Chaos

di Ciarax
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Decepticon ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Montana ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Nuovi incontri ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Settore Sette ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Soldato ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Sacrificio ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Nuovo inizio ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Decepticon ***


CAPITOLO 1 – DECEPTICON
 
I don't know what it is like to feel
Anything other than what I'm feeling
Take me, wake me
Before I'm forever damned.
Citizen Soldier – Forever Damned
 
            «Diamine»
Sophia si morse la lingua lasciando solamente che un sospiro frustrato lasciasse le sue labbra serrate. Poggiò la mano destra sul volante del pickup nero e si passò quella libera tra i capelli ramati mentre gettava lo sguardo fuori.
Si era addormentata. Nell’auto. Di nuovo.
            Stava decisamente iniziando a diventare una brutta abitudine ma il sonno troppo leggero le impediva di riuscire a riposare abbastanza la notte nella stessa casa dove il nonno dormiva sonoramente, risuonando nelle sue orecchie­­­­ stremate.
Nonostante fosse sicura di aver dormito almeno quattro ore il pickup era ancora caldo all’interno, anche se il motore era spento da parecchio e fuori le temperature erano ancore proibitive, specialmente di notte.
            «Se esco da qui mi becco un raffreddore» mormorò tra sé e sé, maledicendosi per non avere addosso nient’altro se non la canotta nera e i pesanti pantaloni cargo che poco facevano per tenerla al caldo.
Il resto della notte lo passò sveglia, continuando a guardare distrattamente i riflessi della luna sull’acqua del lago Michigan. Il suo telefono aveva vibrato un paio di volte ma lo ignorò totalmente lasciando che la batteria finisse di scaricarsi completamente, abbandonato sul sedile del passeggero.
            Aveva cercato un paio di volte qualche stazione che trasmettesse uno di quei pezzi jazz che tanto amava ascoltare in quei momenti ma ogni volta che ne trovava una il segnale veniva disturbato da un fastidioso rumore statico, dopo l’ennesima stazione rinunciò facendo ripiombare l’abitacolo di nuovo nel silenzio.
            «È da quando ti ho trovato che non mi fai sentire neanche una stazione decente, eppure tutte le altre non hai problemi di segnale» borbottò nuovamente dando una piccola botta sullo stereo che emise un fastidiosissimo rumore di protesta.­­
Quel GCM Topkick decisamente non aveva i suoi stessi gusti musicali.
Sospirò per l’ennesima volta vedendo come si stava iniziando ad affacciare alle prime ore del mattino. Un’altra nottata passata quasi completamente in bianco e con il telefono pieno di messaggi da parte della sua psicologa che non intendeva mollare la presa con lei.
            Sophia decise finalmente di mettere a tacere la propria testa e girò la chiave sul cruscotto, il motore si avviò con un rombo aggressivo e finalmente la donna si decise a spostarsi dalle sponde del lago Michigan dove si ritrovava a guidare senza meta ogni volta nel pieno della notte.
Guidava tranquillamente, senza fretta nonostante fosse ad un paio d’ore di distanza da Green Bay. La strada deserta la calmava e non vedeva alcun motivo di spingere sull’acceleratore anche se amava infrangere i limiti di velocità una volta ogni tanto.
            Neanche dieci minuti che un abbaglio sullo specchietto retrovisore colse la sua attenzione, vedendo la massiccia figura di un Range Rover ad una decina di metri dietro a lei con i fari accessi ed il rombo del motore ben udibile. Aggrottando la fronte leggermente sorpresa di vedere qualcun altro in giro a quell’ora della notta l’istinto la colse nel portare una mano nella fondina che teneva sotto il braccio destro, sul fianco delle costole.
            «Fossi in te non sprecherei tempo con quel giocattolo, piccoletta» l’intero corpo di Sophia congelò, la presa sul volante era talmente forte da farle sbiancare le nocche e il respiro le si era mozzato in gola.
Mantenne la testa dritta, spostando appena gli occhi per controllare attorno a lei per controllare che non ci fosse effettivamente nessuno nell’abitacolo con lei ma la voce baritonale che aveva sentito non era umana. Il suo sguardo cadde poi sulla radio accesa che al momento non trasmetteva nulla se non il silenzio che la circondava.
            «Evita di mettere su scenate, questo davvero non è il momento» replicò nuovamente la voce diffusasi in tutto il pickup tramite le casse dell’impianto stereo.
Quella cosa sembrava… infastidita.
            «Che cosa…»
            «O decidi di superare lo shock o il Decepticon ti fa fuori, a te la scelta» la interruppe bruscamente il pickup.
            «Decepticon? Di cosa stai parlando?» domandò Sophia riprendendo rapidamente controllo del proprio respiro a non mollando la presa sulla Beretta che portava addosso. Non era ancora sicura se quella lieve instabilità mentale, diagnosticatale al ritorno dalla sua ultima missione in Iraq fosse la causa di quegli strani eventi ma tutto era decisamente fuori la sua immaginazione per essere un brutto scherzo della sua mente.
Aveva percepito chiaramente l’urgenza di quelle parole e con un respiro era tornata al controllo del proprio corpo anche se non la smetteva di tenere salda la presa sul volante, fermando l’impercettibile tremore delle proprie mani.
            «Il veicolo che ci segue a poca distanza è un Decepticon. Non mi sembra di riconoscerlo ma è meglio liberarsene subito» e con quelle parole Sophia senti il pedale dell’acceleratore scendere vertiginosamente sotto il proprio piede e lo sterzo irrigidirsi improvvisamente.
Non era più lei ad avere il controllo del veicolo.
            Sentì la presa della cintura di sicurezza stringersi di più attorno a lei, di fatto impedendole molto la libertà di movimento ma di certo a quelle velocità non si sarebbe sognata di muoversi più di tanto. Il Range Rover dopo un primo momento lì recuperò in fretta mettendosi alla loro stessa velocità e Sophia percepì il proprio istinto di sopravvivenza entrargli prepotentemente in circolo nel corpo.
Nonostante quella situazione surreale si maledisse per aver lasciato a casa il proprio fucile d’ordinanza anche se iniziava a dubitare che anche quello avesse potuto far molto danno a qualunque cosa fosse alle sue calcagna.
            Il tempo sembrava essersi dilatato nell’abitacolo quando in realtà solo dopo pochi minuti di pacifici tentativi di depistaggio, rivelatisi decisamente infruttuosi, un sospiro frustrato lasciò le casse del pickup seguite da un lieve rumore di statico.
Sophia, che non aveva proferito parola da quando quella cosa aveva iniziato a guidare da sola, continuava a tenere d’occhio il Range Rover alle loro spalle che non sembrava aver intenzione di mollare la presa. L’istinto di sopravvivenza e gli anni di addestramento le gridavano di mettere in moto il corpo e allontanarsi il più possibile da quei due, ma, fatti alla mano, in una situazione sconosciuta come questa e praticamente disarmata non le era difficile capire come avrebbe avuto ben poche possibilità di sopravvivere senza l’aiuto del Topkick nero su cui viaggiava.
Non sapeva cos’era ma se la stava aiutando, tanto bastava.
            «Questo ammasso di metallo non vuole saperne di lasciar stare -borbottò frustrato il fuoristrada con un’improvvisa accelerata, -spero tu abbia dei buoni riflessi, piccoletta»
Sophia non fece in tempo a replicare che il Topkick sterzò bruscamente uscendo fuoristrada e guidando per un paio di chilometri nel nulla, seguito prontamente dal Range Rover alle loro spalle. Senza nessun preavviso l’intero veicolo iniziò a tremare, vibrando dall’interno prima di iniziare ad aprirsi e mutare forma senza rallentare minimamente la velocità.
Una mano metallica sostenne per un attimo il corpo di Sophia, impedendole di schiantarsi rovinosamente a terra e le permise di mettere in moto l’istinto per farla riuscire a minimizzare l’impatto quando anche quel minimo di sostegno la abbandonò. Rotolando un paio di volte sul terreno arido si rialzò rapidamente impugnando con un movimento fluido la Beretta che portava nella fondina e la puntò contro il Range Rover che si era fermato a pochi metri di distanza, i fari ancora accesi e piantati su di lei.
Un fastidioso gracchiare metallico si diffuse nell’aria quando anche quel veicolo iniziò un rapido processo di trasformazione, separandosi e riassemblandosi in qualcosa di ben più grande di un semplice fuoristrada a benzina. Ogni pezzo si adattava ad un meccanismo più grande dove cavi, tubi e parte della carreggiata si sistemavano man mano in quello che sembrava sempre di più un enorme e spaventosa versione di un giocattolo robot per bambini.
            Passi pesanti alle sue spalle distrassero per un attimo Sophia che girandosi appena incrociò un paio di occhi, o quello che le sembrava fossero occhi, cerulei e fissi su di lei con una considerevole differenza di altezza. Quell’ammasso metallico che una volta era il suo pickup adesso era un enorme robot alto almeno una decina di metri, coperto per la maggior parte dal nero e lucido metallo della carrozzeria del Topkick originale e che, apparentemente, ne proteggeva le parti forse più delicate.
Quello era senza dubbio un essere di un altro pianeta.
            L’occhio le cadde poi sugli enormi cannoni montati sugli avambracci del robot che attirò la sua attenzione parlandole con tono severo.
            «Meglio se ti allontani da qui»

            «Stai bene?»
L’espressione che gli rivolse quel Mecha per poco non la fece scoppiare a ridere, se fosse per la scarica di adrenali o per altro non ne era molto sicura.
            «Dovresti preoccuparti più per la tua salute, non sono io quello che ha un corpo organico tanto fragile, piccoletta» la rimbeccò l’altro inchiodandola con gli occhi di un azzurro innaturale, illuminati artificialmente e che colsero immediatamente l’espressione annoiata di Sophia che storse leggermente il naso a quel nomignolo.
Non aveva paura di lui, quella era la prima cosa che Ironhide aveva notato. Si era irrigidita quando l’aveva sentito parlare per la prima volta, quello sì ma era un comportamento comprensibile, ciò che non lo era invece fu quella tranquillità con cui lo guardava come se fosse la cosa più normale al mondo. Se non l’avesse costretta a ripararsi era certo che si sarebbe scontrata con quel Decepticon a testa alta, con solo quella ridicola arma cui tanto faceva affidamento.
Se si trattasse di pazzia o totale istinto suicida… non era certo di volerlo scoprire.
            «Che cos’era quello?» domandò poi Sophia calcando con una punta di odio l’ultima parola, rivolgendo un rapido sguardo nel punto in cui giaceva il corpo cybertroniano senza vita prima di riportarlo senza paura sulla figura di Ironhide.
            L’Autobot rimase per un attimo in silenzio, soppesando la situazione. Non era certo se mostrarsi a lei in quel modo così brusco fosse stata una mossa avventata ma non c’era motivo di lasciarsi sopraffare dai se e dai ma, aveva fatto quello che doveva per proteggere quell’umana e tanto bastava. Quel Decepticon non doveva trovarsi nei paraggi ma questo gli aveva tolto il disturbo di pensare ad un modo per riuscire a mostrarsi a Sophia senza che lei desse di matto o si spaventasse in maniera eccessiva.
A quanto pare l’aveva sottovalutata. Si era lasciato condizionare parzialmente da tutto il tempo che aveva passato nascosto ai suoi occhi, mentre la sentiva alzarsi in piena notte e guidare fino alle sponde del lago Michigan e addormentarsi più di una volta all’interno del veicolo. Portava sempre e d’ovunque quella Beretta, saldamente ancorata alla sua fondina sotto il braccio e che trattava con il massimo riguardo, come se la sua vita dipendesse da quell’arma.
            «Quello – la riprese l’Autobot con una punta di divertimento, -era un Decepticon. Deve aver sentito il mio segnale e pensato che sarebbe stata una cosa facile eliminarmi»
            «Sembra una cosa a cui sei abituato» commentò Sophia con un’espressione incredula.
            «Sono secoli che siamo in guerra, e di certo non sarà quel moscerino a distruggermi»
            «Siamo? Ci sono altri come te?»
L’Autobot non rispose e con calma riprese la forma dell’enorme Topkick nero, aprì poi la portiera del guidatore e attese paziente, «È tardi e da parecchio che non ti ricarichi in modo sufficiente. Se non hai altre domande… o hai paura adesso, piccoletta?»
            Sophia esitò un attimo ma vedendo come quello strano essere non si era rivelato minaccioso nei suoi confronti fino a quel momento forse poteva dargli un minimo di fiducia, in fondo gli aveva salvato la vita poco fa.
Con calma si richiuse la portiera alle spalle e senza che facesse nulla il motore rombò all’improvviso, e questo la fece per un momento valutare se fosse il caso di assicurarsi che non finisse anche lei nelle stesse condizioni di quel Decepticon. Riuscì a malapena ad assicurarsi la cintura di sicurezza, forse per la prima volta dopo mesi che si era ritrovata già nuovamente sulla strada che riportava a Green Bay.
            «A cosa pensi?» la voce profonda che proveniva dagli speaker dell’abitacolo fecero trasalire per un secondo Sophia, persa nei propri pensieri.
            «Cosa?» domandò scuotendo leggermente la testa per tentare di concentrarsi sulla strada deserta avanti a sé anche se non era lei quella a guidare.
            «È da quando siamo partiti che sembri distratta» fu il semplice commento dell’Autobot e a quella frase Sophia soffocò una risata esasperata.
            «Distratta? Ho appena assistito ad uno scontro tra robot giganti e uno di questi è quella che pensavo fosse la mia auto… e io ci salgo sopra senza problemi, - esclamò con uno sbuffo passandosi una mano fra i capelli ramati e poggiando la tempia sul finestrino, -non capisco neanche se è tutta un’allucinazione o se ho esagerato col caffè stamattina»
A quelle parole Ironhide si adombrò e passò qualche secondo di silenzio prima che rispondesse. Non era certo il più sensibile quando si trattava di queste situazioni ma era abbastanza attento da non lasciarsi sfuggire i dettagli che potevano comunicargli lo stato reale dell’umana; eppure, Sophia gli era sembrata perfettamente in controllo delle sue emozioni e invece era in totale disagio emotivo. Poteva trattarsi di una semplice mancanza ma non capiva allora perché la cosa l’avesse messo tanto a disagio,                         «Ironhide… è la mia designazione. Vengo… veniamo dal pianeta Cybertron. Io e gli altri Autobot»
            «Ironhide…» Sophia si passò quel nome sulla punta della lingua con attenzione, sentendolo meno estraneo di quanto non si sarebbe mai aspettata. Sapere che quella creatura aveva un nome la mise meno a disagio e si concesse un piccolo sorriso, incerta se l’Autobot potesse vederla o meno anche in quella forma, «Da quanto sei qui?»
Ironhide si prese qualche attimo di pausa per pensare a quella domanda, non che fosse complicata ma il tono tradiva una leggera agitazione. Non sapeva esattamente se era la sua presenza ad agitarla in quel modo, anche in quel momento il suo volto era una maschera indecifrabile mentre teneva lo sguardo fisso sulla strada con la testa poggiata sul finestrino del guidatore.
            «Otto mesi, circa»
            «Da quando ti ha riportato mio nonno. Non ci credo che hai sentito tutti quei deliri» sorrise amaramente Sophia socchiudendo gli occhi, improvvisamente esausta.
Lo sapeva che il suo comportamento era infondato, non era successo nulla di strano in quei mesi da quando aveva iniziato ad ignorare gli appuntamenti e le chiamate della psichiatra a cui l’avevano affidata. Non ce la faceva più a sentire la preoccupazione nella voce dei suoi genitori e del nonno ogni volta che venivano a sapere come se l’era svignata dopo un ennesimo appuntamento cancellato, persino uno dei vecchi membri della sua squadra si faceva sentire più spesso del solito solo per assicurarsi che stesse bene.
            Solo quando il Topkick si arrestò all’improvviso Sophia si accorse che entrambi erano di fronte casa del nonno, alle prime luci dell’alba dove il sole iniziava a tingere il cielo di colori tenui. Il sonno se n’era andato da un pezzo e nonostante tutto preferì rimanere ancora per qualche attimo all’interno del veicolo, pensando se quello fosse stato solamente uno strano delirio dettato dalla stanchezza oppure c’era seriamente qualcosa che era cambiato in quella rigida e noiosa routine che si era imposta da quando era ritornata.
            «Hai intenzione di rimanere lì per tutto il giorno?» la voce leggermente metallica e profonda le giunse chiara e forte alle orecchie, tracciando un profondo solco tra quello che pensava di aver solo immaginato da quello che era accaduto davvero.
Sophia poi scosse la testa, rizzando la schiena e cercando per un attimo il telefono abbandonato sul sedile del passeggero, spento o con la batteria scarica, neanche lo ricordava più, «Grazie… di avermi salvato la vita» era l’unica cosa che le venne in mente in quel momento prima di aprire la portiera per rientrare in casa.
            «Ho fatto solo il mio dovere, piccoletta»


 
---Note---
Già pubblicata qualche mese fa su Wattpad, è un piccolo sfizio di meno di una decina di capitoli dunque molto breve. Anche se so che nel fandom italiano Transformers non sia molto attivo, ci tenevo a pubblicare anche qui.
 
