Indiana Jones e il cammino della vita

di IndianaJones25
(/viewuser.php?uid=1032539)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La biblioteca ***
Capitolo 2: *** Lotta tra le calli ***
Capitolo 3: *** Ah, Venezia... ***
Capitolo 4: *** Indy allo specchio ***
Capitolo 5: *** Katy e Valerija ***
Capitolo 6: *** Il segreto rivelato ***
Capitolo 7: *** Riflessione ***
Capitolo 8: *** L’attesa ***
Capitolo 9: *** La storia di Antonio Barbarigo ***
Capitolo 10: *** Scontro sotterraneo ***
Capitolo 11: *** L’ingresso della piramide ***
Capitolo 12: *** Nelle antiche gallerie ***
Capitolo 13: *** La mappa ***
Capitolo 14: *** In trappola ***
Capitolo 15: *** Prigioniere ***
Capitolo 16: *** Tra presente e passato ***
Capitolo 17: *** Il giorno dopo ***
Capitolo 18: *** Il richiamo dell’avventura ***
Capitolo 19: *** Ripresa ***
Capitolo 20: *** Tradimento ***
Capitolo 21: *** In fuga ***
Capitolo 22: *** Nelle mani del nemico ***
Capitolo 23: *** Il cammino della vita ***
Capitolo 24: *** Verso la meta ***
Capitolo 25: *** Il Giardino dell’Eden ***
Capitolo 26: *** Le tentazioni della Fonte ***
Capitolo 27: *** Scelte da compiere ***
Capitolo 28: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** La biblioteca ***


     1 - La biblioteca
 
    Venezia, Italia, 1984

   La Biblioteca di San Barnaba era tra le più ricche e fornite di tutta la città, forse addirittura di tutta l’Italia settentrionale. Tra i suoi alti scaffali polverosi e le numerose scansie dislocate un po’ ovunque all’interno dell’edificio che un tempo era stato una chiesa, offriva una vastissima scelta di volumi, in grado di coprire tutte le epoche e tutti i campi dello scibile umano. Ma la parte senza dubbio più interessante dell’intera raccolta era costituita dall’archivio in cui erano conservati codici e volumi in pergamena, redatti a mano durante il medioevo.
   Era lì che erano racchiusi i più preziosi tesori, vere e proprie opere d’arte di carta rilegata in pelle.
   Nella luce fioca che filtrava attraverso le strette finestre, lunghi mobili di legno massiccio anneriti dal tempo ospitavano volumi e libri unici nel loro genere. L’odore della polvere si mescolava a quello della carta vecchia e della pergamena, pervadendo l’intero ambiente; e a questi aromi, così tipici per un luogo come quello, di quando in quando se ne mescolavano altri meno consueti, come quello salmastro dell’acqua che scorreva nel canale appena oltre la parete. C’era anche un altro odore, molto più strano ed estraneo: era come se, di quando in quando, dal sottosuolo si levasse un effluvio di petrolio.
   Valerija Bjelica si strinse nelle spalle.
   Doveva essere la sua fervida immaginazione, accesa ancor di più da quel luogo tanto affascinante, a farle sentire cose che non esistevano. Probabilmente la sua era una semplice associazione di idee: giusto la sera prima, dopo essere rientrata dalla cena ed essersi sdraiata sul letto della sua stanza in albergo, aveva acceso il televisore e aveva visto al notiziario un servizio in cui veniva sostenuta l’ipotesi che, gli avvistamenti di UFO avvenuti sull’Adriatico negli ultimi sei anni, non fossero altro che eventi legati alla presenza sottomarina di pozzi petroliferi. Si era addormentata davanti allo schermo ancora acceso, spossata per aver viaggiato tutto il giorno con numerosi cambi di treno, e così quelle informazioni dovevano aver continuato a penetrare dentro di lei. Anche se aveva creduto di non aver dato troppo peso alla cosa, evidentemente le era rimasta impressa, dato che stava vivendo l’assurda sensazione di sentire odore di petrolio persino lì, in biblioteca.
   In ogni caso, non era per il petrolio, né tantomeno per un’idiozia come i dischi volanti, che aveva varcato il confine, aveva attraversato Trieste ed era venuta a Venezia. Le era stata affidato un incarico molto importante e si sarebbe dovuta concentrare esclusivamente su quello, senza lasciarsi distrarre da nulla.
   Proprio per questo, dopo aver camminato per ponti e calli, sorridendo ai canti dei gondolieri e alle strilla dei mercanti che vendevano pesce alle bancarelle, accompagnata dai profumi tipici della città immersa nella laguna veneta e dal tiepido calore del sole autunnale, aveva raggiunto la biblioteca.
   Dopo aver scambiato poche parole con il bibliotecario – un tizio occhialuto alto, magro, pelato e con i baffi, che assomigliava in modo impressionante al Mahatma Gandhi, che la giovane aveva sorpreso tutto impegnato a timbrare le prime pagine di alcuni volumi – era passata in fretta davanti alla vetrata accanto a cui svettavano le colonne condotte lì dopo il sacco di Bisanzio, ed era entrata nell’archivio.
   Solo che, una volta lì, si era trovata davanti a una difficoltà in apparenza insormontabile.
   La biondissima Valerija, con i capelli raccolti in una treccia che le ricadeva sulla spalla sinistra, raggiungeva a stento il metro e cinquanta di altezza; anche allungando il braccio fino a correre il rischio di slogarsi un muscolo, non sarebbe mai riuscita a raggiungere la scansia più alta, dove era riposto il libro che le interessava. Di certo non poteva mettersi a saltellare per sperare di raggiungerlo. Prima di andare a disturbare Gandhi, distogliendolo dal suo timbro, provò a guardarsi attorno, cercando una scaletta che l’aiutasse a salire più in alto, ma non sembrava essercene traccia.
   Rassegnata a dover fare una misera figura, si avvicinò a un tavolo e raccattò una sedia per issarsi al di sopra.
   Per fortuna, nell’ala semibuia, oltre a lei c’era soltanto un anziano signore vestito con un completo marrone di velluto a coste, elegante anche se lievemente liso, la barba bianca e fluente e un paio di occhiali da lettura in bilico sul naso, chino sopra un antico codice miniato di fianco al quale era appoggiato un cappello di feltro marrone. L’uomo era assorto nella lettura e non pareva per niente interessato ad alzare gli occhi contornati da una ragnatela di rughe per scoprire che cosa volesse combinare la ragazza con una sedia.
   Valerija afferrò lo scranno per lo schienale e, barcollando un poco a causa del peso, lo trasportò attraverso la stanza fino ad avvicinarlo allo scaffale. Finalmente, anche se con qualche difficoltà a causa della stretta gonnella che le rendeva difficoltosi certi movimenti, poté mettersi in piedi per prendere ciò che le serviva. Anche così, però, il libro restava testardamente fuori dalla sua portata. Si sollevò sulle punte, senza nemmeno domandarsi cosa sarebbe successo se, perdendo l’equilibrio, fosse caduta proprio contro la libreria.
   «Serve aiuto?» domandò una voce femminile lievemente roca, parlando un italiano dal forte accento americano.
   La giovane abbassò gli occhi e si sentì arrossire fino all’attaccatura dei capelli.
   Una ragazza che doveva avere suppergiù la sua età, sui venticinque anni, abbastanza magrolina e parecchio abbronzata, la osservava dal basso, sbucata da dietro chissà quale porta o dall’angolo di qualche altro scaffale. I suoi occhi verdeazzurro, sottolineati da un buon tratto di matita scura, la scrutavano con la medesima ironia che le incurvava le labbra dipinte da un rossetto scurissimo. Teneva le mani appoggiate ai fianchi, coperti da un giubbotto chiodo di pelle nera pieno di borchie, su cui ricadevano i lunghi capelli corvini, molto lucidi e decisamente spettinati. E il nero doveva essere il suo colore preferito, almeno a giudicare dai pantaloni di pelle e dagli anfibi di cuoio – che la facevano sembrare molto più alta e slanciata di quanto non fosse veramente – della medesima tinta.
   «Bisogno di aiuto, tappetto?» ripeté la ragazza, facendo scorrere lo sguardo – parecchio interessato – su tutto il florido corpo di Valerija.
   A quest’ultima si imporporarono ulteriormente le gote. Non era abituata a lasciarsi prendere in giro in quella maniera… specialmente, non da un’americana vestita come un becchino e che non doveva superarla in altezza se non per una decina di centimetri. E, soprattutto, non era avvezza a essere guardata in quella maniera da un uomo, figurarsi da una donna!
   «Hvala, ne! Ja to radim sam!» replicò nella sua lingua, sperando che bastasse a togliersi di torno quell’importuna.
   Si voltò di nuovo e ricominciò a contorcersi nel tentativo di allungarsi verso l’alto. Ebbe la sgradita sensazione che gli occhi dell’americana adesso le stessero guardando il fondoschiena. Mannaggia a lei quando, quella mattina, aveva indossato solo un tailleur blu dalla giacca piuttosto corta, anziché il suo solito cappotto lungo fino alle ginocchia. Resistette alla tentazione di controllare che almeno la gonna non le si fosse sollevata più del dovuto. Deglutì, sperando che fosse soltanto immaginazione, e moltiplicò i suoi sforzi per raggiungere il libro.
   Ma se aveva sperato di sbarazzarsi di quell’impertinente, si sbagliava di grosso. Quella, infatti, rispose in un croato perfetto, con accento allegro: «A me sembra invece che tu abbia davvero bisogno di aiuto!»
   Possibile che si fosse imbattuta non solo in un’impicciona, ma pure poliglotta?
   Senza attendere una sua risposta, la ragazza vestita di pelle spiccò un balzo atletico e salì accanto a lei sulla sedia. Nel muoversi, fece tintinnare le collanine e i braccialetti che aveva addosso, nascosti sotto il giubbotto. Per la sorpresa, Valerija rischiò di cadere all’indietro, ma l’altra l’afferrò senza ritegno, passandole il braccio sinistro  attorno alla vita e trattenendola.
   «Eh… ehi…!» balbettò la giovane croata, sentendosi andare letteralmente a fuoco.
   Fingendo di ignorare il suo imbarazzo e continuando a stringerla, come se abbracciare una perfetta sconosciuta fosse la cosa più normale del mondo, l’americana inspirò un paio di volte, quasi che stesse valutando il profumo alla vaniglia di Valerija; quindi allungò il braccio destro e afferrò il grosso libro rilegato in cuoio amaranto che lei aveva cercato inutilmente di prendere.
   «Ecco qua» disse, porgendoglielo con un sorriso che risplendette a pochi centimetri dal suo viso ancora in fiamme. «È questo che volevi, vero?»
   Suo malgrado, Valerija si scoprì a sorridere a sua volta. Fece per mormorare un ringraziamento, ma non riuscì a pronunciare una sola sillaba che risuonò una voce profonda e cavernosa, parecchio scorbutica.
   «Per la miseria, Katy! Cosa ci fai in piedi su quella sedia?! Smettila di giocare alla bella statuina e vieni a darmi una mano!»
   Entrambe si volsero verso il vecchio seduto al tavolo, che aveva sfilato gli occhiali da lettura e le fissava con sguardo arcigno attraverso la stanza. I suoi occhi parvero balenare nella semioscurità e i bagliori che penetravano da una finestrella facevano risplendere il candore della sua barba lunga.
   «Lo so che sembra il nonno di mio nonno e che potrebbe essere nato prima del Diluvio Universale, a vederlo così» bofonchiò la ragazza di nome Katy, parlando all’orecchio di Valerija, «e suppergiù non credo che ci si sbaglierebbe, come datazione geologica. Credo che abbia tirato la coda a un dinosauro, quando ha raggiunto la mezza età. Ma giuro che è sul serio mio padre.» Poi, alzata la voce, replicò: «Arrivo subito, Old J!»
   «E non chiamarmi in quella maniera!» brontolò il vecchio, inforcando di nuovo gli occhiali e ricacciando lo sguardo sul codice miniato.
   «Be’, ecco qua» riprese la ragazza, porgendo il libro a Valerija, che lo strinse tra le mani. «Come avrai capito, io sono Katy. Katy Jones.»
   «Valerija Bjelica» replicò lei, senza capire come mai stesse diventando sempre più rossa e sentisse quello strano calore infonderle tutto il corpo. Forse era perché il braccio dell’americana non l’aveva ancora lasciata andare.
   «Piacere di averti dato una mano, Valerija» rispose Katy. Il modo in cui pronunciò il suo nome parve una stilla di miele fatta parola. Sfilò il braccio e balzò all’indietro, scendendo dalla sedia con vera grazia. Le rivolse un occhiolino di complicità, poi si incamminò verso il tavolo dove sedeva suo padre.
   Valerija, nonostante la sorpresa e l’imbarazzo, non riuscì a fare a meno di restare imbambolata a contemplarla finché non si fu accomodata. Doveva riconoscere che il modo in cui ondeggiavano i suoi pantaloni di pelle a ogni singolo movimento del suo corpo snello e aggraziato non era affatto un brutto spettacolo.
   Si riscosse all’improvviso. Che diavolo stava facendo? In piedi sopra una sedia, con un antico libro stretto tra le mani, nel mezzo di una biblioteca, che osservava l’ancheggiare di una ragazza un po’ troppo intraprendente. Doveva tornare in sé.
   Scese dalla sedia e si guardò attorno, per andare a posare il libro sopra un tavolo sufficientemente lontano da quello a cui sedevano Katy e suo padre.

 
* * *

   «Hai visto che bella, papà?» bisbigliò Katy, protendendosi verso il vecchio da sopra il tavolo.
   Indiana Jones alzò gli occhi e scrutò per un momento la ragazzina ancora in piedi sulla sedia. Tornò a concentrarsi sul codice.
   «Ho smesso da un po’ di pormi problemi di questo tipo» bofonchiò. Nonostante tutto, il suo sguardo si sollevò un’altra volta a studiare le morbide forme della ragazza che si allontanava. Lo abbassò di nuovo. «Io ho occhi per due sole donne, ormai. E una sei tu.»
   «E l’altra è la mamma, lo so bene» rispose Katy, sorridendo. «Però un giudizio estetico lo saprai ancora dare, no?»
   L’occhiata di Indy si volse per la terza volta a osservare la giovane che si accomodava a un altro tavolo.
   «Ha delle belle movenze e il fatto di essere così piccoletta di statura la rende ancora più carina» concesse, con un grugnito. «Ma se hai intenzione di provarci anche con quella bambolina» e qui Jones sottolineò il concetto concentrando lo sguardo penetrante sulla figlia, «io non voglio averci proprio nulla a che fare. L’ultima volta che mi hai messo in mezzo in una delle tue scappatelle, mi sono trovato addosso un ragazzotto di campagna inferocito che mi accusava di volergli insidiare la sua promessa sposa.» Assunse un tono fintamente indignato. «Io, insidiare la sua sposina! Alla mia età! È arrivato con quindici anni di ritardo!»
   Katy dovette premersi il pugno chiuso sulla bocca per soffocare una risata.
   «E io come potevo sapere che Grace doveva sposarsi proprio il giorno dopo?» biascicò, con le lacrime agli occhi.
   «Non potevi saperlo, va bene» ammise Indy. «Ma potevi almeno immaginare che, portandola in camera mia, avresti creato guai a me! Ho dovuto fare a pugni con un contadinotto di trent’anni, senza contare che poi sono arrivati anche il padre e il fratello della sposa! Tutti a dirmi che io mi ero portato a letto la loro onorata figlia, sorella, fidanzata, e che un’onta del genere andava lavata subito nel sangue!»
   «Be’, quella è gente sempliciotta e tradizionale, contadini del Tennessee molto all’antica, non potevano minimamente sospettare che a Grace piacessero anche le ragazze» ridacchiò Katy. «Non è nella loro mentalità, capisci?»
   «Sì, però tu e la tua Grace avreste potuto dirlo prima che iniziassimo a menarci, anziché aspettare così a lungo prima di far aprire la mente di quei tipi là!» grugnì Indy, scuotendo la testa e riabbassando lo sguardo al libro.
   «Suvvia, Old J, che ci siamo divertiti!» trillò la ragazza, allungandosi di nuovo sul tavolo per battergli una manata sull’avambraccio.
   «Tu e Grace di sicuro!» borbottò il vecchio. «Io, invece, ho avuto uno zigomo nero per un mese!»
   «Quante storie! Ha ragione la mamma, quando dice che più invecchi e più diventi brontolone!»
   «Lascia perdere la mamma, ché con quella storia stava impazzendo» grugnì Indy, con una smorfia. «Perché a un certo punto si era messa in testa pure lei che me la fossi davvero portata a letto io, quella Grace…»
   Katy fece un ampio sorriso.
   «Sono riuscita a spiegarle la situazione prima che ti fracassasse quell’autentico vaso Ming sulla testa, no?» lo rabbonì, dandogli un’altra pacca sul braccio.
   «E stai ferma una buona volta con quella brutta manaccia, Katy! Mi fai male!» si lamentò lui.
   «Ohhh, ma che lagna, Old J!» ridacchiò lei. Poi, prima che il padre avesse avuto modo di replicare, indicò il libro. «Allora, l’hai trovata? È quello giusto?»
   Jones annuì pensosamente e osservò le pagine che aveva aperte innanzi a sé, corredate da due miniature che sembravano raffigurare un guerriero colto nell’atto in cui scagliava una freccia verso un vasto mare solcato da grandi onde spumose, al di sotto di un cielo cupo.
   «Sì, la leggenda è narrata tutta qui» grugnì, picchiettando il dito sulla pergamena ingiallita. «Tuttavia, non credo che ci sia un vero fondo di verità, in questa storia. A mio avviso, si tratta soltanto di una favola della buonanotte, nulla di più.»
   La ragazza fece un sorriso indulgente.
   Conosceva bene lo scetticismo di suo padre, sia per averlo frequentato a lungo, sia per i racconti che gliene avevano fatto sua madre e i vecchi amici. Anzi, era proprio perché si era appassionata tanta alle imprese di Old J, che aveva scelto di percorrere le sue stesse orme e diventare a sua volta archeologa.
   Non era mai stata una studentessa modello e aveva strappato risultati minimi agli esami; aveva sempre preferito andare ai concerti di Joan Jett, la sua cantante preferita, e strimpellare a casaccio la chitarra elettrica fingendo di essere lei  – con il solo risultato di far scappare con le mani sulle orecchie e un’espressione orripilata dipinta in viso chiunque avesse attorno in quel momento – oppure divertirsi fino all’alba con i suoi amici girovagando per tutti i locali aperti, e dormire poi fino al tardo pomeriggio, piuttosto che starsene troppe ore china sui libri. Ma ciò che contava era il risultato finale: si era laureata da ormai quasi due anni e, da quel giorno, aveva visitato diversi scavi archeologici in tutto il mondo, sia da sola sia accompagnata dal padre che, seppure ormai molto avanti con gli anni, non era per niente intenzionato ad andare in pensione.
   Le era persino stato proposto un impiego quale assistente del docente di archeologia, all’Università di Chicago: avrebbe insegnato come sostituito del docente quando lui non fosse stato presente a lezione e, un giorno, dopo diversi anni di apprendistato, ne avrebbe preso il posto, assumendo così la cattedra che era stata di suo nonno, il professor Abner Ravenwood. Per il momento, però, aveva declinato l’offerta: si sentiva uno spirito libero e ribelle e non aveva nessuna voglia di andare a seppellirsi in un’aula e in un vecchio studio. Era fatta per gironzolare in cerca di avventure, lei, non per fossilizzarsi davanti a una lavagna. Inoltre, si riteneva ancora eccessivamente giovane per andare a tenere lezioni davanti a ragazzi e ragazze che avrebbero avuto quasi la sua stessa età.
   «Dici sempre così, Old J, e poi il fondo di verità salta sempre fuori, altro che favole della buonanotte» gli ricordò, dandosi una manata alla fronte per allontanare una ciocca ribelle che le era scivolata davanti agli occhi.
   «Può essere, come può non essere» grugnì lui, accarezzandosi la barba. «Ci devo riflettere. Quella facilona di tua cognata fa presto a parlare.» Atteggiò le faccia a una smorfia e cominciò a dire, in falsetto: «“Dottor Jones, per favore, ci sarebbe questa cosa che starebbe bene nel museo, perché non va dall’altra parte del mondo a vedere di recuperarla?”» Riassunse il suo tono solito, profondo e brusco. «Ci mette un attimo, lei! Tanto quello che deve sorbirsi le rogne sono sempre io, alla fine!»
   Sul volto di Katy il sorriso si distese ancora di più.
   Sua cognata, Manuela Pilar, era la moglie di suo fratello Mutt, nonché la madre dei suoi tre nipotini. Indy stravedeva per quei piccoletti che gli si arrampicavano sulle gambe e gli tiravano la barba, quando rimaneva mesi senza radersi e la faceva crescere lunga, proprio come in questo periodo; e, anche se cercava di non darlo a vedere, era il più emozionato della famiglia per la nuova gravidanza della nuora. Manuela, però, era anche stata la curatrice del museo del Marshall College di Bedford, nel Connecticut; poi, da quando lei e il marito si erano trasferiti in California, aveva assunto lo stesso incarico al Museo Nazionale di San Francisco. Ogni tanto, quindi, non mancava di domandare al suocero – e, da quando si era laureata, anche alla cognata – di compiere qualche recupero archeologico per arricchire le teche del museo.
   Katy, naturalmente, era sempre entusiasta di partire per una nuova impresa; Indy, invece, ogni volta brontolava di essere ormai troppo vecchio, stanco e logorato per fare ancora quel genere di cose. Tutti i suoi brontolii e i suoi rimbrotti, tuttavia, portavano sempre al medesimo risultato, immancabilmente.
   «Manuela farà anche presto a parlare, però eccoti qui, un’altra volta all’opera per darle una mano» lo prese in giro Katy.
   «Tua madre si era messa in testa di fare le pulizie di primavera, anche se siamo in ottobre» si giustificò Indy, con una smorfia. «Se non fossi scappato, mi sarei trovato con una ramazza in mano, e magari mi avrebbe anche obbligato a spolverare tutti i cimeli che ho accumulato nel mio studio.» Inorridì al solo pensiero di dover spostare e pulire tutta quell’immensa catasta di roba, così vasta che non sapeva nemmeno lui di quanti e quali pezzi fosse composta con esattezza. «Partire per cercare quella freccia mi sembrava il male minore.»
   Si guardò attorno, con aria improvvisamente trasognata, e parve ricordarsi di qualcosa di importante che non aveva ancora detto.
   «E poi, questa biblioteca, mi riporta con la memoria all’inizio di una delle mie avventure più strepitose. Avevo proprio voglia di rivederla. Fu proprio qui, sai, che io scoprii un indizio fondamentale per trovare il Santo Graal. In verità, fu tutto merito di mio padre… tuo nonno… e fu grazie a quella vicenda che poi ci riconciliammo.» Il suo sguardo si fece malinconico, quasi acquoso. «A volte vorrei averlo fatto molto prima. Ci sono tantissime cose che avrei voluto condividere con lui, e il tempo sembra passato troppo in fretta…»
   Katy sorrise di nuovo. Questa volta, però, le sue labbra non assunsero il solito atteggiamento strafottente, ma si aprirono in un vero sorriso, colmo di dolcezza. Succedeva di rado che suo padre si lasciasse andare ai ricordi o alla malinconia; quando capitava, però, si rammentava di quanto gli volesse bene e di quanto si sentisse profondamente legata a lui.
   Indiana Jones si riscosse all’improvviso e tornò a puntare lo sguardo sul codice.
   «In ogni caso, qui c’è scritta la storia che interessa a tua cognata. Se ci teneva tanto, poteva anche venire a leggersela da sola…»
   «Papà, smettila!» lo rimproverò Katy. «Manuela è al settimo mese di gravidanza, lo sai benissimo! Non può certo andarsene in giro per il mondo come se nulla fosse!»
   Quella semplice informazione rabbonì il vecchio, che sorrise da sotto la barba bianca. Ogni volta che si rammentava di essere nonno, lo spirito gli si riempiva di amore.
   «È vero, è vero» bofonchiò. «Dunque… allora, guarda qui…»
   Spinse il codice verso la figlia, che lo contemplò senza però riuscire a capire una sola parola di quello che vi stava scritto sopra. Riconobbe le lettere e le decifrò, ma non fu in grado di attribuirvi un significato. Aveva già studiato numerose lingue, perché suo padre l’aveva asfissiata fin da piccolissima dicendo che la conoscenza di altri idiomi è tutto, ma questa non la conosceva ancora.
   «Che cosa dice?» domandò, facendo scorrere il dito sotto i caratteri cirillici.
   «È scritto in bulgaro» la informò Indy, «e, come eravamo convinti, offre diverse informazioni interessanti riguardo alla freccia di Bogatyr…»
   Un grido acuto e improvviso lo interruppe. Padre e figlia si guardarono attorno smarriti, cercando la fonte di quell’urlo. Colta da un presentimento improvviso, Katy si volse verso il tavolo dove si era diretta Valerija, ma la ragazza che aveva conosciuto poco prima non era più al suo posto.
   Con uno scatto, balzò in piedi e si lanciò di corsa verso il locale principale della biblioteca.
   «Katy, aspetta, dove diavolo stai andando…?!» tentò inutilmente di fermarla Indy, allungando un braccio verso di lei.
   Ma sua figlia era già scomparsa oltre la porta dell’archivio.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Lotta tra le calli ***


2 - Lotta tra le calli
 
   Katy si precipitò verso il banco del bibliotecario, che aveva lasciato il suo posto ed era corso sulla soglia a guardare fuori.
   «Che cos’è successo?» domandò, raggiungendolo.
   L’uomo sembrava scosso e frastornato. La lucida pelata gli si era imperlata di sudore. Nel tentativo di asciugarsi la fronte, l’aveva macchiata con le dita sporche d’inchiostro.
   «Stavo parlando con una signorina, mi stava domandando il permesso di fare delle fotocopie di un libro» rivelò l’uomo, tremebondo, la voce acutissima, «quando all’improvviso sono entrati dei tizi e l’hanno assalita. Io ho provato a fermarli, ma mi hanno puntato contro una pistola… scalciava e gridava, ma l’hanno trascinata via a viva forza, insieme al libro che aveva tra le mani… io ora chiamo i carabinieri… quel manoscritto è un pregiato e preziosissimo volume di proprietà della biblioteca…»
   Katy saettò lo sguardo sulla piazza deserta. Non vide alcuna traccia degli assalitori.
   «Quanti erano? Dove sono andati?»
   Il bibliotecario rifletté solo una manciata di secondi. Alzò un braccio poco stabile e indicò verso un vicolo piuttosto stretto e sudicio che si apriva sull’altro lato della piazza.
   «Di là, verso la calle di Santa Lucia… erano in cinque… ma…»
   Senza attendere altre informazioni, Katy si lanciò all’inseguimento.
   «Aspetti, signorina…. È pericoloso!» le gridò dietro l’uomo, ma lei lo ignorò.
   Non sapeva neppure lei perché si stesse esponendo tanto per una persona che non conosceva nemmeno. Ma era fatta così, odiava le ingiustizie per principio. E, soprattutto, non avrebbe tollerato che qualcuno potesse fare del male a quella ragazza tanto carina che, soltanto pochi minuti prima, aveva tenuta stretta per la vita, in piedi sopra la sedia.
   Muovendosi agilmente, facendo risuonare il selciato con i suoi passi pesanti, raggiunse il vicolo che le era stata indicato. Un uomo e una donna erano fermi accanto a una porta e sembravano confusi e agitati.
   «Avete visto passare degli uomini che trascinavano una ragazza…?» gridò Katy, ansimando per la corsa.
   I due si scambiarono un’occhiata, poi annuirono.
   «Sì, un momento fa, han svoltato sul ponte» disse la donna, con il suo forte accento veneto. «Ma che succede…?»
   Senza curarsi di rispondere, Katy ripartì subito all’inseguimento. Salì di corsa le scalette che portavano sulla parte alta del ponte e, afferratasi alla balaustra di marmo, lanciò uno sguardo verso la calle che si snodava sull’altro lato del canale. Dal suo punto di osservazione, vide cinque uomini piuttosto robusti che strattonavano Valerija nel tentativo di tenerla ferma. La ragazza si agitava e tirava calci per cercare di sottrarsi alla loro presa. Li aveva quasi raggiunti.
   Ricominciò a correre, facendo ondeggiare a ogni movimento i suoi capelli già spettinati. Alcuni piccioni, che si erano appena posati al suolo a becchettare, si levarono in un volo spaventato e confusionario quando lei li superò. Le piume le svolazzarono attorno e le si appiccicarono al naso, facendola starnutire, ma Katy continuò ad andare avanti senza badarci.
   Doveva riuscire ad annullare il distacco che li separava prima che trovassero il modo di dileguarsi. Per fortuna, era sempre stata un asso, nei tornei ginnici. Riusciva a battere nelle gara di corsa pure i bestioni della squadra di football e gli atleti di quella di baseball. Poi, una volta giunta a tiro, avrebbe riflettuto su che cosa dovesse fare esattamente.
   Vide che gli aggressori stavano scartando in un vicolo. Avevano dovuto rallentare, perché Valerija, a discapito del suo aspetto da scricciolo beneducato, stava opponendo una fiera resistenza ed era quasi riuscita a scappare. L’avevano riacciuffata quasi subito, ma questo aveva dato a Katy l’opportunità di ridurre ulteriormente la distanza.
   Ormai gli era addosso.
   I cinque uomini, evidentemente, non si aspettavano che la ragazza ricevesse un qualche tipo di aiuto, perché non parvero fare caso all’arrivo di Katy. Un errore madornale.
   Con un calcio ben assestato, reso ancora più pesante dai suoi anfibi, la ragazza colpì uno degli aggressori in mezzo alle gambe, strappandogli un guaito e spedendolo a terra. Subito, veloce come un lampo, mollò una testata al petto di un altro, togliendogli il respiro. Gli altri tre parvero riorganizzarsi per potersi liberare di quell’assalitrice inaspettata, ma Valerija fece lo sgambetto a uno e spinse contro un muro un altro.
   L’unico uomo rimasto illeso infilò la mano sotto il giubbotto di jeans senza maniche ed estrasse una pistola. La puntò contro Katy, ma la ragazza si rese conto di quella mossa e sgusciò di lato prima che quello avesse potuto prendere la mira.
   «Via!» gridò, impaurita. «Scappa!»
   Si slanciò verso Valerija, decisa ad afferrarla e a trascinarla al sicuro; la ragazza agitò la testa e indicò il libro che era rimasto tra le mani dell’uomo che Katy aveva colpito ai testicoli.
   «È importante, devo prenderlo!» urlò.
   Il tizio armato cominciò a sparare. Le due ragazze saltellarono da una parte e dall’altra per evitare i proiettili, che colpirono le pareti della case su uno dei lati del vicolo, facendo cadere calcinacci e frammenti di intonaco. Dalle finestre e dalle strade circostanti si levarono strilli e un vociare confuso. Anche gli altri quattro, che si stavano riprendendo dalla sorpresa, dovettero spostarsi di colpo e urlarono concitatamente delle frasi rabbiose.
   «Non sparare, idiota!» gridò quello che aveva ricevuto la testata. «Ci serve viva!»
   «E rischi di colpire noi!» urlò in falsetto l’uomo che aveva avuto l’incontro ravvicinato con lo scarpone di Katy.
   Rassegnato, l’uomo armato ripose nella fondina la pistola. Per Katy, che si era gettata dietro la balaustra di un ponte vicino per evitare i proiettili, fu quasi un invito a farsi avanti. Tornò subito alla carica e si buttò con tale impeto contro i cinque uomini che uno di loro, il più vicino al canale, perse l’equilibrio e cadde nell’acqua melmosa.
   La ragazza cominciò a tirare pugni e calci e casaccio, muovendosi con talmente tanta foga che i quattro aggressori riuscirono a stento a evitare di essere messi fuori gioco. Era piccola e mingherlina, ma pareva un bulldozer. Colpiva nasi, toraci, stinchi, senza fare distinzioni e senza curarsi di controllare il risultato. Quando una mano le si avvicinò troppo alla bocca, la morse senza esitazione. A risponderle fu un grido doloroso.
   Finalmente, dopo aver sferrato un pugno in mezzo agli occhi dell’uomo che aveva il libro sottobraccio, riuscì a sfilarglielo e a lanciarlo a Valerija che, nel frattempo, era stata messa in secondo piano dagli uomini alle prese con quella furia scatenata.
   Nel farlo, però, dovette abbassare le difese. Subito un braccio molto forte l’afferrò da dietro le spalle e cominciò a stringerle la gola, soffocandola. Katy annaspò, provando a liberarsi dalla presa, ma non ci riuscì. Puntò i piedi e li agitò inutilmente, mentre l’ossigeno cominciava a mancarle e piccole luci le scoppiavano davanti agli occhi.
   «Lasciatela stare!» gridò Valerija, scagliandosi contro il gruppo.
   Sollevato il pesante libro come se fosse stato un’arma, lo piantò nello stomaco dell’aggressore più vicino, che strinse i denti e chiuse gli occhi. La giovane lo colpì nuovamente. Gli altri due, però, le furono subito addosso e la gettarono in terra, cominciando a malmenarla.
   «Datele una lezione, ma ricordatevi che quella ci serve viva!» gridò l’uomo che stava strozzando Katy. Il suo tono si fece più sadico. «Questa, invece, non ci serve proprio a nulla!»
   Iniziò a stringere più forte. Inutilmente Katy tentò di afferrargli il braccio per toglierselo dalla gola. Ormai stava perdendo i sensi. Non riusciva a pensare, in quel momento, e non si stava rendendo pienamente conto di essere sul punto di morire. Era una sensazione davvero strana.
   «Giù le mani da mia figlia!»
   Zoppicando lievemente e affannato per la lunga corsa, Indy sbucò da una calle e si scagliò contro l’uomo che stava strozzando Katy. Gli rifilò un pugno così forte da spaccargli il setto nasale, fargli saltare i denti davanti e mandarlo al tappeto.
   Liberata dalla presa soffocante, Katy scivolò in avanti e, appoggiandosi al selciato con una mano, cominciò a respirare forte per riprendere fiato, massaggiandosi la gola dolorante con l’altra mano.
   Indy, invece, si avventò addosso all’uomo che prima era stato colpito dal libro di Valerija. Lo afferrò per il colletto e, con il pugno chiuso, lo colpì tre volte al viso. Poi lo spinse bruscamente in direzione del canale. L’uomo, mezzo stordito, ruzzolò contro il suo compagno che si stava arrampicando fuori dall’acqua, mandandolo a mollo un’altra volta e seguendolo a ruota.
   A quel punto, Indy notò che, dal giubbotto aperto dell’uomo a cui aveva rotto naso e denti, sbucava una pistola infilata in una fondina. Grugnendo – in quel momento aveva delle fitte dolorosissime alle schiena e alle gambe – si abbassò, la strinse tra le dita, tolse la sicura e la puntò contro i due uomini che si stavano ancora accanendo contro la ragazza. Katy, che si era ripresa, pallida e sconvolta, si fermò al suo fianco.
   «Lasciatela stare e alzate le mani, bastardi, o vi buco il cervello!» ordinò Indy, tenendo la canna della pistola saldamente rivolta verso i due uomini.
   Quelli smisero di picchiare Valerija e alzarono su di lui uno sguardo insieme stupefatto e rancoroso. Forse si erano aspettati qualsiasi cosa, ma non di essere messi alle strette da una ragazzina vestita da rockettara e da un vecchio in giacca e cravatta e con un cappello dalla foggia antiquata, che doveva avere centocinquant’anni, all’incirca.
   «Che cosa ti sei messo in testa di fare, nonno?» gracchiò uno dei due, parlando con forte accento slavo. «Metti giù quell’aggeggio, prima che qualcuno si possa fare male!»
   Valerija, intanto, si stava contorcendo ai loro piedi. Perdeva sangue dal naso e aveva un brutto taglio sulla fronte. I suoi occhi, però, scattarono all’improvviso e si resero conto del pericolo.
   «Katy! Signore! Attenti! Dietro di voi!» gridò.
   Indy e Katy si voltarono appena in tempo per vedere i due uomini che erano finiti nel canale e quello con i denti rotti cercare di assalirli di sorpresa. Due di loro impugnavano le pistole. L’archeologo non si lasciò spaventare e, con una mossa brusca, spintonò via la figlia per metterla al riparo. Questa volta fu il turno di Katy di andare a fare un bagno non previsto nelle acque putride e maleodoranti del canale.
   Indiana Jones non era mai stato tipo da andare troppo per il sottile e, invecchiando, era diventato ancora più sbrigativo di quanto non fosse da giovane. Da quando le forze di cui poteva disporre si erano assai ridotte, costringendolo a lunghi periodi di riposo, si era reso conto che tergiversare troppo non serviva assolutamente a nulla e, anzi, poteva rivelarsi uno svantaggio. Così premette il grilletto, una, due, tre volte, quattro, senza curarsi di prendere la mira.
   Uno degli uomini, colpito in pieno al torace, compì l’ultimo volo della sua vita tra le acque del canale. Un altro, ferito al fianco, crollò al suolo, dove lo raggiunse il suo compagno che perdeva sangue dalla coscia sinistra.
   Gli altri due tentarono di assalire Indy. Valerija, però, ne afferrò uno per le gambe e lo spintonò verso il collega, facendo perdere l’equilibrio a entrambi. Jones si voltò e li minacciò con l’arma.
   «Cosa dicevate, a proposito del farsi male?» ringhiò.
   Nel frattempo, si stava udendo uno scalpiccio provenire da qualche calle di distanza. Passi pesanti e affrettati, accompagnati da ordini concitati.
   «La polizia!» gridò uno dei feriti, rialzandosi a fatica. «Forza, muovetevi! Non devono trovarci qui!»
   Tenuti sotto il tiro della pistola di Indy, che non li perdeva d’occhio un solo istante, i quattro uomini si affrettarono a rialzarsi.
   «Non finisce qui, ragazzina!» strepitò uno, rivolgendo uno sguardo carico d’odio a Valerija e uno ancora più micidiale a Indy.
   Quest’ultimo decise di lasciarli andare. Non sapeva contro chi si fosse messo, né perché, ma non voleva restare invischiato in quella faccenda, di qualsiasi cosa si trattasse. Senza smettere di scrutarli, attese che fossero spariti oltre l’angolo di una calle; quindi si abbassò e, afferrata la ragazza per la giacchetta macchiata di sangue, l’aiutò a rimettersi in piedi senza troppe cerimonie.
   «Tutto bene?» grugnì.
   Non sembrava troppo ansioso di conoscere la risposta. Distolse subito lo sguardo dalla ragazza, che si chinò per raccattare il suo libro, e controllò dove fosse andata a finire la figlia. Con passo rapido, si avvicinò all’argine del canale nell’esatto momento in cui Katy, tenendosi stretta a un palo a cui era ormeggiata una vecchia scialuppa azzurra e bianca, si dava da fare per uscirne.
   «Papà…» balbettò, vedendolo torreggiare sopra di sé con uno sguardo severo acceso negli occhi.
   «Io e te faremo i conti più tardi, signorina!» ruggì Indy.
   Afferrò la sua mano e la sollevò di peso, guardandola ancora più severamente.
   «Ora sarà meglio filarcela. Non ho nessuna voglia di essere interrogato dalla polizia. Venite, seguitemi!»
   Si incamminarono abbastanza in fretta lungo le calli, stando bene attenti ad allontanarsi nella direzione contraria a quella in cui erano spariti gli assalitori. Quando fu certo di essere ormai fuori pericolo, Indy si sbarazzò della pistola gettandola in un canale.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Ah, Venezia... ***


3 - Ah, Venezia…
 
   «Che cosa diavolo ti è saltato in mente di metterti a fare la pazza in quel modo, si può sapere?» domandò a bruciapelo Indy, voltandosi a guardare la figlia.
   Stavano camminando in fretta attraverso le calli di Venezia, diretti verso l’albergo in cui Valerija aveva detto di aver preso alloggio. Jones si era mantenuto silenzioso per un po’ ma, alla fine, aveva sbottato in quel modo.
   Katy si risentì. Le sembrava di aver passato già abbastanza disavventure senza doversi meritare anche i rimproveri di suo padre. Era stanca, aveva ricevuto numerose botte e grondava acqua melmosa dalla testa ai piedi. Essere anche sgridata come una bambina le pareva una cosa ridicola.
   «Stavano cercando di rapirla!» replicò, inacidita. «Che cosa dovevo fare, secondo te?!»
   «Farti gli affari tuoi!» sbottò Indy, fulminandola con lo sguardo. «Non ti ha insegnato nessuno che è il modo migliore per campare più a lungo?»
   «Senti chi parla!» quasi strillò la ragazza. «Proprio tu mi fai certe prediche, con tutte quelle che hai passato!»
   «Nel mio caso era diverso!» borbottò Indy.
   «Che cosa era diverso, Old J? Sentiamo un po’ cosa ti inventi!»
   L’archeologo svoltò lungo il margine di una piazza e si strinse nelle spalle.
   «Innanzitutto, io non ero una bambina…!»
   «Io non sono una bambina!» strepitò Katy, offesa. «Ho ventisei anni, e dovresti saperlo anche tu, a meno che non ti sia scordato di prendere qualcuna delle tue pillole! Penso di avere raggiunto un’età in cui posso badare a me stessa!»
   «E poi» ruggì Indy, alzando la voce, «erano altri tempi! Diversi!»
   «Sai che differenza!» lo schernì Katy, lanciandogli uno sguardo inviperito. «I pugni e i calci non hanno epoca, Old J!»
   «E comunque io sono un uomo e tu no…!» concluse Indy.
   La ragazza si bloccò all’improvviso, così in fretta che Valerija e suo padre non se ne accorsero neppure e andarono avanti per qualche metro, prima di fermarsi e voltarsi per controllare dove fosse finita.
   «Che fai, vieni o no?!» brontolò Jones.
   All’improvviso, il vecchio si sentiva a disagio. Sua figlia aveva assunto un aspetto che ricordava enormemente quello di Marion quando si arrabbiava per qualcosa. Quel sorrisetto sarcastico che le contraeva la bocca, lo sapeva, si sarebbe potuto tramutare da un momento all’altro in un’urlataccia. Esattamente ciò che avrebbe voluto evitare con tutto il suo cuore.
   «Katy…» borbottò, guardandosi attorno. La piazza era gremita di gente e di bancarelle.
   «Ah, tu saresti un uomo e io no?!» urlò lei, facendo voltare verso di sé numerose facce.
   Indy mosse un passo insicuro verso di lei.
   «Per favore, Katy… già attiri un po’ troppa attenzione tutta bagnata come sei, non diamo ulteriore spettacolo… non mi pare proprio il caso di…»
   «Solo perché tu hai un vecchio pendolino rinsecchito in mezzo alle gambe non significa che io valga meno di te, Old J!» gridò la ragazza.
   Jones deglutì. Non ne era certo, ma gli sembrava di aver sentito un discorso simile proprio sulle labbra di Marion, una volta o l’altra. Ma che cosa aveva mai fatto di male nella vita, per finire circondato da agguerrite femministe?
   «Katy…» brontolò, cercando di sorridere e di addolcire il tono. «Tesorino mio, non era questo che volevo dir…»
   «Ah no?!» sbottò la giovane. Ormai, tutt’attorno, si era formato un capannello di curiosi che assistevano alla scena. «Allora sentiamo un po’ che cosa volevi dire con esattezza, papà!»
   Indy, sempre più in imbarazzo, si guardò attorno, alla ricerca di un aiuto che, lo sapeva, non sarebbe giunto da nessuna parte. Aprì la bocca per provare a dire qualsiasi cosa, non trovò le parole adatte e abbassò la testa, sconfitto. Katy sorrise soddisfatta.
   «Non lo sai, eh?» lo sfidò, agguerrita. «E lo sai, perché non lo sai?»
   L’anziano archeologo scosse piano il capo, fissando a terra.
   «Non lo sai perché non esiste una risposta. Ti credevi superiore e basta. Quindi, adesso, chiedimi scusa. Subito!»
   Indy trovò il coraggio di alzare gli occhi e fronteggiarla. Ma Katy assomigliava troppo a Marion. Li riabbassò. Non l’aveva mai spuntata con la madre, figurarsi allora con la figlia.
   «Non possiamo parlarne più tardi?» borbottò, rivolto ai propri piedi.
   «Adesso! Subito!» ribadì Katy. «Muoviti, avanti!»
   Indiana Jones esitò ancora un istante. Se almeno non ci fosse stata tutta quella gente attorno, la cosa sarebbe risultata un po’ più semplice. Finalmente, vergognandosi come un bambino alla prima recita scolastica, borbottò: «Scusa…»
   «Non ho sentito bene!» esclamò Katy.
   «Scusa!» ruggì Indy. Poi, non volendo perdere altro tempo, soggiunse: «Possiamo andare, adesso?»
   Sua figlia fece un ampio sorriso e lo raggiunse saltellando come un uccellino. Gli piantò una manata sulla schiena, strappandogli un lamento.
   «Possiamo andare. Ma non azzardarti mai più a usare frasi maschiliste con me, Old J, o non risponderò delle mie azioni. Ora muoviti, vecchio. Tutta quest’acqua dei canali esala umidità e non vorrei che ti venissero pure i reumatismi.»
   Padre e figlia si rimisero in cammino e la folla, ridacchiando per quella scenetta, cominciò a disperdersi. Valerija, un po’ imbarazzata e sentendosi colpevole di aver portato la discordia tra i due Jones, si affrettò a seguirli.

 
* * *

   La stanza era tutta sottosopra.
   Il contenuto della valigia era sparpagliato in giro, l’armadio spalancato, i cassetti gettati sul pavimento, il letto rivoltato completamente. Anche il piccolo bagno versava nelle medesime condizioni.
   «Non ci posso credere, le mie cose…» singhiozzò Valerija, abbassandosi a raccogliere qualcosa.
   Prese tra le mani uno scialle ricamato a fiorellini, che era stato lacerato, e una lacrima le solcò il viso. Katy si chinò per posarle una mano sulla spalla e darle un leggero conforto.
   «Succede spesso, qui a Venezia» bofonchiò Indy.
   Fermo sulla porta, appoggiato con la spalla allo stipite, una mano in tasca, osservava lo sconquasso con un certo distacco.
   «È chiaro che cercavano qualcosa» grugnì.
   Katy si alzò e gli indirizzò una smorfia.
   «Che acume, Old J. Anni e anni di esperienza sono serviti a qualcosa, vedo» commentò.
   Jones tolse la mano di tasca e incrociò le braccia sul petto.
   «Non essere così insolente, Katy» bofonchiò.
   Spostò lo sguardo su Valerija che, nel frattempo, stava cercando di rimettere i suoi abiti malconci e le sue cose nella valigia. La poverina, ormai, singhiozzava apertamente.
   «Immagino che, prima ancora che te, stessero cercando quel dannato libro» borbottò, accennando al volume rilegato, che adesso era appoggiato sopra il comodino. «Di qualsiasi cosa si tratti, ragazzina, ci sei dentro fino al collo.»
   Visto che tanto Valerija quanto Katy restavano in silenzio, Indy si sentì autorizzato a continuare a parlare.
   «Be’, di qualsiasi cosa si tratti, non ci riguarda» concluse. «Ti abbiamo aiutata. Da qui in poi, dovrai cavartela da sola.»
   Sua figlia aveva appena raccolto dal pavimento un paio di mutandine di pizzo e le stava piegando con cura. Udendo quell’ultima frase, alzò di scatto la testa.
   «Cosa?» sbottò. «No! Papà, non possiamo lasciarla da sola!»
   «Certo che possiamo!» grugnì Indy, evitando accuratamente di guardarla.
   «Old J…» cominciò a dire Katy, sollevando un dito ammonitore verso di lui. Valerija la interruppe, posandole la mano sulla manica del giubbotto.
   «Tuo padre ha ragione, Katy» sussurrò. «Mi avete salvata e ve ne sarò grata per sempre. Non saprò mai come fare a ringraziarvi per questo. Ma da qui in poi devo fare da sola… questa storia è troppo pericolosa perché possa coinvolgere anche degli estranei…»
   «Ma…» mormorò Katy, girandosi per guardarla negli occhi.
   Di nuovo non poté terminare la frase. Questa volta, a interromperla fu suo padre.
   «Ben detto, ragazzina. Katy, muoviti. Dobbiamo tornarcene in albergo. Devi farti una doccia e cambiarti, non puoi continuare a rimanere bagnata in quel modo.»
   La figlia gli lanciò uno sguardo furente, tanto tagliente che Indy si sentì sferzare come se lo avesse colpito una bastonata. Si voltò dall’altra parte, evitando il contatto visivo con quegli occhi.
   «Non vorrai lasciarla qui, da sola, in queste condizioni! È in pericolo! Quegli uomini potrebbero tornare da un momento all’altro!» strepitò Katy.
   «Questa città è piena di alloggi» replicò il vecchio. «E, se la tua nuova amica è intelligente come sembra, farà bene a trovarsene un altro alla svelta. Meglio ancora sarebbe tagliare la corda e filarsela in fretta a casa sua, ovunque si trovi.»
   Katy era allibita. Non riusciva proprio a credere che suo padre, il celebre Indiana Jones, che aveva sempre rischiato la vita per aiutare gli altri, ora se ne fregasse in quella maniera. Per tenersi occupata, raddrizzò una sedia che era stata rovesciata, evitando accuratamente di guardarlo. Non poté evitare di accorgersi di avere le mani che tremavano.
   «È esattamente quello che farò» disse Valerija, con voce sottile. «Ho un posto prenotato sul treno di domani. Ora che ho il libro che cercavo, devo soltanto riuscire a resistere fino a domani mattina. Mi nasconderò da qualche parte.»
   «Ma da sola sarai in pericolo!» esclamò Katy, fissandola. Le sue labbra si sciolsero in un sorriso. «Perché non vieni con noi? Siamo alloggiati in un appartamento spazioso, c’è posto per tutti…»
   Una luce di gratitudine illuminò il viso triste e sporco di sangue di Valerija. Sorrise di rimando. Indy, ancora una volta, si mise di mezzo.
   «Katy, non se ne parla proprio!» grufolò indispettito. «Non ho nessuna voglia di mettermi nei pasticci! Non dimenticare che siamo qui per un motivo preciso, non per metterci ad aiutare fanciulle in difficoltà!»
   La ragazza gli scoccò l’ennesimo sguardo assassino. Le sue dita si strinsero convulsamente attorno allo schienale della sedia, così forte che le nocche si sbiancarono. D’improvviso, però, si rilassò e si avvicinò alla valigia che Valerija aveva appena finito di riempire. La chiuse di scatto e la prese per la maniglia.
   «Ospitare in casa una ragazza per una notte non significa affatto mettersi nei pasticci, Old J!» lo rimbrottò. «Alla fine, a te, che cosa costerebbe, a parte il dover dare ragione a tua figlia? Si tratta soltanto di una notte, poi domani mattina ognuno di noi andrà per la sua strada.»
   Indiana Jones saettò lo sguardo su entrambe le ragazze, prima di tornare a concentrarlo su Katy.
   Quella ragazzina testarda e tremenda aveva un problema non indifferente, con cui lui si trovava a fare i conti giorno per giorno: non solo assomigliava dannatamente a Marion, ma anche a lui. Aveva il suo stesso temperamento, e questa era una verità innegabile. E, avendoci tanto a che fare, si rendeva conto di quanto dovesse essere stato difficile, se non addirittura impossibile, per la gente che aveva conosciuto in vita sua, riuscire ad adeguarsi al suo carattere focoso e ai suoi modi di fare spicci, che spesso anteponevano l’idea di agire alla riflessione.
   Adesso lui poteva anche essersi dato una calmata, non essere più lo spericolato avventuriero che si gettava a capofitto all’avventura con il ghigno sul viso; a dire il vero, era stato costretto a tale scelta più che altro dall’età e dai dolori, che non dall’aver davvero messo la testa a posto. La sostanza, tuttavia, non cambiava, perché la vecchia essenza si era semplicemente trasferita in Katy. Adesso, in un certo senso, era lei a essere diventata Indiana Jones, come se fosse avvenuto un passaggio di consegne.
   La cosa, sottosotto, anche se cercava di non darlo a vedere, lo divertiva e lo riempiva di orgoglio. In Katy, molto più che negli altri due suoi figli, vedeva il se stesso di tanti anni prima. Quando aveva davanti agli occhi quella ragazzina spericolata, era un po’ come trovarsi dinnanzi a uno specchio magico in grado di riflettere il passato.
   Anche se lui avrebbe preferito lasciar perdere tutto, quindi, comprendeva che cosa la stava spingendo a voler aiutare Valerija. Era naturale che si comportasse così, perché anche lui avrebbe fatto lo stesso. A dire il vero, per quanto preferisse negarlo, anche adesso si sarebbe sentito colpevole, abbandonandola senza darle una mano, dopo tutto quello che era accaduto.
   Trasse un lungo sospiro di rassegnazione.
   «E va bene» grugnì. «Solo per stanotte. E fino a domattina. Poi, ciascuno per i fatti suoi. E, soprattutto, non voglio sapere assolutamente nulla del perché ci sia gente tanto interessata a una ragazzina e a un vecchio libro.»
   Katy fu illuminata da un sorriso. Non aveva mai avuto nessun dubbio: conosceva troppo bene il suo vecchio genitore, e sapeva che il suo cuore, proprio come il suo, non sopportava le ingiustizie.
   Strinse più forte la valigia e porse la mano libera a Valerija. Lei, dopo un attimo di esitazione, allungò la sua e la prese, prima di afferrare con l’altra il prezioso libro.
   Tenendosi per mano, le due ragazze uscirono insieme dalla stanza. Nel passare accanto a Indy, Valerija mormorò un ringraziamento con un filo di voce molto sottile, mentre Katy gli lanciò uno sguardo obliquo e sarcastico.
   Prima di seguirle, l’archeologo rimase fermo per un istante a guardare fuori dalla finestra, oltre cui si stendevano i palazzi barocchi, le calli, le fondamenta e i canali della città lagunare. Scosse la testa, perdendosi in mille ricordi, e un sogghigno svergolo gli comparve sotto la barba.
   «Ah, Venezia…» bofonchiò.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Indy allo specchio ***


4 - Indy allo specchio
 
   Riattraversarono in fretta la città, camminando con passo veloce e lanciandosi spesso occhiate furtive dietro le spalle per accertarsi di non essere seguiti da nessuno. Dei malconci uomini che avevano tentato di rapire Valerija, però, non c’era più traccia. Dovevano essersi rifugiati da qualche parte a leccarsi le ferite.
   Fecero una breve sosta in una rosticceria, dove acquistarono un cartoccio di pesce fritto da mettere nello stomaco, visto che era ormai quasi ora di pranzo. Indy lo piluccò mentre camminavano, mentre le due ragazze non sembravano avere appetito. Katy, peraltro, stava cominciando a tremare.
   «Finirai con il buscarti un accidente!» sentenziò suo padre, girandosi a osservarla. «Vedi che cosa succede, a fare il bagno vestita?»
   La ragazza sgranò gli occhi.
   «Old J, vogliamo parlare del fatto che sei stato tu a buttarmi in acqua?!» strepitò.
   L’archeologo si strinse nelle spalle e ingurgitò un altro calamaretto, senza aggiungere altro. Katy sogghignò.
   «Sembra un brontolone, ma in realtà lo fa solo per darsi un tono» sussurrò nell’orecchio di Valerija. «In realtà, sono certa che non vede l’ora di aiutarti.»
   Finalmente erano arrivati a destinazione.
   Il palazzo in cui si trovava l’appartamento che avevano preso in affitto sorgeva al limite di una piazzetta piccola ma ariosa e inondata di luce, nel cui centro si trovava un pozzo da cui pendeva un secchio dentro cui era stata fatta crescere una pianta di gerani. La targa in marmo affissa a un muro indicava che, quello, era il Campo San Pacomio.
   Salirono la ripida scala che conduceva al secondo piano – Indy, durante il tragitto, fu costretto a fermarsi due volte per riprendere fiato – ed entrarono nel luminoso appartamento. L’arredamento era ricco e ricercato e, dalle finestre dalla forma caratteristica, si ammirava una vista meravigliosa. In lontananza si riusciva persino a scorgere il campanile di San Marco.
   L’archeologo si tolse il cappello e lo lasciò cadere sopra il tavolo, vicino al cartoccio con gli avanzi del pranzo. Poi sfilò la giacca e l’appese a un attaccapanni accanto alla porta d’ingresso.
   Guardò le due ragazze, che adesso sembravano imbambolate.
   «Katy, fila a toglierti quella roba bagnata e poi stai sotto la doccia bollente per almeno mezz’ora» si raccomandò. «Non sei ferita, vero?»
   Lei scosse il capo. «Soltanto un leggero fastidio al collo, ma sta passando.»
   Annuendo in fretta, Indy si avvicinò a Valerija e la esaminò. L’emorragia che aveva avuto al naso si era interrotta da sola, mentre il taglio sulla fronte sanguinava ancora leggermente. Esaminandolo, si rese conto che il taglio era molto meno grave di quanto avesse pensato all’inizio.
   «È solo un graffio» concluse. «Non resterà nemmeno il segno. In bagno ho l’occorrente per farti una medicazione, vieni…»
   La prese per il braccio e, senza troppa cura, cominciò a trascinarla verso una porta. Lei si lasciò condurre docilmente, sempre stringendo a sé il libro. Katy, però, non aveva nessuna intenzione di permettere che fosse suo padre a occuparsi di Valerija.
   Lasciò in un angolo la valigia e si affrettò a seguirli.
   «Frena un po’, Old J!» lo richiamò. «Con le tue mani da fata finiresti per fargliene altri cinque, di tagli!»
   Indispettito, Indy si girò a guardare la ragazza.
   «Per tua norma e regola, signorina, ho cauterizzato ferite ben peggiori di questa. Mi ricordo che, una volta, nel ‘43, un mio commilitone venne ferito da una scheggia di granata e io, dopo avergliela estratta, fui costretto ad amputargli il braccio. L’operazione riuscì alla perfezione. Un’altra volta, in trincea, nel 1916...»
   Udendo quella spiegazione, Valerija era sbiancata fino a diventare pallida come un cencio, mentre Katy aveva dovuto sforzarsi per trattenere una risata.
   «D’accordo, papà, sei un chirurgo mancato, ma qui non c’è proprio niente da amputare, e non vorremmo che ti confondessi tra il 1984 e il 1943, vero?» Ammiccò nella sua direzione, sarcastica. «Non si sa mai, visto che dimentichi di continuo di prendere le tue pastiglie per la memoria.»
   Indiana Jones la guardò. Non sapeva mai riconoscere quando quella furia di ragazzina stesse scherzando o parlando sul serio. Comunque, ormai, era sufficientemente offeso perché l’una o l’altra cosa avessero ancora un senso.
   «Va bene, d’accordo, allora pensaci tu, visto che sei tanto brava, crocerossina» grugnì. Si massaggiò i lombi indolenziti, prima di aggiungere: «Ma se si infetterà, se andrà in cancrena, se insorgerà la setticemia… poi non venite a lamentarvi da me!»
   A Katy non sfuggì quell’ultima manovra del padre.
   «Mi sembri stanco, Old J. Perché non vai a riposarti un po’?»
   Il vecchio annuì brevemente, massaggiandosi ancora e flettendo la schiena lievemente incurvata.
   «Forse hai ragione, stamattina ho proprio esagerato…» commentò. «Stendermi un’oretta non mi farà certo male…»
   La ragazza ridacchiò.
   «È stata una semplice passeggiatina, papà! Davvero la chiami esagerare? E allora, se dovessimo fare una scarpinata in montagna, come reagiresti?»
   Un sorriso comparve sulle labbra di Indy. Sua figlia poteva essere sarcastica, testarda e vulcanica, una vera forza della natura, ma aveva ancora moltissime cose da imparare. Una di queste era avere sempre la risposta pronta, proprio come lui.
   «Non è una questione di chilometri, tesoro mio» replicò. «Sono gli anni che ci si mettono di mezzo…»
   Quindi, con un cenno di saluto, si avviò a passo lento verso la sua stanza, consapevole che le due ragazze lo stavano tenendo d’occhio. Proprio per questo motivo, cercò di non zoppicare troppo, sebbene le anche stessero cominciando a protestare. Aveva ancora una sua dignità di uomo di mondo, e intendeva mantenerla intatta, specialmente di fronte a un pubblico femminile.

 
* * *

   Quando, però, fu entrato nella stanza ed ebbe richiuso la porta dietro di sé, Indy si lasciò andare e rilassò schiena e gambe, cercando un poco di conforto dai dolori e dalla rigidità delle membra. Con movimenti lenti e barcollanti, avanzò ancora di qualche passo, poi si arrestò.
   «Sei vecchio» disse rivolto alla sua immagine, duplicata dallo specchio dalla cornice a forma di sole in ferro battuto appeso alla parete di fronte al letto. «Tienitelo a mente.»
   Osservò il proprio riflesso impietoso, che gli mostrava il volto di un uomo anziano, che si stancava molto facilmente e un po’ troppo in fretta, almeno per i suoi gusti. A volte gli piaceva pensare a se stesso come a quello di sempre. Si era sempre detto e ripetuto che l’età non conta assolutamente nulla, che è soltanto una semplice convenzione da tenere segnata sopra il calendario appeso in cucina. Giusto un promemoria per bollette e altre scadenze. Purtroppo per lui, certe scadenze si stavano facendo improrogabili. Molto facile pensare all’età in quei termini, quando gli arti rispondono immediatamente ai comandi e i dolori non pervadono ancora l’organismo. Quando certe cose cominciano a presentarsi all’ordine del giorno, talune prospettive tendono a modificarsi in maniera sensibile.
   «Sei vecchio» ripeté, quasi temesse di poterlo dimenticare. Perlomeno, la memoria gli funzionava ancora benissimo, checché ne dicesse Katy quando si divertiva a deriderlo; ma, in determinate circostanze, conveniva che era sempre meglio imprimere bene a fondo certi concetti.
   Poteva sforzarsi di ritenersi lo stesso di sempre, eppure sotto quella barba bianca, oltre quel volto rugoso che pareva intagliato nel legno, sotto quei candidi e sottili capelli che si facevano più radi di giorno in giorno, cominciava a faticare a vedere l’Indiana Jones di un tempo.
   Il bambino che aveva scorazzato per i campi inseguendo il suo cane e che aveva girato il mondo con i genitori, il ragazzino incosciente che aveva combattuto con Pancho Villa ed era andato allo sbaraglio nella prima guerra mondiale, il docente che aveva fatto le pulci a eruditi molto più dotti di lui e che aveva conquistato schiere di fanciulle con il suo fascino magnetico, l’archeologo pazzo che aveva affrontato imprese disperate con il sogghigno sul volto, l’agente segreto che non si era fatto spaventare da nulla e da nessuno nel corso della seconda guerra mondiale, persino l’uomo maturo che aveva suggellato davanti a un altare la promessa di un amore durato tutta la vita… tutto questo sembrava scomparso sotto la patina della vecchiaia. Anche se sapeva di essere stato lui, e lui soltanto, a vivere tutte quelle grandi avventure, a sostenere l’emozione di tante cose straordinarie, a volte pensava al se stesso degli anni andati come a un altro, di cui per un caso fortuito gli rimanevano impressi i ricordi.
   Ora, al posto dell’intrepido Indiana Jones, c’era soltanto il vecchio professor Henry Jones Jr., docente emerito di archeologia del Marshall College, che grazie alla sua pensione da vicerettore portava a casa ogni mese una cifra niente male; purtroppo, una parte di quella cifra niente male finiva immancabilmente con lo scomparire nelle tasche del farmacista.
   Ora, a ricordare a chiunque altro chi lui fosse stato veramente, c’erano solo i riconoscimenti appesi al muro, le lauree honoris causa in letteratura, in linguistica, in storia dell’arte e in storia antica che, negli ultimi cinque anni, gli erano state conferite per meriti riconosciuti, in una sorta di gara per avere la possibilità di associare una simile celebrità a un determinato ateneo, seppure tardivamente. Perlomeno, suo padre non avrebbe più avuto alcunché di cui lamentarsi: finalmente, anche Junior era laureato in dottrine serie e dignitose, e non più nella semplice professione dello spalatore di fango, come era solito dire lui.
   Ora c’erano le conferenze che era chiamato a svolgere di quando in quando, ripercorrendo con tono impacciato la storia delle sue missioni dinnanzi a un pubblico annoiato e svogliato, che aveva occhi e mente soltanto per il buffet preparato nella sala adiacente. Ora c’era il medagliere impolverato appeso in un angolo del suo studio che gli rammentava di essere stato un eroe in due guerre e di aver reso numerosi e preziosi servigi al suo paese. Ora c’erano i reperti archeologici che aveva raccolto per tutta la vita e a cui cominciava a sentirsi un po’ troppo affratellato.
   C’erano ancora le disavventure, d’accordo, specialmente quando seguiva Katy e la sua propensione a cacciarsi nei guai ovunque andasse. Come quella in cui era incorso quella mattina: poteva ben farsi il vanto di avere ancora muscoli abbastanza ferrei da permettergli di spaccare la faccia a un uomo ben piazzato, di forse sessant’anni più giovane di lui. E, a volte, quando suo nuora cominciava a insistere troppo per poter continuare a ignorarla fingendosi sordo, c’era ancora qualche partenza verso mete esotiche, il che gli permetteva di rivedere di nuovo quei luoghi che lo avevano affascinato per tutta la sua esistenza.
   Ma a quale costo? Poche ore di azione, nemmeno troppo intensa, corrispondevano a parecchie altre di riposo, magari aiutate da un buon numero di aspirine o di altri antidolorifici più potenti. Non usciva più di casa se, prima, non si era accertato di avere in tasca un tubetto di pastiglie a base di piroxicam. E, anche se aveva provato mille rimedi diversi, compresa un’operazione chirurgica che si era rivelata inutile, l’ernia del disco che lo torturava da ormai la bellezza di mezzo secolo non gli concedeva che brevissime tregue, prima di tornare a rammentargli che lei era sempre lì, compagna fedelissima sebbene non gradita.
   Con la vita avventurosa doveva ammettere di avere chiuso. Sarebbe stata un’inutile illusione quella di poter pensare di partire ancora come un tempo allo sbaraglio, andando ad affrontare l’ignoto. Ora non gli restava che essere quello che era: un uomo forse troppo vecchio per fare il padre, ma nell’insieme soddisfatto dei risultati ottenuti; un marito fedele, nonostante un passato non certo limpido; un nonno felicissimo. Forse non aveva bisogno di altro, ma a volte sentiva molto forte la mancanza della sua vecchia vita.
   Non era tanto sciocco da credere che l’incontro con quella ragazzina potesse cambiare qualcosa. Una giovane che nascondeva un segreto, un segreto celato in un libro antico, proveniente dalla medesima biblioteca in cui lui aveva scoperto l’indicazione mancante per raggiungere il Santo Graal… la coppa che avrebbe potuto restituirgli la giovinezza, se non fosse andata perduta… e ora, quella biblioteca avrebbe potuto riservargli nuove emozioni, come già aveva cominciato a fare, perché non poteva negare a se stesso di essersi sentito giovane e pieno di vita, quando era corso in aiuto di Katy per liberarla da quei tipacci…
   «Toglitelo dalla mente» sbottò al se stesso nello specchio, guardandosi in cagnesco. «Qualsiasi cosa nasconda quella ragazzetta, tu non c’entri assolutamente niente e non devi averci niente a che fare. Sei venuto qui per cercare informazioni su una dannatissima freccia mitologica e le hai trovate: ora non ti rimane che tornartene a casa. Non ti lascerai coinvolgere in una nuova impresa… non puoi lasciarti sedurre dalla lusinga di essere ancora un giovanotto, anche se ti piacerebbe. La giovinezza passa per tutti, anche per te… e non può essere restituita…»
   Sospirò. Chissà se discorrere con se stesso poteva essere un altro sintomo della vecchiaia o, persino, di qualche malattia in arrivo. Demenza senile o altra roba del genere. Però, il solo fatto di poter ancora fare due più due e di riuscire a mettere insieme un ragionamento compiuto, lo poneva al sicuro da rischi del genere. Forse. Se poi gli piaceva chiacchierare da solo, qualche volta, che problema c’era? Il più delle volte, era un interlocutore assai più interessato – e interessante – di molta altra gente che aveva conosciuto.
   Decise che non era il momento di pensarci.
   Si scostò dallo specchio, che non gli mostrava nulla che volesse vedere realmente, e trascinò a fatica le gambe fino alla sponda del letto. Aiutandosi con i piedi, visto che di piegare la schiena indolenzita non se ne parlava proprio – a meno che, naturalmente, non intendesse poi mandare Katy a cercare un verricello con cui rimettersi dritto – si sbarazzò dei mocassini. Finalmente, con un grugnito di soddisfazione, poté lasciarsi cadere sdraiato sul materasso e appoggiarsi al morbido cuscino di piuma d’oca.
   La vecchiaia lo scocciava. Lo scocciava dannatamente. In modo particolare, lo scocciava il pensiero di essere ridotto tanto male, peggio di molti altri uomini della sua stessa età o anche più anziani di lui. Era vecchio, ma in fondo, a voler andare proprio a guardare le cose come stavano per davvero, neppure così vecchio. Ottantacinque anni erano parecchi, tantissimi se rapportati all’età di Katy, però si poteva anche arrivare a contarne molti di più. E lui conosceva gente che, quel traguardo, lo aveva superato con una salute e una forma fisica decisamente migliori della sua. Che diamine! Una volta aveva persino conosciuto un uomo di seicento e passa anni, ancora più o meno capace di brandire una spada!
   Il suo amico Charlie Stanforth, che se ne era andato ultranovantenne giusto un paio di mesi prima, era stato più in salute di lui fino all’ultimo respiro; e, se non fosse stato per una maledetta polmonite che si era buscato accidentalmente, esponendosi in pieno agosto all’aria condizionata esageratamente fredda di un centro commerciale, sarebbe stato ancora al suo posto, forte e sano come sempre. E che dire di Sallah? L’ultima volta che si erano incontrati, all’incirca un anno prima, il suo vecchio amico egiziano non sembrava essere cambiato di una sola virgola rispetto a una fotografia che li ritraeva insieme, scattata negli anni ‘30. Indy, invece, era talmente mutato, rispetto a quell’immagine color seppia, e si era sentito così turbato nel contemplarsi giovane e forte, che aveva chiesto a Sallah di mettere via l’album dei ricordi che stavano sfogliando.
   Forse aveva esagerato. Forse aveva chiesto troppo al proprio fisico, nel corso di una vita spericolata, senza mai concedersi pause non più lunghe di qualche settimana, senza tenere considerato che, tutti i chilometri che aveva percorso, tutte le botte che aveva ricevuto, tutte le fratture che si era procurato, prima o poi gli si sarebbero ritorti contro. Aveva commesso l’errore di credersi invulnerabile e, adesso, ne scontava le conseguenze. Era stato lui stesso a decidere di logorarsi, riducendosi in quella maniera pietosa.
   Ma, in fondo, non aveva rimpianti sul passato. Di nessun genere. Era felice della vita che si era scelto ed era soddisfatto di averla condotta in quel modo. Se avesse potuto tornare indietro, non avrebbe cambiato che pochissime cose, giusto l’essenziale. Le sue spericolate avventure, comunque, le avrebbe volute vivere tutte una seconda volta.
   Il rimpianto, piuttosto, era tutto per il presente. O, meglio, quasi tutto.
   Il presente, in fondo, sapeva anche dargli felicità e soddisfazione, soprattutto quando era con la sua famiglia. Nel corso di quelle ore serene e spensierate si sentiva invaso dalla gioia e ogni frustrazione per il suo stato di saluto affievoliva fino a scomparire. Come poteva avere dei pensieri tristi, quando si vedeva attorniato dall’amore e dall’affetto di sua moglie, dei suoi figli, dei suoi adorabili nipotini? E, poi, c’erano ancora le ricerche archeologiche che gli commissionava Manuela: cose facili, brevi, in cui lui aveva più che altro il ruolo di supervisore, e che, però, gli rammentavano i bei tempi andati.
   Era quando restava da solo, proprio come adesso, che le cose cambiavano. Se ne rendeva conto specialmente quando sedeva in veranda a leggere il giornale, oppure in salotto a guardare la televisione, per nulla interessato agli sciocchi programmi del pomeriggio e della sera, mentre Marion era impegnata a fare qualcosa e quindi non poteva tenergli compagnia. In quei momenti si sentiva vecchissimo e cominciava a provare una grande nostalgia per il passato, che il tempo presente aveva fagocitato senza alcun riguardo. Perché sì, il tempo gli aveva recato grandi doni, ma gli aveva anche portato via tutto ciò che era stato e che non sarebbe tornato mai più.
   Era davvero seccante. Per sua fortuna, era sempre stato sufficientemente stoico da saper accettare anche tutto questo senza rovinarsi il fegato. Almeno quello, che continuasse a funzionare bene.
   Pensò a Katy. Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce per non recare dispiacere a Junior e ad Abner, ma lei era la sua preferita. Non poteva essere altrimenti, perché più la guardava e più vedeva se stesso, seppure coniugato al femminile. Avevano lo stesso carattere, la stessa passione per le antichità, il medesimo senso di giustizia che li portava ad aiutare gli altri senza pensare alle conseguenze, la stessa capacità di cacciarsi immancabilmente nei guai e, ultimo ma non meno importante, gli stessi gusti e la stessa intraprendenza in fatto di conquiste amorose.
   Anche per questo si sentiva così protettivo nei suoi confronti; ma non avrebbe potuto continuare a proteggerla per sempre. Era il momento di permetterle di andare per la sua strada, senza la sua ingombrante presenza sempre vicina.
   Indiana Jones aveva fatto il suo tempo.
   «Sorpassato» borbottò, muovendo piano la testa. «Una mummia rinsecchita. Dovrei stare in un museo» brontolò. O in un mausoleo, gli venne voglia di soggiungere con amaro sarcasmo.
   Ora toccava a Katy. Anche se, a volte, la riprendeva per la sua eccesiva vivacità e per la sua esagerata impulsività, non poteva che sentirsene orgoglioso, perché lei rispecchiava perfettamente ciò che era stato lui alla stessa età. Era la sua copia, il suo erede spirituale, prima ancora che fisico. Qualcuno – per esempio Marion – poteva esserne inquieto; non lui. Lui non poteva resistere alla tentazione di sorridere ogni volta che un pensiero del genere gli si affacciava alla mente.
   Fino a quel momento aveva sempre cercato di controllarla, di aiutarla, di starle vicino, sebbene avesse già dato prova più volte di essere in grado di cavarsela benissimo da sola. Ora era infine venuto il momento che lei prendesse la sua strada, proprio come Indy aveva fatto tantissimi anni prima.
   Se, come credeva, conoscendola, avesse deciso di rimanere con quella ragazzina bionda, qualunque fosse la storia in cui era invischiata, lui non glielo avrebbe impedito, non l’avrebbe intralciata, non si sarebbe messo in mezzo. Non avrebbe ripetuto l’errore che suo padre aveva fatto con lui, cercando di ostacolarlo in ogni modo; e non avrebbe fatto come con Junior, nei riguardi del quale, all’inizio, aveva insistito perché diventasse ciò che voleva lui, finendo soltanto col portare il loro rapporto alla massima tensione, prima che riuscissero a riconciliarsi e ad accettarsi per quello che erano.
   Non era giusto che lo facesse, e non si sarebbe dimostrato così egoista da fingere di non sapere che, quella che si ostinava a considerare la sua bambina – e nel suo cuore lo sarebbe rimasta per sempre, di questo era più che certo – era in verità una donna, astuta, matura e indipendente.
   «La vita funziona in questa maniera» borbottò, incrociandosi le mani dietro la testa per sorreggersi meglio. «C’è chi viene e c’è chi va. Ora viene Katy e se ne va Indy. Perché prendersela? Funziona così da quando esiste l’uomo e durerà in questa maniera per tutta l’eternità. Ne ho tirati fuori tanti dalle loro tombe, di scheletri, per non sapere che, prima o dopo, sarei diventato anche io uno di loro. Magari tra tremila anni arriverà un archeologo del futuro a mettere insieme le mie vertebre ammucchiate dentro una fossa. E ci finirò davvero, in un museo.»
   Suo malgrado, le labbra gli si allargarono in un ampio sorriso. Cominciò persino a ridacchiare, mentre si figurava i suoi miseri resti esposti in una teca, illuminati da una luce al neon, e immaginava conversazioni surreali.
   «Guarda, figliolo, questo scheletro proviene dal sito A. Vedi come sono logorate le ossa? Nel passato, gli uomini non si curavano molto della loro salute. Il cartellino dice che era un archeologo
   «Sì, ma che noia, papà, andiamo a prendere il gelato…!»
   Indy rise ancora più forte. Rise talmente tanto che rischiò di strozzarsi e dovette tossire forte per riprendersi. Con un mesto brontolio, si allungò verso il comodino, afferrò la bottiglia di vetro, svitò il tappo e la portò alle labbra, traendone un lungo sorso d’acqua. Cominciò subito a sentirsi meglio. Certo che, se non riusciva più nemmeno a ridere senza correre un pericolo mortale, era messo ancora peggio di quanto pensasse.
   «Bah!» sbottò, rimettendo a posto la bottiglia e tornando a sdraiarsi.
   Fissò il soffitto e, di nuovo, cercò di imprimersi bene il concetto.
   «Sono vecchio e questo è parte della vita» borbottò. «Invecchiare è normalissimo. Succede a tutti. Non ha senso lamentarsi di ciò che è stato predisposto dalla natura. E io non intendo lamentarmi. Non lo farò. Non dirò una parola.» Si mosse di qualche centimetro e fece una smorfia quando un dolore gli si propagò dai lombi fino alle spalle. «Dannata schiena! Uhi!»
   Eppure, inutile nasconderlo, il fatto che Katy avesse ventisei anni e lui quasi sessanta di più gli dava parecchio fastidio.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Katy e Valerija ***


   5 - Katy e Valerija
 
   Le due ragazze restarono ferme per qualche istante a guardare il vecchio archeologo arrancare verso la sua stanza, poi Katy toccò piano la mano dell’amica e la condusse con sé verso la porta del bagno.
   Il locale non era molto grande, ma c’era ugualmente spazio per entrambe. Il pavimento e le pareti erano coperti da piastrelle di un color blu notte, mentre i sanitari erano di un bianco splendente. Sul fondo, lunga quanto lo spazio tra le due pareti, si trovava la cabina della doccia.
   Entrambe si guardarono allo specchio. Avevano i capelli scarmigliati e lividi sul viso. Il trucco con cui Katy si era dipinta gli occhi era sbavato, mentre la faccia di Valerija era macchiata di sangue, proprio come la giacca e il colletto della camicia. Il giubbotto di Katy, invece, era cosparso di fango.
   «Facciamo spavento, eh?» commentò l’americana, ridacchiando.
   «Di certo non sembriamo pronte per andare a un ballo o per farci invitare fuori a cena» le fece eco Valerija, con un’altra risatina.
   Katy dispiegò le labbra in un sorriso. Abbassando lo sguardo, si accorse che Valerija aveva ancora il libro stretto tra le mani. Bruciava dalla voglia di sapere che cosa ci fosse scritto, lì dentro, e perché quegli uomini avessero cercato di impadronirsene e di rapirla. Di sicuro doveva essere qualcosa di molto importante, ma non doveva essere impaziente. Per ora c’erano anche altre cose, di cui occuparsi.
   Allungò le mani e le pose sul grosso volume. Istintivamente, Valerija si irrigidì e lo strinse più forte. I loro occhi si incontrarono e, in quelli della croata, Katy lesse qualcosa che le parve paura.
   «Non voglio portartelo via» disse, in tono confortante. «Pensavo solo che sarebbe meglio metterlo in un posto più sicuro del bagno. Qui potrebbe rovinarsi, è molto fragile…»
   Valerija esitò.
   «E se quegli uomini ci avessero seguito ed entrassero in casa per rubarlo mentre ci stiamo lavando?»
   Katy fu attraversata da un brivido. Non le era affatto sfuggito quell’accenno al fatto che si sarebbero lavate insieme. Nella sua testa alla costante ricerca di nuove emozioni cominciarono a girare numerosi ingranaggi.
   «Katy, stai tremando» disse subito Valerija, turbata da quella reazione. «Hai paura di qualcosa? Pensi che potrebbero arrivare davvero?»
   La ragazza sorrise in maniera rassicurante.
   «No, no, ma quale paura… sono solo piena d’acqua fin nelle mutande, mi sto letteralmente congelando» disse. E, in fondo, non era neppure una menzogna, sebbene il suo brivido di un istante prima non avesse avuto nulla a che vedere con le condizioni dei suoi abiti e del suo corpo.
   Anche Valerija sorrise, più sollevata. Ma soltanto per un istante.
   «E allora, che cosa facciamo?» domandò.
   Non ci fu nemmeno bisogno di riflettere. Katy aveva avuto un’intuizione brillante.
   «Vieni, ti faccio vedere dove possiamo metterlo» disse, prendendola di nuovo per la mano e guidandola fuori dal bagno.
   «Lo vuoi dare a tuo padre?» chiese Valerija, seguendola.
   «Non ci penso nemmeno» ridacchiò Katy. «A quest’ora starà già russando come un trombone e non lo sveglieremmo nemmeno a cannonate. Affidargli il libro, in questo momento, equivarrebbe a lasciarlo fuori dalla porta. No, ho pensato a un’altra soluzione, guarda.»
   La guidò attraverso un salone riccamente ammobiliato con divani, poltrone, tavolini e vetrinette. Il pavimento era lucido e gli anfibi di Katy vi lasciarono sopra una lunga serie di impronte fangose, a cui si unì l’acqua che continuava a sgocciolare dagli abiti e dai capelli. Superata un’altra porta, entrarono in un ambiente fiocamente illuminato, dove si trovavano alti scaffali che contenevano centinaia, o forse migliaia, di libri antichi e pregiati.
   «Il tizio che ci ha affittato questo appartamento è un bibliofilo» spiegò Katy, mentre Valerija ammirava a bocca aperta la bellissima raccolta, che emanava un acre profumo di carta vecchia. Tendendo le orecchie, si poteva anche udire un lieve ma costante scricchiolio: le antiche scansie dovevano essere il regno segreto dei tarli.
   «Che bello!» commentò la ragazza, al settimo cielo per quella visione. «Giuro che vorrei averla a casa mia, una simile libreria!»
   Katy non riuscì a condividere il suo entusiasmo. Quello a cui piacevano libri come quelli era suo fratello Abner. Lei, con l’eccezione dei volumi su cui aveva dovuto studiare, preferiva dedicarsi alla lettura dei fumetti. Li trovava altrettanto istruttivi e molto più avvincenti. Nondimeno, non fu capace di trattenere un sorriso mentre osservava l’amica che faceva scorrere le dita sui dorsi rilegati in pelle e dalle lettere dorate, fermandosi ogni tanto per leggere qualche titolo.
   «Ho pensato che questo sarebbe il posto ideale per metterci il tuo libro» spiegò. «Se un ladro entrasse in casa, avrebbe il suo bel daffare per riuscire individuarlo in mezzo a tutti gli altri. L’unica soluzione sarebbe organizzare un vero e proprio trasloco, ma in quel caso penso che ce ne accorgeremmo anche se fossimo rintanate sotto il getto della doccia, no? E, probabilmente, con un tale fermento in casa, si sveglierebbe persino il vecchio.»
   Valerija indirizzò a Katy uno dei sorrisi più dolci che le fosse mai capitato di vedere in vita sua. Un sorriso che la fece sciogliere.
   «Sei un genio» disse, guardandola dritta negli occhi.
   Pur sentendosi le gambe molli per l’emozione, la ragazza riuscì a spostarsi verso di lei e ad affiancarla. Fecero scorrere lo sguardo lungo tutti gli scaffali per un paio di minuti, finché individuarono un punto che faceva al caso loro, dove erano allineati alcuni grossi libri dalla rilegatura amaranto. Il libro di Valerija, in mezzo a quelli, sarebbe stato inconfondibile.
   Katy la guardò, cercando la sua approvazione, e l’amica fece un cenno d’assenso muovendo piano la testa. Insieme, riposero il libro, facendolo scomparire nel mezzo della moltitudine.

