Racconti Horror

di FreddyOllow
(/viewuser.php?uid=845236)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo strano caso di Monica Portman ***
Capitolo 2: *** Come potrei? ***
Capitolo 3: *** Il Bosco ***
Capitolo 4: *** Occhi malefici ***
Capitolo 5: *** L'orfanotrofio ***



Capitolo 1
*** Lo strano caso di Monica Portman ***


1


Un vecchio siede in veranda. Osserva i pini dell'Arizona cingere la casa di legno, i fasci del sole filtrare tra le fronde smosse da un leggero venticello. Arrivato alla veneranda età di ottantun'anni, i suoi ricordi vacillano. Anzi, non ricorda nemmeno come sia stata la sua vita prima dello strano evento che lo ossessiona da anni. L'interrogatorio di Monica Portman. Mentre ci pensa, si versa un bicchiere di whisky e lo sorseggia con calma. Lancia un'occhiata ai documenti sul tavolo e, prima di prenderli, tentenna un momento. Poi li afferra con la mano tremante, ossuta e puntellata di macchie scure e li legge.


Trascrizione di Albert James, agente scelto della polizia dello stato dell'Arizona. Questa è una trascrizione dell'interrogatorio tra il Detective Edgar Monroe e Monica Portman, accusata di omicidio plurimo. Trascriverò solo la parte finale dell'interrogatorio. Il resto del materiale è in mano all'F.B.I. ed è classificato.


Cinquantasette anni prima, Albert James viene stato sostituito all'ultimo minuto dal Detective Edgar Monroe. Il capo della polizia John Moon, crede che quest'ultimo sia più qualificato negli interrogatori. Albert è risentito, ma accetta quella decisione. Insieme a due agenti, si chiude nella stanza dove si trova lo specchio unidirezionale. Osserva una donna sui cinquanta, viso ovale, occhi verdi e naso aquilino. È proprio bella, si dice. Non sembra una psicopatica, ma una donna fin troppo puritana.
Nella stanza entra il Detective Edgar Monroe. È frustrato. Ha interrogato la signora Portman per più di mezz'ora, ottenendo solo un silenzio snervante. Ma è deciso, non vuole arrendersi.
"Signora Portman." Ripete per la decima volta il Detective Edgar Monroe. "Perché hai ucciso ventiquattro persone?
La signora Portman non gli risponde, si limita a guardare il nulla.
"Allora?"
La donna fa un lungo sospiro.
"Sono qui per aiutarla."
La signora Portman fissa il Detective con uno sguardo carico d'odio. Non risponde.
Il Detective Monroe le siede di fronte, poggia le mani sul tavolo. "Possiamo aiutarla. Deve solo dirci cosa è successo."
"Nessuno può aiutarmi..." Risponde piano la donna.
"Cosa vuole dire?"
"Siamo tutti condannati. Tutti!"
"Chi? Di chi parla?"
La signora Portman allunga le mani sul tavolo, i palmi rivolti verso il Detective Monroe, che nota profonde bruciature all'interno.
"Prima... Prima non c'erano!" Dice il Detective Monroe, scioccato. "Come ve le siete procurate?"
"Sono stati loro." Risponde Portman con sguardo vacuo. "Loro... Sì, loro me l'hanno fatto." Fa un profondo sospiro. "I miei peccati. Dovevo espiarli. Dovevo!"
Il Detective Monroe la fissa, turbato. "Chi sono queste persone?"
"Oh, non sono persone." Dice la donna con un mezzo sorriso inquietante. "Sono ombre... Sì, sono ombre. Loro... Loro sanno la verità." Distoglie gli occhi dall'uomo e scruta il muro con stupore, come se ci vedesse qualcosa di meraviglioso.
Il Detective Monroe aggrotta la fronte, pensieroso. "Continua."
D'un tratto la signora Portman si porta le mani nei capelli, lancia un urlo tremendo e inizia a strapparseli.
Il Detective Monroe scatta in piedi e le torce i polsi dietro la schiena. La sbatte di faccia contro il muro. La donna grida isterica, rabbiosa, cerca di divincolarsi dalla presa.
Albert James e due agenti si precipitano nella stanza per aiutare il collega a tenerla ferma.
La signora Portman smette di gridare, abbassa la testa. Il viso le è diventato cadaverico, gli occhi cerchiati sono stanchi.
"Lasciateci!" Dice il Detective Monroe agli agenti.
"Ne è sciuro?" Domanda Albert James.
"Andate."
I tre agenti lasciano la stanza.
La donna guarda il soffitto con le dita incrociate, le labbra schiuse, gli occhi rovesciati all'indietro. "Tu mettevi il sigillo alla perfezione, eri pieno di saggezza, di una bellezza perfetta... Eri un cherubino dalle ali distese, un protettore. Ti avevo stabilito... tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato."
Sorpreso, il Detective Monroe allenta la presa dai suoi polsi e indietreggia un poco, senza distogliere lo sguardo da lei.
Gli occhi della donna tornano in avanti, il suo sguardo si riempie di stupore e urla. "Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell'aurora? Come mai sei atterrato, tu che calpestavi le nazioni? Tu dicevi in cuor tuo: Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio; mi siederò sul monte dell'assemblea... salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile all'Altissimo."
La lampada al centro della stanza inizia a lampeggiare, a fremere. Il tavolo viene catapultato in aria, le due sedie si schiantano contro il muro. Terrorizzato, il Detective Monroe raggiunge un angolo, il cuore che gli martella nel petto, le mani tremanti.
La signora Portman si eleva a venti centimetri dal suolo, allarga le braccia, dilata gli occhi, mentre i capelli neri le fluttuano attorno al capo. "E ci fu una battaglia nel cielo: Michele e i suoi angeli combatterono contro il dragone. Il dragone e i suoi angeli combatterono, ma non vinsero, e per loro non ci fu più posto nel cielo..." Rimane in silenzio per un attimo. Poi la sua voce cambia tonalità, diventa potente, gutturale, metallica, da uomo. "Il gran dragone, il serpente antico, che è chiamato diavolo e Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù; fu gettato sulla Terra, e con lui furono gettati anche i suoi angeli."
Un intenso bagliore bianco appare di fronte alla signora Portman. Alle sue spalle, un'oscurità impenetrabile.
Il Detective Monroe corre alla porta, gira la maniglia, ma è chiusa. Disperato, la colpisce ripetutamente con i pugni. Un vento gelido gli penetra le carni. Un'entità invisibile lo tocca, lo afferra, lo spinge, lo strattona.
"Siete stati ingannati." Urla la signora Portman. "Le ombre sanno... Si manifestano davanti a chi è stato ingannato. A chi crede nella menzogna della Bibbia. La Bibbia mente! Mente. Mente. Mente! È scritta dagli uomini, non da Dio! Lucifero è diverso... Lui è riconosciuto come nemico, ma in realtà è vittima. Vittima!" Tace per un lungo momento, mentre il Detective Monroe viene sballottato ripetutamente contro la porta. "Voleva essere libero. Voleva essere padrone di sé stesso. Voleva vivere! Vivere! Dio non ha voluto. Non ha voluto... Lo ha marchiato come nemico. Come mostro! Ma non è vero! NO! La Chiesa. Quell'entità malefica. È lei l'artefice di tutto ciò. Ha reso lucifero un mostro. Loro nascondono la verità. Si nascondano dietro falsa bontà. Loro sono il nemico! Il nemico! Hanno cambiato faccia, mutato i comportamenti... Secoli fa ambivano al potere, alla ricchezza. Ora non possono... La gente vede. Vede! Ma altri sono ciechi. Io sono cieca. Le ombre si manifestano davanti ai ciechi. Vogliono avvertirli! Vogliono che i vivi sappiano dell'inganno! Siamo stati tutti ingannati! Ingannati! Dio ha donato l'inferno a Lucifero, poiché è il solo in grado di gestirlo!"
"Fatemi uscire!" Il detective Monroe cerca di gridare per chiedere aiuto, scoprendo di non avere più una voce. L'entità invisibile svanisce, e la lampada smette di lampeggiare. Si volta, guarda la signora Portman fluttuare al centro della stanza. Poi fissa qualcosa alla sua sinistra. "Papà..." mormora. "Io... Io non sapevo..." Crolla in ginocchio e comincia a piangere come un bambino.
La stanza si oscura per un mezzo secondo e, quando la luce si riaccende, il Detective Monroe giace morto di schiena alla porta, gli occhi sbarrati di stupore.
La signora Portman cade sul pavimento, si lancia contro il muro. Ci picchia la testa ancora, ancora e ancora, finché crolla sul pavimento.
Albert James e i due agenti riescono finalmente ad aprire la porta, mentre il corpo del Detective Monroe scivola su un lato. Varcata la soglia, l'oscurità inghiotte il bagliore bianco e svanisce, rilasciando un'onda d'urto che travolge Albert James e i due agenti.





 

2


Albert riprende i sensi in un letto d'ospedale. La testa e la schiena gli fanno male. Ha ancora davanti agli occhi l'immagine della signora Portman. La vede fluttuare nella stanza, urlare con una voce che non le appartiene.
"Ehi, sei sveglio." Dice Victor Dale, un uomo sulla cinquantina, viso tondo, rossiccio, capelli grigi arruffati, e una pancia gonfia da bevitore di birre. "Come ti senti?"
Albert arriccia il muso.
"Stai bene?"
"Sì, sto bene."
"Ti ricordi cosa è successo?"
Albert non risponde. Osserva dalla finestra le luci notturne della città, sente i veicoli sfrecciare fuori dall'ospedale.
Due uomini in camicia bianca e completo nero entrano nella stanza senza bussare. I loro austeri sguardi si posano dapprima su Victor, poi su Albert.
"Agente FBI Mark Northwich." Mostra il distintivo. "È lui è l'agente Fred Coleman."
"Che volete da Albert?" Domanda Victor.
Quello di nome Fred ignora la domanda. "Dobbiamo parlare col signor James in privato."
"Ehi, io non vado da nessuno parte. Siete voi a dover andare via. Il mio amico si è appena ripreso, e voi venite qui come avvoltoi a fare domande. Non avete un minimo di rispetto, cristo santo. Lasciatelo in pace."
Mark lo fissa, torvo. "Va bene," dice lento "ma ritorneremo domani."
Victor e Albert li guardano andare via.
"Grazie, Vic."
Victor gli posa una mano sull'avambraccio. "Di nulla." Fa una pausa. "C'è qualcosa di strano, però. Voglio dire, se ne sono andati senza rompermi le palle."
"E quindi?"
"I federali sono dei trita coglioni, lo sai. Credono di poter fare quello che vogliono. Pensavo... Sai, che ti avrebbero assillato di domande, che... Insomma, che ti avrebbero rotto le palle, come fanno di solito. Quelli non guardano in faccia nessuno."
"Ah, sì... Hai ragione, Vic." Dice Albert, senza aver capito molto.
"Va bene, allora. Ti lascio riposare. Se hai bisogno, io sono qua fuori."

Verso le due di notte, Albert si sveglia di colpo. Sente delle voci, un sussurrare continuo. Una tetra melodia suona fuori dalla stanza, appena dietro la porta semichiusa. Sembra un carillon per bambini. Albert fissa la porta, spaventato. Pensa a un incubo. Deve essere un incubo, se ne convince. Poi il carillon smette di suonare, le voci svaniscono.
Una figura nera appare dietro la stretta finestra verticale nella porta. Albert lo guarda per un attimo, poi, preso dal panico, si sfilaccia i tubi della flebo. Appena mette i piedi sul pavimento, le gambe cedono e crolla a terra. Un lancinante dolore alla schiena gli fa stringere i denti, la testa gli pulsa dolorante. Alza lo sguardo, la figura è ancora dietro la porta.
Il carillon suona nuovamente la stessa melodia tetra, malinconica. Un mormorio di voci riempie la stanza. Albert si aggrappa al materasso, si alza. Fa il giro del letto, senza distogliere lo sguardo da quella cosa. Poi sente le risate di due bambine fuori dalla stanza. Gli si gela il sangue.
La porta si apre. Albert afferra una padella infermieristica dal comodino e la lancia verso l'ingresso.
"Oh, ehi, signor James." Dice il dottore, schivandolo all'ultimo secondo. "È impazzito? Cosa sta facendo?"
Albert spalanca gli occhi, stravolto. Non capisce. È confuso. Dov'è quella figura nera? Dov'è andata?
"Sta bene?"
"Io..." Albert si siede sul letto. L'immagine di quella cosa gli tormenta la mente. Non fa che fissare la porta. Suda freddo, le mani tremano.
Il dottore gli posa due dita sulla fronte. "Scotta, Signor James. Si sdrai. Sì, così. Bravo. Forse è la febbre che la fa delirare."
"Ho... Ho visto quella cosa... Era..."
Il dottore socchiuse gli occhi, interessato. "Cosa ha visto, signor James?"
"Qualcosa... Io... Non lo so. Era lì. Era dietro quella porta."
"Le darò qualcosa per farla rilassare, ok?"
"No, io sto bene. Sono lucido. Ho visto... Era lì. Mi dovete credere."
"La credo, signor James." Risponde il dottore con un sorriso di circostanza. "Ma ora dovete riposare. Ha un avuto un brutto trauma cranico, e stare in piedi non le è da aiuto."

Al mattino, dopo aver dormito con un occhio aperto verso la porta, Albert scende dal letto.
"Andiamo a prenderci un caffè di sotto." Dice Victor, aiutandolo a sedersi sulla sedia a rotelle. "Beh, come hai dormito?"
"Bene."
Victor lo conduce fuori dalla stanza e proseguono nel corridoio affollato di medici, tirocinanti e pazienti. "I due federali sono qui." Dice, risentito. "Stanno parlando con Carl e Marcus."
Albert si ricorda in quel momento dei due agenti presenti all'interrogatorio. "Come stanno? Stanno bene?"
Victor gli posa una mano sulla spalla. "Meglio di te, sicuro. Se la sono cavata con qualche graffio. Sei tu quello messo male."
Rimangono in silenzio per un momento. Svoltano l'angolo e seguono un corto corridoio. Poi Victor pigia il pulsante dell'ascensore.
"I federali hanno invaso la centrale." Dice Victor. "Non lasciano avvicinare nessuno alla sala degli interrogatori. Sono arrivati anche altre persone, sai."
"Chi?" Domanda Albert, incuriosito.
"Non lo so. Sono andati dritti in quella stanza con strani aggeggi. Altri indossavano tute hazmat." Fa un sorriso divertito, ma preoccupato. "Roba da non crederci. Come se lì dentro fosse esploso un focolaio di lebbra o chissà cosa. Forse sono scienziati? Chi lo sa."
Albert medita su chi possano essere queste persone, ma non trova nessuna risposta.
DIIIN. Le porte dell'ascensore si aprono, la gente fluisce fuori. Victor spinge la sedia a rotelle all'interno e pigia il bottone del pianterreno. Le porte si chiudono.
"Non volevo dirtelo," dice Victor, imbarazzato "e se vuoi puoi non rispondermi, ma sono troppo curioso. Cosa è successo in quella stanza?"
Albert non risponde. Perché non lo sa? Pensa.
"C'entra quella donna, vero? Tutti in centrale l'abbiamo sentita urlare."
Albert non parla. Non vuole farlo. Non vuole ricordare.
"Va bene. Non ti chiederò nient'altro su questa storia."
DIIIN. Le porte dell'ascensore si aprono.




 

3


Albert avvista Fred che parla col suo dottore nella saletta dei distributori.
"Ehi, guarda." Dice Albert, accennandolo con la testa.
"Merda, meglio che ti porti via." Victor lo spinge in un corridoio parallelo.
"Primo o poi mi interrogheranno." Risponde Albert con un sorriso. "È inutile portarmi via."
"Lo so, ma è meglio dopo, che ora."
"Se lo dici tu."
Escono fuori dall'ospedale e proseguono in mezzo a un giardino coronato di arbusti, fiori e alberelli. Molte panchine sono occupate dai pazienti e i loro familiari. La gente passeggia nel vialetto sotto un cielo limpido. Il profumo di fiori aleggia nell'aria.
Victor spinge la sedia a rotelle fino a un parapetto di ferro che si affaccia sulla città sottostante.
"Hai una sigaretta?" Chiede Albert.
Victor ne prende una dal pacchetto, gliela porge e l'accende.
Albert fa un lungo tiro. "Ci voleva proprio." Dice, mentre il fumo gli fuoriesce dalla bocca e dalle narici.
"Non avevi detto di voler smettere?"
Albert lo guarda con un mezzo sorriso. "Sì, lo farò... Lo farò."
Victor scuote la testa, sorridendo. Si accende anche lui una sigaretta.
Rimangono assorti per lunghi istanti a osservare lo skyline della città.
"Non dovrei dirtelo, Albert," dice Victor "ma stamane ho visto il Vescovo Auster parlare con il capo. Sembrava piuttosto incazzato."
Albert aggrotta la fronte. "Hai sentito cosa hanno detto?"
"No, ma il fatto che il Vescovo Auster si disturbi a venire in centrale... Non so, mi sembra molto strano. E poi cosa è venuto a fare?"
"Forse è per ciò che è successo."
"Dici?" Aggiunge Victor, dubbioso. "Ma anche se fosse cosa c'entra il Vescovo?"
Albert non risponde. È consapevole di aver vissuto un terrificante incubo. Qualcosa di impossibile da descrivere. Se gli dicesse la verità, Victor non gli crederebbe, lo prenderebbe per pazzo. "Cosa credono sia successo?" Chiede.
Victor fa un tiro alla sigaretta e appoggia i gomiti sul parapetto di ferro, dandogli le spalle. "Non so molto, Albert. Il capo vuole che questa brutta storia resti confinata in centrale. Non so perché, ma è stato molto serio su questa cosa."
"Non mi hai risposto."
Victor si gira, lo guarda. "La versione ufficiale è che il detective Edgar Monroe ha ucciso Monica Portman per legittima difesa."
Albert sbuffa con un sorriso divertito. "Una donna gracile che..."
"Non serve che scendi nei dettagli." Lo interrompe Victor, buttando la cica a terra. "Credo sia opera dei federali. Vogliono insabbiare la verità, qualunque essa sia. Ecco perché è meglio che non parli con quei due. Non mi piace questa storia. Quando oggi sono venuto a trovarti, ho avuto l'impressione di essere seguito."
"È il tuo famoso intuito che te lo suggerisce?" Dice Albert con un sorriso.
"Diciamo di sì." Risponde Victor, serio. "Ho una brutta sensazione, al riguardo. Spero di sbagliarmi. Lo spero davvero."

Albert ritorna da solo nella camera da letto. Quando fa per sdraiarsi, sobbalza nello scorgere i due federali seduti a qualche metro dal suo letto. Lo fissano con fare austero, apatico.
"Mi avete spaventato." Dice Albert, mettendosi a sedere sul letto.
"Non era nostra intenzione." Risponde Mark Northwich.
"Beh, fatemi queste dannate domande. Così mi toglierò il pensiero."
Gli agenti del Bureau si alzano e lo raggiungono.
"Signor James..." Dice Mark.
"Chiamami Albert."
"Lei era insieme agli agenti Carl Winter e Marcus Owen quando è avvenuto il fatto, giusto?"
"Sì, ero con loro nella stanza adiacente a quella degli interrogatori."
"Quindi ha visto tutto?"
Albert non risponde subito. Guarda i due per un momento. "Sì."
Fred pesca da un taschino un piccolo registratore audio, che Albert guarda con sospetto.
Mark se ne accorge. "Vorremmo registrarla, se lei è d'accordo."
Albert ci riflette un momento. Non sa se mentire o dire la verità. Possono prenderlo per un pazzo, ma qualcosa negli sguardi glaciali di quei due gli suggerisce di non farlo. "Va bene. Quello che vi dirò potrà sembrarvi surreale, ma non è così. È tutto vero. Cosa volete sapere?"
"Parta dall'inizio."
Albert racconta tutto nei minimi dettagli. I due federali, irrigiditi sulle poltrone, lo fissano fino alla fine senza far trasparire alcuna emozione.
"È questo è tutto." Dice Albert, turbato dalla mancanza di reazione dei due agente dell'FBI. Non sembravano per nulla scossi.
Fred pigia un tasto e ferma la registrazione.
"È stato di grande aiuto, Signor James." Aggiunge Mark, alzandosi dalla sedia insieme al collega.
"Albert. Mi chiami solo Albert."
"Sì... Albert." Gli allunga una mano.
Albert gliela stringe, poi stringe anche quella di Fred.
I due federali vanno via.
Albert è confuso. Credeva che lo avrebbero preso per pazzo invece gli avevano creduto. Non l'avevano mai interrotto, non avevano mai espresso dubbi. Com'era possibile? Nessuno sano di mente lo avrebbe preso sul serio.

Il mattino seguente, un agente lo informa che Victor Dale è morto in un incidente stradale mentre tornava a casa.
Albert è sconvolto. Non riesce a crederci. "Come... come è successo?"
"Un camion gli è andato addosso. Il camionista aveva bevuto e si è addormentato alla guida. È morto sul colpo."
Albert abbassa gli occhi lucidi, delle lacrime gli solcano il viso.
"Mi dispiace tanto, Al." Dice l'agente, poggiandogli una mano sulla spalla. "So che era il tuo partner."
"Per undici anni." Albert trattiene le lacrime. "Undici lunghissimi anni." La testa gli pulsa, cerca di ignorare il dolore. "L'uomo alla guida è sopravvissuto?"
"Sì, sta bene."
Una vampata di rabbia gli sale lungo il corpo. Il viso gli diventa paonazzo, la testa gli formicola, le mani gli tremano.
L'agente lo saluta con un accenno della testa e lascia la stanza.
Albert crolla a piangere, le spalle che fanno su e giù per il singhiozzo.




 

4


Cinque giorni dopo, Albert partecipa ai funerali. Siede davanti alla bara attorniata dai poliziotti in divisa e fuori servizio. La moglie e le due figlie di Victor gli sono accanto, insieme ai parenti. Le bambine sono tristi, i visi corrucciati. La moglie nasconde gli occhi arrossati per il pianto dietro a degli occhiali scuri.
In piedi, dalla parte opposta, il capo della polizia John Moon, affiancato dagli agenti federali Mark Northwich e Fred Coleman.
Mentre il prete è nel pieno dell'omelia funebre, Albert scorge Nicolas, il fratello di Victor. Se ne sta appoggiato di lato contro un albero lontano dagli altri, le braccia conserte, le sopracciglia aggrottate per la rabbia.
Quando il prete finisce di parlare, un uomo agghindato si avvicina ai cinque uomini in divisa.
"Puntare!" Urla.
I cinque uomini puntano i fucili al cielo.
"Sparare!"
I colpi echeggiano nell'aria.
"Sparare!"
"Sparare!"
La moglie piange, i bambini le si stringono vicini. Nicolas si volta e si allontana.
Due agenti in divisa coprono la bara con la bandiera americana e la calano giù con delicatezza. La gente si mette in fila per fare le condoglianze alla vedova.

Albert raggiunge Nicolas, che cammina triste e irato tra le lapidi.
"Nicolas." Dice Albert. "Fermati."
Il fratello di Victor è sui quarant'anni, occhi neri, capelli castano scuro tirati all'indietro e un viso squadrato, solcato da un'ispida barba.
"Che vuoi, Albert?"
"Come stai?"
Spalanca le braccia, sorpreso. "Mio fratello è morto in un incidente stradale. Come vuoi che stia?"
"Io... Non volevo mancarti di rispetto, Nicky."
Nicolas lo fissa, torvo. "Non chiamarmi Nicky. Non farlo! Solo mio fratello mi poteva chiamare così."
Albert solleva le mani in segno di resa. "Va bene... Non lo farò."
Restano in silenzio per un lungo momento.
Nicolas si è calmato, guarda il cielo sporcato da qualche nuvola. "Hai da accendere?"
Albert gli porge una sigaretta.
Nicolas se l'accende e fa un lungo tiro.
"Devi scusarmi, Albert." Dice Nicolas, mentre agita la sigaretta nella mano. "Tu sei l'ultima persona con cui mi incazzerei. Davvero."
"Lo so, non preoccuparti." Risponde Albert, accendendosi una sigaretta.
"Mio fratello è stato ucciso."
Albert non parlò subito. "Lo credo anche io."
"Allora non sono l'unico a pensarlo. Mi aveva detto che lo stavano seguendo, ma non sapeva chi. Prima di morire, qualcuno ha messo sotto sopra l'ufficio di casa. Non hanno portato via niente, ma tutte queste coincidenze sono strane, non trovi?"
"Forse cercavano qualcosa." Disse Albert. "Delle prove o..."
"Credo sia per quello che è successo alla centrale," lo interruppe Nicolas. "Sì, lo so. Mio fratello me ne ha parlato. Mi ha detto di non dirlo a nessuno."
"E l'hai fatto?"
"Certo che no."
Albert fa un tiro. "Il capo non vuole che la storia esca dal dipartimento. Victor credeva che i federali volessero insabbiare l'accaduto. Ora lo credo anch'io."
"Quindi l'FBI ha ucciso mio fratello solo perché me ne ha parlato?" Aggiunge Nicolas, turbato. "E come l'avevano saputo?" Fa una pausa. "Immagino... Immagino che io sia il prossimo."
"Non dire così." Risponde Albert. "Per ora è meglio non parlare con nessuno di ciò che ci siamo detti, ok?"
Nicolas annuisce e getta la cicca della sigaretta. "Quei bastardi la pagheranno. Fosse l'ultima cosa che faccio al mondo."

Albert da le condoglianze alla moglie di Victor e guida verso la sua abitazione, tenendo d'occhio la strada alle sue spalle dallo specchietto retrovisore interno. Ma sembra che nessuno lo stia seguendo, o forse sono troppo bravi per farsi scoprire.
Vive al terzo piano di un condominio malandato. Anche se da fuori il palazzo esige un'enorme manutenzione, l'appartamento di Albert è tenuto bene. Non ci sono crepe, perdite d'acqua o muffa.
Una volta entrato, Albert va a stapparsi una birra dal frigo e si lascia cadere sulla poltrona. Fissa il suo riflesso nello schermo nero della televisione e sorseggia la birra. Da fuori sente il rombo dei motori delle auto, il vociare delle persone.
Rimane seduto fino a quando si ritrova in mano la bottiglia vuota. Poi si alza, la getta nel lavabo ed esce sul balcone. Il cielo rosso arancio manda gli ultimi sprazzi di luce nel cielo prima del tramonto.
Albert guarda in strada i veicoli parcheggiati. Forse ora stanno seguendo anche lui? Forse lo uccideranno come è successo con Victor? Anche lui morirà in un incidente stradale? Di overdose? Suicida?
Rientra dentro e chiude le doppie porte di vetro.

Verso le nove del giorno seguente, raggiunge il dipartimento di polizia. I colleghi gli stringono la mano e si dicono felici che stia bene. Ma nei loro volti traspare un miscuglio di tristezza e rabbia. Hanno perso due colleghi in poche ore, e i federali hanno preso il controllo delle indagini e del posto.
Mentre Albert si fa una caffè nero alla macchinetta, John Moon lo raggiunge alle spalle.
"Ehi, Al. Come stai?" Domanda il capo della polizia con un finto sorriso.
"Bene." Risponde Albert.
"Ottimo. Vorrei parlarti. Tra cinque minuti nel mio ufficio." E va via.
Albert afferra il bicchierino di caffè fumante e ne beve un sorso.
Sale al piano superiore, dove scorge Mark Northwich e Fred Coleman indaffarati alla scrivania di Victor. Ci passa vicino, e quelli si limitano a guardarlo e salutarlo con un cenno della testa.
Due federali di guardia si trovano a lato della porta degli interrogatori. Dalla finestra nella porta, nota tre persone con addosso tute hazmat. Due di loro scrivono qualcosa sui loro taccuini, mentre il terzo tiene alzato uno strano aggeggio simile a un telecomando e cammina nella stanza.
Albert prosegue tra le scrivanie, finché si ferma alla sua. Hanno rovistato nei cassetti, tra le pile di documenti, ma gli sembra che ci sia tutto.
"James!" Grida il capo della polizia sull'uscio del suo ufficio. "Vieni dentro."
Mentre Albert si dirige verso l'ufficio del capo, i colleghi lo guardano di sottecchi.
"Chiudi la porta." Dice John. "Siediti."
"Perché ci sono federali con addosso tute hazmat?" Domanda Albert.
"Sono io a fare le domande qui. Ed è meglio per te se eviti di andare a ficcare il naso in giro, le indagini sono passate al Bureau. Intesi? Bene, ora dimmi cosa è successo quel giorno."
Albert è confuso. "L'ho già detto ai due federali. Non ti hanno detto niente?"
John lo fissa per un momento. "Voglio sentirlo dire da te."
"Non mi hai risposto."
"Dimmi cosa cazzo è successo, Detective James!"
Albert corruga la fronte, turbato.
"Allora?"
"Perché vuole saperlo?"
"Perché?" Sorride falsamente. "Perché sono il tuo cazzo di superiore. Esigo che tu mi dica cosa è successo. Ed ora non farmi perdere altro tempo e raccontami tutto."
Lo fa, ma il capo della polizia non sembra credergli. Anzi, lo ferma più volte, minacciandolo di incatenarlo per sempre a una scrivania. Ma alla fine capisce che Albert gli sta dicendo la verità, in quanto gli altri due agenti feriti avevano detto la stessa cosa.
Venti minuti dopo, Albert esce dall'ufficio di John Moon. Mentre ritorna alla sua scrivania, i colleghi lo guardano nuovamente di sottecchi.




 

5


Torna nel suo appartamento verso le nove e mezzo di sera. È stanco, abbattuto, e non vede l'ora di dormire. Si fa una doccia, mangia due fette biscottate spalmate di marmellata all'albicocca, tracanna una birra e si getta sul letto. Mentre ascolta il rumore della lancetta dell'orologio appeso alla parete, si addormenta.
Si ritrova in un parco abbandonato. Una pallida luna svetta nel cielo senza stelle, illuminando alberi scheletrici, arbusti rinsecchiti e ciuffi d'erba. Segue un vialetto che lo conduce davanti a un bungalow. Un macchina bifamiliare è parcheggiata davanti al garage, e dietro le finestre brilla una luce blu. Nel giardino davanti c'è una statua di marmo. Un'alta figura senza volto che tiene per mano due bambine.
Albert sbarra gli occhi, spaventato. È la stessa figura che ha visto nell'ospedale. Comincia a girarle attorno, si sofferma a guardarla. Vuole toccarla, ne sente il bisogno. Ma appena si avvicina, subito indietreggia. Qualcosa gli dice di non farlo.
D'un tratto la porta della casa si apre lentamente. Un fascio blu ne esce fuori e illumina la statua. Subito comincia a liquefarsi come fosse cera. Quando non rimane più nulla, il fascio blu scompare, le finestre si oscurano, la luna svanisce.
Albert non riesce a vedere niente. Cammina a tentoni verso la casa, tiene una mano sulla parete, striscia fino all'entrata. Cerca frettolosamente l'interruttore della luce, ma non riesce a trovarlo.
Poi viene catapultato su una spiaggia. Sente le onde infrangersi sugli scogli, un vento gelido accarezzargli il viso. La pallida luna è di nuovo nel cielo. Si guarda intorno, confuso. Dove si trova?
Poi le risate divertite delle due bambine echeggiano attorno. Si gira, ma non li vede. Un bagliore bluastro compare sulla sommità di una piccola duna rocciosa puntellata dall'erba, dove si delinea un'alta figura nera. Alle sue spalle, la luce della luna ne viene divorata.
Albert lo fissa, non riesce a distogliere lo sguardo. Le risate delle due bambine si avvicinano, gli girano intorno.
Poi il bagliore bluastro scompare, e qualcosa di freddo gli stringe la mano.

