Quando fiorisce la primula

di jinkoria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ascian ***
Capitolo 2: *** Sciaphilia [1] ***



Capitolo 1
*** Ascian ***


 

ascian;
“ una persona o una cosa senza ombra 

 

Che sei un ascian te lo si legge in faccia.

Mikey non ricordava a che età avesse dato il primo pugno, era però certo fosse da attribuire a quella frase, il grilletto di una sentenza piantata nella tempia senza possibilità di evitarlo.

Non che fosse poi così difficile, capirlo; bastava guardarlo muoversi per le strade sotto la luce del sole, ammantato dalla solitudine che non era riuscito a sconfiggere – alla quale aveva perso l’intenzione di opporsi, arrendevole a una natura impossibile da sovvertire.

Talmente evanescente da risultare impercettibile persino a se stesso nei momenti più bui, come se l’oscurità non fosse la prima caratteristica che gli si attribuiva, prima ancora del colore sbiadito dei capelli bianchi o degli occhi spenti e vuoti come l’abisso in cui aveva confinato la propria anima; uno sguardo catramoso dove nessuno, mai, avrebbe rischiato di rimanere ingabbiato.

Umani senz’ombra, essere un ascian era il risultato del rigetto inconscio della luce o della perdita di essa per privazione. Manjirou ricordava perfettamente quando quel momento fosse scoccato, nella sua vita; un lutto imprevedibile, destabilizzante, mai aveva vissuto sulla propria pelle l’effetto di un terremoto eppure era sicuro, fin dentro le viscere, nulla lo avrebbe mai sconvolto tanto come la vidima sulla morte di Shinichiro.

Da allora nulla di sé aveva più generato ombra perché ombra stessa era tutto ciò che era diventato.

Era facile riconoscere un ascian perché pochi erano quelli che continuavano a mostrarsi all’esterno, quelli incuranti della vergogna del venire esposti contro la propria volontà, spogliati del diritto di non confessare quanto forte fosse il loro dolore. Non era il caso di Manjirou, che interiormente ringhiava contro chiunque osasse intromettersi nella sua dichiarata fragilità, ma aveva sentito il bisogno di uscire più di quanto mai avrebbe desiderato evitare il mondo che gli ricordava quanto impossibile fosse la normalità.

Il sole era caldo sulla pelle, Mikey lo percepiva distintamente, il volto sollevato al cielo di un azzurro soffocante e così acceso, rispetto a lui, da apparirgli quasi sfrontato e instillare in sé il desiderio di tendere la mano verso l’alto e stringere, come se soffocando la luce potesse dare pace al buio.

Stanco, tirò su il cappuccio della felpa e vi sparì dentro, sebbene nessuna ombra riuscisse davvero a calare sul viso consumato dalle occhiaie; una ragazza al suo fianco lo guardò con compassione e trattenere il mostro che era fu possibile solo perché era così simile a sua sorella da fargli bruciare la gola e il petto e l’immaginarla vinse su qualsiasi rabbia faticasse a censurare. Anzi; probabilmente, se lo avesse visto così, Emma lo avrebbe rimproverato e Kenchin insieme a lei, costringendolo a seguirli a casa per dargli l’amore che percepiva desiderare con la tossicità del vizio. Senza contare i tentativi di dargli uno spiraglio speranzoso, ricordandogli che Emma stessa aveva rischiato di perdere la propria ombra per la scomparsa del fratello maggiore e che con Ryuguji era riuscita a mantenere – Mikey non riusciva a comprendere come qualcuno avrebbe potuto amarlo in uno stato simile, rinunciando a una felicità totale per correre dietro a chi la luce vera e propria non ricordava neanche cosa fosse.

Ecco perché era uscito senza dir nulla, stanco di appassire tra le mura di una casa non sua, come una pianta incapace di raggiungere il sole e abbandonata ad appassire.

Camminando a testa bassa, Mikey si accorse del colore grigio del marciapiede incupirsi, poi lentamente macchiarsi di piccoli punti più scuri ancora, che sbocciavano sparsi in terra; risollevò lo sguardo solo per rendersi conto avesse iniziato a piovere – sbuffò una risata amara, le labbra tremule.

Almeno, adesso, non c’era ombra di cui sentire la mancanza.

Si riparò in fretta sotto la pensilina di una fermata dell’autobus, troppo lontano da casa per sperare di scampare all’acquazzone a piedi.

La cupidigia generale favorita dal tettuccio era quasi confortevole, notò comunque di sottecchi qualche occhiata fin troppo curiosa di chi, come lui, aveva trovato riparo là sotto ma gli scivolarono addosso – immaginò il freddo sulla pelle e l’umidità piovana come uno strato protettivo contro cui nulla poteva davvero attecchire.

Piano, col passare del tempo le persone intorno a lui andavano sparendo, chi perché scelto l’autobus come ulteriore riparo e chi decidendo di tentare una corsa verso un’altra destinazione, il che, era probabile, fosse per allontanarsi da lui. Del resto, avere un ascian accanto era come trovarsi soli con qualcuno perso in un pianto disperato, vistoso e impossibile da ignorare, quasi soffocante tanto il disagio e l’imbarazzo del non sapere come reagire e comportarsi, o non voler fare nulla e non sopportare il peso di macchiarsi d’indifferenza.

Mikey si era lasciato andare sulla seduta della fermata, il capo chino e le mani in tasca, in un tentativo di scaldare almeno quelle, data l’acqua che sentiva scivolargli sotto la felpa.

Fu tentato di ridere per l’amarezza, come se quel diluvio non fosse altro che una punizione per aver osato pensare di potersi godere un po’ di luce naturale. E sbuffò davvero, senza alcuna inflessione però, si accasciò invece contro lo schienale in plastica, scomodo e rigido e lì rimase, mentre i pali della luce iniziavano ad accendersi e illuminare la strada sempre più scura sotto il calar della sera.

 

Si accorse di aver chiuso gli occhi, e di essersi con probabilità addormentato, quando si sentì scrollare da qualcuno: nonostante la gentilezza del tocco, dopo aver spalancato gli occhi vacui, afferrò con forza il polso di chiunque lo stesse toccando e strinse con l’intento di ferire, quando sentì un gemito sofferente.

«Ahi- scusa, non volevo spaventarti».

Manjirou dovette sbattere le palpebre più volte per riacquistare totale nitidezza, gli occhi ancora appannati dal sonno.

Di fronte a lui, un ragazzo avvolto in una larga felpa rossa – il cappuccio doveva essergli scivolato nello strattone, pensò – lo guardava con una smorfia sofferente, gli sembrò di intravedere una lacrima trattenuta nell’occhio chiuso, forse più per lo spavento del gesto brusco che non della violenza della presa, tuttavia manteneva un sorriso nervoso e non accennava a muoversi.

Mikey lo liberò lentamente, non chiese scusa, fin troppo teso per essersi mostrato così vulnerabile e alla mercé di chiunque, il cipiglio diffidente che indossò era la prova di quanto avesse standardizzato quell’atteggiamento di allerta. L’altro ragazzo, invece, aveva portato l’altra mano sul polso dolente, toccandolo a malapena.

Non disse nulla, si limitò a distogliere lo sguardo – non gli piacevano gli occhi di quel ragazzo, così spaventosamente azzurri da ricordare il cielo che fino a qualche momento prima aveva desiderato distruggere.