 
* * *

   Ripercorsero le orme lasciate sul pavimento e tornarono in bagno. Katy entrò per prima, Valerija la seguì e si chiuse la porta alle spalle. Una mossa, questa, che ovviamente non sfuggì agli occhi attenti della giovane Jones. Il suo sguardo indugiò per una frazione di secondo sull’uscio chiuso, poi tornò a posarsi sull’amica.
   «Per prima cosa ti devo sistemare quel taglio sulla fronte» disse, avvicinandosi all’armadietto in cui erano custoditi i medicinali.
   «No, prima di tutto ti devi togliere di dosso quella roba bagnata, se non vorrai prenderti davvero un raffreddore» ordinò Valerija, con un tono risoluto che non ammetteva repliche.
   Katy fece un sorrisetto. Soltanto un paio d’ore prima l’aveva fatta arrossire saltando in piedi con lei sulla sedia, e ora era chiusa con lei in una stanzina e le stava dicendo che doveva spogliarsi. La ragazzina non era abituata a perdere tempo, evidentemente. Be’, se per questo, nemmeno lei era una fatta per girare troppo a lungo attorno alle cose.
   Abbassò la zip del suo giubbotto e lo sfilò con una certa fatica per via dell’acqua che lo aveva reso appiccicoso.
   Sotto indossava soltanto una canottiera grigia scollata e aderente, che a causa dell’acqua di cui era intrisa si era incollata completamente al suo fisico magro e slanciato. Le braccia, nude fino alle spalle, erano intirizzite. Quando le sollevò per fletterle e riattivare la circolazione rallentata per il freddo, da sotto le ascelle spuntarono piccoli ciuffetti di peli scuri ben curati: Katy amava depilarsi le gambe fino a renderle lisce come la seta, ma per quanto riguardava le ascelle, si limitava a qualche sforbiciata ogni tanto. Quasi tutte le ragazze – e, qualche volta, per concedersi un diversivo, anche alcuni ragazzi – con cui era stata, avevano trovato quell’aspetto di lei particolarmente attraente. Le forme quasi appuntite del suo piccolo e sodo seno, non protetto da nessun tipo di reggiseno, erano evidenziate fin troppo bene dalla tela umida e scurita, ma Katy si guardò bene dal fare qualcosa per nasconderle. Era proprio curiosa di vedere come avrebbe reagito Valerija, e che cosa sarebbe successo. Quella situazione la stava veramente eccitando.
   Gettò il giubbotto in un angolo, facendo tintinnare tutto il numeroso apparato di collanine e braccialetti che, nel toglierselo, aveva riportato alla luce.
   Valerija si era seduta sopra l’asse abbassata del water, le mani raccolte in grembo, e la stava osservando con discreta curiosità.
   «Non avevo mai visto così tante collane tutte insieme!» esclamò, estasiata. «Sono veramente belle!»
   Appoggiandosi con il sedere al lavandino, Katy afferrò una manciata di ciondoli, un curioso assortimento di ninnoli quasi tutti attaccati a catenelle, ma anche a spaghi e a cordicelle di caucciù, e li osservò rapidamente. Erano così numerosi che si erano intrecciati in un garbuglio che pareva inestricabile. Si riuscirono a riconoscere un teschio, una crocetta, un’aquila e un elefante argentati, una stella di metallo dorato, un cornetto napoletano in ceramica rossa, una specie di artiglio lavorato in un osso ingiallito, il continente africano scolpito in legno, un paio di piastrine militari in acciaio e una testa di Minnie in gomma. Il resto era tutto troppo confuso in un mucchio disomogeneo perché si riuscissero a distinguere altri particolari.
   «Grazie!» trillò, contenta. «Per me ciascuna di esse ha un particolare significato, proprio come questi.»
   Sollevò un’altra volta entrambe le braccia, mostrando tutti i braccialetti che le ornavano i polsi esili. Alcuni erano semplici fili di cotone colorati, ma c’erano anche catenelle, fili di perline di plastica dai vari e sgargianti colori e un filo di rame intrecciato, che doveva provenire da qualche cavo elettrico, a cui erano stati attaccati dei minuscoli campanellini.
   «Sei fantastica!» commentò Valerija, lietamente colpita da quella visione.
   Katy sorrise per un istante, poi si accucciò per slacciare i suoi scarponi. Quando sfilò il primo, un buon quantitativo di acqua sporca si riversò sul pavimento e macchiò il tappetino color panna disposto sotto il lavabo.
   «Ecco, lo sapevo… Old J stavolta non me la farà passare liscia» bofonchiò, mentre si toglieva il secondo anfibio, con un risultato analogo al primo.
   Buttò senza nessuna grazia gli scarponi nello stesso angolo che aveva riservato al giubbotto, mandando presto a tener loro compagnia anche i suoi calzini bianchi e neri. Mentre si sollevava e iniziava a litigare con la complicata chiusura della cintura che sosteneva i pantaloni di pelle, fece un cenno in direzione di Valerija che, imbambolata, non sembrava intenzionata a perdersi neppure una mossa del suo spogliarello.
   «Farai meglio a spogliarti anche tu» le rammentò, con un sorrisetto. «Così poi posso controllare che non ti abbiano fatto altro tagli. E poi, senza offesa, ti assicuro che, qui dentro, non sono l’unica ad avere bisogno di una doccia…»
   Valerija sbottonò la giacca, ridacchiando.
   «Faccio schifo, insomma» commentò.
   Katy si chinò in avanti per sfilare i pantaloni. La pelle, stretta e aderente, parve cigolare sfregando contro le sue gambe.
   «Continui a essere il mio tipo» rispose, con tono di finta serietà, mentre il suo sorriso si accentuava. «Ma in questo momento non ti porterei al ballo in maschera al Palazzo Ducale. Se proprio proprio, in queste condizioni, ti farei fare un giro intimo in gondola, solo io e te, senza nessun perbenista benpensante che commenti il nostro stile alternativo.»
   Valerija arrossì lievemente e non disse nulla. Si era tolta la giacca e adesso stava sbottonando la camicia bianca, macchiata di sangue. A giudicare da come muoveva con fatica le braccia, dovevano farle parecchio male. Era un vero miracolo che, con tutte le botte che aveva ricevuto poche ore prima, fosse ancora in grado di muoversi e avesse persino di voglia di sorridere e scherzare con lei.
   Katy, in quel momento, si rese conto di aver a che fare con una persona davvero forte, per quanto nascosta sotto l’aspetto di un uccellino. Fino a quel momento non ci aveva pensato, ma Valerija doveva essere davvero una ragazza fuori dal comune. Nessuno avrebbe reagito come stava facendo lei a un tentativo di rapimento e a tutte quelle percosse. Evidentemente, nascondeva qualcosa di molto importante. Ora come ora non le importava un accidente di scoprire che cosa.
   Rimasta in mutande e canottiera, si avvicinò all’amica e, viste le sue difficoltà, l’aiutò a togliersi la camicia.
   Valerija era davvero attraente, anche con tutti gli ematomi che le erano spuntati sulle braccia e sulle costole, oltre che nel ventre. Al contrario di lei, non poteva essere definita snella. La sua altezza decisamente ridotta si amalgamava benissimo con i fianchi piuttosto morbidi e larghi e con il seno, grosso e generoso, contenuto e sostenuto da un reggiseno in pizzo bianco davvero squisito. Katy non nascose a se stessa che, in mezzo a tutta quella carne, ci si sarebbe volentieri tuffata fino a prendere il controllo e annegarci dentro. Dovette mordersi le labbra per trattenersi dal fare commenti.
   Si chinò su di lei e le sue narici percepirono ancora il dolce profumo di vaniglia che aveva già notato in biblioteca. Contrastava parecchio con l’odore di sudore che emanava Katy. Non era abituata a usare profumi e deodoranti, perché asseriva che contribuissero all’inquinamento, all’aumento del riscaldamento globale e allo scioglimento dei ghiacci.
   «È una scelta etica» sosteneva con insistenza, quando qualcuno le faceva notare che iniziava a essere difficile restarle accanto.
   «Sei una puzzona che non ha voglia di lavarsi» replicava invece sua madre, agitando la mano davanti al naso e fingendo di allontanarne la puzza. «Il sapone non ha mai ucciso nessuno e dovresti cominciare a farci amicizia anche tu!»
   «Io la saponetta la uso!» rispondeva lei, alzando gli occhi al cielo. «È il deodorante che non va bene! Fa sciogliere i ghiacci e fa aumentare le tossine nell’aria! Un giorno soffocheremo perché l’aria sarà piena di veleni che la gente usava per non puzzare, e se non soffocheremo moriremo annegati perché i mari si innalzeranno e subiremo un nuovo Diluvio Universale a causa della nostra follia!»
   Il profumo dell’amica, però, le piaceva tantissimo, ed era più che certa che, un’essenza tanto amabile, non potesse che fare bene al pianeta. E Valerija, almeno a giudicare da come sorrideva nell’averla tanto vicina, non sembrava per niente infastidita dalle sue “scelte etiche”.
   «Ti fa male?» mormorò, posando piano il dito sopra una botta che era affiorata sopra il fianco sinistro.
   La ragazza sussultò, ma non per il dolore. Scosse il capo e sussurrò una frase nella sua lingua. Anche se la conosceva, la disse così adagio che Katy non riuscì a comprenderne il significato. Però, era qualcosa che le trasmise altri brividi.
   «Togli anche la gonna, così controlliamo le gambe» suggerì, cercando di apparire distaccata. Sperò che lei non avesse avvertito il tremito della sua voce.
   Si girò e aprì l’anta dell’armadietto bianco in moplen. Guardò dentro, alla luce fioca della lampadina automatica che scattava all’apertura. La sua mano aggirò la selva di flaconi di pastiglie e di scatole di altri portentosi medicinali che appartenevano alla collezione privata di suo padre («La tua dose quotidiana per farti qualche viaggetto psichedelico, Old J» come li chiamava lei) e agguantò le garze, il cotone, il disinfettante e il tubetto di pomata a base di oxerutina per favorire il riassorbimento delle botte.
   Tornò a voltarsi verso Valerija. Si era tolta le scarpe e la gonna e stava armeggiando con i collant lacerati. Katy deglutì nel rendersi conto che, sotto quelli, non indossava nessun tipo di mutandina. Cercò di darsi un contegno e si chinò un’altra volta su di lei.
   Osservò con attenzione il taglio sulla fronte. Come aveva detto suo padre, era poco più di un graffio. Ormai si era emarginato quasi del tutto.
   «Qui c’è davvero poco da fare, basta una pulitina e sarai come nuova» mormorò.
   Svitò il tappo della boccetta che aveva in mano e versò alcune gocce verdognole che emanavano odore di alcol sopra un batuffolo di cotone. Poi, dopo aver riposto tutto ciò che aveva in mano sul bordo del lavandino, tornò ad abbassarsi. Adagio, con tutta la delicatezza di cui era capace, cominciò a tamponare.
   Dalla bocca di Valerija sfuggì un gemito quando toccò l’unico punto in cui la ferita non si era ancora chiusa.
   «Ti faccio male?» sussurrò. Con la mano libera le accarezzò la spalla. «Scusami…»
   Continuò a pulire la piccola ferita, concentrandosi con tale intensità su quella operazione da non badare a niente altro. Era più che abituata a sistemarsi graffi e lacerazioni che si procurava con considerevole frequenza, e quindi sapeva esattamente come muovere le dita, però quella era la prima volta che si prendeva cura di qualcun altro. Aveva una paura terribile di sbagliare qualcosa o di procurarle troppo dolore.
   Valerija, oltre quel lieve gemito, non disse nulla. Fece dei leggeri movimenti con le braccia e con il busto. Katy, tutta intenta alla sua complicata operazione, non vi badò per niente.
   Finalmente decise di aver pulito a sufficienza la ferita. Ormai non restava che applicare un piccolo cerotto e, nel volgere di pochi giorni, non sarebbe rimasto più nemmeno il segno. Spostò lo sguardo e si sentì mancare il fiato. Lo stomaco compì una giravolta e le mani le si impregnarono all’istante di sudore.
   Senza che lei se ne accorgesse, Valerija aveva finito di sfilarsi i collant, che ora giacevano abbandonati ai suoi piedi. Le sue cosce, morbide e carnose, erano lievemente divaricate, quasi come se nascondessero una specie di invito misterioso, ancora tutto da decifrare.
   «Io…» mormorò Katy, muovendo un passo all’indietro. Deglutì, cercando di ritrovare la voce. «Ora ti metto il cerotto e poi… pensiamo al resto… okay?»
   Valerija annuì e lasciò che lei le si avvicinasse di nuovo con il piccolo cerotto tra le mani. Katy ora tremava e si sentiva in affanno. Era una sua sensazione, oppure il corpo dell’amica irraggiava un calore tale che sarebbe stato persino capace di asciugarla?
   Applicò velocemente il cerotto e si spostò all’indietro, contemplando il risultato. Non fu facile concentrarsi sulla fronte di Valerija, e divenne ancora più difficile riuscirci quando lei portò le mani dietro la schiena e fece scattare la chiusura del reggiseno, che le scivolò dalle spalle con una lentezza quasi esasperante. I suoi turgidi capezzoli rosati, nel mezzo del seno pallido e gonfio, sembravano invitarla perché li avvolgesse con le labbra.
   La ragazza si alzò e tese le mani verso di lei. Katy lasciò che gliele prendesse e le stringesse.
   «Ora» sussurrò Valerija, con tono seducente, «possiamo proprio pensare al resto…»
   I loro corpi aderirono. Le mani di Valerija si insinuarono sotto la canottiera di Katy, cominciando a prendere confidenza con le sue forme piccole ma armoniche, mentre quelle nervose e sudate di quest’ultima tastavano e palpavano ogni centimetro di lei che riuscisse a raggiungere. Infine si serrarono sul suo sedere, tondo, levigato e tonico, e lo strinsero senza ritegno.
   Da lontano, passando attraverso la stretta finestrella dal vetro smerigliato che si trovava sopra la doccia, giunse il canto melodioso e soltanto un poco stonato di un gondoliere.

   «Mi me so inamorà de ti careta,
   oh povereto mi!
   Ma se ti è grazioseta,
   se bela ti è cussì,
   doname del to amabile,
   del dolçe to godibile,
   co mi tanto no far la ritroseta…»


   «Adoro Venezia…» mormorò Katy, mentre i primi umori dell’eccitazione cominciavano a bagnarla, aiutati dalle dita di Valerija, che erano scese a contatto con la tela sempre più inutile e fastidiosa delle sue mutandine e la stavano sfregando con passione e con trasporto.
   Pervase dall’estasi, le due ragazze soffocarono un gemito unendo le loro bocche avide, umide e curiose in un lungo bacio.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Il segreto rivelato ***


   6 - Il segreto rivelato
 
   La statuetta d’argento dagli occhi di smeraldo brillava sul fondo della caverna. Finalmente, dopo una lunga ricerca, era giunto a destinazione. Ce l’aveva fatta, anche se non poteva dire che fosse stato semplice.
   Contrariamente alle sue previsioni, attraversare l’intrico della foresta si era rivelata la parte più facile dell’impresa, sebbene avesse dovuto lottare contro l’aggressione di migliaia di zanzare, per non parlare del momento tremendo in cui era trovato faccia a faccia con un serpente smisurato. I guai veri erano però iniziati quando era giunto al fiume e aveva scoperto che il vecchio ponte di canne e corda era crollato. L’esitazione lo aveva colto soltanto per un istante, prima che si decidesse a proseguire nell’unica maniera possibile. Non aveva potuto fare altro che gettarsi a nuoto e, affrontando con fatica la corrente impetuosa, guadagnare la sponda opposta. Per poco le rapide non lo avevano portato via, ed era stata solo questione di pochi centimetri perché un grosso tronco abbandonato ai flutti non lo travolgesse. Era giunto sulla riva coperta di ghiaia ansimante e dolorante, però c’era riuscito, e questo era l’importante.
   Seguendo la mappa logora e bisunta, stracciata in diversi punti, aveva ripreso il cammino ed era arrivato fino all’ingresso della grotta. Proprio come indicava l’antico documento, sulla volta erano incise delle figure misteriose, rappresentazioni della divinità che lì era venerata. Aveva temuto di imbattersi in trabocchetti, di cui tuttavia non aveva visto traccia, se si escludeva il profondo foro scavato nel pavimento in cui era quasi precipitato.
   Infine, eccola. La statua del dio delle foreste, illuminata da un raggio di luce dorata e polverosa che pioveva in senso obliquo da un buco praticato nella parte alta della grotta.
   Indy si sistemò meglio il cappello e un ghigno gli comparve sul volto sporco e sudato, punteggiato dalla barba non rasata da parecchi giorni. Le sue molteplici fatiche stavano per essere coronate dal successo. Questa volta, il vecchio Marcus non avrebbe avuto alcunché di cui lamentarsi, perché gli avrebbe riportato il tesoro che lo aveva spedito a cercare, sano e salvo. E, naturalmente, come al solito, tutto in maniera conforme al Trattato Internazionale per la Protezione delle Antichità.
   Mosse qualche passo in avanti e appoggiò le mani sopra la statuetta. Quella restò inerte per una manciata di secondi, dandogli la sensazione di avercela fatta; poi inaspettatamente si animò, trasformandosi in un mostro gigantesco. Un mostro che aveva le sembianze di René Belloq. Indy sussultò per la sorpresa, cercando di mantenere il sangue freddo.
   «Dottor Jones!» lo canzonò quello, con il solito sorriso stucchevole dipinto sul volto, di proporzioni impensabili. «Come al solito non c’è nulla che lei possieda che io non sia in grado di portarle via.»
   «Maledetto!» grugnì Indy, mettendo mano alla frusta.
   Belloq fu più veloce e lo colpì con un pugno. Un pugno duro come un maglio, che lo fece crollare al suolo, steso in modo scomposto sulla schiena, mentre un crampo dolorosissimo lo attraversava da parte a parte.
   Lo stesso crampo che lo svegliò di soprassalto.
   «Maledetta sciatalgia» brontolò Indy, girandosi sul letto nel tentativo di trovare una posizione migliore per poter calmare il dolore che, dalla schiena, gli scendeva lungo la parte posteriore della gamba destra.
   Era indolenzito e infreddolito. Gli pareva di aver dormito una settimana. Guardò la finestra e vide che il cielo al di là dei vetri si era fatto scuro e cupo. Alcune nuvole si dovevano essere addensate, nel corso della giornata, e ora sulla città lagunare cadeva una fitta pioggerella autunnale. Se non si era trattato proprio di una settimana, di sicuro era rimasto immerso tra le braccia di Morfeo per tutto il pomeriggio.
   Grugnendo parole incomprensibili persino a lui stesso, si raddrizzò e si mise a sedere sulla sponda. Il dolore si stava attenuando, però non velocemente come gli sarebbe piaciuto.
   «Pure dormire mi distrugge» biascicò, stropicciandosi il volto con le dita.
   Passandosi la mano destra tra i capelli spettinati, controllò l’orologio che aveva al polso sinistro per capire che ora fosse. Segnava quasi le sette della sera.
   «Che diavolo, stanotte non chiuderò occhio» si lamentò. «Ma perché diamine Katy non è venuta a svegliarmi…?»
   Provò a rialzarsi, spingendosi con le gambe, sebbene i dolori stessero cercando con tutta la loro arte più sottile di tenerlo inchiodato al letto. Al terzo tentativo ci riuscì, e la posizione eretta contribuì a sistemargli la schiena, la coscia e le anche. Poté così godere di un momentaneo sollievo dai dolori. Emettendo l’ennesimo grugnito, calzò i mocassini e si diresse verso la porta.
   Il vestibolo era immerso nel buio. Dalla stanza adiacente, quella dove si trovava il soggiorno, proveniva invece della luce, insieme alle voci confuse della televisione accesa. Prima di andare da quella parte, Indy aveva necessità di usare il bagno.
   Aprì la porta e trasalì. Sembrava che lì dentro fosse passato un tornado.
   Gli abiti, la biancheria e le scarpe delle ragazze erano sparpagliati ovunque, e sul pavimento erano ammonticchiati tutti gli asciugamani, come se fossero serviti da giaciglio. C’erano acqua e schiuma dappertutto, oltre a tutto il fango che doveva essere uscito dalle scarpe di sua figlia. La spugna, che avrebbe dovuto trovarsi nella doccia, era invece finita nel bidè.
   Basito, Indy osservò lo specchio. Vi erano rimaste impresse le impronte strascicate di due mani, come se una delle due vi si fosse appoggiato con forza, mentre l’altra la cingeva da dietro. Poiché avevano entrambe le mani piccole, anche dopo varie analisi non riuscì a stabilire se si trattasse delle impronte di Katy oppure di quelle dell’altra ragazza. A dire il vero, non voleva neppure scoprirlo.
   L’anziano professore aprì il rubinetto e si sciacquò la faccia. Poi, con una certa fatica, gocciolando acqua dalla barba, raccattò il primo asciugamano che gli venne a tiro. Era piuttosto umido e, sotto il profumo dei bagnoschiuma, avvertì anche un odore particolare che riconobbe al volo. Per certe cose poteva vantare una discreta esperienza. Non volle nemmeno provare a immaginare in quale maniera precisa se ne fossero servite le due ragazze.
   Lo lasciò cadere e si accucciò per agguantarne un secondo, questa volta scavando bene nel mucchio per provare a intercettare quelli dello strato più basso. Anche quello, però, doveva essere servito a qualche scopo differente dalla sua funzione originaria. Non era il caso di essere troppo schizzinoso, anche perché la sua schiena non avrebbe retto a un terzo piegamento.
   Dopo essersi finalmente asciugato, adoperando un angolo di tessuto che gli parve aver superato indenne la sfida dei misteriosi giochi erotici di sua figlia e della sua amica, uscì da quella specie di campo di battaglia e si diresse verso il soggiorno.
   Era una caratteristica e stravagante sala ipostila, con il pavimento in lucido marmo di Botticino solcato da numerose venature più scure e quattro colonne tortili in marmo rosso di Verona a reggere il soffitto, su cui erano raffigurate immagini di divinità greche, egizie, induiste e precolombiane, agglomerate in un misterioso sincretismo, realizzate dalla mano di qualche abile pittore del Novecento in stile Liberty. Piante di ficus in vaso, tappeti persiani e divanetti dalla foggia orientale completavano il quadro di quel luogo, che sembrava il ricercato delirio multietnico di qualche arredatore visionario.
   Katy e Valerija erano lì, accoccolate sul divano. La ragazza croata aveva indossato un morbido pigiama azzurro e stava seguendo il notiziario, mentre Katy, con indosso soltanto un accappatoio aperto, che la lasciava praticamente nuda, era piegata su se stessa, indaffarata a dipingersi le unghie dei piedi con uno smalto nero. Entrambe avevano sul viso un’espressione così soddisfatta e rilassata che al vecchio archeologo, se già la vista di come era conciato il bagno non fosse bastata, non servì che una manciata di secondi soltanto per capire come mai non avessero avuto nessuna fretta di svegliarlo.
   «Copriti, o ti verrà un accidente» fu il suo saluto, all’indirizzo della figlia.
   Lei alzò gli occhi dal suo lavoro da estetista e sorrise. Di obbedire e chiudere l’accappatoio non le passò nemmeno per la testa.
   «Buonasera, Old J. Ho provato a svegliarti, ma dormivi come un angioletto e ho lasciato perdere.»
   «Fingerò di crederci» bofonchiò Indy, con una smorfia.
   «Dico sul serio!» esclamò Katy. Cercò l’appoggio di Valerija. «Vero?»
   «Certo!» la spalleggiò lei. «Più di una volta.»
   «E poi» proseguì Katy con tono di finta serietà, tornando a occuparsi delle sue unghie, «non ho idea di come siano distribuite le ore di sonno degli uomini preistorici. Ho sentito dire che, svegliandone uno di soprassalto, si rischia di farlo morire. Non potevo correre il rischio.»
   Indy non replicò nulla. Non credeva che ne valesse la pena. Si limitò a osservare sua figlia, notando che aveva diversi arrossamenti sul seno – che lasciava scoperto come se fosse l’atteggiamento più normale del mondo – sul ventre e persino più in basso. Distolse lo sguardo, senza riuscire a trattenere un sogghigno. Era certo che, tali arrossamenti, non fossero dovuti alla lotta che avevano sostenuto quella mattina; quasi sicuramente, se anche lei fosse stata smaliziata come Katy e se ne fosse andata in giro mezza nuda, ne avrebbe visti di analoghi sul corpo di Valerija. Era meglio non pensarci troppo.
   A proposito della lotta di quella mattina, invece, avrebbero dovuto parlarne. Anche se aveva detto e ripetuto che non voleva saperne niente, era quantomeno curioso: un aspetto, quello, che era rimasto immutato a discapito dell’età. Inoltre, pur essendo più che consapevole che Katy lo avrebbe lasciato per la ragazzina e avendo deciso di non volerla ostacolare, intendeva perlomeno scoprire in quale guaio stesse andando a cacciarsi. E, se fosse stato qualcosa di troppo grosso e troppo serio, si sarebbe opposto a discapito di tutti i suoi propositi.
   Prima di tutto, però, doveva mettere qualcosa nello stomaco, perché cominciava ad avere di nuovo un po’ di appetito. Tanto, si disse tornando a posare lo sguardo sulle due ragazze, quelle per il momento non sembravano intenzionate ad andarsene da nessuna parte.
   Arrancando, raggiunse la cucina. Accese la luce e sgranò gli occhi.
   Il fornello era impiastricciato di una sostanza marroncina, il pianale di legno era ricoperto di polvere e di latte – una buona parte del quale era finito sul pavimento – e il lavello era ingombro di pentole, tazze e cucchiai sporchi. Uno dei tegami sembrava persino essere andato a fuoco.
   «Ma che è successo, qui dentro?!» sbraitò.
   «Ah sì, Old J, scusa, ho dimenticato di dirtelo!» lo raggiunse la voce di Katy. «Quando ha cominciato a piovere ci è venuta voglia di qualcosa di dolce e così ho preparato una cioccolata calda!»
   Indy sospirò e, di nuovo, non disse nulla. Voleva troppo bene a Katy per sgridarla per una sciocchezza del genere che, al contrario, avrebbe mandato Marion su tutte le furie. Certe volte, però, doveva riconoscere che Katy si comportasse ancora come un’adolescente, piuttosto che come un’archeologa laureata.
   «Specialmente» meditò, «quando incontra una ragazza che la manda letteralmente in calore. In questi casi non capisce più niente ed è meglio non averla troppo attorno, se non si vuole correre qualche grosso rischio.» L’ombra di un altro pensiero gli attraversò la mente. «Però, figlia mia, dovresti cominciare a crescere anche tu. Non si può restare ragazzini per tutta la vita
   Ignorando il disastro che regnava sull’orizzonte che andava dal fornello al lavandino, Indy si avvicinò al frigorifero, lo aprì e ci guardò dentro. Trovò un pezzo di formaggio bagòss e una bottiglia aperta di Prosecco di Conegliano. Il tizio che gli aveva affittato l’appartamento era un raffinato buongustaio e, quando aveva saputo che la sua casa sarebbe stata occupata da una simile celebrità, aveva insistito per fargli trovare la dispensa colma di delizie. Chissà che faccia avrebbe fatto, quel poveretto, nel scoprire in quale stato era ridotta la casa che si era vantato di aver consegnato all’eminente professor Jones e alla sua deliziosa figliuola.
   Sperando che non gli venisse recapitato un conto troppo salato per tutti i danni che sarebbe di sicuro stato costretto a rifondere, Indy agguantò la sua cena, vi aggiunse un pacchetto di grissini torinesi e andò al tavolo. Prima di sedersi, però, dovette rimuovere un paio di mutandine di Katy che erano finite chissà come tra le mele che rosseggiavano sopra la fruttiera in vetro di Murano.
   Da quel che gli era dato capire, il bagno era stato soltanto l’inizio.

 
* * *

   Adesso dal salotto giungeva la musica graffiante e pulsante delle chitarre elettriche, dei bassi e della batteria. La voce di Joan Jett urlava dalle casse dell’hi-fi d’angolo, mentre nel piatto del giradischi vorticava un vinile che Katy aveva comprato in un negozio di Padova, durante una sosta per il viaggio verso Venezia.
   
   «We're still together after all that we've been through
   they tried to tell you I was not the boy fore you
   they didn't like my hair, the clothes I love to wear
   they didn't realize that I was strong enough for two
   I love you love you love me too love
   I love you love me love…»


   Indy si fermò sulla soglia con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Sua figlia, arrossata, spettinata e di nuovo sudata, era in piedi in mezzo al soggiorno, e stava provando a insegnare a una ridente Valerija i passi di un ballo scatenato. Tutti i sonagli e il resto della ferramenta che indossava sempre – questo era il modo con cui il vecchio archeologo si riferiva ai numerosi ninnoli che la figlia portava al collo e ai polsi – tintinnavano a ogni suo movimento.
   Una punta d’invidia lo colse mentre osservava quelle due figurine che danzavano felici, come se non avessero un solo pensiero per la testa. Gli tornò alla mente l’ultima volta che aveva ballato con Marion, tre anni prima, a una festa della trebbiatura dove si suonavano vecchie canzoni country. Gli sarebbe tanto piaciuto ballare ancora, stringendo la moglie tra le braccia, dimenticandosi di tutti i dolori che si portava dietro ovunque andasse e qualsiasi cosa facesse.
   Non era il momento di pensare a ballare. C’era una questione di cui gli premeva discutere prima del mattino successivo. Si avvicinò a passi lenti all’impianto stereo e individuò il tasto per lo spegnimento delle casse. Lo fece scattare e la musica cessò di uscire dagli altoparlanti, mentre il disco continuava a girare muto nel giradischi rimasto acceso.
   Katy, che aveva afferrato i lembi del suo accappatoio e, tenendolo spalancato come ali, stava saltellando da un piede all’altro, smise subito e si voltò a guardarlo con una smorfia.
   «Uff, che palla al piede che sei, Old J!» si lamentò.
   «Dobbiamo parlare» grugnì Indy, andando verso la poltrona. La guardò per un istante, con ancora l’accappatoio spalancato, e sbottò, distogliendo lo sguardo per sedersi: «E ti vuoi coprire, una buona volta?!»
   «Sono nudista! Non lo sapevi?!» trillò Katy, ricominciando a saltellare e afferrando la mano di Valerija per trascinarla con sé in una nuova danza scalmanata.
   Indiana Jones, invecchiando, aveva perduto sempre di più la capacità di saper pazientare. Ogni ritardo lo infastidiva, ogni perdita di tempo lo rabbuiava, ogni volta che qualcosa non andava come lui voleva si faceva trascinare dalla rabbia e rispondeva male a chicchessia, alzando spesso la voce, anche quando non sarebbe stato davvero necessario. L’unica eccezione era rappresentata da sua figlia Katy: a lei permetteva qualsiasi cosa, con lei tutto era tollerabile. Adesso, però, anche lei stava cominciando a esagerare.
   «Ora basta giocare!» gracchiò, mollando un pugno sul bracciolo della poltrona. «Porca miseria!»
   Katy e Valerija si fermarono di colpo e lo guardarono con tanto d’occhi. La ragazza croata parve intimorita da quell’atteggiamento, mentre Katy non si lasciò minimamente turbare. Tuttavia, non poté replicare nulla, perché suo padre soggiunse, indicando il divano: «Mettetevi sedute! Subito!»
   Il suo tono non ammetteva repliche, ma Katy non vi badò.
   «Senti, Old J, se è per il bagno e la cucina, dopo avrei messo tutto a posto…»
   «Non è per il bagno!» la interruppe suo padre. Parve ripensarci. «Anzi, sì. È anche per quello. Devi imparare una buona volta a comportarti come si conviene e a non ridurre casa tua a un letamaio. Ma non è di questo che voglio parlare.» Si protese in avanti, dardeggiando lo sguardo verso le due ragazze. «Voi state qui a ballare, a bere la cioccolata e a fare magari anche qualcos’altro di cui non mi interessano i dettagli, e sembrate esservi scordate che, proprio stamattina, degli uomini hanno cercato di farci secchi tutti e tre. Vi pare una piccolezza trascurabile? A me, in tutta sincerità, no!»
   Valerija impallidì e Katy si morse le labbra. Fu lei, però, a rispondere quasi subito.
   «Non ce ne siamo affatto scordate, papà» disse, con tono lievemente colpevole. «Però… insomma… io penso che non ci si debba far condizionare l’esistenza dalle cose brutte, no?»
   Indy annuì gravemente, guardandola con discreta ammirazione.
   «Il tuo è un atteggiamento che approvo» ammise. «Saper reagire con lo spirito giusto alle sciagure è il solo modo per andare avanti senza farsi distruggere. Lo so bene io, che ho fatto due guerre e ho combattuto per tutta la vita e ho collezionato una serie infinita di dispiaceri, e che a un certo punto, nel millenovecento...»
   Si rese conto dell’espressione al medesimo tempo esasperata e divertita comparsa sul volto di sua figlia e si interruppe di soprassalto. Sapeva bene che Katy era sempre pronta a schernirlo, quando lo coglieva nell’atto di divagare, e non gli sembrava proprio il caso di darle l’opportunità per mettersi a scherzare.
   «Però» ricominciò a parlare, sollevando il dito in tono ammonitore, «viene pure quel momento in cui ci si deve fermare a riflettere sull’accaduto. Perciò, adesso, mi piacerebbe conoscere il motivo per cui, poche ore fa, siamo quasi diventati cibo per piccioni.»
   Valerija e Katy si scambiarono diverse occhiate, che fecero comprendere a Indy che, tra di loro, avevano già parlato dell’accaduto. Sua figlia, a quel che pareva, sapeva già ciò di cui intendeva essere informato anche lui. Evidentemente, non si trattava di nulla di troppo pericoloso, che avrebbe potuto comportare dei rischi, altrimenti non avrebbe ballato, bevuto cioccolata e bruciato tegami con tanta leggerezza. Questo, perlomeno, era un pensiero confortevole, che però non contribuiva del tutto a dissipare i suoi dubbi, perché sapeva fin troppo bene che, da parte di quella ragazza iperattiva, si sarebbe potuto aspettare qualsiasi cosa, nonché il suo esatto contrario.
   «Avevi detto che non volevi saperne nulla, o sbaglio?» cinguettò Katy.
   «Ho cambiato idea» borbottò Indy.
   Katy inarcò un sopracciglio.
   «E possiamo sapere anche noi che cosa ti abbia indotto a tornare sui tuoi passi?» domandò con insolenza.
   Jones scrutò la ragazza con sguardo accigliato, prima di sbottare: «Tu.»
   «Io?» fece Katy, stringendo piano la mano dell’amica.
   «Sì, tu!» ripeté Indy, fissandola torvo. «Perché non ho di certo bisogno della sfera magica per sapere che, a discapito di quello che abbiamo concordato prima di venire qui, tu domani mattina te ne salirai su un treno con questa ragazza, abbandonando a se stesso il tuo povero, vecchio padre.»
   Un sorriso furbo illuminò il volto di Katy.
   «Che intuito, Old J!» esclamò, cercando di apparire sarcastica, eppure senza riuscire a celare una punta di reale sorpresa. «Non ti facevo tanto perspicace.» Si morse un’altra volta le labbra, prima di soggiungere: «E lo hai intuito vedendo il bagno, se posso chiedere?»
   L’ombra fugace di un sorriso ironico attraversò il volto di Indy, illuminandogli lo sguardo.
   In realtà, le condizioni disastrose in cui aveva trovato il bagno e la comprensione di ciò che era avvenuto lì dentro – oltre che in altre parti dell’appartamento, tra cui anche la cucina – non c’entravano niente: quelle, piuttosto, erano state semplicemente la prova del nove, la conferma di ciò che aveva immaginato sin dal momento in cui Katy aveva insistito per occuparsi lei di risistemare la ferita della ragazza, e forse da ancora prima, da quando era corsa in suo aiuto e poi aveva insistito per farla venire a casa con loro.
   Lo aveva intuito subito, senza timore di sbagliarsi: sua figlia era attratta da quella bella biondina; e, proprio per questo, non l’avrebbe abbandonata a se stessa troppo presto. Magari prima o poi se ne sarebbe stancata, lasciandola e dicendole addio come aveva già fatto parecchie altre volte, però prima avrebbe voluto averla tutta per sé per qualche settimana, accompagnandola ovunque andasse e senza curarsi dei rischi che questo avrebbe potuto comportare.
   Lo sapeva benissimo perché, un tempo dannatamente lontano, anche lui avrebbe agito esattamente allo stesso modo. In ogni caso, non era una cosa che potesse dire adesso, davanti a quelle due.
   Quindi si limitò a un cenno di conferma, mugugnando: «Sì, l’ho capito andando in bagno.»
   Il sorriso di Katy assunse dei connotati da ghigno derisorio che Jones sopportò a stento.
   «Comunque, nessuno vuole abbandonarti, povero vecchietto» disse. «Potresti venire con noi. Sono certa, anzi, che il tuo aiuto ci farebbe molto comodo.»
   Indy la osservò senza capire. Che tipo di aiuto avrebbe mai potuto dare lui?
   Questa volta fu Valerija a prendere la parola.
   «Katy mi ha raccontato che lei è un archeologo, professor Jones» rivelò la ragazza, senza nascondere la propria emozione.
   Si strofinava di continuo la mano sulla coscia, colpita e appassionata dalla sola idea di essere seduta dinnanzi a un uomo tanto straordinario, oltre che da quella di aver trascorso l’intero pomeriggio a fare l’amore con sua figlia.
   «Anzi, il più celebre archeologo del mondo!» proseguì, con la voce cresciuta di diverse tonalità. «Ho sentito parlare moltissimo di lei. Le sue imprese sono così leggendarie che pensavo che lei fosse soltanto un personaggio immaginario, il protagonista di un film o cose del genere!»
   Il vecchio si strofinò la barba lunga, in apparenza per niente interessato a quella manifestazione di interesse e di trasporto nei suoi confronti.
   «Non dirmi che anche tu sei un’archeologa!» si limitò a commentare, stupito.
   «Oh, no, professore, io sono una bibliotecaria» rispose. «E… oh, mi perdoni, non mi sono ancora presentata come si deve, con lei. Le chiedo scusa, ma è stata una giornata così… diversa.» Le si imporporarono lievemente le guance e lanciò una fugace occhiata a Katy, che sorrise in maniera amabile. Poi aggiunse: «Mi chiamo Valerija Bjelica, professore.»
   «E sei una bibliotecaria» rifletté Indy, continuando ad accarezzarsi la barba. «Quindi, immagino che fossi venuta a prendere quel libro per la tua biblioteca…» Si guardò rapidamente attorno. «A proposito, dov’è?»
   Katy scattò in piedi, allacciando finalmente il cordone dell’accappatoio.
   «Vado subito a prenderlo!» squillò, correndo via.
   Suo padre la seguì con lo sguardo, prima di tornare a concentralo su Valerija.
   «In verità, professore, sono ben altri i motivi che mi hanno condotta qui» confessò. «La biblioteca della diocesi di Spalato, per cui lavoro, non c’entra proprio nulla. O, meglio, quasi nulla: a dire il vero, tutto è iniziato da lì. E le devo confessare che aver trovato due archeologi – Katy mi ha detto di essere laureata anche lei – è stata la più grande fortuna che ci potesse capitare, perché noi, da soli, non avremmo saputo dove sbattere la testa e nemmeno da che parte cominciare, con o senza libro.»
   L’uso del plurale colpì l’attenzione di Indy. C’era un noi, dunque. Altre persone implicate in quella storia, di qualsiasi storia si trattasse davvero.
   La faccenda si complicava e, chissà perché, cominciò a sentirsi inquieto. Forse era perché molte delle sue più strampalate e pericolose imprese erano cominciate proprio così, con un’amabile chiacchierata e niente altro. Un giorno parlava con Brody, o con quello psicopatico megalomane di Walter Donovan, o con Abner Ravenwood, o con suo figlio, o con chiunque altro, e quello successivo si trovava a un passo dall’essere ucciso nei modi più fantasiosi possibile, mentre un incredibile e antichissimo mistero gli si svelava poco per volta davanti agli occhi, come un corpo imbalsamato estratto lentamente dalle bende che lo avevano avvolto per secoli e millenni.
   Ma non doveva lasciarsi suggestionare dai suoi ricordi. Ormai i tempi erano cambiati, non potevano più esserci troppi segreti celati nel mondo… Questa ragazzina bionda non poteva portare grossi guai, no?
   «Se non si tiene conto di quegli energumeni che volevano rapirla…» meditò, continuando a tormentare la barba come se volesse lisciarla completamente.
   Katy tornò in quello stesso istante, il libro tra le mani. Lo consegnò a Valerija, che lo strinse in grembo come se fosse stata una creatura vivente e delicata, e si rimise a sedere al suo fianco, la gamba destra incollata alla sua sinistra.
   «Immagino, quindi, che si tratti di una ricerca da compiere, un qualche tipo di scavo, visto che un archeologo farebbe comodo» ipotizzò Indy, sperando che le cose fossero semplici come se le stava figurando. «E che quel libro possa dare delle indicazioni sul punto da cui iniziare. Solo che, essendo molto prezioso, quella banda di balordi di stamattina ha cercato di rubarlo.» Si protese in avanti, le mani adesso strette attorno ai braccioli come se temesse di cadere. «Non è così?»
   Katy fece un sorrisetto indulgente, evitando di guardarlo negli occhi, e Valerija si agitò lievemente sul suo posto. Quei semplici atteggiamenti bastarono a far comprendere a Indy che, il suo ragionamento, non reggeva affatto. C’era altro, sotto.
   «Non proprio» mormorò infatti Valerija. «Nel senso, una ricerca ci sarebbe da farla davvero… ma non penso che possa essere considerata un normale scavo… non so se capisce cosa intendo dire…»
   Indy annuì gravemente. Capiva fin troppo bene ciò che voleva significare. C’era già passato troppe volte per fingere di non riuscire a immaginarlo.
   «E, be’, il libro è senza dubbio prezioso…» proseguì la ragazza. «Ma quegli uomini non lo volevano per il suo valore e per ciò che avrebbero potuto ricavarne rivendendolo… bensì, per il suo contenuto…»
   L’anziano archeologo sospirò profondamente. Quella faccenda stava cominciando davvero bene, non c’era proprio da discuterne.
   «E questo contenuto…» buttò lì, cercando di sembrare distaccato, mentre invece, dentro di sé, e nonostante tutte le sue belle intenzioni, bruciava letteralmente dalla curiosità, «che immagino sia una serie di indicazioni… a che cosa condurrebbe, di preciso?»
   Stavolta fu il turno di Valerija di mordersi le labbra, come se esitasse a voler rivelare ciò che sapeva. Indy provò a incitarla con gli occhi, ma senza ottenere nessun risultato. La giovane croata continuò a mantenersi chiusa nel suo improvviso mutismo.
   Fu Katy, allora, a rispondere per lei, dopo averle stretto la mano per persuaderla che andava tutto bene e che poteva fidarsi.
   «Alla Fonte dell’Eterna Giovinezza, papà.»
   Indiana Jones tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona. Anzi, a dire il vero, letteralmente ci finì addosso, e se non ci fosse stato si sarebbe di sicuro rovesciato all’indietro. Sul soggiorno calò un silenzio teso e quasi assoluto, interrotto soltanto dalla pioggia che tamburellava contro i vetri e dal ronzio del disco che continuava a girare sul suo supporto.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Riflessione ***


   7 - Riflessione
 
   Indy aveva detto di doverci riflettere sopra e così stava facendo, immerso in un’oscurità quasi totale e nel silenzio più assoluto. Persino la pioggia, come se temesse di disturbarlo nelle sue meditazioni, a una certa ora aveva diminuito i suoi rovesci fino a cessare del tutto di picchiettare contro il tetto e i vetri della finestra.
   Poco importava che, a dargli una mano in quelle sue riflessioni, stesse invece contribuendo la bottiglia di Chivas Regal che aveva estratto intatta dal mobile-bar del soggiorno e che, adesso, era stata svuotata per metà. Non era più abituato a bere – compiuti gli ottant’anni, aveva fatto voto solenne di non spingersi più oltre un semplice bicchiere di vino per pranzo oppure per cena, e mai per entrambi i pasti nello stesso giorno – ma questa volta aveva sentito la necessità di farlo. Non gli importava niente delle vertigini e dei dolori al capo che la forte dose di alcol stava già cominciando a procurargli.
   Sollevò gli occhi inumiditi e brucianti dal lucido pianale del tavolo di rovere, su cui aveva fatto cadere qualche gocciolina di whisky, e osservò la libreria in cui il padrone di casa teneva i suoi preziosi libri, appena intuibili nel fioco chiarore che emanava da un lampione acceso nella piazzetta sottostante e che si faceva largo a fatica attraverso i tendaggi di broccato. Vecchi cimeli polverosi, pagine ammuffite dalla copertina rovinata, ricordi di un’epoca passata, memorie di anni lontanissimi, relitti di qualcosa che non apparteneva più al presente e che la gente osservava come qualcosa di insolito, tenacemente attaccato a decenni ormai tramontati. Proprio come lui.
   La Fonte dell’Eterna Giovinezza. Quel nome lo tormentava da ore interminabili, da quando Valerija, aiutata da Katy che già la conosceva, gli aveva raccontato tutta la storia che l’aveva condotta fin lì a Venezia.
   Tornò di nuovo a pensare alla conversazione avuta con le due ragazze, come se si fosse alzato dalla poltrona solo un attimo prima e fossero ancora le otto di sera, anziché le quattro della mattina.
   «La Fonte…» aveva mormorato, ripresosi dalla sorpresa.
   «La Fonte dell’Eterna Giovinezza» aveva ripetuto Katy, annuendo. Poi aveva sorriso. «Non che io e Valerija ne abbiamo bisogno, eh! Ammetterai anche tu di non aver mai visto due ragazze più giovani e più belle di noi!»
   Senza badare alla sua battuta di spirito, Indy si era stretto le mani in grembo, rigirandole con nervosismo una nell’altra.
   «Ma la Fonte dell’Eterna…» non era riuscito a pronunciare quell’ultimo concetto, che gli pareva tanto estraneo e irraggiungibile, «…è soltanto una leggenda. Un luogo mitico, che secondo le storie sarebbe scaturito nel Giardino dell’Eden.»
   «Questo è quello che abbiamo sempre pensato anche noi, naturalmente» disse Valerija, annuendo. «Anzi, a dire il vero, probabilmente nessuno di noi ci aveva mai pensato prima, perché io stessa mi sono imbattuta giusto in poche notizie al riguardo leggendo Erodoto, qualche anno fa. Una storia a cui non ho mai dato peso, naturalmente; figurarsi gli altri, credo che loro non abbiano mai aperto un libro, a parte i sacerdoti, s’intende. Ma adesso non ne siamo più tanti sicuri…»
   «Noi» borbottò Indy, levando il dito verso di lei. «Continui a dire noi, riferendoti a te e a qualcun altro. Gli altri, i sacerdoti… Di chi parli, di preciso?»
   La ragazza fece un sorriso triste.
   «Degli indipendentisti croati, professore» precisò. «Insieme ad altri membri dell’arcidiocesi di Spalato, sono in contatto con i ribelli che stanno cercando di rendere la Croazia indipendente dal resto della Jugoslavia. Molti di noi cominciamo a essere stanchi di dover sottostare a un regime socialista. Anche se siamo costretti a conviverci, non siamo tutti comunisti, in Jugoslavia: siamo cattolici, musulmani, ebrei, gente che sogna soltanto di vivere bene, e vorremmo la nostra libertà, che da troppo tempo ci è negata in nome di vecchi principi in cui non crede più nessuno, neppure i capi del partito.»
   Jones annuì gravemente. Era al corrente che, dopo la morte di Tito, che aveva governato per decenni tenendo unita la Jugoslavia con il pugno di ferro, alcune delle repubbliche che componevano l’unione avessero manifestato volontà indipendentiste, che il governo centrale stava cercando di soffocare in ogni maniera.
   «Non comprendo, comunque, il nesso con la Fonte» ammise.
   «È presto detto, papà» interloquì Katy.
   «Infatti» ammise Valerija, annuendo con tristezza. «Qualche settimana fa, una delle spie croate infiltrate nel governo comunista centrale, ha saputo che esisterebbe un piano per stroncare sul nascere ogni velleità di insubordinazione e per distruggere per sempre i ribelli. Un modo, a detta dei comunisti, per creare un esercito invincibile, che potrebbe addirittura servire per espandere i confini verso oriente e occidente.»
   L’archeologo grugnì, a disagio. Possibile che fosse sempre la solita, brutta storia? Non bastavano soltanto Reagan e le sue “guerre stellari” e i sovietici che si preparavano a rispondere chissà in quale maniera e che abbattevano tutto ciò che si muoveva. Ora ci si mettevano pure gli jugoslavi a rendere tutto ancora più difficile.
   «Utilizzando l’acqua miracolosa della Fonte, immagino» borbottò, cupo.
   «Esatto. Un archeologo al soldo del regime comunista, il professor Sergej Pavkov, avrebbe infatti scoperto che la Fonte sarebbe realtà, e non solo una leggenda. Non sappiamo quali studi abbia compiuto per giungere a tale conclusione, ma quel che è certo è che fu il presidente Tito stesso, dieci anni fa, a metterlo a capo di un progetto segreto volto a creare un esercito invincibile grazie all’impiego di antiche conoscenze oggi perdute.»
   Jones scosse la testa, mugugnando qualcosa.
   «Non ci credi, Old J?» lo inquisì Katy, guardandolo con espressione quasi compassionevole. «Anche su questo, sei ancora scettico?»
   Il vecchio agitò di nuovo la testa, in segno di diniego.
   «Non sono per niente scettico, tesoro. Anni fa, magari… Ho smesso di essere scettico su certe cose da molto tempo, purtroppo.» Un sorriso amaro gli deformò le labbra. «Solo che, prima o poi, mi piacerebbe sentirmi raccontare che qualcuno ha assunto un archeologo per trovare qualcosa da mettere in un museo, e non per distruggere il mondo intero. La storia comincia a farsi ripetitiva.» Alzò una mano verso Valerija. «Scusami, non volevo interromperti. Cosa dicevamo, di quell’egregissimo Pavkov?»
   «Su ordine di Tito, e proseguendo il lavoro sotto i suoi successori, il professor Pavkov ha impiegato anni a individuare qualcosa che potesse rendere i soldati, se non immortali, almeno fortissimi e quasi invulnerabili, capaci di rigenerarsi e tornare in piena salute in fretta, anche dopo aver subito ferite mortali. La sua ossessione, da quel che ci ha raccontato la spia, è sempre stata la Fonte dell’Eterna Giovinezza, e ora ha scoperto un modo che potrebbe permettergli di raggiungerla.»
   Indy alzò di nuovo il dito per interromperla.
   «Scusami un po’, ma perché la spia avrebbe raccontato queste cose a te?» domandò, incapace di trattenere la curiosità. «Non per essere insolente, e so che i tempi sono mutati, ma non hai per niente l’aria di essere un pericoloso capo rivoluzionario.»
   «Be’, non direttamente a me, no» ammise la ragazza, arrossendo lievemente. «Ne ha parlato con il consiglio indipendentista di Spalato, che ha come punto di riferimento proprio l’Arcidiocesi, dato che molti sacerdoti sono contrari al regime comunista. E uno dei membri del consiglio è un prete mio amico, che quindi mi ha riferito ogni cosa…»
   «Capisco» borbottò Indy. «Vai pure avanti.»
   Valerija cercò di ritrovare il filo del suo discorso.
   «Be’, stando alle scoperte di Pavkov, la Fonte esisterebbe davvero. A quanto pare, essa sarebbe stata raggiunta da un viaggiatore veneziano del XIII secolo – un uomo che, in precedenza, aveva accompagnato anche Marco Polo nei suoi viaggi – che poi scrisse la sua cronaca su questo libro.» La ragazza tamburellò le dita sul grosso volume che aveva in grembo. «Un libro che, in passato, era conservato proprio nella biblioteca di Spalato, dove appunto alcuni agenti dell’OZNA sono venuti a cercarlo.»
   Indy si agitò sulla poltrona. Le cose non sarebbero potute andare peggio di così. Quelli che lui aveva scambiato per una banda di balordi, erano in verità agenti di uno dei peggiori servizi segreti del mondo, tristemente celebre per i suoi metodi brutali volti all’eliminazione sistematica di qualsiasi pericolo per il regime. Ora potevano davvero definirsi fortunati per essere ancora vivi.
   «Quello che loro non sapevano, però» continuò Valerija, «era che, stando ai registri, il libro era stato ceduto alla Biblioteca di San Barnaba, qui a Venezia, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Questo ci ha dato un insperato vantaggio. Essendo stati preavvisati, ci siamo ben guardati dal farglielo notare, e abbiamo lasciato che perdessero tempo a cercare il libro. Quando se ne sono andati, il consiglio ha deciso che il libro andava trovato e, se possibile, messo al sicuro. Bisognava venire a Venezia a prenderlo senza perdere tempo. Così hanno mandato me.»
   L’archeologo unì le dita e, da lì sopra, fissò attentamente la ragazza, studiandone la figura minuta che, avvolta com’era nel pigiama, con i capelli dorati sciolti sulle spalle, sembrava proprio quella di una quindicenne che avesse smesso da poco di pettinare le bambole.
   «Perché proprio te? Perdonami l’ardire, ma non hai proprio l’aspetto di una combattente, scricciolino mio, anche se devo riconoscere che stamattina ti stavi facendo valere molto bene.»
   Valerija divenne ancora più rossa e Katy le passò un braccio attorno alle spalle, avvicinandola a sé. Le appoggiò le labbra sulla tempia, posandovi un bacio leggero e delicato.
   «È stata un’idea di don Mavro… il mio amico prete» ricominciò la ragazza. «L’Arcivescovo non era molto d’accordo, a dire il vero, sosteneva che mi stessi esponendo a un pericolo troppo grosso, ma io non mi sono lasciata spaventare. Vede, tutti i sospetti ribelli sono tenuti sotto stretta sorveglianza. Se avessero notato che uno di loro si fosse recato a Venezia per cercare un libro, avrebbero potuto mangiare la foglia. Invece, se fosse stata una semplice bibliotecaria a compiere quel viaggio, nessuno ci avrebbe badato troppo. Almeno, questo era quello che pensavamo tutti…»
   Jones annuì di nuovo e Katy strinse più forte a sé la ragazza.
   «Nonostante tutte le nostre precauzioni, comunque, devono averlo scoperto e questa mattina mi sono piombati addosso, e se non fosse stato per voi due…»
   Valerija rabbrividì un momento, cercando conforto tra le braccia di Katy, ma poi alzò di scatto la testa, un’espressione risoluta in viso.
   «Io non ho paura, professor Jones. Sono pronta a dare la vita, per la mia patria. Da sola, però, non posso farcela. Nessuno di noi, tra i ribelli e i membri dell’arcidiocesi, ha nozioni di archeologia. Per questo ho pensato che il vostro aiuto sarebbe stato fondamentale… Il nostro pensiero, infatti, è di poter trovare la Fonte e renderla inaccessibile a chiunque, in maniera che non possa essere utilizzata per scopi malvagi.»
   Jones, a quel punto, aveva guardato sua figlia, e nei suoi occhi aveva letto un’aria determinata che conosceva fin troppo bene.
   «Ti andrai a cacciare in qualcosa di enorme, Katy» provò ad avvisarla. «Quella gente non scherza. Rischi di trovarti implicata in una situazione pericolosissima. E magari per niente: non c’è uno straccio di prova, per adesso, che la Fonte esista davvero.»
   Lei gli rivolse uno sguardo di sfida.
   «Vorresti impedirmi di aiutare Valerija, per caso?» domandò.
   Il vecchio si strinse nelle spalle. «Dovrei legarti, per riuscirci. E anche in quel caso, dovrei fare attenzione perché non ti liberi. So bene di non poterti fermare. Sei adulta e responsabile, e io non ho più voce in capitolo sulla tua vita. Nulla mi impedisce, però, di dirti di stare attenta.»
   La ragazza lo guardò con occhi quasi supplichevoli.
   «Perché, invece, non ci dai un aiuto tu? Con tutta la tua esperienza…»
   In un moto d’orgoglio, a Indiana Jones sarebbe piaciuto rispondere subito di sì. La dura realtà di ogni giorno, però, gli piombò addosso tutta in un momento. Non poteva accettare e partire all’avventura senza ricordarsi di quanti anni avesse.
   «Sono vecchio» biascicò. «Non posso più permettermi di fare certe cose…»
   Katy lasciò andare Valerija e, alzatasi, venne verso di lui. Gli prese le mani nervose e le strinse tra le sue.
   «Tu non potrai mai essere vecchio, papà. Sei troppo straordinario per poterlo anche solo pensare. Sei soltanto un po’ arrugginito… e, questo, dovrebbe essere uno sprone in più per partire alla ricerca di quella mitica Fonte!»
   Indy sospirò, fissando negli occhi sua figlia. In quel momento, sentì di amarla più che mai. Katy poteva anche prendersi gioco di lui di continuo, facendo battute senza sosta sulla sua età, eppure, quando voleva, sapeva farlo sentire vivo con poche e semplici parole. Tuttavia, quello che lei gli stava chiedendo era davvero troppo. Imbarcarsi in una nuova avventura, alla sua età… e se fosse stata solo una questione di età, poi, se ne sarebbe fregato. Ma era altro. Aveva la schiena a pezzi, le gambe perennemente doloranti. Arrancava per salire una breve scalinata, barcollava per andare dal letto alla cucina… non poteva semplicemente fingere che tutto questo non esistesse e andare allo sbaraglio verso l’ignoto come se nulla fosse. Non sarebbe durato per più di cinque minuti.
   «Katy, mi dispiace…» bofonchiò. «Io… credo di essere ormai superato, per certe cose. Se provassi a fare qualcosa di concreto, sarei più un impedimento e un rallentamento che altro.» Lasciò andare una risata, cercando di apparire sarcastico, mentre invece quei pensieri lo stavano letteralmente distruggendo. «Mi ci vedi, tu, a mettermi a correre per scappare, se qualche pericolo ci minacciasse? Sai, non credo che i comunisti mi lascerebbero il tempo di buttare giù un paio di pasticche per calmare i dolori, prima di rimettersi a sparare…» Tornò serio. «Potrei aiutarvi a trovare la strada giusta da seguire, però. Potrei indirizzarvi sulla via e, poi… da lì, proseguireste da sole.»
   Katy strinse più forte la mano di suo padre. In quel momento, guardandola, gli sembrò ancora una bambina minuscola, ed ebbe una gran voglia di abbracciarla. Era spaventata, glielo leggeva negli occhi. A dispetto di tutto, al di là di ciò che poteva provare per la biondina, Katy aveva paura e avrebbe voluto averlo al suo fianco ancora una volta.
   «Non sei obbligata, Katy…» sussurrò.
   «Non capisci, papà…» rispose lei, abbassando gli occhi.
   Invece la capiva perfettamente. Come avrebbe potuto non capirla, se aveva agito proprio come stava per fare lei per praticamente tutta la vita? Indiana Jones non si era mai tirato indietro, quando c’era da evitare un disastro, anche se questo avrebbe significato cacciarsi nel più vasto mare di guai che si fosse mai visto. E ora lei era lui, non c’era niente da fare. Proprio per questo sarebbe stata lei ad andare alla ricerca di quella mitica fonte, mentre lui si sarebbe rassegnato a mettersi in disparte. Un pensiero che gli contrasse le viscere e lo fece inorridire. Ma era la realtà e non poteva ignorarla.
   Per il momento, decise di non dire quelle cose a sua figlia; spostata la testa, si rivolse invece a Valerija, che era rimasta seduta sul divano.
   «Hai già provato ad aprire il libro?» domandò.
   La ragazza scosse la testa.
   «Ho giurato di farne una copia da portare a Spalato senza leggerlo. Non ho potuto fare la copia, ma presumo che avere l’originale sarà ancora meglio.»
   Indy guardò sua figlia e un sogghigno gli si allargò sul volto.
   «Be’, io non ho giurato niente a nessuno» borbottò, alzandosi.
   In due passi fu vicino a Valerija e, prima che lei avesse avuto modo di protestare, le strappò il libro di mano e lo aprì, sfogliando in fretta le pagine ingiallite e macchiate.
   Sembrava un annuario, con resoconti mensili manoscritti che, si rese conto passando in fretta dalla prima all’ultima pagina, andavano dal 1274 al 1392. Controllò due volte, ma non poteva sbagliarsi, le date erano proprio quelle. Ciò che gli saltò subito agli occhi con maggiore evidenza fu che, a vergare tutti quelle descrizioni per quasi centoventi anni, era stata sempre la medesima mano, che soltanto nelle ultime pagine si era fatta incerta e tremolante. Se avesse voluto cercare una prova che la Fonte esisteva davvero, non avrebbe avuto bisogno di sapere altro.
   Tornò alla prima pagina e lesse le parole iniziali: «Qui principia il libro di messer Antonio di Francesco Barbarigo da Pàva. Partitomi da Vinegia all’etade di ventuno anni, con messere Marco Polo andai per la Persia et trovai molte novitadi che si diranno innanzi. E tornassi ricco e andai di nuovo pell’oriente dove sono tante cose mirabili et incredibili.»
   Come attirato da un presentimento, Indy ritornò subito alla pagina finale e, a fatica, decifrò la scrittura tremolante: «Et siccome che cento e venti e altri anni sono andati dal primo viaggio, et che l’agua nell’ampolla non è rinnovata, ora è questa di innalzare lo mio spirto a Iddio et ringraziare la sua maestà et domandarlo perdono del mio peccaminoso gesto contro la natura sua figliola…»
   Indy richiuse il libro e lo consegnò di nuovo a Valerija, che lo prese senza parlare. Katy, che lo aveva osservato quasi spaventata, osservando l’espressione del suo viso farsi sconcertata, domandò: «Papà…? Cos’hai letto?»
   Lui la osservò per un istante, rimuginando pensieri contrastanti.
   «Io devo riflettere» bofonchiò. «Lasciatemi tempo fino a domani. Poi decideremo se verrò anche io, a Spalato. Magari vi accompagnerò là, per darvi un ultimo aiuto.»

 
* * *

   Mai, come quella notte, gli era sembrato strano dover riflettere su qualcosa. Più che strano, difficile e penoso. Gli continuavano a sfilare davanti agli occhi le parole di Antonio Barbarigo, che aveva vissuto in salute per quasi centoquaranta anni, prima di rendere l’anima. E tutto perché l’acqua che aveva messo in un’ampolla era terminata, altrimenti era certo che sarebbe potuto vivere ancora a lungo, sebbene egli lo avesse ritenuto un gesto contro natura. Forse anche per sempre.
   Come se l’avesse appena vissuta, gli tornò alla mente per intero una conversazione avuta tanti anni addietro, proprio il giorno prima di partire per Venezia, lo stesso luogo in cui si trovava adesso. Proprio come se un cerchio che si era aperto quando era ancora giovane, stesse per chiudersi ora che era diventato vecchio.
   «Il Santo Graal, professor Jones. Il calice in cui bevve Gesù Cristo durante l’ultima cena. La coppa che accolse il sangue della crocefissione, e che fu affidata a Giuseppe d’Arimatea.»
   «La leggenda di Re Artù. Una favola della buonanotte che ho già sentito
   «La vita eterna, professore. Il dono della giovinezza a chiunque beva dal Santo Graal. Mi piacerebbe svegliarmi in questa favola
   «Il sogno di tutti i vecchi…»
   Soltanto che, adesso, il vecchio era lui. E non gli era più tanto difficile, ripensando ai dolori che lo affliggevano, comprendere il reale significato delle parole di Donovan. Molto facile fare del sarcasmo sulla vecchiaia, quando si è ancora giovani e in piena forma.
   Ma che cosa accidenti stava pensando? Davvero avrebbe voluto partire per andare a cercare la Fonte dell’Eterna Giovinezza e bere quelle acque che gli avrebbero restituito la giovinezza? Era una follia! Eppure, il solo pensiero di poter tornare giovane, di avere dinnanzi a sé una nuova esistenza per vivere milioni di altre avventure, di vedere il futuro… nemmeno tutto il whisky che aveva ingurgitato era bastato a distrarlo da quel pensiero pazzesco.
   Avvicinò la mano al bicchierino che aveva già riempito e fece per afferrarlo. Si bloccò e ci ripensò. Si alzò dalla sedia e tutto vorticò attorno a lui. Un ghigno gli attraversò il viso. Per una volta, stava barcollando e rischiava di inciampare per un motivo differente dai dolori della vecchiaia.
   Andò alla finestra, si districò a fatica tra i tendaggi e, attraverso il vetro appannato, osservò la città lagunare senza realmente vederla. Le luci brillavano sulla patria dei Dogi addormentata e, nel cielo ancora nuvoloso, si potevano scorgere le luci di un aereo che si preparava ad atterrare all’aeroporto Marco Polo.
   Forse avrebbe fatto meglio a saltare su un aereo e tornarsene a casa sua, per andare a seppellirsi in poltrona, come un qualsiasi uomo della sua età. Si sarebbe lamentato ancora per qualche anno dei dolori sempre più fastidiosi, e poi sarebbe morto, dimenticato da tutti e afflitto dai suoi ricordi. Per quanto riguardava la Fonte, poteva soltanto scordarsela.
   «È una sciocchezza» borbottò. Ma quella sciocchezza lo stava torturando.
   Come in un sogno, la sua vita intera gli passò dinnanzi agli occhi.
   Si rivide agile e fresco, mentre correva sui prati in fiore insieme al suo cane Indiana, e poi mentre attraversava alla carica con il fucile in mano i campi di battaglia di mezza Europa, e ancora nell’atto di sfuggire al crollo di qualche antico tempio, o mentre faceva a botte con qualche gradasso più grosso di lui… e non poté negare che, tutto questo, gli mancava. Gli mancava tremendamente. Odiava essere vecchio. Indiana Jones non era fatto per essere vecchio.
   Trascinando i piedi, uscì dalla libreria e andò verso il bagno. La casa era buia e silenziosa, e cercò di fare piano per non disturbare le due ragazze che dormivano in camera di Katy. Aprì la porta e, questa volta, sorrise. Prima di andare a letto, sua figlia e Valerija avevano rimesso tutto a posto, e il bagno, quando accese la luce, risplendette come un gioiello. Sapeva che lo stesso era successo in cucina.
   Si sciacquò la faccia con acqua gelida e si lavò i denti, cercando di mandare via il sapore del whisky. Il freddo contribuì a togliergli di dosso il torpore, ma non l’insana idea che lo aveva colto. Quella rimaneva sempre al suo posto. E non ci sarebbe più stato nessuno in grado di togliergliela.
   Con la mano che tremava leggermente, un po’ a causa del troppo whisky ingurgitato e un po’ per via dell’emozione che lo stava afferrando alla bocca dello stomaco, prese la sacchetta in cui custodiva i suoi pochi oggetti da toeletta e aprì la cerniera.
   Inforcò gli occhiali da lettura che teneva nel taschino e, trovate le forbici, cominciò senza esitazione ad accorciare la barba, facendo cadere ciuffi di pelo bianco nel lavandino. Tagliò a fondo, fino a lasciare sulle guance e sul mento soltanto un lieve strato di peluria molto basso e sottile. A quel punto provò a cercare il rasoio, ma non lo aveva portato: era rimasto appoggiato ad arrugginirsi sul mobiletto del bagno a casa sua, dove lo aveva riposto l’ultima volta che lo aveva utilizzato per radersi, parecchi mesi prima. Poco importante: l’importante era essersi disfatto di tutto quel pelo lungo a attorcigliato.
   Con qualche manata, raccolse i peli che si era portato addosso per mesi e li gettò senza nessun rimpianto nel gabinetto. Poi tornò a contemplarsi, mentre un sogghigno gli increspava le labbra. Senza tutta quella barba gli sembrava già di essere un uomo più giovane. Era bastato pochissimo per perdere l’aspetto da vecchio saggio e assumere quello da canaglia matricolata, seppure un po’ stagionata. Le chiazze rosse che l’alcol gli aveva lasciato sul collo e sulle guance contribuivano parecchio a sottolineare quell’aspetto.
   Aprì l’armadietto pieno dei suoi medicinali e, dopo un’attenta analisi, si infilò in tasca un tubetto di compresse. I più efficaci e potenti analgesici che possedesse. Se tutto fosse andato come prevedeva, anche quelli, presto, sarebbero andati a finire nel gabinetto. Per il momento, comunque, ne aveva ancora necessità.
   Uscì velocemente dal bagno e si avviò senza nessuna esitazione verso la stanza di Katy. Abbassò la maniglia e spinse la porta, spiando all’interno.
   Il respiro delle due ragazze era lento e regolare. Dormivano profondamente. Un fagotto sotto le coperte gli indicò il punto in cui stavano dormendo, probabilmente abbracciate. Non poté trattenere un sorriso nel vedere che il pigiama e la biancheria di Valerija erano in terra, sopra l’accappatoio di sua figlia.
   Non le avrebbe svegliate, per il momento. Avevano ancora due ore e mezza di sonno, a disposizione, e gliele avrebbe lasciate. Ma subito dopo la prima apparizione dell’alba, quando si fossero alzate per andare a fare colazione, avrebbero saputo la novità.
   Indiana Jones sarebbe andato con loro a Spalato e, da lì, le avrebbe accompagnate fino alla Fonte dell’Eterna Giovinezza.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** L’attesa ***


   8 - L’attesa
 
    Spalato, Croazia, Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia

   Nonostante fosse ottobre inoltrato, quel giorno splendeva un dolcissimo e tiepido sole, che faceva brillare come diamanti iridescenti le acque dell’Adriatico che lambivano la penisola di Spalato. La caratteristica e antica cittadina, adagiata ai piedi del monte Marjan e protesa verso il mare, pareva quasi sonnecchiare nella luce dorata del primo pomeriggio.
   Le vie del centro storico profumavano di salsedine e di pietanze cotte per il pranzo, e le case di pietra dai colori tenui sembravano sfolgorare nel chiarore. Sul lungomare, le grandi palme immobili parevano essere ferme come sentinelle preposte a controllare il traffico marittimo che entrava e usciva dal porto. Lungo le darsene, i pescatori avevano steso ad asciugare le loro reti ed erano indaffarati a smistare il pesce nei secchi di plastica. La gente che aveva già mangiato passeggiava avanti e indietro, in apparenza con molta tranquillità, sebbene su ogni viso si riconoscessero i segni di un’inquietudine costante, legata all’incertezza del dover continuare a vivere in un mondo, come quello comunista, che si stava sgretolando e che era ormai avvertito dai più come un’oppressione, e non come un’opportunità.
   Camminando adagio con le mani infilate nelle tasche, più che sazio nonostante avesse mangiato una semplice mišanca bollita, Indy osservò le vestigia del palazzo dell’imperatore Diocleziano; come suo solito, cedendo a una deformazione professionale, provò a immaginare come dovesse apparire meraviglioso l’edificio all’epoca della sua costruzione, quando l’ex imperatore lo aveva abitato a seguito della sua abdicazione, dedicandosi alla coltivazione di piante officinali molto simili a quelle che avevano costituito il suo pranzo.
   Era già qualche giorno, ormai, che non aveva altro da fare che andarsene a zonzo per la città, in attesa che accadesse qualcosa.
   Erano giunti in treno da Venezia una settimana prima. Ad accoglierli alla stazione avevano trovato il pasciuto e rubizzo don Mavro, il sacerdote amico di Valerija, che era stato felice di fare la conoscenza dei due Jones. Il prete li aveva scortati fino alla sede dell’Arcidiocesi, dove il prezioso libro era stato consegnato ad altri ecclesiastici che si erano assunti il compito di leggerlo per intero e a fondo e di scovare qualsiasi indizio che potesse mettere sulla buona strada per raggiungere la Fonte.
   Indy, come già aveva dichiarato di voler fare, si era immediatamente proposto di dar loro una mano, mettendo a disposizione la sua cultura e le sue capacità, ma il suo aiuto era stato cordialmente rifiutato. A lui e a Katy erano state riservate due piccole celle nel monastero di San Francesco, che sorgeva non troppo distante dalla cattedrale, e da quel giorno non gli era più stato comunicato alcunché.
   Anche se era partito con tutte le più buone intenzioni, ora cominciava di nuovo a sentirsi vecchio e inutile. Anziché venire coinvolto in una ricerca tanto importante, era stato messo da parte come un qualcosa di obsoleto, un soprammobile antiquato e polveroso di cui nessuno avrebbe saputo che fare e che soltanto per abitudine a vederlo sempre al solito posto non era ancora finito nel cestino dei rifiuti. Era già tanto che non lo avessero congedato, ringraziandolo per aver aiutato la loro inviata e rispedendolo a casa.
   Si era illuso di poter tornare a fare le cose di un tempo, di ritrovare tutto ciò che si era dovuto lasciare dietro le spalle… magari persino di ritornare a essere l’uomo che era stato in passato – e non solo dal punto di vista emotivo, bensì anche fisico, se fosse riuscito per davvero a raggiungere la Fonte dell’Eterna Giovinezza. Si era sentito pronto ad affrontare nuove sfide, a immergersi in una nuova avventura, pur con tutte le difficoltà e le incognite che questo avrebbe comportato. Ma le sue illusioni si erano già infrante, scontrandosi con una dura e quotidiana realtà che non ammetteva nessun tipo di replica e non faceva sconti per nessuno, nemmeno per un uomo che aveva trascorso la sua intera esistenza a compiere atti di eroismo, anche se, magari, alla stregua di Ulisse, conditi da un bel po’ di cinismo e di furbizia, oltre che da molta buona sorte personale.
   Una realtà che gli urlava a gran voce nelle orecchie, facendogli vibrare i timpani: lui era un vecchio e, di conseguenza, non aveva più un posto nelle cose del mondo. Doveva continuare a rimanersene in silenzio e fermo da parte, nell’angolino in cui era rimasto confinato negli ultimi anni.
   Sbuffò, scocciato da quella situazione che non gli andava affatto a genio, e scalciò un sassolino. Nel guardarlo rotolare, notò la figura piccola e scattante di Katy dirigersi a grandi passi verso di lui. Aveva il solito giubbotto e i soliti anfibi, ma aveva sostituito i pantaloni di pelle con un paio di jeans blu scuro parecchio attillati. Era scura in volto. Proprio come lui, non sembrava affatto allegra.
   «Intollerabile!» sbottò, quando gli si fu fermata vicino.
   Indy le lanciò un’occhiata.
   «Che cosa è intollerabile? Che non ci vogliano tra i piedi?» domandò. «Lo penso anch’io…»
   «Oh, fosse solo quello!» grugnì Katy, aggiustandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «È da quando siamo arrivati qui che non ho più potuto vedere Valerija! Oggi, allora, mi sono decisa e sono andata a trovarla in quella biblioteca in cui l’hanno praticamente imprigionata! L’ho trovata sommersa tra mille scartoffie che deve protocollare, e nessuno che si sia nemmeno preso il disturbo di dirle grazie per aver quasi rischiato di rimetterci la pelle per quel libraccio! E sai cos’è successo, mentre la salutavo?!»
   L’archeologo allargò le braccia.
   «No… che cosa è successo?» chiese.
   «Soltanto perché mi sono sporta per darle un bacetto sulla guancia – ma hai presente dove?! Sulla guancia! Mica sulla bocca o sul culo! Sulla guancia! – una vecchia suora decrepita e inacidita che stava sistemando dei libri si è messa a urlare che era un’indecenza e che atti del genere meriterebbero di essere puniti con la pena di morte! Vecchia arpia, me la sono dovuta battere in tutta fretta per non continuare a starla ad ascoltare! Ma ti pare possibile?! Nemmeno le avessi calato i pantaloni e le mutande per leccarle la…»
   Si interruppe bruscamente, mordendosi il labbro inferiore. Le punte delle sue orecchie assunsero un color ciliegia che si affrettò a far scomparire spostando in avanti i capelli che aveva appena rimesso a posto.
   «Brutta vecchiaccia impicciona!» soggiunse poi, con tono sgarbato.
   Indy sogghignò e represse a stento una risata, ripensando alla conversazione che aveva avuto a Venezia con la figlia, riguardo ai parenti di Grace, la giovane che aveva sedotto nel Tennessee.
   «Cosa vuoi farci mai, tesorino?» domandò, allungando il braccio e arruffandole i capelli. «È gente all’antica… bisogna prenderli come sono. Più che altro mi sorprende che non ti sia messa a urlare pure tu.»
   «Old J, così mi spettini tutta!» strillò, cercando di allontanare la sua mano.
   «Come se si notasse la differenza!» ridacchiò Indy.
   Lei gli fece una linguaccia e ricominciarono a passeggiare, muovendosi lentamente e in apparenza senza una meta precisa verso cui dirigersi. L’aria era fresca e dolce, e andarsene a zonzo per Spalato, percorrendo le ampie vie o insinuandosi nei vicoli stretti e ombrosi, tra salite e discese contornate da belle casette, sembrava meraviglioso. Solo che nessuno dei due era lì per fare la parte del turista.
   «Quando hai detto che ci avresti aiutato ero certa che avremmo raggiunto la Fonte nel giro di pochi giorni» si lamentò la ragazza a un certo punto. «Invece, quegli idioti ci stanno facendo solo perdere tempo e sono sicura che non abbiano saputo cavarne un ragno dal buco. Non capisco perché non vogliano accettare il tuo aiuto, sono certa che impiegheresti cinque minuti a sbrogliare la matassa!»
   Indy si inorgoglì per quel complimento, anche se cercò di non darlo a vedere.
   «Saranno anche preti e ribelli, ma vivono da decenni in un regime comunista» le rammentò. «Tendono ad avere poca fiducia nei confronti degli americani. Quindi è possibile che, pur avendo davvero scoperto qualcosa, abbiano qualche remora nel venircelo a raccontare. Valerija ti ha detto qualcosa? Sa niente, lei?»
   Katy alzò le spalle.
   «E che ne so?!» sbottò. «Quel gufaccio nero non ci ha permesso di scambiare nemmeno mezza parola!»
   Camminando, erano nel frattempo giunti proprio dinnanzi all’ingresso della biblioteca capitolare che dipendeva dall’Arcidiocesi. Si arrestarono, indugiando con lo sguardo sulla facciata. Con un sogghigno, l’archeologo accennò alla porta a doppio battente, uno dei quali era aperto.
   «Be’, allora, che ne dici di andarglielo a chiedere?» domandò, facendole l’occhiolino.
   «La suora…» tentennò Katy, insicura.
   «Oh, non ti preoccupare del corvaccio» replicò Indy. «Se è ancora nei paraggi, me la lavoro io. Ho una discreta esperienza, con le suore…»
   La ragazza spalancò gli occhi per la meraviglia.
   «Papà!» esclamò. «Anche con le suore?!»
   «Ma cosa hai capito…» borbottò in fretta Indy, a disagio, stringendosi nelle spalle. «Volevo solo dire che ho avuto spesso a che fare con loro per motivi di lavoro: sai, ricerche, scavi nei cimiteri dei monasteri, cose così. Sono buone e pie donne, basta solo rivolgere loro una parola di cortesia e ti aiutano in tutto…»
   Senza aggiungere altro, cominciò a salire gli ampi gradini che conducevano alla porta della biblioteca.

 
* * *

   La vecchia suora vestita di nero era curva e fragile, e si muoveva con lentezza appoggiandosi a un nodoso bastone, su cui si stringevano le sue dita scheletriche. La sua pelle, abituata alla pace e all’oscurità di luoghi chiusi, era traslucida e solcata da una miriade di venuzze violacee che si diramavano in tutte le direzioni. Attorno al collo smunto aveva una cordicella che terminava in un crocefisso di legno. Sotto braccio teneva un pesante libro di preghiere.
   «Ah, ecco la sorella» commentò Indy, osservandola. «Non mi sembra proprio una donna capace di fare tutto il chiasso che dicevi tu. Secondo me, tesoro, tu esageri sempre le cose.»
   Quando lo sguardo dell’anziana monaca si sollevò verso le due figure che si erano appena stagliate in controluce nel vano della porta, dapprima non parve prestar loro troppa attenzione. Subito, però, i suoi occhi giallognoli si spalancarono per lo sgomento e il suo volto rugoso fu solcato da un’espressione di puro orrore. Si irrigidì, lasciando cadere il libro.
   «Tu, demonio!» strepitò, agitando il bastone nella loro direzione. «Vade retro, Satana!»
   Katy sbuffò, reprimendo a stento la collera.
   «Hai visto?!» strillò. «Che ti dicevo? Altro che esagerare… Ce l’ha con me! Manco che io Valerija me la fossi scopata in mezzo alle scansie…!»
   Un ghigno comparve sul volto di Indy. Un ghigno che, però, svanì immediatamente, non appena la vecchia religiosa, trascinandosi sulle scarpe ortopediche e facendo risuonare le suole di gomma sul pavimento di marmi colorati, si fece avanti e, scansata Katy con una manata, si parò proprio davanti a lui. Il suo sguardo divenne ostile mentre gli sollevava contro il bastone con fare minaccioso e gli alitava in faccia con il suo fiato fetido che sapeva di cipolla andata a male.
   «Diavolo! Essere mefistofelico! Sei tornato per indurmi in tentazione un’altra volta?!» gracchiò, mentre Indy la guardava sbalordito. «Vade retro! Creatura dell’inferno, tornatene nel baratro della lussuria da cui sei fuggito! Anima dannata!»
   L’archeologo guardò lei e il bastone con cui lo minacciava con tanto d’occhi, cercando di raccapezzarsi. Non una cosa semplice, sia perché quella donna continuava a vomitargli addosso insulti assurdi, sia perché sua figlia, tappandosi la bocca con entrambe le mani, stava correndo il rischio di soffocare nel tentativo di non mettersi improvvisamente a ridere.
   «Verme della terra! Americano immondo! Mi hai indotta al traviamento già in passato, ma questa volta non riuscirai un’altra volta a trascinarmi nel vortice del peccato carnale! La Madonna ha accolto la mia supplica, quando la imploravo di concedermi il perdono per la mia orrenda colpa, e non permetterà che tu, di nuovo, oltraggi il mio santo onore pestandolo sotto i piedi con la tua depravazione!»
   Basito, con la bocca spalancata, Jones restò pietrificato come una statua di sale mentre lei lo colpiva al petto con il bastone. Poi, continuando a strepitare e a lanciare maledizioni incomprensibili, la vecchia suora guadagnò velocemente l’uscita e se la svignò. I suoi improperi continuarono a risuonare mentre si allontanava lungo la strada inondata di sole.
   Indy si girò a osservare la porta, sperando che non tornasse indietro. Continuava a tenere la bocca spalancata per la sorpresa e non riusciva a trovare una singola parola per spiegare ciò che era appena accaduto.
   Katy sfiorò la mano di suo padre per richiamare la sua attenzione. Era paonazza e aveva le lacrime agli occhi.
   «Pie e buone donne, eh?» commentò, senza fiato. «Solo lavoro? Ti aiutano in tutto? Me lo immagino, in cosa ti abbia aiutato!»
   Non riuscendo più a trattenersi, lasciò andare le risate, che si librarono argentine nel silenzio claustrale della biblioteca.
   «È una pazza, è chiaro…» bofonchiò Indy, scuotendo la testa e massaggiandosi il petto nel punto in cui il bastone lo aveva colpito.
   «Oh, non fateci caso» intervenne Valerija.
   Si era avvicinata, attirata dal frastuono, e si era chinata a raccogliere il libro lasciato cadere dalla suora. Katy, nel vederla, le corse incontro, ridendo e cinguettando come un uccellino, e la strinse tra le braccia, posandole le labbra sulla bocca. Valerija rispose con trasporto al suo bacio, mentre Jones, un po’ a disagio, si guardava attorno fingendosi interessato agli scaffali colmi di libri, quasi tutte opere di stampo religioso.
   «Sorella Janja non ci sta più molto con la testa» riprese a dire la ragazza, quando Katy si fu ritirata un poco. «Ma non è davvero cattiva, non dovete farci troppo caso, vi chiedo scusa io per lei…»
   Al suono di quel nome, un lampo di comprensione attraversò gli occhi di Jones, che si girò di scatto verso di loro. Per una volta, fu lui e non le due giovani ad avvampare. Ricordi di chissà quale lontano e burrascoso passato gli fluirono nella mente, e le labbra gli si corrugarono come se volesse dire qualcosa. Forse anche per questo si affrettò a cambiare subito argomento.
   «Eravamo passati per sapere qualche novità» bofonchiò, ancora a disagio. Allentò il nodo della cravatta, come se avesse all’improvviso molto caldo, e soggiunse, dopo aver lanciato un’altra occhiata nella direzione in cui era scomparsa la suora. «Riguardo la Fonte, intendo.»
   Senza smettere di restare abbracciata a Katy, Valerija scosse il capo.
   «Purtroppo ne so quanto voi. Nessuno mi dice niente. Ma a momenti dovrebbe arrivare don Mavro, forse lui sa qualcosa e potrà informarci» rispose.
   Katy sbuffò, contrariata.
   «Uffa, io speravo che avremmo fatto qualcosa di divertente, mentre invece stiamo semplicemente passando da una biblioteca all’altra.» Piantò in viso all’amica due occhi luccicanti di desiderio. «Se almeno potessimo stare insieme… non ne posso più di dover stare tutta la notte da sola in quella celletta da fraticelli. Poi non riesco nemmeno a dormire, perché la mia stanzetta è proprio accanto a quella di papà e mi tiene sveglia tutta la notte russando come un trombone.»
   «Io non russo come un trombone!» si difese Indy, ancora in imbarazzo per l’inatteso incontro di poco prima. «È il frate che dorme nell’altra cella… quello grasso! Lui sì che russa!»
   Valerija accarezzò con lenta lascivia il viso di Katy e avvicinò di nuovo le labbra alle sue.
   «Potresti evadere, qualche volta… nella mia stanza mi sento così sola… e il mio letto mi sembra tanto freddo, da quando ho dormito insieme a te…» sussurrò, prima di ricominciare a baciarla.
   L’archeologo portò la mano chiusa a pugno davanti alla bocca e fece finta di tossire. Dovette ripetere due volte l’operazione, prima di riuscire a richiamare la loro attenzione. Non era abituato a fare da terzo incomodo ma, perlomeno, adesso si stava rendendo conto di come dovevano essersi sempre sentiti gli altri quando, in passato, lui flirtava senza ritegno con la bella di turno.
   «Mi dispiace interrompervi, piccioncine» grugnì, mentre gli sguardi delle due ragazze si volgevano verso di lui. «Però vorrei mettere le cose in chiaro. Non posso trattenermi all’infinito in questo posto, quindi se a nessuno interessa il mio aiuto, penso che farei meglio a tornarmene a casa. Dovrei parlarne con l’Arcivescovo, però, anche per ringraziarlo della gentile ospitalità. Tu potresti chiedergli un appuntamento per me?»
   «Oh no, papà, aspetta!» lo fermò Katy. «Prima proviamo almeno a parlarne con don Mavro. Magari lui ci dirà qualcosa in più. Abbiamo aspettato finora, portiamo pazienza ancora per un po’.»
   L’archeologo guardò la figlia. Capiva alla perfezione il suo stato d’animo, avendolo vissuto lui stesso decine di volte. Aveva l’opportunità di compiere una grande scoperta, e non intendeva ritirarsi proprio adesso, per delle semplici diffidenze. Lui stesso si sentiva euforico all’idea di quello che avrebbe potuto scoprire al termine di quel viaggio. Però, doveva anche rassegnarsi: se una causa era persa, non c’era nulla che si potesse fare.
   «Katy…» mormorò. «Io penso che…»
   Non terminò la frase perché, in quello stesso momento, don Mavro si precipitò all’interno della biblioteca.
   Era sudato e sconvolto, e si guardava attorno con vero e proprio spavento. Era così diverso, dal primo giorno in cui lo avevano incontrato, che Indy si sentì raggelare soltanto a vederlo; il solo motivo che gli venne in mente per spiegare una simile frenesia fu il peggiore che fosse possibile: gli agenti dell’OZNA avevano scoperto tutto e ora stavano arrivando.
   Jones impallidì, e con lui anche le due ragazze, che si lasciarono prontamente andare, non sapendo come un sacerdote avrebbe potuto reagire davanti al loro atteggiamento così intimo. Il prete, invece, senza fare troppo caso a loro, si guardò attorno, trafelato, senza però avere l’aria di dover fuggire da un momento all’altro.
   «Ma che succede, qui dentro?!» strillò. «Venendo qui ho incontrato suor Janja, era fuori di sé… diceva parole sconnesse, parlava del diavolo, si agitava e urlava che si era mostrato nella biblioteca e che c’era bisogno di una benedizione al più presto per scacciarlo…»
   Si lanciò occhiate preoccupate tutto attorno, cercando la presenza di qualche manifestazione demoniaca. Non notando nulla di insolito, si rilassò subito, aggiustandosi meglio gli occhiali che gli erano scivolati sul naso.
   «Povera suor Janja, ormai non è più in lei…» borbottò, scuotendo la testa. «Credo proprio che sia venuto il momento di mandarla a riposo in qualche amena località, senza più pensieri o altro per la mente…»
   Anche Indy si era rilassato, udendo quella spiegazione, mentre le labbra di Valerija si erano allargate in un ampio sorriso e quelle di Katy avevano cominciato a tremare nel tentativo di non scoppiare a ridere ancora una volta.
   «Temo che sia per la mia faccia» grugnì l’archeologo. «Sa, tutta segnata com’è, ha spaventato quella povera suora…»
   Don Mavro si girò a guardarlo, esaminando attentamente la cicatrice sul mento, quella sulla fronte, le rughe profonde e la barba disordinata che avrebbe avuto bisogno di essere rasata al più presto. Evidentemente accettò come possibile quella giustificazione, perché assentì quasi subito.
   «La perdoni, professor Jones» disse, con tono pacato. «Il Signore ha beneficiato suo Janja di una lunga vita piena di ottime cose, ma non ha voluto farle dono di una buona vista.»
   «Oh, è vero, infatti me la ricordavo con gli occhiali…» cominciò a dire Indy, prima di mordersi la lingua per imporsi di tacere. Da dietro le proprie spalle, udì gli strani versi che stava facendo Katy per non ridere. «Voglio dire, avrebbe forse bisogno di un paio di occhiali.»
   «Oh, sì, le farebbero molto comodo, e credo proprio che gliene regaleremo un paio nuovi» approvò il sacerdote, annuendo. Poi un sorriso gli illuminò il viso. «In ogni caso, è una fortuna per me averla trovata qui, professore. La stavo appunto cercando.»
   «Sì?» fece Jones, un po’ troppo bruscamente. Immaginava che lo avessero spedito a dirgli che era stato un piacere averlo ospite e che adesso poteva pure tornarsene a casa.
   La risposta del prete, invece, lo sorprese parecchio.
   «Il…» esitò un istante. «Il consiglio diocesano vorrebbe conferire con lei, professor Jones. Ci sono delle cose molto importanti di cui i miei superiori vorrebbero parlarle, se lei è d’accordo.»
   Indy cercò lo sguardo di Katy, che annuì. Quella manovra non sfuggì a don Mavro.
   «Uhm… solo con lei, professor Jones» chiarì, grattandosi la nuca stempiata. «Si tratta di una questione delicata e segreta.»
   L’archeologo fece un cenno d’assenso con il capo, prima di rivolgerne un altro molto eloquente a sua figlia, senza che il prete se ne rendesse conto: se anche gli avessero rivelato l’ultimo segreto di Fatima, entro sera lui lo avrebbe riferito parola per parola a Katy.
   «D’accordo, la seguo» rispose. «Mi faccia strada.»
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** La storia di Antonio Barbarigo ***


   9 - La storia di Antonio Barbarigo
 
   Katy, vedendo che suo padre si allontanava da solo con don Mavro, uscendo dalla biblioteca, contrasse il viso in una smorfia contrariata.
   «Che razza di gente!» si lamentò. «Ma perché vogliono parlarne solo con il vecchio? Cosa credono, che io sia una bambina? Io sono laureata quanto lui… anzi, conosco metodi di ricerca che lui nemmeno ha mai sentito nominare, dato che nel mesozoico ancora non li utilizzavano!»
   «Sono preti» le rammentò Valerija. «Non sono abituati ad avere troppo a che fare con le ragazze giovani. Al massimo possono parlare con le vecchie. Credo che li metteresti tutti a disagio, con la tua presenza. Sei troppo bella, per stare in mezzo a loro.»
   Lasciò scivolare la mano lungo la sua schiena, strofinando le dita sulla pelle lucida del giubbotto, e raggiunse il suo sedere. Glielo strinse con garbo ma anche con desiderio.
   «E poi, io sono più contenta di averti qui da sola, tutta per me…» sussurrò.
   Dimenticandosi in fretta di suo padre e delle ingiustizie nei suoi confronti, Katy si voltò e, senza esitazione, cominciò a baciarla. Un bacio lungo, quasi combattuto, in cui entrambe espressero tutta la soddisfazione di essersi finalmente ritrovate dopo una settimana di separazione. Sentire i loro denti che si scontravano, le lingue che giocavano, i loro sapori che si mischiavano… non ci sarebbe potuto essere nulla di più dolce e desiderabile. Tutto il resto non contava proprio nulla.
   Valerija iniziò a toccarla con lascivia, infilandole le mani sotto il giubbotto. La giovane archeologa la lasciò fare per qualche minuto, rispondendo ai suoi baci e alle sue carezze e perdendosi in una beatitudine quasi estatica. C’erano solo loro, Katy e Valerija, e il resto del mondo era annullato, scomparso chissà dove, un vuoto che circondava il loro angolo d’amore.
   Almeno, finché un pensiero le attraversò la mente, riportandola bruscamente nel presente.
   «Aspetta…» mormorò, seppure a fatica. Aveva il fiato corto.
   «Che succede?» domandò Valerija, accarezzandola sulla guancia. «Non mi dire che adesso hai paura…»
   «Oh, no, certo che no» replicò Katy, con voce rauca, contenendo a stento la voglia di ribaciarla. «Ci morirei, addosso a te… però qualcuno potrebbe vederci… la porta è aperta…»
   Un sorriso furbo e sbarazzino illuminò il volto di Valerija. Un sorriso così bello che Katy avvertì fortissima la voglia di posarci sopra le sue labbra. Non si lasciò bruciare troppo dalla tentazione e cedette immediatamente a quell’impulso irresistibile. Quando la sua lingua incontrò di nuovo quella dell’altra ragazza, le parve che le gambe le fossero diventate di burro e dovette abbracciarla ancora più stretta per non correre il rischio di cadere in terra.
   Non appena si furono lasciate di nuovo andare, costrette più dalla necessità di riprendere fiato che da altri motivi, Valerija le sussurrò, la bocca ancora vicinissima alla sua: «Le porte sono fatte per essere chiuse… e io, guarda caso, ho la chiave…»
   Detto questo, si sfilò dalle sue braccia per andare a mettere in pratica alla svelta e senza nessuna esitazione quelle parole.
   Mentre la guardava armeggiare con la serratura, Katy si sentì fremere tutta, e pensò di non essere mai stata in un luogo più meraviglioso di quella biblioteca.

