La fanciulla dagli occhi di luna

di MinatoWatanabe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Micene ***
Capitolo 2: *** Elettra ***
Capitolo 3: *** Selene ***
Capitolo 4: *** Superstizione ***
Capitolo 5: *** Le mura ciclopiche ***



Capitolo 1
*** Micene ***


Prompt: Vacanze con lo zio Archeologo
Genere: Romantico/Drammatico
Verse: GreekAU!
Pair: NaruHina
Personaggi principali: Naruto Uzumaki, Hinata Hyuga, Jiraya, Kakashi Hatake, Toneri Otsutsuki, Hiashi Hyuga
Avvertimenti: nessuno
Rating: giallo

 

 

Poiché non potevo fermarmi per la Morte
Lei gentilmente si fermò per me
La Carrozza non portava che Noi Due
E l'Immortalità (…)

 

Emily Dickinson, Poiché non potevo fermarmi per la morte

 

1

Micene

 

La ragazza di cui non conoscevo il nome sussurrò il mio. I suoi occhi, chiari come la luna, erano fissi nei miei.
«Non sei costretto a farlo.»
Come una marionetta manovrata da una divinità presi la sua mano, pallida e fredda.
«Lo so.» la mia voce uscì come un suono innaturale, qualcosa che non riconoscevo. Non era la mia voce.
Presi un respiro, e saltai.

 

*

 

Con gli occhi secchi e la vista sfocata cercai di riprendermi. Le bocchette del clima sparavano aria gelida sul mio viso. I finestrini erano alzati, ma il rumore dell'esterno si infiltrava senza problemi nell'abitacolo dell'utilitaria di terza categoria sul cui sedile mi ero addormentato. Accanto a me Jiraya sembrava pienamente concentrato su quei pochi chilometri che ci separavano dalla nostra sosta. Percepivo un pungente olezzo di sudore, se il mio o il suo non era chiaro, probabilmente quello di entrambi. La radio passava canzoni in una lingua che capivo poco e male, e ad una velocità tale da essere ancora meno chiara.

Ricordavo a malapena l'atterraggio, il jet lag stava iniziando a farsi sentire. L'aeroporto di Atene era piccolo e sporco, non quello che ci si aspetterebbe da un centro di partenze e arrivi internazionali di una capitale europea. Jiraya mi aveva avvisato del fatto che la Grecia era quanto di più diverso ci potesse essere dagli Stati Uniti, e a primo acchito non ero certo che la sua affermazione avesse un'accezione positiva. La macchina che aveva preso a nolo non aiutava sicuramente nello smentire la mia teoria.

Era l'estate dei miei ventidue anni, ed ero stato trascinato in Grecia contro la mia volontà. Più o meno.
Mancavano solo pochi mesi alla mia laurea, tuttavia ancora non avevo un tassello fondamentale: l'elaborato finale. Un'opera che racchiudesse la mia idea di arte. La cosa sarebbe già problematica di per sé, senza bisogno di ulteriori complicazioni, ma c'era di più. Non so bene come definire quella condizione senza scadere in banali clichè, molto romantici e molto poco attinenti alla realtà: blocco creativo, mancanza d'ispirazione... esistono una moltitudine di modi per definire la sfortunata condizione di cui ero vittima. Nel mio caso la triste verità era che molto semplicemente non avevo voglia di dipingere. Il solo pensare di prendere in mano la tavolozza mi faceva orrore.

Vedendomi chiuso in casa, perennemente sdraiato sul divano a sgranocchiare popcorn e consumare blockbuster, zio Jiraya decise di portarmi con sé in Grecia.

Avevo vissuto con lui da che ne avevo memoria. Lo avevo sempre chiamato zio, nonostante non fossimo parenti. Sapevo solo che era stato il maestro di mio padre e per lui, che non aveva mai avuto figli, era stato come averne avuto uno adottivo. Pertanto era parso naturale che, alla morte dei miei, avvenuta appena dopo la mia nascita, e in assenza di parenti prossimi, fosse lui a prendersi cura di me. Aveva però sempre preteso che lo chiamassi zio, anziché nonno. Probabilmente uno scudo ideale contro l'avanzare dell'età. Era un grecista. Un fissato della Grecia classica, in parole povere. L'arte e la cultura Ellenica erano la sua più grande passione, dopo la storia. Ovviamente la condizione necessaria perché qualcosa fosse considerabile “arte” era che fosse stata realizzata prima dell'avvento dell'ellenismo. A nulla valsero i miei tentativi di spiegargli che il mondo era andato avanti, e che Policleto non rappresentava più il canone. Era inutile discutere con lui, rimaneva arroccato sulle sue posizioni senza alcuna possibilità di dibattito costruttivo. E proprio questo fu il motivo della mia iniziale avversione per l'arte greca. Per un periodo cercai di prenderlo per sfinimento, lasciando scientemente in giro per casa i miei libri di arte contemporanea: Kiefer, Hanson, la land art, tutte porcherie a suo dire. Di queste porcherie mi nutrii nelle prime battute della mia formazione artistica, finché non mi vennero a noia. Iniziai a guardarmi intorno per curiosità personale, più che per ripicca, e ciò coincise con il momento in cui smisi di discutere di arte con Jiraya.

Uscimmo dall'autostrada per immetterci in una statale polverosa, in cui si aveva l'impressione di viaggiare sotto una perenne cortina di fumo. Nonostante l'aria sparata al massimo sentivo il sole caldo sul braccio vicino al finestrino. E questo mi faceva temere la temperatura che avrei potuto trovare all'esterno. Il caldo non era mai stato un problema per me, ma si preannunciava una temperatura davvero difficile da sopportare.

Jiraya svoltò in corrispondenza di un cartello verdastro e arrugginito per immettersi in un viale alberato, che per un attimo nascose l'auto dai raggi del sole. Mi stupì la familiarità con cui si destreggiava tra le strade della Grecia. Prima che nascessi aveva vissuto lì per diversi anni, e come lui anche mio padre e mia madre. Tuttavia quel giorno non aveva avuto bisogno di alcuna mappa o indicazione, come se si fosse trattato di un tragitto che percorreva quotidianamente. Parcheggiò la macchina a fianco di un'altra molto simile e spense il motore.

«Ecco qua: Micene»
«Li so leggere anche io i cartelli, e che cavolo...» sbuffai slacciandomi la cintura.
«Che hai? Ti hanno pisciato nell'acqua?»
«No... ho sonno.»
«Di tempo per dormire ne avrai appena arriveremo a Nauplia, pensa al posto incredibile in cui siamo adesso. Micene è stata il centro nevralgico della Grecia antica per molto tempo.»
«Wow...» risposi ironico.
Jiraya mi attirò a sé stringendomi per il collo e mi sfregò le nocche sulla testa, come quando ero bambino.
«Ahia piantala! Puzzi!» risi.
«Ah sì?» sniffò teatralmente nella mia direzione «Beh, neanche tu sai proprio di fiori ad essere onesti!»

Jiraya era certamente uno zio atipico: burbero il più delle volte, con una malsana passione per novelle erotiche di serie B, dedito alle donne sopra ogni cosa. Ma era anche la persona a cui volevo più bene al mondo. Forse non ero in grado di esprimerlo ad alta voce, ma ero certo che lui lo sapesse. E sapeva anche come prendermi quando ero scazzato, su questo non c'era alcun dubbio.

Aprii la portiera venendo investito dal caldo secco di una fornace.

«Ma sei serio?»
«Cosa?»
«Io torno in macchina e riaccendo l'aria condizionata.»
«Non se ne parla neanche, prendi il cappello e andiamo, non permetterò che tu ti perda uno dei siti archeologici più belli del mondo. Muoviti!»

Mi seccava ammetterlo ma aveva ragione. Le imponenti mura di Micene si stagliavano grigie e severe in quell'ambiente bucolico. Dal selciato si sollevava una nuvola di polvere ad ogni nostro passo.

In lontananza, appoggiato ad un albero del prato, un uomo con i capelli grigi e una mascherina chirurgica agitò la mano nella nostra direzione. Jiraya ricambiò il saluto, con un sorriso.

«Dì un po' eremita porcello ma per fare l'archeologo è necessario essere dei matusa?»
«Razza di impertinente, cosa stai dicendo?»
«Siete tutti vecchi, è piuttosto evidente, ho solo detto ad alta voce quello che tu non volevi dire.»
«Io ho trentasei anni, non sono poi così vecchio. I capelli grigi ingannano»
Sussultai. Quand'è che si era avvicinato tanto? A guardarlo meglio in effetti non dimostrava un'età molto diversa da quella che aveva dichiarato.
«Ciao.» disse con tono neutro alzando solo leggermente la mano.
«Kakashi! Come sei cresciuto!» disse Jiraya.
«Già. Tu invece sei sempre uguale.» continuò l'altro con la stessa cadenza atona. Dopodiché spostò lo sguardo su di me.
«Lui è...»
«Il figlio di Minato e Kushina, esatto.»
Jiraya non lo nominava quasi mai. Ed ogni volta quel nome aveva per me un suono innaturale, come se fosse qualcosa di estraneo, anziché il nome di mio padre. L'uomo annuì e mi tese una mano.
«Mi chiamo Kakashi Hatake, sono stato un allievo di tuo padre, piacere.»
Strinsi la mano non sapendo bene come comportarmi.
«Aspetti, com'è possibile che sia stato allievo di mio padre, se lui è morto più di vent'anni fa?»
«Kakashi è stato molto precoce, è uno di quelli che chiamano geni. Ed oggi è considerato il più eminente grecista vivente.»
«Il secondo, in realtà.»
«E il primo chi sarebbe?» chiesi sinceramente ammirato.
Kakashi si limitò a fare un cenno in direzione di Jiraya, che distolse lo sguardo.
«Io sono in pensione, Kakashi, e tu mi hai superato da un bel po'. E visto che siamo qui in visita mi piacerebbe che tu parlassi un po' al nostro Naruto del sito meraviglioso in cui siamo, poi parleremo dei nuovi scavi.»
«In pratica devo fare il baby-sitter.» considerò. Il suo tono stava cominciando a scocciarmi.
«Ehi, io non sono mica un moccioso, e che cavolo!» reclamai piccato.
«Nonostante la giovane età Naruto è un artista molto promettente. Magari non è la mente più acuta che conosci, ma ha del talento, quindi non andarci piano.»
«Ma sarai tu una mente poco acuta, eremita dei miei stivali!» esclamai, ormai rosso d'imbarazzo.
«Senti un po', vai a fare questo benedetto giro del sito con Kakashi e basta!» rispose a tono Jiraya.
«E tu perché non vieni?!»
«Ma sei matto? Ci saranno quaranta gradi e io sono un matusa!» rispose in tono canzonatorio e salutandomi con una mano mentre si avvicinava ad una macchia di alberi poco distante.

