Il Canto del Cigno

di HellWill
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rifiuto ***
Capitolo 2: *** Flashback - Partenza ***
Capitolo 3: *** Aiuto ***
Capitolo 4: *** Flashback - Ironia ***
Capitolo 5: *** Rabbia ***



Capitolo 1
*** Rifiuto ***


I
Rifiuto
 
I tacchi di Luce rimbombavano sotto le volte dei portici di via Zamboni in quella gelida notte di fine autunno. La ragazza, tuttavia, non sembrava curarsi del freddo vento che spirava nella stradina silenziosa: era vestita in un succinto abito da sera, con le spalle scoperte e le calze nere translucide alla luce dei pub che oltrepassò senza dar adito agli apprezzamenti volgari che le rivolgevano uomini e donne. Una volta arrivata in piazza Verdi, ignorò anche gli spaccini centauri che le chiedevano se cercava qualcosa di particolare, e si diresse verso via delle Belle Arti, in cerca del suo solito compagno di avventure: un licantropo alto e dimesso, dall’aria di un barbone, gli tese la mano e sorrise.
«Ah, Luce dei miei occhi… Dove andiamo di bello stanotte?».
«Dove c’è meno movimento, per iniziare» ribatté lei, fredda, e insieme si addentrarono per i vicoletti meno conosciuti di Bologna, fino ad arrivare ad un bar modesto sotto un portico che puzzava d’urina.
«Dopo di lei, madame» la prese in giro il lupo mannaro, sorridendo. Luce entrò nel bar senza degnarlo di uno sguardo, e sondò con gli occhi lilla l’interno dell’umile ritrovo.
«Non sarà un po’ troppo illegale anche per te?» chiese con un sospiro Luke, e Luce dissipò i suoi dubbi con un gesto della mano.
«Non credo nella legge» gli rispose secca, come se crederci o no fosse come per un qualche inesistente dio. Si sedettero al bancone del bar, mentre altri avventori sorseggiavano cocktail scuri.
«Un bloody mary, poca vodka» ordinò Luce, deglutendo: nonostante la sicurezza ostentata, era la prima volta da giorni che usciva dal suo antro pieno di videogames per far parte della movida notturna di Bologna. Non si nutriva da allora, e in generale non si era mai nutrita molto da quando era iniziata la sua missione sotto copertura… questo nonostante Luke si fosse offerto più volte di farle da nutrimento.
«Ecco a lei, signorina» mormorò il barista, circospetto. All’odore del sangue mescolato con la vodka, Luce sentì una fame senza precedenti artigliarle le budella e farle fremere ogni vena, arteria e capillare che aveva in corpo come fossero trapassati da un fuoco.
Luke osservò l’amica preoccupato, e le strinse un polso serio.
«Da quant’è che non bevi?» chiese bisbigliando, accusatore. Luce gli lanciò un’occhiataccia: non era una conversazione da avere in un bar.
«Allora… come sei diventato un lupo mannaro? Sei nato così o…?» gli chiese invece la vampira, mentre Luke storceva il naso all’odore di vodka nel sangue. A Luce girava la testa mentre la sua sete si placava.
«Sono nato così. Uno dei pochi fortunati ad avere la linea di sangue maledetta sin dall’800, diciamo» ironizzò lui, e Luce sorrise.
«E come mai hai un nome inglese?».
«Mia madre se la tirava. Mio fratello si chiama Edmund» sorrise ferino. «E tu invece? Sei italiana, mi pare. Eppure hai un accento strano».
«Ho vissuto a New York per un po’» accennò lei. «Dai miei diciotto anni in poi. Sono tornata in Italia solo l’anno scorso, e solo per… beh, non importa».
«Eppure hai casa di proprietà in via dell’Indipendenza… mica poco. La tua famiglia deve stare proprio bene, di soldi».
«Diciamo che ce la caviamo» mormorò Luce: non le piaceva per niente parlare della propria famiglia. Non che non fossero in buoni rapporti, anzi; è che le spezzava il cuore pensare che se n’era andata che era ancora viva, con un cuore pulsante e il proprio sangue nelle vene, mentre ora… ora era semplicemente un cadavere che camminava.
Prima che se ne potesse accorgere, il Bloody Mary era finito. Fece un cenno al barista: «Un altro, please».
Mentre le toglieva il bicchiere da davanti, Luce socchiuse gli occhi: il sangue fatato era una leccornia proibita, e il barista era di sicuro appartenente al popolo dei Fae… per quanto le ali non fossero visibili in quel momento, forse nascoste sotto i vestiti, l’odore era per lei ormai inconfondibile.
Ogni tipo di creatura aveva il suo aroma: i centauri, quasi ironicamente, sapevano un po’ di stalla: il loro sangue si poteva paragonare ad un formaggio fresco spalmato su un crostino di pane e condito con della frutta. Non una prelibatezza ricercata, ma più qualcosa che avresti incontrato in agriturismo.
Le sirene, ovviamente, avevano il sangue un po’ annacquato: non erano decisamente la creatura preferita di Luce. I mannari e gli antropi, ovvero coloro che potevano trasformarsi in animali, avevano ognuno il proprio odore – e sapore – a seconda dell’animale che la loro maledizione prevedeva. I preferiti di Luce erano i lupi e gli orsi: avevano un sapore indomito, selvaggio, e soprattutto colmo di potere oscuro.
Poi c’erano elfi, satiri, ninfe, driadi: i primi avevano un sangue simile a quello umano ma, al contrario di quest’ultimo, erano colmi di energia magica; i satiri ovviamente sapevano di capra e avevano troppa magia indomita nelle vene per essere davvero una preda decente. Le ninfe e le driadi, infine, non avevano sangue vero, quindi seppure Luce si fosse nutrita di una della loro specie… beh, non sarebbe finita bene e avrebbe avuto semplicemente più sete di prima.
Il secondo Bloody Mary arrivò davanti a lei celere, mentre faceva tutte le sue considerazioni sul sangue e considerava amaramente che quello servitole era semplice sangue umano: la base da cui partire per nutrirsi, certamente, ma proprio per questo era come andare in un pub e chiedere un bicchiere d’acqua fresca.
No, anzi, una bella teiera di the alle ventidue e trenta, mentre tutti i tuoi compagni prendono una bella birrozza scura. Ridicolo.
Si accorse di stare digrignando i denti solo perché Luke le aveva mollato un calcio da sotto il bancone. Si dedicò al Bloody Mary e guardò fredda l’amico.
«Hai sentito Stan?» chiese casualmente, e Luke si irrigidì.
«Lo sai che non possiamo parlare della rete. Non in pubblico almeno».
«Dio mio» mormorò Luce per non dire qualcosa di gran lunga peggiore come si usava a Bologna. «Ancora con questa storia? Sono un vampiro da due anni, e da un anno sono tornata in Italia sulle tracce di quel bastardo che mi ha trasformata. Ancora con questa rottura di coglioni sulla segretezza e gne gne gne?» sibilò alterata.
«L’alcol ti sta dando alla testa. Andiamo via».
Luce lo guardò furiosa: aveva un’espressione impassibile, ma gli occhi viola quasi mandavano scintille tanta la rabbia per quell’ultima affermazione dell’amico.
Prese la borsa e si alzò di scatto, facendo ticchettare i tacchi sul pavimento di assi di legno. Luke saldò il conto salatissimo – dato che si trattava di drink illegali – nonostante non avesse preso niente e porse lo scontrino a Luce.
«Dato che sei ricca di famiglia, ridammeli con calma» inarcò un sopracciglio. Poi si diresse verso i vicoletti che conducevano in centro città, mentre Luce lo seguiva, aprendo e chiudendo i pugni nel tentativo di calmarsi in astioso silenzio.
Ogni volta che trascurava il nutrirsi regolarmente, salvo poi bersi due bicchieroni di sangue e vodka, il suo umore peggiorava.
Fino a quel momento era sopravvissuta grazie alla rete di cacciatori di vampiri di cui faceva parte quando era ancora viva: le procuravano trasfusioni dai valori alterati, o con malattie ematiche, o di creature magiche che non potevano donare sangue; a volte le procuravano persino “vittime” vive e consenzienti a farla nutrire, per quanto ciò la disgustasse profondamente.
Tuttavia, in Italia non si era organizzati come in America e, soprattutto, i vampiri in Italia erano radicati da secoli – se non millenni –: ciò voleva dire che erano i cacciatori di questi ultimi a non essere visti di buon occhio, e non le creature non-morte stesse.
Per cui, per un vampiro che odiava profondamente sia esserlo che i propri simili, l’integrazione non era facile come in America.
Oh, a New York aveva sgominato un clan di non-morti in meno di un anno, e lo aveva sterminato dall’interno; poi il suo acerrimo nemico aveva deciso di migrare in Italia, dove avrebbe goduto della protezione di clan e congreghe decisamente più importanti e potenti… e lei ne aveva quasi perso le tracce prima di tornare a Bologna, dove a quanto pare risiedeva quel bastardo.
Bologna era una città sconosciuta, e piena di segreti; e proprio per questo era meravigliosa. Luce vi si trovava a proprio agio, nonostante non fosse abituata al nord Italia ed alla sua nebbia quasi costante in inverno.
Prima che se ne fosse resa conto, Luke e lei erano arrivati sotto il portone di casa sua, sulla via principale del centro città. Il licantropo aspettò che tirasse fuori le chiavi di casa, e lei lo guidò all’ultimo piano facendo gli scalini a due a due, nonostante avesse dei tacchi altissimi.
Il sesto piano non affacciava su un panorama particolare, ma su una corte interna piena di verde e di biciclette poggiate dove capitava. Cicche di sigarette costellavano le aiuole, nonostante venissero pulite una volta ogni due giorni. Effettivamente, anche Luce fumava da quando era morta… ma l’inquinamento le stava sui coglioni almeno quanto i vampiri, per cui non si sarebbe mai sognata di buttare le sigarette nella corte.
Una volta che Luke si fu richiuso la porta dietro, Luce si tolse le scarpe quasi calciandole fuori dalla finestra aperta, e il licantropo aggrottò la fronte.
«Non hai paura dei ladri? Cioè, so che del freddo non ti importa, ma è una questione di sicurezza, tenere le finestre chiuse quando si esce».
«Fumo in casa» mormorò Luce, sedendosi sul divano e accavallando le gambe scure. «E non voglio che la puzza tinga le pareti di giallo».
«Immagino sia un buon motivo» borbottò il ragazzo. «Sei a posto? Intendo… col sangue. Altrimenti lo sai che sono disponibile».
Luce fece una smorfia e si accese una sigaretta. Ne prese un paio di tiri, prima di mentire:
«Sono a posto così».
No, non era vero. Aveva sete. Meno di prima, certo, ma non bastavano due bicchieri da cocktail pieni di sangue e vodka a farle sparire il male che le cerchiava la testa e che le acuiva i sensi in cerca di una preda.
«Da quanto ci conosciamo? Due mesi? Non mi hai mai parlato di te» mormorò Luke, serio, sedendosi accanto a lei sul divano grigio.
«Senti, Luke. Senza offesa: sono una cazzo di non-morta. Il fatto che ogni tanto te lo faccia ficcare per sentirmi vagamente più viva non riguarda eventuali sentimenti» dichiarò secca, e Luke si ritrasse un po’, forse ferito. Luce si pentì immediatamente della sparata, e si portò una mano agli occhi, sfregandoli con le dita dalle unghie lunghe e curate.
«Mi dispiace» mormorò allora, con un breve sospiro. «Non so cosa mi prenda».
«Sei intrattabile quando hai fame» borbottò Luke. «Non credo tu sia “a posto” come mi hai detto. Da quant’è che non ti nutrivi prima di stasera?» chiese di nuovo, e Luce deglutì a fatica.
«…due settimane».
Luke emise un verso strozzato.
«Sei pazza? Vuoi che il veleno ti corroda le vene? Credimi, non saresti uno bello spettacolo in quel caso».
Luce digrignò i denti, scoprendo i canini appuntiti.
«No! Non voglio che… è complicato, okay? Mi repelle la sola idea di nutrirmi di sangue innocente. E al tempo stesso… tutti hanno un odore così invitante. È così… complicato resistere quando sono fuori casa. E al tempo stesso è così deliziosamente facile lasciarsi andare alla fame e concentrarsi giorno e notte su videogiochi, libri e streaming. Sai quand’è stata l’ultima volta che ho dormito? Quando mi sono trasformata. Quando sono morta. I vampiri non dormono di giorno, è una leggenda» spiegò Luce, a disagio. La testa le pulsava, e Luke era troppo vicino, per cui si scostò e si sedette su un bracciolo del divano, fissandolo.
«Davvero non dormite mai?».
«A che pro? Sono morta» mormorò Luce amara. «E se te lo stessi chiedendo: no, i miei genitori e mia sorella non lo sanno. Non so come dirglielo. Cioè, so che era un rischio che avrei potuto correre, e che anche loro lo sapevano, ma… un conto è iniziare a fumare e sapere che “potrebbe” venirti un cancro ai polmoni un giorno, un altro è affrontare quello stesso cancro cinque anni dopo che hai iniziato a fumare» si portò le mani alla testa, poi prese l’ultimo tiro di una sigaretta stanca e completamente consumata. «Ho cacciato vampiri per cinque anni, sono sempre stata coraggiosa e indomita e senza scrupoli: erano semplicemente una piaga, una peste bubbonica, che andava eliminata. E ora sono una di loro. Ora sono parte del problema anche io».
«Non capisco perché ce l’hai tanto coi vampiri. Che ti hanno fatto?».
Luce tacque, poi scosse il capo.
«Non importa. Non… non sono pronta a parlarne» mormorò, e si accese la seconda sigaretta, spegnendo la prima nel posacenere sul tavolino fra divano e tv. «Comunque ci sono un sacco di leggende sui vampiri, la maggior parte delle quali sono vere solo in parte. Sapevi che non possiamo fisicamente entrare in casa d’altri se prima non ci viene esplicitamente dato il permesso? Quella è forse l’unica leggenda vera».
«Non la conoscevo. Come mai funziona così? È parecchio strana come roba» ridacchiò Luke. Luce si strinse nelle spalle.
«A quanto pare, i celti strinsero un patto con i Fae millenni or sono: le porte d’ingresso delle case sono protette, da allora, da una magia antichissima che respinge qualsiasi male magico o spirituale. Siccome il veleno dei vampiri, quello che ci scorre nelle vene, è qualcosa di appartenente alla magia nera… noi non possiamo entrare dalla porta di un appartamento, di una casa o altro senza permesso di chi abita nello stesso. Sono regole anche un po’ lasse in realtà, non serve qualcosa di formale perché ci sia un invito, basta anche un semplice “dai, accomodati” per sbloccare la situazione».
«È tutto molto interessante» ammise Luke. «Rinnovo la mia offerta: vuoi cenare?» chiese, e si tolse il maglione a collo alto per rivelare una tshirt con una stampa di una serie tv che gli lasciava scoperti il collo e l’inizio delle clavicole. Ammiccò con fare allusivo e Luce distolse lo sguardo mentre il cuore le bruciava di fame.
«Poi. Un’altra leggenda dice che non possiamo attraversare i corsi d’acqua. È vera, ma manca un aspetto fondamentale: non possiamo proprio toccarla l’acqua. Se lo facciamo, ci ustioniamo. Più prolungato è il contatto, più profonda è l’ustione».
«E come fate quando piove?».
«Dio mio, mai sentito parlare di scarpe e ombrelli?» ribatté Luce, acida.
«E il mare? Non potete andarci?».
«Ti invito a riflettere attentamente sulle tue stesse parole. Ti pare che acqua+sole diretto siano cose adatte ai vampiri?».
Luke abbassò lo sguardo come un cucciolo bastonato.
«Scusa».
Luce si morse l’interno della guancia, poi scosse la testa.
«Comunque. Negli specchi d’alluminio, quelli più diffusi al giorno d’oggi, ci si può vedere come ci vedono tutti: immortali, belli, letali. Negli specchi d’argento riveliamo la nostra natura più profonda: cadaveri che camminano perché maledetti e corrosi dall’interno».
«Che vuoi dire?» Luke appariva genuinamente confuso. Luce scrollò le spalle.
«Non te lo faccio vedere solo perché scapperesti… e non mi va. Al momento sei il mio unico amico, e il mio unico contatto con la rete dei cacciatori americani».
«Davvero sono tuo amico?» Luke inarcò un sopracciglio. «Credevo di essere solo uno a cui lo fai ficcare ogni tanto» ironizzò. Luce tacque imbarazzata: se avesse avuto abbastanza sangue nelle vene, forse sarebbe persino arrossita. Prese un tiro dalla sigaretta e poi la spense nel posacenere con un lungo sospiro.
«Sì, ti considero mio amico» mormorò. «Mi dispiace di essere scattata, e hai ragione: quando ho fame sono intrattabile».
«Non posso neanche dirti di mangiare uno snickers come nei meme» scherzò lui, e Luce sorrise pallidamente.
«Effettivamente no. Sai che non possiamo neanche bere il sangue Fae senza permesso? Fa parte dei loro poteri. Eppure è il sangue più ambito, perché molto potente magicamente parlando, e l’effetto del nutrimento dura più a lungo che con il sangue delle altre creature, anche di quelle magiche».
«Curioso. Non vi nutrite solo di sangue umano o mannaro, quindi».
«No, affatto. Mi sono capitate buste di sangue di qualsiasi creatura, quando ero ancora a New York» mormorò la ragazza. «Tranne Fae, ovviamente».
Luke deglutì, poi distolse lo sguardo.
«Ma… per caso non ti piace il mio sangue?» chiese, e sembrava un po’ afflitto dall’ipotesi. Luce rise amara.
«Hai un odore delizioso. La mia scelta di non nutrirmi con te è dettata dalla mia etica, diciamo come… come se volessi essere vegetariana, ma non ci riuscissi per via della mia natura. Come se tu volessi smettere di nutrirti perlopiù di carne per questioni di morale, pur essendo un licantropo».
«Non riesco nemmeno ad immaginare come dev’essere non mangiare carne nelle mie condizioni. Probabilmente mi debiliterei e soffrirei un casin— oh» Luke aggrottò la fronte, come se ci fosse arrivato solo in quel momento.
«Solo che nel tuo caso sarebbe una scelta etica riguardo inquinamento e allevamento intensivo e problemi generalmente più grandi di te. Nella mia scelta, la mia etica mi impone di non fare del male alle persone, che è un qualcosa che a tutti gli altri viene naturale… ma non ai vampiri. Per i vampiri, le persone sono cibo. Nulla di più, nulla di meno. Possiamo esserti amici, ma non smetteremo mai di sentire nel tuo odore la traccia di sangue che ci agita il fuoco della fame».
