Duetto spaccato

di Shireith
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 7: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 8: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 9: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 10: *** Capitolo ottavo – intermezzo ***
Capitolo 11: *** Capitolo nono ***
Capitolo 12: *** Capitolo decimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo 15: *** Capitolo tredicesimo ***



Capitolo 1
*** Preludio ***


Duetto spaccato
Preludio

(06 — sogno)

Non andare, non andare, non andare, non andare.
 Era pensiero costante, speranza, un mantra, forse persino preghiera – se esiste un Dio lassù, per favore non farla andare.
 Era una contraddizione vivente, un’ipocrisia che Ladybug gli avrebbe rinfacciato con gli occhi gonfi e carichi di lacrime – forse l’avrebbe fatto, forse no.
Mi dici di non andare e tu sei il primo a farlo?
 Immaginava la sua voce tagliargli le orecchie come lame affilate e quelle non potevano fare altro che sanguinare mentre gli occhi di lei erano solo acqua salata. Era un sogno, forse un incubo, forse non stava nemmeno dormendo ed era in un limbo a metà che gli permetteva di vedere cosa succedeva da entrambi i lati: nel mondo dei vivi Ladybug dormiva serena, non sapeva quello che l’aspettava; nel mondo dei sogni aveva il cuore spaccato, disintegrato – lui ne sarebbe stato l’artefice e lei i cocci avrebbe dovuto raccoglierli da sola.
Non andare, non andare, non andare, non andare.
 Si svegliò di soprassalto (forse un po’ stava dormendo), il corpo madido di sudore e le lenzuola bianche ridotte a un campo di battaglia. Guardò l’ora – mezz’ora all’appuntamento.
 Si rimise l’anello, sentendolo più pesante che mai, e in un attimo Chat Noir era già là fuori a correre (gli sarebbe mancata la sensazione).
Non andare, non andare, non andare, non andare.
 Di una cosa era sicuro – avrebbe preferito spezzarle mille volte il cuore in sogno, che una sola volta nella realtà.
Non andare, non andare, non andare, non andare.
 Era preghiera e stava pregando se stesso.

NOTE ➺ Era più o meno un anno che non tornavo in questa sezione come autrice e devo ringraziare il Writober per avermi spinta a mettere per iscritto un’idea che mi frulla in testa da un po’ – motivo per cui la storia non tiene conto della quarta stagione, all’epoca non era ancora uscita nemmeno una puntata.
La mia intenzione era quella di dedicare i prompt della terza settimana d’ottobre al Lovesquare, ma ho visto che tra i prompt di oggi c’era sogno e ne ho approfittato per scrivere un piccolo prologo. Il prossimo aggiornamento sarà il 15 ottobre.
All’inizio contavo di scrivere solo sette capitoli (una settimana, per l’appunto), ma poi mi sono resa conto di non farcela e ho allargato il tutto a due settimane. Ci saranno aggiornamenti dal 15 al 28, o forse un po’ prima del 28, dipende da come saranno i capitoli che non ho ancora scritto.
Ringrazio chiunque abbia letto fin qui e vi do appuntamento al 15!
Shireith

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Capitolo 2
*** Capitolo primo ***


Capitolo primo


(15 — secret identity)

 «Ti ho sempre amata, e ti amo ancora.»
 La pioggia si fece più insistente, sbatté contro le finestre e i tetti come a voler punire la terra, e per un attimo rubò a Chat Noir le parole. Ma quelle vennero comunque, e per Ladybug fecero più rumore dell’acquazzone che li aveva sorpresi poco prima.
 «So che anche tu provi lo stesso.»
 Ed era vero, era vero. Adrien era sempre lì, prima cotta che ancora adesso le faceva tremare il cuore con un sorriso e trasformava la Marinette diciassettenne e matura in una ragazzina di undici anni che stramazza al suolo perché il suo idolo le ha rivolto la parola.
 Il cuore di Marinette aveva iniziato a pesare come il mondo intero da quando il Maestro Fu se n’era andato, privandola di un mentore, di un porto sicuro, lasciandola in balìa di se stessa. Schiacciata da mille ansie e paure nel fondo di una grotta buia, Tikki era stata vitale come l’ossigeno – Chat Noir era stato lo spiraglio di luce che penetra tra la roccia e scaccia via le tenebre.
 Era stato importante; alleato fidato, l’unico che potesse reggere con lei il fardello di una doppia vita che a poco a poco le succhiava le energie e la portava a chiedersi se Marinette e Ladybug potessero coesistere, se la seconda, prima o poi, non avrebbe finito per schiacciare la prima.
 Sua nonna ripeteva spesso un famoso detto italiano, chi ha il pane non ha i denti, e Marinette si era resa conto troppo tardi di quanto fosse vero.
 Chat Noir era sempre stato lì – lo aveva ignorato.
 Razionalmente non se ne faceva una colpa, il cuore aveva scelto Adrien, l’aveva reclamato come primo e unico, e così doveva essere. Adrien con lei aveva fatto lo stesso, innamorandosi di un’altra, e Marinette razionalmente lo capiva – lo capiva e lo perdonava, anche se da perdonare non c’era nulla perché Adrien non aveva nemmeno mai saputo.
 Ma i sentimenti se ne fregano della ragione, la deridono perché non vogliono averci a che fare, la sfottono perché la odiano, vogliono schiacciarla e distruggerla per privarla del suo potere, ammesso che ne abbia mai avuto – perché la battaglia tra sentimenti e ragione è persa in partenza, la ragione non può vincere.
 Razionalmente, Marinette capiva tante cose. Una di queste era che la vita non sempre è giusta – a volte ti va bene, altre sei destinato a soffrire e allora la vita ti prende, proprio come i sentimenti fanno con la ragione ti sfotte e tu non puoi uscirne.
 Marinette non ne era uscita, e come lei nemmeno Chat Noir, ancora incatenato a un amore nato a metà e poi morto quando anche l’altra parte si era decisa a fare un passo avanti.
 «So che anche tu provi lo stesso, e mi dispiace, Ladybug. Mi dispiace perché vorrei dirti tutto, ma non posso. Mi dispiace perché so che mi odierai.» Riuscì a tendere le labbra all’insù – eccolo, anche ora, quel sorriso sbruffone che prometteva mille schiaffi ma che ebbe come unico effetto quello di farle fermare il cuore. «Da una parte penso che odiarmi sarebbe meglio per entrambi, quindi, per favore – odiami
 Le lacrime si unirono alla pioggia e con le ciglia impregnate Ladybug riuscì a stento a seguirlo con lo sguardo mentre si allontanava per scomparire dietro il primo svincolo. Un fascio di luce verdognolo osò sfidare per un attimo l’oscurità. Le frustate d’acqua coprirono il tintinnio d’argenteria che poggiava per terra, ma Marinette lo vide – un bagliore sul cemento freddo, lì dove Chat Noir era sparito.
 L’anello che simboleggiava tutto quello che per un istante erano stati e mai sarebbero tornati a essere.
Odiarti, chaton?
 Mai ne sarebbe stata capace.
 Anche se le aveva dato appuntamento al loro posto, quello che per anni li aveva visti parlare per ore sotto tramonti e cieli stellati, e proprio lì le aveva detto che se ne sarebbe andato senza uno straccio di motivazione, lei, di odiarlo, mai ne sarebbe stata capace.

NOTE ➺ E finalmente si va avanti! Ci tengo a ringraziare tutte le persone che hanno deciso di dare una possibilità a questa follia mini-long – anche se onestamente non so quanto mini-long sia visto che al momento ho un totale di dodici capitoli scritti, quindi va be’, dovrei chiamarla long e basta. Data la peculiarità del Writober, comunque, i capitoli sono molto più corti della media.
Immagino che abbiate ancora un po’ di dubbi al momento, ma non vi preoccupate: le cose saranno più chiare man mano che si andrà avanti.
Grazie per aver letto fin qui, a domani!

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo ***


Capitolo secondo


(16 — belladonna)

 Scese le scale di fretta e furia, il ticchettio delle sue scarpe nuovissime sul marmo inghiottito dal mormorio della sala. Ringraziò qualcuno lassù che nessuno l’avesse riconosciuto e sperava davvero di poter continuare tutta la sera così – quattro chiacchiere, due drink, lui che prometteva di ricordarsi nomi che il mattino dopo gli sarebbero inevitabilmente scivolati di mente e poi di corsa nella sua camera d’albergo.
 Ma ormai era troppo grande per ignorare quel cognome che gli gravava sulle spalle come un macigno e che più che una benedizione era un calvario.
 «Adrien, caro
 Adrien contò le uscite. Le scale da cui era appena sceso, una porta sulla sinistra e due sulla destra, tre persone raggruppate a parlare che lasciavano lo spazio sufficiente a permettergli di passare e perdersi tra la folla…
Troppo tardi.
 Eugenia Belladonna, detta la Baronessa (detta da chi poi non si sapeva, semplicemente un giorno aveva deciso che il suo cognome non le piaceva e aveva creato quel soprannome per se stessa), fece la sua comparsa in scena: tacco dodici che non riusciva comunque a superare in altezza l’acconciatura e un profumo capace di stendere quattro cavalli, si avvicinò con passo deciso, anche se ad Adrien parve più minaccioso, e gli si rivolse come la più cara delle amiche.
 «Ero convinta di trovarti qui! Tuo padre è un misantropo nato e non si presenterebbe a quest’ora nemmeno se gli sparassi a una gamba, ma non è tanto sciocco da non mandare uno dei suoi a tenere sotto controllo la concorrenza. Oh! Che bello che abbia mandato te e non quella segretaria col muso lungo.»
Nathalie non ha il muso lungo, pensò stizzito. E che l’ingrato compito fosse toccato a lui era tutto tranne che bello. Purtroppo Nathalie, designata da suo padre come informatrice (Adrien avrebbe detto spia perché Gabriel Agreste non ha voglia di farsi vedere in pubblico – questione di semantica), si era ammalata all’ultimo momento e non riusciva nemmeno ad alzarsi dal letto senza avere giramenti di testa. Augurandosi che stesse già meglio, Adrien si scollò di dosso la Belladonna e sistemò come meglio poté la giacca sgualcita.
Ci vorrà un anno per far andar via tutto questo profumo, peggio del camembert di…
 Lo stomaco gli si annodò fino a farlo soffocare. Erano passati cinque anni (cinque anni, sei mesi, undici giorni e quattro ore da lei; cinque anni, sei mesi, undici giorni e un'ora dai suoi più cari amici, una forse più degli altri) dall’addio più doloroso della sua vita e ancora gli capitava, in preda all’abitudine, di pensare o comportarsi come se nulla fosse mai cambiato.
 L’insistenza della Belladonna non gli permise di annegare nei ricordi e anzi lo strappò violentemente al passato.
 «Dimmi, caro! È vero quello che si dice?» Si fece più vicina, la voce calò fino a divenire sottile. «È vero che tuo padre vuole tornare sulle scene della moda internazionale» – calcò l’ultima parola con tutta la drammaticità di cui era capace – «dopo ben cinque anni di silenzio?»
 Adrien iniziava a trovare fastidioso il modo in cui la donna si soffermava sulle parole che riteneva più importanti, come se lui fosse scemo e ci fosse bisogno di allusioni poco velate per fargli afferrare il senso del discorso.
 «Non è la prima che me lo chiede, cara Baronessa» – dovette trattenersi per non calcare il cara con una buona dose di ironia – «e la mia risposta è sempre la stessa: non lo so. Mio padre è un uomo criptico e schivo, non dice a nessuno quello che gli passa per la testa, nemmeno a me. Se vuole sapere se ha ripreso a disegnare capi d’abbigliamento, in realtà non ha mai smesso di farlo. Potrebbe tornare sulle scene domani come avrebbe potuto farlo due anni fa, come potrebbe farlo tra otto anni.»
 Non era la completa verità, ma ormai mentire gli risultava facile, indossava le bugie come una seconda pelle. A volte sembrava che non avesse fatto altro, da quando era diventato Chat Noir e da quando aveva smesso di esserlo (il cuore perse un battito).
 La Belladonna assottigliò gli occhi fino a ridurli a due fili sottilissimi e non li staccò un attimo da Adrien. «Capisco», pronunciò con voce piatta, celando malissimo il disappunto. «Eppure…»
 «Madame Belladonna?»
 «Baronessa, Jeanette, Baronessa! Ti ho detto mille volte che Belladonna è… poco elegante», disse la Belladonna con ben poca eleganza.
 Adrien vide una giovane donna che non doveva essere più grande di lui farsi avanti e sistemarsi gli occhiali rotondi sul naso con aria mortificata. «Mi dispiace, Baronessa, avete ragione.»
 La Belladonna sventolò una mano a pochi centimetri dal volto con drammaticità degna dei migliori teatri francesi. «Oh, per l’amor del cielo!» sbottò con ancora meno eleganza di prima, pur mantenendo la decenza di non alzare troppo la voce. «Dov’è Marie quando serve?»
 Jeanette sospirò. «Sta arrivando.»
 Adrien era sul punto di scoppiare a ridere. Se non lo fece fu solo per non peggiorare la situazione di Jeanette, e non per rispetto nei confronti della Belladonna. Non era mai stato una persona meschina e non amava pensare male degli altri, ma la Belladonna non aveva una bella reputazione e Adrien l’aveva constatato coi propri occhi: era capace nel suo lavoro, questo sicuramente, ma ogni singolo altro aspetto del suo carattere giocava a suo sfavore.
 «Oh, Margot, cara, eccoti!»
 Adrien la udì a stento pronunciare quel nome. La Belladonna stava dimostrando di avere più assistenti che neuroni in testa.
 «Michelle! Adrien, caro, ti presento…»
 «Adrien?»
 
NOTE ➺ Il prompt di oggi era belladonna, ossia una pianta altamente tossica: io ho deciso di interpretarlo diversamente e l’ho affibbiato come cognome a un personaggio di mia invenzione, volutamente caricaturale. Il soprannome “Baronessa” è un riferimento alla Baronessa von Hellman di Crudelia, il film della Disney con Emma Stone che ho visto solo di recente. Spesso nell’immaginario collettivo stiliste e stilisti sono rappresentati in maniera un po’ stravagante (pensate anche a Miranda de Il diavolo veste Prada, o alla stessa Audrey Bourgeois) e mi piaceva l’idea di rendere questo personaggio una sorta di sotto trama comica. Ma non solo, perché se non ci fosse stata lei… be’, lo scoprirete!
Probabilmente questo capitolo vi ha confuso, ma sarete felici di sapere che dal prossimo le cose iniziano a farsi interessanti: a domani, dunque!