Albert si sveglia di colpo, la fronte impregnata di sudore. Un fascio solare filtra tra la tenda semichiusa della finestra. Rimane seduto sul letto, poi si alza e va in bagno.
Verso le nove, lascia il suo appartamento e si dirige alla chiesa. Rimane sulla soglia, indeciso. Quando le cose non andavano bene, era solito andare a parlare con padre Martin. Ma questa è una situazione insolita, surreale. Padre Martin non lo avrebbe capito, ma non gli importa. Deve dirlo a qualcuno.
Entrato in chiesa, percorre la navata e bussa alla porta dell'ufficio di padre Martin. Non gli risponde nessuno.
Busso ancora, ma niente. Allora gira la maniglia ed entra.
Padre Martin è seduto dietro la scrivania e dà le spalle alla porta.
"Padre Martin." Dice Albert, avvicinandosi. "Sono Albert James. Chiedo scusa se la sto disturbando, ma..." Si pietrificò.
Padre Martin era morto. Gli occhi incavati, la lingua a penzoloni, i lati della bocca tagliati come a formare un tetro sorriso. Una lama gli aveva inciso nel collo una croce capovolta.
Albert indietreggia, inorridito. D'un tratto la porta si spalanca. Una folata di vento gelido entra nella stanza, gli sferza il viso, fa volare i fogli, aprire le finestre e svolazzare le tende.
L'alta figura nera è sotto la soglia e tiene per mano le due bambine. I loro sguardi apatici, lo fissano con occhi vitrei. Poi una si stacca e gli corre incontro. Albert non riesce a muoversi, avverte un nodo in gola. La bambina gli stringe la mano, un tocco gelido che gli fa perdere i sensi.

Si sveglia in un capanno. I raggi del sole filtrano tra le strette fessure di legno nel soffitto, e un'imposta aperta sbatte ripetutamente contro il muro. Albert si alza, si guarda intorno. Le erbacce dimorano incontrastate in quell'ambiente malandato. Un tavolo privo di due gambe è inclinato sul pavimento. Piante rampicati corrono lungo le pareti e sui ripiani della cucina.
Quando si dirige alla porta, sente un rumore alle sue spalle. Un suono acuto, come di un metallo che raschia contro la pietra. Si gira, ma non vede nessuno. Si guarda intorno spaventato. Poi gira la maniglia e viene accecato dal sole. Si copre gli occhi con un mano, solo per sentire una fitta dolorosissima allo stomaco. Mentre si piega per il dolore, le gambe cedono e cade in ginocchio.
"Egli è verità." Dice una voce gutturale, deforme che gli echeggia nella mente. "Eppure Egli dimora in sparuti cuori. Sovente cerca l'amore, ma è l'odio che semina. Vuol nutrirsi del buono, ma è della presunzione che si ciba. Chi è colui che possiede il cielo e il mare, il vento e la terra? Chi è colui che si illude di sapere, quando non sa? Chi è colui che tace, ma porta guizzi di saggezza nel mondo? Chi è colui che ricerca e si crogiola nelle tenebre, nell'oscurità, quando in realtà è disperso nella sua stessa mente, nel suo stesso ego? Chi possiede la verità, se tutti se ne proclamano gli araldi?"
Albert si vede dinanzi un'alta figura, le due bambine gli sono affianco. Mentre massici nuvoloni neri si stagliano minacciosi nel cielo, un enorme e terrificante occhio simile a un tornado si forma nel mezzo. È terrorizzato.
L'alta figura gli protende quella che sembra una mano vibrante. Le bambine si avvicinano ad Albert, gli prendono le mani, lo fanno alzare. Il loro tocco è caldo, rassicurante. Un'improvvisa pace gli acquieta l'anima. Non ha più paura. Desidera solo stringere la mano dell'alta figura, lasciarsi alle spalle tutto il male del mondo. Appena sta per farlo, viene catapultato su una seggiola.
È in un portico. Si sente stanco, invecchiato, solo. È come se tutta la sua vita gli fosse passata davanti in un battito di ciglia. Non ricorda nulla del suo passato, eccettuo quello strano caso su Monica Portman. Su un tavolino, accanto a un bicchierino di vetro e una bottiglia di whisky, una cartella di documenti. L'afferra, la sfoglia.

Trascrizione di Albert James, agente scelto della polizia dello stato dell'Arizona. Questa è una trascrizione dell'interrogatorio tra il Detective Edgar Monroe e Monica Portman, accusata di omicidio plurimo. Trascriverò solo la parte finale dell'interrogatorio. Il resto del materiale è in mano all'F.B.I. ed è classificato.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Come potrei? ***


Era una notte senza luna, né stelle. Una notte in cui le mie ossessioni si presentavano in tutte le loro orrende sfumature. Mentre m'incamminavo lungo il marciapiede deserto, sentivo il vento smuovere delicatamente le foglie degli alberi. Un fruscio impercettibile, un suono inquietante, ma piacevole. Mi fermai in un vicolo, avviluppato dalla penombra.
Impaziente... aspettavo il momento giusto. Aspettavo da sempre.
Una donna uscì da una palazzina. Incantevole come uno zaffiro, meravigliosa come un diamante. Era questa la descrizione che mi davo, e che avrei dato agli altri. Cazzo, se era bella, Dio santo! Indossava dei jeans attillati, una semplice camicia nera dalle maniche rimboccate poco sotto il gomito. Capelli corvini che sfioravano le sue esili spalle. Quelle bellissime spalle che adoravo palpare, accarezzare, mordere, baciare. La pelle bianca, morbida, quasi vellutata al tatto. Gli occhi verdi, parevano brillare persino nell'oscurità. Oh quanto mi sarebbe piaciuto perdermi nuovamente in quello sguardo. Quanto avrei desiderato...
«Marie!» dissi, uscendo dal vicolo come un fantasma. Fu un gesto involontario, quasi istintivo.
«Nick!» mi rispose con un tono di voce dolce e seccato. Poi si incamminò verso la sua auto.
«Aspetta un attimo!» Le posai una mano sulla spalla. «Aspetta. Fermati un momento.»
Scacciò via la mia mano, schifata. «Lasciami in pace, capito? Non voglio più vederti.»
«Perdonami, Marie!» Mi buttai in ginocchio, aggrappandomi alla sua camicia. La stringevo, la tiravo. «Ti prego! Non faccio che pensare a te. Non riesco a dormire, e ho perso anche il lavoro... Torna da me! Ti prego! Ti supplico, Marie!»
Mi fissò negli occhi. Uno sguardo triste, cupo, sofferente. Gli occhi le si umidirono. «Dopo quello che hai fatto...» disse, nascondendo a stento le lacrime che cominciarono a solcarle il bellissimo viso ovale. «Non ho più la forza... Non voglio... Non voglio rivivere l'inferno. Sei stato il male per me! IL MALE! È tutta colpa tua!»
Presi le sue piccole mani calde e le strinsi dolcemente, accarezzandole il dorso con i pollici. «Lo so, ma... ma ti prego... Senza di te, io... io sono perso. Sento che ci ricascherò di nuovo!» Le baciai le mani, e la mia testa fu pervasa da un formicolio piacevole. Avrei desiderato morderle, mangiarle.
Marie le ritrasse con un rapido gesto e si asciugò le lacrime.
«Torna con me. Mi manchi da morire. Farò tutto ciò che vuoi. Cambierò, se lo vorrai. Diventerò un altro.»
«No!» Incrociò le braccia, serrando gli occhi arrossati. «Basta! Devi andartene. Non voglio più vederti. Mai più!» Si voltò e s'incamminò verso la sua auto.
Scattai in piedi e la raggiunsi, cingendole le spalle in un abbraccio. «Fallo per il nostro Sam!» le bisbigliai all'orecchio. «Lui ci vorrebbe vicini... Ci amava, e non possiamo fargli questo. Ci vorrebbe vicini, sì. Vicini. Vuole che ci amiamo, che stiamo insieme.»
Si liberò dal mio abbraccio. «L'hai ucciso!» Cominciò a tartassarmi il petto di pugni e schiaffi, piangendo. «Tu l'hai ucciso!»
«Non è stata colpa mia!»
«Quel giorno doveva dormire da me! Perché l'hai fatto? Perché?»
Le bloccai i polsi e la strinse in uno stretto abbraccio, mentre Marie piangeva sul mio petto. «Il nostro piccolo Sam...» Poggiai il mento sulla sua testa e piansi anch'io. «La finestra era aperta... Pensavo di averla chiusa...» Chiusi gli occhi.
Percepii le sue lacrime bagnarmi il petto, il suo calore confortarmi. La strinsi ancora di più e, mentre si dimenava, sentii scricchiolare la sua schiena. Mollai la presa e mi guardò con i suoi occhi verdi. Uno sguardo confuso, spaventato, profondo come l'abisso in cui stavo sprofondando.
Poi le cinsi il collo con le mie fredde e callose mani e strinsi.
STRINSI!
STRINSI!
STRINSI!
Oh, sì. Era bellissimo. Cazzo, se lo era. Sentivo una vena del suo collo pulsare sul mio indice. Che sensazione piacevole. Ah, sì.
Vidi il suo viso diventare paonazzo, lo sguardo di incredulo terrore fissare il mio. Le sue unghie lacerare il dorso delle mie mani, e io mi sentivo sempre più vivo! VIVO! Oh, si, cazzo!
Chiusi gli occhi, estasiato, e inspirai profondamente.
Marie provò a gridare, a dimenarsi, a scalciare, ma io non sentivo niente. Nessun dolore. Solo una sensazione indescrivibile. Mentre lei moriva, la strada era silenziosamente tetra. Le finestre come buchi neri, i veicoli spettatori silenti, il fruscio delle foglie un emissario di morte. La gente dormiva, ignara di ciò che stava accadendo.
Sentii il suo ultimo respiro scivolare via e una lacrima gocciolare sul dorso della mia mano. Fissai i suoi occhi sbarrati, gonfi come due palle da golf. La pelle bianca le era diventata violastra, le impronte delle mie dita sul suo collo erano orrendamente visibili. Santo cielo, ma che dico, era un'opera d'arte. Segni inequivocabili d'affetto, d'amore.
Sorrisi e la baciai. «Non ho ucciso nostro figlio, Marie! Te lo giuro! Mentre dormivo qualcuno si è intrufolato nella sua stanza e l'ha soffocato nel sonno. Devi credermi. Come potrei uccidere mio figlio, sangue del mio sangue? Come potrei farvi del male a tutti e due? Come? Vi amo troppo! Siete la mia vita, lo capisci? LA MIA VITA!»

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il Bosco ***


I
 

Tutto ebbe inizio mentre camminavo nel bosco.
Amavo fare lunghe passeggiate immerso nella natura, e sentire d'estate il canto degli uccelli e il frinire delle cicale. Avevo fatto quel tragitto così tante volte da perderne il conto. Era una stradina sterrata con un piccolo avvallamento a destra. Più avanti, questo avvallamento diventava un vero e proprio fosso. Si diceva che fosse lì dalla prima guerra mondiale. Una specie di trincea. So poco di storia, quindi non so se questo fatto sia vero.
Il cielo era coperta dalla volta degli alberi e, in alcuni punti, tra le fronde, filtravano i fasci del sole. Il sentiero raggiungeva un alta collina. Lì abitava un uomo anziano. Un vecchio dalla faccia rugosa, gli occhi scavati e le palpebre cadenti. Si diceva che vivesse lì da almeno quarant'anni, e nessuno sapeva chi fosse. In paese si vociferava spesso di quest'uomo. Dicevano che sapeva leggerti l'anima come noi sfogliamo una pagina di un libro. Ovviamente non credevo a queste sciocchezze.
Non avevo mai raggiunto la collina. Raggiungevo sempre un bivio che a destra portava alla capanna di tronchi dell'anziano, a sinistra in un parcheggio sorvegliato da un custode. Raggiungevo il bosco con la bici, lasciandola nella rimessa di legno del guardaboschi. Poi m'inoltravo per la mia solita passeggiata.


 

II
 

Era un giorno qualunque. Un venerdì mattina di cui non ricordo l'ora. Faceva molto caldo e, per quel giorno, indossavo una larga canottiera bianca, un pantaloncino verde scuro e scarpe da ginnastica. Ascoltavo Rock anni '80/90 dalle cuffie. Il volume della musica era bassa, perciò sentivo i rumori attorno a me.
Camminavo già da un quarto d'ora, quando mi fermai sotto un albero. Misi a terra il mio zaino e presi una merendina. Una normale Brioche che era la mia colazione assieme a una spremuta d'arancia fatta in casa che tanto mi piaceva. Mi sedetti con la schiena poggiata alla base dell'albero. Cominciavo a fare colazione, quando avvistai qualcuno poco lontano. Pensavo fosse una persona come me in vena di una passeggiata mattutina, ma non era così. Mi spiava da dietro un tronco d'albero. Intravedevo una faccia senza volto più nero dell'ebano, e mi sembrò di guardare un abisso senza fondo. Qualcosa che se la guardavi a lungo, ti risucchiava come un buco nero.
Venni destato dallo scricchiolio di un ramo e, quando mi voltai, il guardaboschi Ottavio era dinanzi a me. Un uomo di bell'aspetto, sui cinquant'anni. Spalle larghe, viso asciutto e spigoloso. Un uomo affascinante, che piaceva alle donne, perché in paese era sempre in compagnia di qualche ragazza.
"Ehi, Antonio. Come va?" Mi disse con voce profonda.
Scossi la testa un po' confuso. "B-Bene."
"Hai visto un uomo dalla carnagione scura?"
"Chi?"
"Hai presente gli africani? Un tipo del genere."
"No, perché?" Risposi, anche se stavo rammentando lentamente quella cosa senza volto, e non mi era sembrato di quella etnia.
"La gente dice di aver visto un uomo aggirarsi nei boschi. Li seguiva, li spiava, insomma... Be', sai cosa fanno le coppie qui, no? La gente non vuole essere disturbata. Se sicuro di non averlo visto?"
"Sì, sicuro."
Ottavio lanciò un'occhiata attorno. Poi guardò la mia brioche. "Va bene. Non lasciare spazzatura in giro, intesi?"
Annuii.
S'inoltrò nel bosco alla mia sinistra ove gli alberi e i cespugli si facevano più fitti.



 

III
 

Finita la colazione, lasciai la bottiglietta di vetro e la carta della brioche nel mio zaino, che rimisi sulle spalle. Mentre cominciai a camminare, avvertii una strana sensazione. Una negatività angosciante, opprimente. Mi sentivo osservato, seguito.
Non feci molto strada quando avvistai la stessa figura dietro un altro albero. Spiava timidamente, e solo la sua testa s'intravedeva tra le fronde degli alberi. Distolsi lo sguardo. Pensavo di essermelo immaginato. Così guardai di nuovo in quella direzione. Non lo vidi. Preso dal panico, mi guardai attorno. Non era da nessuna parte.
D'un tratto sentii come un vuoto allo stomaco, e una presenza alle mie spalle. Mi girai lentamente, ma niente. Non c'era nessuno. Così mi precipitai a correre.
Non tornavo indietro, bensì continuavo lungo la stradina sterrata. E una parte di me si domandò perché diavolo lo stessi facendo.
Mi fermai dopo un centinaio di metri, annaspando in cerca d'aria. Posai una mano sulla corteccia di un albero, quando qualcosa di caldo mi afferrò il polso. Ritrassi la mano, ma dinanzi a me non vidi nessuno. Le gambe cominciarono a tremarmi, il cuore mi martellava in petto, e una sensazione inquietante cinse le mia mente. Poi una folata di vento gelido mi sfiorò la nuca. Mi voltai.
La cosa era davanti alla mia faccia.
Sembrava un uomo o qualcosa di vagamente simile. Alto due metri, senza volto, esile, quasi scheletrico e una carnagione così scura che la luce ne veniva divorata. Piccoli tentacoli s'innalzavano dalla sue spalle, ondeggiando in aria come alghe sul fondo del mare. Sentivo addosso il suo sguardo, anche se non aveva occhi. Lo percepivo, ed era terrorizzante. Mentre indietreggiai lentamente, trasalii, nel vedere la sagoma dissolversi nel nulla. E ancora una volta, invece di tornare indietro, corsi lungo il sentiero sterrato. Forse era quell'essere a spingermi lì?
Arrivai davanti un bivio e scorsi Ottavio, chino alla base del cartellone di legno che indicava la direzione dei due sentieri.
"Ottavio!" Dissi quasi senza voce. I polmoni mi bruciavano dalla fatica, e sentivo il sapore metallico del sangue in gola.
Ottavio si voltò, guardandomi un po' turbato. "Eri stanco di camminare?" Disse con un vago sorriso divertito.
"Ho visto..." Respirai per recuperare fiato. "Ho visto quella cosa... Quell'uomo. L'uomo di cui parlavi."
Ottavio scattò in piedi. "Dici sul serio? Dove? Quando?"
"Sì. Era..."
L'essere si materializzò alle spalle di Ottavio.
"Era?" M'incalzò Ottavio.
Puntai un dito tremante dietro le sue spalle.
Nel girarsi, Ottavio si vide dinanzi l'orrenda mostruosità. L'essere senza volto spalancò due lunghe braccia, e tutt'attorno il paesaggio si oscurò di un nero ebano. Una sfera nera da cui fuoriuscivano bagliori violacei si formò davanti all'essere e, con una velocità sovrumana, colpì Ottavio che crollò al suolo.
Poi la cosa si proiettò dinanzi me e lanciò un urlo di dolore. Un suono metallico, acuto, quasi familiare. Si dissolse nell'aria in una densa nube nera e, volteggiando su sé stesso, penetrò nel terreno.


 

IV
 

Qualcosa si posò sulla mia spalla. Mi girai e vidi un uomo anziano. Lo stesso anziano di cui si parlava male in paese. Mi fissava con uno sguardo ermetico. Poi raggiunse Ottavio, si chinò e bisbigliò qualcosa.
Il guardaboschi alzò di scatto il busto pur restando disteso a terra. "Cosa è successo?" Chiese, guardandosi intorno.
L'anziano si alzò e s'incamminò lungo il sentiero. Tornava a casa?
Ero così terrorizzato che sentivo un nodo soffocante in gola, mentre la sensazione di vuoto allo stomaco aveva lasciato il posto a una fitta pungente, stranamente non dolorosa.
"Aspetta!" Urlò Ottavio che sembrava stordito.
Il vecchio non si fermò.
"Lo... Lo hai visto?" Domandai a Ottavio.
Quello mi lanciò uno sguardo perplesso e si rimise in piedi.
"Allora?"
"Non lo so."
"Come non lo sai? Era di fronte a te. Ti ha... Ti ha fatto qualcosa. Sei caduto a terra. Poi quel vecchio ti ha detto qualcosa e tu ti sei svegliato. Non ricordi?"
"Vagamente..." Ottavio si guardò intorno. "La testa mi sta scoppiando."
"Cosa facciamo?"
Si limitò a guardarmi.
Rimanemmo silenti per un po', in quel punto del bosco ove i rami degli alti cespugli si aggrovigliano fino a formare un muro impenetrabile. Notai che gli uccelli e le cicale avevano smesso di cantare e frinire. Non me ne ero accorto. Come non mi ero accorto di aver perso le cuffie.
"Andiamo da quell'uomo." Disse Ottavio. "Magari ha visto qualcosa."
"No." Risposi, ansioso. "Meglio di no."
Ottavio mi fissò. "Perché? Hai detto che mi ha svegliato lui, no?"
"Chiamiamo la polizia."
"E pensi che ci crederanno?" Disse con un lieve scetticismo.
Non risposi. Come potevo dargli torto? Sicuramente ci avrebbero presi per pazzi. Avevo ancora davanti ai miei occhi lo sguardo ermetico di quel vecchio. Uno sguardo profondo come l'abisso.



 

V
 

Seguimmo un largo sentiero per un paio di minuti, finché la fitta vegetazione si chiuse attorno a noi, costringendoci a proseguire in fila. Ottavio davanti, io dietro.
Quando arrivammo ai piedi della collina, i rami degli alberi raggiungevano abbondantemente il terreno. Alcuni di essi formavano pareti e corridoi naturali, e compresi che nessuno si era spinto fin quassù da molto tempo. L'anziano dimorava su un punto impreciso della collina e, tutto il paese, intimorito, se ne teneva alla larga. Me compreso.
Mentre ci facevamo strada fra i contorti rami, gettai diverse occhiate in giro. Sentivo addosso degli occhi malefici che mi scrutavano, e un'intensa sensazione opprimente che mi attanagliava la mente. Più volte credetti di avvistare quell'essere fra la vegetazione, e la mia paranoia non faceva che aumentare.
Superati alcuni rami che penzolavano dagli alberi, un sentiero serpeggiava sul fianco della collina. Lo seguimmo per una manciata di minuti, finché scorgemmo una capanna di tronchi attraverso i fitti cespugli.
Si trovava in mezzo a una radura, circondata da declivi rocciosi e rocce di varie dimensioni e forme. Un'ampia vallata si affacciava a oriente, ove le acque argentate del fiume si gettavano nel lago avvolto da una leggera foschia. Vicino all'abitazione, una quercia lugubre, spoglia e carbonizzata.
"EHI!" Urlò Ottavio, mentre ci avvicinavamo alla casa. "Sono Ottavio Porto, il guardaboschi."
Non gli rispose nessuno.
Ci fermammo a venti metri dalla capanna di tronchi. Non si udiva nulla. Mentre Ottavio si guardava intorno, fissai la quercia carbonizzata in mezzo a tutto quel verde. Era strano. Stonava con il paesaggio. Ai suoi piedi, poi, non c'era nessuna traccia di incendio. Forse era stata colpita da un fulmine? Qualcuno le aveva dato fuoco? Allora perché le fiamme non si erano propagate? Quando spostai lo sguardo alla base del tronco, l'erba era di uno strano colore tra il viola e il nero. Mi ricordò l'oscurità di quell'essere e, al suo pensiero, avvertii un senso di inquietudine. Un angoscia latente, opprimente.
D'un tratto udii un cigolio, e la porta si aprì.
Raggelai.
L'anziano si fermò sotto il portico. Era ricurvo su un robusto ramo che usava come bastone da passeggio o come supporto. Ci fissò da dietro le palpebre cadenti, e il suo sguardo era privo di emozioni. Una lastra di ghiaccio. Gettai uno sguardo a Ottavio, che fissava il vecchio.
Nessuno parlò per quasi un minuto.
"Entrate." Disse l'anziano. "Presto avverrà una battaglia."
"Una battaglia?" Domandò Ottavio. "C'è gente nei boschi. Devo..."
"Un'antica battaglia." Lo interruppe il vecchio tornando nella sua capanna di tronchi.
Ottavio mi guardò. Sembrava dubbioso.
Sinceramente non capivo più nulla. Una battaglia in un luogo del genere? Era scoppiata una guerra di cui ignoravo l'esistenza?
Poi vidi Ottavio andare verso la capanna di tronchi, e lo seguii.



 

VI
 

Oltre la soglia, tutto era immerso nella penombra. E quando la superammo, fummo catapultati in un altra epoca. Il tempo, così come lo conoscevo, smise di essere tale. Il sole e la luna si sovrapposero in cielo in un ciclo rapidissimo per i miei occhi. Tavoli e sedie, divani e comodini, mobili e quadri, tappetti e armadi scomparvero dalla stanza, e altri oggetti più antichi ne presero il posto. Stavo recedendo nel tempo, nel passato. Lo percepivo. Era inspiegabile, magico e terrorizzante.
Poi tutto si fermò.
Ottavio mi lanciò uno sguardo. Era stravolto. Anch'io avevo la sua stessa impressione, e mi sentivo pietrificato. Pensai che stessi sognando. Così mi tirai un pizzicotto e mi resi conto che era tutto reale. Com'era possibile?
Un uomo di bell'aspetto ci comparve dinanzi. Aveva il viso liscio, pulito e uno sguardo vigile, attento. Aveva corti capelli neri portati in obliquo con una riga di lato. Indossava un pantalone e una giacca nera, sotto una camicia viola. E compresi, dopo averlo guardato a lungo, che era l'anziano da giovane. Non doveva avere più di trent'anni.
Si sedette a un tavolo rotondo e, picchiettando due dita su di esso, ci fissò.
Io e Ottavio ci scambiammo un'occhiata.
"Sedetevi." Disse piano il giovane con tono pacato, gentile.
Ottavio fu il primo a sedersi, mentre io esitai un poco prima di farlo.
Rimanemmo in silenzio per un manciata di secondi.
"Siete stati fortunati." Ci disse. "L'ignoto vi osserva da anni."
"L'ignoto?" Domandò Ottavio.
"E' così che chiamo quell'umanoide."
"Non è umano, quindi?" Domandai.
Ottavio si voltò verso di me. "Ma che domanda è? E' logico che non è umano." Poi si rivolse al giovane. "Cos'è? Un demone?"
"Non ha nomi." Rispose il giovane. "Ma io lo chiamo Ignoto. E' qui da molto tempo, da prima che si formasse la terra." Fece una breve pausa. "Un tempo vagava tra le stelle, tra i mondi, tra gli universi... Un tempo era il tutto e il niente."
"Perché parli in questo modo?" Disse Ottavio, che sembrava irritato.
"E' Dio?" Domandai.
"Ti sembra un Dio quel mostro?" Rispose Ottavio.
"E' più vecchio di Dio." Rispose lento il giovane.
"Allora chi è?" Lo incalzò Ottavio.
"L'ignoto." Disse semplicemente il giovane, come se quella parola potesse descriverlo in toto.
"Perché non ha un volto?" Chiesi.
Il giovane puntò i suoi occhi su di me. Uno sguardo carico d'interesse. "L'hai veduto in viso?"
"S-sì, ma... Non aveva un viso."
"L'ignoto non ha una faccia." Si voltò verso Ottavio. "Anche tu l'hai veduto in viso?"
Ottavio non rispose subito. Sembrò rifletterci. "Non lo so... Non credo."
"Ma ti ho visto guardarlo." Gli risposi. "Ho visto che lo fissavi prima di cadere a terra."
"Questo non vuol dire vedere." Disse il giovane. "Tu hai visto l'ignoto, l'oscurità impenetrabile, l'abisso infinito."
Non sapevo cosa dire.
"E' vero?" Mi chiese Ottavio.
Annuii.
D'un tratto sentimmo un forte boato, e della polvere cadde dal soffitto.
Ottavio scattò in piedi. "Cosa è stato?"
"I tedeschi." Rispose il giovane alzandosi a sua volta. "L'artiglieria."
"Cosa?"
Guardai sia Ottavio, che il giovane, totalmente confuso. Poi il giovane ci disse di alzarci con un cenno della mano e, raggiungendoci, sollevò le braccia in aria, i palmi delle mani rivolti verso l'alto. Bisbigliò qualcosa in una strana lingua. Un mantra ipnotico. La sua voce si fece via via più rauca, profonda, gutturale. Il pavimento e le pareti cominciarono a tremare intensamente, finché ogni cosa svanii sotto i miei occhi.
Mi ritrovai a vagare nell'universo senza tempo, tra lucenti stelle, bagliori spettacolari e nubi intergalattiche e molecolari. La mia mente scorse popoli ancestrali addormentati nell'apatia. Solcavano immonde tenebre, varcavano cancelli di fiamme e seguivano l'oblio atavico.
E fu oscurità.



 

VII
 

Allungai le mani a tentoni e cercai disperatamente Ottavio, ma non lo trovai. Quando cercai di gridare, mi accorsi di non avere più la voce. Preso dal panico, fluttuai in quella vastità scura nella vana speranza di uscirci, finché scorsi una flebile luce. Un puntino piccolo quanto una palla da baseball. Il suo bagliore era intenso, e lottava contro l'oscurità che tentava di divorarla. Mi spinsi a gran bracciate verso di esso, come se nuotassi in un mare di nulla. Appena gli fui vicino, il puntino di luce si espanse velocemente attorno a me, costringendomi a chiudere gli occhi. Una sensazione di vuoto assalii la mia mente. Un'amnesia che cancellò tutto ciò che era appena successo. Dov'ero stato?
D'un tratto udii la lenta e pacata voce del giovane, sovrastata, in lontananza, da voci autoritarie. Distinguevo vagamente varie lingue o forse dialetti. I miei occhi lentamente si abituarono alla luce e, con mio gran conforto, vidi Ottavio e il giovane. Erano al mio fianco, e osservavano qualcosa.
Guardandomi intorno, compresi che ci trovavamo sempre sulla collina, a pochi passi dalla capanna di tronchi. L'albero carbonizzato, che avevo visto in precedenza, era di un verde spettacolare. Un imponente quercia dai rami nodosi e foglie che specchiavano la luce del sole. Forse era una quercia secolare?
Quando guardai nella direzione in cui guardavano Ottavio e il giovane, scorsi numerose trincee. Erano ovunque, e zigzagavano su un terreno ridotto a fanghiglia dai bombardamenti e dalle piogge. Numerosi soldati si muovevano freneticamente all'interno.
Arti e corpi dilaniati erano disseminati sul campo di battaglia, in mezzo ad alberi abbattuti, squarciati e carbonizzati. C'erano piccole fosse scavate dai mortai, e del filo spinato rotto dai bombardamenti puntellava la terra di nessuno su cui penzolavano soldati morti. Altri erano semisepolti sotto cumuli di terra.
Era un tetro paesaggio di morte. Un paesaggio stravolto dalla violenza, dal sangue, dall'odio. Un paesaggio che non apparteneva al silente e verdeggiante bosco che conoscevo.



 

VIII
 

D'un tratto sentii un potente boato. Alcuni soldati vennero lanciati in aria dall'onda d'urto, e una densa nube di polvere si elevò dalla trincea verso il cielo plumbeo. Cominciai a udire le urla strazianti dei feriti, una cacofonia quasi assordante, finché vennero sovrastati da un lungo fischio acuto.
Dozzine di soldati dalle uniformi grigie e armati di fucili, si riversarono gridando fuori dalle trincee. Si misero a serpeggiare tra i cadaveri, le buche, il filo spinato. Inciampavano, si rialzavano e correvano disperati. Sentii altri boati, altre urla di dolore. Poi dalla parte opposta cominciarono a sparare.
Vidi zolle di terra sollevarsi dal terreno, e soldati falciati dalle mitragliatrici. I vivi si fecero scudo dietro ai morti, nascondendosi per evitare le pallottole vaganti. In una manciata di secondi, l'assalto si era trasformato in una carneficina. Nessuno raggiunse la trincea opposta. Nessuno sarebbe più tornato a casa.
Una coltre di polvere si espanse lentamente sulla terra di nessuno, e il silenzio tornò ad acquietare gli animi irrequieti nelle trincee, mentre nell'aria si levarono i gemiti e le urla dei soldati feriti.
Ero scioccato, e lo sembrava anche Ottavio.
Il giovane si girò verso di noi. "Questa è la battaglia." Disse lento. "Un'antica battaglia."
"Siamo nel passato?" Chiese Ottavio, anche se mi sembrava più un affermazione.
"Sì." Indicò con un dito il campo di battaglia. "Rivivono la morte da più di un secolo. Quando il sole si leva sul creato, lottano e periscono in un ciclo infinito."
"Devo avvisare la gente." Disse Ottavio. "Devono sapere del pericolo che corrono in questi boschi."
"L'ignoto si è palesato," rispose il giovane, "e non c'è nulla che tu possa fare." Fece una pausa. "Avete veduto il caos, poiché esso non dimora nelle vostre menti. La battaglia è invisibile ai molti, e pochi possiedono occhi per guardare. Il principio e la fine. La dilatazione di uno spazio-tempo lontano e vicino. In esso, popoli ancestrali giacciono addormentati nell'apatia."
E ricordai... Ricordai tutto quello che mi era capitato prima di essere qui. La stessa frase che la mia mente aveva ripetuto ossessivamente, e un altra che penetrava nella mia anima.
"Io non sono nessuno, ma posso essere chiunque."



