Racconti di creature fantastiche (e dei loro problemi)

di Camaleonte
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fatamasco ***
Capitolo 2: *** Il mostro delle pozzanghere ***
Capitolo 3: *** Arcibaldo Tuc ***
Capitolo 4: *** Ucra Stonfia ***



Capitolo 1
*** Fatamasco ***


Fatamasco


 

È credenza comune che nel fantomatico mondo delle immagini riflesse nate dall’attività creatrice del poeta – ovvero nel mondo della fantasia – tristezza e noia non esistano, se non per i cattivi dal cuore malvagio, a cui l’animo sadico augura solo il tormento.

Eppure malattie come la solitudine, la depressione e sì, addirittura la disperazione sono problemi che pure le creature fantastiche hanno sperimentato, pur non essendo all’ordine del giorno.

Esempio lampante per una disgraziata creatura di queste è proprio Fatamasco.

Fatamasco, come già lascia intuire il nome, è un esemplare maschio di fata, di certo non particolarmente comune e facile da scovare, ma – al contrario della solita credenza comune – neppure inesistente. È vero che questo essere si differenzia parecchio dal gentil sesso: nessuno direbbe che quelle leggiadre e delicate creature traslucide, nate da un sospiro o da una carezza, da un filo d’erba illuminato dal sole o da una foglia secca caduta per terra, abbiano anche le più lontane radici comuni a quelle di Fatamasco.

Pelle levigata, due petali come labbra, chiome lucenti, proporzioni perfette. Un’unica parola per definire una fata: armonia.

E poi… poi c’è Fatamasco.

Anche per gli standard del genere maschile Fatamasco è… come dire… particolarmente disarmonico.

Dovete immaginarvi una piccola creatura, alta poco più di mezzo metro.

Ad un palloncino molle riempito d’acqua assomiglia la sua pancia, trattenuta su da un paio di corte braghette a righe strette da più cinture, l’unico indumento che porta per nascondere la sua bruttezza. Da quella massa informe e innaturale pendono quattro arti scheletrici. Le braccia sottili e ossute cascano molli giù per i fianchi, finendo in due mani nodose e incallite.

Predominante nella sua figura è però la sua testa, un’ovale che prende all’incirca metà del volume dell’intero corpo. Questa può essere a sua volta suddivisa in due parti: il cranio completamente glabro e tondo come un’anguria schiacciata, da cui spuntano due ridicole antenne senza una particolare funzione, e il naso. Un naso talmente grande che non solo controbilancia il peso del cranio sporgente, ma addirittura sposta l’intero baricentro in avanti, facendo inciampare continuamente il povero Fatamasco che miracolosamente riesce a reggersi su quei due stuzzicadenti che si ritrova come gambe, sfidando tutte le leggi della fisica.

Quindi questo enorme naso a pera è indubbiamente il protagonista del suo volto che neppure viene definito da un mento, poiché dalle labbra sporgenti e sempre imbronciate – dalle quali sbucano due dentini aguzzi – incomincia misteriosamente il collo, un collo lungo e a cono, che va ad assottigliarsi nel punto in cui si attacca al corpo.

Ma non è il corpo sproporzionato a renderlo solo ed emarginato. Neppure gli inquietanti occhi grandi come due bocce di vetro nelle quali vagano due minuscole pupille perse nel bianco, neppure le orecchie aguzze da pipistrello che penzolano mosce dal cranio.

Ciò che lo allontana dalla sua intera specie è la sua continua ed inspiegabile voglia di morte.


 


 

Troppo brutto per stare con le femmine, troppo strano per i compagni maschi, troppo inetto per essere addirittura una fata. Perché sì, l’unico elemento che lo lega alla sua specie è proprio il fattore scatenante la sua angosciosa depressione: le sue ali.

Non sono neppure così terribili: un poco aguzze, di un colore verde acido, ma troppo spento per risultare un pugno nell’occhio. Ma ali troppo piccole. Così piccole che anche a sbatterle come un colibrì a malapena riescono ad alzarlo dal suolo. Oltretutto se solo prova a sollevarsi il peso dell’ingombrante naso lo fa rivoltare in aria.