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Capitolo 4
*** Capitolo terzo ***


Capitolo terzo


(17 — nove)

 Alle nove in punto spaccate, il tempo si congelò – eppure sembrava quasi avesse ripreso a scorrere per la prima volta in cinque anni.
 Cinque anni, sei mesi, undici giorni, un'ora e ventisei minuti da quel giorno, Adrien risentì la sua voce.
 Non era Ladybug – un'ora, non quattro.
 Di nuovo, Adrien rischiò di annegare nel passato ma riuscì a rimanere a galla, questa volta per volontà propria.
 Sorriso a trentadue denti, labbra che s’ammorbidiscono e lingua che si scioglie come colla per una sola parola, per un solo nome – «Marinette».
 Lei piegò le labbra all’insù e fece un cenno del capo. «Ne è passato di tempo.»
 Per la precisione (non che tenesse il conto!), cinque anni, sei mesi, undici giorni, un'ora e ventisei minuti – ventisette, ventisette minuti! (Forse solo un po’.)
 La Belladonna s’infilò nella conversazione come un fulmine che squarcia il cielo sereno, ma ebbe perlomeno il merito di salvare Adrien da una pessima figura. Non aveva parole, da quando l’aveva rivista, avrebbe continuato a boccheggiare come un pesce senza riuscire a mettere in fila due parole.
 «Vi conoscete, Marie?» domandò la Baronessa con voce antipatica.
  Marie?
 «Siamo stati compagni di classe alle medie e al liceo, prima che lui e suo padre si trasferissero», spiegò, cercando lo sguardo di Adrien come a voler da lui un’ulteriore conferma.
 Lui si limitò ad annuire.
 «Oh. Quindi anche Juliette lo conosceva già?»
 Juliette?
 Sul volto di Marinette balenò un misto di divertimento e confusione che la Belladonna non sembrò notare.
 «Io e Joëlle ci conosciamo da un mese, Baronessa. Prima non lavorava per voi.»
 Joëlle?
 La Belladonna si allisciò il mento con il pollice sinistro, come se Marinette la stesse ponendo di fronte un indovinello insolvibile. «Ah, sì, giusto, giusto. Be’, Joan, puoi andare. Marianne, stavo dicendo ad Adrien che…»
 Sentire il suo nome fu la scossa che gli restituì il dono della parola. «Baronessa, vi prego, non mettete in mezzo anche Marinette. Ve l’ho detto, non so cosa se mio padre vuole tornare sulle scene, né quali abiti potrebbe presentare se lo facesse.»
 «Perché non glielo chiedete di persona?»
 La Belladonna e Adrien si voltarono all’unisono in direzione di Marinette.
 «La fai facile, Marcelle! Quell’uomo è il ritratto della misantropia – senza offesa, Adrien caro – ed è scorbutico come pochi! Mi sorprende che si sia addirittura sposato e…»
 Adrien sentì le buone maniere fare le valigie per far posto alla collera che gli ribollì nel sangue, nello stomaco, sulla punta delle dita. Rischiava di esplodere come un vulcano se quella donna si azzardava a dire anche solo una parola su sua madre, ma l’unica cosa che successe fu che la sua pelle si sciolse lì dove Marinette lo sfiorò con una mano.
 «Non è poi così misantropo se ha deciso di presentarsi qui stasera, il signor Agreste.»
 La bocca della Baronessa formò una o quasi perfetta. «Gabriel è qui?»
 Marinette tentennò un attimo. «Non… lo sapevate?»
 «Dove?»
 «L’ultima volta che l’ho visto era vicino al tavolo del buffet.»
 Marinette non ebbe finito di pronunciare buffet che la Belladonna aveva già girato i tacchi e si era allontanata in direzione dei tavoli.
 Joëlle la guardò come stralunata. «Era una bugia, vero?»
 Marinette esibì un sorriso colpevole. «Scusa.»
 L’altra scosse la testa, ma quando tornò a guardarla era ancora smarrita. «E io ora che faccio?»
 «Valle dietro. Dovrai sopportare i suoi sbraiti, ma almeno puoi far finta di non saperne niente e non se la prenderà con te.»
 Joëlle sospirò così forte che le spalle accompagnarono il movimento. «Se la prenderà comunque con me, non è così stupida da fare lo stesso con te, non vuole rischiare che tu ti licenzi. Col talento che hai… oh, va bene, non fare quella faccia! Lasciamo stare. Vado, eh.»
 Ci volle un attimo prima che la folla inghiottisse la figura di Joëlle e a quel punto tra Adrien e Marinette piombò in un silenzio imbarazzante e scomodo, spezzato solo dal brusio dell’intera sala. Per Adrien c’era così tanto da dire. Sperava che anche per Marinette fosse lo stesso, che anche lei fosse contenta di rivederlo – i suoi sorrisi e il suo salvataggio suggerivano di sì.
 Si umettò le labbra. «Grazie per il salvataggio, Marie, Margot… o era Michelle? Scusa, di questi tempi mi confondo sempre.»
 Si rese conto troppo tardi che era la mossa sbagliata.
 Idiota.
 Cretino.
 Scemo.
 Sapeva com’era fatta Marinette. Sarebbe arrossita, avrebbe distolto lo sguardo, avrebbe balbettato, forse si sarebbe addirittura congedata con una scusa e…
 «Da che pulpito, Athanasio
 
 (Sarebbero state ancora le nove quando insieme avrebbero lasciato la sala.)

NOTE ➺ Alcune persone ci avevano visto giusto, era proprio Marinette! Mi sono presa la licenza di cambiare alcuni tratti del suo carattere, in particolare il modo in cui si rapporta ad Adrien, perché penso che crescere l’abbia aiutata a sbloccarsi un po’. Ma sarà sempre la solita Marinette, spero di averle reso giustizia.
A domani con un capitolo che personalmente è tra i miei preferiti!

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Capitolo 5
*** Capitolo quarto ***


Capitolo quarto


(18 — no happy ending)

 Cinque anni prima, una notte di pioggia, era da quelle parti che Adrien incideva una crepa sul cuore di Ladybug e glielo frantumava in un solo addio. Abbandonato per sempre il suo anello, l’Arco di Trionfo l’aveva accompagnato mentre si amalgamava alla folla e Adrien si era sentito come silenziosamente giudicato perché, per una pura questione d’abitudine, quell’arco era diventato il loro posto. Innumerevoli volte aveva assistito silenzioso ai loro giri di ronda notturni, innumerevoli volte si erano rifugiati lassù come a voler vegliare sull’intera città – e Adrien aveva sempre saputo (forse un po’ di più quando si era sfilato l’anello per sempre) che la presenza di Ladybug gli sarebbe mancata come l’aria e la sua assenza gli avrebbe scavato un vuoto dentro.
 E sempre cinque anni prima, quando ancora però Adrien non conosceva i mille segreti che graffiavano suo padre, c’era stata una rimpatriata di classe del collège su idea di Rose e Juleka. Era andato tutto bene finché Kim e Alix non si erano messi a gareggiare e Kim si era sfracellato il naso andando a sbattere contro un muro.
 A distanza di anni che sembravano secoli, ora Adrien osservava le luci dei lampioni creare riflessi giallognoli sulla Senna addormentata. Ce n’era uno proprio a fianco al loro tavolo che delineò con morbidezza i lineamenti di Marinette mentre si sporgeva per ringraziare il cameriere che li aveva appena serviti.
 Adrien trovava solo ora il tempo di riflettere su quanto fosse cambiata. Era sicuramente più alta, ma la differenza che subito saltava all’occhio erano i capelli tagliati molto corti.1 Adrien ricordava che già al liceo aveva considerato l’idea, ma quando lui e suo padre avevano lasciato Parigi li portava ancora lunghi.
 Il cambiamento più lampante, tuttavia, era il carattere – Marinette era sempre Marinette, aveva un sorriso che scioglieva il ghiaccio e una parola cortese per chiunque, ma la sua riscoperta spigliatezza nei confronti di Adrien permetteva loro di conversare come i vecchi amici che erano. E, a lui, conversare con Marinette come se a dividerli non ci fosse nulla, era mancato così tanto che non si stupì dei battiti accelerati che gli martellavano in petto.
 «Sai», iniziò Adrien, osservando il lampione creare forme di luce sulla superficie liscissima del vino, «sono contento di essere uscito da quel covo di serpi. Mio padre mi ucciderà, ma almeno per ora sto a posto.»
 Marinette gli fece un cenno col calice come a voler dimostrare solidarietà. «Mh, allora siamo in due.»
 «Ti ho messo nei guai con la… “Baronessa”
 La pausa che si concesse prima dell’ultima parola, il modo in cui la articolò con la lingua, le virgolette immaginarie mimate con il movimento delle dita – Marinette rise di gusto (Adrien perse uno o due di quei battiti accelerati).
 «No, non credo. È ingestibile, se la prende con tutti, specie con quelli sotto di lei, ma ho imparato come prenderla. Male che vada troverà nuovi nomi con la m da sostituire al mio», ironizzò.
 Nella mente di Adrien riaffiorarono le parole di Joëlle, la collega di Marinette dai cinquanta nomi, qualcosa su come nemmeno la Belladonna era tanto sciocca da offrire a Marinette un pretesto valido per licenziarsi. Adrien per una volta si trovava d’accordo con la Belladonna, ma nutriva le stesse perplessità di Joëlle.
 «Marinette, posso farti una domanda che ti sembrerà invadente?»
 «Spara.»
 «Perché lavori per quella donna? Sei bravissima, non hai bisogno di stare all’ombra di una che… una che ha il cognome di una pianta tossica. Mai nome fu più azzeccato, comunque.»
 Marinette sorrise alla sua ultima osservazione. «È insopportabile, te lo concedo, ma è una bravissima stilista. Anche Alya pensa che dovrei già mettermi in proprio, ma è troppo presto. La Baronessa fa curriculum.»
 Adrien annuì. Una volta era stato troppo ingenuo per capirlo, ma crescere nelle sue condizioni gli aveva insegnato che spesso c’era una disparità tra lui e gli altri che lo metteva a disagio. Se voleva una cosa, bastava schioccare due dita e il nome Agreste gli avrebbe spalancato qualsiasi porta; se la volevano gli altri, dovevano rimboccarsi le maniche e lavorare sodo. Prima di ricoprire un incarico si assicurava di averne le facoltà, non voleva favori né ingiustizie, ma sapeva come molti là fuori se ne infischiavano delle buone intenzione ed erano pronti a srotolargli il tappeto rosso solo perché era figlio di suo padre.
 Anche se non sarebbe più tornato sull’argomento, rimaneva comunque della ferma convinzione che Marinette avesse tutte le carte in regola per sfondare.
 «Come sta Alya, a proposito? E anche Nino e tutti gli altri.»
 Quando la loro classe al collège si era sciolta ognuno aveva preso la propria strada e c’erano già state le prime separazioni: ciononostante, il cameratismo che si era creato tra loro era sopravvissuto anche all’avvento del liceo. Da lì in poi, Adrien non sapeva cosa ne fosse stato degli altri. Solo Nino, ogni tanto, si faceva vivo in qualche chat.
 Marinette piegò la testa di lato. «Molti di loro non li vedo da un po’. Alya e Nino…» Sorrise divertita e Adrien ne capì il motivo solo quando lei gli mise il telefono sotto il naso e gli mostrò un selfie che ritraeva i due loro amici più cari. Allora rise anche lui.
 «Perché Alya ha una macchia blu in testa e Nino una verde in fronte?»
 «Sono andati a giocare a paintball.»
 «A paintball
 «A paintball. Hanno un concetto di appuntamento molto strano, quei due, ma immagino che anch’io vorrei provare cose nuove dopo tutti quegli anni.»
 «Digli che li saluto.»
 Marinette scrisse qualcosa ad Alya e non ebbero nemmeno il tempo di spaziare su altri argomenti che il cellulare ricevette una notifica. Adrien fu certo di vederla arrossire mentre mormorava: «Ti pareva, subito a pensar male.»
 Si sporse in avanti. «Perché Alya dovrebbe pensar male?»
 Marinette mise a posto il cellulare e lo sguardò scattò su Adrien come una molla. «Pensar male? No, hai capito male! Lascia stare, è una cosa tra noi. Buono, il vino? Io lo trovo delizioso.»
 Quella reazione fu la conferma che non avrebbe dovuto dire addio alla Marinette dei suoi ricordi, perché quella Marinette era sempre lì, era solo cresciuta e maturata quel poco da modificare alcuni tratti del suo carattere.
 Anche per Adrien era stato lo stesso. Capiva meglio i sottili fili che costituivano la società, comprendeva il suo ruolo in quanto unico figlio di Gabriel Agreste e, anche se non sempre gli piaceva, sapeva cosa le persone si aspettavano da lui – lo sapeva, e non sempre le assecondava. Stava a lui decidere quando cedere e quando, invece, resistere.
 Non era più l’Adrien adolescente, ma era Adrien – ora certi argomenti potevano affrontarli senza imbarazzo alcuno.
 «Sono contento che riusciamo a parlare come vecchi amici, nonostante… tutto.»
 Vide Marinette allargare gli occhi. «Nonostante… tutto? Aspetta, tu sapevi
 Adrien si strinse nelle spalle. «Non prendertela, ma era abbastanza ovvio. Non volevi mai parlarmi, mi evitavi, perdevi le staffe… non ti andavo a genio, eh? Probabilmente non ti sei mai scrollata di dosso la prima brutta impressione che ti ho fatto, quando Chloé ti ha messo la cicca sulla sedia.»
 Marinette si lasciò sfuggire un risolino e fu il turno di Adrien di osservarla con occhi smarriti. Era sicuro di avere una faccia da ebete, ma non riuscì a mascherarla. Lo trovava divertente? Lui non tanto. Non gli era mai piaciuta l’idea di star antipatico a una come lei.
 «Ehm… oddio, è imbarazzante…»
 La vide concedersi un lungo sorso di vino come a volersi nascondere dietro il calice. Anche da quella posizione poté intercettare il rossore sulle sue guance e ne attribuì la causa ai passanti che si erano voltati a osservarli quando era scoppiata a ridere.
 «Non ti odiavo affatto, Adrien, tutto il contrario. Avevo una cotta enorme per te, non riuscivo nemmeno a parlarti senza andare nel pallone più totale.»
 L’unico motivo per cui la bocca di Adrien non si spalancò a dismisura fino a toccare terra fu perché non era fisicamente possibile. «Tu avevi una cotta per me?»
 Marinette annuì. «Una cotta enorme, stratosferica. Ho perso il conto di tutte le volte in cui ho provato a dirtelo.»
 I ricordi sfusi nella sua mente si unirono come pezzi di un puzzle affetti da magnetismo e improvvisamente tutto ebbe senso: ricordava le guance rosse, i sorrisi timidi, gli sguardi furtivi, gli occhi bassi, le labbra che tremavano a un solo ciao – ricordava tutto ciò, eppure mai avrebbe pensato che il filo conduttore fosse un sentimento d’amore.
 Abbandonò la schiena contro la sedia e sospirò. «Immagino che la mia perspicacia non ti abbia reso la vita facile...»
 «Essere un po’ più recettivo non avrebbe guastato», rise, e Adrien ricambiò, «ma è colpa mia, avrei dovuto essere onesta.»
 «Al liceo eravamo entrambi single, perché non me lo hai mai detto?»
 Marinette si strinse nelle spalle e osservò un punto indefinito oltre la spalla di Adrien, prima di rispondere: «Più tempo passava e più mi sembrava un sogno irrealizzabile. Alla fine ho smesso di sognare e ho lasciato perdere, anche se un po’ ancora mi piacevi», confessò, raddolcendosi nello sguardo.
 Diede ad Adrien un’impressione strana – avevano appena ventidue anni, eppure parlava dei tempi del liceo come fossero passati decenni.
 «Immaginavo che avresti detto no e ho rinunciato.»
 «Non sono sicuro che avrei detto no.»
 Non si era immaginato di aver parlato, ma si chiese se si stesse immaginando le guance di Marinette accendersi ancora di più.
 Sostenere il suo sguardo, d’improvviso, divenne troppo difficile. «Eri la mia più cara amica. Se me l’avessi detto prima, forse qualcosa sarebbe cambiato, chissà?»
Forse sarei stato meno cieco.
 «E quella ragazza che ti piaceva? Non era Kagami, giusto?»
 Ripensare a Ladybug fece più male di quanto non volesse ammettere. Sospirò. «Era complicato. Sono sempre stato ottimista, pensavo che tutto tra di noi si sarebbe risolto per il meglio, ma ho finito per spezzarle il cuore. Mi ripeto che non potevo fare altrimenti, ma a volte mi chiedo se sia davvero così.»
Avrebbe capito, se le avessi detto tutta la verità?
 La voce di Marinette lo strappò a se stesso. «Sembra che in amore abbiamo avuto la stessa dose di sfortuna.»
 «Tu non ti sei mai più innamorata?»
 Gli sembrava assurdo che nessun altro si fosse accorto di una come lei. Quando le pose la domanda, tuttavia, vide una malinconia inaspettata scivolarle sul viso come un’ombra.
 «Qualcuno c’era. Mi ha spezzato il cuore.»
 Adrien aveva spezzato il cuore a un’altra, a Marinette il cuore era stato spezzato da un altro – gli provocò una fitta al petto constatare che entrambi erano stati schiaffeggiati e rifiutati dal tanto ambìto lieto fine.
 Alzò il calice verso di lei. «Non è mai troppo tardi, no?»
Per lui e Ladybug sì – a Marinette augurava un finale diverso.
 «Forse no», concesse lei (gli sembrò menò convinta persino di lui).