 

IX
 

Mi ritrovai a volteggiare nell'oscurità. Una strana sensazione di benessere mi pervase completamente, finché la capanna di tronchi si ricompose come un puzzle. L'antico aveva lasciato il posto al moderno, e il giovane era diventato anziano.
Ero tornato nel presente.
L'anziano batté due volte il bastone sul pavimento, e venni teletrasportato davanti all'albero carbonizzato, insieme a Ottavio. Dozzine di uomini dalle uniformi grigio-verde penzolavano dai rami con un cappio al collo, la lingua di fuori, gli occhi fuori dalle orbite. Ondeggiavano e ruotavano sospinti da un vento gelido.
D'un tratto una vampata di fuoco avvolse l'albero, e vidi l'essere senza volto tra le fiamme. Il vecchio si posizionò di fronte a noi e, sollevando il bastone con una mano, estinse il fuoco. L'essere si materializzò a due passi dall'anziano. Rimasero immobili, a fissarsi. E se anche non ne fossi certo, quella cosa lo stavo guardando.
D'un tratto avvertii una forte energia negativa. Proveniva dall'anziano. Una sensazione opprimente, angosciante. Sentivo la mente vacillare, indebolirsi, e una voce gutturale che ripeteva: "Popoli ancestrali giacciono dormienti nell'apatia." Seguita da: "Io non sono nessuno, ma posso essere chiunque."
Sentivo le gambe molli, le mani tremare e un intensa apatia che mi avviluppava. Non avevo più il controllo dei miei pensieri, che si sovrapponevano in una cacofonia di immagini. Un ciclo infinito di sequenze che sentivo perdersi nell'oblio.
Destandomi da quel torpore, rialzai la testa e gli impiccati scomparvero. Mentre la quercia carbonizzata cominciò ad assumere la tonalità dell'essere, nuvoloni neri si ammassarono nel firmamento.
L'essere volse la testa verso di me.



 

X
 

L'oscurità mi avvolse per l'ennesima volta, e precipitai nel vuoto. Un abisso senza fondo. Non sapevo cosa mi stesse accadendo. La mia mente si era svuotata da ogni pensiero negativo, e ogni forma di paura era a me sconosciuta. Poi un intenso bagliore bianco mi accecò la vista, e i miei occhi cominciarono a lacrimare.
Quando il biancore scomparve, mi ritrovai dentro una trincea. Indossavo un'uniforme militare grigio-verde sporca di fango, e fissavo il mio fucile infangato. Ero terrorizzato, irrequieto e triste. Mi mancava la mia famiglia, la mia fidanzata, i miei amici. Le mie membra erano stanche, ed avevo iniziato ad avere attacchi di panico.
Dozzine di soldati erano tutti ammassati contro il parapetto della trincea. Spalla contro spalla. C'era un silenzio di tomba. Un silenzio così profondo da poter udire le folate di vento e i respiri dei miei commilitoni.
L'aria era pregna di disperazione, rabbia, odio e rimpianti. Sui visi dei soldati la tensione era palpabile. Respiravano appena. Alcuni, terrorizzati, stringevano il fucile contro il petto. Altri fissavano la fanghiglia, e altri ancora si vomitavano sui piedi. Sembravano tutti in un'attesa logorante, eterna.
Poi udii un fischio acuto, prolungato. Un coro di grida si levò dalla terra di nessuno. Poggiammo i fucili alla base del parapetto della trincea e, mentre le mani mi tremavano, premetti il grilletto. Sparavo alla cieca.
In lontananza, attraverso un campo di filo spinato e fosse scavate dai mortai, vidi una dozzina di soldati con le uniformi grigie attraversare di corsa la terra di nessuno. Avevano le baionette sotto la canna dei fucili e mazze o palette attaccate alle cinture. Alcuni di loro si fermarono per mirare e sparare, e altri corsero indemoniati verso la nostra trincea.
Mentre continuavo a sparare, qualcosa mi venne addosso e caddi a terra. Un soldato nemico cercò frettolosamente di infilzarmi con la baionetta, ma riuscii a bloccare la canna del suo fucile con entrambi le mani. Attimi dopo, mi crollò addosso. Alle sue spalle, un soldato mi allungò una mano. Mi rialzai, solo per essere buttato nuovamente a terra. Alzai lo sguardo e vidi una mazza ferrata colpire l'elmo del soldato che mi aveva aiutato. Cascò sulla fanghiglia e venne ripetutamente colpito alla testa. Mirai al soldato nemico, quando sentii il CLICK del fucile. Il caricatore era vuoto. Il soldato nemico si precipitò contro di me, e lo colpii con il calcio del fucile. Quello indietreggiò un poco, stordito. Poi qualcuno gli sparò un colpo alla schiena.
La trincea venne invasa dal nemico, e altri ne arrivavano a frotte dalle trincee vicine. Urlavano in preda all'ira, alla disperazione, all'odio. Era un combattimento violento, caotico, all'ultimo sangue. Un caos infernale.
Afferrai la mazza ferrata del soldato morto e mi preparai a combattere. Appena alzai lo sguardo oltre la trincea, vidi un ufficiale puntarmi una pistola. Per un attimo che mi sembrò eterno, i suoi occhi freddi, seri e privi di umanità incontrarono i miei.
E fu oscurità.
Mi ritrovai a volteggiare dapprincipio sulla trincea, poi sul campo di battaglia. Osservavo i soldati fracassarsi il cranio l'un l'altro con palette, mazze ferrate e con fucili usati come mazze. Altri soldati infilzavano il nemico con le baionette e, quando le ritraevano, quelle rimanevano incastrate tra la carne e le ossa, lasciandoli esposti a un contraccolpo.
In tutto quel caos, vidi dinanzi a me una luce. Una bagliore intenso, magnifico che mi cinse e mi attirò a sé. Una strana sensazione di pace avviluppò il mio corpo, la mia mente e la mia anima. Non avevo mai provato nulla di simile nei miei brevi diciassette anni di vita e, mentre nelle trincee i soldati continuavano a massacrarsi, io non ero nessuno, ma potevo essere chiunque.



 

XI
 

Venni catapultato nella capanna di tronchi dell'anziano. Ero di nuovo io, e sapevo che avevo vissuto la vita di un altro. Una vita che non mi apparteneva. Ma una voce distorta nei meandri della mia mente mi diceva che mi sbagliavo. Ero io, anche se non ero io.
Ottavio mi stava fissando. "Ma... Ma dove sei stato?"
"Io... Ero... " Balbettai, confuso.
L'essere senza volto si materializzò dinanzi al mio viso.
"FERMO!" Gridò il vecchio.
Venni risucchiato dentro il volto di quell'essere. Non percepivo più il mio corpo e la mia mente. Udivo le urla lontane e distorte di Ottavio, l'anziano mormorare qualcosa.
Poi le tenebre mi avvolsero, e mi ritrovai a guardare dietro il mirino di una pistola. La tenevo puntata contro un ragazzino impaurito. Un soldato con il viso ancora da bambino. Premetti il grilletto e la pallottola lo centrò sotto l'occhio destro, spappolandogli una parte del cranio.
Ero stato quel ragazzino impaurito.
Potevo sentirlo nel profondo della mia anima. Una sensazione intima e surreale. Stavo rivivendo la mia morte attraverso gli occhi dell'ufficiale?
"Tu non sei nessuno, ma puoi essere chiunque." Disse una voce metallica e imponente nella mia testa.
"Io non sono nessuno, ma posso essere chiunque." Bisbigliai ossessivamente.
Non riuscivo a controllare l'ufficiale. Era come se stessi osservando la sua vita attraverso i suoi occhi.
Balzò giù nella trincea con un mezzo sorriso soddisfatto. I soldati dalle uniformi grigie avevano vinto e ora stavano saccheggiando i cadaveri. I nemici feriti venivano uccisi con varie martellate in testa e, chi aveva pietà del vinto, lo finiva con una pugnalata al cuore. Ma era un gesto raro, mentre non lo era l'accanimento sul nemico inerme. Alcuni si divertivano, altri sfogavano così la loro rabbia.
L'ufficiale si guardò intorno, mise la pistola nella fondina e iniziò a setacciare con gli occhi i soldati morti. Camminò lungo la trincea, finché si fermò davanti a un ufficiale nemico morto. Si chinò e prese qualcosa dal suo taschino. Un foglio con parole e numeri codificati.
D'un tratto si udì un forte boato.
L'ufficiale alzò lo sguardo.
Mi ritrovai a volteggiare in cielo, mentre una densa nube di polvere si elevava dalla trincea. Un colpo di mortaio aveva fatto a pezzi l'ufficiale e una decina di soldati all'interno. Seguirono una cacofonia di boati ed esplosioni, uno scambio pesante di mortai che ridusse a pezzi ogni cosa. Continuarono per un lungo momento, finché tornò il silenzio.
"Sono tutti morti." Disse la stessa voce nella mia testa. "Vincitori e vinti."



 

XII
 

D'un tratto mi ritrovai nella trincea in una notte senza né stelle, né luna.
Dinanzi a me stava l'essere senza volto, e tutt'attorno le facce cadaveriche dei soldati di entrambi gli schieramenti. I loro stanchi e sofferenti occhi vitrei mi fissavano come se aspettassero l'agognato riposo. E provai pietà per loro. Una grande pietà.
Poi la trincea si dissolse, e un verdeggiante bosco ne prese il posto. Lo stesso bosco ove mi piaceva immergermi per lunghe camminate. Mentre una piacevole brezza gelida mi accarezzava il viso, le facce cadaveriche mi tesero le argentee mani e si avvicinarono.
L'essere senza volto allargò le braccia e, prima che i soldati svanissero come cenere al vento, mi parve di vedere un sorriso di ringraziamento sui loro volti.
L'essere senza volto sprigionava un'energia arcaica, di pace, e in breve ne venni pervaso.
"Ricorda." Disse una voce profonda e melodiosa che proveniva dall'essere. La stessa voce che avevo sentito nella mia testa.
Crollai sulle ginocchia.
"Tu eri qui un secolo fa. Ami questi boschi perché ci sei morto, e provi a ritrovare te stesso perdendoti fra i suoi sentieri. Una parte di te giace nella terra. Una parte di te desidera appropriarsene. Una parte di te vuole lasciarsi tutto alle spalle."
Non capivo le sue parole. Si riferiva al soldato morto nella trincea? Quel soldato che sembrava essere me in una vita precedente?
L'anziano apparve tra gli alberi, seguito da Ottavio.
L'essere mi afferrò per una spalla, e sentii la sua calda mano acquietare la mia anima. Un senso di pace mai provato prima. La pace dei sensi.
"Lascialo!" Urlò il vecchio puntandogli il bastone.
"E tu lascia questa terra, anima immonda." Rispose l'essere senza volto. "Sei stato corrotto dal male, e adesso confondi il giusto con l'ingiusto, il male con il bene. Spargi malignità. Semini morte!"
Vidi il vecchio abbassare il bastone.
"Il tuo tempo è giunto." Continuò l'essere senza volto. "Hai cercato di ingannarli, di nutrirti della loro essenza vitale, così come hai fatto con i soldati un secolo fa. L'ignoto non è un perpetuo esistere, ma una destinazione. Un viaggio verso l'illuminazione interiore. Vieni con me. Accetta la tua redenzione. O sarà la luce di quest'uomo a distruggerti."
Non stavo più a capirci niente. Pensavo che fosse l'essere senza volto il nemico, il mostro. Perché mi sembrava tutto così confuso? L'ignoto era il nemico. L'anziano aveva detto così, o forse mi ero convinto da solo? Perché dovevo uccidere un innocuo vecchietto?
L'anziano gettò a terra il bastone e, raggiungendo l'essere senza volto, gli bisbigliò qualcosa in una lingua sconosciuta. L'essere lo accolse nelle sue braccia e svanirono in un fascio di luce nero-viola verso le stelle.
D'un tratto crollai a terra, insieme a Ottavio. Ero paralizzato, ma riuscivo a muovere gli occhi, a udire le fronde smosse dal vento. Cercai di parlare, ma mi uscii solo un rantolo soffocato.
Poi caddi in un sonno senza sogni.



 

XIII
 

Mi svegliai in una piccola conca con le spalle poggiate a un tronco e un mal di testa infernale. Ero circondato da una fitta vegetazione. Alzandomi lentamente, mi massaggiai le tempie. Scorsi il mio zaino poco più avanti coperto da alcune foglie secche. Poi vidi una sagoma tra gli alberi.
"EHI!" Gridai, andandogli incontro.
Era Ottavio. Si voltò verso di me.
"Stai bene?" Gli dissi.
Ottavio mi squadrò, e mi sembrò confuso. "Certo. Tu invece?"
"Dov'è l'anziano?"
"Quale anziano?"
"Era con noi. Non ricordi?"
"Con noi? Ma che stai dicendo?"
"Eravamo..."
"Eravamo?"
"Davvero non ricordi nulla?"
Ottavio rimase in silenzio per un momento. "Cosa dovrei ricordare? Sono stato a perlustrare i boschi dalle sei di stamane."
Come poteva non ricordare nulla? Era stato solo un mio sogno? Un mio incubo? Tutto frutto della mia mente?
"Allora? Di che diavolo parli?" Mi chiese.
"Stavi cercando un uomo dalla carnagione scura, giusto?" Cercai di fargli tornare la memoria.
Mi fissò per un attimo, e sembrò ancora più confuso di prima. "Questi boschi ti stanno facendo impazzire, Antonio. O forse è il caldo?" E se ne andò ridacchiando fra sé.
Come poteva essersene dimenticato? Ricordavo perfettamente ogni cosa, anche se non capivo il senso di quello che avevo passato.
Decisi di lasciare il bosco, convincendomi che fosse stato solo un sogno o un incubo.
Mentre camminavo, scorsi qualcosa tra gli alberi. Mi feci largo tra la fitta vegetazione e raggiunsi alle spalle un uomo che fissava il tronco di un albero. Il suo aspetto mi era vagamente familiare.
Quando gli toccai una spalla, quello si voltò. Ero io.
Mi sorrise freddamente con uno sguardo apatico.
"Ma tu... Sei..." Balbettai.
"Popoli ancestrali giacciono addormentati nell'apatia." Disse con una voce gutturale, priva di emozioni. "Tu chi sei? Non sei nessuno, ma puoi essere chiunque."
Il suo volto scomparve e, insieme ad esso, il mondo.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Occhi malefici ***


1


Arrivai nel porto di New Amsterdam al crepuscolo. Era una giornata afosa e un leggero venticello soffiava da oriente. Il cocchiere fermò la carrozza davanti alla taverna Due Streghe, un singolare e insolito edificio di legno abbarbicato sul fianco di una collina brulla, cinta da un basso muretto di pietra. Era poco distante dall'agglomerato di casette di legno putrescenti e malandate che proseguivano a perdita d'occhio all'orizzonte. Quando posai il piede sui ciottoli, un acre odore di feci e urina mi pervase i polmoni. Repressi un moto di tosse e mi coprii il naso con una mano. Figure ombrate da cappucci e mantelli passavano silenti tutt'attorno. Nessuno di loro mi lanciò un'occhiata. Anzi, pensai che non avessero nemmeno le facce. Strane gente, pensai. Forse ero troppo abituato alla gente di campagna. Gente che aveva occhi e orecchie dappertutto.
Il cocchiere mi salutò con un accenno della testa e, facendo schioccare il frustino sui cavalli, si allontanò lungo la stretta stradina. Aprii la porta di legno ed entrai nella taverna. Un'ondata di calore mi colpii in pieno viso. Un fuoco ardeva al centro della stanza su cui era posto un pentolone fumante e un piacevole odore di stufato mi fece venire l'acquolina in bocca. Mentre sentivo il mio stomaco brontolare, camminai tra i tavoli gremiti di gente maleodorante, i vestiti laceri, sporchi. Non una volta alzarono lo sguardo e nemmeno il taverniere lo fece.
Mi fermai al bancone e lo guardai. Il taverniere zoppicò verso di me. Un uomo tozzo, stempiato, dal viso cadaverico e la barba folta.
«Buonasera, signore» disse con un sorriso di circostanza. «Cosa vi servo?»
«Una boccale di birra e un piatto di quello stufato.»
Il taverniere prese una boccale e lo riempì di birra. «Cosa vi porta da queste parti?»
Feci un sorso e passai la lingua sul labbro superiore. «Si nota molto che sono un forestiero?»
«Questo luogo è frequentato dalla solita gentaglia.» Indicò le persone ai tavoli con un cenno della testa. «Quindi, sì, si nota molto.» Afferrò il coppino e la ciotola di legno e raggiunse il pentolone. Ritornò con dell'ottimo stufato che posò davanti a me. Mise i gomiti sul bancone. «Allora?»
«Sono qui per affari» risposi. «Devo chiudere una trattativa per conto di un mio cliente.»
«Non sembrate un tipo del genere. Voglio dire, non siete poi tanto diverso dalla gente di qui dentro. Lavorate per qualche...» si avvicinò a me per non farsi udire. «Brigante? I Fratelli Lower?»
Non avevo mai sentito quel nome. «Siete fuoristrada. Ho un lavoro rispettabile. I miei affari avvengono alla luce del sole.» Cominciai a mangiare.
Il taverniere mi guardò, accigliato. «Oh, rispettabile, dite. Bene. Immagino che vi siete vestito in quel modo per passare inosservato. Ma lasciatemi dire una cosa. La gente da queste parti capisce sempre chi ha davanti, anche se indossa solo uno straccio.»
Che cosa voleva dire? E poi perché tutta questa confidenza?
Il taverniere mi fissò per un attimo, come se mi stesse leggendo nella mente. Poi si allontanò senza dire niente. Forse lo aveva fatto per davvero?

Pagai il taverniere e lasciai la taverna con un senso di inquietudine. Non sapevo da cosa derivasse, così m'incamminai lungo la strada acciottolata. Il mio contatto, Jimmy Horn, mi aveva trovata una stanza da una vecchia signora di nome Annabelle Monroe, almeno stando alla lettera che mi aveva inviato otto giorni fa. La casa si trovava in fondo alla via, ma non aveva specificato che dovevo serpeggiare tra gli stretti vicoli maleodoranti prima di arrivarci.
Bussai alla porta, non sapendo nemmeno se fosse quella giusta. Poco dopo venne ad aprire una piccola anziana signora dalla faccia solcata da numerose rughe. Aveva degli occhi di un celeste mai visto prima, quasi ipnotico. Si era posizionata dietro la porta. Temeva che mi fiondassi in casa?
«La signora Annabelle Monroe?» domandai con un vago sorriso.
L'anziana mi squadrò, guardinga.
«Sono Edgar Russell, un amico di Jimmy Horn. Sono qui per...»
La vecchia spalancò la porta, mutando l'espressione torva in un sorriso. «Certo, certo. Mi ha detto tutto. Entrate, su, entrate.»
L'anziana donna abitava in una piccola casetta di legno che si apriva sul retro in un piccolo giardino spoglio. Era piccola, confortevole e quasi vuota. Aveva solo una sedia, un tavolo e un letto. Un piccolo fuoco ardeva in un cammino e una manciata di candele di sego illuminavano un ambiente in penombra, gettando ombre inquietanti sulle pareti di legno.
«Seguitemi, seguitemi» disse con un sorriso sdentato.
S'incamminò a piccoli passi nella stanza adiacente, dove c'era un letto di paglia. Credevo di dover dormire qui, invece mi condusse fuori, vicino a un piccolo capanno di legno malandato. Era attorniato da un ceppo, cespugli rinsecchiti e da abitazioni in legno fatiscenti.
Si fermò davanti alla porta poco divelta. «Dormirete qui, signor Russell. Ho già messo una coperta di lana e della paglia.»
«Grazie, signora Monroe.»
L'anziana si coprì il sorriso sdentato con una mano. «Chiamatemi Annabelle. Faccia buoni sogni, signor Russell.»
«Anche lei, signora Monroe. Voglio dire, Annabelle.»
L'anziana donna sgambettò via e sparì nella casetta.
Quando aprii la porta divelta, quella venne giù con un tonfo e una piccola nube di polvere si sollevò in aria. Ecco perché Annabelle non l'aveva aperta, pensai con un sorriso. L'interno era buio, ma la pallida luna illuminava quello che sembrava un giaciglio di paglia. Sollevai la porta e, cercando di non farla cadere, la misi al suo posto. Poi mi distesi sulla paglia e chiusi gli occhi, mentre i latrati dei cani e il vociare litigioso di un uomo e una donna, mi accompagnarono nel mondo dei sogni. Mi sembrava quasi di essere a casa, a Jamestown.



 

2

Mi svegliai puntuale alle prime luci dell'alba. Mi alzai e aprii la porta che cadde a terra con un tonfo. Mi ero dimenticato che non era ben salda. La sollevai e la misi al suo posto. Mentre camminavo verso la casetta dell'anziana, vidi un uomo dai capelli arruffati affacciato alla finestra. Mi fissava, severo. Gli lanciai una rapida occhiata, poi bussai alla porta. Quando mi voltai nuovamente verso di lui, non c'era più, la finestra chiusa dalle imposte. Un moto di inquietudine mi pervase la mente. Prima non c'erano. Che mi fossi immagino tutto? Anche l'aspetto del muro di legno esterno mi era apparso tenuto bene. Meglio delle altre abitazione intorno che avevano il legno corroso e spaccato.
Quando mi voltai, quasi sussultai nel vedermi dinanzi la signora Annabelle che mi guardava con quei suoi occhi ipnotici.
«Oh, buongiorno, signora Monroe» dissi con un vago sorriso.
«Buongiorno a voi, signor Russell. Ma come vi ho detto ieri, chiamatemi solo Annabelle. Niente signora. Solo Annabelle.»
«Certo, Annabelle.»
«Così va meglio» sorrise. «Venite dentro. Ho appena comprato dal fornaio due pagnotte.» Attraversammo la prima stanza e ci fermammo nella seconda, davanti al camino spento. «Non è molto, ma è tutto quello che può offrirvi questa vecchia.»
«Siete gentile, ma debbo rifiutare.»
L'anziana si accigliò, piantando le mani sui fianchi. «È maleducazione non accettare il cibo quando vi viene offerto, signor Russell. Vostra madre non vi ha insegnato le buone maniere?»
«Beh, se devo essere sincero. Non ho mai avuto una madre.»
Annabelle mi fissò per un attimo, come se mi stesse leggendo la mente. «Mi dispiace, signor Russell, ma non ritiro quello che ho detto.» Afferrò una pagnotta ancora calda dal tavolo e me la mise bruscamente in mano. «Mangia, su!»
«Vi ringrazio» Strappai un morso e cominciai a masticare.
«Ora va molto meglio» sorrise la donna.

Dopo aver mangiato, posai tre monete sul tavolo senza farmi vedere e lasciai l'abitazione. Era una giornata cupa, fredda e nebbiosa. Non riuscivo a vedere a non più di sette piedi dal mio naso. Il sole faticava ad aprirsi una breccia tra le possenti nuvole plumbee e il tanfo di urina era insopportabile in quei vicoli stretti e tortuosi.
M'incamminai lungo l'acciottolato, quando per poco non mi cade un secchio di feci in testa. L'uomo anziano affacciato alla finestra mi lanciò un sorriso beffardo, prima di scomparire all'interno. Mi coprii il naso e la bocca con la mano, e aumentai il passo.
Attraversai lo spiazzo con una piccola fontana al centro. Delle donne riempivano secchi d'acqua, mentre un uomo dal viso rossiccio, ubriaco, le importunava. Salii una rampa di scale di pietra e proseguii nella via maleodorante. Due guardie armate di moschetto mi passarono accanto, senza degnarmi di uno sguardo. Quando arrivai vicino a un magazzino abbandonato, scorsi qualcosa nella fessura nel muro di legno del secondo piano. Due bagliori arancioni, forse due occhi. Mi fissavano.
Scomparvero.
Non capivo se me lo fossi immaginato, oppure no. Non ci meditai molto, in quanto Jimmy Horn uscì dal magazzino. Era un uomo molto alto, magrolino, viso quadrato, mascella imponente e naso storto. Aveva sempre lo sguardo inespressivo. Era stato ferito alla gamba sinistra, una brutta caduta, diceva, e adesso zoppicava o strascicava il piede nei giorni di pioggia. Indossava indumenti di lana, camicia e pantaloni logori.
«Pensavo non venissi più» disse, serio. Notai che la sua voce era cambiata dall'ultima volta che gli avevo parlato tre anni prima. Era diventata rauca, quasi un bisbiglio.
«La signora Monroe mi ha trattenuto.»
«Sì? Perché? Cosa è successo?»
«Niente. Non è successo niente. Voleva che mangiassi la pagnotta che aveva appena comprato.»
«Ah, capisco. Ora vieni dentro.»
Spinse la porta di legno e mi fece entrare. L'ambiente era in penombra e solo due candele di sego illuminavano quella che sembrava una cassa da morto. Si trovava in fondo all'edificio, attorniato da altre casse di pari misura o più piccole.
«È quella, giusto?» Indicai la cassa da morto.
Jimmy la raggiunse e spostò di poco il coperchio. «Vieni a guardare.»
«Sì, è proprio lei. Dove l'hai trovato?»
«Ha importanza?»
«Per il mio cliente, sì.»
Jimmy mi guardò per un istante. «Nei pressi della colonia del Maryland. C'è l'aveva un tale di nome Maxim Berrick nella sua capanna. Chi svitato si tiene una bara nella propria abitazione?»
«L'hai ucciso?»
«Secondo te?»
«Bene. Ora rimetti il coperchio.»
«Riguardo ai miei soldi?»
«Li avrai. Ora dovrai aiutarmi a portare la cassa fuori città.»
«Aspetta un attimo» disse Jimmy, stizzito. «Non erano questi i patti. Dovevo solo trovare e consegnarti questa... questa cosa. Se vuoi che ti aiuti, dovrai pagarmi di più.»
Lo fissai per un momento. «Così sia.»



 

3

Lasciai il magazzino e mi diressi da Peter Landman. Lo conoscevo da molti anni e sapevo che si era trasferito qui dopo la morte di sua figlia Betty per febbri. Una bambina di quattro anni, docile, curiosa. Si era aperto una stalla poco distante da qui, ma non sapevo se gli affari gli andavano bene. Ma valeva la pena dare un'occhiata.
Notai che la nebbia si era un poco diradata e l'aria era diventata più calda, anche se il cielo era ancora plumbeo. Attraversai lo spiazzo da cui ero passato prima e mi inoltrai in uno stretto vicolo per un paio di minuti. Poi uscii verso una radura e vidi poco distante la stalla di Peter.
Quando mi avvicinai, scorsi i cavalli nell'edificio. Un uomo dall'aspetto familiare inforcava la paglia. Mi dava le spalle.
«Peter Landman» dissi.
L'uomo si girò verso di me e mi scrutò, guardingo, per un momento. «Chi vuole saperlo?»
«Sono Edgar Russel. Non ti ricordi di me?»
«Dovrei?»
Quella domanda mi spiazzò. «Sei Peter Landman, giusto?» Era lui. Lo sapevo. Sulla cinquantina, carnagione mulatta, gli occhi marroni, i corti capelli castano scuro e il labbro leporino. Aveva la spalla destra più rialzata dell'altra e un naso a patata. Certo che era lui.
«No, avete sbagliato persona» disse, e ritornò a inforcare la paglia.
Rimasi a guardarlo per un momento. Non capivo se mentiva, oppure non si ricordava davvero di me. Come aveva fatto a dimenticarmi? Aveva preso una botta in testa?
«Davvero non ti ricordi, Pete? Sono Edgar, il figlio di Matthew Russell.»
Peter non rispose e continuò a svolgere il suo lavoro.
Quando si spostò verso la stalla, gli andai dietro. «Peter! Fermati un attimo.»
L'uomo entrò nella stalla e, appena varcai l'ingresso, scomparve sotto i miei occhi. Sussultai, spaventato. Cosa diavolo era successo? Mi voltai e notai che anche i cavalli erano spariti. Anzi, l'intera stalla ora sembrava solo un edificio malandato dalle pareti di legno spaccate e corrose.
Uscii fuori, confuso. Mi passai una mano nei capelli e mi guardai intorno. Cosa diamine mi stava accadendo? Mentre mi sedetti su una grossa pietra deforme, una giovane donna mi si avvicinò, un cesto di rape nelle mani.
«Tutto bene, signore?» chiese con voce sottile.
Quando alzai lo sguardo, rimasi incantato dalla sua bellezza. «S-sì, sto bene, grazie.»
Non doveva avere più di trent'anni, esile, viso candido come la neve e occhi di un verde cristallino. Le labbra carnose che non riuscivo a smettere di fissare. Indossava una lunga veste logora di lana azzurra.
Mi sentii un po' un ebete. Non mi era mai capito di infatuarmi così rapidamente e forse era proprio il famoso colpo di fulmine di cui tanto sentivo parlare. Non credevo a queste scemenze, eppure eccomi qui, a fissarla come un perfetto imbecille.
«Sembrate pallido» disse la giovane, preoccupata. «Siete sicuro di stare bene?»
«Certo, signorina. Sto benissimo» risposi con un sorriso di circostanza.
«Va bene, allora. Buona giornata, signore.»
«B-buona giornata a voi, s-signorina» balbettai, sentendomi un completo idiota.
La vidi allontanarsi lungo la strada sterrata e raggiungere le prime casupole in legno dai tetti di paglia. Alcune donne della sua età le si avvicinarono, le parlarono, finché sparirono in uno di quei edifici.
Forse abita lì? No, niente domande. Dovevo togliermela dalla testa. Ero qui per lavoro, non per sistemarmi. Avrei trovato altre ragazze a Jamestown, magari avrei provato la stessa sensazione che... Ma chi voglio prendere in giro. Sono rimasto fulminato, punto. Niente giustificazioni.

Poco dopo arrivai al magazzino abbandonato e trovai Jimmy seduto fuori dalla porta.
«Dove sono i cavalli?» chiese, confuso. «E il carro?»
«A quanto pare il mio amico non è qui.»
«Ora cosa facciamo? Non possiamo mica trascinarcela dietro?» Puntò il pollice dietro alle sue spalle, verso il magazzino.
«Conosci qualcuno che può affittarci dei cavalli e...»
«Sì, ma dovremmo comprarli, non affittarli.»
«E che me ne faccio dei cavalli e di un carro dopo aver svolto il lavoro?»
Jimmy alzò le spalle. «Rivendili. A Jamestown cercano sempre buoni cavalli da tiro.»
Quella affermazioni la trovai un poco strana. «Tu come lo sai?»
«Sono un ladro, Ed. Conosco gente anche al di fuori di questa città. Posso aiutarti con questo problema, ma...»
«Vuoi essere pagato.»
Jimmy sorrise. «Che te ne pare?»
«A quanto puoi venderli?»
«Mmmh... diciamo per duecento fiorini o su di lì.»
«Non vuoi ingannarmi, vero? Sai cosa ti succederebbe.»
«Ehi, Ed. Ti farei mai una cosa del genere?»
«Non saprei.»
«Puoi fidarti. Ti farò avere il miglior prezzo.»
«Sì, certo. Ora pensiamo a comprare il necessario.»
Jimmy sorrise, mellifluo. «Seguimi.»