Kakashi ed io ci avviammo pigramente verso l'ingresso del sito.
«Devo spiegarti la storia della porta dei leoni?» soffiò Kakashi. Il suo tono, come poco prima, era annoiato e piatto. Non riuscivo a capire se lo fosse perché era effettivamente annoiato, o se quello fosse il suo tono di voce normale.
«No, la conosco bene.»
«Bene, esponimela.»
«Cos'è un'interrogazione?»
«Nah... se fossi il tuo professore non mi sarei offerto di spiegartela sul sito, avrei preteso che tu la conoscessi già, altrimenti non avresti nemmeno messo piede in Grecia.»
«Non so perché ma la cosa non mi sorprende...»
«Prego?»
«Niente. La porta dei leoni è l'accesso principale alla cittadella di Micene. Fu chiamata in questo modo per il disegno scolpito sul triangolo di scarico. Il nome “porta dei leoni” è di per sé erroneo, dal momento che quelli raffigurati non sono leoni, ma leonesse, impennate sulle zampe posteriori e con quelle anteriori poggiate sullo stilobate di una colonna minoica.»
«Adeguato, direi. Datazione?»
«Non ho assolutamente idea,» ammisi candidamente «e comunque le date di realizzazione delle opere d'arte classiche sono tutte ipotetiche.»
«Ipotetiche non direi, approssimative al massimo. Nel nostro caso siamo nel quattordicesimo secolo avanti cristo.»
«Un secolo non è esattamente un periodo ristretto.»
Kakashi sbuffò.
«Visto che la conosci, cosa ti suscita vederla dal vivo?» il tono della sua voce, questa volta sembrò subire una leggera modifica.
«Come?»
«Che emozione ti trasmette?»
Mi colse impreparato. Non mi era mai stata fatta una domanda del genere.
«Sei un artista no? Lavori con le emozioni. Non credevo di metterti in crisi con una domanda di questo tipo.»
«Credo... che mi susciti un certo grado di soggezione...»
Kakashi aggrottò la fronte.
«Intendo dire: è una porta di pietra, gigantesca, alle porte di una città militare. Se ci penso mi sembra di stare guardando una matrona severa e intransigente.»
«Inusuale come immagine, ma hai reso bene l'idea. A parte la soggezione, cosa ne pensi?»
«Immagino che abbia il suo fascino...»
«Non ami l'arte classica, vero?»
«Ma no, in generale mi piace, è che la scultura non è esattamente il mio pane.»
«Ah no? E cosa lo è?»
«La pittura, direi.»
Kakashi sollevò un sopracciglio scettico.
«Non hai le mani un po' troppo grandi?»

Non sapevo se sentirmi lusingato o infastidito dal fatto che Kakashi mi stesse osservando con tanta attenzione, dal momento che le mie mani non erano tanto grandi da attirare l'attenzione ad un'occhiata distratta. Semplicemente non erano piccole e delicate.

«E questo che c'entra con il saper dipingere bene?»
«Non so, ma tutti i pittori che conosco hanno delle mani molto aggraziate, mente le tue suggeriscono una certa... energia. Sembrano quelle di una persona passionale ma poco razionale.»

Non mi era chiaro il collegamento logico tra le due cose ma accettai il commento, dal momento che non si era allontanato poi molto dalla realtà dei fatti.

«La creatività è la capacità di ordinare il caos interiore. Tanto più grande e turbolento è il caos che ci portiamo dentro, tanto più interessante sarà l'opera, ma tanto più complicata ne sarà la realizzazione.»
«Questa non è farina del tuo sacco.» affermò Kakashi, con la sicurezza di chi sta affermando un'ovvietà.
«No, del mio professore.»
«Dev'essere uno in gamba.»
«Sì, lo è.» Iruka incarnava perfettamente la vaga definizione di “uno in gamba”.

Ci fu qualche istante di silenzio in cui proseguimmo la salita, entrando finalmente nella cittadella. Più procedevamo e salivamo verso la cima della collina, più il vento spirava, infondendomi un briciolo di sollievo dal caldo torrido. In quel momento, senza il sole battente ad impedirmelo, mi resi conto della sensazione intensa che la visita mi stava procurando. Era qualcosa di profondo, intimo. Come se avessi potuto sentire il clangore degli scudi, le grida dei soldati, il rumore di migliaia di passi di tutti coloro che erano stati lì prima di me. Non mi sarei mai aspettato che un sito archeologico potesse fare questo effetto. Arrivati sulla cima, con un unico sguardo potei abbracciare l'intero sito: era enorme. Sentii come fossero mie le sensazioni dei sovrani di Micene. Mi sembrava di poter essere il re del mondo.

Sorpresi Kakashi a fissarmi di sottecchi. Distolse lo sguardo non appena intercettai i suoi occhi.
«Perdonami, è che gli somigli in modo incredibile, al maestro Minato intendo.» disse senza che io avessi bisogno di chiederlo. Mentre lo diceva la maschera di noia e sufficienza si dissolse, fornendomi un'apertura.
«Com'era?» chiesi. Kakashi annuì, come per prendere atto che non avevo mai avuto la possibilità di passare del tempo con lui.
«Unico. Non ho mai conosciuto un uomo tanto brillante ed allo stesso tempo tanto sensibile e comprensivo. Vedi... quando lo conobbi ero in un momento difficile. A quei tempi ero in pessimi rapporti con mio padre, così ero scappato di casa. Frequentavo il primo anno di liceo e tuo padre era il mio insegnate di storia. Ero certo di non aver mai lasciato trapelare nulla ma lui, in qualche modo, sapeva. Sembrava che con un solo sguardo potesse comprendere tutto ciò che nascondevo. Conoscendomi temeva che potessi imboccare la strada dell'autodistruzione, e perciò mi diede uno scopo: lo studio della Grecia. La forza della sua passione risuonò dentro di me, e anche io non potei evitare di cominciare ad amare la storia del popolo Ellenico. Nutrì la mia neonata passione con letture, spiegazioni e notti di chiacchierate davanti ad un caffé a casa sua e di tua madre. Dopodiché, alla prima occasione utile, mi portò con sé in Grecia. Non so dove sarei oggi se non fosse stato per lui.»

Annuii. Con un cenno del capo mi invitò a seguirlo.
Sulla cima della collina stava arroccato un ulivo. Il tronco era storto e nodoso. Kakashi si avvicinò e ne accarezzò la corteccia. Iniziò a spiegarmi la storia della pianta di ulivo e la sua importanza per il popolo dell'Ellade. Ma il suo racconto di poco prima aveva instillato in me un sospetto che non riuscivo ad ignorare.

«Kakashi, posso farle una domanda?»
Mi guardò con l'aria di chi non capisce ma annuì.
«Perché mi ha raccontato tutto questo?»
«Beh l'ulivo non è trascurabile nella tradizione agricola dell'antica Grecia, ha anche radici mitologiche, pensa che la città di Atene...»
«Non parlo del maledetto ulivo, intendo il discorso su mio padre. Si tratta della sua storia personale, e non era tenuto a raccontarmela. È stato Jiraya a chiederglielo?»
Kakashi annuì.
«Forse non sei poi così ottuso come crede lui, vero?»
«No, direi di no.»
«Sì, è stato Jiraya a chiedermi di parlarti di lui. Crede tu ne abbia bisogno.»
«Ma perché adesso?»
«Sei “bloccato”, no? E poi hai ventidue anni: ti stai affacciando all'età adulta. Questo è un momento difficile nella vita di qualsiasi uomo. E per te, che non conosci tuo padre, lo è sicuramente ancor di più.»

Il primo istinto fu quello di rifiutarmi di ascoltare quello che mi stava dicendo, dopotutto cosa poteva saperne lui. Ma da qualche parte, dentro di me, sentivo che non era del tutto assurdo. Che anche se non ne ero consapevole, probabilmente sentivo dentro di me una certa ansia. E rabbia, soprattutto. Rabbia contro il mondo. Da bambino ero sempre riuscito ad esternarla con il mio comportamento esagitato. Ma crescendo era diventato più difficile, e questo conflitto irrisolto si era radicato ancora più profondamente in me.
Il dipinto che non riuscivo a produrre avrebbe dovuto rappresentare la mia arte e la mia essenza. Ma la verità era che io non sapevo chi ero. La vita mi aveva portato via i miei genitori prima che potessero aiutarmi a capirlo. E ora, nonostante la presenza costante di Jiraya, avevo paura di essere da solo contro il mio futuro, senza un passato che mi donasse stabilità.