Ciarax

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Montana ***


CAPITOLO 2 – MONTANA
 
            «Nonno ma non avevi l’incontro con gli altri veterani almeno un’ora fa?»
            «Si, ma se tu continui a farmi preoccupare così possono anche smetterla di aspettarmi. Sono sopravvissuto alla guerra e tu mi vuoi uccidere di preoccupazione» borbottò l’anziano dopo aver finito di pranzare con la nipote.
Sophia poggiò le stoviglie all’interno del lavabo e abbassò la testa, frustrata. Respirò un paio di volte e socchiuse gli occhi solo per vedere il volto sempre corrucciato del nonno disteso in un’espressione calma ma seriamente preoccupata.
Detestava vederlo così.
            George Alder era fin troppo attivo per essere un uomo da un pezzo oltre gli ottanta anni, Tenente della Marina Militare dal quale era stato congedato con onore e da cui era partita l’aspirazione di famiglia per la carriera militare, il cui figlio e nipote ne erano un esempio. L’unica nipote che aveva e con cui condivideva la testardaggine e il decoroso senso del dovere che li hanno portati lontano in così giovane età nel militare.
Non era mai stato un uomo di molte parole anche se era in grado di ammettere quando qualcosa non andava, al contrario della nipote che si chiudeva in quella sua testardaggine che lo faceva preoccupare ogni volta. E proprio mosso dalla preoccupazione si era offerto immediatamente di tenerla con sé dopo il ritorno in patria dall’ultima missione in Iraq dopo il congedo dai Ranger.
Affrontare i problemi con una pistola era sempre più facile che affrontare quelli che si annidavano nella sua testa e questa situazione non sembrava voler cambiare a ridosso di quasi un anno.
            «Quel Myers ha chiamato di nuovo -la informò George scuotendo la testa con un sorriso bonario, -voi ragazzi siete parecchio uniti, forse dovresti chiamarlo. I compagni di squadra sono i migliori fratelli su cui puoi contare, Gracie»
Sophia accennò un sorriso sentendo il nomignolo dal suo secondo nome con cui il nonno era solito chiamarla quando era meglio dargli ascolto. Solitamente i suoi consigli non erano quasi mai infondati e tentare non le costava nulla.
«E va bene, più tardi lo chiamo se questo ti farà andare a quel maledetto incontro. Non voglio sentirti lamentare per tutta la settimana che non sei potuto andare a pesca con quei pezzi da mausoleo»
George finse un’espressione incredula e addolorata, «Questo era un colpo veramente basso, ragazza mia»
Sophia rise finendo di lavare i piatti e preparando l’ennesima tazza di caffè sia per lei che per il nonno che a breve se ne sarebbe andato con altri vecchi commilitoni del centro per veterani di guerra di Green Bay. Aveva preferito l’arruolamento nell’esercito anziché nei marine come il nonno ma aveva ereditato la loro stessa dipendenza dal caffè.
Toccarlo equivaleva a segnare la propria condanna a morte.
            Con un bacio sulla guancia ed un rapido saluto, in meno di un’ora si ritrovò da sola nella casa senza alcunché con cui occupare il pomeriggio. Erano a malapena passati tre giorni da quell’incidente notturno e ancora non ne aveva fatto i conti, si era chiusa nel suo solito silenzio e aveva preteso di non pensarci.
Se non ci avesse pensato, il problema non sarebbe sussistito.
            Passare una giornata relativamente tranquilla non le sembrava un piano così pessimo e da qualche settimana non dedicava la giusta attenzione all’M82 che custodiva con gelosia da quando aveva lasciato la divisa. Con il setter inglese Sam di quattro anni al seguito portò sul tavolo della cucina la propria Berretta e la custodia dove riponeva il fucile di precisione, smontato e scarico.
Passò con perizia ogni pezzo e ricontrollò più volte l’aggancio della parte superiore e inferiore del fusto controllando che non vi fosse alcun tipo di problema, il mirino telescopico e quello per la visione notturna erano perfettamente puliti e senza alcun graffio mentre anche la canna era stata accuratamente ripulita. Caricò una cartuccia scarica e caricò la prima volta, sparando a salve e sentendone soddisfatta il suono pulito e secco del cambio ad ogni colpo; canticchiò sottovoce mentre passava in rassegna la manutenzione alla propria Beretta mettendo per un attimo da parte il fucile di precisione.
            La musica sulla vecchia radio del nonno era fissa sulla stazione radio Jazz locale, i due non ascoltavano mai altro e non era raro che scappasse qualche divertente ballo di coppia sui brani più lenti. Era perlopiù un’attività frivola e spensierata ma era uno dei momenti che più preferiva con il tempo passato con l’anziano ex marine. Era da lui che aveva ereditato la passione per il Jazz e spesso non ascoltava altro anche quando era alla guida ma quel Topkick non ne voleva sapere di sintonizzarsi su quella stazione.
            A quel pensiero Sophia mise sul tavolo la pistola, si passò la mano tra le ciocche ramate che scappavano dalla coda improvvisata e fissò distrattamente la finestra quando un rumore agghiacciante la colse alla sprovvista. Il rumore era stato un improvviso schiocco metallico seguito da quello che sembrò un antifurto emesso ad una frequenza talmente alta da farle fischiare le orecchie che coprì immediatamente.
Sentì il rumore di alcune finestre infrangersi e solo dopo qualche secondo poté togliere le mani dalle orecchie e mettere cautamente un piede fuori casa, da dove le sembrò che provenisse il quell’allarme.
            Fuori dalla casa c’era solamente l’enorme pickup nero a quattro porte che non appena la vide si ritrasformò rapidamente e riprese la sua forma bipede. Sam era al fianco di Sophia e sorprendentemente non mostrava nessun atteggiamento difensivo, la coda era morbidamente lasciata penzoloni mentre con la testa seguiva curiosamente quell’enorme Cybertroniano in trasformazione.
Ironhide prestò poca attenzione all’animale e poggiò un ginocchio a terra cercando di mettersi allo stesso livello di Sophia, con qualche scarso risultato. L’espressione infastidita della donna era chiaramente leggibile e per un attimo l’Autobot si aspettò una sfuriata o qualsiasi cosa gli avesse fatto capire che era arrabbiata, tutte reazioni che aveva appreso grazie al World Wide Web a cui aveva facilmente accesso, e invece nonostante il volto contrito non arrivò nessun urlo, solo una gelida domanda.
            «Che bisogno c’era di provare a rendere sordi sia me che Sam?» la voce era bassa, calma mentre aspettava una spiegazione poggiata sullo stipite della porta con le braccia incrociate. Era una fortuna che la casa era abbastanza isolata, altrimenti sarebbe stato più complicato per l’Autobot riprendere la propria forma bipede e parlarle faccia a faccia.
            ­«Abbiamo trovato il ragazzo. Forse c’è una possibilità per ritrovare l’AllSpark» fu la spiegazione concitata che Ironhide le fornì ma gli parve subito chiaro dall’espressione confusa di Sophia che avrebbe dovuto sicuramente fornire altre spiegazioni.
            «Prepara in fretta quello che ti serve che dobbiamo andare. Gli altri Autobot saranno qui in meno di tre giorni e il viaggio è lungo» sospirò Ironhide riprendendo poi la forma del veicolo nero e attendendo l’inizio di quel viaggio.
Sophia scosse la testa incredula, «Di cosa diavolo vai parlando? D’accordo che siamo isolati ma non puoi rischiare che qualcuno ti veda così, la gente ha reazioni improvvise»
            «Non c’è tempo per spiegazioni inutili, i Decepticon sanno che sei sotto la mia protezione e se me ne vado non esiteranno un attimo ad uccidere te e tuo nonno. Prepara la tua roba e andiamo, piccoletta» ordinò bruscamente Ironhide accendendo il motore con un rombo improvviso, prima di fare inversione di marcia e mettersi pronto col muso sulla direzione per uscire dalla proprietà.
Serrando la mascella Sophia rientrò in casa e salì rapidamente le scale fino alla sua stanza. Fissò per un attimo il borsone abbandonato vicino l’armadio e prendendolo ci buttò dentro un paio di cambi comodi e che le sarebbero bastati per un paio di settimane, le cose essenziali erano già all’interno e non ci mise più di cinque minuti a raccattare il necessario; era abituata a muoversi in fretta e le cose necessarie per lei si potevano contare sulla punta delle dita.
            Scese le scale con il borsone preparato allo stesso modo di quando veniva richiamata ogni volta in servizio in spalla, afferrò i documenti personali e qualche cosa da mangiare per dopo fino a fermarsi davanti il tavolo della cucina. Soppesò per un attimo le alternative e richiuse in fretta l’M82 smontato all’interno della custodia, infilò la Beretta carica nella fondina ascellare che assicurò attorno alle spalle e afferrò il termos pieno di caffè bollente prima di salire dal lato del guidatore.
Sperò che il breve messaggio lasciato in cucina bastasse per tranquillizzare il nonno sulla sua scomparsa improvvisa, l’uomo era vecchio ma non stupido e si sarebbe presto accorto anche della sparizione del borsone e del fucile. Sarebbe stata una breve gita di forse una settimana, aveva scritto ma non ne era sicura neanche lei.
            Un mugolio sul retro del Topkick attirò la sua attenzione quando richiuse la portiera del guidatore dietro di sé, Sam era sdraiato bonariamente sui sedili posteriori e con la testa poggiata sulle zampe aspettava paziente l’inizio di quel viaggio improvviso.
            «Quel sacco di peli non mi ha dato scelta» fu il semplice commento di Ironhide, breve e scorbutico come al solito.
Sophia accennò un sorriso dando una veloce grattatina tra le morbide orecchie del cane, «E tu non hai dato scelta a me. Considerala come la condizione per venire con te senza fare scenate inutili, Ironhide»
             «Come se tu fossi il tipo da farne» grugnì di risposta l’Autobot mettendo rapidamente in moto il motore e iniziando quello che si sarebbe rivelato un lungo tragitto.

            «Vuoi farlo smettere quell’animale?» domandò per l’ennesima volta Ironhide da un paio d’ore dopo che Sam continuava a voler insistere nel passare sul sedile anteriore e batteva ritmicamente le zampe sul sedile per avere attenzioni.
Sophia di tutta risposta sbadigliò, provando un po’ di pietà per il suo cane che non era abituato a rimanere in macchina per così tanto tempo, anche se era un animale tranquillo e che non aveva problemi a dormire per parecchio. Dieci ore di viaggio erano troppe anche per lui senza neanche una pausa.
            Era passata da un pezzo l’ora di cena ma nonostante questo Sophia non aveva fame e aveva passato gran parte del viaggio nel cercare di far sintonizzare la radio su una stazione che trasmettesse del Jazz ma Ironhide era stato irremovibile; ogni volta che trovava una stazione lui cambiava prontamente emettendo un fastidioso ronzio metallico, solo quando notò come l’umana aveva iniziato a canticchiare sottovoce una canzone in particolare appena l’aveva sentita su quella stazione decise di lasciarla. Farle sentire almeno una canzone era un vago modo per scusarsi di quel suo comportamento brusco, anche se non era certo del motivo di quella sua fissazione per quel genere di musica aveva comunque notato come sembrasse visibilmente più calma quando si lasciava un po’ andare alle note e pensò che in quel momento ne avrebbe avuto bisogno.
            Il sole era quasi totalmente tramontato e Sophia pensò se fosse il caso di accostare per la notte, non sapeva se e quando Ironhide avrebbe avuto bisogno di riposare ma quasi non ci fu bisogno di chiederlo quando si accorse che erano vicini alla città principale del Montana, Helena.
            «È meglio se riprendiamo il viaggio domani mattina, ancora non mi hai detto dove dobbiamo andare ma vista la fretta che hai immagino che non ci vorrà molto altro tempo»
All’improvviso Ironhide rallentò la velocità, fino ad allora quasi sempre fissa sugli oltre centonovanta chilometri orari, «Il punto di atterraggio nell’area ad ovest del continente»
            «Ascolta, abbiamo altri due giorni e probabilmente per domani pomeriggio saremo dall’altra parte del Paese senza problemi, io e Sam abbiamo bisogno di riposare però e probabilmente anche tu. Qui vicino… c’è la mia vecchia città, possiamo stare dai miei se vuoi» il tono con cui aveva detto le ultime parole era leggermente incerto e la presa che aveva sullo sterzo si rafforzò per un attimo.
Sophia accennò un sorriso quando sentì il motore scendere pesantemente di giri, dandole il chiaro segno di come fosse il suo turno di prendere il posto alla guida. Schiacciò la frizione e con un rapido cambio di marce rialzò il contachilometri e uscì dalla strada su cui viaggiavano quando intravide la segnaletica che dava per la città di Helena. Non ci volle più di un quarto d’ora per raggiungere una strada che non dava altro che su immense praterie per chilometri, le case erano poche e più che di cittadine si parlava di piccoli agglomerati urbani sparsi qua e là tra le colline.
            Clancy era una piccola cittadina di passaggio e una volta attraversato il quasi inesistente centro urbano, imboccarono l’unica strada battuta che conduceva nel cuore di quelle montagne che circondavano il paese. Le case erano poche e per la maggior parte erano circondate da enormi terreni recintati principalmente per i cavalli e altri animali da pascolo che circolavano liberi nelle loro zone.
La casa era abbastanza grande e su due piani quella davanti cui si fermò Sophia, parcheggiando vicino l’altro pickup presente di fronte il porticato. Le luci dentro la casa erano ancora accese e spegnendo il motore poggiò la fronte sullo sterzo ed espirò a fondo.
            Era quasi un anno e mezzo che non andava a trovare i suoi genitori e per parecchi mesi non li aveva sentiti neanche per telefono, erano stati tenuti informati sulle sue condizioni solo grazie alle chiamate del nonno che si preoccupava per lei in ogni momento. Quella decisione era stata una mossa non calcolata ma le era venuto d’istinto fermarsi qui una volta vista la segnaletica che aveva indicato loro di aver superato il confine del Montana.
            Il rumore attutito di una porta aperta e poi richiusa le fece alzare la testa e senza aspettare un secondo di più uscì dal veicolo lasciando la portiera aperta per permettere a Sam di scendere con lei, fedelmente al suo fianco. Sophia si ritrovò faccia a faccia con un uomo sulla cinquantina, i capelli corti e dal taglio militare lasciavano comunque intravedere qualche accenno di grigiore anche se il ramato era il colore predominante.
            L’uomo la superava di parecchi centimetri e squadrandola da capo a piedi rimase per un attimo in silenzio a guardarla, studiandosi entrambi a vicenda prima che sul suo volto un accenno di sorriso addolcì i tratti regolari del viso, «Usare quel maledetto cellulare proprio non ti entra in testa, eh?» la rimbeccò bonariamente l’uomo passandole un braccio attorno alle spalle e stringendola forte a sé senza dire altro.
            Sophia sorrise contro il suo petto e ricambiò debolmente, lasciando che l’odore familiare di casa lavasse via i pensieri negativi e gli orrori che continuavano a ripresentarglisi nella mente ogni volta che chiudeva gli occhi da quasi due mesi. Non ricordava l’ultima volta che il padre l’aveva abbracciata in quel modo; eppure, il tono che aveva usato era lo stesso di sempre, anche quando l’aveva sentito durante l’ultima missione in Iraq e dopo avergli dato la notizia della morte del suo compagno di squadra. La sua voce non era cambiata di una virgola, sempre calmo e pacato e poi con i gesti esprimeva tutto.
            John Alder aveva sentito la mancanza dell’unica figlia che aveva e quasi non gli sembrava vero che ora la stava abbracciando stretta a sé. L’aveva trascinata dentro casa con il cane al seguito e non aveva lasciato neanche alla moglie Patricia di interrompere il suo interrogatorio, voleva sapere tutto quello che era successo da quando era stata congedata. Sapeva della diagnosi da stress post traumatico e sapeva anche della terapia che stava seguendo con una psichiatra ma oltre quello le notizie su di lei erano state sempre più rare, salvo le settimanali chiamate in cui il padre, il nonno George lo chiamava per tenerlo informato.
Quella che aveva davanti era un’ombra però, era davanti a lui ma gli occhi castani erano spenti e il volto una maschera indecifrabile, persino a lui che non aveva mai avuto problemi o la minima difficoltà a carpire ogni minimo cambiamento nello stato della figlia tanto erano simili. Adesso però anche lui si arrese all’evidenza che qualcosa non andava, non pensava che i comportamenti insoliti che l’anziano gli aveva comunicato qualche settimana prima fossero un indice così importante di qualcosa di più grave. In fondo, saltare qualche appuntamento poteva capitare o l’insonnia che a volte colpiva anche lui, retaggi probabili della vita militare e che ancora si facevano sentire parecchi anni dopo aver smesso.
Qui qualcosa non andava, ma il comportamento di Sophia ad un primo impatto sembrava raccontare tutt’altro e prima che tutti andarono a letto, John sperò che quella volta il suo istinto avesse fatto cilecca.
…­­­­­
            «Non riesci di nuovo a spegnerti?»
Sophia scosse la testa, neanche certa che l’Autobot potesse vederla nella sua forma trasformata ma poco importava, il debole verso che fuoriuscì dalla radio le diede conferma che l’aveva vista.
            «Anche tu sei ancora sveglio però» gli fece notare Sophia poggiando il gomito sul finestrino del passeggero e gettando uno sguardo fuori l’abitacolo, dove intorno ancora era tutto buio e tranquillo.
            «Controllavo che nessun Decepticon fosse nelle vicinanze» puntualizzò allora il Topkick, una nota rude nella voce metallica.
Sophia emise un lieve suono per fargli capire come avesse sentito le sue parole e i due rimasero in silenzio per un paio di minuti. Nonostante l’ora tarda era completamente sveglia e questa volta non era a causa del sonno leggero o dei rumori del nonno mentre dormiva.
            Con lo sguardo perso fuori per un attimo si beò della tranquillità di quella cittadina minuscola sperduta nel Montana. Anche se vicino il grande centro cittadino di Helena, Clancy era abbastanza piccolo come paese e non era difficile affermare come tutti si conoscessero tra di loro. L’aria pulita e la boscaglia a ridosso della sua vecchia casa e del terreno di famiglia le trasmettevano una pace che non provava da diversi mesi, permettendole di tornare a respirare senza la costrizione di un peso sul suo petto.
            «Non sembri felice di esserti fermata qui, potevamo anche continuare il viaggio di notte» commentò Ironhide interrompendo pacatamente quella quiete che si era venuta a creare tra i due.
Sophia spostò lo sguardo verso la radio e passò distrattamente una mano sopra il sedile in pelle, tracciandone delicatamente ghirigori immaginari con la punta delle dita, «Sarebbe stato peggio che i miei avessero saputo che ero passata di qui senza fermarmi a salutarli o evitare le chiamate di mia madre. Questo era il male minore»
            «Ma così sei tu che non hai la possibilità di ricaricarti – puntualizzò allora l’Autobot, con fredda e pura logica, -Possiamo anche andarcene adesso se vuoi, piccoletta»
            La donna scosse leggermente la testa, accennando un sorriso a quel nomignolo, «Se vuoi beccarti dei fori nella carreggiata da mio padre, fa pure»
La voce di Ironhide si acquietò per qualche secondo prima di borbottare qualcosa in un insieme di incomprensibili ronzii e rumori metallici. Non sapeva di cosa stesse parlando ma dal tono non era difficile immaginargli come si fosse dissuaso da quella fuga in piena notte.




