L'ombra della signoria

di Alarnis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Antefatto ***
Capitolo 2: *** La freccia del destino ***
Capitolo 3: *** Un uomo misterioso ***
Capitolo 4: *** Ricordi e speranze ***
Capitolo 5: *** Le sembianze di un eroe ***
Capitolo 6: *** Artigli. A tre zanne. ***
Capitolo 7: *** Da che parte stare ***
Capitolo 8: *** Solo un bacio ***
Capitolo 9: *** Cause perse ***
Capitolo 10: *** Uno strano giorno di pioggia ***
Capitolo 11: *** Incertezze dal passato ***
Capitolo 12: *** I casi della vita ***
Capitolo 13: *** Quando Berta filava ***
Capitolo 14: *** Ricerca ***
Capitolo 15: *** L'ipotesi di Zelio ***
Capitolo 16: *** Il pugnale ***
Capitolo 17: *** Errore! ***
Capitolo 18: *** Risentimento ***
Capitolo 19: *** Nemici e Amici ***
Capitolo 20: *** Cavalieri e contadini ***
Capitolo 21: *** Qui per me ***
Capitolo 22: *** Il posto più bello ***
Capitolo 23: *** Seguimi e ti porterò da un principe! ***
Capitolo 24: *** Un'uscita non è sempre un'entrata ***
Capitolo 25: *** Da qui a tre giorni ***
Capitolo 26: *** Il mio obbiettivo ***
Capitolo 27: *** Il ritrovo ***
Capitolo 28: *** Malia e il principe ***
Capitolo 29: *** Della Paura ***
Capitolo 30: *** E se avessi ferito qualcuno? ***
Capitolo 31: *** Due giorni o poco meno... ***
Capitolo 32: *** Un pericolo? Di che tipo? ***
Capitolo 33: *** Con te o senza di te! ***
Capitolo 34: *** Entrare ***
Capitolo 35: *** "Fateli passare!" ***
Capitolo 36: *** A buon rendere! ***
Capitolo 37: *** Prevedibilità ***
Capitolo 38: *** Dipingere con la voce ***
Capitolo 39: *** Ucci Ucci Ucci ***
Capitolo 40: *** Troppo facile! ***
Capitolo 41: *** La colpa ***
Capitolo 42: *** L'ingresso ***
Capitolo 43: *** Motivazioni ***
Capitolo 44: *** Non c’è tempo! ***
Capitolo 45: *** Una voce ignorata ***
Capitolo 46: *** Mavio! Non abbandonarmi proprio ora! ***
Capitolo 47: *** Colpe e malefici ***
Capitolo 48: *** Il confine varcato ***
Capitolo 49: *** Posizioni invertite ***
Capitolo 50: *** Amata... Amato... ***
Capitolo 51: *** Lo scontro ***
Capitolo 52: *** Sei qui ***
Capitolo 53: *** “Gregorio, fermati!” ***
Capitolo 54: *** Finale ***



Capitolo 1
*** Antefatto ***


Ogni riferimento a persone e luoghi esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.
Vi auguro una buona lettura e di commentare se vi farà piacere ^_^
Il vostro parere per me è molto importante e mi aiuterà senz'altro a migliorare. 

 

 
 

ANTEFATTO

“Cerchiamo Lavinia!” esclamò allegro Guglielmo, concedendo due energici colpetti al collo del suo scuro stallone, che sembrò nitrire in risposta.
La sua pupilla era troppo svelta e dinamica, pensò con un misto di apprensione e orgoglio. Gregorio al contrario sembrava annoiato di cavalcare, quasi offeso di doverli accompagnare; preda del tipico malumore ed insofferenza dell’adolescenza, rifletté Guglielmo.
Lo spirito della ragazza era simile al suo: avventuroso e amante delle sfide. “Tuo padre sarebbe orgoglioso!” pensò con nostalgia all’amico, compagno d’armi in mille incursioni e battaglie, morto quando Lavinia e Gregorio erano ancora piccoli.
Lavinia avrebbe risposto al suo invito alla caccia con una preda d’eccezione, ne era sicuro! Ma quella zona era nuova per loro, quindi la ragazza avrebbe dovuto essere prudente nell’allontanarsi. Re Bressano, infatti, aveva onorato la loro famiglia, i Montetardo, del suo favore con il titolo di conte; concedendogli Raucelio e le terre che comprendeva, in aggiunta al soldo con cui erano stati ingaggiati.
Tuttavia l’assenza di Lavinia, era una buona occasione per spendere un po’ di tempo con Gregorio, che del resto sembrava rispettosamente ignorarlo, cavalcando metri addietro; scortato silenziosamente dal proprio seguito personale. Cinque guardie a cui mai rinunciava negli spostamenti: Mavio, Gherardo, Bastiano, Ottavio e Ubaldo. Non che Gregorio fosse un vigliacco, ma era egocentrico ed egoista, oltre che poco incline ad approvare le passioni altrui, come poteva essere per Guglielmo la caccia. Del resto Gregorio non sentiva Guglielmo né zio né un secondo padre, nonostante il passare degli anni, che avrebbero dovuto creare tra loro reciproco affetto. Per lo meno Gregorio era limpido a non farne mistero, esternandolo verbalmente senza vergogna.
Guglielmo se ne rammaricava spesso, anche se il carattere schivo di Gregorio non attirava il suo favore; tanto tendeva a restare nelle retrovie; non si scopriva mai, quasi preferisse agire nell’ombra.
Guglielmo lo distanziò, quasi disprezzando quella pigrizia, che non condivideva; pronto com’era a ogni allenamento del fisico e della mente e, quella prateria era un invito irrinunciabile.
L’aria era calda e ristorava le guance con il suo calore, scaldandogli la leggera barba chiara che gli sagomava il viso. Il vento soffiava leggero, sembrando accogliere con benevolenza quella cavalcata, facendo ondeggiare i capelli ormai più bianchi che biondi.
Era una zona, ampia e omogenea, decisamente più ariosa rispetto alle cupe foreste di Montetardo, dove solitamente trascorrevano i congedi.
Una foresta di faggi in lontananza lo incuriosì; lo stesso doveva essere stato per Lavinia. Meglio controllare! si disse dinamico, avviando il cavallo, mentre una lepre fuggiva veloce a balzi e spariva volatilizzandosi così com’era apparsa. Guglielmo sorrise, alzando il labbro superiore in una smorfia: scappasse da Lavinia?
Uno stormo d’anatre selvatiche librò in volo sopra di lui; le loro ombre danzarono al suolo, stupendo con il fascino delle loro ali aperte anche i soldati e Gregorio.
Improvvisa, una richiesta di aiuto gli giunse alle orecchie. Frenò il proprio cavallo, tendendo le redini per sollecitarne la risposta.
Era un grido di fanciullo. Doveva essere in pericolo.
Il secondo grido, più distinto, allarmò anche il seguito. Una guardia, Mavio, si staccò dal gruppo per attendere istruzioni, in risposta al suo gesto di stallo.
A dispetto del suo ruolo e titolo, la situazione chiedeva un suo intervento.
Riuscì a scorgere la scena che cercava: un grosso cinghiale stava caricando un ragazzino, pietrificato nei movimenti; la schiena addossata ad un albero.
La guardia concitata additò la scena, descrivendola ai compagni rimasti indietro, in arrivo assieme a Gregorio.
L’animale era ferito; sanguinava e, per questo era aggressivo e incontrollabile. Una grossa freccia lo infastidiva sul collo ma non era sufficiente a privarlo delle forze e limitarne la reazione furiosa.
Guglielmo si maledì di sapere di chi, con tutta probabilità, fosse quella freccia, Lavinia!
Un cacciatore esperto non avrebbe risparmiato una preda ferita, o piuttosto l’avrebbe braccata per poi ostentarla. Probabilmente la pupilla non s’era nemmeno accorta fosse andata a segno: ne disprezzò l’incauto agire.
Doveva intervenire per forza, ma una prima spallata dell’animale travolse il ragazzino che si accasciò a lato dell’albero, con un urto che Guglielmo pensò potesse averlo ucciso.
Nonostante la cautela consigliata da Mavio, Guglielmo scese veloce da cavallo urlando contro la bestia e sfoderata la spada minacciò un’azione, sferzando l’aria, per allontanarla e distoglierla da una nuova carica.
L’animale scartò, sembrò rabbrividire, dondolò il dorso con fastidio e, disturbato dall’agire di Guglielmo che lesse come una minaccia, gli si rivolse contro deciso. Il grugno che fiutava l’aria e sembrava annusare con fastidio l’odore dell’umano, disprezzando quella nuova intrusione.
Guglielmo l’affrontò prima che fosse troppo tardi per il fanciullo.
“Pensa a lui!” urlò a Gregorio, che svogliato in sella al cavallo, si limitava a guardare, a distanza. Nel viso del pupillo lesse un proposito indegno; fosse troppo pericolo rischiare per un nessuno.
Mavio tentò l’avanzata ma indietreggiò quando la bestia sembrò concentrarsi su di lui.
Guglielmo fece da solo. Si fiondò su di lei, riuscendo a conficcare mortalmente la sua lama, rischiando un corpo a corpo.
La tensione nell’aria sembrò sciogliersi con il plauso dei soldati, di fronte alla sua azione e all’immagine del cinghiale a terra, con l’occhio sbarrato.
Ignorò quei complimenti, accorrendo a portare aiuto; sincerandosi delle condizioni del giovinetto.
Restò colpito dalla dolcezza di quel volto.
Istintivamente Guglielmo pulì il sangue che macchiava la pelle sotto la stoffa lacerata sulla spalla sinistra urtata da una zanna. Una chiazza scura rendeva evidente il colpo che il ragazzino aveva subito al braccio, nonostante avesse tentato di difendersi. Ascoltò il cuore: batteva!
Scostò i capelli dalla fronte, scoprendo tratti del viso morbidi del biancore del latte.
“Sei salvo!” lo rassicurò, sollevandolo tra le forti braccia.
Gregorio s’era finalmente degnato di avvicinarsi, ma sembrava più curioso del cinghiale abbattuto che del fanciullo quasi morto, salvo fissarlo quasi con invidia per la premura che sembrava dimostrare Guglielmo nei suoi confronti.
Mavio accorse per aiutarlo facendo l’atto di chiedere il giovinetto in consegna “Posso occuparmene io, signore!”.
“E’ sotto la mia protezione. Fa’ che sia curato al castello!” proclamò la sua benevolenza. Lo accomodò tra le braccia di Mavio, che robusto di fisico lo ricevette con cura, mentre Guglielmo avvertiva il resto del gruppo “Troviamo Lavinia!”.