 
* * *

   Il tragitto da seguire non fu molto lungo e, nel volgere di cinque o sei minuti di camminata nel centro storico, giunsero a destinazione.
   Don Mavro condusse Indy fino alla sede dell’Arcidiocesi, ubicata in un palazzo in stile umbertino che sorgeva non troppo lontano dalla cattedrale di San Doimo. Varcarono la porta ed entrarono in un salone piuttosto sobrio, privo di troppi orpelli, da cui si diramava una scalinata centrale, che si divideva in due bracci dopo la prima rampa, e diverse porte laterali.
   Dopo averlo guidato senza parlare attraverso diversi stanzoni e lungo numerosi corridoi, lo introdusse in un ufficio semibuio, a stento rischiarato dalla luce polverosa che penetrava attraverso le tapparelle da ufficio abbassate; lungo le pareti si aprivano numerosi mobili con porte a vetri che custodivano diverse carte e libri di vario genere, oltre a qualche icona religiosa.
   L’archeologo, a quel punto, aveva il fiatone e cominciava un’altra volta ad avvertire dolori alla schiena e alle anche, e non poté nascondere un moto di soddisfazione nel rendersi conto di essere finalmente arrivato.
   Dietro la scrivania, era seduto un uomo vestito di nero, con il colletto talare bianco, intento a consultare alcuni documenti. L’uomo sollevò gli occhi quando li vide entrare e, sfilatisi gli occhiali, si alzò per accoglierli.
   «Professor Jones, ero ansioso di conoscerla» disse, con la tipica voce bassa e pacata dei preti. «Sono don Bartolec, vicario episcopale.»
   «Molto piacere» salutò Indy.
   Non ricordando come ci si dovesse comportare in presenza di un alto prelato, gli strinse la mano che quello gli porgeva. Don Bartolec non parve comunque contrariato da quel gesto, perché lo esortò cordialmente a sedersi e prese a sua volta di nuovo posto alla scrivania. Indy gli fu immensamente grato per quell’invito e si affrettò a obbedire, dando sollievo alla sua schiena. Don Mavro, invece, restò in disparte, accanto alla porta.
   «Sua Eccellenza l’Arcivescovo mi ha incaricato di parlare con lei, professor Jones, e immagino che lei già sappia il motivo che ci ha indotti a chiederle questo consulto» disse il prete.
   L’archeologo annuì, senza nascondere la propria curiosità.
   «La Fonte dell’Et…» cominciò, ma il prete gli fece un rapido cenno d’intesa, interrompendolo.
   «Proprio così» disse. «Abbiamo consultato a fondo il libro redatto da Antonio Barbarigo che lei ha molto gentilmente contribuito a riportare da Venezia, e abbiamo quindi potuto studiare a fondo gli effetti di quella che lui, con una certa dose di esagerazione, definisce come un’acqua miracolosa.»
   Un ghigno ironico deformò le labbra di Indy.
   «E non lo è per davvero?» domandò in modo provocatorio, accavallando le gambe per cercare una posizione più comoda e incrociando le braccia sul petto.
   Don Bartolec non si scompose minimamente.
   «Gli effetti che Barbarigo descrive con preciso puntiglio nelle sue pagine sono certamente straordinari e del tutto fuori dal comune: qualcosa di completamente ignoto alla scienza medica, di certo. In più occasioni asserisce infatti di essere rimasto ferito in maniera grave, o di essere caduto preda di qualche malattia mortale, e di aver soltanto dovuto bere un piccolissimo sorso di quell’acqua per guarire e tornare in piena forma. E questo per un periodo estremamente lungo, di oltre un secolo.»
   Un sorriso leggero comparve sulle labbra del vicario.
   «Ma noi preti, professor Jones, abbiamo un nostro codice deontologico da rispettare, se capisce che cosa intendo dire, e siamo sempre i più increduli, quando ci viene offerto qualcosa che sembra trarre le proprie origini dalla volontà divina. Per la Chiesa Cattolica, i miracoli sono stati compiuti soltanto da Gesù Cristo durante la sua vita terrena, e poi nel corso dei secoli da alcuni santi, sempre per sua diretta intercessione. Non possiamo in alcun modo, quindi, definire miracolosi gli effetti strepitosi di quell’acqua che non conosciamo minimamente. Sono prodigiosi, certo, anche inspiegabili, se vuole, ma certo non miracolosi, perlomeno non allo stato attuale delle nostre conoscenze in merito, basate soltanto su una testimonianza vecchia di secoli. Non ne sappiamo nulla, del resto: per quello che ci è dato sapere, quella Fonte potrebbe anche essere opera di Satana. Ovviamente, per il momento, l’interpretazione più ovvia che abbiamo potuto darne è che essa tragga le sue proprietà benefiche dalla combinazione di alcuni minerali sconosciuti in essa disciolti.»
   Un’altra volta, Indy si trovò ad annuire, anche se animato da un certo divertimento. Trovava sempre ironico come la devozione popolare fosse propensa ad avere fede in qualsiasi cosa insolita e in apparenza inspiegabile, mentre i religiosi, che in prima battuta sarebbero dovuti essere i più disposti a credere, apparivano sempre come i più scettici, dinnanzi a certe manifestazioni interpretate come divine.
   «Capisco il punto di vista» commentò. «Questo, però, non cambia la sostanza delle cose: da quello che lei mi sta dicendo, la Fonte esisterebbe per davvero.» Si sporse verso di lui. «Non è soltanto una leggenda, la fantasia di un pazzo o altre robe del genere…»
   Don Bartolec scosse la testa. Sembrava quasi contrariato. Forse, per come la vedeva lui, che quella storia si rivelasse soltanto una favola sarebbe stato assai preferibile rispetto a qualsiasi altra possibilità.
   «Abbiamo diversi esperti di libri antichi, qui in curia, e anche due bravi grafologi. Il loro responso è stato inequivocabile: quel libro è sul serio stato compilato dalla medesima mano per quasi centoquarant’anni. Non ci si può sbagliare, riguardo a questo. E la vita prodigiosamente – e non miracolosamente, badi bene – dicevo, la vita prodigiosamente lunga di Antonio Barbarigo è una prova quasi inoppugnabile del fatto che la Fonte esista davvero.»
   Indy si sentì scuotere da un incontenibile brivido di eccitazione, mentre il prete continuava con il suo discorso.
   «E il mercante parla spessissimo di quelle acque da cui dipendeva la sua esistenza. Ne possedeva tre ampolle, che gli furono sufficienti per tutta la sua lunga vita. Ne bastavano poche gocce perché i suoi problemi di salute cessassero fino a scomparire, e in un’occasione, colto dalla curiosità, provò addirittura a berne mezzo bicchiere: nel volgere di brevi istanti, si trovò ringiovanito di almeno vent’anni. Naturalmente, un simile tesoro aveva anche i suoi aspetti negativi: uno di essi, era che Barbarigo, temendo di restare senza le sue scorte, non volle mai condividere un solo sorso d’acqua con nessuno. Il risultato fu che seppellì tutti i suoi figli, i suoi nipoti, pronipoti e chissà quanti altri discendenti, oltre, naturalmente, a tutti gli amici: e, da quel che si evince dal suo diario, egli di questo soffriva davvero molto, si sentiva quasi maledetto. Un altro aspetto negativo era che i suoi compaesani, a un certo punto, vedendolo sempre giovane e in salute, lo cominciarono ad accusare di stregoneria. Fu inquisito, torturato, e se si salvò dal finire al rogo fu soltanto per le tante ricchezze di cui poteva disporre. Questo, però, lo costrinse a prendere una decisione difficilissima: più e più volte, per sfuggire a nuovi sospetti e ad altre persecuzioni, dovette cambiare abitazione, spostandosi lungo l’Adriatico in zone dove nessuno lo conosceva. Soltanto in tardissima età, quando ormai non viveva più nessuno che si potesse ancora ricordare di lui, poté fare ritorno prima a Padova, dove era nato, poi a Venezia e, infine, qui a Spalato, dove morì e presumibilmente fu sepolto.»
   Jones si grattò il mento che pungeva per barba, incuriosito.
   «Perché scelse di morire?» domandò, pensoso. «Sarebbe potuto vivere… perdoni la bestialità… per sempre. Perché non tornò a prendere altra acqua? Non ricordava la strada per raggiungere di nuovo la Fonte? Oppure essa era esaurita?»
   «Professor Jones, la vita eterna è prerogativa di un altro mondo, non di questo. Su questa terra sono più le sofferenze che si accumulano, rispetto alle gioie di cui possiamo godere. I dolori lasciano il segno, e sono sempre evidenti. La grazia e l’eternità in cui noi tutti speriamo e abbiamo fede, sono riposte altrove: un altrove che ci è stato promesso e in cui non possiamo fare altro che confidare con tutti noi stessi, non avendo nessuna possibilità di dimostrarne la reale esistenza. In ogni caso, il diritto di dispensare la vita eterna spetta soltanto a Nostro Signore, e andare contro questo fatto, cercando di realizzare in terra ciò che appartiene al cielo, significa andare contro la sua parola.»
   Indy annuì gravemente. In fondo, quelle cose le sapeva: anche lui, da ragazzino, era andato al catechismo, seppure controvoglia. Ricordava ancora, e con una buona dose di malinconia, quei bellissimi pomeriggi primaverili in cui gli sarebbe tanto piaciuto scorazzare tra i campi in fiore insieme agli amici e al suo cane Indiana, mentre invece gli toccava restare seduto in una stanza polverosa e che puzzava di muffa, ad ascoltare la vecchia signora Cohen — che, quasi quasi, puzzava di muffa pure lei, non fosse stata per tutta la naftalina di cui erano impregnati i suoi abiti – leggere in tono monocorde alcuni noiosissimi passi della Bibbia e dei Vangeli.
   «E Barbarigo, alla lunga, se ne rese conto» proseguì il vicario. «Vivere troppo a lungo era divenuta una maledizione, un castigo insopportabile che egli scontava giorno dopo giorno. Sapeva benissimo dove si trovava la Fonte e, grazie al dono della salute, avrebbe potuto affrontare senza fatica il lungo viaggio per tornare a riempirvi le sue ampolle, ma decise di non farlo. Preferì morire.»
   Lo stomaco di Indy si contrasse per l’eccitazione e le dita delle sue mani si fletterono in maniera quasi involontaria.
   E chi mai parlava di vita eterna? Che esagerazione. Lui si sarebbe accontentato di molto meno, giusto qualche altro anno, massimo massimo un centinaio, non oltre. Era un tipo che sapeva accontentarsi, in fondo. Però, riguadagnare la gioventù, ritrovare la salute, ritornare a essere ciò che era stato un tempo, potersi ridestare di nuovo nei panni del grande e intrepido avventuriero che aveva girato il mondo e svelato immensi misteri… tornare a essere l’Indiana Jones di sempre. Sarebbe stata la realizzazione di un sogno che non osava esprimere ad alta voce.
   La sola idea di affrontare ancora un intero secolo di sfide, di avventure, assistendo con i propri occhi a tutti gli inevitabili cambiamenti che si sarebbero susseguiti nel mondo… questa cosa lo elettrizzava fino a togliergli il fiato. E lui ne aveva davvero la possibilità, era tutta lì a portata delle sue mani, bastava che questo prete si decidesse a dirgli ciò che davvero gli premeva sapere…
   «E nel libro c’è scritto come fare, per raggiungere la Fonte?» domandò, secco.
   Forse, pur cercando di apparire indifferente, aveva parlato un po’ troppo bruscamente, perché don Bartolec lo guardò a fondo, dritto negli occhi, come se stesse cercando di scrutargli nell’anima e carpirne i segreti. Ma Indiana Jones era troppo abituato a certe prove e resse facilmente il suo sguardo, senza nessuna traccia di paura o anche soltanto di imbarazzo.
   Dopo un ultimo istante di esitazione, il prete scosse la testa.
   «No, non c’è scritto» ammise.
   La delusione si fece largo ad ampie ondate dentro l’archeologo e, forse, gli si palesò anche sul volto, dato che il vicario atteggiò le labbra a un sorrisetto che pareva di compatimento. Però, insieme alla delusione, Indy provò anche un intenso senso di sollievo, perché questo metteva fine a quella faccenda una volta per tutte, obbligandolo a mettere da parte quel proponimento ignobile e folle.
   «Però spiega di aver disegnato una mappa e di averla nascosta da qualche parte» soggiunse all’improvviso il prelato.
   Indy alzò la testa di scatto, di nuovo attento. Delusione e sollievo fluirono e scomparvero all’unisono.
   «Una mappa?» ripeté.
   «Barbarigo, come mercante, era esperto di cartografia» precisò don Bartolec. «Nel libro scrive che, dopo aver cessato di occuparsi di mercanzie, visse per alcuni anni disegnando portolani. Racconta, dunque, di aver nascosto la mappa su cui tracciò la strada per raggiungere la Fonte in un luogo preciso…»
   A questo punto, l’archeologo pendeva dalle sue labbra. Sentiva che c’era una possibilità, un modo per ricominciare tutto da capo un’altra volta, e non voleva sprecarla.
   «Un luogo… dove?» domandò.
   Il prete sollevò una mano verso di lui.
   «Professor Jones, prima di continuare questa nostra chiacchierata, io ci terrei a metterla al corrente delle decisioni prese dal consiglio diocesano che, come lei già sa, è attivo nel tentativo di restituire alla Croazia la sua indipendenza. E le nostre decisioni, soggiungo, sono condivise, naturalmente in via segreta, dalla Santa Sede, che ha dato la sua approvazione e il suo via libera alla nostra risoluzione.»
   L’archeologo annuì per l’ennesima volta, senza dire una parola, ansioso di scoprire dove il prete sarebbe andato a parare..
   «Noi pensiamo che la Fonte sia troppo pericolosa» spiegò il vicario, con tono profondo. «Non possiamo permettere che qualcuno la trovi, fosse anche soltanto per caso. I suoi benefici sarebbero rivolti soltanto a un ristretto numero di persone, e non all’intera umanità, e questo per noi è un male. Peggio ancora sarebbe se – come sappiamo il governo comunista sarebbe intenzionato a fare – qualcuno se ne servisse per scopi bellici. Per questo crediamo che non ci sia altra soluzione possibile: essa deve essere distrutta, in maniera che nessuno possa più bere di quelle acque prodigiose.»
   «Comprendo» mugugnò Indy.
   Bartolec studiò con viva attenzione il volto dell’americano, come se lo stesse valutando.
   «Sappiamo anche bene che, questa, non sarebbe una ricerca archeologica normale, ma lei è abbastanza conosciuto nel suo campo e siamo al corrente del fatto che, nel corso della sua vita, abbia saputo affrontare molti tipi di difficoltà, superandoli tutti in maniera brillante. Per questo, a nome dell’Arcivescovo e di tutto il consiglio, le domando: sarebbe disposto ad assumersi questo incarico? Andrebbe a cercare la Fonte, per annientarla?»
   Una ridda di pensieri attraversò la mente di Indiana Jones.
   Distruggere la Fonte dell’Eterna Giovinezza gli sembrava una follia, considerati tutti i benefici che avrebbe potuto portare all’intera umanità, per quanto quel prete sostenesse che essa non avrebbe giovato a tutti, bensì solo a pochi; da questo punto di vista, in fondo, poteva anche ritenersi d’accordo con lui: aveva già visto troppe volte gli effetti che certi oggetti portentosi avevano sulle persone, trasformandole in veri e propri mostri di avidità e cattiveria.
   Però, e su questo non aveva alcun dubbio, nessuno avrebbe potuto impedire che lui, e lui solo, prima di seppellirla per sempre, potesse attingere qualche goccia, una bottiglietta e non di più, giusto il necessario per tornare un’altra volta giovane e vivere ancora per un’ottantina d’anni, o un centinaio al massimo: non gli pareva di star chiedendo troppo. Mica lavorava gratis, lui, e come compenso quello non era neppure così esoso. Ovviamente, c’era un problema che non poteva dimenticare.
   «Io sono pronto a darvi tutto l’aiuto che sarà necessario, mettendo a disposizione la mia lunga esperienza di archeologo» promise. «Però comincio ad avere una certa età. Da solo non posso farcela…»
   Don Bartolec accennò all’altro prete che, per tutta la durata dell’incontro, era rimasto silenzioso in disparte.
   «Don Mavro l’accompagnerà e sarà pronto a obbedire a ogni suo comando, professore» assicurò.
   Indy si voltò per un momento a osservare il prete pasciuto, che sorrise incoraggiante. Tornò a guardare il vicario.
   «Ne sono certo… però ho bisogno anche di qualcuno più giovane e che sappia districarsi in imprese come queste.»
   «Ha in mente qualche nome in particolare, professore?» domandò don Bartolec, osservandolo come se lo stesse inquisendo. «Quello di una persona fidata, spero.»
   «Fidatissima» garantì Indy. «La ragazza che è con me… mia figlia. È un’archeologa molto esperta, glielo garantisco.» Un lampo gli attraversò di colpo la mente. «E anche l’altra ragazza che ho conosciuto a Venezia, Valerija Bjelica.»
   Il vicario corrugò la fronte, evidentemente meravigliato per quella richiesta.
   «La bibliotecaria?» domandò, sorpreso.
   «È molto in gamba, l’ho già vista all’opera.»
   Il prete si strinse nelle spalle.
   «Certo, d’accordo, come vuole lei… sempre, beninteso, che la signorina sia d’accordo.»
   Jones pensò ai baci e agli abbracci che sua figlia e la bella bibliotecaria si erano scambiate quando si erano riviste. Contenne a stento l’ennesimo ghigno.
   «Oh, lo sarà, ne sono certo» disse.
   Il prete consultò alcune carte che aveva dispiegato sulla scrivania. Sembrava intento a riflettere su qualcosa.
   «Quindi, premesso questo» riprese a dire Jones, «potrebbe chiarirmi qualche punto? Per esempio, dov’è che Barbarigo avrebbe nascosto la mappa? In un’altra biblioteca?»
   Chissà come avrebbe reagito Katy, quando le avrebbe comunicato che, un’altra volta, si sarebbero dovuti seppellire tra vecchie scartoffie. Di nuovo si costrinse a non ridere, mentre già fantasticava su tutte le parolacce che si sarebbe messa a gridare.
   Tuttavia, don Bartolec scosse la testa.
   «No, professore» rispose, senza staccare gli occhi dai suoi appunti. «Non voleva che qualcuno la trovasse per caso leggendo un libro o sfogliando qualche catalogo. La mise in un luogo che gli sembrava più adatto… e qui iniziano le difficoltà, perché… be’, la celò in un luogo mistico, a suo dire. Un posto che lui stesso scrive di aver scoperto, nei Balcani, nel corso delle sue lunghe peregrinazioni. Il problema è che, per quanto se ne sappia, un posto del genere non dovrebbe nemmeno esistere…»
   Indy sollevò un sopracciglio. Non si era mai tirato indietro, dinnanzi alle sfide, e non lo avrebbe fatto nemmeno questa volta, qualunque fosse la difficoltà a cui sarebbe dovuto andare incontro.
   «Vale a dire?» chiese, piegandosi un’altra volta in avanti, come se fosse sul punto di raccogliere una confidenza, una confessione segreta.
   Il vicario questa volta lo guardò. All’improvviso, sembrava estremamente a disagio.
   «Vale a dire una piramide, professor Jones.»
   Con sommo stupore del prete, Indiana Jones sorrise in maniera complice e affabile.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Scontro sotterraneo ***


   10 - Scontro sotterraneo
 
    Visoko, Regno di Jugoslavia, 1944

   L’antico muro franò alla quarta spinta, trascinando a terra l’archeologo e facendogli piovere addosso una miriade di calcinacci di varie dimensioni che lo colpirono alle braccia e alle gambe. Istintivamente, portò le braccia attorno alla testa per ripararsela da eventuali pietre.
   «Tutto bene, Jonesy?» domandò Mac, afferrandolo per aiutarlo a rialzarsi.
   Indy, tossendo e sbuffando, si tirò in piedi, districando i piedi dai frammenti di roccia che li avevano imprigionati. Diede alcuni veloci colpi al giubbotto di pelle, per liberarlo dalla fine polvere biancastra che lo aveva ricoperto, e volse verso McHale uno sguardo indispettito.
   «Avresti anche potuto darmi una mano, invece di startene a guardare» borbottò.
   L’agente del MI6 fece un sorrisetto indisponente e allargò le braccia in un ampio gesto.
   «Chi fa da sé fa per tre, Jonesy!» esclamò. «Se mi fossi messo di mezzo pure io, questo muro sarebbe ancora integro, te lo assicuro!» Aveva un fastidiosissimo accento ilare nella voce.
   Ignorando il suo sarcasmo, Indy puntò lo sguardo verso il tunnel di cui avevano appena riaperto, dopo millenni, l’ingresso segreto. Nonostante la polvere stesse già tornando a posarsi, non riuscì a vedere niente, perché il buio era assoluto. Da quel che poteva intuire, il budello si snodava molto in profondità. Le sue narici percepirono un vago odore di muffa e di terra, che si mischiava a quello della polvere e all’umidità che saliva dal suolo e dagli alberi alle sue spalle.
   «Be’, che mi prenda un accidente!» grugnì Mac, guardando a sua volta nell’oscurità. «Pare proprio che la Hapgood avesse ragione. Questa dannata collina cela sul serio qualcosa…»
   «Questa non è una collina, Mac» gli rammentò Jones, studiando le pareti di pietra accuratamente levigate. Un lavoro che doveva aver richiesto una maestria non indifferente, oltre ad anni di infinita pazienza. «Ormai non ci sono più dubbi: questa è una piramide, ed è per questo motivo che Chlodochar ne è tanto interessato.»
   «Quel maledetto nazista…» grugnì Mac, infastidito.
   Infilò la mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse una torcia militare di tipo angolare. L’accese e la puntò verso il tunnel, ma il fascio giallognolo della lampada si rivelò troppo debole per mostrare molto più di quanto stessero già vedendo.
   «Credi che ci sia un tesoro?» domandò poi con avidità, rivolgendosi al compagno.
   Jones si strofinò il mento, irto di barba e sporco di terra e polvere sottile impastata al sudore. Non riuscì a trattenere un ghigno: Mac, perennemente al verde per via della sua incapacità di resistere al gioco d’azzardo, sperava di continuo di imbattersi in un tesoro con cui risanare qualcuno dei propri debiti. Purtroppo per lui, nonostante avessero spesso a che fare con siti archeologici, non avevano mai trovato nulla di troppo prezioso, perlomeno se guardato da un punto di vista economico.
   Anche questa volta, la missione che era loro stata affidata dal generale Ross li aveva condotti verso un antico sito archeologico che, secondo gli studi effettuati da Sophia Hapgood, doveva in un passato remoto essere stato un centro abitato molto sviluppato.
   Dell’antica città non restava più niente, nemmeno una minima traccia, ma le due alte e appuntite colline coperte di alberi che circondavano il piccolo centro di Visoko, nel mezzo dei Balcani, non lasciavano adito a dubbi: si trattava di due piramidi gigantesche e antichissime, dimenticate da tutti e mai studiate dagli scienziati.
   Secondo Sophia, erano state erette prima della distruzione di Atlantide, probabilmente da alcuni coloni giunti fin lì dalla grande isola che, dall’Atlantico, irraggiava su tutto il mondo la sua cultura. Dopo la catastrofe che aveva distrutto Atlantide e cambiato il volto del mondo intero, anche quel luogo era caduto in miseria, finché era stato del tutto abbandonato dai suoi abitanti; soltanto le due piramidi erano sopravvissute, seppure ricoperte dalla terra e dai detriti accumulatisi nei secoli fino a essere trasformate in vere e proprie montagnole. L’area era in seguito stato riabitata da nuovi venuti e la gente del posto aveva cacciato e fatto legna per secoli su quelle due piccole montagne, senza sapere di star camminando sopra alcuni tra i più imperiosi monumenti dell’Europa orientale.
   Una storia che, di primo acchito, sarebbe potuta sembrare davvero molto fantasiosa, e che non avrebbe mai convinto la maggior parte degli archeologi; in parecchi l’avrebbero di sicuro rigettata senza neppure prendersi la briga di fare una breve verifica, e se anche qualcosa fosse emerso dagli scavi, avrebbero cercato spiegazioni alternative. Indy, dal canto suo, non aveva invece nessun motivo valido per dubitare delle parole della collega: avevano condiviso troppe cose, insieme, perché potesse pensare che si fosse sbagliata con le sue valutazioni.
   Purtroppo, le spie dislocate ovunque da Bob Ross avevano fatto sapere che Lothar Chlodochar, l’archeologo austriaco al soldo dei nazisti, aveva scoperto l’esistenza delle due piramidi e stava cercando di raggiungerle per qualche suo scopo misterioso: quale che fosse questo fine, bastava da solo a dare credito alle teorie di Sophia e a rendere plausibile l’intera storia. Difficilmente quel piantagrane si muoveva senza un preciso motivo.
   Di certo – lo avevano intuito subito tutti – si trattava di grosse rogne, che andavano risolte al più presto, senza perdere altro tempo. Così, Indy e Mac erano stati in fretta richiamati dalla Cina, dove stavano contribuendo a organizzare la resistenza contro le truppe giapponesi e, dopo aver ricevuto i dovuti ragguagli, erano stati portati sull’obiettivo, sul quale si erano paracadutati in piena notte. Grazie alle indicazioni fornite da Sophia, che aveva effettuato diversi studi su fotografie rilevate dagli aerei-spia, non era stato difficile rintracciare l’entrata della più grande delle due piramidi.
   «Non penso che troveremo oro e gioielli, qua dentro» replicò Indy, incamminandosi con circospezione nell’oscurità. «Ma qualcosa deve pur esserci, altrimenti Chlodochar non si sarebbe dato tanta pena per provare ad arrivarci.»
   Mac si affrettò a seguirlo, illuminando il terreno polveroso e disconnesso con la luce della torcia.
   «Sempre che non si tratti di una falsa pista» grugnì. «Come l’anno scorso. Ricordi? Pensavamo che fosse tanto interessato a quel castello in Francia, e mentre noi lo esploravamo palmo a palmo, lui era dall’altra parte del mondo a mettere le mani su quel dannato scettro magico…»
   «Ogni tanto succede anche a noi di sbagliare» borbottò Indy, scrutando il soffitto che, mano a mano che procedevano, si abbassava leggermente. «E, comunque, lo scettro siamo riusciti a distruggerlo, no? Faccenda risolta…»
   «Quella sì, ma questa?» borbottò l’inglese. «Siamo sicuri che ci sia davvero qualcosa, qui dentro?»
   «È esattamente quello che siamo venuti a scoprire» gli ricordò Indy, paziente, picchiettando con le nocche sulle pareti in cerca di eventualità cavità nascoste. Le pareti sui due lati, però, erano di solida e compatta roccia.
   «E se Chlodochar è tanto interessato a questo posto, perché non abbiamo visto traccia dei tedeschi…?» andò avanti a bofonchiare George.
   «Ci siamo paracadutati apposta per precederli, no?» sbottò Indy. «Era questo, il piano, o lo hai dimenticato?»
   «No, che non l’ho dimenticato…» brontolò l’altro. «E, tuttavia…»
   «Porca miseria, Mac!» lo richiamò Jones, fermandosi e voltandosi brevemente verso di lui. «Cos’hai oggi, da essere tanto lamentoso? Se i pezzi grossi ci hanno spedito qui in missione, noi dobbiamo fare come ci è stato ordinato. Lo stipendio ce lo pagano ogni mese proprio per questo motivo.»
   Detto questo, riprese a camminare con cautela lungo il tunnel. Notò una profonda e larga fenditura che si apriva nel terreno e, dopo aver fatto un cenno a McHale perché facesse attenzione, vi transitò accanto.
   «Certo, ci pagano a fine mese, anche se ogni tanto potrebbero essere un po’ meno tirchi» grugnì Mac, senza guardarlo. «Però non vorrei star scendendo in questo buco nero per niente. Fino all’altro giorno ero felice e contento a insegnare a una bella cinesina a fare il tiro a segno sui giapponesi con il Garand e ora…»
   Infilò il piede nella larga spaccatura, che non aveva visto, e cominciò a precipitare. La torcia, sfuggitagli, cadde poco più in là, restando immobile sul terreno. Indy, che se ne accorse appena in tempo con la coda dell’occhio, fu lestissimo a srotolare la frusta e a lanciargliene l’estremità perché l’afferrasse. Mac riuscì a stringerci attorno le mani un secondo prima che fosse troppo tardi, restando penzoloni nel vuoto.
   «Jonesy… Jonesy…!» annaspò, appeso sopra un abisso di cui non si riuscivano a scorgere i confini.
   «Tieni duro, Mac!» urlò di rimando l’archeologo, puntando i piedi e contraendo tutti i muscoli nel tentativo di non farsi sbilanciare in avanti. Le dita delle mani, strette attorno al nerbo teso al massimo, minacciavano di cedere da un momento all’altro.
   Nonostante il peso non indifferente di McHale, che gli procurò non pochi crampi alle articolazioni, Indy riuscì ad arretrare di qualche passo, dandogli così la possibilità di puntellarsi con i piedi contro la parete di roccia. Con quell’aiuto, George poté risalire, guadagnando centimetro dopo centimetro. Finalmente, dopo alcuni secondi terribili, Mac riuscì a uscire dal buco con tutto il busto. A quel punto, Indy lo afferrò per un braccio e, con un ultimo slancio, lo trascinò in fuori, al sicuro.
   Entrambi, ansanti e tremanti per la scarica di adrenalina che gli si era riversata nelle vene, crollarono al suolo.
   «Me la sono vista brutta, eh?» strepitò Mac, con voce decisamente più acuta del solito. Si voltò a guardare la fenditura che si sarebbe potuta rivelare la sua tomba e imprecò sonoramente.
   Sbuffando, Jones si mise in ginocchio e cominciò ad arrotolare di nuovo la frusta. Le dita gli ballavano parecchio e la schiena sembrava urlare per l’indignazione di quello sforzo inatteso.
   «Faresti meglio a metterti a dieta, una buona volta» sbottò. «E, con questa, è la diciottesima volta che ti salvo la vita… quest’anno.»
   «Ne terrò conto a Natale, Jonesy» promise Mac con una risata stridula, raccattando la torcia.
   A fatica, aiutandosi a vicenda e grugnendo per i dolori, si rimisero entrambi in piedi e tornarono a osservare il tunnel.
   «Che ne dici se, da adesso, procediamo in silenzio, senza querule lamentele e stando bene attenti a dove andiamo a ficcare i piedi?» propose Indy, con sarcasmo.
   «Per una volta sono disposto a riconoscere che hai avuto una bella pensata, Jonesy» ammise Mac, accarezzandosi i capelli intrisi di sudore.
   Ripresero la loro avanzata nel buio, esaminando con attenzione ogni punto in cui si posavano i loro passi e volgendo gli sguardi di continuo verso ogni direzione per non rischiare di far scattare per sbaglio il meccanismo di qualche antica trappola. Il silenzio, ora che McHale aveva acconsentito a non lagnarsi più, si era fatto quasi assoluto. Ad accompagnarli era soltanto il rumore dei loro passi, ovattato dall’ambiente stretto e soffocante.
   Più andavano avanti e più sentivano crescere il calore. Quando si erano inerpicati lungo il pendio della piramide, alla ricerca dell’ingresso nascosto, la notte era buia e fredda, avvolta dalla nebbia, tanto che presto si erano trovati a rabbrividire e George aveva preso dallo zaino una pesante sciarpa di lana che si era avvolto attorno al collo. Ora, invece, scendendo in quelle profondità, isolati dall’ambiente esterno da migliaia di tonnellate di roccia, avevano caldo e sudavano in abbondanza.
   Di quando in quando, Mac sbuffava e imprecava sottovoce, asciugandosi il sudore che, dalla fronte, gli colava negli occhi. Decisamente, avrebbe voluto trovarsi altrove. Indy invece non badava affatto ai disagi fisici. La sua attenzione era tutta per il lungo tunnel, sempre più angusto. Prima o poi avrebbe dovuto condurli da qualche parte, e questo pensiero gli dava i brividi per l’emozione.
   Ormai erano costretti a procedere quasi in ginocchio e di traverso. E, tuttavia, i segni della lavorazione sulle pareti non lasciavano adito a dubbi: quello scavo era opera dell’uomo, non un condotto naturale. Quindi, se c’era passata gente migliaia di anni prima, potevano farlo anche loro adesso. Probabilmente, però, gli antichi costruttori della piramide dovevano essere stati molto più bassi e mingherlini di loro.
   «Tra un po’ non respirerò più» si lagnò George, interrompendo il mutismo che li aveva accompagnati negli ultimi venti minuti.
   «Così impari a mangiare di meno» lo prese in giro Jones.
   Anche lui, però, cominciava a fare davvero fatica. Ormai erano quasi sdraiati sul terreno e dovevano trascinarsi sui gomiti e sulle ginocchia per riuscire ad andare avanti. Il caldo era soffocante e la carenza d’ossigeno iniziava a farsi sentire.
   D’improvviso, però, avvertì un cambiamento tutto attorno a sé. Pur rimanendo avvolto dall’oscurità, a stento rischiarata dalla lampada di Mac, si rese conto di essere sbucato in un ambiente parecchio ampio, dal soffitto molto alto. A dargli quella sensazione era l’aria, più fresca e umida, e anche il rimbombo echeggiante che amplificava ogni rumore che producevano.
   «Fai un po’ di luce» disse, mentre Mac si fermava al suo fianco.
   L’agente dell’MI6 obbedì prontamente, dirigendo il fascio luminoso in varie direzioni.
   Dapprima non notarono nulla di particolare, poi videro alcuni scheletri disposti contro le pareti. Al collo avevano dei pesanti ornamenti d’oro, argento e pietre preziose. Altri scheletri, sempre riccamente ornati, comparvero di fronte a loro.
   «Oh, questa passeggiata comincia a dare i suoi frutti!» esclamò Mac, muovendo un passo verso lo scheletro più vicino e protendendo la mano libera verso una collana d’oro con un pendente d’ambra.
   Indy lo trattenne afferrandolo per il lembo della giacca.
   «Aspetta, illumina lì» disse, indicando un punto alla propria destra.
   Mac obbedì, rivelando la presenza di un grosso bacile di pietra che conteneva una sostanza nera e oleosa, dal forte e penetrante odore.
   «Bitume» rivelò l’inglese, abbassandosi per annusare rapidamente.
   «Doveva servire a illuminare questo posto» ipotizzò Indy. «Hai l’accendino?»
   «Sempre» replicò Mac.
   Infilò una mano nel taschino della giacca ed estrasse uno zippo argentato. Lo fece scattare e avvicinò la fiammella al bacile. Subito il bitume si infiammò, squarciando il buio e illuminando per parecchi metri tutto attorno la sala. Alla nuova luce, osservarono anche un secondo bacile, situato un po’ più in là, che McHale si affrettò ad accendere.
   Adesso la grande sala in cui erano entrati era illuminata praticamente a giorno. Il fumo prodotto dai bacili non era fastidioso, perché veniva risucchiato verso l’alto da alcune strette condutture aperte nel soffitto.
   Jones si guardò attorno, sbalordito. Erano capitati in un vasto ambiente quadrangolare scavato direttamente nel granito, con le pareti, il soffitto e il pavimento perfettamente levigati. Il cuore della piramide doveva essere stato utilizzato come necropoli, almeno a giudicare dal grande numero di scheletri adorni di gioielli. Mentre Mac, senza alcun ritegno, si dedicava alla spoliazione di questi ultimi, Indy mosse alcuni passi verso il centro della sala, dove, rialzato al di sopra di una piattaforma, si trovava un sarcofago intagliato in una pietra verdognola.
   Si avvicinò, guardingo e curioso, ansioso di scoprire chi fosse sepolto in quella tomba. Doveva trattarsi di un personaggio molto importante e che doveva nascondere qualcosa di considerevole, altrimenti non si sarebbe potuto spiegare l’interesse di Chlodochar per quella faccenda. Con un brivido ripensò all’oricalco, il misterioso minerale di Atlantide i cui effetti aveva già visto all’opera cinque anni prima, e pregò con tutto il cuore che non ce ne fosse un po’ anche lì.
   Il sarcofago era finemente scolpito, ma non recava raffigurazioni né inscrizioni. Per sapere che cosa mai potesse esserci nascosto dentro, doveva aprirlo.
   «Mac, vieni a darmi una mano» chiamò.
   George stava osservando alla luce di uno dei bracieri un monile in oro granulato che aveva preso da uno degli scheletri e non sembrava molto intenzionato a terminare la sua opera di depredazione.
   «Che succede, Jonesy?» borbottò, distratto, cacciandosi il monile in tasca e sollevando una collana di perle e smeraldi.
   «Mac, accidenti, all’oreficeria ti dedicherai do…» cominciò a dire Indy, voltandosi verso di lui. Le parole gli morirono in bocca.
   Da un secondo ingresso alla sala, che in precedenza non aveva notato, essendo immerso nell’ombra, erano appena entrati cinque soldati tedeschi con i mitra puntati verso di loro. Alle loro spalle, sorridente e fiero nella sua divisa da ufficiale, c’era Chlodochar.
   «Che dicevi, Jonesy…?» domandò Mac, alzando lo sguardo. Anche lui si accorse dei tedeschi. «Ah» sbottò, alzando di scatto le mani in segno di resa. Le collane e i bracciali che aveva tra le dita tintinnarono.
   «Oh, che piacere incontrarvi di persona, finalmente» disse Chlodochar, venendo avanti con aria vittoriosa. «Non potete immaginare da quanto tempo aspettassi questo momento.»
   Indy lo osservò con odio, rivivendo con la memoria tutti gli scontri che avevano avuto, sin dal primo, in Gran Bretagna. A un cenno dell’austriaco, si spostò verso Mac, che era irrigidito e aveva ancora le mani alzate.
   «Non potresti abbassare le mani?» grugnì. «È imbarazzante, Mac.»
   George fece per obbedire, ma tornò a sollevarle non appena un soldato gli ebbe puntato la canna del mitra contro lo stomaco.
   «Scusa, Jonesy» borbottò, impaurito.
   «Tenete pure le mani come vi pare» ridacchiò Chlodochar. «Tanto da questo posto non ne uscirete vivi. Vi stavo aspettando. Sapevo che sareste arrivati.»
   Indy e Mac si scambiarono uno sguardo fugace.
   «Come?» bofonchiò Jones, tornando a volgersi verso il suo nemico.
   «Oh, è molto semplice» replicò il nazista, con un sorriso scaltro. «Al contrario di quello che credete, ho scoperto questa piramide mesi fa, e ho potuto esplorarla indisturbato. Non è altro che un cimitero, non c’è niente di speciale qui. Ma ho pensato che, forse, mi sarebbe servita per uno scopo migliore: farvi diventare a vostra volta inquilini permanenti di questa tomba. Ho fatto in maniera che alle vostre spie giungessero le voci giuste, e sapevo che era soltanto questione di tempo. Avrebbero di sicuro mandato voi, e io sarei stato qui ad aspettarvi. A dire il vero non avevo idea di quale passaggio avreste seguito per scendere fin qui, dato che ce ne sono numerosi, ma l’importante era potervi avere finalmente sotto il tiro delle mie armi. Peccato solo che, con voi, non ci sia anche quella baldracca della Hapgood, sarebbe stato il massimo sistemarvi per sempre tutti e tre, nello stesso istante. Ma mi rifarò anche con lei, ve lo assicuro.»
   Chlodochar ridacchiò della propria furbizia, mentre Mac si voltò a guardare il compagno.
   «Te l’avevo detto, Jonesy! Te l’avevo detto o no, che era meglio restarsene in Cina?!» sbottò.
   Indy sbuffò, cercando di rimanere calmo.
   «Può capitare a tutti di commettere qualche errore, no?!»
   «Ultimamente te ne capitano un po’ troppi, Jonesy!»
   L’archeologo alzò gli occhi al cielo.
   «Io ho solo obbedito agli ordini!» gli rammentò, stringendo i pugni. «Perché diavolo non lo hai detto quando eravamo in aereo, che non ti fidavi, anziché venire a lamentarti adesso?!»
   «Perché tanto dirlo prima o dopo con te non cambia nulla!» gracchiò McHale. «Fai sempre di testa tua, in ogni occasione. E guarda in che bella situazione, che siamo capitati!»
   «Non possiamo parlarne più tardi?!» grugnì Indy, offeso, girandosi dall’altra parte.
   «Più tardi quando, di preciso?» brontolò Mac. «Quando ci avranno spedito a tenere compagnia a questi scheletri della malora?!»
   «Però non erano scheletri della malora, quando ti fornivano i gioielli!» sbraitò Indy, fiammeggiando dallo sguardo. «Prima andavano bene!»
   «Quello era quando potevo ancora farmene qualcosa, dei gioielli!» urlò di rimando Mac. «Ora a che accidenti mi serviranno, vuoi dirmelo?!»
   «Ma sentitevi!» intervenne Chlodochar, con tono maligno. «Litigate proprio come una vecchia coppia di sposi. Non sapevo che vi foste uniti in matrimonio.»
   Indy si girò di scattò verso di lui.
   «Ancora non lo abbiamo fatto, infatti!» urlò.
   Mise mano alla frusta e, srotolatala con la stessa velocità di un lampo, la schioccò verso di lui, colpendolo al volto. Si gettò di lato, inseguito dal grido di dolore del nazista, mentre i soldati tedeschi iniziavano a sparare. Mac, a sua volta, si fiondò in avanti, andando a mettersi al riparo del sarcofago ed estraendo dalla fondina la sua speciale Mauser automatica.
   «Uccideteli! Uccideteli!» gridò Chlodochar, tamponandosi la guancia ferita.
   Indy cominciò a correre attraverso la sala, cercando di sottrarsi ai proiettili che minacciavano di raggiungerlo a ogni passo. Mac, intanto, era già riuscito ad abbattere uno degli avversari con alcuni colpi precisi.
   Il rumore degli spari rimbombava contro l’alta volta del mausoleo, profanandone l’antica e sacrale pace. I proiettili rimbalzavano sul pavimento, sollevando schegge di pietra, e il puzzo della polvere da sparo ammorbava l’aria, rendendola irrespirabile.
   Mentre correva, balzando con agilità per evitare le raffiche di mitra che facevano scempio degli scheletri, Indy passò la frusta nella mano sinistra e con la destra prese il revolver che portava nella fondina appesa al cinturone. Sentì un proiettile fischiargli vicino all’orecchio e rispose con un colpo preciso. Un grido soffocato gli comunicò che aveva fatto centro.
   «Jonesy, attento!» gridò Mac, parandosi all’improvviso davanti a lui. «Giù!»
   Indy obbedì, scartando di lato, e McHale aprì il fuoco. Un altro tedesco crollò al suolo, ferito a morte.
   «E con questa siamo pari per la faccenda del crepaccio, Jonesy!» gridò Mac correndo di lato, per evitare un altro colpo.
   «Se lo dici tu…» borbottò Jones.
   Mentre correva, cercando di evitare una nuova raffica, inciampò in un cadavere e cadde a terra, rotolando sul pavimento. I proiettili gli esplosero tutto attorno, pericolosamente vicini. Senza riflettere o prendere la mira, sollevò il revolver e scaricò l’intero caricatore addosso al tedesco che stava cercando di ucciderlo.
   Dall’altro lato della sala, Mac si gettò di nuovo dietro il sarcofago. Poi, alzatosi all’improvviso, sparò tutti i colpi che gli restavano contro l’ultimo soldato rimasto in piedi, che si accasciò al suolo, morto.
   Lothar Chlodochar, vedendo la malaparata e capendo che il suo astuto piano per liberarsi degli avversarsi era miseramente naufragato, cominciò a correre verso l’uscita della sala, ansimando e sbuffando.
   «Eh no, carogna, stavolta non la fili liscia!» urlò Mac, puntandogli contro la pistola e premendo il grilletto. Indy lo imitò, ma entrambi avevano le armi scariche e tirarono a vuoto.
   «Dannazione!» borbottò Jones, partendo di corsa all’inseguimento dell’austriaco.
   Sollevò la frusta e cominciò a mulinarla sopra di sé come un lazzo. Quando ritenne di essere sufficientemente vicino, la scagliò in avanti e ne mandò l’estremità ad avvolgersi con precisione attorno al collo di Chlodochar. Quello si portò le mani alla gola, sentendosi soffocare, ma Indy non gli diede requie: con uno strattone, tirò all’indietro il nerbo, allontanando il nazista dalla via di fuga.
   Quello fu trascinato all’indietro, tossendo e imprecando. Perse l’equilibrio, inciampò e cadde di lato. Nel farlo investì in pieno uno dei due bacili accesi, rovesciandosi addosso il bitume in fiamme. Subito cominciò a urlare disperatamente, contorcendosi al suolo mentre bruciava lentamente.
   «Maledizione!» urlò Indy, precipitandosi verso di lui.
   Lasciati andare frusta e revolver, cercò di afferrarlo, ma il calore era troppo e dovette trascinarsi all’indietro. Inoltre, ormai, sarebbe stato impossibile salvarlo: Chlodochar si era tramutato in una torcia umana, la sua carne era intaccata, abiti e capelli gli si erano consumati e si agitava e urlava sempre più debolmente, anche se sempre in modo agghiacciante.
   Mac sopraggiunse di corsa. In mano aveva la sua Mauser e una fila di proiettili da inserire nel caricatore. Ricaricò l’arma e la puntò alla testa di Chlodochar. Esitò. Indy gli fece un cenno d’intesa.
   «Vuoi che faccia io?» domandò, con la voce che tremava per l’emozione.
   George fece un rapido cenno di diniego. Corresse la mira di qualche centimetro, seguendo la testa di Chlodochar che si era spostata per i suoi continui sussulti, e premette il grilletto. Ci fu un unico scoppio e l’archeologo austriaco cessò immediatamente di urlare e di agitarsi, mentre il suo corpo dilaniato continuava a consumarsi tra le fiamme.
   I due amici restarono in silenzio a contemplare il corpo di un avversario con cui si erano scontrati innumerevoli volte, nel corso di quella lunga guerra che non sembrava avere mai termine. Una guerra che non risparmiava e non faceva sconti a nessuno. Ora che anche Lothar Chlodochar era morto, sembrava che il termine delle ostilità fosse un passo più vicino.
   «Non avrei mai pensato che sarebbe finita così…» disse Mac, rimettendo a posto la pistola. La sua voce era atona.
   Indy raccolse il revolver e la frusta e si rialzò. Distolse lo sguardo, non riusciva più a guardare i resti di quel giovane archeologo che si era votato anima e corpo a una causa che riteneva corretta, fino a rimetterci la vita. A mitigare la sensazione dolorosa che gli dava la vista di quei miseri resti carbonizzati e ancora fumanti fu il pensiero che, dopotutto, era stato proprio Chlodochar ad attirarli fin laggiù, con la dichiarata intenzione di ucciderli.
   «C’est la guerre…» bofonchiò, guardando il compagno di tante avventure. «In qualche modo, in ogni caso, sarebbe pur dovuta finire…» Si sbrigò a cambiare argomento. «Vuoi prenderti qualche ricordino, prima che ce la filiamo da qui? Non abbiamo idea di quanti soldati si fosse portato dietro Chlodochar, ma preferisco non trattenermi troppo a lungo per scoprirlo.»
   George gettò uno sguardo agli scheletri, molti dei quali erano stati polverizzati e fatti a pezzi nel corso della breve ma violenta sparatoria. Scosse la testa.
   «Quest’oro porta scalogna, meglio lasciarlo dov’è.» Un sorrisetto gli deformò le labbra incorniciate dai baffetti leggeri. «Mi accontento di quello che ho già in tasca. Questo l’ho preso prima, non conta…»
   Jones annuì e indicò l’imbocco della galleria da cui erano arrivati.
   «Filiamo, allora.»
   Senza più voltarsi indietro, i due amici si avviarono verso l’uscita della misteriosa piramide, lasciandosi alle spalle quel luogo di morte.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** L’ingresso della piramide ***


   11 - L’ingresso della piramide
 
    Visoko, Bosnia ed Erzegovina, Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia

   Indiana Jones non si sarebbe mai immaginato che, esattamente quarant’anni dopo il suo scontro finale con l’archeologo austriaco Lothar Chlodochar – che per quasi l’intera durata della guerra si era rivelato un avversario terribile e parecchio astuto – sarebbe ritornato proprio nei luoghi in cui era avvenuto.
   Eppure, quando don Bartolec gli aveva riferito il contenuto del diario di Barbarigo, aveva compreso subito a quale luogo si stesse riferendo l’antico mercante, e una miriade di ricordi gli si era riaccesa nella memoria. Soltanto in una di quelle piramidi che lui stesso aveva già visitato durante la seconda guerra mondiale – e nelle quali era andato molto vicino a rimetterci una volta per tutte la pellaccia – si sarebbe quindi potuto trovare il segreto per giungere alla Fonte dell’Eterna Giovinezza.
   Ovviamente, quando ne aveva parlato con Katy, lei era apparsa subito entusiasta all’idea di mettersi all’opera; e Valerija non si era fatta ripetere due volte l’invito ad andare con loro. In effetti, il più spaesato del piccolo gruppo era don Mavro, non certo abituato a compiere lunghi viaggi o a dare l’arrampicata a ripidi versanti alberati, come stavano facendo adesso. Infagottato nel suo Loden nero, con la stempiatura coperta da una coppola dello stesso colore, le mani giunte appoggiate sull’ampio ventre, sembrava più che altro pronto per andare a dire messa da qualche parte, non certo intento a una sensazionale scoperta archeologica.
   Camminare lungo il fianco boscoso della piramide, a dire il vero, si stava rivelando un vero dramma anche per Indy, per quanto cercasse di non darlo a intendere. Nonostante avesse ingurgitato un paio di compresse preventive, la sua schiena gli procurava fitte dolorose a ogni metro che guadagnava. I suoi mocassini e il completo di velluto, inoltre, non erano propriamente l’abbigliamento più adatto ad affrontare un’arrampicata del genere. Si era dovuto munire di un bastone da trekking, nel cui pomello era incastonata una piccola bussola, e ogni tanto si aggrappa ai tronchi degli alberi per riuscire a mantenersi in piedi. Nondimeno, sbuffava come una locomotiva e cominciava già a sentirsi invadere dalla stanchezza.
   Le due ragazze, invece, andavano avanti con il loro passo svelto e la leggerezza dei vent’anni. Katy aveva indosso la solita tenuta da rockettara, mentre Valerija aveva sostituito gli abiti eleganti che utilizzava di solito per lavorare in biblioteca con jeans azzurri, scarponi, camicia di cotone e un vecchio giubbotto di montone da uomo che doveva averle prestato qualche conoscente.
   «È incredibile…» mormorò Katy, stupefatta, spostando con il piede alcuni mucchi di terra per riportare alla luce parte della copertura in pietra perfettamente levigata della piramide.
   Il suo stupore era cominciato fin da quando erano giunti nel piccolo centro di Visoko, situato a una ventina di chilometri a nord di Sarajevo, e suo padre le aveva indicato i colli circostanti, facendole notare i diversi particolari che li identificavano come piramidi create dalla mano umana.
   «Quella è la più grande» aveva detto Jones, stendendo il dito indice verso quella che, già in passato, lui aveva visitato. «E poi ce ne sono altre due, più piccole.»
   L’idea di dover esplorare non una, bensì addirittura tre piramidi sconosciute, aveva fatto esultare Katy. Don Mavro, invece, aveva sussultato per lo sgomento.
   «E lei sa in quale delle tre potrebbe essere nascosta la mappa, professor Jones?» aveva domandato il prete, speranzoso in una risposta positiva.
   Indy aveva annuito, pur restando sul vago.
   «Nel libro, Barbarigo accenna al fatto che la piramide in cui nascose la mappa era rivolta al meridione» disse, meditabondo. «Quindi…» Voltò le spalle alla grande piramide in cui erano entrati lui e Mac e puntò lo sguardo verso sud, oltre la sponda del fiume Bosna che scorreva placido attraverso il centro abitato. «La piramide dovrebbe essere quella laggiù.» Stese la mano in direzione di una collina che si intravedeva in lontananza, un paio di chilometri fuori dalla cittadina.
   «Ne è sicuro?» chiese ancora il sacerdote.
   «Be’, no» ammise Jones. «Non ci rimane che andarci e scoprirlo.»
   Risaliti sulla Zastava Yugo di don Mavro, con cui erano arrivati fin lì da Spalato, seguirono numerosi viottoli sterrati e ghiaiosi, pieni di buche che misero in seria difficoltà le sospensioni dell’utilitaria. Il rosario a grani azzurri della Madonna di Lourdes che pendeva dallo specchietto retrovisore sussultava a ogni asperità e scossone, producendo un lieve tintinnio. Infine, dopo aver sbagliato strada un paio di volte – non era facile orientarsi, in mezzo alle stradicciole di campagne tutte uguali, e il prete al volante era teso come una corda di violino, reso ancora più nervoso dalle continue indicazioni che gli davano i passeggeri – raggiunsero le pendici della collina. Di nuovo, dopo aver parcheggiato, scesero e cominciarono a guardarsi attorno.
   Katy e Valerija, con le spalle coperte dallo zaino in cui avevano riposto tutto ciò che sarebbe potuto servire per una simile impresa, si slanciarono con vero impeto alla base della piramide, chinandosi per cercare tra le radici degli alberi e le erbe selvatiche qualche traccia che potesse far pensare a un intervento dell’uomo. Indy, invece, rimasto indietro con don Mavro per recuperare il bastone dal bagagliaio, sorrise nel vederle tanto entusiaste.
   «A me questo posto sembra una semplice collina, professor Jones» tentennò il prete, guardando gli alberi che coprivano quasi per intero il piccolo monte.
   «Da vicino è difficile rendersene conto» consentì l’archeologo, facendo a sua volta scorrere lo sguardo sul colle. «Ma, da lontano, avrà notato come le pareti siano troppo regolari per poter essere considerate naturali. Inoltre, come già ho detto, sono già stato da queste parti, durante l’ultima guerra, quindi le assicuro che so benissimo di che cosa parlo.»
   La sua attenzione venne attratta da Katy, che stava urlando e gli rivolgeva ampi gesti perché si avvicinasse. Incuriosito, facendo scricchiolare la ghiaia, si avviò nella sua direzione e si inoltrò nel sottobosco, dove lo accolse la fragranza del muschio e delle resina. Il prete lo seguì, seppure titubante.
   «Guarda, Old J, avevi ragione!» disse Katy, raggiante, mentre l’altra ragazza, inginocchiata al suo fianco, conteneva a stento sorrisi colmi di entusiasmo.
   Lei e Valerija si erano sporcate di terriccio fin sopra i capelli, ma non davano segno di starsene curando. Utilizzando le mani, avevano rivoltato la terra, fino a far emergere alcune pietre dai contorni regolari, disposte in fila con un ordine preciso.
   Il vecchio archeologo sorrise.
   «Ne dubitavi?» domandò, con tono bonario, scompigliandole i capelli.
   «I capelli no, papà!» strillò la ragazza, sistemandoseli con una manata che servì soltanto a riempirli di terriccio e pezzetti di foglie secche.
   Indy sorrise ancora di più, poi alzò lo sguardo verso la cima della piramide. «Se queste costruzioni sono state realizzate rispettando il medesimo schema, l’ingresso che cerchiamo dovrebbe trovarsi in alto, grossomodo a metà strada tra qui e la punta. Sarà meglio andare a cercarlo.»
   Così si erano messi in marcia, le due giovani davanti, sprizzando energia da tutti i pori, e i due uomini più dietro, distanziati di qualche metro, sbuffanti e sudati.

 
* * *

   Si inerpicarono per una ventina di minuti, muovendosi a zigzag per riuscire a vincere la difficoltà del pendio parecchio ripido e scosceso. Più salivano e più l’idea che quella fosse realmente una piramide era suffragata dal fatto che, a parte alcuni cumuli di terriccio sparsi qua e là, non si notassero speroni rocciosi o variazioni nella forma obliqua del terreno.
   «Buon Dio, ma chi può aver costruito questa piramide?» domandò don Mavro, arresosi all’evidenza, guardandosi attorno stranito.
   Indy, che camminava lentamente davanti a lui, gli occhi rivolti alle schiene di sua figlia e di Valerija che li avevano distanziati di parecchi metri, fece un sogghigno ironico.
   «Non credo che le piacerebbe saperlo…» commentò.
   «Perché?» chiese il prete.
   Indy pensò ad Atlantide e a tutte le cose che lui e Sophia avevano scoperto al riguardo, compreso il culto della Grande Madre che, poi, con varie e significative trasformazioni, era sopravvissuto nel mondo intero.
   «Diciamo che potrebbe mettere in crisi certe sue idee, padre» borbottò.
   Don Mavro non replicò e Jones gliene fu grato. Non aveva nessuna intenzione di cominciare una disputa teologica in cui, lo supponeva, il prete si sarebbe attestato con caparbietà sulle proprie posizioni. In quel momento, era molto meglio risparmiare il fato per continuare ad affrontare la difficile salita.
   Purtroppo, si stava rendendo conto di quanto fosse più complicato del previsto. Ogni volta che affondava il piede nel terreno faceva più fatica a rialzarlo per il passo successivo, e i dolori della schiena si stavano spandendo anche alle braccia. Aveva il fiatone e cominciava già a sentirsi spossato. Mai come in quel momento gli parvero remoti i tempi in cui poteva gettarsi con un paracadute e poi affrontare in piena notte l’arrampicata lungo un pendio molto più lungo di questo, prima di seguire un corridoio strettissimo che si inoltrava nella roccia e affrontare una violenta sparatoria. Ora avrebbe avuto soltanto voglia di mettersi a sedere in poltrona e riposare. A spronarlo a proseguire fu il pensiero della Fonte, che avrebbe potuto restituirgli tutto ciò che, adesso, era una semplice memoria.
   «Non pensarci» si disse, riferendosi ai dolori. «Se a una cosa non ci pensi, è come se non esistesse e fosse destinata all’oblio. Avanti così
   Dopo altri cinque minuti di cammino, decise comunque di fermarsi per riprendere fiato.
   Il prete, che più ancora di lui necessitava di una pausa, si arrestò al suo fianco, ansante e stanco: da una tasca del cappotto estrasse un fazzoletto e lo adoperò per asciugarsi il viso e la fronte coperti di sudore. Indy, invece, senza badare ai disagi fisici che pure lo avevano invaso in quantità – sapeva che l’unico sistema per resistere ai dolori della schiena e delle anche era fingere che non ci fossero, anche se poi ne avrebbe scontato le conseguenze più tardi e per i giorni successivi – fece scivolare lo sguardo lungo il versante della collina, mentre una fresca brezza gli accarezzava il volto.
   Si erano inerpicati per oltre centocinquanta metri, e da dove si trovavano adesso si godeva di un’ottima vista sul centro di Visoko attraversato dal fiume, che appariva grigio per via delle nuvole che coprivano il cielo. Oltre la cittadina, si scorgevano le altre due piramidi e, da quel punto di vista, si poteva apprezzarne molto bene la forma regolare e appuntita che pareva sfidare il cielo.
   «Le vede, padre?» domandò, indicandole. «La loro forma è inconfondibile e non lascia adito a dubbi.»
   «In effetti…» biascicò don Mavro, senza sbilanciarsi.
   Erano piramidi gigantesche, le più grandi che si fossero mai viste. Era la prima volta che poteva vederle nella luce del giorno, e mentre le osservava non riuscì a fare a meno di domandarsi come fosse possibile che nessuno si fosse mai reso conto della loro esistenza. L’unica cosa che gli venne in mente fu che la gente, pur avendole di continuo sotto gli occhi, si limitasse a ignorarle, esattamente come si comportava lui nei riguardi dei suoi disagi fisici: aveva scoperto da tantissimo tempo, ormai, che per l’essere umano è più semplice negare l’evidenza di qualcosa, piuttosto che accettare l’esistenza di ciò che appare scomodo e difficile da spiegare.
   In ogni caso, erano lì per un motivo ben preciso e non era certo il caso di perdersi in riflessioni filosofiche.
   «Katy!» chiamò ad alta voce, per farsi udire dalla figlia e da Valerija che, incuranti dei loro bisogni, stavano andando avanti imperterrite.
   Le ragazze si volsero a guardarlo.
   «Che c’è, Old J?» domandò sua figlia, usando la mano a cono come portavoce per farsi sentire meglio. «Sei già stanco? Vuoi aspettare qui?» Un sorrisetto le increspò le labbra. «Vuoi che vada a cercare una gru per imbragarti e riportarti al piano?»
   L’archeologo sbuffò, cercando di non badare all’ennesima dimostrazione di sfrontatezza da parte di Katy. Scosse la testa e urlò, di rimando: «Che stanco e stanco! Volevo soltanto farti notare che siamo più o meno a metà della piramide. Per il momento è inutile continuare a salire. Cominciamo a girarle attorno sui quattro lati e tenete gli occhi aperti, dovremmo trovare l’ingresso, qui nei paraggi!»
   Eccitate, le due ragazze iniziarono immediatamente a darsi da fare, mentre don Mavro parve a disagio.
   «La vedo turbato» constatò Indy, che non aveva nessuna fretta di mettersi all’opera. Che della ricerca si occupassero pure Katy e Valerija, se ci tenevano tanto. Si appoggiò meglio al bastone, usandolo come sostegno, e soggiunse: «È per via della piramide?»
   Il prete scosse il capo in segno di diniego.
   «No, non è per questo, professore» replicò, ripiegando accuratamente il suo fazzoletto e rimettendolo in tasca. «Solo che sto pensando agli uomini dell’OZNA.»
   Indy lo osservò accigliato, senza capire.
   «È da quando li ho incontrati a Venezia che non si sono più fatti vivi…» borbottò. La cosa non gli dispiaceva affatto.
   «Appunto» precisò don Mavro, teso. «E questo, in tutta sincerità, mi preoccupa. Con la rete di informatori di cui dispongono, sono certo che abbiano saputo che lei è arrivato a Spalato, eppure non hanno mosso un dito per venire a cercarla. Sa, non glielo avevamo detto per non farvi spaventare, ma per tutta la settimana lei e sua figlia siete stati tenuti d’occhio con discrezione da alcuni nostri agenti, pronti a intervenire per difendervi in caso di pericolo…»
   Jones sogghignò, assumendo un cipiglio sarcastico.
   «Molto cortese da parte vostra» replicò, con un cenno del capo. «Però vi assicuro che, tanto io quanto Katy, sappiamo cavarcela benissimo anche da soli.»
   Il prete fece un sorriso indulgente e conciliante.
   «Oh, ne sono sicuro» rispose. «La prudenza, comunque, non è mai troppa. Ci aspettavamo qualche incidente e, invece, niente di niente. Questo è strano: difficilmente gente come quelli dell’OZNA lasciano perdere, quando subiscono un torto. Il nostro timore, allora…» Si interruppe, muovendo piano la testa.
   «Allora?» lo esortò Indy. «Niente segreti tra di noi, padre.»
   «Be’, temo che stiano giocando con noi» ammise il sacerdote, dopo un’ultima esitazione. «Credo che vogliamo concederci un vantaggio solo per saltarci addosso al momento più opportuno.»
   L’archeologo rimuginò con attenzione su quelle parole. D’altronde, era esattamente in quella maniera che si era comportato Chlodochar, quattro decenni prima. Se era già caduto in trappola allora, non significava che non potesse accadere di nuovo. Non poteva non considerarla una possibilità. Era necessario tenerne conto, ovviamente.
   Puntò lo sguardo alla Yugo, parcheggiata ai piedi del colle. Da dove si trovavano loro, sembrava quasi un modellino miniaturizzato. Poi fece scivolare la vista lungo i viottoli polverosi, circondati dai campi incolti e da alberi le cui foglie rossicce cominciavano a cadere in terra. Non notò movimenti sospetti, niente di niente. L’unico essere vivente che vide, riconoscendolo a stento a causa della lontananza, fu un gatto grigio appostato immobile ai piedi di un tronco, sopra il quale, lo poté immaginare, doveva essersi posato un uccellino.
   «Per ora sembra tutto tranquillo» constatò, tornando a volgersi verso il prete. «Ma, in ogni caso, ha fatto bene a comunicarmi i suoi sospetti. Sarà bene tenere gli occhi aperti.»
   Don Mavro sorrise e parve voler replicare ancora qualcosa. La voce di Katy, stridula per la trepidazione, gli impedì di farlo.
   «Papà, corri!» gridò, da qualche punto più avanti, invisibile in mezzo agli alberi. «Fai in fretta, sbrigati! Forse abbiamo scoperto qualcosa!»

 
* * *

   Katy e Valerija, esortate dall’archeologo, cominciarono a darsi da fare con parecchio entusiasmo per rintracciare l’ingresso che le avrebbe condotte all’interno della misteriosa piramide. Pur avendo affrontato una lunga salita, ed essendo sporche e sudate, non si sentivano per niente affaticate, perché l’eccitazione di essere tanto vicine a una scoperta sensazionale bastava da sola a cancellare ogni altra sensazione. Come mosse da un’energia inesauribile, ripresero a camminare, cercando in ogni anfratto qualcosa che potesse servire per metterle sulla buona strada.
   Se per Katy, in fondo, affrontare i misteri del passato non era propriamente una novità, avendo già vissuto esperienze simili – eppure, ogni volta era come la prima, e non riusciva a non sentirsi come una bambina con un grosso pacco incartato tra le mani – per Valerija si trattava di qualcosa di completamente nuovo. L’emozione traspariva dai suoi occhi, che brillavano di felicità, e dalla frenesia con cui aiutava Katy a guardare dietro ogni cespuglio, sotto ogni mucchio di terra, oltre ogni tronco particolarmente contorto.
   «È fantastico!» trillò a un certo punto, eccitata, incapace di trattenere ancora il vulcano di emozioni che le ruggiva di dentro. «Per me piramidi e luoghi misteriosi potevano trovarsi soltanto in luoghi esotici, quelli di cui leggo nei libri che ho in biblioteca. Non ti immagini quante ore abbia trascorso a sfogliare quelle pagine, fantasticando chissà che cosa su viaggi, esplorazioni… Non mi sarei mai immaginata di poterne scoprire una proprio io, e a sole cinque o sei ore di macchina da casa mia!»
   Katy fece una risatina civettuola, rivolgendole un occhiolino.
   «Ti assicuro che ci avremmo messo molto di meno ad arrivare, se il tuo amico prete non fosse così prudente alla guida!» disse, ilare.
   Valerija le si avvicinò con movimenti lenti e lanciò un’occhiata tutto attorno, per accertarsi che fossero sole. Indy e don Mavro non erano in vista. L’abbracciò e le sussurrò in un orecchio: «E lo sai qual è la parte che mi piace di più, in tutto questo?»
   Katy lasciò che i loro corpi aderissero. Avvicinò il naso al collo di Valerija a aspirò il suo buon odore, che la rendeva inconfondibile. Immaginava già la risposta, ma voleva sentirsela dire da lei.
   «No» mormorò. «Qual è?»
   «Essere qui con te» rispose la ragazza, mentre le labbra di Katy si stendevano in un sorriso e il suo cuore si scioglieva.
   Si baciarono con passione. E fu proprio mentre cambiava posizione per poterla baciare ancora, che Katy notò qualcosa di insolito sul fianco della montagna.
   «Guarda!» esclamò, facendo un piccolo balzo per lo stupore.
   Tenendola per mano, la trascinò verso un anfratto a stento visibile oltre una macchia d’alberi. Proprio come le era parso di notare, lì c’era un’anomalia che contrastava con il resto della parete liscia della piramide. Un mucchio di terra, che doveva essersi accumulato attorno a una sporgenza quadrangolare.
   «Dici che è l’ingresso?» domandò Valerija, eccitata.
   «Lo scopriremo subito!» esclamò Katy, accalorata quanto lei.
   Si arrampicò in cima alla montagnola di terra e immerse le mani nel terriccio morbido, nero e profumato. Il terreno friabile e umido del sottobosco le restò intrappolato tra le dita, impastandosi e penetrandole sotto le unghie. Non ci badò e cominciò a smuoverlo a manate, gettandoselo alle spalle. Valerija la osservò per qualche secondo; poi, incapace di rimanere ferma troppo a lungo, corse a darle il proprio aiuto.
   Si misero di buona lena a scavare, ridendo e scherzando come due bambine sulla spiaggia a costruire un castello di sabbia. Di quando in quando le loro mani si sfioravano per caso, e allora sollevavano gli sguardi e si sorridevano.
   Nel volgere di qualche minuto, le due ragazze riuscirono a far emergere dal terreno una lunga trave di pietra perfettamente squadrata, che sembrava proprio la cornice superiore di un portale.
   Sporche ma soddisfatte, le due ragazze si scambiarono un’occhiata d’intesa.
   «L’abbiamo trovata!» esclamò Katy, contenta. Si sporse in avanti. «Ed è tutto merito tuo, perché se non ti fossi fermata per baciarmi, non l’avrei mai notata.»
   Valerija sorrise e accolse più che volentieri il bacio veloce che Katy le stampò sul volto macchiato di terriccio. Poi restò ferma, seduta a cavalcioni della trave, mentre l’amica, saltata al suolo, cominciava a chiamare suo padre e don Mavro perché venissero ad ammirare la loro scoperta.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Nelle antiche gallerie ***


   12 - Nelle antiche gallerie
 
   Furono necessarie quasi due ore di lavoro estenuante per riuscire a sgomberare completamente l’ingresso della piramide.
   Tutta la fatica fu sobbarcata da Katy e da Valerija, che si munirono di due pale militari pieghevoli estratte dai loro zaini e si misero all’opera di buona lena, desiderose di scoprire che cosa si celasse oltre quell’ammasso di terra che si era accumulato per secoli.
   Indy, dal canto suo, si limitò a non perderle di vista per un solo istante, abbaiando di continuo ordini e distribuendo consigli non richiesti, sempre appoggiato al suo bastone; di quando in quando, interrompeva la sua monotona sequela di comandi per lamentarsi delle ossa che gli facevano male o dei piedi che gli si stavano intorpidendo a causa della posizione in cui era costretto a rimanere fermo. Quando lo faceva, sua figlia alzava lo sguardo per rivolgergli delle occhiatacce fulminanti, ma senza commentare nulla.
   A don Mavro, che per qualche istante provò a prodigarsi anche lui nello scavo – maneggiando la pala con tale incapacità da provocare più danni che altro, visto che riuscì persino a far rovesciare la montagnola di terriccio appena spostato – fu invece caldamente consigliato di aspettare da parte senza fare nulla: così, andatosi a sedere sopra un tronco rovesciato, cominciò a leggere il suo breviario, da cui alzò lo sguardo di quando in quando per impartire qualche buona parola di incoraggiamento alle due lavoranti.
   Finalmente, però, l’ingresso della galleria fu libero. Ormai il sole si era abbassato sull’orizzonte e la sua luce dorata filtrava attraverso i tronchi dei faggi e delle querce che si inerpicavano sul versante. La temperatura, mite nelle prime ore del pomeriggio, cominciava già a raffreddarsi e dal suolo si alzava una leggera umidità.
   Katy lasciò andare la pala, disgustata da quella lunga sgobbata, e si appoggiò a un abete, distrutta. Valerija, sfinita quanto lei e forse ancora di più, non essendo abituata al lavoro manuale, si accoccolò ai suoi piedi, massaggiandosi le braccia indolenzite. Erano coperte di terra dalla testa ai piedi e puzzavano così tanto che sembrava improbabile che una sola doccia potesse riuscire a farle tornare pulite e profumate. Si erano tolte i giubbotti, durante lo scavo, e la canottiera di Katy e la camicia di Valerija erano così inzuppate di sudore da dare l’impressione che si fossero tuffate in un lago a fare il bagno vestite. Ora, per via della frescura, cominciavano già a rabbrividire.
   «Non vorrete riposarvi proprio adesso che inizia il divertimento!» le richiamò Indy, ilare, battendo un colpo sul terreno con il suo bastone. «Prendete esempio da me e da don Mavro, che siamo freschi e riposati come fiorellini.»
   Katy gli lanciò una lunga occhiata colma di veleno. «Old J, grazie al…»
   «Alt!» la interruppe suo padre, prima che potesse terminare la sua frase. «C’è qui un prete e non si dicono parolacce davanti agli uomini di Chiesa, ricordalo.»
   Don Mavro scosse il capo e borbottò che non importava. Katy, invece, trovò la forza per sorridere.
   «Ma sì, in fondo è stata una bella esperienza» dovette riconoscere. «Mi ha fatto ricordare i tempi in cui studiavo con il professor Noonan. Però non chiedermi di rifarlo un’altra volta. Mi sono laureata proprio per non scavare più. Questo è un compito da studenti, quindi alla prossima occasione ricordati che ce ne porteremo dietro un paio.»
   «Concordo su tutto» disse Valerija, smettendo di flettere le braccia. «Scavare nel terreno non è affatto come riordinare libri. E io che avevo il coraggio di lamentarmi se dovevo riordinare uno scaffale.»
   Porse la mano a Katy, che l’aiutò a rialzarsi e, fregandosene della sporcizia e del sudore che le copriva entrambe, l’abbracciò.
   «Non hai idea di quanto tu sia sexy, quando scavi» le sussurrò, appoggiando le labbra al suo orecchio. «E la terra nera conferisce ai tuoi capelli biondi quel qualcosa in più che mi attizza tutta.»
   Valerija rise, divertita. Don Mavro, a disagio, fece finta di non accorgersi di nulla. Indy, invece, dopo aver brontolato tra sé che lui, ai suoi tempi, sbancava intere montagne di terra senza un lamento, aveva cominciato a guardarsi attorno con attenzione, scrutando il terreno come se avesse notato qualcosa di interessante.
   La giovane Jones, che ormai iniziava ad avere molto freddo, riagguantò il suo giubbotto, che pendeva da un ramo, e lo infilò di nuovo, allacciandolo. Valerija, dopo aver provato inutilmente a liberare un poco i capelli dal terriccio, la imitò. Poi, tutti e quattro si avvicinarono all’ingresso della galleria.
   Era tetra e nera, non si vedeva niente dopo solo pochi metri; e, tuttavia, quel poco che poterono scorgere fu sufficiente ad accendere nel petto di tutti una comprensione nuova, un sentimento diverso. Era impossibile credere di poter restare indifferenti dinnanzi a un’opera che era stata costruita millenni prima da esseri umani il cui ricordo era andato perduto tra le polveri confuse del tempo. Eppure, il grande frutto della loro maestria sopravviveva ancora, testimone indelebile non soltanto del loro passaggio, bensì anche dei loro sogni, delle loro memorie, delle loro speranze. Ciò che erano stati quegli uomini si era dissolto, disperso e confuso nella cenere dei secoli; ma, contemporaneamente, la loro essenza viveva ancora in quelle pietre che avevano posato una sopra l’altra, in quelle gallerie che avevano scavato con mirabile maestria.
   «Guardate» mormorò Indy, con voce roca, posando la mano sopra una delle lastre che rivestivano il tunnel. «Queste pietre devono essere state scolpite altrove, per poi essere condotte qui e messe in opera per realizzare la galleria. Soltanto chi possedeva grandi conoscenze di ingegneria può aver fatto tutto questo lavoro. La costruzione è perfetta, tra una lastra e l’altra ci sarà uno spazio di un millimetro.»
   La bocca di Valerija formulò la medesima domanda che, qualche ora prima, don Mavro aveva rivolto a Indy.
   «Ma chi è stato a costruire la piramide?»
   Gli sguardi delle due ragazze e del sacerdote si concentrarono sull’archeologo, in cerca di risposte. Lui, però, le aveva soltanto in parte, e sapeva di non poterle rivelare alla leggera, perché per lo più si trattava di mere ipotesi, in certi casi molto vicine a una fantasia a cui nessuno avrebbe potuto prestare fede.
   Aveva visto e scoperte moltissime cose, nel corso della sua lunga vita – e chissà quante altre ne avrebbe scoperte ancora, se fosse riuscito a raggiungere la Fonte – ma non possedeva le prove per poter dimostrare alcunché. Anche adesso gli sarebbe parso sciocco svelare ciò che semplicemente supponeva riguardo a quelle piramidi, perché le incognite erano ancora troppe. Quelle a cui, tanti anni prima, era soggiunto insieme a Sophia Hapgood, erano soltanto teorie e nulla di più, riguardo alle quali lui non poteva affatto dirsi certo. Che quelle piramidi fossero davvero ricollegabili ad Atlantide poteva essere soltanto un’idea della sua collega, peraltro fuorviata da quella che era sempre stata la sua grande ossessione.
   «Una mia vecchia conoscenza credeva che queste piramidi fossero riconducibili a un’antica civiltà oggi scomparsa» si limitò a dire, soppesando ogni parola. «Una civiltà, lo sottolineo, di cui io e lei scoprimmo l’esistenza quasi mezzo secolo fa, anche se ormai non resta più niente per dimostrarlo. Probabilmente, questo era un luogo sacro, e quegli antichi uomini ritennero di dovervi costruire questi edifici.» Dardeggiò lo sguardo su tutti e tre. «Non ho comunque uno straccio di prova per sostenere ciò che sto dicendo. Sono soltanto idee vaghe. Sarebbe necessario uno scavo archeologico lungo e approfondito, guidato da studiosi provenienti da tutto il mondo e finanziato dall’UNESCO, per svelare tutti i segreti che qui sono celati.»
   Don Mavro si lasciò sfuggire un piccolo lamento doloroso.
   «Una vana speranza, professore» disse, con tono rassegnato. «La Jugoslavia, lei lo sa molto bene, è una bomba con la miccia innescata, pronta a esplodere in ogni momento. Le abbiamo parlato dei sogni di indipendenza delle repubbliche e della tenacia con cui il governo centrale non vuole lasciare la presa. Temo che, negli anni futuri, uno scavo archeologico sarà l’ultima delle preoccupazioni dell’ONU, da queste parti.»
   Indy annuì gravemente. Nel corso della sua lunga vita, aveva vissuto troppe esperienze e visto troppe cose per non saper cogliere i segnali preoccupanti di ciò che si stava preparando tutto attorno a lui. Qualcosa di molto grosso, che avrebbe valicato parecchi confini e coinvolto persone che, in apparenza, non c’entravano nulla.
   I Balcani, attraversati dai venti indipendentisti e dalle rivendicazioni politiche e religiose, si stavano destabilizzando con crescente rapidità, come del resto stava accadendo anche in altre parti del mondo, sia di quello islamico che di quello comunista, quando addirittura le due realtà non coincidevano: in Iran, dove lo Scià era stato abbattuto ed era stata instaurata una teocrazia, quasi subito costretta a combattere contro l’Iraq di Saddam Hussein; in Afghanistan, in cui i sovietici stavano sostenendo i socialisti locali in una guerra estenuante contro i guerriglieri mujaheddin, finanziati dall’Arabia Saudita, dal Pakistan e dagli Stati Uniti; in Polonia, dove – anche grazie al sostegno e all’incitamento di papa Giovanni Paolo II – stavano sorgendo sempre più malumori nei confronti del regime comunista… tutto questo, lo sapeva bene, avrebbe prima o poi condotto a qualcosa di molto grosso, anche se ancora non avrebbe saputo dire che cosa. Poteva soltanto sperare – dato che di pregare non era mai stato davvero capace – che non fossero i prodromi di una nuova guerra combattuta su scala globale. L’idea di una terza guerra mondiale non gli andava affatto a genio.
   Per il momento, comunque, non aveva senso arrovellarsi troppo il cervello sulle questioni politiche, tanto più che aveva smesso di partecipare attivamente a certi affari da molti anni, sebbene si fosse sempre mantenuto attento e aggiornato su tutto.
   «Sia quel che sia» disse, in tono sbrigativo. «Noi dobbiamo entrare. Barbarigo potrebbe aver nascosto proprio qui la sua mappa, e c’è un indizio che mi fa ben sperare.»
   Katy lo guardò con curiosità.
   «Quale sarebbe, papà?» domandò.
   «Quando io e il mio amico Mac entrammo nell’altra piramide, trovammo l’ingresso murato, e non fu semplice abbatterlo. Questa galleria, invece, è già stata aperta, e poco fa ho notato frammenti di roccia sparsi qua attorno, mezzo sepolti. Significa che, in tempi recenti – intendo, recenti rispetto all’età effettiva della piramide – qualcuno è stato qui. E, per quello che ne sappiamo, soltanto un uomo può esserci arrivato.»
   «Antonio Barbarigo» mormorò Valerija, incantata.
   Tutti gli sguardi si volsero un’altra volta verso il tunnel, come se potessero svelarne gli arcani segreti semplicemente guardando. Quel luogo doveva custodire chissà quali misteri incredibili. Il solo pensiero di ciò che avrebbero potuto scoprire là dentro dava il batticuore.
   Fu Indy, pratico come sempre, a interrompere la magia e a riportare tutti alla realtà.
   «Non ci resta che entrare» disse. «Prendete ciascuno una torcia dallo zaino e seguitemi. E attenti a dove mettete i piedi, mi raccomando.»