--- Note ---
La storia è parecchio breve rispetto ai miei standard ma è comunque abbastanza lenta, sinceramente non avevo intenzione di pubblicarla né qui né su wattpad avendola scritta più per sfizio personale ma almeno gli do un senso.

Ciarax

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Nuovi incontri ***


CAPITOLO 3 – NUOVI INCONTRI
 
            «Incontrarsi in qualche cittadina sperduta nel Nord della California di certo non è valsa la giornata intera di viaggio» commentò con una punta di sarcasmo Sophia mentre si stiracchiava per la prima volta da quando avevano lasciato il Montana quella mattina tardi.
Sophia aveva guidato fino alla costa ovest della California per un paio d’ore, annoiatasi dal non poter sentire il rombo del motore sotto il proprio piede e anche se riluttante Ironhide la fece contenta, borbottando in cybertroniano qualunque cosa gli venisse in mente. Sam era sdraiato sul retro scoperto del fuoristrada con la testa pigramente poggiata sul metallo intiepidito dal sole basso che si rifletteva sull’oceano.
            Uno spettacolo decisamente diverso rispetto a quello a cui era abituata a vedere in Winsconsin sulle sponde del lago Michigan o dove era cresciuta tra le montagne del Montana dove non c’era neanche l’ombra di una tale distesa d’acqua. Era stata veramente poche volte al mare o in spiaggia e, in tutta sincerità, preferiva di gran lunga la frescura offertagli dalle fronde degli alberi di un bosco o il vento gelido delle montagne anche in piena estate; non aveva mai amato particolarmente il caldo anche se lo sopportava bene e da quando era tornata, evitata più o meno coscientemente luoghi troppo sabbiosi. Il ricordo di come era andata l’ultima missione nel Terzo Battaglione dei Ranger con la sua squadra le bastava per non sentire affatto la mancanza della sabbia tra le dita dei piedi o nelle pieghe dei vestiti.
            «È quasi ora, andiamo» le comunicò l’Autobot tramite la radio e Sophia rientrò dalla portiera lasciata aperta con uno sbuffo annoiato.
            «Ironhide, -lo chiamò con tono serio, -lo sai che non ho fatto domande o altro da quando siamo partiti. Non so neanche per quanto staremo via e anche se continuo a pensare che tutta questa storia non abbia il minimo senso… almeno una spiegazione adesso sarebbe apprezzata» Sophia anche se non lo dava a vedere era quasi allo stremo, le notti insonni iniziavano ad accumularle una discreta quantità di stanchezza sulle spalle.
L’Autobot non replicò e prima che Sophia potesse parlare nuovamente gli abbai di Sam colsero la sua attenzione. Il cane era sul retro e continuava ad abbaiare con la testa rivolta al cielo, seguendo la sua stessa direzione la donna si ammutolì vedendo tre enormi meteore che attraversavano l’atmosfera terrestre e sembravano dirette proprio nei pressi di quella piccola cittadina in cui erano arrivati.
            «Quelle sono le risposte, piccoletta»
            «Ma che…»
Ironhide sogghignò soddisfatto a quello stupore che era riuscito a cavargli di bocca, l’espressione affascinata e l’abbaiare eccitato del Setter erano un chiaro esempio di come gli esseri umani fossero totalmente ignari della vita oltre il loro piccolo pianeta. Anche se la loro tecnologia era parecchio primitiva, la fantasia e l’invenzione erano di certo un buon propellente per quelle piccole menti creative.
            La strada che stavano percorrendo da una decina di minuti era praticamente deserta e solo grazie allo specchietto retrovisore poté accorgersi prontamente del piccolo seguito dietro di loro. Il Topkick venne superato da un semirimorchio enorme e dalla sgargiante tinta custom in cui spiccavano le fiamme blu dipinte sulla carrozzeria.
A breve distanza c’erano anche una Pontiac Solstice grigio metallizzato e un Hummer H2, anche se le linee della Pontiac attirarono lo sguardo di Sophia più del necessario che indugiò su quell’auto senza nessuno al posto di guida. In realtà, nessuna di loro aveva alcun essere umano a bordo e anche se Ironhide era l’unica eccezione, non sapendo dove andare era inutile per la donna pretendere di poter guidare.
            Con i fanali accesi i quattro veicoli si avventurarono nei pressi del sobborgo di quella piccola cittadina, la zona sembrava un ammasso di vecchi edifici adibiti a magazzini per una specie di piccola zona portuale. L’enorme e fiammeggiante Peterbilt avanzò e si fermò a pochi passi a ridosso di una coppia di adolescenti che sembravano sul punto di cadere a terra svenuti come sacchi di patate.
Ironhide aveva già ripreso la propria forma, assieme agli altri, e aveva depositato con attenzione Sophia a terra che prese posto sul suo enorme piede, trovando appoggio sulla base metallica dell’enorme arto inferiore dell’Autobot mentre Sam si sedette docilmente al loro fianco.
            La donna rimase affascinata dalla lenta trasformazione dell’autoarticolato che si alzò ben presto in un enorme robot alto più di una decina di metri che una volta ricompostosi in tutte le sue parti rivolse lo sguardo a terra. Si abbassò lentamente fino a raggiungere il livello del ragazzo che aveva di fronte e squadrarlo con attenzione con gli attenti occhi cerulei.
            «Sei tu Samuel Witwicky, discendente del capitano Archibald Witwicky?» chiese con voce baritonale il più grande degli Autobot.
Al sentire quelle parole Ironhide emise un impercettibile verso di divertimento e Sophia gli diede una leggera gomitata sulla placca metallica alla base del suo piede, l’Autobot abbassò leggermente la testa per guardare in faccia l’umana e la sua espressione confusa.
            «È uso per voi umani dare la stessa designazione sia a quelli della vostra specie che a quelli che avete come creature da compagnia?» domandò poi Ironhide facendo allusione al setter inglese che Sophia aveva da quasi quattro anni e che, apparentemente condivideva lo stesso nomignolo di Sam.
Sophia accennò un sorriso divertito al pensiero, in effetti era una situazione divertente e decisamente una piacevole distrazione da tutto quello che sembrava non presagire altro che tempi duri in arrivo. Si sistemò meglio nell’incavo del piede meccanico, tra la placca metallica che saliva lungo la parte posteriore e i pistoni che gli permettevano di muoversi, confortata dalla tiepida temperatura del metallo che le impediva di sentire eccessivamente il freddo della notte.
Volgendo lo sguardo verso i due adolescenti vide Sam annuire incerto prima che l’Autobot più grande si alzasse ritornando in piedi e rivolgendo loro uno sguardo serio.
            «Io sono Optimus Prime e noi siamo organismi autonomi robotici dal pianeta Cybertron»
            «Autobot è un termine più familiare per voi» si immise Ratchet nella conversazione.
Sophia non prestò particolare attenzione alla conversazione, già solo in parte ravvisata da Ironhide di quello che stava succedendo anche se continuava a faticare a credere di essere dall’altra parte degli Stati Uniti, accoccolata alla base di un enorme Mecha alto almeno sette metri. Sam, il suo setter inglese che era rimasto seduto in disparte fino a quel momento le si avvicinò, mugolò qualcosa se si mise comodo al fianco di Ironhide che gli rivolse uno sguardo veloce prima di puntare con orgoglio uno dei suoi cannoni a poca distanza dai due ragazzi spaventati.
            «Calmo, Ironhide» fu ripreso prontamente da Optimus quando anche gli altri finirono le presentazioni.
            «E tu invece?» domandò Mikaela indicando Sophia che non aveva rivolto loro la parola fino a quel momento.
Il leader degli Autobot rivolse lei un’occhiata ma non proferì parola, evidentemente già al corrente di chi fosse e aspettava paziente che lei si decidesse a parlare.
            Sophia si passò una mano tra i capelli legati disordinatamente in una crocchia bassa e con una piccola spinta si alzò in piedi ma rimanendo poggiata con la schiena alla gamba dell’Autobot dietro di lei. Lo sguardo di Sam e Mikaela cadde immediatamente sulla fondina ascellare in cui era risposta la Beretta carica, riportandolo poi sulla sua figura che, nonostante le apparenze alquanto ingannevoli, era di certo una presenza intimidatoria, dall’atteggiamento allo sguardo serio che rivolse loro di rimando.
            «Vecchi incontri familiari, e lui - spiegò concisa Sophia indicando con un cenno della testa l’Autobot su cui era poggiata, ignorando le occhiatacce di Ironhide mentre lei stava utilizzando il suo piede come sostegno, -lui a quanto pare non era il mio pickup ma un vecchio soldato alieno»
Sophia sentì uno strano pizzicorino lungo tutto il corpo quando uno degli scanner di Ratchet la percorse da capo a piedi prima che lei potesse dire qualcosa.
            «Il tuo corpo è in salute ma le tue attività celebrali sono alterate» disse il medico Autobot leggendo i dati di quel rapido controllo. In effetti nonostante lo stato fisico dell’umana fosse buono, di certo migliore dei due adolescenti, qualcosa a livello delle trasmissioni celebrali invece non andava. Senz’altro qualcosa a livello psicologico stava influenzando la corretta attività del suo cervello ma Ratchet si astenne dal fare ulteriori commenti, percependo lo sguardo severo dell’umana su di sé.
            Sophia sentì solamente un’indefinibile e continuo suono metallico provenire sia da Ratchet che da Ironhide, aveva imparato come quella fosse la loro lingua natia, impossibile da replicare per le corde vocali e probabilmente su una frequenza più ampia rispetto all’udito umano che ne coglieva solo una parte. Alcuni suoni e inflessioni venivano ripetute e per un attimo Sophia sentì il corpo dell’Autobot fremere mentre finiva di parlare, come se le parole si fossero propagate tramite il suo corpo, vibrando attraverso il metallo.
Sicuro stavano parlando di un umano, alcuni particolari suoni aveva iniziato a memorizzarli.
            Nonostante continuasse a capire ben poco il suo ruolo in tutta quella vicenda rimase in silenzio ad osservare rapita il realistico ologramma di Optimus Prime mentre spiegava il motivo della loro venuta sulla Terra. Una guerra che andava avanti da secoli e che aveva consumato fino allo stremo il loro pianeta.
Non è tanto diverso da quello che stiamo facendo noi, pensò amareggiata Sophia comprendendo anche fin troppo come si dovessero sentire quelle creature extraterrestri che non facevano altro che combattere da quasi tutta la vita.
            L’atteggiamento pacato e la voce sicura di Optimus lasciava intendere facilmente il suo ruolo di leader per quella fazione che non voleva altro che finire quella guerra, in un modo o nell’altro. C’erano già state infinite perdite e l’Autobot voleva evitare in qualunque modo che anche la Terra cadesse preda dello stesso destino del loro pianeta natale.
Senza l’aiuto degli Autobot, gli umani si sarebbero estinti per mano dei Decepticon.
            «La posizione dell’AllSpark è incisa negli occhiali. Se Megatron se ne impossessasse utilizzerebbe la sua energia per creare un nuovo esercito e conquistare l’universo… cominciando dal vostro pianeta»
            «Sam -disse Mikaela dopo qualche secondo di pausa, -ti prego, dimmi che hai quegli occhiali» il tono supplichevole era più che evidente e Sam ricambiò il suo sguardo preoccupato annuendo incerto.
            Bumblebee fu rapido nel riprendere la forma di una Camaro e facendo salire i due adolescenti frecciò rapido seguito dagli altri Autobot. Sophia salì nuovamente nel pickup mentre Ironhide aspettava che anche quel silenzioso setter si sbrigasse a salire sul retro del veicolo.
            «A cosa pensi?» fu la domanda dell’Autobot che colse alla sprovvista Sophia, chiusa nei suoi pensieri mentre osservava distrattamente la tranquillità di quella piccola città della California.
            «È parecchia roba da digerire in meno di un settimana, non vedo dove potrei mettere bocca in una questione che non mi riguarda. Pensavo solamente che siete stati fortunati ad aver trovato subito un modo per riprendervi questo AllSpark, anche se vi affidate alle mani di due ragazzini»
            «Avete poco più che dieci anni di differenza» fu l’ovvia e logica constatazione di Ironhide che non perdeva un colpo in quella conversazione.
Sophia roteò gli occhi stringendo leggermente la mano sul volante mentre l’altra era abbandonata sul cambio manuale, «Dieci anni sono tanti per noi umani. Quei ragazzi sanno a malapena come stare al mondo, Ironhide» il tono era calmo, la voce non era irritata e l’Autobot la sentì solo vagamente più spenta mentre pronunciava quelle ultime parole prima che i due trascorressero il resto del breve tragitto in silenzio.
Per una razza che viveva potenzialmente per sempre era normale non badare a quei brevi periodi di tempo e a non considerare come invece per la razza umana, che viveva in media poco meno di un centinaio d’anni quella fosse una totale e diversa visione del tempo e degli anni. Credere che in quel così breve lasso di tempo un essere vivente sia in grado di svilupparsi completamente e poi perire nell’arco di pochi cicli solari era un qualcosa di assurdo, fragile agli occhi dei cybertroniani.