«Può essere che abbia ragione. Credo di avere il diritto di essere incazzato con la vita. È colpa sua se i miei non ci sono più. E anche se so che non avrei potuto fare nulla, non credo riuscirò mai ad accettare tutto questo.»

Ci fu qualche secondo di silenzio in cui ci guardammo negli occhi. Kakashi stava probabilmente cercando le parole giuste. Ad un certo punto si illuminò, e proferì: «Forza! Forza, figlio!/C’è ancora, nel cielo, il grande Zeus,/che tutto scruta, che tutto governa./Affida a lui la tua rabbia che trabocca di dolore,/e non angustiarti troppo nell’odio per i tuoi nemici./Ma non dimenticare: il Tempo è un dio gentile.1»
«Cosa?» involontariamente un sorriso mi sorse sulle labbra, al sentire quelle parole.
«I greci erano un popolo di saggi,» disse con tono nostalgico, come se stesse parlando di un vecchio amico «ad esempio questo passaggio è di Sofocle.»
Ero sinceramente ammirato. Di arte ne capivo abbastanza, ma in letteratura ero una capra patentata.
«Ora che ci penso, capiti a Micene nel momento giusto: questo è il periodo delle rievocazioni, e stasera mettono in scena l'Elettra. Dovresti venire. Potrebbe farti bene.» disse Kakashi.
Annuii. E riconobbi che probabilmente l'idea di Jiraya di portarmi in Grecia non era stata poi così assurda.



 

Note:

  1. Sofocle, Elettra, traduzione dal greco di Angelo Tonelli, Marsilio, 2004




 


L'angolo di Minato-kun:
Buongiorno a tutt*, 
questo è il primo capitolo di questa mini-long per il contest "What time is it? It's SUMMERTIME" indetto sul gruppo Naruto Fanfiction Italia da Voglioungufo e rekichan, con i quali mi scuso per l'imperdonabile ritardo. Mi impegnerò al massimo perché i capitoli arrivino tutti puntuali. 
Il prompt, non appena l'ho visto, mi ha immediatamente ispirato questa storia, che spero possa piacere sia ai giudici sia a chi la leggerà. Sono contento di poter finalmente pubblicare una NaruHina, coppia che amo molto, ma sulla quale non scrivo quasi mai. 
Ci risentiamo domani per il prossimo capitolo!

 

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Capitolo 2
*** Elettra ***


2

Elettra

 

Delle torce disposte su piloni d'acciaio gettavano tremule luci all'interno del cerchio di pietra allestito per l'occasione. Pensai che quella a cui stavo assistendo era una rappresentazione vecchia più di duemila anni. Anche il greco, nonostante fosse molto diverso da quello di Sofocle, suggeriva qualcosa di atavico e feroce. La memoria di un passato in cui la terra arida di Micene si dissetava con il sangue dei soldati.
Il fuoco, la calura della sera estiva, i movimenti sensuali dei corpi, uniti alla violenza della vicenda narrata, calamitarono completamente la mia attenzione, tanto che non mi resi conto che Kakashi stava cercando di farmi una domanda finché non sentii le sue dita picchiettarmi sulla spalla.

«Sì?» chiesi, rendendomi conto solo successivamente di aver alzato troppo la voce.
«Ti stavo chiedendo se capisci qualcosa... ma visto quanto sei attento immagino di sì.»
«Oh, sì, Jiraya mi ha insegnato un po' di greco da bambino. Sono arrugginito ma almeno il contesto generale mi è chiaro.»
«Conosci la storia della stirpe degli Atridi?»
«Rinfrescami la memoria...» mi faceva strano dargli del tu, ma lui aveva detto di lasciar perdere le formalità.
«Secondo il mito, la casata degli Atridi è maledetta. Tutto cominciò da Tantalo che, per testare l'onniscenza degli dei, uccise il figlio Pelope, e preparò loro un banchetto servendone le carni come pasto. Gli dei, resisi immediatamente conto dell'inganno, lo condannarono al famoso supplizio. In vita Pelope ebbe due figli: Atreo e Tieste. I due assassinarono il fratellastro Crisippo, macchiando la famiglia di un’altra colpa.  Dopo il delitto i due fratelli iniziarono un'aspra disputa per il trono di Micene. Alla fine vinse Atreo, che bandì Tieste dalla città. Qualche tempo dopo il neo incoronato sovrano scoprì che la moglie Aerope l'aveva tradito con il fratello. Per questo motivo architettò un'ulteriore atrocità: invitò Tieste ad un banchetto con la scusa di riappacificare i rapporti, ed invece gli offrì in pasto la carne dei figli da lui avuti insieme ad una ninfa. Tutto questo conduce ad Agamennone, figlio di Atreo. Questi partito per la guerra di Troia, poiché il vento non era a favore delle navi greche, decise di offrire la sua figlia primogenita Ifigenia in sacrificio. Dopo questo atto il vento tornò a soffiare e le navi greche poterono ripartire. Tuttavia la moglie di Agamennone, Clitemnestra...»
«Va bene, va bene, basta! Ti avevo chiesto un riassunto, non una lectio magistralis, e poi... che schifo! Sembra una cosa a metà fra la Bibbia e un film dell'orrore. Davvero agli antichi greci piaceva questa roba?»
Kakashi scosse la testa, ma non aggiunse altro.

Quello che avevo capito essere Oreste lasciò la scena, e il coro si spostò nel centro esatto del cerchio. Le donne del coro si aprirono in una sorta di movimento coreografico e al centro rimase una sola attrice.

Elettra.

Fui certo di sentire il mio cuore perdere un battito. Era lei. La ragazza del mio sogno. La somiglianza era tanto forte da essere inquietante. La sua pelle era pallida e rifulgeva alla luce delle torce e della luna, come se il corpo emanasse luce propria. L'espressione era grave e triste, come ispirato dalla tragedia. Ma una cosa in particolare attirò la mia attenzione: gli occhi. Erano tanto chiari da sembrare traslucidi. Occhi pallidi come la luna.
Non fu difficile per me rendermi subito conto anche delle sue doti di attrice: in quel momento non stava interpretando Elettra, era Elettra.

Kakashi  mi diede una gomitata.
«Asciugati, hai la bava.»
Gli lanciai un'occhiata scocciata.
«Però hai ragione, è bellissima. Ed è anche un'attrice sublime.»
«La conosci?»
«Sì, è la figlia maggiore della famiglia Hyuga, una famiglia nobile della zona. Si chiama Hinata.»
«Hinata...» il suono del suo nome sulle mie labbra aveva lo stesso sapore dei ricordi. Lei era la ragazza del mio sogno, non c'era alcun dubbio. Decisi che, una volta finito lo spettacolo sarei andato a parlarle.

Nonostante ci avessi capito poco o niente la sensazione che la rappresentazione mi aveva lasciato era di grande impatto. Qualcosa di cui mi sarei ricordato. Ma la cosa che più mi interessava era riuscire a parlare con leiCercando tra la folla riuscii a trovare il ragazzo che aveva interpretato Oreste. Era alto circa quanto me, con i capelli castani e un pizzetto accennato sul mento.

«Συγγνώμη που ενοχλώ, ψάχνω για Hinata (Scusa il disturbo, sto cercando Hinata)» provai in un greco stentato. Lui sorrise e parlò molto lentamente. Si era certamente reso conto che ero straniero:
«Λυπάμαι, αλλά έχει ήδη φύγει (Mi dispiace, ma è già andata via).»
L'avevo mancata. Probabilmente non avrei più avuto possibilità di rivederla. Merda.
«Σας ευχαριστώ ούτως ή άλλως για τη διαθεσιμότητά σας και συγχαρητήρια για την παράσταση (Grazie comunque per la disponibilità, e complimenti per lo spettacolo).»

Tornai da Kakashi, che era stato nel frattempo raggiunto da Jiraya. Non avevo idea di dove fosse stato tutto il pomeriggio. Di certo non si era disturbato a comunicarmelo.
«Ciao, eh!» dissi puntando il dito contro di lui.
«Ciao!» rispose con un sorriso a trentadue denti.
«Piaciuto lo spettacolo?»
Molto, ma non potevo rispondere così. Dovevo mantenere un certo distacco davanti a lui.
«Aveva il suo perché suppongo.»
Jiraya scoppiò in una fragorosa risata.
«Mi ricorda qualcuno, il ragazzino.» disse facendo un cenno in direzione di Kakashi.
«Non dire stupidaggini, io mi sono sempre interessato alle opere tragiche.» soffiò quest'ultimo, distogliendo lo sguardo mentre Jiraya gli dava di gomito.
«Allora, Naruto, sei pronto per andare a casa?» disse riportando la sua attenzione su di me.

Ci pensai qualche secondo prima di rispondere: non volevo andare via. Come se Micene fosse l'unico collegamento che avevo con quella ragazza. Cercai un motivo plausibile per chiedere a Jiraya di temporeggiare. Allontanarmi avrebbe significato aumentare ancora di più la distanza tra me e lei.
Non ne trovai nessuno.

«Andiamo.»
Jiraya si incamminò ed io lo seguii, ma subito dopo ci ripensai e tornai sui miei passi.

«Ti ringrazio di tutto, Kakashi.»
Lui annuì, tendendomi una mano. Io la ignorai e lo strinsi in un abbraccio, che lo fece irrigidire, immagino non fosse una cosa a cui era abituato. Ma per me un abbraccio aveva molto più valore di una stretta di mano.
«È stato un piacere, Naruto. Abbi cura di te.»

