Aspettando mio fratello

di JSGilmore
(/viewuser.php?uid=1198472)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Chapter 1 ***
Capitolo 3: *** Chapter 2 ***
Capitolo 4: *** Chapter 3 ***
Capitolo 5: *** Chapter 4 ***
Capitolo 6: *** Chapter 5 ***
Capitolo 7: *** Chapter 6 ***
Capitolo 8: *** Chapter 7 ***
Capitolo 9: *** Chapter 8 ***
Capitolo 10: *** Chapter 9 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


font-corsivi  DISCLAIMER
Questa storia è un racconto che affronta una tematica delicata, ovvero l'incesto tra fratello e sorella.
Il racconto non ha l'obiettivo né di condannare né di glorificare una storia tra consanguinei, semplicemente vuole esplorare una tematica controversa nel modo più delicato possibile e mettere alla luce delle problematiche che nella nostra società vengono costantemente sepolte.
Non è ispirato a fatti realmente accaduti, non vuole giustificare chi intraprende certi tipi di relazione.
Sconsiglio la lettura a un pubblico molto giovane. Il rating arancione è solo per la delicatezza del tema trattato,
Spero gradirete la lettura <3





Prologo


La porta del mio studio si spalanca. Eppure, c'era un cartello gigante appeso alla maniglia con su scritto please do not disturb.

«Dottoressa Davies», dice Simone e il suo viso è tremante e grassoccio, «C’è suo fratello al telefono, che faccio?»

Ho un piccolo mancamento.

Simone è la segretaria dello studio in cui lavoro, uno di quelli attrezzati che ha anche i bagni con le docce e gli accappatoi di spugna, ma un fastidioso via vai.

Chiudo il manuale di psicoterapia che sto studiando per un corso di aggiornamento e le sorrido.

Oggi è una giornata di abrogazioni: in mattinata sono venuti a trovarmi mamma e papà nel mio appartamento vicino alla fermata di King’s Cross.

Mamma e papà: qualsiasi significato questo binomio contenga, non smetterà mai di stupirmi l’approssimazione che alcune parole conferiscono a certi rapporti.

Ho concesso loro di venirmi a trovare solo perché ho rinnovato da poco la tappezzeria. Mamma non ha fatto altro che snervanti considerazioni sulla realtà multietnica di Londra e sul sovrapprezzo sulle tazze di tè. Mio padre, invece, non smetteva di ripetere: «Ben fatto, Mel, ben fatto»

Ma ben fatto cosa, esattamente? Ben fatto per la mia laurea in psicologia, e per il mio dottorato? Ben fatto perché ho un lavoro stabile che mi permette di pagare il bollo dell’auto e la donna delle pulizie, mentre posso rimanere seduta con i piedi sul tavolino di vetro mentre sbuccio arachidi?

«Digli che ci vediamo questa sera, e che se ha cose importanti da dirmi può scrivermi un messaggio»

Simone è interdetta, la sua faccia carnosa sembra uno di quei ritratti di Botticelli e mi impegno con tutta me stessa per non immaginarla nuda. «Ma, dottoressa, dice che vuole parlare con lei a voce assolutamente!»

Guardo l’orologio appeso sulla parete e constato che sono quasi le sei, tra dieci minuti stacco e posso chiamarlo direttamente al cellulare: qui mi sento spiata. Dai colleghi, da Simone, dai pazienti.

«Cosa c’è di tanto urgente?»

Simone non sa come dirmelo. «È per la cena di questa sera, dice che vuole cucinare lui, perché lei, dottoressa, è un po’ pasticciona. Ma voleva prima chiederglielo…»

«Dagli pure il via libera.»

Simone arrossisce. «Dottoressa, nemmeno io so cucinare, le confesso.»

«Grazie, Simone. Quando esci chiudi la porta, per favore.»

Fa come le ho chiesto e inspiro forte.

Il mio lavoro mi piace, mi dà soddisfazione e mi chiedo spesso se lo sto facendo nel modo giusto. Ogni psicoterapeuta ha una sua concezione della realtà che si basa sull’investimento della propria. Il mio vissuto privato è coerente con l’idea professionale che ho, e che faccio in modo che abbiano anche i mei pazienti, sul percorso di cura.

Non ci sono buchi neri nel mio passato. Non ci sono traumi infantili che mi hanno compromesso il normale funzionamento cognitivo comportamentale.

Nonostante abbia amato mio fratello.

Nella libreria del mio studio conservo ancora la copia del libro L’amante, di Marguerite Duras che Daniel mi ha spedito l’anno scorso, quando ero in Francia. All’interno c’è una dedica che ho letto migliaia di volte:

Alla mia sorellina Melinda,
spero che Marsiglia non sia più caotica di come la ricordo,
ma non farebbe una grande differenza, quella città è un cuore che pulsa.
Ti invio questo libro, come fece una ragazza di poco più di vent’anni con me: una ragazza di una fragilità, fermezza e profondità che le ho sempre invidiato.
Con gli anni, Melinda, sei riuscita a sciogliere quella fragilità ma rimani ancora sognatrice, con l’idea di cambiare il mondo, e questo non lo perdere mai!
Neanche se stai viaggiando su un camper in una circonvallazione di periferia!
Tu puoi fare tutto!
Perciò, ti prego, rimani come sei.
Tuo per sempre, Daniel.


Con queste parole nella testa, prendo il cappotto e mi arrotolo la sciarpa al collo. Questa sera ho una cena importante e non posso fare tardi per nessuna ragione al mondo. Prima di arrivare a casa, però, voglio raccontarvi una storia. La storia di come io e mio fratello ci siamo innamorati, e di come tutto ebbe inizio, a Mason Street.


Note
Carissimi lettori, ecco il prologo di questa storia. Vi piace?
Fatemelo sapere con una recensione, dai su su che è GRATIS
Con tanto affetto, JSGilmore

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Chapter 1 ***


Chapter 1 : Somewhere Only We Know



Mason Street era una via orrenda: i cani urinavano sui muri di calce e mattoni e l’alone delle loro putride scorie rimaneva lì per settimane. I secchi della spazzatura non venivano mai svuotati e i cartoni del latte gocciolavano sull’asfalto. Nemmeno i gatti randagi più spelacchiati avevano il coraggio di ficcarvi i baffi per dare la caccia ai topi di fogna.

Benvenuti a Brixton.

È proprio qui che vivevo io, insieme alla mia famiglia. La casa mi piaceva, era l’unico villino con un po’ di verde. Le staccionate andavano riverniciate e il cancello di ferro era arrugginito, però la mia camera era bellissima: c’era un letto a castello rosa con le tendine e la scaletta.
Non lo potevo condividere con nessuno, comunque, perché l’unico fratello che avevo era più grande di me di sette anni.

Si chiamava Daniel e, oltre a essere molto grosso per entrare in quel lettino, era anche un grosso mascalzone.

Quando avevo all’incirca sei anni, riceveva cospicue mance dai nostri genitori per assicurarsi che non rimanessi fulminata con i cavi elettrici; o soffocata con il filo del phon; o dissanguata nella vasca; o ustionata in cucina. Potrei continuare.

I suoi coetanei, quelli che non spacciavano cocaina, erano in sala giochi o in qualche pub infossato agli angoli delle strade a giocare a biliardo o ad approcciare belle ragazze; ero abbastanza grande da giustificare in questo modo la noia mortale che lo assaliva mentre giocava alle barbie insieme alla sua caccolosa sorella minore, Melinda. Cioè, me.

Ben presto si rese conto del fatto che condividevamo molte più cose di quelle che si sarebbe aspettato; ai miei undici anni andammo insieme a vedere una partita di calcio seguita da un’avida abbuffata di popcorn; quel Natale mi regalò la divisa del Chelsea e mi insegnò a maneggiare un joystick.

Aveva capito che fossi una tipa sveglia e intelligente, in realtà. Infatti, la nuova valuta del suo babysitteraggio si trasformò nel mio assoluto silenzio circa le sue compagnie e l’erba che girava per casa. Ogni tanto veniva a trovarlo un suo amico, un certo Lennox, che aveva sempre un’aria trasandata e uno spinello nella tasca anteriore dei jeans.

I nostri genitori erano entrambi ufficiali giudiziari e questo riusciva a spiegare diverse cose: il quartiere degradato in cui abitavamo e il fatto che erano sempre fuori casa. Perciò, mio fratello era libero di occupare il divano tutti i pomeriggi con i suoi amici e fumare quanti spinelli voleva se io non avessi fatto la spia.

Ero arrivata alla conclusione che sarebbe stato più gratificante per i nostri genitori sapere che i loro bambini andavano d’amore e d’accordo, anche se questo avrebbe comportato l’omissione di qualche suo errore di gioventù; comunque, non smettevo di tenerlo d’occhio sulla storia del fumo, sperando che non fosse un soggetto incline alla dipendenza. Quando avevo guardato il film Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino ne ero rimasta talmente sconvolta che lo controllavo a vista.

Per ricompensarmi del mio silenzio, in un pomeriggio grigio, Daniel mi regalò un gattino dal muso schiacciato e dalle unghie belle affilate; incredula, gli saltai al collo, provando per lui qualcosa di nuovo: gli volevo bene davvero, al mio fratellone. Il gatto lo chiamai Bruce.

Da quel momento, le cose iniziarono a ingranare tra di noi: mi accompagnava sempre a scuola e mi veniva sempre anche a riprendere, rendendomi protagonista delle invidiose occhiate delle altre ragazze; mi riscaldava il pranzo e si assicurava che lo mangiassi prima che mi perdessi in chiacchiere, mi leggeva romanzi interessanti come Le avventure di Tom Sawyer.

Era diventato molto più che un fratello, lui era il mio migliore amico, il mio porto sicuro quando litigavo con mamma e papà o con qualche bulletto a scuola. A lui mi ero persino rivolta durante il primo dissanguamento, quello per cui le nonne iniziano a chiamarti signorina, e mi spiegò cosa fossero gli assorbenti meglio di qualsiasi mamma, o di qualsiasi commessa al supermercato.

Quel triste e sanguinoso giorno segnò l’inevitabile fine della mia promettente carriera come boyscout, e questo fu forse l’unico privilegio che guadagnai dal diventare adolescente: il campeggio, le bacche selvatiche e gli scoiattoli non sono come li raccontano nei film, e il più delle volte ero stata costretta a dividere il mio piumone con Barry L’Acchiappa Piselli. Si diceva che, durante la notte, Barry andasse in giro tra le tende a cercare piselli dentro le mutandine di altri ragazzi. Io sostenevo, con tutta la diplomazia di cui ero capace, che li stava cercando nel posto sbagliato perché lo sanno tutti che quei piccoli, tondi, legumi verdi vengono coltivati nella terra e non dentro le tende da campeggio.

L’inizio della mia pubertà fece tragicamente insorgere qualche complicazione collaterale: l’isteria, il disturbo ossessivo compulsivo, un serio disturbo post traumatico da stress per aver realizzato di avere la faccia lucida quando mi dimenticavo di lavarla, due peli sotto l'ascella sinistra e tre sulla destra.

I miei genitori mi trattavano come se fossi una specie di indemoniata e mio fratello un santo sceso dal cielo, perché si occupava di me costantemente, senza lamentarsi mai. A dire il vero, Daniel mi sopportava a stento, ma si tratteneva dal farmi notare che i miei sbalzi d’umore fossero un po’ eccessivi per preservare il segreto di stato sui traffici illegali nel salotto di casa.

Mio fratello era un tipo introverso, ma riscuoteva un enorme successo con le ragazze e ognuna di loro, seppur passivamente, si era trovata almeno in un’occasione a subire il suo fascino. In un’ottica femminile, il suo amore per i romanzi, la sua natura solitaria, sensibile e irrisolta sulla maggior parte delle questioni esistenziali suscitavano masochistica concupiscenza, anche se l’elemento che scatenava il fanatismo nei confronti di mio fratello era il suo aspetto esteriore: occhi verdi, capelli lisci e lunghi fino alle spalle come se fosse il batterista di qualche rock band o un figlio dei fiori, mascella squadrata, labbra languide e aria da fattone.

Prima dei diciannove anni, comunque, non comprese il concreto giovamento che poteva trarre dal genere femminile, perché troppo occupato a sballarsi con l’unico amico che si ritrovava o a consumare letteratura russa. La prima ragazza che portò a casa risale al suo primo anno di università e somigliava in un modo incredibile a Mia Wallace di Pulp Fiction: stesso carré lucido e nero, stesso sguardo omicida, stesso fisico slanciato.

Si rifugiarono in camera di Daniel e fecero un gran casino: io leggevo un fumetto e ascoltavo la musica con le cuffiette, languendo nella beata ignoranza di quanto stesse accadendo sul suo letto.

Avevo soltanto dodici anni e non potevo avere idea di quanto un rapporto potesse nascondere una natura profondamente peccaminosa; il mio spirito guida, a quei tempi, era Avril Lavigne e la sua canzone Complicated era tutto ciò che conoscevo sull’amore tra un uomo e una donna.

La scioccante rivelazione arrivò nel modo in cui, negli anni successivi, fecero seguito tutte le altre: eravamo a tavola con i nostri genitori e mi lasciai sfuggire la visita che Daniel aveva ricevuto da Mia Wallace.

Mio padre osservò Daniel con interesse. «Se ti servono dei preservativi puoi trovarli nel mio comodino»

«Caro, non quando c’è la bambina!», lo rimproverò mia madre, ma ormai il danno era stato fatto.

Preservativo. Quella parolina aveva un suono così volgare e animalesco da essere quasi onomatopeico e non v’erano dubbi a cosa vi facesse riferimento: a un’altra espressione, anzi a un atto, sconcio e inaudito, di cui avevo appreso gli spiacevoli sviluppi meccanici a scuola, mentre un mio compagno di classe cercava di riprodursi con il banco- il sesso.

In quel momento realizzai che mio fratello, il bambino con cui avevo giocato ai lego, ai geomag, con cui avevo costruito solidi castelli di fango e che mi aveva insegnato a tirare le punizioni alla Drogba, era un individuo con bisogni sessuali, i quali, ovviamente, non avrebbero mai potuto riguardare me.

Cominciò a mettermi da parte e a trattarmi, per la prima volta nella storia del nostro rapporto, come una bambina. Iniziò a fare cose che non aveva mai fatto: arruffarmi i capelli quando passava in cucina mentre io, per esempio, stavo finendo di fare colazione; oppure, riservarmi risatine di sufficienza quando a tavola raccontavo della mia giornata di scuola; poi cambiava puntualmente argomento e intavolava discussioni politiche con mamma e papà, ignorandomi deliberatamente. Parlava di cose come il Trattato di Lisbona, generando uno scambio di opinioni acceso, che mi fece dedurre che fossero questioni da adulti, di quelle in cui non fosse ben chiaro da che parte schierarsi: insomma, almeno durante la seconda guerra mondiale si sapeva chi erano i cattivi!

Stava diventando un uomo, e io non potevo fare nulla per fermare questo processo inarrestabile e rapido che mi scorreva sotto gli occhi: la distanza tra noi due si fece immensa. Quasi ogni settimana mi presentava una ragazza nuova e la prassi la conoscevo a memoria:

Ciao Mel, ti presento Samantha, Fiona, Ingrid, Briony, Tami, noi andiamo di là tu fai i compiti prima che tornino mamma e papà.

Non mi interessava, a dodici o tredici anni, cosa combinasse mio fratello nella sua stanza con Samantha, Fiona, Ingrid, Briony o Tami; il punto era che mi dispiaceva che non avessimo più tempo per noi. Un giorno glielo dissi, e il discorso finì con me che facevo l’isterica per la mancanza di considerazione ricevuta nell’ultimo anno.

Perciò, a scopi esclusivamente terapeutici, i pomeriggi successivi mi portò in un negozio di CD molto fornito, vicino casa. Passammo ore a impataccare con le impronte digitali la plastica che ricopriva i dischi delle nostre band preferite, Linkin Park su tutti, e io scoprii, piuttosto casualmente, l’amore incondizionato che provavo per i Keane e per il frontman della band, Tom Chaplin.

Quei capelli lisci che gli ricadevano sugli occhi, quel rossore lieve che gli tinteggiava le guance mentre cantava mi facevano ribollire dentro sentimenti ambivalenti e, ogni volta che lo guardavo, mi assaliva una sensazione di seducente sconforto: era delizioso e struggente desiderare qualcosa che non si può avere.

Non superai mai la mia prima cotta, ovvero Tom Chaplin, ma uno di quei giorni venni a conoscenza che presto sarebbe uscito il loro documentario, girato durante il prossimo tour in Europa. Ero al settimo cielo: quel documentario era, d’un tratto, ciò che avevo da sempre desiderato. Non solo, sarebbe anche uscito il mese del mio quattordicesimo compleanno, a settembre, e questo si poteva chiamare soltanto in un modo: destino.


Note
Cosa ne pensate di questo primo capitolo?
Fatemelo sapere con una recensione, mi raccomando, che è GRATISS !

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Chapter 2 ***


Chapter 2: Festa di Compleanno



Era da una settimana che mia madre insisteva per infliggermi quella festa di compleanno, nonostante le circostanze fossero avverse, a causa di due principali fattori.

Primo, sebbene fossi stata obbligata a invitare tutti i miei compagni di classe, non sarebbe venuto nessuno eccetto le due migliori amiche e mio fratello Daniel, che aveva promesso che avrebbe “badato a me” per l’unica e commiserante ragione che condividevamo lo stesso tetto.

Secondo, non ero brava a fare conversazione, soprattutto quando mi ritrovavo al centro dell’attenzione: la socialità mi rendeva nervosa.

Eppure, mia madre si intestardì, sostenendo che i miei quattordici anni fossero una tappa importante e soprattutto critica: forse è per questo che sarebbe rimasta a lavoro per tutto il pomeriggio.

Quella mattina mi aveva lasciato un biglietto di auguri appeso al frigo con un magnete a forma di fetta di torta e le candeline sul tavolo in salotto, insieme a fischietti con il ricciolo che si distende al soffio.