1 In un tweet del 2017, Thomas Astruc condivise alcuni sketch della Ladybug del futuro che la ritraggono con i capelli corti. Ho preferito attenermi a quest’informazione perché l’idea mi piace tantissimo.

NOTE ➺ Questo finora è il capitolo più corposo (oltre a essere quello che mi è piaciuto di più scrivere), gli altri torneranno a essere più brevi. Come dicevo nelle note del capitolo precedente, spero di aver chiarito qui eventuali perplessità su Marinette: l’ho volutamente resa più spigliata nei confronti di Adrien perché penso sarebbe irrealistico vedere una ventiduenne non riuscire a spiccicare due parole di fronte alla sua cotta adolescenziale.
Grazie per aver letto fin qui, a domani!
 

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Capitolo 6
*** Capitolo quinto ***


Capitolo quinto


(19 — lorn: abbandonata)

 Abbandonata – così Marinette si era sentita quando una notte Chat Noir le aveva dato appuntamento al loro posto e proprio lì le aveva stracciato il cuore come mille fogliettini di carta.
 Razionalmente, Marinette aveva sempre saputo che doveva esserci un motivo – eppure la vocina che le ricordava che forse era tutta colpa sua era un sussurro fastidioso sempre presente.
 «Ti amo anch’io», gli aveva detto un giorno, prima che se ne andasse – un mormorio tanto flebile che si era chiesta se Chat Noir l’avesse sentito.
 Dopo quella confessione poche cose erano cambiate, erano sempre gli eroi di Parigi e finché Papillon rimaneva un pericolo le loro identità dovevano rimanere segrete. Marinette non aveva mai davvero pensato al dopo perché portava con sé cose belle e cose brutte. Papillon non minaccerà più Parigi, si ripeteva – ma cosa ne sarà di noi?
 Cosa n’era stato?
 Cos’era rimasto?
 Solo il ricordo, che faceva ancora più male. E su questo Parigi sapeva essere davvero maligna – amava ricordarle che Chat Noir non c’era più.
 In metro e per le strade meno curate della città ci si imbatteva in decine e centinaia e migliaia di murales e affreschi di artisti di strada, i negozi di giocattoli continuavano a vendere figurine, zaini, action figures e mille altri gadget, e ad amplificare le domande che tutti ancora si ponevano ci pensava il telegiornale.
Che fine ha fatto Papillon?
Chi c’era dietro la maschera?
Perché Ladybug è rimasta e Chat Noir no?
 Alle prime due domande non aveva risposta nemmeno lei, e nonostante ancora si rimproverasse per non essere stata più svelta, l’incognita che più faceva male era l’ultima. Quella di Chat Noir era un’assenza di cui non conosceva le ragioni e il non sapere le scavava un vuoto in petto così profondo che alle volte temeva di perdersi dentro se stessa e non uscirne più.
 Si tocco il vuoto con una mano, lì dove, nascosto dagli abiti, riposava l’anello di Chat Noir attaccato a una catenina – non sapeva se custodirlo all’altezza del petto contrastasse il vuoto o contribuisse solo a renderlo più grande, più cattivo, più vuoto.
 «Marinette?»
 La vocina malinconica di Tikki la fece sentire in colpa.
 Scosse la testa e cercò di sorriderle. «Scusa, lo so che non ti piace quando lo faccio.»
 Le prime volte pronunciare il nome di Chat Noir era diventato una blasfemia. Tikki lo chiamava lui, come se un pronome fosse abbastanza potente da racchiudere tutto ciò che aveva significato, significava e avrebbe significato finché avesse avuto vita nei suoi ricordi.
 Marinette, lei non lo nominava mai. Quando Tikki le chiedeva se stava pensando a lui, la risposta era sempre quella – no.
 Ma ormai mentire era uno sforzo vano. Marinette era entrata nella fase di accettazione, quella in cui si tenta con tutte le forze d’ancorarsi al presente per non affogare nel passato – solo che il passato sa essere ancora più maligno e ritorna quando meno te lo aspetti (una parte era già tornata).
 «Mi ha fatto piacere rivedere Adrien, oggi.»
 Tikki le regalò un sorriso di supporto. «Avete parlato per ore con assoluta normalità. E gli hai detto quel che provavi!»
 «Sono solo in ritardo di cinque o sei anni.»
 «Hai rimpianti?»
 Marinette si osservò i polpastrelli come fossero la cosa più interessante del mondo.
 Una volta Alya le aveva fatto notare che era stata lei, al liceo, ad allontanarsi da Adrien, e non viceversa – era vero. Tra studio, doppia identità da mantenere segreta e tutto il resto, il tempo per rincorrere quel sogno di essere felice e contenta con Adrien era divenuto una bolla sempre più piccola in cui non c’era più spazio nemmeno per lei, figurarsi per entrambi.
 Non aveva smesso di volergli bene o di amarlo, questo mai. Le farfalle nello stomaco e la terra che veniva a mancare sotto i piedi quando lui le sorrideva o pronunciava il suo nome con voce soffice c’erano state fino all’ultimo giorno, solo che… tutto il resto era diventato più difficile.
 Cinque anni, sei mesi, undici giorni e sei ore prima, Adrien se n’era andato. Tutti i loro amici, lei compresa, avevano ricevuto la notizia con la stessa delicatezza di uno schiaffo in volto, come se il signor Agreste avesse avuto paura di rimanere a Parigi un solo giorno in più. All’aeroporto, Marinette era rimasta in disparte, l’udito che captava appena le parole di Alya: «Va’ da lui, digli ciò che provi, o vivrai sempre col rimpianto di non averlo fatto».
 Ripensò a quando lo aveva rivisto, appena qualche ora prima. Una ritrovata felicità le era esplosa sul fondo della pancia come mille coriandoli e aveva davvero temuto di tornare a essere la Marinette le cui gambe tremavano quando lui la scrutava con quegli occhi verdissimi, sempre limpidi e mai astiosi se erano rivolti a lei.
 Aveva rimpianti?
 Se Tikki glielo avesse chiesto la sera prima la risposta sarebbe stata no, ma le parole di Adrien non smettevano di rimbalzarle in testa, sembrava che fossero marchiate a fuoco da qualche parte dentro di lei.
Eri la mia più cara amica – lui lo era per lei.
Se me l’avessi detto prima, forse qualcosa sarebbe cambiato – la Marinette adolescente sarebbe saltata più in alto della Torre Eiffel.
 Ma eccola, la vocina fastidiosa che strideva come unghie su una lavagna – e Chat Noir?
 E tutto il resto?
 Adrien parlava con la maturità dei suoi vent’anni, ma non poteva sapere come avrebbe reagito cinque anni prima. C’era stata una ragazza che aveva amato per tanto tempo che gli aveva spezzato il cuore, chi le assicurava che sarebbe stato pronto a rimetterlo in gioco così presto?
 Non avrebbe funzionato, in ogni caso: suo padre lo avrebbe portato via comunque, non doveva mica chiedere il suo benestare.
E Chat Noir?
 Anche lui l’avrebbe abbandonata.
 La verità era che, di rimpianti, Marinette forse ne aveva anche troppi, ma se anche fosse tornata indietro nel tempo non avrebbe potuto cambiare nulla – non aveva il potere di trattenere né Adrien né Chat Noir, entrambi erano volati via come sabbia tra le dita.
 
*
 
 Dopo aver riaccompagnato Marinette a casa Adrien s’incamminò per l’albergo con il cuore leggerissimo e solo Ladybug in copertina poté appesantirlo. Si trovò a passare di fianco a un’edicola aperta ventiquattr’ore su ventiquattro e, suo malgrado, non si stupì di trovarla stracolma di prime pagine sull’eroina di Parigi. Con un groppo alla gola grosso quanto una pallina da golf ignorò i titoli che menzionavano Chat Noir e comprò il giornale con la foto migliore di Ladybug, forse per ricordo, forse perché farsi del male era l’unico modo per ricordarsi che lui ne aveva recato a lei.
 In qualità di Guardiana, Ladybug non aveva avuto nessuno cui restituire il miraculous, ma da quel giorno compariva sulle scene solo in casi eccezionali, se c’era da sventare una grossa rapina, fermare criminali pericolosi o salvare civili in situazioni di estremo pericolo. Adrien aveva seguito le sue gesta da lontano, stupendosi di come anche fuori dalla Francia il nome di Ladybug fluisse da una bocca all’altra con la stessa naturalezza del vento.
 Parlavano anche di Chat Noir, le mille voci che gli si affollavano disordinate nelle orecchie ovunque andasse.
 Perché non c’era più?
 Era morto?
 E Papillon?
 Adrien deglutì.
 Aveva dovuto fare una scelta, suo padre o Ladybug – aveva scelto suo padre.
 Chiedersi se avesse rimpianti o meno era una domanda inutile: se anche fosse tornato indietro non avrebbe avuto il coraggio di voltare le spalle al sangue del suo sangue.
 
Non avresti avuto il coraggio di andare contro
il volere di Ladybug, di ammettere che
avrebbe avuto ragione a farti
notare che il tuo piano
era una schifezza.
 
 Riviveva quel giorno ogni notte, e ogni notte la stessa vocina gli ricordava che aveva anteposto il proprio tornaconto personale al bene comune, il civile all’eroe, Adrien Agreste a Chat Noir.
 (E aveva ragione, la voce.) 
 
NOTE ➺ Questo è un capitolo di transizione e potrà esservi risultato noioso, me ne rendo conto, ma – dati anche i prompt da seguire – non potevo cambiarlo.
Vi ringrazio comunque di aver letto e, come sempre, vi do appuntamento a domani.
 

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Capitolo 7
*** Capitolo sesto ***


Capitolo sesto


(20 — cesto)
  
 «Per chi era il cesto di fiori che hai ordinato?»
 Le colazioni con suo padre erano sempre state scandite dal tintinnio dell’argenteria sui piatti e un silenzio tra loro che sembrava soffocante – tra tutte le volte in cui Adrien avrebbe voluto che il padre lo spezzasse, questa non era tra quelle.
 Almeno ci stava provando – erano cinque anni che ci provava, in effetti.
 «Un’amica.»
 «Invii cesti di fiori a un'amica alle sei di mattina?»
 Adrien si pulì gli angoli della bocca con un fazzoletto di stoffa. «Alla festa ho rincontrato una vecchia compagna di classe. Potrei… potrei averla messa nei guai con la sua capa, quindi ho pensato di scusarmi. Tu chiedi continuamente a Nathalie di inviare regali», ribatté, anche se, per amor di cronaca, Gabriel lo faceva solo per mantenere un briciolo d’apparenza.
 Nella pausa che seguì, Adrien si chiese se il padre stesse meditando se fargli notare o meno che lui, appunto, i regali li inviava tramite Nathalie, Adrien invece dei fiori se n’era occupato di persona.
 «Chi era quest’amica?» chiese tuttavia.
 Adrien sospettava che una parte di lui già sapesse. L’aveva incontrata a un evento di stilisti, chi altre poteva mai essere?
 «Marinette Dupain-Cheng.»
 Gabriel fece un mormorio d’assenso. «Me la ricordo. Era piuttosto promettente. Per chi lavora?»
 «Eugenia Belladonna.»
 «Ah. Povera ragazza.»
 Adrien non si preoccupò di nascondere un sorriso. «Da qualche parte bisogna pure iniziare», commentò, rammentando le parole di Marinette della sera precedente.
 Gabriel lo osservò da sopra una tazza di caffè. «Mi fermerò a Parigi per un po’. Non sei costretto a rimanere se non vuoi, ma potrebbe essere un’occasione per rivedere anche gli altri tuoi vecchi compagni di scuola.»
 La memoria di Adrien ritornò a quella stessa mattina, quando si era svegliato con un messaggio di Kim che lo invitava a una rimpatriata. Da quando Kim fosse mattiniero, e come facesse a sapere che era in città, erano domande a cui non aveva risposta, ma trovarne una nemmeno gli interessava.
 Sorrise. «Ti hanno già anticipato, papà.»
 
*
 
 Dispensare ad Alya Césaire informazioni che avrebbero acuito oltre l’immaginabile il suo amore per il ficcanasare era una pessima idea, soprattutto se si era Marinette e si conosceva bene ogni peculiarità della giornalista in questione.
Adrien Agreste ti ha invitato a bere qualcosa e avete parlato per tutta la sera! si era appena trasformato in Adrien Agreste ti ha fatto recapitare un cesto di fiori per “ringraziarti”! – ed era attorno a quel ringraziarti che s’attorcigliavano le mille insinuazioni di Alya.
 Di grazia, perché le aveva dato le chiavi del suo appartamento?
 «Non è successo niente, abbiamo solo parlato.»
 «Di cosa?»
 «… Cose.»
 «Cose cosa
 In un gesto di disperazione, Marinette cercò e trovò lo sguardo di Nino per implorare la sua solidarietà, ma Nino, ancora più disperato, il suo sguardo lo nascose puntandolo sulla torta che stava finendo di glassare per il compleanno imminente di sua madre. Proprio lui, la seconda e ultima persona, esclusi per ovvi motivi i suoi genitori, che aveva una copia della chiave del suo appartamento: vatti a fidare degli amici!
 Marinette reputò comunque saggio prendere spunto dalla sua strategia e cercò di sottrarsi ad Alya raccattando vestiti e altro in giro per tutto l’appartamento.
 «Parti dall’inizio», la incitò Alya senza farsi intimidire, seguendola prima di qua e poi di là come fosse la sua ombra.
 «Te l’ho detto, l’ho aiutato a scollarsi di dosso la Baronessa inventandomi di aver visto il signor Agreste alla festa.»
 «E nemmeno questo è servito a farti licenziare?»
 «Alya.»
 Alya mostrò i palmi in segno di resa – o meglio: si arrese sulla questione Belladonna, non sulla questione Adrien Agreste ti ha fatto recapitare un mazzo di fiori per “ringraziarti”!
 «Chi ha avuto l’idea di lasciare la festa, tu o lui?»
 Marinette prese un libro che nemmeno si ricordava di avere e lo portò in giro per mezzo appartamento solo per poi posarlo nello stesso punto. «Lui.»
 «E il locale chi l’ha scelto?»
 Fece finta di piegare una maglietta. «Ci siamo semplicemente trovati lì. Abbiamo riconosciuto il muretto contro cui Kim si è rotto il naso, ricordi?»
 «Alix non riusciva a smettere di ridere!»
 «Nino.»
 Nino riscoprì un incredibile interesse per la torta che stava finendo di preparare.
 Alya tornò a fissare l’amica che rifuggiva volutamente il suo sguardo. «E di cosa avete parlato per cinque ore?»
 Quell’informazione era una delle tante che Marinette rimpiangeva di averle fornito, non le avrebbe detto anche che aveva confessato i suoi sentimenti ad Adrien con solo otto o nove anni di ritardo rispetto al giorno in cui si era innamorata di lui.
 C’era stata la pioggia quel giorno, nel momento esatto in cui Adrien le aveva rubato il cuore, e c’era stata la pioggia anche quando Chat Noir l’aveva svuotato di ogni motivo per cui continuare a battere. Al solo pensiero sentì la gabbia toracica stringersi attorno ai polmoni e soffocarla dall’interno.
 «Marinette?»
 Lei scosse la testa e ributtò la stessa maglietta di prima sul divano, arrendendosi a tutte quelle pieghe. «Gli ho raccontato un po’ cosa ho fatto in questi anni, lui ha fatto lo stesso e… basta, abbiamo parlato. Il tempo vola quando sei in compagnia di un buon amico.»
 Alya scoccò un’occhiata furtiva a Nino e in quell’esatto istante Nino sollevò il mento per fare lo stesso. Marinette li conosceva troppo bene per non cogliere le sfumature più sottili in quello che era il loro personale linguaggio (li aveva sempre invidiati per questo, anche lei avrebbe voluto una persona speciale con cui comunicare in modi che nessun altro poteva afferrare – c’era Tikki, ma non era proprio la stessa cosa).
 Nino si pulì le mani con uno straccio e superò l’isolotto della cucina. «Penso che quello che Alya voglia dire, al di là dei suoi modi insistenti» – Alya gli scoccò un finto broncio e Nino ricambiò con uno sguardo tanto dolce da far sciogliere tutta la glassa su cui lavorava da mezz’ora – «è che siamo preoccupati per te. Se ti piace ancora Adrien… questa volta dovresti dirglielo.»
 «Magari alla rimpatriata di stasera.»
 «Alya…»
 «Era tanto per dire!»
 
