Vuoto esistenziale

di FreddyOllow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Epilogo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo 1 ***


Questo racconto è per te Chanel.
Tu che hai reso le mie giornate serene.
Tu che mi hai ascoltato nei tuoi sguardi.
Tu che eri lì quando tutti gli altri erano solo ombre indistinte.
Tu che sei sempre stata e sarai la mia migliore amica.
Il miglior cane del mondo.
Pensami ogni tanto.
Un abbraccio ovunque tu sia.
Ti voglio bene!

 

1
 

"Parlami di te."
"Cosa vuoi che dica?"
"Quello che ti senti di dire."
Mi raddrizzai sul divano. "Non ci riesco."
La psicologa accavallò le gambe. "Il dottor Waren mi ha detto che hai difficoltà ad addormentarti. Cosa fai prima di dormire?"
Penso al suicidio. Ecco cosa cazzo faccio! Mi siedo sul bordo del tetto e cerco di trovare il coraggio di saltare! "Dipende. Gioco a un videogioco, guardo un film."
"Per quanto tempo?"
Fino all'alba. "Un'ora, o di più. Poi cerco di dormire, ma non ci riesco."
"A cosa pensi quando non ci riesci?"
Che sono un fottuto vigliacco. Non riesco nemmeno a saltare giù! "A niente di particolare. Fisso il soffitto, ascolto il rumore delle auto che passano in strada. Cose così."
La psicologa mi fissò per un istante. "Come ti fa sentire?"
Di merda. Non so nemmeno perché sono qui. "Non saprei. Normale, credo."
"Definisci normale."
Apatia. Vuoto. Solitudine. La felicità? Un fottuto miraggio. "Normale. Nulla di particolare."
"C'è qualcosa di cui vorresti parlarmi?"
Sì, come trovo il coraggio di saltare? Scossi la testa.
Mi osservò per un momento. "Ti senti giudicato?"
Voglio ritornare sul quel cazzo di tetto e farla finita. "No, da te no."
"E dagli altri?"
Non risposi subito. "Non saprei... Credo di sì, ma anche no. Non lo so, insomma."
La psicologa socchiuse un poco gli occhi. "Continua."
Odio la gente. L'ho sempre odiata. Però ho anche amato alcuni di loro. Non tutti sono delle teste di cazzo, lo so. "Te l'ho detto, non saprei."



 

2

Uscito dal suo ufficio, andai direttamente al mio appartamento. Non volevo vedere, né sentire nessuno. Mi sentivo esausto e arrabbiato. Non sapevo da dove provenisse quella rabbia, ma ero certo che il forum di pittura in cui mi ero iscritto aveva un suo peso. Più ci pensavo, più diventava cristallino. Forse stare a contatto con altra gente mi irritava e non capivo perché doveva esserlo anche virtualmente. A volte era anche peggio di quando ero a tu per tu con gli altri.
Mentre mi dirigevo verso la metro per prendere il treno che mi avrebbe portato allo squallido quartiere di Harmony, incontrai Lea. Una ragazza che mi era sempre piaciuta, ma di cui mi tenevo alla larga. Aveva corti capelli neri fin poco sotto il mento, occhi castani, labbra poco carnose e un sorriso stupendo. Indossava una giacca nera, sotto una maglietta rosso spento, pantaloni e scarpe nere alte tre centimetri.
"Ehi, Thomas. Cosa ci fai da queste parti?" Mi strinse in un abbraccio affettuoso e mi baciò su una guancia.
"Sto tornando al mio appartamento."
"Non abitavi con i tuoi?"
"Una volta. Adesso non più."
Mi sorrise. "Io sto cercando una sistemazione. Magari posso venire da te. Possiamo fare a metà per le spese."
"Non credo sia una buona idea."
"Perché?"
Perché ti voglio! Ti desidero! "Deve venire un mio amico da Clarkville. Starà da me."
Mi guardò per un attimo. "Per quanto?"
Per sempre. "Non saprei. Vuole trovare un lavoro qui, quindi potrebbe rimanere per un bel po' di tempo."
"Va bene, ma pensa a me se si libera un posto."
Non lo farò mai. "Sì, certo."
Mi salutò con un abbraccio e un bacio sull'angolo delle labbra. È questo suo modo allegro e spensierato che mi ha fatto prendere una cotta, ma che dico, che mi ha fatto innamorare di lei. Questo mi portava anche a provare una sorta di irritazione, in quanto capii che lo faceva con tutti i ragazzi. Pensavo di piacerle, ma forse ero uno dei tanti.
Mentre la vedevo allontanarsi, pensai a come era stato facile mentirle. Non ero mai stato un ottimo bugiardo, ma tutte quelle menzogne mi erano uscite spontanee, il che mi turbò non poco.
Scesi nel metro e aspettai il treno seduto su una panca. Non c'era molta gente. Il mio sguardo si posò su una coppia di innamorati. Baci, coccole. Arricciai il naso per il ribrezzo.
Forse sono soltanto invidioso della loro felicità.
Avevo amato. Due di queste volte erano finite davvero male. Ero caduto in un abisso da cui non riuscivo a uscire. Lo stesso abisso che chiamavo casa.
L'altoparlante emise un suono acuto. "Il treno per Harmony è in arrivo. Siete pregati di rimanere dietro la linea gialla. Grazie!"



 

3

Entrai in casa, mi feci una doccia e accesi il pc portatile. Erano le sette e mezza di sera e decisi che avrei giocato un paio d'ore prima di tentare nuovamente di suicidarmi. Giocare mi acquietava, ma solo se lo facevo da solo. Odiavo giocare insieme agli altri, non perché non sapessi giocare, ma perché lo odiavo e basta.
Staccai verso le undici e diede un'occhiata al forum di pittura. Leggere tutti quei messaggi di gente esaltata mi dava sui nervi. E mi irritava ancor di più quando altri utenti li seguivano a ruota. C'erano diverse persone talentuose che avevano postato disegni o dipinti meravigliosi, ma che nessuno si filava. Anzi, qualcuno lo faceva solo per una sorta di scambio, che per interesse. A volte anche per pietà se l'utente non se lo filava nessuno. Non so perché sentivo questo, ma una volta il mio intuito mi diede ragione.
Un utente di nome Majestic81 aveva pubblicato diversi quadri paesaggistici che ora valevano milioni. All'inizio aveva ricevuto diverse critiche per il modo di usare i colori, poi non aveva più ricevuto commenti. Nessuno se l'era filato più, pur essendo molto attivo e commentasse le altre opere con tatto. Dopo che i suoi lavori diventarono famosi, dovette chiudere l'account. Venne inondato di messaggi da quelli che prima lo avevano criticato. Io ero rimasto in contatto con lui e certe volte ci scambiavamo due chiacchiere davanti a un caffè.
Tutto questo mi fece capire che la gente, la maggioranza, non capisse un cazzo e gravitasse solo attorno al proprio ego. La cosa più odiosa era il gruppetto che si era creato in cui prediligevano alcune persone rispetto alle altre. Non parliamo poi degli utenti che si facevano stare sul cazzo gli altri senza motivo. I nuovi? Quasi tutti emarginati.
Tutto questo lo notavo, lo percepivo e non sapevo neanche io come ci riuscissi. A volte dubitavo delle mie sensazioni, ma c'erano troppe coincidenze per ignorarle.
Ora me ne stavo con i piedi a penzoloni sul parapetto del tetto e guardavo giù. Vedevo le luci, i veicoli sfrecciare sulla strada, un vociare lontano, un colpo di clacson, il vento sferzarmi il viso. Non mi restava che saltare. Dovevo solo lasciarmi andare e tutto sarebbe finito.
Ero pietrificato. Qualcosa mi frenava e non capivo cosa.
Salta! Falla finita. Buttatati da quel cazzo di tetto, codardo!
Non ci riuscivo.
Una folata di vento mi sospinse in avanti. Mi aggrappai al parapetto con le dita, un vuoto allo stomaco.
Perché non non mi sono lasciato andare? Perché? Se devo uccidermi, devo farlo io e non un colpo di vento.
Non essere un codardo! Salta!



 

4

Restai lì fino alle sei del mattino. Ero infreddolito, ma non me ne fregava niente. Se avessi preso la febbre sarebbe stato tutto più facile. Mi avrebbe ucciso quella e fine dei giochi, ma era raro morire così al giorno d'oggi. E poi ci tenevo a spiaccicarmi contro il marciapiede. Volevo morire in quel modo. Volevo che la gente vedesse cosa mi avevano spinto a fare. Volevo che si sentissero in colpa.
A chi cazzo vuoi che importa se muoio? Nessuno piangerà e soffrirà per me. Sono invisibile. Non conto un cazzo.
Scesi dal parapetto. Apatia. Vuoto. Solitudine. Invece di invogliarmi a togliermi la vita, quelle parole avevano sorto l'effetto contrario.
Non c'è posto per me qui. Perché insisto a voler vivere? Tanto vale saltare.
Mentre scendevo la rampa di scale del condominio, incontrai Derek e il suo piccolo meticcio di nome Toby. Era un anziano signore che aveva perso sua moglie, anche se non avevo capito come.
Stava chiudendo a chiave la porta, quando mi vide. Mi sorrise. "Di nuovo mattiniero?"
"Sì."
Toby scodinzolò sotto le mie gambe. Gli accarezzai il muso e la testa, e lui ricambiò leccandomi la mano.
Derek mise la chiave in una tasca interna della giacca di lana. "Perché stasera non vieni da me? Cucinerò pasta a sugo. Ti piace?"
"Grazie dell'invito, ma ho da fare."
"Insisterò finché non accetterai." Mi salutò con un sorriso e scese le scale insieme a Toby.
Rientrai in casa, mangiai un brioche e mi feci una doccia. Indossai la camicia del Joe's Market e, scoccate le otto, andai a lavoro. Presi la bici e pedalai tra le strade trafficate. Numerosissime buche puntellavano l'asfalto.
Se cadessi e mi spaccassi la testa, non sarebbe un brutto modo di morire. Spero solo di morire sul colpo.