«Hai provato semplicemente a… nutrirti finché il tuo cuore non si riprende in bradicardia? Che io sappia, quei vampiri che lo fanno non hanno questo problema con la fame, non sentono tutti gli odori di questo mondo come qualcosa di vivo di cui nutrirsi» osservò Luke, critico. Luce scrollò le spalle.
«Sai quanto ci vuole per sfamarci?».
«Effettivamente no».
«Se siamo completamente a secco, dovremmo uccidere un essere umano al giorno per una settimana, per recuperare il sangue necessario a farci battere il cuore. E per mantenere il battito, dovremmo ucciderne uno ogni due giorni. Per l’eternità. Ti pare un qualcosa di etico da fare?».
«E se ti nutrissi di creature diverse? Noi licantropi siamo un pozzo senza fondo di sangue, ad esempio».
«Probabilmente ti manderei in ospedale, se mi nutrissi ora con te» mormorò Luce, affilando lo sguardo. La sua mente accarezzò l’idea di andarci a letto e nutrirsene, una sorta di contentino per entrambi; si vide quasi, si percepì contro il suo corpo caldo, bevendo il suo sangue finché anche il proprio non fosse stato tiepido, fino a far svenire il povero licantropo. Poi la corsa in ospedale, le trasfusioni, Luke che le faceva il pollice all’insù con un sorriso ebete— No. Non poteva farlo.
Si rese conto di avere le labbra socchiuse e gli occhi fissi nel vuoto, e quando si riscosse Luke la fissava divertito.
«Per un momento mi sei sembrata davvero morta» confessò.
«In che senso?» Luce si sentì quasi offesa.
«Beh… non respiravi neanche. Non ti muovevi. Eri immobile come… beh, come un cadavere, tesoro».
Luce si passò una mano sul viso, e sorrise funerea.
«Stavo pensando di accettare. Ma non potrei mai».
«Dai, c’è persino la sanità pubblica qui in Italia. Mica è come in America che paghi un’ambulanza con un rene. “Già che sei qui ti asportiamo un rene e una retina che così ci paghi il conto, che ne dici caro?”» fece una vocina simile ad una dottoressa a caso, e Luce scoppiò a ridere.
«Ne hai bisogno. Vieni qui» le fece cenno di avvicinarsi, ma Luce non pensava fosse una buona idea. Eppure era a secco anche di contatto fisico, e si disse che lo voleva solo abbracciare, non uccidere. Eppure non appena si avvicinò e Luke l’attirò fra le proprie braccia, l’odore prepotente del sangue fresco di lui le invase le narici e le fece ribollire la fame nel cuore, al punto che si ritrovò a leccare il suo collo quasi con violenza, mordicchiandolo come un gatto che gioca con la propria preda. Luke non disse nulla: il suo consenso era stato palesato mesi, settimane, giorni prima; e non c’era bisogno di ripetere nulla, anche perché si percepiva nell’aria il semplice fatto che se qualcuno avesse interrotto quella specie di rituale, Luce non si sarebbe più nutrita, di nuovo, per due settimane o anche di più.
Quando Luce gli addentò una spalla, la pelle si ruppe con la stessa consistenza che avrebbe avuto la buccia di un frutto fresco e maturo: il sangue le inondò la gola a fiotti, poiché la ferita era profonda e piuttosto estesa.
Non avendo mai bevuto da qualcuno prima di allora, in effetti, Luce era piuttosto inesperta; e se non sapeva come procurare il minor danno possibile alla “vittima”, meno ancora sapeva quando o come fermarsi.
Bevve, e bevve ancora. Bevve fino a scoppiare, fino a che il cuore non bruciò più neanche un po’, e infine bevve fino a che non sentì qualcosa di assordante nelle orecchie: un battito, poi un altro, e una lieve bradicardia si affacciò alla sua non-vita. Dio, come aveva fatto a convivere con quel battito per così tanto tempo? In quel momento le dava solo fastidio.
Luce scoppiò a piangere.
No, non le dava fastidio: le era mancato così tanto… Un cuore che batteva, che la rendeva viva, e che ora irrorava i suoi tessuti divorati dalla fame…
Si rese conto che Luke respirava a fatica, e che la ferita era secca, nonostante stesse guarendo velocemente come a tutti i licantropi. Luce spalancò gli occhi e arretrò convulsamente sul divano, spaventata.
«…Luke?» mormorò ad occhi spalancati nel buio. Lui batté le palpebre, poi la fissò con occhi vacui.
«…sì?» sussurrò con voce roca. Luce deglutì a fatica: in bocca aveva le papille gustative che danzavano nel sentire ancora il sapore del suo sangue.
«S-Stai bene?» balbettò: il licantropo era pallido come un morto, e lui sorrise, prima di aggrottare la fronte.
«…non c-credo» mormorò. Dopodiché si sporse dal divano, fissò il pavimento e vomitò. Poi rovesciò gli occhi all’indietro e perse i sensi.
«CRISTO» esclamò Luce, frugando nella borsa e prendendo il telefono per chiamare il 118. «Sì, salve, chiamo… chiamo da Bologna, centro città».
«Salve, qual è la sua emergenza?» rispose la voce di una donna.
«Ho… ho bevuto da un mio amico, tutto consensuale, ma… non mi nutrivo da un po’ e ho esagerato. Potete venire a prenderlo in ambulanza? È svenuto. Non so cosa fare!» Luce si piegò in due e poi si accovacciò sotto la finestra, con il respiro corto e un imminente attacco di panico.
«Si calmi signorina. Dove si trova?».
Luce dette numero civico e via, e la signorina confermò che stava per arrivare un’ambulanza. Passarono minuti, ma le sembrarono ore; e infine quando bussarono al citofono sobbalzò, deglutì e andò ad aprire. I paramedici caricarono Luke in barella, e mentre Luce lo fissava inespressiva, con il senso di colpa che le rodeva l’animo, la ragazza sentì una mano sulla spalla.
«Signorina, ci può seguire in ospedale?».
Cazzo. C’era la polizia. Merda.
Luce annuì e si rimise i tacchi con agilità, afferrò borsa e telefono e si morse le labbra cercando di apparire il più innocente possibile.
Il viaggio in volante fu tranquillo, ma la sirena dell’ambulanza che faceva loro strada era assordante almeno quanto il silenzio nell’abitacolo.
Una volta in ospedale, Luke scomparve alla sua vista e la polizia trattenne Luce all’ingresso, un po’ in disparte.
«Nella telefonata ha detto che si trattava di un rapporto consensuale».
«Infatti» mormorò Luce, colma di vergogna.
«Può spiegare come mai si è spinta tanto in là? È una banshee?».
«Io… io non sono abituata a bere dalla gente. Sono un vampiro. Mi nutro di trasfusioni, di solito» mentì, e il poliziotto elfo la guardò in tralice. La collega, una Fae, la scrutò attentamente.
«Da quanto non ti nutrivi?» la accusò quasi, e Luce sussultò: non era mai incappata in un poliziotto Fae, ma immaginava che la loro capacità di distinguere la verità dalla menzogna potesse risultare parecchio utile in quel campo.
«D-Due settimane» mormorò Luce afflitta. «Non volevo, lo giuro, ma lui ha insistito, e io… io ho ceduto» Luce sentì pizzicarle gli occhi, e distolse lo sguardo dalla poliziotta, odiandosi: quindi nutrirsi molto implicava il ritorno delle emozioni? Dio, se odiava essere un cazzo di vampiro.
La Fae la guardò quasi con compassione: ora che aveva percepito la verità, era molto più tranquilla.
«Ci può dare un documento, signorina?» intervenne l’elfo. Luce frugò nella borsa e gli porse carta d’identità, passaporto e tesserino sanitario. Su nessuno di essi era riportata la sua condizione, e i due poliziotti si scambiarono un’occhiata.
«Dovremmo apporre un timbro sulla sua carta d’identità e sul passaporto, signorina» la avvisò l’elfo, a disagio. «Dopodiché dovrà presentarsi al Centro di Salute del suo quartiere per aggiornare anche la tessera sanitaria. In questo modo saranno garantite sia a lei che ai cittadini sicurezza e chiarezza. Inoltre, le danno diritto a due sacche di sangue altrimenti non smaltibile, ogni giorno. Ci pensi, è una buona notizia, no?» le fece notare l’elfo, e Luce distolse lo sguardo, nauseata. Tirò fuori dalla borsa le sigarette e se ne accese una, nervosa, mentre la Fae timbrava il passaporto e l’elfo l’altro documento.
«Da quanto tempo sei un vampiro?» chiese la donna, e Luce sospirò.
«Due anni».
«Vedo che sei stata negli USA. È successo lì?».
Luce annuì suo malgrado.
«Ero… ero una cacciatrice di vampiri. Beh, lo sono ancora».
«Legalmente autorizzata, spero».
«Certo che sì» borbottò Luce, un po’ indignata.
La Fae le restituì il passaporto e fece un cenno verso l’entrata dell’ospedale.
«Che rapporto c’è fra lei e il ragazzo che ha quasi fatto secco?».
A Luce si rivoltò lo stomaco. L’aveva quasi ucciso. Cristo.
«Siamo… amici. Beh, un po’ più che amici. Abbiamo… Siamo stati a letto insieme qualche volta».
I poliziotti si scambiarono una lunga occhiata, ma era la verità.
«Quindi vi state frequentando?».
«È… è complicato» balbettò Luce, poi si portò la sigaretta alle labbra. «Siamo solo amici, ma qualche volta… cioè lo conosco da due mesi, non stiamo insieme».
«Capisco. L’ha ipnotizzato?».
«Cos- no!».
«Perché si è offerto come vittima?» chiese la Fae, inarcando un sopracciglio. Luce deglutì a fatica, ed esalò il fumo.
«Non… non lo so. Era preoccupato per me. Non mi nutro spesso, e quando lo faccio non è minimamente abbastanza. E lui… lui era lì. Carino. Disponibile. Consensuale» mormorò la ragazza, sospirando. No, non doveva scadere nel melodrammatico con tutti i dettagli che l’avevano spinta fra le sue braccia; non doveva… riportare tutti i minimi dettagli di come aveva persino accarezzato l’idea di ammazzarlo, per un breve e fugace istante prima di costringersi a staccarsi dalla sua spalla. La Fae la guardò di sottecchi, ma se era stata allarmata da quei pensieri non lo diede a vedere.
«Capisco. Andiamo a vedere se si è svegliato, ti va?» chiese gentilmente la Fae, ma Luce voleva solo scappare. Suo malgrado annuì.
Entrarono in ospedale e si diressero a passo svelto verso i cubicoli del pronto soccorso. In uno di essi c’era Luke, e giaceva sulla barella con una sacca di sangue collegata all’ago nel braccio; era sveglio, e quando la vide in compagnia di due poliziotti tentò di mettersi a sedere, preoccupato – ma l’infermiere lì vicino lo spinse di nuovo giù con un’occhiata in tralice.
«Luce, cosa…?».
«Ti ho quasi ammazzato, cretino!» ringhiò lei, sentendo di nuovo gli occhi pizzicare, colmi di lacrime.
«Agenti, lei… lei rischia qualcosa? Ho dato più volte il mio consenso, è lei che è solo… un po’ inesperta» spiegò preoccupato, e la Fae sorrise appena.
«Ci fa piacere che tu sia meglio. Non lo rifate più, va bene? O meglio ancora… se posso darvi un consiglio che esula la mia professione… sceglietevi una parola chiave da dire quando volete interrompere tutto e passare ad altro» ammiccò, o forse batté le palpebre: Luce non ne fu sicura, perché troppo impegnata a stropicciarsi gli occhi per non piangere.
«Grazie, agente» mormorò Luke, inarcando un sopracciglio. «Dovete… arrestarla o qualcosa del genere?».
«Per quanto ci riguarda non c’è stato alcun crimine, ma si poteva sfiorare l’omicidio… quindi state attenti, se ci sarà una prossima volta».
Luke annuì.
«Sarà fatto».
«Buona serata, ragazzi» l’elfo restituì i documenti a Luce e fece un cenno di saluto, mentre la Fae lo seguiva quasi saltellando. Luce guardò l’infermiere cambiare la sacca di sangue esaurita con una nuova.
«Posso… posso restare qui?».
«Vuole delle gocce, signorina?» chiese l’infermiere, preoccupato. «Se vuole chiamo lo psichiatra» suggerì, ma Luce sorrise pallidamente.
«No, vorrei solo… anzi, forse è meglio che vada» mormorò, ma Luke le prese la mano.
«Non sparire, okay?».
Luce rifuggì i suoi occhi castani, e annuì.
«Okay. Ci vediamo in giro».
«Tanto so dove abiti» ridacchiò il licantropo, e le lasciò la mano tiepida a malincuore.
Luce non rispose. Lo guardò a lungo, desiderando dirgli che era finita, che non avrebbero più dovuto vedersi, che era troppo pericoloso per lui continuare a far finta di nulla. Ma non desiderava dirlo davvero; era più che altro la sua coscienza che si ribaltava e faceva i salti mortali nel tentativo di punirla e giustificarsi al tempo stesso. Invece, disse:
«Mi mancherai», e vinse il suo egoismo. Luke sorrise, forse lusingato da quelle parole, e si strinse nelle spalle.
«Vedrai, mi terranno qui solo qualche ora. Ti dispiace se vengo da te stanotte, quando esco dal Sant’Orsola?».
Luce arretrò di un passo ed esitò, poi distolse lo sguardo e annuì mesta.
«Sì… vieni pure» mormorò.
Cos’era una punizione peggiore? Lasciare che lui la raggiungesse a casa, memore degli avvenimenti della serata, o privarsi della compagnia di chiunque per altre due settimane? Luce non ne era assolutamente certa, ma notò quasi improvvisamente che non sentiva più così tanto l’odore del licantropo, o del sangue della trasfusione, o degli infermieri; certo, percepiva degli aromi nell’aria, ma… era come essere sazi a tavola mentre ci si pone davanti un’altra pietanza: l’idea di mangiare ancora era allettante, ma fisicamente non ne si aveva bisogno.
Forse stare da sola altre due settimane non era poi un’idea così buona.
«Non ci pensare neanche» bofonchiò Luke. «Non sparire. Ti prego» mormorò, interpretando male il suo silenzio.
Luce scosse la testa, e sospirò.
«Chiamami quando esci» disse secca. «E quando sei sotto casa, bussa».
«Va bene» borbottò Luke, e Luce gli strinse piano la mano prima di dirigersi fuori.
Una volta a casa, si tolse di nuovo le scarpe, vuotò il posacenere nell’immondizia e si accese una sigaretta. Accese una consolle e mise su uno dei suoi videogiochi per perdere tempo; ricordava ancora che ci giocava con Roland, un cacciatore di vampiri che aveva preso sotto la propria ala in America, in quanto giovanissimo – sì, più di lei – e inesperto.
Ma quella di Roland era un’altra storia. Il ragazzo aveva pianto quando lei se n’era andata, tornando in Italia. Se non fosse finito morto ammazzato prima del tempo, sarebbe stata tutta fortuna. O peggio, avrebbe potuto essere trasformato anche lui in un non-morto. Si sapeva, alla fine, che i bastardi ci godevano a trasformare i cacciatori di vampiri in tali.
Alla fine giocò così a lungo che neanche si rese conto del tempo che passava; si disse che era fortunata, per il momento: i videogiochi con cui era cresciuta avevano ancora un supporto su cui girare, e quelli nuovi erano anche belli, in certi casi. Il problema sarebbe arrivato in una cinquantina d’anni o un secolo: i supporti sarebbero ancora esistiti? O l’obsolescenza continua l’avrebbe fatta impazzire prima?
Quando Luke fece squillare il cellulare, Luce aveva già spento tutto ed era sul divano, rilassata, con gli occhi socchiusi come stesse per addormentarsi. Ma siccome non poteva dormire, quello stato in particolare era la cosa che più ci si avvicinasse.
«Ehy» mormorò al telefono, e Luke accennò una risata.
«Pensavo che non mi avresti risposto. Sai, come… come fai sempre» disse, e Luce chiuse gli occhi.
«Sono molto stanca. Vieni qui o vai a casa tua?».
«Avevo detto che sarei venuto lì. Hai già cambiato idea?».
«…no, non ho cambiato idea. È solo… ho paura di farti ancora del male. Ho paura di ammazzarti» mormorò Luce, passandosi una mano sul viso. Luke sospirò.
«Sto arrivando. Aspettami alzata».
Luce ridacchiò.
«Certo, come se poi–» e lui le attaccò il telefono in faccia, senza lasciarle finire la frase. Luce gettò il telefono sul tavolino, e quando dopo circa un’ora qualcuno bussò, aprì il portone e la porta senza neanche rispondere.
Luke si richiuse dietro la porta e le sorrise.
«Tutto bene?».
Luce si strinse nelle spalle.
«Non dovresti aprire la porta senza neanche chiedere chi sia. È pericoloso».
«I ladri?».
«Pensavo più ai cacciatori di vampiri, ma anche i ladri vanno bene» abbozzò un sorriso divertito.
Luce si strinse di nuovo nelle spalle:
«Sai quanto me ne importa. Tanto sono già morta».
«A proposito… Non abbiamo più ripreso il discorso. Stan mi ha telefonato mentre ero al pronto soccorso».
Luce si rizzò a sedere.
«Cosa ha detto?».
«Che devi nutrirti regolarmente» Luke la guardò fisso negli occhi e Luce si abbandonò di nuovo sul divano.
«Okay. Altro?».
«Devi sviluppare i tuoi poteri da vampiro. Solo così ti ammetteranno ad un clan di vampiri, solo così potrai svolgere il tuo lavoro».
Luce arricciò il labbro superiore in una smorfia minacciosa.
«Per sviluppare i miei poteri da vampiro dovrei bere tutti i giorni come ho bevuto oggi. Ma si sente quando parla? È impossibile. Lo Stato mi dà due sacche di sangue al giorno, dopo oggi. Non bastano minimamente per ciò che ha in mente Stan».
«Luce, forse non ci siamo spiegati: devi abbandonare l’idea di essere una candida paladina dei diritti umani del cazzo, e iniziare a nutrirti decentemente per un bene superiore. Chi cazzo se ne frega se qualche diavolo di barbone crepa per farti mangiare?».
«A ME! A ME FREGA!» ringhiò Luce, e Luke sobbalzò. «Non voglio uccidere nessuno. Fine della discussione».
«Allora berrai da me, che la cosa ti piaccia o meno, e imparerai a controllarti in questo modo».
«E se… E se mi chiedessero di uccidere qualcuno come prova che sono un vampiro senza scrupoli? Per entrare nel clan, dico».
«Ci penseremo poi» la rassicurò Luke, e Luce sospirò. Si alzò dal divano e si diresse alla finestra, dove si accese una sigaretta.
«A cosa pensi?» mormorò Luke, avvicinandosi a lei circospetto.
«A niente» rispose lei, ma non era vero: pensava alla sua famiglia, al malaugurato giorno in cui era stata tramutata in vampiro, e a tante altre giornate che le erano sembrate normali finché il suo cuore non aveva smesso di battere.