Quindi è necessariamente rilegato a terra per non ribaltarsi miseramente in quei pochi e ridicoli centimetri sospesi nell’aria, ma pure sul suolo le sue rachitiche gambette lo tradiscono lasciandolo inciampare ogni tre passi.

Sembra uno scherzo della natura Fatamasco. Un crudele scherzo della natura, poiché essa l’ha destinato ad un misero fato.

Ogni giorno lo si vede girare per i boschi con lo sguardo spento e l’espressione desolata. Le grandi sopracciglia a forma di due virgole rendono gli occhi due enormi gocce d’acqua. Il labbro superiore scompare sotto a quello inferiore che sporge come un becco, quasi raggiungendo per metà la lunghezza del naso.

Con il tempo è pure riuscito ad imparare a camminare senza rovinare sempre per terra. Con la schiena dritta per sostenere il peso, la testa leggermente inclinata indietro, le spalle invece cascanti mosce in avanti, trascina le gambette un passo alla volta, mantenendo un equilibrio precario ed un’andatura sempre più meccanica.

Percorre il suo solito percorso, passando sotto i soliti alberi, rimuginando sui soliti pensieri.

È da molto tempo che Fatamasco pensa al suicidio. Possiamo dire che è un suo chiodo fisso. Il suicidio: la soluzione a tutti i suoi problemi.

Perché continuare un’esistenza inutile, rimugina portando apatico un piede davanti all’altro. Perché costringersi a vivere per… il nulla. A nessuno giova la sua presenza, neppure a se stesso. Nessuno lo vuole, né il cielo, né la terra. Ed è formulando questa frase nella testa che gli viene in mente il salto delle aquile, un dirupo dove i giovani pennuti imparano a volare.

Solamente Fatamasco pensa al suicidio, non al volare.

Lo pensa veramente, mentre percorre il solito percorso, sente i soliti odori e passa davanti alla solita gente che gli rivolge annoiata un saluto.

Non comprendono la sua solitudine? Non percepiscono la sua disperazione? Non si rendono conto che sta andando incontro alla morte?

Lui continua a camminare, gli occhi gonfi di lacrime di sofferenza e forse anche di sollievo. Finalmente arriverà alla fine della sua triste storia. Continua imperterrito a camminare anche quando arriva allo strapiombo e quasi quasi non si accorge neppure che il piede che ha alzato non troverà più il suolo, ma solamente il vuoto.

Si risveglia dalla sua apatia solo nel momento in cui ad un passo dalla morte (letteralmente) per la prima volta una farfalla leggera come una piuma si appoggia casualmente proprio su quel suo enorme naso. Fatamasco la osserva con le sue minuscole pupille. La osserva attentamente, finché non casca nel vuoto e lei non prende di nuovo il volo al mancare di un sostegno.

Ciò che Fatamasco ogni volta si dimentica è che le sue ali funzionano abbastanza per rendere la caduta sopportabile.

Ciò che lui ogni volta si dimentica è che la natura l’ha reso anche smemorato, talmente smemorato che non si ricorda neppure cosa ha fatto il giorno prima.

Così tutto acciaccato e ancora più disperato, perché neppure ad uccidersi è riuscito, Fatamasco si rialza.

E il giorno dopo egli pensa di nuovo al suicidio, mentre percorre il solito percorso, sente i soliti odori, e passa davanti alla solita gente. Questa annoiata lo saluta, perché già sa dove Fatamasco vuole andare, già sa che egli sopravviverà un’altra volta.

Fatamasco è veramente un crudelissimo scherzo della natura, poiché essa l’ha destinato ad un misero fato, che ogni giorno si ripete, perché ogni giorno è come se fosse il primo. Ogni volta si gira una nuova pagina, in cui però ci sono scritte sempre le stesse identiche parole.

Né il cielo, né la terra e neppure la morte lo vogliono.

Ma la vita… la vita se lo tiene stretto.


 


 


 


 

 

 

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Capitolo 2
*** Il mostro delle pozzanghere ***


Il mostro delle pozzanghere

 

Sempre nel fantomatico mondo della fantasia la quiete dopo la tempesta non si conosce. Anche dopo una semplice pioggerella raramente si vede in giro della gente. Al contrario, le strade sono deserte e mute, le finestre chiuse. Un paese di fantasmi sembra, per quanto il sole sia ormai riapparso.