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Capitolo 2
*** La freccia del destino ***


Capitolo 1 La freccia del destino

“Fermi! Scendiamo da cavallo!” ordinò il comandante Lavia ai suoi uomini che eseguirono, seguendo il suo esempio.
La ragazza, guardinga, fissò l’immensa distesa di faggi. Un’espressione seccata per essere giunta così distante da Rocca Lisia. Sarebbe stato imprudente per il giovane Ludovico sconfinare proprio nelle loro terre, ma forse pensava che là non l’avrebbero cercato. Come potessero ignorare quell’eventualità, pensò scaltra.
Ludovico, dove mai ti nascondi?, cantilenò tra sé: quella caccia la entusiasmava, rifletté ironica, calcando con gli stivali il soffice strato di foglie.
La zona era vasta, ma non essendoci sottobosco, avrebbero individuato velocemente sentieri e tracce tra le foglie schiacciate: avevano ottimi perlustratori. Si compiacque di quella certezza. “Ludovico, hai i giorni contati!” rifletté, stendendo le lunghe labbra sottili, che ristorate dalla punta della lingua sembravano ritrovare la freschezza dei petali d’una rosa.
Prontamente, i suoi soldati si sguinzagliavano in giro a ragnatela.
Cercò di intuire che tipo di riparo potesse dare quella zona: a nord i faggeti si facevano sempre più fitti, ma quelli che costituivano l’avanguardia di quella radura consistevano in piante basse e giovani.
Un fondo irregolare percorreva una morbida collina che procedeva con dossi, radici nodose sopra terra; un manto di foglie marroni che si distribuiva equamente al suolo, tradendo nettamente un potenziale calpestio.
Lavia con le mani sfiorò alcuni rami per sollevarli e, salvare i bruni capelli dal contatto con le foglie friabili proprie dell’autunno; aveva preferito raccoglierli in una crocchia perché non le infastidissero lo sguardo e gli occhi marroni potessero spaziare.
Come aveva fatto a sfuggirgli fino a quel posto così solitario?
Devono aver cavalcato come il vento!, si innervosì di quella certezza. Dunque, non sono feriti, si rammaricò.
Quello era il dominio di solitari taglia legna; non posto per dispiegare un corpo di ricerca!
Lavia continuò a guardarsi attorno, attendendo notizie, impaziente.
Girò piano, su se stessa, spaziando con lo sguardo in lontananza, da ogni lato.
Quel posto solitario, invitava alla concentrazione nel suo silenzio, nel suo colore armonioso, tale era la sua bellezza nei toni del marrone.
Possibile? si disse sconcertata.
Si guardò attorno, incredula. Le era familiare.
Non era possibile? Era già stata in quel posto, si portò la mano a scostare un ciuffo che le era finito al lato sinistro del viso.
Si mosse veloce, ricordando quel luogo, che le continue spedizioni a soldo per servire re Bressano, le avevano fatto trascurare; del resto avevano continuato a dimorare a Montetardo.
Procedette spedita tra un albero e l’altro, guardandosi attorno per orientarsi. Gli alberi erano caduti o cresciuti: i faggi crescevano in fretta!
Ma le rocce? Le rocce non potevano spostarsi negli anni. Quella certezza le parve confortante.
Andò verso le più grandi: una, quasi piantata come una colonna e altre due più piccole; abbattute ai suoi piedi dagli assestamenti del terreno di una china, ora coperte di vegetazione.
Non poteva sbagliarsi.
Si chinò a cercare qualcosa, spostando il fogliame maciullato. Ricordava che Moros l’aveva calpestata feroce, in spregio e spinta verso la base della grande roccia.
Eccola!
Per quattro anni, ai piedi di quel grezzo e primitivo pilastro, quel cimelio aveva riposato. Lei, Gregorio e il loro tutore Guglielmo, a quel tempo, si erano addentrati in quella foresta per cacciare, ma lei li aveva seminati. Fosse un segno? si disse.
In passato “Re Bressano mi ha onorato della sua stima con le terre di Raucelio.” aveva chiarito il tutore, che abile capitano di ventura era stato riconosciuto fidato dal re e meritevole del titolo di conte oltre che del soldo.
Lavia si accovacciò a terra, per raccogliere quello che restava della freccia spezzata in due, esattamente al centro.
La prese tra le mani che sentì scottare, quasi con timore d’averla ritrovata, come se il passato la venisse a cercare: un’incertezza dettata dalla profondità del sentimento che le ribolliva in petto; anche se mascherò i propri occhi, perché nessuno intuisse per lei fosse importante.
“Cercatelo!” urlò aggressiva, sfidando con la voce il vento che ora probabilmente rideva di lei, che credeva di poterlo ingannare come se fosse uno dei soldati al suo comando.
Nelle orecchie il ricordo di una voce, che impertinente la rimproverava “Ma chi ti credi di essere?”. Quel giorno Moros era sbucato dagli alberi. Era ancora un ragazzetto, ma già la sua aria era sfrontata e priva di ritegno nel parlarle impunemente. Ricordò la pelle chiara, i capelli scuri, gli occhi del colore satinato delle lame.
Davanti a lei, aveva spezzato quella freccia che ora, lei, aveva raccolto e che in passato aveva trascurato se non per il fatto che le appartenesse. Era sembrata un fuscello tra le mani di Moros, che aveva impresso in quel gesto tutta la propria collera verso la sua superficialità. Il comandante Lavia, a quel tempo per tutti Lavinia e basta, aveva strabuzzato gli occhi allo scrock che aveva provocato la pressione sul legno, come fosse imperdonabile un simile gesto in sua presenza.
Le labbra le avevano tremolato per la rabbia nel dire “Era la mia freccia!”. La propria voce aveva continuato stridula “Come hai osato?”.
La sua mano che veniva bloccata da quel ragazzetto insignificante, prima che lei lo schiaffeggiasse in pieno volto. La forza che le torceva la mano, ma solo perché non la usasse contro di lui e le appuntava di contro “E se avessi ferito qualcuno?”.
Quel giorno fu lei a restare ferita, solo ora se ne rendeva conto.
Purtroppo ora aveva da fare: “Voglio la sua testa!” ammonì i suoi soldati “Non può essersi volatilizzato!”. Il tono della sua voce era deciso e nonostante i ricordi che le aveva suscitato quel luogo, era e rimaneva un comandante, proprio come era stato Guglielmo e suo padre!
La sua voce suonò rabbiosa; incutendo paura nei sottoposti, che battevano il sottobosco alla ricerca di tracce.
Ritornò in piedi, spostando il mantello oltre la spalla destra in un gesto nervoso, che dettava la sua impazienza. Un’immagine fiera ed elegante in abiti che sembravano fasciare il suo corpo alto e snello, come calza un guanto sulle dita. Nascose i resti della freccia nella bisaccia della cintura. Il passato non doveva inficiare il presente, ma era come… Che ci fosse una speranza per loro? Sarebbe stato possibile porvi rimedio?
“Mio fratello ha detto di cercarlo!” aggredì il suo contingente, ghermendo alla spalla uno degli uomini che le era prossimo, strattonandolo e portandolo a sé, all’altezza del proprio viso per fissarlo risoluta “Ubaldo, la parola perdono non è contemplata!”; chiarì l’animo di Gregorio, suo fratello, divenuto ora signore di Rocca Lisia, messo in fuga il giovane Ludovico.
Lasciò il soldato, ma il ritmo delle ricerche aveva preso nuova foga, tanto da farle accordare ottimista “Troviamolo!”. Strofinò le mani per pulirle dal terriccio.
Lavia si guardò nuovamente in giro. Era bella quella foresta. Il sole sprizzava raggi tra le foglie degli alberi che finivano luminosi al suolo, ristorando le erbe e i muschi. I faggi crescevano velocemente e la frescura delle loro chiome, scacciava la presenza degli insetti.
“E anche se fosse? Queste terre mi appartengono. Ho diritto di vita e di morte! O non sai neppure chi ti comanda.” aveva risposto fiera quel lontano giorno di quattro anni fa, guadagnandosi l’appellativo di “Brutta strega!”.
E al castello per la prima volta s’era guardata allo specchio, cercando una ruga, un brufolo, un segno di qualsiasi riferimento magico ma soprattutto di bruttezza; scatenando l’ilarità di Gregorio che ammetteva già di vederne uno spuntare. La genuina rabbia che aveva accompagnato le parole di Moros, ora le coloriva le guance di imbarazzo, ogni volta che ripensava a lui nel silenzio delle sue stanze.
Rimembrò le guardie che inclementi l’avevano affiancata durante quella discussione per servirla, che cautelando lei, imprigionavano lui; accerchiandolo e puntandogli addosso le lance.
Un soldato si avvicinò a riferire e lei si distolse da quei lontani pensieri; “Rapporto!” intimò perché si spicciasse.
“Le tracce portano oltre la china.” dichiarò Aldobrando, pulendosi con la mano la barba, come gli desse fastidio per il caldo, indicando verso nord, verso il villaggio di Risicone.
“Facciamo presto!” esortò il gruppo a partire, senza indugio.
Le sembrò di sentire il richiamo del suo tutore ancora nelle orecchie, che l’appellava “Lavinia!” pretendendo spiegazioni per le insolenze che il ragazzo accerchiato rivolgeva ai soldati. Moros aveva parlato per lei, quel giorno: defraudandola della spiegazione, in spregio degli uomini che rilanciavano la vicinanza delle lance alle sue giovani membra.
Com’erano mutate le cose da quel giorno: Gregorio, a quel tempo, si era limitato a guardare la meschinità delle guardie. Ora…
“Mio nonno era un capitano di ventura. Non meno popolano di quanto sei tu ora!” aveva sottolineato il suo tutore concedendo clemenza all’indomito carattere: gli occhi azzurri di Guglielmo che racchiudevano un che di regale. Il sorriso del tutore, onesto come il sole. Limpido come il mare, pur di spada inclemente nell’agire. Fiero delle proprie umili origini quanto Gregorio, oggi, le disprezzava, nonostante sfoggiasse il titolo di conte e una nobile aquila, concessa da re Bressano come blasone.
Guglielmo le ricordava un dio: potente come l’essenza stessa della guerra e di nobiltà d’animo.
Lei invece era stata funestata da una freccia.


NdA: Grazie per aver letto! Mi farebbe piacere cosa ne pensate o magari vostre perplessità sulla trama; non è mai facile pensare ad una storia. Voi che dite?
Un salutone!

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Capitolo 3
*** Un uomo misterioso ***


 