Salimmo in macchina e ci avviammo verso la nostra destinazione finale: la cittadina portuale di Nauplia.
Il sonno, rimandato fino a quel momento, mi colse senza preavviso. Un sonno senza sogni.

***

Sentii una mano scompigliarmi i capelli.
«Naruto, siamo arrivati.»
Con grande fatica aprii gli occhi, per scorgere un Jiraya che ancora un po' sfocato mi sorrideva.
«Coraggio, prendi le tue cose. Alle valigie penso io.»

Scesi dall'abitacolo e mi presi qualche istante per inspirare l'aria salmastra. La luna era alta nel cielo, e fu inevitabile per me pensare a quanto ricordasse i suoi occhi.

Hinata.

Chissà chi era. Il pensiero era tornato a lei in maniera automatica. A lei e all'amarezza che provavo per il fatto di non saperne nulla.

Dai sedili posteriori trassi i miei materiali: tela, matite, pennelli, smalti, colori ad olio, acqua ragia e cavalletto. Pensai tra me e me che probabilmente sarebbe stato necessario più di un viaggio per portare tutto in camera. Con la tela sottobraccio (l'unica cosa che non potevo poggiare a terra) seguii Jiraya attraverso la porta d'ingresso, e per la prima volta guardai davvero la casa. Era un piccolo sogno: le pareti bianche di calce come quelle delle case vicine; l'ingresso posteriore dava direttamente sulla spiaggia, così come le finestre delle camere; le tende semitrasparenti ondeggiavano al vento.
La linea semplice infondeva un senso di pace che già potevo sentire insinuarsi dentro di me. Le finestre erano socchiuse e le piante – diversi vasi erano disposti vicino all'ingresso – erano state annaffiate di recente, segno che qualcuno era stato a prendersi cura delle faccende di casa prima che arrivassimo.

Jiraya aprì la porta e si lasciò sfuggire un lamento nostalgico:
«Sono tornato vecchia mia.»
«Allora cosa ne dici?» mi chiese.
«È bellissima.» gli assicurai.

L'interno rispecchiava perfettamente l'esterno. Semplice e arioso. Profumava di mare ed estate. Non trovavo affatto strano che a Jiraya mancasse vivere in Grecia, in fondo.
«Vieni.»
Mi guidò verso il fondo del corridoio, seconda porta a sinistra.
«Tu dormirai qui. Era la stanza di tuo padre.»
«Quanti anni aveva l'ultima volta che siete venuti in Grecia insieme?» chiesi entrando nella stanza e cominciando a guardarmi intorno.
«Credo che avesse proprio la tua età, se non mi sbaglio» disse «l'anno in cui conobbe tua madre.»
«Davvero?»
«Sì. Fu un incontro singolare. D'altro canto con lei tutto era singolare. Era energia pura, Kushina. Una delle donne più straordinarie che abbia conosciuto. Tu le somigli molto.» disse, e un'ombra di tristezza attraversò il suo volto.
«Si conobbero in una sera come questa» disse tornando in corridoio e avvicinandosi alla porta sul fondo del corridoio «proprio su questa spiaggia.» e aprì la porta su uno scenario più vicino ad un sogno che ad una spiaggia. Una sottile lingua di terra che divideva la casa dal mare, con sabbia finissima e chiara. La luna si rifletteva sulla superficie scura e piatta del mare tingendo l'acqua di riflessi argentati.

Jiraya mosse i primi passi sulla sabbia ancora con le scarpe addosso.

«Ti ho già raccontato era una pittrice, ma... beh, se devo essere sincero probabilmente non aveva neanche una briciola del tuo talento. Ciò che la rendeva unica era il fatto che ci mettesse sempre l'anima. Lo si poteva vedere molto chiaramente osservando i suoi dipinti.»

Sospirò.
Si voltò verso il mare e si prese un istante per respirare quell'aria che tanto doveva essergli mancata.
Mi feci accanto a lui in silenzio. Mi posò una carezza sulla testa. Nonostante fossi ormai quasi adulto Jiraya mi superava ancora di dieci centimetri buoni.

«Io vado a dormire. Quando hai finito di portare dentro le tue cose chiudi tutto a chiave. A domani!» disse dandomi una pacca sulla spalla. Dopodiché sparì all'interno della porta a destra.

Finii di trasferire tutto il materiale e disposi tutto nel modo più ordinato possibile (l'unica parte della mia vita in cui non dilagava il disordine era il mio lavoro artistico, perché se fossi stato disordinato anche in quello probabilmente non sarei mai venuto a capo di nulla). Mi spogliai a lasciai i vestiti a terra. Spensi la luce e mi buttai sul letto.

Quindici minuti passati a girarmi e rigirarmi furono sufficienti a farmi impazzire di frustrazione e, dal momento che di dormire non se ne parlava proprio, decisi di fare due passi in spiaggia. Mi rivestii e presi matita e blocco da disegno: la luce dei lampioni delle case vicine rischiarava la spiaggia abbastanza da permettermi di tentare di abbozzare qualcosa.

Lo sciabordio delle onde che si infrangevano sul bagnasciuga riempiva il silenzio della notte. Non si udiva altro rumore. Nell'aria c'era una leggera umidità, ma non era fastidiosa.
Mi sedetti, la sabbia era fresca e sottile. A gambe incrociate iniziai a schizzare quello che avevo davanti. La pittura paesaggistica mi aveva sempre rilassato molto. Era come mettere ordine: gesti semplici e automatici che mi garantivano quasi sempre un risultato gradevole. Quasi appunto. 

«Fanculo!» sbottai, strappando il foglio su cui avevo inziato ad accennare la linea di divisione tra il mare e la terra. Qualsiasi tratto tracciassi sul foglio bianco mi pareva sbagliato, antiestetico. E questa sensazione, per me, era come tornare all'inizio della mia esperienza con il disegno. Alla fatica che avevo fatto per il primo anno di studio per ottenere qualcosa di vagamente decente.

All'inizio non amavo l'arte. Ma volevo bene a Jiraya e secondo lui quello sarebbe stato un modo per canalizzare i miei sentimenti. Una “valvola di sfogo”. E mi avrebbe fatto bene, anche perché studiando a casa, non avevo mai avuto amici.

A volte penso che, se i miei genitori non fossero morti, mi sarei potuto evitare problemi come quello che fece decidere a Jiraya di farmi studiare a casa. In prima elementare un'insegnante mi definì “aggressivo e incline alla violenza”, nonostante non avessi mai fatto del male a nessuno. E si sa, quello che gli insegnanti dicono è inequivocabilmente vero, quindi i genitori chiesero che venissi separato dagli altri bambini. Era per la loro sicurezza e anche per la mia, s'intende. La voce che in una classe c'era un bambino tenuto separato dagli altri si sparse a macchia d'olio, e non passò molto tempo prima che se ne aggiungessero altre: “ha mandato un bambino all'ospedale, è pericoloso”; “ha colpito la maestra scagliando un banco”; “il prete dice che c'è un demone dentro di lui”.
Questa situazione mi ferì molto più di quanto fossi disposto ad ammettere e, quasi a voler confermare il ritratto che gli altri avevano dipinto per me, divenni intrattabile, esagitato. Un piantagrane. 
Jiraya, che si era reso conto della situazione, decise di parlare direttamente con il preside, che ovviamente, visto il mio comportamento successivo a quanto accadde, tenne la parte all'insegnate. Fu allora che decise che per me era meglio studiare a casa. Per un periodo fui davvero convinto che dentro di me ci fosse un demone. E, dal momento che non avevo alcun amico con cui giocare, decisi che sarebbe stato lui a diventare mio amico. Gli diedi anche un nome: Kurama. 

Rimasi a casa per diverso tempo dopo questo episodio e tuttavia zio Jiraya si rese presto conto che le quattro pareti di casa mi stavano strette. Proprio per questo motivo decise di iscrivermi ad un corso di disegno.

Dopo alcuni anni mi resi conto che l'arte avrebbe potuto essere un riscatto. Un modo per dimostrare che anche da uno come me poteva nascere qualcosa di bello. Mi impegnai e migliorai molto, e dopo alcuni anni passai il test d'ammissione all'accademia d'arte.

Provai nuovamente a tracciare quella linea, ma ciò si tradusse nuovamente in un foglio accartocciato. Non era aria. Decisi allora di fare due passi sulla spiaggia cercando di svuotare la testa. La sensazione della sabbia sotto i piedi nudi mi stava dando ai nervi. Ma credo che qualsiasi cosa mi avrebbe dato ai nervi, in quel momento. Sembrava che niente andasse per il verso giusto: non riuscivo a disegnare; non ero riuscito ad incontrare la ragazza del mio sogno... mancava solo che Kurama saltasse fuori dicendomi che in realtà lui era sempre esistito.

Dopo qualche minuto di passeggiata riuscii a calmarmi. Alzai lo sguardo che fino a quel momento avevo tenuto fisso a terra e mi decisi a guardare dove stavo andando. Scorsi una figura seduta con i piedi immersi nell'acqua. Una donna. Il volto era coperto dai capelli. In normali circostanze sarebbe stata mia intenzione procedere senza prestarle attenzione, ma avvicinandomi mi resi conto che stava piangendo.

«Όλα ειναι καλά? (va tutto bene?)» chiesi, pregando che capisse il mio pessimo greco.
«Ναί (sì)» rispose.

Alzò lo sguardo su di me e fu allora che la riconobbi. I suoi occhi non avrei potuto dimenticarli nemmeno se avessi voluto.

Hinata.