 

4

Mi condusse tra i vicoli maleodoranti e tortuosi del quartiere, finché uscimmo su una piccola altura. Da là s'intravedeva una chiesa colonica con la facciata bianca e un campanile che svettava sugli edifici di pietra e mattoni. Scendemmo una ripida scalinata e ci incamminammo lungo una strada acciottolata. Mi sentivo un poco a disagio, in quanto i miei indumenti mal si sposavano con quelli della gente del posto. Gente con addosso abiti puliti, raffinati, di broccato. Mi guardarono di sottecchi e le donne si tennero alla larga come se avessimo la peste. Alcuni ci additarono, schifati.
Jimmy non se ne preoccupava o forse non lo dava a vedere.
«Perché stiamo passando di qui?» domandai, un poco irritato da quegli sguardi.
«Come perché?» lanciò un'occhiata dietro le sue spalle. Poi si girò. «A meno che tu non abbia le ali come un angelo del signore, è l'unica strada.»
«Spero per te che questo tipo sia davvero economico.»
Si voltò, mi sorrise. «Il migliore, credimi.»
Percorremmo un lungo vialetto ai cui lati correvano cespugli curati, alberi e alcune panchine di legno. Ebbi l'impressione di vedere Annabelle in lontananza. Sparì dietro un alto arbusto e, quando svoltai l'angolo, lei non c'era più. Forse me l'ero immaginata?
«Siamo arrivati. È là!» disse Jimmy con un accenno della testa.
Osservai una casa di pietra di un piano dal tetto in tegola. Sui due balconi erano agganciati diversi vasi e alle finestre c'erano persino i vetri.
«Ehi, aspetta un attimo» dissi, cauto. «Dove mi hai portato? Non mi sembra l'abitazione di uno stalliere.»
«Dai, non farti pregare. Andiamo.»
Lo guardai con fare indagatorio. «Da chi mi stai portando, Jim?»
«Dallo stalliere.»
«Non mentirmi.»
Jimmy mi fissò per un momento. Poi lanciò uno sguardo all'ingresso della casa e di nuovo verso me. «Ascolta, Ed. Sai che non ti metterei mai in pericolo. Lo sai, vero?»
Mi limitai a fare un debole accenno con la testa.
«Questo qui,» indicò con una mano l'abitazione, «è un uomo dalle mille risorse. Può farti avere praticamente tutto. Basta avere i denari. Conta solo quello. Tu pagalo e lui ti farà avere quello che chiedi.»
Non risposi subito. «Da come ne parli sembra che questo tizio sia... huh, come dire, un malvivente, dico bene?»
Jimmy si portò una mano dietro la nuca, imbarazzato. «È l'unico che può farti avere i cavalli e un carro a basso costo.»
Due donne ci passarono accanto e ci guardarono, inorridite. Afferrai per il braccio Jimmy e lo condussi sotto un albero, fuori dalla vista di tutti i passanti.
«Non mi avevi detto che avrei fatto affari con un farabutto. Non possiamo fidarci di un tipo così. Forse per averli dovrà rubarli a qualcun altro. Non voglio avere nulla a che farci. Andiamo, via!»
«Ehi, no. Aspetta!» Jimmy mi afferrò l'avambraccio. «Come farai a trasportare la cassa?»
«M'inventerò qualcosa.»
Tornammo indietro e, arrivati quasi all'angolo della via, mi fermai. «Maledizione!» dissi, sconfortato. «Portami da quest'uomo. Tanto non ho altra scelta.»



 

5

Jimmy bussò alla porta di legno. Poco dopo venne ad aprire una donna sulla cinquantina, carnagione scura, viso grassoccio, busto robusto e gambe magre. Aveva un fisico decisamente strano.
Ci guardò dall'alto in basso con fare ripugnante. «Qui non vogliamo mendicanti!»
Ma appena fece per sbatterci la porta in faccia, Jimmy la bloccò con un braccio. «Ehi, vecchia strega. Sono Jimmy Horn. Non mi riconosci?»
La donna lo fissò, sprezzante. «Con quella faccia imbrattata, certo che no. E poi ti avevo già detto di passare dal retro, o sbaglio? Il signor Vermont non vuole che degli appestati si facciano vedere alla sua porta. Da queste parti la gente parla e non fa bene alla sua reputazione. Ora venite dal retro.» Ci sbatté la porta in faccia.
«Signor Vermont?» domandai, confuso.
Jimmy mi fece cenno di seguirlo. «Si fa chiamare così. Nessuno conosce il suo nome e, chi lo sapeva, è morto.»
«Oh, beh, questo è molto rassicurante.»
Attraversato un corto vialetto, girammo l'angolo e ci avvicinammo alla signora che ci aspettava sotto la soglia. Ci fece entrare e chiuse la porta alle nostre spalle. Poi ci condusse nell'ampio salone.
«Aspettate qui» disse. «Vado a chiamare il signor Vermont.»
Mi guardai intorno. Scaffali pieni di libri, sedie di legno dallo schienale elaborato, tavoli con sopra l'argenteria, brocche e vasi di fiori. Enormi tappeti persiani, poltrone, divani e tende alle finestre. Tutto profumava di pulito, di fiori, di buono. Non sapeva nemmeno io cosa fosse questo odore.
«Ti piace, eh?» chiese Jimmy con un sorriso, compiaciuto. «Un giorno vorrei possedere un casa così.»
«Più che una casa sembra una reggia» risposi, stupefatto.
«Dovresti vedere la villa in campagna. Questa non è niente. Lì ci sono un sacco di stanze ed è... enorme, credimi. Ci sono andato cinque volte, o forse sei, non ricordo.»
Cominciavo a credere che non fosse un semplice malvivente. Se quello che diceva era vero, avevo a che fare con un uomo potente. Un uomo che aveva agganci dappertutto, anche negli ambienti aristocratici. «Da chi mi hai portato, Jim?»
Ma prima che potesse rispondermi, un uomo entrò nel salone, seguito dalla donna grassoccia. Non doveva avere più di sessant'anni, viso ovale, sporadici ciuffi di capelli bianchi portati all'indietro, un pizzetto grigiastro e una corporatura esile, dalle spalle strette. Il viso liscio, senza una ruga, e degli occhi verde scuro che mi scrutavano, astuti. Indossava un elegante tunica di damasco in ciniglia bordeaux, maniche di velluto dello stesso colore, rifinita con passamaneria oro e merletto. Sopra un'ampia casacca in pelliccia marrone, bordata con passamaneria.
Rimasi intimorito sia dallo sguardo inespressivo e glaciale, sia dalla sua eleganza. Non aveva per niente l'aspetto di un farabutto. Anzi, sembrava un uomo altolocato. Qualcuno che aveva alle spalle una potente famiglia aristocratica.
L'uomo posò lo sguardo su Jimmy. «Signor Horn» disse con una voce rauca, debole. «Cosa vi porta qui da me? E chi è il gentiluomo in vostra compagnia?» Mi fissò negli occhi.
«È Edgar Russell, signore. È qui per affari.»
L'uomo mandò via la signora grassoccia con un debole cenno della mano, poi indicò il divano. Si mosse calmo, quasi a rilento.
Ero sorpreso che ci avesse fatto sedere su un divano che doveva valere più di me e Jimmy messi insieme. In più eravamo sporchi, ma l'uomo non sembrava preoccuparsene. Non ci aveva mai guardato con lo stesso sguardo disgustato dei passanti fuori dall'abitazione, e questo mi fece un gran piacere.
«Sono il signor Vermont» disse con un freddo sorriso, gli occhi apatici. «Lieto di fare la vostra conoscenza.»
«Edgar Russell, piacere mio, vostra signoria.» Gli allungai una mano.
L'uomo la fissò per un momento, poi me la strinse. Il suo toccò gelido, cadaverico, mi fece quasi rabbrividire.
Jimmy mi lanciò una rapida occhiata, ansiosa. Non sapevo perché avesse improvvisamente mutato espressione. La cosa non mi preoccupò molto, in quanto il suo umore era sempre stato altalenante.
«Stretta vigorosa, signor Russell. Ditemi, quali affari vi conducano qui?»
«Ho bisogno di due cavalli e un carro.»
Il signor Vermont mi fissò negli occhi, come se cercasse di leggermi nei pensieri. Da quando ero giunto a New Amsterdam, quasi tutti quelli con cui avevo parlato si erano comportati allo stesso modo. Metteva i brividi.
«Posso farveli avere, ma vi costerà.»
«Quanto?»
Il signor Vermont sembrò meditarci. «Viaggerete per lunghe distanze?»
Come diavolo faceva a saperlo? Lo aveva intuito? «Sì, sarà un viaggio impegnativo.»
«Allora vi serviranno due robusti cavalli, signor Russell.»
Lanciai uno sguardo a Jimmy, pensando alle sue parole. Sì, ma dovremmo comprarli, non affittarli. «È possibile affittarli?»
Come mi aspettavo, Jimmy mi lanciò un'occhiataccia, ma non disse nulla.
Il signor Vermont sorrise, freddo. «Vi conviene comprarli da me e poi rivenderli. Fareste un po' di denari. Affittare cavalli è una pratica, come dire, inutile. Ma se volete affittare una carrozza, allora posso aiutarvi.»
«No, va bene così, signor Vermont. Comprerò i due cavalli e il carro.»
Si alzò lentamente, seguito da me e Jimmy. «Centoquindici fiorini. Accettate?»
Sì, mi andava bene. Non sembrava poi molto. A Jamestown avrei sborsato come minimo centottanta fiorini. Gli strinsi la mano ghiacciata e trasalii un'altra volta.
«Quando intendete partire, signor Russell?»
«Domani, all'alba.»
«Allora vi farò avere quanto richiesto. Buona giornata, signori.»
«A voi, signor Vermont» rispondemmo all'unisono io e Jimmy.
Ci salutò con un cenno della testa e si allontanò con passo lento, sparendo dietro la stanza adiacente.
Subito si fece viva la donna grassoccia da quella stessa camera. «Vi accompagno alla porta.»
Appena uscimmo, quella la sbatté alle nostre spalle.



 

6

«Non ha alluso a una sola minaccia» dissi, turbato. «Quasi tutti fanno vane minacciate se non porto i denari o...»
«Non preoccuparti,» sorrise Jimmy, «il signor Vermont sa sempre quando qualcuno cerca di dargli grane.»
«Che vuoi dire?»
Jimmy alzò le spalle. «Ho svolto molti lavori per lui e credimi se ti dico che sapeva sempre quando mentivo. Una volta dovevo...» Si ammutolì, lanciando un'occhiata spaventata verso la porta. «No, niente. Meglio non dire altro.»
«Perché? Non ci sente nessuno.»
«Non è importante» disse Jimmy con un sorriso di circostanza. Poi s'incamminò verso la strada.
Gli andai dietro. «Hai per caso paura di quell'uomo?»
Jimmy mi lanciò un'occhiata, turbato. «Certo che no. Perché dovrei temerlo?»
«Dalle tue risposte. E poi in sua presenza mi sei sembrato... sei cambiato.»
Mi scrutò per un attimo. «Non è vero. Sei diventato un chiaroveggente, adesso?» scherzò.
Non risposi. C'era qualcosa di strano nel suo comportamento, come era strano che si fosse ammutolito. Jimmy era un gran chiacchierone ed era solito parlare troppo. Certo, c'erano alcuni giorni in cui non diceva una parola, ma erano assai rari. Quindi trovai strano che si fosse interrotto.
Seguimmo la via acciottolata affollata di persone altezzose, che ci giravano alla larga. Ormai mi stavo abituando a quelle occhiate sprezzanti e schifate.

Tornati al magazzino, mi avvicinai alla cassa da morto. Spostai di poco il coperchio e guardai all'interno. Il corpo era avvolto in un lenzuolo bianco, eccettuo per il viso che era scoperto. Una faccia grigiastra, ruvida, putrescente. Un ciuffo di capelli neri sporgeva dal lato destro del cranio. Una benda le copriva gli occhi, e le labbra bluastre sembravano sorridermi tetramente. Non sapevo chi fosse, ma non m'interessava. Il mio lavoro era di portare la cassa al mio cliente, poi quello che ne avrebbe fatto non era un mio problema. Quello che mi incuriosiva era la benda. Che senso aveva coprire gli occhi? Perché farlo?
Avvicinai la mano e, quando feci per toglierla, una folata di vento spalancò la porta del magazzino abbandonato. Sobbalzai e mi voltai. In quell'istante qualcosa di gelido mi sfiorò la mano. Lanciai un grido e indietreggiai, terrorizzato. Fissai la cassa per un lungo momento, ma non vidi niente di strano. Cosa mi aveva toccato? Chi era stato? Quel cadavere? Impossibile. I morti non potevano muoversi. Non l'avevano mai fatto.
Andai verso l'uscita, guardandomi ossessivamente alle spalle. Una volta fuori, mi avvicinai a Jimmy. Se ne stava seduto a fissare le donne che passavano da lì.
«Ehi, Jim. Forse mi sono dimenticato di chiudere il coperchio. Lo faresti tu? Devo andare a sbrigare una commissione.»
Jimmy mi lanciò uno sguardo, turbato. «Stai bene?»
«Sì, certo. Fai quello che ti ho detto. Tornerò tra un'ora.»
«Va bene.» Rispose, e tornò a guardare le donne.

Mi allontanai senza guardarmi indietro. Non avevo nessuna commissione da fare e non conoscevo nessuno a parte Peter Landman, che non era qui. Mentre camminavo lungo la strada sterrata, infinite domande mi attanagliarono la mente. Avevo visto il suo fantasma? Avevo immaginato tutto? Stavo ammattendo? E quel tocco? Quel tocco era stato reale?
Senza rendermene conto, arrivai sul limitare del bosco. Tornai indietro e rividi di nuovo quella bellissima donna. Stava venendo verso di me e mi sorrise nel passarmi accanto. Ricambiai e continuai dritto per un momento, poi mi venne spontaneo voltarmi. La vidi raggiungere di nuovo quell'abitazione dove l'avevo vista sparire e si sedette accanto alla soglia, sotta una finestra. La sua semplice e incantevole vista, aveva scacciato per un momento i miei tormentosi pensieri.
Poi decisi di fare un giro per i tortuosi vicoli che sprigionavano degrado e povertà da ogni angolo e passai accanto all'abitazione di Annabelle. Le imposte chiuse, la porta socchiusa. Bussai. Nessuna risposta. Bussai di nuovo ed entrai. La stanza era vuota e un flebile fumo s'innalzava dai ciocchi spenti ridotti a carbone. Percorsi la camera da letto e uscii nel cortile. Annabelle sedeva su un ceppo intenta a rattoppare un maglione di lana marrone. Quando mi avvicinai, alzò lo sguardo.
«Salve, signor Russell» disse con un sorriso sdentato.
«A voi, Annabelle.»
Mi fissò per un istante, poi sorrise e continuò a filare.
«Per chi è quel maglione?» chiesi, curioso.
«Per me, signor Russell. Anche se è da uomo, non posso lamentarmi. Sono tempi difficili per una donna anziana. Avrete certamente capito in che quartiere vivo?» sospirò. «Sapete, un tempo abitavo in una villa poco fuori da New Amsterdam prima che... beh, ci sono stati problemi. Mio marito, che Dio l'abbia in gloria, si era indebito con un brutto ceffo. Un uomo dalle amicizie molto potenti.» Voltò il maglione. «Vendette tutti i miei gioielli e una parte dei miei indumenti per saldare il debito, ma s'indebitò di nuovo. E questa volta... beh, gli doveva molte più monete. L'unica soluzione fu quella di dargli la nostra abitazione e ci trasferimmo in una casa più piccola, modesta. Poi il mio caro Johnny cominciò a bere, finché... finché lo trovarono morto in un vicolo.»
«Mi dispiace per la vostra perdita...»
L'anziana continuò a filare per un lungo momento. «Lo hanno ucciso. Ho sempre sospettato di quell'uomo. Forse si era indebitato nuovamente, non lo so, ma di certo non fu una rapina. Non aveva un soldo. A mala pena riuscivamo a mettere il pane in tavola. Il mio caro Johnny...» sospirò, affranta. «Le guardie non hanno indagato, non hanno fatto niente. Mi hanno detto che fu una rapina e che dovevo accettare questo fatto. Come poteva accettarlo alla soglia dei trent'anni? Mi ritrovai da sola. Ho dovuto vendere quella casa e trasferirmi qui. Ma ringrazio Iddio di non aver venduto il mio corpo.» Si fece il segno della croce.
Non sapevo cosa dire. Mi aveva raccontato una parte della sua vita senza che gliela avessi chiesto. Cosa dovevo dirle? Come le dovevo rispondere?
«Le vostre monete potete riprenderle» disse Annabelle, senza guardarmi. «Sono nel capanno.»
Abbassai la testa, imbarazzato.
«La prossima volta accettate il mio pane senza obiezioni. Siete mio ospite, dopotutto.»
«Io... non volevo...» balbettai. «Non volevo mancarvi di rispetto, signora Annabelle. E solo che non vorrei vivere sulle vostre spalle. Non sapevo per quanti giorni sarei rimasto qui, quindi volevo aiutarvi.»
«Dandomi tre monete, signor Russell?» Girò il maglione e cominciò a filare un braccio. «Non ne ho bisogno e non accetto la vostra carità. In giro vi è molta gente bisognosa. Date loro una moneta. A una vecchia decrepita come me non fa molta differenza.»

Due ore prima del crepuscolo, tornai al magazzino abbandonato. Jimmy era ancora lì, seduta su una roccia e sembrava piuttosto irato. Pensai subito alla cassa da morto, a quella cosa che mi aveva afferrato la mano. Forse lo aveva fatto anche con lui? O era stata un'allucinazione?
«È successo qualcosa?» chiesi.
Corrugò la fronte. «Niente. Non è successo niente.»
«Sicuro?»
Mi guardò per un istante. «Quella fottuta puttana mi ha tirato un calcio nelle palle.»
«Chi?»
«La donna di prima.»
«Quella che stavi infastidendo?»
«Non la stavo infastidendo. Stavo solo... volevo solo corteggiarla.»
«Certo...» mi voltai verso l'ingresso dell'edificio. «Hai chiuso il coperchio?»
«Sì. Perché lo hai lasciato aperto?»
Non risposi subito, in quanto non sapevo che bugia inventarmi. «Te l'ho detto. Avevo delle commissioni da fare.»
«Ma se non conosci nessuno in città e l'unico che conosci non c'è. E poi che ti costava farlo da te?»
Non aveva tutti i torti. «Hai visto cosa c'è dentro?»
Jimmy mi fissò, confuso. «Sì, un cadavere. Ne ho visti a bizzeffe di quelli. Ha qualcosa di speciale?»
Mi voltai ed entrai nel magazzino, seguito da Jimmy. Ci avvicinammo alla cassa da morto e vidi che il coperchio era un poco spostato.
«Non lo avevi chiuso?» domandai, confuso.
«Infatti è quello che ho fatto» rispose Jimmy, guardandosi intorno.
Notai che era un poco scosso. «Stai bene?»
«Sssh» aggiunse, mettendosi un dito sulla bocca. «Forse c'è qualcuno qui.» Gridò. «Ehi, chiunque tu sia, vieni fuori! Lo so che sei qui! Non fare il furbo! Se esci, ti prometto che non ti farò niente.»
Solo silenzio.
«Non te lo ripeterò un'altra volta!» Jimmy si guardò intorno. «Esci adesso, o giurò che ti spacco quella testa di capra quanto è vero Iddio!»
Lo guardai allarmato. Chi poteva entrare qui dentro senza essere visto? C'era solo un unico ingresso e Jimmy l'aveva sempre tenuto d'occhio. Forse qualcuno era entrato quando eravamo andati parlare con il signor Vermont? Magari alcuni bambini troppo curiosi? No, più ci pensavo, più mi suonava strano, quasi impossibile.
Jimmy indagò nella stanza per un lungo momento, poi ritornò da me.
«Allora?» chiesi.
Sollevò le spalle. «Non c'è nessuno.»
«Quindi quel coperchio si è spostato da solo? Oppure...»
«Ehi, l'ho chiuso! L'ho fatto, va bene?»
«Certo, come dici tu.»
«Non mi credi?»
Lo guardai per un attimo. «Quindi si è aperto da solo?»
Jimmy lanciò un'occhiata preoccupata verso la cassa da morto. Quello sguardo non mi piacque affatto e mi mise addosso un po' di tensione.
«Sai che c'è? Non importa» dissi, dirigendomi verso la cassa. Evitai di guardare la faccia putrescente del morto e, provando un orrore che mi attanagliava lo stomaco, posai le mani tremanti sul coperchio e chiusi la bara.
«L'avevo chiusa» aggiunse Jimmy. «Devi credermi.»
«Va bene, ti credo» mentii. «Ma qualcuno è venuto qui dentro e ci ha dato un'occhiata.»
«Forse uno degli sgherri del signor Vermont? Sono ovunque in città. Forse sono venuti a controllare il carico.»
Non so perché Jimmy aveva pensato questo, ma a me quell'idea non mi era nemmeno passata per la testa. Il signor Vermont non mi era sembrato il tipo da sguinzagliare i suoi mastini sulle mie tracce. Anzi, mi aveva dato l'impressione di un uomo che si limitava a sapere lo stretto necessario per concludere un affare. Certo, era inquietante, forse un po' più degli altri malviventi che avevo incontrato, ma sembrava un uomo per bene.
Jimmy andò all'ingresso e sbirciò fuori.
Lo raggiunsi. «Ma che stai facendo?»
«Forse sono qui intorno, nascosti tra i muretti e i cespugli.»
«Sei troppo paranoico. Qui non c'è nessuno. E poi c'è gente qua fuori, li vedrebbero.»
Si voltò verso di me e sgranò gli occhi, terrorizzato. Puntò un dito alle mie spalle, balbettando qualcosa che non riuscii a capire.
Mi voltai, ma non vidi niente. Appena feci per rigirarmi, il mio sguardo venne catturato dalla cassa. Era un poco scoperchiata. Come diavolo era successo? Mi venne una fitta allo stomaco, un vuoto mai provato prima.
«Quella... quella...» balbettò Jimmy alle mie spalle, poi si precipitò all'esterno.
La sua paura contagiò anche me, che me la diedi a gambe levate lungo la strada sterrata. Mi fermai accanto a una delle sparute casupole dove avevo visto sparire la donna di cui mi ero infatuato. Mi girai verso il magazzino abbandonato e scorsi solo il sole calare lentamente dietro la volta di un fitto bosco, mandando gli ultimi sprazzi di luce rosso arancio nel cielo.



 

7

Tornai a casa di Annabelle, senza nemmeno accertarmi dove fosse finito Jimmy. Non controllai neanche il magazzino, che adesso era incustodito. Aveva il terrore di tornarci, ma sapevo che l'indomani ci sarei andato per forza. Il signor Vermont avrebbe mandato il carro con i due cavalli e si aspettava di essere pagato. Non avevo nemmeno pensato se la mia borsa di denari fosse ancora seppellita sotto l'albero nel limitare del bosco. Prima di giungere a New Amsterdam, l'aveva lasciata lì per non venire derubato in un quartiere che aveva una brutta nomea, almeno stando a quanto diceva Jimmy. In realtà non avevo incontrato grossi problemi e la gente sembrava indifferente verso la mia persona. Di borseggiatori? Neanche l'ombra, il che era davvero strano. Che dire allora di quel taverniere? Ricordavo ancora le sue parole.
Immagino che vi siete vestito in quel modo per passare inosservato. Ma lasciatemi dire una cosa. La gente da queste parti capisce sempre chi ha davanti, anche se indossa solo uno straccio.
Quelle parole mi facevano ancora rabbrividire. Non mi era mai capitato una cosa del genere e forse ci stavo dando troppa importanza. Ma c'era una voce in me che mi diceva tutt'altro. Una voce muta, che non riuscivo a sentire. Sapevo che mi parlava, ma non sapevo cosa diceva. E mi chiesi come diavolo facessi a sapere che mi diceva l'opposto, se non potevo udire le parole?
Mentre meditavo, Annabelle entrò nel soggiorno e si sedette accanto a me. Il legno crepitava nel cammino dove un vivace fuoco scaldava le nostre membra. Non parlammo per un lungo momento, finché l'anziana ravvivò il fuoco con un bastone di legno.
«Quindi partirete domani?» chiese, guardando le fiamme.
«Sì, alle prime luci.»
«Qui ci sarà sempre un posto per voi, se intendete fare ritorno.»
Mi sentii rincuorato. «Grazie, Annabelle. Siete una persona buona.»
Scacciò l'aria con una mano. «Ma non ditelo in giro,» sorrise, «o mi ritroverò casa invasa da accattoni.»

Una strana inquietudine mi destò prima dell'alba. Mi alzai e uscii fuori a prendere una boccata d'aria. Guardai la porta posata accanto al muro d'ingresso, osservai il cielo tempestato di stelle.
D'un tratto un'imposta sbatté contro un muro. Mi girai verso il suono e vidi un uomo dai capelli arruffati affacciato alla finestra, il volto apatico illuminato dalla luna. Era lo stesso uomo di ieri.
Sostenni il suo sguardo per un momento, finché mi sentii avviluppato da un orrendo sconforto.
«Nelle tenebre trovasti conforto. Nel silenzio, te stesso.»
Sobbalzai. La sua voce si era originata nella mia mente. Quando rialzai lo sguardo, l'uomo era svanito, le imposte chiuse.
Quelle tetre parole mi risuonarono in testa come una filastrocca.
Nelle tenebre trovasti conforto. Nel silenzio, te stesso.
Nelle tenebre trovasti conforto. Nel silenzio, te stesso.
Nelle tenebre trovasti conforto. Nel silenzio, te stesso.
Scossi freneticamente la testa come se quel gesto potesse cancellare quella frase. Poi rientrai nella capanna, ma ne uscii nuovamente. Perché ero entrato? Fissai la finestra per un po', chiedendomi se quanto veduto fosse frutto della mia immaginazione. Forse stavo delirando? Stavo ammattendo? Mi feci forza e mi avvicinai alla recinzione di legno che divideva il cortile di Annabelle da quello abbandonato. Passai in mezzo a una sezione collassata e mi guardai intorno. Cespugli morti, rinsecchiti. Un albero pendeva pericolosamente verso la casa, allungando i contorti rami contro il muro dell'edificio fatiscente. La porta sul retro giaceva sul pavimento, ma non entrai. Mi limitai ad osservare il corto corridoio in penombra, il pavimento marcio e impolverato.
Improvvisamente avvistai qualcosa con la coda dell'occhio. Un movimento impercettibile, troppo rapido da poterlo scorgere chiaramente. Indietreggiai e, senza distogliere lo sguardo dal corridoio, andai a sbattere le spalle contro la recinzione. Sussultai e passai nuovamente nella fessura. Non so cosa diavolo mi era passato per la mente. Cosa volevo vedere? Cosa ci ero andato a fare? Si vedeva benissimo che l'edificio era malridotto. Non poteva viverci nessuno, se non i mendicanti, ma nemmeno loro avrebbero trovato accogliente quel posto.
Ritornai al capanno, afferrai la porta adagiata sul muro, la posai sotto la soglia e mi sdraiai. Sorrisi nel pensare che bastava una folata di vento per farla andare nuovamente giù e subito rabbrividii. Mi sentivo esposto, impotente. Cominciai a scorgere vaghe ombre attraverso le due finestre ai lati, ma forse mi stavo suggestionando. Chiusi gli occhi e cercai di dormire.
Inutile.
Il legno del soffitto scricchiolava. Un latrato lontano. Forse un cane? O un lupo? Non lo sapevo. Il cuore cominciò martellarmi nel petto, una vena pulsarmi sulla fronte.
Mi voltai sul fianco e cercai di pensare a casa, a Jamestown. Visualizzai la strada che avevo fatto, le persone che avevo incontrato, i paesaggi che avevo visto. Improvvisamente la faccia bendata apparve nei miei pensieri. Smorzai un moto di terrore e mi girai dall'altra parte.
Solo silenzio.
Finalmente.
Qualcosa di freddo mi afferrò il polso. Trasalii, terrorizzato. Mi sedetti e mi guardai attorno. Non c'era nessuno. Il mio respiro si condensava in piccole nebbioline. Cosa diamine stava succedendo? Non facevo freddo, né lo sentivo. Appena feci per alzarmi, la porta cadde al suolo con un tonfo e una folata di vento gelido mi investii in pieno. Le ossa si irrigidirono, i muscoli si contrassero. Poi scorsi la putrefatta faccia bendata alla finestra. La fissai, sconvolto. Quella aprì la bocca, e il mio stomaco si contorse. Gridai, ma ne uscii solo un rantolo soffocato. Mentre la faccia bendata aprì in modo disumano la bocca, le ossa delle mie gambe scricchiolarono.
Caddi nell'oscurità.



 

8

Quando mi svegliai, vidi il volto di Annabelle chino su di me. Sembrava turbata.
«Oh, siete sveglio, signor Russell» disse, preoccupata.
«Cosa... io...» Ero talmente confuso, che mi dimenticai per un momento dov'ero e del perché fosse lì.
La donna anziana mi posò una mano sulla spalla. «Si calmi, si calmi. Non avete fatto che gridare tutta la notte. In quale inferno siete caduto questa notte?»
Era troppo frastornato per risponderle. Biascicavo, come se non riuscissi a parlare.
«Sembra che il Diavolo in persona vi abbia fatto visita. Dovete confessarvi più spesso.»
Dalla finestra scorsi il grigiore che procede l'alba. Scattai in piedi.
Annabelle mi fissò, turbata. «State bene, signor Russell?»
«Sì, io... io sto bene.»
«Volete mangiare qualcosa? Ho del pane e un po' di birra annacquata.»
«No, vi ringrazio, Annebelle. Devo proprio andare. Grazie per avermi svegliato e chiedo scusa se vi ho recato fastidio con le mie grida.»
L'anziana mi fissò, impietosita.
Uscii dalla capanna e, prima di andare, lanciai uno sguardo alla finestra chiusa dalle imposte.
Nelle tenebre trovasti conforto. Nel silenzio, te stesso.
La frase ritornò a echeggiare nella mia mente con lo stesso tono catatonico. E per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare il volto dell'uomo.