«Ehi, senti…» parlò ancora quello, la voce sottile come un pigolio mortificato «Davvero, mi dispiace… È che volevo sedermi lì per ripararmi ma non volevo che ti svegliassi e ti… sì insomma» una pausa, poi si ripeté a bassa voce, alzando gli occhi al cielo quasi realizzando di star dicendo una sciocchezza «spaventassi…».

Mikey continuò a non guardarlo «Fai come vuoi».

Lo sconosciuto lo ringraziò, come se ci fosse da ringraziarlo per avergli permesso di sedersi a una fermata pubblica, lo sentì borbottare qualcosa tra sé contro il freddo calato di colpo e la sfortuna di aver perso l’autobus proprio mentre gli passava di fronte; Manjirou si sorprese a quell’affermazione, percepita distrattamente, sempre più rannicchiato contro la parete sporca della pensilina, perché significava essersi addormentato davvero tanto da non sentire neanche un mezzo passargli davanti. Per questo, soltanto per questo, domandò: «Da quanto tempo stavi provando a svegliarmi?».

Quello non finse neanche di non essersi stupito nel sentirlo parlare, evidente il singhiozzo nervoso che l’aveva tradito. Con la coda dell’occhio, sentendo il frusciare della felpa, lo vide intento a massaggiarsi i capelli e, ancora, sorridere a disagio, come se avesse paura di indisporlo. Non poteva biasimarlo, del resto lo aveva aggredito e, allo stesso modo, sotto il palo della luce che rendeva chiara la sua natura, il ragazzo non poteva nemmeno sapere perché Mikey fosse un ascian.

Sempre con voce titubante, lo sconosciuto rispose «Non molto, sono arrivato da poco… un paio di minuti?».

Comunque troppi. In un certo senso, doveva essergli grato per averlo svegliato. Non gli era mai successo prima d’ora di essere tanto incauto, faticava a dormire persino nella sua camera, con Emma e Kenchin nella stanza accanto, né si sentiva così esausto da giustificare quel sonno repentino. All’improvviso sentì il bisogno di grattarsi, grattare via gli indumenti e non solo, infastidito da tutto ciò lo circondasse, e desiderò che l’autobus passasse in fretta; non aveva le forze per camminare fino a casa, l’acqua piovana di qualche ora prima stava iniziando a gravargli addosso per davvero.

«Oddio».

Giunse d’un tratto alla sua sinistra, sempre piano ma forte a sufficienza perché ogni cosa di Mikey scattasse sull’attenti, dunque altrettanto in fretta si voltò verso l’altro ospite della pensilina, fissandolo con uno sguardo intenzionalmente minaccioso – non sarebbe più scattato verso di lui, non senza ragione, era però il modo più immediato che aveva per scoraggiarlo dal fare alcunché contro di lui.

«Ma tu…».

L’ascian strinse forte i pugni sulle ginocchia per trattenere il desiderio di colpirlo e impedire a quella denominazione di farsi strada nelle sue orecchie, incassò lentamente il capo tra le spalle, in attesa.

«Tu sei… completamente fradicio, perché l’ho notato solo adesso?».

La testa di Manjirou smise di girare per un secondo «Cos’hai detto?».

«Tu!» continuò lo sconosciuto, a voce fin troppo alta per i suoi gusti, ciononostante non riuscì a provare sincero fastidio, neppure quando una mano del ragazzo, avvicinatosi fin troppo in fretta, si strinse sulla sua spalla per sentire che, in effetti, fosse alquanto bagnata «Guarda qua! E dire che stai pure tremando» Mikey si irrigidì; se solo avesse saputo perché, non che avrebbe potuto o voluto dirglielo in ogni caso.

Vide l’altro voltarsi e portare avanti uno zaino piuttosto capiente «Senti… ho un asciugamano, se vuoi – se non ti fa schifo – posso prestartelo, non ho portato il cambio con me oggi quindi non posso darti una felpa o qualcosa di meglio, però puoi asciugarti un po’… Che ne dici?».

Manjirou rimase interdetto per qualche secondo, gli occhi sgranati come non faceva da anni, fissando l’individuo di fronte a sé quasi con sconcerto, in cerca di qualsiasi cosa potesse tradire la forzatura dietro la buona intenzione; l’aver capito di essere vicino a un ascian e ostentare compassione e gentilezza.

Sotto l’espressione buffa – impossibile definirla altrimenti, per quanto il semplice pensare quell’aggettivo in un’accezione positiva fu strano – Mikey non riuscì a trovare false o cattive intenzioni, né scherno o qualsiasi altra cosa fosse diventata abitudine incontrare negli altri, per lui, al limite dell’ovvietà giornaliera: il ragazzo di fronte a sé non era niente del genere. Impacciato, con capelli ricci di un giallo sgargiante, acceso come i petali di un girasole e che stava notando davvero solo in quel momento, era quanto di più estraneo ci fosse a un pericolo. E quegli occhi dannatamente limpidi e sinceri che Manjirou, per un ridicolo istante, pensò fosse uno spreco stesse rivolgendo a lui.

Non era comunque allettato dalla risposta, tuttavia la sensazione di umido addosso iniziava a diventare piuttosto fastidiosa e rischiava di ritrovarsi con una febbre non indifferente il giorno dopo. Un asciugamano non avrebbe cambiato nulla, eppure provò sincero e genuino sollievo nello stringere quello che il ragazzo gli stava porgendo, morbido e caldo, probabilmente perché spremuto dentro lo zaino, lo portò al viso e sul collo, quando percepì un aroma familiare che lo portò senza realizzarlo ad affondare il naso contro il tessuto.

Il ragazzo si agitò a quel gesto «Non mi dire che fa puzza? Oddio, mi dispiace, sono mortificato, e dire che oggi l’ho uscito solo un attimo per-».

«Sa di taiyaki al cioccolato» rispose distratto, gli occhi chiusi mentre inspirava meglio il profumo del dolce.

«Ah! È perché lavoro in una pasticceria qui vicino!» spiegò il giovane, visibilmente più rilassato, salvo poi aggiungere un’altra nota preoccupata alla domanda «Non ti dà fastidio?».

Manjirou si limitò a scuotere la testa, per qualche motivo però si sentì di aggiungere «Mi piace».

«Davvero? Ti piacciono i taiyaki?».

Sentiva già di doversi pentire per aver aperto bocca, assuefatto dall’odore familiare si era lasciato andare a un’esternazione, inusuale per lui, come tutto del resto in quella serata uggiosa. Inoltre, una domanda così diretta lo mise a disagio, quasi punto sul vivo e riportandolo lì, dove aveva esposto un gusto, un’apertura, a qualcuno, che non avrebbe mai più visto.

Decisamente una punizione per aver cercato il sole.

Come fosse all’improvviso diventato sgradevole, allontanò di scatto l’asciugamano, l’espressione crucciata rivolta alla fantasia azzurra del panno, pronto a restituirlo all’altro quando l’odore conosciuto dei dolcetti si fece paradossalmente più intenso.

Porto verso di lui, avvolto in un tovagliolo, il pesciolino ripieno comparve davanti ai suoi occhi, tenuto su dalle mani del suo interlocutore.

