Come Ghiaccio - Passione Segreta

di Daniela Arena
(/viewuser.php?uid=256194)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Jennifer ***
Capitolo 2: *** II - Jennifer ***
Capitolo 3: *** III - Mark ***
Capitolo 4: *** IV - Mark ***
Capitolo 5: *** V - Jennifer ***
Capitolo 6: *** VI - Mark ***
Capitolo 7: *** VII - Jennifer ***



Capitolo 1
*** I - Jennifer ***


   Mi sistemi la camicetta uscendo dal piccolo bagno dove ero andata a rinfrescarmi il viso dopo la difficile mattinata d'insegnamenti e organizzazioni per l'arrivo del nuovo docente nell'ateneo. Dopo l'improvviso allontanamento per cattiva condotta della signora Patricia Simons mi ero sentita totalmente frastornata all'idea che qualcuno potesse comportarsi in un certo modo: era stata scoperta in un giro di favoritismi a pagamento che avrebbe permesso a certi studenti di passare gli esami del primo semestre con voti migliori in cambio di somme di denaro. Dopo la notizia, il comitato studentesco e il rettore avevano provveduto immediatamente a sospendere l'incarico della donna scusandosi pubblicamente per l'umiliazione.
   Non riuscivo a capire come fosse stato possibile per Patricia riuscire a sviluppare quell'intricata rete illegale sotto al mio naso senza che me accorgessi, ero stata la sua assistente alle lezioni per oltre due anni eppure non mi ero accorta di niente. La scoperta mi aveva profondamente scossa, nella mia innocenza reputavo la mia collega una persona rispettabile tanto da sceglierla come figura da seguire per il mio dottorato. Immaginavo che i suoi valori professionali andassero ben oltre a certe tentazioni soprattutto se messe a confronto con l'opportunità lavorativa offertagli dall'ateneo stesso.
   Camminai incerta qualche metro prima di sentire una certa pressione sul petto, al pensiero di cosa era accaduto e di quello che doveva ancora avvenire sentivo l'ansia pervadermi dentro.
  Per me la Seattle University era tutto, decidendo di farne parte si accettava un impegno morale oltre che professionale, qualcosa che andava al di là delle proprie credenze personali ma che finiva per disegnare un progetto molto più ampio. Anche io avevo accettato questa condizione firmando il mio contratto di lavoro dopo averlo sognato per tutta la vita ma, per quanto faticassi a credere possibile un regolamento così rigido, non mi sarei mai spinta a tanto. Certo, le limitazioni non si risparmiavano unicamente alle ore di lavoro ma intaccavano anche la sfera privata in mantenimento di un certo rigore, il buon nome del polo universitario non poteva essere scalfito in alcun modo dai suoi occupanti. Anche per questo la selezione di ammessi era strettissima, sia per gli insegnanti che per gli studenti. Tutti sapevano a cosa andavano incontro eppure esisteva ancora qualcuno come la professoressa Patricia Simons il cui intento non era di elevare l'università verso un progresso culturale degno del suo retaggio ma elevare unicamente se stessa e i propri risultati eccelsi ottenuti con l'inganno.
   Cercai di non farmi prendere troppo dall'ansia che mi stava togliendo il fiato per il compito che mi aspettava da lì a poco e provai a calmare il tremore che sentivo alle mani facendo lunghi respiri.
   Se avessi dovuto definirmi in poche parole avrei detto certamente che non ero una persona trasgressiva, la routine quotidiana mi confortava amabilmente e teneva a bada le mie insicurezze. Scrivevo liste e appunti da seguire rigorosamente per ogni cosa affinché tutto andasse secondo i piani prestabiliti e affinché io potessi avere il controllo completo della situazione. Stress immotivato da imprevisti e traumi emotivi da cambi di programma dell'ultimo minuto cercavo di evitarli come fossero state malattie altamente infettive. Non ero adatta a grandi avventure o ad una vita spericolata, mi piaceva condurre un'esistenza di basso profilo seguendo le regole. Per questo motivo faticavo a ingoiare l'agitazione per il compito che mi stava attendendo dall'altra parte dell'Ateneo. Il Rettore Xander Stevens aveva incaricato me di occuparmi del nuovo docente di Comunicazione in arrivo, lo avrei affiancato al lavoro come sostituto di cattedra di Patricia e la cosa turbava profondamente il mio animo. A me e alle mie innumerevoli insicurezze era stato affidato un incarico tanto delicato da qualunque punto di vista lo si volesse osservare. Il mio ruolo avrebbe dovuto facilitargli l'inserimento tra i suoi nuovi alunni e colleghi ma anche rafforzare in lui l'accettazione di uno stile di vita e di lavoro differente rispetto a quello di altre università affinché lo scandalo appena avvenuto non si ripetesse in alcun modo minando ancora il polo universitario dall'interno.
   Con grande onore avevo accettato quel compito ignara della responsabilità che il Rettore mi stava calando sulle spalle, ero stata fin troppo emozionata di capire quanta stima tutto l'ateneo riponesse sul mio operato lavorativo di quegli anni pur essendo l'ultima arrivata, come una sciocca non mi ero resa conto di aver agito senza pensare.
   Presa dal turbinio di pensieri iniziai a faticare a respirare mentre i crampi della fame mi tormentavano. Mi punii mentalmente per aver passato l'ennesimo pranzo a lavorare alle tesine dei miei studenti iscritti all'unico corso online extrascolastico che gestivo in autonomia mentre controllavo che tutta la documentazione utile al nuovo docente fosse ben sistemata e dotata di ogni contenuto.
   Se mi fossi presentata così al rettore avrebbe immediatamente capito che non ero in grado di essere degna della Seattle University, non mi avrebbe mai più affidato alcuna responsabilità, mi avrebbe sicuramente presa in giro per la mia totale mancanza di organizzazione nelle priorità. Iniziai a iperventilare camminando nel corridoio, ripetei a memoria tutto quello che avrei dovuto dire per mettere a tacere tutti quei fastidiosi pensieri che stavano iniziando ad affollarsi nella mia mente e in un attimo la sensazione di soffocamento ebbe la meglio su di me. La bocca si fece improvvisamente ruvida, i suoni si fecero d'un tratto lontani e ovattati, le mani mi parvero pesanti.
   «Signora si sente bene?»
   Riuscii a malapena ad accorgermi della mano posata sulla mia spalla prima di avere un brevissimo momento di blackout. Persi il contatto con la realtà, precipitai nel nulla e io svanii in esso.
   Quando ripresi il controllo su me stessa mi trovavo seduta su una delle innumerevoli panchine ubicate lungo i corridoi dell'ateneo. Mi guardai attorno confusa e spaesata, la testa indolenzita e un fastidioso fischio nelle orecchie più simile ad un ronzio che altro. Osservai le mie mani come se non mi appartenessero, il mondo attorno a me come fosse la prima volta che lo guardavo e a piccole dosi le cose riacquistavano la loro essenza di normalità ai miei occhi.
   Lentamente alzai lo sguardo sentendomi spiritata e mi trovai davanti ad un ragazzo dalle glaciali iridi azzurre contornate da un viso squadrato e da lunghi capelli corvini, una piccola cicatrice sul sopracciglio sinistro. La sua espressione stava a indicare palesemente una certa preoccupazione in netto contrasto col sorriso che gli stava nascendo sulle labbra.
   Per un attimo credetti di trovarmi in paradiso, di essere ufficialmente trapassata e di trovarmi davanti ad un angelo pronto a farsi beffe della mia vita sprecata in terra.
   «Se lo lasci dire con tutta franchezza, ha proprio un pessimo aspetto in questo momento.» Sussurrò lui chinato sulle sue gambe di fronte a me, una mano grande e callosa posata sul mio ginocchio coperto dalla gonna.
   Sbattei le palpebre qualche volta per riprendere totale padronanza del mio corpo capendo così immediatamente di trovarmi ancora sulla terra. Questo non fece altro che portare con sé l'infiammazione delle mie gote per il contatto molto ravvicinato con la persona che mi stava prestando soccorso. Osservai la sua mano ancora a contatto col mio corpo poi guardai di nuovo nell'abisso dei suoi occhi e per qualche istante dimenticai il suo commento poco educato. Era come aver gettato lo sguardo su di un oceano ghiacciato, dalle pupille si sprigionava un intenso blu che in un attimo si trasformava in un iridescente grigio-azzurro. Uno sguardo magnetico e ipnotico che fece vacillare il mio cuore per un istante lungo un un'eternità.
   «Grazie, grazie per avermi fatto, fatto sedere.» Balbettai con un filo di voce.
   Il suo sorriso si allargò solo per scomparire qualche secondo dopo mentre si alzava per sovrastarmi nei suoi abiti scuri. Mi scrutò per qualche momento, lasciò vagare il suo sguardo su di me ed io mi sentii come un libro aperto dinnanzi a lui. Mi sentii in qualche modo giudicata e abbassai il viso per provare a chiudermi di nuovo nella mia bolla fragile di sicurezze.
   «Dovrebbe stare qui seduta un altro poco e riprendere le forze che sembrano aver abbandonato il suo corpo.»
   Si allontanò di qualche passo sistemandosi la borsa tracolla sulla spalla e io istintivamente mi alzai dalla panchina ignorando il suo suggerimento con un bofonchiato "non posso" solo per vedere nuovamente il mondo oscurarsi a causa della velocità del mio movimento del tutto sconsiderato. Fui sorretta ancora una volta dal suo braccio allacciato alla mia vita e dal suo corpo caldo a cui mi appoggiai nel movimento. Rimasi cosciente solo per inalare il suo profumo, una fragranza quasi pungente, che mi invadeva le narici per la vicinanza.
   «A questo punto sono certo che dovrebbe starsene ferma, non penso di poter reggere sulla coscienza la visione di una bella donna stramazzata a terra davanti ai miei occhi.» Aggiunse.
   Bella donna.
   Nella sua voce roca risuonava un certo tono divertito che mi mise maggiormente a disagio per la mia totale mancanza di eleganza.
   Bella.
   Quand'era l'ultima volta che qualcuno aveva detto che ero bella?
  Cercai di ridarmi un contegno professionale senza che l'assurdità del momento avesse la meglio sul mio organismo indebolito dal via-vai dell'ultimo periodo. Scossi piano la testa per scacciare tutti quei pensieri che non dovevo avere, inspirai un'altra boccata d'aria e mi ricordai improvvisamente che ero attesa altrove.
   «Non accadrà, non si preoccupi.» Cercai di sorridere al mio salvatore improvvisato e, senza che ve ne fosse alcun bisogno, mi giustificai. «È stata solo una difficile settimana che si è portata via le mie pause pranzo, quando sono nervosa tendo a dimenticare di avere appetito, ma ora sto già meglio quindi la prego di scusarmi.»
   Conscia della situazione pensai di muovermi ma il braccio del giovane ragazzo era ancora saldamente incollato al mio corpo mentre io mi resi conto di aver posato le mani sul suo petto ben definito anche da sopra la T-shirt blu e di essermi stretta a lui aggrappandomi alla sua figura con tutta me stessa. Il suo respiro si confondeva al mio tanto poca era la distanza tra noi. Tra le mie dita era ancora stretto il tessuto della sua maglia come in una scena di un vecchio romanzo storico a sfondo sessuale. Inutile dire che mi si imporparono ancora le guance per l'imbarazzo.
   Feci per allontanarmi da quella situazione prima di sentire ufficialmente tutto il corpo andare a fuoco per la vergogna. Mi persi nuovamente nei penetranti occhi azzurri dello sconosciuto sentendomi risucchiata in essi e istintivamente aprii le labbra a formare una piccola apertura per riuscire a inalare ossigeno. Il suo sguardo si soffermò qualche attimo a guardarmi le labbra, un brivido mi fece tremare leggermente, la sua mano aperta ancora posata sulla parte bassa della mia schiena mi accarezzò lentamente il fianco ritirandosi, quasi fosse stato un gesto voluto per sondare le mie rotondità.
   Sentii una piccola quanto ingenua vocina nella mia mente lamentarsi per l'allontanamento dei nostri corpi combacianti e gridare dinnanzi alla bellezza di quel ragazzo misterioso per cui il mio cuore perdeva battiti.
   «Finisca il mio caffè e vada a cercare qualcosa da mettere sotto i denti il prima possibile.» Decise lui con un tono di voce più basso rispetto al precedente. Le sue parole erano in qualche modo autoritarie, era quasi difficile resistere alla tentazione di ubbidirvi ciecamente per compiacere ad ogni sua richiesta.
   Mi allungò il bicchiere che teneva nell'altra mano e senza pensarci troppo lo afferrai ringraziandolo con la testa pur di togliermi da quel momento e respirare.
   Feci un piccolo passo indietro e lui chiuse gli occhi inalando una lunga boccata d'aria dal naso.
  «È caffè nero senza zucchero, dubito possa piacerle il genere ma almeno così ha un buon sapore.» Disse spostandosi ad una distanza più consona a sua volta. «Sono certo le darà l'energia necessaria a sopravvivere ancora qualche ora fintanto che non troverà di meglio.»
   Portai il bicchiere alle labbra incurante del gesto e bevvi una sorsata del liquido scuro e caldo contenuto al suo interno. Inghiottendo mi resi conto di essere incapace di distogliere il mio sguardo dal suo.
   «Brava bambina.» Sorrise.
   Bambina.
   Si sistemò nuovamente la tracolla sulla spalla ed io non potei resistere alla smorfia causata dal sapore amaro intenso che mi esplose in bocca.
   Bella Bambina.
   Un brivido mi percorse tutta la schiena facendomi sentire di nuovo la quattordicenne innamorata dell'insegnante di letteratura che ero un tempo e a cui piaceva che lui la lodasse chiamandola "brava bambina".
   «Potrebbe farci l'abitudine se volesse ma temo le piacciano gusti diversi, dolci e privi di carattere.» Mi fece l'occhiolino ammiccando e le mie guance si colorarono ancora di rosso. «Ora devo andare ma la prego di riguardarsi signora, sarebbe un peccato se stesse nuovamente male mentre sarò occupato, non potrei prendermi adeguatamente cura di lei.»
   Fece schioccare la lingua e rise prima di voltarsi.
  Annuii senza essere in grado di dire nulla di sensato, riuscii solo a borbottare un "signorina" mentre si allontanava per il corridoio. Inspirai ossigeno al gusto caffè e mi leccai le labbra incapace di distogliere lo sguardo dalla sua figura, bevvi un altro lungo sorso del suo caffè ignorando volutamente la consapevolezza di aver appena posato le labbra dove prima erano passate le sue.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II - Jennifer ***


   Mi guardai attorno fremendo di paura all’idea che qualche collega potesse avermi notato in una situazione così estranea al campus nonché rigidamente vietata. Il pensiero che si consumassero effusioni in università non era tollerato, tanto meno se questo avesse coinvolto un docente ed uno studente, sarebbe stato immediatamente scandalo. Per la precisione il regolamento prevedeva: nessun contatto troppo ravvicinato, nessuna relazione personale tra colleghi, niente legami familiari tra insegnanti/studenti o insegnanti/insegnanti, niente che potesse legare umanamente in alcun modo qualcuno a qualcun'altro. 

