La casa vuota

di MarFu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Mnestic ***
Capitolo 2: *** Ascian ***
Capitolo 3: *** Wabi-sabi ***
Capitolo 4: *** Eccedentesiast ***
Capitolo 5: *** Metensomatosis ***
Capitolo 6: *** Longanimity ***
Capitolo 7: *** Ephialtes ***
Capitolo 8: *** Acrasia ***
Capitolo 9: *** Hävitä ***
Capitolo 10: *** Latibulum ***
Capitolo 11: *** Yugen ***
Capitolo 12: *** Preterist ***
Capitolo 13: *** Ukiyo ***
Capitolo 14: *** Tectum ***
Capitolo 15: *** Ataraxis ***
Capitolo 16: *** Pridian ***
Capitolo 17: *** Alew ***
Capitolo 18: *** Sweven ***
Capitolo 19: *** Lorn ***
Capitolo 20: *** Multitarian ***
Capitolo 21: *** Noctiphobia ***
Capitolo 22: *** Louche ***
Capitolo 23: *** Aonaran ***
Capitolo 24: *** Kaira ***
Capitolo 25: *** Mazarine ***
Capitolo 26: *** Aita ***
Capitolo 27: *** Antaric ***
Capitolo 28: *** Conticeo ***
Capitolo 29: *** Hukka ***
Capitolo 30: *** Hiraeth ***
Capitolo 31: *** Sciaphilia ***



Capitolo 1
*** 1 - Mnestic ***


Mnestic
mnes·​tic | ˈnestik
Pertinente alla memoria.

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La casa era esattamente come la ricordava eppure completamente diversa. Era una casa di pietra alta due piani, larga appena quanto bastava perché due finestre trovassero posto ai lati della porta d’ingresso. Le pietre che componevano le pareti esterne erano ancora tutte al loro posto, anche se in qualche modo sembravano completamente diverse: come Dylan, avevano abbandonato il grigio chiaro dell’infanzia per assumere i colori più scuri (ora marrone, ora nero, a tratti color cenere) della maturità. Il piccolo prato sul quale si affacciava la casa, delimitato da un basso muretto di pietre irregolari, era verde e ben tenuto, ma non particolarmente curato o bello da vedere. Dylan ricordava quando sua madre ci aveva piantato dei cespugli di rose e suo padre si era ritagliato un pezzetto di terra da coltivare.
Appoggiò una mano sul cancelletto di legno, scrostato e imbarcato in più punti, lo aprì e varcò la soglia.
«Cerca qualcosa?» chiese una voce burbera dietro di lui. Dylan si voltò lentamente.
Si trovò davanti a un uomo con dei folti baffi a spazzola e un’espressione arcigna incorniciata da un paio di sopracciglia cespugliose. Gli occhietti piccoli lo fissavano, socchiusi e sospettosi.
Quell’uomo aveva un’aria famigliare. I suoi vestiti, una camicia di flanella blu, un vistoso giubbetto senza maniche rosso e una coppola marrone, erano banali, quasi brutti, ma a Dylan non erano estranei.
“È la caricatura di un pecoraio” pensò, scacciando quella sensazione.
«Cerca qualcosa, le ho chiesto» ripeté l’uomo. Stava visibilmente perdendo la pazienza.
«Mi scusi» rispose Dylan, lasciando andare il cancello e tornando sulla strada di acciottolato sulla quale si affacciava la casa.
Appena fece un passo verso di lui, l’uomo si irrigidì, fissando Dylan dall’alto in basso. Stava per fare un passo indietro, ma poi rimase fermo sul posto, assumendo un’espressione strana, un misto tra il disgusto e la rabbia.
«Mi scusi tanto, non volevo spaventarla» si scusò Dylan, alzando le mani. «Mi chiamo Dylan O’Brien, questa è la casa della mia famiglia. Ci venivamo sempre quand’ero piccolo, fino alla morte di mia madre…»
Per fortuna il vecchio lo interruppe, perché le parole di Dylan si bloccarono in gola quando parlò di sua madre.
«Mi ricordo di te. Sei il giovane Dylan» disse l’uomo.
«Mi conosce?»
«Certo. Conoscevo tutta la tua famiglia. Il vecchio Sean e sua moglie Mary, certo.» Sul volto dell’uomo si fece largo un sorriso che portò in alto con sé anche i baffoni grigi. Eppure c’era ancora qualcosa di… sbagliato nei suoi occhi. «Sono Doyle. Colin Doyle. Il custode.»
Dylan fu travolto da un fiume di ricordi. Il signor Doyle, sempre con i suoi baffoni a spazzola e la coppola in testa, organizzava giochi per tutti i ragazzi di Salthill Road quando Dylan era piccolo e i suoi genitori lo portavano lì in vacanza. Appena arrivavano a Tullow, tutti i bambini chiedevano del signor Doyle, ansiosi di partecipare a una caccia al tesoro, a una gara di corsa o a un torneo di nascondino.
«Lasciate in pace il signor Doyle» dicevano i genitori, non appena incontravano il custode per la consegna delle chiavi.
«Oh, non preoccupatevi, mi fa piacere» diceva il signor Doyle, scompigliando i capelli dei bambini in un cenno di saluto.
«Ma certo» disse Dylan, tendendo la mano verso il custode. «Il signor Doyle, mi scusi. È passato tanto tempo.»
Gli occhi di Doyle saettarono alla mano di Dylan. Poi il custode sorrise e salutò toccandosi il cappello.
Dylan abbassò la mano. «E mi dica, come sta? E come sta sua moglie? Improvvisamente me lo ricordo come se fosse ieri, i suoi timballi, le patate arrosto e le torte…»
«Rosy sta bene, grazie» disse Doyle, abbassando lo sguardo. «È anziana ormai. Non esce quasi più dal cottage, su» aggiunse, indicando la collina che si ergeva alla fine della strada.
E poi Dylan si ricordò di Belle. La figlia di Doyle e sua moglie, la copia sputata della madre. Quante giornate avevano passato insieme, lì a Tullow. Giocavano nei boschi, andavano a raccogliere i sassi in spiaggia che poi lanciavano dalla scogliera, facendo a gara a chi li lanciava più lontano. Rincorrevano le pecore nei campi, facendo finta di essere cani pastore, e si ingozzavano con i manicaretti che la signora Doyle preparava soltanto per loro.
«E Belle? Come sta Belle?» chiese.
Un’ombra velò il volto del custode, mentre si abbassava il berretto sugli occhi e con un filo di voce diceva: «Belle è morta.»

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Capitolo 2
*** Ascian ***


Ascian
as·ci·an | \ ˈash(ē)ən \
Una cosa o una persona senza ombra

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La teiera fischiava ormai da un po’ ma né Dylan né il signor Doyle l’avevano notato. Il vecchio custode aveva appena finito di raccontargli della morte di Belle, della lunga malattia, dell’effetto devastante che il suo dolore aveva avuto non soltanto su di lei, ma anche su quelli che le stavano attorno e che la amavano. Di quanto sia stata dura, per lui, per sua moglie, vederla consumarsi a quel modo.
Erano entrati nella casa di Dylan e si erano sistemati in cucina dopo aver concordato sul fatto che entrambi avessero bisogno di una tazza di tè. Dopo quella storia, forse, Dylan avrebbe preferito qualcosa di più forte. Ricordava Belle come una ragazzina eternamente felice. Niente poteva toglierle il sorriso dal viso. L’aveva incontrata di nuovo, qualche volta. Quando avevano all’incirca vent’anni. E anche allora la prima cosa che l’aveva colpito di lei era il sorriso.
Pensare a quel sorriso consumato dalla malattia, a quelle labbra morbide screpolate dalla disidratazione, a quei denti splendenti ingialliti dalle medicine, gli faceva rivoltare lo stomaco.
«Mi dispiace davvero tanto» aveva detto a Doyle quando l’uomo aveva concluso il suo racconto. «Non riesco nemmeno a immaginare come dev’essere stato vivere un’esperienza simile.»
Doyle sollevò il volto e lo guardò per qualche secondo, in silenzio, prima di espirare leggermente dal naso, annuendo, i baffi sollevati in un lieve sorriso amaro.
«No, non è un’esperienza facile da vivere» disse. «Né da accettare» aggiunse, guardando Dylan fisso negli occhi.
Dylan, a disagio, si voltò verso la teiera che non aveva smesso di fischiare. «Che tè le preparo?» chiese.
Doyle si alzò immediatamente e prese la teiera prima che Dylan potesse soltanto avvicinarvisi. «Ci penso io, non ti preoccupare, ragazzo» disse, versando l’acqua bollente nelle tazze. «Siediti, e raccontami. Cosa… cosa ti porta da queste parti in bassa stagione?»
Dylan si sedette e rimase in silenzio per qualche secondo, rimuginando. Cosa lo portava in quel piccolo villaggio dove aveva trascorso le vacanze da bambino? Perché aveva fatto tutti quei chilometri?
«Non lo so» ammise. «Mi sento perso, suppongo. La mia vita…» Faticava a trovare le parole. «La mia vita è a un bivio, suppongo. La città cominciava a starmi stretta, e così…»
«Così sei venuto quassù» concluse Doyle, porgendogli la sua tazza di tè. «Sperando di trovare… delle risposte?»
«O forse a capire quali sono le domande» sorrise Dylan, sorseggiando un po’ di tè. «Ci voleva, fa piuttosto freddo, eh?»
«Freddo? Ragazzo, siamo in bassa stagione ma siamo alle porte dell’estate. Non direi che fa freddo.»
Eppure, da quando era arrivato a Tullow, Dylan aveva avuto freddo. Non un freddo rigido, invernale, che ti fa battere i denti. Ma un freddo leggero, che ti accarezza la pelle, che ti fa venire un brivido lungo la schiena ogni tanto.
«Dice?» disse, tirandosi le maniche del maglione bene giù sui polsi.
Doyle lo guardò, pensieroso. «Non sarà che…»
E poi, per un attimo, fu come se Dylan si trovasse sott’acqua. Le parole del custode arrivarono alle sue orecchie ovattate, incomprensibili.
«Come, scusi?»
Doyle sorrise. «Scusami, con l’età sto cominciando a mangiarmi le parole. Sai, la dentiera…» disse, sorridendo.
Dylan ricambiò timidamente il sorriso. No. Non si era mangiato le parole. Era successo qualcosa, ma Dylan non capiva cosa.
«Ho detto» riprese Doyle, «non sarà che stai covando qualcosa?»
Dylan annuì piano. «È probabile. Sa, forse ha ragione. Magari il tè mi aiuterà.»
«Magari» sorrise il custode.

Dylan, dando credito alla teoria del signor Doyle sul malanno, decise di salutare il custode, prendere qualche antipiretico, per sicurezza, e stendersi per qualche oretta. Il viaggio fino al villaggio l’aveva stancato parecchio e contava di riuscire a uscire nel pomeriggio, per godere del sole caldo e sgranchirsi le gambe.
Era andato nella vecchia camera dei suoi genitori, aveva tirato le tende e si era steso sul letto matrimoniale. Era rimasto lì, immobile, per qualche ora, guardando lo spiraglio di luce che penetrava dalle tende muoversi mentre il tempo passava. Prima aveva illuminato l’armadio, poi la toletta. Quando lo stomaco di Dylan aveva cominciato a brontolare per annunciargli che doveva essere l’ora di pranzo, il sole aveva colpito la porta della camera. Poi era passato a illuminare la cassapanca di velluto sulla quale da bambino si sedeva mentre guardava sua madre truccarsi alla toletta. Ora illuminava la ragazza, in piedi accanto al letto.
Dylan si tirò su di scatto.
Era ancora lì. Immobile. Sorridente. Una ragazza normale, una ragazza che in qualsiasi altro contesto non sarebbe stata per niente inquietante se non per il fatto che fosse in piedi nella sua stanza e per un altro piccolo particolare, che Dylan notò con un brivido lungo la schiena.
Nonostante fosse completamente illuminata dal sole, la ragazza non proiettava ombra.

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Capitolo 3
*** Wabi-sabi ***


Wabi-sabi
La scoperta della bellezza nell'imperfezione

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Dylan si risvegliò in un bagno di sudore freddo.
Il sole stava calando, inondando la camera di sfumature intense di rosso e arancione che non fecero altro che aumentare la nausea che attanagliava lo stomaco di Dylan. Si chiese per quanto avesse dormito e se avesse davvero visto quella ragazza in piedi accanto al suo letto o se fosse stato solo un sogno.
Cercò di richiamare alla mente l'aspetto della ragazza, ma non ci riuscì. Se pensava a che forma avesse il suo naso, a che colore avessero i suoi occhi, a quanto fossero lunghi i suoi capelli, nella sua mente si avvicendavano tratti sempre diversi: ora aveva il naso all'insù, gli occhi verdi e i capelli corti, ora il naso era arrotondato, gli occhi blu e i capelli castani. Se invece si concentrava per vederla nel suo complesso, la ragazza gli appariva soltanto come un'ombra confusa di colore bianco, come una di quelle macchie che si vedono quando ci si stropiccia gli occhi.
Una sola cosa ricordava chiaramente. Il suo sorriso. Gli era sembrato strano che la ragazza sorridesse, un sorriso così rilassato, amichevole. Era una presenza inquietante, era qualcosa che non avrebbe dovuto trovarsi dove si trovava, avrebbe dovuto avere un'espressione minacciosa, maligna. E invece sorrideva.
Dylan scese dal letto. A parte il bagno di sudore in cui si trovava si sentiva meglio. Prese dei vestiti puliti e pesanti dalla valigia e decise di farsi un bel bagno caldo. Entrò nell'acqua bollente e piena di schiuma che il sole stava ancora calando e ne uscì solo quando il bagno fu completamente al buio. Le finestre che davano sul cortile interno erano appannate e qualche gocciolina di condensa stava lentamente colando sul vetro in un percorso irregolare.
"L'avevo detto che faceva freddo" pensò Dylan, asciugandosi e vestendosi.
Per qualche ora dopo il bagno caldo Dylan si sentì a posto, sereno. Si era quasi dimenticato di essere venuto lì per un motivo. Con uno scopo ben preciso. Non ricordava quale, il che era molto strano. Ma anche il comportamento del vecchio custode Doyle era stato strano.
E poi c'era stato quel sogno.
Pensare a Doyle lo portò a pensare a Belle. E se fosse stata lei la ragazza del sogno? Se sentire la storia della sua morte raccontata dal padre lo avesse influenzato a tal punto da sognarla in una versione distorta di quello che era il suo ricordo di lei?
Dopo aver cenato, Dylan non si preoccupò di sparecchiare ma si diresse al secondo piano, tirò giù la scala retrattile dal soffitto, in fondo al corridoio, e la salì per trovarsi in soffitta.
Il signor Doyle si era occupato della casa in tutti quegli anni in cui era rimasta disabitata, ma non si ero preoccupato di salire lassù, forse anche a causa dell'età avanzata. La soffitta era polverosa e umida, piena di scatole, mucchi di libri, vecchi mobili e soprammobili sparpagliati in giro. Almeno la lampadina che penzolava dal soffitto si accese quando Dylan alzò l'interruttore, quindi la soffitta non era buia.
Pensando a Belle, a Dylan era tornato in mente che da qualche parte, in quel marasma di ricordi e cimeli, c'era una scatola che avevano nascosto loro due da bambini, senza poi riuscire a ritrovarla l'estate successiva. Era forse una ricerca disperata, lo sapeva, ma aveva voglia di tentare.
E fu fortunato. Dopo aver scavato senza successo in una vecchia credenza piena di scartoffie e faldoni ingialliti, Dylan trovò la scatola nascosta sotto a un cofanetto di legno pieno di coltelli arrugginiti.
La scatola sembrava non aver subito l'effetto del tempo. Era come la ricordava: una scatola da scarpe di un color marrone piuttosto rivolta te, che però i due bambini avevano abbellito con pezzetti di carta colorata, brillantini, disegni, pietre e conchiglie trovate in spiaggia e incollate sul coperchio e sui lati della scatola. Ci avevano messo un'estate intera a decorarla, scegliendo con cura ogni singolo pezzetto da aggiungere a quel colorato e luminoso collage. Dylan ricordava ogni singolo momento in cui lui e Belle avevano incollato qualcosa su quella scatola.
Dopo aver accarezzato il coperchio della scatola con un sorriso, Dylan la aprì. All'interno, adagiata su un letto di tessuto multicolore imbottito di cotone, c'era una bambola di pezza. A prima vista chiunque avrebbe pensato che era una bambola brutta, vecchia e sporca. La stoffa che ne componeva il corpo era macchiata in più punti di acqua di mare, succo di frutta, fango; i capelli erano un ingarbugliato ammasso di fili di lana arancione, nel quale c'era ancora qualche foglia secca e dei pezzetti di fango, e infine il viso era asimmetrico e strano, con due occhi formati da bottoni di diverse misure e colori, una bocca disegnata con un pennarello, tutta storta, e due guance di un intenso color fucsia.
«Questa bambola è davvero brutta» aveva detto Dylan a Belle, una volta.
«Non è brutta» gli aveva risposto la bambina. «È imperfetta.»
«Imperche?» «
«Imperfetta. È una parola che mi ha insegnato papà. Vuol dire che una cosa è bella anche se non è bella, perché è bella per te. E per me questa bambola è bella.»
Dylan non aveva capito subito quelle parole né cosa Belle volesse dire. Ma se la bambola piaceva a lei, allora sarebbe piaciuta anche a Dylan. Soltanto più tardi nella vita si sarebbe trovato a ripensare a quelle parole e a comprenderle meglio.
Dylan ripose la scatola, chiusa con cura, dove l'aveva trovata. Aveva pensato di portare via la bambola con sé, quando sarebbe tornato in città, ma aveva cambiato idea: quella bambola apparteneva a Tullow e a quella casa, così come il ricordo e la memoria di Belle.
Dylan raggiunse la porta della soffitta e chiuse la luce, rivolgendo un ultimo sguardo al buio che aveva appena avvolto un piccolo, intimo tesoro. In fondo alla soffitta un luccichio attirò la sua attenzione, proveniente da un piccolo abbaino impolverato. Con passo lento si fece strada nel buio e raggiunse la finestrella. Guardò fuori, nel buio della notte. Davanti a lui, oltre Salthill Road, si stendeva un verde prato collinoso e là, in fondo, sorgeva il cottage del signor Doyle. Nessuna luce era accesa ma c'era qualcosa che riluceva, lì, nel portico della casetta. Era quello che Dylan aveva visto mentre stava uscendo?
Sì avvicinò alla finestra, il suo naso quasi a contatto con il vetro. Il bagliore, a tratti, sembrava sdoppiarsi, come due piccoli cerchi di luce. Provò a guardare attorno, stringendo gli occhi, concentrando lo sguardo. C'era qualcuno. Un uomo. Era il custode.
Il signor Doyle lo stava... spiando con un binocolo?
In un attimo il bagliore delle lenti del binocolo sparì, l'ombra che doveva essere il signor Doyle si mosse furtiva nel portico, scomparendo nella notte, e improvvisamente Dylan vide un volto riflesso nel vetro.
Il volto di qualcuno che era dietro di lui.

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Capitolo 4
*** Eccedentesiast ***


Eccedentesiast
Chi nasconde il dolore dietro al sorriso
 
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Dylan si voltò di scatto.
Durò soltanto una frazione di secondo, ma la vide. Era la ragazza che aveva sognato. La ragazza sorridente. Per un attimo il suo viso si impresse sulla sua retina, prima di scomparire in un leggero bagliore.
Dylan si accasciò a terra, contro la finestra. Si passò una mano tra i capelli, respirando affannosamente. Cosa aveva appena visto? Quella ragazza era… un fantasma? In fondo al suo cervello, nei meandri nascosti del pensiero inconscio, stava cominciando a formarsi un’idea tremenda. Prima quel viaggio improvviso, di cui sembrava non ricordare bene il motivo, poi l’incontro con il signor Doyle, il modo in cui il custode lo guardava. Quell’episodio nella sua cucina, in cui per un secondo sembrava essere diventato sordo. Il ricordo di Belle, che in qualche modo gli sembrava essersi sopito del tutto fino a che non aveva incontrato Doyle. Il sogno della ragazza sorridente. Che forse non era stato un sogno.
Dylan arrivò a concludere che le ipotesi potevano essere due, una più inquietante dell’altra: o si trovava in una storia di fantasmi, oppure stava impazzendo.
Restò a terra più a lungo di quanto avrebbe voluto. Nel lasciare la soffitta camminò velocemente, lo sguardo basso, diretto a evitare di sbattere contro mobili e cianfrusaglie, evitando il più possibile di vedere altro che dove andavano i suoi piedi. Sceso dalla scala retrattile, la chiuse in un unico, rapido movimento, facendola sbattere contro il soffitto, e corse verso la camera da letto, dove si chiuse a chiave. Rannicchiato sotto le coperte, non gli venne neanche in mente che, se davvero quella ragazza era un fantasma, chiudere la porta a chiave non sarebbe bastato. E che quel gesto sicuramente non avrebbe tenuto fuori la sua pazzia.
 
