I Vermoni di Dune

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


I Vermoni di Dune

 

-Capitolo 1:

 

   “Il principio è un periodo oltremodo incasinato. Sappiate che questo è l’anno Diecimila e Rotti. L’Universo Conosciuto è unificato sotto l’Impero Analogico, sorto dopo i disordini del Jihad Complottaro, in cui i computer furono distrutti e il segreto dell’iperspazio fu perso per sempre. Ora i calcoli complessi sono affidati ai Dementat, individui addestrati a raggiungere le massime vette della logica. Ma coloro che più di tutti hanno esplorato il potenziale psico-fisico sono le Male Gesserit, una confraternita di sole donne, dedita a pratiche indicibili. Questo vasto dominio analogico è governato dall’Imperatore Pascià Sofà IV, mio padre.

   In questo periodo, la più preziosa e vitale sostanza dell’Universo è il melange, la Spezia. La Spezia esalta tutte le facoltà della mente e del corpo. La Spezia fa arrapare anche i nonnetti. La Spezia è essenziale per annullare lo spazio, tenendo unito l’Impero Analogico. La potente Gilda Spaziale, e i suoi Navigatori che la Spezia ha sballato in oltre quattromila anni, usano il gas arancione del melange che conferisce loro la capacità di annullare lo spazio, e cioè di viaggiare in qualsiasi parte dell’Universo... senza mai muoversi.

   Oh, già... ho dimenticato di dirvelo. La Spezia esiste su un solo pianeta nell’intero Universo Conosciuto. Un arido e desolato pianeta, con vasti deserti roventi. Nascosta tra le rocce in queste zone desertiche, vive una popolazione conosciuta come i Femen, che attende – secondo un’antica profezia – l’avvento di un giovane emo. Un Messia, che li guiderà finalmente verso la vera libertà. Il pianeta è Arrankis, così detto perché tutti arrancano come dannati nelle sue sabbie, conosciuto anche come... Dune. TUM-TUM-TU-TUUUM!”.

dal Manuale dell’Emo, della Principessa Iruxol Corrida

 

   «Paul... Paul... segui le mie orme sulla sabbia... questi sono i tuoi primi passi...» mormorò la ragazza dai capelli neri e gli occhi blu, muovendosi come a passo di danza sulle dune mosse dalla lieve brezza.

   Scimunito da cotanta bellezza, il giovane Paul tese le braccia in avanti e la seguì, cercando di ghermirla; ma si trovò ad arrancare nella sabbia. Più cercava di correre, più si accorgeva di sprofondare in quella grana chiara e finissima. «Io odio la sabbia!» gridò, al colmo della frustrazione. «È granulosa, ruvida, irritante... e s’infila dappertutto!». In quella i granelli gli andarono negli occhi, irritandoli al punto che dovette sfregarli, in preda al bruciore; allora la fanciulla scomparve del tutto alla vista.

   «Aspetta, porca Gesserit!» imprecò Paul, agitandosi tra le coperte. Riaprì gli occhi e si ritrovò nel suo letto... che era nei suoi alloggi... che erano nell’antico maniero di famiglia. La Casa Formaldeides era tra le più antiche e rispettate dell’Impero Analogico. Il vecchio castello si ergeva a picco sul mare di Calamar, il mondo oceanico che avevano in feudo. Le onde battevano la scogliera a ritmo costante e la brezza sapeva d’acciughe. «Un sogno... era solo uno stupido sogno!» mormorò il giovane, sfregandosi gli occhi che stranamente bruciavano proprio come se la sabbia li avesse irritati. «Certo che era una bella squinzia, quella là» aggiunse con rammarico. «Magari ce ne fossero così, su questo pianeta di pescivendole!».

   «Che succede, tesoruccio? Hai fatto brutti sogni? Hai bagnato il lettino?» chiese Lady Godiva, entrando come un turbine nella camera.

   «Santa pazienza, mamma, smettila di parlarmi come se avessi ancora cinque anni! Sono maggiorenne, ormai!» sbottò Paul, esasperato.

   «Sì, ma per me resterai sempre il monello che si nascondeva sotto i tavoli e lanciava petardi contro i Dementat!» sorrise Godiva, rammentando quei momenti, dolci per lei quanto schifosi per la servitù. «Allora, dimmi: hai avuto un incubo?» chiese, facendosi più seria.

   «Una mezzospecie» annuì Paul di malavoglia. «Arrancavo in un deserto e...». Tacque, non volendo menzionare la ragazza.

   «E cosa? Perché arrancavi?» inquisì Godiva.

   «Per andare da qualche parte, suppongo. Non so, non ricordo» mentì il giovane, desiderando solo porre fine al discorso.

   «Oh, Paul! Che ti addestro a fare, se non riesci neanche a ricordare i tuoi sogni?!» lo rimproverò sua madre.

   «Me lo chiedo spesso, che mi addestri a fare» convenne Paul. «Sono destinato ad essere il Duca, non certo a entrare nel tuo club per fighette!».

   «Modera il linguaggio, giovanotto! Le Male Gesserit sono la sorellanza più saggia e venerabile dell’Impero. Hanno fatto di me la donna che sono!» rivendicò Godiva.

   «Cioè una concubina stagionata che vive di ricordi» pensò il giovane, ma non osò dirlo a voce. Se sua madre non avesse dato al Duca il suo unico erede, ovvero lui, sarebbe stata scacciata dalla corte già da un pezzo. Così, invece, le era permesso vivere a palazzo e atteggiarsi a Duchessa... ma restava pur sempre Lady Godiva, e nulla più.

   Sua madre lo guardò storto, come se indovinasse i suoi pensieri, ma non volle insistere sull’argomento. «Beh, ormai sei sveglio, quindi tanto vale che ti alzi» disse.

   «Ma sono le cinque di mattina!» protestò il giovane. «Lasciami riprendere sonno!».

   «Il dovere non aspetta, rampollo del Duca!» insisté Godiva. «Ma se vuoi che ti lasci poltrire fino a tardi, puoi sempre usare la Voce».

   Ah, la Voce! Che fosse ipnosi, telepatia o una forma ancor più sottile di suggestione, una Voce ben modulata poteva costringere le persone a fare praticamente di tutto. Le Male Gesserit avevano portato quest’arte all’apice della perfezione. Per cosa se ne servissero realmente, lo sapevano solo loro. Comunque avevano dato a Godiva un’infarinatura di quell’arte, il che spiegava forse come fosse diventata l’amante del Duca. E Godiva, a sua volta, aveva dato un’infarinatura a lui. La cosa non era esattamente legale, dato che nessuna Mala Gesserit avrebbe dovuto trasmettere le sue conoscenze ai non iniziati; men che meno a chi era provvisto di cromosoma XY. Ma come diceva sua madre, «tutto fa brodo per restare vivi».

   «La Voce, eh? Okay, ci provo...» mormorò Paul, contorcendo la lingua e il velopendulo in modi che un tempo avrebbe creduto impossibili.

   «Fare o non fare! Non c’è provare!» lo sferzò Godiva.

   «Okay, allora lo farò!» sbottò il giovane, irritato. «Mamma... lasciami dormire!» gracchiò, infondendo tutta la sua forza di volontà in quel comando.

   «Cos’era quello? Sembrava il raglio di un somaro!» infierì Lady Godiva. «Ne devi fare di strada, prima di riuscire a influenzarmi. E ora in piedi, poltrone! I tuoi istruttori non aspettano!» aggiunse, strappandogli le coperte di dosso.

   «Groan... comincia un altro giorno di merda» pensò Paul, costringendosi ad alzarsi.

 

   L’istruzione di un futuro Duca non è cosa da prendere alla leggera. Si va dalla diplomazia stellare alla storia, dal diritto imperiale alla galattografia. E ovviamente non mancano le lezioni d’autodifesa: tiro al bersaglio, scherma e vari stili di lotta. Durante una delle sue prime lezioni, Paul aveva chiesto al suo istruttore a cosa servisse imparare a lottare, dato che ovunque andasse aveva sempre delle guardie del corpo – e persino delle guardie che sorvegliavano le guardie. Il buon vecchio Duncan Ohio gli aveva spiegato che, per quanto gli si potessero creare dei cerchi di protezione attorno, nessuno è al sicuro quanto colui che all’occorrenza sa trasformarsi in una sega circolare impazzita. Così eccolo di nuovo lì, a sudare nel dojo.

   Come di consueto, i due avversari si agganciarono i generatori Holtzman in cintura. Premuto il comando, gli Scudi si attivarono: due aure azzurrine che avvolgevano il corpo come una tuta, bloccando qualunque oggetto si muovesse a più di nove centimetri al secondo. Era stato il proliferare degli Scudi che aveva decretato la decadenza delle armi da fuoco e il ritorno della lotta all’arma bianca. Armi come le spade che i due contendenti impugnavano in quel momento.

   «Sei distratto» lo rimproverò Duncan, incalzandolo con la consueta maestria. «Che ti frulla nel cervello?».

   «Ho dormito poco» borbottò Paul, parando come un disperato.

   «Bene, chi dorme non piglia pesci!» commentò Duncan.

   «Ti prego, basta coi tuoi aforismi!».

   «Non posso smettere. Questi fottuti Dementat registrano tutto ciò che dico, e ogni volta che ti elargisco una perla di saggezza, ho un bonus in busta paga» spiegò il Maestro d’Armi, accennando al computer umano che stava in silente attesa presso la porta.

   «Ah, sì? Sta’ a guardare!» fece Paul, arretrando per disimpegnarsi. A grandi passi, si recò presso l’osservatore. Era Tuttfritt Megawatt, il Dementat di fiducia di suo padre, che lo seguiva come un’ombra da quando lui aveva imparato a camminare. Parlava poco, e in genere solo se interpellato, ma non smetteva mai d’osservarlo, e non scordava nulla di ciò che vedeva. Ogni sera quel maledetto guardone faceva rapporto ai suoi genitori, riferendo qualunque sua azione meno che onorevole e qualunque sua parola meno che ponderata. Decisamente la privacy non è nelle prerogative di un futuro Duca. Così il giovane si era fatto furbo.

   «Ascoltami bene, Tuttfritt!» ordinò Paul, sforzandosi d’usare la Voce persuasiva. «Voglio che tu calcoli il pi greco fino all’ultimo decimale! Recita ad alta voce!».

   Il Dementat sgranò gli occhi e s’irrigidì ancor più nella sua posa. Com’è risaputo, il pi greco – cioè il rapporto tra il diametro e la circonferenza – è un numero irrazionale, cioè composto da un’infinita quantità di decimali. Di conseguenza, nessun calcolatore – umano o sintetico – potrà mai fornirlo nella sua interezza. Eppure Megawatt aveva ricevuto un ordine a cui non poteva disubbidire. «Come vuole, signore» disse con voce fioca. «Il pi greco è 3,14159 26535 89793 23846 26433 83279 50288 41971 69399 37510 58209 74944 59230 78164 06286 20899 86280 34825 34211 70679...».

   Mentre il Dementat continuava la sua litania, Paul si appartò col suo istruttore. «Ho fatto un sogno strano» disse. «Mi aggiravo in un deserto rovente. Era un posto mai visto prima, eppure mi sembrava stranamente familiare. Non so come, ma... avevo l’impressione che fosse Dune».

   «Dune?» s’insospettì Duncan. «Ah, allora l’hai saputo! Pensavo che i tuoi genitori volessero tenerti all’oscuro fino all’ultimo!».

   «All’oscuro? No, per niente... dimmi pure i dettagli» lo invitò Paul, sperando di farsi confidare qualche segreto. Il Maestro d’Armi era un brav’uomo, fedelissimo alla Casa Formaldeides; ma non era quel che si dice una cima.

   «Allora, da quel che so, ormai è cosa fatta!» disse Duncan, fregandosi le mani per la soddisfazione. «Fra una settimana andrò su Dune per incontrare i Femen e assicurarmi che non vi sparino addosso al vostro arrivo. E di lì a poco, tu e la tua famiglia vi trasferirete con armi e bagagli. Naturalmente dovremo bonificare la capitale, e in special modo il palazzo, per accertarci che non ci abbiano lasciato assassini o bombe. Ma non possiamo perdere tempo, perché l’estrazione di Spezia non deve interrompersi. Ah, figliolo, ancora non immagini la tua fortuna... invece di vendere calamari e pesce, venderai Spezia! Quando sarai Duca, diventerai più ricco dell’Imperatore!» disse, scuotendo la testa con affetto misto a commozione.

   «Io... estrarre Spezia?! Significa che l’Imperatore ci ha dato Dune in usufrutto?!» esclamò il giovane, sentendosi formicolare da capo a piedi. Era il sogno più selvaggio di ogni grande casato, quello di amministrare il mondo più importante dell’Impero. Estraendo la Spezia e rivendendola a prezzo maggiorato, si ottenevano enormi guadagni. Naturalmente gli Imperatori lo sapevano e quindi concedevano Arrankis a rotazione a una Casa dopo l’altra, evitando che una singola famiglia si arricchisse tanto da diventare una minaccia per il loro potere. Ma ogni minuto di usufrutto guadagnato erano soldoni sonanti. Negli ultimi ottant’anni, questo immenso privilegio era toccato agli Scarafonnen, gli acerrimi nemici dei Formaldeides, che in tal modo erano diventati oscenamente ricchi e obesi. Il più ricco e obeso di tutti era ovviamente il capofamiglia, il sordido Barone Vladimir Scarafonnen; e attorno a lui prosperava una corte di corrotti e profittatori. Ma se il pianeta stava per passare di mano, allora le fortune già in ascesa dei Formaldeides li avrebbero innalzati al di sopra dei vecchi rivali.

   «Eh, proprio così... ma come, non lo sapevi?!» si crucciò Duncan. «E io che credevo di poterne parlare liberamente! Bello scherzo che mi hai combinato... se il Duca lo scopre...».

   «Fa’ conto che non abbia sentito nulla» disse Paul, allietato dalla rivelazione. «Io manterrò il segreto fin quando il mio vecchio deciderà di parlarmene. E saremo tutti contenti».

   «Okay, bastardello... non che abbia scelta, ormai» borbottò il Maestro d’Armi. «Ora riprendiamo l’allenamento. Ma prima libera Tuttfritt, prima che gli si fonda il cervello».

   «Oh già, m’ero scordato di lui» disse Paul, risvegliato dai suoi sogni di grandezza. Tornò svelto dal Dementat, i cui occhi erano ridotti a fessure per lo sforzo di concentrazione. Il suo cranio calvo e lucido aveva cominciato a fumare, tanto il cervello ribolliva al di sotto. «Basta così, vecchio mio. Hai dimostrato ancora una volta d’essere il migliore» lo liberò Paul.

   «Uhhh...» mugugnò Tuttfritt, inspirando per raffreddare il suo encefalo surriscaldato.

   «Ecco la tua ricompensa!» disse il giovane. Trasse di tasca un biscotto croccante e lo offrì al Dementat, che lo arraffò a mani tese e se lo sbafò con gusto, mentre Paul gli dava piccole pacche d’incoraggiamento sul testone lucido. Era pratica diffusa compensare i Dementat con leccornie come quella, ogni volta che eseguivano un calcolo particolarmente complesso. Sarà stato anche per quello che tendevano a ingrassare con l’età.

   Finito lo spuntino ricostituente, Tuttfritt riprese la rigida posa di sorveglianza. Paul invece raccattò la spada e tornò al centro dell’arena. Duncan era già lì ad aspettarlo, col sorriso sardonico di chi è pronto a rifarsi di uno sgarro. «In guardia, ragazzo... o quant’è vero l’Imperatore, ti faccio le chiappe nere con questa!» avvertì, carezzando il lato piatto della lama.

   Paul smise di sorridere.

 

   Quella sera, Paul riposava nel suo alloggio, disteso sul letto a pancia in giù. Era una posa necessaria per dare sollievo alle sue chiappe illividite, ma anche così il giovane non poteva permettersi di oziare, quindi decise di consultare un videolibro su Arrankis. Le luci si abbassarono e gli ologrammi invasero la stanza, mentre l’altoparlante recitava il testo. Volumi come quello erano ciò che più si avvicinava all’Intelligenza Artificiale, eppure anche quelli non erano propriamente pensanti: si poteva interrogarli, ma essi fornivano solo risposte preregistrate. In tutto l’Impero non c’era editore che osasse infrangere il credo fondamentale del Jihad Complottaro: “Non costruirai una macchina a somiglianza della mente umana!”.

   Attorno a Paul scorsero immagini di un pianeta bruciato dal sole, quasi interamente ricoperto da dune di sabbia finissima. Dove non c’era sabbia, vi erano rocce e montagne. Non c’era traccia di vegetazione, men che meno di corsi d’acqua.

   «Il popolo dei Femen – ma loro si definiscono Tribù Libere – costituisce la sola civiltà nativa di Arrankis» recitò il videolibro. «Essi sono i discendenti dei nomadi Zuzzurellunni e sopravvivono in condizioni ambientali estreme. Durante il giorno trovano riparo in caverne e altre cavità sotterranee, mentre sono più attivi la notte. Se devono uscire mentre il sole è alto, indossano tute integrali che li proteggono dal calore estremo; senza quest’accortezza qualunque umano morirebbe nel giro di un paio d’ore. La loro civiltà prospera grazie al riciclo delle acque nere».

   «Ugh... speriamo che non mi offrano mai da bere!» commentò Paul.

   «I Femen sono inoltre un popolo assai spirituale. Oltre ad avere un profondo legame col deserto in cui vivono, essi attendono da secoli l’avvento di un Emo che li guiderà verso la libertà e la grandezza...» proseguì il videolibro.

   «Cosa?! Forse volevi dire un Mahdi, un Messia?» si stupì il giovane.

   «No, intendo proprio un Emo: un giovane pallido e allampanato, sempre vestito di nero e con l’aria malinconica» confermò la voce artificiale. «Secondo la profezia, egli sarà capace d’ingurgitare quantità spropositate di Spezia, senza risentirne gli effetti collaterali».

   «Che strana profezia! Mi sa che il solleone la solitudine del deserto hanno cotto il cervello a quella gente» fece Paul, rassettandosi l’abito nero con la mano pallida. «Ma parlami della Spezia!».

   «La Spezia, anche detta melange, è la risorsa più importante di Arrankis e di tutto l’Impero, essendo l’unico strumento che consente i viaggi interstellari, mediante i Navigatori della Gilda. Tra le sue qualità vi sono inoltre il prolungamento della vita, l’esaltazione sensoriale ed extrasensoriale, la preveggenza. La Spezia dà una leggera assuefazione se presa in piccole dosi, ma un’assuefazione infinitamente più grave se presa in quantità superiori ai due grammi giornalieri per ogni settanta kg di peso corporeo. I principali segni d’assuefazione sono gli occhi blu e l’espressione da stoccafisso. Il prezzo del melange sul mercato imperiale arriva a 620.000 solari per decagrammo...».

   «Sì, sì, lo so!» sbuffò il giovane, che aveva studiato queste cose alle elementari. «Dimmi come si estrae la Spezia».

   «La Spezia si estrae grazie a grandi macchine cingolate dette Mietitrici, di 120 x 40 metri. Le Mietitrici setacciano costantemente la fine sabbia di Arrankis, in cerca della polvere grezza del melange, e provvedono anche a una prima raffinazione...».

   «Aspetta, setacciano la sabbia? Ma quindi il melange da dove viene?» chiese Paul. Era strano che non lo ricordasse... sicuramente glielo avevano detto all’inizio del suo percorso di studi, ma lo aveva scordato, limitandosi a dare per scontato che “la Spezia viene da Dune”.

   «Le origini del melange sono misteriose, ma si ritiene che esso sia prodotto dai cosiddetti Vermoni di Dune, le più grandi creature native del pianeta, venerati dai Femen» rispose il videolibro.

   «Oh, dimmi di loro!» si emozionò il giovane.

   «I Vermoni sono invertebrati che crescono fino a raggiungere dimensioni gigantesche: esemplari di oltre 400 metri sono stati avvistati nelle profondità del deserto. Sono molto longevi, a meno che non si mangino a vicenda o non finiscano annegati nell’acqua, per loro velenosa. I loro denti cornei sono così duri da tranciare l’acciaio delle Mietitrici; i Femen li usano per fabbricare i sacri pugnali detti pyss, che per tradizione una volta estratti devono obbligatoriamente bagnarsi di sangue umano. I Vermoni strisciano nel sottosuolo, dove sminuzzano costantemente sassi e rocce, tanto da far supporre che siano stati loro a creare la maggior parte della sabbia di Arrankis. Sono molto sensibili alle vibrazioni, specialmente quelle ritmiche: quando le sentono emergono in superficie e divorano qualunque cosa si muova, dagli incauti passanti alle grandi Mietitrici. Per questo i Femen hanno imparato a muoversi con il celebre Passo Arrancante, dal ritmo irregolare, che non attira i Vermoni. Le Mietitrici invece sono costantemente a rischio, tanto che all’inevitabile arrivo del predatore devono essere rapidamente sollevate e tratte in salvo da un’Ala Trasporto». L’ologramma mostrò il velivolo dalle ali battenti che sollevava la Mietitrice, appena in tempo per salvarla da un Vermone famelico.

   «Uhm... hai detto che i Vermoni “producono” il melange. In che modo?» s’incuriosì Paul.

   «Mi dispiace, le mie risposte sono limitate. Devi farmi...».

   «... le domande giuste. Sì, lo so!» sbottò Paul, abituato a quell’atteggiamento esasperante dei videolibri. «Definisci le modalità di produzione della Spezia da parte dei Vermoni» ordinò, sperando d’essere stato abbastanza chiaro.

   «Le origini del melange sono misteriose» ripeté il videolibro, «ma si ritiene che esso sia prodotto dai cosiddetti Vermoni di Dune, le più grandi creature native del pianeta, tramite defecazione».

   «Che?!» insorse Paul. «Sarebbe a dire che i Vermoni cagano Spezia, e noi ce la mangiamo?!».

   «Affermativo. Desidera approfondire gli effetti benefici della Spezia?».

   «No grazie, ne ho abbastanza» fece il giovane, disgustato. «Non si è mai riusciti a far acclimatare i Vermoni su altri pianeti?».

   «Negativo. I numerosi tentativi si sono sempre risolti con la morte dei Vermoni» confermò il videolibro. «In alternativa, i Vermoni trapiantati su altri mondi – sia pure desertici come Dune – hanno prodotto feci del tutto prive di poteri».

   «Groan, onore a quelli che le hanno assaggiate per appurarlo!» commentò Paul, sempre più nauseato. «Un’ultima cosa: i Femen hanno accesso alla Spezia?» chiese. Il videolibro gli aveva detto che tra i segni d’assuefazione c’erano gli occhi blu, e la misteriosa ragazza del suo sogno li aveva proprio così...

   «La capacità d’accesso alla Spezia dei Femen è ignota» rispose il videolibro. «Tuttavia la quasi totalità dei nativi esibisce gli occhi blu tradizionalmente associati col consumo intenso di Spezia. Ciò corrobora l’ipotesi che essi ne conoscano depositi segreti, o ne assumano dosi significative semplicemente respirandola nell’aria, assieme alla polvere del deserto».

   «Fantastico, questi riciclano le acque nere e respirano gli escrementi dei Vermoni!» borbottò Paul. D’un tratto non era più così sicuro di voler rintracciare la ragazza del suo sogno.

 

   Di lì a una settimana, il segreto che Paul aveva carpito a Duncan non fu più tale. Giunse infatti l’astronave dell’ambasciatore imperiale, che doveva annunciare la riassegnazione di Dune. Dal momento in cui il vascello simile a un cannolo fu avvistato nell’orbita di Calamar, tutto il castello fu in allarme. Le guardie predisponevano le misure di sicurezza, la servitù si affannava coi preparativi. Niente doveva andare storto, in quel giorno decisivo per le fortune dei Formaldeides.

   «Abbiamo visite importanti. Preparati, figlio mio!» raccomandò Lady Godiva, irrompendo nella camera di Paul (come al solito senza bussare). «Metti l’alta uniforme, è appena stirata. Ricordati di tenere ben dritta la schiena. E...».

   «... e cerca di non avere quell’aria da emo» raccomandò il Duca Letonto Formaldeides, sbirciando nella camera del figlio. «L’ambasciatore farà un grande annuncio, qualcosa che ci darà una ricchezza e un prestigio inimmaginabili. Cerca di non rovinare tutto con la tua aria da pesce lesso. E mi raccomando, non parlare; dobbiamo sembrare intelligenti!» raccomandò.

   «Sì, padre. Credi che...» cominciò Paul, ma Letonto si era già volatilizzato.

   «Ci vediamo sul campo d’atterraggio fra venti minuti. Ricorda d’indossare l’uniforme dritta, non a rovescio come l’ultima volta!» trillò Godiva, prima di scomparire anch’ella.

 

   Lasciata l’astronave in orbita, il modulo d’atterraggio dell’ambasciatore si posò sulla pista. Le truppe dei Formaldeides erano schierate a migliaia per ricevere l’illustre ospite. Gli stendardi del casato garrivano al vento salmastro, mostrando l’emblema del Pollo Spennato. Il Duca con la sua famiglia attendeva sopra un podio rialzato di qualche scalino. Paul si presentò buon ultimo; sua madre gli rassettò l’uniforme e lo sistemò accanto al padre, muovendolo come una pedina, nel tentativo di dare alla composizione un’aria simmetrica.

   «Porca Gesserit, non siamo un presepe! Lascia stare il ragazzo e mettiti al tuo posto!» la richiamò il Duca. Rassegnata, Godiva fece come ordinato.

   Le porte della navicella si aprirono con un sibilo. Il messo sbarcò col suo imponente e pittoresco seguito: diplomatici, assistenti e comparse varie. C’era anche un plotone dei ferocissimi Sardonen, le truppe d’elite imperiali, che vigilavano sulla sicurezza. Indossavano tute semicorazzate color sabbia; i loro volti erano invisibili sotto i caschi integrali. La mano senza volto dell’Imperatore...

   «Salute a voi, Casa Formaldeides! Sono latore di grandi notizie: la benevolenza dell’Imperatore è su di voi!» esordì il messo, con una vocetta incredibilmente stridula.

   «Ma... ha respirato elio?» bisbigliò Paul a sua madre.

   «No, dev’essere uno degli eunuchi di corte. Adesso capisci perché mi opponevo a farti fare la carriera diplomatica?» rispose Godiva, facendogli l’occhiolino.

   «L’Imperatore ne ha piene le balle di come gli Scarafonnen amministrano Arrankis. Quegli scopa-capre dei Femen continuano a disturbare l’estrazione di Spezia» proseguì l’alto diplomatico, in tono solenne anche se stridulo. «Negli ultimi cinque anni la produzione è diminuita del 10% e il prezzo è salito in proporzione. I clienti abituali sono in piena crisi d’astinenza. Così, nella sua saggezza, Sua Maestà ha deciso di ritirare l’usufrutto agli Scarafonnen. E nella sua infinita benevolenza, lo concede alla Casa Formaldeides. Accettate questo grande onore, e le responsabilità che ne derivano?» chiese.

   «L’Imperatore ci ha chiamati, e noi rispondiamo!» rispose il Duca con voce stentorea.

   «Bene, allora fate fagotto e andate su Arrankis il prima possibile. La produzione di Spezia non deve interrompersi né rallentare, neanche per un solo giorno! Altrimenti Sofà Pascià concederà il pianeta a qualcun altro. The show must go on!» ammonì l’ambasciatore. E si ritirò con la stessa rapidità con cui era arrivato.

 

   Quella notte, Paul non riusciva a trovare pace nel letto. Sebbene Duncan lo avesse già avvertito della novità, la visita del messo imperiale aveva reso le cose molto più reali e pressanti. Duncan era già partito per preparare il terreno, assieme a parte delle truppe Formaldeides. Con loro c’erano anche squadre di scienziati e ingegneri che dovevano fare una prima valutazione e riparare eventuali danni a strutture e macchinari. I Formaldeides si sarebbero trasferiti appena la situazione fosse stata ragionevolmente sotto controllo... e forse anche un po’ prima, vista l’urgenza.

   Ma non era solo l’emozione dell’imminente trasloco a tener sveglio il giovane. C’era qualcosa di strano... come una sorta d’elettricità nell’aria. A volte Paul riusciva a percepire l’arrivo dei temporali, ma questa era una sensazione diversa; pareva scaturire direttamente dal suo cervello. Qualcosa stava per succedere... anzi, qualcosa si stava avvicinando... ma non sapeva che cosa, e questo lo agitava ancora di più.

   Una luce bianca brillò attraverso la finestra. Paul vi si precipitò e vide una navicella dalla forma stranissima, più alta che larga, posarsi sulla pista d’atterraggio alla luce dei fari. Non ne aveva mai viste così e sulle prime non riuscì a identificarla. Comunque sembrava importante, forse un trasporto consolare; era strano che giungesse così inaspettata. Il portello di sbarco si spalancò, lasciando uscire una mezza dozzina di figure intabarrate in pesanti veli neri che coprivano anche il volto. Nel vederle – o meglio, nel non vederle – Paul si sentì accapponare la pelle. C’erano forse brutte notizie da Dune? In preda alla tensione, il giovane decise di vestirsi, nel caso lo avessero convocato. Aveva appena finito che sua madre entrò in camera, con l’abituale noncuranza per la sua privacy.

   «Ah, sei pronto» disse, per nulla sorpresa. «Vieni, presto. Abbiamo visite importanti».

   «Di chi si tratta?» chiese Paul, seguendola lungo i corridoi. Lady Godiva camminava così svelta che il figlio dovette quasi trottare per starle dietro.

   «Sono le Male Gesserit; sai che un tempo ero una di loro».

   «Sì, ma poi ti sei dedicata a una carriera più remunerativa...».

   «Nessuna smette mai d’essere una Mala Gesserit; tienilo a mente!» ammonì Godiva. «A farci visita è la Reverenda Madre in persona: Gaia Helen Mangiahuom. Era la mia insegnante alla scuola Male Gesserit e ora è la Veridica dell’Imperatore».

   «E che ci fa qui da noi?» inquisì Paul. «Dipende dal fatto che ci hanno dato Arrankis?».

   «Concesso, non dato» precisò la Lady. «La Reverenda Madre vuole conoscerti. Ti farà qualche domanda, a cui è vitale che tu risponda sinceramente» disse, con sguardo carico di preoccupazione. «Inoltre... credo che voglia sottoporti a un’antica prova».

   «Di che si tratta?».

   «Lo scoprirai presto, figlio mio. Qualunque cosa accada, sii forte» raccomandò Godiva. «E non aver paura, perché... lei la fiuterebbe».

 

   La Reverenda Madre Gaia Helen Mangiahuom sedeva su una poltrona damascata, osservando madre e figlio che si avvicinavano. Loro invece non riuscivano a vederla bene in viso, per via del velo nero che la ricopriva. Le finestre ai lati si aprivano una sul mare scintillante, l’altra sulle verdi proprietà dei Formaldeides; ma l’ospite non era lì per il panorama.

   Godiva si fermò a tre passi dalla poltrona e fece una profonda reverenza. Poco più indietro, Paul eseguì un inchino più lieve, quello per “quando si è in dubbio sull’effettivo rango dell’interlocutore”.

   «Ah, eccolo qui!» disse la Mala Gesserit con voce stentorea. «Se solo avessi generato una figlia, come ti avevo ordinato... beh, mi accontenterò di quello che hai sfornato».

   «Ordinato? Sfornato?!» fece Paul, indignato da quelle parole. «Ma come si permette...».

   «Taci, infante. Parlerai se e quando te lo permetterò» disse l’ospite, alzando l’indice. Osservò il viso pallido e affilato del giovane, il naso sottile, i capelli nerissimi, il fisico alto e magro, gli abiti anch’essi scuri. Paul ebbe l’impressione che lo scrutasse non solo fisicamente, ma anche mentalmente; e che fosse rapida nel giudicare.

   «Uhm... i tuoi rapporti non esageravano; è proprio un emo» rimuginò Mangiahuom, rivolta a Godiva. «Anzi, direi che è più emo di Kylo Ren! Ma sarà proprio quell’Emo? Quello che stiamo cercando?».

   «Nel dubbio, mi sono permessa d’insegnargli le nostre tecniche, nei limiti di quanto è lecito...» si azzardò Godiva.

   «L’insegnamento è una cosa, il materiale di partenza è un’altra» la gelò la Reverenda Madre. «Beh, vedremo di che pasta sei fatto, bastardello. Quanto a te, Godiva, esci e mettiti davanti alla porta. Non far entrare nessuno e non rientrare tu stessa, finché non ti richiamerò».

   «Come volete, Vostra Reverenza» mormorò la Lady, pallida e tesa. Dette un’ultima occhiata al figlio, come se temesse di non rivederlo, e gli sfiorò la spalla. «Sii forte» sussurrò, per poi ritirarsi in tutta fretta.

   Non appena fu solo con la Mala Gesserit, Paul la squadrò con freddezza. «Avete congedato mia madre come se fosse una serva» commentò, in tono accusatorio.

   «Ah ah, ai suoi tempi era altro che una serva!» ridacchiò Mangiahuom. «Cortigiana è un termine più appropriato, ed era bravissima. Del resto ha studiato da noi. Non credo che tu sia consapevole di quanto ti ha protetto... ma ora non è più qui a farlo. Avvicinati, mezzasega!» ordinò.

   Il comando colpì Paul come una sferzata. Prima ancora di rendersene conto era davanti alla poltrona, a un passo dall’inquietante ospite. «La Voce! Quella vecchia baldracca ha usato la Voce!» comprese.

   «Sì, questa vecchia baldracca è molto versata nelle arti mentali» confermò la Mala Gesserit. «Ma per capire se vali il disturbo di venire qui, non c’è che un modo. Ti sottoporrò all’ordalia del gonad chemmal!» disse in tono teatrale. Così dicendo mostrò un cubo metallico, estraendolo chissà come dalle pieghe della veste. Paul vide che mancava di un lato, come una scatola; nessuna luce penetrava in quell’apertura nera e spaventosa.

   «Ora infilerai la tua carne indifesa nella scatola» disse Mangiahuom, malignamente compiaciuta. «E non ti azzardare a estrarla senza il mio ordine, altrimenti...».

   Un ronzio attirò l’attenzione del giovane. Una sorta di calabrone, o di grosso moscone, gli ronzava fastidiosamente accanto al collo. Istintivamente Paul fece il gesto di scacciarlo.

   «Io non lo farei, se fossi in te» ammonì la Mala Gesserit. «Quello è un Cercatore Assassino. Disobbedisci, e t’inietterà un veleno così mortale che schiatterai prima di poter chiamare aiuto».

   «Vuole uccidermi?!» fece Paul, esterrefatto. «Cos’è, l’hanno mandata gli Scarafonnen?».

   «Ma quali Scarafonnen, stupido sminchiato!» lo redarguì la Reverenda Madre. «Questa prova serve a verificare se la tua mente riesce a dominare la tua carne. Quando quest’ultima sarà dentro la scatola, proverai un dolore atroce. Avrai l’impulso istintivo di levarla. Se lo farai, il Cercatore ti ucciderà all’istante. Se invece sopporterai il dolore con la forza di volontà, allora sopravvivrai. Per fare le cose come si deve dovresti anche restare immobile, senza agitarti né piagnucolare... ma suppongo che sia chiedere troppo a un coglioncello come te! Quindi mi accontenterò di vedere che non ti ritrai. Non sono clemente?».

   «Clemente un corno! Credete di poter uccidere impunemente il figlio del Duca?!» obiettò Paul.

   «Finiscila di nasconderti dietro le sottane dei tuoi genitori! Questa è una prova per te, per capire quanto vali! Così vedremo se sei un uomo dotato di razionalità, o un caprone dominato dall’istinto!» lo sferzò Mangiahuom.

   «Se grido, arriveranno i soccorsi...» annaspò il giovane.

   «Niente affatto. Tua madre è lì davanti alla porta, con l’ordine di non far entrare nessuno» gli ricordò la Mala Gesserit.

   «Dovevo aspettarmelo, da quella sgualdrina!» proruppe Paul.

   «Ah, finalmente parli come il Duca tuo padre!» sogghignò Mangiahuom. «Comunque le cose stanno così; uscirai solo dopo aver sostenuto la prova. E sbrigati, cacasotto, che non ho tutto il pomeriggio da dedicarti! Tra poco devo andare a fare la liposuzione».

   «E va bene!» sbottò Paul, stanco d’essere vituperato. «Farò come dite, vecchia megera. Ma se pensate di uccidermi, vi sbagliate di grosso. Ho addestrato il mio corpo a una completa insensibilità al dolore!» si vantò. Fece dei respiri profondi e rallentò il battito cardiaco, mentre scorreva teatralmente le mani lungo il busto smilzo. «Conosco anche la vostra filosofia: «Non devo aver paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale. Guarderò in faccia la mia paura, permetterò che mi calpesti e mi attraversi. E quando sarà passata...».

   «Che stai cianciando?» l’interruppe la Reverenda Madre.

   «Come sarebbe? Cito la vostra celebre Litania contro la Paura...».

   «Quella l’abbiamo scritta quand’eravamo sponsorizzate dai Baci Perugina e ci davano da scrivere gli slogan» spiegò la Mala Gesserit, infastidita. «Sono stronzate da quattro soldi, dimenticale! E ora affronta la prova!» ordinò.

   «Oh insomma, va bene!» berciò il giovane, inserendo finalmente la mano nell’inquietante scatolina. Dapprima provò una sensazione di freddo; poi un crescente formicolio. Sapeva che presto sarebbe esploso il dolore... ma era pronto ad affrontarlo. Ne andava della sua vita, e anche del suo onore.

   «E adesso che fai, stronzetto?» chiese Mangiahuom, esasperata.

   «Come sarebbe a dire? È mezz’ora che mi scassate le balle con la storia dell’ordalia... vi ho accontentata!» rispose Paul, sentendo crescere una sensazione di prurito e punzecchiamento alla mano.

   «Non è la mano che devi infilare, pezzo d’asino! Perché credi che il rituale si chiami gonad chemmal? È un’altra parte anatomica che devi ficcare là dentro! Avanti, fessacchiotto, tiralo fuori! Tanto non m’impressioni, ho visto ben altro!» lo provocò la Reverenda Madre.

   «Ah, no!» fece Paul, estraendo la mano che cominciava a bruciare. «Tutto, ma questo no! Piuttosto datemi una scatola più grande, in cui possa ficcare la testa!».

   «Non sei tu a fare le regole, fighetto!» lo rampognò Mangiahuom. «Li do io gli ordini! Sei con una Mala Gesserit, il che significa che devi soffrire! E ora... ficcalo dentro!» sibilò.

   Il giovane si oppose con tutte le sue forze, ma la vecchia arpia aveva usato di nuovo la sua Voce irresistibile...

 

   Fuori dalla porta, Lady Godiva passeggiava nervosamente avanti e indietro, torcendosi le mani. Sapeva bene in cosa consisteva il rituale, e cosa sarebbe accaduto a suo figlio qualora avesse fallito. Eppure aveva lasciato che tutto ciò accadesse. Non aveva nemmeno avvertito Letonto del pericolo; certo il Duca sarebbe intervenuto, anche se poi il casato avrebbe avuto rogne. La sua fedeltà all’Ordine giungeva quindi al punto d’immolare suo figlio? Che avrebbe fatto, se rientrando lo avesse trovato a terra, privo di vita...?

   In quella udì dei rantoli che provenivano dall’interno. In certi momenti erano gemiti disarticolati, in altri si precisavano in parole o brevi frasi smozzicate, tutte ingiuriose. «Uh, come brucia! Ahi, boia d’un mondo! La pagherete, stupide talebane! Dalla prima all’ultima! Ohi ohi, che male! Accidenti a voi e ai vostri giochetti sadomaso! Quando sarò il Duca, allora vedrete! Vi cercherò una per una, e allora sarò io a divertirmi! Ahi, ahi... UUUAAAAARGHHHH!!!».