Rimasi a bocca aperta e prima che potessi rendermene conto sparai, direttamente in inglese:
«Ma tu sei Hinata! Ti stavo cercando prim... Whoops» dissi premendomi successivamente una mano sulla bocca.
Potei scorgere sul suo viso lo stesso sgomento che ero certo fosse dipinto sul mio. Ma fu solo per un istante. Si ricompose e, in un perfetto inglese, mi domandò:
«Sei americano, vero?»
Con gli occhi ancora umidi si sforzò di rivolgermi un sorriso.


 


L'angolo di Minato-kun:
Buongiorno,
in ritardo (come sempre) eccoci con il secondo capitolo in cui Hinata fa la sua entrata in scena. Ringrazio per le recensioni, in particolare i giudici puntualissimi e molto accurati nel loro lavoro. 
Spero che questo capitolo rispetti le aspettative. 

P.S. Non parlo il greco moderno (nemmeno quello antico a dire il vero), e mi sono affidato ad un amico per le traduzioni, spero siano accurate!

 

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Capitolo 3
*** Selene ***


3

Selene

Hinata si fregò gli occhi umidi con il dorso della mano. Rimasi imbambolato qualche istante a fissarla prima di rendermi conto che probabilmente aspettava una risposta alla sua domanda.

«Sì... sì, americano»

Okay Naruto, l'inglese lo sai parlare. Ricomponiti.

«Sono di Albuqerque, New Mexico. Sono in vacanza.»
«Immaginavo, anche se il tuo greco non è così male.»
«Sì beh, mio zio ha lavorato per anni in Grecia e me ne ha insegnato un po' quando ero bambino.»
«Di cosa si occupa?»
«È un archeologo, innamorato dell'antica Grecia.»
«Che bello!»
«Sì, non è male immagino...» la situazione mi metteva più a disagio di quanto non avrebbe dovuto, ma non potevo evitarlo.
Ora che la vedevo da vicino sembrava più bella di quanto mi fosse parso durante lo spettacolo. Ed era reale. Non aveva più quella patina di impalpabilità del mio sogno. La sensazione che mi procurava era completamente diversa.

Resasi conto che non sapevo come riempire il silenzio lasciato dal nostro breve scambio di battute, fece un cenno al blocco degli schizzi che portavo sottobraccio.

«Cos'è?»
«Oh, è il mio sketchbook. Ci faccio i disegni preparatori dei dipinti e dei disegni semplici per distrarmi quando sono nervoso.»
«E sei venuto qui perché stai preparando un dipinto o perché sei nervoso?»
«Credo più per la seconda...» sospirai «anche perché, ora come ora, non ho nessun dipinto in preparazione.»
«Anche io vengo sempre in spiaggia quando ho un problema.» tornò a fissare l'orizzonte «Il mare è un ascoltatore paziente e non ti giudica.»
«Quindi anche tu sei in un momento di crisi?»
Si irrigidì, ma fu solo per un secondo.
«Immagino che si possa dire così.» disse scrollando le spalle.
A questo punto, in condizioni normali, mi sarei scusato per averla disturbata e avrei ripreso la mia passeggiata. Tuttavia sentivo una forza primordiale spingermi verso di lei. Come la volontà di un dio.

«In genere io non sono un buon ascoltatore, ma quando disegno è come se mi si stappassero le orecchie. Quindi se avessi bisogno di sfogarti io posso ascoltarti, e poi sarò troppo impegnato a disegnare per giudicarti. Però ad una condizione: farai da modella per un ritratto.» ridacchiai.

Congratulazioni Naruto. Ora penserà che sei un maniaco. E tanti saluti alla ragazza del sogno.

Tuttavia la reazione fu completamente diversa da quella che mi aspettavo: arrossì violentemente e si nascose il viso fra le mani.

«E-ecco io... non so se vada bene... no-non sono un granché rispetto alle altre modelle che avrai avuto.»
Non potevo credere alle mie orecchie. Quella ragazza probabilmente non aveva alcuno specchio in casa.
«Invece io ti trovo perfetta.» E non solo come modella, pensai. Tuttavia era meglio risparmiarsi un'uscita di quel genere.
Sempre con il viso nascosto fra le mani rispose:
«D-d-d'accordo allora, se può aiutarti lo farò. Cosa devo fare?»
Il fatto che si fosse imbarazzata aveva fatto scattare in me qualcosa. Avevo sempre avuto un feticcio per le ragazze timide. Un istinto quasi predatorio. Quelle due frasi erano state sufficienti per capire che la desideravo.
Tuttavia ci eravamo appena conosciuti e quindi forse era il caso che mi contenessi.

«Non ti preoccupare: tu stai seduta come sei e parla pure, al resto penso io.» e strizzai un occhio.
Lei distolse lo sguardo e arrossì.

Io però ero contento: con questo soggetto era impossibile ottenere un risultato mediocre.

Prese un respiro e si sedette dritta. Nonostante la sua postura fosse il chiaro risultato di un'impostazione riusciva a mantenere una leggerezza quasi eterea: non c'era alcun genere di tensione in lei.
Iniziai a buttare giù i primi tratti preparatori. E lei cominciò a raccontarmi della sua situazione, come se fosse la cosa più naturale del mondo e noi non fossimo stati due sconosciuti.

«Devo prenderla un po' alla larga... è un problema?»
«Tutto il tempo che vuoi, tanto anche per il disegno ci vorrà un po'.» sorrisi.
«D'accordo. Devi sapere che la mia famiglia è piuttosto antica, una delle più antiche qui a Nauplia. Si può dire che in un certo senso la mia famiglia sia quella che ha fondato la città di Nauplia. Il mito dice che la conoscenza necessaria ad edificare e governare la città ci venne dal fatto che la luna, Selene, infuse nei nostri occhi il sapere. Sempre secondo il mito, i seleniti, gli abitanti della luna, si infuriarono, perché questa conoscenza non era mai stata concessa a nessun mortale sulla terra, e loro non ritenevano giusto che lo fosse. Per questo motivo, in cambio del nostro sapere pretesero una casa sulla terra e...»
«E?»
«Che ogni primogenita della nostra famiglia andasse in sposa ad uno di loro.»

Aggrottai la fronte.
«Non lo trovo giusto, sinceramente. Non era una loro decisione se concedere o meno quella conoscenza...»
«Sono d'accordo, infatti è una cosa che non riesco a concepire.»
«Beh ma cosa c'entra questo con il tuo problema? Non mi dire che i tuoi genitori stanno progettando di darti in sposa ad un alieno, perché non ci credo.»
Lei rise. Era la prima volta che la sentivo ridere.
«No, no... o almeno, non proprio.»
«Come non proprio? Spiegami.» sussultai.
«Se hai in mente qualcuno con la pelle verde e quindici occhi stai tranquillo, non è questo il caso.»
«Oh meno male, stavo già temendo scene alla “Prometheus”...»
«Alla... cosa?»
«Prometheus. È un film di fantascienza, hai presente la scena in cui la protagonista part... ehm... no, niente lascia perdere.1» pensai che forse non era il caso di raccontarglielo, effettivamente la scena era piuttosto raccapricciante.
«Continua pure, scusa se ti ho interrotto» dissi riprendendo a schizzare i contorni del viso.
«Ecco, sempre secondo la tradizione, dai seleniti discende la famiglia Otsutsuki. E così giungiamo al mio problema. Mio padre ha acconsentito a darmi in sposa a Toneri Otsutsuki. Io però non lo amo.»
Fermai la matita per qualche istante. Ricordavo di aver sentito che i matrimoni combinati erano ancora in uso in molte parti del mondo, tuttavia non credevo che la Grecia fosse un paese così culturalmente arretrato.

Di fronte a quello che lei mi aveva raccontato i miei problemi iniziavano a sembrare una barzelletta.
Rimasi qualche istante in silenzio per soppesare le parole.

«E non hai mai pensato di... ecco... scappare di casa?»
Arricciò le labbra e annuì con aria rassegnata.
«Ci ho pensato ma... non è un'opzione che posso prendere in considerazione.» sospirò
«Vedi, gli Otsutsuki sono una delle famiglie più ricche del Peloponneso, hanno una fitta rete di... conoscenze. E poi... ecco... T-toneri è...» non riuscì a finire la frase.
Aveva ripreso a balbettare ma questa volta non era per l'imbarazzo. Tremava e la sua espressione diceva qualcos'altro: aveva paura. Quell'espressione non era nuova ai miei occhi. Avevo già visto delle donne con quell'espressione. E ora capivo il motivo per cui non riusciva a scappare.
«È un uomo violento. Vero?»
Annuì.
«Si dice che i membri della famiglia Otsutsuki abbiano dei poteri. Toneri è una persona facile all'ira, non voglio immaginare cosa potrebbe fare a mio padre e a mia sorella se venisse a sapere che sono scappata.»
Sentivo una grande rabbia montarmi dentro, anche se non avevo alcun motivo per essere così coinvolto.
«Ma non è giusto! Dovresti avere il diritto di scegliere chi sposare. Sposare chi ami.»
Distolse lo sguardo, coprendosi gli occhi con entrambe le mani.
«Ma io non amo nessuno e in realtà ho già accettato da tempo il mio destino. Solo che a volte sembra tutto... troppo

Annuii. Quella sensazione non mi era estranea, anche se i miei problemi erano di tutt'altra natura e tutt'altra gravità. Fin da bambino ero sempre stato allergico alle ingiustizie, e quello era proprio il caso.
«Mi dispiace ma io non ci sto! Ci dev'essere un modo per evitare tutto questo.»
Mi lanciò un'occhiata perplessa.
«Ma non c'è...»
«Se non c'è lo inventeremo noi.»
«Noi?»
Quel noi, posto come interrogativo, mi fece rendere conto del fatto che forse mi ero spinto un po' troppo in là con le parole.

