Haikyuu!! WRITOBER 2021

di GReina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa e indice ***
Capitolo 2: *** 1: Vino [kuroken] ***
Capitolo 3: *** 2: Kidfic [Goshiki] ***
Capitolo 4: *** 3: Angst [iwaoi] ***
Capitolo 5: *** 4: Filo [semishira] ***
Capitolo 6: *** 5: Neve [Suna] ***
Capitolo 7: *** 6: Cuscino [Daichi] ***
Capitolo 8: *** 7: Abbracciare [Kenma] ***
Capitolo 9: *** 8: Fantasy!AU [Black Jackals] ***
Capitolo 10: *** 9: Giglio [Tsukishima] ***
Capitolo 11: *** 10: Tatuaggio [tanakyo] ***
Capitolo 12: *** 11: Gentilezza [shoumika] ***
Capitolo 13: *** 12: Body Swap [Osamu] ***
Capitolo 14: *** 13: Hurt/Comfort [Suga] ***
Capitolo 15: *** 14: Amore non corrisposto [UshiSaku/AtsuKita] ***
Capitolo 16: *** 15: Paura [Atsumu] ***
Capitolo 17: *** 16: Scale [arankita] ***
Capitolo 18: *** 17: Nove [Tendo] ***
Capitolo 19: *** 18: Lampone [sakuatsu] ***
Capitolo 20: *** 19: Argento [yakulev] ***
Capitolo 21: *** 20: Bodyguard!AU [Akaashi] ***
Capitolo 22: *** 21: Arco [Yamaguchi] ***
Capitolo 23: *** 22: Fuga [Bokuto] ***
Capitolo 24: *** 23: Presagio [Olimpiadi] ***
Capitolo 25: *** 24: Proverbio [Ushijima] ***
Capitolo 26: *** 25: Sospiro [Iwaizumi] ***
Capitolo 27: *** 26: Frammento [Hinata] ***
Capitolo 28: *** 27: Tramonto [bokuaka] ***
Capitolo 29: *** 28: Toccare [Sakusa] ***
Capitolo 30: *** 29: Saturno [Oikawa] ***
Capitolo 31: *** 30: Soulmate [matsuhana] ***
Capitolo 32: *** 31: Arcobaleno [Kuroo] ***



Capitolo 1
*** Premessa e indice ***


PREMESSA 

Salve a tutti! Come avrete già capito dal titolo, questa è una WRITOBER! Per chi non sapesse cos’è, si tratta di una sfida – in questo caso organizzata su Facebook da @Fanwriter.it – che consiste nel pubblicare una storia al giorno (che sia one-shot, flashfic o drabble) guidata da un prompt diverso ogni volta.
Avrei potuto leggere le tre liste tra cui scegliere i vari prompt e accoppiare i protagonisti per come meglio credevo, ma perché semplificarmi la vita in questo modo? Quindi ho fatto io stessa una lista dei personaggi e delle ship su cui volevo scrivere e poi ho fatto i vari accoppiamenti in maniera del tutto casuale grazie alla ruota dei nomi di Google. Questo per dirvi che quando incontrerete cose come “Toccare – Sakusa; Body swap – Osamu”, dovete sapere che è stata la sorte ad azzeccare cose tanto belle!
Detto questo, vi riporto qui l’indice delle storie che troverete! Spero che mi seguirete in questo esperimento per tutto il mese (così come spero di riuscire nella sfida e postare tutto in tempo)! Se volete altre informazioni sulla sfida chiedete pure a me o iscrivetevi al gruppo Facebook “Quelli di Fanwriter” (non importa che siate scrittori o lettori).
Fatemi un grosso in bocca al lupo e cliccate “prossimo capitolo”, perché si comincia subito! ;)
 

INDICE

  1. Vino – KuroKen
  2. Kidfic – Goshiki
  3. Angst – IwaOi
  4. Filo – SemiShira
  5. Neve – Suna
  6. Cuscino – Daichi
  7. Abbracciare – Kenma
  8. Fantasy!AU – Black Jackals
  9. Giglio – Tsukishima
  10. Tatuaggio – TanaKyo
  11. Gentilezza – ShouMika
  12. Bodyswap – Osamu
  13. Hurt&Comfort – Suga
  14. Amore non corrisposto – AtsuKita/UshiSaku
  15. Paura – Atsumu
  16. Scale – AranKita
  17. Nove – Tendo
  18. Lampone – SakuAtsu
  19. Argento – YakuLev
  20. Bodyguard!AU – Akaashi
  21. Arco – Yamaguchi
  22. Fuga – Bokuto
  23. Presagio – Olimpiadi
  24. Proverbio – Ushijima
  25. Sospiro – Iwaizumi
  26. Frammento – Hinata
  27. Tramonto – BokuAka
  28. Toccare – Sakusa
  29. Saturno – Oikawa
  30. Soulmate – MatsuHana
  31. Arcobaleno - Kuroo

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Capitolo 2
*** 1: Vino [kuroken] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Vino
» N° parole: 1723

01. Vino – kuroken 

Sin da quando Kenma aveva aperto il proprio profilo su Twitch, Kuroo ne era stato sicuro: il suo migliore amico avrebbe sfondato. Se, infatti, per alcuni era stato lo sport, la vocazione di Kenma erano da sempre i videogiochi.
“Trova un lavoro che ami e non lavorerai un giorno della tua vita.” il corvino non aveva la minima idea di chi avesse detto per primo quella frase, ma calzava a pennello. Kenma si era impegnato, ce l’aveva messa tutta rinunciando spesso a sonno e tranquillità, eppure aveva continuato ad amare quello che faceva. Già semplicemente questo, per Kuroo, era motivo di festeggiamento, ma fu solo con l’occasione dei diecimila iscritti al canale del più piccolo che poté attivarsi sul serio affinché la cosa venisse festeggiata.
Si congratulò con Kenma, innanzitutto, dopodiché lo informò che avrebbe organizzato qualcosa di speciale.
Col senno di poi, si disse fissando l’entrata del ristorante di lusso nel quale aveva prenotato per due, probabilmente ad organizzargli era stato più un appuntamento a tradimento e non una festa di congratulazioni. Per quelle servivano amici, confusione, risate e festoni, e non una sala dall’aria raffinata sistemata in penombra quasi fosse a lume di candela e accompagnata dalle note di un pianista che si esibiva al centro di essa. Ormai era tardi, comunque, così Tetsuro non poté fare altro oltre che maledirsi mentalmente. Conosceva Kenma sin da quando erano piccoli e lo amava quasi da altrettanto tempo. Per tutti quegli anni era riuscito a resistere, ma evidentemente non abbastanza. Era chiaro: il suo subconscio altro non stava aspettando che un’occasione per costringere Kenma in quella situazione. Aveva sempre saputo, d’altronde, cosa interessasse al suo amico e cosa no, ed i rapporti romantici e smielati sicuramente appartenevano alla seconda.
Cercò di fare il vago, comunque. Come se fosse normale per due amici d’infanzia cenare al lume di candela per festeggiare il traguardo di uno dei due! Si lisciò il proprio completo ed entrò nell’edificio. Kenma – in pantaloni e felpa – lo raggiunse poco dopo, e di nuovo Kuroo non poté fare altro che darsi dell’imbecille. Al più piccolo aveva solo dato l’indirizzo senza informarlo della natura del ristorante, così adesso stava avanzando con lo sguardo basso e le gote imporporate; gli abiti assolutamente fuori posto e che spiccavano in mezzo agli altri. A Tetsuro non importava, certo. Kenma sarebbe stato bellissimo anche in un sacco di iuta o coperto di immondizia. Era lui, piuttosto, quello adesso in totale imbarazzo per la propria eleganza eccessiva se paragonata al fatto che erano solo due amici che cenavano fuori.
Si alzò, non appena il ragazzo dalle punte bionde fu abbastanza vicino. Si insultò – ancora! – da solo per quella forma di Galateo così tanto arretrata e smielata, poi si risedette insieme all’altro. Capì che per superare la serata avrebbe dovuto bere. E tanto. Così subito richiamò l’attenzione di un cameriere affinché gli portasse una bottiglia di vino. Erano ormai cinque anni che Tetsuro aveva a che fare con il mondo del lavoro, e – con esso – immancabilmente erano arrivate le cene da offrire ai clienti da conquistare. Per questo motivo, almeno su quello, poté andare sul sicuro quella sera: Kenma non gradiva molto i sapori aspri, ma di vini ce n’erano di ogni sapore e gradazione. Ne scelse uno fruttato e abbastanza dolce, lo fece assaggiare a Kenma che subito gradì, quindi ne ordinò una bottiglia.
Adesso poteva andare avanti con il suo piano: ubriacarsi e dimenticare la grossa, grossissima gaffe che aveva fatto sperando che Kenma facesse altrettanto.
Be’, sì… l’aveva sperato, o almeno aveva creduto di sperarlo.
Osservare Kenma scolarsi in fretta un bicchiere dopo l’altro fu strano. Divertente, soprattutto, ma anche tanto inaspettato e di conseguenza ambiguo. Il più piccolo arrivò alla soglia dell’ubriachezza senza fatica e ben prima di quanto non occorse al corvino per avvicinarsi solo all’essere brillo. Fu quindi con abbastanza lucidità – a pochi bicchieri da quando aveva iniziato – che Kuroo poté assistere al crollo di ogni freno inibitore dell’amico. Non sapeva se ridere o piangere. Un vero amico lo avrebbe portato via subito e prima che potesse mettersi in ridicolo, ma come faceva a scollarsi dalla sedia quando l’amore non corrisposto della sua vita era di fronte a lui con gli occhi languidi e le gote rosse? Aveva iniziato a farneticare di draghi e volti esplosi per autocombustione. Tetsuro non riusciva a stargli molto dietro, ed in ogni caso dubitava esserci una linea logica da seguire. Così, si limitava a ridere e a dargli corda mentre Kenma, ancora, continuava a bere.
Fu alla seconda bottiglia, infine, che il suo atteggiamento cambiò. Ed avvenne in un battito di ciglia. Un attimo prima stava decantando le doti del “pinguino al pianoforte” domandandosi come riuscissero ad addestrarli in quel modo, l’attimo dopo stava piangiucchiando verso di lui domandandogli:
«Perché hai prenotato in un posto così bello?» Kuroo si stupì di quella domanda, tanto che gli occorse qualche attimo per capire cosa rispondere. Certo non poteva dire la verità, anche se dubitava che Kenma avrebbe ricordato alcunché. Rise tirato.
«Per festeggiare le cose in grande, no? Raggiungere tutti quegli iscritti in così pochi anni non è da chiunque!» ma se tutto Tetsuro avrebbe potuto aspettarsi come risposta, sicuramente non era quello: gli occhi di Kozume si inumidirono, il labbro gli tremò e poi disse:
«Perché continui ad illudermi…» Kuroo poté solo corrugare gli occhi. In cosa l’avrebbe illuso? Ma ogni possibilità di darsi una risposta morì nell’attimo stesso in cui Kenma si mosse scivolando lungo tutta la panca imbottita per raggiungere la sua parte del tavolo. Gli si aggrappò al braccio e lì gli precluse ogni altra possibilità di pensare razionalmente.
«Sei così bello stasera…» sbiascicò rosso di imbarazzo e per il vino «Sei sempre bello quando indossi il completo.» gli si buttò più addosso, poi prese ad accarezzargli la cravatta mentre mormorava:
«Bella… però ora te la tolgo, ecco.» completamente attonito, Tetsuro rimase immobile mentre il più piccolo gli sfilava l’accessorio dal collo e gli sbottonava i primi due bottoni della camicia per poi spogliarlo con gli occhi. Kuroo arrossì al suo sguardo affamato, ed anche tanto. Kenma non aveva mai mostrato desideri simili. Se solo l’avesse fatto, probabilmente il corvino si sarebbe fatto avanti anni prima. Invece, sembrava proprio che quel genere di cose non gli interessassero. Almeno non fino a quella sera.
Deglutì, Kuroo, e si sporse verso le labbra dell’altro, ma immediatamente prima di toccarle tornò in sé, afferrò l’amico per le braccia esili e lo allontanò di qualche centimetro. Il vino – probabilmente – era arrivato infine anche al suo cervello e questo aveva iniziato a fargli immaginare cose strane. Perché non era possibile che Kozume gli stesse facendo delle avance, e se anche così fosse stato certo quello non gli avrebbe dato il diritto di assalirlo in quel modo e senza preavviso.
Sospirò sonoramente lo streamer quando Kuroo lo spinse via; mise il broncio e poi riprovò allungando la mano nuovamente, ma stavolta più in basso dedicandosi alla coscia più vicina di Tetsuro. Questi sussultò e con la schiena tesa rimase immobile.
«Kenma…?» dovette limitarsi a chiedere con un sussurro «Che stai facendo?» la risposta del più piccolo arrivò – come il resto – con parole strascicate ma chiare:
«Ti provoco. Così almeno capisci quello che voglio.» Kuroo respirò a fondo una, due volte. Quel Kenma tanto ubriaco e molesto non faceva bene alla sua salute. Resistergli gli stava risultando di secondo in secondo sempre più impossibile.
«Sei solo ubriaco.» provò a convincere sia l’altro che se stesso.
«E per te è un bene!» urlò attirando lo sguardo dei tavoli più vicini «Perché altrimenti saremmo morti single.»
«Intendi… cioè, che ti piaccio? Ma credevo che tu non fossi interessato alle relazioni e a tutto il resto.» arrancò imbarazzato. Poi sussultò quando la mano di Kenma raggiunse il suo inguine.
«Ti sei sbagliato.» a quel punto Kuroo seppe di aver ceduto. Sospirò sconfitto, poi mormorò ben più voglioso.
«Gattino, cazzo. Mi fai impazzire.» quello che uscì dalla gola di Kenma per rispondergli gli diede un brivido che convogliò con potenza tra le sue gambe. Era un ringhio, ma sembravano tanto delle fuse accompagnate da una semplice parola che gli venne sussurrata direttamente nell’orecchio.
«Bene.» quando Kuroo deglutì, ebbe come la sensazione di essere stato sentito da tutta la sala.
«Chiedo il conto.» annunciò.
«Fallo.» concordò l’altro. Si alzò in fretta, quindi, quasi inciampando sui suoi stessi piedi, e fu già immediatamente fuori dall’edificio che iniziarono a baciarsi.
Kuroo si era immaginato quel momento tantissime volte: con mille finali alternativi e i più svariati sfondi senza mai, tuttavia, aver pensato al fatto che potessero essere entrambi ubriachi e coperti semplicemente dalla mancanza di luce in strada mentre aspettavano che un auto li passasse a prendere.
Si baciarono anche in auto, durante il tragitto, e così in ascensore e mentre raggiungevano l’interno di Kenma nel palazzo nel quale abitava. Fu solo una volta raggiunto il letto che, tuttavia, Kuroo si impose dei confini. Lo baciò, e lo spogliò. Arrivati a quel punto era inevitabile che lo facesse. Gli diede piacere con le dita, ma al momento di penetrarlo si arrestò. Ai lamenti di Kenma, rispose con amore:
«Non così. Non voglio farlo così, la prima volta. Non voglio che tu sia ubriaco… e non voglio esserlo io.» Kozume se ne lamentò, ma infine si convinse a mettersi sotto le coperte e lì – semplicemente – godersi le coccole del più alto.
Fu un bene, perché poco dopo tutto il vino che aveva ingerito decise di uscire da dove era entrato. Kuroo gli rimase accanto incassando tutti gli insulti e le maledizioni di Kenma che affermava di essere arrivato a quel punto solo per colpa sua. In tutti quegli anni non si era mai fatto avanti, così per prendere l’iniziativa lui aveva dovuto bere il cosiddetto coraggio liquido.
Fu la mattina, in ogni caso, che Tetsuro poté raccogliere la propria ricompensa.
Erano tornati a letto dopo una lunga doccia e lì, insieme, si erano addormentati. A svegliarsi per primo fu lo streamer che dolcemente fece fare altrettanto all’altro. Kuroo iniziò a svegliarsi lentamente, arrivando con calma a prendere coscienza della sera prima: Kenma gli si era dichiarato!
Aprì gli occhi e sorrise felice, quasi commosso, verso l’altro. Questi rispose con la stessa espressione. Poi, con le guance adorabilmente rosse sussurrò con le labbra curvate all’insù:
«Adesso non siamo ubriachi.»

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Capitolo 3
*** 2: Kidfic [Goshiki] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Kidfic
» N° parole: 1830

n.a.
Ebbene sì, come ho anticipato nella premessa ogni associazione è stata voluta dal fato! In questo caso è stato davvero perfetto, perché mi ha dato l’occasione di scrivere un piccolo sequel della OS Amore a Prima Vista, in cui Goshiki viene adottato da Tendo e Ushijima. Chiaramente la storia che segue è perfettamente godibile anche da singola, ma per coloro interessati il prequel si trova postato nel mio profilo con il titolo sopracitato!
Buona Lettura!

02. Kidfic – Goshiki

Goshiki certo, all’alba dei suoi sette anni, non poteva ancora propriamente dirsi maturo né capace di avere una visione chiara di come andasse il mondo, ma anche limitandosi alla sua poca esperienza di vita non gli era difficile capirlo: nella sua sfortuna, era stato ben più fortunato di altri, perché aveva perso i genitori, ma ne aveva trovati altri due, gentili, comprensivi e ben disposti ad inondarlo dell’amore necessario affinché potesse avere un’infanzia felice. Era stato talmente fortunato ad incontrare Wakatoshi e Satori, l’anno prima, che a volte stentava ancora a credere di avere una famiglia tanto perfetta. Non gli sembrava vero e – nei momenti di maggior sconforto – persino temeva di starsi illudendo troppo; che la sua visione fosse distorta perché quella di un bambino e che presto sarebbe tutto finito.
Mai, comunque, quei pensieri erano riusciti a trattenerlo nella loro spirale negativa, perché prontamente un padre oppure l’altro si era accorto del suo annaspare e l’aveva tirato fuori. Le braccia di entrambi, d’altronde, erano forti e salde, ed il piccolo Goshiki si era sempre potuto dire al sicuro tra di esse. Adesso, quella sicurezza era crollata.
“Fa il bravo bambino.” era una frase che si era ripetuto in testa ancora e ancora nell’ultimo anno “Non farti cacciare.” e così aveva fatto. Tenendo duro e reprimendo ogni pur minimo capriccio; non lamentandosi di nulla e persino trattenendo singhiozzi e lacrime ad ogni ginocchio sbucciato o incubo avuto. A danno fatto, tuttavia, non gli rimase adesso altro da fare che mordersi il labbro tremante affinché le lacrime non sgorgassero. Era seduto fuori l’ufficio della principale della scuola, le piccole gambe che non arrivavano a terra vista l’altezza della panca, ma se di solito oscillavano spensierate, adesso erano tese e vicine tra loro, come se il bambino volesse farsi il più piccolo possibile. Le sue mani, strette allo spasmo, erano state portate alle ginocchia e lì, come ogni altra parte del suo corpo, tremavano; se di rabbia o di paura, Tsutomu non lo sapeva.
“Fa il bravo bambino.” aveva continuato a ripetersi, eppure quel giorno non c’era riuscito. Non secondo la sua visione delle cose, comunque. Così, altro non gli restava da fare che attendere i due genitori adottivi con la gola serrata dal pianto non sfogato ed il cuore stretto in una morsa mentre ben più spensierato un secondo bambino attendeva insieme a lui.
Il primo adulto a raggiungerli fu la madre del suo compagno di classe. Subito, vide il volto tumefatto di suo figlio, poi quello di Tsutomu, e capì. Lanciò uno sguardo di ghiaccio al corvino, poi si chinò preoccupata verso il figlio che – improvvisamente – iniziò a mostrarsi ben più sofferente dell’attimo precedente. Goshiki non riuscì a sentire le parole della donna, ma poté immaginarle. Era ciò che faceva una madre, dopotutto, preoccuparsi per il figlio. Il suo compagno ricevette una dolce carezza mentre nuove lacrime salirono agli occhi di Tsutomu.
“Le voglio anche io.” si disse tra sé e sé sebbene consapevole del fatto che non avrebbe mai potuto. La rissa l’aveva iniziata lui, d’altronde, e – anche se maestro e direttrice non glielo avessero confermato con i loro rimproveri – lui lo sapeva: quello che aveva fatto era sbagliato e non aveva scuse. Era nel torto. Era stato cattivo.
Parve passare un’eternità prima dell’arrivo degli altri due. Ed ecco che un altro pensiero corse alla mente del bambino: “Erano impegnati… adesso saranno arrabbiati.” ed almeno su questo aveva ragione: non uno, dei due, si mostrò sereno non appena apparvero alla vista di Goshiki. Persino Wakatoshi, sempre così pacato e stoico, appariva chiaramente infuriato. Tsutomu saltò sul posto a quell’immagine e provò a farsi ancora più piccolo. Le lacrime ancora pronte sugli occhi ma trattenute con ogni fibra del proprio essere. Si guardò le mani, troppo timoroso di fare altro, così non poté che sorprendersi quando il volto di Tendo lo raggiunse nella sua visuale annebbiata.
“Tsutsu! Stai bene!?” il bambino spalancò gli occhi senza capire; non riusciva a crederci eppure sembrava tanto che Satori stesse reagendo come la madre del suo compagno. Goshiki guardò prima lui, poi la donna ed infine Ushijima. Quest’ultimo ora lo stava occhieggiando preoccupato con in volto la stessa domanda, muta, che il rosso gli aveva appena posto. Tornò a guardare Tendo, ma consapevole che il pianto sarebbe esploso alla prima sillaba, si limitò ad annuire. I suoi genitori adottivi tirarono un sospiro di sollievo, ma il più piccolo non ci riuscì. Se erano così in apprensione, dopotutto, era perché non sapevano ancora cos’aveva fatto. Fu la donna lì presente, prima di chiunque altro, a dirglielo, ma ancora Tendo lo sorprese ridendo e ponendosi tra lei ed il bambino corvino, quasi a volergli fare da scudo.
«E glielo ha detto suo figlio? Non mi sorprende che questa sia la sua versione. Molto comodo per lui.» se l’altra avrebbe voluto rispondere, non ne ebbe l’occasione, perché fu a quel punto che l’ufficio della principale si aprì. Tutti, tra adulti e bambini, vennero invitati ad entrare, e fu lì che ai genitori venne spiegato della rissa confermando la versione del compagno di classe di Goshiki. Lui continuò a tacere, spaventato e mortificato di aver messo in quella situazione persone tanto splendide quanto lo erano Tendo ed Ushijima. Tacque mentre la direttrice parlava e tacque ancora quando Wakatoshi si voltò verso di lui incredulo per chiedere:
«Tsutomu. È vero?» al suo mutismo il secondo bambino prese a gongolare, almeno fin quando la preside non parlò ancora:
«Affinché tutti voi abbiate ogni fatto per poter educare al meglio i vostri figli, dovete sapere che Tsutomu-kun è stato provocato. Non avrebbe dovuto usare la violenza, ma allo stesso modo Genta-kun non avrebbe dovuto ferirlo con le parole. Chiuderò un occhio per entrambi, dal momento che è la prima volta, ma solo a condizione che risolviate la questione a casa. Non ammetterò altri comportamenti simili, in futuro.» tutti concordarono in fretta, poi Tendo si rivolse a lui:
«Che cosa ti ha detto il tuo compagno, Tsutsu.» il suo labbro tremolò ancora, ma facendosi forza sussurrò:
«Che io non ho i genitori perché due maschi non possono avere figli…» a quel punto il bambino poté sentire più che vedere, dal momento che il suo sguardo era fisso a terra, la sedia di Satori che veniva in fretta scostata nell’impeto di alzarsi. Sollevando lo sguardo Goshiki trovò Ushiwaka a trattenere l’altro che nel frattempo si era voltato – accusatorio – verso la donna e suo figlio.
«Lascia perdere.» gli venne sussurrato dal giocatore professionista «Pensiamo a Tsutomu.» ed il rosso gli diede immediatamente ascolto voltandosi verso il piccolo e prendendolo in braccio senza preavviso. A Goshiki non rimase che spalancare gli occhi mentre veniva portato via, guardando confuso l’ufficio della direttrice che si allontanava con Ushijima che rivolgeva ai presenti un ultimo saluto.
Una volta fuori dall’edificio, Tendo si fermò solo molti metri distante dalla scuola. Lo mise giù, poi si inginocchiò per raggiungere la sua altezza. Tsutomu era ancora provato, ma fino a quel punto era riuscito a vincere la battaglia contro le lacrime che ancora copiose si trovavano bloccate agli angoli degli occhi.
«Stai bene, piccolo?» gli fu chiesto come prima cosa. Il bambino prese a massaggiarsi le nocche. Era stato separato quasi subito dal suo compagno, ma quella era la parte che gli doleva di più. Anche più del taglio sul labbro apertosi con il pugno di risposta dell’avversario. Tendo notò quel movimento, gli afferrò le mani e diede ad ognuna di esse un bacio rapido e leggero rendendo il corvino di secondo in secondo sempre più confuso.
“Perché non si arrabbiano?” continuava a chiedersi “Non hanno capito cosa ho fatto?” si disse ancora, valutando la possibilità di tacere ma sapendo con più fermezza di non potere. L’ansia l’avrebbe logorato, altrimenti, e più di quella il senso di colpa. Così aprì la bocca per ripetere ai due uomini cos’era successo in classe, ma quello che uscì dalle sue labbra fu un singhiozzo, poi un altro. Iniziò a piangere.
«Mi dispiace!» disse forte «Mi dispiace!!» singhiozzò ancora portandosi le mani agli occhi «Sarò buono, non mandatemi via!» le frasi avevano un senso compiuto nella sua testa, ma era troppo agitato, troppo spaventato per poterle formulare a parole. Quindi dovette accontentarsi di quelle suppliche che – ancora incredibilmente, dal suo infantile punto di vista – vennero immediatamente accettate.
«Tsutsu!» venne chiamato da Tendo con voce preoccupata. Il bambino aprì gli occhi e credette di vederlo angosciato al di là della nebbia delle lacrime.
«Perché dici così?» chiese ancora questo «Non ti manderemmo mai via, hai capito?» ed ecco la conferma che non avevano capito, così si costrinse a confessare.
«Ma sono stato io! Gli ho fatto male…» singhiozzò ancora.
«Se lo meritava!» fu l’esclamazione di Satori, che tuttavia venne immediatamente ripreso da Wakatoshi che lo richiamò con una leggera gomitata al costato dopo averlo raggiunto in ginocchio.
«La violenza non è mai una soluzione, Tsutomu.» disse Ushijima ben più serio ma tuttavia – in qualche modo – non arrabbiato. «Non ho intenzione di tollerare atti del genere. Ma non ti cacceremo per questo. Non ti cacceremo per nulla di quello che farai, figliolo. Sei il nostro bambino.» Goshiki si limitò a fissarli entrambi in modo alternato cercando di convincersi che non avesse frainteso. Fu il rosso, poi, a parlare:
«Da quanto tempo pensi che potremmo mandarti via?» il bambino non rispose. D’altronde non era scontato? Se faceva il cattivo, veniva rimandato indietro. Era una cosa che aveva sempre dato per scontato e ritenuto normale. Gli adulti parvero capire.
«Noi siamo i tuoi genitori, hai capito? E fin quando ti troverai bene con noi, fin quando non sarai grande abbastanza da poter vivere da solo, noi saremo una famiglia e vivremo sotto lo stesso tetto. Hai capito, Tsutsu? Non importa se farai i capricci, se piangerai, se urlerai o picchierai altra gente.» a quel punto Ushijima interruppe l’altro per un istante aggiungendo:
«Questo non farlo.»
«Noi ti ameremo comunque.» parve non averlo sentito, Tendo «E tu non dovrai mai dubitare del fatto che noi ti amiamo. Mai. Hai capito? Perché non potrà mai accadere il contrario.» entrambi attesero una risposa, così il bambino annuì, e lo fece convinto, consapevole di una realtà, adesso, che non sapeva esistere. Conosceva la famiglia come idea, d’altronde, ma nessuno era realmente arrivato a spiegargli quanto potesse essere solida.
Wakatoshi gli mise una mano in testa e lì iniziò a dargli qualche leggera pacca amorevole.
«Sei nostro figlio, piccolo. Abbiamo pensato fosse meglio per te farti conservare il cognome con il quale sei nato, ma se ti fa piacere noi saremmo felicissimi di andare in tribunale per farti cambiare i documenti in Tendo-Ushijima Tsutomu.» gli disse il giocatore. Gli occhi del bambino si illuminarono.
«Davvero??» chiese felice. Il castano sorrise intenerito.
«Davvero.» rispose «Siamo una famiglia, dopotutto. Dicci che questo l’hai capito, figliolo.» Tsutomu sospirò per rendere la propria voce più ferma, poi sorrise.
«Ho capito! Siete i miei papà.» Tendo se lo tirò tra le braccia e tra di esse si inserì anche il giocatore.
«E lo saremo per sempre.» fu il sussurro di risposta.

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Capitolo 4
*** 3: Angst [iwaoi] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Angst
» N° parole: 1755
» avvertenze: angst, zombie AU

03. Angst – IwaOi 

Se quello degli adulti era un mondo duro, la generazione di Oikawa non arrivò mai a scoprirlo. Invece, tutti i suoi coetanei vennero costretti a crescere all’età di dodici anni quando – troppo in fretta – il nuovo virus targato leprí-sípsi riuscì ad invadere il mondo riducendo la quasi totalità della specie umana in morti-viventi. Tooru era stato abbastanza fortunato: riusciva a ricordare la spensieratezza di un mondo privo di virus ma, travolto dalle circostanze nei suoi anni di formazione, era comunque riuscito ad adattarsi al nuovo stile di vita abbastanza in fretta. Al contrario, le persone più giovani di lui non avevano conosciuto altro, mentre quelle più grandi – dopo anni – ancora non riuscivano a capacitarsi della situazione in cui si trovavano.
Senza l’arroganza degli adulti così convinti di riuscire e di sapere tutto, comunque, Tooru aveva resistito. Quando la pandemia era iniziata erano stati i suoi genitori – com’è ovvio – a prendere in mano il controllo della situazione. Avevano fatto in fretta le valige e trascinato il castano lontano dalla città. Il giovane Tooru si era chiesto dove i due genitori avessero intenzione di scappare, ma vedendoli tanto agitati si era guardato bene dal chiederglielo. Invece, aveva giusto speso qualche parola per informarli di quanto lasciare i suoi amici l’avrebbe distrutto in modo che gli dessero il permesso di salutarli. Aveva potuto farlo con solo uno di loro, giusto perché casa sua era di strada, ma per Tooru era anche il più importante, quindi non se n’era lamentato. Iwaizumi.
Il saluto che si erano rivolti sapeva più di addio. Per quanto il più alto ci avesse provato, mai Hajime aveva accettato i suoi discorsi sentimentali. Era stato diverso quella volta: non aveva insultato Tooru quando si era messo a piangere e non aveva frenato le sue lacrime quando avevano iniziato a premere anche sui suoi occhi.
Da allora erano passati dieci anni. Tooru aveva perso prima suo padre, poi sua madre, ma grazie alle regole che si era autoimposto era riuscito ad andare avanti. Tra queste, non ci aveva messo molto ad imparare di dover evitare le città. Era lì, d’altronde, ad essere stata infettata la maggior parte della gente. Luoghi rupestri volevano dire meno persone, e meno persone volevano dire meno zombie. Fu alle pendici del monte Fuji, quindi, che prese a dirigersi, ed una volta lì sempre più in alto riposandosi di rifugio in rifugio.
Dire che Oikawa rischiava ogni giorno la vita era un eufemismo, ma mai in dieci anni gli era capitato di rischiarla a causa di un altro essere umano. Fu quello che invece gli capitò quel giorno: aveva quasi raggiunto quota 2.660 metri, faceva freddo ma un rifugio che prometteva fuoco e camino si stagliava all’orizzonte. Fu raggiungendolo che – non curante di dove metteva i piedi – attivò un allarme fatto di fili e campane disposte lungo tutto il perimetro. Tooru sobbalzò a quel frastuono, ma mai quanto alla vista di un fucile puntato alla sua testa. Urlò (con voce ben lungi dall’essere mascolina), ed alzò in alto le mani.
«Sono vivo! Sono vivo! Non sono un fottuto zombie!» il ragazzo armato mise giù la canna, lentamente, ma se non per sospetto lo fece piano per lo stupore.
«Oikawa…?» domandò titubante. Tooru lo guardò meglio: alto, capelli sul castano rosato, magro.
«Makki!?» questi sorrise felice, poi iniziò a correre verso di lui e lo strinse in un abbraccio mozzafiato. Da parte sua, il più alto non poté fare a meno di continuare ad occhieggiare il fucile assicurandosi che fosse puntato lontano dal suo corpo. Fu comunque incredibilmente felice di rivedere il suo vecchio amico di infanzia, e lo fu ancora di più non appena lo informò che cibo e acqua li attendevano dentro insieme a una sorpresa. Oikawa non aveva idea di cosa potesse essere e in quegli anni, certo, aveva imparato a diffidare da ciò che non si aspettava. Una sorpresa, d’altronde, era uno zombie nascosto in un vecchio minimarket abbandonato in cui voleva fare provviste, o lo era un cadavere chiuso nel bagno che avrebbe voluto usare. Entrò con timore, quindi, nel rifugio di montagna, e rimase paralizzato non appena apprese a cosa – o meglio a chi – Hanamaki si fosse riferito.
«Iwa-chan…» sussurrò felice, commosso, e ancora incredulo di averlo lì davanti. C’erano anche altre persone: Mattsun, a cui anche rivolse un sorriso pieno, Kindaichi, Kunimi, Watari, Yahaba, Kyotani. Eppure tutta la concentrazione di Tooru era sulla prima persona che aveva notato.
Quel giorno si limitarono ad abbracciarsi e a raccontarsi degli ultimi dieci anni, ma non ci volle molto affinché diventassero una coppia. Pensare a lui, nel lasso di tempo in cui erano stati separati, era per Oikawa stato un supplizio. Sapere di non poterlo rivedere e rimpiangere di non averlo salutato con un bacio erano state una croce sul cuore, eppure adesso tutta quella sofferenza era dimenticata. Vivere in quel rifugio con i suoi vecchi amici di quartiere, per lui, fu un grosso passo in avanti. Errare da solo in un mondo infetto, d’altronde, era una cosa che non avrebbe augurato neanche al suo peggior nemico. Eppure, quello stile di vita non avrebbe mai potuto essere privo di difetti. Le provviste scarseggiavano sempre più spesso mentre i supermercati più vicini erano distanti chilometri e la fauna della foresta di giorno in giorno più rada. Si erano ritrovati spesso a discutere le possibili soluzioni, ma erano una più spaventosa dell’altra, così – sempre – avevano desistito. Ma la vita si inaspriva, e pian piano anche il loro mondo iniziò ad essere invaso dagli infetti.
Capirono all’istante di aver trovato la soluzione perfetta una sera, ascoltando la radio. Gracchiante, al di là dell’apparecchio, parlava la voce apparentemente giovane di un uomo. Informava chiunque stesse ascoltando che lui ed il suo gruppo erano riusciti a mettere in sicurezza un’intera prefettura, quella di Miyagi. Avevano cibo, medici, campi agricoli e bestiame. Tutto l’occorrente affinché potessero tentare di ricostruire una parvenza di vita normale. Invogliando alla cooperazione, poi, invitava tutti a raggiungerli.
Quella notte nessuno dormì, all’interno della baita. Parlarono, invece, dei pro e dei contro, se restare o partire, ed infine decisero per la seconda. Il percorso non fu privo di insidie, ma uniti arrivarono lontano. Fino a Fukushima, quando un gruppo più consistente di infetti non vinse su molti di loro. Dimezzati, i quattro superstiti si fecero – tra le lacrime – una promessa:
«Promettimelo, Tooru.» il primo ad imporlo fu Iwaizumi «Dovrai uccidermi se mai mi morderanno.» perdere i loro amici era stato devastante, ma ancora di più lo era stato vederli ridotti a corpi semoventi senza vita ed un solo obiettivo in testa. Oikawa annuì, convinto realmente di preferire sparare in testa all’uomo che amava piuttosto che lasciarlo vivere da infetto. E ne rimase convinto per giorni, fino a Natori.
«No! NOO!! Ci siamo quasi, siamo quasi arrivati! NO, non te lo permetto!!» erano parole inutili, fiato sprecato, perché Hajime era stato morso sul collo e non c’era più niente che lui, Hanamaki e Matsukawa potessero fare. Iwaizumi si era portato la mano al collo, ma la mise giù rassegnato. Erano soli, adesso; gli ultimi zombie uccisi dai loro amici, ma non lo sarebbero stati per molto. Le porte del magazzino stavano per cedere e loro avrebbero dovuto sbrigarsi a scappare dall’entrata sul retro. Eppure perché Iwaizumi non si muoveva? Sorrise triste, invece, e con le lacrime agli occhi si rivolse al castano.
«Mi dispiace, Tooru. Mi dispiace così tanto… Perdonami.» Oikawa sapeva bene per cosa l’altro volesse essere perdonato, ma non l’avrebbe mai accettato.
«No. No!! Tu non mi lascerai, andiamo!!» provò ad afferrargli la mano, ma Iwaizumi si ritirò in fretta.
«Andate.» disse loro. Sorrise, accarezzò la guancia di Tooru, ma non gli concesse nemmeno un bacio. Era tramite saliva, dopotutto, che il virius si trasmetteva.
«Andate…» supplicò ancora mentre la ferita sul collo iniziava il suo processo di putrefazione «ma prima uccidimi, ti prego. Come avevi promesso.» Oikawa spalancò gli occhi, e capì in quell’istante di non potere. Scosse il capo.
«Ti prego, ti prego!» e la supplica nella voce di Hajime fu talmente pietosa che Tooru sollevò la mano con la pistola quasi d’istinto. La puntò alla testa dell’amore della sua vita e sistemò il dito sul grilletto, ma al momento di sparare non riuscì a farlo. La mano gli tremava, la vista era annebbiata. Provò e riprovò mentre Makki e Mattsun si agitavano alle sue spalle mentre tenevano d’occhio la sempre più debole porta che li separava dalla morte.
«Tooru…» continuava a sussurrare Iwaizumi «Mi dispiace chiedertelo, ma ti prego. Ti amo… non lasciarmi in questo stato.» il castano prese un ampio sospiro e riprovò; riprovò con tutte le sue forze, riprovò per interminabili secondi. Fu ben prima che potesse riuscirci, tuttavia, che con una vena malcelata di disperazione e delusione in viso la personalità di Hajime si spense infine per sempre. Oikawa abbassò l’arma non appena vide quel cambiamento nei suoi occhi, e non reagì quando lo zombie si avventò su di lui. Se non venne morso, Tooru lo dovette solo a Makki e Mattsun, ma non era sicuro di essergliene grato. Venne trascinato via mentre il corpo di Iwaizumi si univa a quello di tutti gli altri zombie che erano riusciti a sfondare l’ingresso, e così per giorni Oikawa non poté avere altro in mente che quell’ultimo barlume di vita dell’uomo che amava. Non rassegnato, non in pace con se stesso. Deluso, invece, e consapevole che avrebbe continuato ad esistere come un morto-vivente.
Se con Kindaichi, Kunimi, Watari, Yahaba e Kyotani era morta una parte di lui, con Iwaizumi morì tutto il resto. Hanamaki e Matsukawa continuarono a trascinarlo con loro, ma il castano li seguiva per inerzia, o almeno lo fece per due giorni.
Una notte, capì che non avrebbe potuto continuare. Non dopo quello che aveva fatto, o meglio non fatto; non senza Hajime. Lasciò un biglietto ai suoi amici, dunque, affinché proseguissero verso il rifugio di Miyagi senza di lui ed intimandogli di non seguirlo se tenevano alla vita dell’altro. Svuotò il proprio zaino di ogni caricatore, poi, riservandosene solo uno affinché potesse raggiungere di nuovo Iwaizumi; si sistemò due proiettili in tasca per non usarli fino a destinazione e partì alla volta di Natori. Ritrovare Iwaizumi sarebbe diventato lo scopo della sua vita, sparargli in testa il secondo. Dopodiché non sapeva cosa avrebbe fatto. Sarebbe riuscito a sopravvivere, forse, e persino a raggiungere Makki e Mattsun alla meta. Ma il secondo proiettile nella sua tasca era per lui: era solo, Hajime era morto. Semmai qualcuno lo avesse morso, avrebbe saputo cosa fare.