NOTE ➺ Se pensate che ad aver detto a Kim che Adrien è in città siano stati Alya e Nino – soprattutto Alya – state pensate bene.  
A domani con la rimpatriata! che non è assolutamente una scusa per far rivedere Adrien e Marinette
 

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Capitolo 8
*** Capitolo settimo ***


Capitolo settimo


(21; 22 — arco; fuga)
  
Se ti piace ancora Adrien… questa volta dovresti dirglielo.
 Solo che Marinette gliel’aveva già detto. O meglio, gli aveva detto che un tempo le piaceva, sorvolando su come sentisse la pancia tremare come acqua in ebollizione e le gambe diventare liquirizia quando respiravano la stessa aria.
 La coscienza le ricordò la vera domanda – le piaceva ancora?
 La solita vocina fastidiosa gliene pose una ancora più difficile – e Chat Noir?
 Sentiva che quel giorno aveva inciso su di lei mille tagli e l’aveva fatto sottopelle, lì dove facevano ancora più male perché nessuno poteva vederli – si era illusa che il tempo sarebbe stato il suo alleato più prezioso e fidato, l’unico che avrebbe potuto curarli, ma si chiedeva ora se quei tagli fossero effettivamente guariti. Se era fortunata rimanevano solo le cicatrici.
 Adrien, però, lui non l’aveva mai ferita, almeno non intenzionalmente. Quando, da ragazzi, gli capitava di menzionare la ragazza che gli piaceva, non sapeva che Marinette per lui nutriva sentimenti altrettanto forti, altrimenti era sicura che non l’avrebbe mai fatto. L’unica certezza che aveva sempre avuto era che lui l’avrebbe rifiutata – eppure.
 Eppure Adrien aveva ammesso l’eventualità che fossero più che amici e di questo Marinette aveva ancora più paura, perché a ripensarci quelle cicatrici a volte ancora facevano male e non ne voleva di nuove.
 
*
 
Cinque anni e otto mesi prima
 
 Un cane abbaiò, l’allarme di un’automobile scattò, il pianto di un neonato costrinse i genitori ad accendere la luce per correre a calmarlo – i rumori della città le arrivavano in un miscuglio disordinato, eppure riusciva a sentire il respiro di Chat Noir al suo fianco.
 Non lo guardava. Continuava a scrutare il profilo di Parigi che si stagliava contro il nero del cielo come se non esistesse nient’altro, nemmeno lui – lui che si era presentato lassù in piena notte perché certo di trovarla lì, lui che vedeva le lacrime pizzicarle gli occhi ma non gliele faceva pesare.
 «Quanto ancora riuscirà a sfuggirci?»
 Non aggiunse altro, sapeva che Chat Noir avrebbe capito.
 «Oggi c’eravamo molto vicini.»
 Ladybug tirò su col naso. «È la stessa cosa che abbiamo detto l’altra volta. E l’altra prima ancora. Andrà a finire che a trent’anni saremo ancora qui a dargli la caccia.»
 «Per allora avrà problemi più grandi a cui pensare. Tipo, i reumatismi.»
 Ladybug rise e gli diede un buffetto sul braccio. «Sono seria.»
 Con la coda dell’occhio vide Chat Noir sorridere quando abbandonò il capo contro la sua spalla e lo ringraziò silenziosamente perché la lasciava fare.
 «Anch’io lo sono», ribatté lui, «prima o poi Papillon cederà. Anzi, dovremmo già iniziare a pensare a come festeggiare, hai idee»
 Ladybug stette ad ascoltare mentre Chat Noir elencava una lista delle sue – ignorava dove avrebbero trovato il budget per un gonfiabile gigante di Papillon che esplodeva in mille coriandoli mentre la folla applaudiva – e si sentì come se il mondo si fosse ridotto a una pallina di golf e non pesasse più.
 Erano così, loro due – se Chat Noir cadeva Ladybug si rialzava per lui, se Ladybug cadeva Chat Noir si rialzava per lei. A volte le sembrava che Chat Noir si rialzasse per entrambi, ed era in quei momenti che si aggrappava alla convinzione che, nonostante tutto, sarebbe stato sempre lì per lei – mai sarebbe fuggito, mai l’avrebbe abbandonata.
 La consapevolezza che dopotutto si stava innamorando della sua presenza costante bussò alla porta e, a scacciarla, Marinette non ci pensò neanche.
 
*
 
 L’Arco di Trionfo in lontananza illuminava la città come un lume e ogni volta che ci posava lo sguardo Marinette si sentiva invasa da un’ondata di tristezza più forte della precedente, come se Chat Noir fosse scomparso da due o tre giorni. Guardare i suoi vecchi compagni di classe la faceva stare meglio: le ricordava dei bei tempi andati, quando tutto era più semplice e quelli che allora le sembravano problemi insormontabili erano solo una goccia nell’oceano.
 Non mancava nessuno alla rimpatriata – nemmeno Adrien.
 Quando lo vide sfuggire alla presa di Kim e andarle incontro sentì lo stomaco fare le acrobazie. Cercò di ignorare la sensazione e gli rivolse un sorriso.
 Lui ricambiò. «Alya mi ha detto che saresti arrivata tardi.»
 La stava aspettando?
 Sperò di non essere arrossita al pensiero. «Ah, sì… lavoro.»
 «Problemi con la Belladonna?»
 «No, solo i suoi soliti capricci. Sai che non ha nemmeno capito che quella dell’altra sera era una bugia?»
 Adrien rise. «Allora i miei fiori di scuse non servivano.»
 «Li ho apprezzati lo stesso.»
 «Sono contento.» Fece una pausa e aggrottò le sopracciglia come a star rincorrendo un pensiero, poi rilassò lo sguardo e aggiunse: «Non so bene nemmeno io se fossero solo per scusarmi, a essere sincero.»
 Marinette perse uno o dieci battiti. Si umettò le labbra improvvisamente secche. «In che senso?»
 Vide Adrien portare una mano alla nuca con imbarazzo e provò un’infinita tenerezza. Era in quei momenti che più si ricordava che la sua sbandata adolescenziale – divenuta presto molto più che una sbandata – era sempre lì.
 «Mi ha fatto davvero piacere rivederti, l’altra sera. Molto più che rivedere tutti gli altri. E quello che hai detto mi ha fatto pensare. Mi tratterò a Parigi per un po’. Stavo pensando…» – il tempo si cristallizzò, il resto del mondo sparì – «ti andrebbe di vederci, questo finesettimana?»
 Marinette si sentì come se qualcuno le avesse strappato i polmoni per impedirle di respirare. «Mi stai chiedendo un appuntamento?»
 «Be’, sì», farfugliò Adrien. «Sì», ripeté con ritrovato sorriso. «Un appuntamento.»
 Dire che la Marinette adolescente sarebbe esplosa in mille pezzi e si sarebbe ricomposta solo per urlare sì (sì, sì, sì, sì, sì, Adrien! Voglio uscire con te! Stare con te! Fare tutto con te!) era un eufemismo. Quella Marinette avrebbe potuto scriverci un libro sulla voglia matta che aveva di andare a un appuntamento con lui. Macché un libro, un’enciclopedia: Mille e uno motivi per cui voglio uscire con Adrien Agreste: una biografia. Solo che di enciclopedia ce n’era anche un’altra: Mille e uno motivi per cui non riesco a chiedere ad Adrien Agreste di uscire con me: una biografia ancora più reale.
 Tra i suoi mille piani falliti, la maggior parte dei quali orchestrati da Alya, mai Marinette aveva messo in conto la possibilità che fosse Adrien stesso a fare il primo passo perché forse lui nemmeno la ricambiava. Alya e Tikki erano sempre state lì a scacciare quel brutto pensiero, ma un giorno le parole di Adrien lo avevano reso un incubo reale – la ragazza che mi piace, aveva detto.
 Fu a quei ricordi che Marinette guardò Adrien da sottinsù e schiuse le labbra per liberare parole che mai credeva avrebbe pronunciato: «Non c’è nessun altro motivo per cui me lo stai chiedendo?»
 Adrien la osservò con occhi serissimi. «Pensi ti voglia usare?»
 «No!» La prontezza della sua risposta sorprese anche lei. Si accorse di essere tesa come una corda di violino e rilassò le spalle. «Cioè, non lo so», rettificò con tutta l’onestà di cui era capace. «Non penso tu ne sia capace, ma…»
 Attorno a quel ma s’attorcigliavano e si stringevano mille fili fatti di incertezze e timori e Marinette si chiedeva se avrebbero finito per soffocarla.
 Ma – ho paura.
 Ma – non voglio passarci, non di nuovo.
 Ma – non lo so nemmeno io.
 Ma – e se fuggisse anche lui?
 «Adrien! Marinette! Scommettiamo che Alix vince di nuovo?»
 «Kim, non spaccarti di nuovo il naso.»
 «Ehi!»
 Prima che il mondo tornasse di nuovo a essere tangibile e li inghiottisse, Adrien disse una sola cosa: «Io… non so cosa avrei risposto anni fa. Ma ora mi piaci, ne sono certo. Sei l’ultima persona che userei per dimenticare un’altra o per passare il tempo, se mai volessi farlo. Se non te la senti puoi dirmi no. Spero comunque che rimarremo amici.»
 E Marinette sentì qualcosa sciogliersi dentro mentre il mondo tornava e Max chiedeva quanto voleva puntare contro Kim, Kim urlava perché tutti lo davano già per spacciato e Alya, in un sussurro mal riuscito che avrebbero sentito anche i sordi, diceva a tutti di non interromperli.  

NOTE ➺ Da questo capitolo in poi inizia il panico tipico da Writober. Le bozze che già mi ero preparata vanno revisionate, quindi è una corsa contro il tempo nel cercare di pubblicare nei giorni prefissati scrivendo robe decenti. Poiché ieri non sono riuscita a pubblicare ho deciso di fondere insieme due giorni tagliando le parti più superflue, e ciononostante il capitolo è abbastanza corto.
Tengo molto a questa long e, benché il Writober mi abbia dato la spinta necessaria a metterla per iscritto, non voglio rovinarla, dunque sarò onesta: potrebbe capitare di pubblicare con un giorno o anche più di ritardo. Niente di cui preoccuparsi, perché grazie ai prompt ho già le idee chiare e non lascerò assolutamente la long incompiuta: vi avviso solamente nel caso non vediate gli aggiornamenti giornalieri.
Ancora una volta grazie a chi sta seguendo questa long; al prossimo capitolo!   

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Capitolo 9
*** Capitolo ottavo ***


Capitolo ottavo


(23 — appuntamento)
  