            «Da quanto tempo li conosci?» domandò la giovane Mikaela mentre era ferma assieme a Sophia sul limitare del giardino di casa Witwicky.
L’adolescente non era riuscita a tenere a bada gli Autobot e ora le due erano rimaste indietro mentre Sophia guardava con una punta di divertimento quegli enormi Mecha destreggiarsi tra le aiuole e il prato curato all’inglese. Ironhide girava per il piccolo giardino quando si fermò davanti a lui un minuscolo chihuahua con una zampa ingessata che guardava l’Autobot come indemoniato, il pronto intervento del setter di Sophia però impedì che quel cagnolino marcasse il territorio proprio sul suo piede, decretando la sua morte.
            «Meno di una settimana» commentò semplicemente Sophia con una scrollata di spalle e richiamando Sam, mentre sentiva lo sguardo incredulo di Mikaela su di sé.
Tutti quegli schiamazzi iniziavano a darle sui nervi: erano creature alte almeno dieci metri, come pensavano di passare inosservati se causavano piccole scosse ad ogni loro passo. Optimus sembrava quello più impaziente e nonostante il tentativo di accomodare e assecondare il comportamento sempre più agitato dell’adolescente, era chiaro come stesse rapidamente perdendo la pazienza.
Ogni secondo che passava c’era sempre più la possibilità che chiunque potesse vederli o peggio, che il governo o chi per loro li trovasse lì.
            Anche Mikaela alla fine fu costretta ad aiutare Sam entrando dalla finestra grazie all’aiuto di Optimus che spronò nuovamente i due a sbrigarsi. Sophia passò tra le gambe di Ratchet e si avvicinò a Bumblebee che, chino a terra osservava curiosamente il soggiorno della casa.
            «Curioso?» domandò a bruciapelo la donna facendo sobbalzare il povero Autobot che indietreggiò con uno scatto emettendo rapidi ronzii metallici, gli occhi azzurro neon sgranati dalla stupore.
Jazz, che era a poca distanza da loro rise a bassa voce venendo poi ripreso da Optimus con un’occhiata severa che rivolse poi anche a Sophia e Bumblebee anche se era palese il suo stesso divertimento.
            «Shorty I’m curious… Girl I wanna know what’s on your mind~» la musica a basso volume uscita dalla radio di Bumblebee fece sorridere Sophia per quella particolare scelta di parole e con una piccola pacca tranquillizzò l’Autobot che emise un piccolo ronzio di approvazione.
            «Non ti piacerebbe scoprire cosa c’è nella mia testa, piccoletto» a quel nomignolo Bumblebee si indignò leggermente borbottando qualcosa ma che finì solo in un incomprensibile ammasso di versi metallici poco chiari.
Agli occhi di Sophia quella era una famiglia normale, con un ragazzo abbastanza svampito e sfortunato da aver comprato un’auto rivelatasi un alieno giallo che non riusciva a parlare. Ed in quel momento avevano il giardino invaso da una squadra di Autobot che si muoveva impaziente e fallendo miseramente nel tentativo di fare poco rumore e limitare al massimo i danni che facevano muovendosi in giro.
            Ratchet diede il colpo di grazia quando, dopo gli schiamazzi che si sentirono provenire dall’interno della casa, cadde colpendo in pieno uno dei cavi d’alta tensione e lasciando nel buio più totale l’intero isolato. Optimus tentò di dare una mano facendo luce all’interno della stanza di Sam ma la cosa sembrò solo peggiorare la situazione quando Sophia e Bumblebee video i due adulti salire di corsa e iniziare a battere forzatamente alla porta della camera di Sam.
            Con uno strattone poco delicato Sophia si ritrovò tra le enormi mani dell’Autobot che la tenne ben stretta al suo petto mentre i due si nascondevano il più possibile all’interno del porticato quando uno dei Witwicky si affacciò dalla finestra lamentandosi dei danni immensi al giardino appena ristrutturato.
Sophia dovette trattenere una piccola risata divertita per quella situazione assurda notando poi come anche Bumblebee condivideva il suo stesso problema e sembrò volergli tutto il suo autocontrollo per riuscirci. Il setter della donna invece era docilmente al fianco di Ironhide che era sempre attento a dove metteva i piedi per non ferirlo accidentalmente.
            Nonostante tutto il tempo sembrò improvvisamente stringersi in modo drastico quando Jazz comunicò agli altri che qualcosa si stava muovendo rapidamente nella loro direzione. Sophia raggiunse Ironhide che già si era ritrasformato nel Topkick nero e balzò all’interno del lato del guidatore con Sam sdraiato sui sedili posteriori.
            «Ci hanno messo un po’ a muoversi» commentò Sophia quando tutti gli Autobot, di nuovo trasformati si stavano allontanando in direzioni diverse, evitando quell’enorme blocco di mezzi blindati che in poco tempo circondo la casa.
            : Optimus, hanno preso i ragazzi, alcune voci metalliche si susseguirono rapidamente dalla radio del pickup anche se Sophia non vi prestò molta attenzione, il cybertroniano era una lingua impossibile da riprodurre vocalmente per un essere umano ma la sua propensione alle lingue la aiutò a iniziare a districarsi in quel labirinto di pronunce dure e schioccanti.
            : Seguiamoli a distanza, non dobbiamo in alcun modo far del male agli umani. Sam ha gli occhiali, l’ordine cristallino era risuonato in tutti i circuiti degli Autobot che man mano seguivano a distanza il piccolo convoglio dove erano stati fatti entrare i due adolescenti e la famiglia del ragazzo.
            «Optimus ha intenzione di fermarli tra poco, non muoverti da qui» le disse Ironhide fermandosi su un cavalcavia deserto che passava sopra una strada non molto grande.
            «Cosa dovrei fare? Giocare a carte mentre vi fate sparare dai servizi segreti del governo?» domandò sarcasticamente Sophia scendendo non appena l’Autobot accostò e ritrasformandosi quando lei recuperò sul retro uno dei borsoni che aveva portato con sé dal Wisconsin.
            «Ordini di Prime, piccoletta. Rimani qui e non metterti nei guai» le ordinò con tono meno brusco rispetto a prima ma comunque deciso come al solito, abbassandosi leggermente alla sua altezza e assicurandosi che comprendesse la sua serietà.
            Sophia ricambiò lo sguardo e annuì controvoglia, arricciando il naso infastidita dal dover essere messa da parte in quel modo. Strinse la cinghia del borsone che aveva assicurato sulla spalla quando Ironhide si allontanò raggiungendo gli altri sotto il ponte e, con Sam al suo fianco, si avvicinò al bordo della strada appoggiandosi per un attimo sul parapetto in ferro.
            Vedere Optimus Prime afferrare quel van blindato e smantellare totalmente la cappotta come fosse carta pesta era decisamente un ricordo da custodire; anche se Sophia avrebbe preferito una visione migliore, di certo non poteva lamentarsi pensando a quei due poveri adolescenti che erano in quel veicolo.
Sdraiata pancia a terra sopra l’asfalto, con il calcio dell’M82 saldamente piantato sulla spalla sinistra e la guancia che vi premeva contro permettendole così di osservare tutto grazie al mirino telemetrico che il fucile di precisione aveva montato; il setter invece era sdraiato bonariamente al suo fianco e con la testa poggiata sulla sua schiena mentre schiacciava un pisolino.
            L’espressione di quello che sembrava essere il pezzo grosso lì in mezzo non le sembrò troppo sorpresa quando un robot gigante di dodici metri gli aveva aperto il blindato come una scatoletta di tonno, ma evidentemente nei servizi segreti c’era molto che veniva nascosto sotto la sabbia. Molti di loro erano fin troppo calmi, accennando un rivolo di sudore solo quando Ironhide puntò loro contro uno dei suoi amati cannoni che brillarono d’energia caricandosi.
            Sophia accennò un sorriso quando decise di unirsi anche lei a quella piccola minaccia e attivò il puntatore laser di rilevamento e puntandolo sul petto, adesso coperto solo da una canottiera abbastanza peculiare, di quello che sembrò intuire fosse appunto uno degli agenti al comando di quell’operazione. Del laser se ne accorse per primo Sam e poi anche l’uomo che sbiancò di colpo cercando freneticamente con la testa il punto da cui veniva quel chiaro segno che ci fosse un cecchino nelle vicinanze.
            Troppo distante per sentire le loro conversazioni, non le sfuggi però la bassa risata divertita di Ironhide a quella reazione mentre continuava a tenere sotto tiro gli altri umani anche se tutti loro avevano il chiaro ordine, e nessuna intenzione, di far alcun male agli esseri umani che vennero man mano ammanettati ad alcuni pali.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Settore Sette ***


CAPITOLO 4 – SETTORE SETTE
 

            «Siete esseri anni luce avanti a noi e non sapevate che quello aveva il cellulare acceso!» urlò Sophia dal cavalcavia qualche metro dietro gli Autobot.
Fece un respiro e sparò tre rapidi colpi col fucile, riuscendo a fermare uno dei furgoni e prendendone di striscio un secondo mentre Ironhide rilasciò una forte scarica d’energia sul terreno che finì col far deragliare gli altri veicoli.
            «Avanti andiamo!» nei pochi secondi di tempo guadagnati Sophia si alzò rapidamente dalla posizione sdraiata dove stava e con l’M82 in spalla si buttò senza esitazioni, con Sam al seguito, sulla strada di sotto.
Afferrata prontamente da Ironhide che l’aveva stretta a sé al sicuro, si ritrasformò in un attimo nel Topkick nero e con una curva a gomito fece dietrofront seguendo gli altri Autobot a grande velocità.
            «Forse avremmo dovuto prendere i ragazzi»
            «Prime se la caverà. Con lui sono al sicuro» tagliò corto Ironhide mentre guidava a breve distanza da Ratchet per una via secondaria.
Il cuore ancora pompava velocemente nel petto e sentiva i polmoni bruciare ad ogni respiro per quella scarica di adrenalina improvvisa che non le diede il tempo materiale di ragionare su quello che stava succedendo.
Si erano separati quando i rinforzi del settore Sette erano arrivati in massa, mettendo in fuga gli Autobot e sperando che nessuno di loro si sarebbe fatto scoprire. La questione di massima urgenza in quel momento era mettere in salvo i due ragazzi e gli occhiali che custodivano gelosamente la posizione dell’AllSpark che i cybertroniani tanto cercavano.
            : Hanno catturato Bumblebee, fu la comunicazione che arrivò a tutti gli Autobot dal comlink, il canale di comunicazione che utilizzavano tra loro.
            : E cosa stiamo aspettando? Dobbiamo aiutarlo, la voce di Ironhide risuonò dura tanto nella comunicazione quanto all’interno del veicolo dove Sophia lo sentì borbottare furioso, nonostante non stesse guidando ad una velocità elevata il motore ruggiva senza freno.
Anche se non sapeva cosa stesse succedendo prese a passare delicatamente le dita sul sedile in pelle mentre l’altra mano era salda sul volante. Il contagiri scese lentamente e un piccolo sospiro si sentì tramite gli speaker, facendo accennare un piccolo sorriso soddisfatto a Sophia che tentava di mantenere la calma a sua volta.
Quella situazione stava mettendo un certo senso di agitazione anche in lei.
            «Cos’è successo?» domandò cautamente quando capì che gli Autobot avevano chiuso il loro canale di comunicazione.
            «Hanno preso Bumblebee e i due ragazzi. Optimus ha gli occhiali- Ironhide ci mise qualche secondo prima di rispondere in modo brusco e svoltare lungo una strada che portava fuori la città, -dovresti provare a dormire un po’» aggiunse poi notando lo sbadiglio parecchio evidente di Sophia.
            «Non riesco a dormire dentro una macchina in movimento… per questo ti avevo detto di fermarci… dai miei in Montana per la notte»
            «Ma anche lì hai passato tutta la notte sveglia, è da quando siamo partiti che avrai riposato non più di un paio d’ore in totale. Sono più di tre giorni oramai»
Sophia aggrottò la fronte confusa a quelle parole, ricordando vagamente di aver detto ad Ironhide di fermarsi mentre i due stavano attraversando il Montana ma quello che era successo dopo non le era perfettamente chiaro. Se si erano fermati la notte a casa dei genitori doveva necessariamente aver dormito almeno un paio d’ore quella notte, non ne era certa e anche se non ci aveva badato molto erano un paio di settimane che a volte i giorni si confondevano tra loro: capitava che alcune azioni le avesse fatte il giorno prima anziché il giorno stesso, i giorni le sembravano tutti uguali e chiusi in una routine completamente immobile dove lei non faceva altro che guardare… e guardare, senza poter interagire.
            «Stai bene?» la domanda la svegliò di colpo, scuotendo leggermente la testa Sophia annuì distrattamente.
Ironhide non aggiunse altro ma un dubbio iniziò a formarglisi quando si accorgeva di quei momenti in cui la donna perdeva quasi totalmente contatto con la realtà, sembrava completamente ignara di quello che la circondata. Gli era già successo di notare una cosa del genere, specialmente quando non si era ancora fatto vedere nella sua forma bipede e questo lo fece accigliare.
Non era un medico e non aveva conoscenze sui corpi organici ma i suoi sensori avevano registrato un cambio nell’attività celebrale di Sophia e senza pensarci più di tanto inviò quei dati a Ratchet e gli parlò tramite il comlink.
            L’unico ordine imperativo che ricevette dal medico degli Autobot in quel momento fu di tenerla d’occhio, la situazione di Sophia attirava parecchio l’interesse che Ratchet aveva per gli esseri umani e aveva bisogno di darle un’occhiata più da vicino. Doveva assicurarsi che dormisse, se non per tutta la notte, almeno quanto bastava per non peggiorarle i sintomi che già sembrava presentare, non dovuti solamente alla stanchezza.
Dopo qualche momento di indecisione finalmente riaccese la radio emettendo un fastidioso rumore statico che fece sobbalzare Sophia per l’improvvisa interruzione del silenzio che c’era stato fino a quel momento all’interno dell’abitacolo. Abbassò immediatamente il volume ad un tono più confortevole cercò tra le varie stazioni radio, saltando da una canzone all’altra finché non trovò quella che cercava.
            L’Autobot si godette per tutto il resto del breve viaggio l’accenno di sorriso sul volto stanco di Sophia che, seppur rifiutava di dormire almeno era visibilmente più rilassata. Gli occhi vacui fissavano l’orizzonte e con le dita tamburellava sul sedile a ritmo della musica jazz che Ironhide le aveva messo, l’altra mano invece tenuta mollemente sullo sterzo.
Un caffè. Una doppia tazza di caffè nero era decisamente quello di cui aveva bisogno se aveva intenzione di superare quella giornata che era appena iniziata.
            Erano sul tetto di un osservatorio in cima sul versante di una montagna mentre il sole lentamente iniziava a fare capolino all’orizzonte. A malapena le sei del mattino quando erano arrivati a destinazione senza nessun umano nei paraggi, permettendo così a tutti gli Autobot di riprendere la loro forma originale e iniziare immediatamente a discutere sull’accaduto di quella notte.
            Sophia si era poggiata con la schiena contro il muro con accanto il proprio setter mentre tentava di schiarirsi la testa, annebbiata dagli eventi delle ultime ore e dalla sensazione di stanchezza che le andava ad appesantire ogni muscolo del proprio corpo. Le braccia incrociate al petto e con una mano a sfiorare la Beretta che aveva riposto nella fondina, dandole un’immediata sensazione di sicurezza che le permise di tornare a respirare più a fondo, concentrando la propria attenzione sugli enormi Mecha che aveva davanti.
            «Bumblebee è un soldato coraggioso, questo è ciò che vorrebbe da noi» Optimus sembrava non voler sentire ragioni, avendo probabilmente già discusso prima su questo aspetto.
            «Perché combattiamo per salvare gli umani? -domandò allora Ironhide, evidentemente contrariato da quella decisione, -sono una razza violenta e primitiva»
            «Prime» richiamò Sophia a gran voce, grata che l’Autobot avesse deciso di parlare nella sua lingua e non in cybertroniano, includendola così nel discorso ma iniziando a sentirsi a disagio quando avvertì l’attenzione di tutti gli Autobot su di sé.
Optimus volse lo sguardo nella sua direzione e la vide ai piedi del muro, a pochi metri da Ironhide. Non serviva la conoscenza medica di Ratchet per fargli capire come qualcosa non andasse nel suo cervello, gli impulsi elettrici che i suoi sensori rilevavano continuavano a mandare segnali contrastanti. Sophia non aveva parlato da quando erano arrivati lì e, onestamente, neanche si sarebbe aspettato che le avrebbe rivolto la parola.
            «Non so da quanto tempo questa vostra guerra va avanti ed ogni soldato che muore è una perdita enorme, -nonostante l’ovvia constatazione il leader degli Autobot non fiatò, continuando a mantenere l’attenzione sulla piccola donna umana, -Ma perdere un soldato, e un amico, senza aver provato tutto per salvarlo è anche peggio. Il senso di colpa ti divorerà dall’interno, più di tutta questa devastazione che si sta per abbattere sulla Terra» Sophia calcò la parola amico, e anche se aveva mantenuto un tono di voce chiaro lo sguardo era spento. Gli occhi castani non erano altro che un deserto vuoto e solitario, e rifletteva solamente il rimorso di qualcosa che ancora adesso la tormentava mentre ricambiava lo sguardo ceruleo di Optimus che non fece una piega.
            Sophia scostò l’attenzione dall’Autobot solo per rivolgere un’espressione sorpresa ad Ironhide che, in un gesto inaspettato, si era inginocchiato e le offrì il palmo della mano robotica. Ironhide aspettò paziente che l’umana si fosse sistemata bene, accettando quel suo silenzioso invito e rialzandosi la depositò con attenzione nell’incavo della spalla, al sicuro tra un pezzo della parte anteriore del Topkick e la testa dell’Autobot.
            : Io le darei ascolto, Optimus. L’umana è giovane anche per la media della sua razza ma è molto perspicace, Ironhide anche se faticava dovette ammettere che quella non era solamente pura intelligenza, ma che quelle parole fossero anche diretta esperienza. Sophia al suo fianco guardava il sole sorgere, assorta nei propri pensieri e solo vagamente consapevole del ronzio e dei suoni metallici che la lingua cybertroniana richiedeva per comunicare.
            : Per quanto lo apprezzi, muoversi a compassione non ci aiuterà in questo momento, Optimus era consapevole della verità di quelle parole e nonostante la maggior parte della razza umana fosse ignara della vita al di fuori del proprio pianeta, l’Autobot aveva trovato alcuni umani che anche se di giovane età portavano con sé parole sagge.
Probabilmente la scelta di non fare loro alcun male li metteva in netta posizione di svantaggio rispetto ai Decepticon che non valorizzavano alcuna forma di vita. Perdere Bumblebee era stato un duro colpo per lui, il più giovane tra loro e che si comportava come se fosse ancora una giovane scintilla inesperta.
            «Se non riuscirò a sconfiggere Megatron – riprese a parlare Optimus guardando uno ad uno tutti i membri della sua squadra, della sua famiglia, -distruggerò l’AllSpark unendolo alla mia scintilla» con uno schiocco il petto dell’Autobot si aprì rivelando una piccola insenatura che accoglieva il cuore di ogni cybertroniano.
La scintilla che dava vita a quegli enormi ammassi di metallo e circuiti, pulsava nel petto di ognuno di loro, brillante come una stella e dove si conservavano la personalità e i ricordi più importanti. Unire una fonte di energia pura come quella dell’AllSpark alla propria fonte di vita era un azzardo, una forma certa per decretare la morte di un individuo.
L’unico modo per finire quella guerra se Optimus non avesse vinto sarebbe stata il sacrificio.
            L’eco delle proteste di Ratchet e Jazz non si fecero attendere e Sophia si domandò per un attimo come mai Ironhide non avesse espresso il suo parere assieme a loro, visto quanto fosse schietto a questo riguardo. L’Autobot invece era rimasto in silenzio, ma la tensione improvvisa degli arti e del suo corpo non era passata inosservata a Sophia che passò silenziosamente una mano sull’attacco dell’armatura metallica che le impediva di cadergli dalla spalla.
Ironhide non le rivolse lo sguardo ma si rilassò lentamente, tornando a prestare attenzione a quella conversazione che stava prendendo una piega assurda.
            Optimus decise di scoprire finalmente la collocazione dell’AllSpark una volta che tutti gli Autobot si furono acquietati, portò i minuscoli occhiali all’altezza della sua testa e attivò l’ologramma che si dipartì dalle lenti. Un enorme globo si materializzò attraversato dalla luce del sole mattutino e roteando lentamente permise al leader degli Autobot di individuare l’esatta posizione.
            «Secondo il codice su questi occhiali… L’AllSpark si trova a circa duecentocinquanta miglia umane da qui» disse poi deattivando il sistema di ologramma.
            «Se quel coso sprigiona tanta energia da arrivare anche nello spazio… l’unico posto che mi viene in mente deve essere Hoover Dam. Lì c’è una diga enorme e dovrebbe essere l’unico posto abbastanza vicino che potrebbe nascondere il vostro AllSpark» mormorò Sophia a bassa voce, pensando perlopiù per affari suoi ma parlando abbastanza forte affinché Ironhide la sentisse, annuendo con un cenno della testa.
            Poco prima di essere pronti per partire però Optimus si avvicinò ad Ironhide e porgendo la mano lasciò che Sophia, all’inizio incerta ma spronata dall’Autobot, si sistemasse con accortezza sull’enorme mano metallica che la sostenne senza sforzo. Ironhide poi si congedò e raggiunse gli altri lasciando i due a parlare faccia a faccia.
            «So quanto sono futili le promesse e quanto è facile non mantenerle… ma farò il possibile per non lasciarti morire, gli Autobot hanno bisogno della tua guida»
            Optimus osservò con attenzione quella piccola umana che poteva schiacciare semplicemente stringendo un pugno, fragile nel suo corpo organico e piccola rispetto alle sue dimensioni mastodontiche; eppure, non c’era l’ombra di una bugia. Nei suoi occhi l’Autobot non scorgeva alcuna paura per la sua razza o accusa per essere stata invischiata in affari tanto fuori la sua portata, nelle sue parole c’era solo la sincerità e l’eco del rimorso, «Che la vostra sia una razza violenta e primitiva non è una completa bugia, ma siete giovani e avete molto ancora da imparare. Sarebbe un nostro dovere impedirvi di cadere nello stesso destino in cui abbiamo condotto Cybertron e se sacrificare la mia vita per assicurare la sconfitta dei Decepticon, così sia»
            «Pensare di uscire da una guerra senza vittime è da folli, Prime -esclamò Sophia scuotendo la testa e sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, -Ma non lasciarti annebbiare il giudizio solo per la fretta di raggiungere la fine di questo scontro. Faresti più danni che altro»
            L’Autobot non replicò inizialmente, metabolizzando quelle parole sospettò non provenissero solo da un buon istinto ma anche da pura e fredda esperienza personale. Gli esseri umani, nelle loro brevi vite rispetto a quelle di un cybertroniano sperimentavano una quantità sterminata di esperienze diverse; e Sophia, a malapena paragonabile per età al giovane Bumblebee, sembrava ben lungi dall’essere gioviale e ingenua come il giovane Autobot. A poco più di un quarto della sua vita già sembrava aver vissuto sulla propria pelle la devastazione della guerra e la perdita di compagni di squadra, e se le ferite sul corpo guarivano, quelle della mente lasciavano cicatrici spesso indelebili.
            «Apprezzo sinceramente la tua preoccupazione ma come leader degli Autobot è mio dovere assicurarmi che nessuno, né noi né voi, ci rimettano più di quanto necessario se è in mio potere impedirlo. Non ho alcuna intenzione di cedere la mia scintilla così facilmente ma se sarà necessario non ho paura di sacrificarmi per assicurarmi la sconfitta dei Decepticon… Sei giovane, ma hai perso già tanto e spero che tu riesca a trovare pace alla tua guerra interiore prima che ti logori, Sophia» pronunciò il suo nome con sicurezza e un brivido le scivolò lungo la spina dorsale al sentirlo con quella voce metallica e baritonale.
            L’Autobot la depositò poi con attenzione a terra prima di cambiare anche lui forma una volta raggiunta la strada. Con lentezza Sophia salì dalla parte del guidatore nel Topkick di Ironhide che si accorse della rigidità dei suoi movimenti ma non seppe se azzardarsi a chiedere cosa l’avesse turbata tanto, Optimus aveva parlato con un tono troppo basso per essere udito a quella distanza ma l’espressione corrucciata della donna lo iniziò a preoccupare.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Soldato ***