Capitolo 2 Un uomo misterioso

Quello il tenore dei discorsi nella sua locanda.
“Deposto Ludovico, ci ritroveremo in miseria!” disse il mugnaio Adelberto avventando un grosso cosciotto untuoso e carnoso.
Tu non lo sembri si sorprese a pensare soddisfatto Augosto, mentre irrorava di brodo l’arrosto che girava sullo spiedo del grande camino che dominava la sala: l’unica stanza della sua locanda al piano terra; poche brande al piano di sopra, in un sottotetto stretto e malagevole, ma che fruttava bene con i forestieri.
“Era troppo giovane! Non mi sarei affidato a lui.” sentenziò il contadino Tolomeo, che ribadì “Altro che suo padre Iorio, che riposi in pace.”, facendo sporgere i denti o meglio quei pochi che restavano, la cui mancanza gli abbruttiva il volto.
“Gregorio non è interessato che a spremerci!” appuntò a sostegno di Adelberto il bonario Cataldo, che impigrito sopra uno sgabello, seduto a gambe incrociate, sembrava spazzare il pavimento strisciando gli zoccoli di legno. “Gli avessimo dato il tempo di dimostralo.” spezzò una lancia a favore del giovane, loro deposto signore.
Era ora di riportarli all’ordine “Basta chiacchiere! Bevete! Belinda veloce!” ordinò l’oste Augosto, chiamando la propria fantesca: una ragazzina scialba ma dinamica che aveva preso a servizio da poco. Non che fosse vecchio, anzi, ma poteva permettersi un aiuto e Belinda era la figlia di sua sorella Francesca, la levatrice. Francesca, vedova e spesso fuori casa, del resto gliel’aveva affidata, definendola una combina guai da tenere sott’occhio. E come non darle torto: la povera Francesca le aveva rimediato un lavoro al castello, ma la ragazzina era risultata troppo maldestra per mantenerlo. Ora, sperare nella bontà dei nuovi padroni era un’utopia.
“Troppo giovane. Troppo vecchio! Basta. Basta.” liquidò le loro ciarle in fretta: erano clienti abituali e amici da molti anni. Sono discorsi pericolosi rifletté prudente: non voleva trovarsi in mezzo a ritorsioni.
I soldati di Rocca Lisia non frequentavano la sua locanda, troppo fuori mano, lontana mezza giornata di cavallo, ma si diceva che il conte Gregorio fosse potente e si avvalesse di molti spioni dalle orecchie fini.
Gregorio, pupillo del capitano di ventura Guglielmo Montetardo, ne aveva ereditato il titolo e al seguito di re Bressano aveva consolidato la fortuna dei Montetardo. Era un guerriero crudele e senza pietà, del resto ora si ritrovava despota a Rocca Lisia, sconfitto il giovane Ludovico Chiarofosco. Una vittoria avvenuta di recente: qualche settimana appena.
“Non ho più stima per il conte di quanta non ne avessi di Ludovico.” volle l’ultima parola Adelberto, quasi fregandosene di sputare insolenze contro i due contendenti: quello il motivo per cui Augosto gli fiondò in faccia lo straccio con cui stava pulendo una broda rimasta sul tavolo “Sta’ zitto, prima che ci impicchino!”. Chi veniva dalla Rocca non mancava di sottolineare i particolari più raccapriccianti sulle punizioni inferte ai simpatizzanti del giovane Chiarofosco e a coloro che avevano appoggiato la sua resistenza e fuga. Tra questi: soldati e molti domestici del castello inflessibili nell’abiurare la propria fedeltà.
Adelberto divenne paonazzo ma tacque, limitandosi a indietreggiare col viso, asciugandosi con la manica veloce: alla vita ci teneva! Belinda portò un bicchiere di vino stemperandone il malumore; accompagnandolo con un bel sorriso lentigginoso.
Più che le chiacchiere, a Augosto insospettiva il silenzio negli avventori, soprattutto in quelli che non conosceva come abituali e di cui nulla sapeva, se non i soldi con cui avevano chiesto pasto e alloggio.
“Sei un uomo taciturno.” esordì senza mezze misure al bel giovane, bruno di capelli, che da troppo tempo fissava un bicchiere vuoto, senza essere sbronzo, nell’unico grande tavolone della sala. I suoi abiti narravano di viaggi e notti all’addiaccio: un tabarro di panno grosso e pesante, di colore scuro, lungo sopra il polpaccio, ancora allacciato sotto il mento, ma lasciato aperto a scoprire una camicia di lino grezzo color crema.
“Hai qualcosa da nascondere?” dichiarò la propria ostilità Augosto, interessando al forestiero anche Adelberto, Tolomeo e Cataldo che all’occorrenza avrebbero potuto dargli man forte in un parapiglia.
“Non sono affari tuoi!” sorrise il ragazzo; una punta di arroganza in un viso ben rasato. Occhi che sembravano lame: il colore dell’acciaio ben temprato, che sembravano rispondere. Chi non ha un segreto gelosamente serbato nel proprio animo?
Poffarbacco! Sei nella mia locanda! rifletté Augosto, chiarendo subito il concetto di chi comandasse. Si colpì al cuore con la punta dell’indice e alzato il collo verso l’alto come un gallo cedrone, accompagnò la sua domanda in tono perentorio, rivolgendogli uno sguardo serio, “Sei giovane. Da dove vieni?”. Qui, le domande le faccio io!
“Da Raucelio.” rispose senza scomporsi il ragazzo, si e no, doveva avere meno di vent’anni.
Poffarbacco! ristette Augosto, Interessante! Lui a Raucelio non era mai stato. Era nato e vissuto in quella locanda da quando era al mondo.
“Caspita è lontanuccio!” rifletté Augosto, che grattandosi la fronte al centro valutò “Bhe! Bhe! Bhe! Sono terre del conte Gregorio.”. Ora, era quel conte che comandava.
Il ragazzo annuì, concedendogli vittoria.
“Un’ottima credenziale uomo misterioso!” lo battezzò ridendo amichevole e cautelandosi “Noi, qui, si parla di tante cose, ma mai contro persone stimate e titolate.”. Un’espressione complice e amichevole al ragazzo tanto per rilassare l’atmosfera. E se fosse una spia?
“Per me non fa differenza.” disse con freddezza il giovane, ma la stanchezza della sua voce sembrò tradirne l’animo.


NdA: sarei veramente felice di avere un parere su questa storia ^_^
Ci conto! Ciao.
 

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Capitolo 4
*** Ricordi e speranze ***


 