 Marinette buttò l’ennesimo pezzo di cartastraccia nel cestino e richiuse lo sportello del mobiletto con più foga del necessario.
 «Quella donna è un incubo», borbottò prendendo un altro foglio per schizzare una nuova idea.
 Davvero, qualcuno ce l’aveva con lei? Si era macchiata di un torto nei confronti dell’universo intero senza rendersene conto? Perché non era possibile che nemmeno due giorni dopo il suo sì ad Adrien (Adrien Agreste che le aveva chiesto un appuntamento di sua spontanea volontà), un solo messaggio della Belladonna fosse bastato a scombinare tutti i suoi piani.
 «Adrien non l’ha presa male», tentò di farle coraggio Tikki.
 Marinette schioccò la lingua. «Io sì.»
 L’invito inaspettato – e insperato – di Adrien l’aveva spiazzata come un vento gelido che si scateni all’improvviso. Un fuoco le si era accesso in pancia, un’eccitazione calda mista a tante altre cose che ribollivano come in una pentola.
 Era felicissima ma aveva una paura matta, aveva una paura matta ma era felicissima. Alya era esplosa per entrambe, e a poco erano serviti i tentativi di Nino nel dissuaderla dal tempestare Marinette di mille domande.
 Marinette, però, le era grata. Tra le tante cose, le riconosceva il merito più importante: quello di essere riuscita, con la sua caoticità, a tenerla sempre ancorata alla realtà. Come Tikki le ricordava che Ladybug non doveva prendere il sopravvento, così Alya la spingeva sempre a uscire, a incontrare nuova gente, a non rimanere tappata in un appartamento tra manichini sparsi ovunque e mille schizzi buttati in giro.
 Marinette qualche appuntamento l’aveva avuto, e sebbene si fosse chiesta più volte se a non averli portati a buon fine fosse la presenza costante di Chat Noir nei suoi ricordi, la richiesta improvvisa di Adrien, per la prima volta, le fece pensare di no. Non sapeva nemmeno lei se Chat Noir fosse ancora ferita fresca o cicatrice che non smetteva mai di dolere, ma con Adrien non sentiva la vocina fastidiosa che la giudicava perché voleva andare avanti.
 Si sfilò l’anello dal collo e lo lasciò penzolare a pochi centimetri dal suo naso, osservandolo come se quel semplice gesto potesse riportare indietro il suo vecchio proprietario. Tikki le si fece vicina nello stesso momento in cui Plagg uscì dal miraculous.
 Il kwami sbadigliò. «Ho fame.»
 Marinette alzò gli occhi al cielo, ma sorrise. «Il camembert è al solito posto. Non lasciarlo in giro, l’ultima volta Alya mi ha chiesto perché ci fosse formaggio puzzolente tra i cuscini del divano.»
 Plagg era la nota meno dolente dell’assenza di Chat Noir – a far male era la certezza che, anche se lo mostrava di rado, il vuoto che Plagg sentiva dentro era grande quanto il suo, se non di più.
 Come Marinette, Plagg non lo nominava mai. Il vincolo magico che lo legava al suo vecchio portatore e gli impediva di pronunciarne il nome si era spezzato: ciononostante, Plagg non lo nominava mai. A volte l’argomento usciva per caso e Marinette sentiva il cuore precipitare a picco fino a toccare terra, tanto pesante da poter spaccare il pavimento. In quel momento si chiese se anche Chat Noir avesse mai corso guai per colpa di Plagg che lasciava pezzi di formaggio ovunque. D’istinto guardò Tikki. Si domandò cosa avrebbe provato lei a rinunciare spontaneamente alla sua compagnia e si promise che mai avrebbe avuto bisogno di una risposta perché mai si sarebbe separata da lei.
 Tikki intanto aveva preso a rosicchiare un biscotto. Marinette stava per unirsi a loro per un pasto veloce prima di tornare al lavoro quando il campanello suonò. Nascose l’anello di Chat Noir nel fondo di un cassetto e si assicurò che Plagg e Tikki non fossero più in cucina prima di andare ad aprire.
 Immaginava di trovarsi Alya – la sorpresa fu ancora più gradita.
 Sorriso che gli accendeva il volto e mazzo di fiori in una mano, Adrien sollevò l’altra in segno di saluto. «Se tu non puoi andare all’appuntamento… l’appuntamento viene da te», scherzò goffamente (Marinette lo trovò adorabile). «Posso entrare?»
 Marinette si scostò di lato per farlo passare. «Non dovevi», disse mentre richiudeva la porta.
 Adrien alzò le spalle. «Ho pensato ti facesse piacere. Non è che avessi altri programmi o roba del genere.»
 Anche perché lei gli aveva dato buca. Non per sua colpa, ma gli aveva dato buca.
 «Non ti distrarrò dal tuo lavoro, promesso.»
 Marinette non disse che un po’ ne dubitava: di certo non poteva abbandonarlo lì in un angolo mentre si scervellava per trovare un’idea che avrebbe soddisfatto i capricci della Belladonna. Nondimeno, le guance le si imporporarono di fronte all’iniziativa di Adrien che come sempre dimostrava di essere tutto zucchero e cannella.
 «Il bozzetto è per domani mattina?» chiese lui.
 Mentre lo superava per dirigersi in cucina Marinette annuì. «Ha solo aspettato l’ultima sera per darmi la scadenza.»
 «Una datrice di lavoro impeccabile», scherzò Adrien mentre costeggiava il frigorifero per osservare i bozzetti attaccati in giro con le più disparate calamite. Ne riconobbe una di Londra, tre dall’Italia, due dalla Cina e tantissime di Parigi. Si appuntò mentalmente di regalarle la più bella che avesse trovato ad Amsterdam, quando vi avesse fatto ritorno per un motivo o per un altro. Magari avrebbe chiesto il favore a Nathalie, o persino a suo padre.
 «Sono stupendi.»
 Marinette fu grata che non potesse vederla arrossire dietro le lentiggini.
 «Perché non presenti uno di questi? Non dirmi che la Belladonna li ha scartati!»
 «No, non proprio. Diciamo solo che tu e Alya non siete gli unici a volere che mi metta in proprio.»
 «Li conservi per una tua linea futura?»
 «L’idea è quella, anche se servono comunque dei ritocchi.»
 «Non far vedere tutto questo alla Baronessa
 «Dubito che voglia mettere piede in una qualsiasi abitazione che non sia una villa a tre piani.»
 Adrien rise. «Meglio per te.»
 Calò un silenzio spezzato solo dal clamore di qualche tazza e piatto che Marinette stava rimettendo a posto. Con la coda dell’occhio vide Adrien posare lo sguardo sulla bacheca che suo padre l’aveva aiutata a montare tra il frigorifero e una finestra. Marinette vi aveva appeso ritagli di giornale (il primo articolo di Alya su Ladybug era il pezzo forte), fotografie che raffiguravano un po’ tutti gli eroi che avevano combattuto al suo fianco, due o tre calamite e… lui. Altrettanti articoli, fotografie, qualsiasi cosa. Marinette si concentrò su un’interessantissima tazzina scheggiata per ignorare la fitta al petto.
 Quando aveva partorito l’idea di quella bacheca aveva avuto due preoccupazioni: che qualcuno – soprattutto Alya e i suoi genitori – potesse insospettirsi, e che rivedere Chat Noir ogni singola mattina era una tortura di cui non aveva bisogno. Il primo non era un vero e proprio problema: qualunque parigino in casa aveva almeno un oggetto riconducibile a Ladybug e Chat Noir, e nel suo piccolo Marinette si era sempre mostrata fan di entrambi. Quanto al secondo punto, lei di Chat Noir si sarebbe ricordata anche se qualcuno avesse fatto sparire ogni sua singola fotografia dalla faccia della terra.
 «Come mai questa bacheca?» domandò Adrien.
 «Ah… mi piaceva l’idea. All’inizio avevo attaccato solo il primo articolo di Alya per conto di un giornale importante, poi mi sono lasciata prendere la mano.»
 A parte l’omissione di alcuni particolari era la verità, e proprio per questo riuscì a mantenere ferma la voce nonostante il ricordo di chi non c’era più minacciasse di spezzargliela.
 «Anche quella foto di Carapace l’ha scattata lei. Ne va molto fiera.»
 Marinette sapeva benissimo il perché e non riuscì a trattenere un sorriso.
 «Anche questa di Chat Noir e Ladybug l’ha scattata Alya, sbaglio?»
 Marinette seguì il suo braccio fino alla fotografia indicata e la osservò con una fitta al petto.
 No, non sbagliava.
 Sarebbe stato impossibile per lei dimenticare quel giorno – Chat Noir che faceva un gioco di parole squallidissimo, le sue fan che ridacchiavano, lei che sotto la finta espressione seccata non riusciva a nascondere un sorriso perché Chat Noir era Chat Noir e i suoi tentativi di farla ridere risultavano efficaci anche laddove un tempo avrebbero fallito perché qualsiasi cosa detta da una persona cara è speciale.
 Marinette si schiarì la gola. «Sì, l’ha scattata Alya.»
 Stava per chiedere ad Adrien come faceva a saperlo quando lui disse: «Me l’ha mostrata Nino tanto tempo fa. Era fierissimo che quella foto avesse fatto il giro di tutti i social.»
 Marinette ricordava che era diventata un trend su Twitter in meno di un’ora e i commenti erano stati uno più invadenti dell’altro – ecco, quella parte non le mancava affatto.
 Adrien non aggiunse altro. Mentre continuava a far correre lo sguardo dalla bacheca ai bozzetti e viceversa, Marinette prese un tagliere e lo riposò, poi fece la stessa cosa con due pentole e un paio di piatti. Mani sulle anche, fissò scoraggiata tutte le alternative che la sua cucina le offriva senza che almeno una la allettasse: in tutta sincerità, cucinare era l’ultima cosa che aveva voglia di fare. La vita da adulta le aveva insegnato che purtroppo i piatti non compaiono per magia sul tavolo a colazione, pranzo e cena, e per una come lei che aveva due genitori che a ogni ora le mettevano sotto il naso brioche e pasticcini, era una dura verità da accettare. Vivere di cibo da asporto non era la più salutare delle alternative, ma in quei momenti era troppo debole per resistere al richiamo della pigrizia.
 Si accorse a stento di Adrien che la osservava con un sorriso che suo malgrado non riuscì a nascondere.
 «Ehm… ti serve una mano?»
 La sua proposta fu troppo allettante per declinare.
 «Giusto un po’.»
 Si promise che non si sarebbe approfittata della sua gentilezza, quindi andò a finire che Adrien prese pieno possesso dei fornelli mentre Marinette si limitò a fare avanti e indietro per mezzo appartamento con matita e fogli alla mano e mille idee che le si affollavano in testa.
 Tre ore dopo Adrien sarebbe stato ancora in sua compagnia, e del bozzetto che doveva presentare non c’era neanche l’ombra.  

NOTE ➺ Come avevo già detto nelle note del capitolo precedente, questo aggiornamento arriva con due giorni di ritardo; il prompt è infatti del 23. Poco male, comunque. Alla fine penso che questo ritardo infastidisca più me che voi.
Non ho altro da aggiungere se non che, prima di darvi appuntamento a domani, vi lascio dopo questo capitolo uno spaccato che fa da tramite tra il capitolo otto e il capitolo nove. Una sorta di 8.5, se volete.  

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Capitolo 10
*** Capitolo ottavo – intermezzo ***


Capitolo ottavo – intermezzo


(25 — fondo)
  
 Gabriel sapeva di aver toccato il fondo – l’aveva sempre saputo, ma l’idea che un semplice umano potesse riavvolgere il tempo, costringerlo a piegarsi al proprio volere e restituirgli la persona più preziosa al mondo gli aveva fatto perdere ogni logica.
Per Adrien, era la bugia che si ripeteva – per me, era la verità che non poteva più rifuggire.
 L’altra verità era che lui, per Adrien, non aveva mai fatto nulla. Anche la sua rinuncia più grande, quella che sembrava avergli strappato i polmoni – Adrien o lei, Adrien o lei, Adrien o lei – non era grande quanto la rinuncia che Adrien stesso aveva fatto per loro, per lui. Si era fatto carico di colpe che non gli appartenevano e vi aveva posto rimedio rinunciando a qualcosa e qualcuno che per lui era importante come l’aria.
 Gabriel compì ampie falcate mentre scendeva le scale, il rumore delle suole sul marmo che riecheggiava tra le pareti della villa. Adrien gli aveva detto che sarebbe rimasto e, visto che Gabriel condivideva le sue stesse intenzioni, non c’era motivo che rimanessero in albergo. Adrien gli aveva chiesto se era d’accordo a riaprire casa – far prendere aria alle stanze, togliere il cellofan dai mobili, liberarsi della polvere. Gabriel aveva detto sì.
 Diceva sempre, o quasi, sì.
 Ormai i suoi sì erano sempre più frequenti e i no sempre più assenti. Riteneva di non avere più il lusso di avvalersi dei vecchi no – non solo perché Adrien ormai era un adulto, ma perché a recuperare il rapporto, a sfruttare quella seconda occasione che non meritava, Gabriel ci teneva davvero. Non c’era giorno in cui non riviveva quella maledetta sera e ogni volta si chiedeva fin dove si sarebbe spinto se Adrien, Chat Noir, non l’avesse fermato.
 Aveva paura della risposta.
 Da fuori giunsero le sirene della polizia. Gabriel trasalì sul posto. Le sentì lontane, poi vicine, infine si ovattarono di nuovo a tal punto da permettergli di sentire lo scatto metallico della serratura. Un cono di luce lo investì mentre Adrien entrava.
 Adrien che si fermò di colpo quando lo riconobbe. «Papà. Qualcosa non va?» chiese incerto.
 Gabriel immaginò che farsi trovare in piedi nel bel mezzo della sala buia alle due e un quarto di notte potesse generare diverse preoccupazioni. Stava per rispondere che non riusciva a prender sonno, ma s’interruppe quando individuò una cosa strana alle spalle di Adrien. Una macchia nera grande quanto una palla da tennis.
 Assottigliò gli occhi.
 La voce gli s’incastrò in gola.
 Sbatté le ciglia una, sei, dieci volte.
 Deglutì.
 Non stava sognando.
 «Adrien.»
 Con un cenno del capo invitò il figlio a voltarsi. Assecondandolo, Adrien fissò lo sguardo su un punto nero alle sue spalle.
 A casa Agreste, la minuta figura fluttuante messa in risalto dalla luce che filtrava da una finestra e l’anello stretto tra le zampette che emanava un debole luccichio, c’era Plagg.  

NOTE ➺ Questo piccolo spaccato con Gabriel mi serviva per introdurre il capitolo successivo. Sul suo conto ho da dire soltanto che mi rendo conto di averlo reso molto diverso dal Gabriel pazzo malato psicopatico da rinchiudere un po’ folle del cartone, potrebbe risultare OOC. Però… c’è una cosa importante, in merito a quella maledetta sera cui ripensa, che secondo me può giustificare un cambiamento tanto radicale. Ma lascerò che sia la storia a parlare quanto si arriverà a quella parte lì (cioè, tra tre o quattro capitoli, perché non è che manchi molto).  

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Capitolo 11
*** Capitolo nono ***


Capitolo nono


(26; 27 — fulmine; tramonto)
  
 Un fulmine squarciò il cielo come a volerlo spaccare in due, un altro seguì e minacciò di raddoppiare il danno. Adrien, i capelli zuppi d’acqua, sentì un brivido attraversagli la schiena, ma non si fece scoraggiare e proseguì tra un balzo e l’altro. Il solo pensiero che Ladybug si trovava in mezzo a quel delirio della natura erano mille pugni allo stomaco, e a confortarlo c’era solo la consapevolezza che lui era l’unico in grado di correre in suo aiuto.
 Nemmeno dieci milioni di litri d’acqua e fulmini che ruggivano come leoni affamati avrebbero impedito a Chat Noir di combattere al fianco di Ladybug com’era stato fin da principio.
 
*
 
 Un fulmine tagliò in due il cielo e il suo bagliore le s’incastrò tra le pieghe del viso contratto per il dolore. La spalla pulsava come se fosse dotata di un cuore tutto suo. Un autobus pieno zeppo di gente aveva rischiato di capovolgersi su se stesso e Marinette aveva dovuto far ricorso a tutte le sue forze per impedirlo tenendo stretto lo yo-yo. Quell’arma all’apparenza innocua l’aveva salvata più volte di quante un normale umano potesse ricordare.
 Non vedeva a più di cinque metri dal suo naso. Se aguzzava l’udito riusciva a malapena a isolare lo sciabordio dell’acqua contro i tetti. Sapeva che il criminale, o i criminali, erano là da qualche parte. In una manciata di secondi che parvero un’eternità si interrogò se fosse più saggio rimanere sul posto o lasciarlo per tornare con i rinforzi.
Forse Alya…
 No. Forse niente. Forse Alya non era sola. Sicuramente non era sola.
 Nel corso degli anni Marinette aveva dispensato i miraculous a persone di cui sapeva di potersi fidare, e la prima era stata proprio Alya. Alya che senza dubbio era in compagnia di Nino.
 Ladybug e Marinette potevano coesistere, le ripeteva Tikki – era vero?
 Ne dubitava, in cuor suo ne aveva sempre dubitato – aveva appallottolato il pensiero come un foglio di cartastraccia e aveva cercato di gettarlo lontano, ma qualcuno continuava a raccoglierlo per rispedirlo al mittente.
 Un lavoro ce l’aveva, degli amici anche. Ma cosa sarebbe successo quando avesse avuto un compagno? Perché un tempo era stato se, ora era quando.
 Dopotutto, Adrien… lui… ne avrebbero parlato.
 Rimaneva tuttavia che fino a mezz’ora prima erano nel suo appartamento a ridere e scherzare – cosa sarebbe accaduto se le sirene della polizia le avesse sentite quando erano ancora insieme? Non poteva ignorarle, ma nemmeno piantare in asso Adrien senza uno straccio di scusa. Non c’era motivo logico che giustificasse uscire in piena notte con un tempaccio simile.
 Con un balzo Ladybug atterrò sull’asfalto bagnato. Ancora nessun rumore.
 Forse doveva solo ritenersi fortunata e concentrarsi sul presente anziché prendere in considerazione eventualità ormai scampate, ma la sorte non sarebbe stata sempre dalla sua parte. Prima o poi…
 Colse un movimento.
 «Ladybug!»
 Marinette non ebbe tempo di processare nulla. Qualcuno aveva urlato il suo nome, qualcun altro (la stessa persona? Un’altra?) le piombò addosso e insieme rotolarono per svariati metri prima di fermarsi. Ringraziò l’adrenalina che teneva sotto controllo il dolore alla spalla e si costrinse a non pensare a quando se ne sarebbe andata.
 «Stai bene?»
 Era la voce di un uomo.
 Sembrava…
Impossibile – non poteva.
 Il tempo di sollevare il mento e il mondo intero sparì portandosi con sé anche i suoi stessi polmoni. Passarono esattamente quattro secondi prima che dovessero scansarsi di nuovo, quattro secondi che sembrarono più lunghi della sua intera vita.
 Chat Noir l’aveva appena salvata.
 