   L’ultimo grido fu così lacerante da far tremare la spessa porta in legno. Poi tornò la quiete, anzi, un silenzio di tomba. Lady Godiva si appoggiò allo stipite per non accasciarsi. Sapeva che, se Paul si era ritratto per sottrarsi all’agonia, la Reverenda Madre lo aveva certamente ucciso. Il suo Ordine non tollerava la debolezza e l’imperfezione.

 

   «Beh, dopotutto hai superato la prova. Non ci avrei scommesso un soldo bucato» commentò la Mala Gesserit. La scatola maledetta era sparita in una piega della sua veste, e così il Cercatore.

   «Almeno non sono rimasto menomato» borbottò Paul, risistemandosi i pantaloni. Durante la prova aveva avuto una sensazione ustionante. Al termine dell’ordalia era stato un enorme sollievo constatare d’essere ancora sano.

   «Certo che no! Era dolore tramite stimolazione nervosa, non una vera ustione. Non posso andare in giro a evirare potenziali esseri umani» spiegò Mangiahuom, in tono pratico.

   «Ah, quindi lo fa spesso! Chissà quanto ci gode. Ma perché questa prova è così importante, per la miseria?!».

   «Ancora non l’hai capito, specie di ottusangolo? Okay, ti farò un esempio. Hai mai setacciato la sabbia?».

   «Certo! Lo facevo da bambino sulla spiaggia, per trovare le conchiglie».

   «Bene. Sappi che noi Male Gesserit setacciamo la gente, per rintracciare i veri uomini» spiegò la Reverenda Madre.

   «E quando li avete trovati, che gli fate?» volle sapere Paul, visto che ciò lo riguardava.

   «Oh oh, cosa credi che gli facciamo?!» fece Mangiahuom, scossa da una risata grassa. «Ti ricordo che siamo tutte donne, nel nostro Ordine! Dobbiamo pur spassarcela, in qualche modo! Ma non temere, tu sei troppo emo per i nostri gusti» lo rassicurò. «In effetti, sei talmente emo che potresti essere proprio quello che cercavamo. Ma di questo discuterò con tua madre. Godiva!» strepitò, rivolta alla porta.

   L’uscio si spalancò e la Lady si fiondò all’interno. Vedendo che  Paul era in piedi, riprese colore e riuscì a sorridere debolmente. Dopo di che richiuse la porta, intuendo che bisognava scambiare ancora parole riservate.

   «Come vedi, tuo figlio s’è rivelato un uomo, anche se piagnone» commentò la Reverenda Madre. «La tua linea di sangue è interessante, dopotutto. Continueremo a lavorarci».

   «Lavorarci? Ma...» fece Paul.

   «È dall’indomani del Jihad Complottaro, quando i computer furono aboliti, che il mio Ordine lavora per costringere la mente umana a evolversi» spiegò la Mala Gesserit. «Noi dobbiamo fare in modo che gli individui più dotati s’incontrino, per generare eredi ancora più dotati, e così via. In mancanza di simulazioni computerizzate, dobbiamo adottare un approccio più... empirico».

   «Cioè selezionate le donne dalla mente più evoluta, le addestrate e infine le buttate tra le braccia degli uomini che vi paiono più indicati» comprese il giovane, osservando di sottecchi sua madre. «È così che sono venuto al mondo... sono solo un tassello dei vostri studi» disse deluso.

   «No, tu sei mio figlio, ti amerei in ogni caso...» si affannò Lady Godiva.

   «Già, a volte le nostre consorelle si affezionano fin troppo al lavoro» commentò Mangiahuom. «Comunque il nostro scopo ultimo è creare l’Emo: un essere che grazie alla Spezia avrà inimmaginabili poteri di preveggenza e dominerà l’Universo Conosciuto. Così porterà finalmente un po’ d’ordine in questo casino che è l’Impero Analogico. Ci lavoriamo da secoli, incrociando le linee di sangue più promettenti, e mi sa che ormai ci siamo vicine» gongolò.

   «È curioso, sa? Anche i Femen – i nomadi di Arrankis – hanno una profezia del genere» notò Paul, ricordando il videolibro.

   «Sono tutte predizioni fatte da veggenti sotto l’influsso della Spezia» spiegò Godiva. «Non c’è da stupirsi che coincidano: il melange non mente».

   «Macché; fummo noi a diffondere la diceria su Dune» la smentì la Reverenda Madre. «Così quegli straccioni dei Femen sarebbero rimasti buoni in attesa del loro Messia, invece di attaccare gli impianti. Purtroppo negli ultimi tempi si sono stancati d’aspettare e hanno cominciato a darci noie, quindi toccherà a voi Formaldeides tenerli al guinzaglio» ammonì. «Qualunque cosa accada, non lasciate che la produzione di Spezia ne risenta, o l’Impero Analogico crollerà come un castello di carte e i nostri secoli di maneggi andranno sprecati. E ora scusatemi, devo andare a sballarmi con la Spezia». Con queste parole, la Reverenda Madre si alzò e si diresse verso l’uscita.

   «Un momento!» la rincorse Paul, sebbene l’ordalia appena sostenuta lo costringesse ad adottare un passo largo e barcollante. «Quando arriverà il vostro Emo, come farete a riconoscerlo?».

   «Riuscirà a sniffarsi quantità industriali di melange restando in piedi» rispose la Mala Gesserit, già sulla soglia. «Molti hanno tentato, ma...» aggiunse in tono grave.

   «Sono morti» comprese Paul, sapendo quant’era pericolosa la Spezia se assunta in dosi eccessive.

   «No, sono diventati degli stupidi bimbiminkia» rivelò Mangiahuom. «Ma nel tuo caso, non ci sarebbe una gran differenza. Arrivederci... ci rivedremo quando deciderai di metter su famiglia! Per allora chiamami, Godiva! Ho già qualche pollastrella da consigliarvi!». Con questa minaccia, la Reverenda Madre scomparve tra le ombre del corridoio. Di lì a poco la sua navicella decollò per tornare a Can-can, la lontana capitale dell’Impero.

 

   Il vento spazzava il promontorio erboso, portando il consueto odore d’acciughe dal mare. Le tombe dei Formaldeides erano allineate lì: ventisei generazioni di duchi, tanto era durato il loro dominio su Calamar. A differenza d’altri casati, che si facevano erigere tombe monumentali, i Formaldeides si accontentavano di severe lapidi in pietra grigia. Le più vecchie erano ormai coperte di muschio e corrose dall’aria salmastra. Fu tra quelle vestigia della loro famiglia che Letonto volle passeggiare con suo figlio. Era l’ultima escursione sul loro mondo natale, perché la partenza era imminente: le navette sarebbero decollate l’indomani.

   «Sei nervoso, figliolo?» chiese a un tratto il Duca.

   «Un po’» ammise Paul. «Dune è un mondo totalmente diverso da questo. Dovremo imparare tutto daccapo».

   «Puoi ben dirlo! Qui avevamo il potere del vento e del mare; laggiù dovremo acquisire il potere del deserto» pontificò Letonto.

   «Che significa?».

   «Nulla di particolare, ma detto così sembra epico» spiegò il Duca. Il suo sguardo si posò sulle tombe degli antenati. «E io che pensavo di riposare tra i miei avi, in riva al mare! Invece sembra che finirò i miei giorni su una palla di sabbia. E così sarà anche per te, figliolo» disse gravemente.

   «Ehi, calma!» fece Paul. «Il fatto che ci abbiano assegnato Dune non significa che ci portino via Calamar. Guarda gli Scarafonnen: non hanno mai perso il controllo del loro feudo di Latrina Primo. Il Barone Scarafonnen – che gli venga un accidente – è sempre vissuto lì, accontentandosi di visitare Dune ogni tanto».

   «Perché ha due nipoti, Rubik e Frizzata, che sono sempre stati su Dune a sorvegliare i lavori» puntualizzò il Duca. «Io ho solo te, purtroppo».

   «Non mi ritieni all’altezza?» fece il giovane, ferito dalla scarsa considerazione paterna.

   «Mah, sai, figliolo... uhm... a proposito, com’è che ti chiami?» fece Letonto, colto dal suo lapsus ricorrente.

   «Paul, papà».

   «Ah sì, come il mio polpo preferito!» si rianimò il Duca. «Dicevo, mio caro Paul, che nella nostra famiglia il talento sembra procedere a generazioni alterne. Il mio sfortunato padre fu così coglione da ripristinare la corrida, e morì incornato da un toro» disse, accennando alla lapide che ritraeva fedelmente la scena. «Io invece me la sono cavata piuttosto bene, come dimostra il fatto che abbiamo ricevuto Arrankis. Così ora sono preoccupato per te, giovanotto. Sei talmente emo!» disse, osservandolo dispiaciuto.

   «Se vuoi, posso vestirmi a colori vivaci» suggerì Paul, cercando disperatamente di compiacere il genitore.

   «No, sembreresti un corvaccio caduto nella tavolozza di un pittore» sospirò Letonto.

   «Pensi di escludermi dalla successione?» chiese il giovane, con un groppo in gola.

   «Macché! Abbiamo dei vecchi legami di sangue con gli Scarafonnen, e in mancanza di un mio erede, quel lardoso Barone accamperebbe pretese sulla mia eredità» spiegò il Duca. «Quindi è d’uopo che sia tu a ereditare. Osserva bene le mie mosse, quando saremo su Dune, così comincerai a capire qualcosa di politica. Anzi, penso che comincerò fin da subito a darti qualche incarico, così ti farai le ossa».

   «Volentieri, padre... prometto che non ti deluderò».

   «Non fare promesse che non sei certo di mantenere, figliolo» sospirò Letonto, fermandosi per fronteggiarlo. «Comunque sappi che anch’io alla tua età ero incerto sulle mie doti. Non sapevo nemmeno se accettare questo». Sollevò la mano per mostrare l’anello di famiglia dei Formaldeides, portato dai duchi in carica. «Alla fine ho trovato la mia strada... sarà lo stesso per te» disse, sorridendogli incoraggiante.

   «Lo spero... grazie di cuore» disse Paul, sentendosi finalmente apprezzato. I due restarono fermi per qualche minuto in cima alla scogliera, osservando per l’ultima volta il tramonto sul mare. Il disco rosso si ridusse all’orizzonte, fino a svanire in un ultimo raggio verde.

   «Bene, torniamo a casa. Domani ci attende una giornata impegnativa, mio caro... uhm... come ti chiami?» tornò a chiedere il Duca.

   «Paul» gli ricordò il giovane, alzando gli occhi al cielo vespertino.

   «Già, continuo a dimenticarlo!» fece Letonto, scuotendo la testa. «Beh, vieni con me. Ci attende un banchetto d’addio al pianeta. Chissà quanto passerà, prima di poterci mettere di nuovo piede...» aggiunse pensoso.

 

   Le fabbriche di Latrina Primo non si fermavano mai, e quindi nemmeno le vibrazioni del suolo e il rimbombo degli ingranaggi all’opera. Ma coloro che erano nati e cresciuti su quel mondo oscuro si erano talmente abituati da non farci più caso. Un tempo la perla dell’Impero, il pianeta aveva conosciuto un’urbanizzazione e un’industrializzazione selvagge, prive di qualunque rispetto per l’ambiente. Come risultato, tutta la vita autoctona si era estinta, tranne i pochi esemplari che sopravvivevano in qualche zoo. I miliardi di abitanti Umani vivevano stipati come formiche nei livelli sotterranei, o nei grattacieli senza finestre che svettavano verso il cielo perennemente oscurato dallo smog. Il reticolo urbano era punteggiato dalle centrali nucleari che dovevano soddisfare l’immane fabbisogno energetico di quel mondo-formicaio. Grandi fabbriche lavoravano incessantemente alla produzione d’armi, astronavi e macchinari pesanti. Le loro ciminiere esalavano fumi tossici nel cielo scuro, mentre gli scarichi riversavano composti venefici in fiumi e mari, che ormai avevano assunto il colore (e anche l’odore) degli escrementi. Su tutto incombeva il palazzo del Barone Vladimir Scarafonnen, simile a una piramide. Le piogge acide scorrevano sulle scure pareti inclinate, riversandosi nei condotti di scarico, e grandi riflettori lo illuminavano a giorno.

   I passi pesanti di Rubik, nipote del Barone, rimbombarono nel corridoio. Il rampollo del casato aveva vissuto per anni su Dune, tenendo a bada i Femen e assicurandosi che l’estrazione della Spezia continuasse; ma con l’editto imperiale era tutto finito. Ora era tornato sul suo mondo natale, con la coda fra le gambe e la collera nel cuore. Ma in quel momento, alla rabbia era subentrata la paura; perché doveva fare rapporto al terribile zio e temeva che questi lo incolpasse dell’accaduto. Oltrepassati i Dementat senza degnarli di un saluto, Rubik – detto il Bestione da quando aveva strangolato i suoi genitori – si fermò solo davanti all’ingresso dei quartieri privati del Barone. E qui trovò ad attenderlo suo fratello minore, Frizzata.

   «Che puzza di merda!» sbottò Rubik, fermandosi davanti al fratello.

   «Parli di me?» chiese Frizzata, divertito.

   «No, parlo di tutto questo lurido pianeta. Avevo scordato quanto fosse vomitevole, ma le prime zaffate me l’hanno ricordato» spiegò il Bestione.

   «Non so di che parli. Qui l’aria è dolce e fragrante... aria di casa!» gongolò Frizzata, inspirando a pieni polmoni l’aria flatulenta. A differenza dei parenti, che erano di corporatura massiccia, il giovane era alto e allampanato. Invece di radersi la testa come gli altri, inoltre, Frizzata aveva lasciato crescere i suoi capelli arancioni, sempre dritti come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Abbinati agli occhi spiritati e al ghigno da pervertito, gli davano un’aria folle.

   «Lui è dentro?» chiese Rubik, accennando alla porta.

   «Certo, ti sta aspettando» annuì Frizzata.

   «E... com’è?» chiese il Bestione, non riuscendo a reprimere un fremito.

   «Ah, se lo vedessi... dev’essere sui quattrocento chili, ormai» ridacchiò Frizzata. «Inoltre i suoi eczemi sono peggiorati: è pieno di pustole che trasudano un pus schifoso...».

   «Non mi riferivo alla sua salute, ma al suo umore!» borbottò Rubik. «T’è parso arrabbiato, rassegnato, combattivo...?».

   «E chi lo sa? Sono giorni che non esce dalle sue stanze» rispose Frizzata. «Però si fa continuamente portare hamburger e coca-cola. Secondo me, gli servono per annegare il dolore!». La sua risata somigliò al latrato di un cane, con tanto di lingua fuori.

   «Va beh... entriamo e speriamo bene» disse Rubik, accostandosi all’ingresso.

   «Come sarebbe, entriamo? Ha convocato solo te, Bestione!» gli ricordò Frizzata.

   «E invece verrai anche tu, buono a nulla! Così, se si arrabbia, se la prenderà con entrambi!» ringhiò Rubik. Lo afferrò per il collo, sbatacchiandolo come una marionetta.

   «Okay fratellone, ti seguo a ruota!» rantolò Frizzata. Solo allora fu rilasciato.

   Ancora teso, il fratello maggiore alitò sul lettore dell’ingresso, confermando la sua identità. Il portone corazzato si sollevò cigolando, mostrando un vasto salone semibuio e rimbombante. «Ci sei, zietto? È arrivato Rubik!» esclamò Frizzata, introducendo solo la testa.

   «Ah, bene... che entri!» rispose una voce asmatica.

   I due fratelli entrarono quasi in punta di piedi, a piccoli passi. Videro alcuni inservienti allineati lungo le pareti, in silente attesa, ma dello zio non c’era traccia. E sì che la sua mole non passava inosservata!

   «Là» sussurrò Frizzata, accennando a una grande vasca circolare ricavata nel pavimento. Al suo interno ribolliva una melma calda e puzzolente, di colore marrone.

   «Bene... o è il suo bagno di fango, o il vecchio mostro è annegato nella sua merda» pensò Rubik. Lui e Frizzata si avvicinarono, finché furono proprio sull’orlo della vasca, e si curvarono lievemente in avanti.

   Le bolle aumentarono e un testone calvo fece capolino dal sudiciume. Due occhietti piccoli e avidi, sprofondati tra le pieghe di grasso, si appuntarono su Rubik. «Eccoti qui, ribaldo! Allora, hai completato il ritiro da Arrankis?».

   «Sì, è tutto fatto» confermò l’interpellato. «Ma l’Imperatore non doveva farci questo! Per donarlo ai Formaldeides, poi!».

   «Già, sono certo che i nostri avversari siano compiaciuti della loro fortuna» ansimò il Barone. «Ma sono degli stolti; come sei stolto tu a dolerti della nostra sorte».

   «Come sarebbe?!» fece Rubik, interdetto.

   «Nipote, chiediti questo: quand’è che un dono non è un dono?» lo interrogò il Barone.

   «Io... uhm... non saprei...» borbottò Rubik, che non si aspettava un enigma.

   «Dacci un attimo per pensare. Il primo che risponde sarà il più sveglio!» propose Frizzata, che era in lizza col fratello per la successione al titolo. Rubik infatti lo guardò storto. Non approvava i suoi continui tentativi di apparire più meritevole agli occhi dello zio, anche se a dire il vero aveva ben di rado successo, anzi sortiva spesso l’effetto opposto.

   «Pensateci con comodo. Nel frattempo... ho fame!» tuonò il Barone. Subito un inserviente si fece avanti con un gigantesco hamburger. S’inginocchiò accanto alla vasca, porgendolo ossequiosamente al ciccione, che lo afferrò con le mani ancora fangose e cominciò a sbafarselo.

   «Vediamo... quando ci si aspetta qualcosa in cambio?» propose Frizzata, ansioso di battere il fratello sul tempo.

   «Gnam... no» lo smentì il Barone. Dal suo enorme panino spuntava quello che sembrava, in tutto e per tutto, il grugno di un maiale. Quando lo Scarafonnen gli dette un gran morso, la senape colò abbondante dalle narici.

   «Allora... quando va restituito dopo un certo tempo?» tentò di nuovo Frizzata.

   «Fuochino... ma ancora non ci sei. Munch!» fece il Barone, continuando a sbafarsi l’hamburger.

   «Uhm, vediamo... magari quando...» rimuginò il giovane, con gli occhi strabici e la lingua di fuori per l’insolito sforzo mentale.

   «Quand’è una trappola!» ruggì Rubik, certo di aver indovinato.

   «Ah, vedo che almeno uno dei miei nipoti non ha la zucca completamente vuota!» lo lodò lo zio. «Sì, mio buon Rubik, la cessione di Arrankis non è altro che una trappola ai danni dei Formaldeides. Una trappola ordita dall’Imperatore in persona, che teme il loro crescente potere. Ovviamente ho fatto in modo, nel corso degli anni, di attizzare il suo timore mediante un’accorta campagna di disinformazione. Il risultato è che Sua Maestà ha deciso d’eliminare i Formaldeides dallo scacchiere dell’Impero, ma senza sporcarsi direttamente le mani. Anzi, all’apparenza ha concesso loro il massimo degli onori: la gestione di Arrankis! Ma sarà una gestione impossibile, se tu hai fatto come ti ho ordinato» si rivolse a Rubik.

   «Le raffinerie di Spezia sono sabotate, ma i Formaldeides non ci metteranno molto a ripararle» rispose l’interpellato. «Ho anche predisposto la trappola per il duchino» disse in tono sprezzante, riferendosi a Paul.

   «E se non funzionasse?» si preoccupò Frizzata.

   «Non è indispensabile che funzioni, basta che – slurp – metta i nostri avversari sotto pressione» disse il Barone, terminando d’ingozzarsi.

   «Sono confuso...» cominciò Frizzata.

   «Questo non mi stupisce, nipote».

   «... sabotaggi e attentati non li metteranno sul chi vive?».

   «Certo! Ma proprio per questo si appoggeranno ai loro uomini più fidati... senza sapere che uno di loro è al mio servizio! Muahahahaha-cough-cough!». La risata malefica del Barone echeggiò in tutto il salone, salvo spegnersi in una tosse asmatica. Un servitore gli somministrò prontamente uno spray nasale, permettendogli di riprendere il discorso. «Al momento opportuno, il mio agente disattiverà gli schermi protettivi della capitale. E allora... attaccheremo in forze! Urgh!». Trascinato dall’emozione, lo Scarafonnen – ancora immerso nella vasca – aveva dato un pugno sulla superficie fangosa, col risultato di farsi schizzare la melma in faccia.

   «Wow, che figata!» si emozionò Frizzata. «Chi sarà al comando?».

   «Tuo fratello, naturalmente».

   «Ma...».

   Le proteste del giovane si spensero quando Rubik si fece avanti, per nulla rallegrato dalla prospettiva. «Zio, i Formaldeides avranno sicuramente con sé le loro truppe migliori. E la capitale è fortificata per proteggerla dai Femen. Anche se gli scudi saranno abbassati, sarà una dura battaglia. Dovremo mettere in campo tutte le nostre forze. E supponendo di vincere... come reagirà l’Impero a tutto questo?» si preoccupò.

   «L’Impero, come ti ho detto, è dalla nostra!» assicurò il Barone. «Figurati che Sua Maestà mi ha promesso tre legioni di Sardonen per guidare l’attacco!».

   «I Sardonen!» esclamarono a una voce Rubik e Frizzata, ben conoscendo quei famigerati e crudelissimi guerrieri.

   «Proprio così... il mio agente mi consegnerà il Duca Letonto e i Sardonen faranno polpette del resto» assicurò il Barone, leccandosi le labbra alla parola “polpette”. «Del macello saranno incolpati i Femen, così avremo una scusa per mazziare anche loro. Ci saranno grandi manifestazioni di cordoglio in tutto l’Impero, dopo di che... beh, lo sapete... l’estrazione di Spezia non può fermarsi!» sogghignò. «E poiché i compianti Formaldeides avranno fallito il compito, all’Imperatore non resterà che restituirci il pianeta».

   «Ooohhh... sagace!» esclamò Frizzata, spalancando gli occhi spiritati.

   «Ma sei certo che ci restituirà Arrankis? Non lo attribuirà a qualche altra Casa?» domandò Rubik, ancora sulle spine.

   «Questi sono i patti, e non credo che li tradirà» rispose il Barone. «Gli ho anche promesso un piccolo sconto sulla Spezia... ma non temere! Quando ci saremo sbarazzati dei Formaldeides – e dei Femen – i nostri introiti cresceranno a tal punto che sarà comunque un guadagno. Parlo del venti, anche trenta per cento dei profitti in più!» gongolò il grassone, sguazzando tutto eccitato nel fango.

   «È un piano magnifico, zio» si complimentò Rubik. «Ma il tempo è essenziale, dovendo attaccare prima che i Formaldeides si siano ben fortificati. Comincio subito a radunare le nostre truppe» si offrì.

   «Sì, il buon Porker ti ragguaglierà sui dettagli» convenne il Barone, accennando al capo dei suoi Dementat, che attendeva presso l’uscita.

   «E io che faccio?!» chiese Frizzata, saltellando per l’eccitazione.

   «Tu guarda e impara, se ne sei capace» lo liquidò lo zio. «Dunque, per prima cosa occorre... bah, ho la gola secca per tutto questo parlare. Ehi, voi... ho sete!» ordinò. Un altro inserviente gli si precipitò appresso, consegnandogli un bottiglione di coca-cola provvisto di cannuccia. Era la bevanda preferita del Barone, in accompagnamento ai suoi mastodontici hamburger. Subito lo Scarafonnen prese a ciucciare soddisfatto, mentre i nipoti pregustavano l’imminente rivincita sui rivali Formaldeides.

 

   «Sei sano come un pesce, figliolo» disse il dottor Olé, finendo di tastare Paul.

   «Lo dici sempre» commentò il giovane, irrigidito mentre sopportava il tocco invasivo del medico di famiglia. A volte si chiedeva com’erano le visite mediche prima del Jihad Complottaro, quando i dottori avevano fior di strumenti per diagnosticare le condizioni dei pazienti. «Non come ora, che devono metterci le manacce addosso per percepire i disturbi» si disse.

   «Lo dico perché è vero, ed è un bene» ribatté il medico, ritraendosi. «Su Dune ti aspettano condizioni ambientali tremende, che non hai mai sperimentato. Ti ci vorrà un po’ per acclimatarti... questo vale per tutti noi» ammonì.

   Il buon vecchio Olé era al servizio della famiglia da quando Paul aveva memoria. Sembrava avere sempre la stessa età e lo stesso temperamento pacato. Baffi e pizzetto spiccavano sul volto liscio, mentre i capelli neri erano raccolti in treccine, come previsto dalla Scuola Rasta presso cui aveva studiato. Sulla sua fronte spaziosa spiccava il rombo del Rintronamento Imperiale, segno che era stato condizionato per essere totalmente fedele ai suoi assistiti e per mantenere il segreto professionale. Ora che aveva finito con Paul, cominciò a palpare anche Lady Godiva; come al solito se la prese comoda.

   «Allora, ci diamo una mossa?!» lo sferzò il Duca Letonto, un po’ irritato da quella vista.

   «La signora è in ottime condizioni» garantì il medico, ritraendosi.

   «E allora andiamo; Dune ci aspetta!» disse Letonto. Si avviò con passo deciso, uscendo dallo studio medico. I parenti gli si accodarono e così fece Olé con i suoi assistenti. Il corteo crebbe durante tutto l’attraversamento del palazzo e dei giardini, man mano che collaboratori e servitori vi confluivano. Era ormai una processione quando giunsero sulla pista d’atterraggio, davanti all’astronave d’imbarco. Per quanto fosse lunga un centinaio di metri, non era che una scialuppa per portarli al vero vascello interstellare. Questo attendeva in orbita, non essendo progettato per atterrare.

   «Addio, Calamar!» disse Paul, inspirando per l’ultima volta l’odore d’acciughe del suo mondo natio. L’attimo dopo s’imbarcò con i suoi genitori sulla navicella. In accordo con l’estetica dell’Impero Analogico, questa aveva interni in stile steampunk che avrebbero fatto la felicità del Capitano Nemo. Le pareti avevano bulloni a vista, ovunque c’erano leve e quadranti. I sedili erano foderati di raso rosso e i tondi oblò somigliavano a quelli di un sottomarino. I Formaldeides presero posto nello scomparto VIP – quello con gli oblò vicini all’ala – mentre il resto del corteo proseguiva l’imbarco e il personale dello spazioporto ultimava i preparativi. Per navicelle come quella si usavano ancora propellenti chimici, principalmente azoto e ossigeno, di cui su Calamar non c’era penuria.

   «Le Signorie Vostre sono pregate di allacciare le cinture di sicurezza» disse una voce dall’altoparlante. «Il decollo avverrà tra pochi minuti. Potrebbe venirvi un certo chicchirichì allo stomaco. Se vi sale la nausea, ricordate di usare gli appositi sacchetti. La Gilda Spaziale vi augura buon viaggio».

   «Buon viaggio, con quello che costa!» borbottò il Duca. «Ma quando saremo noi a controllare la Spezia, le cose cambieranno! Oh, se cambieranno!».

   Intanto Godiva aveva estratto uno dei sacchetti e lo mostrava al figlio. «Vedi, tesoro? È questo che devi usare, se dovessi...» cominciò, premurosa come al solito.

   «Mamma, ti prego!» la bloccò Paul. «Sono sopravvissuto al gonad chemmal; sopravvivrò anche al mal di spazio».

   «Sei sopravvissuto a cosa?!» chiese Letonto, cascando dalle nuvole.

   Mentre i Formaldeides bisticciavano, la navicella si sollevò in volo, seguita da altre dello stesso modello. Lasciarono l’atmosfera nebbiosa di Calamar, innalzandosi nello spazio senz’aria, e nel far questo si disposero in una lunga fila. Dal suo sedile, Paul si sporse ansiosamente a guardare fuori dall’oblò. Finalmente la vide: l’imponente Nave Cannolo della Gilda Spaziale. Il nome descriveva già la forma; ma questo cannolo era lungo chilometri e aveva lo scafo blindato.

   «Ooohhh... quant’è lunga?» chiese Paul, rivolto al fedele Tuttfritt, che aveva seguito i padroni in cabina.

   «La Nave Cannolo misura venti chilometri» rispose il Dementat con l’usuale prontezza.

   «Sembra... vissuta» commentò il giovane, notando le scalfitture sullo scafo. «Quant’è antica?».

   «Questo vascello è in servizio da trecento anni» rivelò Tuttfritt.

   «Così tanto?! Speriamo che non sia scassato» mormorò Paul, osservandolo con crescente apprensione.

   «Le navi della Gilda sono longeve. Dopotutto le sole cose davvero importanti sono i razzi di manovra e la tenuta stagna» ricordò il Dementat. «Per il balzo interstellare c’è il Navigatore».

   «Già... non ne ho mai visto uno all’opera» ammise il giovane. «Posso andare a vederlo?» si rivolse al padre.

   «Non è un bello spettacolo, ma se ci tieni...» annuì il Duca.

   Le navi d’imbarco confluirono nell’apertura anteriore, in fila indiana, e si attraccarono alle apposite ganasce. Un breve scossone ed era fatta. Una cinquantina di navicelle si alloggiarono in questo modo, recando con sé l’imponente bagaglio dei Formaldeides: provviste, parti di ricambio e solo da ultimo gli effetti personali. In aggiunta vi era tutto il personale necessario, dagli ingegneri che dovevano far funzionare gli impianti estrattivi alle truppe incaricate della sicurezza, fino a cuochi e domestici. Solo i giardinieri e gli addetti alle imbarcazioni furono lasciati indietro, presumendo che non avrebbero avuto granché da fare su Dune. Nel complesso, era un vero e proprio esodo da un mondo a un altro. Ma giungere in orbita era la parte facile: ora si doveva effettuare il balzo interstellare. E l’unico che poteva trasferire il vascello con tutto il suo contenuto era il Navigatore, grazie ai mistici poteri conferitigli dalla Spezia.

 

   Emozionato, Paul si presentò nella camera del Navigatore. Era un antro spoglio, a eccezione della grande vasca dalle pareti trasparenti che si levava al centro, salendo fin quasi al soffitto. Aveva  forma squadrata, ma con le estremità bombate, ed era irrobustita da listelli metallici. Al suo interno, in un fluido arancione, galleggiava il Navigatore della Gilda.

   Era un brutto sgorbio dalla pelle glabra, con il cranio enorme, gli occhi sporgenti da calamaro e il muso purulento con una specie di becco. Il corpo si allungava all’indietro come quello di un girino, sebbene fossero visibili i minuscoli braccini e le gambette, nient’altro che organi vestigiali. L’insieme era strano e disturbante. Ancor più inquietante era il fatto che quella creatura, pur non potendo dirsi umana, discendeva da esseri umani.

   La Gilda infatti allevava i suoi Navigatori da oltre quattromila anni, selezionando le mutazioni favorevoli indotte dalla Spezia e facendoli incrociare fra loro, fino a creare una nuova specie, le cui immense facoltà mentali erano devolute al viaggio interstellare. Nessuno sapeva esattamente perché si fossero trasformati in lumaconi; forse tendevano a diventare sempre più simili ai Vermoni di Dune, da cui il melange era prodotto. Quale che fosse il motivo, ormai quegli esseri non potevano più vivere al di fuori del loro bagno di Spezia, né sembravano interessati a farlo. Nessuno sapeva realmente fin dove giungessero i loro poteri mentali e le loro facoltà predittive; ma c’era da credere che oltrepassassero persino le Male Gesserit. Con la sola forza di volontà potevano traslare se stessi e l’astronave in qualunque punto dell’Universo, semplicemente convincendosi d’essere già lì. La forza della convinzione era tale che toccava alla realtà piegarsi, per accontentarla. Il difficile era convincere il Navigatore – sballato dalla Spezia – della necessità di recarsi presso un determinato pianeta, piuttosto che altrove. A questo era devoluta la cricca di specialisti della Gilda che in quel momento si affollavano intorno alla vasca, schiamazzando e gesticolando.

   «Avanti, Frank! Mostraci che sei sempre il migliore, portaci ad Arrankis!» esclamò un copilota della Gilda, del tutto umano. Così dicendo indicava uno schermo, su cui campeggiava un’immagine d’archivio di Dune.

   «Devo proprio?» biascicò il Navigatore, la cui voce usciva da un altoparlante collegato alla vasca. «Ci siamo già stati altre volte».

   «Ma questa è la più importante... gli equilibri dell’Impero dipendono da questo viaggio!» insisté il copilota.

   «Al diavolo l’Impero, ho voglia di vedere altri posti! Perché non andiamo a Can-can? Quello almeno è un bel pianeta!» propose il Navigatore.

   «Nooo, ma che dici? C’è troppa burocrazia...!» fece il copilota, asciugandosi il sudore dalla fronte. Ma era troppo tardi: la Nave Cannolo e il suo contenuto furono traslati nell’orbita della capitale imperiale. Sullo schermo principale apparve il mondo azzurro e verde, circondato da un magnifico sistema d’anelli. Un addetto ai sensori si curvò su un pannello di controllo e, avuta la conferma della destinazione, lo riferì ai presenti.

   «Porca Gesserit!» imprecò sottovoce il copilota. «Senti, Frank, ci hai portati in un posto fantastico, ma noi dobbiamo andare a Dune. Ti ricordi? È lì che dobbiamo portare i Formaldeides!».

   «I chi?» fece il Navigatore, colto da amnesia. «Ah sì, i fortunelli! Quel giovane là in fondo è uno di loro, vero? Avvicinati, fatti vedere!» lo invitò.

   Bruscamente chiamato in causa, Paul esitò, mentre tutti gli sguardi si appuntavano su di lui. Allora il copilota gli venne appresso. «Beh, che succede?» chiese il giovane.

   «Succede che il vecchio Frank fa i capricci, come al solito!» sbuffò l’esperto, avendo però cura di parlare sottovoce. «Vorrebbe girare l’Universo, lui, e andare dove gli pare! Il fatto è che, per ogni giro a vuoto, sprechiamo un botto di melange. Quindi, se non vuoi che il prezzo della corsa lieviti, aiutaci a convincerlo!».

   Messo alle strette, Paul non poté esimersi dall’intervenire. Si fece avanti con cautela, osservando il lumacone che galleggiava nel suo brodo con un misto di fascinazione e orrore. Giunto accanto alla vasca, vi picchettò sopra con le dita. «Ehilà, Frank... come va?» chiese, cercando di suonare amichevole.

   «Splendidamente, e a te?» rispose il Navigatore in tono vivace.

   «Oh, non c’è male... però sai, dovremmo proprio andare a Dune» disse il giovane. «Puoi darci uno strappo fin là?».

   «Dune, Dune!» borbottò Frank. «Che ci sarà d’interessante, su Dune? Solo sabbia e vermoni e nomadi misantropi! Ci sono posti molto più interessanti, nel cosmo! E allora perché volete sempre andare lì?».

   «Beh, sai, questo è un viaggio molto importante» cercò di spiegare Paul. «L’Imperatore ci ha dato il pianeta in usufrutto, togliendolo agli Scarafonnen...».

   «Gli Scarafonnen! Se avete dei problemi con loro, perché non li affrontate? Guarda, ti ci porto in un attimo!». Il Navigatore si concentrò, ed ecco, il disco oscuro di Latrina Primo comparve sullo schermo. Immediatamente squillarono gli allarmi.

   «Siamo stati rilevati dalla griglia di difesa planetaria. Stanno lanciando i missili nucleari!» avvertì un addetto.

   «Razzi di manovra, allontaniamoci dall’orbita!» ordinò subito il Capitano. Gli ufficiali corsero da tutte le parti, effettuando operazioni incomprensibili, mentre l’allarme squillava a tutto spiano. «Porca Gesserit!» imprecò Paul, accorgendosi che rischiavano la vita. «Senti Frank, bisogna che ce ne andiamo, e subito!».

   «Ma perché? Non è l’occasione buona per appianare i vostri contrasti?» obiettò il Navigatore.

   «Direi proprio di no. Gli Scarafonnen sono già incacchiati per aver perso Dune; se poi ci presentiamo a casa loro senza preavviso...».

   «Ma insomma, cos’è questo panico? Non conoscete la Litania contro la Paura? Non devo aver paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale...» recitò il lumacone.

   «Senti, noi possiamo anche stare calmissimi, ma quelle testate atomiche ci polverizzeranno lo stesso!» obiettò Paul. «Portaci via di qui, subito!».

   «Okay, non scaldarti. Dunque... dov’è che volevi andare?» chiese Frank, cercando di concentrarsi.

   «Missili in avvicinamento, impatto fra un minuto!» avvertì un ufficiale.

   «Ovunque vuoi, ma non qui!» gracchiò il giovane, sentendosi la pelle d’oca.

   «Okay, tieniti pronto... si parte! Yuppieee!» trillò il Navigatore. L’oscuro mondo industriale svanì dallo schermo e così i missili in volo. Al suo posto apparve un pianeta grigio, ammantato di nubi temporalesche.

   «E adesso dove diavolo siamo capitati?!» si esasperò Paul, rivolgendosi agli ufficiali della Gilda.

   «Si direbbe... Saludos Amigos, il mondo natio della Casa imperiale, nonché base operativa dei Sardonen» rispose l’addetto ai sensori. «Degli intercettori stanno già lasciando la superficie».

   «Groan... se ci abbordano per ispezionarci, ci terranno bloccati per giorni!» si lamentò il Capitano. «Per ogni spillo fuori posto dovremo pagare una multa salatissima. È meglio levarci di torno. E tu, Navigatore dei miei stivali, fa’ il tuo dovere, o ti taglio le razioni di Spezia!» minacciò.

   «Nooo... levami tutto, ma questo no!» si disperò il lumacone. «Non te la prendere, capo, volevo solo giocare un po’... mi annoio così tanto...».

   «Allora senti questa proposta» intervenne Paul, toccando di nuovo le pareti della vasca per attirare la sua attenzione. «Se adesso fai il bravo e ci porti a Dune, avrai doppia razione di melange, che ne dici? Ma se continui a fare i capricci... a letto senza Spezia!».

   «Come volete, sigh. Volevo solo mostrarvi un po’ di cosmo, ma niente, voi avete occhi solo per quella palla di sabbia» si lagnò Frank. «E va bene... se volete Dune, che Dune sia! Spero abbiate preso la crema abbronzante!».

   Mentre il Navigatore parlava, i tecnici della Gilda pomparono un’abbondante dose di Spezia nella sua vasca, per compensare quella che aveva già consumato. Il bagno del lumacone, da giallognolo che era, divenne di un bell’arancione vivo. Gli effetti sulla creatura furono immediati: gli occhi parvero schizzargli dalle orbite, il becco si aprì e richiuse convulsamente. «Yu-huuu! Dovete provarci anche voi, ragazzi!» ululò Frank, dimenando il corpo da girino.

   Il pianeta grigio e piovoso scomparve dallo schermo, come anche gli incursori in avvicinamento. Al suo posto comparve un globo color sabbia, senza particolari segni distintivi. Non c’erano acque superficiali, né foreste, e nemmeno nuvole di vapore acqueo. Vi era solo una distesa arroventata, che andava dal giallo all’arancio, con qualche tocco di bruno nelle zone più rocciose. Una vasta tempesta di sabbia copriva gran parte dell’emisfero meridionale, mentre gli insediamenti erano così piccoli da non essere visibili dallo spazio. Questo era tutto. Tre piccoli satelliti naturali lo contornavano, ma erano rocce informi, del tutto prive d’atmosfera. Così a prima vista poteva sembrare uno dei mondi più poveri e insignificanti dell’Impero, e invece... era la gallina dalle uova d’oro.

   «Casa» si disse Paul, osservandolo rapito. Qualcosa si sommosse in lui, ed ebbe l’inesplicabile certezza che il suo destino sarebbe stato per sempre intrecciato a quello strano mondo.

   «Tutto bene?» chiese il copilota, venendogli a fianco.