Venti minuti dopo arrivai al negozio e lasciai la bici in un angolo del magazzino.
"Thomas!" urlò Seth Gonzales. Sulla cinquantina, grassoccio, dal ventre prominente e il doppio mento. "Porta il tuo culo qui!"
Lo raggiunsi dietro uno scaffale di tre piani.
"Carica queste casse nel furgone e portale da Loretta."
Mi guardai intorno. "Si occupa Ian del trasporto."
"Ian si è licenziato. Ora tocca te." Si voltò e uscì dal magazzino.
Il Joe's Market era gestito da un uomo affiliato a una famiglia mafiosa di Harmony. Un sicario che aveva messo in piedi una catena di supermercati. Non lo avevo mai conosciuto, ma Ian me ne aveva parlato in maniera vaga e senza mai nominarlo.
Sospettai che lo avessero fatto fuori, in quanto parlava troppo. Due settimane prima lo avevano pestato a sangue, ma non aveva sporto denuncia. Era improbabile che se ne fosse andato di punto in bianco. Aveva una moglie e due bambine piccole a cui pensare.
Caricai le otto casse nel furgone e ingranai la prima. Sapevo che non trasportavo ammorbidenti, saponi e via dicendo. Ma droga o armi, o entrambe le cose. Non m'importava, anche se essere beccato dalla polizia non mi sarebbe piaciuto per niente. La prigione era l'ultimo posto in cui volevo andare. Non era la prima volta che guidavo un mezzo del genere, ma era la prima volta che trasportavo merce delicata.

Il negozio di Loretta distava tre chilometri e parcheggiai il furgone nel retro. Una giovane donna uscì dalla porta di servizio. Doveva avere la mia stessa età, sui trent'anni, fisico slanciato, lunghi capelli biondi fino alle spalle. Indossava un pantalone attillato e una scollata maglietta nera, un cappotto e stivaletti neri. Sembrava in tutto e per tutto una donna in carriera. Mi venne incontro mentre aprivo le portiere posteriori del furgone.
"Sei Thomas, vero? Sono Loretta Anderson."
Le strinsi la mano. "Thomas Horke."
"Lo so." Mi guardò con fare freddo. "Aspetta qui. I miei uomini stanno arrivando." Rientrò dentro.
Il mio cellulare squillò. Era Lea. "Sì?"
"Hai da fare?"
"Sto lavorando."
"Ah, ok. Volevo... Io... Sì, ecco, volevo chiederti se conosci qualcuno in cerca di una coinquilina."
"Per adesso non mi viene in mente nessuno."
"Va bene... Se te lo ricordi, fammi sapere."
"Ok." Lasciai il cellulare in tasca.
Tre uomini uscirono dalla saracinesca del negozio. Mi guardarono, torvo, e cominciarono a scaricare il furgone.
Quando finirono, entrai nel furgone e mi diressi al Joe's Market. Lasciai il veicolo nel retro e iniziai la mia noiosa giornata lavorativa.



 

5

Staccai alle cinque. Salii sulla bici e pedalai fino al mio appartamento. Mi feci una doccia, presi la metro e andai dalla psicologa.
Nella sala d'attesa, una ragazza mi fissava da più di dieci minuti. Non sbatteva nemmeno le palpebre. Mi stava dando sui nervi.
La psicologa aprì la porta e ne uscì un uomo di mezza età. La salutò con una stretta di mano e andò via.
La donna guardò la ragazza. "Fiona, cosa ci fai qui? L'appuntamento è per domani alle sei."
Fiona annuì e continuò a fissarmi.
La psicologa mi disse di entrare con un cenno della mano.
Una volta seduti, lei mi guardò. "La conosci?"
"No."
Aprì il taccuino. "Come ti senti oggi?"
Da schifo! Come vuoi che mi senta? Faccio un lavoro di merda e la mia vita stessa è una carrellata di merda. Voglio soltanto trovare il coraggio di saltare da quel cazzo tetto! "Chi è quella ragazza?"
"Una paziente."
"Sì, ma come si chiama?"
"Non posso dirtelo."
"L'hai chiamata Fiona, no? Quindi si chiama così."
"Parliamo di te."
"Perché mi fissava?"
La psicologa corrugò la fronte, preoccupata. "Chi?"
Indicai l'ingresso. "Fiona. Perché mi fissava?"
Si alzò, aprì un poco la porta e sbirciò fuori. Si voltò verso di me. "Resta seduto." Uscì.
Mi accigliai, perplesso.
Parlarono per un momento, finché partì un grido. Era Fiona. Scattai in piedi, corsi alla porta e l'aprii un poco.
Fiona rannicchiata in un angolo, le braccia strette attorno alle ginocchia.
La psicologa in piedi al centro della stanza, il cellulare appoggiato a un orecchio. "Sì, è qui... È agitata. Ho paura che si possa fare del male... Credo da un'ora, non saprei..."
Fiona alzò lo sguardo, gli occhi serrati, il volto paonazzo. Balzò in piedi e si lanciò contro di me. "Ti ammazzo! Ti uccido!"
La psicologa la fermò col corpo. "Calmati, Fiona. Calmati."
La donna si dimenò, urlò indemoniata.
La psicologa si voltò verso di me. "Chiudi la porta. Chiudila!"
La chiusi e indietreggiai, turbato.
La ragazza smise di gridare e scoppiò in un pianto sommesso.
Che cazzo è successo? Perché vuole uccidermi? Nemmeno la conosco.
Mi sedetti al mio posto e restai lì per una ventina di minuti.
Dalla sala d'attesa giunse un mormorio. Qualcuno aprì la porta. Altre voci, altre grida di Fiona.
Silenzio.
La psicologa entrò nell'ufficio e tornò al suo posto.
Corrugai la sopracciglia. "Cosa è successo?"
La psicologa mi fissò per un attimo. "Torniamo a dove siamo rimasti."
"Voleva uccidermi... Perché?"
"È una paziente. Non posso parlartene."
"È schizzata? È pazza?"
"Signor Horke, la prego. Non continui."
Cominciammo la seduta, svariate domande a cui risposi a monosillabi.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


1

Tornai a casa verso le otto e mi sedetti sul divano. Non avevo fame. Accesi il pc portatile e cominciai a giocare. I miei nervi si sciolsero. Allo scoccare della mezzanotte, come facevo ormai da più di un anno, salii sul tetto e mi sedetti sul parapetto. Era diventato una sorta di rito. Avrei lasciato tutto pur di ritrovarmi seduto coi piedi a penzoloni nel vuoto.
Ora salta! Leva quelle cazzo di mani dal bordo e lasciati andare. Fallo!
Non ci riuscivo.
Sei un fottuto codardo! Non hai palle. Salta! Fallo! Lascia questo cazzo di mondo.
Chinai il busto in avanti, il marciapiede deserto.
Non pensarci, fallo! Chiudi gli occhi e gettati di sotto. È facile.
Restai lì fino alle sei del mattino. Andai al lavoro.

Appena lasciai la bici nell'angolo del magazzino, Seth mi raggiunse. "Devi fare due viaggi."
"E domani tre?"
Sollevò un angolo della bocca in modo inquietante. "Spiritoso. Ora vai a caricare le casse."
"Ora faccio due lavori, quindi mi..."
"Scordatelo."
"Allora me ne vado. Mi licenzio."
Sospirò dalle narici. "Ok, aggiungo cinquanta dollari per i tuoi viaggi."
"Per ogni viaggio?"
"Per ogni viaggio. Ora vai a fare il tuo cazzo di lavoro!"
Mentre caricavo le casse nel furgone, pensai a come era stato facile trattare con Seth. Era sempre stato testardo. Forse i soldi che mi avrebbe dato non erano i suoi? Probabile. Se il sicario gestiva il Joe's Market, allora Seth prendeva uno stipendio fisso. E doveva essere molto corposo, visto che girava su una porche nera.
Accesi il motore, ingranai la prima e partii. Duecento metri dopo restai imbottigliato nel traffico. Poco più avanti, due auto si erano schiantate al centro della strada. I ripetuti colpi dei clacson mi stavano facendo scoppiare la testa.
Quando arrivai nel retro del negozio di Loretta, una berlina nera era parcheggiata vicino all'uscita di emergenza. All'interno, un uomo in giacca e cravatta, sulla quarantina, digitava qualcosa sul cellulare. Alzò lo sguardo su di me per un momento, si portò il cellulare all'orecchio e parlò.
Scesi dal furgone e mi diressi verso il negozio.
Loretta uscì dal locale e mi raggiunse. "Devi fare un viaggio a questo indirizzo." Mi diede un piccolo pezzo di carta stropicciato. "Non è lontano, ma prendi solo strade secondarie."
"Perché?"
"Tu fallo." Si girò e rientrò dentro.
Lessi il pezzo di carta. Ottantasettesima strada. Palazzo di tre piani, accanto a un parchetto. Fermati nel retro.
Non capivo perché dovevo fare un altro viaggio e perché non me lo avesse detto a parole. Dovevo tornare da Seth e portare lì la merce? Oppure...
Tre uomini uscirono dalla saracinesca. Uno di loro mi raggiunse. Era imponente, alto quasi due metri e puzzava di sudore. "Appena finiamo, vai a prendere il secondo carico e portalo qui. Poi noi caricheremo dell'altra roba che dovrai portare a..." Indicò con il mento barbuto il pezzo di carta che avevo in mano.
Chi paga il viaggio? Seth? Loretta? Mi limitai ad annuire.
Il tizio si diresse verso i due uomini e cominciarono a scaricare le casse.