   Poco importava chi fosse o meno credente nell'ateneo ad orientamento cattolico-gesuita, il regolamento doveva essere accettato e rispettato da tutti indistintamente, soprattutto in un momento tanto delicato come quello che si stava vivendo negli ultimi giorni dopo lo scandalo. Queste ferree restrizioni permettevano all’università il mantenimento di quel rigore professionale che per generazioni aveva permesso la formazione di menti brillanti in molteplici settori anche se questo comportava il totale annullamento di ogni essenza umana. Non c’era spazio per i sogni o per le fantasie tra le mura antiche dell’ateneo, ognuno aveva un obiettivo da perseguire senza lasciarsi distrarre per la strada da inutili tentazioni. 

   Impiegai qualche minuto per sentirmi nuovamente meglio, presi un lungo respiro dando un’ultima occhiata in giro e mi avviai per la struttura universitaria per poter finalmente arrivare agli uffici del rettore Xander Stevens. Cercai di non farmi nuovamente prendere dal panico appellandomi mentalmente con parole poco adatte, ripensai a tutto il discorso che mi ero studiata per accogliere il nuovo docente e cercai di controllare il respiro. Se ero stata scelta significava che qualcuno aveva ritenuto possibile che io riuscissi a ottenere il meglio da tutta quella situazione e, di conseguenza, avrei dovuto crederci anch’io per non deludere nessuno, me compresa.

   Arrivai e bussai piano alla porta dell’ufficio dopo che la segretaria mi assicurò di poter interrompere il colloquio che si stava tenendo al suo intero in quanto persona attesa.

   «Avanti.»

   La voce del signor Stevens arrivò chiara alle mie orecchie, presi un altro respiro e abbassai la maniglia della porta che mi si parava davanti con un radioso sorriso sulle labbra.

   Xander Stevens indossava la sua abituale uniforme elegante nera con al collo un collarino ecclesiastico bianco per rimarcare quotidianamente i valori dell’ateneo, i capelli bianchi erano diradati sulla testa e un poco imperlati di sudore per il clima caldo all’interno dell’ufficio, le luci soffuse per trasudare una certa eleganza in linea con l’arredamento aristocratico tipico degli anni passati e comune ai più altolocati atenei del mondo creavano la giusta atmosfera.

   Avanzai di qualche passo lisciando invisibili pieghe sulla gonna del mio tailleur grigio e tesi la mano verso il rettore in saluto.

   «Ben arrivata signorina Sanders.» Allungò una mano verso l’uomo in piedi poco distante da lui. «Le presento il signor Edward Malcom, il nostro nuovo docente di Sociologia della Comunicazione.»

   Accanto alla finestra che dava sul cortile interno una figura maschile dalle spalle larghe strette in un’elegante giacca di pelle dal taglio italiano e gli occhi verdi si era voltata a osservarmi, la sua mise lo faceva apparire come se fosse appena uscito da un club privato. Il viso ben curato e la barba definita in un elegante pizzetto conferiva lui un aspetto piacevole alla vista. Il suo sguardo penetrante fisso nel mio mi fece però rabbrividire impercettibilmente, provai una certa soggezione nell'essere rimirata così da un uomo tanto bello.

   Se avessi creduto all’oroscopo sicuramente per questa giornata avrebbe predetto che avrei fatto bellissimi incontri del tutto imprevisti nella mia innocua quotidianità.

   «Piacere di conoscerla.» Sorrisi cercando di placare il brivido che mi percorse la schiena e tesi una mano verso il mio nuovo collega. Sperai anche di superare l'imbarazzo che stavo provando per iniziare a gettare le basi di un buon rapporto collaborativo con l'uomo.

   Lui allungò una mano a sua volta per stringere la mia e ghignò mantenendo il silenzio per qualche istante.

   «Posso assicurarle che il piacere è mio.» Disse infine avvicinando platealmente la nostra stretta alle sue labbra senza però toccarle. 

   Il suo respiro mi solleticò la pelle.

   Cercai di non mutare il sorriso stampato sulla mia faccia per il gesto del tutto inaspettato e volsi la mia attenzione al rettore per nascondere l'evidente imbarazzo. Una volta recuperata la mia mano la nascosi dietro la schiena insieme all’altra. Attesi che lui ultimasse il suo discorso introduttivo in cui delucidava il nuovo arrivato del rigore dell’ateneo, delle sue regole e di tutte le informazioni che gli avrebbero permesso di tutelare il rapporto lavorativo a lungo termine senza spiacevoli inconvenienti. Rimasi con la mente proiettata ai documenti che mi attendevano nell’ufficio, alle parole che avrei dovuto rivolgere all’uomo che mi stava accanto e, per qualche istante, dimenticai di tutte le altre incombenze. 

   "Jennifer sei una brava bambina.

  Un frammento di ricordo di quanto era accaduto poco prima invase la mia mente con prepotenza, annaspai una boccata d'aria al pensiero che qualcuno potesse aver notato gli occhi azzurri che avevano da poco osservato le mie labbra con desiderio tenendomi stretta in una morsa di muscoli, ossa e pelle incandescente.

   Chiusi gli occhi e scossi leggermente la testa per cercare di liberare la mente da tutti quei pensieri ad alto contenuto di testosterone.

  «La signorina Sanders è una nostra brillante dottoranda, aspira alla cattedra di Comunicazione Mediale per le Aziende presso il nostro ateneo ma si occupa anche di Web Storytelling da ormai un anno, abbiamo molta stima in lei e siamo certi che potrà esserle un’ottima spalla per poter comprendere meglio il funzionamento della nostra struttura e per affiancarla alla cattedra fintanto che non sarà terminato il suo percorso di studio.»

   Fui piacevolmente colpita dalle parole del rettore e annuii con convinzione pensando che lui e tutto il comitato docenti non si sarebbero certamente pentiti della loro scelta.

   «Sarà lei a occuparsi del tour presso la nostra struttura e a rispondere a qualsiasi domanda lei abbia necessità di porre.»

  Annuii ancora e guardai prima il signor Stevens e poi il mio nuovo collega, il signor Malcom, che scoprii ancora intento ad osservarmi sorridente. Quello sguardo indagatore mi solleticava di desiderio e di imbarazzo allo stesso tempo. 

   Presi un lungo respiro e mi feci finalmente coraggio a parlare.

  «Per quanto bizzarro possa sembrare in una grande città come Seattle, in questo ateneo siamo tutti in ottimi rapporti e ci sta molto a cuore il benessere reciproco dei nostri colleghi.» Iniziai cercando di non divagare. «Abbiamo tutti imparato che non esiste cura migliore dell’interesse reciproco e del comune obiettivo di educare i nostri studenti a vedere il mondo da un punto di vista differente. Spero che anche lei faccia presto parte della nostra grande famiglia sentendosi pienamente accettato e libero di fare il suo percorso senza ostacoli.» Sorrisi a quel viso incuriosito che non aveva ancora smesso un secondo di studiarmi da quando avevo fatto il mio ingresso nella stanza. «Il regolamento può sembrare molto duro agli occhi di chi ha lavorato in altre università ma, sono certa che saprà far presto i conti con se stesso e con le sue priorità. Se è stato scelto sono certa saprà essere all'altezza delle aspettative che il rettore, gli studenti e tutti noi riponiamo in lei dopo quanto accaduto; solo lei sa cosa l’ha spinta ad unirsi al nostro Team ma noi tutti siamo lieti di darle il benvenuto a braccia aperte come nostro fratello in questa grande famiglia.»

   Il rettore annuì sorridente per il mio piccolo discorso studiato con cura per non deludere le sue aspettative e poter escludere le mie preoccupazioni al riguardo. Ero la prima a non sentirmi parte di quel nucleo famigliare universitario e a faticare a farmi andare bene le richieste del comitato insegnanti/studenti. Per quanto amassi follemente il mio lavoro e il mio posto di lavoro sentivo che non era esattamente come l'avevo immaginato, il cambiamento era complicato da applicare alle regole secolari dell'università e questo mi frustrava al punto da sentirmi soffocare giorno dopo giorno senza che io avessi la possibilità di far nulla. Essendo ancora dottoranda la paga per la gestione del corso online era minima, questo mi aveva portato a fare alcuni lavoretti del tutto proibiti al regolamento per le aziende della città, se lo avessero scoperto come avrei potuto spiegare la mia necessità di denaro a chi navigava in mari benestanti? 

   Sorrisi con forza per far smettere ai miei pensieri di vagare liberamente godendomi quel momento di calma apparente e soddisfazione professionale alternando lo sguardo verso i miei interlocutori.

  «Se non le spiace inizierei subito con il tour della struttura così che lei possa poi ambientarsi nel suo nuovo ufficio, visionare tutto il materiale che la Signorina Sanders le ha preparato ed essere pronto a conoscere i suoi nuovi studenti nel tardo pomeriggio.» Terminò il rettore indicando con una mano la porta dell’ufficio.

   Con un flebile “certo” ci congedammo da Xander Stevens incamminandoci per i tortuosi corridoi dell’ateneo. Come un robot automatico mi calai nel mio ruolo di guida e mostrai ogni piccolo dettaglio al mio accompagnatore. Mostrai lui le aule adibite ad attività collettive o settoriali, dove avrebbe tenuto le sue lezioni, il luogo dove avrebbe potuto fare pausa, la mensa e tutti gli altri luoghi utili al suo futuro lavoro e alla sua permanenza. Lo presentai a qualche collega che incontrammo nel nostro cammino come l'essenziale professor Keller, docente di Filosofia prossimo alla pensione ma essenziale al funzionamento di tutto l'ateneo e infine lo condussi nella zona degli uffici personali mostrandogli il mio piccolo ufficio da dove raccolsi il materiale che avevo preparato per lui. In ultimo lo condussi in quello che sarebbe stato il suo personale rifugio non molto distante da dove era ubicato il mio.

   «Questo è stato l’ufficio della professoressa Simons e ora sarà suo.»

   Aprii piano la porta scura con la finestrella di vetro patinato e invitai Edward Malcom a entrare nel piccolo spazio della stanza arredata come tutte le altre da una scrivania, una libreria, due sedie e poco più a riempire lo spazio angusto.

  «Se dovesse decidere di restare verrà realizzata la targhetta col suo nome da mettere all’ingresso e qui potrà portare tutti gli oggetti che ritiene utili per svolgere il suo lavoro e che non violino parte del regolamento.»

   Sorrisi avendo ufficialmente finito tutte le parole a mia disposizione.

   Edward si guardò attorno con aria incuriosita e continuò a studiare silenziosamente tutto quello che lo circondava. Si avvicinò alla piccola finestra posta alla parete opposta e guardò il parcheggio riservato dell’ateneo illuminato dai lampioni accesi su cui si affacciava l’ufficio. Attesi pazientemente una sua reazione sentendo crearsi un certo imbarazzo da parte mia e mi strinsi le mani dietro la schiena come ero solita fare per il nervosismo.

  «Questo dovrebbe essere il momento delle domande immagino.» Esordì finalmente voltandosi a guardarmi. «È stata così professionale, dettagliata e preparata che purtroppo non ho alcun dubbio da sottoporle. Sono stato estremamente soddisfatto del suo lavoro accurato e sono certo farò tesoro di tutto il materiale che mi ha fornito.»

   Chinai il viso in segno di gratitudine ma prima che potessi parlare per congedarmi, Edward Malcom parlò di nuovo. «Forse una domanda l’avrei.» Sorrise avvicinandosi di qualche passo. «Mi ha parlato tanto della struttura, dei colleghi e di tutto quello che potrebbe eventualmente essermi utile in questo mio nuovo percorso lavorativo e con la preparazione degli esami ma si è scordata di una cosa importante che dovrei sapere.»

   La mia mente prese a correre nella memoria scavando a lungo su quello che potessi aver tralasciato. Guardando il mio nuovo collega farsi avanti verso di me e sfilarsi la giacca ripercorsi le mie parole.

   «Io, ecco..» Balbettai conscia della posizione ormai troppo ravvicinata dei nostri corpi.

  «Signorina Sanders, posso chiamarla Jennifer? Non mi ha affatto parlato di lei e credo sia la cosa che m’interessi sapere più di tutte le altre soprattutto se dovremo collaborare alle lezioni. Dopotutto è la mia assistente e sono certo che avrò estremamente necessità della sua presenza tanto che passeremo molto tempo insieme.»

   La sua mano si posò sopra il mio avambraccio. 

   Inalai una lunga boccata d’aria e cercai di non farmi incantare dagli occhi verdi di Edward mentre le mie gote si erano già tinte di porpora, posai il mio sguardo nel suo e deglutii. Provai ad essere razionale e mi autoconvinsi che le sue fossero solo parole benevoli e non provocatorie eppure nel suo sguardo brillava quella luce che non aveva fatto altro che farmi tremare le viscere per tutto il tempo.

   «Se non le ho raccontato di me è perché non c’è nulla da dire.» Sussurrai minimizzando incapace di utilizzare più ossigeno per parlare.

