Sinonimi di vuoto

di time_wings
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Negazione ***
Capitolo 2: *** Rabbia ***
Capitolo 3: *** Contrattazione ***
Capitolo 4: *** Depressione ***
Capitolo 5: *** Accettazione ***



Capitolo 1
*** Negazione ***


Nota iniziale: La storia che state per leggere oscilla tra accenni alla depressione e stupidità cosmica nell'arco di un rigo. Ci sono accenni anche all'uso eccessivo di alcol, ma non sfociano mai nell'alcolismo. Inoltre, è ambientata durante i mesi più critici dell'emergenza da Coronavirus. Anche se nessuno dei personaggi entra direttamente in contatto col Covid-19, questo (o meglio la situazione) fa da sfondo alla storia (quindi ci sono mascherine, gente che non si tocca, città vuote e solitudine). L'ultima cosa noiosa che mi preme dire è che IN NESSUN MODO (giuro nessuno) questa storia tenta di insultare, offendere, negare e andare contro altre ship. Le uniche volte in cui si fa accenno a qualcosa di simile, le parole e i concetti espressi si riferiscono al contesto di questa AU e al modo in cui si muovono i personaggi in questo caso, NON a una presunta evidenza canonica di mancanza di chimica o incompatibilità. Lo so che adesso sembra un discorso confuso e strano, ma più avanti servirà. Grazie a tutti per aver dato una possibilità a questo buco nero di follia, spero riesca a intrattenervi <3


 

SINONIMI DI VUOTO

 

affrontare l'amore in cinque fasi 





 

Fase 1 - negazione



Questo è l’ufficio del quartiere di Chuo. Siete pregati di rimanere in casa e astenervi dall’uscire.

Quello era il regno di nessuno.
Una specie di apocalisse che si svegliava, una calamità che, ogni giorno alla stessa ora, come se qualcuno le avesse dato appuntamento, si presentava intransigente e leale.
Mille grazie, eh.
Ogni mattina e ogni pomeriggio, gli altoparlanti strillavano a tutto il suo quartiere che il Giappone era in stato d’emergenza, per via della pandemia, e Atsumu ascoltava la voce grigia e puntuale rimbalzare tra i palazzi, chiedendosi unicamente perché cazzo parlasse in inglese. L’eco degli altoparlanti vicini dava l’idea che il mondo fosse rimasto sospeso su un fil di ferro e fosse semplicemente destinato a cadere, l’unica curiosità restava capire su quale lato.
Atsumu sospirò e si lasciò scappare una bestemmia sottile e innocente, guardando i cocci della sua tazza sparsi sul pavimento della cucina, dell’idea di cucina, del buco nel muro in cui avevano fatto entrare un frigorifero e un fornello, quel tipo di cucina.
Ora ne prendo uno, soppesò Atsumu, inclinando il viso su un lato mentre valutava il profilo tagliente di uno dei pezzi di ceramica. Ora ne prendo uno e me lo ficco in un occhio. Fallo. Fallo, avanti, stronzo, che stai aspettando?
Raccolse i cocci della tazza, anche quel bastardo finito sotto i piedini del fornello, poi li gettò nella spazzatura. Aprì il piccolo mobile a muro, pescò un’altra tazza dalla mensola e se la riempì di caffè. Ci mise un po’ di latte, perché tanto viveva da solo e sapeva che nessuno poteva vederlo e dargli dello sfigato, poi attraversò il corridoio e abbandonò la sua unica tazza sullo spigolo del suo unico tavolo: una scrivania.
Con un sospiro, si lasciò cadere sull’unica sedia lì accanto.
Le veneziane erano ancora abbassate, ma, se non lo potevano essere le persone, a quell’ora il mondo era già frenetico e seguiva l’arco del sole. Un arco che a quel punto aveva allineato le sue frecce perchè si infilassero nelle strisce vuote delle veneziane.
Uno di quei raggi gli colpì una guancia e il suo calore si espanse pigro sulla pelle attorno. Atsumu accartocciò il viso come se l’avesse colpito nell’occhio.
Se quello significava essere baciato dal sole allora non lo voleva. Non faceva per lui. No, grazie. Niente baci, niente carezze, ho un po’ di tosse, hai capito che guaio che diventa, se è covid? Si sarebbe comportato a riguardo esattamente come aveva fatto con le amiche di sua nonna durante l’infanzia: scappando dai loro pizzicotti sotto il mento e sgusciando via dalle carezze violente che sembravano volergli strappare i capelli.
Voltò la testa pigramente verso l’altro lato della casa e lanciò un’occhiata di sfida al frigorifero, in fondo al corridoio. Il frigorifero ricambiò indifferente. Atsumu aggrottò le sopracciglia e lo osservò più intensamente, come a costringerlo a ribattere.
Il frigorifero era un tipo banale. Banale era un modo stravagante per dire che era vuoto. Il frigorifero era vuoto. Forse c’era una carota, dell’insalata annerita e un pomodoro. Forse c’era anche una confezione da sei di birre. Forse, tra una mezz’ora, se si fosse alzato per accertarsene avrebbe potuto premiarsi stappandone una.
Si alzò e, invece di derubare il frigorifero che piangeva, si lasciò cadere sul letto, sulla parete di fronte.
Erano le otto del mattino, comunque.
Alle otto del mattino aveva sempre luogo questo rituale. Atsumu si svegliava qualche minuto prima degli altoparlanti, perché il suo ciclo del sonno si era abituato a quella trapanata mattutina.
Lo sapeva, che non poteva uscire. Gli era molto chiaro, veramente. Gli era così chiaro che anche se la voce diceva che era invitato a non uscire, sapeva che in realtà non doveva farlo. Visto? Anche perspicace, un ragazzo dall
onnicomprensiva gamma di talenti.
Un paio di questioni che potrebbero esservi sfuggite.
Gli era rimasta una sola tazza perché le metteva tutte sull’orlo della scrivania. La scienza si sta ancora chiedendo per qualche motivo. Inoltre, contemplava l’idea di bere una birra entro le nove del mattino perché stava perdendo la testa.
Ora, Atsumu non era un alcolizzato. Aveva bevuto solo quattro giorni prima, tre giorni prima, due giorni prima, il giorno prima e intendeva farlo anche quel giorno. Non aveva abbastanza cronologia ed esperienza per essere un alcolizzato, ma forse era sulla buona strada.
Tornò a guardare la scrivania. La striscia di luce che prima gli aveva colpito una guancia si era spostata impercettibilmente. Era una consapevolezza sottile, vicina a un’idea, fatta della stessa consistenza dei segreti, eppure non ne prendeva il nome perché era insignificante. Però Atsumu sapeva che, se si fosse seduto e si fosse messo nella stessa posizione in cui si trovava prima, la luce l’avrebbe invece accecato, forse soltanto perché ne aveva rifiutato il bacio.
Quindi desistette dal passare altre trentadue ore a transitare dal letto alla scrivania e si ingegnò per trovare un modo di rendere anche quel giorno memorabile.
La verità era che esistevano due Atsumu Miya, su quella terra. Quello che usciva di casa ed era avvenente, sicuro, affilato come un coltello che si comprava unicamente per estetica. Quello beffardo, fortunato e generalmente migliore di te, dove ‘te’ rappresentava l’intera popolazione mondiale. L’altro era quello che diventava quando era a casa ed era solo. Quell’anima effervescente veniva lasciata sulla soglia della porta come un ombrello bagnato.
Spuma di mare.
Respirò quel vuoto e la voglia che gli faceva venire di mettersi a urlare.
In quella casa non abitava alcun rumore. Se il silenzio squillava, a volte fischiava, quella era assenza di suono. Come quella che si propagava prima dello scoppio di una bomba, quella che si imponeva quando qualcuno metteva il mondo in pausa, quella che si sperimentava quando si usciva di colpo dal martellare dei bassi di una discoteca.
Mentre Atsumu pensava alla sua miseria (bello, eh?) e alla maniera evidentemente inefficace con cui superava il dolore, scivolò nuovamente nel sonno.
 

Un suono ripetuto e irritante, blu scuro, si diffuse nella stanza. Sembrava permearla, farsi assorbire dalle pareti. In realtà era solo che Atsumu viveva in un buco.
Grugnì esausto e localizzò la fonte del disturbo, ovvero il cellulare sulla pila di libri che faceva da comodino. Lasciò cadere una mano alla sua destra e, con gli occhi ancora chiusi, si sdraiò supino, portando il cellulare all’orecchio.
“‘Samu” disse, senza leggere il nome sullo schermo. Lo chiamò come se avesse risposto a una domanda. Chi rende la tua vita un inferno? ‘Samu. Chi ha fatto venire la pandemia? ‘Samu.
“‘Tsumu” rispose lui, con lo stesso tono avvilito, meno le tracce di sonno.
Questa era la maniera abitudinaria e non per questo piacevole con cui iniziavano tutte le loro telefonate. Quando Osamu si rese conto che Atsumu non avrebbe fatto niente per venirgli incontro, si decise a riprendere la parola.
“È mezzogiorno e cinque.”
Atsumu si lasciò scappare un sospiro. Sorpreso? Costernato? Pentito? No, uno annoiato, come se Osamu fosse stato il mostro dei suoi sogni. Allontanò il cellulare dall’orecchio e schiuse un occhio contro la luce accecante dello schermo, mettendo a fuoco. “È mezzogiorno e tre, veramente.”
“Tra due minuti sarà mezzogiorno e cinque e tu sarai in ritardo di venti minuti.”
“Fortuna che sono solo diciotto.” Atsumu sorrise. Non era un sorriso, era una smorfia. Atsumu fece una smorfia.
“‘Tsumu” il tono piatto crepò di nuovo la voce di Osamu, si infilò tra le pieghe e scorticò la tranquillità che aveva messo su. Aveva un suono che variava dal beige all’azzurro pastello e Atsumu aveva imparato a detestarlo e insieme trovarci rifugio e pace.
“‘Samu.”
“Sono tuo fratello, ma sono anche il tuo capo. Il tuo turno iniziava venti minuti fa.”
C’erano due cose che ad Atsumu non piacevano nella voce di suo fratello.
La prima era la maturità, quella specie di saccenza mista a superiorità che quelli di due anni più grandi credevano di potersi permettere da bambini. Quando aveva dieci anni, Atsumu aveva minacciato di picchiare il marmocchio che gli aveva imposto di portargli rispetto, ma Osamu l’aveva trascinato via con un colpetto gentile del gomito e l’aveva portato a sedersi al tavolo in fondo alla mensa. Osamu continuava a guardarsi attorno, seccato e insieme teso. Atsumu aveva ignorato gli sguardi ostili dei compagni, che avevano deciso immediatamente che era antipatico.
“Ti odiano” gli aveva fatto notare suo fratello, sollevando un sopracciglio e guardandolo come se un po’ l’avesse odiato anche lui, ma non avesse potuto concedersi il lusso di farlo del tutto.
“Non m’importa” aveva risposto Atsumu, scrollando le spalle e cacciandosi un cucchiaio di riso in bocca.
Se Atsumu non sopportava quell’atteggiamento in un compagno di classe più grande, di certo non l’avrebbe accettato in suo fratello. Suo fratello gemello, di qualche attimo più piccolo.
La seconda cosa che ad Atsumu non piaceva del tono di Osamu era che avesse ragione.
“Oggi sono malato” rispose semplicemente, tirando un filo dal suo copriletto e guardandolo spezzarsi a metà strada.
“Ieri ti sei ubriacato.”
“Vero, ma che c’entra col fatto che oggi sono malato? Mi sento malissimo, ‘Samu. E se lo mischio a qualcuno? E se fosse...”
Un sospiro viaggiò dal ristorante di Osamu e raggiunse l’orecchio di Atsumu. “Hai cinque minuti per venire qui” concesse infine, il tono misericordioso non fece saltare i nervi ad Atsumu, li fece direttamente roteare.
“Se poi ti chiudono il ristorante è un problema tuo.”
Per la cronaca, Atsumu non era malato, era solo un portento a mentire a tutti quelli che non si chiamavano ‘Samu.
“I tuoi cinque minuti stanno già diventando quattro. Se sfori prendo una mancia per ogni minuto di ritardo.”
Atsumu si alzò di malavoglia e iniziò a cercare un paio di pantaloni nell
incubo di vestiti abbandonato in un angolo della stanza. “Non puoi farlo! Non è professionale.”
“Non venirmi a parlare di professionalità.”
“Senza di me saresti perso” gli fece notare Atsumu, incastrando il telefono tra la spalla e l’orecchio, mentre si vestiva.
“E tu dormiresti per strada.”
“Va’ a farti fottere.” Atsumu si sfilò il cellulare dall’orecchio e riagganciò in tempo per sentire suo fratello ribattere: “Credimi, di questi tempi non vedo l’ora.”
Poi fu di nuovo solo.
Il silenzio riprese a fare quei suoi giri vorticanti, come spire di serpente. Si avvolse, sempre più stretto, con l’intento di soffocarlo.
Scivolò con i piedi nelle scarpe, afferrò le chiavi dal gancio alla parete ed ebbe l’impressione che non tintinnassero. Poi abbassò la maniglia della porta e si preparò all’apocalisse.
 
 
Due furgoncini campeggiavano come carrozze sulla strada. Questa era la triste e sfrenata realtà del quartiere studentesco. Gente che veniva, gente che se ne andava. Gente che partiva, ma solo per un anno di studio in America. Gente che sbatteva il portone e non tornava più. Gente che strillava ‘basta! Abbiamo chiuso!’ e la notte successiva gemeva come indemoniata dall’altro lato del muro di Atsumu. Gente. Un via vai di persone che uno crederebbe placarsi, con l’avvento di una pandemia, e che al contrario approfittavano della fase transitoria delle prime fasi dello stato d’emergenza per scappare dagli appartamenti universitari e studiare da remoto nelle loro case d’infanzia, sparse per il Giappone, per tagliare così i costi dell’affitto.
Atsumu aveva pensato di tornare nel Kansai e salutare Tokyo per un po’, ma non l’aveva fatto. Tornare indietro significava chiudersi in schemi inconciliabili con il suo nuovo modo di vivere. Significava vagare come un fantasma tra mura che non lo conoscevano più. Significava rischiare e significava anche stare a cinquecento chilometri da Osamu, ma questo non ditelo a nessuno.
Atsumu pensava a questo e altri grattacapi, osservando distrattamente i traslocatori caricare e scaricare cartoni, quando all’improvviso qualcosa gli colpì un fianco.
“Scusa!” trillò una voce e uno schizzo d’azzurro macchiò il suo campo visivo.
Qualcosa era una persona. Una ragazza, per la precisione. Una ragazza con un nido di rondini in testa.
“Scusami, scusami!” continuò lei, davanti alla confusione sorpresa di Atsumu, inchinandosi profusamente come se, invece che scontrarsi con di lui, gli avesse sottratto le sei birre nel frigorifero. A quel punto fece un salto di due metri indietro (impressionante, se aveste chiesto l’opinione di Atsumu) per mettere tra loro la distanza che avevano perso scontrandosi.
Atsumu le regalò uno dei suoi sorrisi più seducenti, dimenticando di avere la mascherina. Abitudine. “Tranquilla” le disse, stringendosi nelle spalle. Il tono tradiva un retrogusto di beffa. La ragazza lo captò e spostò nervosamente il peso da un piede all’altro. C’era chi si rilassava giocando ai videogiochi, chi si sparava ventisette episodi di una serie TV scadente in una sera, Atsumu Miya si rilassava mettendo a disagio le persone. Non troppo, solo un po’, quel tanto che bastava per rimanere impresso.
La ragazza riguadagnò il suo spirito spumeggiante, sebbene un po’ sfiatato sui bordi. “Vivi qui?” domandò poi, indicando con un pollice l’edificio da cui Atsumu era appena uscito.
Lui si passò una mano tra i capelli e annuì.
“Oh, anch’io!” Sorrise. Si guardarono. Era un modo strano di condurre una conversazione. La ragazza riconobbe che era passato troppo tempo tra la sua ultima frase e quel silenzio. Arrossì furiosamente e mormorò qualcosa, prima di continuare: “Sono appena arrivata qui. Yachi Hitoka” si presentò e si inchinò profondamente.
Atsumu si sarebbe presentato a sua volta se lei non avesse ripreso a parlare in una cascata di nervosismo.
“Lui è il mio amico Shouyou!” continuò, indicando un mandarino intento a parlare con uno degli autisti di un furgone. Parlare era una parola grossa. Aveva entrambe le braccia in aria, come una stella marina, una hostess di volo o un misto di entrambe. A quanto pareva era un modo di comunicare primitivo ma efficientissimo, perché l’autista annuì e si infilò nuovamente nell’abitacolo. Atsumu tornò a prestare attenzione a Yachi mentre continuava una frase diversa da quella che lui aveva sentito per ultima: “... io e lui siamo amici da anni e adesso i nostri appartamenti saranno vicini! Sono al 508 e Shouyou è accanto a me, al 507, so che non puoi venire a trovarci, ma mi farebbe piacere fare amicizia con i vicini, perché ho in programma di restare qui al di là della situazione che stiamo vivendo adesso. Mi rendo conto che è impossibile farsi amici tutti e che, con tutti questi piani, potremmo non essere neanche vicini nel senso proprio del termine! Ma sai...”
Atsumu annuì in quella maniera distratta che generalmente precedeva un congedo. Yachi non aveva voglia di parlare, aveva voglia di stemperare l’imbarazzo sommergendolo di parole, quindi Atsumu decise di risparmiare a entrambi il proseguimento di quella conversazione.
“Ci si vede in giro, allora” la salutò, strizzandole l’occhio. Anche senza occhiolino, in verità, il tono aveva la sfumatura di un’allusione. Atsumu non stava suggerendo proprio niente, a dire la verità.
Era più un istinto.
Era più quella spuma di mare.
Abbandonò Yachi proprio nel momento in cui Shouyou la raggiunse.
Intanto, Atsumu si avviò al parcheggio e constatò che aveva bruciato i suoi cinque minuti.
Be’, pazienza.