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Capitolo 2
*** Flashback - Partenza ***


II
!Flashback!
Partenza
 
Luce aprì la porta e si voltò a guardare la casa che abbandonava: ci era cresciuta, con la luce che penetrava da innumerevoli finestre e rimbalzava morbida sulle pareti bianche, e c’era il minimo indispensabile in fatto di mobili. Essendo in sei in famiglia, vi erano ben due divani ed un televisore piatto, appeso alla parete vicino la porta d’ingresso, e da dove Luce si trovava in quel momento poteva intravedere la cucina, sempre perfettamente pulita perché quasi mai nessuno vi cucinava. In quella casa aveva trascorso i migliori anni della sua vita, con il suo gemello Aindir, e poi quelli peggiori, dopo che lui era scappato senza preavviso ai loro dodici anni.
La ragazza posò la valigia a terra e si portò le mani al volto: si sentiva vuota, e quel vuoto che aveva nell’anima pulsava. Non si sentiva addolorata, perché sapeva che la sua partenza era necessaria; non le veniva nemmeno da piangere, e ciò la faceva sentire abbastanza in colpa perché, al contrario, sua madre stava facendo di tutto per trattenere le lacrime, vicino all’auto con suo padre. Lentamente guardò l’arco che le scale descrivevano per andare al piano di sopra e sentì una fitta al cuore nel pensare solamente quante cose aveva lasciato lì, abbandonandole perché non gli sarebbero servite.
Con un sospiro, chiuse gli occhi ed anche la porta: si trascinò dietro la valigia e si passò una mano fra i capelli bianchi, con il viso impassibile. Anche sua sorella maggiore, Esmèra, meglio conosciuta come Rose Mary – un nome che gli esseri umani comprendevano molto meglio –, era lì per salutarla: le prese le mani e, con uno dei suoi dolci sorrisi, la abbracciò.
«Ci mancherai, Luce» mormorò, e la ragazza sorrise: Rose aveva solo quattro anni in più di lei, e aveva deciso di continuare la scuola per insegnare alle elementari: le mancava solo un anno di tirocinio per poter iniziare a fare supplenze. Luce, invece, aveva una vocazione diversa, e aveva deciso di abbandonare gli studi dopo l’esame di stato per allenarsi e seguirla.
Suo padre le prese la valigia dalla mano con delicatezza e la piazzò nel bagagliaio, avvicinandosi solo per scompigliarle i lunghi capelli bianchi; sua madre, invece, le abbracciò entrambe e le due ragazze si sorrisero, sinceramente dispiaciute della separazione imminente; Luce guardò la madre negli occhi viola, gli stessi che aveva lei, forse solo un po’ più scuri, e poi suo padre, da cui invece aveva preso i capelli candidi come la neve, e sorrise stringendo la mano della sorella.
«Andiamo?» chiese, con un sottile filo d’ansia. Suo padre fece un breve cenno e le dedicò un mezzo sorriso, mentre salivano tutti e quattro in auto.
«Noah?» chiese Mihael, allacciandosi la cintura, e la moglie rispose soprappensiero.
«Dormiva… l’ho lasciato con Gabriel».
«Lasciamo un leopardo mannaro in casa con nostro figlio minore?» l’uomo inarcò un sopracciglio, mentre metteva in moto l’auto e Sue sorrideva.
«Sì, è un amico fidato e non è la prima volta che ci fa da baby-sitter… devi esserti dimenticato di quando leggeva le fiabe a Luce e ad Esméra» ridacchiò, e Mihael tamburellò le dita sul volante.
Luce sospirò, guardando fuori dal finestrino, e man mano che si avvicinava all’aeroporto sentiva l’ansia crescere: tutto ciò da cui partiva la sua ricerca era un biglietto da visita, che l’avrebbe portata a New York. Era un viaggio che sarebbe durato diverse ore, ma non era quello a preoccupare Luce: il punto era che quel biglietto da visita aveva almeno dieci anni, e non aveva idea di cosa avrebbe trovato una volta arrivata all’indirizzo segnato.
Le sue riflessioni furono interrotte dall’arrivo in aeroporto: senza rendersene conto, infatti, si era appisolata e i suoi pensieri erano diventati lentissimi, della consistenza della melassa, prima di svegliarsi di colpo e guardare le pareti di vetro scintillante. Suo padre era già sceso dall’auto e le stava prendendo la valigia: uno spiffero gelido che sapeva d’inverno le entrò nella sciarpa e la fece rabbrividire, mentre scendeva anche lei e si affrettava a seguire la madre e la sorella che, di già, erano andate a chiedere informazioni in merito al suo volo. Suo padre le si affiancò e sbuffò: il suo fiato divenne una nuvola bianca che si condensava nell’aria, ma nei suoi occhi brillava una luce che si indovinava contenta di quella temperatura.
«E così vai via» mormorò l’uomo, e Luce sentì una fitta nel petto a quelle parole, quasi li stesse abbandonando tutti.
«Sì».
«Per vendicare Samuel?».
Luce si sentì mancare il fiato e sollevò lo sguardo sul padre, che però, impassibile, guardava dritto dinanzi a sé.
«Io…».
«Non devi giustificarti, non con me» l’uomo si fermò così improvvisamente che Luce sussultò e si voltò a guardarlo. «Però sappi che la vendetta non ti porterà da nessuna parte» mormorò dolcemente l’uomo, carezzandole il viso. Luce sentì salirle le lacrime agli occhi e abbracciò Mihael, affondando il viso nel suo petto, e il padre la strinse forte a sé. «Qual è il tuo piano, bimba?» le chiese, e Luce sollevò lo sguardo, stupita.
«Mi aiuterai?».
«Solo se hai un buon piano. Se non ce l’hai, ti aiuterò a crearne uno. Abbiamo due ore di attesa, è un tempo sufficiente per delineare ciò che dovrai fare una volta a New York» le spiegò lui, impassibile e con gli occhi verdi attenti ad ogni singola mossa della figlia. La ragazza sorrise e annuì.
«Ehy, siamo qui!» Rose si sbracciava davanti una coda e Mihael le fece un cenno.
«Arriviamo» disse, serafico, poi si chinò di nuovo sulla figlia. «Perché New York?» chiese, e Luce tirò fuori il biglietto da visita sgualcito e rovinato che aveva raccolto quella notte, quando Samuel era stato ucciso da un vampiro.
«Qui, c’è un indirizzo. Questo biglietto lo ha perso il vampiro scappando, mentre io ero paralizzata dal terrore, e l’ho conservato per tutti questi anni».
«Hai controllato su internet che la società esista ancora?».
«Sì, esiste. Si occupa di… import-export».
«Un modo elegante per dire commercio di droga o cose peggiori. Ben fatto. Cosa vuoi fare?».
Luce affilò lo sguardo e serrò la mascella.
«Distruggere tutto ciò che ha, costringerlo a guardare tutto ciò che ama bruciare, e poi ucciderlo» mormorò la ragazza, gli occhi viola improvvisamente duri e freddi, ostili, e il padre sorrise.
«La gente aveva ragione quando diceva che da due assassini non poteva che nascere il sangue» mormorò l’uomo, dirigendosi senza preamboli al check-in; Luce rimase imbambolata a fissare il padre e lo inseguì, cercando di calmare il suo cuore che batteva furioso contro lo sterno.
«Tu e mamma…» gli sussurrò, raggiuntolo, e Mihael si limitò a sorride e a baciare Sue, che gli fece un sorriso dolce.
«Allora, sei emozionata?» le chiese, senza che il padre potesse darle una risposta.
I minuti del check-in passarono in fretta, fra una chiacchierata con Rose su bambini ed armi bianche – i loro argomenti preferiti –, e quando si diressero al check-in suo padre fece chiaramente capire a Sue di aver bisogno di tempo da solo con Luce.
Si sedettero su una panchina, quindi, mente la donna e sua figlia maggiore andavano a prendere qualcosa da mangiare, e Luce si voltò verso il padre.
«Tu e mamma…» ripeté, e suo padre sorrise appena, tirando fuori dalla tasca un pacchetto di biglietti da visita.
«Sì. Questi sono dei contatti che abbiamo accumulato durante i nostri contratti a New York, puoi usarli quanto vuoi per qualsiasi cosa ti serva».
Luce aprì appena la bocca ed accettò il pacchetto, sentendo l’ansia montarle dentro.
«Il mio è… un buon piano?».
«Non credo, riguardo la parte del “distruggere tutto ciò che ama”, dal momento che è cosa conosciuta che i vampiri non provino emozioni complicate come l’amore, ma… per il resto mi sembra un buon piano. Complicato da attuare senza i giusti mezzi, ma buono. Su quali armi puoi contare?».
«Penso di comprare una Desert Eagle appena arrivata a New York» Luce si portò i capelli dietro un orecchio a punta, nervosa, e si rigirò nelle mani il pacchetto di biglietti da visita. «Hai messo anche gioiellieri e argentieri? Mi serviranno anche coltelli e proiettili almeno rivestiti in argento».
Mihael sorrise appena e annuì.
«Lo avevo intuito, per cui sì, li ho messi».
Luce sorrise debolmente e sistemò i biglietti in borsa.
«Ho paura» confessò, in un soffio, e Mihael le prese le mani con una sola enorme e calda mano.
«È naturale che sia così» mormorò dolcemente, rassicurante. «Se tu non ne avessi saresti un’incosciente, e non ti avrei mai lasciato partire. La paura ci guida alla prudenza, l’incoscienza solo all’avventatezza».
La ragazza restò a fissare il padre, sentendo un piccolo calore crescere nel petto, e abbracciò l’uomo, che la strinse forte. Pochi secondi dopo, Mihael la stava già istruendo su come trovare un hotel e come usare i documenti falsi che si sarebbe procurata per trovare lavoro nell’impresa di pulizie che si occupava degli uffici del vampiro, su come raggiungerlo e scoprire l’indirizzo di casa e poi eventualmente la sua tomba, i modi migliori per ucciderlo e far sì che restasse morto; Mihael, su quest’ultimo punto, sosteneva che era indispensabile solamente staccargli la testa, mentre Luce, per star sicura con l’ansia che le divorava il cuore, aveva intenzione di staccargli la testa, bruciarla, buttare le ceneri in un fiume, bruciare anche il corpo e buttare le ceneri in un altro fiume. Ridendo per l’esagerazione, Mihael le aveva riferito che l’acqua in generale li ustionava, così come il sole, e che quindi i vampiri non potevano attraversare i corsi d’acqua a nuoto. Mihael si assicurò che Luce non invitasse mai nessuno ad entrare nella sua stanza d’hotel esplicitamente, perché non poteva sapere chi fosse un vampiro e chi no, e i consigli che le diede erano tutti di questo genere; quando Sue ed Esmèra tornarono con delle crocchette di pollo, patatine fritte e diet-coke, Luce aveva la testa che le ronzava e non riusciva a pensare. Mentre mangiavano tutti e quattro insieme, l’ultimo pasto che avrebbero fatto uniti, un silenzio carico di ansia si insinuò fra loro come un filo di fumo mefitico, e quando dichiararono il suo gate aperto, Luce balzò in piedi dritta come un fuso, rigida come un ciocco di legno.
«Devo andare?» chiese, stupita che il tempo fosse passato così in fretta, desiderando riavvolgere il nastro: aveva venti anni, era giovane, troppo giovane per morire, e non voleva andare a New York. E se l’aereo fosse caduto, e con lui tutte le speranze ed i sogni che portava?
Luce si diresse al gate con tutta la sua famiglia come imbambolata; li salutò con baci ed abbracci e si sentiva fluttuare come in un sogno, la testa leggera e vuota, che si limitava a ronzare; attraversò i tornelli elettronici con due passi veloci e vide sua madre stringersi a suo padre, quasi nascosta nel suo abbraccio, con gli occhi rossi e le guance bagnate, mentre lui la salutava con la mano alzata e un mezzo sorriso di buon augurio. E sua sorella, invece, che faceva voltare con i suoi capelli azzurri tutti i bambini, la salutava con un sorriso dolce che sapeva già di nostalgia. Luce si voltò e si diresse all’aereo, verso il gate 07, e trattenne le lacrime che infine erano arrivate.
Quando, dopo un’altra buona mezz’ora di attesa solitaria, riuscì infine a salire sull’aereo, si sentì sperduta: essendo la prima volta che viaggiava da sola, per di più in aereo, si sentiva impacciata e goffa, tanto che dovette attendere le istruzioni delle hostess per capire come si allacciasse la cintura.
Spense il cellulare, sul quale campeggiavano i messaggi pieni di faccine che le inviava Rose, e chiuse gli occhi: il ronzio era diventato mal di testa, e si massaggiò le tempie mentre l’aereo si posizionava sulla pista. Non aveva mai avuto paura di volare, ma dopotutto lei non aveva mai volato… per cui quando il trabiccolo prese velocità e si staccò da terra, Luce guardò spasmodicamente fuori dal finestrino, vedendo le case e i campi sfrecciare sotto di lei più lenti di quanto avesse pensato, man mano che si rimpicciolivano. Quando si rimise ferma sul sedile, si rese conto di avere il batticuore: non si sentiva più impaurita, bensì eccitata. Sì, stava viaggiando da sola! Una cosa che non pensava di fare così giovane, e per di più per un motivo che le sembrava parecchio… serio?
Una determinazione forte e fredda come l’acciaio prese il posto dell’ansia: stava partendo da sola verso una destinazione ignota, verso il suo futuro… e la sua vendetta.

