finestre sfondate ed erbacce davanti all'ingresso.
Una zona spettrale dove non abitava nessuno.
A Vittoria venne il fiatone dall'apprensione quando si accorse che avevano parcheggiato proprio davanti alla villetta con tutte le finestre murate.
I mattoni erano stati impilati sui davanzali, ergendo muri intonacati alla bene e meglio.
Un lavoro evidentemente fatto in maniera rapida ma funzionale, senza però dare importanza all'estetica della facciata.
Saltarono fuori improvvisamente dal nulla.
Un nugolo di ragazzi in scooter , a viso scoperto e con mani sospettosamente inserite nelle tasche dei giubbotti.
Alcuni erano in due seduti sui sellini. Altri facevano il giro-tondo attorno all'Audi di Volkov. Altri si pavoneggiavano esibendosi in impennate avanti e in dietro alla via.
Vittoria le riconobbe per quello che erano in realtà.
Vedette.
Ragazzi così si trovavano in ogni rione malavitoso, si occupavano di vigilare sui loro quartieri. Dovevano controllare che non ci fosse la polizia in giro mentre stavano spacciando o che non ci fossero stranieri.
Servivano come spie, atte ad evitare imboscate da parte dei nemici.
C'erano anche nei quartieri malfamati in Italia e c'erano anche a Boston.
Volkov spense il motore premendo il bottone di 'STOP' sul cruscotto, poi abbassò leggermente il finestrino oscurato per farsi riconoscere.
Un ragazzino, non avrà avuto più di diciotto anni, si affiancò all'auto con un paio di sgasate di acceleratore. Guardò prima Volkov e poi la sua accompagnatrice, poi si voltò verso la sua comitiva e urlò un qualche genere di segnale.
Tutti i ragazzi in scooter cominciarono a far rombare i motori, lanciarono dei fischi portandosi le dita alla bocca e ripartirono in un frastuono di marmitte.
Volkov allungò una mano verso Vittoria. "Telefono, prego". Ordinò in tono pacato, come se le chiedesse un favore.
La ragazza strinse i pugni sopra le proprie ginocchia prima di rispondere: "Sono una prigioniera?".
"Dammi tuo telefono...prego". Ripeté l'ordine lui.
Lei sospirò arrendendosi, si frugò nella tasca del giubbotto e glielo schiaffò nel palmo. "Hai paura che chiami qualche amico e dica dove abiti?".
Un lampo guizzò in quei strani occhi glaciali.
Ci aveva preso.
Scesero entrambi dall'auto e lui le fece strada verso il portone d'ingresso all'abitazione che si affacciava solo leggermente rialzato da un scalino, direttamente sul marciapiede.
Vittoria notò delle telecamere, muoversi in alto sopra la porta. Chiunque le stesse manovrando, stava in quel momento zoommando su di lei.
Volkov fece per armeggiare con un ben fornito mazzo di chiavi quando la soglia si aprì molto lentamente, rivelando uno spessore di almeno sessanta centimetri in ferro. Praticamente era la porta anti sfondamento di un caveau bancario.
Stavano entrando nella prigione di Guantanamo.
Un'anziana signora stava tirando disperatamente la porta dall'interno, per riuscire ad aprirla ed accogliere i suoi ospiti.
"Babushka!". La salutò Volkov aiutandola nell'impresa di aprire del tutto la soglia.
La nonnina era tarchiata e molto piccola, non più alta di un metro e cinquanta. Indossava un buffo maglione rosa, sotto a un grembiule bianco da cucina.
Vittoria sentì alleggerirsi una parte del peso che sentiva sul petto. La presenza di una donnina come lei la rincuorava.
Si era aspettata di essere portata al cospetto di galeotti in fregola perciò l'anziana era decisamente una bella sorpresa.
Venne fatto cenno alla ragazza di entrare ma Vittoria esitò.
Dentro, l'ambiente sembrava... accogliente.
La zona d'ingresso era molto piccola. Le scale che portavano al piano di sopra incombevano a chiunque fosse riuscito ad attraversare la soglia. Già che erano in tre, la nonnina dovette salire sopra al primo gradino per fare spazio alla ragazza.
Il pavimento era ricoperto da un triste linoleum marrone, tipico degli anni '80, ma prontamente coperto da un grande tappeto decorato a motivi floreali. Questo, insieme al lampadario a gocce di vetro, infondevano all'ambiente una bella sensazione di calore.
Sulla sinistra si accedeva al salotto, su cui si affacciava una grande cucina open-space.
Divano marrone in tinta con il pavimento, ante della cucina altrettanto marroni.
Sembrava la tipica casetta della nonna.
A parte le finestre sbarrate da incubo.
Volkov era teso, teneva le mani nelle tasche davanti del gonfio giubbotto e la bocca serrata.
Stava aspettando che lei esprimesse un giudizio?
"Ha una casa... molto carina, Signora". Bofonchiò lei rivolgendosi all'anziana.
Lui alzò gli occhi al soffitto sospirando, poi le fece di nuovo cenno di entrare velocemente.
Il pesante portone venne richiuso subito, non appena Vittoria mise gli stivali sul bel tappeto frangiato.
"Benvenuta!", la salutò calorosamente l'anziana signora. "Il Signor Volkov mi ha assegnato a te come cameriera personale. Tengo in ordine la casa e chiamami pure Babushka. Quì tutti mi chiamano così e in effetti mi sento la nonna di tutti!".
Ora Vittoria era confusa.
La donnina aveva un pesante accento dell'est che proprio come Volkov storpiava le vocali abbassandole di almeno una tonalità, ma padroneggiava l'inglese fluentemente come solo una donna che aveva vissuto per anni fra gli anglofoni poteva fare.
Lei e Volkov si scambiarono qualche parola in lingua madre, poi lui si dileguò infondo al corridoio. Per poi scendere delle strette scale in legno che dovevano portare alla cantina.
Vittoria e la sua nuova cameriera, rimasero sole.
"Prego, Signorina" le sorrise amorevolmente l'anziana. "Il Signor Volkov ha fatto preparare apposta per te una camera al piano di sopra. Per favore, seguimi".
"Che cosa mi farà?". Chiese esitante Vittoria. Aveva ricominciato a contorcersi le dita.
Babushka si fermò a metà scala e si voltò verso di lei sorreggendosi al corrimano inchiodato al muro di cemento armato.
"Non avere paura del Signor Volkov. E' un uomo molto paziente... con le donne. Se non farai nulla che possa andare contro al suo volere, lui avrà rispetto per te".
La nonnina la stava esaminando attentamente mentre parlava dall'alto. "Il Signor Volkov quì è un uomo molto rispettato, non mettere mai in dubbio ciò che fa in pubblico. L'essere moglie è un'arte, dovrai imparare quando potrai parlare e quando dovrai per forza restare al tuo posto. Ti aiuterò io".
Vittoria si frugò in tasca e lestamente ne estrasse la piccola boccetta di Lexotan. Si calò immediatamente due gocce sotto la lingua e sospirò in attesa che i muscoli si rilassassero.
"Che cos'é quella? Droga?", si allarmò la donnina andandole subito in contro.
Vittoria sollevò la boccetta in alto, lontana dalla sua portata. "No, è solo un ansiolitico".
Babushka si sbracciò strabuzzando gli occhi come una pazza. "Non mostrare mai a Signor Volkov quella roba, mai!" la avvertì. "Lui odia medicine e droghe, nascondila!".
"Un Narcotrafficante che odia la droga?". A Vittoria stava venendo il mal di testa.
Babushka le indicò frettolosamente il pianerottolo in cima ai gradini. "Forza andiamo nella tua camera, il Signor Volkov vuole che ti lavi. Ti ho preparato anche dei vestiti puliti, se non ti piacciono dimmelo che provvederò a sostituirteli".
Mentre si prodigava a seguire Lenin in gonnella, Vittoria aveva già preso nota mentale che si sarebbe sentita dire molto spesso "Il Signor Volkov vuole". Almeno finché fosse rimasta imprigionata in quella casupola bolscevica.
Il corridoio del piano di sopra era stretto e lungo. Non c'erano quadri o fotografie che potessero dare un qualche indizio sull'uomo che abitava in quelle stanze.
Ai lati del passaggio si aprivano più porte, ma era quella che terminava il corridoio ad allarmare istintivamente la ragazza.
La porta dell'ultima camera, quella più lontana, era chiusa. Ma Vittoria poteva scommettere che era proprio quella di Volkov.
Quale altra poteva essere? Nei film era sempre l'ultima porta quella che non si doveva mai aprire.
"Mi rifiuto di essere rinchiusa nella camera da letto di un uomo!". Si impuntò lei arrestandosi.
Babushka invece aprì la prima porta sulla sinistra e si fece da parte, in modo che la ragazza la precedesse dentro.
"Avrai la tua personale camera da letto con la tua personale chiave. Potrai chiuderti dentro, se la cosa ti farà stare meglio. Ma dovrai per forza rimanere allo stesso piano del Signor Volkov. Moglie e marito devono rimanere vicini".
La camera, che lo stramaledetto Signor Volkov le aveva assegnato, era enorme.
Un letto a baldacchino dominava l'ambiente, ricoperto da una soffice trapunta bianca gonfia come una nuvola.
Davanti al letto, era posizionato un mastodontico comò con sopra un televisore piatto da una sessantina di pollici.
I muri erano ricoperti da una tappezzeria argentata a motivi riccioluti, il pavimento era in calde assi di legno trattato nero.
Contro la parete c'era un armadio talmente grande che avrebbe rivaleggiato con quello che Vittoria aveva nel suo appartamento a Manhattan.
Una porta laterale conduceva a un piccolo bagno ceco, ricoperto da lustre mattonelle in porcellana nera. Le piaceva l'effetto da cripta mortuaria, ma rimase a fissare per troppo tempo l'enorme vasca bianca posizionata accanto al box doccia.
Babushka se né accorse e si schiarì la gola.
"Preferisco le docce, ai bagni", si giustificò la ragazza.
"Ha voluto far sistemare la camera in occasione del tuo arrivo", gongolò radiosa la nonna. Si dondolò sui talloni e unì le mani dietro la schiena. "Prima questa stanza era lasciata vuota, ora ha finalmente uno scopo".
Vittoria corse alla finestra della camera da letto. Le lampadine a led del lampadario e delle bajour erano accese, illuminando un ambiente che altrimenti sarebbe stato completamente al buio. Questo le fece sospettare quanto aveva ormai già capito.
Scostò il tendaggio e sospirò davanti alla costruzione di mattoni e malta che le si parò dove doveva esserci la finestra.
Vittoria era totalmente preclusa dal mondo esterno, non poteva nemmeno farla finita buttandosi di sotto.
Babushka alle sue spalle si rattristò, accigliandosi un poco. "A Signor Volkov non piacciono le finestre. E' stato cresciuto in un ambiente molto... recluso. Anche nella sua stanza, la finestra è sbarrata e ha espressamente voluto che fosse fatto anche nella tua. Per protezione".
Vittoria si guardò attorno. "Come si fa allora ad arieggiare?".
La nonnina indicò delle griglie, in alto, sul soffitto. "Impianto di aspirazione".
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Vittoria se la prese comoda nella doccia, lasciando che i muscoli indolenziti assorbissero il calore. Ogni fibra del suo essere ringraziò mentre finalmente si dava una ripulita da tutto lo sporco dovuto al lungo viaggio in aereo e dai tutti i sudori freddi che le erano venuti per la tensione nervosa.
C'erano molti prodotti costosi nella piccola mensola inchiodata al muro, insieme a rasoi e creme depilatorie. Le scelte la sconvolsero e una pressione cominciò ad accumularsi dietro agli occhi.
Quel russo non l'avrebbe mai lasciata andare.
Non voleva questo. Non voleva niente di tutto questo.
Voleva solo essere libera. Come loro. Come gli uomini.
Ma lui non gliel'avrebbe permesso e da dopo le nozze gli sarebbe legalmente e permanentemente appartenuta.
Prese un flacone senza controllare l'etichetta, lo usò su ogni parte del corpo.
Continuò a spruzzare il gel profumato e a strofinarsi, ancora e ancora ma non finiva mai di pulirsi.
Quel pezzo di merda di Luca.
L'aveva scopata apposta. Voleva togliersi lo sfizio o marcare il territorio prima che un altro uomo la possedesse.
Lei apparteneva solo a sé stessa. Solo e unicamente a sé stessa.
Perché facevano tutti così? Perché non poteva scegliersi il proprio destino?
Richiuse il getto d'acqua e si diede una asciugata.
Con il phon si passò i capelli, li spazzolò con cura e li legò in un morbido chignon.
Quando aprì l'armadio poté perdersi nella misera scelta di abbigliamento disponibile.
Erano tutti vestitini succinti, più estivi che invernali e che non lasciavano niente all'immaginazione.
Quasi le venne male dal sollievo quando in fondo alla cassettiera trovò dei spessi pantaloni della tuta grigi e una felpa coordinata con il cappuccio.
Trovò persino dei casti slip neri.
Molto bene, pensò. Più appariva sciatta e meglio era.
Aveva appena finito di vestirsi quando qualcuno bussò alla porta.
Si strofinò le tempie fiaccamente ma non poté fare altro che andare ad aprire.
Ovviamente si era chiusa in camera con le chiavi che le aveva lasciato Babushka.
Sulla soglia si ritrovò davanti alla nonnina accompagnata dall'oscura figura di Volkov, a braccia conserte ed espressione consolidatamente truce, e a un nuovo arrivato armato di valigetta.
Non attesero un invito, i tre entrarono costringendola a farsi da parte.
"Lui, dottore". Presentò concisamente Volkov indicando l'uomo che Vittoria non aveva mai visto prima. "Lui visita te".
Vittoria non si mosse di un millimetro.
Babushka preferì intervenire smorzando l'imbarazzo generale. "Per favore Signorina, potresti sdraiarti sul letto? Quest'uomo è uno dei dottori fidati del Vory, eseguirà una rapida visita ginecologica".
Per Vittoria fu' davvero troppo. "Ma andiamo, fate sul serio? Non sono malata. Piuttosto tu!". E puntò il dito contro Volkov. "Tu come stai messo? Con quante puttane sei stato? Sicuro di non avere la sifilide?".
Vasilj prese l'iniziativa, si scagliò su di lei agguantandola per un braccio. Con una spinta la lanciò sul letto e la costrinse a girarsi a pancia in sù.
"Tu apri gambe e fai visita, oppure io lego te!". La minacciò furente d'ira.
"D'accordo!", abbaiò lei mentre si abbassava i pantaloni e se li sfilava dalle caviglie.
Il dottore non parve scandalizzarsi particolarmente dalla sceneggiata, si fece avanti e si sedette sul materasso accanto alle gambe di Vittoria.
Proseguì con il frugare tra i suoi attrezzi nella valigetta.
Ma Vittoria non aveva finito di sfogare tutta la sua frustrazione. "Tu però te ne vai!". Sbraitò contro al russo.
Vasilj, di contro, gonfiò spavaldamente il petto e incrociò nuovamente le braccia.
Non si mosse, anzi, fissava volutamente con ottusa determinazione le gambe nude della ragazza.
Fu' di nuovo Babushka a intervenire facendo da pacere. "Lui deve rimanere, deve accertarsi sulle condizioni fisiche della sua futura moglie".
"Allora si volta contro il muro!". Sbraitò lei in risposta.
Vasilj stava combattendo chiaramente una battaglia interiore. La ragazza era certa che come minimo le avrebbe dato uno schiaffo per rimetterla in riga ma, invece, con un ringhio gutturale di gola si girò dandole le spalle facendo esattamente come aveva ordinato lei.
Vittoria sentì lo schiocco di guanti in lattice e fu esaminata accuratamente per i dieci interminabili minuti successivi. Venne studiata internamente in ogni singolo centimetro, la strumentazione era fredda e sgradevole quando il dottore la fece entrare nella sua vagina.
Volkov e il dottore parlavano in un sussurrato russo.
Gli strumenti si muovevano dentro di lei, in profondità.
"Con quanti uomini hai avuto rapporti?", chiese il dottore mentre le divaricava ancora di più le labbra.
Vittoria fissò intensamente l'ampia schiena di Vasilj quando rispose: "Molti".
Volkov spostò il peso del corpo da un piede all'altro ma non fece niente di più, in reazione alla sua risposta.
Il dottore spostò la spirale al suo interno e la ragazza rabbrividì quando si rese conto che gliela stava sfilando via.
"Questa non ti servirà più", sentenziò il dottore mentre la riponeva in un sacchetto. "Da dopo le nozze servirai tuo marito. Riesci a capire?".
Vittoria strinse i pugni afferrando con forza il piumino sotto di lei. "Capito", sussurrò.
Il dottore e Volkov ebbero allora un'altro confronto verbale nella loro sgraziata lingua, sicuramente ragguagliandosi a vicenda sul suo stato di salute ottimale.
Poi il dottore prese una siringa dalla sua valigetta e la stappò con un abile gesto. "Esame del sangue", spiegò.
Quando anche quella parte fu' finita, la ragazza poté rivestirsi e il dottore fu accompagnato all'uscita da Babushka.
Nella camera, rimasero in silenzio Vittoria e Volkov.
Lei non proferì parola. Avrebbe fatto voto del silenzio da quel momento in poi.
"Io no malato". Se ne uscì tetramente lui.
Vittoria mandò subito in malora il suo voto. "Questo lo dici tu!".
"Farò visita anche io", annuì stoicamente lui.
Non si stavano nemmeno guardando. Lui trovava estremamente interessante la TV spenta di fronte al letto e lei si fissava i piedi, seduta a bordo materasso.
"Non ti voglio sposare", sussurrò infine lei.
"No importante". Borbottò lui avviandosi verso l'uscita. "Babushka porta a te cibo, tra poco".
Vittoria lo bloccò richiamandolo prima che lui riuscisse a scappare. "E tu?", chiese. "Vuoi sposarmi?".
Vasilj si bloccò sotto allo stipite della porta. "No importante".
E se ne andò.
 
 

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Capitolo 12
*** 12 ***


                                                                                                          ---------------VASILJ-----------------

 
"Ancora un minuto". La guardia controllò l'orologio al polso.
Vasilj afferrò i bordi della vasca e contò i secondi nella sua testa. Ogni muscolo del corpo che bruciava per il freddo.
"Di nuovo", ripeté la guardia.
Vasilj snocciolò gli ingredienti per le bombe che gli avevano mostrato durante le lezioni. Si rivide davanti agli occhi il libretto americano, scritto in lingua inglese ma che aveva memorizzato come se fosse stato in cirillico.
I suoi secondini gli facevano leggere libretti di istruzioni sia nella loro lingua che quella estera, perciò cominciava ad avere una prima rudimentale dimestichezza con l'inglese. Dicevano che la 'Guerra Fredda' non era finita, dicevano che quei maiali di occidentali si erano impigriti e che solo i russi erano rimasti valorosi.
Il suo respiro si era fatto ansimante ma avrebbe dato anche il sangue per qualcosa di grande.
Quelle parti gli venivano facilmente. Le liste, ricordare le cose.
Poteva farlo, i secondini dicevano sempre che aveva buona attenzione per i dettagli.
La guardia annuì in segno di approvazione e poi indicò l'arma appesa a una spalla.
Vasilj elencò i passaggi per assemblarla e poi li ripeté al contrario.
"Tempo scaduto", gridò la guardia.
Il ragazzo balzò fuori dal bagno di ghiaccio e quasi crollò.
"Continua a muoverti", disse prontamente la guardia. "Molto bene, ora nella fossa".
Vasilj si bloccò e scosse la testa.
"Rallegrati, Siberiano. Sarete più larghi laggiù, sta notte ne è morto un altro".
Le sue parole costrinsero il ragazzo a muoversi e a seguirlo.
La guardia aprì la botola della fossa e, sebbene il suo corpo non volesse entrare, la mente stava già eseguendo gli ordini.
Prima di scendere giù, gli diedero una pillola. Poi lo rinchiusero, sacrificandolo all'oscurità.
Non era il buio il problema, si era abituato a vivere nell'oblio. Era l'incertezza di ciò che poteva accadere, a devastarlo.
Ogni mese, passava ad una nuova fase dell'addestramento e ogni visita alla fossa poteva concludersi solo in un modo.
Uccidere almeno un altro ragazzo.
Da lì a momenti avrebbero fatto lampeggiare le luci e lui avrebbe potuto vedere i suoi avversari per brevi sprazzi di nitidezza tra un lampeggio e l'altro.
Uccidere o essere uccisi.
Lui uccideva sempre.
Poi lasciavano i cadaveri con i sopravissuti. A volte per giorni.
Uscivano fuori i topi. Anche gli insetti.
Il fetore.
Ma non era nemmeno la cosa peggiore. Erano i rumori a non piacergli, quelli che sentiva sempre.
In quel momento gli altoparlanti si accesero e Vasilj si coprì le orecchie prima che il rumore iniziasse.
Ma non faceva differenza, lo sentiva comunque.
L'urlo, una colonna sonora infinita di lamenti. Singhiozzi di tortura e pianti di bambini.
Il cuore gli batteva troppo forte e troppo velocemente, stava per esplodere.
Le luci presero a lampeggiare e nella fossa riuscì prima a distinguere, poi perdere, poi di nuovo a vedere un gruppo di altri cinque adolescenti all'incirca della sua età.
Le teste rasate e nudi proprio come lo era lui.
I muscoli tesi e le vene gonfie di un colore violaceo. Le pupille dilatate dall'effetto delle pillole.
Vasilj sapeva che erano proprio come lui.
I lamenti diventarono un'assordante ruggito a tempo di dura musica Metal.
Si accucciò in posizione, cercando di anticipare colui che lo avrebbe attaccato.
Un ragazzo, con una lacrima tatuata sotto all'occhio destro, lo stava fissando rabbiosamente mostrando i denti gialli come un animale.
Ecco, chi avrebbe ucciso per primo.
 
------
Vasilj appoggiò la fronte contro il legno della porta.
Dall'altra parte, sentì la ragazza chiudersi dentro con un doppio giro di chiave nella serratura.
Era completamente andato.
Era bella la sua futura moglie, con quei capelli bruni sempre acconciati in una coda o chignon.
Un viso a cuore con carnose labbra rosse naturali, senza rossetto. Delle lunghe ciglia a incorniciare delle iridi color del caramello fuso.
Per non parlare di quel schianto di corpo, tutta curve con seni gonfi e bacino ampio. Avrebbe dato alla luce dei tori come figli.
Il suo culo... Vasilj sospirò contro il legno della porta.
Poteva esistere un culo così tondo e alto?
Sentiva il membro tirare contro il tessuto dei pantaloni della tuta.
Poteva prenderla quando voleva, nessuno si sarebbe opposto. Già gli apparteneva e quella lingua lunga andava domata.
Si massaggiò l'uccello strofinando vigorosamente, a occhi chiusi.
L'idea di domare quella femmina lo esaltava. Aveva un caratterino focoso e pensare che lui poteva sottometterla al proprio volere gli provocava una dura erezione.
Una donna come lei, accanto a un uomo come lui.
Se non fosse stato per il titolo che da lì a giorni gli avrebbero dato, una come lei non avrebbe mai guardato un sicario sfregiato da cicatrici e sudicio come lo era lui.
Diventare Vor gli avrebbe permesso anche quello, avrebbe potuto possedere qualsiasi donna d'onore.
Donne pulite e affascinanti. Erano costrette a vederlo finalmente, non lo avrebbero più evitato come un lebbroso.
Quando erano andati alla rimessa per aerei, Titov gli aveva detto che poteva pure prendersela subito ma doveva aspettare che prima ci parlasse lui.
Quando l'aveva vista redarguire uno dei suoi uomini sul come andavano recuperati i panetti da dentro una statua, aveva avuto un brivido lungo la schiena.
Era meravigliosa, alta e flessuosa.
Quando l'aveva vista la prima volta durante il rapimento a New York non l'aveva veramente esaminata, aveva altro per la testa. Ma in quell'istante, nella rimessa... era rimasto folgorato.
Non riusciva a crederci, gli avevano dato in pasto una donna che non avrebbe mai potuto trovarsi da solo.
L'avevano costretta, lo sapeva, ma non gli importava.
La bramava voracemente.
Quando era uscita dall'ufficio dell'hangar con alle spalle un Titov compiaciuto, l'aveva vista puntare verso di lui a passo di carica.
L'avrebbe presa al volo, era pronto. Avrebbe tanto voluto possederla proprio lì davanti a tutti. Come un uomo delle caverne che reclama la propria donna di fronte al resto del clan.
Era sua. Tutta... sua.
Vasilj gemette sentendo della viscosità nelle mutande, fece un passo in dietro dalla porta e sospirò.
"Il segreto di un buon matrimonio è una moglie felice". Gli aveva detto Babushka una sera quando lui e Ivan erano seduti al tavolo della cucina a cenare, con lei che li serviva.
"Da retta a una donna che è stata sposata con il proprio uomo per trent'anni".
Ivan aveva preso a succhiare rumorosamente la sua minestra, gocciolandosi sul mento.
"Sarà solo una firma", aveva detto Vasilj con una alzata di spalle.
"Prima scopatela e poi liberatene", lo aveva avvertito Ivan. "Le donne portano solo guai e in più è tutta una idea di Titov. Non mi piace neanche un po'".
"Gli italiani dovranno credere che la terrò al sicuro, almeno finché non riusciremo a bypassarli e a trattare direttamente con gli honduregni senza intermediari". Aveva spiegato Vasilj prima di prendere anche lui d'assalto la sua bollente minestra.
"Ehi, Siberiano", lo aveva richiamato Ivan battendo due colpi sul tavolo con le nocche. "Che non ti venga in mente di mandare tutto in malora per una donna, io e Nico ci siamo quasi presi una pallottola in testa l'ultima volta che ti sei fatto traviare da lei".
Il telefonino di Vasilj trillò fastidiosamente e l'uomo ritornò con la mente al presente.
Diede una occhiata al monitor del suo Samsung e alzò gli occhi verso il soffitto.
"Dammi una tregua", supplicò a nessuno in particolare.
Al pian terreno, incontrò Nicolaj proprio davanti alla porta che conduceva da basso nello scantinato.
Aveva un borsone in spalla, contenente tutta l'attrezzatura di cui aveva avuto bisogno. "Ho installato le telecamere e le ho collegate ai monitor giù". Lo aggiornò, il ragazzo.
Vasilj annuì accompagnandolo all'ingresso. "Molto bene ma ora dovrai occuparti tu di fare il giro delle piazze, per oggi. Io ho del lavoro da fare".
Il giovane Nicolaj alzò il mento orgogliosamente. "Ci penso io!".
Quando entrambi furono in strada, Vasilj richiuse a chiave l'uscio dietro di sé.
"Ah, Siberiano". Lo chiamò il ragazzo stampandosi in faccia un gran sorriso. "Congratulazioni!".
Vasilj lo incenerì con un'occhiataccia. "Per cosa?".
Il ragazzo esitò e il suo sorriso andò rapidamente a scomparire. "Per... per il...", iniziò a dire. "Con la..." e indicò la finestra murata in alto, sopra di loro, quella della camera dell'italiana.
"Và a lavoro!", borbottò Vasilj di cattivo umore.
Il ragazzo se la diede subito a gambe lungo il viale.
Dei bambini si rincorrevano ridendo lungo i marciapiedi, attraversando la strada e nascondendosi dietro alle auto in sosta.
"BUM-BUM!", mimava uno di loro mentre teneva in mano un ramoscello a mo' di pistola.
I suoi compagni urlarono divertiti e fecero finta di cadere tutti a terra, vittime di una sparatoria.
Vasilj si affrettò a salire in auto.
La giornata continuava ad annunciarsi nuvolosa e cupa. Proprio come il suo umore quando parcheggiò davanti a un immenso complesso di appartamenti, quindici minuti più tardi.
Quella mattina, quando era in macchina con l'italiana, aveva visto uno dei suoi uomini ricevere della roba non autorizzata da un tizio in bicicletta proprio sotto il suo naso.
In quelle strade era lui che comandava, a lui andava chiesto il permesso anche per andare al cesso figurarsi azzardarsi a spacciare roba di qualcun'altro.
Aveva immediatamente scritto a Ivan in modo che se ne occupasse lui, finché sistemava la questione donna in ostaggio.
Quando batté il pugno sulla porta dell'appartamento, sapeva già chi avrebbe aperto.
"Alla buon ora". Lo accolse burbero, Ivan. "Ti ho scritto di venire quì una vita fà, ancora un po' e sarei andato fuori di testa!".
Vasilj gli diede una spallata e si fece largo all'interno del puzzolente e desolante appartamento. Tutte le persiane erano calate e l'ambiente era quasi totalmente in ombra, tranne che per una lampada accesa sul tavolino del salotto.
C'era il fetore di cibo rancido e puzza di calzini sporchi.
"Da quant'é che non pippi?", chiese Vasilj. "Sei fastidioso quando non lo fai".
Ivan tirò sù forte col naso e se lo grattò con forza. "Da troppo tempo, per questo ti ho detto di fare in fretta. Questa è la casa del coglione, pensavo di trovarlo con la roba di qualcun'altro presentandomi all'improvviso senza annunciarmi ma ho trovato qualcosa di ben peggiore".
Gli fece cenno di seguirlo lungo il corridoio e i due si ritrovarono nel cucinino dell'appartamento, altrettanto logoro e desolante.
Una ragazza in evidente crisi di astinenza, si dondolava catatonica seduta sulla seggiola a capotavola.
Sembrava sconvolta, con un occhio pesto e il trucco tutto sbavato per le lacrime versate.
In piedi, accanto a lei, si mangiava le unghie un uomo. Lo stesso che quella mattina aveva scambiato con il tizio in bicicletta.
Sembrava terrorizzato, tremava e batteva i denti. I capelli neri erano unti, la fronte era imperlata di sudore e non la smetteva più di far vagare lo sguardo dappertutto come se non ci stesse del tutto con la testa.
Ivan si diresse verso l'enorme congelatore addossato su un lato della stanza, uno di quelli rettangolari con sportello che si apriva come una bara. Fatto per conservare grandi quantità di provviste.
Aprì lo sportello e si fece da parte in modo che Vasilj vi ci guardasse dentro.
"E questo, chi diavolo é?". Esclamò interdetto.
Ivan gli si affiancò ed entrambi presero ad esaminare il cadavere congelato dall'alto, in una involontaria scena comica.
Il corpo aveva evidentemente subito un grave trauma da corpo contundente sul lato del cranio, teneva gli occhi e la bocca aperta in un silenzioso urlo di aiuto. Gli arti erano stati piegati in angolature impossibili, in modo che ci stesse a stento nella cella frigorifera.
Era stato quasi del tutto sepolto da piselli surgelati, patatine fritte e sacchetti di alette di pollo.
Il pazzoide unticcio prese la parola. "Non é nessuno, te l'ho detto Ivan. Nessuno!".
Ivan diede un calcio a una sedia, mandandola a rotolare in corridoio. "Col cazzo che è nessuno! Volkov, guarda com'é vestito. E' un fottuto 'colletto bianco'!".
Vasilj lo aveva già notato. Il cadavere dell'uomo era vestito di tutto punto, giacca e cravatta annessi.
Proveniva dalla società per bene e per giunta aveva famiglia, da come si deduceva dalla fede all'anulare sinistro.
"Ci sarà una inchiesta, giornalisti che andranno a intervistare la vedova. Piagnistei in televisione dove si pregherà la vittima di tornare a casa e polizia in ogni angolo!", si disperò Ivan portandosi lei mani ai capelli.
Era sempre così tragico quando non pippava.
Vasilj afferrò il bordo del congelatole e corrugò le sopracciglia, riflettendo. "Dobbiamo farlo sparire".
Il disperato unticcio riprese coraggiosamente la parola unendo le mani come in preghiera. "Ci penso io, non è niente. Ci penso io".
Vasilj scattò come un serpente e gli piazzò un poderoso pugno allo stomaco, l'uomo boccheggiò senza fiato e cadde in ginocchio ai suoi piedi.
"Le cose quì non funzionano più come ai tempi di Kozlov. Ora il capo sono io, quì tutti vivono e muoiono secondo il mio volere!".
Lo afferrò per la collottola e lo inchiodò di faccia sul piano del tavolo con un tonfo, proprio di fronte alla ragazza in catalessi che finalmente smise di dondolare.
Mentre gli premeva una mano in faccia e con l'altra gli teneva un braccio girato dietro la schiena, Vasilj continuò implacabile: "Ogni cosa và fatta solo dopo la mia autorizzazione, nessuno è al di sopra di me. Ti é chiaro?".
"Voleva la mia donna!", piagnucolò quell'essere rivoltante.
Vasilj lanciò un'occhiata alla ragazza seduta a capotavola. Era ridotta a uno schifo.
"Quel 'colletto bianco' voleva fottersi tutte le meglio ballerine del locale! Non potevo lasciarglielo fare, quelle donne sono di proprietà dei 'Ragazzi del Vicolo'".
Ivan rovistò nelle ante sopra al lavello, tirò fuori un bicchiere e si prodigò a caricarlo di ghiaccio ripescato fra le gambe del cadavere in cella. "Come no", sbuffò. "Quelle se le fottono tutti, idiota. E' il loro lavoro!".
Vasilj liberò la faccia dell'uomo dalla sua presa ma tenendolo sempre bloccato con un braccio all'indietro, tirò fuori il suo fidato pugnale dalla lama lunga.
"Mano libera sul tavolo, subito!". Ruggì in un ordine perentorio.
La sua vittima prese a singhiozzare e a sputacchiare muco e saliva, in una smorfia resa folle dalla paura. "No, ti prego. Te lo giuro, sistemerò tutto io. Abbi pietà!".
Supplicò e sputacchiò ancora, perdendo ogni traccia di dignità umana.
Vasilj gli ringhiò nuovamente nell'orecchio. "Che cosa credi che sia questa se non pietà, mano libera sul tavolo. Muoviti!".
Lui fece finalmente come gli era stato ordinato. La sua donna, seduta lì accanto, rimase a guardare attentamente.
"Io vorrei anche fidarmi...", parlò lentamente Vasilj. "Il punto è che non posso proprio permettermelo!".
Piantò la lama di taglio sul piano del tavolo facendogli saltare via anulare e mignolo della mano sinistra.
L'uomo urlò come un maiale e pianse come un bambino, mentre fissava la pozza di sangue scarlatto allargarsi sul piano e poi gocciolare sul pavimento.
Le due dita mozzate sembravano due grassi bruchi.
"Ripeti dopo di me, razza di coglione!". Urlò Vasilj sopra i lamenti. "Io sarò leale al mio Vor, signore e padrone. Ripetilo!".
L'uomo ripeté singhiozzando e mangiandosi le parole ma si poteva capirne il significato.
"E ora, ascoltami", lo minacciò Vasilj. "Te ne andrai da questa città, portati via pure la tua donna se ti aggrada".
La ragazza singhiozzò brevemente, non sembrava molto entusiasta all'idea.
"Non rimettere mai più piede nel mio rione o ti mozzerò qualcos'altro di più vitale, la prossima volta".
Dopo di che, lo lasciò libero di rialzarsi.
Ivan raccolse le due dita tranciate e le depose nel bicchiere pieno di ghiaccio che aveva recuperato. Glielo porse e disse: "Corri in ospedale, se farai abbastanza in fretta magari riusciranno a riattaccarteli".
L'uomo e la ragazza fuggirono prendendo la via per l'uscita, l'uomo con stretto al petto il bicchiere con le dita.
Ivan e Vasilj rimasero soli a contemplare il corpo ibernato.
"Chiamo 'il Turco'?". Chiese dopo un po', Ivan.
Vasilj si stava già prodigando ad estrarre il cadavere irrigidito dal freddo e dal rigor. "Chiama il 'il Turco'", gli fece eco grugnendo dallo sforzo.
 
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Colui che chiamavano 'il Turco', lo era per davvero. Un turco.
Gestiva una macelleria nel quartiere alle porte di San Pietroburgo, una zona rispettabile abitata da brava gente ignara.
'Il Turco' era un uomo fidato di Vasilj, un individuo che conosceva da quando aveva appena iniziato a lavorare per Kozlov. Quindi sapeva che quando veniva chiamato era per smaltire corpi.
Dopo aver fatto una fermata al supermercato lungo la strada per comprare due asciugacapelli, arrivarono finalmente davanti alla macelleria.
Vasilj spense il motore e si apprestò a scendere, ma accanto a lui Ivan aveva qualcos'altro da fare prima.
Tirò forte prima con una narice, poi con l'altra, la lunga striscia di polverina bianca che si era preparato sul cruscotto dell'Audi di Volkov.
"Idiota, non nella mia fottuta macchina!", lo redarguì Vasilj tirandogli una manata sulla nuca.
Ivan si prodigò a leccarsi un dito e a ripulire ogni traccia di bianco sul cruscotto nero. "Ecco fatto, come nuova".
Vasilj borbottò qualche bestemmia e scese dall'auto proprio mentre 'il Turco' usciva fuori dal negozio per accoglierli.
Ci fu qualche convenevole ma fecero tutto molto in fretta, era ancora pieno giorno e le persone rispettabili non dovevano vedere un individuo come Vasilj con praticamente scritto in fronte mafioso, intrattenere rapporti con il macellaio di fiducia.
Si strinsero la mano alla maniera degli uomini, palmo a palmo in volo e una pacca spalla contro spalla.
Quando Vasilj lasciò andare la mano del macellaio, questo aveva stretto in pugno un rotolo di banconote.
"Andate sul retro, io chiudo bottega e me ne vado". Si congedò 'il Turco'.
Una volta che l'Audi venne portata sul retro, Ivan e Vasilj recuperarono dal bagagliaio il corpo avvolto in un tappeto.
Nella stanza per la macellazione, sbatterono 'l'Involtino Primavera' sul piano in acciaio e lo srotolarono in malo modo.
Collegarono i Phone alle prese elettriche e cominciarono a scongelarlo.
Potevano volerci lunghe, estenuanti, noiose ore.
Ma si sapeva, il crimine non dormiva mai e il loro era un lavoro senza orari fissi.
"Che cosa farai adesso? Con l'italiana, intendo". Urlò Ivan sopra al frastuono dei soffi di aria calda.
La camicia del cadavere si stava sbrinando.
"Non lo so'". Ammise nervosamente, Vasilj. "Non c'ho mai pensato veramente".
"Hai intenzione di evitarla per tutto il tempo?", lo incalzò Ivan beffardamente.
"Ho intenzione di diventare Vor, sposarmela e sedere alla tavola del Vory. Del resto non ha importanza, lei porterà in dote il controllo del commercio con l'Honduras. Non sono obbligato a sopportarla per tutto il giorno, il matrimonio sarà praticamente una farsa".
Come si macella un uomo?
Mica te lo insegnavano in scuole normali una roba del genere, ma indicativamente il processo assomigliava molto allo squartamento di un maiale.
I due sicari erano stati preparati bene. Si spogliarono dei vestiti rimanendo solo in mutande, il resto dell'abbigliamento venne piegato accuratamente in cima allo scaffale più lontano.
In quella sala faceva freddo ma i due uomini quasi non ci facevano caso, mentre giravano in tondo al tavolaccio analizzando da che parte cominciare.
Spogliarono totalmente il cadavere e Vasilj afferrò un inquietante coltello. Ivan fece altrettanto.
Si iniziava praticando un taglio che andava dallo sterno all'inguine. Si pizzicava la pelle al di sotto dello sterno, proprio dove cominciava l'addome, e si tirava la pelle verso se stessi.
Si infilava quindi la lama e si proseguiva dritto attraverso la pancia del corpo, verso il basso ventre.
Si doveva fare molta attenzione a evitare di lacerare gli organi interni e fermarsi quando si era a livello delle gambe.
Vasilj infilò una mano e cominciò a sbudellare con gran lena, Ivan era già pronto con un secchio a portata di mano.
Le interiora erano pesanti e sarebbe stato un attimo riversare tutto quel sangue contro di loro.
La puzza era quasi insopportabile e dal tavolo in acciaio, il sangue gocciolava in una grata posta sul pavimento proprio al di sotto.
Procedettero col dividere lo sterno per separare le costole. Rimanevano gli organi della cassa toracica da rimuovere e si doveva lavorare molto sulla cartilagine.
Vasilj optò per agire brutalmente di seghetto, quando ebbe finito si asciugò la fronte con il braccio e lasciò a Ivan il passaggio successivo.
Rimuovere la testa. 
Si doveva tagliare a partire da dietro le orecchie e lungo la gola, seguendo la mascella. La parte preferita da Ivan era il tagliare la colonna vertebrale con un colpo di mannaia ben piazzato.
Il resto della macellazione venne da sé.
Vennero rimosse gambe e braccia, così che rimase solo il tronco dell'uomo che era stato.
L'enorme trituratore di ossa venne presto azionato.
Le lame cominciarono a sferragliare e il motore a ruggire affamato.
Era ormai notte inoltrata quando Vasilj e Ivan finirono di ripulire con candeggina, e altri prodotti da pulizie, qualunque cosa avessero usato o anche solo toccato.
Erano bravi nel loro lavoro ma quella era roba che richiedeva comunque una giornata intera.
Erano sfiniti.
"Li mollo ad ogni cassonetto che incontro, da quì fino alla campagna". Disse Ivan sollevando i sacchi carichi pieni di carne triturata. Tre per mano.
Il corpo sarebbe stato sparso in un area più ampia possibile, possibilmente in cassonetti di ristoranti e hotel.
Sarebbero stati scambiati per scarti putrescenti da cucina.
"Io torno a casa", si congedò Vasilj mentre si rivestiva. "E' tardi e Babushka sarà andata sicuramente a casa sua. Devo vedere che combina l'italiana".
Vasilj diede un passaggio al compagno fino a dove aveva lasciato la sua auto, poi le loro strade si separarono.
Era appena entrato dalla porta di casa quando sentì un rumore provenire dalla cucina.
Vasilj portò subito una mano dietro la schiena, sollevò la maglietta e strinse l'impugnatura della sua Glock infilata nei pantaloni.
Vide la ragazza girarsi sorpresa verso di lui, in mano stringeva un bicchiere d'acqua e pareva sinceramente sorpresa di vederlo arrivare di corsa dal salotto.
"Ehm, avevo sete". Si giustificò alzando leggermente il bicchiere, l'acqua cominciò a tremolare a ritmo della sua ansia.
Vasilj si rammaricò, non voleva che avesse paura di lui.
Raddrizzò la schiena in una posizione più rilassata e lasciò la presa dalla sua arma, cosa che la ragazza notò e parve rasserenarsi per questo.
Indossava ancora la tuta grigia che aveva quella mattina ed era comunque sexy da morire.
Vasilj non scopava da quell'orgia organizzata alla villa di Titov e pareva che il suo cazzo ne contasse i giorni.
Era completamente in fregola ma cercò di darsi una calmata, non l'aveva mica scoperta in intimo dopotutto. Se reagiva così per un abbigliamento così casto, cosa avrebbe potuto farle la prima notte di nozze?.
Il pensiero lo accese più forte di prima.
"Buona notte", si congedò in un soffio lei. Tenne le spalle rivolte al muro e lo aggirò con fare guardingo.
Lui rimase immobile ma la seguì con lo sguardo come un predatore con la sua preda.
Quando lei fu finalmente alla porta del corridoio la vide arrossire dall'imbarazzo e per un istante il suo sguardo andò casualmente ai piedi di Vasilj.
Ciò che disse poi, lo confuse.
"Dovresti pretrattare quelle macchie", parlò lei indicandogli le Nike.
Lui si controllò subito le scarpe e solo in quel momento si accorse che da bianche erano diventate orribilmente chiazzate di rosso incrostato.
"Il sangue va pretrattato e usa acqua fredda. Buona notte!".
Detto ciò si dileguò velocemente su per le scale, per andare poi a chiudersi a chiave in camera sua.
Vasilj era senza parole.
Rimase nella penombra del salotto a inclinare il capo da un lato mentre rifletteva.
Che razza di strana donna era, quella Vittoria?
Non si era per nulla spaventata da ciò che le sue scarpe insanguinate potevano significare. Era stata, piuttosto, spaventata dal trovarselo improvvisamente in salotto.
Quello era il momento, in cui lei era sulla difensiva.  Ma perché?
Vasilj sospirò quando andando in cucina trovò mancante un coltello dalla collezione infilata nel ciocco in legno.
"Ecco perché", disse amaramente.
 