Capitolo 3 Ricordi e speranze

“Ricordo ancora quando è morto Iorio Chiarofosco.” iniziò Augosto.
Sicuramente uomo misterioso conosceva già quella parte della storia e, che il titolo di Iorio si fosse trasferito al figlio Ludovico Chiarofosco, ma Augosto aveva voglia di farsi una chiacchierata. Quel giovane sembrava taciturno ma un bravo ascoltatore.
Fidandosi di lasciare a Belinda l’arrosto, prese posto di fronte al giovane, nel lungo tavolone al centro della sala: la panca scricchiolò, sollevandosi leggermente al capo opposto. Era da poco passato mezzogiorno.
Parlò di Iorio Chirofosco: valido signore per spada e buon amministratore della terra. Una figura stimata, garanzia contro vicini prepotenti, finché di punto in bianco, nel ben mezzo di un banchetto, aveva segnalato un malore ed era spirato.
“Ci siamo sentiti tutti perduti. Purtroppo Ludovico sembrava troppo giovane per guidarci e l’improvvisa calata nelle nostre terre di Gregorio ha fatto il resto.” ammise incagliato di quell’ammissione vigliacca.
“L’avete abbandonato.” partecipò al suo discorso il ragazzo, ma nella sua voce non vi era critica, come se scelte all’apparenza vili fossero, alle volte, obbligate. Il famoso optare per il male minore.
L’ovvio: “Un vicino debole fa gola.” sentenziò il giovane, che valutò legittimo tatticamente l’agire del conte Montetardo.
Augosto si sentì libero di continuare.
“Ludovico, era pronto a lottare, ma noi no! Nessuno lo riteneva all’altezza della situazione.”. Quella era la verità.
“Ma è riuscito a scappare!” precisò per incuriosirlo, ammettendo con imbarazzato di averne stimato l’indubbia scaltrezza. “Sai il capitano Zelio, quella canaglia, l’ha tradito.” disse con fare confidenziale; “Ha fatto il doppiogioco!” strizzò l’occhio al giovane.
“Zelio?” ripeté uomo misterioso indifferente a quel nome.
Augosto dondolò il capo abbattuto, ma chiarificatore spiegò “Era ed è il capitano delle guardie di Rocca Lisia.”.
Il giovane fece un mezzo sorriso; limpido nel ragionamento “E perché non è stato impiccato?”. Un umorismo nero: tradimento chiama tradimento.
“Ha sobillato i contadini.” parlò sottovoce Augusto che si parò mezza bocca con la mano a coprirsi. “Ha sminuito le capacità d’agire del giovane Ludovico.”.
“Ora è chiaro! Gregorio continua ad usarlo per controllare il popolo.” ragionò il ragazzo apertamente. “Vedo che hai capito!” si congratulò Augosto, schioccando le dita grassocce.
“Ma Ludovico è riuscito a scappare.” riprese il ragazzo, con l’incredulità di chi attende un segno del destino e lo vede avverarsi.
“Era bello Ludovico!” intervenne svenevole Belinda, accasciandosi allo zio ridendo, mentre rivolgeva lo sguardo lentigginoso a uomo misterioso “Un po’ come voi!”. La ragazzina rise impertinente.
“Sfacciata!” la allontanò Augosto “Perderò il filo del racconto.” La rimproverò, cercando di togliersela di dosso, mentre il giovane accennò un sorriso benevolo, come li trovasse comici.
“Se era così bello avresti dovuto conservarti un lavoro al castello e servirlo dalla cucina!” la rimproverò Augosto. “Invece, sei qui a combinare guai e, la tua povera madre te lo rimprovera ogni volta!”. Belinda si sollevò da lui e dondolando il capo, guardando per aria, gli face il verso masticandosi le labbra. Augusto librò in aria la mano, nell’atto di sculacciarla, ma non lo fece. “Fila!” ordinò soltanto.
In fondo Augusto era felice dell’allegra vicinanza della nipote, perché non aveva compagna o affetti ad esclusione della sorella Francesca, che non mancava di lavare e rammendare per lui. Così era anche per Belinda, che orfana di padre, lo reputava una figura paterna.
La ragazzina fece una moina per accattivarselo, ruffiana, facendo vibrare il mento ritmicamente e con una risatina birbante ritornò responsabile dell’arrosto.
Augosto continuò…
“Alla vista di quell’esercito così forte e la nomea di Gregorio hanno calato tutti le braghe, me compreso!” rise alzandosi, sollevando la grossa pancia aiutandosi con le mani; a star seduto gli doleva, perché la schiacciava ripiegandola. Fu più goffo ad alzarsi che quando si era seduto: un orso che si liberava da un tronco cavo in cui s’era inguaiato era più sciolto.
Augosto mimò un’atmosfera misteriosa, abbassandosi e richiudendosi entro le spalle “Zelio, ha aperto le porte della città di notte…”.
Forse risultò comico perché uomo misterioso replicò ridendo “Un uomo di fiducia il capitano!”. Ad Augosto divenne simpatico: quel giovane non era così per i fatti suoi come dava a vedere. Si fece una bella risata, alla faccia di quel venduto di Zelio.
“I Montetardo si sono fiondati dentro.” intervenne Adelberto, muovendo energico il braccio a spostare l’aria. “Gregorio e la sorella hanno scatenato il finimondo.” inorridì piegando all’ingiù le labbra, principalmente incredulo di parlare di una donna.
“La conosco!” sentenziò cupo il giovane quasi con antipatia, zittendo Adelberto che sembrò temerlo.
Uomo misterioso, hai spirito!” lo lusingò Augosto scherzando sul doppio senso la conoscesse, ridendo della grossa. Buona questa!
Uomo misterioso conosceva i Montetardo. Era di Raucelio, ma da quale parte stava?
“Ne conosco la fama e l’alterigia!” lo fulminò con lo sguardo il ragazzo, assecondato subito dai commenti dei presenti che annuirono.