Il sorriso che gli rivolse fu talmente morbido e gentile che Manjirou sentì qualcosa nel suo petto fare male, davvero tanto, al punto da causargli un fastidioso senso di bruciore agli occhi. Per questo distolse in fretta lo sguardo, sia dal ragazzo che dal dolce.

«È dell’ultima sfornata».

«…».

«Ne ho altri due».

 

L’unica cosa su cui riusciva a concentrarsi Manjirou, un boccone dopo l’altro, era il sapore di casa, di quella in cui non avrebbe mai più potuto far ritorno e che, per tanto tempo, si era negato di riportare alla memoria.

Accettò il tè versato nel tappo del thermos usato come bicchiere da Takemichi – così si era presentato dopo che Mikey aveva ceduto all’offerta, sorridendogli stavolta in un modo così intenso da sembrare ingiusto, sul serio, uno spreco, si sentì quasi ladro di qualcosa di fin troppo bello e luminoso e con lui, chiaramente, non aveva nulla a che vedere.

Tutto si sarebbe aspettato da quell’uscita disastrata, tranne il ritrovarsi a fare merenda con un ragazzo conosciuto per caso, avrebbe persino detto errore fino a qualche minuto prima, adesso invece era accecato dal bagliore della sua presenza e, forse era colpa del freddo, si era fatto un po’ più vicino a lui, attirato dal calore che sembrava emanare naturalmente. Poi lo guardò, sia Takemichi che il suo zaino, al che il giovane scoppiò a ridere – forte ma rilassante, confortevole, come la pioggia battente sull’asfalto vista da dentro casa, al caldo, un che di rassicurante e intenso insieme.

«Non ne ho più» un altro singhiozzo divertito al notare l’accenno di broncio di Manjirou, un tempo sarebbe stato molto più evidente «però posso fartene avere altri! Se vieni a trovarmi-» si fermò, specie quando l’altro si voltò a guardarlo avendo notato l’interruzione brusca.

«Hai la febbre, Takemicchi?».

«N-no, perché me lo chiedi?».

Mikey lo fissò impassibile, dopodiché come nulla fosse si leccò le dita, dove un po’ di ripieno al cioccolato era rimasto.

Vide di sottecchi le mani che erano state generose con lui tormentarsi a vicenda, Takemichi stesso aveva abbassato lo sguardo.

Una voce maligna, nella testa di Mikey, gli suggerì fosse per colpa sua. Il buio era aumentato, l’ombra di Takemichi era evidente, i lampioni rendevano chiaro la differenza fra loro.

Gli venne da vomitare.

Si sollevò di scatto quando un altro autobus iniziò a intravedersi, allontanandosi il più in fretta possibile dal ragazzo, che trasalì al gesto brusco ma lo imitò poco dopo, sistemando le sue cose nello zaino il più in fretta possibile.

Non gli si avvicinò, Takemichi, che in piedi poté notare essere un po’ più alto di lui, e la nausea crebbe. Forse salire su un mezzo in quel momento non era la scelta più giusta. Stava già per andarsene a piedi, le mani a un passo dal rimettere su il cappuccio, qualche goccia di pioggia aveva ripreso a cadere.

C’era troppa luce, era per questo. Aveva sbagliato a star là.

«M-Mikey-kun!» la voce alta di Takemichi lo fermò, Manjirou odiò ogni briciola di sollievo e soddisfazione provata al sentirsi chiamare da lui. Si odiò e lo odiò, quando si voltò a guardarlo e vide quegli occhi che del cielo si facevano beffe, di una bellezza senza eguali, lucidi e umidi come carezzati da un velo piovano.

«Poco fa- ci siamo appena conosciuti, ma volevo dirti che- se, se vuoi- la pasticceria in cui lavoro è-».

«Non mi interessa».

Odiò anche il senso di colpa e rimpianto nella visibile delusione nell’espressione di Takemichi, ma non poteva crederci.

«Qualsiasi cosa tu stia per dire, lo fai perché sai cosa sono e non mi interessa».

Non voleva credere neanche a questo, ma se non l’avesse fatto adesso si sarebbe ritrovato a scontrarsi con quella realtà in un secondo momento, accentuando l’oscurità che mai nessuno avrebbe riacceso per lui. Ne aveva ricevuta tanta di gentilezza disinteressata, neanche un grammo di essa lo aveva salvato, niente gli aveva restituito l’umanità che la disperazione aveva iniziato a divorare tanto di quel tempo addietro da averne dimenticato i contorni, persino, figurarsi il contenuto.

Takemichi e i taiyaki erano stati una coincidenza, addormentarsi a una fermata per la prima volta, vulnerabile per chiunque fosse passato lì prima di lui, che il primo fosse stato di fatto Takemichi non aveva importanza. Nulla di quello che le circostanze proponevano poteva essere considerato valido, troppo spesso ci aveva provato e anche adesso, dopo vent’anni dall’essere diventato un ascian, continuava a non sapere cosa significasse generare un’ombra, stagliarla sull’asfalto sotto la luce.

Guardò in terra con amarezza, vedendo solo quella dell’altro ragazzo.

L’autobus si avvicinò. Si girò dall’altra parte, incamminandosi lentamente, il rumore delle porte del mezzo che si aprivano e richiudevano dietro di sé, prima di vederlo passargli accanto.

Come aveva immaginato.

Un singhiozzo alle sue spalle lo raggelò.

«Sei- ti conosco da meno di un’ora, per cui scusami il giudizio affrettato, ma sei un completo idiota!».

«Cosa?».

«E pure tu! Mi conosci da quanto? Proprio tu! Meno di un’ora! E hai già deciso che- che so quello che sei» lo scimmiottò, il viso deformato dal pianto «e che pensi che- che ti abbia offerto i miei dolci per compassione?! Perché mi dispiace per te?! A te non interessa?! Allora pensa quanto può interessare a me se hai un’ombra oppure no! Cioè- nel senso- è ovvio che mi dispiace, è umano che mi dispiaccia! Ma è ininfluente! Nel senso- Volevo solo dirti dove lavoro, per darti altri taiyaki, ma ci conosciamo – già, siamo a tre! - da meno di un’ora, non volevo sembrare un- un maniaco o che ne so, ti ho già prestato l’asciugamano!».

Aveva il fiatone, il naso grondante e gli occhi rossissimi.

Manjirou lo guardava senza parole, più sconvolto di quanto non sarebbe stato se gli avesse dato uno schiaffo in pieno viso e a tradimento. Per qualche motivo, gli era parso di sentire l’odore del ripieno al cioccolato tornare con forza a invadere l’aria circostante, sebbene l’unico vero odore predominante fosse quello della pioggia sempre più forte, di nuovo.

Strano, pensò Mikey, che tutto quello che riusciva a vedere era un cielo sereno.

Erano rimasti fermi, entrambi, sotto la pioggia, nessun asciugamano avrebbe potuto dare il minimo sollievo adesso. Takemichi continuava ad asciugarsi malamente il naso, mentre tirava su con forza, cercando invano di scrollarsi l’acqua di dosso come se potesse fare qualcosa contro quella doccia naturale. Eppure non si spostava sotto la pensilina, continuava a sostenere lo sguardo largo e oscuro di Manjirou, fisso e irremovibile, quasi non avesse paura di rimanervi impigliato. Quasi non temesse Manjirou lo avrebbe trascinato nella sua oscurità, egoista e bisognoso di sentirsi dire esattamente quello, che essere un ascian o meno era irrilevante. Che il suo dolore contava, ma non era tutto ciò a cui Mikey andava ridotto.