 
* * *

   In un certo senso, fu come essere tornato ad avere quarantacinque anni. All’epoca gli erano sembrati già tanti, persino troppi, mentre ora gli sembrava quasi una specie di seconda adolescenza o poco di più. E, dentro di sé, la stava rivivendo. Non era più il vecchio e acciaccato archeologo in pensione, che accompagnava sua figlia, insieme a un prete e a una bibliotecaria, in una nuova avventura che li avrebbe condotti chissà dove. Era di nuovo l’agente segreto dell’OSS, invece, in missione segreta insieme a George McHale, per fermare i nazisti prima che combinassero un danno irreparabile o si impadronissero di qualcosa di pericoloso che avrebbe cambiato in peggio le sorti della guerra.
   Perlomeno, era questa la sensazione che gli restituiva lo star camminando lungo quel tunnel, forse meno angusto e meno ripido, e allo stesso modo tanto simile a quello già percorso molti anni prima all’interno dell’altra piramide.
   Un discorso erano però i ricordi, tutt’altro la realtà. Nella realtà di anni ne aveva quaranta di più ed era costretto a camminare appoggiandosi a un bastone da trekking per non rischiare di perdere l’equilibrio a causa della schiena irrigidita, delle anche doloranti, dell’ernia che non gli dava tregua, della sciatalgia che minacciava con maligna soddisfazione di acutizzarsi da un momento all’altro. Nondimeno, poteva comunque sentirsi orgoglioso di ciò che stava facendo, perché la maggior parte dei suoi coetanei non sarebbe nemmeno riuscita ad alzarsi da una poltrona per spegnere la televisione. Altro che arrampicarsi lungo il fianco della piramide, figurarsi poi penetrarvi all’interno!
   Indy si guardava attorno con attenzione, cercando tracce del passaggio di Barbarigo. I potenti fasci proiettati dalle lampade a faro di cui si erano munite le ragazze, uniti alla luce più fioca ma comunque sufficiente della torcia Duracell tascabile che aveva in mano lui, contribuivano a illuminare quasi a giorno l’intero ambiente. Poteva così notare particolari che, quando aveva visitato l’altra piramide, costretto più che altro ad ascoltare i brontolii del vecchio Mac, non era stato in grado di riconoscere.
   Qua e là, lungo le pareti, erano stati tracciati dei graffiti. Parole in una lingua sconosciuta, sebbene certi segni gli facessero in qualche maniera rammentare la lingua illirica, anche se con numerose varianti: probabilmente, si trattava di un idioma indoeuropeo sconosciuto che poi, evolvendosi, aveva proprio portato alla nascita di quella lingua. Però, quelle parole non avevano nulla a che fare con l’alfabeto di Atlantide, che lui stesso aveva avuto davanti agli occhi sufficientemente a lungo da non scordarselo più. Quindi, era anche possibile che Sophia, con le sue valutazioni, si fosse sbagliata. In ogni caso, non sarebbe certo stato lui a dirglielo, perché sapeva quanto sapesse essere suscettibile, su certi argomenti. Non aveva alcuna intenzione di affrontare la sua vecchia e coriacea collega in una disputa di stampo storico e scientifico.
   Ovviamente, non si poteva nemmeno escludere a priori che fossero davvero stati uomini provenienti da Atlantide a erigere quelle piramidi, ma soltanto dopo aver modificato le proprie tradizioni, nel corso di un periodo più o meno lungo; oppure, e questa era un’altra ipotesi da non scartare, quei graffiti potevano essere opera di gente arrivata dopo, che aveva in un certo senso ereditato quelle costruzioni.
   Oltre alle parole, ogni tanto faceva capolino un disegno. Figure appena stilizzate, rozze, che però dovevano nascondere un chiaro significato. Tali immagini, tuttavia, lo rafforzavano nella convinzione che, a tracciare segni sulle pareti, fossero stati uomini arrivati molto dopo l’erezione delle piramidi: non si poteva pensare, infatti, che gente tanto abile nell’innalzare immensi e perfetti monumenti, disegnasse e scrivesse in una maniera così rozza e primitiva.
   Tutte queste elucubrazioni si sommavano nel cervello di Indiana Jones, variando di momento in momento mentre camminava e osservava nuovi dettagli interessanti. La sua mente galoppava, la sua irrefrenabile curiosità verso tutto ciò che riguardava il mondo antico non era riuscita a farsi logorare dall’età come aveva fatto il suo fisico. Se, in apparenza, era invecchiato, interiormente gli piaceva pensare di essere rimasto lo stesso di sempre. Forse, anche se non se ne rendeva conto per davvero, quello non era un semplice pensiero, bensì la realtà delle cose.
   Gli sarebbe tanto piaciuto fermarsi a esaminare ogni traccia, ogni lettera, tentando una prima decifrazione. Chissà quali storie fantastiche sarebbero potute scaturire da quelle parole vecchie di migliaia di anni. E dai disegni si sarebbe potuto ricavare anche altro, si sarebbe forse potuto imbattere in incredibili episodi mitologici mai narrati da voce umana, perlomeno non negli ultimi millenni… un tesoro preziosissimo, fatto di parole, si stendeva tutto attorno a loro, chiedendo soltanto di essere esaminato e riportato in vita.
   Sapeva, però, di non potersi permettere di perdere troppo tempo: don Mavro gli aveva messo una pulce nell’orecchio, accennando al fatto che gli uomini dell’OZNA gli sarebbero potuti piombare addosso in ogni momento, e preferiva quindi sbrigarsela in fretta, prima di incorrere in guai troppo grossi. Se fosse stato solo per lui, se ne sarebbe anche potuto fregare: non aveva mai avuto timore di affrontare qualche bestione, e ne aveva ancora meno adesso che, diventato così vecchio, il massimo che gli sarebbe potuto capitare sarebbe stato di perdere qualcuno di quei pochi anni che ancora gli restavano davanti. Però c’erano Katy e Valerija, a cui pensare: loro erano giovani, erano il futuro, e non le avrebbe potute esporre consapevolmente a un pericolo.
   Sentì qualcosa di viscido sotto la suola delle scarpe, che lo distrasse da tutte le sue riflessioni. Puntò il fascio di luce sul terreno e una smorfia di disgusto gli comparve sul volto. L’intero impiantito brulicava di vermi putridi e biancastri, che si contorcevano in una massa deforme, umida e scivolosa.
   «Che schifo!» commentò Valerija, fermandosi al suo fianco.
   «Sarà sufficiente camminare senza guardare in terra» le rammentò Indy, con un sogghigno. Si voltò verso il prete. «Per lei è un problema, padre?»
   «Se il Signore ci riserva una prova, è nostro dovere superarla» constatò don Mavro, con una buona dose di stoicismo.
   L’archeologo annuì e si rimise in cammino, schiacciando senza troppi problemi o rimpianti quegli abitanti del sottosuolo. Sembrava quasi di camminare sopra bignè da cui, ogni volta che abbassava un piede, schizzava della crema appiccicosa. Cercò di non pensarci, perché altrimenti non sarebbe mai più stato capace di mangiare un solo bignè.
   A ogni passo, produceva un rumore disgustoso. Dopo aver percorso soltanto un paio di metri, tuttavia, si rese conto che Katy non era con loro. Si girò, per vedere dove fosse finita, e la vide immobile nel punto in cui cominciava la distesa di vermi.
   «Be’, che fai lì impalata?» brontolò, facendo echeggiare la voce lungo il tunnel. «Vieni o no?»
   Katy, che aveva le braccia strette lungo i fianchi, scosse in fretta la testa, rimanendo muta. Senza capire, Indy la illuminò meglio, e vide che aveva una smorfia terrorizzata disegnata sulla faccia.
   «Insomma, che accidenti ti prende?» sbottò, tornando verso di lei. L’ombra fugace di un pensiero ridicolo gli attraversò la mente. «Non avrai mica paura di qualche lombrico!» esclamò.
   Sua figlia si morse varie volte le labbra, prima di riuscire a proferire qualche parola.
   «Questi non sono lombrichi!» strillò, la voce così acuta da far tremare i timpani. «Questa è una gelatina schifosa!»
   «Quante storie, per due vermetti!» borbottò Indy.
   Lanciò uno sguardo a Valerija e a don Mavro, che si erano fermati ad aspettarli e li stavano guardando.
   «Su, forza, non perdiamo tempo!» ordinò secco, facendole cenno di muoversi. «Non vorrai mica renderti ridicola, spero!»
   Ma la ragazza continuò a restare ferma, limitandosi a scuotere in fretta la testa, gli occhi serrati per non vedere, le braccia strette ai fianchi quasi che temesse di poter sfiorare uno di quegli affari ripugnanti soltanto stendendo per sbaglio un dito.
   «Insomma, Katy, non fare la bambina…» grugnì l’archeologo, spazientito. «Prendi esempio da tuo padre, che non ha mai avuto paura di nulla!»
   «Io i piedi in quella poltiglia putrida non ce li metto!» gridò lei, nauseata.
   Valerija si era avvicinata e la stava guardando con aria intenerita.
   «Su, Katy, dammi la mano» le sussurrò, in tono gentile. «Guarda me e non pensare ad altro.»
   La giovane archeologa aprì per un istante gli occhi e parve soppesare quella proposta. Poi, però, il suo sguardo cadde di nuovo sulla massa bianchiccia e mobile dei vermi e tornò a chiuderli di nuovo. Scosse ancora la testa.
   «No, no, ancora no!» urlò.
   Indy sbuffò. Chi avrebbe mai creduto che sua figlia fosse così paurosa nei confronti di qualche innocua bestiola? Proprio come suo padre, che aveva sempre avuto un folle terrore dei topi, o come Junior, che non poteva nemmeno sentire nominare la parola “scorpione” senza fare un salto per l’orrore. Era proprio una seccatura quando si doveva aver a che fare con gente che si lasciava prendere dal panico davanti a qualche piccola e innocente creaturina della natura. Non come lui, che non aveva mai avuto timore di nulla. A parte qualche serpente, magari. Ma i serpenti erano una paura giustificabile e razionale, al contrario delle loro. Per fortuna che anche alla peggiore delle seccature si poteva trovare un rimedio.
   Infilata la torcia in tasca e passatosi il bastone sotto il braccio sinistro, passò il destro attorno alla vita di Katy e, sollevandola come se fosse stato un sacco di patate, se la caricò sulla spalla. La ragazza strepitò e cercò di ribellarsi a quella mossa imbarazzante, ma suo padre non mollò la presa e la tenne stretta.
   «Papà, mettimi giù subito!» gridò, tempestandogli di pugni la schiena. «Ora!»
   Senza replicare, Indy mosse alcuni passi barcollanti sopra la distesa verminosa. Anche se sua figlia era quasi un fuscello, bassa e magra com’era, avvertì dolori ovunque, ma non ci badò. Per fortuna aveva in tasca una doppia razione di analgesici da ingurgitare al più presto.
   «Se vuoi ti metto giù ora!» propose con soddisfatta ferocia, quando i vermi li ebbero circondati da ogni lato.
   Katy singhiozzò qualcosa di incomprensibile e mormorò un’imprecazione, ma almeno smise di agitarsi e se ne stette quieta in quella posizione scomoda e umiliante.
   «Bene!» grugnì Indy. «Adesso, se abbiamo finito di perdere tempo con i capricci, direi di darci una mossa!»
   Si incamminò di nuovo, con passo un po’ insicuro, affiancato da don Mavro. Valerija, invece, lo seguì a breve distanza, sorridendo in maniera incoraggiante a Katy, che cercava di non fare troppo caso ai vermi che coprivano il terreno.

 
* * *

   «Sono entrati qui dentro» disse l’uomo con il giubbotto di jeans, fermandosi davanti all’ingresso della galleria e osservando brevemente la terra smossa di recente. Era alto almeno due metri, aveva braccia che sembrava che non avessero fatto altro che sollevare pesi per tutta la vita e, in mezzo al cranio rasato, portava una cresta da moicano.
   Si voltò a guardare gli altri che lo avevano accompagnato, una decina in tutto. Erano tutti energumeni robusti e tarchiati, abituati a menare le mani e a sostenere lotte di vario genere. Alcuni di loro erano armati con AK-47 di fabbricazione russa, mentre altri avevano le mani libere, sebbene sotto i giubbotti si notassero dei rigonfiamenti che denotavano la presenza di armi.
   «Che cosa vuol fare, professor Pavkov?» disse il bestione con voce profonda e gutturale, rivolgendosi a un uomo che, al contrario degli altri, non aveva affatto un’aria manesca.
   L’archeologo era uomo di media statura, piuttosto magro, sebbene una leggera adiposità gli facesse tendere sul davanti il lungo cappotto verde, che gli arrivava fino alle ginocchia. Si attorcigliò i baffi con aria pensosa.
   «Io mi occupo delle ricerche storiche, sergente Popovic» replicò, «mentre le altre decisioni le lascio prendere a lei.»
   Sul volto del sergente comparve un sorriso malefico e la sua mano corse ad accarezzare la pistola che teneva infilata nella cintura.
   «Sta bene, professore» disse, con tono sadico. «Come al solito lei terrà le mani pulite mentre noi faremo il lavoro sporco. Le assicuro che, per me e per i miei uomini, è sempre un vero divertimento.»
   L’ombra di uno scrupolo comparve sul volto dell’archeologo.
   «Si tratta di un vecchio, un prete e due ragazze» gli rammentò. «Non c’è bisogno di essere troppo violenti.»
   Il viso di Popovic fu trasfigurato dall’odio.
   «Un vecchio che, a Venezia, ha ucciso uno dei miei agenti e ne ha conciati male altri tre!» disse, saettando ferocia dallo sguardo. «Un prete che, in combutta con altri baciapile, sta cercando di destabilizzare lo stato! E io non dovrei essere violento con gente simile?!» Il suo tono si abbassò, velato da una nota melliflua e spaventosa. «Ho già in mente che cosa farne, di loro…»
   Il professor Pavkov scosse il capo e allargò le braccia.
   «Con i due uomini faccia come crede sia meglio, sergente» disse. «Soltanto si ricordi che, una delle due ragazze, deve avere informazioni fondamentali per le nostre ricerche. Quelle le voglio entrambe vive. Mi occorre che parlino.»
   Sul volto del sergente Popovic, l’odio cedette il posto a una ghigno beffardo e colmo di cupi presagi.
   «Oh, per quelle due sgualdrine non si preoccupi» sibilò. «Le prenderemo vive e intatte, e poi ci occuperemo noi di costringerle a rivelare ogni singola cosa che ci sia nelle loro testoline. Ci imploreranno, di far loro tutte le domande che vorrà.»
   Detto questo, indirizzò un cenno imperioso ai suoi uomini e, tutti insieme, si addentarono nella galleria.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** La mappa ***


   13 - La mappa
 
   La distesa di vermi si interruppe dopo qualche decina di metri, lasciando di nuovo intravedere il pavimento di pietra perfettamente levigata e screziata di umidità. Indy, che ormai cominciava a perdere sensibilità alle articolazioni delle braccia, posò in terra la figlia, con un sospiro di sollievo. Katy mugugnò un borbottio, facendo capire che non ci sarebbe stato alcun bisogno di trasportarla a quel modo; eppure, non mancò di gettare occhiate disgustate tutto attorno per accertarsi che quella massa putrescente fosse rimasta dietro di loro.
   «D’accordo» grugnì Indy, guardandola. «Vorrà dire che, quando torneremo indietro, te la farai tutta a piedi.»
   Katy inorridì alla sola prospettiva, ma Valerija le venne subito in aiuto.
   «Non ti preoccupare, tesoro, se avrai paura ci sarà io qui» disse, facendole una carezza sulla guancia. «Se servirà, ti porterò in braccio…»
   «Sì, sì, come no» brontolò Indy, ironico. «Voglio proprio vedervi.»
   La figlia gli lanciò uno sguardo che si sarebbe potuto credere capace di incenerire all’istante.
   «Per tua norma e regola, Old J, Valerija conosce già alla perfezione il mio peso» sottolineò, piccata. «Avresti dovuto vedere che razza di numeri da contorsioniste, che abbiamo fatto insieme!»
   Il vecchio archeologo alzò gli occhi al cielo e non commentò nulla, voltandosi dall’altra parte. Don Mavro si fece un veloce segno della croce.
   Ripresero ad avanzare. Ormai dovevano trovarsi molto vicino al cuore della piramide, dove Jones sperava di trovare una sala simile a quella in cui era avvenuto il suo ultimo scontro mortale con Chlodochar, sebbene immaginasse che sarebbe stata più piccola, proporzionata al resto della struttura.
   A volte il ricordo della morte atroce di quel vecchio rivale tornava ancora a fluttuargli davanti agli occhi. In certe occasioni si domandava se, per caso, non sarebbe stato possibile salvarlo, anziché riservargli quell’ultimo colpo di grazia. La cosa peggiore di tutte, però, era stato dover dare alla sorella di Lothar, Helga, che prestava servizio per l’intelligence britannica, la notizia della dipartita del fratello. Era stato lui stesso ad assumersene l’incarico: in fondo era la vedova di un suo grande amico e, anche se brevemente, avevano avuto una relazione; in quel momento, era proprio Indiana Jones la persona più vicina che le fosse rimasta.
   La donna, impassibile nella sua fierezza teutonica, non aveva battuto ciglio quando aveva ascoltato le sue parole, eppure Indy era stato più che sicuro di aver visto un dolore molto profondo nei suoi occhi: quella guerra, che già le aveva portato via il marito, ora si era presa anche suo fratello, che aveva sempre combattuto sul fronte opposto al suo ma che, perlomeno, fino a quel giorno era stato vivo. Non le era rimasto nessuno, al mondo.
   Forse era stato anche per quel motivo che, meno di un mese più tardi, aveva accettato senza esitazione di prendere parte a una missione rischiosissima, infiltrandosi in un comando tedesco per cercare di carpire alcune informazioni. Da quello che era stato in seguito riferito, Helga era stata arrestata, riconosciuta come spia e per questo condannata alla fucilazione, che era stata eseguita senza nessun indugio. L’archeologo non era mai riuscito a togliersi dalla testa che lei lo avesse fatto apposta a farsi scoprire, desiderando soltanto di mettere fine alla svelta a un’esistenza ormai divenuta insipida e priva di prospettive future.
   Quando ripensava a tutte le persone che aveva conosciuto in vita sua e che ora non c’erano più, Indy si sentiva attanagliare da un’angoscia profonda, che gli mordeva i visceri e gli risaliva fino al cervello, offuscandolo e impedendogli qualsiasi altri pensiero.
   Era diventato vecchio, più anziano del suo stesso padre, ma il tributo versato per vivere tanto a lungo si era rivelato molto più salato del previsto: aveva dovuto dire addio a moltissimi uomini e donne che gli erano stati cari, era stato costretto ad assistere a guerre, catastrofi, sciagure, aveva visto cose inimmaginabili. Certo, c’erano anche stati i momenti felici, moltissimi, che però sembravano trascorsi troppo in fretta.
   Tuttavia, non doveva lasciarsi sopraffare da quella brutta sensazione. Anche il presente era pieno di vita, non era soltanto un vasto pianoro popolato da ricordi lontani che sbiadivano a poco a poco.
   C’era Marion, che invecchiava felicemente al suo fianco, senza curarsi degli anni che passavano e rimanendo il solito vulcano in piena eruzione di sempre. C’erano i loro figli e i nipotini che erano la sua gioia. E poi c’erano ancora Sallah e Shorty, i migliori amici che avesse mai avuto… la vita non aveva ancora chiuso definitivamente i conti, con lui. E, se fosse riuscito a raggiungere la Fonte, l’ultimo traguardo sarebbe magari stato rimandato a un’altra data, più lontana… anche se questo, se ne rese conto solo adesso, avrebbe di sicuro significato non solo nuove gioie, bensì nuovi lutti, nuovi dolori…
   Scosse il capo. Non voleva pensarci, adesso. Lo avrebbe fatto al momento opportuno. Eppure quel dubbio che gli si era riversato addosso all’improvviso non sembrava intenzionato a volersi togliere di mezzo. Non riusciva a non domandarsi se, andando a bere alla Fonte, stesse davvero compiendo la scelta giusta.
   A distrarlo fu la vista inattesa di una porta di legno, che chiudeva l’estremità della galleria.
   «Guarda, papà!» esclamò Katy, indicando la serratura della porta.
   Indy la esaminò con attenzione. Era una grossa serratura di metallo arrugginito, vecchia di qualche centinaio di anni. Le assi del portone sembravano di legno di quercia, probabilmente ricavato dagli alberi che avevano ricoperto la piramide. Nel mezzo della porta erano state incise due lettere: A B.
   «Antonio Barbarigo…» mormorò Indy, toccando quelle due lettere. «Lo abbiamo trovato. Questo è il posto in cui nascose la mappa.»
   Don Mavro tastò la maniglia, ma era chiusa a chiave.
   «Come facciamo ad aprirla?» domandò, con tono scettico. «Mi sembra un po’ troppo pesante per poterla abbattere a spallate. E io, purtroppo, ho un certo dolorino che mi impedirebbe di riuscirci…»
   Indy fu d’accordo, soprattutto perché lui, di dolorini, ne aveva ben più di uno. Cominciò a pensare a un modo per riuscire a far scattare la vecchia e resistente serratura, sfregandosi il mento con aria meditabonda. A interrompere le sue elucubrazioni intervenne Katy.
   «Ci penso io» disse, passando a don Mavro la sua torcia perché la reggesse. Poi portò una mano al collo e cominciò a fare la cernita delle sue numerosissime collanine. «Ho una certa esperienza, nell’aprire le porte chiuse a chiave.»
   Valerija sorrise compiaciuta, mentre suo padre si girò di scatto a guardarla.
   «Cosa?!» sbottò, cadendo dalle nuvole. «E quando l’avresti acquisita, questa bella esperienza?!»
   Katy si strinse nelle spalle. Aveva trovato ciò che stava cercando: una specie di collanina costituita da fermagli per fogli incastrati l’uno dentro l’altro. Se la tolse dal collo e ne staccò una, prima di richiuderla e indossarla nuovamente.
   «A tredici, quattordici anni» disse con tono distratto, mentre allungava la graffetta. «Quando tu e la mamma mi mettevate in castigo in camera…» Gli lanciò un’occhiata tagliente. «Non avrai mica pensato che me ne restassi chiusa là dentro a studiare, vero?! C’erano i miei amici, in strada!»
   Si avvicinò alla serratura e, dopo aver guardato per un istante nella toppa, vi inserì la graffetta, che cominciò a muovere su e giù con movimenti a volte secchi, altre lievi.
   «Incredibile, ho allevato una scassinatrice!» borbottò Indy, infilando in tasca la mano libera. «E dimmi, sei anche stata a svaligiare qualche appartamento, magari?!»
   «Finiscila, Old J!» sbottò. «Non sono mica una malvivente!» Il suo tono si fece candido come la neve. «E poi, perché mai sprecare tempo e fatica andando a rubare in casa d’altri, quando sapevo benissimo dove quel gonzo di Abner teneva i suoi risparmi? Un giorno mi ha scoperta, però, e allora abbiamo fatto a botte perché i soldi ormai me li ero presi e mica volevo ridarglieli… insomma, io sono la sorella maggiore, avevo i miei sacrosanti diritti, no…? E siccome stavo vincendo io, dato che gli stavo prendendo a ginocchiate le palle per costringerlo a cedere, mi ha morso una tetta… sleale fino in fondo… un male cane che non ti dico… ho avuto i segni dei suoi denti per un mese… e da quel giorno ha cambiato nascondiglio e non sono più stata in grado di scoprirlo…» Si interruppe, concentrata sul lavoro, la lingua tra i denti. Infine, soggiunse: «Dico soltanto che, nella vita, bisogna imparare a fare un po’ di tutto!»
   «C’è tutto e tutto!» grufolò Jones. «Aprire una porta chiusa a chiave con una graffetta… intollerabile! Ai miei tempi ci si andava pesanti prendendole a calci e a spallate!»
   «Ah, bei tempi davvero…» commentò Katy, ironica. «Ora, per piacere, stattene un po’ zitto e lasciami lavorare, se continui a lamentarti non riesco a concentrarmi!»
   L’archeologo parve sul punto di voler replicare ancora qualcosa, ma sottosotto sorrise nell’apprendere una volta di più quanto sua figlia gli assomigliasse. Quindi, senza aggiungere altro, restò a guardarla mentre si dava da fare, segretamente orgoglioso della sua bambina.

 
* * *

   «Oh, che cos’è questa schifezza?» si lamentò uno degli uomini dell’OZNA, sollevando lo scarpone dalla suola chiodata per vedere che cosa avesse pestato.
   Tutte le luci furono puntate contro la massa brulicante dei vermi e, qua e là, si levarono dei versi disgustati da quella visione. Il sergente Popovic lanciò ai suoi uomini uno sguardo iroso.
   «Tenete la voce bassa!» ordinò, in un tono perentorio che non ammetteva repliche. «Volete farci scoprire? E poi, da quando siete diventati delle femminucce che hanno paura degli insetti?»
   Uno degli uomini si fece avanti, sfidandolo con un sguardo beffardo e insolente.
   «Io vengo pagato solo per interrogare la gente! Nessuno mi ha mai parlato di dovermi mettere a fare lo scalatore o di dover attraversare una distesa di…»
   Il pugno di Popovic lo colse all’improvviso in mezzo al viso, gettandolo all’indietro con violenza. Prima che l’uomo avesse avuto il tempo anche solo per capire che cosa fosse accaduto, il sergente gli fu addosso e, afferratolo stretto con le sue grosse mani, gli premette il viso sanguinante contro la massa dei vermi, tenendogli un ginocchio piantato contro la schiena.
   «Voi venite pagati soltanto per obbedire a quello che vi viene ordinato!» sibilò. «E gli ordini non si discutono! Specialmente quando sono io a darli!»
   L’agente cercò di ribellarsi, puntellandosi sulle braccia per rialzarsi, ma Popovic lo tenne saldamente bloccato contro il terreno, il naso e la bocca affondati nella disgustosa gelatina bianchiccia.
   «Sono stato chiaro?!» grugnì, fiammeggiando lo sguardo in direzione di tutti gli altri. Molte teste si abbassarono, evitando di guardarlo.
   «E tu, Garmak?!» sibilò all’orecchio dell’uomo che teneva immobilizzato. «Mi hai compreso, tu?»
   Quello stava ormai annaspando, soffocato dai vermi che gli stavano entrando in bocca. Fece uno strano movimento, come se stesse annuendo. Popovic lo trattenne ancora un attimo, poi lo lasciò andare. L’agente tossì e sputò, liberandosi la bocca e trattenendo a stento i conati.
   Il sergente Popovic estrasse un lungo e affilato coltello militare dalla lama d’acciaio che teneva infilato nella cintura e glielo mostrò.
   «La prossima volta che metterai ancora in discussione i miei ordini, ti sbudellerò e ti costringerò a mangiare il tuo intestino» lo ammonì, con un tono fin troppo sincero. Guardò tutti gli altri. «E lo stesso vale per voi. Ora muovetevi, in silenzio!»
   Rinfoderato il pugnale, si incamminò di nuovo lungo la galleria, subito seguito dai suoi uomini. Garmak si rialzò a fatica, pulì sommariamente con la manica il sangue e la sozzura che gli avevano imbrattato il viso, e si affrettò a sua volta dietro a tutti gli altri.

 
* * *

   Con uno scatto sonoro, la serratura cedette e Katy poté volgersi con aria trionfale verso il suo piccolo pubblico.
   «Ecco fatto» disse, infilando la graffetta nella tasca posteriore dei jeans e prodigandosi in un piccolo inchino. «Sono o non sono stata brava?»
   «Sei stata fenomenale» replicò Valerija, dandole un buffetto sulla guancia.
   «Sì, sì» tagliò corto Indy, oltrepassandole. «Ora però state indietro e lasciate fare ai professionisti. Qui si rischia la pelle, cosa credete, di essere al Luna Park?»
   A nessuno sfuggì il suo tono sbrigativo e lievemente irritato. Katy non commentò, ma dentro di sé esultò: al vecchio non piaceva essere surclassato, neppure da sua figlia. Quando appariva tanto brusco era perché si rendeva conto che qualcuno aveva fatto meglio di quanto avrebbe potuto fare lui. E questo, per lei, era un indiretto riconoscimento della sua bravura.
   «Potrebbe anche dire grazie a sua figlia, professor Jones» intervenne invece don Mavro, il tono come sempre pacato ma fermo, sorprendendo tutti. «Direi che ha compiuto un ottimo lavoro.»
   Jones si voltò verso di lui con un sorriso sarcastico dipinto in viso.
   «Ma certo che ha fatto un ottimo lavoro» riconobbe. La sua voce si caricò di falsa modestia. «Non potrebbe essere altrimenti, visto che ha avuto il migliore dei maestri.»
   Katy si mordicchiò il labbro, prima di replicare, con tono pungente: «È vero: il professor Noonan mi ha insegnato molto bene.»
   Punto sul vivo, colpito e affondato, a Indy non restò che voltare di nuovo le spalle a tutti e avvicinarsi con un po’ troppa premura alla porta aperta.
   La osservò per alcuni secondi, meditabondo.
   «Che succede, Old J?» chiese Katy. «Non si apre?» Esitò, prima di soggiungere, il tono talmente sarcastico da risultare poco meno che velenoso: «Ti serve una mano per abbassare la maniglia?»
   «Non è per questo» replicò suo padre, guardingo, cercando di evitare di lasciarsi intrappolare dalle sue prese in giro. «Non vorrei che Barbarigo avesse disposto qualche trappola per tenere al sicuro la sua mappa, nella remota eventualità che qualcuno arrivasse fino a qui.»
   «Sei tu il professionista, a noi semplici mortali non resta che vederti all’opera e imparare almeno un briciolo della tua sconfinata arte» lo canzonò ancora la ragazza.
   Sentendosi oltremodo oltraggiato da quell’ennesima insolenza, Indy decise di procedere gettando al vento qualsiasi precauzione. Figurarsi, tanto, se quel vecchio mercante poteva avere disposto un trabocchetto mortale contro nemici immaginari.
   Spinse la porta e ai loro occhi giunse un cupo e secco click.
   «Che diavolo è stato?!» grugnì Indy, guardando nel buio.
   Per un istante non vide altro che oscurità, poi nel nero intravide qualcosa di rosso e scintillante, che si accompagnava a uno sfrigolio insistente e continuo, di cui dapprima non riuscì a comprendere l’origine. Poi, d’improvviso, capì che cosa avesse appena attivato. Quella dannata porta doveva essere collegata a un acciarino o qualcosa di simile.
   «Giù, giù!» urlò, gettandosi all’indietro.
   Afferrò Katy e Valerija e le trascinò con sé, appiattendole contro il terreno. Don Mavro riuscì appena in tempo a imitarli, prima che, con uno scoppio fragoroso, lasciandosi dietro una fiammata, un grosso razzo fuoriuscisse dalla porta. Li mancò per pochi centimetri, sibilando vicino alle loro orecchie, bruciacchiando i capelli con una pioggia di scintille e investendoli di fumo. Poi proseguì la sua corsa lungo il corridoio, indenne. Passarono soltanto alcuni istanti e un’esplosione rimbombò alle loro spalle, scuotendo la grande piramide fin nelle fondamenta e spandendo un acre odore di fumo dappertutto.
   «Gesù santo, cosa è successo?!» gridò don Mavro, steso pancia a terra con le mani sopra la nuca.
   Indy si rialzò, tossendo e grugnendo, come fecero anche le due ragazze.
   «Barbarigo deve essersi portato a casa un simpatico ricordino dai suoi viaggi in Cina» borbottò. Si deterse il sudore e si risistemò meglio il cappello. «Polvere da sparo di prima qualità, se dopo tutti questi secoli ha funzionato ancora così bene.»
   Mentre Valerija e Katy aiutavano il prete a rialzarsi, Indy raccolse una delle due torce a faro che avevano lasciato cadere e si avvicinò alla porta della stanza segreta. Puntò la luce nell’oscurità. Come aveva immaginato, alla porta era legato un filo metallico collegato a un acciarino situato sul retro di una grossa impalcatura di legno.
   «Ingegnoso» commentò. Poi mosse la lampada per guardare il resto.
   Come aveva previsto, il cuore della piramide non era troppo grande, perlomeno se rapportato a quello che aveva visitato durante la guerra, ma era comunque un ambiente molto vasto. In questo, tuttavia, anziché esserci antichi scheletri ornati d’oro e gioielli, si trovavano numerose scaffalature di legno molto alte, disposte per tutta l’area, su cui erano riposte mercanzie di vario genere, molte delle quali ormai ridotte in polvere. Bottiglie, vasi e numerosi altri manufatti, però, erano ancora immobili al loro posto, come se fossero in attesa che il mercante tornasse a prenderli.
   «Be’, che mi prenda un accidente» borbottò. «Barbarigo deve aver utilizzato questo posto come deposito, non solo come nascondiglio.»
   Katy si era fermata al suo fianco.
   «Forte!» esclamò, cedendo all’impulso di scendere.
   Il braccio di suo padre scattò contro il suo petto, bloccandola.
   «Aspetta!» le disse, continuando a puntare la luce in ogni direzione. «Fammi controllare che non ci siano altre trappole.»
   Indy ispezionò attentamente ogni centimetro del pavimento davanti all’ingresso, ma non pareva esserci nulla di fuoriposto. Se quella mente finissima di Barbarigo aveva escogitato altri trucchi come quello del missile cinese, per il momento sarebbe stato impossibile saperlo.
   «Va bene, possiamo andare» disse, dando un colpetto al pavimento con il bastone. «Ma fate la massima attenzione a dove mettete i piedi. E non toccate niente, a meno che non sia strettamente necessario.»
   Detto questo, entrarono nel deposito segreto di Antonio Barbarigo.

 
* * *

   Popovic alzò la mano, arrestando l’avanzata dei suoi compagni. Qualcosa di insolito aveva destato la sua attenzione. Strinse gli occhi, cercando di scrutare qualcosa nell’oscurità. Uno strano sibilo proveniva dal fondo della galleria, e si avvicinava sempre di più.
   «Che diavolo…» bofonchiò, cercando di vedere qualcosa.
   Il bagliore giunse prima che potesse rendersi conto di quello che stava accadendo. Il missile si infranse contro il soffitto, facendo esplodere fuochi d’artificio colorati tutto attorno e frastornando i timpani degli uomini. Sembrava una scena pazzesca, una festa improvvisa e inattesa nel centro dell’antica costruzione.
   Il corridoio parve ondeggiare come se fosse stato colpito da un maglio gigante e, per qualche istante, ciascuno dei presenti fu invaso dal terrore di poter restare sepolto vivo nei meandri di quella piramide. Per loro fortuna, la vecchia polvere da sparo aveva perduto parecchio del suo potenziale e i danni furono relativamente pochi.
   Tutti quanti, però, si ritrovarono stesi al suolo, con i capelli e i giubbotti che fumavano, mentre i calcinacci gli piovevano addosso e l’odore della cordite impregnava tutto l’ambiente, avvolto da un fumo soffocante.
   Tossendo, gli occhi arrossati e lacrimanti, il sergente si rialzò quasi subito. Adesso i suoi lineamenti erano contratti dalla furia.
   «Non so cosa sia successo» sibilò, dando un calcio violento ai resti del razzo, «ma qualcuno la pagherà molto cara, per questo.»
   Si voltò a osservare i suoi uomini. Erano tutti storditi e confusi. Alcuni si reggevano la testa o le braccia, ferite dai calcinacci, mentre altri restavano semplicemente sdraiati, completamente frastornati, senza capire che cosa fosse accaduto. I timpani di tutti ronzavano parecchio per il grande boato.
   «In piedi!» grugnì, assestando un calcio al più vicino. «Svelti! Pelandroni, datevi una mossa!»
   Sebbene doloranti e spaventati all’idea che potesse scoppiare qualcos’altro o succedere qualcosa di simile o magari di peggio, gli agenti dell’OZNA si affrettarono a obbedire. Avrebbero preferito affrontare un altro missile, piuttosto che incorrere nell’ira del loro capo.
   «Andiamo a prenderli!» ordinò secco Popovic, riprendendo il cammino.

 
* * *

   In mezzo agli scaffali c’era davvero da perdersi. Erano disposti a casaccio, e gli oggetti che li ricoprivano erano così tanti che era difficile riconoscere dei punti di riferimento da tenere a mente. Era come girovagare senza meta in un labirinto intricato, sperando di poterne uscire in qualche modo.
   Presto fu evidente che, in quel luogo che doveva aver scoperto chissà come, Barbarigo non si era limitato ad accumulare le sue preziose mercanzie. Ne aveva fatto una specie di stanza delle meraviglie, invece, in cui aveva collezionato tesori e ogni sorta di oggetti curiosi raccolti nei continui pellegrinaggi da un luogo all’altro che avevano caratterizzato la sua lunghissima vita. Così, tra bottiglie impolverate, anfore il cui contenuto era ormai marcito, fragili broccati ridotti quasi in briciole e vasi di antiche spezie ormai inutilizzabili, si potevano scorgere i più disparati e variegati oggetti, tra cui sculture raffinate, pezzi d’argenteria, tappeti arrotolati, vassoi colmi di monete d’oro provenienti da ogni angolo dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia.
   Katy e Valerija camminavano affiancate, gettando occhiate stupefatte tutto attorno. Contravvenendo alle ammonizioni di Jones, non facevano che prendere in mano statuine raffiguranti divinità sconosciute, almanacchi colmi di predizioni fantasiose, monete di origine ignota, candelabri preziosi e qualsiasi altra cosa che gli capitasse a portata di mano. Erano tutti pezzi artistici di grande pregio e valore, che da soli sarebbero riusciti a riempire tutte le teche di un grande museo o a fare l’indiscussa felicità di schiere di collezionisti.
   «Ti immagini poter portare via tutta questa roba?» fantasticò Valerija. «Diventeremmo ricchissime! Pensa come sarebbe bello: io e te a vivere insieme in una grande villa, avremmo la limousine e potremmo amarci in pubblico e nessuno avrebbe alcunché da ridire, perché ai ricchi tutto è consentito…»
   Katy annuì, stupefatta, prestando solo una lieve attenzione alle sue chiacchiere. Era sopraffatta dall’emozione nel trovarsi circondata da ogni parte da tante sorprese. Non aveva mai visto tanti tesori tutti insieme. Suo fratello Mutt le aveva raccontato che, una volta, insieme a mamma, papà e ad Harold Oxley, era entrato in una sala dove erano custoditi migliaia di pezzi di valore. Ora anche lei avrebbe potuto vantarsi di aver fatto lo stesso.
   «È fantastico, è stupendo» commentò. «Io… non posso credere che tutto questo sia vero…» La sua voce era stridula per la gioia.
   «Cercate con gli occhi, non con la bocca» grugnì Indy, raggiungendole da dietro uno scaffale, lievemente affannato per il troppo camminare. «Dobbiamo muoverci a trovare quella dannata mappa e ad andarcene da qui. Comincio ad avere un brutto presentimento…»
   «Oh, Old J, che fretta che hai sempre!» lo rimproverò Katy. «Cerca di prendere le cose con un po’ più di morbidezza, qualche volta.»
   «Verrà un giorno, tesorino, in cui anche tu capirai quanto il tempo sia prezioso e quanto sprecarlo sia un male» fu la paternale che le indirizzò Indy.
   Ripresero a cercare, dandosi più da fare di prima.
   Di quando in quando si imbattevano in alcuni vecchi libri e, allora, li sfogliavano con attenzione, ma della mappa non sembrava esserci traccia. Si trattava più che altro di scadenziari in cui il mercante aveva tenuto il conto delle merci vendute e comprate, delle entrate e delle uscite, dei costi dei viaggi e altre cose così. Ed era davvero suggestivo vedere per quanto tempo lo avesse fatto.
   Non era facile, in ogni caso, resistere alla tentazione di esaminare i pezzi pregevoli che comparivano dappertutto. Persino Indy, per quanto avesse voglia di sbrigarsi, non riuscì a sottrarsi alla tentazione di guardare più da vicino alcune curiosità.
   Finalmente, a distrarli dalla loro ricerca fino a quel punto infruttuosa, risuonò la voce di don Mavro.
   «Professor Jones, venga a vedere, forse ho trovato qualcosa!»
   Tutti e tre, eccitati dal pensiero di essere un passo più vicini alla meta, accorsero verso il punto da cui il prete li aveva chiamati. Non fu facile giungervi, perché orientarsi in quel luogo era davvero complesso. Infine lo trovarono davanti a uno scrittoio ingombro di documenti e altri oggetti, tra cui un compasso, una lucerna e una clessidra. Don Mavro aveva sollevato un’antica Bibbia per osservarla più da vicino e, nel farlo, aveva rilevato la presenza di una raccolta di carte geografiche che vi era rimasta nascosta sotto.
   Indy avvicinò le mani alle carte ingiallite e macchiate appoggiate sul tavolo dove Barbarigo le aveva lasciate centinaia di anni prima, ma si rese conto di non riuscire a controllare il tremito che le aveva colte. L’emozione di scoprire davvero l’ubicazione della Fonte dell’Eterna Giovinezza non gli dava requie. Rischiava di compiere un danno irreparabile.
   «Valerija» disse, facendo un cenno alla ragazza. «Tu sei più abituata di noi, a maneggiare carte vecchie e fragili. Vieni, pensaci tu.»
   La giovane bibliotecaria parve titubare. Forse anche lei temeva di poter sciupare quelle preziosissime carte. Katy la incoraggiò con una leggera pacca sul sedere.
   «Forza, senza paura» cercò a sua volta di rincuorala Indy. Al suo fianco, don Mavro annuì e sorrise con fare rassicurante.
   Convinta, Valerija si fece forza e prese tra le mani le carte. Le sollevò con tutta la delicatezza di cui sapeva essere capace e, soffiando in maniera leggera, le liberò dalla polvere che le aveva ricoperte quasi interamente. Ora, alla luce delle torce, fu possibile riconoscere coste, confini, fiumi, montagne, strade, affiancati da una grafia minuta, chiara, elegante.
   Il primo portolano rappresentava l’entroterra veneziano, dalla laguna fino ai confini con il ducato di Milano. Osservarono con attenzione le numerose scritte che ricoprivano la carta, ma non trovarono indizi riguardo al fatto che la Fonte potesse trovarsi in quella zona.
   Valerija, a un cenno di approvazione degli altri, depose adagio la fragile carta sul tavolo, e passarono a osservare la seconda. Questa, più vasta della prima, mostrava le coste attorno al mare Adriatico. Anche questa volta, tuttavia, non osservarono nulla di rilevante. Lo stesso accadde con le successive quattro carte, che rappresentavano la Turchia, la costa orientale del Mediterraneo, l’India meridionale e il sud dell’Italia.
   Fu quando esaminarono la settima che alcuni dettagli colpirono parecchio la loro fantasia.
   «È la costa orientale del Mar Nero» disse Indy, indicando con l’indice, «e questa parte qui corrisponde all’odierna Georgia.»
   Studiarono i particolari. In corrispondenza della catena montuosa del Gran Caucaso c’era una nota scritta con un inchiostro differente rispetto a quelli rosso e nero con cui erano state vergate le mappe. Era una piccola croce, al cui fianco erano scritte poche ma significative parole.
   «L’acqua che dà la vita» lesse Katy.
   Alzò lo sguardo meravigliato su suo padre, che fissava quella breve frase con sguardo quasi attonito.
   «Che ne dici, Old J? L’abbiamo trovata? È questa?»
   Il vecchio archeologo annuì un paio di volte, torcendosi le mani.
   «Sì, è questa» mormorò. «L’abbiamo trovata.»
   La osservarono ancora per qualche altro istante, restando in silenzio. Già si immaginavano i preparativi della partenza, il viaggio che li avrebbe attesi, e poi… ciò che avrebbero trovato davvero, una volta raggiunto quel luogo, era un mistero che, per il momento, restava insolubile.
   «Molto bene, ora datela a me!» risuonò improvvisa una voce, che li fece trasalire tutti.
   I loro sguardi attoniti e smarriti si spalancarono per lo stupore quando una decina di uomini li circondò, minacciandoli con le canne puntate dei fucili automatici.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** In trappola ***


   14 - In trappola
 
   Un energumeno venne avanti, il volto atteggiato a uno sguardo di beffarda derisione.
   «Bene, bene, guarda che bei pesciolini abbiamo pescato» commentò, allungando la mano verso la testa di Valerija.
   «Lasciala stare!» gridò Katy, scattando verso di lui.
   Il manrovescio dell’agente dell’OZNA la colse d’improvviso, rovesciandola a terra.
   «Questo non dovevi farlo!» sbottò Indy, gettandosi a sua volta verso il gigante.
   Non gli importava un accidenti di tutti i Kalashnikov che li circondavano. Quell’uomo aveva appena colpito sua figlia e lui non poteva tollerarlo. In quel momento vedeva tutto rosso. Ma due uomini lo agguantarono alle spalle e lo trattennero per le braccia, immobilizzandolo.
   «Ma bene, siamo capitati tra dei ribelli che non sopportano la disciplina» commentò Popovic, per nulla scossa dalla sua reazione. «C’è qualcun altro che vuole dire la sua?» Guardò don Mavro. «Lei, per esempio, padre?»
   Un’ombra rabbiosa attraversò il volto del sacerdote.
   «Non c’è niente da dire, con esseri come voi!» asserì. «Siete tutti maledetti dal Signore! Solo l’inferno vi attende!»
   «Oh, che paura» commentò Popovic, con un sogghigno satanico. Tornò a girarsi verso Indy, che lo guardò in cagnesco. «Che cosa dicevi che non dovevo fare, vecchio?»
   Detto questo, abbassò con violenza lo scarpone sulla mano di Katy, ancora riversa a terra. La ragazza strillò con le lacrime agli occhi.
   «Smettila, bastardo!» urlò Indy, cercando inutilmente di liberarsi.
   «Katy!» gridò Valerija, precipitandosi in suo aiuto.
   Un altro degli agenti, però, la ghermì per la vita e la trascinò indietro, tenendola stretta. Lei cercò di divincolarsi, ma la presa era troppo forte e salda perché potesse riuscirci.
   Visto che agitarsi non sembrava sortire alcun effetto, Indy fece scattare in avanti la gamba destra, assestando un calcio all’inguine del sergente. Popovic smise subito di schiacciare la mano di Katy e si girò un’altra volta verso Indy, accecato dalla rabbia.
   «Questo non dovevi nemmeno sognartelo, vecchio!» sbraitò. «Ti assicuro che te ne pentirai amaramente!»
   Sollevò la mano, scrocchiò le nocche e, dopo aver stretto il pugno, lo lasciò cadere con forza sul volto di Indy. L’archeologo, frastornato, provò a reggere il colpo, ma un secondo e subitaneo urto gli mandò la testa all’indietro. Il sapore del sangue che usciva dal labbro spaccato gli riempì la bocca.
   «Papà, no!» gridò Katy, che intanto si era rimessa in ginocchio.
   Con uno scatto felino, sgusciò in avanti prima che qualcuno fosse riuscito a bloccarla e, a testa bassa, caricò Popovic, colpendolo con una testata alla base della schiena. Il sergente ruggì e, voltatosi di nuovo verso di lei, la colpì al viso con un pugno, mandandola a sbattere di nuovo sul pavimento.
   «Ti farò rimpiangere di essere nata, sgualdrina!» gridò. Emise una specie di risata orribile e slacciò con un gesto secco la cintura dei pantaloni. «Vediamo se al tuo paparino piace guardare mentre mi diverto con te!»
   «No!» ruggì Indy, facendo ricorso a tutte le energie che aveva in corpo, amplificate dall’ira, per riuscire a liberarsi.
   Con uno strattone si sbarazzò di uno dei due uomini che lo tenevano fermo, ma l’altro non mollò la presa e lo colpì con una ginocchiata nel fianco. Indy, allora, rispose con un violento montante sotto il mento, ma quello resse la presa e, intanto, arrivarono altri due a dargli man forte, malmenando l’archeologo da ogni lato.
   Katy alzò lo sguardo e vide il sergente torreggiare su di lei, con i pantaloni aperti. Comprese ciò che stava per accadere e provò ad alzarsi per fuggire, ma venne tenuta ferma da mani robuste che le afferrarono i polsi. Provò a scalciare, ma altre mani le immobilizzarono le caviglie, costringendola ad allargare le gambe.
   «No, no!» gridò Valerija, mentre altre mani la toccavano dappertutto con violenza brutale.
   Don Mavro era inorridito dinnanzi allo scempio che stava per perpetrarsi proprio davanti ai suoi occhi. Sentì di dover intervenire, era il momento adatto, perché nessuno sembrava più interessarsi a lui: gli agenti segreti erano tutti alle prese con le due ragazze e con l’archeologo.
   Si guardò attorno e, sopra una scansia vicina, vide un pesante vaso di alabastro. Con un balzo fulmineo, lo agguantò e, prima che qualcuno si potesse rendere conto della sua mossa improvvisa, lo alzò sopra di sé e lo fracassò con tutte le sue forze sulla testa di Popovic.
   Il sergente, colto alla sprovvista da quell’attacco inatteso, barcollò e si girò a guardarlo con sguardo vacuo, il sangue che sgorgava da una profonda ferita che gli partiva dalla fronte e arrivava fin sul retro della nuca. Parve volersi muovere verso di lui, poi crollò al suolo. Era morto.
   Gli agenti dell’OZNA, inorriditi e ammutoliti, guardarono il loro comandante stramazzare al suolo. Quindi, come un solo uomo, lasciarono perdere le due ragazze e il vecchio archeologo e sollevarono tutte le armi verso il sacerdote, pronti a ucciderlo. Il prete resse quella vista con sguardo fiero, privo di ogni traccia di paura.
   «Fermi!» ordinò una voce brusca e autoritaria.
   Indy, che aveva il volto tumefatto e perdeva sangue dal naso e da una ferita sopra il sopracciglio destro, oltre che dal labbro, osservò con disgusto il nuovo venuto, che aveva l’aria di un uomo mite e in apparenza non pericoloso.
   «Professor Jones» disse, la voce strascicata, fermandosi proprio davanti a lui. Gli tese la mano, molle, quasi inerte. «È un onore per me trovarmi al suo cospetto. Sa, lei è una vera celebrità, nel nostro campo.»
   Indy lanciò un’occhiata a Katy, che era corsa ad abbracciare Valerija e ora era rannicchiata insieme a lei ai piedi di uno scaffale. Tornò a guardare quell’uomo e la sua mano, che restò tesa inutilmente, dato che lui non fu sfiorato nemmeno per un istante dall’idea di prenderla e stringerla.
   «Lei deve essere Pavkov» commentò con tono basso, riuscendo ad apparire sarcastico persino in un simile frangente. «Le assicuro che l’onore è soltanto suo.»
   «Non volevamo creare nessun incidente, professor Jones» garantì Pavkov. «È stato un malinteso.»
   Il volto di Indy fu trasfigurato da un attacco di rabbia improvvisa.
   «Quell’immondizia ha cercato di stuprare mia figlia!» ruggì, assestando un calcio al cadavere di Popovic. «E lei lo chiama un malinteso?!»
   «Ne sono mortificato» dichiarò l’altro archeologo, senza mostrare alcun reale segno di rincrescimento. «Non mi è mai piaciuto, quell’uomo. Pare che abbia avuto ciò che meritava, no?» Guardò gli altri agenti, sfidandoli con gli occhi. «Non era lui, quello fissato con la disciplina e gli ordini? Io gli avevo semplicemente ordinato di portarmi le due ragazze, senza fare altro, e lui non ha obbedito. Questo è il risultato consequenziale. Doveva esserne consapevole più di chiunque altro.»
   Sebbene palesemente infastiditi, gli altri agenti fecero dei segni d’assenso. Evidentemente, Pavkov aveva le spalle molto ben coperte dall’alto e nessuno avrebbe voluto mettersi contro di lui. Inoltre, nessuno dei presenti doveva aver sofferto troppo, nell’assistere alla morte inattesa del sergente Popovic.
   «Le due ragazze?!» sbraitò Indy, guardando di nuovo Katy e Valerija. «Che cosa volete da loro?»
   «Be’, hanno letto un libro per me molto prezioso» disse Pavkov. «E, siccome non posso metterci le mani sopra io stesso, ho pensato che potrebbero raccontarmi loro di che cosa parla.»
   «L’ho letto anche io, quel maledetto libro» disse Indy. «E le assicuro che non c’è scritto assolutamente nulla, sopra. Solo favolette della buonanotte, niente altro.»
   Il professor Pavkov lo fissò, fingendosi sdegnato.
   «Non mi prenda per fesso, professore. Sa benissimo che tra quelle pagine è ubicata la strada per raggiungere la Font…»
   Non terminò la frase perché Indy, all’improvviso, gli si gettò addosso, stringendogli le mani attorno alla gola e colpendolo allo stomaco con il ginocchio, rovesciandolo a terra.
   «Katy!» urlò. «Scappa!»
   La ragazza non si fece ripetere l’esortazione. Presa Valerija per la mano, la trascinò con sé, facendo perdere le proprie tracce in mezzo al labirinto di scaffali neri e polverosi. Don Mavro, dopo aver colpito con un pugno l’uomo più vicino a lui, si affrettò a imitarle.
   Gli uomini dell’OZNA si gettarono subito al loro inseguimento, sparando alcuni colpi.
   «No!» riuscì a urlare Pavkov, liberatosi per un momento dalla mano di Indy. «Non sparate! Le voglio vive…!»
   Un’altra ginocchiata lo costrinse a stare zitto. Indy, però, non poté strozzarlo come si era proposto, perché un energumeno, che gareggiava in proporzioni con il defunto Popovic, lo agguantò sotto le ascelle e, dopo averlo sollevato di peso, lo gettò contro uno scaffale, che si rovesciò con un fracasso micidiale, distruggendo tutti i vasi e le statuine che lo ricoprivano.
   Mentre Pavkov si rialzava da terra ancora ansante, Indy provò a districarsi dai frammenti che lo avevano ricoperto. Il bestione gli fu subito addosso e gli afferrò un piede, cercando di storcerglielo. Torcendo la schiena, l’archeologo accompagnò quel movimento e, con l’altro piede, colpì con violenza il volto dell’uomo, spezzandogli il naso. Quello lo lasciò andare con un ruggito, sollevando le mani alla faccia ferita, e Indy ne approfittò per ritrarsi e provare a rialzarsi.
   C’era appena riuscito quando il mostro di muscoli gli volò letteralmente addosso, facendo partire una raffica di pugni in rapida successione.
   «Maledetto…!» grugnì Indy, cercando inutilmente di parare almeno qualcuna di quelle percosse.
   Colpito allo stomaco, al petto e al viso già dolorante, Jones crollò un’altra volta al suolo, picchiando duramente contro le cianfrusaglie che si erano sparse ovunque. L’altro, però, non gli diede tregua, assestandogli calci e piegandosi per colpirlo con altri pugni.
   Ogni sferzata era molto dolorosa e Indy cominciava davvero a vedere le stelle. Un nuovo pugno, che lo raggiunse in piena fronte, lo rintronò a tal punto che un velo nero gli calò davanti agli occhi. Fu soltanto un istante, poi riuscì a riprendersi dal rischio di cadere svenuto. Come se fosse una scena al rallentatore, vide arrivare un nuovo pugno, ma questa volta riuscì a intercettarlo afferrando il polso dell’avversario.
   Il bestione cercò di liberarsi, ruggendo come un leone e colpendo l’archeologo con l’altra mano. Sebbene sempre più stordito, Indy ignorò i dolori terribili che lo stavano invadendo dappertutto e, spingendosi in avanti, riuscì a tornare in piedi, mentre l’uomo rischiò di perdere l’equilibrio e barcollò all’indietro.
   Indiana Jones non attendeva altro. Vedendo l’avversario in difficoltà, si fece sotto e lo colpì al viso con tutte le forze che gli restavano. Alternò pugno destro e pugno sinistro, pugno destro pugno sinistro, destro sinistro, assestando una lunga serie di sonori manrovesci, finché quello lo guardò con sguardo attonito e vuoto attraverso la maschera di sangue che gli copriva il volto, come se fosse sul punto di cedere.
   Invece, sollevò a sua volta un pugno e lo calò con estrema violenza contro Jones, spedendolo un’altra volta a terra. Ansando, Indy rotolò proprio accanto al cadavere di Popovic. Se non ci fosse stata quella massa di carne inerte a frenare la sua corsa, avrebbe probabilmente continuato a roteare sul pavimento per ancora qualche metro.
   L’energumeno, per nulla intenzione a perdere altro tempo, gli era già sopra. Lo afferrò per l’orecchio, rialzandolo di peso, e gli assestò un nuovo pugno alla mascella, prima di lasciarlo andare.
   Gemendo, l’archeologo cadde un’altra volta accanto a Popovic. Questa volta, però, i suoi occhi notarono un particolare che prima non aveva visto. Alla cintura slacciata dell’uomo era attaccata una guaina di cuoio da cui fuoriusciva il manico in legno di un lungo e largo coltello. Doveva essere un’arma micidiale. Gli ricordò parecchio quella che utilizzava Rambo, il protagonista del suo film preferito, per sbudellare i nemici. Forse avrebbe potuto fare come lui.
   Fingendo di essere ormai ridotto a uno straccio, si allontanò di qualche centimetro dal bestione grugnente, strisciando sui gomiti e voltandosi per fargli cenno con le mani di concedergli una tregua. Quello continuava a incombere su di lui come un angelo della morte, pronto a sferrare il colpo di grazia.
   Uno scatto fulmineo e Indy afferrò il coltellaccio, estraendolo dalla guaina. Prima che il suo avversario avesse avuto il tempo per rendersi conto di ciò che stava accadendo, si voltò e glielo scagliò addosso.
   L’affilatissima lama roteò nell’aria e si conficcò con estrema precisione nella gola dell’uomo, uscendo poi dalla nuca. Il gigante si portò le mani alla ferita, emise un verso gutturale facendo ribollire il sangue che gli aveva riempito la bocca, e cadde di peso all’indietro, facendo tremare il pavimento.
   Sebbene stanco e dolorante, Indy scattò subito in piedi e si guardò attorno. Pavkov aveva approfittato di quella lotta per dileguarsi. Colto da un presentimento, guardò il tavolo dove erano appoggiate le carte geografiche. Nella lotta si era rovesciato e i fogli erano sparsi a terra. Gli ci volle un solo istante per capire che, la mappa per la Fonte, era sparita. Pavkov doveva averla vista e presa.
   In quel momento, tuttavia, la Fonte era l’ultima delle sue preoccupazioni. Katy era in pericolo, e questa era la sola cosa che contasse.
   Lanciò sguardi in qua e in là, alla ricerca di qualcosa che potesse tornargli utile, e ancora una volta fu Popovic a fornirgli inconsapevolmente il proprio aiuto. Da sotto la giacca, infatti, si intravedeva una fondina in cui era introdotta una pistola. L’archeologo si affrettò a prenderla: una Tokarev TT-33 da 7,62 millimetri. Fece scattare la sicura e, tenendola spianata di fronte a sé, si avvicinò al cadavere dell’altro energumeno. Senza curarsi del sangue di cui era imbrattato, recuperò il coltellaccio.
   «Ebbene» mugugnò, «giochiamo a essere Rambo.»

 
* * *

   Katy e Valerija si lanciarono di corsa in mezzo al labirinto di antichi mobili. Sapevano di essere braccate e i fasci potenti delle torce dei loro aggressori non le perdevano di vista. Alcuni spari esplosero alle loro spalle, costringendole a scartare di lato e a buttarsi a terra.
   «Attenta!» gridò Valerija.
   Un proiettile colpì un vaso situato alla stessa altezza a cui, fino a un secondo prima, si trovava la testa di Katy. I cocci le si riversarono addosso, aprendole una ferita alla guancia sinistra.
   «C’è mancato un pelo…!» sussurrò, tremando come una foglia al vento.
   Da qualche parte più indietro risuonò la voce di Pavkov che ordinava di non sparare.
   «Be’, meglio per noi!» esclamò Valerija, prendendo la mano di Katy e aiutandola a rialzarsi.
   Ricominciarono a correre, deviando e cambiando direzione di continuo con la speranza di far perdere le proprie tracce. Avrebbero voluto raggiungere l’ingresso della stanza, ma era impossibile orientarsi nel buio, e non potevano fare altro che procedere a casaccio.
   La luce di una torcia balenò nel buio, abbagliandole quando il fascio le colpì dritto agli occhi. L’uomo che le aveva scoperte aprì la bocca per chiamare a raccolta i compagni, ma non glielo permisero. Scattando all’unisono, gli si scagliarono addosso, arrampicandosi di peso sulle sue spalle e premendogli le mani sulle labbra per impedirgli di parlare.
   L’agente dell’OZNA lasciò cadere la torcia, cercando di liberarsi di loro colpendole con sberle e pugni, ma le due ragazze tennero duro, continuando a portare avanti quel duello silenzioso. Mentre teneva la mano sinistra premuta sulle labbra dell’uomo, Katy gli sferrò una ginocchiata in mezzo alle gambe. Quello si agitò tremendamente e Valerija rispose con due rapidi pugni nel fegato.
   Sbilanciato dai colpi e dal peso delle due furie che gli si erano appese addosso, l’uomo cadde all’indietro, picchiando la testa contro lo spigolo del basamento di una statua, e giacque immobile.
   Katy e Valerija continuarono a infierire su di lui ancora per un minuto abbondante, giusto per essere sicure che non potesse rialzarsi; infine lo lasciarono andare e si scambiarono un’occhiata.
   «Tutto okay?» domandò la giovane Jones, toccando il braccio di Valerija.
   Il secco scatto di un otturatore le costrinse a volgersi alla loro destra. Un altro degli agenti segreti le aveva raggiunte e le stava tenendo sottotiro con il suo AK-47. Contravvenendo a tutti gli ordini ricevuti, sembrava più che propenso ad aprire il fuoco contro di loro.
   Paralizzate dallo sconcerto, le due ragazze non riuscirono a muovere un muscolo. In ogni caso non servì a nulla reagire, perché accanto all’uomo che le minacciava comparve di corsa don Marvo, le mani sollevate sopra la testa e occupate da una pesante mazza chiodata, che doveva aver trovato appoggiata in mezzo agli altri oggetti collezionati da Barbarigo.
   Con un colpo secco, l’antica arma si abbatté sul cranio dell’agente dell’OZNA, facendolo esplodere come un’anguria.
   «E con questo fanno due» commentò il prete, lasciando cadere la mazza e tergendosi il sudore dalla fronte. «Peccato che il Giubileo si sia concluso in aprile.» Scrollò le spalle. «Pazienza, aspetterò il prossimo, per la remissione dei peccati.»
   Si chinò, tolse dalle braccia del cadavere il Kalashnikov e lo imbracciò. Quindi fece un cenno alle due ragazze.
   «L’uscita è vicina e non c’è rimasto nessuno di guardia» disse, con tono secco. «Raggiungetela e risalite il tunnel. Poi andate a nascondervi tra gli alberi.»
   Loro lo guardarono con sconcerto ma anche con ammirazione.
   «E tu?» domandò Valerija, con apprensione.
   Don Mavro assunse un’aria risoluta e sfregò il grilletto del fucile automatico con il dito.
   «Io vado a salvare il professor Jones» disse, prima di voltarsi e scomparire nel buio.
   Katy esitò un istante. Sarebbe voluta correre anche lei a cercare suo padre, ma era più che consapevole che, disarmata com’era, sarebbe stata più che altro un intralcio. Inoltre, era certa che, anche quella volta, Old J se la sarebbe cavata. Lui se la cavava sempre.
   Decise di fare come le era stato detto. Si girò e, tenendo Valerija per mano, si diresse verso la porta. Ora, con gli occhi ormai abituati al buio, riconosceva alcuni dettagli che aveva notato quando era appena entrata. Non doveva mancare molto al tunnel.
   Quattro braccia robuste calarono all’improvviso su di loro, immobilizzandole. Le due ragazze strillarono e provarono a liberarsi, agitandosi e contorcendosi, ma stavolta la presa restò salda. Davanti a loro apparve il professor Pavkov, con un’aria di trionfo dipinta sul viso altrimenti insipido.
   «Bene, queste due le abbiamo prese» disse, rivolto ai due agenti. «Portiamole al camion, subito. Di Jones e del prete si occuperanno gli altri.»
   Il suo sguardo si abbassò sulle due ragazze, che ancora cercavano di divincolarsi, mentre le sua mano si sollevò, mostrando la mappa.
   «Che ne dite, bellezze?» domandò. «Vi va di accompagnarmi alla Fonte?»
   Katy gli lanciò un’occhiata al vetriolo. Provò ancora a dibattersi, ma non riuscendo in alcun modo a liberarsi, fece l’unica cosa che ancora restava.
   «Papà!» urlò, facendo risuonare la sua voce per tutta la vasta sala. «Ci ha prese! Ha la map…»
   Una mano la zittì premendole la bocca e Pavkov fece segno di condurle via.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Prigioniere ***


   15 - Prigioniere
 
   Indy si stava muovendo cautamente tra gli alti scaffali quando risuonò il grido disperato di sua figlia. Dalla potenza della sua voce comprese che doveva stare bene, ma saperla nelle mani di quei mostri gli fece montare il sangue alla testa. Mandando a monte ogni tentativo di precauzione, affrettò il passo, sperando di raggiungerla in tempo.
   Si fermò al limite di uno degli alti mobili carichi di oggetti e sbirciò al di là. Aveva sentito qualcosa che lo aveva indotto a rallentare.
   Come supponeva, appena oltre l’angolo si trovava uno degli agenti dell’OZNA, con il fucile stretto tra le mani, pronto a fare fuoco al primo movimento sospetto. Per fortuna gli volgeva le spalle e non sembrava essersi accorto della sua presenza.
   Silenzioso come un felino, l’archeologo balzò fuori dal suo nascondiglio, brandendo il coltellaccio. Lo sollevò e lo calò con parecchia forza contro l’avversario, conficcandoglielo con precisione nella schiena, spingendolo nella carne fino all’impugnatura e spezzandogli la spina dorsale con un solo colpo netto. L’agente segreto stramazzò a terra, ucciso senza neppure rendersi conto che cosa fosse successo, ma nel cadere lasciò partire una raffica di mitra.
   Subito si levarono grida furenti e si udirono dei passi affrettati in quella direzione.
   Un uomo comparve al limitare del corridoio, annunciato dal riverbero della torcia elettrica. Indy era pronto. Impugnata con ambedue le mani la pistola, fece fuoco verso di lui, orientandosi proprio grazie alla sorgente di luce che aveva tradito il suo avversario. L’uomo crollò a terra, colpito al petto, ma subito fu sostituito da un compagno, che spedì una raffica in direzione dell’archeologo.
   Evitando di pochi millimetri i proiettili, Indy scartò di lato e si gettò a ridosso di uno degli scaffali. Puntò la pistola e rispose al fuoco. Nella fretta non poté prendere la mira e i suoi colpi andarono tutti a vuoto. Nuove raffiche gli comunicarono che i suoi avversari erano più che decisi a fargli la pelle.
   «Cristo…» imprecò, quando alcuni proiettili gli fischiarono pericolosamente vicini, conficcandosi nel mobile alle sue spalle e rovesciandogli addosso schegge di legno.
   Era meglio togliersi da lì.
   Si rialzò in fretta, evitando di pochissimo una nuova raffica. Zoppicando, corse nella direzione opposta a quella da cui provenivano gli spari.
   Senza neppure rendersene conto, stava affrontando quella sfida con il medesimo spirito di un tempo. La stanchezza non lo toccava, le dolorose pulsazioni che gli avevano invaso l’organismo erano semplicemente un dettaglio secondario, di nessuna importanza. Le sue gambe e le sue braccia, invase dall’adrenalina che si era riversata a fiotti nelle vene, rispondevano speditamente a ogni comando del cervello. Persino il modo in cui pensava era mutato in maniera repentina: deposte le sue riflessioni da vecchio uomo, se così potevano essere considerate, stava adesso ragionando come sempre in passato; o, per meglio dire, non stava affatto ragionando: si limitava ad agire, valutando passo a passo i risultati delle sue azioni e improvvisando di conseguenza.
   Girò oltre un angolo e si trovò la strada sbarrata da un altro agente dell’OZNA. Anche questo era armato di Kalashnikov. Indy alzò la pistola e, senza troppi rimpianti, gli sparò in faccia. Sogghignò compiaciuto nel vedere il suo volto devastato dal proiettile, poi superò con un balzo il cadavere e girò lungo un’altra direzione.
   Una raffica di mitra gli esplose tutto attorno, costringendolo ad alzare le braccia per ripararsi dai frammenti di legno e di pietra che rimbalzavano dappertutto. Inciampò e si trovò disteso con il ventre a terra. Le anfore e le bottiglie che erano raccolte in quella parte del deposito andarono in frantumi, rovesciandogli addosso cocci e altri pezzetti taglienti di vetro. La pistola gli volò di mano e sparì nell’oscurità.
   «L’ho preso!» disse l’uomo che aveva sparato, tenendo un walkie talkie davanti alla bocca. Ascoltò la confusa risposta e replicò: «Ricevuto. Eseguo.»
   Riagganciò la radiolina portatile alla cintura e sollevò l’AK-47 nella direzione di Indy, che stava ancora cercando di districarsi dai cocci e lo sfidò con sguardo inviperito, senza mostrare nessuna traccia di paura.
   L’agente segreto puntò l’arma, aggiustò la mira e avvicinò il dito al grilletto.
   La raffica di mitra esplose fragorosa e rimbombante, squarciando il silenzio che era caduto sul sotterraneo.

 
* * *

   «Bene, uccidetelo subito!» ordinò Pavkov, parlando nel suo walkie talkie. «Poi togliete di mezzo anche il prete e raggiungeteci.»
   Lo ripose e si voltò a guardare Katy, che ricambiò il suo sguardo con profonda ferocia.
   «Tendi bene le orecchie, ragazzina, e ascolta che bellezza» le ordinò, con tono maligno.
   Subito dopo, l’eco della raffica di mitra giunse fino alle loro orecchie.
   «Lo sai cos’è questa?» disse. «Questa è l’esecuzione di tuo padre. Ha finito per sempre di dare fastidio agli altri. Adesso è diventato anche lui un pezzo da museo.»
   «Nooo!» gridò Katy.
   Si agitò convulsamente, tanto che l’uomo che la teneva ferma dovette placcarla e schiacciarla in terra per riuscire a impedire che fuggisse. Lei urlò e scalciò, lottando ancora nel tentativo di liberarsi da quella costrizione; e, non riuscendo a trattenersi, scoppiò in lacrime.
   «Sei un bastardo!» urlò Valerija, tentando a sua volta di sbarazzarsi dell’uomo che la teneva prigioniera.
   Pavkov le rifilò un manrovescio così forte da farle uscire il sangue dal naso.
   «Taci, sudicia ribelle traditrice!» sbraitò, guardandola con odio. Il tono della voce si abbassò di colpo. «E non credere che Jones sia stato sfortunato, a morire così. Una morte rapida e indolore è un lusso che a voi non sarà riservato, sappilo. Non avete idea, tu e la tua amica, di ciò che vi aspetta. Se vi ho volute prendere vive, è solo perché voglio godermi lo spettacolo di tutte le torture che vi infliggeranno gli agenti dell’OZNA quando sapranno chi siete. Non crediate di cavarvela con poco.» Passò la lingua sulle labbra, pregustando chissà quale orribile avvenire. «Vi giuro che rimpiangerete di non aver permesso a Popovic di fottervi, sarebbe stata una gita di piacere, in confronto a ciò che vi aspetterà adesso.»
    Si voltò di nuovo e si incamminò a passo svelto lungo il tunnel. Ormai non mancava più molta strada all’uscita della piramide.
   «Diamoci una mossa» ordinò, «voglio mettermi in viaggio al più presto.»
   Valerija venne spinta rudemente in avanti e Katy fu costretta a rialzarsi, sollevata quasi di peso dalle mani dell’uomo.
   Era ancora scossa dai singhiozzi dolorosi, incapace di fermare le lacrime che le rigavano la pelle imbrattata di sangue e di sporcizia, ma il suo volto cominciava anche a farsi sfigurare dall’odio. Una rabbia incontenibile la invase, facendole tremare le mani, desiderose di colpire, di uccidere.
   Non sapeva come ci sarebbe riuscita, ma giurò a se stessa che, alla prima occasione, avrebbe cavato il cuore ancora pulsante dal petto di quel mostro.

 
* * *

   La raffica echeggiò lunga e lugubre per qualche istante. L’agente dell’OZNA, un’espressione di sorpresa confusa impressa in eterno sul volto, crollò al suolo, ucciso.
   Indy sbarrò a sua volta gli occhi per la meraviglia nel riconoscere la sagoma corpulenta del sacerdote uscire dall’ombra, il Kalashnikov ancora fumante tra le braccia.
   «Don Mavro!» esclamò, tra lo stupore e lo sconcerto.
   Il prete sorrise e, dopo essersi accertato con un calcio che il loro avversario fosse proprio morto, si diresse verso di lui e gli porse la mano per aiutarlo a rialzarsi. Indy l’accettò volentieri, senza però riuscire a trattenere un ghigno.
   «Ma la comprensione e il perdono…?» domandò, guardando di sfuggita il mitra. «Quello, padre, non mi pare proprio un aspersorio per l’acqua santa…»
   Don Mavro si strinse nelle spalle.
   «Il perdono è prerogativa del Signore Onnipotente, e io lo posso amministrare in suo nome solo dopo una piena confessione di tutti i peccati e un sincero rimorso da parte del penitente. Che, in questo caso, non mi pare sia avvenuto» commentò, con un puntiglio quasi comico, vista la situazione. «E poi, lo saprà bene quanto me, professore, c’è un’antica legge biblica – nel Levitico, se ricorda – che dice “occhio per occhio, dente per dente”, quindi tecnicamente non ho infranto nessuna regola.»
   Il sorrisetto di Indy si accentuò.
   «Be’, se non vado errato, Gesù ha poi detto che…»
   Si interruppe, scuotendo la testa. Non gli pareva proprio il momento adatto di perdersi in questioni teologiche, specialmente perché il prete lo aveva sorpreso davvero positivamente, e non gli sembrava il caso di indurlo a un ripensamento. Ora dovevano affrettarsi e salvare le due ragazze, senza badare ad altro.
   «Hanno preso Katy, e presumo anche Valerija» disse, con tono secco.
   «Ho sentito» replicò don Mavro, chinando il capo in segno di contrizione, «e purtroppo temo che sia stata colpa mia. Le ho spinte io verso l’ingresso, credendo che non fosse presieduto.»
   «Non importa, ora pensiamo solo a riprenderci loro e la mappa» tagliò corto Indy.
   Claudicando leggermente, raggiunse l’uomo ucciso dal prete e, dopo essersi sbarazzato della giacca di velluto ormai divenuta più che altro un impedimento, essendo ridotta quasi in brandelli, gli prese l’AK-47 dalle braccia. Controllò che fosse pronto a sparare, con il selettore in posizione centrale, e, dopo aver rivolto un rapido cenno a don Mavro, si avviarono insieme verso l’uscita della grande e labirintica sala.
   Non avevano mosso che pochi passi, però, che tre agenti dell’OZNA gli sbarrarono la strada, aprendo contro di loro un fuoco d’inferno. Ancora una volta, Indy fu costretto a gettarsi di lato per trovare un posto al coperto. Questa volta, comunque, era meglio armato e non mancò di iniziare a sparare a sua volta, premendo a fondo il grilletto e indirizzando raffiche micidiali contro i nemici.
   «Signore, proteggi il tuo servitore!» pregò don Mavro, prima di lanciarsi senza paura contro i nemici, il mitra che gli diventava incandescente tra le mani.
   I proiettili lo sfiorarono e almeno uno di essi andò a segno, ferendolo alla spalla sinistra. Senza curarsi di nulla, il prete continuò a sparare, correndo e urlando come una furia, tanto che i tre agenti, spaventati, gli volsero le spalle e fuggirono.
   Senza mostrare alcuna pietà, don Mavro ne fulminò uno colpendolo alla schiena, e Indy gli diede man forte facendone fuori un secondo. L’ultimo rimasto in piedi, ferito in più punti, spinto contro uno scaffale e senza più vie di fuga, si voltò per affrontarli a viso aperto, ma quando premette il grilletto il suo fucile si inceppò.
   «Maledetto ferro vecchio!» imprecò, lasciandolo cadere e mettendo mano alla pistola.
   Un colpo preciso di Indy gliela fece saltare di mano, rendendolo innocuo. Lui e don Mavro si avvicinarono, tenendolo sotto tiro, mentre l’uomo, ansante e sanguinante, si accasciò contro lo scaffale.
   «Che faccio?» domandò il prete, più furioso che mai. «Gli sparo?»
   Indy bloccò i suoi intenti omicidi sollevando la mano sinistra.
   «Un momento…» borbottò. Poi, alzata la voce, si rivolse all’agente segreto. «Dove stanno portando mia figlia?! Parla!»
   L’uomo scosse il capo e si mantenne chiuso nel suo mutismo.
   «Parla, maledetto!» lo incitò Indy, sollevando la canna del fucile e ficcandogliela nel naso.
   Quello sprone fu sufficiente a sciogliere la lingua dell’agente dell’OZNA.
   «Le staranno caricando sul camion, a quest’ora!» grugnì. «Ormai è tardi, non arriverete mai in tempo.»
   Indy lo fulminò con lo sguardo.
   «E con il camion dove le porteranno?»
   L’uomo esitò, ma la canna che gli venne premuta contro con maggiore forza, torcendogli il naso verso l’alto, bastò a indurlo a rivelare ciò che sapeva.
   «All’aeroporto di Sarajevo…» mugugnò, contrariato dalla propria codardia. «C’è un aereo in attesa, non so quale sia la destinazione…»
   «Quella la conosco io!» sbottò Indy, ritirando il mitra.
   L’agente parve tirare un sospiro di sollievo. L’archeologo, però, voltò l’arma e gli calò con violenza il calcio sulla testa. Senza un gemito, il poveretto stramazzò in terra, con gli occhi chiusi, a braccia spalancate, abbandonato come una marionetta.
   «Siamo sicuri che sia morto davvero?» domandò don Mavro, osservandolo con attenzione.
   «Lei è troppo sanguinario, padre» grugnì Indy. «Lasci perdere questo sacco di patate e sbrighiamoci. Forse siamo ancora in tempo per raggiungere Pavkov prima che vada a prendere quell’aereo.»
   Senza più badare a niente, ricominciarono a correre verso l’uscita dal deposito di Antonio Barbarigo.