Ma, malgrado tutto, le mie aspettative si erano realizzate perché avevo ricevuto il regalo che desideravo. Il documentario musicale dei Keane.

L’euforia che avevo provato scartando il DVD era durata per tutta la mattina ma puntualmente sparì quando mi guardai allo specchio. Ero scheletrica; avevo messo il push up ma non era servito; se fossi uscita con quelle calze a rete mi avrebbero scambiata per una baby-squillo; il rossetto rosso straripava dai contorni delle labbra; i fianchi erano ossuti e ripugnanti.

Avevo quattordici anni da quella mattina ma ne dimostravo a stento dodici. Scaraventai la spazzola piena di capelli rossicci nella cesta dei panni sporchi e lanciai un grido feroce. Uno di quelli arrabbiati, dolorosi, stanchi e supplicanti.

Daniel fece capolino nella mia stanza. «Mel!», i suoi occhi verdi erano più cupi del solito e la sua barba incolta non era stata rasata da un po’ di giorni, «Che ti prende?»

«Mi vedi?», gli domandai con uno sconforto che non lasciava spazio alle interpretazioni, «Vedi come sono ridotta?»

Daniel rise divertito. «Mamma e papà sono rientrati?»

«No», replicai spazientita, «Vuoi che gli mando un messaggio per sapere a che ora rientrano così puoi scopare con la tua amichetta?»

Nella stanza di mio fratello c’era Madison, una tipa che frequentava da poco più di una settimana e che si era già portato in camera, proprio come aveva fatto con le precedenti. Insomma, il fatto che mio fratello se la spassasse con sconosciute per me non era una ventata di novità.

Madison, però, era biondissima e aveva quel guizzo sulle labbra turgide che focalizzava gli sguardi dei maschietti; per non parlare delle gambe toniche: la rotondità del suo polpaccio culminava in una caviglia sottile e aggraziata.

Mio fratello mi guardò con un’espressione colma di dissenso. «Attenta a come parli di Madison»

Madison e io avevamo consacrato l’antipatia reciproca al primo sguardo; lei mi aveva rivolto una misera occhiata di sufficienza quando mio fratello ci aveva presentate, come per dire: Guarda cosa tocca fare per rimorchiare un bel figo.

Perché mio fratello era, sostanzialmente, un figo: aveva un fisico asciutto che curava regolarmente in palestra, aveva i capelli lisci castano chiaro con qualche riflesso tendente al biondo e le sopracciglia abbastanza folte da assicurargli l’aria del bel tenebroso. Persino le ombre scure che aveva sotto gli occhi, distintivo d’onore di tutte le serate passate a giocare a strip poker, bere e fumare sigarette nei pub con quell’idiota del suo amico Lennox, gli conferivano fascino. (Già, fascino: che parola antiquata).

Però io lo sapevo, che in realtà era tonto. Qualsiasi cosa avesse avuto da dire al riguardo Lennox, portarsi a letto tante ragazze non serve a nulla se poi non sai riconoscere in quale si cela la vipera.

«Comunque non mi importa niente di quello che fate», borbottai inalberando un’espressione di appassionato disgusto.

In realtà mentivo. Mi importava eccome: ero gelosa che mio fratello si fosse interessato a un’altra ragazza che non fossi io. Non che fosse la prima volta, ma con quella Madison sembrava che le cose fossero più serie: il modo in cui le parlava, con gli occhi fissi sulle sue labbra e sulle sue espressioni da mentecatta, facevano presagire una sorta di affiatamento che mi faceva venire la nausea.

Quello, poi, era il giorno del mio quattordicesimo compleanno e, anziché accentrare tutte le sue attenzioni su di me, aveva deciso di barricarsi in camera sua per trastullarsi con la gnocca compagna d’università.

Uno sfregio.

«Non fate casino tu e le altre» disse poi mio fratello con il solito tono minaccioso che quel giorno aveva deciso di usare contro di me, «io e Maddy dobbiamo studiare.»

Maddy.

Uscì, chiudendosi la porta alle spalle.

Le ragazze che avevo invitato per festeggiare il mio compleanno, le mie migliori amiche, arrivarono con un’ora di ritardo; le patatine che avevo comprato le avevano quasi finite mio fratello e la sua smorfiosetta; avevo anche tirato fuori della pizza da scongelare di quelle già preparate nel caso ci fosse venuta fame ma sapevo che, tanto, Elizabeth e Giselle non mangiavano carboidrati dopo le cinque.

La sala era tutta per noi e collegai un lettore DVD e per mostrarlo alle mie amiche, inserii il documentario musicale. Indossammo quei ridicoli cappellini a cilindro che usano gli animatori alle tristi feste dei bambini e le mie amiche provarono i fischietti, con un po’ di disgusto.

Presi il telecomando e accesi al massimo volume, in modo che tutto il Regno Unito avesse potuto sentirci, avviai il documentario dei Keane e ci godemmo lo spettacolo per un’eternità di dieci minuti. Poi, furioso in volto come non lo avevo mai visto, mio fratello si scaraventò giù per le scale, attraversò imbestialito il salone e spense la televisione.

Lo guardai incredula e sbigottita. Anche lui mi guardava: un viscerale risentimento gli deturpava il volto.

«Che c’è?» lo incalzai dopo un po’.

«Cosa ti avevo detto sul rumore?», lo sguardo di Daniel dardeggiava rimproveri.

Incrociai le braccia e misi il broncio. Era il mio compleanno e Daniel se lo stava deliberatamente perdendo; avrei potuto mettermi a piangere per supplicarlo affinché lo festeggiasse insieme a me ma il mio orgoglio era oltremodo smisurato per permettermi di implorare qualcuno. Specialmente se questo qualcuno era mio fratello. Corsi verso la televisione e la riaccesi dal pulsante incorporato.

Daniel mi osservò allibito e puntò nuovamente il telecomando verso la tivù. L’aggeggio si spense immediatamente.

«Dico sul serio», fece Daniel senza abbassare il braccio, «o abbassi il volume di questa televisione del cazzo, oppure…»

«Oppure?» lo sollecitai con un sorrisetto trionfante: non aveva molto materiale per minacciarmi; al contrario suo, ero sempre stata una figlia modello.

Daniel era furioso. «Sei proprio una bisbetica del cavolo! Di là dobbiamo studiare, abbiamo un esame tra pochi giorni!»

«Un esame», ripetei con una vocina allusiva, «Sei proprio sicuro che avete un esame? Secondo me, invece, state solo scopando! Ma vuoi finirla, o no, di fare il maniaco con ogni ragazza che ti trovi?»

Daniel mi fissava con gli occhi ridotti a una fessura: non lo avevo mai visto in difficoltà come in quel momento. Le sue labbra furono attraversate da un fremito. Stava per dire qualcosa, ma ci ripensò. In un impeto di gloriosa rabbia si accucciò verso il mobiletto che sorreggeva la tele, staccò il lettore, si rialzò, lo abbracciò per qualche secondo, il tempo di caricare le gambe, e poi lo scaraventò a terra.

Rimasi a fissare l’aggeggio che giaceva rotto sul tappeto, cercando di trattenere le lacrime. Non potevo credere che avesse fatto una cosa del genere.

Ma non finì lì. Daniel estrasse il dischetto dei Keane e ruppe anche quello, con la sola forza bruta delle dita. Mi sentii morire. Il mio DVD, il primo grande desiderio che si era avverato proprio quella mattina… Non capivo la ragione di tutta quella meschinità nei miei confronti. Un’affermazione più volgare del solito non bastava a giustificare tutto quell’astio.

Erano settimane che Daniel faceva lo strano con me. Come se l’inizio della scuola non fosse stata una punizione sufficiente. Mi evitava, si chiudeva in camera, non mi faceva più il gioco del solletico. Da quando aveva conosciuto Maddy era diventato un’altra persona e questo, ai miei occhi, lo rendeva un ragazzo disgustosamente manipolabile e debole.

«Aspetta che stasera lo racconto a mamma e papà!», gridai in lacrime. Se lo avessero saputo, si sarebbero di sicuro adirati per il comportamento di Daniel.

«Sei proprio sicura di volergli raccontare del motivo per cui l’ho fatto?», disse aggrottando la fronte; il motivo per cui l’aveva fatto stava scendendo le scale come se avesse una scopa nel didietro. I pantaloni a vita bassa facevano intravedere un lucente piercing sull’ombelico che non riuscivo a smettere di fissare. Ai ragazzi come mio fratello bastava fargli dondolare davanti agli occhi qualcosa che brilla per fargli perdere la bussola, e dentro di me pensai che lei fosse proprio quello: qualcosa che brilla.

«Forse è meglio che io vada», sussurrò Madison sfiorando il golfino di mio fratello con le sue manine fatate.

Il mostriciattolo della gelosia urlò nella mia pancia. «Sì, è decisamente meglio se porti il tuo sedere fuori da casa mia!» urlai con un’acidità che catalizzò gli occhi di tutti presenti su di me.

Madison mi guardava imperterrita senza muovere le palpebre e sembrava più un cerbiatto curioso che una vipera senza scrupoli. Si stava di sicuro chiedendo se fossi pazza. Gli occhi di Daniel si svuotarono e, sconsolato, posò la sua grande mano sulla schiena di Madison, mormorandole: «Ti riaccompagno io a casa, non voglio che prendi i mezzi a quest’ora». Poi si rivolse a me, con una rabbia incontenibile. «Sei da trattamento psichiatrico obbligatorio, Melinda!»

«E tu sei un depravato erotomane!»

Erotomane: colui fissato esclusivamente con l’aspetto erotico dell’amore. Chissà come mi era venuta.

«Dai, non preoccuparti, è tutto a posto» sussurrò Madison per rabbonirlo, poi mi lanciò un’occhiata inespressiva. «Mel, buon compleanno comunque.»

«E tu che vuoi, civetta ficcanaso!?» gridai, con la gola secca e un sapore amaro in bocca, come se mi avessero spruzzato dello spray sulla lingua.

Daniel era scioccato, aveva scritto in fronte: Melinda è pazza, e prese Madison per mano. Rimasi a fissarli uscire dalla porta e avvertivo la compassione delle mie amiche mentre intingevo i rimasugli di patatine nella salsa barbecue.

Ero tentata di correre dietro a mio fratello per trascinarlo sul divano a forza ed obbligarlo a rimanere a casa, sennonché: 1) non avevo la forza sufficiente per trascinarlo di peso, 2) anche se l’avessi avuta non sarebbe servito a niente perché 3) era furioso con me, cosa che 4) mi faceva rimanere impalata come uno spaventapasseri al centro del salone. Quanto lo detestavo, mio fratello. E quanto ero gelosa di lui.

Note

Carissimi Lettori, se il capitolo vi è piaciuto vi invito a lasciare una recensione, ringrazio tutti quelli che hanno aggiunto la storia tra le preferite/seguite. Vi adoro!
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Chapter 3 ***


Chapter 3: Primo Appuntamento


In salotto c’era un silenzio irrespirabile: mia madre aveva gli avambracci conficcati nel legno del tavolo e puntava gli occhi su me e Daniel a turno, perplessa. Mio padre si grattava la sommità del capo, e tentava di sbirciare la televisione, ora in modalità silenziosa, perché stavano per dare il via al loro discorsetto.

Io mi sorreggevo la testa pesante con le nocche e giravo pigramente la minestra fredda. Mio fratello aveva i pugni chiusi come se non aspettasse altro che quella tortura di cena finisse.

Eravamo alle sette di sera senza esplosioni nucleari, ma negli occhi aveva l’odio e la rabbia.

Daniel e io non eravamo mai stati così ammutoliti per così tanto tempo. Gli unici rumori che udivamo erano la kappa il ronzio del frigorifero.

«Be’? Che sono quelle facce da funerale?», domandò alla fine mia madre, con voce acuta. Nessuno commentò. Così mio padre, che era un uomo tutto d’un pezzo, fece un’osservazione di un’inaspettata lungimiranza. «Sono ragazzi, tesoro, avranno bisticciato per qualche fesseria.»

Fu a quel punto che Daniel alzò lo sguardo dal suo piatto vuoto. «Oggi non sono riuscito a studiare, per colpa di Melinda. Ho l’esame di letteratura, tra qualche giorno.»

Mamma e papà mi guardarono con le labbra tese; chissà se avessero trattenuto la ramanzina il tempo sufficiente che potessi spiegarmi.

«È il mio compleanno!», dissi in fretta, «Volevo solo passarlo con mio fratello e lui, invece, mi ha distrutto la cosa più bella che avessi mai ricevuto in tutta la mia vita!»

Al solo ripensarci mi prudeva il naso e la vista mi si appannò per colpa delle lacrime che iniziarono a tracimare. I miei genitori si voltarono perplessi nella direzione di Daniel: non sfogava la sua rabbia su di mei dai tempi in cui giocavamo alle barbie, e, per dispetto, le affogava nel water causando la stizza di una sorellina minore, di due genitori un po’ troppo assenti e dell’idraulico.

«Gli avevo detto di abbassare il volume della tele ma non ha voluto ascoltarmi e, ogni volta, quella psicopatica, risponde sempre molto male a Maddy.»

Quando Daniel ci aveva presentate, dopo che Madison aveva allungato la mano affinché la stringessi, le avevo dato il benservito chiarendo la questione: «Tanto Daniel ti mollerà nel giro di una settimana come ha fatto con tutte le altre. Perciò, non prenderti il disturbo di fingere di voler fare amicizia con me.»

Gli occhi dei nostri genitori balzarono di nuovo nella mia direzione e la mamma corrugò la fronte. Se c’era una cosa che non tolleravano i miei era la maleducazione con gli ospiti. La nostra casa, ci ripetevano in continuazione, è aperta sempre a tutti.

«Melinda, dovresti chiedere scusa a tuo fratello e alla sua ragazza», disse mamma, «Su, intanto scusati con tuo fratello.»

Daniel ora aveva i tratti del volto distesi, una rigidità all’altezza delle spalle tipica di quando era in imbarazzo. Mi morsi le pellicine del labbro inferiore e mangiai sangue. «Scusa tanto Dan, se esito

«Melinda», disse severa la mamma. Pochi secondi in ritardo, papà picchiò la mano aperta sul tavolo che fece saltare l’argenteria. «Melinda.»

Le lacrime sgorgarono a fiotti incontrollabili. Ero molto arrabbiata, sia con Daniel che con i miei genitori. «Siete i soliti! Sempre con me ve la prendete! Vostro figlio ha distrutto il lettore blu-ray che costa un occhio della testa! Ma non importa che non sappia gestire la rabbia, perché è sempre colpa di Melinda, giusto?»

Papà sbiancò e fulminò Daniel. «Il mio lettore blu-ray…»

«Sono stanca!», gridai ancora, e mi alzai facendo cadere la sedia per terra. Mamma e papà mi guardarono sorpresi senza dire una parola. Non aggiunsi altro e scappai in camera mia sbattendo la porta, augurandomi che udissero quel tonfo di protesta.

I miei genitori non mi capivano. Ma certo che non mi capivano. Come potevano immaginare ciò che cominciavo a covare? Ero un misto di sensi di colpa e gelosia che camminava. Provare un attaccamento per mio fratello non era una cosa tanto strana se si andavano ad analizzare gli eventi: ero cresciuta con lui e mi ero abituata a passare il tempo con lui.

La questione diventava scabrosa se riflettevo su come avrei potuto reagire ad un suo fidanzamento ufficiale. Se lui si fosse legato a qualcun’altra sentimentalmente sarei morta. E il motivo era talmente semplice da risultarmi inquietante: provavo qualcosa per lui. Qualcosa che era sbagliato, sbagliatissimo ma che, nonostante questo, c’era.

Questa specie di presa di coscienza rese irrilevante qualsiasi forma di vittimismo. Era inutile continuare a rimuginarci. Mi addormentai con il peso della rassegnazione sul petto.

Nei giorni che seguirono, mio fratello e io non ci parlammo. Madison aveva iniziato a venire a casa nostra con una certa regolarità e io fingevo di trovarla simpatica ogni volta che parlava della manicure e dei suoi criceti. Era una di quelle ragazze che si “guardano dentro” e disdegnano i burritos in nome dell’ideologia vegana.

Per andare a scuola cominciai a prendere il pulmino (Daniel si rifiutava implicitamente di accompagnarmi, uscendo di casa all’alba) e l’autista doveva avere un accordo segreto con i meccanici per sovvenzionare le loro officine, dato che non si perdeva una buca. Io mi sedevo in fondo, per evitare di sostare nel mirino dei ragazzi seduti ai posti in mezzo che urlavano porcate o lanciavano girelle al cioccolato.

Ricavavo un certo sollievo dall’essere invisibile.

Agli ultimi posti sedeva la più ambita della scuola, Kristal Hunt, inavvicinabile da chiunque. Ogni volta arrivavo a scuola con la nausea, perché il latte della colazione mi ritornava su. Non dovevo essere un bello spettacolo per gli altri studenti, a giudicare dalle loro espressioni.

Durante la ricreazione me ne stavo in disparte, mi sedevo in cortile, sulle scale antincendio, con le cuffiette e una giacca a vento rossa. Rimpiangevo il documentario dei Keane e somigliavo a un semaforo.

Le mie migliori amiche, Elizabeth e Giselle, avevano un’idea molto precisa su come approcciare il più avvenente della scuola, Aaron Matis, e io ascoltavo attonita le loro regole su come farlo innamorare, mentre riflettevo: avevo passato tutta l’estate a guardare brutti cartoni animati e, invece, loro erano andate ai primi concerti e gli erano spuntate le tette.

«Be’? Vuoi dirmi che non ti interessa sedurre Matis?», mi provocò un giorno Giselle, intransigente, perché non stavo prestando loro attenzione. Nonostante fossi l’unica persona sulla faccia della terra da cui avrebbe tollerato una confidenza tipo che non avevo mai fatto una ceretta, (le mie amiche erano delle terroriste del sex appeal), la mia ossessione per mio fratello e per i Keane dovevano rimanere questioni private. «Vuoi scherzare? Partito Aaron Matis da qui all’eternità.»