   «Sì» rispose il giovane, riscuotendosi dalla contemplazione. «Sento che qui staremo benissimo. Insomma, cosa può andare storto?!» si entusiasmò. Ovviamente erano le ultime parole famose.

 

 

-Commento:

   Come avrete intuito, questo racconto è una parodia di Dune di Frank Herbert. Si basa un po’ sul libro e un po’ sulle due trasposizioni cinematografiche (quella del 1984 e il remake del 2021). Ad essere onesto non sono un grandissimo fan di questa saga, ma dopo la visione del remake mi sono reso conto che si presta benissimo a essere parodiata. Ho deciso di adottare uno stile particolarmente ironico e graffiante; spero che i lettori comprendano l’intento umoristico e non si offendano per certi nomi o per le battute mordaci che i personaggi si scambiano.

   Siccome la storia contiene molti nomi, che naturalmente ho parodiato, ecco uno schema dei nomi originali e della mia versione umoristica, utile a coloro che non hanno familiarità con questa saga.

 

Nomi propri e di famiglia:

Opera originale:

Parodia:

Imperatore Padishah Shaddam IV Corrino

Imperatore Pascià Sofà IV Corrida

Principessa Irulan Corrino

Principessa Iruxol Corrida

Duca Leto Atreides

Duca Letonto Formaldeides

Lady Jessica

Lady Godiva

Paul Atreides, detto Mua’dib

Paul Formaldeides, detto Emo

Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam

Reverenda Madre Gaia Helen Mangiahuom

Thufir Hawat

Tuttfritt Megawatt

Duncan Idaho

Duncan Ohio

Dottor Yueh

Dottor Olé

Barone Vladimir Harkonnen

Barone Vladimir Scarafonnen

Glossu Rabban, detto la Bestia

Rubik Scarafonnen, detto il Bestione

Feyd-Rautha Harkonnen

Frizzata Scarafonnen

Piter de Vries

Piter Porker

Dottor Kynes

Dottor Kinkes

Stilgar

Sticazz

Chani

Cianidrina

Alia Atreides

Aliena Formaldeides

 

Nomi di organizzazioni e rituali:

Opera originale:

Parodia:

Imperium o Landsraad

Impero Analogico

Gilda Spaziale

Gilda Spaziale

Bene Gesserit

Male Gesserit

gom jabbar

gonad chemmal

Sardaukar

Sardonen

Mentat

Dementat o Savant

Fremen

Femen

 

Nomi di pianeti e veicoli:

Opera originale:

Parodia:

Arrakis o Dune

Arrankis o Dune

Kaitain

Can-can

Caladan

Calamar

Giedi Primo

Latrina Primo

Salusa Secundus

Saludos Amigos

Heighliner

Nave Cannolo

Ornitottero

Porcicottero

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


-Capitolo 2:

 

   “La Casa Formaldeides prese il controllo di Arrankis il 69º giorno standard dell’anno 10.191. Si sapeva che gli Scarafonnen, precedenti tiranni di Arrankis, avrebbero lasciato molte trappole dietro di loro. I Formaldeides raddoppiarono la sorveglianza...”.

dal Manuale dell’Emo, della Principessa Iruxol Corrida

 

   Il primo impatto con Dune non fu roseo. All’apertura del portello, l’aria rovente del pianeta entrò nella navicella d’atterraggio e investì i Formaldeides.

   «Porca Gesserit! È un forno!» si lamentò Paul.

   «Che ti aspettavi? Non hai letto i videolibri? Su, andiamo!» disse il Duca, che resisteva stoicamente al clima asfissiante. Scese assieme a Lady Godiva, mentre Paul gli arrancava dietro. Tutt’intorno erano schierate le truppe Formaldeides, in un’imponente dispiegamento di forze. Uomini e donne resistevano sotto il solleone, sudando anche l’anima; solo a Tuttfritt era permesso di tenere un ombrellino da sole, per proteggere il suo prezioso cervello.

   «A palazzo avremo l’aria condizionata, vero?!» gli bisbigliò Paul, quando furono affiancati.

   «Certo... se non s’inceppa l’impianto» rispose il Dementat, poco consolante.

   Fatti pochi passi, i Formaldeides incontrarono il comitato di benvenuto. Paul riconobbe con gioia il buon Duncan Ohio, giunto lì poche settimane prima per preparare il terreno. C’era anche un uomo dalla corta barba grigia, con l’uniforme di un alto funzionario imperiale. Quando gli furono vicini, Paul notò che i suoi occhi erano di un blu intenso. Possibile che fosse un Femen?!

   «Benvenuto, Duca» disse Duncan, eseguendo il saluto militare. «Avete fatto buon viaggio?».

   «Diciamo così» minimizzò Letonto. «Allora, che dicevamo di questo buco infernale?» chiese, guardandosi attorno.

   «Qui ti lavi le chiappe con la sabbia, mio signore» rispose il Maestro d’Armi. «Posso testimoniare che è proprio così. Ma lasciate che vi presenti il dottor Kinkes, ecologo imperiale ed esperto degli usi locali». A queste parole, l’interessato sorrise e fece uno strano gesto di saluto, portandosi la mano alla fronte e poi allargandola.

   «Molto lieto» disse Letonto. «Se non fosse impossibile, direi che siete un Femen...» aggiunse mentre lo osservava.

   «Non lo sono; ma ho vissuto così a lungo su questo pianeta che i miei occhi sono cambiati» rispose il funzionario.

   «Il dottore ha anche sposato una Femen» rivelò Duncan. «Senza la sua mediazione, non avrei potuto incontrare il loro leader Sticazz».

   «Ah, ben fatto!» si congratulò il Duca. «Allora, come si pongono davanti al nostro avvicendamento? Sono amichevoli, ostili, indifferenti...?».

   «Direi incazzati, per come gli Scarafonnen li hanno trattati negli ultimi decenni» rispose Kinkes.

   «Noi non siamo Scarafonnen» chiarì Letonto. «Voglio incontrare questo Sticazz, per mettere in chiaro le cose».

   «Si può fare» disse l’ecologo imperiale, conciliante.

   «Voglio incontrarlo a casa mia» puntualizzò il Duca, accennando al palazzo fortificato verso cui si stavano dirigendo.

   «Ecco, questo sarà più complicato» ammise Kinkes. «I Femen la considerano un po’ la tana del drago, non so se mi spiego. Forse un incontro in campo aperto...» suggerì.

   «No. Incontrerò Sticazz là dentro, e lei lo renderà possibile» ordinò Letonto, in un tono che non ammetteva repliche.

   Il funzionario deglutì. «Come desidera, Eccellenza» disse, con un sorriso più nervoso del precedente.

   «Questi Femen... sono numerosi?» chiese Paul, affiancandosi a Kinkes mentre entravano nel palazzo. L’ombra portò un poco di refrigerio, che crebbe quando il portone si richiuse alle loro spalle.

   «L’Impero non è mai riuscito a censirli» rispose l’ecologo. «Io stesso, pur avendo vissuto tra loro per anni, non saprei dirvi quanti ce ne siano in totale sul pianeta. Credo, però, che il loro numero e la loro forza siano ampiamente sottostimati. Sono un popolo fiero, sapete. Se li prendete nel modo giusto, sanno essere ospitali. Ma non lisciateli contropelo, o diventano delle belve!» avvertì.

   «Senti, senti...» fece Paul.

 

   I primi giorni su Arrankis furono strani. Paul viveva quasi segregato nel palazzo di Arrankeen, la capitale, mentre attorno a lui fervevano i lavori d’insediamento. Dalle finestre e dai camminamenti poteva osservare la città, che a dire il vero gli parve piccola e anonima. Gli unici edifici imponenti erano il palazzo stesso, la raffineria di Spezia e la caserma, tutti pesantemente fortificati. Per il resto c’erano soprattutto case basse, rugginose e polverose. Le loro mura, graffiate dalle tempeste di sabbia, riverberavano sotto il sole cocente. Il centro città apparteneva al personale imperiale, mentre in periferia vivevano alcuni Femen, perlopiù addetti a lavori di manovalanza. Tutto era racchiuso dalle spesse mura cittadine, che tenevano fuori il deserto e – si sperava – i Vermoni. Non c’era alcuna traccia di vegetazione, salvo una ventina di palme terrestri allineate davanti alla facciata del palazzo. In un torrido mezzogiorno, Paul vide un inserviente Femen che le annaffiava, sacrificando le preziose riserve d’acqua. L’uomo bagnava il terreno subito attorno al tronco, accertandosi che nemmeno una goccia andasse sprecata.

   «Ehm, salve, buon uomo!» esordì il giovane, volendo conoscere quegli strani individui. «Che mi dice delle palme... bevono molto?».

   «Ciascuna consuma tanta acqua quanto cinque uomini» rispose solennemente il nativo, raddrizzandosi. «Venti palme... cento anime».

   «E non si può lasciarle seccare? O tagliarle proprio?» chiese Paul, impressionato.

   «No. Anche l’occhio vuole la sua parte» rispose il Femen, e riprese ad annaffiarle senza più badargli.

   «Sembra che avrò molto da imparare» si disse Paul.

 

   Quel giorno stesso, Letonto convocò il figlio nel suo studio. «Ci siamo!» disse con un lampo di trionfo negli occhi. «Duncan e Kinkes hanno combinato un incontro col leader del Femen».

   «Bene» disse Paul.

   «L’incontro avverrà qui da noi».

   «Benissimo».

   «Voglio che te ne occupi tu» disse il Duca, come se niente fosse.

   «Be... be...» balbettò il giovane, che non se lo aspettava.

   «Piantala di belare e ascoltami!» intimò Letonto. «Ti avevo avvertito che avrei cominciato ad affidarti degli incarichi. Bene, questo è il primo: fatti rispettare da Sticazz. Mostrati forte, ma senza minacciarlo. Assicuragli che rispetteremo l’autonomia dei Femen, ma anche che continueremo l’estrazione di Spezia e non tollereremo sabotaggi da parte loro».

   «E se... questo Sticazz si mostrasse ostile?» chiese Paul con un filo di voce. «Se pretendesse delle concessioni da parte nostra?».

   «Ascoltalo, ma non agire impulsivamente. Io assisterò alla scena e se necessario prenderò in mano la situazione» garantì il Duca.

   «Okay» deglutì il giovane. «Allora, quando...».

   «Oggi. Tra un’ora» lo informò Letonto.

   «Groan, mi hai proprio dato il tempo di prepararmi!» borbottò Paul, ma suo padre si stava già occupando d’altro. Vedendolo così teso, tuttavia, il fedele Tuttfritt gli si accostò.

   «Giovane signore, ricordate ciò che avete appreso sui Femen» sussurrò il Dementat. «Hanno un forte senso dell’onore, che in tempo di pace si traduce soprattutto nell’essere sinceri. E valutano l’acqua sopra ogni cosa, tanto che offrire la propria acqua all’interlocutore è il loro saluto e la loro prova di buona volontà. Quando Sticazz sarà davanti a voi, e vi offrirà la propria acqua, ricordatevi di fare altrettanto. Sarà indispensabile per avviare una trattativa proficua».

 

   Di lì a poco Letonto e Paul erano nel salone delle udienze. Il Duca però si teneva in disparte, in un angolo ombroso, lasciando il figlio in prima linea. Solo Tuttfritt restò accanto a Paul, consigliandolo fino all’ultimo momento. Infine il portone si aprì, lasciando entrare Sticazz. Era un ceffo poco raccomandabile, dal faccione pieno di cicatrici incorniciato da una corta barba nera e gli occhi blu tipici del suo popolo. Indossava la famosa tuta distillante dei Femen, con tanto di sondino nel naso per assorbire il vapore acqueo.

   «Beh, eccomi qui!» esordì con un vocione tonante. «Allora, chi comanda?».

   «Io sono il Duca, ma per questa trattativa parlerete con mio figlio» chiarì Letonto.

   «Come volete» disse Sticazz in tono sbrigativo. «Ebbene, giovanotto... ti offro la mia acqua» disse, accostandosi a Paul. Questi si aspettava che l’altro gli consegnasse una borraccia, o al limite staccasse il raccoglitore d’acqua dalla tuta distillante. Invece, dopo essersi riempito ben bene la bocca di saliva, il Femen gli sputò in piena faccia.

   «Porca Gesserit! Che vi prende?!» protestò Paul, paralizzato dalla sorpresa.

   «Come sarebbe? Ti ho offerto la mia acqua, in segno di rispetto!» spiegò Sticazz. «Perché non ricambi il saluto? Devo credere che ci dispregi, come i tuoi predecessori Scarafonnen?!» s’indignò.

   «Certo che no... io vi stimo profondamente!» mormorò il giovane, detergendosi lo sputo.

   «Allora dimostralo! Ricambia il saluto, altrimenti me ne andrò gravemente offeso!» minacciò il Femen.

   «Adesso capisco perché ha voluto che gestissi io la trattativa» pensò Paul, dando un’occhiataccia a suo padre. Questi però non si scompose e rimase a osservarlo. «E va bene... vi offro la mia acqua, in segno di stima per voi e il vostro popolo!» si arrese il giovane. Raccolta la saliva, sputò in faccia al suo ospite. «Possa venirti l’herpes!» gli augurò tra sé.

   Soddisfatto, Sticazz diede finalmente inizio alle trattative. «Allora, giovanotto... sappi che gli Scarafonnen erano dei gran pezzi di merda. Spero che voi sarete meglio, perché altrimenti la mia gente perderà la pazienza. Devi sapere che quando noi Femen perdiamo la pazienza, diventiamo stitici. E quando diventiamo stitici, c’incazziamo come delle belve. Vuoi farci diventare stitici?!» chiese, tornando a scaldarsi.

   «C-certo che no, illustrissimo!» balbettò Paul, intimidito dal suo atteggiamento umorale. «Avete la mia parola che rispetteremo le vostre autonomie locali. Vi riforniremo anche di lassativi!» aggiunse, colto dall’ispirazione. «Tuttavia siamo qui su ordine dell’Imperatore, per gestire l’estrazione di Spezia. Siamo fermamente decisi a rispettare il nostro incarico, poiché in caso contrario tutta l’umanità ne soffrirebbe. Abbiamo giurato di fare il nostro dovere... e lo faremo ad ogni costo!» ribadì, acquistando una certa baldanza.

   «Questo vi fa onore» riconobbe Sticazz. «Bene, vedremo se sarete all’altezza delle vostre promesse. Ora devo andare» disse, facendo cenno di voltarsi.

   «Come, di già?!» si stupì Paul. «Ci sono molti dettagli di cui dovremmo discutere...».

   «Se sono dettagli, non vale la pena discuterne. E poi m’è venuto l’abbiocco» sbadigliò Sticazz.

   Paul si ritrasse, temendo che volesse “onorarlo” con un altro sputo. «Rimanete almeno a cena, così vi renderemo onore...» tentò ancora.

   «L’onore mi richiede altrove» rispose il Femen, inflessibile. «Alla prossima, signori. Ah, un consiglio... state attenti alle mosche cavalline. La loro puntura è fottutamente fastidiosa» raccomandò. Ciò detto, uscì senza aspettare d’essere congedato.

   Incerto, Paul fissò il padre per vederne la reazione.

   «Niente male, come primo approccio» commentò il Duca. «Non preoccuparti per i suoi modi bruschi... la fiducia non si costruisce in un giorno. L’importante è che non ci abbia dichiarato guerra. Per sistemare i dettagli ci saranno altre occasioni» assicurò.

   «Già, e altri sputi!» si disse il giovane, con la sensazione che se li sarebbe beccati tutti lui.

   «Riposati, ora. Domani andremo a ispezionare le Mietitrici» rivelò Letonto.

   «Wow, quindi voleremo sul porcicottero!» si emozionò Paul. «Mi farai guidare?».

   «Non in questa vita, figliolo» rispose il Duca.

 

   Quella sera, dopo cena, Paul si ritirò nella sua camera con l’idea di documentarsi ulteriormente sui Femen. Al suo ingresso trovò una domestica ancora affaccendata nel riordino. Era una donnina piccola, dalla faccia vizza, su cui gli occhi blu spiccavano inquietanti. «I miei rispetti, giovane signore» gracchiò. «Sono Napisan, addetta ai vostri alloggi; la camera sarà pronta a momenti».

   «Non ho fretta» sorrise Paul. «Anzi, è un bene che tu sia qui, perché vorrei chiederti alcune cose sul tuo popolo».

   «Quali cose?» chiese la governante, circospetta.

   «Beh, ad esempio... è vero che tra voi circola la profezia di un Eletto?» chiese Paul, ansioso di verificare quanto la propaganda delle Male Gesserit avesse attecchito.

   «Intendete l’Emo? Sì, così ci hanno tramandato i nostri padri» confermò la donna.

   «E pensate che arriverà a breve?» indagò il giovane.

   «Che sia tra un anno, o cento, o mille, che differenza fa? Prima o poi qualcuno arriverà» rispose la domestica, fatalista.

   «Come lo riconoscerete?».

   «Da molti segni. In primo luogo, egli conoscerà i nostri usi come se fosse nato tra noi, pur provenendo da un mondo lontano» rivelò la donna. «In seguito egli domerà i Vermoni e ci dimostrerà la sua preveggenza».

   «Uhm... e allora che accadrà?» incalzò Paul.

   «Allora non dovremo più nasconderci nelle sabbie, mentre altri sfruttano la ricchezza del nostro mondo» rispose Napisan, con uno sguardo obliquo.

   «Parli di noi Formaldeides?» s’indispettì il figlio del Duca.

   «Parlo di tutti coloro che non comprendono lo spirito di Dune» rispose la domestica. «Questo pianeta ci parla, mio signore... ma pochi ne avvertono il sussurro».

   «Sì, il pianeta parla... come no!» sbuffò Paul, alzando gli occhi al soffitto. «Hai altro da dirmi?».

   «Una sola cosa... tra noi Femen si vocifera che tra voi si celi un traditore» sussurrò la donna, gli occhi blu ridotti a fessure.

   «Un traditore?! E chi sarebbe? Parla, se lo sai!» si agitò il giovane.

   «Io non so nulla... io non ho detto nulla. Buonanotte, mio signore...» fece Napisan. Raccattò la sua attrezzatura e scivolò via come un’ombra.

   Rimasto in compagnia dei suoi dubbi e paure, Paul si mise a letto. Ma poiché era presto per dormire, prese a leggere un libro. Questo era un vero e proprio volume rilegato, con le pagine da sfogliare. Parlava delle usanze dei Femen, in particolare delle loro tute distillanti e delle tende con cui sfidavano la calura diurna. C’era anche un capitolo dedicato alle pericolose tempeste di sabbia che si scatenavano periodicamente, offuscando gran parte del pianeta.

   Assorto com’era nella lettura, Paul non si avvide che un fregio nella porta corazzata dell’alloggio si era aperto, né scorse il Cercatore Assassino che ne era uscito. Il drone aveva la forma e le dimensioni di una piccola siringa. Era in grado di levitare autonomamente e conteneva un veleno letale. Fin lì era stato pilotato da remoto, ma una volta oltrepassato il portone metallico doveva affidarsi al suo sistema di guida automatico, sensibile al movimento. Il minimo spostamento lo avrebbe indotto a colpire, iniettando il suo intruglio letale. Ma il giovane era talmente assorto nella lettura da risultare del tutto immobile. Così il Cercatore aleggiò nella camera per interi minuti, in attesa di quel movimento fatale che lo avrebbe indotto all’attacco.

   «Yawn! Che sonno!» sbadigliò a un tratto Paul. Al tempo stesso posò il libro sulle coperte e si stiracchiò tutto.

   Attivato dal movimento, il Cercatore scattò in avanti, l’ago teso verso il collo della vittima. Ma in quella il giovane si abbassò rapidamente per calzare le pantofole. Non riuscendo a fermarsi in tempo, il Cercatore si conficcò con l’ago nella testata lignea del letto. E lì rimase, ronzando nel tentativo di liberarsi, mentre Paul infilava le scarpe e poi si alzava.

   «Che strano ronzio...» mormorò il giovane, guardandosi attorno. «Allora Sticazz non scherzava, ci sono davvero le mosche cavalline!». Per quanto guardasse, tuttavia, non riconobbe il drone immobilizzato. Così lasciò cadere il problema e si recò in bagno, per fare una doccia e lavarsi i denti. Naturalmente ogni goccia d’acqua era contata su Arrankis, così che anche la doccia aveva una durata pre-impostata; se non ci si sbrigava, si restava insaponati. Persino i getti d’acqua del rubinetto duravano pochi secondi, per evitare che la sbadataggine del fruitore li lasciasse aperti. Anche così, Paul riuscì a sistemarsi e arrivò persino a canticchiare, ignaro del pericolo mortale che lo attendeva nella camera adiacente.

   Finito tutto, il giovane tornò in camera da letto. Il Cercatore Assassino era ancora lì, con l’ago conficcato nella testata. I movimenti di Paul, che tornava a coricarsi e si rimboccava le coperte, lo misero di nuovo in agitazione. Il diabolico congegno oscillò a destra e a sinistra, per quanto glielo consentivano le circostanze, finché riuscì a liberarsi. Subito tornò a levitare a mezz’aria, sondando la camera in cerca di movimenti; ma Paul era tornato a immergersi nella lettura, così che era di nuovo immobile. Presto però avrebbe dovuto girare la pagina, e allora...

   Un movimento catturò l’attenzione del Cercatore. La porta blindata si apriva, qualcuno entrava nella stanza. Rapido e silenzioso come una libellula, il congegno schizzò verso la nuova vittima. Il suo ago proteso era pronto a iniettare il micidiale veleno.

   Ma il Cercatore non era il solo, in quella stanza, a recepire il movimento. Con la coda dell’occhio, Paul avvertì che qualcosa gli volava accanto e si mosse fulmineo. Chiuse di scatto il libro e schiacciò il Cercatore contro la parete, distruggendone i fini meccanismi. La minuscola siringa andò in pezzi e il veleno si disperse, macchiando un po’ il muro e un po’ la copertina del volume. In presenza d’ossigeno atmosferico, il letale composto chimico si degradò in pochi attimi, divenendo innocuo.

   «Ah! T’ho presa, maledetta!» si gloriò Paul.

   «Per il Vermone!» esclamò Napisan, bloccandosi sulla soglia. «Che avete fatto?!».

   «Ho finalmente schiacciato quella dannata mosca cavallina che sentivo ronzare» rispose il giovane, ignaro del rischio appena corso. «Fortuna che Sticazz mi aveva avvertito di queste bestiacce».

   «Ma veramente non mi pare che ne abbiamo...» mormorò la domestica, perplessa.

   «Su, entra!» la invitò Paul, non badando alle ultime parole. «Che ti porta di nuovo qui?».

   «Vi ho portato una tisana, giovane signore» disse Napisan, entrando col vassoio in mano. «Vi aiuterà a dormire... non temete, è semplice camomilla» spiegò, porgendogli la tazza fumante.

   «Ah, grazie!» fece Paul. Prese la tazza e la vuotò in un paio di sorsi. «Mi ci voleva. Domani sarà una gran giornata... sai, andiamo a ispezionare le Mietitrici».

   «State attenti ai Vermoni» raccomandò la domestica, riponendo la tazza sul vassoio.

   «Tranquilla, voleremo ben alti sopra di loro» la rassicurò il giovane. «Sarà la mia prima escursione su Dune... sarà fantastico! Cosa può andare storto?».

 

   «Ebbene?» chiese Letonto, chinandosi a osservare i resti del soldato Scarafonnen.

   «Si è murato in un’alcova del palazzo, invisibile ai nostri sensori, e ha atteso giorni interi prima di colpire» rispose il dottor Olé, che aveva appena ultimato l’autopsia. «Riteniamo che dirigesse un Cercatore Assassino, ma è chiaro che ha fallito il bersaglio. E quando lo abbiamo localizzato, tracciando il segnale radio, s’è avvelenato prima che potessimo immobilizzarlo».

   «Non ci avrebbe detto molto, comunque» commentò Duncan. «Questi killer sono fanatici... ma è il suo equipaggiamento che parla per lui. Questa è tutta tecnologia Scarafonnen!» sbuffò, accennando all’attrezzatura del sicario.

   «Temevo una mossa del genere; si addice al Barone» commentò Letonto con tristezza. Subito dopo, però, si riscosse. «Ispezionate di nuovo il palazzo, nel caso ci fossero altri come lui. Questa adesso è casa nostra... rendetela sicura una volta per tutte!» ordinò seccamente.

   «Sarà fatto, milord» promise Duncan, mettendosi sull’attenti. «Volete cancellare l’ispezione di domani?».

   «No, procederemo come previsto. Non voglio dare ai nostri avversari l’impressione che siamo spaventati e ci nascondiamo. Non gli darò questa soddisfazione!» stabilì il Duca.

   «E vostro figlio... volete che sia informato dell’accaduto?» chiese il Maestro d’Armi, dando un’ultima occhiata ai resti del sicario.

   «No, e nemmeno Godiva. Servirebbe solo a preoccuparli» decise Letonto.

   «Magari starebbero più sul chi vive...» azzardò Duncan.

   «Penso che lo siano già abbastanza» disse il Duca, guardandolo negli occhi. «È un rischio calcolato, vecchio mio. Del resto, tutta l’arte militare lo è».

 

   Era il giorno dell’ispezione. Consumata una robusta colazione, Paul indossò per la prima volta la sua tuta distillante, costruita sul modello di quelle Femen (ma con materiali migliori). Giunto all’hangar, vi trovò suo padre col fedele Duncan. C’era anche il dottor Kinkes, che non vedeva dal giorno dell’insediamento. «Ah, eccoti!» lo accolse Letonto. «Sempre ultimo, eh?».

   «Sono giunto prima dei piloti» rivendicò Paul.

   «Niente piloti; guiderò io stesso il porcicottero!» spiegò il Duca, tutto orgoglioso. «Il dottor Kinkes mi affiancherà. Tu e Duncan starete nei sedili posteriori».

   «I sedili posteriori mi danno la nausea» borbottò Paul, ma il commento si perse nel trambusto generale. Gli addetti stavano rifornendo di carburante il porcicottero, una navicella scolpita nelle nobili forme di un grande suino alato. Sul grugno c’erano due fari; sopra di esso vi era il parabrezza della cabina. Il portello era posto sulla fiancata, mentre il carburante veniva iniettato attraverso il posteriore. Il Duca stava per salire a bordo, quando Kinkes lo fermò.

   «Col vostro permesso, milord, devo controllare che le tute siano in ordine» disse il planetologo. Vedendo che accostava le mani al Duca, le guardie del corpo scattarono in avanti; ma Letonto le fermò con un gesto.

   «Siamo nelle vostre mani, dottore» disse il Duca, sapendo che avrebbe dovuto affidarsi spesso alle sue conoscenze. «E se volete essere così gentile, gradirei anche una completa spiegazione del loro funzionamento».

   «Certamente» disse Kinkes. Prese a ispezionare gli illustri ospiti, a partire dal Duca; gli aggiustò le chiusure sulle spalle mentre sviscerava il funzionamento della tuta. «In sostanza è un tessuto a microstrati, che fanno da filtro ad alta efficienza e da scambiatore di calore. Lo strato a contatto con la pelle è poroso, per consentire la traspirazione. I due strati superiori contengono i tubicini per riciclare l’acqua e i precipitatori per il sale. Alzate le braccia, milord, e inspirate profondamente» invitò.

   Il Duca eseguì, restando in posizione, per consentire allo scienziato di proseguire con le osservazioni. «I movimenti del corpo, uniti all’effetto osmotico, permettono di recuperare l’acqua persa col sudore. Questa circola nei tubicini e finisce nelle tasche di raccolta. Potete succhiarla grazie a questa cannuccia ubicata nel colletto».

   «Vedo... semplice ed efficiente» approvò Letonto, abbassando le braccia.

   «Se vi trovaste in pieno deserto, dovrete inoltre portare questo sondino nel naso. Ovviamente ricordatevi di respirare solo dalle narici» proseguì Kinkes, sollevando il sondino dal colletto e mettendolo in posizione. «Così non perderete più di un ditale d’umidità al giorno, anche se vi smarriste nel Grande Argh» disse, riferendosi al deserto più infuocato del pianeta.

   «Vi ringrazio» disse il Duca, che effettivamente trovava la tuta più comoda, ora che l’esperto gli aveva aggiustato le chiusure.

   «E ora veniamo a voi, giovanotto» disse Kinkes, venendo a ispezionare Paul. La sua fronte si corrugò ed egli indietreggiò di un passo. «Uhm... avete già indossato una di queste tute, prima d’ora?» volle sapere.

   «Questa è la prima volta» rispose Paul, in tutta franchezza.

   «Allora qualcuno l’ha aggiustata per voi?».

   «No».

   «I vostri pantaloni sono infilati in modo da scorrere liberamente sulle caviglie. Chi ve l’ha insegnato?».

   «Nessuno. Mi è semplicemente sembrato il modo giusto» spiegò Paul. Ricordò le parole della vecchia Napisan, riguardo all’Eletto che i Femen aspettavano: «Egli conoscerà i nostri usi come se fosse nato tra noi, pur provenendo da un mondo lontano». Il cuore gli batté forte: possibile che fosse lui?!

   «No, è completamente sbagliato» lo gelò Kinkes. «I pantaloni devono essere infilati negli stivali, o perderete un sacco d’acqua».

   «Oh» fece Paul, deluso, e si affrettò a correggersi. Intanto lo scienziato ispezionò Duncan, aggiustandogli la cinghia sulla fronte. «Possiamo andare» disse infine Kinkes, vedendo che il porcicottero era stato rifornito a dovere.

   I quattro salirono sul velivolo, con Letonto ai comandi. «Vediamo... come si accende quest’affare?» mormorò il Duca, che da un pezzo non pilotava di persona. «Ah, ecco!» ricordò, attivando i comandi in sequenza. Dietro di lui, Paul ripeté a bassa voce la Litania contro la Paura, sentendo di averne bisogno.

   Il porcicottero spiegò le ali simili a pale, che presero a battere sempre più in fretta, fino a diventare pressoché invisibili. Il ronzio salì di tono e il loro rapido movimento sbatté in faccia agli astanti l’onnipresente sabbia. Infine il porcello dorato si levò maestosamente in volo e lasciò l’hangar, innalzandosi nel cielo blu senza nubi.

 

   Lasciata la capitale, Letonto diresse il porcicottero nello sconfinato deserto di Arrankis. Non c’era roccia in quella regione; solo sabbia, fine sabbia arancione a perdita d’occhio. Il vento l’aveva modellata in immense dune a mezzaluna, alte come colline, e continuava a spostarla. «Bene, siamo nel deserto di Argh» disse Kinkes. «Fuori ci sono 80ºC e ce ne saranno ancora di più, quando il sole sarà a picco. Questo è l’ambiente preferito dei Vermoni».

   «Pensa che ne vedremo qualcuno?» s’interessò Paul.

   «Oh, è probabile» annuì lo scienziato. «Dove ci sono i Vermoni, c’è la Spezia. Dove c’è la Spezia, ci sono le Mietitrici. E poiché i Vermoni sono attratti dalle loro vibrazioni, gli attacchi sono frequenti. Ecco, guardate laggiù!» disse, indicando un punto del deserto qualche chilometri avanti.

   Paul si alzò sul sedile, aguzzando la vista, e scorse una nube giallastra a forma di vortice che s’innalzava nel cielo terso.

   «È la sabbia che viene espulsa dopo essere stata centrifugata per estrarne la Spezia» confermò Kinkes. «Nessun’altra nuvola le somiglia. La Mietitrice è là sotto, se riuscite a vederla. Sembra che abbia trovato un giacimento ricco, a giudicare dal colore». In effetti la sabbia al suolo scintillava in modo particolare, come se qualcuno avesse disseminato il deserto di brillantini.

   «Voglio avvicinarmi» disse il Duca, correggendo la rotta. Il porcicottero puntò dritto verso la Mietitrice, che scintillava alla base del mulinello di sabbia. Paul lasciò del tutto il sedile e venne avanti, per vederla meglio. Era un imponente macchinario emisferico, che si muoveva lentamente su numerose zampe meccaniche, ciascuna terminante in una ruota cingolata. Visto così, pareva un gigantesco coleottero che filtrasse la sabbia del deserto. Il sole ne arroventava la corazza bruna, tutta graffiata dalle tempeste di sabbia.

   «Quello cos’è?» chiese Paul, notando un velivolo squadrato che levitava molto più in alto.

   «L’Ala Trasporto» spiegò l’ecologo imperiale. «Controlla che non ci siano segni di Vermoni e al momento del bisogno scende a trarre in salvo la Mietitrice».

   «Ah... e quali sono i segni premonitori?».

   «Precipitandosi contro il bersaglio, i Vermoni creano un’onda di sabbia in superficie. Ma a volte viaggiano troppo in profondità, così che l’onda è invisibile. Per questo l’Ala è provvista di sonde sismiche...».

   «Ehi cervellone, quando dice “onda di sabbia” intende quella?» chiese Duncan, indicando qualcosa in lontananza. I compagni di volo seguirono il suo gesto, notando uno strano rigonfiamento della sabbia. Era una linea dritta che veniva in avanti, con l’estremità increspata. C’erano anche delle scariche d’elettricità statica, che somigliavano a piccoli fulmini; ma questi partivano dalla sabbia e si ramificavano verso il cielo.

   «Diavolo, sì!» confermò Kinkes. «È un Vermone, senza dubbio... ed è anche parecchio grosso».

   «Tanto da minacciare la Mietitrice?» chiese Paul, osservando dubbioso quella montagna di metallo semovente.

   «Tanto da ingoiarla come una pillola, temo» disse lo scienziato. «Sarà meglio avvertire l’equipaggio, posto che non abbiano già rilevato il pericolo».

   «Sì, ma non dica che abbiamo il Duca a bordo» raccomandò Duncan, sempre protettivo verso il suo signore.

   «Intesi» fece Kinkes, attivando la radio a onde corte. «Volo 42 a Mietitrice 9, attenzione! Sono il dottor Kinkes, in giro d’ispezione. Avete un Vermone che vi viene contro, a ore sei!» avvertì.

   «Sei matto? Sono quasi le undici!» gli risposero dalla Mietitrice.

   Lo scienziato alzò gli occhi al cielo. «Intendevo dire che ce l’avete in coda. A questa velocità sarà da voi tra venti minuti al massimo. Se ci tenete alla vita, vedete di sbaraccare!».

   «Okay dottore, stiamo chiamando l’Ala Trasporto» rispose l’addetto alla mietitura. «Grazie dell’avviso, saremo in volo tra pochi minuti. Passo e chiudo».

   «Vede, signor Duca?» fece Kinkes, riaccomodandosi sulla sua poltroncina. «I mietitori lavoreranno fino all’ultimo secondo, per strappare al deserto qualche grammo in più di Spezia. Si goda lo spettacolo».

   La Mietitrice arrancò sulla sabbia alla massima velocità consentita dai suoi cingoli, per guadagnare un poco di tempo. Nel frattempo l’Ala Trasporto assegnatale calò dal cielo. Era una grande piattaforma sorretta da razzi, che si posizionò sopra il veicolo. Cavi d’acciaio furono sparati contro la Mietitrice, agganciandola saldamente ai lati. Ma il peso era tale che nemmeno l’Ala Trasporto, con tutti i suoi propulsori, poteva sollevarla. Così il velivolo aprì degli sportelli sulla sua faccia superiore. Enormi palloni aerostatici cominciarono a gonfiarsi; il gas veniva prodotto sul momento, tramite reazioni chimiche. Servivano quattro palloni, oltre ai razzi, per sollevare il pesantissimo carico. Si gonfiarono l’uno dopo l’altro, a distanza di pochi secondi. Uno... due... tre...

   «Sarà meglio che si sbrighino, quel Vermone è sempre più vicino» commentò Duncan, osservando con apprensione fuori dal finestrino laterale. «A tratti esce dalla sabbia».

   «Dove? Devo vederlo!» si emozionò Paul, lasciando il proprio sedile per osservare assieme al suo mentore. Così facendo, dette inavvertitamente una gomitata a un comando, attivandolo. Sfortuna volle che quella fosse la postazione dell’artigliere e il comando fosse proprio la mitragliatrice. La bocca del porcicottero si aprì, lasciando uscire una smitragliata. Proprio in quel momento il Duca stava manovrando per avere l’Ala Trasporto davanti a sé. Il risultato fu che alcuni proiettili colpirono l’ultimo pallone aerostatico, afflosciandolo. L’Ala Trasporto sbandò, inclinandosi. La Mietitrice, già sollevata di qualche metro, ricadde pesantemente al suolo. Ci fu uno schianto e il metallo si deformò, mentre alcuni bulloni saltavano via. Il veicolo era danneggiato, tanto da non potersi più muovere autonomamente. E in ogni caso fuggire via terra era inutile, perché il Vermone stava arrivando.

   «Cos’è successo?!» chiese Letonto, che essendo concentrato sui comandi non aveva notato la smitragliata.

   «Hanno avuto un incidente, ma...» farfugliò Kinkes, che a sua volta si era perso il fattaccio.

   «L’ultimo pallone era difettoso» disse prontamente Paul. «Senza dubbio si tratta di un sabotaggio degli Scarafonnen».

   «Ah, quei lardosi vigliacchi! Li strozzerei tutti!» proruppe Duncan.

   «Ala Trasporto a Mietitrice, purtroppo siamo impossibilitati a sollevarvi. Dobbiamo tagliare i cavi e riprendere quota». La voce giungeva via radio leggermente distorta, per via delle scariche elettrostatiche emesse dal Vermone in avvicinamento.

   «Ci abbandonate?!» si disperò l’operatore della Mietitrice. «Siamo in ventisei, qua dentro!».

   «Spiacenti, ma non abbiamo scelta. Se ve la cavate, vi offriremo da bere al saloon. Passo e chiudo». L’Ala Trasporto rilasciò i cavi d’acciaio e riprese prontamente quota, con la spinta combinata dei razzi e dei tre palloni superstiti. La Mietitrice restò al suolo, abbandonata al suo destino.

   «Padre, dobbiamo salvarli!» disse Paul, sperando di rimediare al suo errore.

   «Groan... suppongo di sì» convenne Letonto, sintonizzandosi sulla loro frequenza. «Volo 42 a Mietitrice, aprite i boccaporti. Vi prenderemo noi a bordo. Lasciate la Spezia, non c’è tempo di caricarla. È il Duca che ve lo ordina!» aggiunse, rinunciando alla sicurezza dell’anonimato.

   A queste parole, Kinkes lo guardò con rinnovato rispetto. Non era da tutti rinunciare così a qualche milione di solari.

   Il porcicottero atterrò accanto alla Mietitrice, senza interrompere il battito delle ali. Il forte vento spazzò la sabbia tutt’intorno, mentre l’intera duna tremava per l’approssimarsi del Vermone. Allora due portelli blindati si aprirono sulla fiancata della Mietitrice e gli operai corsero fuori. Arrancarono sulla sabbia, verso la salvezza rappresentata dal velivolo. Intanto anche Paul aveva aperto il portello del porcicottero. Il giovane si sporse e si sbracciò, facendo loro segno di sbrigarsi. «Correte, presto! Lasciate tutto e correte!» raccomandò.

   Raggiunto il velivolo, gli operai scivolarono uno dopo l’altro dentro il portello spalancato, sgomitando per guadagnare la salvezza. Paul li aiutò a salire, afferrandoli per le braccia e tirandoli dentro. Fortunatamente il comparto posteriore del porcicottero era abbastanza grande da accogliere tutti, a patto di gettare ogni zavorra, cosa che Duncan fece dal portello sull’altro lato. Man mano che gli uomini salivano a bordo, Paul sentì diffondersi uno strano odore, vagamente simile al cinnamomo. Era il profumo della Spezia grezza, che scintillava sulle loro tute distillanti.