Meno di un’ora. Poteva essere così semplice? No che non poteva. Ma poteva pensare, sperare sarebbe stato più semplice? Non erano bastate parole dolci, confortevoli, a nulla erano serviti i complimenti, frasi circostanziali di incoraggiamento. Era davvero il sentirsi dare dell’idiota, il punto di inizio? Un rimprovero da quello che era, ancora, difatti, un perfetto sconosciuto?

Fu quell’ancora che bastò.

La voce di Manjirou uscì vibrante, del tutto irriconoscibile, una corda di violino abbandonata troppo a lungo che liberava il primo suono dopo anni di silenzio e sul punto di spezzarsi, mentre il tentativo imbranato di un sorriso leggero si faceva strada sulle labbra troppo a lungo trattenute in un linea disillusa e apatica, intimamente spaventato perché sembrava troppo eppure giusto, per qualche ragione che non riusciva a capire o spiegarsi.

«Takemicchi».

Il ragazzo tirò ancora su col naso «C-che accidenti vuoi?».

Se non fosse stato travolto da un’altra emozione, più confusa, per certi versi spaventosa ma allo stesso tempo quasi elettrizzante, per la prima volta dopo anni, forse sarebbe riuscito ad accennare ben più che un sorriso a quel tono indispettito benché privo di qualsiasi nota crudele.

Era questo, di cui parlavano Emma e Kenchin?

«Takemicchi» ripeté, carezzando ogni lettera di quel nome, un senso di adorazione così innaturalmente crescente nella sua rapidità «Voglio vederti di nuovo, per più di un’ora».

Pioveva così forte che era certo l’indomani sarebbe stato a letto per tutto il giorno, forse era già così e questo era solo il delirio di una febbre alta e imperdonabile, e se davvero si fosse svegliato e Takemichi mai esistito sarebbe stato talmente difficile accettarlo che la sola eventualità era terrificante e l’incertezza sempre più premente.

«Anch’io».

Se fosse stato un sogno, avrebbe dovuto dirlo a Emma e a Kenchin. Che era stata tutta colpa loro. In quel momento, però, Manjirou sperava solo di poterglielo dire. Il giorno dopo, in qualsiasi condizione, dirgli di Takemichi. Dirgli che quella sera l’aveva preso in pieno una pioggia senza nuvole nonostante gli fosse sembrato di camminare sotto un cielo plumbeo per tutta la vita.

«Hai la febbre?».

«Cos- no! Non ancora, almeno! Perché me lo chiedi di nuovo?».

«Perché se non è la febbre sei arrossito, Takemicchi».
 

Sulla strada, accanto a quella di Takemichi, fievole e impercettibile comparve una seconda ombra.







 


hello, non mi aspettavo di trovare la sezione di tokrev su efp ma ne approfitto per pubblicare il primo capitolo (di due) di questa storia, nata appunto dai prompt del writober 2021, ascian sciaphilia. capitoli brevi, dovrebbe essersi capito dalla storia ma l’ascian è una sorta di condizione depressiva. inoltre funziona quasi come una soulmates au, perché c'è una persona in particolare designata per far riacquisire la propria ombra – ecco perché, piano piano, la presenza di takemichi farà sì torni l’ombra di manjirou e perché lui sia riuscito a stargli vicino nonostante tutto: lo ha sentito con takemichi fosse giusto e possibile. se siete in pari con le scan del manga, questo è un po’ il mikey del bonten!arc. la storia risulta veloce e probabilmente frettolosa perché lo scopo del writober era la scrittura giornaliera, cercando di rispettare le 24 ore per sviluppare il prompt non sono riuscita a fare di meglio, complice il fatto che ho un fortissimo blocco in scrittura. non saprei cos’altro dire, scusate eventuali errori di battitura, l’html raffazzonato e l’ooc eventuale. non è molto, ma per colpa di qualcuno ci tenevo a pubblicarla. il secondo capitolo non è ancora stato scritto, nonostante fosse il 31esimo prompt dell’iniziativa non sono riuscita nell’impresa; pubblico anche perché spero questo mi sproni un minimo a riprenderla in mano e concluderla. grazie a chiunque passerà di qui, spero a quanto prima possibile. 

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Capitolo 2
*** Sciaphilia [1] ***


hello, dopo... un bel po' di mesi. e di ritorno eccezionalmente oggi per due motivi: il più sciocchino, non mi andava di lasciare questa povera storia così a se stessa; il principale è che oggi dovrebbe essere il cosiddetto white day e questo è il mio modo di fare un regalino alla mia dolce metà ♡♡♡ sempre sul tardi perché sia mai mi fili tutto liscio e in tempi decenti ma vbb, auguri moglie 🥳🌹 e un grazie grandissimissimo alla mia figliolina amy, che mi ha fatto la straordinaria cortesia di darmi un parere in anteprima sul capitolo e segnalarmi quelle cosacceine che mi sono sfuggite in corso d'opera- grazie millissime di cuore ;; ♡♡♡
POI, ho un paio di cose da specificare: 1. il titolo è cambiato, non mi soddisfava da parecchio la citazione (da “vent'anni” dei måneskin, bellissima frase e simbolicamente calzante ma preferivo non appoggiarmi a quello per l'identità totale della storia) 2. la primula è stata scelta perché, se google non mi inganna, è il primo fiore che sboccia alla fine dell'inverno e dà il benvenuto alla primavera (questo parallelismo è presente soprattutto per il cognome di takemichi, hanagaki, che contiene proprio la parola “fiore” (hana )), inoltre in più siti ho trovato il suo significato associato a vita, giovinezza, speranza e rinascita; tutte cose che, simbolicamente, takemichi rappresenta per manjirou 3. non ho inserito in questo capitolo il significato del prompt perché lo farò nel prossimo; scrivendo mi sono resa conto di voler aggiungere ancora qualcosina a questa storia, che è la parte a cui associai il prompt stesso a ottobre e che qui, per varie ragioni [specialmente di lunghezza] ho preferito non inserire. ho anche aggiunto ufficialmente draken ed emma ai personaggi. ora... non ho sinceramente idea di quando arriverà la terza e ultima parte di questa storia, la cosa positiva è però che entrambi i capitoli attualmente disponibili si possono leggere in tutta tranquillità come autoconclusivi. ci tenevo a mostrare un po' di più come un ascian (che ricordo essere una sorta di condizione depressiva in questo au) vive la sua condizione, anche quando trova la sua persona, la luce, per riscoprire la propria ombra (come un'anima predestinata; uscire dalla condizione assoluta di ascian, quindi aver perso completamente l'ombra e non solo averla indebolita, è impossibile altrimenti, tuttavia rimane un percorso graduale). detto ciò, alcune cose fanno riferimenti al canon ma sono particolari che si colgono se avete letto il manga, viceversa anche ignorandoli non sono spoiler in alcun modo.
spero di aver detto tutto, forse ho detto pure troppo- la sezione non la vedo molto abitata ma vi auguro comunque buona lettura 



 

 


sciaphilia;
[1]


 

I primi tempi era convinto di aver visto male, confuso una sovrapposizione di qualcuno passatogli troppo vicino per qualcosa di proprio, tanto da essersi sentito per un attimo ladro di un diritto perso. Dunque aveva iniziato a seguire strade poco trafficate quando doveva spostarsi o ad accendere molte più luci la sera, giusto per passarvi accanto e raggelare per l’orrore, sinceramente terrorizzato e persino tremante, le prime volte, nel constatare fosse davvero là: flebile e impercettibile come una macchia sbiadita dagli anni ma che mai nessun solvente era riuscito a eliminare del tutto, la sua ombra era tornata a far capolino, raggrinzita e fragile nei contorni vibranti – o forse era il corpo di Mikey stesso a tremare, sconquassato dal battito folle e il respiro spezzato, irregolare, come in corsa per fuggire dalla spaventosa quanto destabilizzante consapevolezza vi fosse sul serio la possibilità che quel dolore guarisse.