  Lui rise piano e si avvicinò ancora per agganciare la sua giacca sull'appendiabiti nell’angolo tra la porta ed il muro poco dietro le mie spalle.

   Non riuscii a trattenermi dal inspirare il suo profumo e chiusi gli occhi: sapeva di mare e di bagnoschiuma costoso. Quando li riaprii il suo viso era a pochi centimetri dal mio e stava sorridendo ancora studiandomi da vicino.

   «Lei dev’essere una donna piena di misteri davvero curiosi da scoprire.» Avvicinò la sua mano al mio viso senza però toccarlo. «Un puro e candido fiore da macchiare di vernice rossa un petalo alla volta.»

   Osservai le sue labbra piene muoversi piano prima di essere bagnate dalla lingua.

   Mi schiarii la voce cercando di riprendere il controllo della situazione che stava lentamente sfuggendomi dai polpastrelli e supplicai la mia mente di lavorare con lucidità invece che lasciarsi offuscare dagli ormoni in subbuglio per colpa dell’esplosione di testosterone nelle vicinanze.

  «Sono certa che avremo modo di parlare di tutto quello che riterrà pertinente alla sua didattica, nel frattempo trovi il tempo di studiare in maniera approfondita il regolamento d’ateneo.» Affermai con l'ultimo coraggio che mi restava in corpo allontanandomi di qualche passo da quella situazione. «Se non ha altro da chiedere penso che sia meglio che io vada via per prepararmi all'incontro con i miei studenti del pomeriggio e lasciare che lei si ambienti qui.»

   Mi dileguai dal suo ufficio ancor prima che potesse aggiungere altro e mi rintanai dentro al mio posando la testa sulla porta chiusa alle mie spalle. Mi maledissi perché non potevo permettermi ulteriori distrazioni in un momento tanto critico della mia vita oppure sarei finita io sotto l'occhio del ciclone e non me lo sarei potuta permettere. Il senso di colpa che appesantiva il mio stomaco era già un carico elevato da sopportare ogni volta che varcavo nuovamente i cancelli principali dell'università, il mio cuore corrotto non avrebbe retto ad altre trasgressioni che avrebbero potuto facilitare la scoperta dei miei segreti. Non potevo assolutamente permettermi passi falsi, forse, avrei dovuto aggiungere ancora più prudenza e attenzione alla mia vita affinché nulla andasse diversamente da quanto progettato.

  Mi avvicinai alla scrivania per mettere ordine nei miei pensieri e concentrarmi esclusivamente sul lavoro che mi stava attendendo da tutta la giornata per la mia ultima "lezione" serale online, riguardai il materiale per l’esposizione e attesi paziente il momento giusto per avviare il seminario e uscire dal mio confortante studio. Il mio cuore ritrovò presto la giusta pulsazione e la mente si svuotò da tutti i futili pensieri che avevano minato il mio personale equilibrio nelle ultime ore per riempirsi unicamente di nozioni utili. Ogni cosa tornò alla normalità mentre ripresi il totale controllo di quello che mi stava succedendo attorno. Mantenni attiva la rete universitaria per una buona oretta ripercorrendo con la mia classe gran parte del lavoro svolto nel corso del semestre ponendo la mia attenzione sull’utilizzo della tecnica di costruzione di una storia funzionale seguendo la teoria dell’escalation dell’eroe. Quando finalmente ebbi finito, raccolsi i miei effetti personali e sgattaiolai via dall’edificio per avviarmi alla fermata dell’autobus che mi avrebbe riportato nei pressi di casa. Inspirando l’umidità autunnale mi strinsi nel mio cappottino e osservai la valigetta pendermi dalla mano prima di soffermarmi su un volantino posato a terra dallo slogan “La tua vita sta per cambiare”. Curiosa mi chinai per afferrarlo e capii si trattasse dell’invito ad una serata musicale in un locale poco distante dal mio appartamento che si sarebbe tenuto qualche settimana più avanti e sbuffai per la consapevolezza che non mi sarei addentrata in un locale del genere.

  Quello di cui non mi stavo assolutamente rendendo conto era che l’universo si stava realmente organizzando per stravolgermi la vita senza che io fossi pronta al trambusto.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III - Mark ***


   Mark si sistemò meglio sul letto incrociando le mani dietro la nuca, osservò silenzioso il soffitto bianco contrastare con le pareti colorate dai graffiti fatti con le bombolette spray e dagli spartiti delle sue vecchie canzoni appesi con il nastro adesivo colorato. Sospirò. Da quando si era trasferito nel retro del Pub aveva cercato di renderlo un rifugio accogliente ai suoi occhi e di camuffarlo affinché non gli ricordasse che era l’unica cosa che gli restasse e che potesse dire di essere veramente sua. Per quanto provasse a non pensare, la realtà dei fatti era evidente: Mark era un ventiseienne pieno di sogni infranti, abbandonato dalla madre all’età di quindici anni per un uomo ricco di cui non riusciva a ricordare il nome e che la notte sognava di evadere dalla vita dimenticando ogni cosa.  

   Spesso, in giornate vuote e deprimenti come quelle, si divertiva ancora a fantasticare su che tipo d'uomo fosse stato il suo vecchio. Di certo non se lo immaginava una persona con la testa sulle spalle altrimenti non sarebbe fuggito appena scoperto della gravidanza ma, per quanto fosse un gioco che faceva sin da che aveva ricordo, non lo aiutava mai a sentirsi meglio. Aveva immaginato suo padre come un uomo crudele, un violento, lo aveva dipinto come un tossico, un ladro, perfino malato, si era inventato ogni possibile scenario per colmare quel vuoto che nemmeno sua madre era mai stata in grado di colmare con le sue eccessive assenze e le sue sgradevoli abitudini. Alla fine delle sue fantasie, però, un pensiero fisso arrivava sempre a lasciargli l'amaro in bocca e quel piccolo divertimento innocente si interrompeva bruscamente riportandolo alla realtà: ognuno ha sempre quello che si merita e, per non aver avuto un padre ed essersi beccato una madre puttana, lui doveva aver commesso qualcosa di terribile nella vita precedente da dover scontare nel suo presente. Se era convinto di odiare il padre, la consapevolezza di odiare la madre che aveva finto di crescerlo era ancora più forte. La donna che lo aveva messo al mondo non era mai stata capace di meritarsi l'appellativo di "mamma" perché nemmeno la nascita di un figlio era stato sufficiente ad allontanarla dalla vita malsana che aveva sempre condotto perché tutto sommato a lei piaceva così. Non era mai stata interessata a trovarsi un lavoro dignitoso e a prendersi cura di Mark semplicemente per il fatto che era lei a voler essere accudita dal denaro degli uomini che frequentavano abitualmente il locale e che si divertivano poi con lei in quel retro dove adesso lui abitava. Per questo e tanti altri motivi Mark non sapeva esattamente cosa significasse avere una famiglia, era un ragazzo venuto su alla bell'e meglio, modellato dalla durezza della vita e rassegnato al suo caratteraccio che gli impediva di farsi sopraffare dal mondo. Forse aveva ragione il suo migliore amico Christian a dire che non sarebbe mai stato salvato da nessuno se si fosse ostinato a respingere tutto quello che lo circondava eppure lui non aveva la men che minima intenzione di essere salvato da nessuno perché si era sempre salvato da solo e avrebbe continuato a farlo fino a che avesse avuto forza.  

   Sbuffò di nuovo riportando la mente a vecchi ricordi, se si fosse concentrato sarebbe riuscito ancora a vedere sua madre sorridere sullo stipite della porta del loro vecchio appartamento mentre sussurrava un “Abbi cura di te Mark” con in spalla un borsone di vestiti. Poteva ancora sentire il sangue gelarsi nelle vene ripensando a quando trovò gli scatoloni contenenti tutta la sua roba sul pianerottolo con una notifica di sfratto affissa alla porta e la serratura cambiata. Tutto quello che era stato il suo passato era marchiato in maniera indelebile nella sua mente e vi avrebbe risieduto per sempre tormentandolo per qualcosa che non sapeva di aver commesso ma per la quale continuava a pagare ogni giorno. 

   «Mark, Mark, Mark!» La vocina di Margaret arrivò alle sue orecchie strappandolo dal flusso dei pensieri con un sorriso.

   «Papà, Mark sta ancora dormendo.» Gridò Margaret tornando sui suoi passi dopo aver fatto capolinea nella camera del ragazzo. «Non ha ancora finito di fare il suo pisolino papà, guarda, ha gli occhi chiusi e sta sul letto.»

   Ancora adagiato sul suo giaciglio Mark aprì un occhio solo guardando verso la porta senza spostare nessun altro muscolo come se fosse un predatore silenzioso pronto all'attacco. La figura di Christian apparve sulla soglia nella sua abituale mise sportiva seguita da quella della figlia che gli trotterellava tra i piedi con energia. Il ragazzo era magro e non troppo alto, i capelli biondi e la pelle chiara lo facevano sempre apparire come un ragazzo dell'est nonostante non lo fosse affatto. Accanto a Mark era come osservare il giorno e la notte in un improbabile accoppiata male assortita dove il biondo finiva per essere scambiato per il più giovane nonostante l'anno in più dell'amico.

   «Sveglialo tu quell'orso ma attenta a non farti mordere, è talmente solitario che potrebbe scambiarti per un bocconcino.» Sussurrò Christian poco dietro la porta dove era solito lasciare le sue cose per il turno di lavoro. «Se solo fossi più grande non lo lascerei affatto avvicinare a te principessa.» Aggiunse ridendo. 

   Margaret tornò nella stanza come una piccola furia ma si arrestò a pochi centimetri dal letto di Mark con la mano a mezz'aria quasi spaventata dall'idea di toccarlo. Per quanto si dimostrasse spavalda con i suoi atteggiamenti da dura, era comunque una bambina di cinque anni a cui si riempivano gli occhi scuri di lacrime ogni qualvolta venisse rimproverata. Guardò l'occhio aperto di Mark perdersi nei suoi e sorrise con innocenza restando immobile a sua volta per studiare il nemico. 

   «Vuoi venire qui a letto con me Maggie?» 

   Il silenzio che attese era interrotto solamente dai rumori provenienti dal piccolo bagno accanto dove Christian si stava cambiando per indossare la propria uniforme. Mark osservò quel piccolo agglomerato di ricci biondi davanti a sé scuotere la testa con vigore e poi fuggire ridendo da dove era arrivata.

   «Papà, papà, ho svegliato lo zio Mark!» Gridò eccitata la piccola. «Ma vuole che vada a letto con lui papà!» 

  «Lui cosa?» Chiese Christian. «Sei un pervertito del cazzo Wilson, ha cinque anni.» Aggiunse con tono più alto per essere sicuro che l'amico lo sentisse.

   «Il pervertito sei tu a pensare a queste cose ma sappiamo entrambi che un giorno anche lei non saprà resistermi.» 

   Mark non riuscì a trattenere le risate e, prima che potesse anche solo alzarsi dal letto, si ritrovò schiacciato dal peso dell'amico che lo inchiodava al materasso col corpo riverso su di lui.

   «Dimmi ancora quello che hai detto se hai le palle!» Minacciò Christian con un mezzo sorriso sulle labbra e l'indice puntato verso l'altro.  

   «Sono troppo incantevole, lo sai.» Farfugliò Mark tra una risata e l'altra dovute al solletico nella pancia. 

   «Spera che quel giorno io sia già crepato o all'inferno ci finiremo insieme, io perché ti avrò ammazzato e tu perché sei un egocentrico bastardo.» Rise a sua volta Christian infastidendo il suo migliore amico. 

   Le risate di Mark riempirono la stanza, i pensieri che fino a quel momento avevano occupato la sua mente vennero nuovamente nascosti in un piccolo angolo buio dimenticato da ogni memoria e tutto tornò alla normalità. Christian aveva questo potere su di lui, sin da quando si erano incontrati molti anni prima in quello stesso locale, la vita di entrambi si era appoggiata a quella dell'altro. Nessuno avrebbe mai scommesso su quei due, nessuno avrebbe mai pensato che sarebbero sopravvissuti ai loro problemi e che alla fine sarebbero diventati come fratelli. Per Mark era tutta una questione di destino, per l'amico invece si trattava solo di casualità, quello che importava era che la loro amicizia avesse impedito a due anime di perdersi nel caos più assoluto perché unite da una forte stretta di mani che li aveva aiutati a muoversi insieme in cerca di un sentiero da percorrere. 

   Dopo la partenza della madre, Mark aveva deciso di chiudere il locale per qualche tempo e impedire che si trasformasse in un vero e proprio bordello, aveva cambiato l'insegna rinominandolo "Come Ghiacchio" perché di ghiaccio era diventato il suo cuore, di ghiaccio erano sempre stati i suoi occhi che lo accomunavano alla madre e - a detta della stessa - anche al padre, e di ghiaccio sarebbe diventato ogni cosa avesse mai provato a toccare. Agli inizi aveva assunto un ragazzo, Jack, che tenesse aperto la mattina mentre lui era occupato a diplomarsi e a cui dava il cambio appena finiva le lezioni ma i costi erano tanti e i guadagni molto meno. Jack si era stancato in fretta degli orari estenuanti e della paga ridotta e si era licenziato, Mark aveva dovuto fare presto i conti con la dura realtà che lo stava mandando lentamente sul lastrico, a partire dallo sfratto dall'appartamento e finendo con le bollette del locale e le parcelle dei fornitori che dovevano essere saldate. Poi una sera accadde che Christian entrò nel locale perché cercava il posto dove assumevano ragazzi e dove si organizzavano serate musicali a tema ma era finito nel locale sbagliato. Eppure, invece che andare a caccia del pub giusto restò, ordinò una birra e, poco a poco tra i due s'intrecciarono i primi fili del loro legame. Christian aveva bisogno di soldi per pagare l'affitto del garage dove abitava, Mark aveva bisogno di nuove idee e di aiuto per sopravvivere a quel mare di responsabilità prima che fosse troppo tardi, i loro interessi comuni e la sintonia reciproca furono il motore che diede spinta alla loro amicizia per potersi potersi sviluppare.