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Capitolo 5
*** 4: Filo [semishira] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Filo
» N° parole: 1079

04. Filo – SemiShira

Shirabu aveva poche certezze nella sua vita, ma una di queste era che – da qualche parte, nel mondo – esisteva una persona destinata a lui. Glielo diceva il filo rosso che gli partiva dal mignolo per poi correre teso per chilometri, e d’altronde quella era una cosa che gli veniva spiegata fin da piccoli: all’estremità opposta di quel bellissimo filo visibile solo al proprietario, era legato il mignolo della persona con la quale erano destinati; quella con cui avrebbero vissuto la loro vita e con la quale si sarebbero potuti costruire una famiglia. Era stato così per i suoi genitori e lo stesso per i suoi nonni. Shirabu aveva molta fiducia, dunque, che lo stesso sarebbe successo a lui. Non conosceva il suo volto, né il suo nome e nemmeno il genere. Sapeva solo che quella al di là del filo era la sua persona e che non vedeva l’ora d’incontrarla.
Ebbe paura quando gli spiegarono che il filo avrebbe potuto spezzarsi, a un certo punto, e che quel segnale l’avrebbe avvertito della morte dell’altro. Iniziò a pregare ogni giorno affinché nulla del genere accadesse. Gli venne spiegato anche che per quanti contorti giri il filo avrebbe fatto, mai il mignolo fortunato avrebbe avvertito resistenza, ma se solo una delle due persone provava a tirarlo, l’altro avrebbe avvertito una spinta nella sua direzione. Kenjiro volle provare, e dopo appena un attimo l’estremità opposta rispose allo stesso modo facendolo ridere divertito per il formicolio e lo sbilanciamento che ne ottenne.
Gli anni iniziarono a passare ma Shirabu mai perse fiducia che chissà come, un giorno, lui e la sua altra metà si sarebbero incontrati. Accolse con un sorriso ogni pur minima spinta e allo stesso modo rispose, ma se mille e anche più scenari il ragazzo castano si era immaginato figurandosi il momento in cui lui e la sua persona si sarebbero incontrati, certo non avrebbe mai potuto immaginare quello che avvenne in realtà.
Successe al liceo. Per motivi familiari la famiglia di Kenjiro aveva dovuto trasferirsi, così anche l’istituto in cui studiava venne abbandonato. I suoi genitori lo iscrissero allo Shiratorizawa dove, subito, andò ad iscriversi al club di pallavolo. Le lezioni erano appena iniziate, comunque, e tra orientamento, trasloco da fare e tutto il resto fu solo quattro giorni dopo che poté realmente presentarsi in palestra. Lì, conobbe la sua nuova squadra. Disse loro di essere un alzatore e subito venne messo a giocare. Il loro titolare, gli venne spiegato, era uno studente del secondo anno al momento a casa per malattia, così lui si ritrovò a prendere il suo posto. Passarono due giorni, poi i suoi nuovi compagni lo aggiunsero alla chat di gruppo della squadra. Lì, ebbe il suo primo contatto con Semi Eita.
            “Che cazzo, ragazzi!”
Fu la prima cosa che scrisse non appena gli venne detto qual era il ruolo di Shirabu.
            “Mi prendo la febbre e voi mi sostituite a tradimento con un bambino del cazzo?”
Kenjiro non era infantile, no. Però era molto, molto permaloso. Il che, sì, a volte lo rendeva infantile.
            “Ho solo un anno in meno di te, idiota.”
Gli scrisse quindi immediatamente in risposta senza porsi troppi problemi riguardo alla gerarchia. Il suo atteggiamento piacque particolarmente al resto del gruppo che prontamente iniziò a fare battute riguardo al fatto che avrebbero anche potuto tenersi Kenjiro come alzatore titolare ed abbandonare Semi, dal momento che si ritrovava già a casa con un piede nella fossa. Anche Eita, a quanto pare, era abbastanza suscettibile, quindi a quegli scherzi rispose provando ad insultare il più piccolo, il quale tuttavia si dimostrò più capace in quel gioco di tastiera. Ebbe l’ultima parola scrivendo:
            “Magari è perché sono più bravo io.”
Dal mutismo dell’altro dei giorni successivi, il castano immaginò essersela presa fin troppo. Stavano scherzando, dopotutto, e se il più grande non sapeva stare al gioco non era certo colpa di Shirabu! Poco importava se lo odiava, in ogni caso. Non doveva mica piacere a tutti. Men che meno all’alzatore che sperava davvero di arrivare a sostituire in forma stabile.
Si dimenticò abbastanza in fretta di lui, comunque. E visse sereno – seppur consapevole di essere odiato da un suo compagno di squadra – per la successiva settimana. Infine, arrivò il momento per i due alzatori d’incontrarsi di persona. Kenjiro era nervoso, e neanche sapeva il perché. Si ricordò dei messaggi che si erano scambiati e degli insulti che erano stati lanciati a suo carico e immediatamente comprese essere per questo. Magari Shirabu non odiava Semi, ma sicuramente non gli piaceva. Così, quando infine si videro, lo shock più grande non fu vedere quanto fosse grosso e neanche quanto fosse bello. Lo shock più grande fu accorgersi del suo mignolo, perché nessuno era in grado di vedere il filo rosso degli altri, a meno che non si trattasse dello stesso filo che partiva dal proprio dito. Fissò quel punto con voracità, come a volersi accertare che i suoi occhi non gli stessero semplicemente facendo un brutto scherzo; dopodiché non fece altro che seguire il percorso del breve filo rosso da un mignolo all’altro e viceversa mentre intorno a lui il resto della squadra parlava. Shirabu non li sentiva, in mente solo il pensiero di aver finalmente trovato la persona della sua vita, ed anche che ella l’odiava per il suo semplice essere alzatore nella pallavolo. Deglutì. Sollevò lo sguardo verso il suo e lo sorprese a fissarlo con intensità, quasi volesse leggergli l’anima. Capì di non essere l’unico a stare ignorando il resto dei presenti, e capì anche di non essere odiato immediatamente dopo: Semi lanciò un rabbioso e roco “fanculo”, afferrò il proprio filo e tirò forte. Kenjiro per poco non cadde, ma seguendo la spinta riuscì ad arrancare in equilibrio fin quando le braccia forti della propria anima gemella non lo sorressero. Gli mise una mano sul volto, poi lo baciò vorace. Non aveva idea di cosa gli altri stessero dicendo di loro, se si fossero accorti di come il castano fosse stato attirato da una forza invisibile o se al contrario credevano si fosse avvicinato di sua iniziativa. Non avrebbero avuto torto in ogni caso.
Shirabu lasciò fuori tutto, si godette solo il bacio. Aveva creduto di odiare quel tale Semi Eita, ma ora tutti quei sentimenti erano dimenticati; anzi, persino inconcepibili. Semi Eita era la sua persona e – allo stesso modo – Kenjiro lo era per lui. L’avrebbe reso felice, e così lui tra le sue braccia, sempre, sapeva lo sarebbe stato.

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Capitolo 6
*** 5: Neve [Suna] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Vino
» N° parole: 1881

05. Neve – Suna

Suna non pretendeva di sapere cosa avrebbe fatto della sua vita futura, ma di una cosa era certo: non si sarebbe messo con Miya Osamu. Se lo impose non appena capì di essersi preso una cotta per lui, e lo fece perché dicendoselo sin da subito, sperava, gli sarebbe stato più semplice farsela passare. Bastava imporsi di non pensare a lui, dopotutto; tentare di conoscere altra gente. Eppure – scoprì fin troppo presto – quella sua linea di pensiero si dimostrò essere del tutto controproducente. , perché sapendo di non poterlo avere Suna aveva iniziato a desiderarlo ancora di più, così la sua vita da adolescente prese a farsi sempre più dura. Resisteva, comunque, e se riusciva a farlo era solo grazie al forte legame che lo univa al suo migliore amico.
Atsumu non si poteva certo dire la persona più espansiva del pianeta, ed anzi non era difficile notare quanto per lui fosse complicato farsi degli amici. Il ruolo di Suna era nei suoi riguardi passato in fretta dall’essere quello di un semplice amico all’essere il migliore perché, d’altra parte, era anche l’unico. Non avrebbe saputo dire neanche lui come erano arrivati a legare così tanto. Avrebbe potuto essere perché erano gli unici due membri del club di primo anno ad essere in classe insieme, o forse per la passione comune della pallavolo. Se proprio avesse dovuto scegliere un momento, Rintaro avrebbe detto che erano diventati amici il giorno in cui in classe Atsumu si era preso la colpa al posto suo facendosi sequestrare un cellulare che – a differenza di quello di Suna – non aveva disturbato la lezione. Quando gli aveva chiesto perché l’avesse fatto lui aveva alzato le spalle affermando che non era un dramma per lui restare un’ora in più a scuola per la punizione. Il cellulare gli venne restituito il giorno dopo, e subito Suna vi aveva inserito il suo numero in rubrica. Quel piccolo espediente li aveva legati. Il biondo-tinto tentava di fingere noncuranza, ma non fu difficile per l’altro imparare a decifrare tutti i segnali di gratitudine che poco dopo aveva iniziato a lanciargli per il semplice fatto di essergli amico. L’alzatore era una persona preziosa ed un amico leale; uno di quelli che avrebbe potuto aiutarlo a seppellire un cadavere nel bosco senza fare domande se solo lui glielo avesse chiesto. Era un amico da non perdere.
“Gli amici prima delle ragazze!” gli aveva detto un giorno il biondo quando l’ex di Rintaro aveva iniziato a fargli la corte, ed ecco il punto: gli amici prima delle ragazze. Non avevano mai apertamente parlato della cosa, ma neanche disdegnato qualche apprezzamento al maschile quando parlavano tra di loro, il che si traduceva in: gli amici anche prima dei ragazzi, ed in più Suna avrebbe voluto aggiungere: specie se il ragazzo è il gemello di cui l’amico non fa altro che lamentarsi. Gli veniva da ridere a quel pensiero, perché paradossalmente erano stati i suoi continui piagnistei a fargli piacere Osamu giorno dopo giorno sempre di più. La sua decisione, comunque, non cambiava: non si sarebbe mai messo con Miya Osamu.
Era difficile, certo. Quasi ogni giorno Rintaro era piantato in casa loro, e quando così non era Osamu era presente grazie ai racconti di Atsumu, poi c’era la strada che facevano tutti e tre insieme verso scuola e di rientro, ed infine le lunghe ore sul campo di pallavolo. Più il tempo passava, più la cotta di Suna peggiorava, e più questo avveniva, più il castano si sentiva in colpa. Gli amici prima dei ragazzi, si ripeteva. Ma allora perché si ritrovava ad attendere con ben più impazienza i momenti che avrebbe potuto trascorrere in compagnia di Osamu invece che di Atsumu? Quel fatto lo logorava, si sentiva come se stesse tradendo un fratello. Provò a parlare con il biondo, qualche volta, ma frasi come “Tutti hanno sempre preferito Osamu a me” o “Io sono da sempre solo la seconda scelta” l’avevano ogni volta frenato. Da una parte era più forte di lui: vedeva lo schiacciatore e iniziava a battergli forte il cuore, le sue pupille si dilatavano, le guance arrossivano e le labbra si curvavano in un sorriso. Spesso, sovrappensiero, Rintaro si accorgeva troppo tardi di starci spudoratamente provando con Osamu. E la cosa peggiore era che Osamu sembrava pure starci! Dall’altra parte, comunque, c’era Atsumu, ed era quel pensiero a rendergli più semplice distaccarsi da tutto il resto.
Gli risultò tremendamente più difficile continuare così, tuttavia, quando il loro rappresentante scolastico annunciò la gita invernale di quell’anno: una settimana bianca ad Hokkaido da passare tra sci, snowboard e caldi centri benessere. Al centrale corse un brivido lungo tutta la spina dorsale a quella notizia, e non se ne dovette chiedere a lungo il perché: Osamu era sempre stato bellissimo, ma le guance arrossate per il freddo e la sciarpa a coprirgli il volto fin quasi al naso l’avevano reso talmente adorabile che Suna fu costretto a studiare le vie di fuga e a valutare seriamente se non fosse meglio dormire fuori al gelo piuttosto che assistere a quella tortura. In passato si era spesso chiesto perché un gemello gli facesse quell’effetto e l’altro no, ma la verità era che i due erano talmente diversi ai suoi occhi che la domanda non persisteva neanche. Fatto sta che era così, e lui non poteva farci niente.
Decise che lo avrebbe semplicemente evitato. Non fu facile dal momento che i Miya – sebbene non facessero altro che decantare il loro odio reciproco – stavano sempre uno di fianco all’altro. E come fai a spiegare al tuo migliore amico che lo stai evitando solo per non stare accanto al suo bellissimo fratello?
Riuscì ad arrivare sano e salvo fino al quinto giorno di vacanza. Ne mancava ancora uno e poi sarebbe tornato al sicuro a Hyogo, nei suoi spazi, dove da due anni a questa parte era riuscito a resistere alla sua cotta, cosa che lì avrebbe potuto continuare a fare.
Il meteo non fu d’accordo.
«Bene.» gli disse Osamu con un sospiro mettendo giù la cornetta del telefono «Sono riuscito a dirgli che siamo qui. Hanno detto di aspettare che la bufera finisca e di non uscire. Verranno a prenderci con il gatto delle nevi appena possibile.» Rintaro si limitò ad annuire mentre – ancora – si chiedeva cosa mai potesse aver fatto nelle sue vite precedenti per meritarsi questo. Tutto il resto della scuola era riuscito a tornare in hotel in tempo, ma non loro. Tutto, come sempre, per colpa di Atsumu che tanto aveva insistito per passare il pomeriggio alla dependance a valle salvo poi ricordarsi a metà strada di aver dimenticato il cellulare in camera. A nulla erano valsi gli insulti di Suna che cercava di convincerlo che non gli sarebbe servito, e d’altra parte come avrebbe mai potuto lui, che tra tutti era il più telefono-dipendente, giudicare il suo amico? Così Suna e Osamu avevano proseguito avvertendo Atsumu che si sarebbero visti a destinazione, ma prima che il biondo potesse farlo, la bufera era arrivata.
«Tuo fratello sta bene?» si premurò il castano temendo che l’amico fosse fuori nel tentativo di raggiungerli.
«Tutto bene.» gli venne risposto dallo schiacciatore «Era ancora in hotel quando i professori hanno chiuso tutto.»
A quel punto a Suna non rimase altro da fare che guardarsi intorno nel tentativo di trovare qualcosa con cui distrarsi. Osamu non glielo permise.
«Quindi siamo bloccati qui da soli.»
“Oh no” fu l’unico pensiero con una parvenza di razionalità che l’altro riuscì a formulare. Conosceva quel tono di voce e sapeva cosa significava. Osamu non poteva iniziare a flirtare adesso! Non quando Rintaro era impossibilitato alla fuga!!
«Niente paura.» si sforzò di rispondere, tirato, il centrale «Abbiamo il camino, e poi c’è la dispensa. Vedrai che andrà tutto bene.» Miya gli si avvicinò, così Suna prese ad indietreggiare. Fu tradito dallo schienale del divano che lo costrinse a fermarsi.
«Io dico invece che dovremmo risparmiare la legna e riscaldarci tra noi. Che ne pensi?» il fiato di Suna si fece più grosso, la pelle molto più rovente.
«D-dico…» balbettò «che fa troppo freddo per limitarci a stare vicini.»
«Mmh…» fu la risposta, roca, dello schiacciatore «Lo penso anche io. Non dovremmo limitarci a stare vicini.» il suo sguardo scese di qualche centimetro e si fermò sulle labbra di Suna, che deglutì sonoramente e sgusciò via rapido ponendo quanta più distanza possibile tra se stesso ed il fratello del suo migliore amico. Rintaro non era mai stato quel genere di persona cieca di fronte all’evidenza, così parlò chiaro:
«Non possiamo farlo, Osamu! Non posso fare questo ad Atsumu.» lo disse a malincuore, ma deciso. L’altro corrugò gli occhi, ben più che confuso.
«Ah!? Cosa c’entra Tsumu con tutto questo!?»
«È il mio migliore amico! E non voglio perderlo. Tu mi piaci, Osamu, e tanto, anche… ma Atsumu… non riesco a tradirlo così. Davvero non ce la faccio.» Miya si limitò a fissarlo per diversi secondi; il vento e la neve che sbattevano sulle pareti esterne della baita l’unico suono percepibile, e dopo un tempo smisurabile, Osamu rise. Se era stato lo schiacciatore quello ad essere confuso fino all’attimo prima, adesso lo era Suna.
«Si può sapere che cosa-?» ma neanche riuscì a finire la frase, perché le risate di Osamu si fecero più forti facendogli morire le parole in bocca. Fu dopo diversi secondi, infine, che reggendosi la pancia con una mano e asciugandosi gli occhi con l’altra Miya disse:
«Insomma, io ci provo con te da due anni e tu ti sei sempre tirato indietro solo per Tsumu?»
«Non è solo per Tsumu. È importante per me! E se lui non dovesse essere d’accordo con la nostra relazione, allora-» si interruppe nel notare l’espressione data dalle risa trattenute dell’altro, poi esasperato chiese: «Cosa!» così Osamu, con un sorriso divertito, sospirò e disse:
«Tsumu sa che mi piaci da un sacco di tempo. Mi ha aiutato a preparare il terreno, in effetti. E non che glielo avessi chiesto io, chiaro! Ma il fatto è che non appena gli ho detto della mia cotta lui era talmente felice! E così ha iniziato a parlarti un sacco di me per capire se tu fossi interessato. Ha cercato di farti ammettere di essere bisessuale e ha trovato ogni scusa per farci stare insieme, in un modo o nell’altro.» tutte quelle nuove informazioni resero Rintaro una statua di sale. Era sempre stato convinto di non essere mai stato una di quelle persone cieche all’evidenza, eppure…
Arrossì, e lo fece violentemente.
«Oggi non aveva scordato il cellulare.» Osamu si limitò a scuotere il capo con ancora un accenno di divertimento nell’espressione. «Anche se la bufera non ci fosse stata non ci avrebbe raggiunti.» capì, ed affermò ad alta voce. Poi sospirò, imbarazzato con se stesso ed imbarazzato con i Miya.
«Quindi ora…» sussurrò impacciato «che si fa?» Osamu gli si avvicinò.
«Ora mi confermi che il mio interesse è ricambiato dandomi un bacio. Dopodiché inizieremo a frequentarci, ed io e Tsumu continueremo a prenderti in giro a vita per questi due anni.» Suna sorrise con le guance rosse. Se voleva dire avere entrambi, Rintaro avrebbe potuto sopportare anche cento vite di insulti. Sollevò una mano e la poggiò sulla guancia ancora fredda di Osamu.
«Allora arrivo…» sussurrò guardandogli le labbra. Dopodiché lo baciò.

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Capitolo 7
*** 6: Cuscino [Daichi] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Cuscino
» N° parole: 869

06. Cuscino – Daichi

Una domanda che a Daichi era stata posta più di una volta – specie durante le uscite a doppia coppia – era: “quando hai capito di esserti innamorato di lui?” ma la verità era che Sawamura non aveva idea di quando Suga l’avesse conquistato. La prima volta che il castano aveva posato gli occhi su di lui, all’inizio del loro primo anno di liceo, non aveva potuto fare a meno di notare quanto fosse bello. Ipnotizzato dal suo sorriso e dal segno di bellezza che aveva sotto l’occhio, aveva sperato con tutto il cuore di poterlo avvicinare per potergli parlare. Era quasi impazzito di gioia nell’apprendere che avrebbero frequentato lo stesso club sportivo. Da lì, subito e con molta facilità, ne era nata una bellissima amicizia. Lo affascinava studiare la doppia personalità di Koshi: pura e gentile, se non stuzzicata, ma temibile e severa se solo si sentiva minacciato. A Daichi la semplice amicizia era sempre andata bene. Non voleva rischiare, d’altronde, di perdere Suga per colpa del proprio istinto che premeva tanto insistentemente affinché si sporgesse in avanti per baciarlo. Le cose erano cambiate al loro ultimo giorno da liceali quando Suga, in lacrime, gli aveva confessato la sua paura più grande: temeva che finita la scuola – anche se magari lentamente – avrebbero iniziato ad allontanarsi, così Daichi aveva risposto confessando di rimando il proprio segreto: era innamorato di lui da anni. Certo rivelare alla persona che amava i propri sentimenti non era una cosa che quella mattina avrebbe mai pensato di fare, eppure ancor meno si sarebbe immaginato di scoprire di essere ricambiato. Così si erano messi insieme, ma non era stato allora ad essersi innamorato di lui. Perciò, quando quella domanda gli veniva posta, Sawamura non poteva che dire “Mi innamoro di lui ogni giorno, e sempre di più.”
Fu ciò che avvenne quella mattina. Stavano insieme da sei anni, ormai; convivevano da due e di recente avevano iniziato a pensare alla possibilità di unirsi l’uno all’altro legalmente, magari attraverso l’adozione1. Come ogni giorno, Daichi aprì gli occhi che subito andarono alla sua destra, dove riposava Koshi. Le persiane erano abbassate, ma attraverso le fessure un fascio di debole luce solare era riuscito a raggiungere comunque il viso etereo del suo fidanzato. Guardarlo riposare tranquillo – a costo di sembrare inquietante – era una delle cose preferite di Daichi. A letto, sul divano, in poltrona. Sempre il viso rilassato e leggermente arrossato di Koshi era in grado di rapirlo, e se non faceva tardi a lavoro era solo grazie alla sveglia dell’ex alzatore che suonava per farlo andare al suo. Ma quel giorno la scuola materna era chiusa per festa, così Daichi seppe di essere finito.
Prese ad accarezzargli i capelli argentati. Era piacevole e – nel sonno – riusciva a far mormorare Suga in maniera adorabile. Come avrebbe potuto svegliarlo quando era così carino? Sì, perché che Koshi dormisse a letto, sul divano, o persino in poltrona, il viso rilassato e le guance imporporate non erano le uniche cose a persistere. Sempre, senza possibilità che ciò non avvenisse, il cuscino di turno era dimenticato. In cambio, il petto e le braccia di Daichi erano sempre lì pronti per il bell’addormentato. Il castano non aveva mai avuto gatti, ma in quei frangenti capiva perfettamente cosa intendessero le persone che li avevano quando dicevano che svegliarne uno che ti dorme addosso è pari ad un crimine mortale. Continuò ad accarezzargli i capelli, dunque, e sorridere al suo indirizzo. Valutò seriamente di afferrare il cellulare sul suo comodino e darsi malato. Poi, fortunatamente o sfortunatamente, Koshi iniziò a svegliarsi. Come lui, la prima cosa che fece fu voltarsi verso il compagno: sorrise con occhi socchiusi ed assonnati gracchiando un buongiorno dolce.
«Buongiorno, amore.» unirono le labbra per un bacio leggero, poi Suga – proprio come fosse un gatto – si stiracchiò e tornò ad abbracciarlo. Il calore del suo corpo era piacevole ed invitante; spingeva Daichi sempre più verso l’idea di saltare il lavoro, ma con un incredibile forza di volontà informò l’altro che doveva andare. Suga mormorò contrariato, ma non ribatté, ed invece districò le braccia affinché lui potesse alzarsi. L’agente di polizia si pulì in fretta, vestì ed infine tornò a guardare il proprio fidanzato. Rise. Era raggomitolato tra le lenzuola che Daichi aveva appena lasciato libere. Il cuscino, ancora una volta, del tutto inutilizzato. Il castano gli si avvicinò, si chinò per lasciargli un bacio tra i capelli e divertito gli avvicinò il cuscino alla testa.
«Questo serve a farti dormire più comodo, sai?» Suga mormorò lamentoso rispondendo poi:
«Non è comodo se non sei tu.» Daichi lo guardò innamorato ed eliminò il piccolo broncio delle sue labbra con un altro bacio.
«Quando torno ci mettiamo sul divano a guardare un film, ti va?» trasformò la sua espressione in un sorriso. Continuò a tenere gli occhi chiusi, ma annuì contento. Daichi andò al lavoro, ma non fu pesante al pensiero di chi avrebbe trovato ad aspettarlo a casa al suo rientro.
 

In Giappone il matrimonio gay non è legale, quindi di solito le coppie ricorrono all’adozione: uno dei due adotta l’altro come figlio (dandogli eventualmente anche il cognome, se vogliono), così nei documenti e secondo la Legge risultano essere il parente più prossimo.

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Capitolo 8
*** 7: Abbracciare [Kenma] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Abbracciare
» N° parole: 862

07. Abbracciare – Kenma

Kenma sapeva di essere difficile. Guardava gli altri e davvero non riusciva a capire come a loro potesse venire così facile dimostrare l’affetto che provavano verso i propri cari. Che si trattasse di un bacio, un abbraccio o anche del semplice tenersi per mano, a Kenma era sempre sembrato troppo. Lui non era come loro. Il suo luogo preferito erano le quattro pareti della sua camera da letto, il suo svago stare davanti ai monitor ed i suoi migliori amici i videogiochi. Chiacchierare, giocare a palla… tutto quello non aveva mai fatto parte di lui, ed il bambino aveva tutte le ragioni di credere che quel fatto non sarebbe mai cambiato, ma poi arrivò Kuroo. Lui e suo padre erano entrati a far parte della sua vita un tranquillo giorno di estate. Se fosse stato per Kenma non avrebbe mai conosciuto i nuovi vicini, ma i suoi genitori l’avevano spinto per il contrario spiegandogli che Tetsuro non conosceva nessuno e che avrebbe dovuto rimediare lui. Secondo il parere di Kenma quella strategia non aveva molto senso. Lui non conosceva nessuno da presentargli, dopotutto. Eppure, seppur ancora negli anni dell’infanzia, il piccolo Kozume aveva capito: quella dei genitori non era tanto una tattica per aiutare il vicino a farsi degli amici, ma per farli fare a loro figlio. Non avrebbe funzionato. Questo era quello che Kenma si era ripetuto ogni volta che – quasi molesto – il corvino l’aveva costretto alla sua compagnia (che fosse in giardino o davanti ai videogiochi).
Si era sbagliato.
Il cambiamento non arrivò in fretta. Invece, la consapevolezza di voler bene a Kuroo prese a farsi strada in maniera cauta e lenta dentro di lui, dandogli il tempo di capire e di abituarsi al fatto che adesso il corvino per lui era diventato una realtà a cui non avrebbe mai potuto rinunciare. Il fatto che non appena lo vedesse il suo primo pensiero fosse quello di buttarglisi tra le braccia, certo, avrebbe dovuto essere un forte indizio. Se il suo luogo preferito era sempre stata la propria camera, adesso divennero le braccia di Tetsuro; se il suo svago più amato era quello di stare davanti ai monitor, adesso era una qualsiasi attività che coinvolgesse il corvino; infine, se i suoi migliori amici erano sempre stati i videogiochi, adesso Kuroo ne era talmente al di sopra da far realizzare a Kenma di non aver mai capito, fino a quel momento, cosa fosse l’amicizia, né – soprattutto – che dentro di sé l’aveva sempre anelata.
D’un tratto, con la maturità di un liceale, Kozume si ritrovò a ripensare alla propria infanzia: a come gli sembrasse folle l’idea di riuscire a mostrare i propri sentimenti in pubblico baciando, abbracciando o semplicemente tenendo per mano una persona. Guardandosi intorno, sapeva essere ancora così, ma con un’eccezione. Individuò Kuroo, si sistemò meglio la tracolla sulla spalla ed avanzò verso di lui. Checché ne ricordasse dopo le scuole medie non l’aveva più visto solo ed in disparte. Tetsuro non era solo il capitano di una delle più forti squadre di pallavolo di Tokyo, era anche molto bello e popolare con le ragazze. Arrossì, Kenma, ripensando a quando aveva avuto quella rivelazione e a tutta la gelosia che ne era seguita, ma era acqua passata, perché che fosse una ragazza o un ragazzo, per nessuno Kuroo aveva mostrato interesse se non per lui. Lo raggiunse. In quel caso a parlare con lui era una ragazza che Kenma riconobbe come sua compagna di classe, ma fu poca l’attenzione che le prestò. Tetsuro guardò verso di lui, gli sorrise e lo baciò rapido sulla tempia. Kenma arrossì come faceva sempre, ma non era veramente imbarazzato; solo felice. Sollevò il maglione del suo ragazzo e vi ci infilò dentro. Sentì la risata del più alto accompagnata dai sussulti del suo petto ed anche le sue labbra si aprirono in un più ampio sorriso mentre faceva sbucare la testa fuori dallo scollo dell’indumento. Kuroo guardò in basso.
«Appena in tempo per la campanella come al solito.»
«Questo è perché non mi aspetti mai la mattina!» l’altro rise ancora, poi lo abbracciò.
«Se lo facessi chi sistemerebbe le cose del club prima delle lezioni?» Kenma sapeva dei suoi impegni da capitano e con tutte le proprie forze aveva provato a seguirlo a scuola all’orario che gli serviva, ma non era facile visti i suoi orari notturni di gaming.
Non importava, comunque, perché quell’abbraccio tutto loro fatto di risate e maglioni sformati rendeva la strada verso scuola qualcosa di bello che avrebbe portato verso la persona che amava; verso il suo luogo preferito.
Kenma sapeva di essere difficile. Guardava gli altri e davvero non riusciva a capire come a loro potesse venire così facile dimostrare l’affetto che provavano verso i propri cari. Kenma non ci riusciva; non con i propri genitori, né zii, cugini o nonni. Non ci riusciva con gli amici né con nessun altro. Solo con Kuroo, ed andava bene così, perché sapeva non avere bisogno d’altro che le sue braccia forti a stringerlo mentre gli sussurrava il buongiorno. Così sapeva che la giornata sarebbe andata bene; così sapeva che – qualsiasi cosa fosse accaduta – il suo futuro, il loro futuro, sarebbe stato roseo.

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Capitolo 9
*** 8: Fantasy!AU [Black Jackals] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Fantasy!AU
» N° parole: 2097

08. Fanatsy!AU – Black Jackals

Quello sorto avrebbe potuto essere un giorno qualunque, ma – purtroppo per lui – Sakusa si trovava in una relazione stabile con Miya Atsumu, perciò sì, avrebbe potuto essere un giorno qualunque, ma non lo fu. Kiyoomi avrebbe tanto voluto esserne più sorpreso, invece si ritrovò semplicemente a sospirare rassegnato e sconfitto. Guardò ancora il proprio compagno. Chiunque ci avrebbe messo più tempo a convincersene, magari si sarebbe trovato spaesato per i primi secondi, avrebbe scosso l’altro per destarlo dal sonno, ma non lui.
«Atsumu.» chiamò pacato ed ancora insonnolito; l’altro non diede segni di vita, così Sakusa lo pungolò con un dito.
«Atsumu.» provò ancora. Finalmente, questi sbadigliò e stirò gli arti, guardò verso di lui che immediatamente continuò affermando: «Sei una volpe.» e sebbene l’appellativo volpe si addicesse benissimo al suo carattere furbo e malandrino, questa volta non era quello che il più alto voleva intendere, perché Miya Atsumu era letteralmente una volpe: muso, baffi, pelo, zampe, coda e tutto il resto. L’altro non parve credergli. E perché avrebbe dovuto? Era difficile dirlo visto il viso animale, ma a Sakusa parve tanto vederlo sorridere divertito. Riprovò.
«Dico sul serio, Atsumu. Che cazzo hai fatto ieri?» l’altro si limitò a scuotere la testolina per poi ributtarla sul materasso, così Kiyoomi sospirò, allungò una mano e gli afferrò la coda soffice. L’animale dovette averne sentito la presa, perché si voltò verso di lui infastidito, ma quel sentimento venne sostituito in fretta: vide il pelo e spalancò gli occhi. Dopodiché fu solo caos. Atsumu iniziò a guaire correndo per tutta la stanza, buttando a terra non solo i cuscini ma anche sveglie e lampade. A Sakusa non rimase che premersi due dita sul setto nasale ripetendosi “Come ho potuto lasciare che succedesse?” Non avrebbe dovuto accettare la proposta del giorno prima di Bokuto, in primo luogo, e in secondo avrebbe dovuto tenere più a vista Miya per tutto il tempo, perché la magia esisteva, ed era bella, ma solo se ammirata da lontano. Come potevano esistere dei giri turistici in posti tanto pericolosi quanto lo erano i territori delle kitsuni? E come poteva Meian aver dato manforte al più esuberante dei Black Jackals? “Questa occasione sarà utile per rafforzare lo spirito di squadra” aveva detto… e questo era il risultato.
Si passò una mano sul viso, poi si alzò dal letto. Quel movimento dovette essere stato notato da Atsumu, perché questi si fermo e – dal basso della sua misera altezza a quattro zampe – lo osservò del tutto terrorizzato.
«Che cazzo hai combinato ieri?» tutto ciò che uscì dalla bocca dell’altro furono ganniti.
«Giusto.» disse quindi lui rassegnato «Le volpi non parlano.» sospirò un’ennesima volta «Almeno un aspetto positivo, immagino.» Atsumu dovette accontentarsi di rispondere con un ringhio, dopodiché Sakusa si chiuse in bagno. Doccia, prima di tutto. Poi avrebbe pensato a come sistemare la situazione.
 