 
***
 
“Ci siamo!” gridò Shouyou, non appena ebbe raggiunto Yachi. Una chiave argentata luccicava nel suo pugno stretto come attorno a un premio.
“Entriamo?” domandò lei, anticipazione e stanchezza si agitavano nella sua voce in egual misura.
Hinata fece strada all’interno dell’edificio. “Chi era quello?” domandò con curiosità. Le sopracciglia chiare erano aggrottate come se l’identità del ragazzo con cui aveva parlato Yachi fosse stata una fonte infinita di confusione. La verità non era che era confuso. Carino, aveva pensato invece Shouyou, avvicinandosi affaccendato. Super carino.
“Il vicino” rispose lei, andando verso l’ascensore.
Hinata sgranò gli occhi come se un pugno d’aria gli avesse appena colpito lo stomaco. “Il vicino di appartamento?”
“Ehm” Yachi si lasciò scappare una risata imbarazzata. “Veramente non gli ho dato il tempo di dirmi dove abitasse. Consideralo un vicino di… residenza generica?”
Shouyou esitò con lo sguardo davanti a sé, come se le parole di Yachi avessero avuto una possibilità di avere senso e lui avesse iniziato a cercarla. Infine annuì convinto: l’aveva trovata, Miracolosamente, per giunta, perché non esisteva. “Come si chiama?” domandò a quel punto, gli occhi ridotti a una fessura.
“Ehm,” ripetè Yachi, grattandosi la nuca. “Non mi ha detto neanche questo.”
Hinata annuì come se fosse stato perfettamente normale, per le conversazioni, andare così fuori rotta.
L’ascensore segnalò ai ragazzi la sua presenza con un ding e i due si infilarono all’interno.
Il fatto che Shouyou passasse metà della sua vita a seguire schemi mentali personalissimi e l’altra metà a tentare di sintonizzarsi a quelli degli altri, non significava che fosse stupido. Neanche un po’. Significava solo che nessuno lo capiva. Non aveva fatto tutte quelle domande a Yachi per presentarsi con un sorriso smagliante e dei biscotti fatti in casa alla porta del misterioso vicino e chiedergli senza alcun garbo o pelo sulla lingua quale fosse il suo orientamento sessuale. Avrebbe risparmiato a tutti parecchio tempo e non tamponi, se avesse agito così, ma non era quello il piano. No, lui l’aveva fatto perché voleva starne alla larga. Covid a parte, il vicino era super carino, va bene, ma era uno schiacciatore laterale.
Hinata aveva smesso di giocare a pallavolo al liceo, ma non aveva mai smesso di classificare le persone in base ai ruoli che, secondo lui, avrebbero ricoperto in campo. La gente passava la vita a incasellare gli altri: simpatico, permaloso, vanesio. Lui la passava a fare la stessa identica cosa, ma in termini di alzatore, libero e opposto.
Uno schema personalissimo, per l’appunto.
Il vicino misterioso, qualunque fosse il suo nome, era uno schiacciatore laterale e uno schiacciatore laterale, in quel momento, era fuori discussione.
L’ascensore si arrestò al quinto piano con un altro ding, che però sembrava più un deeng. Yachi mise un piede oltre la soglia e si voltò a guardare Hinata, ancora fermo contro il muro dell’ascensore. “Andiamo?”
“In che senso?”
“È il nostro piano” disse lei, un sopracciglio sollevato in segno di confusione.
“Questo non è il quinto?”
Yachi annuì energicamente.
“Io sono due piani più su.”
La ragazza boccheggiò per un paio secondi di completo smarrimento. “Non è il 507?”
Hinata spalancò la bocca e volse lo sguardo al cielo come se non solo l’avessero costretto a contare troppe pecore, ma stesse trovando il compito anche estremamente difficile. “No!” gridò infine, che era un modo facile, veloce e indolore per farsi cacciare subito dal condominio, “è il 705!” che era anche il numero di pecore che il nostro ideale pastore di prima l’aveva messo a contare.
“Oh!”
Questo equivoco, gentili lettori, è il motivo per cui oggi raccontiamo questa storia.
 
***

Esattamente dieci minuti più tardi, Osamu osservava suo fratello entrare nel ristorante, forzatamente trafelato. Pensò che, con tutti i problemi che aveva il paese, se l’avesse ucciso nessuno avrebbe fatto troppe storie.
“Quindici. Dieci mance.”
“Te le puoi ficcare su per il culo.”
Osamu fece ondeggiare le sopracciglia, come a dire che, in assenza di alternative, si sarebbe accontentato delle mance. Atsumu soffiò via una risata e due sorrisi uguali si specchiarono sornioni l’uno nell’altro.
“Due onigiri classici e tre al tonno a Kobikicho” disse poi Osamu, lapidario, tornando serio e mettendogli una borsa termica davanti alla faccia.
Atsumu la afferrò per il manico con un sospiro e si diresse all’uscita, munito di guanti, mascherina e un tumulo di parolacce.
Osamu lo osservò salire in moto e lo seguì con lo sguardo prima che sparisse in un vicolo, poi si diresse in cucina per preparare l’ordine della consegna successiva.
Negli ultimi tempi, Osamu se la stava passando discretamente. Il ristorante era chiuso al pubblico, ma disponibile per le consegne, il che rappresentava una salvezza per tutti quelli che erano stati costretti a lavorare da casa e non avevano tempo, capacità o un misto di entrambi per prepararsi un pranzo o una cena da soli. La cosa, ovviamente, rappresentava una salvezza anche per Osamu, che aveva sentito notizie terribili sui ristoranti di ramen che non facevano cibo da asporto. Non potendo entrare in contatto con il ragazzo che, in tempi diversi, avrebbe fatto il cameriere, Osamu aveva assunto Atsumu per fare le consegne. Non vivevano insieme, ma sulla carta era un’organizzazione più pulita.
Era stata una conversazione turbolenta e complicata, che era partita con Osamu che scrollava le spalle e informava suo fratello del suo nuovo lavoro e Atsumu che gli diceva che non aveva bisogno della sua pietà per avere successo ed essere felice.
Poiché l’affitto non si pagava da solo e ad Atsumu piacevano i tetti sulle teste, Osamu aveva vinto.
Ora, se Atsumu era il gemello stupido, Osamu pure era il gemello stupido – nessuno aveva mai parlato di primati – ma sapeva osservare e credeva fermamente che Atsumu avesse bisogno di quel lavoro per non affondare. Non nei debiti, ma in qualcosa di ancora più insidioso.
Non ne avevano mai parlato, perché Osamu diceva che non gli importava un fico secco e marcio di quello che faceva suo fratello e Atsumu diceva che se la vita era un gioco, lui lo stava vincendo.
Famosi entrambi per essere bugiardi patentati, ovviamente a Osamu importava l’intera coltivazione di fichi, Atsumu il gioco lo stava perdendo stracciato venticinque a zero.

 
***
 
Mentre il mondo si chiudeva in casa, la primavera muoveva i primi timidi passi verso l’esterno. L’ultima consegna del giorno era in una stradina solitamente trafficata, costeggiata da alberi che, al contrario della gente, iniziavano lentamente a ripopolarsi di foglie e colori.
Atsumu frenò all’improvviso, fissò lo sguardo da qualche parte tra i rami degli alberi e l’accenno di via vai nella strada alle loro spalle. Si contorse come un serpente per raggiungere il portaoggetti e frugò all’interno, cavandone una bottiglia d’acqua e una borsa dalla forma irregolare. Poi accostò sul ciglio della strada, scese dal motorino e si avvicinò a uno degli alberi, mettendo mano alla borsa.
Gli sembrava di fare un baccano allucinante, di far cadere un bicchiere d’acqua sporca di pennelli sciacquati su una tela immacolata. Non era tanto il silenzio, a far rumore, Tokyo non faceva mai silenzio. Era più che l’impressione della solitudine attenuava i rumori come una spugna, ne diminuiva l’eco squillante, e quindi anche un respiro diventava un boato.
A quel punto, come a ogni persona sana di mente verrebbe naturale fare, Atsumu rovesciò l’acqua rimanente nella bottiglia sulle foglie neonate dell’albero. Scosse il ramo a cui si arrampicavano disperate e valutò con uno sguardo le gocce tonde e resistenti sopravvissute a quello shock. Specchi rovesciati. Annuì sbrigativo, avvicinò l’obiettivo a un passo dalla foglia più spiraleggiante e mise a fuoco. La macchina ronzò per accomodarsi ai suoi desideri, poi catturò uno squarcio di città grigia e vuota otturata dal piangere di una foglia. Atsumu osservò l’immagine in anteprima: gli impegni delle rare persone che scappavano dai loro stessi mostri, l’accartocciarsi della foglia, gli edifici immensi sullo sfondo. Il via vai ridotto aveva l
aspetto di un’abitudine distorta con tale sottigliezza da apparire potenziata nei suoi aspetti più insoliti. Gli stava dicendo che era solo.
Forse mancava colore, che poi era lo stesso che dire che mancava rumore. Forse Atsumu avrebbe dovuto scattare di nuovo quella foto in un altro momento, in una stagione più florida, sul dettaglio di un fiore di ciliegio. Forse avrebbe solo dovuto aspettare che qualcuno vestito in maniera stravagante e colorata si mettesse sullo sfondo e facesse suonare la città.
Lanciò un’occhiata ai passanti, ai loro completi gessati e ai loro sguardi. Aggrottò la fronte seccato e si diresse a casa.
Ovviamente, se avesse letto queste parole, si sarebbe ricordato di passare a un alimentari qualunque e rifornire il suo frigorifero.
Ma Atsumu non leggeva neanche le insegne dei negozi, nella vita.

 
Il portone si richiuse con un tonfo, sebbene l’avesse accompagnato con le mani. Atsumu rese l’appendere le chiavi al loro gancio, il togliersi le scarpe al volo e il lanciare il cappotto su una stampella un unico gesto fluido. Poi attraversò il corridoio di fretta e affondò di faccia nei cuscini del letto.
Passò qualche secondo di completo silenzio e apnea. Un silenzio che non era un suono, bianco panna, l’assenza ovattata di rumore, tappi nelle orecchie, cinque metri sott’acqua, sotto tutta la spuma di mare.
Si lasciò scappare un grugnito attutito. Questo perché il frigorifero, a qualche metro di distanza, stava singhiozzando come un neonato con le coliche e lui aveva dimenticato di pregare in ginocchio Osamu di dargli da mangiare. Grugnì di nuovo, per buona misura, e decise di rimanere ancora un po’ con la faccia seppellita tra due cuscini. Forse, con uno sforzo di fantasia necessario, negli ultimi tempi, poteva immaginare che la cosa fosse vagamente sessuale. Forse era patetico. No, era decisamente patetico. Forse avrebbe dovuto iniziare a cercare il sesso lontano dai cuscini del letto e forse, forse avrebbe dovuto smettere di vedere il suo frigorifero come un’entità senziente e capace di portare rancore.
Si alzò per raccattare una di quelle sei birre – erano le otto di sera. Le otto erano un orario accettabile, no? – ma qualcosa lo bloccò sul posto, a metà tra il letto e la cucina.
Era un ronzio, una chiazza di verde acido che ondeggiava, una tensione, non era un suono, non era l’opposto del silenzio, ma almeno lo faceva vibrare, almeno aveva sollevato quel telo insonorizzato che Dio aveva drappeggiato sul suo appartamento.
E poi il suono arrivò davvero.
Atsumu tornò indietro e si accomodò sulla sua unica sedia a mani vuote, gli occhi fissi poco più su del letto, sul muro che lo separava da quella musica. Musica di violino si diffuse come burro e colò fin sulla sua parete. Squillante, pulita e insieme vagamente metallica a causa dell’interferenza. Continuò a fissarla – a fissare il muro – per un tempo che oscillò tra i tre secondi e le tre ore. Realisticamente, dovevano essere stati solo tre minuti.
In quelle potenziali tre ore e realistici tre minuti, Atsumu realizzò tre cose che presenteremo adesso in ordine casuale, perché le pensò tutte insieme o forse in fila ma non fu abbastanza rapido da stilare una classifica.
La prima era che chiunque stesse suonando era bravo, perché sapeva distinguere tra rosso e magenta. Ora, Atsumu si guadagnava da vivere in un ristorante e si comprava da sognare con una macchina fotografica. Di musica non ne capiva niente, se non che non ne capiva niente. Però sembrava qualcuno che sapeva il fatto suo, ecco, che sapeva cosa fare con un archetto in mano.
La seconda cosa che realizzò era che il violino faceva un rumore micidiale, perché sembrava davvero che il musicista gli stesse suonando nell’orecchio.
La terza cosa era che, fascino schiacciante a parte, Atsumu ultimamente era uno che bagnava foglie di un albero per fotografarle e stilava liste sugli aggettivi negativi che stavano meglio a suo fratello, disponendoli dal più azzeccato al meno veritiero. Quindi era in una fase della sua vita in cui fondamentalmente era uno sfigato. Questo è un pezzo di informazione segretissima che non deve uscire da qui, ma tant’è. Quindi Atsumu Miya, da bravo uomo-che-sussurrava-ai-frigoriferi, realizzò che, se il musicista avesse continuato a fargli le sviolinate, si sarebbe potuto innamorare anche solo di un suono che passava attraverso un muro.
Merda, gli sembrò naturale aggiungere come corollario alla terza realizzazione.
Si tuffò nella stanza più lontana dal muro del letto (il bagno, quella stanza era il bagno), si mise le cuffie e fece partire l’heavy metal più heavy che gli venisse in mente oltre alle sigle di Naruto.
Perché, a dispetto di tutto, Atsumu Miya era un tipo veramente tosto.

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Capitolo 2
*** Rabbia ***


TW: Suicidio. Nessuno fa pensieri suicidi, si parla solo super superficialmente di una persona che non verrà mai più nominata nella storia e che i protagonisti non conoscono.
 





Fase 2 - rabbia



Quello era il regno delle bolle.
Era su una barca. No, su un ciocco di legno che galleggiava. La testa seguiva le maree e le correnti, ciondolando sul collo come un souvenir triste parcheggiato sul cruscotto. Non si vedevano pesci, appena sotto la superficie, né ombre più in basso. Il cielo era terso, vuoto di nuvole e uccelli. Il mare non lasciava spazio alla terra se non nelle profondità oscure a cui nessuno aveva accesso.
Sbatté le palpebre e ondeggiò con la testa, seguendo il vento. Quando riaprì gli occhi, indossava uno smoking ed era a un concerto di violino. Lo strumento, solo, spandeva la sua musica nella sala come farcitura per torte: densa e ariosa allo stesso tempo. La melodia era solo suono e nessun colore.
Prima che potesse incrociare lo sguardo concentrato del violinista, Atsumu si svegliò da quel sogno.
Schiuse un occhio e contò le verità davanti a cui la realtà l’aveva messo: era nel suo appartamento, l’unico mare all’orizzonte era la striscia di bava in cui aveva immerso la faccia, la testa gli girava davvero, ma per la sbornia della sera precedente, e il vicino stava suonando il violino. La notte prima doveva aver mangiato un topo morto, perché il sapore che aveva in bocca era quello, suppergiù. Non che avesse mai assaggiato un topo morto. Almeno fino a ieri, presumibilmente.
Lanciò un’occhiata alla sveglia sulla pila di libri accanto al letto. I suoi numeri quadrati verdi gli comunicarono che erano le sei del mattino. Di venerdì. Atsumu si sdraiò supino e allacciò le mani dietro la testa, fissando il soffitto come se gli avesse potuto parlare. Da qualche parte, l’archetto del violinista fendette l’aria, una lingua verde scuro rapida come l
attacco di un bambino su un gelato. Le note sullo spartito dovevano essere impazzite, macchie d’inchiostro gettate alla rinfusa come se vi ci fosse caduto il bicchiere sporco di un pittore imbranato. Un contrasto di su, giù, su e giù contemporaneamente, accordi che per un solo musicista, un solo violino, un solo archetto e solo quattro corde non dovevano essere possibili.
Atsumu pensò, wow!
Poi si spiaccicò le mani in faccia e gridò contro la sua stessa ostruzione.
Atsumu pensò, Oh, mio dio! E ad alta voce aggiunse: “Sono le fottute sei del mattino!”
Contemplò l’idea di alzarsi, uscire di casa in pantofole, bussare trenta volte alla porta accanto e dire al vicino che quello che stava facendo era fuori di testa, ignorando quella voglia bruciante di sapere chi c’era dall’altro lato del muro e offrirgli un pasticcino, una candela e una cena con l’uomo migliore sulla faccia del pianeta, ma non lo fece. Non che avesse paura, eh, non aveva nulla di cui avere paura. Atsumu aveva fascino, umorismo scoppiettante, delle belle labbra e arguzia da vendere. E fu proprio l’arguzia a convincerlo a sporgersi verso la pila di libri, afferrare il cellulare e chiedere all’assistente di riconoscere il brano riprodotto.
Venuto a conoscenza che quella era la sonata a Kreutzer di Beethoven, appuntò il titolo su uno strappo di carta abbandonato sui libri e tornò a dormire.
Due ore dopo, l’altoparlante lo svegliò di nuovo.
Questo è l’ufficio del quartiere di Chuo. Siete pregati di rimanere in casa e astenervi dall’uscire.