   Entrambi erano nella condizione di non aver nulla da perdere, la loro società aveva sancito l'inizio di una fratellanza che non era stata distrutta dalla notizia che la madre di Mark si era sposata, dall'arrivo di un figlio in quel matrimonio, dalla gravidanza indesiderata della ragazza di Christian e dalla sua morte per complicazioni dovute al parto. Mark non si era fatto scrupoli ad aiutare l'amico ventiduenne a crescere da solo una figlia, aveva usato tutti i suoi guadagni per comprare lo stretto necessario affinché Maggie potesse vivere bene e si era sentito morire la prima volta che la piccola lo aveva chiamato zio perché non si era mai sentito così vicino e così amato da qualcuno prima di quell'episodio. Ogni difficoltà personale era stata spalmata sulle spalle dei due ragazzi che vedevano nell'altro una certezza solida su cui poter sempre fare affidamento nella propria vita e su cui aggrapparsi per potersi rialzare come fanno i fratelli e come fanno le famiglie. 

   Nella camera di Mark, nella zona privata dietro il locale, erano apparsi nel tempo un piccolo lettino traballante dove poter far dormire Margaret in attesa della chiusura notturna, tanti giochi trovati qua e là negli anni per tenerla occupata, una batteria consumata e una chitarra leggermente scordata che i due avevano comprato ad un prezzo stracciato ad un'asta online per mandare avanti le loro passioni e guadagnarci qualche soldo. Tutto aveva trovato un suo precario equilibrio e alla fine Mark aveva investito gli ultimi risparmi per iscriversi all'università sperando di poter pararsi il culo nel momento in cui quel filo sottile che lo teneva aggrappato alla vita si fosse spezzato. Era stato costretto a farlo per poter sopperire al senso di colpa che viveva ogni giorno nel guardare il suo migliore amico sacrificare ogni cosa pur di dare una vita accettabile alla figlia, si sentiva in parte responsabile di quella condizione ed era pronto a tutto pur di dare loro qualcosa di meglio.

   Mark continuò a ridere godendosi quel momento di pace perché aveva imparato ormai da tempo a smettere di cedere alle paure dell'ignoto, per quanto potesse essere incerto il suo futuro si sarebbe limitato a vivere un giorno alla volta. Si fece torturare da Christian incitato da Meggie poco distante che saltellava felice osservando il padre e lo "zio" fare la lotta sul letto. Per il frammento di un attimo tutto smise di far sentire Mark sbagliato agli occhi del Fato e poté respirare ossigeno pulito, non contaminato di cattivi pensieri.

   «Papà ha vinto, lo zio orso è stato battuto dal mio SuperPapà!» Gridò Margaret tuffandosi sul letto a sua volta e abbracciando Christian. 

   Forse tutti i torti il suo amico non li aveva, forse Mark si sarebbe dovuto far salvare da qualcuno ma quello che Christian non aveva ancora capito era che lo faceva ogni giorno lasciandosi amare per ciò che era, senza filtri o bugie, da lui e dalla sua energica figlia per cui avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non doverli lasciare mai.

   «L'orso ha perso una battaglia ma non la guerra Ricciolina.» Disse Mark riprendendo lentamente controllo dei suoi polmoni e scuotendo per dispetto i capelli della bambina che gridò in protesta.

   Christian si alzò dal letto sul quale si era lasciato cadere per riprendere fiato a sua volta e afferrò la figlia per farla volteggiare in aria e farla ridere.

   «Tu sarai l'amore del papà per sempre nessuno potrà mai sfiorarti finchè io sarò in vita, solo io e te piccola mia, che ci provino a portarti via da me.» Sentenziò Christian stringendosi Meggie al petto e chiudendo gli occhi. «Forse a quel bruto potremmo concedergli un abbraccio ogni tanto, ha bisogno di amore dopotutto, ma non oggi.»

   Mark rivolse loro una linguaccia mentre Christian ridendo usciva dalla stanza con Meggie tra le braccia, si alzò definitivamente dal suo letto senza smettere di sorridere, si tolse la maglietta lasciandola cadere sulle coperte, annodò malamente i capelli con un elastico e indossò la propria uniforme con il logo del Pub pronto a iniziare il suo turno di lavoro. Nella stanza accanto lo attendeva una serata musicale organizzata come da programma ogni venerdì sera e questo significava accogliere gli artisti, aiutarli ad allestire il piccolo angolo dove avrebbero suonato ed essere pronti a servire cocktails a tutti i clienti che avrebbero desiderato passare la serata ascoltando musica dal vivo in un posto tranquillo. Meggie nella camera avrebbe giocato fino a quando Christian non fosse andato a fare una piccola pausa per la cena insieme a lei, l'avrebbe poi salutata e messa a letto con un bacio e avrebbe ripreso a lavorare dando il cambio all'amico per un piccolo break da prendersi in qualsiasi momento a seconda delle necessità lavorative della serata. In quel lasso di tempo Mark avrebbe invece avvicinato la ragazza che per tutta la sera non gli aveva tolto gli occhi di dosso, sarebbe uscito nel piccolo vicolo dietro al locale insieme a lei per godersi la sua pausa nel migliore dei modi così da non dover pensare a nulla e, dopo una sigaretta ed un patetico sandwich, avrebbe riattaccato il turno fino a chiusura. 

   Mark non aveva bisogno d'altro nella sua vita per poter essere appagato, nessun pensiero inutile a cui rivolgere la propria attenzione o per cui trovare inadatte soluzioni che non avrebbero funzionato. Era bravo ad adattarsi a quello che aveva senza pretendere nulla di più, sapeva di non poterselo meritare quindi la speranza non serviva a niente se non a illuderlo di poter essere felice e ferirlo ancora una volta se non l'avesse ottenuto quello che desiderava. Eppure, negli ultimi giorni, ogni volta che guardava la ragazza che si chinava di fronte a lui in quel vicolo o mentre la voltava verso il muro alzandole la gonna per il frammento di un attimo la sua mente gli riportava a galla due occhi scuri e delle labbra dischiuse che inalano aria per non soccombere.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV - Mark ***


   Stiracchiando la schiena un'ultima volta e sbadigliando sonoramente Mark uscì dal retro del suo locale per andare ad un palloso seminario preparativo agli esami a cui era stato costretto ad iscriversi per maturare i crediti necessari a mantenere parte della borsa di studio che aveva ottenuto dopo il primo anno universitario. 

   Camminando nel freddo dell'inverno per arrivare alla fermata dell'autobus imprecò un paio di volte stringendosi nel suo giubbotto di pelle imbottito, per quanto assurdo potesse sembrare, a lui dello stile non gliene fregava niente. Gli piaceva vestirsi di scuro perché trovava del tutto patetici i colori e perché non si addicevano affatto alla tristezza e all'oscurità che da sempre risiedeva nel suo animo. Semplicemente, ai mercatini dell'usato, cercava di adattare a sé quello che riusciva a raccattare senza grandi richieste che non si sarebbe potuto permettere.

   Entrato sul mezzo pubblico si sedette nell'unico posto vuoto disponibile e guardò fuori in attesa che la giornata arrivasse alla fine il più in fretta possibile. Non aveva alcuna voglia di sorbirsi ore extra per parlare di cose che aveva già studiato per gli esami e che avrebbe dovuto ripetere. Nonostante lo stereotipo che gli veniva sempre attribuito dicesse il contrario, Mark era un ottimo studente con una carriera promettente per il futuro, il pensiero di riscuotersi lo motivava sufficientemente a dare il massimo possibile.

   Per quanto si sforzasse di escludere il mondo nel corso del suo tragitto in autobus, la voce del ragazzo seduto poco dietro di lui che cantava gli entrò nel cervello con prepotenza per il timbro estremamente particolare e del tutto in disarmonia con la ragazza accanto che emetteva suoni stonati e scordati forse per creare una melodia accompagnatoria. 

   Cercare di ignorare quel suono non faceva altro che accrescere in Mark la frustrazione di non poter fare altro nella vita che abbandonare i propri sogni. Per quanto avesse dedicato la propria attenzione alla musica specializzandosi nei corsi disponibili in ateneo, essere un musicista non sarebbe mai stata una professione per fare soldi sufficienti a riscattare la propria vita. Semplicemente sapeva che avrebbe dovuto continuare a lavorare sul suo "Piano B" perché a lui non erano mai stati concessi premi dal Karma e lo sapeva bene. 

   Con quella melodia piacevole e fastidiosa allo stesso tempo nelle orecchie Mark sbuffò stringendo i pugni. 

   Se quella mattina avesse voluto non pensare affatto sarebbe stato impossibile viste le circostanze. Scese dal bus un paio di fermate prima della sua meta finale per farsi passare il giramento di palle che gli era montato addosso e con le mani infossate nelle tasche della giacca camminò con lo sguardo fisso sulla punta dei propri piedi. 

   Prese posto nell'aula che il seminario era già iniziato da un po' e si sedette nella parte più lontana possibile dalla cattedra dove il suo docente di Economia spiegava ancora una volta il motivo per cui tutti si trovavano lì e su quali argomenti principali avrebbe posto attenzione nel corso dei prossimi test. Mark sbadigliò ancora stanco e infastidito dalla mattinata iniziata male, pensò inevitabilmente al tema della prossima serata esclusiva mensile, magari avrebbe dovuto inventarsi qualcosa di diverso per attrarre un po' più di gente eppure non riusciva a venirgli in mente nulla di nuovo che avrebbe potuto funzionare. Gli mancava l'ispirazione per fare qualcosa di stravagante e forse non aveva nemmeno senso provarci per rischiare di perdere i pochi clienti affezionati. 

   Poco distante da lui si sedette una donna vestita elegante, posata sulla punta della sedia, si fasciava la pancia con le braccia e guardava fisso il docente in trepidante attesa di qualcosa. Mark sorrise osservando quella ragazza in preda ad un evidente esaurimento nervoso che tentava in tutti i modi di darsi un contegno quanto più normale possibile. Dopotutto c'era chi stava peggio di lui.

   Il ragazzo riprese a guardare svogliato il suo docente pensando se fosse stato il caso di andarsene o restare fino alla fine del seminario, nel mentre la sua attenzione veniva disturbata dalla presenza sempre più irrequieta della donna che guardava il proprio telefono e si agitava sulla sedia. D'un tratto si mise i capelli dietro le orecchie sbuffando leggermente e Mark riconobbe la tizia che le era mezza svenuta in braccio la settimana precedente fuori dal bagno dell'ala sud. Sentendosi forse osservata anche lei si girò e le si colorarono di rosso le guance probabilmente riconoscendo a sua volta Mark che non riuscì a trattenere un sorriso sghembo. 

   Qualcosa in Mark prese il sopravvento, si alzò dalla sua sedia e si andò a mettere vicino a lei mosso da un istinto non calcolato che non gli apparteneva di natura. «Anche oggi una giornata complicata?» Domandò forse non del tutto interessato a conoscere la risposta quanto più a  trovare un modo per parlare con la donna. 

   Questa annuì con le guance ancora arrossate e lo sguardo fisso sulle ginocchia. Mark non disse una parola ma attese con tutti i muscoli tesi che accadesse qualcosa, che la donna gli desse un pretesto per non alzarsi e andare via come sarebbe stato giusto fare. Una parte di lui desiderava stare esattamente lì per cercare un modo di parlare con quella misteriosa quanto seducente donna nonostante tutta quella situazione per Mark fosse surreale. Lui non aveva mai voglia di parlare con nessuno eppure il suo corpo e la sua bocca avevano agito ancor prima che la razionalità decidesse di farsi i fatti suoi, alzarsi e andare via da lì. Era un istinto viscerale quello che stava provando in quel momento, un desiderio a lui sconosciuto di sapere qualcosa su un altro essere umano. 

   Dal loro primo incontro Mark si era trovato spesso a ripensare a lei, in modo del tutto involontario e casuale, ma quel corpo carnoso stretto tra le sue braccia e quel viso innocente pieno di paura e di beatitudine allo stesso istante era stato complicato da cancellare dalla memoria. Qualcosa di lei lo attraeva, era un istinto animale che lo spingeva a desiderare di toccare ogni parte di quel corpo pieno e creato apposta per tentare la sua libido. Poi c'era quel "non so che" nello sguardo di lei in cui Mark riusciva a trovare una connessione, era come se quegli occhi supplicassero una rivincita dalla vita. 

  D'improvviso il brontolare della pancia di lei arrivò nitido alle orecchie di entrambi accompagnato da un lieve gemito della donna che fece inevitabilmente rabbrividire Mark affogato nei suoi pensieri liquidi. 

   Lui guardò lei felice che fosse accaduto qualcosa a cui aggrapparsi per restare e lei ricambiò lo sguardo mortificata. 

   «Devo ammettere che mi sento deluso, non si sta affatto prendendo cura di sé, a guardarla bene pare essere anche più sciupata dell'ultima volta che l'ho vista.» Le parole gli uscirono ancor prima che potesse decidere se pronunciarle o tacere. 

   «Come?» Chiese confusa lei.

   «Devo prepararmi di nuovo a prenderla o sono obbligato a offrirle un pranzo?» 

  Seppur lo avesse detto con tono scherzoso Mark non sarebbe stato così restio a farlo davvero per poter avere altre prospettive per osservare quella bocca e bramare di entrarci dentro. 

   Si stupì di se stesso.

  La donna spalancò gli occhi, aprì la bocca a formare una piccola fessura dalle labbra sporgenti forse per dire qualcosa ma gli occhi di Mark si persero ancora in quella cavità immaginando di poterci infilare le dita e poi di inumidire quella carne per poterne assaggiare meglio la consistenza. 

   «No, ecco, io dovrei solo..» Iniziò lei destando finalmente l'attenzione di Mark da quei pensieri.

   «Non si agiti o le verranno le rughe e sarebbe un peccato rovinare quel suo bel faccino.» 