“Ha fama di essere una donna pericolosa.” disse Adelberto. “Cattivissima, si dice!” azzardò Tolomeo per non deludere quel cipiglio rissoso. “Da starci alla larga.” fu scaltro nel dire Cataldo categorico.
“Si dice, sia lei a riscuotere i tributi per il fratello.” appuntò Tolomeo con fare spavaldo e saccente e dal tono usato non sembrava andarci giù leggera nel farlo.
“Magari avremo l’occasione di vederla.” azzardò Cataldo, scatenando quasi un fuoco negli occhi di lame di uomo misterioso.
“Sai che piacere!” ammise con irritazione Adelberto; a seguire mille altre bislacche rimonte, a cui il ragazzo non sembrò dare grosso ascolto. Rimuginava su quella donna, Augosto era sicuro.
“Si dice che Ludovico ha giurato di vendicare l’offesa.” precisò Cataldo.
Uomo misterioso rimase a fissare il bicchiere vuoto, quasi contemplativo, mormorando “Vuole vendicarsi...”. Valutava quelle parole, come fossero fondamentali.
“Non può farcela da solo.” rifletté il ragazzo: il suo tono era scoraggiato, quasi parlasse per se stesso. Era come dicesse Io non posso farcela da solo.
Augosto ne ebbe pena, ma non riuscì a negargli l’amara verità “Dubito possa farcela.”. Poté solo infondergli coraggio con una benevola pacca sulla spalla e, quel giovane ricambiò guardandolo dritto negli occhi, incredulo di tanta solidarietà.
Una nuova luce. Augosto la vide. La speranza.
Augosto sorrise: la sua bocca larga, le sue grosse guance si alzarono fiduciose, nonostante le premesse. A volte è l’incoraggiamento a fare la differenza, rifletté Augosto.
E uomo misterioso l’avrebbe deluso se non avesse detto, a voce ben udibile, ma vago, come non gli importasse in fondo, “Ma come ha fatto a uscire dal castello?”.
“Al fuoco! Bruciooo.” richiamò l’attenzione Belinda: un’oca impazzita che saltava da destra a sinistra del camino.
“Ohhh, non ora!” alzò le braccia al cielo Augosto volendo rispondere al giovane, mentre Belinda lo chiamava nel panico delle scottature delle dita in cui soffiava energica.
La richiesta del ragazzo subito sorretta dai presenti, che trascurando le insistenze d’accorrere di Belinda, che disturbava la chiacchierata, appuntarono in coro “Lo so’ io!”.
Un fastidioso coretto, come se rispondere alla domanda del ragazzo fosse la cosa più importante del mondo, mentre Belinda continuava a starnazzare.
Cataldo si intromise “Si è buttato nel fossato.”.
“Ma è stato aiutato, da Alberico e Federico!” e, uomo misterioso, parve nuovamente interessato dall’ulteriore informazione, che non fosse solo.
“Ti ci caccio dentro io a quel camino!” urlò esasperato Augosto alle istanze di Belinda. Era un discorso importante, quello!
Adelberto negò “No! Si è travestito da soldato ed è uscito in silenzio al tramonto.”.
“Ma se era notte quando hanno attaccato?” rise Tolomeo, che nel parlare e ridere gocciolò fuori bocca uno sputo, mentre Belinda sembrava avesse ripreso il controllo dello spiedo e da sopra uno sgabello irrorava di brodo la pietanza, sempre più invitante per gli occhi.
Tolomeo, asciugandosi la bava sulla barba, controbatté “Ha combattuto e poi è fuggito a cavallo, scardinando il ponte levatoio.”.
Augusto e uomo misterioso si fissarono: qualcosa non quadrava. Ma gli assalitori non venivano proprio da là?
Belinda intervenne col dito alzato da sopra lo sgabello “Io dico che è fuggito a sud! Verso il lago!”, corretta da Cataldo “Verso Massoforte, vorrai dire!”.
“Io dico verso Risicone.” ribatté Adelberto.
Augosto volle dire anche lui la sua “Verso il lago! Brava Belinda!” e zio e nipotina si fecero l’occhiolino complici.
Nessuna di quelle, per uomo misterioso sembrava la risposta veritiera, ma sembrò attento a valutarle tutte. Che gli importasse dove fosse ora il deposto signore Chiarofosco? Sembrava di sì, perché Augosto lo vide alzarsi e lasciare sul tavolo una grossa mancia “Tieni il resto!”. Un sorriso in volto che sembrava indicare avesse ottenuto risposte.
Nulla a confronto con il sorriso che si dipinse in viso ad Augosto di fronte a tanta generosità “Ohhh. E’ stato un piacere!”. Torna quando vuoi!
Lo vide proseguire verso l’uscio; un portamento fiero e distinto mentre sembrava pronunciare sottovoce “C’è senz’altro.”.
Cosa c’era? C’era qualcosa che forse non s’era visto? La salvezza di Ludovico era indubbiamente stata dovuta a bravura, ma anche a qualcosa e non a un chi?
Cosa cercava quel ragazzo? Ludovico fuggiasco o qualcosa che riguardava la sua fuga e che nessuno di loro aveva probabilmente centrato? Chissà cos’era.
Cosa ci poteva essere di così segreto e misterioso in una fuga? Cosa importava com’era uscito?
Entrare al castello era un onore o un guaio, uscirne poteva essere altrettanto!
Augosto tenne fisso lo sguardo su quel giovane. Poche cose aveva intuito di lui: che parlava poco, veniva dalle terre del conte Montetardo, di cui conosceva la sorella per onere o per onore. Augusto optò fosse per la prima. Sicuramente di Ludovico Chiarofosco di Rocca Lisia voleva sapere di più! Era una spia? Un cacciatore di taglie? Aveva un segreto.
Augosto alzò le spalle: la pausa era finita. “E va bene, arrivo!” annunciò all’ennesimo grido di Belinda che più che bruciare l’arrosto, si stava incendiando i capelli.