Dylan si svegliò all’alba, con un mal di testa fortissimo. Aveva dormito malissimo, naturalmente, tormentato dalla visione in soffitta, dalle sue ansie e dalle sue paure. Continuava ad addormentarsi e a svegliarsi di soprassalto, spaventato ora da un incubo, ora da un pensiero.
Scese dal letto senza preoccuparsi di farsi un bagno, nonostante avesse sudato per l’agitazione durante la notte. Consumò una veloce colazione in cucina, vincendo la nausea che gli attanagliava lo stomaco e ignorando i piatti sporchi della sera prima. Poi si vestì ed uscì, diretto verso la collina sulla quale sorgeva il cottage del custode, deciso ad ottenere delle risposte sull’unico aspetto di quella vicenda che forse ne poteva avere: perché Doyle lo stava spiando con un binocolo la sera prima?
Arrivò al cottage che il sole era ben sorto e aveva sciolto la brina che ricopriva l’erba verde. Salì i tre scalini che portavano al portico e alla porta d’ingresso e, alimentato da una rabbia che non gli apparteneva, alzò la mano, deciso a bussare violentemente sulla porta della casetta.
Abbassò la mano, ma al primo colpo non seguì un secondo perché la porta si spalancò e tutta la rabbia e la determinazione di Dylan vacillarono per la sorpresa. Ci mise qualche attimo a riprendersi e a ritrovare lo spirito agguerrito con cui aveva raggiunto il cottage.
«Doyle!» urlò sull’uscio della porta. «Doyle, venga fuori! Le devo parlare!»
Nessuna risposta.
«Doyle!» provò ancora, ma dalla casa non venne una parola.
Titubante e, gli seccava ammetterlo, spaventato, Dylan attraversò la porta e cominciò a percorrere piano il corridoio d’ingresso. Neanche a dirlo, nella sua testa si avvicendavano le mille versioni diverse del volto della ragazza sorridente.
Il cottage di Doyle non era in condizioni eccellenti. Le assi che formavano il pavimento erano consumate in più punti, la carta da parati era scrostata agli angoli e in alcune parti consumata da macchie di umidità. I mobili sembravano essere fermi agli anni settanta e dalla casa emanava un odore di umido e vecchio.
«Doyle» chiamò ancora Dylan, sobbalzando al suono della sua stessa voce. «Doyle, è in casa?»
«Colin non c’è» disse una voce acuta e rauca, alla sua sinistra. Veniva da dietro un’apertura piuttosto larga nel corridoio, dietro la quale Dylan intravedeva quello che doveva essere il soggiorno.
«Vieni avanti, giovanotto» disse ancora quella voce, con tono amichevole. «Non ti mangio mica» aggiunse, scoppiando poi in una risatina acuta seguita da un accesso di tosse grassa.
Dylan entrò cauto nel soggiorno e si trovò davanti a una vecchia donna seduta su una poltrona a fiori. La vecchia era magrissima, ma la sua magrezza era in qualche modo mascherata dalla quantità di rughe e grinze che le coprivano le braccia e le gambe. Portava un vestito sgualcito e vecchio, con una vivace fantasia a fiori sbiadita dal tempo. Aveva un cespuglio di radi e crespi capelli grigi in testa, che in qualche modo aveva cercato di modellare in uno chignon, ma ora il gancio che aveva usato per fermarli le penzolava da un lato, aperto. Il viso era la stessa pergamena di rughe che erano le sue braccia. Sotto a due palpebre pesanti e cadenti c’erano due grandi occhi chiarissimi, quasi bianchi. Un naso ingrossato dalla vecchiaia sovrastava un largo sorriso di denti storti e sottili, ingialliti dal tempo.
La vecchia alzò una mano tremante e fece segno a Dylan di entrare e sedersi sul divanetto davanti alla sua poltrona, mentre con l’altra si portava un fazzoletto ingrigito alla bocca, nel quale tossì vigorosamente. Sembrava che quell’attacco di tosse non dovesse finire mai, invece cessò all’improvviso. La vecchia mise via il fazzoletto e guardò Dylan.
«Allora, non ti siedi? Dai, oggi non hai le scarpe sporche di fango, puoi salire sul divano» disse la vecchia, sorridendo.
“Che strana cosa da dire” pensò Dylan in un primo momento. Poi ricordò quando aveva già sentito quelle parole, quella voce.
«Dylan O’Brien! Se pensi di salire sul mio divano con quelle scarpe sporche di fango, te lo puoi scordare, ragazzo!». La signora Doyle glielo urlava sempre quando lui e Belle cercavano rifugio nel cottage, sorpresi da un improvviso temporale estivo.
«Signora Doyle?» chiese Dylan, avvicinandosi al divanetto.
«Ci sei arrivato, eh?» sorrise l’anziana signora. «Anche se devo ammettere che la colpa è mia. Non sono più quella di un tempo, eh no.»
Ed era vero. Dylan ricordava Rosamund Doyle come una pacioccona signora di mezza età, il tipico ritratto della nonna con il grembiule che cucina torte e manicaretti. La donna che stava davanti a lui era il pallido fantasma di quella Rosamund Doyle. L’età non era stata clemente con lei.
«Mi scusi, signora Doyle» disse Dylan, sedendosi finalmente sul divanetto. «Non l’avevo riconosciuta. Sono passati tanti anni.»
«Eh, non dirlo a me» sorrise la vecchia. «Tu invece, ti sei fatto bello e forte, eh?»
«Grazie» sorrise Dylan. Improvvisamente, davanti alla fragilità e alla tenerezza di quella donna, aveva completamente dimenticato la rabbia e i propositi che l’avevano spinto fino in cima alla collina e oltre la porta del cottage.
«Me lo ricordo come se fosse ieri, sai?» continuò la signora Doyle. «Tu che correvi per casa con le scarpe sporche, io che ti sgridavo e il mio piccolo bocciolo che rideva, e rideva, e rideva…»
Dylan si rabbuiò. «Ho saputo di Belle. Mi dispiace molto»
«Chi?» chiese la signora Doyle. «Ah, sì. È stato molto brutto, sai» aggiunse poi, annuendo con la testa tremante. «Molto brutto, sì.»
«Il signor Doyle me l’ha detto.»
«Non c’è niente, niente al mondo che si può equiparare alla perdita di una figlia, sai?». Il sorriso dell’anziana donna si affievolì, ma non scomparve. Mutò, diventando un sorriso carico di significati nascosti: era il sorriso di chi aveva amato moltissimo e capiva che il dolore della perdita non cancellava la gioia degli attimi trascorsi insieme alla persona amata.
«Però l’ho amata, oh se l’ho amata. Era la nostra unica figlia. L’abbiamo tanto cercata, io e Colin. E quando finalmente è arrivata è stato come se il sole sorgesse per la prima volta. È stato come se avessimo davvero cominciato a vivere, capisci? E quanto ci piaceva vedervi insieme, vedervi sorridere. Vederla sorridere e ridere mentre giocavate. Lei aspettava con ansia il tuo arrivo, sai. Ogni volta che Colin andava ad accogliere una nuova famiglia, giù a Salthill Road, lei chiedeva sempre se fosse la tua. E quando finalmente arrivavate, lei insisteva perché Colin la portasse con lui. Ma no. Era lavoro, gli diceva. Non poteva portarla con sé al lavoro. Ti avrebbe visto più tardi. Ma appena Colin usciva di casa, lei correva giù lungo la collina, nascondendosi dietro al grosso albero che c’era davanti alla vostra casa finché Colin non vi aveva consegnato le chiavi, per poi sbucare fuori e salutarti per prima. Lo sapevi?»
Colin fece di no con la testa, impossibilitato a parlare per il nodo alla gola. Gli occhi lucidi, non poteva fare a meno di sorridere. Belle era una forza della natura e aveva migliorato le vite di chiunque avesse incontrato.
«Lei era…» cominciò a dire, quando una lacrima gli scese lungo la guancia.
«Oh, no, no, caro» lo interruppe la signora Doyle. «Non ci si dovrebbe abbandonare ai ricordi in questo modo senza aver prima bevuto una buona tazza di tè. Vuoi fare gli onori?» disse, indicando con mano tremante il tavolino da caffè che separava la sua poltrona dal divanetto.
Quand’era entrato Dylan non l’aveva notato, ma sul tavolino c’era un vassoio con due tazze e una teiera fumante. Fissò il vassoio per qualche istante e stava già per allungarsi e prendere la teiera, quando il pensiero lo colpì.
«Due tazze? Ma non aveva detto che il signor Doyle non era in casa?» chiese.
«Ma no, certo. Colin è sceso al villaggio. La seconda tazza è per te, sciocchino.»
«Ma allora…» cominciò Dylan, interrompendosi per un momento. Sapeva cosa stava pensando, sapeva cosa voleva dire, ma dirlo gli sembrava strano. «Come faceva a sapere che sarei venuto?» chiese, sentendosi uno sciocco.
Ma la vecchia signora Doyle alzò una mano malferma, stringendo debolmente tutte le dita tranne l’indice e puntandolo alle spalle di Dylan.
E sorridendo, disse: «Me l’ha detto lei.»

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Capitolo 5
*** Metensomatosis ***


Metensomatosis
met·​en·​so·​ma·​to·​sis | \ ˌmetˌenˌsōməˈtōsə̇s \
La migrazione di un’anima da un corpo a un altro
 
Dylan si voltò di scatto, il corpo attraversato da una scarica di adrenalina.
Dietro il divanetto non c’era nessuno.
Si volto di nuovo verso l’anziana signora, stringendosi nelle braccia per far passare la pelle d’ca che si era diffusa dalla nuca fino alla punta dei piedi.
«Lei chi?» chiese, improvvisamente serio.
«Oh» disse la signora Doyle, portandosi la mano alla bocca e muovendola avanti e indietro, come a volersi rimproverare di quello che aveva appena detto. «Oh, mi dispiace, ragazzo. Suppongo che non voglia ancora farsi vedere. Mi dispiace, mi dispiace.»
Dylan era confuso. Cercò di riordinare i pensieri e di capire cosa fosse appena successo. Era venuto al cottage per trovare risposte a un problema vero, a una questione della quale non dubitava: il signor Doyle che, la notte precedente, l’aveva spiato con il binocolo. E invece si era trovato davanti alla signora Doyle e ora si stava chiedendo se la vecchia fosse ammattita o se stesse confermando quello che Dylan cominciava a sospettare: c’era qualcosa a Tullow.
«Signora Doyle, di chi sta parlando?» chiese Dylan, serio.
La vecchia agitò una mano, come per scacciare una mosca. «No, fai finta che non abbia detto nulla. Beviamo questo tè?»
Dylan sbatté una mano sul tavolino, facendo traballare le tazze e la teiera. «Signora Doyle, mi dica la verità!» urlò.
La signora Doyle gli rivolse il primo sguardo serio che le aveva visto sul viso da quando era entrato. «Dylan O’Brien, non tollererò che si alzi la voce in casa mia. Hai capito, giovanotto?»
Dylan si sentì improvvisamente piccolo piccolo sul divano. Aveva appena urlato a una vecchietta che riusciva a malapena a sollevare un braccio e che probabilmente stava perdendo la testa. Non c’era niente a Tullow. Non c’era nessuna presenza in casa sua. Lui era stanco, stressato. L’anziana signora Doyle perdeva colpi.
«Mi dispiace» disse, con un filo di voce.
«Oh, lascia stare» gli rispose la vecchia. «Vieni, lasciamo stare il tè» aggiunse, cominciando ad alzarsi dalla poltrona con molto fatica. «Aiutami ad alzarmi, voglio mostrarti una cosa.»
Dylan fece come gli era stato detto e, tenendo l’anziana signora sottobraccio, si diressero con passo molto lento verso il corridoio, per fermarsi infine davanti a un vecchio mobiletto sul quale erano appoggiati dei soprammobili e delle foto incorniciate.
«Ecco, guarda qui» gli disse la signora Doyle, afferrando una delle cornici. «Te la ricordi questa? È di quando Colin aveva costruito quella casa sull’albero. Ci giocavate sempre. Tieni, prendila.»
Porse la cornice a Dylan, che la prese. La cornice in sé era piuttosto anonima, una di quelle pacchiane cornici in argento lavorato, ma dietro al vetro c’era una foto che Dylan ricordava bene. Erano lui e Belle, sorridenti, che si mettevano in posa sulla casa sull’albero che il signor Doyle aveva costruito per la figlia. Ci avevano passato un’intera estate là sopra, rifiutandosi di scendere: si facevano mandare su il cibo dalla signora Doyle con un cestino legato a una corda, dormivano dentro a dei sacchi a pelo e scendevano soltanto per andare in bagno e andare in esplorazione delle zone circostanti, in cerca di nuovi tesori da riportare alla casa sull’albero.
Dylan passò una mano sul vetro, accarezzando il volto della Belle bambina che vi era ritratta, e all’improvviso non si trovava più nel cottage dei Doyle.
«Va bene, va bene, potete tornare a giocare» disse un giovane signor Doyle, mettendo via una macchina fotografica.
«Evviva» sentì esclamare la voce di un ragazzino.
Dylan si voltò e vide che il ragazzino era lui.
«Ora possiamo tornare dentro» disse la voce di Belle, ma quella voce veniva da lui.
Lui era la Belle bambina.
Corse dentro alla casa sull’albero. Era una sensazione stranissima, essere cosciente di muoversi senza volerlo, ma provare comunque la gioia che aveva provato Belle nel rientrare nella casa sull’albero come se fosse la sua gioia.
La casa sull’albero era più bella di quanto ricordasse. Lui e Belle l’avevano decorata con stoffe e drappeggi che pendevano dal soffitto, insieme a delle lanterne che avevano costruito loro stessi con fil di ferro e carta. Alle pareti avevano appeso disegni e incollato conchiglie e a terra, in un angolino, c’era un fortino di coperte sotto al quale trovavano spazio i loro sacchi a pelo.
«Cosa vuoi fare?» gli chiese il Dylan ragazzino.
«Giochiamo a principi e principesse» disse Dylan con la voce di Belle.
Passarono il pomeriggio a intrecciare fili d’erba e fiori, che avevano trovato nei pressi del cottage e portato nella casa sull’albero, riponendoli in una piccola cassettiera di legno vecchia e scheggiata che il signor Doyle aveva portato lassù per loro. Crearono due coroncine d’erba, una con margherite per Belle e una con dei trifogli e dei fiori gialli di cui non conoscevano il nome per Dylan. Una volta indossate, giocarono a governare dei sudditi composti da una decina di peluche: orsetti, scimmie, papere, maialini. S’inventarono crimini commessi e punizioni terribili da infliggere ai criminali, salvo poi graziarli perché la principessa li trovava carini. Da sudditi, i peluche diventarono cortigiani e intrattennero conversazioni colte e raffinate, sbeffeggiando ora questo conte, ora quel duca. Organizzarono un gran gala e quando calò il sole e la signora Doyle portò su la cena nel cestino, prepararono il banchetto e ballarono, seguendo il ritmo di una canzone che entrambi cantavano a ritmi differenti.
Quando la luna era ormai alta nel cielo ed entrambi avevano le guance rosse dalla stanchezza, si rannicchiarono sotto al fortino di coperte e dentro ai sacchi a peli. Dylan guardava se stesso attraverso gli occhi di Belle, si vide addormentarsi e provò quello che Belle stava provando. E c’era una sola parola per descriverlo e Dylan sapeva ora che cos’era veramente l’amore.
Belle chiuse gli occhi e Dylan si ritrovò nel corridoio del cottage. Si portò una mano alla nuca, doveva sentiva un pizzichio freddo, come se un ago ghiacciato l’avesse punto. Davanti a lui c’era la signora Doyle, sorridente come sempre, ma ora sembrava anche commossa.
«Hai visto?» gli chiese. «Lei ti ha sempre amato. Sempre. E ti amerà per sempre, lo sai.»
«Cosa?» disse Dylan, confuso. «Cosa vuol dire? Mi amerà per sempre? Ma cos’è successo? Io…»
La signora Doyle sollevò lo sguardo, guardando dietro le spalle di Dylan. Aprì la bocca e disse qualcosa, ma di nuovo, così com’era successo col signor Doyle, Dylan non sentì niente.
«Già, lo credo anch’io» disse la voce del signor Doyle, alle sue spalle. «Dovremo prendere la strada lunga.»
Prima di svenire, Dylan sentì freddo e si sentì cadere, ma provò anche una stretta forte sulle braccia e sentì qualcosa di caldo premergli sulle labbra.

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Capitolo 6
*** Longanimity ***


Questo capitolo è dedicato a mia sorella.