Tornai indietro e andai nell'ufficio di Seth. Non c'era. Lo cercai nell'alimentare. Sparito.
Mi avvicinai alla commessa dallo sguardo assente. Passava alla cassa un balsamo per capelli. "Dov'è, Seth?"
"È andato via. Ha detto che tornerà verso l'una."
"Hai il suo numero?"
Indicò un foglietto attaccato sul fianco della cassa.
Salvai il numero, andai nel retro e lo chiamai.
"Pronto?"
"Sono Thomas. Loretta mi ha detto che devo portare un terzo carico all'ottantasettesima strada. Tu nei sai qualcosa?"
"Ma porca puttana, Tom! Non devi chiamarmi! Ora... ora fai quello che devi fare. E non chiamarmi più, cazzo!"
Mi riattaccò in faccia. Non avevo nemmeno fatto in tempo a chiedergli chi mi avrebbe pagato. Non che fossi attaccato ai soldi, ma non mi andava di lavorare gratis.




 

2

Caricai la merce sul furgone e guidai da Loretta. Al mio arrivo, i tre uomini mi stavano aspettando seduti su una panca. La berlina nera non c'era più. Spensi il motore e aprii le portiere posteriori del furgone. Attesi che i tre uomini scaricassero e caricassero altre casse, accesi il motore e ingranai la prima.
Cominciò a piovigginare.
Mi fermai al semaforo rosso. Una pattuglia della polizia era ferma dall'altra parte della strada. Mi ricordai delle parole di Loretta.
Prendi solo le strade secondarie.
Il cuore cominciò a martellarmi nel petto. Se quella pattuglia è lì per me? Se ha ricevuto una soffiata? Scacciai la paranoia, ma l'ansia mi aveva già pervaso la mente. Magari mi spareranno. Magari morirò così. Finalmente morirò, ma non voglio morire in questo modo. Voglio saltare da quel cazzo di tetto!
Scattò il verde e pigiai il piede sull'acceleratore. Appena passai accanto alla pattuglia, le sirene iniziarono a strillare. Mi venne una fitta allo stomaco, come un pugno nell'addome. Continuai a guidare con un occhio puntato sullo specchietto retrovisore laterale. Pensai che avrebbero fatto inversione a U, invece, con un fischiare di ruote, l'auto sparì dietro un palazzo.
Tirai un sospiro di sollievo. Accostai il furgone accanto al marciapiede e spensi il motore. Il mio corpo fremeva di piacere. Non capivo perché, ma non m'importava.

Quando mi immisi nella ottantasettesima strada, scorsi un palazzo grigio accanto a un parchetto. Panchine distrutte, vialetti cosparsi d'erica, scivoli corrosi dalla ruggine. La maggior parte degli altri edifici paralleli erano bassi, le finestre rotte o sbarrate da assi di legno, le pareti puntellate da crepe. Lungo i marciapiedi deserti, quattro auto dalla carrozzeria arrugginita, piegata.
Svoltai a sinistra e m'inoltrai in un lungo e stretto vicolo. Qualche metro più avanti, un uomo mi osservava da una scala antincendio. Svoltai nuovamente a sinistra, proseguii per altri trenta metri e mi fermai davanti a un cancello arrugginito. Reti metalliche coperte da pannelli di legno cingevano il cortile. Impedivano ad occhi indiscreti di guardarci dentro.
Attesi per un minuto. Nessuno in vista. Suonai più volte il clacson.
Niente.
Aspettai altri due minuti, finché un uomo grassoccio e pelato aprì il cancello dall'interno. Mi disse di entrare con un cenno della mano e lo richiuse alle mie spalle. Scesi dal furgone e aprii le doppie portiere posteriori. Mi guardai intorno. Decine di veicoli distrutti, piegati e malridotti. Un tempo doveva essere un cortile.
L'uomo mi raggiunse. "Sei stato seguito?"
"Non credo."
"Non credi o non lo sai?"
Che cazzo ne so se sono stato seguito! "Non lo so."
Serrò gli occhi e si allontanò un poco, prese il cellulare e compose un numero. "Problemi? No? Ok... Capisco... Certo... Tienimi aggiornato." Mise il cellulare in una tasca interna del giubbotto e mi guardò. "Apro l'altro cancello. Tu parcheggia dentro il furgone."
Entrai nel veicolo e lo guidai dentro il palazzo. Parcheggiai vicino a una colonna portante. L'ambiente un misto tra un parcheggio interno e un magazzino. Quattro uomini in tuta da lavoro uscirono da una porta laterale. Quando mi videro, smisero di ridere e scherzare.
Quello con i capelli rasati passò lo sguardo dagli altri a me. "Dov'è Ian?"
"Si è licenziato."
"Licenziato? Impossibile. Lui..."
L'uomo grassoccio lo guardò in malo modo. "Ti sembra il momento di fare due chiacchiere? Scaricate quelle fottute casse!" Mi prese per un braccio e mi condusse in disparte. "Dì a Loretta che abbiamo avuto problemi con i giocattoli. Risolveremo la questione entro due o tre giorni, capito?"
Annuii.
Lasciai il palazzo.



 

3

Tornai al negozio di Loretta e varcai la saracinesca. L'uomo imponente mangiava un sandwich, seduto accanto a una moto dall'ampio manubrio. La tuta da lavoro imbrattata di olio di motore.
Alzò lo sguardo. "Qualche problema?"
"No, tutto a posto. Devo dare un messaggio a Loretta."
Staccò un morso e masticò con la bocca aperta. "Che messaggio?"
"Forse è meglio se glielo dico di persona."
Si alzò in piedi con un ghigno, la barba cosparsa di briciole. "Sei sveglio."
Sveglio? Per cosa? Non parlai.
Si pulì le mani unte sulla tuta grigia. "Seguimi."
Entrammo in una porta laterale e seguimmo il corto corridoio fino alla penultima porta. Bussò piano prima di aprirla.
Loretta riordinava una pila di cartelle sulla scrivania. Non ci degnò di uno sguardo. "Che c'è?"
"Il tizio nuovo ha un messaggio per te."
La donna corrugò la fronte. "Qual è il messaggio?"
"Dice di volertelo dire di persona."
"Sto parlando con te? No? Allora sparisci!"
Mi avvicinai e le diedi il messaggio.
"Ti ha detto proprio così?"
"Sì."
"Perché non volevi dirlo a Steven?"
"Credevo volessi saperlo di persona."
"E cosa te lo ha fatto credere?"
Sollevai le spalle. "Non lo so, lo reputavo importante."
Mi fissò per un momento. "Ok, grazie per avermelo detto. Ora puoi andare." Prese il cellulare e compose un numero.
Chiusi la porta a ci posai un orecchio.
"Perché non mi hai chiamato, Pete? Perché usare il corriere per dirmi che avevi delle grane? Ti sei rincoglionito, per caso? Sai quanto cazzo è pericoloso una cosa del genere?"
Un forte suono metallico provenne dall'officina. Sobbalzai. Fissai l'estremità del corridoio.
"Vaffanculo" urlò Steven. "Chi cazzo ha lasciato la cassetta degli attrezzi aperta!"
Tirai un sospiro di sollievo e mi allontani.

Arrivato al Joe's Market, entrai nell'ufficio di Seth. Era seduto dietro la scrivania. Sopra, un centinaio di dollari. Mi sedetti e lo guardai.
Sbuffò dal nervoso. "Prendi quei cazzo di soldi!"
"Sarà sempre così d'ora in poi? Diventerò il corriere?"
"Per adesso."
"Che vuoi dire?"
"Fai il tuo lavoro e tieni la bocca chiusa."
"Faccio due lavori e..."
"Da domani ne farai solo uno."
Non parlai subito. "Stai dicendo che farò più di tre viaggi."
"Ne farai molti."
Cinquanta dollari a viaggio era una ottima somma, anche se l'idea di arricchirmi non mi faceva fare salti di gioia. Apatia assoluta. Voglio solo saltare da quel fottuto tetto! Tutto qui.