In una mattinata tiepida di ottobre, Aaron Matis mi parlò. Lui, con i compatti ciuffi neri istruiti dalla cera, la mascella quadrata e gli occhi cerchiati da un’ombra di spossante fascino, mi parlò.

Eravamo nel bel mezzo del cortile deserto e aveva tutta l’aria del predatore: piercing al sopracciglio, labbra splendenti di burrocacao, occhi affilati e seducenti. Il pomo d’adamo gli oscillò lungo il collo bianco e solido. Il suo sorriso si fece asimmetrico e un luccichio sornione guizzò tra i suoi occhi neri. «Be’ perché mi fissi?»

Mi tolsi le cuffiette esibendo un’espressione confusa. In realtà, l’iPod che impugnavo tra le mani era spento. La risata sospettosa con cui mi rispose fu poco più che uno sbuffo.

«Non ti fissavo» dissi, e le sue palpebre si socchiusero aspirando con gusto il fumo della sigaretta; la collana d’argento sul suo petto pallido e scoperto scintillò sotto i deboli raggi solari. Le sue mani erano eleganti e conducevano la sigaretta alle labbra con innata maestria.

La sua risata graffiante echeggiò nel cortile. «Ti va di andare al cinema oggi pomeriggio?»

Dopo la scuola tornai a casa con un frenetico scombussolamento; avevo raccontato a Giselle quello che era successo in cortile con Aaron e la sua mascella era colata fino al terreno; mi aveva riempito di domande alle quali avevo risposto con una detestabile sufficienza. A partire da quel momento avevo qualcosa di concreto di cui potermi vantare.

Aprii la porta di casa senza riuscire a trattenere un sorrisone; Aaron Matis; Aaron Matis.

Daniel era dedito all’ammirazione del frigorifero, anche se non c’era un granché dentro, escludendo la maionese, i cetrioli e qualche foglia vecchia di insalata.

«Tutto bene a scuola?» domandò quando scaraventai lo zaino ai piedi del divano. Aveva uno sguardo indagatore: si era già accorto di quanto fossi intimamente esuberante. «Non c’è niente in frigo, vuoi che ordino una pizza?»

Mi sdraiai sul divano a fissare il soffitto come se la Terra avesse raggiunto la pace nel mondo; o il Chelsea avesse vinto la Premier League; o Aaron Matis mi avesse chiesto di uscire. Ah, quello era successo davvero.

«Melinda, ma che ti prende?»

Daniel non mi parlava da giorni; esclusa quella volta in cui aveva definitivamente chiarito che 1) non mi avrebbe più parlato per giorni, e che 2) non avrei più ricevuto alcun aiuto da parte sua, cosa che 3) non gli avevo chiesto perché 4) non ne avevo assolutamente bisogno, a meno che 5) il suo aiuto non fosse stato quello di comprarmi un DVD nuovo.

«Non ho fame!» ruggii.

Daniel abbozzò un sorriso canzonatorio. «Tu che non hai fame?»

Se solo avesse saputo… L’anteprima di un’immagine allettante ammiccò nella mia mente: chissà come avrebbe reagito se avesse saputo del mio appuntamento con Aaron.

Assunsi l’atteggiamento impersonale che avevo utilizzato per sentirmi superiore con le amiche e raccontai: «Sai, non ho fame perché oggi il più carino della scuola mi ha chiesto di uscire»

Lo raggiunsi in cucina e lui rimase a fissare il punto del divano in cui ero seduta l’attimo precedente. Aprii il frigo ed estrassi una bottiglia di birra, la stappai. «Andiamo al cinema tra poco e mi ha anche lasciato il suo numero»

«Mamma e papà non ti daranno il permesso» disse Daniel laconico e si voltò per guardarmi.

«Mamma e papà», sottolineai con un microscopico sentimento di rivincita, «hanno già detto di sì.»

Daniel deglutì e strattonò la sedia per mettersi a tavola con me. «E chi ti accompagna?»

La risposta era semplice: «Aaron mi verrà a prendere, ha la macchina.»

Questo dettaglio gli fu chiarificatore sul fatto che Aaron non gli piacesse per niente. «Be’ non ci vai», disse e poi mi tolse la birra dalle mani con indignazione, «alla tua età non si bevono alcolici e non si esce con i ragazzi.»

Tirai un sospiro di matura comprensione. «Ti capisco, Dan, stai cercando di vendicarti per la storia di Maddy. Mi dispiace se ho fatto la stronza. Non lo farò più. Ma anche tu mi dovresti porgere le tue scuse, sai?»

Daniel tracannò la mia birra e si chiuse in camera sua.

Aaron Matis passò a prendermi con un pick-up color senape; quando scesi i gradini fuori dalla porta, aveva il braccio che penzolava lungo la fiancata dell’auto. Prima di salire su quell’attrezzo da battaglia non avevo avuto il coraggio di guardarlo. La sua mano afferrò la leva del cambio e partimmo.

Attesi con trepidazione davanti all’ingresso del cinema che Aaron comprasse i biglietti e poi entrammo. Sbirciai nella sua direzione. «Allora che ci vediamo?»

«Paranormal Activity», rispose asciutto lui, «ti va bene, no?»

«Certo, adoro gli horror.»

Il film fu uno schifo. Però, l’idea che Aaron Matis fosse affianco a me, a portata di mano, fu più rassicurante dei poster della mia band preferita in cameretta. Oppure, a essere rassicurante era sapere che Giselle ed Elizabeth avrebbero ucciso per essere al mio posto. Ero una sorta di prescelta, o qualche altra stronzata fantasy con cui spesso nutrivo la mia coscienza. Le battaglie interplanetarie nel bel mezzo della galassia mi aiutavano a non pensare allo schifo di vita che, di recente, conducevo. Scuola, casa, casa, scuola, tivù, merendine, ogni tanto compiti.

Ad un certo punto del film, Aaron allungò la mano sulla mia coscia e quel gesto fu di una prevedibilità disturbante. Se ne fregò altamente di analizzare la mia riluttanza, forse dava per scontato che avessi paura o cose del genere. I film horror erano una scusa evergreen per cercare un contatto fisico non richiesto.

Il cellulare nella mia tasca vibrò. Probabilmente erano le mie amiche, impazienti di sapere. Non avrei confessato di sicuro loro che il più avvenente della scuola mi aveva portato a vedere un film dell’orrore. Avrei optato per una commedia romantica tipo I ponti di Madison County. Oppure era mio fratello: prima che scappassi da casa mi aveva chiesto di fargli sapere se mi servisse un passaggio per il ritorno.

Quando Matis e io uscimmo dalla sala, la prima cosa che feci fu estrarre il cellulare. Era Daniel. «Ei, stai bene?» aveva scritto.

Digitai rapidamente con gli abili pollici: «A meraviglia, abbiamo appena visto un film meraviglioso e lui è così meraviglioso. Tu tutto bene?»

Aaron ed io tornammo verso il pick-up. I sedili di quell’auto erano scomodi e lui non sembrava avere nessuna intenzione di mettere in moto.

Mi guardò con una velata sfacciataggine. «Insomma, ti sei divertita?»

Divertita non era il termine che avrei utilizzato. «Il film è stato…molto intenso», in realtà non ci avevo capito molto del film.

Ero concentrata a controllare che le sue mani non si spingessero oltre il limite consentito, per il quale avrei dovuto tirargli un ceffone. Schiuse le labbra e si sollevò un sopracciglio con il pollice, sfiorandosi il piccolo piercing. «Intenso, eh?»

Mi vibrò un’altra volta la coscia. Estrassi il cellulare. Di nuovo Daniel: «Sono contento che è tutto così meraviglioso. Mamma e papà sono tornati e mi hanno chiesto dov’eri. Non avevi detto di avere il loro permesso???»

«E tu cosa gli hai spifferato?!»

Alzai gli occhi e Aaron mi fissava impassibile. «Scusa», farfugliai, «A casa mi reclamano, è quasi ora di cena.»

Aaron si sporse verso di me e nel buio di quell’abitacolo non feci in tempo a prevedere il movimento rapido che seguì: le sue labbra aderirono alle mie e non ebbi la prontezza di reagire. Lasciai che mi baciasse e mi mordesse il labbro inferiore per momenti infiniti. Tutto il mio corpo era teso e se qualcuno mi avesse vista al di fuori avrebbe pensato che fossi impaurita. In realtà non sentivo un granché, se non il fastidio di essere entrata a contatto con qualcosa di umido. Da cui volevo staccarmi il più presto possibile. Il cellulare vibrò ancora una volta a contatto con la mia gamba. Quando il bacio si interruppe fui contenta di immergermi nello schermo del mio telefonino ancora una volta.

«Ho detto che sei uscita col tuo ragazzo… Mel, sul serio, non sapevo che inventare




Note

Carissimi lettori, spero che questo capitolo vi sia piaciuto.  In tal caso, fatemelo sapere con una recensione se vi va. (Anche se non vi è piaciuto, ovviamente.)
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite. Un infinito grazie a voi, spero di essere all'altezza di voi e di questa storia.
Detto questo, alla prossima!
Con tantissimo affetto,

JSGilmore

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Chapter 4 ***


Chapter 4: Scintille



Una volta messo piede dentro casa, crollai in un pianto inconsulto. I miei genitori e Daniel erano seduti a tavola e non si mossero. Senza preoccuparmi di salutarli, corsi nella mia stanza e mi nascosi sotto le coperte.

Soffocai un grido denso di ira. Strinsi le mani a pugno finché le unghie non si conficcarono nella carne e diedi cazzotti al cuscino; ad ogni pugno mi sentivo sempre peggio. Eppure, avrei dovuto sentirmi come se Paris Hilton mi avesse appena dato una pacca sulla spalla. Avevo dato il mio primo bacio. Non solo, avevo dato il mio primo bacio ad Aaron Matis. Cosa c’era che non andava in me?

Forse il bacio con Aaron non mi aveva trasmesso niente perché ero rimasta scioccata dal film dell’orrore che mi aveva fatto vedere. Dai, ma chi volevo prendere in giro. La verità era che avevo trovato più emozionante parlare con mio fratello al cellulare anziché baciare Aaron Matis, (che, non guastava ricordarlo alla mia basculante autostima, era il ragazzo più ambito della scuola.)

La porta cigolò. «Posso, Mel?» chiese la voce melodiosa di Daniel, «ti ho portato la cena»

Mi asciugai le lacrime con i palmi e poi con gli avambracci; mi misi seduta sul letto e raccolsi il piatto che Daniel poggiò sul materasso, prima di accomodarsi sul bordo del letto. Pesce e patatine.

«Ti ha fatto qualcosa?», chiese dopo un po’ che masticavo. Nell’oscurità della mia cameretta, e dietro le tendine rosa del mio letto, non riuscivo a decifrare il suo sguardo ma sembrava profondamente turbato.

Sarebbe stato molto più facile spiegare che Aaron Matis mi avesse molestata. «No, non mi ha fatto niente»

«E allora perché ti sei disperata così?»

Non risposi. Daniel, diamine. Non c’era una volta che mi faceva la domanda sbagliata.

«Se è per via di quel DVD, ho già deciso che te lo ricomprerò»

«Davvero?»

«Ma certo», sorrise teneramente, «mi dispiace tantissimo avertelo rotto, sono stato uno stronzo.»

Tipici sensi di colpa da fratello maggiore. Masticai lentamente le patatine e lo analizzai nel disperato tentativo di trovargli qualcosa di brutto: nonostante lo sguardo stravolto da una stanchezza insolita, era più bello dell’ultima volta che lo avevo visto.

«Come va con Madison?» chiesi con la bocca piena di una poltiglia di pesce e patatine.

«Ci siamo lasciati», disse Daniel torvo, «non era il mio tipo»

«Ma era bionda!», la felicità mi invase le gambe, tutto il corpo, con una scossa inaspettata. Sapevo della passione di Daniel per le bionde dai tempi in cui guardavamo insieme Baywatch. «Cosa le hai detto per scaricarla?»

«Che non è lei il problema, sono io, le solite cose così» Accidenti, era stato delicato quanto una tisana al finocchio. Bruce balzò sulle gambe e si appallottolò sul mio grembo come se ci fosse stata qualche possibilità che gli avrei rifilato qualche pezzetto di pesce. «Che brutta persona che sei, Dan.»

Daniel sfoderò un sorriso che si smarrì nella stanza. «Non riesco proprio a trovare quella giusta» Il fatto che la sua affermazione per me fosse rassicurante non mi stupì, anche se non osai chiedergli quale fosse il motivo di tanta difficoltà. Mio fratello, al liceo, era una specie di star e praticamente chiunque desiderava avere un appuntamento con lui. All’università le cose non era cambiate. Non mi aveva mai confidato di non riuscire a trovare quella giusta. I suoi problemi si erano sempre limitati al fatto che non volesse trovare quella giusta.

«Dopo un po’ che le frequento, le ragazze sono tutte così uguali. Sembrano fatte con lo stampino. Al College sono tutte ferocemente individualiste e utilizzano il termine “brechtiano” persino per riferirsi a un hot dog.»

Annuii con ignorante ragguardevolezza. «Immagino, immagino.»

Sospirò e mi analizzò. «Non sono mai riuscito a innamorarmi, nemmeno una volta. Eppure, non sono un tipo insensibile… Certo, non sono neanche un santo! Insomma, non per fare l’edonista della situazione, ma le ragazze mi piacciono e molto.»

«Sì, eh?»

«Be’ come a tutti i maschi della mia età…», stava cercando di convincere me oppure sé stesso? «Certi piaceri non sempre vanno di pari passo con l’innamoramento, perché…sì, insomma…»

«Sì?»

Sebbene la stanza fosse buia, riuscii a intravedere che stava diventando scarlatto. «Dai, Mel, sei troppo piccola per fare certi discorsi» tagliò corto, e un boccone un po’ troppo grande mi impedì di replicare, «Il fatto è che, semplicemente, so con certezza che mi piacciono le ragazze. Però, nello stesso tempo, c’è qualcosa che mi frena.»

Bruce balzò dalle mie gambe all’improvviso e Daniel le fissò con un’impercettibile e fugace occhiata. Quando tornò a guardarmi, abbassò lentamente la testa sul mio grembo. Il mio petto subì un’istantanea decompressione e mi mancò il respiro. La testa pesante di mio fratello, i suoi capelli lisci e il profilo squadrato della sua mascella aderirono al mio ventre con un lieve sussulto. Come se fossero reperti di un prestigiosissimo museo, iniziai ad accarezzargli i capelli e lui sembrò cominciare a rilassarsi. «Con Aaron Matis non è andata molto bene», confessai in un soffio, «mi ha baciata ma non ho…provato niente.»

Daniel rimase in silenzio e il suo respiro era regolare. «Credo di avere qualcosa che non va. Magari sono asessuale.»

«Ma che dici, Mel», mio fratello soffocò una risatina, «non sei asessuale, hai solo quattordici anni e la testa un po’ confusa.»

Feci dei cerchi con i polpastrelli sulla sua cute e i suoi capelli biondicci e setosi reagirono immediatamente al mio tocco. «Su un blog che ho letto qualche giorno fa, c’era scritto che se a quattordici anni non hai ancora avuto un orgasmo è probabile che tu lo possa essere, asessuale»

«Non hai mai avuto un orgasmo?» domandò mio fratello, nel tentativo di mantenere un tono di voce neutrale, ma tradì uno sgomento che mi accoltellò la pancia. Ecco, lo sapevo, che ero una ragazzina strana ed emotivamente disturbata.

«No, mai» sussurrai nel buio.

«Non è la fine del mondo, comunque. L’importante è che qualcosa si sia smosso lì sotto, dove non batte il sole» Cosa si sarebbe dovuto smuovere, lì sotto? Mi prese il panico. Daniel era immobile e cercai di decifrare la sua espressione pensosa. L’unico ragazzo la cui sola vista era riuscita a procurarmi una fitta nello stomaco era mio fratello. Ma non credevo che questo si potesse ritenere, in qualche modo, qualcosa di sessuale. Insomma, era mio fratello.

«Non mi si è mai smosso niente» dichiarai cupa e Daniel sollevò la testa per fissarmi. Poi scoppiò in una risatina.

«Mi prendi in giro» proruppe. Scossi sensibilmente la testa e trattenni un respiro angosciante. Aggrottò la fronte e i suoi occhi verdi si addolcirono. «Per questo motivo sei a disagio con Aaron?» Alzai le spalle, mentre qualcosa iniziò a morirmi dentro. Non ero a disagio con Aaron. Il punto era che non mi piaceva e basta.

Daniel mise di nuovo giù la testa e lasciò che continuassi a giocare cautamente con i suoi capelli. «Comunque sono contento, che sei a disagio con quel tipo» disse in un rigurgito di irriverenza nei miei confronti, «non dovresti frequentarti con i ragazzi, alla tua età.»

Il suo viso, ora rivolto al soffitto, era di una bellezza ruvida e il mio cuore non entrò più nella cassa toracica, per quanto lo sentivo gonfiarsi. I suoi lineamenti erano di una bellezza pazzesca. Iniziai a piangere senza controllo, sentendomi una scema completa. Daniel se ne accorse e sollevò la testa dalle mie gambe. «Mel, che succede?», domandò preoccupato, ma ancora indeciso se fosse il caso di stringermi in un abbraccio come faceva quando ero più piccola.

Avevo la voce rotta dai singhiozzi, ma tentai di spiegarmi. «Mi sento un’idiota!»

«Ancora per quel tizio?», grugnì con rabbia, «Dovresti lasciar perdere, se ti fa stare così» Aveva ragione: dovevo assolutamente lasciar perdere.

«Domani se ti va ti porto con me in un posto» continuò, scrutandomi nel buio, «Per farmi perdonare per quella faccenda del tuo DVD, però dovresti promettermi una cosa.»

«Cosa?»

«Smettila di stare male per chi non ti merita. Non voglio vedere la mia sorellina ridotta così per il primo teppista che passa. Ci siamo intesi?»