***
 
Shouyou Hinata viveva la vita una passione bruciante alla volta. Il mondo era diviso tra quello che gli faceva spalancare gli occhi e gli entrava nel cuore e quello che si rifletteva nelle sue pupille giusto il tempo in cui lo guardava. Non aveva senso affannarsi per qualcosa che in fondo non si voleva afferrare con ogni fibra del proprio corpo, qualcosa per cui non valesse la pena squarciarsi e poi ricomporsi.
Questo rendeva Hinata una persona particolarmente e inaspettatamente selettiva. Avrebbe potuto parlare per sette ore di un match di pallavolo. Non sarebbe riuscito a reggere quindici secondi di conversazione sull’economia giapponese. Avrebbe potuto tenere una conferenza approfondita sulla sola corda del mi del suo violino. Non avrebbe superato i quindici secondi di reel su Instagram se gli avessero chiesto di parlare di giardinaggio. Avrebbe potuto passare quarantasei ore di ininterrotta condivisione di ossigeno con Yachi o Kageyama. Avrebbe accarezzato l’idea di uccidersi per un pugno di attimi di contatto visivo con Ushijima Wakatoshi.
Alla sua lista di antipatie totalizzanti e immanenti, quella notte, si aggiunse il suo vicino di appartamento. Uno che non aveva mai visto e che aveva comunque deciso di mostrarsi per quello che era: uno stronzo.
Il pezzo si diffuse attraverso il muro come se l’avesse sognato. Hinata si alzò a sedere di scatto, nel mare agitato e ondeggiante delle sue coperte e, com’era ovvio, andò a sbattere con la testa contro il soffitto. L’appartamento di Hinata era stato pensato come ufficio, evidentemente, perché l’unico posto in cui si poteva pensare di mettere un futon era su un soppalco alto un metro, centimetro più centimetro meno. All’inizio aveva pensato che fosse figo, in quel momento pensò di voler uccidere qualcuno. Il vicino magari.
Ancora dolorante, si passò il retro della mano sugli occhi, spazzando via il sonno che stava per conquistare.
Lanciò un’occhiata all’orologio sul comodino (nel caso in cui qualcuno se lo stesse chiedendo, era un comodino molto basso). In quell’istante preciso, le 11:59 cedettero il posto a una mezzanotte tonda e derisoria.
Dall’altra parte del muro, la sonata a Kreutzer di Beethoven gli parve uno scherzo. E in effetti lo era. Il pezzo era eseguito bene, benissimo in realtà, così bene che doveva essere il video su youtube che aveva visto anche lui per prendere ispirazione, quando aveva iniziato a impararla.
L’ultima cosa che voleva era riascoltare i pezzi che aveva imparato per l’esame che aveva sostenuto quel giorno. La sua esercitazione di quella mattina doveva aver indisposto il vicino, che adesso si stava vendicando. Molto maturo, soprattutto molto comprensivo.
Si schiacciò una mano sulla fronte quando il ritmo della sonata si fece più sostenuto e violino e pianoforte si scontrarono come una coppia di sposi capricciosa. Poi Shouyou si lasciò cadere nuovamente sul letto e chiuse gli occhi, la linea delle labbra un nervoso percorso a zig-zag.
 
 
***

 
Poiché pare che oggi si parli solo di gente che si sveglia, concentriamoci su un’altra Bella Addormentata.
Kiyoomi Sakusa aveva raggiunto il nirvana.
La sveglia trillò alla sua sinistra, quel venerdì mattina alle sei, mentre, da qualche parte, lontano (lontanissimo) da lì, un violinista svegliava un fotografo con la sua musica. Sakusa aprì gli occhi sul suo soffitto bianco, alzò un braccio e, con un movimento strano del polso, spense la sveglia.
Poi si alzò.
Il silenzio era spezzato solo dal canto imprevedibile degli uccelli e un mondo che ancora russava.
La casa era pulita e lo erano anche tutti gli altri.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare, infatti, l’arrivo di una pandemia non era affatto l’incubo di tutti quelli che avevano qualche declinazione di problema con lo sporco, le malattie o entrambi. Era tutto l’opposto. L’intera popolazione mondiale faceva adesso quello che Sakusa aveva fatto per tutta una vita.
Se vuoi parlare con me devi alzare una mascherina, se mi vuoi toccare devi igienizzare la mano, anzi magari evitare del tutto. Se vuoi fare le cose bene, devi pulire, spendere in prodotti che funzionino e uscire solo per comprare lo stretto necessario, mantenendoti a un metro (o più, facciamo più) dagli altri.
A quel punto il mondo lo capiva ed era impossibile che un occhio critico si posasse su di lui, bollandolo come pazzo.
Perché adesso erano pazzi tutti, perché adesso lui si mischiava nella folla.
Dunque Kiyoomi Sakusa aveva raggiunto il nirvana e, contagi a parte, forse per lui si stavano finalmente aprendo nuove porte e scorciatoie entusiasmanti.
A volte, per quanto fosse doloroso, bisognava liberarsi di tutto quello che aveva una tendenza anche solo involontaria di tenere ancorati al terreno, per volare più in alto.

***
 
Quando si viveva tutta la vita tranquillamente, le magie diventavano storie sensazionali raccontate per passa-parola.
Atsumu aveva avuto una vita normale, che aveva fatto di lui una persona normale. La normalità viene spesso vista come assenza di cambiamento, ma non è così che stanno le cose. La normalità sta nella gradualità di quel cambiamento e Atsumu era sempre scivolato da una fase all’altra della sua vita, diluendola.
Era andato a scuola, era diventato quello antipatico che un giorno prendeva il massimo dei voti in matematica, il giorno dopo faceva dignitosamente schifo. Si era innamorato un pochino, aveva baciato una ragazza intelligentissima, ci aveva fatto sesso. Aveva baciato un ragazzo stupidissimo, ci aveva fatto sesso lo stesso. Aveva rotto con un’altra ragazza, aveva preso una storta cadendo da un muretto mentre scappava dal proprietario di una pasticceria per aver rubato un anpan. Suo zio era morto, era andato al funerale anche se l’aveva visto due volte in croce. Aveva giocato a pallavolo, poi aveva smesso, poi aveva iniziato a lavorare con Osamu. Aveva contemplato l’idea di mettersi a studiare, l’aveva abbandonata, si era appassionato alla fotografia e aveva iniziato a bruciare foglie e innaffiare rametti.
Poi da qualche giorno la sera beveva.
Grandi e piccoli eventi della sua vita si erano susseguiti in una lista che poteva diventare sensazionale solo se accadeva a ritmo serrato. E non era successo. Ascoltava storie strepitose di persone che avevano perso il bus e avevano incontrato l’amore, avevano sbagliato strada e si erano involontariamente salvate la vita. Aveva sentito parlare di incontri fortuiti, annodamenti di fili di vita sconcertanti per la casualità annichilente di cui erano imbevuti e si era sempre ricordato: ‘Non a te’.
Non a te, perché non ti succede mai niente.
E non ne aveva bisogno, comunque.
Aveva una vita fantastica, cucita su misura di un corpo fantastico, un viso fantastico, una personalità fantastica. Era una persona fantastica a cui le cose venivano fantasticamente semplici.
Era facile flirtare, era facile gioire, era facile mangiare e non ingrassare, era facile sognare, era facile allungare una mano e subito ottenere. Era facile parlare, era facile chiamare la pizza senza pregare che lo facesse qualcuno per lui, era facile dormire, era facile scopare. Era facile sbagliare, era facile ubriacarsi e prenderci la mano, era facile sentire quel silenzio immanente e incolore, era facile chiamare Osamu e dire che semplicemente quel giorno non ce la faceva e sentirsi dire che doveva muovere il culo e anche subito.
Era tutto facile e andava benissimo così.
Le cose non succedevano a lui, lui era quello a cui le cose venivano raccontate, era quello che dopo diceva: ‘ma davvero? È successo davvero?’ e rideva incredulo mentre quelli a cui le cose succedevano rispondevano: ‘Sì, bello, credici o no è successo davvero’.
Le persone a cui non succede mai niente non lo sanno, ma arrivano a ottant’anni, si guardano indietro e capiscono che erano sempre stati immersi in queste fantomatiche ‘cose’. Scoprivano che avevano avuto una vita piena zeppa di cose e che, semplicemente, non avevano prestato attenzione nell’attimo in cui queste si erano trasformate in un’occasione da cogliere.
Ma Atsumu non aveva ottant’anni. Non in quel momento, in ogni caso, e quindi sospirò e schiacciò con una nocca il pulsante dell’ascensore che l’avrebbe portato al pian terreno.
Si era vestito sulle note di Smoke on the water, sparata al massimo volume sia perché decomprimeva quel silenzio e lo colorava di un azzurro tenue, sia perché così, se qualcuno negli appartamenti vicini avesse sentito che ascoltava buona musica, l’avrebbe preso per un intenditore. Intenditore che non era, per inciso, ma gli altri non l’avrebbero mai saputo.
Nel caso in cui moriste dalla voglia di sapere chi diavolo fossero questi altri, non temete, la risposta è tale e quale a quella che vi fa smettere di scatenarvi davanti a uno specchio:
gli altri.
I famosi altri.
Quel gruppo di occhi senza volto che non facevano che fissare, attendere di vedere il marcio e la debolezza. Quel gruppo di entità pronte a giudicare sempre e comunque, come se non ci fosse alcuna differenza tra un riflesso e una folla, un obiettivo di una macchina fotografica e il soggetto da fotografare.
L’ascensore iniziò a chiudere le porte per portarlo di sotto. Era rimasta solo una fessura quando Atsumu udì il rumore di una porta di un appartamento che sbatteva, sul pianerottolo.
Le porte si chiusero prima che potesse identificarne il proprietario. Atsumu avrebbe potuto infilare una mano nella fessura, rischiare di procurarsi una frattura, fare un piacere a un vicino in difficoltà e aspettarlo. Avrebbe potuto, ma fondamentalmente era uno stronzo egoista, e quindi non lo fece.
Si diresse all’esterno dell’edificio e respirò aria inquinata e rancida. Meravigliose fragranze cittadine. Poi si avviò al parcheggio e si preparò alla favolosa passeggiata in motorino che l’avrebbe portato al ristorante di Osamu. Il suo motorino, però, aveva la strada sbarrata da una bicicletta rossa. Un catorcio di bicicletta rossa.
“Ehi!” gridò uno alle sue spalle. Non era un saluto, aveva lo stesso suono di un insulto. Atsumu si voltò in tempo per notare un ragazzo col fiatone che veniva verso di lui. Le chiazze rosse sulle tempie e sotto gli occhi svelavano le guance chiazzate di rosso che doveva nascondere sotto la mascherina. Riconobbe con un attimo di ritardo che era il mandarino.
Il motivo per cui lo riconobbe in ritardo era che era stato troppo distratto dal colore della sua voce.
Rimase a guardarlo mentre lui abbandonava una mano sul ginocchio destro, per riprendere fiato, e utilizzava la sinistra per puntargli un dito contro. “Ti serve aiuto?” domandò beffardo Atsumu, nel tempo in cui lui cercò di riprendersi. Aveva l’aria di uno che avesse corso dalla cima dell’edificio al piano terra in un tempo record che nessuno aveva cronometrato. 
“Quella è la mia bicicletta” gli fece notare il ragazzo – Shouyou? – un’osservazione del tutto superflua, secondo il parere di Atsumu. Ora, a proposito del parere di Atsumu, lui aveva un problema. Non era neanche una cosa che sfociava nel sadismo, più un gioco a cui era fortissimo. Se le persone si irritavano a causa sua, e Atsumu riteneva che fosse il caso, adorava punzecchiarle, vederle sputacchiare dal nervoso per le sue risposte insolenti.
Quindi Atsumu ritenne sì che il proprietario della bicicletta fosse carino, con i ciuffi spettinati e le guance rosse per la corsa, ma che fosse ancora più interessante infastidirlo.
Avete presente quando vi dicono: ‘la gente non si sveglia certo la mattina per dare fastidio a te’? Ecco, Atsumu Miya si svegliava la mattina esattamente per fare quello, invece, era una specie di istinto, di rituale: c’era chi meditava, lui importunava.
“Be’, visto che stiamo elencando le proprietà... Questo” ribatté Atsumu, ruotando una mano e alludendo allo spazio attorno a loro, “è un parcheggio. Ed è condominiale,” poi allargò un braccio a comprendere il mondo intero e proseguì: “mentre quella che c’è là fuori è una strada. Ed è pubblica. Quello è un gatto, è della signora...”
“Stavi cercando di rubarmi la bicicletta?” domandò Shouyou, come se Atsumu non avesse detto niente. La risposta fu così fuori contesto da spiazzare anche uno come lui, che di risposte era il re.
“Come scusa?”
“Stavi cercando di rubare la mia bicicletta?”
Atsumu guardò il ragazzo come se gli fosse spuntato un cartello sulla testa che leggeva ‘sono stupido’. Chiunque avesse affisso il cartello aveva buon occhio, pensò. “Questa è una bicicletta? Mi sembra più ferraglia.”
Il ragazzo gonfiò le guance. Adorabile, davvero, sembrava volesse fare a pugni. “Be’, se non vuoi rubarla io me la…” aggunatò la bici per il manubrio e se la tirò addosso con una rapidità sconcertante e, di nuovo, completamente superflua, “me la riprendo” concluse.
Se non vuoi rubarla. Ad Atsumu sembrava di essere in presenza di una mosca.
“Sei un fotografo?” gli domandò Shouyou all’improvviso, accennando col capo alla sua borsa. Spinse la bicicletta un po’ più avanti, portò una gamba dall’altro lato per mettersi in sella e si voltò a guardarlo, ma non prima che Atsumu potesse abbassare lo sguardo sul suo sedere. Aveva degli occhi, tanto valeva usarli.
“Solo quando vedo qualcosa che mi piace” ribatté, allacciando lo sguardo al suo.
Il ragazzo assottigliò gli occhi e scosse la testa. Poi alzò la mano in segno di saluto e partì. “Non provare a rubarmi più la bicicletta!” gridò nel vento che si era lasciato dietro.
Ad Atsumu venne voglia di distruggerlo.

***
 
Quando si viveva tutta la vita a mille, le magie si posizionavano sullo sfondo, in una routine che faceva di loro eventi ordinari.
Shouyou aveva avuto una vita normale, ma l’aveva vissuta in maniera eccentrica, alternando periodi di cambiamenti radicali a periodi di assestamento. Questa era una cosa che mandava qualunque forma di gradualità a farsi benedire.
Era andato a scuola. Non aveva mai preso un buon voto in matematica finché Yachi non gli aveva fatto prendere un ultimo voto altissimo, inimmaginabile. Ma ha copiato? In tutta onestà, se l’era chiesto anche lui.
Si era innamorato un sacco, non aveva baciato il ragazzo di cui si era innamorato. Aveva deciso che era un idiota. Era entrato in un club, aveva bevuto, aveva fatto sesso, se n’era dimenticato. Nessuno era mai morto, finché non l’avevano fatto i vicini. Tutti insieme, dall’oggi al domani, in un incidente stradale. Non era andato al loro funerale, in compenso era andato al funerale di uno sconosciuto: una donna l’aveva visto per strada e l’aveva scambiato per un amico di vecchia data del morto. Si chiamava Satou, aveva diciott
anni e si era suicidato. Il ragazzo, non la mamma. Guardando la fotografia, aveva scoperto che era il tizio nel club con cui aveva fatto sesso. Alla donna non l’aveva detto, perché la ragazza di Satou piangeva in un angolo e tutti si chiedevano cosa l’avesse spinto a compiere un gesto tanto estremo, visto che era felice. Hinata aveva a stento sfiorato la vita del morto, ma era l’unico che potesse immaginare perché. Pensò che avrebbe almeno voluto chiedergli come stava.
Aveva giocato a pallavolo, poi aveva smesso per qualche mese a causa di una distorsione al polso. Nell’ufficio del fisioterapista, aveva visto una foto di un violino, forse lì per supporto morale, come a dire: ‘i tuoi polsi riprenderanno a funzionare!’ Aveva iniziato a studiare musica, non l’aveva più abbandonata, aveva continuato a catalogare le persone in base al ruolo che avrebbero potuto ricoprire nella pallavolo, ma non l’aveva mai fatto con gli strumenti musicali che più si addicevano loro.
Poi da qualche sera riempiva cruciverba.
Andava tutto a meraviglia, in effetti, perché se lo concedeva. Shouyou aveva scelto di non tornare a casa durante l’emergenza perché sua madre avrebbe dovuto lavorare da casa ed esercitarsi, studiare e sostenere esami a distanza, per lui, sarebbe stato semplicemente impossibile. Yachi gli aveva parlato dell’appartamento che aveva trovato, del fatto che ce ne fossero vari disponibili nello stesso complesso di edifici e puf, la soluzione era davanti a lui, facile e indolore se solo decideva di mostrarsi mentalmente elastico.
Alle sue condizioni, sicuro, ma elastico.
Le cose semplicemente gli succedevano. Qualcuno diceva che era perché se le andava a cercare, perché più vai in giro e scopri il mondo, più questo suonerà una musica familiare. Perché se ti fai un amico in Brasile, c’è una possibilità su un milione di incontrarlo per caso in una strada giapponese, ma il primo passo è uscire di casa.
E Hinata si lasciava sorprendere.
Alle sue condizioni, sicuro, ma si lasciava sorprendere.
Non fu una sorpresa, invece, la fila al minimarket. Poiché nessuno poteva entrare e vagare per tempi indefinibili per le corsie del negozio, i clienti comunicavano uno alla volta la spesa ai commessi fermi all’entrata. Qualcuno, dall’interno, collezionava i prodotti e i cassieri comunicavano il totale.
Tutta questa manfrina per dire che c’era una fila che partiva qui e ricalcava il percorso della muraglia cinese. C’era un marziano, in vacanza su Saturno, che vedeva quel serpente di umani che attendevano di fare la spesa. Era una fila luuuuunghissima che contava più o meno una ventina di persone, ma quando eri Hinata Shouyou non c’erano altri numeri tra uno e cinquecento miliardi, quindi si parlava per iperboli.
Hinata, durante quello strazio, ebbe quindi tempo per pensare. Pensò ai due vicini che aveva conosciuto: quello che voleva rubargli la bicicletta e lo sconosciuto al di là della porta, per cui aveva una sorpresa. Oh, chi aveva detto che Shouyou era un ragazzo tenero e dal cuore d’oro? Bastava sottintendere una sfida, per accendere la sua miccia.
Vivere così forte era stancante.