Verso le otto di sera raggiunsi il palazzo in cui abitavo e salii la rampa di scale. L'ascensore era rotto da così tanto tempo, che ormai tutti i condomini non lo degnavano di uno sguardo.
Appena infilai la chiave nella toppa, la porta alle mie spalle si aprì. Mi voltai.
"Thomas."
"Ciao, Derek."
"Vuoi farmi compagnia? Ho cucinato del pollo arrosto. Ho fatto anche le patate."
L'odore mi fece venire l'acquolina in bocca. Toby sbucò da dietro le pantofole dell'anziano e inclinò la testa un poco a lato.
Girai la chiave nella serratura. "Grazie, ma sono stanco."
"Dai, non farti pregare. Cena con me. Solo per oggi. Fai contento un vecchio."
Toby uscì la lingua di fuori e mi fissò, come a voler chiedermi di entrare.
"Va bene" mi sorpresi a dire.
Il viso dell'anziano si illuminò di gioia. "Accomodati, accomodati."
Chiusi nuovamente a chiave il mio appartamento ed entrai in quello di fronte, l'odore di pollo arrosto intriso nell'aria. L'abitazione di Derek era accogliente, semplice con qualche mobilio antico e diversi dipinti ad olio appesi alle pareti. Mi condusse in cucina e mi fece sedere al tavolo. Toby si sdraiò nella cuccetta, posò il muso sul pavimento e ci fissò.
"Vuoi qualcosa da bere? Del vino o forse..." L'anziano aprì il frigo e si voltò. "Niente birra. Ho solo vino."
"Dell'acqua andrà bene."
"Non per me" sorrise. Portò in tavola vino e acqua e indossò i guanti da cucina. Aprì il forno, prese la teglia e la posò sul ripiano.
Mi alzai. "Ti do una mano."
"No, resta seduta. Sei mio ospite."
Derek preparò due porzioni e me ne porse una.
"Grazie." Mi versai un bicchiere d'acqua.
Si sedette e sorrise. "Bon appétit!"
"Parli francese?"
Abbassò gli occhi. "No, lo diceva sempre mia moglie..."



 

4

Dopo la squisita cena, ci sedemmo sul divano in soggiorno e guardammo un film western in bianco e nero.
L'anziano accarezzava Toby accucciato sul suo grembo.
"Mich non verrà" ghignò il cowboy col cappello a tesa larga. "È troppo codardo per duellare con me."
Lo sceriffo baffuto corrugò la fronte. "Vi sbagliate, John. Verrà e ve la farà pagare per aver ucciso i coloni. Cosa vi avevano fatto? Erano brave persone."
Il cowboy rise, beffardo. "Non esistono santi, sceriffo. Quando hanno trovato il bambino morto nel fiume, non hanno pensato due volte a mettere il cappio attorno all'indiano che l'ha trovato. Che prove avevano della sua colpevolezza? Gli hanno storto il collo e tanti saluti. Per voi questa è brava gente?"
Lo sceriffo lo fissò, torvo. "Gli indiani sono degli incivili a cui deve essere insegnato il vivere civile."
John inserì i pollici nel centurione. "Menzogne. Pensate di essere la fiaccola della civilizzazione?" sbuffò una mezza risata. "Allora quella stella che portate con tanta fierezza sul petto è inutile. Siete come loro, un assassino. Credete di dispensare giustizia, quando invece vi nascondete dietro l'arbitrarietà!"
Lanciai un'occhiata a Derek, le sue palpebre si sforzavano di restare aperte. Cominciò a russare.
"Cosa succede qui?" Mich serrò gli occhi verso John. Uno sguardo pregno di sfida e arroganza.
Il cowboy sollevò un angolo della bocca. "Siete venuto a morire?"
Mich si portò una mano sul calcio della pistola. "Sarete voi a morire, serpente!"
I due si fissarono a lungo. Lo sceriffo li osservava, impaziente. Il silenzio rotto da calde folate di vento. Una fisarmonica cominciò a suonare una melodia western. Al primo rintocco di una campana, i due estrassero rapidi le pistole e...
Spensi la tv, accarezzai Toby che mi leccò la mano e andai via.

Una volta nel mio appartamento, mi feci una doccia e guardai il cellulare. Scarico. Lo misi sotto carica e accesi il pc portatile. Giocai fino a mezzanotte, raggiunsi il tetto e mi sedetti sul parapetto. La luna piena mi osservava nella volta tempestata di stelle. Quella notte la tristezza e la depressione erano latenti. C'erano, ma non erano marcati. Non sapevo perché, ma forse passare del tempo con Derek mi aveva giovato. Non parlava molto, ma era di compagnia. La sua sola presenza mi aveva alleviato un poco la perenne solitudine che mi trascinavo dietro da sempre. Guardai giù, verso le luci e i veicoli che sfrecciavano da entrambe le corsie.
Non mi andava di saltare.
Perché ci sono salito? Abitudine? Cosa?
Più ci pensavo, più non ne capivo il motivo. Alla fine rimasi lì fino alle sei del mattino, sdraiato sul tetto e non sul parapetto come facevo di solito. Avevo persino dormito senza svegliarmi più volte, ma la voglia di uccidermi era ritornata silente nei miei pensieri.
Guardai il parapetto con gli occhi assonnati.
Salta! Prendi la rincorsa. Magari è più facile. Fallo adesso, così la gente avrà la tua morte sulla coscienza per tutta la giornata.
Presi la rincorsa e scattai in avanti. Poco prima di saltare, una gamba si bloccò e mi schiantai di spalla contro il parapetto.
Cos'è stato? Il cervello mi ha sabotato? Ho sentito un blocco.
Mi alzai, osservai il cornicione e mi allontanai, turbato.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


1

Mentre chiudevo il portone del condominio, incontrai Derek che tornava da una passeggiata con Toby.
Si fermò davanti a me. "Perché non mi hai svegliato?"
Montai in sella alla bici. "Non volevo svegliarti. E poi era tardi."
L'anziano mi guardò guardingo da sotto le sopracciglia cespugliose. Sorrise. "Va bene, però la prossima volta svegliami. Volevo vedere come finiva il film."
"Lo farò. Ora devo andare a lavoro."
"Buon lavoro."
"Buona giornata."
Quella mattina le strade erano molto trafficate. Fui costretto a pedalare sui marciapiedi per non restare bloccato tra i veicoli. Senza alcun motivo, mi venne in mente Fiona. Lo sguardo furioso, carico d'odio. Nessuno mi aveva guardato così, a parte mia madre, che mi aveva sempre incolpato di averle stroncato la carriera.
"Guarda come mi sono ridotta" diceva sovente fino alla nausea. "Una casalinga depressa che ingoia antidepressivi dalla mattina alla sera. Avevo un lavoro, una carriera. Tutto buttato per niente!"
Era la frase finale che mi colpiva come una pugnalata al cuore. Ogni volta che la sentivo, mi veniva voglia di saltare da quel fottuto tetto del cazzo.
Se sono stato un cazzo di peso, perché non hai abortito? Ma non avevo il coraggio di dirglielo. Non volevo farla stare male e una parte di me mi diceva di fregarmene, di sputarglielo in faccia. Lei non si preoccupava di quello che mi diceva e neanche ci dava peso. Non sarò mai come lei, perché so come ci sente a non essere uno sbaglio, un ostacolo.
Svoltai a destra e proseguii lungo il marciapiede. Nei pensieri ancora Fiona.
Forse l'ho conosciuta da qualche parte? Veniva a scuola con me? Ci ho lavorato insieme? O forse è solo pazza? Non credo di aver mai ferito così tanto qualcuno da spingerlo a uccidermi. Se lo avesse fatto, avrei risolto i miei problemi. Ma io voglio morire in un altro modo. Tutti devono sentirsi in colpa per la mia morte, soprattutto una persona, mia madre.

Arrivai al negozio dieci minuti prima e lasciai la bici al solito posto. Seth scese dalla porche parcheggiata nel retro. Mi fece segno di raggiungerlo. Indossava una camicia bianca e una giacca nera. "Oggi andrai fuori città e avrai anche compagnia. Mi raccomando, pensa solo a guidare. Non è gente che ama fare conversazione, intesi? Non fare come quel cazzone di Ian che non riusciva a tenere la bocca chiusa."
"Si è licenziato per questo?"
"Certo, certo, ora pensa a caricare il furgone." Si allontanò di qualche passo, si fermò e tornò indietro. Prese un foglietto piegato da una tasca della giacca di seta e me lo rese. "Questo è l'itinerario. D'ora poi seguirai solo questo. Se ci sono cambiamenti, ti avviso. E se lo fai a vedere a qualcuno..." Mi posò una mano sulla spalla. "Non farmi essere cattivo, Tom. Non voglio, ok?" Mi diede un buffetto sulla guancia e si diresse verso il negozio.
Non diedi peso alla minaccia, anche perché non me ne fregava niente. Aprii il foglietto e lo lessi. Varie soste nel quartiere di Harmony e Jefferson. L'ultima fuori città, vicino a un capannone abbandonato. Lo piegai e lo misi in tasca. Andai a caricare le casse sul furgone.
Poco prima di finire, un uomo mi raggiunse alle spalle. Sulla quarantina, occhiali da vista, viso squadrato e corti capelli castani. Indossava una camicia bianca e un maglione blu senza maniche. Inizialmente pensai che fosse l'uomo visto nella berlina nera, ma non lo era.
Mi allungò una mano. "Victor Martini."
Martini? È un cognome italiano. Gliela strinsi. "Thomas Horke."
"Da oggi in poi saremo compagni di viaggio."
Ma non era solo per oggi? Non voglio avere nessuno tra i piedi. "Va bene. Finisco di caricare le casse."
"Fai pure. Vado a scambiare due chiacchiere con Seth."
Lo aspettai nel furgone per più di mezz'ora, finché comparve di fianco alla portiera con in mano due bicchierini di caffè fumanti. Me ne porse uno.
"Grazie." Aspettai che salisse per iniziare a bere.
L'abitacolo s'impregnò del buono odore di caffè. Gettai i bicchierini di plastica nel bidone accanto al mio finestrino e girai la chiave nel blocchetto d'accensione. Il motore borbottò diverse volte, ingranai la prima e partii.
Per tutto il viaggio durato mezza giornata, non ci scambiammo nemmeno una parola. Victor non faceva altro che fissare lo specchietto retrovisore laterale, guardare fuori dal finestrino e mandare messaggi quando giungevamo e partivamo da un destinazione.
Forse informava Seth? O il sicario?
Arrivati al Joe's Market per l'ultima consegna, scorsi quattro uomini vicino a una monovolume. Scendemmo dal veicolo.
Victor andò a salutarli.
Appena caricai l'ultima cassa, i quattro uomini entrarono nell'auto.
Victor mi raggiunse. "Ci seguiranno dalla distanza."
"Perché? Dobbiamo solo fare l'ultima consegna."
Mi guardò per un attimo. "Sicurezza. Meglio essere preparati."
Chiusi le portiere posteriori. "Per cosa?"
"Non fare domande. Andiamo."