*
 
 Non c’era stato giorno in cui Adrien non avesse pensato a lei. La mente aveva ipotizzato lo stesso scenario in mille modi differenti. Una volta era giorno, un’altra era sera, un’altra ancora c’era il tramonto. Ogni tanto Ladybug aveva i capelli sciolti, ogni tanto erano raccolti in quelle codine basse che l’avevano contraddistinta per anni. A volte era arrabbiata, altre così felice di vederlo che gli correva incontro e lo stringeva come a non volerlo lasciar andare mai più.
 Di tutti, Adrien sapeva che quello era lo scenario meno plausibile. Ne ebbe la conferma quando la vide allacciare le braccia al seno come a volersi schermire dai sentimenti violenti che la sua sola presenza le provocava.
 Non c’era sole, non c’era tramonto che schizzava il cielo di rosso e arancio – solo fulmini, quelli e la pioggia che batteva ancora più forte di prima quasi a imitare l’umore di Ladybug per indurlo ad andarsene.
 Avevano combattuto insieme per aiutare la polizia e tutto era sembrato come un tempo, eccetto che niente lo era davvero – non loro, non la complicità e mille altre cose che c’erano state a legarli.
 «Dove hai preso il miraculous
 Nemmeno un ciao, niente: Adrien non si aspettava di essere accolto a braccia aperte, ma constatare di persona tutta quella freddezza nei suoi confronti fu un pugno ai polmoni. Riusciva a respirare solo perché gli serviva per vivere.
Per favore, odiami, l’aveva pregata cinque anni prima – Ladybug aveva ubbidito.
 Adrien dovette umettarsi le labbra prima di rispondere. «Me l’ha portato Plagg. Ha detto che ti sei precipitata fuori non appena hai sentito le sirene della polizia. Era preoccupato, pensava ti servisse una mano.»
 E ci aveva visto giusto.
 Adrien fu il più onesto possibile, come se quello bastasse a richiudere una ferita aperta da cinque anni.
 Cinque anni, sei mesi e… quanto? Quindici giorni. Ventitré ore, forse ventiquattro. Era tornato a Parigi da poco meno di una settimana. Gli sembrava di aver vissuto cinque anni e mezzo in attesa di quel solo momento.
 Studiò l’espressione di Ladybug e da quella capì che quantomeno credeva alla sua versione. Come ulteriore prova lei annuì.
 «Va bene, puoi andare ora. Cerca di non farti vedere da nessuno, non voglio passare i prossimi anni con i giornalisti che mi chiedono perché sei ricomparso e sparito di nuovo.»
 «Eh?»
 Ladybug gli aveva fatto capire che non voleva che tenesse il miraculous. Adrien, ancora scosso dal rivedere Plagg e Ladybug nella stessa sera, proprio quando pensava che appartenessero solo al passato, non aveva ancora pensato al dopo.
 Qual era il prossimo passo?
 Parlare con Plagg, anzitutto. A casa non avevano avuto il tempo di riconciliarsi, correre in aiuto di Ladybug era stata la priorità. Adrien voleva far sapere a Plagg che gli dispiaceva, che non un giorno era passato senza che una lacrima fosse versata al ricordo della sua compagnia – che non un giorno era passato senza che gli mancasse la puzza del camembert sui vestiti, i suoi interventi fuori luogo, il suo sarcasmo spicciolo. Voleva dimostrargli che non era stato inutile, che suo padre era davvero cambiato, sebbene Plagg non sembrasse disposto a riconsiderare l’opinione che si era fatto di lui quando insieme avevano scoperto che era Papillon.
 «A te non ho niente da spiegare», aveva detto a suo padre con un’occhiata gelida che mai Adrien gli aveva visto addosso, prima di rivolgersi a lui e spiegargli che Ladybug aveva bisogno del suo aiuto.
 E a Ladybug, a lei cosa poteva dire?
 Niente.
 La situazione non era cambiata. Non poteva rivelarle la sua identità e confessarle che i suoi sentimentalismi avevano trasgredito la ragione spingendolo a puntare tutto su suo padre – suo padre che era Papillon, suo padre che per lui aveva smesso di esserlo.
 Non poteva perché – perché?
 Un altro fulmine illuminò il cielo e Adrien si sentì come se lui stesso ne fosse stato colpito.
 «Ladybug.»
Buginette.
Milady.
 Nessun soprannome – non poteva farle questo.
 Ingoiò il groppo alla gola. Finalmente vedeva la luce in fondo al tunnel.
 Doveva solo dirle la verità.
 «Lo so che non ti fa piacere rivedermi, ma...»
 Ladybug proruppe in una risata isterica e lo guardò come se volesse conficcargli un coltello nel petto e allo stesso tempo stringerlo in un abbraccio fino a soffocarlo. «Certo che mi fa piacere rivederti.»
 La voce vibrò sotto le labbra tremanti, Adrien poteva figurarsela spezzarsi come fosse fatta di vetro – con solo sei parole Ladybug era riuscita a fare entrambe le cose, rinfacciargli la sua fuga e buttargli il cuore tra le mani (era sempre stato tra le sue mani).
Per favore, odiami, l’aveva pregata cinque anni prima – Ladybug non aveva ubbidito.
 Adrien sentì la terra sotto i piedi tremare come foglie al vento. Sprofondare, cadere e disintegrarsi sotto il peso della gravità avrebbe fatto meno male.
 «Vuoi che ti dica che non ho sperato in questo momento da quando te ne sei andato? Perché sarebbe mentire. Ero sicura che una ragione ci fosse, continuavo a ripetermelo ogni giorno e… e nonostante tutto ci credevo. Ma adesso mi pare evidente che sei stato a Parigi tutto questo tempo e se non sei tornato era perché non volevi.»
 Aspetta – cosa?
 Ad Adrien vennero a mancare le parole. Cercò di costringerle a uscire ma quelle gli s’incastrarono in gola. Allungò un braccio come a poterla fermare nonostante fossero lontani metri l’uno dall’altra.
Ladybug…
 «Di’ a Plagg che lo aspetto a casa», furono le sue ultime parole prima di sparire nel buio.  

NOTE ➺ Sono in ritardo di tre giorni, quasi quattro! Sarò sincera, non avevo molta voglia di pubblicare e ho rimandato fino ad ora. Recupererò in questi giorni, non vi preoccupate.
A parte questo… devo fare un mea culpa. Ho inserito la cosa del “cinque anni, otto mesi” e bla bla perché mi sembrava una bella chicca, ma sono stata scema e ho scritto “otto giorni e settantaquattro ore” nonostante settantaquattro ore siano tre giorni e due ore. Sì, insomma, ho cannato alla grande, quindi ho sistemato la cosa. Non so nemmeno se qualcuno se ne sarebbe accorto, ma mi sembrava giusto metterlo in chiaro (giusto per ribadire che sono cretina).
Grazie per aver letto fin qui, a domani!  

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Capitolo 12
*** Capitolo decimo ***


Capitolo decimo


(28 — amaro)
  
 A Marinette sembrava di respirare fumo e cenere. Le sembrava di aver ingoiato un boccone amaro e non riusciva a scacciare il sapore.  
 Non sapeva con quale forza le gambe l’avevano retta in piedi quando, rientrato il pericolo, si era trovata faccia a faccia con Chat Noir – Chat Noir che era diventato più alto ma conservava ancora capelli paglierini e occhi verde brillante. Il sorriso era diverso. Il sorriso sghembo e ironico che lo contraddistingueva non c’era. O meglio, l’aveva nascosto. Le era parso sinceramente dispiaciuto, non aveva voluto ferirla ancora di più. Eppure…
 Eppure basta. Basta trovare giustificazioni che non meritava. Chat Noir l’aveva ferita. Altro che cicatrici, Marinette sentiva l’intero corpo sanguinare fino a svuotarle le vene.
 Ripensò a Plagg. Malgrado tutto, Marinette doveva ammettere che la sua idea si era rivelata ottima: senza Chat Noir sarebbe stata gravemente ferita, se non peggio, e subito dopo di lei sarebbero stati i cittadini a pagarne le conseguenze. Era stata una fortuna aver lasciato l’anello nel fondo del cassetto in cui l’aveva nascosto quando Adrien si era presentato da lei. Ma una domanda non la smetteva di rimbalzarle in mente: come faceva Plagg a sapere dove si trovava Chat Noir?
 Una fitta al petto quasi le mozzò il respiro.
 Davvero era sempre rimasto a Parigi, per giunta nella stessa casa?
 Marinette aveva studiato il problema da tutte le angolazioni possibili alla disperata ricerca di una soluzione, ma di soluzione ce n’era una soltanto: sì, era rimasto a Parigi per tutto il tempo. Come altro faceva Plagg a sapere dove trovarlo? Anche ammesso che Chat Noir fosse tornato in città da poco, questo Plagg non poteva saperlo.
 Eppure voleva avere la conferma di Plagg. Sotto metri e metri di delusione, confusione e forse persino rancore, Marinette conservava la speranza, per quanto pallida e remota, che ci fosse un motivo. Perché, anche se il solo ammetterlo a sé stessa era come farsi violenza, lei in Chat Noir ci credeva. Non aveva mai smesso di farlo – non ne era capace.
 Pensava che almeno questa ammissione la aiutasse a mettere ordine nella sua mente, ma si sbagliava. Più rifletteva e meno tutto quanto aveva un senso. L’aria era sempre fumo e cenere, in bocca avvertiva un sapore metallico simile a quello del sangue. Si guardò attorno e non seppe nemmeno dire quando si fosse rannicchiata sulla cima dell’Arco di Trionfo.
 Il loro posto.
 Avrebbe voluto piangere, urlare, sgolarsi fino a far bruciare le corde vocali.
 Le mancavano però le lacrime, le mancava la voce.
 C’era solo una cosa da fare: tornare a casa, parlare con Plagg, schiarirsi le idee e dormire. Le serviva proprio, sentiva le palpebre farsi pesanti come macigni…
 
 Aveva freddo. Le faceva male la schiena, la spalla implorava pietà. Da qualche parte là sotto (sotto dove?) due o tre cani abbaiarono. Proprio così, Marinette si svegliò.
 La prima cosa che vide furono cinque metri di vuoto. Lo stomaco si attorcigliò su se stesso e Marinette dovette farsi forza per non urlare.
 Si tirò indietro e si mise seduta.
 «Mi sono addormentata qui. Grandioso.»
 Il cielo era rosa pallido e in strada c’era meno gente di quanta se ne vedesse di solito in quella zona di Parigi. Non doveva essere più tardi delle sei.
 Tornare a casa, parlare con Plagg, schiarirsi le idee e prepararsi per la giornata – ecco cosa doveva fare. Invece, fragile come un cucciolo abbandonato, si rifugiò nell’unico posto, o meglio persona, che in quel momento urlava casa. Non i suoi genitori, non Adrien – Alya.
 Ladybug lasciò l’Arco di Trionfo e una volta sul posto si acquattò su un tetto che affacciava sull’appartamento di Alya. Si chiese se Nino avesse dormito da lei. Un’idea le suggerì di sbirciare attraverso la finestra per accertarsene e Marinette si sentì sporca anche solo a considerarla.
 Cosa stava facendo? Servirsi dei poteri di Tikki per andare dove le pareva, quando camminare a piedi era un’alternativa più che valida, era una follia! In pieno giorno qualcuno avrebbe potuto vederla, chiedersi perché…
 «Ladybug?»
 Le si congelò il sangue nelle vene.
 Marinette abbassò lo sguardo e vide, sotto di lei, Alya che la osservava appoggiata alla balaustra del suo balcone. Era ancora in pigiama e lo sguardo assonnato dipinto in faccia suggeriva che si fosse svegliata da poco. A riprova di ciò, soppresse uno sbadiglio.
 «Che ci fai qui?»
Cercavo te.
 «Ah… sono di pattuglia.»
 «È per quello che è successo ieri notte?»
 Marinette pensò che rispondere sì fosse una buona idea finché Alya non aggiunse: «Pensavo che il fatto fosse successo da un’altra parte.»
 Marinette si umettò le labbra. «Sì… ma non si sa mai. Sto solo controllando che in centro città sia tutto a posto.»
 Alya ci mise un po’ a rispondere, come a star decidendo se credere o meno alle sue parole. Sembrò convincersi quando scrollò le spalle e la invitò dentro a prendere un caffè. «Hai proprio l’aspetto di chi ha bisogno di berne tre litri. Senza offesa.»
 Marinette non si offese. Tra i capricci della Belladonna e tutte le cose che succedevano a Parigi nelle ore più strane della notte, sembravano passati secoli dall’ultima volta in cui si era concessa una dormita degna di tale nome. Malgrado ciò non avrebbe dovuto accettare l’invito di Alya, sentiva che ogni secondo che passava in sua compagnia nelle vesti di Ladybug era un secondo in meno che la separava dal momento in cui Alya avrebbe scoperto la verità.
 Era troppo sveglia. Marinette aveva perso il conto di tutte le volte in cui aveva temuto che l’amica unisse i puntini. Tuttavia...
 Tuttavia accettò l’invito. Ignorando il buon senso che urlava no!, entrò nell’appartamento e seguì Alya in cucina. Nino non c’era.
 «Lo prendi dolce o amaro, il caffè?»
 «Dolce. Due cucchiaini, grazie.»
 Di solito ne prendeva uno, ma era meglio evitare ogni possibile somiglianza, per quanto all’apparenza innocua, con Marinette. E poi un po’ di zucchero non le avrebbe fatto male, anche se dubitava sarebbe servito a sciogliere l’amaro che aveva in bocca.
 «Uhm, Ladybug», disse Alya, osservandola con la coda dell’occhio mentre zuccherava il caffè, «è vero quello che dicono sui social e al telegiornale? Che Chat Noir è tornato.»
 E il cuore sprofondò.
 Marinette si lasciò cadere sulla sedia dietro di lei, temeva davvero che le gambe potessero abbandonarla da un momento all’altro.
 Proprio come aveva fatto lui.
 Quasi non si accorse di Alya che scivolava al suo fianco.
 «Scusa. Forse era meglio non chiedere.»
 Marinette avrebbe voluto piangere.
 E questa volta lo fece.
 Una, due, dieci, cinquanta – le lacrime scesero, si mischiarono in un impasto salato. Si sentì patetica, un’idiota. Piangeva nel salotto di una ragazza che in teoria avrebbe dovuto conoscere a stento e non sapeva elencare nemmeno lei tutti i perché.
 Alya non parve scossa dalla situazione, come se avere la supereroina acclamata da tutta la Francia che piangeva nel tuo salotto fosse la cosa più normale del mondo.
 «C’entra lui?» domandò.
 Marinette annuì.
 Silenzio.
 «Anche Adrien?»
 Il cuore che era sprofondato e non ancora risalito smise di battere in petto e accelerò al tempo stesso.
 No.
Non posso, non posso, non posso, non posso.
 Aveva passato anni a mentire a tutti e c’era riuscita (c’era riuscita, vero?).
Non posso, non posso, non posso, non posso.
Non posso perchéperché non posso?
 Marinette deglutì. «Credo entrambi.»
 E l’amaro in bocca si sciolse sotto il sapore salato di altre lacrime.  