Ero a metà strada dal magazzino abbandonato, quando mi parve di avvistare Annabelle girare l'angolo della via. Scossi la testa e continuai a camminare. Era davvero lei? E se sì, come diavolo aveva fatto a precedermi?
Durante il tragitto, non incontrai una sola persona. Tutte le finestre erano chiuse dalle imposte e si udivano solo i miei passi sguazzare nella melma maleodorante di scarti umani. Era impossibile evitarli, ormai avevo gli stivali sudici.
Presi una strada che mi portò sul limitare di un bosco e mi inoltrai all'interno. Qui proseguii per un centinaio di passi e mi fermai sotto a un albero. Sollevai la pietra e scavai con le mani, finché toccai il borsello di denari. Lo presi e uscii dal bosco. Albeggiava.
Da sopra i tetti delle casupole, il sole sprizzava bagliori arancio-giallo oro nel cielo.
Una decina di minuti dopo, raggiunsi il magazzino. Prima di entrare, però, ci girai attorno. Nessuna traccia di Jimmy. Dove era finito? Dovevo pagarlo. Non era da Jimmy lasciarsi dietro una corposa paga.
Entrai nel magazzino e fissai la cassa da morto. Era chiusa. Forse Jimmy era ritornato e... no, impossibile. Avevo visto i suoi occhi terrorizzati. Non poteva essere venuto da solo. Allora chi l'aveva chiusa?
Mentre mi avvicinai, venni colto da un brivido lungo la schiena. Sentii freddo e il mio respiro cominciò a condensarsi in piccole nuvole. Quando mi fermai ai piedi della bara, sentii un fruscio di vento alle mie spalle. Mi voltai. Il cadavere bendato sospeso a tre piedi dal suolo, le esile e putrefatte braccia spalancate, la bocca allungata e deformata.
Spaventato, indietreggiai fino a sbattere contro una trave di legno.
L'orrenda cosa sembrava pietrificata. Restò a fluttuare nell'aria, finché scorsi il coperchio della cassa scivolare via. Cadde al suolo con un tonfo, sollevando una nube di polvere. Una mano si sollevò dall'interno, si aggrappò alla bara, seguita da un'altra. Una figura familiare si alzava in piedi, le ossa scricchiolavano.
Sbarrai gli occhi, sconvolto.
Era Jimmy.
Si girò verso di me, la pelle grigiastra, gli occhi vitrei, vacui.
Il cadavere bendato posò i piedi a terra, le braccia penzoloni lungo i fianchi.
Lanciai uno sguardo verso l'uscita. Non sarei mai riuscito a fuggire. Quelle due cose la bloccavano.
Il cadavere bendato si mosse verso di me, i piedi sospesi a dieci dita dal terreno.
Non riuscivo a muovermi, le mie gambe due pesanti macigni.
La cosa posò una mano sulla mia testa, un tocco glaciale. Percepii un lancinante dolore alla tempia e la vista si annebbiò.
Il cadavere bendato emise un suono acuto, sottile, molto intenso. Una sorta di fischio infernale, qualcosa di mai udito prima.
Gridai dal dolore. Tentai di coprirmi le orecchie, ma le mie braccia erano inermi. Non sentivo nemmeno il resto del corpo e non capivo come diavolo mi reggessi in piedi.
La cosa si portò una mano raggrinzita sulla benda e, quando fece per togliersela, scomparve.
Crollai al suolo, esausto. Mi sembrava di non aver dormito per giorni. Mi portai una mano sulla testa, nel punto in cui mi aveva toccato quella cosa. Percepii uno strano gelo sotto i polpastrelli, che allontanai subito. Mi alzai in piedi, aiutandomi con la trave, la testa dolorante, la vista offuscata.
Guardai la cassa da morto. Il coperchio era chiuso, Jimmy scomparso. Poco oltre l'ingresso aperto da cui entrava un fascio di sole, scorsi una sagoma. Avanzò verso di me, finché lo vidi in viso.
Barbuto, stempiato, sulla quarantina. Pantaloni, giacca e camicia logori, rattoppata in più punti.
Corrugò la fronte, confuso. «Sei tu, Edgar Russell?»
«Sì...»
«Ho i cavalli e il carro. Dov'è il denaro?»
Restai un attimo interdetto. Non per ciò che aveva detto, ma per ciò che era successo. Non aveva visto niente?
L'uomo stempiato mi raggiunse. «Sganciai i denari.»
«Sì, sì... un attimo» presi il borsellino legato alla cintura e lo diedi.
L'uomo lo soppesò, l'aprì, ci sbirciò dentro e fece tintinnare le monete. Poi mi fece segno di seguirlo con la testa.
Una volta fuori, vidi un altro uomo vicino a due robusti cavalli pezzati. Sulla cinquantina, corti capelli neri e naso aquilino. Aveva un'aria altezzosa, arrogante. Indossava un logoro farsetto rattoppato e un pantalone a sbuffo.
L'uomo stempiato gli rese il borsellino e quello contò i denari. «Ci sono tutti» disse con un sorriso di circostanza. «Il signor Vermont vi manda i suoi omaggi e vi augura buon viaggio.»
«Grazie. Mandategli i miei saluti.»
L'uomo col naso aquilino annuì e si allontanò insieme al compare.
Rimasi solo in quella fredda mattinata. Volsi lo sguardo all'ingresso del magazzino, poi guardai i cavalli sbuffare. Accarezzai il loro collo.
Chissà di chi erano? Non credevo che il signor Vermont avesse una stalla o un allevamento di cavalli da qualche parte. Ma ora non m'importava. Mi girai e mi avvicinai sotto lo stipite del magazzino. Ci guardai dentro.
Tutto era calmo.
Un brivido si fece largo lungo la schiena e mi venne la pelle d'oca. Non avevo il coraggio di entrare, né tanto meno di mettere le mani sulla bara. Al solo pensiero, mi venne una fitta allo stomaco. Restai sulla soglia per un lungo momento, poi entrai e m'incamminai verso la salma. L'aria era diventata così gelida, che la sentivo fin dentro le ossa. Quando feci per chinarmi, udii alcuni passi alle mie spalle. Mi voltai di scatto e vidi Jimmy sotto l'ingresso.
Anche se il sole del mattino gli illuminava vagamente le spalle, non sapevo se fosse la stessa cosa di prima o...
«Ammetto di aver pensato di non venire più» disse con la sua solita voce rauca. «Ma poi ho pensato ai denari. Me li sono guadagnati, dopotutto.»
Mi si avvicinò e compresi che era davvero Jimmy. Restai interdetto, per un attimo. Se lui era qui, quella cosa che ho visto uscire dalla bara chi era? Un'allucinazione?
Jimmy lanciò uno sguardo spaventato alla bara. «Ti chiedo scusa, Ed. Ieri... ieri me la sono data a gambe, ma giurerei di aver visto quel cadavere dietro di te. Era sospeso in aria. L'ho visto. Devi credermi.»
Corrugai la fronte. «L'ho visto anch'io... e poco fa ho visto anche te uscire dalla cassa.»
Jimmy spalancò gli occhi, spaventato.
Non parlammo per un breve momento, poi sentimmo i cavalli nitrire là fuori.
Jimmy si chinò e mi guardò. «Facciamo in fretta. Non voglio tenere le mie mani poggiate più del necessario su quella cosa.»
Annuii.



 

9

Trasportammo la cassa fuori dal magazzino e, appena l'adagiammo sul carro, i cavalli cominciarono a nitrire, a scalciare.
Jimmy mi lanciò un'occhiata, preoccupata, ma non disse niente.
La gente iniziava a fluire lungo la strada sterrata, senza degnarci di uno sguardo. Rividi la donna di cui mi ero infatuato e la fissai nuovamente come un ebete. Lei mi sorrisi e io ricambiai. Portava in grembo una cesta vuota e s'incamminò verso il sentiero che spariva nei boschi. Mi chiesi perché stesse andando lì, ma quel pensiero volò via, seguita da una strana amarezza. Non l'avrei più rivista.
«Sarà meglio partire» disse Jimmy. «Dobbiamo arrivare a Berry Town prima del crepuscolo.»
Guardai il cielo. «Abbiamo ancora molte ore di sole. Credo che arriveremo un'ora prima del tramonto.»
«Ho portato due moschetti e due mazze ferrate.»
Mi accigliai, confuso. «Cosa? Perché? Perché hai portato delle armi? Non ci servono. E poi dove l'hai trovate?»
Adocchiò la bara. «Secondo te? Ci serve protezione. Se quella... se quella cosa esce e vuole farci a pezzi?»
Non sapevo cosa dire. Mi sembrava tutto così surreale. Così mi girai, salii sul carro e presi le redini. Jimmy mi seguì poco dopo.

Lasciai New Amsterdam con una strana inquietudine addosso. Mentre il carro traballava sul sentiero sterrato, lanciai uno sguardo alla cassa alle mie spalle. Avevo il terrore che quella cosa potesse uscire da un momento all'altro. Non mi sentivo per niente a mio agio.
«Se non ricordo male,» disse Jimmy, «dovremmo seguire la strada fino a Berry Town. Poi dovremmo seguire il fianco della collina e...»
«Ci penseremo dopo. Per ora concentriamo sulla strada da fare.»
«Ci sei mai stato lì?»
«Dove?»
«A Berry Town.»
«Una volta sola, per affari.»
«Sei mai stato alla taverna di Jeffry?»
Lo guardai per un attimo. «Sì, ma non per ciò che intendi tu.»
Jimmy sorrise, malizioso. «Sì, certo, come no. Tutti vanno lì per una sola cosa e...»
«Non io. Ci sono entrato solo una volta e mi è bastato. Quel posto non è fatto per me.»
«Ah, no? E quale sarebbe il tuo posto ideale?»
Non risposi.
«Non ti facevo un puritano, sai» disse Jimmy.
«Non lo sono, infatti.»
«Forse non hai visto il ben di Dio che si trova fra quelle quattro mura.»
«Non sono cieco.»
Quando Jimmy fece per rispondere, udimmo un lontano latrato provenire dai boschi. Ci scambiammo delle occhiate, spaventate, e ci guardammo intorno. I cavalli nitrirono, ma continuarono a muoversi.
«Un lupo?» chiese Jimmy, preoccupato. Calò una mano dietro il carro e imbracciò un moschetto.
«No, non credo» risposi, turbato.
«Se non è un lupo, allora cos'è?»
«Se lo sapessi, te lo direi, no?»
Mentre il carro traballava sulla strada, sentimmo di nuovo il latrato. Questa volta era più vicino. Veniva oltre la fila di alberi alla nostra destra.
Inquieto, gettai uno sguardo alla cassa. Immaginavo il coperchio scivolare di lato, le fredde dita adunche posarsi sulla cassa, quella cosa sollevarsi.
Poi il latrato giunse lontano.
Jimmy si guardò intorno. «È andato via?»
«Non lo so.»

Percorremmo molte miglia e mancavano ormai due ore al crepuscolo. Non avevamo più sentito quell'orrendo suono, ma Jimmy non si staccò dal moschetto nemmeno per un secondo. Superammo sparuti villaggi lungo la costa, cupe casupole di legno, campi di grano, mais e alle volte capanne abbandonate. L'intero paesaggio una desolazione senza fine.
Cominciò a piovigginare.
Jimmy posò il moschetto sul carro e lo coprì con un telo verde per non far bagnare la polvere da sparo al suo interno e la bara. Sospirò. «Ci manca solo un brutto raffreddore.»
«Siamo quasi arrivati.»
«Non vedo niente.»
«Berry Town è dietro quel colle.»
Il carro proseguì a fatica sul terreno melmoso, ma alla fine arrivammo al limitare della colonia. Fermai i cavalli.
Le strade deserte, le finestre pozzi neri. Sembrava una colonia fantasma.
«L'accoglienza non è di casa» scherzò Jimmy con un mezzo sorriso.
Guardai le case di legno, i portici vuoti. «Non me la ricordavo così spettrale.»
«Aspetta di essere nella taverna e vedrai come cambierai idea.»
Mentre il carro riprendeva a muoversi, vidi una chiesa di legno troneggiare sugli altri edifici. In cima, un grosso campanile. Come potevano permetterselo? Era un paesotto sperduto in mezzo al nulla. Dove avevano trovato il denaro per la campana?
«Fermati lì,» disse Jimmy, «o il carro rimarrà bloccato nella fanghiglia.»
Fermai il carro sotto una tettoia di legno.
Jimmy scese dal carro. «Lasciamo qui i cavalli. Andiamo nella taverna.»
«Aspetta! Non credo sia una buona idea. Non voglio che qualcuno si metta a curiosare e...»
«Non lo farà nessuno. Qui ognuno pensa ai suoi affari. Forza, andiamo.»
Accarezzai i musi dei cavalli pezzati, gettai uno sguardo alla cassa da morto e seguii Jimmy. Non mi piaceva l'idea di lasciare il carro incustodito, ma non vedevo l'ora di crollare su un letto e dormire.
«Ti occupi tu dei cavalli?» domandai.
«Conosco qualcuno che lo farà.»
«Spero sia economico. Non mi sono rimaste molte monete.»

Entrato nella taverna, avvertii fin da subito un'aria cupa, quasi opprimente. L'ambiente illuminato flebilmente da lanterne ad olio poste su travi e pareti. Una decina di uomini erano seduti ai tavoli a bere, a bisbigliare. Nessuno si voltò a guardarci. Avevo da sempre ritenuto irritante l'interesse della gente per i forestieri, soprattutto nelle piccole comunità. Ma qui sembrava non fregare niente a nessuno. Non me la ricordavo così Berry Town.
Ci avvicinammo al locandiere, che ci dava le spalle dietro il lungo bancone.
«Ehi, Jacob» disse Jimmy, felice. «Come ti vanno gli affari?»
L'uomo si girò. Sulla sessantina, calvo, palpebre cadenti, baffi bianchi e un grosso taglio sulla guancia sinistra. Indossava un farsetto marrone rattoppato in più punti e un pantalone. «Oh, guarda un po'! Jimmy Horn. Cosa ti porta da queste parti?» Domandò con voce catarrosa. Poi mi adocchiò. «Sei in compagnia, vedo.»
«Lui è Edgar Russell.»
Mi allungò una mano. «Jacob Willson. Piacere di conoscervi.»
Gliela strinse. «Piacere mio.»
Jimmy si guardò intorno. «Dove sono le ragazze?»
L'uomo puntò un dito verso il soffitto. «Di sopra.»
«Mandy è ancora qui?»
Annuì.
Sul volto di Jimmy si dipinse un sorriso malizioso. «Allora ci vado subito.»
«Prima non vuoi toglierti la polvere dalla gola?»
«Magari dopo.» Si fiondò sulle scale.
Jacob mi rivolse un sorriso mellifluo. «Ve ne verso uno? È alcool fatto in casa.»
Annuii, mi sedetti e tracannai d'un sorso il liquido. La gola prese fuoco e tossii diverse volte.
Mi parve di vedere una certe soddisfazione negli occhi ridenti di Jacob.

 

10

Affittai una stanza singola e mi distesi sul letto. I lampi illuminavano la camera, prima di rombare nel cielo. La pioggia batteva prepotente sul vetro della finestra, dandomi un senso di pace. Avevo sempre amato la pioggia. Fuori dalla camera, nel corridoio, udivo i passi degli uomini che andavano e venivano dalle camere private delle ragazze. Sicuramente Jacob faceva più quattrini con le ragazze, che con l'alcool. La cosa che mi turbava era l'essenza di gemiti o urla di piacere. Nelle normali case della tolleranza erano all'ordine del giorno, ma qui era tutto così stranamente silenzioso. Forse anche inquietante.
Incrociai le dita dietro la nuca e fissai le assi del soffitto. Jimmy aveva parlato di un certo Jeffry, ma ora non ricordavo se fosse il proprietario della locanda o un uomo d'affari. Magari le ragazze erano sotto la sua protezione e non di Jacob. Mentre riflettevo, sentii le palpebre farsi pesanti. Mi addormentai.

Ero in casa di Annabelle.
Una candela di sego illuminava l'entrata e dai ciocchi spenti del camino si elevava un sottile fumo nero. Nell'aria, un acre odore di putrefazione.
«Annabelle?» chiamai.
Nessuna risposta.
Quando camminai, i miei piedi erano bloccati in una strana melma violastra sparsa sul pavimento. Tentai di muovermi, finché cominciai a sprofondare. Gridai aiuto, cercai di aggrapparmi al tavolo, ma fui inghiottito da quella sostanza appiccicosa. Non riuscivo a respirare, a muovermi. Sentii la gola invasa dal liquame, i polmoni bruciarmi e crollai al suolo.
Non ero più nella melma, ma in piedi nel soggiorno del signor Vermont. Sedeva su una poltrona, le gambe incrociate, le mani poggiate sui braccioli. Mi fissava con occhi apatici.
Quando feci per parlare, percepii in bocca qualcosa. Dapprima mi sembrò una buccia di mela, poi uno scarafaggio uscì dalle mie labbra. Lo sputai a terra e lo schiacciai. Appena sollevai il piede, lo scarafaggio sgambettò sui miei stivali infangati. Scalciai come un cavallo indemoniato, ma quello mi entrò nei pantaloni. Corse lungo la caviglia, finché avvertii un dolore acuto sotto il ginocchio.
Sul volto del signor Vermont si dipinse un sorriso inquietante e incrociò le dita, divertito.
Mentre lo fissavo, avvertii qualcosa sulla lingua. Una cascata di scarafaggi fuoriuscirono dalla mia bocca come un prolungato gettito di vomito. Crollai al suolo, incredulo e spaventato.
Il signor Vermont si alzò e, al suo passaggio, gli insetti si spostarono. Si fermò a tre passi da me. Gli scarafaggi mi si lanciarono addosso e ne venni sommerso. Mi entrarono dalle orecchie, dalle narici, dalla bocca. Altri mi strapparono lembi di carne e sentii il liquido dei miei occhi, ridotti a brandelli, colare lungo il mio viso.

Mi destai madido di sudore, il cuore che mi martellava nel petto. Mi tastai freneticamente il corpo, ancora assonnato. Niente insetti. Mi sedetti sul letto e mi portai le mani nei capelli. Era stato così reale. Sentivo ancora quegli orrendi scarafaggi sgambettare sul mio corpo, la carne strappata da innumerevoli piccoli morsi. Mi alzai e raggiunsi la finestra. Da lì potevo vedere il carro sotto la tettoia di legno. Era coperto da un grande telo verde. I cavalli non c'erano più. Jimmy non si era dimenticato di loro. Chissà se aveva preso anche i moschetti? Se si fossero bagnati, sarebbero stati inutili fin quando non si fossero asciugati. E poi da dove li aveva presi? Quelle armi costavano.
Quando mi girai, vidi una figura nell'angolo della stanza in penombra. Sobbalzai e arretrai fino a sbattere la schiena contro il muro. Rimasi a fissarla per un attimo, poi quella si mosse lentamente. Era il cadavere bendato, le braccia spalancate, i piedi sospesi dal suolo.
Sentii le gambe molli e mi ritrovai a terra, spaventato. L'orrenda cosa spalancò la bocca deforme. Ne fuoriuscì una nube nero pece che, espandendosi in tutta la camera, mi circondò.
Il cadavere bendato abbassò le braccia. Dalle sue fredde e livide labbra partì un grido acuto. I vetri della finestra alle mie spalle esplosero in mille pezzi. Mi rannicchiai contro la parete e, pur avendomi tappato le orecchie, quell'agghiacciante urlò non perdeva volume. Le pareti e il pavimento tremarono, finché venni avviluppato dalla nube nera.
Non vedevo niente. Un freddo glaciale si propagò tutt'attorno, penetrandomi fin dentro le ossa. Poi delle fredde e adunche dita si serrarono attorno al mio collo. Strinsero. Afferrai quei polsi freddi, esili, cercai di allontanarli, ma sembravano possedere una forza soprannaturale. Sentivo il respiro venire meno, i polmoni bruciare...

«Ehi, Ed! Che cazzo fai? Ed! Che ti prende?»
Quando aprii gli occhi, scorsi il viso di Jimmy chinò su di me, le sue dita serrate attorno ai miei polsi.
«Che cazzo stavi facendo? Volevi strozzarti da solo?»
Incredulo, mi guardai le mani e tossii per riprendere fiato.
«Sei impazzito?» chiese Jimmy, turbato. «Perché ti stavi strozzando?»
«Io... non lo so...»
«Come non lo sai? Ti volevi...»
«Non cosa diavolo è successo.»
Mi fissò, perplesso.
«Ricordo solo quella... quella cosa. Sembrava così reale.»
«Quale cosa?»
«Il cadavere nella bara.»
Jimmy si guardò intorno, spaventato. «Era solo un incubo, un brutto incubo.»
Mi alzai e andai alla finestra. Osservai il carro illuminato dalle prime luci del mattino. «Prima di lasciare New Amsterdam, ho visto quella cosa in piedi nel magazzino.» Mi girai verso Jimmy. «Ho visto anche te. Eri nella bara...»
Si limitò a fissarmi, turbato.
«Sei uscito da lì, ti ho visto. Eri morto. Quella cosa mi ha aggredito. Voleva... voleva uccidermi. Poi è arrivato lo sgherro del signor Vermont e tu e quella cosa siete svaniti.»
«Dormivi?»
«No, ero sveglio. Ero lucido.»
Jimmy non parlò subito e guardò la finestra. «L'ho vista anche io nel magazzino, lo sai. Era dietro di te. Per questo...» Abbassò gli occhi sul pavimento «Sono fuggito. È stato un gesto istintivo. Quando mi sono fermato, non capivo se quello che avevo visto fosse reale o... Insomma, mi è venuta una mezza idea di non farmi più vivo, ma... bè, sono tornato, alla fine.»
Lanciai un ultimo sguardo nella stanza. «Andiamo a fare colazione. Ho una fame da lupi.»



 

11

Nell'ingresso, tre uomini seduti ai tavoli se ne stavano per conto loro, in silenzio. Uno dormiva sul tavolo con una bottiglia di alcool in mano.
Jacob era dietro il bancone, chino su una botte che aveva appena trascinato dentro. Ci dava le spalle.
«Ehi, Jacob» disse Jimmy. «Puoi farci due uova strapazzate? Ah, è due pagnotte.»
Il taverniere alzò una mano per farci capire che aveva capito.
Ci sedemmo davanti al bancone.
«A proposito,» dissi a Jimmy, «dove hai trovato i moschetti?»
«Li ho da un po' di tempo, ma non li ho mai usati.»
«A che ti servono se non li usi?»
«Primo o poi li userò. Quindi meglio tenerli da parte, che non averli.»
«Ma non mi hai detto dove li hai presi?»
Jimmy mi fissò per un attimo. «Che ti frega dove li ho presi? Ringraziami che ce li ho. Potremmo essere costretti a usarli contro gli Indiani. Sai benissimo che potremmo incontrarli lungo la strada. Quindi è meglio essere preparati, no? E poi c'è sempre quella cosa. Può risvegliarsi come l'altra volta. E se lo fa?»
«Quindi li hai comprati?»
Mi fissò, indignato. «Credi che li abbia rubati?»
«Non ho detto questo.»
«Ma lo pensi.»
«Niente affatto.»
Appena Jimmy fece per parlare, Jacob posò due ciotole di legno davanti a noi. Il profumo delle uova cotte mi pervase le narici e mi venne l'acquolina in bocca.
Jimmy fiondò le mani nel cibo e cominciò a divorarlo. Lo buttava giù senza nemmeno masticarlo.
Iniziai a mangiare e trovai la pagnotta indurita. La bagnai con un poco d'acqua e ne strappai un morso.
Jimmy mandò giù l'ultimo boccone. «Jacob, un altro piatto, grazie.»

Finita la colazione, salutammo Jacob e ci avviammo verso il carro. Il cielo si era un po' incupito e il sole continuava a nascondersi dietro le nuvole. La cittadina spettrale che avevo visto ieri, aveva cambiato volto. Ora le strade erano affollate di persone, cavalli e carri. Il campanile della chiesa suonò diversi rintocchi.
«Pioverà?» chiese Jimmy.
«Forse, ma speriamo di no. Non vorrei che restassimo impantanati in mezzo al nulla.»
«Facili bersagli degli Indiani, per giunta.»
«Ma non trasportiamo nulla di valore.»
«Credi che lo fanno solo per questo? Quei pelle rossa lo fanno per il gusto di uccidere. Ci odiano.»
«Non penso valga per tutti.»
«Dici così perché non hai visto ciò che ho visto io.»
«E cosa hai visto?»
Jimmy si fermò in strada e mi fissò, serio. «La morte, ecco cosa. Ti sei dimenticato che ho lavorato per il signor Vermont? Una volta stavamo scortando un carro di, di... di vettovaglie, sì, vettovaglie. Eravamo quasi arrivati a New Amsterdam quando siamo stati attaccati da un gruppo di Indiani a cavallo. Erano una trentina, forse di più, non ricordo. Non avevano archi, ma alcuni moschetti. Dei cazzo di moschetti! Ci siamo difesi, ma quelli ci circondarono e fecero fuori metà scorta. Poi Greg ci disse di arrenderci, che in caso contrario ci avrebbero ammazzati tutti.» Smise di parlare nel vedere un uomo passarci affianco e guardarci torvo. «Sapevo che ci avrebbero uccisi ugualmente. Lo dissi a Greg, ma quello non mi ascoltò. Poi... Beh, gli Indiani si divertirono a torturarci a morte.»
«Tu non sei morto, però?» domandai.
«Solo perché gli spari dei nostri moschetti avevano allertato un gruppo di sbandati nei paraggi.»
«Sbandati?»
«Quei pazzi che vanno alla ricerca degli scalpi Indiani. Sono arrivati e hanno sparato all'impazzata. Nel caos generale, mi nascosto sotto uno sperone e ho aspettato che finissero.»
«Com'è finita?»
«Si sono ammazzati a vicenda» S'incamminò verso il carro.
Lo seguii. «Sei stato fortunato. Ma resto dell'idea che gli Indiani non sono tutti così.» Feci una pausa. «Che fine ha fatto il carro?»
«Il signor Vermont ha mandato degli sgherri a recuperarlo.»
Ci fermammo davanti al nostro carro e mi voltai verso Jimmy. «Sono sicuro che non stavate trasportando delle provviste.»
Mi fissò per un istante. «Vado a prendere i cavalli.» Si allontanò.
Mentre aspettavo, mi guardai attorno. Vidi un'anziana donna affacciarsi a una finestra, sbattere un farsetto rattoppato e rientrare. Mi era sembrata Annabelle. Ma come era possibile? Eravamo lontano diverse miglia da New Amsterdam. Non poteva essere lei.
Mi voltai e, sollevando un poco il telo, diedi un'occhiata alla cassa. Era chiusa. La ricoprii e guardai in strada. Jimmy stava arrivando tenendo i due cavalli pezzati per le briglie.

Ci mettemmo subito in viaggio.
Ero contento di lasciare Berry Town, in quanto non mi era mai piaciuta. C'era qualcosa di strano. La gente era strana, o almeno lo era diventata dall'ultima volta che ero stato qui. Poi l'incubo che avevo vissuto aveva solidificato il tutto. Ancora adesso non facevo che pensarci.
Jimmy mi guardò. «Stai bene?»
«Sì, sto bene.»
Proseguimmo lungo la strada sterrata, costeggiata da alti pini e declivi rocciosi che spuntavano dal terreno come artigli famelici. Dolci colline si scorgevano all'orizzonte. Dopo aver percorso il sentiero per un po', ci fermammo a un bivio.
«Una frana» dissi. «Non ci voleva.»
Jimmy si voltò a destra. «Colpa della fottuta pioggia di ieri.»
La scrutai un poco. «Non c'è modo di superarla, non con il carro, almeno. Dobbiamo fare il giro.»
«Arriveremo a Jemestown a notte inoltrata. Forse è meglio fare un'altra sosta. Qui vicino c'è una piccola colonia.»
«Sì? Non lo sapevo.»
«Beh, c'era fino a sette mesi fa. Ora non so se i coloni ci sono ancora.»
Girammo il carro e proseguimmo.
Osservai il cielo. «Credo che pioverà. Guarda lì! Dietro quella collina. Sta lampeggiando.»
«Se la pioggia ci sorprende qui, ci bloccherà. Dobbiamo affrettarci.» Schioccò le redini e i cavalli cominciarono a correre.
«Attento a non sfiancarli» dissi.
«Non sono mica scemo.»

Superammo una catena di ammassi rocciosi e ci inoltrammo in una piccola radura. I lampi s'avvicinavano, seguiti dal rombare di tuoni.
«Forse non ce la faremo» dissi.
Jimmy schioccò il frustino sui sederi dei cavalli. «Muovetevi! Forza!»
Mentre procedevamo spediti lungo la strada, un fulmine squarciò un albero. Prese fuoco.
«Santa Vergine!» urlò Jimmy, spaventato. «Me lo sono visto passare davanti alla faccia, Cristo Santo!»
Il carro s'inerpicò a fatica sul fianco della collina. I cavalli nitrirono e sbuffarono affaticati.
«Vai più piano, Jim. O li farai morire quei poveri cavalli.»
Mi lanciò un'occhiata, risentita, e rallentò la loro andatura.
Cominciò a piovigginare.
Jimmy guardò il cielo. «Tanto vale fermarsi e ripararci sotto quello sperone roccioso.»
«Manca molto alla colonia?»
«Non faremo in tempo. Rimarremmo impantanati nel fango.»
«Rispondi alla mia domanda.»
Mi fissò, torvo. «Forse due o tre miglia.»
«Non è molto lontano. Possiamo farcela.»
«No, tra un momento all'altro si scatenerà una tempesta. Faremo meglio a ripararci.»
Ci meditai un po', osservando i nuvoloni grigiastri avanzare minacciosi. Una improvvisa folata di vento mi fece decidere. «Va bene, allora. Facciamo come dici tu.»

Ci sistemammo sotto lo sperone roccioso e portammo i cavalli e il carro sul fondo di quella che sembrava una piccola caverna. Ci sedemmo su una roccia.
«Spero solo che il vento non soffi da questa parte o ci bagneremo tutti» sbuffò Jimmy.
«Allora mettiamoci dietro il carro.»
«Ci bagneremo ugualmente.»
«Ma di meno, però.»
Una volta là dietro, un cavallo lasciò partire una scarica di feci sul terreno.
«Ah, che cazzo!» Jimmy si tappò il naso il naso e guardò il cavallo. «Ti sembra il momento adatto per cagare?»
Smorzai una risata. «È un cavallo. Quando gli scappa, gli scappa.»
«Ora dovremmo anche sopportare questo tanfo.»
«Pensavo fossi abituato al loro odore.»
Mi fissò, perplesso. «Non ti ci abitui mai. E poi 'sto cavallo sembra sia mangiato un nido di millepiedi.»
Un lampo illuminò per un attimo la piccola caverna, e un forte tuono echeggiò nel cielo per un lungo momento.
Piovve a dirotto.
Violente folate di vento sferzavano tutt'attorno. Un giovane pino si piegò su un lato e venne sradicato. Se fossimo rimasti in viaggio, i cavalli si sarebbero imbizzarriti e il carro sarebbe rimasto impantanato nel terreno.
Lo vidi che mi fissava con un sorriso compiaciuto.
«Che c'è?» chiesi.
«Non hai niente da dirmi?»
«Cosa dovrei dirti?»
«Avevi ragione, Jim. Scusa se ho dubitato.»
Scacciai l'aria con una mano. «Siamo qui, no?»
«Grazie a me.»
«Ora non fare lo stronzo.»
Jimmy fece un mezzo sorriso.
Appena mi voltai verso il carro, mi parve di vedere due occhi arancioni spiare da sotto uno spiraglio fra il telo e il legno.



 

12

Passammo buona parte del tempo in silenzio, mentre il secondo cavallo decise defecare anch'esso. La puzza era diventata insopportabile e fummo costretti a metterci davanti al carro. Ci bagnammo, ma almeno non soffocavamo sotto quel tanfo.
I venti si calmarono e il cielo iniziò a schiarirsi.
Aspettammo più di un'ora prima di metterci in marcia.
«Ormai la terra deve aver assorbito la maggior parte dell'acqua» dissi.
Jimmy mi passò le redini, si voltò e sollevò un lembo del telo verde. «Sembra che non si siano bagnati.»
«Cosa?»
«I moschetti.»
Si voltò e gli resi le redini.
Seguimmo un tratto di strada irregolare e ci inoltrammo in un fitto boschetto per un lungo momento. Guardai il cielo. Mancava poco al crepuscolo.
«Oh, ecco! Guarda!» Jimmy puntò il dito verso un paio di costruzioni di legno in lontananza. «Siamo arrivati.»
«Non vedo nessuno.»
«Forse sono tutti in casa.»
«A fare che? A girarsi i pollici?»
«Ma che ne sai tu? Magari stanno scopando. Che altro possono fare da queste parti per passare il tempo? A parte prendersi a pugni e uccidersi a vicenda?»
Mentre il carro si avvicinava lentamente, pensai che forse non ci abitava nessuno. La colonia si trovava sul fianco di un agglomerato di massi rocciosi, poco distante da un ruscello che sgorgava da lì e serpeggiava giù da un avvallamento. Le finestre erano chiuse dalle imposte. Sulla strada, nessuna impronta di cavalli, di piedi o ruote di carro. La pioggia poteva aver cancellato le tracce, ma qui aveva piovuto poco. In alcuni punti il terreno era persino asciutto.
Jimmy fermò il carro davanti a un edificio di un piano. «Questa è la locanda» disse. «Andiamo a dare un'occhiata.» Saltò giù e si fermò sul fianco del carro. Sollevò il telo, afferrò il moschetto e guardò dentro la canna.
«Cosa vuoi fare?» domandai, perplesso.
Jimmy alzò lo sguardo su di me. «È per precauzione. Questa è una colonia, dopotutto. Possono esserci alcuni malintenzionati là dentro. La maggior parte dei coloni sono assassini, prostitute, criminali e tanta altra brava gente.»
Non capivo quali erano le sue intenzioni. Scesi dal carro. «Dai, abbassa l'arma. Non ti serve. Entriamo disarmati. Forse non c'è nemmeno un'anima viva da queste parti.»
Jimmy ci pensò per un momento. Posò l'arma sul carro, lo coprì col telo e ci avviammo verso la locanda.
Vuota.
L'ingresso inghiottito dalla penombra. Passai un dito sul tavolo e osservai la polvere sul mio polpastrello. «Qui non viene nessuno da un sacco di tempo.»
Jimmy mi ignorò e andò dietro il bancone del bar. Afferrò una bottiglia di birra, tolse il tappo e fece un lungo sorso. Poi la sbatté sul bancone, facendo balzare fuori gocce di birra. «Almeno non hanno portato via l'alcool. Guarda quanto ben di Dio c'è qui. Ed è tutto per noi. Dai, che aspetti. Vieni a farti una birra. È buona. Assaggia, dai.»
Respinsi la sua mano e mi girai a guardare l'ambiente, tavoli e sedie in perfetto ordine. Sembrava che il proprietario se ne fosse semplicemente andato. Forse non c'era nessuno anche negli altri edifici.
«Dove stai andando?» domandò Jimmy, contento. «Vieni a farti una birra, Ed. Quanto ci capiterà di nuovo una cosa del genere?»
«Vado a dare un'occhiata di sopra.»
Jimmy alzò la bottiglia come a dire di aver capito e si sedette sul bancone.