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Capitolo 13
*** 13 ***


                                                                                 ---------------VITTORIA-----------------

 
Studen, era chiamato. Personalmente Vittoria lo riteneva rivoltante.
Gelatina di brodo di carne raffreddata con zampette e testa di suino bollito e aromatizzato.
Solitamente le zampe contenevano gelatina naturale in quantità sufficiente da solidificare il tutto in un ammasso torbido e tremolante.
"Cucina tradizionale", aveva detto Babushka. Ma in Italia roba del genere sarebbe stata buttata nel cassonetto.
Durante i tre giorni che passò in quella casa, Vittoria capì che c'era da annotarsi una nuova  importante cosa nella lista delle nozioni base da imparare in Russia:  lì, la popolazione adorava mettere tutto in gelatina.
Per non parlare della panna acida, compariva a tradimento all'interno di innocenti involtini di cavolo o accostata a qualsiasi tipologia di carne.
Tutto era affogato nella panna acida, sempre.
Babushka era una brava cuoca. Ci metteva sentimento in ciò che preparava, perciò Vittoria non se la sentiva di farle notare quanto il cibo tradizionale proprio non le andasse giù.
"Non mangi, bambina". Si dispiacque l'anziana, all'ora di pranzo: le due del pomeriggio.
Persino l'orario dei pasti era del tutto diverso a ciò che Vittoria era abituata.
"Non respiro in questa casa". Mugugnò la ragazza, allontanando leggermente da sé il piatto di Studen servito al tavolo della cucina. "Se potessi anche solo uscire cinque minuti...".
"E' pericoloso là fuori, non è posto per una straniera". Le rispose Babushka sedendosi accanto a lei.
In quella casa lei era 'libera', ma limitatamente.
Dopo la prima notte passata in bianco a rinchiudersi in camera sua e a tendere l'orecchio a ogni singolo rumore provenire dal corridoio, Vittoria aveva cominciato a prendere appunti mentali su ciò che le accadeva o la circondava.
Per esempio, il suo carceriere non passava mai la giornata o la notte in casa. Cosa che dava alla ragazza grande sollievo.
Vasilj Volkov preferiva presentarsi alle prime ore del mattino, svaligiare il frigorifero accuratamente rifornito da Babushka, fare una veloce capatina nella sua stanza e poi ripartire verso luoghi ignoti nel mondo all'esterno.
Vittoria quindi sfruttava i momenti in cui la sua personale secondina era impegnata nelle faccende domestiche, per esplorare l'abitazione.
Aveva capito che tre porte erano tenute a chiave:
ovviamente il pesante ingresso, poi la porta che conduceva allo scantinato e la inutilizzata camera da letto di Volkov.
Non c'erano altre porte sul retro o finestre non sbarrate.
L'unica via di fuga rimaneva l'ingresso davanti alle scale.
Le chiavi le aveva Babushka, la vedeva iniziare la sua giornata da governante entrando in casa ogni mattina alle sette e finire il suo dovere ogni sera alle dieci.
Doveva essere ben remunerata, non si lamentava mai e Vittoria non era riuscita in tre giorni a intaccare la sua fedeltà a Volkov.
Aveva provato a impietosirla e a pregarla, aveva provato a instillarle il dubbio che l'uomo la sfruttasse facendole fare un lavoro noioso e a tempo pieno per troppe ore al giorno, aveva cercato di capire se in qualche modo Volkov la minacciasse ... ma ancora non c'erano segni che l'anziana volesse cederle le chiavi.
Vittoria non voleva arrivare a tanto, ma l'unica altra opzione era quella di stordirla e rubargliele.
Era una brava donna. Le preparava il cibo, le lavava la biancheria e le lenzuola. Puliva e rassettava la casa.
Non si meritava una aggressione.
"Ho detto al Signor Volkov che mangi solo cracker e qualche contorno, da quando sei arrivata". Annuì pensierosa Babushka, accanto a lei.
"A lui interessa di me?", borbottò Vittoria punzecchiando la gelatina con la forchetta.
Babushka  fece una smorfia. "Beh, lui non chiede ma io gli dico ugualmente tutto".
Vittoria mugugnò indistintamente, martoriando ancora di più il suo pranzo. "Non dovresti, non gli importa di me. Mi evita".
L'anziana decise che evidentemente anche per quel giorno la sua cucina era stata sacrificata abbastanza e si sbrigò a levarle il piatto da sotto il naso per andare a riporlo in un contenitore a chiusura ermetica.
"Da quanto conosci il Signor Volkov?", le chiese Vittoria all'improvviso.
"A volte mi pare una eternità", rispose di getto la donna per poi voltarsi imbarazzata verso di lei. "Oh, non intendevo... Per favore, non dirgli che...".
Vittoria ridacchiò brevemente. "Non temere, il tuo segreto è al sicuro. Non lo verrà a sapere da me".
Babushka cominciò a lavare le stoviglie nel lavello, silenziosa come sempre.
Per Vittoria era giunto il momento di saperne di più.
"Parlami di lui. Come lo hai conosciuto?".
L'anziana non smise di strofinare e sciacquare. "E' una storia triste".
Vittoria non voleva turbarla, ma parlare con la donna era l'unico svago che poteva permettersi di fare. "Scusa", le disse. "Non volevo rattristarti...".
"No, va bene". La interruppe lei. "Parlarne, mi fa bene".
Poi chiuse il getto d'acqua del rubinetto e, asciugandosi le mani con uno strofinaccio, si voltò verso la ragazza.
"Avevo una nipote di più o meno la tua età", raccontò. "Una splendida giovane donna, l'orgoglio mio e del mio povero defunto marito. Olga, si chiamava.
Vivevamo a Londra, lei studiava per poter diventare infermiera. Olga era una guerriera, aveva perso i genitori eppure il suo rendimento scolastico non vacillava.
Faceva il tirocinio all'ospedale della città per poter un giorno laurearsi".
Vittoria incrociò le dita sopra il tavolo, in ascolto.
Il racconto continuò:
"E' stato proprio durante il tirocinio nelle corsie dell'ospedale, che incontrò lui".
"Volkov?". La incalzò suo malgrado, Vittoria. Sembrava proprio il tipo d'uomo che finiva per rovinare la vita a una fragile studentessa.
Babushka scosse vigorosamente il capo. "No, qualcun'altro".
"Venne ricoverato d'urgenza durante un turno di notte, dopo che l'ambulanza lo aveva raccolto dalla strada. Aveva lividi e il volto tumefatto dai postumi di una feroce scazzottata. I presupposti c'erano tutti perché non fosse il tipo d'uomo raccomandabile a qualsiasi persona per bene, ma... Olga era pur sempre una ragazzina, anche se intelligente".
"Il fascino del cattivo ragazzo". Commentò in un soffio, Vittoria.
Questa volta Babushka annuì tristemente. "Cominciarono a frequentarsi, Olga iniziò a mancare dalle lezioni. Io continuavo a chiederle di portarlo a casa per farmelo conoscere ma Olga diventava sempre più scostante e nervosa. Rischiava di non riuscire a completare gli studi ed era tutta colpa di quel disgraziato, sapeva far leva sulle fragilità di mia nipote. Le fece il lavaggio del cervello a tal punto da farle credere che solo lui capisse il suo dolore per la perdita dei genitori, quando anche io persi un figlio e mia nuora quel triste giorno".
La voce della donna si fece tremula. "Una brutta domenica, me lo ricordo ancora, mi disse che sarebbe partita con Andrey. Avrebbero preso un aereo l'indomani per una fuga d'amore nella patria di lui, San Pietroburgo.
Non potevo impedirle di farlo, era maggiorenne. Perciò presi la decisione repentina di mollare tutto e seguirla fino a quì".
Vittoria le rivolse un piccolo sorriso. "Sei stata coraggiosa".
"Ma non servì a molto", le rispose l'altra. "Presi un piccolo appartamento nella periferia della città, cercando di stabilirmi più vicino possibile a dove credevo che Olga vivesse con Andrey.
Io finalmente conobbi lui ma non mi dissero mai l'indirizzo esatto di dove stavano, sapevo solo che si trovavano dall'altra parte della città rispetto a dove siamo ora. Per lo meno, una zona molto più rispettabile di questa ma non per questo esente da pericoli".
"Che cosa le accadde?". Chiese a bassa voce Vittoria, come se la domanda facesse meno male se detta in un sussurro.
"Smise di rispondere alle telefonate. Smise di venirmi a trovare. Svanì dalla faccia della terra e io mi recai dalla polizia fuori di me dalla preoccupazione. L'avevo persa, lo sentivo. La mia piccola, sciocca Olga".
Babushka strinse forte fra le mani lo strofinaccio e abbassò lo sguardo, piena di angoscia come se fosse ancora quel giorno.
"Nessuno seppe aiutarmi, avevo solo delle foto di mia nipote per iniziare le ricerche e di Andrey conoscevo solo il nome e la probabile zona in cui risiedeva. Il sistema marcio di questo paese protegge farabutti come Andrey, non fecero nulla per ritrovare la mia bambina! Decisi che l'avrei trovata io, in questa vita o nell'altra!".
Vittoria si alzò e andò dalla piccola, grande donna. Le strofinò una mano sulla spalla, non era molto e lei non era brava in quel genere di rassicurazioni ma sperò che servisse per darle un minimo conforto.
"Passai settimane a setacciare notte e giorno i quartieri a nord di San Pietroburgo, i quartieri di Andrey. Poi, una notte... la pura fortuna.
Lo vidi uscire da un enorme stabile, uno di quelli con la palestra all'ultimo piano che si affaccia sulla strada attraverso immense vetrate. Era tardi e il bastardo aveva appena finito la sua sessione di allenamenti intensivi, ci teneva al suo aspetto da gangster.
Io lo guardavo dal marciapiede dall'altra parte della strada, lui si accese una sigaretta e si buttò in spalla il suo borsone. Ricordo che a un certo punto doveva per forza avermi visto, ma non mi riconobbe nemmeno!
Stavo per attraversare e andare da lui, molto probabilmente mi avrebbe ignorata o alla peggio mi avrebbe stesa con un pugno. Ma non potevo farmelo sfuggire, dovevo sapere dov'era la mia Olga!".
Vittoria le strofinò ancora la spalla e le chiese: "Cosa ti trattenne?".
Il sorriso folle che si stampò sul volto di Babushka fu inquietante.
"C'era qualcun'altro che lo stava cercando". Ne rise tetramente. "Quando ero a circa metà strada, un ombra uscì da dietro l'angolo. Cappuccio della felpa calato sul volto, mani nelle tasche davanti. Postura inarcata e passo svelto di chi ha una missione da compiere.
Quando il sicario arrivò davanti ad Andrey, questi non ebbe nemmeno il tempo di soffiare fuori la nuvoletta di fumo.
Il sicario gli sparò un colpo all'altezza del petto. Poi quando Andrey cadde disteso a terra, il sicario gli sparò dall'alto un altro colpo proprio in mezzo agli occhi".
Vittoria poteva immaginarselo. "Una esecuzione", disse.
Babushka annuì, lo sguardo sempre perso sul strofinaccio che stritolava. "Credetti di essere spacciata. Ero diventata improvvisamente testimone di un omicidio, mi avrebbe uccisa sicuramente.
Invece, il sicario si voltò in mia direzione. Parve valutarmi un istante e poi... passò oltre, dileguandosi nell'oscurità.
Io rimasi paralizzata solo per qualche secondo, poi decisi anche io di scappare più velocemente che potevo".
"Conoscevi quell'uomo? Il sicario, intendo". Incalzò ingenuamente la ragazza. Per poi rendersi conto, quando Babushka si voltò a guardarla. "Oh, era Volkov. E' questo quello che fa? Uccide per professione?".
"Per commissione", la corresse Babushka. "La mia fortuna fu che il Signor Volkov prende sempre alla lettera le commissioni che gli vengono date. Come mi raccontò solo recentemente, per quella notte aveva ricevuto ordini di uccidere solo Andrey. Non un'anziana capitata casualmente come testimone".
Vittoria aggrottò le sopracciglia. "Mah, non ha senso. Perché non eliminare un testimone?".
Babushka le prese una mano e la guardò dritta negli occhi. "Così facendo mi risparmiò la vita. Decise di spontanea volontà di risparmiare un'innocente. Il suo codice lo obbliga ad eseguire sempre gli ordini impartiti da un superiore, ma per tutto quello non menzionato lui può agire liberamente".
Il resto della storia non fu meno straziante.
Nei mesi successivi, Babushka scoprì che Andrey non era altri che un pesce piccolo della 'Brigata del Sole'. Una delle più potenti organizzazioni criminali russe con un numero di affiliati imprecisati, considerando che molti tendevano a vantarsi di farne parte anche se non ne avevano nulla a che fare. Solo per incutere timore.
La 'Brigata del Sole', all'epoca come in quei giorni, si contendeva al Vory V Zakone l'intera città di San Pietroburgo.
La faida era cominciata anni prima e periodicamente veniva messa da parte con patti, matrimoni dinastici o cospicue donazioni di denaro.
Ma il sangue versato non veniva mai dimenticato e i nipoti finivano per vendicare le morti degli antenati. Generazione dopo generazione.
Il giro di affari faceva troppa gola, il business non poteva essere condiviso.
"La morte di Andrey fu commissionata dal capo del Signor Volkov". Spiegò Babushka.
Poi, come un fiume in piena incapace di arrestarsi, continuò raccontando come per mesi non avesse mai smesso di chiedere alla polizia di aiutarla a trovare Olga. Ma il fatto che Andrey fosse uno della 'Brigata' complicava notevolmente le cose e ormai Babushka si era informata.
La 'Brigata' non aveva mai abbandonato l'antica via della vendita di esseri umani. Donne e bambini da prostituire erano la loro merce più ambita.
"Una sera uscii per l'ennesima volta dalla caserma con le lacrime agli occhi", raccontò la donna. "Ma quella volta c'era qualcuno ad aspettarmi alla fermata dell'autobus".
A Vittoria parve di vedere la scena davanti ai propri occhi:
Volkov la attendeva seduto alla panchina della pensilina.
Un uomo cupo, molto più alto di lei, con pantaloni della tuta e pesante giubbotto imbottito.
Sedeva a gambe divaricate, i gomiti appoggiati alle ginocchia, il capo chino rasato di fresco.
Faceva scontrare il pugno sul palmo della mano destra, poi il pugno della mano destra sul palmo della mano sinistra, poi di nuovo di ritorno.
Un gesto svogliato, giusto per impegnare le mani tatuate.
I marchi dell'Organizacija ben riconoscibili che fecero tremare le ginocchia alla donna.
Sapeva che era lui, il sicario che aveva ucciso Andrey.
Forse aveva cambiato idea ed era venuto ad accertarsi che non parlasse più con la polizia.
La donna si sedette sulla panchina, il più lontano possibile da lui.
Non la finiva più di far scontrare il pugno prima su un palmo e poi sull'altro, a ripetizione.
Lei stava per svenire.
"Non ho parlato di te, lo giuro". Biascicò dopo un po' lei, nel silenzio.
La strada era silenziosa.
Erano soli.
"Lo so'". Rispose semplicemente Vasilj Volkov, il Lupo dell'Organizacija.
"Torna a casa, a Londra. Eri sicuramente più felice lì".
Sapeva ogni cosa su di lei, la seguiva. La controllava.
"Non posso, non senza mia nipote". Cercò di farsi forza.
"E' morta", tagliò corto lui senza preamboli. "E' stata venduta da Andrey a un compratore. Ho visto le ragazze i quel compratore, nessuna di loro ce l'ha fatta".
 
Vittoria si portò le mani alla bocca. "Oh, Babushka. Mi dispiace così tanto".
Si sentiva morire per lei, per la sua angoscia e per tutto quel dolore che doveva ancora patire nonostante il tempo trascorso.
In risposta Babushka le raccontò, come rispose a Volkov, di non sentire alcun bisogno di tornare in Inghilterra. Un paese che l'aveva sempre trattata da straniera e in cui non aveva nessuno a cui dedicarsi.
"Se è qualcuno a cui dedicarti che cerchi...", le aveva detto Volkov. "Nel rione di Kozlov si patisce parecchio. C'é una associazione statale che si occupa dei sbandati, pagano poco ma è un lavoro onesto. Se vuoi rimanere da queste parti ti conviene restare dove io ti possa vedere".
Babushka fece una alzata di spalle, un gesto appena accennato giusto per scrollarsi di dosso la tensione e ricominciò a dedicarsi al lavaggio delle stoviglie.
"Fu' così che cominciai  dedicarmi ai più bisognosi, che praticamente vuol dire dedicarsi a tutto il quartiere. Divenni Babushka, solo Babushka.
Un nuova identità, un nome che mi ha fatto voltare pagina. Cerco solo di guardare avanti... sempre"
 
---
 
Qualche ora più tardi, Vittoria si ritrovò a riflettere sulla storia che aveva ascoltato.
Non poteva fare del male a Babushka, quella donna proprio non se lo meritava.
Senza contare che se fosse scappata l'avrebbe messa nei guai perché sarebbe stata responsabile delle chiavi rubate.
Vittoria non poteva sapere come un uomo dal dubbio onore come Volkov avrebbe reagito, per punirla.
In quel momento si trovava nella propria camera da letto. Stesa sopra le lenzuola, caviglie incrociate e sguardo perso sulle immagini del grande televisore a schermo piatto che aveva davanti.
Non capiva un discorso completo di russo.
Un conto era sentir scandire lentamente parola per parola, un conto era sentir parlare un lingua madre.
Comunque poteva provare a intuire.
Per esempio, in quel momento sicuramente stava guardando un notiziario.
Tanto per cambiare c'era una biondona dietro a un bancone, lo schermo luminoso dietro di lei e delle scritte in cirillico che correvano veloci sotto.
La presentatrice passò la parola a un suo inviato che si trovava all'aperto, nel giardino di una lussuosa villa in stile classico, in compagnia di una bella donna dagli occhi gonfi di pianto.
Il microfono le venne messo davanti al viso e con voce tremula cominciò a parlare a raffica guardando dritto in telecamera.
Sollevò una fotografia, a favore di obiettivo.
Ritraeva un uomo distinto, barba rasata, capelli ben pettinati e completo in giacca e cravatta.
Quell'uomo sorrideva nella foto, ma Vittoria intuì che dovunque si trovasse ora, aveva smesso di farlo.
Vittoria non comprendeva ma sicuramente la moglie angosciata stava dicendo qualcosa del tipo: "Torna a casa, ti stiamo aspettando tutti".
Triste, davvero una cosa triste.
Dal piano di sotto giunse il rumore del pesante ingresso aprirsi e una voce maschile rimbombò risalendo le scale.
Vittoria spense immediatamente il televisore e buttando i piedi giù dal materasso, rimase in ascolto.
Non era la voce di Volkov, questa era più squillante e gioviale.
Lo sentì ridere e salutare Babushka, che si trovava in salotto a spolverare.
La ragazza agì d'impulso, si arrischiò ad aprire lentamente la porta della sua camera per poi sgattaiolare fino a metà scala.
Fece bene attenzione a non far scricchiolare nulla, trattenne persino il respiro mentre si accucciava e spiava dall'alto verso il salotto.
Un ragazzotto era giunto a trovarle, doveva aver superato da poco i vent'anni.
Aveva un grazioso naso a patata e un viso tondo da bambino ma... le caratteristiche rassicuranti finivano lì.
Era molto alto e allampanato, come se durante l'adolescenza il fisico gli si fosse sviluppato tutto d'un tratto in una notte.
Con la testa sfiorava la traversa della porta del salotto, le spalle erano ben larghe e i bicipiti gonfi.
Indossava un maglione verde scuro che gli tirava sui pettorali e i jeans erano a vita bassa, portati alla maniera del ghetto.
Si sedette sul divano marrone, girando le spalle alla scala dell'ingresso.
Vittoria lo vide svuotare sul tavolino davanti a lui, una busta carica di mazzette.
Cominciò a contare lestamente rublo per rublo, leccandosi di tanto in tanto il pollice della mano destra.
Babushka gli sferrò un buffetto sulla nuca e lui, fingendosi dolorante, rimise subito i contanti nella busta.
Fu in quel momento che una brezza gelida solleticò le caviglie nude di Vittoria.
A lei quasi venne un colpo per la sorpresa.
Il gigantesco e pesante ingresso era stato lasciato socchiuso.
"Signorina Vittoria?", la chiamò Babushka rivolgendosi verso il soffitto.
Non l'aveva notata accucciata sui gradini della scala.
"Per favore scendi, voglio presentarti uno dei ragazzi di tuo marito".
Vittoria partì di corsa, fece un balzo per coprire gli ultimi cinque gradini che quasi si ruppe una caviglia, ma fu alla porta in un battito di cuore.
Con la forza che solo l'adrenalina poteva infonderle, riuscì con uno spintone a spalancare l'uscio e subito si precipitò sul marciapiede all'esterno.
Dietro di lei, sentì Babushka urlare e il rumore del divano che veniva spostato con un urto.
Aveva pochi secondi di vantaggio e non aveva neanche pensato cosa avrebbe fatto una volta all'esterno.
La via era gelida e grigia.
L'aria frizzantina preannuncia l'arrivo di una nevicata e lei era partita senza il giubbotto.
Per lo meno aveva ai piedi delle scarpe sportive.
Partì di corsa verso la fine della via, dove sapeva che svoltando a sinistra e andando sempre dritto avrebbe raggiunto a un certo punto i quartieri più raccomandabili della città.
Il respiro le bruciava in gola, il fiato usciva dalla bocca in nuvolette di condensa, sentiva che aveva gli occhi strabuzzati e un'espressione folle in volto.
Ma non si fermò, nemmeno quando da dietro di lei sentì una voce maschile urlarle: "CTON! Stop!".
C'erano delle persone in strada.
Alcuni si fecero da parte, altri li dovette schivare lei.
Persone senza volto, insignificanti nel loro squallore e grigiore.
Uno scooter, con abbordo un ragazzo senza casco, salì improvvisamente di traverso sul marciapiede sbarrandole la strada.
Lei si arrestò spaventata, tremante dal freddo e dalla corsa.
Lo sconosciuto le fece l'occhiolino e lei seppe di essere persa.
Il suo inseguitore la raggiunse un momento più tardi e, quando le fu abbastanza appresso, parve oscurare il timido sole invernale.
Vittoria si voltò lentamente, dovette alzare il mento per vedere il ragazzo dritto in faccia.
A una prima stima doveva sfiorare i due metri buoni.
Era impressionante, un muro di muscoli.
"Casa", disse il ragazzo montagna. "Volkov torna, ora".
 
---
 
La sveglia sul comodino ticchettava inesorabile.
Un rintocco ritmico che nel silenzio suonava come una tortura psicologica.
Il suo carceriere sedeva su una seggiola accanto alla porta della camera da letto, come una sentinella a guardia dell'uscita.
Era teso ma cercava di non darlo a vedere, mentre sfogliava cupamente una rivista di elettronica piena zeppa di accessori e attrezzatura per computer.
Faceva di tanto in tanto frusciare le pagine ma il suo sguardo rimaneva fermo, sembrava che non stesse veramente leggendo. Solo... aspettando.
Il ragazzo non aveva tutti i tatuaggi di Volkov.
Non gli si avvicinava minimamente.
Forse per la giovane età, il Vory non lo aveva ancora onorato di particolari marchi.
Dalla sua postazione appollaiata sul letto, a gambe rannicchiate al petto e le braccia che le avvolgevano strette, Vittoria riuscì solo a individuare cinque guglie sulla mano destra del ragazzo. Una per ogni dito.
Lui portava le maniche del maglione arrotolate fino ai gomiti e la ragazza individuò un altro tatuaggio su quella pelle diafana altrimenti ancora immacolata.
Una Madonna dall'inchiostro bluastro, grande quanto tutto l'avambraccio sinistro. Circondata da una raggiera a simularne la luminosità e tatuata in vecchio stile, con mani giunte davanti al volto in espressione beata.
"Tra quanto sarà quì?", chiese Vittoria.
Non c'era bisogno di specificare a chi si riferisse.
La tensione era palpabile nell'aria. Tutto era immobile e presagevole, come i minuti che precedono uno Tsunami. L'acqua del mare che si ritira improvvisamente, il vento che si alza e gli uccelli che prendono improvvisamente il volo in stormi.
Non ricevette risposta.
Il suo carceriere preferì continuare a far finta di leggere la sua rivista. Divaricò le gambe, portò la caviglia destra sul ginocchio della gamba sinistra e continuò a ignorarla.
Vittoria si decise a iniziare a pensare veramente come le si conveniva, invece che lagnarsi e cercare di trovare una via di fuga inesistente.
Cosa aveva creduto di fare?
Anche se fosse riuscita a sfuggire dalle grinfie dei russi che cosa contava di ottenere? Correre a caso per San Pietroburgo?
Una persona normale avrebbe chiesto aiuto alla polizia ma lei non era una persona normale e solo l'idea di parlare con un poliziotto le si rivoltava le viscere.
Era cresciuta in un ambiente dove le forze dell'ordine erano considerate alla stregua dei cani. Docili se ammaestrati e sfamati a dovere, ma pronti a rivoltarsi contro alla prima dimostrazione di debolezza.
Vittoria non aveva dubbi che lì la polizia si comportasse come a Boston con la 'Ndrangheta. Quelli che non erano sul libro paga del Vory, avevano una taglia sulla testa o venivano minacciati.
Se l'avessero vista parlare con un poliziotto? Sarebbe stata bollata come 'infame'.
Mai!
Era una donna d'onore, lei.
Eppure cosa le rimaneva da fare dall'altra parte del mondo rispetto a casa sua, come straniera in terra straniera?
Pensò a Volkov e a come l'aveva portata in quella casa.
Non l'aveva minacciata particolarmente, non le aveva fatto del male e non aveva cercato di approfittarsi di lei.
Erano passati tre giorni in cui lui poteva farsi aventi senza che qualcuno gli si potesse opporre, eppure non lo aveva fatto.
Non ancora per lo meno e rilassarsi troppo su questa debole consapevolezza era pericoloso.
In che modo poteva essergli utile?
Se avesse avuto qualcosa con cui scambiare la sua libertà sarebbe stata a cavallo ma le era chiaro che per Volkov valeva di più come moglie in gabbia che come 'alleata'.
Avrebbe ottenuto 'le stelle'. Avrebbe ottenuto un nome e una moglie con l'aggancio giusto per instaurare una nuova narco-rotta.
Se non aveva nulla con cui scambiare, Vittoria rifletté su che arma potesse avere.
La risposta le stuzzicava l'angolo della mente ma lei si rifiutava di darle ascolto.
Era troppo pericoloso giocare in quel senso.
Vittoria aveva alle spalle abbastanza storie con uomini per aver sviluppato una certa bravura nel valutare e stuzzicare il mondo maschile.
Gli uomini, per quanto desiderosi di dimostrarsi più forti o più intelligenti della massa rimanevano... primitivi.
Per pungolarli bastava saper individuare i loro desideri più profondi ma, altrettanto importante, bisognava sempre accettare quando un uomo era troppo instabile, tossico o pericoloso.
Vittoria credeva di aver inquadrato a grandi linee Volkov e quello che aveva capito non le piaceva.
Le sue capacità di seduzione non erano mai state messe in pratica per salvarsi la vita, perciò la ragazza aveva paura di arrivare a tanto.
Che cosa sapeva di lui?
Era un killer su commissione, molto probabilmente aveva passato molti anni in carcere tanto da sentirsi minacciato dalle finestre.
Questo la diceva lunga sulla sua psiche instabile.
Era un uomo segnato da cicatrici, questo indicava violenza e probabili torture. Ne sarà stato in qualche modo irrimediabilmente rovinato e questo lo poneva su un piano impossibile a Vittoria.
Quello degli spezzati, degli instabili, degli imprevedibili.
Non poteva approcciarsi a lui in quel modo, poteva innescargli una violenza improvvisa e lei ne sarebbe stata totalmente succube.
Al piano di sotto, la pesante porta d'ingresso alla casa si aprì con uno schianto e un ruggito dalla voce paurosamente profonda risuonò fino in cima la scalinata. Giungendo a Vittoria e il suo carceriere.
"NICOLAJ!". Chiamò a gran voce Vasilj Volkov.
Nicolaj saltò in piedi lanciando la rivista per aria, come se fosse appena stato punto al culo da una vespa.
Si precipitò in corridoio e poi giù per le scale, snocciolando una serie di frasi scomposte che a Vittoria ricordarono il capitolo del libricino di grammatica russa intitolato: "Come si chiede scusa in Russia?".
Da come i toni si scaldarono subito sul pianerottolo, Volkov non parve volerne sapere delle dimostrazioni di rammarico del giovane Nicolaj.
Preannunciato da schianti e tonfi, Volkov si lanciò verso le camere da letto come un bufalo in piena carica.
"So' io come sistemare lei!".
Lo si sentì sbuffare a denti stretti.
Vittoria era pronta. Un suo aspetto da sempre elogiato dal padre era che aveva una grande prontezza d'animo.
Si gettò sul suo cuscino ed estrasse dalla imbottitura il lungo coltello da cucina, che aveva rubato qualche giorno prima.
Corse a sistemarsi d'un lato della porta.
Volkov quando sarebbe entrato non l'avrebbe vista, non se lo sarebbe aspettato.
Vittoria ebbe solo il brevissimo sentore che un'alta ombra scura era entrata in camera sua, che lei lestamente partì all'attacco fendendo l'aria ad altezza del costato.
Volkov fece un balzo in dietro con i riflessi di un gatto e il fendente andò a mancarlo miseramente.
L'uomo la trucidò con lo sguardo e alzò il gomito sinistro con aria furente. La camicia nera era stata strappata e il gomito esibiva un leggero taglio che si stata lentamente macchiando di rosso scarlatto.
"Ahia!", esclamò scioccato.
Era vestito come se fosse di ritorno da una riunione di lavoro.
Per la prima volta, Vittoria lo vedeva in un abbigliamento che non comprendesse tute o bomberini.
Indossava dei pantaloni gessati neri, con costose scarpe lucide a punta e cintura coordinata.
La camicia altrettanto nera era sbottonata per i primi bottoni come da vero cafone, ma era ben stirata e di qualità italiana.
Con tutti quei tatuaggi, sul collo e mani, e quell'espressione tenebrosa sembrava un fottutissimo signore degli inferi.
Il suo corpo era muscoloso, senza essere troppo ingombrante e, quando si muoveva, la camicia gli si aggrappava agli addominali distendendo il tessuto.
Era qualcosa che le era sempre piaciuta guardare in un uomo.
La forma quadrata dei fianchi... si chiese come sarebbero stati senza quei vestiti.
Vittoria alzò il mento con aria spavalda ed emise uno sbuffo impettito: "Ti avverto so' come difendermi!".
Gli occhi leggermente a mandorla dell'uomo lampeggiarono di nervosismo.
"Io no tempo per insegnare te!", sbuffò.
Vittoria gli puntò il coltello dritto in faccia, indietreggiando ad opportuna distanza di sicurezza.
"Mi hanno insegnato bene!".
E partì con un altro fendente, lui fece una piroetta su sé stesso e la aggirò facilmente.
Lei andò a sbattere contro il muro opposto della stanza.
Alla porta comparvero l'allampanato Nicolaj e una terrorizzata Babushka, fermi a guardare come Vittoria e Volkov cominciavano in quel momento a ruotare in cerchio. Studiandosi a vicenda.
Lui era innervosito ma per nulla preoccupato, unì persino beffardamente le mani dietro la schiena. Sfidandola ad agire.
La ragazza continuava a tenere ben alta la lama davanti a sé.
Era orgogliosa di sé stessa, non le tremava nemmeno la mano.
Cercò di trovare le parole giuste, per perorare la sua causa. Ma era così intimamente spaventata che le uscì solo:
"Non ci si comporta in questo modo. Non mi lasci rinchiusa in una casa per giorni senza darmi spiegazioni per poi sparire! Non si rinchiude la gente, cazzo!".
Lui fu rapido come una vipera, le agguantò il polso e glielo torse dolorosamente.
Lei grugnì ma non mollò, gli sferrò una spallata sullo sterno costringendolo a indietreggiare ma nemmeno lui mollò la presa dal suo polso.
"Lenta", la sbeffeggiò all'orecchio prima di baciarla improvvisamente.
Gli si era avvicinata troppo, gli aveva dato un'occasione per sopraffarla.
Più che un bacio fu lo scontro delle labbra di lui contro le sue. Lei strabuzzò gli occhi mentre ribolliva silenziosamente fra le sue braccia.
Sentiva il calore del corpo di Volkov attraversargli la camicia e passare attraverso la sua misera t-shirt.
Qualcosa le si smosse dentro, qualcosa di non famigliare.
Il suo battito accelerò. Tutto di quell'uomo la spaventava, sapeva cosa stava facendo.
La dominava, le faceva vedere che poteva prendersi tutto quello che voleva senza trovare resistenze degne di nota.
Le narici di lei vennero invase da quel spettacolare profumo di legno di quercia e chiodi di garofano, il profumo di lui. Della sua pelle, dei suoi capelli, dei suoi vestiti.
I seni di lei erano schiacciati contro il petto di lui e riusciva a sentire il cuore di Volkov martellarle contro.
Lui voleva dannatamente quello.
Domarla.
Vittoria cominciò ad emettere gridolini mentre cercava di dimenarsi, ma lui le catturò il labbro inferiore tra i denti. Morse leggermente e la ragazza provò un leggero dolore.
Lui gemette quando Vittoria percepì sulla propria lingua il sapore del rame.
Lui succhiò avidamente il taglio.
Stava esagerando, cominciava a farle male sul serio.
Mollò la presa dal coltello, facendolo cadere a terra, spinse l'uomo a distanza e gli caricò un poderoso schiaffo alla guancia.
Lo schiocco risuonò nel silenzio della stanza e il viso di Volkov venne spinto di lato dalla forza d'urto.
Lei si tastò le labbra gonfie e macchiate di sangue. Il taglio era piccolo ma profondo e le dava un fastidio cane.
"Allora?", gridò Vittoria in preda alla collera. "Hai dimostrato quello che volevi?".
Lui raccolse da terra il lungo coltello e prese a farlo roteare fra le dita con l'abilità di una Majorette con il suo bastone.
Ne sapeva di coltelli. Decisamente molto più di lei.
La sua voce fu aspra e roca quando parlò e Vittoria fece fatica a concentrarsi sulle parole.
"Niet".
"Uh?". Gli rispose lei, stizzita.
"Tu non mangia". Continuò lui tranquillamente. Poi indicò con la lama del coltello, Babushka alla porta.
"Lei dice che tu non mangia, io porto te dove tu mangia!".
Lo disse come fosse un dato di fatto, una legge non scritta.
Poi si avviò a lunghe falcate alla porta, Babushka e Nicolaj si fecero subito da parte.
"Io non vado da nessuna parte con te!", sbraitò Vittoria.
Lui si bloccò in corridoio e si voltò contraendo la mascella. "Tu vuole uscire, dà?"
"Dà!", sbottò lei facendogli il verso.
"Allora io portare fuori te!", sibilò lui. Pareva che avesse una gran voglia di strangolarla.
Babushka si frappose prontamente. "La preparo io, non si preoccupi".
Volkov le disse una sfilza di parole incomprensibili in lingua madre, poi ne ebbe anche per il suo galoppino Nicolaj che era ridotto a bianco come un lenzuolo.
Poi i due uomini si dileguarono in salotto e Vittoria rimase tremante da sola con Babushka.
"Coraggio, cara". Le disse amorevolmente, l'anziana. "Diamo una pulita a quel labbro malconcio, dà?".
 

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Capitolo 14
*** 14 ***


                                                                                                             ---------------VITTORIA-----------------

 
Si guardò allo specchio mentre si infilava le scarpe con il tacco alto comprate appositamente da Babushka per l'occasione.
La governante le aveva acconciato i capelli a dovere, lasciandoglieli sciolti in lunghe onde castane che le arrivavano fino al fondoschiena.
L'aveva truccata optando per un unico colore: il nero. Ombretto nero e il rossetto effetto Mat, anch'esso nero.
L'abito che era corsa a comprare, dopo averle preso le opportune misure, sembrava esserle stato cucito addosso. Vittoria ne riconobbe l'ottima fattura.
Era un tubino nero molto fasciante sui fianchi che le faceva risaltare il fondo schiena e aveva una vertiginosa scollatura sul davanti.
Persino lei stessa continuava a fissarsi le tette dal riflesso allo specchio. Dubitava che Volkov sarebbe riuscito a guardarla negli occhi per più di un secondo, prima di calare di nuovo con l'attenzione.
Si chiese che razza di idea di era fatta Babushka sulla serata, sembrava che dovesse sedurlo non semplicemente conoscerlo.
"Sono felice che tu abbia cambiato idea, sei bellissima". Si rallegrò Babushka dietro di lei, battendo le mani.
"Beh, non c'é altra scelta no?". Sospirò Vittoria continuando a fissarsi la scollatura. "Ci sono troppe cose di cui parlare e di cui voglio sapere. Dio mi è testimone, se ci fosse un altro modo per ottenere informazioni io...".
Già, lei cosa?
Aveva bisogno di quel confronto, aveva bisogno di conoscere il nemico.
Sentendosi le braccia stupidamente flosce e senza utilizzo pratico ai lati del corpo, si avviò fuori dalla camera da letto e poi giù per le scale.
Non aveva nemmeno una borsetta da reggere, non aveva portafogli o telefonino perciò non era stata prevista nell'outfit.
Tutto confiscato.
Babushka la seguiva rimanendo in dietro di qualche passo, le reggeva una pesante pelliccia nera lucida. Enorme, esagerata da matrona russa.
Considerando quanto poco era vestita, una simile copertura le avrebbe fatto comodo una volta che avesse messo piede all'esterno.
In salotto, Vasilj Volkov era seduto sul divano. Le dava le spalle e teneva le braccia spalancate sul schienale del sofà.
La caviglia destra appoggiata sul ginocchio sinistro. Una postura disinvolta mentre stava guardando il notiziario della sera.
In quel momento stava andando in onda la replica del servizio fatto alla signora in lacrime in cerca dell'uomo nella foto.
Vittoria si schiarì la gola e raddrizzò la schiena in attesa.
Volkov non si alzò subito, voltò prima semplicemente il capo abbassando un braccio.
Praticamente le fece una scansione completa, dalla sommità della testa fino alle scarpe vertiginose.
Vittoria sostenne l'esame senza alcun problema, non era la prima volta che un uomo la guardava in quel modo.
"Troppo elegante? Posso cambiarmi, se preferisci". Provò ad azzardare lei.
Lui trovò il telecomando senza staccarle gli occhi di dosso, spense la TV e si alzò.
"Va bene". Le disse tetramente. "Molto... bene". Aggiunse poi con voce greve.
Per la serata si era cambiato, optando per una più elegante camicia bianca accostata a giacca e pantaloni abbinati in grigio graffite scuro.
Era davvero di bel aspetto, un look raffinato ed elegante che cozzavano irrimediabilmente con il suo cupo viso e la cicatrice al labbro superiore.
I corti capelli biondo scuro erano stati pettinati tutti dritti e ordinati.
La sua espressione era criticamente seria, come se fosse più adatto a guidare un battaglione piuttosto che trascinarsi in quella casetta solo per prenderla e portarla fuori a cena.
Lei sostenne il suo sguardo, quasi sfidandolo ad abbassare il suo a favore delle tette.
"Sembri diverso". Lo sfidò. "Vestito in abiti civili".
"Umpf", sbuffò annoiato lui. "Leviamo pensiero, Babushka vesti lei. Ora andiamo".
La piccola anziana si fece avanti con la pesante pelliccia.
"Posso indossarla da sola, grazie Babushka". Le sorrise Vittoria gentilmente.
Il pellicciotto era davvero caldo e morbido.
Meraviglioso.
Volkov si infilò il soprabito e Vittoria lo seguì con lo sguardo mentre usciva all'esterno di buona lena, come se non gliene importasse un accidente se cenava con lui oppure no.
Se lei stessa non avesse avuto ripensamenti, si sarebbe offesa.
Era stato lui a invitarla, dunque perché adesso che si era preparata lui aveva la luna storta?
Era tentata di girare sui tacchi e tornarsene in camera, invece lo seguì perché quella era un'ottima occasione per infastidirlo.
L'uomo la precedette alla grossa auto sportiva parcheggiata davanti casa, a capo chino e passo lungo come una star in fuga dai paparazzi.
Aveva una andatura maestosa, si muoveva in un modo a dir poco superbo.
Ogni volta che il tallone toccava terra con forza, le spalle si spostavano leggermente per controbilanciare la spinta delle gambe.
Lo vide darsi uno strattone ai baveri del costoso cappotto, per distenderselo meglio, e fu come se stessero girando una pubblicità a rallentatore di un profumo da uomo.
La voce di suo padre le risuonò ancora nella mente.
"E' come una malattia. Se ti tocca, non c'é cura".
Salì in macchina senza nemmeno prendersi la briga di aprirle lo sportello, come altrimenti si conveniva a un gentleman.
Lei alzò gli occhi al cielo e provvide da sola.
Il viaggio in macchina fu silenzioso e imbarazzante, a un certo punto Volkov ebbe la santissima idea di accendere la radio. Solo per riprendere ad ascoltare quello che sembrava il notiziario.
Per lo meno, non erano costretti a parlare.
Vittoria si disse che era impossibile tentare di conciliare tante contraddizioni.
Voleva essere sincera, almeno a sé stessa.
Quell'uomo la attirava tanto quanto la respingeva.
Con tutti quei contorcimenti mentali che si stava facendo, stava solo cercando di leggere il proprio destino nelle foglie di tè.
Doveva fidarsi del suo istinto e andare 'a braccio'. In quel momento sentiva che era stata la decisione giusta ad accettare il suo invito ad uscire.
Quando si accodarono alle auto in fila verso il centro città, il cuore della ragazza si fece più controllato.
La stava portando in un posto frequentato da molti testimoni, in una zona lussuosa illuminata dalle prime decorazioni natalizie affisse nelle vetrine delle boutique.
La notte giungeva presto in quella terra del nord e in inverno. L'atmosfera natalizia cominciava a farsi percepire.
San Pietroburgo a Natale doveva essere meravigliosa, Vittoria desiderava tanto vederla agghindata a festa.
Giunsero davanti a un enorme hotel a cinque stelle, con concierge all'ingresso e addetto alle pulizie in cravatta che passava l'aspirapolvere nell'atrio.
Tutto risplendeva di marmo bianco e cristalleria.
Volkov scese lasciando il motore acceso e consegnò le chiavi elettroniche al parcheggiatore, quindi Vittoria si affrettò a uscire prima che l'addetto partisse con ancora lei in auto.
Volkov sembrava davvero incazzato per un qualche ignoto motivo. Tanto da attenderla sui primi gradini che portavano all'atrio dell'hotel, tenendo la mascella contratta.
Proprio il soggetto ideale per un appuntamento galante, pensò Vittoria. Un killer con l'equivalente civile dello stress da traffico.
Si avvicinò con cautela e lui le fece cenno di precederla dal concierge.
"Buonasera", salutò sorprendentemente in italiano l'omino al bancone. Per poi continuare in russo e perdere ogni forma di comprensione da parte di Vittoria.
"Volkov... ceniamo". Si presentò il suo accompagnatore, scostando il cappotto e infilando le mani nelle tasche dei pantaloni.
L'omino sorrise cordialmente e cominciò a verificare la prenotazione sul suo computer.
La targhetta che teneva appuntata al petto, scintillò.
"Giacomo?", lesse sorpresa lei. "Italiano forse?". Chiese nella sua lingua madre.
Anche il concierge le rispose in italiano. "Esattamente, nato e cresciuto in Toscana. Italiana pure lei? Cosa ci fà da queste parti?".
Lei sospirò voltandosi verso il suo tetro accompagnatore. "Sono stata trattenuta".
Giacomo ne rise divertito e afferrando la sua cartellina con la mappa dei tavoli, li precedette verso l'ascensore.
"Ah, l'amore".
Quando le porte dorate dell'ascensore si aprirono rivelando una cabina rivestita da specchi, Vittoria quasi si mise a ridere dei riflessi che vide.
Lei con un cipiglio che arrivava fino all'attaccatura dei capelli e Volkov, dietro, che non ci capiva un cazzo di cosa lei e il concierge si stavano dicendo.
Giacomo diede le istruzioni per raggiungere il ristorante all'attico panoramico e poi il tavolo assegnato, prima in russo a Volkov e poi in italiano per Vittoria.
La ragazza lo ringraziò ma Volkov pareva impaziente di premere il pulsante del trentesimo piano.
Per tutta la salita, i due rimasero soli e silenziosi. Dalle casse nascoste sul soffitto dell'ascensore usciva una canzone lenta e romantica che Vittoria riconobbe come "Gangsta" di Kehlani.
 
"Ho bisogno di un gangster
Che sappia amarmi meglio
Di quanto sanno fare gli altri
Che mi perdoni sempre
Che stia con me nonostante tutto
Voglio qualcuno con dei segreti
che nessuno, nessuno sà".
 