   Il giovane sentì girare la testa. Gli operai attorno a lui divennero macchie indistinte e anche le loro voci gli giunsero stranamente ovattate. D’un tratto ebbe l’impressione di trovarsi in aperto deserto. Il sole era basso all’orizzonte e la brezza sollevava la Spezia, creando un luccichio diffuso. E in quello scintillio da fiaba, ecco apparire la fanciulla dei suoi sogni. Si muoveva lieve sulle dune, sfiorando appena la sabbia. Gli occhi blu oltremare lo fissavano imperscrutabili, mentre le lunghe chiome nere si agitavano al vento. «Paul... ora sei come addormentato, ma le cose cambieranno... il Dormiente deve svegliarsi...» disse con voce musicale.

   «Uhhh, sì... mi garba tanto!» fece Paul, stranamente intontito. Seguì i suoi passi, barcollando come un ubriaco. Tentò persino di afferrarla, ma era come voler ghermire un’ombra.

   «Ma che fa quella testa vuota?! Riportatelo subito qui!» gridò Letonto, da quella che pareva un’enorme distanza.

   «Paul! Ehi, Paul! T’ha dato di volta il cervello?!». Due braccia rudi e robuste afferrarono il giovane e lo trascinarono indietro. Paul cercò di divincolarsi, mentre la misteriosa ragazza svaniva in lontananza, come un miraggio nel deserto. Intanto il suolo sabbioso tremava e un boato crescente annunciava l’arrivo del Vermone.

   «Lasciami... devo capire...» biascicò Paul.

   «Da capire c’è solo che se non decolliamo subito siamo fottuti!» disse la voce, che il giovane riconobbe come quella di Duncan. Poco alla volta Paul si snebbiò e riconobbe il Maestro d’Armi che lo trascinava indietro, verso il portello del porcicottero. Poco più avanti, la traccia del Vermone era diventata un muro di sabbia in avvicinamento. L’aria era satura d’elettricità e del boato del mostro in avvicinamento.

   «Porca Gesserit, quello ci mangia!» imprecò Paul, smettendo di divincolarsi.

   «Oh, ci sei arrivato!» fece Duncan. I due si precipitarono nel velivolo, chiudendosi il portello alle spalle. «Paul è al sicuro, possiamo decollare!» gridò il Maestro d’Armi.

   Il Duca non se lo fece ripetere. Sebbene il porcicottero fosse più appesantito del dovuto, riuscì ad alzarlo in volo e prese quota il più rapidamente possibile. Al tempo stesso si allontanava dalla Mietitrice condannata.

   «Dov’è il Vermone?» chiese Paul, schiacciato contro il finestrino posteriore del velivolo. Il rigonfiamento di sabbia aveva infatti smesso di avvicinarsi, e anzi si livellava come se la creatura non fosse più lì.

   «Mi sa che è sotto la Mietitrice» rispose Kinkes, facendosi largo tra gli operai assiepati. «Continua a guardare... è uno spettacolo che pochi hanno visto».

   La Mietitrice s’inclinò su un lato e prese a sprofondare nel deserto, come se qualcosa la trascinasse sotto. La sabbia aleggiò per centinaia di metri attorno, ma senza offuscare del tutto la scena. Fu così che Paul vide aprirsi una voragine, più grossa della macchina imperiale. Erano le fauci del Vermone, tripartite e irte di denti così affilati da tranciare il metallo. Con un gemito sgradevolissimo, la Mietitrice si accartocciò e scomparve in quel pozzo senza fondo. La sabbia vorticò, i fulmini statici si sprigionarono; poi tutto finì. La voragine si richiuse, lasciando solo sabbia fina, senza alcuna traccia del macchinario. Nessuno che fosse passato in quel momento avrebbe immaginato ciò che era appena accaduto, e la tragedia sfiorata. Solo un sordo “Burp!” proveniente dal sottosuolo tradì la presenza del Vermone che si allontanava a stomaco pieno.

   «Hai visto ciò che i Femen chiamano Shai-Hulud, “Vecchio Incazzoso del Deserto”» disse Kinkes con solennità, rivolto a Paul. «Essi lo temono e lo venerano al tempo stesso».

   «Sempre meglio che corrergli incontro!» sbottò Letonto, infuriato col figlio. «Di’ un po’, che credevi di fare?! Se il buon Duncan non ti avesse acchiappato, a quest’ora saresti nell’intestino del Vecchio Incazzoso!».

   «Io... per alcuni momenti ho avuto l’impressione di trovarmi altrove» confessò Paul, pur non sapendo se questo gli avrebbe giovato. «Mi pareva d’essere all’aperto, lontano dal pericolo...». Anche stavolta non fece parola della misteriosa ragazza.

   «Credo di capire» intervenne Kinkes, in tono comprensivo. «Questi operai hanno le tute sporche di Spezia grezza. Ne avrai respirata un po’, mentre salivano, e ciò ti ha provocato un’allucinazione. Sono cose che capitano» si rivolse al Duca.

   «Noi però stiamo bene» obiettò Letonto. «Perché solo il ragazzo ha sbarellato?».

   «Chi può dirlo? Forse uno sbuffo di Spezia particolarmente intenso... o forse vostro figlio è più sensibile della media...» suggerì lo scienziato.

   «Vabbe’, l’importante è che gli sia passato» borbottò il Duca, rabbonendosi. «A proposito di Spezia, quanta ne abbiamo persa?» chiese al capo-macchina.

   «Ehm, insomma... tutto considerato... direi un paio di quintali» mormorò il poveretto, facendosi piccolo piccolo.

   «Porca Gesserit! Ci si compra una luna, con tutti quei soldi!» sbottò il Duca. «Dovrei decurtarveli dallo stipendio!».

   «Mi sa che servirebbe qualche miliardo di anni per restituire la somma» disse Kinkes, divertito. «Forse dovremmo accontentarci d’esserne usciti tutti sani e salvi».

   «Salvi sì... ma sani?» fece Letonto, scrutando rabbuiato il figlio. Per tutto il resto del viaggio non gli rivolse più la parola.

 

   «Allora, si può sapere che ti è successo là fuori?» chiese Lady Godiva, quando Paul fu di nuovo al sicuro nel palazzo di Arrankeen.

   «Non ti è stato riferito?» chiese il giovane.

   «Sì, ma voglio conoscere l’esatta natura della tua visione» disse sua madre, serissima.

   «Che importa? La gente vede di tutto quand’è sballata...».

   «Tu non sei uno qualunque! Le tue visioni devono avere un senso, uno scopo!» insisté Godiva.

   «Perché, di grazia? Solo perché sono il figlio del Duca?!» insorse Paul, infastidito da quell’interesse morboso. «Ma certo... è perché ti sei messa in testa che io sia l’Emo! E se invece fossi uno qualunque che ha avuto le traveggole?».

   «Questo lascialo giudicare a me. Allora, cos’hai visto?» insisté Godiva.

   Dato che sua madre non cedeva, e che gli ripugnava mentirle, il giovane vuotò il sacco. Riferì per intero la sua visione, compresa la fanciulla misteriosa, e rivelò di averla già vista in sogno, prima ancora di trasferirsi a Dune.

   «Uhm... una visione senza la Spezia, poi corroborata da una con la Spezia... molto insolito» mormorò Godiva, camminando avanti e indietro. «Può essere il segno che hai una predisposizione naturale alle premonizioni».

   «O forse il segno che il melange gli ha rinfocolato i suoi sogni bagnati!» suggerì Letonto, facendo capolino in camera. «Magari dovresti trovarti una ragazza vera, eh? Così la smetterai di sognarle!» suggerì al figlio.

   «E tu mi lasceresti libero di scegliere? Credevo che un Formaldeides dovesse guardare in primo luogo alla convenienza politica!» ribatté il giovane con amarezza.

   «Pensi che non ti permetteremmo di stare con chi vuoi?» chiese Godiva, turbata.

   «Non lo permettete nemmeno a voi stessi. Guarda papà! Lui spera ancora di accalappiare qualche principessa imperiale, altrimenti ti avrebbe sposata!» osò dire Paul.

   «Giovane impertinente!» strepitò il Duca. Arrivò persino a levare la mano contro il figlio, ma all’ultimo si fermò. L’accusa aveva colpito nel segno. Cercò lo sguardo della concubina, ma lei si era allontanata con le lacrime agli occhi. Allora tornò a fronteggiare il figlio.

   «Io... non volevo...» mormorò Paul, temendo d’essersi spinto troppo oltre.

   «No, hai ragione» gracchiò Letonto. Tra la voce arrochita e le spalle curvate dalla stanchezza, per la prima volta sembrò vecchio. «Comunque le tue visioni di una squinzia nel deserto restano una sciocchezza. Cerca di non pensarci più. Tieniti impegnato, allenati con Duncan... qualunque cosa. E mi raccomando, non farti di Spezia! Ti bruceresti il cervello, per quel poco che ne hai!». Con quest’ultima raccomandazione, il Duca lasciò la camera del figlio.

 

   Con passo deciso, Rubik il Bestione entrò nell’infermeria di palazzo. Suo zio, il Barone Scarafonnen, era disteso su una poltroncina dal sedile reclinato, simile a una sedia da dentista. I dottori gli si affollavano attorno, occupandosi dei disturbi della pelle che lo affliggevano. Siccome metà volto del Barone era cosparsa di grosse pustole, piene di un disgustoso pus, gli incaricati si erano armati di siringhe e gliele svuotavano una per una. Loro stessi avevano un aspetto sinistro, pieni com’erano d’impianti cibernetici, sistemati senza alcun riguardo per l’estetica. Il caposquadra, munito di occhi telescopici, stava aspirando il pus da una delle bolle più grosse. «Non temete, mio signore... mi occuperò delle vostre malattie per tutta l’eternità...» disse con voce suadente. Chissà come, la sua promessa non suonò molto incoraggiante.

   «Beh, chi rompe?!» latrò il Barone, notando l’intrusione. «Ah, sei tu, nipotastro! Allora, come vanno i preparativi?».

   «Ultimati, zio!» assicurò Rubik, gonfiando il petto. «Le nostre truppe sono pronte a imbarcarsi sulla Nave Cannolo. Armamenti, munizioni, tute da deserto... ogni cosa è pronta. Abbiamo anche acquisito dall’Impero le foto orbitali aggiornate, che mostrano il dislocamento di forze dei Formaldeides. Li colpiremo di sorpresa, bombardando i loro velivoli prima che possano decollare. Sempre che il nostro uomo disattivi lo scudo come ha promesso» aggiunse, con un pizzico d’apprensione.

   «Lo farà; un uomo disperato è capace di tutto» garantì il Barone. «Bene, puoi procedere con l’imbarco. Andrete dapprima su Saludos, così che i Sardonen si uniscano alle nostre forze, dandoci la certezza della vittoria. E poi... attaccherete!» ordinò, dando un pugno sul bracciolo. I medici si allontanarono un poco, sospendendo gli interventi per dargli modo di parlare più agevolmente col nipote.

   «Fermi tutti!» esclamò Frizzata, il nipote più giovane, entrando in quel momento col suo passo dinoccolato.

   «Che vuoi, deficiente?!» berciò Rubik, irritato da quell’intrusione.

   «Abbiamo un’ospite d’eccezione: prostratevi innanzi alla Reverenda Madre!» disse il giovane in tono teatrale. Si fece da parte, lasciando entrare Gaia Helen Mangiahuom in persona.

   «Tu!» fece il Barone, sobbalzando sulla sedia. «Che ci fai qui?!».

   «Farei volentieri a meno della visita, credimi» rispose la Mala Gesserit. Gli si avvicinò, contemplandolo con aria schifata. «Gli anni non sono stati clementi con te, Vladimir. Diventi sempre più grasso e marcio» constatò.

   «Anche tu non sei quella di un tempo, vecchia baldracca incartapecorita!» rimbeccò lo Scarafonnen. «Lasciateci» ordinò poi ai medici, che furono ben lieti di abbandonare la sala. Solo Rubik e Frizzata rimasero testimoni del confronto.

   «Beh... almeno abbiamo avuto il nostro momento, tanti anni fa!» sogghignò la Reverenda Madre, con un tono lussurioso che fece inorridire persino i nipoti del Barone.

   «Non farmelo ricordare» borbottò lo Scarafonnen, passandosi una mano sul volto. «Allora, a cosa devo questa visita inattesa?».

   «So che stai per colpire i Formaldeides, col beneplacito dell’Imperatore» disse Mangiahuom.

   «E vorresti fermarmi?!» si agitò il Barone.

   «No, gli eventi ormai corrono verso l’inevitabile epilogo» rispose la Mala Gesserit. «Voglio però la tua parola che risparmierete Lady Godiva e suo figlio Paul. Una volta catturati, li consegnerete a me».

   «Non se ne parla!» protestò lo Scarafonnen. «I Formaldeides devono essere sterminati una volta per tutte. Forse potrei lasciarti Godiva... ma il figlio del Duca deve morire. Altrimenti vorrà vendicare il padre, e questa faida continuerà per chissà quanto».

   «Tu non immagini la loro importanza, stupida palla di lardo!» sibilò Mangiahuom.

   «Solo perché hai curato il loro pedigree, nella speranza di creare l’Emo? Non è abbastanza per convincermi!» insisté il Barone. «Non ho alcun interesse per i tuoi giochetti genetici...».

   «Apri bene le orecchie, sacco di merda!» strepitò la Mala Gesserit, venendogli accanto. «Paul è figlio di Godiva, la mia allieva più talentuosa. E sai di chi è figlia Lady Godiva?!».

   «Mi pare... uhm... una certa Tanidia?» fece il grassone, attingendo ai ricordi.

   «Quello era uno pseudonimo che usavo da giovane» rivelò la Reverenda Madre. «Proprio così... Godiva è mia figlia! E indovina un po’ chi è il padre?!».

   Rubik e Frizzata si scambiarono un’occhiata stranita. Quanto al Barone, sembrava voler sprofondare nel seggiolone. «Stai insinuando che...» rantolò, in preda all’asma.

   «Io non insinuo, affermo!» chiarì la Mala Gesserit. «Godiva è nostra figlia. Il che rende Paul nostro nipote».

   «E Letonto sarebbe mio genero!» si lamentò il Barone, passandosi le mani sul volto butterato. «Perché, brutta vipera? Perché me l’hai nascosto per tutti questi anni?!».

   «Avrebbe cambiato i tuoi piani nei riguardi della Casa Formaldeides?» ritorse Mangiahuom.

   «Groan... probabilmente no» ammise il grassone, sconsolato.

   «Un momento... questo significa che Paul Formaldeides è il tuo erede diretto? L’erede di tutti i possedimenti del nostro Casato?!» chiese Rubik, col fiato mozzo.

   «Nessuno deve saperlo!» ringhiò lo Scarafonnen. «Non manderò a monte il grande progetto della mia vita, solo per le parole di questa megera!».

   «Resterà un segreto, se mi consegnerai Godiva e Paul incolumi» garantì la Reverenda Madre. «Farò in modo che vivano al sicuro, ma lontani dal potere e dalle occasioni di vendetta. E tra qualche altra generazione d’incroci, chissà... forse avremo finalmente l’Emo. Ma a quel punto la faccenda sarà in mani altrui».

   «Ancora questo Emo!» sbottò il Barone. «E va bene, vecchia strega. Avrai il ragazzo e sua madre. Ma non farti più vedere, e non chiedermi mai più niente!» avvertì.

   «Mi sta bene» disse la Mala Gesserit. «Addio... caro. Riguardati, non hai una bella cera. Ti lascio il numero del mio chirurgo plastico». Scribacchiò su un post-it, che appiccicò in fronte a Frizzata, e infilò l’uscita, scomparendo tra gli svolazzi della veste nera.

   Muovendosi in sincronia, Rubik e Frizzata si girarono verso il grasso zio e lo fissarono a lungo in silenzio. «Tu... le credi?» mormorò infine il Bestione.

   «Diciamo che non mi stupirei se fosse sincera» precisò lo Scarafonnen. «Le Male Gesserit sono capaci di tutto per portare avanti i loro piani, e quella poi... uhm... se l’aveste vista quarant’anni fa...».

   «Okay, mettiamo che abbia detto il vero» si raccapezzò Rubik. «Questo come cambia i nostri piani?».

   «Non li cambia affatto!» ringhiò il Barone, ritrovando la grinta. «Procederai esattamente come ti ho detto».

   «Salvo per il fatto che Godiva e Paul devono sopravvivere...» mormorò il Bestione, contrariato.

   «Ho promesso che li avrei risparmiati, ma sai com’è... nella furia della battaglia, può sempre capitare un incidente» disse lo zio, con un ghigno diabolico. «Dunque fa’ in modo che gliene capiti uno. La colpa deve ricadere su qualcuno dei nostri militari, diciamo un tenente di reggimento, che in seguito provvederai a giustiziare. E non temere le reazioni della vecchia befana! Se fai come ti ordino, diventeremo così forti che nemmeno le Male Gesserit potranno più nuocerci. La Casa Formaldeides cadrà nella polvere e il monopolio della Spezia sarà nostro per sempre! Muahahahaha!».

   Trascinato dall’entusiasmo, il Barone attivò il sospensore gravitazionale che aveva in cintura. Liberato dal peso del suo corpaccio obeso, fluttuò verso l’alto, come un grosso e lurido palloncino. Così facendo, tuttavia, si sbilanciò e prese a oscillare in modo sempre più marcato. Per un attimo parve sul punto di capovolgersi, tanto che dovette agitare pazzamente gambe e braccia per rimettersi in assetto, mentre emetteva versi inconsulti. Quando riuscì a stabilizzarsi, rise ancora più forte.

   «Attento, zio... ricorda che ti ha detto il cardiologo...» raccomandò Frizzata, un poco apprensivo.

   «Lascia che il vecchio si diverta» gli sussurrò Rubik all’orecchio. «Del resto, se gli capitasse un incidente... beh, gli incidenti accadono, no? L’ha detto lui stesso!» aggiunse in tono complice.

   «Oh, sì!» fece Frizzata, restituendogli un ghigno sinistro.

   I due Scarafonnen rimasero a guardare lo zio che rideva come un ossesso, rimbalzando contro il soffitto e la parte alta delle pareti senza farsi male, grazie alla veste imbottita. Mentre aspettava, Rubik levò di tasca un arnese simile a un inalatore trasparente. Al suo interno c’era una grossa piattola viva, che si muoveva. Il Bestione premette lo stantuffo, spappolandola; poi accostò le labbra al beccuccio e bevve il succo verdastro appena spremuto.

   «Guardate, sono Mary Poppins! Ah-ahahahah!» rise sguaiatamente il Barone. In quella sbatté la testa contro il soffitto. «Ouch! E va bene, mi sono divertito abbastanza» borbottò. Ridusse la potenza del sospensore, abbassandosi gradualmente, come una mongolfiera un po’ sgonfia. In tal modo scese accanto alla sua sedia medica, afferrandola per fermarsi.

   «Tutto questo moto mi ha messo appetito. Chiamate i paggi, che mi portino uno spuntino» ordinò ai nipoti, col respiro un po’ affannoso. «No, anzi, chiamate i paggi e basta. Non ho finito i miei trattamenti ricostituenti... è l’ora della trasfusione. Mi occorre sangue giovane!» rise. Sapeva che, finché rimaneva nei suoi possedimenti, sarebbe sempre rimasto impunito.

 

   L’imbarco delle truppe si svolse senza contrattempi. Pochi giorni dopo, la Nave Cannolo era in orbita presso Saludos Amigos, pronta a imbarcare le truppe d’elite dell’Impero, i sanguinari Sardonen. In qualità di generale delle armate Scarafonnen, Rubik scese presso il centro militare, per incontrare i comandanti di legioni. Prima di sbarcare dalla navicella, il Bestione respirò a fondo e ripassò mentalmente i suoi doveri. Doveva stare attento a non farsi mettere i piedi in testa e chiarire che aveva lui il comando supremo dell’operazione.

   A dispetto del nome, Saludos Amigos era un mondo inospitale. Il suolo era grigio e pietroso, senza un filo d’erba. Basse nubi plumbee velavano il sole, lasciando filtrare solo una tenue luminosità diffusa. In questo panorama ferrigno si ergeva la base militare, racchiusa nelle spesse mura; ma le legioni erano già schierate fuori, pronte a imbarcarsi. Migliaia di Sardonen attendevano inginocchiati, perfettamente immobili. Una pioggia gelida e insistente li sferzava, ma nessuno di loro tremava, nessuno si lamentava. Erano stati temprati per resistere a ben altro. I sacerdoti passavano tra loro, marchiandoli in fronte col sangue dei prigionieri, prima che i caschi celassero del tutto i loro volti rudi. Davanti alle legioni si levava una torretta solitaria, sulla cui cima il cappellano militare recitava un cupo e interminabile mantra.

   «Ehm ehm ba-miil, uhm bara-mill, ehm beregnem, uhm bolognil bol-bol. Baraum gne-gne, ehm til gnu-gnu, im tim el ugnum, eul ehm gne-gne. Bruum cough cough, ehm...» salmodiò il cappellano, con la mano levata in gesto benedicente, sotto lo sguardo attento e fisso dei Sardonen.

   «Notevole» commentò Rubik, accostandosi al comandante di legione. «Devono essere parole potenti, di grande ispirazione per le truppe. Che cosa significano?».

   «Assolutamente nulla. Il cappellano si sta solo schiarendo la voce» spiegò il legato imperiale. «Sapete, qui piove quasi tutto l’anno e non ci danno sciarpe, quindi sono frequenti le infreddature. Tra un attimo comincerà il predicozzo. Finito quello, potremo andare».

   «Benissimo... ma ricordate che il comando dell’operazione è mio!» rivendicò Rubik. «Voi legati dirigerete le vostre legioni, ma farete rapporto a me. È il volere dell’Imperatore».

   «Certo» fece il graduato, condiscendente. «Vostra la responsabilità... vostra la gloria in caso di trionfo... e vostra l’infamia in caso di sconfitta» ammonì.

   «Non ci saranno sconfitte; non stavolta» assicurò lo Scarafonnen, duro in volto. «Abbiamo predisposto ogni cosa, previsto ogni contromossa. La Casa Formaldeides è pronta a cadere».

 

 

-Commento:

   Come i conoscitori di Dune avranno notato, ho deciso di fondere i due istruttori militari di Paul (Duncan Idaho e Gurney Halleck) in un solo personaggio, che ho chiamato Duncan Ohio. Ciò si deve al fatto che la mia parodia è una versione estremamente riassunta della storia, per cui molti personaggi secondari sono fatalmente eliminati, o fusi in uno solo come in questo caso. Del resto Duncan e Gurney avevano già dei ruoli simili (sebbene il primo fosse più amichevole e il secondo più severo, almeno nei film).

   La parentela fra gli Atreides e gli Harkonnen, e in particolare il fatto che il Barone Harkonnen sia padre di Lady Jessica e quindi nonno di Paul, non è presente nel romanzo originale di Dune. Viene rivelata solo nella saga prequel Il preludio a Dune, scritta da Brian Herbert e Kevin J. Anderson sulla traccia degli appunti lasciati da Frank Herbert. Io però ho deciso di esplicitare tale parentela fin da subito, avendo in mente di scrivere un solo racconto-parodia. Del resto, essa contribuisce a spiegare come mai gli Harkonnen non uccidano subito Jessica e Paul.

   Nel romanzo originale Paul riconosceva e fermava il Cercatore Assassino, indovinava da sé il modo giusto d’indossare la tuta distillante, e ovviamente non era la causa dell’incidente alla Mietitrice. Nella mia parodia mi sono divertito a renderlo più goffo, oltre a inserire la gag ricorrente di lui che, pur essendo il figlio del Duca, viene bistrattato da tutti. Ma come viene spesso ripetuto nella storia originale, “il Dormiente deve svegliarsi”; e sarà un brusco risveglio...

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


-Capitolo 3:

 

   “Mio padre, l’Imperatore Pascià Sofà, mi prese un giorno per mano, e io capii che era turbato. Mi condusse nella Galleria dei Ritratti, fino all’egoritratto del Duca Letonto Formaldeides. Notai subito la forte somiglianza tra i due uomini: avevano lo stesso viso aristocratico, dominato dagli stessi occhi ebeti. «Principessa, figlia mia zitellaccia» disse mio padre, «quanto avrei voluto che tu fossi più vecchia, quando quest’uomo cercava moglie! Ti avrei sbolognata a lui, e pace. Invece andrai sposa a qualche cicisbeo debosciato, ahimè! Non posso rendere le grandi Case ancora più potenti, anzi, devo lavorare per indebolirle, o l’Impero Analogico andrà in malora». Ricordo di aver capito in quell’istante quanto mio padre avrebbe desiderato in segreto che il Duca fosse suo genero, e quanto odiasse in realtà le necessità politiche che li rendevano nemici”.

da Nella casa del mio paparino, della Principessa Iruxol Corrida

 

   Il sole era tramontato da un pezzo quando il Duca Letonto riuscì a scrollarsi di dosso i collaboratori che avevano trasformato anche quella cena in una noiosissima riunione di bilancio. Soffocando uno sbadiglio, percorse i cupi corridoi corazzati, a malapena rischiarati da qualche lampada levitante. Non vedeva l’ora di tornare nei suoi alloggi, dove lo attendeva Lady Godiva. Negli ultimi tempi aveva pensato molto al loro legame, mai formalizzato, e aveva preso una decisione. Era arrivato il momento di sposarla, se non altro per fugare ogni dubbio sul suo affetto e sul fatto che Paul fosse il suo successore designato. Magari glielo avrebbe detto quella sera stessa. Certo, un matrimonio in quella specie di bunker nel deserto sarebbe stato assai meno fastoso di ciò che potevano avere su Calamar, ma Letonto era certo che Godiva avrebbe compreso. Almeno l’avrebbe vista di nuovo felice, si augurò; era da tanto che non la vedeva sorridere...

   Fu allora che quasi inciampò in un corpo umano, riverso a terra. Sgomento, afferrò una lampada levitante e l’accostò al volto della vittima. Era Napisan, la governante degli alloggi di suo figlio. L’anziana Femen era stata pugnalata, ma nei suoi occhi blu indugiava una scintilla di vita. Il Duca le sollevò delicatamente la testa, per incoraggiarla a parlare.

   «Il traditore... fuggite, voi e Paul... prima che sia tardi...» rantolò la donna.

   «Siamo in pericolo?!» chiese Letonto. Per lo sgomento mollò la presa, facendole battere la testa sulla dura pietra del pavimento. «Ma chi è stato a colpirti?» chiese, sollevandola di nuovo con premura.

   «Non c’è scampo... paghiamo tutti i peccati della nostra stirpe... che avete fatto agli Scarafonnen?» chiese Napisan con un filo di voce.

   Preso alla sprovvista, il Duca mollò ancora la presa, facendole dare un’altra craniata. «Secoli fa, un mio avo ordinò all’avo degli Scarafonnen di manganellare una folla di rivoltosi che volevano lo streaming gratis» confessò, assorto. «Lo Scarafonnen si rifiutò, considerandolo immorale, e quindi il mio avo lo condannò a dirigere il traffico nell’ora di punta. Da allora, quella stirpe ci ha giurato odio e vendetta. Proprio così, mia buona Napisan... un tempo eravamo noi i fetenti, e ora ne paghiamo il prezzo! Ma non può essere stato uno Scarafonnen a colpirti, devono avere un sicario. Lo hai visto?!» incalzò, sollevandola di nuovo.

   «Ohè, bello mio, piantala di farmi dare craniate, e lasciami schiattare in pace!» bofonchiò la governante. Il suo corpo ricadde, inanimato.

   Il Duca rialzò lo sguardo e intravide una sagoma umana, ferma presso la porta in fondo al corridoio. Fece per rialzarsi, portando la mano alla cintura, per attivare il suo Scudo portatile. Troppo tardi! Un sibilo fendette l’aria e qualcosa lo punse al braccio sinistro, privandolo della sensibilità. Con orrore, Letonto vide il dardo sporgergli dalla manica. Certo era avvelenato... o forse conteneva un potente sedativo, se gli Scarafonnen lo volevano vivo. Con uno sforzo terribile, se lo strappò con l’altra mano e lo gettò via. Sapeva però di non poter fuggire, né chiedere aiuto; infatti l’attimo dopo si accasciò sul pavimento, mentre la paralisi si diffondeva veloce in tutto il corpo. Riuscì a stento ad addossarsi con la schiena contro la parete, per rimanere dritto. La sua vista già appannata ispezionò il corridoio, mentre il traditore si faceva avanti, entrando nella zona illuminata.

   Il dottor Olé osservò dall’alto in basso il Duca che aveva tradito; il suo volto spiccava giallo e duro nella luce della lampada levitante. In mano reggeva ancora la pistola spara-dardi. Dalla stanza dietro di lui non proveniva alcun suono... nessun brusio del generatore di scudi.

   «La informo che ho sabotato i generatori del palazzo» disse il medico con voce secca. «La sua gente è indifesa quanto lei, signor Duca. Le truppe Scarafonnen avranno gioco facile a spazzarvi via. Proprio così... io, e non altri, ho portato la Casa Formaldeides alla rovina!» dichiarò.

   «Perché?!» gemette Letonto. «E poi, come hai fatto a spezzare il Rintronamento Imperiale?» chiese, riferendosi al sofisticato condizionamento mentale che avrebbe dovuto renderlo incapace di tradire.

   «Ci sono cose che vincono anche il Rintronamento» dichiarò Olé. «Vede, il Barone Scarafonnen ha preso mia moglie, la mia povera Wanna. La sta ingozzando di hamburger, coca cola e altre schifezze, per renderla obesa e malaticcia come lui. Capisce che dovevo fare di tutto per salvarla... anche tradire un solenne giuramento e distruggere un nobile casato. Cosa non si fa per amore, vero, signor Duca?» disse malinconico.

   «In effetti...» ammise Letonto. Se gli Scarafonnen avessero ingozzato di porcherie la sua adorata Godiva, sarebbe uscito di senno. «Ma sei stato ingenuo, dottore. Vladimir Scarafonnen è un mostro senza onore: la ricompensa per te e tua moglie sarà la morte, non certo la libertà» avvertì.

   «Sì, è probabile» convenne inaspettatamente Olé. «Ma dovevo provarci. E in ogni caso, mi vendicherò del Barone. Sì, ho un piano per ucciderlo... e così facendo, vendicherò anche voi» rivelò.

   «Tu hai pensato troppo, in quella tua testa bacata» grugnì il Duca, lottando contro l’intorpidimento che si era impossessato di lui. «Se solo ti fossi consultato con me, invece di decidere tutto per conto tuo! Ma è inutile recriminare. Sentiamo, che hai in mente di fare?».

   «Vi trasformerò nella mia arma, mio povero Duca. A me non sarà concesso avvicinarmi al Barone tanto da poterlo attaccare, ma a voi sì. Ecco... è più presto detto che fatto» disse Olé. Deposta la pistola, di cui non aveva più bisogno, estrasse dal camice delle tenaglie da dentista. Si chinò su Letonto, afferrandogli saldamente la bocca e tenendola aperta. Introdusse le tenaglie, afferrò un molare e glielo estrasse. Poi tamponò la perdita di sangue.

   «Ouch! Che combini, pezzo di deficiente?!» biascicò Letonto, sempre più malridotto.

   «Vi ho estratto un dente, e ora ve ne metto uno nuovo al suo posto» spiegò il medico, e passò subito all’azione. Mentre inseriva il dente fittizio, con gli strumenti che si era portato dietro, proseguì con le spiegazioni: «Questo finto dente è una riproduzione così perfetta che le guardie non se ne accorgeranno, durante la perquisizione. Sapete, vi porteranno al cospetto del Barone Scarafonnen... quel porco vorrà gloriarsi della vittoria, prima di mettervi a morte».

   «E se non lo facesse?» mugolò il Duca.

   «Deve farlo!» sibilò Olé, mentre un lampo di follia gli attraversava gli occhi. «Quando il Barone si avvicinerà per infierire, voi sarete legato e istupidito dalle droghe, così da non poterlo assalire. Ma avrete ancora il dente... il dente, ricordate! Quando sarete faccia a faccia con lo Scarafonnen, serrate la mascella. L’involucro del finto dente si romperà, diffondendo un gas letale. Voi morirete, naturalmente; e sarà una morte più rapida di quella che vi riserverebbe il Barone. Ma se, col vostro ultimo respiro, soffierete in faccia a quel porco, state pur certo che morrà anche lui!» garantì. Con poche mosse terminò il suo lavoro, ma rimase faccia a faccia col Duca, in attesa della risposta.

   «E questa sarebbe la tua brillante idea?!» inveì Letonto, paonazzo in volto. «Razza di microcefalo! Il tuo piano è così convoluto che un’infinità di cose possono andare storte!».

   «Avreste dovuto vedere la mia prima idea. Volevo inserirvi una supposta, anziché un dente, di modo che uccideste il Barone con un peto tossico» rivelò il dottore. «Ho cambiato idea quando mi sono accorto che avreste avuto difficoltà a emetterlo a comando».

   «Bontà tua!» ringhiò il Duca. «Okay, poniamo che io riesca ad ammazzare il vecchio Vladimir col mio alito avvelenato. Non credi che gli Scarafonnen superstiti, o i loro servitori, si vendicheranno uccidendo te e Wanna? Avrai distrutto il mio Casato per niente!».

   «Oh già, non ci avevo pensato!» convenne Olé, schioccando le dita. «Beh, ormai è tardi per tornare sui miei passi. Comunque, anche se noi siamo spacciati, sappiate che posso rendervi un ultimo servigio. Salverò vostro figlio e la vostra concubina. Saranno condotti dove nessuno Scarafonnen potrà scovarli... tra coloro che soffrono di stitichezza al solo sentire il nome Scarafonnen».

   «I Femen» comprese Letonto. «Vuoi consegnarli agli scopa-capre... sa il Cielo che gli faranno! Dannato traditore! Prima distruggi la nostra Casa per nulla e poi ti vanti di poter salvare loro due! Se potessi stringerti il collo...» annaspò, ma ricadde contro il muro, totalmente privo di forze. Stava perdendo i sensi.

   «Addio, mio povero Duca» disse Olé, sfilandogli l’anello col sigillo. «Questo andrà a Paul. Per noi è finita, ma almeno avremo la soddisfazione di vendicarci. Dipende tutto da lei, ora. Il dente... si ricordi del dente!» raccomandò, mentre le tenebre avvolgevano Letonto.

 

   Fu la sirena d’allarme a svegliare Paul dal suo sonno inquieto e punteggiato di strani sogni. In pochi attimi il giovane fu in piedi. Vestito lo era già, essendosi coricato così; dovette solo mettersi gli stivali. Poi si fiondò nel corridoio, dove vide i soldati che correvano qua e là, scambiandosi ordini concitati. «Insomma, che succede?!» chiese, intuendo che la situazione era grave.

   «Il generatore di scudo è fuori uso e una Nave Cannolo senza contrassegni è apparsa in orbita» rispose il buon Duncan, fendendo la ressa per venirgli accanto. «Dobbiamo rialzare le difese, prima che...». In quella il palazzo tremò fino alle fondamenta. Un boato risuonò nei corridoi e parecchi uomini caddero a terra, mentre gli altri si reggevano alle pareti.

   «È come temevo, ci bombardano» disse Duncan. «Vieni, ragazzo! Senza lo scudo siamo indifesi, dobbiamo lasciare il palazzo».

   «Non senza i miei genitori!» obiettò Paul. «Dove sono?».

   «I nostri uomini più fedeli li stanno cercando, ma ora tu vieni!» esortò Duncan, prendendolo per un braccio e quasi trascinandolo verso l’hangar.

   «Non capisci, devo trovare almeno mia madre!» insisté Paul, divincolandosi. «In questo periodo è più vulnerabile di quanto pensi».

   «Che intendi?».

   «Lei... aspetta un secondo figlio» rivelò Paul. «Già, avrò un fratellino o una sorellina» aggiunse, ma in quel momento drammatico non riuscì a sorridere.

   «E tu come lo sai?! Non c’è stato alcun annuncio!» si meravigliò il Maestro d’Armi.

   «Dopo l’incidente alla Mietitrice, ho cominciato a sniffare Spezia» rivelò Paul.

   «Tuo padre ti aveva espressamente ordinato di non farlo!».

   «Era necessario per dare un senso alle mie visioni. Negli ultimi giorni il melange ha espanso la mia mente, rendendomi più percettivo, al punto da scoprire il segreto di mia madre. Credo che lei non l’abbia ancora detto a nessuno, nemmeno a mio padre» aggiunse il giovane. Mentre parlava, sfiorò il test di gravidanza che aveva trovato negli alloggi di sua madre e nascosto in tasca. Forse la Spezia lo stava rendendo più percettivo, ma non così tanto. In quel momento, però, voleva impressionare il suo maestro nella speranza d’avere libertà di movimento.

   «Guarda un po’ a che serve la Spezia!» borbottò Duncan. «Beh, percettivo o no, tu sei sotto la mia responsabilità. Non pensare d’allontanarti... ehi!».

   Ignorando i richiami del maestro, Paul si era slanciato verso l’alloggio dei suoi genitori, pensando che li avrebbe trovati entrambi lì. Ma quella zona del palazzo era pesantemente sotto attacco. Fuori, gli incursori dei Sardonen compivano rapidi passaggi, colpendo le torrette difensive e sganciando bombe che squarciavano le massicce pareti. Alcuni porcicotteri atterrarono e si aprirono sul didietro, rilasciando le truppe d’elite imperiali. Altri incursori sorvolavano lo spazioporto, bombardando caccia e navicelle prima che potessero decollare. Le truppe dei Formaldeides erano prese in un inferno di fuoco e proiettili. I soldati attivarono gli Scudi personali, le cui aure splendettero azzurrine; ma si videro lanciare contro sciami di Cercatori Assassini. Quegli arnesi diabolici schizzavano rapidi come proiettili contro il loro obiettivo. Quando lo raggiungevano, prendevano a girare come trottole, variando direzione e velocità, finché riuscivano a perforare lo Scudo, pungendo la vittima coi loro aghi avvelenati. Molti difensori caddero nei primi momenti; gli altri dovettero arretrare, mentre le truppe nemiche guadagnavano terreno. Già la lotta infuriava all’interno del palazzo; una lotta condotta in massima parte con armi da taglio, le sole – oltre ai Cercatori – che perforassero gli Scudi.

   «Paul, aspetta!» gridò Duncan, sfoderando la daga all’apparire dei primi nemici. In quella però ci fu un crollo: parte del corridoio franò sotto i bombardamenti, separandolo dal suo protetto.

   Allarmato dal frastuono, Paul si voltò, in tempo per assistere al crollo. Non sapeva se il suo maestro se l’era cavata e, per quanto gli piangesse il cuore, non aveva modo di accertarsene. Poteva solo andare avanti, oltrepassando gli scontri. Vide le truppe Scarafonnen che guadagnavano terreno, pur con gravi perdite. E notò tra loro i Sardonen che combattevano come furie scatenate.

   «Dobbiamo andar via!» gridò, entrando nell’alloggio dei suoi genitori. «L’Imperatore si è schierato contro di noi, non ci resta molto... tempo...» mormorò, bloccandosi. Suo padre non era lì. Sua madre invece era legata a terra; alcuni soldati Scarafonnen la tenevano sotto tiro. L’avevano anche imbavagliata, per non rischiare di farsi influenzare dalla sua Voce.

   «Di tempo non ve ne resta affatto!» ghignò Rubik, uscendo dalle ombre. «In nome della Casa Scarafonnen, reclamo Arrankis come nostro feudo».

   «L’Imperatore ce lo ha affidato...» mormorò Paul, ma si sentì uno sciocco, dopo ciò che aveva visto nei corridoi.