 
* * *

   Ormai erano fuori dal tunnel e stavano ridiscendendo con una certa celerità il pendio. Le due ragazze, trascinate a forza, sembravano essersi rassegnate al destino crudele che le attendeva entrambe, perché avevano smesso di agitarsi e combattere nel tentativo di liberarsi.
   Per il professor Pavkov era molto meglio così. La ragazza croata sarebbe stata seviziata a lungo, di fronte a una telecamera, come monito per gli altri ribelli, per far loro comprendere che cosa sarebbe accaduto a tutti i traditori; avrebbe quindi avuto necessità di molte forze, per non morire troppo in fretta. Per quanto riguardava l’americana, invece, la faccenda era più delicata. L’ingresso suo e di suo padre nel paese era stato registrato alla frontiera, e quindi avrebbero dovuto procedere con parecchia cautela, per non rischiare di provocare incidenti con gli statunitensi. Certo era che sarebbe morta anche lei, anche se in maniera meno spettacolare e non documentata da nessuna parte. L’importante, in ogni caso, era farla sparire per sempre. Ma di questo fatto, su come comportarsi, si sarebbero occupati gli agenti dell’OZNA: quella era una faccenda che non lo riguardava, se non di striscio.
   Il lato della piramide da cui stavano scendendo era piuttosto intricato, perché era cosparso di radici che rendevano difficile il cammino. Inoltre, le foglie cadute e gli aghi di pino avevano reso scivoloso il dirupo. Se non si camminava tenendo un occhio attento al terreno, si correva in ogni momento il rischio di inciampare.
   Questo particolare non sfuggì a Katy. Non appena ebbe visto vicino a sé una grossa radice, reagì.
   Con una spallata improvvisa, costrinse l’uomo che la teneva per i polsi a sbilanciarsi di lato. Quello cercò di sostenersi, mentre il terreno gli cedeva sotto i piedi, ma nel farlo urtò la radice e perse l’equilibrio, cadendo all’indietro. Incapace di fermarsi a causa del pendio piuttosto ripido, non trovando nulla a cui afferrarsi, scivolò sulla schiena verso il basso. La ragazza, liberata finalmente dalla sua presa, scattò in avanti per allontanarsi.
   Pavkov, attirato dal rumore inaspettato, si girò a guardare che cosa stesse accadendo, mentre l’altro agente, rispondendo a ciò che gli suggeriva l’istinto, lasciò andare Valerija per lanciarsi all’inseguimento di Katy. Fu un grave errore, perché la piccola bibliotecaria, muovendosi con rapidità, infilò il piede in mezzo alle sue gambe, facendogli uno sgambetto. L’uomo, perduto l’equilibrio e non potendosi fermare a causa dello slancio, cadde in avanti e andò a sbattere rudemente contro un grosso tronco.
   Katy, intanto, fece un rapido dietrofront e scattò con impeto verso Pavkov, più che decisa a vendicare suo padre.
   Il professore, spaventato dalla sua furia inattesa, provò a voltare le spalle per sfuggirle, ma si trovò davanti Valerija, che lo colpì allo stomaco con un pugno. Grugnendo, l’uomo mosse un passo all’indietro, finendo proprio addosso a Katy, che stava sopraggiungendo di corsa.
   Senza nessuna esitazione, la ragazza lo abbrancò da dietro la schiena e, sollevandosi sulle punte dei piedi per essere più alta, gli fece scivolare il braccio attorno al collo, nel tentativo di strangolarlo. Pavkov, urlando come un maiale scannato, provò a sbarazzarsi di lei, ma Valerija non glielo permise, colpendolo ripetutamente con rapidi pugni nel ventre e sul volto. Quando l’archeologo tentò di allontanarla con un calcio, lei rispose facendo partire una ginocchiata in direzione dei testicoli.
   Pavkov gridò e starnazzò e portò istintivamente le mani alla parte dolorante. Questo diede a Katy la possibilità di stringere più forte la presa attorno alla sua gola.
   L’uomo, quasi soffocato, crollò in ginocchio, trascinando con sé la ragazza che, però, non lo lasciò andare né allentò la stretta, decisa a lasciarlo andare solo quando fosse riuscita a ucciderlo.
   «Ferme!»
   Uno dei due agenti, quello che era andato a sbattere contro il tronco d’albero, si era ripreso e aveva raggiunto il gruppetto. Stringeva una pistola tra le mani e la puntava con decisione verso la testa di Katy. La ragazza non se ne curò e aumentò la presa sulla gola di Pavkov, che ormai rantolava.
   «Lascialo o uccido la tua amichetta!» ruggì una seconda voce.
   L’altro agente dell’OZNA era riuscito a risalire la china e teneva la pistola rivolta in direzione di Valerija. Lei cercò di sottrarsi, ma l’uomo questa volta fu più veloce e, afferratala per il bavero, la tenne stretta, piantandole la canna contro la tempia.
   «Conto fino a tre!» minacciò l’uomo. «Poi la guardi morire!»
   Se anche le avessero sparato addosso, Katy non si sarebbe arresa. Ma ora le cose cambiavano. Non poteva permettere che facessero del male a Valerija. Con un singulto, lasciò finalmente andare Pavkov, che scivolò in avanti, tossendo e cercando di riprendere aria.
   «Tutto bene, professore?» domandò l’agente che teneva la pistola puntata verso Katy.
   L’archeologo lo fissò con profonda rabbia.
   «Ti pare che vada tutto bene?» gracchiò per quel poco che riusciva a parlare con la gola dolorante. «Per colpa di voi impiastri quella troietta mi ha quasi strangolato!»
   Si rialzò di scatto e, mosso un passo verso l’agente, gli strappò di mano la pistola, puntandola poi contro Katy.
   «Dove preferisci che te lo piazzi, il primo colpo, teppistella?» gracidò, il petto che si alzava e si abbassava velocissimo. «Nella mano? Nel ginocchio?»
   La ragazza sostenne la vista della pistola senza mostrare alcun timore, sebbene non poté impedirsi di impallidire.
   «Scappa, Katy!» urlò invece Valerija, sfidando impunemente la pistola che le premeva contro la tempia.
   «Taci, puttana!» sbraitò Pavkov, volgendosi verso di lei. «A te penserò dopo…!»
   Approfittando di quell’attimo di distrazione, Katy prese la rincorsa e gli si avventò addosso. Ma Pavkov era guardingo e, prima che lei avesse potuto anche solo toccarlo, la colpì al viso utilizzando la pistola come se fosse stato un randello.
   Perdendo sangue dalla guancia ferita, Katy cadde riversa al suolo, gemendo.
   «Ora basta» sibilò l’archeologo, furioso. «Ho perso fin troppo tempo, con te. È ora che tu vada a tenere compagnia a paparino.»
   Le puntò la pistola alla nuca, schiacciandole il duro e freddo metallo tra i capelli neri e scompigliati. Ma la precisa raffica del Kalashnikov lo raggiunse prima che avesse potuto fare altro, devastandogli il petto e gettandolo a terra, rantolante.
   L’agente disarmato ricevette la medesima sorte, mentre l’altro uomo, spinta via Valerija, cominciò a sparare all’impazzata verso l’alto, cercando di correre al riparo di un albero per sottrarsi ai colpi degli AK-47.
   Katy riaprì gli occhi e, sollevandosi sulle palme, vide suo padre e don Mavro sparare contro l’ultimo dei loro nemici. Un dolcissimo calore le riempì il petto e non riuscì a trattenere un grido di gioia.
   «Old J!» urlò, con un largo sorriso, questa volta piangendo lacrime di felicità.
   «Mettiti al riparo!» sbraitò Indy, facendo ricorso a tutto il fiato che aveva in gola per riuscire a sovrastare il frastuono degli spari.
   Katy non se lo fece ripetere. Si lasciò scivolare di qualche metro sulle foglie secche, si rimise in piedi e incespicò. Valerija, rialzatasi dopo essere caduta, corse in suo aiuto, prendendola per il braccio e trascinandola al riparo di un grosso tronco rovesciato.
   Quell’ultima battaglia fu piuttosto breve. L’agente finì i proiettili e non gli restò altro da fare che provare a darsela a gambe. Ma, mentre si gettava a rotta di collo giù per il pendio, un’ultima raffica lo raggiunse alle gambe, spaccandogliele. Con un grido, rotolò verso il basso e andò a schiantarsi contro una quercia nodosa, spezzandosi l’osso del collo.
   Sulla piramide calò il silenzio e Indy e don Mavro, dopo aver abbassato le armi, si affrettarono a raggiungere le due ragazze.
   «Papà!» gridò Katy, lasciando il riparo e correndo ad abbracciarlo. «Temevo… avevo paura… che…»
   Indy, colpito da quello slancio di affetto, buttò via il fucile e la tenne stretta, accarezzandole con delicatezza i capelli, come faceva sempre quando era una bambina.
   «Su, su» la rassicurò, sfiorandole la fronte con un bacio leggero. «È tutto passato…»
   Don Mavro si avvicinò a Valerija, ancora scossa e tremante, e le strinse con garbo la mano, sussurrando qualche parola di conforto.
   Un rumore di foglie smosse attrasse la loro attenzione. Si voltarono e videro Pavkov strisciare lentamente sul terreno, appena sollevato sopra i gomiti. Perdeva sangue dalla bocca e, a ogni respiro, il sangue gli gorgogliava nelle ferite sul petto.
   «Che faccio, gli buco il cervello?» propose don Mavro, assaporando il momento, il dito che già accarezzava il grilletto.
   Indy gli rivolse un rapido sguardo denso di sarcasmo.
   «Padre, veramente, ho sentito dire che gli angeli della morte vorrebbero chiederle qualche consulenza tecnica» commentò. «Comunque, lasci perdere. Ormai è mezzo andato. Lasciamo che vomiti la sua anima nera dalle ferite. Però, prima, ha qualcosa di nostro che deve restituirci…»
   Fece cenno a tutti di rimanere dove si trovavano e lo raggiunse con due rapidi passi.
   «Professor… Jones…» biascicò l’uomo, con un tono che avrebbe fatto impietosire un pezzo di ghiaccio. «…la prego… mi… aiuti…»
   L’archeologo lo guardò con profondo disgusto, senza lasciarsi toccare da quelle suppliche.
   «Volevi far fuori me, e questo passi, non sei certo il primo che ci prova e probabilmente nemmeno l’ultimo» disse, parlando con un basso ringhio. «Ma hai provato a fare del male a mia figlia, bastardo, e questo non te lo perdonerò mai.»
   Quindi si chinò e, afferratolo per le spalle, lo ribaltò con violenza. Pavkov gridò per i dolori. Senza badare alle sue sofferenze, Indy gli aprì la giacca e trovò la mappa di Barbarigo. Era macchiata di sangue per una buona metà, e un proiettile l’aveva forata sul lato superiore, ma grossomodo era ancora intatta e leggibile. Dopo averla esaminata in fretta, la ripiegò con cura e la tenne stretta nella mano sinistra.
   «…Jones…» mugugnò ancora Pavkov, con le ultime forze che gli restavano, «…per… favore… non mi… lasci… dissanguare così… pensi che… in fondo… siamo colleghi…»
   Indy esitò. Lanciò uno sguardo a Katy, che lo attendeva poco lontano insieme a don Mavro e a Valerija e lo osservava con sguardo ancora leggermente umido e vacuo per lo spavento. L’uomo che rantolava ai suoi piedi aveva cercato di ucciderla, la sua amata bambina. Non poteva che odiarlo. Eppure, non poteva neppure permettersi di lasciare qualcuno a soffrire in quel modo: poteva essere sanguinario e cinico finché voleva, poteva aver sempre utilizzato i metodi più spicci e sleali per far secchi gli avversari, ma non era da lui comportarsi in quella maniera.
   Guardò di nuovo verso Pavkov, ormai ridotto a un ammasso di sangue ribollente, e questo gli fece tornare in mente Lothar Chlodochar. Anche lui era stato suo nemico, eppure quando era giunta la fine, aveva cercato di aiutarlo e, non riuscendoci, lui e Mac gli avevano concesso un ultimo colpo di grazia, per far cessare le sue indicibili sofferenze. Se aveva saputo comportarsi così da giovane, quando era praticamente solo al mondo, non poteva permettere che il suo cuore si indurisse proprio adesso che era diventato vecchio, davanti agli occhi della sua adorata Katy.
   Si inginocchiò di nuovo accanto al moribondo, valutando che cosa potesse fare per aiutarlo. Allungò il braccio per scostare i brandelli della camicia e osservare meglio le sue ferite, quando Pavkov fece un movimento improvviso. Nella sua mano, tenuta nascosta fino a quel momento, era impugnata una piccola pistola a due colpi. La puntò a bruciapelo verso Indy e premette il grilletto.
   «Papà!» urlò Katy, vedendo suo padre trasalire, rovesciarsi all’indietro e accasciarsi.
   Tutti e tre accorsero e don Mavro spedì una raffica aggiuntiva nel corpo di Pavkov, che dopo un ultimo sussulto esalò il suo ultimo respiro. Le due ragazze si lasciarono cadere di fianco a Indy, che era steso poco più in là, e lo girarono a fatica.
   Il proiettile era penetrato nel fianco destro, all’altezza dell’intestino. La camicia bianca, già tutta logora e insanguinata, si stava rapidamente inzuppando di sangue e il vecchio archeologo traeva lunghe e faticose boccate d’aria cercando di resistere al dolore.
   «Papà… Old J…» singhiozzò Katy, facendo correre lo sguardo di continuo dalla brutta ferita ai suoi occhi che stentavano a rimanere aperti, per poi tornare alla ferita e poi di nuovo agli occhi.
   Don Mavro la scostò con poco garbo e si chinò a osservare la ferita.
   «Il proiettile è rimasto incastrato dentro, e devo dire che per il momento è un bene, perché sta in qualche modo rallentando l’uscita del sangue» borbottò tra sé e sé. «Ma bisogna subito medicare questa ferita e bendarla, o rischiamo che si infetti. E poi bisognerà estrarlo al più presto, prima che faccia infezione.»
   «Dobbiamo portarlo in ospedale! Ora!» strillò Katy, disperata.
   Il sacerdote si voltò a fissarla con sguardo bonario e intenerito.
   «Vuoi scherzare, figliola» replicò, con tono mite e pietoso. «Tutti gli ospedali sono sotto il controllo del governo. Appena ci mettessimo un piede dentro, ci troveremmo un’altra volta addosso l’OZNA, e allora sì, che sarebbe finita per davvero.»
   Katy ricominciò a piangere e si volse a guardare suo padre, a cui Valerija stava sorreggendo la testa. Indy trovò la forza di rivolgerle uno dei suoi soliti ghigni beffardi, che per un istante la fece ridere tra le lacrime. Tornò a rivolgersi al prete.
   «E allora che facciamo?» domandò, cercando di mantenere il controllo, sebbene parlasse un po’ troppo in fretta per poter dare l’impressione di essere calma. «Lo lasciamo così?» A quella prospettiva, nuove lacrime le rigarono il volto.
   Don Mavro si rialzò e osservò il cielo che, ormai, si stava facendo scuro.
   «Non ho detto questo» replicò. «Sono in contatto con diversi gruppi di ribelli e, tra di loro, ci sono anche molti medici. Parecchi operano in questa zona e, con un po’ di fortuna, posso riuscire a farli arrivare qui in breve tempo.»
   Si chinò sul cadavere martoriato di Pavkov e gli prese dalla cintura la ricetrasmittente che, per fortuna, non era stata danneggiata nel corso della sparatoria. Allungò l’antenna e, girando il regolatore delle frequenze, ne impostò una che conosceva a memoria.
   «Pronto?» parlò. «Mi ricevete?»
   Mentre don Mavro comunicava via radio, Katy tornò a chinarsi accanto suo padre. Le sue ginocchia affondarono nello strato di aghi e corteccia che copriva il terreno e le sue mani si strinsero fino a far sbiancare le nocche. Indy, di nuovo, trovò la forza per sorriderle, sebbene non riuscisse più a tenere gli occhi aperti.
   «Katy…» mormorò, con voce stanca.
   «No, papà, non parlare, non devi affaticarti, ora vengono a prenderti, ti curano…» disse lei, mangiandosi le parole, stentando a trattenere altre lacrime.
   Lui sollevò a fatica la mano verso di lei. Ogni movimento sembrava costargli uno sforzo tremendo. Tra le dita, stringeva ancora la mappa per la Fonte dell’Eterna Giovinezza.
   «La mappa, papà» disse lei, tirando su dal naso e provando a sorridere. «L’abbiamo trovata, proprio come dicevi tu. Nessuno può batterti. Sei sempre il migliore…»
   L’archeologo le fece cenno di prenderla.
   «Io… forse non posso farcela…» mormorò. «Ma tu… sì. Fai quello che… bisogna fare…»
   Katy scosse la testa, rifiutandosi di prendere quell’antico pezzo di carta.
   «Lo faremo insieme, papà» rispose, mentre i singhiozzi le spezzavano la voce. «Ci andremo insieme…»
   Indiana Jones lasciò cadere la mano. Le rivolse quello che parve un cenno d’intesa, poi chiuse gli occhi e reclinò la testa.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Tra presente e passato ***


   16 - Tra presente e passato
 
    Vica, Bosnia ed Erzegovina, Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia

   Katy sedeva rigida, le mani raccolte in grembo, lo sguardo attonito. Fissava il vuoto, persa a inseguire mille pensieri contrastanti di cui non riusciva a distinguere i contorni e che la trasportavano di continuo in luoghi e tempi differenti.
   Si rivedeva piccola, quando fingeva di giocare con le bambole nella sua cameretta, le orecchie tese per ascoltare tutti i rumori della casa. Quando, finalmente, sentiva il click della abat-jour che si spegneva nella camera da letto dei genitori, sapeva che il momento tanto atteso si stava avvicinando. Aspettava ancora una manciata di minuti, ascoltando i respiri farsi lenti e regolari, e poi sgusciava silenziosa come un gatto fuori dalla porta. I suoi piedini nudi non producevano nessun tipo di rumore sulle fredde assi del pavimento mentre si avvicinava di soppiatto allo studio di papà. La porta era sempre chiusa a chiave, e la chiave era custodita nel cassetto del comodino accanto al letto matrimoniale: un accorgimento che papà aveva sempre preso per impedire a lei ad Abner di entrare da soli in quel luogo pieno di oggetti potenzialmente pericolosi, oltre che troppo fragili per poter finire tra le mani di bambini di cinque o sei anni.
   Ma se Indiana Jones si credeva furbo, sua figlia era capace di batterlo in astuzia. A Katy non era servito molto per scoprire che, tutte le porte interne della casa, avevano una serratura standard, e che quindi una chiave qualsiasi sarebbe andata bene per aprirle praticamente tutte. Perciò le era bastato prendere quella della sua stanza, che a suo tempo era stata tolta e riposta in un cassetto insieme a varie altre cianfrusaglie dimenticate, e farne il suo lasciapassare garantito.
   Ogni notte, allora, si avvicinava alla porta dello studio, inseriva il suo personale passepartout, lo girava con lentezza quasi esasperante per non provocare scatti troppo rumorosi, ed entrava in quella stanza che, per lei, equivaleva alla caverna delle meraviglie in cui era disceso il piccolo Aladino.
   Lì di lampade magiche, a dire il vero, non ce n’erano, eppure vi era un’immensa quantità di altri oggetti altrettanto curiosi e affascinanti, su cui i suoi occhi si posavano con ammirazione e stupefazione. Le sue esili dita toccavano, accarezzavano, sfioravano quella raccolta incredibile, senza paragoni.
   I tesori erano ovunque. Accumulati sugli scaffali, in mezzo a libri dai titoli curiosi ed evocativi, c’erano statuine dall’aspetto misterioso, punte di freccia, raschiatoi per pelli, cocci, vasi mezzi rotti e persino un’anfora nera a figure rosse ancora intatta, che raffigurava Achille, il grande ed elaborato scudo appeso al braccio, impegnato a inseguire Ettore sotto le mura di Ilio.
   Gli occhi sgranati di Katy studiavano quelle forme, le sue mani le sfioravano, il suo visetto si illuminava di gioia infantile e la sua mente cavalcava nelle praterie del tempo, domandandosi quali altre mani e quali altri occhi avessero indugiato su quegli stessi oggetti. Storie incredibili, sulle quali avrebbe potuto fantasticare per ore, vivendo mirabolanti sogni a occhi aperti.
   Una vetrinetta d’angolo raccoglieva una collezione di monete provenienti da chissà quale luogo lontano, alcune bucate nel centro, tutte ricoperte da scritte misteriose di cui non comprendeva il significato, appena distinguibili attraverso la patina verde che le aveva ricoperte. Nell’angolo, una cassa di legno ospitava frammenti di ceramica polverosi ancora da catalogare, e proprio lì accanto un mobiletto era dedicato ad alcune fragilissime pergamene da cui pendevano dei cartellini ingialliti.
   La parte della stanza dove maggiormente le piaceva di più andare a curiosare, però, era senza dubbio la grande scrivania di rovere, posta davanti alla finestra. Era sempre ingombra di oggetti di vario genere: piccole cassette di legno contenenti strani manufatti, diagrammi con misure e calcoli, righe e matite, lenti di ingrandimento e antichi manufatti che avevano una certa importanza per gli studi in corso; e, i pochi angoli della superficie lasciati liberi, davanti alle cornici argentate delle fotografie del nonno e di altre persone che lei non aveva mai conosciuto, erano ricoperti da disegni appena schizzati, mappe e appunti scribacchiati a mano, rivelatori della prossima impresa di papà.
    Katy rimaneva per delle ore intere a gironzolare per lo studio, curiosando ovunque, ficcando il suo grazioso nasino tra mille segreti. Di tornarsene a letto e mettersi a dormire, visto che il giorno dopo si sarebbe dovuta svegliare presto per andare a scuola, non ci pensava nemmeno. Sognava di partire insieme a suo padre, di accompagnarlo in qualcuna delle sue avventure, avrebbe tanto voluto diventare archeologa come lui. E fu proprio tra quelle raccolte che promise a se stessa che quella sarebbe stata la sua strada, una promessa che, alla fine, dopo duri studi, era riuscita a mantenere.
   Ora quei momenti le sembravano lontanissimi, cristallizzati in un’epoca che si sgretolava a poco a poco. Alla gioia del passato si sommava il dolore incontenibile del presente. Doveva concentrarsi sui suoi ricordi, perché se pensava a ciò che stava accadendo adesso, si sentiva stringere le viscere da una gelida morsa d’acciaio che le toglieva il fiato. Non aveva nemmeno più la forza per riuscire a piangere.
   Diede un’occhiata alla porta chiusa di fronte a sé. Erano in una vecchia ma bella e pulita casetta ai margini di una foresta, circondata da un orticello ben curato. Vicino alla porta, seduto sopra una panca, don Mavro – deposto finalmente il Kalashnikov e ritrovata la sua solita pacatezza da prete – leggeva il suo breviario, muovendo in silenzio la bocca. Sopra alcuni sgabelli lì accanto, tre donne con il capo coperto dai fazzoletti colorati sgranavano il rosario, recitando gli avemaria. Una, più anziana, era la moglie del padrone di casa, il dottor Obradovic, e le altre – una ragazza sui venticinque anni e una più giovane, ancora adolescente – erano due delle sue tre figlie. Valerija, dopo averle tenuto la mano stretta per un po’ di tempo, aveva compreso di doverla lasciare da sola e si era unita a loro, cominciando a pregare a mezza voce.
   Katy era loro grata, perché stavano pregando per suo padre. Sapeva benissimo che lui era un miscredente – “un ateo impenitente dalla nascita e che non demorde nemmeno ora che sta diventando vecchio come il cucco” diceva sempre la mamma, specialmente quando lo sentiva bestemmiare per qualcosa – eppure si sentiva sicura che persino lui, se avesse saputo che quelle preghiere erano recitate per il suo bene, avrebbe ringraziato.
   Alcuni uomini erano accorsi molto in fretta alla chiamata urgente di don Mavro. Avevano messo insieme una barella improvvisata e se ne erano serviti per trasportare l’archeologo esanime giù per il pendio, fino a un furgone, che era partito subito. Le due ragazze e il sacerdote, dopo aver ricevuto i primi soccorsi per le loro ferite, per fortuna non gravi, erano stati fatti salire sull’automobile di don Mavro, alla cui guida si era messo un altro dei ribelli, che si era avviato dietro il furgone. Gli altri erano rimasti alla piramide, con l’incarico di far scomparire i cadaveri di Pavkov e degli agenti dell’OZNA e di sigillarne l’ingresso.
   Il dottor Obradovic era un uomo robusto e spiccio, di piena fiducia. Per lui non esistevano comunisti o ribelli: per lui c’erano solo i feriti e gli ammalati bisognosi delle sue cure. Aveva accolto tutti senza troppe cerimonie e, dopo un primo esame alla ferita di Indy, si era chiuso con lui e con la sua figlia maggiore, che faceva da infermiera, nel suo ambulatorio. Da quel momento le ore avevano iniziato a trascorrere interminabili e angosciose, scandite con esasperante monotonia dall’antiquata pendola accostata alla parete. La molla del meccanismo interno doveva essere guasta, perché allo scoccare dei quarti, delle mezz’ore e delle ore non suonava mai.
   Katy di quando in quando tendeva le orecchie, cercando di cogliere qualche rumore provenire da dietro la porta chiusa. Non riusciva a udire altro che le sommesse preghiere di Valerija e delle altre tre donne e il ticchettare incessante del vecchio orologio.
   Da quando erano giunti non si era più mossa da quella sedia. Non faceva alcun caso ai muscoli intorpiditi della schiena, alle gambe che cominciavano a muoversi in scatti incontrollabili. Aveva soltanto accettato il bicchiere d’acqua che Fata, la graziosa ragazza adolescente, le aveva versato su sollecitudine della madre. Lei aveva ringraziato con un filo di voce appena udibile, e da quell’istante non era più nemmeno riuscita a dire nulla.
   Era terrorizzata. Non poteva credere che stesse accadendo davvero. Quelle erano cose che potevano succedere a chiunque, a ogni persona sulla faccia del pianeta, persino a lei, ma non a suo padre. Suo padre era invulnerabile, indistruttibile. Non era una questione di età, ne era certa. Per Indiana Jones l’età non significava assolutamente nulla. Nessuno poteva batterlo, soprattutto non un infido damerino che lo colpiva a tradimento mentre lui si chinava per vedere se potesse in qualche modo salvarlo.
   Una nuova lacrima le solcò la guancia, poi un’altra e un’altra ancora. Alzò gli occhi e, attraverso il velo acquoso del pianto, vide la porta restare ostinatamente chiusa. Cominciava a mancarle l’aria e il monotono risuonare delle preghiere, che dapprincipio l’aveva rincuorata, iniziava a infastidirla. Si alzò in piedi. Doveva uscire a prendere una boccata d’ossigeno fresco.
   Valerija la guardò, incerta. Voleva ancora restare da sola? No, Katy aveva bisogno di averla vicino. Tese la mano verso di lei e la ragazza si alzò. La prese e la condusse con sé attraverso l’atrio. Uscirono in giardino.
   Era notte fonda, ormai. La brezza che soffiava dai monti era fredda e profumata d’umidità e la foresta circostante era una pennellata di nero impenetrabile. Il cielo era solcato da lunghe nubi sfilacciate, grigiastre nell’oscurità, che qua e là si squarciavano lasciando intravedere alcune stelle delle costellazioni autunnali. Orione, seppure attraversato da una lunga e vaporosa scia, dominava su tutti nella sua eterna lotta contro il Toro in carica per la conquista delle sette Pleiadi, le dolci sorelle figlie di Atlante.
   Senza lasciare andare la sua mano, Katy si aggrappò a Valerija e la strinse a sé in un abbraccio. Aveva bisogno di sentirsi protetta, confortata. Anche se si conoscevano soltanto da pochi giorni, anche se aveva creduto che ciò che era accaduto tra di loro fosse stato soltanto una forma di divertimento, come con tutte le altre, ora sentiva improvvisamente di amarla. Forse era soltanto una pazzia, una sensazione passeggera accresciuta dalla paura. Probabilmente era solamente la necessità di sentire accanto a sé una persona importante, magari era solo una mera illusione.
   Non aveva importanza. Ora contava soltanto ciò che credeva, non ciò che corrispondeva al vero. Aveva bisogno di lei e per questo le si aggrappò con tutto il proprio essere, come se cercasse di fondersi in lei. Cercò la sua bocca, vi affondò le sue labbra riarse dalla stanchezza e dalla tensione e così restarono per un tempo indefinito, immerse nel silenzio e nel freddo della notte, quel freddo che si annullava nella vicinanza dei loro corpi.
   Ancora una volta la sua mente viaggiò nel passato.
   Rivide il giorno in cui aveva trovato il coraggio di confessare a suo padre che le piacevano le ragazze, che si sentiva attratta da loro. Lo aveva scoperto, raccontò, perché Lorene, una sua compagna di classe a cui era molto affezionata, quando l’aveva saluta per l’ultima volta l’aveva baciata con trasporto, sulla bocca. In quel momento si era resa conto di una verità che aveva sempre negato persino a se stessa: quel bacio era ciò che desiderava da tanto tempo.
   Aveva temuto a lungo di dover fare quella confessione. Suo padre, in fondo, era un uomo piuttosto avanti con gli anni, apparteneva a un’altra generazione rispetto ai genitori dei suoi amici, perché lui e la mamma si erano sposati tardi, tanto che quasi nessuno – nessuno, tranne loro due – si sarebbe aspettato che avrebbero potuto avere dei figli. Katy sapeva che il suo papà era uno studioso dalla mente aperta, ma si chiedeva spesso fino a che punto. Aveva avuto paura della sua reazione. Temeva che l’avrebbe presa male, che non l’avrebbe capita, che avrebbe creduto di aver cresciuto una psicopatica, una specie di mostro anormale, con qualche strana tara nel cervello. Eppure sapeva anche di non poter vivere per sempre con quel segreto nel cuore.
   Alla fine, ancora adolescente, era riuscita a trovare il coraggio necessario ad affrontare l’argomento, seduta sul seggiolino di un aereo di linea della Pan Am, mentre tornavano a casa da un viaggio in Perù. Lei e suo padre si erano avvicinati molto, nel corso di quel viaggio indimenticabile, e si era detta che, se non lo avesse fatto in quel momento, non ci sarebbe riuscita mai più. Dopo aver preso un lungo e profondo sospiro, aveva parlato tenendo la testa rivolta al finestrino, guardando le nuvole e desiderando di fondersi con esse mano a mano che la sua lingua continuava ad articolare le parole proibite.
   Quando aveva finito, si era sentita toccare la spalla con garbo e si era voltata, pronta ad affrontare una sfuriata. Suo padre sogghignava. Una volta di più, Indiana Jones era riuscito a sorprenderla con il suo sarcasmo.
   «Ti capisco perfettamente» aveva sussurrato, con tono di complicità. «Anche a me piacciono le ragazze, lo sai, no? Comprendo benissimo che cosa ci trovi, e mi chiedo come sia possibile che ci sia gente che non perde la testa per loro…»
   Katy aveva fatto un pallido sorrisetto e Indy, stringendo un po’ più forte la presa sulla sua spalla, aveva soggiunto: «Forse non te l’ho mai detto, ma a mio padre – tuo nonno Henry – piaceva il tè. Lo faceva letteralmente impazzire. Ne beveva una tazza appena gli era possibile. Io quella specie di brodaglia marronicina non l’ho mai potuta sopportare, neppure quando mi ammalo. Toglietemi tutto, dico io, ma non i miei tre caffè al giorno…»
   «Papà…» aveva mormorato con una vocina sottile la ragazza. Indy non le aveva permesso di continuare.
   «Hai presente quando a casa mangiamo la torta? Tua madre si ostina a prepararla sempre e solo alle mele, perché a lei piace così. Dice che al cioccolato non le va proprio giù. Io ci vado matto, per la torta al cioccolato, e quando ne ho voglia mi tocca andare a ordinarne una fetta al ristorante.» Le strizzò l’occhio. «Ognuno ha i suoi gusti, no? Non c’è proprio nulla di male, in questo.»
   «Old J, non è la stessa cosa!» aveva finalmente trovato il coraggio di sbottare la ragazzina. «Tu parli di torte e di caffè, ma non è affatto lo stesso! Tu mi dici che anche a te piacciono le donne, ma questo è normale: tu sei un uomo! È nel mio caso che non è norm…»
   Indy l’aveva zittita posandole con garbo il dito sulle labbra perennemente screpolate. Aveva rivolto un’occhiata al didietro ancheggiante di una hostess appena passata nel corridoio accanto ai loro sedili, ed era tornato a guardare la figlia.
   «Katy, amore mio, ci sono moltissime cose che io non so e non saprò mai» disse, con tono profondo e cavernoso. «Riconosco la mia ignoranza. Ma una credo di averla imparata molto bene. Ho girato il mondo in lungo e in largo, ho visto una quantità di cose che neppure puoi immaginarti, ho avuto a che fare con centinaia… ma che dico, con migliaia di persone. E la sola cosa che ho capito è la più importante di tutte: quella che noi definiamo “normalità”, in realtà non esiste affatto. Non è nascosta da nessuna parte, la natura non l’ha prevista. Ce la siamo inventata perché faceva comodo così. Ma è una nostra idea sballata, senza senso. Esistono soltanto le convenzioni e il modo in cui ciascuno di noi le mette in pratica. E le convenzioni sono soltanto delle stupidaggini vecchie e inutili, mirate a distruggere la libertà di ciascuno di noi di poter esprimere se stesso. Sai cosa devi fare, di tutto ciò che viene considerato la normalità? Devi farne un fagotto e buttarlo via.»
   Katy, in quel momento, si era sentita scaldare il petto da un fuoco dolcissimo, che si era attizzato ancora di più quando suo padre, sollevato il bracciolo che separava i due sedili, l’aveva presa tra le braccia e l’aveva stretta. Non si era mai sentita così bene come in quel momento. Si era tolta un peso dal cuore e suo padre non solo le aveva detto che era stato sempre un peso inutile, ma le stava dimostrando di volerle sempre bene, senza che quella confessione cambiasse qualcosa tra di loro. Perché lei era sempre lei e nulla avrebbe potuto mutare l’affetto che li univa.
   Ora, mentre stringeva e baciava Valerija, quasi sul punto di restare senza fiato, Katy piangeva e rideva ripensando a quei momenti. La ragazza, sorpresa, la lasciava fare, lasciando che lei le riempisse la bocca con la sua lingua nervosa e bisognosa di attenzioni, mentre la sua mano l’accarezzava con delicatezza sulla schiena.
   Più difficile, semmai, era stato dirlo alla mamma. Marion aveva avuto una vita piuttosto difficile, da giovane, e per la sua unica figlia femmina sognava un futuro da principessa, un matrimonio da fiaba. Katy non ne voleva affatto sapere, ma non era riuscita in nessun modo ad aprire bocca dinnanzi a lei per dirle la verità. Dopo due anni da quel viaggio in aereo, due anni durante i quali Indy si era rivelato il miglior complice del mondo mantenendo il segreto con il silenzio più assoluto, non le aveva ancora detto nulla. Ma stava diventando un assillo, al punto da toglierle il sonno e riempirle la cute di forfora fastidiosa per lo stress.
   Ancora una volta, era stato quell’eterno ragazzino di suo padre a venirle incontro, con una trovata delle sue.
   «Katy, è giusto che la mamma sappia» le disse un pomeriggio, mentre Marion era fuori casa, impegnata al bar che gestiva. «Non tanto perché sia una cosa fondamentale, eh» soggiunse, con aria ironica, «ma, almeno, la smetterà una buona volta di tormentarmi tutti i giorni sul fatto che sarebbe meglio che tu ti cercassi un fidanzato, possibilmente ricco.»
   «Io ci ho provato, papà» aveva sussurrato Katy, seduta sulla sponda del letto, con le mani strette tra le cosce. «Non ci riesco. È più forte di me. Quando sto per dirglielo, mi faccio spaventare e sto zitta. E, comunque, di una persona fissa con cui stare non ne voglio sapere niente! Finché posso voglio divertirmi, io!»
   Indy aveva sorriso orgoglioso. Sua figlia gli assomigliava ogni giorno di più. Magari una volta o l’altra, proprio come era successo a lui, avrebbe trovato la persona con cui trascorrere l’intera esistenza, la dolce metà della sua anima. Prima, però, intendeva godersi la vita senza problemi. La comprendeva perfettamente, perché anche lui sapeva che cosa significasse essere uno spirito libero e affrontare l’esistenza senza troppi pensieri, decidendo mano a mano quale strada seguire.
   «Be’, magari, potremmo escogitare un modo diverso, per farglielo sapere…» aveva suggerito, strizzando l’occhio.
   Il giorno seguente, Indy aveva insistito per portare Marion a fare un giro a bordo del suo pick-up Ford. Per pura e semplice casualità, era passato proprio accanto al parco cittadino di Bedford, e lì aveva rallentato a passo d’uomo.
   «Be’, che accidenti succede a questa vecchia carriola, Jones?» sbottò Marion. «Devo scendere a spingere?»
   Ignorandola, suo marito lanciò uno sguardo in apparenza fortuito oltre la cancellata del parco.
   «Ehi, non è Katy, quella seduta su quella panchina?» esclamò. «Chi è quella bella ragazzina che è con lei?»
   «Come chi è?» disse Marion, seguendo il suo sguardo. «Ti stai per caso rincitrullendo, Jones? È la sua amica Charlotte, la compagna di studi, no? Come accidenti fai a non ricordarla, è venuta a cena da noi cinque volte, questo mese, e un paio di notti si è anche fermata a dor…» Le parole le morirono in bocca. Katy aveva stretto il viso di Charlotte tra le mani a coppa e la stava baciando in una maniera che non lasciava adito a dubbi o a interpretazioni.
   «Ah…» era stato il suo unico commento.
   «Mi sa che quando si è fermata non devono aver dormito molto» ridacchiò Indy, premendo sull’acceleratore e riacquistando velocità. «Be’, che ne dici se andiamo a prenderci un gelato in quella nuova gelateria che ha aperto la settimana scorsa? Così, magari, poi le ragazze ci raggiungono e gliene offriamo un cono.»
   «Pure…» borbottò Marion, con un sorrisetto frastornato.
   Dopo quell’episodio, la mamma non era più tornata sull’argomento, e aveva continuato a comportarsi con Katy come sempre aveva fatto, ma con la significativa – e gradita – variante di non fare più nemmeno mezza allusione sulla possibilità che sua figlia si sposasse.
   Katy aveva bisogno di riprendere fiato e sentì che anche Valerija cominciava ad avvertire la medesima necessità. Staccò la bocca dalla sua e questo le provocò una specie di senso di vuoto, che riempì immediatamente affondandole il viso nell’incavo tra il collo e la spalla e beandosi del suo odore e del suo calore.
   Non aveva rimpianti. Tutto ciò che aveva fatto in vita sua, Katy lo aveva deciso deliberatamente. Aveva scelto di seguire le orme di suo padre, diventando archeologa come lui, sebbene non potesse certo dire di essere stata una studentessa modello. Aveva vinto le sue paure ed era riuscita a dichiarare la sua omosessualità: non l’aveva sbandierata ai quattro venti, perché sapeva quanto il mondo sapesse ancora essere cattivo e crudele con chi era considerato diverso, ma era comunque riuscita a farla conoscere alle persone importanti della sua vita, e questo era ciò che contava. Aveva deciso di non legarsi per davvero a nessuno finché non fosse arrivato il momento giusto, presto o tardi che fosse: fino a quel momento, non avrebbe fatto promesse a nessuno, nemmeno a Valerija, che pure adesso stava abbracciando come se fosse il suo scoglio di salvezza nel mezzo di una violenta tempesta.
   Il passato era dolce e luminoso, e lo era stato fino a soltanto poche ore prima. Tutto era cambiato quando aveva visto suo padre accasciarsi, mortalmente pallido, sporco di sangue. In quel momento un’ombra fredda e nera aveva tramutato il suo presente, cancellando ogni traccia di felicità dal suo spirito. Tutto si era trasformato in un’angosciante e interminabile sofferenza, un’angoscia continua che la vicinanza di Valerija, il suo corpo stretto al suo, le dita intrecciate tra i capelli, contribuiva appena un poco a mitigare.
   «Katy…» sussurrò la ragazza, accarezzandole lo zigomo bagnato di pianto. «Vuoi provare a fare quattro passi?»
   Lei annuì e, tenendosi abbracciate con le braccia strette attorno alla vita, si incamminarono fuori dall’orto, avviandosi lungo un sentierino, quasi invisibile nell’oscurità e circondato com’era dalle sterpaglie, in direzione della foresta nerissima.
   Le foglie cadute, fragranti di umidità, si incollavano alla suola delle scarpe, e i fili dell’erba bagnavano l’orlo dei pantaloni. L’aria era sempre più fredda, lievemente mossa. Dai meandri della foresta, giungevano piccoli suoni appena percettibili: ronzii di insetti sconosciuti, richiami di civette e altri uccelli notturni che non sapevano distinguere, il frusciare delle foglie ingiallite ma ancora aggrappate con viva tenacia ai loro rami.
   Katy si fermò a osservarle e Valerija con lei, paziente.
   Quelle foglie, nonostante l’autunno le avesse rinsecchite e indebolite, lottavano ancora con forza, resistevano al vento che avrebbe voluto gettarle al suolo, mischiandole alle erbe e tramutandole in nuova linfa da cui sarebbe germogliata una nuova esistenza. Non si sarebbero lasciate rovesciare inerti, senza lottare. Avrebbero lottato fino all’ultimo, con ogni stilla della propria energia, con le unghie e con i denti, con tutte le loro tecniche più segrete, pur di far trionfare il loro sacrosanto diritto alla sopravvivenza.
   Ed era certa che anche suo padre avrebbe fatto così. Il suo papà non era uomo da arrendersi per così poco, da lasciarsi sconfiggere da una piccola ferita.
   Un giorno, inevitabilmente, anche per Indiana Jones sarebbe arrivato il momento di andarsene nel vento, di lasciarsi trasportare altrove, di diventare parte di un tutto superiore, di affrontare una nuova avventura dai contorni sfumati e di cui nessuno avrebbe potuto prevedere l’esito; e lo avrebbe fatto con lo spirito indomito di sempre, con il sorriso beffardo a incurvargli le labbra. Ma sua figlia era certa che, quel momento, non fosse ancora giunto. Per adesso lui sarebbe rimasto ancora lì con lei, come sempre.
   Era una suprema certezza che sentiva crescere dentro di sé, secondo dopo secondo.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Il giorno dopo ***


   17 - Il giorno dopo
 
   L’operazione era stata lunghissima, interminabile, difficile. Per essere portata a termine, aveva richiesto tutta la notte. Il cielo, a oriente, si stava ormai tingendo di violetto per l’imminenza dell’alba. Don Mavro e la signora vegliavano ancora, mentre le due figlie del medico si erano abbandonate sulla panca, fiaccate dal sonno. Anche Katy sonnecchiava, con Valerija appoggiata sulla sua spalla, ma i suoi occhi si riaprirono di colpo quando la porta dell’ambulatorio si aprì e ne uscì il dottor Obradovic.
   Era sfinito. Il volto, terreo per la stanchezza, era solcato da lunghissime ombre. Aveva i capelli sottosopra, i baffi che cadevano molli agli angoli della bocca, la fronte imperlata di sudore. Tuttavia, i suoi occhi erano illuminati dalla serenità e le sue labbra riuscivano persino a tendersi in un sorriso incoraggiante e speranzoso.
   Katy, nel vederlo, scattò in piedi, facendo sobbalzare Valerija che, però, fu subito al suo fianco. Anche don Mavro si alzò e la signora Obradovic si affrettò a svegliare le due figlie.
   La giovane Jones guardò il medico, incapace di proferire verbo. Lui annuì.
   «L’operazione è stata complicata, perché ho dovuto ricucire… insomma, ho avuto il mio bel da fare. Ma è andata bene» disse, in tono bonario. «A meno di un’infezione imprevista, che comunque tenderei a escludere in tutte le maniere, il professor Jones è salvo, anche se avrà bisogno di parecchio riposo per rimettersi. Ha un fisico davvero robusto e una tempra molto resistente, non sembra per niente un uomo della sua età, gli darei almeno vent’anni di meno.»
   Katy si sentì invadere dal sollievo e le gambe le divennero molli dalla felicità.
   «Dottore… gra… grazie…» balbettò.
   Il medico, con i suoi modi spicci, fece un brusco cenno, quindi si avvicinò a un acquaio d’angolo e si lavò la faccia spruzzando gocce fredde tutto attorno.
   «Possiamo vederlo?» domandò don Mavro.
   «È fuori discussione» replicò il medico, perentorio. Prese uno strofinaccio e lo usò per asciugarsi il viso. «Oltretutto, gli ho somministrato un sonnifero. Dormirà almeno…» gettò un’occhiata alla pendola, «…fino a mezzogiorno.»
   Fece un gesto alla moglie.
   «Ðurada, per favore, dovresti mettere a bollire una gallina bella grassa» le comunicò. «Il professor Jones, quando si sveglierà, avrà bisogno di qualcosa di sostanzioso ma leggero, quindi gli daremo una tazza di brodo, tanto oggi quanto stasera. Domani mattina, poi, potrà mangiare un po’ di carne. Per il momento niente verdure o frutta.»
   Quelle poche parole furono scambiate in serbo. Subito, però, vedendo la confusione regnare sul volto di Katy, don Mavro si affrettò a tradurle per lei. Questa notizia rese ancora più felice la ragazza, perché se il medico già pensava alla dieta per suo padre, significava che stava bene per davvero.
   «E ora» disse il medico, soffocando a stento uno sbadiglio, «se non avete più bisogno di me, io me ne andrei a letto per un’ora, prima di cominciare a fare il mio solito giro di visite in paese. Ci sono già stati i primi casi di influenza e ho un sacco di lavoro da fare, più tardi.» Lanciò un’occhiata a Katy, Valerija e a don Mavro, che apparivano ancora più stanchi di quanto non fosse lui. «E anche voi tre fareste meglio ad andarvene a dormire. Non vi reggete in piedi.»
   Don Mavro annuì stancamente e, dopo aver mormorato qualche parola, si affrettò ad entrare nella piccola stanza che gli era stata messa a disposizione, quella riservata agli ospiti. Le due ragazze, invece, si sarebbero dovute accontentare di dividere l’ampio letto in cui dormivano le due figlie più giovani del dottore – la grande, quella che lavorava come infermiera, aveva un proprio stanzino comunicante con l’ambulatorio, per essere sempre vicina ai pazienti.
   Guidate da Fata e Aleksandra – era questo il nome della ragazza venticinquenne – Katy e Valerija raggiunsero la camera, che si trovava sul retro della casa.
   Le pareti di pietra erano molto spesse, e l’ambiente era caldo e confortevole. Il pavimento di piastrelle in cotto era coperto da un ampio tappeto di lana verde finemente intrecciata. Nel centro della stanza, con la spalliera accostata alla parete, si trovava un vasto lettone coperto da una trapunta di vari colori in cui, stringendosi un poco, avrebbero potuto dormire comodamente tutte e quattro. Katy, comunque, si sentiva talmente stanca che sarebbe riuscita ad addormentarsi anche sul pavimento.
   Mentre le due ragazze si occupavano di disfare le coperte e di chiudere le ante per schermare la luce del sole che ormai si stava alzando nel cielo, Katy sedette sopra una seggiola e cominciò a slacciarsi gli anfibi. Dopo esserseli tolti, sfilò il giubbotto e i jeans, restando con indosso soltanto la canottiera e le mutandine. Per quello che la riguardava, si sarebbe sbarazzata volentieri anche di quegli indumenti, sporchi e sudati, ma non sapeva come avrebbero reagito le due padrone di casa e titubò con le dita infilate nell’elastico delle mutande.
   Con sua sorpresa, però, notò che Aleksandra e Fata, anziché apparire imbarazzate, stavano sorridendo. La più piccola tirò il primo cassetto di un mobile e ne estrasse due lunghe vestaglie da notte color albicocca, una per Katy e l’altra per Valerija, che aveva a sua volta iniziato a spogliarsi. Le due amiche, così, poterono finire di togliersi di dosso anche la biancheria e furono presto pronte per entrare nel letto.
   Anche le due sorelle le imitarono, spogliandosi senza disagi, e Katy, per quanto cascasse dal sonno, non riuscì a trattenersi dal guardarle e dal riconoscere mentalmente quanto fossero belle e affascinanti. Si morse il labbro, sperando che Valerija non l’avesse notata. L’altra ragazza, comunque, si era resa conto dei suoi sguardi, ma sorrideva divertita. Nondimeno, quando si infilarono nel letto, con Aleksandra sul lato sinistro e Fata in mezzo, Valerija fece in maniera di essere lei a sdraiarsi accanto a quest’ultima, e tenne Katy tra sé e la sponda di destra.
   Si mossero un po’, cercando una posizione più comoda e urtandosi a vicenda con dei risolini sommessi. Era incredibile come sembrasse naturale, alle due sorelle, ospitare nel loro letto due perfette sconosciute. A Katy quella sensazione piaceva, la faceva sentire benvoluta. E poi c’erano quegli odori di donna che si mischiavano tutti insieme e le pungevano le narici, donandole un senso di benessere interiore che non sarebbe stato possibile spiegare a parole.
   La mano di Valerija, nascosta sotto le coperte, sfiorò la coscia liscia di Katy e la accarezzò. I loro piedi si incontrarono e si intrecciarono. Le due giovani, senza che le sorelle se ne accorgessero, si scambiarono un rapido bacio sulle labbra.
   Finalmente tutte e quattro si quietarono e, presto, il silenzio del sonno calò sulla stanza.

 
* * *

   Disteso a letto, Indy teneva lo sguardo fisso sulla finestra. In mezzo alle nuvole che si addensavano, si scorgevano ancora degli sprazzi di cielo azzurro, al di sotto dei quali la foresta pennellata di rosso e di giallo stormiva placida. Le montagne in lontananza si innalzavano ripide e fredde, in attesa che le prime nevi giungessero a imbiancarne le cime.
   Si sentiva debolissimo, ma il dottor Obradovic, che era passato a visitarlo poco prima che sua moglie gli facesse bere una tazza di brodo caldo, gli aveva assicurato che si sarebbe stupito del contrario.
   «C’è andato davvero vicino, professor Jones» gli aveva detto, senza bisogno di specificare a che cosa stesse alludendo.
   «Ne è sicuro?» aveva borbottato l’archeologo, la testa bassa e gli occhi rivolti verso di lui.
   «Nella maniera più assoluta» ribadì il medico. «E, anzi, lasci che le dica che, se avessi tardato anche solo di altri cinque minuti per operarla, non avrei potuto fare nulla. La sua vita era davvero appesa a un filo.»
   Un sogghigno si allargò sul volto di Jones.
   «Be’, sono ancora qui, dottore, e lo devo soltanto a lei.» Fece un cenno con il capo. «Grazie.»
   «Non c’è di che» borbottò Obradovic, alzandosi dalla sedia su cui era rimasto seduto fino a quel momento. «In ogni caso, presumo che lei sappia che cosa sto per dirle: con quella vita ha chiuso. D’ora in poi, professor Jones, se ne dovrà stare seduto in poltrona, con una coperta sulle gambe e un buon libro in mano. Non si azzardi più a rimettersi a giocare all’avventuriero, perché non rispondo della sua vita, altrimenti. Lei non è più un giovanotto, ed è ora che se ne renda davvero conto.»
   Starsene fermo su una poltrona per il resto dei suoi giorni… quelle parole continuavano a risuonare nella mente di Indy. Che razza di vita sarebbe stata, quella? Per uno come lui, abituato a viaggiare di continuo per il mondo, non sarebbe stata per niente vita. Sarebbe stata semplicemente una lunga agonia in attesa della morte.
   Riconosceva che, con il trascorrere degli anni e con l’aumentare dei dolori, aveva dovuto rallentare parecchio il ritmo e, soprattutto, rinunciare a lanciarsi in imprese folli come in passato. Tuttavia, questo non era stato sufficiente a fermarlo e, di sovente, partiva ancora per qualche amena località per compiervi una ricerca di qualche tipo. Rimanere fermo troppo a lungo nello stesso posto lo avrebbe ucciso, di questo non aveva il minimo dubbio.
   Obbedire all’ordine del dottor Obradovic, allora, sarebbe equivalso a un suicidio. A che cosa sarebbe servito prolungare la propria esistenza di ancora qualche anno, se anziché vivere un po’ di più sarebbe soltanto morto molto lentamente? Una vita sedentaria, da vecchio, non faceva per lui. Non avrebbe tollerato di trascorrere i suoi giorni futuri seduto su una poltrona, accudito e riverito da tutti, in attesa di andare a dormire una sera e non svegliarsi più al mattino. Piuttosto, avrebbe preferito lanciarsi di nuovo in una folle impresa e farsi mandare all’altro mondo da una scarica di mitra, oppure precipitando in un dirupo e altre fantastiche cose del genere. Non riusciva davvero a immaginare un’uscita di scena ordinaria, per se stesso.
   Provò a cambiare posizione, ma non ci riuscì. Il solo provare a muoversi nel letto gli procurò una fitta lancinante al ventre appena ricucito. Un dolore che andò a sommarsi a quelli della schiena e delle braccia, che erano tornati a farsi sentire di prepotenza.
   Gemette, improvvisamente colto dallo sconforto più nero e atroce.
   Poteva dirsi convinto di quello che voleva, ma la verità era una e una soltanto: il suo corpo non andava di pari passo con i suoi pensieri. Poteva pensare di voler vivere ancora a cento all’ora come un tempo, ma doveva fare i conti con la dura realtà, che gli si stava parando innanzi come un mostro orribile, a cui nemmeno lui sarebbe stato in grado di sottrarsi.
   Però… forse c’era un modo per fermare tutto questo.
   Il suo sguardo cadde al comodino accanto al letto. La mappa di Barbarigo era stata appoggiata lì, tenuta ripiegata da un sasso usato come fermacarte.
   Cercò di prenderla, ma il solo allungare il braccio gli procurò un crampo alla schiena che, per poco, non gli strappò un urlo di dolore. Lasciò perdere quell’impresa e tornò a concentrarsi sulla finestra, stringendo gli occhi mentre gli ingranaggi del suo cervello giravano a folle velocità, cercando un piano a cui aggrapparsi.
   Se fosse riuscito a rimettersi in sesto quel tanto che sarebbe bastato a raggiungere la Fonte dell’Eterna Giovinezza, dopo tutto sarebbe stato diverso. Doveva semplicemente ignorare il medico, richiedere un ultimo sforzo al suo fisico e poi, con l’aiuto di Katy, avrebbe potuto abbeverarsi a quelle acque. Fatto questo, tutto sarebbe stato differente, se lo sentiva.
   Katy stava ancora dormendo, glielo aveva detto don Mavro, che era passato a fargli un rapido saluto dopo che aveva terminato di sorbire il suo brodo caldo.
   «Era devastata, poverina» aveva sussurrato il prete. «È rimasta in preda all’angoscia per tutta la notte. Non me la sono sentita di chiamarla per dirle che lei è sveglio.»
   «Ha fatto bene, padre» grugnì Indy. «La lasci riposare. Verrà a trovarmi più tardi.» Un sorriso amaro gli increspò le labbra. «Tanto da qui non mi muovo…»
   Il pensiero di Katy gli fece rivivere i disperati momenti in cima alla piramide. In quell’istante aveva creduto davvero di stare per morire, e aveva avuto paura. Non per sé, figurarsi – non aveva avuto paura della morte quando era giovane, non poteva certo averne adesso che era vecchissimo – ma per lei. Il terrore che lei potesse vederlo morire davanti ai suoi occhi, provocandole un trauma immenso, lo aveva fatto sudare freddo. Riteneva che ai giovani certi orrori andassero risparmiati nella maniera più assoluta. Forse anche per questo era sopravvissuto: si era aggrappato con disperazione alla vita per non creare una simile ferita interiore alla sua adorata bambina.
   Chissà se lei avrebbe acconsentito ad accompagnarlo alla Fonte o avrebbe fatto storie, asserendo come il medico che avesse bisogno di riposo. Ne sarebbe stata capace, lo sapeva. E Indy avrebbe continuato a insistere con il suo compito di distruggerla, perché non aveva il coraggio di confessarle il suo vero proposito: forse lei non avrebbe compreso il suo desiderio di tornare di nuovo giovane, e lo avrebbe trovato orribile, contro natura. In un certo senso, anche lui lo considerava tale. Dentro di lui stava avvenendo una lotta interiore tra il sogno di ricominciare tutto da capo e il pensiero che, così facendo, avrebbe perso molte più cose di quante ne avrebbe guadagnate.
   Chiuse gli occhi, spossato. Sentiva di nuovo il bisogno di dormire.
   Ci avrebbe riflettuto meglio al proprio risveglio.

 
* * *

   Era ancora ferma accanto a Valerija e a don Mavro, in mezzo agli alti alberi che svettavano dritti verso il cielo e affondavano le loro radici nel terreno che ricopriva interamente quell’antica costruzione frutto dell’ingegno umano. Suo padre distava pochi passi soltanto, non più di cinque metri, eppure sembrava lontanissimo, sospeso in un mondo infinitamente remoto che lei non era in grado di raggiungere, come prigioniero di un’altra dimensione. Lo vide muoversi piano mentre si chinava sull’uomo riverso al suolo. Il suono rintronante, sordo, prolungato, agghiacciante di uno sparo e lui cadeva. E poi un altro sparo e di nuovo cadde. E Katy gridava, cercando di impedire che succedesse, ma era impotente, cercava di muovere le sue gambe e quelle si rifiutavano di obbedirle e di farla scivolare fin là, ostacolandola nella sua corsa disperata e impossibile, e l’uomo sparava un’altra volta, e un’altra ancora, e suo padre non faceva che cadere e cadere, di continuo, sempre…
   Ansante, la ragazza riaprì gli occhi. Se li sentiva bruciare di lacrime. Le ci volle un qualche istante per capire dove si trovasse.
   Era stesa nel grande letto delle sorelle Obradovic. La camicia da notte era zeppa di sudore gelido, le si era appiccicata addosso e arrotolata fin quasi all’inguine. Una mano delicata le accarezzava i capelli. Valerija, stesa accanto a lei, che la guardava dolcemente. Le altre due ragazze, invece, non c’erano. Dovevano essersi svegliate prima e le avevano lasciate dormire in pace.
   «Io…» mormorò, deglutendo. La gola le bruciava. Aveva sete.
   «Hai avuto un brutto sogno» mormorò Valerija, senza smettere di accarezzarla.
   Katy non si domandò come facesse a saperlo. Aveva il volto bagnato e sentiva il sapore salato delle lacrime sulle labbra. Doveva aver pianto ed essersi agitata nel sonno.
   Sollevato il cuscino, si mise a sedere contro il guanciale. Sul comodino a fianco al letto notò una bottiglia di vetro piena d’acqua. L’afferrò e, svitato il tappo, se la portò alla bocca, traendone lunghissime sorsate. Il liquido fresco, scorrendole in gola, la ritemprò completamente.
   Valerija aveva smesso di accarezzarla e la osservava con aria quasi materna.
   «Come ti senti?» domandò, avvicinando la mano alla sua.
   Lei l’afferrò e se la strinse in grembo, contro la stoffa stropicciata e inumidita della vestaglia.
   «Sto bene» rispose, con voce impastata. «Dormire mi ha fatto bene.»
   «Lo credo davvero» replicò Valerija, ridacchiando. «Hai idea di che ora siano?»
   Katy si guardò attorno. Non c’erano orologi, nella camera. Provò a fissare fuori dalla finestra, ma le imposte cieche ancora serrate non lasciavano penetrare che un flebile chiarore attraverso le piccole feritoie a forma di cuore. Scosse la testa, frastornata.
   «È quasi il tramonto» rivelò l’amica, con un sorrisetto.
   La giovane Jones sgranò gli occhi per la meraviglia.
   «Siamo state a letto tutto il giorno?!» esclamò, sorpresa.
   «Sei stata a letto tutto il giorno» sottolineò Valerija, allungando la mano per solleticarle il collo. «Io mi sono alzata a mezzogiorno, più o meno. Sono arrivata giusto cinque minuti fa, per vedere se finalmente ti svegliavi, dormigliona.»
   Katy scostò di colpo la coperta, rivelando le sue gambe nude e la camicia da notte arrotolata. Gli occhi di Valerija si posarono sul suo inguine, non protetto da nessun capo di biancheria.
   «E papà?» domandò, apprensiva.
   «Don Mavro lo ha visto e hanno parlato un po’» raccontò Valerija. «Dice che sembra semplicemente convalescente da un raffreddore, più che da una ferita di quel genere. Persino il dottore è sorpreso da tanta vitalità.»
   Katy desiderava andare subito da lui, senza perdere un solo istante. Fece l’atto di volersi alzare, ma l’amica la trattenne, posandole la mano sulle gambe.
   «Aspetta, ora sta dormendo» disse. «È per via dell’antibiotico e dell’antidolorifico che gli ha somministrato il dottor Obradovic, dice che è assolutamente normale che provochino sonnolenza. La signora ha l’incarico di svegliarlo per la cena.»
   Si spostò tra le sue gambe e le spinse la vestaglia fino all’ombelico.
   «E, siccome alla cena mancano ancora due ore, abbiamo tutto il tempo per prenderci un antipasto insieme.»
   Katy parve sul punto di protestare. Valerija le fece cenno di non parlare.
   «Sei ancora troppo tesa, amore mio, e bisogna che qualcuno ti faccia capire che va tutto per il meglio. Rilassati.»
   Valerija appoggiò le mani tra la cosce dell’amica, divaricandogliele con garbo e insieme con decisione, per poi iniziare ad accarezzarle con calore e voluttà. Nella mente di Katy esplosero nugoli di scintille quando lei gliele solleticò con la punta della sua morbida lingua, risalendo con estrema lentezza verso la sua intimità pulsante. Quando cominciò a sfiorarla, affondandovi le labbra, ogni pensiero fluì dalla sua mente.

 
* * *

   La moglie del dottore, tenendo tra le mani una scodella svuotata in cui era appoggiato un cucchiaio, uscì dall’ambulatorio e blaterò qualcosa in serbo. Don Mavro si affrettò a tradurre.
   «Il professor Jones ha cenato e ora può riceverti, Katy» disse. «Non più di dieci minuti, però. Dopo dovrà riposare ancora. Anche se non lo dà a intendere, deve essere ancora piuttosto debole.»
   La ragazza annuì e, dopo aver rapidamente stretto la mano di Valerija per farsi infondere un po’ di coraggio, si avvicinò con passo lento e pesante alla porta. Si sentiva ancora preda dell’angoscia. Aveva come l’impressione di star andando a fare visita a un moribondo, e aveva paura di poter disturbare suo padre. Il pensiero di affacciarsi a quella soglia e trovarsi dinnanzi un uomo finito, ormai incapace di tornare quello che lei aveva conosciuto, le dava un’immensa pena.
   Dall’interno della stanza, insieme all’odore del disinfettante, giunse una risata femminile. Colpita, Katy sollevò le sopracciglia e sbirciò all’interno.
   Suo padre era disteso a letto, con le coperte tirate fino al petto. Un braccio era allungato fuori dalle lenzuola e la sua mano era stretta attorno al polso di una giovane e graziosa ragazza bionda, che stava ridendo di cuore per una sua battuta. Il volto anziano e legnoso di Indy era attraversato da un sogghigno divertito. Dentro di sé, anche Katy sorrise e tutta la paura defluì nel volgere di un solo istante, perché fu costretta a riconoscere che, qualsiasi cosa accadesse, Indiana Jones rimaneva sempre lo stesso.
   Lo sguardo dell’archeologo si posò su di lei e il ghigno si tramutò in un ampio sorriso, che lo illuminò tutto. Lasciò andare il polso della ragazza e le fece cenno di entrare.
   «Katy, tesoro, vieni!» la chiamò. La sua voce era quella di sempre, soltanto leggermente un po’ più debole.
   Entrò nella stanza e sorrise in maniera impacciata.
   «Questa è la signorina Marija, la figlia del dottor Obradovic, che mi fa da infermiera e si occupa di tutti i miei bisogni, anche i più impensabili» rivelò il vecchio, con un sorrisetto furbo accompagnato da una punta di malizia.
   Katy annuì e Marija, intuendo che adesso padre e figlia volevano restare da soli, mormorò qualche parola con voce docile e si accomiatò, chiudendosi la porta alle spalle.
   «Molto carina» approvò Katy, che aveva osservato con un discreto interesse il suo didietro ancheggiante prima che uscisse dalla porta. Prese posto sulla sedia accanto al letto e si girò di nuovo verso Indy, lanciandogli un’occhiata di finto disappunto. «Ma vorrei ricordarti che sei un uomo felicemente sposato e votato alla fedeltà coniugale, oltre che estremamente vecchio, Old J. Potresti essere suo non… addirittura il suo bisnonno!» Sollevò un sopracciglio e lo squadrò per bene, prima di soggiungere, con pungente ironia: «Non avrai mica perso la memoria, spero.»
   Indy, che aveva guardato l’infermiera proprio come aveva fatto sua figlia, sogghignò compiaciuto.
   «Ricordo ogni cosa alla perfezione» replicò, fingendosi offeso. «E ricordo anche che, qui in giro, c’è una certa bibliotecaria che, forse, non sarebbe molto d’accordo, se notasse certi tuoi sguardi rivolti alle altre ragazze.»
   «So come riuscire a farmi perdonare» rispose Katy, mentre un lieve rossore le imporporava le gote e le orecchie. All’improvviso, una nota di apprensione le si accese nella voce. «Ma tu come stai, papà?»
   Jones, questa volta, fece una smorfia disgustata.
   «Come accidenti vuoi che stia?!» sbottò, facendola trasalire. «Hai presente cosa accidenti sto passando, in questo momento?!»
   Il breve sgomento della ragazza, però, si tramutò rapidamente in una risata allegra e cristallina quando suo padre soggiunse, cercando di nascondere il sorriso: «Mi stanno tenendo a brodo caldo e acqua da stamattina, diavolo! Come se fossi un povero malato con un piede nella fossa! Ho lo stomaco che fa i salti mortali per il bisogno di cibo vero! Vogliono farmi morire di fame, ormai l’ho capito! Deve essere una specie di complotto ai miei danni, lo sento: da una parte mi rimettono insieme e, dall’altra, mi affamano.»
   Katy si accarezzò le labbra nel tentativo di smettere di ridere e Indy le agguantò l’altra mano, che aveva posato sul letto.
   «Ho così fame che, quasi quasi, mi mangio questa bella manina morbida!» disse, avvicinandosela alla bocca con fare scherzoso.
   «Penso che ti resterei sullo stomaco, papà!» ridacchiò lei.
   «Oh, lo stomaco va benissimo» sbottò lui. «Non so dov’è di preciso che quel cane mi abbia colpito, ma il dottore ha già ricucito tutto un’altra volta e presto tornerò come nuovo.»
   Katy si aggiustò una ciocca ribelle, passandola dietro l’orecchio.
   «A proposito, credi che debba avvertire la mamma?» domandò, un po’ in ansia.
   Indy scosse energicamente la testa.
   «Non pensarci nemmeno» borbottò. «Finiremmo soltanto con il spaventarla e basta. Quando siamo partiti da Spalato le ho telefonato io stesso, dicendo che per un po’ saremmo stati irreperibili ma che non si preoccupasse di niente. Ha brontolato un po’ ma poi non ha fatto storie.»
   «Comunque» continuò Katy, «prima o poi scoprirà cos’è successo, non puoi tenerglielo nascosto.»
    L’archeologo si strinse nelle spalle.
   «Ma sì, ma sì, le ho sempre raccontato tutto. Lo farò anche questa volta, non preoccuparti» replicò. «Però glielo dirò appena sarò tornato, magari durante una cena tutta offerta da me nel suo ristorante preferito, così non si farà venire patemi d’animo.»
   La figlia si grattò la fronte, tormentando con le unghie i segni dei graffi che le erano rimasti dalla lotta del giorno precedente.
   «Immagino che dovremo stare qui per qualche giorno, finché non ti sarai ripreso e potrai di nuovo viaggiare» constatò. «Prima ho parlato con don Mavro e mi ha assicurato che questo posto è sicuro e che nessuno verrà a cercarci qui. In caso di pericolo, comunque, saremmo avvisati con largo anticipo e potremo tagliare la corda senza problemi. Poi, appena starai meglio, organizzerà il nostro rientro in Italia, da dove potremo partire in volo per casa. Sostiene che sia meglio imbarcarci all’aeroporto di Ronchi dei Legionari, piuttosto che a quello di Sarajevo, che sarebbe molto meno sicuro per via dell’OZNA, che quasi di sicuro terrà sotto controllo gli scali.»
   Indy la fissò con aria meditabonda, grattandosi il mento. La sua espressione non sfuggì a Katy.
   «Non mi sembri convinto» disse. «Temi qualche pericolo?»
    Jones scosse la testa.
   «Non è per questo» borbottò. «Ma per questo.»
   Dal comodino prese la mappa disegnata da Barbarigo e gliela porse. Katy la prese tra le dita e comprese a che cosa stesse cercando di alludere.
   «Papà, è impossibile!» esclamò. «Come puoi pensare di poter andare ancora a cercare la Fonte?» La sua voce si abbassò, mentre pronunciava una sentenza che non avrebbe mai voluto sentire uscire dalla propria bocca: «L’hai scampata bella, potresti morire se ci riprovassi!»
   Un sorrisetto sarcastico deformò le labbra di Indiana Jones e gli stiracchiò le guance ispide di barba.
   «Katy, non è della morte che ho paura» rivelò. «Ma delle conseguenze a cui andremmo incontro se qualche pazzo riuscisse davvero a impadronirsi di quelle acque miracolose... quelle sì, che mi spaventano.»
   La ragazza afferrò stretta la mappa e la sollevò.
   «Allora distruggiamola, bruciamola, facciamo in modo che più nessuno possa trovarla!» strillò.
   Indy, udendo quelle parole, impallidì tutto a un tratto e Katy fu attraversata dalla paura che si stesse affaticando troppo.
   «Papà…» singhiozzò, abbassandosi su di lui.
   Il vecchio, però, la rassicurò che andava tutto bene.
   «Tesorino, tu sei come me: molto impulsiva» disse, con tono leggero, mentre le accarezzava i capelli. «Anche io, come te, prima agisco e poi ci penso. Col tempo, però, ho imparato a ponderare un po’ di più, e quindi pongo a te la stessa domanda che mi sta opprimendo: come facciamo a sapere che, questa che hai in mano, sia l’unica mappa esistente?»
   Katy si sollevò, interdetta. Aprì la bocca per parlare, ma non le venne in mente nulla da dire. La richiuse.
   «Non possiamo saperlo, infatti» andò avanti a parlare l’archeologo. «E io mi sono assunto l’incarico di arrivare alla Fonte e di distruggerla, a qualunque costo. La notte non riuscirei a prendere sonno, se tornassi a casa senza aver concluso il compito che mi è stato affidato.»
   Un’ombra di spaventata comprensione attraversò la mente di Katy. Aveva percepito una strana inflessione, nella voce di suo padre. Forse cominciava a comprendere che non le stesse dicendo tutta la verità; forse non era soltanto per distruggerla, che sarebbe voluto arrivare alla Fonte dell’Eterna Giovinezza. Ma non poteva crederci davvero: suo padre non sarebbe stato tanto sciocco e sprovveduto da affidarsi a un potere mistico che non conosceva realmente. Le aveva raccontato troppe volte di come, molte persone che aveva conosciuto, fossero state consumate e distrutte dal tentativo di aggrapparsi a qualcosa di sconosciuto, che le avrebbe dovute rendere onnipotenti e immortali e, invece, le aveva condotte alla totale rovina. Ora non sarebbe certo stato lui a commettere il medesimo errore di tanti suoi antagonisti, no?
   Eppure, quel dubbio che aveva iniziato ad attanagliarla non voleva andarsene. Comunque, non era questo il momento adatto ad affrontare l’argomento. Suo papà si stava davvero stancando e avrebbe dovuto riposare.
   «Ne discuteremo meglio più avanti, quando ti sarai ripreso» concluse, parlando in fretta, rimettendo a posto la mappa intatta. «Per il momento non puoi nemmeno alzarti dal letto, e quindi penso che sarà meglio che ne approfitti per farti una dormitina.»
   «Un’altra» sbottò Indy, rassegnato. «Ho una fame da lupi e non ho per niente sonno, e invece devo digiunare e dormire. Ho dormito così tanto che non ho nemmeno più nulla da sognare.»
   «Sogna me, Old J» propose Katy, chinandosi a baciarlo sulla guancia.
   «Non penso che possa esistere un sogno più bello e più desiderabile» disse lui, restituendole il bacio. «Temo, invece, che finirò per vedermi passare davanti agli occhi un bell’hamburger fumante e pieno di salsa piccante, circondato da bacon croccante e da patatine fritte ricoperte di ketchup e maionese, il tutto accompagnato da un enorme boccale di birra schiumosa, come quelli che ti servono quelle belle cameriere sculettanti che si incontrano in certe stazioni di servizio quando ti fermi lungo l’autostrada...»
   Katy fece un sorriso radioso.
   «Ti svelo un segreto: il dottor Obradovic ha detto a sua moglie che, da domani, potrai cominciare a mangiare un po’ di carne.»
   Indy sorrise. «Dì a don Mavro che la Provvidenza esiste davvero.»
   «Lo farò di sicuro» promise la ragazza, senza smettere di sorridere. «Buonanotte, Old J.»
   Quindi uscì dalla stanza, lasciando solo suo padre.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Il richiamo dell’avventura ***


   18 - Il richiamo dell’avventura
 
   Indy fu costretto a trascorrere a letto un’intera settimana, sempre circondato dalle cure attente e amorevoli di Marija e di Katy che, forse un po’ gelosa del modo in cui la graziosa figlia del dottore si prodigava per suo padre, si diede molto da fare per non fargli mancare nulla.
   A dire il vero, sebbene quella costante compagnia femminile non potesse che fargli piacere, Jones provò a protestare, dicendo di volersi alzare. Sosteneva di stare bene, ormai, e non vedeva alcun motivo per continuare a rimanere steso.
   «Se resto ancora un’ora cacciato in questa trappola» si lamentò una mattina, appoggiato con la schiena al guanciale, mentre beveva a labbra sollevate un disgustoso tè con poco zucchero e qualche goccia di limone, «mi verranno di sicuro le piaghe da decubito! Mi sto riducendo a una larva umana, mi sembra di essere ormai finito. Se mi calassero in una fossa in questo preciso istante, non noterei nessuna differenza!»
   Ma il dottor Obradovic, che lo visitava con puntualità ogni giorno, prima di uscire per il suo consueto giro di visite a domicilio, controllando la ferita che gli aveva ricucito, fu ancora una volta estremamente categorico e inamovibile.
   «Per il momento non può alzarsi, professore» impose. «Significherebbe vanificare tutti gli sforzi e i progressi fatti finora. Ormai il taglio si sta rimarginando e, entro un paio di giorni, potrò toglierle i punti. Solo allora, se lo riterrò opportuno, potrà sgranchirsi le gambe. Fino a quel momento, però, non si azzardi a disobbedire ai miei ordini!»
   «Almeno potessi bere una tazza di caffè, anziché questa brodaglia!» grugnì Indy.
   «Caffè?» trasalì il medico, guardandolo da sopra gli occhiali come se avesse appena proferito la più blasfema delle eresie. «Non se ne parla proprio! Se lo tolga dalla testa!»
   Il vecchio archeologo, comunque, non lasciò trascorrere quei giorni nella completa inattività, e trovò un modo più che utile per riempire il tempo libero dovuto alla forzata immobilità. E mettersi al lavoro in quella maniera gli fece scordare per un po’ i patimenti che stava soffrendo e le sue tristi colazioni a base di tè caldo.
   Fattosi consegnare fogli, matite e un atlante, trascorse le ore di riposo forzato studiando con molto puntiglio la mappa di Barbarigo, nel tentativo di individuare la strada migliore per raggiungere la Fonte dell’Eterna Giovinezza. Valerija, inoltre, su sua richiesta girovagò per tutte le biblioteche del circondario, finché non riuscì a trovare ciò che le aveva richiesto: un vecchio e consunto volume di storie e leggende dei territori attorno al Mar Nero.
   «È stata una faticaccia, professor Jones» gli disse. «Mi sono dovuta spingere fino a Sarajevo, per riuscire a trovare una biblioteca che ne avesse una copia, e avevo una paura tremenda che una pattuglia mi fermasse e venissi identificata. Spero che ne sia valsa la pena.»
   Indy afferrò il volume e lo sfogliò in fretta, leggendo i titoli dei capitoli. Alzò su di lei uno sguardo enigmatico.
   «Sì» rispose, con tono profondo. «Ti assicuro che ne è valsa la pena.»
   Quando, l’ottavo giorno dal momento del suo ferimento, il medico gli permise infine di fare quattro passi in giardino, tenuto sottobraccio da don Mavro e da Katy – che si aggrappò con l’altro braccio a Valerija – aveva praticamente già tutto in mente l’itinerario che avrebbero dovuto seguire per raggiungere la loro meta.
   «Il punto indicato da Antonio Barbarigo corrisponde a una delle cime del monte Kazbek, in Georgia» rivelò, lievemente ansante, mentre si incamminavano lungo il sentiero che conduceva in prossimità del bosco. «Si tratta di un vulcano spento della catena del Caucaso Maggiore.»
   Lanciò uno sguardo a don Mavro, come a volersi accertare che lo stesse ascoltando con attenzione mentre si dava da fare per confermare la teoria avanzata dal vicario Bartolec.
   «Penso che sia proprio la conformazione vulcanica del luogo ad aver donato a quelle acque quei poteri così strani e insoliti» proseguì. «Forse, sotto la roccia, si nascono minerali sconosciuti dalle proprietà a noi ignote. La cosa non mi sorprenderebbe affatto, perché già altre volte mi sono imbattuto in metalli e minerali non indicati nella tavola periodica degli elementi.»
   Si fermarono accanto a una grande quercia nodosa e contorta, con i rami ancora del tutto ricoperti dalle sue foglie ormai brune. Il terreno tutto attorno era cosparso di ghiande, che scricchiolavano quando i loro piedi le calpestavano.
   «E lei, professore, pensa che la Fonte si trovi davvero lassù?» domandò il sacerdote, leggermente scettico.
   «Barbarigo non avrebbe avuto alcun motivo di mentire» replicò Indy.
   «Avrebbe però potuto disegnare una mappa falsa per mandare fuori strada eventuali competitori nella ricerca della Fonte» obiettò il prete.
   «Naturalmente» approvò Jones che, tuttavia, aveva sempre la risposta pronta. «Ma, se avesse voluto farlo, oltre a disegnare una mappa falsa, si sarebbe anche premurato di metterla in un luogo dove chiunque avrebbe potuto scoprirla; non l’avrebbe certo nascosta in un posto irraggiungibile come l’interno della piramide.»
   «Lei ha ragione, professore» riconobbe don Mavro.
   Tutti e quattro furono distratti da un rumore. Un piccolo scoiattolo si stava arrampicando tra i rami della quercia, alla ricerca di ghiande da nascondere in previsione della stagione invernale sempre più vicina e imminente. La sua coda fulva guizzò nell’aria, prima di scomparire in mezzo al fogliame.
   «Come ulteriore prova che questa sia la pista giusta, c’è il fatto che, verso la cima del monte, si trovasse un tempo un eremitaggio ortodosso, che fu poi distrutto dai suoi stessi abitanti per impedire che alcuni predoni provenienti dalla Mongolia si impadronissero delle sacre e misteriose reliquie che custodiva» riprese l’archeologo. Una strana scintilla attraversò il suo sguardo. «E, da quel che si sa, come ho scoperto leggendo il libro che la gentilissima Valerija mi ha procurato, l’eremitaggio fu edificato sopra una grotta. Una grotta, badate bene, chiamata Betlemi. Stando a quello che ho scoperto, in base alle leggende locali, quella grotta e tutta la valle circostante erano un tempo considerate come parte del Giardino dell’Eden, dove ebbe origine la vita sulla terra.»
   «Il Giardino dell’Eden…» ripeté don Mavro, perplesso.
   Katy, percependo i suoi più che legittimi dubbi, gli rivolse un sorriso di incoraggiamento.
   «Non lo prenda come un dato di fatto, padre» precisò. «Bensì come una semplice tradizione…»
   «Una tradizione molto antica» proseguì Indy, annuendo, «che potrebbe benissimo aver tratto la propria origine dalla presenza delle acque miracolose… pardon, volevo dire prodigiose, della Fonte. Forse la sorgente si trova proprio in quella grotta, che è sempre stata identificata come luogo legato alla nascita, fino al punto che, stando a certe storie che ho trovato nel libro, lo si sarebbe a un certo punto considerato come luogo natale di Abramo, o addirittura di Gesù: per questo motivo venne chiamata Betlemi, che altro non è che il nome in georgiano di Betlemme.»
   Don Mavro si grattò il mento, riflettendo attentamente su quelle parole.
   «In effetti, tutto potrebbe tornare. La gente del luogo potrebbe aver ritenuto sacre quelle acque portentose, attribuendole all’intervento divino» riepilogò. «Da quello che so, la Fonte della Giovinezza è quasi sempre stata accostata all’Eden, quindi che anche in questo caso le due cose coincidano non sorprende affatto.»
   «Esattamente» annuì Indy. «È probabile che, in passato, affascinati dalle voci e dalle leggende, alcuni monaci scoprirono a loro volta la Fonte e vi eressero attorno il loro eremitaggio, forse per collegare alla religione cristiana quelle acque che rischiavano di far nascere dicerie di tipo pagano. Poi, col tempo, la tradizione locale avrebbe finito coll’accostare alla Fonte la presenza di importantissime figure bibliche che, in verità, con essa non ebbero mai nulla a che fare. Che questo sia accaduto prima o dopo il passaggio di Barbarigo, comunque, non possiamo saperlo, sebbene possiamo presumere che il mercante sia stato attratto in quei luoghi proprio dalle tante leggende che li circondavano.»
   «Ma i resti dell’eremitaggio non sono mai stati esplorati?» obiettò Valerija, giocherellando con la treccia in cui aveva legato i capelli biondi. «Insomma, se è conosciuto, qualcuno sarà andato a ficcarci il naso, no?»
   Questa volta, l’archeologo fece un segno di diniego.
   «No… o, meglio, sì, ma solo superficialmente. L’unica spedizione compiuta in quei paraggi in epoca moderna risale alla metà del secolo scorso, guidata dall’alpinista Douglas Freshfield, un uomo molto abile, che io stesso ebbi occasione di conoscere in gioventù. Lo scopo di Freshfiled, comunque, era ascendere fino alla vetta, all’epoca ancora inespugnata, non certo compiere una ricerca archeologica. Quindi i resti dell’eremitaggio furono esplorati in maniera parecchio sommaria e veloce, in cerca di eventuali oggetti preziosi abbandonati dai monaci. Nessuno trovò la grotta di cui parlano le leggende. Se esiste – e noi non siamo giustificati in nessun modo nel dubitarne, visto che Barbarigo quelle acque le trovò sul serio – è ancora sepolta da qualche parte tra i ruderi del monastero.»
   Sul gruppetto calò un silenzio greve, rotto soltanto dal frusciare delle foglie, dagli squittii degli scoiattoli che si rincorrevano tra i rami e dai richiami degli uccelli invisibili nella foresta, mentre ciascuno volava con l’immaginazione a quella lontana vetta del Caucaso e ai segreti che doveva custodire.
   Lo sguardo di Indy si perse lontano, oltre la foresta, lungo i versanti delle montagne della Serbia. Quelle, però, potevano essere considerate quasi delle semplici colline, piccole alture semplicissime da affrontare, se paragonate ai massicci contrafforti che contraddistinguevano il Caucaso, quell’immane muraglia ghiacciata che segnava lo spartiacque tra due mondi estremamente differenti e spesso incompatibili e contrapposti l’uno all’altro, quello asiatico e quello europeo.
   Ghiacciai perenni e vette aguzze formavano una barriera quasi impenetrabile, che nel corso del tempo aveva messo a dura prova – e, spesso, ucciso – scalatori giovani, robusti ed esperti. Se la sarebbe sentita, lui, un uomo molto anziano, con la schiena malandata, per di più reduce da una grave ferita, di affrontare una simile sfida? E, soprattutto, se avesse trovato il coraggio per farlo, il suo fisico sarebbe stato capace di sostenere una prova di tale portata?
   Quella domanda silenziosa parve fluire dalla sua mente e aleggiare nell’aria. Gli sguardi di Katy, Valerija e don Mavro, quasi attendessero una risposta, si volsero su di lui. Fu un momento carico di tensione, così elettrica e palpabile che la si sarebbe quasi potuta stringere tra le mani protese.
   Ma Indiana Jones non era tipo da indietreggiare, neppure dinnanzi a una prospettiva così rischiosa, che avrebbe potuto comportare un immenso pericolo per la sua vita. Era più che consapevole che, sfuggito all’uccisione a tradimento da parte di Pavkov, sarebbe potuto andare incontro alla morte tra quelle montagne. Se avesse fatto una sola mossa falsa, se avesse sbagliato anche soltanto di poco qualcosa, il Gran Caucaso non lo avrebbe perdonato. Quelle rocce, antiche come il mondo, si sarebbero potute tramutare nella sua tomba, ponendo per sempre termine a quella lunghissima avventura che era stata tutta la sua esistenza.
   Lo sapeva e non ne aveva paura. Non aveva nessuna intenzione di abbandonare un’impresa soltanto per evitare i rischi che essa avrebbe potuto comportare. Non sarebbe stato da lui. Certe cose non erano questione di età o di fisicità: erano qualcosa che trascendeva da tutto questo, erano qualcosa di inspiegabile a parole, e che pure gli era chiarissimo in mente. Era quella scintilla luminosa, quella sete di audacia e di conoscenza che lo aveva sempre attratto verso luoghi remoti e impervi, verso disfide al limite del sopportabile, spesso in competizione persino con se stesso e con la propria razionalità.
   «Abbiamo soltanto un modo per scoprire se la Fonte dell’Eterna Giovinezza si trova davvero su quella montagna» disse, il tono della voce fermo e sicuro. «Andare lassù e scoprirlo.»
   «Papà…» disse Katy, esitante.
   Sembrava quasi che lo stesse implorando di ripensarci. Non lo avrebbe fatto. Decise di ignorarla.
   «Lasciatemi soltanto qualche giorno per riprendermi e provare a rimettermi in forma» andò avanti. «E poi saremo pronti a partire. Ma ricordate: la scalata del Caucaso non è roba da tutti i giorni. Perciò, se non ve la sentirete di accompagnarmi, non me la prenderò affatto.»
   Indy guardò negli occhi sua figlia. Vi lesse diverse emozioni contrastanti: sgomento, paura, ma – anche e soprattutto – ammirazione. Ammirazione per un uomo che, giunto a un’età in cui chiunque altro si sarebbe voluto mettere da parte, non intendeva ancora arrendersi, non voleva in nessun modo rinunciare a essere se stesso.
   Non poteva, e neppure voleva, farci nulla. Se lo sentiva pulsare nelle vene. Era quel richiamo che aveva sempre risuonato nella sua mente e che lo aveva spinto ad affrontare le imprese più folli e straordinarie con un ghigno ironico sul volto.
   Era il richiamo dell’avventura, lo stesso di sempre, e nemmeno questa volta Indiana Jones sarebbe stato in grado di rinunciare ad ascoltarlo e a rispondere.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Ripresa ***


   19 - Ripresa
 
   La frusta saettò nell’aria e schioccò in maniera secca, rompendo il muro del suono. Venne ritirata e, un’altra volta, fendette con eleganza il vuoto. Questa volta andò ad avvolgersi con precisione attorno al tronco di un albero, prima di essere srotolata con un gesto conosciuto e abituale e tirata un’altra volta all’indietro.
   Indy sogghignò soddisfatto, mentre la faceva ruotare con l’abilità di un acrobata sopra la testa, producendo onde sonore vibranti che gli facevano rammentare le sue più fantastiche imprese.
   Oltre al suo inseparabile cappello, Indiana Jones indossava un maglione a collo alto di lana nera infeltrita, un eskimo verdognolo e piuttosto scolorito slacciato che gli arrivava fino a metà delle gambe, che calzavano un paio di jeans azzurri e sbiaditi, e anfibi militari di colore marrone. Quando lo aveva visto con addosso quello strano assortimento di abiti usati che le due figlie più giovani del dottor Obradovic avevano procurato appositamente per lui da un rigattiere ambulante, Katy si era quasi piegata in due dalle risate.
   «Sembri uno di quei contestatori sessantottini, Old J!» lo prese in giro. «Chissà che cosa direbbero adesso, i tuoi studenti con i capelli lunghi con cui litigavi sempre, se ti vedessero conciato così!»
   «Io non ho mai litigato con nessuno studente» era stata la veloce e burbera risposta di suo padre. «E faresti meglio a trovarti anche tu della roba più pesante da mettere addosso, perché sul Caucaso ci sarà da battere i denti.»
   Poi, senza attendere la risposta della figlia, infilò velocemente la porta e uscì in giardino a grandi passi.
   Ormai, il vecchio archeologo poteva dirsi completamente guarito e ristabilito. La ferita si era rimarginata del tutto e, per dimostrare di essere in grado di recuperare molto in fretta tutte le forze, aveva iniziato con molta costanza a fare esercizio fisico. I primi giorni, con una pesante ascia tra le mani, si era dilettato a spaccare pezzi di legna e a riporli nella legnaia sul retro. Tutto era cambiato, però, quando aveva scoperto, appesa a un chiodo in un angolo, quella vecchia frusta rinsecchita e coperta di polvere e ragnatele.
   L’aveva presa e se l’era rigirata tra le mani quasi con riverenza; immediatamente, la sua mente aveva cominciato a volare, andando indietro nel tempo.
   Aveva rivisto i fasti della sua gioventù, ed era tornato al momento in cui, per la prima volta, ne aveva impugnata una, a bordo di un treno nel deserto dello Utah. Se ne era servito per difendersi da un leone che aveva avuto tutta l’aria di essersi trovato dinnanzi a una colazione inaspettata ma molto ben accetta. In seguito se ne era procurato una tutta sua e, con molti e complessi esercizi, aveva imparato a maneggiarla con estrema abilità.
   Parecchia gente, vedendolo andarsene a zonzo con una frusta appesa alla cintura, nel tempo aveva storto il naso o lo aveva addirittura deriso, apostrofandolo come un domatore di leoni. Ma lui se n’era sempre fregato e, a conti fatti, doveva riconoscere di aver fatto più che bene, perché senza una buona frusta tra le mani non sarebbe mai riuscito a scampare tanto a lungo.
   Ormai, però, erano trascorsi quasi cinque anni dall’ultima volta che si era servito della sua. Da quando i dolori alla schiena e alle gambe si erano amplificati, aveva dovuto rinunciare a utilizzarla; e da quel momento, quindi, la sua fedele frusta riposava all’interno di una teca di vetro, come un cimelio di un passato che non sarebbe tornato mai più. Nel vedere quest’altra frusta appesa nella legnaia, però, si sentì ringiovanire all’istante e non poté trattenersi dal metterci le mani sopra: un piccolo tocco e Indiana Jones si sentì tornare un ragazzo intrepido, coraggioso e sano.
   Quando, dunque, aveva chiesto al dottore se poteva averla in prestito, lui aveva scrollato le spalle con indifferenza.
   «La prenda pure, professore, se può servirle a qualcosa» gli rispose. «Me la lasciò parecchi anni fa uno tzigano di passaggio a cui avevo curato un’appendicite e che non aveva altro con cui pagarmi l’onorario. Non ho mai saputo che farmene, veramente…»
   La frusta era piuttosto malconcia a causa dell’inutilizzo e dell’umidità, del caldo e del freddo a cui era stata esposta restando appesa per anni nella legnaia. Tuttavia, era stata fabbricata da una mano molto esperta e con materiali di prim’ordine, tanto che a Indy bastò soltanto un piccolo sforzo per riservarle la giusta e corretta manutenzione. Dopo una buona pulizia e abbondanti passate di petrolato – il medico ne aveva parecchio e gliene regalò un vasetto – la pelle riacquistò la sua antica morbidezza e tensione, e la frusta fu riportata al passato splendore.
   Così, Indy poté ricominciare ad allenarsi. E non gli ci vollero che pochi sforzi per ritrovare quella vecchia alchimia, per riacquisire appieno la padronanza di una tecnica che non era mai venuta meno.
   A ogni lancio sentiva sciogliersi i muscoli delle braccia, delle spalle e della schiena, a ogni schiocco avvertiva il soffio della gioventù sulle tempie; ogni sibilo lo ringiovaniva, ogni sferzata gli restituiva quella robustezza che, in fondo, non aveva mai davvero perduto, ma aveva soltanto messo da parte, forse in attesa del momento propizio per ritrovarla. Saettare il nerbo avanti e indietro lo faceva sentire se stesso più di qualsiasi altra cosa, provocandogli emozioni e sensazioni da lungo tempo sopite.
   «Lei è davvero agile, nel maneggiare quella frusta» riconobbe un pomeriggio don Mavro mentre, seduto sotto la tettoia, osservava gli esercizi dell’archeologo, che ormai dedicava ogni giorno parecchie ore ai suoi allenamenti. «Ma è sicuro che ne avremo bisogno, professore?»
   «Non si può mai sapere» borbottò Indy, flettendo il braccio in maniera da imprimere alla frusta una curvatura che, muovendosi verso l’estremità frangiata, provocò lo schiocco. «In ogni caso, tutto questo esercizio mi sta aiutando a rimettermi in sesto. Ancora qualche giorno e sarò davvero pronto ad affrontare anche questa nuova impresa.»
   Indy lanciò in avanti la frusta, arrotolandola con maestria attorno a una lattina vuota che aveva posizionato in bilico sopra una staccionata. Subito impresse un colpo all’indietro e il barattolo venne attirato verso di lui, che lo prese al volo allungando il braccio sinistro.
   «Lei, invece, farebbe meglio ad allenarsi un po’ a camminare sui terreni scoscesi» continuò, ricominciando a frustare l’aria. «Oggi non le avrebbe fatto per niente male accompagnare Katy e Valerija, che sono andate a fare un’escursione nella foresta. Il Caucaso è meta di alpinisti esperti e…» gli lanciò un’occhiata leggermente ironica, «…mi perdoni, padre, ma lei non mi pare appartenere alla categoria.»
   Il sacerdote fece un sorriso indulgente.
   «È vero, ultimamente mi sono lievemente arrotondato» riconobbe, battendosi una mano sul ventre prominente, «ma da quando ho fatto la sua conoscenza, professore, mi sono tornati in mente i bei tempi andati.»
   Indy ritrasse la frusta e cominciò ad arrotolarla. Aveva bisogno di una pausa per far riposare le braccia. Andò a sedersi accanto al prete.
   «I bei tempi andati, padre?» domandò, versandosi un bicchiere d’acqua da una caraffa appoggiata sul davanzale della finestra. «Che intende dire?»
   «Dopo aver preso i voti, nel 1961, accettati l’incarico di andare come missionario nel Congo Belga» raccontò il prete. «Sebbene ci fosse un bel po’ di tensione, i primi anni furono relativamente tranquilli. Tutto cambiò dopo l’assassino di Patrice Lumumba, ne avrà senza dubbio sentito parlare.»
   «Come no?» grugnì Indy. «La Rivolta dei Simba.»
   Don Mavro annuì con molta gravità.
   «I Simba erano perlopiù ragazzini, ed erano esaltati. Credevano di essere invulnerabili grazie alla magia dei loro sciamani e, per questo, si lanciavano in attacchi folli e compivano stragi di inaudita violenza» rammentò, mentre sul suo volto passava lo sconcerto di quei giorni pieni di orrori. «Parecchi missionari vennero massacrati come carne da macello, ma non tutti noi eravamo disposti a lasciarci uccidere senza difenderci. Siamo uomini, prima ancora che preti. Fu lì che imparai a maneggiare i fucili. Mi diedi alla macchia nella foresta e vissi all’addiaccio per mesi, prima di essere salvato dai paracadutisti dell’ONU che mi riportarono in Europa. Da allora non toccai più un’arma da fuoco… fino a oggi.»
   Il prete e l’archeologo si guardarono negli occhi.
   «Credo di non averla delusa, nella piramide, professor Jones» disse ancora don Mavro. «Le prometto che non lo farò nemmeno sulla montagna.»
   Indy lo soppesò con lo sguardo, quindi gli batté la mano sulla spalla.
   «Non ha bisogno di promettere nulla, padre» replicò. «So già di potermi fidare di lei. Invece…» Si interruppe, mordendosi le labbra.
   «Invece?» lo esortò don Mavro.
   «Sono preoccupato per le ragazze» confessò il vecchio, a disagio. «Non vorrei che questa impresa fosse troppo pericolosa, per loro. Certo, non posso mica impedire loro di accompagnarci: so benissimo che sono entrambe adulte…» Sghignazzò. «Katy ha ventisei anni, ma io tendo a dimenticarlo e, per me, è sempre come se ne avesse ancora cinque. Sarà sempre la mia bambina… anche se, forse, per lei che non ha figli non è così semplice da capire…»
   Don Mavro, invece, annuì.
   «Capisco meglio di quanto non creda, professore» rispose. «Lo stesso vale anche per me con Valerija. Era appena una bambina, quando feci ritorno in Croazia. Suo padre, che è morto un paio di anni fa, era uno dei miei migliori amici, ci conoscevamo fin da quando eravamo piccoli; praticamente ho aiutato i suoi genitori a crescerla e, ai miei occhi, è diventata quella figlia che non avrei mai potuto avere. E lo è ancora di più adesso, visto che anche sua madre è morta, quasi un anno fa, e io sono rimasto l’unico collegamento con il suo passato. Ma, che vuole farci? Anche lei è adulta, ormai. Non possiamo mica partire alla chetichella sperando che non si accorgano di noi.»
   «Già» annuì Indy. «Katy, poi, è uno spirito libero. Non prende ordini da nessuno, men che meno da me. Ogni tanto mi accompagna in qualche scavo, è vero, ma per la maggior parte del tempo se ne va a zonzo da sola e noi non sappiamo mai dove si trovi. Si caccia nei guai di continuo… proprio come facevo io alla sua età, e anche parecchio dopo, a dire il vero. Spesso mi capita di rimproverarla, perché mi pare che non cresca mai, che non metta mai la testa a posto, che rimanga sempre la stessa ragazzina che mi faceva impazzire quando era adolescente…»
   Il sacerdote atteggiò le labbra a un sorriso bonario e comprensivo.
   «Le lasci il tempo di maturare meglio, professore» consigliò. «Anche se è ormai adulta, non significa che non sia ancora molto giovane. Vedrà che, col tempo…»
   Ma Indiana Jones scosse la testa, interrompendolo.
   «Non si tratta di una questione di tempo, padre» rispose. «Io sono più che certo che, a ottant’anni suonati, la mia Katy sarà rimasta la stessa di oggi. E sa da che cosa mi viene, questa certezza?»
   Don Mavro fece un segno di diniego con il capo e Indy sollevò la frusta arrotolata per mostrargliela.
   «Da questa» disse. Poi portò la mano al cappello e ne toccò la falda. «E anche da questo.»
   Riappoggiò la frusta sulle gambe e bevve un altro breve sorso d’acqua.
   «E da tutto quello che faccio, dal modo in cui mi comporto, da come ragiono» andò avanti. «Perché, quando faccio la ramanzina a Katy, è come se la facessi a me stesso, e del tutto inutilmente: parole che entrano da un orecchio ed escono dall’altro. Perché anche io, alla fine, non cambio mai. Non cresco mai, diciamolo pure: fuori invecchio, proprio come tutti; dentro, invece… è come se avessi sempre venticinque anni. Ma va bene così. Non ho intenzione di diventare qualcuno di differente soltanto perché, da un uomo della mia età, ci si aspetterebbe questo. E in mia figlia è come se mi rispecchiassi, e più la guardo fare la pazza, e più io stesso mi sento ancora giovane, quello di sempre, un ragazzino di ottantacinque anni, con i capelli bianchi e il mal di schiena, che se ne frega nella maniera più categorica di quella stupida convenzione che si chiama età.»
   Un sorriso pieghettò le labbra dell’archeologo, mentre il suo sguardo si concentrava sulla foresta dove, da qualche parte, si trovava Katy.