Dal riflesso degli specchi lui pareva un pappone che portava fuori la sua protetta preferita.
Erano ben assortiti però, lui agghiacciante come sempre con le mani in tasca e lei era un vero e proprio schianto con la sua pelliccia nuova.
L'attico era spettacolare, in penombra illuminato dalle candele ai tavoli rotondi e dal mozzafiato skyline di tutta Sanpietroburgo che brillava in milioni di luci notturne attraverso immense vetrate panoramiche.
Vittoria rimase a bocca aperta guardandosi attorno.
Alcuni dei commensali si girarono a guardare lei e Volkov con espressioni curiose e vagamente ammaliate. Lei e il suo accompagnatore avevano la particolare abilità di attirare gli sguardi, nel bene e nel male.
Il locale era lussuoso e raffinato. I clienti sedevano composti a coppie ai tavoli, scambiandosi convenevoli e baci rubati sopra ai deliziosi piatti italiani.
Vittoria riconobbe scampi e mazzancolle croccanti in tempura di ortaggi e radicchio, oppure fiorentine gigantesche mostrate prima a crudo dal cameriere e poi fatte cuocere in base a come le preferivano i commensali. Riconobbe poi i tradizionali dolci come il tiramisù e i cannoli siciliani, serviti con veri e sacrosanti caffè espresso.
Lo stomaco della ragazza, per la prima volta da giorni, brontolò euforico.
Come da istruzioni ricevute, si diressero verso una sala privata accanto al salone principale, dove ad accoglierli c'era una cameriera in look totalmente nero che aprì loro la porta.
La sala privata era stata prenotata da Volkov tutta per loro e Vittoria si rallegrò nel constatare che la vista sulla città illuminata si poteva godere anche da lì.
La tavola era stata imbandita con gusto, c'era un centro tavola floreale di tuberose e orchidee con candele color avorio. Il tutto accostato ad argenteria e porcellane scintillanti.
Due camerieri arrivarono, raccolsero i soprabiti e scostarono le sedie in attesa che vi si sedessero.
Volkov era infastidito, guardò il cameriere che gli reggeva la sedia come se lo avesse insultato a morte ma poi si decise ad accomodarsi.
Da quello che poté capire Vittoria, a quel punto uno dei camerieri propose in russo di servire un aperitivo ma Volkov lo interruppe alzando semplicemente una mano.
"No. Porta vino e servi cibo, mangiamo subito".
Il cameriere parve vacillare un istante mentre fissava i simboli bluastri impressi sulle falangi di Volkov, ma subito si riprese con un sorriso affettato.
"Molto bene, Signore. Provvedo immediatamente". E scomparve insieme al suo collega come se in cucina stesse per andare a fuoco qualcosa.
La porta venne chiusa alle loro spalle.
"Funziona così, quindi?", inarcò un sopraciglio lei. "Mostri qualche simboletto e la gente scappa a gambe levate?".
Lui alzò entrambe le mani mostrandole i dorsi e tutte le dita.
"Loro essere storia, non 'simboletto'".
"Qual'é la loro storia?". Chiese ancora lei indicando prima la rosa tatuata alla mano sinistra e poi la pistola a quella destra.
Volkov le abbassò e cominciò a tamburellare ai lati del piatto vuoto, davanti a lui.
"Rosa fatta dopo dieci anni di carcere e Tokarev... quando io diventato uomo".
Lei ne rimase affascinata. "Ti prego", lo esortò. "Parlamene".
I camerieri entrarono con due piattini di insalata che posarono sul tavolo.
"Per il menù scelto questa sera consigliamo un vino classico Valpolicella oppure...".
Ancora Volkov tagliò corto. "Dà, dà. Va bene!".
Il cameriere schioccò le dita e i calici vennero riempiti, lasciarono la bottiglia accanto al centro tavola e se ne andarono.
"Sei sempre così sgarbato?", lo riprese lei per poi correggersi in "Odioso", quando vide l'espressione confusa di lui.
"Umpf, no odioso". La voce di Volkov suonava sardonica, quasi fosse annoiato da quella parola.
Lei infilzò una foglia di insalata. "Humm. Allora perché è da tutta la sera che sembri aver voglia di strangolarmi?".
"Tu minacciato me con coltello!".
"E tu mi hai caricato in spalla e richiusa. Mi sembra che siamo pari!".
Volkov piantò maleducatamente entrambi i gomiti sul tavolo e si ingozzò di insalata, manco stesse mangiando alla mensa dei poveri.
A dispetto del suo abbigliamento, non sembrava conoscere la ben che minima regola dell'etichetta.
Parlò con ancora la bocca piena. "Tu, donna. Tu a casa mentre io lavoro. Tutto questo...", e fece roteare la forchetta per aria indicando il locale intorno a loro. "... solo per fare piacere a te. Roba da froci, non per me".
"Allora potevi non invitarmi a cena, sempre se quello che hai fatto si possa definire un invito".
Lui deglutì in fretta il boccone di verdura. "Se non piace mangiare fuori con me, allora perché tu venuta?".
Vittoria fece una smorfia. "Perché me lo hai ordinato!".
"Oh, posso accettare rifiuto. Tranquilla". Come se non gli importasse un bel niente di lei.
"E' stato un errore". Vittoria posò il tovagliolo accanto al piatto e si alzò.
Lui imprecò. "Siedi!".
"Non dirmi cosa devo fare".
Lui batté una manata sul tavolo in un tintinnio di posate e Vittoria sussultò.
"Io rimedio, siedi e stai zitta".
Lei lo guardò allibita. "Brutto stronzo arrogante..."
Un cameriere entrò in azione proprio in quel momento con degli involtini caldi.
Vittoria si rimise lentamente a sedere e allungò lestamente la mano verso il calice di vino.
Non voleva andarsene davanti al cameriere che li serviva e poi, tutto d'un tratto, aveva cambiato idea.
Così poteva litigare ancora un po' con lo stronzo.
"Non ti permettere di parlarmi in questo modo. Mettiamo bene le cose in chiaro, tu hai bisogno di me. Quindi vedi di superare questa fase del 'ti devo per forza sposare oddio che schifo' perché è chiaro come il Sole che non é così. Tu mi vuoi da quella notte a New York che mi hai fatta scappare, ricordi? Eri ferito alla spalla e...".
Volkov la interruppe. "Io morto, tu non così importante". Fece le spallucce.
Vittoria venne presa in contro piede. "Cioè in quel momento, con il rischio concreto che tu stessi per morire... scegliesti di lasciarmi andare per casualità?".
Volkov posò la forchetta sul bordo del piatto, si scolò il suo calice di vino rosso come se fosse una pinta di birra e rispose semplicemente: "Dà".
Pareva sincero.
Che razza di stupida.
Calò il silenzio e Volkov si prodigò a riempire nuovamente i calici di entrambi.
"Detto qualcosa di sbagliato?". Si corrucciò lui, senza capire.
La ragazza lo squadrò a lungo cercando di penetrare in quelle iridi grigio cemento, cercando una qualche traccia di tenerezza da sfruttare. Qualcosa con cui stabilire un contatto.
Ma la stava tagliando completamente fuori, era un muro invalicabile. Era solo... freddo.
"Come può la vita significare così poco per te?". Si chiese ad alta voce.
Il sorriso che lui le rivolse, era quanto più falso potesse esistere. "Come può morte significare tanto per te?".
Vittoria si accasciò sulla sedia. "No, non la morte in generale. La mia. A me dovevi dare importanza, la mia vita vale molto più dei tuoi omicidi su commissione".
Toccò a lui rimanere sbigottito. "Allora é questo!". Capì improvvisamente. "A te no importa di quello che faccio, di chi faccio fuori. A te importa... di te!".
E rise, una risata simile a un latrato di un cane. Del tutto volgare, più adatta al bancone di una locanda che a un così raffinato contesto.
La ragazza si massaggiò il décolleté all'altezza dello sterno. "Ah, non considerarmi un angioletto. Tu sarai del Vory ma io sono cresciuta nella Onorata Società e so' come funziona il mondo. Non fingerò di disperarmi per le vittime collaterali al business".
Lui smise di ridere improvvisamente e la guardò con uno sguardo che la imbarazzò.
Il gelo era sparito, c'era calore sul suo volto. La stava guardando con bruciante curiosità.
Vittoria addentò uno degli involtini con movenze volutamente sensuali, per poi esortarlo:
"Parla apertamente, si capisce che stai pensando a qualcosa".
Seguì una lunga pausa e lei si scolò il secondo calice. Ed erano solo agli antipasti.
"Mai conosciuta donna come te, tutte paura di malavita ma tu... tu diversa".
Lei raccolse la palla al balzo, si curvò sopra al piatto facendo sfoggio della profonda scollatura a 'V'. Con le braccia si strizzò i lati del generoso seno, facendolo gonfiare ancora di più per lui.
Erano in ballo, il suo istinto le diceva di ballare.
Volkov calò subito lo sguardo sul suo seno e lì ci rimase mentre lei diceva ardentemente, scandendo parola per parola:
"Io non voglio essere la principessina da proteggere. Io voglio essere regina, voglio che la gente chini il capo al mio passaggio. Voglio essere chiamata Donna Vittoria e se dovrò io stessa tagliare qualche gola per diventarlo o..." Sospirò. "... sposarti. Così sia".
Le pupille dell'uomo guizzarono nuovamente sul volto di lei.
Dio, Vittoria quasi cadde dalla sedia.
Stava bruciando per lei, poteva leggergli nella mente.
"E andare a letto con me?", la stuzzicò lui.
La ragazza avvertì un piacevole nodo di tepore iniziare a addentrarsi nella pancia. Il suo sguardo la penetrò come il calore stesso, fisico e intimo.
"Non sei così raccapricciante come vuoi far credere", ghignò maliziosa lei.
Volkov la esortò a brindare e rimase in attesa con il calice sulle labbra, finché lei non ebbe finito di trincarsi anche il terzo calice della serata con lo stomaco quasi del tutto vuoto.
Cominciava a girarle la testa, lui era assolutamente lucido e la controllava in attesa.
Come una volpe in agguato fuori da un pollaio. Paziente.
All'improvviso nella mente appannata della ragazza si formò un'immagine, sarà stato l'alcol insieme alla presa di consapevolezza che avrebbe sposato uno degli uomini più pericolosi dell'Est. Un assassino.
Lei con il vestitino sollevato sui fianchi e avvinghiata con le gambe attorno al busto di lui. Lui in piedi, con i pantaloni calati alle caviglie che la sorreggeva e se la fotteva alla grande contro la vetrata panoramica della città.
Poteva sentire i muscoli sodi di lui sotto la punta delle dita, quel corpo saldo che si tendeva... il suo grosso membro che la colmava, la faceva contrarre, esplodendo in profondità dentro di lei.
Oh, sì. Pensò, praticamente agitandosi sul posto.
"Oh, Gesù bambino". Rantolò invece,  massaggiandosi le tempie. "Ho bisogno di mangiare".
Aveva finito anche gli involtini.
Lui batté il pugno sul tavolo e urlò un ordine nella sua lingua.
A quel punto entrarono i camerieri, servirono delle pappardelle al ragù di cervo e stapparono un'altra bottiglia.
"Quindi..." riprese lei per colmare il silenzio finché mangiavano. "Sei stato dieci anni in galera. La rosa alla mano, intendo".
Lui succhiò rumorosamente una pappardella. "Specie".
"Esistono varie speci di carceri?", si interessò lei.
"Quì si", annuì lui. "Addestramento e poi qualche altra volta", spiegò ancora indicando delle cupolette molto simili a quelle che aveva il suo galoppino Nicolaj.
Anche Volkov ne portava qualcuna  sulle falangi: solo due.
"Questa per carcere un anno a Mosca, questa per un anno a Praga". Lui ne indicò una e poi l'altra. "Rimasto poco, fatto catturare. Avevo lavoro da fare in gabbia. Quando fatto, Kozlov fatto uscire me".
"Chi é Kozlov?".
Volkov si riempì la bocca prima di rispondere. "Era ex capo".
Vittoria spazzolò l'intero piatto che aveva davanti, era squisito. "Non lavori più per lui?".
 L'uomo alzò le spalle con non curanza. "Io licenziato".
Rise poi di quella battuta, Vittoria invece non riuscì a cogliere.
"Si viene addestrati per diventare sicari dell'Organizacija?".
"Dà".
"E' stata molto dura?".
"Dà, io bambino quando iniziato".
Vittoria ci pensò su'. "Quale adulto manderebbe un bambino ad un addestramento del genere?".
Lui grugnì. "Uno di onore".
Vittoria esaminò a distanza la pistola tatuata al dorso della mano destra. "E la Tokarev? Che significato ha?".
Lui finì il suo piatto e si pulì la bocca con il tovagliolo. "Io non so' come funziona con tua Onorata Società...ma quì tradizione che rebenok, bambino diventa uomo prima di addestramento".
Cominciò ad accarezzarsi con la punta delle dita il tatuaggio, distrattamente. "Questa, prima arma data a me da mio nonno. Primo uomo ucciso con questa".
"Quanti anni avevi?".
La risposta la sconvolse.
"Undici. Mio nonno sorpreso ladro rubare bestiame, lui fatto inginocchiare ladro. Mio nonno dato a me Tokarev. Io diventato uomo quel giorno".
Vittoria si ritrovò suo malgrado a boccheggiare. Non era più tanto sicura di voler sapere altro su quell'oscuro uomo.
"Vuoi chiedere altro?", domandò lui in tono sarcastico. Quasi le avesse letto nel pensiero.
"Si... oh, quanti anni hai?".
Lui si rilassò sulla sedia, annoiato. "Trenta".
Vittoria ne rimase allibita.  "Te ne davo di più", commentò spietatamente.
Per davvero, la sua corporatura e l'intero aspetto generale gli davano un'aura oscura che lo invecchiava di almeno sei o sette anni.
"Tocca a me", esordì improvvisamente lui. Riprese a tamburellare le dita ai lati del piatto di fronte a sé, braccia tese.
"Vieni da Italia?".
"Sud", precisò Vittoria. "Ma ci sono solo nata, non ci torno da... beh, ero molto piccola".
Lui continuò a tamburellare, studiandola. "Perché non più tornata in sud Italia?".
"Non posso".
"Perché?".
Vittoria diede un altro sorso al suo vino. "Dio... è un interrogatorio?".
Lui si era fatto di nuovo glaciale. "Rispondi". La esortò.
I camerieri entrarono, portarono via i primi piatti e servirono il coniglio in umido con erbette.
Solo quando furono di nuovo soli, lei parlò:
"Mio padre è in esilio auto imposto, riesci a capire questa parola? Significa che è dovuto andarsene dal suo paese causa forza maggiore".
L'uomo storse la bocca guardandola. "Quale forza?".
Vittoria ridacchiò tetramente, allargando le braccia a mò di resa. "Mio zio in primis e i miei cugini... oh, quelli sono i peggiori. Faida familiare, mai sentito parlare? Basta aver visto un qualsiasi film mafioso ed ecco il ritratto della mia situazione in patria. Non ci é concesso tornare, io non ho nemmeno l'accento italiano ma mio padre insiste sempre col dirmi che un giorno faremo ritorno".
Ridacchiò ancora mentre Volkov le riempiva il bicchiere e la esortava a bere insieme a lui.
"Mi ha persino dato il nome Vittoria come se fossi una profezia", ne rise senza gioia e infilzò il primo boccone di coniglio. "Sono nata durante la guerra tra famiglie, mio padre credeva di avere la vittoria in tasca e prese la mia venuta al mondo come il segno piovuto dal cielo che Dio era dalla sua parte e tutto andava bene... col cazzo. Ci hanno annientati e io e la mia famiglia ce ne siamo scappati a Boston, ultima roccaforte dei De Stefano".
Perché gli stava raccontando tutto questo?
"Tua madre?". Chiese Volkov.
"Morta". Rispose velocemente lei. "Anni fa".
Sembrava che la lingua le si fosse sciolta. Esaminò quindi con cura l'etichetta della bottiglia di vino, quanti gradi aveva?
"Hai compagno?".
Vittoria si pietrificò con la bottiglia in mano. "Uh?".
"Uomo... all'hangar di aereo. Tuo compagno?"
Vittoria tenne lo sguardo sulla bottiglia. Era di nuovo incazzato nero, mentre si ingozzava di carne.
"Luca intendi? No, solo un idiota".
Ti da fastidio che ci sia un altro uomo?. Si domandò lei. Volkov fece trasparire un minimo fugace sollievo, anche se era chiaro cosa ne pensasse dei rapporti interpersonali con il genere femminile.
"E tu? Non c'é nessuna donna nella tua vita?", chiese in fretta. Tanto valeva tirare fuori tutto, lui era già sulla difensiva. Peggiorare ulteriormente la situazione, sembrava cosa ardua.
"No".
"Difficile credere che uno come te pratichi l'astensione".
Lungo silenzio. Per nulla incoraggiante.
"Qualcuno c'era".
"C'era?".
"C'era".
"E quando è finita?".
Lui la fissò a lungo. Poi, all'improvviso, cambiò espressione e l'atteggiamento da uomo d'acciaio parve fluire via come sangue dal suo volto.
Appoggiò la forchetta, si stropicciò gli occhi con il pollice e l'indice, poi borbottò una imprecazione nella sua lingua.
La tensione nell'aria parve tutt'altro che allentarsi.
All'inizio Vittoria non si fidò di quel repentino cambio d'umore ma poi lo vide espandere l'ampio petto, quasi stesse cercando di riaversi.
"Dio, pensavo di finire oggi. La cosa con altra donna. Io pensavo di venire da te, credo. Dopo sposati io non avere veramente obblighi con te ma se tu permetterai me... io verrò da te".
Lei batté le palpebre, pervasa da una sorta di eccitazione erotica al pensiero che Volkov decidesse di troncare qualsiasi altra relazione per lei.
Se lo immaginò cadere su delle lenzuola bianche con un altra donna fra le braccia.
Le tremarono le mani. Caspita.
Quella sera le sue emozioni stavano battendo ogni record di velocità.
Prima era stata terrorizzata, poi incavolata e in quel momento follemente gelosa.
C'era da chiedersi come si sarebbe sentita poco dopo.
Non felice, probabilmente.
Mentre i camerieri portarono via anche i secondi piatti, Vittoria rimpianse di non essere dotata di un maggiore autocontrollo.
"Non piace, dà?". Mormorò Volkov.
"Che cosa?".
"Che io vado con altra".
Lei se ne uscì con una risata cupa, odiando sé stessa. Lui. L'intera situazione di merda. "Vuoi forse farmene una colpa? Non ancora sposata e sono già cornuta".
Il dessert venne servito, fragole intere su un piattino dal bordo dorato. A parte, una specie di crema al cioccolato dove intingerle. E un biscottino.
In circostanze normali, Vittoria avrebbe ripulito di corsa tutto quanto, ma la testa le vorticava ed era troppo scossa per riuscire a mangiare ancora.
"Fragole, non piacciono?". Chiese Volkov infilandosene in bocca una. I denti, di un bianco scintillante, affondarono nella polpa rossa del frutto.
Lei si strinse nelle spalle, imponendosi di non guardarlo. "Si, mi piacciono".
"Ecco", disse lui prendendo un frutto dal proprio piatto e sporgendosi verso di lei.
Le lunghe dita stringevano sicure il gambo, il braccio a mezz'aria.
Vittoria moriva dalla voglia, eppure ribatté: "Posso mangiarla da sola".
"Lo so" disse piano lui.
"Hai fatto sesso con lei?", chiese Vittoria.
Lui inarcò le sopraciglia. "Quando?".
"Nei giorni che mi hai lasciata in casa e tu dormivi fuori".
"Dà, ma... è finita".
Era finita, certo crediamoci.
Oh, avanti cresci. Si impose lei, mica stavano insieme. Lei non voleva nemmeno sposarlo fino a qualche ora prima e adesso se lo immaginava nudo ogni tre minuti.
Colpa del vino... non c'erano dubbi in merito.
L'aveva fatta ubriacare, con tutti i suoi brindisi a casaccio. Lei ci era caduta come una cretina.
Lui fece per ritirare la mano e allora lei si diede una svegliata. Si protese in avanti, aprì la bocca e la chiuse attorno alla fragola. Volkov schiuse le labbra guardandola masticare.
Quando qualche goccia del succo zuccherino le colò sul mento, lui si lasciò sfuggire uno sbuffo dalle narici.
Afferrò il tovagliolo e le pulì le gocce con tocchi delicati.
Si chinò su di lei. Il respiro che le accarezzò la pelle e le labbra di lui incontrarono quelle di lei.
Una sorta di energia oscura li unì, diventando più potente secondo dopo secondo.
L'intero corpo di Vittoria rabbrividì in risposa e si guardarono, al chiarore delle candele tremolanti e delle luci dell'intera città notturna alla finestra.
Non era nemmeno sicura di che cosa fosse.
Si sentiva drogata.
Sembrava che l'intera stanza fosse calata nell'oblio, quell'incantesimo tra di loro qualunque cosa esso fosse, era più potente di lei o di lui.
In quel momento, Vittoria scorse il dubbio negli occhi di Volkov. In lotta con la selvaggia lussuria. La voleva, anche se sapeva che non doveva.
La mano di Vittoria si contrasse dalla necessità di allungarsi e tirarlo ancora verso di sé. Non gli sfuggì e questo fu il fattore determinante per lui.
Veloce come sempre, la afferrò per un braccio e la costrinse ad aggirare il tavolo attirandosela verso di sé.
La sbatté in malo modo con il culo sulle sue ginocchia e prese a leccarle i residui di succo di fragola dal mento, poi passò alle labbra in una bramosa maniera che spinse Vittoria a separarle per lui.
Aveva le mani fra i capelli dell'uomo, stringendolo e tirandolo, mentre la assaggiava con una abilità che la faceva sentire stordita e dolorante per averne di più.
Le abili mani del russo armeggiarono per qualche secondo con la scollatura di lei prima di riuscire nell'impresa di scoprire un capezzolo.
Quando spostò le labbra sulla gola di lei, Vittoria gemette per la protesta.
Ma poi la leccò contro la clavicola, assaporando una zona che non sapeva fosse così sensibile.
Quando arrivò al senno scoperto, Vittoria era una pozzanghera di bisogno e desiderio.
I suoi possenti muscoli erano tesi nel tentativo di tenerla stabile sulle sue gambe, i bicipiti erano gonfi sotto la giacca tirata fino al limite.
La lingua di Volkov turbinò intorno al capezzolo, stuzzicandolo, ma senza mai toccarlo del tutto. Proprio quando la ragazza pensò di non poterne più, lui la aggredì di nuovo.
La bocca calda era su di lei, succhiando, leccando e mordicchiando il seno. Vittoria non ricordava neanche più quando era stata l'ultima volta che era bruciata così tanto tra le braccia di un uomo.
Poi, tutto si fermò. La guardò, i suoi occhi in fiamme e lei sentì come se il cuore le stesse per esplodere.
Mentre con una mano continuò a sorreggerle la schiena, con l'altra Volkov andò a frugare rabbiosamente nella tasca della giacca.
Si udì un tintinnio e l'uomo sorrise come un bambino a un centimetro dalle labbra gonfie di lei, sbavate dal rossetto andato in malora.
"E questa, quando te la sei fatta dare?". Chiese scioccata lei, in un soffio.
Volkov esibiva trionfante una piccola chiave decorata con arabeschi e con appesa la targhetta identificativa di una stanza all'ultimo piano. Il piano dove si trovavano in quel momento.
Un attico.
Razza di presuntuoso figlio di puttana.
"Vuoi me?", chiese con voce greve lui. Il timbro reso roco dalla bramosia. "Decidi tu ora, perché io poi non mi fermo".
Vittoria stava ancora ansimando, quando le labbra di lui trovano il collo di lei. Leccandolo e succhiandolo, le avrebbe fatto presto un ematoma.
Volkov allungò una mano più in basso, proprio lì tra le gambe della ragazza.
"Apri gambe", ordina lui. Lei obbedì prontamente, lo fece cazzo. Non stava nemmeno ragionando minimamente.
Lui emise un basso ringhio, la libera espressione della soddisfazione maschile.
Era bagnata fradicia, poteva sentirlo sulle mutandine mentre lui le sfregava le dita impietosamente attraverso il tessuto.
"Sei così bagnata per me? Dimmi che mi vuoi dentro di te", grugnì lui contro le sue labbra. Più animale che uomo, completamente travolto.
Un lungo gemito lento uscì dalla gola di Vittoria. La stava facendo impazzire, con i suoi suoni gutturali e i suoi sospiri profondi da bisonte.
Sembrava troppo bello, doveva essere delirante. Niente era stato così bello.
Lei si allungò verso la cerniera dei pantaloni di lui, era teso. Turgido e enorme.
"Lo senti?", gracchiò Volkov. "Sono pronto, andiamo in camera?".
Era così difficile trattenersi, controllarsi. Nella vita c'era sempre bisogno di apparire perfette, educate, fini e a modo.
Era così stancante, lei voleva sentirsi viva e infondo... era molto più semplice cadere che resistergli.
Per una notte poteva non ragionare, lui non le avrebbe fatto del male perché il suo desiderio rifletteva assolutamente quello di lei.
L'attrazione c'era stata fin dall'inizio e il fatto che lui l'avesse salvata da un tentato stupro e morte certa, l'aveva arricchita di un'altra dimensione. Una intesa forgiata nella fornace del terrore e del dolore. Niente di tutto ciò era alla base di un rapporto solido, però questo era il bello.
Per una notte... poteva lasciarsi andare.
Lei sì che sapeva schivare la vita.
Gli rubò la chiave dalla mano, si coprì veloce il seno e scivolò giù dalle sue ginocchia.
"Andiamo?". Tubò sensuale favorendogli la visuale sul fondo schiena, mentre si dirigeva verso la porta. Le chiavi fatte ballonzolare in alto, come un campanellino a richiamo del servo ubbidiente.
Volkov, nell'alzarsi bruscamente, tirò la tovaglia e fece cadere le posate.
 
 
*AVVISO*
Il prossimo capitolo sarà da rating ROSSO. Non volevo penalizzare tutta la storia etichettandola totalmente come 'vietata ai minori' perciò avviso anticipatamente.
Vedo che sono tra autori preferiti di qualcuno e la storia è seguita.
Vi ringrazio!

 

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Capitolo 15
*** 15 ***


                                                                                                      ---------------VASILJ-----------------
 

"Via vestito", ordinò pacatamente.
Si sganciò l'orologio da polso Richard Mille e lo depose sul comodino accanto all'enorme letto King size, senza testiera e posizionato proprio al centro della camera da letto.
Sentì alle sue spalle Vittoria fare come voleva lui, il fruscio della stoffa che scivolava a terra e il ticchettio dei tacchi sul pavimento in legno man mano che si avviava a lunghe falcate verso il letto.
Vasilj sogghignò. Si tolse la giacca, si sfilò dai pantaloni dietro la schiena la sua Glock e la appoggiò accanto all'orologio, per poi sbottonarsi i primi bottoni della camicia.
Quando si voltò verso di lei, ebbe un encefalogramma piatto. Era divina.
Si era seduta a gambe accavallate sul materasso, leggermente piegata all'indietro sorreggendosi sulle mani. Indossava solo tacchi e perizoma.
Vita stretta, bacino ampio e tette alte e grosse come mondi. I capezzoli turgidi, di un rosa appena più scuro della pelle, che puntavano dritti verso di lui.
Vasilj stava salivando.
I lunghi capelli bruni le ricadevano come tendine sulle spalle e poi sulle lenzuola. La pelle abbronzata pareva liscia come seta alla luce soffusa del panorama cittadino notturno, fuori dalle vetrate panoramiche.
Tutto in lei trasudava sesso, dal modo in cui lo guardava, da come teneva la schiena inarcata e dal sorrisetto arrogante su quelle labbra piene da mordere.
Porca troia.
Quella donna era la cosa più bollente che avesse mai incrociato sulla propria strada. E si che una volta o due gli era già capitato di entrare nelle grazie di una specie di vulcano.
Era tutta colpa del troppo vino, doveva essere per forza così. Lui ci aveva sperato di farla ubriacare cercando di farla stare al passo alla sua proverbiale abilità nel bere e a quanto pareva c'era riuscito.
Vittoria si lasciò sfuggire un gemito rovente e questo fece decisamente effetto su di lui perché si sentiva prontissimo a fare sesso con lei.
Le si avvicinò come una pantera, la voleva subito. Troppo tempo aveva rimandato la faccenda, ma quando fece per chinarsi, Vittoria lo stupì.
Le torreggiava dall'alto, una minaccia silenziosa ma lei gli accarezzò una guancia fissandolo dritto negli occhi con una dolcezza commovente.
Non si ritrasse.
Si lasciò accarezzare per un po' ma poi si spazientì, le infilò un braccio sotto le ginocchia e fece per girarla a novanta sul letto.
A lui piaceva in questo modo, non voleva che lo guardassero. Non voleva guardarle in faccia nell'amplesso.
Era puro e semplice soddisfacimento fisiologico, le palle gli esplodevano bramose di essere svuotate e quella donna lo aveva caricato di brutto.
Vittoria gli appoggiò una mano sulla spalla, trattenendolo. "Calma".
Calma? Lui non voleva stare calmo. La calma non faceva parte del programma.
Con movimenti bruschi si strappò letteralmente i restanti bottoni della camicia mettendo in mostra i pettorali e l'addome piatto.
La ragazza rimase senza fiato, la vide fissarlo meravigliata e allungare una mano per sfiorargli i rigonfiamenti delle cicatrici da taglio e bruciature. Per poi soffermarsi sul crocefisso tatuato al centro del petto e sulla pelle raggrinzita alla spalla, nel punto in cui gli avevano ricucito la ferita da arma da fuoco.
Lo stava leggendo, cercava di interpretare ogni ferita e ogni disegno per carpirlo.
"Non guardarli", provò a dire lui. Mortificato dal suo aspetto decisamente poco rassicurante.
"Perché no?", mugolò lei. "Sei meraviglioso, Vasilj. Un Dio".
Era la prima volta che lo chiamava. Lo disse con un accento sbagliato, accentuando troppo la lettera 'L'.
Non sembrava nemmeno più il suo nome, ma era dannatamente bello se a pronunciarlo era lei.
Il sangue gli pompava nelle vene come se stesse correndo a perdifiato, l'erezione palpitava quasi avesse un battito tutto suo.
"Tu sì che sai eccitare uomo solo con parole, Solnyshko". Disse.
"Toccami", miagolò lei.
Inarcò la schiena premendo i seni contro la pelle nuda di lui e Vasilj dovette chiudere gli occhi.
Cristo, era tutto gelato. Gelato fino al midollo.
Lei invece era bollente, al punto da sciogliere tutto quel ghiaccio, almeno per un po'.
Riaprì gli occhi, si costrinse a riempire i polmoni e mantenere il controllo. Il respiro della ragazza sapeva di vino, dolce e inebriante quando le catturò le labbra con la bocca.
Vittoria gli afferrò la camicia cercando di sfilargliela dalle spalle. Lui se la tolse a strattoni e quando l'indumento volò via, lei rise soddisfatta.
Lui fece scivolare la mano fra di loro per toccare la pelle calda. Aveva il ventre piatto e Vasilj ci fece scorrere sopra le dita. Ansioso di scoprire tutto di lei.
Provò ad allungare anche l'altra mano, i seni gli riempirono entrambi i palmi, i capezzoli due gemme turgide.
Vasilj perse il controllo, un'altra volta.
Scoprendo i denti, soffiò come un felino. Arrivato all'elastico del perizoma glielo sfilò dalle gambe lunghe e lisce.
L'odore di lei lo investì come una ondata fresca e travolgente, facendo scattare qualcosa nella sua testa. Era già pericolosamente vicino all'orgasmo, il seme in agguato nel suo membro, il corpo fremente per l'urgenza di possederla.
Le infilò le dita fra le cosce. Era così calda e bagnata che gli uscì un grugnito.
Per quanto fosse eccitato, doveva assolutamente assaggiarla prima di entrare dentro di lei.
Le si sedette accanto sul materasso e cominciò a baciarle i fianchi e la sommità delle cosce. Vittoria gli infilò le mani fra i capelli, spronandolo a continuare.
Vasilj la baciò nel punto più delicato, risucchiando in bocca il fulcro della sua femminilità. E lei venne con un ansito straziante.
Ma non era abbastanza, Vasilj sapeva che poteva fare di meglio.
Si tirò su, si slacciò la cintura e si tolse in fretta e furia scarpe, calzini,  pantaloni e boxer. Si allungò ancora una volta sopra di lei.
Si sorresse sui polsi, braccia tese per impedirsi di schiacciarla sotto al suo peso.
Sotto di lui, Vittoria gli sfiorò il petto leggera e poi scese verso il ventre e l'inguine.
Lui trattenne il respiro, subito scalpitante come un adolescente.
Glielo prese in mano e con un gemito Vasilj sospirò.
Le dita della ragazza si muovevano sicure mentre lo accarezzava.
Poi il mondo si capovolse, lo prese alla sprovvista e lo fece capitolare via da lei cadendo con la schiena sul letto.
Prima che riuscisse a lamentare il suo disappunto, lei gli era subito a cavalcioni sopra con i palmi sulle sue spalle per trattenerlo.
Dovette usare tutto il peso per riuscire a tenerlo fermo.
"Rilassati, lascia che sia io a condurre il gioco".
Vasilj rimase a fissarla incredulo, in spasmodica attesa di quello che sarebbe seguito, mentre lei premeva quelle crudeli labbra sulle sue.
"Voglio usarti", mormorò Vittoria. Con una pressione vellutata gli infilò la lingua in bocca, penetrandolo. Scivolò dentro e fuori come se lo stesse scopando.
Lui si irrigidì.
A ogni nuova spinta lui realizzava che se lo stava fottendo da vera signora. Lo stava usando alla stregua di un giocattolino erotico, prendendo quello che le serviva senza chiedere il permesso.
Era la prima volta che veniva usato così, era sempre lui a condurre le danze prendendo e raramente donando.
Lo stava... possedendo? Possibile?
Era questo che si provava?
Quando si staccò dalla sua bocca passò a leccargli il collo, gli succhiò i capezzoli proprio come lui aveva fatto a lei. Fece scorrere con delicatezza le unghie sul ventre. Gli mordicchiò le ossa del bacino.
Lui se la godette proprio tutta.
Allargò le braccia sui cuscini ai lati della testa, divaricò le gambe e si rilassò. Ben consapevole di sembrare in quel momento un padrone con la sua schiava sessuale a cavalcioni sopra alla sua dura erezione.
Era lei che conduceva ma lo faceva sentire veramente un Dio.
Nell'attimo stesso in cui gli prese in bocca l'uccello, lui dovette serrare le palpebre e... com'é che dicevano gli inglesi? Chiudi gli occhi e pensa all'Inghilterra?
Cazzo stava per venire come un verginello, sacramentò mentalmente per minuti infiniti pur di trattenersi. Cominciò presto a sudare schifosamente, il cuore prese a martellare.
Non ne poteva più.
Lei cominciò a fare le fusa come una gatta. "E' enorme", commentò angelicamente.
"V pizdù!", imprecò. "No dire così, ti prego!". Ululò lui colpendo il materasso con il pugno.
Era in preda agli spasmi. Lei si ritrasse, dandogli il tempo di riprendersi.
Quindi lo sottopose a una autentica tortura.
Sapeva esattamente quando fermarsi e quando ricominciare. Lo stava mungendo con una combinazione di quella bocca umida e mani che si muovevano su e giù lungo la verga. Un attacco incrociato che lui riuscì a reggere a stento.
Alla fine Vittoria si raddrizzò, rimanendo sospesa sulle ginocchia sopra di lui.
Vasilj abbassò lo sguardo sui loro corpi avvinti, le cosce di lei erano completamente divaricate su quell'uccello maledetto che aveva assunto le dimensioni considerevoli di un palo della luce. Palpitante, dritto sull'attenti.
Lucido di saliva.
Lei glielo stava guardando come se volesse mangiarselo, la vide leccarsi le labbra pregustandosi cosa stava per accadere.
Ma... molto bene. Pensò lui maliziosamente. Dunque ti piace guardare.
Vittoria lo fece scivolare dentro di sé, una sensazione che lui percepì per tutto il corpo. Tesa, bagnata e calda, lei lo avviluppò completamente.
"E' stretta?", domandò lei in un ansito.
Vasilj era completamente perso. Non c'era più con la testa.
Lei cominciò a muoversi avanti e in dietro a un ritmo regolare.
Lui la guardò con il vuoto cosmico nella mente. Doveva avere una espressione da idiota, sentiva che la mascella gli si era slogata da quanto la teneva spalancata.
La gola era secca per i troppi grugniti e rantoli.
Le mise una mano dietro la schiena e la guidò nella sua lenta cavalcata.
Chiuse nuovamente gli occhi ma lei lo richiamò subito.
"Guardami!". Gli ordinò e lui obbedì.
Gli piantò i palmi più forte sulle spalle e urlando venne per la seconda volta con contrazioni che lo portarono al limite. Lo inondò con i suoi umori e si inarcò buttando in fuori i seni ballonzolanti e in dietro la testa.
Era meravigliosa, cazzo.
E toccava a lui.
Con un movimento fulmineo fece roteare di nuovo il mondo e subito fu lui lungo disteso, sopra di lei.
La udì ansimare alla vigorosa penetrazione che le diede, lei non aveva avuto il tempo per riprendersi e Vasilj non intendeva darglielo.
Fu sopraffatto da un incontenibile istinto di possesso.
Spaventato, si rese conto che aveva voglia di marchiarla. Voleva impregnarla con il suo odore, scriverle addosso il suo nome perché nessun'altro uomo osasse avvicinarsi a lei. Perché tutti sapessero a chi apparteneva e temessero le conseguenze del desiderio di possederla.
Ma sapeva di non avere il diritto di fare una cosa del genere, lei non era niente per lui.
Con un soprassalto mostruoso, il suo corpo si sottrasse al dominio della mente. Prima di riuscire a razionalizzare, Vasilj si puntellò sulle braccia e spinse con il bacino più e più volte. Avanti e in dietro come una locomotiva, implacabile.
Il letto cominciò a scricchiolare, i cuscini volarono a terra e lei si aggrappò ai polsi di lui nello sforzo di restare ferma.
Un suono soffocato risuonò nella stanza e crebbe, sempre più forte, finché Vasilj si rese conto che il ringhio veniva da lui. Un fuoco rovente gli infiammava la pelle mentre gocce di sudore gli grondavano dalla fronte.
Non aveva mai sudato così tanto per una scopata.
Non riusciva a fermarsi.
Le labbra si ritrassero scoprendo i denti mentre soffiava sputacchiando. I muscoli si gonfiarono e i fianchi si dimenarono. In preda al capogiro, immemore e senza fiato la reclamò come sua.
La prese tutta ma ne voleva ancora e ancora. Divenne un animale, al pari di lei, finché entrambi si tramutarono di creature selvagge.
Vasilj venne con violenza inondandola con il proprio seme, pompando dentro di lei. Il suo orgasmo parve protrarsi all'infinito finché si rese conto che lei gli si era avvinghiata con tutte le sue forze. Era l'unione più perfetta che avesse mai conosciuto.
Senza fiato e tremanti, crollarono entrambi sulle lenzuola aggrovigliate. Uno accanto all'altro, senza più toccarsi.
Ansimando rimasero così per qualche minuto, a fissare il soffitto.
Erano stravolti.
Poi la realtà irruppe nella stanza sotto forma di trillo di cellulare, un messaggio era arrivato al telefonino di Vasilj.
Proprio mentre lui si congedava con un "Rispondo", lei si era già alzata di scatto volando nuda verso il bagno.
"Mi sei venuto dentro, merda!". Esclamò lei furente prima di sbattere la porta del bagno con un tonfo.
Dal canto suo, Vasilj era assolutamente indifferente. Come gli capitava sempre, era molto più fatalista sugli avvenimenti della vita una volta che le palle gli si erano svuotate.
Sbuffando si tirò a sedere buttando giù le gambe dal materasso, si allungò verso la tasca del cappotto abbandonato su una poltrona lì accanto e esaminò lo schermo del cellulare.
Dal bagno arrivò il suono scrosciante dell'acqua nella doccia e il rumore raschiante delle ante del box che si aprivano e si chiudevano.
Ivan lo aspettava allo 'Screamers' e Vasilj era in ritardo.
Non lo aveva informato sul suo cambio di programma riguardo la serata.
Quella era la parte più difficoltosa per Vasilj. Dopo l'amplesso veniva assalito dal panico perché non sapeva proprio come comportarsi con una donna, preferiva alzarsi pagare o salutare e andarsene.
Se tardava a fuggire, colto dall'impaccio, gli arrivava una violenta sensazione di soffocamento e peggiorava sempre di più a ogni minuto. Era sempre così, anche questa volta.
Calmo, doveva stare calmo. Doveva darsi una lavata, rivestirsi e poi sarebbe stato libero.
Doveva riportarla a casa?
Poteva chiamarle un taxi.
Ma l'avrebbe lasciata libera di fuggire.
Ma tanto, dove poteva andare?
Avrebbe comunque perso tempo e risorse per cercarla. Doveva prima sposarsela, poi se la sarebbe tolta dai coglioni.
Sì.
Si convinse, infine. Devo tenerla d'occhio ancora per un po'.
Quando Vittoria ebbe finito di lavarsi accuratamente, aprì la porta avvolta in un asciugamano bianco.
Lui era ancora seduto nudo sul letto, le dava le spalle mentre giocava a Candy Crash Saga in attesa che toccasse il suo turno per lavarsi.
La sentì trattenere bruscamente il respiro, quindi lui si voltò immediatamente, per accorgersi che la ragazza aveva solo in quel momento visto per la prima volta la sua schiena.
Quella reazione non era una novità, tutte le donne lo facevano nel vedere con i propri occhi le dieci leggi tatuate a caratteri immensi. Con l'enorme serpente avviluppato proprio sopra al sedere.
Vasilj non le diede inutili spiegazioni, si alzò e la aggirò con espressione sorniona.
Il pene finalmente floscio come un maccherone scotto, a testa in giù contro la sua coscia.
Vittoria tenne alto lo sguardo e lo lasciò passare verso il bagno.
Quando anche lui si fu lavato a dovere, uscì in camera da letto ancora nudo in cerca dei propri vestiti.
La ragazza lo stava attendendo già vestita e con la pelliccia indossata. Quando lo vide ancora come mamma lo aveva fatto, si affrettò a fare finta di esaminare i fiori in un vaso appoggiato sopra una cassettiera.
"Mi rinchiuderai di nuovo?", borbottò lei di mal umore.
Vasilj non rispose mentre si infilava i boxer e poi, con un saltello, pure i pantaloni.
"Tu dove andrai?", insistette ancora lei.
"Posto". Fece le spallucce lui, indifferente alla sua curiosità.
Vittoria si voltò risoluta. "A divertirti?".
"A bere". Corresse lui infilandosi la camicia e cercando di abbottonarla per i restanti bottoni rimasti cuciti.
La ragazza unì le mani dietro la schiena. "Posso venire anche io?".
"No".
"Come no?"
"No".
Quella si che era una porta sbattuta in faccia.
"Voglio divertirmi anche io", si corrucciò lei. "Non ti starò addosso, ma..." sospirò stancamente. "Solo, non riportarmi in quella casa".
Vasilj ci pensò. Lo Screamers era dall'altra parte del suo territorio, rispetto a casa sua.
Prima di andare da Ivan avrebbe dovuto fare il 'giro dell'oca' per portarla a casa, per poi tornare in dietro e perdere altro tempo nel traffico di merda.
"E' un posto pericoloso?", lo incalzò instancabilmente lei.
Lui indossò l'orologio, infilò i calzini e si allacciò le scarpe.
"No posto per donna come te", borbottò stancamente lui.
"Non mi succederà niente".
Vasilj la guardò soppesandola e lei gli sorrise. "Sono con te, giusto?".
Non faceva una piega.
Cazzo, Ivan lo avrebbe preso per il culo a vita.
"Dà, dà. Va bene", si arrese infine.
Tutto pur di fuggire da lì.
 
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Lo Screamers era ospitato in un edificio colossale risalente alla seconda Guerra Mondiale, che per lungo tempo era stato usato come fabbrica di carri armati finché la produzione venne interrotta dopo la conclusione della Guerra Fredda. Russia contro quei laidi degli americani.
Vasilj parcheggiò davanti all'ingresso, affiancandosi a dozzine di altre auto più o meno costose appartenenti alla facoltosa borghesia di San Pietroburgo.
Davanti alle porte d'accesso, tra nuvolette di condensa e fumo di sigaretta, si stavano formando lunghe code di persone dall'età compresa fra i diciotto e i quaranta.
Il locale offriva un'ampia scelta di svago tra alcol, donne e violenza.
Unici requisiti per entrare erano: la maggiore età e un portafoglio gonfio.
Lo Screamers apriva tutte le notti e chiudeva tutte le mattine alle quattro.
Vasilj si avviò a piedi verso uno degli ingressi, Vittoria lo seguiva cercando di stare al passo.
La vide tremare dal freddo, le gambe scoperte che cominciavano rapidamente a sbiancare.
Quando lui si fermò a scambiare due parole con il butta fuori, la ragazza gli rimase silenziosa dietro. Mani nelle tasche del pellicciotto e testa infossata nelle spalle nel tentativo di riscaldarsi.
Non era decisamente abituata a quel clima impietoso.
"Ha preso il solito tavolo di sopra".
Lo informò Boris, il butta fuori, sganciandogli il cordone rosso della corsia preferenziale e facendosi da parte.
Un coro di versi contrariati si innalzò dalla fila in attesa.
Vasilj mise una mano sulla schiena della sua accompagnatrice e la condusse all'interno.
Non appena la porta si aprì, il frastuono gli devastò i timpani.
Le chitarre elettriche e la voce profonda del frontman tedesco del gruppo metal Rammstein in 'Du Hast', riecheggiava dalle casse fra i fari agganciati sul soffitto. La folla riempiva ogni centimetro quadrato del capannone.
Luci stroboscopiche lampeggiavano contro muri in cemento armato, divani in pelle nera, tavolini in acciaio e un enorme Ring imprigionato in una gabbia piazzato proprio al centro della marmaglia ondeggiante.
I raggi pulsanti tagliavano la rarefatta nube di fumo che aleggiava nell'aria, al rimo da marcia di guerra della canzone messa come intermezzo tra un incontro e l'altro.
Attorno al Ring, a ridosso del lungo bancone bar e sulla tribuna sospesa in alto tutt'attorno al perimetro della fabbrica, le persone si muovevano le une contro le altre scuotendo le teste a rimo e alzando i bicchieri di plastica con cannucce colorate.
"Porca vacca", urlò Vittoria sopra la musica mentre lei e Vasilj si facevano largo fra la calca. "Che posto è? E' da pazzi!".
Vasilj non si stupì che una come lei non fosse mai stata in una bisca come quella, in Russia amavano gli incontri di Box e amavano ancora di più le feste a base di cazzotti, Vodka e cocaina.
Vittoria De Stefano veniva da un ambiente intrattenuto da musica da camera, amari serviti in bicchieri di cristallo e frivolezze al lume di un caldo caminetto.
"Io di sopra". Urlò lui indicandole con l'indice la tribuna in alto, che altro non era che una passerella in acciaio traforato. Da lì sotto, si riusciva avere una buona visuale del sotto gonna delle cameriere.
Vittoria si tolse il soprabito, già accaldata dall'aria torrida e puzzolente di fumo e sudore. "E io che faccio?". Urlò in rimando.
"Tu divertire, dà?". Si spazientì lui. "Allora và".
Detto ciò si avviò a spallate verso la scala in ferro che portava al panoramico piano superiore.
Che facesse un po' come le pareva, non gli importava. Voleva venire con lui e lui l'aveva accontentata.
Non era il suo guardiano personale.
Al piano di sopra, Ivan inveiva contro qualcuno affacciandosi dal parapetto. Si scolò in un sorso l'intero cocktail da un alto bicchiere di vetro e lo scaraventò di sotto, imprecando.
Vasilj si fermò a metà strada e si affacciò a vedere la scena, giù, di un uomo ben piazzato a torso nudo e pantaloncini da boxer che schivava il bicchiere e urlava qualche silenziosa minaccia persa nel frastuono.
Il tipo agitava il pugno verso Ivan, madido di sudore, reduce dall'incontro appena disputato sul Ring.
Il suo allenatore lo tratteneva a stento e intorno a lui la folla lo denigrava.
"Ti farai cacciare", avvertì stancamente Vasilj.
Ivan diede un'ultima scrollata al parapetto, facendolo cigolare e barcollare. "Ah!" disse. "Se non l'hanno ancora fatto fino ad oggi... Quel coglione mi ha fatto perdere un casino di soldi!".
I monitor affissi sopra al Ring indicavano che la serata si stava ponendo tra le migliori degli ultimi mesi, quella notte si sarebbero disputate le finali nelle varie categorie di pesi e in molti avevano piazzato grosse somme in Rubli.
"Tra poco tocca a Nicolaj", lo informò Ivan. "Ti conviene piazzare adesso, fra un po' chiudono il banco".
"Lo dai vincente o perdente?". Vasilj si levò il cappotto e giacca, li gettò sopra lo schienale del divano in pelle e vi si sedette lasciandosi cadere di peso.
"Perdente, ovviamente. Il ragazzino non saprebbe trovarsi nemmeno il pesce nelle mutande, figurati a trovare il punto scoperto di...". Ivan interruppe il suo scuotimento di uccello come rafforzativo a quello che stava dicendo e squadrò Vasilj alzando le folte sopraciglia scure.
"Uh, che eleganza!", commentò. "Dove sei stato di bello?".
Vasilj si appropriò del pacchetto di Marlboro rosse di Ivan, incustodito sopra al tavolino davanti a lui insieme all'accendino, e si accese una sigaretta prima di rispondere.
"Ho incontrato 'Il Politico'. Domani mi daranno le stelle".
Beh, era vero anche se tecnicamente lo aveva incontrato nel pomeriggio e dopo si era cambiato per un altro tipo di incontro. Ma questo, Ivan non lo sapeva.
Ivan ululò sù di giri e batté le grosse mani in un breve applauso. "Fantastico, dove?".
"Alla sua villa a noleggio, fuori città. Dichiarerà di organizzare la festa di compleanno di una delle sue mocciose. Mentre la sua famiglia festeggia in salone, gli Avtoritet mi chiameranno da parte".
Ivan parve comprendere, si avvicinò a lui annuendo. Gli si sedette accanto, facendo sprofondare il cuscino del divano sotto al suo considerevole peso e sbatté con un tonfo i grossi anfibi sul basso tavolino.
"Non vuole attirare troppo l'attenzione, quindi".
Vasilj diede un tiro alla sua sigaretta. "Le autorità, tutte riunite in un solo luogo? Mi stupirò se non ci sarà qualche poliziotto a spiare fuori dai cancelli".
Ivan si guardò attorno cercando tra gli uomini e donne riuniti lì in alto con loro, per godersi gli incontri da una posizione favorevole.
"Elisey!", chiamò alzando un braccio in direzione del ragazzotto tarchiato a capo dei 'Ragazzi del Vicolo'.
Il tipo stava tentando di ingraziarsi una delle cameriere, optando erratamente per un approccio basato su palpatine e apprezzamenti insistenti.
Si era montato notevolmente la testa dai tempi della mattanza in casa di Kozlov.
"Volkov!", salutò chinando il capo quando li raggiunse prontamente.
Rimase in piedi davanti a loro, in attesa di ordini.
"Spargi la voce", diede disposizioni Ivan. "Domani avremo un Vor, fa riunire tutti quelli disposti a prestare giuramento ufficiale. Fa in modo che capiscano cosa dovranno rinunciare e a cosa vanno in contro, non ci saranno ripensamenti dopo". Poi si voltò verso Vasilj. "A che ora sarai convocato?".
"Dieci di sera, dopo il taglio della torta". Gli rispose lui.
Quindi Ivan si rivolse nuovamente verso Elisey. "Avverti che ci troviamo per le nove e mezza alla villa del 'Politico'".
Elisey non stava nella pelle. "Sarà fatto. Con il vostro permesso". E si congedò con già il telefonino in mano.
Vasilj arricciò le labbra e fischiò forte un richiamo alla cameriera di passaggio.
"Due di Assenzio, rapida!", ordinò a gran voce.
Ivan rise di soddisfazione sopra al frastuono delle chitarre.
"Dobbiamo festeggiare, no?". Rise di rimando Vasilj.
Quando i bicchieri arrivarono, lui accese le fiamme sulla superficie dell'alcol con l'ausilio dell'accendino e i due brindarono. Spensero i fuochi gemelli con un soffio, infilarono i bicchieri in bocca e senza l'ausilio delle mani buttarono in dietro le teste scolandosi tutto in una sola sorsata.
A malapena udibili sopra il frastuono, alle spalle di Vasilj, giunsero in quel momento due giovani voci maschili in avvicinamento.
"Non ti preoccupare, te lo faccio conoscere io". Stava dicendo un ragazzino con ancora il volto butterato di brufoli al compagno, mentre timidamente si avvicinavano al divano di Vasilj e Ivan.
I due ragazzotti, appena diciottenni e vestiti in tuta, si fecero avanti ondeggiando alla maniera dei veri duri. Ma quando il brufoloso si trovò finalmente davanti al Siberiano, ebbe una grave crisi di balbuzie prima di riuscire a dire decentemente qualcosa.
"Dobryy vecher, Volkov". Lo salutò facendosi coraggio. "Faccio parte della banda dei 'Ragazzi', ricordate?".
Sinceramente Vasilj non lo ricordava, quand'é che dovrebbe aver visto quel bimbetto?
Molto probabilmente era figlio di una delle puttane, ricordava vagamente di aver visto giovani più o meno della sua età in quel garage prima dell'assalto al condominio di Kozlov.
Ivan decise di divertirsi optando per una espressione falsamente molto interessata a quello che il ragazzino aveva da dire, abbassando gli anfibi dal tavolino e dedicandogli tutta la sua attenzione.
Il brufoloso era in preda all'imbarazzo.
"Volevo presentarvi un mio amico, ci teneva a conoscerla". Così dicendo fece cenno al compagno di avvicinarsi.
La cosa aveva del grottesco.
Vasilj era senza parole.
Ivan ribolliva saltellando sul divano, sghignazzando.
L'intera scena fu pietosa, Vasilj si sforzò di fare un mezzo sorrisetto al secondo ragazzino prima che entrambi finalmente provvedessero a togliersi dai coglioni.
"Ma cos'é successo?", si stupì Vasilj voltandosi verso il compagno.
"Sei una celebrità, Siberiano. Stai realizzando il sogno di ogni nullità del rione, da umile servo a capo delle maggiori piazze della città". Gli fece notare Ivan, come se fosse una ovvietà.
Vasilj in quel momento ebbe uno sprazzo di lungimiranza. Si voltò immediatamente in direzione dei ragazzetti in fuga e fischiò nuovamente forte.
"Ehi, voi due. Tornate quì!".
Fece cenno di avvicinarsi e frugò nella tasca del suo cappotto in cerca del portafogli.
"Farete un lavoretto per me?", chiese mentre si alzava e andava a guardare giù dalla balaustra. Verso la folla al di sotto, in cerca di lei.
Gli ci volle un minuto buono, nel quale passò a rassegna più persone possibile riunite intorno al Ring. Poi guardò verso il bancone del bar e non riuscendo a trovarla cominciò a sudare freddo, ma poi eccola.
Con un bicchiere di plastica stretto in mano, raccattato in chissà quale modo, si stava dirigendo verso il banco scommesse.
Schiaffò una banconota in mano prima al brufoloso e poi al compagno. "La vedete quella? No... non la tipa con i capelli rosa, quell'altra con il vestito elegante!".
I ragazzi seguirono con lo sguardo la direzione che Vasilj indicava.
"Seguitela, controllatela a distanza e non fatevi notare. Se si allontana o se fa qualcosa di strano, correte a dirmelo. Siamo intesi?".
I ragazzi parvero onorati di ricevere una missione proprio da lui e partirono di gran passo verso le scale che portavano al piano di sotto.
Ivan gli si era nel frattempo affiancato e ora pure lui aveva notato Vittoria De Stefano.
Merda.
"L'hai portata quì?". Chiese accigliato, Ivan.
Vasilj non sapeva che dirgli. Era stato un idiota.
La gente intorno a loro cominciò ad applaudire e fischiare, Vasilj si voltò verso la causa di un così improvviso saluto.
Il beniamino dello spalto era arrivato.
Nicolaj per l'incontro sfoggiava dei canonici pantaloncini neri, torso nudo ben scolpito e mani e piedi fasciati da bende bianche.
L'incontro si sarebbe svolto alla vecchia maniera, niente guantoni o caschetti protettivi. Solo conchiglia a proteggere le parti basse e paradenti.
"Finalmente la principessa è arrivata al gran ballo!", lo canzonò Ivan andandogli in contro.
Il ragazzo era un colosso, quasi due metri di puro fascio di nervi. Abbattere lui sarebbe stato come abbattere un albero, prometteva un gran futuro nell'Organizacija.
Ma era anche molto emozionato, sorrideva come un beota salutando tutti quelli che gli battevano le mani manco fosse la cazzo di regina Elisabetta d'Inghilterra.
"Sei carico, bello mio?". Lo accolse Ivan mollandogli una manata alla spalla.
Nicolaj cominciava ad assumere un colorito vagamente verdastro. "Ce la metterò tutta".
"Assolutamente", lo incalzò Ivan per poi estrarre dalla tasca una piccola bustina trasparente dalla chiusura ermetica. "Ecco qua, bello. Una tiratina e passa tutto!".
Nicolaj dovette chinarsi per sniffare vigorosamente la polverina che Ivan gli offriva da una spatolina in acciaio.
Quando Nicolaj ebbe finito di fare il suo giro di gloria sullo spalto, si avviò verso le scale proprio mentre il presentatore al centro del Ring cominciava con le presentazioni.
Vasilj fissò contrariato il compagno.
Ivan sbuffò e ordinò un altro giro di Assenzio, per entrambi.
"Ah, ho voluto solo infondergli un po' di coraggio ma non basterà. Combatterà contro il campione dei pesi medi, dell'anno scorso. Lo danno favorito e l'ho visto combattere agli altri incontri. Lo devasterà e io incasserò molto tristemente la vincita".
Le cose non andarono proprio come Ivan aveva previsto, ma c'era da aspettarselo. Lui aveva la sorprendente capacità di scommettere quasi sempre sul cavallo sbagliato.
Il suo più grande passatempo era perdere scommesse.
Quando il famigerato campione dei pesi medi entrò nella gabbia del Ring e si piazzò ad un angolo, fu subito chiaro che qualcosa non andava.
Barcollava saltellando su un piede e l'altro, agitava la testa a tempo di musica, batteva i pugni,... tutto tranne che concentrarsi.
"Stà smandibolando?". Si chiese Vasilj ad alta voce, allungando la vista dalla balconata fino al Ring.
Il campione teneva la bocca spalancata, la mandibola che veniva spostata prima a destra e poi a sinistra. Poi la chiudeva, poi la riapriva e partiva di nuovo con il farla ondeggiare.
"Ma porca troia!", urlò Ivan agitando rabbiosamente il parapetto. "E' possibile avere un campione non tossico, in questo posto pieno di tossici?", urlò contrariato.
 "E' colpa della nuova roba arrivata dall'Honduras", commentò tetramente Vasilj. "Si stanno tutti facendo come draghi dall'arrivo del carico, è roba buona. Roba che da queste parti non si vedeva da un pezzo".
L'incontro fu il trionfo della nuova stella nascente: Nicolaj.
Con una serie di colpi ben piazzati riuscì a confondere l'avversario mettendolo a spalle contro la gabbia.
Quando all'ennesimo pugno cominciò a schizzare il sangue, l'arbitro fece arretrare Nicolaj di qualche passo per accertarsi sulle condizioni dell'altro.
Il campione cadde di faccia al tappeto, sputando il paradenti in una spruzzata scarlatta di saliva.
Vennero contati i canonici secondi e il match terminò con un tintinnio di campanella e un nuovo detentore della fascia d'oro.
Vasilj passò il quarto d'ora successivo a prendere per il culo Ivan.
Il tavolino era carico di bicchieri vuoti e il posacenere ricolmo di sigarette quando tutto si congelò.
"Volkov!".
Chiamò terrorizzato, una voce da ragazzino.
Il ragazzetto brufoloso che aveva mandato in missione, comparve per poi cercare di riprendere fiato.
"La vostra donna!", avvertì indicando la folla al piano terra. "E' in pericolo!".
 