Il giorno in cui lo realizzò fu quello designato alla cena di riunione tra lui, Ken ed Emma; per mantenere vivo il clima di famiglia, darsi un appuntamento, creare una tradizione tra loro perché la sorella credeva ancora fermamente per l’ombra di Mikey vi fosse speranza. O, come la sua mente gli suggeriva, per non lasciarlo affondare in se stesso, sparire come quella medesima ombra aveva fatto, codarda senza luce e stanca di brancolare in un’oscurità ingestibile e densa come catrame.

Aveva capito di star piangendo, Manjirou, solo dopo essersi ritrovato nell’abbraccio di entrambi, rimasti incantati sulla soglia di casa con l’espressione più sconvolta che avesse mai visto loro – e poi lo scatto verso di lui, le braccia stritolate da Kenchin facevano un male indicibile per la torsione scomoda in cui erano costrette dalla morsa, anche il collo doleva per la presa ferrea di Emma intorno e mai avrebbe dimenticato la sensazione gelida eppur scaldante delle lacrime posate sulla pelle e lì asciugate. Ryuuguji lo aveva successivamente afferrato per le spalle così forte da sollevarlo appena, in testa un interrogativo sconvolto, di cosa fosse successo e di come quella preghiera avesse preso forma – gli occhi spalancati e lucidi vaganti ovunque nei dintorni del corpo del migliore amico, dove un’ombra a malapena percettibile si stagliava sul pavimento, debole ma sua.

La cena proseguì intaccata, il sorriso dolce e commosso di Emma onnipresente, distorto a ogni boccone mandato giù a fatica tra una tirata in su col naso e l’altra, mentre il compagno aveva accantonato l’aria destabilizzata per far posto al ghigno più contento e soddisfatto che avesse in repertorio. Manjirou aveva solo proseguito in silenzio, ogni tanto borbottando qualcosa in direzione dell’altro perché continuava a dargli pacche sulla schiena fin troppo poderose e a riempirgli il bicchiere con chissà che sakè “per festeggiare”.

Non aveva detto nulla perché era il primo a corto di parole, rattoppate attorno al nodo in gola al quale aveva iniziato ad abituarsi, sebbene fosse certo stavolta fosse più allentato e di causa ben diversa; aveva avuto paura di staccarle da lì, perché il timore fosse solo un’illusione non se n’era mai andato, acquietato sotto al cuscino insieme a lui ogni notte dalla prima in cui si era accorto del cambiamento e sempre insieme, il giorno dopo, pronto ad alzarsi da ore d’insonnia, aprendo le palpebre non avendo idea di dove guardare per scorgere l’imitazione di una speranza che pareva aver dimenticato – con la compagnia dell’orrore di non ritrovarla più.

Partecipare attivamente in un festeggiamento di qualcosa di così a malapena accennato era pericoloso, troppi anni in cui la privazione era diventata abitudine e riabituarsi alla presenza di qualcosa che sembrava non esserci mai stata non avrebbe avuto nulla di facile come si sarebbe potuto pensare. Il volto rincuorato di sua sorella, però, arrossato dal pianto e dalla gioia, e la felicità contagiosa di Kenchin al suo fianco gli avevano fatto credere potesse almeno un po’ darsi fiducia.

Alla fine di quella serata, rimasto solo, il pugno era salito al petto e aveva avvinghiato la maglia con ansia, lo sguardo largo e tremulo sotto la realizzazione che sfumava in un desiderio.

Voglio vedere Takemichi.

 

Dal bizzarro incontro sotto la pensilina di una fermata qualsiasi, Mikey aveva iniziato a visitare spesso la pasticceria in cui gli aveva detto di lavorare – anche perché sperava gli passasse in segreto qualche avanzo invenduto com’era successo quel pomeriggio d’inizio e altri a seguire, poiché pure quella era diventata un’abitudine a cui però si era adattato piuttosto in fretta; Takemichi gli aveva spiegato gli orari in cui lo avrebbe trovato, il cominciare e finire dei suoi turni. Era stata la prima cosa della quale avevano parlato al telefono, anch’essa la prima volta in cui la voce dell’altro era arrivata distorta dal microfono, eppure morbida e calorosa come fosse stato lì accanto, a parlargli stringendogli forte la mano.

L’appuntamento si era fatto pressoché quotidiano, complice il fatto Mikey si fosse attaccato particolarmente al ragazzo, attorno al quale girava una non poi così sorprendente quantità di persone. Il che, da un punto di vista schiarito da sincero affetto, era meraviglioso: Takemichi meritava ogni goccia di apprezzamento e amore dal mondo, ne era convinto, più lo conosceva più sentiva nascere in sé l’urgenza di far sì ciò accadesse a priori, persino mobilitandosi di persona se necessario.

Dal punto di vista del suo stomaco ringhiante per il disappunto, invece, non andava bene per niente, perché c’era qualcosa di davvero molto fastidioso nel modo in cui questo o quell’estraneo gli si avvicinasse – a giudicare dalla confidenza con cui Hanagaki ricambiava non dovevano essere così sconosciuti, forse perché i nemici principali intercettati da Mikey erano per certo dei colleghi data la divisa identica, ma il filtro dell’irritazione era calato e in modo pure evidente, constatò, dato che Takemichi gli si avvicinò al primo momento libero per chiedergli cosa non andasse con onesta preoccupazione nella voce, sottolineata dalle sopracciglia corrugate.

Adorabile, ogni cellula cantò in accordo con quel pensiero, ma non fece che aumentare la pruriginosa sensazione di scocciatura ogni qual volta l’altro fosse costretto – spontaneo, in realtà – a rivolgersi a quel Matsuno o Inui e pure quel tizio sbucato di tanto in tanto dietro quest’ultimo.

Per sua sfortuna, Takemichi era tremendamente bello in quell’ambiente per lui confortevole, era chiaro, e piuttosto che diventare davvero un fastidio avrebbe zittito i brontolii del suo stomaco con i dolcetti regalati per ammansire il viziato che si era riscoperto essere.