   Mark ammiccò nella direzione della donna e le fece l'occhiolino, lei, se possibile, si imbarazzò di più sprofondando nella sedia e stringendosi più saldamente le braccia al corpo. Mark non riuscì a trattenersi dall'ammirare quel prosperoso seno emergere ben definito dal movimento e dal tessuto teso del maglioncino. Inevitabilmente sentì la sua intimità risvegliarsi e si obbligò a guardare il proprio docente di Economia per non buttarsi come un animale vorace sulla propria preda indifesa. 

   Nonostante fosse abituato alle reazioni generate dai propri modi, quella donna lo disarmava dalla sua totale purezza. La cosa non faceva altro che accrescere in lui il desiderio di averla e di osservarla perdere il controllo tra le sue braccia.

   «Stia tranquilla, non le farò niente.» Precisò scuotendo leggermente la testa ricordandolo persino a se stesso.

   Non le avrebbe fatto nulla.

   Si ripeté nella mente quelle parole un paio di volte per calmarsi. 

   Forse.

   La donna impiegò qualche attimo a metabolizzare l'affermazione e a riprendere aria nei propri polmoni. Allentò la stretta delle braccia attorno al suo corpo e, per la prima volta, guardò volontariamente Mark negli occhi senza cambiare la propria espressione turbata.

   «Perché?» 

   La domanda congelò l'istante e nemmeno Mark seppe cosa dire, restò fermo a guardare la donna negli occhi mentre tutto il suo corpo andava di nuovo a fuoco e l'aria si rarefaceva coi loro respiri densi. 

   Suonò la campanella che decretò la fine del seminario ed ogni cosa intorno a loro prese a muoversi velocemente. 

   «Devo andare ora, devo andare dal professor White per una consulenza.» La donna si alzò quasi come se anche la sua sedia stesse andando a fuoco. «Ho bisogno del suo aiuto per preparare gli esami online.» Spiegò senza che ve ne fosse alcuna necessità. 

  Mark corrugò la fronte confuso e si alzò a sua volta per placcarla e poterla baciare, mangiare, divorare, prenderla e svuotarla da dentro un pezzo di carne alla volta. 

   «Esami online?» Si lasciò sfuggire lui.

  La donna lo ignorò completamente, guardò dietro di sé per controllare di non stare lasciando nulla e si girò verso Mark. Fece per dire qualcosa ma non emise alcun suono, chiuse la bocca e si girò per andarsene e disperdersi con la folla.

   Che donna strana, pensò Mark, che donna intrigante e buffa; a qualunque costo sarebbe dovuta essere sua e sperò che questo accadesse nel minor tempo possibile. 

    Se avesse avuto bisogno di una consulenza per gli esami.. non terminò il pensiero. Sorrise e d'improvviso gli venne l'idea per la serata al suo pub, avrebbe organizzato una festa a tema "esami" per attrarre ragazzi nuovi da tutta Seattle e magari ricominciare a vedere qualche faccia nuova con cui divertirsi.  

   Estrasse dalla tasca posteriore dei suoi jeans il cellulare e scrisse un messaggio a Chris prima che ripensasse alla sua idea e la scartasse come aveva sempre fatto con tutte le altre. Spiegò a grandi linee all'amico quello che aveva pensato così che potessero iniziare a lavorarci insieme il prima possibile. Si diede mentalmente un colpo in fronte per non averci mai pensato prima e ringraziò quella mattinata partita con il piede sbagliato per essersi trasformata in un successone. 

   Mark sorrise, rimise il telefono in tasca e uscì dalla struttura universitaria senza mai voltarsi indietro, non attese nemmeno una risposta dal suo amico, quanto accaduto con la donna apparteneva già al passato e l'attesa di una risposta apparteneva al futuro. Mark era un ragazzo molto semplice: viveva pensando unicamente al presente.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V - Jennifer ***


   Tirai dietro l'orecchio una ciocca di capelli che mi stava infastidendo mentre controllavo alcuni test svolti dai miei alunni per il corso online, era un gesto che mi capitava di fare ogni qualvolta non avevo i capelli acconciati in qualche modo e quindi ben lontani dal viso o se mi sentivo tesa per qualcosa. Mi piaceva poter avere tutto il viso scoperto nonostante mia madre mi avesse sempre detto che una donna è più bella quando ha i capelli sciolti, chi meglio di lei poteva sapere come essere seducente? 

   Sospirai pensandoci e una fitta di nostalgia mi pervase il cuore, mi ripromisi che sarei andata a trovarla l'indomani appena ne avessi avuto modo. Per il momento la mia priorità era quella di riuscire a correggere quei test preparatori agli esami. Dopo lo scandalo di Patricia tutti gli esami del primo semestre erano stati annullati e il comitato docenti/studenti gestito dal mio "amico" - il professor Keller - aveva proposto di ripetere tutti gli esami unicamente in forma scritta nel corso di un unico mese. Questo non solo avrebbe triplicato il lavoro da svolgere in preparazione e correzione affinché tutto fosse pronto per l'imminente riapertura delle lezioni ma, avrebbe anche creato altissimi livelli di stress in tutto il polo universitario che era essenziale monitorare e tenere sotto controllo affinché i risultati non fossero un vero e proprio fiasco collettivo. 

   Mentre lavoravo al computer appuntando e segnando in nota le ultime correzioni che avrei dovuto inviare per mail entro qualche ora ai rispettivi ragazzi, qualcuno bussò alla porta del mio ufficio.

   «Avanti.» 

  Abbassai istintivamente lo schermo del computer senza chiuderlo completamente per evitare che qualcuno sbirciasse e invadesse la privacy dei miei ragazzi. 

   Il viso del professor Samuel White fece capolino da dietro la porta con un sorriso timido stampato in faccia.

   «Ecco, disturbo?» 

   Scossi la testa. «Affatto, entri pure.» Dissi sorridendogli.

   Il professor White era una persona che avrei definito "squisita", nel corso dei miei anni in ateneo si era sempre dimostrato una persona disponibile oltre che affabile. Nonostante avesse poco più di una quarantina d'anni lo avevo sempre associato mentalmente al mio defunto padre, saranno forse stati i suoi capelli brizzolati o la sua figura paffuta, in quei suoi occhi scuri e quei modi gentili mi ero sempre sentita al sicuro. Essendo docente di Economia, mi ero spessa rivolta a lui per alcuni chiarimenti in merito alla sua materia così da poter meglio lavorare in segreto con le aziende che mi chiedevano qualche piccola consulenza. Nel tempo, poi, era emersa la sua attitudine all'uso di software in grado di facilitarmi anche il lavoro con il corso online e spesso mi ero dovuta rivolgere a lui per creare i moduli per gli esami digitali. Per quanto semplice potesse sembrare creare quei test, non mi sentivo ancora sufficientemente sicura per prepararli in autonomia. Desideravo che il risultato potesse garantire una certa autorevolezza che impedisse agli studenti di copiare senza però complicare esponenzialmente il mio lavoro. Affidandomi al professor White potevo stare certa che le cose sarebbero andate bene e che nessun imprevisto sarebbe potuto affiorare. 

  «Sono, ecco, passato solo per sapere se aveva già usato il format d'esame che abbiamo impostato, ecco, l'altro giorno.» Alzò le spalle entrando di qualche passo nello spazio angusto del mio ufficio. «Passavo, ecco, da queste parti e mi sono domandato se le servisse, ecco, qualcos'altro.» 

   Ignorai volutamente il suo tic lessicale per essere educata, dopo aver superato l'imbarazzo iniziale che la cosa poteva generare, ignorare quelle parole di troppo diventava più semplice. 

  «Si, grazie per il suo prezioso aiuto.» Sorrisi ancora realmente grata. «Stavo ultimando proprio adesso di correggere i test svolti dai ragazzi come prova generale.» Aggiunsi indicando con mano aperta il computer sul piano della cattedra ordinata. «Credo siano perfetti così come li abbiamo impostati.» 

   «Lieto di saperlo!»

   Feci cenno al professor White di accomodarsi a una delle due sedie libere di fronte a me. 

   «Siccome sono, ecco, già qui avrei un favore da chiederle, se, ecco, posso.»

  Annuii seria apprezzando la confidenza che mi riservava risultando franco nelle proprie intenzioni e non facendosi prendere da inutili convenevoli.

  «C'è un mio studente che ha conseguito eccellenti risultati in questo, ecco, semestre e prima che accadesse quello che è, ecco, accaduto con la professoressa Simons lo avevo invitato a frequentare il corso di comunicazione.» Samuel si strinse le mani in grembo e guardò altrove forse per cercare le parole. «Il ragazzo non ha, ecco, immatricolato la sua richiesta a causa dello scandalo, mi chiedevo se potesse in qualche modo contattarlo e invitarlo, ecco, a non gettare via le sue possibilità. Sono certo che sarebbe un ottimo studente se solo lo conoscesse, ha un gran potenziale che potrebbe in qualche modo, ecco, fargli ottenere eccellenti traguardi.» 

   Annuii ancora.

  «Ho preferito dirglielo perché so che il ragazzo, ecco, lavora e non ha molto tempo da dedicare ad attività extracurriculari ma sono convinto che trarrebbe beneficio dagli, ecco, insegnamenti.»

   Sorrisi lieta della notizia e mi portai le mani unite dai palmi vicino alla bocca, quasi come se fossi in preghiera, per evitare di gesticolare.

   «Oh, sono certa che il nuovo docente, il signor Malcom, accetterà di buon grado un alunno in più il prossimo semestre! Anzi, credo possa essere un ottimo avvenimento con cui iniziare le nuove lezioni.» Parlai velocemente mossa da reale entusiasmo, immaginai la scena nel raccontare i fatti al professor Malcom; questo forse avrebbe reso i nostri colloqui meno complessi da articolare e decisamente più consoni ai nostri ruoli. «Non ha nulla di cui preoccuparsi, ai suoi occhi saranno tutte facce nuove e, se come dice, il ragazzo è tanto promettente, non avrà nulla di cui temere nel recuperare le..»

   Samuel White alzò la mano scuotendo la testa e interrompendomi. «Temo lei mi abbia, ecco, frainteso.»

   Corrugai la fronte confusa.

   «Ecco, non è alle lezioni del nuovo docente che lo sto proponendo ma alle sue, credo che quello che insegni ai giovani tramite il corso online, ecco, possa essere molto più applicabile alla vita di quanto altri corsi o altre materie molto più letterarie possano esserlo.»

   Restai in silenzio metabolizzando tutte quelle informazioni, pensai che il professore avesse improvvisamente perduto la testa per ritenere il mio anonimo corso tanto utile alla formazione degli studenti. Certo, mi ero sempre battuta accademicamente affinché le nozioni che venivano fornite durante le mie lezioni potessero essere quanto più possibile spendibili nel lavoro, io stessa mi ero avallata dei miei insegnamenti molte più volte di quanti avessi immaginato con le piccole aziende locali. Ciò comunque non poteva giustificare le parole del professor White in merito alle mie capacità, a maggior ragione tenendo conto delle potenzialità del ragazzo preso in causa. Un conto era credere nel proprio lavoro e nella propria filosofia, un altro era ascoltare altri credere alle stesse cose. 

   Pensai istintivamente, in autoconservazione, che altri docenti sarebbero stati più adatti ad insegnare a qualcuno di così promettente. 

   Mi sentii spaesata e di colpo percepii anche le guance bruciare per l'imbarazzo. 

  «Non serve che mi dia, ecco, risposta subito, abbiamo ancora tempo, ma sarò contento anche solo se dovessi, ecco, pensarci. Sono certo saprà fare la scelta, ecco, giusta.» Con queste ultime parole Samuel White si alzò e si avvicinò alla porta conscio probabilmente dei miei attuali turbamenti emotivi. 

   Conoscersi da molti anni poteva avere i suoi vantaggi in situazioni delicate come quella. 

   «Per il momento, ecco, la saluto e, davvero, mi scusi per il disturbo.» sorrise afferrando la maniglia. «Se dovesse avere ancora bisogno di qualche consulenza venga pure a chiedermi, ecco, aiuto.»

  Restai immobile osservando la porta dell'ufficio da cui era appena uscito il professore mentre i pensieri si accavallavano gli uni sugli altri nella mia mente. Come era possibile che Samuel White, docente in università da anni, avesse davvero proposto uno dei suoi promettenti alunni al mio banalissimo corso online?

   Per quanto sconvolta potessi sentirmi provai anche un altro sentimento del tutto nuovo, mi sentii orgogliosa e la cosa mi imbarazzò di più. 

 Sarei riuscita a fornire le conoscenze necessarie a questo ragazzo? Avrei deluso le aspettative del mio collega? Sarei stata in grado di non farmi prendere dall'ansia?

 Troppe domande affollarono la mia mente con prepotenza, sentii di nuovo l'ansia attanagliarmi le viscere e, il mio stomaco ormai in subbuglio, brontolò sonoramente. 

   Mi alzai per cambiare aria, uscii dall'ufficio con la vana speranza che tutti i miei dubbi si placassero permettendomi di ragionare con lucidità. Andai nella piccola area ristoro dove mi preparai un caffè, lo feci nero e non aggiunsi lo zucchero. Ne presi un lungo sorso bruciandomi leggermente la lingua e storsi il naso per il suo gusto intenso, amaro e sgradevole.

   "Vada a cercare qualcosa da mettere sotto i denti il prima possibile."

  Mi riecheggiò il rimprovero nelle orecchie, istintivamente mi guardai attorno come se qualcuno avesse potuto leggermi nella mente e capire a cosa stessi pensando. Mi rimproverai sentendo le guance pizzicare per il lieve imbarazzo, gettai una zolletta di zucchero nel caffè e afferrai una barretta proteica da un piccolo cestino ubicato vicino al bollitore. 

  Appena finita la pausa tornai lentamente nel mio ufficio per terminare il lavoro di correzione. Mi sedetti di nuovo davanti al computer che aprii con delicatezza e subito mi apparve la notifica di un messaggio in posta da parte di Edward Malcom. 

   In un primo momento fui tentata di ignorarlo, lo guardai per qualche secondo indecisa, alla fine lo aprii.