Salii la scala che mi condusse su una balconata interna che dava sull'ingresso. C'erano due porte e un corridoio alla mia destra. Girai lentamente la maniglia della prima e sbirciai dentro. Era una normale camera. Il letto sfatto, sul comodino una candela di sego in un piattino e sei fiorini. Li presi, chiusi la porta e aprii quella accanto. Era uguale alla prima.
Svoltai nel corridoio e scorsi una porta, in fondo. Era socchiusa. Per un attimo mi parve di vedere un occhio arancione spiarmi dalla stretta fessura. Aggrottai la fronte, turbato, e mi avvicinai cauto. Quando feci per aprirla, mi fermai. Una flebile folata di vento gelido mi sfiorò la nuca. Mi girai di scatto, ma non vidi nessuno. Il cuore cominciò a martellarmi nel petto. Sentii Jimmy ridere felice dal piano di sotto e borbottare qualcosa tra sé.
Rimasi a fissare il corto corridoio aspettando di vedere qualcuno girare l'angolo, ma non successe. Mi girai verso la porta socchiusa.
Il cadavere bendato era a un palmo dalla mia faccia. Sussultai. Un fetido odore le uscì dalla bocca spalancata. Mi venne un coniato di vomito e il mio stomaco si contorse da dolore. Indietreggiai lentamente senza toglierle gli occhi di dosso. Quella mostruosità rimase immobile per un momento, poi strillò. Un suono acuto, demoniaco, che fece cadere dai muri i quadri paesaggistici dipinti ad olio. Si lanciò verso di me, le mani protese, i piedi sospesi dal pavimento.
Terrorizzato, inciampai all'indietro e caddi a terra. Alzai le braccia a protezione del mio volto e strillai come un bambino spaventato. Il cadavere bendato mi raggiunse e, appena cinse il mio avambraccio con il suo glaciale tocco, scomparve con un urlo infernale.
Cosa diavolo era successo? Era stato reale? O solo un'altra allucinazione?
Preso dal panico, scattai la testa in tutte le direzioni e mi alzai lentamente. Fissai per un attimo i dipinti ad olio sul pavimento, finché mi voltai e spinsi la porta socchiusa.
Era una specie di ufficio comunicante con una camera da letto. Sul pavimento, una scrivania, sedie e scaffali ribaltati. Nella camera da letto, una grande macchia di sangue e pezzi di cervello e cranio sparsi sulle pareti. Nessun cadavere, nessun'arma da fuoco.
Mi guardai intorno per un lungo momento. Lasciai la stanza e raggiunsi la balconata interna che dava sull'ingresso.
Jimmy era sparito.



 

13

Percepii una fitta allo stomaco e corsi giù dalla scala. Pensai che fosse svenuto. Guardai dietro il bancone su cui erano posate tre bottiglie di birra vuote. Non c'era.
Uscii dal locanda e mi fermai sotto il portico. Il carro era ancora lì, ma i due cavalli erano spariti.
Mi venne un colpo al cuore e mi sentii mancare le gambe. Per non cadere, cinsi una mano attorno al pilastro che sosteneva la balconata sopra la mia testa.
Cosa diavolo stava succedendo?
Corsi fino al centro della strada e mi guardai attorno, turbato. «Jimmy! Jimmy! Dove sei? Vieni fuori!»
Solo silenzio.
«Jimmy!» urlai per un po', finché sentii la gola bruciarmi per lo sforzo.
Restai fermo per un lungo momento, indeciso sul da farsi. Il sole calava lentamente dietro gli ammassi rocciosi che troneggiavano sulla città. Non potevo incamminarmi di notte. Sbarrai gli occhi, spaventato, e mi ricordai solo in quell'istante della cassa.
Scattai la testa verso il carro coperto dal telo e mi avvicinai cauto, aspettandomi che da un momento all'altro saltasse fuori quella cosa.
Sollevai il telo.
La bara era chiusa. Restai a fissarla per un momento, non sapendo se aprirla o meno. Poi adagiai il telo al suo posto e mi girai a scrutare le tetre facciate degli edifici. Non ci sarei mai entrato, non di notte, anche se dentro morivo dalla curiosità.
Ritornai nella locanda, osservai per un momento le tre bottiglie di alcool sul bancone e salii la scala.

Mi sistemai nella camera da letto in fondo al corridoio. Volevo tenere sott'occhio il carro dalla lunga balconata esterna. Chiusi la doppia porta scorrevole che delimitava l'ufficio con la camera, aprii la porta finestra che dava sul bancone e mi sedetti su una sedia a dondolo poco prima della soglia. Mi ricordai solo all'ora dei moschetti. Come avevo fatto a dimenticarmene? Se ne avessi imbracciato uno, mi sarei sentito più sicuro. Ma come li avrei usati? Non sapevo nemmeno come si caricavano.
Istintivamente guardai la macchia di sangue sul muro e mi chiesi dove fosse finita l'arma che aveva fatto saltare la cervella del povero malcapitato. Suicidio? Omicidio? Il corpo che fine aveva fatto?
Uno strano pensiero mi balenò in mente. E se il cadavere bendato fosse stato ucciso qui? No, impossibile. Sulla parete c'erano pezzi di...
Rimasi di sasso nel vedere il muro pulito. Non poteva essere. Lì c'era stato del sangue, lo avevo visto. Ne ero sicuro.
Mi alzai dalla sedia a dondolo e mi avvicinai lentamente alla parete. La fissai, confuso. Che me lo fossi immaginato?
Quando mi voltai e mi sedetti nuovamente, sussultai nel vedere un corpo seduto contro il muro, la parte superiore della testa ridotta a una poltiglia. Scattai in piedi e raggiunsi la porta finestra.
Il fascio della luna piena illuminava il cadavere con addosso un panciotto bordeaux, una camicia bianca pregna di sangue dal colletto e pantaloni marroni. Non aveva nessun'arma tra le mani. Quindi lo avevano ucciso? Perché me lo domandavo?
Rimasi sotto lo stipite per un lungo momento, senza voltare lo sguardo. Un rapido movimento impercettibile mi portò a guardare verso il carro, ma non vidi nessuno. Il telo era ancora lì.
Quando ritornai a osservare il corpo, quello era scomparso, il muro pulito. Sentii un nodo in gola. Cosa mi stava accadendo?
Senza pensarci due volte, afferrai la sedia a dondolo e la trasportai sul balcone. Era l'unico modo per riposare. Mi sedetti e cominciai a dondolarmi. Mentre tenevo sott'occhio la porta finestra, le palpebre si fecero più pesanti. Poi, senza accorgermene, mi addormentai.

Camminavo in una landa tetra, silente, immerso in una fitta nebbia. Strane sagome si muovevano tutt'attorno come spettri. Una timida luna cercava di farsi largo tra il mare di nebbia. Ma quella luce continuava a morire e sorgere ad ogni mio battito di ciglia.
Provai a gridare, ma ne uscii solo un rantolo soffocato. Poco dopo, nemmeno quello.
Cominciai a sentire una tetra melodia, un violino, un suono distante. M'incamminai verso la fonte, ma sembrava allontanarsi ad ogni mio passo. Mi fermai. Dove ero finito? Stavo sognando?
Appena feci per muovermi, mi ritrovai catapultato dentro la locanda. Le pareti di legno ammuffite, squarciate. I vetri delle finestre rotte, la porta d'ingresso divelta. I gradini della scala spaccati in più punti. L'intero ambiente avvolto da una flebile foschia.
Qualcuno uscì da una porta nel corridoio che dava sul retro. Quel corridoio non c'era prima. Forse stavo sognando. Mi schiaffeggiai la faccia. Dolore, ma rimasi ancorato sul posto. La sagoma ombrata si avvicinò. Era Annabelle. Indossava una semplice tunica grigia.
Mi fissò con fare grave. «Non avresti dovuto riportarla qui.»
Aggrottai la fronte, perplesso. «Riportarla?»
«Certi mali devono rimanere sepolti.»
«Non capisco...»
«Ora che è qui, non ti resta che fuggire!»
«Io...»
Comparve davanti ai miei occhi come una saetta. Sussultai. «Vattene! VATTENE!»

Mi destai di colpo e quasi non caddi dalla sedia. Lanciai uno sguardo assonnato verso la camera da letto. Solo silenzio, la mezza luna alta nel cielo stellato. Mancavano diverse ore all'alba.
Ripensai al sogno. Non trovavo un nesso logico. Perché dovevo fuggire? Perché avevo sognato Annabelle? Da quale male dovevo fuggire?
Istintivamente spostai gli occhi verso il carro. Era ancora lì. Forse mi stavo suggestionando. L'improvvisa scomparsa di Jimmy e dei cavalli mi aveva scosso profondamente. Dovevo calmarmi. Era solo un brutto incubo.
Mi alzai e cominciai a fare avanti e indietro lungo la balconata esterna, il legno che scricchiolava sotto i miei stivali.
Avevo visto Annabelle a Berry Town in vari punti di New Amsterdam, ma non le avevo mai chiesto nulla al riguardo. Che fosse solo un'allucinazione? Che non fosse mai esistita? Non poteva essere. Jimmy mi aveva condotta da lei, quindi era reale, esisteva. Ma allora perché mi capitava di vederla in continuazione? E perché mi era apparsa in quell'incubo?
Posai lo sguardo sul carro, diversi lembi del telo svolazzavano al vento. Lo fissai per un momento, chiedendomi se il cadavere bendato facesse parte di questo posto. Probabile, ma non volevo crederci. Il mio cliente... come... lui...
Non riuscivo a ricordare il suo nome, il suo viso. Sapevo che era di Jamestown, che era un uomo, ma adesso non ricordavo più nulla di colui che mi aveva ingaggiato.
Cominciai a sentirmi male, a sudare freddo. Un inquietante gelatura si fece strada lungo la schiena e posai una mano sulla balaustra. Fissai il carro per un lungo momento. Volsi lo sguardo verso gli edifici di fronte immersi nell'oscurità. Dov'era finito Jimmy? E i cavalli?
Mi voltai e osservai la parete interna della stanza. Nessuna macchia di sangue, nessun corpo. Tutto svanito. Forse stavo sognando, ciò che vedevo non era reale. Mi lasciai cadere sulla sedia e cominciai a dondolarmi, inquieto.



 

14

Mi destai col sole che mi picchiava sul volto. Mi alzai, assonato, ed entrai nella stanza. Appena feci per camminare, rividi di nuovo il corpo senza vita accasciato contro il muro. Sul grembo, un moschetto. Quella visione mi svegliò del tutto dal torpore in cui mi trovavo. Mi avvicinai cauto e, quando fui ai suoi piedi, l'uomo scattò la testa ridotta a brandelli verso di me, allungò un braccio.
Sobbalzai e indietreggiai, terrorizzato.
«Perché?» chiese quasi un bisbiglio, il volto una maschera di sangue, il cranio metà spappolato. «Perché mi hai ucciso?»
Ucciso? Cosa? Non avevo mai ucciso nessuno.
«Nelle tenebre, trovasti conforto. Nel silenzio, te stesso.»
Sbarrai gli occhi nel veder comparire sul suo volto l'uomo dai capelli arruffati. Ero di nuovo dentro un incubo?
L'uomo si alzò, il moschetto in una mano. «Nelle tenebre trovasti conforto. Nel silenzio, te stesso.» Si mise la canna del fucile in bocca.
«NO!»
Una parte del cranio implose. Sangue, pezzi di cervello e cranio schizzarono sulla parete. L'uomo ci si accasciò.
Mi misi le mani nei capelli. «Santo cielo...» Corsi fuori dalla camera, attraversai il corridoio e mi fermai sulla balconata interna. Le tre bottiglie di birra vuote posate sul bancone. Scesi la scala e mi precipitai fuori dalla taverna. Il sole scomparve, il cielo nero pece.
Cominciò a piovere sangue.
I lampi facce deforme e orripilanti, i tuoni grida di dolore che echeggiavano nel firmamento. Ero nel panico più totale.
Quando cercai di tornare nella taverna, qualcosa mi afferrò alle spalle e mi trascinò rapidamente all'indietro. Gridai, mi dimenai, finché sbattei la schiena contro la ruota del carro. Scattai in piedi, ma scivolai sulla fanghiglia e rovinai al suolo. Appoggiai nuovamente le spalle contro la ruota del carro, quando il telo verde si staccò dal carro. Svolazzò sopra la mia testa e si perse in lontananza, inghiottito dalle tenebre.
Il coperchio della bara cadde sui miei piedi. Alzai la testa. Dita adunche e raggrinzite scivolarono sul fianco del carro.
Mi alzai in tutta fretta, terrorizzato, ma scivolai nuovamente a terra. Mi voltai verso il carro, il cadavere bendato sospeso su di me. Mi trascinai a gomitate verso la taverna, imbrattato di fango dalla testa ai piedi.

Una volta dentro, scorsi Jimmy disteso ai piedi del lungo bancone. Un intenso bagliore illuminò l'ingresso alle mie spalle. Mi girai. Il cielo era tornato normale. Il carro e i cavalli ancora lì, fermo sulla strada, la bara coperta dal telo. Cosa diavolo era successo? Ero ancora preda dell'incubo?
Quando mi voltai, Jimmy si sedette sul pavimento, una mano posata sulla testa. Lo raggiunsi e mi chinai. «Tutto bene? Dov'eri finito?»
Jimmy mi guardò, confuso. «Che vuoi dire?» Tentò di alzarsi e rovinò di spalle al suolo. «Cazzo! Mi scoppia la testa...»
Lo aiutai ad alzarsi e lo feci sedere su una sedia. «Allora?»
Jimmy mi guardò corrucciato, gli occhi quasi socchiusi. «Allora cosa?»
«Sei sparito insieme ai cavalli. Dove sei stato?»
«L'ultima cosa che ricordo sono quelle birre... Non pensavo fossero così forti, maledizione! Mi sembra di avere dei cannoni in testa...»
Non capivo. I cavalli e Jimmy erano spariti. Come faceva a non ricordare nulla? «Non scherzare. Dimmi dove sei stato?»
«Da nessuna parte! Sono svenuto e non ricordo un cazzo! Non mi hai visto?»
«Eri sparito assieme i cavalli!»
Jimmy serrò gli occhi, turbato. «Ma che stai dicendo? Dove potevo andare conciato com'ero? E poi perché dovevo andarmene e tornare? Non ha senso. Sicuro di non aver bevuto come una spugna?»
Come potevo spiegare la sparizione? Forse era stato un'allucinazione? Non potevo e non volevo crederci. Jimmy e i cavalli erano spariti davvero. Non me lo ero immaginato.
«Per quanto sono rimasto svenuto?» chiese Jimmy.
Lo fissai. «Non lo so...»
«Quel distillato è più forte di quanto credessi. Quanto manca al mezzodì?»
«Tre ore, a grosso modo.»
«Allora dobbiamo metterci subito in viaggio, così arriveremo a Jamestown nel tardo pomeriggio.»
Appena terminò l'ultima parola, il cielo si fece scuro. Laceranti grida di dolore riverberarono nel cielo.
Jimmy sbiancò.
«Non di nuovo...» dissi fra me. Il viso di Annabelle mi balenò davanti agli occhi.
Certi mali devono rimanere sepolti! Perché le hai toccato la benda? Perché hai cercato di guardarla? Perché l'hai portata qui? Lei ti ha manipolato! Perché glielo hai permesso? Ora non ti lascerà andare! Non te lo permetterà!
Oltre le spalle di Jimmy, scorsi l'uomo dai capelli arruffati, il moschetto tra le mani.
Nelle tenebre trovasti conforto. Nel silenzio, te stesso.
Puntò il fucile.
Sparò.
«No!» urlai.
Jimmy mi crollò addosso, un foro nella schiena da cui sgorgava il sangue, gli occhi vacui.
«No, no, non è possibile...» Alzai lo sguardo. L'uomo dai capelli arruffati era svanito. Lo abbassai su Jimmy, che mi sorrideva con un ghigno sinistro. Sbarrai gli occhi e indietreggiai velocemente. Quello si alzò e scoppiò in una grassa risata malefica.
Lo fissai per un attimo, poi mi lanciai verso l'uscita.
L'orripilante risata si amplificò fino a far tremare le mura e il pavimento. Quando raggiunsi la porta, i vetri delle finestre esplosero. Mi protessi il viso dietro un braccio e uscii. I cavalli nitrirono e scalciarono. Corsi verso il carro e sollevai il telo, la bara scoperta, vuota, i moschetti spariti.
Mi venne una fitta al cuore.
Udii la risata alle mie spalle e mi voltai di scatto. Jimmy era a tre piedi da me e mi fissava con un ghigno sinistro. Qualcosa mi afferrò per una spalla e mi tirò a sé. Nel girarmi, scorsi due occhi arancioni. Il cadavere fluttuava sopra il carro, le braccia spalancata, la bocca deforme e allungata. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quegli occhi ipnotici. Percepii la testa alleggerirsi. Ogni mio pensiero e ricordo venne risucchiato. Tutto diventò vacuo, distante.
Crollai a terra.
Udii la grassa risata alle mie spalle, le grida di dolore echeggiare nel firmamento nero pece. Mentre quella cosa fluttuava verso di me, io non riuscivo a distogliere lo sguardo, a fuggire. Posò le raggrinzite e glaciali mani sulle mie tempie e sprofondai nei suoi occhi malefici...

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** L'orfanotrofio ***


1


Tra le montagne di Santa Margherita, esisteva un paese di dieci mila abitanti da sempre avvolto in una foschia malsana. La gente era schiva, poco ospitale e inquietante. E spesso non si vedeva nessuno nelle strade. Molti dei negozi vuoti avevano le saracinesche abbassate e mai un volto sbirciava da dietro le imposte chiuse. I veicoli parcheggiati accanto ai marciapiedi sembravano fermi da secoli e alcuni modelli risalivano agli anni settanta.
Nicola Farenza era nato lì, in quella valle dimenticata da Dio. Cresciuto nel silenzio, aveva fin da subito apprezzato la solitudine. E nell'Orfanotrofio Della Pietà, quella solitudine, era la sua migliora amica.
Passava le giornate a guardare dalla finestra un mondo muto, triste, sospeso nel tempo e nello spazio. Si divertiva a fissare le fronde degli alberi smosse dal vento, la pioggia picchiettare il vetro della finestra, a fare il tifo per le gocce che ci scivolavano sopra. Era poco, ma si divertiva come un matto. E quando le sue risate echeggiavano nel salone spoglio della sala comune, la quiete esigeva una punizione.
Allora arrivava la suora e gli mollava un ceffone in faccia. Per Nicola, ancora un bambino, quella suora sembrava essere la personificazione del male assoluto. Un mostro che appariva solo per punirlo, prima di sparire nel nulla.
Sapeva che al primo piano c'erano molte suore, eppure ne vedeva solo tre. Donne anziane, rugose, dagli occhi severi e spiritati, le tonache ampie e ben stirate.
Quando arrivava l'ora di pranzo, i bambini si sedevano lungo i tavoli mangiucchiati dalle tarme. Tutti composti, silenziosi, gli occhi bassi sul piatto vuoto. La suora passava con un carrello su cui era posto un grosso pentolone e riempiva i piatti di una sbobba nauseabonda, la stessa sbobba di ogni giorno. Nicola aveva l'abitudine di muovere le gambe mentre mangiava, un gesto involontario. La suora appariva alle sue spalle, gli tirava uno schiaffo dietro la testa e lo fulminava con lo sguardo. Nicola tratteneva le lacrime, finché scoppiava in un pianto sommesso.
La cena era la stessa sbobba del pranzo, il solito inferno, poi via a dormire alle nove. Le luci venivano spente, la porta chiusa a doppia mandata e la suora si sedeva lì vicino, al buio. Erano notti tormentate, sogni trasformarti in incubi. Il vento che ululava tra le foglie, una vecchia porta che cigolava nel corridoio, i rami che si allungavano sulla parete proiettando ombre inquietanti. Laggiù, in quella valle scoscesa e dimenticata, tutto era morto, sepolto sotto una fitta nebbia spettrale.
All'alba, la suora che era rimasta seduta al buio, si alzava e si incamminava lungo i letti, suonando una campanellina. Quel suono terrificava tutti i bambini, che balzavano fuori dal letto con il cuore in gola. Chi non lo faceva o non si svegliava, non faceva colazione e veniva rinchiuso nell'oscurità della soffitta, gli scatoloni come unici compagni di gioco. Nicola aveva sentito una storia su un bambino dimenticato in soffitta. Era morto di fame e di sete e nelle notti più fredde e ventose, si potevano sentire i suoi atroci lamenti.
Non era mai finito in soffitta, ma Tommaso, che aveva dieci anni, andava e veniva in continuazione. «I fantasmi non esistono» diceva con fare arrogante. «E se esistono, io non ho paura di loro!»
Poi un giorno venne condotto nuovamente in soffitta e non fece più ritorno.
«Il fantasma lo ha divorato» dicevano i bambini tra loro.
Dopo qualche giorno, nessuno parlò più di Tommaso. Nessuno lo ricordava più.




 

2


Durante la cena di Natale, arrivò all'orfanotrofio una bambina di sette anni che era stata abbandonata davanti al portone. Era taciturna e solitaria e si chiamava Gloria. Nessun bambino se ne interessò molto, ma le suore sembravano avere una sorta di ossessione per lei. La prendevano alle sei di sera e la riportavano al dormitorio alle nove, esausta e pallida.
Nicola credeva che fosse sordomuta, più bisognosa di attenzioni, perciò non aveva mai provato ad avvicinarla e si limitava a guardarla da lontano. Quando lei voltava lo sguardo verso di lui, il bambino si girava dall'altra parte. Ogni tanto si beccava due ceffoni in faccia dalla suora, perché era vietato fissare le bambine.
Durante il fine settimana, alcune famiglie facevano capolinea all'orfanotrofio. Non erano mai persone del paese, ma forestieri disposti a tutto pur di adottare un bambino. Spesso quelle stesse coppie tornavano più volte con un sorriso sinistro sulle facce inespressive. Nicola non aveva mai visto la suora madre e molti bambini la immaginavano come una strega cattiva. Ogni tanto pensava che le tre suora che vedeva raramente, non esistessero, ma che fossero un'unica persona. L'onnipresente suora che si prendeva cura di loro.
Un sabato pomeriggio Gloria venne portata al primo piano e non fece più ritorno.
Il bambino non rivide più quella bambina taciturna e solitaria, che se ne stava tutta sola in un angolo a intrecciare le dita in un gioco tutto suo, a battere le mani verso qualcuno che vedeva solo lei.
Si chiese se da qualche parte ci fosse una famiglia disposta ad adottare anche lui. Era pronto a fare il bravo, a impegnarsi, a fare di tutto pur di essere adottato. Avrebbe persino dormito in soffitta e affrontato il fantasma che lo infestava.
Il trentuno dicembre il cielo notturno si dipinse di rosso. Oltre la valle, c'era San Sebastiano, una città di sessanta mila abitanti. Tutti i bambini si affollarono davanti alle due finestre del dormitorio e guardarono i fuochi d'artificio esplodere in aria in mille colori. La suora che li sorvegliava era andata al piano inferiore e mancava già da mezz'ora.
Nicola, che era stato messo di guardia davanti alla porta, la vide sbucare da una porta in fondo al corridoio e subito rientrò dentro. «Sta arrivando! Sta arrivando! Tutti a letto!»
Quando la suora entrò nel dormitorio, tutti fingevano di dormire, mentre le luci dei fuochi illuminavano intermittenti le pareti.
Il mattino seguente non c'era la solita sbobba, ma del latte e pezzi di pane abbrustolito messi in un grande recipiente di plastica. Per Nicola era una vera leccornia. Non beveva latte da anni e non ricordava più il sapore del pane. Mosse i piedi per la felicità, quando un ceffone lo colpì dietro la testa e gli fece sputare pezzettini di pane sul tavolo.
La suora gli torse un orecchio, gli schiacciò il viso contro il cibo e lo fulminò con lo sguardo.
Nicola trattenne le lacrime e pulì il tavolo con la lingua. Appena la suora si allontanò, scoppiò in un pianto sommesso. Tutti gli altri bambini evitarono di guardarlo, terrorizzati.




 

3


Nel pomeriggio la suora che lo aveva rimproverato lo prese per un braccio e lo condusse verso la soffitta. Lui non sapeva dove si trovava quell'infernale luogo. Lo aveva sempre immaginato tutto rosso, pieno di mostri, fantasmi e ragni giganti. Lo aveva persino sognato e nei suoi incubi non trovava mai l'uscita. Si perdeva in quei cunicoli dalle pareti rocciose rosso sangue e il terreno avvolto da una foschia dello stesso colore. Camminava e correva in quegli affranti, urlava a squarciagola, chiedeva aiuto. E l'unica risposta che riceveva era l'eco distorto della sua voce. Poi cominciava a scorgere le ombre, sagome nere avvolte in lunghi cappotti neri, le facce invisibili, che fluttuavano silenti tutt'attorno.
La suora si fermò davanti a una porta bianca, girò la maniglia e accese la luce della scala.
Il bambino la guardò impaurito e non vide partire lo schiaffo che lo colpì sulla guancia. Venne spinto sui gradini e la porta si chiusa alle sue spalle a doppia mandata.
Picchiò i pugni sulla porta. «Non voglio rimanere qui! Fammi uscire! Farò il bravo, te lo giuro!»
La luce si spense.
Il bambino si accasciò contro la porta e pianse con la testa fra le ginocchia, gli occhi chiusi per paura di vedere il mostro. Credeva che tenendoli così, il fantasma che infestava la soffitta non gli avrebbe fatto del male, perché non poteva vederlo.
Quando smise di piangere, qualcosa si muoveva in cima alla scala. Forse era il fantasma del bambino che era morto di fame e di sete, così infilò ancora di più la testa tra le ginocchia. Non voleva aprire gli occhi, perché pensava che avrebbe fatto infuriare il fantasma. Era meglio starsene in silenzio e pensare alle gocce d'acqua che scivolavano lungo la finestra del dormitorio. Immaginava una gara, una goccia che sorpassava l'altra, quando qualcosa gli si avvicinò. Lanciò un urlo di terrore e martellò di pugni la porta, girò la maniglia più e più volte.
I passi si fermarono alle sue spalle.
Cominciò anche a calciarla, finché si accese la luce della scala e una chiave girò nella toppa. Nicola salì rapidamente i gradini della soffitta e si rifugiò dietro una fila di scatoloni polverosi. Aveva più paura della suora, che di qualunque cosa ci fosse in soffitta.
Poi la porta cigolò, la luce si spense e la chiave girò due volte nella serratura.
Nicola restò immobile per un lungo momento. Tratteneva le lacrime in quella oscurità più totale con gli occhi chiusi, arrossati, doloranti.
Si udirono nuovamente i passi simili a stivali che scricchiolavano sulla ghiaia. Ma il bambino si trovava in soffitta, dove il pavimento era di legno. Quindi da dove arrivava quel suono?
I passi continuarono a camminare per un lungo momento, poi tornò il silenzio.
Non sapeva dirsi quanto tempo fosse passato, ma non gli importava. Voleva restarsene accucciato, finché la suora non lo avesse riportato al dormitorio. E se non fosse venuta a prenderlo? E se sarebbe morto di fame e di sete come Tommaso?
Pensò al fantasma e il terrore tornò a tormentarlo, a farsi beffa di lui. Sentì di nuovo quei passi, seguiti da un inquietante mormorio impercettibile. Una cantilena che aveva sentito più volte cantare dai bambini piccoli che stavano al secondo piano.
«Gira e rigira, lei si avvicina. Gira e rigira, tutto spira. Gira e rigira, ecco che arriva. Gira e rigira, la morte grida.»
Ascoltò il tetro mormorio, finché le parole furono ripetute al contrario e rabbrividì. Voleva fuggire, gridare, piangere, ma non poteva. Avrebbe infastidito il fantasma o chiunque mormorasse quella filastrocca. Non voleva rivelare la sua presenza. Credeva che se fosse rimasto immobile, nessuno si sarebbe accorto di lui. Poi il mormorio scemò, i passi scomparvero e Nicola crollò addormentato.




 

4


Un calcio a una gamba lo destò dal mondo degli incubi. La suora si ergeva su di lui con il viso austero. Scattò subito in piedi e provò un senso di vertigini, seguiti da innumerevoli puntini rossi alla vista.
La suora lo fece scendere dalla soffitta e lo condusse nel dormitorio, dove gli altri bambini stavano giocando. Quando lo videro, si ammutolirono e lo scrutarono da capo a piede. Poi la suora lasciò la stanza e quelli lo accerchiarono.
«Sei stato in soffitta?»
«Hai visto il fantasma?»
«Hai visto Tommaso in soffitta? È vivo?»
«Com'è la soffitta? È spaventosa?»
«È vero che ci sono i mostri?»
Nicola non amava essere al centro dell'attenzione, così li ignorò e si sedette da solo in un angolo.
Marco Gentile gli andò dietro e lo additò con un sorriso sprezzante. «È solo uno scemo! Vuole farci credere che è stato in soffitta, quando non è vero. Se fosse stato in soffitta, non sarebbe più tornato qui, perché è un cretino come i mostri che ci vivono. E lui sta bene insieme ai cretini!»
I bambini scoppiarono a ridere.
Nicola ribolliva d'odio e di rabbia e voleva prenderlo a pugni, fargli uscire sangue dal naso, ma avrebbe solo peggiorato la situazione. Gli amici di Marco lo avrebbero picchiato e tormentato ancora di più. E poi c'era la suora che lo avrebbe rinchiuso in soffitta per un mese o più. Preferiva essere preso in giro, che ritornare in quel posto. Al solo pensiero gli veniva da piangere.
Arrivò il giorno di natale e scoprì, tramite un libro letto in biblioteca, che i bambini ricevevano i regali da un certo Babbo Natale. Perché quell'uomo dal ventre prominente e dalla lunga e folta barba bianca non gli aveva mai portato un regalo? Perché nessuno dei bambini ne riceveva uno? Erano tutti cattivi? Per questo erano nell'orfanotrofio? Per questo erano stati tutti abbandonati dalle famiglie? Anche i neonati? Anche loro erano nati cattivi? Si poteva nascere già cattivi? Volevo chiederlo a qualcuno, magari alla suora che raramente li perdeva di vista, ma non lo fece. Sapeva già la risposta, uno schiaffo, una tirata d'orecchio e dritto in soffitta. Non si fidava nemmeno dei bambini, perché potevano spifferare tutto alla suora. Era meglio tenersi per sé le domande.
Marco Gentile, che aveva preso il posto di Tommaso Orecchia come bullo, non faceva che tormentarlo da quando era tornato dalla soffitta. «Sei un codardo! Uno stupido! Non sei mai andato in soffitta. La suora ti ha portato in infermeria perché piangi sempre. Sei un piangi piangi. Uno scemo piagnucolone! Guardate, ragazzi! Venite a vedere il più stupido piangi piangi del mondo!»
Nicola incassava in silenzio e guardava fuori dalla finestra. Cercava di non sentirlo, di estraniarsi, di farsi scivolare addosso gli insulti, ma non ci riusciva. Le parole facevano male e lui non poteva farci niente.
C'erano giorni in cui osservava una o due persone camminare in strada. E si domandava se anche loro avessero figli e se li avessero abbandonati. Magari a Santa Margherita tutti i bambini dovevano stare chiusi in orfanotrofio, oppure la gente che ci viveva non aveva figli. Quella stesse persone camminavano frettolosamente, a volte tornavano indietro o si mettevano a girare attorno a un veicolo, a un palo della luce. Altre volte si fissavano per minuti, finché camminavano, correvano, saltavano e si coricavano in strada. C'era qualcosa di inquietante in quella gente, ma Nicola non sapeva se tutte le persone del mondo fossero così. Non era mai uscito dall'orfanotrofio.
Una venerdì mattina Marco cominciò a schiaffeggiarlo dietro la nuca, facendo ridere i suoi due amici Matteo Notarangelo e Stefano Fiore.
«Sembra un tamburo. Boing! Boing! Anzi, è meglio di un tamburo. Nicò, sei un tamburo, non è vero? Per questo sei stupido!»
Nicola non rispose.
Marco continuò a colpirlo sempre più forte, finché Nicola si ritrovò in piedi con la vista annebbiata.
Un urlo squarciò il silenzio del dormitorio.
Marco giaceva a terra con una penna infilata nella carotide, le mani sulla gola bucherellata da cui fiottava sangue.
Matteo, Stefano e gli altri bambini gridarono nel vedere il bullo boccheggiare sul pavimento in una pozza di sangue che cresceva sempre più dietro la sua testa.
La suora apparve dal nulla come se fosse stata sempre lì e puntò gli occhi sinistri su Nicola, senza degnare di uno sguardo Marco.
I bambini si riversarono in corridoio, terrorizzati.
La suora sapeva già chi era il colpevole e si diresse minacciosa verso Nicola, che si piegò in avanti afflitto da una tremenda nausea. Era successo tutto così in fretta. Non ricordava di aver pugnalato il bullo, aveva perso il controllo del corpo. Era come se fosse stato risucchiato nella sua mente e qualcos'altro ne avesse preso il posto.
Quando la suora sollevò una mano per mollargli un ceffone, il bambino crollò accanto a Marco, afflitto dagli ultimi spasmi di vita.