L’unica traccia rimasta del brutto tempo sono delle innocue e sporadiche pozzanghere.

A volte però capita di vedere qualche coraggioso o forse solamente sciocco bambino che, ignaro del pericolo, osa scappare fuori di casa, sgusciando via dalla porta di servizio. Finalmente di nuovo all’aria aperta dopo una giornata di grigiume e pioggia il bambino non pensa ad altro che a divertirsi, e a scherzare, e a far dispetti. Di certo non a fare il bravo.

Ed è così che un bambino corre per le strade silenziose e come ogni bambino gioca saltando nelle pozzanghere, schizzandosi e infangandosi, e ridendo come un pazzo. Il cielo è limpido, la luce chiara, l’acqua luccicante, tutto è un invito a godersi la bella giornata. Chissà come mai tutti stanno chiusi in casa, penserà il bimbo.

Nel momento in cui i genitori si accorgono della scomparsa del figlio si fiondano anch’essi fuori alla sua disperata ricerca. I loro cuori battono all’impazzata, i fiati sono divenuti corti. È troppo pericoloso camminare per le strade, per quanto la tempesta sia ormai già passata e il sole già riscaldi l’aria fredda ed umida.

Ma c’è ancora traccia del brutto tempo: ancora ci sono delle innocue e sporadiche pozzanghere.

 

 

Che morbide quelle gambette, come sono belle cicciotte… appetitose…

Da sotto il pelo dell’acqua sporca uno sguardo famelico osserva attentamente come due piedini svelti saltano nella pozza per poi di nuovo uscirne. Sembrano proprio piombargli addosso, proprio su quel suo brutto muso. Ma ancora una sottile, sottilissima barriera li divide.

Al di sotto di essa un vortice di pensieri avvolge la creatura, pensieri cattivi e malvagi, pensieri ingordi e voraci.

 

 

Il bambino sta proprio giocando con l’acqua, saltando nelle pozzanghere con le braghette schizzate di fango fino alla cintura, quando la madre lo trova, sbiancata dal terrore. Con la paura di veder suo figlio scomparire da un momento all’altro la donna lo acchiappa di corsa sollevandolo di peso dall’acqua. Prima lo abbraccia forte, poi piange di sollievo, poi ancora lo strattona per dargli uno schiaffo di punizione, poi lo abbraccia ancora e gli dà una carezza.

Anche il bambino confuso piange, un po’ perché spaventato dall’espressione terrorizzata della mamma, un po’ perché la guancia è ancora rossa dalla sberla.

– Mamma, cosa è successo? Mamma mamma! Perdonami, non scappo più. – Singhiozza lui, tirando su col naso.

Ancora inginocchiata di fronte a lui con le lacrime secche sulle guance la mamma lo guarda con sguardo d’ammonimento, mentre con una mano tremante gli dà una carezza sulla guancia arrossata.

– Mai, figlio mio, mai e poi mai dovrai più saltare nelle pozzanghere, hai capito? Mai! –

– Ma perché? –

La donna rabbrividisce. – Perché le pozze sono degli specchi, specchi pericolosissimi che possono inghiottirti. –

Il bambino si spaventa come solo un bambino può fare. Si spaventa come nell’ascoltare una storia paurosa, che narra di streghe e fantasmi. Ma per un bambino c’è differenza tra storia e realtà?

– Specchi di che cosa? –

– Specchi di mondi arcaici e passati. Morti. E soprattutto mortiferi. –

Gli occhi sbarrati del bimbo non sono altro che un invito a continuare, mentre un brivido di eccitazione si mischia ad uno di paura.