   «E l’Imperatore se l’è ripreso!» infierì Rubik, ringalluzzito. «Voi Formaldeides siete caduti nella sua trappola. Non cercare tuo padre; è già come morto» avvertì, notando che il giovane si guardava ancora attorno. «Quanto a voi due, la veridica dell’Imperatore vi vuole vivi. Valete molto per lei... più di quanto immaginiate. Ma come tutti sanno, gli incidenti capitano; e il deserto non perdona» aggiunse in tono sinistro. Al suo cenno, due soldati agguantarono Paul, costringendolo a inginocchiarsi. Gli legarono strettamente i polsi dietro alla schiena, come avevano fatto con sua madre; tuttavia tralasciarono d’imbavagliarlo.

   «Preparatevi a un bel viaggetto istruttivo» disse Rubik, sorridendo diabolicamente. «State per osservare un Vermone da vicino... e intendo molto vicino!». Ciò detto scoppiò in una risata grassa, simile a quella di suo zio.

   Madre e figlio si scambiarono uno sguardo affranto, consci che attorno a loro si consumava la rovina della Casa Formaldeides. La loro sorte era stata decisa da altri e non c’era nulla che potessero fare per renderla meno dolorosa.

 

   «Svegliati, vecchio mio. Non vorrai perderti la nostra ultima rimpatriata... né questo banchetto sopraffino! Yum!». Dopo la voce, fu il rumore di ganasce a trarre Letonto dalle nebbie dell’incoscienza. Il Duca sbatté gli occhi, guardandosi attorno, ma la sua vista era ancora appannata dai sedativi. Non riusciva a distinguere bene i lineamenti di coloro che lo attorniavano. Anche così, comprese d’essere nella sala dei banchetti, legato a una sedia posta a capotavola. La tavolata era imbandita con ogni ben di Dio. E all’estremità opposta, adagiata sul seggio ducale, c’era la mole inconfondibile del Barone Scarafonnen. Il grasso strabordava ai lati della sedia, costringendo il Barone a tenersi in equilibrio. Chino in avanti, il ciccione assaggiava una prelibatezza dopo l’altra, guardando saltuariamente di sottecchi il rivale sconfitto.

   «Prego, fa’ come a casa tua» mormorò Letonto. I ricordi dell’ultima chiacchierata con Olé stavano riaffiorando. Rammentò anche il dente avvelenato... la sua ultima, flebile possibilità di vendetta.

   «Infatti sono a casa mia!» puntualizzò il Barone, di buon’umore. «Lo era prima e lo è di nuovo adesso. La tua breve intrusione non ha cambiato un bel niente. Oh, devo ammettere che i tuoi soldati si sono battuti con valore, ma sai... non potevano competere coi Sardonen. Chomp!».

   «L’Imperatore è dalla tua... che follia» mormorò Letonto. «È te che dovrebbe temere, non certo me».

   «Vecchio mio, sarai anche bravo a gestire i tuoi affari, ma lasciatelo dire: di politica imperiale non ne capisci una fava» avvertì lo Scarafonnen.

   In quella si fece avanti il dottor Olé, scortato da due guardie. «Barone, vi ho dato tutto ciò che volevate» disse rigidamente. «Ora tocca a voi darmi quanto promesso».

   «E che ti avevo promesso? Gnam!» fece il Barone, assorto nel suo banchetto.

   «Voi lo sapete bene, Barone» disse il medico, rigido come una statua. «Liberate la mia povera Wanna dal suo tormento, e lasciateci andare insieme».

   «Ah, sì. Slurp!» fece lo Scarafonnen, pulendosi la bocca nel tovagliolo che portava al collo come un bavaglino. «Sempre che voglia essere liberata. Tua moglie è una persona ragionevole, sai... il nostro stile di vita non le dispiace». Schioccò le dita grasse e immediatamente le porte del salone si aprirono. Una donna obesa quanto lui fluttuò in avanti, sospinta da un repulsore.

   «Iiiihhh, caro Vlad! Cosa ci hanno preparato oggi di buono?!» chiese Wanna, con una vocetta stridula che contrastava con la sua stazza.

   «Il banchetto della vittoria, naturalmente!» gongolò il Barone, invitandola ad accomodarsi accanto a sé, su una sedia rinforzata. «Tutta roba ipercalorica, naturalmente... ma a noi piace così, vero?».

   «Sìììì, bombolotto mio!» trillò la cicciona. Grazie al repulsore raggiunse il tavolo e si accomodò, facendo scricchiolare la sedia. Cominciò subito a ingurgitare pancetta e coca-cola, facendo versi da ghiottona, senza degnare di uno sguardo l’ex marito.

   «Wanna! In nome del Cielo, che ti hanno fatto?!» si disperò Olé, vedendola in quello stato.

   «Non lo vedi? L’ho ingozzata fino a renderla come me!» esultò lo Scarafonnen, beandosi della disperazione del dottore. «Non ne poteva più di sottostare alle tue diete ipoglicemiche... ora può abbuffarsi quanto vuole! Non è meglio, mia cara?».

   «Molto meglio, pasticcino mio!» annuì Wanna, sempre mangiando a quattro palmenti.

   «E dimmi, vuoi tornare col tuo anemico marito?» chiese ancora il Barone.

   «Neanche per sogno! Per quanto mi riguarda, può impiccarsi!» dichiarò la cicciona.

   «Sentito, dottore? La tua gallinella preferisce ingrassare sotto il mio tetto!» gongolò lo Scarafonnen, circondandole parzialmente l’ampia vita col braccio. «Ma tu sei libero d’andare, se credi. Sono un uomo di parola».

   «No... no!» gemette Olé, prendendosi la testa fra le mani. «Ho tradito i Formaldeides per questo mostro sbrodolante! Sangue blu in cambio di colesterolo! Povero me! Non voglio più vivere... non voglio più vivere!» si disperò. Crollò a terra, ridotto all’ombra di se stesso.

   «Sarai accontentato» disse il Barone, facendo un cenno alle guardie. «Portatelo via ed essiccatelo per estrarne l’acqua».

   I soldati agguantarono il dottore singhiozzante, sollevandolo per le braccia, e lo trascinarono via dalla sala, lasciando che le sue gambe molli strisciassero sul pavimento. I battenti si chiusero dietro di lui, soffocandone i lamenti; e non fu più visto da occhio umano.

   «Bene, anche questa è risolta» disse il Barone, soddisfatto. «Resti solo tu» aggiunse, dedicando nuovamente la sua attenzione a Letonto. «Quando ti hanno perquisito, i miei uomini non hanno trovato l’anello ducale; dove l’hai nascosto?» inquisì.

   «Il mio anello?» farfugliò il Duca, lottando contro l’intorpidimento dei sedativi. «Non ricordo... sono confuso». In realtà rammentava bene che Olé l’aveva preso, con la promessa di darlo a suo figlio; ma preferiva non accennarne. In effetti voleva sviare la conversazione dai suoi cari, nella speranza che almeno quella parte del piano funzionasse, e loro si salvassero.

   «Beh, possiamo sempre darti una svegliata. I metodi d’interrogatorio non ci mancano» minacciò il Barone.

   «Più che le torture, lo piegherà sapere che la sua concubina e il loro pargolo sono in mano nostra!» disse Porker, il Dementat degli Scarafonnen, facendosi avanti. Dietro di lui c’era, prigioniero, il povero Tuttfritt.

   A quelle parole, Letonto si sentì affossare dalla disperazione. Se avevano Godiva e il ragazzo – come si chiamava, già? – allora tutto era perduto. Sempre che dicessero il vero.

   «Sì, direi che il nostro Duca è a pezzi» commentò il Barone, osservandolo con maligna soddisfazione. «Poverino, diamogli qualche minuto per riprendersi. Intanto dimmi, mio buon Porker: come vanno le cose in città?».

   «Gli ultimi focolai di resistenza sono stati stroncati, mio signore» garantì il Dementat. «Alcuni soldati e guardie dei Formaldeides sono fuggiti nel deserto, ma...».

   «Sono belli che morti» disse lo Scarafonnen, accompagnandosi con un gesto secco. «Il caldo, i Vermoni... quei tagliagole dei Femen... i tuoi uomini avrebbero fatto meglio ad arrendersi, Letonto».

   «Arrenderci non è nella nostra natura» mormorò il Duca.

   «Però lo è farvi sorprendere come dei fessi» infierì il Barone. «Bene, Porker, ordina agli operai di rimettere in funzione le Mietitrici e la raffineria. Dobbiamo recuperare il tempo perso. A quanto credi che ammonteranno i nostri guadagni di quest’anno? No, aspetta... lascia rispondere prima Tuttfritt. Sono curioso di sentire la sua stima» ridacchiò, osservando il Dementat del rivale.

   Tuttfritt esitò, ma poi Letonto lo invitò con lo sguardo a rispondere. Il Dementat sospirò, radunando la concentrazione. I suoi occhi si arrovesciarono all’indietro, mostrando solo il bianco, mentre eseguiva gli intricati calcoli. «Considerando le settimane di lavoro che avete perso, ma anche la Spezia che noi abbiamo estratto negli ultimi giorni, vi attende un guadagno di 69.144.833.450 solari» rispose.

   «Ad essere precisi, 69.144.833.452 solari» puntualizzò Porker, lieto di poter sfoggiare la propria superiorità intellettuale.

   «Hai sentito? Il mio Dementat è più savant del tuo!» gongolò il Barone, rivolto al Duca, come se questo significasse qualcosa. Letonto non rispose e Vladimir smise rapidamente di prestargli attenzione. «Ebbene, mio buon Tuttfritt, malgrado tutto non sei da buttare. Credo che potremmo trovarti un ruolo nella nostra amministrazione, se accetterai di servire i veri padroni di Arrankis» disse lo Scarafonnen, indicando se stesso.

   «Io sono al servizio dei veri signori del pianeta» dichiarò il Dementat, accennando al Duca.

   «Sigh... leale fino in fondo, come un cagnolino addestrato» sospirò lo Scarafonnen. «Bene, ho la punizione adatta a te. Dategli il composto 13!» ordinò.

   Uno dei dottori che seguivano costantemente il malandato Barone si accostò a Tuttfritt e gli iniettò un composto nella carotide, mentre le guardie lo trattenevano a forza. «Che mi avete fatto?!» rantolò il Dementat, quando lo lasciarono.

   «Ti abbiamo iniettato un composto che altererà in modo permanente il tuo organismo, privandoti di un enzima vitale» spiegò il Barone. «Morirai, a meno che tu non assuma quotidianamente il suddetto enzima da un’altra fonte».

   «Quale fonte?» gemette Tuttfritt.

   «Pazienta un minuto, la stanno portando» assicurò il Barone, più sinistro che mai. E infatti, di lì a poco, venne una guardia con una gabbietta. Al suo interno c’era un orribile gattino senza pelo, con grossi occhi gialli e smisurate orecchie triangolari. La pelle rosa e grinzosa lo faceva somigliare a un sorcio troppo cresciuto. Quando vide il Dementat, gli soffiò subito contro.

   «Questo micetto è per te» disse il Barone in tono affettato, facendo segno al suo soldato di consegnare la gabbietta a Tuttfritt. «Succhiando quotidianamente il suo corpicino liscio, avrai l’enzima che ti occorre per sopravvivere. Certo, dovrai stare attento a non farlo arrabbiare... vedessi che artigli ha, e come li usa quand’è arrabbiato...» sogghignò, gustandosi l’espressione inorridita del Dementat.

   «Maledetto depravato! Come ti vengono certe idee?!» insorse Letonto, vedendo la disgrazia toccata al suo uomo di fiducia.

   «Ah, non temere, vecchio mio; non mi sono scordato di te!» garantì lo Scarafonnen. Al suo cenno, il povero Tuttfritt fu portato via col suo nuovo, inseparabile animaletto. Tutti concentrarono la loro attenzione sul Duca prigioniero. «Allora, stavamo parlando del tuo anello ducale; dove l’hai nascosto? L’ha forse preso Olé?» incalzò il Barone.

   «Prima dimmi che ne è di Godiva e di mio figlio!» ringhiò Letonto, ricordando che secondo Porker erano in loro custodia.

   «Se ancora non l’hai capito, le faccio io le domande» rispose seccamente lo Scarafonnen, chinandosi su di lui. «Ma forse è meglio se non perdo tempo con te. Mi si fredderà il pranzo. Lascerò che sia Porker a interrogarti su questo e altri dettagli. A Porker piace piegare i miei prigionieri, sai? Ha piegato Olé, nonostante il Rintronamento; immagina cosa farà a te!» gongolò, e si ritrasse.

   «Aspetta!» ansimò Letonto, temendo di perdere la sua occasione di vendetta. «Te lo dirò, brutto maiale... ma avvicinati, che mi manca la voce» esortò, per essere certo che il gas tossico lo uccidesse.

   Una sagoma indistinta, ma innegabilmente obesa, rientrò nel campo visivo offuscato del Duca. Doveva essere il Barone... era la sua ultima possibilità! Aggrappandosi alla speranza che Godiva e il ragazzo – il cui nome continuava a sfuggirgli – riuscissero in qualche modo a salvarsi, Letonto agì. Serrò la mascella... e non successe niente. La capsula dentale non si era spezzata, come avrebbe dovuto.

   «Dannato Olé! Neanche questa l’ha azzeccata!» pensò il Duca, rilassando le mascelle e poi serrandole di nuovo, nella speranza di rompere il falso dente. Ci provò più e più volte, senza esito. Visto da fuori, sembrava che stesse masticando l’aria.

   «Beh, adesso che fate?» chiese Porker, anche lui vicinissimo a Letonto. «Avete un attacco epilettico? Un infarto? Dovete sputare una cicca? Parlate, per Giove!».

   «Devo sputare questo!» ringhiò il Duca, serrando la mascella con tutte le sue forze, e finalmente riuscì a frantumare la capsula. Sentendo il sapore del gas velenoso che già cominciava a intossicarlo, soffiò in faccia alle due sagome chine su di lui. Quella magra, ovvero Porker, cadde all’indietro in preda alle convulsioni e spirò in pochi attimi. Quella grassa invece incespicò in avanti, così che Letonto riuscì a metterla a fuoco. E allora si avvide che non era Vladimir Scarafonnen, bensì la grassa Wanna, che lo aveva ingannato con la sua mole. Il vero Barone stava già scomparendo nella sala adiacente; aveva compreso il pericolo e fuggiva col suo repulsore. Riuscì a chiudere la porta prima che la nube tossica verdastra lo avvolgesse. Wanna non fu così fortunata: aveva respirato in pieno il veleno e cadde al suolo stecchita, con la bocca ancora piena di ghiottonerie.

   «Porca Gesserit!» si disse Letonto, consapevole di aver sprecato la sua occasione. Ormai tutto dipendeva da suo figlio – chissà come si chiamava! – il che probabilmente significava che tutto era perduto. A meno che Dune non avesse in serbo qualche sorpresa... sì, doveva essere così. I pensieri si sfilacciarono, la fine era imminente. Gli rimaneva un’unica riflessione, un aforisma che aveva letto chissà dove e chissà quando. Non cuocere il capretto nel latte di sua madre. Chissà che significava, e perché gli era tornato in mente proprio ora? Chissà... però gli sembrava stranamente giusto. Morì prima di poter fare ulteriori considerazioni.

 

   Il porcicottero degli Scarafonnen sfrecciava verso il deserto, lasciandosi dietro le volute di fumo che s’innalzavano dalla capitale. A bordo, oltre al pilota, vi erano due sotto-soldati Scarafonnen, che vigilavano gli illustri prigionieri: Lady Godiva e Paul Formaldeides. Gli ostaggi avevano le mani legate dietro alla schiena e giacevano sul pavimento, là dove li avevano gettati al momento dell’imbarco. Godiva era anche imbavagliata, a differenza di Paul, che comunque non aveva nulla da dire. Dopo i tragici eventi di quella notte, il giovane si sentiva svuotato. Ma sapeva che non era ancora finita, anzi, il peggio doveva arrivare.

   A un tratto Godiva ebbe un sussulto. Letonto era morto, ne era certa. Non poteva nemmeno dirlo al figlio, ma le sue lacrime parlarono per lei.

   «Sta’ ferma!» berciò uno dei sotto-soldati, notando il suo movimento. Per rimarcare l’ordine, le dette un calcio.

   «Lasciala stare!» insorse Paul, temendo ciò che calci e percosse potevano farle, adesso che era incinta.

   «Altrimenti?» ghignò il sotto-soldato, guardandolo storto. «Che mi fai, ragazzo? Ma guardati! Ora che non puoi più nasconderti dietro ai tuoi genitori, non sei niente. Il deserto ti cancellerà in un baleno».

   «Peccato che debba cancellare anche la mammina! Me la farei volentieri, prima di buttarla fuoribordo» commentò il collega, che già se la mangiava con gli occhi.

   «Beh, il tempo lo troviamo...» mormorò il primo sotto-soldato, leccandosi le labbra.

   Udendo questo, Paul tremò fino al midollo. Quelle canaglie non sapevano che Godiva era incinta; ma anche se glielo avesse detto, gli avrebbero creduto? Si sarebbero fermati? «Vi ho detto di lasciarla stare!» gridò il giovane, sforzandosi di usare la Voce come gli aveva insegnato sua madre. Era l’unica speranza di salvezza.

   «Fai ancora il galletto, eh? Adesso ti sistemo!» minacciò il sotto-soldato. Si alzò pesantemente dal sedile e venne contro di lui, scrocchiandosi le nocche. Intanto il collega scambiava alcune parole con il pilota.

   Paul comprese che, se anche avesse influenzato l’avversario, non sarebbe riuscito a dargli ordini troppo complessi, o contrari alle sue disposizioni. Ad esempio era da escludere che lo liberasse. Ma se lo avesse indotto a togliere il bavaglio a sua madre, ci avrebbe pensato lei a renderlo inoffensivo. «Toglile il bavaglio» disse, concentrando tutte le sue energie psichiche sulla Voce.

   «Alla strega? Neanche per sogno!» sbottò il sotto-soldato. Afferrò Paul per il bavero, alzandolo brutalmente da terra. Con l’altra mano gli dette un cazzotto, facendogli un occhio nero.

   «Toglile il bavaglio» ripeté Paul, sperando di trovare la giusta intonazione prima che l’altro gli facesse saltare i denti.

   «Come dici?» fece il sotto-soldato, un poco perplesso. Aggrottò la fronte, come chi cerchi di ricordare gli ordini ricevuti. A terra, Godiva guardò trepidante suo figlio, sperando che finalmente l’azzeccasse.

   «Ho detto: toglile-il-bavaglio!» ordinò Paul, infondendo tutta la sua volontà nel comando.

   «Lo farei, ma... ti sei dimenticato la parolina magica» ghignò il sotto-soldato, preparandosi a colpire di nuovo.

   Avvilito dal fallimento, il giovane stava per desistere, quando vide sua madre che gli diceva qualcosa col linguaggio dei segni. Pur avendo le mani legate dietro la schiena, Godiva riuscì a esprimersi col solo movimento delle dita: «Per favore».

   «Per favore!» disse subito Paul, prima che l’altro gli facesse saltare i denti.

   «Mannaggia!» fece il sotto-soldato, sopraffatto. Mollò Paul, che cadde malamente, e andò da Godiva. Prima che il suo commilitone potesse fermarlo, le levò il bavaglio.

   «Fermi!» ordinò la Lady, con tutto il potere di persuasione di un’esperta Mala Gesserit. I militari si bloccarono all’istante, e così anche il pilota. «Tu, slegami» ordinò Godiva a quello che aveva di fronte. Era più calma, ora che sapeva di averli in pugno. Muovendosi come una marionetta, il sotto-soldato obbedì. Appena fu libera dai legacci, la Lady scattò in piedi. Nei suoi occhi c’era un guizzo di sadismo. «Mi desiderate, vero?» chiese in tono mellifluo.

   «Beh, sei bona da morire...» ammise uno dei sotto-soldati.

   «Cerca di capire, non abbiamo una licenza da quand’eravamo reclute, e le soldatesse Scarafonnen sono un obbrobrio...» si lagnò l’altro.

   «Non stento a crederlo» convenne Godiva, osservando le loro testacce rasate da naziskin. «Ma io non sono qui, in piedi davanti a voi; è solo un’illusione della Voce» mentì. «In realtà sono ai comandi del velivolo. Quindi è sul pilota che dovete sfogarvi!» li aizzò, indicando il disgraziato.

   «Ehi, ma porca...!» fece il pilota, vedendosi venir contro i due forsennati. Sguainò il pugnale d’ordinanza, ma fu bloccato e disarmato. Poi i due sotto-soldati lo trascinarono nel comparto posteriore del porcicottero, per fare i loro comodi. Da oltre la porta chiusa vennero fiochi lamenti.

   «Per un po’ staremo tranquilli» disse Godiva. Poi, col pugnale perso dal pilota, tagliò le corde di Paul. «La tua Voce è ancora troppo nasale» lo rampognò.

   Il giovane scattò in piedi come una molla. «Sì, ci sto ancora lavorando» convenne, massaggiandosi l’occhio pesto. «Cos’è successo poco fa, quando hai sussultato?» chiese.

   «Io... ho avuto una percezione» rivelò Godiva a malincuore. «Temo che qualcosa di terribile sia accaduto a tuo padre. Temo che... lo abbiamo perso».

   Paul fissò il pavimento, cupo. «Cercheremo di scoprire come stanno le cose, ma prima dobbiamo metterci in salvo» disse.

   «Sì» si riscosse la Lady. «Dobbiamo tornare su Calamar, anche se non sarà facile imbarcarci clandestinamente su una nave della Gilda. Non so, forse potremmo travestirci da Femen... ma è raro che quella gente abbandoni il pianeta...».

   «Prima dobbiamo sbarazzarci della scorta» borbottò Paul, accennando al comparto posteriore, da cui venivano suoni soffocati. «Però, che strana donna!» commentò uno dei sotto-soldati, ancora obnubilato dalla Voce di Godiva.

   «Ci penso io» disse la Lady, mettendosi ai comandi del porcicottero. «Siediti e allaccia le cinture» consigliò al figlio.

   Quando furono entrambi saldi ai loro posti, Godiva impresse una brusca impennata al velivolo, puntandolo dritto contro il cielo stellato. Nello stesso momento aprì il portello posteriore. «Ho buttato la spazzatura, ora richiudo» disse in tono asciutto. Riportò il porcicottero in assetto e sigillò il portello. Per qualche attimo regnò il silenzio.

   «Non siamo ancora salvi» disse infine Paul. «Questo porcicottero è degli Scarafonnen, per cui ha certamente un tracciatore. Quei maiali sanno dove siamo in ogni momento. Presto si accorgeranno che non seguiamo il piano di volo, e allora c’inseguiranno. Dovremmo abbandonare il velivolo e prenderne un altro, che sia dei nostri, ma... non so come fare» ammise. «Tutti i nostri mezzi erano in città. Ormai sono distrutti o sorvegliati dal nemico».

   «In qualche modo ce ne procureremo uno, ma intanto dobbiamo sopravvivere al deserto» disse Godiva, pallida e tesa. «Di solito i porcicotteri di Arrankis sono equipaggiati con tute distillanti e una tenda. Vai sul retro, a controllare se ci sono».

   Paul si fiondò nel comparto posteriore, dove c’era l’armadietto degli equipaggiamenti. Lo aprì col cuore in gola... e restò deluso. C’erano una tenda da deserto, torce e razzi di segnalazione, una cassetta di medicinali, razioni d’emergenza; ma niente tute. Per un attimo rimase paralizzato dallo sconforto; poi notò una strana cassetta senza contrassegni posata sulla mensola. Muovendosi come in automatico, la prese e la aprì. Conteneva un faro di segnalazione e un breve messaggio vergato su carta. Il giovane cominciò a leggere, e poco ci mancò che stracciasse il foglio.

   «Allora?!» chiese Godiva, quando il figlio rientrò in cabina.

   «Niente tute, solo una tenda e pochi equipaggiamenti» rivelò Paul con voce smorta. «Ma c’era anche questo messaggio, firmato dal dottor Olé. Confessa d’essere stato lui a tradirci, abbassando le difese del palazzo e... catturando mio padre».

   «No!» gemette la Lady.

   «Dice che lo ha fatto nella speranza di salvare sua moglie, ostaggio degli Scarafonnen... povero illuso» commentò il giovane. «Però aggiunge che si è accordato con una persona fidata per salvarci. Ci ha lasciato un segnalatore Formaldeides, per farci rintracciare... e anche questo». Così dicendo, raccolse l’anello ducale di suo padre dal fondo della scatolina. «Bell’aiuto! Se non ci fossimo liberati da soli, questa roba non ci sarebbe stata di alcuna utilità!» borbottò, maledicendo i piani bacati del dottore.

   «Chi sarebbe questa persona di fiducia?» chiese Godiva, ancora scossa.

   «Non l’ha scritto, il bastardo» mugugnò Paul. «Così ora dobbiamo decidere se fidarci ancora di lui, dopo che ci ha traditi. Perché se il segnalatore chiama gli Scarafonnen, anziché questo misterioso alleato, siamo finiti».

   «La decisione è tua... Duca Formaldeides» disse la Lady, con una strana solennità.

   Per Paul fu uno shock sentirsi apostrofare in quel modo. Non aveva ancora metabolizzato la perdita di suo padre, e già doveva succedergli nelle responsabilità. Là fuori c’erano persone che ora avrebbero guardato a lui in cerca di guida. Ma che decisioni poteva mai prendere per il suo Casato, mentre era sperduto nel deserto? La prima cosa da fare era trovare un rifugio sicuro, il che lo riportava al dilemma: fidarsi o no? Le probabilità di rientrare in città e impadronirsi di un porcicottero erano pressoché zero, lo sapeva. Così quella prima scelta gli parve obbligata. Senza una parola, infilò l’anello ducale. Dopo di che prese il segnalatore e lo attivò. «Atterriamo, prendiamo l’equipaggiamento e andiamocene» disse a sua madre. «Dobbiamo allontanarci più che possiamo dal porcicottero, prima che sorga il sole. Poi ci rifugeremo nella tenda e... aspetteremo».

   «E sia» sospirò Godiva, facendo scendere di quota il velivolo.

   «Atterriamo lì» suggerì Paul, accennando a una zona di terreno più compatto delle solite dune. Sostituì sua madre ai comandi, riuscendo a far posare il porcicottero. Il velivolo affondò un poco nel terreno friabile, ma poco male; non intendevano decollare di nuovo. Raccattate tutte le cose utili, lo abbandonarono. Soli e senza tute distillanti, s’inoltrarono nel deserto di Arrankis, territorio dei Vermoni.

 

   Poche ore dopo, madre e figlio erano trincerati nella tenda, mentre fuori il sole si alzava sul mare di dune e la temperatura saliva a livelli intollerabili per il corpo umano. Gli strati multipli di tessuto filtravano la luce accecante, così che dentro la tenda regnava una fioca luminosità arancione. Gli occupanti attendevano immobili, cercando di sonnecchiare per ritemprare le forze; ma nessuno dei due riuscì davvero a prendere sonno. Paul in particolare continuava a rigirarsi, tossendo stranamente.

   «Stai bene, tesoro? Sei disidratato?» si preoccupò Godiva.

   «No – cough – e comunque dobbiamo risparmiare l’acqua» rispose Paul, alzandosi a sedere con le gambe incrociate. I suoi occhi erano arrossati e lacrimavano. «C’è qualcosa di strano. Credo... che ci siamo accampati su un giacimento di Spezia. La sento nell’aria». Così dicendo estrasse la torcia e la mosse all’interno della tenda. C’era un sottile pulviscolo che aleggiava nell’aria. Per la maggior parte era sabbia, intrufolatasi mentre montavano la tenda; ma le piccole particelle arancioni erano senz’altro il melange.

   «Ti sta facendo effetto? Vuoi che ci spostiamo?» s’inquietò Godiva.

   «Non credo che farebbe differenza – cough – a meno di spostarci molto. Cough. E non possiamo farlo a quest’ora, col sole a picco» ansimò Paul. L’attimo dopo, sua madre e la tenda svanirono. Era all’aperto, ora, e c’erano molte altre persone attorno a lui. Guerrieri che si affrontavano con le lame. Chissà come, si trovava catapultato in una battaglia all’ultimo sangue. Stavolta però non si lasciò sopraffare dallo stupore: aveva capito che era un’altra visione indotta dalla Spezia. Non era realmente lì, non stava combattendo. Dunque poteva guardarsi attorno, cercando di capirci qualcosa, senza temere per la propria vita. Ciò che vide, comunque, lo lasciò sgomento. I guerrieri erano Femen e si scagliavano contro le truppe Scarafonnen, invocando il suo nome. Si guardò le mani: erano lorde di sangue.

   «Paul...» sussurrò la misteriosa ragazza che già lo aveva visitato in sogno e in visione. Era di nuovo accanto a lui, e sorrideva... ma anche le sue mani grondavano sangue. Le immagini si susseguirono, sempre più sconvolgenti: esplosioni, mucchi di cadaveri dati alle fiamme, folle di guerrieri che lo acclamavano levando i pugnali.

   «Che ti succede? Cosa vedi?» chiese Godiva, da quella che pareva una distanza abissale. In realtà sua madre era lì accanto a lui. Ma Paul non la vedeva: i suoi occhi sgranati erano pieni d’immagini truculente.

   «Guerra... una guerra santa che divampa come un incendio nell’Universo» mormorò Paul. «È per me che combattono... gridano tutti il mio nome. Orde di fanatici pronti a immolarsi... e anche...». Aggrottò la fronte, mentre le visioni di battaglia lasciavano il posto a qualcosa di ancor più strano e inquietante. In quella che sembrava una sala del trono, sfarzosa di ori, strisciava una creatura mostruosa. Pareva un vermone dalla pelle bruna e coriacea, come quelli di Dune, anche se non così colossale: sarà stato lungo pochi metri. La parte anteriore del corpo però si sollevava, modellandosi grottescamente in un torso e una testa umanoidi. Il cranio calvo si girò verso di lui, fulminandolo con gli occhi sulfurei e spietati. Tutt’intorno risuonava un coro di voci osannanti: «Ave, Letonto II, Imperatore-dio di Dune!».

   Con quell’immagine disturbante, la visione svanì. Paul si ritrovò nella piccola tenda, scosso e tremante, con sua madre che lo abbracciava. «Cos’era l’ultimo presagio?» sussurrò Godiva.

   «Non ne ho idea... preferisco non pensarci» boccheggiò Paul, cercando di calmarsi. Si augurò di non aver nulla a che fare con quella cosa oscena che gli era apparsa.

   «Io non ho avuto alcuna visione. Ormai è chiaro che sei più reattivo di me alla Spezia» osservò Godiva. «Forse sei veramente quello che tutti aspettavamo...».

   «Alt, stop! Non voglio più sentir parlare dell’Emo!» la bloccò Paul, sciogliendosi dall’abbraccio. «Cerchiamo di dormire qualche ora. Al calar del sole, disferemo la tenda e ci allontaneremo ancora».

 

   La notte calò di botto, com’è tipico dei deserti. Appena il sole scomparve dietro l’orizzonte ondulato, la temperatura crollò rapidamente. Allora Paul si accertò che sua madre bevesse un sorso d’acqua riciclata dalla tenda: la condensa infatti scorreva lungo le pareti interne, raccogliendosi in un piccolo contenitore nell’angolo. «Sudore e lacrime» commentò il giovane, offrendo il recipiente a Godiva.

   «Grazie» fece lei, dissetandosi. «Bevi anche tu» raccomandò, prendendo un’altra piccola borraccia. «Questa è riciclata dalle urine».

   «E ti pareva!» fece Paul, ingollando rapidamente il sorso. Dopo di che aprì la tenda, uscendone per primo. Il cielo si scuriva rapidamente, facendo apparire le stelle. C’era anche la grande luna di Arrankis, dalla superficie butterata di crateri. In quella il giovane udì un ronzio, sempre più forte. Era il suono inconfondibile di un porcicottero in avvicinamento.

   «Arrivano» disse Godiva, sbucando a sua volta dalla tenda.

   «Sì... resta da vedere se sono amici o nemici» sospirò Paul, sapendo che nel secondo caso erano spacciati. Si erano salvati una volta, grazie alla Voce; ma non potevano aspettarsi di farla ancora franca allo stesso modo. Stavolta gli Scarafonnen li avrebbero uccisi all’istante, per non correre rischi.

   Il porcicottero atterrò a poca distanza da loro. Paul si era imposto di attendere stoicamente il destino; ma quando le pale gli soffiarono la sabbia in faccia, dovette girarsi tossendo e sfregandosi gli occhi. «Porca Gesserit! Insomma, chi siete?!» boccheggiò, tornando a guardare il velivolo, pur essendo mezzo accecato. Il portello si aprì, lasciando uscire una figura massiccia, come quella dei soldati Scarafonnen. Paul si sfregò ancora gli occhi arrossati, cercando di mettere a fuoco la visione... e riconobbe il buon vecchio Duncan.

   «Paul! Milady!» gridò il Maestro d’Arme, correndo verso di loro. Quando fu davanti al giovane, tuttavia, si bloccò. Aveva visto l’anello ducale sulla sua mano, e questo gli aveva rammentato il proprio dovere. «Mio signore Duca» mormorò, posando a terra un ginocchio.

   «Alzati, amico mio» disse subito Paul. «Sono felice di rivederti... sapevo che nemmeno le bombe degli Scarafonnen potevano bucare la tua pellaccia!». I due si abbracciarono fraternamente.

   «Chi ti ha indicato come rintracciarci? È stato Olé?» chiese Godiva, ricordando il messaggio del dottore.

   «Che? No, è stato lui» disse il Maestro d’Armi, indicando il passeggero che in quel momento scendeva dal porcicottero. Il dottor Kinkes, ecologo imperiale e Arbitro del Cambio, s’inchinò agli ultimi Formaldeides.

 

   «Il povero Olé mi ha avvertito solo all’ultimo momento, capite» spiegò Kinkes, quando furono tutti in volo. «Mi ha affidato gli oggetti da mettere nel vostro porcicottero – vedo che li avete trovati – e mi ha indicato la frequenza con cui rintracciarvi. Subito prima di lasciare la città mi sono imbattuto nel buon Duncan e, ricordando quanto vi fosse fedele, l’ho informato del piano».

   «Le sono grato, dottore» disse Paul. «Confesso che vi credevo leale all’Imperatore».

   «Vent’anni su Dune ti cambiano, figliolo» disse il planetologo, sempre avverso a usare titoli altisonanti. Vedendo i suoi occhi di un blu intenso, a causa della Spezia, Paul non stentò a crederlo.

   «Ma conosceva i piani dell’Imperatore contro di noi? Dica la verità!» ordinò Godiva, usando la Voce sull’onda dell’emozione.

   «Mi era stato ordinato di non interferire, qualunque cosa fosse accaduta, ma non conoscevo i dettagli» spiegò Kinkes. Dalla voce ferma e dallo sguardo sveglio si capiva che era ancora padrone di sé, il che denotava una mente fuori dal comune.

   «Ora però ha interferito, eccome» notò Paul. «E credo che ad Arrankeen noteranno la sua assenza. Che conseguenze si aspetta?».

   «Ho vissuto accanto ai Femen per vent’anni; me lo aspettavo che prima o poi mi sarei trasferito definitivamente tra loro» rispose lo scienziato, con filosofico distacco.

   «È dai Femen che ci sta portando?» chiese ancora Paul.

   «Per il momento siamo diretti a un rifugio dove potremo tirare il fiato» rivelò Kinkes. «Una volta lì, contatteremo i Femen e vedremo se c’è modo d’imbarcarvi su un trasporto con falsi nomi. Vorrete tornare a Calamar, suppongo».

   «Uhm, sì, dovrei...» mormorò Paul, ma i suoi occhi fissavano la distesa di dune.

 

   Una nottata di volo li portò ad una massiccia installazione, a forma di ciambella. Le pareti erano graffiate dalla sabbia, che in parte l’aveva sommersa, a testimoniare il suo stato d’abbandono. Atterrarono nel cortile centrale; da lì si addentrarono nei corridoi bui ed echeggianti.

   «Sapete che posto è questo?» chiese Kinkes, in testa al gruppetto. «È una vecchia stazione ecologica sperimentale. Un progetto per domare il pianeta, liberando l’acqua racchiusa in profondità nel sottosuolo». Così dicendo, guidò i suoi protetti verso i vecchi quartieri abitativi. «Arrankis poteva essere un paradiso. I lavori erano cominciati, ma poi fu scoperta la Spezia, e d’un tratto nessuno voleva che il deserto scomparisse. Così le stazioni come questa sono andate in malora, pfui!» disse, calciando un vecchio barattolo che gli ostruiva il passo.

   «Senti, senti... ed è molta, l’acqua sotterranea?» s’interessò Paul.

   «Tanta da cambiare il volto del pianeta, se si riuscisse a riportarla in superficie» rivelò il planetologo. «C’erano tanti bei progetti... ma è tutto fermo da secoli. Solo un ordine diretto dell’Imperatore potrebbe rimetterli in moto. E finora, nessun Imperatore lo ha dato».

   Paul si appuntò quest’informazione nella memoria, ma non disse niente.

   Di lì a poco il gruppetto giunse in una vasta area comune, che forse anticamente era una serra idroponica. Adesso era una sorta di magazzino, con annesso dormitorio. «Volete il caffè? C’è tutto il necessario per farlo. Alla maniera dei Femen, ovviamente, cioè insaporito con la Spezia» disse Kinkes. Stanchi e assetati com’erano, gli ospiti non si opposero.

 

   Di lì a poco, l’aria secca si riempì dell’odore del caffè caldo e le labbra riarse furono ristorate dalla bevanda. I quattro fuggiaschi sedevano su dei cuscini attorno al bricco del caffè, alla maniera dei Femen.

   «Sapete qual è la cosa che tutte le grandi Case temono di più?» chiese d’un tratto Paul. La domanda era rivolta a Kinkes, ma galleggiò nell’aria come se tutti fossero invitati a rispondere.

   «La dichiarazione dei redditi?» suggerì Duncan.

   «Beh, sì, anche quella» ammise Paul, ricordando come suo padre fosse sempre di umor nero, in quel periodo dell’anno. «Io però intendevo quel che è successo a noi. I Sardonen che arrivano e fanno un macello. I Casati temono che l’Imperatore li elimini uno dopo l’altro. Solo uniti hanno una speranza di vittoria. Gli Scarafonnen resteranno sempre nostri nemici, ma se informassimo tutti gli altri dell’accaduto...».

   «Non vi crederanno» avvertì Kinkes, che si era messo a fumare il narghilè.

   «Neanche se lei testimonierà con noi?» insisté Paul.

   «Testimoniare? E dove?». Il vecchio scienziato tossicchiò, soffiando una nuvola puzzolente in faccia a Paul. «L’Imperatore vi odia, signori miei. Non vi permetterà mai di parlare davanti all’Assemblea delle Case».

   «Ma se riuscissimo – coff! – a informare in qualche modo i Casati...» insisté il giovane, non volendo darsi per vinto.

   «Sarebbe la guerra civile. L’Impero Analogico potrebbe crollare come un castello di carte» avvertì il planetologo. «Per carità, c’è chi dice che è inevitabile. Di certo ci sono altri modi per dirigere la baracca. Però resta il solito problema: sappiamo cosa lasciamo, ma non cosa troviamo. Il prossimo regime potrebbe essere ancora più incasinato di questo. E nel mezzo ci saranno comunque guerra, orrori...». Soffiò di nuovo in faccia a Paul, apparentemente di proposito.

   «Potrei offrire all’Imperatore un’alternativa al caos, coff!» ansimò il giovane.

   «Tipo?».

   «Lo so io!» trillò Godiva, tirando fuori dal cassetto uno dei suoi vecchi piani. «L’Imperatore non ha figli maschi. In compenso ha una caterva di figlie in età da marito. Quella Iruxol, ad esempio, sembra fatta apposta per te...» disse, osservando bramosa il figlio.

   «Milady, la prego! Questo non è fattibile!» insorse Kinkes. «Già adesso l’Imperatore vi vuole morti, al punto da inviare i suoi Sardonen a fare il lavoro sporco. Se pensasse che puntate al trono, non ci sarebbe limite alla sua collera e alla sua rappresaglia».