***
 
Atsumu aveva fatto proprio una bella foto, due giorni prima.
La primavera era arrivata in punta di piedi, poi aveva iniziato a camminare a passo sostenuto e ora correva accelerando verso l’estate. Atsumu aveva scattato la fotografia all’ombra di un acero giapponese. Mostrava il fiume Sumida, sporcato dalle foglie rosse che si insinuavano nell’inquadratura dall’albero alle sue spalle. Silhouette di grattacieli senza nome torreggiavano sullo sfondo come guardiani dormienti. La luce tenue degli attimi successivi al tramonto dava alla scena un’aria apparentemente nostalgica. Sotto tutta quella staticità, però, la fotografia era cruda e ruvida, sembrava la pelle sotto una bruciatura, un vulcano quiescente, ma ancora per poco. Se uno spirito si fosse attardato all’orecchio di Atsumu mentre la scattava (e sono mentre, non un attimo prima, non un attimo dopo) e gli avesse chiesto: ‘come ti senti?’, lui avrebbe tenuto l’occhio aperto lì dov’era, il dito che si abbassava sul pulsante, e avrebbe detto: ‘arrabbiato’.
Ma nessuno spirito si era attardato al suo orecchio.
“Uhm…” mormorò Atsumu, portandosi una nocca alle labbra e inclinando il viso su un lato. Giocò con la saturazione e i contrasti finché le foglie d’acero non scapparono al buio e si mostrarono in una cascata di rosso scuro che incorniciava il paesaggio.
Poi incrociò le braccia al petto, si abbandonò sullo schienale della sedia e la guardò. Vista così, quella fotografia pareva uno scorcio di mondo circondato da un appartamento bianco, piccolo e silenzioso. Si rese conto che il ticchettio del mouse, fino a qualche attimo prima, sembrava l’unico suono per chilometri.
Ruotò la fotografia quattro volte in senso orario, facendola tornare nella posizione iniziale, solo per strangolare quel silenzio.
Poi si alzò per andare al frigorifero. Un frigo che piangeva meno del giorno prima e meno anche del giorno dopo. Stava per prendere una birra, quando del rosa si stagliò contro il vuoto.
Atsumu si voltò verso la parete del letto così in fretta che credette di averlo fatto prima che arrivasse il suono. Pensò di averne percepito la vibrazione.
Qualche secondo dopo, riconobbe Smoke on the water, che fatta al violino sembrava una premonizione infausta o l’inizio di una saga epica.
Gli scappò un sorriso prima che potesse darsi del completo coglione – chi diamine sorrideva a un muro?
Poi gli scappò una risata e questa volta riuscì a darsi del completo coglione in tempo, ma con le attenuanti. Le attenuanti erano che quella non poteva essere una vera risata, perché erano più malfunzionamenti d’aria, bolle che erano risalite per qualche strana questione di gravità su per la gola e che era stato costretto a espellere con una risata.
Le risate non funzionavano così, no? Le risate non erano bolle, erano più simili a starnuti.
Faccio una battuta esilarante, dunque rido.
Osamu si rende ridicolo, dunque rido.
Voglio assolutamente farmi questa persona che non conosco e ha fatto una battuta che non fa ridere, dunque rido.
Il cliente sta per darmi una mancia generosa e ha fatto una battuta che non fa ridere, dunque rido.
L’unica persona che abbia mai significato qualcosa per me mi sta dicendo che siamo incompatibili e che non abbiamo futuro. Devo difendermi, dunque rido.
E avrebbe potuto continuare.
La risata di Atsumu si trasformò in un ghigno. Aveva il tempo di darsi del completo coglione anche sette volte, ma era troppo fiero della sua idea, per mettersi a litigare con se stesso o con la versione ibrida di se stesso che condivideva con suo fratello nella sua testa.
Il vicino voleva la guerra? Atsumu non gliel’avrebbe data. I suoi giochi mentali non si basavano sull’ostilità, ma sul negare agli altri quello che volevano più ardentemente. Se il violinista voleva odio, Atsumu gli avrebbe dato una battuta.
Richiuse il frigorifero sbattendo l’anta e si lanciò al computer. Aprì youtube, maledicendo per la millesima volta la velocità di quel catorcio e riuscì, in un tempo che per il suo pezzo di antiquariato tecnologico era record, a rendere disponibile la barra di ricerca.
Alzò il volume al massimo e lasciò che We are the champions gli sfondasse i timpani. La fece suonare per trenta secondi che sembrarono trentamila, poi mise in pausa il video.
Attese in silenzio per qualche attimo, poi un violino riprese la canzone laddove la performance su youtube aveva smesso. Si mise a ridere, schiacciando la faccia nel gomito, e si riempì d’orgoglio al pensiero che quell’assenza di silenzio, per una volta, non fosse uno spezzone di conversazione altrui che passava per caso davanti alla sua porta, ma era tutta sua.
Il violinista dall’altra parte del muro si acquietò, ma il silenzio non era più assoluto, non era più permeante. Invece era attesa, raggomitolato negli istanti di sorriso anticipato in cui Atsumu digitò ‘Macarena’ nella barra di ricerca e costrinse il povero violinista a suonare come un gatto sofferente. Non gestì bene il cambio di tono che si trovava a Eeee, macarena e da gatto passò a film horror nel momento più splatter.
Atsumu non perse un attimo e YMCA fu il risultato a cui portarono i sicuri anni di studio del vicino.
Poteva avere vent’anni come settanta, Atsumu sentì il bisogno di conoscerlo e, in base all’età, offrirgli una birra o un té. O un té e una birra. E
fanculo coronavirus, stato d’emergenza e compagnia bella.
Nel momento esatto in cui concepì quella simpatia, Atsumu si detestò, poi si ricordò di essere perfetto e diresse la sua rabbia verso il vicino.
Fottuto stronzo presuntuoso che si dava arie perché sapeva strimpellare uno strumento alto mezzo metro e un cazzo e con quattro corde in croce.
Atsumu era così arrabbiato, ma così arrabbiato, che quella sera non toccò neanche una birra.






 
Note di ElCiaoo a tuuutti! Smoke on the water, se credete di non conoscerla, sappiate che la conoscete. Quella che suonano tutti quelli con una chitarra elettrica e che fa sdeon sdeon sdeeon sdeon sdeon sdedeon sdeon sdeon sdeon sden-deon, capito? Vabbè, comunque sì, questa storia è molto lenta e sembra che non faccia progressi, ma purtroppo o è così o non ha senso, gente, si basa tutta sull'anonimato :(
Grazie per aver letto anche questo capitolo e aver inserito la storia dove sapete voi (INTENDO NELLE LISTE!) ci vediamo tra due settimane, ma è l'ultima volta che passa così tanto tempo tra due aggiornamenti!
Aaaaddio.

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Capitolo 3
*** Contrattazione ***


Fase 3 - contrattazione



“Sì, la borsa la porto domani quando vengo” mormorò Atsumu, infilando le chiavi nel portone e alzando gli occhi al cielo. “Ma è inutile che torno al ristorante, ‘Samu, la consegna è praticamente a casa mia.”
Il suono del portone che si richiudeva, grazie al cielo, rese inudibili le parole di suo fratello all’altro capo del telefono.
“Va bene, ciao.” Osamu disse qualcosa, ma Atsumu allontanò il telefono dall’orecchio, se lo portò alla bocca e disse: “ciao, ciao, cia-cia-cia-ciao” poi riagganciò.
Si avviò all’ascensore, controllò un’ultima volta che l
’ultimo ordine del giorno fosse corretto, poi schiacciò il tasto marcato 5 e ascoltò i piani scivolare sotto di lui.
Cercò la porta 508, poi sollevò due dita, le piegò e bussò con le nocche.
“Sì?” disse una voce dall’interno.
“La cena.”
L’uscio si aprì lentamente e Atsumu incontrò gli occhi del mandarino. Cercò di dissimulare la sorpresa, mentre gli porgeva il cibo, cosa che lui non si disturbò di fare. “Tu sei…”
Atsumu sollevò un sopracciglio. Tu sei il vicino troooppo carino? oppure forse voleva dire: Tu sei quello che mi mangerei prima con gli occhi, poi con la bocca, poi di nuovo con gli occhi?
Invece lui assottigliò gli occhi e accettò il cibo con diffidenza. “Tu sei quello che ha provato a rubarmi la bicicletta!”
“Cosa? Non ho provato a…”
“Sì, invece. Bastava dirmelo, che ti serviva per le consegne. Te l’avrei prestata, non c’era bisogno di rubarla.”
“Fai sul serio?” domandò, notando solo distrattamente che lui gli stava infilando dei soldi nella mano con cui gli aveva porto i sacchetti.
La testa di Yachi, la ragazza che Atsumu aveva conosciuto quando si era trasferita lì, qualche giorno prima, fece capolino oltre l’angolo di un muro. “Oh, ciao!”
Atsumu sollevò una mano, vagamente disorientato, ma Shouyou era già partito con tutti i convenevoli che precedevano un congedo. Era tardino, in effetti, e anche Atsumu aveva fame. Quindi accettò i soldi, sorrise per la mancia e tornò a casa.

 
***
 
Shouyou sbadigliò e tracciò col dito l’orlo della bottiglia di birra semivuota. Aveva una gamba stesa davanti a sé e il braccio che non si era dedicato alla birra era appoggiato su un ginocchio piegato.
Non si era preoccupato di coprirsi la bocca, ma a Yachi era sembrato un gatto più che un maleducato. Hinata aveva un po’ questa cosa. Questa cosa che non sembrava mai maleducato.
“E come ti stai trovando?” stava dicendo lei. Si riferiva all’università a distanza e al fatto che, negli ultimi tempi, non lavorasse più part-time in un negozio di musica. Non era un lavoro complicato e, a essere del tutto onesti, non lo pagavano granché bene, ma a lui piaceva. Non entravano più tante persone, ma quando lo facevano sembrava che a sentire odore di legno e corde di chitarra per la prima volta fosse lui e non i clienti.
Era bello indirizzarli nella sezione che cercavano, era bello vederli impacciati, quando confessavano di voler imparare a suonare e di essere completi principianti, era bello vedere uomini e donne in giacca e cravatta, di ritorno da un ufficio, che facevano vibrare qualche corda di qualche violoncello in un angolo remoto del negozio, era bello vedere i bambini con una mano allacciata a quella dei genitori e l’altra lasciata cascare su un tasto di un pianoforte, uno solo, una nota possente che si allargava nel negozio come perturbazioni nell’acqua.
“Sto dando lezioni di musica online per arrotondare” rispose, sorridendo con gli occhi ancora incollati alla bottiglia. Era ipnotico. “Non sai quanta gente si è trovata strumenti dimenticati in cantina. La noia li sta spingendo a suonare.”
Yachi sgranò gli occhi “Davvero?”
Shouyou rise. Hinata aveva un po’ questa cosa. Questa cosa che anche se prendeva qualcuno in giro sembrava sempre che gli fosse concesso. “Sì, sono tutti scordati.”
Lei rise e radunò i cartoni del cibo perché fosse più facile sbarazzarsene in seguito. Lui osservò quel gesto e si illuminò con un attimo di ritardo.
“La butto io!”
Yachi scosse la testa e agitò forte le mani. “Non devi! Non devi proprio, la butto io domani!”
Ma Shouyou si era già tirato su con un salto e aveva raccolto una busta da terra per radunare cartoni e involucri di vario genere. “Figurati, tanto è quaggiù.”
E aveva ragione, perché in fondo bastava prendere un ascensore e raggiungere il retro del parcheggio. Quindi dopo sorrisi, saluti e ringraziamenti da parte di entrambi (uno per l’ospitalità, l’altra per la questione spazzatura), Shouyou prese le scale e si diresse ai bidoni.
Ovviamente, sulla rampa tra il quarto e il terzo piano, nuovi passi si unirono ai suoi e lo schiacciatore laterale fece il suo ingresso tamarro nel suo campo visivo.
“Oh!” disse Shouyou, maestro di retorica.
Il ragazzo si voltò a guardarlo, la mascherina gli copriva metà della faccia e, per qualche ragione, indossava anche degli occhiali da sole. Alle dieci di sera. Ma a Hinata bastò l’inclinazione delle sopracciglia per capire che doveva indossare un sorriso impietosito, quello di uno che guardasse una creatura molto tenera ma anche molto indifesa, ignara del leone alle sue spalle.
“Ancora tu” aggiunse, perché forse Hinata aveva questa cosa che non sembrava mai maleducato, ma sapeva esserlo.
Impassibile, il ragazzo si strinse nelle spalle e alzò entrambe le mani, quella che reggeva la busta dell’immondizia un po’ più bassa. “Che ti devo dire, ci abito, qui.”
Scesero altre due rampe di scale in silenzio. Il problema di quando ci si ritrovava costretti a percorrere una strada senza scorciatoie con una persona che si detestava, era che la cosa diventava imbarazzante in pochissimo tempo.
“Perché porti gli occhiali da sole, comunque?” domandò Hinata che, davvero, non aveva dimenticato che lo schiacciatore aveva provato a rubargli la bicicletta, ma doveva saperlo!
Il ragazzo si voltò a guardarlo (presumibilmente, era difficile dirlo con solo le sopracciglia come indicatore di espressione), poi sospirò. “Shouyou, giusto?” chiese. Il tono stava dicendo, ‘so che è questo il tuo nome, devi solo confermarlo così che la mia distrazione e il mio disinteresse mi rendano affasciannte’ e Hinata gli sorrise, perché era questo che gli veniva naturale fare quando qualcuno faceva il prepotente.
“Giusto” soffiò, accelerando il passo.
Senza esitare, il ragazzo prese il suo ritmo e anzi lo incrementò appena, come a sfidarlo. “Bene, Shouyou. Io porto gli occhiali perché mi stanno dannatamente bene e, di questi tempi, questo è il massimo sfoggio che posso farne.” A Hinata diede fastidio la maniera in cui disse Shouyou. Sembrava miele e ferro e immaginò le sue labbra arricciarsi attorno alla sh nel suo nome. No, aspettate. Non era questo a dargli fastidio, era la reazione involontaria che aveva innescato.
“Ma sembri un criminale, se non ti si vedono neanche gli occhi.”
“E tu mi sembri un barbone, vestito così, ma mica te lo vengo a dire.”
“L’hai appena fatto.” Shouyou aggrottò le sopracciglia perché non riusciva a capire se questo tizio fosse un idiota o un passo avanti a lui, e la cosa stava diventando frustrante. Il fatto che facesse un commento tagliente prima e che quasi cascasse per le scale perché non vedeva niente poi, non aiutava a sciogliere l’enigma. “E comunque sto portando fuori la spazzatura, non sto andando a una sfila…”
“È questo il problema.”
Shouyou lo guardò. Veramente, non stava capendo. Lo schiacciatore laterale aprì il cancello e si spostò di lato per farlo passare. Galante o ironico? Impossibile dirlo. “Che problema?”
“Che non è la spazzatura, che dovresti portare fuori.”
Passò qualche momento di silenzio. Shouyou aveva sempre questa cosa che non era mai maleducato, ma non si poteva dire che non fosse schietto, quindi alzò un braccio, depositò i suoi rifiuti nel cassonetto e disse: “Ma ci hai appena provato con me?”
Atsumu sospirò e imitò il suo gesto. “No, la verità? Cioè sì, ma no, non mi stai neanche simpatico, sono solo un po’ frustrato” ammise, togliendosi finalmente gli occhiali.
Shouyou sorrise, ma fu attento a non farglielo notare. “Ma poi anche volendo non possiamo andarci, fuori.”
“Sì, lo so.”
“Era una battuta terribile per rimorchiare.”
“Ho capito, puoi non rigirare il dito nella piaga?”
Per la prima volta nella sua vita, Shouyou pensò di essersi sbagliato. Forse era più un opposto. Non ne era certo, doveva pensarci bene, voleva pensarci bene. Era cruciale capire il ruolo di quello sconosciuto.
“Ci si vede in giro” gli disse invece quello, alzando le sue chiavi e facendole tintinnare. Hinata ebbe giusto il tempo di notare un pupazzetto a forma di volpe stilizzata attaccato all’anello di ferro, poi il ragazzo gli fece un occhiolino e lo abbandonò vicino ai bidoni, come se lasciarlo indietro fosse una prova del fatto che l’avesse stregato e imbambolato, fulminato dal suo fascino.
No, era proprio uno schiacciatore laterale.