Tre quarti d’ora più tardi Kiyoomi stava raggiungendo la palestra dei Black Jackals a piedi con una volpe nello zaino. Si trattava pur sempre di un animale esotico, non poteva di certo farlo passeggiare accanto a sé stile cagnolino. In più – si disse malvagiamente il corvino – forse respirando affannosamente chiuso nella stoffa della borsa il suo stupido ragazzo ci avrebbe pensato due volte prima di offendere ancora un potente spirito volpe.
Lui, Atsumu, Bokuto ed Hinata erano solamente i primi quattro ad arrivare, ma la novità di quella mattina – neanche a dirlo – aveva fatto perdere del tempo a Sakusa che quindi si ritrovò direttamente a fronteggiare l’intera squadra al proprio arrivo. Guardò tutti con sguardi torvi (tipici suoi), poi aprì lo zaino ed il muso di Atsumu subito ne sbucò fuori. Immediatamente fu coro di owwwh e aaaahh, ma Kiyoomi li ignorò tutti rispondendo solo a Bokuto quando questi gli disse:
«È bellissima! Dove l’hai trovata??» il corvino afferrò l’animale dalla collottola, lo sollevò ad altezza occhi e rispose:
«Semmai è la volpe più brutta che esista nella faccia della terra! Ma l’hai visto!??» i presenti si avvicinarono esaminando gli occhi calanti e lo strano ciuffo di peli sul muso del quadrupede.
«Perché mi ricorda qualcosa?» chiese interdetto Meian. Sakusa sospirò lasciando andare il pelo di Miya che magistralmente atterrò ancora una volta tra la stoffa dello zaino del suo ragazzo.
«Perché abbiamo visto ovunque questo stesso muso di volpe decine di volte, ieri!» nessuno rispose per molti secondi, poi Bokuto – battendo un pugno su una mano convinto di aver indovinato – esclamò:
«Uno spirito kitsune è venuto a farti visita?? Che fortuna!»
«Uno spirito kitsune ha deciso di trasmutare il mio ragazzo in volpe!» fu la sua risposta esasperata con tanto di occhi al cielo, così tutti – ancora – riportarono l’attenzione su Atsumu che ai loro sguardi iniziò a farsi sempre più piccolo appiattendo le orecchie alla testa. “Maledetto lui, quegli adorabili peli arancioni e i suoi dolcissimi occhioni da cucciolo” furono i pensieri di Sakusa. Il silenzio scese nella stanza, finché tutti insieme iniziarono ad urlare increduli cose come: “È uno scherzo!?”, “Tsum-Tsum?”, “Seriamente???”, “È la cosa più divertente che io abbia mai visto!!” in particolare Kiyoomi si voltò verso Inunaki e Tomas riservando loro il più freddo degli sguardi: non era il momento di ridere! Poi arrivò l’intervento di Meian:
«Perché è stato preso di mira da uno spirito kitsune? Che cos’ha fatto ieri?» di solito lo schiacciatore era pacato, poco loquace, non alzava la voce e sicuramente rispettava il proprio capitano, ma non quel giorno:
«Come dovrei fare a saperlo!? L’unica cosa che Atsumu è in grado di rispondere è:» indicò con un pollice l’animale, che capì e provò a parlare. La stanza fu pervasa da un “Oh.” collettivo. Poi scese ancora il silenzio.
«Scommetto che si è lasciato sfuggire un peto durante il tragitto.» lo ruppe Tomas. Tutti guardarono verso di lui, poi lentamente spostarono lo sguardo su Miya che immediatamente e con energia scosse il capo.
«Ci hai provato con qualche spirito?» prima che il suo ragazzo potesse negare nuovamente o annuire, Sakusa aggiunse:
«Se l’ha fatto può considerarsi una volpe morta.» l’altro appiattì le orecchie ancora di più, poi tornò a scuotere la testa.
«Cosa aveva raccomandato di non fare la ragazza all’ingresso?» chiese Hinata senza che Kiyoomi si stupisse che il mandarino non lo ricordasse: lui e Bokuto erano stati i più complicati da tenere sotto controllo durante la visita.
«Non toccare niente, non sporcare niente, non lasciare il sentiero.» recitò Barnes.
«Hai fatto qualcuna di queste cose?» Atsumu rispose di no con la testa, ma nessuno gli credette davvero.
«Magari non te ne sei accorto?» provò Hinata «Ti è caduto un pezzo di carta dalla tasca?» al suo segnale negativo, provò Shion:
«E se per lasciare il sentiero si intendesse anche solo con un piede?» ma ancora quasi saltellando esasperato che non capissero il piccolo mammifero negò. Seguirono alcune ipotesi, tutte bocciate; l’unica cosa certa che qualche spirito fosse stato offeso. A tutti i presenti, quindi, non rimase altro da fare che saltare gli allenamenti e farsi guidare da Atsumu stesso verso il luogo specifico del misfatto.
Furono guardati con commiserazione, all’ingresso dell’area sacra, e subito lasciati entrare. Il parco delle kitsuni era sicuramente uno spettacolo, ma – come Sakusa aveva sempre ripetuto – bello perché lontano dalla portata di tutti coloro non fossero tanto stupidi da attraversarlo. Osaka apparteneva alle kitsuni, dopotutto, prima che venisse urbanizzata, e davvero gli uomini credevano che gli spiriti volpe fossero contenti di loro? Persino il personale all’ingresso si rifiutava di guidare i visitatori nel percorso, e questo doveva pur dire qualcosa!
Seguirono Atsumu, dunque, ma se ognuno di loro si era aspettato di vederlo arrestarsi a un certo punto del percorso, così non fu. Andò spedito, invece, fino alla fine di esso, e fu solo allo shop che infine si voltò verso i compagni e lì – ancora – prese a mostrarsi costernato abbassando le orecchie ed avvicinando il ventre al pavimento. Kiyoomi si guardò intorno: tra i vari oggetti esposti nulla sembrava stonare o essere fuori posto. Guardò meglio. Magari il torto di Atsumu era stato quello di rompere per sbaglio qualcosa per poi nasconderlo così da non doverlo ripagare. Fu un altro buco nell’acqua. Si voltò quindi verso Atsumu con una tacita domanda in viso mentre l’animale iniziava a ricordare:

Quando Bokuto e poi Meian avevano iniziato ad insistere per andare a visitare quel posto, l’alzatore non ne era stato del tutto entusiasta. Aveva sempre amato le leggende delle kitsuni, ma una cosa era leggerne, l’altra era visitare il loro tempio: “pezzi di roccia vecchia e rampicanti dappertutto”, era la sua idea. In ogni caso, mai sarebbe riuscito a dire di no a quel cucciolo di Hinata, così quando questi si era sovreccitato all’idea di rafforzare lo spirito di squadra e con occhi luminosi chiesto ad Atsumu e a Sakusa di esserci, entrambi avevano ceduto. Il percorso non era stato male, alla fine. Il biondo l’aveva immaginato noioso, ma così non era stato. C’erano statue, alberi addobbati con simboli sacri e idiomi incantati, decorazioni bellissime ovunque, persino. Atsumu aveva seguito il tutto con interesse, storcendo il naso – sempre – solo alle raffigurazioni di una delle tante kitsuni lì presenti. Era brutta, sempre con un ghigno irritante in viso, gli occhi inquietanti ed un ciuffo ridicolo. Quella kitsune sembrava quasi perseguitarlo, perché non importava che gli spiriti volpe fossero dodici in tutto, Miya ovunque vedeva solo la più brutta. Non fu diverso al negozio di fine visita: Sakusa era andato al bagno, Hinata stava cercando di spendere tutti i propri averi in gadget superando Meian che cercava di impedirglielo, Barnes stava fermando Bokuto dal rompere un oggetto mentre Inunaki e Tomas se la ridevano. Fu seguendo quindi tutto quello che Atsumu aveva continuato passivamente a guardare le mensole dello shop, tanto da non accorgersi se non quando ne fu a soli due centimetri di distanza dell’enorme statua in porcellana della volpe inquietante posta su una mensola ad altezza occhi. Il biondo aveva sobbalzato: se era brutta ed inquietante di suo, con la porcellana colorata era persino peggio! Gli occhi erano infossati e nonostante questo sporgenti, il ghigno talmente ampio da dare l’impressione dividesse il viso a metà, il pelo disordinato e fin troppo ricco di dettagli. Atsumu non ci aveva pensato due volte: aveva afferrato il grande oggetto e l’aveva voltato di spalle. Il ghigno della volpe era sparito alla sua vista ed uno soddisfatto era apparso sul suo viso. Subito dopo Kiyoomi tornò dal bagno, Hinata pagò una cosa, e tutti andarono via lasciandosi il negozio alle spalle e – soprattutto – lasciando di spalle anche qualcos’altro.

Atsumu fissò Sakusa per quelli che parvero secondi infiniti. Poi, lentamente, guidò lo sguardo del suo ragazzo verso l’oggetto incriminante. Kiyoomi vide la statua voltata di spalle, poi fissò Atsumu; tornò alla statua, ripeté il gesto. Sospirò. Aveva perso il conto di quanti sospiri – solo quel giorno – quell’idiota del proprio ragazzo gli era costato. Guardò ancora la statua, poi Atsumu.
«Quindi pur sapendo quanto le kitsuni possano essere potenti e vendicative tu hai preso e nascosto il viso della rappresentazione di una di loro perché… non ti piaceva…?» annuì da solo, dandosi ragione senza il bisogno di dover ottenere conferma dall’altro. Afferrò la statua e la rimise com’era in precedenza. Atsumu rizzò le orecchie in aspettativa, ma non accadde nulla, così Kiyoomi afferrò il portafogli di Miya che si era portato dietro e ne uscì l’irragionevole somma che la direzione di quel posto chiedeva per quell’inquietante statua. Afferrò con delicatezza il grande oggetto, poi afferrò l’animale dalla collottola. Mise entrambi sul banco della cassa.
«Prendiamo questa volpe di porcellana. Vero che la prendiamo, Atsumu?» il quadrupede annuì con entusiasmo e convinzione. L’uomo di turno alla cassa guardò prima l’uno, poi l’altro, ma – probabilmente come la sua collega all’ingresso non novizio a quella situazione – non fece domande e proseguì con la vendita, Kiyoomi usò la carta del proprio ragazzo e poco dopo stava fissando negli occhi castani, umani e mortificati dell’alzatore ancora seduto sopra il banco di legno.
«Omi…» fu la prima cosa che sussurrò con il broncio proteso. La risposta del corvino fu lanciargli il portafogli in faccia.
«Ti conviene prendertene cura per il resto della vita, idiota. Lavala, ringraziala ogni giorno e dalle offerte.» girò i tacchi e andò via. Stavolta fu Atsumu a sospirare (finalmente lo poteva fare!), afferrò (con rispetto) il suo nuovo acquisto e – ignorando le domande dei compagni che gli chiedevano come fosse essere una volpe, avere la coda, il pelo o andare in giro a quattro zampe – seguì l’esempio del proprio ragazzo lasciando per sempre quell’orribile posto dietro di sé, perché la magia esisteva, ed era bella, ma solo se ammirata da lontano.

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Capitolo 10
*** 9: Giglio [Tsukishima] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Giglio
» N° parole: 2079

09. Giglio – TsukkiYama

L’allenamento era ormai finito da un po’ di tempo, eppure Kei aveva il fiatone. Stava guardando in basso con espressione incredula; gli occhi spalancati e gli occhiali sbilanciati sulla punta del naso. Il viso di Tadashi, invece, era contorto dalla rabbia, eppure non era mai stato tanto bello. Quando il vento soffiò portando via le nuvole, la luna piena illuminò il viso del più basso e Tsukishima non poté fare a meno di enunciare ad alta voce la rivelazione appena avuta.
            “Quando sei diventato così figo? Tu… sei veramente figo.”
Gli era dispiaciuto vedere la reazione incredula di Tadashi a quelle parole, perché altro non voleva dire che il più basso tutto avrebbe potuto aspettarsi da lui meno che questo. Kei aveva sempre tenuto molto al suo migliore amico, eppure – gli era stato chiaro in quel momento più che mai – non l’aveva mai dimostrato. Alle sue parole erano seguiti una serie di balbettii da parte di Yamaguchi che il biondo non aveva nemmeno ascoltato. Invece, tutto ciò a cui era riuscito a pensare era a quanto fosse bello. Si chiedeva come fosse possibile non essersene accorto prima, e soprattutto si chiedeva come fare a rimediare.
Nei giorni successivi Tsukishima prese ad osservarlo più attentamente. Tadashi era il suo migliore amico, ma questo – certo – non escludeva che fosse in confidenza anche con altri. Lo osservava ed arrossiva per i propri pensieri; lo osservava e continuava a darsi dell’idiota (idiota livello Kageyama) per non essersi veramente accorto prima di lui. Lo osservava e la sua pancia doleva; lo osservava e le sue budella si contorcevano se solo veniva avvicinato da qualcuno con cui iniziava a chiacchierare e a sorridere felice.
Era gelosia. Kei era abbastanza intelligente da capirlo, così prese in mano la situazione.
Rientrò in casa e raggiunse la propria camera, una sera, non con l’intento di buttarsi a letto e riposare, ma con quello di fare delle ricerche:
            “Come corteggiare una persona.”
Google gli diede i consigli più disparati, alcuni dei quali lo fecero pentire di aver acceso il computer. Spaventato all’idea di proseguire oltre, quindi, si accontentò dei metodi più quotati: fiori e cioccolatini. Sapeva che a Tadashi il cioccolato non faceva impazzire, così puntò sui primi. Il giorno dopo afferrò libri, zaino e chiavi di casa e partì alla volta della scuola, ma facendo una deviazione.
Arrossì, e non poco, quando al solito punto di ritrovo lui e Yamaguchi presero a fare strada insieme. Il fiore che aveva comprato per lui era al sicuro nel suo zaino, ma se si era aspetto di riuscire a darglielo senza problemi, si era sbagliato. Invece, rimaneva nella cartella, al sicuro dal vento e al sicuro dagli occhi.
Come sempre fu il più basso a portare avanti la conversazione per tutto il tempo, ma se di solito il biondo lo ascoltava, quel giorno era troppo occupato a conversare con se stesso per poterlo fare.
“Non fare la femminuccia.” aveva iniziato a dirgli una vocina.
“Non è così semplice! E se non gli piacesse? Se mi dicesse di nuovo che non mi trova più figo?”
“Fallo e basta!”
“Fallo tu!”
“Io sono te!”
“Non lo farò!”
Aveva comunque continuato ad annuire alle parole di Yamaguchi, entrando nel panico nell’accorgersi che l’ultima frase l’aveva posta con l’intonazione della domanda e ringraziando mille volte la campanella della scuola per aver suonato esattamente in quell’istante. Dimentico del tutto del quesito misterioso che gli aveva appena rivolto, Tadashi si sistemò meglio lo zaino in spalla e insieme al biondo prese a correre veloce verso l’edificio. Si cambiarono le scarpe in fretta, Yamaguchi svoltò l’angolo e fu allora che a Tsukishima venne un’idea: aprì lo zaino ed afferrò il fiore delicatamente, poi aprì lo sportello che conservava le scarpe del suo amico e vi adagiò dentro il suo regalo. Soddisfatto della sua trovata, anche lui si affrettò a sistemare le proprie scarpe da esterno e a raggiungere la classe. La vocina del tutto dimenticata.
Trascorse un’ora di lezione, poi due e tre. Dopo un po’ Kei persino si dimenticò del fiore iniziando a godersi la lezione e soprattutto la vicinanza del suo migliore amico. Dall’edificio principale, poi, raggiunsero la palestra, e fu solo dopo gli allenamenti che tornarono agli armadietti. Fu allora che l’ansia di Tsukishima tornò ma limitandosi – sicuramente grazie all’anonimato – ad essere una sensazione di appena fastidio alla bocca dello stomaco: era in aspettativa, più che preoccupato. Quando Tadashi aprì lo scomparto, Kei poté godersi la sua espressione di pura meraviglia sebbene costretto a guardarlo solo di sottecchi. Sorrise impercettibilmente quando dalla bocca dell’altro sentì il proprio nome: adesso aveva la scusa perfetta per poterlo guardare bene in viso!
«Tsukki!! Guarda! È bellissimo!» tirò fuori la pianta con occhi luminosi e guance imporporate.
“Tu sei bellissimo.” non poté che rispondergli lui, ma solo mentalmente. Ed ecco la vocina che tornava a rimproverarlo: “È bellissimo e tu non te n’eri mai accorto!!” la ignorò, comunque, e alla domanda di Tadashi rispose con quanta più nonchalance possibile:
«Sono abbastanza sicuro che sia un giglio. È simbolo di purezza. Credo.» Yamaguchi lo fissò per un po’ facendo temere a Kei di essere stato scoperto, ma l’altro non disse nulla; invece, si limitò a sorridere e ad annusare il dono che gli era stato fatto.
«Giglio.» ripeté rosso in viso. Nel tragitto verso casa la conversazione – senza nessuna sorpresa – fu ancora guidata dal più basso, stavolta con un solo protagonista: il fiore. Si chiedeva chi mai potesse averglielo regalato e soprattutto perché. A tutto quello, Tsukishima rispose solo:
«Potrebbe essere chiunque. Te l’ho detto: sei un figo.» e non importava quanto la vocina lo insultasse, più di quello non poteva fare.
Quella notte il biondo dormì bene e con un sorriso contento sulle labbra. Ripensare al volto felice di Yamaguchi rendeva felice anche lui, così il giorno dopo decise di ripetere quanto fatto la mattina prima allungando il tragitto per passare dal fioraio. Ancora, l’amico spalancò gli occhi a fine giornata e così il giorno dopo. Tsukishima era molto fiero di sé. Internet aveva ragione, dopotutto: regalare dei fiori era un metodo perfetto per corteggiare una persona. La gelosia iniziò a sparire, l’ansia pure. Stava corteggiando Yamaguchi! Stava rimediando a tutti quegli anni di quasi indifferenza.
Passarono dieci giorni. Poi si diede dell’idiota.
No, non era ai livelli di Kageyama, era peggio. Quel pensiero lo distruggeva, ma era vero, perché persino lui – nel suo ridicolo e poco salutare modo – riusciva ad essere più ovvio con Hinata!
Kei si accorse del proprio errore sentendo una conversazione tra Tadashi e Yachi.
«Quindi non hai ancora capito chi possa essere a mandarteli?» aveva chiesto la ragazza; Yamaguchi scosse il capo, sconsolato.
«Magari Yoshida della 2-A?» ipotizzò, ed i peli sulla nuca di Tsukishima si rizzarono. Yachi mormorò indecisa soppesando l’idea.
«Forse Nakamura, invece. Di 1-B.»
«Non credo che sia tipo da regalare fiori di nascosto.»
«Allora Fujita, della mia classe! Parla sempre di te.» Kei non volle ascoltare oltre; girò i tacchi e cambiò strada.
Yoshida, Nakamura, Fujita. Chi erano tutte quelle persone? Dopo tanti anni di amicizia, eccessivamente in ritardo, Tsukishima si era accorto di Yamaguchi, ma ora capiva che non tutto il mondo era cieco quanto lo era stato lui. In quanti erano interessati al suo amico? In quanti avevano qualche possibilità con lui?
Così sì, Tsukishima si diede dell’idiota paragonandosi persino al dinamico duo, perché non aveva scusanti per quello che aveva fatto e continuava a fare: dare Tadashi per scontato. Come se fosse già suo; come se non ci fossero possibilità di perderlo per un altro.
Rimuginò, quindi, quella sera, su quale avrebbe dovuto essere la sua prossima opzione: smettere di portargli i fiori? Dirgli chiaramente che erano sempre stati da parte sua? Il solo pensiero era imbarazzante e spaventoso, ma – dandosi più volte del codardo – decise infine cosa fare.
 
 
In tutta sincerità, Yamaguchi non avrebbe potuto dire di non apprezzare i gigli che gli venivano recapitati ogni giorno nell’armadietto delle scarpe. Anzi. Vedeva quel gesto ogni giorno come qualcosa di tenero e dolce, che lo faceva sorridere e arrossire: era bello sentirsi apprezzati.
Eppure… (sì, c’era un eppure). Eppure, quei fiori non erano da parte di Tsukishima. Persino a volerci ragionare Tadashi non avrebbe saputo dire da quanto tempo era innamorato del suo migliore amico. Forse lo era sempre stato, e mai – nemmeno una volta – aveva dubitato del proprio amore per il biondo. Kei non gli aveva mai dato alcuna soddisfazione, certo, ma il più basso non se ne aspettava. Era Tsukki, d’altra parte! Così se solo sorrideva alle sue parole, se non indossava le sue cuffie mentre passeggiavano seppur in silenzio, se semplicemente gli si avvicinava di sua iniziativa per consumare i pasti insieme… tutto quello e poco altro bastava a Tadashi affinché fosse soddisfatto. La cotta per il più alto era forte e ben radicata, eppure a differenza di come si potrebbe pensare, non era dolorosa. Sapeva che Kei non era (e forse mai sarebbe stato) interessato a cose come le relazioni sentimentali, quindi neanche una volta aveva sperato di andare oltre l’amicizia. Ed era stato proprio grazie alla consapevolezza che con lui non avrebbe mai avuto speranze che – con tutta probabilità – Yamaguchi era sopravvissuto fino a quel giorno; era stato a causa di quella consapevolezza che il pensiero che l’ammiratore misterioso fosse Tsukishima neanche gli aveva sfiorato la mente.
Ogni giorno, tornando a casa, aggiungeva quindi un giglio agli altri ripetendo la sua lista mentale: Yoshida? Nakamura? Terushima? Fujita? Sato? era scettico su molti di quei nomi, ma sia Yachi che Hinata avevano insistito affinché li prendesse in considerazione come sospettati, e così lui aveva fatto. Il pensiero di avere tanti ammiratori, certo, non poteva che far piacere a Yamaguchi, eppure il solo pensiero di dare ad uno di essi una possibilità di frequentarlo lo spaventava. Sapeva di dover superare la sua cotta non corrisposta, ma a che prezzo? Prendere in giro una persona tanto dolce e gentile non era da lui, così ci stava male.
“Dovrei accettare la corte? Rifiutare i fiori? Concedere un appuntamento al corteggiatore quando e semmai me lo chiederà apertamente? O dirgli che sono innamorato di un altro?” per quanto quei doni lo facessero illuminare ogni giorno davanti allo sportellino della scarpiera, la sera quelle domande irrisolte lo facevano restare sveglio.
“Tsukki.” pensava sempre. “Tsukki.” era il nome che tanto avrebbe voluto inserire in lista. Lo amava così tanto, e non aveva mai fatto male; non fino ad allora.
“Tsukki.” pensava “Tsukki non farebbe mai una cosa tanto romantica.” il pensiero che ciò non fosse vero troppo bello persino per i suoi sogni. Si ritrovò ad essere sempre più cupo, dunque, durante le ultime ore della giornata nella solitudine della sua stanza, ed era la sola vista di Kei che la mattina successiva gli ricaricava le batterie.
“Tsukki.” pensava con un sorriso non appena lo vedeva “Non farebbe mai una cosa tanto romantica, ma è o lui o nessuno.” sapeva di non avere possibilità con il biondo, ma non gl’importava. Mai avrebbe potuto mettersi con qualcun altro; mai pensare di rispondere di sì ad un eventuale appuntamento.
Quello lo faceva sentire male, perché sapeva essere senza speranza, ma se per dieci giorni quei brutti pensieri l’avevano attanagliato, all’undicesimo tutto cambiò.
Quel giorno, come tutti gli altri, Yamaguchi si alzò, lavò e vestì; prese libri e zaino, poi raggiunse il suo migliore amico al solito incrocio dopo il quale facevano sempre strada insieme. Lo chiamò con il suo solito gioviale “Buongiorno!”; il biondo si voltò, poi Yamaguchi vide cosa reggeva in mano.
Stelo verde, foglie rigogliose, petali bianchi. Un giglio. Gli salirono le lacrime agli occhi.
«Tsukki…» sussurrò solo, sorridendo tremulo e felice: il suo volto un chiaro manifesto di felicità. Kei arrossì.
«Te l’ho detto che poteva essere chiunque…» mormorò «Te l’ho detto che sei un figo.» gli porse il fiore, Tadashi lo afferrò ma senza neanche degnarlo di un’occhiata. Invece, i suoi occhi erano puntati sul più alto, increduli e felici.
«Ti va di uscire con me per un appuntamento, domani?» gli venne chiesto subito dopo, e se Yamaguchi per giorni non aveva fatto altro che pensare e a ripensare a quale avrebbe dovuto essere la sua risposta a quell’eventuale domanda, in quel momento non dovette nemmeno pensarci:
«Sì, Tsukki! Voglio uscire con te.» aveva le stelle agli occhi, le guance imporporate, e tutto quello fiorì anche nel volto di Kei. Il più basso non l’aveva mai visto in quel modo, eppure non era mai stato tanto bello.

 

n.a.
Scusate il ritardo! Ma eccomi giusto in tempo prima di mezzanotte!! Spero di recuperare nei giorni a venire e pubblicare prima. (Sono talmente piena che ho anche un bel po’ di recensioni alle quali rispondere!! Non mi sono dimenticata, giuro! E vi adoro per le vostre parole!! Un saluto e un ringraziamento speciale a Muffin12 e TheSnake che mi accompagnano sempre e mi spronano per questa sfida!)
Oltre che per scusarmi, queste note autrice servono per i corteggiatori di Yama: ho semplicemente preso i primi cognomi giapponesi che mi sono capitati a tiro, sono solo comparse (tranne Terushima. L’ho messo per la ship che io non capisco e non capirò mai che ha con Yamaguchi e poi perché mi immagino Hinata o Yachi dire qualcosa tipo “forse è lui! Lui ci prova con tutti!!”)
Ci vediamo domani! Un bacio a tutti!

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Capitolo 11
*** 10: Tatuaggio [tanakyo] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Tatuaggio
» N° parole: 1287

10. Tatuaggio - TanaKyo 

Alla fine era successo: dopo due anni di corteggiamento, infiniti inviti rifiutati e dichiarazioni d’amore ignorate, Shimizu Kiyoko aveva dato una possibilità al suo amico, compagno di scuola e kohai Tanaka Ryunosuke. Se ci aveva messo molto non era tanto perché il ragazzo non le piacesse, quanto piuttosto per il contrario: Tanaka poteva sembrare eccessivamente sfrenato e poco profondo ad un primo sguardo, ma sarebbe bastato indugiare solo un secondo in più con lo sguardo su di lui per rendersi conto che era tutto il contrario; e osservarlo era ciò che aveva fatto Shimizu. La ragazza era bella (inutile evitare l’evidenza), ma proprio per questo aveva sempre dovuto stare più attenta; prendere con le pinze ogni dichiarazione fattale e persino assottigliare un attimo gli occhi ad ogni nuovo ragazzo che le si avvicinava – a suo dire – semplicemente per fare due chiacchiere. Durante i suoi anni di liceo ne aveva sentite di tutti i colori: gente che diceva di amarla e che insisteva affinché accettasse il suo invito a uscire; ragazzi che ci provavano palesemente, ma che al suo rifiuto iniziavano ad affermare che aveva capito male e che era piuttosto lei che pensava male; ed ancora, quelli che si fingevano chi non erano nel tentativo di raggirarla. Tutti erano arrivati ed andati via, chi imprecando contro di lei, chi accettando la sconfitta con dignità. Ma non Tanaka. Tanaka era rimasto. Ryunosuke non era come gli altri, dopotutto, e se anche le sue dichiarazioni d’amore – ad occhio estraneo – avrebbero potuto sembrare vuote, invece non lo erano. Shimizu lo sapeva, ma aveva comunque aspettato, perché Ryu era fantastico, ma proprio per questo voleva essere sicura di volerlo. Ignorarlo – si diceva – sarebbe stato decisamente meglio che illuderlo e poi scaricarlo. Così attese, e ne valse la pena.
Quando infine – dopo due anni – gli concesse di aiutarla nel semplice trasportare un borsone, la felicità dell’altro poteva dirsi talmente grande da contagiare lei col solo sguardo. Quello diede inizio a tutto. Tanaka l’aveva notata, poi amata. Credeva di non essere ricambiato, eppure non aveva mollato. Non aveva mai chiesto niente a Shimizu, non aveva mai insistito con lei. Semplicemente, si era limitato ad esserci. Ed ecco i suoi sforzi finalmente risolti; ecco la pazienza di Kiyoko ripagata. Ragazzi fin troppo loquaci e sconosciuti molesti del tutto dimenticati. Ora c’era solo Ryu. O almeno era così ai suoi occhi.
Le faceva dispiacere. Anzi, lo odiava. Odiava quando la gente li guardava e subito diceva “lui è un ragazzo fortunato”, “lei non è decisamente alla sua altezza”, “dureranno poco. Lei è troppo bella per stare con lui”. Shimizu sentiva quelle frasi, e le sentiva anche Tanaka. Erano speculazioni, chiacchiere senza fondamento, stupidaggini. La ragazza combatteva contro certe cose da tutta una vita, ma per Ryunosuke era diverso, perché rimbombano più volte, quelle frasi, nelle orecchie delle persone che in fondo ci credono. Tanaka aveva tenuto duro per anni. Non si era arreso. Era stato l’unico a farcela; l’unico ad aver dimostrato vero interesse; l’unico per cui Shimizu avesse di rimando provato qualcosa. Eppure, troppe chiacchiere maligne erano arrivate al suo udito, e se da un lato l’idolatria del ragazzo verso di lei era smisurata, di contro la sua autostima quando si parlava della loro coppia era l’opposto, perché persiste un enorme difetto nelle persone che venerano troppo il proprio partner, e quello è metterlo su un piedistallo immaginario fuori dalla propria portata. Era il caso del suo ragazzo, e Shimizu voleva rimediare.
Iniziò a chiedersi come fare, dunque. Tanaka per lei faceva mille gesti carini ogni giorno; quelli piccoli ed inutili di cui si potrebbe fare a meno ma che rallegrano comunque la giornata. Lei non era così. Non perché lo amasse meno, ma per propria indole personale. Ryunosuke la conosceva, quindi lo sapeva, o almeno avrebbe dovuto. Se era sempre stato in grado di leggerla, nell’ultimo periodo i pettegolezzi su di loro gli avevano coperto occhi e orecchie. Adesso brancolava nel buio.
Kiyoko ripensò a tutti i suoi gesti, quindi, e riprese a chiedersi come avrebbe dovuto comportarsi. Imitandolo, forse? Lo fece. Iniziò ad essere più espansiva, fargli più regali, organizzare anche lei appuntamenti romantici invece di cedergli tutto l’ingrato lavoro. Parve funzionare. Tanaka tornò sereno, le chiacchiere – almeno alle sue orecchie – del tutto rese silenziose.
Quello che fece poco dopo, dunque, Shimizu lo fece solo per sé.
Era estate. Il periodo peggiore per farlo, ma aveva poca importanza. Erano al mare, lei, Tanaka, Daichi, Suga e pochi altri amici con i quali i più grandi del Karasuno avevano frequentato le lezioni. La scuola era finita ormai da tempo, così inevitabilmente molti compagni di classe avevano iniziato a vedersi meno spesso, e questo era anche il caso dei loro accompagnatori. Quando le vecchie conoscenze li videro aspettarli in spiaggia, Daichi e Suga adagiati su un telo e Shimizu rilassata tra le braccia di Tanaka in un altro, i nuovi arrivati quasi si dimenticarono di salutarli e come prima cosa a lei dissero: “Wow! State ancora insieme?” sentì Ryu irrigidirsi, e lo fece anche lei. Quella della sua vecchia amica – se così poteva definirsi una ragazza con la quale si era sempre limitata a chiacchierare solo tra i banchi di classe – erano state orribili e cattive, ma ancora peggio chiaramente modificate in modo da essere quanto più delicate possibile. Il che era tutto dire. Kiyoko tentò d’immaginarsi cosa mai avrebbe potuto dire del suo ragazzo se solo lui non fosse stato presente, ed una smorfia le salì in viso.
Il giorno seguente prese una decisione.
Era stanca. Stanca di tutto quello; stanca che la gente non la prendesse sul serio; stanca di dover percepire il suo bellissimo e dolcissimo Ryunosuke irrigidirsi. Quello che fece, lo fece per lui, ma prima di ogni cosa lo fece per se stessa.
Fece delle ricerche, controllando feedback e non badando al prezzo, consultando il sito web di ogni artista e valutando lavori e pulizia dei locali. Infine, prese appuntamento e si presentò in loco. Se la gente si ostinava a non capire, ci avrebbe pensato lei. Continuavano a fare la stessa domanda? Bene. Lei si sarebbe incisa su pelle la risposta: amava Tanaka Ryunosuke e per sempre lo avrebbe amato.
Si stese sul lettino reclinabile che la tatuatrice le aveva indicato, scoprì l’anca e lasciò operare l’artista. Il disegno studiato attentamente e consegnato alla donna che aveva avuto modo di studiarlo e migliorarlo prima del suo arrivo. Un’ora dopo era già fuori e si stava dirigendo a casa del proprio ragazzo.
Non appena Tanaka vide il suo nuovo marchio pianse. Shimizu rise. Ryu si commuoveva per molti dei suoi gesti romantici. La ragazza aveva creduto che col tempo sarebbe migliorato, ma così non era stato, e lei lo adorava.
Si inginocchiò, il più giovane, per poter ammirare meglio il lavoro che aveva sull’anca, ed accarezzò con delicatezza la pellicola che tuttavia lasciava ammirare senza sforzo ciò che stava proteggendo.
«Siamo noi?» chiese con un sorriso e occhi luminosi. Lei annuì. Aveva scelto due corvi, due di quelli stilizzati, goffi e per lo più rotondi. Dagli occhiali ed il segno di bellezza poco sotto il mento di uno dei due appariva chiaro fosse la rappresentazione di lei, mentre di quella di Tanaka rappresentativi erano i capelli.
«Ti amo, Ryu.» gli disse. Lui arrossì e sorrise, come faceva sempre. «E non mi serve che gli altri lo sappiano per continuare a farlo o per essere felice. Però voglio che sia così. Voglio che tutti lo sappiano.» il ragazzo si sollevò, la baciò e la abbracciò.
«Ti amo.» le venne risposto «E ti amerò sempre.» fu il suo turno di sorridere innamorata, come sempre.
«Lo so.» fu la sua risposta «Noi siamo per sempre.» concluse in un sussurro accarezzandosi il fianco.

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Capitolo 12
*** 11: Gentilezza [shoumika] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Gentilezza
» N° parole: 957

11. Gentilezza – ShouMika

Mika Yamaka non era mai stata una di quelle persone che pretendono di far cambiare il proprio partner per plasmarne uno – a loro dire – perfetto per loro. Era invece del parere che ogni individuo fosse perfetto così come era. Certo, la compatibilità era importante, ma se non c’era erano solo due le strade percorribili: invece di modificare del tutto la personalità di qualcuno, bisognava comprendere e rispettare oppure troncare la relazione. Tra lei e Daishou era successo proprio quello: lei non aveva compreso, ed aveva troncato, perché come poteva un semplice club portargli via tanto tempo? Come poteva essere tanto importante? Troppe volte aveva scelto lo sport a lei, così infine aveva ceduto.
Non era stato facile, questo era ovvio. Se una persona pone fine di sua iniziativa ad una storia, d’altronde, non è detto che questa stessa stia bene con quella situazione. Le sue amiche avevano provato a consolarla, tentando – perlopiù – di sollevarle il morale insultando il suo ex. Solo quando avevano capito che parlare male di Suguru aveva su di lei l’effetto opposto, poi, avevano deciso di portarla al palazzetto in cui si sarebbero disputate le qualificazioni per i Nazionali.
Lì tutto era cambiato. Secondo le sue amiche stare tra gli spalti le sarebbe servito per ricordarsi cosa lui avesse preferito a lei, eppure invece Mika aveva guardo e finalmente compreso. Andò da lui, dopo la sconfitta, domandandosi se fosse disposto a dare una seconda occasione alla loro relazione e felicissima di appurare che così fu.
Comprendere e rispettare. Mika non si limitò solo a quello: si appassionò, invece, felice di seguire quello sport straordinario ma soprattutto di restare al fianco del suo ragazzo mentre lui con pazienza, passione ed amore le spiegava ciò che non conosceva ancora.
Erano felici. Quella nuova passione non necessaria affinché il loro amore continuasse a dilagare ma utile per poter stare insieme più spesso di quanto in passato non avevano potuto.
Un giorno, Suguru la stupì:
«Insegnami come essere gentile, Mika-chan…» lei era rimasta sorpresa a quella richiesta, perché d’altronde Daishou era già gentile. La passava a prendere ogni mattina per fare strada insieme fino a scuola, poi la riaccompagnava a casa; si preoccupava sempre che stesse bene e che si sentisse a proprio agio e controllava perennemente che non si annoiasse. Erano gesti piccoli, quotidiani, e Mika non aveva bisogno d’altro. Prima che potesse rispondere, il ragazzo però continuò:
«Voglio essere migliore. Voglio meritarti davvero.» quello la fece commuovere e riflettere, perché Daishou era già gentile, ma lo era solo con lei. Non era un mistero, dopotutto, che il giocatore avesse pochi amici, e sebbene lei non mancasse mai di invitarlo ad uscire con la sua comitiva, non sempre Suguru si sentiva a proprio agio tra le persone che con così tanta facilità l’avevano insultato durante il loro periodo di rottura. Agli occhi di Yamaka il suo ragazzo era perfetto, ma così per gli altri non era. Suguru voleva rimediare, e lei l’avrebbe aiutato.
Iniziarono con calma.
«Non è stato molto carino quello che gli hai detto, Dai.» gli spiegò con giusto una piccola nota di biasimo non appena la sua vittima si fu allontanata.
«Cosa? E perché? I suoi capelli erano una merda! Non è giusto che lo sappia?»
«Va bene dire quello che pensi, ma ci sono modi e modi per esprimersi.» sorrise intenerita mentre l’altro iniziava a rimuginarci sopra.
«Dovresti andare da lui e consolarlo.» gli si avvicinò un altro giorno quando assistendo agli allenamenti del Nohebi si era accorta che un membro della squadra che Suguru capitanava era giù di tiro.
«I maschi non lo fanno.»
«Le persone gentili sì, però.» così lui aveva mormorato infastidito, soppesato l’idea ed infine deciso di intervenire.
A due settimane dall’inizio di quel loro strano e del tutto singolare training, le loro conversazioni potevano riguardare come sempre qualsiasi cosa, ma iniziò anche ad essere normale per Daishou chiederle in quelle occasioni tutto d’un tratto i consigli più disparati. Suguru non era cattivo, solo molto schietto. Capire come e quando usare il filtro cervello-bocca era l’unica cosa sulla quale dovevano davvero lavorare. Mika aveva sin da subito creduto in lui, comunque, così quando assistendo a una partita dei Nazionali videro perdere il tanto odiato dal ragazzo Nekoma e Daishou le chiese un minuto per poter parlare con il capitano di quella squadra, lei non poté che limitarsi a sorridere salutandolo serena, convinta al cento percento delle buone intenzioni del proprio ragazzo.
Gli aveva dato dei perdenti, è vero. Però il suo brusco e del tutto inusuale inizio era solo un preambolo per arrivare a consolarli. Certo lei non avrebbe intrapreso quella strada, ma era il gesto che contava. Anche Kuroo Tetsuro parve accorgersene. Vide un suo compagno di squadra ridere alle parole di Suguru, mentre il corvino dalla strana cresta si era limitato a sorridere guardando forse leggermente confuso ma anche grato verso il suo vecchio rivale. Perché quello che Daishou gli aveva detto era vero: loro adesso erano dei perdenti, ma d’altronde tutti lo sarebbero diventati tranne una squadra. Non era per questo che giocavano e mai così avrebbe dovuto essere. Quando Suguru la raggiunse poco dopo nell’angolo in cui lo stava aspettando, lei gli sorrise raggiante, poi lo baciò facendo arrossire entrambi.
«Tu sei gentile, Dai-kun. Non dubitare mai che tu non lo sia. Sono fiera di te e ti amo.» il ragazzo arrossì ancora di più a quelle parole, tanto che Mika credette di averlo appena ucciso per autocombustione. Era la prima volta che lei usava l’enorme A, dopotutto, ma nessuno più di lui – specie in quel momento – si meritava di sentirla pronunciare dalle sue labbra.
Suguru era complicato, difficile da comprendere, in un certo senso persino introverso. Suguru era molte cose, ma soprattutto era gentile.