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Longanimity
lon·​ga·​nim·​i·​ty | \ ˌlȯŋ-gə-ˈni-mə-tē
Pazienza di fronte alle avversità
 
__________________________

Dylan aprì gli occhi e si trovò davanti la ragazza che sorrideva.
Istintivamente fece per agitare le braccia, per menare pugni a destra e sinistra, per difendersi, ma le braccia ad alzarsi solo di qualche centimetro, per poi cadere nuovamente sul divano su cui, a quanto sembrava, Dylan era disteso.
«Non ti agitare» disse la ragazza che sorrideva. «Ti ho dato qualche goccia di un forte calmante. A quanto pare non ci sei abituato e ha funzionato anche troppo bene.»
«Calmante?» chiese Dylan biascicando.
«Niente di troppo pesante, tranquillo. Sei ancora al cottage dei Doyle. Sai, per essere così magro sei un bel peso morto da spostare». La ragazza che sorrideva rise e per un secondo sembrò una normale ragazza. «Mi chiamo Anne» continuò. «Sono l'infermiera della signora Doyle. È stata una fortuna che sia arrivata poco dopo che sei svenuto. Hai preso una bella botta in testa, sai. Avrai un po' di dolore per qualche giorno, niente che un'aspirina non possa risolvere.»
Solo in quel momento Dylan si accorso che Anne gli stava gentilmente tamponando la testa con un sacchetto di ghiaccio. Guardò la ragazza negli occhi. Continuava a sorridere. Ora che non era un fantasma, o forse ora che non era soltanto nella sua testa, Dylan poté osservarne i lineamenti. Aveva un bel viso, dai lineamenti aggraziati e proporzionati. Gli occhi sembravano mutare colore a seconda dell’angolazione con cui la luce li colpiva: andavano dalle tonalità del blu fino a quelle del verde scuro, con piccole macchie marroni e ambrate. Per quanto i capelli fossero frettolosamente raccolti in una coda di cavallo non molto curata, erano lisci, lucenti e di uno splendido biondo cenere con riflessi quasi bianchi.
Si sentì stranamente attratto da quella ragazza, al punto da dimenticare di averla scambiata per la ragazza che sorrideva. Era davvero il fantasma che l’aveva sorpreso due volte nella casa di Salthill Road? O era lui che stava proiettando su Anne le sue paure, le sue ansie? Non lo sapeva e in quel momento non gli importava. C’era qualcosa in Anne che lo calmava, che lo faceva stare bene.
“Forse è solo una brava infermiera” pensò.
«La signora Doyle mi ha raccontato cos’è successo» disse Anne.
E cos’era successo, in effetti? Cos’era successo davvero? Quanto di ciò che aveva visto al cottage dei Doyle era vero e quanto era frutto di un sogno, di una fantasia? La signora Doyle aveva davvero visto qualcuno alle spalle di Dylan? Dylan aveva davvero vissuto un ricordo d’infanzia di Belle come se lui fosse Belle?
«Non ricordo…» disse, ed in parte era vero.
«La signora Doyle ha detto che sei entrato in casa tutto arrabbiato per qualche motivo e che non hai fatto in tempo a entrare nel soggiorno e riconoscerla che sei svenuto» spiegò Anne. «Può essere un problema di pressione. Soffri di alta o bassa pressione?»
«Non che io sappia» rispose Dylan.
«Hai mangiato? Hai bevuto?»
«Ho cenato ieri sera e fatto colazione stamattina» disse Dylan, e proprio in quell’istante lo stomaco gli gorgogliò. «Ma che ora è?»
«È quasi ora di pranzo» rispose Anne, sorridendo. Dylan si sentì leggermente in imbarazzo. «Stai disteso ancora un po’, lascia che il calmante faccia effetto, e poi ti preparo qualcosa da mangiare. Ok?»
«Non serve…» cominciò a dire Dylan.
«Sciocchezze» lo interruppe Anne, togliendogli il ghiaccio dalla testa e asciugandogli la testa umida con un asciugamano. «Devo comunque cucinare per la signora Doyle, una porzione in più non fa tanta differenza.»
Dylan si puntò sui gomiti e fece leva sulle braccia, nelle quali aveva riacquistato un po’ di forza, per tirarsi su.
«Piano, campione» gli disse Anne, sorridendo e sorreggendolo mentre si metteva seduto.
«Grazie» disse Dylan.
«Dovere.»
Dylan si guardò attorno. Il soggiorno era esattamente come lo ricordava, fatta eccezione per il vassoio del tè sul tavolino tra il divano e la poltrona della signora Doyle. Era mai esistito quel vassoio? Stando a quanto aveva raccontato la signora Doyle, Dylan doveva averlo sognato.
«Perché devi preparare il pranzo alla signora Doyle?» chiese ad Anne.
«Come ti ho detto sono la sua infermiera. Vengo a darle le medicine e mi occupo di lei quando il signor Doyle non c’è.»
Improvvisamente Dylan ricordò perché era andato al cottage. «Il signor Doyle…»
«È giù al villaggio. Non tornerà prima del tè, oggi.»
«No. Io l’ho visto. Prima di…»
«Prima di svenire?» chiese Anne. Dylan annuì. «La signora Doyle ha detto che hai farneticato qualcosa sul signor Doyle prima di svenire. Ma lui non c’era quando sono arrivata. Mi ha chiamata ieri sera, dicendo che oggi sarebbe stato via per gran parte della mattinata.»
«Ieri sera… ieri notte, ho visto il signor Doyle spiarmi con un binocolo dalla finestra della mia soffitta.»
Anne sbuffò divertita. «Mi stai dicendo che il signor Doyle è un guardone? No, stai tranquillo. Il signor Doyle controlla sempre che le case siano a posto prima di andare a dormire. Non lo sapevi? Usa il binocolo per vedere se ha lasciato accesa qualche luce o aperta qualche finestra. È un bravo custode.»
Ogni cosa che Anne diceva sembrava andare a formare nuovi ricordi nella memoria di Dylan. Era vero. Si ricordava ora di quella volta che sua madre gli aveva fatto salutare il signor Doyle che li guardava dal portico con il binocolo, una sera d’estate in cui si erano attardati in giardino per un barbecue con i vicini.
Se era vero questo, allora forse era anche vero che era svenuto appena arrivato al cottage e che non esisteva nessuna ragazza che sorrideva. Più che di una certezza, però, Dylan temeva che si trattasse di una speranza.
«È per questo che sei salito fin quassù tutto arrabbiato?» chiese Anne.
«Mi sa di sì» rispose Dylan, vergognandosi un po’.
«La rabbia è un’emozione perfettamente normale, sai.»
«Sei anche psicologa, oltre che infermiera?» chiese Dylan, con più scortesia di quanto volesse. Ma Anne non perse il sorriso.
«Ho studiato psicologia, sì» rispose. «Come seconda laurea. L’ho fatto quando mio fratello ha cominciato a ferirsi.»
Dylan sentì un peso cadergli nello stomaco. Anne aveva pronunciato quelle parole senza smettere di sorridere, anche se distolse lo sguardo per qualche attimo, prima di riprendere a parlare. «Sta bene ora. Ci è voluto del tempo. Tanto tempo. Ma non è stato facile, sai. Né per lui, né per noi. Ho studiato psicologia perché volevo capire cosa gli stesse succedendo. E volevo aiutarlo a capire. Ma penso di aver sbagliato. Penso di aver fatto di tutto per cercare una soluzione pratica a un problema che era tutto meno che pratico. Forse avrei dovuto stargli più vicina e avrebbe sofferto di meno. Avrei davvero voluto stargli più vicina, fare di più…»
La voce di Anne si affievolì leggermente mentre pronunciava quelle parole. Istintivamente, Dylan allungò una mano e prese nella sua quella della ragazza, cominciando ad accarezzarle il dorso con il pollice. Gli occhi di Anne saettarono a quel gesto, ma non ritrasse la mano.
«Wow, la conversazione ha preso una piega molto seria molto velocemente, eh?» scherzò, ma la sua mano strinse leggermente più forte quella di Dylan.
«È colpa mia» disse. «Ti ho fatto una domanda stupida.»
«Nessuna domanda è stupida, non te l’hanno mai detto? No, non ti preoccupare. È che…»
«Dimmi» la esortò Dylan.
«Mi ricordi una persona. Mio marito.»
Dylan ritrasse la mano, sentendo improvvisamente di aver fatto qualcosa di sconveniente.
«Non ti preoccupare» disse Anne. «È morto qualche anno fa.»
«Oh. Mi dispiace.»
«Gli assomigli, sai. Forse è per quello che ti ho parlato di mio fratello.»
«Sai, mi hanno sempre detto che ho una di quelle facce. Quelle che invitano alla confessione» disse Dylan, ironico.
«Oh, davvero?» sorrise Anne. «È una cosa molto poco umile da parte tua, sappilo.»
«Non ho mai detto di essere umile.»
Anne sostenne lo sguardo serio di Dylan per qualche secondo, poi entrambi scoppiarono a ridere. E per la prima volta da quando era arrivato a Tullow, Dylan si sentì bene.

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Capitolo 7
*** Ephialtes ***


Ephialtes
eph·​i·​al·​tes | \ ˌefēˈalˌtēz \
Incubo
 
____________________

Anne e Dylan guardarono il sole tramontare dietro il villaggio di Tullow, seduti sotto al portico del cottage dei Doyle. Anne aveva insistito perché Dylan restasse lì anche nel pomeriggio, perché lei potesse tenerlo d’occhio.
«Se ho solo preso una botta in testa posso andare a casa, no?» aveva detto Dylan, per una questione d’orgoglio e non di certo perché volesse andare a casa.
«Devo accertarmi che tu non abbia subito conseguenze. Sai, dovere professionale e quelle cose lì» aveva risposto Anne, tirandogli una gomitata amichevole.
I due avevano passato il pomeriggio al cottage dei Doyle occupandosi insieme della signora Doyle e aiutandola con qualche lavoretto in casa: avevano aggiustato una porta che scricchiolava, dato una bella pulita alle finestre, spolverato la soffitta e potato le aiuole sul retro. Al ritorno del signor Doyle, Anne e Dylan avevano deciso di congedarsi, ma non prima di aver bevuto un bicchiere di fresca limonata sotto al portico.
«Era tanto che non venivi a Tullow?» chiese Anne.
Dylan annuì. «Da quand’ero ragazzo. Ci siamo venuti ogni estate finché mia madre…»
«Mi dispiace» disse Anne, poggiandogli una mano sul braccio. Dylan provò l’istinto di afferrare la sua mano ma si trattenne. C’era qualcosa in Anne che lo faceva sentire a casa, nonostante fosse una perfetta sconosciuta. «Hai mai la sensazione che chi ci lascia non lo faccia mai del tutto?» gli chiese.
Dylan si voltò a guardarla. «Cosa intendi?» le chiese.
«Beh, con mio marito… sento che lui mi guarda. Ma non con un binocolo» scherzò, e Dylan sorrise. «No, lo sento presente in ogni cosa che faccio.»
«Ti capisco» disse Dylan. «Mia madre è morta molti anni fa, ma quando devo prendere una decisione importante, quando mi trovo in un periodo difficile, penso a lei. E…»
«Continua» lo invitò Anne.
«Beh, quando finalmente faccio una scelta o quando decido di cominciare a risollevarmi, mi sembra quasi che di sentirla congratularsi, di sentire le sue braccia che mi avvolgono.»
Si voltò di nuovo verso Anne e vide che la ragazza lo stava guardando, sorridendo un sorriso dolce e caldo.
«È una cosa molto bella» disse, cingendo il suo braccio e appoggiando la testa sulla sua spalla.
Restarono lì, a guardare il sole che tramontava, in silenzio diverso tempo. Poi Anne si staccò e subito Dylan sentì freddo.
«Caspita, sono così stanca che stavo quasi per addormentarmi. Sarà meglio tornare al villaggio. Ti do un passaggio?» disse, tirando fuori dalla tasca le chiavi della sua macchina, un pick up verde scuro parcheggiato nel vialetto del cottage.
«Grazie» disse Dylan, che non aveva nessuna voglia di tornare a Salthill Road a piedi.
Salutarono i Doyle e si misero in macchina che ormai il sole era calato e il cielo era di quel blu a metà tra l’azzurro del giorno e il nero della notte. Dylan guardava fuori dal finestrino i verdi prati andare su e giù mentre il pick up sobbalzava sulla strada sterrata.
«Pensi mai che siamo noi a trattenere qui le loro anime?» chiese Anne. Dylan si voltò.
«Come, scusa?»
«Le anime di chi non c’è più. Mio marito, tua madre. Quello che sentiamo quando pensiamo a loro potrebbe essere la loro anima e potremmo essere noi a trattenerla. Non lo credi?»
Dylan non sapeva cosa rispondere. Anne si era fatta seria all’improvviso. Sorrideva ancora, ma impercettibilmente e un sorriso quasi amaro.
«Credo che nessuno abbia questo potere» disse poi. «Se le anime di chi non c’è più restano con noi è perché loro lo vogliono.»
«E se ti dicessi che so che non è così?»
«Come fai a saperlo? È impossibile da dimostrare» disse Dylan, sorridendo e voltandosi verso Anne.
Aveva smesso di sorridere. La ragazza che sorrideva, che aveva passato tutto il pomeriggio con il sorriso sul volto, era seria.
«Tutto bene?» le chiese Dylan. Nessuna risposta. «Ehi, Anne, stai bene?» aggiunse, allungando un braccio e toccandole una spalla.
La mano di Dylan penetrò nella carne di Anne che si sciolse in una poltiglia molliccia di melma nera.
Dylan urlò, ma Anne sembrò non accorgersene. Lentamente, tutto il suo corpo si trasformò in quella poltiglia informe e sporca, a partire dal punto in cui Dylan l’aveva toccata ed espandendosi a macchia d’olio. Solo quando raggiunse il collo Anne, o quel che ne restava, si voltò verso Dylan. La melma cominciò a uscirle dagli occhi e sgorgò dalla bocca quando la spalancò e un urlo impossibile vi fuoriuscì, un urlo che era cento urla insieme e che Dylan sentì con la testa più che con le orecchie.
Anne non esisteva più. Al suo posto un ammasso informe di melma oscena che stava colando sul sedile del passeggero, inzuppando le gambe di Dylan. Il pick up perse il controllo, finì fuori strada e si schiantò contro un albero. Dylan fu sbattuto in avanti dalla forza dell’urto, i polmoni svuotati dall’impatto con la cintura di sicurezza. Si guardò attorno, preso dal panico.
Fuori dal finestrino non c’era niente.
Niente prati, niente cielo notturno, niente albero contro cui si era schiantato. C’era nero. No, non era nemmeno nero, ma una sensazione di vuoto, di assenza assoluta. Stava guardando l’oblio.
Poi dall’oblio emersero delle ombre bianche. Prima una, solitaria, che traballava leggermente nel buio come la fiamma di una candela. Poi se ne aggiunse un’altra, e un’altra ancora, finché furono a decine. Rimasero lì, traballanti, per un tempo che Dylan non seppe definire, e poi improvvisamente non erano più ombre ma volti bianchi e deformi, un ammasso di carne, bulbi oculare e denti, che premevano contro ogni apertura vetrata del pick up, e urlavano e urlavano e urlavano…
Dylan si svegliò urlando.
«Wow, stai calmo, tranquillo» disse la voce di Anne, accanto a lui. «Quel calmante deve averti sballato il subconscio.»
«Le facce…» biascicò Dylan. «La melma, l’albero…»
«Che diavolo di incubo hai fatto?»
«Incubo?»
«Ti sei addormentato pochi minuti dopo aver lasciato il cottage dei Doyle» spiegò Anne. «Dormivi così bene che ti ho lasciato in pace. Fino a qualche secondo fa. Ecco, siamo arrivati». Anne tirò il freno a mano davanti alla casetta di Salthill Road e si voltò a guardarlo. «Stai bene? Vuoi che entri con te?»
«No» rispose Dylan, forse troppo in fretta. «No, tranquilla. Tutto a posto, era solo un incubo.»
Dylan salutò Anne e scese dal pick up che ripartì sollevando un po’ di ghiaia e polvere dietro di sé. Attese il più a lungo possibile prima di voltarsi verso la casa. Faticò a trovare il coraggio di alzare lo sguardo dal cancelletto, mentre lo apriva, e quando infine lo fece pregò che quegli inquietanti volti pallidi non lo stessero attendendo da dietro le finestre.
Cercò di scacciare il pensiero, ma quando infine sollevò lo sguardo, fu sicuro di aver visto delle piccole fiammelle bianche tremolare nel buio della casa.

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Capitolo 8
*** Acrasia ***


Acrasia
Acra·​sia | \ ə-ˈkrā-zh(ē-)ə
Mancanza di autocontrollo
_____________________
 
Dylan si prese un po' di tempo prima di entrare in casa. Rimase lì, davanti al cancelletto chiuso dietro di sé, i piedi che affondavano nella ghiaia del vialetto a ogni minimo sussulto. Centinaia di pensieri gli attraversarono la testa tutti insieme, al punto che non riusciva a discernerli uno dall'altro. Un solo sentimento prevaleva in quel marasma emotivo: rassegnazione.
Che fosse un sogno o un incubo, che fosse tutto vero o che fosse morto e quello fosse il suo inferno personale, Dylan si era rassegnato. "Se è così che devo morire, allora così sia" pensò, ma rimase fermo a fissare la casa, apparentemente senza vita, ancora un po'. Quando finalmente si decise a camminare verso la porta d'ingresso, i suoi passi nella ghiaia rimbombarono nella notte come se fossero esplosioni.
Abbassò la maniglia ed entrò nel vuoto della casa. Solo quando si chiuse la porta alle spalle pensò che forse non sarebbe mai più uscito di lì.
Si chiuse la porta alle spalle, senza accendere la luce dell’ingresso. All’interno penetrava soltanto la poca luce del lampione sulla strada, a qualche metro di distanza, ma quella luce era in qualche modo assorbita dall’oscurità che abitava la casa e che Dylan sentiva pulsare, respirare. Attendere. Che avesse acceso la luce o meno, l’oscurità era lì per lui e lo sapevano entrambi.
Quando fece il primo passo verso di essa, per un momento credette che non sarebbe successo niente, che avrebbe semplicemente potuto fare un altro passo, un altro ancora, che avrebbe potuto raggiungere la sua stanza, infilarsi sotto le coperte e godersi un lungo e meritato riposo.
Invece, quando il suo piede toccò il pavimento, Dylan precipitò.
Non si ritrovò più nell’oscurità della casa né in mezzo a qualche incubo pieno di visi deformati. Era in un prato verde, in una bella giornata di sole di metà primavera. Soltanto che il prato non era un prato, ma un cimitero, e quello, lo ricordava come se fosse ieri, era il funerale di sua madre.
A diverse lapidi di distanza si stava svolgendo la cerimonia funebre. Anche di spalle, Dylan riconobbe suo padre, ingobbito dal dolore, e riconobbe se stesso, a disagio in quell’abito nero così stretto e formale, circondato da parenti di cui non ricordava il nome né conosceva l’esistenza.
Nonostante fosse l’ultima cosa che volesse fare, cominciò a camminare verso il gruppetto, sapendo che era lì che l’incubo lo voleva portare. Quando li raggiunse, poté sentire il pastore recitare l’elogio funebre e in quel momento, come quando vi aveva assistito per la prima volta, non capiva niente di quello che stesse dicendo. Erano tutte parole vuote, che di certo non rendevano giustizia a sua madre. Che non riempivano il vuoto che aveva lasciato.
Dylan girò attorno al pastore e guardò la bara, senza esitazioni, senza la paura che aveva provato quando l’aveva fatto all’epoca, da ragazzino. Sapeva ormai da anni che sua madre era morta, sapeva cosa aspettarsi quando avrebbe guardato nella bara. Voleva rivederla. Voleva vederla veramente: nonostante fosse solo un corpo senza vita almeno non era una fotografia sbiadita.
Era esattamente come la ricordava. Era bella, dolce, un caldo abbraccio sotto forma di persona. Sentì una lacrima scendergli lungo la guancia.
Poi sua madre spalancò gli occhi e cominciò a urlare.
Dylan si portò le mani alle orecchie ma l’urlo era nella sua testa e aumentava e aumentava e aumentava. Cadde a terra, piangendo, non riuscendo a controllarsi, dondolandosi avanti e indietro in posizione fetale e mormorando «Basta… basta…».
E, come se fosse stato ascoltato, sua madre smise di urlare.
Dylan aprì gli occhi e vide il se stesso ragazzino che lo guardava dall’alto, un indice puntato verso di lui.
«È colpa tua» disse. «Puoi porre fine a tutto questo.»
«Come?» chiese Dylan, disperato.
«È colpa tua» ripeté il giovane Dylan. «È colpa tua. È colpa tua. È colpa tua.»
Dylan tornò a rannicchiarsi, piangendo in silenzio, mentre il ragazzino continuava quella litania che dopo un po’ divenne solo un inquietante rumore bianco.
Smise all’improvviso, com’era cominciato.
Dylan si ritrovò nell’ingresso della casa. Le luci erano accese e il silenzio che regnava era quasi assordante. Dylan sentì altre lacrime colargli sulle guance, ma non le sciugò. Non mosse un muscolo, terrorizzato. Aveva paura che qualsiasi gesto, anche il più piccolo, potesse farlo precipitare in un nuovo incubo.
Quando sentì delle voci provenire dal soggiorno, capì che l’incubo non era mai finito.
Camminò lentamente fino all’uscio del soggiorno, guardando all’interno, tremante. A terra, vicino al fuoco acceso, c’era lui, che doveva avere non più di dodici anni, e Belle. Ricordava quel momento. Lui e Belle stavano parlando di baci e di amore e di tutte quelle cose di cui parlano i dodicenni in maniera impacciata e con parole non dette. Quella era la sera in cui si erano baciati. Non per davvero, ovviamente. Un bacio casto e innocente, labbra contro labbra, ma un bacio che per due dodicenni era tutto un mondo.
Stava per succedere di nuovo, lì, davanti ai suoi occhi. Forse non si trattava di un incubo. Forse era un ricordo, com’era accaduto con il ricordo della casa sull’albero al cottage dei Doyle.
Ma poi, mentre le labbra dei due ragazzini stavano per sfiorarsi, Belle si voltò e guardò Dylan negli occhi. Non c’era traccia di sorriso sul suo volto e Dylan seppe che l’incubo stava continuando.
«È colpa tua» disse Belle. Dylan si sentì tremare e cominciò a piangere, scuotendo la testa. «È colpa tua» continuò la ragazzina. «Sai che è così.»
«Io non so niente» mormorò Dylan in lacrime.
«Puoi farlo smettere, Dylan». Belle si alzò e cominciò a camminare verso di lui. «È colpa tua. Puoi farlo smettere.»
«Come?» pianse Dylan cadendo in ginocchio. «Non so come.»
«Sei tu che hai il controllo. Dylan!». La voce della ragazzina riecheggiò tutto attorno a Dylan che per lo spavento smise di singhiozzare. «Tu stai facendo questo. Tu puoi porvi fine.»
«Aiutami» disse Dylan in un sussurro.
Belle sorrise. «Non posso» disse. «Ma tu puoi. Puoi controllarlo, Dylan.»
«Posso controllarlo» disse Dylan, ma attorno a lui la casa cambiò ancora. Si ritrovò su una barca. Davanti a lui c’era suo padre e lui, quindicenne. Era la prima volta che lui e suo padre facevano qualcosa dopo la morte della madre. Una battuta di pesca. La prima volta che suo padre lo picchiò.
Dylan cadde a terra, di nuovo in posizione fetale, le braccia strette al petto, il respiro affannato. Sentiva, da qualche parte, attorno a lui, l’oscurità che premeva. Sapeva che presto avrebbe sentito quelle parole.
“È colpa tua”.
«Posso controllarlo» si disse Dylan, senza crederci veramente. «Posso controllarlo. Posso controllarlo.»
Senza che lui lo vedesse, cominciò. Sentì urla, rumori di carne lacerata, risate maligne, vetri che si infrangevano, e dappertutto quelle tre parole: “è colpa tua”.
«Posso controllarlo. Posso controllarlo. Posso controllarlo.»
Ripeté quel mantra per quello che gli parve un tempo infinito, mentre veniva avvolto da quegli incubi, dai loro rumori, suoni, sensazioni, odori. Sapeva cosa stava succedendo anche se non lo vedeva.
«Posso controllarlo.»
Tolse le braccia dal petto.
«Posso controllarlo.»
Cominciò a respirare.
«Posso controllarlo.»
Sulla pelle non sentiva più mani sconosciute e la sensazione umida e calda del sangue.
«Posso controllarlo.»
Nelle orecchie non risuonavano più urla conosciute e a quelle tre, orrende parole se ne sostituirono due.
«Posso controllarlo.»
Dylan era sul freddo pavimento di pietra dell’ingresso della casa, al buio. Una lieve brezza entrava da sotto la porta d’ingresso, rinfrescandolo. Si abbandonò a un sorriso perché quel lieve mormorio, quel ronzio tipico del silenzio, del vero silenzio, gli disse che l’incubo era finito.
Che in qualche modo l’aveva controllato.