– Creature remote senza nome si aggirano nelle profondità più profonde delle pozzanghere, profondità che oltrepassano una sottilissima barriera che divide il nostro mondo da quell’altro. Questa linea di confine è sottile quanto la pelle raggrinzita e scheletrica di uno di questi mostri. Alcuni dicono che sono dei pesci, perché vivono nelle pozze, altri che sono pipistrelli, poiché le loro pinne assomigliano più ad ali accartocciate. Storie li descrivono con una grande coda da delfino, ma frastagliata e rattrappita come quella di un pesce morto essiccato al sole. Essa si congiunge attraverso un gracile ed esile filo di pelle grigia al corpo centrale. Questo, mostruoso, lascia intravedere costole secche e lo scheletro orrendo che si ramifica in due irregolare ali artigliate. Il collo, smilzo quanto la coda, è terrificante, perché ad esso sono attaccate altre piccole ali o pinne che compongono quasi una terribile e cadaverica gorgiera a quella testa ossuta e piramidale. Due grandi occhi gialli senza pupille simili a dei fanali si stagliano, divisi solamente da fauci fornite di aguzzi denti mortali. –

– Ma la barriera che ci divide da questi mostri c’è sempre? – Domanda il bambino impaurito dalla terribile descrizione.

La donna scuote la testa. – Come ogni specchio può essere rotto, anche questa barriera può venir forzata. Ma non devi aver paura. – La madre prende per mano il figlio, mentre lentamente si avviano di nuovo verso casa, evitando per bene le pozzanghere. – Il sole prosciugherà questa porta e fino alla prossima pioggia non avrai nulla da temere. –

 

 

La creatura ingorda stava già immaginando la consistenza morbida del corpo bambino tra i denti affilati come spilli, quando un momento prima di spalancare le fauci due robuste braccia lo avevano sollevato, salvandolo da una terribile fine.

Gli occhi vuoti e fosforescenti rimangono ad osservare malevoli una donna portare via la sua cena.

Ma la famelicità di questa arcaica creatura senza nome che si aggira nelle profondità più profonde delle pozzanghere potrà forse essere placata, poiché lo specchio d’acqua piatto dopo la partenza del bimbo rinizia ad incresparsi e a rompersi. Delle nuove gambine saltano nella pozza, un nuovo bambino è scappato di casa, forse ancora troppo piccolo per conoscere il pericolo. La luce del sole a fatica penetra sotto il pelo dell’acqua torbida e quelle morbide gambette saltellanti non producono che un delizioso gioco d'ombre. Ed è proprio quando i piedini sono fermi su quella invisibile barriera che li divide dalle profondità più profonde della pozzanghera, che la creatura spalanca le fauci. Nello stesso istante la barriera sparisce, ed il bimbo viene inghiottito da un mondo antichissimo e ormai morto.

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Arcibaldo Tuc ***


Arcibaldo Tuc

 

L’osteria della Luna Storta è particolarmente rinomata nel mondo della fantasia. Non tanto per il servizio un poco scadente, né per l’ambiente antico e passato, tanto meno per i piatti riscaldati al momento, ma più per la curiosa compagnia di cui si può fare conoscenza: tipi loschi negli angoli bui, ballerine scollacciate sotto i riflettori, i soliti saccenti ai tavoli centrali, attorniati dalla gentaglia rumorosa paonazza dal vino. È un posto particolare, che tutti prima o poi devono visitare, se vogliono vivere pienamente l’esperienza data dalla fantasia.

È da qualche tempo che al tavolo tondo vicino alla finestra un tipo ancor più curioso è seduto a sorseggiare acqua salata.

Appena entri nel locale schiudendo la pesante porta di legno vedi subito questa strampalata figura alzarsi dalla sedia come alla presenza di un potente sovrano. Ti rivolge un cortese cenno della testa, a cui tu rispondi un poco titubante per poi avviarti confuso al bancone per ordinare una bevanda fresca.

Ma l’ho già visto? Mi conosce?

Lui intanto si è di nuovo seduto, sistemandosi meglio la margherita che porta all’occhiello con due grosse pinne che ha al posto delle braccia. Dalla tua posizione ne approfitti per osservarlo furtivamente incuriosito dalla sua stravaganza.

È effettivamente un tipo molto particolare. Seduto in maniera impeccabile con le pinne appoggiate educatamente sul tavolo guarda di fronte a sé. Naso largo, occhi piccoli e distanti, bocca sottilissima e un paio di doppi menti. Due cespugliose sopracciglia e basette altrettanto rigogliose, una zazzera di capelli brizzolati tra i quali fa capolino un tenero e piccolo corno e infine due lunghissime orecchie appunta.