"Jennifer, 

Il suo materiale, per quanto elaborato e prolisso, non mi è d'aiuto nella preparazione degli esami e la pregherei di venire nel mio ufficio per collaborare con me affinché i test possano essere quanto più adatti possibile ai ragazzi. 

Grazie.

E.Malcom."

   Rilessi il messaggio ancora un paio di volte prima di metabolizzarlo a pieno. Le ansie ripresero totale possesso del mio corpo e sentii la nausea risalirmi in gola. 

   Era forse colpa mia? 

  Restai senza parole, incapace perfino di pensare ad una risposta. Mi sentii improvvisamente furiosa. Come osava parlarmi in questo modo? Chi lo aveva autorizzato a concedersi tanta confidenza nei miei confronti? Con quale coraggio poteva lasciare intendere che non ero stata sufficientemente attenta alle sue eventuali esigenze? Forse era proprio lui ad essere un incompetente perché non era in grado di capire semplici appunti riassuntivi di quanto svolto in aula dalla professoressa. Mi aveva definito "prolissa" quasi a intendere che mi fossi fatta prendere dalla situazione e avessi scritto cose a sproposito nel materiale che gli avevo fornito invece che arrivare al punto. 

  Chiusi la chat con lo schermo del laptop e sbuffai sonoramente avvicinandomi alla finestra. La aprii per respirare aria nuova e tentare di placare i miei nervi.

  Mi sentivo estremamente offesa da quanto era appena accaduto, se fossi stata una fumatrice quello sarebbe stato il momento giusto per accendersi una sigaretta ma non lo ero mai stata e dovetti stringere i denti mentre i muscoli delle spalle si irrigidivano sempre di più. Guardai il cielo ormai vicino ad essere inghiottito dal buio, inspiarai lentamente e chiusi gli occhi per convincermi che fosse soltanto colpa dello stress e che in realtà non stavo perdendo la testa. 

   Dopo essermi ripresa decisi d'ignorare il messaggio e rimettermi a correggere il lavoro dei miei studenti. Per quanto però cercassi di concentrarmi non riuscivo a smettere di pensare che il Signor Malcom si stava trovando in difficoltà con la preparazione degli esami, che la colpa fosse stata mia oppure no. E se davvero gli avessi fornito del materiale non adatto a lui e alle sue conoscenze? Se avessi scritto nozioni poco comprensibili? Se il lavoro di Patricia Simons non era in linea con la didattica precedente di Edward Malcom? 

   Nuovamente troppe domande affollarono i miei pensieri. Il dubbio mi fece sudare freddo e tremare al punto che dovetti  alzarmi per non soccombere alle ansie. Inviai frettolosamente le correzioni dei test ai ragazzi senza dilungarmi troppo a scrivere loro mail dettagliate e poi uscii immediatamente dal mio ufficio per dirigermi come un treno in quello di Edward Malcom. Desideravo solo mettere a tacere il prima possibile tutti i miei dubbi e riprendere il pieno controllo delle mie emozioni.

   Arrivai alla porta del suo ufficio e bussai due tocchi con decisione.

   «Jennifer, entra pure.» Esordì con voce roca.

   Restai perplessa, quasi intimorita, come faceva a sapere che ero io?

  Aprii la porta e mi ritrovai il collega seduto alla sua scrivania con alcuni bottoni della camicia aperti sul petto glabro e tonico, sulla sua cattedra fogli sparsi e caos generale. Sul suo viso la barba di qualche giorno gli scuriva le guance e gli risaltava il pizzetto rendendolo ancora più seducente, i capelli scombinati e la sua mise sgualcita lo facevano apparire affascinante, lo sguardo penetrante e leggermente disperato erano una tentazione quasi come se fosse una statua di Michelangelo. 

   Lo osservai trattenendo il fiato, la bellezza di Edward mi colpì come uno schiaffo in pieno volto e mi si imporporarono le guance, ancora, con i pensieri liquidi che infestavano la mia mente. 

   «Ti stavo aspettando.» Precisò lui appoggiandosi allo schienale della sedia e mettendosi le mani nei capelli come a volerli pettinare con le dita. «Finalmente potrò trovare una soluzione che non mi faccia letteralmente impazzire.»

  Il suo corpo si aprì a me e non riuscii a trattenere lo sguardo dal carezzare ogni suo muscolo teso, i tendini del collo, i bicipiti, il petto gonfio e persino gli addominali. 

   Un brivido percorse la mia schiena e, senza una vera e propria ragione, mi salì nuovamente l'ansia.

   Lui sorrise.

   «Vieni Jennifer, siediti.»

   Il mondo in cui parlò mi riportò immediatamente alla realtà come una doccia fredda. Non pronunciai una parola, lo guardai in attesa con sguardo vagamente ostile. 

   In un primo momento anche lui rimase in silenzio a osservarmi, quasi come se entrambi stessimo giocando a chi fosse il più forte a reggere la tensione. 

   Pensai che se io mi ero presentata nel suo ufficio, lui sarebbe potuto scendere dal suo piedistallo per trovare un accordo con me nonostante i suoi modi rudi e le mie evidenti insicurezze.

   Edward ghignò dopo quello che parve un tempo lunghissimo, scosse la testa e si sedette normalmente alla sua scrivania avvicinandosi a me con sguardo serio in volto. Prese qualche foglio e li riordinò davanti a sé sbattendoli sul piano per metterli in riga da sotto. 

  «Sarò franco, non intendo girarci troppo attorno, qui non ha senso nulla.» Iniziò lui sventolando qualche foglio del materiale in suo possesso. «Negli appunti che mi hai fornito ho faticato a trovare il senso logico, cioè, chi spiegherebbe ancora tutte queste stronzate sorpassate e paleolitiche a dei ragazzi evoluti?» Scosse la testa e lanciò quasi con disprezzo i fogli in un cassetto aperto. 

   Spalancai gli occhi.

  «Se questo è ciò che è stato fatto fino ad ora, oltre a dover ricominciare da capo il prossimo semestre, davvero non so su quali cazzate focalizzarmi per le domande d'esame.» Sbuffò portandosi una mano alla fronte e chiudendo gli occhi. «Ora comprendo il motivo di farsi pagare per far superare gli esami ai propri studenti, quei poveretti come avrebbero potuto farcela diversamente con tutte queste cose prive di senso?»

   Provai ad aprire la bocca per dire qualcosa ma mi morirono le parole in gola, non avrei saputo ribattere in alcun modo a quelle parole dette con tanta rabbia. Nel mio piccolo, persino io avevo avuto qualche dubbio sull'utilità degli insegnamenti di Patricia Simons ma non mi ero mai davvero posta il problema. Avevo creduto ancora una volta ingenuamente che anche il suo lavoro sarebbe servito a fornire una base nelle menti di giovani studenti a comprendere le origini della comunicazione per poi poter approfondire le tematiche con corsi più specializzati. Nel lavoro, anche Patricia era era un mattone che formava l'ampio muro della conoscenza dell'ateneo, essendo un docente di cattedra non poteva certo essere mediocre agli occhi di tutto il comitato.

  Seppur Edward Malcom avesse evidenti punti di vista differenti e metodi di lavoro opposti, non poteva permettersi in alcun modo di criticare la collega in quel modo, a maggior ragione se non aveva avuto modo di conoscerla personalmente.

   «Lei.. ecco.. io credo che non..» Provai a dare voce ai miei pensieri guardandomi attorno per cercare di capire da dove avrei potuto iniziare. «Insomma, non può chiamarmi qui per.. e poi dire queste cattiverie e..» Iperventilai.

   «Non le sto chiedendo di esprimere un giudizio, le sto chiedendo aiuto per creare qualcosa che si possa adattare agli studenti senza che questo imponga una bocciatura collettiva..» 

   Guardai Edward e lui guardò me alzando un sopracciglio.

   «Non sono qui per giocare con lei Jennifer, per quanto vorrei potermi divertire vedendo fino a che punto la sua purezza d'animo possa arrivare, al momento ho davvero bisogno di trovare una soluzione che possa portare risultati significativi.» Spiegò allungando una mano verso di me. «Non posso permettermi di iniziare questo lavoro con un colossale fallimento e l'unica che può evitarlo è lei, le prometto che avrò modo di sdebitarmi se mi aiuta adesso.» Aggiunse sorridendo e sfiorandomi la mano con le dita. «Tutto a suo tempo.»

   Annuii rassegnata mentre una vocina nella mia testa mi suggeriva di non farlo e andare il più lontano possibile da lì.

   «Sono qui, la aiuterò.»

   Edward Malcom sorrise schioccando la lingua. 

   «Sapevo di poterla convincere in qualche modo, venga qui accanto a me e mi faccia vedere cosa fare, brava bambina.»

   Quelle parole pronunciate dalla sua bocca mi fecero contorcere lo stomaco, per una ragione a me ancora sconosciuta era come se stridessero a contatto con le sue labbra producendo un suono quasi fastidioso.

   Sentii tutto il corpo scuotersi dall'inquitudine, qualcosa in lui mi suggeriva che avevo appena venduto l'anima al diavolo e ne avrei pagato le conseguenze un giorno.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI - Mark ***


   Mark rise di gusto quando Christian scivolò dallo scalino laterale che separava il bancone del bar dal pavimento della sala, rise sapendo che il suo amico non si era fatto niente e che era tanto sbadato perché non aveva chiuso occhio per qualcosa che si era categoricamente rifiutato di raccontargli. Negli ultimi giorni i due avevano lavorato sodo per cercare di organizzare la loro "serata-svolta", avevano contattato un paio di persone per avere della musica dal vivo, avevano affisso degli annunci per cercare qualcuno da assumere ad ore, avevamo preso un contatto per realizzare la pubblicità e per rifornirsi da nuovi fornitori. Avevano quasi elaborato un buon piano d'azione e si erano impegnati per far aumentare al massimo le possibilità di successo così da smettere di stare sempre sul filo del rasoio. Con tutto quello che ci sarebbe stato ancora da fare non si sarebbero potuti permettere di bighellonare. 

   Ridendo Mark continuò a pulire i bicchieri e a riordinare tutto il caos che era rimasto in sospeso dalla sera prima: Una folla di ragazzini mai visti era entrata nel locale a metà serata e aveva iniziato ad animarla fino al punto in cui tutti non avevano iniziato ad essere più alticci di quanto avrebbero dovuto finendo per degenerare al controllo. Per quanto assurdo potesse sembrare, quel piccolo avvenimento spontaneo era stato il segno che forse le cose sarebbero potute cambiare davvero.

   «Cazzo ti ridi?» Chiese Christian pulendosi le mani sul grembiule. «Quegli stronzetti hanno conciato un bagno che fa schifo, tra piscio e vomito pare di stare in un angolo della Pioneer Square.»

   Se possibile Mark rise ancora di più.

  «Un buon prezzo da pagare per tutti i soldi che ci hanno lasciato.» Ammise alzando le spalle e voltandosi verso l'amico.

   Christian lo guardò torvo.

   «Facile dirlo quando non sei tu a pulire.»

   Mark fece spallucce. 

   «Touché.»

   Tra i due calò di nuovo il silenzio, entrambi avevano molte cose a cui pensare e parlarne le avrebbe rese necessariamente reali. Forse non erano ancora pronti per mettersi nudi di fronte alla realtà dei cambiamenti che si stavano lentamente insinuando nella loro vita e, semplicemente, mantenere il segreto avrebbe permesso loro di continuare a negare l'evidenza ancora a lungo. 

   Christian tornò a pulire i gabinetti sbuffando di tanto in tanto e Mark si perse a inventariare il negozio per capire tutto ciò di cui avrebbero dovuto avere bisogno. 

  Mentre contava le sue bottiglie nel piccolo magazzino tra il suo alloggio sul retro e il bagno di servizio in cui Christian imprecava sottovoce, Mark non riusciva a smettere di togliersi dalla testa alcuni pensieri. C'era qualcosa nella sua mente che non riusciva a quadrare, non aveva idea di cosa fosse ma si sentiva come se l'universo lo stesse mettendo alla prova per capire se potesse meritarsi il suo giro di boa e cambiare finalmente rotta. Si sentiva inspiegabilmente sotto pressione, come se qualcuno lo stesse giudicando e la cosa lo stava facendo uscire di testa perché un conto era credere nel mistico potere del Karma, un'altro era impazzire per qualcosa di inesistente. 

   «Mark, il telefono.» Gridò Christian riportando l'amico nel mondo reale. 

   Trascinato come suo solito dai pensieri non aveva fatto caso all'incessante vibrare del suo telefono malamente posato sul bancone del bar. 

   Posò carta e penna sfregandosi la fronte con il dorso della mano. Diede uno sguardo al numero sconosciuto e rispose.

   «Pronto?»

  «Salve, mi scuso per il disturbo, sono la Signorina Sanders. Ho trovato una telefonata persa stamattina presto e mi sono permessa di richiamare siccome mi sono appena liberata da impegni.» 

   La voce dall'altro capo del telefono era estremamente professionale, quasi robotica. 

  Mark spostò il cellulare per guardare bene lo schermo e capire se il numero potesse appartenere davvero a qualcuno o se stava parlando con un nastro preregistrato.

   Cercò di ricordare chi avesse chiamato, se fosse qualcosa di importante e soprattutto se fosse stato lui a comporre realmente il numero. Ci pensò qualche attimo poi ricordò.

  «Non mi aspettavo mi contattasse una donna, che piacevole sorpresa.» Ammise con genuina sincerità grattandosi la nuca. 

   «Oh.»

   «Mi chiamo Mark Wilson, possiedo un piccolo Pub qui a Seattle e mi hanno consigliato di chiamarla per un lavoro pubblicitario, chi mi ha lasciato il numero dice che lei fa ottimi lavori a prezzi accettabili».

  Dall'altro capo del telefono calò il silenzio e Mark guardò di nuovo lo schermo del telefono per accertarsi che non fosse caduta la linea.

    «Pronto? C'è ancora?»

   «Si, mi scusi.» Sussurrò la donna. «Ora sono in un luogo dove poter parlare liberamente senza ulteriori fastidi.»