CAPITOLO 5 – SOLDATO
 


            Le oltre quattro ore di viaggio erano passate relativamente in fretta, specialmente nel silenzio in sembravano essersi chiusi tutti gli Autobot che si muovevano rapidi sull’autostrada diretta verso Hoover Dam.
Sophia non aveva neanche provato a cercare di sintonizzare la radio su una stazione di sua preferenza, limitandosi a smontare e ricaricare ogni volta la propria Beretta senza prestare attenzione a nient’altro. Neanche il cane Sam riuscì a distrarla un po’, limitandosi quindi a riposare sui sedili anteriori mentre il sole era ormai abbastanza alto.
            La radio di Ironhide emise un gracchiante rumore di statico e solo in quel momento la donna alzò la testa per guardarsi in torno e buttare l’occhio sullo specchietto retrovisore, erano ancora tutti in fila mentre procedevano a passo spedito, eppure qualcosa era cambiato. L’aria era improvvisamente tesa tra tutti gli Autobot e quando riportò l’attenzione di fronte a sé Sophia capì il motivo.
Una Camaro gialla procedeva in testa ad un piccolo convoglio militare, sfrecciando sull’asfalto a grande velocità mentre dietro di lui un paio di fuoristrada militari attrezzati con pesanti carabine sul tetto seguivano a breve distanza.
            «That’s why they call me Slim Shady… I’m back…. I’m back» la musica ritmata e la voce inconfondibile di un brano di Eminem ruppe il silenzio all’interno del pickup quando Ironhide e gli altri Autobot fecero una brusca inversione di marcia per affiancarsi al convoglio militare.
            «Bumblebee -chiamò Sophia quasi incredula ma con un leggero sorriso di sollievo, -state tutti bene?» domandò poi reggendosi meglio a quella brusca manovra e aspettando una risposta dall’altro capo della comunicazione.
            «Si, stiamo tutti bene. Abbiamo l’AllSpark e questi militari sono con noi» la rassicurò Sam con tono sbrigativo ma sollevato di essere finalmente libero.
            «Ironhide» attirò la sua attenzione Sophia richiamandolo a bassa voce e lasciando che l’Autobot finisse di parlare con gli altri prima di rivolgere la sua attenzione su di lei, «Potresti collegarti ad uno dei radiotrasmettitori che sono montati su quei veicoli militari?»
            «Avete un sistema talmente primitivo che anche una scintilla di qualche ora ce la farebbe» borbottò Ironhide prima di fare quanto chiesto e metterla in contatto con una delle radio presenti su uno di quei buggy corazzati.
            «Cosa diamine ha adesso quest’affare?» una voce maschile risuonò tramite gli speaker all’interno dell’abitacolo e Sophia diede una leggera pacca sullo sterzo, ringraziando silenziosamente.
            «Mi ricevete?» domandò tentando di capire se anche loro la sentissero.
            «Chi sei?» fu la voce brusca di un secondo uomo.
            «Sono con gli Autobot e volevo assicurarmi che voi non foste una minaccia. So che non sono esattamente i benvenuti tra i militari e gli alti piani del governo»
            «Consideraci un caso isolato allora, la mia squadra e io abbiamo già incontrato questi fantomatici Decepticon o come diavolo si chiamano. Non ho alcuna intenzione di diventare cibo per un robot gigante quindi siamo dalla stessa parte… - ci fu un attimo di silenzio, - Capitano William Lennox, posso sapere con chi parlo adesso? Mi sembra chiaro che non sei uno di questi bestioni metallici»
Il commento finale fece rombare il motore del Topkick in modo minaccioso mentre Sophia vide l’indicatore del contagiri salire in modo rapido, passò allora nuovamente la mano sul sedile mentre l’altra teneva lo sterzo senza troppa pressione. Fece poi un respiro profondo socchiudendo gli occhi prima di rispondere.
            «Sergente scelto Sophia Grace Alder, terzo Battaglione dei Ranger, capitano» pronunciò quelle parole con riluttanza ma la voce le uscì salda e controllata, stringendo poi la mano che teneva sullo sterzo per impedirle di tremare. Sentì il sedile sotto di sé scaldarsi impercettibilmente ma pensò che fosse solamente una sua impressione a causa di tutto quel nervosismo e della stanchezza che le si era accumulata nel corso della settimana, non aveva abbastanza ore di sonno accumulate e iniziava ad avere forti difficoltà a concentrarsi su quello che la circondava.
            «Secondo Battaglione, sergente. Benvenuta a bordo» fu la semplice risposta di Lennox, molto più rilassato rispetto a prima e meno sospettoso nei confronti sia di Sophia che degli Autobot. Se un altro essere umano oltre a quei due adolescenti era con loro ci si poteva fidare, un altro soldato avrebbe fatto comodo in ogni caso.
            «Siete armati in qualche modo?»
Lennox si guardò rapidamente attorno facendo mente locale delle poche armi che erano riusciti a recuperare dalla base del settore Sette prima che Megatron facesse saltare in aria tutto. Non era molto ma per quella piccola squadra di poco meno di una decina di soldati sarebbe bastato.
            «Alcuni M4, e armi leggere. Immagino tu non sia qui in uniforme, invece»
Sophia storse il naso accennando una smorfia amara, «No, signore. In realtà sono in congedo dall’ultima missione di quasi due anni fa, ho solamente la pistola d’ordinanza e un Barrett M82»
            Sentendo quelle parole Epps fischiò in approvazione, «Non è la cosa migliore per un probabile scontro a fuoco a corta distanza ma è un gioiellino quel fucile»
            Erano tutti diretti verso Mission City che distava poche decine di chilometri da Hoover Dam ma una volta arrivati ad un passaggio multilivello della superstrada qualcosa sembrò chiaramente fuori posto. Da dietro si iniziarono a sentire agghiaccianti suoni di collisioni metalliche e girando appena la testa tutti videro un enorme mezzo corazzato farsi pesantemente strada tra il traffico, schiacciando e lanciando lateralmente qualsiasi veicolo avesse di fronte mentre viaggiava a oltre centocinquanta chilometri orari. Optimus non esitò un attimo a trasformarsi ancora in corsa e scaraventarsi contro il Decepticon mentre i due caddero dal cavalcavia verso terra.
            Appena entrati nella città Sophia e gli Autobot videro i due buggy militari fermarsi sul bordo strada e nonostante l’urgenza tutti gli altri assecondarono la loro decisione. Sophia ricaricò per l’ennesima volta la propria pistola e scarrellando la rimise a posto nella fondina, stringendo bene l’aggancio. Si legò i capelli e solo quando vide uno dei militari scendere per entrare in un banco dei pegni si decise a fare un respiro profondo.
Si accorse che le mani erano scosse da leggeri tremiti e le fermò afferrando saldamente lo sterzo dove vi poggiò per un attimo anche la fronte socchiudendo gli occhi e cancellando per un attimo qualsiasi rumore dalla sua mente.
            «Radio a onde corte ma così si esagera» fu il commento di Epps che Sophia sentì tramite la radiotrasmittente che Lennox le lanciò attraverso il finestrino abbassato prontamente.
Il convoglio ripartì e dopo aver svoltato un per un paio di strade principali la radi colse un paio di rumori statici che fecero corrugare la fronte in confusione a Sophia.
            «Ci sono velivoli sopra la città?» fu la domanda di uno dei soldati che risuonò gracchiante nella radiotrasmittente. Di risposta un F22 volò sopra le loro teste e tra i palazzi, ma non giunse nessuna risposta vocale.
            Senza un avviso Ironhide mutò rapidamente forma, tenendo salda Sophia che rimase per un attimo sorretta dall’enorme mano dell’Autobot che la posò poi a terra prima di girarsi e urlare agli altri dietro di loro, «È Starscream!»
            I minuti sembrarono scorrere al rallentatore mentre tutto attorno a lei era ovattato, aveva la sensazione di sentire come se avesse indosso delle cuffie antirumore. Era a terra, con i piedi sull’asfalto e l’M82 saldamente ancorato alla sua schiena mentre attorno a lei c’era il fumo verde di segnalazione che i soldati avevano usato per segnalare il punto di estrazione per consegnare il cubo in mani sicure.
Gli Autobot si trasformarono in pochi secondi e con rapidità provarono a sgomberare il più possibile la strada quando quello stesso F22 di poco prima viaggiò nuovamente tra i palazzi, pericolosamente vicino ai civili. E poi caddero le bombe.
            La testa le pulsava e dovette aprire e chiudere gli occhi un paio di volte prima che tornasse a mettere a fuoco l’area circostante. Le orecchie fischiavano ma l’eco delle grida dei civili le trapanarono il cervello come una pugnalata al cuore e con un gemito si girò mettendosi supina.
Lasciò che l’aria e l’acre odore del fumo le riempissero i polmoni prima di tentare con uno sforzo di tirarsi a sedere. Si era ritrovata a terra senza accorgersene e neanche ricordava il motivo.
            C’era il caos attorno a lei e Sophia avvertì solamente il peso della pistola nella propria fondina e del fucile che aveva dietro la schiena, il resto era solo avvolto dalla confusione. L’impatto l’aveva sbalzata ad una decina di metri più in là rispetto al convoglio e senza badare al dolore che sentiva alla base del collo e alla spalla sinistra si diresse velocemente verso alcune macerie dove si nascondevano anche gli altri soldati.
            «Quella roba è aliena, nessuno volerebbe così vicino fra i palazzi in un luogo urbano» urlò un uomo mentre imbracciava il fucile e dava la schiena ad un Decepticon in rapido avvicinamento.
            «Dividiamoci in due squadre, una deve seguire Sam e consegnare il cubo ai Blackhawks. L’altro rimane qui e resta attaccato al culo degli Autobot» ordinò Lennox cercando di farsi sentire il più possibile tra gli spari dei soldati e i tremendi colpi dei cannoni di Ironhide che tentavano di decapitare il Decepticon. Un’altra esplosione risuonò violentemente ma questa volta le macerie impedirono ai soldati di venire sbalzati rudemente all’indietro a causa dell’onda d’urto.
            Sophia sfilò la cinghia con cui teneva ancorato l’M82 e controllò rapidamente che la canna non si fosse dislocata a causa dei forti urti che aveva subito l’arma. Sembrava essere tutto in ordine e senza pensare minimamente alla scomodità di un’arma a lungo raggio usata in una così corta gittata non perse tempo a cercare un punto il più stabile possibile dove poter dare un minimo di supporto.
            Il primo dei Decepticon che li avevano attaccati ora era morto grazie al sincronizzato intervento di Ratchet, Ironhide e Jazz che rapidamente cercarono di far sgomberare la zona il più velocemente possibile per impedire che altri civili venissero coinvolti nello scontro a fuoco. Un'altra esplosione scosse il terreno sotto i loro piedi quando qualcuno dal fondo della strada gridò qualcosa che andò perso tra le altre centinaia di grida di chi scappava terrorizzato.
            L’acre odore del fumo le bruciava i polmoni e ogni respiro le costava fatica ma quando vide l’esoscheletro metallico di uno dei Transformers riflettere la luce del sole quando girò l’angolo, un brivido di paura la percorse dalla testa ai piedi. Gli occhi erano spalancati e fissavano vacui quella creatura che sembrava uscita da un romanzo distopico di fantascienza, era probabilmente alto quanto Optimus ma dal metallo grigio freddo e che non rassomigliava ad alcun veicolo umano.
            Un altro colpo sparato a breve distanza fece ritirare sia i soldati che parte degli Autobot ma uno di loro non riuscì ad evitare il colpo e cadde a terra, perdendo l’equilibrio. I soldati erano occupati a far sgomberare e a cercare di mettersi in contatto il prima possibile con i rinforzi per concentrarsi a sufficienza sul nuovo Decepticon che aveva fatto capolino in quella strada disseminata di resti brucianti di veicoli e macerie di palazzi antistanti.
            «Non sai fare di meglio Megatron?» urlò Jazz prima di venire brutalmente afferrato per uno dei piedi e sbattuto come fosse un giocattolo sotto il giogo del Decepticon.
Megatron emise una risata gutturale che riverberò tra i palazzi perlopiù distrutti, tanto che Sophia ne avvertì le vibrazioni anche alla distanza in cui si trovava. Non aveva bisogno di qualcuno per sapere quanto quello fosse un tiro pessimo e rischioso; infatti, i primi tre colpi andarono a vuoto e il Decepticon a malapena si accorse dei proiettili che l’avevano mancato di poco, troppo preso a tentare di dilaniare a metà il corpo molto più piccolo dell’Autobot.
            La donna espirò flebilmente con le labbra appena dischiuse mentre tentava di riprendere la concentrazione quando sentiva la testa pulsare ancora di più dopo l’esplosione di prima causata da una bomba di Starscream. Aveva la vista offuscata e reggeva a malapena il pesante fucile piegato ad un angolo esagerato per tentare di colpire il Decepticon a parecchie decine di metri più in alto rispetto a dove si trovava lei.
Sistemò il calcio del fucile con la spalla sinistra e vi premette con forza la guancia sopra, lasciò per un attimo che i suoni della battaglia attorno a lei si ovattassero e prima che il corpo del povero Jazz potesse venire irrimediabilmente compromesso, sparò.
Due colpi in rapida successione.
            Un colpo si incastrò con precisione chirurgica in una delle insenature dove il braccio di Megatron si attaccava al resto del corpo principale, danneggiando il servo motore che ne comandava i movimenti, quel braccio divenne presto un’appendice senza vita. Il secondo colpo mancò di qualche centimetro la giugulare scoperta del Decepticon che, accortosi della sua presenza aveva spostato la testa nella sua direzione lasciando che il corpo dell’Autobot cadesse a terra dal palazzo con un tonfo sordo.
Jazz non era più l’obiettivo di Megatron.
            Il mondo era a testa in giù, o forse era lei ad essere sottosopra. Non sentiva nulla se non il fastidioso ronzio alle orecchie, e i polmoni che faticavano ad incamerare aria. Le sembrò di rivivere la stessa scena una seconda volta, come in alcuni dei suoi incubi che le avevano reso difficile dormire la notte.
Il fumo e le esplosioni erano sempre presenti, e i cadaveri. I cadaveri dei suoi compagni di squadra, a terra, uccisi dai colpi che ne avevano martoriato i corpi. Solamente gli occhi di alcuni erano ancora aperti ma non le restituivano altro che uno sguardo vitreo, spento e vuoto.
Stava succedendo di nuovo, sarebbero di nuovo morti a causa sua. Ma sapeva che quello era sempre il solito incubo, di morto… ce n’era stato solo uno.
            Non sentiva più il dolore pulsante alla testa quando provò a girarsi su un fianco ma neanche sentì più di avere la presa sul suo fucile, scaraventato ad una decina di metri da lei. Con lentezza tentò di trascinarsi fino a prenderlo, troppo esausta per provare anche solo ad alzarsi.
Sarebbe finita col cadere a terra come un sacco di patate dopo neanche dieci passi.
            Dei passi pesanti scossero il terreno sotto di lei e di nuovo Sophia si ritrovò sospesa in aria, questa volta brutalmente afferrata da qualcosa che le sembrò della lava incandescente. Qualcosa di rovente l’aveva artigliata per un braccio, alzandola come una bambola di pezza.
Non capiva più dov’era il terreno, dove fosse l’asfalto. Il ronzio nelle orecchie non si era placato un minuto e l’unica cosa che sentiva era la gabbia toracica che faticava ad aprirsi quando provava a respirare più a fondo, finendo con il tossire violentemente.
            Sputò sangue e un sapore acido le rimase in gola quando vide l’enorme mano metallica che l’aveva afferrata stringersi crudelmente sul suo corpo certamente più fragile. Non sentiva le proprie urla, ma neanche era sicura di aver urlato o forse solo rantolato qualcosa; i polmoni non avevano incamerato ossigeno sufficiente per poter anche solo emettere un fiato.
All’improvviso sentì solamente l’aria fredda sul fianco sinistro e provando a girarsi leggermente vide solo una enorme chiazza di sangue che le colava lungo l’intero fianco.
            Quel Decepticon era enorme, molto più grande di tutti quelli che aveva visto fino a quel momento. Vedeva le placche metalliche del suo volto muoversi ma non capiva cosa stesse dicendo. I brillanti occhi rossi che luccicavano preannunciando morte ovunque si posasse il suo sguardo.
Megatron si sarebbe divertito con quella debole umana che aveva osato sfidarlo così ostinatamente.
Solo quando Sophia tentò di prendere la pistola che aveva nella fondina si accorse di qualcosa che non andava, abbassò lo sguardo e vide quello che rimaneva del suo braccio destro.
            Fin quasi all’attaccatura della spalla non era rimasta altro che un’appendice macellata e pregna di sangue secco e fresco che continuava ad uscire copiosamente. L’omero era evidentemente rotto ben oltre la metà e la carne era ridotta in uno stato pietoso ma constatarne gli effettivi danni era impossibile in quella situazione, gli occhi rossi del Decepticon la osservavano con muto divertimento mentre l’umana che teneva tra gli artigli era ad un passo dalla fossa.
Eppure, non si arrendeva.
            Megatron le aveva causato una ferita irrimediabile ad uno degli arti superiori e l’intero fianco destro era ustionato e sanguinante dopo il contatto con il metallo rovente del suo corpo che le aveva fatto attaccare parte di alcuni lembi di tessuto dei vestiti alla ferita. Il respiro di Sophia era flebile, irregolare nella morsa di quell’enorme mano robotica che senza fatica le aveva probabilmente incrinato o rotto più di qualche costola.
Il dolore era solo un fastidioso rumore di fondo, i suoni erano ovattati e faticava immensamente anche solo a mantenere la vista a fuoco su quello che la circondava. Solo quando stava sentendo l’ennesimo grumo di sangue e bile occludergli la gola riconobbe un altro enorme cybertroniano che sparò due colpi diretti alla schiena di Megatron che fecero perdere la presa su Sophia, che cadde a terra con un tonfo sbattendo ulteriormente la testa.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Sacrificio ***