Mi tuffai tra le sue braccia, lo stritolai come se fosse stato un peluche e gli strappai una risata affettuosa. Fece passare la mano tra i miei capelli e me li pettinò. I suoi immensi occhi verdi mi fissavano, e io avvertivo il pallido riflesso di quello che sarebbe stato un suo bacio. Bocca contro bocca. Una sensazione talmente deliziosa e lancinante da procurarmi una voragine nel petto. Il tepore vivo di quell’abbraccio. L’impenetrabile mistero del suo sorriso enigmatico e sfuggente. Nell’ambiguità di quella situazione, mi sentivo troppo coinvolta e attratta per evitare di pensare ai nostri corpi vicini, sul letto il cui contatto, certo, sarebbe stato attutito dagli strati dei vestiti ma sarebbe stato comunque potente.

«Che ne dici, Dan, se rimani a dormire qui, per questa volta?»

Lo vidi sbiancare, nonostante il buio ci circondasse. «A dormire?»

«Sì, come qualche tempo fa»

«Cioè, quando avevi otto anni?»

«Eddai», dissi facendogli gli occhi dolci, «solo per questa volta»

«Hai ancora paura dei mostri sotto il letto?» ridacchiò, si alzò di scatto e si diresse verso la porta. «Notte, Mel. Ci vediamo domani!»

Il giorno seguente, nel pomeriggio, Daniel mi portò in biblioteca, il suo luogo sicuro, in cui spesso sostava ore e ore a studiare, specialmente sotto esami. Ci arrivammo in auto, e sedere accanto a mio fratello fu un privilegio: non succedeva da prima della storia del mio compleanno di ritrovarmi in macchina con lui. La bibliotecaria fu sorpresa di vedermi e mi salutò come se mi conoscesse da sempre, spendendo per mio fratello parole di enorme affetto, di cui “ragazzo d’oro con enorme talento” furono solo alcune delle più ricorrenti.

«Posso sapere perché siamo qui, con esattezza?» gli domandai, mentre superavamo i reparti dedicati alla saggistica.

«Fa’ silenzio», mi rimproverò sorridendo, «O prima o poi ci guarderanno male tutti»

«Non vedo molta gente»

Gli scaffali erano stipati di libri di tutti i tipi, forme, colori e condizioni. Quando arrivammo alla sezione narrativa, Daniel sfilò quattro cinque libri e prese posto a terra. Io mi appollaiai di fronte a lui e afferrai i titoli che mi passava: Moby Dick, i Viaggi di Gulliver, L'isola del tesoro, Il Grande Gigante Gentile…

«Daniel!», protestai sfogliandone le pagine, «Ma questi sono libri per…?»

«Fa’ silenzio!» rinnovò l’ordine, portandosi l’indice alle labbra.

Avevo portato con me la cartella di scuola, così estrassi un quaderno e strappai un foglio di carta, presi una penna e lanciai un’occhiata minacciosa a mio fratello. Iniziai a scrivere: Daniel, questi sono libri per bambini! Devo ricordartelo che io non sono più una bambina, ormai?

Gli passai il bigliettino, che lesse con molta attenzione. Poi mi osservò assorto e dopo qualche secondo mi rispose. Mi restituì il bigliettino con un certo moto di orgoglio nello sguardo.

I grandi classici sono libri per tutti, Mel.

Okay d’accordo, però questi libri io già li ho letti…

Bugia. Quando lesse la mia risposta alzò un sopracciglio e bisbigliò: «Davvero?» Annuii con enorme soddisfazione, così tornò a scrivere. Mi passò il bigliettino e la copia di un libro, questa volta chiaramente per adulti.

La morte dei caprioli belli, di Ota Pavel, capolavoro contemporaneo della letteratura ceca. Dovresti leggerlo assolutamente.

Non andai mai oltre la prefazione. Lo sbirciavo da sopra le pagine di carta, mentre era concentrato nelle sue letture. Il modo in cui mordicchiava la matita, incastrandola tra le labbra, mi procurava un formicolio intenso sulla pelle. Poi, d’un tratto, anche lui alzò lo sguardo e quando incontrò i miei occhi sussultò: non si aspettava di essere osservato.

Ci guardammo per secondi eterni, lui aveva gli occhi lucidi e brillanti come la resina. Un pizzicore improvviso all’indice: mi ero appena tagliata con la carta.

Trattenni una smorfia di dolore. Il sangue cominciò a colare caldo dalla fessura microscopica sul polpastrello. Daniel si avvicinò a me d’istinto, e mi prese la mano. «Ti fa male?»

Annuii, anche se l’unica cosa che mi faceva male, a stargli così tanto vicino, era il cuore. «Dovresti metterci un po’ di saliva» suggerì e il mio cuore collassò. I suoi occhi verdi mi imbambolarono: un raggio di sole proveniente da una finestra in alto gli illuminava il volto che, maculato dalla luce, aveva qualcosa di fiero, in mezzo a tutta quella spossatezza da studio. Il desiderio di lui, in quel piccolo brandello di tempo, si condensò dentro di me al punto da farmi agire. Buttai il libro sul pavimento e avvicinai il mio viso al suo.

Lui era immobile, evidentemente confuso e sotto shock.

Avvicinai con uno scatto rapido le mie labbra alle sue e chiusi gli occhi. Mi arrivò una scossa elettrica potentissima. Il contatto durò qualche frazione in meno di un secondo, però percepii un calore violento diffondersi in tutto lo stomaco. Mi staccai da lui con un balzo. Avevo il cuore in gola. Mi resi conto di quello che avevo fatto solo quando cercai gli occhi di Daniel. Non era né arrabbiato, né incredulo. Semplicemente, era curioso. E fu probabilmente questa sua reazione insolita a spaventarmi.

«Perché lo hai fatto?» mi chiese gentilmente, a bassa voce. Mi rifugiai contro il legno duro dello scaffale alle mie spalle, per allontanarmi da lui il più possibile, per poi scoprire che non c’era tutto quello spazio. Ero in fiamme. La vergogna era troppa per continuare a sostenere il suo sguardo. Ero malata, ecco cos’ero, altro che asessuale!

«Per favore, non dire niente», dissi implorante. Daniel tentò di avvicinarsi a me, gattonando tra i libri. «Dai, ti prego, Mel, parliamone», ma io scappai e raggiunsi velocemente l’uscita.

Nei giorni seguenti non feci altro che pensarci. Il ricordo di quel contatto quasi inesistente e del brivido inaspettato che mi aveva provocato veniva piano piano deformato dalla mia mente perversa, tanto che, a un certo punto, credetti che il nostro fosse stato quasi un bacio da film, con le lingue e le mani smaniose sul viso, ma la verità era che a stento ci eravamo sfiorati le labbra.

Nella mia testa coesistevano diverse personalità: credo fosse una sorta di disturbo psichiatrico.

“In fin dei conti, lo hai baciato perché gli vuoi tanto bene, è normale a quattordici anni essere un po’ più esuberante del normale, ti passerà quando andrai al College.”

“Tu sei innamorata persa di quel ragazzo, sorella, lo vuoi un consiglio da amica? Ucciditi, o scappa di casa. Sparendo faresti un favore a tutti, dammi retta.”

Ovviamente evitavo Daniel come se fosse un untore. Concedergli di parlarmi e quindi di ridimensionare il nostro bacio significava ammettere che fosse sbagliato. E io non volevo. Non potevo. Mi sarei sentita ancora più mostruosa di quanto già non fossi.

«Tesoro» mi apostrofò una sera la mamma, mentre Daniel era sul divano a guardare la tivù con papà, «va tutto bene con tuo fratello?» Stavamo sparecchiando e ci guardavamo attentamente da un po’.

«Ma certo» dissi brevemente impilando i piatti sporchi dentro il lavandino.

«Ultimamente, è come se non andaste più tanto d’accordo» disse, indugiando un po’ troppo sulla mia maglietta con il logo dei Beatles, «prima ti ha fatto una domanda e nemmeno gli hai risposto. Che succede? Sei ancora arrabbiata per quello che è successo al tuo compleanno?».

Mia madre, bisognava ammetterlo, era sempre stata una donna molto perspicace e, a differenza di mio padre e mio fratello, sembrava intuire perfettamente cosa stessi passando. Per esempio, sapeva che il doppio buco all’orecchio lo avevo fatto a sua insaputa e che durante la settimana avevo preso una F in letteratura.

«Anche Giselle ha un fratello, e non fanno altro che picchiarsi», dissi. Mia madre sbatté le palpebre per secondi eterni e poi tornò a lavare i piatti, sbuffando.

«Vabbè, vai, ci penso io qui» e, per la prima volta dopo settimane, obbedii. Andai in salone e tenni lo sguardo sul tappeto, sperando di raggiungere le scale il prima possibile, ma Daniel mi afferrò per un braccio. Mentre alzavo gli occhi verso di lui, il cuore mi risalì in gola e attesi, sperando che non avesse l’abilità di leggermi nella mente.

«Mel» disse piano mio fratello, «ho una sorpresa per te» Si diresse verso un pacchetto imballato sul tavolino del salone e lo seguii. Poi scartai il regalo, sempre più convinta che fosse il mio documentario e avevo ragione. E non solo, c’erano anche due biglietti per il concerto dei Keane che si sarebbe tenuto a Londra, sei mesi dopo!

«Sono due biglietti» mi spiegò Daniel, «così possiamo andarci insieme. Che ne dici, ti piace l’idea?»

«Grazie», trattenni le lacrime, «senti, per quella cosa che è successa in biblioteca…»

Lui mi fece un occhiolino. «Tutto a posto, stai tranquilla»

Tornando in camera, rimuginai su quanto mio fratello si stava dimostrando normale nei miei confronti. Anzi, più che normale: era un fratello maggiore adorabile. Non sapevo dire se questo fosse un fattore positivo. Ma di una cosa ero certa: dovevo soffocare ciò che provavo per lui, prima che questo mio malsano sentimento intaccasse il rapporto con mio fratello, il rapporto con i miei genitori, il rapporto con me stessa. Perciò, chiedere ad Aaron Matis un secondo appuntamento sarebbe stata la scelta migliore.



Note

Carissimi Lettori, le cose si sono cominciate ad impicciare tra Daniel e Melinda. Cosa ne pensate del gesto di Mel e della reazione di Dan?
Ci vediamo al prossimo capitolo,
con tantissimo affetto,
JSGilmore.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Chapter 5 ***


Chapter 5: Prima volta


Era la sera di Halloween. Mamma e papà dicevano che ero troppo grande per fare dolcetto o scherzetto, e per obiezione mi ero travestita da dinosauro.

Daniel disse che dal suo punto di vista assomigliavo più a un alieno, e aggiunse: «Stavo giusto pensando a una teoria che spiegherebbe tutto, non sei mia sorella, sei un’extraterrestre venuta qui a studiare gli umani e le loro reazioni e consegnare i risultati al tuo Governo Verde.» Risi per incoraggiarlo a non fare più battute: i ragazzi non hanno molto senso dell’umorismo.

Le mie amiche si erano mascherate da streghe. Avevano lo stesso cappello nero a punta, ma erano a dieta, quindi niente chili di caramelle o ragni gommosi. Ci radunammo nel villino di Giselle. I suoi genitori erano più patetici dei miei: trascorsero l’intera serata davanti alla porta, a bisticciare su chi dovesse aprire e a lamentarsi sul fatto che non avessero abbastanza marshmallow e cioccolatini per tutto il vicinato fantasma. Ci seppellimmo nella cameretta. La nostra intenzione era fare una seduta spiritica e invece finimmo solo per parlare di sesso e a scambiarci fondotinta e correttori.

Giselle aveva già perso la verginità con il suo istruttore di nuoto, bello, palestrato, dai capelli color limone e un vero fischietto sul petto rasato: questo spinse me ed Elizabeth a chiederci se non fosse arrivato il momento di compiere il grande passo con qualcuno.

Ero fidanzata con Aaron da quasi un mese e non eravamo mai andati oltre il bacio. Inspiegabile per un tipo come Matis, a meno che non soffrisse di una qualche grave forma di psoriasi inguinale.

Giselle era cristiana e i suoi genitori non avrebbero dovuto sapere che aveva perso la verginità prima del matrimonio, motivo per il quale continuavamo a parlare come in un film muto. La torcia ci illuminava a turno le bocche pitturate da un rossetto nero.

«E com’è?», le domandò Elizabeth, con i suoi occhietti vicini più curiosi che mai; si mordicchiava le pellicine del labbro inferiore, in attesa.

Giselle rise di gusto. «Strano»

Mi ero persa. «Come strano?»

«È grosso e allungato, e pieno di peli spessi», spiegò Giselle e non ci misi molto a capire che si stessero riferendo al membro maschile, anche se non ne avevo mai visto uno. Tentai di immaginarmi qualcosa che potesse avere quelle caratteristiche ma non mi veniva in mente nient’altro che una carota.

«Non ne hai mai visto uno, Mel?» chiese sorpresa Giselle, come se mi avesse letto nel pensiero. Giselle aveva quasi quindici anni, era nata a febbraio, molti mesi prima di noi e questo si vedeva: aveva un vitino stretto da vespa e i fianchi rotondi; sotto la carne morbida delle guance, si cominciavano a delineare mascella e zigomi affilati, come se da lì a poco, senza preavviso, fosse diventata una donna a tutti gli effetti. Aveva trovato un lavoro come modella, in un negozio di abbigliamento vicino casa e questo lo aveva consentito di guadagnarsi punti con i ragazzi. La settimana precedente mi aveva anche chiesto di accompagnarla a uno shooting, ma amavo troppo i cheeseburger per fare la modella.

«Ehm no, non ne ho mai visto uno» chiarii, e le mie amiche rimasero tranquille, senza dare l’impressione che questo potesse rappresentare un problema per la nostra amicizia.

«Con Matis niente?», tentò Elizabeth. La sua vocina candida era densa di disappunto.

«Ma che dici, El!», la rimproverò Giselle con un’espressione sbigottita, «non può mica finire a letto con il più sexy della scuola senza neanche sapere com’è fatto un coso

Come sempre, aveva ragione. Perciò mi informai su come avrei potuto rimediare a quel grosso problema.

Giselle emise un sospiro giudizioso. «Guardiamoci un porno.» Tirò fuori il cellulare: un Blackberry nuova generazione, e iniziò a navigare nella temibile oscurità dell’internet. Stappai una lattina di soda. Giselle si morse l’unghia smaltata di viola. «I ragazzi vanno molto fieri del loro pene, Mel, più è ingombrante il loro attrezzo e più si credono chissà chi.»

Chissà se alla vista di questo pene, mi sarei finalmente tolta le idee malsane che avevo su Daniel. Dal nostro bacio non avevo più avuto il coraggio di guardarlo negli occhi, anche dopo che mi aveva ricomprato il DVD e regalato i biglietti per il concerto dei Keane: cercavo di rimanere fuori casa il più possibile, in compagnia di Aaron. Le mie amiche avrebbero venduto l’anima pur di passare il tempo con lui e io invece lo usavo semplicemente per evitare mio fratello.

Un atto estremo di delinquenza.

Se fosse esistito il girone delle sfigate ingrate, ci sarei finita immediatamente. Comunque, se si escludevano le volte in cui si specchiava nelle vetrine, anche quelle del negozio di ortopedia sotto casa, Aaron era un tipo dolce. Quindi, mi sentivo anche in colpa. Come se non avessi avuto già abbastanza per cui sentirmi in colpa.

Giselle cliccò sul primo titolo. “Stallone inglese molto dotato si dà da fare”. La ragazza nel video stava palesemente fingendo che le piacesse: avrei dovuto gemere così forte anch’io? Se non altro, quello era stato il filmino più orribile che avevo visto nelle storie di Halloween.

Ripensai all’espressione divertita di Daniel quando mi aveva vista uscire di casa da dinosauro e mi vennero in mente gli alieni. Una quattordicenne poteva fare domanda di arruolamento in qualche esercito marziano e scappare per sempre dal pianeta terra?

«Be’, Mel, che te ne pare?», chiese Giselle. «Una gran scopata, non trovi?»

«Se ti piacciono questi tipi di pratiche…»

Elizabeth si tolse un ricciolo dall’occhio. «A trovarlo, uno che ti ripassa in quel modo.»

Giselle fece schioccare la lingua al palato. «Mel, dammi retta, ci lavoreremo.»

Quando tornai a casa, mamma e papà erano svenuti e Daniel era in camera sua: gridolini acuti di piacere da perforare le tempie, di una ragazza, provenienti dal suo antro segreto. Dall’appendi abiti penzolava un camice bianco e immacolato; nella tasca uno stetoscopio di plastica dagli auricolari a forma di cuore. Daniel aveva festeggiato in un pub con amici dell’università e si era riportato a casa un souvenir: l’infermiera sexy. Quella notte avrei avuto di sicuro gli incubi.

Nei giorni che seguirono, decisi che era arrivato il momento di farlo con Aaron.

Lui e la sua sigaretta, la cui brace era rossa e tondeggiante come una ciliegia, rimasero immobili sul divano in vinilpelle in salotto. Eravamo da soli. Completamente soli.

Mi fissò, e in una sola occhiata annotò tutte le curve dei miei acerbi e irripetibili quattordici anni. Una prima scarsa di seno era il massimo che avrei potuto offrirgli, non facevo fatica a capire il perché di tutta quella ritrosia. «Dici sul serio?» domandò, e dopo qualche secondo riprese a fumare la sua sigaretta, come a volerne risucchiare più veleno possibile.

Se avessi saputo che mi avrebbe riservato attenzioni così povere, non avrei di certo perso tempo a mettermi il gloss, a pettinarmi i capelli e a passare in rassegna tutti i jeans nell’armadio, alla ricerca di quello con la tonalità giusta. «Sì, Aaron» annuii vigorosamente, «mi sento pronta per il grande passo. E tu?»

«Io già l’ho fatto» disse svogliato. Ah, già, lui era il donnaiolo più sexy della scuola. «Spogliati, allora, dai.»