 
* * *

    Le due ragazze, una dietro l’altra, risalirono un ripido crinale, calcando il terreno appena visibile in mezzo alle felci gocciolanti di umidità che lo coprivano quasi interamente. Da qualche parte, non molto distante, invisibile in mezzo alla vegetazione, gorgogliava un ruscello. Gli alberi crescevano fitti, in quella parte della foresta, e dalla terra emergevano radici contorte e massi invisibili che, di tratto in tratto, rischiavano di far perdere la presa ai loro scarponi chiodati. A rendere ancora più complicata tutta la faccenda, quando il sole si era abbassato sull’orizzonte fin quasi a scomparire, dal suolo freddo e umido aveva iniziato a sollevarsi una nebbia grigia che aveva avvolto tutte le cose.
   Erano entrambe sudate, con i capelli che si incollavano umidi al volto e cadevano sulle spalle arruffati e inzuppati. I loro abiti erano impregnati e sui volti avevano tutti i segni della stanchezza. Nonostante fossero accaldate, rabbrividivano di continuo a causa dell’umidità che si appiccicava addosso.
   Partire la mattina, per quell’escursione nella foresta, era sembrata una buona idea. Una bella giornata da trascorrere in mezzo alla natura, mettendo alla prova le proprie gambe e la propria capacità di resistenza in previsione dell’imminente partenza per il Caucaso, che avrebbe richiesto ogni loro singola stilla di energia. Solo che le ore erano trascorse senza che quasi se ne accorgessero e il sole era tramontato molto in fretta; al lievissimo tepore della giornata autunnale era succeduta una notte buia e fredda, che le aveva sorprese ancora in cammino.
   «Non vedo l’ora di tornare indietro» si lamentò Valerija, quasi sfiatata. «Questa dannata nebbia gelida comincia a penetrarmi nelle ossa. Sono zuppa fin nelle mutande. Ho solo voglia di togliermi di dosso questa roba bagnata, riempire di acqua bollente quella tinozza che abbiamo in camera e tuffarmici dentro.»
   «E io ti seguirò a ruota» replicò Katy, soffiandosi con le dita il naso pieno di umidità.
   Si fermarono, guardandosi attorno nel tentativo di orientarsi. Camminare nel bosco, senza nemmeno l’ombra di un sentiero da seguire, non era affatto semplice. Sembrava di trovarsi sempre nello stesso luogo, e provare a utilizzare qualche albero come punto di riferimento era fuori discussione, specialmente adesso che l’oscurità della notte e la nebbia stavano confondendo ogni cosa.
   «Che c’è?» domandò Valerija, osservandola. In quel momento, la giovane bibliotecaria dipendeva in tutto e per tutto dalla sua amica archeologa, che aveva di sicuro più esperienza di lei nel camminare in mezzo a luoghi simili. Si guardò attorno anche lei e la sua voce calò di un’ottava. «Ti prego, non mi venire a dire che ci siamo perse…»
   Katy si voltò e le rivolse un dolce sorriso.
   «Hai paura?» domandò. «Ci sono qua io, a proteggerti… Non permetterò mai che la mia biondina preferita abbia qualcosa da temere.»
   La bibliotecaria ridacchiò.
   «Dopo quello che abbiamo passato in quella piramide, ti assicuro che non ho più paura di nulla» la rassicurò. «Però ho le gambe a pezzi. Tu non ti immagini quanto abbia voglia di scivolare dentro la vasca bollente… accidenti alla nebbia e a chi se l’è inventata! Ma perché non può essere sempre estate?! È così bello starsene in spiaggia sotto il sole, al calduccio…»
   «Lo immagino benissimo, perché è la mia stessa voglia» rispose Katy. «E anche sull’estate, ti assicuro che sono del tutto d’accordo con te.»
   Tornò a guardarsi attorno e le parve di aver individuato la pista giusta da seguire. Perlomeno ci sperava. C’era un grosso masso dalla forma curiosa, che aveva già attratto la sua attenzione qualche ora prima. Fece un cenno all’amica e si rimisero in cammino. Avevano percorso sì e no dieci metri che, da qualche parte dietro di loro, si udì un rumore secco e improvviso. Probabilmente si trattava soltanto di un vecchio ramo rinsecchito precipitato al suolo, ma bastò a farle trasalire entrambe, costringendole a voltarsi in fretta all’indietro per cercare di capire che cosa lo avesse prodotto: il buio, la nebbia e gli alberi spettrali, che gocciolavano in continuazione, erano in grado di creare suggestioni decisamente poco apprezzabili, in quel frangente.
   «Tu sei sicura che non ci siano orsi o lupi, da queste parti?» domandò Valerija, tremando leggermente e aggrappandosi al suo braccio in cerca di conforto.
   Katy si accigliò, provando a dare fondo alle sue scarsissime conoscenze zoologiche.
   «Presumo che gli orsi, in questo periodo, siano già in letargo…» balbettò.
   A Valerija non sfuggì il suo tono per niente sicuro.
   «Lo presumi o lo sai?» quasi strillò.
   «Lo so!» replicò Katy, cercando di apparire sicura di sé. La sua voce, però, risuonò un po’ troppo stridula per risultare credibile.
   «E i lupi?» chiese Valerija, lanciando ovunque occhiate nervose.
   Katy cercò di pensare a tutto ciò che sapeva al riguardo. I lupi andavano in letargo? Questo era un bel quesito, a cui non sapeva che cosa rispondere. Istintivamente, ripensò ai tanti romanzi d’avventura che aveva letto. Per primo gli venne in mente Zanna Bianca, poi via via compì una rapida escursione in mezzo a parecchi altri titoli che aveva avuto tra le mani. Ogni volta che c’erano di mezzo i lupi, gli scrittori avevano dato fondo alla loro fantasia descrivendo pionieri imprigionati in mezzo a tormente di neve, in pieno inverno, circondati da branchi di lupi affamati, i cui occhi gialli balenavano nell’oscurità e i cui ululati si alzavano a competere con il vento, pronti a scagliarsi addosso a quei poveracci e a farne una strage. No, a meno che quegli autori non si fossero inventati ogni cosa, decisamente i lupi non andavano in letargo.
   «I lupi?» ripeté. «Certo! Quelli dormono almeno almeno da settembre ad aprile! Forse anche fino a maggio! Sono tra gli animali più dormiglioni che ci siano. Nemmeno i ghiri dormono tanto a lungo!»
   Valerija sospirò per il sollievo.
   «Meno male» disse. «Ora mi sento più tranquilla!»
   «Però sarà meglio sbrigarci prima che faccia buio del tutto» consigliò Katy, parlando così in fretta da mangiarsi le parole. «Per non perdere del tutto l’orientamento…»
   «Non ce la faccio proprio più…» si lamentò l’altra ragazza, massaggiandosi i fianchi indolenziti dalla lunga camminata.
   «Pensa che, prima torniamo, e prima ci troveremo immerse fino alla testa nell’acqua bollente, piene di schiuma profumata…»
   Quella dolce prospettiva bastò a spronarle entrambe, inducendole ad allungare il passo. Senza più parlare, per poter risparmiare il fiato, si lanciarono lungo il pendio, superando chine, percorrendo saliscendi e incuneandosi tra gli alti alberi fitti, contorti e spettrali.

 
* * *

   Indy era appoggiato allo stipite della porta, con le braccia incrociate sul petto. Guardava la foresta che si stendeva appena fuori dall’orto, fredda e buia. I suoi sensi sempre attenti percepirono degli scricchiolii e, finalmente, dall’oscurità vide emergere due figurine ansanti e disfatte. Un sogghigno ironico gli si allargò sul volto.
   «Toh, guarda chi si rivede» esclamò. «Ci degnate della vostra presenza, finalmente.»
   Le due ragazze, disfatte dalla stanchezza e grondanti acqua come pulcini bagnati, gli si avvicinarono in silenzio.
   «Credo di aver perduto l’orientamento» mormorò Katy, sfregandosi le mani infreddolite.
   «Sfido» grugnì suo padre. «Siete state via da stamattina ed è quasi mezzanotte…» Scosse il capo. «Katy, Katy, Katy… ci sono ancora un paio di cosette che ti devo insegnare per bene, riguardo alla vita all’aria aperta.»
   La ragazza annuì. Era talmente stanca che, per una volta, non ebbe la forza di ribattere con una battuta salace come faceva sempre. Al suo fianco, Valerija non si reggeva in piedi.
   «Sarete affamate» disse Indy, afferrandole per le braccia e guidandole in casa. «La signora è già andata a dormire, ma in cucina troverete qualcosa da mettere sotto i denti.»
   «Più che altro siamo congelate e bagnate dalla testa ai piedi» singhiozzò Valerija, mentre Katy faceva stancamente un segno d’approvazione.
   «Allora sarà meglio che vi laviate» borbottò Indy. «Io, dal canto mio, me ne vado a letto.»
   Lasciò la figlia e l’amica davanti alla porta della loro camera e raggiunse quella che gli era stata assegnata dopo che, essendo guarito, aveva dovuto lasciare libero l’ambulatorio del dottor Obradovic. Gli toccava dividere il letto con don Mavro, ma era abituato a ben altri disagi.
   «Sono arrivate?» domandò il sacerdote, guardandolo da sotto le coperte.
   «Sì» borbottò Indy. «Non le ho sgridate perché erano stanchissime, ma mi hanno fatto davvero preoccupare. Domani mattina, appena si sveglia, dovrò fare una bella ramanzina a Katy.»
   L’archeologo indossò un ampio pigiama di lana, si infilò sotto le coperte e, dopo aver dato la buonanotte al prete, spense la luce. Nell’oscurità, si trovò suo malgrado a sorridere.
   Non aveva mai dubitato che sua figlia sarebbe tornata sana e salva da quella foresta. Se era rimasto tanto a lungo ad aspettare il suo rientro, era semmai perché provava una punta di invidia per la sua capacità di potersene andare in giro per tutte quelle ore su un terreno aspro e insidioso. Lui, anche con tutta la sua buona volontà, anche con tutta la sua convinzione di essere sempre giovane, non ci sarebbe mai riuscito. A un certo punto, ne era certo, la schiena gli avrebbe ordinato di fermarsi, e se a farlo non fosse stata la schiena sarebbero state le anche, oppure la recente ferita al ventre che, di quando in quando, gli pulsava ancora in maniera atroce, sebbene cercasse di dissimulare quel dolore.
   Ancora una volta, dunque, la prospettiva di raggiungere la Fonte dell’Eterna Giovinezza per motivi differenti da quelli distruttivi che gli erano stato ordinati gli balenò nella mente. Una nuova gioventù che lo attendeva nascosta da qualche parte tra le alte e fredde vette del Caucaso Maggiore. Questa idea lo esaltava e lo spaventava allo stesso tempo. Poter tornare ad avere l’età di sua figlia, e quindi avere la possibilità di accompagnarla in mille nuove avventure, era una prospettiva capace di intrigarlo e di terrorizzarlo al medesimo tempo.
   Non si era mai trovato dinnanzi a qualcosa di simile, tranne quando era andato alla ricerca del Santo Graal: ma quello era sparito per sempre in un crepaccio, mentre la Fonte… quella scorreva intatta in una grotta lontana.
   Sospirò, mentre immaginava di allungare le mani chiuse a coppa verso quelle acque, di prenderle e di portarsele alla bocca. Gli parve quasi di avvertire un tuffo allo stomaco mentre fantasticava sulla prospettiva di berle. Gli tornò alla mente Walter Donovan nel momento in cui bevve dal falso Graal, convinto di aver appena guadagnato la vita eterna; invece, era invecchiato di colpo, fino a tramutarsi in uno scheletro. Su di sé vide accadere grossomodo il medesimo effetto, solo ribaltato: anziché diventare vecchissimo, si vide ringiovanire, fino a tornare sano, bello, forte.
   Chissà che cosa avrebbe detto, la sua Marion, nel vederlo tornare a casa con quel nuovo aspetto. Si sarebbe sciolta in lacrime dalla commozione, nel rivedere dinnanzi a sé quel ragazzo di cui si era innamorata tantissimi anni prima? Oppure… oppure sarebbe impazzita? Lo avrebbe forse scacciato di casa, sostenendo che quello non poteva essere lui?
   Questa eventualità su cui non si era ancora fermato a riflettere lo fece sussultare, così forte che tutto il materasso vibrò e don Mavro, che si era appena assopito, borbottò qualcosa di incomprensibile. Indy restò in silenzio, aspettando che si rimettesse a dormire, e continuò a far vorticare i pensieri nella sua testa.
   Come l’avrebbe presa Marion? Avrebbe davvero accettato che suo marito fosse ringiovanito? E perché lui sì e lei no? Davvero si sarebbe dimostrato tanto egoista da pensare solo a se stesso? Be’, avrebbe potuto sempre portare un’ampolla d’acqua anche a lei…
   Indy sudò freddo. L’idea di starsi avviando verso qualcosa di profondamente sbagliato, che già una volta lo aveva colto, tornò a fare capolino nella sua testa. Era consapevole di star sfidando la natura e le sue decisioni. Ed era anche conscio del fatto che, prima di lui, lo avevano fatto decine di altri uomini e donne, e nessuno di loro aveva avuto una bella e tranquilla morte. Il più fortunato tra di loro, in effetti, si era semplicemente dissolto. Possibile che si stesse tramutando lui stesso in uno di quei folli contro cui aveva combattuto per tutta la sua lunghissima vita?
   Il vecchio archeologo gemette, in preda all’angoscia. Sapeva di dover prendere una decisione, e di doverlo fare al più presto, perché la partenza era fissata di lì a due giorni soltanto: ma non sarebbe stato semplice, per niente. In quel momento più che mai aveva una paura terribile di ciò che lo attendeva.
   Provò ad addormentarsi, ma ancora una volta si trovò con gli occhi sgranati, a fissare il soffitto invisibile nell’oscurità.

 
* * *

   Anche se erano già andate a letto, Aleksandra e Fata furono molto leste ad alzarsi quando videro entrare le loro amiche ridotte in quelle condizioni. Subito si diedero da fare per prendere da uno sgabuzzino la grossa tinozza di rame che serviva da vasca da bagno, posizionandola poi ai piedi del letto. Quindi, mentre Valerija e Katy si spogliavano con gesti lenti e stanchi, fecero scaldare sul fuoco dei tegami d’acqua, con cui riempirono la vasca, mischiandovi della polvere di sapone bianca e profumata.
   Finalmente, le due stanchissime ragazze poterono immergersi nell’acqua piena di schiuma, una di fronte all’altra, con le gambe distese verso i rispettivi corpi. Le due sorelle Obradovic, che ormai non avevano più sonno, si offrirono di massaggiare loro le spalle, un trattamento che entrambe mostrarono di gradire parecchio.
   Katy si rilassò, mentre le mani delicate ma esperte di Fata le accarezzavano le spalle, il collo, le braccia e il petto. Era una sensazione meravigliosa, amplificata dalla visione di Valerija distesa proprio di fronte a sé. Agendo quasi per istinto, allungò le mani nell’acqua, afferrò i suoi piedi e iniziò a sua volta a massaggiarli. La giovane bibliotecaria si lasciò sfuggire un mugolio di piacere.
   «Non ci avrei mai sperato» sospirò Valerija, abbandonandosi al torpore, mentre le mani di Aleksandra scendevano a insaponarle la schiena. «Pensavo che saremmo rimaste prigioniere per sempre di quella selva…»
   Katy restò in silenzio per un istante, godendo dei tocchi leggeri della ragazza.
   «E questo è stato niente» disse poi. «Vedrai che bella sfacchinata che ci aspetta, sul Caucaso…»
   La giovane croata ridacchiò.
   «Comincio a capire perché ci sia gente tanto interessata a trovare quella fantastica Fonte della Giovinezza» commentò. «La possibilità di essere non solo sempre giovani, ma anche in forze… non so tu, ma io quasi quasi un pensierino ce lo farei…»
   Katy sollevò il piede di Valerija verso la propria bocca e, senza curarsi della presenza delle sue sorelle, lo baciò con trasporto.
   «Ti giuro che, di quelle acque magiche, non ne hai per niente bisogno…»
   «Questo lo so» replicò la ragazza, con tono civettuolo. «Però pensa se i ribelli che vogliono abbattere il comunismo potessero beneficiare davvero di un tale dono… sarebbe un vantaggio non indifferente alla loro lotta…»
   «Io penso che…» cominciò a dire Katy, ma fu interrotta da uno strillo di Fata, che sussultò per lo spavento.
   Al di fuori della finestra c’era un uomo che guardava dentro la stanza.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Tradimento ***


   20 - Tradimento
 
   Istintivamente Katy si abbassò nell’acqua, avvicinandosi con ampie manate la schiuma e utilizzandola per coprirsi il più possibile. Valerija, confusa, si voltò all’indietro e, scorgendo l’uomo che le spiava, sgranò gli occhi e si coprì a sua volta. Le due sorelle Obradovic, invece, dopo essere balzate in piedi ed essersi scambiate qualche parola, corsero alla finestra. Con immenso stupore delle due ragazze immerse nella tinozza, la spalancarono e cominciarono a parlare in maniera concitata con lo spione.
   «Non aprite! Siete impazzite?» gridò Katy, che per l’imbarazzo non sapeva più come comportarsi.
   Uscire dall’acqua e correre a dare un cazzotto in faccia a quel tizio, o restarsene inchiodata dov’era? Un conto era essere vista nuda da altre ragazze – o da suo padre – tutt’altro era esporsi con niente altro che la sua pelle dinnanzi a un perfetto sconosciuto che aveva tutta l’aria di essere un maniaco.
   Ignorando il suo strillo, Aleksandra e Fata continuarono a confabulare con l’uomo, parlando velocemente in serbo.
   «Dice che ha visto la finestra illuminata e si è avvicinato…» tradusse Valerija, cogliendo uno stralcio di conversazione.
   «Non mi pare una buona scusa per spiare due ragazze che fanno il bagno!» strepitò Katy.
   In quel momento la porta della camera si spalancò di colpo e irruppero Indy e il dottor Obradovic, seguiti a ruota da don Mavro; dietro di loro, fecero capolino la signora Obradovic e l’altra figlia, Marija. Nel vedere tutta quella gente, Valerija strillò ancora più forte di prima e sprofondò a tal punto nell’acqua che parve intenzionata ad annegarsi.
   «Ma cos’è tutta questa confusione, accidenti?!» sbraitò Indy, facendo balenare lo sguardo dalle due ragazze nella tinozza alle due figlie del medico e all’uomo che continuava a parlare velocemente, ansante come se avesse fatto una lunghissima corsa.
   «Pavle!» gridò invece il dottore, riconoscendo l’uomo. Si avvicinò in fretta all’uomo ancora fuori dalla finestra, seguito subito da Indy e da don Mavro, che fece uno sforzo enorme per tenere gli occhi distolti dalle due giovani completamente nude.
   «Dottor Obradovic, sono corso il più in fretta possibile!» urlò l’uomo di nome Pavle, cercando di riprendere fiato. «Ho fatto una volta in bicicletta per riuscire ad arrivare in tempo… ho visto la luce e sono corso a questa finestra… gli agenti dell’OZNA… hanno scoperto che l’americano è qui… stanno arrivando…!»
   «Che sia stramaledetto…!»  cominciò a bestemmiare Indy, facendo sussultare don Mavro. Cercando di tenersi calmo, guardò l’uomo dritto in viso: «Lei sarebbe uno dei ribelli?»
   L’altro annuì, ma fu il dottor Obradovic a rispondere al suo posto.
   «Pavle è uno degli uomini che l’ha trasportata a casa mia quando è stato ferito, professore» disse, parlando in fretta. Si mordicchiò le labbra, prima di soggiungere: «Ho completa fiducia in lui.»
   Indy sbottò qualcosa di incomprensibile, per poi domandare: «Quanto abbiamo?»
   Pavle allargò le braccia.
   «Un quarto d’ora, mezz’ora al massimo» spiegò. «I nostri agenti che mi hanno avvertito li hanno visti uscire in forze da Sarajevo e…»
   «E allora non perdiamo tempo!» urlò Indy.
   Si voltò verso le due ragazze che, vincendo gli imbarazzi di trovarsi in mezzo a una vera e propria folla, nell’udire quella terribile novità si erano affrettate a uscire dall’acqua. Si erano date un’asciugata sommaria e si stavano già rivestendo.
   «Preparatevi in fretta e radunate tutte le vostre cose» sbottò Indy, uscendo in fretta dalla stanza e correndo in quella che divideva con don Mavro. Il prete e il medico lo seguirono.
   «Dottore, mi dispiace averla messa in questa situazione» grugnì l’archeologo, afferrando il suo parka e indossandolo. Calzò in fretta le scarpe e, dopo essersi arrotolato la frusta attorno alla spalla, mise in testa il cappello. Si rivolse di nuovo al medico. «Non era nostra intenzione farla finire nei guai…»
   Il medico era pallido e gocce di sudore freddo gli solcavano le tempie e la fronte. Tuttavia, riuscì ugualmente a dire: «Non si preoccupi per me, professore. Ora dovete pensare a voi…»
   Don Mavro aveva indossato il suo Loden e la coppola e stava in attesa accanto alla porta.
   «Pronto?» domandò Indy, gettandogli un’occhiata mentre afferrava dal cassettone la cartelletta di carta rosa in cui aveva rinchiuso la mappa, il libro delle leggende, la cartina con il percorso e tutti i suoi appunti sulla Fonte.
   «Prontissimo» rispose il sacerdote, con un cenno d’assenso.
   «Se soltanto avessimo delle armi…» grugnì l’archeologo, contrariato.
   Un sorriso attraversò il volto paffuto di don Mavro.
   «Ma noi le abbiamo» rispose. «Prima di lasciare la piramide, mi sono premurato di mettere un paio di quei simpatici Kalashnikov nel bagagliaio della mia macchina. Volevo appendermeli sopra il caminetto in canonica, per ricordo…»
   Indy gli batté una manata sulla spalla.
   «Ben fatto, padre. Vada a tirarli fuori e li metta sul sedile posteriore. Temo proprio che ci serviranno. Io recupero Katy e Valerija e la raggiungiamo subito…»
   Fecero per avviarsi, quando il medico si mise di traverso alla porta, con le braccia allargate, sbarrandogli la strada.
   Interdetti, i due uomini lo fissarono senza capire.
   «Mi dispiace, ma questo non posso lasciarvelo fare…» disse il dottor Obradovic, asciugando il sudore che gli cadeva copioso negli occhi, arrossandoglieli.
   «Che intende dire, dottore?» domandò il sacerdote, sorpreso.
   «Io sono mortificato, e le assicuro che non ce l’ho con nessuno di voi… ma…»
   «Ma?» lo incitò don Mavro, smarrito.
   Fu Indy a rispondere.
   «Ma è stato lui ad avvertire l’OZNA, dico bene?» domandò, con un ghigno sarcastico.
   Il medico sussultò come se fosse stato colpito da un pugno nello stomaco.
   «Mi… mi hanno preso l’altro ieri, durante una visita a uno dei miei pazienti…» balbettò. «Qualcuno ha fatto la spia… una soffiata, da parte di qualche persona che abita nei dintorni… mi hanno costretto a rivelare la verità sul vostro nascondiglio… mi hanno minacciato… mi… mi hanno detto che… che… che avrebbero ucciso le mie figlie se… non avessi collaborato… non potevo farci nulla… è lei che vogliono, professor Jones: lei e le carte che tiene sotto braccio. Ho fatto il possibile per aiutarla… ma più di così… non avrei potuto…»
   Don Mavro sgranò gli occhi, sconcertato. Jones, invece, restò del tutto impassibile: era fin troppo abituato ai tradimenti e ai voltafaccia improvvisi, anche da parte delle persone più affidabili e insospettabili. Si portava addosso una gran brutta e spiacevolmente copiosa esperienza, per ciò che riguardava quel versante.
   «Immagino che, però, quel tale Pavle non fosse previsto nel piano, vero?» chiese l’archeologo.
   «No, infatti» replicò il medico, che stava cominciando a riacquistare un po’ di sicurezza. «Avrebbero dovuto sorprendervi nel sonno e nessuno si sarebbe fatto male. Avevo pattuito che alle ragazze non sarebbe stato torto un capello… Ora capite che non posso permettervi di prendere le vostre armi, penserebbero che li ho traditi e che sono stato io ad avvisarvi!»
   Don Mavro fece un inaspettato scatto in avanti e afferrò il medico per la collottola, cercando di smuoverlo.
   «Si tolga dai piedi, insulso e pavido vermiciattolo!» sbraitò. «Non capisce che qui c’è in gioco il futuro e la libertà di tutti i popoli slavi che…»
   Non terminò la frase, perché il medico, dopo essersi infilato la mano nella tasca della giacca, aveva preso una piccola bottiglietta di vetro e gliel’aveva aperta sotto il naso. Un acre odore di cloro si diffuse nell’aria mentre don Mavro, stordito, lasciava andare il dottor Obradovic e barcollava all’indietro. Con un gemito crollò all’indietro, travolgendo una sedia e ribaltandola.
   Indy fece un rapido balzo, gettandosi dall’altra parte dell’ampio letto matrimoniale, per evitare di inalare a sua volta quella sostanza. Il dottore stringeva tra le mani una bottiglia trasparente in apparenza vuota, ma che emanava un odore che non poteva dare adito a dubbi sul suo contenuto: cloroformio, uno dei più potenti anestetici volatili.
   «Non si azzardi ad avvicinarsi, professore!» minacciò il medico, brandendo verso di lui boccetta. «Rimanga dove si trova o le faccio respirare tanta di questa roba da spedirla all’altro mondo!»
   Katy, Valerija e le quattro donne di casa, attirate dal trambusto che aveva provocato il prete cadendo, erano intanto sopraggiunte di corsa. Tutte sussultarono nel vedere don Mavro steso a terra e il dottore che teneva la piccola bottiglia sollevata di fronte a sé, alla stregua di una pistola.
   «Immobilizzate quelle due impiccione, ragazze!» ordinò il medico, con tono perentorio, voltandosi verso di loro. «E tu, Ðurada, vai da Pavle e allontanalo con una scusa! Svelte!»
   Le tre ragazze e loro madre, seppure sorprese, erano abituate a obbedire a ogni ordine del padrone di casa senza discutere o fare domande; così Marija, Fata e Aleksandra si scagliarono subito contro Katy e Valerija, mentre la signora si affrettò a raggiungere di corsa l’ingresso.
   Ma le due ragazze, sebbene confuse quanto le loro avversarie e notevolmente più stanche a causa della lunga scarpinata di quel giorno, non si lasciarono sopraffare troppo facilmente. Katy colpì Marija con un manrovescio e Valerija atterrò Fata con un calcio negli stinchi e una gomitata nella mascella. Poi entrambe si lanciarono contro Aleksandra e la sospinsero con forza contro il muro, facendole battere la testa.
   Non avevano idea di che cosa stesse accadendo, né perché stessero improvvisamente sostenendo una lotta contro delle ragazze con cui erano andate d’amore e d’accordo fino a pochi minuti prima; però, da quando si erano conosciute, erano accadute così tante cose che, ormai, avevano imparato a non farsi domande.
   «Forza, stupide!» gracchiò il medico, incitando le sue figlie. «Non vedete che sono più piccole e stanche di voi?!»
   Teneva sempre il braccio con la bottiglietta proteso in avanti, ma nel parlare si era rivolto del tutto verso l’indietro. Una distrazione breve ma che fu sufficiente a Indy a mettere mano alla frusta, srotolarla e scagliarla in maniera secca contro il medico, colpendolo sulla testa con una forte nerbata.
   Con un urlo di dolore, il dottor Obradovic cadde in avanti e crollò sul pavimento. La boccetta, sfuggitagli di mano, gli si ruppe accanto al volto, facendolo svenire all’istante. Indy, coprendosi il naso e la bocca per non inalare il cloroformio che si stava vaporizzando in fretta, girò attorno al letto, scavalcò il medico inerte ed uscì nel corridoio.
   La scena che gli si parò dinnanzi fu quasi surreale. Dopo l’iniziale vantaggio di sua figlia e della bibliotecaria, la situazione si era in breve ribaltata.
   Valerija era stesa a terra, dove si rotolava avvinghiata a Fata, che le aveva afferrato i capelli e pareva avere tutta l’intenzione di tirarglieli fino a strapparli. Katy, invece, era stata immobilizzata da Marija, che le teneva le braccia ferme dietro la schiena, mentre Aleksandra cercava di colpirla con pugni nello stomaco, ostacolata dai continui calci che la giovane Jones, urlando come una furia rabbiosa, cercava di appiopparle tra le gambe.
   Indy si grattò il mento.
   «Mi hanno sempre detto di non impicciarmi nelle questioni tra donne, specialmente quando si picchiano tra di loro…» bofonchiò. «Ma, questa volta, farò un’eccezione.»
   Con un veloce scatto, si avvicinò alle spalle di Aleksandra e, dopo averla afferrata per le braccia, la sollevò di peso e la gettò di lato senza nessun riguardo. La ragazza compì una piroetta e travolse la grossa pendola, rovesciandola con un gran fracasso; il pesante orologio cadde proprio addosso a Fata, che così perse la presa su Valerija e si trovò distesa a fianco della sorella, frastornata e dolorante. La giovane fu lesta a rialzarsi e a prendere a calci tutte e due.
   «Uzmite ovo, ružne kucke!» urlò, furiosa, continuando a colpire a casaccio. «E io che sono pure venuta a letto con voi! Che schifo!»
   Le due ragazze, gemendo, si dimenarono e si coprirono il volto nel tentativo di parare i suoi calci, ma Valerija andò avanti a infierire su di loro senza nessuna pietà.
   Katy, intanto, con una testata all’indietro aveva colpito il naso di Marija, che la lasciò andare con un ululato. Subito si girò e, con un paio di pugni, la atterrò, sbattendola sul pavimento. Anche lei parve decisa a colpire la sua avversaria fino a ridurla a una poltiglia sanguinolenta, ma Indy le afferrò il polso, trascinandola all’indietro.
   «Piantatela di giocare con quelle ragazzine e muoviamoci!» urlò, tirandosi dietro la figlia e strappando anche Valerija alla sua opera distruttiva. «Dobbiamo andarcene di qui!»
   Le sospinse verso l’ingresso, da dove provenivano ancora le urla della signora Obradovic, che cercava in ogni modo di mandare via Pavle. Il ribelle, però, non si lasciava persuadere e stava cercando in ogni maniera di convincerla a farsi da parte per fargli vedere che cosa stesse accadendo dentro la casa.
   Con una spinta piuttosto rude, l’archeologo gettò di lato la signora, che atterrò pesantemente sul pavimento, dove rimase stesa a lamentarsi.
   «Obradovic ci ha traditi, è lui che ha avvertito l’OZNA!» urlò Indy.
   «Dannazione!» imprecò Pavle. «E il prete?»
   «È di là, è svenuto, dobbiamo andare a prenderlo, non possiamo abbandonarlo nelle mani di quei macellai» replicò Jones. Si voltò in fretta verso le due ragazze e consegnò a Katy la preziosa cartellina con tutti i suoi appunti. «Andate alla macchina e spostate i fucili che ci sono nel bagagliaio sul sedile anteriore. Noi vi raggiungiamo subito.»
   Seguito da Pavle, tornò dentro la casa, scansando le due malmesse ragazze più giovani che erano ancora distese al suolo. Marija, invece, si era alzata e lo fissò con occhi lacrimevoli.
   «Dopo tutto quello che abbiamo fatto per lei, professor Jones, è così che ci ripaga?!» strillò, addolorata. «Proprio una bella riconoscenza, la sua!»
   «La riconoscenza è una questione di punti di vista!» rispose in fretta Indy, entrando con il ribelle nella camera da letto.
   Don Mavro, sebbene ancora confuso, aveva ripreso conoscenza e si era messo a sedere. Con le mani si sorreggeva la testa, che doveva fargli parecchio male.
   «Lei non aveva il diritto di fare del male a mio padre e alle mie sorelle!» continuò a urlare la ragazza, seguendoli dentro la stanza.
   Indy passò il braccio sotto le ascelle del prete e, aiutato da Pavle, lo sollevò da terra. Il sacerdote era pallido come se avesse la nausea e le gambe minacciarono di non reggerlo, ma grazie all’aiuto dei due uomini riuscì a mantenersi in piedi.
   «E suo padre non aveva il diritto di venderci all’OZNA!» sibilò Indy, guardando negli occhi l’infermiera, che sussultò per lo sconcerto.
   «Io…» mormorò, cambiando repentinamente tono della voce e colore del viso. «Glielo giuro, professore, che non lo sapevo… altrimenti gliel’avrei detto…»
   Jones le rivolse una specie di sorriso storto.
   «Posso anche crederci» borbottò. «Ora non ha più importanza chi sapesse che cosa. Ma, se vuole seguire il mio consiglio, signorina, prenda le sue sorelle e sua madre, e se riuscite anche quel sacco di patate di vostro padre, e tagliate la corda. Fate perdere le vostre tracce nella foresta, perché quando gli agenti dell’OZNA arriveranno e non ci troveranno, non ve la faranno passare liscia.» La guardò con intensità. «Mi ha capito, signorina? Ne va delle vostre vite.»
   Marija annuì, mentre una lacrima le scendeva lungo la guancia arrossata dalle botte ricevute.
   Senza attendere una sua risposta, i due uomini si incamminarono in fretta, sempre sostenendo il barcollante don Mavro.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** In fuga ***


   21 - In fuga
 
   La nebbia aveva invaso tutta la zona, rendendo praticamente invisibili anche le cose più vicine. La fredda umidità penetrava nelle ossa e nel naso e, alleata al buio spettrale della notte, velava tutto come una cappa impenetrabile. Pur sapendo dove fosse parcheggiata la Yugo di don Mavro e pur avendo ormai imparato a conoscere benissimo il giardino e l’orto, le due ragazze fecero quasi fatica a raggiungerla, costrette a brancolare nel buio con le mani tese come sonnambule.
   «Ci siamo» disse Katy, scorgendo finalmente davanti a sé la sagoma sgraziata dell’automobile, con i vetri appannati e la carrozzeria che gocciolava acqua.
   Lei e Valerija si affrettarono ad aprire il bagagliaio e, come previsto, trovarono i due AK-47, che trasportarono sul cruscotto, a portata di mano in caso di necessità. Poi, restando immobili accanto alle portiere spalancate, fissarono i loro sguardi ansiosi in direzione delle casa, una forma appena intuibile a causa della luce  giallastra che si faceva largo dall’interno.
   «Speravo che quei maledetti non ci avrebbero più dato alcuna noia» borbottò Valerija, sfregandosi le braccia indolenzite e rabbrividendo per il freddo.
   «Ci siamo illusi troppo in fretta» ammise Katy, con voce stanca. «Dovevamo prevedere che, prima o poi, sarebbero tornati all’attacco. E, per fortuna, che ci hanno almeno concesso il tempo necessario perché papà si riprendesse. Se ce li fossimo visti capitare addosso soltanto qualche giorno fa, credo che non avremmo avuto alcuna speranza di farcela…»
   Tacquero, udendo degli scricchiolii sull’acciottolato. Passi affrettati, che si muovevano verso di loro. Per un fugace istante ebbero il timore che gli uomini dell’OZNA li avessero già raggiunti. Invece, con un sospiro di sollievo, videro sbucare dalla nebbia Indy, don Mavro e il ribelle.
   «Presto, facciamo sdraiare don Mavro sul sedile posteriore!» ordinò bruscamente Indy.
   Con un po’ di fatica, dopo aver abbassato il sedile del passeggero, riuscirono a far entrare il sacerdote nella macchina. Per qualche secondo sembrò in grado di restare seduto, ma poi chiuse gli occhi, ciondolò e si accasciò sui sedili, occupandoli per intero con la sua stazza pantagruelica.
   «Quel demonio di medico deve avergli fatto inalare una dose potentissima di cloroformio» grugnì Indy, guardando il prete svenuto. «Ci vorranno diverse ore perché don Mavro riesca a riprendersi. Be’, perlomeno mi consolo che, tutto il resto della boccetta, sia finito in faccia a quel disgraziato.»
   Si voltò verso le due ragazze e indicò loro lo spazio ristretto tra i sedili anteriori e quello posteriore.
   «Mi dispiace se viaggerete scomode, ma a meno che non vogliate restare qui…»
   «Papà, come accidenti pensi che possiamo fare a stare infilate in quei due buchi?!» sbottò Katy, esasperata.
   «Non mi pare che ci sia alternativa…» borbottò suo padre. «Non è certo questo, il momento di pensare alle comodità…»
   Ignorandolo, Katy si affrettò ad aprire un’altra volta il bagagliaio e a togliere la cappelliera, che gettò senza troppi riguardi nell’orto. Quindi si arrampicò all’interno dell’automobile e fece cenno a Valerija perché le si accucciasse in fianco. La ragazza lo fece subito senza protestare. Lo spazio era così ristretto da impedire quasi ogni movimento, ma per fortuna avevano entrambe un fisico minuto e, schiacciandosi un po’, riuscirono a starci entrambe.
   «D’accordo, viaggerai nel baule come facevi da bambina» mugugnò Indy, un sorriso svergolo ma brillante sulle labbra. «Attente alla testa!» aggiunse poi, richiudendo il portellone con uno scatto secco e sonoro.
   Corse a sedersi sul sedile del passeggero, accanto a Pavle che aveva già preso posto al volante. Afferrò uno dei due mitra e se lo appoggiò tra le gambe, mentre l’altro si allungò all’indietro per passarlo a Katy, che lo prese con un po’ di soggezione.
   «Pensi che dovremo sparare…?» domandò, con una vocina sottile che tradiva la sua paura.
   «Mi auguro di no» sbottò Indy, tornando a voltarsi in avanti.
   Pavle mise in moto al secondo tentativo – la batteria faceva i capricci – e, senza accendere i fanali, si avviò lungo la strada sterrata.
   «Dove andiamo?» domandò l’archeologo, osservando il muro di nebbia che si innalzava come una barriera di fronte a loro.
   Pavle inserì la seconda marcia, procedendo con estrema lentezza per non correre il rischio di finire in un qualche fosso, che tra il buio e la nebbia sarebbe stato impossibile individuare, se non quando fosse stato ormai troppo tardi.
   «Per il momento raggiungiamo la strada principale» disse. «Lì potremo accendere i fanali, perché daremo meno nell’occhio. Speriamo di riuscire a non attirare sguardi indiscreti su di noi, perché questo macinino non è certo in grado di sostenere un inseguimento e, se finissimo in un fossato, ci troveremmo tutti con le ossa fuori posto.»
   «Che allegria» borbottò Jones, lanciando occhiate di disappunto agli economici e spartani interni della piccola macchina comunista e rimpiangendo la solida e robusta sicurezza del suo pick-up Ford, perfetto e affidabile esempio di capitalismo su ruote, che lo attendeva nel garage di casa, qualche migliaio di chilometri in direzione occidentale. «E, se sopravvivessimo a questo viaggio notturno, dove andremo?»
   «Sperando di non incappare in posti di blocchi, cercheremo di raggiungere l’aeroporto di Sarajevo» spiegò il ribelle.
   «I terminal…» cominciò Indy.
   «Di quelli non si preoccupi, abbiamo già pensato a ogni cosa» lo interruppe Pavle. «Uno degli addetti alla zona di carico e scarico delle merci è dei nostri. Ci farà entrare e, da lì, raggiungeremo la pista dei voli commerciali. Vi abbiamo trovato dei posti su un volo diretto in Bulgaria. L’unico inconveniente è che dovrete viaggiare in compagnia di un carico di polli.»
   Jones sogghignò, perdendosi in lontani ricordi dei bei tempi andati.
   «Non ha importanza, ci sono più che abituato» replicò.
   «Benissimo» rispose il ribelle. «Una volta in Bulgaria, non dovreste avere difficoltà a trovare un volo per qualsiasi luogo dobbiate raggiungere. Per fortuna, pur essendo a sua volta un paese socialista, la Bulgaria è ideologicamente molto più vicina all’Unione Sovietica che alla Jugoslavia, per cui gli uomini dell’OZNA non dovrebbero riuscire a seguirvi fin là.» Un dubbio improvviso gli si palesò sul viso. «Non avete avuto noie anche con il KGB, vero?»
   Un altro ghigno contorse le labbra dell’archeologo.
   «No» rispose. «Non negli ultimi anni, comunque. In ogni caso, adesso come adesso non penso che mi stiano più cercando.»
   «Perfetto…» replicò Pavle, un poco scettico, domandandosi come accidenti fosse possibile che un professore universitario in pensione potesse avere tutti quei nemici. Scrollò le spalle. «Per adesso, comunque, il problema principale resta quello di raggiungere l’aeroporto senza intoppi. Fatto quello, non dovrebbe succedere altro…»
   Un sorriso cupo rabbuiò il volto di Indy, ispido per la barba trascurata da ormai diversi giorni, mentre tamburellava con le dita sopra il calcio del fucile che teneva appoggiato sulle gambe.
   «Meglio non fare troppe previsioni» commentò. «Ormai, ogni giorno è una sorpresa…»
   
* * *

   Proseguirono in silenzio per una decina di minuti, procedendo con una lentezza esasperante ma necessaria per riuscire a superare la strada sterrata e serpeggiante che discendeva dalla collina immersa nei boschi senza accendere i fanali che avrebbero potuto tradirli. Oltre al rumore del motore e a quello della ghiaia che scricchiolava sotto i copertoni, non si udiva provenire alcun suono dall’esterno. Viaggiando con i fari spenti, era come essere immersi in un mondo fatto semplicemente di nebbia grigia e fumosa, privo di orizzonti e di altri esseri viventi. La sensazione era opprimente, come se fossero rimasti soli al mondo.
   Per quanto i loro occhi cercassero di scorgere qualcosa, non riuscivano a vedere alcunché. Pavle era addirittura stato costretto ad abbassare il finestrino e a guidare con la testa fuori e lo sguardo rivolto in basso, per riuscire a tenere d’occhio il piano stradale e non finire fuori dalla dimessa carreggiata. Così, l’aria pungente e umida aveva invaso tutto l’abitacolo, facendoli rabbrividire.
   «Se penso che, fino a un quarto d’ora fa, mi trovavo immersa in una tinozza piena d’acqua bollente con una ragazza che mi massaggiava la schiena…» provenne da dietro la voce lamentosa di Katy.
   «Sei stata fortunata che, almeno, il bagno te l’hanno lasciato fare» commentò Indy, girandosi a guardarla. «Pensa se fossimo dovuti scappare mentre eravate ancora nella foresta… quello sì, che sarebbe stato un bel guaio.»
   Si accorse che don Mavro, forse stuzzicato dal freddo, aveva riaperto gli occhi e si stava sfregando le tempie.
   «Come va, padre?» domandò, con tono sollecito.
   Il prete farfugliò qualcosa, provò a rimettersi seduto, fu scosso da un altro capogiro e tornò a sdraiarsi.
   «Non riesco a capire che cosa mi sia successo…» riuscì a balbettare.
   «Cloroformio» rivelò Indy in breve. «Non è una bella sensazione, respirarlo…»
   «Se mi capita tra le mani quel dannato Obradovic, giuro che lo spedisco all’inferno a calci nel…» cominciò a imprecare don Mavro.
   «Ah, no, padre!» lo interruppe l’archeologo, sarcastico. «Comprensione e perdono, ricorda? Porgi l’altra guancia, tratta il prossimo tuo come te stesso e via discorrendo…»
   «Il secondo Concilio Vaticano ha cambiato le carte in tavola» borbottò don Mavro. «Ora c’è una clausola segreta che dà ai preti il diritto di sparare ai loro nemici, dopo averli benedetti…»
   Katy e Valerija scoppiarono a ridere allegramente.
   «Questo te lo sei inventato tu!» ridacchiò Valerija. «Io, proprio, questa cosa non l’ho mai sentita e…»
   Un fascio di luce balenò nel buio, attraversando la nebbia e rifrangendosi contro il parabrezza. Pavle sterzò di scatto, facendo sobbalzare Indy e ribaltando le due ragazze nel piccolo baule, e si infilò in un viottolo strettissimo, nascondendo la Yugo in una macchia di noci bianchi e spegnendo il motore.
   «Che accidenti succede…?» sbottò don Mavro, accasciato sul sedile.
   Gli fecero cenno di tacere, mentre gli sguardi di tutti si rivolgevano al lunotto posteriore, cercando di vedere che cosa stesse succedendo dietro di loro. Si udì il rombo di un motore potente, seguito da un secondo, e le luci dei fanali squarciarono le tenebre.
   «Sono loro…» sibilò Pavle, sbiancandosi le nocche sul volante.
   «Ci avranno visti?» sussurrò Indy, guardingo, imbracciando il Kalashnikov e posizionando il selettore sulla modalità automatica.
   Il ribelle osservò i fanalini rossi che si allontanavano nella direzione da cui erano giunti loro poco prima, risalendo in fretta la collina.
   «Non credo, altrimenti non sarebbero passati oltre» disse. «Stanno andando verso la casa di Obradovic. Dobbiamo approfittare di questo momentaneo vantaggio per filare. C’è una cosa che mi inquieta, però.»
   L’archeologo lo osservò mentre girava la chiave nel motorino d’avviamento e iniziava a fare retromarcia per uscire dalla macchia d’alberi e tornare nel viottolo.
   «E sarebbe?» domandò.
   «Le auto che ci hanno sorpassato erano soltanto due» borbottò Pavle. «Io, invece, sono certo di aver visto tre camionette, dirette da questa parte. Dov’è andata a finire l’ultima?»
   Jones scrollò le spalle.
   «Presumo sia andata a prepararci un mare di guai» rispose. «Ma non sarà certo restandocene nascosti qui che riusciremo a evitarli.» Indicò la strada. «Forza, andiamo. E, questa volta, non risparmiare l’acceleratore.»
   Il ribelle fece un cenno d’assenso, continuando a procedere lentamente e a fari spenti per alcuni metri. Infine, ritenendo di essere ormai fuori dalla vista delle altre due auto, scomparse dietro una curva della cunetta che conduceva alla casa del medico, accese i fanali e schiacciò il piede sul pedale dell’acceleratore, cercando di far sputare alla piccola macchina ogni minima stilla di efficienza e vitalità che avesse in corpo.
   La Yugo, nata come progetto alla Fiat di Torino e poi ceduta alla Zastava prima di entrare in produzione, essendo risultata troppo poco innovativa rispetto ai modelli più vecchi, non poteva certo essere considerata un’automobile stabile e potente. Di per sé, era già piuttosto lenta e inaffidabile. Inoltre, essendo l’auto del prete, che la utilizzava essenzialmente per brevissimi tragitti e guidando con la massima prudenza possibile, il motore era legato e disabituato a essere sollecitato al di sopra dei quaranta chilometri orari.
   Nondimeno, sotto le spinte frenetiche di Pavle, riuscì a guadagnare velocità, sollevando un gran polverone che andò a frammischiarsi alla nebbia sempre molto fitta, che i deboli fanali riuscivano a malapena a penetrare. Fu con uno stridio di pneumatici e una gran puzza di gomma bruciata che, finalmente, lasciarono la strada sterrata e si immisero su quella asfaltata, che procedeva in maniera sinuosa tra le colline alberate, scartando in maniera secca e brusca in direzione della non lontana capitale.
   «Forse ce l’abbiamo fat…» cominciò a dire Katy, che stava provando a ricomporsi dopo essersi rovesciata addosso a Valerija a causa della curva troppo rapida.
   Il suono di uno sparo le fece morire le parole in bocca. Un secondo colpo infranse il lunotto, passando proprio in mezzo allo spazio ristretto tra le teste delle due ragazze e andando a distruggere anche il parabrezza anteriore.
   «Giù, state giù!» sbraitò Indy. Spaventate, le due giovani non se lo fecero di certo ripetere e si schiacciarono come poterono sul fondo del minuscolo bagagliaio, a rischio di soffocarsi.
   Dietro di loro, ruggì il motore di una Zastava AR55 lanciata all’inseguimento della piccola utilitaria. Dal grosso fuoristrada questa volta venne sparata una raffica di mitra, che squarciò la fiancata sinistra e fece scoppiare una gomma. La piccola Yugo compì un testacoda, fumando dal motore, ma Pavle doveva essere un pilota davvero provetto, perché riuscì a tenere la presa sul volante senza lasciarsi spaventare e, ritrovato il giusto assetto, riuscì a ripartire in corsa sulla strada, correggendo di continuo con rapide e secche sterzate l’instabilità dovuta alla ruota distrutta.
   «La mia macchina!» sbraitò don Mavro, furente, cercando di rialzarsi. «Dov’è il mio Kalashnikov?! Gli insegno io, a quelli, a trattare così la macchina che mi hanno regalato i parrocchiani!»
   Senza perdere tempo a girare la manopola per abbassare il finestrino, Indy infranse il vetro con la canna del mitra e, sportosi in fuori, cominciò a sua volta a sparare verso l’auto lanciata al loro inseguimento. Prendere la mira, con i bruschi sobbalzi della malridotta Yugo e con la nebbia che rendeva tutto contorto e fumoso, sarebbe stato semplicemente impossibile. Si accontentò di sparare a casaccio in direzione delle luci della Zastava inseguitrice.
   A rispondergli fu un’altra raffica, mentre il fuoristrada, molto più rapido di loro, guadagnava terreno. I proiettili fischiarono così vicino alla testa dell’archeologo, che Jones fu costretto a tirarsi all’indietro per non essere colpito. Nel farlo perse la presa sull’AK-47, che finì in strada, e urtò rudemente Pavle, che gridò mentre l’automobile finiva fuori dalla corsia e cominciava ad avanzare tra innumerevoli sobbalzi sul ciglio della collina, a pochi centimetri da uno strapiombo di cui non si riusciva a scorgere il fondo.
   «Sranje!» imprecò il ribelle, facendo uno sforzo immenso per riuscire a non capottare e riguadagnare la strada asfaltata.
   L’altra macchina, intanto, era arrivata proprio dietro la Yugo e, accelerando, la tamponò nella parte retrostante, cercando di buttarla definitivamente fuoristrada.
   Nel clangore delle lamiere, Katy e Valerija gridarono per il terrore, temendo di finire schiacciate. La bibliotecaria fu lesta ad arrampicarsi fuori dal loro rifugio ormai insicuro e, incastrandosi alla meglio, passò sul sedile posteriore, finendo addosso a don Mavro, che ululò quando lei gli pestò l’ampio ventre.
   Katy, invece, accarezzò la canna del fucile. Le era appena venuta un’idea folle, ma non voleva perdere tempo a ragionarci: se ci avesse pensato troppo a lungo, non l’avrebbe mai messa in pratica, ne era certa. Tanto valeva agire senza porsi molti problemi.
   Impugnò l’arma, si premurò di togliere la sicura e, improvvisamente, si alzò sulle ginocchia e cominciò a sparare raffiche dal lunotto distrutto. Il potente rinculo minacciò di farle sfuggire di mano il Kalashnikov, ma Katy tenne duro e continuò a fare fuoco, anche se i muscoli delle braccia urlavano di dolore. Il fuoristrada era proprio in linea con la Yugo, pronto a tamponarla una seconda e definitiva volta, quindi la ragazza poté godere di un tiro pulito, senza intoppi.
   Vide chiaramente il vetro della AR55 infrangersi in mille schegge e il radiatore esplodere, spandendo acqua e vapore sulla carreggiata. L’uomo alla guida, colpito al torace, si appiattì sul volante, facendo sterzare l’automobile in direzione del versante della collina su cui la strada correva. Fuori controllo, la macchina uscì di strada e si cappottò tre volte, prima di andare a schiantarsi contro un enorme quercia secolare e prendere fuoco.
   «Visto che roba che ho combinato?» trillò Katy, girandosi con un sorriso verso gli altri. Le mani le tremavano così tanto a causa dell’adrenalina che le si era riversata nelle vene che pensò fosse meglio appoggiare il mitra, per non premere inavvertitamente il grilletto.
   «Ben fatto, tesoro!» si congratulò Indy, fiero di lei.
   Non aveva ancora finito di dirlo, che all’oscurità sbucarono altre due camionette, che avevano viaggiato a fari spenti per non farsi vedere mentre arrivavano. Accesero di colpo tutte le loro luci, illuminando in pieno la carcassa della macchina di don Mavro che ancora arrancava sulla carreggiata, e la investirono di raffiche di mitra.
   «Maledizione, sono gli altri uomini dell’OZNA!» ruggì Pavle, cercando di strappare alla moribonda automobile ogni capacità residua di sopravvivenza.
   Non poté fare molto di più. Mitragliata sui due fianchi, con ormai tutte e quattro le gomme a terra, il fumo che si levava sempre più nero, oleoso e copioso dal motore, la povera Yugo uscì di nuovo dalla carreggiata e, con uno schianto terribile, si accartocciò addosso a una staccionata, che le impedì di precipitare lungo la scarpata.
   Quando gli echi delle ultime raffiche degli AK-47 ebbero cessato di risuonare, nella notte calò un silenzio irreale. Un silenzio che fu immediatamente rotto dallo stridore dei freni dei due fuoristrada e dal precipitarsi degli uomini che sopraggiunsero di corsa attorno al rottame, circondandolo.
   A un cenno di uno dei comandanti, gli uomini dell’OZNA si avvicinarono con circospezione alle portiere distrutte e guardarono all’interno per accertarsi se qualcuno fosse sopravvissuto alla sparatoria e al devastante impatto.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Nelle mani del nemico ***


   22 - Nelle mani del nemico
 
   «Quindi?» domandò il comandante, accendendosi una sigaretta di marca Drina.
   Era un uomo nerboruto, con una gran zazzera di capelli biondicci e untuosi. La divisa verde che indossava conteneva a stento il suo fisico possente. Il suo sguardo era freddo e glaciale e una lunga cicatrice gli deturpava il volto dai tratti squadrati e dalla mascella decisamente volitiva.
   Uno degli agenti che si era avvicinato alla macchina distrutta tornò verso di lui dopo essersi accertato delle condizioni di tutti i passeggeri.
   «Sono svenuti e feriti, ma non gravemente e soprattutto ancora tutti vivi, colonnello Civic» riferì.
   Il colonnello trasse una lunga boccata di fumo e poi lo lasciò andare, mischiandolo all’umida nebbia.
   «Molto bene. Perfetto. Mi sarebbe dispiaciuto saperli morti prima del tempo e in maniera così rapida e indolore. Caricateli sui fuoristrada e portiamoli di nuovo a casa del dottore. Voglio interrogarli al caldo, non in mezzo a questa dannata nebbia!» Buttò via la sigaretta spingendola con il dito indice dopo averne tratto un’altra boccata. In mezzo al buio emanò un ultimo bagliore aranciato, prima di scomparire tra le volute del vapore. «Quando si sveglieranno, si pentiranno di non essere morti nell’incidente.»
   A un cenno dell’agente a cui aveva dato l’ordine, gli altri cominciarono a estrarre dalle lamiere i corpi contusi dei passeggeri.

 
* * *

   Furono delle secchiate d’acque gelida a risvegliare Indy, Katy, Valerija, don Mavro e Pavle.
   Grondanti e tremanti, ancora frastornati, si guardarono attorno, cercando di capire dove si trovassero. Non fu difficile comprenderlo. Erano stati trasportati di nuovo a casa del dottor Obradovic, il quale si trovava steso al suolo a pochi centimetri da loro, con il volto tumefatto e le mani palesemente spezzate. Era immobile, ma quando un energumeno gli si avvicinò e gli assestò un calcio nelle costole emise un lieve gemito dalla bocca impastata di sangue, facendo comprendere di essere ancora vivo.
   «Allora, dottore, ci aveva detto il vero» constatò il bestione che lo aveva colpito. «Mi scuso per averla trattata tanto rudemente senza motivo.» Nel suo tono, freddo e sadico, non c’era nessuna traccia di pentimento.
   A quella vista, Indy fece per scattare in piedi, ma non ci riuscì. Riemergendo de tutto dal suo stato di intontimento, scoprì di avere mani e piedi bloccati da numerosi giri di robusto nastro adesivo isolante, esattamente come sua figlia e gli altri compagni.
   Notando il suo movimento, l’uomo che aveva colpito Obradovic si voltò a guardarlo con un sogghigno.
   «Buonasera, professor Jones, io sono il colonnello Zoran Civic, comandante dell’OZNA» si presentò, con tono falsamente cerimonioso. «Finalmente ho l’opportunità di conoscerla.»
   L’archeologo lanciò un breve sguardo al medico steso a terra e uno a sua figlia, accasciata al suo fianco.
   «Mi conosce?» domandò, con ironia.
   Il sogghigno di Civic si allargò. Unito allo sfregio che gli deturpava il volto, lo rendeva davvero mostruoso.
   «Non finga che non sia così, professore» replicò. «Il povero professor Pavkov era venuto a intercettarla assieme a una squadra comandata dal mio collega Popovic.» Sollevò un sopracciglio, fingendo ammirazione. «Abbiamo impiegato diversi giorni a ritrovare i loro cadaveri, ben nascosti dentro la collina di Visoko. Devo dire che sono sorpreso. Non avrei mai pensato che una squadra tanto bene addestrata si sarebbe fatta mettere nel sacco a quel modo da un vecchio decrepito, un prete e due ragazzine. Vi abbiamo cercato in lungo e in largo e, per fortuna, in questi luoghi i patrioti veri sono ancora tanti, sebbene gli schifosi traditori siano anche troppi. Una piaga da eliminare in ogni maniera, il più rapidamente possibile… anzi, a questo proposito…»
   Portò una mano alla fondina che gli pendeva dalla cintura, estrasse la pistola, la puntò alla testa di Pavle e sparò. L’intera azione avvenne talmente in fretta che, probabilmente, il poveretto non si rese conto di nulla.
   Katy e Valerija gridarono, inorridite, mentre il cadavere del ribelle si accasciò contro il muro, imbrattandolo con il proprio sangue, che cominciò a gocciolare sulle assi del pavimento. Indy riuscì a rimanere impassibile. Don Mavro, invece, si lasciò sfuggire un’imprecazione.
   «Che tu sia maledetto, vile assassino!» strepitò. «Bruciare all’inferno per tutta l’eternità è troppo poco, per mostri pari a te!»
   Il colonnello Civic spostò la pistola verso di lui, appoggiandogliela nello spazio in mezzo agli occhi. Le due ragazze, che avevano iniziato a piangere, trattennero il fiato, sgomente. Jones riuscì a mantenersi calmo, sebbene si sentisse montare dentro la collera più nera di secondo in secondo. Don Mavro restò immobile e sereno, sebbene fosse impallidito.
   Civic rimase fermo un istante, come se stesse valutando che cosa fare di preciso, poi ritrasse l’arma e la rimise al suo posto.
   «Troppo comodo, per voi, andarvene così» dichiarò. «Avete ucciso alcuni dei miei uomini migliori e io non dimentico. E, poi, so che Pavkov stava cercando qualcosa che dovreste avere trovato voi, e dovrete dirmi di che cosa si tratta, prima che io vi conceda il lusso di porre fine alle vostre sofferenze.»
   «Bastardo!» sibilò Indy, cercando ancora una volta di alzarsi.
   Uno degli uomini che gli aveva gettato addosso l’acqua, e che fino a quel momento era rimasto in disparte, fuori dal suo campo visivo, gli si avventò addosso e lo colpì con un manrovescio, buttandolo contro il muro. L’archeologo picchiò la testa con durezza e restò stordito.
   «Papà!» gridò Katy, spaventata.
   Civic li soppesò per qualche istante con lo sguardo, poi indicò proprio la ragazza.
   «Prima lei» ordinò. «Cominciamo con qualche trattamento preliminare. Sono certo che, dopo che si sarà ammorbidita, non avrà più nessun segreto per noi.»
   Mani rudi e forti si strinsero attorno alle braccia di Katy, tirandola in piedi. Lei gridò e provò a mordere, ma un altro agente la immobilizzò alle spalle. Valerija e don Mavro si agitarono e urlarono a loro volta, e per questo vennero zittiti con calci e pugni.
   «Nell’ambulatorio del medico» ordinò Civic, impassibile, indicando la porta chiusa.

 
* * *

   Le tre sorelle Obradovic correvano nella foresta, trascinandosi dietro la loro madre in lacrime. Anche Fata piangeva, e Aleksandra tratteneva a stento i singhiozzi. Soltanto Marija appariva in grado di controllarsi e di padroneggiare la situazione, sebbene fosse sconvolta.
   Le tre giovani avevano invano cercato di rianimare loro padre prima che fosse troppo tardi. Il cloroformio che aveva inalato, però, lo aveva stordito così tanto che non erano riuscite a svegliarlo. Stavano confabulando tra di loro, decidendo se fosse il caso di caricarlo sopra la barella che si trovava nell’ambulatorio per poterlo portare via, quando nel cortile erano risuonati i motori dei due fuoristrada. Disperate, non avevano potuto fare altro che prendere la madre e correre a nascondersi in mezzo agli alberi.
   Dal loro nascondiglio, avevano visto gli agenti dell’OZNA entrare in casa. Dalle urla e dalle bestemmie che avevano lanciato, era stato chiaro tutto il loro disappunto nel non trovare le persone che stavano cercando. Da una finestra, avevano veduto quello che sembrava il capo del gruppo accanirsi con rabbia contro il corpo inerte di loro padre, che proprio in quel momento aveva accennato un leggero movimento.
   «No!» gridò Ðurada, cercando di slanciarsi in soccorso del marito.
   Le tre ragazze la fermarono appena in tempo.
   «Ferma!» sussurrò Marija. «Vuoi farti ammazzare…?»
   All’improvviso, dalla strada che si stendeva ai piedi dei colli erano risuonati degli spari. Un suono che non era sfuggito agli uomini che erano entrati in casa e che, subito, lasciato perdere il medico, erano corsi alle loro macchine, urlando concitati, ed erano partiti sgommando nella direzione da cui proveniva l’eco della sparatoria.
   Ritenendo che il pericolo fosse ormai cessato, tutte e quattro raggiunsero di corsa la casa per andare a prestare aiuto al medico ferito. Era in cattive condizioni, il comandante dell’OZNA gli aveva spezzato le dita delle mani schiacciandole sotto il tacco degli anfibi, ma almeno era ancora vivo. Tuttavia, non poterono fare molto per lui, perché nel volgere di una decina di minuti soltanto udirono di nuovo il rumore dei fuoristrada che si avvicinavano.
   Un’altra volta, le quattro donne furono costrette a correre a nascondersi nella foresta, abbandonando il medico, che non sarebbe mai stato in grado di reggersi in piedi e di seguirle tra gli alberi. E, questa volta, dal loro punto di osservazione poterono vedere che gli agenti trasportavano in casa Indy, don Mavro, Pavle e le due ragazze.
   «Bene, li hanno catturati!» approvò Ðurada. «Adesso, allora, possiamo tornare a casa nostra senza più problemi…»
   Lo schiaffo improvviso di sua figlia Marija le raggelò il sangue, più ancora che farle male. Cominciò subito a piangere, come fecero le due ragazze più giovani. L’infermiera, però, era furibonda e non si lasciò commuovere da quello spettacolo.
   «Come pensi che possa andare bene, questa cosa?!» sibilò. «Non hai visto che cosa hanno fatto a papà, quei macellai? Vuoi che lo facciano anche a quei disgraziati?! E pensi, forse, che ci lascerebbero in pace, se rientrassimo adesso come di ritorno da una passeggiata notturna?»
   La vecchia era ammutolita, la guancia rossa e pulsante nel punto in cui sua figlia l’aveva colpita. Aprì bocca per parlare, la richiuse, la aprì di nuovo. Invece della sua voce, si udì uno sparo.
   Fata, che stava guardando verso la casa, si coprì la bocca per soffocare un urlo. Si voltò disperata verso la madre e le sorelle.
   «Ha sparato a Pavle!» quasi urlò. «Lo ha ucciso!»
   Tutte sbiancarono, sia per l’orrore della morte di quel ragazzo che conoscevano da sempre, sia per il timore che quel grido le avrebbe tradite; ma nessuno degli agenti dell’OZNA sembrò averlo udito.
   Marija, infine, decise di prendere in mano la situazione una volta per tutte. Quella congiuntura di eventi drammatici si era creata a causa dello sconsiderato comportamento di suo padre e, adesso, si sentiva in dovere di essere lei stessa a porvi rimedio.
   «Muoviamoci!» sussurrò, indicando il folto della foresta. «Andiamo subito a cercare la cellula ribelle! Per fortuna li conosciamo, sappiamo a chi rivolgerci.» Gettò di nuovo un’occhiata verso la loro casa, quel luogo tanto amato e sicuro che, all’improvviso, si era tramutato in covo di terrore. «Non possiamo abbandonarli!»
   La madre sembrò voler fare ancora resistenza, ma le figlie in lacrime la presero per le mani e la trascinarono con loro nel bosco, alle spalle della sorella più grande che apriva la strada.

 
* * *

   Katy, sollevata di peso, venne trascinata all’interno dell’ambulatorio. La porta venne richiusa dietro di lei.
   Pur avendo mani e piedi immobilizzati, provò lo stesso a ribellarsi, ma ottenne soltanto di venire colpita con un ceffone e gettata sul pavimento. Picchiò duramente il viso e cominciò a perdere sangue dal naso, mentre un grosso livido le si allargava sullo zigomo sinistro.
   «Tiratela su!» ordinò Civic.
   La ragazza emise un gemito quando venne sollevata di nuovo con rudezza e, subito, colpita con estrema brutalità dal colonnello. Il primo pugno le spaccò il labbro, il secondo la raggiunse allo stomaco.
   «Allora, bella ragazzina» disse il colonnello, facendo scrocchiare le dita delle mani. «Spero che ti abbia fatto piacere fare la mia conoscenza. Io, purtroppo, mi trovo dinnanzi a un dilemma che soltanto tu puoi risolvere.»
   Katy sollevò su di lui lo sguardo vitreo. Dai capelli le gocciolava l’acqua con cui era stata svegliata poco prima e il sangue le aveva già inzuppato tutto il giubbotto. Se non ci fossero stati i due uomini a sorreggerla, si sarebbe senza dubbio accasciata. Ogni respiro le provocava un dolore immane, ma cercò di restare impassibile. Non voleva dargli la soddisfazione di farsi vedere sofferente.
   «Io so che Pavkov cercava qualcosa di molto importante quando vi ha seguiti a Visoko, ma non so che cosa» ammise Civic. «Purtroppo, era un altro mio stimato collega a occuparsi di questa missione, lo stesso che voi cani avete ucciso, e io non avevo avuto accesso ai documenti stilati dal professore. Però, visto che erano molto interessati a te, a tuo padre, all’altra sgualdrinella e al prete, presumo che voi sappiate benissimo di che cosa si tratti. Perché non me lo dici tu, allora?»
   La giovane lo sfidò con lo sguardo.
   «Vattene a cagare!» mugugnò.
   Il nuovo pugno di Civic la spedì sul pavimento, facendole sputare sangue.
   «Voi americani vi credete i padroni del mondo, con i vostri stupidi atteggiamenti da perenni cow-boy» riconobbe il colonnello. «Ma io so come rimettervi tutti quanti in riga. Vuoi che vada avanti a picchiarti fino all’alba, spezzandoti le ossa una a una? Non avrei problemi.» Si colpì il palmo della mano sinistra con la destra chiusa a pugno per apparire più minaccioso, quindi soggiunse: «In alternativa, se ti piacciono i fuochi d’artificio, posso infilarti in bocca il cavo della batteria della mia macchina e provare a vedere che cosa succede di divertente. O magari preferisci che uccida tutti i tuoi amici davanti ai tuoi occhi? Anche questo, a me, non farebbe né caldo né freddo. Devi solo scegliere.»
   Katy si lasciò sfuggire un’imprecazione gorgogliante a causa del sangue che le aveva riempito la bocca, cercando di sollevarsi in ginocchio.
   Il colonnello sorrise sprezzante.
   «Sei una dura, eh?» domandò. «Ma io sono più duro ancora.» Indicò ai suoi uomini il lettino operatorio. «Mettetela lì e tenetela stretta.»
   I due agenti che si trovavano nella stanza afferrarono Katy per le caviglie e per le spalle e, sollevatala senza nessuno sforzo, la trasportarono dove gli era stato ordinato. Lei si agitò, cercando di buttarsi sul pavimento, ma gli uomini la tennero immobilizzata, con le mani che le schiacciavano i piedi e la fronte.
   Ostentando indifferenza, Civic cominciò a passeggiare con lentezza per l’ambulatorio, osservando le vetrinette dietro cui erano riposti medicinali e strumenti chirurgici di vario genere. Si fermò a osservare con attenzione una raccolta di bisturi di varie dimensioni.
   «Che ne diresti, carina, se compissi su di te un’operazione chirurgica?» domandò, mettendosi in bocca una sigaretta e accendendola. «Senza anestesia, si intende. Sai, nel tempo libero mi interesso di storia medievale. Gli inglesi erano molto fantasiosi, quando si trattava di condannare a morte qualcuno. Mica si limitavano a impiccarli, no. Per prima cosa strappavano gli organi sessuali del condannato, poi gli aprivano la pancia e gli toglievano le budella, una per una. Chissà cosa si prova.» Si girò a guardarla negli occhi. «Vogliamo per caso scoprirlo su di te?»
   Katy, atterrita, lo osservò avvicinarsi. Urlò e si dimenò quando l’uomo abbassò le mani e le slacciò la cerniera del giubbotto di pelle, rivelando la canottiera che portava sotto. Con uno strappo secco, lacerò la tela, scoprendo il suo fisico minuto e il seno piccolo.
   «Ma che bel corpicino che abbiamo qui» commentò il colonnello, sbuffando fumo. «È proprio un vero peccato doverlo rovinare.»
   Toltosi di bocca la sigaretta, ne appoggiò la punta incandescente accanto all’ombelico di Katy. La ragazza strillò per il dolore, mentre lacrime copiose le scendevano dagli occhi. Smise soltanto quando la sigaretta venne ritirata. Subito, però, la fiamma tornò a straziarla, questa volta sul capezzolo destro.
   Le urla di Katy riempirono l’ambulatorio e, da dietro la porta chiusa, si udirono le imprecazioni di Jones, Valerija e don Mavro. Ignorando ogni suono, Civic spostò la sigaretta e provocò un’altra bruciatura sulla pelle della ragazza, questa volta all’altezza della spalla sinistra. Infine la lasciò cadere in terra e la spense sotto la suola.
   Ansimante, il volto rigato di lacrime e di sangue, la giovane chinò la testa, ma il colonnello la afferrò per la bocca e la costrinse a girarsi verso di lui, fissandola negli occhi.
   «Allora, me lo dici, adesso, che cosa interessava a Pavkov?!» sbraitò. «Io so che voleva trovare quella dannata Fonte, ma che cosa c’era in quella collina per spingerlo a seguirvi fin lì?! Dimmelo!»
   Per tutta risposta, Katy gli sputò in faccia.
   «La metti così, dunque?» sussurrò il colonnello, pulendosi dalla guancia il misto di saliva e sangue con cui la ragazza lo aveva sporcato.
   Tornò verso la vetrinetta che custodiva i bisturi e, dopo averla aperta, ne prese uno. Tornò da lei e, senza porre altre domande, le praticò un taglio all’altezza dello sterno. Fu un’incisione leggera, ma il bruciore fu tale che la ragazza non riuscì a trattenere un nuovo urlo.
   «Quindi?» la incitò.
   Lei continuò con insistenza a non parlare e Civic, per tutta risposta, la ferì di nuovo, aprendolo un altro taglio, questa volta più profondo, lungo il muscolo tricipite del braccio sinistro. Un nuovo grido doloroso sfuggì dalle labbra della giovane.
   «Posso andare avanti a tagliuzzarti fino a domani!» minacciò il colonnello, brandendo il bisturi contro di lei. «Ma forse questi piccoli sfregi non ti fanno impressione. Che ne diresti, allora, se ti amputassi un orecchio? O se ti cavassi gli occhi?!»
   Avvicinò la lama al viso della ragazza, come a voler mettere in pratica il suo proposito. Katy pianse lacrime silenziose, ma non disse nulla. Non avrebbe mai ceduto a quel mostro, nemmeno se le avesse strappato il cuore ancora pulsante dal petto.
   Uno sparo, poi un altro e un altro ancora. I vetri delle finestre dell’ambulatorio esplosero e il colonnello Civic crollò, crivellato di proiettili. I due uomini che trattenevano Katy la lasciarono andare e provarono a mettere mano alle pistole. Uno venne ucciso mentre cercava di estrarla dalla fondina, l’altro riuscì a stringerla ma un proiettile preciso gli attraversò il cranio prima che avesse fatto danni.
   La ragazza, sbalordita, dimenticò all’improvviso tutti i dolori che aveva patito, mentre cercava di capire che cosa stesse succedendo.

 
* * *

   Alla disperata chiamata di Marija e delle sue sorelle, i piccoli gruppi ribelli sparsi per tutta la regione si erano scambiati dei veloci passaparola e, dopo essersi riuniti e organizzati in fretta, erano confluiti in forze in direzione della casa del dottor Obradovic.
   Chiamarli ribelli, in verità, non era forse il modo corretto per definirli. Erano, semmai, dissidenti del regime: uomini e donne di etnie e religioni molto differenti, che in altri tempi si sarebbero quasi definiti nemici, costretti a restare uniti e sempre pronti all’azione per difendersi nel caso non certo improbabile che la polizia segreta arrivasse per prelevare uno di loro. Parecchi erano già stati fatti scomparire negli oscuri sotterranei di caserme dalla tetra fama, pozzi oscuri destinati a fagocitare chiunque ardisse levare una voce di protesta contro il regime comunista. Ma, col tempo, in molti avevano cominciato a dire basta a quella situazione tragica.
   Non erano un vero esercito, ma erano tanti e armati. La maggior parte con fucili da caccia caricati a pallettoni, altri con pistole, alcuni con AK-47, altri ancora con dei malmessi Carcano 91 e un paio addirittura con vecchi mitra MP 40 di fabbricazione tedesca, risalenti ai tempi della seconda guerra mondiale, antiquati ma sempre efficaci e, soprattutto, letali.
   Silenziosi come soldati addestrati – erano più che consapevoli che, contro gli uomini dell’OZNA, il fattore sorpresa sarebbe stato determinante – presero posto attorno all’edificio, circondandolo completamente. Dalle finestre illuminate si vedeva tutto molto chiaramente, dagli uomini armati in piedi a quelli legati e addossati alle pareti, fino alla ragazza che stava subendo un’atroce tortura.
   Fu quella vista a spingere Bojan Fejsa, che era stato incaricato di guidare il gruppo, a non attendere un solo istante di più e a dare subito l’ordine di aprire il fuoco senza risparmiarsi. Fu lui stesso, corso alla finestra dell’ambulatorio, a dare avvio alle danze, abbattendo il vetro e spedendo una raffica del suo rugginoso souvenir che i tedeschi avevano lasciato nei Balcani addosso all’uomo che stava torturando la giovane.
   Dalle altre finestre della casa si sollevarono quasi subito degli scoppi e degli spari. Sebbene colti alla sprovvista da quell’attacco inatteso, gli agenti segreti dell’OZNA si erano immediatamente organizzati e avevano cominciato a rispondere al fuoco. Uno di loro, armato di lanciagranate, sparava bombe a tutto spiano, mettendo in seria difficoltà gli attaccanti, che sul lato principale della casa furono costretti a ripiegare in direzione della foresta per evitare di essere falciati e fatti a pezzi dalle esplosioni.
   Ma Fejsa, seguito da altri sette, era intanto entrato nell’ambulatorio e, dopo essersi accertato che la ragazza sanguinante fosse al sicuro e tutti gli altri morti, si lanciò verso la porta che conduceva al resto della casa. Era un ambiente che conosceva molto bene, dal momento che era lui stesso un paziente del dottor Obradovic.
   Si trovò di fronte uno degli agenti segreti, che aprì il fuoco appena lo vide. Gettatosi di lato per evitare la raffica mortale, Fejsa rispose con una scarica che travolse l’avversario. I suoi compagni si aggiunsero alla sparatoria, tramutando la casetta in un vero e proprio inferno. Un inferno che, però, durò soltanto una manciata di minuti.
   Presi tra due fuochi, sopraffatti dalla superiorità numerica degli avversari, gli agenti dell’OZNA caddero uno a uno, non senza essersi trascinati dietro diversi ribelli. Alla fine, soltanto uno di loro rimase vivo, sebbene gravemente ferito.
   Fejsa gli si avvicinò, osservandolo mentre respirava a fatica, il sangue che gli colava dal naso e dalle orecchie. Era accasciato a terra, sotto una finestra infranta. L’uomo, come vide il ribelle avvicinarsi, fece scattare la mano in direzione della pistola che gli era sfuggita ed era immobile a pochi centimetri da lui. Non l’aveva ancora sfiorata che già un proiettile gli aveva attraversato la testa da parte a parte.
   «Il posto è sicuro» dichiarò il comandante.