 
***
 
Rimanete a casa e non uscite e questa non è un’esercitazione e tutta la fuffa degli altoparlanti si era già estinta da un paio d’ore.
Poi era calato il silenzio. Quel silenzio che non era silenzio. Quel silenzio di gomma, feltro, ovatta, mille altri materiali assorbenti. Quello immanente. Quello incolore. Quello che faceva dimenticare perfino alle orecchie di fischiare quel loro inganno più celebre.
Atsumu non udì il sibilo dell’accendino né la brace della sigaretta che si accendeva. Si lasciò cadere con la schiena sul letto e fissò il soffitto spoglio del suo appartamento.
Era uno strazio. Andava tutto alla grande. Era tutto un grande strazio, forse. Soffiò via una nuvola di fumo e pensò che più andava avanti, più quella casa diventava un macello, a partire dal frigorifero. Suo fratello aveva un ristorante in cui lui, tra l’altro, lavorava, eppure il frigorifero di Atsumu era banale – un modo stupido, veramente cretino, di dire che era vuoto.
Atsumu non era depresso. Era troppo figo per essere depresso, troppo fortunato, troppo talentuoso, troppo arguto. Atsumu era tutto l’opposto di depresso, perché aveva la sua vita in pugno e la stava stringendo così forte che stava finendo comunque per colargli fra le dita.
Forse Atsumu era un po’ depresso, ma solo per questa dannata pandemia.
Avreste dovuto vederlo prima: stava un fiore.
Proprio in quel momento, sullo scoccare di un altro tiro, il violinista al di là della parete cominciò il suo concerto. Atsumu chiuse gli occhi e lo lasciò fare per qualche minuto, come se gliel’avesse concesso, come se non ci fosse stato più alcun muro tra loro e lui gli avesse semplicemente domandato di bucare quel silenzio.
Non seppe spiegarsi perché, ma quella mattina il violinista lo squarciò, quel silenzio, sembrava un fottuto quadro di Fontana, rosso fuoco e incazzato nero.
Se qualcuno gli avesse detto, qualche settimana prima, che sarebbe arrivato un violinista a condividere con lui il muro, Atsumu si sarebbe messo a urlare dal fastidio. Non un grido virile e possente, no, si sarebbe picchiato le mani sulle orecchie e avrebbe iniziato a strillare lalala, se non lo sento non è vero. Invece in quel momento pensò che non fosse poi così male. Non piacevole, non era piacevole, ma non male.
Aprì gli occhi, abbandonò la sigaretta in bilico tra le sue labbra e si tirò a sedere. 
Da quella posizione (una solita, abitudinaria posizione) notò per la prima volta una scatola alta e sottile incastrata tra la scrivania e l’infisso del balcone. Inclinò il viso su un lato nell’istante in cui una nota arancione si trasformò in un vibrato, poi si alzò e, senza pensarci troppo, tirò fuori il cartone dal suo nascondiglio.
Nel caso in cui vi steste chiedendo seriamente che cosa ci fosse dentro, era un comodino, ma questo era ovvio. Il giovanotto reggeva sveglia, cellulare, bottiglie d’acqua e alcune volte anche un PC su una precaria pila di libri e questo perché non aveva mai avuto voglia di montare quel comodino (e perché non leggeva i libri).
Quel comodino impacchettato aveva già due anni, è importante specificarlo.
Atsumu afferrò il posacenere dalla scrivania, lo poggiò a terra, si impossessò del cartone e sbucciò lo scotch che lo teneva chiuso.
Poi si mise a sedere sul pavimento, si armò di cacciavite e istruzioni e cominciò ad assemblare il comodino mentre il vicino si esercitava.
Il foglio delle istruzioni, comunque, ebbe vita breve. Atsumu aveva già messo insieme due assi di legno e, fino a quel momento, era stato molto fiero di sé e soprattutto molto amico delle istruzioni. Poi, però, si era sporto col busto di lato per leggerle meglio, aveva allungato il braccio destro, picchiettando col dito sul filtro della sigaretta per scrollare la cenere dalla brace, e infine aveva perso la testa, perché, secondo le istruzioni, le due assi che aveva montato non erano quelle giuste.
Atsumu prese il foglio in mano, si allontanò col viso come se il problema fosse stato di tipo oculistico, poi diede un’occhiata alle sue due assi. Tornò con lo sguardo sulle istruzioni, lo spostò di nuovo sull’aspirante comodino, poi di nuovo sulle istruzioni. Questo flipper andò avanti per altri tre o quattro turni, infine Atsumu scrollò le spalle e si liberò delle istruzioni. “Io ho quello a grandezza naturale” mormorò, sbattendo la cicca nel posacenere, “cosa vuoi che ne sappia un disegno?”
E così lavorò per qualche altro minuto, dando le spalle al muro del violinista.
Se si concentrava completamente sul suo comodino, Atsumu riusciva a dimenticare che non si conoscevano, che non erano neanche nella stessa casa. Aveva un sapore confortevole, quel genere di intimità che si guadagnava con qualcuno dopo anni di intesa, il senso di sicurezza che si provava quando si facevano cose completamente diverse in spazi comuni, senza confini.
Fu sollievo.
Per qualche minuto, Atsumu si concesse di assecondare quell’illusione e immaginò che non ci fosse alcun muro a separarli, che il vicino fosse semplicemente dall’altra parte della stanza, a un colore di distanza, in piedi davanti a un leggio, tranquillo e a suo agio, mentre lo guardava costruire un comodino.
Il violinista sfiorò all’improvviso una nota altissima, uno stimolo che quasi lo accecò, e Atsumu batté il pugno su una spina di giunzione per farla andare giù, poi lo alzò in alto e si lasciò scappare un “woh-oh” acuto. Un attimo dopo assottigliò gli occhi e fissò con diffidenza il comodino e i pezzi rimasti. “‘fanculo” mormorò e setacciò il pavimento alla ricerca delle istruzioni.

 
“Woh-oh!”
Hinata si fermò con l’archetto a mezz’aria, sorrise e alzò gli occhi al soffitto, cercando di ritrovare la concentrazione.
Ora fermiamoci tutti, perché è un momento chiave.
Shouyou Hinata non era uno che se la tirava, credeva di non averne motivo. Per tutta la vita gli era sempre mancata quella cosa che tutti chiamano inclinazione naturale. Però Shouyou Hinata aveva quest’abitudine di catalogare le persone per ruoli di pallavolo e in quel momento pensò che non aveva idea di chi ci fosse dall’altro lato del muro (un uomo, una vecchia, un’intera famiglia molto silenziosa, una sola persona molto maldestra) ma sapeva per certo che era un alzatore. E Hinata, questo lo sapevano tutti, avrebbe fatto qualunque cosa per entrare nelle grazie di un buon alzatore.
Quindi anche se non se la tirava e anche se aveva una montagna di pezzi nuovi da imparare, Shouyou cambiò la disposizione delle dita sulla tastiera e suonò l’estate di Vivaldi, perché era la tipica cosa che faceva spalancare la bocca a tutti.
Non si chiese perché ci tenesse tanto a impressionare il vicino, lo stesso vicino che lo aveva svegliato per vendetta e che lo aveva costretto a suonare YMCA, ma si accorse del fatto che sperava che funzionasse e si detestò per questo.
La sfida divenne farlo esultare di nuovo.

 
***
 
Pioveva.
Tokyo si disegnò in contorni tremolanti nelle pozzanghere sparse sulla strada. Il rosso di un semaforo si rifletté malinconico nelle vetrine di negozi chiusi e bui.
Atsumu esitò in motorino a un passo dallo svincolo che l’avrebbe portato a casa, poi inchiodò e mise mano al portaoggetti. Liberò la macchina fotografica dall’otturatore e la resse per qualche secondo con l’obiettivo rivolto verso il cielo, bagnandolo appena, poi chiuse un occhio, si tirò indietro col busto e scattò.
Un uomo con una busta della spesa e un ombrello trasparente camminava ignaro e solo sul marciapiede, silhouette senza volto. Attorno a lui fari rossi, insegne al neon multicolore, semafori e finestre gialle si affannavano saltando da una superficie a un’altra e riflettendosi nella pioggia, a comporre lo sfondo di una foto che imitava un fuoco d’artificio. Sembrava che l’occhio non sapesse cosa guardare, che stesse contrattando col cervello per il dettaglio più importante. Intanto, il corpo dell’uomo era l’unica cosa che non brillava. L’obiettivo, punteggiato di gocce di pioggia, dava l’idea che quell’ombra di persona fosse l’unica cosa consistente in un mondo che sfavillava.
Atsumu guardò la fotografia in anteprima, incurante della pioggia che gli bagnava le spalle. A poco a poco, l’immagine si fuse agli schizzi caleidoscopici che bagnavano la macchina, quando impattavano sullo schermo.
Per la prima volta in vita sua, seppe cosa stava facendo.

 
Tornò a casa fradicio e felice. Aveva la cena – in realtà aveva pregato Osamu, non avete idea di quanto l’avesse pregato. A momenti si inginocchiava – e non era solo.
No, perché il violinista non aveva smesso un attimo di suonare, quel giorno.
Atsumu meditò se travasare il cibo dalle vaschette in un piatto. Lo osservò in riflessione, mentre il violinista suonava un pezzo lento e misurato sicuramente appartenente alla tradizione e immaginato per essere accompagnato a un koto. Scrollò le spalle, si impossessò delle bacchette, abbandonò l’idea del piatto e della civiltà e infine appoggiò la vaschetta sulla scrivania.
A questo punto si decise a rassettare. Rassettare, a casa di Atsumu, significava un po’ tutto quello che significava per tutti quelli che non si chiamavano Kiyoomi Sakusa, cioè spostare i vestiti dalla sedia al letto o viceversa, secondo necessità.
Il violinista tirò una nota azzurra per le lunghe, poi la derubò di intensità, finché non morì in un sibilo bianco panna. Era la cosa più triste che Atsumu avesse mai sentito in vita sua ed era precisamente per questo – attenzione, per questo e non per altro – che, per la prima volta in vita sua, dimenticò di essere egoista.
Non aveva idea del motivo per cui il vicino suonasse il violino. Se aveva cent’anni, forse aveva perso l’amore della sua vita e credeva che quello fosse l’unico modo per comunicare. Se aveva settant’anni, forse suonava per qualcuno. Se aveva cinquant’anni, forse si esercitava per una performance, uno di quei milioni di progetti deprimenti che si vedevano online e che anche un buzzurro come Atsumu riconosceva togliere mille sfumature alla musica. Se aveva vent’anni – e Atsumu non voleva neanche immaginare un’eventualità così pericolosa, ma visto che stiamo facendo un elenco lo costringeremo a farlo – forse era uno studente.
Qualunque fosse il motivo per cui il vicino suonava, quel giorno non si era staccato un attimo da quel violino e Atsumu pensò al suo benessere psico-fisico, al fatto che dovesse nutrirsi. Soprassederemo sulla fetta sorprendentemente ampia del suo cervello che ardeva dal desiderio di vedere chi ci fosse dietro quel lamento nostalgico e ci concentreremo su quello che Atsumu fece.
Pescò il piatto che aveva scartato precedentemente dalla credenza (era uno sputo di mobile attaccato al muro, ma credenza e illusione son concetti affini), divise la sua cena a metà e poi osservò la vaschetta con aria di sfida.
Dall’altra parte del muro, il violino litigò col silenzio, lo sfilacciò e iniziò a distruggerlo, giocando tra pause ed esplosioni e provocandolo. Era assurdo che uno strumento così piccolo facesse tanto baccano.
Atsumu si scusò con il frigorifero, perché aveva un’occasione di sfuggire alla sua miseria e lui gliela stava negando, poi afferrò le chiavi e si diresse alla porta. Esitò con la mano a un passo dalla maniglia e sperimentò per la prima volta quello che per una grossa fetta di popolazione mondiale non è che normale amministrazione: il terrore di interagire col prossimo.
È tutto il giorno che suoni, ho pensato che avessi fame. Ma chi cazzo era, sua nonna?
Hai rotto le palle tu e questo violino, perché non la smetti e ti nutri, stupido idiota? Atsumu non era una cima, ma sapeva rimorchiare da Dio e sapeva anche che così non si conquistava neanche un ringraziamento.
Mio fratello è un coglione, ma sa cucinare. Ne ha fatti troppi, ne vuoi un po’? Era vera solo la parte di suo fratello che era un coglione. Ma, come al solito, mentire si rivelava sempre la scelta più saggia.
Abbassò la maniglia e si trovò faccia a faccia con due nuovi problemi: 1, perché stava sudando? 2, voleva davvero vedere il violinista?
Atsumu non s’intendeva di magie, ne provocava senza fatica anche solo con un sorriso, però quella della parete era una magia che imponeva la sua esistenza indubbiamente, ma non si spiegava. Vederne l’epicentro non era come barare?
Interrompiamo i flussi di coscienza per ricordarci che Atsumu Miya era un bugiardo.
Questo sull’imbrogliare era un malloppo di cazzate. A chi importava di vedere o non vedere epicentri, bersagli e altri tipi di strutture concentriche? Il problema era che Atsumu viveva sulla cresta dell’onda, sulla linea di confine tra quella spuma di mare e l’abisso che nascondeva e quella musica era l’unica cosa che fosse mai riuscita a punzecchiare una pellicola che lui non si era mai preoccupato di proteggere.
Specchiarsi negli occhi di chi teneva in mano l’ago, quello sì che faceva paura.
Atsumu, schiavo delle sue bugie, non ci pensò. Sostò nella spuma di mare, sulla frivolezza di un concetto da commedia romantica del calibro di ‘vedere il musicista rovina la sua musica’ e fece la sua scelta da codardo.
Tornò indietro, strappò un pezzo di carta da un quaderno che non riconosceva di avere e afferrò una penna.
Sapeva esattamente cosa scrivere.
Si diresse nuovamente alla porta, uscì, posizionò messaggio e vaschetta sullo zerbino del violinista, poi bussò e scappò.
 

Ma chi diavolo era il vicino? pensò Hinata, quando scoprì la vaschetta e un odore paradisiaco gli invase le narici.
Afferrò il biglietto ripiegato prima di tuffarsi nel cibo, perché da piccolo aveva visto Il labirinto del Fauno e aveva imparato che bisognava diffidare dall’accesso gratuito a certe prelibatezze.

Di tutte le curve del tuo violino, la mia preferita è quella del tuo sorriso… quando mangi gli onigiri migliori del paese. Mio fratello sa fare una sola cosa, ma la sa fare bene.
Comunque non sono avvelenati, davvero, stai solo suonando da tutto il giorno.
Il vicino del 706
 
Il sorriso di Hinata si spezzò alla fine della prima frase. L’ultima volta che aveva eletto degli onigiri ‘i migliori del paese’ era stata il giorno prima, a cena con Yachi. Voltò la linguetta di carta che teneva chiusa la vaschetta e rivelò il disegno di una volpe stilizzata.
L’immagine dello schiacciatore laterale che gli consegnava la cena in una vaschetta identica, la sera precedente, gli tornò in mente rapida e distinta come una fotografia.
Shouyou guardò gli onigiri davanti a lui in un misto di sorpresa e delusione.
Non c’era verso, modo, maniera e possibilità che uno schiacciatore laterale fosse un alzatore. Non potevano essere la stessa persona. 
Ma adesso quel ragazzo era una sfida e il tallone di Achille di Hinata era che aveva un’insana tendenza a innamorarsi delle sfide.








NotElCiaaaao, sono tornata, incredibile, chi se lo aspettava?
Mi scuso per il ritardo, ma questa storia è una cosa complicata da gestire, perché ha avuto una gravidanza travagliata e io mi innervosisco facilmente con  lei. Però siamo qui! Wow!
L'estate di Vivaldi è quella che fa ZAzazazazazazaza ZAzazzazazazazaz ZAzazazazaza TARATARATAAAAA TARATATATATAAAAAA TATATATAAAAAA e così via.
Un fatto interessante è che quando ho scritto questo capitolo ho pensato che Atsumu avesse proprio bisogno di un comodino, ma non ho pensato che ad aver bisogno di un comodino ero anch'io. Qualche mese dopo ho pensato di aver bisogno di un comodino e l'ho preso al tempio di Ikea. Poi l'ho assemblato TUTTO DA SOLA (e seguendo le istruzioni) e mi sono ricordata di questa scena a lavoro quasi finito. Avrei voluto anch'io un bel violino di accompagnamento :(
Ci si vede prestino, tanto il 4 già è pronto, il problema è l'ultimo capitolo ehm
Grazie però per aver atteso, letto, insomma fatto tutte le cose carine del caso!

El.

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Capitolo 4
*** Depressione ***


Fase 4 - depressione



Shouyou Hinata era fiero di proclamarsi nuovamente membro della muraglia cinese umana. Una marmaglia cinese.
Il giorno prima aveva dato un esame parecchio difficile e aveva esaurito tutte le sue scorte di cibo. Era dunque di nuovo in fila al conbini e non aveva alcuna ragione al mondo per essere impaziente, eppure lo era. Diede le spalle al negozio e si trovò davanti un uomo grosso e barbuto, alto mille metri più di lui. Deglutì a disagio, incontrando lo sguardo austero dell’uomo.
Poi il signore gli sorrise e Hinata se ne accorse perché era un sorriso così grande, ma così grande, che strabordò dalla mascherina, gonfiandogli le guance e facendogli praticamente sparire gli occhi.
Hinata ricambiò il sorriso e sperò che l’uomo lo vedesse.
“Senta,” iniziò lui e Shouyou non invase il suo spazio personale, ma si inclinò nella sua direzione, dando alla conversazione una certa aria cospiratoria, “lo vede quel chiosco laggiù?”
Shouyou seguì il pollice grande tre metri del signore, poi annuì varie volte di fila.
“Qualunque sia la cosa che la turba, un fiore è sempre una buona risposta.”
Hinata sgranò gli occhi e fissò lo sguardo sul chiosco di fiori. Ad essere del tutto onesti, non era neanche sicuro che un chiosco del genere fosse legale, ma quell’interruttore che rendeva Shouyou una persona a cui succedevano le cose era suscettibile a quel tipo di casualità.
“Le tengo il posto.”
Non ci pensò due volte. Ringraziò mille volte il signore e si diresse senza attendere un attimo di più al chiosco di fiori.
“Salve!” lo salutò una donna. Doveva avere due milioni di anni e spuntò dal basso come se l’arrivo di Hinata l’avesse evocata. “Cerchi qualcosa?”
La risposta giusta era no. Non cercava nulla, ma Hinata non diede alla donna la risposta giusta. Le diede una risposta vera, indicando un ripiano pieno di cactus.
La donna inarcò un sopracciglio e lo studiò attentamente, come se Hinata avesse detto qualcosa di inaspettato.
“Un cactus? Vuoi quello col fiore o senza?”
Shouyou aggrottò la fronte, confuso, poi si strinse nelle spalle e con leggerezza rispose: “Quello col fiore, grazie.”
“Oh, il mio lavoro qui è già finito!” La signora infilò una mano ossuta e sottile tra gli aghi di cactus e raccolse il vasetto che aveva scelto per impacchettarlo. “Per altri fiori, vienimi a trovare nella città in cui non brilla mai il sole.”
“Okay?”
Con un sorriso e un gesto sbrigativo della mano, la signora lo invitò ad andare e Shouyou tornò in fila con un cactus stretto tra le mani e solo un’adolescente tra lui e la commessa del conbini.
In quattro e quattr’otto fece la spesa e si diresse a casa con un cactus e una busta piena di viveri.
Jackpot.
Ci sono due cose di cui Shouyou non venne mai a conoscenza sulle interazioni che aveva avuto quel giorno. La prima era che, quando ebbe finito di fare la spesa, il chiosco di fiori non c’era più. La seconda era che, quando giunse il turno del gigante buono, questo chiese alla commessa se vendevano zebre da corsa. La donna scosse la testa desolata e gli consigliò di rivolgersi a qualcun altro. “Oh, sarà per la prossima volta” disse lui, concedendole uno dei suoi sorrisi, poi si rivolse al resto della marmaglia cinese, “mi raccomando, diffidate dai tapioccoli aviatori”.
 