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Capitolo 16
*** 16 ***


                                                                                                 ---------------VITTORIA-----------------


 
"Io di sopra".
"E io che faccio?". Urlò in rimando.
"Tu divertire, dà?". Si spazientì lui. "Allora và".
Vittoria strinse il soprabito al petto e si fece largo fra la calca pulsante, i raggi luminosi le toglievano la visuale e l'odore inteso dei fumi le intasava le narici.
Malgrado la ressa di persone, non riusciva a scacciare la sensazione che fosse sotto a un unico enorme riflettore. Come se in qualche modo si trovasse in esame solo per il semplice fatto di essere lì, circondata da persone totalmente diverse da lei non solo per il linguaggio ma anche nel atteggiarsi.
Si sentiva osservata, giudicata, emarginata.
Sola, in un mare di gente.
Qualcuno alle sue spalle le urlò qualcosa, almeno credette che stesse parlando con lei.
Vittoria si voltò verso il barista dietro al bancone, un uomo di circa mezza età con pancia sporgente e folta barba brizzolata lunga fino al petto.
“Scusa, non parlo russo". Esclamò lei sopra al boato di chitarre elettriche, sparate a ritmo di marcia dagli altoparlanti.
"Turista?", chiese il barista con un sorrisetto e afferrò due bicchieri di plastica dalla torre impilata sul bancone. "Offro io a bella turista!".
Vittoria alzò una mano nel vano tentativo di diniego ma l'uomo aveva già fatto al volo un mix di Vodka, ginger beer e succo di lime. Con l'aggiunta, su entrambi i bicchieri, di un spicchio di lime sul bordo e una cannuccia verde fluo.
"Moscow Mule, bevi con me!", la esortò l'uomo alzando in alto i bicchieri.
Da qualche parte, poco distante, si udì il fragore di vetro in frantumi e una piccola calca di persone cominciò a dimenarsi trattenendo un omaccione a torso nudo, sudato e incazzato come una belva.
"Forse un sorso... mi pare il caso". Si convinse lei sorridendo grata al barista.
I due batterono i bicchieri fra loro. "Vashe zrodovye!".
Vittoria si concesse solo un piccolo assaggio e alzò lo sguardo verso la passerella rialzata sopra alle loro teste, dal lato opposto del capannone.
Un uomo bruno si appoggiava al parapetto, alto e ben piazzato. Con larghe spalle muscolose e con corti capelli rasati, che facevano intravedere labirintici segni bluastri tatuati su tutto il cuoio capelluto.
Era vestito totalmente di nero, con maglietta a maniche corte nera, larghi pantaloni militari neri e anfibi ai piedi.
Da quello che Vittoria poteva vedere da quella distanza, tutto il corpo esposto alle luci laser del 'militare' era ricoperto da simboli bluastri più o meno grandi e quando vide con chi stava parlando mimando una vigorosa menata di uccello, la ragazza non si stupì affatto.
Chissà per quale motivo, Vittoria si era immaginata che Vasilj Volkov fosse il più 'grosso' fra i suoi uomini. Ma non era così.
Si poteva dire che con la sua statura medio alta, era decisamente il 'piccoletto' del squadrone in nero schierato lì in alto quella sera. A dimostrazione di come non bastasse la forza fisica per diventare un leader, ma anche una avvenenza e un intelletto che quell'uomo così arrogante pareva possedere.
A un primo esame si poteva scambiare il 'militare' rasato come il capo ma, quando Volkov si fu seduto a uno dei divani in pelle,  l'intera disposizione degli uomini presenti sullo spalto cambiò di conseguenza.
Volkov parve non accorgersene, come se fosse abituato allo schieramento di forze maschili tutto attorno a lui.
Il colosso militare andò a sedersi alla sua sinistra, nessuno si sedette alla sua destra*.
Di vedetta, in piedi sostavano due uomini in atteggiamento disinvolto mentre tutti gli uomini in divisa nera si fecero più riuniti intorno al loro capo . Le persone chiaramente lì per caso, subito si fecero da parte o scesero lestamente giù per la scalinata allontanandosi.
"Lasciali perdere", la richiamò il barista sporgendosi sul bancone. "No brava gente".
"Li conosci?", lo incalzò lei urlando al di sopra di un improvviso applauso della folla a favore del direttore di gara appena salito sul Ring .
Il barista fece una smorfia e si trincò una lunga sorsata del suo cocktail. "Vengono quì quasi ogni notte. Quello con tatuaggi su testa..", e indicò con un tozzo dito l'uomo alla sinistra di Volkov. "... quello ha problemi, te lo dico io. Problemi seri e quell'altro seduto vicino, quello è peggiore. Brutte storie su loro, bella ragazza come te meglio se non si avvicina".
"Che genere di storie raccontano?".
"Ah". Il barista sbuffò con espressione disgustata. "So' cosa fanno a belle turiste come te, incantano con codice di onore ma loro potere essere in minacce, estorsioni, rapine e persone scomparse".
"Parli del Vory?", annuì lei.
L'uomo si allarmò facendole cenno di tacere con un dito davanti alla propria bocca. "No detto quella parola e nemmeno tu devi dire quella parola. Quì nessuno dice!".
 Vittoria fissò Volkov e il suo compagno bere da bicchierini dati alle fiamme. Quella scena di pura strafottenza si soffermò nella sua testa, vi bruciò per un istante, come un'immagine che si impressiona su una pellicola
Diede quindi una occhiata ai tabelloni luminosi sospesi sopra al Ring e prese una decisione.
"C'é un banco dei pegni?". Chiese improvvisamente, con il germoglio di una idea nella mente.
Le venne indicato un corridoio, posto proprio a lato del banco delle scommesse e Vittoria prese congedo rapidamente. Non rimase ad ascoltare le rimostranze del barista, deluso per la liquidazione improvvisa, ma quando fu a lato del Ring si rese conto di aver dimenticato il suo bicchiere sul bancone del bar e dovette quindi ritornare in dietro.
Questa volta trovò il barista nel bel mezzo di una discussione intensa con uno sconosciuto in canotta. Ebbero una strana reazione nel vederla, le sorrisero in maniera inquietante e la ragazza optò per riprendersi il bicchiere e darsela a gambe verso il banco dei pegni.
"Ti posso offrire trentasettemila rubli", sentenziò la donna dietro lo sportello alla fine di un meticoloso esame. Pesò il braccialetto in oro su un bilancino e controllò le punzonature che ne attestavano il metallo prezioso. Con un piccolo strumento simile a una pennetta, controllò la veridicità dei diamanti.
Vittoria spiò il conto alla rovescia su un monitor luminoso, mancavano venti minuti alla chiusura delle scommesse e lei voleva dare un'occhiata ai pretendenti della serata prima di puntare qualcosa.
Dunque. Pensò. Trentasettemila rubli corrispondevano a...
"Cinquecento dollari?", si spazientì alla fine di un rapido calcolo. "Ne vale il doppio!".
La donna al di là dello sportello si infilò in bocca un unghia laccata di rosso. "Ha un documento?".
"No".
"Allora sono trentasettemila rubli. Tra poco il banco chiude, prendere o lasciare".
Non le restava che accettare, il bracciale per lei non aveva valore affettivo e aveva in mente di combinare qualcosa quella sera. Non se ne sarebbe rimasta in disparte a piagnucolare che qualcuno la riportasse in quella prigione di casa, solo perché si annoiava.
Accettò i soldi manifestando tutto il suo disappunto e fece spazio al prossimo della fila dietro di lei.
Quella sera si sarebbero disputate le finali nelle varie categorie di pesi e in molti avevano piazzato grosse somme.
Vittoria si fece avanti verso il banco delle scommesse dove uno degli sfidanti al detentore della cintura, stava in quel momento intrattenendo il pubblico solamente rimanendosene seduto su un divano in pelle nera.
Alcuni uomini gli stavano parlando mentre si fasciava le mani con una benda bianca, il suo allenatore era curvo su di lui e sembrava pronto ad incitarlo per affrontare più una guerra che un incontro di Box.
Vittoria riconobbe la stazza e l'altezza considerevole, il viso da bambino, la Madonna all'avambraccio e le cinque cupole alle falangi della mano.
Notò anche come molte ragazze si erano riunite in cerchio attorno alla seduta del combattente, i volti emozionati e arrossati.
Sotto la luce lampeggiante, Vittoria considerò solo in quel momento che Nicolaj era forse l'unico ragazzo slavo che per i suoi canoni estetici poteva definirsi bello.
Ora che cominciava a farsi un certo occhio mettendo a confronto volti e connotati, ricordò come un detto recitasse che per l'uomo russo fosse facile essere attraente, bastava esserlo appena un po' di più di una scimmia.
Un detto popolare che certamente non faceva onore al maschio dell'est ma il ragazzo era decisamente sopra al livello degli uomini, anche più maturi, che lo circondavano.
Anche più di Volkov, visto che questo con il suo naso affilato e zigomi alti non poteva certamente iscriversi a un concorso di canonica bellezza.
Lui ci sapeva fare in altri ambiti però.
Vittoria si costrinse a non tornare con la mente a ciò che avevano fatto all'hotel in centro.
In quel momento, Nicolaj alzò lo sguardo su di lei e la riconobbe all'istante.
Suscitando un certo mormorio di delusione fra le ragazze, il giovane fece cenno con l'indice a Vittoria di avvicinarsi.
"Non ti agitare", mise subito in chiaro lei. "Mi ha portato Volkov".
 "Lui è quì?", si interessò il ragazzo.
Vittoria indicò la passerella rialzata dietro di lei, in alto. "A bere".
Nicolaj scambiò qualche parola al suo allenatore e fece per alzarsi battendo i palmi sulle ginocchia. "Allora vado, tra poco tocca a me".
Vittoria lo seguì lestamente tra la folla. "Con chi ti batterai?". Gli urlò all'altezza della schiena mentre cercava di rimanergli al passo.
"Lui", fu la risposta.
Il Lui in questione consisteva in un ammasso di muscoli gonfi che bizzarramente avevano deciso di raggrupparsi in fattezze vagamente umane.
Il campione in carica aveva un corto collo taurino infossato sulle spalle e occhietti porcini così distanziati tra loro che gli davano l'espressione basita di un pesce.
In quel momento, sedeva a un divano assorto nei propri pensieri e fissando a terra come se le risposte della vita fossero scritte in mezzo alle dita dei piedi.
"Sembra sveglio", ridacchiò sarcasticamente Vittoria.
"Sembra fatto", la corresse Nicolaj scuotendo il capo. "Non voglio vincere così".
Vittoria gli indicò i tabelloni luminosi sopra al Ring. "Pochi ti danno vincente, ma hai una possibilità!".
In quel momento, 'Mister Senso della Vita' cominciò a darci dentro di brutto con il dimenare la mascella e un gruppo sempre più folto di scommettitori cominciò ad ammassarsi al banco scommesse.
"Hai decisamente una possibilità!", urlò Vittoria volando anch'ella verso il banco.
Si sentiva euforica, le era capitato in passato di scommettere su corse di cavalli o cani ma quello era un ambiente del tutto nuovo per lei.
Nell'aria non c'era profumo di caldarroste e non si sentivano campanelle che annunciavano le aperture dei cancelli, lì c'era puzza di sudore e le orecchie pulsavano a tempo di musica metal.
Puntò tutti i suoi rubli a disposizione, non solo perché quello sarebbe stato l'ultimo incontro della serata, ma anche perché così facendo se Nicolaj avesse vinto, contro ogni pronostico, rischiando l'equivalente di cinquecento dollari ne avrebbe incassati circa duemila.
Dollaro più o dollaro meno.
Avendo avuto a disposizione pochi minuti per rendersi conto delle condizioni pietose del campione, solo alcuni avevano avuto modo di puntare sul ragazzo. Perciò la vincita finale per i più giudiziosi sarebbe stata esponenziale.
Vittoria si compiacque con sé stessa, sopratutto quando più tardi da bordo Ring attraverso la gabbia, vide il paradenti del campione volare via in una nuvola di saliva e sangue.
In alto la cintura per il nuovo re del Ring e benvenuto rotolo di banconote in mano a Vittoria.
Si sentiva viva, una scarica di adrenalina le attraversò tutto il corpo spingendola ad aggrapparsi alla gabbia urlando a squarciagola in mezzo a centinaia di sconosciuti.
Aveva mai fatto esperienze così vere in passato?
Si era mai lasciata andare senza chiedersi in che modo avrebbe messo in imbarazzo sé stessa o suo padre?
Quella sensazione di essere osservata tornò. Anzi, crebbe.
Percepì uno sguardo diretto su di lei dall'altra parte del locale, avvolta nell'ombra.
Mentre contava la sua mazzetta di denaro, alzò gli occhi e colse lo scintillio di una luce stroboscopica che si rifletteva sulla fibbia di una cintura appartenente a un uomo in canotta.
Lo stesso che aveva interrotto mentre parlava con il barista.
Vittoria si sentì violata da quello sguardo insistente e procedette rapidamente verso gli affollati bagni.
Il bagno femminile si trovava in fondo a un stretto e buio corridoio, delle coppiette si erano appartate lì per pomiciare e altri ragazzi facevano avanti e in dietro in attesa che le loro accompagnatrici uscissero.
Lì la musica arrivava rimbombante sulle pareti, tanto da creare una acustica ancora più disturbante.
A dispetto di quello che la maggior parte degli uomini può pensare, il bagno delle donne é un cesso più e più volte violato dall'indecenza.
Appena entrata, Vittoria fu travolta dal rumore degli asciugamani elettrici, il chiacchiericcio delle altre donne e ragazze ma, sopratutto, da una puzza di piscio che si attaccava con i ramponi al naso.
Esaminò l'interno della prima cabina disponibile e come volevasi dimostrare, la tazza non serviva per pisciare ma solo per indicare che quella stanza era 'il bagno'.
Gocce di urina si trovavano sulla tavoletta, sui muri e sul appiccicoso pavimento piastrellato.
Aveva sperato di trovare lì, l'unico posto dove poteva starsene sola, un minimo senso di sollievo da quella sensazione di angoscia improvvisa. Sopratutto, considerando che con sé non aveva la sua boccetta di ansiolitico.
Un minuto più tardi, mentre lei stava a fissare i simboli in cirillico scritti con il pennarello indelebile sulla porta della cabina a doppia apertura, qualcosa cambiò.
La sensazione fu tanto strana quanto improvvisa, di colpo da una atmosfera assordante di voci e risate si passò a un altrettanto assordante silenzio.
Vittoria udì dei borbottii femminili preoccupati e l'ingresso al bagno che si apriva e si chiudeva più volte man mano che tutte le donne uscivano.
Qualcuno fischiò un breve motivetto, come fosse un richiamo.
Un suono che alle orecchie di Vittoria suonò agghiacciante come il cigolio dei cardini all'entrata di un castello, infestato da spettri.
"Bella turista?".
Chiamò una roca voce maschile.
Poi un tonfo, il rumore di passi sull'appiccicoso pavimento, poi ancora tonfo seguito da una vibrazione.
Lo sconosciuto stava aprendo con delle spinte tutte le cabine, in cerca di lei.
Vittoria si sentiva ghiacciata e in trappola come un daino ferito in una tagliola, occhi strabuzzati e il fiato corto.
In silenzio, si infilò il pellicciotto e fece aprire molto lentamente la serratura della porta ma lo scatto uscì comunque orribilmente udibile. Si artigliò con le mani alle due sponde laterali della cabina, il water dietro di lei e un piede piantato sulla porta.
"Sei quì, dà?".
Vittoria era al punto di trattenere il fiato, ora poteva sentire i passi proprio al di fuori della sua cabina.
Quando percepì un debole movimento della porta che si apriva, lei non perse tempo. Si sollevò in aria sorreggendosi alle sponde e diede una vigorosa pedata alla porta che si spalancò in faccia al suo aggressore.
 L'uomo urlò come un pazzo nella sua lingua e Vittoria ebbe un istante di panico, forse sarebbero accorsi dei suoi complici?.
Si buttò a capofitto verso l'uscita, l'uomo che le stava alle calcagna.
Le artigliò una manica facendola ruotare su sé stessa e lei ebbe la prontezza di afferrare un dispenser di sapone in ceramica da sopra un lavandino, per poi fracassarglielo contro una tempia.
L'uomo in canottiera nuovamente urlò ma la lasciò andare e lei poté fiondarsi fuori. Lungo il corridoio buio, in direzione del muro di folla che la attendeva in fondo, al varco del stretto passaggio.
Vittoria non aveva nemmeno le forze per urlare, traballante sui tacchi si sbilanciò in avanti andando a incornare come un ariete lo stomaco di un uomo duro come l'acciaio.
Vasilj Volkov, nella sua magnifica e provvidenziale persona, grugnì di sorpresa ma subito la sbatté dietro di sé fra le braccia di un altro uomo. Grosso quanto una cattedrale, rasato, con tatuaggi sulla cute e con una lacrima nera sotto all'occhio destro.
Volkov alzò un braccio piazzandolo di traverso e piantando il palmo contro il muro, come una sbarra a chiusura del corridoio.
L'inseguitore di Vittoria andò a sbatterci con tutta la sua forza e finì a gambe all'aria, schiantandosi di schiena sul pavimento.
Mentre Volkov gli si piazzava a cavalcioni sopra, Vittoria vide come intorno a loro un piccolo esercito di inquietanti uomini in nero si era chiuso a cerchio proteggendoli dal resto della folla.
Alcuni di loro sfoderarono dei coltellini, tenendoli però bassi all'altezza delle cosce. Come una non troppo velata minaccia che non avrebbero esitato a usare le armi, se qualcuno si fosse fatto avanti.
Sul pavimento, Volkov non stava dimostrando alcuna pietà per la sua vittima. Troppo occupato a far schiantare il pugno talmente violentemente contro il cranio dell'altro uomo, più e più volte, da perdere completamente cognizione di ciò che lo circondava.
Il duro metal rimbombava nelle casse e mentre il growl di una voce cavernosa saliva di intensità, le luci presero a lampeggiare facendo scomparire e poi riapparire la scena angosciante di Volkov in piena frenesia omicida.
Vittoria si portò le mani alla bocca mentre era certa che il rumore di carne squarciata, lo scricchiolio di ossa rotte e il gorgoglio dell'uomo che urlava e piangeva, non glielo avrebbero mai tolto dagli incubi.
Il volto dell'uomo in canotta prima si gonfiò in bubboni violacei, poi la pelle si squarciò in strappi sanguinolenti, i denti e le labbra si spaccarono finché alla fine una qualsiasi connotazione umana era indistinguibile.
Volkov continuava, non si fermava. La sua vittima giaceva inerme, non tentava nemmeno più di levarselo di torno.
Gambe e braccia spalancate sotto al sicario, come se stesse facendo l'angelo della neve nella sua stessa pozzanghera di sangue.
L'uomo che la sorreggeva decise che quello era il momento buono per intervenire, buttò Vittoria da parte e si lanciò verso il compagno fattosi belva.
Il volto di Volkov era un maschera di ira. I denti scoperti come un demone, la pelle e il giaccone macchiati dagli schizzi di sangue.
Stava urlando qualcosa, sempre le stesse parole ma Vittoria non capiva.
Le immagini e i suoni si ammassarono davanti agli occhi della mente della ragazza, veloci e sfuggevoli come le luci del locale. Inarrestabili e violente come la scena che stava assistendo in quel momento.

Il testo di una canzone fatto vibrare attraverso i giri di un vinile.
La voce di sua madre.
Lei che canta insieme a sua madre.
E vede i loro volti.
Due volti, vuoti e spenti.
Delle piastrelle.
Acqua sulle piastrelle bianche.
Sangue che si allarga e sboccia come un fiore scarlatto sull'acqua.
Il canto soave di sua madre.

Il growl si era ora trasformato in un giro di chitarra e il boato della folla in pieno pogo, spintonandosi tra loro a rimo in lontananza, arrivò come giusto contesto a quella situazione di merda.
Il tizio rasato agguantò per le spalle Volkov e gli diede una poderosa sbatacchiata, per poi urlare a ripetizione una frase che Vittoria poté tradurre a sommi capi come:
"Non sei lì! Non sei lì, Vasilj. Ascoltami, non sei lì!".
Le luci non la smettevano di lampeggiare e Volkov alla fine si decise a ridestarsi.
Si alzò con una strana espressione, voltò il capo all'insù verso il soffitto leccandosi il sangue dalle labbra. Quella espressione di pura estasi gliela aveva vista mentre lei e lui stavano scopando, giusto quella che sembrava una vita prima.
Sembrava che invece di ammazzarlo di botte se lo avesse appena fottuto. Una dura erezione spingeva sulla patta degli eleganti pantaloni in grigio graffite, macchiati di scuro all'altezza delle ginocchia.
Era eccitato. Letteralmente, sessualmente, eccitato dal dolore altrui. Dalla morte.
Una bandierina rossa si alzò sventolando nell'angolino della consapevolezza di Vittoria, una di quelle che ti dicono: ferma e guardalo, questo è pazzo!
Ma la razionalità cominciò a montare in pari forza nell'animo della ragazza.
Quella eccitazione poteva essere dovuta semplicemente dall'adrenalina. Non era una novità, molti uomini dopo un combattimento sentivano il bisogno di eiaculare.
Era fisiologico, era normale... no?
Ma il corpo esanime del disgraziato a terra non era per nulla normale!
Il tizio rasato tornò da lei e la prese per il gomito conducendola attraverso la folla, qualcuno in quel momento prese a urlare colto dal panico e la gente cominciò a correre in ogni direzione.
Vittoria venne spinta, graffiata e fatta incespicare ma il suo protettore mantenne ben salda la presa mentre si dirigevano seguiti da tutto il plotone in nero verso l'uscita.
La notte era fredda e scura. Fece un profondo respiro, cercando di riprendersi.
La musica pulsava anche nel parcheggio all'esterno e alcune persone stavano già correndo verso le auto per andarsene via in fretta.
Nessuno le prestò ulteriore attenzione e lei si rilassò un poco.
Il bestione che le aveva fatto da scorta, quello con la lacrima sotto l'occhio, si avviò da Volkov andatosi a riprendersi accanto alla sua Audi parcheggiata. Il tizio gli prese il retro del collo in una mano e appoggiò la fronte contro quella di lui.
I due si scambiarono frasi sconnesse in un pesante accento. Il tizio con la lacrima sotto l'occhio piantò l'indice ripetutamente all'altezza del cuore di Volkov e cominciò con una pioggia di frasi in cui ogni parola mangiava e si accavallava all'altra.
Volkov dal canto suo sembrava capire e annuiva di tanto in tanto con espressione glaciale.
"POLITSIYA!", urlò qualcuno e dei lampeggianti comparvero in fondo al parcheggio illuminando l'oscurità con lampi azzurri.
Cominciò un fuggi fuggi generale dove uomini in divise nere e civili corsero in ogni direzione, la polizia fece partire una breve sirena per ristabilire il controllo ma si stava rapidamente propagando il panico.
Volkov spalancò lo sportello della sua auto, lato guida, e Vittoria venne spinta verso il lato del passeggero dal tizio suo compare.
La ragazza salì a bordo e fece appena in tempo a richiudere lo sportello che Volkov partì in un rombo di tuono del motore e in un stridore di pneumatici.
Guidò come un pazzo, superando in vie strette e imboccando sensi unici al contrario. Fu solo quando si allontanarono di qualche chilometro che decise di rallentare e immettersi nel tranquillo traffico cittadino come se non fosse successo nulla.
Una delle mille auto anonime, placida e lenta.
Era ancora cosparso di sangue, batté un palmo sul volante in un ringhio e non le rivolse la parola.
Essendo lei stessa agitata e sconvolta, non aveva alcuna intenzione di sopportare il suo malumore.
"Beh, insomma. Che ti è preso? Ti hanno visto, ci metterai tutti nei guai!". Sbottò impaziente.
Lui improvvisamente la degnò di una occhiata funesta. "Ci? Hai detto ci?".
Vittoria serrò i pugni sulle ginocchia. "Si, sono pure io coinvolta adesso. No? Non tenermi il muso per l'amor di Dio, non sono stata io a quasi accoppare un uomo sta notte. Te lo potevi risparmiare!".
Parlò con più asprezza di quanto volesse e lui si irrigidì ancora di più.
Serrò la presa sul volante con entrambe le mani, gonfiò i bicipiti e smorzò un urlo inumano fissando la strada fuori dal parabrezza.
Vittoria si appiattì sul sedile. Quel tipo aveva seri problemi nel gestire la rabbia.
Volkov sterzò bruscamente verso il ciglio della strada, poi piantò il freno e questo li fece curvare in avanti entrambi. Schiacciò con talmente tanta foga il tasto delle 'quattro frecce' che per miracolo questo non si infossò nel cruscotto.
Il russo si voltò verso di lei, piantando il gomito sinistro sulla sommità del volante e con la mano destra artigliò il lato sedile della ragazza.
Era chiaramente furioso, anzi stava per esplodere.
Anche a lei sentì montare la collera, che diritto aveva di trattarla così?
"Tengo muso!", sbottò lui. "Muso, eh? Io uso ora tutto autocontrollo per non sbattere te fino a farti perdere capelli e tu... dici che tengo muso!".
"Santo Dio, ma che problemi hai? Hai fatto tutto da solo, io me la sapevo gestire bene!". Stava cercando di arrampicarsi sugli specchi, lo sapeva. Ma non poteva sopportare di partire in posizione svantaggiata nella discussione ammettendo che aveva avuto bisogno di lui, un'altra volta.
Lui sibilò a denti stretti. "Sono stufo di fare da guardia ogni minuto per paura che qualcuno approfitta di te per attaccare mio potere. Tu servi viva e sono stufo di dovere stare a guardare mentre gente cerca di violentare o picchiare te, no è divertente!".
"Pensi che io lo trovi divertente?", urlò lei. "Stai cercando di dire che è colpa mia?".
A queste parole lui fece per agguantarle la faccia con una mano, ma si seppe trattenere.
"Dà, colpa tua! Tu dovere solo guardare in giro, vedere spettacolo su Ring. Aspettare me, così fanno mogli. Invece no, tu attiri gente pericolosa. Tu calamita!".
Il suo accento si era fatto duro e molto accentuato, al punto che Vittoria dovette concentrarsi per interpretare il suo inglese.
"Dovevo annoiarmi, struggendomi nella attesa che il mio Signore e Padrone decidesse di convocarmi? Ascoltami bene, mi hai portato a una bisca. Il minimo che potevo fare per passare il tempo era scommettere e...".
Lui sgranò quei duri occhi di cemento. "Scommettere? Tu scommesso con quali soldi?".
Vittoria si strinse nelle spalle. "Ho impegnato un mio braccialetto".
Lui la incalzò. "E hai vinto?".
Vittoria si strinse più forte nella sua pelliccia, in tasca custodiva ancora il suo bottino. "Si".
Volkov ebbe un'altra crisi e fece ancora per artigliarle la faccia. "Quella merda di uomo approfitta di turisti, rapina loro e si diverte con donne. Tu stupida, fatta vedere con soldi!".
Erano ormai naso a naso e si urlavano in faccia.
"E' colpa tua, invece, tu mi trascuri e sospetti di me tutto il tempo. Ti ho detto la verità su chi sono e su cosa voglio per il mio futuro, sono incastrata in questo paese di merda con un uomo che con gravi crisi di rabbia. Ma io sono solo una donna, certo, perché mai dovresti prestare attenzione al mio benessere! Le donne devono solo obbedire, eseguire i fottuti ordini del padrone che prima imparano a chiamare Padre e poi Marito! Starsene buone con le mani in mano in attesa che il maschio torni e dica loro cosa devono fare!".
Lui arricciò il labbro superiore, sfigurato dalla cicatrice. "E se tu avessi fatto questo, ora non avrei io testimoni di aggressione. Non so se devo strozzare te o buttare te a terra e picchiare fino a farti svenire, ma so che voglio fare qualcosa".
A quel punto Vittoria fece un deciso tentativo di prenderlo a sberle, lui scansò i colpi e la piantò sul sedile stringendole la presa al collo.
Dunque aveva deciso, l'avrebbe strozzata.
"Fallo ancora e prendo te a cinghiate!", ringhiò.
"Sei un sadico e un pazzo", ansimò lei liberandosi dalla presa. "Pensi che l'abbia fatto apposta a farmi inseguire da un rapinatore?".
"Dà, penso che tu fatto apposta per punire me. Perché io non guardo te, io non ti darò mai cose come amore. Capito?".
Vittoria rimase a bocca aperta.
"Amore? Ma va a farti fottere! Abbiamo scopato, si certo è stato bello ma nulla di più. E' stato il tuo maledetto orgoglio ad andarci di mezzo!".
"Oh", sbuffò spazientito lui. "Allora tu messa apposta tra braccia di altro uomo per dimostrare che non vuoi amore da me. Ma tu mia! Io colpito lui per te, perché tu roba mia!".
"Cosa gli stavi dicendo mentre lo menavi, eh?". Lo interrogò lei, improvvisamente consapevole della risposta. "Gli ripetevi che ero roba tua?".
Silenzio.
"Che piaccia a te o no", sentenziò tombale lui.
"Non mi piace! Non mi piace neanche un po' perché ho paura di te, Vasilj Volkov. Cosa mi farai una volta sposata, eh? Avrai in mano una carta vincente con mio padre e potrai avere un collegamento diretto con l'Honduras. Mi farai sparire o mi terrai rinchiusa in camera finché sarò vecchia e impazzita? Ti servo viva già, ma in quali condizioni?".
Rimase a guardarla con occhi truci.
Vittoria sperò che dicesse qualcosa, qualunque cosa.
Ma non lo fece,
Questo la terrorizzò.
Lui tolse il segnale delle 'quattro frecce' e si riaccodò alla fila di auto in strada.
Non si dissero un'altra sola parola.
Quando raggiunsero di nuovo la casa con le finestre murate, Vittoria sapeva cosa le sarebbe accaduto.
Volkov la riaccompagnò nella sua camera, prese la chiave dalla toppa e la chiuse dentro a doppia mandata.
La voce roca di Volkov giunse attraverso il legno della porta. "Starai quì perché io desidero così".
Poi, con il tonfo di passi sul pavimento in linoleum, se ne andò lasciandola nella sua prigione di solitudine.



*NOTA.
In ambito militare, il secondo in carica prende posto alla sinistra del suo più alto in grado.

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Capitolo 17
*** 17 ***


                                                                          ---------------COMMISSARIO CAPO DETECTIVE, EGOR PETROV-----------------
 

SERVIZIO POLIZIA CRIMINALE
DIPARTIMENTO INVESTIGAZIONI CRIMINALI
 
 
Il detective Egor Petrov finì con gli incartamenti del suo ultimo caso intorno alle sei di mattina.
Fuori dalla porta a vetri dell'immenso ufficio a più postazioni, era un tempo affissa una logora targhetta in ottone con indicato: Ufficio principale per indagini criminali.
Ora era rimasto solo il residuo della colla a forma rettangolare e il vetro si era fatto ingiallito dal fumo di sigaretta.
A quell'ora mattiniera a essere presenti dietro alle rispettive scrivanie, c'era solo il turno di notte che avrebbe comunque staccato da lì a qualche minuto, a giudicare dal rumore di cartellini timbrati al piano di sotto del turno di mattina in arrivo.
Il detective aveva preferito soffermarsi su ogni dettaglio del rapporto, in quel periodo stava seguendo una indagine su un cadavere rinvenuto in un canale di scolo. Inizialmente era stato convocato sul posto supponendo che il corpo appartenesse all'esponente dell'alta società abbiente di San Pietroburgo, scomparso da qualche giorno, ma si era rivelato essere un signor Nessuno. Forse vittima di uno scontro fra bande.
Di solito lui non si occupava di ricerche di uomini scomparsi, ma l'opinione pubblica stava mutando. C'era sempre più una certa sensibilità sullo stato di avvelenamento malavitoso della città e di conseguenza dell'intero paese, perciò Egor era chiamato maggiormente a compiere il suo dovere.
Era un uomo ancora in forma, gli piaceva tenersi allenato e pronto all'azione sul campo. Cominciava però ad avere della calvizie incipiente, ormai era alla soglia dei cinquanta e in trent'anni di carriera nella Polizia poteva purtroppo contare sulle dita di una sola mano gli esponenti della 'Brigata del Sole' o i famigerati Vor che era riuscito a incastrare veramente. Lui poteva dormire sereno perché, anche se spesso quei perversi finivano per uscirne in poche ore, lui almeno ci provava a mettere i bastoni fra le ruote.
A partire dalle piccole cose, come farcire i rapporti di così tanti errori che dovevano essere rivisti e corretti prima della scarcerazione del sospettato e poi, chi l'avrebbe mai detto, l'amministrazione centrale continuava a fare confusione sui moduli da compilare.
E le stampanti si erano tutte inceppate. Tutte e ventitré.
Ma era quando usciva all'azione vera che il detective Egor credeva ancora nell'operato del suo lavoro.
Restava fermo per ore sotto la pioggia protetto solo da un impermeabile o in auto davanti a un bar o in un furgone con l'insegna 'Fioraio' sulla fiancata, in compagnia di altri cinque poliziotti sudati e nervosi appartenenti alla sua squadra. Solo per poter intercettare e fotografare movimenti, parole o scambi tra esponenti criminali.
Diede un ultima pinzata al plico di stampe e fece un vigoroso tiro dalla sua sigaretta elettronica. Il fumo denso, simile alla nube di fumogeno, si innalzò come un pennacchio dalla sua scrivania fino alle luci bianche al neon appese al soffitto intonacato.
"Uh, Petrov!". Si lamentò un suo collega alla postazione accanto, scacciando con bruschi gesti della mano la nebbia. "Cristo, almeno accenditi una vera cicca. Mi pari una fichetta!".
Partì una sequela di risate trattenute, provenienti al di là dei pannelli divisori tutti intorno a Egor.
"Ehi, porta rispetto. Mia moglie vuole che smetta, questa roba è pure senza nicotina. Stò andando fuori di matto".
Egor si scartò l'ennesima chewing gum e fece per alzarsi, quando il maledetto telefono fisso 'dell'ante guerra' cominciò a squillare provocandogli un principio di infarto.
Nessuno chiamava mai a quell'ora mattiniera.
"Ah, io me ne vado", alzò le mani lui. "Sono le sei e mia moglie mi accoppa se faccio tardi pure oggi. Novikov prendila tu, te la passo in linea".
Pigiò il pulsante rosso lampeggiante e fece cenno al collega di alzare la cornetta, questi roteò gli occhi in uno sbuffo e rispose alla telefonata.
Egor era già alla porta a vetri con il cappotto sulle spalle quando Novikov lo richiamò schioccando le dita e tenendo l'orecchio ben attaccato al ricevitore.
"Certamente Signore... certo... glielo passo", stava dicendo.
Egor si sbracciò contrariato ma il collega mise in attesa la chiamata per dirgli: "Ti conviene rispondere, è il Dirigente Generale. Vuole passarti un incarico urgente, per questo pomeriggio".
Egor si stropicciò gli occhi esausto, era a corto di sonno ed era certo che, se avesse risposto alla chiamata, non avrebbe nemmeno avuto il tempo di dormire per più di un pisolino di un ora.
"Passamelo". Si arrese infine, tornandosene alla sua scrivania.
L'incarico era semplice, almeno così sembrava. Doveva equipaggiare la sua squadra e provvedere al monitoraggio di movimenti sospetti in quel di una villa fuori città.
Era stata annunciata una festa per quella sera, un dolce compleanno per una graziosa e ricca ragazzina. La figlia di un magnate, Boris Titov.
Non ci sarebbe stato nulla di male, se non fosse che lo stesso Titov era controllato a vista da anni. Le sue così dette 'amicizie' comprendevano individui più disparati, dal proprietario di industrie al funzionario di banca, passando per rispettabili elementi della società arrestati poi per associazione a delinquere ed estorsione oppure politici sotto inchiesta per corruzione e abuso di ufficio.
Titov era pulito, era il migliore amico di niente di meno che il sindaco della città. Una bella giovane moglie impegnata nel sociale aiutando senza tetto e una coppia di viziate ragazzine di età inferiore ai quindici anni.
Il padre e marito modello, con proprietà terriere, auto e mani in pasta a costruzioni edilizie da lì fino all'altra parte del mondo come a New York.
Ma quella sera non sarebbe stata una sorveglianza comune, il Ministero degli affari interni aveva intrattenuto un 'piacevole' colloquio con un esponente capo della DEA. Agenzia federale anti droga statunitense.
L'amministrazione americana non poteva arrivare fino in Russia ma attraverso l'ambasciata era riuscita a stabilire un cordone con il Ministro dell'interno e la palla era passata al Dipartimento delle investigazioni criminali, di cui Egor era capo.
La DEA stava seguendo dei carichi spediti dal sud America che arrivavano fino al dominio del Zio Sam, amministrati da broker italo-americani presumibilmente affiliati alla 'Ndrangheta. Uno di questi carichi invece aveva fatto approdo, arrivando direttamente su ali di ferro, fino a San Pietroburgo.
Volevano vederci chiaro e una cooperazione tra America e Russia faceva bene all'immagine del 'siamo tutti amici sotto a quest'unico cielo' che la politica estera puntava a far digerire alla stampa.
"Novikov?", chiamò stancamente dopo che ebbe riagganciato.
Il collega allungò il collo in attesa di disposizioni.
"Fa per favore un giro di chiamate ai ragazzi, buttali giù dal letto se necessario. Voglio organizzare una riunione il prima possibile e dì loro di prepararsi a una lunga giornata. Abbiamo da sorvegliare una festa di compleanno, che portino le patatine!".
 
---
 
Quel pomeriggio nella campagna di periferia, un sgangherato pick-up rosso ruggine parcheggiò cigolando sulla sommità di una piccola collina boscosa.
Da quel punto si riusciva ad avere una buona visuale sulla florida vallata sottostante, curata e ben potata dai giardinieri della villa posizionata proprio al centro e circondata da alti cancelli.
Un plotone di sorveglianza si aggirava guardingo lungo il perimetro, non avevano armi in vista e parevano appartenenti alla semplice guardia di sicurezza. Un segnale inequivocabile che, da lì a momenti, esponenti di spicco si sarebbero fatti vedere.
Dal sedile del passeggero del auto, il capo detective Egor abbassò il finestrino in un raschiare di manovella. Agganciò il cavalletto allo sportello e vi assicurò la macchinetta fotografica digitale dall'enorme obiettivo.
Collegò un cavo che dalla macchinetta arrivava al computer portatile, aperto sulle sue ginocchia, e diede una rapida occhiata attraverso la lente ai preparativi in pompa magna che il catering stava organizzando per la serata.
Palloncini rosa erano stati appesi ai lati dell'inferriata di accesso al giardino, un gazebo bianco era stato issato per accogliere sotto di esso gli ospiti in un aperitivo di benvenuto e un tappeto altrettanto bianco era stato steso per guidare gli invitati verso l'interno dell'enorme villa storica.
La trasmittente agganciata al petto del suo collega alla guida suonò con un BIP e la voce di uno dei ragazzi, in attesa nel furgone da fioraio lungo la strada che portava fino alla proprietà, risuonò leggermente disturbata da una interferenza.
"Ci sono movimenti, auto in avvicinamento".
Egor strinse forte la macchina fotografica e zoommò verso il cancello d'ingresso.
Nell'ora successiva, quello che assistette fu una sfilata infinita di gente in completi di Armani e pellicce di visone.
Il detective scattò raffiche di immagini ritraenti persone in vista stringere, sul portico di casa, la mano prima di Titov, poi alla moglie e poi alle due figliolette.
"State ricevendo le foto?", si accertò Egor parlando al microfono agganciato al bavero del suo cappotto.
Uno degli uomini nel furgone allestito con monitor all'avanguardia, parcheggiato a qualche chilometro da lì, rispose affermativamente. "Hai la mia stessa sensazione, capo?".
Una riunione di 'capocce' proprio a pochi giorni dall'arrivo di un inatteso carico di cocaina dall'America del sud?
Sembrava davvero troppo facile a pensare male.
"Prendete nota, ragazzi", gli rispose il detective. "Oggi siamo testimoni alla nascita di un nuovo cartello".
"Ancora un auto in avvicinamento", lo avvertì il collega dalla trasmittente. "Audi RSQ8 nera, finestrini oscurati e carena bassa".
"La vedo", diede conferma Egor dopo qualche minuto.
Scattò una nuova pioggia di fotografie, l'auto che imboccava il selciato e che parcheggiava accanto a tutte le altre in fila dietro al gazebo dell'accoglienza.
"Porco cane". Si lasciò sfuggire il collega di Egor dal sedile di guida, sbirciando le foto che il suo superiore stava facendo e che comparivano in anteprima sul monitor del portatile. "E questi da dove saltano fuori?".
Dall'auto sportiva nera lucida erano scesi quattro uomini in colletti di camicia sbottonati e cappotti lunghi scuri.
Mentre i due ragazzini che scendevano dai sedili posteriori non davano l'impressione di essere nulla più che accompagnatori, i due uomini che scesero dai posti anteriori procurarono non pochi pensieri al detective Egor.
"Questi non sono capi di industria, poco ma sicuro". Commentò ancora il suo collega, sedutogli accanto.
Non erano nemmeno compagni di giochi della festeggiata tredicenne.
Sembravano essere capitati lì per errore. Volti arcigni, mani nelle tasche dei pantaloni gessati, pelle tatuata in ogni parte esposta. Uno dei due, il più nerboluto, aveva simboli persino su tutta la testa.
I quattro si muovevano in branco a ranghi stretti. Il capo di loro, il più basso, decideva in che direzione muoversi tra gli invitati e gli altri tre lo seguivano orbitandogli attorno come satelliti.
Egor scattò foto che ritraevano il nuovo arrivato mentre stringeva la mano ai padroni di casa e foto che immortalavano uno dei suoi galoppini consegnare un pacchetto con un nastro colorato alla protagonista della festa.
Constatò che, a parte le mogli molto spesso non più vecchie dei quarant'anni e ai bambini compagni e parenti delle figlie di Titov, quei avanzi di galera erano i più giovani alla spicciolata.
"Nuova generazione", commentò il detective in un sussurro. Più rivolto a sé stesso che per un vera e propria risposta al suo collega.
Fece scorrere il dito indice e medio sul touchpad del portatile e ritagliò il dettaglio del volto di quel inquietante nuovo arrivato. Naso affilato, occhi leggermente a mandorla... forse di origini nordiche. Capelli appena un po' più lunghi di una rasatura completa, leggera barba scura a coprirgli guance e mento.
"Fatemi una ricerca su di lui, controllatemi il database generale delle carceri. Tatuaggi del genere si fanno solo lì. Avrà un nome e un cognome, voglio saperli".
Dalla trasmittente giunsero esclamazioni affermative multiple.
Quando tutti gli invitati vennero esortati a riscaldarsi all'interno della proprietà, c'era gran poco che il detective e la sua squadra potessero fare.
"E adesso?", chiese il suo collega tamburellando con le dita sul volante.
"Aspettiamo", gli rispose Egor mettendo in stand by la macchinetta.
Tornò con l'attenzione alla foto dello straniero. Sigaretta tenuta in equilibrio su labbra sfregiate, espressione assorta. Dietro di lui, sullo sfondo, il compagno 'testa tatuata' stava sputando a terra.
"Chi sei tu?".
 