CAPITOLO 6 – SACRIFICIO
 


            «Grazie di averci onorato del vostro coraggio» Optimus guardò ognuno di quei soldati con orgoglio e ringraziamento per aver rischiato le loro vite in una causa così pericolosa.
            «Se non fosse stato per quella piccoletta Megatron mi avrebbe spezzato in due probabilmente» fischiò Jazz una volta avvicinatosi ad Optimus.
Mentre gli altri finalmente potevano concedersi un respiro Ironhide passò in rassegna ognuno di quegli esseri umani che aveva di fronte ma il fatto di non cogliere un volto familiare lo fece irrigidire immediatamente, «Dov’è?» domandò poi rivolto ad uno dei soldati.
            Lennox alzò lo sguardo confuso incrociando gli occhi cerulei dell’Autobot che non lo mollava un attimo, «Di chi parli?»
            «Sophia, doveva essere con voi»
Gli altri soldati si guardarono tra loro per capire un attimo chi l’avesse vista per ultima ed Epps al fianco di Lennox gli tirò una leggera gomitata attirando la sua attenzione, «Alder si era fatta vedere poco prima che quel tank facesse quel massacro. Si è presa un M4 ed era sparita subito dopo»
Optimus rivolse uno sguardo agli umani che aveva di fronte, alcuni di loro si guardavano intorno cercando e aspettandosi di vedere la figura di Sophia spuntare da qualche parte lì intorno mentre Sam e Mikaela erano vicini a Bumblebee che, per quanto ferito, non era in pericolo di vita nonostante la mancanza quasi totale degli arti inferiori.
            : Ironhide, l’ho trovata, la voce di Ratchet era risuonata tramite il comlink degli Autobot e il tono con cui aveva parlato di certo non fece presagire nulla di buono a tutti loro. Jazz attirò l’attenzione di Ironhide mentre con lui si diresse verso la posizione di Ratchet, ad una svolta in fondo l’isolato.
La fatica di quello scontro contro i Decepticon si faceva sentire tra i motori di movimento dell’Autobot ma quella sensazione nient’affatto rassicurante provenire dalla scintilla che gli scaldava il petto fece passare in secondo piano tutto.
            I due svoltarono l’angolo evitando le macerie dei palazzi che si erano sgretolati durante quell’improvvisa battaglia nel mezzo di Mission City. La maggior parte dei civili era scappata nei primi momenti di confusione e, ad eccezione di poche sfortunate vittime, la maggioranza aveva solamente riportato ferite lievi.
I corpi dei Decepticon senza vita giacevano a terra, parti metalliche staccate dai loro corpi e più di uno di loro con fori causati da un’arma umana a distanza parecchio ravvicinata.
            La figura di Ratchet colse l’attenzione di Ironhide e Jazz che con pochi passi raggiunsero l’amico che si trovava vicino ad un cumulo di macerie di un palazzo accanto. Aveva la testa bassa e quando sentì i due avvicinarsi rivolse loro un cenno del capo, le placche metalliche del volto contratte in un’espressione indecifrabile.
A terra, vicino un enorme detrito di un muro portante c’era il corpo abbandonato supino di una donna.
            Sophia era riversa a terra in un lago di sangue, il braccio destro non era più definibile tale sia a causa delle profonde ferite ma anche a causa del totale distaccamento dal resto della spalla. Il fianco completamente ustionato con i lembi bruciati dei vestiti che aderivano pericolosamente alla pelle sensibile e danneggiata.
            «Oh Primus, - la voce di Jazz era ridotta ad un sussurro mentre si avvicinò all’amico, fiancheggiandolo in quello spettacolo macabro, -mi ha salvato la vita quando ha colpito Megatron. Aveva un coraggio degno di un cybertroniano»
            «È ancora viva» comunicò semplicemente Ratchet passando di nuovo uno dei suoi sensori sul corpo di Sophia.
Ironhide vide come il suo petto si abbassava e alzava in maniera impercettibile col respiro appena accennato e affaticato dalle costole che premevano faticosamente sui polmoni. Si abbassò con un ginocchio a terra e passò a pochissima distanza una delle enormi dita sopra la sua testa gettata di lato, scostandole una ciocca di capelli completamente appiccicata al volto a causa del sangue incrostato che era colato dalla ferita sulla tempia sinistra.
            Le palpebre tremolarono appena a quel tocco e sotto la sorpresa dei tre Autobot Sophia socchiuse gli occhi lentamente, le labbra appena dischiuse che non emisero altro che un flebile lamento. Gli occhi castani si spostarono appena e seguendo la mano robotica che era sopra di lei concentrò la poca attenzione, che la manteneva ancora vigile, sulla figura di Ironhide.
Provò a dire qualcosa ma l’unico risultato che Sophia ottenne fu una violenta tosse che la scosse dalla testa ai piedi, aggiungendo un’altra scarica di dolore sul corpo spossato.
            «Non muoverti, rischi solo di peggiorare le tue condizioni» fu il severo ammonimento di Ratchet che tentava di capire il modo più veloce per spostarla e darle le cure necessarie senza aggravare le ferite che già riportava.
            Sophia sembrò sorda a quel richiamo e tentò comunque di spostarsi da quella posizione in cui era costretta, cercando di spostarsi sul fianco sano con il braccio sinistro ancora perlopiù intatto se non per alcune escoriazioni in diversi punti. Spostò faticosamente la testa e con il delicato aiuto di un paio di dita di Ironhide riuscì almeno a rimettere la testa dritta in modo da respirare un poco più agevolmente.
La vista era quasi totalmente offuscata e riconobbe i tre Autobot solamente dalle indistinte macchie di colore che riuscì a distinguere mentre alcune lacrime di dolore le solcarono silenziosamente le guance, nella testardaggine di non emettere neanche un fiato di dolore.
            «Alcuni medici umani dovrebbero arrivare a momenti» commentò l’Autobot abbassandosi anche lui e dando una delicata occhiata al fianco della donna.
Un altro colpo di tosse scosse il suo corpo debole e Ratchet si fermò immediatamente dal toccarla in ogni modo, accorgendosi di come quei forti colpi erano per i suoi vani tentativi di parlare, «Te l’ho detto. Non parlare e non muoverti, Sophia»
            Sophia scosse leggermente la testa e con un respiro più profondo e meno frammentato riuscì a placare parzialmente il dolore e la fatica che ogni movimento della cassa toracica le costava. Socchiuse di nuovo gli occhi e li puntò sulla figura di Ratchet che le rivolgeva uno sguardo apprensivo ma calmo, attento a tenere sotto controllo i suoi segni vitali.
            «Ni…te med…ci» espirò flebilmente sentendo la gola raschiare ad ogni tentativo di articolare più di una sillaba dietro l’altra.
Ironhide la guardò per un attimo confuso, avendo faticato non poco a capire cosa stesse dicendo anche con i sensibili recettori audio. Guardò Ratchet al suo fianco che invece scosse la testa con disapprovazione, «Se non ricevi cure immediate, morirai»
            Sophia questa volta si limitò semplicemente ad indicare l’Autobot con un impercettibile cenno del capo e per un attimo Ironhide non mancò la presa sulla sua testa. Era ad un passo dalla morte e quella donna riponeva la propria salute su un enorme Mecha alto dodici metri anziché un’intera squadra di medici della sua stessa specie.
Quella riluttanza non gli era nuova e l’Autobot colse il lieve movimento della spalla sinistra di Sophia che tentava di muovere un qualcosa di cui non rimaneva nient’altro che un ammasso sanguinolento.
            «Ehi, ehi, fermati -la richiamò a bassa voce Ironhide, bloccandola delicatamente con la punta delle dita dell’altra mano libera, premendo contro la spalla in modo da non farla muovere più del necessario, - Se ti muovi troppo peggiori solo la situazione. Non muoverti»
            Sophia lo guardò prima di rilassarsi leggermente sotto il suo sostegno, accennando quello che sarebbe dovuto essere un piccolo sorriso ma la smorfia di dolore sulle labbra screpolate era più che indicativa di quello che stava provando ad ogni respiro.
            : Optimus, non vuole che gli umani la curino, la voce di Ratchet anche tramite il comlink era calma ma tradiva una certa urgenza, probabilmente dovuta alle condizioni in cui versava Sophia.
            : Sei sicuro di potertene occupare?, Optimus non dubitava delle capacità mediche del suo più fidato amico ma di certo un fragile e minuto corpo umano era enormemente diverso da trattare rispetto al corpo più massiccio di un cybertroniano. Riattaccare giunture ed arti strappati per loro era difficile e doloroso ma non impossibile, per gli umani ogni cosa era un potenziale rischio di morte e un attentato alla loro vita custodita nel fragile corpo in cui vivevano.
Ci fu un attimo di pausa prima che la voce di Ratchet risuonasse nuovamente nel canale di comunicazione.
            : Non c’è altra scelta, si agita al solo nominare la possibilità che la curino i suoi simili. Se non me ne occupo morirà comunque, anche in quel momento la preoccupazione dell’Autobot non era sulle sue capacità di trattare quelle ferite ma dall’incapacità di capire perché Sophia si rifiutasse di farsi curare da altri esseri umani. Da quando Ironhide l’aveva presentata a tutti loro l’aveva tenuta sotto quasi costante monitoramento e l’attività neuronale del suo cervello erano un episodio alquanto peculiare.
            I suoi traumi passati avevano influito sulla sua stabilità psicologica e in quel momento era impossibile tentare di trovare altre soluzioni per convincerla. Ogni secondo che passava c’erano sempre meno probabilità che si salvasse e Ratchet non poteva permettere che un’amica che si era sacrificata fino a tal punto per una causa, che non la riguardava affatto, se non per aiutare loro… non poteva permettere che la sua vita terminasse così quando ancora c’era la più remota possibilità che lui potesse fare qualcosa.
            : Permesso accordato allora, vecchio amico, quelle parole da parte di Optimus bastarono per permettere ad Ironhide e Ratchet di spostare il corpo di Sophia.
            «Come sarebbe a dire che non vuole farsi curare in ospedale?»
Optimus squadrò senza particolare emozione l’umano che aveva di fronte, «Sophia è stata un soldato coraggioso che ha rischiato la propria vita per salvare uno di noi. Il minimo che possiamo fare è rispettare la sua volontà»
            «Ma se è incosciente da quando l’hanno portata qui. È un essere umano e va curata da un personale medico umano» calcò quella parola con rabbia mentre pensava di avere la meglio sul leader degli Autobot che, però, non si stupì minimamente di quell’atteggiamento aggressivo.
            «Facciamo che avrete il permesso di portarla in un ospedale quando passerete sul mio corpo senza vita» esclamò d’un tratto Ironhide puntando uno dei cannoni che aveva montati sulle braccia a meno di un metro dalla faccia dell’uomo che impallidì come un lenzuolo.
Anche se non aveva alcuna intenzione di fargli del male, quell’uomo si stava rivelando davvero una fastidiosa presenza anche se lo stava distraendo dall’attesa interminabile che stava occorrendo a Ratchet per finire di medicare Sophia.
L’umano rimase in silenzio per qualche secondo prima di andarsene dall’Hangar in cui erano stati messi gli Autobot, borbottando qualcosa di incomprensibile tra sé e sé. Optimus si congedò poco dopo e Ironhide rimase a fissare il punto in cui quel fastidioso insetto era sparito.
            Il caldo del deserto del Nevada non lasciava tregua a nessuno degli Autobot e la sera era quasi l’unico momento di pace da quell’afa umida che minacciava di corroderli pezzo per pezzo. Lo specialista in armi era fuori da un paio d’ore e guardava silenziosamente i pochi soldati che circolavano lì andare avanti e indietro, alcuni si erano fermati per fare due chiacchiere ma la maggior parte gli aveva rivolto solamente un sorriso tirato di circostanza.
Irritato com’era non era affatto saggio inimicarsi l’Autobot in quel momento.
            Il capitano Lennox l’aveva ravvisato un paio di giorni prima di una possibile collaborazione tra umani e Autobot, una sorta di squadra speciale che operasse in tutto il mondo. Non era totalmente contrario all’idea, sempre ben disposto a fondere il metallo di qualche Decepticon ma in quel momento proprio non riusciva a trovare la positività di quello.
Andare sulla Terra era stato necessario per ritrovare l’AllSpark, che adesso era andato completamente distrutto e così anche la loro speranza di poter ridare vita a Cybertron. La terra non era il loro pianeta natale e mai lo sarebbe stato, ognuno di loro lo sapeva ma finché la minaccia dei Decepticon non sarebbe stata eradicata alla radice nessuno di loro se ne sarebbe andato da quel pianeta.
            «Il generale Wharton è veramente una palla al piede, eh?» la voce di un ragazzo giovane prese quasi alla sprovvista Ironhide che d’istinto punto uno dei suoi cannoni in direzione dell’essere umano che era appena entrato nel suo raggio visivo.
Il ragazzo alzò immediatamente le mani in segno di resa anche se non sembrava affatto spaventato dall’enorme canna fumante che minacciava di ridurlo in polvere e questo fece tentennare l’Autobot che però rimise a posto l’arma e scoccò un’occhiata diffidente all’umano. Era decisamente giovane ma la divisa militare non lasciava molto spazio alla fantasia, solo che Ironhide si domandò il motivo della sua presenza lì.
            Ironhide si sorprese nel veder il setter inglese di Sophia spuntare da dietro il giovane mentre scodinzolava allegro. Era un po’ sporco e il pelo era coperto di fuliggine in più punti ma stava bene, non sembrava essere ferito e gli occhi erano vispi come al solito.
Da tutto il marasma della battaglia non aveva più dato attenzione ad altro e ad essere onesti si era completamente dimenticato del cane. Tirò un sospiro di sollievo sapendolo sano e salvo e che qualcuno si stesse prendendo cura di lui.
            «Dalle fiducia, bestione. Sophia è un osso duro» esclamò d’un tratto il giovane poggiandosi contro il metallo arrugginito dell’hangar e incrociando le braccia al petto. Vide l’Autobot indispettirsi a quel nomignolo e un piccolo sorrisetto divertito gli increspò le labbra mentre dava un paio di grattate dietro l’orecchio a Sam, seduto al suo fianco.
            «Da quanto tempo gli stai dietro?» domandò poi attirando di nuovo l’attenzione di Ironhide che, ancora diffidente si decise a parlare.
            «Quasi un anno terrestre» secca e acida fu la risposta che ricevette. Era chiaro come non avesse alcuna intenzione di intrattenere quella conversazione ma per qualche motivo il suo atteggiamento scontroso e l’imponenza della sua figura non sembrarono sortire l’effetto sperato su quel piccolo umano.
            «Quella… un anno e mezzo che non si fa sentire e mi tiene pure nascosto che ha un bestione del genere come amico. Questo veramente è uno smacco. Prima o poi Sophia non vorrà sapere più niente di noi, mio caro Sam» commentò laconico il soldato ricevendo un abbaio di risposta dal cane che si andò a sedere accanto al piede di Ironhide.
            «È inutile che tieni il broncio, amico. I tagli e le ferite guariscono, Foxy ha avuto momenti peggiori quando siamo stati in Iraq… se l’hai vista dopo il congedo capisci subito come qui il problema non sia una cicatrice in più sulla pelle. Dalle fiducia» ripeté nuovamente prima di congedarsi con un cenno della mano e rientrare all’interno dell’hangar, lasciando Ironhide a meditare stranamente su quelle parole.           
            Sophia riprese conoscenza lentamente, perlopiù a causa del fastidioso rumore che la macchina accanto a lei produceva ad ogni suo battito, monitorandole la frequenza cardiaca e gli altri segni vitali.
            «Meglio se non ti agiti troppo» la voce la colse alla sprovvista, bloccandole qualsiasi tentativo di movimento.
Aprì gli occhi e li fece saettare in direzione della porta di quella piccola stanza, rudimentalmente attrezzata come ambulatorio medico. Un uomo sulla trentina era appena entrato col camice che le fece presagire come dovesse essere un medico, i capelli leggermente lunghi di un biondo sporco e il volto squadrato dai lineamenti non molto marcati.
Il medico la squadrò da capo a piedi per qualche secondo e Sophia si irrigidì quando accennò un solo passo nella sua direzione. Non aveva mai amato gli ospedali e i medici ancor meno, sempre convinta che quando sarebbe giunta la sua fine sarebbe stata sul campo e invece si trovava in quell’ambulatorio improvvisato nelle mani di un medico che non aveva mai visto.
            «Calmati o rischi un'altra emorragia, i punti ancora non si sono chiusi – la riprese nuovamente l’uomo prima di accorgersi della rigidità di Sophia che lo guardava con un tale astio da gelarlo sul posto, - sono Ratchet, Sophia»
Sophia sgranò gli occhi a quella frase e, anche se continuava a tenere d’occhio l’uomo, lasciò che si avvicinasse quel tanto che bastava per controllare i suoi segni vitali sulla macchina accanto al suo letto. Gli occhi innaturalmente azzurri la squadrarono con attenzione prima di fermare le mani a mezz’aria in attesa della sua approvazione per aiutarla a mettersi un po’ più comoda, visto i fallimentari tentativi di muoversi quel poco che poteva.
            Annuì lentamente e riuscendo finalmente a mettersi in una posizione più rialzata un leggero colpo di tosse la scosse dalla testa ai piedi, il sottile lenzuolo che la copriva scivolò depositandosi sul suo grembo e lasciandole scoperta la parte superiore del corpo. Sophia abbassò lo sguardo e lì il respiro le si mozzò in gola.
Il braccio sinistro era fasciato con qualche giro di garza pulita ed era più il prurito sulla pelle sensibile che altro a darle fastidio, mentre il braccio destro era completamente andato. Dalla metà superiore del braccio non c’era più nulla, solamente il rimasuglio dell’arto chiuso a metà dell’omero, pesantemente fasciato in parecchi giri di bende che non le permisero di vedere lo stato di quell’appendice.
            Non sentiva niente ma pensò fosse dovuto perlopiù agli antidolorifici che doveva ancora avere in corpo. Le gambe, tuttavia, riuscì a sentirle entrambe, fino alla punta delle dita dei piedi. Vide poi come Ratchet avesse finito già da qualche minuto i suoi controlli e ora aspettava paziente a qualche passo di distanza da lei, lo sguardo preoccupato e la posizione del corpo nient’affatto rilassata. Era senz’altro consapevole di come quella forma dovesse averla messa in guardia, perciò, era stato più che rispettoso nel tenere un minimo le distanze se questo voleva dire farla stare più tranquilla.
            «Ti ricordi cos’è successo? Senti dolore da qualche parte?» domandò gentile e parlando lentamente come se la sua debolezza non fosse solo fisica ma anche mentale.
Sophia annuì, si fermò e ripensò un attimo a quello che ricordava. Anche se la memoria era un po’ confusa negli ultimi istanti, causa le pesanti ferite alla testa e l’imminente sensazione di morte che l’avevano portata con un piede dalla fossa, sapeva quello che era successo durante la guerra improvvisa contro i Decepticon e un brivido di gelo le attraverso la spina dorsale al ricordo degli occhi gelidi di Megatron che la fissavano a pochi centimetri dal suo viso.
            «Quan… - si interruppe, tossì un paio di volte a causa della gola secca prima di riprendere, -da quanto sono qui?» domandò passandosi la punta della lingua sulle labbra screpolate e secche dalla sete. Parlare le costava una fatica immensa e la sensazione di avere qualche costola incrinata che premeva contro i polmoni non le sembrava una ipotesi così assurda in quel momento.
            «Quasi due settimane, hai avuto diverse complicazioni viste le condizioni gravi in cui ti ho dovuto curare»
            «Grazie, Ratchet. Pensavo…»
L’Autobot scosse la testa passandosi una mano tra i capelli biondi, «No, né Optimus né Ironhide hanno lasciato che un medico umano si avvicinasse qui. Anche se continuo a ritenere illogica la tua fiducia spropositata in esseri che non sono neanche simili agli esseri umani»
            «Evito qualsiasi posto possa causarmi altri attacchi…» mormorò a bassa voce, stringendo il lenzuolo nella mano fasciata.
Ratchet non indagò oltre notando come i livelli di pressione nel sangue si stavano nuovamente alzando, annuì semplicemente e si congedò con un piccolo sorriso rassicurante, «Sono sollevato che ti sia svegliata»