 

 

Nelle giornate peggiori, quando per strada dell’ombra non vi era traccia o la fiumana di gente intorno rendeva troppo difficile individuarla in maniera distinta, così crudelmente chiara, sebbene dentro di sé prevalesse il voler preservare il benessere di Hanagaki n qualsiasi modo, quello scenario lo faceva sentire fin troppo fuori. Lontano dalla luce, gelido e senz’ombra. Nonostante ciò, raggiungerlo, in pasticceria per tornare a casa insieme – o meglio, riaccompagnarlo fino a quella che aveva iniziato a considerare la loro fermata – era il suo appiglio per mettere naso oltre le mura d’irrealtà nelle quali si era rinchiuso per anni, cercando di non essere visto neppure da quelle stesse pareti; l’unico da cui accettava, voleva essere guardato era fuori ed era una forza motrice sufficiente per spingerlo davvero a mostrarsi all’esterno. Sempre un po’ nascosto in vestiti larghi e pesanti, a volte fin troppo per le temperature primaverili che iniziavano a presentarsi con impaccio nei rimasugli dell’inverno, ma ne valeva la pena perché la percezione stessa del tempo, delle stagioni in successione quando tutto pareva essersi bloccato in autunno uggioso e monocromo da sempre, era arrivata con Takemichi.

Manjirou aveva capito di essersi innamorato quando quello gli aveva promesso, proprio in uno dei giorni in cui la sua ombra sembrava aver fatto ritorno al proprio posto – nella fessura di una cicatrice così evidente da dare l’impressione trattarsi di una ferita ancora aperta –, con le pupille pulsanti nelle iridi quiete come il mare al mattino d’estate ma ravvivate da dolcezza e determinazione: «La mia ombra sarà sempre grande abbastanza per entrambi».

Farò sì che la mia felicità sia anche tua.

E il suo cuore aveva tremato, ancora afflitto dalla paura di dar ascolto a quelle parole, nonostante ciò si era lasciato andare, accettando le dita di Takemichi vagare in cerca delle proprie e lì incastrarle quasi da imprimervisi per sempre e non potersi più allontanare.

Tornare a casa quella sera aveva avuto un altro significato, la notte interminabile che cozzava con la voglia incessante del giorno dopo, la sera in particolare, quando avrebbero avuto il loro prossimo incontro, perché l’amore di quell’accezione così delicata e intensa al tempo stesso era qualcosa di assolutamente nuovo per Manjirou, incomprensibile e violento come un’onda imprevista eppure era là in balia dei suoi movimenti ed era pronto ad accettare anche i prossimi, qualsiasi impatto avrebbero avuto nella sua vita.

A volte, però, capitava incontrasse conoscenti, vecchi amici, in quelle camminate dal passo pesante e di conseguenza più lento del normale, che gli dava un’andatura quasi stanca e trascinata; amici non suoi ma di Shinichiro, con bocche larghe di nostalgia parlavano e raccontavano e la gabbia relegata in fondo all’oscurità più fitta tornava a galla, inghiottendo l’ombra.

Capitò anche stavolta: era già a metà strada. A dire il vero, più verso la pasticceria che il suo appartamento. Tornare indietro era pericoloso, fu la riflessione, perché avrebbe potuto incontrare chissà chi a quel punto. Pensò a Takemichi e ai taiyaki, al modo in cui lui stesso profumasse come il dolce a cui era tanto legato, e per quanto male sentisse in quel momento al pensiero di impattare contro quella specifica familiarità decise comunque di proseguire.

Ci mise più tempo del dovuto, colto a intervalli irregolari dall’esitazione, e si era fatto tardi; l’orologio digitale riportava una cifra spaccata, lì dove lo schermo era stato schiacciato con una pressione eccessiva e intenzionale tempo addietro. L’orario di chiusura del negozio era passato da un pezzo, tuttavia il dispiacere al pensiero di aver perso quella piccola dose di luminosità giornaliera non lo toccò, non in superficie, solo in principio aveva sentito il panico montare alla prospettiva di non averlo visto – e chissà se lo aveva cercato, atteso, forse no. Forse non vederlo era stato un sollievo.

«Mikey-kun!».

Si irrigidì, piuttosto consapevole di quanto stesse tremando, persino della fitta alla nuca per il movimento brusco con cui aveva riportato il viso su, di fronte a sé, ma non aveva importanza.

Davanti la saracinesca abbassata della pasticceria, al riparo da timide gocce di pioggia che avevano iniziato a cadere, Takemichi stava sventolando il braccio in sua direzione, come per farsi vedere. Come se fosse possibile non lo vedesse. Era lì, col naso rosso e gli occhi stanchi, l’aria di chi aveva davvero tanto bisogno di tornare a casa e farsi una doccia, riposarsi e prepararsi alla giornata successiva, e avrebbe potuto essere già sull’autobus a pregustare quell’attimo di pace, eppure era lì. Mikey avrebbe voluto correre e raggiungerlo ma si sentiva parte di una scultura piantata saldamente al terreno, reso instabile dal marasma interno che aveva iniziato a provare.

A scattare verso di sé, forse interpretando quell’immobilità come un segnale ad avvicinarsi, fu Takemichi.

«Sei arrivato al momento migliore» disse, la voce un po’ affannata «Ancora un po’ e si sarebbe messo a piovere davvero, ho controllato le previsioni prima e-».

«Perché non sei tornato a casa?».

Perché mi hai aspettato?

Il ragazzo lo guardò spaesato, quasi non capisse il senso dietro le sue parole. Mikey stesso, d’altronde, non riusciva a capirsi.

«Perché torniamo sempre insieme, sono diversi mesi ormai che-».

L’ascian lo interruppe di nuovo, incalzante, per qualche ragione sentiva di aver fretta.

«Sono arrivato in ritardo, di» sollevò lo smartphone per ricontrollare l’ora «quasi cinquanta minuti. Non hai pensato non mi sarei presentato?».

Il modo in cui Takemichi abbassò lo sguardo lo fece sentire stupidamente colpevole perché stupido era il modo in cui gli si stava rivolgendo, con un tono di voce troppo alto ed equivocabile, dalla falsa apparenza del rimprovero quando non c’era altro se non disperazione in ciascuna delle sue domande, la necessità forse patetica di sentirsi dire qualcosa nello specifico che lui stesso non era in grado di identificare nella matassa ingarbugliata delle sue sciocche speranze.

La voce di Hanagaki tornò flebile, zoppicante; Mikey notò gli zigomi ravvivarsi e di primo acchito temette si fosse preso la febbre ad aspettarlo.

«Speravo non lo facessi» mormorò «Di non presentarti, intendo. Speravo di vederti arrivare, mi sono detto che gli imprevisti capitano e qualcosa poteva averti rallentato, che non ti fossi accorto dell’ora e per questo non mi avessi… avvisato… Non...» la voce si abbassò ancora, il rossore si propagò fino alle orecchie come primule appena fiorite, e stavolta Manjirou maledì la pressione assordante che stava ovattando le sue, o forse era il cuore e il pulsare così intenso da rassomigliare a urla indispettite dal proprio atteggiamento.

Perché poi quello riprese, guardandolo dritto negli occhi, un’espressione strana e indefinita che accentuò la confusione.

«Non ho pensato non saresti arrivato, prima o poi, ho solo pensato che se me ne fossi andato avresti fatto un viaggio a vuoto e non volevo non trovassi nessuno ad aspettarti».

 

Non avevano detto altro, tornando sui loro passi verso la fermata.