 

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Capitolo 18
*** 18 ***


                                                                                                            ---------------VASILJ-----------------
 

"Facciamo un bel applauso di incoraggiamento alla meravigliosa Mirjana, che questa sera allieterà tutti con la sua soave voce".
Per tutta la sala da ballo riverberò lo scroscio di applausi entusiasti.
Il salone era stato allestito in maniera superba, richiamando volutamente l'atmosfera viennese del ballo delle debuttanti.
Tavolini rotondi ornati da pregiate tovaglie damascate bianche, erano stati disposti tutto attorno alla pista decorata da colorati ed intricati mosaici.
Argenterie scintillanti, candelabri dorati, porcellane dalle bordature floreali, centri tavola immensi con le dimensioni di sequoie.
Poi, ancora, cristalleria e musica dal vivo con violini e pianoforte, direttore di orchestra e... a Vasilj stava salendo il vomito.
Il circo dell'ostentazione.
Lui, insieme a Ivan, Nicolaj e il tarchiato Elisey, erano stati rilegati al tavolo più lontano da quello d'onore. Il più vicino possibile all'uscita, accanto all'altare raccoglitore dei maestosi regali di compleanno infiocchettati e profumati.
Praticamente il loro era il tavolo degli indesiderati, il che voleva dire che erano invisibili al più del resto degli invitati.
Aleggiava una certa aura ostile tutto attorno a Vasilj. L'atteggiamento degli esponenti di spicco della società si poteva interpretare come sufficienza ma la realtà era molto più appagante.
Avevano timore del tipo di 'amministrazione' che Vasilj e i suoi potevano portare nelle loro piatte vite da eunuchi.
Il Siberiano si presentava al mondo quella sera come simbolo di un immaginario, di un marchio del Vory destinato a fare il giro del mondo perché lui e i suoi uomini così discostanti dalla classica ed austera malavita rappresentava l'improvviso quanto netto cambio di atteggiamento.
Dal guanto di velluto al pugno di ferro, dalla carota al bastone. Dagli intrighi di potere alle stragi in piena zona urbana.
La mattanza al condominio di Kozlov, con la seguente esecuzione di uno dei Vor più potenti di Russia, era stata definita come una 'macellazione' sui giornali locali e aveva girato di bocca in bocca diventando da sussurro a diceria e da diceria si stava protendendo verso la leggenda.
Vasilj Volkov rappresentava nella sua persona la trasformazione, da una struttura che andava verso un canone borghese a un metodo feroce e violento della provincia.
Nessun azzardo, Vasilj sapeva che una strage avrebbe posto la sua candidatura al Vory sotto a un riflettore. Per lui il sangue era il capitale più prezioso, riconosceva alla ferocia un carattere mediatico che intendeva cavalcare. In pratica teorizzava e realizzava il terrorismo mafioso.
L'ostilità verso di lui la capiva. Voleva rendere visibile ciò che l'Organizacija era sempre riuscita a tenere invisibile, con il rischio di intensificare leggi anti mafia che avrebbero messo a dura prova gli affari e le strutture. Ma il Siberiano aveva trent'anni e una vita davanti in cui non voleva porsi i problemi delle responsabilità.
A fine serata, il tavolo del Siberiano era ingombro di resti di cibo, molliche di pane, macchie di vino e etichette di bottiglia strappate e fatte poi a piccoli pezzettini.
Con due colpetti fece cadere la cenere della sigaretta nella apposita ciotolina di cristallo. Seduto di traverso, caviglia destra sopra a ginocchio sinistro, un gomito sul tavolo e l'altro braccio gettato dietro allo schienale della seggiola dorata.
Ascoltava rapito la voce calda e provocante di Mirjana intonare in lingua russa la canzoncina 'Happy Birthday', con sensualità e lentezza come fece Marilyn Monroe nella sua storica interpretazione.
La vide aggirarsi fra i tavoli fluttuando con meravigliosa eleganza, stringendo il microfono cosparso di glitter in quella sua affusolata mano.
Alla soglia dei quarant'anni era ancora una donna da mozzare il fiato, seni gonfi e gambe che non finivano più. Capelli bruni che ricadevano ad onde fino al culo sodo.
Vasilj se la mangiava ancora con gli occhi nonostante lui avesse voltato pagina. E anche lei.
Mirjana sculettò a favore di tutti gli uomini che si trovò davanti ma fu solo quando raggiunse il tavolo di Vasilj e i suoi, che si fermò. Fece il giro delle sedie e con le lunghe unghie smaltate di nero andò a graffiare le spalle di Vasilj, partendo da una per poi passare per il collo e finendo sull'altra spalla.
Lui non fece una piega, continuò a fumare placidamente mentre i suoi compagni fischiavano barbaramente e battevano le mani compiaciuti dallo spettacolino.
Mirjana si allontanò e finì il canto con una carezza alla guancia della festeggiata tredicenne.
Seguirono altri applausi calorosi e la donna fece schioccare le lucide labbra in direzione della platea, ringraziando sentitamente.
"Non è meravigliosa?", esordì alzandosi in piedi uno dei Vor anziani presenti in sala. Un uomo sui sessant'anni, con una pancia enorme e folti baffi bianchi.
Mirjana lo raggiunse ancheggiando e andò a sistemarsi fra le braccia di quel uomo, più tricheco che umano.
"Signorina Titova, mi da il permesso di fare un importante annuncio?". Chiese l'uomo in direzione della figlia di Titov.
Quest'ultima, seduta al tavolo d'onore, batté le mani estasiata in un rimbalzo molleggiato di boccoli biondi. "Accordato!".
Accanto a lei, la sorella pressoché identica, la madre e Titov, sorrisero complici.
"Ho chiesto a questo affascinante angelo di farmi l'onore di diventare suo marito e, incredibilmente, ha accettato".
Altri scroscianti applausi ed auguri urlati sopra al baccano. Il vecchio e Mirjana si scambiarono un rapido bacio a stampo.
"Lo sapevi?". Chiese Ivan all'orecchio di Vasilj. Gli stava seduto proprio dietro.
"Si", fu la risposta del Siberiano.
"Pensavo... beh, niente. Lascia perdere". Borbottò rapidamente Ivan, agguantando il suo calice di vino.
"Cosa?", lo esortò Vasilj voltandosi in sua direzione.
"Pensavo che volessi reclamarla tu, una volta diventato Vor ovviamente. Non era per questo che te la portavi a letto? Per graziarti la famiglia di lei ed entrare nel giro, giusto?".
"Ho trovato un altro modo, giusto?". Gli fece eco Vasilj.
Ivan sorseggiò il suo vino corrugando le sopraciglia scure. "Umpf, si certo".
Seguì un istante di silenzio in cui Mirjana e il suo futuro marito davano l'ulteriore annuncio che avrebbero indetto un ricevimento come festa di fidanzamento e sarebbero stati tutti invitati.
"Le somiglia", commentò improvvisamente Ivan. "Somiglia alla tua italiana, intendo".
Era vero. Mirjana aveva la fisicità molto simile di Vittoria De Stefano, così come per i capelli nella loro lunghezza e colorazione, le folte ciglia e le movenze sempre molto controllate e a modo.
"Non è che il tuo interesse sull'italiana sia dovuto proprio all'assomiglianza con Mirjana?".
Vaisilj lo fissò.
Ivan alzò le mani. "Ok, per carità dicevo così per dire. Sei sempre così teso, rilassati".
In quel momento si spensero le luci e la piccola orchestra cominciò a suonare una ballata allegra per l'ingresso dell'enorme torta, illuminata da fuochi d'artificio.
"Ehi!", chiamò Vasilj schioccando le dita in direzione di Nicolaj e Elisey. Fermi imbambolati ad ammirare a bocca aperta la torta di compleanno a più livelli, sorretta su una specie di portantina.
 "Ehi, coglioni! Rendetevi utili, fatevi un giro fuori. Tra poco arriveranno i ragazzi e io sarò convocato. Andate a tenerli d'occhio!".
I due si ridestarono dal magico incantesimo ed obbedirono all'ordine.
"Perdonami, Ivan". Flautò, comparendo dalla semi oscurità, Mirjana. "Posso parlare con il Signor Volkov in privato?".
Ivan si alzò prontamente, si congedò con un breve cenno del capo e fece per andarsene. Poi ci ripensò, tornò in dietro, ricaricò il suo calice e finalmente si levò di mezzo andando a sbirciare il taglio del dolce proprio al centro della pista da ballo, dove una piccola folla si stava riunendo.
Mirjana si sedette alla seggiola di Ivan, mise da parte il lungo abito rosso e fece sfoggio delle snelle gambe accavallate attraverso l'alto spacco laterale.
"Dunque è vero" sorrise dolcemente. "E' arrivato il tuo momento. Confesso che quando Tesorino mi disse che ti avrebbero eletto questa sera, io quasi non ci credetti".
Vasilj fece una smorfia e si scolò il suo ennesimo calice. "Tesorino, eh?".
Mirjana ridacchiò portandosi una mano davanti le labbra. "Beh, i vezzeggiativi sono d'obbligo a letto. Anche tu adoravi usare paroline dolci, così romantico!".
"Sei quì per prenderti gioco di me?".
Lei si strinse nelle spalle e sfoggiò un finto broncio da manuale. Un tempo quelle labbra corrucciate lo avrebbero mandato in fregola, ma il famigerato treno era passato ormai.
Vasilj sussultò dalla sorpresa.
Sotto al tavolo, coperta dalla lunga tovaglia, Mirjana gli infilò una mano tra le cosce e andò ad accarezzargli l'inguine in zona pericolosamente vicina alla punta del suo uccello.
"Solo sapere se te la sei già scopata, quella sudicia italiana". E cominciò a massaggiargli la verga attraverso la patta dei pantaloni.
L'uccello rispose prontamente, gonfiandosi e dolendogli.
"Ti ha fatto godere come ti facevo godere io?".
Vasilj le afferrò il polso, bloccandola. Poi la fece bruscamente allontanare.
Nessuno aveva assistito alla scena, tutti gli sguardi erano verso il taglio della torta e le luci erano ancora spente.
"Sono solo un giochetto per te", sibilò a denti stretti. "Ora che non mi hai più a disposizione mi rivuoi!  Mi dispiace dolcezza ma hai già il cazzo floscio di Tesorino da far rizzare sta notte. Lo hai voluto tu, ora tornatene da lui".
Mirjana si alzò sogghignando, come se provasse pietà per Vasilj e non per sé stessa. "Lui mi saprà dare molto più di quanto non saresti in grado di darmi tu".
Vasilj si rimise di traverso sulla sedia, dandole le spalle. "E' il risultato di ciò che hai sempre fatto, no? Rimbalzare di uomo in uomo fino a raggiungere il matrimonio più vantaggioso, sei stata cresciuta per questo. Và a raccogliere il risultato delle tue fatiche!".
Quando la donna se ne andò, Vasilj rimase solo seduto nell'ombra.
Era ancora immerso nella sua gelida oscurità interiore quando le luci si riaccesero e un cameriere gli si accostò titubante.
"Signor Volkov?", lo chiamò facendo la riverenza. "Siete desiderato nella sala biliardo, al piano di sotto".
Vasilj vagò con lo sguardo per il salone in cerca di Ivan. Questi, neanche fosse stato evocato mentalmente, comparve guardandolo in rimando.
Era giunta l'ora.
 
---
 
 
La sala biliardo della villa si trovava al piano interrato, non c'erano finestre e i tavoli con le sedie e i divanetti erano stati tutti ammassati contro una parete in pietra laterale.
La stanza era immersa nella semi oscurità, le luci del lampadario di cristallo erano state impostate a una intensità tenue così che solo Vasilj sedutosi sotto ne era totalmente illuminato.
Si era spogliato di tutti i vestiti rimanendo soltanto in boxer e fatto sedere su uno sgabello. Teneva le gambe divaricate, i palmi sulle ginocchia e schiena ben dritta rivolto all'assemblea di Avtoritet. Le massime autorità Vory, riunite al completo di fronte a lui.
Volti immersi nel buio, braci di sigaro che si accendevano in punti luminosi rossi di tanto in tanto.
L'incontro si svolgeva a porte chiuse. Nessun'altro aveva il permesso di presenziare, nemmeno la guardia armata.
Tutti aspettavano all'esterno.
Quello era un esame che Vasilj doveva assolutamente passare, l'intera sua vita era stata votata a quel preciso momento.
Il silenzio era opprimente, se ne stavano tutti fermi a fissarlo. A fissare i suoi marchi e cicatrici.
Stavano tutti pensando a cosa farsene di lui.
Vasilj abbassò lo sguardo verso il pavimento in marmo bianco striato di venature rosse, come il diramarsi di rivoli sanguinolenti.
"Nome completo?". Chiese qualcuno, in maniera quasi annoiata.
"Vasilj Sergej Volkov", rispose.
"Vediamo che provieni dalla Siberia..". Parlò ancora quella voce. "... e che eri un ladro".
Vasilj tenne basso lo sguardo ma mantenne la posizione rigida sullo sgabello.
"Mio padre era un banchiere, lavorava alla banca di San Pietroburgo. Sua città natale. Io ho vissuto quì in città fino ai quattro anni, poi mio nonno materno mi riportò forzatamente in Siberia. L'ho aiutato nel contrabbando di sigarette fino agli undici anni, derubavamo i carichi del governo e le rivendevamo".
La voce di Titov prese la parola: "Non hai tatuaggi forzati? Nessuno per disonore?".
"Nessuno", rispose prontamente il Siberiano.
Qualcun'altro intervenne: "Perché porti il cognome della famiglia di tua madre?".
"Mio nonno materno non approvava il matrimonio dell'unica figlia con un banchiere. L'ha disonorato, perciò la diseredò e reclamò me come risarcimento".
Ancora, fu Titov a parlare: "Tuo padre è stato una puttana e un cazzone a lavorare per il governo". Fece una pausa. "Giusto?".
Vasilj alzò le spalle, totalmente d'accordo. "Giusto, per me lui non esiste. Mio nonno è stato anche padre, per me. Mia madre...".
"Tu non hai madre!", lo interruppe Titov. "Tanto era una troia".
Vasilj si ritrovò nuovamente d'accordo. "Sì", rispose rialzando lo sguardo su tutti loro.
Il futuro marito di Mirjana intervenne. "Hai passato dieci anni in catene per diventare sicario. Porti le leggi"
Vasilj si voltò in sua direzione. "Ho passato due anni nel braccio delle punizioni. Sono stato messo in isolamento una dozzina di volte, sono sopravissuto a una decina di combattimenti nella fossa".
Seguirono pochi istanti di silenzio, intervallati da tirate di sigari e sbuffi.
"Chi porta questo servo davanti all'assemblea?", chiese il tricheco di Mirjana rivolto a tutti i presenti.
Titov alzò una mano. "Io", disse.
"Quali sono le richieste di questo servo?".
Fu ancora Titov a rispondere a nome di Vasilj. "Prenderà le piazze di spaccio della città, al posto di Kozlov".
"Su quali basi?".
Questa volta fu il Siberiano a intervenire con fermezza. "Reclamo una donna come moglie".
Seguirono altri sbuffi di fumo, qualcuno ridacchiò. "Su questo possiamo porre rimedio, la figlia di De Stefano può essere fatta rispedire dal padre. L'Organizacija non scende a compromessi, la merce verrà consegnata a noi anche senza un matrimonio".
Vasilj si sentì raggelare, subito voltò l'attenzione su Titov seduto su una poltrona proprio di fronte a lui.
Quel matrimonio era essenziale alla sua nomina... non potevano privarglielo.
Titov si alzò in piedi. "Il patto è chiaro, gli italiani vogliono essere tutelati e io sono d'accordo. Come broker ci assicurano la merce migliore degli ultimi anni a un prezzo stracciato. Io propongo questo servo come marito... a meno che, miei Vor, non vogliate proporre qualche vostro figlio in sostituzione".
Il tricheco di Mirjana intervenne ancora: "Un altro tuo uomo fra i ranghi, eh Titov?".
"Sapete come lo chiamano fra i vicoli e i sobborghi di tutta la città?". Li interrogò Titov, incrollabile. "Il Lupo dell' Organizacija! Questo è un uomo valoroso, ci sono cinquanta uomini quì fuori pronti a giurare e un intero rione pronto ad accoglierlo. Vogliamo procedere al voto?".
Ancora silenzio.
Vasilj rimaneva seduto immobile.
Titov alzò una mano e si guardò attorno. Prontamente gli Avtoritet che avevano presenziato alla sua orgia in quella stessa villa, solo qualche tempo prima, alzarono le loro mani a favore.
Il grassone di Mirjana borbottò con i suoi alleati ma era ormai cosa fatta. Erano in minoranza numerica.
"In piedi sicario!", lo chiamò Titov facendogli cenno.
Vasilj eseguì.
Lo sgabello vene fatto sparire e tutti gli Avtoritet si alzarono. Titov andò a un tavolo e prese un frusta raggomitolata su sé stessa.
Uno degli Avtoritet prese una bottiglia di Votka e la schiaffò al Siberiano. "Ti servirà. In ginocchio sicario!".
Ancora una volta Vasilj obbedì agli ordini, strinse forte il collo della bottiglia e mentre poggiava le ginocchia a terra si scolò una prima lunga sorsata.
Titov lo aggirò e si andò a piazzare proprio alle sue spalle. "Da oggi non sarai più servo. Queste leggi sulla schiena non dovranno più marchiarti. Sei pronto?".
Vasilj raddrizzò la schiena, fissò dritto davanti a lui e liberò la mente come tante altre volte aveva fatto in passato quando le guardie lo seviziavano.
"Sì".
La prima sferzata non fu troppo dolorosa. La frusta trovò carne sana da colpire e Vasilj non emise nemmeno un grugnito.
Strinse i denti e continuò a guardare l'assemblea allineata in piedi.
Ci furono borbottii di approvazione.
Poi i colpi si fecero più ravvicinati e la pelle cominciò a cambiare colore in sfumature viola e blu.
Fra una pausa e l'altra, bevve copiose sorsate d'alcool e la testa cominciò a roteare.
Vasilj godette quando riuscì nel torpore a finalmente estraniarsi.
Prima che si potesse trattenere, le sue labbra si curvarono in sù e dovette lottare per trattenere una risata.
Al sesto o ottavo colpo, la pelle finalmente si squarciò andando a rovinare irrimediabilmente il tatuaggio delle dieci leggi e il serpente avviluppato sotto. Gli sarebbero rimaste delle nuove orribili cicatrici frastagliate.
Titov parve soddisfatto, ansimante e con la fronte imperlata di sudore, riavvolse la frusta e fece un passo in dietro.
"In piedi, Vor Volkov. Questa assemblea ti accoglie!".
Gli Avtoritet chinarono il capo in un breve cenno di saluto e Titov andò alla porta a chiamare il tatuatore ufficiale.
Vasilj sopportò tutto stoicamente, si sedette su uno dei divanetti e attese ben attento a non appoggiarsi con la schiena contro la stoffa.
Sentiva il proprio sangue colargli dalle spalle fino alla vita e il bruciore intenso gli provocava tremolii in tutto il corpo.
Ma accettò ogni cosa.
Accettò anche di costringersi immobile mentre il tatuatore si faceva avanti con la sua attrezzatura in una valigetta. Un tipo inquietante, con gli occhi tatuati di nero e tutto il volto ricoperto da simboli.
"Ci sono due spazzi vuoti sul tuo petto, all'altezza delle spalle". Esordì Titov. "Verranno riempiti con le stelle tradizionali".
Con un ronzio di macchinetta, il tatuatore marchiò la pelle del Siberiano con due stelle simili a rose dei venti.
Il cuore di Vasilj batteva come un tamburo.
"Diventando sicario sono morto e poi rinato come mano del Vory V Zakone. Da allora vivo in uno stato di distacco. Sono pronto ad onorarle con la mia stessa vita".
Quando il rituale fu compiuto, vennero fatti entrare uno ad uno tutti i 'Ragazzi' che avevano accettato di giurare fedeltà.
Vennero fatti mettere in ginocchio di fronte all'assemblea, dovettero presentarsi per nome e raccontare il loro passato. Poi dovettero avanzare verso il loro Vor e giurare.
Non avrebbero preso mogli ne avrebbero mai avuto famiglia, se già ne possedevano una dovevano rinnegarla, ogni  proprietà alla loro morte sarebbe tornata al Vory. Ogni respiro, ogni azione, ogni pensiero sarebbe stato votato al volere di Vor Volkov.
In fine, il tatuatore procedette a marchiarli con simboli sacri cristiani in base al loro passato. C'era chi avrebbe portato un santo, chi invece una Madonna, altri avrebbero portato una croce.
Ivan e Nicolaj, possedendo già il loro marchio santo dai tempi del voto a Kozlov, dovettero solo giurare fedeltà a Vasilj.
Il Siberiano assistette ad ogni marchio e giuramento in silenzio, seduto a pugni stretti.
Il momento era solenne, quei uomini sarebbero diventati la sua nuova famiglia. Non esisteva altro al di fuori del Vory.
Titov gli si accostò e Vasilj alzò lo sguardo su di lui, l'uomo gli fece cenno di aprire una mano e gli appoggiò sul palmo un pesante anello d'oro giallo con un evidente stemma a basso rilievo sulla sommità.
Un uccello rapace ad ali spiegate ed artigli protratti in avanti, pronti ad agguantare una preda. Sopra alla testa dell'uccello, una stella uguale a quelle che portava al petto.
Il simbolo del Vory, lo stemma di un Vor.
"La tua fede nuziale", gli spiegò Titov prima di andarsene insieme a tutti gli altri Avtoritet.
Vasilj strinse il pugno fino a premersi l'anello nella carne.
 
 

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Capitolo 19
*** 19 ***


Ecco una carellata di veloci capitoli che preparano al grande evento, il matrimonio. Mi serviva introdurre delle scene in rapida sequenza.
Buona lettura! 
                                                                                                     

                                                                                 
                                                                                               ---------------VITTORIA-----------------
 

Sedeva alla poltrona accanto alla finestra, come se potesse effettivamente affacciarvisi e guardare al di fuori della sua prigione. Accanto a lei, sul tavolino, giaceva intoccato il pranzo insieme alla colazione.
Teneva le gambe raccolte al petto, caviglie incrociate e un libricino in equilibrio sulle ginocchia.
Babushka l'aveva accontentata quando aveva chiesto un libro di grammatica russa, un dizionario e dei CD audio. La ragazza riteneva che fosse importante capire ciò che la gente diceva intorno a lei, non voleva offrire un vantaggio ponendo un muro linguistico. Le persone, credendo di non essere comprese, potevano dire molti segreti importanti o orribili minacce e lei voleva capire. Ascoltare.
Aveva avuto modo di riflettere a lungo. C'era abbastanza tempo per farlo.
Suo padre l'aveva messa in una posizione scomoda ma vantaggiosa. Era una infiltrata fra le file del nemico, un soldato nella trincea del plotone avversario.
Era sola e doveva cavarsela da sé. Aveva avuto modo di pensare anche a Volkov, ci aveva pensato per ore e giorni.
Vittoria sapeva di riuscire a suscitare in lui emozioni, sicuramente violente ma non per questo sempre pericolose verso la sua persona.
Era certa che non gli era del tutto insofferente, altrimenti non si sarebbe fatto coinvolgere così tanto per salvarla in quella bisca.
Gli sarebbe andata in sposa, doveva contrattare. Doveva spremersi le meningi e offrire qualcosa a Volkov in cambio del suo coinvolgimento negli affari. Finché continuava ad allontanarla ritenendola inutile, la sua presenza lì non avrebbe fruttato alcun scopo.
Un lampo le attraversò la mente proprio quando alle cuffiette ripetevano per la seconda volta la giusta pronuncia di dasvidania.
"Porca vacca", esclamò d'un tratto togliendosi una cuffietta.
Lui sapeva perché era così importante che lei potesse fare avanti e in dietro dall'Honduras? Volkov sapeva cosa lei rappresentava?
Ma sopratutto... era lei ad aver bisogno di suo padre o era suo padre ad aver bisogno di lei in questo affare tra honduregni e russi?
Possibile che lei avesse in mano un concreto potere? Se solo fosse riuscita ad agganciare Volkov abbastanza saldamente, poteva davvero tagliare fuori Salvatore De Stefano e prendere lei le redini?
Quasi si sentì euforica. Per la prima volta aveva veramente un asso vincente nel mazzo, restava solo da capire fin dove era disposta spingersi.
Qualcuno bussò sommessamente alla porta, una mano leggera. Non era sicuramente Volkov.
Vittoria sbuffò. "La chiave ce l'avete voi!".
Si udirono due schiocchi nella serratura e Babushka fece capolino con un raggiante sorriso.
"Buone notizie, bambina. Ho convinto il Signor Volkov a farti uscire, devi prepararti al grande evento e ti devo portare a scegliere l'abito".
Vittoria si tolse anche la seconda cuffietta e si alzò in piedi. "Per essere uno che continua a rinchiudermi, mi libera anche altrettante volte".
Babushka ridacchiò. "Te ne sei accorta, eh? Te l'ho detto, il Signor Volkov è un uomo molto paziente con le donne".
"Come lo hai convinto?".
Babushka fece le spallucce, lanciò un'occhiata preoccupata ai pasti lasciati immacolati e si accinse a rifare il letto. "Gli ho solo fatto notare che una sposa deve provare l'abito prima del matrimonio e se non potevi uscire, allora sarebbe stato il caso di far venire la sarta direttamente quì. Ma sapevo che non avrebbe accettato, nessuno entra in questa casa se non fa parte della cerchia ristretta di fidati. Ha dovuto approvare di farti uscire, però a una condizione".
Vittoria si stava già infilando le scarpe. "Quale condizione?".
"Allora, fate veloci?". Intervenne una voce maschile alla porta.
Nicolaj si appoggiava con una spalla allo stipite, braccia muscolose incrociate al petto ed espressione truce. Per l'occasione si era vestito in jeans strappati alle ginocchia, bomberino nero e cappellino con frontino in tinta.
Vittoria alzò un sopracciglio fissandolo. "Ci accompagnerai?".
Babushka le rispose: "Ci farà da autista".
Nicolaj alzò gli occhi al soffitto. "Io sorveglio te", e puntò un indice in direzione di Vittoria. "No scherzi, io armato. No scappi ancora".
Vittoria non abbassò lo sguardo. "Sarà una bella gita". Commentò sarcasticamente.
L'auto di Nicolaj era una grigia ed anonima utilitaria, con interni logori e bruciacchiati da braci di sigaretta. Quando la ragazza salì sul sedile posteriore e Babushka su quello del passeggero anteriore, le sospensioni cigolarono contrariate.
"Volkov non ti paga abbastanza?".
Nicolaj mise in moto e il motore diede un colpo di tosse prima di avviarsi. "Non siamo tutti come lui e poi è meglio essere anonimi. No attenzioni".
Percorsero a ritroso la strada chiusa che portava alla sua prigione, passarono davanti a terrazzi con donne e bambini che vi si affacciavano. Furono superati da un plotone di ragazzini in scooter e superarono lo stabile dato alle fiamme in chissà quale male augurato giorno passato.
"Quando si terrà il matrimonio?", chiese infine Vittoria guardando fuori dal finestrino.
"Fine settimana prossima, il Signor Volkov vuole che sia fatto in fretta". Le rispose Babushka mentre esaminava una cartellina con una lista di nomi. "Ci sarà molta gente e bisogna dare giusta importanza a tutti! Devo rivedere la disposizione dei tavoli!".
Vittoria si appoggiò al finestrino con il gomito e con la mano si sostenne il mento.
"Non ho mai pensato che un giorno mi sarei sposata. Non è mai stato un mio desiderio, perché passare da un padrone all'altro? Per di più volontariamente!".
Nicolaj la esaminò dal riflesso del specchietto retrovisore.
"Farà le cose fatte per bene con te", la rassicurò Babushka. "Vi sposerete in una piccola cappella cristiano ortodossa".
Nicolaj intervenne bruscamente. "E' fede di tuo marito, tu convertirai".
Vittoria sbuffò indifferente mentre continuava a guardare lo scorrere dei grigi palazzi fuori dal finestrino. "Come vi pare, crediamo nello stesso Dio".
Stava cominciando a nevicare, grossi fiocchi soffici come batuffoli di cotone cadevano sempre più copiosamente dal cielo grigio coperto da nubi.
"Il Signor Volkov è molto credente", le spiegò Babushka. "Tutti i ragazzi lo sono, anche Nicolaj". E diede un buffetto al braccio del ragazzo. "Vanno a messa ogni domenica, è davvero importante nel loro 'ambiente' essere fedeli".
Vittoria ricordò come suo padre la portasse in chiesa ad ogni fine settimana e come fosse fondamentale per lui santificare le feste. Ricordò come sistematicamente sedevano ai primi banchi proprio sotto all'altare e quante volte aveva preso il 'corpo di Cristo'. Quante genuflessioni aveva fatto pentendosi dei propri peccati ai piedi della croce?
Poi le venne in mente quella vola che uno degli uomini di suo padre aveva sparato in fronte alla donna di un boss rivale, Vittoria aveva assistito perché quel giorno l'uomo la stava accompagnando a casa da scuola ed aveva improvvisamente accostato l'auto per scendere senza una apparente motivazione.
Il sicario di suo padre si era fatto il segno della croce prima di ammazzare la donna, a passeggio con il figlio piccolo.
"E' una cosa che riesco a comprendere", disse stancamente.
La vecchia utilitaria di Nicolaj parcheggiò proprio di fronte a una delle boutique più illuminate a tema natalizio di tutta la via dello shopping. Aveva l'aspetto raffinato con in vetrina capi firmati, da sera e da cerimonia.
Un manichino in una postura innaturale sfoggiava un lungo abito da sposa con corpetto stretto e gonna vaporosa. Era talmente illuminato da faretti che Vittoria dovette stringere le palpebre per guardarlo.
Nel negozio c'erano poche clienti, giusto un paio di ragazze che curiosavano in silenzio fra le esposizioni come farebbero dei turisti in un museo.
Nicolaj fece l'occhiolino a una di queste e la ragazza si affrettò a far finta di esaminare accuratamente un velo ornato da glitter.
La titolare li raggiunse salutando tutti in maniera fin troppo calorosa, schioccò le dita e una truppa di sarte accerchiarono Vittoria come se volessero lapidarla sul posto.
La spogliarono del soprabito, le presero la misura di altezza, giro vita, spalle e numero di scarpe.
"Che genere preferisci?", la interrogò la titolare con un affettato sorrisetto. Aveva labbra colorate di rosso sgargiante, boccoli bruni raccolti in un'alta acconciatura e un completo giacca e pantaloni totalmente neri.
"Uno qualsiasi", rispose tetramente Vittoria.
La donna proruppe in una argentina risata. "Oh, per favore! Ci si sposa auguratamente solo una volta nella vita, bisogna innamorarsi dell'abito tanto quanto dello sposo!".
Vittoria mantenne l'espressione da funerale, Nicolaj si grattò la testa a disagio e Babushka sorrise falsamente.
"Iniziamo a provarne qualcuno, ti va? Qual'é il budget?".
Babushka rispose per Vittoria. "Non c'é. Qualsiasi abito la sposa desideri, lo avrà. Paga lo sposo".
La donna riccioluta batté le mani saltellando sul posto. "Oh, sei una ragazza davvero fortunata".
Vittoria storse la bocca. "Da morire", esclamò tetramente.
La prova d'abiti fu un incubo, Vittoria venne strizzata in corpetti, fatta salire su trampoli, fatta sudare nel camerino fra mari di tulle e paiettes.
Ogni volta che la tendina della cabina si apriva, trovava una Babushka entusiasta e un Nicolaj annoiato su un divanetto.
Non vedeva l'ora che quel supplizio finisse, ad ogni abito provava a dire che era quello giusto. Tanto per farla finita. Ma ad ogni abito Babushka esclamava che voleva vederla indossare qualcosa di più vaporoso o più brillante o più aderente.
Era al sesto cambio d'abito, quando la ragazza provò a chiedere attraverso le tendine quello che si stava interrogando ormai da qualche giorno.
"Babushka, ti posso fare una domanda?".
La voce dell'anziana arrivò prontamente dalla sala d'aspetto. "Dimmi cara".
"Cosa vuol dire Solnyshko?".
Volkov l'aveva chiamata così mentre lei gli stava a cavalcioni sopra, l'aveva guardata con espressione intensa sussurrando parole incomprensibili nella sua lingua. Ma quel termine, Solnyshko, lo aveva ripetuto ancora mentre veniva dentro di lei.
Seguì un lungo silenzio e Vittoria si chiese se non avesse fatto meglio a tacere, forse era una cosa intima.
Non doveva proprio chiedere.
Scostò la tendina e vide Babushka arrossire mentre Nicolaj spalancava la bocca in una espressione da beota.
"Ha chiamato te, così?". Si meravigliò il ragazzo esibendo poi un furbo sorrisetto.
Babushka gli diede una sberla sulla nuca. "Taci, scimunito! Magari un giorno troverai anche tu una brava ragazza da chiamare così". Poi sorrise teneramente in direzione di Vittoria. "E' un termine usato con i bambini ma più comunemente fra... amanti. Significa raggio di sole".
"Oh", esclamò a disagio Vittoria guardandosi attorno.
Che razza di idiota, era dunque uno di quei cazzoni che per atteggiarsi a 'macho' chiamavano tutte tesoro, dolcezza e raggio di sole?
Lei non si sentiva per niente un raggio di sole.
Gettò di lato la tendina dello spogliatoio e battendo i piedi salì sulla pedana circolare.
"Va bene questo, mi piace". Sentenziò burbera.
Ma poi si guardò allo specchio e rimase bloccata come una statua di sale.
Quella riflessa non poteva essere lei.
L'abito era completamente di pizzo bianco dalla vita in sù, aderente con scollo a barchetta e maniche lunghe. La rotondità dei seni e il vitino da vespa ne risultavano esaltati dandole una forma sensuale a clessidra.
La gonna era maestosa. Pesante e morbida pelliccia bianca, mossa da grosse balze e lunga in uno strascico che dalla pedana arrivava fino al camerino dietro di lei. Doveva richiedere molta forza sui tacchi per poterla trascinare.
La proprietaria della boutique arrivò in quel momento e lestamente le fece indossare una pelliccia bianca corta di vita, un caldo colbacco e, in abbinato, una fascia scaldamani.
Aveva un aspetto imperiale, una zarina si sarebbe sentita orgogliosa di indossare un simile abito.
Elegante, raffinato... costoso.
Vittoria fece per dire qualcosa, aprì la bocca ma non le venne in mente nulla di significativo. Rimase solo a fissarsi.
Riflessi dietro di lei, Babushka era nello suo stesso stato d'animo di sorpresa e Nicolaj la esaminava con sopracciglia talmente alte che se le sarebbe ritrovate sulla nuca.
"Credo..." disse dopo un po', il ragazzo. "... che Volkov scannerà chiunque provi a guardare te più di cinque secondi".
"Hanno previsto che la temperatura raggiungerà i meno venti gradi, conviene che ti copra", sussurrò Babushka con espressione pensierosa.
"E' perfetto", tagliò corto Vittoria. E scese dal rialzo puntando verso il camerino.

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Capitolo 20
*** 20 ***


                                                                                                                 ---------------IVAN-----------------
 

Ai margini del rione esisteva una porzione di florida zona industriale e in quel tardo pomeriggio era popolata da camion in transito.
L'insegna affissa sopra all'ingresso dell'ultimo capannone della via, indicava 'LAVANDERIA INDUSTRIALE' e dal 1983 si occupava del lavaggio di elevati quantitativi di biancheria o abiti per conto di grandi utenti quali: alberghi, ristoranti, industrie di abbigliamento o collettività.
I furgoni bianchi facevano spola a intermittenza attraversando il cancello automatico, caricando biancheria sterilizzata e impacchettata oppure scaricando gabbie cariche di lenzuola e indumenti sporchi.
Le enormi lavatrici ronzavano in un frastuono ritmico e costante, alte nubi di vapore acqueo si innalzavano verso il cielo grigio.
Il pavimento in cemento all'interno del capannone era bagnato, qualcuno aveva pensato di mettere qualche indicazione di pericolo ma le donne e gli uomini che vi ci lavoravano sapevano ovviare la cosa con scarponi dalla suola anti scivolo.
Tutti dovevano urlare per farsi sentire e spesso rimbombavano boati di carichi lasciati schiantare a terra.
Un uomo tarchiato, sulla sessantina, camminava nervoso facendo avanti e in dietro a mani giunte dietro la schiena.
Sul marciapiede di fronte alla sua lavanderia, aspettava qualcuno che non avrebbe mai voluto chiamare in altre circostanze.
Si vedeva costretto, però. Lui, l'uomo tarchiato, era una brava persona e non voleva mettere a rischio la sua attività o peggio, la vita, per colpa di un individuo. C'aveva provato a mettere una pezza, aveva provato a far capire cosa poteva accadere se alzavano troppo la testa.
Non l'avevano ascoltato.
Una Denali nera, con cerchi in lega scintillanti e finestrini oscurati, arrivò lentamente parcheggiando proprio davanti all'uomo.
Questi fece qualche passo in dietro e lasciò scendere l'ospite dal posto di guida.
Ivan era un uomo imponente, con spessi anfibi da militare e bomberino nero. Si passò una mano tatuata sul cranio ricoperto da simboli e sospirò stancamente guardandosi attorno, poi richiuse l'auto in un lampeggio di fanali e dedicò la sua attenzione all'anziano.
Quest'ultimo, si sfregava i palmi l'un l'altro e contraeva forte la mascella dal nervosismo.
Porse poi una mano in segno di saluto.
Ivan gliela guardò ma non gliela strinse, così l'anziano decise di abbassarla immediatamente.
"Grazie per essere venuto subito".
Ivan si succhiò un canino con la lingua, rumorosamente. "Che è successo?".
L'anziano tornò a sfregarsi i palmi, un desolante gelo pareva sopraffarlo. "Io ho assunto tutte le persone che il Signor Volkov mi aveva indicato...".
Ivan lo interruppe, incalzandolo. "Eh, ti stanno dando problemi?".
"Per l'amor di Dio, la maggior parte di loro fatica come muli. Solo un nuovo assunto stà dimostrando mal contento e da giorni semina dubbi fra il personale. Ha radunato abbastanza ascoltatori da convincerli a partecipare alla fiaccolata di questa sera".
Ivan sospirò e guardò in alto, verso il cielo cupo. "Quella contro la mala?".
L'anziano annuì lentamente.
Ivan fece una smorfia. "Vedove, un prete, lavoratori scontenti e bambini. Proprio una gran minaccia!".
"Tuttavia non riesco più a gestirli", parlò in fretta l'anziano. "Ho paura che quello che si lamenta di più, voglia andare dalla polizia".
Ivan calò lo sguardo su di lui come un rapace in picchiata aerea.
"Ci sarò io oggi, sentiamo che ha da dire".
 
---
 
L'ufficio del titolare della lavanderia industriale, si trovava al piano di sopra rispetto alla zona carico e scarico merci.
Nell'angolo una macchinetta del caffé, un quadro raffigurante la Vergine Maria affisso al muro, schedari e la piccola scrivania in fondo.
Dietro all'anziano, accomodato sulla sedia girevole, era appesa la foto del giorno del taglio del nastro. Nei primi anni ottanta.
L'uomo era più giovane, ci credeva nelle sua nuova azienda.
Non aveva ancora conosciuto la crisi economica, i debiti con la banca, le estorsioni e.. Vasilj Volkov.
Dalla finestrella sulla parete laterale, si poteva sbirciare i lavoratori all'opera al piano di sotto. Era proprio accanto ad essa, sprofondato su una poltrona marrone, a gambe divaricate che Ivan assisteva alla sfilata di dipendenti. Uno alla volta entravano nella stanza, firmavano un documento e ritiravano la busta paga mensile.
Nessuno si voltava mai verso di lui, era un ombra volutamente non vista.
Facevano tutto in fretta e se ne andavano senza dire una parola, come i bravi somari che erano.
Verso la fine della lista, toccò finalmente al paladino della giustizia.
Un uomo allampanato, con guance scarne e vestiti sportivi sbiaditi dai troppi lavaggi. Con il suo zainetto in spalla entrò nell'ufficio a mani nelle tasche dei pantaloni, salutò con un "Buonasera" il titolare della lavanderia ma non Ivan e si affrettò a firmare il foglio.
Il titolare gli porse la sua busta e fece cenno al successivo della fila di entrare.
Come previsto, invece, 'Capitan Giustizia' rimase piantato davanti alla scrivania. Aprì la busta e cominciò a contare le banconote con aria concentrata.
Il titolare guardò subito Ivan, questi succhiò nuovamente un canino con la lingua.
"E questo cos'é?". Domandò interdetto, il coglione allampanato.
"Qualcosa non va?". Chiese seriamente, l'anziano dietro la scrivania.
Il bifolco lo incenerì con lo sguardo e puntò un dito in direzione di Ivan, seduto poco più in là. "Non stò parlando con lei, ma con quello che mi ha assunto!".
Ivan sbuffò, si alzò in piedi e si avvicinò a loro. "Hai qualche problema?".
'Capitan Giustizia' fece una smorfia come se volesse ridergli in faccia. "Il mensile pattuito era ben altro, di mese in mese mi vengono scalati sempre più soldi. Ora si è quasi dimezzato, com'é possibile?".
Ivan annuì fingendo grande interesse. "Sono le tasse".
Il coglione strabuzzò gli occhi sconvolto. "Le tasse?", domandò in un sussurro per poi salire rapidamente di voce. "Ma quali tasse? Noi mica siamo veramente assunti, noi mica abbiamo la previdenza sociale. Qua stiamo lavorando in nero, non siamo nessuno!".
Ivan piantò le mani sulla scrivania e si curvò minacciosamente contro l'uomo, sul volto una maschera a metà fra pazzia e rabbia.
"Se il lavoro te lo dava lo stato, non le pagavi le tasse?". Gli chiese, poi agitò una manona indicando sé stesso e l'anziano titolare rannicchiato sulla seggiola. "Questo lavoro te lo abbiamo dato noi, non vuoi darci niente?".
L'uomo alzò le braccia e cominciò a urlare: "Ma che stai dicendo? Io ti ho pagato per il mio lavoro!".
"Pensaci bene, prima di gridare quì dentro". Sibilò Ivan mantenendo tutto il suo autocontrollo.
L'uomo abbassò la voce ma non si arrese. "Ho pagato cinquecentomila Rubli* per questo lavoro".
Ivan gli puntò contro l'indice. "Errato, tu hai pagato quasi cinquecentomila Rubli per questo lavoro. E per quello che hai dato, amore, ti abbiamo fatto un regalo. Sei vecchio, alla tua età non ti prende più nessuno".
L'uomo era esausto, fece cadere le spalle e poi un passo in dietro. "All'età mia, i ragazzi stronzi come te li prendiamo a calci in culo!".
Ivan irruppe in una fragorosa risata tenendosi la pancia, l'uomo afferrò i suoi spicci e gli indirizzò tutta la sua ira.
"Ma non finisce qua... e non ridere, coglione!". Minacciò coraggiosamente prima di andarsene.
Mentre entrava il successivo della fila, Ivan andò alla finestrella a controllare l'uomo che si dirigeva a lunghi passi nervosi verso l'uscita.
Aveva ragione.
Non sarebbe di sicuro finita lì.
 
 
*Nota
Cinquecentomila Rubli, sono l'equivalente circa di seimila euro.

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Capitolo 21
*** 21 ***


                                                                                                                ---------------VASILJ-----------------
 

L'ufficio era immerso nell'oscurità.
Si trovava al piano interrato, non c'erano finestre e ricordava molto la cella di un carcere.
Aveva scelto quella stanza proprio per quel motivo, gli era famigliare.
Rassicurante.
 Il pavimento in linoleum era stato ricoperto da un enorme tappeto economico dagli arabeschi rosso cupo. Ben si intonava all'arredamento in legno e alla enorme scrivania, piazzata proprio al centro della stanza.
Sulla parete laterale era appeso un televisore a schermo piatto, in quel momento in onda stavano dando il notiziario della sera.
Dietro alla scrivania, un murales di monitor in varie dimensioni ritraevano le vie del rione affollate di passanti e automobili oppure cunicoli di spaccio con disposti in fila tossici e madri di famiglia, in attesa della loro dose proveniente da qualche lamiera tagliata. Di tanto in tanto, faceva capolino una mano a porgere qualche sacchetto o palline avvolte in cellophane.
C'erano poi magazzini dismessi con ragazzi riuniti a sgasare sui loro scooter rubati e tavoli ricolmi di bilancini, polvere d'angelo, talco e gesso.
Alcuni 'Ragazzi del Vicolo' erano in quel momento intenti a 'tagliare' la roba seguendo le disposizioni del loro Vor, alzando la percentuale di merda di mese in mese. In questo modo il mercato ci avrebbe messo un po' prima di accorgersene e si sarebbe nel frattempo guadagnato di più.
Alla luce della lampada accesa, accanto a cumuli di scartofie e banconote, Vasilj inclinò la bottiglia di liquore verso il bicchiere. Non uscì nulla.
Con occhi appannati, si rese conto vagamente di averla bevuta tutta.
Stava perdendo il controllo, non aveva mai bevuto così tanto prima di allora. Lo faceva ogni giorno, in ogni momento libero della giornata.
Sembrava che involontariamente stesse cercando di sabotarsi, proprio quando aveva raggiunto il grande traguardo che si era prefissato.
Cos'era che gli mancava?
Non era soddisfatto, non si sentiva appagato come si era immaginato di dover essere.
Si era interrogato e l'unica conclusione in cui era giunto era che aveva bisogno di altro alcool.
Parte del cervello gli diceva che quello era il procedimento, inseguire per troppo tempo un obiettivo rendeva la conquista estremamente deludente rispetto agli sforzi fatti.
Quella sensazione di merda doveva quindi peggiorare prima di migliorare.
Un'altra parte della mente, quella logica, gli diceva che non era abbastanza. Doveva volere di più, avere molto di più.
Ricominciò a contare le banconote come se fosse un mantra mentale.
Alla televisione, un inviato trasmetteva in diretta da uno dei quartieri periferici del suo rione. Una fiaccolata contro le organizzazioni criminali.
Una vena cominciò a pulsargli alla tempia, prese il bicchiere vuoto e lo scagliò rabbiosamente contro un muro.
Manica di ingrati, gente perbenista che manifestava proprio in casa sua!
Voleva spaccare tutto, voleva sangue, voleva sofferenza.
Afferrò il bordo della scrivania e la scosse violentemente emettendo un gutturale ringhio di gola.
Con un doppio POP, la notifica di rilevato movimento da una telecamera nascosta, comparve sul suo cellulare appoggiato accanto alla bottiglia.
Vasilj mise subito in 'muto' il televisore e con un altro telecomando, cambiò l'immagine a uno dei monitor affissi alle sue spalle.
Si girò sulla poltrona girevole in pelle nera e rimase in riverenziale silenzio.
Vittoria usciva in quel momento dal bagno, i lunghi capelli ancora umidi dalla doccia e un asciugamano bianco avvolto fin sopra al seno.
Vasilj si accomodò meglio sulla sua seduta, appoggiò le braccia sui braccioli e attese in trepidante attesa.
Come sperato, la ragazza si avvicinò all'armadio, si prese qualche istante per scegliere il pigiama più caldo e poi fece scivolare a terra l'asciugamano.
Vasilj si umettò le labbra e inclinò la testa su un lato.
Cazzo, quanto era bella.
Si sentiva già più tranquillo, guardare quella meravigliosa creatura spogliarsi inconsapevolmente per lui lo aveva... placato.
La vide rivestirsi, indossare solo degli slip semplici ma restando senza reggiseno sotto la felpa.
Sceglieva sempre dei semplici slip, tranne quella sera in cui lui l'aveva portata fuori.
Quella volta aveva messo un perizoma.
Vasilj ridacchio in un suono basso e vibrato, pura soddisfazione maschile.
Lo aveva messo apposta per lui.
Ma poi la ragazza fece qualcosa di inaspettato, era la prima volta che lo faceva oppure era la prima volta che Vasilj la beccava.
La vide avvicinarsi al letto, curvarsi sul materasso, sollevarlo di qualche centimetro e tastare sulla rete sottostante.
Estrasse una boccetta, piccola, in vetro con un succhietto dosatore.
La stappò, portò il succhietto in alto e gettò in dietro la testa.
Vasilj si piegò in avanti portandosi più vicino allo schermo, contò venticinque gocce.
"Che roba è?", si chiese ad alta voce.
Dalla porta chiusa in cima alle scale, giunse un leggero bussare.
"Signore, posso parlarle?".
Era la voce di Babushka.
Subito Vasilj cambiò ancora telecamera allo schermo, inquadrando nuovamente i 'Ragazzi' intenti a tagliare la merce.
Si girò di scatto sulla poltrona girevole e ricominciò a contare le banconote.
"Entra", la esortò bruscamente.
L'anziana domestica scese lentamente la scalinata reggendosi al corrimano, con la coda dell'occhio la vide lanciare un'occhiata alla porta chiusa a chiave di fianco al televisore muto e rabbrividire di conseguenza.
"Hai bisogno di qualcosa?", la interrogò Vasilj mettendo da parte una mazzetta e procedendo poi al conteggio di un'altra.
"No, Signore". Rispose lei unendo le mani davanti a sé e chinando il capo. "Si tratta della ragazza".
"Le serve qualcosa?". Le rispose lui con la mente per niente lucida, da ubriaco.
"Non mangia da giorni", lo informò.
"E' solo una viziata", sbottò lui per poi sbattere la mazzetta sul piano della scrivania. "Mangia solo roba italiana perché si crede troppo superiore".
"Non si tratta di questo, a mala pena beve. Si stà consumando, si sente senza uno scopo".
Le parole della donna lo resero ancora più frustrato. Se c'era qualcuno che poteva prendersene cura, quella persona era Babushka. Se non riusciva a tenerla in vita lei, lui di sicuro non sapeva cosa farci.
"Sono preoccupata per voi". Sussurrò desolata, la donna. "Per lei Signore e per la ragazza. State per sposarvi ma sembra che stiate invece andando al patibolo. Dovete conoscervi, parlare, imparare a instaurare un rapporto. Un qualsiasi rapporto".
Parve esitare prima di dire ancora qualcosa, come se temesse si azzardare troppo.
"Parla apertamente, Babushka". Sbuffò di malumore Vasilj, ciondolando il capo.
"La ragazza ha bisogno dell'unica cosa che nessuno nella sua vita le vuole mai dare. L'unica cosa che nemmeno lei, Signore, è disposto a darle e non stò parlando di abiti costosi o cene in ristoranti stellati".
Seguì una pausa e Vasilj grugnì beffardamente. "Non mi dire che è l'amore quello che dovrei darle. Sai chi sono io, sai cosa sono io!".
Babushka aveva una profonda tristezza negli occhi. "Fiducia, Signore. La ragazza ha bisogno di qualcuno che si fidi di lei".
Vasilj non rispose, preferì ignorarla e continuare a contare i suoi guadagni.
Babushka fece una leggera riverenza. "Vado a casa, con suo permesso. Buona notte".
Era a metà scala quando Vasilj la richiamò.
"Sembra invece che tu la conosca molto bene". E ridacchiò, completamente perso nei fumi dell'alcool.
Babushka si tenne aggrappata al corrimano e si voltò verso di lui prima di rispondere:
"Le ho raccontato di mia nipote Olga, di ciò che le è accaduto. Le ho dato fiducia e lei ha aperto il suo cuore a me. Cerchi di darle una possibilità, Signore, e aprirà il cuore anche a lei".
 