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Capitolo 13
*** 12: Body Swap [Osamu] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Body Swap
» N° parole: 3442

12. Body Swap – Osamu

Quel giorno Osamu si alzò con il piede sbagliato. Non nel senso che era nervoso o arrabbiato, ma letteralmente con il piede sbagliato. Sentendo la sveglia si mise seduto e poi lasciando il letto, semplicemente, cadde. L’urto fu forte; si voltò indietro e guardò il proprio materasso. Il letto a castello non era molto alto, ma piacevole sicuramente non era stato. Si chiese solo distrattamente perché diamine avesse dormito nel letto di Atsumu dimenticando immediatamente dopo di rispondersi. Era troppo stanco – dopotutto – per formulare un pensiero coerente e mantenerlo per più di un secondo. Si limitò a guardare suo fratello porsi seduto sul letto inferiore, dunque, e poi voltarsi per sporgere una gamba fuori dal materasso, quasi volesse trovare a tentativi una scala inesistente. Tsumu era strano, comunque, quindi lo ignorò e raggiunse il bagno. Afferrò il proprio spazzolino, il dentifricio e diede inizio alla propria routine di igiene personale. Passò un minuto, poi due, e fu solo a quel punto che sollevando il viso dopo averlo sciacquato spese appena un attimo per guardarsi allo specchio.
Capelli biondi, occhi castani.
Sbatté gli occhi più volte, ma dal momento che quei colori persistevano iniziò a stropicciarli. Stava ancora fissando il proprio riflesso senza capire quando un urlo gli squarciò l’udito.
«Samu! Che cazzo!!» non sapeva se quella di suo fratello fosse un’esclamazione o una domanda; quando lo raggiunse in bagno non ebbe più importanza.
Capelli grigi, occhi blu.
«Tsumu! Che cazzo!!» fu il suo turno.
 
Ebbene sì, del tutto inspiegabilmente i loro corpi erano stati invertiti. La situazione era talmente surreale che i gemelli non dovettero neanche mettersi d’accordo per decidere che non lo avrebbero detto a nessuno. Chiunque sano di mente, d’altronde, li avrebbe presi per pazzi o – alla meglio – si sarebbe messo a ridere pensando ad uno scherzo. E come dargli torto? Persino Osamu non ci credeva, e lui era letteralmente all’interno del corpo di suo fratello. Stava guardando proprio questi, in quel momento: si era sollevato la maglietta ed afferrandosi la pochissima massa grassa che riusciva ad essere tirata stava dicendo:
«Certo che ti sei proprio lasciato andare, Samu.» l’interpellato allungò una mano e schiaffeggiò quella di Atsumu che subito lasciò andare la sua pancia e lo guardò male.
«Puoi, per favore, prendere seriamente questa situazione??» Osamu davvero non riusciva a capire come potesse l’altro perdersi in frivolezze tanto inutili quando i loro corpi erano invertiti!!
«Se lo prendo seriamente impazzisco, Samu!!» fu la risposta alla sua esasperata domanda, e certo l’altro non poteva negare di capire il suo punto di vista. Sospirò. In quel momento si trovava all’interno del corpo di suo fratello, e quello era un dato di fatto. Non aveva importanza che sembrasse impossibile, era così e basta. Una volta appurato quello, non gli rimase che essere quanto più razionale possibile. Iniziarono col fare delle ricerche.
«Niente sullo scambio di corpi neanche qui.» annunciò Atsumu dopo una buona mezzora di lettura. Entrambi sospirarono stanchi rimpiangendo il fatto di non conoscere altri gemelli omozigoti che potessero dirgli della loro esperienza. Lui e l’alzatore, d’altronde, avevano sempre avvertito uno strano legame: brutte sensazioni se l’altro stava male, malumore se l’altro era triste, farfalle nello stomaco per il contrario. Nessuno ci aveva mai creduto, ma i gemelli non se n’erano mai curati. Fingere di non tenere assolutamente al fratello, d’altronde, era il loro sport preferito. Ma per quanto profondamente avessero avvertito quel legame, mai avrebbero potuto immaginare di arrivare a tanto!
«Quindi che cosa facciamo?» Osamu non sapeva rispondere, così lo chiese a suo fratello ma questi non ebbe neanche il tempo di aprire bocca che venne interrotto dalla voce di loro madre da una parte e dal cellulare di Osamu dall’altra. Lo schiacciatore si afferrò ad afferrare il proprio cellulare mentre Atsumu – ancora nel suo corpo – si affacciava per parlare con la donna. Al telefono era Suna al quale disse di non stare benissimo e che avrebbe saltato la scuola, ed era davvero intenzionato a farlo, ma poco dopo suo fratello rientrò in camera scortato dal guardiano della casa.
«Ha ragione Ts- Samu, mamma!» si lamentò lui dopo che Miya Izumi ebbe intimato loro di andare a scuola «Non stiamo molto bene. Sono un idiota e ieri sono uscito senza cappotto. Avrò contagiato Samu stanotte.» suo fratello lo guardò risentito, mise il broncio e poi disse:
«Non è vero! È sicuramente colpa mia. Sono così stupido a volte!» la genitrice non lasciò loro spazio per altre discussioni.
«Andrete a scuola e basta. Altrimenti niente pallavolo per una settimana!» e bastò quello per convincere entrambi. Con il senno di poi, dare la colpa a se stessi invece che all’altro era stato sicuramente ciò che li aveva traditi rendendoli troppo poco credibili. Era ovvio che la donna pensasse ci fosse qualcosa sotto!! Ma non era quello, comunque, che Osamu aveva in testa mentre lugubri i gemelli camminavano verso scuola per accedere a quella che ormai era la terza lezione della giornata.
«E se marinassimo?» propose senza veramente sperarci.
«Sei pazzo??» gli rispose infatti il suo gemello «Non rischio una settimana di pallavolo per questo. Ci basterà imitare l’altro per tutto il giorno, non è un problema.»
Ma un problema lo era eccome! Perché non c’era cosa che Osamu non avesse condiviso con suo fratello, tranne una. Fingevano di odiarsi, ma Atsumu era per lui la persona più importante. Per questo fin da piccoli gli era sempre venuto naturale confidarsi; non sapeva neanche lui cosa ci fosse stato di diverso nell’ultima volta. Fatto sta che lo schiacciatore aveva omesso qualcosa di fondamentale: lui e Suna erano diventati una coppia.
Osamu si sentiva in colpa per averglielo nascosto; si sentiva in colpa nel percepire di aver fatto spazio nel suo cuore per una persona in più che magari suo fratello avrebbe potuto considerare estranea. In quel momento, però, più che senso di colpa provava paura. Il suo cuore correva rapido, la sua gola era stratta in una morsa, aveva freddo eppure sudava. Non sapeva cosa fare.
Ebbe un quarto d’ora per pensarci, così arrivati all’edificio subito il ragazzo agì. Trovò Suna.
«Oi, Miya. Che cos’è successo stamattina? Dov’è-» ma prima che il castano potesse chiedere fingendo nonchalance dove fosse lui, Osamu lo raggiunse e gli mise il palmo sulla bocca. Non aveva tempo per lasciarlo finire.
«Vieni con me.» gli disse urgente guardandosi indietro. Lui e Atsumu facevano parte di aule diverse, quindi al contrario di suo fratello lui era compagno di classe di Rintaro. Era proprio lì che avevano stretto così tanto, ma se quel particolare era fino ad allora stato tanto bello, al momento non poteva esserci cosa peggiore. I gemelli erano arrivati proprio durante il cambio dell’ora, quindi non poteva farsi sfuggire l’occasione.
«Atsumu, ma che ca-!»
«Sta’ zitto! Rin, sono io! Sono Osamu. Non abbiamo molto tempo.» il centrale lo guardò male.
«Smettila, andiamo! Saprei riconoscervi anche se invertiste la tinta dei capelli. Tu sei decisamente Atsumu.»
«Io sono decisamente Osamu!» lo guardò arrabbiato sebbene non potesse biasimarlo più di tanto. «So che è impossibile da credere, d’accordo!? Mi sono svegliato ed ero dentro a Tsumu! Non mi aspetto che tu mi creda, ma lui non sa di noi, capisci? Non devi dirglielo. Fingi che siamo solo amici, d’accordo? Non può scoprirlo così.» Suna sbuffò e si appoggiò al muro dietro di sé con fare divertito.
«Ho capito, Osamu te l’ha detto e ora ti vendichi.»
«Rin, maledizione! Non è così. Ti ho detto che non ti sto chiedendo di credermi, ma-»
«Ma vuoi che mi metta in ridicolo. Non attacca.» ghignò ancora convinto. Miya pensò in fretta a come potesse fargli cambiare idea. Se gli avesse raccontato qualcosa di privato che conoscevano solo loro due Suna avrebbe potuto pensare che lui l’avesse raccontata al fratello (e chissà, magari avere brutte conseguenze sul loro rapporto di fiducia), così era solo una la cosa da fare: trovare qualcosa di talmente orribile che Rin sapeva non avrebbe mai detto ad Atsumu. Sospirò non appena ne trovò una:
«Okay, allora ti dico una cosa che sai solo tu.» annunciò con poca voglia. «Quando avevamo quattordici anni e i nostri genitori ci hanno lasciato per la prima volta in casa da soli per un’intera notte, ho sentito Tsumu svegliarsi per un incubo. Sapevo che aveva paura e che non l’avrebbe mai detto ad alta voce, così ho finto di avere paura io e gli ho chiesto di tenere accesa la luce. Abbiamo chiacchierato e giocato ai videogiochi per quasi tutta la notte e solo quando Tsumu è riuscito ad addormentarsi sono andato a letto pure io. Avrei potuto prenderlo in giro a vita, ma non l’ho fatto e continuerò a non farlo.» concluse con le guance rosse. L’alzatore che temeva di stare solo a casa senza mamma e papà era stata forse l’occasione più ghiotta d’insulti che Osamu si fosse mai ritrovato sotto tiro, e di conseguenza – dal momento che era stata ignorata – anche la sua vergogna più grande. Suna rimase impassibile per un po’, poi prese a mormorare incredulo.
«Cazzo. Cazzo! Non posso credere che Osamu te l’abbia detto!» quasi rise isterico, ma diventò di sale quando serio lui gli rispose:
«Non l’ho fatto. Credi che potrei mai?» così – finalmente – Rintaro gli credette, perché d’altronde era ovvio: era più plausibile uno scambio di corpi rispetto ad Osamu che ammetteva quello che era disposto a fare pur di proteggere Atsumu dalle cose che lo facevano star male.
Suonò la campanella, ma Suna parve non sentirla. Fissava ancora il gemello dai capelli biondi, invece. Osamu gli mise le mani sulle spalle.
«Ricorda: quello in classe con te è Tsumu. Fingi che sia io, ma senza comportarti da fidanzato. Intesi? Siamo solo amici e compagni di classe per oggi.» fece per avvicinarsi per augurargli buona fortuna con un bacio, poi si ricordò che le labbra sarebbero state quelle di suo fratello e si trattenne.
«Ci vediamo più tardi al club.» gli disse quindi prima di sparire dietro l’angolo.
 
Le ore successive Osamu le passò a ragionare sulla loro situazione. Si beccò diversi rimproveri per quello, ma – soprattutto considerato che quello ripreso era tecnicamente Atsumu – la cosa poco importò al ragazzo che sicuramente aveva altro a cui pensare che non ai professori risentiti per la sua poca attenzione. Non importava quante ricerche facesse o quanti scenari immaginasse: la loro rimaneva imperterrita una situazione assolutamente irreale ed impensabile. Sospirò, ad un certo punto, cercando di rilassare un po’ la mente, tuttavia lei traditrice corse a pensieri poco allegri.
Si sentiva in colpa; non si era mai sentito tanto in colpa. Atsumu era in classe con Suna, in quel momento. Sarebbe bastato un dettaglio: uno scarabocchio con le loro iniziali fatto senza pensare e lasciato nello scomparto del banco, Rintaro che credeva di star raccontando ad Osamu come Atsumu solo poche ore prima avesse provato a prenderlo in giro dopo aver scoperto di loro. Un minimo cenno, e suo fratello avrebbe capito.
Osamu non voleva. L’alzatore non doveva scoprirlo così. Se non gli aveva detto nulla era stato per codardia, per paura che Atsumu lo giudicasse, forse, o magari per paura che si sentisse tradito. Ancora peggio, una parte di lui gli disse che forse non glielo aveva detto per egoismo: Rintaro era suo e suo soltanto. Lui e Atsumu condividevano tutto sin da prima che nascessero, ma con il centrale era diverso, così Osamu aveva taciuto, convinto che tenendo all’oscuro suo fratello lui sarebbe stato meglio. Be’… adesso era l’opposto.
Raggiunse il club, a lezioni finite, strascicando i piedi e con sguardo basso. Era l’ora della verità. Atsumu aveva scoperto qualcosa? Lo schiacciatore scoprì di no solo guardandolo. Al contrario, suo fratello sembrava non avere nessuna preoccupazione al mondo.
«Non pensavo che ti stessi allenando anche tu in battuta come Atsumu!» dissero a suo fratello. Il biondo – in quel momento non tale – rispose ghignando.
«Ho semplicemente capito che Tsumu è troppo figo e voglio somigliargli di più.» Osamu gli si avvicinò e lo picchiò sulla nuca.
«Non hai imparato niente con mamma stamattina?» gli sussurrò. Quello rispose con un mormorio infastidito mentre si massaggiava la parte lesa, ma – Osamu capì subito – allo stesso tempo smise anche di inneggiare a quanto fosse bravo parlando di sé in terza persona. La cosa positiva fu che lui poté scambiare uno sguardo significativo con Suna confermando una volta per tutte che ciò che alcune ore prima gli aveva detto fosse vero. Lo schiacciatore credeva che quello avrebbe potuto risolvere almeno in parte la propria ansia, ma così non fu. Ora Rintaro non li avrebbe traditi, e allora perché il cuore di Osamu non si liberava dalla morsa in cui era stretto?
Giocò da alzatore dopo molto tempo che non lo faceva. Entrambi i Miya erano bravi anche nel ruolo dell’altro, tuttavia alle ovvie perplessità dell’allenatore dovettero comunque rispondere che non erano molto in forma a causa di un’intossicazione alimentare avuta e risolta la sera prima. Parve credergli ed andarono avanti. Dopo un po’, incredibilmente, l’ansia iniziò a scemare. Iniziò a godersi quel ruolo tanto bello che non preferiva allo schiacciatore ma che comunque amava. Soprattutto, si rese conto solo grazie ad un’epifania a fine giornata, era stato Atsumu a farlo distrarre del tutto dalla loro strana e ben più che stressante situazione.
La morsa tornò ad attanagliarlo verso casa. Aveva detto in fretta a Rintaro che lo avrebbe contattato lui e di non scrivergli, poi i gemelli avevano iniziato a fare strada in silenzio. Se Atsumu si era accorto che qualcosa non andasse in Osamu – Osamu era certo lo avesse fatto – non aveva detto niente. Invece, si era limitato a camminargli a fianco almeno finché un sospiro tremulo non sfuggì dalle labbra dello schiacciatore. Suo fratello lo guardò di sottecchi, ma invece di spingerlo a dirgli cosa avesse riprese – come d’altronde aveva fatto per tutto il pomeriggio – a farlo distrarre.
Osamu sorrise ai suoi interventi e a sua volta ne fece commentando quell’assurda giornata e a quanto fosse stato orribile essere lui. Atsumu gli rispose che essere Osamu non era stato da meno, e in quel modo – tra gli insulti e le risate che tanto li contraddistinguevano – arrivarono a casa.
Cenarono in fretta, si lavarono e in men che non si dica erano in pigiama a fissare i loro letti. Avrebbe dovuto mettersi in quello di sopra? In quello di sotto? Guardò suo fratello.
«Giochiamo alla Play?» propose quello, ed Osamu subito assentì, felice di dover posticipare quel piccolo problema e consapevole di non poter andare a letto senza prima aver parlato seriamente con Atsumu. Si sedettero davanti allo schermo, l’alzatore scelse il gioco ed impostò l’opzione per due giocatori. Mossero i loro avatar in silenzio per diversi minuti, l’ansia che travolgeva Osamu con sempre maggior violenza man mano che il discorso veniva rimandato. Infine, lasciò morire il proprio personaggio e si voltò verso il fratello. La sua negligenza nel gioco e la nuova posizione non passarono inosservati all’altro, così – confuso – mise in pausa e lo guardò con una muta richiesta in viso.
Durante tutta la loro vita erano state innumerevoli le domande che gli erano state fatte riguardo all’avere un fratello gemello, prima tra tutte se non fosse strano poter guardare in faccia il proprio riflesso. Osamu a quella aveva sempre risposto di no, che Tsumu era Tsumu e lui era lui. Guardare suo fratello era come guardare qualsiasi altra persona; sapeva di non essere lui, che si somigliavano soltanto e che quindi non gli aveva mai fatto impressione. Invece, guardare adesso il proprio volto faceva impressione eccome, perché Tsumu era sempre stato Tsumu: diverso da lui per colore di occhi e di tinta, ma soprattutto di espressioni. Vedere il suo volto totalmente stravolto e plasmato in quello di suo fratello proprio a causa di queste ultime lo aveva scombussolato quella mattina e poi anche per il resto della giornata. Tuttavia ringraziò quel particolare, in quel momento, perché concentrandosi su quello gli fu più facile iniziare il discorso.
«Io…» fece allo sguardo interdetto dell’altro «devo dirti una cosa, Tsumu.» suo fratello annuì in attesa e questo non lo aiutò. Uno sprono a parlare gli sarebbe stato utile! Invece, dovette sospirare e raccogliere ancora una volta il coraggio.
«Sai che ti odio, credo di essere meglio di te e tutto, vero?» gli disse per sdrammatizzare. Era il loro modo per dirsi “ti voglio bene”, così sorridendo appena Atsumu roteò gli occhi e disse:
«Sì, certo.» Osamu annuì, felice di sentire quella risposta immediata, poi disse:
«Io e Suna stiamo insieme.» guardò suo fratello in apprensione, le espressioni nel suo volto chiare come non lo erano mai state: Atsumu era stato colto di sorpresa, così ebbe bisogno di un attimo per elaborare quell’informazione, dopodiché Osamu notò chiaramente l’accettazione passargli in viso, ma subito seguita dal risentimento. Lo schiacciatore non gli permise di parlare, invece immediatamente aggiunse:
«Non so perché non te l’ho detto subito. Ci sono stati tanti fattori, immagino…» spiegò pensando alla paura e all’egoismo che avevano guidato quella scelta.
«Pensavi che non l’avrei approvato?» lui poté solo limitarsi a sollevare le spalle.
«Volevo che non cambiasse niente.» mormorò. Atsumu non rispose, quindi lui si sentì in dovere di continuare.
«Mi sono sentito in colpa per tutto il giorno. Ho quasi pensato più a questo che a come risolvere lo scambio dei corpi.» suo fratello annuì.
«Certo, avrei potuto scoprirvi.» non lo disse con cattiveria, era solo una costatazione, che in qualche modo ebbe il potere di far sentire peggio Osamu.
«Non solo per quello…» si difese «Certo volevo essere io a dirtelo, ma non è per questo che te lo sto dicendo adesso. Ho capito di aver sbagliato. Che non voglio che tu non sappia una cosa tanto importante della mia vita. Io e Rin non l’abbiamo ancora detto a nessuno, ma so che se solo una persona l’avesse scoperto prima di te io ci sarei rimasto malissimo. Allo stesso tempo però non te l’ho detto perché volevo che mia relazione con Rin fosse solo una cosa mia e sua.» disse; il “e non anche tua” lasciato in sospeso. All’alzatore servì ancora qualche secondo, poi scrollò le spalle.
«A tutti quelli che non ci distinguono diciamo sempre che non siamo la stessa persona, no? Immagino sia normale volersi tenere per sé certe cose.» ma nonostante le sue parole Osamu non poté fare a meno di continuare a star male per quello che aveva fatto. Atsumu – del tutto inspiegabilmente – era sempre stato lasciato più in disparte rispetto a lui. Questo sembrava far arrabbiare più Osamu che il diretto interessato, ed anche in quell’occasione non fu diverso. Lo schiacciatore, dopotutto, era l’unico a non aver mai trattato suo fratello come qualcuno da allontanare, ma l’aveva fatto nel momento in cui gli aveva nascosto la sua relazione.
«Dico sul serio, Tsumu. Volevo davvero che tu lo sapessi! Non so cosa-»
«Samu.» fu interrotto «Ti ho detto che va bene così, d’accordo? Ora me lo hai detto. Ti serviva solo un po’ di tempo.» scrollò ancora una volta le spalle, poi tornò a guardare lo schermo per rimettere in moto il videogioco. Osamu continuò ad osservarlo poco convinto, ma poté definitivamente rilassarsi quando un sorriso iniziò a fiorire sulle labbra di Atsumu.
«Sono felice per te e Sunarin. Chissà, magari anche io un giorno incontrerò una persona che mi piace a tal punto da volerla tenere tutta per me, no?» Osamu sorrise e capì che il fratello non si sarebbe più voltato. Non avrebbero mai potuto dirsi cose tanto dolci guardandosi negli occhi, dopotutto. Tornò a guardare lo schermo anche lui, dunque. Atsumu aveva fatto ripartire il livello, così che anche Osamu potesse tornare a muovere il proprio personaggio.
«Sono sicuro di sì.» rispose a quel punto a suo fratello «E quando succederà io sarò lì ad aspettare che tu ti senta pronto per dirmelo.» si scambiarono un rapidissimo sguardo ed annuirono, poi di nuovo con gli occhi sullo schermo Osamu aggiunse:
«Ma prova a confidarti con qualcun’altro prima di me e sei un uomo morto.»
 
Alla fine, quella sera decisero di coricarsi nel letto dell’altro cosicché se loro madre fosse entrata per svegliarli avrebbe trovato i loro corpi dove avrebbero dovuto essere e non nel letto del fratello. Osamu aprì gli occhi, il mattino successivo, con apprensione e lentamente sperando di non vedere il muro del soffitto. Fissò la struttura portante del letto sopra il suo e sbatté le palpebre per qualche secondo.
Sembrava tornato tutto come prima.
«Andiamo, Samu.» gli disse troppo vivacemente Atsumu per essere di prima mattina una volta che fu sceso dal suo letto «Non vorrai mica far aspettare il tuo bello, vero??» continuò ghignando.
Non era tornato tutto come prima, ed era perfetto così.
 

n.a.
Che dire, questa sfida si fa di giorno in giorno più complicata perché sì, ho finito adesso di scrivere questa OS e non ne ho altre pronte, quindi domani stesso dovrò scrivere quella per domani! Ma stringendo i denti ce la farò!! (PLS fatemi sentire il vostro supporto! In questa occasione più che mai ne ho bisogno!!)
Venendo alla OS di oggi, penso di avere solo un piccolissimo appunto da fare, perché avrei voluto farlo capire nella storia ma non ci sono riuscita e non saprei come fare mantenendo Osamu come narratore (e quindi lasciando che il lettore sappia tanto quanto fa lui): nel mio headcanon lo scambio dei corpi è avvenuto proprio a causa del senso di colpa di Osamu che dentro di sé stava male per non aver detto ad Atsumu di lui e Suna, ma allo stesso tempo aveva bisogno di questo pretesto che lo spronasse a parlare. Fosse stata una long (o avessi semplicemente un po’ più tempo) magari avrei provato a dare una spiegazione quanto più possibile razionale per quanto avvenuto. Essendo una OS, tuttavia, non mi sento minimamente in colpa nel lasciare l’argomento in sospeso. Sicuramente Osamu ed Atsumu parleranno ancora spesso di questa loro stranissima esperienza, e chissà magari ne verranno anche a capo. Lasciò questa parte a libera interpretazione.
Ci vediamo domani!!

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Capitolo 14
*** 13: Hurt/Comfort [Suga] ***


n.a.
Non so in quanti di voi conoscano questo genere di fanfic (5+1), io stessa l’ho scoperto solo di recente. Lo schema è semplice: sono cinque volte in cui il protagonista fa qualcosa e una in un ne fa un’altra (di solito il contrario). Il Writober vuole solo che si segua il prompt, quindi dal momento che volevo provare a scrivere una 5+1 ho unito le due cose. Spero vi piaccia!!

ATTENZIONE: QUESTA ONE-SHOT CONTIENE FORTI SPOILER DEL MANGA. Ho cercato di essere quanto più vaga possibile, ma lo spoiler (enorme) rimane dal punto 5 in poi.
Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Hurt/Comfort
» N° parole: 1602

13. Hurt/Comfort – Suga

Cinque volte in cui Suga ha confortato qualcuno e una volta in cui è stato confortato lui.

Sugawara Koshi era da tutti stato definito “la mamma della squadra Karasuno”, e probabilmente avevano ragione. Bastava che l’alzatore vedesse un viso triste, d’altronde, che il suo unico obiettivo diventava quello di trasformarlo in un sorriso.

1.
La prima volta che si ritrovò in una situazione del genere fu durante il suo secondo anno. Gli allenamenti del coach Ukai erano sempre stati tremendi e talmente faticosi da spingere quasi alle lacrime, fino quando – tutt’a un tratto – l’uomo non andò in pensione. In quell’occasione Suga ed il resto della squadra – per quanto felici di poter respirare un po’ – non poterono che sentirsi tristi di perdere un maestro tanto in gamba, eppure non fu a nessuno di quelli che erano rimasti a cui servirono le parole di conforto dell’alzatore. La sua prima volta fu per Ennoshita.
Il ragazzo aveva sentito del pensionamento di Ukai e tempo una settimana era tornato in squadra. A quella notizia, tutti i membri del Karasuno si erano detti contenti, il suo ritorno visto come un’occasione di gioia, ma non per Chikara. Suga ne scoprì il motivo la sera stessa del suo rientro.
«Come posso guardare in faccia tutti voi?» si confidò il ragazzo del primo anno non appena Koshi gli chiese di farlo «Io ho mollato! Sono solo un perdente.» Suga gli aveva messo una mano sulla schiena e lì aveva iniziato ad accarezzarlo.
«Non sei un perdente, e lo dimostrerai!» era seguito un discorso lungo e delicato che comprendeva ciò che secondo lui era più importante, ma soprattutto l’importanza di poter concedere e soprattutto di potersi concedere una seconda occasione. Quando Ennoshita aveva sorriso, Suga l’aveva fatto con lui.

2.
Anche la seconda volta in cui Koshi si era ritrovato a confortare un compagno era avvenuta al suo secondo anno, ma questa volta verso la fine della scuola. La squadra aveva da poco giocato contro l’istituto Dateko perdendo clamorosamente. Suga aveva creduto che il proprio discorso collettivo di consolazione avesse funzionato, ma così non era stato per Asahi. Il loro asso aveva percepito troppa tensione addosso e a nulla erano valsi i tentativi dell’alzatore che insisteva per parlargli: lo schiacciatore era andato via senza nemmeno ascoltarlo. Fu su Nishinoya, dunque, che il ragazzo dai capelli d’argento concentrò le proprie cure.
«Hai fatto tutto ciò che potevi per tenerlo con noi, Noya.» provò a convincerlo «Asahi ha solo bisogno di tempo. Se gli parlerai ancora dopo le vacanze, sono sicuro che riuscirai a convincerlo.» il libero aveva sorriso rallegrando ancora una volta la mamma della squadra.

3.
La terza volta Koshi per poco non la cedette ad Ennoshita. D’altronde era stato perfetto nel difendere Yamaguchi dalla sfuriata di Ukai jr. e la cosa sembrava tanto essersi sistemata lì, ma quella sera l’alzatore non poté fare a meno di ricredersi nel vedere Tadashi con il muso lungo.
«È normale sentire un po’ di agitazione quando si scende in campo.»
«Ma io posso scendere in campo solo per battere! Se non so fare neanche quello a cosa servo?» anche in quel caso Suga gli aveva posato una mano sulla schiena iniziando a muoverla su e giù.
«Tu non sei solo le tue battute, Yamaguchi. Credi che Tsukishima giocherebbe così bene se non fosse stato per te?» gli disse riferendosi al discorso che Yamaguchi aveva fatto al biondo durante il ritiro estivo a Tokyo.
«Sei umano, come tutti noi. L’ansia ha vinto, stamattina, ma l’importante è capirlo e sapere che non risuccederà. Tu sei forte, lo sappiamo tutti. Adesso devi solo capirlo tu.» Tadashi sorrise, e Suga seppe di aver fatto bene il proprio lavoro.

4.
La quarta volta fu più delicata: Tanaka – sempre così pieno di spirito e autostima – aveva iniziato a perdere fiducia in se stesso, troppo in balia delle chiacchiere altrui per rendersi conto che lui era perfetto così.
«Perché nessuno capisce quanto io faccia sul serio?» quella domanda era sicuramente lecita. Era tutto il giorno, infatti, che chiunque lo incontrasse non faceva altro che chiedergli perché avesse deciso di non cogliere l’opportunità e mettersi con l’amica d’infanzia che gli si era dichiarata. Per quanto risoluto Ryunosuke fosse stato a dirle di no – seppur con tatto – adesso ciò che gli si leggeva in viso altro non era che sconforto.
«È così difficile credere che io possa tenere davvero tanto a Kiyoko?» nel suo sguardo Suga lesse solo paura, così sorrise nel tentativo di tranquillizzarlo.
«Non lo è affatto. Io ti credo, e sono sicuro che lo faccia anche lei.» Tanaka era scettico, così l’alzatore dovette insistere ancora fin quando il sorriso dello schiacciatore non fiorì finalmente confermandogli il successo del suo intervento.

5.
La quinta volta fu più difficile, perché Sugawara stesso era straziato. Come sempre, comunque, mise se stesso in secondo piano e si dedicò alla sua squadra, e più in particolare ad Hinata.
«Ora devi solo pensare a riprenderti.» gli disse mentre lo accarezzava sulla schiena in quel gesto di conforto ormai familiare «Sei stato bravo, vedrai che l’anno prossimo porterai la squadra ancora più avanti ai Nazionali.» Shoyo gli rispose piangendo disperato.
«Ma tu e il resto dei senpai non ci sarete!!» un groppo in gola rischiò di bloccare le successive parole di Suga. D’altronde Hinata aveva ragione. Ingoiò il rospo e disse:
«Hai ragione, ma ci siamo divertiti fino ad adesso, no? Prima di voi non eravamo mai arrivati ai Nazionali. Ora possiamo dire di averlo fatto. L’importante è aver potuto fare questa esperienza insieme.» il più piccolo annuì, ma senza ancora riuscire a sorridere, quindi Koshi sospirò e sfoderò tutto il proprio repertorio, trattenendo le lacrime ogni volta che le parole di Hinata gli ricordavano che lui non avrebbe più potuto giocare con il Karasuno e minimizzando ogni volta quella chiusura per lui definitiva.

+1.
Quando infine era riuscito a far sorridere Shoyo, Suga si sentì realizzato. La sua squadra stava bene, adesso, ed era tutto ciò che per lui importava. Ignorò la morsa che aveva in petto, quindi, ma decise anche di allontanarsi il più possibile dal ragazzo appena consolato. Non voleva rischiare che scoppiando in lacrime il suo lavoro venisse vanificato.
Era finita. Per tre anni aveva fatto parte di quel club e adesso doveva lasciarlo. Sapeva che prima o poi sarebbe dovuto succedere, ma i Nazionali l’avevano distratto e adesso non sapeva che fare.
Si impose di non piangere, comunque, così dal momento che si sentiva in bilico decise di allontanarsi per recuperare la compostezza e la forza che gli serviva per reprimere tutto dentro. Svoltò l’angolo e percorse il corridoio deserto con il labbro sempre più tremante. Gli sarebbe bastato qualche altro metro e sarebbe stato al sicuro, ma poi la voce di Daichi lo raggiunse.
Prima di voltarsi, Koshi sospirò piano e tremulo, sbatté le palpebre e ricacciò indietro le lacrime. Sorrise, poi si voltò verso il capitano con quell’espressione.
«Peccato, eh?» gli disse con quanta più leggerezza possibile. «Sei stato un capitano eccezionale e hai fatto tutto benissimo, Daichi.» partì in quarta pronto a consolare anche il ragazzo che aveva davanti. Questi gli sorrise intenerito prima di avvicinarglisi. Aveva gli occhi rossi, ma sembrava stare bene.
«Non devi occuparti sempre tu di tutto questo, sai?» Suga non capì, così inclinando la testa chiese:
«Che intendi?» Daichi lo guardò ancora con fare dolce.
«Intendo che puoi permetterti di essere triste, Suga. Va bene così.» quelle parole lo spiazzarono; il groppo in gola che si intensificava.
«L-Lo so!» balbettò «Sono triste, ma va tutto bene. Ci siamo divertiti, no?» ripeté la frase che aveva usato con Hinata. Sawamura annuì.
«Sicuramente.» gli disse avvicinandosi «Ma ora è finita.» sussurrò più piano. L’alzatore deglutì con difficoltà e con difficoltà mantenne la maschera che aveva indossato. Daichi se ne accorse.
«Sei stato fantastico con la squadra. Lo sei sempre stato. Ma non devi arrivare a stare male per noi. Anche tu puoi permetterti di essere triste.» erano anni che Koshi si metteva in secondo piano per far stare bene gli altri, cosicché gli fu impossibile fare quanto detto da Daichi. Come poteva piangere dopo il discorso che aveva fatto ad Hinata? E se vedendolo in lacrime i ragazzi di primo e secondo anno si fossero dispiaciuti? Così negò ancora ed il suo groppo s’intensificò. Respirare, ora, gli risultava fastidioso. Piangere era l’unica cura, ma non voleva usarla.
Sawamura lo abbracciò. Fu talmente improvviso da far paralizzare Suga. Sentì una mano posarsi sulla sua schiena e lì iniziare a muoversi su e giù: era il gesto che faceva lui per confortare gli altri. Deglutì ed impose alle lacrime di non andare oltre il bordo degli occhi sul quale erano arrivate.
«Questa non sarà l’ultima volta che giocheremo insieme, te lo posso assicurare. Continueremo a vederci come sempre anche dopo il diploma, manderemo un messaggio ai nostri kohai ed useremo un campo pubblico fino a notte fonda.» l’alzatore resistette ancora qualche secondo, infine il capitano aggiunse:
«Va tutto bene, Koshi.» e le fontane vennero aperte. Suga non sapeva se fosse stata la frase, il modo in cui era stata detta o il suo nome di battesimo. Forse era merito dell’abbraccio o ancora la consapevolezza di avere anche lui qualcuno a cui potersi appoggiare. Afferrò con forza la giacca del suo eterno capitano, seppellì il volto sulla sua spalla e lì soffocò i propri gemiti a cui però diede libero sfogo.
«Va tutto bene. Va tutto bene.» continuava la cantilena di Daichi, e Koshi sapeva essere così. Quella non sarebbe stata l’ultima volta che giocavano insieme, né per lui e Daichi sarebbe stato l’ultimo abbraccio.
Sarebbe andato tutto bene.

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Capitolo 15
*** 14: Amore non corrisposto [UshiSaku/AtsuKita] ***


n.a.
Se per le altre OS i prompt sono stati accoppiati randomicamente, per questa devo fare una confessione: dovevo scrivere trentuno nomi di personaggi/ship da accoppiare, ma arrivata a trenta davvero non riuscivo a capire chi altro mettere. Ho quindi lasciato il numero 31 libero, ed esso è stato accoppiato con il giorno 14. Non appena ho visto il prompt “Amore non corrisposto” ho pensato di mettere qualche amore passato, poi me ne sono venuti in mente due e li ho uniti! Ecco quindi a voi Atsumu, Sakusa, e i loro frastagliati primi amori!
Buona Lettura!

Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Unrequited Love
» N° parole: 1106

14. Amore non corrisposto – UshiSaku/AtsuKita

Kiyoomi non era mai stato quel tipo di persona dipendente dall’affetto; anzi, era tutto l’opposto. Risaliva alla sua infanzia la decisione di non lasciarsi avvicinare da anima viva, e a questo risaliva anche la sua scelta di non legarsi sentimentalmente a nessuno. Non avrebbe mai potuto chiedere a nessuno, d’altronde, di accettare la sua condizione. Aveva poca importanza: le relazioni erano sopravvalutate e lui ne avrebbe fatto a meno.
Se da un lato, quindi, Sakusa la pensava in quel modo, tutto l’opposto – a chilometri di distanza – era Atsumu. Il ragazzo aveva sempre vissuto con suo fratello gemello, avevano fatto sempre tutto insieme, e forse proprio per questo nell’alzatore era nata quell’irrefrenabile voglia di distinguersi, di ottenere attenzione non come Atsumu, uno dei gemelli Miya, ma semplicemente come Atsumu. Non pretendeva certo che i suoi genitori o gli amici lo preferissero ad Osamu, ma sperava che almeno una persona lo facesse.
Per quanto riguarda Sakusa, sì sa, quando non cerchi una cosa, quella ti trova; mentre al contrario per Miya valeva la regola: l’intraprendenza paga. Entrambi trovarono l’amore, o almeno così era parso ai loro cuori inesperti.
Per il primo fu Ushijima Wakatoshi. Il corvino aveva sempre creduto di essere al di sopra dei sentimentalismi, insultando non troppo velatamente suo cugino Komori ogni qualvolta gli parlasse di ragazze e di ciò che loro gli facevano provare. L’amore era per le persone frivole, lui aveva obiettivi più grandi. Dovette ricredersi durante il suo primo anno di liceo.
Ushijima aveva tutto: era forte, bello, intelligente, calmo. Aveva tutto ciò che Kiyoomi poteva desiderare. Fu stupido il modo in cui era riuscito a conquistarlo. Se – d’altronde – avesse raccontato a Motoya che era bastato un fazzoletto fresco di bucato a fargli battere forte il cuore, sicuramente il cugino lo avrebbe preso in giro a vita. E come dargli torto?
Al di fuori di ogni suo controllo, comunque, Sakusa era stato costretto ad accettare quei sentimenti, perché dal semplice interesse era passato in fretta a qualcosa di più, tanto da non riuscire a staccargli più gli occhi di dosso in quelle rare, splendide e preziose occasioni in cui i due potevano incontrarsi. Che fosse per All-Japan Youth Training Camp, i Nazionali o dei semplici ritiri sportivi, ogni incontro per Sakusa era motivo di gioia, ma non si illudeva. Ushijima Wakatoshi non era irraggiungibile solo per i chilometri che separavano i loro domicili, e non si trattava neanche del fatto che lo schiacciatore di Miyagi avesse un anno in più di lui. No, era l’aura che emanava a bloccare il più giovane.
Per Atsumu con la sua cotta era lo stesso: irraggiungibile non per la sua età ma per l’aura che emanava era come il biondo vedeva Kita Shinsuke. A volerci riflettere, neanche Atsumu avrebbe saputo dire cosa nel suo senpai l’avesse attratto tanto. Forse era il suo carattere così stoico, o magari il modo in cui sembrava tenere a tutti loro. L’alzatore sorvolò sulla cosa accettando che all’amore non si comanda, e riconosciuta la propria cotta si era adoperato per convincere il ragazzo ad accettare un suo appuntamento o – per meglio dire – per convincere se stesso a chiederglielo.
Passò per entrambi un anno. Un anno di sentimenti sempre più forti e tattiche – chi più chi meno evidenti – per avvicinarsi al proprio sogno proibito. In quell’arco di tempo sempre con più passione, Sakusa a Tokyo e Miya a Hyogo, i due ragazzi iniziarono a convincersi di essere perfetti per la propria cotta, e ancora più ardentemente che Ushijima e Kita potessero essere gli unici adatti a loro. Quello che stava cercando e che amava il corvino, d’altronde, era proprio l’atteggiamento serio, calmo e pragmatico di Wakatoshi, mentre perfetto per il biondo era l’aperto affetto che Shinsuke riusciva a mostrare.
Dopo mesi di tentennamenti e decine di scuse per rimandare quel momento, infine entrambi decisero di agire confessandosi al ragazzo che amavano.
Furono delusi.
Entrambi i ragazzi del terzo anno rifiutarono la dichiarazione d’amore con delicatezza e rispetto, ma senza dare loro possibilità d’appello. Ushijima aveva e avrebbe sempre visto Kiyoomi come un asso da sconfiggere, mentre Kita teneva molto ma in maniera troppo diversa dalla sua ad Atsumu. Come se non bastasse, per entrambi esistevano già Tendo ed Aran.
Per tutta la vita Sakusa aveva creduto di poter fare a meno di qualcosa di così melenso come lo erano le relazioni amorose, ma quel rifiuto gli fece comunque male. Quello che aveva provato per l’asso dello Shiratorizawa gli aveva fatto piacere e dispiacere insieme, facendolo sentire sia leggero che pensante, sia felice che triste. Non voleva rinunciare a tutto quello, non voleva rinunciare – ora che sapeva che emozioni era in grado di provare – ad amare qualcuno. Ma se Ushijima non era adatto a lui allora chi mai avrebbe potuto esserlo?
Per Atsumu fu dura almeno tanto quanto per Kiyoomi: aveva così tanto amore da poter condividere, ma mancava la persona con cui farlo. Kita gli era sembrato perfetto; gli era sembrato l’unico. Era stato così tanto preso da lui, negli ultimi due anni, da non capire come fare adesso a passare ad un altro. Se Kita non era adatto a lui allora nessuno avrebbe potuto esserlo.
“All’amore non si comanda”, su quello Miya aveva fatto centro. Nessuno dei due avrebbe mai potuto biasimare la sua cotta per non aver corrisposto il loro amore. I capitani di Shiratorizawa e Inarizaki avevano piantato una croce sul cuore ai due innamorati e questi avrebbero dovuto portarla sebbene tra strazio e dolore, ma non era colpa di nessuno il male che sentivano.
Inadatti. Così presero a reputarsi. Così particolari e bisognosi entrambi da non poter avere nessuno; la loro rispettiva persona speciale già impegnata e soprattutto non interessata.
“All’amore non si comanda” Atsumu l’aveva capito da ragazzo e lo fece di nuovo da membro dei Black Jackals, ma se si può dare per corretta questa frase fatta, anche un’altra merita di essere considerata: “Si trova quello che non si cerca” Kiyoomi lo aveva capito anni prima quando il suo cuore aveva preso a dolere per un altro essere umano, e lo capì ancora entrando a far parte della stessa squadra di Miya Atsumu.
Un uomo stoico, calmo e tranquillo non fu certo ciò che Sakusa trovò nell’amore della sua vita, e allo stesso modo Atsumu non si tirò indietro alla rivelazione che l’uomo che amava odiava mostrare apertamente affetto. Amore non corrisposto era stato quello che avevano ricevuto da Ushijima e Kita; dubbio era ciò che era scaturito in entrambi a causa di quei rifiuti. Ma – capirono entrambi conoscendosi – ad altro le loro esperienze non erano servite che a plasmarli nell’attesa dell’arrivo della loro vera persona speciale.

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Capitolo 16
*** 15: Paura [Atsumu] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Paura
» N° parole: 1037

15. Paura – Atsumu

In cose come la pallavolo il gioco di squadra è tutto. Atsumu non era mai stato troppo bravo a legare con le persone, quindi proprio per questo capiva bene l’importanza di serate come quelle che i Black Jackals avevano deciso di organizzare una volta a settimana per far sì che la squadra legasse. La maggior parte delle volte si trattava semplicemente di incontrarsi a casa di uno dei membri e lì bere e mangiare insieme davanti a una buona partita in televisione, ma per quella sera Bokuto aveva espresso il desiderio di dedicarsi al cinema, e tutti avevano assentito. Erano proprio a casa di Atsumu e lì, chi steso per terra, chi in poltrona e chi sul divano, avevano iniziato a sfogliare il catalogo di film disponibili sulle varie piattaforme di streaming a pagamento.
«Che ne dite di vedere Il Signore degli Anelli?» fu la proposta di Meian bocciata perché troppo lunga.
«Inception?» non accolta perché troppo impegnativa.
«A.S.S.O.!» fu ciò che propose Bokuto, ma lui stesso ritrattò non appena capì che il nome non si riferiva allo schiacciatore più forte di una squadra di pallavolo. Poi arrivò la proposta di Sakusa:
«Sinister?» ad Atsumu corse un brivido lungo tutta la schiena, perché l’alzatore era moltissime cose, ma soprattutto era orgoglioso, e non avrebbe mai ammesso di avere una paura matta per tutti i film horror. Nonostante ne stesse sempre alla larga, Miya non viveva fuori dal mondo e conosceva bene quel nome. Deglutì pronto a tentare di spostare l’attenzione su un altro film quando – come una manna dal Cielo – Hinata intervenne dicendo:
«Waah, no! Quello no!! Odio i film horror! Fanno troppa paura.» l’intera squadra si mise a ridere; Atsumu lo fece tirato, non convinto ma sperando di riuscire a reggere la recita.
«È quello il punto degli horror, Shokkun!» gli rispose con la sua solita voce energica Bokuto, poi gli diede una forte pacca sulla spalla. «Io ci sto! Vediamo Sinister!!» il biondo corse veloce con lo sguardo a Hinata sperando che questi insistesse ancora un po’, e sembrava tanto che stesse per farlo quando Inunaki disse:
«Vedila come una sfida personale.» così Atsumu seppe di aver perso il sostegno del più piccolo. Tentò di sorridere, quindi, e nascondendo del tutto le proprie remore provò a dire:
«Se a Shoyo fa paura cambiamo genere, ci sono tanti di quei film tra cui scegliere!»
«Ma se siamo qui da più di mezzora!» fu l’intervento di Barnes.
«Tutti d’accordo per Sinister?» e che figura ci avrebbe fatto lui a dire di no?? La morte piuttosto che un’umiliazione tanto grande, così assentì. Presero patatine, pop-corn e bibite; poi spensero la luce ed il film iniziò.
Atsumu si impose di calmarsi. Era sullo schermo. Solo sullo schermo. Gli sarebbe bastato convincersi di questo e tutto sarebbe andato bene. Iniziò dunque a coprire i propri gridolini con colpi di tosse e a far passare i sussulti per movimenti volontari volti a cambiare posizione sul divano. Si ritrovò troppo spesso a dover prendere ampi quanto silenziosi sospiri per imporsi una calma che non aveva, e nel frattempo si ritrovò a maledire Osamu. Era colpa sua, d’altronde, se da piccolo era rimasto tanto traumatizzato (o almeno questa era la scusa che tanto gli piaceva darsi). Perché solo un bambino psicopatico avrebbe potuto guardarsi film horror la sera tardi all’insaputa dei genitori ma – purtroppo – non del fratello gemello che con lui era costretto a dividere la stanza.
Esultò fin troppo non appena i pop-corn finirono; disse a gran voce che sarebbe andato a farne degli altri e fuggì in cucina per qualche minuto. Lì tentò di riprendersi ripetendosi che andava tutto bene, che era solo un film.
Sussultò allo scoppiettio dei chicchi di mais che iniziavano a saltare, ma di nuovo prese un ampio respiro e tornò padrone di se stesso. Dispose il tutto in una ciotola, tornò in salotto convinto di aver recuperato la calma ma lì saltò in aria! Tutti si voltarono verso di lui, più sorpresi dal rumore delle decine di pop-corn che finivano a terra che per la scena di sorpresa improvvisa che avevano appena visto. Atsumu sorrise ancora.
«C-C’era un ragno.» Kiyoomi ghignò. Miya lo odiava.
«Hai paura dei ragni?»
«Certo che no! Tu hai paura dei ragni!» non sapeva se fosse vero. Probabilmente no. Il problema era che Atsumu regrediva di vent’anni quando si sentiva attaccato.
«L’ho visto all’ultimo secondo e ho fatto un passo indietro per non ucciderlo per sbaglio.» a quel punto vide tutti gli altri tornare con gli occhi alla tv, tranne quelli di Sakusa che corsero a terra. Sapeva cosa stava cercando, ma se il biondo pensava volesse infierire facendo notare la totale assenza di aracnidi, invece venne sorpreso, perché tacque.
Atsumu pulì in fretta il disastro che era stato fatto, ma quando fece per tornare in cucina annunciando che ne avrebbe fatti altri, senza nemmeno voltarsi di nuovo Kiyoomi parlò:
«Quelli non erano gli ultimi pop-corn che avevamo?» all’alzatore non rimase che ruotare gli occhi al cielo, sconfitto, e sedersi nuovamente vicino all’odioso schiacciatore dai bellissimi capelli corvini.
Il resto del film proseguì come la prima metà, con l’eccezione che adesso Atsumu sentiva un paio d’occhi addosso ad ogni minimo sussulto che non riusciva a trattenere. Si rallegrò, comunque, perché infine riuscì ad arrivare a fine film. La trama era stata risolta, mancava la conclusione e quella orribile serata avrebbe potuto dirsi ufficialmente finita. Miya sapeva che non ci sarebbero più state scene spaventose. Ancora qualche secondo. Aveva resistito tanto… ancora qualche secondo e tutti sarebbero andati via senza sapere della sua enorme paura per i film horror.
Ancora qualche secondo…
Poi, mille brividi passarono su per la schiena di Atsumu, tutti portati da una leggerissima pressione non bene identificata. Così Atsumu urlò, e urlò tanto. Si alzò di scatto dal divano e corse via senza vedere la mano ancora sollevata di Sakusa che l’aveva accarezzato con le unghie, senza vedere il corvino scoppiare in una risata talmente piena da dirsi impossibile se pensata sul suo volto.
Ancora qualche secondo e tutti sarebbero potuti andare via senza sapere della sua enorme paura per i film horror, ma non aveva messo in conto una cosa: Sakusa Kiyoomi era una grande e irrecuperabile merda.

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Capitolo 17
*** 16: Scale [arankita] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Scale
» N° parole: 932

n.a.
in questa OS Aran e Kita non frequentano lo stesso liceo.

16. Scale – AranKita

La vita di Kita Shinsuke era fatta di routine. Era un buon metodo per vivere con tranquillità e sicurezza, senza ansie o imprevisti dell’ultimo minuto che potessero peggiorargli la giornata. Era un metodo che gli aveva trasmesso sua nonna e che il ragazzo era felice di poter seguire. Non erano stati pochi i compagni di scuola ad etichettarlo come strano. Affermavano di sapere che quella vita era pessima, convinti come se la vivessero loro che non fosse appagante. Shinsuke non la pensava così. Si divertiva, certo, come facevano tutti i giovani, ma alle sue condizioni e secondo il suo programma. Inoltre, non era mai stato il tipo di persona avvezza alle feste affollate. Una seratina tranquilla con i pochi amici intimi che aveva era per lui motivo di gioia.
Si svegliava, dunque, ed ogni mattina puliva casa. Un giorno faceva il bucato, l’altro lavava il pavimento e così via. Preparava il thè, faceva colazione, andava a scuola. Persino le gite con gli amici erano programmate e considerabili solo in certi giorni della settimana. E poi pregava. Pregava ogni giorno e diverse volte prima di tornare a letto. Di nuovo, era una cosa che gli aveva trasmesso sua nonna e che lui adorava fare. Era bello sapere di non essere soli; era bello credere nell’esistenza di esseri che vegliano sull’ordine del cosmo. Di conseguenza, andare al tempio alle quattro e un quarto del pomeriggio era anche il momento della sua routine che più preferiva, e non solo per la vicinanza agli dèi.
Tutto era iniziato al suo primo anno di liceo. Frequentava il tempio sin da quando ne aveva memoria, ma era stato per la prima volta a quindici anni che nello scendere le scale aveva visto Aran. Adesso conosceva il suo nome, ma non era sempre stato così. Uno saliva, l’altro scendeva. A questo si erano limitate le loro interazioni per tantissimo tempo. Incontrarlo era presto diventata parte della sua routine, tanto da fargli dispiacere quelle rare volte in cui l’altro ragazzo non si presentava.
Sin dalla prima volta si erano sorrisi. Un gesto di normale cortesia che non voleva dire altro, e così fu la seconda volta e la terza. A pensarci, Shinsuke non avrebbe saputo dire quando il suo sorriso si era trasformato in sincera felicità, né quando quello di Aran si era esteso dalle labbra fino agli occhi. Non conosceva nulla di lui, all’inizio. Non il nome, non l’età o la scuola che frequentava, ma vederlo ogni giorno era qualcosa che voleva fare e che gli faceva battere più velocemente il cuore.
Fu dopo tre mesi la prima volta che interagirono direttamente. Kita l’aveva appena superato quando ad Aran erano cadute delle chiavi dalla tasca. L’albino le aveva raccolte per lui, ma entrambi avevano limitato il proprio vocabolario a “Grazie” e “Prego”. Da quel giorno, tuttavia, i sorrisi si erano fatti anche di denti ed un giorno il più alto salendo gli offrì persino la merenda da asporto che aveva in mano. Kita aveva accettato con gratitudine il dolce afferrando un dango dalla busta di cartone, così anche lui il giorno dopo si era presentato con un’offerta.
«Io sono Aran, comunque.» era stato allora che Ojiro si era presentato. Kita aveva fatto lo stesso con il sorriso.
Continuarono così per un mese ancora. Shinsuke doveva seguire la sua routine, dopotutto, ed era felice di farlo. In essa Aran si limitava ad essere una comparsa di un minuto o poco più, e per quanto dolce, simpatico e bello mai Kita avrebbe pensato volere altro da lui.
Si era sbagliato.
Un giorno Ojiro non si presentò. Era capitato altre volte, ma se in quelle occasioni poco era importato al più basso, adesso gli pesava. Il giorno dopo si alzò, pulì casa, fece colazione, andò a scuola. Fece tutto come sempre, tranne che per la sua visita al tempio. Raggiunse la cima delle scale, offrì il proprio dono agli dèi e pregò. Dopodiché, però, decise di trattenersi più a lungo. Quello avrebbe voluto dire stravolgere il resto della serata, ma improvvisamente non gli importava. Aran era stato parte della sua routine solo per pochi secondi al giorno per quattro mesi e per altrettanti mesi Kita aveva creduto potersi accontentare di quello, ma le cose erano cambiate.
Attese, dunque, ed attese ancora guardando le lancette dell’orologio che raggiungevano e superavano di qualche minuto l’ora del loro solito incontro. Infine, l’albino sentì dei passi dietro di sé. Sorrise. Aveva gli occhi chiusi ed era di spalle, ma altro se non l’udito gli era servito per riconoscere Ojiro. Questi non parlò, forse non volendolo disturbare, ma Kita riuscì comunque a percepire il suo sguardo su di sé. Gli si inginocchiò accanto e come lui prese a pregare. Solo dopo qualche minuto ancora Shinsuke aprì gli occhi e si voltò verso l’altro. Si sorrisero.
«Sei qui.» gli disse Aran. Lui annuì.
«Sarà così anche domani.» il più alto sorrise felice e Kita seppe di aver fatto bene a modificare di poco la propria routine quotidiana. L’avrebbe cambiata ancora, questo era sicuro, ma con calma.
Altri due mesi passarono in quel modo: le scale per e dal tempio un modo per i due di conoscersi meglio, ed infine fu Kita stesso a chiedere:
«Hai impegni stasera?»
La vita di Kita Shinsuke era fatta di routine. Era un buon metodo per vivere con tranquillità e sicurezza, senza ansie o imprevisti dell’ultimo minuto che potessero peggiorargli la giornata. Non aveva programmato di chiedere ad Aran di uscire, quel giorno, né che lui avrebbe risposto di sì. Ma una cosa era certa: Ojiro non avrebbe mai potuto peggiorargli la giornata.

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Capitolo 18
*** 17: Nove [Tendo] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Nove
» N° parole: 1615

17. Nove – Tendo

Il fatto era questo: Ushijima Wakatoshi era bello da paura. Alto, muscoloso, occhi profondi, aria misteriosa. Tutto ciò che ogni ragazza avrebbe mai potuto desiderare, no? Tendo non lo sapeva. Sapeva però che era tutto ciò che lui avrebbe mai potuto desiderare.
I due si conoscevano dai tempi delle medie. Wakatoshi era stato il primo a non trattarlo come un mostro; il primo a riconoscere il suo talento nella pallavolo senza astio o invidia. Da parte sua, poi, Satori non aveva potuto fare altro che ammirare il modo in cui schiacciava. I punti fatti a muro restavano secondo lui i più meravigliosi, ma le schiacciate di Ushijima erano tutta un’altra cosa.
Il loro rapporto era dunque iniziato così: compagni di squadra che si rispettavano a vicenda. Tendo, tuttavia, non ci aveva messo molto per inquadrarlo meglio. Wakatoshi era serio e pragmatico; per tutti assolutamente impossibile da decifrare, ma non per lui. Il rosso lo sapeva bene, Wakatoshi era un tesoro pregiato, e non solo nella pallavolo. Tutti lo ammiravano, aveva uno strano tipo di carisma, un’aura che spingeva gli altri a prenderlo come guida e a vederlo come punto di riferimento. Tutto l’opposto di Tendo che invece era sempre stato allontanato da tutti. Era stato forse proprio per quel motivo che Satori gli si era avvicinato. Curioso di vedere se la forza attrattiva dell’asso era più forte della repulsione che la gente sembrava provare nei suoi confronti, e curioso – anche – di capire cosa di tanto speciale avesse quel ragazzo mancino dall’aria tenebrosa. Per gli stessi motivi, Tendo aveva iniziato a fargli mille domande, perché d’altronde nessun altro aveva mai pensato di fargliele ed altre alternative Satori non aveva che chiedere direttamente a lui ciò che lo incuriosiva. Era stato in quel modo che il centrale aveva potuto apprezzare sul serio Ushijima Wakatoshi, il ragazzo e non il prodigio della pallavolo. Nel castano c’era molto più dello sport e presto per Tendo non ci fu più scampo.
Più che le persone che guardavano male lui, adesso Satori odiava quelle che si avvicinavano a Wakatoshi fingendo di conoscerlo quando non era affatto così. Perché altro non interessava loro che la sua fama e il suo talento nello sport.
Erano diventati migliori amici, ma più passava il tempo, più i sentimenti di Tendo crescevano; più passava il tempo, più sapeva di non volersi accontentare di essere il suo migliore amico.
Redisse una lista: “Come baciare Wakatoshi”. Probabilmente era stupido, ma sapeva che avendo un piano sarebbe potuto arrivare più facilmente al suo obiettivo e soprattutto che avrebbe smesso di indugiare per – finalmente – agire.
Ne vennero fuori nove punti:
  1. Prestargli i miei JUMP;
  2. Parlare con lui degli JUMP (aka: scoprire i suoi anime preferiti!);
  3. Invitarlo a guardare anime insieme;
  4. Diminuire la distanza sul divano;
  5. Dividere la bibita (bacio indirettooo-);
  6. Abbassare il riscaldamento (dovremo stringerci sotto la coperta eheh);
  7. Fargli dei complimenti;
  8. Coccolarsi;
  9. Baciarlo.
Lesse e rilesse quelle nove righe quasi per delle ore, infine l’indomani mise in moto il suo piano. Al punto 1. scoprì di dover aggiungere “convincerlo che non deve leggere tutte le pubblicità” ma a parte quello il piano proseguì liscio come l’olio. Arrivò al punto 4. e lì le cose iniziarono a farsi più difficili. Una cosa, infatti, era quella di prestare ad un amico delle riviste o invitarlo a casa propria per vedere degli anime, un’altra era quella di avvicinarglisi per portare al livello successivo il loro rapporto. Inspirò profondamente ed espirò lentamente. Era arrivato fin lì, non aveva senso adesso tirarsi indietro. Ci era voluta una settimana di JUMP prestati e chiacchiere di ogni genere fatte su di essi, ma il resto della lista si sarebbe giocata nell’arco di pochi minuti. Tutto dipendeva da lui e dalla propria intraprendenza.
Si fece coraggio, poi eseguì quanto riportato nel punto. Erano vicini, adesso. Afferrò la propria bibita e la finì in fretta, poi disse:
«Wakatoshi-kun, la mia Ramune è finita. Posso prenderne un sorso della tua?» gli occhi di Ushijima scattarono in direzione della cucina per appena un attimo, ma se aveva pensato che Tendo poteva benissimo prendersene un’altra dal frigo non lo disse. Invece, afferrò la propria bottiglia e la porse al compagno di squadra che la accettò dalle sue mani con un sorriso prima di iniziare a berla.
“Ben fatto!” si congratulò da solo quasi iniziando ad annuire “Ora il punto 6.!” afferrò il comando remoto del riscaldamento ed abbassò la temperatura. Lasciò che la casa si rinfrescasse, poi prese la coperta porgendone un angolo a Ushijima affinché la tirasse. Questi lo fece senza chiedere nulla ed in breve si ritrovarono entrambi nuovamente al caldo con i corpi che si sfioravano. Le guance di Tendo si imporporarono. Wakatoshi imperterrito continuava a guardare lo schermo, ma aveva un’aria così carina che persino quello aveva fatto arrossire Satori.
“Punto 7.” fece mente locale subito dopo “Fargli dei complimenti.”
«Le tue battute di oggi erano fenomenali, Wakatoshi-kun! Sembra incredibile che tu possa ancora migliorare.» il castano distolse appena per un attimo lo sguardo dall’anime in corso per rispondere:
«Se non migliorassi inizierei a perdere.» Tendo rise per quanto fortemente in modo letterale lo schiacciatore continuasse a prendere le sue parole. Capì comunque di aver sbagliato. Tutti, d’altronde, potevano fargli complimenti sul suo modo di giocare. Lui doveva osare di più. Arrossì, ma infine si fece coraggio.
«Ti hanno mai detto che hai degli occhi davvero dolci, Ushiwaka-kun?» questi arrossì mandando del tutto in tilt Tendo. Era la prima volta che lo vedeva rosso in viso ad eccezione di quando era affaticato. Non se lo aspettava ed era stato colto alla sprovvista.
«No…» fu la risposta dell’amico, ed anche, dopo un attimo: «Grazie.» nel dirlo Ushijima non aveva distolto neanche un attimo gli occhi dallo schermo. Tendo lo prese come un modo per mostrarsi il meno possibile in imbarazzo, e per la stessa ragione anche lui tornò a guardare le immagini in movimento. Sussultò, e così fece il proprio cuore, quando dopo almeno tre minuti dall’ultimo intervento disse:
«Non credo che i tuoi occhi siano dolci… però mi piacciono tanto.» quello non era nemmeno definibile come un complimento. La prima e la seconda parte si annullavano a vicenda, quasi; eppure fu meraviglioso per Satori sentire quelle parole. Sorrise commosso, poi chiese:
«Cos’altro ti piace di me?» Wakatoshi lo guardò per un attimo, poi – calmo – elencò:
«Il colore dei tuoi capelli è bello, ed anche la tua bocca. Mi piace come giochi, e trovo belle le tue dita lunghe.» doveva essere un disastro adesso la sua faccia. Stava sorridendo, era rovente, e sapeva per certo che aveva anche gli occhi liquidi. Era la prima volta che gli venivano fatti così tanti complimenti. Inoltre, Ushijima aveva una capacità unica per affermare le cose facendo capire all’interlocutore che diceva sul serio. Se Wakatoshi gli avesse detto che i suoi capelli da rossi erano diventati magicamente blu, probabilmente lui gli avrebbe creduto. Fu bello sentirsi accettato e giusto, così prima che quei sentimenti sparissero, prima di pensarci troppo, passò subito al punto 8. “coccolarsi”. Tirò su le gambe e con quelle fece leva per avvicinare ancora di più tutto il proprio corpo a quello dell’altro. Gli si accoccolò addosso, poi lì prese ad accarezzargli il busto. Aveva ancora le guance rosse, e in quel modo – alleato il fatto di non poterlo vedere in faccia – continuò con i complimenti dicendo:
«Tu sei spettacolare, e non solo per il modo in cui giochi. Sei gentile, e sincero. Mi piaci veramente tanto, Wakatoshi-kun.» l’altro non aveva risposto e per parecchi minuti nessuno dei due parlò, tuttavia immediatamente dopo le sue parole lo schiacciatore aveva iniziato ad accarezzarlo piano tra i capelli e tanto era bastato. Satori si godette quel momento magico e che neanche nelle sue più rosee fantasie aveva osato immaginare. Infine, dovette raccogliere tutto il proprio coraggio per passare al punto 9.
Non voleva rovinare tutto. La scena così come la stavano vivendo era talmente perfetta da spingerlo quasi a desistere; salvare quei progressi e ricominciare a giocare da lì la volta successiva invece che uccidere il proprio personaggio riportandolo all’inizio del livello. Dovettero guardare una puntata di anime intera e poi un’altra ancora prima che – finalmente – Tendo decidesse di rischiare. Si morse il labbro inferiore, poi si voltò e guardando in alto attirò gli occhi di Ushijima su di sé. Guardò le sue calde iridi castane e di nuovo non poté che fargli i complimenti per quello sguardo così profondo, tenero e serio insieme. Poi si sporse in avanti. Chiuse gli occhi. Se era un fallimento quello verso il quale stava andando, Satori non voleva vederlo. Si aspettava di essere fermato da un momento all’altro. Da un colpo di tosse, magari, o dal palmo della mano di Wakatoshi che lo respingeva. Invece, ad accoglierlo furono le morbide labbra dell’asso della sua squadra. Erano dolci e delicate, Tendo le saggiò con le proprie, poi lentamente le spinse ad aprirsi per intensificare il contatto.
Quando si separarono, le guance di entrambi erano colorate; lo schermo della televisione del tutto dimenticato.
Ci era riuscito! L’aveva fatto!
Fu solo molte ore più tardi che Tendo confessò a Wakatoshi l’esistenza della sua lista creata con l’unico obiettivo di arrivare a baciarlo. Lo fece nel suo solito modo, sorridendo e cantarellando divertito, e così al suo solito modo Wakatoshi rispose calmo e pragmatico: «Ti sarebbe bastato chiedermelo. Anche tu mi piaci da tanto e ti avrei baciato subito.» quella risposta aveva avuto il potere di bloccare Tendo per appena un attimo, ma subito dopo – insieme al suo ragazzo – aveva iniziato a ridere. Non si sarebbe mai potuto aspettare niente di meno, d’altronde, dal ragazzo del miracolo Ushijima Wakatoshi.

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Capitolo 19
*** 18: Lampone [sakuatsu] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Lampone
» N° parole: 577

18. Lampone – SakuAtsu

Cosa si fa se ti piace una persona e vuoi provarci a colpo sicuro? Si chiede al miglior amico cosa gli piace di più. E per fortuna di Motoya, il miglior amico di Sakusa Kiyoomi era proprio lui. Miya Atsumu, d’altronde, non avrebbe avuto nessuna speranza in ogni caso. Perché non divertirsi a sue spese e a spese del cugino, quindi?
«Come posso fare a conquistare tuo cugino?» Komori non sapeva di non star aspettando altro che quella domanda se non nel momento stesso in cui gli era stata porta. Il castano pensò per qualche secondo a come rispondergli, poi si ricordò di una cosa: se c’era una cosa che Kiyoomi odiava, quella era il lampone. Sin da piccoli aveva sempre detto che il solo odore lo nauseava, quindi mascherò il proprio malefico ghigno da sorriso, poi rispose:
«Ama da morire il lampone.» e fu così che il corteggiamento di Miya ebbe inizio. Non rimaneva altro da fare che godersi lo spettacolo.
Fu una fortuna per lui il fatto che Atsumu avesse deciso di partire subito con il suo piano.
Lo fu perché se il biondo e suo cugino facevano parte dei Black Jackals, lui era stato scritturato dai Rajin. Non sarebbero state molte le occasioni per lui di assistere alla disfatta dell’alzatore. Senza contare che il tutto sarebbe durato ben poco visto il carattere di Kiyoomi e che certamente il primo rifiuto sarebbe stato il più divertente. Esultò, dunque, quando notò che Atsumu si stava avvicinando a loro con un pacchetto tra le mani. Se normalmente chiunque si sarebbe allontanato per rispetto della privacy, lui non lo fece.
«Ieri ho provato una nuova ricetta, Omi-kun… e ho portato questi per te.» gli porse il pacchetto annunciando poi «Sono doroyaki al lampone.»
“Di bene in meglio!!” fu la silenziosa esultanza di Motoya, perché c’era una ragione se suo cugino odiava il lampone, e quella era che era troppo dolce. Atsumu non avrebbe potuto scegliere combinazione peggiore.
Komori iniziò ad anticipare le mosse del corvino: smorfia schifata, passo indietro, rifiuto netto. Attese dunque la scena già divertito, poi tutte le proprie certezze crollarono.
Espressione sorpresa, guance rosse, passo in avanti, accettazione del dono.
«Non dovevi disturbarti, Miya.» fu il suo mormorio «Ma grazie.» Atsumu sorrise mentre la mascella di Motoya cadeva a terra, ma il castano si riprese immediatamente dopo perché l’alzatore chiese:
«Non li assaggi?» e non c’era assolutamente modo che Kiyoomi lo avrebbe fatto! Magari aveva accettato per cortesia, ma con quella domanda l’altro si era appena condannato.
Sakusa abbassò lo sguardo sul pacchetto, lo fissò per infiniti secondi, poi tornò a guardare il suo compagno di squadra e sorrise tirato mentre – sconvolgente! – apriva il pacchetto. Ne tirò fuori un panino dolce, poi gli diede un morso. Komori era senza parole, non sapeva che dire. Fissò senza credere ai propri occhi suo cugino che masticava mentre faceva di tutto per nascondere il disgusto, inghiottiva e poi diceva:
«Sono buoni. Ti sono venuti bene.» il sorriso che si aprì sul volto del biondo fu luce allo stato puro ed ebbe il potere di eliminare del tutto ogni residuo di nausea dal volto di Kiyoomi.
«Te ne preparerò altri, allora!» andò via facendo crollare ancora una volta tutte le certezze di Motoya, perché se aveva creduto che quell’ultima affermazione avrebbe schifato Kiyoomi, di nuovo, si era dovuto ricredere.
Lo osservò sorridere intenerito, invece, così anche fin troppo forte il castano si ritrovò a urlargli:
«A TE PIACE MIYA!!»
 

n.a.
Lo so, è cortissima! La sakuatsu è la mia musa ed ero convinta che l’avrei fatta molto più lunga. Questa che avete appena letto doveva essere solo la prima scena di tante. Sarebbero seguiti diversi momenti in cui Atsumu faceva mangiare a Kiyoomi roba al lampone per conquistarlo, e lui poverino che ingoiava tutto sorridendo perché la cotta vince su tutto! Sarebbe finita con loro che si mettevano insieme e come ultima frase Omi avrebbe detto: “Atsumu, solo una cosa… io odio il lampone.”
Poi però ho riletto questa prima (ed unica) parte che ho scritto, e niente mi è piaciuta troppo come storia singola! Tutta Komori-centrica e con un finale del genere; più sul comico che sul fluff su cui ho scritto già davvero tanto. Quindi spero sia stata cosa gradita, perché per non far perdere questa prima parte tra il resto alla fine ho deciso di lasciarla in questo modo.
A domani!!

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Capitolo 20
*** 19: Argento [yakulev] ***


n.a.
Lo so, anche questa è molto corta, ma a differenza di quella di ieri, visto il prompt e l’idea per la trama che mi ero fatta, me lo aspettavo. Spero di non avervi deluso e di farvi piacere anche se con brevi OS, anche perché sono due giorni che un orribile raffreddore sta mettendo seriamente alla prova la mia capacità di resistere in questa sfida!! I medicinali iniziano a fare effetto ma gli esami che si avvicinano non aiutano. Speriamo bene!
Buona lettura e – spero davvero – a domani!

 Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Argento
» N° parole: 943

19. Argento – YakuLev

Quello era un pessimo gioco. Yaku si pentiva amaramente di averlo proposto, ma sul momento gli era sembrato l’unico modo per includere anche Kenma nella serata giochi! Aveva quindi proposto e poi quasi obbligato l’alzatore a prestare a tutti la propria console per fare un gioco di società. Lui non aveva la minima idea di come funzionassero cose come la Switch, la PSP e via dicendo, ma era bastato scoprire che quelle più nuove potevano collegarsi a internet per scaricare ogni gioco possibile per fargli capire cose fare. Kenma aveva scaricato la prima app non a pagamento disponibile per una serata di giochi con gli amici ed era stato in quel modo che avevano iniziato a giocare a “rispondi o bevi”.
Così adesso Morisuke aveva due cose di cui pentirsi: la prima era di aver proposto quel gioco, la seconda era di aver vietato gli alcolici in quanto minorenni lasciando alla squadra solo un’opzione: rispondere.
«Oya? A quanto pare tocca al nostro carissimo piccolo Yaku!» disse Kuroo con il suo solito ghigno poco rassicurante. Lui – ancora ignaro – sbuffò.
«Sentiamo. Non ho nulla da nascondere.» incrociò le braccia e guardò il capitano con sfida, ma sbiancò non appena il corvino lesse sullo schermo:
«C’è qualcuno che ti piace? Se sì, ammetti chi è.» Yaku divenne una statua di sale, e non solo per il colorito. La sua mente prese a correre veloce alla ricerca di un modo per svincolarsi, ma capì di essere fregato non appena ripensò alle proprie parole rivolte a Kuroo stesso solo due giri prima: “Sono le regole!” gli aveva detto ghignando divertito per l’imbarazzo del compagno “Devi rispondere e basta!!” e se lui aveva risposto a “Qual è la tua posizione preferita durante il sesso” certo adesso non avrebbe risparmiato Yaku.
«È-È… è solo uno stupido gioco!» arrossì tutto d’un tratto. Non c’era possibilità per lui di ammettere per chi si era preso una cotta stratosferica. Tetsuro ghignò vittorioso, e come da lui immaginato disse:
«Non puoi esentarti, mio caro Yaku.» Morisuke arrossì ancora e valutò seriamente l’idea di mentire, ma immediatamente capì che Kuroo l’avrebbe scoperto e non voleva sapere come si sarebbe vendicato.
«Non mi va di farlo!» riprovò quindi, al che seguirono le proteste dei presenti, tranne che di Kenma. Il libero adorava quel ragazzo. Tra tutti i suoi bambini lui era certamente il suo preferito.
«È solo un gioco e dovrebbe divertire. Se non gli va non possiamo costringerlo.» Kuroo protestò:
«Ma io ho dovuto dire la cosa del sesso!» il mezzo biondo strinse gli occhi.
«Non vedevi l’ora di farlo, ammettilo.» il capitano gonfiò le guance ma fu costretto a limitarsi a rispondere con:
«Il punto resta.» infine intervenne Kai che si rivolse proprio a lui.
«Che ne dici di dirci solo un particolare di questa persona? Qualcosa di generico. Così potremmo dire che hai risposto e passare avanti.»
«Sì, e magari anche cambiare gioco.» mormorò Taketora ancora arrabbiato per aver dovuto rivelare la cosa più imbarazzante che gli fosse mai successa.
Yaku valutò la proposta ed infine si disse di non avere altra scelta. Non sarebbe stato giusto, d’altronde, esonerare lui da qualcosa che aveva già messo in imbarazzo più di una persona. Sospirò sonoramente, dunque, e nel panico iniziò a pensare alla cosa più generica che potesse dire. Kuroo che gli metteva fretta non aiutava, né Kenma che tentava di farlo smettere o tutti gli altri palesemente più curiosi e attenti che mai.
«Eh dai! Sbrigati Yaku, non sarà poi così diffi-» stanco del tono esasperato ed urgente di Tetsuro, Morisuke urlò la propria risposta. D’altronde tutti avevano i capelli, giusto? Ed i colori naturali erano sempre gli stessi. Molto generica come caratteristica.
«Ha i capelli argentati, d’accordo!?» il silenzio calò pesante nella stanza sostituendo fin troppo in fretta il baccano di poco prima. Fece gelare Yaku, ma il ragazzo era talmente in tilt che nemmeno quello riuscì a fargli capire dove avesse sbagliato. Ci pensò Kuroo a rimediare.
Ghignò. Dio, quanto odiava quel ghigno!
«Immagino tu non stia parlando dell’alzatore del Karasuno. Quindi sappiamo tutti a chi ti riferisci.» Yaku arrossì più di quanto non avesse già fatto, il che era tutto dire! Guardò in fretta tutti i presenti trovandoli scioccati e senza parole. Non poteva biasimarli, persino lui non riusciva a capire come fosse riuscito ad innamorarsi di un tale idiota.
Infine, tutti i loro sguardi sorpresi presero a spostarsi lentamente verso Lev, così Morisuke poté concentrarsi su di lui. Il ragazzo del primo anno aveva gli occhi luminosi ed un sorriso in viso, eppure dalla sua espressione non fu difficile capire che rimaneva ancora nell’ignoranza. Prese a guardare tutti i presenti con dubbio, infatti, ed eccitato chiese:
«Cosa? Voi avete capito di chi parla!? Chi è? Chi è??» il libero strabuzzò gli occhi e così vide fare al resto della squadra. Kuroo fu il primo a riprendersi e, voltandosi verso di lui del tutto incapace di capire, chiese a gran voce:
«Lui?? Perché!» Yaku rispose con lo stesso tono, solo un po’ (in realtà molto) più disperato.
«Io non lo so!!»
Maledizione a lui e a quella serata di giochi. Maledizione alle app e al voler includere Kenma. Maledizione a Kuroo e maledizione agli stupidi, magnifici capelli argentati di Lev. Perché sì, forse averli di quel colore poteva essere comune in Russia, ma sicuramente non lo era in Giappone.
Passarono diversi secondi ancora di totale silenzio, e solo a quel punto – titubante – il centrale del primo anno iniziò a sollevare un dito verso il proprio volto. Sbattendo più volte le palpebre, chiese poi con fare dubbioso:
«Ma parli di me?»
Maledizione a Lev e al suo adorabile e bellissimo viso.