La verginità per me era diventata un peso, e volevo sbarazzarmene il prima possibile ma adesso mi erano appena venute in mente un paio di ragioni per cui sarebbe stato saggio aspettare prima un po’. 1) I miei genitori e mio fratello sarebbero ritornati a casa a breve, 2) non avrebbero gradito il fatto che facessi sesso sul divano su cui guardavamo tutti insieme le partite di calcio, e anche se fossero tornati dopo che Aaron e io ci avevamo dato dentro, 3) non avrei gradito il fatto che le partite di calcio guardate in salotto mi avrebbero per sempre ricordato la mia prima volta, la quale 4) sarebbe stata di sicuro deludente, perché, nonostante il porno che avevo visto, 5) nella mia mente, il pene aveva ancora le sembianze di una carota.

Ma forse era solo l’ansia da prestazione.

Gli dissi che non ero ancora pronta. Cacciai fuori delle scuse: compiti, genitori severi, lezione di zumba, dar da mangiare ai piccioni, appuntamento dal dottore a causa di un’improvvisa e acuta broncopolmonite sessualmente trasmissibile, e lui non ci rimase granché male. Scrollò le spalle. «Fa’ come ti pare», e se ne andò.

Quel pomeriggio avrei dovuto vivere la vita fino al midollo, e invece mi ero rivelata troppo coscienziosa al punto da fare due lavatrici. Una per i capi bianchi e l’altra per i colorati.

I ragazzi non erano degli assi in materia sentimentale.

Passai tutta la sera in cameretta. Non salutai né i miei né mio fratello. Telefonai a Giselle e ci confrontammo su un paio di questioni, come ad esempio che ero stata un’idiota.

«Nessuno dice di no ad Aaron Matis» disse Giselle, «sei pazza, Mel». Chiamai Elizabeth e convenne anche lei che fossi pazza: «Santo cielo, Mel!» tuonò in un’imitazione molto discutibile di Giselle, «tu e Aaron state insieme praticamente per grazia divina che ti è stata concessa, chiamalo e digli subito che ti sei sbagliata»

Feci come mi aveva detto, più per rassegnazione che per reale interesse. Il telefono squillò. «Sì, Melinda?»

«Ciao, Aaron, sì scusami se ti chiamo a quest’ora. Stai cenando?» Ma che domanda era? Se fosse a tavola non mi avrebbe risposto di certo.

«No, no. Dimmi pure» Dimmi pure? Odiavo quei suoi toni formali, ma non mi feci scoraggiare dalla sua misteriosa cerimonialità. «Stavo riflettendo su quella faccenda della prima volta, e mi sono convinta. Ti andrebbe di…»; mi bloccai. Come avrei dovuto chiamare l’atto in sé? Fare l’amore lo avrebbe messo davanti all’incombenza – pretestuosa e spaventosamente irrealistica- che tra di noi ci fosse qualcosa che andasse oltre la mera frequentazione, appena supportata da un’attrazione fisica. Scopare e simili, avrebbe richiesto una confidenza e una scioltezza che non sentivo di avere. Avrei potuto usare un’immagine potente, quasi bellica, che però non avrebbe dovuto suggerire lo sbocciare di un amore inaspettato come: deflorazione della Patagonia, ma era passato troppo tempo e Aaron mi stava già rispondendo. «Domani in garage da me?», rimasi con il fiato sospeso finché non aggiunse: «Compro un materassino, se non vuoi farlo in macchina»

«Vada per il materassino.» E riagganciammo.

Il giorno dopo, avevo lo stomaco chiuso: avrei perso la mia verginità con Aaron e la cosa sorprendente era che nessuno lo stesse minimamente sospettando. O forse sì.

«Dove hai detto che vai?», chiese distratta mia madre, indugiando sulla mia maglietta aderente grigio tubercolosi; quel giorno i miei genitori non erano al lavoro come al solito, e anche mio fratello non aveva esami che lo costringevano a tapparsi in camera sua. La casa era infestata di curiosi che stavano intaccando gli ultimi momenti da Vergine Brava Ragazza che mi erano rimasti.

«Da Aaron… stiamo un po’ da lui, oggi», cercai di mantenere un profilo basso.

«Non è un po’ grande per te?» chiese mia madre, con il tono di voce di chi aveva intenzione di farmi quel discorso. Papà abbassò il volume della televisione dal salotto, probabilmente aveva drizzato le antenne anche lui. C’era un’atmosfera strana.

«Ha la stessa età che aveva il mese scorso» replicai con una logica inattaccabile.

«Di questo ne sono certa», disse mamma impaziente, «ma il mese scorso aveva “pressoché la tua età”, invece ho recentemente scoperto che ha tre anni più di te! Sono tanti, Melinda!» Non osai indagare su come lo avesse scoperto. Ciò che raccontava esserle caduto dal cielo, in realtà, erano conoscenze apprese con faticose ricerche e documentazioni che rasentavano lo stalking.

Daniel entrò in cucina. «Penso che la mamma abbia ragione» Era torvo e un’ombra scura gli incupiva il volto. Prese dei biscotti integrali dalla dispensa.

«Fatti gli affari tuoi, Daniel! Tu non c’entri un fico secco!» Oh, eccome, se c’entrava. L’ultima volta che avevamo parlato di Aaron gli avevo confessato di avere il sospetto che fossi asessuale e poi, come se non bastasse, lo avevo pure baciato e cominciato a trattarlo con sgarbo e sufficienza. Bipolare, depravata e scorbutica in un colpo solo. Aveva fatto un grave errore a portarsi a casa quell’infermiera…

«Melinda!» esclamò turbato papà dal salotto, «non fare la maleducata, non ti abbiamo cresciuta così! Daniel ti ha persino regalato quei maledetti biglietti! Sei davvero molto poco riconoscente nei suoi confronti!»

Rimasi in silenzio. Mio padre prediligeva mio fratello perché con lui poteva intavolare una discussione colorita sui dirigenti calcistici ogni volta che voleva, e con me, invece, una quattordicenne in preda a crisi ormonali, bisognava stare attenti a utilizzare del tatto.

Con enormi probabilità, prima di quella conversazione, tutta la mia famiglia si era riunita per complottare alle mie spalle. Inaccettabile e vergognoso.

«È stato bocciato?» mi domandò mio padre. Per lui, ancor peggio dei drogati o degli stupratori, erano i bocciati a scuola. Scossi la testa e si rasserenò. «Puoi stare un po’ da Aaron, oggi» disse infine la mamma, «a patto che torni per cena. Chiaro?»

Lanciai un’occhiata a Daniel, che stava ascoltando attentamente la conversazione tra me e la mamma fingendo di mangiare biscotti, e mormorai: «Cristallino.»


Note.
Sono tornata con un nuovo capitolo! Dite la verità: vi ero mancata? :')
Ringrazio tutti quelli che stanno mettendo la storia tra le seguite/preferite! Non pensavo sareste stati così tanti... E perciò fatemi sapere cosa ne pensate di questo nuovo capitolo con una piccola recensione.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Chapter 6 ***


Chapter 6: Ripercussioni

Il garage di Aaron puzzava di insetticida e di muffa. Dal soffitto, gli sgocciolii picchiettavano il pavimento e mi piovevano sulla felpa GAP arancione, acquistata ai saldi il mese precedente.

Aaron posò le chiavi del box su uno scaffale arrugginito, mi lanciò un’occhiata maliziosa e il piercing sul suo sopracciglio scintillò nella semi-oscurità.

Prima di arrivare lì avevamo comprato un pacchetto di preservativi al distributore, che ora si trovavano nella tasca del suo giubbotto nero di pelle. Aaron diede un calcione a uno scatolone di attrezzi e si accovacciò su un materassino bucato. «Accidenti, lo avevo gonfiato, giuro», lo tastò con mestizia e immaginai che stesse palpando un sedere flaccido. Il suo modo di massaggiare, pratico e deciso, ispirava fiducia, e non se la sarebbe cavata affatto male con un fondoschiena vero e proprio.

Il problema dei ragazzi come Aaron era l’empatia; non quella cosa poco virile e stucchevole delle effusioni dopo una sveltina, ma quell’attitudine a congiungersi senza sembrare dei pacchi imballati dentro un furgoncino. Per un passo importante come la prima volta, c’era bisogno di qualcuno che avesse mestiere. Si sedette a terra. «Mi sa che è bucato e mi toccherà rigonfiarlo.»

Sbuffai. Avevo freddo, lì dentro si gelava. «Puoi fare velocemente?»

L’occhiata tagliente e ostile che mi riservò bastò ad ammutolirmi. Si concentrò sul brufolo sopra il labbro superiore che mi ero schiacciata prima di uscire. I suoi occhi persi e la bocca schiusa, gli facevano l’espressione vuota, la classica faccia da idiota. Armeggiò ancora con il materassino e sbuffai di nuovo. «Non si gonfierà con i tuoi sbuffi», osservò Aaron.

Presto avrei detto addio alla mia verginità e mi scappava così la pipì che mi tremavano le gambe, lui invece fumava e se ne fotteva.

Riparò l’accendino con la mano, per impedire all’umidità di spegnere la fiamma, e si accese la prima sigaretta; una volta spenta, la scagliò oltre la saracinesca abbassata. Ne fumò altre cinque, e il materassino non si era ancora gonfiato. Fu questa considerazione a farmi venire l’illuminazione finale: non avevo nessuna voglia di finire al letto con lui.

Per le mie amiche, Aaron era una divinità, un abbaglio vivente, una coccarda da sfoggiare con orgoglio. Per me Aaron era l’ennesimo insuccesso sociale, il più grande, il passaggio evolutivo in cui l’adolescente ribelle che albergava in me si inceppava. Fantasticavo il sesso con lui con la stessa partecipazione emotiva con cui un inserviente luciderebbe un gabinetto. E invece, il solo ricordo delle dita ossute e penetranti di Daniel mentre mi faceva il solletico mi arrostiva le guance e mi faceva martellare il cuore nel petto, impazzito.

Mio fratello era diverso dagli altri ragazzi del mio liceo, anzitutto perché aveva ventun anni e in confronto pareva un rudere; e poi la mera presenza fisica assieme a una spropositata passione per i libri era una combinazione interessante in un uomo, peccato che ci avrebbe fatto ben poco.

Una volta mi aveva confidato che tutti i suoi compagni di corso laureati in letteratura inglese prendevano il sussidio di disoccupazione, cosa che mandava in bestia i nostri genitori.

Comunque, il nostro ristretto grado di parentela era un problema; eppure, lo zio Bob, con quella sua faccia da cane bavoso, gli occhi iniettati di sangue e la sua lingua che guizzava furtiva tra le labbra, non si era mai posto alcuno scrupolo a fissarmi le cosce.

«Senti, io me ne torno a casa», dichiarai sconsolata e Aaron rimase impalato senza dire una parola nel suo garage.

Durante il tragitto cominciai a piangere. Bel lavoro, Melinda, ti sei appena guadagnata un biglietto di sola andata per il club di teatro. Avrei passato il resto del mio anno scolastico con ragazze smilze e occhialute, perché nessun altro club avrebbe voluto avere a che fare con una sfigata come me, dopo che Aaron avrebbe raccontato a tutti ciò che non era successo. I pettegolezzi si diffondevano più velocemente dell’influenza. Prima di entrare a casa mi asciugai i piedi sullo zerbino, visto che avevo corso sul fiume delle mie lacrime. In realtà, stavo temporeggiando. Cosa avrei detto ai miei genitori? Cosa avrei detto a Daniel? Entrai e trattenni il respiro il tempo sufficiente per filare nella mia stanza il più in fretta possibile.

Daniel era sdraiato sul divano, occupato a leggere qualcosa come Thomas Mann. «E tu che ci fai qui?», alzò a fatica la testa dal cuscino, «Non dovevi stare da Aaron per un po’? È passata soltanto un’ora»

La casa era fin troppo vuota e silenziosa. «Un’ora è stata abbastanza. E comunque, non mi sento molto bene.»

«Ti preparo qualcosa da mangiare?»

Sul tavolo c’era una bottiglia vuota di succo al mirtillo, altri libri presi in prestito in biblioteca dalle copertine logore. «Dove sono mamma e papà?».

«Sono dovuti rientrare al lavoro, pignoramenti urgenti da sbrigare», Daniel chiuse il libro con solerzia e così mi misi accanto a lui, «Che hai? Sembri la morte in vacanza.»

Mi strinsi nelle spalle e vuotai il sacco. «Aaron non mi piace.»

«Seria? Non è tipo l’idolo delle tue compagne di classe?»

«Oggi dovevamo fare sesso», lo sbirciai ed era viola, con i pugni contratti sopra le cosce, «Sai, doveva essere la mia prima volta... Ma sarebbe stata una cacata sicuro.»

«E perché?»

«Lui è troppo scemo e troppo vanitoso: lo sapevi che usa la lacca per capelli? Comunque, non ha saputo neanche gonfiare il materassino…»

«Era la tua prima volta e voleva farlo su un sudicio materassino? Un gran signore, questo tizio.»

«Ma ora ho imparato la lezione, la prossima volta sceglierò almeno qualcuno che sappia ciò che c’è da sapere sull’argomento “prime volte”. Uno affidabile, insomma.»

«Uno ancora più grande intendi?»

«Sì, certo.»

«Sarebbe anche il caso che questo qualcuno ti piaccia davvero, o no?» disse e il mio stomaco si strinse, causandomi un mancamento. Fortuna che ero seduta. Sì, sarebbe stato il caso, ma statisticamente anche poco probabile, visto che l’unico in grado di suscitarmi qualcosa era proprio lui.

«Sì.» risposi.

«C’è qualcuno che ti piace davvero?» disse e deglutì. La sua voce sottile mi stordì come un petardo, anzi come un grande orgasmo (immagino che stordisca un orgasmo, no?). Mi guardava dritto: il suo tono aveva tradito dell’impazienza, così come stavano facendo i suoi occhi verdi petrolio. Sudavo e avevo la tremarella, lo stomaco era in subbuglio.

Non potevo credere a quanto fosse bello. Lui, mio fratello, che condivideva i miei stessi geni e la stessa passione per la pizza e il calcio, era bello da impazzire. Il motivo per cui Aaron mi trovasse attraente, di sicuro, risiedeva nel fatto che negli anni avevo assorbito di luce riflessa il fascino di mio fratello. Assunsi inconsapevolmente la smorfia della demenza: lo fissavo a bocca aperta. Comunque, lui sembrava non essersene accorto.

«Ehm…», analizzai le sfumature dorate dei suoi capelli. Aveva un’eleganza tutta sua, i suoi tratti erano irregolari ma pazzescamente seducenti; le labbra, forse, erano un po’ troppe rosse e piene e… Dio, il suo naso era uno strazio, era come se qualcuno non avesse fatto altro che prenderlo a pugni in faccia dalla nascita. «Sì, effettivamente qualcuno che mi piace davvero c’è»

Le sue spalle erano larghe e il suo petto era incredibilmente ampio, le sue braccia, benché avesse una struttura longilinea, erano possenti; persino le sue mani erano attraenti. Non avevo mai colto l’armonia e la bellezza di un corpo tutta quanta insieme, prima di lui. Voglio dire, l’avevo notata anche prima la struttura fisica maschile ma non l’avevo mai compresa in tutto il suo significato.

Daniel si schiarì la gola, tuttavia gli uscì poco più che un sibilo. «E chi è il fortunato? Si può dire?»

Una fitta feroce mi bucò le tempie. «Sei Tu.»

Rise sguaiato e non interruppe il contatto visivo, sintomo che cercasse indizi su quel probabile scherzo dalla natura perversa a cui lo avevo appena sottoposto. «Ah, sì, dai non è divertente, Melinda.»

Ma siccome non replicai, tentò in qualche modo di spiegare la risata, scuotendo la testa e chiarendo questa storia. «Sono un po’ sorpreso che tu dica cose così, insomma… Con questa leggerezza… Insomma, ma sei seria? No, che non sei seria… Diamine, no… Basta giochetti, d’accordo?»

Scoppiai a piangere. Daniel mi piaceva davvero. Mio fratello mi piaceva davvero. Mi guardò con un misto di stupore e sfinimento e quella che gli attraversò gli occhi fu una sorta di folgorazione. Non stavo scherzando, lo aveva capito. Oltre alla genetica, condividevamo la stessa anima che era stata recisa per adattarsi a due corpi diversi, a due mondi biologicamente diversi. In qualche modo, ci capivamo.

Mi abbracciò, mi massaggiò la schiena, tentava di tranquillizzarmi da quella verità che mi scuoteva dall’interno come una malattia. Alzai piano la testa verso di lui. Le nostre fronti si scontrarono, sembrava così stanco, e mi prese il viso con entrambe le mani; il suo respiro caldo e inquieto mi solcava la pelle. I suoi occhi verdi tormentati erano a pochi centimetri dai miei. La sua voce era sul filo dell’udibilità. «Va tutto bene, non è successo niente di grave, va tutto bene, puoi stare tranquilla con me.»

Non potevo resistere ancora in quell’abbraccio che sapeva di buono. Lo baciai. Le nostre labbra aderirono perfettamente. Mi avrebbe respinta con disgusto presto, ne ero certa, e invece, dopo un primo momento di esitazione, Daniel ricambiò il mio bacio in modo appassionato. Il suo profumo era delicato e intenso, il sapore della sua bocca era così familiare e sconosciuto allo stesso tempo tanto da riaffiorare in me istinti primordiali…Le nostre lingue si toccarono con incertezza e crollammo sul divano. Non mi staccai dalle sue labbra screpolate nemmeno per respirare.

Daniel mi mise una mano tra i capelli e portò la mia guancia contro il suo petto. Tutto aveva acquisito un senso profondo, ora. La sua ira nei miei confronti al mio compleanno, la mia ira nei suoi confronti al mio compleanno. Adesso avevo la certezza di amarlo e che lui mi ricambiasse, e che tutto questo fosse abominevole. «Dan, andiamo in camera tua, ti va? Se mamma e papà dovessero improvvisamente tornare…», non feci in tempo a finire la frase che Daniel si alzò e mi prese la mano, conducendomi nella sua stanza e io ribollivo dentro, perché ero convinta che avremmo fatto l’amore.