«Sì, beh, ecco... non voglio intromettermi, ma tu sembri proprio una persona che ha bisogno di aiuto...»
Scoppiò in una risata argentina.
«Sei molto dolce, davvero... ma come ti ho detto è inevitabile, mi restano solo due giorni. Però ti ringrazio lo stesso per avermi ascoltata. Sarà stato piuttosto noioso.»
«No...» dissi scuotendo la testa.
La rassegnazione che aveva dipinto i suoi occhi mi lasciò senza parole. Si alzò e si pulì dalla sabbia sotto il vestito.

«Ora devo rientrare, altrimenti mio padre si preoccuperà. Buonanotte... ehm...»
«Naruto.»
«Naruto. Mi piace, ha un bel suono. Buonanotte, Naruto.»

Non riuscii a sostenere il suo sguardo dopo questo complimento. Io detestavo il mio nome.
«Buonanotte.»

Restai a guardarla allontanarsi, finché non si spostò sulla strada e lasciò la spiaggia, e le case le nascosero alla mia vista. Non sapevo bene cosa pensare di quell'incontro. Avevamo passato insieme un'ora buona, ma mi era parso quasi come se fossero passati solo cinque minuti. La sua storia mi aveva profondamente scosso. E ad avermi scosso era stata anche lei, che accoglieva il suo destino avverso a braccia aperte, senza pensare a sé stessa. Non molti ne sarebbero stati in grado.

Osservai il ritratto che avevo completato. Nonostante l'esecuzione si potesse definire discreta sentivo uno scollamento tra la persona reale e la donna del disegno. Come se improvvisamente il foglio di carta mancasse della profondità necessaria a contenerla.

Poi ebbi un'illuminazione.

Tornai a casa quasi correndo e mi precipitai in camera. I materiali erano disposti ordinatamente, come li avevo lasciati, e pronti per l'utilizzo.
Ormai certo di ciò che volevo fare posizionai la tela sul cavalletto, afferrai la matita e iniziai a tracciare con foga le linee di uno schizzo preparatorio.
Avevo avuto dei momenti di impeto in passato, momenti in cui disegnare e dipingere sembrava molto più facile rispetto a tutti gli altri giorni. Tuttavia non mi era mai capitata la sensazione che il mio corpo fosse solo un mezzo tramite il quale un disegno precostituito e già perfetto nella sua unità si trasferiva dal piano ideale a quello materiale.

Movimenti inconsci, che andavano a tratteggiare tratti precisi sulla tela.


 

Note:

1. Prometheus (2012) di Ridley Scott. La scena a cui Naruto fa riferimento è quella in cui la protagonista Elizabeth Shaw (interpretata da Noomi Rapace), dopo aver saputo di stare portando in grembo una creatura non umana, decide di usare la capsula chirurgica automatizzata della navicella per estrarre il feto, che si rivelerà essere uno strano organismo simile a un calamaro. La scena è piuttosto cruda e disturbante.




 


L'angolo di Minato-kun:
Dato che sono in pausa pranzo dal tirocinio pubblico il terzo capitolo, e tra stanotte e domani cercherò di terminare e pubblicare gli altri, speriamo di farcela. 
Ringrazio i giudici per il loro super lavoro ed anche i lettori che hanno avuto la bontà di lasciarmi una recensione (in questi giorni non ho tempo di rispondervi come meritereste, quindi preferisco aspettare di avere un pochino più di tempo, prometto che risponderò). 
Ci risentiamo prestissimo (spero oggi per l'ora di cena), con il quarto capitolo. 
Un gigantesco abbraccio. 

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Capitolo 4
*** Superstizione ***


4

Superstizione

Mi svegliai con un dolore non ben definito alla schiena, in corrispondenza della zona lombare. Mi fu necessario qualche istante prima di rendermi conto che ero sdraiato sul pavimento.
Dolore alla schiena a parte non era male: la frescura delle piastrelle era rinfrancante.
Il sole era già alto nel cielo, probabilmente era quasi mezzogiorno. Dalla finestra entrava un fascio di luce, diretto proprio verso la tela.
La tela!

La sera precedente mi ero precpitato in camera e avevo quasi aggredito il tessuto per imprimere il disegno preparatorio. Mi alzai per verificare il risultato, e ne rimasi sorpreso.
Ovviamente non poteva rendere l'idea del risultato finale, tuttavia per la prima volta da mesi sentivo di essere partito con il piede giusto. Non so da quale parte del mio cervello fosse scaturita l'idea del nudo artistico, tuttavia il risultato parlava da sé. La composizione richiamava quella della “Nascita di Venere”, tuttavia l'atmosfera, una volta aggiunti i colori avrebbe avuto un tono più cupo, drammatco. Almeno per come me l'ero immaginato. Con la figura femminile protagonista che si staccava dallo sfondo scuro grazie al pallore dell'incarnato e alla luce della luna che, come un riflettore, la illuminava.

Gasato al pensiero che sarei riuscito a completare un dipinto dopo mesi di fermo mi diressi in cucina cimentandomi in un ridicolo balletto della vittoria, per prepararmi uno strameritato caffé.

Jiraya era seduto al tavolo della cucina, facendo girare pigramente le pagine di un romanzo. Avevo smesso da anni di farmi domande riguardo la sua pasisone per i romanzi erotici. Non riuscivo a capirne l'attrattiva: non erano altro che una rappresentazione del sesso irrealistica ed iperbolica, perfino più assurda di certa pornografia hard che si trovava in giro, senza però averne la stessa facilità di fruizione. Una perdita di tempo, insomma.

Sollevò il naso dal libro e mi squadrò mentre ondeggiavo tra la dispensa e la credenza, canticchiando a bocca chiusa il tema di “Mission Impossible”.

«Come mai così allegro stamattina? E il jet lag?»
«Il jet lag non può niente contro di me, stamattina sento che potrei spaccare l'universo se lo volessi!»
«Addirittura?» rise «E cos'è che ti ha reso così felice?».
Mi bloccai per un'istante. In realtà non mi ero posto il problema, ma probabilmente a rendermi felice, più che lo schizzo sulla tela, era il soggetto dello stesso.
«Ho conosciuto una ragazza...» dissi abbassando la voce.
Jiraya inarcò un sopracciglio: «Fantastico... e quando è successo dal momento che sono passate meno di dieci ore da quando siamo arrivati a Nauplia?»
«Ieri sera, dopo che sei andato a dormire, sono stato a fare qualche passo in spiaggia. L'ho incontrata lì. Si chiama Hinata. Hinata Hyuga.»
Jiraya ebbe come un sussulto ed aggrottò la fronte, ma fu solo per un secondo, dopodiché tornò alla sua solita espressione. Tuttavia a me non era sfuggito.

«Beh?»
«Cosa?»
«Dimmelo tu, hai fatto una faccia...»
«Quale faccia?»
«Guarda che ti conosco bene zio. Sputa il rospo!»
«Non c'è nessun rospo!»
«Allora la raganella, o quello che ti pare, ma parla!» ridacchiai. Era una battuta scema che mi faceva quando da bambino non volevo ammetere la marachella che avevo combinato.

«Non è niente di importante, è solo che... è meglio se non ti invischi con gli Hyuga.»
«È perché deve sposarsi? Tu cosa ne sai?»
«Ah, quindi te ne ha parlato... conosco suo padre da anni, e si dà il caso che io abbia vissuto qui abbastanza a lungo da conoscere le tradizioni delle famiglie locali.»
«E cosa ne pensi?»
«Tu cosa ne pensi?» mi rigirò la domanda, chiudendo il libro e studiando le mie reazioni.
«Io la trovo una barbarie... una porcheria. E poi siamo nel duemilaventuno, non nel milleventuno, davvero esistono ancora cose come queste?» conclusi gesticolando, preso dal nervoso.
«Oh, esistono eccome. Ti sorprenderebbe sapere quanto sono arretrati in questo paese.»
«E il mondo globalizzato? E i diritti umani?»
Jiraya scosse la testa.
«Fuori dalle grandi città, la Grecia non è progredita di un solo giorno, Naruto. Guarda le strade. Guarda le infrastrutture. Non sanno neanche cosa significhi la parola globalizzazione, qui. In più il rispetto per la tradizione li porta a tenere vive superstizioni senza alcun fondamento o utilità, se non quella di far vivere la gente nella paura. Hiashi, il padre di Hinata, ha sempre avuto paura degli Otsutsuki, gli uomini della luna. È ancora convinto che questi abbiano dei poteri ESP o altre cazzate del genere. Non è possibile parlare razionalmente con qualcuno così.»
Fece schioccare la lingua contro il palato, come se stesse ponderando le parole per spiegarmi qualcosa, poi disse: «Una volta qualcuno disse che i greci sono un popolo con la tragedia nel sangue. Io penso che, più che nel sangue, ce l'abbiano nel cervello, la tragedia. Speravo che almeno la figlia sarebbe riuscita a far ragionare quel folle di Hiashi, ma evidentemente non vuole sentir ragioni: si è sempre fatto così e quindi anche lei dovrà adattarsi. Mi dispiace solo che quella ragazza sia costretta ad assecondare i deliri di una manica di relitti con una mentalità da antidiluvio.»
Sbuffò con aria rassegnata e sinceramente dispiaciuta. Dopodiché mi guardò con apprensione e mi poggiò una mano sulla spalla.
«Mi dispiace, ma forse è meglio se dimentichi quella ragazza.»

E detto ciò si alzò e tornò nella sua camera.