***
 
“Scordatelo.”
Prima che Osamu potesse alzare gli occhi al cielo e impartire di nuovo l’ordine, Atsumu si buttò a terra e cominciò a fare le flessioni.
“Che stai facendo?” gli domandò esasperato.
“Attività da coronavirus, credo sia una delle più gettonate, tra l’altro.”
“Già, tra chi sta tutto il giorno chiuso in casa e non va al lavoro.”
“Ma è proprio questo il punto, io non lavoro, ‘Samu. Mi sono appena licenziato.”
Osamu depositò l’ultimo pacchetto nella borsa termica e chiuse la zip per evitare danni. “A Kyoryuchi.”
“Mi hai sentito?” domandò Atsumu, ormai seduto a terra, con i gomiti poggiati sulle ginocchia.
“Purtroppo sì. A Kyoryuchi, non fare deviazioni, puoi percorrere la strada una sola volta, dopo la consegna non andare in giro.”
Atsumu si rialzò e allargò le braccia, sconcertato. “Credi che sia un codardo?”
Osamu fece spallucce e gli porse la borsa con aria impaziente. “Non pensare neanche lontanamente di aprire una vaschetta e sputarci dentro.”
Atsumu si portò una mano al petto, offeso. “Davvero? Credi…”
“Ci avevi pensato, vero?”
Distolse lo sguardo. “Un pochino,” ammise, afferrando la borsa per il manico e raggiungendo la porta a grandi falcate.
Prima che questa si richiudesse e Atsumu fosse libero di scorrazzare e manomettere tutte le vaschette che voleva, Osamu gridò dall’interno: “Ti serve il numero dell’appartamento?”
La porta si richiuse, Atsumu si voltò in tempo per cogliere il ghigno provocatorio di suo fratello oltre il vetro, poi sollevò il dito medio.
 

Atsumu Miya aveva trentaquattro tic nervosi e ventisei piani di fuga in testa, in quel momento.
Faccio come col vicino, pensò con il dito a un passo dal campanello. Potreste pensare che fosse appena arrivato, ma il dito era lì da tre minuti. Busso e scappo, però prima ci sputo dentro.
“Ragazzo, devi pigiare, altrimenti non suona mica” gli gridò una donna sui trentamila anni, che spazzava il lato esterno della soglia di casa sua. Non erano molti, i metri che li separavano, semplicemente il suo udito doveva essere stato intaccato dai versi dei dinosauri.
Atsumu ‘pigiò’ e pensò che aveva dieci secondi per sputare negli onigiri. No, erano nove. Otto, sette, sei. Poteva lasciare le vaschette alla signora! Cinque, quattro. Okay, devo sputare adesso. Tre, due...
“Omi!” salutò, quando l’uscio si schiuse e la versione migliore di Sakusa gli si parò davanti. Ovviamente ci aveva dovuto mettere nove secondi. Ovviamente non poteva rendergli la preparazione psicologica più facile.
Se il volto di Sakusa era capace di esprimere sorpresa, quella doveva essere la configurazione che i suoi lineamenti assumevano quando la provava. “Ciao, non sapevo lavorassi per tuo fratello.”
Atsumu schioccò le dita della mano libera e gli puntò contro una pistola metaforica. “Che intendi? Io sono Osamu.”
Sakusa assottigliò gli occhi e inclinò il viso su un lato. Atsumu desiderò di chiedergli se casa sua fosse fornita di una pratica botola che lo aiutasse a sotterrarsi a Tokyo e venir fuori nell’inferno più nero.
“Sto scherzando, non sono Osamu. Lui vorrebbe, ma non ha…” l’inadeguatezza di Atsumu si scontrò ancora con il sopracciglio di Sakusa, ma non riuscì a fermarsi in tempo “il mio fascino” inspirò tra i denti con la stessa sofferenza con cui in genere si guardava qualcuno rendersi ridicolo. Atsumu era spuma di mare con tutti, ma non con lui. Non aveva mai saputo come prenderlo.
“Prendo i soldi” lo informò Sakusa, sparendo qualche attimo dopo in una stanza che Atsumu non poteva vedere. Sbirciò nel corridoio e negli indizi di spazi che riusciva a sfiorare con lo sguardo. Era un appartamento che sembrava aver scritto ‘pratico’ su ogni superficie. Ogni cosa in quel corridoio era lì perché era utile e non perché era stata dimenticata, procrastinata, ignorata. Se esisteva l’opposto del suo ex comodino fatto di libri e della sua scrivania fatta di caos era quel corridoio.
“Non sapevo che mangiassi da mio fratello,” disse Atsumu, quando sentì i passi di Sakusa avvicinarsi.
Entrò nel suo campo visivo e fece spallucce. “È uno molto pulito.”
Atsumu annuì. Voleva morire. Voleva morire spiaccicato, invece si avvicinò per passargli le vaschette – chiuse, sigillate, insputate – e disse: “Ti trovo bene.”
“No, no!” Sakusa mosse le mani come quando il gamberetto si era trasferito nel suo condominio e aveva comunicato con il traslocatore in stile stella marina. “Non ti puoi avvicinare.”
“E…” Atsumu inspirò e si grattò la testa, come se davanti a lui avesse avuto un enigma e non il suo ex, “e io come te lo passo, il cibo? Te lo lancio?”
“No, me lo passi, ma senza avvicinarti.”
C’era quest’idea, una specie di opinione comune, secondo la quale Sakusa Kiyoomi era ‘quello normale’. Okay, aveva qualche problema con la pulizia, ma tutto sommato era una persona comune. Ecco, questa gente non aveva idea di quanto quel ragazzo fosse fuori come un balcone. Non è che più si fa silenzio meno si è pazzi, eh.
Comunque Atsumu si allontanò e tese il braccio, accontentandolo. Sakusa però mosse le dita della mano sinistra indietro, e Atsumu, sospiri fatti e sopraccigli alzati, indietreggiò ancora fino a porgergli le vaschette come se tra loro ci fosse stato un bancone intero di un bar.
Lui lo osservò come se non sapesse decidersi.
“Non puoi fare sul serio, Omi, perché non prendiamo in prestito un carretto?” Atsumu si rimise dritto e ripose le vaschette nel borsone.
Con tutta la calma del mondo, Sakusa ebbe prima la faccia tosta di sbuffare, poi si abbassò e poggiò i soldi a terra, in una zona che poteva essere definita neutra. Atsumu rimase strabiliato dalla sua capacità di non sfiorare nessuna superficie contaminata con le ginocchia o con le nocche, quando abbandonò le banconote. Un istinto infantile e stupido gli fece venire voglia di dargli un colpetto e farlo cadere.
Anzi, gli venne una voglia matta di abbassare la mascherina e pronunciare una pioggia di p e t. Scambiò un’occhiata con la signora che spazzava le soglie delle porte e lei ricambiò con un’alzata di spalle e gli occhi sgranati, come se convenisse con Atsumu sulla follia del ragazzo accovacciato davanti a lui.
Con un sospiro, Atsumu abbandonò la borsa (e non le vaschette, per carità) accanto ai soldi e lasciò che Sakusa si appropriasse da solo del suo ordine.
“Io no, comunque” disse poi, mentre si alzava.
“Tu no cosa?”
“Io non ti trovo bene.”
Ah, giusto, la sua sincerità.
Atsumu si chinò a prendere i soldi con un sospiro e li infilò in una tasca, sul retro della borsa. Poi lo guardò. Lo trovava davvero bene. Non il tipo di bene che avrebbe baciato, più quello che avrebbe fotografato. Sakusa era un tipo da campo di segale o da alta quota, vedeva il vento infilarsi tra le spighe e tra i suoi capelli e muovere tutto come onde di un mare intransigente, tempestoso solo nella sua calma. Da quando la pandemia era scoppiata si era chiesto spesso come se la stesse passando, al punto che a volte era stato solo a una auto-strigliata di distanza dal chiamarlo, ma ora che lo sapeva non aveva la sensazione di aver conquistato alcuna risposta cruciale. Pareva solo che fosse una cosa familiare che era cresciuta e che l’unico indizio di quella familiarità fosse non tanto in Sakusa quanto in lui che ci interagiva. Un po’ come rivedere un bullo e scoprirsi di nuovo indifesi.
“Omi?” lo chiamò, mentre lui già era sul punto di chiudere la porta. “Ho montato il comodino.”
Atsumu vide la porta vacillare nell’indecisione di chi la spingeva. Il volto di Sakusa era stato creato apposta per esprimere scetticismo e anche quella volta gli venne benissimo. “Davvero?”
“Sì.”
Omi annuì e ricominciò a chiudere la porta. “Hai fatto bene,” disse nella fessura d’aria che era rimasta.
Atsumu sorrise, poi si voltò e se ne andò.
E, proprio così, fu libero.
 

Adesso starete pensando che la narrazione è incompleta e fallace, che sono state usate parole chiave come ‘ex’ e ‘comodino’ e non sono state fornite spiegazioni sufficienti alla comprensione dello spago di rapporti interrotti che lega queste persone.
Ma il fatto è che non c’è storia più prevedibile di questa.
Atsumu si mise in sella alla sua motocicletta e, poiché gli era stato detto di filare senza deviazioni al ristorante, lui non filò senza deviazioni al ristorante, ma prese una strada che avrebbe quasi raddoppiato i tempi.
Era uno stronzo, eh, amava fare i dispetti al fratello, ma aveva anche ragioni più nobili per allungare di tanto il tragitto.
Prese la prima a destra e pensò che un pochino Osamu se lo meritasse.
Il fatto era questo: Omi l’aveva lasciato. Incredibile, vero? A chi verrebbe in mente di farsi scappare uno come Atsumu? Però lui ve l’aveva detto che era un pazzo in incognito.
Comunque l’aveva lasciato perché aveva detto che erano incompatibili (anche questo era oltraggioso, Atsumu era perfetto per tutti perché lui era perfetto punto). Aveva detto che erano incompatibili perché si trascinavano in basso a vicenda senza neanche rendersene conto.
Atsumu era un indoratore di pillole, per fare un esempio, le tingeva di sette strati d’oro pure se erano pillole buone, perché l’adulazione era una cosa innata, per lui, se credeva che ne valesse la pena. Allo stesso tempo Atsumu era antipatico. Se non capite come le due cose possano coesistere nella stessa entità, non avete mai conosciuto un approfittatore. Kiyoomi, invece, era solo brutalmente onesto.
Atsumu era uno che parlava per metafore. Era capace di dire al suo peggior nemico che era un coglione stronzo di merda usando solo aggettivi positivi ed era capace di farlo non perché volesse un posto nelle sue grazie, ma per il gusto di prenderlo in giro. Era una tecnica che aveva imparato, tra l’altro, e che da piccolo gli era mancata completamente. Kiyoomi, invece, faceva una serie di domande chiave, inquadrava la situazione e agiva di conseguenza, riducendo le interazioni al minimo. Era nato così e non era mai cambiato.
Atsumu faceva una montagna di cazzate, gesti inconsulti che lo rendevano simpatico alle feste e una calamità goffa in qualsiasi altra situazione. Kiyoomi rigava dritto perché voleva.
Atsumu era un campione di prime volte, ma non aveva mai finito neanche un cruciverba. Kiyoomi non tentava: faceva e portava a termine.
Atsumu aveva quel tipo di carisma per cui nella vita si diventava dei ricchi coglioni o solo dei coglioni. Kiyoomi era uno affidabile.
Il fatto era che Sakusa puntava in alto, Atsumu puntava alla cima dell’universo o semplicemente non puntava.
Quando lui gli aveva detto che erano incompatibili, dunque, Atsumu gli aveva chiesto di fargli un esempio, ma Sakusa, in fede alla sua essenzialità, gli aveva solo risposto che aveva tenuto chiuso in una scatola quel comodino per un anno e mezzo e non aveva ancora trovato le palle di portare a termine una cosa così semplice come quella.
“L’inconcludente sarei io perché non assemblo un mobile di merda? Tu mi stai lasciando, Omi,” gli aveva detto Atsumu, che sapeva di essere più bravo a parole, ma sapeva anche di avere torto.
Sakusa gli aveva detto che, al contrario, se una cosa andava male preferiva non trascinarla, e che aveva fatto un piacere a entrambi.
Da quel momento in poi, Atsumu Miya aveva iniziato a essere il fiore che leggevate precedentemente. Quindi faceva sesso con chiunque fosse disposto a mostrargli un briciolo di compatibilità, per dimostrare a Sakusa (a se stesso, ma anche qua siamo magnanimi abbastanza da soprassedere) che qualcuno per lui esisteva, che ne esistevano centinaia, di qualcuno, che poteva incastrarsi, che non era vero che era rotto e che le sue insicurezze avevano fondamento (questo Sakusa non l’aveva mai detto e non l’aveva mai nemmeno sottinteso). Qualcuno pronto a dimostrargli che era migliore di tutti e che il mondo era una mela che poteva mordere a suo piacimento e a sua discrezione.
La ricetta dei fiori.
Meno sostava nel silenzio delle sue quattro mura, meglio stava. E quindi, se non aveva processato il dolore subito dopo la rottura, quel dolore gli si era catapultato in faccia, e amplificato, quando nelle sue quattro mura si era ritrovato rinchiuso.
Atsumu frenò davanti a un ferramenta e si avvicinò al banchetto all’entrata per fare una cosa stupida. Non era un problema, perché quelle per lui erano all’ordine del giorno, dopotutto.
Quello che non aveva capito allora, Atsumu lo capì mentre chiedeva a un ragazzo di vendergli tre barattoli piccoli di colori primari: magari gli opposti si attraevano o i simili si cercavano, ma forse non bisognava mettersi a contare le cose in comune e quelle agli antipodi. Forse la compatibilità non si annidava nei grafici degli interessi condivisi, ma nella completa indipendenza dalle categorie. Magari il segreto degli incastri non era da qualche parte sulla linea che collegava uguale e opposto, forse era semplicemente altro.
“Grazie,” mormorò al ragazzo che lavorava lì, prima di scappare sulla moto e tornare al ristorante per evitare che Osamu lo uccidesse.
“Hai deviato,” gli disse infatti una manciata di minuti dopo, poi abbassò lo sguardo sulla busta che suo fratello stava reggendo. “Non voglio neanche chiedere.”
“Per una volta non hai detto una cazzata, ‘Samu.”
 