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Capitolo 9
*** Hävitä ***


Hävitä
[ˈhæʋit̪æx]
Scomparire, svanire, perdersi
________________________ 

Dylan si svegliò che doveva essere più o meno mezzogiorno. Nonostante il sole entrasse prepotente nella camera da letto, Dylan non fu svegliato dalla luce ma dal campanello che trillava incessantemente da qualche minuti. Scese dal letto, sentendosi il fantasma di se stesso, e si trascinò giù per le scale, fino all’ingresso, dove aprì la porta e si trovò davanti il signor Doyle.
Nella sua mente confusa si sarebbe aspettato di trovarsi davanti Anne, un venditore porta a porta o un altro incubo, ma rimase sorpreso di scoprire che era stato il custode a fargli visita. Così sorpreso che lo fissò a lungo senza parlare.
«Buongiorno» disse il custode, in imbarazzo, squadrandolo da capo a piedi. Non doveva essere un bel spettacolo. «Sono passato a vedere come stavi, ragazzo.»
Dylan annuì ma smise subito perché quel movimento gli causava un gran mal di testa. «Sto bene» disse in un sussurro rauco. «Sto bene. Vuole entrare?»
Il signor Doyle annuì. «Magari ti preparo un tè mentre tu ti fai un bel bagno caldo, che ne dici?»
Dylan annuì, si voltò e, senza curarsi di far accomodare il signor Doyle, salì le scale, diretto al bagno.
Dopo essersi immerso per una buona mezz’ora nell’acqua bollente si sentì finalmente sveglio. Raggiunse la cucina dove trovò il signor Doyle, due tazze di tè fumante e un piatto di frittelle appena fatte su cui era stato sciolto del miele.
«Non serviva che si disturbasse» disse al custode.
«Nessun disturbo» sorrise l’uomo sotto ai baffoni. «Siediti, mangia finché è caldo. Ne hai bisogno.»
Dylan obbedì. Le frittelle gli si scioglievano in bocca e il tè lo scaldò da capo a piedi. Il custode aveva ragione: ne aveva bisogno.
«Oggi c’è poco lavoro?» chiese Dylan.
«È una giornata tranquilla» confermò il custode. «Anne sta badando a Rosy e io devo soltanto fare un salto giù al villaggio, poi tornerò a casa per il pomeriggio. Anne era preoccupata per te, sai. Credo che le piaci.»
A Dylan andò di traverso il sorso di tè e ci mise un minuto per far cessare l’accesso di tosse che l’aveva colpito.
«Dice?» disse infine. «Penso che sia soltanto una persona gentile.»
«Oh, lo è, senz’altro» confermò il signor Doyle. «Sai, io di queste cose me ne accorgo. Ho un certo fiuto, non so se mi spiego» aggiunse, picchiettandosi il naso con l’indice. «L’avevo detto anche di te e Belle, sai.»
«Davvero?»
«Certamente. E infatti avevo ragione.»
“Aveva ragione?” pensò Dylan. “Ma che sta dicendo? Io e Belle…”
Fu come un fulmine a ciel sereno. Non sapeva come, ma l’aveva in qualche modo dimenticato e soltanto ora gli stava tornando alla memoria, come se fosse un lontano ricordo d’infanzia sopito.
«Ma certo» disse. «All’università. Siamo stati insieme per un po’, è vero. Poi però Belle è andata in America, a studiare… cos’è che è andata a studiare?»
«Medicina» disse il signor Doyle. Sembrava quasi che il vecchio custode fosse svuotato all’improvviso della felicità. Pronunciò quella parola con tono cupo, addirittura triste.
“Forse non è il caso di parlare di Belle” pensò Dylan, e stava per chiedere come stesse la signora Doyle quando l’uomo parlò.
«Non ti ricordavi di aver avuto una relazione con mia figlia?» chiese. Non c’era accusa nella sua voce, ma preoccupazione. Dylan si chiese perché fosse preoccupato, ma la risposta che gli uscì naturale dalla bocca sciolse i suoi dubbi e lo fece rabbrividire.
«Non ricordo molte cose, ultimamente» disse.
I due restarono in silenzio per qualche momento, Dylan attonito per le sue stesse parole, il signor Doyle incapace di articolare quello che stava pensando.
«Stai… male?» chiese infine Doyle, mordendosi il labbro subito dopo. Evidentemente non era la domanda che voleva fare, ma Dylan stava già rispondendo.
«No…» disse. «Non è una malattia, non che io sappia. Mi sento… confuso. Smarrito. Mi sento come se fossi appena nato. Ha senso secondo lei?»
Doyle annuì. «Ha molto senso» disse. «Sai, Belle si sentiva esattamente come te, al solstizio.»
Dylan aggrottò la fronte, confuso. «Mi scusi, Belle si sentiva come me al solstizio? Cosa significa?»
Doyle sospirò. «Non ho detto solstizio. Ho solo detto che Belle si sentiva come te, a un certo punto. Sei sicuro di non stare male?»
Dylan annuì. «Dev’essere il mal di testa. Mi capita spesso ultimamente.»
«Dovresti farti vedere da Anne. Non hai un bell’aspetto sai. Sembri il fantasma di te stesso.»
«Lo farò» disse Dylan, sentendo crescere il mal di testa.
«Dico davvero, Dylan. Potrebbe…»
Dylan non sentì il resto della frase perché nella sua testa risuonò una voce che ormai conosceva bene.
«È colpa tua! È colpa tua!»
“Posso controllarlo” pensò Dylan. “Posso controllarlo.”
«È colpa tua!»
“Posso controllarlo” si ripeté Dylan, ma sentiva che la concentrazione venirgli meno.
«Sa che le dico» disse all’improvviso, interrompendo il signor Doyle nel mezzo di una frase che Dylan non stava ascoltando. «Ha ragione. Forse è il caso che ne parli con Anne.»
Non credeva davvero di avere qualcosa che fosse spiegabile scientificamente, ma se non altro, pensò, con Anne si sarebbe sentito meno solo.

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Capitolo 10
*** Latibulum ***


Latibulum
Lătĭbŭlum, latibuli
Un posto nascosto, un rifugio
________________________ 

Anne si presentò alla sua porta attorno al tramonto, con in mano una teglia di lasagne fatte in casa e due bottiglie di birra.
«A Tullow non ci sono pizzerie e spero di non essere stata indelicata con la birra, ma io ne avevo proprio bisogno» sorrise, sollevando le bottiglie.
«Ah, no, va benissimo, grazie» disse Dylan, sorpreso, facendosi da parte per farla entrare.
«E spero che non sia stato presuntuoso da parte mia autoinvitarmi a cena ma ormai è tardi per chiedere scusa, no?»
«Suppongo di sì» sorrise Dylan. Aveva passato un pomeriggio orrendo, terrorizzato da se stesso, sempre a metà tra il sonno e la veglia, tra l’apatia e lo sforzo di non abbandonarsi alle visioni. Era bastato qualche secondo con Anne per farglielo dimenticare. Quella ragazza aveva qualcosa di magico.
«No, davvero, se ho superato il limite ti lascio la teglia, ti visito e me ne vado» disse Anne, scherzosamente seria. «Devi solo dirlo.»
«Sarò felice di cenare con te» la rassicurò Dylan.
«Perfetto» esclamò Anne, battendo le mani. «Scaldo le lasagne e poi ti diamo un’occhiata.»
Mentre le lasagne erano in forno, Anne visitò accuratamente Dylan. Gli controllò innanzitutto il bernoccolo sulla testa, poi controllò la vista, le orecchie, la gola, i riflessi, tastò muscoli di gambe e braccia, auscultò il cuore e i polmoni. Fisicamente era sano come un pesce.
Anne aspettò che Dylan finisse il primo bicchiere di birra e la prima fetta di lasagna prima di passare all’attacco,
«Allora, come stai?» chiese. «E non parlo del tuo corpo». Il sorriso sul volto di Dylan si affievolì. «Sapevi che te l’avrei chiesto, prima o poi. Sono qui per questo.»
«Lo so» ammise Dylan. «È che non so bene come risponderti.»
Anne alzò le spalle, tranquilla. «Tu comincia a parlare. Fai finta che non esista. Poi vedrai che le parole ti verranno.»
Dylan fece un respiro profondo e cominciò a parlare. Ed era vero. Cominciò dicendo quello che aveva detto al vecchio Doyle, che si sentiva smarrito, confuso. E poi parlò dei problemi di udito, dei mal di testa, della perdita di memoria. La parte più difficile fu parlare delle visioni. Forse perché, in fondo, non era sicuro che si trattassero di visioni.
«Allucinazioni audio-visive possono essere causate da situazioni di forte stress o shock» disse Anne, quando Dylan si fermò. «Sono un sintomo, non una malattia, e questo è molto importante che te lo ficchi in testa fin da subito. Ehi, Dylan» disse, prendendogli le mani e facendogli alzare lo sguardo che incontrò gli occhi cangianti di lei che quella sera, complice la luce del fuoco che ardeva nel caminetto del soggiorno, sembravano ambrati. «Tu non sei pazzo, ok?» disse in tono solenne. «Ok?»
Dylan annuì, accennando un sorriso.
«Bene» concluse Anne, lasciando andare le mani di Dylan che subito sentirono freddo. «Bisogna solo capire perché ti succede quello che ti succede. Hai subito uno shock, che tu ricordi? Una rottura, un tradimento, una perdita? Non rispondermi subito» aggiunse, vedendo che Dylan stava aprendo la bocca per parlare. «Pensaci. Prenditi qualche minuto per riflettere sulla mia domanda. Chiudi gli occhi e pensaci.»
Dylan obbedì. Chiuse gli occhi e cominciò a riflettere. La prima perdita che gli veniva in mente era la morte di sua madre, ma quella era stata quasi vent’anni prima. Non poteva subirne le conseguenze ora. Una rottura? Un tradimento? Non gli veniva in mente niente. Non aveva una relazione da chissà quanto e non aveva amicizie e relazioni così strette da poter dire di aver subito un tradimento.
«Parlami di Belle» disse la voce di Anne.
Dylan aprì gli occhi. Anne se ne stava lì, immobile, a fissarlo. «Perché?» le chiese.
«Il signor Doyle mi ha detto che avete avuto una relazione in gioventù. Una relazione che tu non ricordi. Potremmo partire da lì. Parlami di lei.»
Dylan restò in silenzio a lungo, fissando il fuoco, e Anne rispetto quel silenzio restando immobile, attendendo.
«Ti assomigliava» disse infine Dylan, stupendo anche se stesso. «Sorrideva sempre, come te. Quando venivo qui da ragazzino, insieme ai miei genitori, lei era l’unica persona che mi faceva sorridere senza fare nulla. Solamente vederla mi rendeva felice. Giocavamo ogni giorno, facevamo di tutto. Esploravamo il villaggio, le colline e la costiera. Giocavamo ai pirati, agli avventurieri, ai detective. Dormivamo nella sua casa sull’albero. Poi, quando mia madre è morta, io e mio padre non siamo più venuti qui e… beh, io e Belle non ci siamo più visti. Fino all’università. Ci siamo incontrati di nuovo il primo giorno di lezioni ed era come se non fosse cambiato niente. Però era cambiato tutto. I giochi erano diventati serate passate insieme. La casa sull’albero divenne presto la stanza dell’altra persona. Anche allora, come quando eravamo ragazzini, ci nascondevamo sotto le coperte, abbracciati, affannati, felici.»
La mano di Dylan asciugò la lacrima che stava scendendo sulla sua guancia. Non sapeva se stava piangendo per i ricordi di Belle o perché stava ricordando momenti che fino a un attimo prima non ricordava.
«Poi l’università finì. Belle aveva ricevuto una borsa di studio per specializzarsi in America. Io rimasi a Londra, ad insegnare. Era finita lì.»
La mano di Anne strinse quella di Dylan e lui alzò lo sguardo. Gli occhi della ragazza erano lucidi, ma stava sorridendo. Si stupì di sentire che anche lui stava sorridendo.
«Per quei pochi anni siamo stati felici e lei… lei è stata la mia casa, il mio rifugio quando qualcosa andava storto. E ora che l’ho persa ho paura di non sentirmi mai più al sicuro.»
Anne ritrasse la mano, sul suo volto c’era confusione ma anche paura.
«Ora che l’hai persa?» chiese.

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Capitolo 11
*** Yugen ***


Yugen
幽玄
Una consapevolezza così profonda
che provoca un’emozione
impossibile da esprimere a parole
____________________________

«Cosa?» disse Dylan, confuso.
«Hai detto… ora che l’hai persa.»
Dylan rimase in silenzio. Sul volto di Anne c’era preoccupazione ma anche distacco, come se avesse improvvisamente capito che in effetti Dylan era davvero pazzo.
«Ora che l’ho persa…» sussurrò Dylan, incapace per qualche motivo di contenere le lacrime.
Poi ricordò.
Era insegnante di ruolo in un liceo alla periferia di Londra quando ricevette la chiamata di Belle. Erano passati sei anni dall’ultima volta che si erano visti. Per qualche tempo erano rimasti in contatto ma poi, tra gli studi di Belle e il fuso orario, si erano persi. Ed ora Belle l’aveva chiamato. Stava tornando a Londra. Per restare.
Il primo incontro fu strano, imbarazzante. Sembrava che ci fossero un sacco di cose non dette tra loro. Belle aveva trovato qualcuno? Era ancora innamorata di Dylan come lui lo era di lei? Erano soltanto amici o c’era qualcosa di più?
Quest’imbarazzo durò troppo a lungo, finché una sera, mentre stavano guardando un film a casa di Dylan, semplicemente si baciarono e fu come se gli ultimi sei anni non fossero mai esistiti.
Da lì in poi il tempo sembrò scorrere più velocemente. Troppo velocemente. Gli appuntamenti, come fossero una nuova coppia. La convivenza, come se non fosse passato un giorno dall’università. Il matrimonio. La casa in periferia, il nuovo lavoro. Il giardino, le grigliate con gli amici. La promozione di Belle, il lavoro nel sociale di Dylan. Il fazzoletto sporco di sangue. Le visite, le attese. La diagnosi, i pianti. La malattia.
Sua moglie era morta.
Dylan si sentì mancare, scivolò dalla sedia e cominciò a singhiozzare, senza emettere un suono, stringendosi forte su se stesso, incapace di respirare, incapace di pensare nient’altro che non fosse un urlo di dolore.
Sua moglie, Belle, era morta.

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Capitolo 12
*** Preterist ***


Preterist
pret·​er·​ist | \ ˈpretərə̇st, -rēt- \
Qualcuno il cui interesse principale è nel passato
_______________________________________
 
Dylan sentì Anne calare su di lui, avvolgerlo in un abbraccio che però gli sembrava freddo, distante. Che non valeva niente perché sua moglie era morta e non c’era niente al mondo che l’avrebbe riportata indietro.
Non sapeva per quando tempo era rimasto lì. Quando smise di piangere il fuoco nel caminetto era ormai consumato, quasi spento. Lo fissò a lungo, gli occhi che gli bruciavano per le lacrime.
«Mia moglie è morta» disse poi in un rauco sussurro. Sentì le braccia di Anne stringerlo più forte. «Belle è… era mia moglie.»
Anne non disse niente, ma non appena Dylan accennò un movimento, la ragazza sciolse l’abbraccio e lo aiutò ad alzarsi. Dylan si lasciò cadere sul divano guardando, in un silenzio occasionalmente scosso da qualche sussulto, Anne che ravvivava il fuoco. Quando ebbe finito la ragazza si sedette accanto a lui, ancora in silenzio.
«Dì qualcosa, ti prego» la implorò Dylan.
«È positivo» disse lei. «Tutto questo. Abbiamo capito perché hai le visioni, perché hai i vuoti di memoria. Abbiamo capito cos’hai. Cos’è successo.»
«Abbiamo capito anche come far andare via…» cominciò Dylan, ma le parole gli morirono in bocca, strozzate da un’improvvisa apnea, e si limitò a stringersi una mano al petto, come se volesse strapparsi il cuore.
Anne appoggiò la mano sulla sua. «Il dolore» concluse. «Ci vorrà del tempo, ci vorrà pazienza. Potrebbe non andare mai via. Quasi sicuramente non andrà mai via. Ma puoi imparare a conviverci.»
«Non credo di voler più vivere» disse Dylan. Anne ritrasse la mano. Dylan la guardò. Sul suo viso c’era pura tristezza.
«Non dirlo neanche per scherzo» disse.
«Non sto scherzando.»
«Cosa pensi che direbbe Belle, sentendoti dire queste parole? Lei non vorrebbe questo. Lei vorrebbe che tu vivessi, che portassi avanti il suo ricordo, che raccontassi al mondo di lei.»
«Io… non posso farlo» sospirò Dylan. «Non ne ho le forze. Perché credi che sia venuto qui? Non ricordavo niente di lei per lo shock di averla persa e adesso che ricordo ogni cosa vorrei solo restare qui a ricordarla, lei e ogni momento passato assieme, fino alla fine dei miei giorni.»
La mano di Anne tornò a stringere la sua. «Fallo» disse. «Prenditi tutto il tempo che ti serve. Resta qui, piangila, soffri, ma ricordala. Soltanto questo devi fare. Ricordarla. Ricorda tutto e col tempo, vedrai, starai meglio. Non la dimenticherai né dimenticherai mai questo dolore, ma starai meglio. Credimi.»
«Hai fatto così con tuo marito?» chiese Dylan brusco, sentendosi in colpa subito dopo aver fatto quella domanda.
«Ci ho provato» disse Anne. «Ma lui… è morto suicida.»
«Mi dispiace, non lo sapevo» disse Dylan, sprofondando nel divano per la vergogna.
«Non te l’avevo detto. Sai, quando una persona così vicina a te si toglie la vita non puoi fare a meno di domandarti se non sia stata colpa tua, se non avessi potuto fare qualcosa per prevenirlo.»
“È colpa tua” sussurrò la voce nella testa di Dylan.
«Non è colpa tua» disse Dylan. «Non è mai colpa di qualcuno. Se quella era la decisione che ha preso, niente di ciò che avresti potuto fare l’avrebbe fermato.»
«Saresti stato un buon terapista» disse Anne, accennando un sorriso.
«Ne avrei bisogno io di uno bravo.»
«Posso consigliarti qualcuno, a Londra. Però nel frattempo, se vuoi, ci sono io. Posso passare qui le sere, se ti va. L’assenza di luce aumenta la tristezza e la depressione, un po’ di compagnia potrebbe farti bene.»
«Volentieri» disse Dylan. Fu scosso da un singhiozzo ma, mentre stringeva ancora la mano di Anne e la guardava sorridere, sentì un barlume di speranza affacciarsi nei più reconditi meandri del suo cuore.