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Capitolo 3
*** Aiuto ***


III
Aiuto
 
«Forse ti farebbe bene andare da una psicologa… o una psicoterapeuta, non ricordo mai la differenza» asserì Luke, alzando il mento mentre Luce sparava a degli zombie nel videogioco a cui stavano giocando insieme. La ragazza non rispose.
«A che pro?» borbottò poi, dopo un po’. «Non può mica cambiare il fatto che sono l’equivalente non-morto di una zanzara gigante».
«No, ma può… non so… cambiare un po’ la tua prospettiva sulla cosa. Potrebbe fartelo accettare, e potrebbe aiutarti un sacco».
Luce tacque, poi mise in pausa il gioco e Luke si voltò verso di lei.
Era da un mese che convivevano, ormai: da quella notte, l’amico non se n’era più andato se non per brevi ore in cui comprava da mangiare per sé o andava a prendere le sacche di sangue per lei.
Luce non aveva accettato di buon grado la presenza del coinquilino, ma se l’era fatto andar bene perché, oltre al nutrimento provveduto dallo Stato, Luke lasciava che si nutrisse finché il cuore non le batteva di nuovo, quasi ogni giorno… in barba alla propria salute, probabilmente.
Si era quasi abituata al non essere più affamata; e anche a prendere il giusto dalla sua vittima, in modo da non farla più svenire o peggio. Le cicatrici perlacee sulla pelle del licantropo si erano fatte via via meno estese, mentre lei imparava come ferirlo sempre meno in modo da poter bere comodamente senza pericoli di sorta.
«Hai allenato un po’ i poteri?».
«Dio cristo» Luce alzò gli occhi al cielo e riprese in mano il joystick, ricominciando ad ammazzare degli zombie. «No che non l’ho fatto. Con chi avrei dovuto farlo? Non so neanche quale rosa di poteri mi sia toccata, onestamente. Trasformarmi in un nugolo di pipistrelli? L’ipnosi? Mh» mormorò. «L’unica cosa che voglio al momento è una fottuta spiegazione, magari in punto di morte, da parte di quello che mi ha fatto diventare così».
«Hai davvero bisogno di una spiegazione? Non ti basta sapere che l’ha fatto per puro divertimento?».
«Mi sfugge come possa essere divertente» ringhiò Luce, usando un kit medico nel gioco.
«Pensaci. Eri una cacciatrice di vampiri, una piaga per la società vampiresca. Quanti ne avrai uccisi e feriti fra tutti i piani per sgominare i clan statunitensi? Stan mi ha detto che l’ultimo piano, quello in cui sei stata trasformata, ne avete fatti fuori almeno trecento, ed eravate in quindici. È ovvio che la peggior vendetta per quel pezzo di merda fosse trasformarti in una di loro. Era calcolato, elementare, e probabilmente per lui anche divertente».
Luce rimise in pausa il gioco.
«Ma perché a me?» ringhiò, senza neanche guardarlo, con le unghie che penetravano nella plastica del joystick come fosse burro. «Perché proprio io? Avevamo persino l’antidoto alla base. L’ho preso. Avrei dovuto essere ancora viva a questo punto. Perché cazzo è successo proprio a me?».
«Pensi che avrebbe dovuto farlo a qualcun altro?» chiese Luke a bruciapelo. Luce si irrigidì, nella sua mente comparve il viso di Roland, infinitamente più codardo e inesperto di lei, ma scacciò via il pensiero con un fiotto di senso di colpa.
«No» mormorò.
«Ti devi arrendere all’evidenza: sei una vampira. E non ci puoi fare granché, tranne esercitarti in modo che gli altri vampiri non ti possano mettere i piedi in testa».
Luce lo guardò di sottecchi, mordendosi l’interno delle guance e poi stringendo i denti, prima di rispondere:
«Bene. Non ho idea di come scoprire e usare i miei poteri. Sei soddisfatto?».
«Beh, magari puoi esercitarti su di me».
«Obbedisci già ai miei ordini, non capirei se sei ipnotizzato o meno» gli dedicò un sorrisino mellifluo, e Luke finse di essere scandalizzato.
 «Come osi? Non sono mica il tuo galoppino» rise di gusto. «Beh, non obbedirò più a nessun tuo ordine a meno che non mi ipnotizzi. Chiaro?».
Luce sbuffò.
«Sei davvero… incredibile!» si lamentò, poi guardò il pavimento per qualche minuto, riflettendo sulla proposta del licantropo.
«Bene. Ti ordinerò cose assurde giusto per provare, va bene?» disse piano, poi. Luke, che aveva atteso pazientemente che la ragazza rimuginasse per conto proprio, si rizzò a sedere elettrizzato.
«Ottimo! Come vuoi capire se sei in grado di ipnotizzarmi?».
«Uh… non ne ho idea» ammise, inarcando un sopracciglio pallido. «Suggerimenti di sorta?».
«Hai presente nel primissimo film di Spiderman? Quando quel poveraccio di Tobey Maguire le prova tutte per tirare le ragnatele?».
«Ah, sì… quella scena ridicola in cui fa le corna, l’okay sollevano il pollice e pure il gesto del telefono? Mancava solo che facesse il gesto italiano dell’ombrello» sbuffò Luce, alzando gli occhi al cielo. «Va’ avanti».
«Secondo me ci vuole una componente visiva. Devi giocare con le mani, fare dei movimenti… roba del genere» Luke si strinse nelle spalle, e Luce si morse il labbro.
L’amico non aveva tutti i torti: dopotutto, anche psichiatri e professionisti della mente, durante l’ipnosi, si avvalevano di supporti visivi… almeno, per quanto Luce ne sapesse dalla miriade di film e serie tv che guardava per passare il tempo. Si raddrizzò sul divano e si schiarì la voce.
«Va bene, d’accordo… mi sento un po’ ridicola».
«Sei con me. Andrà tutto bene».
«Okay» sospirò Luce, poi iniziò a muovere le dita in direzione di Luke. «Guardami negli occhi» gli ordinò, e Luke fissò il proprio sguardo su quello di lei, attento ma vigile, ancora in sé. «Ora ti senti stanco».
«In realtà sto bene» Luke inarcò un sopracciglio, poi sbadigliò e la guardò quasi sorpreso, ma non parlò ulteriormente.
«Sei molto stanco. Pensi che alla fine la tua vita non ha senso. Vivi con una vampira, come se potesse portarti da qualche parte. Una vampira che presto morirà. Tanto vale morire anche tu» azzardò Luce, inarcando appena le sopracciglia, e Luke la fissò con occhi sempre più vacui, persi in quelle considerazioni oscure.
«Vuoi toglierti la vita da tempo, ma non hai mai avuto il coraggio di farlo. Ora ce l’hai» mormorò Luce, deglutendo a fatica e sentendo le mani intorpidite dall’orrore di ciò che stava dicendo. «Dirigiti alla finestra» ordinò, ma non appena Luke si alzò e interruppe il contatto visivo con mani ed occhi della vampira, la pelle gli si increspò di brividi e il licantropo si stropicciò gli occhi, arretrando di qualche passo e guardandola diffidente.
«A… A che gioco stai giocando?» mormorò serio.
Luce deglutì e abbassò le mani.
«Non sono neanche lontanamente navigata a sufficienza nell’ipnotizzare qualcuno, soprattutto per fargli fare qualcosa contro la propria volontà».
«Si può sapere cosa cazzo ti prende?» ringhiò Luke, e i muscoli quasi gli si stavano gonfiando sotto la t-shirt, mentre digrignava i denti e Luce lo fissava composta, senza dare a vedere quanto tutto ciò che aveva detto la disgustasse profondamente. «Cioè, volevi farmi buttare giù dalla finestra? Ma sei fuori di testa? Dio—» e seguirono epiteti animali poco consoni ad essere accostati al nome del dio cristiano.
«Hai finito?» Luce lo guardò seria. «Non avrebbe mai funzionato. E seppure avesse funzionato, ti avrei fermato prima».
«Certo, come no. Cazzo, mio padre me lo diceva che i vampiri sono…» si interruppe prima di dire qualcosa di cui si sarebbe pentito amaramente, e scosse la testa. Ma Luce era freddamente interessata al prosieguo della frase.
«No, dai. Vai avanti».
«Fra due giorni devo trasformarmi. Non è… non è il momento giusto per fare o dire puttanate» borbottò, e si sedette con movimenti rigidi sul divano, senza guardarla. Luce restò in silenzio, poi sorrise appena.
«Cosa diceva tuo padre dei vampiri, Luke?».
«È un razzista, un bigotto, una testa di cazzo. Non ha importanza».
«Dimmelo comunque».
Luke esitò e scosse il capo, mesto.
«Diceva che i vampiri sono per loro natura malvagi. Io non ci ho mai creduto. Ma oggi… oggi hai fatto e detto qualcosa che mi fa dubitare di me stesso. Qualcosa che mi fa credere a lui».
A Luce quelle parole non suscitarono nulla: non rabbia, non dolore, non astio.
«Hai ragione» disse semplicemente. «E ne ha anche tuo padre, probabilmente».
Luke alzò gli occhi al cielo.
«Eccola che ricomincia» borbottò. «Sai, ognuno ha i suoi problemi, Luce».
«Sì. Le persone hanno problemi. E con ciò?».
«Mi sembri piuttosto egocentrica. Tutto qui».
«Dio santissimo, se non fossi egocentrica sarei già morta… ah, no» sorrise fredda. «Lo sono già. Ops».
«È proprio a questo ciò a cui mi riferisco. Essere un vampiro non è divertente, lo so, ma hai mai pensato ai lati positivi?».
«E quali sarebbero?».
«Beh, per esempio la “vita” eterna» disse Luke, e Luce sbuffò.
«Cristo. Vuoi dire quella condizione per la quale sono destinata a veder morire tutti i miei cari intorno a me? Preferirei di no».
«Oppure, i poteri» continuò il ragazzo. «Puoi virtualmente far fare di tutto a chiunque tu voglia, con abbastanza allenamento».
«Ah, non vedo l’ora di essere abbastanza potente da spingere al suicidio i miei amici» ironizzò. Luke strinse i pugni.
«Sto solo cercando di aiutarti».
«Beh, non funziona!» scattò la ragazza, quasi ringhiando. «Non funziona perché sono in una situazione di merda da cui non c’è via d’uscita!».
Luke restò in silenzio.
«Stan vuole che ti alleni con i poteri, e poi vada al clan delle Sette Chiese».
Luce boccheggiò.
«C-Così presto?» balbettò, spalancando gli occhi. Luke non la guardò nemmeno.
«Vado a prendere una boccata d’aria» mormorò, ancora scosso dal tentativo d’ipnosi.
Luce si chiuse nel silenzio: non poteva seguirlo, in quanto era pieno giorno e fuori c’era fin troppo bel tempo per essere a fine novembre.
Quando Luke uscì, smise di fingere di essere viva per qualche minuto: non respirò, non si mosse, e si lasciò cadere sullo schienale del divano come una bambola rotta, inerte e con gli occhi vitrei. Qualsiasi ricordo, qualsiasi pensiero, qualsiasi idea venivano assorbiti dalla calma ovattata che c’era nella sua mente, e che la riempiva come cotone in un peluche, tanto da sbordare e sbavare nella vita reale, in un modo che non comprendeva. Si sentiva pesante, e lenta, come fosse intrappolata nella resina che andava solidificandosi, come una specie di insetto gigante nell’ambra.
Non si riscosse nemmeno quando Luke rientrò, ore ed ore dopo: era quasi tramontato il sole, e le allungò le due sacche di sangue della giornata senza parlare; ma lei non si mosse.
«Luce?».
Non rispose.
«Sei arrabbiata?».
Non rispose.
«Mi dispiace per… averti urlato contro».
Ancora non rispose e nemmeno lo guardò, persa nel vuoto che percepiva in se stessa.
«Sono andato allo sgambatoio, credi che un animale domestico ti aiuterebbe? Un gattino, o un cane?» chiese gentilmente, e Luce batté le palpebre. Prese un respiro. Poi un altro.
«No» mormorò. «Credo… credo di dover andare in terapia» mormorò, dandogli dunque ragione. Luke si morse il labbro.
«Per quale ragione te ne sei convinta?».
«Io… ho fatto qualcosa di imperdonabile, oggi. Eppure tu non solo non sei fuggito maledicendomi, ma mi hai… mi hai persino portato il sangue dall’ospedale. Non capisco. Ti vuoi così male da restarmi accanto?».
«Ehy. Ehy» mormorò Luke, chinandosi su di lei e accovacciandosi vicino al divano. «Non mi voglio male. Restarti accanto non è un’auto-tortura. È un piacere e un onore. Sei solo… un po’ smarrita, al momento. Vedrai che le cose andranno meglio».
Luce lo guardò fisso negli occhi, cercò di far sì che ci fosse un interruttore con il quale attivare i poteri ipnotici, e lo spinse per accendere il tutto.
«Luke, tu mi vuoi bene. Ma per questo, devi lasciarmi perdere. Puoi vivere qui, ma non vuoi più che io mi nutra da te. E questo lo pensi tu. Perché non sei la mia sacca di sangue. Ripeti ciò che hai capito, ora» disse piano, un po’ triste.
«Non sono la tua sacca di sangue… devo lasciarti perdere. Non ti nutrirai più da me» borbottò Luke, e Luce spense l’interruttore, mordendosi le labbra. Luke batté le palpebre e la fissò a lungo.
«Ti aiuterò a trovarne uno bravo».
«Spero di sì».
 