NdA: Grazie di aver letto fino a qui!

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Capitolo 5
*** Le sembianze di un eroe ***


Capitolo 4 Le sembianze di un eroe

Moros si fermò; incantato nel guardare uno splendido esemplare di picchio rosso che tamburellava con il becco sopra un albero all’apparenza morto.
La parte superiore del corpo era di un nero lucido, con grandi macchie bianche, come del resto le parti inferiori. Il sottocoda invece era di un colore rosso vivo. Era di sicuro, un maschio: l’evidente macchia rossa sulla nuca ne era la conferma. Il becco nero era appuntito ma soprattutto robusto. I muscoli del collo ben sviluppati, le zampe dotate di due dita avanti e due dietro favorivano la presa sul tronco, in cui sembrava in equilibrio precario.
Moros si sentì spiato, quasi quell’uccello non tollerasse, ci fossero ospiti nel suo regno.
“Sono solo di passaggio!” lo salutò Moros ilare, giustificandosi mentre il picchio lo punta; distolto dal suo meticoloso lavoro di estrarre larve di insetto dall'interno dell’albero.
Sospendendo i suoi ritmici movimenti, improvviso volò via; ondulando tra i rami, a tratti impennandosi, con lunghe pause ad ali chiuse.
Moros si fermò, facendo silenzio e restando in ascolto, insospettito da quel comportamento, come fosse un’avvisaglia di una minaccia.
La foresta era quieta e nulla sembrava avesse turbato la sua pace eppure portando la mano destra all’orecchio sentì un lamento. Distinse un gemito leggero. Qualche colpo di tosse, stizzoso e breve.
Il suo primo pensiero fu cercarne la fonte per dare aiuto.
Cauto si fece strada tra il fogliame, addentrandosi e abbandonando il sentiero che stava percorrendo. Era diretto a Risicone, dove sperava di avere notizie di Ludovico: un suo passaggio, qualche fatto che lo riguardasse, un indizio che suggerisse la sua direzione o destinazione.
Ludovico era l’unico che, forse, poteva aiutarlo a compiere la sua missione. Spezzare l’infausto destino che lo costringeva a restare ai margini della comunità, perché ricercato.
La fonte del lamento sempre più prossima, lo fece accelerare.
In una radura, un corpo: un uomo.
Vestiva un lungo mantello nero di stoffa lucida. Era bocconi, gli occhi sbarrati, un’espressione sgradevole in viso e nella smorfia presa dalla bocca; come se la morte l’avesse colto alla sprovvista, facendosene beffa. Il collo era rimasto scomposto, probabilmente dopo una veloce caduta. A vedersi doveva essere molto ricco: il viso rasato, i capelli lunghi oltre le spalle, un vestito di stoffa pregiata, con intarsi di merletto in rilievo sui polsini e sul collo della camicia fluente.
Le caviglie delle gambe erano legate da robuste corde di edera. Sembrava fosse stata quella la causa della morte, come se il suo corpo, fosse stato tirato di colpo da quelle corde, che le dita ingioiellate non erano riuscite a intercettare. Una spada lucida era poco lontano, ma lungi dal poter essere afferrata da quell’uomo. Le mani sembravano ancora tese, nella ricerca di impugnarla. Una spada di splendida fattura, dall’elsa d’oro, tempestata di gemme: rossi rubini e verdi smeraldi, grossi come delle noci.
Moros cercò segni della presenza d’un cavallo. Nulla. Si sporse, allungando il busto a destra e a sinistra per cercare superstiti: il gemito non era venuto da quel giovane dal viso porcellanato.
Infatti, la vide.
A terra, c’era una donna. Era anziana, vestita di abiti di fattura ordinaria, stesa, accanto ad alcune grosse radici nodose. Guardava le fronde dell’albero, gli occhi rivolti ancora più su, al cielo. Borbottava sottovoce, lamenti, forse parole.
Una lama le era stata piantata nel cuore, conficcata verticalmente. Le provocava dolore, ma non l’aveva uccisa. Respirava piano, ma respirava ancora.
La mano destra che ancora stringeva un lungo vincastro, che non sembrava intenzionata a lasciare. La mano sinistra invece, non mancava di trattenere un grossolano mantello marrone con cui tentava di coprirsi fin sul petto, non riuscendoci.
Moros, non poté far a meno che correre verso di lei “Mia signora.” disse con rispetto e giunto al suo capezzale si inginocchiò tentando di darle aiuto “Posso…”.
Posso aiutarti, non riuscì a completare la sua promessa, perché vista la ferita seppe di non riuscire a mantenere il proprio impegno. Quella lama era inclemente. La ferita sembrava profonda. Non avrebbe potuto trasportarla altrove.
“Oh, un bel giovane.” parlò l’anziana donna con una voce stridula e fastidiosa, che gli urtò le orecchie, ma che sapeva di gratitudine si trovasse là; giungendo a confortarla.
“Non puoi aiutarmi.” appuntò con una voce che sembrava un cozzare di lame.
Moros veloce slacciò il proprio mantello. Ripiegato in più quadrati, le sollevò leggermente il capo perché beneficiasse di quel morbido cuscino.
“Non vi stancate a parlare.” consigliò premuroso. Non aveva mai visto né rughe così marcate né guance così scavate.
La vecchia signora ridacchiò “Questo lascialo giudicare a me.”: raschiò ogni singola parola con la voce, in tono presuntuoso.
“La lama..” sentì il dovere di proporre di estrarla.
“Ha toccato il cuore.” puntualizzò la vecchia: come suonava quella parola cuore tra le sue labbra. Sembrava che in quella parola fosse racchiuso un mondo di cui lei non voleva essere privata, come se si aspettasse di scoprirlo e se ne sentisse arida.
“Preferite, restare così.” ammise dispiaciuto Moros, sentendosi impotente. Odiava sentirsi impotente. Il suo carattere disprezzava quella parola e la viltà che rappresentava.
“Sono stata avida ed egoista.” ridacchiò gracchiante la vecchia, ma il respiro le era faticoso. La mano sinistra rinfrancò la presa sul mantello, quasi massaggiandosi il ventre infreddolito per scaldare la vita che sembrava abbandonarla.
Moros pose le mani come a raggiungerne le membra per aiutarla, ma si accorse di sbagliare: l’imbarazzo gli impedì di compiere un gesto villano e offensivo, che la sua giovinezza giudicava con leggerezza e che invece poteva violare la decenza per la rispettabilità di un’anziana signora.
Distolse lo sguardo.
Così facendo, non poté fare a meno di ritornare a fissare l’uomo che probabilmente l’aveva assaltata “Vi ha attaccata?”.
Una risposta che non si aspettava. “Era mio figlio.” precisò l’anziana donna, che tuttavia non sembrava rimproverarlo avesse sbagliato persona e attribuito al figlio colpe non sue.
“Cosa?”, “Come?” chiese convulso Moros, guardandosi meglio attorno, temendo una trappola di banditi, che avrebbero potuto aggiungere lui a quegli svenutati.
La vecchia ridacchiò nuovamente, come una cornacchia.
“Lo trovate divertente?” si sorprese a dire Moros.
“Siamo soli.” ammise la vecchia, tranquillizzandolo. Quella parola soli faceva paura, perché evocava il freddo, come quello che ora sembrava percepire la vecchia.
“Non siete sola.” annunciò e sedutosi, schiena all’albero, prese posto accanto a lei “Resterò a farvi compagnia.” timbrò, in un gesto di buon cuore.
“Oh, bel giovane. Ne sono lusingata alla mia età.” disse civettuola la vecchia, piallando l’aria con la voce. Moros sorrise benevolo “Non siete vecchia!”.
“Decrepita!” esclamò la vecchia, sniffando col naso, ridacchiando, quasi scuotendo le spalle; cosa che la fece rabbrividire, ma che sembrò anche, darle pace e sollievo.