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Capitolo 13
*** Ukiyo ***


Ukiyo
浮世
Il “mondo fluttuante”, vivere il momento
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Il giorno dopo, Dylan si svegliò stranamente sereno. Si sentiva spossato, stanco nel corpo e nella mente, depresso e senza alcuna spinta, ma era anche in pace con se stesso. Sapeva cosa l’aveva portato lì, sapeva cosa aveva dimenticato, sapeva perché aveva quegli incubi. Almeno sapeva perché. Sarebbe potuto ripartire da lì.
Si era svegliato che era ormai mezzogiorno, così mangiò una fetta di lasagna avanzata dalla sera prima e, vista la bella giornata, decise di passarla all’aperto. Ma voleva comunque restare solo quindi, una volta uscito dal cancelletto della casa, invece che girare a sinistra e dirigersi verso il villaggio, si voltò verso destra e cominciò a camminare verso la scogliera.
Mentre camminava, lasciò che i sensi fossero sopraffatti da ciò che lo circondava. Si riempì gli occhi con il verde dell’erba e l’azzurro del cielo, le sue orecchie ascoltavano soltanto il rumore del vento e il cinguettare degli uccelli, si lasciò accarezzare dal calore del sole e dal fresco della brezza.
Quando la strada lasciò il posto ad un sentiero, circondato da erba che gli arrivava a metà polpaccio, Dylan si tolse le scarpe e camminò sulla morbida erba piuttosto che sul sentiero di terra e pietruzze. Riconosceva quel sentiero. L’avrebbe portato dritto sulla cima della scogliera e da lì, se lo voleva, sarebbe potuto scendere alla spiaggia sottostante, dove lui e Belle andavano sempre a raccogliere le conchiglie.
Il pensiero di Belle, naturalmente, non aveva lasciato davvero la sua testa. Non si aspettava di certo che fosse così facile. Ma concentrarsi su ciò che lo circondava piuttosto che su ciò che provava, sull’esterno piuttosto che sull’interno, l’aveva aiutato. Pensare a Belle così vividamente, con un ricordo così specifico che ora, dopo aver ricordato tutto la sera prima, assumeva connotazioni del tutto nuove, gli fece perdere la stabilità nel passo per un attimo e si ritrovò inginocchiato a terra, le mani nell’erba umida.
Avrebbe potuto mettersi a piangere. Avrebbe potuto urlare, disperarsi. Avrebbe potuto sbattere i pugni a terra e imprecare verso il cielo.
Invece si alzò e continuò a camminare.

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Capitolo 14
*** Tectum ***


Tectus
[tectus], tectă, tectum
Coperto, celato, nascosto
____________________
 
Quando arrivò sulla cima della scogliera fu sopraffatto dall’immagine che gli si stagliava davanti. Acqua, azzurra e roboante, fin dove l’occhio potesse vedere. La vastità dell’oceano lo fece sentire incredibilmente piccolo e insignificante. Era una sensazione strana, inebriante e inquietante al tempo stesso. Non ricordava di avervi prestato tanta attenzione quand’era un ragazzino. “Uno dei rari vantaggi della vita adulta” pensò.
Sotto di lui si intravedeva la spiaggia rocciosa che era stata una seconda casa per lui e Belle, molti anni prima. Dylan, senza pensarci due volte, prese lo stretto sentiero che dalla sua sinistra scendeva fino al livello normale. Percorrerlo oggi non era come percorrerlo quando aveva dieci anni. Ricordava le corse a rotta di collo giù per quel pendio, senza inciampare mai, saltando ostacoli e scivolando sulla terra e sui sassi per arrivare prima al fondo. Ora invece metteva un piede davanti all’altro con calma e attenzione, sostenendosi con una mano appoggiata lungo la roccia a monte.
Arrivò giù dopo quella che gli parve un’eternità e si guardò attorno. La spiaggia non era per niente come la ricordava. Sarà che ormai era cresciuto, ma gli sembrava incredibilmente più piccola, non solo nella sua estensione totale, ma anche nelle rocce che la componevano. Quelle che un tempo erano, o gli erano sembrate, rocce, ora erano ghiaia. Sì, c’era ancora qualche scoglio più grande qua e là, più o meno dove si ricordava che fossero, ma nel complesso gli sembrava una spiaggia totalmente diversa.
C’era un solo modo per appurare che fosse davvero la spiaggia della sua infanzia.
Dylan si diresse verso il lato più lontano dal sentiero, dove si trovava un’apertura nella roccia della scogliera, una specie di semiarco frastagliato superato il quale la spiaggia continuava per qualche metro, più piccola, stretta e sconnessa. Si fece largo a fatica su quel breve tratto di rocce appuntite, rischiando più volte di scivolare e cadere nell’acqua che sciabordava a qualche decina di centimetri da lui, ma infine riuscì a raggiungere l’estremità opposta della piccola spiaggia dove si apriva una piccola grotta, profonda appena qualche metro. Dovette abbassare la testa per entrare, segno evidente che la spiaggia non era cresciuta con lui: l’ultima volta che c’era stato era rimasto in piedi senza problemi.
La luce dall’esterno riusciva a penetrare fino in fondo alla piccola grotta e a illuminare una parete di roccia che oggi era piena di scritte e graffiti, ma che nei ricordi di Dylan era immacolata fatta eccezione per un punto. Appoggiò una mano sulla roccia e cominciò a muoverla, cercando di sentire più che vedere ciò che stava cercando. Una lieve rientranza nella roccia gli disse che l’aveva trovato. Sotto a strati di pittura e scritte varie, era ancora lì, inciso nella roccia dopo ore e ore di lavoro nell’ultimo pomeriggio che Dylan e Belle avevano passato insieme.
D+B.
Dylan si sedette sulle scomode e umide rocce, incurante dell’acqua che gli inumidì i pantaloni e senza perdere di vista l’incisione. Si stupì di sentire un sorriso sulle sue labbra, ma non di sentire le lacrime negli occhi. Quell’ultima estate era stata la più importante per entrambi, senza che nessuno dei due lo sapesse. Era l’estate in cui si erano baciati. Non come quando avevano dodici anni, un bacio vero stavolta. A posteriori, entrambi avevano pensato che sarebbe stato inevitabile. Erano migliori amici ma cominciavano a cambiare, a provare sensazioni nuove l’uno per l’altra. E così si erano scambiato un bacio vero, un singolo, umido bacio impacciato, a cui non avevano dato seguito e di cui non avevano più parlato per molti anni.
Dylan rimase lì, seduto a terra, a fissare l’incisione per un tempo indefinito, pensando a quanto fosse stata importante e bellissima quella loro ultima estate. Si alzò quando cominciò a non sentire più le gambe e quando l’acqua cominciò a inumidirgli anche le cosce. Diede un ultimo sguardo all’incisione, accarezzandola dolcemente come se fosse una creatura vivente, prima di voltarsi e imboccare l’uscita della grotta.
Solo che l’uscita della grotta non era più lì.
Davanti e dietro di lui c’era soltanto il buio.

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Capitolo 15
*** Ataraxis ***


Ataraxis
Assenza di stress o ansia
____________________
 
Per un singolo istante Dylan fu sopraffatto dal panico.
Poi si ricordò. Ricordò la rivelazione della sera prima, ricordò il motivo del suo malessere, delle sue visioni. Tutto quello non era reale. Aveva appena ricordato della sua ultima estate con Belle, era normale che stesse avendo una crisi o quello che era.
Davanti a lui c’era il buio.
Non sentiva più il rumore delle onde, fuori, ma sapeva che dovevano essere proprio davanti a lui, così cominciò a camminare, il cuore che batteva a un ritmo solo leggermente accelerato. Fece uno, due, tre, cinque passi. La grotta non era così tanto profonda. Avrebbe dovuto già essere all’esterno, e invece c’era ancora soltanto buio davanti a lui. Si voltò.
Ancora buio.
Chiuse gli occhi, sia per attenuare la paura che sentiva farsi largo nel profondo del suo cuore, sia per concentrarsi su quello che era ormai diventato il suo mantra in quelle situazioni.
«Puoi controllarlo» sussurrò. «Puoi controllarlo.»
«È colpa tua» disse un sussurro famigliare dietro di sé.
«Puoi controllarlo» ripeté Dylan, cercando di contrastare l’avvicinarsi di quell’empia voce.
«È colpa tua. È colpa tua. È colpa tua.»
La voce si faceva sempre più forte e Dylan la sentiva avvicinarsi, accompagnata da un brivido freddo lungo la schiena.
«Posso controllarlo» si disse ancora.
«No, non puoi» urlò la voce, e Dylan sentì una fredda mano viscida afferrargli il braccio.
Istintivamente lottò per liberarsi, ma la mano non mollò la presa e Dylan cadde a terra, di nuovo sulle rocce irregolari e umide. Per un attimo, per una frazione di secondo, aveva aperto gli occhi e ciò che aveva visto gli aveva fatto rivoltare le budella. La mano che lo stava toccando apparteneva a una creatura che non era possibile definire umana. Sembrava camminare a quattro zampe, come un animale. Era nuda, ma la pelle era corrosa, bruciata, lacera e marcia, di un colore grigio-verde, piena di pustole. Il volto di quel mostro era un ghigno deforme, composto da troppi denti, due fori al posto del naso e due occhi vuoti eppure in grado di fissarti e penetrarti.
«Sei debole» disse la creatura in un sibilo. «Sei un debole, Dylan.»
«Posso controllarlo.»
La creatura lo afferrò per entrambe le braccia con quelle sue mani purulente. Dylan poteva sentire la pelle bruciare al contatto col mostro.
“Stai calmo” pensò. “È tutto nella tua testa.”
«Non è vero» disse la creatura, mentre un’altra mano gli strinse la coscia con così tanta forza da farlo gemere di dolore.
«Posso controllarlo» disse Dylan, alzando la voce.
La creatura rise e Dylan si sentì svuotare.
«Possocontrollarlopossocontrollarlopossocontrollarlo…» cominciò a ripetere Dylan, a voce alta, cercando di sovrastare quella risata maligna che ora sembrava provenire da ovunque attorno a lui. Nuove mani lo afferrarono, lo strinsero, lo graffiarono. Ormai era immobilizzato da quella creatura, da quel mostro, impossibilitato a muoversi e determinato a non aprire gli occhi per nessuna ragione al mondo.
Sentì una mano farsi strada sul suo petto da dentro la maglia.
«È colpa tua.»
La mano raggiunse il collo e lo afferrò con forza. Dylan sentì immediatamente l’aria mancargli nei polmoni.
«No… no…» disse in un sussurro strozzato. «Non è…»
«Il piccolo Dylan non riesce a respirare?» rise la creatura.
«No! Non è colpa mia!»
Dylan si sentì improvvisamente libero dalla presa del mostro, libero di respirare di nuovo e di aprire gli occhi. Era seduto nella grotta, davanti a lui c’era l’uscita, l’oceano e il cielo azzurro. Aveva freddo, tremava e non riusciva a controllare le lacrime che gli riempivano gli occhi.
Si alzò a fatica e uscì dalla grotta, senza guardarsi intorno. In qualche modo il bel ricordo che aveva rivissuto là dentro era stato contaminato da quell’incubo. Prima di percorrere di nuovo lo stretto passaggio che l’avrebbe portato alla spiaggia principale, Dylan appoggiò una mano sulla scogliera, per sostenersi e riprendere fiato.
Scoprì con orrore che sul braccio aveva cinque lividi là dove le dita della creatura l’avevano stretto.

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Capitolo 16
*** Pridian ***


Pridian
prid·​i·​an | \ ˈpridēən \
Relativo al giorno prima
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Quella sera Anne bussò alla sua porta, come aveva promesso. Dylan aprì la porta e la salutò, ma non la fece entrare. Aveva passato l’intero pomeriggio a cercare di dimenticare ciò che era successo nella grotta, invano. Ogni volta che si ripeteva allo sfinimento che si trattava di un altro incubo, di un’altra visione, non riusciva a non cedere alla tentazione di guardarsi le braccia e le gambe per vedere se i segni della creatura sulla sua pelle erano scomparsi. E ogni volta erano ancora lì.
«Ti dispiace se rimandiamo?» disse Dylan, aperta la porta. «Non sono in vena.»
Anne abbassò la borsa che teneva in mano e che aveva sollevato per mostrare a Dylan che aveva portato la cena anche quella sera. «Cos’è successo?» chiese.
«Niente» mentì Dylan, incapace di continuare a guardarla negli occhi.
«Dylan, te lo leggo in faccia.»
Dylan cercò con tutte le forze di trattenersi, di controllarsi, di non cedere. Ma infine scoppiò in lacrime.
«Oh, Dylan» disse Anne, abbracciandolo. «Vieni, entriamo.»
Si accomodarono in cucina, dove Anne cominciò a scaldare un pollo arrosto e delle patate al forno. Dopo un breve ma intenso pianto liberatorio, Dylan scoprì che non era la paura che l’aveva spinto a non far entrare Anne, ma la vergogna. Raccontò ciò che era successo fissando il pavimento.
«E non è stato un incubo, un’allucinazione questa volta» disse infine, sentendo un improvviso peso calargli sul petto.
Anne smise di preparare la cena e si voltò verso Dylan che continuava a fissare il pavimento. «Dylan, ne abbiamo parlato ieri sera…» cominciò, ma si interruppe quando Dylan si tirò su le maniche del maglione. Anne si portò una mano alla bocca e fece per avvicinarsi a Dylan, salvo fermarsi prima di raggiungerlo, un attimo prima di toccarlo. Dylan sapeva cosa stava pensando, sapeva cosa stava per dire. Lo sapeva perché ci aveva pensato anche lui, per qualche momento.
«Dylan, cosa hai fatto?»
Ed eccolo lì. Il giudizio. La diagnosi. Dylan soffriva per la morte di Belle, aveva per forza delle visioni e se c’era un qualche segno sul suo corpo doveva per forza esserselo fatto da solo. Non c’era niente in quella grotta, non era successo niente all’infuori che nella sua testa.
Dylan si abbassò le maniche con rabbia, cercando di non cominciare a urlare contro Anne. «Non ho fatto niente» disse in un rauco sussurro.
Anne si inginocchiò accanto a lui. «Dylan, ne abbiamo parlato ieri. È tutto nella tua testa. È il tuo modo di elaborare il lutto, tu puoi fermarlo.»
Dylan sollevò lo sguardo verso Anne, il suo sguardo fisso negli occhi di lei. «Cos’hai detto?»
«Niente di ciò che vedi è reale. Solo tu puoi fermarlo.»
«Posso controllarlo, cioè?»
Anne annuì, sorridendo, ma dai suoi occhi cadde qualche lacrima. «Te l’ho detto ieri. Sono qui per aiutarti. Qualsiasi cosa ti stia succedendo. Permettimi di aiutarti. Non nascondermi niente, ok?»
Dylan rimase in silenzio per qualche istante. “Posso controllarlo” pensò. Forse era davvero tutto nella sua testa. Forse si era fatto quei segni da solo.
«Ok» disse poi, annuendo. «Va bene.»
Anne voleva il suo bene, di questo era certo. Ma era anche certo che Anne non sapeva, non capiva. Non era possibile che si fosse procurato quei segni da solo.
Gli incubi erano reali e lui li avrebbe combattuti, con il suo corpo e con la sua mente.

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Capitolo 17
*** Alew ***


Alew
al·​ew | \ əˈluː \
Un pianto di disperazione
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Nonostante quei primi attimi di imbarazzo e disagio, la serata con Anne fu piacevole, al punto che, per qualche istante, Dylan riuscì a dimenticare ciò che era accaduto quella mattina e i lividi che portava sulle braccia.
«Vuoi che resti qui a dormire?» gli aveva chiesto Anne. «Sul divano, naturalmente» chiarì, sorridendo.
Dylan sorrise, mentre valutava la proposta di Anne. Gli era capitato di vivere un incubo in sua presenza. Forse, se fosse rimasta a dormire lì, sarebbe successo qualcosa, lei l’avrebbe visto e allora avrebbe dovuto credergli. Male che andasse l’incubo non si sarebbe manifestato e Dylan avrebbe dormito un sonno tranquillo.
«Se non è un disturbo penso che mi sentirei più tranquillo» disse infine. «Però non dormirai sul divano. C’è la vecchia stanza di quand’ero piccolo.»
Dopo un po’ salirono a preparare insieme la camera da letto per Anne, prima di darsi la buonanotte e ritirarsi nelle proprie stanze.
Quando Dylan si spogliò per andare a letto e si specchiò nella toletta della camera, ebbe un brivido. I lividi erano ancora lì, naturalmente. Se possibile erano ancora più vividi, più scuri. Si toccò un braccio, dove c’era il livido più grande, ma non sentì dolore.
In compenso sentì la voce.
«E così la tua amichetta non ti ha creduto» disse la voce disincarnata della creatura della grotta. «Ti crede pazzo». Scoppiò in una risata che fece tremare le gambe a Dylan che si appoggiò alla toletta per evitare di cadere a terra, chiudendo subito gli occhi per evitare di vederla.
«Sei debole» gli sussurrò la voce all’orecchio. Dylan poteva sentirla anche se non lo stava toccando. Poteva avvertire il freddo e la decomposizione nell’aria. «La tua volontà mi appartiene. Ti ho in pugno.»
«Posso…» cominciò a dire Dylan.
«Non puoi fare niente!» urlò la creatura.
Dylan aprì gli occhi ma la sua vista era annebbiata dalle lacrime che sgorgavano abbondanti. Attorno a lui c’era solo il buio. «Io…» disse in un gemito. La creatura rise ancora.
«Tu sei un fallito. Non vali niente.»
Dylan si rannicchiò a terra, cingendosi le gambe con le braccia. Scoppiò in un pianto incontrollato, disperato, folle. Stava urlando mentre piangeva, urlava di dolore e di paura, ma nonostante questo riusciva ancora a sentire la voce della creatura.
«Hai ragione. Dovresti morire. Non servi a niente.»
Dylan non smise di piangere. Vide una lama bianca nell’ombra. Un coltello?
«Sei un peso. Sei feccia. Perfino la tua amichetta non ti sopporta e lo sai.»
Non era un coltello. Era il sorriso enorme, deforme e ghignante della creatura che si beffava di lui.
«Devi morire!»
Il ghigno e l’ombra scomparirono quando Anne aprì la porta e la luce del corridoio penetrò nella camera da letto. Dylan sentì se stesso che continuava a piangere e urlare e sentì Anne gettarsi a terra accanto a lui e abbracciarlo mentre le lacrime di lei si univano alle sue.