 
Era il terzo psicoterapeuta che aveva scelto ad essere quello buono; i primi due non capivano la necessità di ricevimento in ore notturne, prima di tutto, e come seconda questione non capivano la sua rabbia e il suo odio verso i vampiri… soprattutto considerato che lei era una di loro, ai loro occhi.
Il terzo psicoterapeuta era un vampiro. Luke ci aveva messo due settimane a convincerla ad andare da lui. Il dottor Gentili era un uomo distinto, di aspetto sulla trentina, con i lunghi capelli raccolti in una crocchia tenuta ferma da una penna. Ogni tanto si grattava il mento, specialmente se era impensierito. Luce ignorava quanti anni avesse in realtà, ed era impossibile dirlo.
«Allora, signorina Del Mar. Come mai ha pensato di rivolgersi ad uno psicoterapeuta?».
«Io… in realtà me l’ha consigliato un amico. Era preoccupato per me».
«È un grande passo, ammettere di aver bisogno di aiuto. Cosa la affligge?».
Luce prese un respiro e scosse la testa, fissando negli occhi il dottore, che mantenne lo sguardo.
«Sono un vampiro».
«E?».
«Ed ero, anzi, sono ancora una cacciatrice di vampiri».
Il dottore inarcò le sopracciglia.
«Lo è ancora? Può spiegarmi meglio la situazione? Mi sembra un conflitto di interessi piuttosto singolare, in effetti… non dev’essere facile destreggiarcisi».
«È impossibile. Più passa il tempo più mi rendo conto di essere arida, cattiva e pericolosa per chi mi sta accanto… proprio come credevo che fosse per i vampiri. Solo che non ero pronta a… a questo tipo di sofferenza. Non ero pronta a morire per la mia vendetta».
«Vendetta…» mormorò il dottore, annotando qualcosa sul proprio block-notes. «Di cosa stiamo parlando, esattamente?».
«Quando… quando ero piccola» mormorò Luce. «Io e il mio migliore amico, Samuel, stavamo giocando in un parco. Era quasi sera ma il nostro era un quartiere tranquillo, e in più eravamo letteralmente dietro l’angolo rispetto a casa mia, quindi… quindi eravamo soli. Avevamo dieci anni» se fosse stata ancora viva, Luce avrebbe tremato; ma l’unica cosa incerta in quel momento era la sua voce: ciò che stava raccontando non l’aveva mai detto a nessuno, eccetto che a suo padre. «Un uomo si accostò con l’auto al parchetto, scese dalla parte del guidatore e afferrò Samuel per la testa, come fosse una bambola, come se non pesasse nulla. Mi ricordo ancora…» si interruppe, la voce le morì in gola, e il dottor Gentili annuì ad occhi chiusi.
«Si prenda tutto il tempo che le serve. Se non vuole continuare a parlarne, lo capisco. Dev’essere stato terribile per lei, una bambina, subire un trauma del genere».
«Quell’uomo – anzi, no: quel vampiro – lo ha dissanguato in neanche cinque minuti. Mi sono sembrate ore, ero paralizzata, avrei voluto scappare, urlare, chiedere aiuto – ma non ho fatto nulla di tutto ciò. Non… Non lo so se mi avesse ipnotizzata, o altro… so solo che alla fine mi ha scompigliato i capelli e mi sono ripresa solo quando se n’è andato. Per terra c’era un biglietto da visita, che ho custodito gelosamente per anni, e che forse gli era caduto dalla tasca della giacca. Non lo so. Comunque ho iniziato a meditare vendetta molto presto. Ho finito le scuole superiori e ho passato due anni praticamente sempre in palestra e al poligono di tiro con mio padre, in modo… sa… poi ho chiesto la licenza internazionale per diventare una cacciatrice di vampiri. E a vent’anni, una volta ottenuta, sono andata negli Stati Uniti, dove avrei dovuto rintracciare quel figlio di puttana» disse tutto d’un fiato, e l’uomo annuì.
«Capisco. Ha affrontato il trauma come meglio credeva, e questo le fa onore. Altri non avrebbero avuto la stessa forza».
Luce lo fissò, un po’ avvilita. Non le piaceva parlare di “trauma”, quello che era successo a Sam era solo… una cosa ingiusta. Ingiusta e crudele. E lei non aveva spazio in quel lutto, solo la famiglia di Samuel ne aveva il diritto.
«Mi perdoni per ciò che sto per dirle, ma… credevo lo sapesse. È scritto pressoché ovunque nel mio sito online, sul sito in cui si prendono gli appuntamenti e persino sul mio biglietto da visita» disse piano il dottore, cauto. Luce affilò lo sguardo.
«Sì, lo so che lei è un telepate. So che rientra nel corredo di poteri che un vampiro può sviluppare. Mi sono informata, prima di venire qui» disse secca. «Mi auspico che ciò serva a risolvere i miei problemi, e non che si parli solo di traumi e queste stronzate varie da psicologia new-age».
Il dottore si concesse una breve risata divertita, e scosse il capo, sollevato.
«Oh, no. Ovviamente non mi permetterei mai di violare la deontologia professionale e immergermi nella sua mente senza il suo consenso. Eppure c’è un pensiero che mi ha colpito, il “diritto” al lutto» disse calmo, e scrisse qualcos’altro sulla pagina del block-notes dedicata a Luce. «Lei crede davvero che un evento così traumatico, per di più accaduto ad una persona a lei molto cara – dopotutto l’ha definito lei stessa il suo “migliore amico” –, non le dia in qualche modo il diritto di stare male? Il diritto di prendersi del tempo per elaborare l’accaduto?».
«Stiamo parlando dello stesso evento? Perché ormai son passati dieci anni e più, forse pure quindici, e diciamo che il tempo per elaborarlo c’è stato» osservò Luce in cagnesco, poi scosse la testa. «Non sono qui per parlare di Sam» concluse.
Il dottor Gentili tamburellò piano la penna sul quaderno, poi annuì.
«Capisco. Di cosa vorrebbe parlarmi, dunque?».
«Dell’essere un vampiro. Mi fa schifo. Sono sempre più distaccata dai sentimenti positivi e mi sembra di stare affondando in un baratro sempre più grosso e oscuro, e mi sembra… anzi, no, sono sicura che non ci sia una via d’uscita per me».
«Sembrerebbe un sentimento molto negativo, da come lo descrive. Può elaborarlo in maniera più chiara?».
«È che i vampiri mi fanno schifo. Senza offesa, dottore, trovo lodevole che lei si sia realizzato e aiuti gli altri, ma io… io non riesco proprio ad accettare l’idea che lei, in quanto vampiro, lo faccia senza ulteriori secondi fini».
L’uomo rise di gusto, anche se non in modo sguaiato, poi si grattò il mento con fare incerto.
«Apprezzo l’onestà, ma le assicuro che non ci sono doppi fini di sorta nella mia professione, a parte ovviamente il vile danaro per il quale vendiamo il nostro tempo. Tutto il resto è genuina voglia di essere utili a qualcuno: la veda così, se le fa piacere».
Lo psicologo si interruppe, poi disse schietto:
«Ascolti, Luce: so che per lei i vampiri sono inerentemente cattivi, malvagi, senza emozioni; ma le assicuro che non è così. Si guardi: è un vampiro da due anni, e nonostante ciò prova ancora emozioni fortissime che la legano ai suoi genitori, ai suoi fratelli e a sua sorella, e sono emozioni positive! Come può un essere cosidetto “senz’anima” provarle ancora?» chiese, leggendole dentro tutto ciò che non voleva ammettere. Luce si ritrasse, ferita.
«Non vale, così» mormorò scossa. «Non può leggermi l’inconscio come se fosse il giornale del mattino con le strisce umoristiche. Non… non è giusto» balbettò. Il dottor Gentili le dedicò un sorriso sornione.
«Però rifletta su ciò che le ho posto davanti. Non cambi argomento, e se proprio non ne vuole parlare, almeno sia sincera su ciò che prova e non prova».
«Io mi sento solo vuota e piena di rabbia e odio, dottore. Tutto qui».
«E non è qualcosa che provava anche da viva, Luce?» il vampiro inarcò un sopracciglio, e Luce deglutì a fatica le parole che voleva urlargli. Perché convincerla che poteva provare delle emozioni reali che non fossero negative? Perché quell’uomo ci teneva così tanto a dimostrarle che tutto ciò che sapeva sulla sfera emotiva dei vampiri era sbagliato?
«Lei sta mentendo a se stessa, e forse ci vorrà del tempo prima che lo ammetta. Ma l’importante è essere chiari sin da subito: non ammetto le bugie in questo studio».
«E come potrebbero mai essercene? Al minimo accenno di incertezza legge la mente e passa la paura» ringhiò Luce, poi scosse la testa e si portò una mano alla tempia, tamburellandoci le dita su. «In ogni caso sono qui anche perché… da quando sono tornata in Italia mi sono fatta un solo amico, Luke, e neanche un mese e mezzo fa ho tentato di ammazzarlo; in più, due settimane fa circa, stavamo allenando i miei poteri ipnotici e… io non ci ho riflettuto, lo giuro, non avrei mai voluto che si facesse del male, ma…» iniziò a balbettare, e cercò di ricostruire una frase di senso compiuto nella propria testa, ma quel vuoto ovattato rischiò di inghiottirla ancora.
Il dottore alzò appena il mento e la guardò, poi mormorò:
«Capisco».
No, non capiva; perché mai avrebbe dovuto dire al suo unico amico di ammazzarsi lì, seduta stante? Perché avrebbe dovuto fare una cosa così meschina e crudele? Luke aveva ragione ad essersi incazzato, aveva ragione ad essere uscito lì dove Luce non poteva seguirlo, e avrebbe avuto ragione anche se avesse deciso di andarsene da un momento all’altro: starle vicino era diventato un gioco troppo pericoloso, per lui.
«Ha considerato i sentimenti di questo amico, Luke?» chiese il dottore ad un certo punto, interrompendo quel vortice di pensieri negativi.
Luce batté le palpebre.
«In che senso?».
«Questo Luke mi sembra un po’ più di un amico, Luce» suggerì, e Luce scosse la testa.
«Non siamo nulla più di quello».
«Ma ne avete parlato?».
«Io… no, non ne abbiamo parlato. Cosa ci sarebbe di cui parlare? Non c’è niente fra di noi».
«Eppure convivete».
Luce aprì la bocca, poi la richiuse.
«Ha una famiglia complicata. Lo ospito da un po’. Tutto qui».
«Un mese e mezzo di convivenza con un licantropo non dev’essere semplice. Cosa la spinge ad affrontare una cosa del genere, se fra voi c’è solo una buona amicizia?».
«Dio» espirò Luce. «Io non lo amo mica».
«Ma forse lui sì. Ha pensato a questa eventualità?».
La mente di Luce in quel momento si svuotò del tutto, e lei non seppe né cosa dire né cosa pensare. L’eventualità di essere amata era… semplicemente spaventosa. Soprattutto nelle condizioni in cui si trovava.
«Devo… devo troncare tutto» balbettò. «Prima che lui ci resti troppo male».
«E lei non ne soffrirebbe, invece?».
«Me la so cavare da sola» ribatté lei, fredda.
«Non era questa la mia domanda» le fece notare lui gentilmente. «Non ne soffrirebbe, Luce?».
La ragazza si portò entrambe le mani alla testa, poi sul viso, infine le abbassò e chiese titubante:
«Quanto tempo ci resta, dottore?».
«Una buona mezz’ora» la informò lui senza distogliere lo sguardo per guardare l’orologio.
«Non… non voglio parlare di Luke».
«Eppure ha portato lei in ballo l’argomento. Mi dica… perché pensa di non poter essere amata?».
«Perché sono un cazzo di vampiro! Ma poi, proprio da un licantropo? Non eravamo nemici mortali?» sbottò.
Il dottore sorrise appena.
«Quindi i vampiri non possono essere amati?».
«No».
«E questo chi l’ha deciso?».
«Io. L’ho deciso io. Perché i vampiri fanno schifo, si approfittano del proprio carisma per fare del male agli altri».
«Come ci ha tentato lei?».
«Sì, precisamente. Dai un briciolo di potere a qualcuno e lo vedrai fare cose veramente cattive» asserì con convinzione.
«Che ne dice di destrutturare queste sue… opinioni? Non deve farlo da sola, sia chiaro… Io la aiuterei per ciò che posso».
«A che pro?» chiese, genuinamente curiosa.
«Vivere meglio la sua nuova condizione, ad esempio. E accettare aiuto e conforto dagli altri. Perché lei, Luce, se lo merita. Non in quanto vampira, ma in quanto persona».
Luce si bloccò. Fissò il terapista per qualche secondo, senza sapere cosa ribattere. Non le piaceva non sapere cosa rispondere a quelle affermazioni, perché forse, sotto sotto, sentiva di non meritarsi quel tipo di attenzione. Ma non avrebbe mai potuto ammetterlo ad alta voce, e sperò semplicemente che la telepatia del vampiro di fronte a lei facesse il suo dovere.
«Abbiamo ancora qualche minuto. C’è qualcosa che vorrebbe dirmi per la prossima seduta?» chiese gentilmente l’uomo, e Luce si strinse nelle spalle, un po’ impacciata.
«Posso risolvere qualcosa, venendo una prossima volta?» chiese titubante.
«Oh, molto si può risolvere con un terapeuta che risuoni con lei. Mi chiedo se io lo sia».
«Lo è, al punto che mi è antipatico» ammise la ragazza a disagio, e il terapista rise piano: aveva una risata flautata, leggera, e Luce sospirò: sì, quello era il terapista giusto – forse.
«Ne sono lieto. Se per lei va bene e non ha problemi di natura economica, le suggerirei di iniziare con una, se non due, sedute a settimana. Poi si diraderanno con il tempo, finché ne avrà bisogno, ma per il primo periodo mi piacerebbe che ci vedessimo il più spesso possibile».
«Non ha altri clienti?» chiese Luce stupita. «Intendo… come può trovarmi posto addirittura due volte a settimana?».
«Purtroppo non solo i vampiri non ispirano fiducia agli umani e alle altre creature, ma i telepati ancor meno. Quindi no, non ho molti altri clienti da ascoltare ed aiutare, tanto meno vampiri come noi. Mi farebbe piacere vederla sabato notte, se per lei può andar bene».
«Riceve solo in orari serali e notturni, giusto? Può essere un problema per la maggior parte della popolazione che dorme di notte, direi» osservò, e il vampiro sorrise appena.
«Immagino di sì».
«Sabato va bene. A che ora?».
«Diciannove e trenta. E venga con Luke: mi farebbe piacere conoscerlo, anche se non parteciperà alla seduta, ovviamente».
Luce sorrise tesa.
«Farò quel che posso» disse alzandosi. Una volta sulla porta, parve ricordarsi qualcosa. «Dottore… lei conosce il clan delle Sette Chiese?».
«Certamente. Vuol sapere qualcosa in particolare?».
«Lei di che clan fa parte?».
«Oh, io… personalmente ho fatto parte in passato del clan dei Sette Segreti, era e rimane il più rinomato in città, nonché il più potente. Ma me ne sono allontanato quando ho iniziato a far di questa professione la mia vita» spiegò, inarcando il sopracciglio, poi scosse piano il capo. «Non so cosa lei abbia in mente ma non accettano vampiri che abbiano meno di cinquant’anni di non-vita alle spalle».
«Sì, lo so, è… è per questo che vorrei entrare in quello delle Sette Chiese».
«Mi sembra sensato. Sa già a chi rivolgersi?» chiese, con fare quasi disinteressato.
«Non proprio».
Il dottore scarabocchiò il retro di un proprio bigliettino da visita, riportando un nome e un numero di telefono.
«Chiami e chieda di Giosuè. Le illustrerà ciò che c’è da fare e i requisiti per entrare a far parte del Clan».
«Posso farle una domanda personale, dottore?».
«Non le posso assicurare che possa risponderle, ma… mi dica pure».
«Quanti anni ha lei? E da quanto è un vampiro?» chiese curiosa, e lui sorrise.
«Ho 237 anni, Luce. E sono un vampiro dai miei trentadue anni».
Soddisfatta quella curiosità, Luce alzò una mano.
«A sabato, dottore».
«Arrivederla».

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Capitolo 4
*** Flashback - Ironia ***