***
 
Quella sera, quando Atsumu tornò a casa, rischiò di morire.
Si avvicinò alla porta con due buste: una in cui teneva i barattoli di pittura, una con la cena che gli era stata nuovamente offerta perché – sulla carta – Osamu era un fratello divorato dai sensi di colpa. In realtà Atsumu si era lamentato e Osamu era stato così sfinito che gli aveva sbattuto una manciata di onigiri in una vaschetta e arrivederci.
Comunque torniamo alla vera tragedia: Atsumu aveva rischiato di morire!
Questo perché sullo zerbino della sua porta non c’erano cene romantiche, bigliettini con numeri di telefono dimenticati o petali di rosa, no, c’era un cactus ed era stato a tanto così dal calpestarlo e finire in ospedale col piede attraversato dagli aghi.
Se volete la verità, il cactus era piccolo e magro ed era altamente probabile che, se Atsumu l’avesse calpestato, sarebbe morto. Il cactus, però, non Atsumu. 
Comunque il nostro eroe lo raccolse dallo zerbino e lo ispezionò. Si lasciò scivolare il manico di una delle buste sul polso e affondò una mano nella tasca del giubbino, per recuperare le chiavi.
Il cactus aveva un solo grande fiore rosa in cima, notò, infilando distrattamente le chiavi nella toppa e togliendosi le scarpe con i piedi. Non c’era nessun biglietto, né un indizio su chi potesse essere il mittente di quel regalo molto stupido.
“Merda,” sussurrò tra sé, abbandonando cena e tempere all’ingresso per mettere al sicuro il cactus su una mensola sospesa sopra la scrivania. Incrociò le braccia al petto e considerò la pianta come se, da un momento all’altro, si fosse potuta mettere a rotolare via di lì indispettita. “Lo sai che devi cavartela da sola, vero? Perché io ti faccio morire. Non può finire in altro modo.”
Atsumu la fissò per qualche altro secondo. Non sappiamo se stesse aspettando una risposta, ma nel caso non la ricevette.
“Chi ti ha portato qui? Scommetto che è qualcuno che ti odia.”
Il cactus non rispose. A proposito di cactus, ovvero le piante più facili da curare al mondo, non è che Atsumu non avesse fiducia in se stesso (stiamo parlando di Atsumu Miya), è che era veramente un incapace, quando si trattava di piante o in generale di qualsiasi cosa che avesse bisogno di lui per sopravvivere.
“Sai che c’è? Non rispondere.”
Atsumu fissò ancora il cactus, poi una lampadina si accese nella sua testa. Stai parlando a un cactus, tu hai perso la testa.
L’ultima onda si infranse sul bagnasciuga, la spuma di mare cominciò a seccarsi in bolle sempre più effervescenti, poi morì in una scia che era solo un aroma di bianco.
Era di nuovo quell’assenza di sfrontatezza che potevano vedere solo lui e la musica del vicino. Era di nuovo solo e uno sguardo al suo comodino confermò che montare un mobile non l’aveva reso una persona diversa. Non era neanche sicuro di voler essere una persona diversa. Cambiare a causa di qualcuno e cambiare per qualcuno erano due cose che di simile avevano solo la costruzione della frase.
Tornò all’ingresso per recuperare le buste lasciate indietro. Quando si chinò per chiudere per sempre in un cassetto l’idea di usare quella pittura, il vicino cominciò a suonare.
E quella volta non bucò il silenzio, non lo squarciò neanche. Lo prese a pugni e lo finì in una maniera che fece venire voglia ad Atsumu di buttare giù la porta di casa sua e pregarlo di fargli tornare di nuovo fame.
Invece chiuse gli occhi, accolse per la prima volta in vita sua quel sovraccarico di verde e rosso e trovò qualcosa di accattivante nello schizzo di blu che si insinuò sotto le palpebre, quando il violinista prese una nota sola e la lanciò in alto come a scacciarla.
“Se Osamu fosse qui mi ammazzerebbe” considerò tra sé, poi spostò il letto dalla parete che condivideva con il vicino e si affidò a un istinto che aveva sempre saputo condurlo, quando lui non lo fraintendeva deliberatamente.
Dovrebbe esservi chiaro a questo punto che Atsumu tendeva ad avere questi schizzi di follia che finivano malissimo o in un buco nell’acqua e questo era uno di questi. O un’attività da coronavirus un po’ estrema.
Aprì le finestre, recuperò un piatto di carta da terra e delle vecchie buste della spesa da disporre alla base del muro, poi, con un coltellino svizzero, dispose i tre colori primari che aveva comprato sul piatto e ne mischiò un po’ nel mezzo. A quel punto sollevò un dito fluttuante sulle tempere. Il violinista fece stridere secco l’archetto su una corda bassa, Atsumu vide una macchia viola e affondò il dito nel viola – in mancanza di pennelli si fa alla vecchia maniera, gente. Strisciò il dito sporco sul muro che li separava e cominciò a disegnare la musica del violinista.
Ora, questo vi sembrerà un momento febbrile e rivoluzionario, fatto di occhi sgranati e sguardi da pazzi in piena d’ispirazione.
Non era così. Infatti Atsumu pensò, ecco qua, ho fatto la cazzata.
Però. Però però però, era abbastanza tranquillo, aveva solo paura di non riuscire a stargli dietro. Infatti, se volete saperla tutta, era come su una tavola da surf, nel ricciolo dell’onda, nel tunnel che si rigenerava di metro in metro: la spuma di mare a destra, l’abisso a sinistra, in equilibrio tra i due.
Ora, Atsumu non sapeva surfare neanche per il cazzo. Mettetelo su una tavola da surf e state certi che cade. Sulla sabbia. Ancor prima di pensare di mettere la tavola in mare.
Però il paragone regge. Era solo, ma non era schiacciato. Stava zitto, ma se avesse parlato sarebbe stato stranamente in grado di dar luce a una battuta cretina. Era fermo davanti a un muro, ma il muro era stato abbattuto.
Dopo un tempo che oscillava tra i tre secondi e le tre ore, il violino tacque. Atsumu concluse un concetto colorato con un ultimo tocco giallo e poi alzò la mano. Sorrise, perché pensò che sembrava il gesto affaccendato e stupido con cui i concorrenti dei concorsi culinari in TV smettevano di spolverare prezzemolo al suono ‘STOOOOOOP’.
Fece un passo indietro, inciampò nelle buste, riuscì a non cadere per miracolo e diede un’occhiata complessiva al suo capolavoro.
È difficile trovare un termine per spiegare con esattezza che aspetto avesse, ma spremendo il cervello si può giungere a una parola che per lo meno riassuma: schifo.
Faceva proprio schifo, era un’accozzaglia di colori senza senso che svolazzavano da destra a sinistra su un muro di un appartamento in affitto ed erano cacofonici. Cacocromici. Caco.
Per uno come Atsumu, però, avevano senso ed erano lo spartito di una canzone per incompresi.
Guardando il muro, gli venne fame.
Afferrò la macchina fotografica e scattò.
L’errore era essere abituati a pensare che la tristezza fosse un telo grigio, una coperta stesa sul mondo fatta della sostanza primitiva della rabbia e resa della stessa consistenza della gomma. Ma era l’esatto opposto, fatta dello stesso colore di un’esplosione o un’esplosione di colori. E uno lo vedeva solo quando se ne liberava.
Eccola qua, in tutto il suo splendore. Quel muro caleidoscopio era la sua tristezza. 
Abbandonò la macchina fotografica sul letto e questa per poco non rotolò giù. Infarto sfiorato, Atsumu corse in bagno, si passò una mano nei capelli, strizzò l’occhio al suo riflesso e strizzò anche la strizza.
Era uno schianto. Veramente, era l’essere umano più attraente che avesse mai messo piede sul pianeta Terra e, se avesse calpestato suolo marziano, avrebbe allargato il primato. Era un tipo distrattamente affascinante, pigramente incantevole…
Era un disastro e avrebbe mandato a puttane la magia.
Però aveva fame e se Atsumu era arrivato ad avere anche solo un involucro, un’armatura di autostima, era perché quando aveva fame semplicemente non perdeva.
Mai.
Aprì la porta e in un attimo si trovò a fronteggiare quella del vicino. Sollevò una mano per bussare e…
Evidentemente quello era un giorno difficile per lui, sul fronte porte.
“Ehi!” fu interrotto infatti da una voce femminile, che si portò alle sue spalle in un baleno.
Atsumu vide azzurro e aggrottò la fronte, nell’anticamera della realizzazione, poi incontrò gli occhi di Yachi.
“Sei qui per salutare Shouyou? Lo senti spesso, eh?” esitò, poi sgranò gli occhi e si mosse una mano rapida davanti alla faccia, “non ti dà fastidio, vero? Non ne capisco niente, ma so che è bravo.”
A questo punto Atsumu fece la cosa che a tutti voi verrebbe in mente di fare in una situazione simile. “No, stavo…” accarezzò la porta, “stavo controllando che non ci fossero spifferi.”
Wooow! pensò, ebbe la decenza di farlo con la voce di Osamu e un tono sarcastico, coglione idiota terribile testa di cazzo.
“Tutto pulito,” dichiarò poi, interrompendo con la forza il principio di domanda scomoda che di lì a poco gli avrebbe fatto Yachi.
Si guardarono per qualche secondo nel silenzio interdetto di entrambi.
Poi il cervello di Atsumu formò una parola: fuuuuga.
Filò in casa e sbatté la porta come ad accalappiare tutto il vento che aveva portato con sé. Dopodiché fece la seconda cosa che a tutti voi verrebbe naturale fare a questo punto.
Recuperò il cellulare dalla piastra della cucina – non fate domande – e si chiuse in bagno – fate domande. Le risposte sono: era la stanza più lontana dalla casa del violinista. Di Shouyou. Del gamberetto. Tra tutte le persone rintanate come topi negli appartamenti, il violinista doveva essere Shouyou! Si arrampicò nella vasca e tirò la tenda. Ora, questo è un gesto insensato.
“‘Samu.” Udite udite, Atsumu sussurrò.
“Ti prego, dimmi che finalmente ti hanno rapito.”
“Se mi avessero rapito non potrei chiamarti.”
“Per il riscatto che non pagherei. Anche se sei così fastidioso che si cercherebbero un altro da rapire.”
“Hai finito?” Atsumu scosse un po’ la tenda della doccia. Per renderla più insonorizzata, ovviamente. “Sto vivendo un sincero dramma personale.”
“Se ha di nuovo a che fare con Vin Diesel non voglio saperlo.”
“‘Samu, la sua voce è bordeaux…”
“Sto riagganciando.”
“No, no!” Atsumu quasi cadde nella vasca da bagno, poi abbassò la voce e tornò a sussurrare: “Vin Diesel non c’entra niente. In pratica il mio nuovo vicino suona il violino come un angelo, solo che non sapevo che è anche il vicino che mi sta antipatico. Quindi sono innamorato.”
Dall’altra parte del telefono, Osamu rimase in silenzio per qualche secondo. “Non ho capito.”
“Stavo pensando di imparare a suonare il piffero per impressionarlo. Secondo te il violino e il piffero stanno bene?”
La linea tacque.
“‘Samu.”
tu-tu-tu.






NotEl: :) davvero non so che dire :)
Ebbene dopo un anno e mezzo sono tornata e sono tornata a finire, non ad abbandonare di nuovo, perché ho anche concluso l'ultimo capitolo. Per quanto sia stato antipatico, da parte mia, non cambierei nulla di questo processo strano. Questa storia è stata un inferno in ogni sua fase e, vedrete con il prossimo e ultimo capitolo, sarebbe stato impossibile darle il finale che ha avuto un anno e mezzo fa e si dà il caso che sia 100 volte migliore del finale migliore che avevo pensato allora. COMUNQUEEEE la questione del carretto di fiori scomparso potremmo definirla una presuntuosissima autocitazione di un'altra storia che ho scritto che si chiama "gocce di fiori", ambientata in una città in cui non c'è mai il sole e che ha un po' di questa mmmmmh fuggevolezza. Grazie per essere tornati se siete tornati e per essere qui se siete nuovi <3 Tra qualche giorno ASSICUROOOO ultimo capitolo.

El.

 

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Capitolo 5
*** Accettazione ***


Fase 5 - accettazione


Diffidate da chi dice che marzo è un po’ pazzo, il vero matto sarà sempre aprile.
Era aprile, quindi, qualche giorno dopo la sua metà e Shouyou si svegliò a un orario improponibile tipo le nove del mattino (per la maggior parte di voi sarà proponibile, ma il bioritmo di Shouyou prendeva ispirazione da quello dei galli). Si alzò a sedere nel letto e, un attimo prima di andare a sbattere per la milionesima volta con la testa contro il soffitto, si tirò giù come un ninja. Alzò le mani di riflesso, come se fosse stato pronto a combatterlo. Il muro, sì.
Poi prese coscienza del mondo che lo circondava, sgusciò via dal futon e scese dal soppalco.
Insomma, quella mattina pioveva, contrariamente al sole spaccapietre dei giorni precedenti. La pioggia faceva un baccano allucinante, tanto che gli altoparlanti non erano riusciti a svegliarlo.
L’atmosfera era un po’ deprimente, se proprio volete conoscere l’opinione di Hinata, però lui si era svegliato con una nuova consapevolezza.
Il fatto che si fosse verificata una cosa del genere – la venuta di una consapevolezza – era in sé un fatto straordinario. Perché, nel caso in cui non vi fosse chiaro, Shouyou le cose le faceva così.
Incappava nel funerale di uno con cui aveva fatto sesso e restava, così. Vedeva l’immagine di un violino da un fisioterapista e ne faceva la sua nuova ragione di vita, così. Un pazzo per strada gli diceva di comprare una pianta e lui lo ascoltava perché l’aveva preso per sacerdote del tempio della saggezza, così. Non che questo facesse di lui un cattivo osservatore, tutto il contrario.
Semplicemente osservava, notava, comprendeva e poi eh, vabbè, e sia.
Capirete che dormire sopra alle cose era uno spreco di tempo, per lui, però quella volta l’aveva fatto.
In pigiama, le palpebre che si incollavano ancora tra loro ogni volta che le batteva, Shouyou recuperò il violino dalla custodia, si avvicinò al muro destro del suo appartamento e, per qualche ragione che resterà sconosciuta a tutti, suonò un tango.
A dire il vero suonò solo le prime note di un tango, poi tirò l’archetto verso il basso, velocissimo, e attese in silenzio che il muro rispondesse.
Tara-ra-ra-raaaa.
Nel caso in cui non fosse ovvio per tutti, era La Cumparsita, nota ai più come taratta-ta-tà tara-ra-ra-raaaa
Hinata sorrise e forse il responsabile dell’umore ballerino di aprile era lui, perché tornò il sole.

***
 
Il frigorifero era un po’ sciocco e Atsumu avrebbe ucciso per una birra. Ah, comunque sciocco era un modo stupido per dire che era vuoto e avrebbe ucciso non era un’iperbole.
Voi non lo sapete, ma Atsumu ci teneva a fare il tipo romantico. Non che gli servisse (non gli serviva, ovviamente non gli serviva neanche un po’, ma neanche per idea), però tanto per sicurezza essere romantici non guastava mai. Diceva il saggio: ‘non è vero ma ci credo’.
Pensò di regalare a Shouyou un fiore.
In mancanza di altri fiori, pensò che fosse un bene prelevare quello in cima al cactus, quindi gli chiese scusa mentalmente, si avvicinò alla mensola che ospitava la pianta e mise le mani nel cactus per staccare il fiore.
Voi potreste tranquillamente essere la versione più stupida di essere umano mai concepita da Madre Natura, ma state pur certi che ci sarà sempre qualcuno migliore di voi. In questo caso, anche più stupido. Quel qualcuno era Atsumu Miya.
“Porca puttana!” gridò al silenzio ovattato di una gabbia d’appartamento. La tecnica di protezione più antica del mondo sono le spine delle piante e si dà il caso che il cactus sia anche la sua versione meno discreta. Nessuno, proprio nessuno, si metterebbe mai in testa di derubare i cactus dei loro fiori. Come prevedibile, Atsumu non ottenne quello che voleva.
Al contrario, spostò le mani veloce dagli aghi e trascinò il vaso con sé. Questo fece un volo di due metri e si spaccò tra la scrivania e la sedia. Il cactus si smembrò in tre grandi pezzi e, udite udite, Atsumu ottenne il suo fiore.
Guardò l’intruglio di ceramica, terriccio e cactus sul suo pavimento e realizzò che, tra mura dipinte e cadaveri di cactus, non doveva essere l’inquilino migliore della storia. Raccolse la carcassa stando attento a non pungersi e ripose il cactus in un barattolo, ricomponendolo con lo scotch.
Ricomponendolo con lo scotch.
Lo scotch.
Senza un pensiero al mondo, Atsumu si diresse in bagno e si diede un’ultima occhiata prima di lasciare casa. Poi si trovò davanti alla porta anonima del fu violinista misterioso.
Respirò il silenzio pre-bomba a cui era tanto abituato e forse qualcosa, da qualche parte, fischiò. Era un trucco delle orecchie, una menzogna, una forma di illusione, però aveva un significato diverso.
Non era grigia, non era sorda, era anticipazione. Era il fiato sospeso che precedeva un concerto.
Non era oppressione, era possibilità.
E, per quanto a volte sembri un nemico, non c’è alleato più permissivo del silenzio, per accompagnare una sinfonia. Non c’è altro modo di udire, se tutt’attorno non v’è vuoto.
Alzò un pugno chiuso, le nocche pateticamente bianche. Iniziò a contare i suoi confortanti dieci secondi.
Invece Shouyou spalancò la porta proprio davanti al suo naso.
“Perché diavolo aprite tutti al nono secondo?” disse lui, forse parlò al cielo.
Hinata inclinò il viso su un lato. “Eh?”
“Niente, ho…” Atsumu scosse la testa. “Che coincidenza, eh?"
Si era dimenticato il fiore di cactus.

 
No, in realtà Shouyou era rimasto con l’orecchio appiccicato alla porta d’ingresso con aria da 007, di modo da non poter fare né troppo presto né troppo tardi.
Il vicino dal dubbio ruolo pallavolistico abbassò lo sguardo sulle sue mani piene. Shouyou si sentì in dovere di dare spiegazioni… e di cogliere le occasioni al volo. “Io ho da mangiare!” dichiarò. Così, senza aggiungere altro.
“Lo vedo.”
Incapace di fornire una risposta più eloquente, Shouyou sollevò la scatola di cartone con i manici che reggeva. “No, intendo che… magari questa volta invertiamo i ruoli. Ti offro da mangiare io!” Avete visto che piano? Che incredibile struttura ingegneristica? Mica pizza e fichi. “È l’occasione che aspettavi di indossare gli occhiali.”
Il ragazzo annuì. “Prova a dirmi che non hanno funzionato.”
Hinata ridacchiò e, con la coda dell’occhio, lo vide arricciare il naso sotto la mascherina. “Senti, posso sapere come ti chiami?”
Capite, gli mancava proprio un pezzo.
“Atsumu Miya” e sembrava un biglietto da visita.
Hinata aveva creduto che, parlandoci, ogni dubbio si sarebbe sciolto, invece la sua testa continuava a saltare da schiacciatore laterale ad alzatore senza che riuscisse a isolare il momento dello scambio. Più si concentrava, più gli pareva di perderlo. “Va bene, Atsumu Miya,” Shouyou imitò il suo tono solenne.
“Non chiamarmi co…”
“Allora ci stai? Mangi con me?”
Atsumu annuì una volta, molto lentamente, poi altre quattro, cinque di fila. Come la prima volta che l’aveva visto, Hinata pensò che fosse troooppo carino e che aveva voglia di stracciarlo, a qualunque gioco stesse giocando.
Atsumu si levò gli occhiali e lo considerò pensieroso. “Oh, allora se tu porti da mangiare io vado a prendere il mio violino.”
“Hai un violino?” Shouyou sgranò gli occhi come se la possibilità fosse stata semplicemente succulenta. “Posso insegnarti!”
Ora, contro ogni regola del buon cantastorie, dobbiamo effettuare un salto di cervello, perché il livello è semplicemente troppo basso per non essere riconosciuto. Atsumu era pronto a sfotterlo, davvero, aveva proprio la battuta in canna. Mira e spara. Ma non fece fuoco proprio per niente, perché, a essere sinceri e cristallini, il coronavirus era l’alleato numero uno delle seghe e premiava ogni settimana la fantasia erotica più creativa. Quindi Atsumu pensò alle dita di Shouyou che guidavano le sue sulla tastiera, un’impugnatura condivisa dell’archetto, i ciuffi color carota che si mischiavano ai suoi, mentre gli mostrava come poggiare il viso sul mentoniere. Dunque soffocò sulla sua battuta, perché gli era appena venuta una voglia matta di strofinare la guancia contro quella di Shouyou e scoprire quant’era soffice. Se i suoi occhi avevano un’iride, la lasciarono impigliata alla porta di casa.
“No, non ho un violino, ma puoi insegnarmi.” Atsumu gli fece l’occhiolino e mai in vita sua gli era parso di fare un occhiolino che sembrasse tanto una paresi. In sua difesa, era un occhiolino normalissimo.
Shouyou reagì separando appena le labbra, come preso in contropiede.
Ecco qua, pensò Atsumu, specchiandosi nella sua perplessità, hai fatto la cazzata. Ora ti prende per maniaco.
Invece l’attimo di stallo passò e Shouyou liberò una risata a metà tra l’imbarazzo e la spavalderia. Atsumu pregò ogni divinità mai concepita nella storia, perché se la sua faccia si accordava al suo stato d’animo doveva essere uno spettacolo patetico, dopo quel suono venuto direttamente dal paradiso.
“Allora ti insegno!” Atsumu annuì. “Credo si possa partire da un fiiiii, poi vediamo se hai orecchio. Hai orecchio?”
Atsumu, nel corso di questa storia, è stato più volte bistrattato, ma c’è da dargli qualche merito. Non capiva niente di musica, a stento sapeva cosa volesse dire avere orecchio, ma a uno che barava così bene non serviva avere orecchio, bastava costruire una fotografia, bastava leggere una tavolozza. “Sì, ho orecchio eccome, un sacco” rispose, serio in viso e vagamente arrogante. “Anche più di uno. Ne ho ben due, tu?”
Shouyou arricciò il naso, Atsumu avrebbe voluto mangiarlo. Poi Hinata rise e Atsumu ne registrò ancora una volta la gradazione e sperò che suonare gli permettesse di riprodurla. “Allora ci vediamo…” Shouyou guardò in alto, come se avesse potuto contare il tempo studiando l’ombra del sole che non vedeva. “Tra venti minuti, prendo un dolce,” decretò. La testa di Atsumu vagava un po’ nella melma, in quel momento, eppure riuscì a riconoscere che era un orario tirato fuori a caso da un cappello metaforico. “Porta entrambe le orecchie… e non solo!” Poi sparì nel suo appartamento.
Atsumu rimase a fissare il 7 inciso sulla targhetta della porta, inforcò nuovamente gli occhiali da sole – a quanto pare questo sole sul pianerottolo lo vedevano solo loro – e aggrottò le sopracciglia.
Preparatevi, perché state per assistere al tracollo di una colonia di neuroni e questa riflessione illuminante potrebbe mettere in pericolo anche i vostri.
E non solo, aveva detto Shouyou. Atsumu rimase lì confuso a chiedersi se gli stesse suggerendo di portare anche il suo cazzo o anche la sua testa. Sperò fosse il cazzo, in tutta onestà, perché per la testa non c’era molto da fare. In ogni caso Shouyou si era rivelato un vero paraculo, perché o l’aveva battuto al gioco dei doppi sensi – nessuno, nessuno, sfidava Atsumu Miya su quel campo – o l’aveva appena insultato sul suo intelletto.
Comunque sospirò, diede un’occhiata agli appartamenti di fronte, attraverso il filtro stupido dei suoi occhiali, e poi tornò in casa anche lui, lambiccandosi il cervello svuotato, perché, come dire?, se Shouyou avesse portato cibo e musica e lui orecchie e cazzo la situazione non sarebbe stata del tutto equilibrata.