   «Sigh, niente fiori d’arancio!» sospirò Godiva, vedendo sfumare i suoi sogni.

   «Paul» disse lo scienziato, rivolgendosi al diretto interessato, «voi siete un fuggiasco, un ragazzo sperduto nascosto in un sotterraneo. Per il vostro bene, vi consiglio di mantenere un basso profilo».

   «Uhm, sì» convenne il giovane, fissando il suolo. Nel profondo della sua mente, tuttavia, non poteva evitare di riflettere sulla profezia dell’Emo che serpeggiava tra i Femen. Quella profezia poteva incendiarli facilmente, ora che gli odiati Scarafonnen erano tornati a comandare il pianeta. Ma questo avrebbe portato agli sbudellamenti delle sue visioni; non era quello che voleva, giusto? Giusto?!

   «Duncan, diglielo tu che magari, con una serenata, la principessa Iruxol potrebbe anche... Duncan?!» esclamò Godiva, notando che il fedele difensore non era più al suo fianco. Si era alzato, infatti, e si accostava con passo felpato alla porta.

   «Silenzio» sussurrò il Maestro d’Armi. «Abbiamo visite».

   «I Femen?» chiese Paul, scrutando il dottor Kinkes.

   «Non li ho ancora chiamati» rivelò questi, alzando le mani come per discolparsi. Il bocchino del narghilè cadde a terra.

   «Allora è il nemico» disse Duncan, attivando lo Scudo personale e sguainando la spada. «Sardonen, probabilmente. Devono averci seguiti, nel qual caso è colpa mia... e tocca a me rimediare. Andate, mettetevi in salvo, mentre io li trattengo!» esclamò, levando la lama in segno d’addio. Aprì la porta, che introduceva a un corridoio; e là in fondo c’erano gli invasori. Erano proprio i Sardonen, che venivano con le spade sguainate per finire il lavoro iniziato ad Arrankeen. Si scambiarono alcuni versi gutturali, che forse erano ordini.

   «Duncan, no!» gridò Paul, correndo verso il suo amico e maestro, per impedirgli d’immolarsi. Ma era troppo tardi: Duncan imboccò il corridoio e si richiuse la porta alle spalle. La pesante lastra d’acciaio si sigillò ermeticamente davanti a Paul, che quasi vi sbatté contro.

   «È stato molto coraggioso» riconobbe Godiva.

   «E molto coglione» aggiunse Kinkes. «La porta si può sigillare da questo lato, e i Sardonen ci avrebbero messo un po’ a tagliarla. Nel frattempo noi abbiamo altre vie d’uscita» disse, accennando a una serie di passaggi che permettevano di lasciare agevolmente il salone.

   «Addio, amico mio» disse Paul, posando la mano destra sul portone blindato. Dall’altra parte venivano i suoni soffocati di uno scontro all’ultimo sangue: era chiaro che Duncan avrebbe strappato la vita a molti nemici, in cambio della sua. «Muori proprio come sei vissuto: con un cuor di leone e un cervello di piccione» lo commemorò il giovane, prima di fuggire con gli altri.

 

   Ora che la stazione ecologica era invasa, non restava che abbandonarla. Ma quando i fuggitivi giunsero al cortile interno, dove si trovava il porcicottero, il dottor Kinkes si arrestò. «Non posso seguirvi» disse inaspettatamente.

   «Come, no?!» si stupì Paul.

   «C’è una tempesta di Coriolis in arrivo, e non abbiamo ancora rifornito il porcicottero di carburante. Se saliamo in tre, le nostre possibilità di farcela sono molto basse. In due avrete più speranze» rivelò il vecchio scienziato.

   Paul si sentì un nodo allo stomaco. Si era documentato sulle micidiali tempeste di sabbia che periodicamente flagellavano Dune. Prendevano nome dall’effetto di Coriolis, dovuto alla rotazione del pianeta, che rafforzava i già temibili venti. In assenza sia di grandi catene montuose che facessero da barriera, sia dell’effetto mitigante degli oceani, le tempeste potevano coprire ampie porzioni di Arrankis, anche per intere settimane. «Voi che farete?» chiese al suo benefattore.

   «Oh, non temete per me; so affrontare il deserto alla maniera dei Femen» rispose Kinkes, che indossava la tuta distillante e aveva con sé lo zaino degli equipaggiamenti. «Posso raggiungere il sietch più vicino in pochi giorni di marcia. Quanto a voi, seguite la rotta che ho già inserito nel navigatore e troverete i Femen. Con un po’ di fortuna, ci ritroveremo da loro. Se la tempesta vi coglie a mezz’aria, volate oltre i 5.000 metri» raccomandò.

   «Faremo come dice. Grazie di tutto» disse Paul, sapendo che non c’era tempo per lunghi commiati. Lui e sua madre corsero al porcicottero, decollando a tempo di record. Come Kinkes aveva promesso, la rotta per il sietch era già tracciata; l’unica incognita era la tempesta di sabbia.

   «Reggiti forte» raccomandò Paul a sua madre, dirigendo a tutta birra verso est.

 

   Lasciato in fretta il cortile interno della stazione, Kinkes prese un corridoio sotterraneo, nella speranza di sfuggire ai Sardonen che ormai l’avevano invasa. Riuscì effettivamente a sbucare all’esterno senza fare brutti incontri. Davanti a lui si stendeva lo sconfinato Deserto di Argh. La notte era già finita e il sole arroventava le dune.

   «Bene, diamoci da fare» sospirò l’uomo. Sebbene avesse millantato di poter raggiungere il sietch, per indurre i suoi protetti a lasciarlo, non era così sicuro della sua resistenza. Stava diventando troppo vecchio per affrontare il deserto. Ma c’era un modo per faticare di meno; con un po’ di fortuna poteva scroccare un passaggio.

   Con rapidi gesti, lo scienziato trasse un Martellatore dallo zaino. Quei piccoli congegni erano solitamente usati per depistare i Vermoni. Una volta infissi al suolo, infatti, prendevano a battere con ritmo regolare, attirando qualunque Vermone si trovasse nel raggio di cinquanta chilometri. Nel frattempo i viaggiatori potevano approfittarne per sgattaiolare via. Ma Kinkes non intendeva procedere in quel modo. Una volta azionato il Martellatore, infatti, si discostò di poco e restò in attesa. Aveva estratto due piccozze dallo zaino. Scrutò ansiosamente l’orizzonte, in cerca della traccia di sabbia smossa che rivelava l’avvicinarsi di un Vermone.

   «Kinkes. Proot proot u-duun» disse una voce gutturale alle sue spalle.

   Voltatosi, lo scienziato si trovò davanti un manipolo di Sardonen con le spade sguainate. Sapendo che non poteva tenergli testa, lasciò cadere le piccozze. «Beh, sono parole o scoregge? Parla più chiaro, sennò non ti capisco!» disse al caposquadra.

   «In nome di Sua Maestà Imperiale, siete accusato di tradimento. Verrete con noi per essere giudicato» disse l’interpellato, passando alla lingua standard dell’Impero.

   «Quale tradimento? Io non ho fatto niente di male» obiettò Kinkes, cercando di guadagnare tempo.

   «Le era stato detto di non impicciarsi coi Formaldeides».

   «Infatti non ho visto né sentito nulla».

   «Ma ne ha accolti tre nella sua base!».

   «Davvero? Non avevo idea che fossero qui. Sapete, io non vedo e non sento nulla» ripeté Kinkes, sarcastico.

   «Che spiritoso... credo che anch’io non avrò nulla da riferire, dopo averla giustiziata» minacciò il caposquadra, levando la spada. In quella, però, il suolo prese a tremare tutt’intorno a loro. Sebbene sia lo scienziato che i guerrieri indossassero stivali da deserto, cominciarono ad affondare nella sabbia fine. Un boato profondissimo salì dal sottosuolo.

   «E questo che diavolo è?!» esclamò il caposquadra, lottando vanamente per non sprofondare.

   «Non lo sapete? Ah, ah... siete fottuti, amici miei! Dune è troppo tosto, anche per voi!» rise Kinkes. «Questo è Shai-Hulud, il Vecchio Incazzoso del Deserto; e noi siamo il suo snack».

   «Lo hai attirato, vecchio folle? Perché?!» inveì il Sardonen, notando il Martellatore poco lontano.

   «Volevo cavalcarlo» fu la sorprendente risposta.

   Ormai il gruppetto si trovava al centro di una profonda depressione nella sabbia. Da un momento all’altro il Vermone avrebbe spalancato le fauci, e allora vi sarebbero tutti sprofondati.

   «Ma non dovrebbe strisciare appena sotto la sabbia, così da avvistarlo per tempo?!» gemette il Sardonen, cercando inutilmente di lasciare l’inghiottitoio.

   «Di solito fanno così» confermò lo scienziato. «Ma a volte questi bastardi vanno in profondità per poi sbucare dal basso, e allora... buon appetito!».

   L’inghiottitoio divenne una voragine, irta di denti acuminati come pugnali. Il Vermone era lì, ed era affamato. Menù del giorno: Sardonen misti con contorno di planetologo, il tutto annaffiato con qualche tonnellata di sabbia fine. Gnam!

 

   Il porcicottero di Kinkes sfrecciava sopra le dune, pilotato da Paul, che seguiva la rotta preimpostata per il sietch. Accanto a lui, sua madre era silenziosa; pareva immersa nei ricordi. La stazione ecologica era ormai lontana, ma i pericoli non erano terminati.

   «La tempesta è avanti a noi. Col poco carburante che ci resta, non posso aggirarla» disse a un tratto Paul, indicando il muro di sabbia che s’ingrandiva all’orizzonte.

   «Sali ad alta quota, come ha detto Kinkes» raccomandò Godiva. «Ho sentito che in queste tempeste i granelli di sabbia sono veloci come proiettili. I frammenti più grandi potrebbero bucarci la carlinga, se non saliamo abbastanza».

   «Groan, c’è qualcosa in questo pianeta che non sia congegnato per ucciderci?!» si lamentò Paul, prendendo quota. In quella, però, il radar emise un segnale d’allarme.

   «Tre porcicotteri militari dietro di noi» avvertì Godiva, consultando gli strumenti. «Sono gli Scarafonnen... e stanno accorciando le distanze».

   «Di bene in meglio!» inveì Paul. «Se sorvoliamo la tempesta, arriveranno a distanza di tiro e ci abbatteranno. Non posso nemmeno rispondere al fuoco: questo porcicottero era di Kinkes, non è armato».

   «Allora c’è una sola cosa da fare» disse Godiva, guardandolo con aria tirata.

   «Già» borbottò Paul, regolando le ali battenti in modo che il velivolo assumesse una configurazione più compatta. «Che il Cielo ce la mandi buona» augurò, e si tuffò nella tempesta. La sabbia, sparata a velocità ultrasonica, cominciò a graffiare il vetro dell’abitacolo.

   «Intendevo fingere la resa e poi usare la Voce» mormorò Godiva, aggrappandosi ai braccioli della poltroncina mentre le vibrazioni aumentavano.

   «Oh, non ci ho pensato!» ammise il giovane, guardandosi attorno con apprensione. «Beh, è tardi per cambiar piano. Spero che gli Scarafonnen abbiano più buon senso di me, e non mi seguano in questo frullatore».

   Dietro di loro, i porcicotteri nemici lanciarono un missile ciascuno. Dopo di che fecero dietrofront, ritirandosi alla massima velocità, nel tentativo di sfuggire ai venti letali.

   «Missili in coda, impatto imminente!» avvertì Godiva. «Sai, figliolo... è una faticaccia allevarti» confessò.

   «Te la cavi bene» rispose Paul, con un mezzo sorriso. Dopo di che tornò a concentrarsi sul problema. «Sono missili a guida infrarossa, vanno dietro al calore. Spegnerò tutto, lasciando che sia il vento a trasportarci».

   «Non ci sfracelleremo al suolo?» s’inquietò Godiva.

   «Anche questo è possibile» convenne Paul, ma non c’erano alternative. Spense il motore e lasciò che la tempesta li trascinasse come una foglia secca. Dietro di loro, i missili persero l’aggancio. Per un po’ vagarono anch’essi trascinati dal vento, accendendosi sporadicamente per inseguire qualche pietruzza arroventata dal sole o dall’attrito. Infine, crivellati dalle schegge rocciose, esplosero uno dopo l’altro.

   «E tre!» gongolò Paul, notando l’ultima esplosione.

   «Riaccendi il motore, presto» lo esortò Godiva.

   «No» disse inaspettatamente il giovane. Con sommo stupore di sua madre, lasciò andare i comandi. «Da quando sono qui, ho familiarizzato con la filosofia dei Femen. Loro credono che, quando le cose si fanno difficili, non si debba lottare contro gli eventi. Piuttosto bisogna lasciarsi trasportare dal flusso della vita... unirsi a esso... fluire con esso. Non lotterò contro la tempesta di sabbia; lascerò che ci trasporti dove vuole».

   «Sei molto saggio, figlio mio» riconobbe Godiva, guardandolo ammirata. «Va bene, faremo a modo tuo». E si mise a recitare la Litania contro la Paura.

   Dal canto suo, Paul si guardò bene dal dirle che quel discorso filosofico serviva solo a celare il fatto che il motore non si riaccendeva più. Forse era colpa della sabbia, che aveva ingolfato gli ugelli. Così il porcicottero continuò ad essere trascinato, come una pagliuzza in un uragano.

 

   In piedi davanti alla vasca, Rubik spostava nervosamente il peso da un piede all’altro. Non era abituato ad essere latore dei propri fallimenti, e non sapeva come il tremendo parente avrebbe reagito. A peggiorare le cose, lo zio Vlad non stava tanto bene. Da quando era sfuggito per un soffio all’attentato col gas velenoso, si stava ancora curando i polmoni. Questo richiedeva frequenti immersioni nella vasca, colma di un liquido scuro e puzzolente. Rubik non voleva neanche sapere cosa fosse. Alzò lo sguardo a uno dei medici in camice bianco, che versava altro liquame da una brocca.

   «La sua guarigione non è completa, ma il Barone vi ascolta» disse il dottore.

   Fattosi coraggio, il Bestione si schiarì la voce. «Mio Barone, abbiamo rintracciato Paul e Godiva. Si nascondevano in una vecchia stazione ecologica, aiutati nientemeno che dal dottor Kinkes, l’ecologo imperiale. C’era anche il Maestro d’Armi, quel Duncan Ohio. I Sardonen se ne sono occupati».

   Dalla vasca salirono alcune bollicine, ma il Barone rimase acquattato. Era impossibile indovinare il suo umore. Rubik prese fiato e continuò il rapporto: «Paul e sua madre sono fuggiti col velivolo dello scienziato. Li ho inseguiti personalmente col mio squadrone, finché si sono tuffati in una tempesta di Coriolis. Venti a 800 km l’ora... niente poteva sopravvivere. Di certo sono morti».

   Le bolle aumentarono e il Barone emerse finalmente dal suo bagno purgante. Il liquido, qualunque cosa fosse, gli aderiva alla pelle come una melma schifosa. «Allora è fatta» disse con voce roca.

   Udendo questo, Rubik tirò un sospiro di sollievo. Il vecchio mostro non ce l’aveva con lui, dopotutto.

   «Comunica a Latrina Primo di vendere le nostre riserve di Spezia, un poco alla volta. Non vogliamo che il prezzo crolli» proseguì il Barone. «Sapessi quanto m’è costata quest’operazione... maledetta Gilda Spaziale! Ogni viaggio è un salasso. Ora che la situazione è sotto controllo, ho un’unica esigenza: rifarmi delle spese. Così anche quest’anno potrò mandare il pacco di Natale ai nostri dipendenti, e loro non pianteranno grane».

   «Ci penserò io, zio... se mi farai governatore di Arrankis» disse Rubik, sperando nella conferma del titolo. Era anche un modo, informale ma piuttosto affidabile, per spianarsi la strada alla successione della baronia. Quel demente di Frizzata non avrebbe ereditato un bel nulla.

   «Sì, nipote, fin qui ti sei mosso bene... la nomina è tua» confermò lo Scarafonnen. «E Frizzata sarà il tuo vice» aggiunse, spegnendo subito il suo entusiasmo.

   «Grrrazie, zio, vedrai che andremo d’amore e d’accordo!» fece il Bestione, livido in volto.

   «Certo, come avete sempre fatto!» ridacchiò il Barone, ma poi tornò serio. «Il vostro compito è semplice: spremete Dune fino al midollo. La Spezia deve scorrere!» recitò. Era il motto della Gilda, fatto proprio da tutte le dinastie che, nel corso dei secoli, si erano alternate nell’amministrazione di Arrankis.

   «E riguardo ai Femen? Il nostro ritorno li ha messi in agitazione...» mormorò Rubik, un poco inquieto. Già in passato i nativi avevano ostacolato l’estrazione del melange, con i loro attacchi mordi e fuggi.

   «Se ci rompono ancora le balle, fa’ piazza pulita. Solo le pulci del deserto li rimpiangeranno!» sentenziò lo Scarafonnen, sempre rauco. Dopo di che tornò a immergersi completamente nel suo bagno fetido.

 

 

-Commento:

   Questo capitolo risulta meno comico dei precedenti, dato che siamo giunti alla parte più drammatica della storia, ovvero la caduta della Casa Atreides, con la morte del Duca Leto e di altri individui fidati (quali Duncan e Kynes). Ho cercato comunque di sdrammatizzare quando possibile.

   Nella storia originale, il dottor Yueh tradisce gli Atreides nella speranza di riavere sua moglie, ostaggio degli Harkonnen. Al tempo stesso, però, cerca di assassinare il Barone con l’espediente del dente tossico, e si preoccupa di aiutare Paul e Jessica. Ho sempre avuto l’impressione che questi piani s’intralcino a vicenda, poiché se l’omicidio del Barone Harkonnen fosse andato a buon fine, i suoi fedeli si sarebbero comunque vendicati sui prigionieri (compresi Yueh e sua moglie). Inoltre Paul e Jessica hanno comunque dovuto salvarsi da soli. Quindi mi è venuto spontaneo, nella parodia, immaginare che Olé avesse fatto male i suoi conti.

   Morto il Duca, Paul e sua madre sono protagonisti di una lunga e rocambolesca fuga nel deserto. Per questa parte mi sono ispirato più al remake del 2021 che non alla versione del 1984, dato che la fuga dei due vi è mostrata in modo più dettagliato. Ho comunque descritto Kynes come un uomo (anziché una donna, com’è nel remake), perché tale è nel romanzo originale di Herbert.

   Ho approfittato della visita alla stazione ecologica in rovina per accennare al fatto che Dune possiede grandi riserve d’acqua sotterranee, che potrebbero essere usate per terraformarlo (come accade più avanti nei romanzi, e come s’intravedeva alla fine del vecchio film). Quanto alla visione della “guerra santa” che Paul ha mentre si trova in tenda, mi sono basato sul nuovo film, aggiungendoci però uno sprazzo di Leto II, l’Imperatore-dio di Dune, che compare più avanti nei romanzi.

   Il capitolo termina con quello che sembra il trionfo degli Scarafonnen, di nuovo padroni del pianeta e determinati più che mai a sfruttarlo. Ma come in ogni storia d’avventura che si rispetti, questo è il momento in cui gli eroi si rimboccano le maniche per risollevarsi dalla polvere... o in questo caso, dalla sabbia.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


-Capitolo 4:

 

   “Mio padre, l’Imperatore Pascià Sofà, aveva settantadue anni – ma era ancora arzillo, grazie alla Spezia – quando meditò la morte del Duca Letonto e il ritorno degli Scarafonnen su Arrankis. Raramente compariva in pubblico indossando qualcosa di diverso da un’uniforme dei Sardonen e un elmetto da Sturmtruppen. Così ricordava a tutti la fonte del suo potere. Non era sempre così urtante: quando voleva, era un gran compagnone. Ma ad anni di distanza, comprendo che fosse un uomo perennemente in lotta contro le sbarre di una gabbia invisibile. Non dimenticate che era Imperatore, capo di una dinastia le cui origini si perdevano nel tempo; e le sue eredi, per dirla con parole sue, erano «un branco di stupide oche». Non è questa la peggior sconfitta che possa subire un capo?”.

da Nella casa del mio paparino, della Principessa Iruxol Corrida

 

   “L’Emo poteva davvero vedere il futuro, ma il suo potere aveva dei limiti. Pensate alla vista: voi avete gli occhi, ma non potete vedere senza luce o dietro a un ostacolo. Allo stesso modo, l’Emo non poteva scrutare sempre nel misterioso territorio dell’avvenire. Egli ci dice che una singola decisione profetica, forse la scelta dei calzini, potrebbe cambiare l’intero futuro […].

   Profezia e preveggenza: com’è possibile provarne la verità? Considera: in quale misura la visione è profetica, e quanto invece il profeta contribuisce a plasmare il futuro perché si adatti alla sua visione? Il profeta vede chiaramente l’avvenire, oppure una linea di frattura, una crepa, un difetto che lui potrebbe spezzare con le decisioni o le parole, come un intagliatore spezza una gemma con un colpo di scalpello? Quando glielo chiedevo, l’Emo rispondeva così: «Non ci ho mai capito una cippa»”.

da Chiacchiere con l’Emo, della Principessa Iruxol Corrida

 

   Districandosi tra i rottami del porcicottero, Paul e Godiva uscirono alla luce abbagliante del sole. Neanche loro avrebbero saputo dire com’erano sopravvissuti, venendo sbatacchiati per ore dalla tempesta di sabbia. Quando finalmente ne erano usciti, il velivolo danneggiato aveva cominciato a precipitare. Solo all’ultimo momento Paul era riuscito a riattivare il motore, probabilmente perché la caduta aveva soffiato via la sabbia che intasava gli ugelli. Non era abbastanza per riprendere quota, così il giovane aveva dovuto eseguire un atterraggio d’emergenza, praticamente una caduta controllata. Avevano urtato il fianco di una duna e da lì erano scivolati, perdendo velocità, finché il porcicottero si era arrestato in una depressione. Paul aveva dovuto sfondare dall’interno il vetro, già ridotto a un colabrodo, per uscire.

   «Stai bene?» chiese il giovane, aiutando sua madre a venir fuori dall’abitacolo.

   «Ho la nausea, ma sì, sono tutta intera» rispose lei. «Che caldo!».

   «Dobbiamo indossare al più presto le tute distillanti» annuì Paul. A differenza del precedente trasporto, il porcicottero del dottor Kinkes ne era provvisto; e lui le aveva già infilate nello zaino. «Ma è ancora più urgente allontanarci. Questo rottame potrebbe esplodere da un momento all’altro» avvertì. Si assicurò bene in spalla lo zaino e saltò giù dal velivolo, atterrando sulla sabbia.

   «Siamo nel territorio dei Vermoni» avvertì Godiva, guardandosi attorno con apprensione. Lasciò che il figlio l’aiutasse a scendere a terra.

   «I nostri amici Vermoni» commentò Paul. «Mangeranno questa carcassa, così gli Scarafonnen non sapranno dove siamo atterrati. Quanto a noi, dovremo raggiungere il sietch a piedi. Per fortuna non siamo lontanissimi» commentò, osservando la cartina. Come tipico delle mappe di Arrankis, era centrata sul polo nord.

   «Intanto raggiungiamo quelle rocce» consigliò Godiva, indicando degli affioramenti in lontananza. Potevano proteggerli dai Vermoni, oltre a offrire un po’ di privacy per il cambio d’abiti.

   Madre e figlio lasciarono in fretta i resti del porcicottero, da cui saliva un filo di fumo. I loro scarponi affondavano nella sabbia fine, così che ogni passo era una faticaccia. «Dobbiamo procedere con un ritmo spezzato, come quello dei movimenti naturali della sabbia, per non attirare i Vermoni» disse Paul. «Conosci il Passo Arrancante dei Femen?».

   «Ne ho sentito parlare, certo, ma non conosco l’esatta cadenza» ammise Godiva.

   «Io sì!» si vantò Paul, lieto di poter finalmente essere utile. «Guardami e fai come me. È così che i nativi passano inosservati» disse con aria navigata. Fece un passo avanti, trascinando il piede sulla sabbia fino a tracciare un semicerchio. Poi eseguì un saltello, cui seguirono un passo normale e una brevissima sosta. Dopo di che tracciò un nuovo semicerchio, con l’altro piede, e così via. Scivolata... saltello... passo... sosta. Scivolata... saltello... passo... sosta. Il ritmo era spezzato, irregolare come quello del vento sulle dune. Ma i muscoli protestavano a questo movimento incostante, innaturale.

   «Così facciamo dieci volte più fatica!» protestò Godiva.

   «È solo fino alle rocce, cerca di resistere» la esortò Paul.

   Il tempo si dilatava intorno a loro, le alture sembravano non avvicinarsi mai. Eppure tra passi, scivolate e saltelli, i due guadagnavano lentamente terreno. Avevano percorso più di metà del tragitto, quand’ecco che un’onda si propagò nella sabbia, oltrepassandoli. Dal basso saliva un suono simile a un bisbiglio, un raschiare che si faceva sempre più forte.

   «Un Vermone!» si allarmò Paul.

   «E come ha fatto a scovarci? Non avevi studiato il Passo Arrancante?!» inquisì Godiva.

   «Io sì... forse non l’ha studiato lui!» si difese il giovane, interrompendo la sua pantomima. «Okay, lasciamo perdere il Passo. Dobbiamo correre!». Prese sua madre per un polso, esortandola ad affrettarsi.

   Le rocce erano vicine, ma la creatura si avvicinava a una velocità spaventosa. I due umani corsero a perdifiato, inveendo contro la sabbia che li rallentava. Davanti a loro c’era la salvezza, nella forma di un ripiano roccioso, quasi una spiaggia digradante nella sabbia. A un tratto udirono, dietro di loro, il fracasso spaventoso del metallo frantumato. Il porcicottero era appena finito nello stomaco del Vermone.

   «Mangiano il metallo... ma lo digeriscono anche?!» si chiese Godiva, trafelata.

   «Boh? Ci sono tante cose che non sappiamo, di loro. Corri!» la esortò ancora Paul, quasi trascinandola.

   La sabbia cominciava già a sollevarsi sotto i loro piedi, quando raggiunsero la sicurezza della roccia. Tuttavia non si fermarono, per timore che la creatura riuscisse comunque a travolgerli. Dovevano addentrarsi tra gli affioramenti, salire di quota per mettersi davvero al riparo. Il suolo tremava in modo spaventoso, il rimbombo si era fatto assordante. Paul si guardò indietro: del porcicottero non c’era più traccia. In compenso, una duna increspata veniva dritta contro di loro. Piccoli fulmini d’elettricità statica sfrigolavano verso l’alto. In quella la duna si aprì, rivelando la creatura.

   Mai prima d’ora Paul aveva visto un Vermone così bene, e così da vicino. La sua epidermide bruna era così spessa e dura da sembrare rocciosa. Non aveva una testa riconoscibile: niente occhi, niente vie respiratorie. C’era solo l’immensa bocca tripartita, colma di lunghi denti, tanto affilati da tranciare l’acciaio. La sua circonferenza era di decine di metri. Dunque la creatura, ancora in gran parte celata dalla sabbia, doveva misurarne molte centinaia in lunghezza. Non c’erano parole per descriverla... era Shai-Hulud, il Vecchio Incazzoso del Deserto, e questo è tutto.

   Il Vermone impattò contro le rocce, facendole tremare. Un’ondata di sabbia schizzò in avanti, colpendo Paul e Godiva con tale violenza che quasi li buttò a terra. «Più in alto, più in alto!» rantolò il giovane, sputacchiando sabbia. S’inerpicarono sulle rocce, sempre sotto i getti di sabbia, perché il Vermone reiterava gli assalti, spingendosi in avanti. A un certo punto Godiva incespicò sulle pietre smosse e prese a scivolare all’indietro, verso la bocca spalancata della creatura; ma Paul la prese di nuovo per il polso e la trascinò in avanti, finché lei riuscì di nuovo a far presa sul suolo.

   «Infiliamoci qui!» esclamò il giovane, indicando uno stretto passaggio tra le rocce. Troppo stretto, perché il Vermone potesse inseguirli. S’infilarono tra le pietre scolpite dal vento, mentre il boato della creatura li assordava e le scariche statiche facevano rizzar loro i capelli. Infine il Vermone si ritirò, come richiamato dalle sabbie; in pochi attimi era sparito e il deserto appariva di nuovo calmo.

   «Stavolta c’è mancato poco!» ansimò Paul, piegandosi sulle ginocchia per riprendere fiato. «Avevo letto che erano grossi, ma non mi ero reso conto...».

   «Neanch’io» mormorò Godiva.

   Sedettero a terra, riprendendo fiato. Ora che il Vermone si era ritirato, c’era un gran silenzio. E faceva caldo, un caldo micidiale, sebbene fossero all’ombra delle rocce. «Dobbiamo indossare le tute» disse Paul, aprendo il suo zaino. Ne offrì una a sua madre, poi andò dietro una roccia per indossare la sua. Dovette armeggiare un pezzo per ricordare come s’indossava, ma in qualche modo ne venne a capo. Infine i due si ritrovarono, controllandosi a vicenda per accertarsi di averle indossate correttamente.

   «Bevi da qui» raccomandò Paul, accennando al tubicino da cui bere l’acqua riciclata.

   «Non ho sete» sostenne Godiva.

   «Dovresti aver cura di te... in fondo devi bere e mangiare per due» disse però il giovane, con uno sguardo eloquente.

   Godiva restò interdetta per un attimo. «Allora sai, monellaccio» mormorò, sfiorandosi l’addome.

   «Già» annuì Paul. «Hai pensato al nome da dargli?».

   «Da darle. È una femmina, stavolta» rivelò la Lady. «No, non l’ho ancora deciso. Comunque non devi preoccuparti per me. Tua sorella non nascerà prima di molti mesi, e io mi sento ancora in forze». Aveva appena detto questo che fu assalita dalla nausea, così forte da farle rimettere quel poco che aveva nello stomaco.

   «Grandioso» mugugnò Paul, distogliendo lo sguardo. Servivano dieci giorni di marcia per raggiungere il sietch più vicino, ma con sua madre in quelle condizioni potevano diventare molti di più; nel qual caso avrebbero esaurito acqua e viveri.

 

   Appena Godiva riuscì di nuovo a camminare, ripresero la marcia. Restarono sulle rocce affioranti, per sfuggire ai Vermoni. Anche questo tuttavia si rivelò complicato, perché non c’erano sentieri: sarebbe servito un equipaggiamento da scalatori per salire e scendere i dirupi senza pericolo. Così dovettero arrancare con mille precauzioni, saggiando ogni passo. Più volte uno dei due scivolò, venendo salvato in extremis dall’altro.

   «Groan, di questo passo non arriveremo mai!» si lamentò Paul, dopo l’ennesimo incidente che aveva rischiato di farlo scivolare in un crepaccio.

   «Cosa ti aspettavi, una scala intagliata nella roccia e un cartello con su scritto “sietch”?» lo rampognò sua madre.

   Rimessisi in marcia, i due aggirarono un macigno... e si trovarono innanzi a una scala intagliata nella roccia. Lì accanto vi era un cartello infisso su un palo. Paul si avvicinò. «Perbacco, dice proprio “sietch”!» lesse ad alta voce. «Questi Femen non sono poi così difficili da trovare. In effetti, se c’è riuscito Duncan...» ragionò.

   «... potevate riuscirci anche voi!» completò una voce stentorea, che proveniva dall’alto. «Ma ve ne pentirete, stranieri. Gli intrusi rimpiangono di trovarci!».

   Paul alzò gli occhi e scorse un Femen appollaiato sulle rocce, come un avvoltoio in cerca di carcasse. Indossava l’inconfondibile tuta distillante e aveva anche la testa protetta da una sorta di turbante. Nella sua mano scintillava il pugnale pyss, ricavato da una zanna di Vermone. Per una reazione istintiva, Paul accennò a buttarsi di lato, dietro alcune rocce.

   «Non correte, intrusi!» intimò il nativo. «Sprechereste l’acqua dei vostri corpi. E quella serve a noi. Il sole è alto e ci attende una lunga marcia». Mentre parlava, altri Femen armati sbucarono dalle rocce, tra cui si erano perfettamente mimetizzati. In men che non si dica, Paul e Godiva si trovarono circondati. Ogni via di fuga era tagliata. E disarmati com’erano, non potevano opporre alcuna seria resistenza contro i predoni.

 

   Senza che tra loro corressero altre parole, i Femen vennero giù dalle rocce e strinsero il cerchio intorno ai fuggiaschi, come sciacalli attorno alle prede. Fra le tute distillanti e i turbanti, non si vedeva molto dei loro volti, a parte gli occhi di un blu impressionante. Uno di loro venne proprio davanti a Paul e berciò: «Cignoro hrobosa sukares hin mange la pchagavas doi me kamavas na beslas lelele pal hrobas!». Dal tono, sembrava che fosse la cosa più importante del mondo.

   «Amico, non ho capito una cippa» ribatté Paul, cercando di non mostrarsi intimidito.

   «Perché parla in cip-ciop, la nostra antica lingua» disse quello che pareva il capo della combriccola, facendosi avanti a sua volta. «Dice che forse siete spie nemiche, nel qual caso siete fottuti» tradusse. Vedendo il suo ceffo patibolare, Paul fu colto da un’illuminazione.

   «Sticazz, sei proprio tu!» esultò il giovane. «Non mi riconosci? Sono Paul Formaldeides, figlio del Duca» disse, mostrando l’anello che aveva ereditato. «Ero con mio padre alla capitale, quando venisti a trattare i diritti del tuo popolo. Ci siamo anche sputati in faccia, in segno di stima!» ricordò, improvvisamente grato per quell’esperienza.

   «Uhm... sì, è vero» borbottò Sticazz, fissandolo con quei suoi occhi balenghi. «Ricordo che ci promettesti scorte di lassativi. Non ne abbiamo visto mezzo».

   «Cerca di capire... anche noi siamo ridotti male, da quando gli Scarafonnen ci hanno attaccati a tradimento» confessò Paul. «Mio padre è morto; io e mia madre siamo fuggiti a stento. Il dottor Kinkes, vostro stimato amico, ci ha indirizzati al vostro sietch, garantendoci che ci avreste dato asilo».

   «Rispettiamo Kinkes, ma non avrebbe dovuto fare promesse!» sbottò il Femen che in precedenza aveva parlato in cip-ciop. «Noi diamo valore alla forza; e voi non ne avete, ora che vi hanno sbattuti fuori dai vostri saloni dorati».

   «Però hanno avuto coraggio ad attraversare la strada di Shai-Hulud» disse Sticazz, meditabondo.

   «Sono precipitati nel deserto!» insisté l’altro. Tornò a squadrare Paul con ostilità. «Io sono Jingle, dei Femen, e dico che non c’è posto per voi nel nostro sietch!» sentenziò.

   «Abbiamo amici potenti» intervenne Godiva, per dare un po’ di respiro al figlio. «Aiutateci a tornare su Calamar e sarete ben ricompensati» li tentò.

   «Quale ricompensa puoi darci, a parte l’acqua del tuo corpo?» disse però Sticazz, rivolgendole la parola per la prima volta.

   «Sono una Mala Gesserit; ho molte conoscenze che potrebbero esservi preziose» rivendicò la Lady, cercando di passare da una vaga promessa a qualcosa di più concreto.

   I Femen parlottarono tra loro in cip-ciop; infine Sticazz si rivolse di nuovo a Godiva. «Stabiliamo noi che cos’è prezioso» disse. «Tuo figlio verrà con noi; è giovane, può apprendere le nostre usanze. Ma tu sei troppo vecchia per imparare...».

   A quelle parole, Godiva gli scattò contro con una velocità mai vista. Nel momento in cui Sticazz estraeva il pugnale, lei lo colpì col taglio della mano, facendogli perdere la presa. Con l’altra mano, afferrò al volo l’arma che cadeva; e gliela puntò alla gola. «Negli ultimi tre giorni mi hanno fatto di tutto, e ho sopportato» ansimò, premendogli la lama affilatissima contro la giugulare. «Ma non tollero d’essere chiamata vecchia!».

   Vedendo sua madre scattare, anche Paul fece lo stesso. Notando un Femen che estraeva un’arma da fuoco – segno che lì non si usavano Scudi – ebbe una breve colluttazione con lui. Riuscì a strappargliela, colpendolo sotto alla cintura. Il loro scontro passò quasi inosservato, perché l’attenzione di tutti era concentrata su Godiva e Sticazz.

   I Femen si fecero avanti per soccorrere il loro capo, ma questi li fermò: «Indietro, teste di Vermi! Mi taglierà la gola, se fate un altro passo!».

   «Ora sì che c’intendiamo» ghignò la Lady. «Allora, ci aiuterete?».

   «Pace, donna! Ti ho mal giudicata» ammise Sticazz, improvvisamente conciliante. «Se sei una combattente e una Mala Gesserit – cosa che ormai credo – allora vali dieci volte il tuo peso in acqua!». Riprese fiato, parlando con più calma. «Stranieri, verrete con noi al sietch, dove sarete nostri ospiti. Avete la mia parola d’onore che nessuno vi torcerà un capello».

   Godiva scambiò un’occhiata con Paul, che annuì leggermente, esortandola a liberare l’uomo. La Lady eseguì di malavoglia, spintonandolo in avanti. Dopo qualche momento, tuttavia, gli restituì persino il pugnale.

   Ora che la tensione si era stemperata, e anche lui si sentiva più tranquillo, Paul si guardò attorno. Allora si accorse che, sebbene avesse strappato un’arma da fuoco a un Femen, ce n’era un altro appollaiato sulle rocce che lo teneva sotto tiro. Avrebbe potuto ucciderlo in ogni istante, se la situazione fosse degenerata. Poiché invece le cose si erano risolte felicemente, Paul osò abbassare la sua arma, nella speranza che l’altro facesse altrettanto. Il cecchino però rimase fisso nella sua posizione.

   «Ho detto di lasciarlo stare, Cianidrina, maledetta figlia d’una lucertola!» sbottò Sticazz.

   «Se insisti...» mugugnò l’interessata, riponendo l’arma. Saltò agilmente giù dalle rocce, atterrando proprio davanti a Paul. «Non ti avrei permesso di far del male ai miei compagni» mise bene in chiaro. Era l’unica donna della banda, notò il giovane. Anche lei indossava una tuta distillante, con una sorta di velo attorno alla testa per proteggersi dal sole micidiale; ma quando gli fu vicina, Paul la vide bene in faccia. E il suo cuore batté forte, perché quella era la misteriosa fanciulla che tante volte lo aveva visitato in sogno e in visione. Adesso era lì davanti a lui, in carne ed ossa... magari un po’ meno affascinante di come l’aveva sognata, infagottata com’era negli stracci Femen, e con quell’espressione malfidente. Ma era lei, di sicuro.

   «Buffo come, pur avendola vista tante volte, non immaginassi le circostanze del nostro primo incontro» si disse Paul. Ma se le visioni erano veritiere, allora quella squinzia gli sarebbe stata accanto in momenti decisivi del futuro. Era il caso di presentarsi al meglio... aveva letto da qualche parte che le persone si formano un’idea degli sconosciuti in appena venti secondi, e una volta fatto questo, la cambiano difficilmente. Non poteva lasciare che Cianidrina – così si chiamava! – si facesse una pessima impressione di lui. «Salve, milady... sono Paul Formaldeides, Duca di Calamar» si presentò, facendole un lieve inchino.

   «Sì, ho sentito» sbuffò lei, squadrandolo con diffidenza.