 

2

Guidai fuori città e proseguimmo su una lunga strada illuminata intermittente dai lampioni. La monovolume a debita distanza dietro di noi. Mi fermai a un incrocio a T e svoltai a destra. Trecento metri dopo girai a sinistra e m'inoltrai in una stradina sterrata, fiancheggiata da alti pini e robusti cespugli.
Victor mi guardò. "Rallenta e spegni i fanali."
"Ma non vedrò niente."
"Spegnili!"
Lo feci e guidai per un po' con la prima.
"Fermati vicino a quello spiazzo."
Una volta arrestato il furgone, la monovolume proseguì sulla stradina e sparì dietro una curva.
Victor estrasse la pistola che teneva in una fondina sotto la giacca e guardò fuori dal finestrino.
Spalancai gli occhi nel vedere l'arma. Non ne avevo mai vista una e mi mise a disagio.
Abbassò il finestrino e sbirciò fuori per un pezzo. Si voltò verso di me. "Metti in moto, ma non partire."
Girai la chiave nel blocchetto di accensione. Attesi.
Victor guardò per un lungo momento la strada da cui eravamo venuti. Si voltò verso di me. "Parti."
"Hai visto qualcosa?"
"Pensa a guidare!"
Seguii la strada sterrata per trecento metri. Arrivammo davanti a cinque capannoni abbandonati in cui l'erica ci cresceva incontrastata. Poco più avanti, un grosso capannone dal tetto crollato.
I quattro uomini erano in piedi accanto alla monovolume.
Spensi il motore, uscimmo dal furgone e li raggiugemmo.
Victor si guardò intorno. "Notato niente?"
L'uomo dai capelli biondi buttò la cicca a terra. "No, sembra tutto tranquillo."
"Sembra? Che cazzo vuol dire sembra?"

Aspettammo per quasi un'ora. L'aria iniziava a farsi più fredda. Erano le otto e mezza e nessuno si era fatto vedere. Non sapevo chi dovesse incontrare, ma di certo doveva essere importante. Le casse sul furgone parlavano da sole. Victor aveva mandato due uomini indietro, che costeggiarono la strada muovendosi tra gli alberi. Tornarono dieci minuti dopo. Nessuno in vista.
Quando uno dei quattro uomini accese i fanali della monovolume per far luce, udimmo due motori tra i boschi.
Victor mi diede un colpetto al braccio. "Scarica la merce."
Appena chiusi le doppie portiere posteriori, un suv e un furgone si fermarono davanti a noi.
Sette uomini uscirono dai veicoli, cinque armati di mitragliatrici. Si guardarono attorno.
Ma in cosa mi sono cacciato?
Un uomo in giacca e cravatta si avvicinò a Victor. Sulla sessantina, corti capelli bianchi portati su un lato e labbra sottili piegate in un sorriso bonario. Assomigliava a uno dei tanti vecchietti nel parco che davano da mangiare ai piccioni.
Si strinsero la mano senza dirsi una parola. L'uomo anziano indicò le casse ai suoi uomini. Quelli li caricarono sul furgone e andarono via.

Lasciammo il capannone con la monovolume che procedeva in avanti.
Guardai Victor. "Era uno scambio, giusto?"
Mi lanciò una vaga occhiata.
Se era uno scambio, perché non l'hanno pagato? Che fosse già stato pagato in anticipo? Oppure che fosse una sorta di dono? O magari stavano restituendo la merce?
Arrivammo al Joe's Market verso le nove mezzo di sera. Parcheggiai il furgone nel garage, presi la paga da Seth e pedalai al mio appartamento.
Una volta arrivato, mi feci una doccia calda e mi cucinai due fettine di carne. Mi sedetti sul divano. Avevo guadagnato in un solo giorno quattrocento dollari. Erano un mucchio di soldi. Di questo passo sarei diventato ricco. Avrei potuto andarmene da questo tugurio e permettermi un appartamento nel ricco quartiere di Uptown. Forse potevo persino permettermi un auto. Più ci pensavo, più non sentivo niente. Apatia totale. Sapevo che sarei rimasto qui, che non avrei comprato nessuna macchina e che quei soldi sarebbero solo aumentati, tolte le bollette.
Lanciai uno sguardo nella stanza. Un divano, un basso tavolino e un pc portatile. In un angolo, un materasso e svariati casse di cartone con all'interno diversi libri che risalivano persino alla mia infanzia. Il mio appartamento rispecchiava l'abissale vuoto intriso nella mia anima.
A mezzanotte mi sedetti sul parapetto del tetto e guardai le strade sottostanti pulsare di vita. Pensai a mia madre, al suo odio verso di me, ma come sempre non riuscivo a saltare.
Immagina la sua faccia quanto ti vedrà spappolato sul marciapiede. Si metterà a piangere, soffrirà e avrà i sensi di colpa.
Non gliene fregherà un cazzo. Anzi, forse sarà persino felice.
No, lei ti piangerà, lo sai. Non è così crudele. Tu salta e vedrai che piangerà.
Non puoi esserne sicuro.
Certo che lo sono. Devi solo saltare e vedrai che è così. Si struggerà per i sensi di colpa.
Non gliene frega un cazzo di me e non gliene frega nemmeno se mi ammazzo!
Scesi dal parapetto e mi coricai sul pavimento, le dita incrociate dietro la testa. Osservai la luna piena sorridermi in un ghigno. Chiusi gli occhi.



 

3

Mi destò un tuono che echeggiò a lungo nell'aria. Cominciò a piovigginare. Con gli occhi assonati, guardai i violacei fulmini squarciare il cielo. Alcune saette si perdevano fra le nuvole in tante venature prima di schiantarsi a terra in un boato. Quel suono mi acquietava. Chiusi gli occhi e ascoltai i violenti rombi propagarsi tutt'attorno.
Piovve a dirotto.
Restai immobile, senza la minima voglia di andarmene. Quello era il mio rifugio e, con la pioggia che mi picchiava il viso, mi sentii connesso con il mondo. La mia perenne apatia si era come dissolta nel nulla.
Per quanto mi piacesse, alla fine il freddo si insinuò nella carni e andai a sedermi sul pianerottolo che dava sul tetto. Mancava mezz'ora alle sei.
Diversi passi riverberarono nella rampe di scale. Qualcuno scendeva in tutta fretta, ma non ci diedi importanza. Osservai i fulmini dilaniare e illuminare intermittenti il cielo.