Aggrotti la fronte, non sapendo bene a quale razza classificarlo. Di certo non è un folletto, neppure un goblin, per quanto a volte capiti di vederne alcuni cornuti. Uno gnomo neppure, una fata maschio neanche, non è mica così brutto. Sembra che qualcuno abbia shakerato elementi di più creature insieme e ne sia uscito quell’essere lì.

Confuso ti rivolgi all’oste che scrolla semplicemente la testa, rispondendo: – Mezzosangue. –

Ritorni così ad osservare il distinto signore e solo in quel momento noti le lunghissime gambe sottili che terminano in due grossi zoccoli.

Nello stesso istante volta anche lui la testa verso di te e per un momento vi guardate dritto negli occhi. Lui ti sorride cortesemente, tu imbarazzato chini solamente ancora di più il capo colto nel fallo. Dopo pochi secondi di titubanza ti decidi però ad alzarti e a dirigerti verso il suo tavolo. Sarebbe maleducato non rivolgere un saluto, ti dici, e poi sotto sotto sei anche curioso. Chi potrà mai essere?

Vedendoti avvicinare lui si alza galantemente di nuovo in piedi e ti rendi conto di quanto effettivamente è alto: ha delle gambe veramente lunghissime e anche il collo; sembra impossibile che riesca a reggere quella testa piuttosto grande in confronto al resto del corpo.

Gli fai a quel punto anche tu un cenno del capo prima che entrambi prendiate posto uno di fronte all’altro.

Completamente a suo agio ti rivolge lui per primo la parola.

– Salve, sono Arcibaldo Tuc. –

Ti presenti anche tu un poco imbarazzato, poi lui instaura un discorso. E tu rimani completamente affascinato da quella voce pacata e dagli occhi morbidi e dolci del signor Tuc. E all’improvviso discorrere con lui non è mai stato tanto facile. Iniziate a chiacchierare del più e del meno e tu non fai altro che continuare ad apprezzare la sua galanteria e le sue buone maniere. Mai una parola fuori luogo, mai domande troppo inquisitorie. L’arte del parlare la sa maneggiare in maniera impeccabile, da vero gentiluomo.

– È straniero lei qui, non l’ho mai visto all’osteria della Luna Storta. – nota lui, che a quanto pare invece è un cliente fisso.

Gli vuoi offrire qualcosa da bere, ma lui gentilmente rifiuta, indicando il suo bicchiere ancora mezzo pieno. – Mi basta il mio bicchiere d’acqua salata, grazie. – Al tuo sguardo confuso lui fa un mezzo sorriso. – Sono un mezzosangue: figlio platonico di una sirena e di un unicorno. L’acqua salata serve per mantenere le mie pinne in funzione. – Spiega scrollando la pelle umida e appiccicosa che ha al posto delle braccia.

Allora capisci il motivo per cui, per quanto non particolarmente armonico, Arcibaldo Tuc abbia un che di affascinante, seducente… quasi accattivante, in completo contrasto invece con la sua purezza di modi ed espressioni. Le sue due nature per quanto sottilmente nascoste sono prepotenti e ben percepibili, ma non comprensibili o afferrabili. Da una parte il candore e l’ingenuità dell’essere più puro di tutto il regno, dall’altra la sensualità, il fascino e l’inspiegabile attrazione di una creatura del mare, pericolosa e tentatrice. È un individuo ambivalente, che ispira fiducia, ma che al tempo stesso sai di dover temere per via di quel luccichio negli occhi.

Ma non riesci ad aver paura, sai che non devi aver paura, non ne hai bisogno. Non ne sei neppure sconvolto, è come se in qualche modo te lo aspettasi. Gli sorridi e continui il discorso. Gli chiedi invece se lui frequenta spesso questo luogo.

Annuisce con grazia. – Sì, sono ogni giorno seduto qua. Posso vantarmi di essere un cliente abituale. –

Domandi se si incontra con qualcuno, se aspetta un amico.

– Può darsi. –

In che senso?

– Io sono sempre in attesa. –

In attesa?