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Capitolo 22
*** 22 ***


                                                                                                      ---------------VITTORIA-----------------
 


"Ubiraysya!".
Una voce spaventosa, un ordine sputato tra i denti.
"Non toccarmi!".
"Vuoi giocare con me?".
Il terrore che ti ribalta lo stomaco e strizza la vescica.
 
"Io vedo te".
 
Il sogno era cambiato, non lo aveva mai fatto prima.
Si muoveva con la lentezza tipica degli incubi.
L'erba era gelata sotto i piedi nudi, ricoperta da una spessa coltre bianca. Poteva giurare di percepirne l'umidità fra le dita intirizzite.
Aveva molto freddo, tremava ma doveva assolutamente proseguire. Sapeva che ne andava della propria vita, se si fermava... sarebbe andato tutto perduto.
La nebbia si diradava man mano che lei procedeva, turbinava in vortici fumosi. Si spostava tutto intorno a lei, richiudendosi poi alle sue spalle.
Non doveva essere lì.
Doveva essere in un parcheggio, era sempre stato un parcheggio. Perché proprio lì?
Le tombe emersero dalla neve come funghi dopo un acquazzone.
Prima delle semplici lapidi grigie crepate dal tempo e poi tetre statue di angeli in preghiera o armati di spada.
Non voleva guardarle, sapeva dove stava andando.
Non voleva andare ma negli incubi non era mai semplice decidere come dovevano proseguire gli eventi.
 
"Io vedo te".
Si voltò trattenendo il respiro. Non vedeva nulla tra la nebbia, solo le lapidi più vicine ricoperte da montagnole bianche.
"Ti prego", singhiozzò.
Con chi stava parlando?
"Ti prego, non voglio".
Lo scrocchiare di neve pestata, alle sue spalle, la fece sobbalzare.
 
"Vuoi giocare con me?".
 
Dietro di lei, comparve una nera figura. Un uomo in tenuta d'assalto militare nera, con pantaloni muniti di tasconi e anfibi, fucile di precisione agganciato alla schiena, guanti in pelle e passamontagna con un sorriso da teschio al posto della bocca.
Rimaneva in piedi tra le lapidi.
Fissandola.
"No", pianse disperatamente lei. "Non lo farò".
La Morte le ripeté la domanda, questa volta mettendoci più veemenza.
"Vuoi giocare con me?".
Lei cadde in ginocchio sulla neve. Le mancava il respiro.
"No, ti prego. Te lo giuro, dico la verità!".
 La Morte non le credette, in un battito di ciglia le fu addosso sovrastandola.
Le poggiò sulla fronte la canna di una Tokarev. Riusciva a sentire il freddo del metallo.
Le veniva da vomitare.
Tremava convulsamente, non riusciva a controllarsi.
"Io liberare te", disse la Morte. Un dito poggiato sul grilletto dell'arma.
Delle voci si innalzarono dalle lapidi, prima un sussurro appena udibile poi sempre più forti come il ronzare di uno sciame d'api.
Lei si portò le mani alle orecchie, strinse le palpebre e pianse tutte le sue lacrime.
Le voci non parlavano la sua lingua.
Parlavano in russo.
 
Vittoria urlò fino a raschiarsi la gola, con un colpo di reni si rizzò a sedere gettando per aria la pesante trapunta.
Era in un mare di sudore gelido.
Un cerchio di sconosciute era curvo su di lei ma si spaventarono dalla reazione della ragazza e fecero subito dei passi in dietro lasciandole spazio.
Erano cinque ragazzine, visi rotondi punteggiati da acne e lentiggini. Abiti da cerimonia lunghi e casti, capelli acconciati da fiori e perline.
Strabuzzarono tutte gli occhi e si riunirono in un unico mucchio accanto alla porta della camera da letto, come se fossero pronte a fuggire nel caso la belva avesse deciso di ricominciare a urlare.
"Hai svegliato lei!", rimproverò una ragazzetta tredicenne contro una sua coetanea.
"Tu parlavi troppo forte!", si difese la compagna battendo un piede a terra.
"Tutte parlavate forte!". Si intromise una ragazzina poco più grande, con due lunghe trecce bionde.
Vittoria deglutì riprendendo fiato e si portò una mano al petto. Riusciva a sentire il cuore martellare come un matto, sotto lo sterno.
"Chi siete?", chiese allibita.
Le piccole damigelle fecero una profonda riverenza all'unisono. "Signoooora", salutarono in coro.
Poi la ragazzina con le trecce prese la parola:
"Siamo quì per preparare la sposa, per lo sposo".
Vittoria grugnì roteando gli occhi e buttò giù le gambe dal materasso.
"Devo lavarmi, sono tutta sudata. Mi avete spaventato a morte!".
Mentre si avviava verso il bagno, il branco di marmocchie le trotterellò dietro.
Vittoria si bloccò di colpo e le ragazzine si fermarono di conseguenza.
"Noi aiutiamo!", si giustificò una di loro.
"Penso di riuscire a farcela da sola". Commentò sardonicamente Vittoria, prima di sbattere la porta del bagno in faccia a tutte loro.
La preparazione della sposa richiedeva molto tempo, cominciarono a profumarla e a spazzolarle i capelli in un preciso numero di colpi.
Dopo un po', mentre sedeva alla seggiola della toletta facendosi sciogliere tutti i nodi, Vittoria decise di rompere il silenzio.
"Da dove venite?".
Una brunetta dalla forte inflessione le rispose, mentre le faceva infilare le calze. "Abitiamo tutte nel rione. Noi scelte perché parliamo inglese e per nostra bellezza. Nostre famiglie ci hanno proposte a Signor Volkov".
La stavano tutte guardando immobili.
"Cosa c'é?", si stupì Vittoria.
"Fa paura". Sussurrò timidamente, una bambina lentigginosa.
La ragazzina con le trecce le piazzò una gomitata al fianco. "Taci, Alina!".
Alina gonfiò il petto, raccogliendo tutto il coraggio. "E' così, mi ha fatto paura. Mi ha preso il mento e costretto a guardarlo in faccia, mi ha guardato come un pezzo di carne. Ha fatto male!".
La ragazzina con le trecce si affrettò a scusarla, mentre tutte le altre rimproverarono la piccola Alina nella loro lingua.
"Scusa lei. Alina sempre tanto spaventata da tutto".
Vittoria prese la mano di Alina e gliela strinse forte. "Tranquilla, so' io come trattare con quelli come lui. Non ti farà più nulla".
La brunetta che le aveva passato le calze, intervenne tutta rossa in viso. "E' vero quello che dicono? Quello che maschi fanno a femmine... infilano il... il...".
Le ragazzine scoppiarono tutte a ridere e Vittoria rise di cuore con loro.
La brunetta strinse i pugni, braccia tese lungo i fianchi. Profondamente offesa. "Mi prendete in giro. Non è vero, giusto? Io mica ci credo".
Con uno schianto, la porta d'ingresso alla camera si spalancò andando a sbattere contro la parete e Vasilj Volkov entrò a passo di carica battendo le mani. Come se stesse richiamando un pollaio.
Vittoria scattò in piedi e si coprì con la vestaglia di raso bianco, le bambine saltarono dallo spavento ed andarono tutte ad allinearsi dietro alla ragazza.
Volkov diede l'ordine alle piccole di uscire in russo, le parole appena comprensibili mentre teneva una sigaretta accesa fra le labbra.
Era vestito ancora in tuta, pantaloni Adidas neri e felpa in tinta con cappuccio e lacci.
Quando rimasero soli nella stanza, Vittoria fece guizzare lo sguardo per una frazione di secondo a sinistra. Verso il letto, in direzione del suo nascondiglio.
Non lo aveva fatto volutamente, il linguaggio non verbale l'aveva tradita.
Volkov la stava osservando attentamente. Troppo attentamente.
"Porta sfortuna vedere la sposa, prima del grande evento". Provò a tergiversare lei.
I suoi polmoni smisero di funzionare, quando il russo cominciò a muoversi lentamente verso il maestoso letto a baldacchino.
Vittoria si gettò sul materasso spiccando il volo e atterrando su un fianco, in un svolazzo di vestaglia.
Premette con tutto il suo peso, come se ciò potesse fermarlo.
Volkov era un carro armato, con una mano si tolse la sigaretta dalle labbra e con l'altra si allungò ad afferrare il materasso per sollevarlo.
Poteva scagliarla contro il muro, se solo lo avesse voluto.
Non poteva lasciarlo vincere, non quella battaglia. L'unica che le era rimasta.
Tentò di graffiargli il braccio ma lui era troppo forte e lei era solo una spettatrice.
Trovò facilmente la boccetta di ansiolitico, per giorni l'aveva custodita come un tesoro e lui in cinque secondi aveva rovinato tutto.
"Lasciala", trovò lei la voce.
Gli occhi del russo incontrarono i suoi e vi ci lesse prima il dubbio poi... la delusione. Se quello era un qualche tipo di test, era chiaro che Vittoria non l'aveva superato.
"Cosa è?". Chiese.
"Soffro di attacchi d'ansia. Ne ho bisogno per controllarmi, ho momenti di paura immotivata". Si giustificò lei.
Volkov esaminò contro la luce del lampadario quanto liquido rimanesse.
Non molto.
"Brutta cosa, la paura". Commentò facendo oscillare il piccolo contenitore di vetro. "Chi ha paura... muore ogni giorno".
Le lanciò la boccetta e lei la prese al volo.
Lo vide frugarsi in una delle tasche dei pantaloni e ne tirò fuori il telefonino di Vittoria con i suoi documenti. Le lanciò tutto sul letto e rimase a guardarla, fumando in silenzio.
Lei era senza parole, per prima cosa si accertò che il cellulare funzionasse.
Si illuminò senza che le fosse richiesto il PIN o l'impronta digitale.
Qualcuno ci aveva messo le mani.
"Nicolaj bravo con queste cose", le spiegò Volkov.
Non c'erano notifiche di chiamate, ma andando nella rubrica dei messaggi trovò conversazioni tra lei e suo padre che decisamente Vittoria non poteva aver fatto.
Salvatore De Stefano le chiedeva di rispondere, lei aveva risposto con frasi brevi ma grammaticalmente corrette in italiano.
Gli aveva scritto di stare bene, che la trattavano con gentilezza e che presto l'avrebbero fatta tornare da lui.
"E' stato Nicolaj a scrivere a mio padre?".
Volkov fece un tiro, tenendo la sigaretta stretta fra pollice e indice. "Io", rispose grevemente buttando fuori un'acre nuvoletta dalle narici.
Vittoria si sedette composta a bordo letto, i documenti e il telefonino sulle sue gambe. "Che significa? Perché mi restituisci tutto?".
Volkov fece un altro nervoso tiro. "Dopo matrimonio, tu puoi andare. Non costringo te a restare. Se tu desideri, puoi tornare da tuo padre. Sarai mia moglie, questo proteggerà te da Vory e Salvatore contento".
Vittoria corrugò la fronte abbassando lo sguardo. "E credi che farò ritorno, una volta libera?".
L'uomo rimase per qualche momento in silenzio, poi fece un passo avanti e le accarezzò una guancia.
Lei alzò il mento in risposta a quel leggero tocco, lui la stava guardando intensamente. "Se tu vuoi".
"Dammi un motivo", mormorò lei. Aveva bisogno di più da lui, una scintilla che le segnalasse che c'era vita in quel assassino.
Volkov le passò un ruvido pollice sulle labbra.
Vittoria riusciva in quel momento a percepire ogni cosa di lui, quanto fosse minaccioso ma affascinante. Aspro ma, in quel momento, gentile.
Ai suoi occhi si era fatto bello, con quell'espressione sempre arcigna che la incantava.
Più lui sapeva emanare tenebra, più lei si lasciava avviluppare.
"Noi due non potremmo mai essere coppia normale, non ci sarà amore ma...", le disse in un mormorio. "... posso volerti e non ho dubbi Solnyshko, che io voglia che tu resti con me ". La voce roca, incrinata da una qualche emozione.
Il petto di Vittoria si fece stretto. "Cosa mi darai in cambio?", sussurrò chiudendo gli occhi mentre Volkov passava con il pollice a sfiorarle la guancia.
"Sarai al sicuro, avrai tutto quello che desideri. Vestiti, gioielli... fiducia. Sarai libera nel mio rione, nessuno oserà toccare te. Sarai al mio fianco, quando avrò ospiti, in mezzo a mio clan... e nel mio letto".
Vittoria riaprì gli occhi mentre lui ritirava la mano.
Senza quel contatto, l'incantesimo andava scemando.
Lei fece per dire qualcosa, ma poi si bloccò.
"Pensa, poi mi dirai". Borbottò lui.
Dal piano di sotto, attraversando la porta aperta della camera, arrivò il vociare di più uomini in evidente stato di esaltazione.
Si udirono fischi e richiami, tonfi e prese in giro.
Una voce urlò da in fondo alle scale. "Aspetta stà notte, Volkov!", disse e ci furono altre oscene risate sguaiate.
"Italiana?", chiamò un'altra voce maschile. "Mostro io come un vero uomo russo sà montare donna!".
Ancora risate.
Volkov abbozzò un leggero sorrisetto, sollevando leggermente un angolo delle labbra.
Vittoria gli afferrò un braccio, improvvisamente consapevole di un pericolo. "Le bambine!", si allarmò.
Volkov seppe capire al volo. "Ci penso io. Le faccio tornare sù".
Poi si girò e se ne andò verso la sua personale festa.
Vittoria appoggiò la boccetta di Lexotan sul comodino e rimase a fissarla.
---
 
"Si chiamano Iris Siberiani. Sono fiori che non temono il gelo".
Babushka le mise fra le mani un mazzolino di fiori viola acceso, tenuti insieme da un laccetto bianco in pizzo.
L'anziana sedeva sul sedile davanti della Denali nera guidata da un uomo sconosciuto, la ragazza era seduta al centro dei posti sul retro. La gonna di pelliccia troppo ingombrante  per far stare qualcun'altro accanto a lei.
Fuori dal finestrino, una fitta coltre di nebbia celava le strade imbiancante da giorni di nevicate. Ammassi grigiastri sporchi, si stavano ammucchiando sul ciglio dei marciapiedi e i pochi passanti avanzavano a testa bassa nascondendosi dal vento con fragili ombrellini.
Quale che fosse la loro destinazione, si trovava a una certa distanza dalla casa di Volkov.
La Denali, seguita da altri due Suv di scorta, formavano un corteo nuziale piuttosto tetro. Con la popolazione che si fermava e guardava curiosa le auto lussuose in transito che alzavano ondate di melma sporca.
"Avete sistemato tutto?", chiese Babushka all'autista.
"Uh, dà!". Annuì seriamente l'uomo al volante. "Stato un po' problema convincere cappellano, ma ci abbiamo mostrato licenza speciale". Diede due colpetti alla tasca dei pantaloni, dando quindi l'idea di quale che fosse la natura di quella licenza.
Tutto a un tratto videro emergere la cappella alla fine della tetra strada, fra neve e vento gelido che ululava inquieto.
Era piccola, strizzata fra due palazzi e decorata con finestre colorate da mosaici luminosi.
Non poteva credere al numero di auto parcheggiate all'area di sosta davanti all'ingresso. Erano tutte di fascia medio bassa, alcune logore e altre tirate a lustro. Nulla di significativo, sicuramente appartenenti a uomini di classe operaia, tranne una.
Aveva un aria famigliare, lussuosa, l'aveva già vista il giorno del suo atterraggio in città?
Quando il piccolo corteo della sposa si fece vedere, una folla cominciò a radunarsi rapidamente all'interno della cappella.
Vittoria intravide molti uomini, poche donne e qualche bambino, ma la ragazza non seppe dire chi diavolo fosse tutta quella gente venuta a vedere lei che si sposava con uno sconosciuto.
Venne fatta scendere con calma, l'autista che le porse una manona guantata per darle sostegno nella discesa dall'enorme mezzo e Babushka che richiamava le bambine affinché la aiutassero a sorreggere la gonna.
Vittoria sentì crescerle dentro un senso di isteria, sopratutto quando fu' salita in cima ai pochi gradini davanti all'ingresso della cappella cristiano ortodossa e vi ci trovò Boris Titov ad attenderla.
Ecco svelato chi era il padrone della grossa BMW grigio antracite nel parcheggio.
Da dentro la cappella giungeva il brusio di una folla riunita e lo spostare di banchi man mano che la gente prendeva posto. Vittoria e Titov rimasero in disparte all'ingresso lasciando che Babushka le sistemasse il lungo strascico tra le mani delle damigelle.
Titov 'il Politico' era ben abbigliato, con cappotto lungo e grosse dita adornate da anelli d'oro.
Stampato in faccia, la stessa espressione da borioso di merda che aveva alla rimessa per aerei quando lei lo aveva incontrato la prima volta.
Si domò i capelli all'indietro, alcune ciocche che gli sfuggivano arruffate dall'implacabile corrente.
Le mise una mano sulla spalla e la guardò dritta negli occhi. "Sei pronta?".
"Non ho intenzione di mettermi in ridicolo", esclamò lei stringendo forte il suo mazzolino di Iris Siberiani. "Farò ciò che devo".
Vittoria si lasciò condurre davanti all'ingresso, Boris Titov che con una mano sulla schiena la spingeva docilmente.
Due ali di persone sconosciute si voltarono a guardarla e una ondata di intimo orgoglio la invase. Uomini e donne presero a fissarla stupiti, si scambiarono commenti annuendo e ad alcuni sfuggì un "Oooh" di ammirazione.
Babushka le tolse il caldo colbacco dalla testa, ma avrebbe potuto anche mettersi a ballare il tip-tap per quanto Vittoria le dava attenzione.
Tutto di lei era proteso verso l'uomo alla fine della navata. Il suo cuore ebbe un tonfo, si bloccò e poi, come un motore a gasolio, si avviò rombando.
Vasilj Volkov, non poteva essere più affascinante.
Già di per sé, vedere due uomini imponenti in immense pellicce a pelo lungo grigie, attenderti in fondo a un corridoio di persone a gambe divaricate e mani giunte davanti all'inguine, dava un certo effetto. Se poi aggiungevi il fatto che Vasilj e il suo testimone dal cranio tatuato e una lacrima sotto a un occhio, ti stavano guardando come dei lupi avrebbero guardato un agnello... beh, Vittoria si sentì mancare.
I suoi ormoni ebbero una botta di vita.
Spalle larghe, schiena dritta, lineamenti spigolosi e austeri, Volkov era lungi dal ricordarle un sicario dei bassi borghi. Era maestoso, fiero, un potente signore vichingo... e lui lo sapeva.
Piegò leggermente il capo, salutandola a metri di distanza, e lo vide piegarsi verso il suo testimone per dirgli qualcosa all'orecchio.
Entrambi poi annuirono e tornarono a guardarla, attendendo.
"Poteva andarti peggio". Commentò divertito Titov, all'orecchio di Vittoria.
Con grande sforzo, la ragazza recuperò il controllo della mente in subbuglio e mentre dall'organo si innalzava l'introduzione della marcia nuziale, a  lei venne in mente di punzecchiare il suo accompagnatore.
Giusto per non dargliela vinta.
"Pensavo...", cominciò a dire mentre appoggiava una mano nell'incavo del gomito di Titov e si lasciava condurre attraverso la navata. Gli invitati si alzarono tutti in piedi al loro passaggio.
"... che non sarà poi un matrimonio così diverso da molti altri fatti per interesse. Lui ha uomini, ma non ha un nome. Al contrario, io di uomini sul libro paga non ne ho ma...". E si voltò a guardare il profilo dell'uomo di mezza età che la conduceva. "... il mio nome vale, anche molto. Chissà cosa succederà".
Vittoria venne portata al cospetto di suo marito, Titov le prese la mano e la porse a Volkov. Questi gliela prese e chinandosi fece sfiorare le labbra a un millimetro dalle dita di lei.
"Siamo pronti per iniziare", introdusse l'ufficiante in tunica bianca e il naso rosso.
Si inginocchiarono davanti all'altare, il testimone di Volkov in piedi accanto a lui e Titov a braccia conserte accanto a lei.
Dal punto di vista formale, la funzione ortodossa non era diversa granché da quella cattolica. Le parole pronunciate in russo dal cappellano che andavano ad unirla al giovane estraneo, non avevano bisogno di traduzioni per essere comprese.
Vittoria si sentiva come un guscio vuoto e freddo. Le parole solenni del prete riecheggiarono a lungo dentro la bocca dello stomaco.
Si alzò automaticamente in piedi quando fu ora di pronunciare i voti e osservò, in una sorta di incantato torpore, la sua mano congelata sparire nella salda stretta del suo sposo.
Aveva anche lui le dita fredde, e per la prima volta le venne in mente che forse, malgrado l'atteggiamento disinvolto, anche lui potesse essere nervoso quanto lei.
Fino a quel momento aveva evitato di guardarlo, ma ora alzò lo sguardo e vide che anche lui la stava fissando. Aveva il volto pallido e privo di espressione, lui aumentò la pressione delle sue dita su quelle di lei.
Vittoria ebbe l'impressione che stesse cercando di sostenerla, se lui avesse mollato la presa o distolto lo sguardo lei sarebbe sicuramente crollata a terra.
Stranamente, quella sensazione la rassicurò un poco. In qualunque situazione si fosse cacciata, sembrava che lui se ne volesse fare carico.
Il cappellano le mise davanti un librone rilegato in pelle rossa con un segnalibro simile a una lingua argentea. Accanto alla formula scritta in cirillico, erano state appuntate in matita le parole in lingua inglese.
"Io Vittoria, prendo te Vasilj come mio legittimo sposo...". La voce non le tremò ma la mano sì, lui gliela strinse più forte. Le loro dita rigide si serrarono come le ganasce di una morsa. "... per amarti, onorarti...".
Quante bugie, quante palle.
Le parole le percepiva da molto lontano, sentiva il sangue defluirle dalla testa. La gonna le pesava in una maniera infernale, segnandole i fianchi fino a dolerle e, benché sentisse freddo, rivoli di sudore le scorrevano lungo la schiena, sotto la pelliccia e il pizzo.
Si augurò di non svenire.
"...nella buona e nella cattiva sorte fin...", si interruppe.
Fra gli invitati si mosse un rapido mormorio, Volkov la stava ancora fissando.
La frase 'fin che morte non ci separi' le sembrava fin troppo fatalistica, come se gli stesse dando una sorta di permesso. Ogni genere di paranoia la assalì ma seppe come rimediare, optando per una versione più consona e abbreviata.
Si schiarì rapidamente la gola. "Nella buona e nella cattiva sorte...", ripeté. "...tutti i giorni della mia vita. Amen".
Amen per davvero, era andata. Era riuscita a dire tutto.
Toccò a lui, parlò rapidamente nella sua lingua. Serio e formale per poi fermarsi nella stessa riga in cui aveva esitato lei.
"...tutti i giorni della mia vita. Amen".
Disse, facendo risuonare le parole con una allarmante nota definitiva.
Tutto era immobile, come un fotogramma bloccato. Poi il sacerdote chiese gli anelli.
I testimoni stettero a guardare mentre Volkov infilava un solitario in platino al dito di Vittoria, con un diamante appariscente tanto quanto grosso. Era talmente enorme che poteva essere scambiato per pacchianeria.
Vittoria lo trovava esagerato... meraviglioso. Perfetto alla sua mano, forse un po' largo ma in estate il dito si sarebbe gonfiato e avrebbe calzato alla perfezione.
Lei lo guardò senza parole e con un nodo alla gola, lui le restituì lo sguardo intensamente.
Ecco cosa l'aspettava se fosse rimasta con lui, Volkov le avrebbe dato tutto quello che più desiderava.
Perché poteva permetterselo.
Lei afferrò un pesante anello in oro giallo con una specie di sigillo sulla sommità: un uccello rapace ad ali spiegate ed artigli protratti in avanti. Sopra alla testa dell'uccello, una stella, per numero di punte simile a una rosa dei venti.
Procedette quindi a infilarglielo al dito senza ulteriori esitazioni, il gioiello che gli risaltava tetramente alla mano sinistra come un 'tira pugni' costoso.
"Brava ragazza". Commentò dolcemente, Volkov.
Titov armeggiò per qualche istante  nella tasca interna del suo soprabito e ne tirò fuori due copie del certificato di matrimonio.
"Una per voi e una per tuo padre", le spiegò porgendole una penna.
I fogli vennero dispiegati sull'altare in marmo, fecero firmare prima il testimone di Volkov e poi Titov vi antepose anche la sua firma.
Toccava a Vittoria.
Lei osservò la punta della penna a sfera, probabilmente prendendo in considerazione l'idea di procurarsi un danno reale con essa. Poi la premette sul primo foglio, le tremò la mano dopo il primo segno.
Volkov gliela prese e firmarono insieme il suo nome e cognome, per due volte. Una per ogni copia.
Poi lui le prese la penna e con svolazzi immensi, antepose la sua firma su ogni documento.
Vittoria registrò per un attimo che Volkov aveva un secondo nome. Quante cose non sapeva ancora di lui?
Il tutto venne immortalato da un fotografo in rapidi scatti ravvicinati, quindi Volkov si chinò per baciarla.
Era chiaro che intendesse solo sfiorarla brevemente per rispettare il cerimoniale, ma siccome la sua bocca sembrava così calda e morbida Vittoria si mosse istintivamente verso di lui. Udì vagamente dei rumori alle sue spalle, urla in russo di entusiasmo e incoraggiamento da parte degli spettatori, ma lei non notò nulla di preciso a parte la calda solidità di quelle labbra sfregiate.
Si staccarono, mantenendo il contatto visivo per ben oltre il dovuto.
Vittoria vide il testimone di Volkov sguainare un piccolo pugnale e lei si domandò il perché.
Sempre guardandola, Volkov tese la mano destra, con il palmo verso l'alto.
La ragazza sobbalzò quando la punta del pugnale gli incise a fondo il polso, lasciando sgorgare una linea scura di sangue.
Prima che avesse il tempo di ritirarsi, afferrarono anche la mano di lei e Vittoria sentì il tocco bruciante della lama.
Il prete borbottò qualche frase contrariato, chiaramente restio ad accettare simili atti pagani nella casa di Dio.
Con un gesto rapido, il testimone di Volkov premette il polso dello sposo contro quello della sua sposa.
Dovette vacillare un attimo perché Volkov le afferrò il gomito con la sinistra.
"Sta' su, ragazza", la esortò a bassa voce. "Non manca molto, tu ripeti parole dopo di me".
Era ancora la sua lingua, le parole non significavano niente per lei ma le ripeté obbedientemente, incespicando sulle sillabe sdrucciole.
Il sangue venne asciugato e ci furono altre foto.
"Me la concedi?", chiese d'improvviso Titov a Volkov.
Quest'ultimo annuì rigidamente e Boris Titov baciò Vittoria alla guancia destra, poi sinistra e poi di nuovo la destra.
Si voltò poi verso la platea per esclamare a gran voce:
"Salutiamo tutti il Signor Vasilj Volkov e la Signora Victoria Volkova!".
Partì un fragoroso applauso, con fischi gioiosi e battito di piedi sulle pedane dei banchi.
Volkov la prese per mano e la trascinò dietro al corteo in festa, tutti li stavano aspettando fuori al gelo.
Vide gli uomini radunarsi nel parcheggio aprendosi in un enorme ventaglio, lei e Volkov li stavano a guardare da sopra la scalinata.
"Che stanno facendo?". Chiese Vittoria, in ansia.
Tutti gli uomini e ragazzi vestiti in nero cominciarono a trafficare tra di loro, pistole e piccole mitragliete comparvero terrificanti nelle loro mani. Le canne puntate verso il cielo nuvoloso.
 "Gorko! Gorko! Gorko!". Gridavano tutti in coro, con una foga da ricordarle gli ultras.
"Non ti staccare", l'avvertì Volkov prima di aggredirle le labbra in un bacio mozzafiato.
Venne avvolta dal rassicurante calore della sua immensa pelliccia. Vittoria si beò nel suo particolare e personale profumo di legno e chiodi di garofano, un odore che le risvegliava i lombi e le faceva perdere ogni imbarazzo.
Voleva immediatamente di più, l'intero corpo della ragazza si risvegliò per lui. Gli afferrò la testa con entrambe le mani e Volkov irruppe nella sua bocca turbinando con la lingua. Entrambi ci diedero giù pesantemente mentre intorno a loro esplodevano le prime scariche di colpi d'arma da fuoco.
Era eccitata, il sangue le ribolliva dalla adrenalina. Volkov la faceva sentire come mai le era capitato prima. L'intero mondo sembrava che stesse a guardare loro due.
Loro due, contro tutti.
"Mmmmmphm", disse Volkov staccandosi da lei. Con la punta della lingua si leccò le labbra, alla stessa maniera in cui lo aveva fatto dopo aver pestato di pugni il rapinatore alla bisca.
Dio. Pensò allora Vittoria. Quest'uomo mi farà morire.
"Andiamo a mangiare, dolcezza". Sorrise sornione lui, per poi avvolgerle un grosso braccio attorno alla vita e condurla verso il suo clan.
 
---
 
Al ristorante in città, al piano terra di un immenso palazzo di cemento, avevano già preparato il rinfresco di accoglienza per gli ospiti.
Titov la afferrò per un braccio, mentre si avviava verso il bagno per darsi una rinfrescata prima di mangiare.
"Voglio che questo matrimonio venga consumato senza alcuna incertezza". Le ordinò in tono deciso, anche se a bassa voce. "Deve essere una unione legale, che non presenti alcuna possibilità di annullamento. Ne va degli interessi di tutti".
"A me sembra che lei stia facendo il suo interesse, non il mio. Sono solo merce di scambio ".
Titov le passò due nocche sullo zigomo. "Non preoccuparti di questo, tu fai solo la tua parte". La squadrò con occhio critico, come per valutare la capacità di lei di svolgere adeguatamente il suo ruolo.
"L'ho messo alla prova prima di proporlo come marito, non avrete il ben che minimo problema".
Vittoria gli rivolse un ghigno glaciale. "L'ho già messo io alla prova e le dico che sì, non avremo il ben che minimo problema".
I tavoli erano disposti a scacchiera per tutto il salone delle cerimonie, una schiera di camerieri in bianco si aggirava come spettrali presenze e un ora prima era giunta anche una banda in pacchiana divisa dorata prendendo posto sopra a una pedana nell'angolo.
Alle colonne di sostegno della sala erano avvolte spire di fiori bianchi e Iris viola, Babushka aveva dato disposizioni che il tavolo degli sposi dominasse la scena decorato da immense composizioni di fiori siberiani.
Il chiacchiericcio eccitato diventava sempre più forte e molesto man mano che fuori dalle vetrate calava il buio della notte.
Lei e Volkov avevano mangiato una portata dopo l'altra senza proferir parola, lei sbocconcellando sedendo con un tovagliolo sulle ginocchia e il suo sposo che si strafogava con i gomiti sulla tovaglia damascata.
In quel momento il testimone di lui, Ivan glielo avevano presentato, sedeva con il culo sul tavolo accanto alle posate di Volkov e a braccia conserte era immerso in una fitta chiacchierata in madre lingua.
Ivan non le piaceva e poteva giurare che il sentimento fosse reciproco. L'uomo non si fidava di lei, era chiaro che la ritenesse una intrusa o peggio, la causa della disfatta del loro clan.
Alla sposa non era richiesto che si dimostrasse felice, da quello che le era stato detto era auspicabile che si dimostrasse seria e taciturna.
Non poteva fare altrimenti, Vittoria non si sentiva per niente euforica.
Teneva le braccia conserte in grembo, lo sguardo perso a osservare la moltitudine di sconosciuti che beveva e si prendeva a sberle fra loro.
Le orecchie le fischiavano dal frastuono.
Decise allora di alzarsi e farsi un giro fra le tavolate, un gruppo di ragazzi attirò la sua attenzione. Nicolaj sedeva tra loro, il viso paonazzo dal troppo alcol. Ridevano tutti con le lacrime agli occhi.
"Oh, sposa!", la accolse Nicolaj facendole cenno di avvicinarsi. "Bel ricevimento, davvero!".
"Fortuna che non mi sposerò mai", dichiarò un ragazzotto tarchiato accanto a lui, strattonandosi il colletto della camicia nera. "Non sopporto queste cose, son vestito come un pinguino".
"Tu non hai gusto, Elisey", osservò Nicolaj. "Questa è eleganza", e gli diede un pugno alla spalla.
"Vorrei che Predator fosse ancora vivo, ai matrimoni faceva schiattare da risate", borbottò uno dei ragazzi al tavolo scolandosi un intero calice.
"Predator?", chiese curiosa Vittoria.
 
 
"Uno convinto di essere stato rapito da alieni", spiegò Nicolaj appoggiando un gomito al schienale della propria sedia.
"Ma no, Predator!". Insistette Elisey. "Quello con missione di scoparsi più ragazze possibili in un mese".
Nicolaj si grattò il ciuffo di barba sul mento, pensieroso. "Allora é quello che é finito sotto a un autobus?".
"Beh, dà. Era andato un po' fuori verso la fine", si inserì un altro dei ragazzi al tavolo.
"Ma prima che perdesse capoccia era anima di feste" aggiunse Nicolaj facendo l'occhiolino a Vittoria. "Ultima volta si é scolato intera bottiglia di Stolichnaya, io gli ho detto che il ferro va messo in sicurezza con sicura prima di infilarlo nella cintura, ma lui corso subito in pista. Cominciato a saltare e... pareva che mitragliasse dal culo, è salito in braccio a sposa mentre sposo cercava di porre fine abbattendolo con badile!".
"Davvero affascinante", lo interruppe Vittoria per poi ridere insieme a tutta la tavolata, piegata in due senza fiato.
Ridevano tutti così tanto che nessuno notò subito il piccolo trambusto che si stava svolgendo al tavolo degli sposi.
Volkov era stato fatto alzare in piedi con fischi e battito di mani, lui buttò giù il rimanente del suo calice e fece per caricare verso Vittoria.
"Ora della messa a letto!", urlò qualcuno.
Di istinto lei fece qualche passo in dietro.
Titov lo intercettò per proferire due rapide parole. Quando i due si salutarono, a giudicare dall'espressione che Volkov aveva in volto, probabilmente anche a lui erano stati impartiti i medesimi ordini che 'il Politico' aveva impartito a lei.
 
---
 
Com'era potuto succedere tutto questo, così in fetta in nome di Dio?
Si domandò qualche tempo più tardi, solo qualche settimana prima se ne stava tutta innocente tra i piedi del padre e in quel momento si trovava rinchiusa nella camera da letto nella casa di un uomo del tutto diverso da quelli che era solita frequentare. Con l'ordine ben preciso di consumare un matrimonio forzato, pena la vita e la propria libertà.
La camera da letto di Volkov era spartana, con un enorme letto dalle lenzuola nere e testiera in mogano, un armadio addossato alla parete e nient'altro.
Il cavo del carica batteria del telefono era collegato alla presa e fatto penzolare fino al pavimento in legno.
L'aria era permeata dal profumo inebriante di lui, anche se in quel momento era in bagno a lavarsi sotto lo scrosciare d'acqua della doccia.
Vittoria sedeva sul letto perché non aveva altro su cui poggiare il sedere, ancora vestita in abito da sposa metteva in atto mentalmente le fasi del suo piano.
L'incertezza e la paura avevano fatto spazio a una fervida determinazione.
Si convinse infine ad alzarsi in piedi, allentare la morsa della gonna sui fianchi doloranti e far scivolare a terra l'abito.
Si tolse le scarpe e le calze, rimanendo così solo in intimo bianco in pizzo.
Con una leggera spinta, aprì la porta del bagno e rimase in silenzio a guardare l'uomo intento a sfregarsi i corti capelli sotto al getto di acqua bollente in una nebbia di vapore.
Fissò i suoi innumerevoli tatuaggi, alcuni semplici ed altri complessi. La schiena era segnata da orribili segni rossi e violacei a deturpagli la lista di scritte in cirillico che, quando le aveva viste la prima volta, gli adornavano l'intera massiccia schiena.
Aveva voglia di studiarli, di esplorarlo e conoscerlo come una sorta di enigma. Decifrare ogni singolo mistero impresso su quei bicipiti, pettorali e addominali gonfi.
Voleva sentire nuovamente la sensazione del suo corpo caldo sotto alle sue mani. Aveva una urgenza che quasi la intimidì.
Quel tipo di desiderio non le era famigliare, pericoloso e allettante nel peggior modo possibile ma altrettanto utile per ciò che si prefiggeva di fare.
"Hai intenzione di rimanere lì o ti decidi a raggiungermi?".
Volkov si diede una sciacquata e si voltò verso di lei. Due grandi stelle di inchiostro nero spiccavano sulla sua pelle pallida, all'altezza delle due larghe spalle.
Vittoria percepì divertimento nella sua voce, lusingato nell'averla scoperta a spiarlo.
"Non andrò da nessuna parte", gli disse lei. Si slacciò il reggiseno e lo gettò sul lavandino. "Non tornerò da mio padre".
Come previsto Volkov calò lo sguardo sui suoi capezzoli.
"Sono tua moglie ora, mi tratterai come tale".
"Se rimani oggi, rimani per tutta vita", replicò lui.
"Lo so'", flautò lei sfilandosi le mutandine. "Avrai rispetto per me, lo hai giurato davanti a Dio e agli uomini. Mi onorerai e sarai fedele, nessun'altra ti avrà e ogni notte farai ritorno da me".
Volkov le aprì l'anta scorrevole della doccia trasparente. "Ho promesso", annuì stoicamente.
L'uomo respirava affannosamente e, alla luce incassata nel soffitto sopra la testa di Vittoria, i suoi occhi di cemento brillavano come scintille.
Lei avvertì subito un fuoco sottopelle, non vedeva l'ora di iniziare.
E anche lui.
Lei entrò fluttuando nella doccia lasciandosi investire dal caldo getto d'acqua, assorbì tutto il calore e si avvicinò a lui come una pantera.
Senza dire una parola, lui le prese la faccia tra le mani e la attirò contro di sé premendo con forza le labbra sulle sue.
Fecero un mezzo giro su sé stessi e lui la premette indietro contro il marmo.
Vittoria cedette con un gemito, lasciandosi penetrare con la lingua e aggrappandosi alle spalle di lui.
In piena gloriosa erezione, Volkov strusciò l'inguine contro di lei per poi spingere in avanti il pene duro per sfregarglielo contro il ventre.
Per il caldo e la pressione, Vittoria ebbe la sensazione di soffocare ma Volkov non le diede tregua. Altri baci, voraci e disperati, di quelli che ricordi anche a ottant'anni quando ormai sei troppo vecchia per pensare a certe cose.
Poi sentì le sue mani sui seni scivolosi, le dita che le strizzavano i capezzoli finché la differenza tra dolore e piacere svanì e lei riuscì solo a pensare che se non fosse venuta nel giro di un secondo sarebbe morta.
Quasi avvertendo ciò di cui lei aveva bisogno, Volkov si inginocchiò e si gettò una delle gambe di Vittoria su una spalla. Cominciò a lavorarsela, divorandole il sesso come poco prima aveva fatto con la bocca.
Quella era una scopata come atto di possesso, una presa di posizione di Volkov su di lei. Una manifestazione fisica di ciò che le avrebbe fatto ogni volta che lui ne avrebbe avuto voglia.
Forse era solo una stupida puttanella alla mercé di quell'uomo, ma le piaceva da morire.
Voleva che lui la prendesse così, ardente di sottometterla, sfogandosi senza pietà. In modo da non sentirsi in colpa per aver deciso da quella notte in avanti di illuderlo pur di farsi largo nel loro business.
Lui le serviva come strumento, sapeva che senza di lui non sarebbe stata mai legittimata a un ruolo di potere.
Si sarebbe venduta l'anima al diavolo e il suo corpo a Volkov, pur di raggiungere l'obbiettivo della sua ambizione.
Aggrappandosi alla testa di lui, Vittoria inclinò le anche premendosi ancora di più contro l'uomo. Spinse il polpaccio contro la sua schiena per fargli trovare il ritmo e...
Vittoria si morse il labbro.
"Urla, tesoro". La esortò lui in un ansito contro la sua vagina, fra una leccata e l'altra. "Urla!".
Lei venne in modo selvaggio, il busto che strusciava contro il marmo e con urli ansimanti.
In un attimo Vittoria si trovò sul pavimento della doccia, lunga distesa con sopra Volkov a imprigionarla.
Quando le spalancò le gambe e la montò cominciò a sbuffare e a grugnire in quella maniera bovina che la faceva eccitare tremendamente come una cagna in calore. Cominciò a spingere implacabile finché si puntellò sopra di lei e cominciò a fissarla dritta negli occhi, quasi a rinunciare a tutto ciò che poteva darle.
L'ampia schiena di Volkov le faceva da scudo riparandola dal getto d'acqua, così lei poté vedere tutto quanto.
La sua espressione feroce, i muscoli poderosi, le ombre create dai pettorali. Gocce d'acqua si staccavano dalla punta delle ciocche dei capelli ritti sulla testa, simili a lacrime e ogni tanto il labbro sfregiato si increspava deformandogli il volto in una maschera demoniaca.
Ogni capacità di raziocinio lasciò campo libero solo alle sensazioni... solo a Vasilj.
Venne travolta da un altro orgasmo mentre in un angolo della mente la sua consapevolezza urlava: niente preservativo, cazzo!
L'orgasmo raddoppiò allora di intensità così che invece di spingere via Vasilj, gli affondò le unghie nei fianchi.
Fu proprio quando l'estasi aveva raggiunto il culmine massimo che le cose presero una piega un po'... strana.
Lo sentì eiaculare dentro di sé ma subito si ritrasse stringendosi il pene nel pugno, Vittoria pensò che volesse farsi da parte ma non aveva ancora finito.
Lo vide puntellarsi rapidamente su una mano sola rimanendo sospeso sopra di lei, direzionò lo spruzzo del suo seme sopra alla vulva per poi muoversi verso l'alto. Le venne sopra allo stomaco, il torace, sui seni e poi con un ultimo grugnito devastante e mungendosi senza pietà, le spruzzò tutto il rimanente in faccia. Sembrava avere una riserva abbondante di sperma.
Con la pelle ipersensibile colpita da tutti quei spruzzi caldi, Vittoria si passò le mani su e giù per il copro perché sapeva che lo avrebbe fatto impazzire. Si ricoprì di viscido sperma e si strizzò i seni nelle mani a coppa.
Capì subito che quel gesto per lui aveva un significato profondo e si sentì nuovamente su di giri.
Era come se lui la stesse... marchiando, in un certo senso.
In una maniera animale.
E lei non aveva nulla in contrario.