Dopo aver fatto la doccia, bevvi un bicchiere di succo all'arancia e lasciai l'appartamento. Uscii in strada e montai in sella alla bici. Mi ricordai che adesso facevo il corriere. Non sapevo se dovessi lavorare anche di sabato.
Pescai il cellulare dalla tasca, scrollai la rubrica e chiamai Seth.
"Sì?"
"Oggi devo venire a lavoro?"
"Cristo Santo, è sabato... Mi hai svegliato per questo? E poi ti ho detto di non chiamarmi, cazzo! Vaffanculo, Tom!"
"Io... volevo sapere..."
Riattaccò.
Misi il cellulare in tasca e cominciai a pedalare senza una meta precisa. Dopo un'ora ritornai nel mio appartamento, mi feci un'altra doccia e mi buttai sul letto. Odiavo i fine settimana. Mentre tutto il mondo si divertiva, io ero una sagoma su uno sfondo sfocato.
Verso le undici mi svegliò la suoneria del cellulare. Era Simon, l'utente Majestic81, che avevo conosciuto sul forum di pittura.
"Pronto?"
"Dove sei? Ti sto aspettando da più di dieci minuti."
Cazzo! Saltai giù dal letto e, mentre tenevo il cellulare pressato fra un orecchio e una spalla, mi infilai i jeans che trovai sulla sedia. "Sì, sto arrivando. Ho avuto problemi con, con huh..."
"Stavi dormendo?"
"No, niente affatto. Ho avuto problemi."
"Niente di serio, spero?"
Indossai un maglione nero. "No, non preoccuparti. Sto arrivando! Anzi, sono già lì."
"Sì, come no" sbuffò in una mezza risata. "Ti aspetto."
Mi sciacquai in tutta fretta la faccia e mi precipitai fuori dall'appartamento. Scesi le scale a due a due ma, arrivato al secondo piano, mi fermai e le salii nuovamente. La porta era chiusa a chiave. Uscii dal condominio.
Per fortuna ci avevamo dato appuntamento a due isolati dal mio appartamento, anche se Simon non sapeva dove abitassi. Raggiunsi il bar a passo sostenuto, serpeggiai tra i tavoli gremiti di gente e mi sedetti.
Simon era un uomo della mia età, sulla trentina, magro, lunghi capelli neri scompigliati e un occhio bieco. Non sapevo se da quell'occhio ci vedesse, ma non glielo avevo mai chiesto e nemmeno m'importava. Indossava solo abiti neri e aveva una strana barba. Folta ai lati e assente dal mento e sopra le labbra. Sembrava appena uscito da un quadro ottocentesco.
"Sei arrivato, finalmente."
"Scusa per il ritardo, ma ho avuto un contrattempo."
Sorrise. "Come al solito."
Un cameriere ci raggiunse. "Buongiorno. Cosa vi porto?"
Lo guardai. "Un caffè e un cornetto al cioccolato."
"Per me un Jinseng."
Si allontanò.
Mi sistemai meglio sulla sedia. "Be', com'è andata la galleria? Hai venduto qualche quadro?"
"Li ho venduti tutti, tranne uno."
"Quindi ora sei più ricco di prima" sorrisi. "L'altro non lo ha voluto nessuno?"
"Ti dirò, ha ricevuto molte offerte, ma ho deciso di non venderlo più?"
"Perché? Non erano abbastanza consistenti?"
Simon piegò un angolo della bocca. "No, niente affatto. È stato il quadro che ha ricevuto più offerte, ma ho deciso di tenermelo. Dopo tutto è stato il mio primissimo dipinto ed era quello meno, come dire, affascinante. Forse è per questo che ho ricevuto offerte sostanziose, quasi due milioni."
Due milioni? Li avrei accettati seduta stante. I miei dipinti non li comprerebbe nemmeno un cieco. "Lo avrei fatto anch'io, almeno lo credo."
Il cameriere giunse con un vassoio, ci servì e posò lo scontrino sul tavolo.
Presi il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans, ma Simon mi anticipò e diede cinque dollari al cameriere, che andò via.
Lo guardai. "Toccava a me."
"La prossima volta" sorrise. "Entri ancora in quel forum?"
"Quello di pittura?"
Simon annuì e bevve un sorso di Jinseng.
"Ogni tanto. Tu, invece?" Diedi un morso al cornetto.
"Mi ero cancellato, ricordi? Recentemente mi sono fatto un nuovo profilo, ma credo che il forum sia peggiorato. A parte due o tre utenti, il forum non è per niente amichevole."
"Pensavo fosse solo una mia impressione."
"Troppe critiche, insulti velati e diffidenza verso i nuovi utenti."
Feci un sorso di caffè. "Non ti facevo così acuto. Hai notato il gruppetto che si è creato?"
"Sì, è non mi è piaciuto per niente. Quel forum sembra essere diventato più un gruppo privato, che qualcosa aperto a tutti."
"Sei andato nella sezione nuovi lavori? Hai visto i commenti?"
Annuì. "Gli unici commenti che ho visto sono quelli in cui criticano il lavoro altrui. Certo, una giusta critica costruttiva ci sta, ma se noti non c'è nessun commento positivo, nemmeno nei dipinti fatti davvero bene. Spacciano merda, per critiche costruttive. Uno come può imparare così?"
Masticai e mandai giù l'ultimo boccone del cornetto. "Le critiche non ci sono nei lavori di utenti vecchi. E no, non c'entra la bravura. Hai visto da te che ci sono utenti bravi che vengono lo stesso criticati in quanto vanno alla ricerca del cavillo, lo stesso cavillo che puoi trovare negli utenti vecchi. L'unica differenza è che questi non vengono criticati, non nella maniera con cui lo fanno con quelli nuovi. Ecco, è qui che mi sono accorto che c'è un gruppetto. Forse pensano che il nuovo utente sia un dilettante, senza sapere che magari dietro c'è un pittore con anni e anni di esperienza. Anzi, mi sono accorto che più è bravo, più non viene calcolato, nemmeno se partecipa attivamente. E quelle volte che lo commentano, lo fanno sempre con critiche insensate e forzate. A volte mi chiedo se tutto questo è solo nella mia testa."
Simon posò la tazzina sul tavolino. "Credi che la bravura attira antipatia?"
"Forse, anche se mi sembra proprio così. Inoltre la maggior parte dei nuovi utenti sparisce e il motivo credo sia palese. Non è accogliente."
"Hai letto quella discussione dove hanno bannato Avvoltoio Celeste? Quello che aveva postato il quadro che ritraeva il monte Everest? Che poi è anche un bel dipinto."
Annuii. "Lo hanno bannato per cosa? Perché si difendeva da una critica insensata di un altro? Bastava chiudere la discussione o richiamarli entrambi. E poi dovevano bannare anche l'altro che non faceva che criticare ogni cosa che diceva, ma non l'hanno fatto e sai perché?"
Simon sorrise. "Utente anziano."
"Già... Ecco perché non ho mai partecipato attivamente nel forum. Prendi i tuoi dipinti. Ora valgono milioni e sul forum ti dicevano che non sapevi usare i colori, che dipingevi male e di lasciar perdere la pittura. Ed erano opere vecchie, se vedessero i dipinti di adesso cosa direbbero?"
"Che vuoi farci? La gente è così. Non mi sono mai reputato un bravo pittore. Forse per questo non ho mai preso sul serio le loro parole."
"Nemmeno adesso ti reputi tale."
Simon corrugò la fronte. "Come lo sai? Mi leggi nel pensiero?"
"L'hai detto in un intervista sul canale sette."
"Ah, sì, giusto." Gli squillò il cellulare che teneva sul tavolino. Lo prese. "Simon Dunwall.... Certo, mi va bene... Forse è meglio alle nove... Non posso venire da solo? Capisco... Ci vediamo stasera."
Lo guardai. "La fama è così stressante come dicono?"
"Sì, e non oso immaginare come sia per un attore. Deve essere frustrante essere inseguito e accerchiato dai fans. Almeno io sono fortunato. Posso bere qualcosa con un amico senza il rischio di essere disturbato." Si alzò. "Ora devo scappare. Ci vediamo sabato prossimo?"
Gli strinsi la mano. "A sabato prossimo. E questa volta offro io."
Simon sorrise. "E non prendere sonno come oggi."

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Capitolo 4
*** Epilogo 4 ***


1

Tornato a casa, mi buttai sul letto e fissai il soffitto. Chissà com'è essere famoso? Essere ammirato per i propri lavori, avere dei fans. Più ci pensavo, più preferivo non esserlo. Molti avrebbero parlato male di me, giudicato il mio pensiero, criticato i miei lavori. Quante sarebbero state false critiche bonarie? Quante quelle oneste?
Compresi che non era questo il problema, non temevo il giudizio. In realtà non m'importava niente della fama. Non riuscivo nemmeno a sentire l'eccitazione di come doveva essere. Vuoto. Totale. Esistenziale.
Chiusi gli occhi e ascoltai il traffico fuori dalla finestra. Mi addormentai.
Mi svegliai verso le tre del pomeriggio e restai sul letto a fissare un fascio di luce polveroso filtrare da uno spiraglio nella tenda. Mi alzai, mi sciacquai la faccia e accesi il pc portatile. Andai sul forum di pittura e scrollai le varie sezioni. Nessuno scriveva nella chat da quasi un mese.
Lessi i commenti di una discussione dal nome: il mio primo disegno sfumato.
Non dirò nulla sul disegno, perché c'è molto da dire, ma le sfumature sono tutte sbagliate.
Un disegno infantile e privo di vita.
Gli alberi li avrei fatti diversamente, sembrano fatti da un bambino.
La prospettiva è fatta malissimo. Non sai disegnare. Prima di postare, impara a disegnare.
Ma avevano capito che era il suo primo lavoro? Dov'erano i consigli? I suggerimenti? Dove? Per poter condividere una propria passione dovevi per forza essere Van Gogh?
Uscii dal forum, mi alzai e andai a stapparmi una birra. Le giornate che più odiavo erano quelle in cui non avevo niente da fare. Lanciai un'occhiata verso la tela bianca messa contro il muro. Sentivo il bisogno di riempirla, di sporcarla, o forse era il vuoto interiore che volevo colmare.