– Certo. In attesa. Io ogni giorno vengo qui e aspetto. Aspetto di potermi ricongiungere con metà del mio corpo. –

Ti viene allora in mente che ormai di unicorni e sirene quasi non ne esistono più, anzi sono praticamente scomparsi, creature troppo antiche per sopravvivere al progresso del tempo. Un triste destino è stato loro affibbiato.

E ha mai incontrato una sua metà?

– Non ancora, ma non ho perso le speranze. Io lo so che un giorno da quella porta – indica la stessa porta da cui sei entrato tu – entrerà una mia metà. –

E lo dice con tale convinzione e sicurezza che ci credi pure tu. Non ne dubiti minimamente.

Finite entrambi la vostra bevanda continuando a parlare e a raccontarvi avventure. Poi tu ti alzi e prendi congedo. Arcibaldo Tuc ti accompagna fino alla porta, ti saluta, ti stringe la mano e fa un mezzo inchino. Aspetta che tu abbia girato l’angolo prima di riempirsi di nuovo il bicchiere e ritornare al suo posto. Si siede nuovamente e guarda di nuovo di fronte a sé, sistemandosi con le sue grandi pinne la margherita all’occhiello.

E tu anni ed anni dopo ti domanderai se egli avrà finalmente trovato la sua metà o ancora è seduto in attesa dentro all’osteria della Luna Storta, rinomata per la curiosa compagnia di cui si può fare conoscenza.

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Ucra Stonfia ***


Ucra Stonfia


 

Si dice che la differenza tra un semplice turista ed un viaggiatore stia tutta nella volontà di comprendere. Nella voglia di informarsi, di apprendere, ampliare e accettare. Nel fantomatico mondo delle immagini riflesse nate dall’attività creatrice del poeta non si può essere meri turisti, non si può. O si è viaggiatori, o... si rimane chiusi nel proprio piccolo e squallido alloggio mentale.

Apprendere, ampliare, accettare. Anche l’anima più selvaggia, anche l’anima più sincera. Questo è il compito di qualsiasi coraggioso individuo che vuole intraprendere il viaggio di una vita.

In questa occasione il compito del viaggiatore è facilitato, dato che l’anima più selvaggia e, soprattutto, l’anima più sincera ha un nome, un indirizzo e pure un animale da compagnia.


 

Faggio Storto 5, angolo Bosso Ditalunghe.


 

Non è particolarmente facile raggiungere questa remota parte del bosco, bisogna armarsi di bussola, cartine geografiche e tanta buona volontà. Ma neppure impossibile: i sentieri sono tracciati, per quanto un poco trasandati e ricoperti d'erbaccia. È un’area lasciata a se stessa, desolata e selvatica. I pochi residenti l’hanno pian piano abbandonata, non perché inospitale, anzi una porzione di terra così ricca e rigogliosa è difficile da trovare. Sarà per via dell’elevata presenza di faggette che, grazie al loro humus, rendono il terreno particolarmente fertile: c’è un motivo se vengono spesso e volentieri chiamate “madri del bosco”.

Ad ascoltare i locali pare che oltre di buona volontà il viaggiatore debba essere fornito anche di una buona dose di coraggio. Mostri? Piante carnivore? Un labirinto per caso?

Nulla di tutto ciò.

– Al Faggio Storto? Pazzi!! –

– Vi volete del male, questo è certo! –

– È meglio starci lontano da quel posto, fermatevi qui e non correte alcun pericolo. –

È bene precisare che questo luogo tanto temuto dai locali è effettivamente un poco inospitale, non per la natura, non per il clima, ma per ormai l’unico abitante, residente al Faggio Storto numero 5, angolo Bosso Ditalunghe.

L’albero dalla forma contorta è facilmente riconoscibile nel piccolo quasi inesistente sentiero per la presenza di un bosso incolto, particolarmente grande, che per via dei lunghi rami che si diradano verso l’alto come delle dita scheletriche ha acquisito il nome Ditalunghe.

Molto tempo fa, prima della nascita di questo individuo capace di far sparire anima viva nel raggio di un paio di chilometri, il Bosso Ditalunghe era pure un amato punto di incontro.