Quella conversazione mi aveva spiazzato. Jiraya non era un amante dei melodrammi, quindi se aveva fatto un discorso di quel genere significava che la situazione era complicata. Tuttavia questo non aveva affatto frenato la mia determinazione. Ero già intenzionato ad aiutare Hinata, e Jiraya, inconsapevolmente, mi aveva spronato ancor di più a farlo. Le cause perse erano la mia specialità. Più una situazione sembrava disperata ed irrecuperabile e più io mi impegnavo per risolverla.

Mi spostai in bagno per fare una doccia e mi resi conto con imbarazzo che era da prima di arrivare in Grecia che non mi lavavo. Il pensiero corse alla sera precedente, nella quale mi ero presentato ad Hinata così com'ero: sudore e polvere. Dio mio che idiota.

Lanciai uno sguardo al mio riflesso nello specchio: non c'erano occhiaie, ma il collo era leggemente arrossato, segno che la visita al sito di Micene senza protezione solare aveva fatto il suo prevedibile corso. Mi gettai sotto la doccia insaponandomi più volte per lavare via l'odore di adolescente sudaticcio. Una volta uscito mi rivestii rapidamente e tornai al cavalletto, squadrando nuovamente il disegno. Hinata era anche lì, era impossibile non pensare a lei. Visione erotica del mio dipinto, guerriera che non chiedeva aiuto pur avendone bisogno, donna che si imbarazzava quando le veniva chiesto di posare per un dipinto, fanciulla dai maledetti occhi di luna, tanto bella e desiderabile da risvegliare l'istinto animale dentro di me.

C'era un caos di pensieri che mi vorticava in testa. Ma avevo bisogno di lucidità per pensare, in quel preciso momento, quindi riportai sommariamente il bozzetto preparatorio della tela sullo sketchbook, seguendo un processo creativo inverso rispetto a quello che utilizzavo di solito. Osservai come i tratti sulla carta fossero meno evocativi rispetto a quelli sulla tela. Come se l'ispirazione che mi aveva colto la notte precedente avesse esaurito il suo picco. Mi tranquillizzai, ragionando sul fatto che in un bozzetto era piuttosto normale essere poco accurati.

Avevo un'idea molto chiara del risultato che volevo ottenere, e delle tonalità cromatiche che avevo intenzione di utilizzare. I colori predominanti sarebbero stati il viola e l'indaco. Ossido di alluminio per il tono pallido della pelle. Una scena notturna, in cui la luce proveniva direttamente da lei. Provai nuovamente ad affidarmi al processo di realizzazione che ben conoscevo e che avevo collaudato in anni di studio, ma sapevo che rendere la giusta luminosità con gli acquerelli sulla carta era impossibile.

«Naruto. Io devo tornare a Micene con Kakashi, c'è un manufatto che richiede la mia attenzione.» annunciò Jiraya entrando nella camera e interrompendo senza alcun ritegno il mio flusso creativo. Non che si fosse mai posto il problema, in effetti.
«Okay, io ho il mio bel daffare quindi ci vediamo quando torni.» sospirai.
«Sì, avevi ragione Jiraya, il ragazzo ha talento.»
Sussultai, riconoscendo la voce di Kakashi ad un palmo dal mio orecchio. Per poco non rischiai di cadere dallo sgabello, facendo rovinare a terra anche tela e cavalletto in un colpo solo. Quando era arrivato? E poi come faceva ad essere tanto silenzioso?

«Avresti potuto dirmi che eri nella stanza, Kakashi!»
«Non mi pareva il caso di annunciarmi.»
«Preferisco che ti annunci piuttosto che avere un infarto, grazie.»
«Come vuoi, la prossima volta non mancherò. Vedo che il blocco è passato.»
Guardai la tela, sempre più soddisfatto del disegno, e annuii.
«Sì, direi di sì.»
«Bene, quindi il tuo compito in Grecia è finito.»
Di quello non ero così convinto: il mio viaggio in Grecia aveva avuto un suo scopo fino alla notte precedente. Sentivo, però, che il mio destino era sempre stato venire in Grecia, non per riuscire a tirar fuori un dipinto, ma perché potessi incontrare lei.

«Bene, ti lasciamo al tuo lavoro e andiamo a fare il nostro, che dici Kakashi?» chiese Jiraya, con la sua solita aria da buontempone che, anziché come un serio archeologo, lo faceva apparire come un vecchio alcolizzato.
«Andiamo.» rispose l'altro laconico.
«Ciao Naruto.»
«Ciao.»
«A dopo.» risposi.
Non so perché ma il mio sesto senso gridava che Jiraya fosse più interessato a valutare la qualità del vino greco (o rivalutarla, per meglio dire), anziché quella dei manufatti.

Scossi la testa, come per liberarmi da quel pensiero e focalizzai nuovamente la mia attenzione sullo sketchbook, accostandolo alla tela, per cercare di immaginare l'effetto finito, con colori a olio. Dovevo lavorare ancora un po' sulla posizione e l'intensità delle ombre, ma quel tipo di lavoro lo si poteva fare solo con i colori ad olio, pertanto pensai di cominciare a dipingere effettivamente sulla tela.

Mi ero appena piegato per versare l'olio di noce e cominciare a fare qualche prova quando sentii bussare.
Sbuffai, ma corsi all'ingresso per aprire e vedere chi fosse. Aprii la porta, ma non c'era nessuno.

Ma che? Adesso sento anche le voci? No dai, ci sono già troppi problemi al mondo per essere anche schizofrenici.

Tornai a sedermi temendo seriamente per la mia salute mentale, ma non feci a tempo a riprendere il pennello, che un nuovo toctoc mi interruppe. Pensai di ignorare il suono, ma poi, la terza sequenza di colpetti mi fece rendere conto di cosa avevo sbagliato: stavano bussando alla porta sul retro.

Mi precipitai alla porta, pronto a scusarmi per non aver risposto subito quando, aprendo la porta, mi resi conto di chi avevo davanti: Hinata - maglietta, pantaloncini, e pelle scoperta ovunque - con un'espressione vitrea e una postura chiusa, quasi stesse cercando di proteggersi, in attesa che mi facessi vedere.

«Ma... Hinata! Che è successo? Entra vieni...» dissi spostandomi per lasciarla passare.

Lei scosse la testa:
«Devo chiederti un favore.»
«Tutto quello di cui hai bisogno.» risposi immediatamente.
Lei mi guardò negli occhi, quasi stesse giudicando la mia onestà e poi chiese:
«Hai una macchina?»

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Capitolo 5
*** Le mura ciclopiche ***


5

Le mura ciclopiche

«Mi ripeti come si chiama il posto dove stiamo andando?» chiesi.
«Tirinto.»
«E perché ci devi andare?»
«...»
«Hinata?»
«Esci qui!» ordinò indicando il cartello a lato della carreggiata.

Non avevo mai sentito parlare di Tirinto, ma l'unico motivo per cui potevo supporre che ci volesse andare fosse perché lì si trovava la casa di un amico o di qualche persona fidata.
Visto lo stato in cui versava mi era passato per la testa, anche se solo per un momento, che la nostra conversazione del giorno precedente fosse stata tutta una messinscena e che in realtà mi stesse portando in quel luogo per uccidermi e fare a pezzi il mio corpo. Oh Zeus, mi ero innamorato di una serial killer.
La mia supposizione sembrò trovare fondamento quando, seguendo le sue indicazioni, mi ritrovai a posteggiare l'auto in una rientranza della superstrada.

Stavo per aprire la bocca per parlare, ma lei non me ne diede la possibilità: si slacciò la cintura e scese dall'abitacolo senza dire nulla. Scattò sollevando polvere e sabbia con i sandali. Mi affrettai a chiudere la macchina per seguirla. Spirava un vento leggero, quindi il caldo non era asfissiante, e non c'era la solita umidità che ti si appiccicava alla pelle. Passammo accanto ad una sorta di gazebo in legno.Appoggiata pigramente alla parete a favore di strada c'era una consunta lavagnetta con una scritta in greco che il mio cervello non riuscì a processare mentre cercavo di tenere il passo di Hinata sul sentiero dissestato. Correva a perdifiato, senza dare segno di volersi fermare.

Si fermò poco dopo. Ero stato troppo concentrato a non perderla di vista per rendermi conto di dove fossimo finiti.
Era un sito archeologico. Un circondario di mura. In quel momento giunse alle mie narici un profumo inebriante di fiori e macchia mediterranea. Avevo il fiatone ed ero sudato. In inverno una così breve non mi avrebbe creato nessun problema, ma l'estate mi aveva bagnato la maglietta e i capelli senza che potessi farci nulla.
Anche Hinata era sudata e con i capelli arruffati.