   Mark si spostò nel retro e si andò a sedere sul suo letto.

   «Siamo entrambi in luoghi indisturbati ora.» Il tono del ragazzo si fece più gutturale e la sua mente vagò per un attimo verso pensieri inappropriati.

   La donna si schiarì la voce. «Di cosa avrebbe bisogno esattamente?»  

   Mark sorrise, avrebbe avuto bisogno di tante cose: una montagna di soldi, un appartamento vero, una bella scopata, una famiglia vera, la certezza che Christian e Margaret avrebbero avuto un buon futuro, un contratto con una casa discografica per inseguire i suoi sogni.. La lista sarebbe potuta essere molto lunga ma sapeva anche che era pura fantasia. «Questo dovrebbe dirmelo lei no? Se lo sapessi me lo farei da solo ma la sto contattando proprio per questo» Sorrise ancora. 

   «Io non..» Iniziò la voce.

   «Se fossi bravo in tutto non ci sarebbe divertimento, mi piace credere di essere buono nel lasciare che gli altri diano il meglio per me in quello in cui sono bravi.» Aggiunse Mark interrompendo la donna. 

   Al telefono calò il silenzio e Mark scoppiò a ridere.

   «Sono un cretino, mi perdoni, scherzavo. Sono state giornate molto tese ma non avrei dovuto farle queste battute inappropriate.» Scosse la testa dandosi dello stupido. «In realtà ho davvero bisogno di lei e della sua bravura. Ho bisogno di qualcuno che faccia pubblicità alla serata che abbiamo in programma qui al locale in speranza che porti nuova clientela. Io e il mio socio crediamo sia ora di aria fresca, magari ci liberiamo dei vecchi scheletri che si annidano ancora nei nostri armadi e che tengono lontani molta gente.»

   Ci fu ancora silenzio e Mark temette di essersi bruciato l'aggancio. 

   «Credo di aver capito.» Esordì finalmente la donna dall'altro capo del telefono.

   «Dovremmo incontrarci per approfondire il discorso affinché io riesca a ottenere tutte le informazioni necessarie, purtroppo in questi giorni mi sarà impossibile liberarmi per altri impegni di lavoro.» 

   Il ragazzo si rabbuiò in viso. 

   «La festa si terrà tra tre settimane.» 

   «Perfetto.» Esclamò la voce nell'orecchio di Mark. «Gli esami saranno conclusi e io avrò tutto il tempo di dedicarmi a voi.»

   Esami? 

   Mark stava conversando con una studentessa?

  Avrebbe potuto conoscere una seducente ragazza in procinto di laurearsi a cui piaceva sondare il terreno per il futuro o magari una timida matricola a cui avrebbe insegnato un po' di biologia. La cosa lo intrigò, probabilmente sarebbe riuscito a ottenere più di un buon ingaggio lavorativo, magari sarebbe riuscito a spuntare qualche altra voce della sua lista di necessità se si fosse giocato bene le sue carte.

   «Se è d'accordo potremmo incontrarci la prossima settimana, può inviarmi la via e una fascia d'orario in cui preferirebbe.» Aggiunse lei. «Spero di essere all'altezza delle sue aspettative.»

   «Lo spero anche io.» Borbottò Mark alludendo ad altro.

  I due continuarono a parlare un'altra manciata di minuti per accordarsi al meglio e si salutarono educatamente.

  Chiusa la telefonata, Mark si sdraiò sul letto e respirò come se in qualche modo avesse trattenuto ossigeno vitale per tutto il tempo, si coprì il viso con entrambe le mani e poi si stiracchiò i muscoli. Scosse ancora una volta la testa pensando che ci fosse qualcosa di strano in lui altrimenti non si sarebbe mai potuto spiegare il motivo per cui si stesse trasformando in un tale chiacchierone. Nella vita non aveva mai dovuto usare tante parole come nell'ultimo periodo: con sua madre non aveva mai parlato molto, di amici non ne aveva mai avuti e Christian non aveva mai avuto bisogno di grandi spiegazioni per capirlo persino meglio di se stesso. 

  Se non fosse stata una teoria assurda avrebbe creduto davvero che l'universo stesse complottando qualcosa verso di lui.  

   Si stropicciò la faccia e si alzò di nuovo, non poteva ancora permettersi di perdere tempo con tutto il lavoro che lo stava attendendo nella stanza accanto. Prima di tornare nel locale si fermò ad ascoltare Christian che stava parlando a bassa voce con qualcuno e inarcò le sopracciglia captando l'ostilità nella voce dell'amico. Si accostò alla porta con le orecchie tese per capire se dovesse intervenire o farsi gli affari suoi.

   «Senti, ti ho detto che non puoi venire qui e credere di poter fare quello che ti pare.» Sbottò Christian. «Te ne devi andare, non hai alcun diritto di ribaltarmi la vita a tuo piacimento dopo tutto questo tempo.»

   «Ti prego Chri, io..» Piagnucolò una voce femminle.

   Mark si stupì profondamente nel sentire l'amico parlare così animatamente con una donna. Nella vita del biondo c'era sempre stato spazio per una femmina soltanto ed era quella di Margaret. Dopo la morte di Anastasia per Christian non c'era più stato spazio per nessuna, le sue uniche preoccupazioni erano state Meggie, il nostro pub e la speranza di costruire un futuro stabile. 

   «No.» La interruppe lui. «Tu niente, adesso vai via e basta. Io non posso aiutarti, non voglio farlo.» Aggiunse.

   Calò il silenzio e poi la porta fece rumore lasciando intendere a Mark che la persona con cui stava discutendo l'amico se ne fosse andata. Per quanto gli sarebbe piaciuto fare il solito cazzone e commentare quanto accaduto con l'amico, Mark capì che sarebbe stato meglio lasciare un pochino di tempo a Christian. Qualcosa nella voce di lui gli aveva fatto intendere che era una faccenda grande e, quando si sarebbe sentito pronto, avrebbe parlato con Mark. Dopotutto erano e sarebbero stati per sempre una famiglia, Mark non avrebbe mai voltato le spalle a Christian nonostante capisse che per certe cose avevano caratteri completamente differenti. 

   Dopo alcuni minuti Mark tornò nel locale dove trovò Christian ancora immobile di fronte alla porta con sguardo fisso sulla strada che appariva dalla piccola finestra tonda. Mark si schiarì la voce riportando alla realtà l'amico che gli fece un sorriso obliquo con occhi tristi. 

   «Mi ha chiamato quello per la pubblicità, in realtà è una donna, la incontriamo la prossima settimana per elaborare un piano d'azione.» 

   Christian annuì voltandosi leggermente di spalle e sospirò.

   La stanza piombò nel più totale silenzio, Christian assorto dai propri pensieri si osservava le mani mentre Mark si era rimesso a inventariare il bancone lanciando sfuggevoli occhiate preoccupate in direzione del suo amico.

   Quando il silenzio divenne un peso per Mark, si riempì i polmoni per dire qualcosa.

   «Ehi Chris, senti..»

   Christian si girò a guardare l'amico.

   «No.» Lo interruppe subito. «Ti prego no.»

   Mark aggrottò le sopracciglia confuso. 

   «Volevo solo dire..»

   «Hai sentito tutto non è così?» Lo interruppe di nuovo Christian.

  Ci fu un lungo momento di silenzio tra i due interrotto solo dalle voci e dai suoni provenienti dall'esterno e attutiti dalle pareti insonorizzate. 

   Per qualche attimo Mark fu tentato di fingere di non sapere nulla, di non aver sentito ma poi pensò di non voler iniziare a mentire al suo unico amico.

  «Non esattamente, ho sentito qualcosa ma so bene che non sono affari miei. Sono solo preoccupato, insomma non ti vedevo così distrutto dalla nascita di Meggie.»

   Christian fece un sorriso obliquo, senza togliersi la luce triste dagli occhi. 

  «So di poter contare su di te amico, solo, non sono pronto ad affrontarlo. Ho bisogno di tempo, è qualcosa di complicato.»

   Mark annuì, cercò di imprimersi nella mente le parole dell'amico per impedirsi di ficcare il naso e tentare di proteggere il biondo da qualunque male lo stesse ferendo. 

   «Vai a casa, prenditi la mattinata libera che qui ci penso io oggi. Fatti una bella doccia che puzzi di vomito e torna quando starai meglio.»

   Christian cercò di obiettare ma Mark non si fece intimidire. Alla fine, rassegnato, il biondo annuì, prese tutte le sue cose e salutò il suo socio.

   Mark sospirò e imprecò.

   Per quanto desiderasse essere abbastanza furbo da farsi gli stramaledetti affari suoi, Mark già sospettava che sarebbe finito per impicciarsi perché non poteva sopportare di vedere Christian in quello stato e soprattutto non sarebbe mai stato inerme di fronte a quella situazione. Per quanto stupido potesse semprare Mark voleva davvero bene a Christian e avrebbe fatto di tutto per proteggerlo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VII - Jennifer ***


   Dopo aver lavorato duramente agli esami ed essermi sentita più colpevole che mai per tutte le difficoltà di Edward Malcom, mi ero finalmente concessa del tempo per fare quello che da troppo avevo rimandato. Presi un lungo respiro, bussai dolcemente alla porta per non disturbare ed entrai prima ancora di aver udito alcun invito dall'interno, l’odore di disinfettante e di aria viziata mi riempirono i polmoni con prepotenza. La piccola stanza era immersa nel silenzio, le pareti arancioni e gli angoli pieni di fiori e piante finte ricordavano vagamente un ospizio per anziani. 

   Mia madre era sdraiata a letto dormiente, probabilmente ancora sotto l'effetto dei sonniferi pareva una bambina adagiata sul materasso, un piccolo sorriso accennato sul volto la faceva apparire pacifica e sana. Mi avvicinai a lei e posai la borsa sulla sedia di legno accanto al suo giaciglio cercando di fare meno rumore possibile per non infastidire il suo riposo.

   «Ciao mamma.» Sussurrai.

   Da molto tempo le era stato diagnosticato l'Alzheimer e inizialmente non era stato un problema gestire le sue piccole lacune ma con il tempo le cose si erano aggravate e le spese si erano fatte sempre più alte. Poco dopo la scoperta mio padre era venuto a mancare, per tirare avanti, ero stata costretta ai doppi turni alla paninoteca dove lavoravo e negli archivi della biblioteca rallentando gli studi e cercando di trovare una sistemazione molto più piccola e vicino alla città. A malincuore avevo convinto quel che restava della mente lucida di mia madre a firmare le carte di vendita della nostra proprietà in campagna e avevo affittato un piccolo ed essenziale appartamento in periferia pregando che le cose potessero andare meglio. Con la proposta di lavoro all'università, con il dottorato e lo stipendio fisso era arrivato anche il primo ictus di mia madre. La risposta affermativa era stata inevitabile per riuscire a sopperire alle spese della struttura medica presso cui era stata poi ricoverata prima che potesse succederle qualcosa che non mi sarei mai perdonata. Nel giro di poco tempo però ne era arrivato un secondo che l’aveva bloccata a letto per lungo tempo e aveva definito un netto peggioramento della sua condizione, due pesi difficili da ingoiare che mi avevano posto davanti alla consapevolezza che non avrei potuto più portarla a casa e vivere con lei quanto le restava da vivere.

   Scossi la testa per non farmi sopraffare come mio solito dalle emozioni. Accarezzai la guancia a mia madre delicatamente, quasi sfiorandola e lei, d'istinto, si mosse nel letto spostando di poco il viso.

   Sorrisi amaramente. 

   Osservandola così tranquilla era inevitabile ricordare i bei momenti passati, quando ancora era in grado di riconoscermi come sua figlia e non solo come una tenera ragazza che andava a trovarla di tanto in tanto per farle compagnia. Purtroppo però l’immagine di lei inerme stava prendendo possesso della mia mente sovrastando tutte le altre: piano piano dimenticavo come fosse la sua figura nella quotidianità domestica della nostra vecchia casa, come fosse il suo sorriso radioso ogni volta che osservava mio padre rientrare a casa dal lavoro. Il ricordo della sua fermezza risoluta era stata sostituita dal buonismo accondiscendente della sua nuova condizione. Tra la donna che era stata mia madre e la persona che oggi mi trovavo davanti non c’era più alcuna affinità se non l’aspetto esteriore, questa era la parte più dolorosa con cui non sarei mai riuscita a fare i conti.    

   La signora Sindy Jhonson arrivò per il suo abituale giro di controllo, mi salutò con un sorriso tenero e si mise subito a controllare la cartella clinica della sua paziente.

   La sua personalità era quello che serviva ai pazienti per sentirsi bene in quel posto ed era essenziale alle famiglie per sopprimere i sensi di colpa. La sua figura non ricordava lo stereotipo di un'infermiera ma quello di una madre buona, paffuta e simpatica, pronta a fare i biscotti la domenica mattina e ad ascoltare i figli piangere senza arrabbiarsi mai delle loro marachelle. I capelli, ormai completamente bianchi e raccolti in una crocchia, venivano nascosti dalla cuffietta azzurra della sua divisa, gli occhi scuri erano accentuati dalle spesse lenti dei suoi occhiali che la facevano apparire come una vecchia bibliotecaria. 

   Tutto in lei metteva voglia di essere consolati dal male del mondo. 

   «Non sembra esserci nulla di nuovo a parte il fatto che Alice ha fatto nuovi controlli ieri mattina.» Esordì sfogliando la cartella che aveva in mano. «Questa notte c’è stata la necessità di sedarla, pare fosse parecchio irrequieta.» Lesse alcuni appunti lasciati da qualche collega. «Alice voleva uscire a tutti i costi per un appuntamento e non voleva assolutamente restare qui in clinica.» Ridacchiò scuotendo la testa.

   Mi voltai per guardare Sindy e sospirai indecisa se prenderla anch’io in ridere o meno.

 «C’è scritto anche che il Dottor Roger vorrebbe incontrarti nel suo studio il prima possibile.» Aggiunse corrugando la fronte. «Credo sia emerso qualcosa dalle nuove analisi della mamma.»