– Andiamo al Ditalunghe stasera? –

– Al Ditalunghe organizzano una festa domani! –

– Il Ditalunghe è stato potato, andiamo a vedere? –

Questo era passato.

Adesso Ditalunghe è di nuovo un folto e incolto bosso.


 

Stonf


 

L’unico essere vivente che osa avvicinarsi al Faggio Storto è Stonf.

Sbatte forte le sue ali grigie mentre si fa spazio tra il fogliame. Si tratta di una specie di piccolo pipistrello, un poco più robusto e con due tenere corna a far capolino sul cranio rettangolare. È proprio vero che, in maniera inspiegabile, l’animale da compagnia assomiglia sempre al suo padrone, anche nel caso di Stonf: stesse grosse zampe, stesse orecchie appuntite, stessi occhi infossati.

Anch’esso viene riconosciuto dagli abitanti della zona che prontamente si allontanano al suo passaggio, funesto presagio.

A lui non importa, è contento di tornare a casa dal suo padrone. La semplicità e l’innocenza degli animali riesce a far sopportare anche la più dura schiettezza e crudezza. Ciò che invece non sono riusciti a sopportare i vicini del suo padrone. Le parole graffiante, dolorose eppure vere, hanno fatto scappare tutti quanti. Nessuno è riuscito a reggere la dura realtà, buffo no?

– Io spocchioso e arrogante mammalucco?? –

– Mi ha definito piatta come un’insalata scondita! –

– Come si permette di chiamarmi viscido millepiedi! –

Stonf invece gradisce in maniera particolare la compagnia di questo strano individuo. Non è minimamente disturbato dalle parole schiette, al massimo alza gli occhi al cielo ai continui grugniti grezzi del padrone. Non ha da temere Stonf, nessuna verità potrà smascherarlo: gli animali non fingono.

Finalmente l’ha raggiunto e si è riappropriato del suo posto in cima ad un masso. Dispiega le ali dalle falangi sproporzionatamente lunghe e secche e soddisfatto cova con gli artigli ben arpionati la strana roccia.

Tradisce così la presenza quasi invisibile dell’essere più odiato del luogo, perché quel masso un po’ triangolare non è altro che il suo cranio e Stonf il suo strambo copricapo.


 

Ucra Stonfia


 

Talmente fusa con la natura intorno a lei, quasi è irriconoscibile. La pelle grigia chiaro si confonde con la corteccia liscia del Faggio Storto. La sua casa è infatti il tronco cavo dell’albero ricoperto di muschio e licheni. Non si capisce se è stato il legno a crescere intorno a lei o se lei si è adattata perfettamente alla sua dimora. Fatto sta che non si riconosce più dove inizia la vegetazione e dove finisce lei. Pare che un falegname inesperto abbia scavato dentro il tronco e poi continuato a intagliare grossolanamente i lineamenti dell’ospite senza fare alcuna distinzione.

La testa dalla forma triangolare, unica a sporgersi un poco fuori dalla corteccia, è caratterizzata da un cranio glabro e ossuto, duro come la roccia. La fronte spaziosa evidenzia uno sguardo antico, reso da penetranti occhi neri infossati profondamente nelle orbite oculari. Il naso largo e grezzo invece è immerso in una folta barba, talmente folta da coprire interamente la parte inferiore del viso. Col tempo è cresciuta così tanto che adesso è raccolta in una grossa treccia chiusa da un tenero ramoscello verde. A due spalle tanto ossute da sporgere come due attaccapanni sono attaccate le lunghe braccia flosce dalle mani lunghe e nodose che strusciano sempre per terra, causa le corte e tozze zampe posteriori.

La barba indurrebbe a pensare di trovarsi di fronte ad un esemplare maschio, il seno grosso cascante tenuto su da uno sporco grembiule lascerebbe intuire tuttavia il contrario. Si tratta in realtà di una signora, e il tipico tocco femminile lo si riconosce dai due bottoni rossi cuciti sulle spalline dell’indumento.

A malapena raggiunge un metro d’altezza, eppure un metro basta per far scappar via tutti.

Ucra Stonfia (così si chiama questa creatura) appartiene alla razza dei goblin del sottobosco, nati dalla linfa che fuoriesce dalle radici degli alberi morti.