Ci buttammo sul letto, la finestra era aperta e la scrivania era piena di erba. «Sei fatto?» gli domandai, incredula. Mio fratello non poteva essere fatto nel momento più importante della nostra vita. Rise e mi abbracciò forte, per distogliere la mia attenzione sulla sua aria da imbarazzato. «Ma no, Mel, non fare il gendarme: ho dato solo un paio di tiri»

Continuammo a baciarci nel suo letto, lui si mise sopra di me e, anche se era un po’ ingombrante per quel materasso a una sola piazza, a me sembrava di avere tutto lo spazio del mondo. Le nostre lingue si intrecciarono e ci volevamo come se avessimo vissuto le nostre vite solo in funzione di quel momento. Eravamo una cosa sola e i contorni dei nostri corpi non erano più distinguibili e, probabilmente, non lo erano mai stati. La sua mandibola si muoveva allo stesso ritmo della mia e fu come se la stessi muovendo io. Ero viva anche nel suo corpo. O, almeno, era così che mi sentivo. Questo era il grado di familiarità che sentivo di aver raggiunto con mio fratello, benché non ci fossimo mai baciati prima.

Noi ci appartenevamo dalla nascita, eravamo stati creati per unirci e nessuna cellula del mio corpo provava repulsione per quello che stavamo facendo.

Poi ci fermammo, parzialmente sazi. La luce che filtrava dalle tendine di lino gli illuminava il viso e i suoi occhi erano due vividi smeraldi lucenti; la barbetta incolta mi graffiò la pelle quando si avvicinò per strapparmi un ultimo rapido bacio.

Sembrava un angelo cacciato dal paradiso.

Abbassai lo sguardo sui suoi jeans e notai un rigonfiamento curioso; lui indossò il sorriso di chi era stato appena colto con le mani nel sacco. Chissà cosa avrei dovuto farci con quella parte gibbosa del suo corpo. Daniel mi afferrò il polso e portò la mia mano verso la sua zip. Non feci resistenza, perché mi fidavo di mio fratello. Al contatto freddo e metallico con i bottoni sussultai: avrei dovuto slacciarglieli ma non ero in grado di muovermi, così lo fece lui al posto mio e le nostre dita si sfiorarono.

Toccai un tronco di pelle liscia e sensibile. Lui era mio fratello e non avrebbe mai potuto farmi del male, allora perché ero così spaventata? Eravamo due persone così vicine emotivamente tanto da soffocarci a vicenda. Dentro di me c’era solo asfissia.

Ritrassi la mano e nascosi la faccia nel suo petto; si tirò i jeans fino alla vita, con vergogna. Rimase immobile per minuti, sembrava morto, rigido come una mazza, e fui io a rompere il silenzio. «Ora come ci comporteremo davanti a mamma e papà, Daniel? Voglio dire, come faremo a comportarci normalmente?»

I suoi occhi si intorbidirono e si alzò dal letto, lasciandomi frastornata sulle sue coperte. Prese l’erba dalla scrivania e si girò una sigaretta. «Non doveva succedere, fino a questo punto… Puoi… Puoi farmi una cortesia? Fai conto che non sia successo, d’accordo?»

«Ma cosa dici, come faccio a fare finta che non sia successo niente? Perché? È per via della domanda che ti ho fatto su mamma e papà? Guarda che non mi interessa di loro, li possiamo gestire… Non dirò niente, te lo prometto, Daniel.»

«Vai in camera tua, Mel».

«Ma non voglio andare in camera mia, per favore…»

Spalancò le ante e si mise seduto sul davanzale. Dalla sua finestra si poteva uscire fuori sul tetto e, un paio di volte quando eravamo piccoli, lo avevamo anche fatto. Evitò di guardarmi negli occhi mentre fumava e io lo fissavo allibita. «Cos’hai, perché ti chiudi sempre in te stesso? Perché fai sempre così, quando le cose si mettono male? Che problemi hai, me lo dici?»

Diede una boccata intensa. Una nuvola di fumo perlaceo lo circondò. Piansi. Era l’unica cosa che riuscivo a fare con competenza, dal mio compleanno: ero ufficialmente una mocciosa piagnucolona, era ovvio che non gli piacessi. E il fatto che fossi sua sorella non c’entrava per nulla, anzi era un ulteriore effetto collaterale e non potevo biasimarlo. I miei piagnistei avrebbero fatto perdere la pazienza a chiunque. Trattenne una boccata di fumo e si voltò, lo sguardo che bucava come l’acido: «Vattene, Melinda» disse secco.


Note.
Carissimi Lettori, grazie perché state dando tanta forza a questa storia, siete la linfa vitale! Perciò, se non è troppo vi chiederei di lasciare una piccola recensione: così io capisco se state gradendo o meno la lettura.
A presto.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Chapter 7 ***


Chapter 7: Notizia


Oramai, mio fratello mi detestava ed era certo come la morte che gli facessi ribrezzo; altrimenti, sarebbe uscito da quella stanza del cazzo, anche solo per dirmi: «Hai rotto i coglioni, smettila di bussare e frignare».

Non metteva il naso fuori da quel buco sgangherato da una settimana. Non sapevo nemmeno se fosse ancora vivo, oppure morto; magari, le sue ceneri erano state sparse sulla scrivania e sul materasso, dopo che si era tolto la vita sgozzandosi; oppure si era impiccato con il lenzuolo, come avevo visto fare a molti carcerati delle serie tv. La mia mente snocciolava dettagli orrendi riguardanti la sua morte improvvisa e vedevo già la mia meschina faccia ritratta nelle prime pagine dei quotidiani: piccola psicopatica istiga il fratello al suicidio, condannata all’ergastolo.

C’era da aspettarselo. Uno come lui con una come me, che una volta a scuola ero stata definita “carina di faccia”, ma sostanzialmente «un’asse da stiro». Oltre a non essere alla sua altezza, né in quanto ad acume intellettuale né in quanto ad avvenenza, ero la sua fastidiosa sorellina che si era sempre intromessa tra lui e la sua vita sessuale movimentata e intensa. Ovvio che non volesse scoparmi. La mortificazione nel suo viso quando eravamo entrambi sdraiati sul suo letto non l’avevo immaginata. Era reale. La questione, ora, era solo come avrei fatto a sopravvivere, sapendo che mio fratello mi odiava e che non poteva più guardarmi in faccia.

La porta della sua stanza era chiusa a chiave, ma una volta mamma era riuscita a scassinarla, utilizzando una forcina per capelli. Mia madre era come quelle gnocche dei film d’azione, con i fuseaux neri lucidi, e con capacità da scassinatrice eccezionali, solo che non era gnocca. Si lamentava di continuo perché le spuntavano i capelli bianchi, perché le si afflosciava il culo e perché le spuntavano le rughe persino sul collo.

Ero dietro di lei per buttare un occhio e mio fratello giaceva sul letto, anestetizzato dall’erba e immerso in un groviglio sgraziato di coperte. Era soffocato dal cuscino e da un’aria densa di fumo. Mamma non aveva commentato la scena, si era chiusa la porta alle spalle come un sepolcro. «Ceniamo tra un’ora. Aspettiamo papà.» I nostri genitori, le poche volte che erano a casa, non lo sollecitavano ad alzarsi da quel maledetto letto e io non capivo perché. Litigavano. «È colpa delle stronzate da scrittore con cui si riempie la testa. Deve trovarsi un lavoro, un lavoro vero, non può continuare a bighellonare per il resto della sua vita», diceva papà. Mamma di solito lo ignorava. Le venivano delle fenditure sulla fronte e le rughe d’espressione attorno alla bocca si accentuavano in un sorriso subdolo. Non riuscivo a prendere sul serio mio padre; durante l’ultimo derby aveva indossato una visiera da pescatore e una maglietta con su scritto BIG DADDY. Mi metteva in imbarazzo. Perché mia madre se l’era sposato?

L’ottavo giorno di reclusione di Daniel papà tornò prima dal lavoro e accese la televisione, c’era la partita. Si sbracò sullo schienale e mi chiesi se in ufficio lo avessero costretto ai lavori forzati. La camicia color senape era pezzata sulle ascelle; si schiarì la gola e si allentò la cravatta color prugna. «Mel, puoi scaldarmi la pizza al microonde, per favore?»

Ero al telefono con Giselle e preparai il pranzo a papà; parlare con lei era semplice: bastava ascoltarla e interromperla con un «sì, si» ogni tipo due o tre minuti, fingendo di non riuscire a dire altro perché sopraffatta dall’emozione.

«Kristal Hunt esce con Aaron Matis», diceva Giselle, «Tu lo sapevi? Quella stronzetta cattolica ti ha fregato il ragazzo! Non sei arrabbiata? Affitteranno una casa al mare a Cancún per le vacanze e ho sentito dire che lei e le sue amiche ricevono sconti di gruppo per abortire prima del ballo della scuola…», osservai la mozzarella squagliarsi dentro il forno e dopo qualche secondo portai il piatto a papà. Giselle diceva che mi sarei dovuta sentire molto male per quella notizia, dato che io e Matis avevamo scopato. Papà addentò la pizza emettendo dei sospiri di preoccupazione. «Cosa hai fatto a tuo fratello, Mel?»

Fu come se qualcuno mi avesse strappato il cuore dal petto. La voce della mia migliore amica dall’altro capo della cornetta divenne poco più che un ronzio.

«Che vuoi dire, papà?»

«La mamma mi ha raccontato che Daniel dice cose strane… Di te.»

«Per esempio?»

Scrollò le grosse spalle. «Non ho ben capito. Dovresti parlarne con tua madre. Ma se hai fatto qualcosa a tuo fratello, vatti a scusare… Ora fammi guardare la partita.»

Quella notte scarabocchiai i quaderni di scuola. Disegnai piccole blatte in fondo alle pagine. In un’altra vita dovevo essere stata un insetto in un barattolo di vernice: colorata, silenziosa, indifesa, fragile, incompresa e completamente assuefatta da sostanze tossiche. Rimuginai su quello che mi aveva detto Giselle al telefono. Il liceo era una merda.

Siccome mio fratello non rispondeva né ai messaggi né alle telefonate, in un pomeriggio particolarmente piovoso si presentò a casa Lennox. Era sull’uscio della porta, con le mani infilate nelle tasche di un k-way. «Ciao Melinda, scusami se piombo a casa vostra così, ma sono giorni che provo a contattare Daniel. Per caso è ancora vivo?»

Lennox e io ci tolleravamo. Per lui ero sempre stata la sorellina rompipalle del suo migliore amico e per me lui era sempre stato colui che lo portava verso la devianza. Però, era l’unico amico sincero che aveva. Gli occhi neri di Lennox scintillarono in una muta preghiera. «Dai, entra», spalancai la porta, «ma togliti quelle zavorre».

«Sono stivali da lavoro questi» replicò, ubbidendo, «ti avverto, ho i calzini bucati.»

«Che schifo che fai.»

Tornai in salone e abbassai il volume della tivù, stavo vedendo The Truth About Killer Dinosaurs sulla rete BBC 1 per distrarmi e passare un po’ il tempo. Lennox lanciò una finta occhiata interessata allo schermo. «Questi Tirannosauri sono dei veri mangiatori di carcasse». Il fuoco stava bollendo e mi precipitai in cucina a spegnere la fiamma; avrei preparato la pasta per me, per Daniel e siccome godevo degli sfavori di quell’iniqua forza castigatrice chiamata tempismo adesso anche per Lennox.

Avevo in mente di cucinare gli spaghetti, perché a Daniel piaceva il cibo italiano e avevo riesumato un ricettario nella libreria impolverata del salotto. I piatti che avevo cucinato in quella settimana, però, non li aveva mai mangiati. Viveva di cibo in scatola e di ramen in busta. Buttai gli spaghetti nella pentola. «Gli hai portato uno spinello, almeno?»

Lennox mi guardò perplesso. «Dovevo?»

Scoppiai a ridere. Una risata un po’ isterica, ma pur sempre una risata. «Scherzavo» chiarii prima che potesse farsi strane idee sulla mia irreprensibilità, «comunque se vuoi andare a salutarlo è in camera».

«Ha la mononucleosi?» domandò con un velo di tragica ironia, «Perché non è in giro con qualche bella gnocca?»

Il mio stomaco si strinse e non per la fame. «L’amico a cui fare certe confidenze sei tu» gli ricordai.

Accolse la mia affermazione come un invito a sloggiare dalla cucina. Rimasi in silenzio e udii il rumore dei suoi passi farsi sempre più lontano. «Siamo ridotti maluccio, è, branda.»; Daniel rise e il mio cuore fece un doppio carpiato. Poi la porta si richiuse e pensai che fosse giusto così. Dopotutto, non avrei voluto ascoltare i loro discorsi sulle belle gnocche. 

La pasta era quasi pronta. La immersi in un mare di ketchup e la servii a una tavola vuota. «È pronto!» gridai, arrotolando il primo boccone. Lennox e mio fratello arrivarono dopo poco. Daniel aveva un’aria distrutta e non mi guardò neanche in faccia, come faceva da tutta la settimana del resto.

«Se avessi saputo che sei in grado di cucinare certi piatti, Melinda» iniziò Lennox sistemandosi il tovagliolo in modo da non sporcarsi la maglietta, «ti avrei sicuramente presa di più in considerazione.» «Mangia e sta’ zitto», disse Daniel con un sorriso.

«Oggi niente scatolette di tonno, Dan?» chiesi sarcastica, cercando di catturare la sua attenzione e dissimulare il mio imbarazzo. Mi rispose guardando nel suo piatto: «Oggi dobbiamo festeggiare».

«Cosa si festeggia, amico?» chiese Lennox. Avevo un brutto presentimento da giorni, ma non facevo altro che scacciarlo via dalla mente.

«Mi arruolo» disse Daniel con voce monocorde e alzò lo sguardo verso di me, «ho deciso. Lascio Brixton, Mason Street, lascio Lettere Moderne. Me ne vado»

La pioggia non cessò di scrosciare sopra i tetti e si trasformò in un acquazzone che durò per giorni interi. Da quell’istante, fu come se avessi cominciato a trattenere un respiro dolorosissimo e il vuoto sonoro prodotto dalla mia testa riuscì a farmi elaborare dei pensieri parziali. Era chiaro che Daniel voleva liberarsi di me, della mia presenza. Gli procuravo disagio e, di fronte all’evidenza crudele dei fatti, non potevo fare altro che arrendermi: mostrargli il mio disappunto con grida scomposte e raccapriccianti singhiozzi lo avrebbe definitivamente convinto che scappare da me sarebbe stata la soluzione più matura. Se fossi stata più grande me ne sarei andata io. Invece ero ancora in quell’età dove non potevo fare altro che subire le scelte altrui e anche di buon grado.

I nostri genitori non ne fecero una tragedia, anche se mia madre teneva gli occhi spalancati e le labbra serrate in un sorriso tremulo mentre Daniel comunicava la notizia. Per notizia intendo una desolante apologia sull’esercito britannico e sui benefici che un soldato inglese può ottenere a lungo termine. Insomma, un mucchio di stupidaggini per dare una parvenza di spirito nazionalista ai suoi precipitosi colpi di testa. Se i nostri genitori avessero conosciuto Daniel un po’ meglio, avrebbero intuito senza troppi sforzi che era clamorosamente fuori di sé. Invece nostro padre si rivelò addirittura orgoglioso. Non aveva mai avuto l’ambizione che suo figlio andasse in guerra dall’altra parte del mondo, ma sospettavo che per lui qualsiasi destino sarebbe stato più auspicabile del poeta errante. O del commesso al supermarket, se Dio l’avesse preso a cuore. Per la mamma era più o meno lo stesso, ma per lei la faccenda era radicata più in profondità. I suoi indicibili sensi di colpa per averci fatto trascorrere l’infanzia e l’adolescenza da soli a Mason Street si esprimevano in una misericordiosa rassegnazione a quelli che ormai non si potevano neanche più chiamare capricci, bensì sconsiderate bravate adolescenziali. Papà odiava la sua accondiscendenza, però in quell’occasione gli ritornò utile. Avevo capito molte più cose dei miei genitori in quella settimana, che in una vita intera. E non fu rincuorante, perché una volta che Daniel si sarebbe arruolato, avrei dovuto convivere con quelle consapevolezze da sola. E quel giorno arrivò prima del previsto. L’esercito britannico aveva bisogno di soldati e il requisito minimo per entrare nell’unità era avere la cittadinanza. Fece la rinuncia agli studi, smantellò la sua libreria e partì, tutto questo nel giro di un mese.

Rimasi sola.

A scuola intrattenevo, per esigenze sociali, qualche conversazione noiosa sul riscaldamento globale ma il mio obiettivo segreto era quello di tornare a casa e farmi un sonnellino. Non riuscivo a connettere. Il mio cervello si ingarbugliava attorno agli stessi quesiti e mi domandavo se avessero spedito Daniel in qualche paese lontano come l’Afghanistan. Non potevo fare a meno di pensare che fosse colpa mia. Se non mi fossi fatta sopraffare dal desiderio, Daniel sarebbe stato ancora qui, a leggere Fielding o Kurt Vonnegut e a prepararmi da mangiare. Con il passare dei giorni, il pensiero che fossi la responsabile dei suoi sogni infranti divenne ancora più soffocante. Ogni tanto le mie amiche provavano a dirmi che avrei dovuto vivere di più la realtà e, quando un giorno risposi che la realtà era sopravvalutata, ci rinunciarono. In compenso, migliorai moltissimo in matematica e il professor Barnes definì i risultati ottenuti nell’ultimo trimestre “assolutamente inaspettati”.