 
* * *

   Indy, don Mavro e Valerija, pur essendosi trovati seduti sul pavimento in mezzo alla sparatoria, erano miracolosamente riusciti a scampare al devastante scambio di proiettili e non avevano riportato ferite, se si escludeva un piccolo graffio che una scheggia di legno saltata dal pavimento aveva provocato al braccio destro dell’archeologo. Quindi, non appena furono liberi dal nastro isolante che gli impediva di muoversi, si affrettarono a farsi largo tra i cadaveri e ad entrare nell’ambulatorio, per sincerarsi delle condizioni di Katy.
   Lo studio del dottor Obradovic versava in pessime condizioni. Le finestre erano distrutte, le pareti crivellate di proiettili e il pavimento rosso per il sangue dei tre corpi che vi giacevano sopra. Molti armadietti erano andati distrutti.
   In compenso, trovarono Katy a sua volta già libera. Si era sfilata il giubbotto di pelle, aveva tolto ciò che restava della sua canottiera e, adesso, seduta sul lettino, si stava tamponando con del cotone imbevuto di disinfettante le ferite che aveva sul corpo. Ogni volta che il liquido che puzzava di alcol passava su un taglio, la sua faccia era attraversata da una smorfia dolorosa.
   «Katy…» mormorò Indy, avvicinandosi.
   La ragazza alzò gli occhi dal suo lavoro e, sebbene pallida, stanca e logorata, trovò la forza di sorridere.
   «Ciao, Old J» mormorò. «Hai visto come mi hanno conciata per bene?»
   Il vecchio guardò preoccupato i tagli e le bruciature sul busto e sulle braccia della figlia, e osservò i lividi che aveva sul viso. Un singhiozzo disperato gli sfuggì dalle labbra.
   «Oh, papà, non ti metterai mica a piangere, vero?!» sbottò la ragazza, con un sogghigno. «Ne ho passate di peggio, te lo assicuro.»
   Valerija si avvicinò e le fece una carezza leggera, prima di chinare il viso verso il suo per lasciarle un bacio veloce sulle labbra. Don Mavro, che già si era voltato dall’altra parte per non guardare la giovane a petto nudo, avvertì il bisogno repentino di uscire dalla stanza e andare a parlare con il capo dei ribelli.
   «Hai bisogno di aiuto?» domandò Jones, sollecito, guardandosi attorno in mezzo alla confusione per cercare garze, pomate e qualsiasi altra cosa che sarebbe stata utile per alleviare le sofferenze della figlia.
   «Penso a tutto io» assicurò Valerija, che si era abbassata per raccogliere un rotolo di bende che era finito vicino alla scrivania del dottore, sconquassata da un colpo di proiettile.
   Indy indugiò per qualche secondo su Katy, osservandola con attenzione. Per fortuna, le ferite erano tutte piuttosto superficiali e le bruciature erano abbastanza circoscritte. Quel maledetto boia che ora giaceva ai suoi piedi doveva essere molto esperto nel far soffrire i suoi prigionieri senza infliggere loro danni troppo gravi, in maniera da far durare il più a lungo possibile la tortura. Un pensiero che gli fece montare la collera, e che sfogò dando un forte calcio al cadavere del colonnello Civic.
   «D’accordo, aiutala tu» approvò. «Poi immagino che vorrai riposare…»
   Katy scosse la testa con disappunto.
   «Non ci penso nemmeno, Old J! Ne ho piene le palle, di questo posto della malora!» sbottò. «Vai subito a parlare con quelli che ci hanno salvati e digli che vogliamo partire al più presto per la Georgia. Non voglio restare qui un solo minuto più del necessario!»
   Indiana Jones assentì con il capo, indirizzò un ultimo sorriso alla figlia e fece come gli era stato detto con quel tono che non ammetteva nessuna replica. Anche lui, in fondo, non vedeva l’ora di tagliare la corda, prima che accadesse qualcos’altro.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Il cammino della vita ***


   23 - Il cammino della vita
 
    Pendici del monte Kazbek, Repubblica Socialista Sovietica di Georgia

   L’aria gelida e odorosa di neve che proveniva dalle alture del Caucaso portava con sé l’annuncio di un inverno anticipato, che sarebbe stato particolarmente rigido. A parte il freddo e la stanchezza della lunga arrampicata che li aveva portati tanto in quota, però, muoversi in quel luogo era quanto di più incantevole si potesse credere; non sembrava per niente strano, allora, che in passato uomini e donne  di ogni condizione lo avessero considerato come il Giardino dell’Eden, il luogo dove tutto aveva avuto inizio.
   Dalle vette spirava il vento che, insieme all’aria gelida, portava con sé profumo di erba umida e di boschi. Un odore penetrante di acqua, che presto si sarebbe mutata in neve e ghiaccio, acqua purissima che scorreva su quelle vette ancora vergini e incontaminate. Lì sembrava che l’inquinamento e le altre sciagure del mondo contemporaneo non fossero ancora stati capaci di giungere.
   Il silenzio, quasi assoluto e non smorzato da nessun suono estraneo e fastidioso, era intervallato soltanto dai tintinnii dei campanacci appesi al collo di un gregge di capre al pascolo, dai latrati di un vecchio cane e dalle canzoni tradizionali che il pastore dalla lunga barba grigia, seduto sopra un masso, cantava pizzicando le corde del panduri, lo strumento tipico della Georgia.
   A fare da cornice a quella poesia estatica creata dalla natura, erano i prati verdi circondati dall’abbraccio roccioso delle montagne, che si innalzavano aguzze verso il cielo grigio e nuvoloso, già bianche di neve e accese di arancione dai raggi del sole al tramonto, come giganti addormentati. E quella catena montuosa non era soltanto un insieme di pietre e di ghiaccio, ammassi antichi quanto il mondo, bensì un confine: il confine tra due realtà che si erano spesso scontrate e mai realmente comprese. Da una parte l’Europa, sempre più proiettata verso il futuro, e dall’altra l’Asia, ancorata in maniera salda alle sue più antiche tradizioni.
   Sbuffando per la lunga arrampicata che avevano dovuto affrontare per giungere fin lì, affrontando sentieri appena accennati e mulattiere su cui era difficile tenere un passo regolare, Indiana Jones e i suoi tre compagni si fermarono, contemplando l’alto monte innevato che gli si parava di fronte, oltre la valle. Tutti e quattro si appoggiarono con aria stanca ai robusti bastoni che li avevano assistiti nel cammino.
   «Ditemi che ci siamo» implorò don Mavro, prendendo dalla tasca del cappotto il suo solito fazzoletto e utilizzandolo per asciugarsi la fronte, che grondava di sudore nonostante il freddo.
   «Ci siamo» confermò Indy, indicando la montagna innevata. «Quella è la nostra meta. L’eremitaggio che cerchiamo si trova lassù.» Si guardò attorno. «Ma abbiamo ancora parecchi chilometri da percorrere, e presto calerà il buio.» Diede un’occhiata dubbiosa alle nuvole basse che, trasportate dal vento, si addensavano sopra la vallata, promettendo un’abbondante nevicata. «Sarà meglio accamparci qui, per stanotte, e domattina riprenderemo il cammino alle primi luci. Per mezzogiorno di domani saremo a destinazione.»
   «Era ora!» borbottò Katy, togliendosi di dosso il pesante zaino che portava sulle spalle e sbattendolo in terra senza troppi riguardi. Aveva acconsentito a sostituire il suo solito giubbotto di pelle con un pastrano da uomo molto più pesante, e aveva nascosto quasi per intero la testa sotto un’ampia cuffia di lana.
   «Non hai nessuna pietà, della tua povera figliola ferita» andò avanti a lagnarsi. «Ora, oltre ad avere tagli dappertutto, ho pure i piedi pieni di vesciche. Sarai felice, presumo.»
   Jones sogghignò, osservandola con ironia, per nulla intenerito dai suoi lamenti.
   «Io farei più attenzione, se fossi in te» si raccomandò. «Quello zaino è pieno di esplosivo.»
   «Adesso me lo dici!» strillò la giovane, sobbalzando. «E che accidenti ce ne facciamo, dell’esplosivo?»
   Indy si sfilò dalle spalle il suo zaino e cominciò a estrarne una tenda e i relativi picchetti. Si strinse nelle spalle.
   «Come, che cosa ce ne facciamo?» borbottò. «Hai per caso dimenticato, il motivo per cui ci troviamo qui? Il vicario ci ha chiesto di rendere inoffensiva la Fonte e noi così faremo.»
   Katy non disse nulla, iniziando ad aiutare Valerija a togliere dal suo zaino l’altra tenda. Don Mavro, invece, si mise a sedere sopra una pietra, prestando orecchie alle parole della canzone del pastore, che il vento accompagnava fino a loro.
   «Non capisco una sola parola, ma questa melodia è davvero struggente» asserì, annuendo piano.
   Indy alzò la testa, osservando in lontananza il musicista, la cui lunga barba vibrava a ogni nota.
   «Una canzone sacra, padre» spiegò. «Dedicata alla Madonna.»
   Notando lo sguardo stupito del prete, si strinse nelle spalle come aveva fatto poco prima.
   «Lo studio delle lingue è sempre stata una mia deformazione, fin da bambino» rivelò. «Ne conosco talmente tante che, alla lunga, dimentico persino di averle studiate. Poi, però, mi basta udire poche parole, magari di una canzone, per rendermi conto di comprendere ogni cosa.»
   Don Mavro borbottò un complimento, mentre l’archeologo, con un grugnito, piegò le ginocchia indolenzite per arrivare a terra e cominciare a picchiare sui paletti, come stavano facendo anche Katy e Valerija. Finalmente, rendendosi conto di essere seduto a riposare mentre gli altri faticavano, il sacerdote cominciò a darsi da fare per preparare la cena.
   Con il contributo di tutti, il campo fu presto allestito, due tende abbastanza capienti dinnanzi alle quali venne acceso un fuocherello scoppiettante. Le prime ombre si stavano allungando e, nel cielo, in mezzo agli spazi lasciati liberi dalle nubi che non avevano ancora finito di addensarsi tutte insieme, cominciavano ad apparire le prime stelle. Presto, però, le fievoli luci degli astri scomparvero e le nubi si compattarono, promettendo cattivo tempo per la notte.
   Persino il pastore, dopo aver interrotto la sua dolce nenia, radunò con l’aiuto del suo cane le pecore all’interno del recinto coperto da una tettoia, per poi rientrare nella sua casa di pietra a ridosso di due grandi abeti secolari. Lo videro apparire ancora una volta, per chiudere l’ingresso di un pollaio accanto all’abitazione, poi scomparve definitivamente dietro la porta chiusa. Dopo qualche minuto, dal camino cominciarono a uscire lente spiarli di fumo.
   Nessuno parlò, mentre consumavano il pasto. Quel mutismo non era dovuto tanto alla stanchezza di essersi arrampicati fino a lì – non solo, almeno. Ciò che li rendeva nervosi era l’idea di quello che si accingevano a compiere. Tutti e quattro apparivano piuttosto turbati, ciascuno perso a rincorrere l’ombra di qualche pensiero sfuggente, mentre con la mente ripercorrevano gli ultimi giorni, vissuti completamente in vista dell’indomani, quando avrebbero finalmente raggiunto la loro meta.
   Dopo l’ultima sparatoria a casa del medico, non erano accaduti altri avvenimenti degni di nota. Katy, ancora pallida e un poco tremante per ciò che aveva passato, ma comunque in buone condizioni di salute nonostante la tortura subita, si era accomodata a bordo di un fuoristrada, tenendosi stretta a Valerija; nessuna delle due sembrava avere fatto caso ai cadaveri degli agenti dell’OZNA che si erano accumulati lungo i corridoi. Don Mavro, dopo aver impartito la sua rapida benedizione ai defunti e aver mormorato una preghiera per le loro anime – pur borbottando che, per come la vedeva lui, assassini simili meritavano soltanto il fuoco dell’inferno – le aveva seguite quasi subito, sedendosi in silenzio al loro fianco.
   Anche Indy stava per salire, quando si era sentito toccare il braccio da una mano delicata e leggera. Era Marija, la figlia del dottor Obradovic che si era presa tanta cura di lui, in quegli ultimi giorni.
   «Professor Jones…» aveva mormorato, tenendo lo sguardo basso, come se si vergognasse.
   L’archeologo, osservandola, aveva intuito che dovevano soltanto a lei la salvezza. Non aveva avuto bisogno di domandare nulla per comprendere che era stata lei a correre a chiamare i ribelli che erano venuti in loro aiuto. Senza una sola parola, l’aveva stretta in un abbraccio colmo di gratitudine.
   Lei, sorpresa, aveva soffocato un singhiozzo, incapace di parlare. Le sue labbra avevano sfiorato la sua guancia scavata dalla vecchiaia e ispida di barba, e Indy si era sentito rimestare il sangue. Poi si era staccata da lui ed era corsa via, per andare a occuparsi di suo padre e degli altri feriti. Jones era rimasto fermo a guardarla per qualche secondo, meravigliato ma anche fiero della sua capacità di saper fare ancora breccia nel cuore di una ragazza così giovane, poi era salito in macchina.
   Accompagnati da due ribelli, erano stati subito condotti all’aeroporto senza più incidenti.
   La prima parte del viaggio in aereo, come preannunciato, era stato a bordo di un cargo carico di gabbie al cui interno starnazzavano polli e galline. L’odore era insopportabile e le piume che svolazzavano ovunque irritavano il naso e gli occhi. Tutti, però, erano così stanchi che non ci avevano fatto alcun caso, specialmente Indy che, dopo essersi accoccolato alla meglio, si era abbassato il cappello sugli occhi, aveva conserto le braccia sul petto e si era addormentato.
   Una volta giunti in Bulgaria, avevano cambiato volo e, superato in poche ore il Mar Nero, erano atterrati a Tbilisi, la capitale della Georgia; da lì, come normali turisti, avevano coperto a bordo di uno scassato torpedone i circa centoventi chilometri che li separavano dalla loro meta finale, che infine gli si era parata dinnanzi agli occhi in tutta la sua imponente bellezza. Il monte, alto e austero, sembrava quasi osservarli impassibile, sfidandoli a svelare i suoi più arcani segreti.
   Arrampicarsi sulla montagna non era stata una passeggiata per nessuno: Indy, anche se non voleva ammetterlo, era ormai davvero troppo vecchio per cose del genere, come gli ricordavano le gambe che soffrivano a ogni metro guadagnato e la schiena che pareva decisa a spaccarsi in due a ogni movimento errato; don Mavro, poi, non aveva fatto nessun tentativo per cercare di nascondere la sua stanchezza, sbuffando a ogni singolo passo come una vecchia locomotiva sfiatata e appellandosi più volte alla Madonna e a San Bernardo, patrono degli alpinisti, perché lo proteggessero in quel calvario; Valerija, pur avendo fatto gli allenamenti camminando nella foresta, non si era scordata una sola volta di essere pur sempre una bibliotecaria, e non un’alpinista; e Katy non aveva fatto altro che lamentarsi di avere male dappertutto per via dei patimenti subiti.
   Ma, in un modo o nell’altro, ce l’avevano fatta. Ormai soltanto un’ultima vallata li separava dall’ampio declivio dove, celati da qualche parte, si trovavano i resti dell’antico eremitaggio che erano venuti a cercare.
   Adesso, consumata la cena, non restava che affrontare una notte di sonno, per rimettersi in forza in attesa del giorno seguente.

 
* * *

   Valerija baciò Katy con una passione tale da sembrare intenzionata a risucchiarle l’anima attraverso la bocca. Le si aggrappò, le mani strette sulle spalle, e affondò le labbra nelle sue, giocando con la punta della sua lingua e accogliendola famelica attorno alla propria.
   La tenda, di tela spessa e cerata, era molto confortevole. Non si poteva certo dire che ci si stesse al caldo, ma imbacuccate com’erano negli abiti pesanti e avvolte nei sacchi a pelo, strette l’una all’altra, le due giovani non pativano il freddo. In un angolo, accanto agli scarponi che si erano tolte, brillava fievolmente una lampada da campeggio a gas, spandendo ombre tremolanti sulle pareti di tela. Lo zaino che custodiva l’esplosivo, invece, su insistenza di Katy, era stato portato da suo padre a una decina di metri di distanza, al riparo tra alcune rocce: non avrebbe chiuso occhio, sapendo di avere quella roba troppo vicino.
   «E domani, se proprio ci tieni tanto, te lo porti tu, sulla schiena!» gli aveva detto, quando era tornato indietro. «Ha ragione la mamma, quando dice che sei un dinamitardo!»
   Il vecchio aveva fatto una smorfia.
   «La mamma non dice che sono un dinamitardo…»
   «Questo lo pensi tu, Old J!» aveva replicato lei, cercando apparire acida ma non riuscendo a soffocare una risata.
   Ora, però, mentre le labbra umide e salate di Valerija si stringevano attorno alla sua lingua, succhiandola quasi con avidità, alla giovane Jones non importava niente, né della dinamite, né tantomeno della lunga scarpinata che avevano dovuto affrontare per arrivare fin lì, tra le aspre e fredde vette del Caucaso Maggiore, e neppure di un sasso che si trovava proprio sotto la tenda e le stuzzicava dolorosamente la schiena a ogni singolo movimento del corpo.
   Certo, sapere di essere tanto vicini alla meta la riempiva di euforia. Dopo tante pene, dopo aver rischiato più volte di rimetterci la pelle, erano quasi giunti a destinazione, e questo le produceva una strana sensazione di vittoria. Tuttavia, in quel preciso momento non ci voleva pensare.
   Ora le interessava soltanto abbandonarsi ai baci dell’altra ragazza, godendo appieno della prima notte tranquilla e tutta per loro che stavano avendo dopo diversi giorni. Non voleva fare altro che svuotare la mente e riempirla un’altra volta con la consapevolezza delle dolci labbra di Valerija incollate in modo sensuale alle sue.
   Dopo alcuni minuti di paradiso, però, fu la bibliotecaria stessa a staccarsi da lei. Quell’interruzione inaspettata del dolce contatto che le aveva unite fece patire a Katy un senso di vuoto e di freddo che non aveva niente a vedere con il clima delle montagne della Georgia settentrionale.
   «Che succede?» domandò, cercando di sporgersi in avanti per riguadagnare quella meraviglia perduta.
   Valerija si era sollevata, la testa appoggiata alla mano e il gomito a terra, e si tenne fuori dalla sua portata.
   «Stavo pensando a una cosa…» mormorò, passandosi la lingua sulle labbra ancora intrise del sapore dell’altra.
   Quella vista procurò un fremito a Katy, che si sentì rimestare il sangue nelle vene. Nondimeno, riuscendo a controllare la propria voglia di balzarle addosso e strapparle gli abiti uno per uno, domandò: «A che cosa?»
   «Alla Fonte dell’Eterna Giovinezza» ammise Valerija.
   Si fissarono negli occhi, che alla luce della lampada brillavano in maniera strana, quasi sinistra. Dall’esterno, giunse il mormorio cupo di una raffica di vento, e qualcosa di leggero cominciò a picchiettare contro la tenda. Nevicava.
   «So che ne abbiamo già parlato, anche se non abbiamo affrontato per bene l’argomento» continuò la ragazza. «È da quando abbiamo saputo che il tuo zaino era pieno di esplosivo che tuo padre si è procurato chissà dove, che ci penso…»
   Katy ridacchiò, portandosi la mano davanti alla bocca.
   «Oh, ti assicuro che ci penso pure io, e di continuo» bofonchiò, un po’ aspra. «Gliel’ho detto chiaro e tondo: domani, se proprio vuole tirarsi ancora dietro quella roba, se la tiene in spalla lui, vecchio artificiere pazzo!»
   «Non è quello…» continuò Valerija.
   Adesso era decisamente a disagio, mentre Katy, dal canto suo, cominciava sul serio a sentirsi curiosa. Voleva davvero scoprire che cosa avesse in testa la sua amica di così importante da indurla a smettere di baciarla proprio quando cominciavano a darsi da fare per davvero.
   «E cosa sarebbe, allora?» la incitò.
   «Io…» iniziò la ragazza.
   Trasalì, in difficoltà, come se quello che aveva in mente di affrontare fosse un argomento parecchio imbarazzante. La giovane archeologa notò che sfiorava la tasca del cappotto di montone, come se volesse tirare fuori qualcosa. Poi, però, parve ripensarci e tornò a distendere la mano. Fuori, la neve cominciò a cadere più copiosa.
   «È sempre quella cosa che ti stavo dicendo quando eravamo nella vasca da bagno…»
   Katy aggrottò le sopracciglia, tentando di fare mente locale. Ma gli avvenimenti che si erano succeduti in quella notte tremenda erano tali che, proprio, non riusciva a ricordare di che cosa stessero parlando lei e Valerija, prima di essere interrotte dall’arrivo del ribelle e da tutto lo sconquasso che ne era seguito.
   «E che cosa mi stavi dicendo?» domandò. Si sporse in avanti e le accarezzò i capelli dorati. «Giuro che ti ascolto sempre volentieri, quando mi parli, la tua voce mi incanta, ma questa volta non riesco a farmi venire in mente che cosa…»
   «Della possibilità di non distruggere la Fonte e, anzi, utilizzarla per rinforzare i ribelli» replicò la ragazza, trovando finalmente il coraggio di parlare. «Hai visto che razza di mostri sono quelli dell’OZNA, no? E, allora, perché non utilizzare quelle acque miracolose contro di loro? Non ci sarebbe più sparatoria o tortura in grado di fermare i rivoltosi e, nel giro di poco tempo, la piaga comunista sarebbe definitivamente abbattuta!»
   La giovane archeologa si lasciò sfuggire un lunghissimo sospiro.
   Capiva perfettamente le motivazioni che spingevano l’amica a parlare in quella maniera, e in parte le condivideva: aveva sperimentato sulla sua stessa pelle di che cosa fossero capaci gli agenti comunisti – i tagli sotto le bande, che si stavano cicatrizzando, in certi momenti le facevano ancora maledettamente male, per non parlare delle bruciature – e poteva comprendere il desiderio di rivalsa contro quegli uomini mostruosi. Il sogno di potergli opporre un esercito invincibile era stuzzicante, quantomeno. Tuttavia, c’era un fattore molto importante di cui non poteva non tenere conto.
   «Ammetto che sarebbe una bella tentazione» rispose. «Ma ci sono mille motivi differenti per dubitare che sarebbe la soluzione giusta.»
   Valerija inarcò un sopracciglio, senza capire. I suoi occhi la invitarono a proseguire.
   «Be’, vedi, papà mi ha raccontato un sacco di storie» spiegò Katy, sperando di non apparire come una bambina disposta a credere a ogni fiaba che le veniva rifilata.
   Si spostò in una posizione migliore, intrecciando le braccia dietro la testa. Il sasso sotto la schiena non smise di infastidirla: sembrava prenderci gusto, a premerle contro la carne.
   «Ora so che non sembrerebbe, a guardarlo, ma anche Old J è stato giovane. E, quand’era giovane, ha più volte avuto a che fare con gente che si sarebbe voluta impadronire di antichi e preziosi manufatti ritenuti magici per utilizzarli a scopi, diciamo così, bellici.»
   Valerija parve non capire.
   «E con ciò?» domandò.
   «Con ciò» rispose Katy, girando lo sguardo su di lei, «voglio dire che, tutta quella gente, ha fatto una gran brutta fine.»
   Le sue labbra perennemente screpolate si dischiusero in un ampio sorriso, mentre rammentava alcuni momenti della sua infanzia.
   «Quando non volevo andare a letto, o facevo i capricci per non mangiare il passato di verdure, o non avevo voglia di farmi il bagno nonostante fossi sporca di fango dalla testa ai piedi, papà mi raccontava dei suoi nemici e di come erano finiti tutti molto male.»
   Fece la voce grossa, cercando di imitare quella bassa e cavernosa di Indy.
   «“Se non fai il bagno, finirai sciolta e con la testa esplosa come Belloq davanti all’Arca dell’Alleanza”, oppure “se non mangi la minestra, diventerai uno scheletro come Donovan!” O, ancora, “sbrigati a lavarti i denti, altrimenti arriveranno gli esseri intradimensionali e ti porteranno via con il loro disco volante come hanno fatto con Mac!”»
   Ridacchiando, riprese il suo solito tono, un poco roco.
   «All’inizio non capivo, ero troppo piccola e pensavo che quei tizi fossero protagonisti di qualche film scadente o di storie dell’orrore che papà aveva letto in qualche giornaletto. Invece, quando sono stata più grande, mi narrò che lui aveva davvero visto accadere tutte quelle cose ai suoi nemici. Quelle e molte altre, persino peggiori. E mi ha messa in guardia, dicendo che, dagli antichi e occulti poteri che un tempo dominavano il mondo, e i cui residui sono ancora celati nei posti più lontani e impensabili, è molto meglio tenersi alla larga e non averci nulla a che fare.»
   Per quanto fosse sorpresa da un simile racconto – la sola idea che potessero davvero esistere simili fonti di potere era per lei al limite dell’accettabile, e non ci avrebbe mai creduto se non fosse stata distesa in una tenda sotto la neve, riprendendosi piano piano da una lunga scarpinata affrontata per trovare la Fonte della Giovinezza di cui narravano le leggende – Valerija scosse il capo.
   «Ma qui non si tratta di un potere occulto o cose del genere!» insisté. «Questa è solo un’acqua un po’ strana che fa miracoli, che ringiovanisce la gente e guarisce malattie e ferite… potrebbe addirittura essere una panacea per tutti i mali…»
   Katy, in un certo senso, la pensava come lei. Ma se il vecchio archeologo voleva distruggere la Fonte, doveva avere le sue buone ragioni, e lei aveva imparato da tempo a non dubitare di suo padre. Anche se molto spesso lo prendeva in giro, dandogli dell’uomo preistorico a causa della sua età, sapeva bene quanto fosse esperto nel suo campo e stimato in campo accademico, persino adesso che si era ormai ritirato dall’insegnamento.
   Tuttavia, si rendeva conto che, continuare a parlarne, non sarebbe servito a nulla.
   «Adesso siamo stanche e la notte si fa sempre più buia e fredda» mormorò. «Io penso che dovremmo approfittare di queste ore per riposarci e per fare cose molto più belle, anziché perderci in chiacchiere…»
   Ciò detto, allungò il braccio, l’agguanto, la trasse a sé, senza badare all’urto con qualcosa di duro e pesante che Valerija aveva nella tasca del giubbotto, e ricominciò a baciarla, dimenticando tutto il resto.

 
* * *

   Nella sua tenda, sdraiato accanto a don Mavro – il quale, dopo aver mormorato un paio di rapide preghiere a cui il vecchio archeologo aveva risposto con un «amen» incerto e svogliato, si era messo subito a russare della grossa – Indy fissava nel vuoto, lo sguardo perso nel buio, la mente intenta a inseguire un pensiero che lo affascinava e al medesimo tempo lo terrorizzava. Nonostante la stanchezza e i dolori che la lunga e faticosa scarpinata gli aveva lasciato nella schiena e nelle gambe, il sonno tardava ad arrivare e non riusciva a chiudere occhio. Era più che certo che, quella notte, non avrebbe dormito. Non valeva nemmeno la pena provarci, sarebbe stata fatica inutile; in più, aveva capito che quello era il momento di pensare, di ragionare, perché dopo, forse, non ne avrebbe più avuta l’opportunità.
   Si sentiva come un uomo aggrappato a una parete rocciosa, ripida e levigata, senza più la possibilità di muoversi in qualsiasi direzione, e con un tetro abisso sotto di sé; un abisso di cui era impossibile scorgere il fondo. La possibilità di cadere nel vuoto e sfracellarsi al suolo dopo un pauroso volo si sarebbe potuta verificare a ogni minimo movimento errato. Un movimento che lui non intendeva compiere.
   L’indomani, di questo non aveva più alcun dubbio, avrebbe trovato la Fonte dell’Eterna Giovinezza. Ne era certo: tutti gli indizi lo avevano condotto fin lì e, ormai, non aveva più alcun motivo per diffidare. Il cammino della sua vita, alla fine, lo aveva condotto a scoprire anche quell’ultimo segreto, quel mistero tanto favoleggiato e intrigante, che era sempre stato lì, celato tra le vette del Caucaso, in attesa che qualcuno giungesse a svelarlo. Un compito che, alla pari di moltissimi altri, era toccato a lui. Ancora una volta, il destino o chi per lui aveva posto Indiana Jones sulla pista di un’immensa scoperta, che trascendeva dalla semplice archeologia a cui si era votato.
   Non avrebbe saputo come definire il proprio stato d’animo, in quel momento.
   Eccitato? Spaventato? Lusingato? Distaccato? Gli sembrava che, tutte queste emozioni e mille altre ancora, gli si accavallassero nella mente, affollandosi l’una sull’altra e facendo a pugni per prendere il sopravvento, senza concedergli un solo istante di tregua. Era un po’ come tutte le altre volte in cui aveva scoperto oggetti mitologici o messo piede in luoghi leggendari: anche in tutte le altre occasioni si era sentito cogliere da sensazioni contrastanti e indefinibili, che gli scorrevano con prepotenza sotto la pelle.
   Questa volta, tuttavia, c’era anche qualcosa di differente, che lo riguardava da vicino. Qualcosa che, contrariamente alle altre occasioni in cui si era trovato a sfidare il mondo intero per giungere a un risultato, lo coinvolgeva in maniera molto più personale del solito.
   Era pronto a distruggere per sempre la Fonte, come gli era stato ordinato di fare. Si sarebbe dato da fare senza rimpianti, in quel senso. Aveva sufficiente esperienza pregressa per non sapere che, lasciarla scorrere intatta, avrebbe potuto comportare un immenso pericolo per chiunque. Il fatto che, finora, nessuno se ne fosse servito per scopi malvagi, non significava che sarebbe stato così per sempre: bastava pensare ai comunisti, che avrebbero voluto trovare quelle acque e usarle a loro vantaggio. Non c’erano riusciti e, ormai, era certo che l’OZNA avesse rinunciato: probabilmente, se era stata organizzata una nuova squadra, erano ancora alla loro ricerca nei Balcani: e, oltretutto, era ormai chiaro che la morte di Pavkov avesse mandato a monte l’intera operazione, considerato che gli altri membri della polizia segreta non avevano idea di che cosa cercare di preciso, né dove. Non avrebbe più avuto rogne, da parte loro.
   Un ghigno gli incurvò le labbra. Era una novità assoluta, per lui, riuscire a raggiungere la meta che si era prefisso senza avere qualcuno a stargli con il fiato sul collo, magari con un mitra tra le mani; aveva dovuto diventare vecchio, per vivere una simile esperienza.
   Ma quanti ancora si sarebbero fatti avanti, in quella ricerca, e non animati da amore per il prossimo e per la collettività? E, come c’erano riusciti lui e i suoi compagni, prima o poi anche altri avrebbero trovato il modo di arrivare alla meta, e allora sarebbero stati grossi guai per tutti, perché difficilmente a spingersi fin lì sarebbe stato un mecenate, un benefattore dell’intera umanità.
   No, riguardo a questo non aveva nessun dubbio: la Fonte dell’Eterna Giovinezza, pur apparendo a prima vista come una benedizione per chiunque vi si fosse approssimato, era in realtà un pericolo, un pericolo per tutti, e come tale andava annientato. Un compito che sarebbe spettato a lui e a cui non si sarebbe mai sottratto: ecco perché non si era fatto alcuna remora, durante una sosta nel viaggio verso il Caucaso, a rivolgersi a un venditore clandestino di esplosivi e armi per farsi consegnare dinamite sufficiente a cancellare dalla faccia della terra quella sorgente.
   Ciò che non aveva detto a nessuno, e che quasi si vergognava di ammettere persino con se stesso, era che, nella tasca del suo parka, accanto all’accendino con cui intendeva dare fuoco alla miccia che avrebbe posto fine a quell’antico mistero, era custodita anche un’ampolla vuota. Una piccola ampolla di vetro, che avrebbe però potuto contenere sufficiente acqua da regalargli ancora la gioventù e, insieme ad essa, almeno un’altra ottantina d’anni di vita felice. Non ne voleva di più. Quelli gli sarebbero bastati. Eppure, soltanto a pensare di poterli guadagnare aveva i brividi, e la morsa del terrore lo avvolgeva completamente.
   Fece un rapido conto mentale.
   Ringiovanire adesso e riguadagnare salute e forza fisica avrebbe significato poter vivere numerose altre avventure fino almeno all’anno 2065 o giù di lì. Forse anche dopo: chi poteva scommettere sul fatto che, nel frattempo, sempre in movimento com’era, non avrebbe trovato altri modi per prolungare la propria esistenza di altri cento, duecento, mille anni? In ogni caso, limitandosi soltanto a quella, era comunque una data che, adesso, al solo pensarla, gli sembrava lontanissima, come se si trattasse non solo di tempo, bensì addirittura di un orizzonte fisico impossibile da superare e di cui non poteva neppure intravedere i confini incerti e irraggiungibili.
   Un nuovo brivido, che non aveva nulla a che vedere con il pur rigido clima della montagna, lo attraversò da parte a parte.
   Vivere tanto a lungo avrebbe significato vedere realizzarsi il futuro, avrebbe voluto dire assistere a immensi cambiamenti di cui non era nemmeno in grado di prevedere gli sviluppi. Avrebbe significato andare incontro a qualcosa di completamente nuovo, che poco o nulla aveva a che fare con lui.
   Provò a pensare a come appariva il mondo all’epoca in cui lui era nato, e a quanto fosse mutato nel corso del Novecento. Si erano verificati cambiamenti immensi e profondi, capaci di sconvolgere la mente se solo li si provava a mettere in fila uno dopo l’altro; trasformazioni che spesso era riuscito ad accettare e a integrare nella propria vita ma che, altre volte, lo avevano colto di sorpresa, togliendogli il fiato.
   Giusto per dirne una, la prima che gli si parò dinnanzi alla mente, aveva accolto come una piacevole novità l’invenzione degli aerei supersonici, che adesso permettevano di compiere in poche ore tratte che, prima, richiedevano giorni interi di viaggio. I tempi in cui, per fare il giro del mondo, occorrevano ottanta giorni, sembravano ridicolmente lontani, sebbene fossero i medesimi tempi in cui i suoi occhi si erano schiusi per la prima volta alla luce dorata del sole.
   Un po’ meno, si disse saltando di palo in frasca, molto meno, anzi, gli andava a genio il degrado delle periferie, oggi abitate da quei punk maleodoranti e vestiti come straccioni. La moralità, col tempo e con il progresso, era proprio andata a farsi benedire, insieme al buongusto e alla buona creanza. C’erano poi altri aspetti che faticava ad accettare, come quella malattia mostruosa che passava da un essere umano all’altro attraverso gli atti sessuali, scoperta soltanto da pochi anni e per la quale, ancora, non esisteva una cura: gli esperti dicevano che ci si sarebbe dovuto fare i conti molto a lungo, per tantissimi anni, forse addirittura per sempre.
   Per non parlare, poi, delle crescenti tensioni che stavano attraversando il mondo, un’altra volta. Di nuovo ci si trovava sul limitare dell’abisso. Di nuovo sembrava di essere pronti ad andare verso una nuova guerra. Combattuta contro chi, e con quali armi, erano quesiti a cui, per il momento, non sapeva dare una risposta. Eppure c’erano troppi fermenti, ovunque, per ignorare che, i prossimi decenni, non sarebbero stati per niente semplici. Quella relativa stabilità che si era creata all’indomani della fine della seconda guerra mondiale era ormai sul punto di concludersi, sempre che fosse davvero mai esistita.
   C’era anche un altro problema, con cui il progresso si stava muovendo a pari passo. L’inquinamento. Un dilemma antico che, però, come una malattia lenta ma inesorabile, dalle grandi città si era spostato ai piccoli centri e poi anche agli spazi aperti. Il mondo verde e pulito in cui lui aveva vissuto le sue grandi avventure stava lentamente scomparendo sotto i fumi delle industrie e le piogge acide che bruciavano le erbe e le chiome degli alberi.
   E poi, le avventure. Era per quelle che avrebbe voluto ritrovare la gioventù, solo per quelle. Ma dove potevano essere, quelle nuove avventure che avrebbe voluto cercare e vivere? Che cosa ancora poteva nascondersi, in un mondo i cui cieli erano solcati dai satelliti artificiali e dove, ormai, tutto ciò che valeva la pena di scoprire era stato scoperto? Il mondo, che aveva iniziato a disincantarsi quando lui era giovane, era ormai libero da qualsivoglia mistero. Che cosa avrebbe potuto fare, un uomo come lui, se non rassegnarsi a starsene seduto, senza più nulla da fare? Si sarebbe condannato a osservare, incapace di fare un passo in un’epoca che non gli apparteneva, che non era la sua.
   Inquinamento, assenza di misteri e di nuove avventure, degrado sempre più imperante, malattie che si diffondevano a macchia d’olio anche a causa del costante aumento della popolazione, nuove guerre in vista… ecco, quelli erano parti dell’avvenire che faticava a mandare giù. E non era certo roba da niente.
   Ma, in fondo, cos’erano mai, quelle cose, a confronto con la possibilità di vivere ancora per tanti anni, di nuovo giovane e bello? Avrebbe avuto dinnanzi a sé mille possibilità, mille nuove opportunità… il mondo sarebbe stato un’altra volta ai suoi piedi… se non avesse potuto viverlo, perlomeno avrebbe potuto guardarlo, da solo, in disparte…
   Quel pensiero gli attanagliò le interiora come una morsa. D’improvviso, la tenda gli parve soffocante. Si sentì asfissiare ed ebbe bisogno di uscire all’esterno, al freddo.
   Indy si alzò, facendo piano per non svegliare don Mavro – ma il prete, distrutto dalla fatica, dormiva così bene e beato che, probabilmente, non si sarebbe ridestato neppure se una slavina improvvisa li avesse investiti – e, dopo aver richiuso la zip del cappotto, si fasciò la gola con la pesante sciarpa di lana rossa e si calcò il cappello in testa. Scostò il lembo di tela che fungeva da ingresso della tenda, piegò la schiena e uscì all’esterno.
   Ad accoglierlo, insieme all’aria gelida che gli arrossò subito le guance ispide, furono alcuni delicati fiocchi di neve. Le nubi si erano addensate e aveva iniziato a nevicare. Sperò che non esagerasse, o il giorno successivo sarebbe stato molto più complesso del previsto arrivare alla loro meta.
   L’aria fredda e la neve sul viso, comunque, gli fecero bene. Un nuovo brivido – questa volta dovuto proprio alla temperatura – lo fece sentire vivo, molto più di quanto si fosse ritenuto fino a un istante prima. Persino i dolori che provava nelle ossa, e che avrebbe dovuto tentare di circoscrivere e combattere con una buona dose di analgesici, lo rallegrarono.
   Pensare al tetro futuro in cui, presumibilmente, avrebbe potuto vivere di nuovo giovane e sano, lo aveva spaventato sul serio. L’idea di una nuova giovinezza, anziché rallegrarlo, gli procurava un senso di terrore e gli dava quasi la nausea. Provò ad addebitare quello stordimento all’altitudine, ma sapeva che non aveva niente a che fare con la montagna. La sua era paura, paura folle di stare facendo la scelta sbagliata. Una paura che mai, in vita sua, ricordava di avere provato. Aveva commesso moltissimi errori, ma a tutti, bene o male, era riuscito a porre rimedio. Questo sarebbe invece stato irrimediabile, e lo sapeva.
   Ripensò a sua padre, quell’uomo sempre così distante e disinteressato a lui, con cui aveva stretto un buon rapporto soltanto verso la fine, negli ultimi anni della sua esistenza terrena, dopo che anche il vecchio aveva ricevuto la sua illuminazione, comprendendo che cosa contasse davvero nella vita e che cosa, al contrario, fosse di secondaria importanza. E quel pensiero gliene fece nascere un altro: quello della sua infanzia. Si rivide bambino, mentre giocava insieme al suo adorato cane Indiana, e stretto tra le braccia della sua mamma, la sua dolce, bellissima e amata mamma, che se n’era andata troppo presto e che, pure, viveva costantemente dentro di lui, un ricordo inconfondibile e sempre luminoso che gli scaldava il cuore. E ripensò a Marcus Brody, il suo padrino, l’amico di una vita intera, che aveva sempre creduto in lui. E ancora ad Abner Ravenwood, che per lui era stato come un secondo padre, e al vecchio Garth, che più di chiunque altro gli aveva insegnato a non arrendersi di fronte a niente.
   Persone importantissime, che avevano avuto un peso fondamentale nella sua esistenza, contribuendo a renderlo l’uomo che era e che era sempre stato. La vita gliele aveva messe accanto e poi gliele aveva portate via, come volevano le leggi naturali, come era giusto che fosse, per quanto doloroso da accettare; ma tutti loro non erano morti per davvero, perché una parte di loro viveva dentro di lui, e finché lui fosse stato vivo avrebbero continuato a esistere. E lo avrebbero fatto anche dopo che, pure per lui, fosse arrivato il momento supremo, quello dell’ultimo congedo; doveva soltanto dimostrarsi capace di trasmettere e lasciare ad altri una dolce e buona memoria di se stesso.
   Sul serio avrebbe sfidato la natura, rinunciando a invecchiare come essa comandava? Davvero avrebbe avuto il coraggio di sovvertire l’ordine costituito delle cose, proprio lui che aveva sempre combattuto per il trionfo della giustizia e del bene? E dei suoi ricordi, che cosa ne sarebbe stato? Vivendo troppo a lungo, in maniera innaturale, non li avrebbe forse condannati all’oblio, facendoli sbiadire finché non fossero scomparsi per sempre? E se fosse rimasto solo, rinchiuso egoisticamente nella propria paura di invecchiare e di affrontare l’ultimo traguardo della vita, a chi avrebbe potuto affidare la propria memoria, che ne custodiva mille altre che non avrebbero meritato di andare perdute?
   Si scoprì a ripercorrere antichi gesti, di quando era cinquant’anni più giovane, mentre entrava nella cappella in cui era custodito il Santo Graal. Ritrovò davanti ai propri occhi la figura del vecchio cavaliere che aveva sacrificato la vita per conservare quel segreto. Aveva vissuto per centinaia d’anni chiuso in una cella sotterranea, senza concedersi nulla, sospeso tra la preghiera e la riflessione. E, probabilmente, anche tra i rimpianti, se aveva ben interpretato l’ombra che aveva scorto nel suo sguardo e che gli era rimasta impressa come se l’avesse avuta davanti soltanto pochi minuti prima. Che cosa ne era stato dei suoi sogni, delle sue speranze, dei suoi ricordi? Quell’uomo, così vecchio e debole, rammentava ancora i suoi genitori, le carezze di sua madre, la voce di suo padre? Gli era rimasto qualcosa, nella mente, o era stato condannato all’oblio perenne a causa della sua vita infinitamente lunga?
   E lui? Era davvero pronto a guadagnare anni e anni nuovi, ma correndo il rischio di dimenticare tutto a causa di un’esistenza troppo prolungata? E avrebbe avuto il coraggio, uomo del suo secolo, di affrontare un futuro sfumato e dai contorni distanti? Si sarebbe sul serio voluto fiondare in un tempo, un’epoca, che non gli appartenevano, e che lo avrebbero stupito sempre di più, fino magari ad annientargli la mente? E come avrebbe potuto andare avanti, sapendo che sarebbe rimasto solo, che tutti coloro che aveva amato e che erano stati importanti per lui, invece, sarebbero rimasti indietro?
   Per non parlare, poi, di colei che era invecchiata al suo fianco. Marion, la sua Marion, la sua dolce Marion, che lo aveva amato giorno dopo giorno, anche quando lui era lontano ed era convinta di odiarlo. Lo aveva visto uscire di casa anziano, qualche settimana prima, e lo aveva baciato come sempre, raccomandandogli prudenza e di tornare a casa presto. E, come sempre, quando lo aveva abbracciato e lui aveva borbottato che gli faceva male la schiena, non si era lasciata sfuggire la possibilità di una bonaria presa in giro, chiamandolo il suo vecchio brontolone pieno di acciacchi.
   Come avrebbe reagito se, invece del marito con cui aveva speso tutti gli anni della sua vita, avesse visto tornare quel ragazzo per cui aveva perso la testa decenni e decenni prima? Forse sarebbe rimasta incredula e senza parole. Forse avrebbe creduto di aver soltanto sognato. Forse sarebbe uscita di senno, dicendosi che tutto era stato soltanto un’illusione, un miraggio a cui aveva prestato fede, sbagliando tutto. Più probabilmente lo avrebbe cacciato di casa, urlando che lui non era Indy, ma solo un impostore, e che gli doveva restituire il vero amore della sua vita.
   All’improvviso, comprese che la Fonte dell’Eterna Giovinezza, in realtà, portava la dannazione, niente altro che quella. Proprio come il Graal. Quello falso, che strappava la vita, e quello vero, che invece la rendeva odiosa, tramutandola in un’attesa perenne tra pareti di pietra. La Fonte non costringeva a rimanere rinchiusi da nessuna parte, eppure si sarebbe ugualmente rivelata una maledizione per chiunque avesse osato dissetarsi alle sue acque.
   La vita perenne altro non era che una condanna peggiore della morte. Perché la morte, come e più di molte altre cose, è parte fondamentale della vita; allontanarla, scacciarla, avrebbe significato soltanto rinunciare a vivere, condannandosi da soli a un’esistenza di solitudine, in un mondo che non è più quello in cui si è nati per esistere. Ciascuno deve lasciare qualcosa di sé nel momento che gli è destinato, senza forzare il corso naturale delle cose; altrimenti, si sarebbe rischiato di non lasciare null’altro all’infuori che pietà e vergogna per una colpa terribile.
   Il vecchio archeologo infilò la mano in tasca, ne tolse l’ampolla vuota e la soppesò con lo sguardo.
   Il cammino della vita, quello che lo aveva condotto anche su quella in cima, e che nonostante i suoi malanni gli avrebbe permesso di scoprire ancora mille altre cose, era in fondo un andare avanti secondo le logiche della natura. Nascere, crescere, invecchiare… alla fine, anche morire. Morire come chiunque altro. Sottrarsi a quella legge significava deviare da quel cammino, intraprendendo una strada nuova e innaturale, che lo avrebbe inevitabilmente condotto alla solitudine, all’oblio. E tutto questo era assai peggio che perdere la propria agilità e guadagnare qualche nuovo dolore articolare.
   Un sogghigno ironico attraversò il volto di Indiana Jones. C’era quasi cascato. Era quasi finito nella stessa trappola mortale che aveva annientato tutti i suoi nemici, accomunati tutti da una medesima follia: trovare un modo per sovvertire la natura delle cose. In tanti ci avevano provato e tutti ne avevano ricevuto in cambio una bruttissima e dolorosa morte. Come al solito, invece, lui si era salvato; anche se, ne era ben consapevole, questo significava andare inevitabilmente incontro alla propria fine, per vicina o lontana che fosse. Ma se ogni avventura aveva la propria fine, perché non avrebbe dovuto averla anche quella?
   Un destino comune a tutti gli esseri viventi. I suoi amici più cari, i suoi genitori… tutti se n’erano andati da qualche altra parte e, se non lo avevano fatto, lo avrebbero fatto, presto o tardi. Era inevitabile, e averne paura significava non avere capito assolutamente nulla della vita.
   Perché lui sarebbe dovuto essere diverso? Perché lui si sarebbe dovuto sottrarre come un egoista a ciò che doveva essere uguale per tutti? E per guadagnare che cosa, poi? Soltanto un senso di vuoto e di incertezza. Se avesse rinunciato alla morte, avrebbe rinunciato anche alla vita: avrebbe visto andarsene tutti, poco per volta, mentre lui sarebbe rimasto. A un certo punto, forse, sarebbe toccata anche a lui, in un futuro remoto: ma chi si sarebbe più rammentato di Indiana Jones, a quel punto? Nessuno, forse nemmeno lui stesso.
   Restando se stesso, invece, decidendo di andare avanti nel suo cammino come chiunque altro, invecchiando secondo le leggi della natura, avrebbe vinto ancora una volta, trionfando anche in quest’ultima impresa. La sua ennesima vittoria.
   Al diavolo la vita eterna. Cosa gliene poteva fregare di avere qualche ruga in più, i capelli bianchi e la schiena dolorante? Sintomi del tempo, condivisi da milioni di altri uomini e donne. Nulla a cui fare davvero caso. Perché ciò che contava era l’età che ciascuno si sentiva dentro. Quella era l’importante. E lui, di dentro, era lo stesso di sempre, senza nessun bisogno di strane acque dalle proprietà sconosciute. E ne andava fiero. Non vedeva l’ora di tornarsene a casa, adesso, prendere Marion tra le braccia e fare l’amore con lei come due adolescenti appassionati. E non gliene importava un accidenti se, dopo, avrebbe dovuto fare ricorso a una buona dose di antidolorifici per rimettersi in sesto, o se gli sarebbe servita una settimana per riprendersi.
   Sollevò il braccio, stringendo l’ampolla vuota, e poi la scagliò con forza nel buio, in mezzo alla neve che vorticava sempre più fitta.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Verso la meta ***


   24 - Verso la meta
 
   La mattina l’intera vallata apparve ai loro occhi come un manto candido e uniforme, in mezzo al quale spiccavano le chiome imbiancate degli alberi e da cui in lontananza si levavano le montagne. Aveva smesso di nevicare, ma il cielo appariva ancora plumbeo di nubi cariche e pesanti, che si abbassavano verso terra: la tregua era soltanto momentanea. Dalla casa del pastore, che sembrava essersi tramutata in un dolce al cioccolato ricoperto di glassa, si levava ancora la densa scia di fumo del fuoco acceso nel camino, di cui – da dove si trovavano, in mezzo al gelo – potevano soltanto immaginare, e invidiare, il confortevole tepore; le capre, sotto la loro tettoia, si stringevano le une alle altre per scaldarsi a vicenda, belando adagio.
   «Sembra uno di quei paesaggi che si vedono nelle palle di vetro con la neve finta» commentò Katy, il fiato che si condensava in nuvolette a ogni singola parola, sfregandosi le mani nel tentativo di scaldarle. «Solo che quelle le compri al negozio e non è che ci devi entrare, tu te le puoi guardare anche con quaranta gradi all’ombra, cosa che in questo momento non mi dispiacerebbe se accadesse. Chi accidenti sarà, quel pazzo che si è inventato l’inverno, proprio non lo so…»
   «Fa davvero freddo» le fece eco Valerija, infilandosi le mani in tasca e rabbrividendo vistosamente. «Mica me l’ero immaginato, che qui mi sarei congelata fin nelle mutande.»
   Indy, che si era appena caricato in spalle lo zaino con l’esplosivo dopo averlo estratto da tutta la neve che lo aveva ricoperto, non fece alcun caso alle loro lamentele e guardò invece verso la montagna, lungo le cui pareti si sarebbero dovuti arrampicare.
   «Ci aspetta una bella scarpinata, vedrete che questo ci scalderà» borbottò. «E siamo fortunati che non sia ancora pieno inverno. Qui, fra un mesetto circa, sarà impossibile venirci, ve lo assicuro, a meno che uno di noi non voglia tramutarsi in un ghiacciolo, è chiaro. E, comunque, vi avevo avvertito che sul Caucaso non sarebbe stato come andare a fare una camminata al parco pubblico, ora non venitemi a raccontare che non lo sapevate. Sono vecchio, ma non rimbambito, e sono più che certo di avervi avvertito in ogni maniera. Perciò ora silenzio e basta lagne, anche perché sarà meglio risparmiare il fiato.»
   Katy sogghignò, le braccia incrociate sul petto in una posa che ricordava così dannatamente da vicino sua madre – specialmente quando si preparava a prendersela con il marito per qualsiasi cosa – che Indy, notatala con la coda dell’occhio, evitò accuratamente di girarsi verso di lei.
   «Allora comincia a smettere tu di fare le prediche, Old J!» lo rimbrottò, con tono ironico. Suo padre preferì non rispondere.
   Don Mavro osservò con vivo dispiacere la lunga strada che li attendeva ancora. Poi, però, una luce di risolutezza gli attraversò il viso paffuto e arrossato.
   «Be’, allora andiamo senza perdere tempo» propose. «Mettiamo fine a questa storia prima che arrivi il vero mal tempo. Non vedo l’ora di risolvere una volta per tutte questa faccenda.»
   L’archeologo gli rivolse un breve cenno con il capo.
   «Questo è lo spirito giusto, padre» replicò. «Facciamo vedere a queste giovincelle dall’aria stanca come si comportano i vecchietti, di fronte alle difficoltà.» Accennò alla vallata innevata. «Andiamo, allora.»
   E si mise in moto, le gambe che affondavano nella neve fino alle caviglie, appoggiandosi al bastone, cercando di mantenere un passo costante e regolare nonostante le difficoltà di affrontare un simile percorso. Subito, Katy e Valerija si incamminarono alle sue spalle e, per ultimo, arrancando e già affannato, anche don Mavro si mise in marcia.

 
* * *

   Attraversare l’ampia vallata, accompagnati dal profumo della neve e dall’odore resinoso del fumo di legna arsa, fu un’impresa tutto sommato semplice e rapida, che richiese soltanto un paio d’ore di marcia. Essendo partiti molto presto, quando il sole era appena sorto, alle nove del mattino avevano già raggiunto il crinale della montagna e si stavano inerpicando lungo i sentieri accidentati.
   Se salire lungo il monte Kazbek non si sarebbe potuta definire una passeggiata neppure con un clima favorevole, affrontarlo così, in mezzo alla neve che nascondeva alla vista tutti gli ostacoli, era davvero complicato. Nondimeno, ce la misero tutta, con coraggio e determinazione, cercando di non pensare agli innumerevoli disagi che stavano patendo.
   Il problema più grosso era dovuto alla fatica, che portava inevitabilmente con sé il sudore. Un sudore che, a causa del freddo, si tramutava subito in rivoli gelidi che scorrevano lungo la schiena, facendo rabbrividire i quattro improvvisati scalatori.
   Indiana Jones aveva sufficiente esperienza per sapere che, luoghi come quello, andavano sfidati in estate, dopo il disgelo, quando l’assenza di neve rendeva visibile tutto il paesaggio. Andare a muoversi in mezzo a quel velo bianco che rendeva tutto uniforme e compatto non era certo ciò che aveva in mente quando aveva accettato di partire per Venezia per fare semplici ricerche nella biblioteca, prima di tornarsene a casa con le informazioni che servivano a sua nuora. Ma la vita, ancora una volta, si era messa di traverso, sconvolgendo tutti i suoi piani. Non era la prima volta cha accadeva e, acceso di speranze, implorò che non fosse nemmeno l’ultima. Si divertiva troppo a condurre quel genere di esistenza, e ormai aveva deciso in maniera definitiva che l’età non avrebbe cambiato niente, per quanto stesse contribuendo a rendere tutto molto più difficile e complicato.
   Un’altra cosa di cui era consapevole era che, imprese del genere, si adattavano meglio a gambe giovani e schiene solide, come quelle di sua figlia e di Valerija. Nonostante questa cognizione dei suoi limiti, comunque, non gli importava più un accidente dei dolori che lo attraversavano da parte a parte, e che quel mattino aveva cercato di contrastare ingurgitando una buona dose di antidolorifici: anche quelli erano parte dell’esistenza e, dal momento che era rinsavito, rinunciando all’innaturale ritorno alla giovinezza che lo aveva solleticato per giorni e giorni, si era reso conto che anche quelli erano parte di lui, e aveva scelto di accettarli senza rimpianti. Anzi, ogni fitta alle anche e alla schiena era un po’ come un marchio di fabbrica, un ricordo di antiche imprese di cui andava fiero e orgoglioso, un tributo ai suoi – spesso fortuiti – trionfi. Non si pentiva di nulla.
   Udendo le due ragazze sbuffare alle sue spalle, non riuscì a impedire che un ghigno gli deformasse i lineamenti. Poteva anche essere lui, il vecchio della compagnia, ma di certo non era lui, quello che stava facendo più fatica, in quel momento. Pur con la schiena a pezzi e i capelli bianchi a incorniciargli il volto rugoso, aveva ancora moltissime cose da insegnare in merito alla vita all’aria aperta, e ne era soddisfatto. In fondo, non aveva mai smesso di essere un boy-scout.
   In effetti, appena dietro di lui, Katy e Valerija camminavano quasi come automi, sfinite dalla stanchezza, trascinandosi sulle ginocchia doloranti e trovandosi spesso costrette ad appoggiare in terra le mani per non ruzzolare. Avrebbero tanto voluto fermarsi e riposare, giusto per tirare una boccata di ossigeno, ma erano anche consapevoli che questo sarebbe stato peggio: innanzitutto, perché dovevano sfruttare ogni singolo momento di luce a loro disposizione, ben sapendo che il tramonto sarebbe sopraggiunto già nelle prime ore del pomeriggio; in secondo luogo, perché pensare di sedersi in mezzo alla neve sarebbe servito soltanto a rattrappirle e a congelarle. No, era molto meglio proseguire, ignorando la stanchezza e il freddo, sperando che quella lunga arrampicata avesse presto fine e che, soprattutto, portasse i frutti sperati: sarebbe stato davvero ironico scoprire di essersi data tanta pena per niente.
   «Mi siederei, ma ho paura che mi si ghiacci il culo» disse a un certo punto Katy, dandosi una manata sulla parte interessata.
   «Sarebbe un vero peccato» balbettò Valerija, camminando appena dietro di lei e ammirando con occhi lucidi quella manovra che le sarebbe piaciuto replicare. «Anche se non mi dispiacerebbe leccarlo come un gelato… mi hai dato un’idea per la prossima volta che faremo campo da qualche parte…»
   Indy, ascoltandole, ridacchiò. Il sacerdote, invece, borbottò qualcosa sul fatto che, certi discorsi, fosse meglio non sentirli, sulla bocca di signorine perbene come ci si aspettava che fossero loro due.
   In chiusura della fila, nonostante questa breve concessione alla predica, don Mavro arrancava e sbuffava, senza nessuna voglia di parlare. A ogni passo si diceva mentalmente di essere giunto al capolinea, a ogni metro guadagnato in salita si rendeva conto di essere più vicino al paradiso, non solo metaforicamente a causa della salita lungo la montagna che li stava avvicinando tutti al cielo, ma anche – e soprattutto – letteralmente: era più che sicuro, infatti, che il suo fisico non avrebbe retto oltre alla fatica a cui lo stava sottoponendo.
   Dentro di sé, stava già recitando le orazioni e stava provando a pentirsi dei propri peccati, in vista del passaggio definitivo all’altro mondo. Invece, sorprendendolo, il suo corpo stava resistendo senza problemi. Evidentemente, gli anni trascorsi a fare vita sedentaria non erano stati sufficienti a cancellare del tutto la robustezza e il ricordo dei difficili mesi trascorsi tra le foreste del Congo. In ogni caso, giurò a se stesso che, una volta tornato a Spalato, non avrebbe mai più fatto niente di più faticoso che scrivere il discorso per la predica domenicale o andare di casa in casa per la benedizione nei giorni antecedenti la Pasqua. Questo gli fece rammentare la sua povera Yugo e si sentì crescere un groppo in gola: in fondo, anche se non era propriamente bellissima, era molto affezionato alla sua macchina.
   La fatica era crescente. Nessuno di loro aveva voglia di perdersi in troppi discorsi. Più salivano di quota e più la neve aumentava e si faceva abbondante. I rami degli alberi, carichi e appesantiti, si tendevano verso il basso, lasciando cadere di quando in quando una pioggia bianca e densa sulle teste dei quattro sfiniti escursionisti. Massi e asperità, celati al di sotto dello strato bianco come bestie in agguato, tendevano insidie a ogni movimento, facendo inciampare e spesso cadere nella neve chi vi appoggiava incautamente un piede. L’aria sempre più fredda e rarefatta, inoltre, tappava le orecchie e li costringeva a profondi respiri per poter ventilare i polmoni, che bruciavano e protestavano a ogni nuova boccata.
   Finalmente, però, raggiunsero un punto da cui si poteva distinguere una dolce vallata che si stendeva sull’altro lato della montagna, incuneata tra alte pareti di roccia che proiettavano ombre oscure e a tratti inquietanti su tutto il paesaggio circostante. Si fermarono, ansimanti e sconvolti dalla grande faticata, cercando con gli occhi un punto di riferimento che potesse aiutarli a indirizzarli verso una meta precisa.
   «C’è qualcosa, qui, o siamo saliti per niente?» balbettò Katy, riparandosi gli occhi con la mano sulla fronte per riuscire a vedere meglio. «No, perché se abbiamo fatto questa sgobbata per niente, io…» Non terminò la frase, non sapendo nemmeno lei che cosa dire di preciso.
   Il candore della neve rendeva difficile osservare con attenzione, perché il riverbero costringeva gli occhi a restare socchiusi, facendoli lacrimare copiosamente. Fu lo sguardo di Indy, abituato dalla lunga esperienza a scorgere ogni dettaglio utile, a individuare per primo ciò che stavano cercando.
   «Là» disse soltanto, sollevando il braccio e stendendo in avanti il dito indice.
   In fondo al declivio, quasi nel centro della vallata innevata, si scorgevano alcune rovine, appena intuibili in mezzo a tutto quel bianco che le aveva ricoperte. Tuttavia, era impossibile sbagliarsi: avevano raggiunto l’eremitaggio che era sorto sopra la grotta di Betlemi.

 
* * *

   Fu necessaria un’altra ora abbondante per raggiungere la destinazione. Dall’alto era sembrata molto più vicina ma, come di sovente accade in montagna, le distanze reali li avevano tratti in inganno e la discesa li aveva costretti a compiere ampi giri a zig-zag per evitare di affrontare dislivelli eccessivamente aspri, che si sarebbero potuti rivelare parecchio pericolosi. Più di una volta ciascuno di loro scivolò nella neve, ruzzolando in terra e obbligando gli altri a una pausa forzata per aiutare il malcapitato a rialzarsi e a rimettersi in sesto.
   Infine, comunque, seppure stanchi e malandati, poterono fermarsi davanti a ciò che restava dell’antico eremitaggio ortodosso, le cui misere vestigia emergevano dallo strato di neve come i resti di un veliero arenati sopra una secca in mezzo a un mare spumoso ed effimero.
   Indy, dinnanzi a quella visione, non riuscì a trattenere un lungo sospiro. Pur avendo visto innumerevoli volte le rovine delle antiche costruzioni dell’uomo, ogni volta era un’emozione nuova. Non si sarebbe mai riuscito ad abituare all’idea di aver a che fare con la grandiosità del passato, con le opere messe a punto da coloro che lo avevano preceduto.
   A dire il vero, questa volta, quella che aveva davanti agli occhi era una costruzione piuttosto piccola e modesta, che in un certo senso stonava con il ricordo di tutti i templi e gli altri edifici grandiosi che aveva esplorato – e, in qualche caso, distrutto – nel lungo corso della sua emozionante esistenza. Provò a far un raffronto, e gli tornò alla mente la grandiosa chiesa rupestre in cui era custodito il Graal: non esisteva nessun tipo di paragone. Eppure, a meno che non fosse stato un semplice fantasma a condurli fin lì, ciò che si nascondeva al di sotto di questi ruderi era qualcosa di molto più potente di quanto non fosse il Santo Graal.
   L’eremitaggio, quando era stato intatto, doveva essere composto da un piccolo edificio di pietra, di due soli piani, che poteva ospitare al massimo quattro o cinque celle, oltre a un piccolo refettorio. Come annessi, aveva avuto anche una piccola stalla per ospitare i muli, e una chiesetta, poco più grande di una cappella, sul cui tetto doveva essere stata appesa una campanella di piccole dimensioni. Nulla di troppo vistoso, quindi. E, adesso che era stato raso al suolo, non ne rimanevano altro che pochi muri abbattuti, cumuli di pietra e di mattoni deformati che emergevano dal bianco della neve e che, durante la bella stagione, dovevano essere di certo invasi dalle sterpaglie e dai rovi, rifugio di uccelli, lepri e altri piccoli animali selvatici.
   Fu Valerija la prima a parlare, riscuotendoli dal mutismo che era calato su di loro da ormai parecchio, da quando avevano ricominciato a camminare.
   «Mi aspettavo qualcosa di più… non so come dire… più!» commentò, sfiorando con le dita un blocco di pietra largo qualche centimetro.
   «In effetti, non è che ci sia molto» affermò Katy, affiancandola. «Credevo che la Fonte dell’Eterna Giovinezza fosse nascosta all’interno di un luogo, se capite ciò che intendo dire, più consono alle proporzioni della leggenda. Qualcosa di grandioso e indimenticabile.»
   Indy, come ipnotizzato da una visione inattesa, si era avvicinato lentamente a un albero che cresceva in mezzo ai ruderi. Un albero incredibilmente coperto di foglie verdi e di fiori bianchi. Era un mandorlo, ritenuto l’albero della rinascita e della vita eterna, più volte citato dalla Bibbia, ma non solo. Rammentò in un baleno i suoi innumerevoli studi, ricordando Erodoto: lo storico greco, parlando della Fonte della Giovinezza – che lui collocava in Etiopia – aveva asserito che vicino ad essa crescesse proprio un mandorlo. Esattamente come qui. Possibile che un uomo informato come Erodoto avesse confuso l’Etiopia con quella che ai suoi tempi era la Colchide, a oriente del Mar Nero, il Ponto Eusino dei Greci? Gli sembrava quantomeno difficile: anche lavorando con informazioni di secondo o di terza mano, il padre della storia non sarebbe mai potuto incorrere in un errore tanto grossolano.
   Istintivamente, si domandò se, nel mondo, quel tipo di fonti miracolose fossero ben più di una, nascoste nei luoghi più lontani e inaccessibili. Forse, quello che avevano raggiunto – o, almeno, pensavano di aver raggiunto – era soltanto uno, tra gli innumerevoli modi per raggiungere la Fonte.
   Ma, quindi, era davvero valsa la pena, tutta quella loro lunga ricerca? Su questo non aveva dubbi: ogni stilla di sudore spesa per quell’impresa non era andata sprecata. Questa nuova avventura gli aveva realmente fatto ritrovare la sua giovinezza – molto più di quanto non avrebbe potuto fare un intero oceano di acqua magica – e questo valeva ben più di qualsiasi altra considerazione possibile.
   «Cos’ha trovato, professore?» domandò don Mavro, avvicinandosi.
   L’archeologo aveva appoggiato le mani sulla corteccia dell’albero. Non era un miraggio, era chiaramente lì, davanti ai suoi occhi, per quanto fosse impossibile crederlo. Lo scosse piano, e alcuni petali gli caddero addosso come sottili fiocchi di neve.
   «Un mandorlo, padre» rispose, con voce rauca. «Un mandorlo in fiore… a queste altezze, a simili latitudini, con questo gelo, in pieno autunno… fiorito come in primavera.» Scosse la testa, incredulo. «Sembrerebbe contro natura. Ma forse, in questo luogo, c’è davvero qualcosa che esula dalle leggi della natura, almeno per come la conosciamo noi. Probabilmente questo albero è la prova che non abbiamo fatto tutto questo per niente…» Gettò uno sguardo di sbieco alla figlia e sorrise. «Non ci siamo gelati il culo inutilmente» concluse, provocando un risolino nelle due ragazze e un borbottare bonario da parte del sacerdote.
   Con i piedi, cominciò a smuovere la neve attorno all’albero. Don Mavro, sebbene ancora stupito da quella scoperta, iniziò subito a darsi da fare per aiutarlo. Anche Katy e Valerija, senza fare domande, si unirono a loro per dare una mano, chinandosi a raccogliere grandi manate di neve che poi provvidero a trasportare e ad accumulare lontano dall’albero, in maniera da liberarlo completamente.
   Nel volgere di un buon quarto d’ora di lavoro febbrile, crearono un ampio spazio vuoto attorno al mandorlo e poterono vedere che affondava le sue radici in mezzo al pavimento di piastrelle in cotto che, un tempo, doveva essere stato un cortile interno del piccolo complesso sacro. A conferma del fatto che quell’albero producesse sempre i suoi frutti, anche quando non avrebbe dovuto farlo, tutto il pavimento era ricoperto da mandorle che aveva lasciato cadere al termine del precedente periodo di maturazione. Si erano mantenute fresche e non c’era alcun dubbio che, se le avessero aperte, avrebbero potuto mangiarle senza nessun problema.
   Grugnendo per i dolori alle ginocchia, Indy si abbassò e controllò da vicino il pavimento. Per buona parte era solido, appoggiato sopra il terreno compatto. Quando picchiettò con le dita sopra a una delle mattonelle ai cui lati le radici dell’albero scomparivano sottoterra, però, ne ricevette in cambio l’eco di un rumore sordo.
   «Che succede?» domandò Katy, vedendo che si stava rialzando in fretta.
   Anziché sprecare tempo a rispondere, Indy si avvicinò a una grossa pietra che si trovava poco distante. La prese tra le mani e, barcollando leggermente a causa del peso, tornò verso il gruppo di piastrelle che avevano attratto la sua attenzione. Dinnanzi agli occhi sgranati dei suoi tre compagni d’avventura, si lasciò cadere di nuovo in ginocchio e, sollevata la pietra, l’abbatté con tutte le sue forze contro il pavimento, provocando delle crepe nelle mattonelle. Frammenti di terracotta volarono dappertutto, ma l’archeologo non vi badò e colpì di nuovo, e poi un’altra volta. Al quarto attacco, le piastrelle andarono letteralmente in briciole, rivelando una stretta e buia scalinata che sprofondava verso il basso.
   Le radici del mandorlo correvano parallele agli scalini, accompagnandoli nella loro discesa verso le tenebre.
   «Old J…» mormorò Katy, sbalordita.
   Suo padre, ansante per lo sforzo, alzò gli occhi per guardarla e sorrise.
   «L’abbiamo trovata» disse. «Da qui giungeremo alla Fonte dell’Eterna Giovinezza.»

 
* * *

   Si erano aspettati che, scendendo sotto la superficie, avrebbero trovato ancora più freddo e umido che stando all’aria aperta. Invece, dopo aver percorso soltanto pochi metri lungo i gradini intagliati nella roccia viva, si resero conto che la temperatura era piacevole, asciutta e tiepida, come se là sotto spirasse una brezza primaverile. Presto si scoprirono persino a sudare, vedendosi costretti a slacciare le cerniere dei cappotti.
   «Non è che, senza accorgercene, stiamo scendendo all’inferno e più si va giù e più fa caldo, vero?» sbottò Katy, sfilandosi dalla testa la cuffia di lana e infilandola nella tasca del giaccone. «Prima avevo paura di ghiacciarmi il didietro, ma ora non vorrei rischiare di scottarmelo. Non so voi, ma io ci tengo, al mio bel culetto.» Nessuno si prese la briga di risponderle.
   Un altro fatto curioso era dato dalla luce. Sarebbe stato logico credere che, dopo aver distanziato l’ingresso anche solo di pochi metri, si sarebbe reso necessario accendere le torce che avevano opportunamente portato con sé, riposte dentro uno zaino. Ma lì rimasero, perché un chiarore che sembrava provenire dal basso cominciò a riempire tutto l’ambiente.
   Era una luce brillante e calda, che anziché infastidire gli occhi li faceva riposare. E c’era anche qualcos’altro, che in un primo momento nessuno avrebbe saputo riconoscere. Fu sufficiente avanzare verso il basso di ancora qualche metro, però, per rendersi conto di ciò che li aveva colpiti tutti: il profumo. Non era l’odore tipico della caverne, un misto di umidità e di chiuso. Sembrava più che altro un’essenza floreale, come se stessero davvero andando incontro a una primavera perenne. E, per ultimo, arrivò il leggero gorgogliare, un suono rilassante, quasi celestiale, capace di incantare i timpani e di rilassare i nervi. Un dolce suono di ruscelli, accompagnato da una brezza rasserenante.
   «Inferno?» disse finalmente don Mavro, dando una risposta alla domanda posta da Katy. «A me sembra più che altro che ci stiamo avvicinando al paradiso.»
   Nonostante le belle apparenze, a Indy quella storia non piaceva. Non piaceva per niente. Che accidenti avrebbero trovato, al termine di quella scalinata? Non ne sapeva il motivo, ma qualcosa lo inquietava. Forse sarebbe stato meglio rovesciare tutta la dinamite giù per le scale e poi dare fuoco alla miccia, restando all’aperto, anziché scendere per andare a vedere da vicino.
   «Ho un brutto presentimento…» borbottò, cercando di richiamare l’attenzione degli altri.
   Si fermò, come se volesse parlare con i suoi compagni, ma loro lo ignorarono. Lo superarono silenziosi, continuando a scendere. Era come se, d’improvviso, non si stessero più rendendo conto di nulla e non si fossero nemmeno accorti che lui si era bloccato. Indy si sentì raggelare: Katy, Valerija e don Mavro parevano ipnotizzati da qualcosa, come se una forza misteriosa li stesse attirando verso il basso. Una forza che, però, su di lui non sembrava avere alcun effetto.
   «Sarà per i miei ragionamenti di ieri sera…» borbottò tra sé e sé, osservando la figlia e gli altri due che si allontanavano.
   Si rimise in cammino, seguendoli da vicino. Non riteneva prudente perderli di vista. C’era qualcosa che non andava, in quel posto maledetto, e sentiva che era molto meglio non rimanere da solo, lontano da loro.
   Proseguì adagio, osservando il lieve ancheggiare di Valerija, che camminava proprio davanti a lui. Era una figurina deliziosa, e non faceva fatica a comprendere che cosa ci avesse trovato Katy, di tanto attraente, fin dal primo momento in cui l’aveva vista. Era proprio uno spreco, non avere più vent’anni: la vecchiaia lo stava obbligando a perdere moltissime delle cose più belle della vita. Era davvero necessario, compiere tutte quelle rinunce? Magari un modo per aggirare il problema c’era davvero, e si trovava al termine di quella discesa nelle profondità della terra…
   A distrarlo da quelle riflessioni che non capiva bene da dove stessero emergendo – ma che, in un certo senso, era sicuro che non fossero del tutto farina del suo sacco – fu la vista di qualcosa di ancora più inaspettato della luce, del calore e del dolce gorgogliare: dalle pareti di roccia, dove correvano le radici dell’albero, cominciarono a spuntare dei teneri virgulti ricoperti di fiori bianchi che emanavano un delicato profumo. Al loro passaggio, quando li sfioravano per sbaglio, una scia di petali cadeva al suolo, simile a neve.
   Indy deglutì, turbato. Tutto questo non aveva alcun senso. Ma, probabilmente, si stavano avvicinando a un luogo in cui la parola senso perdeva di significato, in cui la razionalità non aveva più alcuna ragione di esistere, perché lì tutto era contrario a ciò che conoscevano. Gli sarebbe tanto piaciuto avere al suo fianco il vicario Bartolec, in quel momento, per domandargli se fosse ancora convinto che si trattasse soltanto di una strana e sconosciuta composizione chimica e non di un miracolo. Sogghignò, immaginando che quel prete avrebbe congiunto le mani e non gli avrebbe risposto nulla.
   Un nuovo avvenimento lo distrasse dai suoi pensieri, richiedendo tutta la sua concentrazione.
   Erano giunti al termine della scalinata e Valerija, don Mavro e Katy, come riscossosi dallo stato di ipnosi che li aveva catturati, si erano fermati. Davanti a loro, adesso, sorgeva un arco di pietra che fungeva da ingresso per un’immensa caverna, da cui provenivano i suoni melodiosi, i dolci profumi, il delicato calore e la bella luce che li avevano guidati fin lì. Attorno all’arco si intrecciavano rami di rose fiorite, lasciando intravedere, in mezzo ai fiori rossi e purpurei, profumati in maniera deliziosa, i bassorilievi con cui era stato scolpito con grande maestria.
   Ciò che non sfuggì all’archeologo fu che, quelle immagini, non rappresentavano affatto scene della tradizione cristiana, o comunque biblica: raffiguravano, invece, alberi in fiore, animali selvatici e uomini e donne di straordinaria bellezza, che vivevano tutti insieme in armonia, immersi nella natura più vera e paradisiaca.
   Gli altri tre, dopo aver osservato i fiori e i bassorilievi per alcuni istanti, si voltarono a cercare lo sguardo di Indiana Jones. Parevano spaesati, come se non riuscissero a comprendere come avessero fatto ad arrivare fino a lì, e speravano che almeno lui, dall’alto della sua grande esperienza, potesse rispondere ai numerosi quesiti che gli confondevano la testa.
   «Che accidenti è successo?» domandò Valerija, passandosi una mano davanti agli occhi.
   «Mi sembra di aver fatto un sogno stranissimo…» borbottò don Mavro.
   Anche Katy si strofinò gli occhi, provando a fare mente locale.
   «Mi ricordo di essere entrata nel tunnel e mi sono risvegliata qui…» borbottò.
   Indy fece un sogghigno sarcastico.
   «Avete dormito, ma non più di cinque minuti. Sembravate sonnambuli, in effetti.»
   Sua figlia gli lanciò un’occhiata in tralice.
   «E perché a te non è successo niente, Old J?» domandò.
   Jones scrollò le spalle. Visto che lei lo prendeva sempre in giro a causa della sua età, decise che, per una volta, quel fattore gli sarebbe potuto venire in aiuto.
   «Sarà perché noi vecchi facciamo fatica ad addormentarci» borbottò. Fece un cenno in direzione dell’arco, che pareva quasi invitarli a entrare in un altro mondo, molto diverso da quello che conoscevano e in cui erano soliti muoversi e vivere le loro esistenze. «Comunque, ormai, siamo arrivati. Non perdiamo altro tempo. Mettiamo fine a questa storia una volta per tutte.»
   Tutti quanti annuirono e, risoluti, si avviarono verso il grande portale ornato di fiori. Non appena lo ebbero varcato, però, si bloccarono di colpo, trattenendo a stento un grido di stupore, restando senza fiato per l’emozione.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Il Giardino dell’Eden ***


   25 - Il Giardino dell’Eden
 
   Era come trovarsi in un sogno, oppure all’interno dell’illustrazione di un libro di favole. Pareva quasi di aver chiuso un momento gli occhi e, riaprendoli, scoprire di essere stati catapultati in un mondo incantato, che non aveva assolutamente nulla a che spartire con quello in cui erano abituati a muoversi giorno dopo giorno da quando erano nati.
   Sembrava davvero impossibile che, quella che avevano davanti agli occhi, fosse la realtà: eppure non poteva essere altrimenti. Che si trattasse di un’allucinazione collettiva, infatti, era un’idea da scartare a priori, perché era del tutto fuori luogo pensare che tutti e quattro potessero vedere la medesima cosa, identica in tutto e per tutto, e per così a lungo. Eppure, le loro espressioni stupefatte erano la prova lampante che, dinnanzi agli sguardi sbalorditi, avevano tutti il medesimo, straordinario panorama.
   Crederci, comunque, era molto difficile, al limite del possibile, e richiedeva uno sforzo sovraumano, poiché significava rinunciare tutto in una volta a qualsiasi ragionamento di ordine logico. Non c’era spazio per la logica o per la razionalità, nel luogo un in cui i quattro ammutoliti esploratori erano sopraggiunti. Dovevano quindi rassegnarsi a guardare senza pensare, senza cercare di concepire un singolo concetto che potesse servire, almeno in parte, a dare un perché a tutto questo.
   Un paesaggio incantevole si apriva dinnanzi ai loro occhi, alcuni metri più in basso rispetto all’arco costellato di rose, da cui si godeva di un panorama inatteso e mozzafiato. Un giardino di ineguagliabile bellezza, un prato verde solcato da ruscelli di acqua cristallina che gorgogliava delicata e che spandeva un chiarore capace di illuminare e scaldare l’ambiente sotterraneo come se si fosse trovato sotto il cielo terso di un giorno d’estate. E la copertura di pietra che avvolgeva quello strano mondo perduto pareva davvero essere un cielo, perché era composta interamente da cristalli variopinti che riflettevano la luce misteriosa che si innalzava dall’acqua e creavano un’atmosfera strana e iridescente, intangibile, che una volta di più diede la sensazione di essere immersi in una visione onirica. Fiori noti e sconosciuti dai mille colori differenti occhieggiavano in mezzo all’erba e alberi di rara magnificenza, coperti di fiori e di frutti profumati, si intrecciavano gli uni con gli altri, formando un insieme che avrebbe fatto impallidire anche i parchi curatissimi delle più belle e raffinate ville europee.
   L’aria era tiepida, pregna di una dolce vibrazione che colpiva i sensi, distendendoli. Gli aromi di spezie, di fiori e di frutti formavano un insieme gradevole, capace di stuzzicare l’olfatto e di far nascere sentimenti nuovi, mai provati prima, come se quel luogo fosse persino in grado di suscitare emozioni inesistenti nel resto del pianeta. Ma erano davvero ancora sul pianeta, oppure erano passati a una dimensione surreale, che esulava dalla concretezza fisica a cui erano abituati? Questo era un dilemma a cui non sembrava esistere alcuna risposta.
   Una brezza leggera, che proveniva da chissà dove, faceva frusciare le fronde degli alberi, che pareva cantassero una canzone primordiale di infinita dolcezza, proprio come se lì fosse stato suscitato il canto della creazione da cui era nata la vita. Si percepiva la medesima pace che soltanto in un tempio buddhista isolato tra le aguzze vette di catene montuose inaccessibili, con i monaci riuniti e intenti a modulare il sacro verso dell’Om, era possibile ritrovare.
   Increduli, Indy e i suoi compagni restarono immobili, incantati da tanto splendore. Si erano aspettati di trovare una sorgente, magari anche una fontana lavorata dalla mano di antichi uomini, e forse circondata dalle immagini bibliche riferite alle leggende di cui parlava la tradizione locale, ma di certo non questo. Un simile spettacolo esulava da qualsiasi cosa che avessero avuto in mente fino a quel momento.
   Non avrebbero saputo dire neppure loro per quanto tempo restarono fermi in contemplazione. Forse per delle ore intere, probabilmente soltanto per un minuto. Il tempo, in quel paradiso perduto, in quel regno di sogno, era qualcosa di inconcepibile e di estraneo. Smarrirsi completamente era forse il solo modo per poter accettare ciò che si aveva davanti agli occhi e dentro tutti gli altri sensi.
   Fu la voce di Katy, bassa e stridula per la grande emozione che stava vivendo, a riportarli alla realtà, dando forma ai pensieri che stavano attraversano la mente di tutti loro.
   «Forse gli abitanti di questo posto non esageravano, quando dicevano che questo è il Giardino dell’Eden.»
   Indy provò a riflettere in fretta, consapevole che, alla lunga, non avrebbe potuto fare altro che accettare tutto questo senza più porsi nessun problema in merito. La sua mente, sempre analitica e razionale, cercò di trovare una spiegazione, una qualsiasi spiegazione, a ciò che stava vedendo.
   Era già stato testimone, in passato, di uno splendore sotterraneo, quando si era trovato a vagare tra le strade di Atlantide, le cui rovine avevano ripreso vita, colori e splendori tutto attorno a lui: in quel caso, però, si era trattata semplicemente di una visione, un miraggio molto concreto suscitato da qualche sorgente di potere sconosciuto, che gli aveva mostrato il passato o qualcosa del genere.
   Questa volta era tutto molto diverso. Questa volta erano svegli, non si trattava di un miraggio o di un’allucinazione, a meno che non pensassero di aver perso tutti e quattro, nello stesso istante, l’uso della ragione. No, non era così. Non erano usciti di senno, sebbene potesse supporre che, esperienze del genere, potessero facilitare a intraprendere il sentiero della pazzia. Lo stavano vedendo perché era reale, concreto. E una spiegazione, a ciò che avevano davanti agli occhi, semplicemente non esisteva. Oppure, se esisteva, lui non era in grado di scorgerla.
   Sospirò, frustrato. Era sempre stato un uomo razionale; persino dinnanzi all’evidenza dei fatti, quando tutto gli dava la prova che dovesse esserci qualcosa che andava ben oltre il mondo per come lo conosceva e lo intendeva lui, non aveva mai ceduto completamente, continuando a ripetersi che dovesse esistere anche un’altra interpretazione, al di là di quella spirituale. Lui non era mai stato pronto, per cose del genere, e probabilmente non lo sarebbe stato mai.
   Tutto a un tratto, Indiana Jones si sentì invadere dalla nostalgia e dalla solitudine. Avrebbe tanto voluto avere al proprio fianco suo padre, oppure Harold Oxley, o magari Abner Ravenwood. Loro, con le loro sconfinate conoscenze e con la loro capacità di accettare come vero ciò che esulava dal puro e semplice intelletto scientifico, avrebbero saputo trovare il modo per chiarire tutto questo, anche se ciò avesse significato scomodare illuminazioni o spazi tra gli spazi. Anche Sophia Hapgood, la sua vecchia fiamma che non incontrava più da molto tempo, avrebbe senza dubbio saputo decifrare in modo convincente ciò che avevano di fronte.
   Lui no. Lui non era fatto per l’insolito e per il trascendente, sebbene avesse trascorso tutta la vita a sbatterci contro, a volta facendosi persino molto male. Anche se poteva in un certo senso definirsi l’erede spirituale di Henry, di Harold e di Abner, non era mai riuscito a essere fino in fondo come loro. A dirla tutta, non aveva mai neppure provato, a essere come loro, perché in ultima analisi questo avrebbe significato rinunciare alle proprie idee e convinzioni e, in breve, a essere se stesso. Per lui tutto questo, semplicemente, era insensato, eppure allo stesso tempo era reale, lampante davanti ai suoi occhi. Non poteva fare altro che accettarlo, sperando di poterci riflettere meglio, in seguito, a mente fredda, alla ricerca di una spiegazione logica. Forse, alla fine, sarebbe giunto a una conclusione soddisfacente; ma che fosse quella reale, ovviamente, non poteva esserne certo. L’importante, come mille altre volte, sarebbe stato esserne convinto.
   «Una cosa è chiara» si fece udire la voce di don Mavro, leggermente roca.
   A fatica – perché distogliere lo sguardo da una simile visione costava un notevole sforzo – tutti e tre si voltarono a guardarlo.
   «Che cosa è chiaro?» domandò Valerija, con una vocina appena percettibile.
   Il prete sorrise in maniera affabile.
   «La teoria del vicario, riguardo all’acqua che beneficerebbe di una strana composizione chimica, se ne va a farsi friggere, se mi passate l’espressone volgare.» Fece vagare lo sguardo sul meraviglioso ambiente naturale, battendo piano le palpebre. «Nessun effetto della chimica, neppure il più bizzarro e sconosciuto, potrebbe spiegare tutto questo. Qui siamo al cospetto di un vero e proprio miracolo: la scienza china il capo e la fede deve guidare i nostri cuori, senza che questi sentano il bisogno di un raziocinio che, per una volta, non ha senso di essere chiamato in causa.»
   Pur senza aprire bocca, Indy gli diede ragione, approvando con un cenno del capo le sue parole. Una volta di più, come tantissime altre in passato, anche lui doveva arrendersi all’evidenza: era il momento di deporre lo scettro della riflessione e accettare che tutto accadesse per come era, senza indagare troppo sulle cause di ciò che lo circondava e che gli capitava tutto attorno. Per fortuna sapeva di esserne capace, considerato che lo aveva già fatto moltissime volte negli anni precedenti, per quanto ogni volta fosse stato un passo difficile da compiere. Anche questa volta non sarebbe stato semplice. Comunque, come già si era ripetuto pochi istanti prima, avrebbe avuto tutto il tempo, in seguito, per provare a riflettere su ciò di cui era stato testimone, cercandovi una spiegazione o soltanto convincendosi di essersi ingannato.
   Poi i suoi occhi tornarono a fissare lo spettacolo, concentrandosi in particolare su uno dei piccoli ruscelli cristallini e luccicanti che attraversavano la misteriosa vallata. Non poté fare a meno di domandarsi se, quella, fosse l’acqua che donava l’eterna giovinezza.
   «Tu credi che…?» pigolò Katy, seguendo il suo sguardo.
   Indy alzò una mano per fermarla.
   «Sono tanti ruscelli, ne conto almeno sette» borbottò, osservando i vari corsi d’acqua che si snodavano in lontananza. «Ma guarda bene: convergono tutti verso quella grande macchia di alberi e arbusti che si trova nel centro del… uhm… chiamiamolo giardino.»
   «E lei, professore, pensa che la Fonte si trovi là in mezzo?» mormorò Valerija, osservando a sua volta il punto in cui tutti i ruscelli scomparivano, diventando invisibili ai loro occhi a causa della fittissima vegetazione che nascondeva alla vista ciò che vi si trovava dietro.
   Era un boschetto davvero affascinante, non molto vasto. I prati fioriti terminavano contro una barriera di nodosi alberi secolari dalla folta chioma, che non lasciavano intravedere nulla di ciò che nascondevano nel proprio cuore, anche perché loro non si trovavano sufficientemente in alto per sperare di riuscire a scorgervi qualcosa. Il boschetto si snodava a mezzaluna, interrompendosi sul proprio fondo contro un piccolo altipiano di roccia che si perdeva in lontananza. Osservandolo bene, l’archeologo provò a chiedersi quanto accidenti fosse grande quel luogo, ma anche in questo caso rinunciò a trovare una risposta.
   «C’è un solo modo, per scoprirlo» biascicò Indy, cominciando a camminare. «Andiamo laggiù e vediamo che cosa c’è davvero, dietro a tutti quegli alberi. È del tutto inutile restarcene qui fermi a fare le belle statuine in attesa che accada qualcosa.»
   Il vecchio archeologo – che, ormai, a causa dell’emozione e della tensione di una nuovissima e straordinaria scoperta, non sentiva più neppure un minimo accenno di qualche tipo di disagio fisico, se non un crescente batticuore per l’imminenza della rivelazione – discese in fretta il dolce declivio erboso che, dal punto in cui si trovava l’arco, immetteva in quel vero e proprio paradiso terrestre, e avanzò a passo risoluto verso la macchia di alberi, che distava all’incirca cinquecento metri da lì.
   Dopo essersi scambiati delle veloci occhiate per accertarsi di essere tutti d’accordo, Katy, Valerija e don Mavro si affrettarono a seguirlo. Anche loro, in fondo, non vedevano l’ora di scoprire la verità, qualunque essa fosse.