Mentre nel nostro mondo, causa deforestazioni e piromani, questa specie è sempre più comune, nel suo Ucra Stonfia è quasi più unica che rara. E lei così vuole rimanere.

È cosciente che la sua vita equivale ad una morte, e lei non è disposta ad accettarne altre, anche se questo vuol dire che nessun altro goblin del sottobosco passeggerà mai attraverso la sua foresta di faggette. Alla fin fine la solitudine non le è mai pesata, anzi per raggiungere il suo scopo è necessaria. Perché dove la mano civilizzata arriva, immancabilmente qualche traccia dietro di sé lascia.

E così Ucra Stonfia adottò il metodo più veloce e indolore per scacciare quegli individui che rischiavano di mandare a monte la sua missione: iniziò a dire solo la verità.

Senza finzione, senza falsità, senza reticenza.

Bastò quello.

 



 

Nel momento in cui Ucra Stonfia decise di adottare solo parole vere e sincere, la solitudine divenne quasi una salvezza. La comunicazione avveniva infatti sempre più spesso attraverso smorfie, sguardi perforanti e versi sgraziati. Ciò non solo la rese agli occhi estranei maleducata e scorbutica, ma anche grezza e incivile. Frasi intere servivano solamente per dare risposte troppo elaborate per essere sostituite da grugniti, ma spesso queste non erano neppure tanto gradite. Il lessico ristretto di Ucria Stonfia venne preso per un segno di ignoranza e rozzume, che permise ai locali feriti nel loro orgoglio di sputare veleno su di essa e mascherarsi nuovamente dietro raffinate parole altolocate agli occhi di tutti – pure di se stessi.

In realtà per Ucria Stonfia le parole sono una merce troppo preziosa per essere sprecata in inutili chiacchiere.

Poiché per essere sincera essa deve dire sempre la verità.

E come si può dire la verità riguardo al passato? Tacendo.

E come si può dire la verità riguardo al presente? Osservando.

E come si può dire la verità riguardo al futuro? Facendo sì che quelle parole diventassero verità.

Per questo Ucra Stonfia è legata alle sue parole. Esse sono per lei legge, rimangono incise nel tempo, non possono sparire, né affievolirsi. Le ha marchiate sulle labbra, se le trascina ad ogni fatidico passo che compie. Sono questi suoni di senso compiuto che le gravano sulle spalle aguzze, mentre ogni giorno, piano piano, cercando di non fare male al Faggio Storto, si stacca dal tronco cavo. Lentamente, una grossa zampa leonina davanti all’altra, la barba lunga che struscia per terra, il goblin si avvia al limitare della foresta.

La sopravvivenza e la prosperosità delle ‘madri’ sono divenute il primo pensiero di Ucra Stonfia. Accompagnata da Stonf – che in fondo sa che il goblin è un essere buono – essa si allontana ogni volta di un passo più lontana da casa per spingere da sotto il suolo gli alberi fuori dalla terra così che crescano più in fretta. Questa è la sua missione.

La foresta è diventata sempre più grande, sempre più viva e rigogliosa, sempre più selvaggia e incolta. Incolta come il Bosso Ditalunghe che ormai non ha più nessuna forma se non la sua. Sempre più lontani vivono gli abitanti della zona (per grande gioia di Ucra Stonfia) e sempre più maestosi e possenti sono diventati gli alberi.




 

Non è particolarmente facile raggiungere questa remota parte del bosco, bisogna armarsi di bussola, cartine geografiche e tanta buona volontà. E forse anche di un po’ di coraggio. Quello necessario per uscire dai soliti percorsi turistici, quel tanto che basta per avventurarsi in luoghi ardui e difficili.

Ci vuole coraggio per mettersi alla prova e saggiare i propri limiti. Fin dove riusciamo ad arrivare? Fin quanto siamo disposti a digrignare i denti prima di tornare sconfitti a casa? Quanto siamo disposti ad accettare di noi stessi?

Prima di partire bisogna ricordarsi sì di un pizzico di coraggio. Il coraggio necessario per andare a cercare se stessi. Perché viaggiare non ha come scopo proprio questo?


 


 


 


 


 


 


 


 


 

 

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