NOTE ➺  Questo capitolo, devo dire, mi piace. Amo tantissimo Alya e il suo rapporto con Marinette, e una parte di me ha sempre pensato che sospettasse qualcosa. Questa reveal non ha un decimo della potenza emotiva che ha avuto quella canon (al solo pensiero ancora urlo e piango) e a dirla tutta nemmeno era programmata: mi è venuta spontanea, complici forse i prompt che mi spingono a cercare escamotage per far andare la storia nella direzione che mi ero prefissata.
Grazie per aver letto fin qui. Vi darei appuntamento a domani, ma poiché devo recuperare i giorni 29 e 30, con tutte le probabilità l’altro capitolo ve lo beccate stasera.  

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Capitolo 13
*** Capitolo undicesimo ***


Capitolo undicesimo


(29 — blu)
  
 Marinette vedeva blu.
 Abbandonata sul fondo di un oceano aveva sempre pensato di non avere scelta: ovunque si girasse c’era un blu scuro e cattivo che allungava i suoi tentacoli per spingerla sempre più a fondo e se non stava attenta rischiava di annegarci dentro. Risalire in superficie e guardare il blu chiaro del cielo, tornare a respirare senza il timore che qualcuno la ributtasse in mare non era mai stata, almeno credeva, un’opzione valida.
 Ma ora che Alya sapeva Marinette non annegava più, era tornata a respirare, non aveva paura di gonfiare il petto per riempirsi i polmoni d’aria col solo risultato di attirare a sé acqua che l’avrebbe uccisa.
 Il blu del fondo dell’oceano freddo e desolato era diventato il blu del cielo limpido e caldo.
 Avvolta in una coperta (quella era verde, non blu), Marinette accettò volentieri la tazza di caffè che Alya le porgeva. La seconda, per la precisione. Il caffè di prima si era freddato ed era imbevibile. Questa volta Alya ci aveva messo un cucchiaino di zucchero. Marinette pensò che se non fosse stata mattina presto avrebbe chiesto direttamente una bottiglia di vino, e tante grazie. Apprezzò, comunque, il calore che la bevanda bollente le infuse nelle mani.
 Alla sua sinistra, Tikki si stava riempiendo la pancia di biscotti. Alya la guardava con profondo interesse, riconoscendo in lei lineamenti e proporzioni simili a quelli di Trixx.
 Marinette mandò giù un po’ di caffe. «Da quanto sapevi?»
 Solo quella domanda riuscì a indurre Alya a staccare gli occhi da Tikki.
 «È più corretto dire che sospettavo. Cioè, i miei sospetti su di te erano, tipo, al novantanove per cento, mi mancava solo la prova schiacciante.»
 Marinette immaginò l’orgoglio giornalistico di Alya protestare a quell’ammissione.
 «Però se mi avessero chiesto di metterci la mano sul fuoco l’avrei fatto. Una brava giornalista sa fidarsi del proprio istinto quando serve.»
 «Non hai mai pensato di chiedermelo?»
 Il solo fatto che non l’avesse mai confrontata a riguardo dimostrava che, nonostante tutto, il forte senso di amicizia di Alya sbaragliava qualsiasi altra cosa, dall’amore per la verità all’arte del ficcare il naso ovunque di cui era fierissima portatrice.
 «Onestamente? Tutti i santi giorni. Non ne hai idea. Ma… ero sicura che, quando e se avessi mai deciso di dirmelo, sarebbe stata una tua scelta.»
 Marinette avrebbe voluto stringerla in un abbraccio così forte da romperle tutte le articolazioni.
 «Ed è per questo che sono la migliore, sì, sì, sì, sì, lo so. Ora, le cose importanti. Ho diciassette domande.»
 «Te ne concedo tre.»
 «Cinque.»
 «Cinque sia.»
 Alya annuì soddisfatta. «Voglio sapere com’è andato l’appuntamento con Adrien. Nino mi ha detto che gli ha scritto verso l’una e mezza di aver lasciato il tuo appartamento e ovviamente voglio tutti i dettagli. Prima, però…» Il suo tono di voce cambiò, s’addolcì come imbevuto di dieci zollette di zucchero. «Dov’è stato Chat Noir per tutto questo tempo? Perché è tornato solo ora?»
 Marinette sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Non solo era pronta, era addirittura contenta che Alya avesse introdotto l’argomento: sentiva che parlarne con qualcuno che non fosse Tikki poteva davvero aiutarla, come se fino ad allora sia lei che il kwami avessero ignorato un indizio importante che poteva giustificare lo strano comportamento di Chat Noir.
 «Non lo so.»
 «Non lo sai?»
 Marinette puntò lo sguardò sulla tazza. «Non lo so», ripeté dopo essersi schiarita la gola. «Cinque anni fa, una sera, mi ha dato appuntamento.» Sorvolò sulla parte del loro posto speciale, l’avrebbe lasciata per un altro momento. «Mi ha detto che se ne sarebbe andato, che non poteva spiegarmi niente. Ha lasciato il miraculous ed è sparito. L’ho rivisto ieri notte per la prima volta.»
 La bocca di Alya non si spalancò fino a terra solo perché non le era possibile. Dovette riprendere fiato prima di domandare: «È successo dopo che avete sconfitto Papillon, no?»
 Marinette annuì. «Non so se c’è un collegamento», la intercettò quando la vide schiudere le labbra. «Ci ho pensato tantissime volte, ma… che collegamento vuoi che ci sia?
 Alya si concesse un breve silenzio. Marinette ne comprese le ragioni quando con voce incerta azzardò: «Non credi possibile che si sia alleato con Papillon, vero?»
 «No.»
 Marinette non si stupì della prontezza della sua risposta. Non avrebbe mai potuto odiare Chat Noir, ma anche nell’eventualità che ci fosse riuscita, nemmeno allora l’avrebbe ritenuto capace di un simile gesto. Papillon avrebbe potuto offrirgli il mondo e Chat Noir avrebbe comunque preferito la giustizia al potere.
 «Lo credo anch’io», commentò Alya, «però è comunque strano.» Si volse verso Tikki. «Secondo te?»
 Seguì un silenzio imbarazzante.
 Marinette sospirò. «Tikki sa chi è Chat Noir.»
 Poco ci mancò che Alya le sputasse il caffè in faccia. Marinette le fu grata di essersi trattenuta.
 «E chi è?»
 «Non lo so.»
 «Non spetta a me rivelare la sua identità», s’intromise la vocina pacata di Tikki, senza dare ad Alya il tempo di ribattere (la sua reazione fu tuttavia chiara dal modo in cui aveva allargato gli occhi). «Anche adesso che niente impedisce a Chat Noir di rivelarsi per chi è davvero, deve essere una decisione che spetta a lui.»
 Sebbene Marinette, da principio, avesse faticato ad ammetterlo, una parte di lei aveva sempre saputo che il ragionamento di Tikki aveva una sua logica. Quando Chat Noir se n’era andato, poi, l’aveva pregata – anche se credeva di non averne il diritto – di non chiedere né a Tikki né a Plagg di svelarle la sua identità. La sua voce era risuonata più seria che mai, come se quella semplice informazione potesse distruggere qualsiasi cosa stesse nascondendo. Ed era proprio quello, il problema: essendo all’oscuro di cosa le stesse nascondendo, Marinette non sapeva dove sbattere la testa.
 Ci pensò Alya a strapparla ai suoi pensieri.
 «Però niente ti evita di indagare, giusto?»
 La scintilla che Marinette vide guizzare nei suoi occhi era fin troppo familiare, segnalava in maniera inequivocabile che la sua migliore amica aveva ceduto il posto alla giornalista dal fiuto infallibile.
 Marinette scambiò un’occhiata incerta con Tikkii. «Tecnicamente no. Però Chat Noir mi ha chiesto di non farlo.»
 L’aveva lasciata senza uno straccio di motivazione, le aveva tagliato il cuore in due ed era ricomparso per terminare l’opera – Chat Noir aveva fatto tutto questo, eppure Marinette rimaneva appigliata alla sua promessa, alla certezza che una motivazione, qualsiasi essa fosse, doveva esserci.
 Alya si abbandonò a un lungo sospiro. «Ammiro la tua fedeltà, ma arrivati a questo punto non penso che Chat Noir se la meriti. Hai il diritto di sapere.»
 Un suono ovattato le interruppe. Marinette seppe con certezza che era il suo telefono ad averlo emesso perché lo sentì vibrare in una tasca dei pantaloni. Nell’arco di quattro secondi Marinette lesse un messaggio di Joëlle e il terrore s’impossessò del suo volto mentre scattava in piedi come una molla (non versò il caffè per terra solo perché la tazza era già vuota) e urlava come a voler annunciarlo a mezzo mondo di essere in ritardo per il suo lavoro.
 «Ne riparliamo più tardi!» urlò anche Alya mentre Marinette si precipitava fuori dall’appartamento. «Hai altre diciannove domande a cui rispondere», sbuffò poi quand’era ormai da sola, perché intanto gliene erano venute in mente altre.

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Capitolo 14
*** Capitolo dodicesimo ***


Capitolo dodicesimo


(30 — scavare)
  
 Plagg avrebbe giurato sul suo amore incondizionato per il formaggio che quei due idioti – Adrien e Marinette, niente poco di meno che gli eroi che avevano salvato Parigi ma non sapevano fare due più due quando si trattava dei loro sentimenti – gli facevano venire voglia di armarsi di elmetto e piccone e scavare nelle loro teste vuote fino a trovare un neurone rimanente.
 Adrien ne aveva zero.
 Sinceramente, a Plagg non interessava di Gabriel. Non l’aveva perdonato per aver sfruttato i poteri di Nooroo in quel modo, né per aver costretto Adrien a staccarsi da Ladybug proprio quando lei si era svegliata e si era resa conto di amarlo. Gliene avrebbe dette quattro, a Marinette – ma prima doveva dirne quattro anche ad Adrien.
 «Di tutti i modi in cui avresti potuto farti perdonare da Ladybug hai scelto il peggiore! “Lo so che non ti fa piacere vedermi”, ma sentitelo! Ho passato gli ultimi cinque anni a vedere quella povera ragazza vivere nella speranza di rivederti. Lascia stare quello che dice, è ovvio che si aspettasse di più da te. Delle scuse, magari delle spiegazioni…»
 Sapeva che ogni parola, per Adrien, era una coltellata in petto, e per quanto una parte di Plagg non volesse infierire, l’altra era convinta che fosse proprio quello che ad Adrien serviva. A lui e anche a Marinette. Se non si decidevano a darsi una svegliata Plagg era pronto a prendere un bastone e darglielo in testa finché quella non si fosse riempita un po’, perché scavare in cerca di qualcosa che non fosse vuoto iniziava a sembrargli un’impresa impossibile.
 «Davvero le sono mancato così tanto?»
 Testa vuota, zero neuroni: come volevasi dimostrare.
 Plagg sospirò. Davvero Adrien pensava che, dopo tutto quello che c’era stato tra loro, la sua sparizione non avesse avuto su Ladybug la minima ripercussione? Perché Marinette a odiarlo ci aveva provato, ci aveva provato davvero. Ancora meglio, aveva provato a dimenticarlo. Plagg era rimasto a guardare, in silenzio, la verità che pesava sulla punta della lingua fino a fare male.
 «Sì», disse laconico. «Ovvio che sì.» Poté vedere il dolore scivolare sul volto di Adrien come un’ombra e se ne dispiacque, ma ancora una volta credeva che fosse quello che gli serviva. «Ho mantenuto il tuo segreto e lo farò ancora se è quello che vuoi, ma ormai non ne vedo il bisogno. Quella ragazza merita di sapere.»
 Marinette meritava di sapere, Adrien meritava di togliersi quel peso dal cuore – entrambi meritavano di essere felici, senza maschere di sorta a dividerli. Marinette si era spesso confidata con Tikki di temere per la sua vita sentimentale perché nessuno poteva sapere che era Ladybug, e se proprio doveva correre il rischio di dirlo a qualcuno voleva accertarsi che fosse la persona giusta. E dire che era così facile: bastava aprire gli occhi, unire i puntini. Ma, nelle semplici operazioni matematiche, gli umani – due in particolare – non erano bravi.
 I kwami, loro sì che lo erano.
 Plagg aveva mantenuto la sua promessa fino in fondo e non aveva spifferato nulla a Tikki, ma a Tikki c’era voluto poco per capire che Adrien aveva rinunciato a essere Chat Noir per riportare indietro suo padre. Solo allora Plagg aveva ceduto e le aveva raccontato la verità.
 Plagg detestava Gabriel, non credeva sarebbe mai riuscito a perdonarlo. Né per aver ferito Nooroo, né per aver ferito Adrien. Aveva un figlio splendido che aveva perso una madre e il suo egoismo l’aveva portato quasi a perdere anche il padre. Se ora Gabriel non era in una cella era solo perché il figlio che non si meritava aveva rinunciato a tutto per lui – alla sua libertà, ai suoi amici, a lei.
 Quantomeno, Plagg era felice che il piano di Adrien avesse funzionato. Non era interessato a conoscere i dettagli, ma Adrien gli aveva confessato che il rapporto tra lui e Gabriel era migliorato. Dopotutto, l’aver rinunciato ai poteri di Nooroo, sia pure quando messo alle strette, doveva significare qualcosa. Il sacrificio di Adrien non era stato vano, e questo a Plagg bastava.
 «Plagg, ti ricordi Marinette, la mia compagna di classe?»
 “Ah, sì, Ladybug” – Plagg dovette far ricorso a tutta la sua buona volontà per non rispondere così. Si limitò a un sì.
 «Ci stiamo frequentando. Cioè, per ora abbiamo avuto solo un appuntamento, ma penso che le cose stiano andando bene. Ti ricordi quando dicevi che aveva una cotta per me? Alla fine avevi ragione.»
 «Ma non mi dire.»
 Adrien s’imbronciò. «Era così ovvio?»
 «Abbastanza
 Anche perché c’era il piccolo e non trascurabile dettaglio che era Ladybug.
 Adrien si abbandonò a un lungo sospiro. «Pensavo che dovrei dirle la verità, se voglio continuare a essere Chat Noir. Prima voglio chiarirmi con Ladybug, ovvio, ma adesso c’è in gioco anche Marinette. Non so che fare. Non avrei mai pensato di trovarmi in una situazione simile.»
 Plagg sentiva che di lì a poco avrebbe davvero perso la pazienza. Si concesse tre morsi del camembert che Adrien gli aveva procurato prima per calmarsi.
 «Recapiterò il tuo messaggio a Ladybug, quando vorrà vederti ti farò sapere», si limitò a dire.
 «Ricordati di dirle che voglio raccontarle tutta la veri…»
 «Sì, sì, lo so. Tu pensa alla tua fidanzata, prima.»
 Il rossore che comparve sulle guance di Adrien ricordò a Plagg che di quello (erano fidanzati? Una coppia ufficiale? Altro? Cosa?) non ne avevano ancora parlato, lui e Marinette – lo sapeva perché era stato lì, da bravo kwami annoiato origliava ogni singola conversazione di Marinette.
 Senza infierire ulteriormente (ci avrebbe pensato più avanti, nulla di cui preoccuparsi), Plagg finì il formaggio e, leccatesi le zampette, si fece restituire il miraculous e tornò nell’appartamento di Marinette.
 