Alle sei andai a fare una passeggiata. M'incamminai nelle caotiche strade di Harmony e giunsi al parco. Mi sedetti su una panchina e fissai il gettito d'acqua di una fontanella sgorgare in un'ampia fontana.
"Thomas!"
Mi voltai. Era Lea in compagnia di una sua amica. Una ragazza sopra i vent'anni, magrolina, lunghi e ondulati capelli castano scuro, naso aquilino. Indossava una maglietta nera e jeans grigi strappati.
Si fermarono davanti a me.
"Ehi, Lea."
"Sei da solo?"
"Facevo una passeggiata."
"Anche noi." Guardò la sua amica. "Patricia, Thomas. Thomas, Patricia."
Le porsi una mano. "Piacere."
Me la strinse. "Piacere mio."
"Quindi sei da solo?" sorrise Lea.
"Così pare."
"Vuoi unirti a noi? Stiamo andando al Crazy JoJo."
"Grazie, ma ho da fare."
Si accigliò. "Oh, va bene..."
Mi alzai. "Ci vediamo."
"Sì... ciao."
Mentre mi allontanavo, gettai uno sguardo alle mie spalle. Patricia stava dicendo qualcosa a Lea. Quando si girarono verso di me, fecero finta di niente e si avviarono dall'altra parte del parco. Sapevo che non si era bevuta quella scusa. A volte mi sentivo anche in colpa, ma sapevo che, conciato com'ero, una donna era l'ultimo dei miei pensieri. E non mi andava di trascinarla nel baratro insieme a me.
Mi sedetti sugli scalini di una palazzina e divorai un panino con la carne. Tutt'attorno la gente rideva, scherzava e la solitudine mi colse come una coltellata nello stomaco. Tornai al mio appartamento, posizionai il cavalletto sul balcone e posai la tela. Il sole calava dietro i tetti degli edifici e mandava tinte rossastre nel cielo. Lo dipinsi. Pennellate veloci, nervose. Dopo due minuti mollai tutto.
Schifo totale!
Non mi andava di fare niente. La strana e improvvisa stanchezza che si era impossessato del mio corpo era in realtà angoscia. Angoscia di cosa?
Mi sedetti sul divano e guardai un film horror sul pc portatile.
Parla di un ragazzo che, durante una banale passeggiata nel bosco, incontra uno strano essere astratto. Da lì cominciano una serie di eventi assurdi che non riuscirei a spiegare nemmeno se leggessi la trama.
Finito il film, che trovai sul limite della follia e della confusione, guardai l'orario sul pc. Mancavano dieci minuti a mezzanotte. Era la prima volta che non mi andava di salirci. Non ne avevo proprio voglia. Anzi, non mi andava di fare niente, nemmeno di alzarmi dal divano. Mentre pensavo a Lea, il volto di mia madre si materializzò davanti agli occhi. Uno sguardo grave, sospettoso e acido.
Scattai in piedi e uscii dall'appartamento. Salii le scale e mi sedetti sul parapetto del tetto.
Ora buttati di sotto! Non vedi quanto fa schifo la tua vita? Non hai nessuno, sei solo. SOLO!
Non era la voce che mi convinse a farlo, ma la faccia di mia madre. Lo sguardo sempre contrariato per ogni cosa che dicevo e facevo, quella stridula voce che mi incolpava di averle reso la vita un inferno.
Non volevi che nascessi? Ti semplifico la vita! Sarà colpa tua! TUA!
Guardai la mezza luna con gli occhi umidi, li chiusi.
Saltai.
Finalmente...



 

2

Qualcuno mi afferrò dalle spalle e mi trascinò giù dal parapetto, il cuore che mi schizzava dal torace.
Non volevo morire. Non volevo! Che cazzo mi è passato per la testa?
"Lo sapevo che c'era qualcosa che non andava." La voce mi arrivò distorta, lontana.
Mi voltai, frastornato, le labbra asciutte, gli occhi sbarrati.
Era Derek. "Cosa volevi fare? Volevi ucciderti?"
Non riuscivo a trovare le parole.
"Forza, tirati su. Vieni con me. Ti preparo qualcosa."
"Io... non..."
"Sssh. Non parlare. Sei scosso."
"Sto... sto bene."
"Non stai bene. Forse non lo sei da un bel po' di tempo."
Aprì la porta del tetto e scendemmo la rampa di scale. Quando entrammo nel suo appartamento, Toby ci scodinzolò tra le gambe, come se non vedesse l'anziano da una vita.
Derek mi condusse nel soggiorno, accese la tv e andò in cucina.
Fissai il vuoto. Le immagini scorrevano, ma non riuscivo a vedere niente. Mi guardai le mani. Tremavano. Non le sentivo, eppure era così.
Forse mi sono pisciato addosso. Abbassai lo sguardo. Niente. I battiti cominciarono a rallentare.
Derek entrò nella stanza con due tazze fumanti. Me ne porse una. "È camomilla."
Non mi piace. "Grazie..."
Si sedette al mio fianco e sorseggiò la bevanda, preso dal film western, o almeno dava questa impressione.
Restammo in silenzio fino alla pubblicità. Non riuscivo a parlare.
Ricominciò il film. "Perché l'hai fatto?"
Lo fissai.
"Sapevo che c'era qualcosa che non andava. Quando sei venuto a cena da me, ne ho avuto la conferma."
Mi limitai a guardarlo.
Posò la tazza sul tavolino ovale. "Mia moglie... Lei... lei aveva l'alzheimer. Non era nel pieno della malattia, ma all'inizio. Si dimenticava le cose, a volte chi ero o chi era lei. Poteva durare un momento, diversi minuti, a volte ore." Abbassò lo sguardo su Toby, gli accarezzò la testa. "Un giorno tentò di togliersi la vita. La trovai distesa nel bagno. Aveva ingoiato non so quanti tranquillanti..." Gli occhi gli si umidirono. "Quella volta le andò bene. Bastò una lavanda gastrica, ma... non fu un caso isolato. Cercò di uccidersi in altri modi... Io... non... non capivo. Pensavo fosse la malattia, invece... lei voleva uccidersi. Me, me lo disse un giorno quando..." Scoppiò in un pianto sommesso. "Non voleva vivere così. Non voleva dimenticare i nostri anni insieme. Preferiva uccidersi prima che..." Si asciugò le lacrime con la manica della giacca di lana. "Aveva paura di dimenticare, di dimenticarmi. Così l'ho lasciata andare... Si è addormentata con la testa sul mio petto. Voleva... voleva sentire il mio cuore battere mentre se ne andava..."
"Mi dispiace." Le parole mi uscirono di getto. Percepii un nodo alla gola e mi trattenni dal piangere.
Derek mi guardò con gli occhi arrosati. "Tu hai lo stesso sguardo. La stessa sofferenza. Ho creduto che tu, insomma, che fosse normale, che fosse il tuo sguardo. Dopo che hai cenato con me, i tuoi occhi sono cambiati, si sono rilassati. Mi sei sembrato felice. E li ho capito."
Ed era così. Avevo cenato e guardato un film western con un vecchio, eppure ero stato felice. Con nessuno avevo provato una simile serenità.
"Ti ho visto uscire questa notte. Ho intravisto il tuo sguardo sconvolto e non mi è piaciuto per niente. Così ti ho seguito... Ti sei seduto sul parapetto."
"Sei rimasto a osservarmi per tutto quel tempo?"
Derek annuì. "E ti dirò anche che non è la prima volta. È da quando sei venuto a cena da me che ti osservo."
"Quindi... quindi non stavi dormendo quando me ne sono andato?"
"Certo che sì. Mi sono svegliato appena hai chiuso la porta. Invece... Quando... quando sentivo la tua porta chiudersi a mezzanotte, qualcosa mi diceva di seguirti. Sentivo che avresti fatto qualcosa di... di sbagliato."
Non sapevo cosa dire. Più lo guardavo negli occhi, più mi sentivo nudo, esposto. Una sensazione sgradevole. Non mi era mai piaciuto sentirmi così, come non mi era mai piaciuto che gli altri mi leggessero dentro. Non avevo nulla da nascondere, eppure era una cosa che temevo. Non volevo che gli altri vedessero quanto in realtà fossi fragile e sensibile. Non volevo dare in mano agli altri il potere di farmi soffrire, di annientarmi.
Ma lui è solo un vecchio col suo cane. Un vecchio che si è preoccupato per me.
Si alzò. "Sarei più tranquillo se dormissi qui, questa notte. Ho una stanza per gli ospiti, in fondo al corridoio. Ultima porta a destra." Prese le due tazze vuote e andò in cucina.
Restai seduto per un lungo momento, l'acqua del lavabo che scorreva nella stanza adiacente. Fissai lo schermo della tv. Dietro un tavolo, una donna dava le notizie del primo mattino.
"Una nuova svolta sul caso Francis. Non si è trattato di omicidio, ma di suicidio. Stando alle nuove prove del procuratore Alexis Johnson, Francis si sarebbe ucciso con..."
Mi alzai, spensi la tv e andai in cucina. Trovai solo Toby che mangiava le crocchette dalla ciotola.
Uscito nel corridoio, un fascio di luce filtrava attraverso uno spiraglio nella porta socchiusa. Si spense.
Rimasi immobile per un attimo. Toby zampettò accanto ai miei piedi e scodinzolò nella camera di Derek. Sorrisi e girai la maniglia della camera degli ospiti.