            «Sergente di prima classe Sophia Alder?» domandò un uomo sulla trentina dopo aver bussato educatamente alla porta aperta, aspettando un suo cenno prima di poter mettere piede nella stanza.
Sophia aggrottò la fronte a quella domanda, rimasta ancora più sorpresa di scorgere la figura del vecchio compagno di squadra che non vedeva da mesi.
            «Sergente scelto in realtà, signore…» rispose confusa.
L’uomo sorrise leggermente, l’espressione distesa e nient’affatto portatrice di cattive notizie, o almeno così sembrava.
            «Capitano William Lennox -si presentò ricevendo un cenno del capo in risposta prima di continuare, -sono venuto a vedere come stava… e per parlarle»
La donna si mise meglio sopra i due cuscini che la sostenevano dietro la schiena prima di lasciare che Lennox continuasse a parlare.
            «Dopo la battaglia a Mission City il… Segretario della Difesa e il Presidente degli Stati Uniti hanno deciso molto probabilmente di istituire un ramo speciale nell’esercito, una particolare squadra che collaborerà a stretto contatto con gli Autobot. Non è ancora nulla di definitivo e ci vorrà probabilmente qualche mese prima che possiamo parlare di qualcosa di concreto ma…»
            «Perché mi sta parlando di questo, capitano? -lo bloccò Sophia senza troppe cerimonie, -Sono stata congedata dai Ranger per ragioni mediche, ora di certo non penso di essere in grado di rientrare in servizio attivo. Né ora né in futuro» il tono era duro e le parole erano uscite secche mentre la mano era stretta talmente tanto da far sbiancare le nocche.
Lennox non parlò per qualche secondo, rimanendo a studiarla prima di misurare le parole, «So del motivo del tuo esonero definitivo ma sia gli Autobot che alcuni membri della tua vecchia squadra hanno fatto un po’ di pressione a riguardo… L’offerta, anche se non è per un posto in prima linea, è comunque valida. Sia il sergente Myers che Rogers sono stati già messi in lista una volta che sarà tutto pronto»
            «Dopo aver avuto le palle di sparare ad un robot di quindici metri non puoi tirarti indietro, Foxy. Chi terrà sott’occhio me e Jax?» si intromise con una risata il più giovane e terzo essere umano che era presente nella stanza. Il giovane di a malapena venticinque anni non aveva fiatato da quando erano entrati ed ora si stava beando della faccia quasi sconvolta che Sophia gli stava rivolgendo.
            «Non c’è alcuna fretta nel darmi una risposta e in caso… ci saranno alcune condizioni se accetti il trasferimento» Lennox non disse altro ma lo sguardo eloquente fece intuire a Sophia quale sarebbero state le condizioni affinché potesse tornare in servizio. Il capitano le sorrise nuovamente e dopo aver scambiato qualche breve convenevole si congedo lasciando i due da soli.
            «C’è anche Jason?»
Myers scosse la testa avvicinandosi e sedendosi sul bordo del letto mentre Sophia continuava ad evitare il suo sguardo, «No, anche se convincerlo a non venire qui è stata una faticaccia ma immaginavo non saresti riuscita a sopportarlo in queste condizioni. Certo che… cazzo, Soph. Ma cos’avevi nel cervello?» la domanda non era un’accusa ma il tono preoccupato le fece serrare le labbra dalla frustrazione.
            «Ho un pessimo tempismo ecco cosa c’è – liquidò Sophia non volendo minimamente parlare delle sue condizioni fisiche anche se sentiva la fatica che stava costando all’amico per non parlarne, -piuttosto cos’è questa storia del Sergente di prima classe?» domandò cambiando argomento e rimanendo sorpresa dal sorrisetto divertito che si era formato sul volto di Myers.
            «Quello mia cara Foxy è la tua meritata promozione. Dopo il casino a Mission City i piani alti hanno deciso di ricompensare te e gli altri soldati che hanno partecipato» le comunicò con una nota di orgoglio nella voce.
Shawn Myers era forse la prima persona che vedeva dopo l’ultima missione prima del suo congedo definito, dal ritorno in America e in quel momento il giovane era lì come se niente fosse, come se si fossero visti tutti i giorni nell’ultimo anno e mezzo. Da sotto la montatura degli occhiali che portava, gli occhi castani non la lasciavano un attimo, preoccupato ma estremamente felice che la sua più cara amica fosse ancora, se non tutta d’un pezzo almeno ancora viva e con la stessa testardaggine di sempre.