   Vedendo che la squinzia non sembrava impressionata dai titoli, Paul ricordò che i Femen davano gran valore alle loro usanze, tra cui quella del saluto. Venir meno allo “scambio dell’umidità” costituiva una grave offesa e poteva compromettere per sempre i rapporti con loro. «Ehm... lascia che ti faccia dono dell’umidità del mio corpo, in segno di stima e rispetto» disse il giovane, riempiendosi ben bene la bocca di saliva. Quando ritenne di averne a sufficienza, le sputò in faccia. Poi rimase in fiduciosa attesa che lei facesse lo stesso. Ma invece di un amichevole sputo, ricevette un gancio destro che lo fece barcollare.

   «Come ti permetti, cervello di sabbia!» inveì Cianidrina. «Avete visto tutti? Questo buzzurro mi ha gravemente offesa!». Dalle file dei Femen salì un «Oooohhh!» di costernazione.

   «Come sarebbe, offesa?!» protestò Paul, massaggiandosi la mascella dolorante. «Siete voi che salutate in questo modo. Sticazz mi ha sputato in faccia, al nostro primo incontro, e ha preteso che io facessi lo stesso!».

   «Tra uomini ci si sputa in faccia, e anche tra donne» spiegò il capo dei Femen. «Ma quando un uomo saluta una donna che non conosce, deve sputarle sulla mano, sempre che lei gliela tenda. Tu, ragazzo, hai commesso un grave affronto».

   «Non lo sapevo!» ansimò Paul, sconvolto da come le cose precipitavano in fretta.

   «La legge non ammette ignoranza!» sentenziò Sticazz. «Ora c’è un solo modo in cui puoi farti perdonare. Devi dimostrare forza, coraggio e onore. Uno dei nostri ti sfiderà, e combatterete fino alla morte. Chi si offre?».

   «Io, io!» gridò Jingle, quello che fin da subito si era mostrato più ostile verso gli stranieri. Sembrava felicissimo di avere un’occasione per sbudellare Paul.

   «Accordato» disse il capobanda. «Cianidrina, spiega le regole al nostro giovane ospite. Così non commetterà altri errori, e sarà un combattimento leale».

   Paul si appartò con la squinzia, mentre il suo sfidante raccoglieva le lodi e gli incoraggiamenti dei compagni. Più discosta, Godiva guardava il figlio con apprensione, maledicendo la sua inesauribile capacità di mettersi nei guai.

   «Alcuni dicono che tu sia l’Emo» disse Cianidrina a Paul. «A me sembri solo un ragazzo sperduto».

   «Una cosa non esclude l’altra» ribatté il giovane, in tono rude. Non aveva più tanta voglia di piacerle, visti i risultati del primo approccio.

   «Vero» concesse la squinzia. «Io non credo che tu sia l’Emo, ma voglio comunque che muori con onore». Gli porse il suo pugnale, lungo e affilatissimo. «Questo pyss apparteneva alla mia prozia. È fatto con un dente di Shai-Hulud, il Vermone delle Sabbie. Sarà un grande onore, per te, morire impugnandolo».

   «Mi dai già per spacciato, eh?» brontolò Paul. Non potendo tirarsi indietro, prese il pugnale che gli veniva offerto.

   «Per quanto riguarda le regole, sappi che non ce ne sono molte» proseguì Cianidrina, ignorando il suo commento. «È un duello all’ultimo sangue, quindi non puoi arrenderti, né chiedere soste. Sei libero di usare qualunque stile di combattimento. Puoi anche fare lo sgambetto, se credi; ma lo scontro termina solo con la morte».

   «Dov’è il ragazzo di un altro mondo? Non vedo l’ora di sbudellarlo!» gridò Jingle, brandendo la propria lama. I suoi sodali lanciarono grida d’incoraggiamento.

   «Jingle è un buon combattente; non ti farà soffrire» disse Cianidrina, in tono di definitivo commiato.

   «Al mio ritorno, parleremo di come dai le cattive notizie» disse Paul, e la lasciò, venendo incontro all’avversario.

   Su tutti loro scese un silenzio surreale. I Femen si erano disposti sulle rocce, grossomodo in cerchio, delimitando l’area di combattimento. Jingle attendeva col pyss sguainato, immobile, in una strana posa accucciata.

   «Beh, devi fare i tuoi bisogni?!» lo provocò Paul, restando bene in piedi.

   A quella frecciata, il Femen si alzò a sua volta, fissandolo incollerito. «Che il tuo coltello possa spezzarsi!» augurò.

   «Non è mio, l’ho preso in prestito» corresse Paul, accennando a Cianidrina.

   «Allora lo riavrà presto» ghignò Jingle. «Accogli in te la mia lama!».

   Paul ebbe un brivido di paura. D’un tratto si sentì solo e nudo, senza la protezione dello Scudo, in quella confusa luminosità gialla, al centro dei Femen. Le sue visioni gli avevano rivelato sprazzi del futuro, ma questo era il presente, e la morte lo attendeva in un’infinità di varianti. Avanzò cautamente, ripetendo fra sé la Litania contro la Paura. Anche se era solo uno slogan pubblicitario delle Male Gesserit, ebbe il potere di calmarlo.

   Jingle balzò contro di lui e sferrò un colpo al cuore; ma trafisse solo aria, perché il giovane si era spostato con agilità.

   «Prima devi beccarmi, cocco bello!» lo canzonò Paul. La soddisfazione fu breve, perché il predone tornò all’attacco, costringendolo a parare o schivare disperatamente.

   Godiva assistette allo scontro con il cuore in gola. Sapeva che suo figlio era stato addestrato da Duncan e altri grandi maestri, arrivando a padroneggiare molte tecniche di combattimento. E aveva il vantaggio d’essere giovane, agile, scattante. Ma era abituato a combattere con lo Scudo, che respingeva gli attacchi troppo veloci, lasciando invece passare quelli lenti. Qui era tutto il contrario: in mancanza di Scudi era la velocità a sancire il vincitore.

   «Questo pianeta ti ucciderà... così è più semplice!» ridacchiò Jingle, ancora convinto della propria superiorità.

   «Mai piaciute le cose semplici» ansimò Paul, che cercava di correggere il proprio stile per uscir vivo dal confronto.

   Gli avversari girarono l’uno intorno all’altro, sferrando rapidi colpi. Paul sentì il pyss nemico passargli a un soffio dalla gola e indietreggiò. Jingle lo incalzò, convinto che fosse l’occasione buona per sopraffarlo; ma il giovane sgusciò di lato e gli fece lo sgambetto. Il predone incespicò, cadendo su un ginocchio; in un lampo si trovò il pyss alla gola.

   «Ti arrendi?!» chiese Paul, non volendo ucciderlo.

   «Ehi, ehi!» protestò Sticazz, che stava sgranocchiando dei popcorn. «Non hai sentito le regole? Non c’è resa, si combatte fino all’ultimo sangue!».

   «Paul non ha mai ucciso nessuno» mormorò Godiva. «Non vuole uccidere... è un bravo ragazzo!».

   «Sarà un bravo ragazzo morto, se non si adatta alle circostanze» avvertì il capobanda.

   Approfittando dell’esitazione di Paul, Jingle riuscì a scostarsi, mettendosi a distanza di sicurezza dal suo pugnale. Allora cambiò stile; adesso era molto più cauto e faceva delle finte prima di lanciarsi in un vero attacco.

   «Adesso è ancora più pericoloso» si disse Paul. «Ha scoperto che non sono uno sprovveduto, e farà qualunque cosa per vincere». Ricordò le lezioni di Duncan: «Un uomo terrorizzato lotta contro se stesso. Alla fine attacca per disperazione. È pericoloso, ma si può star certi che commetterà un errore. Tu devi coglierlo e approfittarne». Fin qui era tutto semplice, lineare. Il guaio era che anche lui aveva paura, e chissà che non fosse Jingle ad approfittarne!

   Ad un tratto, Paul si trovò con il sole negli occhi. Erano usciti dal riparo delle rocce, trascinati dallo scontro, e Jingle era stato abbastanza furbo da trarne vantaggio. Ora poteva attaccare, e Paul si sarebbe trovato in difficoltà a parare. Era la fine? No, forse gli restava un trucco. Notando che il pugnale, pur venendo da un dente di Vermone, rifletteva la luce come se fosse stato d’acciaio, Paul lo tenne avanti a sé, riflettendo il sole proprio mentre Jingle attaccava. Il predone fu abbagliato nell’istante decisivo e colpì a vuoto. Paul gli sgusciò accanto e menò un rapido affondo, dritto al cuore. Infine si ritrasse di alcuni passi.

   Jingle cadde faccia a terra, come uno straccio. Rantolò per qualche attimo, infine giacque immobile sulla roccia. I Femen si precipitarono in avanti, rompendo il cerchio. Avvolsero il compagno caduto nei mantelli e lo sollevarono da terra, salmodiando nella loro lingua. Paul immaginò che lo avrebbero seppellito alla loro maniera... probabilmente nel deserto. Alzò gli occhi su Cianidrina, che gli parve in preda a sentimenti contrastanti; ma sulle prime non riuscì a parlarle.

   «Ecco il momento critico» pensò tuttavia Godiva, osservandolo. «Ha ucciso un uomo con la propria abilità; non devo permettergli di gioirne, di prenderci gusto». Gli venne accanto e lo fissò duramente. «Allora, come ci si sente ad essere un assassino?!» lo redarguì.

   «Penso che tu lo sappia meglio di me» fu la secca risposta. «Quei tre soldati Scarafonnen sul velivolo... erano i primi esseri umani che uccidevi? O alla scuola Male Gesserit assegnano anche lavoretti del genere?» chiese, ricordando come la Reverenda Madre lo avesse quasi accoppato.

   La Lady non rispose, ma si ritrasse, confidando che il figlio non sarebbe diventato un serial killer dopo quella brutta esperienza. Certo, la guerra contro gli Scarafonnen era tutta da combattere...

   Affrontata sua madre, Paul si trovò davanti Cianidrina e Sticazz. «Mi dispiace per l’accaduto» mormorò, accennando alla vittima.

   «Ah, non pensarci, figliolo!» disse il capobanda in tono comprensivo. «Sarebbe accaduto comunque, prima o poi. Il povero Jingle non aspettava altro che un’occasione per sfidarti. Beh, quel che è fatto, è fatto. Ora sei dei nostri. Benvenuto nella banda!».

   «Io... un Femen?!» fece Paul, sconcertato.

   «Certo» confermò Cianidrina. «Vedi, le nostre risorse sono limitate, per cui se uno entra nella banda, un altro deve uscire. All’inverso, se uno esce» accennò al corpo di Jingle «c’è un posto disponibile. Tu hai del potenziale, ma hai bisogno di conoscere il deserto, e noi possiamo insegnarti».

   «E mia madre?» s’inquietò il giovane, osservando Godiva. «Dovrei ammazzare un altro dei vostri, per farle posto?».

   «Oh, no!» lo rassicurò Sticazz. «Devi sapere che presso di noi le donne valgono meno di uno sputo, quindi non sono considerate “persone della tribù”. Beh, è tardi... raccattate Jingle, torniamo al sietch!» abbaiò ai suoi sottoposti. La banda si mise in marcia tra le rocce, canticchiando uno strano motivetto: «Ehi-ho! Ehi-ho! A casa ritorniam!».

 

   Si erano mossi da poco, quando Godiva si accostò a Sticazz. «Ora che siamo parte della tribù, spero che non vorrete più l’acqua dei nostri corpi» commentò.

   «Ah, ah, no!» rise lui. «Ma in effetti siamo rimasti un po’ a corto, e la strada è lunga. Se avete qualche scorta da condividere, lo apprezzerei molto».

   Dopo una breve esitazione, la Lady gli consegnò una bottiglietta che aveva nello zaino.

   «Molto obbligato» riconobbe Sticazz, ricevendola nelle sue mani. «Dov’è il Maestro d’Acqua?!» chiamò, finché un Femen gli venne accanto. «Ah, Shimoonit, misura la quantità necessaria, non una goccia di più. Quest’acqua appartiene alla Lady, e le sarà rimborsata dal sietch alla tariffa del deserto, dedotte le spese d’imballaggio» puntualizzò.

   «Caspita, come siete organizzati!» si stupì Godiva. «E qual è la tariffa del deserto, tanto per sapere?».

   «Dieci a uno. Una regola molto saggia, come scoprirai» spiegò Sticazz. «C’è ancora tanto che tu e tuo figlio dovete apprendere... ma lo farete, col tempo».

   Godiva gli restò accanto, rimuginando tra sé. D’un tratto rialzò la testa. «Vi siamo grati per l’ospitalità, ma non potremo trattenerci a lungo con voi» mise in chiaro. «Paul è pur sempre il Duca di Calamar. Ora che suo padre è morto e gli Scarafonnen spadroneggiano, deve tornare in patria per assumere il comando e organizzare la resistenza».

   «Grandi progetti, eh?» fece il capobanda, con un sorriso sornione.

   «Voi potete aiutarci, ne sono certa. Siete in contatto con contrabbandieri, potete procurarci un passaggio su qualche nave non registrata...» insisté la Lady.

   «No!» disse inaspettatamente Paul. «L’Imperatore ci ha inviati qui, e che gli piaccia o no, qui resteremo. Non per la Spezia, ma per questa gente» disse, accennando ai Femen. Dopo di che fronteggiò Sticazz. «Gli Scarafonnen controllano di nuovo Dune. Era previsto che accadesse così, una volta distrutto il mio Casato. Voi però siete ancora qui; che avete in mente di fare?» indagò.

   «Non possiamo più tollerare le angherie degli Scarafonnen» borbottò Sticazz. «Credo proprio che le tribù insorgeranno. Se non ora, quando?».

   «Già, se non ora quando?!» chiese Paul con voce stentorea, rivolgendosi a tutta la banda. «E noi saremo con voi. Vi aiuteremo a riconquistare il pianeta e respingere gli Scarafonnen in quella latrina da cui sono usciti!» s’infervorò. In quella, però, vide sua madre ed esitò. «Se tu vorrai tornare a Calamar, capirò» le disse. «Ma la mia strada conduce al deserto... ormai è chiaro».

   «Se tu resti, io farò lo stesso» sospirò Godiva. «Me lo sentivo, che eri l’Emo. Farai grandi cose per questo mondo: è il tuo destino».

   Stavolta Paul non rifiutò quel titolo, anzi, lasciò che i Femen lo ripetessero attorno a lui. Terminate le acclamazioni, riprese la strada con loro. Erano sempre diretti al sietch, dove avrebbero potuto convocare altri capi-tribù e fare piani di battaglia.

 

   Giunti al limitare degli affioramenti rocciosi, i viaggiatori si predisposero ad attraversare le insidiose dune che erano il dominio incontrastato dei Vermoni. Per far questo si disposero in fila indiana, procedendo col famigerato Passo Arrancante: non la brutta copia in cui Paul si era esibito in precedenza, ma l’autentico passo degli abitatori del deserto. Paul e Godiva li osservarono attentamente, riuscendo a imitarli dopo qualche tentativo.

   «Sei ancora un disastro!» commentò Cianidrina, venendo accanto a Paul. «Guarda qui, hai il sondino nasale tutto storto. Così sprechi il vapore acqueo. Aspetta, te lo aggiusto» si offrì, passando subito all’azione. Paul la lasciò fare. Gli sembrava che la squinzia avesse un atteggiamento diverso rispetto a prima... più affabile. Era una piacevole novità.

   «Ecco, ora è a posto» disse Cianidrina, finendo di armeggiare.

   «Grazie. Ti preoccupi per me?» indagò Paul.

   «Sticazz mi ha ordinato di badare che tu non muoia durante il viaggio» fu la risposta.

   «Che gentile. E dimmi, sarà un viaggio lungo?» chiese il giovane, guardando apprensivo sua madre. «Io avevo calcolato una decina di giorni, ma non ne sono sicuro».

   «Uhm, sì, dieci o undici giorni dovrebbero bastare» convenne Cianidrina. «Ma ne basteranno un paio, se saremo fortunati» aggiunse, scrutando il deserto ondulato avanti a sé.

   «Un paio? Com’è possibile, prenderemo un porcicottero?» si stupì Paul.

   «Ma quale porcicoso! Noi viaggiamo in un altro modo!» s’illuminò la squinzia, indicando qualcosa all’orizzonte.

   Paul spinse lo sguardo in avanti, scorgendo una duna semovente che avanzava a gran velocità contro di loro. «Un Vermone!» si allarmò. «Dobbiamo metterci al riparo... ma le rocce sono lontane. Qualcuno di voi ha un Martellatore?!» chiese, stupito dalla calma dei Femen.

   «Non servono Martellatori» disse Sticazz, con uno strano sorriso. «È quello, il nostro mezzo di trasporto».

   Paul aguzzò la vista, scorgendo qualcosa sulla groppa del Vermone. Era un Femen, che incredibilmente riusciva a cavalcarlo. Si teneva agganciato con due piccozze, che probabilmente usava anche per dirigerne il tragitto, a mo’ di briglie. «Non ci credo...» mormorò il giovane, stropicciandosi gli occhi. Ecco in che modo il buon Kinkes contava di attraversare il deserto... sempre che i Sardonen non lo avessero preso. «Mio padre aveva ragione, dopotutto. Eccolo, il potere del deserto...» disse fra sé.

   «E questo è solo l’inizio!» promise Cianidrina, sorridendogli per la prima volta. Per un attimo, fu proprio come l’aveva vista in sogno. Poi il gruppo riprese a farsi strada tra le dune e i massi affioranti, diretto verso il Vermone. E verso il futuro.

 

 

FINE DELLA PRIMA PARTE

 

 

-Commento:

   Come nell’opera originale, Paul e sua madre hanno un incidente col velivolo, che li porta a perdersi nel deserto. Qui hanno il primo incontro ravvicinato con un Verme gigante, per poi trovare finalmente i nativi. Nell’originale, il duello coi pugnali è dovuto al fatto che uno dei Fremen, Jamis, non crede che Paul sia l’Eletto e quindi lo sfida a uno scontro mortale. Nella mia versione, Paul come al solito si mette nei guai da solo (complici le astruse leggi locali!). In ogni caso, l’esito è lo stesso: Paul vince e si guadagna un posto nella tribù. Al tempo stesso, decide di rimanere su Dune, contando sui nativi per riconquistare il pianeta.

   In questo capitolo facciamo finalmente conoscenza col personaggio di Chani (nella mia versione Cianidrina), che in precedenza era più volte apparsa in visione. Così Paul scopre la differenza tra un sogno idealizzato e la rude realtà; ma le basi della loro relazione sono comunque poste.

   Ho deciso di finire qui, perché è qui che termina il remake del 2021; ma la storia ovviamente prosegue, con la lotta di Paul e dei Fremen contro gli Harkonnen e l’Imperatore stesso. Il film del 1984 copriva tutto il primo romanzo, mentre ora si prevede una trilogia. Se troverò il tempo e la voglia, proseguirò con la mia parodia. In caso contrario vi saluto, con la promessa che – come in tutte le grandi saghe d’avventura – anche stavolta i nostri eroi prevarranno sulle avversità...

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


-Capitolo 5:
 
   “L’Emo disse che la sua vera educazione ebbe inizio ai suoi primi contatti con l’ambiente di Arrankis. Imparò a piantar pali nella sabbia per valutare le condizioni del tempo, e il linguaggio del vento che gli pungeva la pelle con mille aghi aguzzi. Conobbe allora il prurito della sabbia nel naso e il modo migliore di raccogliere e conservare l’umidità del suo corpo. Mentre i suoi occhi si tingevano di blu, ricevette l’insegnamento cip-ciop”.
dalla prefazione di Sticazz a L’uomo dietro all’Emo,
della Principessa Iruxol Corrida
 
   Paul ricordò sempre confusamente quella prima, folle cavalcata su un Vermone. Si avvicinarono alla creatura standone prudentemente di lato, dopo di che le corsero a fianco come dei forsennati. I più veloci si aggrapparono alla corda lasciata pendere da colui che cavalcava il Vermone, e in tal modo s’issarono sulla sua groppa. Paul si chiedeva come avrebbe fatto a far salire sua madre, che non correva così svelta; per fortuna il guidatore fu tanto abile da far rallentare il Vermone fin quasi a fermarlo. Allora Paul e Godiva si aggrapparono insieme, stringendosi ad alcune cinghie di cui era munita la fune, e quelli che erano già saliti li issarono. Quando furono tutti in cima, il guidatore fece un «Oh-oh!» e la cavalcata riprese.
   Faceva un effetto stranissimo solcare il deserto su quella titanica creatura, come un tempo Paul aveva solcato i mari di Calamar sulle imbarcazioni. Al posto delle onde, le dune; al posto di vele o motori, la forza bruta del Vermone. Il vento sulla faccia era più secco, il sole più bruciante, ma l’emozione non era poi molto diversa.
   Il problema maggiore derivava dal fatto che anche un guidatore esperto stentava a dirigere il Vermone nella direzione voluta. Naturalmente i Femen avevano studiato dei modi. Dopo essersi issati con le piccozze, attaccavano delle corde a due piccoli sfiatatoi che il Vermone aveva sulla groppa, facendone una sorta di briglie; tirando quelle cercavano d’impartirgli la direzione. Anche così, però, la creatura faceva spesso di testa sua. Di conseguenza il viaggio verso il sietch fu convoluto e condito dalle imprecazioni dei nativi.
   La cavalcata terminò bruscamente quando il Vermone decise che era ora di tornare sottoterra. In un attimo tornò a immergersi nella sabbia, sgroppando pericolosamente. Alcuni Femen caddero; altri riuscirono a saltar giù atterrando in piedi. Paul, sempre in pensiero per sua madre – a maggior ragione poiché era incinta – l’afferrò mentre venivano sbalzati a terra. Nella sua memoria rimasero alcuni fotogrammi mancanti; nel ricordo successivo era a terra, con sua madre che lo schiaffeggiava per farlo svegliare. Aveva un male boia alle costole. «Che diavolo è successo?» biascicò.
   «Ti sono atterrata sopra» spiegò Godiva. «Per fortuna le tute distillanti forniscono una buona imbottitura».
   «Figurati senza!» borbottò il giovane.
   «Sei stato coraggioso» riconobbe Cianidrina, quasi di malavoglia. «Hai male alle costole?».
   «Solo quando respiro».
   «Ah, per fortuna. Su, vieni. Ci resta ancora un tratto di strada da fare» disse la Femen, porgendogli la mano.
   Paul accettò l’aiuto per rialzarsi. «Forte, la cavalcata» commentò. «Però ho avuto l’impressione che il Vermone non si facesse guidare facilmente. E il finale non è stato granché».
   «Uhm, sì, abbiamo sempre avuto difficoltà in questo» ammise Cianidrina. «Shai-Hulud va dove vuole; noi siamo solo autostoppisti. Solamente...» s’interruppe.
   «Sì? Che stavi dicendo?» incalzò Paul.
   «Solamente l’Emo, secondo le leggende, riuscirà a domare davvero i Vermoni» rivelò Cianidrina. «Tu non farti illusioni. Se ti va bene, imparerai a cavalcarli come noi».
   «Sarebbe già qualcosa» borbottò Paul, massaggiandosi le costole doloranti.
 
   Il viaggio durò ancora un paio di giorni, nei quali la comitiva si mosse principalmente di notte, riposando all’ombra delle rocce durante l’infuocato dì. Infine giunsero a un’altura che si levava isolata nel mare di dune.
   «Questo è il sietch Tabr» disse Sticazz, tutto contento. «È qui che ospitammo il tuo amico Duncan, un uomo valoroso. A proposito, che ne è stato?».
   «Lui... è caduto in battaglia» rivelò Paul, ancora sofferente per la perdita.
   «Ah, bene! È una buona morte» commentò il naib (così era detto un capotribù). «Hai recuperato la sua acqua, vero?».
   «Temo di non averne avuta la possibilità» sospirò Paul.
   «Oh, questo non va bene» commentò Sticazz. «Beh, pazienza. Preparatevi a vedere la nostra città!» disse teatralmente, rivolto agli stranieri.
   Il gruppo si era arrestato davanti a una parete rocciosa, alla base del monte. Il naib premette la mano su una protuberanza, pronunciando le misteriose parole: «Apriti, sesamo!». La parete sprofondò silenziosamente, rivelando una spaccatura irregolare. Sticazz guidò il gruppo all’interno, sempre in fila indiana. Cianidrina, che chiudeva la fila, azionò un comando che fece richiudere il passaggio.
   Malamente illuminati da una lampada levitante, i viaggiatori scesero una scala intagliata nella roccia, che parve interminabile. A intervalli regolari superarono delle porte; in tal modo la scalinata si suddivideva in vere e proprie camere stagne. C’era anche una sorta di condizionamento atmosferico, che faceva circolare l’aria. Man mano che scendevano nel sottosuolo, l’aria si rinfrescava; ma c’era dell’altro.
   «È una mia impressione, o c’è più umidità?» chiese Paul a un certo punto.
   «Eh, eh, vedrai...» ridacchiò Cianidrina, enigmatica. «Stiamo per entrare nella Grande Spelonca!».
   I gradini finirono e il gruppo superò un’ultima porta. La luce del globo luminoso si disperse in un’immensa cavità sotterranea, dal soffitto a cupola. Paul sentì Cianidrina stringergli il braccio e udì, nell’aria fredda, un gocciolio. «Acqua?!» sussurrò, esterrefatto.
   Senza una parola, la squinzia indicò più avanti. Seguendo il suo gesto, Paul vide ciò che i Femen nascondevano gelosamente. Oltre un basso parapetto roccioso giaceva una distesa d’acqua che si perdeva nell’ombra. Prima che il giovane si riavesse, i nativi si tolsero i sondini dal naso, respirando a pieni polmoni. Poi svuotarono le scorte d’acqua rimanenti nel lago sotterraneo, in religioso silenzio e con precisione certosina. Non una goccia andò sprecata.
   Allora, finalmente, Paul esplose: «Boia d’un mondo, ma allora avete l’acqua! Quanta ce n’é?!».
   «Trentotto milioni di decalitri» rispose Sticazz, contemplando la pozza.
   «Il vostro tesoro» commentò Godiva. «Questo sì che significa possedere una liquidità non dichiarata!».
   «È solo un deposito fra tanti» disse Sticazz a sorpresa. «Ne abbiamo migliaia, disseminati nel pianeta; pochi di noi li conoscono tutti».
   «Guarda un po’, che razza d’accumulatori seriali!» commentò Paul, fissando stranito i Femen. «E fuori da qui, continuate a fare gli assetati! Si può sapere perché vi date tanta pena di accumulare l’acqua, se poi non la usate?!».
   «Mio padre non te l’ha detto?» chiese Cianidrina.
   «Tuo... padre? Non lo conosco» fece Paul, sempre più confuso.
   «Oh, io credo di sì. Il nome Kinkes non ti dice niente?».
   «Kinkes... lui è tuo padre? Ma certo, aveva detto d’essersi legato ai Femen» mormorò Paul. «Mi ha mostrato una stazione ecologica in rovina e ha accennato ai vecchi piani imperiali di terraformare Arrankis. Ma nulla più».
   «Uhm, forse non ti riteneva pronto» borbottò Sticazz. «Ma ora sei dei nostri, quindi è inutile farla lunga. Devi sapere che da millenni il mio popolo raccoglie ogni goccia d’acqua disponibile, concentrandola in questi depositi. Quando sarà abbastanza, cambieremo il volto del pianeta».
   «Intrappoleremo le dune sotto ciuffi d’erba, trasformeremo il suolo in una spugna con alberi e radici. Faremo di Arrankis un paradiso, coi laghi nelle zone temperate, le calotte di ghiaccio ai poli... proprio come gli altri mondi abitati!» proseguì Cianidrina, in tono ispirato. «E nessuno avrà più bisogno d’acqua. Sarà a disposizione di chiunque, basterà solo che porga la mano».
   «Uh, che sogno comunistoide! Aspettate che arrivi l’Impero Analogico con le sue bollette» avvertì Paul, frenando gli entusiasmi.
   «Che arrivi pure, siamo pronti a riceverlo!» gridò Sticazz, suscitando gli schiamazzi dei suoi. «Manca poco, ormai... il nostro antico sogno si concretizzerà in questa generazione!».
   La gazzarra durò a lungo. Nel frattempo gli abitanti del sietch si fecero avanti da molti pertugi, attirati dal frastuono. Sticazz spiegò loro che i due stranieri erano stati ammessi nella tribù. Aggiunse che Jingle era morto, senza entrare nei dettagli. I Femen non cercarono una correlazione tra le due cose, forse perché non la giudicavano importante, e accolsero benevolmente i nuovi arrivati. Alcuni, tra loro, sussurrarono le antiche profezie riguardanti l’Emo. Presto non ci sarebbe stato nessuno, nella città-formicaio, che ignorasse l’arrivo dei Formaldeides.
   Passati i primi momenti, Paul e Godiva sedettero un po’ in disparte sull’orlo del bacino, osservando i Femen che discutevano ancora delle novità.
   «Hai compreso, Paul? Questa gente ha concluso un’alleanza con l’avvenire» bisbigliò Godiva all’orecchio del figlio.
   «Hm-hm» fece il giovane, osservando Cianidrina che appariva e spariva tra la folla.
   «Sono un popolo con uno scopo, e non permetteranno a nessuno di fermarli» incalzò la Lady. «Sarebbe assai facile farne i tuoi guerrieri, se li convinci che è nel loro interesse liquidare gli Scarafonnen. Puoi usare il loro fervore come una spada, per riconquistare il tuo legittimo posto...».
   «Hm-hm» annuì Paul, sempre fissando la squinzia. Non aveva udito una sola parola dei grandiosi piani materni.
   «Ehi, mi ascolti?!» protestò Godiva, passandogli una mano davanti agli occhi. Siccome il figlio restava catatonico, seguì il suo sguardo fino a scorgere Cianidrina. «Ah, guardi la beduina!» s’indignò. «Figliolo, lascia che ti dica una cosa: quella buzzurra non è adatta a te. Sei pur sempre un Duca, sebbene in esilio. E sei così giovane... hai tutta la vita davanti. Voglio dire, hai tante occasioni di combinare un matrimonio vantaggioso!» gongolò, ricominciando a fare progetti.
   «Sì, mamma. Certo, mamma. Ovviamente, mamma» disse Paul in tono meccanico. Dopo di che lasciò il seggio di pietra e si mise sulle tracce della ragazza, che era sparita in una galleria.
 
   «Che c’è, mi stai seguendo?» chiese Cianidrina, voltandosi a mezzo. Lei e Paul avevano salito una rampa di scale e ora percorrevano una balconata da cui lo sguardo spaziava sul lago sotterraneo. Ora che il sole non batteva più sulle loro teste, la figlia dello scienziato si era levata il velo, scoprendo i lunghi capelli scuri e mossi.
   «Ehm, volevo solo dirti che ci sono ancora molte cose che non so del tuo popolo» balbettò il giovane. «Spero che potrai spiegarmele. Non dico subito, ma nei prossimi giorni, un po’ alla volta» chiarì.
   «Si può fare» concesse la squinzia. «Altrimenti ti metteresti nei guai». Per un attimo osservò l’immota superficie delle acque. «Ora conosci il nostro più grande segreto, Paul. Il sogno dei Femen... e di mio padre, anche. A volte mi chiedo se abbiamo fatto bene i calcoli. Quando guardo i depositi come questo, mi riempio di speranza. Poi esco, arranco tra le dune... e il nostro sogno mi pare impossibile. Forse non sarò così fortunata da assistere alla trasformazione di Arrankis. Forse la vedranno i miei nipoti, o pronipoti. O forse... non avverrà mai» s’intristì. «Se gli Scarafonnen serrano il pugno su di noi, potrebbero scovare i depositi e distruggerli. Sarebbe la fine di tutto».
   «Ehi, il tuo intero popolo è votato a impedire che accada» la confortò Paul. «E siccome mi avete accolto tra voi... significa che lo sono anch’io».
   «Ma come, se non sai neanche cavalcare un Vermone?» rise Cianidrina. Stavolta era una risata affettuosa, che scaldò il cuore a Paul.
   «Per questo ti ho chiesto d’istruirmi!» rispose prontamente il giovane.
   «Lo farò» promise la squinzia. «Ma anch’io vorrei sapere certe cose da te. Ho sentito che il tuo mondo d’origine, Calamar, ha vasti oceani. Me ne parleresti?».
   A queste parole – la prima manifestazione d’interesse nei suoi confronti – Paul sentì d’averla agganciata come un pesce all’amo. «Certo, ti racconterò tutto quello che vuoi sul mio vecchio mondo» rispose, sfiorandole “casualmente” i capelli. «Al diavolo i consigli di mia madre! Sono in un buco sottoterra, non in un salotto dell’alta società, e questa è l’unica ragazza che potrà mai interessarsi ai racconti delle mie gite in barca!».
 
   Era passato sì e no un giorno dall’arrivo dei Formaldeides nel sietch, e Godiva stava ancora esplorando la città sotterranea, quando alcuni abitanti le vennero incontro. Avevano l’aria crucciata, come se qualcosa li preoccupasse. E non era il generico timore per le loro sorti, intuì la Lady, ma qualcosa di più vicino e pressante.
   «Dobbiamo parlare» disse Sticazz, sempre diretto. «Tu sei una Mala Gesserit, non è così?».
   «Lo ero» annuì Godiva. «Ma non credo che la Sorellanza conservi molta simpatia per me, o non avrebbe consentito agli Scarafonnen di farci questo».
   «Non ha importanza» tagliò corto il naib. «Tu conosci le pratiche della Sorellanza, giusto?».
   «Beh, sì...».
   «Anche la Sbronza della Spezia?».
   A questa domanda, Godiva s’incupì. «Certo che la conosco: è la nostra prova suprema. Quando un’accolita deve ascendere al ruolo di Reverenda Madre, beve un intruglio di Spezia e coca-cola. Se riesce ad assimilarne il potere, raggiunge il suo pieno potenziale, sbloccando la memoria genetica delle proprie antenate. Altrimenti impazzisce, diventando una bimbaminkia» rabbrividì. «È questo che volete farmi?».
   «La nostra Reverenda Madre sta morendo, e per colmo di sfiga non abbiamo chi possa subentrarle» spiegò Sticazz. «Se ciò accadrà, il popolo perderà fiducia. Ma se tu la rimpiazzerai, allora avremo una speranza. Naturalmente sarai la nostra grande sacerdotessa, ascoltata e riverita da tutti» garantì.
   «Senti, senti!» s’interessò Godiva. «Non sapevo nemmeno che aveste una Mala Gesserit con voi. È in contatto con la Sorellanza?».
   «Macché. Abbiamo Male Gesserit da quando l’Impero venne su Dune, ma esse appartengono pur sempre al nostro popolo, e si occupano delle nostre faccende» rivendicò il naib con orgoglio.
   «Dev’essere stata la Missionaria Protectiva, la nostra divisione che si occupa di proselitismo, a inviare le prime sorelle» mormorò Godiva. «Certamente furono loro a diffondere la profezia dell’Emo» rifletté.
   «Sì, infatti abbiamo ancora i loro volantini» confermò Sticazz. «Allora, ci stai?».
   «Ci starei, ma... mi chiedo che conseguenze avrà la trasformazione su mia figlia» mormorò la Lady, sfiorandosi l’addome. «Di solito non si diventa Reverende durante la gravidanza. Ci sono... strane voci sugli effetti».
   «Sfortunatamente alla nostra sacerdotessa non resta molto da vivere. Non credo che farai in tempo a sfornare tua figlia» disse Sticazz. «Comunque la nostra Reverenda ti assicura che la piccola non corre alcun rischio».
   «Quand’è così... accetto» esalò Godiva. «In fondo sono anch’io una specie di missionaria, non diversa dalle prime Male Gesserit che vennero tra voi» ragionò. Le sue parole suscitarono un coro d’approvazione da parte dei nativi.
   «Fermi tutti!» gridò Cianidrina, irrompendo nel gruppo. «Le condizioni della Reverenda Madre Papalla sono improvvisamente migliorate. Forse non dovrete prendere il suo posto, milady».
   «Ah, davvero? Come sono sollevata!» fece Godiva. In realtà era l’esatto opposto, dato che vedeva sfumare l’occasione di acquisire un rango elevatissimo tra i Femen. «Ma forse la Reverenda Papalla beneficerà delle mie conoscenze mediche. Portatemi da lei, così che possa visitarla e farmi un’idea più precisa delle sue condizioni».
   «Approvo la posizione della missionaria» disse solennemente Sticazz. «Portatela da Papalla, e stabilite come sta realmente».
 
   La Reverenda Papalla era coricata a letto, in una delle piccole case che i Femen avevano scavato come talpe nel sottosuolo. Era vecchia e raggrinzita, infagottata in un abito nero. Il cappuccio rovesciato all’indietro rivelava un viso rugoso e una massa di capelli grigi raccolti in una crocchia. «Sembra un fascio di bastoni, chiusi in un sacco dell’immondizia» pensò cinicamente Godiva. Si avvicinò per osservarla meglio. La sua testa era fasciata; dalla bocca sdentata usciva un incessante borbottio.
   «L’altro giorno è scivolata su un lembo della veste, cadendo giù dalle scale e atterrando di testa» sussurrò Cianidrina. «Da allora delira. Stamane sembrava prossima alla fine, ma ora pare migliorata».
   «Va bene, lasciatemi sola con lei» disse Godiva con decisione.
   «Ne siete certa, milady?» si stupì Cianidrina. «Abbiamo dei guaritori che l’assistono. Io stessa ho un’infarinatura...».
   «Dobbiamo restare sole!» ribadì la Lady, tassativa. «Ci sono segreti che una Mala Gesserit può rivelare solo a una consorella».
   «Come volete» cedette la giovane. «Tutti fuori, gentaglia!» strillò, alla maniera dei Femen. I guaritori abbandonarono la casa, lasciando Papalla sola in compagnia di Godiva.
   «Guarda, guarda, chi mi onora della sua visita!» gracchiò la Reverenda Madre, vagamente beffarda. «La Lady di un altro mondo, l’autoproclamata madre dell’Emo. E ora vorresti pure il mio titolo! Forse lo avrai, ma bada: la Sbronza della Spezia non è per le novelline!» ammonì.
   «Infatti non sono una novellina» chiarì Godiva, chinandosi sull’inferma. «Allora, befana, dimmi la verità: se affronto la Sbronza, mia figlia correrà rischi?».
   «Sei certa che sia femmina?».
   «Sì».
   «Bene. Se fosse un maschio sarebbero guai, ma una femmina ce la farà. Al massimo sarà una secchiona, se acquisirà la memoria genetica» spiegò Papalla.
   «Vuoi dire che mia figlia acquisirà la memoria delle nostre antenate, ancor prima di nascere?» s’inquietò Godiva.
   «Eh sì, cocca. E probabilmente anche quella dei tuoi avi di sesso maschile» confermò la Reverenda Madre. «Che problema c’è? Sei nobile, di certo hai un pedigree irreprensibile!» la sfotté.
   «Io... non sono affatto nobile di nascita» confessò Godiva. «Sono una trovatella del tempio di Can-can, non conosco affatto i miei avi. Beh, ora finalmente farò luce sul mistero» si riscosse.
   «Solo se io schiatto, bellezza! Ma si da il caso che mi senta di nuovo in forze» disse la vecchia, cercando di alzarsi.
   «Davvero? Io invece credo che le tue condizioni siano disperate!» ringhiò Godiva, con un’espressione che non prometteva nulla di buono.
 
   I Femen attesero a lungo nello spiazzo antistante l’ingresso della casa. Non avendo null’altro da fare, spostavano il peso da un piede all’altro, cercando discretamente d’origliare i suoni provenienti dall’interno. Udirono così delle colorite imprecazioni, accompagnate da suoni di colluttazione. Seguirono dei rantoli, sempre più deboli; infine il silenzio. Di lì a poco Lady Godiva uscì dall’abitazione, lievemente ansante. «Ho una triste notizia: la vostra sacerdotessa si è spenta» disse tutta compunta.
   «Davvero? Che strano, pareva sulla via della guarigione» si dispiacque Cianidrina.
   «Poteva sembrare così a chi non sia esperto dell’arte medica!» ammonì Godiva, fulminandola con lo sguardo. «In realtà, ho capito subito che non aveva speranze».
   «Eppure aveva solo un bernoccolo...».
   «Eh, ma è stato proprio quel bernoccolo a costarle la vita» disse tristemente la Lady. «Aveva un edema cerebrale... è stato straziante, non ho potuto salvarla. Beh, pazienza!» disse, battendo le mani con rinnovata allegria. «Qui c’è un posto libero per una Reverenda Madre... e io mi offro volontaria! Allora, quando si comincia?».
 