Takemichi non aveva detto niente nemmeno sulla sua ombra, del tutto invisibile persino sotto la forte luce del lampione, nonostante fosse stato il primo a rendersi davvero conto di quando aveva cominciato a far capolino agli inizi – senza però menzionarlo per non alimentare alcuna pressione; avanzò silenzioso, invece, verso il tabellone delle corse mentre Manjirou rimase un po’ più indietro, guardando distrattamente il cielo, l’odore di pioggia già nell’aria. Poi, l’affermazione dell’altro lo riportò su di sé.

«Credo non passeranno più autobus…».

Gli si avvicinò poco convinto di quanto udito, o più probabilmente il senso di colpa per avergli fatto perdere l’autobus gli impediva di metabolizzarne il significato e accettarlo. Adocchiato però il tabellone riscontrò quanto detto, sospirando in una maniera fin troppo rumorosa perché Takemichi dovette fraintendere ancora i motivi dietro.

«Mi dispiace averti fatto scomodare per nulla… Proverò a chiamare un taxi, ovviamente sali anche tu, ci penso io a-».

«Vieni da me».

Parlò prima di rendersene conto, le corde vocali stuzzicate prima che il pensiero di formasse concreto nella mente ma ormai era fatta, preoccuparsi non sarebbe servito a nulla e, in ogni caso, Takemichi era comunque libero di dirgli di no. Sarebbe stato persino più comprensibile che accettare, considerato il modo inspiegabile – per entrambi – in cui si era comportato prima.

Il silenzio proveniente dall’altra parte non fu affatto confortante, trovare il coraggio di voltarsi si rivelò molto più complicato di quanto immaginasse perché il significato della sua proposta assumeva sempre più forma, man mano che i secondi passavano.

Quando estrasse il telefono dalla tasca per chiamare il taxi da sé, le dita di Hanagaki strattonarono piano la sua manica e a quel punto si ritrovò pressoché costretto a guardarlo – ancora rosso, con lo sguardo nel suo, mentre annuiva.

 

 

Mikey non ricordava da quanto tempo non ricevesse un ospite. Anzi, era sicuro non ne avesse mai avuto uno prima, all’infuori di Emma e Ken ma loro non poteva considerarli tali.

Era confusionario, avere qualcuno di estraneo ai propri spazi gironzolarvi liberamente con quell’aria così curiosa, come se ci fosse davvero qualcosa di interessante nella sua casa spoglia, l’arredamento così essenziale da dare più l’impressione di essere un’abitazione in via di trasloco; i mobili e le tende rigorosamente scuri per divorare qualsiasi forma di luce.

Takemichi non poteva trovarsi in un posto più inadatto, lo pensò quasi con rabbia, pensiero però interrotto dalla domanda del ragazzo, chinato verso un mobiletto, unico con sopra delle cornici.

«È lei Emma-chan?» chiese genuino, per poi sorridere più apertamente quando ricevette un assenso in risposta «È molto bella. Ti somiglia».

Ci volle poco perché capisse quanto fraintendibile potesse risultare quella consequenzialità, difatti Manjirou stesso era rimasto sorpreso dal complimento implicito ed era certo Takemichi lo intendesse davvero, anche quando iniziò ad agitare le braccia davanti al viso per scacciar via la vergogna – o il peso dello sguardo dell’ascian su di sé – per cercare di spiegarsi. Non smentì quanto inteso da quell’affermazione né se la rimangiò, perlomeno nulla di ciò che Manjirou riuscì a captare nelle sue parole sconclusionate sembrava farlo. Così impacciato, preda totale di vergogna e panico che solo un suono riuscì a interrompere il fiume in piena delle sue giustificazioni, rimanendo a osservarlo con uno stupore indescrivibile; qualcosa che il padrone di casa stesso faticò a riconoscere nell’immediato.

La sua stessa risata.

 

«Certo che da qua su hai una vista meravigliosa, Mikey-kun».

Quello scrollò le spalle in risposta, preferendo liquidarla in quel modo piuttosto di dar come risposta la verità – di aver scelto un appartamento in alto per sfuggire agli occhi dei balconi e delle finestre circostanti, di aver scelto tende scure e spesse di proposito, di non affacciarsi mai lui stesso perché aveva nutrito per tanto tempo l’egoismo della sofferenza e non voleva saperne della normalità di chi aveva ancora un’ombra. Certe volte era doloroso persino osservare quelle di Kenchin ed Emma, in particolar modo della sorella, invidioso di come fossero sempre insieme, legate al punto da formarne una grande e indissolubile.

Anche l’ombra di Takemichi, illuminato dall’abat-jour al suo fianco e dalle luci della città ormai ammantata nel buio serale, sembrava immensa già così, da sola.

Takemichi che era evidente non vedesse l’ora di guardar fuori dal primo momento in cui aveva compreso quanto davvero in alto fossero, ma prima di scostare il tessuto protettivo gli aveva chiesto se andasse bene. Non se potesse, se a Manjirou non disturbasse il pensiero di non essere più del tutto al riparo.

La mia ombra sarà sempre grande abbastanza per entrambi.

Strinse le labbra, il capo leggermente chino per nascondersi, ancora, dietro le ciocche chiare sulla fronte.

Tutto, di lui, voleva chiedere scusa.

«Mi dispiace… per prima».

L’espressione entusiasta di Hanagaki svanì di colpo, sostituita da una più mortificata, il che peggiorò l’umore di Mikey stesso che non aveva alcuna intenzione di angosciarlo ulteriormente. Perciò continuò, prima di permettere all’altro alcuna replica o giustificazione in suo favore.

«Ho fatto tardi perché» si indicò; fece una pausa intenzionale, non aveva voglia di ricordare il motivo specifico, non lo riteneva importante «la mia ombra continua a sparire. Ci sono voluti più di dieci anni perché tornasse, non è nemmeno davvero considerabile un’ombra a tutti gli effetti».

«Mikey-kun-».

«È la facilità con cui sparisce, che mi fa arrabbiare davvero. In un modo che spero tu non debba conoscere mai. Ho iniziato a crederci, ma mi sono posto davanti a delle aspettative che distruggo semplicemente svegliandomi, guardandomi intorno».

Sentì gli anelli delle tende tintinnare, il fruscio del tessuto leggermente stropicciato e la luce attenuarsi, sufficiente per capire Takemichi le avesse tirate e chiuse, per poi avanzare piano verso di sé. Il tono di Manjirou si fece brusco al notarlo e quanto disse rapido lo bloccò lì dov’era, a metà strada.

«Non voglio tu mi veda senza ombra» quasi ringhiò, la rabbia trattenuta a denti stretti, rivolta a se stesso per l’ammissione di una debolezza incapace di fronteggiare «Non voglio ti renda conto di quanto non sia in grado di farcela mai. Di quanto, pur provandoci, non cambi nulla. Più ci provo, più distruggo tutto».

I passi dell’altro ripresero, più spediti di prima, intravide le punte delle ciabatte – offertegli per ospitalità – dabbasso ma non le distinse davvero, ormai in piena corsa verso quel discorso autodistruttivo.

Non poteva guardarlo.