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Capitolo 21
*** 20: Bodyguard!AU [Akaashi] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Bodyguard!AU
» N° parole: 1629

20. Bodyguard!AU – Akaashi

Se c’era una cosa che Akaashi amava, quella era ballare. Non era mai stato narcisista, ed infatti troppo spesso l’idea di avere i riflettori puntati addosso lo aveva frenato, ma una volta sul palco tutto cambiava.
Aveva trovato lavoro in un locale abbastanza rinomato nella gay street di Tokyo. Non il più lussuoso (primato che il Nekoma conservava da anni) ma sicuramente neanche squallido. Keiji andava molto fiero del proprio impiego e soprattutto di lavorare insieme a gente tanto splendida quanto lo era quella che gestiva il Fukurodani. Per quante chiamate di proteste o umilianti cortei all’ingresso, mai i più conservatori ed omofobi cittadini della grande capitale erano riusciti a farli chiudere. Akaashi continuava ad esibirsi, e lo faceva con passione.
Purtroppo, però, di trogloditi ne esistono di ogni forma e dimensione. Così anche all’interno della loro colorata comunità alcune mani correvano dove non avrebbero dovuto. Fukurodani non era un locale a luci rosse; i ballerini danzavano con i vestiti addosso e sensuali solo quando la coreografia lo richiedeva. Certe persone, soprattutto man mano che alzavano il gomito, tuttavia non riuscivano a capirlo. Urlavano, quindi, e fischiavano complimenti volgari incitando i ragazzi sul palco a spogliarsi. Keiji era diventato sordo a tutto quello, ma diventa più difficile ignorare certi atteggiamenti se fatti sul retro del locale, e più in particolare subito fuori la porta che il personale usava a turno finito per iniziare a fare strada verso casa.
Akaashi non era una gracile ed indifesa ragazza. Era forte, invece, e adeguatamente allenato, ma poco di quello importò quando fu un gruppo di quattro uomini ad accerchiarlo. Nel panico, la prima cosa che il ballerino fece fu di infilare una mano in tasca per estrarne lo spray al peperoncino che portava sempre con sé dopo il lavoro per eventualità come quella. Rimosse in fretta la sicura, ma prima che potesse azionarlo uno dei molestatori gli afferrò e scosse il polso. La bomboletta cadde e lui venne sbattuto contro il muro di mattoni.
Keiji non sentiva le parole degli uomini. Sorridevano e continuavano a fargli complimenti, ma a nulla valevano i suoi rifiuti né gli sforzi che faceva per liberarsi. Quando anche un secondo uomo sopraggiunse su di lui per aiutare il primo a farlo stare fermo, il panico riuscì ad impadronirsi totalmente del corvino. Il terzo gli stava sbottonando il cappotto mentre il quarto gli slacciava i pantaloni. Ansia e l’adrenalina montarono in Akaashi come mai avevano fatto in vita sua e come mai aveva sperato dovessero fare. Iniziò ad annaspare e a tremare mentre i suoi vestiti venivano meno e la sua forza soccombeva.
Non riusciva a respirare. A stento ci vedeva. La sua vista era annebbiata, le sue guance bagnate e la gola dolorante.
«Che succede!?» fu solo con quell’urlo improvviso che Keiji capì perché le proprie corde vocali stessero dolendo tanto: aveva urlato, e lo aveva fatto forte, fino allo stremo.
Era stato sentito, ma anche se con la vista disturbata dalle lacrime una cosa appariva chiara al suo sguardo: il suo soccorritore era da solo mentre gli aggressori erano in quattro. Non avrebbe potuto vincere, lo sapeva Akaashi e lo sapevano i molestatori, che infatti non si disturbarono a liberarlo. In due continuarono a tenerlo fermo, mentre gli altri si avventavano sul malcapitato che aveva pensato di aiutarlo.
Dovettero tutti ricredersi. Akaashi compreso.
Era buio, ed i suoi occhi ancora troppo umidi per poter distinguere bene la scena. Seppe solo che i primi due stupratori andarono al tappeto in fretta, così gli altri due presero il loro posto, prima nell’attaccare e poi nel soccombere.
Le gambe di Keiji avevano ceduto nel momento stesso in cui quei bruti lo avevano lasciato andare, e lì rimase, sbalordito, sollevato e tremante in egual misura.
«Stai bene??» sussultò a quelle parole, ma d’altronde qualsiasi cosa in quel momento lo avrebbe fatto sussultare. Guardò la mano che gli veniva porta, infine la afferrò, si alzò, ma di nuovo – causa le sue gambe rese di gelatina – fece per cadere. Fu l’uomo che l’aveva aiutato, di nuovo, a salvarlo. Gli strinse più forte la mano con la quale lo aveva aiutato ad alzarsi mentre con l’altro braccio gli evitava di cadere a terra. Gli asciugò in fretta le lacrime, così finalmente Akaashi poté dare un volto a quella voce tanto gentile.
Era la nuova guardia del corpo. Takeyuki l’aveva assunto per la prima volta proprio quella sera, quindi non ricordava il suo nome. Sapeva che doveva essere una brava persona, comunque, se il proprietario del locale lo aveva assunto.
«Perché non ci spostiamo da qui?» parlò ancora la guardia del corpo occhieggiando i quattro uomini riversi a terra ma non del tutto immobili. Akaashi annuì in fretta, poi insieme tornarono all’interno del locale.
Fu ancora l’altro uomo ad occuparsi di tutto: prima lo scortò passo passo, poi bloccò la porta dietro di loro ed infine lo fece sedere passandogli un bicchiere d’acqua.
Era ormai tardi, e non essendo un finesettimana i ballerini ancora di turno erano pochi, motivo per il quale i camerini erano del tutto deserti. L’uomo più alto non ebbe fretta. Attese che Keiji avesse finito di bere, poi si presentò.
«Sono Bokuto Koutaro. Mi dispiace non averti sentito prima!» si era inchinato, ma Akaashi lo pregò presto di raddrizzarsi.
«Sei arrivato in tempo. Non hanno fatto niente… Se non fosse stato per te…» non voleva neanche finirla quella frase. La sola idea lo faceva ancora tremare.
«Hai bisogno di qualche cos’altro?» si premurò Bokuto; Keiji scosse la testa.
«Allora vado ad avvertire Takeyuki-san. Dobbiamo denuncia-» Akaashi interruppe la frase afferrando in fretta e saldamente la manica di Bokuto quando questi fece per andare via. L’aveva fatto d’istinto, ma non per questo pensò di mollare la presa. Non voleva essere lasciato solo, e non ebbe bisogno di dirlo ad alta voce perché l’altro lo capisse. Koutaro attese, dunque, e non appena lui fu pronto andarono insieme dal proprietario.
Quello che seguì dopo fu lento e noioso, ma assolutamente giusto e necessario. Denunciarono i quattro uomini alla polizia, ma prima che la pattuglia riuscisse ad arrivare quelli si erano volatilizzati. Akaashi e Bokuto ne fecero comunque l’identikit e gli agenti della prefettura assicurarono loro il massimo impegno e che li avrebbero tenuti informati. Keiji non sapeva quante possibilità la polizia avesse di ritrovarli, sapeva solo che non voleva più vederli. Takeyuki diede il loro ritratto ad ogni guardia del corpo del locale istruendoli affinché non li facessero entrare, inoltre assunse il doppio degli uomini per proteggere i ballerini mettendone uno sempre nei pressi della porta sul retro. Bokuto insistette per essere uno di questi ultimi.
Per Akaashi le settimane successive furono più difficili di quanto non si fosse immaginato. Non era stato stuprato ma c’era andato vicino. Bastava che il sole tramontasse e che lui si trovasse per strada affinché il suo cuore iniziasse a battere più forte; bastava che vedesse un gruppo di uomini sconosciuti andargli incontro affinché il suo corpo si pietrificasse. Forse proprio per questo motivo Keiji aveva iniziato ad avvicinarsi sempre di più a Bokuto, forse no. Rimaneva l’innegabile fatto che il suo corpo e la sua mente si rilassavano quando la forte guardia del corpo era nei paraggi.
Divennero amici, poi qualcosa di più. Iniziarono a frequentarsi nei pomeriggi in cui erano di turno entrambi, poi la sera e dopo il lavoro. Iniziarono a farsi compagnia sempre più spesso e a dolersi della mancanza l’uno dell’altro.
Fu soltanto sei mesi più tardi che dirigendosi con tranquillità a lavoro camminando fianco a fianco con Bokuto, con lo sguardo notò uno dei suoi quattro aggressori. Il suo corpo divenne di pietra mentre con la memoria tornava a quella notte. Koutaro se ne accorse, si voltò prima verso di lui, poi seguì il suo sguardo e si fermò sul molestatore. Akaashi sentì il suo corpo irrigidirsi, e subito porsi tra lui e l’uomo che tanto gli aveva fatto del male. Il suo intento era quello di fargli da scudo, e questo lo fece sorridere. Keiji allungò la mano e ne strinse una di Bokuto con fare dolce. Si guardarono negli occhi ed il corvino sorrise. Il suo cuore aveva avuto un colpo rivedendo quell’uomo, ma adesso stava bene, e non solo perché la guardia del corpo era lì con lui.
Koutaro l’aveva salvato due volte: la prima in un vicolo buio a tarda notte e a suon di cazzotti, l’altra più lentamente, giorno dopo giorno, restandogli accanto e sorridendogli come se il solo vederlo potesse rallegrargli le giornate. Bokuto gli aveva mostrato il meglio del mondo ed il meglio degli uomini, curando il suo corpo e la sua mente sempre un pochino di più con la sua dolcezza ed il suo semplicemente esserci.  
Akaashi era umano e mai sarebbe potuto rimanere impassibile davanti al volto del suo quasi stupratore, eppure stava bene.
Infilò una mano in tasca, questa volta non alla ricerca dello spray al peperoncino ma del cellulare. Digitò il numero della polizia che a sirene silenziose arrivò in loco in breve tempo. Arrestarono l’aggressore e a lui – adesso lo sapeva – gli altri tre presto sarebbero seguiti.
Quando la volante della polizia si fu allontanata, Bokuto si voltò verso di lui, gli accarezzò una guancia e con occhi preoccupati gli chiese:
«Stai bene?» lui sorrise ancora, sollevò una mano e strinse quella che lo stava accarezzando.
«Mai stato meglio, Kou. Grazie per averlo chiesto.» la guardia del corpo si sporse in avanti per un bacio che come ogni volta fu leggero, morbido e dolce. Fece mormorare contento Akaashi le cui gote arrossirono e il cui cuore prese a battere più forte.
Bokuto era straordinario e lo dimostravano i fatti. Perché l’aveva salvato una volta, poi due, ed avrebbe continuato a farlo ogni giorno per il resto delle loro vite.

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Capitolo 22
*** 21: Arco [Yamaguchi] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Arco
» N° parole: 1256

21. Arco – Yamaguchi

L’idea del matrimonio come “il giorno perfetto” o “il momento che si aspetta da tutta la vita” era da sempre stata presa come una cosa al femminile. Solo per la sposa era il giorno perfetto, per la sposa era il momento che si aspetta da tutta la vita. Non era vero, e Tadashi e Kei ne erano una palese dimostrazione.
Volendo rendere tale giorno impeccabile, tuttavia, i due avevano dovuto accettare anche l’ansia che ne era derivata. Ogni minimo dubbio un disastro, il più piccolo imprevisto una catastrofe. D’altronde, si sa, nell’organizzazione di ogni matrimonio qualcosa va storto. Un parente che si ammala o un altro che decide all’ultimo minuto di portare un accompagnatore. Strane richieste dei genitori e testimoni che come addio al celibato organizzano disastri.
Non per loro. Incredibilmente e chissà grazie a quale potere divino, Tsukishima e Yamaguchi riuscirono ad arrivare alla vigilia del loro matrimonio filando lisci come l’olio.
Si trovavano nella location nella quale il giorno dopo si sarebbe svolta la cerimonia e lì Tadashi aveva appena finito di percorrere la navata improvvisata nel giardino all’aperto per la prova ufficiale per l’indomani. Nonostante tutto quello non avrebbe portato a nulla – almeno per quel giorno – Yamaguchi non poté fare a meno di sorridere felice, con le gote imporporate ed il cuore impazzito dalla gioia. Si voltò e con occhi luminosi attese l’amore della sua vita percorrere gli stessi passi che aveva percorso lui.
Anche Kei stava sorridendo, e le sue labbra erano così belle incurvate all’insù che per poco non gli andò incontro per baciarlo. Invece attese il momento in cui l’avrebbe raggiunto sotto l’arco, punto nel quale si sarebbero scambiati le promesse, gli anelli ed infine il loro primo bacio da sposati.
Attese, ed infine arrivò.
Arrivò… e diede una testata all’arco.
«Merda…» mormorò subito il biondo portandosi una mano alla fronte lesa.
«Linguaggio!» fu la risposta del parroco mentre Tadashi si premurava che stesse bene con uno spaventato:
«Kei, la tua testa!»
Non un bernoccolo comparì su di lui, e fu solo una volta accertato questo che tutti i presenti presero a spostare lo sguardo in alto, verso l’arco.
«È basso.» fu la costatazione di Bokuto, lì presente perché uno dei testimoni di Tsukishima che si voltò e quasi isterico chiese:
«Sul serio?? Cosa ti ha dato questa impressione?» quello che fece Tadashi fu invece sospirare mentre Kuroo rideva dicendo:
«Come avete fatto ad accorgervene solo adesso?» Kei rispose qualcosa sul fatto che neanche lui aveva fatto qualcosa a riguardo, ma la verità era Yamaguchi che aveva smesso di ascoltarli. Non aveva occhi, invece, che per l’unica pecca che rendeva il loro matrimonio qualcosa di imperfetto.
Hinata gli si avvicinò, e Tadashi confidò nel fatto che almeno il suo di testimone potesse essere più utile degli altri due.
Così non fu.
«Tsukishima potrebbe percorrere la navata con le ginocchia un po’ piegate. Pensi che qualcuno se ne accorgerebbe?» il giovane dalle lentiggini guardò l’amico con biasimo e tenerezza.
«Penso di sì.» al ché Shoyo mormorò contrariato. Nel frattempo Kuroo e Bokuto erano spariti.
«Almeno ci siamo liberati di loro.» fu il commento esasperato di Kei che subito dopo si rivolse a suo fratello.
«Era compito tuo occuparti dell’arco o sbaglio?» Tadashi rise. Ricordava bene il momento in cui il biondo aveva incaricato Akiteru di occuparsi di quello. La cosa risultava molto comica, adesso, perché fatta affinché il maggiore dei Tsukishima non facesse guai con compiti più difficili.
«Ed infatti ho preso molto seriamente il mio compito!! Hai visto quanto è bello!?» ed in effetti era l’arco più bello che Tadashi potesse mai desiderare, ma…
«Peccato che sia fottutamente basso!»
«Linguaggio!» fu nuovamente l’intervento del prete.
«Come fai a non sapere quanto è alto tuo fratello??» Kei sembrò non averlo sentito.
«Non è colpa mia se sei un gigante!»
«Sono un centrale che gioca a livello nazionale a pallavolo. Non ci vuole un genio per pensare a una cosa così basilare come l’altezza di un fottuto-»
«LINGUAGGIO!» stavolta sentire l’uomo di chiesa fu qualcosa di inevitabile, ma il biondo si limitò comunque – come tutti – a rivolgergli uno sguardo impassibile. Poi continuò.
«Adesso che intendi fare?» Akiteru guardò a destra, poi a sinistra. Infine strabuzzò gli occhi in direzione del fratello, poi sollevò un dito verso il proprio volto.
«Stai parlando con me?»
«Con chi altro dovrei parlare!! Sei il mio primo testimone. È compito tuo risolvere i casini dell’ultimo minuto. Ed era compito tuo occuparti dell’arco!» il più grande iniziò ad annaspare, poi a balbettare. Dopo qualche secondo intervenne Yamaguchi.
«Kei, non importa. Possiamo scambiarci i voti anche senza arco.» il suo fidanzato si voltò verso di lui e serio come non mai gli rispose:
«Hai detto di esserti sempre immaginato di sposarti sotto un arco, quindi avrai un arco.» il suo tono non ammetteva repliche e Tadashi si commosse. Era questo l’uomo che stava per sposare; che avrebbe sposato l’indomani!!
Si perse un paio di battute dei due Tsukishima che litigavano nel guardare innamorato verso il suo futuro marito, ma tornò alla realtà non appena Kuroo Tetsuro e Bokuto Koutaro entrarono nel suo campo visivo.
«Tsukki!! Abbiamo risolto!» mormorò fiero il secondo, ma Tadashi aveva già adocchiato cosa entrambi reggevano in mano e la sua reazione non poté essere altro che «Oh no.» mentre Kei si limitava a dire categorico:
«Non se ne parla proprio!» entrambi i testimoni misero il broncio, poi Kuroo disse:
«Perché no?? È perfetto!» sollevò il cubo glitterato con la stampa di un cuore con dentro la scritta “TsukkiYama4Ever” e continuò: «Sapevo che sarebbero serviti!»
«Quindi è stata una tua idea??» chiese il biondo, ed effettivamente anche lui avrebbe detto che solo a Bokuto avrebbe potuto appartenere un’idea tanto imbarazzante. Proprio questi prese fiato con fierezza e convinto che fosse un vanto annunciò:
«È stata un’idea di entrambi.» ai sposi non rimase che sospirare.
«Non esporremo mai una cosa tanto brutta al nostro matrimonio.» i due uomini guardarono male Kei per quelle parole, ma invece che insistere Tetsuro ghignò come solo lui sapeva fare.
«Quindi come pensi di sollevare l’arco in tempo per domani?» lanciò appena uno sguardo al suo migliore amico, poi insieme posizionarono i cubi sotto la base dell’arco. L’altezza divenne perfetta.
«Siamo o non siamo i migliori testimoni che potresti mai avere??» Tsukishima guardò male Bokuto, poi per rispondergli mormorò:
«Non so perché vi ho scelti, prima di tutto.» Tadashi rise.
«L’hai fatto perché non hai altri amici.» il biondo lo guardò con fare offeso.
«Io ho altri amici!» ma il suo tono non poté che far ridere ancora di più Yamaguchi.
«Intendi persone come Kyotani? Koganegawa? Kageyama? Questi amici?» il biondo ci pensò per giusto un secondo, dopodiché arrossì – seppur impercettibilmente – e con un grugnito fu costretto a limitare la propria risposta a:
«Zitto, Yamaguchi.» lui non poté che arrossire e ridere ancora più divertito di prima. Kei usava ancora il suo cognome solo per quella frase, così come Tadashi usava quello del suo fidanzato ancora solo per dire:
«Scusa, Tsukki!»
Ebbene sì, si sarebbero sposati sotto un arco. Però si sarebbero sposati anche al fianco di due enormi cubi glitterati che niente avevano dei colori di tutto il resto della location.
Non aveva importanza. Tadashi avrebbe sposato Tsukishima persino in mezzo a una discarica e lo sapevano entrambi. Quei due enormi cuori facevano parte del loro giorno perfetto e, anche se in maniera imbarazzante, lo avrebbero reso tale alzando l’altezza dell’arco sotto il quale si sarebbero baciati.
Ancora qualche ora e avrebbe sposato l’amore della sua vita. Solo questo aveva importanza.
 

n.a.
Ed eccomi qui ancora una volta a pelo con l’orario per pubblicare la OS di oggi!!
Per questa novità: sono ubriaca. No, non è vero. Solo brilla. Ho scritto tutto con la testa che mi gira, con le lettere che iniziavano a ballare se solo provavo a spostare lo sguardo troppo velocemente. Questo perché? Perché il writober è duro e sfogo i dispiaceri nell’alcol! (No, scherzo. Solo perché la mia coinquilina è un’alcolizzata di Limoncello e dovevo farle compagnia.)
Insomma, spero che sia comunque uscita una storia… normale? Magari ho scritto cavolate (in realtà ne sono consapevole e sappiate che sono volute). Spero comunque che la me brilla sia di vostro gradimento come quella sobria!
A domani! (stavo per scrivere anche “Buona Lettura”… ma ripensandoci… perché farlo alla fine?)

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Capitolo 23
*** 22: Fuga [Bokuto] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Fuga
» N° parole: 904

22. Fuga – Bokuto

Per tutta la vita Bokuto non aveva fatto altro che scappare, perché seppur giovane era in grado di capire quanto per gli altri i suoi piccoli-grandi problemi fossero insignificanti.
Sin da piccolo si era sentito dire troppo spesso che stava esagerando, che la sua era sono mania per l’attenzione, che i suoi drammi erano del tutto inventati. Certe cose ti segnano. Ti fanno sentire sbagliato. Così, semplicemente, Bokuto aveva iniziato a nascondersi.
Magari il Koutaro di cinque anni afferrava la brioche con meno zucchero ed il labbro iniziava a tremargli; il Koutaro di nove scartava le bustine delle figurine dei Pokémon e trovava solo doppioni; a quattordici anni, poi, magari trovava il paio di scarpe da pallavolo perfette ma senza che ci fosse il suo numero. Il ragazzo non era in grado di evitare le proprie crisi quando arrivavano, ma quello che poteva fare era darsi alla fuga.
Tutto quello lo faceva stare male, ma non sapeva che altro fare, troppo consapevole di quello che le persone pensavano di lui e troppo spaventato che potessero abbandonarlo.
Andò avanti in quel modo, dunque, finché un suo compagno di scuola non lo sorprese nascosto nel cortile sul retro della palestra del Fukurodani.
Era il primo giorno del suo secondo anno di liceo e subito Bokuto si era recato al club per giocare a pallavolo. Com’era ovvio e come si era aspettato non aveva trovato nessuno, tuttavia non aveva trovato neanche le palle con cui giocare, e questo lo aveva fatto deprimere.
«Stai bene?» lo schiacciatore aveva sollevato lo sguardo a quella domanda, ma rimase con le ginocchia strette al petto e le spalle ricurve.
Annuì al ragazzo dai capelli corvini e gli occhi blu che gli aveva parlato. Spesso chi lo sorprendeva in quello stato gli chiedeva se stesse bene, ma aveva capito ormai da anni che non lo intendevano veramente. Era una frase fatta, che si dice perché d’obbligo ma per cui tutti si aspettavano e volevano sentire solo “Sì, tutto bene.”
Tornò con il viso nascosto tra le braccia, dunque, conscio che la volta dopo in cui avrebbe guardato in su sarebbe stato solo.
Si sorprese, invece, quando il fruscio alla sua destra gli disse chiaramente che il bel ragazzo che gli aveva posto quella domanda si era seduto accanto a lui. Bokuto lo guardò interrogativo, così l’altro quasi mortificato gli chiese:
«Non potevo? Non voglio darti fastidio.» Koutaro non voleva che l’altro si sentisse a disagio, così si affrettò a dire che non era un problema.
Rimasero in silenzio per alcuni secondi, poi sempre il corvino parlò:
«Non sembra che tu stia davvero bene. Posso aiutarti?» Bokuto lo fissò indeciso se confidarsi oppure no. Non lo conosceva, d’altronde, e tutto voleva fuorché essere un problema per quello sconosciuto tanto gentile da fermarsi per augurarsi che non stesse male.
Si preparò dunque a rispondergli che era davvero una sciocchezza, che non c’era ragione per cui lui si preoccupasse e che se la sarebbe cavata. Si preparò a dirlo, ma non appena aprì la bocca tutto quello che ne uscì in un lamentoso mormorio fu:
«Ero venuto qui per giocare ma non ci sono palle.»
Se ne pentì, e tanto. Non conosceva quel ragazzo, ma era bello e gentile. Il genere di persona che al primo sguardo ti fa pensare: “voglio essergli amico e trattarlo bene!”. Con quelle parole aveva appena troncato sul nascere ogni qual tipo di rapporto potessero avere, così – anche convinto che al suo dramma non potesse esserci riparo – tornò a nascondere il volto nel suo rifugio fatto di arti.
Il ragazzo seduto accanto a sé non se ne andò. Mormorò, invece, così Bokuto tornò a guardarlo sollevando il minimo indispensabile gli occhi solo per vederlo fissare in alto, come alla ricerca di un pensiero.
«Fai parte della squadra di pallavolo?» gli chiese. Bokuto sussultò non aspettandosi una domanda, e mettendosi più dritto rispose di sì, che amava giocare e che era uno schiacciatore.
«Magari allora è per questo.» continuò il più basso «Come primo giorno dopo le vacanze sarebbe stato brutto giocare da solo, giusto? Non hai trovato le palle perché oggi dovresti proprio aspettare la tua squadra prima di cominciare.» Koutaro strabuzzò gli occhi. Era così ovvio che il motivo fosse quello appena spiegato che quasi non ricordava più perché era stato depresso fino all’attimo prima!
Sorrise.
«Hai ragione, è così!!» si alzò di scatto e l’altro – probabilmente non aspettandosi un cambio così repentino d’umore – sussultò.
Il giocatore mise avanti una mano.
«Io sono Bokuto Koutaro!» l’altro fissò la mano che gli stava porgendo, poi sorrise. La afferrò per presentarsi e la usò anche come appoggio per sollevarsi da terra.
«Io mi chiamo Akaashi Keiji.» Bokuto si illuminò. Il suo aspetto non era l’unica cosa di lui ad essere meravigliosa. Anche il suo carattere ed il suo nome lo erano!
«Che bel nome, Agashi!»
«Veramente-»
«Volevi iscriverti al club??» gli parlò sopra – troppo eccitato per trattenersi – Koutaro. Il corvino dimenticò qualsiasi cosa stesse per dirgli, sorrise ancora e disse:
«In effetti sì. Ero qui proprio per cercare la palestra.» Bokuto si eccitò ancora di più, poi gli diede diverse pacche sulle spalle.
«Andiamo a cercare i senpai, così ti iscrivi! Così poi potremo giocare!!»
Era il suo primo giorno di secondo anno liceo e fino ad allora Bokuto altro non aveva fatto che fuggire e nascondere se stesso.
Non più.
Da quel giorno Bokuto non ebbe più bisogno di farlo.

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Capitolo 24
*** 23: Presagio [Olimpiadi] ***


ATTENZIONE: QUESTA ONE-SHOT CONTIENE SPOILER DEL MANGA.

Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Presagio
» N° parole: 1450

23. Presagio – Olimpiadi

Hinata non era una persona superstiziosa.
Non troppo, almeno.
Come ogni sportivo che si rispetti anche lui aveva alcuni riti, ma oltre al non addormentarsi prima di aver controllato che tutte le scarpe presenti in casa fossero in ordine e sistemate con la sinistra accanto alla destra e non il contrario, Shoyo poteva dirsi – più o meno – libero da pensieri come “se non centro il cestino della spazzatura con questa cartaccia la partita di domani andrà male” o “se guardo l’orario ed i minuti sono dispari sbaglierò la prima battuta”.
Non aveva alcuna scusa, dunque, quando l’ansia iniziava ad attanagliarlo. Aveva l’ansia perché per lui ogni partita era importante e in quanto tale voleva che andasse bene. Negli anni aveva imparato a gestirla ed arrivato alle Olimpiadi poteva dirsi discretamente capace di tenerla a bada.
Non quel giorno. Tutto ciò che riuscì a pensare nel momento stesso in cui il 3 agosto aprì gli occhi fu: “Ho un bruttissimo presentimento.”
Si alzò con un peso sul cuore. Quel giorno avrebbero dovuto disputare il quarto di finale contro il Brasile e – neanche a dirlo – più andavano avanti e più si faceva dura.
Sospirò, comunque, tentando di scacciare via i pensieri negativi. Si alzò, lavò ed infine vestì. Non era necessario al villaggio olimpico, ma avendo quell’abitudine da tutta la vita Hinata finì per mettersi le scarpe solo all’ingresso della propria stanza. Se le allacciò ben più tranquillo di come si era svegliato, si sollevò, fece un passo ed uno dei lacci saltò via. Guardò in basso e notò che il filo si era rotto di netto proprio vicino al nodo. Deglutì.
Hinata non era una persona superstiziosa, ma quel brutto presagio unito al senso d’abbattimento che l’aveva colto quella mattina lo demoralizzò, e non poco.
Decise di passarci sopra, comunque, perché i lacci si usurano, è una cosa normale! Perché avrebbe mai dovuto portare a Tokyo dei nuovi lacci di ricambio pronti all’uso se non per quello, altrimenti?
Finì di sistemarsi le scarpe, poi raggiunse il resto della squadra nella cucina comune del Palazzo Giappone.
I giocatori di pallavolo non erano gli unici ad essere già svegli. C’erano ginnasti, nuotatori, lottatori. Ma sebbene Shoyo non disdegnasse usare quelle mattine per socializzare con i rappresentanti degli altri sport, quel giorno si limitò ad avvicinarsi ai propri amici.
Decise di non dire loro di come si sentiva. Nello sport non faceva mai bene partire demoralizzati; quella spirale negativa doveva finire con lui!
Bevve perlopiù in silenzio il proprio latte, dunque, ascoltando gli sproloqui di Bokuto che tanto spesso avevano avuto il potere di eliminare del tutto la sua agitazione. Stava quasi per funzionare, ma le imprecazioni di Atsumu che seguirono subito dopo vanificarono tutto.
«Era la mia tazza preferita…» si lamentò con il broncio dopo aver esaurito il vocabolario di parolacce che Hinata conosceva.
Il rosso guardò prima l’alzatore, poi la sua tazza che perdeva. Aveva una crepa sul dorso e da quella stava uscendo un po’ di liquido.
«Una tazza che si rompe da sola non porta sfortuna?» non poté fare a meno di chiedere lui con una vena di panico nella voce. A rispondere, quasi annoiato, fu Sakusa.
«È solo una stupida superstizione.» quelle parole fecero sorridere Hinata. Si stava suggestionando troppo… sarebbe andato tutto bene… ma poi ancora Miya disse in un mormorio appena udibile:
«L’avevo portata da casa perché è la mia tazza portafortuna.»
Shoyo scosse con energia la testa.
No, non avrebbe ceduto a tutto quello. Erano due semplici coincidenze, ed in ogni caso presto tutti si dimenticarono della tazza. Persino Hinata iniziò a dimenticarsi della cosa, ma fu mentre andavano al palazzetto in cui avrebbero giocato per iniziare a riscaldarsi che d’un tratto tutto gli tornò in mente.
«Accidenti, ho dimenticato le scarpe.» il rosso osservò Aran mentre lo diceva per poi continuare: «Voi andare pure avanti, ragazzi. Vado a prenderle e vi raggiu-»
Shoyo non si era accorto di essersi mosso né di aver urlato se non dopo averlo fatto. Aveva afferrato l’ala esterna, invece, e urlando un forte “Nooo!” l’aveva pregato di non tornare indietro. Il più alto lo sguardò confuso, forse un pelo anche preoccupato.
«Ma che ti prende? Non posso giocare senza le mie scarpe!»
«Se si dimentica una cosa e poi si torna indietro per prenderla porta sfiga!»
«Più sfiga che giocare con scarpe inadatte?» e a quello lui non poté ribattere nulla, così lo lasciò andare.
Si demoralizzò molto più di quanto non avesse già fatto quella mattina, così il resto dei compagni tentarono di tirarlo su, e ci riuscirono.
«Sì, avete ragione. Scusate ragazzi, sono solo un po’ nervoso.» disse sorridendo tirato mentre continuavano a fare strada, ma immediatamente dopo si bloccò. Fu Yaku a capirne il perché e gli si mise davanti dicendo:
«Su, su, non badarci! Non fa niente! Va tutto bene, dai! I gatti sono carini!!»
«Non quelli neri che mi attraversano la strada prima della partita!» diede di matto per qualche secondo ancora, ma se non i discorsi motivazionali di Bokuto e Atsumu questa volta furono gli insulti di Kageyama a farlo rilassare.
D’altronde era chiaro anche a lui: la superstizione non esiste. Quindi perché preoccuparsene?
Erano quasi arrivati al palazzetto. Hinata fece la strada di sempre come tutti, invece chissà per quale ragione allargando di qualche metro Ushijima pensò bene di passare sotto le scale, e alla sua spiegazione “Dovevo raggiungere la pattumiera per buttare un fazzoletto” certo lui non poteva rispondere nulla.
Raggiunsero Iwaizumi. Shoyo era stato felice di trovarlo come preparatore atletico. Se lo ricordava dal liceo, ma adesso il suo carattere era ben diverso. Era solare, comprensivo e gentile. Il rosso sorrise non appena lo vide, certo che lui avrebbe avuto il potere di fargli passare l’ansia dicendogli nel minimo particolare come affrontare il Brasile.
No. Non era di buon umore. Non quel giorno. Hinata ne rimase talmente sconvolto che per diversi secondi non riuscì a parlare. Ascoltò Iwaizumi sbraitare contro di loro, invece, e fu solo quando si fu allontanato che la voce di Kageyama lo riportò alla realtà:
«Sembra tornato quello di un tempo, di quando era al liceo.» gli sussurrò all’orecchio. Shoyo stava guardando ancora nella direzione in cui il preparatore atletico era sparito, ma dal tono non faticò ad immaginarsi l’alzatore con un ghigno in volto poco rassicurante.
«E al liceo non è mai arrivato ai Nazionali. O sbaglio?» quelle ultime parole fecero rizzare ogni pelo di Hinata. Sapeva che Tobio voleva portarlo proprio lì per prendersi gioco di lui, ma non poté farne a meno lo stesso.
La pancia prese a gorgogliargli, così se la strinse mentre con accusa guardava il suo ex compagno di scuola. Non fece in tempo ad insultarlo, comunque, che alla vista di come lo aveva ridotto il corvino sbuffò e roteò gli occhi al cielo.
«D’accordo, dai… per farti passare l’ansia farò qualche alzata per te.» e quella tattica funzionò appieno!
Raggiunsero un angolo della palestra, afferrarono una palla e lì iniziarono letteralmente a giocare.
Passarono diversi minuti, il viso di Hinata adesso solo carico di sorrisi a trentadue denti, la sua pancia quieta e il suo umore alto.
«L’ultima e poi ci uniamo agli altri.» avvertì l’alzatore e lui fu d’accordo. Lanciò la palla a Kageyama, lui la alzò, Hinata saltò e schiacciò forte!!
Troppo forte…
Rimbalzò a terra, poi sul muro ed infine colpì uno specchio che andò in frantumi. Tutto quel trambusto attirò l’intera squadra che si avvicinò a loro due mentre il rosso piangiucchiava del tutto disperato.
«Ooh, andiamo! L’hai fatto apposta!» fu l’accusa di Kageyama.
«Ovvio che no!»
«Allora l’hai fatto apposta senza saperlo! È tutto il giorno che urli alla sfiga!»
«Non è colpa mia se mi sono svegliato con un brutto presentimento! E poi mi si sono rotti i lacci delle scarpe! E poi la tazza di Atsumu, e Aran che si dimentica le scarpe! E il gatto, e Ushijima che passa sotto le scale! Adesso manca solo che uno di noi veda il Gramo passare e siamo fritti!» il silenzio calò nel gruppo, rotto infine da Miya.
«Devi smetterla di leggere Harry Potter fino a notte fonda, Shokkun.» e in molti annuirono, almeno fin quando un enorme, peloso cane nero non passò in mezzo al campo. Tutta la squadra non fece altro che osservare muto il passaggio dell’animale, infine un sospiro generale fu gettato fuori con malinconia.
«Vado a dire agli amministratori che c’è un cane in palestra.» furono le parole di Iwaizumi.
«Io vado in bagno…» quelle piagnucolanti di Hinata.
Un’ora più tardi tutti loro si schierarono dalla parte di rete opposta al Brasile pronti a giocare. Però – si sa – nello sport partire con un atteggiamento positivo è una delle cose più importanti.

 
n.a.
Risalve a tutti! Spero vi sia piaciuta! In quanto siciliana sono parecchio ferrata in “presagi porta sfortuna”. Insomma, la mia prozia andava molto fiera del fatto che quando mia madre è caduta rompendo uno specchio la prima cosa che ha fatto è stata andare a prendere il sale per gettarlo a terra in fretta sopra i cocci e solo allora si è accertata che sua nipote stesse bene.
Gatto nero? Passare sotto le scale? Aprire un ombrello al chiuso, appoggiare un cappello sul letto, mettere il pane in tavola sottosopra, far ruotare un oggetto su un piano. Posso dirvene quanti ne volete!!
Per questa OS ne ho messi alcuni che già conoscevo, altri li ho cercati perché giapponesi (quante volte negli anime abbiamo visto lacci di scarpe e tazze che si rompono?). Avrei voluto metterne tanti altri, ma poi penso vi sarebbe venuto a noia.
Per quanto riguarda la fine della storia, be’, per chi non lo sapesse sappiate che perdono. Ho preso il giorno e la partita avvenuta realmente alle Olimpiadi di Tokyo 2021. Il Giappone ha perso 3-0 contro il Brasile ai quarti di finale venendo eliminato in maniera definitiva. Ho lasciato il finale in quel modo perché sarebbe stato inutile mostrare la partita.
Non sempre scrivo note autrice quindi colgo questa occasione per ringraziare tutti quelli che stanno continuando a seguirmi!
Un bacio a tutti e alla prossima!