   Di lì a poco, Paul si accorse che c’era uno strano fermento in città. Un passaparola correva tra i Femen, che interrompevano le loro attività e andavano tutti nella stessa direzione. Incuriosito, il giovane li seguì, fino a raggiungere la Grande Spelonca. La trovò illuminata a giorno da lampade e fiaccole, con un’immensa folla assiepata. Doveva esserci gran parte della popolazione del sietch. Non riuscendo a farsi largo nella calca, Paul salì sul ballatoio, per osservare dall’alto.
   Al centro della folla c’era uno spazio vuoto, salvo per tre figure. Il corpo della Reverenda Papalla giaceva su un lettino; accanto a lei vi era Godiva, sdraiata a sua volta. Cianidrina le era accanto, e armeggiava con dei contenitori posti su un basso tavolino. «C’è l’acqua?!» chiese la squinzia, con un’insolita voce rimbombante.
   «C’è» disse un incaricato, porgendole una grande coppa.
   Cianidrina la posò davanti a sé. «Benedetta sia l’acqua» disse. «E la Spezia?».
   «Eccola qui» fece l’addetto, porgendole un sacchetto.
   Cianidrina svuotò il sacchetto nel calice, fino all’ultimo granello, e mescolò bene, facendo sciogliere tutto il melange. «E la coca-cola?» chiese.
   «C’è anche quella» assicurò l’uomo, porgendole una bottiglietta.
   «Siano benedetti la Spezia e la coca-cola» disse Cianidrina, versando anche l’ultimo ingrediente. Mescolò bene, perché si amalgamasse; infine avvitò un coperchio con cannuccia sopra il calice. Porse il tutto a Godiva. «Bevi! Se sei degna, questo ti schiuderà le porte dell’universo» annunciò. «Altrimenti ti ridurrà i denti a uno schifo».
   «Insomma, che succede? Che è questa macumba?!» chiese Paul, inquieto.
   «La Sbronza della Spezia» rispose Sticazz, venendogli accanto. «Tua madre ha accettato di sottoporsi alla prova».
   «Non lo credo!» si ribellò il giovane.
   «Sarà la nostra Reverenda Madre, riverita da tutti» obiettò il naib.
   «Ecco, adesso ci credo» si corresse Paul. Tornò a guardare: sua madre stava già bevendo la pozione, ormai era tardi per fermarla. La sorbì tutta in una volta; poi gettò via la coppa, con fare teatrale, e si riadagiò sul lettino. Per lunghi momenti regnò il silenzio: tutti gli occhi erano fissi su di lei.
   «Vorrei sapere se corre qualche rischio» sussurrò Paul, sempre più preoccupato.
   In quella Lady Godiva inarcò la schiena e strillò come se la stessero scannando. Poi rotolò giù dal lettino e si dibatté come un’ossessa, gridando parole incoerenti.
   «Ma no, è tutto a posto!» garantì Sticazz. «Tua madre fa solo un po’ di scena. Vedrai che fra un attimo sarà in piedi, più vispa di prima».
   Godiva gridò ancora più forte e prese a strapparsi i capelli.
   «Ma siete proprio sicuri?» chiese Paul, ancora dubbioso.
   «Al cento per cento!» garantì il naib, con un sorriso così largo da mostrare due denti d’oro. «Non badare agli strilli; fanno parte della sceneggiata».
   D’un tratto Godiva prese a sanguinare copiosamente dal naso. I suoi occhi erano così arrovesciati all’indietro da mostrare solo il bianco.
   «Eppure non mi sembra tanto una sceneggiata...» insisté Paul. «Avete mai visto una reazione simile?».
   «Boh? Nessuno di noi è così vecchio da ricordare l’ultima Sbronza» rispose Sticazz, facendo spallucce.
   Dopo alcuni minuti di pantomima, che divertirono moltissimo i Femen, Godiva cominciò a calmarsi. Dapprima smise di gridare. Poi il suo respiro rallentò, facendosi più profondo, e le convulsioni si acquietarono.
   Ritenendo che fosse il momento opportuno, Paul scese dal ballatoio. Puntò a sua madre, fendendo la calca a spintoni, finché le fu accanto. Allora vide che l’avevano riadagiata sul lettino. Cianidrina le passava una pezza sulla fronte, forse più per recuperare le preziose gocce di sudore che per solerzia nei suoi confronti. Le aveva anche ficcato due pezzetti di cotone idrofilo nelle narici, per arrestare il sanguinamento.
   «Mamma, come stai?!» chiese Paul, inginocchiandosi al suo capezzale.
   «Yu-huuu, una favola!» rispose lei, facendo il segno di vittoria. «È uno sballo, provalo anche tu!».
   «Più avanti, magari» rispose il giovane. Dopo di che sussurrò all’orecchio di Cianidrina: «Allora, me l’hai rimbambita?!».
   «Tranquillo, non si vedrà la differenza» rispose la squinzia, per nulla rassicurante. Stava già riponendo le sue carabattole.
   «La Sbronza... la Sbronza è fenomenale!» ansimò Godiva, afferrando il figlio per un polso con forza incredibile. Spalancò gli occhi... e Paul vide che le iridi un tempo verdi erano diventate blu oltremare. Lo stesso blu che scintillava negli occhi di Cianidrina, di Sticazz e degli altri Femen.
   «Ora possiedo la conoscenza collettiva delle mie antenate, a partire dalla prima che sniffò Spezia, millenni orsono» proseguì la Lady, ancora un po’ affannosa. «Certo, le ultime sono più nitide. Posso vedere attraverso gli occhi di mia madre... era una Mala Gesserit!» si emozionò. «E mio padre, chi...». D’un tratto il suo viso s’impietrì. Dai ricordi della Reverenda Madre Gaia Helen Mangiahuom era affiorato il viso del Barone Scarafonnen. Era giovane e aitante, all’epoca; gli stravizi non lo avevano ancora abbruttito. Ma era lui, indubbiamente. Folgorata dalla scoperta, Godiva fissò il figlio, come se lo vedesse per la prima volta.
   «Allora, chi era?» chiese Paul candidamente.
   «Io... non saprei. Non lo riconosco» mentì Godiva, non osando dirgli la tremenda verità. «Ma sono certa che era un brav’uomo... come potrebbe essere altrimenti?» fece, un po’ stridula.
   «Dovete riposare, ora... Reverenda Madre» intervenne Cianidrina, rivolgendosi a Godiva col suo nuovo titolo. «Una buona notte di sonno vi restituirà le forze e vi aiuterà a mettere ordine nella mente affollata».
   «Sì, lo credo anch’io» borbottò la Lady, sfregandosi le tempie. Si chiese che effetto potevano avere quei ricordi sulla mente della figlia non ancora nata; preferì non pensarci. Lasciò che la trasportassero al suo alloggio, su quella specie di lettiga in cui si trovava. Alcuni guaritori sarebbero rimasti con lei per tutta la notte, vegliando sulla sua salute.
   Ora che la cerimonia era terminata, i Femen tornarono alle loro occupazioni, parlottando fra loro. La Grande Spelonca si svuotò con la stessa rapidità con cui si era riempita. Tra i pochi che si attardarono vi fu Paul, che fissava il lago sotterraneo senza realmente vederlo.
   «Tua madre è forte, si riprenderà» disse Cianidrina, accostandosi.
   «Lo spero» sospirò il giovane. «Beh, ora che lei s’è messa in moto, io non posso stare fermo. Domani stesso comincerò il mio addestramento. E al tempo stesso, istruirò i vostri guerrieri sulle nostre tecniche. Chissà che, unendo il meglio dei due mondi, non si combini qualcosa».
 
   Il giorno dopo Paul parlò ai guerrieri del sietch. Si erano radunati in una caverna lunga e stretta, dal soffitto altissimo. Dalla sua posizione soprelevata, il giovane li osservò: erano migliaia, più di quanti avesse previsto. E quello era solo uno dei centri abitati dei Femen, che costellavano Dune. «Il buon Duncan aveva visto giusto... se questo popolo si unisse, sarebbe inarrestabile» si disse Paul.
   «Parla pure, ma sii conciso» raccomandò Sticazz, che gli stava a fianco. «Non siamo avvezzi ai discorsi filosofici».
   «Sarò terra-terra» promise Paul. Si fece avanti, finché fu proprio sul bordo della terrazza. Notò che non c’era alcun microfono sul parapetto. «Ma mi sentiranno, laggiù in fondo?» sussurrò a quanti lo attorniavano.
   «La caverna dovrebbe fare eco» spiegò Cianidrina. «Comunque non importa. Questa gente è così incazzata che, se riesci a infiammare le prime file, le altre le andranno dietro».
   «Okay» fece Paul, schiarendosi la voce. Era buffo, ma non aveva mai parlato a una folla così numerosa. Da dove cominciare? «Sono Paul Formaldeides, ma molti di voi mi conoscono come l’Emo!» esordì con voce stentorea. «La mia Casa era subentrata agli Scarafonnen nell’estrazione della Spezia, e avevamo già stabilito un primo accordo con voi, garantendovi la giusta autonomia e i lassativi gratis. Ma gli Scarafonnen sono tornati in forze, col beneplacito dell’Imperatore. Hanno ucciso mio padre, sterminato la nostra leale guarnigione. Hanno costretto me e mia madre a fuggire nel deserto, sempre braccati, finché il Fato ci ha fatto incontrare la vostra gente. Ora gli Scarafonnen sono di nuovo al potere, liberi di saccheggiare il vostro mondo. Glielo permetterete?!».
   «Nooo!» gridarono i guerrieri all’unisono.
   «Lotterete per riconquistare Dune e cacciarli a pedate?».
   «Sììì!».
   «Unirete il vostro sapere col mio, per diventare ancora più letali?».
   «Sììì!».
   «Bravi ragazzi. Ma non basta infastidire gli invasori, come facevate prima!» li istigò Paul. «Dobbiamo bloccare completamente l’estrazione di Spezia. Così non saranno solo gli Scarafonnen a rimetterci. La Gilda Spaziale, le Male Gesserit... tutti i pilastri dell’Impero dipendono dal melange. Leviamogli la dose quotidiana e li terremo per le palle! L’Imperatore in persona dovrà schiodarsi dal suo trono dorato e accogliere le nostre richieste!».
   «Sììì! Hurrà!» esultarono i guerrieri, così scatenati che l’oratore stesso non avrebbe più saputo calmarli.
   «Quando metteremo a segno i primi colpi, vedrete che gli altri sietch si uniranno a noi, in una valanga inarrestabile» proseguì Paul. «Presto gli occhi di tutto l’Impero saranno puntati su Dune. Questo pianeta sarà davvero il centro dell’Universo! E voi, sarete miei sodali?!».
   A quest’ultima domanda, calò il silenzio. I Femen si guardavano l’un l’altro, cercando di capirne il senso. Infine uno della prima fila alzò la mano. «Ehm, che significa “sodali”?» chiese.
   Paul alzò gli occhi alla volta rocciosa. «Significa alleati. Sarete miei alleati, miei fratelli d’armi... insomma, combatterete con me?!».
   «Ah, ecco! Sììì!!!» ruggirono i nativi, facendo tremare la caverna. Allora Paul e Cianidrina si scambiarono un sorriso di trionfo. Sentivano che era cominciato qualcosa di grandioso.
 
   I preparativi per l’insurrezione cominciarono subito. I guerrieri più abili del sietch si radunarono in un grande salone, per addestrarsi con Paul. Il giovane era un po’ nervoso, perché quasi tutti quegli uomini erano più maturi ed esperti di lui: aveva davvero qualcosa da insegnargli, o piuttosto non sarebbero stati loro a farlo apparire come un novellino? In quella prima lezione decise di concentrarsi sulla strategia bellica, più che sulle tecniche di lotta. Quindi fece predisporre accuratamente la sala d’addestramento.
   Quando i guerrieri entrarono, videro che al centro del salone svettava un grande monolito. Aveva forma rettangolare, con gli spigoli nettissimi, ed era di un nero intenso, senza riflessi. Incuriositi e un po’ timorosi, i nativi gli si accostarono e lo toccarono ripetutamente, cercando di capire che cosa fosse.
   «Beh, che fate tutti lì appiccicati, razza di scimmioni?! Mettetevi in riga!» abbaiò Sticazz, entrando nel salone. I guerrieri obbedirono, allineandosi su più file. Cadde il completo silenzio. Allora Paul entrò a sua volta e li passò in rassegna.
   «Benvenuti, fratelli miei. Oggi siete qui per la prima lezione del corso Uccidi gli Scarafonnen» annunciò il giovane Duca, fregandosi le mani. «Vedete quel monolito? Non chiedetemi cos’è, non lo sa nessuno. L’abbiamo appena tirato fuori dalla cantina. Vi basti sapere che è fatto di roccia durissima. Sarà questo il vostro primo avversario».
   Tra i Femen corsero sguardi perplessi, ma nessuno osò commentare quel singolare metodo d’istruzione scelto dall’Emo. Questi, dal canto suo, esaminò i guerrieri della prima fila, finché si fermò davanti a quello che gli parve più adatto. «Tu, fatti avanti!» ordinò con voce stentorea, cercando d’imitare i suoi maestri d’armi. Il guerriero eseguì e rimase sull’attenti. Intanto alcuni inservienti posero davanti al monolito due file di pali: ciascuna fila era unita da corde, andando quindi a formare un corridoio molto stretto. Il monolito lo bloccava interamente, impedendo il passaggio. I Femen osservarono tutto senza fiatare.
   A questo punto Paul prese una tazza di caffè e la tenne alta, per farla vedere a tutti. Poi la nascose dietro al monolito. Infine si rivolse al guerriero che aveva selezionato: «Per prendere quella tazza, dovrai oltrepassare l’ostacolo. Come conti di fare?».
   Il guerriero percorse la sottile strada che gli altri avevano tracciato, constatando che il monolito la bloccava del tutto. Lo osservò con attenzione: era troppo alto per scavalcarlo e così liscio da non potersi arrampicare. «Potrei ribaltarlo» rispose allora.
   «Provaci».
   Il guerriero spinse con tutte le sue forze, ma il pietrone era troppo pesante: un solo uomo non poteva farlo cadere. Dopo circa un minuto dovette desistere. Allora fissò Paul, in attesa dell’imbeccata.
   «Come dicevo, questo è il vostro primo avversario. Su, dagli un calcio, più forte che puoi» lo invitò il giovane.
   Il Femen esitò, sapendo che era inutile; ma non poteva esimersi davanti agli altri che lo fissavano. Così prese lo slancio e sferrò un energico calcio.
   Thud.
   «Ahi! Porca Gesserit! Mi devo essere fratturato l’alluce!» si lamentò il disgraziato, saltellando sull’altro piede.
   «Bene, ora dagli un pugno» ordinò Paul, tranquillissimo. «Sempre con tutte le tue forze».
   Il guerriero lo guardò come se fosse impazzito, ma di nuovo non osò contraddirlo davanti a tutti. Così respirò a fondo, caricò il destro e colpì con tutta la forza che aveva.
   Thud.
   «Uhi! La mia mano, la mia povera mano!» gemette il Femen, massaggiandosi l’estremità contusa. Le nocche avevano già preso a illividirsi.
   «Ottimo. Adesso urlagli contro» lo istruì Paul.
   Il nativo smise di lagnarsi e lo guardò truce. «Cos’è, mi prendi per i fondelli?!» protestò, mentre i compagni ridevano di lui.
   «Urlagli contro, ti dico» insisté il giovane Duca.
   Il guerriero si disse che forse quel particolare tipo di roccia era sensibile alle onde sonore... anche se in tal caso era improbabile che lui potesse vocalizzare quelle giuste. In ogni caso, decise di provare; almeno stavolta non si sarebbe rotto nulla. «SPEZZATI!» gridò, con quanto fiato aveva in gola. Il monolito, manco a dirlo, restò tutto d’un pezzo.
   «Eccellente. Ora non resta che dargli una testata» annunciò Paul.
   «Ah, no! Quella proprio no!» protestò il Femen, indietreggiando mentre si copriva il cocuzzolo in via cautelativa.
   «Dagli una testata, ho detto! Più forte che puoi!» esclamò l’Emo, infondendo tutto il potere della Voce in quell’ordine.
   Sopraffatto dalla volontà del suo istruttore, il guerriero si accostò irresistibilmente al monolito. Aveva gli occhi spiritati e si muoveva un po’ a scatti. Quando gli fu appresso, prese lo slancio e gli dette una tremenda craniata.
   Thud!
   Il guerriero stramazzò al suolo, privo di sensi. Due Femen accorsero prontamente, lo caricarono in barella e lo portarono chissà dove.
   «Ebbene!» fece Paul con voce stentorea, rivolgendosi al resto dell’uditorio. «Avete compreso la lezione di oggi?».
   I Femen si guardarono l’un l’altro, borbottando le loro impressioni. Finalmente un guerriero si rivolse al Duca. «Ehm... la lezione è che le pietre sono più dure delle nostre teste?» suggerì. «Del resto lo sapevamo già. Non c’era bisogno di rompere la testa al povero Phil».
   «Non hai capito una cippa! Cos’è, devo ripetere la lezione?!» chiese il giovane Duca, deciso a mostrarsi severo.
   «No, per carità! Una testa rotta basta e avanza» rispose il Femen. «Più che ripeterla, dovresti spiegarla».
   «E va bene» acconsentì Paul. «Fate conto che quel monolito siano gli Scarafonnen. Voi siete abituati a caricarli a testa bassa. Potrà anche suonare epico, ma... la maggior parte delle volte, le buscate di santa ragione. Avete un modo troppo rigido e codificato di combattere; così il nemico sa cosa aspettarsi. Da oggi bisogna uscire dagli schemi. Ricordate qual è stato il mio primo ordine, in questa prova? Per bere il caffè bisogna oltrepassare l’ostacolo. Chi vuol provarci di nuovo?».
   «Io» disse Cianidrina, facendosi avanti. Tutti la osservarono con ansia, aspettandosi nuove craniate. Ma si sbagliavano di grosso. Invece d’infilarsi nella strettoia che conduceva al monolito, la squinzia camminò all’esterno, girando intorno all’ostacolo. Raccolse la tazza di caffè e lo sorbì davanti al pubblico, senza fretta. «Buono, anche se un po’ freddo» commentò.
   «Ehi, ma così non vale! Hai imbrogliato!» protestò un Femen, dando voce all’opinione di tutti.
   «E allora? È il risultato che conta» la difese Paul. «Il vostro collega non ha superato l’ostacolo; lei sì. Questo è l’importante. Quando saremo tutti polvere nel deserto, e i posteri racconteranno la nostra storia, non conosceranno i dettagli. Non gl’importerà neanche sapere se abbiamo giocato pulito. L’unica cosa importante, per loro, sarà se abbiamo vinto o perso. Con questo, non dico d’abbassarci alla perfidia degli Scarafonnen» chiarì, temendo d’essere male interpretato. «Dico però che, se vogliamo avere una possibilità, dobbiamo farci furbi e tentare cose nuove. La vostra società è retta da rigidi rituali, che non cambiano da millenni. Può darsi che questo vi abbia aiutati a sopravvivere in passato, ma oggi vi ostacola. D’ora in poi, il nostro obiettivo non dev’essere più mantenere lo status quo, ma innovare e perfezionarci costantemente! Se riusciremo a essere creativi, allora sì che saremo inarrestabili!».
   I Femen manifestarono il loro assenso con grandi schiamazzi. Da quel momento in poi, anche i guerrieri più incalliti ebbero l’umiltà necessaria a seguire le lezioni del giovane Duca, imparando ciò che poteva insegnare sia a livello di strategia che di scontro diretto. Anche Paul, peraltro, si era iscritto a una dura scuola. Sticazz e altri Femen gli impartirono le lezioni più dure, focalizzandosi sulle tecniche di sopravvivenza e guerriglia nel deserto. Il giovane imparò a prevedere le tempeste di sabbia, a percepire l’avvicinarsi dei Vermoni, a conservare fino all’ultima goccia d’umidità corporea mentre si addestrava sulle dune roventi. Al tempo stesso apprendeva usi e costumi dei Femen, oltre al loro linguaggio. Era un’esperienza esaltante e al tempo stesso massacrante. Ma erano pur sempre dei preparativi. La guerra, quella vera, doveva ancora cominciare; e Paul sapeva di non poter attendere troppo. Ogni giorno che passava, gli Scarafonnen si facevano più spavaldi. Le loro Mietitrici si addentravano nel territorio dei Femen, i loro porcicotteri sorvegliavano i cieli. Se avessero avuto sentore della rivolta che si preparava, avrebbero colpito per primi; e allora sarebbe stata la fine.
 
   Rientrato dal suo massacrante addestramento nel deserto, Paul lasciò che la frescura della Grande Spelonca lo ritemprasse. Non vedeva l’ora d’incontrare Cianidrina, e chissà che stavolta non riuscisse a combinare qualcosa...
   Come al solito la vide sul ballatoio. Era lì che la figlia di Kinkes lo aspettava, quando non aveva di meglio da fare. Non che incontrarla significasse davvero svagarsi: finito l’addestramento nel deserto, cominciavano le lezioni di storia e usanze Femen. Cianidrina gli aveva insegnato molto, ma c’era così tanto da apprendere... Paul si chiese cosa gli avrebbe raccontato oggi. Salì la scaletta intagliata nella roccia, cercando di apparire scattante, quando invece era spompato. «Ehilà, Ciani!» la salutò quando fu in cima. Solo lui usava quel diminutivo. «Oggi il buon vecchio Sticazz mi ha insegnato a riciclare l’urina e le feci. È stato molto divertente!» mentì. «E tu, che hai fatto di bello? Per caso hai visto mia madre? Ultimamente è molto ritirata...».
   Cianidrina, che fino ad allora aveva fissato il lago sotterraneo, si girò verso di lui. E Paul si bloccò di colpo, perché la squinzia stava facendo qualcosa che non le aveva mai visto fare. Stava piangendo. Se lo faceva lassù, era perché in quel modo le lacrime cadevano nel bacino e non andavano sprecate.
   «Ehi, che ti succede?» si preoccupò il giovane.
   «Mio padre è morto» rispose Cianidrina, semplice e diretta. «Era da tanto che non avevamo sue notizie. Partì dalla stazione ecologica abbandonata per venire qui, dopo aver aiutato te e tua madre. Ormai sarebbe dovuto arrivare, ma non l’ha fatto. Così alcuni dei nostri esploratori più esperti sono andati a cercarlo. Non l’hanno trovato... ma hanno captato una trasmissione degli Scarafonnen da cui si evince che è morto».
   «Non potrebbe essere un inganno?» suggerì Paul.
   «Non credo. Se fosse vivo, a quest’ora sarebbe arrivato. E non penso che lo tengano prigioniero... anche perché non si sarebbe fatto catturare» rispose la squinzia. «Dicono che fu inghiottito da un Vermone. Se è così, è stata una buona morte. Benedetto il creatore, quando viene e quando parte» recitò, come se quel mantra potesse alleggerirla.
   «Stavolta il creatore del deserto è venuto affamato ed è ripartito sazio» si disse Paul, che malgrado tutto stentava a considerare i Vermoni col sacro rispetto dei Femen. Ma non poteva certo dire questo alla figlia del planetologo. «Tuo padre era un brav’uomo» mormorò. «Ha salvato la vita a me e mia madre... e io mi maledico per non aver saputo ripagare il gesto».
   «Non è stata colpa tua» sospirò Cianidrina. «Mio padre è morto a causa degli Scarafonnen, proprio come il tuo».
   «Allora dobbiamo proseguire la loro lotta, senza per questo perdere di vista i loro ideali. Solo così potremo onorarli» dichiarò il giovane Duca. Sarà stata l’intensa commozione, ma fu allora che si scambiarono il primo bacio. E anche il secondo e il terzo.
   «Calma, non precipitiamo le cose» mormorò Paul, scostandosi un poco. Aveva difficoltà a ragionare, eppure doveva provarci. «Sei in lutto, hai bisogno di tempo per elaborarlo. Ne riparleremo quando ti sentirai pronta».
   «Sì, è meglio così» convenne Cianidrina, ricomponendosi. «Anzi, sai che ti dico? Questo momento fra noi non c’è mai stato. Siamo solo amici».
   «Certo, solo buoni amici» convenne l’Emo.
 
   Girandosi nel letto, Paul vide che Cianidrina era ancora sveglia e lo fissava. «Fortuna che eravamo solo amici» commentò.
   «Beh, adesso siamo qualcosa di più» ammise la squinzia.
   «In tal caso, non vedo motivo di tenerlo per noi» disse Paul. «Da ciò che ho appreso delle vostre usanze, credo che possiamo considerarci... fidanzati?» scherzò, ma la compagna si fece seria.
   «In base alle nostre usanze, io posso essere al massimo la tua concubina».
   «Al diavolo queste usanze preistoriche!» sbottò Paul, infastidito. «Ci sono pianeti in cui si convive, sai? E se la cosa funziona, ci si può anche...».
   «Meglio non guardare così avanti» sospirò Cianidrina. «E poi devi concentrarti sul tuo addestramento. Sei progredito in fretta, la mia gente ti rispetta. Ma se vuoi l’ammirazione e la fiducia incondizionata di tutti, c’è una cosa che devi ancora fare».
   «Che cosa? Dimmi, sono pronto!» si gasò il giovane.
   «Devi cavalcare Shai-Hulud».
   «Come? L’ho già fatto!».
   «Sì, ma c’era un altro guidatore. Tu eri solo un passeggero» puntualizzò la squinzia. «Ciò che devi fare è domarne uno, con le tue sole forze. Ciò significa salirgli in groppa, imbrigliarlo e riuscire più o meno a dirigerlo. Finché non farai questo, il più meschino dei nostri guerrieri potrà vantarsi d’essere più in gamba di te. La tua autorità sarà sempre minacciata e le tue possibilità saranno limitate dall’abilità altrui. È una cosa, questa, che un vero Femen non sopporterebbe mai. Vuoi viaggiare sempre come se fossi un bambino, o un vecchio, o un ammalato?».
   «Certo che no!» fece Paul, sulla difensiva. «Se ci riuscite tutti, ci riuscirò anch’io. Anzi, sai che ti dico? Stasera stessa farò l’annuncio e domani andremo nel deserto in cerca di Vermoni!».
   «Bravo, così si fa» approvò Cianidrina. «E al ritorno t’inviterò a ristorarti da me, così tutti sapranno che siamo... fidanzati».
 
   Era un caldo mattino nel Deserto di Aaargh; il venticello sollevava la sabbia e le particelle di Spezia scintillavano nella luce del sole nascente. Le soffici dune arancioni si stendevano a perdita d’occhio. Usciti dal loro rifugio, i guerrieri Femen – una quarantina in tutto – avanzarono in fila indiana, col tipico Passo Arrancante. Intanto canticchiavano il vecchio ritornello: «Ehi-oh! Ehi-oh! Andiamo a lavorar!». I più stonati si limitarono a fischiettarlo.
   Avendo provato a unirsi al coro, Paul si ritrovò ben presto col naso e la gola pieni di sabbia. «Cough! Cough! Non c’è verso d’aprir bocca, quando siamo fuori!» si lamentò mentre tossiva.
   «Ora sai perché siamo laconici» commentò Sticazz, che procedeva davanti a lui.
   «Senti, capisco il Passo Arrancante... ma perché siamo sempre in fila indiana?» chiese Paul di lì a poco.
   «Per non far sapere quanti siamo, scemo».
   «Non farlo sapere a chi?! Oltre a noi, non c’è anima viva!» protestò il giovane, allargando le braccia.
   «Mai sentito parlare di foto satellitari? Gli Scarafonnen cercano sempre di localizzarci e di censirci. Fossimo tutti come te, lo avrebbero già fatto» lo rampognò Sticazz. «Invece siamo ancora liberi dagli esattori fiscali. E adesso... fermi!» ordinò, alzando una mano. I compari si bloccarono all’istante.
   Il naib si voltò, fissando Paul coi suoi occhi balenghi. «Beh, ragazzo mio, eccoci qui. C’è il deserto, ci sei tu... manca solo il Vermone. Chiamalo, e vediamo che succede».
   «La fai facile» borbottò il giovane, ricordando quello che aveva mandato giù la Mietitrice come una pillola.
   «Questi sono i ferri del mestiere. Fatti onore!» proseguì Sticazz, porgendogli un Martellatore, una fune e un arnese a metà fra una pala e un arpione.
   «Okay... allora io vado, eh?» fece Paul, prendendo gli attrezzi. Chissà perché, la sua voglia di cavalcare i Vermoni era andata a farsi friggere. Avrebbe tanto preferito starsene nella città sotterranea, dov’era fresco e la sabbia non s’infilava in ogni orifizio... avrebbe tanto preferito starsene con Cianidrina. Già, ma per tornare da lei doveva prima riuscire; altrimenti la squinzia si sarebbe vergognata di lui.
   «Mi raccomando, mettetevi comodi!» borbottò il giovane, arrancando sotto il sole ormai alto. Già che stava per fare una cosa difficile e rischiosa, avrebbe preferito non avere il pubblico; gli metteva ancora più ansia. «Se faccio cilecca, i Femen si convinceranno che non sono l’Emo» rimuginò. «No, devo farcela al primo tentativo. Del resto, dopo tanti segni premonitori, ormai avranno una discreta fiducia in me...». Si girò e vide che i nativi si erano ritirati su un’altura rocciosa, che li avrebbe protetti nel caso il Vermone si fosse rivelato incontrollabile.
   «Che malfidenti!» brontolò Paul, continuando ad arrancare sulla pericolosa sabbia fine. Quando gli parve d’essere abbastanza lontano, si fermò. Piantò il Martellatore nella sabbia e lo attivò, lasciando che le vibrazioni attirassero i Vermoni.
   Tu-tum, tu-tum,tu-tum...
   Fatto questo, il giovane cercò d’impugnare il rampone, per legarvi la corda. Ma poiché se lo era assicurato dietro la schiena, e doveva andare a tentoni, lo mancò. Finì per girare più volte su se stesso, cercando di guardarsi dietro le spalle per capire com’era messo quell’arnese.
   «Che cosa fa l’Emo?» chiese uno dei Femen, osservando le sue bizzarre piroette.
   «È ancora più coraggioso di quanto credevo. Ci sta mostrando il suo sprezzo del pericolo» disse solennemente Sticazz.
   «Ma Shai-Hulud sta arrivando» avvertì un altro, accennando al rigonfiamento nella sabbia in rapido avvicinamento. Era come una duna, anzi una collina semovente. Fulmini statici se ne levavano, crepitanti.
   «È grosso» riconobbe Sticazz. «Molto più grosso del solito».
   A queste parole, un chiacchiericcio eccitato corse fra i nativi. «Avete visto? L’Emo ha chiamato il più grosso! Anche questo era predetto!» gridò uno di loro.
   Udendo le loro voci, e ormai anche il boato della creatura, Paul desistette dai suoi tentativi. Si girò e vide la montagna di sabbia che gli veniva addosso. «Porca Gesserit! Ma quant’è grande?!» si disperò. Corse lontano dal Martellatore, mentre cercava ancora di afferrare il rampone. Sarà stato il dondolio della corsa, ma finalmente ci riuscì. Allora vi legò in fretta e furia la corda.
   Proprio in quel momento il Vermone uscì dalla sabbia, spalancando le fauci tripartite. Mai, nemmeno nelle precedenti cavalcate, Paul si era trovato così vicino alla bocca irta di denti del mostro. Si sentì rizzare i capelli, mentre le scariche statiche quasi lo friggevano. Con la forza della disperazione, si buttò di lato e rotolò sulla sabbia. Quando si rialzò, si accorse che il corpaccio del Vermone gli scivolava a fianco, travolgendo il Martellatore. Era il momento decisivo.
   Coi Femen che facevano la ola per incoraggiarlo, il giovane corse accanto al Vermone. Doveva osservarne la dura epidermide, formata da anelli sovrapposti, in cerca del punto di contatto fra due segmenti. Una volta lì, vi avrebbe infilato il rampone. In ciò era ostacolato dal fatto che il Vermone, col suo movimento, lo annaffiava costantemente di sabbia smossa.
   «Sputter! Io ODIO la sabbia! Mi s’infila ovunque!» protestò Paul, sputando quella che gli era finita in gola. In qualche modo riuscì ugualmente a raggiungere la giunzione tra due segmenti. Allora v’infilò il rampone e fece forza, sollevandone l’orlo. Era quello il segreto trasmessogli dai Femen: finché l’uncino avesse mantenuto aperto il bordo dell’anello, esponendo all’abrasione della sabbia la sensibile polpa interna, la creatura non sarebbe più sprofondata nel sottosuolo. Il Vermone spalancò la bocca, come per urlare il suo disappunto, e ruotò su se stesso. Naturalmente si girò in modo tale da sollevare la parte irritata, allontanandola dalla sabbia. E così facendo, sollevò il giovane da terra.
   «Urka!» fece Paul, reggendosi a forza di braccia. Si sentiva come una formica aggrappata a un barile che, ruotando, la innalzi sempre più. Lasciò che la corda si sciogliesse dietro di lui, in modo che i Femen ci si potessero aggrappare in seguito. Al termine del movimento, il giovane si ritrovò sulla groppa del Vermone.
   «Però, non è male!» commentò, guardandosi attorno. Lì in cima, a decine di metri sopra il deserto, non gli arrivava così tanta sabbia in faccia. Inoltre poteva vedere tutto dall’alto... non che ci fosse molto da vedere, considerato che le dune si stendevano uniformi in tutte le direzioni. Ma era comunque una bella soddisfazione stare in groppa al Vermone. Ora non gli restava che dirigerlo.
   Guardandosi attorno, Paul localizzò uno degli sfiatatoi. Vi corse appresso, per agganciarvi l’estremità della corda con un morsetto. Era appena arrivato che la sabbia surriscaldata uscì dallo sfiatatoio, finendogli dritta in faccia. «Ancora sabbia! Allora ce l’hai con me... ma vedremo chi ride ultimo!» ansimò, sputacchiando. Tese la corda dallo sfiatatoio a quello adiacente, agganciandola anche lì con un secondo morsetto, e beccandosi un secondo sbuffo di sabbia calda. Lasciato pendere ciò che rimaneva della fune, andò a metà strada tra gli sfiatatoi. Afferrò la corda tesa, a mo’ di briglia, cercando di rallentare il Vermone.
   «Oh-ohhh! Frena, bello!».
   E incredibilmente il Vermone rallentò. Non si fermò del tutto, ma passò accanto ai Femen alla velocità di un calesse. Allora i nativi esultarono e si lanciarono in avanti, sulla sabbia. Il primo ad afferrare la corda e a issarsi fu Sticazz, seguito da molti dei suoi. Si ritrovarono sull’ampio dorso del Vermone e si accostarono a Paul, vincendo la resistenza del vento.
   «Ullallà! Congratulazioni, figliolo! L’ho sempre detto che ce l’avresti fatta!» gongolò Sticazz, sebbene il giovane Duca non se lo ricordasse così ottimista. «Ora prova a dirigerlo verso il sietch. Seconda duna a destra e poi dritto!».
   Quella era la parte peggiore, Paul lo sapeva. Montare in groppa al Vermone era normale per i Femen; il difficile stava nel dirigere la rotta. Eppure, quale che ne fosse la ragione, il Duca scoprì che la creatura era sorprendentemente docile. Tirando le briglie, quella rallentava; allentandole riprendeva velocità. Tirandole solo da un lato, il Vermone virava in quella direzione. E non è che le onnipresenti dune lo rallentassero, perché la creatura le aggirava istintivamente. In quel modo bastarono pochissimi minuti per tornare al sietch. E Cianidrina, che attendeva di vedetta su un cocuzzolo roccioso, vide Paul tornare da trionfatore.
   «Yu-huuu! Ce l’ho fatta!» ululò il giovane, salutandola con un ampio gesto che quasi gli fece perdere il controllo. Dovette tornare a concentrarsi sulla guida per non essere sbalzato con gli altri. Rallentò il Vermone finché riuscì ad arrestarlo del tutto; ma anche allora la creatura restò in emersione. «Ben fatto, vecchio mio» disse Paul, grattandolo sul dorso. «Ti serve un nome... ti chiamerò Torpedone».
   «Ah, che corsa! Tu hai un talento naturale, figliolo!» si complimentò Sticazz, dandogli una sonora pacca sulla spalla. «D’ora in poi non dubiteremo più del fatto che tu sei davvero l’Emo, giunto a guidarci verso la vittoria».
 
   Di tutte le emozioni di quel giorno, Paul agognava soprattutto ciò che avrebbe provato nel riabbracciare Cianidrina. Così discese nel sietch tutto baldanzoso, a stento consapevole della scia di sabbia che si lasciava dietro. Ma quando fu nella Grande Spelonca e se la trovò di fronte, la squinzia aveva una strana espressione. «Bentornato Paul, Cavaliere delle Sabbie» lo accolse con esagerata formalità.
   «Credevo fossimo più intimi di così» mormorò Paul, un po’ deluso. «Che ti succede? È accaduto qualcosa in mia assenza?».
   «Direi proprio di sì. Tua madre...».
   «... ne ha combinata un’altra delle sue. Lo immaginavo» sospirò l’Emo. «Avanti, spara: che ha fatto?».
   «Ha dato alla luce tua sorella».
   Per qualche momento cadde un silenzio così completo che Paul poteva sentire i battiti del proprio cuore che risuonavano nelle orecchie. «Mi prendi in giro? Non è ancora tempo...» obiettò.
   «Il tempo è giunto e la bambina è nata» ribadì Cianidrina. «Credo che la Sbronza della Spezia abbia accelerato i tempi della gravidanza».
   «Ma mia madre sta bene? E la mia sorellina?» annaspò il giovane, assalito da mille preoccupazioni.
   «Per quel che possiamo vedere, madre e figlia stanno bene» assicurò la squinzia. «Ora stanno riposando, ma tua madre ha detto che potevi passare da lei appena tornato...».
   «Vengo subito» annuì Paul. Seguì Cianidrina in una zona della città sotterranea un po’ discosta dai quartieri abitativi, in quanto era la zona ospedale. Non c’erano molti degenti, in quel momento. Sua madre, in quanto Reverenda del sietch, aveva una camera tutta per sé. Era ancora coricata e cullava un minuscolo fagottino, canticchiando dolcemente. All’ingresso del figlio alzò gli occhi raggianti su di lui.
   «Bentornato, Paul. È andata bene col Vermone?» volle sapere.
   «Liscio come l’olio. E tu?» chiese il giovane.
   «Una faticaccia, come con te. Ma ora stiamo bene» assicurò Godiva. «Vieni avanti, su... vieni a vedere la tua sorellina».
   Paul si avvicinò, osservando l’involto di coperte con circospezione, come se da un momento all’altro potesse saltarne fuori un gremlin. Ricordava che la Sbronza di Spezia aveva strani effetti sul nascituro, e uno di questi – la nascita precoce – s’era già verificato. Chissà quante altre sorprese aveva in serbo la creatura. «Allora, hai scelto il nome?» chiese. Sapeva che, presso i Femen, era imperativo dare un nome ai propri figli prima che nascessero.
   «Oh, sì!» trillò Godiva. «Di’ ciao al tuo fratellone, mia piccola Aliena!».
   Il giovane Duca si accostò ulteriormente, chinandosi sull’involto. Con estrema attenzione, scostò l’orlo della soffice copertina. E si trovò a fissare due insondabili occhioni color blu oltremare. 
 

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