«Quando smetterò di avere un’ombra, di nuovo, Emma e Kenchin staranno male» continuò, la voce sempre più graffiante, un lamento rancoroso e colpevolizzante che da tanto sentiva incastrato dentro di sé, smanioso di uscire, di liberare tutta quell’oscurità che impediva alla luce di andare oltre.

«Mikey-kun».

«Tu» enfatizzò, «tu ti renderai conto di quanto tempo hai perso nel dare retta a una persona che non farà niente se non trascinarti-».

«Mikey-kun!».

Fece sorprendentemente male l’impatto dei palmi di Takemichi contro le guance, come se non bastasse la repentinità con cui lo portò a risollevare il volto per guardarlo in pieno rianimò la fitta di diverso tempo prima, quando era arrivato alla pasticceria e le vertebre e le ossa del collo lo avevano punito per il movimento improvviso.

Erano piuttosto ruvidi, i palmi, riuscì a pensare in un barlume di lucidità, mentre un pizzicore sempre più fastidioso iniziava a propagarsi per tutta la pelle colpita, tuttavia era un bruciore in sottofondo poiché tutta l’attenzione di Manjirou era concentrata sul modo in cui Takemichi lo stesse fissando, così serio da sembrare sul punto di fargli una ramanzina.

Il tono del ragazzo si mantenne deciso e tuttavia basso, le mani senza alcuna intenzione di spostarsi da lì.

«Mikey-kun» lo richiamò una terza volta, giusto per essere certo lo stesse ascoltando – almeno quella fu la sensazione del diretto interessato, che annuì per riflesso, ancora sconvolto dal gesto e, gradualmente, dalla vicinanza raggiunta.

«Non ho mai pensato tu fossi responsabile di avere un’ombra» iniziò, stringendo la presa quando l’ascian fece per protestare «Non ho mai voluto ti sentissi in dovere di mantenerla, o di colpevolizzarti nel non riuscirci. Né io né, sono sicuro, la tua famiglia. Il fatto che tu riesca ad averne una, certe volte, è meraviglioso perché significa che quel giorno va meglio, ma» diede un leggero scossone ai polsi quando il più grande cercò di distogliere lo sguardo e un po’ Mikey lo detestò per questo, un po’ gliene fu grato perché si sentiva ancorato al terreno solo per il contatto ferreo e solido con Takemichi «non deve essere la tua ossessione. Se la tua ombra ieri c’era e oggi no, va bene. Non è colpa tua. Non è così facile, sai? Anche chi l’ha costantemente si ritrova ad averla un po’ più sbiadita, qualche volta. Prima della pasticceria lavoravo in un negozietto di videonoleggio, la mia vita era… abbastanza diversa, e la mia ombra ho creduto davvero di non riuscire a vederla più».

Manjirou faticò a credere alle sole parole, perfettamente consapevole di quanto Takemichi stesso fosse una fonte di luce incontenibile, con un’ombra definita e impossibile da non notare; fu terribile riscontrare negli occhi del ragazzo la sincerità di quella confidenza, con quel sorriso mesto eppur gentile, così bello e importante che si ritrovò a stringere i polsi dell’altro nei propri pugni, con delicatezza, per sentirlo più vicino e concreto davanti a sé.

La consapevolezza della fortuna di averlo trovato – di essere stato trovato – ad allargargli il petto, spingerlo a inspirare il profumo dei taiyaki che era forte e dolcissimo a quella distanza ridotta.

La pressione sulle sue guance si rilassò, tanto da fargli pensare stesse per allontanarsi, invece Hanagaki rimase lì, semmai approfittò del contatto ricambiato per poggiare la fronte contro la sua; i pochi centimetri di altezza in più risaltarono in quel momento, agli occhi di Manjirou, osservando le spalle dell’altro appena più in alto delle proprie. Non erano particolarmente larghe, anzi, persino nelle sue condizioni Mikey appariva più robusto, ciononostante pensò non avrebbe voluto nulla a cui aggrapparsi per non cadere se non quelle stesse spalle che tante volte avevano sfiorato le sue, camminando fianco a fianco alla sera, verso le fermata o in pasticceria, passandogli accanto di corsa per consegnargli il suo personalissimo sacchetto di taiyaki senza farsi scoprire.

Per qualche motivo solo adesso, a quel ricordo, gli venne da piangere.

«Mikey… Manjirou».

Probabilmente avrebbe pianto davvero, perché era bastato così poco per provare un dolore terribile al centro del petto, del tutto diverso da quello a cui era abituato e del quale, in altri momenti, ne avrebbe temuto il ritorno. Ora c’era Takemichi davanti a lui, però, ed era confortante pensare quella sensazione fosse dovuta a lui perché niente di proveniente dall’altro avrebbe mai potuto nuocergli. Erano fitte di pienezza, un principio di sazietà di soli assaggi ma dei quali era riuscito a risentire il sapore dopo tanto tempo.

«Non sei tenuto a fare niente, tanto meno da solo. Noi ti siamo e saremo vicini, sempre. Ti…» si fermò, Manjirou non riuscì a distinguerne l’espressione, la vista appannata e le palpebre inferiori sembravano pesanti come non ricordava di averle mai percepite, impazienti di svuotarsi di quelle lacrime accumulate fin troppo; l’unica cosa di cui era certo era il battito accelerato che sentiva sotto i polpastrelli, ancora serrati attorno ai polsi di Takemichi, quando questo concluse in un balbettio acuto: «T-ti amiamo, qualunque cosa accada».

In un recesso della propria coscienza, Mikey avvertì il sobbalzò del ragazzo quando le lacrime gli impattarono contro le dita, incredibilmente calde e altrettanto in fretta congelate lì, aumentando senza controllo sotto gli sforzi di tenere gli occhi aperti e non lasciare il pianto li strizzasse.

Voleva vederlo. Voleva mettere a fuoco il viso che sentì in fiamme sotto i suoi di palmi, adesso, dopo aver abbandonato a malincuore la prova tangibile di quanto non vi fosse possibilità di equivoco in quelle parole, scivolate come una carezza fino alla sua anima per lì posarsi. Si sporse, nel tentativo di guardarlo da vicino, più di quanto già non fosse, mentre Hanagaki cercava invano di asciugare il volto lucido, umido e al tempo stesso caldo, vivo per ogni goccia di dolore versata e sorsata di amore ricevuta.

Per la prima volta in vita sua, desiderò berla quella speranza, la voce di Takemichi in testa ripeteva costantemente le stesse parole e Manjirou si avvicinò ancora, a un passo dalle labbra dell’altro e qui si fermò, perché doveva dare spazio e tempo di scegliere e quando Takemichi lo baciò, tremante sotto le sue mani, sentì l’aria entrare nei polmoni e respirare come non era mai riuscito a fare – come non ricordava di essere mai stato capace.

Non riuscì a dire altro, cullato dall’abbraccio in cui il ragazzo lo avvolse, goffo e in imbarazzo senza però allontanarsi, neppure per riprendere fiato.

Se Manjirou avesse guardato l’ombra di Takemichi si sarebbe reso conto che era grande, davvero tanto, solo quando erano insieme; come lo spicchio residuo durante un’eclissi, leggero e impercettibile, proprio come aveva sempre invidiato a Ken ed Emma.
 

 

He says he doesn’t believe anything much he hears these days
I say, “Believe in one thing: I won’t go away.”

Taylor Swift – Forever Winter

 

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