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Capitolo 18
*** Sweven ***


Sweven
swev·​en | \ ˈswe-vən \
Sogno, visione, premonizione
________________________
 
Poi Dylan si svegliò.
Era nella sua casa di Londra. Non era un granché, un piccolo appartamento di due stanze in periferia, ma era casa. Fu svegliato da un raggio di luce che colpì esattamente il cuscino su cui appoggiava la testa.
«Bee, non hai tirato le tende» disse. Quello era l’unico momento della giornata in cui la luce entrava così forte nella camera da letto che altrimenti restava in penombra per il resto della giornata. Belle non tirava mai la tende prima di andare a letto perché le piaceva addormentarsi con la luce tenue della notte che entrava dalla finestra, ma si dimenticava spesso di chiuderle la mattina, quando lei si alzava presto per andare a correre mentre Dylan dormiva ancora.
Dylan sbuffò e si rotolò sul letto, affondando il viso nel cuscino di Belle. Non poté fare a meno di sorridere quando sentì il suo profumo sul tessuto.
«Ehi, Dy» disse la voce di Belle. Dylan girò la testa per guardarla. Era appena uscita dalla doccia, avvolta nell’accappatoio, un asciugamano sui capelli. Era bellissima. «Sei un vero dormiglione, sai?»
«E tu sei una smemorata» le disse Dylan, tornando ad affondare la faccia nel cuscino. Sentì Belle camminare verso la finestra e chiudere le tende. Un attimo dopo il letto tremò e Dylan sentì un peso sulla schiena e una risata nell’orecchio.
«Scendi» urlò, ridendo.
«Costringimi» ridacchiò Belle, cominciando a pizzicargli i fianchi.
Con un colpo secco, Dylan si girò, facendo cadere Belle a fianco a lui. In un attimo fu sopra di lei. L’accappatoio si era aperto e Dylan si sforzò di non far cadere subito lo sguardo sul suo corpo nudo, mantenendo gli occhi fissi in quelli di lei. Belle rise.
«Come sei carino» disse, avendo intuito lo sforzo di Dylan.
Poi sollevò la testa e lo baciò, e niente aveva più importanza.
 
La sera, quando Belle rientrò dal lavoro, Dylan la stava aspettando, una cena preparata in casa al caldo sui fornelli, una bottiglia di vino aperta sulla tavola. Aveva passato la giornata a casa, nel più completo relax. Sentiva di meritarselo, anche se non sapeva perché. Aveva passato una nottata strana, piena di incubi. Probabilmente aveva anche sognato che Belle era morta, ma non voleva indugiare troppo su quel pensiero. La prospettiva di perderla era intollerabile per lui.
Dylan e Belle consumarono la cena, che superò il giudizio di Belle a pieni voti, e poi si accoccolarono sul divano, stretti l’uno nell’altra, davanti a un film che avevano già visto mille volte, recitando a memoria i dialoghi dei protagonisti.
«Scott guadagna…» disse Dylan, puntando un indice verso Belle per dirle di finire la frase con lui.
«Il potere dell’amore!» esclamarono all’unisono, scoppiando a ridere.
Poi il protagonista del film sbagliò battuta.
Dylan non sentì subito cosa stava dicendo. Quando guardò lo schermo vide che l’attore aveva lasciato il posto al suo volto. Dylan era entrato nel film.
«Stai tranquillo, va tutto bene» disse il Dylan in tv. Quello seduto sul divano era senza parole. «Questo non è un incubo. Non hai niente da temere. Ok?»
Dylan non sapeva come rispondere. Non riusciva a muovere un muscolo. Era la sensazione più strana che avesse mai vissuto.
«Dylan, rispondi a Dylan» disse Belle, ancora accoccolata a lui. Stava sorridendo. «Va tutto bene» sussurrò poi, stringendosi ancora di più nel suo abbraccio.
«Allora, hai capito?» chiese il Dylan in tv. «Sei tranquillo?»
Dylan annuì, poi, non sicuro che il se stesso nello schermo potesse vederlo, disse: «Sì.»
«Molto bene» riprese il Dylan televisivo. «Tutto questo non è reale. L’hai creato tu. È un tuo ricordo che ha preso vita nei tuoi sogni. Ti trovi ancora a Tullow, in questo momento. Tu e Anne state dormendo insieme.»
«Non sono gelosa, stai tranquillo» sorrise Belle, punzecchiandogli un fianco. «So che mi ami.»
«Più di ogni altra cosa al mondo» disse Dylan in un sussurro strozzato.
«Lo so» disse Belle, allungandosi per dargli un bacio veloce.
«Ascoltami, Dylan» disse il suo volto dallo schermo. «Tutto questo non è reale, ma può diventarlo, ok?»
«Come?»
Dylan guardò il suo volto sorridere. «Se te lo dicessi sarebbe troppo facile, no?»
«Per prima cosa dovrai carpire la verità oltre il velo, ma per farlo dovrai fare una cosa che ora ti sembra aberrante» disse Belle con voce atona, senza alzare lo sguardo verso Dylan.
«Poi dovrai accettare ciò che hai fatto scoprendo ciò che sarebbe successo se non l’avessi fatto» continuò il Dylan della tv, con la stessa monotonia nella voce di Belle.
«Nel verde vivrai un nuovo incubo, ma colei che ti ama ti aspetta alla fine di esso» disse Belle. Automaticamente, Dylan rivolse lo sguardo alla tv.
«Infine subirai un tradimento e una rivelazione, l’una più difficile da accettare dell’altro.»
«Ma alla fine lo farai» disse Belle, riacquistando la sua solita voce calda e dolce. «Devi accettarlo, Dylan. E potremo essere felici.»
«Ma… tu sei morta» le disse Dylan.
«Già» sorrise Belle, mentre lo baciava.
Le sue labbra scivolarono via da quelle di Dylan e quando riaprì gli occhi era buio. Era nel suo letto, nella casetta di Tullow, e c’era Anne accanto a lui. Non più sicuro di quale fosse la realtà e quale il sogno, Dylan chiuse gli occhi e si riaddormentò.

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Capitolo 19
*** Lorn ***


Lorn
\ ˈlȯrn \
Abbandonato, condannato
 
«È chiaro che il tuo subconscio ti sta parlando e ti sta dicendo che, se vuoi continuare a vivere, devi accettare la morte di Belle» disse Anne, appoggiando la tazza di tè sul tavolo della cucina. «Zucchero?» chiese poi, con una naturalezza che fece sentire Dylan leggermente a disagio.
“Non sono gelosa” gli aveva detto il sogno di Belle, quella notte. Ma proprio averla rivista in quel modo aveva scombussolato il risveglio di Dylan. Belle aveva dormito con lui a causa della sua crisi della sera prima, per essere vicina se fosse successo di nuovo. Non c’era stato niente, naturalmente, ma risvegliarsi accanto a lei era stato strano eppure in qualche modo naturale, addirittura bello. Era quella sensazione a farlo sentire colpevole.
«Solo del latte, grazie» le rispose Dylan.
«Non sarà un processo facile né veloce, te l’ho detto» continuò Anne mentre gli passava il cartone del latte. «Ma devi avere fiducia del processo. E devi avere pazienza. Quello che sto per dirti sembrerà brutale, ma se non hai la volontà di impegnarti e portare a termine il tuo percorso di guarigione, qualunque sia il costo in tempo e fatica, tanto vale arrendersi subito.»
Aveva ragione, era stata brutale. Ma l’aveva detto guardandolo con un sorriso soddisfatto e tenendogli la mano.
«So che puoi farcela» aggiunse poi, smorzando la tensione. Dylan non ne era convinto come Anne, ma sapeva che ci avrebbe provato.
C’era qualcosa, nel sorriso di Anne, che lo spronava ad andare avanti.
 
Anne aveva proposto di passare la giornata assieme. Era domenica e al villaggio c’era il mercato ortofrutticolo, così decisero di fare una passeggiata fino al centro di Tullow per acquistare le provviste per il pranzo. Alle porte del villaggio incontrarono il signor Doyle, il custode. Non appena li vide i suoi baffoni grigi si agitarono sopra a un sorriso.
«Anne, Dylan, bentrovati» disse Doyle.
«Signor Doyle, buongiorno» lo salutò Anne. «Come sta? E come sta Rosy?»
«Oh, stiamo bene, stiamo bene. Niente di cui lamentarci» rispose Doyle. «State andando al mercato?»
Dylan annuì. «Volevamo prendere qualcosa per pranzo e fare quattro passi» disse.
«Eccellente idea. Una giornata come questa non va passata tra le mura di una casa.»
«Vuole accompagnarci?» chiese Dylan, anche se in fondo avrebbe preferito passare la giornata soltanto con Anne. Il vecchio Doyle era di buona compagnia, ma con Anne si sentiva a suo agio.
«Oh, no, no» rispose Doyle, agitando una mano. «Devo tornare a casa da mia moglie» disse, alzando una busta piena di ortaggi.
«Sarà per un’altra volta allora» sorrise Anne.
«Signor Doyle, io…» cominciò Dylan, non sapendo bene come continuare. Guardò Anne con la coda dell’occhio e vide che lei lo guardava con quel suo sorriso che pareva dire “Tranquillo, ce la puoi fare”. «Ecco, io sono stato… male. Non… non ricordavo niente. Di Belle intendo. E, ecco, mi dispiace molto di averla messa in una brutta situazione…»
«Sciocchezze, ragazzo» lo interruppe Doyle. «Sono felice che tu stia meglio, quello è l’importante» disse sorridendo. «Bene, ora vi lascio alla vostra passeggiata. Buona giornata.»
Dylan e Anne passarono la mattinata tra le bancarelle, acquistando ortaggi e frutta, ma anche vecchi libri e dischi e statuine di ceramica un po’ pacchiane ma che ad Anne piacevano tanto. Si concessero addirittura dello zucchero filato di un color rosa acceso.
Persero la cognizione del tempo e, sotto la minaccia del gorgogliare dei loro stomaci affamati, decisero di mangiare un boccone al pub del villaggio e conservare gli acquisti per il giorno dopo. In occasione del mercato il pub aveva allestito dei tavoli all’aperto, così il loro pranzo fu baciato dal calore del sole. Mangiarono e bevvero, chiacchierando come se fossero vecchi amici. La conversazione con Anne scorreva come un fiume, tranquilla ma incessante.
Mentre percorrevano la strada del ritorno, Dylan provava un crescente malessere man mano che si avvicinavano alla casa. Inizialmente pensò si trattasse della casa stessa. Non voleva tornarci dopo la sera prima, dopo l’incubo e il sogno. E invece, giunti infine alla porta della casa, si rese conto che non era l’edificio a causargli quel turbamento emotivo, ma l’idea di separarsi da Anne.
“Non sono gelosa”.
«Mi raccomando, metti via gli acquisti di oggi. Domani mattina vengo qui presto a cominciamo a cucinare, ok?» gli disse Anne, porgendogli le buste che aveva portato fino alla porta di casa. «A meno che non vuoi che resti a dormire anche stanotte?»
“Sì che lo voglio” si trovò a pensare Dylan, ma poi, sentendosi in colpa, disse: «No, tranquilla. Non credo che ce ne sia il bisogno.»
«Ok» sorrise Anne, e nel suo viso non c’era la delusione che Dylan provava per la risposta che aveva dato. «Beh, grazie per la splendida giornata, mi sono divertita molto.»
«Anch’io» si affrettò a rispondere Dylan, ma non sapendo bene cos’altro aggiungere si limitò ad annuire e sorridere.
«Ok, allora» disse Anne, avvicinandosi a lui per abbracciarlo. Dylan cercò di alzare le braccia per ricambiare l’abbraccio ma, occupate a reggere le borse del mercato, si ritrovò a ricambiare con un mezzo abbraccio, meno stretto di quanto avrebbe voluto.
«Grazie mille» riuscì a dire. «Di tutto. Per oggi, per ieri e… beh, per ogni giorno, in realtà.»
«Non dirlo neanche» sussurrò Anne al suo orecchio, stringendolo più forte. «Sono qui per te.»
Restarono stretti in quell’abbraccio per un tempo che Dylan non sapeva definire e, quando finalmente uno dei due, ma senza sapere bene chi, trovò la forza di scioglierlo, ci fu un momento in cui le loro guance si sfiorarono e tutto si mosse più piano. I loro sguardi si incrociarono, i loro corpi si congelarono per un solo istante per poi fare un movimento, impercettibile, l’uno verso l’altro.
“Non sono gelosa”.
Dylan spezzò l’immobilità e si allontanò da Anne, che si aggiustò i capelli e sorrise, visibilmente arrossita.
«Buona serata allora» disse poi, con voce tranquilla. C’era forse una nota di delusione nel suo tono? «Chiamami se hai bisogno, ok? Ciao» aggiunse poi, salutandolo con la mano mentre si allontanava dalla porta camminando all’indietro.
«Ciao» rispose Dylan, alzando una mano con la busta piena di ortaggi che dondolava a destra e sinistra e sentendosi uno scemo.
La guardò andare via e provò una sensazione di solitudine estrema, come se avesse trovato quello che cercava da una vita intera e non lo volesse lasciar andare.
La stessa sensazione che aveva provato al primo appuntamento con Belle.

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Capitolo 20
*** Multitarian ***


Multitarian
Avere molte forme ma una sola essenza
________________________________
 
Dylan non riusciva a chiudere occhio.
Non era a causa degli incubi. Da quando era tornato in casa non ci aveva nemmeno pensato. Gli sembravano un ricordo distante. No, non erano gli incubi a tenerlo sveglio ma un pensiero fisso e costante: Anne.
Da quando era rientrato non era riuscito a levarsela dalla testa, per quanto ci provasse. Mentre si cucinava una cena leggera ripensava alla loro giornata insieme, al suo sorriso, alla sua risata. Al tocco leggero e naturale della mano di lei sulla sua. A come avrebbe voluto afferrarla e non lasciarla andare.
Ed ora era lì. A pensare a quell’ultimo attimo insieme, in cui le loro guance si erano sfiorate, in cui i loro sguardi si erano incrociati, esitanti. “Stavamo per baciarci?” si chiedeva Dylan, scrollandosi subito di dosso quel pensiero che però, subdolo, tornava a riaffacciarsi immediatamente.
Provò a immaginarselo. Provò a rivivere quel momento, senza però interromperlo. Pensò a come sarebbe stato chiudere gli occhi e avvicinarsi al viso di Anne, sfiorarle la guancia con una mano, appoggiare le labbra sulle sue.
“Non sono gelosa, stai tranquillo.”
E la fantasia si spezzava. Per tutta la sera il ricordo di Belle, o meglio, il ricordo del sogno in cui Belle gli aveva parlato gli riaffiorava alla mente, facendolo sentire in colpa. Che in qualche modo quel sogno fosse il prodotto del suo subconscio che gli diceva di… cosa? Essere innamorato di Anne? Forse no, ma ormai era certo che la ragazza non gli era indifferente.
Dopo troppe ore passate a pancia in su sul letto, a fissare il soffitto, Dylan decise di uscire a fare quattro passi. L’aria della notte era fresca e pungente e rimpianse subito di non aver indossato qualcosa di più pesante di una felpa, ma si mise comunque a camminare, senza seguire una direzione precisa. Lungo il cammino i pensieri che gli frullavano per la testa non cambiarono come aveva sperato. Continuava a pensare ad Anne, alla loro giornata insieme, a Belle, al sogno, agli incubi.
Senza rendersene conto era arrivato all’imboccatura di una viuzza secondaria, alle porte del villaggio. Ci erano passato quella mattina con Anne e lei gli aveva accennato che era la via dove lei viveva.
“Non ci posso credere” si disse Dylan. Inconsciamente, senza neanche guardare dove stava andando, aveva finito per raggiungere la strada dove viveva Anne. Per ottenere cosa, poi? Voleva bussare alla sua porta, a notte fonda, e baciarla? Baciare colei che l’aveva aiutato, che l’aveva visto toccare il fondo, che si era offerta di offrirgli un supporto psicologico? Su che basi? Sì, Anne gli piaceva, ma lui piaceva a lei? O Anne era semplicemente una persona buona che stava aiutando una persona in difficoltà?
Dylan fece un passo verso la viuzza, ma si bloccò, scuotendo la testa e tornando subito sui suoi passi. “È una pazzia” pensò, girandosi per tornare verso casa.
Quasi cadde a terra per lo spavento quando si trovò davanti ad Anne. Riuscì a trattenere a stento un urlo e si portò le mani al petto, il cuore che batteva all’impazzata.
«Mi hai fatto prendere un colpo» disse. «Che ci fai qui?»
Guardò Anne ma quella non rispose. C’era qualcosa di strano nella sua espressione. Non sorrideva. Era… triste. Erano lacrime quelle che le scendevano sulla guancia? E la sua pelle… era pallida. Troppo pallida. Stava male? No…
La pelle di Anne stava brillando.
Tutto il corpo di Anne stava brillando nella notte. Non di luce riflessa, era un tenue bagliore che emanava da lei.
«Ma che cazzo…» disse Dylan in un sussurro terrorizzato. Il volto di Anne non era più il volto di Anne. Stava cambiando, in continuazione, davanti ai suoi occhi, lentamente ma costantemente. Gli occhi, il colore e la lunghezza dei capelli, la forma del naso. Niente restava uguale per più di qualche secondo. Nonostante il viso cambiasse sotto i suoi occhi, Dylan riusciva ancora a vedere che Anne stava piangendo. No, non era Anne.
Era la ragazza che sorrideva.
Non appena se ne rese conto un gran sorriso comparì sul volto della ragazza, ma gli occhi, per quanto cambiassero forma e colore, restavano tristi.
“C’è qualcosa che non va” pensò Dylan. “Non è la solita ragazza che sorride” pensò, come se vedesse un amico dopo tanto tempo e quello gli sembrasse cambiato. Era un pensiero assurdo, completamente folle. Eppure, a ripensarci, la ragazza che sorrideva non gli aveva mai fatto del male. L’aveva guardato dormire, e poi? Non l’aveva più incontrata fino a quel momento. Non l’aveva mai vista nei suoi incubi o quello che erano.
Se Anne gli aveva insegnato qualcosa era che tutti erano meritevoli di aiuto. Anche i fantasmi.
«Stai… bene?» le chiese Dylan, combattendo l’istinto che gli stava urlando di scappare. Era una domanda strana da fare a una creatura che cambiava aspetto sotto ai suoi occhi.
«Cosa…» disse la ragazza, in un sussurro. Il suo sorriso vacillò.
«Ti ho chiesto se stai bene» ripeté Dylan. «Posso aiutarti.»
«Dylan…» disse la ragazza che sorrideva, smettendo di sorridere e di cambiare sotto ai suoi occhi.
Ora era di nuovo Anne. Era semplicemente Anne, circondata da quell’alone di flebile luce bianca.
«Chi sei?» le chiese Dylan. Anne, o la ragazza, chiunque fosse, fece un passo verso di lui. Dylan non indietreggiò, di nuovo combattendo il suo istinto che gli diceva di farlo.
«Dylan… mi dispiace» disse la ragazza, facendo ancora qualche passo verso di lui, le mani tese in avanti, come una bambina che non riuscisse ancora a camminare bene e che cammina verso qualcuno pronto ad afferrarla.
E Dylan fece un passo in avanti, afferrando le mani della ragazza. Erano fredde e tremavano. Era strano toccarla. Non era la sensazione che dovrebbe dalle il contatto della pelle con la pelle, ma più quello che si prova quando si passa la mano attraverso del vapore.
Dylan guardò la ragazza negli occhi. In quei bellissimi occhi dal colore indefinito che l’avevano guardato intensamente davanti alla porta di casa sua.
«Anne…» sussurrò, incredulo.
Anne annuì, cercando di trattenere le lacrime. «Mi dispiace tanto» disse, ma Dylan non la stava ascoltando. Andando contro tutto ciò che gli passava per la testa e per lo stomaco, Dylan seguì soltanto il suo cuore.
Strinse Anne a sé e la baciò.