   Spostai lo sguardo sulla figura di mia madre ancora dormiente nel suo letto e d’un tratto mi resi conto che le notizie che stavano per arrivarmi avrebbero notevolmente cambiato le cose e che non lo avrebbero fatto in meglio. Non ero ancora pronta a riceverle, pensai che forse non sarei mai stata pronta a perdere anche lei.

   Sindy mi si avvicinò e posò la mano libera sul mio braccio, il suo tocco era caldo. Le rivolsi un sorriso e lei strinse le sue dita in una tenera presa come a volermi dare un po’ della sua inesauribile energia.

   «Io ho quasi finito il mio giro, entro poco dovrebbe arrivare anche il dottore, che ne dici di berci un caffè insieme aspettando?» Chiese lei facendo un cenno verso la porta.

   Annuii e la seguii trattenendomi dall’andare ad abbracciare mia madre per non esplodere in un pianto frustrato. 

  Camminammo in rigoroso silenzio lungo il piccolo corridoio di porte accostate che popolava l’area e arrivammo nell'altrettanto piccolo salottino comune che la clinica aveva realizzato per un incontro più semplice tra famiglie e pazienti. Mi sistemai su una poltrona della sala comune dove altre persone erano sedute tra sofà e sedie a conversare a bassa voce, alcuni bambini giocavano insieme nell’angolo dove erano stati messi alcuni giocattoli per loro. 

   Sindy arrivò poco dopo con una tazza fumante di caffè zuccherato e me la porse sorridente prima di sedersi accanto a me.

  Dopo tutto quel tempo sapeva esattamente di cosa avessi avuto bisogno quasi come se mi conoscesse da sempre.

  «Quei bambini sono come il sole in un giorno di pioggia.» Sussurrai più a me stessa che ad altri osservando l’innocente allegria dipinta sui loro volti.

  Sindy annuì e sistemò il grembiule sulle ginocchia paffute e coperte da spesse collant color carne.

  «Qui il tempo va al contrario e loro ci ricordano che la vita va avanti nonostante tutto.» Disse lei volgendo il suo sguardo al loro giocare con le costruzioni sul piccolo tappeto vicino.

  Spostai la mia attenzione sulla donna che mi sedeva accanto e cercai di sorriderle nonostante il groppo alla gola.

  «Lei come sta?» Chiesi dopo un lungo silenzio rotto solo dalle conversazioni degli altri presenti in sala. «Intendo veramente, non quello che vorrei sentirmi dire.»

   «Sai che mi sono affezionata molto ad Alice, mi ricorda tanto mia sorella, ma nell’ultimo periodo è peggiorata.»

   Incassai il colpo, Sindy mi prese la mano e la strinse alla sua. 

   Ingoiai una lunga sorsata di caffè per placare il senso di nausea che mi stava pervadendo lo stomaco e mi obbligai a respirare.

  «Sarei dovuta venire più spesso, avrei dovuto ignorare il lavoro, avrei potuto fare qualcosa.» Sussurrai portandomi una mano a coprire gli occhi.

   «Oh cara, voglio raccontarti una storia magari ti potrà essere d’aiuto.»

   Annuii e attesi.

   «Sono diventata infermiera perché da piccola mi occupavo sempre della mia povera madre tetraplegica, sai era caduta dal tetto pulendo le grondaie poco dopo il mio ottavo compleanno.» Disse sorridendo con tristezza. «All’epoca avevo un fratello più grande, pace all’anima sua è morto in guerra, e due sorelle più piccole di cui dovermi prendere cura insieme a mia madre perché mio padre morì poco dopo la nascita dell'ultima figlia aggredito da un orso mentre lavorava nei boschi canadesi. Crescendo ho cercato di rendere a tutti la vita più semplice possibile, vivevamo in campagna e c’era tanto lavoro da svolgere sia in casa che fuori e non avevamo molte possibilità per condurre una vita dignitosa, eravamo una famiglia povera e a stento sopravvivevamo con quello che ci davano la terra e le bestie allevate. In adolescenza una delle mie sorelle venne messa incinta da un uomo sposato che rinnegò poi la povera creatura perché incapace di divorziare dalla moglie per la loro posizione sociale. Sai lui era un uomo ricco, viveva in città. Noi ci trovammo con una nuova bocca da sfamare, che nel giro di pochi anni si trasformarono in due e poi tre. Il sentimento di passione che legava mia sorella a quell’uomo era forte, nonostante la ragione le dicesse di starle lontano lei non è mai riuscita a farlo.» 

   Rise.

   Non riuscii a trattenermi dallo stupore e guardai Sindy con gli occhi spalancati.

  «Vedi cara, accadde che poi mia sorella, l’altra, si sposò con un contadino locale e andò via di casa mentre io avevo il compito di occuparmi di tutto il resto, mamma morì poco dopo di vecchiaia e mia sorella, la più piccola, si ammalò di polmonite. In quel periodo conobbi mio marito che era dottore e s'innamorò di me, era così affascinante!» Sindy si portò le mani unite vicino ad una guancia e per qualche istante le brillarono gli occhi. «Provò in tutti i modi a convincermi a sposarlo e quando acconsentii presi anche la decisione di studiare per diventare infermiera. Nel corso dei miei studi la polmonite di mia sorella si aggravò fino a che non la costrinse a passare a miglior vita lasciando soli quei poveri bambini già dimenticati da tutti se non da Dio. Erano altri tempi e purtroppo non potei far nulla per salvarla. Mi presi carico io dei miei nipoti, troppo piccoli per essere lasciati al loro destino e aggiunsi i miei due figli a quel bizzarro nucleo familiare.» Sospirò. «Crebbi una nuova famiglia senza fare mai distinzione con nessuno, tutte quelle creature erano figlie mie come del Signore e non avrei mai permesso che potesse accadere loro qualcosa. Non è stato affatto facile ma non ho mai pensato potesse andare diversamente perché amavo la mia famiglia ed ero disposta a tutto pur di far andare le cose per il meglio anche quando a cena si mangiava poco o niente perché non c’era cibo a sufficienza e il freddo dell’inverno si faceva sentire con i geloni che raffreddavano anche i cuori più caldi. Ogni giorno siamo andati avanti e abbiamo costruito insieme la nostra storia con alti e bassi ma ha funzionato, oggi ho una grande famiglia felice e tanti nipoti che mi chiamano nonna, un marito che non mi ha mai lasciata e la forza del Signore a scaldarmi il cuore nei giorni più difficili.»

   Sindy posò la sua mano sopra alla mia gamba e batté qualche colpetto leggero.

  «Nel corso della mia vita tante sono state le sfide davanti cui il Signore mi ha posto secondo il suo Piano Divino ma non mi sono mai fermata davanti a nulla perchè se Lui aveva scelto tutto quello che stava accadendo per me significava solamente che sapeva che io avrei potuto superare quelle difficoltà. Non mi sono mai chiesta perché fosse successo a me perché avrebbe significato credere che se fosse successo ad altri sarebbe stato meglio e, conscia del dolore che ho provato, non avrei augurato a nessuno tanta disgrazia. Ho solo scelto con cura i dettagli su cui concentrarmi accontentandomi spesso delle piccole cose che mi ha regalato la vita e ricordando i lati positivi di ogni memoria, l'ho fatto per poter guardare sempre al domani in modo migliore.» 

   Sindy volse lo sguardo sulla sala ancora piena di persone e io attesi che continuasse il suo discorso in silenzio aggrappata alla tazza di caffè che stringevo saldamente tra le mani e alle sue parole che stavano prendendo lentamente vita dentro di me.

   «Quello che cerco di dirti, cara, è che non c'è nulla di cui avere paura. Anche se spesso la speranza viene meno, quello che non dovresti perdere è la fede, e non intendo dire che tu debba andare in chiesa..» Rise scuotendo la testa. «.. non sono quel genere di persona che finisce per farti la predica moralista o spirituale, mi riferisco al fatto che tu debba credere in qualcosa di buono, avere fiducia nel fatto che tu sia abbastanza forte da arrivare oltre l'ostacolo che ti si è posto davanti e a tutti quelli che arriveranno dopo di quello. Potrei dire che il Signore veglia su di te perché Lui è la mia forza ma forse la tua risiede altrove, devi solo cercare bene e scoprire dove si nasconda prima che tu venga inghiottita dal buio.» 

   Rimasi senza parole, il silenzio avvolse tutto congelando quegli attimi attorno a noi come se fossero carichi di elettricità. Osservai il liquido nero del caffè nella mia tazza incapace di distogliere lo sguardo da quello che mi sembrava un piccolo buco nero che stringevo tra le mani, tutte le voci attorno a me parevano ovattate come se avessi la testa in acqua.  

   «Qualsiasi cosa accada resterà sempre tua madre, anche se lei ora non lo ricorda, anche se sarà difficile sopportare la sua assenza e anche se avresti voluto che andasse diversamente.»

  Sindy aveva ragione e sapevo che nulla avrebbe potuto cambiare le cose, eppure ero incapace di pensare con lucidità a quello che stava accadendo. Mi guardai la punta dei piedi sentendomi di nuovo piccola.

   «Suvvia cara, non fare quel broncio.» Mi rimproverò bonariamente. «Va da lei ora e stalle vicino pensando a quanto tu sia fortunata di far parte dei suoi ricordi prima della fine, sono quello che resterà una volta terminato questo percorso.»

 «Signora Jhonson?» Una donna si avvicinò a noi per richiamare l’attenzione dell’infermiera a cui probabilmente avrebbe dovuto chiedere qualcosa.

  Sindy mi diede qualche leggera pacca sulle gambe e si alzò per tornare al suo lavoro, io strinsi tra le mani la tazza ormai intiepidita di caffè e non mi mossi. Pensai alle parole che mi aveva detto cercando di assimilarne il significato.

   Presi un lungo respiro, finii il liquido contenuto nella tazza per darmi la giusta forza e mi alzai dalla poltrona della piccola sala comune. Bussai alla porta accostata dello studio del dottore, mi accomodai al suo interno dopo aver udito un invito e mi arresi al mio destino un'ultima volta.

   «Mi dispiace averla fatta correre nel mio studio signorina Sanders, ma ci tenevo a vederla il prima possibile per parlare di sua madre.» 

   Il dottor Roger estrasse dalla cassettiera poco dietro le sue spalle il fascicolo sanitario di mia madre e, nel mentre, attese che il suo computer si accendesse. Tutta la sua figura emanava un'aura settica, tetra. Le spalle larghe si erano fatte peso di enormi responsabilità, i suoi occhi scuri si erano spenti della luce di vita forse a causa del dolore che erano stati costretti a vedere e i capelli erano ingrigiti con l'età.  

  «Dalle ultime analisi effettuate mi rincresce doverla informare che la signora  Adams ha avuto un netto peggioramento della sua condizione clinica, per spiegargliela in modo semplice, con l'ultima risonanza magnetica è stato possibile rilevare la presenza di più macchie scure nel suo cervello. Questo significa che presto entrerà nell’ultimo stadio della malattia, gli sbalzi di umore, l'irascibilità e le sue crisi aumenteranno esponenzialmente fin tanto che non avrà bisogno di sedativi frequenti.»

   Mi si seccò la bocca.

   «Di quanto tempo parliamo?»

  «Stando all’aggravarsi dei sintomi delle ultime settimane e alle immagini che ho potuto osservare, mi rammarica dirle che c'è un'alta percentuale di probabilità che sua madre non arrivi a vedere l’estate.» 

 Il Dottor Roger corrugò la fronte in un'espressione che lo faceva apparire molto più vecchio e stanco. Volse lo sguardo al pavimento e poi tornò a dedicare la sua attenzione a me che avevo smesso di respirare. 

   «Con il secondo ictus penso abbia iniziato a lasciarsi andare, ha smesso di combattere.» 

   Avrei dovuto assistere alla lenta morte di mia madre senza poter fare nulla per fermarla, mi restavano ancora poco meno di sei mesi da vivere con ciò che restava della mia famiglia prima di ritrovarmi ufficialmente sola. Mi sarei accontentata di quel tempo a scadenza consapevole che non sarei mai stata pronta a lasciare anche lei, per quanto egoista potessi essere a non volerla abbandonare prima del previsto sapevo che questo significava unicamente sofferenza per entrambe e non sapevo come smettere di odiarmi per questo. 

   Ringraziai il dottore con un sussurro stringendogli la mano, uscii dal suo ufficio come se fossi un automa e camminai lenta. Tornai nella camera di mia madre dove lei si stava svegliando, mi strinsi nelle braccia e mi avvicinai al letto.

«Ciao mamma, scusami se ci ho messo tanto ma alla fine sono qui.» Le sussurrai accarezzandole il viso. «Ho fatto un lungo giro e ti ho fatta aspettare, ora sono pronta ad ascoltarti se vorrai raccontarmi qualcosa.» Aggiunsi sedendomi sulla sedia vicino a lei dove ancora era posta la mia borsa.

   «Sei venuta a trovarmi.» Bofonchiò lei ancora assonnata. «Devo raccontarti del mio appuntamento, è stato bellissimo, credo di essermi innamorata.» 

   Le sorrisi con un groppo in gola e d'istinto parlai. 

   «Chi sono io, mamma?»

   Lei mi guardò vagamente confusa, con gli occhi pesanti dal sonno.

   «Jennifer, sei la mia bambina.» Rispose poco prima di riaddormentarsi con un sorriso ben stampato sulle labbra e la testa rivolta verso di me.

   Le strinsi la mano in silenzio e solo in quel momento mi concessi un silenzioso pianto con la fronte appoggiata vicino al suo braccio. Forse non sarei mai stata pronta ad affrontare quello che sarebbe successo, forse non avrei mai potuto superare la sua eventuale assenza ma avevo bisogno di credere di avere ancora sufficiente tempo per dirle addio a modo mio. Pensai che se questo era tutto quello che poteva restarmi ero pronta a prenderlo e a farmelo bastare perché la felicità non è avere quello che si desidera ma desiderare quello che si ha.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3996654