 
* * *

   Dal prato, in mezzo alle erbe profumate e aromatiche – qua e là, ovunque si guardasse, si riconoscevano essenze come timo, menta, lavanda, artemisia e altre piante officinali, oltre a decine e decine di piante dal nome sconosciuto, che nessuno di loro aveva mai visto in precedenza – spuntavano pratoline, violette, primule, lupini, campanule, tulipani, tageti e mille altri fiori, solitamente appartenenti a stagioni e latitudini molto differenti. Anche per i fiori, come per le erbe aromatiche, vi erano numerosissimi esemplari di specie che, ne erano certi, non esistevano da nessun’altra parte in tutto il mondo.
   Papaveri e garofani intrecciavano i loro petali, giacinti e bocche di leone mischiavano i loro adorabili profumi. La pulsatilla spiccava purpurea in mezzo al verde, l’aconito e il favagello dai bagliori dorati si contendevano lo spazio. Dolci gigli dal calice bianco spandevano il loro gradevole olezzo insieme a quello del glicine e delle rose, le calle mormoravano piano spingendo le loro radici dentro i ruscelli. Moltissimi altri, a volte irriconoscibili anche a causa della stretta vicinanza che li rendeva un insieme unico e variegato, si confondevano in un tappeto variopinto e splendente, apparendo come la tela di un visionario pittore naïf.
   Ai margini dei prati, alberi in fiore di mandorli, agrumi, allori e moltissimi altri attorcigliavano i loro rami in un delicato abbraccio, creando una copertura vegetale di incredibile bellezza. Catalpe dalle foglie larghe e ippocastani altissimi parevano inchinarsi davanti a querce secolari e a nobili ulivi argentati. Le foglie e i petali profumati accarezzavano l’olfatto, regalando a ogni passo delle sensazioni senza eguali.
   Il gorgoglio dell’acqua riempiva l’aria, giungendo soave e melodioso alle orecchie insieme allo stormire delle foglie. Se non fosse stato per la totale assenza del ronzio degli insetti e del cinguettio degli uccelli, sarebbe stato facile credere di aver sognato e, anziché salire sul Caucaso, pensare di aver raggiunto qualche amena località sulle rive del Mediterraneo.
   Era davvero come trovarsi nel centro del mondo, nel luogo esatto in cui tutte le forme della natura erano state concepite da una mente superiore e poi create una ad una. Era bellissimo, ma allo stesso tempo anche difficile da accettare. Nonostante queste lievi difficoltà dovute a delle menti ancora abituate al ragionamento, più si andava avanti e più la sensazione di benessere aumentava: lì tutto era perfetto, lì non esistevano tempo e preoccupazioni, lì disagi e problemi non erano contemplabili. Sarebbe stato meraviglioso dimenticare tutto e poter trascorrere l’eternità sospesi in quella dimensione della natura così perfetta e amabile, perdendosi per sempre in una vera fiaba a occhi aperti.
   Katy camminava al fianco di suo padre, guardandosi attorno. Il suo sguardo irrequieto correva da una parte all’altra del giardino, di continuo, cercando di scorgere il maggior numero possibile di dettagli. I suoi scarponi frusciavano contro il manto erboso e aveva preso a mordicchiarsi le unghie, come sovente faceva quando era nervosa o confusa per qualcosa. In quel momento, non avrebbe saputo dire nemmeno lei come si sentisse davvero.
   La sensazione più vicina alla realtà che le venne in mente fu quella di essersi addormentata e di star sognando ogni cosa. Eppure era certa che non si trattasse di attività onirica: era tutto troppo reale perché potesse essere soltanto un sogno. E, poi, i sogni non durano tanto a lungo, non si snodano come un racconto interminabile e senza confini. E sono confusi, soltanto in apparenza legati da un filo conduttore. Qui, invece, andava tutto in avanti, procedendo come al solito, un istante dopo l’altro.
   Gettò un’occhiata al suo vecchio padre, che a sua volta si guardava attorno, insieme ammirato e spaesato; neppure lui, evidentemente, aveva mai visto qualcosa del genere: e questo, a dire il vero, la spaventava parecchio, perché era sempre stata abituata a ritenere che il leggendario Indiana Jones fosse a conoscenza di qualsiasi cosa e possedesse una spiegazione logica per tutto. Si girò lentamente verso don Mavro, che aveva congiunto le mani come se stesse pronunciando un’orazione, e poi verso Valerija, che aveva gli occhi colmi del medesimo stupore che, ne era certa, avrebbe potuto ammirare nel proprio sguardo se avesse avuto a portata di mano uno specchio.
   Nessuno di loro pareva propenso alla conversazione, in quel momento. Lasciarsi alle spalle una valle gelida e innevata, percorrere una scalinata intagliata nella pietra e ritrovarsi in un immenso giardino pieno di fiori e di alberi, molti dei quali sconosciuti, il tutto nel trascorrere di soltanto pochi minuti, è di certo un’esperienza capace di ammutolire chiunque, anche il più loquace di tutti i chiacchieroni. Ma Katy moriva dalla voglia di provare a dare una risposta a tutto ciò che li circondava da ogni lato e non era più capace di tenere a freno la propria curiosità.
   Tornò a rivolgersi a suo padre, che stava giocherellando nervosamente con l’impugnatura della frusta che gli pendeva dalla cintura. Un atteggiamento insolito, per uno come lui, che faceva capire molto bene quanto fosse disorientato da tutta quella strana situazione. Se, un secondo prima, questo l’aveva spaventata, ora lo trovava rassicurante, perché le faceva comprendere che anche il vecchio e coriaceo archeologo che stillava sarcasmo da tutti i pori, in fondo, era un uomo come chiunque altro, capace di cedere allo stupore nel trovarsi immerso in qualcosa di insolito.
   Lo soppesò ancora per un istante e, infine, si decise a rompere il silenzio che li avvolgeva.
   «Old J, posso farti una domanda?» chiese, con voce stridula per l’emozione.
   Suo padre, che stava osservando da vicino un albero dalla corteccia bianca e dalle foglie verde scuro che era certo di non aver mai visto prima in vita sua, alla cui base crescevano rigogliose delle felci giganti che fino a quel giorno aveva incontrato soltanto dietro le bacheche dei musei di storia naturale, fossilizzate nella pietra, le lanciò un’occhiata veloce.
   «Non c’è bisogno di chiedere il permesso di fare una domanda, se la si ritiene intelligente e necessaria» disse, tornando a studiare la strana vegetazione del luogo.
   Katy socchiuse le labbra in un sorrisetto.
   «È questo il punto: non so se la domanda che voglio farti sia intelligente o meno…»
   Questa volta, disinteressandosi alla flora, Indy la guardò più a lungo, sorridendo in maniera indulgente.
   «Tesoro, per quanti sforzi noi possiamo fare per dargli un senso, questo posto fa a pugni con la nostra intelligenza» le rammentò. «Considerato che lo stiamo percorrendo senza avere ancora perso l’uso della ragione, direi che siamo pronti a qualsiasi cosa. Anche alle domande che ci potrebbero parere sciocche o stupide. Facciamo così: tu fammi la domanda, e io ne valuterò la portata.»
   Incoraggiata, la ragazza si decise a porre il quesito che la stava rodendo.
   «Papà, tu pensi che questo… che questo sia il Giardino dell’Eden?» Si morse il labbro, prima di soggiungere: «Nel senso, quello vero… quello di cui parla la Bibbia… insomma, il paradiso terrestre in cui abitavano Adamo ed Eva, prima di venirne scacciati?»
   Indiana Jones mosse la testa, pensoso. Si girò per un istante a guardare don Mavro, come se volesse accertarsi di poter rispondere o se, magari, non volesse essere lui stesso a farlo, essendo quella materia di sua competenza. Il sacerdote, però, pareva così assorto nelle sue orazioni mentali da non essersi neppure reso conto dei loro discorsi. Valerija, invece, li guardava con attenzione, aspettando piena d’ansia una risposta, proprio come Katy. L’archeologo comprese di dover provare lui, a dare un’opinione: visto che non poteva contare su suo padre, o su Harold, o magari anche su Sophia, quel compito spettava a lui e a lui soltanto.
   Prima di farlo, però, volle riflettere con concentrazione.
   Nel corso della sua vita aveva più volte diretto i propri passi verso luoghi e oggetti che ben poco, se non proprio niente, avevano a che vedere con l’archeologia. Era stato testimone di avvenimenti che chiunque, al solo sentirli raccontare, avrebbe potuto scambiare come favole senza fondamento. Di quello che pensavano gli altri, comunque, non gli importava un accidente: lui conosceva da molto tempo la verità, ossia che il mondo andava ben al di là della mera apparenza fisica. C’era qualcosa di trascendentale, qualcosa che eludeva dalla ragione, e questo aveva imparato ad accettarlo da tempo, sebbene non avesse significato, da parte sua, l’accettazione di dogmi religiosi che non condivideva affatto. In effetti, era davvero ironico che proprio lui la pensasse a quel modo: nonostante tutto, infatti, era ancora certo che nessun testo sacro e nessuna dottrina mistica, neppure la più elaborata, sarebbero mai stati in grado di spiegare cos’era quell’andare oltre le cose in cui si era più volte imbattuto.
   Nondimeno, come si ripeteva di continuo, non aveva ancora cessato di essere un razionalista della peggior specie, e forse non avrebbe mai smesso di esserlo. Prima di innalzarsi verso il metafisico, per lui qualsiasi cosa poteva – e doveva – essere spiegata con i parametri della ragione pura e semplice. E quel luogo non faceva eccezione, in nessuna maniera. Che cosa fosse, comunque, non lo sapeva, anche se era certo che, da qualche parte, si celasse la chiave anche di quel mistero. Sarebbe stato sufficiente capire dove fosse per avere tutte le risposte che stavano cercando.
   Riguardo alla seconda parte della domanda di sua figlia, invece, si era già fatto un’idea precisa, ed era pronto a esporla; anche se questo, ovviamente, significava doversi mettere a dissertare di filosofia, che poco o nulla aveva a che vedere con la concretezza dell’archeologia a cui aveva dedicato la sua vita. Ma, in fondo, con gli anni si era appassionato anche alla dissertazione filosofica, e quindi la cosa non gli dava più così fastidio come in gioventù. Forse neppure per mezzo della filosofia sarebbe stato possibile giungere alla verità – come un tempo era solito suggerire ironicamente ai suoi studenti – ma valeva pur sempre la pena di provarci.
   Guardò ancora verso don Mavro. Gli era venuto in mente un vecchio aforisma, che aveva sentito dire da qualche parte. Le domande non sono mai indiscrete. Le risposte lo sono, a volte. Oscar Wilde, o forse Douglas Mortimer, non rammentava con precisione. La domanda di Katy non era stata indiscreta, ma la risposta che stava per dare lui, forse, lo sarebbe stata, almeno alle orecchie di un sacerdote. Ma ormai aveva superato da molto tempo il desiderio di mantenere una certa discrezione verso gli altri.
   «Sai, non penso che Adamo ed Eva possano essere ritenuti figure reali» rispose, quindi.
   Gettò un’altra occhiata di traverso a don Mavro. Il prete ora lo stava osservando e ascoltando, ma non sembrava per niente intenzionato a contraddirlo o a smentirlo. Anzi, gli fece un cenno di incoraggiamento, invitandolo a proseguire. Probabilmente permettere a un eretico di parlare senza spedirlo immediatamente al rogo era un’altra delle famose trovate del secondo Concilio Vaticano, rifletté Indy.
   «Penso, infatti» proseguì, «e mi perdoni se parlo così, padre, che Adamo ed Eva rappresentino niente altro che degli archetipi: essi non sono nulla di più, a mio parere, che la raffigurazione del modo in cui la religione tiene tutta l’umanità, uomini e donne senza distinzione, prigioniera dell’ignoranza e dell’oscurantismo.»
   Don Mavro aggrottò le sopracciglia, ma non replicò nulla, più interessato a osservare dei mazzolini di violaciocche che crescevano sulla sponda del ruscello accanto a cui stavano camminando. Katy, invece, dopo aver riflettuto per qualche istante su quelle parole, disse: «Che cosa intendi dire? Vuoi forse dire che chi crede in una religione è scemo?»
   «Ma no!» sbottò suo padre. «Sei sempre così drastica!» Scosse il capo, sogghignando per le maniere spicce che contraddistinguevano sua figlia. «Ognuno deve anzi essere libero di fare le proprie scelte, senza che per questo qualcuno debba sentirsi in dovere di giudicarlo: non vorrai mica fare come i comunisti, che imponevano l’ateismo di stato e guai a chi non obbediva. Non è questo che intendo dire. Voglio dire, piuttosto, che la religione si propone di dare una spiegazione e una risposta certa e facile a tutto ciò che sfugge alla comprensione, evitando così agli uomini di doversi porre delle domande. Nel momento in cui, però, gli uomini si sottraggono a questo stato delle cose, la ricerca costante diviene il motore dell’esistenza.» Sorrise leggermente. «È in quel momento, se vogliamo guardare le cose più da vicino, che nasce la filosofia. E quindi, forse, gli ateniesi non avevano poi tutti i torti, nel ritenere Socrate un uomo che negava l’esistenza degli dèi… ma ora sto divagando, scusami…»
   Jones sospirò, cercando di fare ordine nei propri pensieri tumultuosi per poter parlare nella maniera più chiara che gli fosse possibile. Già era assurdo trovarsi a passeggiare in un giardino sotterraneo, figurarsi se poi, stanchi e stralunati com’erano, avevano anche la voglia di perdersi in lunghe dissertazioni filosofiche. Era molto meglio venire subito al dunque, senza fare troppi giri astrusi.
   «Ecco, vedete: Adamo ed Eva vivono beati nella loro ignoranza. Il Signore ha dato loro tutto ciò di cui hanno bisogno: frutta, animali, acqua. Adamo all’inizio era solo, ma il Signore gli affianca Eva per tenergli compagnia e non fargli soffrire la solitudine. Essi vivono insieme, felici e in un certo senso inconsapevoli, al punto che non si vergognano per nulla della loro nudità. Hanno tutto, meno una cosa, che gli è negata per ordine divino: la conoscenza. È loro proibito, infatti, avvicinarsi all’albero che dona il frutto della conoscenza. Ma il serpente tentatore li induce nel peccato, ed Eva propone ad Adamo di cogliere il frutto interdetto. Per questo vengono scacciati e, dopo essersi coperti le nudità perché ora provano tutte le emozioni, compresa la vergogna, sono costretti a errare sulla terra, dove divengono i progenitori della civiltà umana.»
   L’archeologo si schiarì la gola, a disagio per la presenza di don Mavro. Già non era abituato a fare certi discorsi, figurarsi poi se era facile tenerli davanti a un prete. Ormai, però, era lanciato nel suo discorso e non poteva più tornare indietro. Proseguì incallito, grattandosi il mento.
   «Quindi, per come mi è dato interpretare questa storia, è la Bibbia stessa, nel suo proemio, a impartirci una lezione fondamentale, che però, a quanto pare, è stata ignorata per migliaia di anni: l’unico modo per essere davvero liberi e poter abbracciare la conoscenza, la sola via per sciogliere le catene di una prigione – per quanto dorata, sempre di una prigione si tratta – e per uscire dall’ignoranza, è rinunciare una volta per tutte a dio e alle sue proibizioni. Insomma, è come se la Bibbia ci desse due possibilità: leggerla fino in fondo, e restare ignoranti, oppure chiuderla, e acquisire la sapienza. E, in questa storia, il serpente, il diavolo nemico, appare in realtà come un alleato di tutta la razza umana, un vero e proprio benefattore incompreso.»
   A quel punto, Indy si sarebbe aspettato uno scoppio da parte di don Mavro che, non resistendo oltre, lo avrebbe senza dubbio trascinato in un’interminabile disputa teologica, opponendogli mille e più argomenti. Una disputa da cui, lo sapeva, l’archeologo sarebbe uscito sconfitto, non tanto per mancanza di idee, bensì per mere ragioni dialettiche, visto che il prete, di sicuro, era più abituato di lui all’oralità e ai sermoni. Per questo, stringendo forte le nocche sull’impugnatura del suo bastone da montagna, gettò un’occhiata verso la macchia d’alberi che volevano raggiungere, sperando che fosse abbastanza vicina da evitargli problemi di quel tipo.
   Era ancora troppo lontana per impedire una battaglia dialettica. Inaspettatamente, però, don Mavro sorrise e fece un cenno di approvazione.
   «Ben detto, professore, ben detto» commentò, in tono pacato. «Lei ha davvero centrato un punto che, a detta di molti sacerdoti e teologi, non viene mai sottolineato abbastanza: la Bibbia non va considerata come un testo storico, bensì soltanto come un insieme di indicazioni utili alla vita e alla fede. Certo, il suo punto di vista mi sembra un po’ troppo radicale: addirittura evitare di leggerla. Però, insomma, comprendo le sue ragioni nel dire questo.»
   Indy trasse un lungo respiro di sollievo. L’aveva scampata bella.
   «Tuttavia» proseguì don Mavro, «c’è un punto su cui mi sento in dovere di contraddirla nella maniera più assoluta.»
   «Ecco, lo sapevo» borbottò a mezza voce Indy, facendo ridacchiare Katy e Valerija.
   «Si tratta del diavolo» andò avanti il sacerdote, ignorando il suo commento. «Lei lo ritiene un benefattore perché ha fatto uscire l’umanità dall’ignoranza a cui era stata condannata dal Signore. Ma è sicuro che, per questa sua azione, lo si possa davvero ritenere un alleato degli uomini e non il loro più grande nemico?»
   Per quanto non avesse voglia di discutere di quelle cose, questa volta Indy non riuscì a trattenere un ghigno.
   «E le pare che il problema si ponga, padre?» domandò con ironia, voltandosi a guardarlo. «Insomma, è chiaro come il cielo di primavera che, senza il frutto della conoscenza, l’umanità non avrebbe mai raggiunto i grandi traguardi che la contraddistinguono!»
   Un sorriso bonario apparve sul volto di don Mavro.
   «Presumo, dunque, che lei stia alludendo agli omicidi, alle guerre, alle armi, alle stragi, ai campi di sterminio, alla bomba atomica, all’inquinamento, alla deforestazione, alla scomparsa delle specie animali e a tutte quelle altre cose che l’uomo ha consapevolmente provocato e costruito per mezzo della sua intelligenza e della sua conoscenza» elencò, docilmente, come se stesse dettando la lista della spesa. «E anche su tutto questo, lo ricorderà, la Bibbia ci aveva avvisati: l’episodio di Caino e Abele, infatti, è immediatamente successivo alla cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden. Acquisire la conoscenza ha condotto l’essere umano a inventare l’agricoltura e l’allevamento, d’accordo, ma anche l’assassinio.»
   Indy, che si era voltato a osservare il bellissimo paesaggio naturale, tornò a girarsi di scatto verso di lui. Lo guardò per un istante, cercando di elaborare un pensiero razionale che gli permettesse di ribattere, aprì la bocca, la richiuse, la aprì di nuovo e finalmente disse: «Lei parla di brutture e nefandezze, ma dimentica apposta tutte le grandi opere… le basiliche… la letteratura… l’arte… la musica… le scoperte scientifiche…»
   Don Mavro si strinse nelle spalle.
   «Tutte cose molto belle, glielo concedo, ma che non prescindono dal fatto che, la stessa mente che le ha create, abbia poi messo a punto anche la bomba nucleare, usandola in maniera spietata contro i propri simili.»
   L’archeologo, smarrito ma non deciso ad arrendersi troppo facilmente, cercò gli occhi di sua figlia, sperando che gli venisse in aiuto con la sua solita tagliente favella, capace di zittire chiunque. Lei e Valerija, però, non sembravano più interessate ai loro discorsi di filosofia, perché i loro sguardi sgranati erano concentrati sui margini della folta vegetazione che, ormai, avevano quasi raggiunto.
   Indy si voltò a guardare, cercando di scoprire che cosa le avesse turbato così tanto.
   Dapprima non notò nulla di strano, perlomeno se si ostinava a considerare non strano quell’immenso giardino sotterraneo: vide palmizi i cui tronchi affondavano nel terreno circondati da felci, vide mandorli, peschi e albicocchi dai rami coperti di fiori delicati, vide abeti azzurri che crescevano rigogliosi accanto ad alberi dell’incenso, e vide piante grasse condividere lo spazio con larici attorno ai cui fusti si intrecciavano i rami delicati della passiflora da cui pendevano i fiori bianchi e blu e i frutti verdi.
   Certo, sembrava l’assemblaggio pazzesco di un botanico uscito completamente di senno, ma lì per lì non vide alcunché che potesse giustificare il repentino sconcerto delle due giovani.
   Poi, però, un movimento attrasse la sua attenzione.
   Guardò meglio e, tra i pesanti rami di un imponente cedro del Libano che arrivavano a sfiorare il terreno, formando quasi una sorta di tempio di aghi verdi e di legno odoroso di resina, vide comparire due figure che si muovevano con infinita lentezza, come se gli pesassero addosso tutti gli anni del mondo.
   Un gemito gli sfuggì dalla bocca nel riconoscere un uomo e una donna che indossavano degli strani abiti ottenuti intrecciando foglie e fiori di varie forme e dimensioni; i loro volti, estremamente rugosi, esprimevano un’età indefinibile, ma sorridevano leggiadri e affabili come due bambini curiosi. Con gesti leggeri, entrambi li invitavano ad avvicinarsi senza timore e a seguirli.
   «Cristo santo…» imprecò Indy, incapace di trattenersi.
   Katy si grattò un sopracciglio, facendo tintinnare tutti i suoi innumerevoli braccialetti; con un sogghigno, si voltò verso il padre, più sbalordito di lei.
   «Che cosa dicevi, Old J, riguardo ad Adamo ed Eva?»
 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Le tentazioni della Fonte ***


   26 - Le tentazioni della Fonte
 
   Muovendosi sempre con una lentezza quasi esasperante e senza proferire alcuna parola, le due figure misteriose guidarono i quattro esploratori in mezzo all’intrico della vegetazione, seguendo un sentiero a malapena distinguibile nella confusione delle foglie e dell’intreccio di rami che ricoprivano il terreno. Fiori di mille varietà tingevano il sottobosco, spandendo profumi aromatici che rammentavano miscele di spezie, e gli alberi ad alto fusto svettavano verso lo strano cielo di cristallo luminescente, formando una vera e propria copertura vegetale. I diversi odori colpivano le narici, inebrianti, e la temperatura continuava a mantenersi piacevole nonostante l’ammasso di vegetali.
   Era così difficile attraversare la fittissima vegetazione che, per essere più agevolati nei loro movimenti, avevano lasciato gli zaini e i bastoni da montagna ai margini del bosco, da dove li avrebbero recuperati in seguito; soltanto Jones non aveva voluto rinunciare a portare con sé la sua borsa colma di esplosivi, non sapendo di preciso che cosa avrebbero trovato al di là di quell’ammasso vegetale.
   Camminare in mezzo a quel fitto assembramento di essenze arboree e floreali ricordava a Indy le grandi foreste che, più volte, nel corso delle sue innumerevoli avventure, aveva dovuto attraversare per giungere a qualche tempio nascosto e perduto da secoli. Che grandi e fantastiche emozioni che gli tornavano alla mente: ogni volta era stata una vera epifania inoltrarsi nel fitto di una foresta e vedersi comparire dinnanzi, all’improvviso, le perdute vestigia di un’antica civiltà, ricordi di pietra lavorata che la vegetazione aveva conquistato ma non era riuscita a cancellare, preservandoli intatti quasi sapesse che, un giorno o l’altro, sarebbe giunto lui a svelare quei segreti troppo a lungo sospesi nell’oblio.
   Era come immergersi in un solo balzo nei fasti del suo glorioso passato, rivivendo sensazioni che temeva di aver scordato e che, invece, erano sempre rimaste lì, pronte per essere richiamate alla mente. La differenza sostanziale, però, era data dalla totale assenza di richiami di uccelli o di ronzii d’insetti, il che donava a tutto quell’insieme un che di artificioso e innaturale, un’atmosfera ovattata e stranissima. Una volta di più, da quando aveva messo piede in quel luogo misterioso, stava provando la sensazione di essere sospeso in una dimensione onirica, che non apparteneva per davvero al mondo fisico. In un certo senso, era molto inquietante.
   Tuttavia, non erano avvolti dal silenzio più assoluto. Oltre al rumore dei loro passi attutiti dallo strato erboso e a quello dei rami che si scostavano al loro passaggio e delle foglie che scricchiolavano sotto i loro piedi, si udiva anche un costante gorgogliare, un lieve e soave mormorare di acqua che scorreva perenne, senza mai fermarsi. Lo avevano già notato in precedenza, ma adesso andava facendosi via via più intenso, come se si stessero avvicinando sempre di più a ciò da cui esso scaturiva.
   Nessuno di loro osò aprire bocca per parlare, ma si sentivano avvinti da una folle emozione, che faceva tremare i polsi, perché sapevano benissimo da che cosa provenisse quel suono.
   L’intensificarsi di quel rumore melodioso e l’aumento repentino della soffusa luminescenza che sembrava colpire tutte le cose, riflettendosi sui cristalli di cui era composta la volta, li avvertirono che, ormai, erano giunti alla loro meta. Ciò per cui avevano corso innumerevoli rischi e che aveva acceso la loro fantasia per tutte le ultime settimane era lì, a pochi metri di distanza, dietro agli ultimi alberi che ancora si frapponevano alla vista.
   Tutto a un tratto, il bosco si interruppe, stendendosi in una meravigliosa radura di erba punteggiata di fiori freschi e delicati. E, ai loro occhi sbalorditi, si aprì una visione celestiale.
   A un margine, come già avevano potuto osservare da lontano, la radura era chiusa da una barriera di pietre tondeggianti sovrapposte l’una all’altra, che si innalzava da terra per almeno una decina di metri. Ciò che prima non avevano notato, invece, era che all’alto della pietra si tuffavano con un delicato gloglottare cinque leggiadre cascatelle, che alimentavano uno specchio d’acqua davvero splendido; in quello stesso laghetto, inoltre, confluivano anche i sette ruscelli che avevano già notato al loro arrivo, sbucando da diversi punti del boschetto. L’acqua all’interno della vasca – i cui bordi erano cintati da pietre squadrate su cui erano raffigurate decine di immagini di mirabile bellezza – era azzurra e cristallina, la più pura che avessero mai visto. Talmente pura da risplendere di luce propria, illuminando tutto quel vasto giardino delle delizie.
   Indy, don Mavro e le due ragazze si fermarono, sbalorditi e suggestionati. La piccola mano di Katy cercò quella di suo padre, che la strinse, sentendola sudata per l’emozione e la paura di quel momento solenne; l’altra mano della giovane, poi, si racchiuse in quella di Valerija, che a sua volta cercò conforto anche in quella del suo amico sacerdote. Le due strane figure, invece, proseguirono il loro cammino, senza voltarsi indietro.
   L’uomo e la donna, sostenendosi a vicenda per non cadere a causa dell’insicurezza delle loro gambe vecchie e malandate, si approssimarono ai margini del piccolo laghetto. Qui, con gesti lenti e stanchi, come se ogni singolo movimento costasse loro una fatica immane, si sbarazzarono dei loro abiti variopinti, lasciandoli cadere a terra.
   Dinnanzi agli occhi dei quattro compagni che si tenevano per mano, comparvero dei corpi grinzosi e rattrappiti, dalla pelle incartapecorita che cadeva dalle braccia ridotte a semplici ossa prive di muscolatura. Indy ricordò di aver conosciuto una donna di cento anni, quando era molto più giovane – una donna che, nelle intenzioni di certa gente dalla fantasia decisamente fervida, sarebbe dovuta diventare sua moglie: rispetto a questi due che aveva adesso davanti agli occhi, però, doveva essere sembrata poco più che una ragazzina. A guardare queste due figure, semmai, gli pareva di avere dinnanzi due mummie dotate per qualche misterioso motivo della facoltà di deambulare.
   Trascinandosi con immensa fatica, le schiene ricurve e le teste piegate in avanti come se non avessero più neppure le energie per sollevarle, l’uomo e la donna compirono altri due passi, entrando nell’acqua fino alle caviglie. Quel contatto parve in qualche maniera rinvigorirli, perché si raddrizzarono e cominciarono a muoversi più in fretta, verso un punto dove l’acqua era più profonda.
   Ormai erano immersi fino alla cintola e, come per incanto, i loro corpi iniziarono a farsi più robusti e sani, i loro capelli bianchi e diradati riacquistarono colore e volume, le grinze e le rughe si ritirarono e la loro pelle divenne più elastica. Si immersero ancora, fino al petto, sollevando allegri spruzzi di acqua con il movimento delle braccia tornate forti.
   A un certo punto si voltarono all’indietro e, per un istante, ai quattro rimasti nella radura parve di star guardando in faccia due giovani ventenni dall’aria spensierata. Infine si immersero completamente, scomparendo sotto la superficie. Si trattò soltanto di una manciata di secondi, poi entrambi riemersero, nuotando rapidissimi e flessuosi verso la riva, con la vigoria di due pesci. Quando uscirono dall’acqua e recuperarono le loro vesti per potersi coprire, i loro volti dai tratti delicati e i loro corpi dal fisico asciutto, fresco e acerbo non dimostravano più di quattordici anni.
   Senza fiato, Indy si grattò la testa con la mano libera. L’altra se la sentì stringere più forte dalle dita di sua figlia, che si irrigidì vedendo che quelli che erano stati due vecchi decrepiti e che avevano subito quella repentina metamorfosi stavano venendo di nuovo verso di loro, adesso camminando veloci e pimpanti, proprio come due fanciulli appena affacciati alla pubertà. Sorridevano, tenendosi per mano come due innamorati.
   I loro sorrisi, però, turbarono profondamente tutti e quattro, che li osservarono venire innanzi con passo veloce, quasi aereo. La gioventù sfolgorava sui loro volti fanciulleschi, mentre i loro corpi, adesso di nuovo celati sotto gli abiti di foglie intrecciate, si muovevano con estrema agilità.
   «Benvenuti, stranieri» salutò il ragazzo, facendo un lieve inchino.
   «Era da tanto che attendevamo una nuova visita» soggiunse la ragazza, imitandolo. «Ma non abbiamo mai avuto nessun dubbio che, prima o poi, qualcuno sarebbe tornato da noi.»
   Indiana Jones, sbalordito, si rese conto di comprendere ogni singola parola che usciva dalla loro bocca, sebbene parlassero in una lingua sconosciuta, che era certo di non aver mai udito prima in vita sua. Osservò di sfuggita i suoi amici e, dai loro volti su cui erano dipinte delle smorfie di sconcerto, comprese che anche loro stavano capendo ogni cosa.
   Mille domande gli affiorarono alla mente. Come mai li capivano? Che razza di posto era quello? Cosa diavolo era appena successo, per fare sì che due vecchi decrepiti si tramutassero in adolescenti dal fisico ancora acerbo? Che accidenti era davvero, quell’acqua? Alla fine, però, prevalse la domanda più ovvia.
   «Chi siete?» domandò, con un filo di voce. Aveva quasi paura di sentire la risposta. Se avesse udito pronunciare i nomi di Adamo ed Eva, probabilmente si sarebbe messo a ridere, magari per non scoppiare a piangere.
   I due giovani si consultarono con lo sguardo per un secondo, poi fu il ragazzo a rispondere.
   «I nostri nomi non vengono pronunciati da lunghissimi millenni, forse da intere ere, e noi stessi li abbiamo scordati, sempre che mai ne abbiamo avuti. Non rammentiamo chi ci generò, né quando, né in quale luogo vivessimo, e come, prima di essere condotti qui. Noi siamo i custodi della Fonte, scelti moltissimo tempo fa, nei giorni della prima nascita, perché facessimo in maniera che questo luogo prosperasse per tutta l’eternità.»
   I giorni della prima nascita. Jones non aveva idea di che cosa significasse quella locuzione e non ebbe l’ardire di domandarlo. Quella era di certo una di quelle strane e sfuggenti verità riguardo alle quali, per semplicità, aveva scelto di non interrogarsi troppo. Un altro, al suo posto, sarebbe forse stato curioso; e anche lui lo era, ma era anche consapevole che, certe curiosità, fosse molto meglio non appagarle.
   Il nome di custodi della Fonte, invece, lo fece automaticamente pensare a cose che gli erano molto più note e congeniali. In maniera istintiva, i ricordi di Indy volarono al terzo fratello, l’ultimo cavaliere della prima Crociata rimasto per interi secoli a guardia del Santo Graal, beneficiato da una lunga vita che, in realtà, per lui era stata solo una lunghissima condanna, costretto a vivere tutti i suoi giorni senza fine in una cappella sotterranea in preghiera e meditazione. Be’, almeno questi erano in due e potevano tornare adolescenti a loro piacimento: perlomeno, poteva supporre che, per tutto quel tempo, non si fossero fatti mancare i divertimenti, per quanto alla lunga un po’ ripetitivi, e avessero saputo come fare a consolarsi di tutto quel tempo superfluo.
   «Da soli?» gli venne spontaneo dire, sarcastico. Incapace di trattenersi, domandò ancora: «Voglio dire, non avete generato dei figli che potessero aiutarvi?»
   Entrambi scossero la testa in un netto gesto di diniego.
   «Sarebbe stato impossibile. La nostra è una missione divina e solenne, scevra dalla carnalità e da altri peccati. Non potremmo che essere puniti e scacciati, se venissimo meno al nostro voto» spiegò la ragazza, serissima, apparendo quasi disgustata al solo pensiero che, quel luogo, potesse essere profanato da atti simili a quelli suggeriti dall’archeologo.
   «Anche se, di quando in quando, la tentazione si è fatta innanzi, l’abbiamo sempre combattuta e vinta, trionfando ogni volta contro le seduzioni maligne della carne» soggiunse il suo compagno, parlando con il tono fiero di un eroe che abbia vinto innumerevoli e feroci battaglie.
   «Ecco, figurarsi…» pensò Jones, scuotendo la testa. Chissà perché, chi si sceglieva un compito sacro, lo doveva sempre portare avanti nel peggiore dei modi, rinunciando a tutte le cose belle della vita.
   «Scelti?» disse invece don Mavro, senza capire. «Scelti da chi? E…» si morse il labbro, guardandosi attorno. «Questa è quindi per davvero la Fonte dell’Eterna Giovinezza? Quella di cui parlano le leggende?»
   I due custodi sorrisero con delicatezza.
   «Non siamo a conoscenza di queste leggende» rispose il ragazzo.
   «Probabilmente nacquero soltanto dopo che noi entrammo qui dentro, di nostra volontà» proseguì la ragazza.
   Pure di loro volontà! Interi millenni di noia scelti volontariamente! Indy era sempre più sbalordito da quanto la gente, in fondo, sapesse essere stupida.
   Katy era stupefatta ancora più di suo padre e del prete.
   «E per tutto questo tempo siete rimasti qui… da soli?»
   «Non sempre soli» replicò la ragazza, rivolgendole un amabile sorriso. «Abbiamo avuto alcuni visitatori, nel corso del tempo. Gli ultimi furono i monaci che decisero di erigere il loro eremo al di sopra dell’ingresso del nostro giardino, per tenere a bada i malintenzionati che avrebbero potuto entrarci. Ma noi non abbiamo mai avuto timori e non abbiamo mai negato a nessuno, tra tutti coloro che giunsero qui, i benefici della nostra acqua.»
   Ancora una volta, Indiana Jones si sentì invadere da mille quesiti. Con quelle parole, i due custodi non stavano chiarendo poi molto. Chi fossero davvero, da dove venissero, perché, come e quando di preciso fossero giunti a scoprire la Fonte – e che cosa fosse davvero, la Fonte – erano evidentemente domande che stavano eludendo e alle quali non parevano intenzionati a dare una qualsiasi spiegazione, restando il più possibile sul vago. Ed era certo che, se anche li avessero interrogati per ore, non ne avrebbero cavato un bel niente: del resto, per chi ha a propria disposizione tutto il tempo del mondo, non c’è interrogatorio serrato che possa funzionare.
   Come se gli avesse letto nel pensiero, il ragazzo indicò lo specchio d’acqua cristallina.
   «Ci sono domande prive di risposta, perché le risposte che potremmo dare esulano dalla comprensione della mente umana, ancora troppo limitata per accedere alle rivelazioni superiori» rivelò, con tono pacato. «Ma certe cose possono essere viste… nel passato, nel presente e nel futuro…»
   Con un gesto delle braccia, lui e la sua compagna invitarono Indy e gli altri a farsi avanti senza nessun timore, facendosi più vicini al piccolo laghetto.
   Circospetti, tutti e quattro si avvicinarono alla Fonte dell’Eterna Giovinezza e abbassarono gli occhi a quella superficie luminescente e incantatrice. Subito sgranarono gli occhi per l’emozione, mentre immagini differenti per ciascuno di loro comparivano sull’acqua leggermente increspata, riflettendosi nei loro sguardi sbalorditi e nelle loro menti.

 
* * *

   Don Mavro, tornato giovane e magro, si muoveva agile e scattante tra le intricate foreste del Congo che, tanti anni prima, lo avevano plasmato, rendendolo un prete sopra le righe, capace sempre di una buona parola e di una benedizione, ma anche di difendersi quando il caso lo richiedeva.
   Non si concedeva che pochissime pause. Era conscio di non poter mai restare fermo troppo a lungo nello stesso posto: i Simba erano ovunque e, se lo avessero catturato, non gli avrebbero concesso nessuna pietà. Sapeva bene quale trattamento fosse riservato ai sacerdoti cattolici che cadevano nelle loro mani: una morte lenta e dolorosa; aveva visto con i suoi stessi occhi i cadaveri martoriati dei frati e quelli dissanguati delle suore, stuprate prima di essere decapitate. Ma don Mavro non aveva nessuna paura di loro, anzi era lì proprio per affrontarli e ristabilire la legge. Non era una mera questione religiosa: la violenza non era giustificabile in nessun modo e, chi la perpetrava contro gli innocenti, andava combattuto in ogni maniera che fosse possibile.
   Ecco perché era lì, nel Congo, ma sarebbe dovuto essere anche in mille altri luoghi differenti: ovunque regnasse l’ingiustizia, sarebbe stato corretto intervenire con mano ferma e cuore puro. Era questo, in fondo, il vero e unico scopo della venuta di Cristo: salvare gli innocenti e liberare il mondo dall’oppressione dei malvagi.
   E, adesso, aveva anche la possibilità di portare avanti quella sacra missione che il Cielo aveva deciso di affidargli. L’acqua della Fonte lo avrebbe rinvigorito di nuovo, infondendogli di volta in volta nuove forze, grazie alle quali avrebbe potuto affrontare tutti i suoi nemici. Nessuno più sarebbe stato capace di opporsi a lui, che si sarebbe innalzato dinnanzi a tutto e a tutti come un nuovo paladino della cristianità. Perché limitarsi a sopravvivere, quando avrebbe potuto disporre di un potere illimitato, che lo avrebbe reso praticamente invincibile, permettendogli di affrontare e sconfiggere innumerevoli nemici?
   Con quella infinita vigoria a scorrergli nelle vene e nelle arterie, rendendo potente il suo braccio così come era saldo il suo spirito, nessuno si sarebbe più potuto opporre a lui, e chi lo avesse fatto sarebbe stato spazzato via come meritava. I sanguinari nemici dei deboli, quegli uomini feroci capaci soltanto di fare del male al proprio prossimo, sarebbero stati annientati uno per uno, fino alla completa distruzione, fino a quando il mondo si sarebbe tramutato per intero in un luogo libero e felice, dove chiunque avrebbe potuto vivere in pace e in armonia.
   Sarebbe stato così per i Simba e per i comunisti, quegli atei senza Dio capaci soltanto di imporre agli altri il proprio pensiero senza fermarsi a domandare se coloro che volevano indottrinare fossero d’accordo. Avrebbe pensato lui stesso a fare piazza pulita, liberando tutti i popoli da quella piaga purulenta a cui, per il momento, erano ancora condannati. La catena dell’oppressione sarebbe stata spezzata dal suo intervento, deciso e privo di scopi nascosti.
   Una prospettiva dolce e luminosa. Sarebbe stato sufficiente chinarsi, assaggiare quelle acque e tutto sarebbe mutato. Il vecchio prete sovrappeso avrebbe guadagnato una forza senza pari, un vigore mai visto prima in nessun uomo.
   Bastava soltanto abbassarsi sulle gambe e bere, bere…

 
* * *

   Valerija fremette. Il peso della pistola che aveva nascosto nella tasca del giaccone l’avvertì che l’arma che aveva sottratto di nascosto a uno degli agenti dell’OZNA ucciso nella casa del dottor Obradovic era sempre lì, pronta all’uso. L’aveva portata con sé per uno scopo preciso, e ora più che mai si sentiva pronta a mettere in pratica la sua decisione, senza provare nessun tipo di rimpianto. Perché avrebbe dovuto pentirsene, in fondo? Lei agiva per il meglio, per il bene collettivo e superiore, non per vanagloria o semplice interesse personale.
   Voleva fermare il professor Jones, impedirgli di distruggere la Fonte come si era prefissato. Ovviamente non era intenzionata a fargli del male, perché lui era il padre di Katy e non voleva che la ragazza del suo cuore soffrisse. Però, allo stesso tempo, era pronta a tutto, perché nessuno avrebbe dovuto osare fermarla. Non il professor Jones, e neppure la sua amata Katy.
   Quelle acque le servivano, a tutti i costi. Non avrebbe potuto permettere che andassero perdute, sprecate. Erano il solo modo che i ribelli avessero per combattere contro quei macellai degli uomini dell’OZNA senza rischiare di subire troppe e dolorose perdite, e lei gliele avrebbe fornite. Quell’arma, a cui i comunisti per primi si erano interessati, si sarebbe infine ritorta contro di loro, divenendo in breve il loro flagello. Che male poteva esserci, in fondo, a fornire a gente che lottava per il proprio ideale una marcia in più, che avrebbe permesso di vincere una battaglia sotterranea che durava da ormai troppi anni e che si preannunciava dura e infida?
   Da quando erano partiti, quella pistola di cui non aveva fatto cenno a nessuno era stata difficile da trasportare. Non perché pesasse troppo per lei. Era un peso molto diverso da una sensazione fisica, quello che provava ogni volta che rivolgeva la sua attenzione a quell’oggetto metallico che le gonfiava la tasca del cappotto. Aveva pensato più volte di sbarazzarsene, gettandola da qualche parte, lasciando così che il professore facesse ciò che doveva. Forse, sarebbe stata la scelta più corretta.
   Ora che era lì, ora che era giunta dinnanzi alla Fonte, però, sentiva di aver fatto bene a tenerla. Non avrebbe potuto permettere che quel flusso secolare fosse interrotto per sempre a causa di una sciocca paura priva di giustificazioni.
   L’acqua della Fonte dell’Eterna Giovinezza sarebbe stata un vero miracolo per i ribelli che, resi invincibili, si sarebbero potuti sollevare dal loro torpore. Nel volgere di pochi mesi soltanto, l’intera Jugoslavia sarebbe finalmente stata libera dall’oppressione comunista e avrebbe potuto decidere in piena libertà la propria strada, quale futuro costruire per sé e per i propri figli. Era forse chiedere troppo, che un intero popolo fosse liberato da coloro che lo tenevano incatenato con il ferro e con il fuoco?
   E c’era anche un’altra idea a stuzzicarla. Grazie ai poteri di quell’acqua magica, lei e Katy non sarebbero mai invecchiate. Si sarebbero potute amare in eterno, godendo di un’imperitura giovinezza. Le loro fresche mani si sarebbero sfiorate per sempre, le loro pelli delicate non avrebbero mai cessato di restare a contatto, le loro bocche roventi si sarebbero potute baciare per tutto l’avvenire, senza che nessun ostacolo si frapponesse a loro. Perché avrebbero dovuto rinunciare a tutto questo? Perché avrebbero dovuto compiere la sciocchezza di sottrarsi a un simile dono, il più straordinario dono a cui avrebbero mai potuto ambire? Si sarebbero date piacere a vicenda fino alla fine del mondo e magari anche oltre, avrebbero goduto in eterno della reciproca vicinanza e gioventù: come lo si poteva ritenere un male?
   Non sarebbe stato difficile. Bastava chinarsi e bere. Una volta bevuto, il mondo intero sarebbe stato ai loro piedi. Lei e Katy, amanti eterne in un mondo libero e privo di confini. Come poteva essere male, tutto questo? Era un sogno, un dolcissimo sogno che si avverava.
   Bastava soltanto accostare le labbra a quell’acqua miracolosa e bere, bere…

 
* * *

   Una lacrima solcò la guancia di Katy mentre il suo desiderio più grande e proibito, quello che non avrebbe mai confessato a voce alta dinnanzi a nessuno, e con cui non aveva mai fatto i conti nemmeno da sola, prendeva forma dinnanzi a lei: essere per sempre una bambina, insieme a mamma e a papà. L’età che era avanzata la stava riportando indietro, non aveva più ventisei anni bensì sedici, e i suoi genitori erano di nuovo giovani, e lei poteva rimanere insieme a loro per tutto il tempo che desiderava.
   Soprattutto, era libera di restare per sempre insieme a suo padre, che non era più l’uomo anziano che lei prendeva sempre in giro, bensì un giovane dall’aria atletica, di aspetto slanciato e scattante, lo sguardo acceso di ironia, quello sconosciuto che lei sapeva essere esistito soltanto per averlo visto in fotografia. Quell’uomo era suo padre e lei non lo avrebbe lasciato mai.
   Quante avventure avrebbero potuto vivere insieme, quante scoperte affascinanti… anziché essere un vecchio lamentoso ormai avviato verso la conclusione della vita e una ragazza pestifera che faceva fin troppo spesso di testa sua, si sarebbero potuti tramutare in una coppia di pazzi scatenati, sempre in cerca di imprese da compiere negli angoli più inesplorati del globo terrestre. E, vedendoli, la gente si sarebbe meravigliata che fossero padre e figlia, anziché due innamorati incapaci di fare a meno l’una dell’altro. Ma dove sarebbe stata la differenza, in fondo? Sarebbero stati insieme, uniti per sempre. I leggendari Jones, i due più celebri archeologi del mondo, gli immortali genitore e figlia che avevano effettuato le più ardite e impensabili delle scoperte, i due rivoluzionari che avevano riscritto per intero la storia aggiungendovi giorno dopo giorno nuovi tasselli mai valutati in precedenza.
   Per non parlare, poi, degli altri tipi di avventure che avrebbero potuto vivere assieme. Si sarebbero potuti alternare nel conoscere e irretire dolci e bellissime fanciulle, facendole cadere ai propri piedi. Alcune se le sarebbe prese lei, altre sarebbero andate a lui. E, alla fine, per riprendersi dall’ennesima impresa amorosa, si sarebbero potuti scambiare le impressioni. Quanto ridere, che avrebbero fatto insieme!
   Perché rinunciare a tutto questo, perché perdere l’opportunità di divertirsi insieme, per sempre, fino a quando ne avessero avuto voglia? Non avrebbero avuto nessuno a cui dover rendere conto, sarebbero stati liberi di agire e pensare come più avrebbero preferito.
   E, oltretutto – e questa era una verità che, forse, valeva più di tutte le altre – avrebbe avuto l’insperata opportunità di conoscere davvero suo padre, di vederlo più da vicino e in profondità, di avere a che fare con quell’Indiana Jones di cui tanto aveva sentito parlare, l’uomo leggendario che aveva condotto a termine le più straordinarie azioni e che lei, per quanto ci si sforzasse, aveva sempre fatto fatica a riconoscere sotto la scorza di quell’uomo anziano che era sempre stato al suo fianco.
   Insieme, lei e suo padre, sarebbero diventati i più grandi archeologi che il mondo intero avesse mai conosciuto. E anche Katy, esattamente come Indy, sarebbe divenuta una vera e propria leggenda, conosciuta ovunque, celebrata dappertutto.
   Bastava soltanto appoggiare la bocca alla superficie della Fonte e bere, bere…

 
* * *

   Indy alzò di nuovo il braccio ma, questa volta, non gettò nell’oscurità l’ampolla in cui avrebbe voluto conservare le acque miracolose della Fonte. Le acque che gli avrebbero restituito la giovinezza, il vigore, la forza. Tutti i suoi dolori sarebbero scomparsi per sempre, i capelli sarebbero tornati castani, le rughe si sarebbero tramutate in un ricordo lontano. Questa volta, l’ampolla rimase ben salda nella sua mano, pronta per essere riempita, per essere portata alle labbra e assaporata una volta, due volte, tre, tutte quelle che sarebbe stato necessario, non più per guadagnare cinquanta o cento anni di vita, bensì per tutta l’eternità, per sfidare con lo sguardo ironico il fluire del tempo.
   Il tempo, che era sempre stato una parte fondamentale della sua esistenza… il tempo, che era alla base dell’archeologia a cui era devoto… il tempo, che aveva plasmato la sua fortuna… il tempo avrebbe chinato il capo dinnanzi a lui, il suo vincitore, il suo più grande dominatore.
   Ancora una volta, Indiana Jones si sarebbe potuto lanciare con la frusta sopra precipizi oscuri, si sarebbe fatto trascinare dietro a un camion per cercare di recuperare ciò che gli era stato portato via, avrebbe affrontato schiere e schiere di nemici pronti a tutto, senza un lamento, senza un minimo sforzo, accompagnato soltanto dal suo perenne ghigno sarcastico sulle labbra e dalla voglia di menare le mani senza curarsi neppure un poco delle conseguenze a cui sarebbe potuto andare incontro.
   Nuove avventure, nuove imprese lo avrebbero atteso. La sua leggenda sarebbe stata rinnovata. Il fuoco della scoperta avrebbe divampato di nuovo dentro di lui. Le energie sarebbero fluite ancora attraverso il suo organismo rinnovato, tornato quello di un tempo, finalmente libero da quelle costrizioni e da quegli impedimenti a cui era stato obbligato a piegarsi a causa dell’età e di una vita fatta di eccessi.
   E, insieme a tutto questo, sarebbero giunti nuovi successi, nuove soddisfazioni… e anche nuove donne.
   Avrebbe potuto avere tutte le donne che avrebbe desiderato, di continuo, senza stancarsene mai. Insieme al resto, avrebbe riguadagnato anche il suo antico fascino, quello che aveva fatto girare la testa a intere generazioni di studentesse, ai suoi tempi d’oro. Le ragazze avrebbero fatto la fila per venire da lui, sarebbero ricorse a ogni strategia pur di conquistare il suo cuore, proprio come quando era giovane. Se le sarebbe trovate supplichevoli davanti alla porta di casa, pur di poter passare anche soltanto una notte di fuoco in sua compagnia, sentendosi le sue mani sulla pelle, le sue labbra umide su tutto il corpo.
   Giovane. Una parola proibita, un concetto a cui aveva rinunciato da tantissimo, da troppo tempo, ma che ora acquistava un nuovo significato, diverso. La gioventù non sarebbe più stata un semplice ricordo ormai interdetto, bensì qualcosa di cui avrebbe potuto appropriarsi ancora, la nuova costante della sua esistenza. La nuova realtà a cui sarebbe andato incontro.
   Indiana Jones sarebbe tornato, di nuovo. Sarebbe rinato, in quella grotta, e non sarebbe morto mai più.
   Un pensiero, questo, sufficiente a fargli scordare tutti i buoni propositi che lo avevano animato, bastevole a fargli dimenticare tutti i suoi ragionamenti sull’invecchiamento e sul cammino della vita, che erano fatti naturali da non alterare ricorrendo a strani incantesimi di cui si sarebbe potuto pentire.
   Pentire? E pentire di cosa? Non avrebbe avuto nulla da perdere, soltanto da guadagnare, figurarsi se avrebbe dovuto pentirsene. E avrebbe guadagnato tanto, tantissimo. Avrebbe guadagnato in una volta sola più di quanto avesse guadagnato in tutto il corso della sua esistenza. Perché rinunciare a un simile e prezioso dono? Perché tirarsi indietro proprio adesso?
   Bastava soltanto prendere quelle acque nelle mani chiuse a coppa e bere, bere…
 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Scelte da compiere ***


   27 - Scelte da compiere
 
   Ci fu un lampo accecante e tutti e quattro trasalirono, facendo un passo all’indietro per sottrarsi a quella luce abbagliante, dinnanzi a cui gli occhi non potevano continuare a rimanere aperti. Si guardarono attorno, smarriti e confusi, come se non capissero perché fossero di nuovo lì, nel giardino incantato, con il loro solito aspetto. Le visioni che avevano avuto erano state così reali da sembrare vere e concrete, non un semplice parto dell’immaginazione.
   «Accidenti…» borbottò Katy, sfregandosi gli occhi nel tentativo di fare ordine nelle sue idee.
   «Ma che è successo?» balbettò Valerija, confusa, facendo volgere lo sguardo ovunque nel tentativo di raccapezzarsi.
   Indy e don Mavro, pur evitando di fare commenti, apparivano disorientati e smarriti quanto le due ragazze, e continuarono per quasi un minuto a sbattere le palpebre, come se stessero cercando di richiamare alla memoria i frammenti delle visioni che la Fonte gli aveva impresso nel cervello e che, adesso, stavano già svanendo velocissimi.
   I due custodi sorrisero in maniera amabile, facendo dei lievi gesti con le braccia.
   «La Fonte ha mostrato a ognuno di voi ciò che potrebbe ottenere se scegliesse di bere le sue acque» disse il ragazzo.
   «Ma c’è anche qualcos’altro che essa vi può mostrare» soggiunse la ragazza. «Non sottraetevi a questa offerta, come invece hanno fatto tutti coloro che vi hanno preceduti. Ciascuno dei fortunati che qui giunse nel corso dei secoli, vedendo avverarsi i propri sogni, non volle mai guardare oltre, credendo – a torto – di avere veduto abbastanza. Ma la Fonte, che è una benedizione, può trasmutarsi in brevissimo tempo in una maledizione, repentina come un battito d’ali.»
   «Non lasciatevi irretire dalla bramosia e dalla vanagloria come i vostri predecessori» proseguì il custode, facendo un lieve cenno con la mano. «Guardate ancora, e solo allora saprete scegliere quale strada imboccare, lungo quale via proseguire il vostro cammino.»
   Katy guardò Indy, che le sorrise incoraggiante, e lo stesso fece don Mavro con Valerija; tutti e quattro avevano scorto un glorioso futuro in quelle acque, ma le parole dei due custodi avevano provocato un brivido lungo le loro schiene. Forse, prima di mettere in atto i loro propositi, avrebbero davvero fatto meglio ad attendere di vedere ancora, qualsiasi cosa la Fonte fosse decisa a mostrare loro.
   Dunque, tutti e quattro guardarono nuovamente verso l’acqua cristallina; e l’acqua, proprio come accaduto un istante prima, restituì a ciascuno un’immagine nitida e precisa, come se stessero osservando un film proiettato sopra lo schermo di un cinema, e che invece si svolgeva soltanto dentro le loro teste, a uso e consumo esclusivo di ciascuno di loro.
   E, quello che videro, tolse loro il fiato.

 
* * *

   Don Mavro si vide di nuovo nei panni di un uomo forte, vigoroso e privo di paura, pronto a colpire e ad annientare tutti i suoi nemici, liberando i popoli dalla schiavitù e dalla ferocia di coloro che avrebbero voluto sottomettere i miti e i giusti. Questa volta, però, non riuscì più a sentirsi un eroe, come invece aveva fatto poco innanzi. Gli parve, invece, di essere diventato un mostro, un’orrenda creatura apportatrice di morte, per niente differente da coloro contro cui avrebbe voluto combattere e trionfare.
   Comprendendo il dolore da lui stesso provocato, avvertendo la fredda morsa della paura attanagliargli lo spirito, vedendo tutto il sangue innocente versato, si sentì cogliere dal più profondo degli orrori, una sensazione che mai aveva provato prima. Nel volgere di un secondo, si sentì impazzire dal terrore. Lui, che aveva assistito ai massacri provocati dalla rabbia e dall’esaltazione dei Simba, ora aveva paura di se stesso, di quello che sarebbe potuto divenire se avesse perseverato su quella strada, se avesse veramente scelto di bere l’acqua maledetta e diventare un essere invincibile e immortale.
   Le sue mani, consacrate per benedire, erano sporche di sangue. Non stringevano il crocefisso, ma il fucile. La gente non gli si inchinava di fronte per una confessione, bensì per essere giustiziata con ferocia e crudeltà inenarrabili. Si era tramutato in un assassino senza misericordia, perché sangue chiama sangue, e lui non si sarebbe mai dissetato abbastanza di quel liquido caldo e ferroso che avrebbe fatto scorrere a ettolitri.
   E, come se tutto questo non fosse già sufficientemente repellente, aveva cercato in quelle acque maledette un mezzo per vivere più a lungo e poter così uccidere più nemici. Era andato contro la natura e si era servito di questo potere per tramutarsi nel peggiore dei criminali. Il calore si diffuse su tutto il suo corpo, ma non era un dolce tepore: erano invece le fiamme dell’inferno che lo avvolgevano, bruciandolo e martoriandolo a poco a poco, nella maniera più dolorosa che si potesse immaginare: era la sua condanna, la condanna eterna e inevitabile attraverso cui avrebbe dovuto scontare tutte le sue innumerevoli colpe.
   «No!» gridò, folle di orrore. «Signore, perdonami! Il demonio mi ha indotto in tentazione con le sue lusinghe, facendomi pensare a tutte quelle nefandezze, ma ora ho capito quale sia la giusta strada da perseguire! Accoglimi di nuovo presso di te, e io combatterò sempre, ma soltanto con le armi e con le forze che tu stesso mi hai donato! Io sarà il tuo servitore e ti sarò sempre devoto!»
   La repulsione lo colse e la sua volontà gli intimò di fare ciò che era giusto, la sola cosa buona da compiere in quel momento scellerato.
   Con una smorfia, si allontanò dalla Fonte dell’Eterna Giovinezza, comprendendo quanto fosse sciocco e vano rivolgersi agli artefici del diavolo nella speranza di mutare l’andare delle cose, che avrebbero dovuto compiersi assecondando le natura e non andando contro di essa.

 
* * *

   Valerija provò a sforzarsi di non cedere alle emozioni che la stavano assalendo con foga violenta, ma non ci riuscì; scoppiò in lacrime non appena si rese conto di ciò a cui sarebbe andata veramente incontro se avesse proseguito nella sua decisione di prendere l’acqua per sé e per i ribelli jugoslavi.
   La Fonte, dopo averla stuzzicata con la falsa idea di un futuro radioso, le mostrò adesso immagini di distruzione, di sofferenza, di stragi. I comunisti, da carnefici che erano stati, si sarebbero tramutati in vittime, mentre i ribelli non si sarebbero più fermati nei loro propositi vendicativi, senza guardare in faccia niente e nessuno. La vendetta rabbiosa e terrificante sarebbe calata non soltanto su di loro, ma anche sulle loro famiglie e su schiere e schiere di donne, bambini, uomini che non avevano fatto nulla di male, colpevoli soltanto di non aver scelto in tempo da quale parte schierarsi.
   E i sovvertitori del vecchio ordine, resi folli e feroci dalla loro facile vittoria dopo aver subito così a lungo, non si sarebbero fermati più, e avrebbero continuato a combattere contro chiunque, espandendo il loro credo, e il loro odio, su tutta quanta la Terra, decisi a fermare per sempre chiunque avrebbe un giorno potuto opporsi a loro e alla loro visione delle cose. Un semplice conflitto interno di una nazione si sarebbe tramutato nel fuoco di una guerra terribile, espandendosi ovunque e bruciando l’intera civiltà in una serie di continue battaglie fratricide che non avrebbero condotto a nulla, all’infuori dell’annientamento totale. Sul serio era questo che lei, la docile e carina bibliotecaria innamorata della vita e nemica delle ingiustizie, avrebbe voluto provocare con un’azione sconsiderata?
   E, oltre a tutto questo male, che cosa ne sarebbe stato del suo amore per Katy? Quel legame che le aveva unite si sarebbe spezzato, l’anello di quella dolce catena che le aveva legate l’una all’altra avrebbe ceduto, distrutto da forze superiori e incontrollabili. Invece di restare unite per sempre, come sognavano, sarebbero state separate, divise dalla furia di una guerra che non avrebbe mai avuto fine e che, a causa della diversità delle loro idee e dei loro luoghi di provenienza, le avrebbe messe una di fronte all’altra lungo campi opposti, destinate forse a uccidersi a vicenda.
   Perché, questo la Fonte lo mostrava con estrema chiarezza, un giorno altri ribelli, stanchi di subire, si sarebbero levati contro i nuovi persecutori e, pur non potendo disporre di un’arma potente come l’acqua miracolosa, avrebbero combattuto fino all’ultima goccia di sangue per resistere e affermare la propria libertà. La distruzione di un’oppressione ne avrebbe chiamata un’altra e poi un’altra ancora e via così, fino a quando persino la speranza sarebbe morta tra i fumi, le fiamme e il sangue. Di spazio per l’amore, in tutto questo, non ce ne sarebbe più stato.
   Tutto sarebbe finito nella maniera più oscura e diabolica possibile. E non era affatto questo che lei voleva. Non era questo che sognava, non era per questo destino oscuro che batteva il suo cuore buono e animato dai migliori desideri.
   «No!» strillò. «No!»
   Trattenendo a stento nuove lacrime, si sottrasse alla vista della Fonte, volgendole le spalle.

 
* * *

   Katy restò senza fiato per l’angoscia e fu costretta a stringersi le braccia al petto per impedirsi di sussultare a causa del terrore che l’aveva invasa da capo a piedi, provocandole la pelle d’oca e facendole rizzare ogni singolo pelo che avesse sul corpo. Visioni terrificanti la sfioravano da tutte le parti, lambendola con dita gelide che parevano decise a trascinarle in una morsa fatta di niente.
   Il mondo cambiava, le cose mutavano, tutto iniziava e finiva, le persone che aveva amato morivano inesorabilmente una dopo l’altra, trasformandosi in polvere, ricordi e poi neppure più in quelli, cancellate dallo scorrere inesorabile del tempo. Tutto, attorno a lei, seguiva il destino delle cose e delle persone, assecondando le leggi della natura che, da sempre e per sempre, avevano e avrebbero regolato l’esistenza di tutto l’universo.
   Un destino comune, riservato a qualunque essere vivente, e tutto sommato accettabile per via di quel senso di condivisione; un destino uguale per tutti, tranne che per loro. Non per lei, non per suo padre. Loro, che avevano sovvertito a quelle leggi bevendo l’acqua della Fonte, restavano immobili, uguali a se stessi, figure atipiche in un mondo che non era più il loro, che stentavano a riconoscere, sempre più distante da quello in cui erano cresciuti ed erano stati felici. Erano estranei che non facevano altro che muoversi ovunque, senza smettere mai di camminare, come l’Ebreo errante delle leggende, incapaci di restare fermi, perseguitati in eterno da una malinconia costante a cui non sarebbero mai più stati capaci di sottrarsi a causa del loro sconsiderato egoismo.
   Una maledizione gravava su di loro, su Katy e su Indiana Jones, la peggiore di tutte, quella a cui mai avrebbero immaginato di andare incontro, neppure nei loro incubi più spaventosi, quelli che strappavano al sonno nel pieno della notte e impedivano di riaddormentarsi per lunghe e angosciose ore: la maledizione della vita imperitura.
   La condanna orribile della vita eterna, un supplizio peggiore di qualsiasi altro, che li costringeva a camminare sempre, a spostarsi ovunque per non destare sospetti, per non essere etichettati e additati come mostri o come fenomeni da baraccone. E, in questo loro continuo peregrinare, dimenticavano a poco a poco ciò che erano stati e finivano per separarsi, imboccando vie differenti, divenendo persino sconosciuti a loro stessi. La loro brama d’avventura, la loro sete insaziabile di conoscenza, alla fine, li aveva posti lungo differenti sentieri, che forse non si sarebbero incrociati mai più.
   A questo li avrebbe condotti l’eterna giovinezza. A questo e a niente altro: a una solitudine perenne, di continuo rinnovata come gli anni della loro vita che andavano sommandosi tutti uguali l’uno all’altro, mentre attorno a loro avvenivano cambiamenti epocali di cui, ormai, non sapevano più nemmeno essere spettatori indifferenti. Erano condannati a essere statue immobili in un mondo che non era il loro.
   Non era questo ciò che Katy desiderava.
   La sua era una vita sopra le righe, piena di piccole e divertenti follie, ma era pur sempre una vita, con tutti i suoi alti e bassi. Non era un semplice esistere come invece minacciava di diventare se avesse assaggiato quelle acque maledette. Lei voleva vivere, non esistere. Era per questo che era nata, come tutti gli altri esseri umani. E se vivere significava andare ogni giorno un po’ più vicino alla morte, lo avrebbe potuto accettare senza problemi o rimpianti, se questo avesse significato sapersi emozionare, provare gioie e dolori, trascorrere tutto il suo tempo in compagnia delle persone che amava e facendo le cose che le piacevano di più.
   «Non mi lascerò ingannare da questa menzogna!» strillò, scalciando con rabbia.
   Una zolla di erba, colpita dalla punta del suo anfibio, si staccò dal terreno e finì in acqua. Guardandola affondare, vide gli steli tornare germogli, poi semi, fino a scomparire del tutto. La Fonte le mostrava che cos’era davvero: una morte al rovescio.
   Inorridita da quella visione, distolse lo sguardo, volgendolo altrove, verso la vera vita.

 
* * *

   Indy tremava, mentre perdeva la sua preziosa memoria. Dimenticava ogni cosa: volti, emozioni, voci, luoghi. Tutto ciò che era stato importante per lui scompariva a poco a poco, come sabbia portata dal vento e dispersa per sempre agli angoli della Terra; i pensieri diventavano nuvole, che si sfilacciavano nel cielo fino a dissolversi completamente, quasi che non fossero mai esistite. E tutto diventava freddo e invisibile, sempre più lontano e indistinto. A che cosa era servito, allora, conservare intatto il suo fisico, ritrovare le vecchie energie, se ciò che aveva di più caro se ne andava da lui, abbandonandolo completamente e facendogli il vuoto tutto attorno?
   Gli anni scorrevano rapidissimi, senza che lui più se ne accorgesse. Tutte le persone che aveva amato e quelle che aveva odiato, ogni azione che aveva compiuto, ogni impresa che aveva portato a termine, ogni luogo che aveva avuto la fortuna di visitare… tutto si dissolveva in maniera spietata e impietosa, lasciandolo avvolto in un gigantesco buio fatto di niente, che non aveva più nessun tipo di confine, una realtà insondabile e insensibile da cui non poteva più fuggire.
   Si sentiva sopraffatto dall’angoscia, disperato; e la cosa peggiore di tutte era che non riusciva nemmeno più a capire perché si stesse disperando in quella maniera, perché tutto era dimenticato e perduto e non era più in grado neppure di riesumare una parvenza di memoria a cui afferrarsi per poter piangere e sfogare così la sua sofferenza infinita.
   Questo era ciò che lo avrebbe atteso se avesse bevuto. Ne era già consapevole, aveva preso la sua decisione la notte precedente, e ora ciò che già aveva saputo tornava di prepotenza a riaffiorargli nella mente, mostrato proprio da quella stessa Fonte che lo attraeva e che, al medesimo tempo, era il peggior incubo a cui si fosse mai avvicinato in tutta la sua esistenza.
   Perché, in fondo, a che cosa sarebbe servita, la vita eterna, se avesse significato esclusivamente l’oblio, la dimenticanza di tutto, la perdita di tutto ciò che era importante? Vivere eternamente giovane e con una mente azzerata… non c’era niente di più tremendo, tra tutti i mali che un essere umano avrebbe potuto immaginare. Allora non era molto meglio morire, andandosene con la speranza di portare con sé i propri ricordi o di poterli almeno lasciare in eredità ad altri, che li avrebbero conservati come tesori preziosi?
   Di nuovo, sentendosi finalmente invadere dal dolce calore dei suoi ricordi vivi e nitidi, dalla tranquillità del suo essere ancora intatto e libero da odiosi vincoli, Indiana Jones rivide tutte le persone che gli erano state care, ossia il passato che viveva dentro di lui: suo padre, sua madre, Marcus Brody, Abner Ravenwood, Harold Oxley, il suo cane Indiana e tanti, tantissimi altri che, per lui, erano stati importanti e gli avevano lasciato un segno indelebile della loro presenza. Poi vide Marion, il suo dolcissimo presente, la sua amata ed eterna ragazza, che lo aspettava a casa, desiderosa di poterlo riabbracciare, magari dopo avergli fatto la solita predica per dirgli che, ormai, era un po’ troppo vecchio per andare a cacciarsi sempre nei guai. E, per finire, vide Mutt, Abner e Katy e tutti i suoi nipotini, che sarebbero stati il suo vero futuro, che avrebbero perpetuato il suo ricordo quando fosse arrivato il momento della sua naturale dipartita.
   Soltanto questo contava, soltanto queste cose potevano essere considerate vere e vive; era la consapevolezza di essere amato e di amare, di avere raccolto ricordi altrui e di poterne lasciare di propri: questa era la vera e unica promessa della vita eterna, non quello strumento del demonio che lo avrebbe indotto all’annientamento più totale.
   Un sogghigno sarcastico gli incurvò le labbra. Scoprì di avere ancora una volta in mano l’ampolla vuota, pronta per essere riempita.
   «Non cederò» disse. «Non ho raggiunto questa età e questa saggezza per farmi ingannare dalle insidiose lusinghe di un potere sconosciuto, come tutti coloro che mi hanno preceduto e che sono morti per questo. Ne ho visti fin troppi finire nel peggiore dei modi, per ripetere a mia volta i loro madornali errori.»
   Esattamente come aveva fatto la notte precedente, sollevò il braccio e scagliò nel vuoto l’ampolla, ricorrendo a tutte le sue forze per fare in maniera che finisse il più lontano possibile.
   La vide compiere un arco nell’aria, prima di esplodere in mille frammenti incandescenti, che caddero nella Fonte come polvere infuocata, emanando bagliori dalle infinite sfumature colorate. Le acque ribollirono quando il vetro sciolto le raggiunse e gli sembrò persino di udire echeggiare un urlo lacerante di dolore, come se la maledizione a cui si era appena sottratto gridasse tutto il suo sconcerto e la sua rabbia per essere stata battuta ancora una volta e non aver potuto irretire una nuova vittima nella sua fittissima rete.
   Indy sogghignò ancora, consapevole di aver riportato una vera vittoria, una tra le più difficili della sua vita, e si girò, ammirando la bellezza del mondo che, lontano dall’inganno e dalle false promesse della Fonte, avrebbe continuato a essere suo fino a quando le forze lo avrebbero sorretto.
   E, si disse, anche dopo di allora, quando il suo ricordo sarebbe passato di bocca in bocca, per sempre.
   Il ricordo di Indiana Jones, il leggendario archeologo con la frusta e il cappello.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Epilogo ***


   Epilogo
 
   Alla fine, dopo aver tanto penato per riuscire a trovarla e a raggiungerla, la Fonte si era rivelata per quello che era davvero: niente altro che un immane inganno, una condanna terribile e irreversibile per chiunque avesse commesso l’imperdonabile errore di farne uso, cercando attraverso la sua magia antichissima di sovvertire all’ordine e all’andare naturale delle cose.
   Adesso, le sagge parole che il vicario Bartolec aveva rivolto a Indy quando gli aveva affidato quella missione assumevano un vero e più alto significato, senza che fosse più possibile provare a metterle in dubbio. Non si potevano considerare miracolose quelle acque, perché soltanto il demonio avrebbe potuto concepire un simile tranello per indurre qualsiasi uomo alla perdizione totale, all’annientamento di se stesso. Il destino che attendeva lo sciagurato che avesse osato bere quel liquido maledetto era il peggiore che si potesse immaginare.
   Tutti e quattro sospirarono per il sollievo quando, riemergendo un’altra volta da quella sorta di ipnosi in cui erano caduti, si resero conto di essere ancora liberi. E, ormai, qualsiasi idea li avesse condotti verso quel luogo era morta. Il pensiero stesso di trovarsi in quel paradiso incantato e perduto era fastidioso e angosciante, e creava nostalgia per il mondo vero che, pur con tutti i suoi problemi e le sue difficoltà, li attendeva fuori da lì, vasto e reale.
   In ciascuno di loro si era acceso il medesimo desiderio. Volevano soltanto andarsene da quel giardino colmo di false lusinghe, lasciandosi alle spalle per sempre quella fonte maledetta che prometteva la vita e che, invece, donava soltanto una lenta e lunga agonia, una morte senza fine che li avrebbe ridotti a essere qualcosa di molto differente da ciò che erano sempre stati.
   Per loro fortuna, erano riusciti a rimanere se stessi, e questo li avrebbe salvati. I loro cuori si erano mantenuti saldi, le loro menti erano rimaste razionali, e così non sarebbero stati le ennesime vittime della schiavitù indotta dal folle sogno della vita eterna, quel sogno che aveva significato la rovina per moltissimi.
   Indy ci rifletté per un istante, tornando con la memoria alla sua gioventù, quando aveva compiuto le sue più grandi imprese.
   Rammentò Donovan ed Elsa, che erano morti con la speranza di diventare immortali grazie al Graal. Gli tornò alla mente il filibustiere Pierre Blanc, che era stato condannato alla lunga agonia della vecchiaia perenne dallo Scrigno dei Venti, prima di potersi liberare da quella dannazione. E ripensò anche a Qin Shi Huang, il primo imperatore della Cina, che aveva aspirato a conquistare l’immortalità grazie al Cuore del Drago che, invece, lo aveva ucciso, esattamente come, millenni dopo, aveva fatto con l’ultima folle che aveva pensato di occupare il suo posto.
   Quelli erano soltanto alcuni tra i tanti in cui si era imbattuto che avevano bramato di accedere a un simile potere. Un potere che, anziché glorificarli come si aspettavano, gli si era ritorto contro, punendoli in maniera differente ma sempre orrenda. Tutti loro erano stati rovinati dalla loro pazzia, dal loro sogno di occupare un posto che non gli spettava nel mondo, eppure questo non era stato sufficiente a impedire che anche lui, trovandosi di fronte a quella possibilità, non rischiasse di lasciarsi conquistare da un simile desiderio.
   Ma lui, per sua fortuna, era Indiana Jones, e aveva già tutto ciò che un uomo potrebbe desiderare dalla vita; altro non gli occorreva e, cercare di ottenere di più, avrebbe soltanto voluto dire perdere ciò che aveva di maggiormente caro e prezioso. Per questo, dunque, era rinsavito dai suoi errori, salvandosi prima che fosse troppo tardi, prima di andare incontro a un destino orribile.
   Il vecchio archeologo spostò lo sguardo su sua figlia e sugli altri due compagni e, nei loro occhi, lesse la sua medesima risoluzione: andarsene quanto prima, senza nessun rimpianto per quel luogo e per tutto quello che avrebbe potuto portare loro.

 
* * *

   Tremando, vergognandosi di se stessa per ciò che aveva avuto in mente di fare, Valerija si infilò la mano nella tasca e ne estrasse la pistola con cui avrebbe voluto impedire a Jones di distruggere la Fonte. Ci aveva pensato a lungo e forse avrebbe davvero avuto il coraggio di farlo, se quella rivelazione non fosse giunta appena in tempo a fermarla e a farla rinsavire. La soppesò con lo sguardo, tenendola nel palmo, mentre gli altri la osservavano con curiosità. Poi, dopo un ultimo istante di incertezza, la gettò nell’acqua, dove affondò, scomparendo in fretta alla vista.
   Sorridendo, Katy le si avvicinò e l’abbracciò da dietro, affondando il viso contro il suo. Quel contatto fu sufficiente per far comparire un sorriso sulle labbra sottili della giovane bibliotecaria, che si voltò verso di lei e, senza smettere di tenerla stretta, le diede un lungo bacio liberatorio. Era quello il solo e unico potere a cui ambissero entrambe, non avevano bisogno di misteriosi artefici che avrebbero soltanto impedito la loro felicità. Ora, finalmente, lo avevano compreso tutte e due, e non c’era più bisogno di parlarne.
   Dopo averle guardate per qualche istante restando in silenzio, Indy e don Mavro si volsero verso i due custodi, che si erano seduti sopra una pietra e sorridevano beati. Sembravano felici, colmi di gioia.
   «Avete visto il futuro» disse il ragazzo.
   «Il futuro che sarebbe potuto essere» gli fece eco la ragazza, enigmatica. «Non quello che sarà. Il futuro cambia di continuo...»
   L’archeologo si grattò il mento ispido, consapevole di non stare capendo niente. Non aveva ancora idea di che cosa fosse davvero quel luogo, né chi fossero quei due che aveva davanti. Non riusciva neppure a spiegarsi per davvero la natura delle immagini che avevano visto: si era tratto di semplici allucinazioni, o era stato qualcosa di differente, di più vero?
   Sapeva anche, però, che fare nuove domande non sarebbe servito a nulla, perché non avrebbe ottenuto alcuna risposta. Quei quesiti lo avrebbero accompagnato per il resto dei suoi giorni e, forse, sarebbe stato meglio così: certe verità è molto meglio non rivelarle. A volte è molto meglio portarsi dietro degli interrogativi, piuttosto che possedere delle certezze.
   Una cosa l’aveva compresa, comunque. La vita è qualcosa di straordinario, e bisogna viverla appieno, senza sprecarla dietro a futili modi per allungarla inutilmente. La vita deve essere larga e piena, non lunga e vuota. Ora se ne rendeva conto più che mai. Era un’illuminazione che aveva trovato al termine di questo viaggio, proprio come, tanti anni prima, in conclusione di un’avventura molto più grande e straordinaria di questa che aveva appena vissuto, anche suo padre ne aveva trovata una.
   Erano considerazioni, però, che voleva tenere per sé, senza esprimerle ad alta voce.
   «Sono stato inviato qui per distruggere la Fonte dell’Eterna Giovinezza» rivelò invece, parlando in tono lugubre.
   I due giovani, che si erano abbracciati come due innamorati, annuirono all’unisono.
   «Lo sappiamo» risposero in coro.
   Indy non provò neppure a domandare come facessero a saperlo. Sarebbe stato tempo perso.
   «Ma non possiamo farlo!» esclamò don Mavro, riscuotendosi tutto a un tratto dal torpore in cui sembrava essere caduto. «Non possiamo veramente distruggere la Fonte!»
   Tutti gli sguardi si focalizzarono su di lui, leggermente sorpresi. Possibile che, dopo ciò a cui avevano assistito nelle loro visioni, il sacerdote fosse ancora ammaliato da quelle acque colme di inganni e di false speranze? Proprio lui, poi, che fin dall’inizio di quell’avventura era sembrato del tutto disinteressato ai benefici che la Fonte avrebbe potuto apportare?
   Tuttavia, la sorpresa di tutti lasciò immediatamente spazio al sollievo quando il prete, indicando i due ragazzi seduti sopra la pietra, esclamò: «Se la distruggessimo, che cosa ne sarebbe di loro? Non mi sembra giusto privarli di quella che, a quel che vedo, è la loro unica fonte di sostentamento. Sarà sbagliata e tutto il resto, ma non possiamo arrogarci il diritto di far morire due innocenti, per quanto a lungo possano già aver vissuto…»
   Prima che Indy avesse potuto ribattere qualcosa, fu il giovane custode a rispondere.
   «Potreste provare in ogni maniera a distruggere questo luogo e noi, e non ci riuscireste» disse, in tono allo stesso tempo rassicurante e inquietante. «Qui non siamo nel mondo che conoscete, qui non valgono le regole che sostengono il vostro universo. Questo giardino è il mondo al di là, il terreno del sogno, lo spazio dell’idea oltre lo spazio della fisicità. Qui siamo oltre, un oltre a cui voi vi siete affacciati, pur non facendone parte, perché avete scoperto uno dei passaggi che collegano i due mondi. Non potreste fare comunque nulla, neppure volendolo. Ma sono certo che il professor Jones non ha questa intenzione.»
   L’archeologo era trasalito nel sentire pronunciare il suo nome. Anche Katy e Valerija, che dopo essersi baciate erano rimaste vicine, cingendosi per la vita, ebbero un moto di stupore. Tuttavia, non era nemmeno il caso di domandarsi come ciò fosse possibile: era così e basta.
   «Non voglio più distruggere la Fonte» ammise il vecchio avventuriero, con voce bassa e profonda. «Non credo che sarebbe giusto ed è una responsabilità che non voglio assumermi. Io penso che… forse… questo luogo sia qui da sempre. Da prima di…»
   Non seppe come concludere la frase, ma non ne ebbe nemmeno bisogno, perché i due custodi annuirono in segno di assenso, come se lui avesse fatto un discorso molto più lungo e dettagliato, che condividevano appieno, punto per punto.
   «Però» soggiunse, schiarendosi la gola, «non credo che farei danno a voi o a chiunque altro se riempissi di esplosivo il tunnel che conduce qui e lo cancellassi, dico bene?»
   Entrambi annuirono, alzandosi. Fecero cenno ai loro visitatori di farsi più vicini.
   Poi, mentre la giovane sorrideva radiosa, il ragazzo intinse le dita nell’acqua e tracciò un piccolo segno sulla fronte di ciascuno di loro, che subito si sentirono rinvigorire come se avessero bevuto il migliore dei tonici.
   «La Fonte è un dono» disse il custode, mentre tracciava quei segni, «ma è un dono a cui l’umanità non è mai stata pronta… e io credo che mai lo sarà. Forse, se mai verrà raggiunto uno stadio superiore da parte dei discendenti degli uomini, essa potrà essere adoperata… ma, fino a quel momento, dovrà rimanere celata agli occhi del mondo. Essa deve essere utilizzata con parsimonia e con intelligenza, non con cieca e meschina avidità. Già alcuni uomini, in passato, giunsero a questo luogo e, folli di bramosia, presero l’acqua e la bevvero. Ma per loro fu una lunghissima dannazione, una tormentosa condanna che li accompagnò fino a quando, infine, giunse la tanto attesa morte a liberarli dalla loro lunghissima pena. Questo segno che vi sto tracciando sulla fronte con l’acqua della Fonte non vi restituirà gli anni della vostra giovinezza, come accadrebbe se anche voi sfidaste in modo innaturale l’ordine del mondo, bensì vi darà il vigore necessario per ridiscendere l’aspro monte e tornare alle vostre case. Ma, fatto questo, dovrete cavarvela da soli, come sempre avete fatto e come sempre farete, voi e tutti gli altri esseri viventi, secondo le vostre forze e le vostre capacità, nel modo che la natura ha stabilito.»
   Come ebbe terminato di toccare ciascuno di loro, il custode si ricongiunse alla sua compagna, abbracciandola stretta, come se fossero un tutt’uno.
   «Andate, adesso, senza una parola» comandò, in un tono che non ammetteva ulteriori repliche. «Questo luogo non è per voi. Lasciateci nella nostra solitudine, nell’attesa che si compia un fato che neppure noi possiamo conoscere.»
   Indy, Katy, Valerija e don Mavro si scambiarono degli sguardi veloci, tornando più volte a contemplare i due custodi che, da vecchi com’erano quando li avevano accolti, erano tornati due adolescenti, poco più che bambini.
   Le domande si accavallavano alle domande, ma non ne posero nemmeno una. Era tempo di andarsene, di tornare alla vita, alla vita vera, reale, non alla finzione legata a quel luogo, a quel giardino paradisiaco e a quelle acque dalle proprietà misteriose.
   Così, voltate le spalle alla Fonte dell’Eterna Giovinezza, che ormai non li riguardava più, tornarono sui loro passi, in silenzio.

 
* * *

   Come suo solito, Indiana Jones si rivelò essere un distruttore di prima categoria. Innescata la miccia, corse goffamente a ripararsi nel punto in cui aveva indirizzato Katy e gli altri due, gettandosi al riparo del grosso pietrone un istante prima che le sue bombe deflagrassero.
   Il rombo fu assordante, quel poco che restava di intatto dell’eremitaggio andò definitivamente distrutto e i calcinacci furono scagliati con la forza di proiettili in tutte le direzioni. Per qualche istante temettero che le vibrazioni, che si ripercossero lungo tutto il fianco della montagna con una serie di echi che parvero non avere mai termine, avrebbero provocato una valanga di neve che avrebbe potuto travolgerli, ma per loro fortuna, a parte qualche lieve smottamento tutto attorno, non accadde niente di grave.
   Quando il fumo nero e la polvere si furono diradati, infine, videro che dell’antico convento costruito dai monaci ortodossi non rimaneva più alcuna traccia, come se non fosse mai nemmeno esistito. Soltanto il mandorlo con i suoi fiori bianchi era sopravvissuto, senza essere nemmeno minimamente scalfito nella corteccia.
   «È finita, quindi» disse don Mavro, alzandosi in piedi e distogliendo lo sguardo dall’albero per abbassarlo sui suoi amici.
   Indy lo imitò, annuendo piano. Lui continuò a osservare il mandorlo per alcuni secondi, prima di voltarsi a sua volta.
   «Sì», confermò. «Questa volta è finita. È finita davvero.»
   C’era una traccia di amarezza, nella sua voce. Probabilmente si stava rendendo conto che, con la fine di quell’ultima avventura, stava giungendo al termine anche una parte rilevante della sua esistenza. Aveva compiuto una scelta, e questa scelta, per quanto non gli pesasse affatto, e anzi lo stesse facendo sentire più vivo e libero che mai, comportava un fatto ineluttabile: l’età avrebbe continuato ad avanzare e difficilmente, per il vecchio archeologo, sarebbe arrivata l’occasione per nuove imprese.
   Katy, avvertendo quelle leggera tristezza, si staccò dal fianco di Valerija, a cui era rimasta vicina fino a quel momento, e lo abbracciò stretto.
   «Per questa volta è finita, Old J, solo per questa volta» lo corresse, lasciandolo andare. «Ma ci saranno mille altre occasioni.»
   Indy annuì e le rivolse uno dei suoi soliti sorrisi, sghembo ma sincero e colmo di dolce affetto.
   Lasciò vagare lo sguardo sulla montagna innevata, che cominciava a tingersi di rosso a mano a mano che il sole si avviava verso un altro tramonto. Non poteva sapere quanti tramonti ancora lo avrebbero atteso, se tanti o pochi. Forse, però, non ci sarebbe stato bisogno di temere il tramonto, se lo avesse ammirato con la consapevolezza che, di lì a poche ore soltanto, sarebbe sorta una nuova alba.
   E l’attesa dell’alba, in fondo, è il modo migliore per confrontarsi con il tramonto. Perché per ogni giorno che volge al termine, ce n’è sempre uno nuovo che comincia. Al buio fa sempre seguito la luce, se non si decide di rinunciarvi.
   Strinse la mano della figlia, ritrovandovi tutto ciò per cui valeva la pena di rimanere ancora lì, in quel mondo che cambiava a velocità pazzesca. Ma anche i cambiamenti fanno parte del cammino della vita, e se li si affronta con la giusta dose di curiosità e ironia, li si può accettare tutti, uno dopo l’altro, senza doverli temere.
   Ora voleva soltanto tornare a casa, da Marion, per stare insieme a lei, ai suoi figli, ai suoi nipotini, a tutti i suoi affetti.
   Guardò i suoi compagni d’avventura, quindi indicò il crinale. Li attendeva l’ennesima scarpinata.
   «Andiamo» disse Indiana Jones.
   Sistemò meglio sulla testa il suo eterno cappello e si accertò di avere ancora la frusta legata al fianco.
   «Si ricomincia.»


(scritta: dicembre 2020 - febbraio 2021)
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3996466