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Capitolo 21
*** Noctiphobia ***


Noctiphobia
noc·​ti·​pho·​bia | \ ˌnok-tə-ˈfō-bē-ə \
Paura della notte, dell’oscurità
_________________________
 
Era senza dubbio l’esperienza più strana che Dylan avesse mai avuto.
Baciare per la prima volta qualcuno è sempre come baciare per la prima volta in assoluto. È un’esperienza nuova, un sapore nuovo, un nuovo modo di muoversi. Con Anne non era così. Era come se l’avesse già fatto prima, come se quello fosse il loro centesimo bacio e non il primo. Quello che era nuovo, che era diverso, era la consapevolezza che stava avvolgendo Dylan mentre le loro labbra si sfioravano, staccandosi per poi ricongiungersi.
Dylan sapeva che stava baciando un fantasma.
Quando il bacio finì, Dylan si staccò da Anne ma tenne le mani nelle sue, guardandola, in silenzio. Rimasero così per un po’, Dylan attonito, Anne che non riusciva a non far trasparire paura, tristezza, senso di colpa.
«Cosa sei?» chiese Dylan, senza curarsi del fatto che la domanda potesse sembrare scortese.
«Io… io sono morta» disse Anne, accennando un sorriso triste. «Sono morta.»
«Sei morta» ripeté Dylan. Anne annuì. «Ma… come?»
«Oh, Dylan» disse Anne, piangendo.
«No!» esclamò Dylan, lasciando le mani di Anne e lasciando la ragazza stupefatta e senza parole. Si sentiva improvvisamente disgustato nel sentire il suo nome pronunciato da Anne. «No, che cazzo vuol dire “sono morta”? Cosa stai dicendo? Sei… cosa, un fantasma?»
«Beh, non ho un lenzuolo bianco sopra la testa, ma…»
«No!» urlò ancora Dylan. «No, non hai nessun diritto di scherzare. Che cazzo vuol dire che sei morta, Anne?»
«Dylan» disse Anne, spaventata. Allungò una mano per toccarlo, ma Dylan fece un passo indietro.
«Sono giorni che ti parlo dei miei incubi, dei… dei demoni che mi tormentano!» sbottò Dylan. «Giorni che sto male, che credo di essere pazzo, e ora… ora questo! Sei tu! Tu sei un fottuto fantasma, Anne! Era tutto vero allora…»
«Dylan» lo interruppe Anne. Era terrorizzata ma a Dylan non importava niente. Era furente.
«Era tutto vero e tu… tu hai finto che non lo fosse. Hai finto che fossi pazzo! Cazzo, Anne! Chi cazzo sei?»
«Dylan, fermati» sussurrò Anne. Si stava guardando attorno, per qualche motivo. Tremava. Ma Dylan non aveva intenzione di fermarsi.
«Ho pensato che fosse colpa mia! Ho pensato che avessi causato io quegli incubi, quei mostri, questi cazzo di lividi!» urlò Dylan, sollevandosi le maniche della felpa.
«L’hai fatto!» urlò Anne, cadendo a terra e coprendosi la testa con le mani. Cominciò a piangere.
Solo allora Dylan notò che il bagliore che l’aveva avvolta da quando l’aveva incontrato era scomparso. Non solo, sembrava essere scomparsa ogni traccia di luce. Lui e Anne erano avvolti da un’oscurità nerissima e innaturale, che aveva cancellato ogni cosa attorno a loro: i lampioni, la strada lastricata, le case, il prato in lontananza.
E ora, pian pianino, quei tentacoli di oscurità si stavano facendo largo sul corpo di Anne, rannicchiata a terra, in lacrime. La accarezzavano sinuosi, causandole un sussulto doloroso. Sembrava che la stessero bruciando.
«Fallo smettere, fallo smettere» stava dicendo in un sussurro. «Ti prego, Dylan, fallo smettere.»
Dylan sentì scemare la rabbia.
“È colpa tua” disse una voce nella sua testa.
«Posso controllarlo» sussurrò Dylan.
E l’oscurità si dissipò.

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Capitolo 22
*** Louche ***


Louche
\ ˈlüsh \
Disdicevole, moralmente in dubbio
____________________________
 
Nonostante fosse seduto su un muretto di fredda pietra umida nel mezzo della notte, Dylan non aveva freddo. Si era arrabbiato e agitato così tanto che il cuore gli batteva ancora forte in petto e sentiva la testa pulsare. Accanto a lui Anne sedeva in silenzio, lanciandogli qualche sguardo di sottecchi di tanto in tanto, ma senza trovare la forza di parlare.
Anne era un fantasma.
Sbollita la rabbia, Dylan aveva un milione di domande e non sapeva da quale cominciare. Nonostante considerasse Anne una bugiarda, forse anche una manipolatrice, e fosse ferito dal suo comportamento, allo stesso tempo si chiedeva perché gli avesse nascosto tutto fin dal principio, quando già al loro primo incontro Dylan gli aveva parlato dei suoi incubi.
«Tu sapevi che era vero» disse infine. Non era una domanda. «Sapevi che non mi stavo inventando tutto. Sapevi che… qualcosa mi stava tormentando.»
Si voltò verso Anne. La ragazza annuì. «Mi dispiace» disse per l’ennesima volta.
«Cos’è?» chiese Dylan. «Cos’è che mi fa vivere tutti quegli incubi, che mi fa vedere quelle cose? È un fantasma?»
«Io… non lo so.»
Dylan sbuffò, pentendosene subito dopo perché Anne sembrò mortificata dal suo fastidio. “Forse non lo sa veramente” pensò Dylan.
«Può essere che sia un fantasma, un’entità di qualche tipo» proseguì Anne. «Ma io non l’ho mai vista. Però…»
«Sì?» la spronò Dylan.
«Beh, quello che è successo poco fa…» disse Anne, riferendosi all’attacco di rabbia di Dylan. «Penso che qualsiasi cosa sia si nutra delle tue emozioni. Della rabbia, della paura. Del dolore.»
Dylan annuì. Aveva senso. Quella volta, di ritorno dalla casa dei Doyle, quando aveva vissuto un ricordo d’infanzia tramite gli occhi di Belle. La volta nella grotta sulla spiaggia, quando aveva trovato le incisioni nella roccia. Gli incubi nella casa dove lui e Belle avevano passato molte estati.
«Come posso liberarmene?» chiese.
Anne esitò, prima di rispondere, stringendosi nervosamente le mani in petto. «Tutto quello che ti ho detto è vero» disse infine. Dylan si voltò di scatto, guardandola con rabbia. Anne non sollevò lo sguardo ma continuò subito a parlare. «Non su di me. Su di te. Sul tuo dolore, sul fatto che devi accettarlo. Devi elaborarlo e andare avanti.»
«E poi questo spirito o qualsiasi cosa sia mi lascerà in pace?» sbottò Dylan.
«Credo di sì» rispose Anne. «Non ne sono sicura però.»
«Dovrei chiamare un esorcista o i Ghostbuster» disse Dylan, strofinandosi la faccia con le mani e sbuffando. Sentì Anne sbuffare lievemente dal naso, divertita, ma la ignorò. Non era pronto a perdonarla.
«Se lo sapevi, se sapevi che era tutto vero, perché mi hai fatto credere che non lo fosse? Perché mi hai fatto credere che fosse tutto frutto della mia testa?»
«Perché in un certo senso lo è.»
«Sì, ma non nel senso che sono pazzo. Cazzo, Anne, ho creduto di stare impazzendo!»
«Lo so. Lo so, quello che ho fatto è…»
«E allora perché cazzo l’hai fatto?» chiese ancora Dylan. «Voglio sapere soltanto questo.»
Anne non rispose. Continuò a sfregarsi le mani, guardandosi ora i piedi, ora l’orizzonte, ma senza riuscire a guardare Dylan per più di qualche istante.
Dylan sbuffò. «Come sei morta?» chiese d’istinto.
«Dylan… io…»
«Scusa» la interruppe Dylan. «Scusa, non avrei dovuto chiedertelo.»
Rimasero lì, in silenzio, senza guardarsi per un po’ di tempo.
«Tornerò a Londra» disse infine Dylan. Sentì Anne soffocare un singhiozzo accanto a lui. «Anne, tu sei un fantasma. Un fottuto fantasma. E io… non lo so, stavi cominciando a piacermi, suppongo. Ti ho baciata, cazzo! Non posso restare. Non posso.»
«Lo capisco» disse Anne in un sussurro. «Solo… ti prego, non smettere di guarire. Ok?»
“Non smettere di guarire”? Che voleva dire? Dylan trovò che fosse un modo bizzarro di esprimersi. Ma poco prima aveva baciato un fantasma, e quello era stato decisamente più strano.
«Ok, sì» disse.
«Per quel che vale, stavi cominciando a piacermi anche tu, Dylan» disse poi Anne.
Dylan sospirò, ma non disse niente. Si voltò verso Anne e la guardò negli occhi. La ragazza riuscì a sostenere il suo sguardo, tremante, gli occhi umidi di lacrime, ma tenne gli occhi fissi nei suoi.
«Addio, Dylan» disse poi.
Anne cominciò a svanire lentamente, senza distogliere lo sguardo da Dylan. Un attimo prima di sparire del tutto allungo una mano che Dylan cercò di afferrare ma troppo tardi. La mano di Dylan strinse uno sbuffo di fumo e Anne era sparita.

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Capitolo 23
*** Aonaran ***


Aonaran
óenarán
Persona che vive isolata/eremita per propria scelta
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Percorrendo la strada di ritorno verso la casa di Salthill Road, la mente di Dylan era occupata da migliaia di pensieri che si sovrapponevano gli uni agli altri in una sorta di rumore bianco mentale. Mentre camminava cercò di non pensare al volto di Anne che lentamente svaniva perché quell’immagine lo riempiva di tristezza. Eppure il suo viso continuava a riaffacciarsi in mezzo a tutto quel rumore bianco: il suo sorriso, la sua risata, le finte facce imbronciate. Tutti i momenti in cui erano stati felici insieme.
Dylan raggiunse la casa che il sole stava sorgendo. Mentre Tullow, in fondo alla strada, stava per risvegliarsi, Dylan non vedeva l’ora di mettersi a letto. Aveva gli occhi pesanti, le membra stanche e si sentiva spossato e senza energie, come se avesse appena corso una maratona.
Aprì la porta della casa, entrò e richiuse la porta dietro di sé.
Non appena si guardò attorno capì subito che c’era qualcosa che non andava.
La casa era diversa. Sembrava abbandonata da anni, con mobili fatiscenti e pieni di polvere, il pavimento di legno sporco e rovinato, i muri crepati e cadenti. Perfino l’odore che gli arrivò alle narici era stantio, muffoso.
«Non adesso, no…» disse Dylan in un sussurro infastidito. Un altro incubo in quel momento non ci voleva proprio.
Attese, in piedi nell’ingresso. Attese l’arrivo di qualcosa, una voce nell’oscurità, un tentacolo d’ombra che cercava di afferrarlo. Ma non venne niente. La casa era immersa in un perfetto, ovattato silenzio.
Cauto, Dylan cominciò a farsi strada lungo il corridoio. La cucina sembrava vuota e riversava nello stesso stato di abbandono: piatti ancora mezzi pieni erano accumulati sul tavolo mentre nel lavello sorgeva una pila di piatti e padelle incrostate. Proseguì lungo il corridoio e, arrivato all’ingresso del soggiorno, si fermò.
Su una poltrona lisa e ingrigita dall’usura era seduto un vecchio.
Sembrava un vecchio qualsiasi, non c’era niente di strano, oscuro o inquietante in lui. Nessun tentacolo, nessun sorriso. Eppure Dylan provò immediatamente un senso di angoscia, una pesantezza che gli opprimeva il petto. Quando il vecchio alzò il viso e lo guardò con due occhi scuri che Dylan conosceva bene, capì perché si sentisse in quel modo.
Quel vecchio era lui.
«Benvenuto, Dylan» gracchiò il vecchio con voce rauca. «Vieni, accomodati.»
Avendo ormai imparato che in quei casi non c’era argomentazione che tenesse, Dylan obbedì e si sedette su un divanetto sporco e rovinato come la poltrona sulla quale stava il vecchio. L’uomo non parlò, si limitò a guardarlo. Dylan studiò quel volto scavato dagli anni, pieno di rughe e macchie. Una corta e grigia barba incolta cresceva a chiazze sulle sue guance. I capelli, di diversi toni di grigio e bianco, erano una matassa arruffata e sporca. E gli occhi… negli occhi dell’uomo, negli occhi di Dylan da vecchio, non c’era più nessuna scintilla.
«Tu sei me» disse Dylan infine, spezzando il silenzio.
«Proprio così» borbottò il vecchio.
«Cosa significa?»
Il vecchio sbuffò divertito. «Non tutto deve avere un significato, non ti pare?»
«Finora sembra che tutto abbia avuto un significato, un messaggio» replicò Dylan.
«O forse sei tu che hai voluto vedere significati e messaggi in eventi del tutto casuali» ribatté il vecchio.
Dylan sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «Sì, come no» disse, infastidito.
Il vecchio rise, ma la risata fu interrotta da un attacco di tosse. «Vedo che hai smesso di piangerti addosso, finalmente. Quindi sai già di Anne.»
«Anne?» disse Dylan, confuso. «Che è…»
«Un fantasma, esatto» completò il vecchio, spazientito. «Cos’altro sai?»
«Cos’altro so? Io… non capisco.»
«Quindi non sai un cazzo, eh» sbottò il vecchio, scoppiando in una risata rauca e catarrosa.
«Che vuol dire che non so un cazzo?» chiese Dylan, che cominciava a spazientirsi.
Per tutta risposta, il vecchio fece un gesto con la mano, a indicare la stanza che li circondava. «Bella, vero?»
«Non direi.»
«No» concordò il vecchio, masticandosi la lingua e guardandosi attorno. Poi tornò a guardare Dylan. «Solitudine. Sporcizia. Dolore. Abbandono. Questo è ciò che ti avrebbe aspettato, sai? Questa sarebbe stata la tua vita se non l’avessi fatto.»
«Fatto? Cosa ho fatto?» chiese Dylan, confuso. Per tutta risposta il vecchio sventolò una mano nella sua direzione, come a dire “ma che vuoi saperne”.
«Hai fatto una cosa terribile, certo. Ma non è troppo tardi.»
«Troppo tardi per cosa?» chiese Dylan. Sentiva montare la rabbia.
«C’è ancora speranza. C’è ancora una possibilità di salvezza e felicità per te. Devi solo rendertene conto.»
«Ascoltami» esclamò Dylan, alzandosi, livido. «Ne ho piene le palle di questa storia…»
«No, ascoltami tu!» tuonò il vecchio. Si alzò a sua volta e in qualche modo riusciva a troneggiare su Dylan, nonostante fosse più magro e ingobbito. «Quanto puoi essere idiota, eh? Lì fuori, e qui dentro» disse, picchiettando un indice ossuto sulla tempia di Dylan, «c’è chi vuole aiutarti. Tu devi permetterglielo. E devi permetterti di essere felice. Devi farlo, o resterai qui per sempre. No, non qui in questa casa, imbecille. In quest’incubo di merda.»
Il vecchio smise di inveire contro Dylan e, man mano che l’eco delle sue parole scemava nel silenzio, parve riacquistare delle dimensioni normali. Infine si sedette, sospirando, come se quella filippica gli avesse prosciugato tutte le energie.
«Ti ricordi il sogno?» chiese dopo un po’, la rauca voce ridotta a un sussurro. «Quello in cui c’eri anche tu? Nella tv?»
Dylan annuì. «Sì.»
«”Dovrai carpire la verità oltre il velo, ma per farlo dovrai fare una cosa che ora ti sembra aberrante”» disse il vecchio. «Ricordi queste parole?»
«Sì… le ha pronunciate Belle, mi pare.»
Il vecchio annuì, mugugnando un assenso. «Sai che significa?»
«No» disse Dylan. Aveva liquidato il sogno come l’ennesima cosa senza senso e non ci aveva più ripensato. Perché il vecchio ne stava parlando? E se il vecchio non era altro che un’emanazione del suo subconscio, era Dylan stesso a pensarci?
«No, certo» sospirò il vecchio. «Il pensiero di provare qualcosa per Anne ti disgustava, non è vero? Ti sembrava un tradimento nei confronti di Belle.»
Dylan annuì.
«Eppure sei andato da lei, o sbaglio.»
Dylan non disse niente, si limitò ad abbassare lo sguardo, colpevole.
«Come immaginavo» proseguì il vecchio. «Per cogliere la verità dovrai fare una cosa che ti disgusta. Sei andato da Anne, nonostante l’idea di esserne attratto ti ripugnasse, e…»
«E…» ripeté Dylan, senza capire. Si ripeté nella testa quelle parole. “La verità oltre il velo”. «E ho capito… ho capito che Anne è un fantasma» disse poi, incredulo. Il sogno che aveva fatto aveva forse previsto il futuro?
«Molto bene, ci sei arrivato» rise il vecchio. «E poi? Cos’altro c’era nel sogno?»
«Poi… non ricordo.»
«Andiamo, ragazzo. Era tutto frutto della tua mente. Devi ricordare.»
«Io…» mormorò Dylan, cercando di richiamare alla memoria quello strano sogno. «Non lo so, era qualcosa tipo… “dovrai accettare cos’ hai fatto e scoprire cosa sarebbe successo se non l’avessi fatto”, o qualcosa di simile.»
«Qualcosa di simile» ripeté il vecchio. Gli lanciò uno sguardo eloquente. «Ci stai arrivando?»
Senza potersi controllare, Dylan fece un gesto che gli parve stranissimo: si afferrò i polsi con le mani. Guardò quel gesto, strano, innaturale. Vide le proprie mani muoversi piano su e giù sui polsi e presto cominciò a sentire un lieve tepore, dovuto allo sfregamento.
Dopo qualche istante cominciò a scorrere il sangue.

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Capitolo 24
*** Kaira ***


Kaira
Un grande spazio boscoso tra i fiumi
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Le mani di Dylan continuavano a sfregare sui polsi rossi, riempendosi a loro volta di sangue caldo. Dylan fu preso dal panico, eppure non riusciva a smettere, non riusciva a fermare quel gesto inconsulto.
«No… no…» disse Dylan. Sentiva che stava per cominciare a piangere.
«Devi accettarlo, ragazzo» disse il vecchio. Dylan si era dimenticato della sua presenza. «Accettalo o non potrai andare avanti. C’è ancora speranza per te.»
«No…» pianse Dylan. Sentiva che le forze lo stavano abbandonando e voleva solo che tutto smettesse. Voleva soltanto…
«È colpa mia» si disse. Non era stata la sua voce a parlare, ma quella acuta e rauca della creatura che dimorava nei suoi incubi.
«No, Dylan!» urlò il vecchio, alzandosi dalla poltrona. «Non è stata colpa tua!»
Dylan cadde a terra. Non c’era più il pavimento di legno sotto le sue ginocchia, ma erba. Erba che fu immediatamente inondata dai fiumi di sangue che gli stavano ancora colando dalle mani che sfregavano e sfregavano e sfregavano…
«Non ce la faccio…» sussurrò Dylan.
«Devi farcela» disse la voce del vecchio in lontananza. «Puoi farcela, Dylan.»
Dylan alzò lo sguardo. Il vecchio stava cadendo all’indietro, sulla poltrona che però non era più una poltrona, ma un tronco d’albero. E lentamente il vecchio non era più il vecchio, ma un cumulo di vecchi rami secchi, che lo guardarono un’ultima volta, sorridendo, prima di restare immobili, inanimati.
Dylan si guardò attorno. Si trovava in una foresta. Non si chiese come ci fosse finito, ormai niente aveva più senso. Quello che gli premeva in quel momento era di smettere di strofinarsi i polsi. A fatica, si alzò in piedi. Gli girava la testa e il rumore umido e caldo del suo sangue che sciabordava sotto al movimento spasmodico delle sue mani lo disgustava. Ma si mise in cammino, non sapeva neanche lui verso dove.
Mentre camminava in quel fitto bosco che esisteva soltanto nella sua testa cercò in tutti i modi di non pensare a quello che stava succedendo solo qualche centimetro più in basso e su cui non aveva il benché minimo controllo. Cos’aveva detto il vecchio? Doveva accettarlo? Ma accettare cosa? Che Anne era un fantasma?
“Questo è ciò che ti avrebbe aspettato” aveva detto il vecchio Dylan. Ma che cosa? La casa in rovina? Lui invecchiato?
“Solitudine. Sporcizia. Dolore. Abbandono.”
Era di quello che parlava il vecchio. Di come sarebbe stata la sua vita. Se non l’avesse fatto…
Dylan aveva fatto qualcosa. Qualcosa che non ricordava. Qualcosa di terribile. Ma se non l’avesse fatto, la casa in rovina, la sporcizia e la solitudine sarebbero stati il suo destino. Così aveva detto il vecchio.
Una vita di solitudine.
Ma era solo anche ora, no?
Era solo in ogni caso. Belle era morta, Anne era un fantasma e lui non voleva vivere così. Non poteva vivere così. Che senso aveva continuare a vivere in quel modo? Se quello era il suo destino, era meglio morire.
Dylan cadde e si ritrovò immerso nell’acqua. Era in ginocchio sulla riva di un fiume, l’acqua che scorreva impetuosa, bagnandogli le gambe portandogli via il sangue dai vestiti e dalle braccia.
Lentamente, le mani smisero di sfregare. L’acqua del fiume raffreddò la pelle accaldata, la ripulì del sangue. Dylan sentì di aver riacquistato il controllo delle braccia, ma le tenne immerse nel fiume ancora per qualche secondo, nonostante la temperatura gelida dell’acqua stesse cominciando a fargliele dolere.
Sapeva cos’aveva fatto.
«Io sono…» sussurrò, incapace di finire la frase. Doveva vederlo.
Lentamente, tirò fuori le braccia dall’acqua e le guardò, i palmi delle mani rivolti verso l’alto. Non c’era più alcuna traccia di sangue, nonostante le due ferite che correvano per tutta la lunghezza del braccio, dall’incavo del gomito al polso.
«Io sono morto» disse Dylan.