Durante la sua prima lezione, ci aveva informato che la matematica aveva un’infinità di applicazioni pratiche che ci sarebbero tornate utili nel corso della vita. Da quel giorno, tutte le mattine entrava in classe portando con sé una nuova Applicazione alla Vita Reale e io l’avevo sempre trovata una cosa tenera. Comunque, era durata poco. Una volta l’applicazione consisteva nel calcolare quante tartarughe bisogna allevare se si voleva essere competitivi nel mercato delle tartarughe. La discussione era finita con una diatriba tra radicali difensori dei diritti degli animali e irriducibili capitalisti che sostenevano che il commercio di tartarughe non era un’attività sufficientemente redditizia. Quindi adesso il professor Barnes era diventato un professore normale, per il quale un risultato “assolutamente inaspettato” era sinonimo di “aspettati di finire in punizione per aver copiato”.

Perciò, per qualche periodo esplorai le lande sconosciute dell’aula della detenzione e dissi addio ai miei pisolini pomeridiani. Scoprii che Aaron Matis aveva un’indole rissosa. Un pomeriggio, in punizione, si presentò con un occhio livido e gonfio. Prese posto accanto a me. «Stai bene?» gli chiesi.

Annuì e così continuai a scarabocchiare blatte su un foglio.

«Sai, Melinda, è da un po’ di giorni che voglio parlarti» disse, «Mi spiace per come ti ho trattata quel giorno in garage. Non ho fatto lo stronzo perché per tutta la scuola sei “quella sempre con i jeans”. Era molto importante per me, che lo sapessi.»

«Oh...Grazie, Aaron sei davvero gentile, non preoccuparti per me. Spero che almeno con Kristal tu sia felice.»

«Ma no, vedi Melinda, è questo il punto: non credo di essere poi molto attratto dalle ragazze…»

La consolazione di essere stata corteggiata dal più appetibile della scuola si sbriciolò in un istante. Con il tempo, colsi il lato positivo della questione: c’erano buone probabilità che i baci con Aaron non mi avessero trasmesso nulla perché non c’era la chimica giusta a causa della sua omosessualità e che, quindi, con qualcun altro questa storia del bacio sarebbe anche potuta funzionare. Ma non aveva molta importanza perché non avevo nessuna intenzione di baciare qualcuno, almeno per un po’. L’unica cosa di cui avevo bisogno era starmene da sola, in casa, a ingozzarmi di cibo e di vane speranze, a cullarmi nell’inconsistente certezza che si trattava solo di un sogno e che mi sarei svegliata presto.

I mesi si trascinarono a fatica e i miei pensieri su Daniel colavano dal cervello alla pelle come lava. Fa male non è solo un modo di dire. Faceva male sul serio, era un dolore fisico pensare a lui. A scuola mi ero isolata. Ero una sfigata; a mensa e a ricreazione me ne stavo seduta da sola, sotto il luminoso cartello al neon “Sfigata e neanche tanto sveglia. State alla larga. Non offrite merendine”. Almeno, gli altri sfigati avevano il fiuto nell’individuare altri sfigati e sedere loro vicino. Io ero completamente emarginata e la cosa, per un po’, mi stava bene così. Il vero dramma arrivò quando mi accorsi che pochi giorni dopo avrei avuto il concerto dei Keane e non avevo nessuno con cui andarci. Non parlavo con Elizabeth e Giselle da settimane, e comunque i biglietti erano due. Inoltre, i miei genitori avevano mandato in guerra Daniel ma non avrebbero mai mandato a un concerto me, senza un “supervisore”. Mi venne in mente un’idea un po’ folle.

Bussai con insistenza a quel portone, fino a farmi diventare le nocche viola. Quell’edificio cadeva a pezzi e le infiltrazioni d’acqua erano visibili anche dall’esterno; le erbacce non erano state estirpate e c’era odore di fogna. Quando Lennox mi aprì, sbirciai in automatico l’interno della casa buia. C’erano cartoni di pizza sul divano e lattine di birra vuote sul tappetto. Lennox aveva un incidente ferroviario sulla faccia. «Devi venire con me al concerto dei Keane» annunciai risoluta.

Mi guardò con la sua solita aria annoiata e poi rientrò a casa, lasciando la porta aperta. «Tranquilla, non ti chiederò di toglierti le scarpe» mi informò.

«Veramente è per la puzza» spiegai spingendomi con coraggio fino all’ingresso.

«Questa è la parte in cui cerchi di essere carina con me, per convincermi?» estrasse magicamente un pezzo di pizza dalle pieghe della poltrona e mi rivolse un sorriso un po’ odioso.

«I biglietti erano un regalo di Daniel» dissi, puntando tutto sulla compassione. Non funzionò, perciò aggiunsi: «Lo so è patetico che io lo stia chiedendo a te»

«Un po’, francamente»

«Cosa devo fare per convincerti, allora?»

«Senti, Melinda. Sei la sorellina del mio migliore amico, e per quanto io possa averti a cuore sono troppo vecchio per essere un tuo amichetto e anche troppo giovane per spendere il mio tempo a farti da baby-sitter»

Vista l’incrollabile integralità morale di Lennox, colsi al volo il suo spunto. «Quanto vuoi essere pagato per accompagnarmi al concerto?»

«Cento sterline e niente radio in auto.»



Note.
Un duro colpo per Melinda, il fatto che suo fratello abbia deciso di andarsene... E quest'improvviso avvicinamento a Lennox, secondo voi, a cosa porterà?
Vi mando un grande abbraccio e vi ringrazio per aver letto anche questo capitolo! Ci vediamo al prossimo e non dimenticatevi di farmi sapere cosa ne pensate con una piccola recensione.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Chapter 8 ***


Chapter 8: Una serie di sfortunati compleanni.



L’aula era deserta: sulle pareti bianche erano appesi poster sull’anatomia umana e, seduto sulla cattedra del professore, uno scheletro inquietante sorrideva a una schiera di banchi vuoti. Se gli avessero fatto un’autopsia sarebbe uscito fuori che lo studio uccide e io non volevo morire. Non prima che Daniel tornasse a casa. Era il mio compleanno. Un anno prima Daniel e io battibeccavamo in salotto, adesso lui imbracciava un fucile dall'altra parte del mondo. Mi aveva inviato un rapido messaggio, verso le sei del mattino: Tanti auguri, mia piccola psicopatica.

Non ero riuscita a fare colazione.

Il gruppo dei secchioni prese posto alle prime file e le mie due migliori amiche mi passarono accanto, ignorandomi. Succedeva dall'inizio della scuola: ormai erano diventate carine, coi denti dritti, i reggiseni imbottiti e le gambe lunghe; non avevano più niente a che fare con me. Continuai a fissarle, come facevano le protagoniste dei film; continuavo a fissarle finché non si fossero girate verso di me, come vittime di un campo magnetico dal quale è impossibile sottrarsi. Però non accadde niente.

«Ma perché ci costringono?», diceva Giselle a Elizabeth tutta accorata, «Da grande a che cosa mi servirà tutta questa biologia?»

«Tranquilla», disse Giselle, «Se è come l'anno scorso ci toccherà semplicemente analizzare semi di frutta. Oh! Ma che puzza qua dentro!»

L’aula si riempì in pochissimo tempo e il banco che avevo adocchiato venne occupato da un quattordicenne foruncoloso; presi posto vicino a lui. Il professor Nicholls entrò in classe, con la sua ventiquattrore di pelle e la cravatta di seta. Si vociferava che in realtà la sua ambizione fosse quella di insegnare finanza all’università. «Buongiorno ragazzi, e benvenuti alla vostra prima lezione di Biologia di questo primo semestre», aprì la valigetta ed estrasse un paio di pinze taglienti, «Ecco cosa faremo questa mattina: infilzeremo intestini. Avremmo dovuto fare anatomia verso la fine di Aprile, anziché a Settembre, ma l’azienda che fornisce le vittime ha anticipato un po’ i tempi… Guardate davanti a voi, dentro il recipiente.»

Aprii il contenitore metallico. Rane morte. Era uno scherzo? Un conato di vomito assalì con ferocia la maggior parte degli studenti, tranne alcuni casi psichiatrici particolari. Il mio compagno di banco era stranamente eccitato: una A in Biologia era tutto ciò che quell’animale morto sembrava rappresentare per lui. Indossò la mascherina chirurgica. Kristal Hunt si limava le unghie e qualcuno alle mie spalle si lamentava perché non c’era il cuore di un maiale sanguinante sul tavolo come l’anno precedente.

«Prendete le pinze, e aprite il vostro libro di testo. Capitolo due, paragrafo quattro: come sezionare una rana. Lavorerete a coppie»

Aprii il libro e lo sfogliai. L’aula puzzava di succo di rana morta, un incrocio tra una casa di cura e il minestrone. Il mio compagno di banco mi aveva anticipato. «Allora, qui dice di disporre la rana in una posizione supina. Lo fai tu oppure ci penso io?»

Allungai una mano verso l’animale viscido e morto di fronte a noi. La consistenza della rana, melmosa e ruvida, mi ricordava le alghe del mare che popolavano le spiagge in cui andavo spesso con Daniel durante l’estate. Stesi la rana a pancia in su. «Ecco fatto. Poi?»

Il secchione si concentrò sul libro. «Bisogna incidere la gola orizzontalmente. Solo il primo strato di pelle, però. Devi essere decisa e delicata, mi raccomando.»

«Vuoi farlo tu? Non ci tengo a sporcarmi tutta di sangue.»

«Non ti sporcherai. La rana è un anfibio. Il suo sangue non zampilla. Non è come tagliare la gola a un essere umano…»

«Tu hai mai tagliato la gola a un essere umano?»

Rise. «Ma che sei matta? Ti pare. Piacere, sono Mathias.»

Gli strinsi la mano. «Melinda.»

«Allora, vuoi tagliare la gola a questa rana oppure no?»

La rana se ne stava beata a pancia all’aria, non sembrava nemmeno morta. Me ne stavo lì davanti con un taglierino in mano, indecisa sul da farsi. La gola mi si chiuse. Faticavo a respirare, a un certo punto non respirai affatto. Mi accasciai sul tavolo, misi il palmo sullo spigolo, per tentare di sorreggermi. Se avessi tagliato la gola alla rana non avrebbe neanche urlato, era già morta. Caddi per terra. Tanti auguri, Melinda.

Mi risvegliai in infermeria, stesa su un lettino d’ospedale e la prima cosa che vidi fu l’espressione turbata di Mathias. «Hai battuto la testa allo spigolo così forte che pensavo non ce l’avresti mai fatta a risvegliarti. Sono felice che non sei deceduta.»

Non ricordavo di essere svenuta. L’infermiera mi puntò una luce accecante agli occhi, fece un’espressione indecisa e disse che dovevano mettermi dei punti. Quando finirono mi disse che avrebbero dovuto chiamare qualcuno per farmi riportare a casa; tuttavia, entrambi i miei genitori erano a lavoro e Daniel… bè, era partito. Così feci telefonare a Lennox.

«Cristo, Roscetta», esclamò quando mi vide tutta fiacca in corridoio, «Andiamoci a mangiare qualcosa, devi avere un calo di zuccheri allucinante. Che hai sulla fronte?»

«Mi hanno messo dei punti. Pizza o cheeseburger?» chiesi. Gli passai lo zaino e lui se lo mise sulle spalle.

«Decidi tu», sorrise, «Oggi è il tuo giorno fortunato. Tanti auguri piccola roscia.»

Grazie a Lennox e all’incontro con Mathias, da quel giorno mi risollevai, piano piano. Tornai a parlare con le mie due migliori amiche e la mia media scolastica stava decollando. Durante i test il professor Barnes teneva il suo sguardo inquisitore puntato su di me e, questo, mi spronava a dare ogni volta il meglio. Melinda Davies. La più brava in tutte le materie. Ero l’orgoglio di nonna Lucinda. Mi invitava spesso a prendere il thè da lei, nel pomeriggio, perché sapeva che, dopo la partenza di Daniel, ero rimasta sola. Avevo provato a spiegarle che c’erano Lennox e le mie amiche, ma lei alzava ogni volta il sopracciglio e diceva: «Ah, quel Lennox».

A dispetto di ogni previsione, eravamo diventati amici. Lennox aveva espresso stima nei miei confronti più che altro in termini di vivo interesse per le mie opinioni e convinzioni, di curiosità nei confronti della mia giovane vita solitaria, nel discernimento con cui soppesavo le sue strambe teorie esistenziali fondate su un cinismo di cui ancora non riuscivo a comprenderne la natura. Io mi ero espressa in termini più empatici, gli avevo parlato della sofferenza che provavo a vederlo soffrire per sua madre, molto malata di Parkinson, dalla quale più che altro cercava di fuggire, ma evitavo di farglielo notare, perché una volta mi aveva risposto: «Mi piaci molto come persona, Melinda, ma non farmi da strizzacervelli.» Si era fermato anche a cena, qualche volta. Ai miei genitori faceva piacere chiacchiere con lui, ma gli vietai di fumare in salotto.

Al mio quindicesimo compleanno, festeggiato con un mese di ritardo per via della ferita alla fronte che non mi permetteva di indossare la coroncina acquistata da mia madre con tanto entusiasmo, Lennox fu l’invitato speciale, insieme a Mathias e un altro svitato con cui ogni tanto facevo i compiti assieme, Samuel.

Elizabeth e Giselle, ovviamente, non mancarono. Quel giorno Lennox e Giselle pomiciarono.

Nonostante mi costasse una gran fatica ammetterlo, per via del tempo che avrei dovuto rinunciare in compagnia del migliore amico di Dan, formavano una bella coppia. Giselle era stupenda e, vicino a lei, persino l’insospettabile Lennox divenne affascinante. L’aria trasandata che si portava appresso ogni volta svanì e iniziò a rasarsi la barba, esibendo una scucchia sensuale.

Io non riuscivo a dimenticare mio fratello. Daniel non telefonava quasi mai a casa e quelle poche volte in cui ci mettevamo in contatto parlava solo della sua carriera. Mi raccontò che aveva cominciato l’addestramento militare a Catterick Garrison, nello Yorkshire. L’anno seguente, annunciò che avrebbe voluto partecipare a una selezione per entrare in un corpo speciale di altissimo prestigio formato da pochi soldati, che lo avrebbe impegnato nelle missioni militari più pericolose, lo Special Air Service.

Il corso sarebbe durato sei mesi e solo una piccola percentuale dei partecipanti di solito riesce a terminarlo. Ma avrebbe prima dovuto prestare il servizio militare per almeno altri due anni. Poi lo spedirono da qualche parte in Medio Oriente e le sue telefonate si diradarono ancora di più.

Dovevo andare avanti.

Poco prima di compiere sedici anni conobbi un ragazzo, si chiamava Marcus Fletcher e già il fatto che fosse un amante incallito del cricket avrebbe dovuto farmi venire dei sospetti. Non possedeva chissà quali vistose particolarità fisiche che avrebbero potuto giustificare il mio interesse nei suoi confronti, anzi, il suo naso aquilino era quanto di più lontano si potesse definire seducente. Il corpicino scheletrico minacciava di volare via ogni volta che starnutiva e l’aria da So-Tutto-Io non era compensata da un’intelligenza fuori dal comune. Lo lasciai quando conobbi Nathan Barbrow: i suoi occhi azzurri mi convinsero a soprassedere sul fatto che il mio nome non gli piacesse. Mi chiamava Belinda e, dopo dozzine di volte in cui gli avevo ripetuto: «Mi chiamo Melinda. Melinda», cominciò a chiamarmi Melody. Comunque, il mio nome non era l’unica cosa a non piacergli di me. Si ricongiunse con la sua ex fidanzata dopo qualche settimana, nemmeno il tempo di finire a letto insieme.

Al mio sedicesimo compleanno ero in lutto per Nathan Barbrow. «Amica, non hai ancora trovato la persona giusta. Ma non disperarti c’è tempo per tutti» disse Giselle, mentre assaggiò la fetta di torta con squisitezza e si mise seduta sulle gambe di Lennox. Dopo il loro fidanzamento, lei era cambiata. Era molto più amabile e il suo scoraggiante ottimismo romantico – che probabilmente reputava contagioso, ma per fortuna si sbagliava, mi faceva rimpiangere i tempi in cui parlava di sesso e disprezzava i carboidrati. Ai suoi diciassette anni abbandonò la scuola, perché “tanto non sarebbe mai voluta andare all’università”. Si trasferì a Birmingham con Lennox e trovò lavoro in un bar. Rimasi senza nessuno, in un colpo solo.

Elizabeth viveva ancora a Brixton, ma negli ultimi due anni era diventata scostante. «Senti, Melinda» disse un giorno, raccogliendosi i capelli ricci in una coda, «dovresti smetterla di parlare solamente di università. Anche Bruce il tuo gatto ha capito che vuoi fare Psicologia. Ma io non credo affatto che saresti portata per diventare una psicologa. Voglio dire, la tua compagnia non sarebbe male se tu non fossi un’ameba

«Grazie per il tuo suggerimento, veramente molto prezioso», le risposi. Da quel momento non ci frequentammo più. Seppi, attraverso voci di corridoio, che era rimasta incinta di un ragazzo che frequentava il College e a scuola non si fece più vedere. Comunque, non mi presi il disturbo di andarla a trovare. Non avevamo mai avuto interessi in comune, esclusa Giselle.

Il festeggiamento dei miei diciassette anni fu in assoluto il più deprimente perché lo trascorsi da sola, a casa, sul divano a guardare il documentario dei Keane. Ripensai al concerto a cui ero andata con Lennox e ripensai a mio fratello Daniel, che tre anni prima aveva inscenato una sfuriata proprio in quel salotto. Non mi telefonò neanche per gli auguri. Avevo passato l’intera giornata ad aspettare una sua chiamata e mi ero addormentata con il desiderio di non risvegliarmi mai più.

A novembre di quell’anno, quasi esattamente tre anni dopo da quando se n’era andato, Daniel fece ritorno a casa.

Era sera, i nostri genitori dovevano ancora tornare dal lavoro e io avevo messo a scongelare la bistecca. Sentii il rumore metallico delle chiavi nella toppa e mi chiesi come mai mamma e papà fossero tornati così presto. Mi alzai dal divano e mi infilai le pantofole, pronta ad accoglierli. Quando la porta si spalancò non credetti ai miei occhi. Daniel indossava la divisa da soldato e la sua espressione era impenetrabile.