“Sei un bravo giovane.” pizzicò di nuovo sgradevolmente le ruvide corde vocali. “Mi avessi conosciuta un tempo…” fantasticò. Fu Moros a ridere e lei rise a sua volta. tossicchiando cauta, vista la ferita.
“Sicuramente eravate bellissima.” si scusò Moros, di quella licenza spontanea e villana.
Quelle parole parvero scaldarle il cuore, perché le guance sembrarono ravvivarsi d’un colore più roseo, rispetto al marrone che le rattoppava tra una ruga e l’altra.
“Affonda la lama.” si sentì ordinare. La voce della vecchia era meno metallica: più chiara.
Moros negò di compiere quell’azione, sorpreso di quella richiesta “Non posso, mi spiace.”. Si allontanò di qualche centimetro quasi lei potesse afferrarlo e spingerlo ad agire; cosa che non avrebbe permesso accadesse e in effetti non successe.
“Ah, che ragazzo pusillanime.” mieté spietata la vecchia, cogliendolo di sorpresa; quasi trascurando la gentilezza con cui l’aveva trattata.
Moros restò indifferente alla sua lagnanza, ma poggiò la mano sopra la sua: quella che ancora stringeva il bastone di salice. Le infuse calore. Doveva essere spaventata, sentirsi vulnerabile e sola.
“Piantalo al suolo. Un colpo secco e con forza. Deve ritornare un grande albero!” ordinò inaspettatamente la vecchia.
Lui alzò un sopraciglio. “Sì! Sì! Come no!” le sorrise.
“Fallo!” lo rimproverò lei, decisa. La voce che saliva dallo stomaco come se espettorasse rabbia. Era come volesse comandare e non si aspettasse di non essere ubbidita.
“Va bene, ma non affaticatevi. Restate calma.” rispose Moros, conciliante. Il volto della vecchia si rilassò e i suoi occhi tornarono vispi, come quelli di un bambino che spuntano un pezzetto di pane.
“Ascoltami! Fai come ho detto!” raschiò la vecchia, con quella voce stridula e sgradevole, “Un colpo secco. Con forza. Deve ritornare un grande albero!”. Moros restò zitto questa volta e, aprendole la mano delicatamente, eseguì e lo piantò al suolo. Con forza, mentre la donna frizionava le labbra quasi in un mormorio. Moros aveva il vigoroso fisico d’un tagliaboschi. Impresse forza, ma fu attento a non spezzarlo.
Altro non era che un bastone e, lo sarebbe sempre stato. Non avrebbe potuto attecchire. Moros lo sapeva bene, ma si prestò al gioco della vecchia. Che mugugnò, durante l’intero interramento.
Quand’ebbe finito, Moros si spazzolò i capelli con la mano, sollevando un ciuffo che leggermente umido gli si era appiccicato sulla fronte. La foresta tendeva a racchiudere il proprio tepore.
Giudicò ben fatto il proprio lavoro, ma prima di ritornare alla vecchia signora, non poté evitare che il suo sguardo ricadesse sul corpo del figlio.
“Dovrei seppellirlo.” ammise, stupendosi tuttavia del materno mutismo. Trovato un robusto bastone iniziò a scavare in silenzio. Non più d’una buca che ne contenesse le spoglie. Adagiò l’uomo, con tutto il suo corredo.
“Non sei avido.” sentenziò la vecchia, quando lo vide sistemargli la preziosa spada tra le mani. “Nulla mi appartiene.” appuntò Moros.
“Queste sono le sue cose: in vita e in morte gli appartengono.”. La vecchia tacque e, tacque a lungo, finché Moros ricoprì il mesto tumulo.
“Riposi in pace.” lanciò la sua benevola evocazione Moros, nel mutismo della vecchia.
“Eppure la spada avrebbe potuto servirti.” sentì calcolare dalla vecchia, come se fosse stata nella facoltà di poterla concedere. La vecchia si strinse, quasi coccolandosi sotto il mantello che la ricopriva.
“Quella era la spada di un nobile signore, non di un contadino.” ammise francamente Moros, ma altrettanto fiero della propria condizione. Restò rispettoso del defunto, facoltoso giovane, che ne era stato proprietario. Moros le sorrise, come verso una cara nonna “Ed io, non sono un eroe.”.
“Un eroe…” rifletté la vecchia. “Per salvarmi avrei dovuto conoscere un eroe...” disse quasi con disgusto, la voce malferma; il volto visibilmente dolorante, come se disprezzasse di dover scendere a patti col destino.
“Ma, non l’hai conosciuto, vero?” cercò di sollevarla dal fastidio che le procurava quel pensiero, che la vecchia sentiva ingrato. Del resto, Moros era mortificato di non poter far nulla, anche se probabilmente era quello che voleva la vecchia, piuttosto che scendere a compromessi. Doveva essere un gran testarda e di carattere intrattabile. In questo erano simili, si disse.
“Un eroe ha molte facce… Sembianze che non ti immagini.” lo rimproverò nuovamente con una grinta e un malanimo che lo stupì. Era arrabbiata. Con lui. L’unico con cui poteva prendersela.
Moros tacque. Viaggiando aveva conosciuto molte persone, ma quella signora avrebbe tenuto testa a molte di loro! Sembianze che non ti immagini, rifletté. Un eroe.
Lui ne aveva inconsapevolmente conosciuto uno: Guglielmo di Montetardo. Conoscendolo, poi, l’aveva stimato e per la prima volta, nel profondo del cuore, aveva accettato più che di esserne sottomesso, di esserne guidato. Del resto, era il nobile che aveva salvato Nicandro.
Di certo non l’aveva seguito per gratitudine: quella la lasciava a Nicandro.
Restò sospeso in quei pensieri. Scusandosi, in cuor suo, con il nobile Guglielmo di non averlo protetto dalla morte, scegliendo invece di salvare la vita di Lavinia. Sospirò, sentendo il peso di quella scelta.
Non negava, fosse stato lo stesso Guglielmo a scegliere per loro due. Guglielmo aveva dato la propria vita in cambio di quella della propria pupilla, quanto di quella del giovane che lei amava.
Chi altri si poteva sacrificare per loro, se non un padre? Perché per Moros, Guglielmo era una figura paterna. La stessa che aveva condiviso Nicandro.
“E un mantello? Da me lo accetteresti? Così sarebbe tuo?” sentì gracchiare: un suggerimento della voce disarmonica della vecchia che stirò le labbra.
“Sono sempre stata molto avida, ma ora che differenza fa?” cercò di giustificarsi, per farlo accettare, la mano che indicava la stoffa che stava stringendo.
“Non lo buttare. E’ molto prezioso.” ridacchiò con quella sua voce acuta, tossicchiando stizzosa.
“Oh sì! Lo immagino.” sorrise nuovamente Moros, con un tono familiare quanto scettico.
“Brutto impertinente!” gracchiò la vecchia, ma sembrò mancarle la forza di continuare con le sue invettive: il suo tempo stava per scadere.
“Lo accetto molto volentieri.” si affrettò a dire Moros e fattosi vicino, chinò il capo, onorando quell’atto di gentilezza.
“Non te ne pentirai…” puntualizzò la vecchia, alzando il solo indice della mano dal mantello. “Il suo cappuccio…” puntualizzò toccando la grezza stoffa. Le si assottigliò la voce e una fitta la portò ad alzare il busto. La voce sembrò mancarle, ma Moros la vide imporsi di continuare, combattendo il dolore “Protegge da ogni malanno.”. era come volesse scolpire l’aria con quelle parole.
Moros rinfrancò la presa alla sua mano destra e la tenne abbracciata, portandola con vigore e dolcezza allo stesso tempo a confortarla su di sé.
“Pro..teg..ge..” ripeté la vecchia. Il bacio sulla fronte d’un figlio espresse la sua gratitudine.
S’accorse di un sorriso tra quelle labbra, scarne e aride, come se apparisse una fiammella in esse. Il viso le si distese, appagato. Con quel momento, l’anziana donna spirò. Sembrava dormire; finalmente paga.