 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Nuovo inizio ***


CAPITOLO 7 – NUOVO INIZIO
 

            «Hey, piccoletta»
Sophia socchiuse gli occhi, infastidita dalla luce del mattino mentre tentava di coprirsi il viso con una mano, senza successo. Una bassa risata metallica riecheggiò nelle sue orecchie, intravide l’enorme figura di Ironhide che la osservava mentre era inginocchiato di fronte a lei.
            Con movimenti lenti la donna si stiracchiò lungo il muro su cui si era appisolata, facendo scrocchiare la schiena e alcune ossa, accettò poi l’aiuto silenzioso dell’Autobot che le offrì l’enorme mano metallica per aiutarla a rimettersi in piedi.
Si massaggiò il collo leggermente indolenzito vista la posizione scomoda in cui si era addormentata e le deboli ondate di fastidio che le temperature rigide della notte infliggevano sulla pelle sensibile di quello che rimaneva del suo arto destro.
            Sophia si lasciò depositare nell’incavo della spalla di Ironhide mentre l’Autobot si dirigeva a passo moderato verso l’hangar dove avevano installato una provvisoria base medica.
            «Ratchet non sarà felice di sapere che ti sei ricaricata in mezzo al freddo dell’hangar senza alcuna attenzione»
Sophia storse il naso ma l’occhiata di sbieco che le rivolse l’Autobot le impedì di fare alcun commento a riguardo.
Ironhide era ancora in apprensione per lei anche se non lo dimostrava apertamente.
Un mese e mezzo dalla morte di Megatron e la distruzione dell’AllSpark e l’Autobot non la mollava un attimo, tenendola costantemente nel raggio del suo controllo. La pozza di sangue in cui l’aveva trovata probabilmente era stata la visione più orribile a cui aveva assistito, nonostante i secoli di guerra in cui aveva combattuto senza sosta.
L’Energon che gli correva nelle valvole si era fermato in quel momento. Tra le macerie e blocchi enormi dei palazzi antistanti che erano crollati e vicino al corpo senza vita del Decepticon c’era il corpo malridotto di Sophia.
            A terra supina come una bambola di pezza gettata via con troppa forza, la testa gettata di lato dove dalla tempia sinistra lacerata c’era sangue incrostato sul volto e sui capelli.
Il fianco destro, dalla linea del seno fino alla coscia era completamente bruciato, i vestiti anneriti e strappati a causa del calore da contatto in quei punti che lasciavano in bella vista la pelle completamente sanguinolenta, sensibile e pulsante. Gli arti non avevano nessuna ferita apparente o alcun osso che sporgeva in una frattura scomposta, ma ne mancava uno.
Il braccio destro non c’era più. Ed era proprio da lì che uscivano fiotti di sangue che imbrattavano l’asfalto, l’omero rimasto intero solo per metà e la pelle e la carne che sembravano essere finiti nella morsa di un animale selvatico tanto era frastagliato e violento il contorno di quella ferita.
            Il moncherino stava guarendo ma la pelle attorno la fine dell’osso, dove si richiudeva, era ancora parecchio sensibile e bastava un non nulla per mandare scariche di dolore al corpo di Sophia che non gridava altro che un po’ di meritato riposo. Vestita solamente con una canotta e un paio di pantaloni cargo, la pelle martoriata ancora non era guarita completamente: il fianco destro strusciava contro il cotone dei vestiti e le provocava fastidiose irritazioni.
            L’ambulatorio era rimasto pressoché invariato da quando le avevano finalmente permesso di poter tornare a muoversi dove voleva, perlopiù li aveva costretti lei esasperando al limite Ratchet che non riusciva più a concentrarsi su altro se non a cercare di tenerla a riposo a letto. Ironhide era diventata la sua ombra da quel momento, una enorme, metallica e rumorosa ombra che la seguiva dove poteva. Quella era l’ennesima visita di controllo e anche se riluttante non aveva potuto fare altro che accettare passivamente quelle piccole torture quotidiane. Ratchet l’aveva presa particolarmente a cuore e ne seguiva i progressi con perizia e attenzione.
Sophia si lasciò mettere a terra da Ironhide e diede un piccolo colpo su una placca metallica del piede di Ratchet, attirando la sua attenzione. L’Autobot si abbassò alla sua altezza e passò uno dei suoi scanner sulla figura dell’umana che aspettava paziente con il braccio sinistro sul fianco.
            «Mi sembrava di averti detto di tenerla d’occhio» borbottò Ratchet nella sua holoform umana dopo aver rimesso delle nuove garze sulla pelle ustionata di Sophia che si ostinava a togliere dopo nemmeno un paio d’ore.
Ironhide grugnì borbottando qualcosa in un ammasso di ronzii e rumori metallici in cybertroniano mentre aspettava fuori, troppo grande per mettere piede lì dentro e decisamente restio ad usare il suo ologramma quando c’erano altri esseri umani in giro.
            «Se continui ad esagerare le ustioni non guariranno bene. Potresti perdere ancora più mobilità» la rimbeccò nuovamente l’ufficiale medico degli Autobot controllando anche l’estesa ustione che si stava lentamente cicatrizzando sul fianco di Sophia che spostò con una smorfia la fascia del reggiseno per permettere a Ratchet di controllare con cura ogni punto della ferita.
Lì purtroppo non c’era molto che il medico potesse fare, se non garantire la più alta percentuale di guarigione senza intoppi e cercare di prevenire che una volta guarita la ferita si cicatrizzasse in un lembo di pelle rigido come il cuoio. Riapplicò per l’ennesima volta uno strato di garza sterile e imbevuto di analgesico che diede un po’ di sollievo a Sophia, stoica nel non lamentarsi nonostante fosse evidente come quell’estesa ustione di secondo grado fosse particolarmente dolorosa.
            Sophia annuì distrattamente alle ennesime raccomandazioni che sarebbero state prontamente ignorate, anche senza farlo apposta. L’Autobot si era accorto dell’impercettibile deterioramento della salute mentale dell’umana anche se non le aveva detto nulla riguardo questi suoi controlli quando la visitava giornalmente. Aveva presto imparato come quello fosse un delicato argomento per lei e soprattutto in quel momento non aveva intenzione di spingerla troppo o avrebbe probabilmente solo peggiorato la sua salute.
            «Hai una mira pessima» fu il secco commento di Ironhide dopo il terzo proiettile andato un metro troppo al di là del bersaglio.
Sophia sbuffò spostandosi di poco alcune ciocche di capelli dal viso e sistemandoli con un paio di occhiali da sole sulla sommità del capo, scartò la cartuccia vuota con un movimento fluido dal caricatore del fucile di precisione e si sistemò meglio il calcio dell’arma sulla spalla destra. Sdraiata pancia a terra sotto il sole cocente e con uno stupido bersaglio ad appena un chilometro e mezzo da lei e i due Autobot che l’avevano accompagnata.
«Prova tu a ritrovarti senza la mano dominante per sparare, ammasso di latta» commentò acida ed esasperata, facendo irrigidire Ironhide a quel commento che non replicò dopo uno sguardo eloquente di Ratchet che li aveva seguiti per assicurarsi che i due non esagerassero.
            «Voi umani avete un arto dominante rispetto all’altro, giusto?» domandò il medico bot con una punta di curiosità guardando Sophia annuire alla sua domanda, ma anche mosso dal bisogno di abbassare i suoi livelli vitali che in quel momento erano troppo alti nelle sue condizioni.
            «C’è anche chi come me non ha preferenze e può usare entrambe senza problemi - si interruppe un attimo, -o che almeno poteva» senza aggiungere altro tornò a fissare la propria attenzione sul bersaglio che aveva inquadrato nel mirino.
Tre rapidi centri, due dritti al cuore e uno alla testa. Sophia espirò solo dopo che l’ultimo proiettile colpì il bersaglio, scarrellando la cartuccia vuota fuori dal fucile e tornando a guardarsi intorno.
            Era primo pomeriggio e i tre erano nel mezzo del deserto del Nevada, lontani da occhi indiscreti e sotto il sole cocente di inizio estate. Anche con l’abbigliamento estivo più leggero che aveva trovato, Sophia stava morendo di caldo, abituata alle temperature del Montana e quelle più acclimatate del Wisconsin. Quella non era stata un’uscita particolarmente pianificata ma a breve, forse prima della fine della settimana, tutti si sarebbero mossi verso una nuova base stabilita apposta per la neo-squadra finalmente ufficializzata.
La base del NEST sarebbe stata dislocata a Diego Garcia praticamente dall’altra parte del pianeta e tutti erano indaffarati nel preparare tutto quello che c’era da organizzare per riuscire a trasportare in modo sicuro tutti gli Autobot.
Optimus raramente si vedeva in giro, sempre impegnato con il Capitano Lennox a discutere i dettagli di tutta quella nuova dinamica di collaborazione tra le due razze mentre gli altri Autobot cercavano di occupare il tempo nel miglior modo possibile.
            Sophia si sorprese di vedere infatti Ratchet accompagnare lei e Ironhide in quella scampagnata fuori porta, visto quanto lo aveva visto chiuso in quel laboratorio improvvisato da cui non usciva praticamente mai. Aveva costantemente la testa occupata da chissà quale progetto e lei non se la sentì mai di intromettersi a curiosare, sapeva quanto potesse essere fastidioso e perciò lo lasciava in pace quando lo vedeva concentrato su quello.
            «Dobbiamo rientrare, piccoletta» la voce di Ironhide la destò dai suoi pensieri, scuotendo la testa e passandosi la mano sulla fronte per asciugare un minimo il sudore che sentiva appiccicarle ciocche di capelli sul volto.
Si alzò lentamente e si sistemò il fucile su una spalla mentre la fondina dove teneva la pistola era sempre saldamente ancorata, anche se ora era saldamente ancorata alla coscia sinistra dove aveva ancora qualche difficoltà a tirarla fuori con un buon tempismo.
            Il viaggio di ritorno fu abbastanza veloce e silenzioso anche se una volta rientrati per poco Sophia non venne investita dalla figura di Shawn che la prese di peso per portarla nell’unico luogo di quella base improvvisata dove ci fosse un telefono in grado di prendere segnale, quando per sicurezza erano stati installati dei disturbatori di segnali tutt’intorno al campo.
            «Myers si può sapere che diamine ti prende?» strepitò Sophia colpendolo violentemente alla schiena quando venne messa finalmente a terra e facendo tossire un paio di volte Shawn a causa del forte colpo.
            «Calmati, non saresti venuta altrimenti»
            «Perché non sarei dovuta…»
            «Sento che sei ancora in buona forma, Gracie» Sophia si ammutolì. Ecco il perché di quelle maniere brusche.
            Scoccò un’occhiata furibonda a Shawn che gli fece l’occhiolino sistemando gli occhiali e salutandola con un cenno della mano lasciandola sola. Nella stanza non c’era nessuno a parte la chiamata avviata e messa in vivavoce, con l’unica persona che Sophia stava evitando da quando gli aveva lasciato quello stupido biglietto.
            «Ho pensato che dopo quasi due mesi avrei dovuto iniziare a preoccuparmi, specialmente dopo che mi avevi lasciato scritto che saresti stata via per massimo una settimana o giù di lì» il tono non era arrabbiato ma anche tramite il telefono Sophia sentì la sua voce rigida come quando da piccola combinava un casino e finiva nei guai, «Non rifilarmi delle scuse perché sai che non servono, sei viva e questo mi basta»
Un sospiro sollevato lasciò le sue labbra quando si decise ad abbandonarsi su una delle sedie presenti, poggiando la fronte nel palmo della mano e stringendo il ponte del naso pensando a cosa dire.
            «Sarei dovuta rimanere lì in Wisconsin»
            «A fare cosa? Sentirmi parlare tutto il giorno dei miei incontri con gli altri veterani del circolo?» la domanda ironica dall’altro capo del telefono le strappò un sorriso.
            «Forse sarebbe stato meglio»
            «Qual è il problema, Gracie? – ci fu un attimo di silenzio, -non è da te rimuginare così tanto sulle cose. I notiziari sono affidabili tanto quanto la mia vecchia Colt 1911 che non spara un colpo dagli anni settanta. Sono vecchio ma non stupido, ragazza mia»
            «Mi hanno chiesto di riprendere servizio» il silenzio cadde da entrambe le parti dopo che Sophia sputò fuori quelle parole senza neanche pensarci su un attimo.
            «Non posso darti molti dettagli, specialmente al telefono, ma è una cosa particolare… me l’hanno chiesto quasi due mesi fa dopo… dopo il disastro in quella città del Nevada. Anche Myers e Jax sono qui»
            «Ti sei pentita?»
            «Cosa?» Sophia era confusa.
            «Ti senti pentita di non essere rimasta qui a fare la muffa col tuo vecchio nonno?»
Quella domanda la colse alla sprovvista, quando in quasi un mese e mezzo non aveva mai pensato a come si sarebbe sentita se avesse preso l’altra alternativa: come si sarebbe sentita se non avesse seguito Ironhide, conosciuto gli Autobot… perso così tanto di sé ma guadagnato altrettanto. La perdita era stata enorme e anche se lo nascondeva bene, faticava ancora immensamente ad accettare tutto quel cambiamento improvviso che stava avvenendo attorno a lei, eppure, ora c’era qualcosa per cui valeva la pena andare avanti.
            Non c’era più solamente la prospettiva di sopravvivere un altro giorno in una vita da civile in cui non riusciva più ad immedesimarsi, in quel momento era scattata una scintilla che aveva provocato l’incendio che le aveva svoltato la vita, che l’aveva costretta in una nuova, improvvisa direzione. Per una volta muoversi avventatamente le aveva portato qualcosa di buono in quella vita che non aveva più uno scopo preciso.
Accennò un piccolo sorriso quando abbassò la testa, sconfitta, lasciando che le ciocche di capelli ramati le coprissero gli occhi leggermente lucidi.
            «No. Probabilmente non avresti sentito la mia voce in questo momento se non me ne fossi andata dal Wisconsin»
            «Gracie…»
            «Grazie nonno, di tutto – tagliò improvvisamente corto Sophia tentando di troncare quella chiamata, improvvisamente indisposta ad approfondire l’argomento, -probabilmente dovrò spostarmi entro il fine settimana ma ti richiamo appena ne ho la possibilità» troncò la chiamata senza aspettare una risposta e con un gesto stizzito sbatté il pugno sul tavolo con un rumore secco.
            «Non hai ancora dato una risposta a Lennox?» domandò Ironhide tramite gli speaker della sua forma alterata.
Sophia scosse la testa senza aggiungere altro, sapendo come l’Autobot l’avesse vista lo stesso. Era stesa tra i due sedili anteriori dell’enorme pickup nero, le gambe allungate e la schiena poggiata contro la portiera del guidatore mentre col naso all’insù fissava distrattamente il cielo notturno, lontani dall’inquinamento luminoso della città.
            «Non sei costretta ad accettare se le condizioni che ti hanno imposto non ti piacciono» commentò semplicemente la radio sapendo di toccare un tasto dolente.
            «Pensi che il problema sia accettare? Non mi interessa nulla di essere seguita da uno di quegli strizzacervelli, se li fa sentire più al sicuro che facciano pure – sbuffò Sophia con irritazione, -Di quello non mi interessa nulla… ma non capisco quale aiuto posso dare in queste condizioni» parlò poi a voce più bassa, portando le ginocchia al petto e stringendosi leggermente in sé stessa.
            «Lo sai che...»
            «Non metterti anche tu a dire quelle stronzate di circostanza! Non possono essere un soldato senza un fottuto braccio e loro lo sanno… saresti incazzato anche tu se non avessi più i tuoi cannoni, ‘Hide» lo zittì con rabbia Sophia battendo leggermente la testa contro il vetro del finestrino e lasciando che il silenzio calasse tra i due.
Non era sua intenzione essere così dura ei confronti dell’Autobot ma era veramente esasperata dalle continue occhiate che alcuni soldati le rivolgevano come se la sua presenza lì non fosse altro che un peso, anche se a detta del Capitano Lennox molti di loro non avrebbero avuto possibilità in uno scontro a mani nude con Sophia anche se menomata di un braccio. Lui l’aveva vista in azione e il coraggio e la testardaggine erano due cose che di certo non le mancavano, ed era segretamente sicuro che avrebbe trovato il suo posto in quel nuovo progetto.
            Nonostante le temperature iniziavano ad alzarsi anche di notte, l’interno dell’abitacolo si scaldò impercettibilmente senza risultare soffocante. Un sospiro lasciò le labbra di Sophia che poggiò la fronte sulle ginocchia e lasciando che il silenzio tra lei e Ironhide proseguisse ancora un po’, accennando un sorriso nel sentire anche il sedile su cui era seduta scaldarsi appena.
            Erano ancora le tre del mattino e di andare a dormire Sophia non ne voleva sapere, il sonno era passato da un pezzo e tornare indietro gli sembrata inutile sapendo che avrebbe finito solo per rigirarsi senza una fine tra le lenzuola. I due avevano lasciato da parte la questione Lennox dopo il piccolo sfogo di Sophia che aveva fatto ben intendere come quello non era il momento né il modo giusto di affrontare l’argomento.
            «Perché perdete tutto questo tempo dietro a attività così senza alcuna logica?»
Sophia sospirò tentando nuovamente di spiegare per l’ennesima volta il motivo per cui gli umani tenevano tanto a festeggiare, «Me lo chiedi ogni volta, ‘Hide. La vita di un essere umano è così facile da spegnere… queste cose anche se non hanno senso ci danno speranza. Sono quei pochi momenti in cui nessuno pensa alle cose negative e riesce per un po’ a sperare che ci sia un lieto fine»
            I due erano fuori l’hangar, a meno di un giorno dalla partenza per Diego Garcia nella nuova base per il NEST e la notte era l’unico momento della giornata in cui non si rischiava di morire dal caldo che l’inizio estate nel Nevada sembrava tenere in serbo per tutti loro. La maggior parte del personale umano era già a riposo e anche gran parte degli Autobot ne stava approfittando per ricaricarsi un po’ di più rispetto al solito.
            Sophia era stesa sul cofano del Topkick, dopo non poche difficoltà a salirci sopra, e con la testa all’insù osservava assente il cielo pieno di stelle. Ironhide le aveva indicato alcune costellazioni che gli Autobot avevano attraversato nel viaggio verso la Terra ma l’astronomia non era mai stata il suo forte anche se non disdegnava serate tranquille come quella.
            «Continua a non avere una logica…- borbottò Ironhide, - come la vostra assurda abitudine di festeggiare così rumorosamente il giorno della vostra nascita»
L’Autobot fu zittito da un colpo sul cofano che lo fece protestare in un insieme sconclusionato di insulti in cybertroniano fatti di click metallici e rumori irriproducibili di cui Sophia colse a malapena qualche significato.
            «Abbiamo a malapena ottanta compleanni da festeggiare e voi chissà quanto più a lungo vivete rispetto a noi. E poi… è un modo per stare insieme alla famiglia»
            «Sei sicura della tua scelta, piccoletta?»
            «Mio padre ha il cuore debole e l’hanno congedato proprio per la possibilità che gli prenda un infarto se ha uno stress eccessivo… Non credo che possa fargli alcun bene venirlo a sapere» rispose secca Sophia stringendo il ponte del naso.
Ironhide emise un piccolo verso di assenso, avendo incontrato solo una volta il padre di Sophia ma intuendo immediatamente la somiglianza tra i due, non solo fisica ma anche caratteriale. Se John Alder aveva anche solo la metà del carattere e dell’intelligenza della figlia, i due erano veramente una coppia tagliata per quel mestiere.
            In carenza di parecchie ore di sonno, a meno di diciotto ore dalla partenza per Diego Garcia Sophia aveva deciso. Braccio o no, invalida o meno e anche se con tutte le ferite psicologiche che ancora sanguinavano copiosamente, sarebbe andata. Il mero bisogno di riprendere servizio non era solo per la disciplina impartitale da quando aveva deciso di arruolarsi da adolescente, lì aveva ritrovato un motivo per continuare a vivere; un motivo per continuare a combattere la stessa guerra che ogni giorno la teneva in bilico da quasi due anni dal punto di non ritorno, prima di compiere la follia e mettere fine a tutto.
            Quella che aveva trovato era quanto di più simile ad una seconda famiglia, la capacità di empatia era una cosa straordinariamente intrinseca in quelle creature aliene e non avrebbe permesso loro di perdere altri compagni e amici finché avesse avuto fiato in corpo. Patire quello che lei stava soffrendo ogni giorno non doveva essere augurato a nessuno e avrebbe volentieri rimesso la vita per quelli che non erano solo compagni di squadra e commilitoni.
Erano amici, erano una famiglia.

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