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Capitolo 23
*** 23 ***


                                                                                                       ---------------VICTORIA-----------------


 
Distesi l'uno accanto all'altro sotto il piumone, le parve naturale appoggiare la guancia sul suo caldo petto. C'era intesa fisica tra loro e benché non trovassero molto di cui parlare senza cadere nelle ovvietà come il tempo e la temperatura, nell'eccitazione condivisa e nella novità della reciproca esplorazione, avevano trovato una comunicazione senza imbarazzi.
"Non insisterò affinché tu mi riveli tutto del tuo business", provò a intavolare lei mentre con l'indice gli andava ad arricciare un ciuffetto di peli chiari sullo sterno. "Però ti chiedo questo, quando mi dici qualcosa fa che sia la verità. Tra noi penso che si possa lavorare sul rispetto e, nel rispetto reciproco, credo che ci sia spazio per i segreti ma non per le bugie. Sei d'accordo?".
In risposta, lui emise una leggera risatina che fece sobbalzare la testa di lei su e giù.
"Dà...d'accordo. Ti darò mia sincerità", le disse accarezzandole la schiena nuda con una mano.
"E io farò altrettanto. Ora...", Victoria appoggiò quindi il mento sul petto di lui per guardarlo in faccia. "Volevo dirti, grazie".
Vasilj sorrise, trasmettendo alla bocca il buonumore che gli guizzava negli occhi leggermente a mandorla. "Per cosa?".
"Per esserti offerto di sposarmi", le rispose lei inarcando le sopracciglia.
Parve confuso e questo le diede la percezione che forse le cose non stavano come lei credeva.
"Non proprio offerto...", esitò. "Ma molto contento di accettare. Avevo parecchi motivi per farlo, motivo principale è per stesso motivo per cui tu sposato me: alleanza e pace".
"E se ti dicessi che questo matrimonio porterebbe molto più profitto a noi due rispetto al Vory o a mio padre?", replicò lei continuando a giocare con il ciuffo di peluria.
Lui le bloccò il gesto, intrappolandole la mano nella sua. Gliela strinse forte, quasi a farle male.
 "Cosa?". La incalzò, improvvisamente molto concentrato.
Guardando quel volto forte, austero e determinato, con zigomi larghi e solide mascelle, Victoria pensò per la prima volta che il piano di Titov poteva essere veramente usato contro tutti loro. Tutti gli altri.
"Quanto posso contare su di te?". Gli chiese in un sussurro, a pochi millimetri dalle sue labbra.
Lui era immobile, completamente pietrificato.
"Adesso sei al sicuro", affermò deciso lui. "Hai mio nome, mio clan e se necessario, protezione del mio corpo".
La frase la colpì con particolare impatto, mentre osservava il modo risoluto in cui teneva larghe le spalle e il ricordo della sua brutale ferocia nel aggredire e abbattere senza pietà chiunque gli si parasse davanti. Parlava sul serio, Vasilj sapeva quello che diceva e aveva addosso cicatrici che lo dimostravano.
Non era un voto romantico, bensì la schietta promessa di salvaguardare la sua sicurezza. Victoria sperava solo che il limitato potere del suo nuovo sposo potesse proteggerla anche dall'altra parte del mondo.
"Veramente cavalleresco da parte tua" disse lei, in assoluta sincerità. "Mi chiedo se basterà, quando sarò in Honduras".
Vasilj si puntellò con le mani e si mise a sedere appoggiando la schiena sulla testiera del letto e Victoria fece altrettanto.
Lei si massaggiò stancamente la radice del naso prima di aggiungere: "Non hai sposato solo la figlia di un Boss, ti sei mai chiesto perché fosse così importante che uno di voialtri mi sposasse? L'aggancio di mio padre, l'honduregno, ha stabilito che io facessi da garanzia affinché ogni transizione sia puntualmente pagata. Dovrò organizzare io le prossime e tutte le spedizioni future, dovrò essere presente sempre".
"E cosa aspettavi a dirmelo?" la interrogò lui, facendo vibrare le iridi grigie. Stava pensando a qualcosa, era assolutamente concentrato nel rielaborare i dati a sua disposizione.
Victoria passò a massaggiarsi nervosamente il collo irrigidito. "Te lo stò dicendo adesso, perché è adesso il momento più opportuno".
Lui la stava a malapena a sentire, passato rapidamente da modalità amante a quella da Vor. "Quando sarà prossima spedizione?".
Victoria si strinse nelle spalle. "A che velocità piazzi la roba?".
"Ho quarantamila dollari da smerciare in mie piazze. Da ultima stima posso ipotizzare una offerta che coprirà sei mesi, massimo sette, ma altri Vor chiederanno forse prima una nuova partita".
Stava facendo roteare il pesante anello d'oro attorno all'anulare della mano sinistra, usando il pollice della stessa. Una sorta di giochetto che sembrava aiutarlo a concentrarsi.
Ora la stava guardando dritto negli occhi con aria seria.
Victoria sperò di non aver mai in futuro brutte notizie da dargli, non poteva immaginare come poteva guardare chi lo deludeva.
Lei si osservò il sottile taglio rossastro che aveva al polso, il segno del patto di sangue avvenuto in chiesa che l'aveva legata per sempre al mondo malavitoso russo.
Senza passi in dietro, senza via di fuga.
"Me ne occuperò io, dovrò per forza essere io altrimenti il mio aggancio in Honduras farà saltare tutto. Mi hai promesso fiducia e sincerità, posso aspettarmi veramente questo da te?".
"Dà", rispose lui annuendo. Sorrise lievemente, con aria triste, e le accarezzò con due nocche la guancia. "Tu onori me".
Victoria rimase senza parole. "Cosa? Cioè... volevo dire, perché?".
"Con te a mio fianco, ho potere di decidere come organizzare fornitura di coca", si alzò in piedi. Nudo e stupendo come un dio della guerra scolpito nel marmo, si avvicinò all'armadio addossato al muro. Aprì le ante e ne cavò fuori una bottiglia in cristallo riempita da un liquore dorato.
"Attenta", la ammonì stappandola e porgendole la canna. "Molto forte".
"Dovrei bere?". Si chiese ad alta voce lei, esaminandone il contenuto guardinga.
"Brindiamo!", la esortò lui sedendosi sopra la trapunta. "A Signora Volkova", disse sottovoce e Victoria ebbe una leggera sensazione di panico.
La represse attaccandosi alla bottiglia come una che lo faceva da sempre.
Cominciò a tossire e sputacchiare immediatamente, con la gola in fiamme.
Vasilj rise sguaiatamente con quella sua particolare risata simile al latrato di un cane e si riappropriò della bottiglia, ne bevve un sorso ma poi tornò nuovamente verso l'armadio.
Questa volta si armò di una piccola valigetta in pelle e un tavolino in legno usato per le colazioni a letto.
"Hai detto che non sai se io potrò proteggere te in Honduras, io presto pongo rimedio".
Detto ciò, gettò la valigetta sul letto accanto a lei e si affrettò a stabilizzare il tavolino da colazione fra di loro.
Si sedette quindi a gambe incrociate, il pene lungo disteso a testa in giù sulla trapunta.
"Che fai?", gli chiese allarmata lei.
Vasilj non le rispose, procedette semplicemente ad attrezzare un kit per tatuaggi. Inserì la spina della pistola alla presa, caricò di ago sterile la punta e riempì un cerchietto di inchiostro nero che appoggiò in un angolo del tavolino. Da un barattolo, ne cavò fuori una noce di vasellina e stappò poi un pennarello colorato dalla punta sottile.
Porse la mano sinistra a Victoria con il palmo all'insù e attese, armato di pennarello sulla destra.
"Mano sinistra... prego", la invitò.
Victoria esitò. "E' normale tatuare le proprie mogli?".
La risposta le diede una scarica di adrenalina.
"No".
Vasilj le disegnò con il pennarello una stella a più punte, grande come tutto il dorso della mano, dimostrando una notevole abilità nel disegnare a mano libera.
Disegnò una stella del tutto identica a quelle che lui stesso aveva alla altezza delle spalle. Ma al centro, vi scrisse qualcosa in cirillico che Victoria riconobbe come: "Lupo".
Vasilj annuì e procedette ad avviare con un forte ronzio la piccola pistola per tatuaggi.
"Volkov", la corresse. "Mio cognome. Cominciamo, dà?".
Lei affrontò l'intera procedura da vera signora, senza la minima contrazione. Vedere la stella di Vasilj Volkov, il famigerato lupo dell'Organizacija, incisa sulla sua carne, le suscitava un inaspettato senso di orgoglio.
"Ora tutti sapranno che sei donna di un Vor", le disse lui mentre con della carta le asciugava le ultime goccioline di sangue. "E se toccano te, moriranno".
Lei non discusse, lo guardò pensierosa.
"Questa stella ha significato nel nostro mondo, Solnyshko. Potresti non fidarti mai del tutto di me ma questa stella dà a te potere.".
Le prese la mano fra le sue, ben più grandi e callose. "Quando senti ansia e paure, voglio che tu tocchi mia stella. Ricorda, unica cosa di cui tu puoi essere certa. Sei al sicuro già solo per fatto di averla su pelle. Non hai bisogno di armature se indossi mia stella".
Victoria si prese un attimo per guardarlo immobile con incertezza, mentre combatteva interiormente con i suoi pensieri.

---
 
"Hai fame?", gli chiese lei qualche tempo dopo.
"Da morire", le rispose lui addentandole delicatamente un seno, poi alzò gli occhi sorridendo. "Ma no solo di te", rotolò fino a bordo letto. "Forse c'é ancora cibo in frigo, forse anche vino se Ivan no bevuto tutto. Vado a prenderne un po'".
"No, non alzarti. Ci vado io". Victoria saltò giù dall'alto letto e si diresse verso la porta, gettandosi un lenzuolo sopra al corpo nudo.
"Victoria!", la richiamò Vasilj marcando pesantemente la 'c' del suo nuovo nome. "Meglio se vado io...". Ma lei aveva già aperto la porta.
Quando fu in corridoio riuscì a udire dei rumori provenienti dal piano di sotto, tra cui il grattare di una sedia sul pavimento e due colpi di tosse.
La sua comparsa sulle scale venne accolta da rauche grida di evviva da parte di una quindicina di uomini ancora vestiti a festa, seppur sgualciti e macchiati di cibo e alcolici.
Alcuni di loro erano intenti a giocare a carte sul tavolo della cucina, altri stavano guardando il notiziario del pomeriggio in salotto e altri ancora stavano saccheggiando il frigorifero.
Lei rimase per qualche istante ferma sui gradini di metà scalinata, in preda all'imbarazzo, con quindici facce che la fissavano maliziosamente.
"Ehi, ragazza!". Gridò Elisey, seduto al tavolo della cucina mentre estraeva dal suo mazzo un asso e lo gettava nel mucchio di carte davanti a lui. "Riesci ancora a camminare!".
La battuta provocò scoppi di risa e commenti ancora più brutali circa le prodezze del Siberiano.
"Se gli hai già prosciugato forze, prenderei volentieri suo posto", si offrì un giovane basso e dai capelli scuri.
"No, no, lascia stare, quello lì non vale a niente. Scegli me, piuttosto!", gridò un altro.
"Lei no vuole sapere di voialtri!", urlò inaspettatamente Ivan dal divano in salotto. Pareva ancora ubriaco. "Dopo Volkov, ci vuole roba come questa per soddisfarla!". Agitò sopra la testa un enorme osso da brodo, tra gli scrosci di risate che scuotevano l'intero pian terreno.
Con un rapidissimo giro su sé stessa, Victoria risalì la scala... solo per trovare suo marito in cima. A torso nudo con addosso solo i pantaloni, le fece l'occhiolino con aria da vecchia volpe.
"Cercato di avvertirti", le disse sorridendo biecamente. "Che strana faccia che hai, sorridi!".
"Cosa diavolo ci fanno...", sibilò lei tra i denti. "Tutti quei uomini quì? Ci hanno sentito?".
Vasilj alzò le spalle. "Testimoni", spiegò brevemente. "Titov non vuole rischi che matrimonio sia nullo. Tua reputazione ormai rovinata".
Le diede una pacca sul sedere "Se sono testimoni diamo qualcosa da vedere" disse per poi ridiscendere la scala nella sua entrata trionfale tra gli uomini.
Udì la sua avanzata verso la cucina in mezzo a un coro di lazzi osceni, domande e fischi.
Victoria corse di nuovo nella camera da letto, richiuse la porta alle sue spalle e vi ci scivolò contro a gambe tremanti.
 

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Capitolo 24
*** 24 ***


                                                                          ---------------SALVATORE DE STEFANO-----------------


Castello Famiglia De Stefano. Tetra magione del suo potere, rappresentazione del suo status ed orgoglio della famiglia.
Non c'era ragazzetto o gangster di Boston che non conoscesse quelle mura di pietra, con le sue statue di santi ed angeli alati in giardino.
Ricevimenti, matrimoni e funerali erano stati organizzati tutti nel suo dominio, Salvatore era il capo famiglia.
Nacque settantacinque anni addietro nella provincia di Reggio Calabria e fu' chiamato, prima dalla madre contadina poi da tutti, semplicemente Totò.
La sua istruzione giovanile aveva profonde lacune, cosa che cercò di porvi rimedio negli anni successivi e sopratutto di non trascurare nella figlia.
Tra il 2000 e il 2005 passò la sua vita in carcere, pur continuando a rimanere tra gli elementi cardine dell'organizzazione criminale italoamericana.
Non era la prima volta che Salvatore De Stefano finiva dietro le sbarre. Quando ancora si faceva chiamare Totò, a diciotto anni scontò sei anni per aver ammazzato un suo coetaneo. Una volta libero, si mise al servizio del fratello, un noto boss dell'Ndrangheta.
Contro di lui, negli anni '90 quando Vittoria era poco più che neonata, diede inizio a quella che poi fu conosciuta come 'guerra di mafia'.
Erano passati anni... ma al di là dello sconfinato Oceano Atlantico lo chiamava ancora la sua terra.
Italia, la sua casa perduta.
Sua per diritto di sangue, portata via dal fratello e dai suoi discendenti col tradimento.
Era un grave errore rubare a Totò 'U Diavulu'.
Il Diavolo ricorda.
Lui, con tutta la sua famiglia erano fuggiti da Reggio Calabria, di fronte alla avanzata dei 'cani' del fratello.
Totò 'il Codardo', ora lo chiamavano in patria.
Salvatore non voleva sapere come invece chiamavano la sua unica erede.
L'anziano sedeva alla sua scrivania in legno scuro, riccamente intarsiata e ricoperta da documenti.
Alle sua spalle, crepitava nel camino un fuoco ardente che illuminava di luce rossastra l'ufficio, nelle ore più buie della notte.
Portò alle labbra secche un bicchiere riempito di Scotch e ghiaccio, mentre con la mano destra cliccava sul mouse del suo computer.
Quotidianamente si teneva informato dell'andamento della borsa finanziaria e sulle notizie giornalistiche, controllava al suo computer ogni mattina e ogni sera.
Faceva sempre tardi prima che si decidesse a lasciare l'ufficio per recarsi nella sua camera da letto.
L'insonnia lo tormentava.
Temeva di aver fatto la scelta sbagliata... ma allo stesso modo era convinto di aver saputo giocarsela di astuzia.
Quell'usurpatore del fratello di certo non se lo aspettava.
Salvatore De Stefano alleato con i russi.
Come avrebbe reagito? Era in grado di contrastare il ritorno di 'U Diavulu'?
Salvatore non poteva ancora dirlo, era ancora troppo presto.
Mossa azzardata affidare la vita della sua unica figlia nelle mani di un Vor mercenario, ma presto avrebbe avuto notizie.
E se non fosse andata... tra i suoi uomini lo chiamavano già 'l'Erede', manco fosse un titolo nobiliare. Ma erano solo sussurri, chiacchiere a fior di labbra.
Sua figlia era la destinata ad ereditare tutto.
'L'Erede', doveva aspettare.
Il suono di una notifica proveniente dalle casse del computer, irruppe della stanza con un tintinnio.
Salvatore si apprestò a cliccare sulla casella della mail ricevuta.
"La prova che attendeva".
Scriveva semplicemente il suo sconosciuto scrittore.
In allegato, c'era la copia controfirmata del documento nuziale.
Salvatore riconobbe una firma spigolosa e tremolante come quella di sua figlia, e un altra ben più grande e affusolata che riportava il nome di Vasilj Sergej Volkov.
C'era anche un secondo allegato, un video.
Salvatore ebbe un violento tremolio alla mano, quasi non riuscì a far scivolare il cursore sul simbolo del play.
Ciò che vide e che sentì, gli fece scagliare il bicchiere a terra con uno schianto di cristallo rotto.
Quell'animale di un russo, in piedi e completamente nudo che prendeva da dietro sua figlia, piegata in avanti e con la faccia semi nascosta da lenzuola nere.
Il bastardo pompava e grugniva, a favore di quella che doveva essere una telecamera nascosta.
"Dimmi che mi vuoi", grugniva l'animale in video.
"Si". Ansimava in risposta la ragazza, sussultando ad ogni penetrazione. "Si, si!", urlava tenendosi con le mani divaricate le natiche.
Salvatore non poté sopportare oltre. Con un straziante urlo e con il cuore spezzato, gettò a terra lo schermo del computer. Questi si ruppe, ma dalle casse l'audio continuava.
"Ti piace?". Domandava quella orribile voce cavernosa dall'accento schifosamente slavo.
Salvatore, completamente preso dall'ira sradicò l'impianto audio dai cavi elettrici e gettò tutto dall'altro capo della stanza.
Finalmente cadde il silenzio.
"Signore?". Chiese titubante il suo pilota d'aereo Luca, facendo capolino dalla porta. "Stà bene?".
Non stava affatto bene.
Quale uomo poteva essere pervaso da cotanta crudeltà, essere così sadico ed esibizionista da inviare a un padre il video in cui prendeva la figlia?
Vasilj Volkov, era un perverso squilibrato mentale.

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Capitolo 25
*** 25 ***


                                                                                   ---------------VICTORIA-----------------


 
Vor Volkov, il Lupo dell'Organizacija, era un così detto 'ladro nella legge'. All'interno della criminalità russa era una figura specializzata, in particolare un ladro che soddisfaceva particolari e determinate caratteristiche della tradizione.
Vasilj era un uomo che non si impegnava in alcun modo per elevare la società, non ne condivideva gli interessi e non partecipava ad alcuna attività delle istituzioni. In questo modo poteva godere della assoluta fedeltà del mondo criminale mantenendo uno status da 'innominabile', ma lo rendeva un pessimo stratega e un uomo molto odiato dal popolino per bene.
Era ben definibile come uomo tattico, ma con una limitata visione del futuro più lontano.
Occorre precisare che la neo sposa Victoria poté vivere come spettatrice intoccabile nei giorni successivi al matrimonio con il Siberiano, prigioniera di nome ma non di fatto. Perciò poté facilmente svolgere alcune attività con gli uomini del clan, anche se non aveva il permesso di allontanarsi dal suo 'Signore'.
Dopo il matrimonio non vi fu alcuna luna di miele, il Signore suo marito tornò a tempo pieno nella direzione del deludente e fatiscente rione.
Benché fosse padrone indiscusso (anche se non registrato) di ogni vicolo, nighjt club, appartamento o bettola, poteva fare affidamento solo sugli elementi della sua banda di ragazzi.
Nessun'altro poteva avvicinarvisi.
"Ragione di sicurezza", diceva Vasilj.
Paranoia, pensava Victoria.
Una volta suo padre, Salvatore De Stefano, le aveva detto una frase che l'aveva fatta riflettere:
"Il controllo logora chi non ce l'ha".
Cresciuto come un soldato semplice, le considerazioni di tipo politico lo annoiavano e il mancato appoggio della popolazione lo faceva innervosire.
Erano sempre più frequenti le manifestazioni di donne e uomini della media società, apertamente uniti in un fronte comune: scacciare il nuovo Vor e riavere in dietro la città.
Le istituzioni, i politici, i giornalisti stavano tutti a guardare e testimoniare. Rovinando il traffico di coca e l'immagine del Lupo.
Come pecore in un compatto gregge, marciavano senza paura in fiaccolate o raccogliendo fondi. Denunciavano la corruzione, le scomparse e tutti i figli morti in scontri fra bande per una guerra senza fine.
Vasilj era solo un nuovo boss venuto dopo una lunga serie, il popolo voleva che fosse l'ultimo.
Tale era la situazione nei sobborghi cittadini alla fine di quell'anno, quando il Natale cattolico era arrivato e ormai passato e il freddo toccava picchi di meno trenta gradi sotto lo zero.
Per contro, non si poteva certo affermare che Volkov non possedesse la capacità innata di un vero generale.
Se le alleanze politiche gli erano aliene, certo non si poteva altrettanto dire sul suo acume nel piazzare mezzi e risorse in un campo di battaglia.
Celebre fu stata la sua irruzione nel condominio del Vor suo predecessore, ma si parlava anche dei suoi agguati e cacce all'uomo che gli avevano valso il titolo.
Al petto poteva appuntarsi medaglie al valore, alla cocciutaggine e alla spesso mancanza di giudizio.
Qualità che lo avevano reso un sicario implacabile e beniamino dei ragazzini che speravano un giorno di diventare gangster.
Era anche un amante passionale, si dedicava al sesso con gioia e un trasporto da ricordare a Victoria un vergine.
Il suo uomo amava farlo di sera, quando tornava a casa.
Se durante il giorno aveva dovuto usare le maniere forti con qualche sconosciuto senza volto né nome, prendeva Victoria con tale entusiasmo da lasciarle lividi tra le cosce e sul collo.
Alla mattina si alzava presto e alla sera tornava sempre.
Per ogni elogio, c'era anche una controparte negativa.
Victoria osservava tutto questo in tacita compostezza, non parlava mai se non interpellata e spesso si prestava a portare da bere agli uomini di suo marito durate qualche riunione nel salotto della loro lugubre casa senza finestre né uscite.
Incontri di cinque... sette uomini o ragazzi, più o meno giovani. In gutturale lingua madre, fumi di sigaretta, alcolici e risate simili a latrati di cani.
Il suo culo era oggetto di sguardi, commenti a labbra immobili, sorrisini angoscianti.
Era questo che Vasilj si aspettava da lei? Che facesse da cameriera?
Il tatuaggio enorme della stella Vory impresso a inchiostro nero sul dorso della sua mano sinistra, le bruciava ogni volta che lo osservava.
L'intero corpo di Victoria si ribellava, rigettava quel marchio di proprietà.
L'anello di matrimonio, quell'enorme diamante purissimo che brillava alla luce aranciata del polveroso lampadario del salotto... le pesava in quelle riunioni più di un qualsiasi altro momento della giornata.
Doveva essere dimagrita. La pietra, troppo pesante, continuava a girare attorno al suo anulare...
Vasilj era un uomo irrequieto, incline all'offesa, lento al perdono e spaventoso nella collera. Victoria badava bene a non contraddirlo e a non metterlo in discussione.
Durante i suoi frequenti scatti d'ira davanti ai notiziari in TV, Victoria prendeva posizione a qualche metro da lui.
La sua furia veniva e passava come la marea.
Passava sempre.
La sua destrezza nelle armi non aveva rivali. Vasilj si dilettava al poligono di tiro, si allenava nella box e nel sollevamento pesi in palestra.
Il Siberiano aveva molti compagni a difesa del suo business, ma un solo vero amico: Ivan.
"Mai". L'aveva una volta ammonita, una notte sotto le coperte del loro talamo, quando cercò di far capire al marito quanto la inquietasse quell'uomo con una lacrima tatuata sotto l'occhio destro. "Mai parlare male di Ivan in mia presenza".
Tra loro due c'era una intesa che Victoria non comprendeva. Lei non aveva mai conosciuto nulla del genere.
Erano come fratelli, uniti non dal sangue ma dalla scelta reciproca.
"Mi ha salvato la vita in passato", le aveva detto Vasilj. "Per ora ti basta sapere questo".
Vasilj era paragonabile a una vipera in combattimento, prediligeva il corpo a corpo e le lame erano la sua più grande passione. Sul ring della palestra si allenava in movimenti fulminei e armoniosi, come una danza sferrava calci e pugni con completa padronanza della forza.
Ivan, dal canto suo...era una tempesta.
Il bestione dalla testa rasata era inarrestabile e incontrollabile. Capace anche di affrontare tre avversari alla volta.
Nel vicolo a lato alla casa di Vasilj, una sera aveva dato prova di cosa era capace stendendo in un incontro amichevole tre uomini grossi quanto lui. Aveva, a un certo punto, preso per il collo l'unico dei tre ancora in piedi e lo aveva sollevato contro il muro trattenendolo solo con una mano.
Victoria aveva assistito a quel brutale incontro mescolata tra la folla urlante e riscaldata dal braccio di Vasilj stretto attorno alle spalle.
Ancora ricordava, in alcuni momenti della giornata, la risata acuta di Ivan. Un bisonte in ira dal sorrisetto facile e l'uccisione lenta.
Adorava soffocare le sue vittime tanto quanto a Vasilj piaceva farle sanguinare.
"Appostò così!", aveva decretato Vasilj alla fine di quell'incontro. Ivan aveva lasciato la presa dalla giugulare del suo avversario.
La folla aveva applaudito.
"Lo sai perché lo chiamano 'Il Boia'?", sogghignò divertito Nicolaj una tormentosa sera. "Ivan, intendo". Precisò dubbioso.
Il muco che gli brillava da sotto le narici e una nuvoletta di condensa che gli usciva dalle labbra pallide per il freddo invernale.
Si fece più stretto all'interno del gonfio giubbotto imbottito che indossava, per poi continuare senza attendere una risposta da Victoria:
 "Il Siberiano era quello che mandavano in missioni da svolgere nell'ombra. Ivan veniva chiamato per le esecuzioni 'pubbliche'".
Alcuni uomini di suo marito si erano dati appuntamento in uno dei magazzini atti al taglio della merce. La struttura era fatiscente con muri e pavimento ancora a grezzo e un paio di bidoni infiammati per riscaldare il gruppo.
Erano in otto, meno Victoria e Nicolaj. La ragazza aveva imparato a riconoscere alcuni volti, aveva appreso chi aveva un'indole da gregario e chi voleva invece farsi notare. Personalmente, preferiva i primi ai secondi.
In sottofondo, dalle enormi casse audio di un'auto elaborata in parcheggio, martellava un rap duro in lingua slava.
Victoria si scaldò i palmi delle mani esponendoli al fuoco di un bidone, attorno a lei i ragazzi si passavano birre e spinelli.
Il riverbero delle fiamme, danzava sulle numerose sfaccettature del diamante al dito di Victoria.
"Ti dico che é la verità!..". Insisteva uno di loro, seduto volgarmente a gambe aperte su un divano in similpelle sfondato e strappato.
Parlava in russo.
Tutti loro lo facevano, sempre più spesso. Victoria stava pian piano scomparendo dalla loro curiosità, non c'era quindi bisogno di coinvolgerla più del dovuto.
Rimase a fissare il fuoco, mentre con orecchie tese e alta concentrazione interpretava (più che tradurre) quello che il ragazzo, in anfibi neri e cappotto in tinta, stava dicendo.
"Gli ha infilato l'intero pugno in bocca, soffocandolo! Lo ha sorpreso finché dormiva sul suo letto, gli è salito a cavalcioni sopra il petto e gli ha sfondato la... come si dice... mandibola, dà?".
"Non è possibile", si fece scettico un altro del gruppo. Quest'altro se ne stava appoggiato con una spalla contro una colonna portante in cemento della struttura. "Come ha fatto Ivan a infilare un pugno intero in bocca a una persona?".
"Spaccando i denti", gli rispose in un brontolio una nuova voce. Ivan fece la sua apparizione comparendo proprio in quel momento all'entrata dell'edificio.
Qualcuno gli passò una birra, lui fece un lungo sorso e si avvicinò al fuoco.
Alle sue spalle, Vasilj intratteneva una seria telefonata al cellulare. Passeggiava avanti e in dietro, fuori nel parcheggio.
Ogni tanto si voltava a guardarla.
Pareva deluso. Non da lei... da qualcuno all'altro capo dell'apparecchio.
"Ti conviene succhiarglielo per bene sta notte... italiana". Borbottò Ivan prendendo un'altra sorsata  di birra dalla sua bottiglia in vetro. "Tutta questa agitazione... non gli fa bene".
Non le piaceva come marcava la parola italiana.
Victoria non volle cogliere la provocazione. "Che cosa lo turba?", chiese invece.
Ivan appoggiò la birra a terra, portò una sigaretta alle crudeli labbra e cominciò a cercarsi nelle tasche un accendino.
"Tutto", le rispose bofonchiando mentre teneva la sigaretta in equilibrio in bocca. "Dovrà agire presto e dovrà farlo duramente. Gente comincia a... 'voltarsi'. Capisci, dà? Gente che lavora in fabbriche, sue fabbriche".
"Contro di lui? Cosa vuole questa gente?", lo incalzò lei incrociando le braccia al petto.
Ivan trovò finalmente da accendere.
"Lui in prigione, lui morto. Forse tutte due le cose". Le rispose in una alzata di massicce spalle.
Victoria fece schioccare la lingua. "Potrei aiutarlo, se solo la finisse di tenermi in una gabbia dorata. Mi fa stare in mezzo a voi ma non mi coinvolge in niente".
"Dà", sbuffò Ivan in un soffio di fumo. "Faresti più danni che favori, sei forestiera"
Il problema restava essenzialmente quello, al di fuori della stretta cerchia di Vasilj nessuno la conosceva. Non veniva mai vista per le strade, non compariva in alcun evento e per quel che ne sapeva, il suo nome non era nemmeno pronunciato nei salotti del Vory v Zakone.
Un bene, penserebbe qualcuno, ma non era ciò per cui era fatta Victoria. Si sentiva avvilita, frustrata da mesi di inerzia. Se voleva trovare una ragione per cui alzarsi dal letto ogni mattina, doveva trovare un modo per uscire dall'invisibilità.

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Capitolo 26
*** 26 ***


                                                       ---------------COMMISSARIO CAPO DETECTIVE, EGOR PETROV-----------------
 


Era una notte gelata ma non tra le più fredde di Dicembre. Per lo meno, a casa sua il nastro isolante alle finestre e i tappeti di famiglia di sua moglie appesi ai muri del soggiorno riuscivano ancora a isolare fuori il vento invernale russo.
L'acqua arrivava ancora gelida dalle tubature però.
Quella sera, prima di partire, il Commissario Egor Petrov aveva potuto farsi solo una veloce doccia senza congelarsi del tutto le palle.
E non aveva ancora finito il turno di notte.
Il gazebo portatile improvvisato dalla polizia era stato picchettato sul ciglio del canale di scolo, lì l'erba era un'unica lastra di fango e ghiaccio. La squadra doveva aver faticato particolarmente per ancorarlo saldamente al terreno senza che venisse spazzato via dalle correnti d'aria.
Il commissario superò il nastro giallo a delimitazione dell'area e si avvicinò alle luci raccolte sotto al gazebo.
 Tutto intorno a loro, volanti della polizia, drappelli di nottambuli curiosi e brevi frasi disturbate provenienti da radio appuntate a giubbotti antiproiettile.
"Cosa abbiamo quì?", si sincerò accostandosi al medico legale.
L'incaricato era bardato di cappello di lana e sciarpa sotto alla tuta bianca protettiva integrale. Rimaneva in ginocchio sotto al gazebo esaminando in silenzio un cadavere riverso su un telo nero.
"Uomo. Dai trenta ai quarant'anni", cominciò a snocciolare il medico. "Morte per asfissia".
Fece rivoltare il corpo, la vittima pareva gonfia e putrescente. Solo il congelamento delle carni impediva alla puzza di propagarsi come una discarica a cielo aperto.
Il medico scostò leggermente il maglione dal collo del cadavere. Alla luce bianca dei fari, fu subito evidente un segno profondo provocato da un cavo sottile ma resistente che gli aveva squarciato la giugulare.
"Strangolamento?", chiese il Commissario estraendo il suo taccuino tascabile e prendendo appunti.
"Azzarderei l'ipotesi di una esecuzione", proseguì il medico legale.
Con delle forbiti praticò un taglio sfrangiato al maglione della vittima rivelando un petto segnato da numerosi tatuaggi ad inchiostro blu sbiadito.
Carcere.
"Organizacija", annuì Commissario Egor.
Il medico gli passò un paio di buste trasparenti a chiusura ermetica, in una c'era un portafogli mentre nell'altra c'era un bigliettino rettangolare in cartoncino zuppo d'acqua.
"Forse un regolamento di conti, ma i ragazzi non hanno trovato nulla di particolarmente significativo associato al nome indicato sui suoi documenti".
Un poliziotto si fece avanti accostandosi a Egor, si identificò e proseguì dicendo: "Ci hanno chiamati dopo che un passante ha visto il corpo incastrarsi sotto al ponte del cavalcavia".
Egor esaminò il corpo gonfio della vittima, di un colorito verdastro giallognolo. "Da quanti giorni stava in acqua?".
"Senza una biopsia accurata in queste condizioni posso solo azzardare una ipotesi... umpf, tre o cinque giorni al massimo".
Egor prese ad esaminare il cartoncino mezzo cancellato dall'acqua.
"Un biglietto da visita", borbottò fra sé. "Il night al limitare del confine a nord?".
"Brutto posto", commentò tetramente il poliziotto accanto a Egor. "Dovevano chiuderlo ancora l'anno scorso, giro di prostituzione e privo di norme sanitarie".
Egor si soffermò a osservare le mani gonfie come salsicce del cadavere.
Gli mancavano anulare e mignolo della mano sinistra.
Vecchi tagli, cicatrizzati da malfatte ricuciture.
Poi si voltò verso la notte e alla sua squadra schierata davanti alle volanti lampeggianti.
"Procuratemi un mandato" ordinò. E schiaffò in mano a un suo sottoposto il biglietto da visita del Night. "Lo voglio entro tre ore!".

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Capitolo 27
*** 27 ***


                                                                                       ---------------IVAN-----------------
 


Il sole sorgeva sugli stessi quartieri insudiciati da immondizia e neve sporca.
Era una mattinata piovosa e grigia. La gente vociava per le strade sonnolente, mentre saracinesche venivano alzate a mostrare fatiscenti negozi di alimentari, tetre attività commerciali e piccole officine di ricambi e riparazioni.
Dal settimo piano di un logoro condominio, rompeva la quiete un raschiare assordante che risuonava per i corridoi fin fuori le finestre e giù per la facciata scrostata dello stabile.
Ad ogni urlo di fresa circolare, scintille rosse ed oro esplodevano contro una porta blindata in metallo di un vecchio appartamento recentemente ristrutturato ma non ancora abitato.
La lama seghettata ruotava e tagliava fra lo stipite e la serratura, Ivan fletteva le braccia mentre con ancora più foga ripassava il taglio più e più volte.
"Finalmente, cazzo!", ansimò in uno sbuffo quando con uno schianto la sicura della porta blindata si recise.
Spense la sega, questa con degli ultimi giri silenziosi si arrestò e venne deposta a terra.
Dietro di lui, un uomo dalla pelle scura ed abiti troppo leggeri per il clima locale, guardò con espressione apprensiva il corridoio del condominio. Avanti e dietro a lui.
Nessuno era in vista, nessuno volle affacciarsi dalle loro unità per vedere quale losca attività stavano facendo.
Ivan afferrò con una mano guantata la tazza di un water in porcellana che si era portato appresso e precedette il negro all'interno del vuoto appartamento.
Il suo "esotico" accompagnatore non si fece attendere, prese il lavandino appoggiato contro il muro e lo seguì rapidamente.
Ivan si diede una occhiata attorno e a parte i muri riverniciati e una branda, non c'era molto da vedere. Le persiane erano calate, l'unica fonte di luce proveniva dalla porta d'ingresso appena violata e spalancata.
Fece cadere a terra con un tonfo il water e si voltò verso il negro ancora spaventato e in silenzio.
"Questi, te li sai montare da solo?". Gli chiese indicando con l'indice i sanitari.
L'immigrato scosse il capo in silenzio, lo stava guardando dritto negli occhi.
Non si fidava, aveva pagato più del dovuto per quella sistemazione e non aveva garanzia che non gliela levassero il giorno dopo.
O il giorno stesso.
"Ok, ci pensiamo dopo", borbottò Ivan contrariato. Si infilò i guanti da lavoro nelle tasche dei larghi pantaloni da cantiere e andò al contatore della luce. Alcuni cavi erano scoperti, collegò due fili e con del nastro isolante sigillò il tutto.
Un paio di minuti dopo, la lampadina al centro del salottino si accese in un flebile lampeggio.
Alla porta comparve in quel momento una donna in evidente stato avanzato di gravidanza, anch'ella con pelle scura come l'ebano. Oltre alle occhiaie pronunciate e gli alti capelli ricci afro.
Con una mano al ventre gonfio, la donna abbassò subito lo sguardo sugli anfibi di Ivan.
"Ohi, Nina", la salutò il russo facendola entrare e chiudendole rapidamente l'uscio alle sue spalle. "Vatti a sedere sulla branda...".
"No, no!", interruppe d'impeto il negro con ancora il lavandino in mano. "Io solo, pagato per io solo. Io solo!".
Ivan contrò l'ora all'orologio d'acciaio al suo polso. "Dà, dà!", cercò di tagliare corto. "Momentaneo".
"Pagato quarantaduemila rubli per io solo!", continuava a insistere la scimmia. Si mangiava le parole in un inglese accentuato da chissà quale cazzo di suo accento.
Ivan gli si fece avanti ad un palmo dal naso, era di un paio di centimetri più alto dell'immigrato ma massiccio il doppio.
"Ascoltami coglione, non siamo nella giungla. Se sei solo, ti sgomberano. Capito? Via!". Indicò poi la donna seduta a bordo branda. "Lei sta quì due giorni, se viene la polizia tu dici che sei quì con famiglia. Capisci quello che dico?".
Agguantò rapidamente il polso della donna, la tirò in piedi senza troppe cerimonie e la schiaffò accanto all'immigrato. Spalla contro spalla.
Erano entrambi sconvolti.
"Oooh, ecco una bella famiglia con bimbo!", sentenziò Ivan. "Con famiglia c'é casa, senza famiglia niente casa. Capisci?".
Il coglione mollò a terra il lavandino e strinse la mascella.
"Non la vuoi?", sbuffò Ivan. "Ok. Nina, andiamo!".
"Ok, ok!", borbottò rapidamente il negro. "Ora casa è mia?".
"Dà!", annuì Ivan. "Tutto incluso".
Il negro guardò la donna, lei continuava a guardare a terra.
Ivan gli schioccò un paio di volte le dita davanti agli occhi. "Lei no", lo ammonì. "Due giorni, poi lei se ne andrà. Niente problemi... oppure torno".
L'orologio in acciaio che aveva al polso prese a trillare un paio di volte.
 "Ora di andare", annunciò.
Si avviò verso l'uscita. "Più tardi mando qualcuno a montare cesso e lavandino".
E si congedò.
---
A bordo di una sgangherata utilitaria color topo, più tardi raggiunse il casello dell'autostrada che portava fuori dai sobborghi di San Pietroburgo.
La sua solita Hummer nera sarebbe stata decisamente troppo vistosa per quello che doveva fare.
Il furgone degli alimentari, a quell'ora doveva essere già in procinto di immettersi nel traffico e procedere alla consegna del carico che trasportava.
Ivan parcheggiò in una area di servizio poco lontano e con un gomito appoggiato al finestrino rimase a guardare impotente in direzione dell'affollato casello.
Il furgone bianco con adesivi di frutta e verdura sulla fiancata, era stato fermato davanti alla sbarra. Bloccando decine di auto dietro di sé.
Il guidatore e l'accompagnatore erano stati fatti scendere da uomini in giubbotti blu scuro.
La  scritta bianca stampata sulle loro schiene era ben leggibile anche dalla piazzola in cui si nascondeva Ivan.
POLIZIA.
"Merda!". Fu' l'unico commento che il russo si lasciò sfuggire.
Nascose gli evidenti tatuaggi alla testa rasata sotto un berretto con frontino e con aria disinvolta rimase immobile ad osservare il precipitare degli eventi. Non osando scendere dall'auto.
Non poteva fare altrimenti.
Un poliziotto stava in quel momento perquisendo il carico, scese dal portellone retrostante del furgone con in mano una latta di ananas tagliato a fette. La porse al suo superiore che tirò la linguetta e vuotò il contenuto viscido sull'asfalto.
Come un ventaglio, caddero una serie di fette di ananas ma poi... ecco un pacchetto ben sigillato con nastro isolante nero.
Ivan agguanto il suo cellulare dal porta oggetti, digitò rapido un numero e attese fino al terzo squillo.
"Abbiamo un problema con mamma". Annunciò subito chiaramente, senza perdere tempo in convenevoli.
Vasilj era come sempre già sveglio, non dormiva praticamente mai. Come un cazzo di Wolverine!
Doveva essere però ancora a letto con la moglie, Ivan distinse una voce femminile miagolare qualcosa in sottofondo.
Poi il fruscio di lenzuola, Vasilj si era messo prontamente a sedere. Piedi giù dal letto, pronto all'azione. "Ma come?".
Ivan si sistemò il frontino più basso sulla fronte.
I poliziotti stavano facendo salire a bordo delle loro volanti i due fattorini del furgone. In arresto.
"Sono andato per accompagnarla... ma sono arrivati i cugini. L'hanno presa subito, non hanno dovuto nemmeno cercarla".
"Va bene, adesso vattene a casa".
Ivan osservò le volanti della polizia accendere i lampeggianti ed andarsene con due potenziali testimoni.
"D'accordo", salutò prima di riagganciare.
 
---
 
Per tutto il resto della mattina attese la chiamata, ma dovette aspettare fino a mezzogiorno prima di ricevere il messaggio di convocazione.
Nel frattempo, le strade del rione si erano fatte inquiete.
Automobili della polizia fermavano a campione mezzi di passaggio per strade secondarie e chiedevano documenti a chi poteva suscitare qualche sospetto.
Un movimento in apparenza senza un motivo ma era chiaro che qualcuno al vertice del braccio armato della legge aveva alzato la testa e voleva dar prova alla popolazione insoddisfatta che qualcuno li stava ad ascoltare.
Ivan raggiunse la casa di Vasilj in fondo alla via chiusa del suo quartiere fortezza.
Ad aprirgli la porta fu babushka:
"Privièt, Ivan". Lo salutò con un sorriso.
"Vasilj mi ha cercato", le rispose sbrigativo Ivan.
"Sì, vieni con me". Annuì subito seria, la piccola domestica del Vor. Inaspettatamente uscì sul marciapiede, richiuse la pesante porta blindata alle sue spalle e gli fece strada verso l'imbocco della via. "Stanno in fondo, a casa dei vicini. Dice che così vede subito chi arriva".
Sul tetto del primo stabile alla via di Vasilj, tutti i capo piazza del rione si erano dati appuntamento formando un semicerchio di fronte al loro Vor.
Mentre il vento gelido fischiava nelle orecchie, i capelli si arruffavano e i cappotti si gonfiavano, alcuni di loro fumavano nervosamente ed altri tenevano le mani in tasca dei pantaloni con volti dalle espressioni truci.
In sette erano presenti, come sette erano le piazze sotto al controllo di Vasilj. Ognuno di loro aveva un solo accompagnatore.
 Ivan era quello del Siberiano.
Vor Volkov non poteva essere più serio. Gli occhi normalmente leggermente a mandorla, ora erano tenuti a fessure. Le nerborute braccia tenue strette intrecciate al petto, spalle dritte e mascella contratta.
Dall'elastico dei pantaloni della tuta sbucava l'impugnatura della sua pistola, tenuta volutamente in vista sul davanti.
"Qualcuno ha raccontato del carico", esordì il Vor con voce glaciale. Dovettero tutti prestare attenzione al movimento delle sue labbra sfregiate per avere conferma che stesse parlando.
"C'é stata una soffiata".
Seguì qualche istante di silenzio, pareva che nessuno volesse parlare.
"Se fossero gli italiani?". Azzardò qualcuno. "Pareva troppo facile che mollassero il carico e se né andassero...".
"In ogni caso dobbiamo tenere gli occhi aperti", lo interruppe immediatamente il Vor senza dargli troppa attenzione. "Dopo questa mattina ci stanno addosso".
Vasilj si soffermò su un capo piazza sulla destra, guardò quell'omino coi capelli dall'improbabile taglio a scodella e il suo accompagnatore.
"Ma Coda... dove stà?", chiese Vasilj non sciogliendo la stretta delle braccia al petto.
Il capo piazza guardò il proprio accompagnatore, poi con fare incerto provò a rispondere mestamente al suo Vor.
"Non mi ha risposto. Gli ho lasciato un messaggio e ho preso un sostituto".
Un altro uomo prese la parola: "Se lo son preso un altra volta le guardie?".
Vasilj fece scattare lo sguardo su quest'ultimo, come una serpe sulla preda. "Come un altra volta?".
"Dopo i fatti del condominio di Kozlov dato alle fiamme e tutta la sua famiglia sterminata.. lo hanno preso per interrogarlo. Normale amministrazione".
Vasilj fece schioccare il collo, gli occhi rivolti al nuvoloso cielo invernale. "E perché io non so' niente?".
L'omino coi capelli a scodella provò a difendersi: "E' stata una cosa... da niente. Ecco".
Ma l'altro capo piazza aveva ancora da dire: "Se lo sono tenuto tutta la giornata e poi l'hanno portato a casa".
Ivan si accostò all'orecchio di Vasilj. "Coda dirige il club dove vanno i Ragazzi del Vicolo".
Vasilj si rivolse a tutti i presenti: "Portatemi Coda, voglio parlarci. Sia ben chiaro, quanto accaduto oggi non vi priverà di privilegi ma il responsabile deve saltare fuori!".
Un altro capo piazza prese coraggiosamente la parola, questo aveva denti storti e un naso  adunco enorme: "E con quali soldi ci paghiamo i ragazzi? Abbiamo famiglie, mano d'opera, corrieri...".
"Sistemo io", tagliò corto Vasilj. "Aspettatevi mie notizie, vi porterò il pattuito".
"E i ragazzi della consegna di oggi?", si intromise un altro. Il cappotto che gli frustava i polpacci dalla forza del vento. "Sono i miei ragazzi, non parleranno".
"Manda il dovuto alle loro famiglie, non farci mancare niente. Sanno che sono i rischi del mestiere". Sentenziò il Siberiano.
Più tardi ridiscesero i gradini della scala antincendio esterna dello stabilimento verso i parcheggi, il Siberiano con Ivan davanti e tutto il codazzo di sottoposti dietro di lui. La riunione era finita e ognuno era pronto a raggiungere la propria vettura.
Ma il tarchiato Elisey, il testa calda dei Ragazzi del Vicolo, aveva una notizia da riferire. Bloccò il passo a Vasilj e all'orecchio gli sussurrò poche parole: "Vostra moglie. Credo sia il caso che veniate a vedere. Forse... è impazzita".