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Capitolo 25
*** Mazarine ***


Mazarine
maz·​a·​rine | \ ˈmazərə̇n \
Un blu scuro
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Il fiume, il prato e gli alberi si dissolsero nel nulla, lasciando spazio soltanto al nero.
Dylan sollevò a fatica gli occhi dalle sue braccia per guardarsi attorno. Non stava piangendo, non stava urlando. Tremava ed era in preda al terrore più totale.
Riprese a strofinarsi le braccia con le mani, nella vana speranza di far sparire i tagli. Nella speranza che non fosse vero. «No. No. No» ripeteva ossessivamente. «Non è possibile. Non è possibile». Emise un urlo disperato, così forte da far male.
«Aiuto…» sussurrò poi, lasciandosi cadere a terra, inerme.
«Dylan» disse la voce di Anne e nel nero che era diventato il suo mondo vide una mano lucente che gli toccava una spalla. Anne si sedette accanto a lui e attese, in silenzio.
«Sono morto» disse Dylan, o forse lo pensò. I suoi sensi e la sua mente si confondevano e si univano gli uni agli altri.
«Mi dispiace tanto, Dylan» disse Anne. «Dovevi capirlo da solo. Dovevi accettarlo.»
«Io sono morto» ripeté Dylan. Poi ripensò ai tagli sulle braccia. «Mi sono… suicidato.»
Sentì Anne che stava cominciando a piangere accanto a lui. «Il dolore ti ha ucciso, Dylan.»
«Sono stato debole» disse Dylan. Provava disgusto per se stesso.
«No, non è così» lo rassicurò Anne, facendosi più vicina. «Hai lottato con tutte le tue forze, Dylan. Ma… eri solo. Eri solo contro te stesso e il tuo dolore. Ma ora ci sono io. Hai cercato aiuto, Dylan.»
«A che serve ora?» borbottò Dylan. «Sono morto.»
«L’aiuto serve sempre. Sempre.»
«Che aiuto puoi darmi ora?» chiese Dylan. «Come posso migliorare questa situazione? Come posso stare bene se sono morto?»
«Non ricordi cosa ti ha detto il vecchio Dylan? Che puoi uscire dall’incubo. Puoi ancora essere felice.»
Dylan si mise lentamente a sedere, con uno sforzo che gli parve immenso. Anne era lì, seduta accanto a lui, le gambe incrociate. Prese le mani di Dylan nelle sue.
«Felice?» disse Dylan, incredulo. «Sono morto!»
«Lo so» disse Anne, non riuscendo a trattenere le lacrime. «Lo so, credimi. Ti ho visto morire.»
«Cosa?»
Anne lasciò le mani di Dylan e se le portò al viso per asciugarsi le lacrime che ora scorrevano copiose. Dylan non sapeva cosa dire. Anne l’aveva visto morire? Che cosa voleva dire? Perché non glielo aveva detto prima?
«Dylan…» mormorò Anne tra le lacrime. «Dy, mi dispiace.»
«Come… come mi hai chiamato?»
Anne si asciugò le lacrime dagli occhi, cercando di smettere di piangere. Lentamente sollevò lo sguardo e fissò i suoi occhi in quelli di Dylan.
«No…» sussurrò Dylan, incredulo. «Non può essere.
Gli occhi di Anne erano azzurri.
«Belle» sussurrò Dylan.
Dylan allungò una mano per accarezzare la guancia di Anne, ma la fermò quando vide che l’azzurro dei suoi occhi cominciò a mutare, scurendosi pian piano, passando dal blu al nero, un nero infinito che riempì l’intero occhio di Anne prima fuoriuscire in due lunghi tentacoli d’oscurità che tentarono di afferrarlo.

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Capitolo 26
*** Aita ***


Aita
Un giardino
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Dylan non riuscì a reagire. Non ne aveva la forza. Così si ritrovò a soffocare, stretto nella morsa gelida e viscida dei tentacoli neri che uscivano dagli occhi di Anne. Dagli occhi di Belle. Perché Dylan non aveva nessun dubbio a riguardo. Gli occhi azzurri che l’avevano fissato per un istante eterno, prima che l’ombra uscisse da essi, erano quelli di Belle. E non era una visione, non era un incubo. Lo sapeva. Se lo sentiva. Col senno di poi, si rese conto che avrebbe dovuto capirlo molto prima. Quando l’aveva abbracciato per la prima volta. Quando l’aveva vista sorridere per la prima volta. Quando l’aveva baciata. Ma più di tutto avrebbe dovuto capirlo dalle emozioni che Anne gli aveva trasmesso fin da subito: pace, tranquillità, un senso di appartenenza, di casa.
E ora sarebbe finito tutto. Mentre la vista gli si annebbiava piano e l’ossigeno smetteva di affluirgli al cervello, Dylan guardò quell’incubo che lo stava uccidendo prendere il controllo di quella che era stata la sua amica d’infanzia, la sua amante, sua moglie. Quella era la fine per entrambi. Anche di questo Dylan era sicuro.
«Dy» sentì Dylan nella sua testa. Era il nomignolo con cui lo chiamava Belle. Con cui lo aveva chiamato Anne qualche istante prima che giungesse la fine. Strano che, tra tutti i ricordi che aveva di Belle, quello gli tornasse alla mente proprio in quel momento, a pochi istanti dall’oblio.
«Dy, ricorda» sentì ancora la voce di Belle nella sua testa. Solo che non era nella sua testa. «Puoi controllarlo.»
Esanime e confuso, Dylan concentrò la vista appannata dietro ai tentacoli dell’incubo che lo stavano uccidendo, sul corpo di Belle, come paralizzato, irrigidito dalla paura. Tranne per la bocca. Vide la sagoma confusa della bocca di Belle muoversi. «Puoi controllarlo» disse ancora.
Quello non era un incubo. Quello era il suo incubo. E lui poteva controllarlo.
Cercò di raccogliere tutte le forze che gli restavano per concentrarsi e scacciare quegli orrendi tentacoli. Cercò di pensare a cosa c’era sotto, agli splendidi occhi azzurri di Belle. Quante volte ci si era perso, quanto tempo aveva passato a studiarli. Li conosceva a memoria.
«È colpa tua» disse la famigliare voce disincarnata della creatura che si nascondeva nel buio.
«Non è vero» disse Dylan, e l’incubò svanì.
Dylan si ritrovò a terra, circondato da erba e fiori. Si guardò attorno. Era nel giardino della casa di Salthill Road. Era giorno, un giorno sereno e caldo. Accolse il bacio del sole sulla pelle come una benedizione, dopo tanto freddo. Si distese sull’erba fresca e chiuse gli occhi.
Era finita.

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Capitolo 27
*** Antaric ***


Anteric
Perpetrare vendetta contro un ex amante o un amante che ha tradito
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«Ce l’hai fatta, Dy» disse la voce di Belle, accanto a lui.
Dylan non si mosse. Si era goduto quegli attimi di silenzio e luce pregando che non finissero mai. La voce della sua defunta moglie, invece, vi pose fine.
«Ancora bugie» disse Dylan, senza aprire gli occhi né alzarsi. Sentì Belle sedersi accanto a lui. Nonostante fossero entrambi poco più che fantasmi, poteva sentire il calore del corpo accanto a lui e ne era disgustato. Era arrabbiato con quel bellissimo spirito e non voleva aprire gli occhi, non voleva vederlo perché temeva che la sua rabbia sarebbe scemata non appena avesse visto quegli splendidi occhi blu e quel sorriso che lo guardavano.
«Dy, io…» cominciò Belle, ma Dylan non la fece finire.
«Tu sapevi che sono morto. Sapevi che non era colpa mia. Sapevi che avrei dato di tutto per rivederti un’ultima volta. E non hai fatto niente» disse tutto d’un fiato, la voce che tremava soltanto leggermente. «Niente.»
«Dy, mi dispiace…»
«Ho passato un inferno, Bee» continuò Dylan, ignorando le parole di Belle. «Letteralmente! E non tirarmi fuori delle scuse patetiche come “dovevi capirlo da solo”. Stronzate.»
«Ma è vero…»
«Stronzate!» urlò Dylan, aprendo finalmente gli occhi e mettendosi seduto. Guardò Belle con tutta la rabbia che aveva in corpo, tremando e ansimando, i nervi pronti a scattare. Non aveva mai provato niente di simile per nessuno al mondo, tanto meno per Belle. Eppure quando la vide, lì, in quel prato, baciata dalla luce del sole, un minuscolo frammento di quella rabbia cieca si staccò dallo stoico muro che Dylan aveva eretto per nascondere i suoi veri sentimenti.
«Dy…»
«No, Belle» disse Dylan, costringendosi a usare il suo nome completo per rimarcare la rabbia che provava. «Non voglio sentire mezza parola da te. Mi sono liberato del fardello di quest’incubo, ora mi libererò anche di te.»

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Capitolo 28
*** Conticeo ***


Conticeo
“Sto zitto”
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Belle emise un singolo singhiozzo prima di svanire.
Dylan la guardò scomparire prima di distendersi di nuovo sul prato della casa di Salthill Road. Si chiese se fosse stato lui a farla scomparire o se fosse stata lei ad andarsene. In ogni caso era quello di cui aveva bisogno. Silenzio.
Dylan amava Belle alla follia.
L’aveva sempre amata e l’avrebbe amata per sempre. Anche ora, accecato dalla rabbia, consumato dalla stanchezza e mentalmente devastato dagli incubi che aveva vissuto, in fondo al suo cuore Dylan continuava ad amarla. Nell’esatto istante in cui era scomparso a una parte di lui già mancava. Ma non permise a quella parte di sé di prendere il sopravvento. Aveva bisogno di quel momento. Aveva bisogno di quel silenzio. Per capire.
Belle gli aveva mentito. L’aveva ingannato. Ma, e di questo Dylan era assolutamente certo, l’aveva fatto per il suo bene. L’aveva fatto perché Belle aveva visto tutto ciò che Dylan aveva vissuto dopo la sua morte. Il dolore, la depressione, il suicidio. E poi la totale eliminazione di qualsiasi ricordo di Belle e della loro vita insieme. La manifestazione di quel dolore, di quella violenza, attraverso gli incubi.
Se Belle aveva mentito era perché voleva che Dylan stesse bene.
“Mi ha mentito” si ripeté Dylan, per convincersi a continuare a odiarla. Ma non riuscì ad andare più in là di quelle tre parole. “Mi ha mentito”.
Ma l’aveva fatto per il suo bene. Ora Dylan se ne rendeva conto. Non gli sarebbe stato di nessun aiuto scoprire subito che Anne era Belle o entrare direttamente in contatto con Belle. Dylan aveva affrontato le sue paure sotto forma di incubi, le aveva superate, con l’aiuto di Anne e di Belle. “Che ti hanno mentito”.
Belle avrebbe potuto aiutarlo senza ricorrere ad Anne. Senza tutta la storia del marito morto, dell’infermiera della signora Doyle. I Doyle erano al corrente di chi fosse Anne in realtà? Altri segreti. Altre menzogne.
Quella volta al cottage dei Doyle. La signora Doyle aveva detto che era stata lei a dirle che Dylan sarebbe venuto al cottage. E poi, dopo la visione del passato che Dylan aveva avuto, sembrava come che la signora Doyle sapesse cos’aveva appena visto. E anche il signor Doyle, arrivato subito dopo. Avevano detto qualcosa come “non è il modo giusto”. Probabilmente erano coinvolti anche loro.
“Ti hanno mentito”.
E poi quel giorno al mercato. Il signor Doyle era… contento per loro. Era felice che sua figlia si fosse riunita al marito. Felice che il Dylan stesse meglio. Anche lui e la signora Doyle gli avevano mentito, ma sempre per il suo bene.
“Ti hanno mentito”.
E l’avevano fatto per il suo bene. L’avevano fatto perché l’amavano. Dylan non si rendeva conto di soffrire, non sapeva per cosa stava soffrendo. E, come aveva detto Anne, avrebbe dovuto capirlo da solo, accettarlo da solo, elaborarlo da solo. E Dylan l’aveva fatto. Ma non l’aveva fatto da solo, non davvero.
“Ma lei ti ha mentito”.
«Oh, stai zitto» sussurrò Dylan, e sentì il calore che emanava da Belle ricomparire al suo fianco.

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Capitolo 29
*** Hukka ***


Hukka
Lupo
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«Mi dispiace, Bee» disse Dylan, mentre sentiva Belle accoccolarsi accanto a lui sul prato.
«Non dirlo neanche per scherzo» lo zittì lei, cingendogli il petto con un braccio.
Dylan non era mai stato un solitario, non per scelta. Da ragazzino, quando i suoi lo avevano portato per la prima volta a Tullow per le vacanze, Dylan non era riuscito a fare amicizia con i figli dei vicini. O veniva escluso da loro o si escludeva da solo, e così finiva sempre per giocare da solo.
Quando arrivò Belle tutto cambiò. Belle non era come le altre bambine, che passavano i pomeriggi nei giardini, baciate dal sole, a giocare con bambole. E Dylan non era come gli altri ragazzi, che correvano senza sosta dietro a un pallone lungo Salthill Road. Così finirono per essere soli insieme.
Quando poi veniva il momento di tornare a Londra, c’erano le lettere. Belle e Dylan si scambiavano lettere per tutto l’inverno e Dylan portava sempre con sé la lettera più recente, per leggerla nei momenti di bisogno: quando veniva lasciato solo durante la ricreazione, quando non veniva scelto per le squadre di calcio, quando veniva preso in giro per una risposta giusta all’interrogazione. Leggendo quelle lettere, Dylan non era mai solo.
Poi sua madre morì e sembrava che la solitudine fosse l’unica cosa che Dylan potesse provare.
C’erano ancora le lettere, certo. Ma lui e suo padre non tornarono più a Tullow e qualcosa in quelle lettere si ruppe. Cominciarono a perdere significato, diventando soltanto vuote parole, inchiostro su carta privo di significato, perché non c’erano più nuovi ricordi che quelle parole richiamavano alla mente. E non si poteva vivere soltanto di ricordi. Dylan l’aveva imparato molto bene negli ultimi giorni.
Così Dylan precipitò di nuovo nella solitudine.
E solo riuscì a diplomarsi e a ottenere una borsa di studio per l’università. Negli ultimi anni di scuola superiore si era in qualche modo abituato a stare da solo, senza mai però trovarsi a suo agio in quella situazione. Dylan viveva per una buona conversazione, una buona compagnia. Si era però rassegnato a non goderne più finché non incontrò di nuovo Belle all’università. E Dylan non era più solo. Non era più incompleto.
Quando Belle lasciò l’Inghilterra per andare a studiare oltreoceano, Dylan era più forte, più grande. Le sue spalle riuscirono a portare il peso della separazione e della solitudine che ne conseguì. Stavolta però, grazie al suo nuovo lavoro a Londra, Dylan si fece una piccola cerchia di amici con la stessa voglia di buona compagnia che aveva lui. E non si sentiva solo, no. Si sentiva incompleto. Perché colei che lo rendeva integro non era con lui.
Ma di nuovo Belle tornò nella sua vita e stavolta per restare. E Dylan era completo. Era felice.
Ora che finalmente l’aveva ritrovata dopo aver creduto di averla persa per sempre, Dylan non aveva intenzione di lasciarla andare.
La strinse forte a sé, sul prato morbido, assaporando il suo profumo, il suo calore.
Dylan non sarebbe stato solo. Mai più.

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Capitolo 30
*** Hiraeth ***


Hiraeth
Una nostalgia per un luogo perduto dove non si può più fare ritorno
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Rimasero su quel prato per un attimo e una vita.
Sapevano entrambi che davanti a loro c’era un’eternità insieme, ma quel momento era così bello, così pacifico, che nessuno dei due voleva che finisse.
Era ancora giorno, lo stesso o quello dopo nessuno dei due poteva dirlo, quando Belle si mise a sedere, accarezzando dolcemente il petto di Dylan. «Dobbiamo andare» disse piano.
Dylan sospirò. «Lo so» disse, aprendo gli occhi e guardandola. Sorrideva e lo guardava con quei grandi occhi azzurri, felice. Era strano riuscire a provare tanta felicità dopo quello che aveva vissuto, dopo quello che aveva fatto. Eppure era tutto vero. Dylan era riuscito a raggiungere la pace e Belle era con lui.
Si alzarono dal prato. Dylan diede un’occhiata alla casa di pietra in cui la loro amicizia era nata.
«E ora?» chiese.
«Non lo so» disse Belle. «Ma so che saremo insieme. E questo mi basta.»
Dylan la abbracciò, stringendola forte. «Anche a me» disse.
«Dovunque andremo mi mancherà» disse Belle.
«Cosa?»
«Lei» rispose, indicando la casa con un cenno del capo. «I prati, le colline, il villaggio. La scogliera e la spiaggia. Saranno solo ricordi.»
«Ma saranno i ricordi più belli che potremmo avere» le disse Dylan. «E li ricorderemo per sempre. Esattamente così. Perfetti come sono ora.»
Si guardarono intorno. Guardarono la strada, le casette tutte uguali, le colline, la scogliera in lontananza. Come se il tempo avesse ricominciato a scorrere soltanto in quel momento, il sole cominciò a tramontare e Dylan e Belle lo guardarono raggiungere l’orizzonte in silenzio, godendosi gli ultimi raggi di calore sulla pelle.
«Sei pronta?» chiese Dylan.

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Capitolo 31
*** Sciaphilia ***


Sciaphilia
L’amore per le ombre
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Il signor Doyle portò il binocolo agli occhi e lo puntò sulla casa degli O’Brien in Salthill Road. Gli parve quasi di intrufolarsi in un momento intimo e speciale, ma quelli erano gli ultimi istanti in cui avrebbe potuto vedere sua figlia, in cui l’avrebbe vista felice, e non voleva privarsene per nessuna ragione al mondo.
Rimase a guardarli, abbracciati e sorridenti, mentre il sole al tramonto li inondava della sua luce dorata. Li guardò scambiarsi un bacio, qualche parola, una risata, e gli sembrò di vederli il giorno del loro matrimonio, quando aveva accompagnato la sua bambina lungo la navata, trattenendo a stento le lacrime, e l’aveva vista andare via con quell’uomo che aveva lentamente imparato ad apprezzare.
E ora la guardò andare via un’ultima volta, abbracciata all’uomo che amava e che l’amava. E mentre il sole tramontava e il buio invadeva Salthill Road, l’immagine di sua figlia attraverso il binocolo divenne sempre meno definita, più sfocata, fino a diventare nient’altro che un’ombra, sciacquata via dalla notte come un disegno sulla sabbia che viene sciacquato via dall’acqua.

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