Gettò a terra il borsone e fece un sorriso. «Sei cresciuta» osservò.

Rimasi impalata a fissarlo, mentre una serie di immagini mi sfrecciavano rapide nella mente. Il suo letto. Le nostri mani intrecciate. Le nostre bocche che si respiravano addosso. Il profumo intenso della sua pelle. Era davvero lui, oppure una specie di ologramma inviato dall’Esercito per comunicarci la sua morte?

«Sei tornato?» gli domandai e lui rise di una risata che mi si insinuò nella testa e poi scese nella cassa toracica e si incastrò vicino al cuore.

«Sì.» disse.

Avanzò con cautela, come se ci fosse una bomba sotto il pavimento che ci avrebbe potuti far esplodere entrambi da un momento all’altro.

Non smetteva di fissarmi e mi stupii di ritrovare così facilmente la familiarità dei suoi tratti, che conoscevo così nel dettaglio, e che credevo di aver dimenticato. «I-insomma» balbettai, «raccontami qualcosa.»

«Forse è meglio se mi faccio una doccia» disse incerto, «Sai com’è, puzzo un po’.»

«Certo, vai, tranquillo.», dissi, «Ci sarà tempo per parlare più tardi, quando arriveranno i nostri genitori»

Sorrise con garbo e si dileguò in bagno.

I nostri genitori furono contentissimi di riaverlo a casa: nostra madre scoppiò a piangere e confessò di essere morta dalla preoccupazione, e durante la cena lo riempirono di domande. «Ero in terza divisione, a Kabul» iniziò a raccontare Daniel, «e la Fanteria era entusiasta perché poteva finalmente usare quei dannati fucili d’assalto, ma a me hanno concesso di utilizzare il fucile da cecchino. Ero tipo una figura di riferimento, laggiù. Durante l’addestramento ho dimostrato di avere le qualità giuste e mi hanno subito spedito nella divisione.»

«Che bravo, il mio giovanotto» disse papà dandogli una pacca sulla schiena.

«Ora che pensi di fare, caro?» domandò la mamma con una vocina acuta. Tradotto: non avrai mica intenzione di tornare a Kabul o in qualche altro posto simile, vero?

«Rimarrò qui, fino alla prossima chiamata» disse Daniel pacato, «poi ci sarebbe la selezione per il SAS tra qualche mese. Ve ne ho già parlato, ricordate?»

Qualche mese. Dunque, non intendeva restare.

«Special Air Service» cantilenai, risultando petulante.

«Ma sei proprio sicuro che questa storia del militare faccia per te?» chiese la mamma e in me iniziò a germogliare una piccola speranza, «Voglio dire, è proprio necessario?»

«Su, su, Sheila!» disse sbrigativo papà, «è un uomo, ormai, sa benissimo ciò che è necessario!»

«Ma certo, volevo solo far presente al ragazzo che non è troppo tardi per riprendere i suoi studi, se lo desidera…»

«Non preoccupatevi per me» intervenne Daniel, «sono contento della strada che sto intraprendendo. E tornare indietro sarebbe da vigliacchi.»

“Tornare indietro sarebbe da vigliacchi” sembrava un orribile slogan motivazionale del British Army.

Mia madre fece un’espressione inorridita ma lasciò cadere il discorso. «Meglio riposarci, per stasera» disse, con l’intenzione di deporre le armi, ma sapevo che non si sarebbe arresa. Non bisogna essere soldati per sapere che l’importante è vincere la guerra, non la singola battaglia. Ci alzammo da tavola e mio fratello ed io aiutammo la mamma a sparecchiare senza dire una parola. I nostri corpi erano troppo lontani, come separati da muri invisibili.

«Melinda» disse poi mio fratello in procinto di uscire dalla cucina, «ti va di fare due chiacchiere di là?»


Note.
Vi ringrazio per aver letto questo capitolo, sono molto curiosa di sapere cosa ne pensate. Vi aspetto quindi nei commenti.
A presto!
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Chapter 9 ***


Chapter 9: Ritrovamenti



«Melinda», disse Daniel in procinto di uscire dalla cucina, «ti va di fare due chiacchiere di là?»

Aveva deciso di parlarmi, di interagire con me. Lo odiai, perché avrei preferito di gran lunga l’indifferenza totale, a quella scostanza.

Iniziai a sentirmi impacciata con le mani e con gli occhi; non avevo più quattordici anni, non ero più un’asse da stiro (più o meno), e non mi veniva più voglia di piangere quando mi guardavo allo specchio, eppure stavo morendo schiacciata sotto il suo sguardo. Una cimice puzzolente sotto lo scarpone di un muratore. Farfugliai un qualcosa tipo sì.

«Ricordati che domani c’è scuola, signorinella», disse nostra madre, una voce lunga, puntuta e distratta. Aveva finito di lavare i piatti ed era china sul portatile al tavolo della sala pranzo. Le sue mani correvano alla testa, al suo caschetto parigino, che tastava come se indossasse una parrucca.

Da quando avevo compiuto diciassette anni eravamo diventate ufficialmente acerrime nemiche. Da qualche mese aveva preso a chiamarmi signorinella. Il periodo corrispondeva, grosso modo, a quando ero stata colpita dall’epifanica illuminazione che mia madre non era che una donna normale, con una vita matrimoniale parecchio da riesaminare e con due genitori peggiori dei miei.

Prima di seguire mio fratello di là, rubai dal frigo una gazzosa.

Attraversai il salone facendo da ombra a mio fratello e, in confronto alla sua eleganza sinuosa, io ero decisamente molto goffa. Davanti alla porta esitò a entrare. Si assicurò che fossi ancora dietro di lui. Varcata la soglia, il calore di quella stanza mi avvolse, come un mantello. Dalla sua camera si intravedeva il cortile ora deserto; nelle ore più calde era pieno di bande di ragazzini che giocavano a pallone come uno sciame impazzito di calabroni. Gli enormi palazzoni di Mason Street soffocavano il cielo.

Daniel diede un’occhiata in giro e si allarmò. «Ma che disordine qui… Scusa.» Si sistemò il letto e il suo tocco da soldato fu evidente. Si guardò attorno ancora, perlustrò i mobili e la libreria come alla ricerca disperata di qualcosa da mettere a posto, poi i suoi occhi si posarono su di me, sempre esaminatori. «Allora, Mel, come va? A scuola?»

Qualcosa di diverso, mio fratello ce l’aveva: una calma congelata nello sguardo.

Cominciai a parlare a vanvera. «Il Coach Carter pensa che io abbia un talento nel basket. Una volta, per puro caso, è successo che mi ha messa a fare dei tiri liberi e i palloni entravano uno dietro l’altro, come una magia. Mi ha detto di essere rimasto sbalordito.»

Mi ascoltava con estremo interesse. «Quindi ti stai allenando? Stai mettendo su un po’ di ciccia?»

Avvampai. «Ma che allenando. Non ho intenzione di entrare nella squadra della scuola, ma lascio che il Coach continui a sognare ancora per un pochino.»

I suoi due occhi verdi brillanti erano ancora al loro posto. Ci furono istanti problematici, in cui pareva che avessimo già esaurito gli argomenti di conversazione. Daniel si mise le mani in tasca e rilassò le spalle. «Quel libro dalla copertina sgargiante in salotto è tuo?», chiese.

«Oh, sì», dissi con enfasi, «L’ho iniziato e finito in un paio di giorni»

Era il primo romanzo che terminavo da mesi, sebbene lo sforzo non potesse definirsi erculeo dal momento che il libro era stato concepito per ragazzini dagli undici ai quattordici anni; in più, era pieno zeppo di illustrazioni, ma non era il caso che conoscesse certi dettagli, «Anche a te la cena è rimasta sullo stomaco?»

Daniel mi sorrise con una velata complicità. «Sì. La carne era bruciata e le patate immangiabili», aprì la gazzosa e riempì due bicchieri; me ne passò uno: non riuscii a bere, le croste sulle labbra mi bruciarono. «Dovremmo chiederle di non cucinare più. Imploriamola, mandiamole lettere anonime... Non so, facciamo qualcosa per tenere nostra madre lontana dai fornelli.»

Ci trovavamo a una distanza tale che per non renderla imbarazzante fu necessario sorriderci e guardarci ogni tanto a vicenda. «Non ci ascolterebbe», dissi, «per lei preparare un pasto cotto a settimana ci assicura di rimanere una famiglia unita quantomeno fino alla domenica.»

«Famiglia unita…», fece Daniel tra il sarcastico e malinconico, «Lo siamo mai stati? Quand’è che siamo rimasti tutti insieme nella stessa casa per più di…Un’ora? Forse giusto in vacanza.»

«Meglio così. Papà che si aggira per casa tutto il giorno proprio non potrei sopportarlo.»

Sorrise. «Cos’hai combinato alle mani?»

Incespicai con le zampe della scrivania e posai il bicchiere di plastica sul tavolo. Analizzai le mie dita: avevo lo smalto nero, spennellato sopra unghie mangiate fino a sanguinare e il fatto che lui le aveva notate me le fece mettere in discussione. Era troppo punk, quello smalto. Feci mente locale su cosa indossassi e la maglietta grigio malaticcio era in linea con i miei esuberanti e sconsiderati diciassette anni, età della celebrazione della depressione e della scarcerazione dei corpi. Io non facevo eccezione. Forse era per questo che avevo in mente di frequentare psicologia all’università.

«Tributo ai Goatwhore», mormorai. Sembrava confuso. «Sono un gruppo Metal», specificai in fretta.

«Una volta amavi band meno… energiche. Tipo i Keane», disse, «A proposito…Ci sei più andata a quel concerto?»

Non riuscii a stabilire un nuovo contatto visivo con lui e rimasi a fissare la presa elettrica, in basso, sotto la finestra. «Sì»

«Da sola?»

L’ultima volta che eravamo stati nella sua stanza, se la ricordava? Mi aveva cacciata via malamente, gli avevo letto l’odio in faccia, il ribrezzo, la repulsione, la vergogna.

«No, non da sola.»

«Con chi sei andata?»

Feci lo sforzo deliberato di non ascoltarlo, mi concentrai sulla sua bocca. Era la solita, bella bocca carnosa che ricordavo; quella su cui una volta mi ero buttata, impavida, sfrontata e strafottente: avevo allungato il collo e l’avevo baciato. Chissà come si era sentito lui. Consolava la sua sorellina e, di colpo, gli era arrivato un bacio irruento come un cazzotto sferrato all’improvviso.

Chissà perché mi aveva chiesto di venire in camera sua? Voleva sbattermi in faccia quanto insignificante fosse stato quel momento intimo che avevamo avuto, oppure, al contrario, era smanioso di riprendere da dove avevamo lasciato tre anni prima? Avrei dovuto prevederlo? Indossavo un intimo dozzinale, ma mi ero depilata meticolosamente gambe e ascelle, le quali erano anche schifosamente imbiancate di deodorante.

Tuttavia, c’era una terza opzione.

Daniel poteva avermi portata lì per mettermi in difficoltà. Così, giusto perché la situazione lo divertiva. Il giorno in cui l’avevo baciato non mi aveva fermata subito, aveva aspettato che infilassi la mano dentro i suoi pantaloni…

Mi era capitato di riflettere molte volte su noi due, come amanti. Succedeva la notte, con un cuscino premuto sul viso, a trattenere le lacrime e soffocare i pensieri. Io e mio fratello avevamo sempre vissuto a stretto contatto, tutto il mondo crollava ma noi due no. Proprio perché lui mi era familiare – analizzai avidamente il colore dei suoi occhi, associati a un certo tipo di bagliore maniacale, le sue labbra piene e ruggenti, il suo sconosciuto mi attraeva. Le due cose non erano in conflitto tra di loro, anzi, nella mia mente si assemblavano con un’eccitante perfezione. Avrei potuto avere tutto, con una sola persona. Il passato, il presente e il futuro si sarebbero potuti fondere e fare i fuochi d’artificio.

Daniel era impaziente, si avvertiva dalla sua voce. «Allora? Con chi sei andata a quel concerto, Mel?»

«Ci sono andata con Lennox»

«Ah.»

«Non sapevo con chi andare», spiegai e provai una profonda fitta al petto. L’avevo chiesto a Lennox perché la verità era che stare vicino a Lennox era un po’ come mantenere viva una parte di Daniel e l’avevo appena realizzato. Quel pensiero mi creò uno scompenso.

«Non avevi nessun altro? Che so, le tue amiche…», deglutì appena.

«I biglietti erano solo due»

Chinò la testa. «Tu e Lennox… Siete amici?» Alzò veloce lo sguardo su di me, con aria pacifica. Sembrava soltanto curioso.

«Qualcosa del genere, immagino. Adesso si è trasferito con Giselle a Birmingham e non ci vediamo più. Ti ricordi di Giselle?»

La notizia lo sorprese. «Si è messo con la tua amica? Ma non è un po’ piccola?»

«Ha la mia età», sottolineai, «Lennox non te l’ha detto?»

Incrociò le braccia. «No. Non mi ha detto né di lei né del trasferimento»

«Pensavo foste migliori amici…»

«Da quando mi sono arruolato non ci sentiamo molto spesso», disse con voce asettica, monocorde, «Anzi, quasi mai. E quando parlavamo, mi raccontava di te. Avevi una cattiva influenza su di lui», ridacchiò.

Eravamo ancora in piedi. Non riuscivamo a sganciarci da quella rigida posizione frontale. Daniel non aveva mai avuto amici, escluso Lennox e ora si era lasciato alle spalle anche lui; non riuscivo ad accettare che Daniel sembrasse sempre più solo e abbattuto. Si era sempre rinchiuso in se stesso, era sempre stato come intrappolato.

Solamente nell’atto di guardarlo ora, composto nella sua stanza, mi resi conto di qualcosa che mi era sfuggito per anni.

Era plausibile che la sua riservatezza, la sua timidezza verso il mondo esterno, la risolveva con me, che non gli facevo alcuna paura. Gli strazianti tentativi di tenerezza che aveva avuto nei miei confronti e che avevo ingigantito, rimuginandoci sopra negli ultimi anni, erano soltanto un esercizio, una prova, un addestramento. Con me poteva dire quello che voleva, non lo avrei sbandierato a nessuno, sarebbe rimasto tra noi, come un segreto, anche e soprattutto le cose imbarazzanti o difficili. Non lo avrei giudicato, non lo avrei deriso con i suoi amici di convenienza, o con le sue ragazze occasionali. L’avrei tenuto per me, perché ero debole, e lui questo forse lo sapeva.

Mi sentii sopraffare da una gradevole desolazione: i momenti di sofferenza emotiva arrivano così, insensati o quantomeno indecifrabili. Daniel si era approfittato della mia accondiscendenza perché gli aveva fatto comodo. Nessuno sbattimento. Melinda: comoda, facile e veloce, direttamente in casa sua.

«Perché?» gli domandai e il silenzio in cui piombò sembrò contenere un mondo, un mondo che ormai era chiaro volesse mantenere distante da me.

«Perché» disse, imbambolato a fissarmi, e quella sua apatia mi irritò.

«Perché l’esercito, Daniel?», ma la mia voce aveva perso via via il vigore iniziale, «Insomma, non potevi semplicemente andartene?»

«Semplicemente?» ripeté, «Me ne andavo per poi fare che, Mel.»

Daniel. Quel blocco compatto di muscoli e sangue. Quella bellezza e intelligenza che gli avrebbero spalancato qualsiasi porta, che gli avrebbero fatto ottenere ogni tipo di gratificazione e riconoscimento possibili.

Scrollai le spalle. «Sto solo cercando di capirti. Potevi fare qualsiasi altra cosa, invece hai scelto di fare il militare. Perché? Non mi risulta che ti sia mai importato un’accidenti della carriera da soldato…»

«Non ti risulta…» Fece scorrere gli occhi su di me, prima sul mio viso e poi sul mio corpo. Nei suoi tratti irregolari intravidi avvilimento. «Allora, dimmi. Cos’è che ti risulta?»

«Poco, in effetti.»

Sollevò gli angoli della bocca in un sorriso tetro. «Se hai qualcosa da chiedermi, fallo.»

Rimasi in silenzio e poi sospirai. «L’ho appena fatto, Dan. Voglio sapere perché l’esercito.»

Si grattò la testa. «Fare il soldato mi ha rimesso in riga. Tutto qua. Non era una mia aspirazione, però mi è servita»

«Tipo una punizione?»

Mi sorrise, triste. «Una specie»

Poi qualcuno bussò e sia io che mio fratello ricercammo nel nostro modo di stare in piedi una scioltezza che non trovammo. «Posso?» domandò mamma, ma era già dentro. Rimase impalata sulla porta. «Io e vostro padre siamo un po’stanchi. Oggi è stata una giornata movimentata, anche a lavoro, ci ritireremo a breve.»

«Certo, mamma» disse Daniel con calma, «Non vi preoccupate. Andate pure a dormire.»

Non se ne andò. Ci soppesò con aria materna e fece un largo sorriso. «Sentite, vi capisco. Tutti questi anni lontano… Non dev’essere stato facile, per voi. Avrete di sicuro tante cose da dirvi… Però avrete modo di raccontarvi tutto nei prossimi giorni. Ora forse è il caso che entrambi vi riposiate. È un po’ tardi.»

A malincuore, salutai mio fratello e salii in camera mia. Quella notte non chiusi occhio. Avrei voluto confessargli ogni cosa, quanto l’avevo pensato, quanto avessi sofferto la sua lontananza, ma non ce l’avevo fatta. Forse avevo bisogno di parlarne con qualcuno, dirlo a qualcuno e basta, vomitarlo.

Uno psicologo, magari.

Mi avrebbero rinchiusa in un manicomio? Oppure non mi avrebbero più fatto vedere Daniel. Anche soltanto l’idea era intollerabile. Perché non potevo tornare a quando ero in quinta elementare?



Note
Grazie per essere sempre qui. Spero di ritrovarvi nello spazio recensioni, ci vediamo presto con il prossimo capitolo.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3994095