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Capitolo 28
*** 28 ***


                                                                                                     ---------------VICTORIA-----------------

 
Nata con la vocazione di essere una nuova opportunità residenziale al di fuori dei storici palazzi della città di San Pietroburgo, era finita per essere simbolo di degrado.
Questa poteva essere il titolo della locandina pubblicitaria di Piazzale Lenin nel cuore del rione. Una piazza che con l'omonima, ben più conosciuta e meravigliosa Piazza Lenin della città per bene, non aveva nulla a che fare.
Un complesso abitativo costruito in un lugubre quartiere della città tra il 1962 e il 1975 dall’idea di un architetto desideroso di farsi conoscere nel panorama russo e per dare risposta alla crescente domanda di abitazioni a basso costo per fasce economicamente svantaggiate.
Palesemente una scopiazzatura della architettura sovietica, anche se in molti la definivano "reinterpretazione".
Le strutture vennero realizzate disponendosi a ferro di cavallo attorno a uno spiazzo grande quanto un campo da calcio. L'idea di progettazione era quella dell'Exisenzminimum, una corrente architettonica per la quale l’unità abitativa del singolo nucleo familiare sarebbe dovuta essere ridotta al minimo indispensabile.
Questo avrebbe comportato sì una spesa costruttiva ridotta, ma anche il massimo utilizzo degli spazi comuni, dove la collettività avrebbe dovuto integrarsi.
Il complesso era originariamente composto da 7 edifici su un’area di 115 ettari.
Due di questi erano stati demoliti nel 1997 e nel 2000, i restanti risultavano composti da corpi di fabbrica paralleli tra loro. Grossi blocchi uniti da ballatoi e rampe di scale, lunghi 100 metri e alti 45 con 14 piani l’uno. Strutture portanti realizzate in cemento armato con elementi prefabbricati.
Vero orgoglio della Federazione.
Da quello che ne sapeva Victoria, ciascuna abitazione era di dimensioni piuttosto contenute e standardizzate, 50 metri quadrati all’interno, con terrazza esterna di 10 metri quadrati.
Si chiedeva come si riuscisse a vivere in un pollaio.
Un fischio acuto la riportò con l'attenzione al centro della piazza dove si trovava, la partita era ricominciata.
I ragazzini tredicenni di quel rione avevano organizzato una partitella di calcio, cinque contro cinque usando un vecchio pallone di cuoio spellato della Nike. Duro e pesante come un sasso.
Victoria non aveva voluto sentire ragioni e con l'aiuto di un Nicolaj interprete al quanto contrariato, aveva ottenuto l'ingaggio da difensore.
Non si sentiva più le mani dal freddo, i guanti di lana spessa le davano gran poco sollievo. Il respiro le usciva a sbuffi congelati dalla gola, le gocce di sudore le facevano venire la pelle d'oca lungo la schiena.
Le guance e il naso erano di un rosso accesso.
Ma si stava divertendo.
La partita iniziò, i ragazzini erano ordinati, ben educati a non correre tutti insieme dietro alla palla. Si passavano il pallone e mantenevano la loro posizione. Se poi uno prendeva un calcio la scena a terra era d’obbligo.
Le azioni si susseguivano incalzanti, gli avversari erano più bravi. Partì un tiro a palombella, il portierino bassetto poté soltanto guardare la palla entrare in porta.
Victoria si unì agli ululati di disappunto e alcune madri dei ragazzetti, al limitare della piazza, applaudirono o si unirono alle rimostranze.
Andava tutto bene, Victoria lo percepiva. C'era un buon clima di divertimento.
Aveva detto a Nicolaj di farsi da parte, di aspettarla alle porte dell'unica grande uscita della piazza senza attirare troppo l'attenzione su di sé e la sua aria losca da teppista.
Piazzale Lenin era perfetto, non aveva creduto alle parole di Nicolaj quando in auto erano passati lì davanti la prima volta:
"Non é di nessuno. Volkov non ha messo occhi sopra, prima di ampliare vuole rinforzare suoi punti strategici".
"Com'é la gente di quì?". Aveva chiesto la ragazza dal sedile posteriore della vecchia auto di Nicolaj.
"Ha fame", fu la tetra risposta. "Ma non é in buona posizione per business, troppo grande. Troppa gente. Non é nella politica di Siberiano".
Victoria non era d'accordo, la Camorra aveva prosperato in quartieri come quello. Le Vele di Scampia ne furono state l'esempio per anni, prima della riqualificazione e i cantieri che ne erano conseguiti.
Ma Victoria capiva quello che il suo accompagnatore le lasciava intendere.
Volkov il troppo teso.
Volkov il paranoico, lo schivo, il senza finestre in casa.
Volkov il solo.
"Gooool!!", urlò lei d'impeto. Fino a perdere il fiato e infilando la palla fra i due mattoni messi a mo' di porta ai lati del piccolo portiere avversario.
I ragazzini attorno a lei cominciarono a saltellare, prendersi per i fondelli, ridere ed esultare ma poi... tutto si fermò.
Parvero tutti pietrificarsi sul posto, smisero di sorridere e con apprensione si voltarono tutti verso il cancello d'entrata della piazza. Un rombo tonante di auto sportiva aveva risuonato tra le mura grigie del comprensorio.
Una madre richiamò il figlio, seguita a ruota da altre due. Un gruppetto di ragazzini più grandi rimasero nel piazzale ma si riunirono tra di loro e parvero valutare il da farsi.
Vasilj Volkov era arrivato e benché non avesse fatto null'altro che scendere dalla sua auto sportiva nera ribassata, tutti nella piazza si misero in allerta come gazzelle in presenza di un leone.
Victoria si sfregò i palmi delle mani fra loro e si strinse nelle spalle in un gesto quasi automatico mentre Nicolaj correva a scambiare due parole con il suo superiore.
Pantaloni della tuta blu scuro, bomberino nero chiuso con la zip fin sotto al mento, cappello con il frontino calato sugli occhi e scarpe da ginnastica. Eppure... Vasilj appariva ugualmente come un signore della guerra.
"Ragazzi...", chiamò speranzosa Victoria in un russo stentato, rivolgendosi ai ragazzini rimasti. "Giochiamo, dai giochiamo".
Un fischio acuto, di quelli che si fanno a labbra tese per attirare l'attenzione di una fica di passaggio.
Qualche secondo, in cui Victoria rimase volutamente di spalle verso l'entrata della piazza. Poi, ancora un altro fischio.
I ragazzini, lentamente tornarono alle loro abitazioni.
Victoria strinse i pugni e si voltò verso suo marito, ancora fermo immobile a gambe divaricate in fondo al piazzale.
Aveva fischiato lui? Certo che lo aveva fatto, per chiamarla.
Lei non avrebbe fischiato così nemmeno a un cane.
Lo vide alzare due dita e farle cenno di avvicinarsi, accanto a lui un Nicolaj a braccia incrociate ed espressione seria.
Razza di schifoso Giuda, bastardo.
Man mano che la ragazza si avvicinava, Vasilj non le staccava quei crudeli occhi grigio cemento di dosso.
Fu una lunga camminata della vergogna fino a lui. Aveva la capacità di metterla a nudo solo fissandola, come se la passasse a raggi X.
Lui non la guardava mai solamente, la esaminava.
Victoria aveva suo malgrado il cuore in gola, quell'uomo le faceva ancora lo stesso effetto di quando lo aveva visto in volto la prima volta all'hangar per aerei alla consegna della merce dall'Honduras.
Fortunatamente non era mai stata incline ad arrossire e non volle spezzare quel silenzio per prima.
"Che fai?", le domandò lui concisamente.
"Li ho visti giocare e ho pensato di unirmi a loro", gli rispose lei con semplicità. "Ma questo, il buon Nicolaj te lo avrà già detto".
Gli osservava ostinatamente il naso sottile e affilato, proprio non riusciva a guardarlo negli occhi.
Lui tirò sù forte con quel naso, se lo grattò e si guardò nervosamente in giro. "Con ragazzini... senza giusta scorta".
"Ho bisogno di riempire le mie giornate!", si ostinò lei.
Nicolaj prese rapidamente congedo levandosi furbamente dai coglioni.
Vasilj infilò le grosse mani tatuate nelle tasche dei pantaloni e si guardò attorno. "Perché sei quì?".
Lei stava per controbattere ma lui scosse il capo e si succhiò un canino.
"Verità!", ordinò.
Era così palese che non fosse il tipo di ragazza sportiva e socievole?
Lei allora gli indicò le alte terrazze, i volti che facevano capolino dalle centinaia di finestre sigillate con lo scotch per tappare gli spifferi. E poi l'unico vero cancello di entrata al piazzale e i tre vicoli laterali che portavano all'esterno del comprensorio, così stretti da far passare solo un uomo adulto per volta in fila indiana.
"Poi hai visto i bambini?", si accalorò lei continuando tutto d'un fiato. Temeva di venire interrotta, aveva forse solo quell'unica possibilità per farsi sentire.
"Visto quanti ragazzini ci sono? La maggior parte non va a scuola e non lavora, passano il tempo a rubare e vandalizzare. Sono minorenni... ne ho visti almeno una trentina".
"Come fai a sapere queste cose?", le chiese lui accostandosi di un passo più vicino a lei.
Lei gli sorrise debolmente. "Gli altri bambini parlano, raccontano di fratelli e sorelle sempre a casa. Di genitori disoccupati, tossicodipendenti oppure sempre a lavoro in fabbriche dove prendono una miseria... hai visto quanto in alto arrivano i terrazzi? Le vedette potranno vedere fino in fondo la strada, possiamo mettere sbarramenti ai tre vicoli di uscita e aprirli solo per le emergenze. I ragazzini possono...".
Il Siberiano le agguantò le spalle in una stretta ferrea. "Ferma", la esortò. "Non faremo niente!".
Victoria si tolse il guanto alla mano sinistra, la sua pelle era diafana in contrasto all'inchiostro del suo personale marchio. Il nome Volkov per sempre a segnarle il dorso, circondato dalla stella Vory.
Appoggiò il palmo in un delicato tocco sull'ampio petto dell'uomo, all'altezza del cuore.
Lui le permise di farlo.
Il suo respiro sapeva di fumo di sigaretta e il suo profumo così personale di calda quercia e chiodi di garofano, si aggrappava al suo gonfio giubbotto imbottito.
"Marito mio..." esordì docilmente inalando dalle narici aria gelida e suadente profumo. "Voglio questa piazza, concedimela. Donala a me e non ti deluderò".
L'espressione di Volkov però non mutò, qualcosa non andava.
Le sue iridi rimasero di pietra, il suo labbro sfregiato un agghiacciante ghigno senza divertimento.
"Con quali uomini? I miei?". Sbottò con falso divertimento. Si scostò da lei e le fece cenno di salire in auto. "Non ora, non oggi...".
Una volta nell'abitacolo, Victoria prese posto accanto a lui sul sedile del passeggero ma Vasilj esitò ancora qualche momento prima di partire.
Mise in moto premendo il pulsante di START ma non fece retromarcia, continuò invece a giocherellare con il suo massiccio anello d'oro nuziale con lo stemma Vory facendoselo girare e rigirare attorno all'anulare sinistro.
"Cos'é successo?", gli chiese con apprensione.
Lui continuava a far girare l'anello. "Il carico..", borbottò sovrappensiero.
"Il carico?", si domandò lei a fior di labbra.
Lui tremò, scosso da una improvvisa ira e si batté l'indice contro il petto.
"Il MIO carico! Rubato, portato via. Polizia preso e andato!". Poggiò la nuca contro il poggiatesta del sedile, fece un respiro, poi fu pronto per partire. "Porto te a casa, poi io incontro Boris Titov".

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Capitolo 29
*** 29 ***


                                                                                                         ---------------PAVEL-----------------
 

"Volkov!".
Chiamò terrorizzato, con voce forse troppo da ragazzino per farsi sentire sopra al martellare della musica metal.
Sotto di loro, il ring che si svuotava e la folla cominciava a radunarsi ai banconi dei bar urlando, bevendo e ridendo.
Il brufoloso Pavel era stato mandato in missione non di meno dal Siberiano, il Lupo. Non poteva fallire, non con lui.
"La tua donna!", avvertì indicando la folla al piano terra. "E' in pericolo!".
Il volto dell'uomo in canotta aveva fatto una ben misera fine, prima si era gonfiato in bubboni violacei, poi la pelle si era spaccata in strappi sanguinolenti, i denti e le labbra erano partiti finché alla fine una qualsiasi connotazione umana era indistinguibile.
Volkov continuava, non si fermava. La sua vittima giaceva inerme, non tentava nemmeno più di levarselo di torno.
Gambe e braccia spalancate sotto al sicario. Il volto di Volkov era un maschera di ira. I denti scoperti come un demone, l'intero corpo macchiato da schizzi di sangue.
Che nottata era stata!
Pavelino né era sempre più convinto, quello voleva dire essere rispettato. Essere abbastanza forte da difendere la propria donna e il proprio business.
Nessuno lo avrebbe più bullizzato per i brufoli e le orecchie a sventola quando sarebbe diventato un affiliato al cazzo di Vory.
Si immaginava possente, forgiato da anni di strada e galera. Con la sua amata Diana ad aspettarlo a casa... la sua bellissima biondissima e non più quattordicenne Diana.
Era un amore grande il loro, di quelli che si raccontano nei romanzi strappa lacrime che piacevano tanto a lei.
Diana faceva la parrucchiera in centro, nel dopo scuola. Avrebbe presto mollato gli studi, però. Diceva che non poteva aiutare la famiglia se non portava a casa una busta paga.
Pavel la capiva e l'amava ancora di più per questo, per il suo spirito di sacrificio e la sua correttezza di spirito. Voleva allora donarle il mondo, tutto quello che poteva desiderare senza mai aver potuto avere.
Lo faceva per entrambi, si diceva. Quando entrava nei quartieri malfamati e faceva favori in consegne a ragazzotti più vecchi di lui invischiati in traffici illegali.
Diana era diversa, Diana non sapeva... forse non avrebbe capito.

---

Quel pomeriggio pareva come tanti.
Pavel che a piedi, dopo la campanella di fine scuola, raggiungeva l'officina di periferia dove lavorava.
Un buco squallido, sporco d'olio che puzzava di plastica bruciata. Lo pagavano una miseria ma lui adorava i motori e ci sapeva fare.
Il meccanico gestore del locale lo prendeva a ceffoni dietro le orecchie ogni volta che Pavelino provava ad alzare la cresta, ma era un buon uomo.
"Lo faccio per formarti!", gli diceva sempre. "Devi rigare dritto!".
Ma quando, giorni dopo, avrebbe ripensato a quel giorno... si sarebbe maledetto con tutto il cuore.
Aveva indossato la sua tunica grigia da lavoro e si era da poco accucciato accanto a uno scooter parcheggiato sul cavalletto davanti all'ingresso dell'officina, quando un'auto consumata dal tempo e con freni urlanti si fermò in strada davanti a lui.
Il finestrino dal lato guidatore, calò con qualche difficoltoso giro di manovella.
"Ti stà cercando Ivan", esordì un ragazzo sulla ventina. Una mano sul volante e il gomito appoggiato sullo sportello.
Pavel non lo aveva mai visto prima, ma i segni blu marchiati sulle falangi delle mani raccontavano una storia di affiliazione al clan che chiamavano "Ragazzi del Vicolo".
Pavel si mise ritto in piedi. "Ora?".
L'autista tamburellò sul volante. "Ora".
Il ragazzino brufoloso si guardò alle spalle, il suo titolare era alle prese con un auto sollevata da un argano all'interno dell'officina.
Non aveva fatto ancora caso a loro.
"Devo fare un altro viaggio?". Chiese esitante, tornando con lo sguardo al nuovo venuto.
Il tipo scosse il capo. "No, é per una cosa diversa".
"Arrivo subito, allora".
Quando fu a portata dell'armadietto cominciò a spogliarsi in fretta ma non abbastanza da non essere notato dal suo mentore, che lo agguantò per un braccio costringendolo a voltarsi.
Pavel si divincolò con uno scossone.
"Allora? Dove vai?", lo interrogò l'uomo con veemenza. "Io ti pago per lavorare, non per andartene in giro".
Pavel aveva già la giacca sulle spalle, pronto ad inforcare l'uscita.
"Quello è mio cugino, dice che la mamma non stà bene. Devo andare".
Si affrettò ad aprire lo sportello dell'auto venuta per lui, ma prima di salire rivolse al titolare un ultimo saluto. "Stà tranquillo che domani lo scooter é pronto!".
Il viaggio fino al covo dei Ragazzi del Vicolo fu breve e silenzioso, la sua scorta gli aveva anticipato poche cose e poi la loro destinazione distava solo qualche quartiere più avanti.
Al loro arrivo, nel stabilimento tenuto a grezzo e con bidoni carichi di cenere agli angoli del fabbricato, c'era ad aspettarli solo Ivan.
Un armadio d'uomo con tatuaggi a ricoprirgli l'intero capo rasato, anfibi e pantaloni neri dell' esercito e una sigaretta rollata a mano tra le labbra sottili.
Lo portò all'interno di un piccolo ufficio. Nell'angolo, un altarino dedicato alla Madonna. Una bellissima e diafana signora, con velo scuro e due pistole strette tra le mani incrociate davanti ai seni gonfi.
Innumerevoli candele erano state accese in suo favore, si raccontava che non dovessero mai essere spente.
"... benedici le nostre armi, indirizza i nostri proiettili e consacra noi così che la nostra mira possa diventare la tua". Recitò in un sussurro, Pavel.
Ivan aggirò il tavolo posto al centro della stanza e sbuffò scocciato un:  "Seh, seh".
Poi allungò una mano sotto al piano e vi sganciò una pistola con carrello, di quelle che se mal impugnate ti scorticavano una mano nel rinculo dello sparo.
Il ragazzo ebbe una esitazione, si voltò dietro di lui in direzione dell'uscita dove il suo autista restava in piedi appoggiato con una spalla allo stipite. Intento a leccare la cartina di un spinello.
Decise di farsi forza, prese l'arma e la soppesò nel palmo.
Era la prima volta che ne teneva in mano una vera, quelle del tiro a segno di certo con contavano.
"Devo sparare?". Chiese sorridendo.
Ivan gliela levò lestamente dalle mani, accertandosi poi che la sicura fosse inserita.
"Ragazzo, una cosa alla volta", infilò la pistola in un piccolo sacchetto di carta per il pane. "Tieni, vatti a divertire", si frugò nelle tasche e gli lanciò qualche banconota.
Pavel non se lo fece ripetere, le prese e se le infilò nel taschino interno della giacca. "Ma perché, ci andiamo a prendere qualcosa insieme stasera?", scherzò ridacchiando.
Ivan gli passò il sacchetto tutto accartocciato, fece un ultimo tiro alla sigaretta per poi spegnerla a terra. "Non sarai mica frocio? Non ce l'hai una fidanzata?", gli rispose.
Il ragazzino era di buon umore ed era pronto a rispondere al volo, moriva dalla voglia di mostrare la foto di Diana sul telefonino a chiunque lo stesse ad ascoltare.
Ma non in quel momento.
Qualcosa lo fece desistere, non seppe definire il perché ma preferì tenere Diana fuori.
Tenere Diana lontana da Ivan.
"No", rispose con espressione contrita. "No, non ce l'ho la ragazza".
Ivan rise con un esagerato verso di gola. "E certo, con quelle orecchie e con quella faccia da culo!".
Il suo uomo alla porta si unì alla malevola risata.
Il sicario afferrò il ragazzino per la collottola e lo guidò verso l'uscita, era una morsa d'acciaio. Pavel non avrebbe potuto opporsi nemmeno volendo e l'uomo lo stava tenendo solo con una mano.
 "Vatti a trovare qualcuna da chiavare, Pav. Domani faremo qualcosa di importante".
"Per te qualsiasi cosa, Ivan".
Pavel si avviò come da istruzioni fuori in strada, non aveva notato l'occhiata che si erano scambiati alle sue spalle Ivan e il suo sottoposto.
Camminò con l'incarto in mano per almeno un ora, poi raggiunse il palazzo che gli avevano indicato e salì le dieci rampe di scale che gli avevano anticipato.
Quando fu sul tetto poté godere della vista dell'intero rione a trecentosessanta gradi.
Lì il terrazzo era ingombro di antenne e parabole, guano di uccello e cavi elettrici scoppiettanti.
Prima di fare come da istruzioni si concesse un unico sfizio, aprì il sacchetto e estrasse la pistola.
La guardò brillare sotto il sole del pomeriggio, poi si avvicinò al parapetto del terrazzo e puntò l'arma verso i passanti ignari dieci piani più sotto.
La tenne in orizzontale, alla maniera dei veri duri. Alzò il mento, braccio teso.
Era così che ci si sentiva sempre?
Poi la rimise al sicuro nel sacchetto, richiuse tutto e la nascose nel buco di una grata dietro a una parabola arrugginita.

---

Quella sera, alle otto in punto era giunto in scooter sotto casa di Diana. Si era vestito bene, la tuta sportiva più pulita e nuova che aveva.
La temperatura in quei giorni saliva e calava a piacimento e quella era una bella serata per un appuntamento, bastava coprirsi con giubbotti pesanti.
Portò l'indice e medio di entrambe le mani alla bocca e fischiò forte con un suono che prima saliva, poi calava e in fine risaliva.
Lei uscì sul suo balcone con un sorriso enorme stampato in volto.
"Ehi!", lo salutò vivacemente.
"Dai scendi!", la esortò sornione lui.
Lei scosse quella sua testolina dai lunghi capelli lisci color dell'oro. "Già papà non mi fa uscire, figuriamoci con te". E rise, con quel risolino argentino che faceva stringere lo stomaco a Pavelino.
"Torniamo presto", insistette allora lui.
Lei ancora si lasciava desiderare, andava bene così. Faceva parte del gioco.
"Abbiamo scuola domani".
Lui le mandò un bacio al volo. "E torniamo presto allora! Ci parlo io con tuo papà".
"Seh, come no!", gli sorrise ancora lei. "Ci vediamo domani in classe, ok?".
Pavel non ci sarebbe andato l'indomani in classe, ma ancora una volta preferì tenerla fuori da tutto il male che lo circondava.
La salutò, fece inversione col motorino e se ne ritornò a casa.
Alla sua fredda, sporca casa che condivideva con la madre divorziata.

---

L'indomani mattina, l'appuntamento era in un campo fuori città. Pavel doveva riprendere l'incarto per il pane e farsi trovare lì all'ora prestabilita, quindi si era vestito come se dovesse andare come sempre a scuola ma invece con suo scooter era andato da Ivan.
L'uomo lo stava aspettando seduto su un grosso copertone squarciato e abbandonato da un camion.
Reggeva un specchietto quadrato su un ginocchio mentre con l'altra mano, con la tessera del bancomat,  tagliava e disponeva sullo specchio la sua striscia di bamba.
Guardò il ragazzino avvicinarsi a piedi attraverso l'erba secca e congelata del silenzioso campo.
Ivan tirò su forte la sua striscia prima con una narice e poi con l'altra. Buttò in dietro il capo, strinse le palpebre per qualche secondo e trattenne il respiro.
Poi rilasciò, tornò a guardare Pavel e si asciugò con il dorso della mano una goccia di sangue colata da una della narici.
"Colazione dei campioni, ragazzo", sghignazzò su di giri.
Pav non disse nulla, si limitò a starsene impalato col le braccia tese ai lati dei fianchi.
"Iniziamo?", lo stuzzicò allora il sicario.
Pavel non capiva. "Cosa?".
Ivan rimise tutta la sua attrezzatura a posto, all'interno del suo giaccone. "Cosa hai provato nel vedere il Siberiano ammazzare di botte quell'uomo alla bisca, quella notte?".
"Niente, non sono affari miei", rispose il ragazzino alzando spavaldamente il mento.
Ivan ridacchiò arcuando un lato della bocca. "Non ti ha fatto nessun effetto? Però secondo me se lo colpivi tu, ti avrebbe fatto effetto".
"Mi stai dicendo di ammazzare qualcuno?", si sincerò titubante Pav.
Il sicario si alzò in piedi in tutta la sua statura, in confronto al ragazzo pareva un gigante.
"Perché? Ne sei capace?", lo sfotté l'uomo.
Pavel alzò le spalle, non sapeva se ne sarebbe stato veramente in grado. Nessuno gli aveva mai chiesto una cosa del genere.
"Sei capace?", lo interrogò ancora Ivan. Poi si fece dare il sacchetto, ne cavò fuori l'arma, tirò in dietro il carrello caricandola e gliela schiaffò in mano.
La presa del ragazzino era tremante e sudaticcia, aveva il cuore che gli martellava in gola ma non poteva certamente rifiutarsi.
"Fammi vedere che sai fare", lo spronò Ivan indicando il tronco di un albero a una decina di metri più avanti. "Mira là!".
Pavel tese il braccio e inclinò il ferro in orizzontale, il suo mentore allora si succhiò un canino rumorosamente in segno contrariato. "Ma credi di essere in un film?", lo riprese.
Poi gli si appostò alle spalle, si curvò su di lui e gli tenne l'arma ben dritta davanti.
Gli corresse l'impugnatura, aggiustò la mira e gli fece tenere il petto in fuori.
"Dritto, pure la testa!". Gli artigliò la nuca e gliela fece allineare al dentello sulla sommità della canna.
"Pronto?".
Pavel annuì con un rapido cenno.
Ivan si staccò da lui facendo un passo in dietro. "Vai, và!".
Respiro profondo, fuori l'aria dalla bocca.
Denti stretti.
Poi.. il botto.
Si era aspettato una esplosione ben maggiore, fu invece paragonabile al botto di un petardo.
Mancò il tronco di almeno mezzo metro ma aveva tenuto salda la presa e il rinculo non lo aveva sorpreso.
Preso dallo sconforto, il ragazzino abbassò la pistola puntandola verso terra.
Ivan urlò incazzato. "Dritto il braccio!" e glielo rifece alzare. Di nuovo gli fece prendere la mira. "Così, fermo. Trattieni il respiro".
Ancora si fece da parte mentre Pavel cercava con tutte le forze di non tremare e mantenere il tronco allineato al dentello.
"Vai!", lo incitò ancora Ivan.
Questa volta, Pav si prese qualche secondo in più e con un altro scoppio centrò l'albero.
Si aprì un foro e la corteccia saltò via.
Ivan batté le mani lentamente un paio di volte, mentre il rimbombo dello sparo si propagava per la landa desolata. "Uno su due, é buono", annuì soddisfatto.
"Voglio riprovare!", esultò Pavel pieno di euforia. E cominciò a mitragliare l'albero un colpo dietro l'altro, solo altri due colpi andarono però a segno. Gli altri fecero alzare solo zolle di terra tutto lì attorno.
"BASTA!", ordinò Ivan facendogli abbassare il ferro. "Vuoi sparare, vuoi sparare... Vuoi sparare solo agli alberi?".
Il ragazzo si grattò la nuca a disagio, il fiatone che ancora lo scuoteva fino all'animo.
"Vuoi sparare veramente? A sparare ai cristiani è un altra cosa".
L'uomo gli puntò l'indice contro il petto. "Devi andargli vicino!".
"Farò quello che devo", giurò Pav. "Per il clan".
Ivan si succhiò ancora un canino, occhi negli occhi con Pav. "Se vuoi veramente entrare, lo sai cosa devi fare... o te ne scapperai dalla paura?".
Il ragazzino scosse il capo, una.. due e tre volte.
Ivan gli diede un piccolo schiaffetto sulla guancia. "E bravo Pavelino".
Finito con la lezione, il sicario se lo caricò nel suo Hummer nero dai finestrini oscurati e lo portò davanti a una casetta a schiera in uno di quei quartieri da benestanti signorotti. Gente con troppa merda sotto al naso per notare la povertà che soffocava la periferia da dove venivano.
"Quello là", gli indicò Ivan.
Pavel si fece serio e concentrato, mentre adocchiava un uomo calvo ben vestito che usciva a piedi dal suo cancelletto d'ingresso per portare a spasso il cane.
"Ma chi é? Che cosa ha fatto?", provò a chiedere.
Ivan poggiò il gomito sul finestrino. "Nessuno, un pezzo di merda che non vuole pagare i debiti. Noi gliel'abbiamo spiegato con calma, ma lui non ha capito".
Pav annuì.
 Ivan proseguì: "La pistola è tua e sai anche dove tenerla. Non portarla a casa, non mostrarla a nessuno".
Pav annuì.
"Deve essere fatto come se fosse una rapina, una finita male. Entro domani sera e poi dovrai gettarla dove ti ho detto di gettarla. Mi hai capito? Non puoi assolutamente tenerla".
Pav annuì.
Ivan gli diede un altro schiaffetto in faccia. "Poi mi fai una telefonata e andiamo a farci una bevuta io e te, si?".
Il ragazzo strinse i pugni sulle ginocchia, gli veniva da vomitare.
"Ho fiducia in te, Pavelino. Ma questa cosa non la deve sapere nessuno, hai capito? Nessuno".
Ivan forse non si aspettava una risposta degna, perciò senza aspettare un cenno affermativo aprì il bracciolo del sedile e vi cavò fuori il suo portafoglio.
"Questo è solo un acconto...", gli disse porgendogli un rotolo di banconote. "Tieni e fatti coraggio, il resto arriverà a lavoro compiuto".
Pav ancora una volta accettò la mazzetta, ma non disse nulla.
L'Hummer fu rimesso in moto e i due ripartirono.

---

Passò venti minuti davanti alla gioielleria, osservando ogni orecchino e anello d'oro senza capire quale potesse essere più adatto.
La commessa gli aveva detto: "Allora, anello in oro rosa con diamante puro. Lei ne sarà estasiata".
Pav c'aveva creduto, aveva pagato dando fondo all'intero rotolo di banconote ricevuto ma non si sentiva affatto in colpa.
Quello era solo l'inizio.
Poi era tornato a casa, si era lavato ma non aveva cenato. Lo stomaco minacciava di rigettare ad ogni crampo.
Era arrivato alle nove di sera davanti alla casa a schiera designata, abbordo del suo scooter aveva seguito l'auto della vittima fino agli impianti sportivi.
Vide l'uomo calvo parcheggiare davanti all'ingresso ed entrare a piedi parlando al cellulare.
Pavel andò a piazzare il mezzo alla via laterale e quando tornò davanti allo stabilimento, si portò dietro anche il suo casco a visiera integrale.
Aspettò mezz'ora, poi l'uomo uscì reggendo sulla spalla destra un borsone.
Non era solo però, accompagnava un ragazzetto dalle gambe tozze e l'andatura claudicante. Da dove Pavel si trovava, non poteva distinguere i volti con chiarezza ma una cosa era certa: erano soli nel parcheggio.
La scadenza della commissione cadeva quella sera e non poteva rimandare oltre, per di più non c'era stato un momento più opportuno e solitario prima di allora.
Si infilò il casco in testa lasciando la visiera sollevata, tirò in dietro il carrello della pistola e mantenendosi nell'oscurità schivò ogni pozzanghera di luce gettata dai lampioni.
Era giunto ormai dietro l'auto della vittima, quando udì le voci dei due avvicinarsi.
Ancora un respiro.
Ancora le budella che si attorcigliavano.
Troppo tardi per ripensarci.
Saltò fuori dal suo nascondiglio, braccio teso davanti a lui come gli era stato insegnato. Mano ferma, dritto e denti serrati.
L'uomo lasciò cadere il borsone sull'asfalto, alzò le mani mentre ogni colorito abbandonava per sempre l'espressione di folle terrore.
"Chi sei? Cosa vuoi?".
Pavel non gli lasciò il tempo di parlare oltre.
Premette il grilletto.
Lo colpì dritto al centro del petto, un forellino appena visibile che fecce schizzare solo qualche goccia rossastra.
Non poteva mancarlo, era troppo vicino per farlo.
Una vocina acuta cominciò a strillare disperatamente, mentre tutta l'attenzione di Pav era per il cadavere steso a faccia in giù sull'asfalto congelato.
Il ragazzino che accompagnava la vittima si gettò sul corpo, scosso da singulti di dolore. Il viso perfettamente tondo, le orecchie grandi e sporgenti come parabole, gli occhi allungati a mandola... le dita tozze a stringere la giacca del padre nel straziante tentativo di risvegliarlo.
Era un ragazzino di dieci anni con la sindrome di Down.
Un disabile.
Pavel ne rimase inorridito, ebbe un conato di vomito e la vista gli si offuscò.
Puntò la canna della pistola dritta alla nuca del bambino ma non ne ebbe il coraggio. Per quella sera aveva fatto davvero tutto quello che era capace di fare.
Spinse con difficoltà il piccolo tozzo ragazzino di lato e cercò nelle tasche del cadavere il portafogli e il cellulare, poi corse via verso il suo motorino.

---

Quella notte, lui e Diana fecero l'amore al capanno di caccia dello zio del suo amico Danilo.
Un buco di pietra con tetto in lamiera ma con un grosso camino per riscaldarsi, un materasso gettato a terra e morbide trapunte per ripararsi.
Diana gli stava avvinghiata addosso, dormiva russando piano con leggeri respiri contro il petto nudo di lui.
Pav non dormiva, se ne restava fermo a fissare le lamiere eternit ondulate sopra le loro teste. Steso a pancia in su, con la testa spaccata in due dai pensieri.
"Pav, ma che hai?", lo sorprese Diana dopo quella che sembrava una eternità.
Lui le baciò la testa profumata di shampoo. "Niente, fa freddo".
Lei non parve credergli, gli accarezzò la mascella contratta e gli stampò un dolce bacio a fior di labbra. "Ma che c'é, non ti é piaciuto?".
Lui sorrise, accarezzandole il sedere. "Guarda che ho trovato", si sporse dall'altro lato del materasso verso i suoi pantaloni.
Le mostrò il cofanetto con il piccolo anellino d'oro. "Mi vuoi sposare?".
Lei portò le mani alla bocca, senza parole.
"Tu sei pazzo". Gli rispose, ma sorrise emozionata e gettandosi al collo di Pav consacrò il loro amore con un sicuro: "Si!".
Il ragazzo non poteva essere più fiero, una simile proposta fatta con un anello di tale bellezza aveva scacciato momentaneamente ogni lugubre riflessione.
Almeno fino al mattino dopo, quando prima di recarsi a scuola si fermò al bar a metà strada per fare colazione.
Gli restava qualche ultima banconota da spendere, quale mattina migliore per usarle?
Il televisore appeso sopra al bancone, fra i bicchieri di vetro, era acceso sul canale del notiziario del mattino:
"Il rapinatore lo ha sorpreso all'esterno di questo stabilimento sportivo, mentre riaccompagnava a casa il figlio di dici anni dopo il corso serale di ginnastica. Un'azione fulminea, l'assassino ha preso pochi effetti personali della vittima ed è poi scappato lasciandosi alle spalle un bambino disabile segnato a vita. Una morte di peso, un omicidio eccellente, quello di Smirnov segretario comunale di recente attivo nella lotta contro la malavita.
Era il frontman di eventi contro quella che viene chiamata Organizacija, sempre disponibile per famiglie e vittime di un male dilagante della società. Un assassinio che quasi certamente, spiegano gli inquirenti, può essere collegato al mal affare e può dare la stura a una nuova scia di sangue. Nelle prossime ore...".
Pav mollò il caffè bevuto a metà e volò rapido alla tastiera del suo cellulare, stava squillando per la prima volta quando al televisore mandarono il disegno a penna di un identikit mostruosamente simile a lui.
"... il ragazzo che vedete nel disegno è al momento ricercato come persona al corrente dei fatti. Secondo un testimone di passaggio, questo ragazzo è stato visto correre via dal luogo dell'omicidio con un casco integrale bianco in mano. Chiunque abbia qualche informazione in merito è pregato di chiamare al numero in sovraimpressione...".
Pavel si sentì male, le ginocchia cedettero e barcollando si diresse a testa bassa verso la strada.
Gli girava tutto, gli scappava da urinare ed era terrorizzato che qualcuno lo riconoscesse.
Corse fin dietro l'angolo, mentre al telefonino il segnale stava squillando per la quarta o quinta volta.
Quando una voce profonda maschile rispose con un grugnito, Pav aveva già toccato gli ultrasuoni con l'ugola:
"Perché non mi hai detto chi era quello? Non era uno scemo qualunque, avresti dovuto dirmelo".
La voce di Ivan pareva provenire da una tomba:
"Non ho detto niente per non metterti troppo sotto pressione. Sei stato bravo, dove sei ora?".
Pavel non riusciva a stare fermo, cominciò a fare su e giù per il vicolo sfregandosi la nuca e scuotendo il capo come un asino troppo testardo.
"Stò vicino a casa, mi hanno visto Ivan. Che faccio?".
"Va bene, ho capito. Ora fa una buona cosa, va a casa subito così ti do gli altri soldi che ti spettano e sistemiamo tutto".
Il ragazzo arrestò la sua marcia fissando il vuoto di fronte a sé.
Ivan gli stava parlando: "Così stiamo più tranquilli. Ti aspetto".
Pavel corse al suo scooter e partì a tavoletta verso casa.
Come aveva fatto a essere stato così stupido, come aveva fatto ad invischiarsi in qualcosa di così grosso?
Per cosa? Per un rotolo di soldi in più da sputtanarsi in un anello e una colazione?
Quando fu al parcheggio del suo condominio decise preventivamente di spegnere il motorino e proseguire a piedi, se lo avevano già identificato era del tutto probabile che la polizia fosse già al citofono di casa sua.
Stava per svoltare da una siepe quando udì due voci maschili parlottare tra di loro al portone d'ingresso allo stabile.
"Dobbiamo aspettarlo tutto il giorno?". Stava parlando una voce dalla marcata flessione russa del sud.
"Hai altro da fare?". Gli stava rispondendo un altro.
"No, per sapere".
"Non c'é altro da sapere, dobbiamo aspettare".
"E quando lo troviamo?".
"Non dobbiamo fare casini".
Pav sbirciò attraverso le foglie del suo nascondiglio e riconobbe i volti di quelli che il clan dei Ragazzi del Vicolo chiamavano Elisey e Nicolaj. Il primo più largo che alto, mentre il secondo era alto quanto un traliccio e con due spalle larghe quanto il cancelletto pedonale.
Nicolaj diede uno spintone al massiccio Elisey. "Non dobbiamo spaventarlo, mi hai capito?".
"Gli raccontiamo una barzelletta", sbuffò l'altro in risposta.
Pavel allora scappò, andò per prima cosa alla discarica dove gli era stato detto di gettare la pistola e poi se ne andò dall'unica persona di cui poteva fidarsi.
Diede appuntamento a Diana nel cortile della scuola e al riparo da occhi indiscreti gli fece vedere l'arma.
"Oh, Dio..." bisbigliò lei con occhi lucidi. "Che cosa hai fatto?".
Lui non aveva nemmeno il coraggio di guardarla, fissava invece il ferro tra le sue mani senza saper bene come articolare un discorso completo.
"Sai cosa rischi se ti beccano con questa? Non sarà nemmeno registrata! Cosa hai fatto, Pav?".
Diana aveva le guance rigate dalle lacrime.
"Il tizio alla TV, il politico... l'ho ucciso io". Sputò in fine il giovane, ammettendo così la sua colpevolezza al mondo e a sé stesso.
Si piegò in due e rigettò i succhi gastrici dello stomaco vuoto sulla ghiaia del cortile.
La ragazza gli prese la testa tra le mani e lo costrinse a guardarla. "Chi ti ha detto di farlo?".
Pavel deglutì, mentre del moccio gli colava dal naso fino al labbro superiore. "Ivan", ansimò tra un singulto e l'altro. "Ivan diceva che aveva un lavoro per me, mi avrebbe pagato bene".
Diana si prese un istante per calmarsi, ma poi ripartì alla carica: "Ivan? Lo sai come lo chiamano? Il Boia! Come hai potuto fidarti di lui?".
Pavel era ormai scosso da tremiti.
Diana fu implacabile, lo faceva per il bene del ragazzo. Era ora di svegliarsi.
"Riesci almeno a capire perché hanno fatto fare il lavoro sporco a te? Sono tutti pregiudicati, Pav! Se il politico fosse morto per mano loro, tutta la città lo avrebbe saputo e per il Boia sarebbe stato scacco matto. Serviva uno pulito, un ragazzino idiota che si prendesse la colpa!".
"Mi hanno visto, Diana!", urlò angosciato il ragazzo. Rimise la pistola al sicuro dentro la cintura dei pantaloni. "Devo andarmene, sono quì solo per... salutarti".
La ragazza lo strinse in un abbraccio mai abbastanza forte. "Dove andrai? Cosa farai?".
Pav le baciò la fronte. "Non lo so'".
"Devi andare dalla polizia, devi costituirti prima che...", ora anche la ragazza tremava senza controllo.
"Lo farò", mentì Pav prima di fuggire senza voltarsi in dietro.
Rimase al capanno di caccia un altra notte e un altro giorno, con solo dell'acqua e una merendina come pasto.
Stava perdendo tempo, lo sapeva. Era questione di tempo e lo avrebbero trovato, in quanti sapevano di quel nascondiglio nella zona rurale?
Il suo amico Danilo e suo zio di sicuro, ma l'anziano non era più praticante della caccia ormai da qualche anno a causa di una artrite mal curata alle mani.
Momentaneamente era al sicuro, ma poi?
Lo stavano aspettando a casa, lo stavano cercando in tutta la città e presto qualcuno lo avrebbe riconosciuto alla TV così, oltre a Ivan, avrebbe avuto pure la polizia addosso.
Non vedeva altra via, la scelta era la morte o il carcere.
Quanto tempo sarebbe durato dietro le sbarre?
Aveva sentito parlare tra i Ragazzi del Vicolo delle carceri sovietiche, quelle in cui erano stati loro. Si parlava di quei posti paragonandoli all'inferno in terra e quel tipo di argomento veniva spesso fatto cadere dopo una frase o due.
Troppo doloroso per ricordare e troppo umiliante per parlarne.
Tutti sapevano... tutti non potevano farci niente.
Perciò se ne uscivi anche solo vagamente sano di mente, senza il desiderio impellente di farla finita, diventavi degno per il Vory.
Si raccontava che il Siberiano si fosse fatto dieci anni dentro.
Pav non sarebbe sopravissuto per più di una settimana.
Un'esperienza che non si augurava al proprio peggior nemico. Una cella tipica doveva ospitare non più di una decina di persone ma di norma, se ne trovavano circa trenta.
Oltre a percepire l'effluvio di corpi pigiati e di acre sudore umano, si intravedevano la latrina, un cucinotto e un tavolino. Non c'era un giaciglio per tutti: per coricarsi bisognava fare i turni, anche tre per notte.
Il rumore indistinto di voci si interrompeva e tutti squadravano il nuovo arrivato, il quale noterebbe probabilmente un paio di detenuti accucciati vicino al cesso. Non erano carcerati qualunque: quei poveri cristi appartenevano alla casta degli intoccabili. Dove per intoccabile si doveva intendere nel senso deteriore: indegno di essere anche solo sfiorato. Per questo i momenti più difficili per un nuovo arrivato erano i primi. Tutti attendevano che il pivello facesse un errore, che si rivolgesse agli intoccabili senza saperlo, magari che si coricasse nella stessa branda.
Un passo falso si pagava con la degradazione nella casta più bassa della gerarchia del carcere.
Gli epiteti per questi individui nel gergo criminale russo erano innumerevoli: "offesi", "unti", "emarginati", "galletti", "topi", "pettine", "margherite". In base alle regole non scritte ma ferree delle prigioni, gli omosessuali, chi aveva toccato un pene, chi era stato cosparso di urina dagli altri carcerati e chi si era macchiato di atti di pedofilia, rientrava automaticamente nella categoria dei dannati.
 Anche chi non ubbidiva alle regole o entrava in conflitto con i boss delle celle (ad esempio per non aver pagato un debito di gioco oppure per aver fatto la spia) poteva essere degradato al ruolo di intoccabile. A quel punto la vita diventava un incubo.
La cultura delle carceri era omofoba e condannava l'omosessualità passiva, mentre quella attiva era diffusa e tollerata. Si violentava e vessava usando la sessualità per spezzare l'animo umano.
Si stuprava un altro uomo non per appetito sessuale ma per dominare.
Gli intoccabili erano spesso ragazzi giovanissimi e inesperti che ben presto si ammalavano di AIDS.
Pavel aveva sedici anni, poteva essere giudicato in caso di reato grave come un giovane adulto.
Si sedette su un basso muretto di pietre a lato del capanno, guardò le foto della sua Diana sul cellulare.
Sfoderò la pistola dalla cintura, poi la appoggiò accanto a lui. Cominciò a dondolare avanti e in dietro mentre il sole tramontava all'orizzonte e poi spariva dietro a dei spogli alberi lontani.
Era ormai buio quando il ragazzo prese una decisione.
Afferrò nuovamente l'arma, tirò in dietro il carrello e si ficcò la canna in bocca.
Un respiro, denti appoggiati sul gelido ferro.
Il silenzio... mai poi il telefonino vibrò con una chiamata in arrivo.
Il ragazzo sussultò come se avesse veramente premuto il grilletto, rimise la pistola sul muretto e urlò a squarcia gola verso il cielo notturno carico di nuvole nere.
A chiamarlo era il suo amico Danilo.
"Ohi, dove sei?", lo interrogò Danilo senza perdere ulteriore tempo.
Pavel si massaggiò la fronte imperlata di sudore freddo. "Non te lo posso dire, non so' chi ci stà ascoltando".
La voce di Danilo era incrinata dalla paura. "Sei al capanno? Te ne devi andare, mi hai capito? Gliel'ho dovuto dire dove stavi, non ho potuto mentire. E' venuto al negozio di mamma, me lo son trovato con lei mentre gli faceva provare una maglietta. Ho dovuto dirglielo!".
Rumore di grossi copertoni in avvicinamento dalla stradina sterrata.
Un mezzo pesante... enorme.
Pav balzò in piedi con la pistola in pugno, si voltò ma l'ombra del mezzo era ancora lontana e si stava avvicinando a fari spenti.
Era troppo buio, la luna piena era parzialmente coperta e in mezzo a quel campo di sterpaglie non c'erano altre fonti di luce.
"A chi?", urlò al telefono. "A chi l'hai detto?".
Sapeva la risposta.
"Ivan! Stà arrivando, scappa!".
Pavel corse nell'oscurità fin dietro al capanno come se avesse il diavolo in persona alle calcagna, piegato in avanti veloce e silenzioso mentre l'Hummer nero si faceva sempre più vicino.
Quando il mezzo fu a cento metri dal capanno, accese i fari e si andò poi a piazzare davanti all'ingresso.
Il suo autista scese con un pesante balzo dal sedile, lasciando il motore acceso.
"Ragazzo, è tutto apposto". Si annunciò il sicario aggirando l'auto e andandosi a mettere proprio fra i due fari a led. Mani sollevate ai lati del capo.
Pav esitò, strinse forte l'impugnatura della pistola e uscì allo scoperto.
L'ombra di Ivan era indistinta, si trovava contro luce e il ragazzo non riusciva a tenere gli occhi aperti senza continuare a battere le palpebre a ripetizione.
"Sei armato, ragazzo. Abbassa il ferro". Lo intimò l'ombra di Ivan mentre lentamente calava le braccia lungo i fianchi. "E' tutto ok, va bene".
Pav mantenne l'arma dritta davanti a lui, la teneva bene questa volta. Non avrebbe mancato il bersaglio, Ivan gli stava a non più di dieci o dodici passi.
Poteva farcela.
Il sicario stava ancora parlando, la voce alta e ben udibile. Pareva tranquillo... ma Pav non riusciva proprio a guardarlo in faccia per colpa di quei maledetti fari abbaglianti.
"Lo so' che tutta questa faccenda ci è sfuggita di mano, ma io sono un amico. Sono quì per aiutarti".
Ivan cominciò a muoversi e il ragazzo scosse il ferro con fare minaccioso. "Non ti avvicinare!".
Ivan fece cinque passi, poi si fermò.
"Solo due cose mi interessano, chi altri sà di quello che hai fatto? Il tuo amico Danilo ti ha visto alla TV ma dice che non ne sapeva niente".
Pav cominciò ad andare in iperventilazione. "E' così!".
Ivan si voltò verso il capanno. "Sei solo?".
Menti!
Urlava il sesto senso di Pavel nella sua testa.
"No, mi aspettano dentro". Replicò allora repentinamente.
Ivan annuì tristemente, poi sospirò. "Non credo".
Il Boia scattò come un serpente e coprì gli ultimi passi che li separavano, con una manata agguantò il polso del ragazzo e glielo torse in un agghiacciante schiocco di ossa rotte.
Pavel urlò, gli scivolò a terra l'arma e da questa partì uno sparo a vuoto verso il buio.
Ivan scattò nuovamente e con l'altra mano fece presa sul gomito del ragazzo, spezzandogli anche il braccio con una spinta.
Pav cadde in ginocchio e Ivan attuò la sua ultima mossa. Lasciò il polso del giovane e gli strinse come una tenaglia il sottile collo.
Il ragazzino cominciò con inspirazioni forzate e fame d'aria nel tentativo di sottrarsi all'impedimento della respirazione, per poi agitarsi e dimenarsi.
Il viso gli divenne cianotico, delle macchie petecchiali rosse gli comparvero agli occhi.
Pavel si stava spegnendo lentamente come una candela.

A vederli così, nell'oscurità della notte e illuminati solo dalle luci dell'Hummer, Ivan piegato sul ragazzino pareva la rincarnazione stessa dell'Uomo Nero.
"Ti sei fatto vedere, Pav. Mi dispiace, non volevo soffrissi così". Gli sussurrò all'orecchio, mentre il ragazzino chiudeva gli occhi per sempre da questo mondo troppo marcio per anime come la sua.
Una singola lacrima sfuggì da una palpebra di Pav, quando il sicario lo adagiò lentamente a terra.
Ivan fu professionale, raccolse gli effetti personali del giovane e fece un giro perlustrativo della zona.
Aprì il portellone dell'auto, ribaltò i sedili, caricò motorino e corpo precedentemente avvolto in un telo blu.
Guidò tranquillamente per mezz'ora, senza mai superare il limite di velocità.
Quando fu al cantiere del residence di prossima apertura nel nuovo quartiere borghese, scaricò il pacco ricoperto dal telo e lo portò in braccio fin dentro alla fossa delle fondamenta.
Con un grugnito lo adagiò a terra, fece un cenno all'uomo che attendeva con la betoniera e uscì dalla fossa.
Tonnellate di cemento colarono sul cadavere celandolo per sempre, mentre Ivan si accendeva una sigaretta guardando il tetro spettacolo dall'alto.
Brace rossa nell'oscurità, cappellino con frontino calato sugli occhi.
Mani giunte all'altezza dell'inguine, gambe divaricate e capo chino.
Mormorò una rapida preghiera per l'anima di Pavelino, prese poi il telefono e selezionò lestamente un numero in rubrica.

"Dà?"

Rispose una roca voce maschile.

"Fatto", si limitò a borbottare Ivan all'apparecchio.

"Bene".

La linea ricadde, Ivan si rinfilò il cellulare in tasca.
Non c'era null'altro da dire.
 
 

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