IV
!Flashback!
Ironia
 
Luce ansimò e morse il cuscino, trattenendo le lacrime; il bruciore alla spalla ferita era insopportabile e chiudendo gli occhi ebbe la tentazione di perdere i sensi e smettere di resistere, ma un duro nocciolo di orgoglio le fece stringere i denti e a continuare ad artigliare le coperte; Roland che le disinfettava il morso non migliorava decisamente le cose, e la ragazza lanciò un breve urlo gorgogliato quando lui glielo cauterizzò. Lanciò un gemito, restando immobile con i muscoli tesi, e diede un debole pugno al materasso con l’altra mano, sfinita e con i cerchi agli occhi: si sentiva più vecchia di venti anni in una sola notte, ma una rabbia cocente le animava lo sguardo.
«Il veleno, seppure fosse entrato in circolo, dovrebbe essere stato contrastato in tempo» le spiegò Roland, e Luce si tirò a sedere con una smorfia, mentre il ragazzo le fasciava la spalla: i capelli neri, che gli cadevano in morbidi boccoli sulla fronte nonostante li avesse tagliati da poco, ondeggiarono lievemente mentre studiava il grosso morso slabbrato, rosso ai bordi, che spariva lentamente sotto le bende.
«Questa è una buona notizia» osservò Luce, secca, tamburellando le dita sul materasso, e osservando con una fitta di paura nello stomaco la fasciatura che le stringeva la spalla.
«”Dovrebbe”» le fece notare Roland, e Luce affilò lo sguardo. «Fra il covo che abbiamo distrutto e la base ci sono volute comunque due ore d’auto, per cui… tieni conto che devono passare almeno ventiquattro ore dal morso per stabilire se un essere umano è fuori pericolo o meno. E tu non sei umana, hai un metabolismo accelerato».
«Dodici ore è una buona stima?».
«Ni. Possiamo dire che in dodici ore sapremo se sei viva o morta» sorrise appena, e Luce distolse lo sguardo mentre prendeva il borsone che si era portata dietro quella sera: dentro vi erano le lame sporche di sangue nero e blu, il sangue dei vampiri, e prese a pulirle con la delicatezza con cui avrebbe trattato delle amanti, mentre continuava a parlare con l’amico.
«Sono già passate tre ore da quando sono stata morsa, e un’ora da quando ho preso l’antidoto; da qui alla base ci abbiamo messo una mezz’ora per scaricare l’auto e per disinfettare e cauterizzare la ferita… devono passare altre nove ore perché io sia fuori pericolo?».
«Diciamo così. Luce, tieni conto che l’antidoto è sperimentale: potrebbe non funzionare, potresti morire per la reazione chimica con il veleno, potresti… oh, non mi guardare in quel modo» protestò, a disagio, distogliendo lo sguardo, mentre Luce aveva fissato i suoi occhi viola in quelli verdi del ragazzo. Continuò a pulire le armi, meditabonda, e ogni tanto apriva e chiudeva la mano corrispondente alla spalla destra.
«E in queste nove ore come mi accorgerò se l’antidoto ha funzionato oppure…?» chiese, profondamente disgustata dall’idea che stava prendendo forma nella sua mente. Lo sguardo le cadde sulla pistola, una Desert Eagle color argento che aveva acquistato cinque anni prima, al suo arrivo a New York; lentamente, posò sul letto i coltelli in acciaio con la punta rivestita in argento e, con gesti misurati, prese l’arma da fuoco e la caricò con i suoi proiettili speciali ricoperti d’argento colato.
«Beh, se la ferita inizia ad andare in necrosi e poi a guarire completamente, puoi star certa che qualcosa non va» Roland fece un sorriso forzato e Luce gli mise in mano la pistola, una freddezza lucida che rendeva i suoi occhi viola ancora più terribili di quanto non fossero in precedenza.
«Se diventassi un vampiro, sparami qui, in fronte» mormorò, toccandosi in mezzo alle sopracciglia, guardando negli occhi il suo più fidato collega. «Staccami la testa con uno dei miei coltelli e bruciala: disperdi la cenere in un fiume; poi brucia anche il resto del corpo, e disperdi in un altro fiume tutto quanto. Mi hai capito bene, Roland?».
«Non puoi chiedermi una cosa del genere» protestò il ragazzo, pur stringendo le mani sul calcio della pistola, con uno sguardo che sembrava più irritato che spaventato. «Noi due siamo una squadra! Abbiamo dato la caccia ai vampiri insieme per cinque anni! Cinque anni, Luce!».
La ragazza sospirò e si sedette di nuovo sul letto, fissando il pavimento: la spalla le pulsava, viva, anche se non sapeva ancora per quanto.
Era vero: aveva conosciuto Roland sei anni prima, al suo arrivo a New York, e lui l’aveva aiutata ad entrare in contatto con il vampiro che aveva ucciso Sam.
Così, quando Luce aveva compiuto vent’anni era partita alla volta di New York per avere la sua vendetta… E, quando infine l’aveva raggiunta, la ragazza non si era sentita troppo soddisfatta: perché lei si potesse sentire in pace con se stessa, aveva pensato, avrebbe dovuto sterminare l’intera razza di non-morti; da qualche parte nel mondo, un altro vampiro stava sbranando un altro bambino, e il pensiero le era intollerabile… Ragion per cui, si era attrezzata e la caccia era iniziata.
Roland l’aveva aiutata, forse per antipatia verso i vampiri o per simpatia verso di lei, e contattando altri cacciatori di vampiri sparsi per New York erano riusciti a creare una rete di protezione più o meno estesa, con territori divisi equamente e da liberare dalla piaga dei non-morti che si fingevano esseri umani.
Ed ora, quasi per ripicca, il vampiro che Luce inseguiva da ormai due mesi la aveva morsa e, come bonus, approfittando delle proprie ferite, era persino riuscito a farle mandar giù un po’ del proprio sangue; era riuscito anche a scapparle nella confusione, nonostante lei gli avesse sparato ad una gamba con un proiettile d’argento.
Le due ore in auto, mentre il veleno le provocava la tachicardia, erano state le più lunghe della sua vita; le venne spontaneo un sorriso amaro.
«Dalla prossima volta, ci portiamo dietro l’antidoto. Non importa quanto è ingombrante o pesante» disse, alzando gli occhi viola sul ragazzo, alludendo alle ragioni per cui lo avevano sempre lasciato alla base. «Al massimo lo lasciamo in auto, ma almeno ci sono meno rischi» scrollò le spalle, e Roland sorrise appena, annuendo.
«Ti va di giocare e mangiare qualcosa? Nove ore sono lunghe da passare aspettando qualcosa che potrebbe non accadere… se ci distraiamo passeranno più in fretta» suggerì, accendendo la console, e Luce prese il joystick senza sorridere. Giocarono per un paio d’ore, riuscendo persino a scambiarsi qualche esclamazione e un paio di sorrisi, e quando la tensione fu sciolta misero in pausa e mangiarono un po’ di carne prelevata dal congelatore e cotta sulla piastra, velocemente. Prima di riprendere a giocare, Roland controllò la ferita di Luce, svolgendo delicatamente le bende che la avvolgevano: la pelle intorno sembrava più rosea, quasi stesse guarendo, e il ragazzo la toccò, incerto se fosse una cosa buona o meno.
«Allora?» la ragazza lo guardò, impaziente e seccata, e Roland sorrise appena.
«Sta… guarendo» confessò, in tono incerto, e lei affilò lo sguardo.
«Ed è buon segno?» chiese, impassibile.
«Ti ho sempre vista guarire molto in fretta da qualunque ferita, ma… non lo so, Luce. Con il fatto che non sei umana, io… non so se…» esitò, e Luce affilò lo sguardo mentre Roland taceva, imbarazzato.
Senza dire una parola, la ragazza si alzò dal tavolo e andò in bagno con il proprio bicchiere in mano: lo riempì d’acqua, portandolo con sé e poggiandolo sul comodino. Roland la osservò, senza capire, e lei immerse due dita in acqua.
«I vampiri bruciano al contatto con l’acqua e con i raggi del sole, e ogni ora o ogni due ore io immergerò le dita in acqua; appena ci rendiamo conto che al contatto mi ustiono, mi sparerai» disse, con un mezzo sorriso, asciugandosi le dita sulla canottiera. Roland la osservò senza proferire parola, poi scrollò le spalle.
«Per ora, nulla di preoccupante» commentò, porgendole il secondo joystick, e Luce afferrò il primo con un sorriso angelico.
«Casa mia, player uno mio» disse, e Roland fece una smorfia; con dei sorrisetti stampati sul viso ripresero a giocare, giurandosi distruzione a vicenda.
 
Passate tre ore a giocare, Roland era dovuto andare via: stava albeggiando, e lui doveva andare a lavorare; per fortuna di Luce, invece, lei poteva contare sul patrimonio dei genitori a coprirle qualsiasi tipo di spesa, per cui una volta che il ragazzo se n’era andato si era stesa sul letto ad ascoltare il battito del proprio cuore ed era caduta in un sonno leggero ed agitato, popolato di incubi pieni di vampiri deformi e ghignanti.
Quando aprì di nuovo gli occhi, restò a fissare il soffitto con un sorriso ad illuminarle il volto: lo sguardo guizzò sulla sveglia, che segnava chiaramente che erano passate più di dodici ore dal morso, e lei era viva, incredibilmente viva!
Si stiracchiò e si sedette sul letto, ridacchiando, e si diresse in bagno per sciacquarsi il viso; si chiese cosa ci fosse da mangiare di già pronto in frigo, mentre si scioglieva il bendaggio e si rimirava la spalla dalla pelle scura e intatta, con solo una sottile e leggera slabbratura più chiara a simboleggiare che lì una volta c’era una ferita grondante di veleno. Pur vedendo la ferita completamente guarita, Luce si rese conto che le mancava qualcosa; la sensazione persisteva, nonostante non riuscisse a capire cosa fosse quella mancanza che avvertiva. Scosse il capo, cercando di scacciare quella sensazione, e si buttò l’acqua sul viso; boccheggiò: il freddo divenne caldo, ed urlò di dolore, mentre arretrava precipitosamente e cadeva a terra. Chiuse gli occhi, tentando di respirare, e il terrore si fece strada nel suo petto, lì dove percepiva con chiarezza che mancava qualcosa. La sua mente si svuotò, piena solo di orrore e della stessa sillaba ripetuta all’infinito.
“No, no, no, no, no, no, no, no, no, no, NO!”.
Si alzò lentamente dall’angolo del bagno in cui si era rannicchiata, mentre l’acqua continuava a scorrere nel lavabo, e si guardò le mani ustionate che, lente ma costanti, si ricostruivano e ritornavano come prima; sentì le lacrime pizzicarle gli occhi, mentre chiudeva il rubinetto e sollevava lo sguardo sullo specchio d’argento che aveva comprato in un negozio antiquario tempo prima: ciò che poté notare furono i suoi occhi viola, spenti, che sembravano biglie; la pelle era terrea e smorta, e i capelli avevano perso lucentezza… in breve, era un cadavere.
Luce arretrò: si sentiva un nodo in gola, e fu a fatica che si ricordò che nell’armadio, un semplice due ante Ikea, c’era uno specchio d’alluminio; si precipitò nel monolocale e spalancò l’anta del mobile con rabbia, portandosi le mani al viso e guardandosi: una Luce normale, forse un po’ più adulta rispetto alla ragazza che era partita per New York, ricambiò il suo sguardo: le sue iridi viola erano cerchiate di un rosso chiaro, confondendosi però con il suo colore di occhi naturale, quell’inumano viola ametista; i capelli bianchi sembravano aver acquisito lucentezza propria, quasi brillassero d’argento – il massimo dell’ironia –; e la sua pelle, prima semplicemente scura, ora sembrava unta d’olio, brillando di una luce quasi dorata.
La ragazza restò a guardarsi, ammaliata e al tempo stesso disgustata: quella non era lei. Lei era il cadavere che aveva visto nello specchio d’argento, e presto avrebbe anche iniziato a puzzare, probabilmente, una puzza di morte che gli esseri umani avrebbero scambiato per un odore irresistibile: faceva parte del corredo da predatori dei vampiri.
Richiuse l’armadio, sentendo un sapore amaro in bocca, raggiunse il telefono cellulare che era ancora chiuso in una tasca del borsone: con rapidi gesti secchi compose il numero di Roland e, quando lui gli rispose, gli disse con voce fredda: «Chiedi un permesso da lavoro. Te lo pago io. Devi fare una cosa per me».
Senza dargli il tempo di rispondere, attaccò e si affrettò a scrivere un biglietto, lasciandolo sul tavolo: “Sono parte del problema”. Afferrò la Desert Eagle dal comodino e se la puntò alla tempia, chiudendo gli occhi e sentendo la struggente mancanza del battito del proprio cuore che, assente, le riempiva il corpo di un silenzio attonito ed incredulo.
E, proprio mentre stava per premere il grilletto, Roland aprì la porta; vedendola in quel modo, ci mise una frazione di secondo a balzarle addosso con gli occhi spiritati e a sbraitarle contro, strappandole la pistola dalle mani fredde.
«Ma sei pazza!? Che diavolo ti prende!?».
«Che sono morta, Roland! Sono fottutamente morta!» ringhiò la ragazza, liberandosi di lui con un gesto brusco e scostandolo di lato, allontanandosi da lui rabbiosa come un animale in gabbia: improvvisamente, Roland aveva un odore vivo, sinuoso, che le si insinuava nel naso e nel petto accendendo un fuoco rovente che le faceva venire l’acquolina in bocca, ma a lei l’orrore seccava la gola. Gli fece un cenno verso la pistola, con gli occhi viola che brillavano implorando pietà.
«Sparami. Sparami, Roland. Ti prego».
Il ragazzo scosse il capo e mise la sicura, limitandosi a tirare fuori il cellulare e a comporre un numero, ma Luce glielo prese dalle mani e mise il ricevitore sul seno, coprendolo.
«È proprio necessario?» sibilò, a denti stretti, e lui ricambiò con uno sguardo penetrante.
«Esiste un codice da seguire, in questi casi» rispose lui, deciso. «E dobbiamo rispettarlo».
«Pronto?» una voce profonda rispose dal telefono, e Luce prese un sospiro.
«Stan, sono Luce».
«C’è qualche problema?» chiese, con la formula di rito, e Luce chiuse gli occhi.
«Sono parte del problema» mormorò, e un lungo silenzio seguì quell’affermazione, dall’una e dall’altra parte.
«Hai due scelte» mormorò infine l’uomo. «Consegnarti, o continuare».
«Continuare?» sussurrò Luce, sbattendo le palpebre.
«Non possiamo andare avanti alla cieca, penetrando in localizzi da dieci individui o poco meno… già da qualche tempo cercavamo alleati fra i loro membri più deboli, senza successo. Ma tu, essendo nuova del loro giro, potresti infiltrarti senza problemi e, una volta effettuata una breve scalata nei loro ranghi… portarli in crociera».
Portarli in crociera: ucciderli tutti, in quel caso dall’interno; a Luce formicolarono le dita di eccitazione e sorrise tesa sotto lo sguardo attento di Roland, mentre sentiva una quieta sete di vendetta ribollirle nello stomaco.
«Non… non sarebbe più sicuro se mi consegnassi?» mormorò, nervosa, e Stan sospirò dall’altro capo del telefono.
«Cambierebbe qualcosa, se tu ti consegnassi fra un anno o due?».
«Consumerei delle vite nel frattempo» sussurrò Luce, sentendosi un nodo in gola al solo pensiero.
«Possiamo procurarti vie alternative, e lo sai».
Luce esitò e Stan sospirò di nuovo.
«Sei una di noi, Luce, non una di loro. Ucciderti sarebbe difficile per chiunque di noi, sei come una figlia» le disse dolcemente, e Luce chiuse gli occhi, pur provando puro disgusto per la creatura che era diventata.
«Continuo» mormorò, e poté quasi sentire Stan sorridere dall’altro capo del telefono.
«Bene. Dopodomani ci sarà una riunione e delineeremo un piano, discutendo il tuo ruolo nello stesso. Ora passa il telefono a Roland, devo dargli delle istruzioni precise per quanto ti riguarda».
A malincuore, Luce passò il cellulare al ragazzo e si avvicinò al letto, prendendo con attenzione quasi spasmodica l’innocuo bicchiere d’acqua dal comodino e buttandolo nel lavandino con attenzione; la ragazza osservò l’acqua andare giù sulla ceramica, trovando affascinante che una cosa che prima era così innocua e necessaria alla sua sopravvivenza ora fosse così intoccabile e pericolosa.
«Luce» la chiamò Roland, e lei lo raggiunse tesa.
«Roland» mormorò, e il ragazzo sorrise appena.
«Ecco come stanno le cose:» iniziò l’amico, camminando avanti e indietro per la stanza. «ti affideremo dei documenti falsi che attestano che sei anemica, e che per questo motivo hai bisogno di continue trasfusioni; tuttavia la tua pelle è anche molto fotosensibile, per cui verrà un infermiere qui a casa tua o dove meglio desideri, e potrai utilizzarlo come meglio ti… ehm… come meglio vorrai» disse, e sembrava avere la gola secca. Luce si sedette sul limite del materasso e tamburellò le dita sul copriletto, sentendo la testa scoppiarle di domande.
«Posso bere… altro?» chiese, esitante, e Roland sorrise.
«Qualunque cosa, tranne l’acqua».
«Almeno una buona notizia» mormorò, occhieggiando il mobile bar stracolmo di liquori e alcolici vari, e Roland ghignò.
«Certo, beh, sarà un problema per lavarti» ridacchiò, e Luce affilò lo sguardo, poi realizzò che l’acqua le era preclusa e scattò in piedi, disperata.
«No! Come diavolo farò a fare le mie interminabili docce calde?» si sentiva sull’orlo delle lacrime, ma Roland sembrava parecchio divertito.
«Mai sentito di quelle contesse accusate di vampirismo che facevano il bagno… nel sangue di ragazze vergini? O nel latte d’asina?» ghignò, e Luce gli lanciò contro un paio di cuscini, per niente divertita.
«Idiota! Io ho bisogno di lavarmi! È una questione psicologica!» esclamò, infuriata, poi come un’onda di marea che si ritira si limitò a sedersi sul tappeto, corrucciata. «Non voglio essere morta. Non ero pronta. Amavo sentir battere il mio cuore» sussurrò, sentendo gli occhi pizzicare, e Roland le batté una mano sulla spalla, impacciato.
«Tecnicamente, potrai ancora sentirlo… se ti nutri abbastanza e abbastanza spesso».
«Non ho alcuna intenzione di rubare trasfusioni a chi ne ha davvero bisogno» ribatté Luce, contrariata, e Roland sorrise dolcemente.
«Non tutte le sacche di sangue che vengono prelevate vanno bene per le trasfusioni: a volte si scopre che i donatori hanno mentito e che avevano malattie metaboliche, o altri tipi di condizioni a cui ora tu, essendo una non-morta, sei completamente immune… stai facendo un grosso favore alla comunità, così il sangue non utilizzabile non deve essere smaltito in modi inquinanti».
Luce sorrise rincuorata, e poi osservò il ragazzo con espressione triste.
«Che ironia» mormorò. «Sono finita per diventare ciò che più voglio distruggere al mondo».