«Che posto è questo?»
Non rispose, tirò un profondo sospiro e si lasciò cadere sulle ginocchia. Preoccupato che stesse avendo un mancamento per il caldo mi precipitai per sostenerla, ma non ce ne fu bisogno. Sospirò di nuovo, come se stesse respirando profondamente per calmarsi.
«Scusami se non ti ho spiegato niente. Queste sono le mura ciclpoiche di Tirinto.» disse.
«Perché siamo venuti qui?»
«Avevo bisogno di venirci: mia madre, quando ero piccola ed avevo paura di qualcosa, mi portava sempre qui. Quando è morta io ho continuato a venirci. È come se fosse un pezzo di lei.»
«Deve mancarti molto...»
Annuì.
«Quello che non capisco, però, è perché io sono qui» dissi.
La sua espressione era tornata quella della sera precedente.
«Non lo so...» iniziò «quando ho pensato di venire qui, all'inizio pensavo di voler essere sola. Ma poi ho sentito come una voce dentro, che mi ha detto che dovevi esserci anche tu con me.» sorrise, ma non sembrava felice. L'espressione era nel suo complesso malinconica.
«C'è una cosa... su cui non sono stata onesta con te.»
«Cioè? Alla fine ti sposi davvero un alieno con quindici occhi?»
«No!» disse scoppiando a ridere «Che cretino che sei!»
«Sono riuscito a farti ridere, è la mia prima vittoria della giornata!» dissi sorridendo. E lo pensavo davvero. In quel momento pensai che vederla sorridere sarebbe potuto essere il mio scopo per il resto della vita. Sarebbe stata una vita felice. Non avrei avuto altro da chiedere.
«Aspetta» disse cercando di riprendersi «ti devo dire una cosa importante: quello che non ti ho detto è che l'altra sera in spiaggia io... io sono sicura che non fosse la prima volta che ti vedevo. Conoscevo già il tuo viso. Io... non prendermi per pazza, ti prego. Ti avevo già visto, in un sogno. Era come se sapessi che da un momento all'altro saresti arrivato.»
Sussultai.
Avevamo fatto lo stesso sogno.
Lei mi aveva sognato.
«E nel sogno cosa succedeva?» chiesi.
Lei non rispose, distogliendo lo sguardo. Il suo sogno era stato diverso dal mio? Oppure avevamo visto la stessa cosa? Quel salto, dove conduceva?

Tuttavia non le parlai del mio sogno. Per qualche motivo sentii che era meglio che tenessi quel dettaglio per me. Non sapevo cosa significasse, e tutta la situazione stava iniziando a spaventarmi.

«Non ricordo bene cosa sia successo nel sogno. Ma di una cosa mi ricordo.»
«Cioé?»
«Una consapevolezza. La consapevolezza che nel sogno ero innamorata del ragazzo americano con i capelli biondi e gli occhi che sembravano contenere la stessa luce del sole.» disse, mostrando nuovamente quel sorriso malinconico.
«E nella realtà? Sei innamorata di lui?» chiesi trattenendo il fiato.
Io sì, io sono innamorato di te. Lo sono stato fin dal primo istante in cui ti ho vista sulla spiaggia di Nauplia. Anzi, probabilmente lo sono da prima di incontrarti. Lo sono da quando ho afferrato la tua mano in quel sogno ermetico.

«Sarei una pazza ad esserlo. Lo conosco appena. E domani mi sposo...» disse.
Abbassai lo sguardo. A volte dimenticavo il fatto che non tutti sono dei sognatori persi tra le nuvole. La vita era un'altra cosa.
«Certo...» sospirai. Non avevo alcun diritto di sentirmi deluso, dopotutto io per lei non ero nessuno. Tuttavia mi sentivo deluso. Per un attimo avevo davvero sperato che lei mi amasse, di poter essere l'uomo che l'avrebbe salvata da una vita infelice.
«E se anche lo amassi sarebbe peggio, perché dovrei sposarmi sapendo di non poterlo avere.»
Perché devi dire queste cose? Io sono qui. Adesso, io sono qui.
«Sai, pare che una mia antenata si sia innamorata di un uomo, poco prima di sposarsi. Mia madre mi raccontò che riuscì ad evitare di sposarsi, ma...»
«Ma?»
Hinata strinse le labbra e scosse la testa.
«Niente, lascia perdere, è solo una vecchia storia.»

Le prime luci del tramonto iniziarono a tingere il cielo di sanguigno. Respirai l'odore delicato degli alberi in fiore, consapevole che probabilmente l'avrei odiato per il resto della vita.

«Scusami, non so perché ti ho portato qui. Sono stata egoista, perdonami.»
«Non hai niente di cui scusarti.» dissi abbozzando un sorriso.
«Torniamo a casa?»
«Sì, è meglio.»
Ci avviammo verso la macchina, tenendoci a debita distanza l'uno dall'altro. Una volta allacciate le cinture eravamo entrambi consapevoli che sarebbe stato un viaggio silenzioso.

Quella era probabilmente l'ultima volta che la vedevo. Avrei dovuto dire qualcosa, sul mio sogno o sui miei reali sentimenti. Ma la verità era che avevo paura. Paura che il mio cuore, già ferito, fosse spezzato irrimediabilmente.

***

Giungemmo a Nauplia che era appena calato il sole. Mi diressi al parcheggio dove Jiraya aveva lasciato la macchina la sera precedente.
C'era un auto che non conoscevo. Hinata sobbalzò alla vista.
«No... no...»
«Cosa succede?»
Lei non rispose e mi anticipò verso casa mia.

La seguii e quando giunsi in vista della porta d'ingresso notai che davanti alla porta c'era un uomo. Probabilmente era poco più grande di me, ma aveva i capelli bianchi e la pellle di un pallore quasi irreale. Indossava una veste bianca di tessuto pesante, con un drappo verde allacciato al collo ed in vita. Sembrava che il caldo non avesse alcun effetto su di lui. Anzi, a guardarlo sembrava che non lo sentisse nemmeno.
Hinata gli si avvicinò e disse, in un greco sporcato, talmente sottovoce che dovetti concentrarmi per cercare di capirlo:

«Toneri, andiamo a casa, ti prego. Lui non c'entra nulla con noi. Non è nessuno per me.»
«Hinata, mia luna, vengo in pace, sono qui solo per conoscere il mio rivale. Quello che ti impedisce di essere serena al nostro matrimonio. Voglio capire che genere di uomo crede di potermi portare via l'amore della mia vita.» il tono era gentile, la parlata pulita e raffinata, ma il sorriso era chiaramente finto, sibillino.

Mi avvicinai, vedendo per la prima volta la sfumatura glaciale dei suoi occhi azzurri. Occhi che raccontavano una storia di sentimenti violenti ed estremi.
Cercai di mandarlo via, con il tono più diplomatico possibile:
«Buonasera, lei dev'essere Toneri, mi dispiace ma non ricordo di averla invitata, e suppongo che neanche Hinata l'abbia fatto, quindi lei non ha motivo di stare qui. Questa è casa mia, quindi la prego di andarsene.» dissi cercando di conferire autorevolezza al mio greco traballante.
Il tono era stato diplomatico. Le parole forse un po' meno. Hinata strabuzzò gli occhi, come se avessi appena fatto un'enorme stupidaggine.
«Oh, non preoccuparti, Naruto Uzumaki, me ne andrò fra qualche istante, e Hinata verrà con me.» rispose in un perfetto inglese, senza alcuna intonazione. Il volto era inespressivo, una maschera di ghiaccio.
«No io non credo.» dissi. Non avrei permesso che Hinata fosse portata via contro la sua volontà. Hinata guardava di nuovo me.
«Naruto, lascia perdere, ti prego, è meglio se vado.»
«Sai bene che non è così, non permetterò che sia qualcun altro a decidere per te!» dissi deciso.
Toneri piegò la testa di lato. Non sembrava particolarmente arrabbiato, più che altro incuriosito. Come se stesse osservando una creatura esotica.
Lei allora si rivolse nuovamente a Toneri:
«Mio sole, ti prego, andiamo via!» poi abbassò la voce. «Non fargli del male...» una lacrima scese lungo la sua guancia.
Lui la ignorò completamente.
Non avevo paura di lui, se voleva fare a botte mi sarei difeso. Anche se era più alto di me era anche più mingherlino. Avrei potuto batterlo senza problemi, e poi quella ridicola veste gli sarebbe stata certo d'impedimento in una rissa.
Iniziò ad avanzare verso di me, quindi mi spostai in posizione di guardia. Ma quando fu ad un paio di metri si fermò, con la stessa espressione curiosa di prima.
«Ho fatto qualche domanda in giro ed ho saputo che sei un pittore. Non ti senti in difetto davanti alla maestosità dell'arte visto il tuo essere così... dozzinale
«Dubito che uno che non si è mai sporcato le mani possa capirci qualcosa...»
Increspò le labbra in un sorrisino asettico.
«Immagino che questo ti farà un po' male.»

Crack

Un dolore lancinante alla mano destra mi mozzò il fiato. Caddi a terra prima di riuscire a capire cosa fosse successo. Intravidi la mano gonfia, le dita piegate in una posizione innaturale. Sentii le lacrime agli occhi.

Merda.

Ma come era potuto succedere? Non mi aveva minimamente sfiorato.
«C'è qualcosa che vuole uscire dalla tua camera, glielo permettiamo?» disse inginocchiandosi accanto a me.
Mi afferrò per i capelli e mi costrinse a guardare quello che stava succedendo.
La porta di casa si aprì di scatto e fluttuando a mezz'aria ne uscirono la tela e gli altri materiali per dipingere.
Quindi non era superstizione. Lui aveva davvero dei poteri. Ecco perché Hinata ne aveva tanta paura.
Toneri si soffermò proprio sulla tela, osservando il disegno.
Poi, si fece con le labbra ad un palmo dalle mie, fronteggiandomi. Io senivo di stare per svenire, il dolore era l'unico frammento di realtà che riuscivo a percepire chiaramente.
«Quindi è così che la vuoi? Tutta per te.» disse, riferendosi al dipinto «Mi dispiace, ma non l'avrai.»
Mi lasciò andare e contemporaneamente schioccò le dita con la mano libera. La tela finì in coriandoli con un rumore di strappo.

L'ultima cosa che vidi fu Hinata, l'espressione atterrita e gli occhi pieni di lacrime.


 


L'angolo di Minato-kun:
Buonasera, come promesso questa storia la finirò. Ho rinunciato al contest per cercare di portarla a termine come me l'ero immaginata. Spero che continuerete comunque a seguirla. 
E niente, ora mi metto sotto per rispondere a tutte le recensioni. 
Un gigantesco abbraccio. 

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