 

3

Mi svegliai con una strana felicità. La stessa che mi aveva da sempre dato sui nervi. La percepivo come un emoziono falsa. La temevo. Quando le cose andavano bene o ero felice, l'universo mi lanciava buchi neri. Ma ora ero in pace con tutto e tutti.
È solo un momento, una cosa di passaggio. Tra poco tornerai ad essere depresso. Tornerai ad avere il mondo contro. A sentirti una nullità, un fallito! Tu sei un fallito, lo sai! Guardati allo specchio. Sei il riflesso del fallimento.
Mandai via quei pensieri, ma ritornarono più insistenti di prima. Cominciai a innervosirmi. Aprii la porta. Un intenso odore di caffè mi pervase le narici. Andai in bagno e mi sciacquai la faccia.
Quando entrai in cucina, vidi Derek seduto al tavolo, in mano una tazzina di caffè. "Buongiorno."
"Buongiorno."
"Ho appena fatto il caffè. Serviti pure. Le tazze sono sopra la mensola, accanto al frigo."
"Grazie." Me ne versai un po' e mi sedetti al tavolo.
Facemmo colazione in silenzio, interrotto dal masticare rumoroso di Toby.
Derek posò la tazzina sul tavolo. "Oggi è domenica. Cosa farai?"
Niente. Nei fine settimana sono una sagoma stagliata su uno sfondo sfocato. Non esisto. "Non lo so. Non organizzo mai le giornate."
Sospirò. "La vita avrà sempre l'ultima parola sui tuoi impegni. L'ho imparato poco prima di sposare Helen." Sollevò una foto che teneva posata sul grembo e la osservò a lungo. Me la porse. "Lei è mia moglie. La mia Helen."
Era una foto in bianco e nero. Derek era quasi irriconoscibile. Spalle ampie, da nuotatore, occhi vivaci, capelli tirati all'indietro e un viso meno scavato. Indossava un abito elegante, una cravatta e una rosa nel taschino esterno della giacca.
Helen era stupenda con quel sorriso solare e quegli occhi grandi e pieni di vitalità. Era molto più bassa di Derek e mi dava la sensazione che fosse lei la più forte dei due. Portava i capelli raccolti in uno chignon e indossava un lungo abito bianco ricamato dalle braccia. Entrambi apparivano come due persone semplici, genuine, come i loro vestiti.
Accarezzò Toby che si era sistemato ai suoi piedi. "Ci siamo sposati in gran segreto. La sua famiglia non accettava il nostro fidanzamento."
Gli resi la foto. "Perché?"
Fissò il pavimento. "Helen proveniva da un famiglia agiata, mentre io... beh, ero povero. Avevo un lavoro quando la conobbi, ma un un'anno dopo mi licenziarono. Tagli al personale. Così poco dopo mi ritrovai senza un soldo. Cercai persino di troncare con lei, in quanto avrebbe vissuto senza avere niente. Ma Helen non volle saperne. Era testarda..." Sorrise e osservò la foto. "Quando la sua famiglia ha scoperto che ci vedevamo in segreto, suo padre è venuto da me e mi ha detto di lasciarla stare... Non ha detto proprio così. Mi ha minacciato. Non dissi niente a Helen e cercai di allontanarmi..." Abbassò lo sguardo. "Suo padre aveva ragione. Non le potevo offrire una vita agiata. Non potevo portarla fuori a cena, comprarle qualcosa di carino. Quando arrivò il suo compleanno... non potevo darle niente. Ma lei rimase con me... Dopo un anno e mezzo trovai un altro lavoro e riuscii a mettere qualcosa da parte. Anche lei trovò lavoro in un negozio di abbigliamento, contro il volere del padre. Alla fine ci sposammo di nascosto e venimmo a vivere qui." Si guardò intorno. "Ogni angolo di questa casa mi parla di lei. A volte sento la sua voce, come se mi chiamasse da un'altra stanza."
Provai una nota di invidia nei suoi confronti. Non avevo mai provato un'amore simile e forse non lo proverò mai.
Mi guardò. "Tu hai una ragazza?"
"No, e mi va bene così."
"Qualcuno ti ha spezzato il cuore?"
"Più di una."
"Ti va di parlarne?"
Toby salì sul grembo dell'anziano e sbadigliò.
Sospirai. "Con la mia ultima ragazza andava bene, ma c'era qualcosa di... non so come dirlo, non trovo le parole. Era come se stesse con me per qualcos'altro. Per paura."
"Paura della solitudine?"
"Ecco, sì, era quella la sensazione. Non me le sono mai presa con lei, ma era una cosa che mi logorava dentro. Non era più come prima. Non mi amava. Lo vedevo, lo sentivo. Era tutto forzato. Abitudine, credo. Dopo quella storia non ho più cercato nessuna donna. Sto bene così."
"E solo perché non hai incontrato quella giusta."
"Può darsi, ma non ho mai creduto nell'amore."
Derek sorrise. "Se avessi visto me e Helen, forse ti saresti ricreduto."
Già...



 

4

Nel pomeriggio tornai nel mio appartamento e mi feci una doccia. Appena mi sedetti sul divano a guardare un film sul pc portatile, squillò il cellulare che avevo lasciato in bagno. Andai a prenderlo.
Era il dottor Waren. Cosa vuole? "Sì?"
"Salve, Thomas. Come va?"
Una merda, come al solito. Sai, ieri sono quasi riuscito a uccidermi. "Bene, tu?
"La dottoressa Sullivan mi ha detto che una sua paziente ti ha minacciato di morte e che..."
"Intendi Fiona?"
"La conosci?"
"No, ho solo sentito la psicologa chiamarla per nome."
"Ne sei sicuro?"
"Certo. È solo una pazza che mi ha fissato per tutto il tempo nella sala d'aspetto."
Non rispose subito. "Ha fatto solo questo?"
"Sì, solo questo."
"Ti è sembrata nervosa, arrabbiata o..."
"Non aveva nessuna espressione particolare. Anzi, pensavo che stesse dormendo con gli occhi aperti. Non li sbatteva mai. Era un po' inquietante."
"Prima che tu entrassi da Carla, ha fatto qualcosa di insolito?"
"Insolito come?"
"Ti ha seguito? Ti è apparsa nervosa? Ha fatto qualche gesto strano?"
"No, ha continuato a fissarmi. Anche quando la psicologa le ha detto che aveva sbagliato giorno dell'appuntamento, ha annuito e ha continuato a fissarmi."
Il dottor Waren sospirò. "Capisco. Grazie per le risposte. Buona giornata."
"Aspetta! Perché mi ha fatto queste domande? Perché mi hai chiamato?"
"Volevo capire se c'era un nesso tra voi due, se la conoscevi."
"Quindi è davvero pazza?"
"Sai che non posso parlare degli altri pazienti. Ora devo andare. Buona giornata."
Posai il cellulare sul divano. Perché ha pensato che la conoscessi? Mi reputa uno psicopatico come lei? Oppure ha pensato che le abbia fatto qualcosa? Nemmeno la conosco.

Guardai per la centesima volta Inception e visitai il forum di pittura. Notai che ci stavo entrando spesso e non capivo perché.
Forse non ho di meglio da fare? Forse voglio solo incazzarmi pur di sentire qualcosa? O ne sono ossessionato? Forse ho davvero una rotella fuori posto...
Lessi un paio di discussioni e commenti di dubbio valore. Critiche sterili spacciate per costruttive. Alcuni difendevano a spada tratta la loro opera, altri se ne fregavano. I primi sprecavano tempo, in quanto c'era un botta e risposta inutile e ridondante. I secondi non davano peso alle parole. Alcuni di questi erano davvero bravi nella pittura, molto più di quelli che tentavano di trovare il pelo nell'uovo. Sono sicuro che avrebbero criticato anche la Gioconda di Leonardo da Vinci, se le avesse dipinta e postata al giorno d'oggi. Trovare l'umiltà in quel forum era come cercare oro sugli alberi. E non si trattava di persone dalla forte personalità critica, ma di stronzi.
Gli stronzi non criticano mai se stessi, né accettano critiche. Grandi o piccole che siano.
Pensai a Simon, diventato famoso. Sul forum i suoi dipinti erano stati dapprima criticati, poi passati in sordina. Ora un suo quadro stava per essere messo in mostra al Louvre. Il talento non sempre è visibile a tutti.
Uscito dal forum, raggiunsi il balcone e poggiai gli avambracci sulla ringhiera. Qualche sporadica nuvola macchiava il cielo. Di sotto, un via vai frenetico di veicoli. Guardai in su, verso il cornicione del tetto.
Se Derek non mi avesse tirato giù, mi sarei spiaccicato sul marciapiede. Comincio a credere che i miei tentativi di suicidio fossero insensati... Che cazzo mi è passato per la testa? Forse... forse sono pazzo, più pazzo di Fiona. Perché dovrei uccidermi? Non ha senso. Che vadano tutti affanculo! Non mi ammazzerò per gli altri.

Verso le cinque uscii a fare una passeggiata nel parco. Bambini che si rincorrevano, coppie sdraiate sul prato, amici che giocavano a palla, anziani seduti sulle panchine. Mentre camminavo, vidi Derek seduto sul bordo della fontana. Toby ai suoi piedi e una decina di piccioni poco più avanti. Mi avvicinai. "Dai da mangiare ai piccioni?"
"Anche loro devono mangiare" sorrise. "Passeggiavi?"
Annuii.
"Come ti senti?"
Stranamente bene. "Non male."
"Pensi ancora al suicidio?"
"Io... non credo. Non..."
"Non farlo. Non pensarci. Sei ancora giovane. Qualunque sia il motivo, non è così importante da toglierti la vita." Posò una mano sulla mia spalla. "Le emozioni negative sono lì per dirti qualcosa, ascoltale, accettale. Ma non farti trascinare da loro, ok?" Ritirò la mano.
Poche parole che mi fecero capire quanto Derek ci tenesse a me. "Ok."
"Stasera ceni da me?"
"Certo, perché no."
Sorrise e gettò una manciata di molliche ai piccioni.

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