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Capitolo 25
*** 24: Proverbio [Ushijima] ***


n.a.
Preparatevi, perché questa OS sarà qualcosa di… diverso.

 Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Proverbio
» N° parole: 850

24. Proverbio – Ushijima

Ad Ushijima giocare a pallavolo era sempre venuto semplice. Sapeva di non essere il più forte ed anche di poter sempre migliorare. Ma sapeva anche di star percorrendo una strada in discesa. Ecco. Come vostra narratrice non ho problemi a dirvi questo. La strada di Ushijima era in discesa, non perché diretta verso l’insuccesso ma perché semplice. Ma Ushijima Wakatoshi non è la vostra narratrice. Non è un’universitaria in perenne stato di stress con troppi libri da studiare e le mani nei capelli a causa del difficile prompt di questa giornata di ottobre. Soprattutto, Ushijima Wakatoshi ha sempre avuto problemi con i modi di dire.
Così, frasi come “la propria squadra è come un campo fertile” vanno benissimo, ma prova a fargli capire cosa intendi dicendo “cadi sette volte, rialzati otto” e capirai la disperazione dei suoi amici dello Shiratorizawa.
Riproviamo.
Ad Ushijima giocare a pallavolo era sempre venuto semplice. Formato nel fertile campo quale quello dello Shiratorizawa era (che vi dicevo!), l’asso non trovava ostacoli dove per altri ce n’erano. Non nell’ambito della pallavolo, almeno.
«Però non capisco…» interruppe il discorso di Ohira una sera. Avevano finito di cenare già da diversi minuti, ma ancora tutta la squadra si trovava nell’area comune del dormitorio.
I presenti si voltarono verso di lui in attesa che continuasse, così chiese: «Come potrei mai rialzarmi otto volte se cado solo sette? Parto già da terra?» i suoi compagni strabuzzarono per qualche secondo gli occhi, poi alcuni di loro sorrisero, altri iniziarono a ridacchiare. Succedeva spesso, ma lui come sempre non capiva.
«È un proverbio, Wakatoshi-kun.» fu come sempre Tendo a dirgli quelle parole. «Vuol dire “non smettere mai di lottare, non importa quante volte tu possa fallire, continua a rialzarti”. Capisci?» Ushijima corrugò gli occhi, ma lentamente iniziò ad annuire.
Non aveva senso. Non secondo lui. Era matematicamente incorretto e fisicamente impossibile. Perché non dire “non smettere mai di lottare” se era quella la frase che si intendeva?
Il giocatore tuttavia temeva di passare per debole. D’altronde lui era l’unico a non cogliere qualcosa di così apparentemente scontato per gli altri, così tacque.
La volta successiva fu: “tutti commettono errori, ed è per questo che c’è una gomma per ogni matita”. Insomma, erano due frasi a se stanti! Perché collegarle? Inoltre, erano state pronunciate da Washijo dopo la sconfitta contro il Karasuno. Perché adesso il coach si metteva a parlare di matite e gomme da cancellare?
A Ushijima bastò guardare Tendo. Lui sorrise e disse:
«Sì, Wakatoshi-kun. È un modo di dire.» il rosso non si era dilungato oltre per non interrompere l’allenatore, così erano tornati sul discorso poco più tardi, ma non importava quante volte Satori provasse a spiegarglielo: per lui non aveva senso.
Poi ci fu: “l’amicizia e l’amore non si chiedono come l’acqua, ma si offrono come il thè”, giusto per mettere Tendo ancora più in difficoltà. E ancora: “non vedere è un fiore” al solo udirlo Ushijima si era sentito più confuso che mai; “se non entri nella tana della tigre, non catturerai un cucciolo di tigre” perché mai avrebbe dovuto stuzzicare un animale tanto pericoloso per avere i suoi cuccioli??; “nascondere la testa ma non il sedere” lì l’occhio di Ushijima era scappato al fondoschiena di Tendo. Perché magari figurare il detto l’avrebbe reso più comprensibile, giusto? (La vostra narratrice sa che non è per quello che l’ha fatto).
Aveva iniziato a migliorare, però. Perché sebbene continuasse ad arrancare nell’ignoranza riguardo al loro significato, almeno aveva iniziato a capire per conto proprio quando una frase era intesa solo in senso figurato. Perché le persone non hanno realmente la coda di paglia né i serpenti hanno le gambe. Che poi questo volesse dire da una parte che ci si sente colpevoli e dall’altra che qualcosa è superfluo era un fatto che solo con Satori l’asso poteva tentare (fallendo) di comprendere.
Quella era una realtà con cui Ushijima aveva dovuto imparate a fare i conti e con cui la vostra narratrice si sente vicina, traumatizzata – ormai – da tutti i proverbi giapponesi che ha letto nelle sue ricerche.
Non aveva importanza, comunque, che lui rimanesse nell’ignoranza. Né che lo prendessero in giro. Perché c’era Tendo.
Un giorno – demoralizzato che il proprio lavoro non avesse portato a nulla – Wakatoshi bussò alla porta della camera del centrale. Questi aprì dopo appena un attimo, così subito incontrando il suo sguardo Ushijima ammise:
«Volevo venire qui e dichiararmi usando un proverbio sull’amore. Ma di tutti quelli che ho letto ne ho capiti pochissimi… e quelli che ho capito erano tutti tristi e orribili.» non riuscì ad impedire alle sue labbra di imbronciarsi, ma subito Satori rimediò allacciandogli le braccia al collo e baciandolo veloce bocca su bocca.
«Oh, Wakatoshi-kun. Tu non hai bisogno di tanti giri di parole per conquistarmi.»
Così si misero insieme e vissero per sempre felici e contenti. Amen.
Sì, la vostra narratrice è Ushijima alla fine. La vostra narratrice ha cercato in mille siti diversi proverbi sull’amore e ha trovato solo depressione. La vostra narratrice non ha voglia di scrivere una conclusione decente. La vostra narratrice spera di sopravvivere al mese.

 
n.a.
Che posso dire… le mie note autrice sono la OS intera, quindi non mi rimane molto da aggiungere. Vorrei solo ribadire che scrivere di oggi è stato orribile. Non avrei mai nemmeno pubblicato una storia del genere se non facesse parte di una raccolta insieme ad altre trenta one-shot. Come per la 5+1 di giorno 13 ottobre ho voluto provare qualcosa di diverso (anche perché non mi venivano altre idee). Be’, sì… esperimento fallito… ma il writober è perfetto per provare cose nuove! Quindi non me ne pento.
Chi non risica non rosica. Giusto?

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Capitolo 26
*** 25: Sospiro [Iwaizumi] ***


ATTENZIONE: QUESTA ONE-SHOT CONTIENE FORTI SPOILER DEL MANGA.
Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Sospiro
» N° parole: 1337

25. Sospiro – Iwaizumi

Iwaizumi ed Oikawa si conoscevano sin da quanto il primo avesse memoria. Non c’era uno senza l’altro; i loro amici li conoscevano come Oikawa ed Iwaizumi ed il singolo non era contemplato. Ad entrambi stava bene così, e d’altronde neanche loro riuscivano ad immaginarsi in altro modo se non al fianco del proprio migliore amico.
Asilo, elementari, medie e superiori le avevano sempre frequentate insieme, ed insieme avevano sempre fatto strada a piedi verso scuola. Passavano ogni singolo istante l’uno con l’altro, tanto che molto spesso i quattro genitori si erano divertiti a considerarli un po’ come due fratelli. Ma loro non erano fratelli, e mai avrebbero potuto essere considerati davvero tali.
Il loro rapporto era da sempre stato qualcosa di più dell’amicizia. Persino quando erano troppo piccoli per capire cosa fosse l’amore era apparso chiaro ad entrambi che – Tooru per uno ed Haijime per l’altro – il loro legame sarebbe stato inscindibile per sempre. Iwaizumi tremava e piangeva, da bambino, al solo pensiero che Oikawa non fosse accanto a lui. Certo questo il castano non aveva e mai avrebbe dovuto saperlo, ma perderlo era per lui l’incubo più grande.
Sapeva che per il più alto era lo stesso. Oikawa e Iwaizumi si appartenevano, ed il fatto era talmente evidente da rendere superflue le parole atte ad ufficializzare la cosa.
Oikawa ed Iwaizumi. Passavano ogni istante insieme, ed il corvino lo adorava, ma Tooru non era esattamente il genere di persona che rende la propria vicinanza facile. Era chiassoso, esuberante, troppo diretto. Aveva costretto Hajime a trovare metodi per poter sopravvivere. Soprattutto, il corvino si era ritrovato a meditare molto.
Per quanto amasse il suo migliore amico, troppo spesso a causa di questi si era ritrovato a chiudere gli occhi, inalare quanta più aria possibile e poi rilasciarla in un sospiro sperando che questi risultasse liberatorio, e di solito funzionava.
Quando si autoproclamava capo del loro gruppetto di gioco, quando decideva che strada prendere o dove andare a mangiare senza consultarlo, quando insultava il povero Tobio, quando faceva il galletto con le fan, quando si comportava da diva (sempre), quando flirtava con lui. In occasioni come queste Iwaizumi sospirava, poi tornava in sé.
Quasi sempre ci riusciva, ma c’erano delle eccezioni. Quella sera fu una di quelle.
Sospirò tentando di calmarsi, ma non ci riuscì. Perché era incazzato. Incazzato nero.
Come poteva Tooru anche solo pensare che la loro amicizia potesse finire? Come poteva credere che i suoi sentimenti non fossero ricambiati?
Gli si era appena dichiarato, poi era scoppiato in lacrime convinto di aver per sempre rovinato il loro rapporto.
Sospirò, dunque, perché non potevano scambiarsi il loro primo bacio mentre lui era arrabbiato! Tuttavia non riuscì a calmarsi, così, mentre Oikawa continuava i suoi piagnistei, decise che non aveva importanza. Fece un passo avanti e pose fine a quella sceneggiata tappandogli la bocca con la propria.
Fu un bacio urgente perché atteso da troppo, violento perché smanioso di mostrare quanto fosse voluto.
Si separarono ed improvvisamente Hajime si ritrovò calmo seppur con il cuore a mille. Avevano entrambi le gote imporporate ed il fiato corto. Si guardarono con occhi febbricitanti e languidi. Poi ripeterono l’operazione.
Baciarlo si scoprì essere un metodo ancora migliore del sospiro, ma certamente Tooru non aveva smesso di farlo esasperare.
Perché continuava a dare corda alle sue fan? Perché si pavoneggiava come in cerca di qualcuno da rimorchiare? Iwaizumi prese ad afferrarlo con cattiveria in quelle occasioni, e a baciarlo sempre più passionale anche se in pubblico. Tutti – specie le ragazze che gli andavano dietro – dovevano sapere che lui era suo. Così divenne Oikawa quello più incline a sospirare per Iwaizumi, ma quando lo faceva, lo faceva di piacere. Il corvino se ne rallegrava ogni volta, ed ogni volta si imponeva che quella dopo avrebbe fatto persino meglio.
Il guaio era che a Tooru quei modi piacevano, e non ci voleva un genio per capire cosa in Hajime scatenasse quel comportamento.
Arrivò al limite di sopportazione un pomeriggio, e più in particolare durante un loro appuntamento. Alcune ragazze lo avevano avvicinato, così come da manuale il castano aveva iniziato il suo flirt spavaldo quanto inconcludente (Hajime si chiedeva spesso come le sue fan potessero non accorgersi di lui lì accanto e – soprattutto – di quanto il suo ragazzo fosse gay).
Iwaizumi si frappose tra l’alzatore ed il gruppo al femminile ed il castano sorrise vittorioso. Sapeva cosa stava pensando: “ora Iwa-chan mi bacerà come un animale” ma lui era troppo stanco di vederlo comportarsi in quel modo.
Sospirò, dunque, per calmarsi e per raccogliere il coraggio. Poi, poggiandogli una mano sulla guancia, lo implorò:
«Smettila di fare così.» il suo ragazzo aveva spalancato gli occhi non aspettandosi non tanto la frase quanto il tono. Gli occhi di Iwaizumi erano addolorati e lucidi solo allo sguardo più attento.
«Sai che scherzo, Iwa-chan.» gli sorrise lui, ma il corvino scosse il capo.
«Io lo so, ma loro no.» fece cenno alle ragazze «E io odio che la gente creda di avere una possibilità con te.» lo sguardo di Oikawa si fece carico di una nuova consapevolezza e subito Hajime capì che lo avrebbe accontentato.
Il loro rapporto uscì rafforzato da quell’evento ed in quel modo andarono avanti.
Passarono pochi mesi, poi nuovi atteggiamenti di Oikawa si unirono alla lista di cose che facevano sospirare Iwaizumi, ed erano quelli lascivi.
Del tutto inesperti entrambi, iniziarono con qualche tocco leggero che già di per sé fu capace di rubare dalle sue labbra gemiti e sospiri forti. L’amplesso completo, poi, non fece altro che moltiplicare in maniera esponenziale quelle sensazioni.
Si scoprì che Tooru amava farlo sospirare in quel modo, e d’altronde Hajime non poteva biasimarlo, perché a parti invertite era lo stesso.
Sospirarono entrambi anche in aeroporto per l’ultimo saluto. Tooru sarebbe andato in Argentina, lui negli Stati Uniti. Il loro amore non sarebbe sceso né la relazione sarebbe finita, ma non poterlo più abbracciare, baciare, o semplicemente toccare era qualcosa per cui sospirare in modo disperato per Iwaizumi fu il minimo.
Oikawa continuò poi a farlo sospirare al di là della webcam: se non divertito, esasperato; a volte innamorato, arrabbiato o intenerito. Soprattutto, sospirava nostalgico, ma entrambi erano forti e soprattutto forte era il loro legame, così fu difficile ma non impossibile far funzionare la relazione a distanza.
Tooru l’aveva fatto sospirare tante volte, in tanti modi e per tanti motivi differenti. Il momento preferito di entrambi, tuttavia, sarebbe per sempre stato lo stesso: Olimpiadi di Tokyo 2021, vittoria dell’Argentina per la medaglia di bronzo.
«Iwa-chan!» il suo compagno l’aveva raggiunto al limite degli spalti per saltargli addosso più contento che mai. Lui l’aveva accolto con un sorriso soddisfatto e commosso; l’aveva baciato e si era congratulato per quel traguardo tanto meritato.
Aveva vinto! E non solo una medaglia, perché per quanto ormai fosse antico, il rimpianto di aver perso prima contro Ushijima e poi contro Kageyama era rimasto come un’ombra fastidiosa dentro di lui. Adesso era libero. Nessuno più di lui si meritava quella vittoria.
«Ce l’ho fatta, Iwa-chan!!» lo abbracciò ancora quasi non potesse ancora crederci.
Non appena si allontanarono quel tanto per potersi guardare negli occhi, Hajime sorrise e disse:
«Non capisco perché sembri così sorpreso. Ero sicuro che ci saresti riuscito.» l’altro rispose con il sorriso più luminoso che gli avesse mai visto indossare, ed ancora di più lo divenne non appena gli disse:
«Mi ero ripromesso di fare una cosa se fossi arrivato sul podio.» il castano prese aria, poi continuò: «Sposami.» gli occhi di Iwaizumi si spalancarono mentre il proprio cuore scoppiava. Deglutì ed ebbe bisogno che Tooru lo ripetesse per sbloccarsi. «Sposami, Hajime! Mi ero ripromesso di chiedertelo se avessi vinto!»
I polmoni del corvino sfiatarono del tutto. Sospirò liberandosi di tutta l’aria, gli sembrava di fluttuare.
Ecco il loro momento preferito.
Iwaizumi aveva deglutito ancora, poi preso fiato e affermato immediatamente:
«Sì. Sì! Ti sposo. Ti sposo subito!» toccò a Oikawa sospirare, rasserenato e felice.
Si baciarono in diretta mondiale; la loro nuova vita che iniziava da lì.

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Capitolo 27
*** 26: Frammento [Hinata] ***


ATTENZIONE: QUESTA ONE-SHOT CONTIENE FORTI SPOILER DEL MANGA.
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» Prompt: Frammento
» N° parole: 811

26. Frammento – Hinata

Quando Hinata affermava che la pallavolo era la sua vita, non era un’esagerazione.
Aveva conosciuto quello sport solo alla fine delle elementari e quasi per nulla aveva avuto occasione di praticarla davvero alle medie, ma se c’era una cosa che il rosso poteva affermare per certo, quella era che il suo futuro si sarebbe basato sulla pallavolo.
Con il liceo tutto era cambiato, ed in meglio. Nel Karasuno aveva trovato una squadra formidabile ed in Kageyama l’alzatore perfetto.
Arrivato ai nazionali davvero non riusciva ad immaginare un modo in cui avrebbe potuto essere più felice. Che avessero vinto o perso, Shoyo sapeva che aveva dato il massimo, quindi non avrebbe avuto nessuno rimpianto.
Ma non aveva considerato una cosa.
Quando la febbre lo costrinse alla panchina, Hinata non poté farci nulla. Non era una pallonata in faccia né un dito rotto da poter steccare. Per quanto si sforzasse non c’era assolutamente niente da fare. Così pianse, e pianse tanto, perché non era giusto! Si era impegnato tanto, ogni singolo giorno, tutto per uno scopo: andare avanti, vincere, ma soprattutto giocare insieme ai suoi compagni.
Il professor Takeda iniziò a consolarlo, ma quelle che scelse furono parole d’impatto. Parole che fecero ricordare ad Hinata tutti gli ostacoli che aveva incontrato sul suo cammino, tutti i colpi che aveva ricevuto portandolo vicino a rompersi.
Per prima cosa c’era stata la prima ed ultima partita che aveva disputato in un torneo durante le medie. La squadra di Kageyama aveva distrutto la sua senza il minimo sforzo rendendo ad Hinata chiaro in maniera traumatizzante quanto distacco ci fosse tra lui e tutti coloro tanto fortunati da poter avere un club con più di un membro iscritto.
In quell’occasione, però, dopo una buona dose di lacrime, aveva tenuto duro, si era rimboccato le maniche e aveva iniziato a lavorare ancora più sodo di prima anche grazie alla squadra femminile.
Superato quello, a più di un anno di distanza, era toccato alla sconfitta contro l’Aoba Johsai per le qualificazioni al torneo nazionale. Aveva creduto di aver fatto progressi miracolosi, ma perdere senza effettivamente vedere come fosse successo causa i suoi occhi chiusi gli aveva detto il contrario. In realtà fino ad allora si era affidato del tutto a Kageyama. Senza l’alzatore lui che cos’era?
Anche allora il colpo era stato forte; aveva pianto ma anche deciso di andare avanti. Se avevano perso era perché lui poteva fare meglio, così non gli rimaneva che migliorare.
Ancora, era stato orribile per lui quando Tsukishima da una parte e Kageyama dall’altro erano stati invitati a stage sportivi importanti. Nessuno si era accorto di lui, e questo gli aveva fatto male.
E male, poi, gli avevano fatto anche le parole schiette di Washijo. Eppure no, non si sarebbe arreso! Come sempre anche allora aveva stretto i denti ed era migliorato.
Ma adesso? Adesso non c’era nulla che potesse fare. Adesso non importava quanta buona volontà ci potesse mettere. Era in panchina, e non sarebbe tornato in campo.
«“Sarò io a restare più a lungo in campo.”» Shoyo sollevò lo sguardo su Kageyama non appena questi gli ricordò la sfida che lui stesso gli aveva lanciato dopo che era stato sconfitto alle medie. Poi il corvino continuò: «Ho vinto di nuovo io.»
Ed ecco il suo punto di rottura. Ecco il momento in cui Hinata venne spezzato. Il suo animo di solito così forte si divise in mille frammenti ed anche più.
Kageyama aveva vinto, e se l’aveva fatto era perché lui non era più in campo.
Pianse, e pianse ancora. Altro non poté ripetere alla squadra che «Mi dispiace. Mi dispiace!»
Non era mai stato così impotente.
Dovette essere allontanato dal campo. Prima per degli accertamenti medici, poi – forse – per non distrarre i propri compagni dalla panchina. Stare lì, comunque, lo avrebbe fatto stare peggio, così alla fine fu solo grazie a Kenma e al suo tablet se poté continuare a seguire il gioco del Karasuno. Fu in quel modo che lo vide perdere.
Di tutti i colpi che aveva subito, quello per lui fu e per sempre sarebbe rimasto il più forte. L’aveva fatto a pezzi e lasciato distrutto, ma raccogliendo piano piano frammento per frammento, Hinata aveva ricomposto se stesso e da quell’esperienza aveva imparato, perché non era solo allenarsi ciò che gli atleti erano chiamati a fare. Adesso lo sapeva. Più importante ancora era prendersi cura della propria salute. Shoyo lo fece, ed equilibrando come si deve sforzo e riposo era arrivato lontano.
Osservando adesso l’ingresso del villaggio olimpionico e pronto a farvi ufficialmente accesso, Hinata non aveva rimpianti. Tutti i suoi frammenti facevano parte di lui; lo componevano; lo rendevano chi era oggi. Doveva molto, l’olimpionico, a quella grande batosta ed anche a quelle precedenti e successive.
Gli ostacoli non avrebbero mai smesso di arrivare, ma lui li avrebbe superati, e avrebbe continuato a farlo per sempre.

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Capitolo 28
*** 27: Tramonto [bokuaka] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Tramonto
» N° parole: 1167

27. Tramonto – BokuAka

Akaashi tra i due era quello organizzato. Quello che preparava ogni cosa affinché i loro appuntamenti fossero perfetti, quello che chiamava al ristorante per prenotare un tavolo per due, quello che faceva rispettare gli orari ad entrambi. A Bokuto non rimaneva che portare la propria presenza, ed anche se lui spesso si era scusato per questo, Keiji aveva continuato a ripetergli di non preoccuparsi, che il suo solo essere lì faceva la serata.
Koutaro non pensava che il suo ragazzo mentisse nel dirlo, ma non per questo la cosa gli stava bene. Vedeva, d’altronde, quanto tempo all’altro occorresse per organizzare il tutto, e l’ultima cosa che lo schiacciatore voleva era di farlo stressare.
Con la fine dell’università di Akaashi e il conseguente suo ingresso nel mondo del lavoro, Bokuto si ripromise di aiutarlo di più.
E fu per questo motivo che l’appuntamento di quel giorno fu interamente organizzato da lui. Keiji aveva una scadenza a breve, d’altronde, e certo dover pensare a tutto avrebbe vanificato il motivo per cui stavano uscendo: farlo distrarre e rilassare.
Così Koutaro chiamò al ristorante più rinomato della città, “Étoile”, affinché lì potessero fare un brunch, noleggiò una macchina per potersi spostare con più facilità e comprò due biglietti per vedere un film d’autore che tanto avrebbe annoiato lui quanto affascinato il suo compagno.
Era tutto pronto, così non gli rimase che dare ad Akaashi un orario e passarlo a prendere per tempo.
I due avevano fatto colazione insieme quella mattina, poi entrambi erano andati a lavoro, ma se Bokuto aveva avuto tempo per rilassarsi dopo di esso, sapeva che Akaashi non aveva potuto fare altrettanto. Aveva finito di lavorare per le tre e tre quarti del pomeriggio, stesso orario per cui era fissata la scadenza del suo ultimo progetto. Koutaro lo conosceva ormai meglio delle proprie tasche, quindi sapeva bene che Keiji – nella smania di finire e ricontrollare tutto – si sarebbe dimenticato di pranzare. Il brunch cadeva a puntino, era perfetto come appuntamento per quel giorno!
Si salutarono con un sorriso non appena si videro, uno stretto abbraccio ed un bacio profondo, quasi non si vedessero da settimane e non – come invece era – da solo quella mattina.
Felice e smanioso del programma, Keiji saltò in macchina con fare eccitato, allacciarono le cinture e si diressero verso il grande ristorante di lusso.
«Ho prenotato due posti a nome Bokuto.» disse il giocatore fiero del proprio operato. L’uomo in smoking che li aveva accolti controllò in fretta la lista, arrivò in fondo e corrugò gli occhi, poi riprovò.
«Sono desolato, Bokuto-san, ma non trovo la sua prenotazione.» questi spalancò gli occhi.
«Ma ho chiamato la settimana scorsa!» il receptionist controllò ancora, poi scosse il capo.
«Desolato, signore.» fu il turno di Koutaro di scuotere il capo. Aveva preparato tutto alla perfezione e mangiare da Étoile era il primo passo!
Prese il proprio cellulare e da lì il registro delle chiamate; andò indietro di una settimana e mostrò il numero all’altro uomo.
«Visto!?» il suo interlocutore acuì la vista, ma subito rispose:
«Questo non è il nostro numero, Bokuto-san.» Koutaro si ritrovò a strabuzzare gli occhi, cliccò sul tasto verde e si mise lo smartphone vicino all’orecchio.
«Qui Étang, come posso aiutarvi?» Bokuto rimase in linea per un paio di secondi senza rispondere, poi si schiarì la gola e fece:
«P-Parla Bokuto.»
«Oh, Bokuto-san! Il suo tavolo l’aspetta!» il giocatore guardò prima il receptionist di Étoile, poi Akaashi ed il suo umore prese a calare. Il suo fidanzato se ne accorse e in apprensione chiese:
«Tutto bene, Kou?» ma lui, deciso a non far morire la giornata, si impose di riprendersi in fretta. Ripose di sì e si scusò perché aveva sbagliato posto.
Grazie al navigatore riuscirono infine ad arrivare al ristorante nel quale aveva prenotato, anche se per farlo ci avevano messo due ore di macchina.
Erano stati comprensivi al ristorante dicendo tramite telefono che non ci sarebbe stato problema per il ritardo, ed arrivati in loco non fu difficile capirne il perché.
Ben più eleganti di quanto quella bettola non richiedesse, in due fecero buon viso a cattivo gioco. Quello era solo l’inizio del loro appuntamento, dopotutto. Ci sarebbe stato ancora molto tempo per rimediare.
Finito di consumare il rozzo e poco abbandonate pasto che gli era stato servito, i due ripresero la macchina per raggiungere il cinema. I biglietti, stavolta controllati bene e confermati come quello per cui aveva pagato, erano al sicuro nella tasca interna della sua giacca.
Correndo in autostrada più di quanto non avrebbero dovuto, si precipitarono all’ingresso dello stabile, ma lì gli fu detto che era troppo tardi. Bokuto guardò l’orario: il film era già iniziato a tre quarti d’ora.
Iniziò ad insistere con il dipendente del cinema, ma fu Akaashi stesso a fermarlo afferrandogli un braccio per richiamare la sua attenzione.
«Non fa niente, Kou. Ha poco senso vedere un film d’autore da metà.» così le labbra di Bokuto iniziarono ad afflosciarsi verso il basso e allo stesso modo presero a fare i capelli.
Uscirono dal cinema ed iniziando ad allontanarsi lì il più alto prese a lamentarsi.
«Mi dispiace così tanto, ‘Kaashi! Volevo che tutto fosse perfetto! Ti meriti così tanto un buon appuntamento, e invece è stato un disastro!! Scusami tanto…» osservò a testa china Keiji negli occhi che tuttavia – come sempre – gli rispose con uno sguardo intenerito. Aprì la bocca per rispondere, ma prima ancora di parlare cambiò idea.
Sorrise, infine disse:
«Voltati, Kou.» lui lo fece e lo spettacolo che gli si presentò davanti fu immenso e bellissimo. Tutto era arancione e d’oro: i grattacieli, l’asfalto, le nuvole. Con quel tramonto persino l’anonimo paesaggio urbano del centro di Osaka diventò qualcosa di incredibile.
«Questo appuntamento è già perfetto, amore.» ancora con lo sguardo fisso sul tramonto, Bokuto poté sentire più che vedere Keiji mettersi in punta di piedi per raggiungere la sua guancia e baciarla.
«Ho amato questa giornata.» il giocatore si voltò per osservare il suo fidanzato con sguardo innamorato, ricambiò il suo sorriso ed osservando il modo in cui la luce si rifletteva sul suo viso e nei suoi occhi non poté che concordare.
«Non è ancora finita, però.»
Lo prese per mano e lo trascinò poco lontano. C’era una cosa che aveva visto facendo strada verso il cinema ma che aveva ignorato perché deciso a comportarsi da adulto.
Era un posto d’élite quello in cui avrebbe voluto che mangiassero, un film importante che avrebbe voluto vedessero, ma non aveva più importanza, perché l’appuntamento perfetto non si basa sul denaro.
Pagò pochi yen per due ingressi a quel Luna Park. L’obiettivo di quella giornata, dopotutto, era sempre stato quello di far distrarre Akaashi, e quale modo migliore di quello per farlo?
Andarono sulle montagne russe, sull’autoscontro, sulla giostra girevole e persino nella casa degli orrori e quella degli specchi.
Conclusero con zucchero filato e mele caramellate.
«Ti amo, Kou.» fu il mormorio stanco di Keiji non appena rientrarono in casa. «È stato l’appuntamento più bello di tutta la mia vita.»
 

n.a.
Mai scritta e pubblicata una OS così in fretta quanto questa!! Sono le 23:45 e sono qui a scrivere le note autrice!
Sarò breve: Étoile in francese vuol dire stella, mentre Étang vuol dire stagno.
Alla prossima!

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Capitolo 29
*** 28: Toccare [Sakusa] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Toccare
» N° parole: 2098

28. Toccare – Sakusa

Kiyoomi non avrebbe potuto affermare di essere sfortunato, anzi. Era cresciuto in un’ottima famiglia in grado di dargli cibo ed opportunità in abbondanza. Persino a livello di talento e costituzione fisica se l’era sempre cavata bene e – poteva affermarlo senza malizia o presunzione – la bellezza non gli era mai mancata.
Dunque, sarebbe stato poco delicato e del tutto ingiusto da parte sua affermare di essere tra quelli meno fortunati, ma ogni individuo – che sia uomo o donna, grande o piccolo, ricco o povero – combatte ogni giorno le proprie battaglie, e quella di Kiyoomi era la misofobia.
Ricordava ancora una conversazione che aveva avuto con suo cugino. Stavano frequentando il secondo anno di medie e in qualche modo erano arrivati a parlare di ragazze.
«Quindi baciarle non ti fa schifo?» aveva chiesto Sakusa sinceramente curioso ma con un’espressione disgustata ben visibile in volto. Motoya aveva riso e detto di no, che le loro labbra non erano viscide come lui stesso si era aspettato prima di dare il suo primo bacio; che erano morbide, invece, e parecchio invitanti.
Kiyoomi non aveva capito il suo punto di vista, e continuò a non farlo per parecchio tempo.
Erano alle superiori quando il discorso tornò ancora: «Arrivare al bacio è la parte più difficile.» aveva spiegato il castano «Dopodiché è tutto in discesa.» aveva aggiunto con tanto di occhiolino.
Risaliva ormai a un paio di anni prima l’epifania che Sakusa aveva avuto riguardo la propria sessualità. Questo aveva spiegato perché pensare alle ragazze non gli faceva lo stesso affetto che agli altri ragazzi, tuttavia era ancora del tutto restio al pensiero di baciare qualcuno.
Forse era vero che dopo il bacio tutto sarebbe stato in discesa, ma il problema era che Kiyoomi prima di arrivare a quel punto avrebbe dovuto superare la sua paura di toccare ed essere toccato. Erano stati diversi i ragazzi ad aver attirato il suo sguardo, ma il loro semplicemente essere attraenti non era riuscito a convincerlo ad avvicinarli. Non valeva la pena stressarsi a causa loro, dopotutto.
Le cose cambiarono con l’apparizione di Miya Atsumu.
Kiyoomi l’aveva già visto durante il suo primo anno di liceo: entrambi selezionati per partecipare all’All-Japan Youth Training Camp e poi ancora di sfuggita durante i primi nazionali di entrambi, ma le loro scuole erano capitate in gironi diversi e non si erano potuti scontrare.
Al suo secondo anno, Sakusa fu ben felice di rivederlo al Training Camp per giovani pallavolisti dotati ed ancora di più di poterlo affrontare in finale ai nazionali. Era stato allora che aveva iniziato a rendersi conto del pericolo.
Kiyoomi aveva già avuto diverse cotte, le più forti delle quali per Ushijima Wakatoshi e Iizuna Tsukasa, ma niente a che vedere con ciò che Miya iniziò a fargli provare.
Il biondo era affascinante, quello era un dato oggettivo, ma più di quello era fastidioso, insistente, vanitoso. Tutti motivi che spingevano Sakusa a chiedersi: “Perché?” e “Come!?”. Eppure, al cuore non si comanda, e in un modo o nell’altro quell’alzatore tanto eccentrico aveva fatto breccia.
Fu sconvolto soprattutto Komori quando Kiyoomi prese a rispondere allo sporadico flirt di Atsumu. Se con gli altri parlare non gli veniva naturale, con Miya era diverso. Era bello chiacchierare con lui. Anche se fingeva il contrario la sua sola presenza lo rilassava e sotto la mascherina lo faceva sorridere. Smaniava all’idea di incontrarlo ai vari ritiri d’allenamento ed ancora di più al di là della rete dei nazionali, meglio ancora se in finale.
A un certo punto si erano scambiati i numeri. Era stato il biondo a chiederglielo e lui aveva subito zittito la risata divertita di Motoya allungando la mano che reggeva il cellulare per porgere l’oggetto ad Atsumu che rapido vi inserì il proprio numero.
Da lì avevano iniziato a parlare per chat e poi a chiamarsi sempre più spesso dovendosi accontentare di quello vista la distanza che c’era tra Tokyo e Hyogo.
Per Kiyoomi era perfetto. La sua paura per il contatto fisico che per una volta non lo frenava dallo sciogliersi con qualcuno.
In pochi mesi Atsumu e Kiyoomi divennero migliori amici, ma da come si scrivevano era più che chiaro che nessuno dei due avrebbe voluto fermarsi a quello. La volta successiva che si erano visti – impacciati e timidi come non lo erano mai stati – avevano deciso di mettersi insieme.
Di nuovo, era stato l’alzatore a proporre la cosa, ma vista la sua stratosferica cotta l’altro aveva accettato immediatamente. In quell’occasione non avevano fatto molto altro oltre che a sorridersi a vicenda. Disputarono le partite che dovevano ai nazionali ma presto – senza peraltro la possibilità di giocare uno contro l’altro – la relazione a distanza fu costretta a riprendere.
Kiyoomi era felice. Era facile così e lui non avrebbe potuto chiedere di meglio, ma avrebbe dovuto aspettarsi che per Miya avrebbe potuto non essere lo stesso.
Stando ufficialmente insieme, i due avevano iniziato a viaggiare col solo intento di vedersi, ed era stato in quelle occasioni che la situazione aveva iniziato a peggiorare. Atsumu affermava di comprendere il punto di vista di Kiyoomi, ma la sua riluttanza nel non poterlo semplicemente toccare era chiara come il sole.
Durarono un anno, e fu un anno bellissimo. Atsumu era davvero il suo migliore amico oltre che il suo ragazzo. Lo amava e non aveva paura di ammetterlo. Sentirselo dire di rimando fu meraviglioso, ma pochi mesi più tardi arrivò il colpo al cuore.
«Ti amo…» gli aveva ripetuto un giorno Atsumu «Però fa male.» e quelle parole erano state l’inizio della fine. Sakusa non pretendeva di sapere cosa passasse esattamente nella mente dell’altro ragazzo, sapeva solo che non poteva costringerlo in una relazione che non voleva, e se nonostante avesse affermato di amarlo aveva deciso di doverla troncare, chi era lui per dirgli di non farlo? Erano giovani, dopotutto, e se durante quell’anno di relazione Miya era stato comprensivo rispettando la sua volontà, adesso toccava al corvino fare lo stesso con lui. Atsumu stava cercando un ragazzo con cui rilassarsi, che avrebbe potuto toccare, con cui vivere una relazione semplice, e quel ragazzo non poteva essere lui.
Si erano lasciati in amicizia, dicendo entrambi che avrebbero continuato a sentirsi spesso, ma così alla fine non fu. I contatti erano molto presto diventati radi, poi quasi inesistenti.
La cotta passò, ma un eco dei sentimenti che aveva provato per il biondo era rimasto ancorato nel suo cuore in maniera stabile. Il primo amore non si dimentica, e con quello in mente era andato avanti.
 