 

5


Si svegliò in quella che sembrava essere un infermeria. Non era mai stato lì, nemmeno quando aveva avuto la febbre a trentanove. Quella volta era stato rinchiuso in uno stanzino senza finestre, in fondo al corridoio. Lo stesso stanzino dove nessun bambino poteva entrare senza permesso.
Quando qualcuno si ammalava, finiva in quella stanzetta. Nessun dottore veniva mai a visitarli, perché era la suora a prendersi cura di loro.
Nicola non sapeva se l'infermeria fosse lo stesso stanzino dell'altra volta. Ricordava delle mura verde acqua, ma queste erano di un nero mai visto prima. A parte un lettino e una lampadina a soffitto al centro della stanza, non c'era niente.
Nicola aveva paura. C'era qualcosa di tetro in quell'ambiente sterile. Scese del letto e raggiunse la porta. Quando toccò la maniglia, quella non si muoveva. Cominciò a tirarla, a calciare la porta coi piedi nudi, finché gridò e si lasciò cadere a terra con le mani che stringevano i piedi doloranti.
Piangeva, singhiozzava, mentre la lampadina lampeggiava. Gli sembrava di essere sprofondato in un incubo, uno dei moltissimi incubi che lo tormentavano di notte, che gli facevano affondare la testa sotto il cuscino e le coperte.
Credeva che così fosse al sicuro, che niente e nessuno potesse tirare via le coperte, afferrarlo e trascinarlo chissà dove, magari in soffitta. Poi si calmava e pensava alla famiglia che lo voleva adottare. Per quanto si sforzasse, non riusciva a scorgere i loro volti, ma non gli importava. Gli piaceva l'idea di essere cullato in braccia amorevoli, giocare davanti al camino scoppiettante di una casa accogliente e passeggiare nello stesso parco che vedeva dalla finestra del dormitorio.
C'erano le altalene, gli scivoli e altri giochi di cui non sapeva nemmeno i nomi. Non vedeva mai un bambino lì, solo due vecchietti avvolti in spessi cappotti grigi e cappelli a tesa larga vagare senza meta. E mai una volta li aveva visti sedersi sulle panchine. Dopo un paio d'ore se ne andavano e tutto tornava immobile come nelle foto che vedeva sui libri. Quanto gli sarebbe piaciuto poter entrare in quelle foto, visitare nuovi posti, andarsene per sempre dall'orfanotrofio, il più lontano possibile dalla soffitta.
Mentre ci pensava, qualcosa serpeggiava nella mente. Un immagine, un liquido rosso che colava dalle pareti. Non capiva perché la sua mente lo assillava con quella immagine inquietante. Quando si girò sul fianco destro, sobbalzò. Il volto pallido di Marco era a pochi centimetri dalla sua faccia, una penna conficcata nella gola squarciata da cui il sangue fiottava copioso. «Nicò, ti serve una penna?»
Il bambino cadde dal letto e batté la schiena contro il pavimento. Il colpo gli fece mancare il respiro per un momento. Appena alzò lo sguardo verso il bullo, quello non c'era più. Il cuore gli martellava velocemente nel petto e qualcosa di pesante gli comprimeva il torace. Si alzò, ma le gambe cedettero e si ritrovò a terra.
Annaspava.
La forte pressione nel petto si faceva sempre più pesante, quasi schiacciante. Respirò piano, lentamente e le palpitazioni diminuirono. Cosa era successo? Perché aveva visto Marco?
Si sdraiò sul letto, quando la porta cigolò. La suora se ne stava immobile sotto la soglia, lo sguardo inespressivo.
Nicola abbassò gli occhi, intimorito. Aveva la sensazione di aver fatto qualcosa di orrendo, ma non ricordava cosa. La suora lo raggiunse, gli posò una mano fredda sulla fronte e gli porse un bicchiere con dentro un liquido violaceo.
Lui l'aveva vista arrivare a mani vuote, ne era sicuro. Quindi da dove era comparso quel bicchiere?
Bevve un sorso e subito lo sputò. Era disgustoso, la cosa più disgustosa che avesse mai bevuto.
La suora serrò gli occhi e gli torse un orecchio.
Nicola tracannò il liquido e sentì lo stomaco andare a fuoco. Poi fu afflitto da conati di vomito e si dimenò tra le coperte in preda a forti dolori addominali, finché venne scosso da violente convulsioni e perse i sensi.
La suora lasciò la stanza e chiuse a chiave la porta.




 

6


Si svegliò frastornato e fissò la lampadina che lampeggiava nella stanza. Era confuso. Non ricordava come ci era finito lì. Se lo chiese un paio di volte, poi lasciò perdere.
La lampadina smise di lampeggiare e restò accesa.
Il sangue colò dalle pareti e allagò il pavimento.
Marco apparve ai piedi del letto.
Nicola sussultò e si tirò su le coperte fin sopra la testa. Aveva freddo e tremava, anche se un secondo prima la stanza era calda. Lo sentì avvicinarsi e scorse una sagoma attraverso il lenzuolo. Chiuse gli occhi, si rannicchiò su sé stesso e scoppiò in un pianto sommesso. Credeva che così facendo, Marco se ne sarebbe andato.
Il lenzuolo fu tirato via e una mano fredda gli serrò la bocca. Marco lo guardò dritto negli occhi vitrei e gli mostrò la gola squarciata da cui zampillava il sangue. «Nicò, ti è piaciuto suonare il boing sulla mia gola? Vediamo se fa lo stesso rumore sulla tua!»
Svenne.
Passarono due settimane.
Il bambino era ancora perseguitato da quella orrenda scena che tentava di mandare via. Quando era ritornato al dormitorio, tutti i bambini parlavano dell'adozione di Marco.
«È stato fortunato. Almeno lui è stato adottato.»
«Dovevano adottare me! Non è giusto che abbiano scelto Marco...»
«Io sono più piccolo di lui. Perché non adottano me?»
Tutti parlavano e nessuno ascoltava.
Matteo e Stefano erano rimasti da soli e non sapevano più cosa fare tutto il giorno. Vagavano spaesati nel dormitorio e ogni tanto si scambiavano gomitate in modo molto blando.
Nicola se ne stava seduto davanti alla finestra a osservare il parco vuoto. Era in sovrappensiero. Aveva sempre davanti agli occhi l'immagine di Marco con la gola fatta a pezzi. Si domandava se fosse stata la soffitta a fargli venire quei pensieri orrendi. Lo aveva sempre odiato e si sentiva sollevato che fosse stato adottato. Adesso non gli avrebbe più dato fastidio e preso a schiaffi. Ma era anche invidioso che avessero scelto di adottare un idiota come lui. Perché Marco e non un altro bambino? Perché non Nicola?
Lui era più gentile, più bravo e silenzioso. Non se ne andava in giro a insultare gli altri, a prenderli in giro, quindi perché non lo voleva nessuno? Perché? Doveva comportarsi come Marco? Attirare l'attenzione, fare casino, picchiare gli altri? Se lo avesse fatto, le suore lo avrebbero fatto adottare per primo?
Il giorno seguente, mentre tornava dal bagno, rivide Gloria. Era più pallida, gli occhi celesti cerchiati, i capelli biondi puntellati da fili grigi. Cosa le era successo? La famiglia affidataria l'aveva rispedita qui? Voleva domandarglielo, ma tutti i bambini le si affollarono attorno.
«Perché sei qui? Ti sei comportata male? Non ti vogliono più?»
«Cosa hai fatto ai capelli? Perché sono bianchi come quello dei vecchi?»
«Com'è la fuori? Ti sei divertita? Com'erano i tuoi genitori? Se non ti vogliono più posso stare io con loro.»
Lei rispondeva in un sussurro, come se gli costasse fatica parlare più forte. Gli altri bambini non capivano.
«Che hai detto?»
«Alza la voce.»
«Sì, alza la voce.»
Nicola era stupito. Aveva sbagliato a pensare che fosse sordo muta. Allora perché la suora le aveva sempre dato molte attenzioni? E perché la portava sempre giù?
Stefano e Matteo, che nei giorni precedenti erano rimasti molto quieti, le tirarono i capelli.
«Sei brutta!» ghignò Matteo. «Sembri una vecchia. Ecco perché ti hanno rispedito qui. Sei brutta e nessuno ti vorrà mai più!»
«Sì, è brutta» aggiunse Stefano con una grassa risata. «E poi puzzi di mille piedi schiacciato. Avvicinatevi, sentite quanto puzza. Sei una puzzola! Gloria la puzzola!»
Tutti i bambini scoppiarono a ridere e ripeterono in coro Gloria la puzzola!
Lei scoppiò in lacrime.
Nicola serrò gli occhi arrabbiato e le si avvicinò. La bambina gli lanciò uno sguardo fugace e gli diede le spalle, pensando che la volesse insultare. Ma lui le si sedette affianco in silenzio.
«Guardate, la puzzola ha trovato un fidanzatino» rise Stefano. «Adesso faranno tante puzzole!»
Matteo la spinse addosso a Nicola e abbozzò un ghigno, soddisfatto. «Cos'è questa puzza? State lontani da noi o vi tiro un pugno!»




 

7


Gennaio e febbraio passarono lentamente. Nessun bambino fu adottato o abbandonato davanti all'orfanotrofio. Gloria e Nicola stavano sempre insieme, ma non si parlavano mai. La bambina riprese il suo appuntamento con la suora, che la prendeva alle sei e la riportava nel dormitorio alle nove.
Una mattina, quando i bambini si radunarono nella sala comune per guardare la tv, Matteo e Stefano afferrarono Gloria per i capelli e la trascinarono in un angolo.
«Perché la suora ti porta sempre giù?» chiese Stefano. «Cosa fai laggiù, eh? Fai la spia? Ti credi migliore di noi?»
Gloria lanciò un urlo, ma la sua vice era flebile e ne uscì un rantolo soffocato.
I due bulli scoppiarono a ridere e mimarono il suo grido. Poi Stefano le tirò uno schiaffo in faccia. L'impatto fu così forte che tutti i bambini si voltarono a guardare.
Gloria scoppiò a piangere.
Nicola scattò in piedi e spinse Stefano contro il muro. «Lasciala stare!»
Quello gli sorrise e lo afferrò per il collo, ma il bambino lo spintonò nuovamente.
Matteo gli arrivò alle spalle e gli mollò una manata sul fianco.
Stefano lo spinse Nicola contro il muro e gli tirò un pugno nello stomaco, facendolo piegare sul pavimento senza fiato.
«Cosa credi di fare, puzzola?» chiese Stefano, sprezzante. «Vuoi salvare la tua fidanzatina?» Tirò violentemente i capelli a Gloria e la spinse così forte contro il muro, che una ciocca di capelli gli rimase in mano. «Quasi quasi mi faccio una parrucca.»
Matteo scoppiò a ridere. «Stè, facciamo una gara?»
«Che gara?»
«Li afferriamo e li lanciamo contro le sedie.»
«Come il bowling?»
«Sì, come il bowling.»
«Bello! Facciamolo!»
Mentre i due bulli prendevano Nicola e Gloria per i capelli, i bambini si allontanarono dalla tv, sistemarono tutte le sedie a dieci metri dai bulli e si posizionarono ai lati, eccitati.
I bulli li trascinarono per tutta la stanza come trofei di guerra.
«Mattè, prima facciamo stretching.»
«E che sarebbe?»
«Tu muoviti.»
«Dai, Stè, facciamo 'sti tiri! Lo stecing non ci serve.»
«Stretching, non stecing.»
«Lancio per primo.» Nicola stava per alzarsi, ma Matteo gli tirò un pugno in pancia e guardò l'amico bullo. «Stè, la puzzola pesa di meno di Nicola. Facciamo a cambio.»
«No, Mattè. Tu sei ciccione. Hai più forza.»
Matteo ci pensò su. «Non sono ciccione, ma muscoloso. Guarda!» Afferrò Nicola per i capelli e lo lanciò contro le sedie.
I bambini esultarono estasiati.
Nicola superò le sedie e si schiantò contro il muro.
Matteo pompò i bicipiti grassi. «L'ho fatto finire anche contro il muro! Sono fortissimo!»
Gloria cercò di scappare, ma Matteo la prese per i capelli e le tirò uno schiaffo in faccia «Forse l'ho colpita troppo forte.»
«Stè, sei proprio scemo. Ho vinto io.»
«Non vale. Non ho nemmeno tirato e poi non hai fatto cadere tutte le sedie!»
Matteo afferrò Nicola per un piede e lo trascinò per tutta la stanza. «Sono il migliore! Ho vinto! Ho vinto!»
Stefano corrugò le sopracciglia e si voltò verso i bambini. «Posizionate le sedie!»
Quelli ubbidirono in tutta fretta, intimoriti.
«Ora toglietevi di mezzo!» Appena Stefano sollevò Gloria per lanciarla contro il muro, si udì una porta sbattere nel corridoio. Matteo e Stefano mollarono la presa e raggiunsero in tutta fretta la tv insieme agli altri bambini.
La suora entrò e si fermò sotto la porta a osservare con fare apatico Nicola e Gloria in lacrime sul pavimento.




 

8


Nei mesi successivi i due bulli continuarono a tormentarli, a picchiarli, a chiamarli i fidanzatini puzzoni.
Nicola e Gloria non reagivano e se ne stavano in un angolo, in silenzio. La suora andava via molto raramente e c'erano giorni in cui rimaneva tutto il giorno con i bambini, senza mai dormire o mangiare. Li fissava seduta accanto alla porta immobile come un Gorgoyle, lo sguardo austero. I bambini le giravano alla larga e giocavano in silenzio per non disturbarla. Matteo e Stefano si erano via via calmati, ma non smisero di prendere in giro Gloria e Nicola, sempre più isolati da tutti.
Nuove famiglie tornarono a fare capolinea e molti bambini furono adottati. Il dormitorio era diventato così silenzioso, che di notte Nicola sentiva il respiro pesante della suora seduta nel solito angolo buio.
Poi Gloria fu nuovamente adottata e Nicola restò da solo. E quando anche Stefano e Matteo furono adottati, esplose in preda alla rabbia.
Gridò, strappò le lenzuola dal letto, le gettò in aria, ribaltò il materasso e la rete del letto. Aveva perso il controllo. Non era giusto che due bulli venissero adottati prima di lui.
La suora gli arrivò alle spalle, gli mollò un ceffone, gli torse un orecchio e lo condusse in soffitta. Lui scalciava e si dimenava per liberarsi, ma la suora era troppo forte. Poi la porta della soffitta gli si chiuse alle spalle e la luce si spense.
Il bambino chiuse gli occhi e pianse, rannicchiato con le spalle alla porta. Perché nessuno voleva adottarlo? Perché adottavano sempre gli altri? Persino i due bulli come Stefano e Matteo erano stati scelti. Mentre singhiozzava, qualcosa si mosse in cima alla scala e si zittì. Non aveva il coraggio di aprire gli occhi e alzare la testa. Doveva stare fermo, aspettare che la suora lo venisse a prendere, ma per quanto tempo sarebbe stato lì? Sapeva di essersi comportato male, quindi non sperava di uscirne presto.
I passi scendevano i gradini, il legno scricchiolava. Nicola affondò la faccia tra le ginocchia. Voleva fuggire, gridare, battere i pugni sulla porta, ma nessuno sarebbe venuto in suo aiuto. Doveva rimanere immobile, estraniarsi, essere mentalmente da un'altra parte. Quando i passi si fermarono davanti a lui, si bagnò i pantaloni. Pensò subito alla suora che lo avrebbe picchiato. Non sapeva se era peggio lei o il fantasma della soffitta.
Poi i passi risalirono i gradini e si persero nella soffitta.
Nicola tirò un sospirò di sollievo e restò immobile, cercando di proiettare la sua mente altrove. Immaginava di nuovo quella famiglia, si sforzava di scorgerne i visi opachi, ma vedeva solo i loro sorrisi, le loro mani, seduti nel parco davanti all'orfanotrofio.
Poi si udì un forte tonfo dalla soffitta. Trasalì e uno strano formicolio si espanse in tutto il corpo. Cos'era caduto? Era stato il fantasma? I fantasmi potevano cadere? No, erano incorporei, non potevano cadere.
Più ci rifletteva, più non aveva il coraggio di aprire gli occhi. Voleva restarsene da solo in silenzio seduto di schiena contro la porta, aspettando che la suora lo portasse via.
I passi ritornarono.
Non camminavano più sul legno, ma riverberavano come fossero in una grande sala. Forse era un altro fantasma? Oppure lo stesso di prima? Non voleva pensarci.
Immaginò la famiglia dai volti sfocati e cercò di scacciare via il terrore che lo attanagliava.
Quando i passi scesero dalla soffitta, la porta si spalancò e la luce del corridoio squarciò l'oscurità della scala.
La suora torreggiava su Nicola, che improvvisamente si sentì indebolito. Aveva molta fame e sete e le gambe sembravano non rispondere. Cosa gli stava succedendo? Perché si sentiva così?
La suora lo condusse nel dormitorio, dove pochi bambini dormivano nei letti. Mentre lui si coricava, la suora si sedette nel solito angolo buio.




 

9


Il mattino seguente Nicola era più debole del giorno precedente. Un forte mal di pancia lo aveva piegato in due con lo stomaco che gorgogliava senza sosta. Non capiva se aveva fame, oppure qualcos'altro.
I bambini, una decina in tutto, gli si affollarono intorno con fare curioso.
«Sei mancato per tre settimane. Dove sei stato?»
«Eri in soffitta, vero?»
«Eri stato adottato? Non ti hanno voluto più?»
Nicola li guardava, confuso. Per lui era passata solo mezz'ora. Come poteva essere stato lì per tre settimane? Era impossibile.
Si girò dall'altra parte e si contorse per i lancinanti dolori all'addome.
Una bambina avvisò la suora, che arrivò con un bicchiere di liquido violaceo. Nicola lo bevve tutto d'un sorso, resistendo a non vomitare per il disgusto.
Il mese seguente, tutti i bambini furono adottati e Nicola restò solo con Gertrude, la bambina che aveva chiamato la suora. I due si costrinsero a parlare, a fare amicizia.
«Un giorno andrò in bicicletta, sai» disse Gertrude. «La voglio gialla con un campanellino sul manubrio.»
«Buon per te» rispose Nicola, che guardava dalla finestra i due vecchietti vagabondare nel parco.
«Sei mai andato in bici?»
«No.»
«Ti piacerebbe andare?»
Lui le lanciò un'occhiata. «Non so nemmeno cos'è una bici.»
«Ma hai detto che non ci sei andato.»
«Infatti, perché non so cos'è»
Restarono in silenzio per un momento.
Gertrude gli si fermò accanto. «Che colore ti piace? A me piace il giallo.»
«Il verde.»
«A me il verde non piace.»
«Ok.»
La bambina si accigliò. «Sei antipatico, sai.»
«Anche tu.»
Passavano il resto delle giornate a scambiarsi sguardi fugaci, alcune volte a ignorarsi, ma non si allontanavano mai l'uno dall'altra.
La suora si assentava spesso e c'erano giorni che appariva soltanto per portarli alla mensa. Di notte erano quasi sempre da soli e capitava, seppur raramente, di vederla seduta al solito angolo come uno spettro. I due bambini non la sentivano mai entrare o uscire. Sembrava apparire dal nulla e questo li spaventava.
Un sabato mattina la bambina fu portata al primo piano. Nicola si precipitò alla finestra del dormitorio e osservò lo spiazzo, dove le nuove famiglie parcheggiavano le auto. Era vuoto e questo lo turbò non poco. La sua nuova famiglia affidataria doveva essere venuta a bordo di un veicolo, ma allora dov'era?
I due anziani arrivarono, vagabondarono nel parchetto per un lungo momento e andarono via.
Nicola passò tutto il pomeriggio e la sera affacciato alla finestra. Sperava di vedere Gertrude uscire con la sua nuova famiglia, ma lei non lasciò mai l'orfanotrofio.




 

10


La porta cigolò. La suora andò a sedersi al solito posto e fissò Nicola con occhi spiritati.
Il bambino rabbrividì e spostò lo sguardo fuori dalla finestra, mentre il sole rosso-arancio veniva lentamente inghiottito dalla nebbia.
Allo scoccare delle nove, Nicola si infilò sotto le coperte. Fuori pioveva e lui osservava le gocce scivolare lungo il vetro della finestra. Pensava a com'era stata fortunata Gertrude ad essere stata adottata. Nessuno si era mai interessato a lui e forse nessuno lo avrebbe mai fatto.
Si girò sul fianco e iniziò a piangere in silenzio. Ogni tanto, senza accorgersene, lasciava partire un forte singhiozzo. E in quel momento credeva che la suora tirasse via le coperte e lo rinchiudesse in soffitta per aver interrotto il silenzio.
Non lo voleva nessuno. Era una nullità, non sarebbe mancato a nessuno e nessuno si sarebbe accorto della sua scomparsa. Le lacrime fluivano abbondanti sul viso e il muco colava dal naso. Poi si addormentò, cullato dal suono della pioggia che picchiettava contro il vetro della finestra.
Nicola passò ventuno giorni in completa solitudine. Aveva bisogno di compagnia e si era messo a parlare da solo, immaginando risposte e argomenti di conversazione. Ma ogni discorso sembrava troppo pilotato, artificiale. Aveva persino pensato di parlare alla suora, ma la donna non c'era quasi mai e la vedeva soltanto di notte. Alla fine, spinto dalla disperazione, si avvicinò nell'angolo dov'era seduta. «Vuoi parlare con me?»
La suora sbarrò occhi spiritati come se gli avesse detto qualcosa di orrendo, gli tirò un ceffone, gli torse un orecchio e lo chiuse in soffitta. Nicola non aveva fatto resistenza. Anzi, voleva incontrare il fantasma. Forse gli avrebbe parlato, stretto amicizia e magari si sarebbe persino divertito. Meglio lui, che nessuno. Non sopportava più la solitudine. Salì la scala con una mano poggiata sul muro e raggiunse la soffitta. Il silenzio e l'oscurità erano totali, inquietanti. Ogni tanto le assi del pavimento scricchiolavano e qualcosa zampettava nelle pareti.
Sentì i passi.
Il bambino camminò a tentoni nella soffitta, sbattendo e facendo cadere diversi scatoloni. Il rumore gli faceva schizzare il cuore in gola ogni volta che si scontrava contro qualcosa.
Uno strano mormorio arrivò da più punti nella soffitta e i passi diventarono più pesanti. Il bambino si sentiva vulnerabile in quella fitta oscurità, ma continuava a muoversi. La voglia di parlare con qualcuno era più forte della paura.
Il mormorio lasciò il posto a una serie di voci profonde e gutturali. Si avvicinavano a lui da ogni direzione. Chiuse gli occhi, si rannicchiò in posizione fetale e si tappò le orecchie con le mani, ma le voci non si affievolivano. Provenivano dalla sua mente. Era terrorizzato. Cominciò a sentire uno strano formicolio in testa, quando una luce rossastra sventrò il buio.
Mantenne gli occhi chiusi. Aveva creduto di non avere paura, invece ora si ritrovava a volere uscire dalla soffitta. Da dietro le palpebre chiuse vedeva il rossore della luce, come se li tenesse chiusi verso il sole.
Aprì un poco gli occhi e scorse una figura sfocata immersa in una flebile foschia rossastra che fuoriusciva dal pavimento.
Era alta quanto lui e tutto il suo corpo sembrava l'ombra proiettata di un uomo.
Pensò a Tommaso, scomparso dopo che era stato condotto in soffitta. Forse era lui quella sagoma o il primo bambino morto. No, la sagoma era alta e snella. Doveva essere qualcun altro.
La figura si diresse verso di lui con passo lento, quasi a rilento. Poi il suo corpo cominciò a vibrare, come un segnale tv disturbato. Si fermò davanti a Nicola, che non riusciva mettere a fuoco la faccia. La sagoma gli puntò il dito in faccia e bisbigliò qualcosa.
Il bambino non capiva. Le parole gli arrivavano distorte, al contrario. Aveva già udito qualcosa di simile quando la suora li portava raramente in sala comune a vedere un cartone animato. Il fantasma non muoveva la bocca, ma si limitava a fissarlo, a puntargli un dito. Nicola era troppo spaventato per rispondere o fuggire e non si sentiva nemmeno le gambe, che parevano due blocchi di cemento.
La nebbia rossastra si dissolse.
Il fantasma smise di sussurrare, abbassò il dito, indietreggiò e svanì nella nebbia. Nicola restò seduto sul pavimento, mentre i passi tornarono a muoversi nella soffitta.




 

11


La suora lo venne a prendere e lo portò in dormitorio, dove il bambino si era aspettato ingenuamente di trovare altri bambini. Sapeva che era rimasto da solo, ma aveva sperato che nel frattempo fosse arrivato qualcuno. Andò alla finestra e guardò fuori.
I due anziani vagabondavano nel parco. Si voltò verso la suora, seduta al solito posto con lo sguardo inespressivo. Voleva chiederle quanti giorni fossero passati da quando lo aveva rinchiuso in soffitta. L'ultima volta erano passate tre settimane, ma a lui era sembrato mezz'ora. Le lanciò un'occhiata. Forse era meglio non chiederle niente.
Si voltò verso la finestra. I due anziani erano andati via.
Passarono tre mesi e arrivò maggio. La solitudine era diventata una compagna fedele per Nicola, che passava i giorni vicino alla finestra a immaginare come sarebbe stato giocare in quel parco. Si vedeva fare su e giù con l'altalena, scivolare sullo scivolo, correre qua e là fino a stancarsi. Ci vedeva anche la sua famiglia immaginaria e Gloria, la sua migliore amica, che gli mancava tanto. Spesso si domandava cosa stesse facendo, se era felice, se era nei suoi pensieri. Voleva incontrarla, parlarle o anche stare in silenzio in sua compagnia, come accadeva spesso. Ma sapeva che non sarebbe mai successo, quindi doveva eliminare certi pensieri dalla testa o lo avrebbero annientato.
La suora non c'era quasi mai, se non la sera in cui appariva e spariva dal suo solito posto come per magia. A volte Nicola si chiedeva se fosse reale o solo frutto della sua immaginazione, poi pensava a tutte le volte che aveva picchiato lui e gli altri bambini e smetteva di pensarlo. C'erano notti in cui il bambino, con le lenzuola tirate fin sopra il naso, cercava con lo sguardo la suora e si addormentava scorgendo vagamente la sua sagoma nel buio. Era l'unica persona che gli era rimasta da quando tutti i bambini erano stati adottati, a parte i due vecchietti nel parco. Si era persino chiesto se nell'orfanotrofio ci fosse qualcun altro oltre loro, perché non sentiva nessuno ai piani superiori o inferiori. Nessun neonato che piangeva, nessuna voce, nessun rumore.
Solo lui e la suora.
Una domenica, mentre era da solo nella sala comune, aprì la finestra e gridò verso i due anziani che vagavano nel parco. Quelli si voltarono verso di lui e lo guardarono per un momento, poi ritornarono a girovagare in tondo.
Nicola urlò più forte, gli occhi e il viso bagnato dalle lacrime. Quelli lo ignoravano. Si sedette sulla finestra, quando qualcosa lo tirò all'indietro e lo face cadere di spalle sul pavimento. La suora gli mollò due ceffoni in faccia con lo sguardo spiritato, gli torse un orecchio e lo trascinò in soffitta.
Il bambino non oppose resistenza.
Aveva richiamato l'attenzione dei due anziani per poter parlare con loro e ora poteva farlo con il fantasma sussurratore, come lo aveva rinominato.
Prima sentì lo scricchiolio del pavimento e lo zampettare frenetico nelle pareti, poi i soliti passi. Salì la scala con una mano poggiata sul muro e subito un mormorio si espanse tutt'attorno.
«Ciao...» disse Nicola, intimorito.
Nessuna risposta.
Ci riprovò alzando la voce e il mormorio gli si strinse attorno, mentre una nebbia rossastra fuoriusciva dal pavimento. La sagoma vibrante gli apparve di fronte e gli allungò una mano. Il bambino la fissò per un attimo. E quando la sfiorò, quella cosa si lanciò contro di lui a una velocità impressionante e gli entrò negli occhi, facendolo crollare al suolo.
Nicola si svegliò nel letto del dormitorio.
Scorse la suora accanto a lui, che lo guardava con occhi spiritati. Sussultò nel vederle l'iride tutta nera e il viso puntellato di macchie e bubboni violacei. Chiuse gli occhi e cercò di svegliarsi. Appena li riaprì, la suora era ancora lì. La fissò nuovamente. Aveva qualcosa di diverso. Non gli sembrava più la stessa suora, anche se era fisicamente uguale. C'era qualcosa di terrificante nei suoi occhi, nel suo viso, qualcosa di demoniaco. Non erano mai stati di quel colore e ora non ricordava nemmeno di che colore fossero, come non ricordava neanche la faccia.
Il bambino abbassò lo sguardo. Lei si alzò e andò a sedersi al solito posto.
Nicola passò tre settimane con quella che sembrava un mostro. Più passavano i giorni, più la suora perdeva l'aspetto di un essere umano. La pelle le era diventata violacea, butterata, piena di bubboni e macchie. Gli occhi neri e infossati e il mento poco sporgente. Le labbra si erano ritirate, mostrando gengive e denti storti e giallastri. La metamorfosi era avvenuta lentamente, giorno dopo giorno.
Il bambino si chiese più volte se fosse caduto in un incubo senza fine o se fosse morto.
Pensò che la solitudine lo stesse facendo impazzire, che gli stesse facendo vedere cose che non esistevano, ma il suo istinto gli diceva che era tutto reale. Stava guardando il mondo con occhi diversi, senza filtri.
Si girò sul fianco e chiuse gli occhi, ma il sonno non venne. Era troppo teso, troppo spaventato. Aveva ancora davanti agli occhi la faccia mostruosa della suora. Credeva che si sarebbe avvicinata di soppiatto e lo avrebbe divorato. Si voltò verso di lei, seduta al buio con le mani incrociate sul grembo. La fissò con le coperte tirate fin sopra il naso, finché si addormentò.