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Capitolo 5
*** Rabbia ***


V
Rabbia
 
«Devo imparare a nascondere i miei pensieri» annunciò Luce scontenta, rientrando in casa; ma Luke non poteva sentirla, non quel sabato notte.
Allarmata dalla mancata risposta dell’amico, Luce sondò l’appartamento: era in perfetto disordine, come al solito durante il weekend, in attesa che il lunedì arrivasse la signora di servizio per pulire gli ambienti comuni di casa.
Un uggiolio come di un cane bastonato provenne dalla camera di Luke, e Luce si tolse le scarpe con calma prima di dirigersi lì. Trovò Luke trasformato in lupo; era un lupo molto più grande di un animale normale, e occupava pressoché tutto il letto matrimoniale mentre la fissava con gli occhi scuri che conosceva così bene. L’ultima volta aveva preferito trasformarsi fuori di casa, per non rischiare di farle del male, e così Luce poteva dire di non averlo mai visto in quella forma. Avrebbe parlato, oppure non poteva farlo? Si doveva nutrire? Avrebbe dovuto cacciare? Ne sapeva così poco che quasi si vergognò.
«Che succede?» mormorò, e il suo sguardo cadde quasi in automatico sul calendario, su cui dei giorni erano cerchiati in quanto i giorni di trasformazione: quel sabato non era fra questi. «Non avresti dovuto… non oggi, comunque. Non mi aspettavo di trovarti così. Vuoi uscire?» chiese gentilmente, deglutendo e sperando che il lupo non fosse ancora del tutto confuso dalla trasformazione.
Lui uggiolò ancora e scese dal letto, incapace di parlare, e le leccò il viso senza neanche mettersi in piedi, limitandosi invece ad allungare il collo. Luce ridacchiò e si guardò intorno: come avrebbe dovuto portarlo fuori? Era un animale che la capiva, o dentro quel corpo c’era effettivamente Luke con tutta la sua personalità e comprensione? Avrebbe avuto bisogno di collare e guinzaglio oppure l’avrebbe seguita senza remore, obbedendo anche ai suoi comandi? Che roba complessa.
«Allora… Non vedo guinzagli qui e ne sono lieta, a dire il vero, perché penso che sarebbe umiliante portarti a spasso come un cane. Sbatti le palpebre due volte se mi capisci, non fare niente se invece non mi capisci» gli ordinò, corrucciata. Il lupo lasciò cadere la lingua fuori dai denti, ansimando, e batté obbediente le palpebre un paio di volte, inarcando poi un sopracciglio pieno di vibrisse mentre la fissava in attesa.
«Okay… va bene. Mi starai accanto quando usciamo? Ti porto fuori Bologna, in un bosco o qualcosa del genere. Dovrai aspettare un po’».
Il lupo iniziò a scodinzolare fortissimo, si sedette, poi fece un giro su se stesso, irrequieto, infine restò a fissarla scodinzolante, ancora in attesa.
«Non prendo l’auto da un po’, quindi non ti lamentare se guido… beh, da cani» rise Luce, e il lupo smise immediatamente di scodinzolare, fissandola serio.
«”Non è divertente, gne gne gne”» lo imitò Luce, muovendo la mano come fosse lei a parlare, e il lupo si diresse alla porta d’ingresso, irrequieto.
Il viaggio in auto fu silenzioso, in quanto Luce non aveva molta voglia di parlare dopo la seduta dal dottor Gentili; quando giunsero al parco dei cedri, Luce aprì semplicemente la portiera dell’auto e lo lasciò correre libero nei boschi che correvano lungo il fiume, sperando potesse sfamarsi con qualche lepre o carpa, a caso. In quanto a lei, si sedette sul tettuccio dell’auto e si accese una sigaretta dopo l’altra, frugando nella borsa per buttare le cartacce nel cestino prima di andarsene; incappò nel biglietto da visita scarabocchiato dallo psicologo, ed esitò. Poi tirò fuori il cellulare e compose il numero.
«Pronto? Chi parla?» chiese una voce femminile al di là della cornetta.
«Ehm, salve. Cerco Giosuè».
«Un momento».
Partì una musichetta classica sgranata e semi-irriconoscibile, finché Luce non colse alcune note: era “La primavera” di Vivaldi.
«Pronto? Chi parla?».
«Salve. Lei è Giosuè?».
«Sono io. Cosa posso fare per lei?».
«Mi chiamo Luce. Sono… sono un vampiro da meno di tre anni, volevo… volevo sapere se fosse possibile entrare nel clan delle Sette Chiese».
Silenzio per qualche secondo, poi rumore di fogli di carta.
«Guardi, posso darle un appuntamento per valutare la sua situazione e vedere se possiamo ammetterla al clan. Mi dà per favore i suoi recapiti e il numero della sua carta d’identità? Nel caso sia straniera extra-europea, va bene anche il passaporto» disse, intuendo erroneamente dall’accento che Luce rientrasse in quest’ultimo caso.
Luce frugò nella borsa, mentre diceva: «Solo un momento…». Dettò all’uomo il proprio numero di telefono, poi le altre informazioni richieste, deglutendo a fatica, e infine Giosuè le riferì:
«Lunedì alle 20:45, ci vediamo in un luogo pubblico: il bar delle Sette Chiese. Ci saremo io e la mia segretaria. Lei può portare eventualmente qualcuno, se la può aiutare a sentirsi più al sicuro».
«Come… come sono i rapporti del clan con i licantropi?» chiese Luce, titubante.
«Non siamo in guerra con loro, se è questo che vuol sapere. Non siamo in ottimissimi rapporti con i branchi bolognesi, ma non disprezziamo il mutuo aiuto ogni tanto» la informò l’uomo.
«Okay. Mi porterò dietro un mio amico. È un licantropo».
«Vi aspettiamo lunedì. Mi stia bene».
E detto questo attaccò.
Luce lasciò uscire tutta l’aria che aveva conservato nei polmoni fino a quel momento, e vide tornare di gran carriera il lupo che aveva sguinzagliato nel parco; aveva una lepre fra le fauci, morta stecchita, e quando raggiunse l’auto il lupo si accovacciò sotto la portiera e iniziò a mangiarsela con calma: aveva il muso già sporco di sangue, segno che aveva già predato qualcos’altro, ma dall’odore Luce riuscì ad intuire che si trattava comunque di un qualche tipo di animale e non, per fortuna, un povero cristo uscito per dello jogging notturno.
«Ho contattato il clan delle Sette Chiese. Spero abbia un programma di scambio con gli altri clan, tipo l’università» mormorò, diretta al suo amico, ma lui non diede segno di averla sentita o, quantomeno, ascoltata. Finì la lepre con calma, ingoiando le ossa pressoché intere, e quando ebbe concluso il pasto guardò Luce in attesa, soddisfatto, leccandosi i baffi.
«Non so neanche se puoi capirmi».
Il lupo la fissò in silenzio.
«Il dottor Gentili crede che tu sia innamorato di me. È ridicolo, non trovi?» borbottò, a disagio; se Luke avesse ricordato la nottata sarebbe stata fonte di assoluto imbarazzo, ma non avrebbe mai potuto parlargliene mentre era in forma umana. «Nessuno potrebbe mai amarmi, non così» mormorò infine, alzando lo sguardo alle stelle.
Il lupo alzò anch’esso lo sguardo al cielo, e improvvisamente latrò ed ululò; forse si sentiva solo? O era una risposta a ciò che aveva appena detto Luce?
In qualche modo, quell’ululato la calmò.
«Vieni. Andiamo a casa» gli disse, e scese dal tettuccio dell’auto con un salto. Gli aprì la portiera del passeggero dietro, in modo che potesse stendersi come all’andata, e il lupo le leccò una mano prima di salire.
Il viaggio di ritornò fu calmo, e Luce mise l’auto nel garage del proprio appartamento in silenzio una volta tornati a casa.
Il mattino venne troppo presto e, quando Luke uscì dalla propria stanza, il ragazzo era di pessimo umore.
«’Giorno» la salutò bofonchiando, e Luce gli sorrise tesa.
«Ricordi qualcosa di ieri notte?» gli chiese nervosa, e lui si strinse nelle spalle.
«Noi licantropi possiamo capire quello che dici, quando siamo in forma animale; questo non vuol dire che ricordiamo più di qualche flash» le spiegò spazientito, versandosi del caffè. Lei annuì e si grattò la nuca, in imbarazzo.
«Capisco. Volevo solo… chiederti come mai ti sia trasformato con tre giorni d’anticipo. È successo qualcosa… di cui non sono al corrente?».
«Ho incontrato mio padre. Sono andato a casa per prendere dei vestiti, e lui… lasciamo perdere. Avrebbe dovuto essere a lavoro, ma a quanto pare è stato licenziato. Ha ritenuto opportuno prendersela con me» ringhiò, e Luce si alzò dal divano in fretta, per avvicinarsi titubante al ragazzo.
«Posso?» chiese piano, e lui la fissò con gli occhi scuri.
«Cosa?».
«Toccarti. So che ci si sente un po’ di merda dopo una trasformazione, quindi…» mormorò, e lui la guardò corrucciato, poi annuì.
«Puoi».
Luce gli cinse la vita con le braccia, e poggiò la testa sulla sua schiena: ah, avere un cuore che batteva forte e veloce… era una di quelle piccole cose che le mancavano da morire. Restò ad ascoltare il battito di Luke come fosse ipnotico, e il ragazzo sospirò, rassicurato da quell’abbraccio. Poi parve ricordarsi qualcosa.
«Luce… dobbiamo parlare».
Alla ragazza si sarebbero rizzati tutti i peli del corpo, se solo avesse avuto ancora quel tipo di riflessi; invece, si limitò ad interrompere l’abbraccio e a fissarlo interrogativa: scelse di fare la finta tonta.
«Di cosa?».
«Di noi. Di cosa diavolo ci facciamo a convivere se neanche ci baciamo. Mi pare che abbiamo saltato un po’ di tappe, e che ne abbiamo raggiunte altre fin troppo presto».
«Vuoi parlare di… sentimenti? O di tappe obbligate? Non capisco».
Luke sorseggiò il caffè con calma.
«Voglio parlare di sentimenti» chiarì. «Io… io credo di amarti. Di certo sono innamorato, e perso».
Luce si sentì soffocare. Sarebbe stato meschino provare ad ipnotizzarlo fino al punto da fargli credere di non amarla affatto? Nella sua testa era solo una delle opzioni plausibili.
«Io… io non so cosa dire, Luke» mormorò lei, abbassando lo sguardo, colma di vergogna e astio e rabbia. «Non sono nelle condizioni di accettare questo tipo di sentimenti nella mia vita».
Luke si irrigidì a quelle parole, poi si rilassò di nuovo e osservò, mesto:
«Però non dici che non mi ami».
«Per non ferirti» specificò, e Luke la fissò senza capire.
«Luce, preferisco una dura verità rispetto ad immensi giri di parole per evitare il discorso. Sono una creatura semplice. E lo sono ancora di più quando è mattina e mi sono appena ritrasformato in essere umano» spiegò, un po’ spazientito.
«Va bene, d’accordo: non ti amo. Passo del tempo con te perché ti considero mio amico, un amico con il quale ogni tanto si fa qualcosa di diverso, un amico prezioso, ma… pur sempre un amico».
Luke abbassò lo sguardo.
«Non tiro fuori la faccenda della friendzone solo perché è una roba da incel, ma… mi ricordo una cosa che mi hai detto ieri notte» disse piano.
Luce si irrigidì.
«Cosa ti ricordi?» chiese, quasi accusatrice.
«Che nessuno potrebbe mai amarti. Non così» citò quasi testualmente, e Luce arretrò di un passo.
«Contavo che non l’avresti ricordato».
«È buffo, perché non avrei voluto ricordarlo. Quelle parole fanno più male a me che a te».
«E in che modo? Sentiamo».
«Sono la prova vivente che puoi essere amata, perché ti amo così come sei. Non ti ho conosciuta da viva, non mi sono innamorato di te da viva, ma quando eri già un vampiro. Eppure per qualche assurdo motivo tu non ci credi, non credi di poter essere amata, e di fatto invalidi completamente il mio sentire, le mie emozioni, i miei sentimenti».
Luce non riusciva neanche a deglutire tanto era paralizzata dal terrore. Aveva affrontato qualcosa come 400 vampiri, ne aveva ammazzati probabilmente altrettanti, eppure… eppure bastava una singola discussione su dei sentimenti a bloccarla completamente, a farle mancare il respiro, a farla sentire una stupida inetta, inadatta alla vita – beh, era morta; cosa mai poteva aspettarsi se non di essere inadatta alla vita?
«Beh? Non dici niente?» Luke aprì le braccia e Luce arretrò di un altro passo, afflitta.
«Non… non posso ricambiare i tuoi sentimenti, Luke» mormorò. «Non posso. Non riesco. Non sono neanche sicura di riuscire ad amare qualcuno, ora come ora. Non sei tu… è che forse davvero i vampiri non riescono a provare emozioni positive. Forse davvero non posso per via della mia natura. Non ho idea del perché – ma è così».
Luke abbassò le braccia, prese un altro sorso di caffè e poi annuì.
«Cambierebbe qualcosa se ti chiedessi di fare della terapia insieme?».
«No, non cambierebbe nulla» mormorò Luce, affranta. Luke abbozzò un sorriso.
«Spero mi vorrai comunque intorno per un po’… intanto che cerco un altro appartamento, o una stanza, da qualche parte».
«E come pensi di pagartela?».
«Cercherò lavoro, prima».
«Puoi restare qui quanto vuoi. Possiamo fare quello che facciamo sempre: videogiochi, alcol, e erba».
Luke sorrise.
«Mi piacerebbe, ma non so quanto potrei resistere al vederti continuamente. Ho bisogno… di stare un po’ per conto mio».
«Ti infastidirò il meno possibile».
Luke alzò gli occhi al cielo.
«Luce, non si tratta di “infastidirmi”. Si tratta del fatto che… lasciamo perdere» si interruppe da solo, scuotendo la testa.
«Sono tutt’orecchi» cercò di apparire il meno sarcastica possibile; si appoggiò allo schienale del divano e incrociò le braccia al petto.
«Io sono innamorato di te, Luce. Questo vuol dire che se non ricambi, io soffro. E soffrirò continuamente nel vederti, continuamente nell’osservarti, perché è un sentimento che non si può spegnere con un interruttore».
Luce annuì piano, poi le venne in mente qualcosa.
«Cosa ti fa credere di amarmi? Sono curiosa, tutto qui» specificò, prima che lui potesse prendere male la domanda.
«Forse sono io che ho frainteso, ma… il prendersi cura l’uno dell’altra e viceversa, questo è stata una delle prime cose che mi ha fatto affezionare a te».
«Ma se ho tentato di ucciderti due volte, da quando conviviamo!» esclamò la ragazza, stupita.
«Poi il fatto che ti odi con tanta ferocia… mi fa solo pensare al fatto che hai bisogno di qualcuno che sei degna d’essere amata».
«Ho solo bisogno di un bravo psicologo» ringhiò Luce, e distolse lo sguardo da lui. «Forse non è una cattiva idea, che tu vada via».
Luke arretrò di un passo, ferito.
«Quindi… non vuoi più rivedermi?».
«Credevo fossi tu a non volermi vedere più» obbiettò Luce, guardandolo male.
«Non… non pensavo fosse una cosa ricambiata, tutto qui».
«Luke» lo chiamò Luce, e accese nella propria mente l’interruttore per l’ipnosi non appena i loro sguardi si incrociarono. «Ti ho spezzato il cuore. Non mi ami più – anzi, sono l’essere più egoista e cattivo che tu conosca. Proprio per questo vuoi rimanere qui: sono pericolosa per il prossimo, e non puoi permettere che accada qualcosa a qualcun altro. Ti sacrificherai per un bene superiore. Hai capito?» mormorò trafelata, e Luke annuì appena.
«Capito».
«Ora non ricorderai nulla di questa ipnosi. Ma interiorizzerai le mie istruzioni. È chiaro?».
«Chiaro».
Luce spense l’interruttore, e Luke si riscosse come da un sogno ad occhi aperti.
«Penso che rimarrò qui, invece» disse cauto. «Magari un lavoro me lo trovo comunque, in modo da pagarti un affitto».
«Non è necessario che mi paghi l’affitto, sono ricca di famiglia, ricordi?».
Luke annuì e abbozzò un sorriso, poi la osservò.
«Sembri stanca».
«Capita, quando non puoi più dormire».
Il ragazzo si strinse nelle spalle.
«Sicura di non aver usato i tuoi poteri?».
«Quali poteri? Ti ricordo che non sono minimamente dotata per farlo» borbottò Luce, e Luke sorrise.
«Bugiarda».
Luce lo guardò senza fiatare.
«In ogni caso, penso che potresti accompagnarmi lunedì».
«Che succede lunedì?» chiese lui, curioso.
«Ho un incontro conoscitivo con quelli del clan delle Sette Chiese».
Luke sorrise.
«Quindi ce l’hai fatta ad avere un contatto… ottimo. Stan sarà contento» osservò. «Però non me l’hai chiesto».
«Cosa?».
«Se posso, lunedì».
«Perché, hai impegni?».
«No, ma potevo averli».
Luce lo fissò senza capire.
«Non mi vuoi accompagnare?».
«Certo che ti accompagno. Ma potevi anche chiedere, invece di ordinarmelo e darlo per scontato».
Luce sostenne il suo sguardo, e Luke la guardò ferino. Era arrabbiato? Mh.
«Mi dispiace» disse lei lentamente. «Vuoi accompagnarmi, lunedì?».
«Sì, vengo volentieri» disse lui, inarcando un sopracciglio.
Restarono a fissarsi in cagnesco per qualche minuto, poi fu Luke a distogliere lo sguardo per primo e ad aprire il frigorifero.
«Mangi con me, oggi?».
«Sai che non ne ho bisogno».
«So che puoi farlo, però. Mi tieni compagnia?».
«I vampiri non possono digerire, Luke. Non se non sono ben nutriti, come una zanzara troppo piena».
«Dovresti smetterla di paragonarti ad un insetto tanto fastidioso» borbottò lui, e Luce sorrise suo malgrado.
«E perché? È proprio così che la vedo».
«Come va con lo psicologo?».
Luce si irrigidì.
«Bene. Tutto bene».
«Ti sta aiutando?».
«È un telepate. Questo me lo fa stare altamente sul culo, ma… immagino che sia l’unico modo in cui posso aprirmi con qualcuno, dato che tendo a mentire anche a me stessa, a quanto pare» borbottò Luce, e Luke quasi si strozzò con il latte che stava bevendo dal cartone.
«Un telepate?!».
«Già. Mi legge nel pensiero anche quando non vorrei che lo facesse. Il che complica e semplifica le cose al tempo stesso».
«Immagino! Assurdo che possa fare lo psicologo, non è tipo… scorretto?».
«È dichiarato ovunque, e forse proprio per quello ha pochi clienti. Oltre al fatto che è un vampiro».
«Cazzo!» rise. «Non deve essere semplice per lui».
«Non… non ci avevo pensato» Luce abbozzò un sorriso, e Luke si strinse nelle spalle.
«Non pensi a molte cose» asserì, e detto questo richiuse il frigo. «Vado a fare la spesa».
«Ti do qualcosa?» chiese, tirando già fuori il portafoglio, ma Luke esitò.
«Non… non è molto giusto, dato che non mangi».
«Mia madre controlla le carte di credito. Se si accorgesse che non mangio più si chiederebbe il perché» disse Luce, stringendosi nelle spalle e porgendogli una carta.
«Il pin?».
«Te lo scrivo per messaggio. Tienila tu. Ti servirà».
«Ma è intestata a te…».
«Sì, ma c’è ancora il mio indirizzo di Napoli» Luce scrollò le spalle. «Davvero. Ne ho un’altra, tanto».
Luke esitò, poi prese la carta e se la mise nel portafoglio che portava sempre nella tasca anteriore dei jeans.
«Va bene. Esco. Cerca di non deprimerti troppo».
«Come vuoi tu, capo» lo sfotté Luce con un sorrisino di scherno.
Luke le dedicò un’occhiataccia, poi prese le chiavi ed uscì di casa. Luce mise su un videogioco con cui sfogare la propria frustrazione, e solo quello occupò il suo tempo per ore.
 