 Quella stessa sera, quando Marinette fu rincasata dopo un’estenuante giornata di lavoro – non senza pronunciare epiteti molto coloriti sulla Belladonna che scandalizzarono un po’ Tikki e divertirono Plagg – quest’ultimo si fece portatore di un’importantissima causa.
 Una causa persa, per la precisione – Adrien e Marinette.
 Tentò con tutto sé stesso di convincere Tikki che dovevano intervenire, perché senza un aiuto esterno quei due avrebbero compiuto cent’anni credendo ancora di amare due persone diverse allo stesso tempo.
 «Non possiamo», diceva Tikki a voce bassa per non farsi sentire da Marinette.
 «Dovremmo», rispondeva Plagg a voce un po’ più alta, perché un po’ lui voleva farsi sentire.
 Questo rituale andò avanti così – Plagg che perorava la sua causa e Tikki che blaterava di responsabilità e libero arbitrio – finché non suonò il campanello.

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Capitolo 15
*** Capitolo tredicesimo ***


Capitolo tredicesimo


(31 — credere)
  
 Marinette si assicurò che Plagg e Tikki si fossero nascosti – gli chiese anche, qualsiasi cosa stessero discutendo, di discuterne dopo – prima di andare ad aprire. A quell’ora poteva essere solo Adrien o Alya che era venuta a riscattare il resto delle sue domande. Sarebbe stata contenta di rivedere Alya, ma fu ancora più contenta di vedere Adrien.
 «Ho due notizie per te, una buona e una cattiva», lo accolse mentre Adrien entrava e si richiudeva la porta alle spalle.
 Lo sentì ridere. «Devo preoccuparmi?»
 «Quella cattiva è che per colpa tua sono quasi stata licenziata, stamattina.»
 «Non credo che non lavorare più per la Belladonna sia classificabile come cattiva notizia…»
 Marinette gli lanciò lo straccio che stava usando per asciugare i piatti della cena. «Quella buona è che i miei genitori sanno di noi – non chiedere – e ci hanno invitato a cena. Domani sera alle otto.»
 «Immagino che il “no” non sia contemplato.»
 Marinette non aveva un secondo straccio da lanciargli.
 «Sto scherzando, non vedo l’ora», disse Adrien con un sorriso – cosa che lei aveva capito già perché Adrien era sempre stato fan dei suoi genitori, in particolare della cucina di suo padre. «A proposito di “noi”…»
 Marinette si volse nel sentire il suo tono di voce cambiare e vide Adrien stringersi nelle spalle. «C’è qualche problema?» domandò accigliandosi.
 «È successa una cosa, ieri, subito dopo il nostro appuntamento. Una… amica aveva bisogno di aiuto. Non proprio un’amica. La ragazza che amavo. Ci siamo… rivisti. Voglio mettere le cose in chiaro con lei, ci sono delle cose che non le ho mai detto e che merita di sapere. Non voglio farlo alle tue spalle, però.»
 Marinette si sentì pizzicare dalla gelosia nel ripensare alla ragazza di cui non conosceva né volto né nome che un tempo aveva fatto battere il cuore di Adrien come lei mai era stata capace di fare. Era un pensiero egoista e si detestò per questo, ma pure tutta la gelosia del mondo si sarebbe sciolta come neve al sole di fronte all’onestà di Adrien.
 Anche lei doveva dirgli di Chat Noir? Sarebbe stato complicato. Poteva dirgli che era un collega di lavoro e che forse sarebbero tornati a lavorare insieme… solo che quel lavoro la rendeva non rintracciabile alle ore più strane del giorno e della notte. Se voleva che le cose tra lei e Adrien funzionassero (e lo voleva, lo voleva eccome) prima o poi la verità sarebbe venuta fuori. Non era molto normale che un’aspirante stilista saltasse fuori dal letto alle tre di notte perché c’era una rapina o non si presentasse a pranzo perché doveva impedire un incedente stradale.
 «Adrien», lo interruppe mentre lui cercava giustificazioni che non servivano, perché poteva rivedere tutte le vecchie amiche che voleva. «Tu… hai intenzione di restare, vero?»
 Dalla sua reazione Marinette capì che Adrien non si era aspettato quella domanda. Se anche si fosse chiesto se lei dubitasse di lui non importava, aveva bisogno di una conferma. Doveva sentirlo pronunciare dalle sue stesse labbra.
 «Sì. Certo che sì. Non ti avrei mai chiesto un appuntamento se non fossi serio a riguardo.»
 Marinette annuì. Lo raggiunse in salotto e una volta lì di fronte a lui allacciò le braccia al seno come a volersi difendere da quello che temeva potesse succedere. «Perché anch’io ho delle questioni irrisolte con un… amico. Non so nemmeno io come definirlo. Collega? È complicato. Comunque… anche se non ci fosse lui, c’è una cosa che prima o poi noteresti. Molto, molto strana. E potresti pensare che io abbia un segreto, che comunque è vero. Una sorta di… secondo lavoro?»
 Dall’espressione, Adrien sembrava facesse fatica a seguire la conversazione – o meglio il monologo, perché dei due stava parlando solo lei.
 «Hai un secondo lavoro per poterti pagare le spese?»
 «Eh? No, nessuno mi paga, non è esattamente un lavoro retribuito… non è nemmeno un lavoro.»
 «Fai volontariato?»
 «Cosa? No!»
 A quel punto Marinette perse la pazienza e sbuffò. «Perché è così difficile?»
 Era stato molto più facile con Alya.
 Le serviva un’altra crisi di pianto? No, meglio di no. Poteva mostrarglielo trasformandosi! Non che le andasse molto di fare una rivelazione così in grande… Magari bastava chiedere a Tikki di farsi vedere, anche se Adrien non sapeva cosa fosse un kwami… no, un attimo: invece sì. Anche se per un breve periodo, e con risultati non proprio ottimali, Adrien era stato il portatore del miraculous del Serpente. Aveva conosciuto Sass.
 «Adrien…»
Sono Ladybug.
 «Marinette.»
 Adrien sgranò gli occhi, poi li assottigliò e si fece sempre più vicino. Marinette sentì le guance andare a fuoco. Era vicino, poi vicinissimo, poi – voleva baciarla?
 Non le dispiaceva, però prima…
 «Che cos’hai al collo?»
 «Eh?»
 Marinette abbassò lo sguardo. L’anello di Chat Noir, solitamente nascosto sotto uno o più strati di vestiti, luccicava tra le pieghe della camicia. Se l’era rimesso di fretta quando era tornata a casa e aveva rivisto Plagg e non aveva pensato a nasconderlo meglio.
 Non che fosse un problema, perché c’erano mille scuse che potevano giustificare perché portasse al collo un anello, ma tanto meglio: poteva dire la verità ad Adrien partendo da lì. Poteva dirgli che l’anello era del collega, da lì introdurre Chat Noir e poi…
 «Plagg è qui?»
 Le parole le s’incastrarono in gola e quasi la strozzarono. «Co… sa?»
 «Sì.»
 Si voltarono all’unisono e videro, a dieci centimetri dai loro nasi, una figura nera a mezz’aria.
 «Plagg, cosa n’è stato del non dover intervenire?»
 «Ci sono arrivati da soli, Tikki!» Plagg si avvicinò al volto di Adrien con una velocità tale da farlo indietreggiare. «Complimenti, Adrien, ti è servito vedere l’anello per capirlo.» Si voltò verso una Marinette che osservava la scena con l’impressione di non starla vedendo davvero. «Ho fame. C’è ancora quello squisito formaggio che hai preso l’ultima volta?»
 «È… nel frigo.»
 «Ottimo!»
 Tikki lanciò prima a Marinette e poi ad Adrien un’espressione avvilita, come se la condotta di Plagg fosse causa sua, e seguì l’altro kwami in cucina.
 Marinette si sfilò l’anello dal collo e tornò a guardare Adrien dopo quella che le parve un’eternità. «Immagino che questo sia tuo.»
 Adrien allungò il braccio e prese il miraculous senza nemmeno sfiorare Marinette, quasi avesse paura di romperla. Riusciva a stento a guardarla.
 Marinette.
 Ladybug.
 Il ragazzo che le aveva spezzato il cuore.
 Tutto aveva senso.
 Adrien si sentiva pesante come metallo e allo stesso tempo leggero come piuma. Il suo corpo gli inviava segnali contrastanti e non gli sembrava nemmeno il suo, come se un estraneo si fosse impossessato della sua pelle nel momento stesso in cui aveva fatto una semplice operazione matematica.
 «Non ci posso credere.»
 Marinette si lasciò cadere sulla prima poltrona che trovò libera. «Che io sia Ladybug?»
 «No. Che io sia stato così stupido da non capirlo subito. Insomma, era così ovvio!»
 «Parla per te», lo rimbeccò Marinette, «perché tu…»
 Aveva flirtato con Adrien Agreste quando ancora le piaceva così tanto da farle scoppiare il cuore con la sua sola presenza.
 Aveva preso in giro Adrien Agreste.
 Aveva fatto innamorare Adrien Agreste.
 Aveva rifiutato Adrien Agreste.
 Aveva baciato (baciato! baciato! baciato!) Adrien Agreste.
 E – di nuovo, per la seconda volta – si era innamorata di Adrien Agreste.
 Adrien Agreste – Chat Noir! – che le aveva spezzato il cuore e se n’era andato senza un perché.
 Lo sguardo scattò come una molla di nuovo su Adrien quando l’ultimo punto della lista di lei che faceva cose con Adrien Agreste – Chat Noir! – la colpì come un treno in corsa.
 «Perché te ne sei andato, Adrien?»
 (Perché te ne sei andato, chaton?)
 Credeva in lui. Ci aveva sempre creduto.
Dimmi che non ho fatto male.
 Adrien prese posto di fronte a lei. Strinse i pugni e si accorse solo allora che aveva tutte le mani sudate. Tikki e Plagg rispuntarono dalla cucina e Adrien scambiò col suo kwami un’occhiata di intesa.
 «Mio padre era Papillon.»
 Lo disse piano, soppesando ogni sillaba, e mai un istante smise di osservare Marinette. Marinette che sentì il pavimento sprofondare e le gambe tremare anche se non era nemmeno in piedi, Marinette che avrebbe potuto urlare o rompere oggetti o fare qualsiasi altra cosa ma rimase immobile come una statua.
 Gabriel Agreste.
 Era.
 Papillon.
 Il padre di Adrien. Di Chat Noir. Chat Noir che nella battaglia finale era andato avanti mentre lei rimaneva indietro a salvare civili. Chat Noir che quando poi lo aveva raggiunto l’aveva guardata con una faccia bianchissima e aveva detto: «Papillon è scappato. Scusa.»
Scusa se mi è sfuggito, aveva dato per scontato Marinette – Scusa se l’ho fatto scappare di mia spontanea volontà, era la verità.
 Poiché non parlava, Adrien proseguì: «Quando l’ho scoperto mi è caduto il mondo addosso. Mi sono ritrasformato senza pensare, e mio padre… non so nemmeno descrivere cosa ho visto nei suoi occhi in quel momento. Mi dispiace. Avrei voluto dirtelo. Non avevo nessun diritto di nasconderti la verità per salvaguardare mio padre, ma l’ho fatto. Mi sono ripreso il miraculous della Farfalla e gli ho detto di scappare. Non sapevo cosa altro fare. Non potevo chiederti di non svelare al mondo la verità perché per farlo avrei dovuto dirti chi ero, e anche se lo avessi fatto non pensavo che mi avresti dato retta. Se avessi saputo che eri Marinette, forse…»
 Mentre Adrien continuava a masticare “forse” e “avrei dovuto” Marinette scivolò al suo fianco e gli strinse le mani tremanti tra le sue. Quando azzurro incontrò verde le venne naturale sorridergli come si sorride a un bambino che piange perché si è perso nel bel mezzo del nulla, e le venne ancora più naturale, poi, poggiare la testa contro la sua spalla.
 «Mi dispiace», lo sentì sussurrare. «Per tutto.»
 Marinette chiuse gli occhi, inspirò, li riaprì.
 A dire il vero, ancora faticava a crederci. Adrien aveva sempre amato Marinette e Ladybug aveva sempre amato Chat Noir. Se le cose fossero andate diversamente avrebbero potuto risparmiarsi gli ultimi cinque anni e mezzo e vivere felici e contenti come nelle fiabe – però Marinette era cresciuta e alle fiabe aveva smesso di crederci, almeno in parte.
 Se quello era il prezzo da pagare pur di avere di nuovo un cuore non spaccato a metà, Marinette lo accettava. Non poteva fare altro, del resto: che lo volesse o meno, e per quanto male facesse, non poteva cambiare il passato – non poteva tornare indietro e tendere una mano a Chat Noir, stringerlo in un abbraccio e sussurrargli che non lo odiava, pregargli di non andare perché non ce n’era bisogno, perché lo capiva, perché anche lei avrebbe puntato tutto su suo padre pur di non perderlo, se si fosse trovata nelle sue scarpe.
 «A me dispiace non esserci stata.»
  In quell’assenza di parole c’erano tante cose ancora non dette che aleggiavano tra loro come spiriti invisibili nell’attesa di essere acciuffati. Marinette voleva vedere la sua reazione quando gli avesse detto che anche Alya sapeva (potevano dirlo anche a Nino, magari!). Voleva sentire mille dei suoi aneddoti sulla convivenza con Plagg e raccontargliene il triplo. Voleva rinfacciargli ogni sua singola freddura e dirgli che facevano schifo, che non era colpa sua se non aveva mai capito che era Chat Noir perché Adrien quelle battute schifose non le faceva mai! Voleva però dirgli anche che in fondo le piacevano e sperava che nel frattempo il suo repertorio si fosse triplicato (ne aveva una o due, o anche dieci, per la cena con i suoi genitori?).
  Voleva digli il mondo – gli disse solo una cosa.
 «Ci sono ora.»
E ci sei anche tu. 

NOTE ➺  Tiro un sospiro di sollievo enorme all’idea che il Writober sia finalmente finito (e dire che ho pensato la stessa cosa pure l’anno scorso, eppure eccomi di nuovo qui). Non sono riuscita ad aggiornare sempre con puntualità, anzi, ma ho finito in tempo! Negli ultimi giorni le energie mentali sono proprio venute a mancare, non so come ho fatto a stilare questi ultimi capitoli senza impazzire. Tutti gli equivoci più importanti si risolvono nell’ultimo capitolo, spero che la conclusione non vi abbia deluso. Vi confesso che potrei, in futuro, scrivere una one-shot su quella famosa cena con Tom e Sabine perché l’idea ha del potenziale. Potrebbe venir fuori qualcosa anche su su Alya (e Nino): mi rendo conto di aver lasciato la reveal di Marinette un po’ appesa, ma negli ultimi capitoli non c’era proprio spazio per lei. Insomma, non escludo che più in là potrei scrivere qualcosa in più, ma non so quando, prima devo ricaricare le batterie.
E niente, la smetto di blaterare. Ringrazio di cuore tutti quelli che hanno letto fin qui e le persone che hanno commentato la storia capitolo per capitolo.
Alla prossima!
Shireith  

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