 

12


Un martedì mattina di un giugno freddo e ventoso, Nicola trovò Gloria nella sala comune. Era cresciuta un po' dall'ultima volta che l'aveva vista. Aveva i capelli un poco corti e tagliuzzati male e lo sguardo spento, vacuo.
Il bambino aveva le lacrime agli occhi. «Gloria!»
Lei si limitò a fissarlo.
Lui l'abbracciò. «Perché sei qui? Cosa è successo?»
La bambina alzò le spalle come se le costasse una gran fatica.
«Ti hanno lasciata qui? Non ti vogliono più?»
Gloria si limitava a fissarlo.
Nicola continuò a farle le stesse domande, finché si arrese e restarono insieme in silenzio.
Nei giorni successi la suora tornò a prendere Gloria. La portava ai piani inferiori alle sei di sera e la riportava al dormitorio alle nove. E ogni volta se ne veniva esausta e pallida, come se le avessero prosciugata l'energie.
Nicola desiderava tempestarla di domande, chiederle cose facesse con la suora là sotto, ma la bambina voleva starsene da sola.
Spesso la notte la sentiva singhiozzare sotto le coperte. Non sapeva se piangeva o rideva, perché si copriva la testa con le lenzuola.
Una mattina, mentre ritornava dalla mensa diretto al dormitorio, vide Gloria seduta sul bordo della finestra. Guardava in direzione del parco. Il bambino lanciò uno sguardo verso la sedia vuota della suora e si avvicinò alla bambina. Scorse i due vecchietti che la stavano fissando in modo inquietante.
Nicola si accigliò, turbato. Non gli piaceva affatto il modo in cui la guardavano. «Scendi, o potresti cadere.»
Gloria non gli rispose.
Il bambino la prese da sotto le braccia, la portò dentro e chiuse la finestra. Quando si girò verso Gloria, sobbalzò. La suora era alle sue spalle. Il suo viso mostruoso gli ricordava un demone di un fumetto. E dietro le spalle della donna, aleggiava un'oscurità impenetrabile, come le pareti nere dello stanzino in cui era stato curato.
Poi l'oscurità si dissolse.
La suora li schiaffeggiò, torse loro l'orecchio e li trascinò in soffitta.
Era la prima volta che Gloria si ritrovava in quel posto. Scoppiò a piangere e abbracciò Nicola, che restò sorpreso.
Subito si udirono gli stivali camminare sulla ghiaia e la bambina si strinse al bambino con tutte le forze.
«Stai calma» disse Nicola in tono rassicurante. «Non avere paura. Andrà tutto bene.»
Lei non si calmò.
I passi cominciarono a scendere i gradini, il legno scricchiolava. Gloria affondò la faccia nel petto del bambino.
Nella soffitta scese un tetro silenzio, poi la bambina urlò. Qualcosa la afferrò per i capelli e la trascinò lungo la scala. Nicola le corse dietro e inciampò sui gradini. «Lasciala andare!»
Le urla di Gloria cessarono di colpo.
Il bambino raggiunse la soffitta e restò immobile nel buio. Non sapeva cosa fare, aveva paura. Tutto era immerso in una quiete inquietante. Era abituato al mormorio, alla nebbia rossastra che fuoriusciva dal pavimento, alla sagoma vibrante, ma ora era da solo. Dov'era finita Gloria? Era stato il fantasma a rapirla? Forse la bambina aveva perso i sensi lì da qualche parte.
La cercò nella soffitta, sbatté contro gli scatoloni, ne face cadere qualcuno. Più proseguiva, più gli sembrava di camminare all'infinito. Era terrorizzato.
«Gloria! Dove sei?» gridò con tutta la voce che aveva in corpo. «Gloria!»
Nessuna risposta.
Continuò a muoversi in quella fitta oscurità per molti minuti, quando la luce della scala squarciò il buio e lo accecò. Si coprì gli occhi con le mani.
Non era possibile. Era rimasto fermo per tutto il tempo, eppure aveva camminato molto. Forse aveva girato in tondo? Anche quello era impossibile. Sarebbe inciampato sugli scatoloni contro cui si era scontrato poco prima, invece andava a sbattere verso altri scatoloni o si muoveva in una soffitta che sembrava continuare all'infinito.
La suora salì la scala, si fermò sulla soglia e lo fissò con occhi mostruosi.
«Gloria è sparita» disse Nicola in preda al panico.
La suora lanciò uno sguardo a Gloria, che se ne stava in piedi accanto a Nicola. Quello sobbalzò per lo spavento e la squadrò, confuso. Era sparita. L'aveva sentita gridare, venire trascinata sulla scala. Come poteva essere di fianco a lui?
«Dov'eri finita?» chiese, preoccupato. «Ti ho cercata dappertutto. Come stai? Stai bene?»
La bambina si limitò a fissarlo.
Nicola stava per farle un'altra domanda, quando la suora li afferrò per le braccia e li condusse nel dormitorio.




 

13


Quella notte Nicola osservò Gloria alzarsi dal letto e danzare tra i letti vuoti del dormitorio.
La suora sedeva nel solito angolo buio. Il bambino non sapeva se fosse sveglia, ma doveva esserlo, perché lei non dormiva mai. Non ne era certo, ma doveva essere così. Allora perché non si era alzata per punire Gloria?
Quando scoccavano le nove, tutti i bambini dovevano trovarsi sotto le coperte. Era una regola che esisteva da sempre e la suora puniva duramente chi non la rispettava, ma non punì Gloria.
Forse c'entrava il fatto che si era trasformata in un demone dalla pelle ruvida e violacea? Spesso si domandava perché non provasse più terrore nel vederla. Poi Gloria si coricò accanto lui e trasalì. Lanciò un'occhiata alla suora, che se ne stava seduta al solito posto come uno spettro annidato nell'ombra.
Nicola si voltò verso la bambina, che aveva gli occhi tirati all'indietro e un sorriso sinistro sulle labbra. Il bambino la fissava, terrorizzato. Non poteva scendere dal letto, perché sapeva che la suora lo avrebbe punito. E se invece non lo avesse fatto?
La bambina scattò verso il suo orecchio. «Arig e arigir, iel is anicivva. Arig e arigir, ottut arips. Arig e arigir, occe ehc avirra. Arig e arigir, al etrom adirg.»
Gli gelarono le carni. Era la cantilena inquietante che cantavano i bambini piccoli, solo che le parole erano invertite.
Gloria smise di cantare e gli annusò il collo e la faccia.
Nicola saltò giù dal letto e la bambina si mise a quattro zampe, la faccia contratta in un espressione animalesca, i denti in mostra, la saliva che colava dalla bocca semi-aperta, la testa preda di tic nervosi.
La suora si alzò dalla sedia e si diresse verso il bambino con passo pesante, che si precipitò alla finestra e la spalancò. Restò sorpreso nel vedere i due vecchietti vagabondare nel parco in piena notte. Poi si arrampicò sulla finestra e si voltò verso Gloria, che gli saltò addosso. Precipitarono lungo i rami dell'alto pino che rallentò la loro caduta. Poco prima di toccare l'erba, restarono impigliati tra le fronde.
Nicola si districò rapidamente dal groviglio e corse verso il muro perimetrale dell'orfanotrofio. Gloria si liberò poco dopo e gli corse dietro a quattro zampe come un lupo affamato.
Il bambino superò i due vecchietti, che sembravano due ombre proiettate sul terreno. Si arrampicò sul basso muro e guardò verso l'orfanotrofio. L'edificio spiccava tetro sotto un cielo stellato la cui luna si nascondeva dietro un ammasso di nuvole all'orizzonte. Le pareti annerite e piene di muffa, erano percorse da numerose e lunghissime crepe che in alcuni punti si aprivano in veri e propri squarci. Alcune finestre erano sbarrate da assi marcie e altre erano scure come buchi neri. Una dozzina di gargoyle puntellavano i cornicioni in pose mostruose e minacciose, pronte a scattare verso di lui.
Nicola sbarrò gli occhi, spaventato. Non poteva credere di aver vissuto in un edificio del genere. All'interno era tutto curato, pulito. C'era sempre odore di candeggina, di alcool etilico e anche di medicinali. Non era possibile che l'esterno fosse così decadente, spettrale.
I due anziani si voltarono e scattarono nella sua direzione con una rapidità e una leggerezza inquietante, impossibile per la loro età.
Il bambino saltò dall'altra parte del muro e corse lungo il vialetto di ghiaia cinta da grovigli di alberi morenti e cespugli ingrigiti. Quando arrivò sulla strada asfaltata, la seguì fino a raggiungere Santa Margherita.
Bussò velocemente a tutte le porte che vedeva. «Aiuto! Aiutatemi, vi prego! Aiuto!»
Nessuno apriva, nessuno rispondeva. Dietro le tapparelle abbassate non c'era nemmeno una luce accesa. Tutto era fermo, vuoto. Un paese fantasma.
Lasciò quel paesino desolato e avvolto da una fitta nebbia e si inoltrò nel bosco, i fasci della luna che filtravano tra i contorti e spogli rami degli alberi. Corse in preda alla disperazione per molto tempo, finché i polmoni iniziarono a bruciargli e si piegò sulle ginocchia per riprendere fiato.
Tutt'attorno il vento ululava, minaccioso. Dov'era finito?
Si guardò intorno, tutto gli pareva uguale. Gli alti pini si allungavano al cielo, piccoli avvallamenti e cunette puntellavano il terreno scosceso e numerosi cespugli formavano un impenetrabile muro naturale. Sembrava che qualcuno avesse preparato quella stradina per lui.
D'un tratto si udì un mormorio impercettibile, parole al contrario, distorte, che lasciarono il posto a un inquietante cantilena.
«Gira e rigira, lei si avvicina. Gira e rigira, tutto spira. Gira e rigira, ecco che arriva. Gira e rigira, la morte grida.»




 

14


Si lanciò verso un'altra corsa disperata. Questa volta non fece molta strada, perché sentiva le gambe tremargli per la fatica e un saporaccio ferreo in bocca. Si arrestò davanti a un grosso macigno e guardò il terreno che si elevava gradualmente. Era esausto, non ce l'avrebbe fatta a salire.
Proseguì parallelamente fino ad arrivare davanti a un ruscello, dove l'acqua sgorgava da una stretta fessura nella parete rocciosa. Scorse una stretta scalinata sul fianco della roccia che saliva in alto. Gettò un ultimo sguardo alle spalle e salì i gradini con gran fatica.
In cima c'era una capanna di tronchi cinta da erbacce, arbusti e alti pini. Un'alta parete rocciosa saliva alle spalle dell'edificio e si allargava tutt'attorno come una specie di cinta muraria naturale. Una luce fioca brillava tra le finestre.
Nicola si avvicinò a una finestra senza fare rumore, si appiattì contro la parete di legno e sbirciò all'interno. Un uomo calvo sedeva a un tavolo polveroso su cui era posta una candela. Il bambino fu tentato di battere i pugni sul vetro e richiamare la sua attenzione, ma non lo fece. Restò a osservarlo per un lungo momento, poi andò alla porta e girò la maniglia.
Entrò in un piccolo corridoio dal nauseabondo odore di muffa. Quando si affacciò nel piccolo soggiorno, l'uomo non c'era più. Dov'era andato? Lo avevo sentito arrivare?
Mentre si guardava intorno, una sagoma scattò rapidamente da una stanza all'altra del corridoio. Nicola sussultò per lo spavento e fermò sul nascere un piccolo grido. Sentiva lo stomaco attorcigliarsi, la paura trasformarsi in panico, ma si calmò e proseguì nel corridoio. Sbirciò nella stanza in cui era entrato l'uomo. Era vuota. Solo una candela di sego su un comodino cosparso di ragnatele e polvere illuminava debolmente l'ambiente. Nicola cominciò a tremare. Quella stanza non gli piaceva affatto. C'era qualcosa di terrificante nell'aria, qualcosa che non riusciva a vedere.
Si precipitò verso la porta d'ingresso con la mente attanagliata dalla paura.
Appena ci arrivò vicino, quella gli si chiuse violentemente in faccia. Il bambino si pietrificò, il cuore che gli implodeva nel petto. Si voltò per cercare un'altra uscita, quando scorse l'uomo calvo immobile nella penombra in fondo al corridoio. La luce che poco prima proveniva dalla stanza vuota, si spense e la candela che illuminava il soggiorno fremette come colpita da una folata invisibile, gettando ombre inquietanti sul muro del corridoio.
L'uomo si mosse lentamente verso il bambino, che corse in soggiorno e si nascose dietro il tavolo. Restò fermo per un momento. Gli sembrava di essere in un incubo, non poteva essere vero. Queste cose non potevano capitare anche fuori dall'orfanotrofio.
Quando non sentì più la sagoma avvicinarsi, alzò la testa e guardò in soggiorno. Non c'era nessuno. Così si alzò piano e si diresse nella piccola cucina dalle pareti annerite dal fuoco e il pavimento squarciato a colpi di piccone. Al centro c'era un grosso buco che scendeva nell'oscurità. Il bambino lo fissò per un momento, poi ci girò attorno. Appena arrivò vicino alla finestra spalancata da cui entrava un leggero venticello gelido, qualcosa lo afferrò per la caviglia e lo trascinò giù nel cunicolo. Nicola gridò per il terrore, finché sbatté la testa contro la parete rocciosa e perse i sensi.




 

15


Quando riaprì gli occhi, era steso sul letto del dormitorio con un gran mal di testa e una leggera nausea. Pensava di aver fatto un brutto incubo.
Lanciò uno sguardo alla finestra dove era caduto insieme a Gloria e la trovò chiusa. Poi fissò il letto della bambina che dormiva su un fianco con la faccia rivolta verso di lui. E si chiese se avesse fatto davvero un incubo o se fosse stato tutto reale?
Si voltò istintivamente verso la suora, che sedeva nel solito angolo buio. Si tirò le coperte sopra la testa e pensò al suo incubo. Come poteva essere stato un sogno? La paura era stata reale, niente a che vedere con i soliti tormentati incubi. La fuga dall'orfanotrofio, quell'orrendo capanno ai piedi di una parete rocciosa e l'uomo calvo che lo aveva trascinato nel cunicolo. Si portò una mano nei capelli e smorzò un gemito quando sfiorò il punto in cui aveva sbattuto la testa. Non era stato un sogno, era successo davvero. La ferita era una prova inconfutabile.
Respirò piano sotto le coperte mentre pensava a un nuovo piano di fuga. Questa volta non si sarebbe avventurato nei boschi, ma avrebbe seguito la strada asfaltata. Forse lo avrebbe condotto alla città vicina o da tutt'altra parte. Ma dovunque lo avesse portato, era sempre meglio dell'orfanotrofio.
Ormai sapeva che c'era qualcosa di strano in quelle quattro mura, a partire dalla suora dal volto demoniaco, la soffitta infestata, i due vecchietti nel parco e la solita e strana gente che veniva spesso ad adottare i bambini. E poi c'era Gloria che era cambiata in modo inquietante. Le era successo qualcosa di orribile dai suoi andirivieni con la suora ai pieni inferiori. E se non si fosse dato una mossa, molto presto avrebbe fatto la stessa fine.
Lo sentiva nelle ossa, nelle viscere, nello stomaco attorcigliato dalla paura. Doveva fuggire.
Il mattino arrivò senza che il bambino avesse chiuso occhio. La suora accompagnò lui e Gloria a fare colazione, poi li lasciò nella sala comune e andò a sedersi più in là. I bambini non si parlavano da quando Nicola era fuggito dell'orfanotrofio e nessuno dei due era intenzionato a farlo. Gloria non ricordava nemmeno cosa fosse successe quella notte.
Il bambino raggiunse la finestra e guardò fuori. C'era un albero lì vicino che poteva usare per scendere, ma non era così vicino come quello che stava fuori dal dormitorio. Non ci sarebbe mai arrivato con un piccolo salto. Si girò verso la suora, che era sparita nel nulla. Quindi guardò Gloria seduta in un angolo che batteva le mani nel vuoto, come se stesse giocando con un amico immaginario.
Si diresse alla porta d'ingresso, l'aprì e lanciò un'occhiata nel corridoio vuoto. Poteva correre e raggiungere il dormitorio, ma qualcosa gli diceva di non farlo. Guardò la porta delle scale che portavano ai piani inferiori e, prima che se ne rendesse conto, le sue gambe correvano già in quella direzione, i passi che echeggiavano nel corridoio. Girò la maniglia e scese in tutta fretta la tromba delle scale, fermandosi davanti alla prima porta socchiusa del pianerottolo. Oltre quella, dopo tanto tempo, sentì un neonato piangere.
Restò, sorpreso. Non gli sembrava possibile che ci fosse qualcuno. Forse se lo stava immaginando.
Mentre il neonato piangeva, scese le scale a due a due e arrivò al pianterreno. Si precipitò al portone d'ingresso e lo trovò chiuso. Premette con forza sulla maniglia, ma era bloccata. Non si muoveva nemmeno.
Era in trappola. Presto la suora lo avrebbe trovato e messo in punizione. Già assaporava l'odore della muffa che ammorbava la soffitta. E questa volta non sarebbe più uscito da lì. Non sapeva come faceva a esserne sicuro, ma l'istinto non lo aveva mai tradito.
Si guardò intorno con fare ansioso. C'era una porta socchiusa poco distante da cui filtrava un'intensa luce rossa. Non l'aveva mai vista prima d'ora. Era sceso solo due volte al pianterreno con la suora, ma non ricordava perché e quando era successo. E quella porta non era mai stata lì.
Si avvicinò alla porta con cautela. Una parte di lui gli diceva di non farlo, di tornare nel dormitorio e di nascondersi sotto le coperte. Forse la suora non avrebbe mai scoperto il suo tentativo di fuga. E se invece l'avesse già scoperto? E se si fosse già messa a cercarlo?
Doveva fuggire, allontanarsi il più possibile dall'orfanotrofio, magari raggiungendo il paese da cui partivano a capodanno i fuochi d'artificio. Forse lì sarebbe stato al sicuro.
Quando lanciò un'occhiata nella fessura della porta, sbarrò gli occhi. Una sagoma se ne stava immobile in fondo al corridoio, la testa afflitta da tic nervosi, le lunghe braccia che dondolavano lungo i fianchi. Era lo stesso essere del capanno, solo che ora sulla testa calva aveva delle numerose e spesse venature nere e due lunghe corna ricurve che gli spuntavano dalle spalle.
Nicola si nascose dietro la porta e spiò con un occhio. Cosa ci faceva quell'essere nel corridoio? Perché se ne stava fermo? Aspettava lui? Sapeva che sarebbe passato da lì? Se fosse così, allora la suora doveva essere sulle scale.
Si allontanò dalla porta e guardò attraverso la tromba delle scale, ma non vide nessuno dietro i corrimano di marmo.
Non sapeva cosa fare. Passare dal corridoio era impossibile. Quella cosa lo avrebbe preso, portato chissà dove o fatto chissà cosa. Rabbrividiva al solo pensiero.
Appoggiò un piede sul primo scalino e guardò il primo pianerottolo, drizzando le orecchie. Non sentiva nulla, forse non c'era nessuno.
Salì le scale.
Arrivato sul pianerottolo in cui aveva sentito piangere il neonato, si accorse che aveva smesso da un pezzo e non se ne era neanche accorto. Restò a fissare la porta per un momento, aspettandosi di vedere comparire la suora o una di loro, ma non successe.
Allora continuò a salire, raggiunse il pianerottolo del dormitorio e aprì piano la porta. Il corridoio era vuoto. I rami contorti di un albero grattavano il vetro delle finestre e si proiettavano come ombre sinistre sulle pareti. Un vento impetuoso si era innalzato là fuori e ululava tra gli spifferi delle porte e delle finestre.
Nicola rabbrividì e si incamminò lentamente lungo la parete del corridoio, senza distogliere lo sguardo dalle fronde dei rami che ondeggiavano al vento. Quando si fermò davanti all'ultima porta del corridoio, lanciò una rapida occhiata ai due corridoi laterali e varcò la soglia.
La suora non c'era.
Tirò un sospiro di sollievo e si precipitò a letto nascondendosi sotto le coperte, il cuore che gli batteva impazzito. Aveva rischiato grosso, ma ne era uscito indenne. Forse la suora non avrebbe mai scoperto il suo tentativo di fuga.
Chiuse gli occhi e immaginò la solita famiglia che tanto desiderava. Abbozzò un lieve sorriso, quando qualcuno tirò via le coperte e lo afferrò per un piede.
Nicola urlò per lo spavento e si dimenò per liberarsi dalla presa. La suora lo trascinò giù da letto con estrema facilità.
Il bambino scoppiò a piangere. «Non lo farò più, ti prego! Non lo farò più! Farò il bravo! Te lo giuro!»
La suora gli mollò uno schiaffo, gli tirò un orecchio e lo trascinò fuori dal dormitorio, poi lungo il corridoio che portava alla soffitta. Spalancò la porta, lo spinse dentro e la richiuse a doppia mandata.
Nicola gridò, pianse e picchiò i pugni contro la porta.
La luce si spense e lui si voltò verso le scale. Il vento fischiava tra gli spifferi della soffitta. Sapeva cosa sarebbe successo. Accadeva sempre.




 

16


Restò in silenzio, gli occhi arrossati, il viso rigato dalle lacrime. Dai gradini non proveniva nessun rumore, ma questo non lo tranquillizzava. Sapeva che il fantasma che viveva qui, sarebbe apparso. Lo faceva sempre, era solo una questione di tempo. Forse era già lì, forse lo stava già osservando.
Nicola si rannicchiò tra l'angolo della porta e il muro, le ginocchia strette al petto, la testa incassate nelle spalle, gli occhi chiusi. Respirava piano, quasi in modo impercettibile per paura di fare troppo rumore e disturbare il fantasma.
Ma quello era già in cima alle scale, il corpo che vibrava come lo schermo grigio di una tv. Quando posò il primo piede sul gradino, il legno scricchiolò in modo inquietante.
Il bambino sussultò, scattò in piedi e batté i pugni contro la porta. «Aiuto! Fatemi uscire! Aiuto!»
Il fantasma gli arrivò alle spalle con un forte rumore simile a un'interferenza radio. Era così potente, che Nicola si coprì le orecchie con le mani e si voltò a guardarlo.
Il fantasma gli posò una mano sulla fronte. «Guarda nell'ignoto e troverai la salvezza. Corri in un abisso e perderai te stesso» bisbigliò con voce limpida, pacata, amorevole.
Il bambino si ritrovò catapultato fuori dalla soffitta. Si guardò intorno, confuso. La porta dove la suora lo aveva spinto dentro, era chiusa. Da sotto la fessura giungeva una forte luce rossastra. Mentre la fissava affievolirsi, pensò alle parole del fantasma. Cosa significavano? E poi perché si è ritrovato dall'altra parte della porta? Lo voleva aiutare?
Quando la luce scomparve, Nicola proseguì lungo il corridoio e svoltò a destra. Le ombre dei rami sulle pareti e il vento che ululava negli spifferi lo inquietarono un poco, ma era deciso più che mai a fuggire. Avrebbe affrontato quell'essere al pianterreno e sarebbe fuggito dall'orfanotrofio. Mentre varcava la porta del corridoio che portava al dormitorio, la suora sbucò da un corridoio adiacente.
Il bambino si paralizzò per la paura. Come aveva fatto a sapere che era fuggito?
Quando lei svoltò a sinistra e sparì dietro una porta, comprese di aver pensato male. Tirò un sospiro di sollievo e continuò a camminare, finché si fermò davanti alla porta in cui era entrata la suora. Non sapeva cosa stesse facendo dentro, come non sapeva chi o cosa ci fosse all'interno.
A volte aveva la strana sensazione che l'orfanotrofio fosse vuoto, che gli unici a viverci erano i bambini e l'onnipresente suora.
D'un tratto si udirono alcuni passi dietro la porta.
Nicola scattò verso la tromba delle scale e scese rapidamente i gradini. Quando arrivò al pianterreno, lanciò uno sguardo al primo pianerottolo. La suora non lo aveva inseguito o forse non si era accorto di lui.
Si avvicinò alla porta ancora socchiusa e sbirciò dalla fessura. L'essere era ancora immobile in fondo al corridoio, solo che ora era seduto sui talloni, la testa china e tremante.
Il bambino lo guardò per un lungo momento. Il coraggio che lo aveva portato fin qui si era dissolto nel nulla. Non riusciva a muoversi. Lo fissava terrorizzato e sperava che l'essere andasse via, ma sapeva che non si sarebbe mosso da lì. L'istinto gli suggeriva di affrontarlo, che era l'unico modo per poter fuggire.
Ma come poteva un bambino affrontare una cosa così mostruosa?
Mentre rifletteva, udì qualcuno scendere le scale. Era la suora, doveva essere lei. Poteva riconoscere i suoi passi pesanti anche da lontano. Lo avevano traumatizzato fin da quando era qui e non poteva sbagliarsi. Lo stava cercando?
Fissò le scale in preda al panico. Era intrappola. L'unico modo per allontanarsi da lei era correre incontro all'essere. Ma anche quello avrebbe cercato di prenderlo.
La suora si fermò sul pianerottolo e lo fissò con fare austero.
Il bambino spalancò la porta e corse nel lungo corridoio. L'essere se ne stava fermo e non sembrava essersi accorto di niente.
Mentre Nicola correva, aveva la strana sensazione di rimanere sempre nella stessa posizione. Lanciò un'occhiata alle spalle e la porta si allontanava ad ogni falcata. Allora perché sembrava non arrivare mai dall'altra parte? Perché l'essere non si muoveva?
Continuò a correre, il cuore che batteva impazzito, il sudore che rivolava dalla fronte, bocca e labbra asciutte. L'essere rimaneva immobile, la testa che fremeva senza sosta.
La suora si fermò sotto la soglia e fissò Nicola. Quello correva come un matto verso la fine del corridoio, ma le pareti e il pavimento si allungavano ad ogni passo. Com'era possibile?
Il bambino rallentò l'andatura, le gambe gli dolevano, i polmoni gli bruciavano. La suora si diresse nella sua direzione con passo pesante, lo sguardo spiritato. Nicola gettò un'occhiata alle sue spalle e aumentò la corsa per paura di essere preso.
Mentre proseguiva, una macchia scura apparve a lato del muro. Era un cerchio che si espandeva e si richiudeva in continuazione. Un buco nero che risucchiava tutta la luce attorno. Non aveva mai visto niente di così nero.
L'essere scattò la testa verso il cerchio nero, poi piantò gli occhi violacei su Nicola. Quella specie di buco nero lo aveva destato dal torpore in cui era stato assopito poco prima.
La suora aumentò il passo.
Il bambino si fermò e spostò più volte lo sguardo dall'essere alla suora. Non poteva fuggire da loro, lo avrebbero preso. Cosa gli era passato per la testa? Non sarebbe riuscito a fuggire dall'orfanotrofio. Non sarebbe mai andato via, nessuno lo avrebbe mai adottato.
La suora e l'essere lo avevano quasi raggiunto, quando pensò alle parole del fantasma della soffitta. «Guarda nell'ignoto e troverai la salvezza. Corri in un abisso e perderai te stesso.»
Forse aveva capito. L'abisso era il corridoio che si allungava ad ogni passo, mentre l'ignoto era quella macchia scura nella parete. Era più che sicuro che fosse così, doveva essere così.
Gettò uno sguardo alla suora e all'essere e saltò nel cerchio.




 

17


Fluttuò nell'oscurità impenetrabile per un lungo momento, poi precipitò giù a una tale velocità che non riusciva più a respirare. Annaspava in cerca di ossigeno, quando si ritrovò disteso sull'erba. I polmoni si gonfiarono d'aria e tossì diverse volte con gli occhi gonfi e arrossati.
Si alzò lentamente in piedi e si guardò intorno. Era dietro a un panchina di legno nel giardino dell'orfanotrofio. La luna piena svettava nel cielo tempestato di stelle. Non capiva come era arrivato lì, ma sapeva che era stato opera del cerchio nero. Il fantasma lo aveva aiutato. Perché?
Mentre fissava la finestra del dormitorio, il suo sguardo venne catturato da un movimento a un'altra finestra.
Era la suora.
Nicola corse lungo il vialetto del giardino, superò le altalene e gli scivoli e si arrampicò sul basso muro. Quando arrivò in cima, lanciò un'occhiata alla finestra dove aveva visto la suora. Era sparita.
Rabbrividì e saltò dall'altra parte del muretto. Corse lungo l'arteria principale del paese ammantato da una fitta foschia, le serrande abbassate, le imposte chiuse, i veicoli sepolti dalla polvere.
Si fermò al centro della strada e si guardò intorno, turbato. Voleva bussare alle porte, chiedere aiuto. Ma quando lo aveva fatto nella prima fuga, nessuno lo aveva aiutato. Forse era del tutto inutile farlo di nuovo.
Uno stridio metallico echeggiò tra gli edifici. Nicola sussultò e si voltò. La suora aveva appena chiuso il cancello e si stava dirigendo verso di lui con il solito passo pesante.
Il bambino si precipitò nella direzione opposta. Invece di inoltrarsi nel fitto bosco come aveva fatto la volta prima, seguì la strada. La luce della luna filtrava tra la volta degli alti pini spogli, ma non illuminava la strada che diventava sempre più scura. C'era qualcosa che divorava la luce, come quella macchia scura che l'aveva catapultato fuori dall'orfanotrofio. Forse anche questa volta doveva seguire l'ignoto per fuggire, ma non ne era tanto sicuro.
Corse per un lungo momento, finché rallentò per la stanchezza. Non sapeva dove andare, tutto era avvolto da un'oscurità impenetrabile. Ma non poteva e non doveva fermarsi. Riprese a correre imperterrito verso il nulla. Dopo un po' anche i rumori scomparvero e si fermò, terrorizzato. Non sentiva nemmeno il suo respiro. Lanciò un urlo, ma niente usciva dalla bocca.
Il mondo era muto.
Il panico si insinuò nella mente e, senza accorgersene, le sue gambe presero a correre. Ormai era entrato in uno stato catatonico. Si vedeva correre, ma non aveva il controllo del corpo.
Era stanco. Forse da quel posto non sarebbe mai uscito. Sarebbe rimasto a vagare in quella fitta oscurità per sempre.
Cadde a terra.
Le gambe avevano ceduto per la stanchezza. Provò a risollevarsi, ma quelle erano diventate pesanti. Non se li sentiva più.
Scoppiò a piangere e si rannicchiò sul pavimento in posizione fetale. Le lacrime scendevano copiose lungo il viso, le spalle sussultavano a ogni nuovo singhiozzo.
Aveva perso la speranza. Sarebbe stato meglio restare all'orfanotrofio, vivere una vita vuota, monotona e sterile. Vivere nella paura. Passare le giornate davanti alla finestra, guardare i due vecchietti nel parco, osservare i rivoli d'acqua lungo la finestra, fissare di notte la sagoma della suora seduta nel buio prima di addormentarsi e chiedersi continuamente perché nessuno lo adottasse?
Poi si addormentò.
Quando riaprì gli occhi, camminava lungo una strada illuminata da una fila di lampioni. Si fermò, turbato. Come era arrivato qui? Ricordava di essersi rannicchiato a piangere per terra, prima di sprofondare nei suoi ricordi. Poi il vuoto.
Si guardò intorno, spaesato. Una fitta fila di alberi e cespugli correva ai lati della strada. Conduceva a una città illuminata da innumerevoli luci, da cui giungeva una cacofonia di colpi di clacson, schiamazzi e motori che sfrecciavano a tutto gas. Suoni che Nicola aveva sentito solo di rado all'orfanotrofio, come le macchine delle famiglie adottive che proseguivano nel vialetto di ghiaia, il rombo o il borbottio di un motore. Niente di paragonabile alla cacofonia di quella città cosi illuminata e spaziosa.
Per la prima volta nella sua vita si lasciò scappare un sorriso gioioso. Non sapeva come era arrivato fin lì, ma sapeva che l'incubo era finito. Finalmente avrebbe trovato una nuova famiglia che si sarebbe presa cura di lui.
Si incamminò lungo la strada con la ritrovata speranza dipinta sul volto e lo sguardo di un sognatore. E mentre proseguiva la lenta discesa verso la città della luce, la suora sbucò dall'intricato groviglio di cespugli e si fermò al centro della strada. Nei suoi occhi spiritati si specchiava la città dalle mille luci e Nicola che si allontanava.
Gli andò dietro.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3987297