Il lunedì arrivò troppo presto. Luce non sapeva né cosa dire né come comportarsi, così mise su una maschera di fredda sfacciataggine e si presentò al caffè delle Sette Chiese insieme a Luke, senza sapere che tipo di domande le avrebbero posto, né se ce ne fosse qualcuna che avrebbe potuto fare lei.
Si accese una sigaretta, umettandosi le labbra: quella mattina Luke aveva fatto sì che si nutrisse bene, fin quasi a farle battere il cuore, e lei aveva apprezzato così tanto la sua diligenza che lo aveva premiato concedendogli della cioccolata – che, si sapeva, era un bocconcino prelibato per i licantropi, dato che non potevano mangiarla in quanto tossica ed eccessivamente zuccherosa.
«Come lo riconoscerai?».
«Dall’odore, credo».
«Cioè, non avete concordato segni di riconoscimento?».
Luce si strinse nelle spalle.
«Io non ci ho pensato, e lui non me ne ha detti».
Luke strinse le labbra, alquanto scontento.
«Sembri una femme fatale».
«Ma piantala» borbottò Luce, lanciandogli un’occhiata seccata. «Devo solo… apparire sicura di me. Come se mi piacesse essere un vampiro».
«Uuuh, la fai facile» la sfotté l’amico. «Attenta che potrebbe diventare la verità» osservò asciutto, e Luce lo guardò senza capire.
«Che intendi?».
«A volte, per caso, fingiamo di essere qualcosa che non siamo. Fingiamo sentimenti, emozioni, identità che non sono vere… ma che poi finiscono per esserlo» mormorò lui a denti stretti. «Cazzo che freddo» borbottò, pestando i piedi a terra e guardandosi intorno. «Allora, vedi qualcuno? O meglio, lo annusi?» scherzò, e Luce prese un tiro dalla sigaretta.
«Forse quei due lì. Sono due vampiri, mi pare» disse, e indicò con un cenno una ragazza di colore con una cartellina in mano e un signore dinoccolato e vestito per bene seduto accanto a lei: sorseggiavano un cappuccino, nonostante fosse sera.
«Beh, allora andiamo?».
Luce annuì, gettò la sigaretta nel posacenere del cestino lì accanto ed entrò nel bar. Si sedette al tavolino senza dire una parola, e l’uomo sorrise.
«Devi essere Luce. Io sono Giosuè, piacere di conoscerti. Lei è Zakiya, è la mia segretaria. Prenderà appunti riguardo le tue domande e le tue risposte. Lui dev’essere l’amico di cui mi accennavi».
«Piacere, Luke» disse con un sorriso, ma evidentemente a disagio. Nessuno gli porse una mano, così il licantropo si limitò a sedersi accanto a Luce, di fronte a Zakiya, in silenzio.
«Desiderate qualcosa? Un caffè, un the, una spremuta?» chiese gentilmente Giosuè, e aggiunse: «Offro io, ovviamente».
«Sono a posto così» disse Luce, secca, e Luke si strinse nelle spalle.
«Anche io» confermò.
«Bene. Allora iniziamo» Giosuè si schiarì la voce e intrecciò le mani sul tavolino. «Cosa ti porta da noi delle Sette Chiese, Luce, con precisione?».
«Siete… D’accordo è una storia un po’ lunga» borbottò Luce. «Ho dei problemi con l’essere un vampiro. Non è quello che mi aspettavo dalla… beh, dalla vita, dalla morte, come la vogliamo mettere. Per cui sono andata da uno psicologo, il dottor Gentili, e mi ha suggerito di rivolgermi a voi per… allargare la mia cerchia di conoscenze, e che queste siano vampiri come me».
«Ah, il dottor Gentili» Giosuè si scambiò un’occhiata con la ragazza, che appuntò qualcosa sul foglio che teneva sulla cartellina. «Capisco. Quali problemi hai con l’essere un vampiro, se posso chiederlo?».
«Ero… ero una cacciatrice di vampiri. Facevo parte del network di cacciatori di New York, ma quando sono stata trasformata mi hanno ripudiato e mi sono ritrovata da sola, con la mia posizione compromessa perché tutti sapevano dove abitavo e come trovarmi. Sono dovuta tornare in Italia, e non nella mia città natale, Napoli, perché tutti loro sapevano da dove venivo» sciorinò tutta quella storiella come fosse vera, sperando che nessuno dei due fosse un telepate come il dottor Gentili. «Sono sola. La mia famiglia non sa… di questa mia condizione. L’unico amico che ho è Luke» mormorò, abbassando lo sguardo.
«Capisco. Mi dispiace che tu abbia dovuto passare tutto ciò, ma fidati quando ti dico: i clan bolognesi sono molto accoglienti. A parte i Sette Segreti che hanno requisiti specifici, gli altri tre clan sono decisamente meno pretenziosi».
«Non… non sapevo ci fossero altri due clan» Luce inarcò le sopracciglia sorpresa. «È una città piccola, credevo… credevo ce ne fossero due e basta».
«Oh, no. Il clan delle Volte e il clan dell’UniBo contano pochi membri, ma non dubitare: hanno molto potere. Il clan delle Sette Chiese è un po’ un clan di passaggio: quando conviene, i membri migrano in altri clan, e abbiamo iniziative per far sì che tutti trovino il clan giusto. Il clan UniBo è simile, in quanto accoglie tutti i vampiri che hanno a che fare con il mondo universitario, che sia per sempre o per poco tempo. Il clan delle Volte è composto perlopiù di bolognesi nati e cresciuti qui, ma accolgono anche “outsiders” che vogliono far parte della vita bolognese».
«E voi?» chiese Luce, inarcando le sopracciglia.
«Noi accogliamo chiunque. Gli incontri preliminari sono solo una formalità, diciamo così».
«Capisco. Avete avuto nuovi membri, recentemente?».
«Oh, sì. È arrivata… una persona un po’ particolare. Non mancheremo di fartela conoscere, a suo tempo, ma… non è esattamente un vampiro. Non puro, almeno».
Luce drizzò la schiena, e aggrottò la fronte.
«Che vuol dire che non è un vampiro “puro”? Si può essere vampiri mescolati a qualcos’altro?».
«A quanto pare sì» Giosuè sorrise appena, e scosse la testa. «È la prima volta che ci capita qualcosa del genere. Si tratta di una ragazza – anzi, direi una donna? – che è per metà lupo mannaro e per metà vampiro».
A Luce si strinse la gola.
«Che vuol dire?» chiese scioccata.
«Vuoi venire a conoscerla? Domani si farà un incontro di gruppo con i nuovi arrivati, e ci sarà molto probabilmente anche lei» la informò casualmente Zakiya, continuando a prendere appunti sulla conversazione.
Luce si sporse sul tavolino e mormorò:
«Ma da dove viene? Parla italiano, inglese, altro?».
«Sappiamo ancora pochissimo sul suo conto. So che frequenta un liceo classico qui in città da settembre, e poco altro».
«Ma… come può frequentarlo? È una donna, no?».
«Dimostra un’età che va dai sedici ai vent’anni, in realtà… Appare molto giovane, ecco».
«E non lo è?».
«Ripeto che sappiamo molto poco sul suo conto. Un po’ per la barriera linguistica, un po’ perché è molto riservata» Giosuè scrollò le spalle, poi sorrise appena. «Come mai tutto questo interesse per la nuova arrivata?».
Luce tacque imbarazzata.
«Non ho mai sentito di persone per metà mannari e metà vampiri. Dev’essere una cosa piuttosto rara. Mi chiedo che odore abbia».
«Sì, è più unica che rara, come persona» confermò Giosuè. «Che dire? Benvenuta a bordo, e sappi che in Italia non ci sono cacciatori di vampiri come negli Stati Uniti… sei al sicuro, soprattutto con il nostro clan».
«E se non lo fossi? Se mi avessero seguita?» cercò di apparire nervosa, e Giosuè sorrise appena.
«Vedi, Luce, i clan non sono solo un’occasione per conoscere vampiri vecchi e nuovi; sono anche una protezione, sia da altri clan che dai mannari, che dagli eventuali cacciatori».
«I mannari rappresentano un pericolo?».
«Oh, sì. Molto più dei licantropi come te. I mannari hanno branchi, organizzazioni gerarchiche, territori da contendersi; i licantropi sono semplicemente umanoidi maledetti, mentre il mannarismo è… quasi una malattia, un’intossicazione, al pari del vampirismo insomma. In più, il veleno dei mannari è mortale per noi vampiri».
Luce si ritrovò a pensare a quella donna, ancora una volta in quella breve conversazione; come faceva ad essere metà e metà se il veleno dei vampiri era mortale per i mannari e viceversa? Doveva indagare più a fondo sulla faccenda.
«Quindi giovedì c’è l’incontro con i nuovi accoliti?».
«Oh, dio… “accoliti” è una parola un po’ grossa, non credi?».
Luke alzò gli occhi al cielo, ma non si espresse.
«Comunque non giovedì, ma domani. Sei la benvenuta. Ci riuniamo alle Sette Chiese, proprio lì» e indicò l’antico monastero la cui entrata campeggiava in fondo alla piazza. «Saremo nel sagrato del pozzo, non saremo neanche una decina. Ci sono politiche molto severe sulla trasformazione di nuovi vampiri… Infatti se non erro sei straniera, giusto?» chiese, riferendosi al suo accento.
«In realtà sono nata e cresciuta a Napoli. Non ho preso la parlata tipica solo perché in casa mia si parlava italiano, e poi a ventidue anni sono andata via di casa, negli Stati Uniti. Sono tornata qui solo l’anno scorso, e ho scelto Bologna per via delle amicizie che avevo qui all’epoca» disse, scambiandosi un’occhiata con Luke. Lui sorrise appena e annuì.
«Ah… beh, però sei stata trasformata in vampiro negli States, giusto?» chiese Zakiya, interessata.
Luce esitò, poi annuì ed abbassò lo sguardo.
«Sì, esatto. Durante una caccia, per giunta. Ho assunto un antidoto sperimentale, ma… ma non ha funzionato» mormorò. Giosuè si fece attento.
«Un antidoto sperimentale?».
«Sì, deve essere assunto nei minuti o nelle ore che seguono lo scambio di sangue. Tuttavia io ho… avevo… un metabolismo un po’ più veloce degli esseri umani, dato che mia madre e mio padre sono creature magiche… quindi non ha funzionato anche se l’ho preso un paio d’ore dopo lo scambio».
«Come hanno fatto ad effettuare lo scambio di sangue con una vittima che non voleva diventare vampiro? Ti hanno obbligata a bere il sangue, prima di essere morsa? Non capisco».
«Io… io avevo ferito quel vampiro quasi a morte. Un po’ del suo sangue era caduto nelle mie ferite aperte, ma non mi importava finché riuscivo ad evitare i suoi morsi. Mi ha lanciato via, ho battuto la testa e ci ho visto nero. La prima cosa che ricordo dopo è che avevo un profondo morso sulla spalla e che lui stava arrancando via mentre gli altri cacciatori combattevano contro altri vampiri» spiegò a disagio: non le piaceva ripercorrere quella notte, la notte in cui il suo cuore aveva battuto per l’ultima volta.
«Spero che ti sapremo aiutare» mormorò Giosuè, sorridendo appena. Luce si ritrovò ad annuire suo malgrado.
«Vado da uno psicologo vampiro per questo. Conoscere altri vampiri aiuterà di certo… le esperienze sono tutte diverse».
«Hai già avuto a che fare con i tuoi poteri? Abbiamo dei laboratori per scoprirli ed esercitarli».
«Oddio, io… io faccio pratica con l’ipnosi, ultimamente. Per il resto non ho idea se abbia altri poteri».
«L’ipnosi è il più elementare diciamo. Saremo felici di aiutarti a scoprirne di nuovi» assicurò lui, allegro ma composto, e lasciò una banconota da cinque euro sul tavolino, scambiandosi un’occhiata con Zakiya. «Ora temo che dobbiate andare, abbiamo un altro appuntamento fra poco. È stato un piacere, conto di rivederti domani».
Luce annuì.
«Ci sarò».
 
«Non voglio andarci» mormorò Luce, accendendosi una sigaretta: finalmente erano a casa, e Luke aveva appena ordinato una pizza per sé, mentre lei gli guardava un po’ gelosa il collo. Aveva fame, anzi, sere; dopotutto, quel giorno non si era ancora nutrita. Ma qualcosa la tratteneva, una sensazione cocente che sapeva di rabbia contro l’ineluttabilità del proprio destino.
«Allora non ci andare».
«Però voglio conoscere quella… donna? Metà mannaro e metà vampiro. Assurdo. Non sapevo neanche che fosse possibile» mormorò, fra una boccata e l’altra.
«Potresti provare a cercarla».
Luce rizzò la testa oltre il divano, e vide che Luke sorrideva.
«Se ti interessa così tanto…» aggiunse il ragazzo, e Luce sbuffò.
«E come faccio a cercarla? Neanche mi ricordo il suo nome, se me l’ha detto».
«No, non l’ha detto. Non ti resta che aspettare domani, no?».
«Mannaggia al cazzo» ringhiò Luce. «Preferisci prima o dopo la pizza?» chiese, decidendosi a spegnere il mozzicone nel posacenere. Luke si strinse nelle spalle.
«Dopo. Non vorrei suonasse il rider mentre stai bevendo».
Luce si raggrinzì sul divano, meditando come evitare l’incontro e conoscere al tempo stesso la donna da cui ora era ossessionata.
Così si dispose all’attesa.

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