Kiyoomi non aveva progettato di rivederlo, né tantomeno di entrare a far parte della sua stessa squadra.
Nello scegliere in quale team entrare dei tanti che gli avevano proposto un contratto, Sakusa aveva posto più attenzione ai compagni che vi avrebbe trovato che non ai soldi offerti. Se nella lista fosse figurato il nome di Miya Atsumu sicuramente se ne sarebbe accorto. Non lo fece perché il biondo entrò in squadra nella sua stessa stagione. Il fatto era talmente surreale che Kiyoomi avrebbe tanto riso se solo non fosse stato tanto intento ad urlare internamente.
Lo schiacciatore non era una ragazzina alla prima cotta. Non aveva passato gli ultimi cinque anni a struggersi per Atsumu. Non pensava praticamente mai a lui, ma quelle rarissime volte in cui lo faceva il suo cuore ancora doleva come se si fossero lasciati solo da una settimana.
Questo voleva dire non aver dimenticato il suo primo amore; questo voleva dire aver amato davvero qualcuno.
Si comportarono entrambi bene e professionalmente, in ogni caso. D’altronde erano diventati adulti e da tali si sarebbero comportati.
Presero a comportarsi professionalmente entrambi, sì, ma se prima le sporadiche fitte al petto al pensiero del biondo erano sopportabili, adesso vederlo ogni giorno glielo stava rendendo del tutto impossibile. Era doloroso ma anche tremendamente bello stare al suo fianco. Se avesse dovuto scegliere, Sakusa non avrebbe mai voluto separarsi ancora da lui anche se sapeva bene non potesse nascere più niente.
Per quanto maturi, in ogni caso, non fu facile per i due uomini tornare a ridere e scherzare come un tempo. Limitarsi a essere amici, dopotutto, non faceva per loro. Si imposero entrambi di accontentarsi, però, perché non c’era altro modo di gestire la cosa.
Passò un anno, poi quasi due, e fu solo a quel punto che – quasi senza accorgersene – tornarono ad essere Kiyoomi ed Atsumu, amici improbabili con un flirt tutto loro al limite del platonico. Sakusa iniziò a restare più spesso la sera per gli allenamenti extra che comprendevano il biondo e lo scalmanato duo della generazione dei mostri. Il passo successivo fu accettare di consumare i pasti con i tre e quello ancora dopo ritrovarsi a fare strada verso casa di Miya per passare a prenderlo prima del lavoro.
Soli in macchina, Kiyoomi si chiese come fossero arrivati a quel punto. La verità era che non aveva importanza; la verità era che quel momento era stato ineluttabile dall’attimo stesso in cui si erano rivisti all’interno dei Black Jackals.
Allo stesso modo dell’andata, anche il ritorno verso le rispettive abitazioni presero a farlo insieme. Kiyoomi inserì la freccia direzionale ed accostando davanti al portone di Atsumu attestò il moto della macchina. Guardò appena verso l’alzatore aspettandosi che questi lo salutasse come sempre e scendesse dall’auto, ma così non fu. Osservandolo più attentamente, capì che il biondo era a disagio. Due secondi ancora e ne scoprì anche il motivo.
«Mi manchi, Omi…» sussurrò quelle parole quasi con vergogna. I due si vedevano ogni giorno, ma Atsumu non ebbe bisogno di spiegare meglio per far capire all’altro cosa intendesse.
Kiyoomi era debole. Un solo cenno di Atsumu e lui sarebbe tornato ai suoi piedi, lo sapeva bene.
«Anche tu mi manchi.» lo sguardo tenuto fino a quel momento basso di Miya si alzò speranzoso verso di lui, ma l’espressione del corvino non si distese in nessun sorriso. Tenne le labbra serrate, invece.
«Non ho ancora risolto il mio problema.» specificò con voce più aspra di quanto non avesse voluto. Lo sguardo di Atsumu si spezzò un momento, ma non perdendosi d’animo continuò:
«Io non sono più quello di un tempo. Ero superficiale al liceo… troppo inesperto. Non ero pronto per una relazione importante come lo sarebbe stata la nostra. Non ero pronto ad impegnarmi come avrei dovuto. Non ero la persona che ti meritavi.» Kiyoomi spalancò gli occhi a quelle parole. Non era abbastanza forte da resistergli.
«Non ti avrei trattato bene come avrei dovuto, Omi! Ti meritavi il mondo, e io ero solo un ragazzino. Avrei rovinato tutto, e non è una scusa, davvero! Non voglio giustificarmi per averti lasciato, solo spiegarti che non sarebbe stato giusto rimanere con te per com’ero all’epoca.» sospirò forte, Miya, poi voltò meglio il busto verso di lui.
«Ma adesso sono qui! Sono cresciuto, dico davvero. E sono pronto a prendermi cura di te se tu te ne prenderai di me.» Kiyoomi seguì il suo esempio ponendosi nella stessa posizione.
«Atsumu, io non ti ho mai dimenticato.» non sfuggì ai suoi occhi il sorriso del biondo subito coperto in rispetto dell’importanza di quella discussione «Ma dicevo sul serio riguardo alla mia misofobia. Non ti ho mai dimenticato, ma non voglio ancora toccarti, né voglio che tu mi tocchi.» Atsumu subito annuì.
«Dammi una possibilità, Omi! Dammi l’occasione di dimostrarti quanto faccio sul serio. Supereremo la cosa insieme.»
A quel punto Kiyoomi avrebbe voluto dirgli che non aveva tempo né la voglia di imbarcarsi in un inutile viaggio se la destinazione era il nulla; che aveva poco senso iniziare nuovamente una relazione se non era certo di poterla gestire. Ma prima che potesse farlo cambiò idea. Bastava guardare il suo sguardo castano-dorato per coglierne la mortale serietà.
«Potrei metterci anni a superare questo ostacolo, lo capisci? Vuol dire niente baci, niente sesso. Niente strette di mano né pugno su pugno per festeggiare un punto fatto in campo.»
«Mi sta bene. Non voglio stare con nessun altro, Omi. Ti amo. Ti amo da quando eravamo al liceo. Supereremo la cosa insieme, non ti forzerò, e se non accadrà mai, rimarrò comunque al tuo fianco.» allungò una mano e la poggiò sul bracciolo che separava il sedile del passeggero da quello del guidatore. Solo pochi centimetri la separava dalla sua.
«Fino a quando non potrò toccarti, mi accontenterò di questo.» sussurrò fissando in basso.
Con calma e respirando a fondo, Sakusa lo imitò e mosse la mano. In quel modo a Miya sarebbe bastato muovere di pochi millimetri il mignolo per poterlo toccare. Kiyoomi doveva solo confidare in lui e credere che non l’avrebbe fatto.
«Proviamoci.» decise infine il corvino per entrambi. 

 
n.a.
La primissima idea che mi era venuta leggendo il prompt “Toccare” allegato al personaggio di Sakusa era un semplice excursus su come lui e Atsumu gestiscono la sua misofobia prima da semplici amici e poi come coppia. Sarebbero andati per gradi fino ad arrivare al bacio o forse al sesso.
Il fatto però è che ho scritto troppo spesso cose troppo simili a questa nella miriade di sakuatsu che ho inventato (che siano OS o long). Cercavo qualcosa di nuovo e ho pensato di analizzare questo: loro che ci provano da ragazzi e non ci riescono. A volte per quanto ci si ami serve più maturità, ed è quanto è successo qui.
Inoltre, verso la fine ho iniziato a pensare che sarebbe stato interessante – soprattutto visto il prompt – non mostrare il momento in cui riescono effettivamente a toccarsi. Ho voluto lasciarli così, a un millimetro di distanza che tuttavia ne vale infiniti e che costerà ad entrambi un duro e lungo lavoro. Non gli avrei reso giustizia velocizzando il tutto per farlo rientrare in una OS.
Chissà, magari in futuro prendendomela con calma continuerò questa storia.
A domani!!

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Capitolo 30
*** 29: Saturno [Oikawa] ***


ATTENZIONE: QUESTA ONE-SHOT CONTIENE FORTI SPOILER DEL MANGA.
Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Saturno
» N° parole: 1295

29. Saturno – Oikawa

Oikawa aveva sempre amato l’astronomia. Non sapeva neanche da dove quella passione fosse nata, ma solo che ce l’aveva da sempre. Magari era stato il suo film preferito – E.T. – ad avergli trasmesso quell’amore per le stelle, o magari era stato per il fatto che suo padre era professore di scienze alle medie. Che fosse per una ragione o per un’altra, Tooru aveva dapprima imparato a memoria tutto il sistema solare, con i suoi pianeti ed i vari satelliti, e poi si era spostato sulle costellazioni.
Felice di vantare le sue nuove conoscenze a scuola, era stato sorpreso di scoprire invece che ai bambini della sua età quelle cose non interessavano affatto e che – piuttosto – erano ritenute noiose e da secchioni. Solo una persona gli aveva dato corda, la stessa che gli dava corda per qualsiasi cosa: Iwaizumi.
Era stato in quel modo che erano diventati migliori amici, e sin dall’infanzia non si erano più separati.
Crescendo – per quanto rimanesse affascinato dagli astri – sempre meno furono per Tooru le occasioni di parlare di astrologia a quello che con felicità di entrambi era diventato il proprio ragazzo, ma Hajime non aveva mai dimenticato quella sua passione, così ogni tanto lo sorprendeva con regali come spessi tomi d’approfondimento della materia; gadget che avevano a che fare con le stelle, i pianeti o gli alieni; o ancora gli proponeva serate cinema a tema fantascientifico.
Quella sera, decise di portarlo a sorpresa all’Osservatorio della città.
Era stata una sorpresa, sì, ma non poi così inaspettata. Il castano – d’altronde – non aveva parlato d’altro per un mese intero, poiché solo per pochi giorni Saturno si sarebbe visto tanto nitido al telescopio come lo era in quel momento.
All’ingresso Iwaizumi diede il proprio nominativo informando il personale che aveva prenotato per due (non che ce ne fosse bisogno vista la poca affluenza). La donna diede loro i biglietti e poco dopo erano nella sala circolare.
Prima di arrivare al pezzo forte, Tooru si perse nelle raffigurazioni delle collezioni rappresentate sulla volta del soffitto.
Parlò per interi minuti, forse addirittura un’ora. Non appena se ne accorse si voltò mortificato verso Hajime temendo di averlo annoiato, ma questi stava guardando in alto verso il punto da lui indicato poco prima con un sorriso felice in volto che contagiò presto anche Oikawa. Lui era l’unico in grado di ascoltarlo per ore continuando a mostrare quell’aria interessata e contenta.
Non appena i loro sguardi s’incrociarono, il corvino lo pregò di continuare e lui non se lo fece ripetere due volte.
Tooru ed Iwaizumi stavano insieme dall’ultimo anno di liceo. Si erano ritrovati a consolarsi a vicenda dopo aver fallito l’ultimo tentativo che avevano per poter accedere ai nazionali di pallavolo, e tutto a un tratto era successo.
Da allora erano successe molte cose: Oikawa si era trasferito in Sud America ed Iwaizumi negli Stati Uniti; il primo aveva acquisito la cittadinanza argentina mentre l’altro aveva ottenuto l’impiego per cui aveva studiato tanto. Nonostante a livello nazionale Tooru giocasse contro il Giappone, il castano aveva infine deciso di tornare in patria accettando una delle tante proposte che gli erano state offerte dopo le Olimpiadi disputate a Tokyo nel 2021. D’altronde a quel punto i suoi obiettivi erano stati raggiunti, e già pago per essere stato allenato dal proprio idolo ed aver sconfitto i propri rivali, Oikawa aveva deciso di porre fine alla relazione a distanza che da troppi anni stava mandando avanti con Iwaizumi per tornare ad essere una di quelle coppie in grado di potersi toccare.
Non era passato molto dal suo ritorno che i due avevano deciso di andare a vivere insieme, e da allora erano passati due anni.
«Come fai a non annoiarti mai quando finisco per spiegarti tutta la Via Lattea?» chiese Tooru ridendo a un certo punto. Anche Hajime rise.
«Come potrei mai annoiarmi quando mi spieghi le cose in questo modo?» sollevò una mano e gli accarezzò una guancia. Poi si baciarono.
«Amo la passione che ci metti.» gli sussurrò poi labbra su labbra. Oikawa arrossì. Stavano insieme già da anni ma la vicinanza di Iwaizumi gli faceva ancora quell’effetto. Si innamorava di lui ogni giorno sempre un pochino di più, come se non ci fosse limite a quanto potesse volergli bene.
Il suo sguardo scappò alla bocca del suo compagno, si morse il labbro inferiore e di nuovo si sporse – placido – verso di lui.
Baciarlo era bello e non gli sarebbe mai bastato. Il periodo di lontananza che avevano vissuto era stata una vera e propria tortura ma necessaria affinché nessuno dei due avesse rimpianti riguardo ai propri sogni lavorativi. Erano realizzati, adesso, e pronti per vivere le loro vite come una sola.
Fecero qualche passo ancora, infine arrivarono al telescopio principale già impostato con le coordinate giuste per poter vedere Saturno solo appoggiandovi l’occhio. Tooru guardò Hajime in una tacita domanda, ma prima ancora che potesse anche solo pensare di aprire bocca, il corvino lo anticipò dicendo:
«Guarda prima tu.» lui sorrise e non si fece pregare. Era lui, d’altronde, il nerd delle stelle.
Chiuse un occhio e poggiò l’altro sulla microcamera, poi esclamò contento.
«È bellissimo, Iwa-chan! Non l’avevo mai visto così bene!» non distolse lo sguardo per ascoltare la sua risposta:
«Sono felice che ti piaccia. Speravo tanto di rendere questo il nostro appuntamento più bello.» Tooru rise ma continuando a guardare il pianeta lontano.
«Non ha ancora questo primato. Ne abbiamo avuti tanti davvero bellissimi. È difficile superarli.»
«Però può ancora migliorare.»
«Può sempre migliorare.»
Non parlarono più per alcuni secondi. Oikawa si godette la vista imponendosi di cedere il posto al telescopio quanto prima al suo compagno quando proprio questi parlò ancora:
«Qual è il tuo pianeta preferito?» Tooru – l’occhio ancora fisso sull’universo – finse un tono di biasimo.
«Mi conosci da tutta la vita e non lo sai?» sentì la risata di Iwaizumi.
«Lo so. Ma dimmelo lo stesso.»
«Qualcuno qui è impaziente di sentirsi dire che questo appuntamento è perfetto!» lo prese in giro, ma poi comunque affermò: «Il mio pianeta preferito è sicuramente Saturno. L’anello lo rende più bello di tutti gli altri messi insieme! Non c’è storia.» Hajime non rispose per un po’. Quando parlò ancora, disse solo il suo nome:
«Tooru…» ingenuamente pensando che gli stesse per chiedere di dargli la possibilità di vedere, il castano scostò gli occhi dall’obiettivo per puntarli sul corvino. Fu confuso nel non trovarlo ad altezza occhi, ed il suo cuore mancò un battito nell’appurare che si trovava in ginocchio.
Hajime lo stava guardando dal basso in alto con un misto di ansia ed eccitazione in volto; un sorriso sulle labbra ed una scatoletta aperta tra le mani.
«Sono d’accordo con te. Gli anelli rendono tutto più bello.» Oikawa era talmente sorpreso da non sapere cosa fare; era talmente felice da non essere in grado di parlare.
«Ti amo, Tooru, e voglio passare il resto della mia vita con te. Voglio osservarti vincere altre medaglie ed ascoltarti parlare di stelle fino alla vecchiaia. Voglio camminare mano nella mano con te, voglio addormentarmi al tuo fianco e svegliarmi con te tra le mie braccia per sempre. Vuoi sposarmi?» ad Oikawa mancava il respiro, era talmente euforico che gli sembrava di volare.
«Anch’io, Hajime! Anch’io voglio tutto questo!!» gli occhi del corvino si illuminarono di speranza e poi ancora di più quando finalmente lui disse: «Sì! Certo! Ti amo, voglio sposarti!» Iwaizumi saltò in piedi, lo baciò energico e gli mise l’anello al dito. Tooru fisso il proprio anulare senza riuscire a smettere di sorridere.
«Visto?» lo raggiunse la voce di Iwaizumi mentre alternava le parole ai baci sul collo «Adesso il tuo dito è molto più bello.» Oikawa ridacchiò del tutto concorde.
«D’accordo, hai vinto. Questo è l’appuntamento più bello di tutti i tempi! Ti sfido a batterlo.»
 

n.a.
Che dire, headcanon: Iwaizumi gli ricorda di questa sfida finale quando vanno per la prima volta “ad un appuntamento” insieme al bambino che hanno appena adottato.

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Capitolo 31
*** 30: Soulmate [matsuhana] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Soulmate
» N° parole: 1600

30. Soulmate - MatsuHana

Alla parola “anima-gemella” gli occhi di chiunque s’ingigantivano ed iniziavano a brillare. Erano due parole che ne formavano una, e così – voleva la convinzione comune – due persone legate dal destino, una volta trovatesi, sarebbero diventate una cosa sola. In molti si dicevano rassicurati al pensiero di avere una persona predestinata che l’attendeva, ma non Hanamaki Takahiro. Il ragazzo, d’altronde, assisteva ogni giorno alle discussioni dei suoi genitori, così se su una cosa era sicuro, quella era che tutta la faccenda delle anime gemelle fosse sopravvalutata, perché nessuno parlava mai del fatto che non per forza la tua persona doveva necessariamente essere qualcuno con cui saresti andato d’accordo. Era evidente con i signori Hanamaki, ma volendone avere la certezza un giorno Takahiro chiese spiegazioni a suo padre. Da lui apprese che sì, lui aveva inequivocabilmente saputo al primo sguardo che sua madre era la sua metà; sin da subito aveva iniziato a battergli forte il cuore e a dolergli la pancia in sua presenza, e tutt’ora gli accadeva. Era innamorato senza dubbio né possibilità di uscirne, ma – gli spiegò anche – i due non erano mai realmente andati d’accordo. Per mesi avevano cercato di capire cosa gli facesse più male: se stare lontani l’uno dall’altra o al contrario rimanere fianco a fianco. A distanza di anni e con il dono di un figlio, gli disse che ringraziavano entrambi il Cielo per aver scelto infine la seconda opzione. Takahiro – lo capì facilmente anche da solo – era l’unica cosa che i due adulti avessero in comune e sulla quale non avrebbero mai avuto bisogno di discutere.
Per il proprio futuro il ragazzo non voleva questo. Guardare una persona e capire che quella sarebbe rimasta – volente o nolente – a far parte per sempre della sua vita era una cosa che forse piaceva ai molti, ma non a lui. E mettere al mondo un bambino e dargli il peso di essere l’unica punta di sutura che permetteva al matrimonio dei genitori di non scucirsi era una cosa che gli piaceva ancora meno.
Non c’era molto che potesse fare, in ogni caso, perché l’universo funzionava così, ma era con apprensione che il castano si ritrovava a fare nuove amicizie; con paura che incrociava gli sguardi degli sconosciuti per strada, e allo stesso modo – ogni anno – si ritrovava a cambiare classe.
Non fu diverso il primo giorno di liceo. Scattò la foto di rito davanti all’edificio insieme ai suoi genitori, assistette alla cerimonia di apertura, ed infine raggiunse la classe che gli era stata assegnata. Come ogni anno, il tutto accompagnato da un unico pensiero ricorrente: “Fa che non la incontri oggi.” ma se per quindici anni aveva avuto fortuna, quel giorno fu diverso. Alzò lo sguardo con l’intento di cercare un banco su cui sedersi, ma a trovare fu solo la sua anima gemella.
Sospirò e – immediatamente – capì cosa avesse voluto intendere suo padre quando gli aveva detto di aver capito al primo sguardo che sua madre era quella giusta.
Nel suo caso, la sua altra metà era un ragazzo, alto, magro, dai capelli scuri e lo sguardo serio; bello nel complesso, ma avrebbe anche potuto essere un rospo e a Takahiro sarebbe piaciuto ugualmente. Notò le sue guance imporporate e si chiese se anche le proprie non apparissero in quel modo; notò il modo in cui lo stava fissando e, ancora, si disse che probabilmente era solo il riflesso del modo in cui Hanamaki stava osservando il corvino.
Deglutì e questo, forse, gli snebbiò la mente quel tanto affinché Takahiro riuscisse ad occupare con la propria cartella – durante il tragitto verso l’altro – un banco singolo e distante da quello già preso dal più alto. Se era costretto a condividerci la vita, d’altronde, meglio prendersi per quanto possibile alcuni spazi. Si raggiunsero a metà strada. Il rossore persisteva ancora sulle guance della sua anima gemella, eppure furono gli occhi calanti a catturare l’attenzione di Hanamaki una volta avvicinati. Quel ragazzo dava tutta l’impressione di essere fin troppo serio e poco incline alle risate, il che non si prospettava un bene se comparato al carattere del castano.
Si costrinse a parlargli, comunque, iniziando con un imbarazzantissimo “Ciao” che tuttavia, a sorpresa, fece arrossire ben peggio di prima il suo interlocutore che in un mormorio timido disse:
«Quindi sei tu. Ti aspettavo.» Takahiro si morse l’interno guancia per trattenere la smorfia che lottava per uscire.
“Dio, fa che non sia uno di quelli smielati romantici che non aspettano altro che momenti come questi.” pregò silenziosamente continuando a fare buon viso a cattivo gioco. Sorrise e si presentò, così scoprì che il nome dell’altro era Matsukawa Issei ma nulla di più prima che il professore entrasse in aula.
«C’è un posto libero accanto a me.» provò il corvino, ma lui si defilò in fretta indicando col pollice la propria borsa.
«Ho già preso posto. Parliamo dopo scuola?» all’altro non rimase che annuire.
Così, finite le lezioni, a Takahiro toccò conoscere la propria anima gemella. Non aveva potuto fare a meno di occhieggiarla durante le lezioni domandandosi come fosse e convincendosi sempre più a fondo di quanto sarebbe stato noioso. I suoi atteggiamenti in classe parlavano da soli, dopotutto. Adesso non gli rimaneva altro che confermare i propri sospetti, ma se era vero che da tutta una vita non faceva altro che ripetersi che non avrebbe fatto come i propri genitori, adesso capiva non essere così semplice. Lui amava Matsukawa Issei. Non sapeva come né perché, ma era così ed il solo immaginare di lasciarlo o di anche solo allontanarlo lo atterriva.
Passeggiarono per un po’ senza meta, parlando del più e del meno ma limitandosi ai soliti e noiosi convenevoli tra sconosciuti. Fu dopo una buona mezzora che – sospirando – Hanamaki si fece forza e si impose a passare a domande più personali.
«Genere di film preferito?» iniziò con qualcosa di semplice e poco riservato, ma Issei lo sorprese. Arrossì. 
«Mi vergogno. Chiedimi qualcos’altro.» dopo tante chiacchiere, finalmente ecco qualcosa di divertente, ma fu con poca aspettativa che Takahiro subito dopo disse:
«Eddai, puoi dirmelo! Sono i film romantici? I romanzi rosa? Titanic?» Matsukawa continuò a tacere, così l’altro si fece più titubante «…Twilight?» a quel punto il corvino fece una smorfia arrestando il proprio passo. Takahiro seguì il suo esempio e si ritrovarono fermi l’uno di fronte all’altro.
«No.» rispose, come sempre pacato ma facendo ugualmente sospirare di sollievo il castano. Non poteva esserci categoria più noiosa e melensa, per lui, dei film romantici. Persino i film d’autore erano preferibili!
«Quindi?» provò ad incitarlo «Non può peggiorare l’idea che mi ero fatto sui tuoi gusti.» rise «Quindi dimmi!» Issei indugiò ancora, ma infine ammise:
«Mi piacciono i film-spazzatura.» Hanamaki spalancò gli occhi ma non disse nulla perché non poteva riferirsi a quello che pensava si stesse riferendo!!
«Intendi…?» mormorò, così l’altro specificò meglio:
«I film trash. Sharknado, Killer Sofà… e poi i sequel delle saghe che vanno sempre più a peggiorare. È dal quinto o dal sesto film di solito che avviene la magia. Insomma… pensa a Fast&Furios.» il castano non rispose, troppo impegnato a rompere ogni immagine che si era fatto del ragazzo nella sua testa per farlo, così il corvino continuò:
«Certo, lo so cosa stai pensando. Fast&Furios fa schifo e si salvano solo i primi due o tre, mentre per me quelli sono i più brutti.»
«In realtà,» riuscì a riprendersi Takahiro «stavo pensando che dovrei proprio farti vedere The Velocipastor, giusto per farti capire cos’è il vero trash.» ghignò.
«Già visto.» ghignò di rimando la sua anima gemella. Il castano spalancò gli occhi sorpreso, poi una scintilla vi nacque dentro per lì rimanere.
«Zombie Ass
«Intendi Toilet of the Dead? Ovvio!»
«L’attacco dei pomodori assassini.»
«Come minimo sette anni fa!»
«Killer Condom
«Il mio preferito.»
«Jesus Christ Vampire Hunter
«Geniale. E, sì.»
«Kung Fury!» Issei aprì la bocca per rispondere, ma la chiuse subito dopo. Poi disse:
«Credo che mi manchi.» Hanamaki iniziò a ridere vittorioso.
«Oh, Issei. Cosa c’è di meglio di un agente di polizia colpito da un fulmine e morso da un cobra che viaggia indietro nel tempo per fare il culo ad Hitler?» chiese commosso. Matsukawa rise di rimando.
«Non posso credere che anche a te piacciano film del genere. Si parla di quarta categoria!»
«Diciamo anche quinta.» lo corresse fiero il castano. Poi sorrise intenerito. Il sorriso del corvino era bellissimo e certamente non uno di quelli così rari a spuntare come aveva creduto.
«Abbiamo trovato la nostra cosa in comune.» sussurrò felice. Issei arrossì.
«Sono certo che ce ne saranno anche altre.» ma a Takahiro non importava.
Un interesse comune. Ecco in cosa aveva sperato per tutta la sua vita al pensiero del giorno in cui avrebbe incontrato Issei, e ora l’aveva trovata.
Annuì, comunque, il castano, convinto che l’altro avesse ragione. Divenne ancora più rosso. Poi parlò ancora.
«Ora sto per baciarti. A te va bene?» Matsukawa annuì talmente in fretta e con tanta convinzione da far scoppiare a ridere Takahiro, che si spinse verso di lui ben più contento di quanto non avesse osato sognare. Unì le loro labbra e ad un tratto riacquistò fiducia nell’Universo.
«Vieni da me stasera per guardare King Fury?» il corvino annuì ancora in quel suo modo adorabile e il più basso ridacchiò. Dio, se lo amava, e adesso poteva anche dirsi felice di farlo.
Il giorno dopo afferrò i propri libri e si sistemò nel banco accanto al suo cacciando senza possibilità d’appello il bel faccino dai capelli castani che vi aveva preso possesso. Perché prendersi così tanto spazio, d’altronde, se la persona della sua vita era a pochi passi di distanza?

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Capitolo 32
*** 31: Arcobaleno [Kuroo] ***


Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» Prompt: Arcobaleno
» N° parole: 1444

31. Arcobaleno – Kuroo

Da sempre Tetsuro aveva conosciuto un solo genitore. Aveva poca importanza il motivo: il piccolo Kuroo non aveva una mamma e questo era quanto. Ma le persone, specie i bambini, sono curiose di natura, così troppo spesso si erano ritrovate a chiedergli inopportunamente perché in casa fossero solo in due.
Probabilmente il corvino era diventato chiuso e timido per questo motivo anche se non avrebbe voluto. Suo padre lavorava duramente per fargli avere una vita perfetta ed essendo da solo si colpevolizzava per tutto ciò che credeva non andasse bene per suo figlio. La mancanza di amici era sicuramente in lista e lo fu anche il necessario trasferimento a cui fu costretto a sottoporlo a causa del lavoro.
In quell’occasione Tetsuro aveva provato con ogni mezzo a fargli capire che per lui non era un problema, e vista la poca convinzione del padre si era ripromesso di aprirsi di più con vicini e compagni di scuola, ed era così che aveva conosciuto Kenma.
Più sicuro ed estroverso di prima, il ragazzo fu sempre più in grado di prendersi cura di suo padre come questi faceva con lui. D’altronde erano una squadra da tutta la vita e così avrebbero continuato ad essere.
Tetsuro imparò a cucinare per fargli trovare un pasto caldo a giornata di lavoro terminata; iniziò a lavorare part-time per contribuire alle spese della casa e prese la patente per aiutarlo con le commissioni.
Kuroo non aveva mai conosciuto sua madre, ma questo non voleva dire che ne sentisse la mancanza. Kuroo Fumio gli aveva fatto da padre e da madre, da mentore e da amico. Era fiero di essere suo figlio ed era fiero del rapporto di fiducia che si erano costruiti. Se si impegnava nello studio, era per renderlo orgoglioso; se si impegnava nello sport, era per vederlo tra gli spalti a tifare. Non avrebbe mai dimenticato la gioia e la fierezza che gli aveva letto in viso alla notizia che era diventato capitano.
Ogni traguardo raggiunto, se detto a lui, rendeva Tetsuro mille volte più felice, e allo stesso modo ogni fallimento era reso mille volte più sopportabile. Suo padre era un amico, un ascoltatore, un consigliere. Era la sua famiglia, e – fin quando ci sarebbe stato – il ragazzo sapeva che sarebbe stato al sicuro, che avrebbe potuto provare qualsiasi cosa buttandosi nell’ignoto con fiducia perché Fumio sarebbe stato lì pronto a coprirgli le spalle.
Per ventisei anni la sua fiducia in quell’uomo fu cieca, fino al giorno in cui decise di fare con lui coming out.
Non che lo credesse omofobico o ristretto mentalmente. Anzi, conosceva bene le sue idee sui diritti LGBTQ+ perché molto spesso ne avevano parlato con la scusa di uno o di un altro servizio al telegiornale, tuttavia tutto cambiava adesso, perché era di lui che si trattava. Non pensava fosse omofobico, ma cosa sarebbe successo se dopo quella rivelazione avesse iniziato a guardarlo in modo diverso? E cosa invece se riteneva infranto il loro rapporto di fiducia per quel segreto così tanto a lungo taciuto?
Non poteva andare avanti però senza mostrare alla persona più importante della sua vita chi era davvero. Non voleva andare avanti nascondendogli che la persona che più amava al mondo era e sempre sarebbe stata Kenma.
Si impose di dirglielo, dunque. Gli preparò la cena e aspettò che finisse di lavorare.
Quando l’uomo rincasò, il cuore di Tetsuro prese a battere più forte che mai. Ebbe appena il tempo di prendere due ampi e rapidi respiri prima che l’uomo lo raggiungesse in cucina e lì prendesse a chiedergli della cena.
Il ragazzo colse quell’occasione per distrarsi dicendogli cosa aveva preparato per entrambi; impiattarono il tutto insieme e poi – non ancora pronto per aprire quell’argomento – Tetsuro chiese a Fumio della propria giornata.
Quando l’uomo ebbe finito di parlare fu il suo turno di raccontare la giornata, ma teso com’era il giovane fece ben poco e presto si ritrovarono in mezzo ad un silenzio pesante e – dal suo consapevole punto di vista – ricco di tensione.
Doveva farlo. Era il momento. Rimandare non aveva più senso.
Aprì la bocca.
La richiuse.
Sospirò forte, sollevò lo sguardo e incontrando quello curioso di suo padre perse il coraggio tornando muto.
Si morse il labbro inferiore arrabbiato con se stesso, e mentre si imponeva di essere forte arrivò la domanda dell’altro:
«Tutto bene, figliolo?» nel rispondergli – traditrice – la voce del ragazzo uscì roca e fragile.
«S-Sì!» non ci voleva un genio per capire che quella fosse una bugia, così guardandolo con una vena preoccupata Fumio continuò:
«C’è qualcosa che vuoi dirmi?»
Quella domanda così diretta lo fece annaspare. Distolse gli occhi da quelli da di suo padre e ben meno deciso di quanto non lo fosse poco prima iniziò a balbettare:
«N- Cioè… N…» era così tanto tentato di dire di no!
“Non è niente, papà! Solo una brutta giornata di allenamenti.” oppure “Ho solo troppi compiti da fare.” qualsiasi cosa purché non la verità. Eppure non poteva! Doveva fare coming out. Suo padre si meritava la verità e lui si meritava di vivere libero di essere ciò che era, libero di mostrare il suo affetto per il proprio ragazzo.
«È qualcosa di importante?» fu riportato alla realtà dalla voce di Fumio. Tetsuro lo guardò confuso, così l’altro continuò:
«È urgente quello che devi dirmi?» e mentre ripeteva la domanda aveva iniziato ad alzarsi. Seguendo i suoi movimenti con lo sguardo, Kuroo balbettò subito di no, che poteva aspettare. D’altronde era già tanto che non fosse già scappato da quella conversazione. Se poi l’uomo prendeva e andava via con quale forza lui avrebbe mai potuto trattenerlo?
Fumio annuì soddisfatto.
«Bene, perché devo fare una cosa importante. Mi aspetti sveglio?» Tetsuro non aveva idea di cosa suo padre dovesse fare a quell’ora della sera, ma subito annuì e poco dopo fu solo.
Fu già tanto per lui non scoppiare in lacrime. La tensione era tanta, d’altronde, e quel momento uno di quelli cruciali per il futuro suo e della sua famiglia.
Attese seduto teso alla stessa sedia sulla quale aveva cenato. Attese minuti, poi più di un’ora.
Infine, la serratura della porta scattò ed il familiare “Sono a casa” di suo padre lo raggiunse. Tetsuro si alzò con gambe tremanti, e con altrettanti passi tremanti raggiunse l’ingresso dove Fumio si stava cambiando le scarpe.
«Cosa dovevi fare?» gli chiese sinceramente curioso e felice di poter ritardare ancora quel discorso tanto difficile.
«Prenderti questa.» gli passò un sacchetto di cartone confondendo Tetsuro sempre di più. «È stata una faticaccia trovare un posto aperto a quest’ora.» il corvino abbassò lo sguardo e sulla confezione riconobbe il logo di un negozio di vestiti del centro commerciale non troppo distante. Il sacchetto era chiuso con le graffette ed aveva un fioco sopra.
«E questo per cosa sarebbe?» chiese sorpreso vista la totale assenza di occasioni da regalo nelle vicinanze. Fumio sorrise.
«Tu aprilo e basta.» Kuroo aggrottò la fronte ma fece quanto gli era stato detto.
Come previsto, all’interno c’era un capo d’abbigliamento ed afferrandolo scoprì essere una maglietta. Era bianca, dal taglio semplice, ma fu girandola che sul busto trovò la sorpresa più grande: una striscia arcobaleno. Niente di troppo eclatante, solo una striscia di colore. Non poteva essere una coincidenza che suo padre gli avesse fatto quel regalo proprio quel giorno, però. Era uscito apposta, e se c’era una cosa che l’arcobaleno poteva rappresentare, quella era l’accettazione.
Tetsuro sollevò gli occhi su di lui, spalancati e lucidi di lacrime commosse. Fumio stava sorridendo.
«Questa la indossi al Pride, va bene?» e a quelle parole il pianto del ragazzo ebbe libero sfogo. Saltò in avanti e abbracciò l’uomo più forte di quanto non avesse mai fatto. Lui ricambiò ed i suoi singhiozzi triplicarono.
La tensione che svaniva tutto d’un colpo, la consapevolezza non solo che suo padre lo accettava ma che già da tempo era a conoscenza della sua natura. Tutto ciò fu troppo per Tetsuro, ma piangere fu anche liberatorio.
Sgualcì la maglietta, ed anche di molto, rammaricandosene non appena se ne accorse, così ridendo divertito suo padre gli propose di stirarla insieme in modo che nel frattempo avrebbe potuto dirgli di più di lui e di quell’aspetto della sua vita che finalmente si sentiva libero di poter mostrare. Il ragazzo sorrise ed accolse il suggerimento in fretta.
Parlarono per tutta la notte. Parlarono di quando aveva iniziato a capirlo, del modo in cui aveva iniziato a vedere Kenma, del momento in cui si erano messi insieme e di tutte le volte in cui si era rammaricato che Fumio non lo sapesse.
Parlargliene fu liberatorio e bellissimo. Adesso si sentiva più leggero. Adesso poteva davvero essere se stesso.
 

(ultime) n.a.
Sì, con quella parentesi ho voluto fare la sentimentale, ma ci torneremo tra un attimo.
Breve spiegazione sul perché la mamma di Kuroo non c’è: è molto semplice, canonicamente non esiste. Se ci fate case nel flashback in cui Kuroo e Kenma vengono presentati si vedono di sfuggita entrambi i signori Kozume ma solo il padre di Kuroo. Non so bene quando Furudate l’abbia confermato, fatto sta che il fatto che la madre di Tetsuro non ci sia è una notizia ufficiale. Non sappiamo il perché, quindi non ho voluto metterlo neanche qui. Anche perché mi piaceva l’idea di mostrare quanto “non sia importante”. Insomma, che sia morta o sia andata via, rimane il fatto che Tetsuro non l’ha mai conosciuta, quindi cosa cambia per noi sapere il perché?
Ora passiamo ai sentimentalismi: ci siamo. Eccoci alla fine. Devo ringraziare tutti, davvero! E non posso non nominare muffin12 e Thesnake perché voi più di tutti mi avete spronata ad andare avanti! E non è stato facile.
Ripenserò a questo mese probabilmente mettendomi le mani sui capelli per ancora molto tempo perché davvero ne sono uscita pazza. Ho mandato a quel paese un esame per portare avanti questa sfida! Ho rinunciato a tantissime serate fuori. Le priorità di una scrittrice, giusto??
Fin troppe OS mi hanno fatta penare, ma adesso che è tutto finito posso dirmi soddisfatta, e lo sono anche delle storie che mi piacciono di meno, perché mi hanno messo alla prova e sono state prove che – in un modo o nell’altro – sono riuscita a superare.
I prompt di questo mese mi hanno dato idee che non avrei mai avuto, mi hanno fatto scrivere cose che mai avrei scritto. È stato bello, ma ammetto che più bello ancora è che sia finita.
No, mai più farò sfide del genere. Però chissà, magari eventi più corti come la sfida di Halloween più avanti la farò (sicuramente non quest’anno).
Grazie di nuovo a tutti quanti! Recensori e non recensori, iscritti e non iscritti.
Spero il mio stile vi sia piaciuto e che vi spinga a tornare anche in futuro per le altre storie che ho in mente!!
Un bacio!

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