 
***
 
Nel posto in cui non era né spuma di mare né anima effervescente, nel ricciolo dell’onda più bassa di tutte, quella che non sembrava star capitolando, Atsumu si acquietò. Contro ogni insegnamento che lasciava intendere che le vie di mezzo erano chiamate tali perché erano transitorie, lui ci vide invece un compromesso. Nel disaccordo universale tra quello che Atsumu era fuori la porta di casa e quello che diventava quando si sfilava il cappotto, Shouyou offrì una risoluzione.
Questo è un modo molto elaborato di dire che erano andati a consumare il pasto di Hinata sul tetto del condominio, perché, cotte e musiche a parte, questa è una storia troppo poco importante per esonerare i suoi personaggi dalle restrizioni del virus.
L’antipatia delle settimane precedenti era dissipata in favore di un incastro intramontabile, infatti Shouyou sembrava studiarlo a un livello tale da rasentare la radiografia e Atsumu, a dispetto di quanto detto finora in questo ingiustificabilmente lungo trattato sui perché e i percome della sua personalità, amava essere guardato. Categoricamente a livello superficiale.
“E lavori per lui?” gli domandò Hinata, sull’onda di un morso enorme alla sua fetta di cena.
Atsumu abbassò prima gli occhi sul suo contenitore. Erano separati perché da qualche mese a quella parte lo era tutto: le cene, le case, le persone. Poi lasciò scorrere lo sguardo sul tramonto. Tinte infuocate si miscelavano ai toni indaco e tenui delle sere di primavera, in una sinfonia che pareva indecisa tra tenori e fischi. Tutta Tokyo non si poteva vedere, perché non erano abbastanza in alto per una città così grande e non erano abbastanza in centro per i ciliegi in fiore, ma le cime smunte e scolorite dei palazzi si intercalavano ad alberi dalle foglie verde brillante e forse andava bene così, forse suggeriva una promessa. Atsumu guardò Shouyou e scrollò le spalle. “Gli faccio un piacere.”
Lui gli rivolse un’occhiata come a dire, sì, certo, un piacere. Era una supposizione corretta, ma guai a dirlo ad Atsumu.
“Tu?”
Shouyou lo guardò un attimo di troppo, gli occhi di nuovo fuori fase come se avesse avuto il cervello spezzato in due: una parte concentrata sulla loro conversazione, l’altra chissà. “Io? Lavoravo part-time in un negozio di musica, prima che…” mosse vagamente la mano a sottintendere l’arrivo della pandemia. Sembrava che stesse dando la colpa alle vaschette con la cena, però.
“E la musica?”
“Studio!”
Atsumu si cacciò del riso in bocca e annuì mentre deglutiva. “Anche tanto.”
Shouyou inarcò un sopracciglio, come se avesse sentito un brutto odore. Stava per ribattere, forse chiedendogli con irritazione se gli desse fastidio, ma Atsumu lo anticipò.
“È affascinante.”
Lui sembrò rilassarsi. Gli sorrise, poi lasciò vagare lo sguardo ancora su quella fettina di città che il buio non aveva ancora mangiato. Atsumu lo guardò. In sé, l’azione era banale. Come i raggi di sole che volevano baciarlo all’inizio di una storia, come la gradualità dei suoi cambiamenti, come i comodini che non montava, come la fame dei felici. Ma non come il suo frigo, perché non era uno sguardo vuoto.
“Non l’hai portato?”
“Cosa?” Shouyou si voltò e la luce calante gli bagnò il viso come se vi si stesse aggrappando mentre scivolava nell’oscurità. Il mondo dipendeva da quegli istanti e da quanto saldamente fossero sospesi.
“Il violino, mi hai chiesto se ho orecchio.”
Shouyou sgranò gli occhi e lasciò cadere le spalle. “Me ne sono dimenticato.” Il prezzo del dolce.
Atsumu però conosceva gli spartiti dei colori e, nei giorni migliori, li sapeva anche leggere. Scosse la testa e gli sorrise. Contrariamente all’opinione che avete di lui, alla fine non aveva portato orecchie e cazzo, sul tetto del palazzo. Aveva portato la macchina fotografica. E forse anche il cazzo, ma quello perché non poteva staccarselo. “Posso scattarti una foto? È per un progetto.”
Il gamberetto lo fissò, immobile come un cervo in mezzo a una strada, poi annuì molto lentamente e ad Atsumu venne voglia di sussurrare una postilla.
“Prima che il tramonto finisca.”
Si avvicinò a lui, la spuma si attenuò. Non aveva senso che si attenuasse, perché la spuma era uno spettacolo tutto per gli altri e Atsumu voleva impressionare Shouyou. Anche se quando l’aveva visto l’aveva preso per un mandarino. Anche se quando il violinista misterioso era arrivato aveva deciso che gli avrebbe reso la vita un inferno. Anche se aveva insultato i suoi occhiali da sole (non stavolta, fino a quel momento). Forse solo perché mandarino e violinista erano la stessa cosa almeno quanto lo erano un colore e una nota. E questo perché erano onde: i suoni come i colori come le spume di mare.
“Posso?” gli domandò, una mano sospesa sopra la sua testa, con l’intenzione di mettergli in ordine i capelli. Era una scusa, l’asso nella manica dei fotografi veri che volevano rimorchiare.
Shouyou annuì in silenzio e si lasciò toccare.
Di sotto, scie grigie di suoni di risacche arrancavano dietro le loro macchine, ma non erano decise abbastanza da impedire che l’atmosfera si ovattasse, si inumidisse al crescere gentile del buio.
“Che progetto?”
I capelli di Hinata erano soffici, fili sottili di vento. “Mh?”
“Che progetto?” ripeté lui, un sorriso gli strisciò sulle labbra e Atsumu lo intercettò e si allontanò.
“Uno che spaccherà i culi.”
Perché oltre tutta questa pretenziosa accozzaglia di figure retoriche, Atsumu Miya era uno zotico.
Shouyou sorrise. Una cosa enorme e invincibile e al suo fotografo bastò guardarlo fuori fuoco solo per un attimo per capire cosa voleva.
Si allontanò di scatto, sgranò gli occhi perché non riusciva a credere che il mondo che gli aveva sbattuto in faccia il coronavirus fosse lo stesso che ora gli stava regalando quello scatto. Si accovacciò, guardando da un’angolazione che non era né allineata né di profilo al suo soggetto.
“Suona il violino,” gli ordinò e Shouyou lo guardò come se fosse impazzito.
“Eh?”
“La prima nota di YMCA.”
Shouyou posizionò le dita sospese nell’aria, anni di studio che dovevano aiutarlo a rendere quella posizione il più accurata possibile. Atsumu chiuse un occhio e sbirciò attraverso il mirino, le costole chiesero pietà, contò tre secondi e scattò.
Guardò la foto in anteprima, lasciandosi cadere a terra, seduto.
Nella foto, il cielo era di un colore che intanto aveva già perso, la luce angolata si gettava a capofitto su alcuni palazzi sullo sfondo. Shouyou sedeva in penombra, la luce ancora troppo protagonista per renderlo silhouette, quindi si distinguevano alcuni contorni delle pieghe dei vestiti, del naso, dei capelli in tinta col tramonto, delle ciglia. Tra le mani, a imitare un violino, reggeva una nuvola rosa e arancione in prospettiva.
“CHE FORTE!” gridò Shouyou, piegato a dare un’occhiata alle sue spalle. Atsumu non si era accorto che si era mosso. Quando rise, gli venne da arricciare il naso, nello stesso modo in cui un odore faceva partire uno starnuto. La risata di Shouyou aveva i colori incandescenti del tramonto e di tutti i pezzi al violino che avevano mangiato i suoi silenzi. Starete pensando che è impossibile e infatti può darsi che fosse un inganno dell’infatuazione. “Sto suonando una nuvola!”
Atsumu lo guardò da lì, un sorriso storto in parte spavaldo in parte genuino. Nessuno ha detto che le parti fossero divise equamente e al lettore spetterà l’intuizione su quale predominasse. “Qualche secondo fa pensavi fossi pazzo.”
“Perché non avevo visto la nuvola,” si difese lui, alzando le mani. Era simile a quando l’aveva accusato di aver rubato la sua bicicletta rossa sgangherata.
Ad Atsumu, come quella volta, venne voglia di distruggerlo. Quindi si sporse in su e lo baciò. Se fosse stato in piedi si sarebbe detto che fosse in punta di piedi, ma poiché era seduto forse era in punta di culo.
Shouyou si rannicchiò per andargli incontro.
Il mare si bloccò.
Le onde si cristallizzarono in una fotografia, nessun granello di sabbia si piegò alla casualità della sua stessa caduta. Tokyo pulsava in un silenzio al neon spento, come nelle mattine che succedevano le serate più intense. Gli altoparlanti non osarono rammentare a nessuno che c’era una violazione di legge in quel contatto. Ma, se permettete, la legge più grave violata era quella della spuma di mare. Atsumu aveva fame e c’era silenzio e tutto si ridusse a un punto piccolissimo nell’universo sconfinato dei palazzi, dove in ogni finestra si intuiva un frigorifero e ogni frigorifero se la passava diversamente. Quel punto piccolissimo era il punto di contatto dei loro respiri. Gli infilò una mano nei capelli, senza la scusa del fotografo vero, e capì una cosa incredibile.
Il segreto non stava nel montare il comodino, infatti. Non c’era nessun incastro simbolico nel modo in cui tre pezzi di legno si offrivano di reggergli la sveglia. Voi l’avevate capito subito, ma è facile quando una storia ve la impacchettano così, in una serie di scorci tutti utili per forza, prima o poi, a sbrogliare un arcano.
La compatibilità era altro, altrimenti nessuno avrebbe perso tempo a piangere per i trapianti.
Shouyou interruppe quel contatto solo per instaurarne uno più intimo. Poggiò la fronte contro quella di Atsumu e chiuse gli occhi come se respirare il suo respiro fosse stato un atto sacro. Strano, perché sicuro l’alito non gli profumava dopo la cena. “Sei un alzatore, vero?”
Perché non vi dovete dimenticare che assistere alla follia nella testa di Atsumu non annulla quella nella testa di Shouyou.
“Eh?”
Shouyou rise, gli occhi ancora chiusi, le ciglia che gli accarezzavano le guance. Ancora tramonto e pezzi al violino. “Niente,” disse, e lo baciò di nuovo.
Non mangiarono il dolce.


 
・・・

 
 
Inizio.
Svolgimento.
Fine.
Scrivete una storia e sarà facile vedere che il primo è un trattino, il secondo una linea e il terzo un punto. Con la geometria il discorso include le dimensioni. Con la vita è facile solo su larga scala. L’inizio è la nascita, la fine la morte e lo svolgimento tutto ciò che c’è nel mezzo. Su questo convengono più o meno tutti, tranne forse i teologi. Ma su scala minore si incappa in un grattacapo, perché l’inizio è irriconoscibile nel presente ed è opinione di chi racconta una vicenda a posteriori, nonché soggetto a variazioni se la storia va raccontata ‘riassumendo…’ o per intero o a tratti o a interruzioni, se all’improvviso suona un telefono. Lo svolgimento si sovrappone agli svolgimenti di mille altre storie e la fine è sempre incerta. Si passano vite intere a credere di aver chiuso un libro per poi trovarsi con l’indice intrappolato tra le pagine di metà storia.
A chi sa raccontare storie di vita di solito regalano premi.
Quindi forse ora vi verrà più facile capire perché Atsumu fosse stato premiato ed è importante metterlo in chiaro subito perché lui, ad oggi, dice che è perché è impossibile guardarlo in faccia e pensare di non volergli dare il mondo.
Il premio era questo: miglior fotografo emergente del 2022, per una raccolta di fotografie divise in tre gruppi: inizio, svolgimento e fine, dal titolo ‘sinonimi di vuoto’. Secondo le riviste e i critici, era la raccolta che meglio catturava l’isolamento del 2020 in ogni suo stadio. Era una cosa da capogiro, perché non aveva studiato, non usciva da qualche accademia, non sfoggiava sul curriculum il nome di nessuna scuola famosa. Era solo un tizio a caso con un progetto.
Atsumu osservò le cinque foto del gruppo iniziale, alcune le aveva scattate quando non aveva avuto neanche l’idea.
“Complimenti, è impressionante!” gli disse una donna, passando di là. Gli strinse il braccio come se fosse stato l’amichetto di suo figlio. Lui le regalò il suo sorriso più seducente. Non lo faceva apposta, era proprio fatto così.
Il ramo rado con l’acqua che gocciolava sulle foglioline, il fiume Sumida incorniciato dell’acero giapponese, l’uomo buio che portava la spesa nella città delle luci, la parete dipinta, Shouyou che suonava un violino di nuvola.
Sotto, ai piedi di una scritta ‘Fine’, erano esposte altre cinque foto, simili a quelle del primo gruppo, ma non uguali. Perché erano sinonimi. Il ramo era un ciliegio in fiore, le persone fuori fuoco sullo sfondo indossavano abiti sgargianti. Il fiume Sumida era immortalato di notte, su un tappeto di luci di città e la chioma di un albero incorniciava in ombra quelle lucciole. L’uomo che reggeva le buste della spesa era l’unico soggetto al centro di una strada sterrata e secca; aveva scattato la fotografia in Australia, quando il mondo aveva ripreso a soffiare in cielo gli aeroplani. La parete non era dipinta, era quella di una casa diversa ed era tappezzata di fotografie: erano tutte quelle del secondo gruppo, svolgimento, e qualche altra. L’ultima era Shouyou che suonava un violino vero, circondato da un’orchestra.
Hinata gli afferrò una spalla e lo costrinse a inclinarsi di lato, per ricevere un bacio sulle labbra.
Svolgimento era tutto quello che era successo nel mezzo. C’erano fotografie di comodini e di famiglie. Di onigiri, di campi di segale e alte quote. Di Australia e di Kansai. Di bare e di papaveri. Di matrimoni, di supereroi e di serate in compagnia. Di frigoriferi e piantine con e senza fiori. C’era una sezione tutta di colori, componevano uno spartito per sinestetici.
“Congratulazioni!” gli arrivò all’orecchio la scia verde di un commento.
“Hai visto i bagni? Sono super di lusso,” disse Atsumu a Shouyou.
Lui rise. Era tramonto e pezzi al violino, il colore di cui si dipingeva il cielo quando il mare era calmo e non schiumava. “Lusso? A me sembrano normali. Forse un po’ più puliti della media.”
“No, ma hanno un ripiano sul lavandino, ci sono degli oli essenziali.”
“Sì, vabbè, ma…”
“E si chiude a chiave anche la porta dell’anticamera, non solo la cabina col gabinetto.”
Shouyou abbandonò il cipiglio confuso, poi sbuffò e sorrise.
Ormai si spera che abbiate imparato a conoscere Atsumu e la sua inappropriatezza.
“È la tua mostra.” Era una menzogna, Hinata stava già sorridendo come un folletto pestifero. “Sta anche arrivando tuo fratello.”
“Osamu lo sa che faccio tardi.”
Le consapevolezze di Osamu parvero bastare. Atsumu riuscì a trascinare con successo Shouyou nei bagni.
Perché a un certo punto aveva rischiato.
E meno male.
Perché altrimenti si sarebbe cacciato in guai seri, ignaro com’era di quell’anima che si portava attaccata alle spalle così sottile, ma così sottile, che sarebbe stata capace di infilarsi nelle fessure delle tapparelle e lasciarsi andar via, soffiare come l’autunno che moriva e lasciarsi dietro solo la spuma di mare.







 
NotEl: Buonasera, eccoci giunti dopo tutte le peripezie del mondo alla fine di questa storia. Salve :)
Niente, questa storia è stata un esperimento sotto vari aspetti (mi ritrovo a dirlo per la seconda storia di fila, forse sarebbe il caso di smetterla di fare gli scienziati???), credo che lo stile sia quello più lampante. 
È stato strano trovarsi a dover trovare una voce al narratore, ma è stato molto divertente e super soddisfacente prendere tutte le regole del bravo scrittore (quelle proprio che tutti fanno "MAI. MAAAAAAAI. FARE COSA X") e violarle. Se esistono un motivo c'è e non so se le violazioni siano state tutte appropriate come speravo, ma è stato divertente fare il mostriciattolo caotico e dagli errori si impara, ma l'esperienza è sempre tesoro!
Il motivo per cui la storia non era mai stata finita è che le mancava un finale e noi possiamo raccontarci che è perché quando l'ho iniziata il 2022 non era ancora arrivato e non avrei potuto prevedere questo finale....... oppure possiamo anche dirci qualcosa che suoni meno come una giustifica e cioè che boh, l'ho semplicemente sospesa.
In realtà nella parte finale ci sono vari indizi su alcune storie e dinamiche, e infatti so che poteva durare di più ed essere più approfondito, ma sono nella mia era implicita, let me be.
Dunque vi lascio a scovarli e vi ringrazio un sacco per aver letto e, se venite dal 2021, per aver atteso <3 <3
El.

 

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