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Capitolo 6
*** Artigli. A tre zanne. ***


 

Capitolo 5 Artigli. A tre zanne.

“Ti prego, presta attenzione.” le aveva suggerito composto Nicandro, abbracciandola, con un calore che superava quello della preziosa pelliccia di brinato zibellino che il ragazzo indossava. Una rivelazione che voleva essere taciuta dalle tenere labbra di lui, perché troppo amara. L’unico avvertimento che riusciva a confermarle, con quella sua voce pacata e riflessiva, ancora fresca di adolescenza “Lasciati guidare dai tuoi sensi.”.
“Artigli. A tre zanne.” sorrise lei, spavalda, sottovalutando il consiglio, mentre ondeggiava i lunghi capelli bruni, che si spostarono in ondulati boccoli sulle spalle.
Lavinia chinò la fronte su quella di Nicandro, in un tocco leggero, promettendo “Farò attenzione.”. I loro capelli che si lambivano leggeri, in una mescolanza di bruno e freddo biondo cenere.
“Promettimelo.” ribadì Nicandro, questa volta con decisione. Ogni partenza era sempre difficile da accettare per lui, come sopportare l’incertezza del ritorno, quando già i suoi occhi avevano provato la tristezza di non vedere più coloro che amava; com’era stato con la morte di Guglielmo Montetardo, di cui ora spartiva lignaggio e nome e, quella del cugino Moros.
“E’ Ludovico che deve preoccuparsi, non tu!” suggerì ottimista lei, per poi ordinare “Ora, rientra.”. La stessa autorità di una madre, più che una sorella.
Nicandro la salutò, facendo scendere il capo obbediente, prendendo licenza e indietreggiando fino ad affiancare la tronfia figura di Gregorio, che invece avanzò, ostentando un mantello di prezioso broccato, rosso scarlatto, filigranato d’oro.
“Trovalo. Uccidilo!” ordinò secco Gregorio, indagando il suo animo con un viso serio: parole crude, com’era nel suo stile. La sua voce invase il piazzale della guarnigione, mettendo in chiaro “I suoi alleati sono nostri nemici.”. Niente sconti a nessuno.
Lei fece un breve cenno d’assenso. Nonostante fosse abituata ad eseguire gli ordini, non riusciva ad ammettere verbalmente fosse capace di assolverli senza scrupolo, soprattutto in presenza di Nicandro. Ma… gli avrebbe eseguiti. Aveva promesso di essere forte, di non aver più incertezze. Se solo lei… A causa sua era morto Guglielmo: per difenderla.
“Andate!” decretò la partenza Gregorio: il viso già impaziente di vederla eseguire il mortale incarico. I soldati del contingente si allinearono in fila al seguito di Lavinia. I loro usberghi erano lucenti, nel loro tessuto metallico; la gualdrappa dei cavalli decorata con l’insegna araldica della nobile aquila nera su sfondo azzurro, loro stemma.
“Salutate Gregorio e Nicandro di Montetardo, signori di Rocca Lisia!” s’impose con voce tonante il fedele soldato Mavio, segnalando ai soldati il momento del commiato, che solerti ripeterono il saluto all’unisono, con voce chiara e intensa.
Trovalo. Uccidilo! quello il suo incarico, si disse Lavinia, ora che sentiva fosse vicina a compiere la propria missione. Tra poco sarebbero giunti al villaggio di Risicone e lì sperava avvenisse finalmente l’epilogo che suo fratello agognava: la morte del legittimo erede di Rocca Lisia.
Lavinia non negò di essersi incollerita con i suoi perlustratori... Al fiume avevano smarrito le tracce di Ludovico, ma fortunatamente le avevano ritrovate: quelle dei tre cavalli che montavano nella fuga. Al villaggio, quei fuggiaschi, non sarebbero passati inosservati e questo avrebbe giocato a loro favore; nonostante l’antipatia che avrebbero suscitato, in quanto nuovi soldati occupanti la rocca.
“Ci siamo quasi, comandante Lavia!” riportò fedelmente Mavio, indicando la sagoma delle case in lontananza, una frase ovvia, ma che manteneva alto l’umore e la tensione.
Lavinia sorrise guardando fiduciosa avanti a sé. La pelle ravvivata nel suo colorito sano e leggermente brunito dal sole.
Finalmente! si disse, mascherando la sua frustrazione e impazienza.
Respirò l’aria a pieni polmoni. Il villaggio era anticipato da una campagna ben coltivata e ordinata, zolle ben zappate e alte erbe delizia per il pascolo, grazie alla vicinanza del fiume. Uccelli canterini e terraioli, si alzavano dai cespugli al loro passaggio, come altrettanti topolini e rane sbucavano e sparivano frenetici e schivi, sotto i loro occhi. Sollevava l’animo quella quiete, che tanto strideva con gli ambienti caotici delle campagne militari che si combattevano senza sosta nella regione; territori in cui re Bressano voleva consolidare o allargare il proprio dominio, avvalendosi proprio delle armate di Gregorio Montetardo.
L’aria le portò uno strano odore.
Intenso, umano, acre.
Lasciati guidare dai tuoi sensi, ricordò.
Avanti a loro, apparentemente solo erbe verdi, elastiche, alte, sottili e fitte, ai lati del percorso campestre che portava al villaggio di Risicone.
“Un’imboscata!” gridò alzando la propria spada in aria, in un segnale collaudato che faceva dei suoi uomini un unico individuo. I cavalli schierati verso il fronte indicato dalla spada, come fossero una muraglia. Un aspetto di solidità e preparazione che aveva un che di impenetrabile e impossibile da sconfiggere.
Uomini tra le erbe, sbucarono improvvisi, alzando le teste dal fogliame per accanirsi verso di loro.
Una ventina di impreparati contadini tentarono una veloce avanzata, alzando e agitando forconi a tre rebbi, che puntavano avanti a sé, a sgombrare il proprio cammino.
Forconi a tre rebbi. Artigli. Zanne affilate.
Avanguardia del loro drappello di soldati, un sasso sfiorò Mavio, ma l’imprecisione del lancio gli evitò un danno fatale, provocandogli solo uno striscio, da cui fuoriuscì un rivolo di sangue che lui prontamente cercò di arginare, nonostante fosse stato colto alla sprovvista.
“Fermi!” consigliò ai suoi uomini, trattenendo il proprio cavallo. La voce irritata nel gareggiare contro l’ansia del cavallo per le urla che anticipavano la folle corsa dei contadini che volevano raggiungerli per massacrarli. “Aspettate siano vicini.” consigliò Lavinia.
Con uno strattone, obbligò il cavallo ad ubbidire Palafreno, non è il momento adesso per fare i capricci! ringhiò a denti stretti.
Non sarebbe stata debole. Non un suo uomo avrebbe rischiato la propria vita, inutilmente. Quello s’era ripromessa, quando aveva cacciato Moros. L’amore poteva tradire; l’amore poteva essere un’arma. Lei non ne sarebbe mai più stata ostaggio.
Passò le briglie sulla sola mano sinistra, mentre con la destra, raggiungeva la faretra e ne estraeva una freccia.
Passò le briglie alle labbra, mordendo forte il cuoio a trattenerle per armeggiare con la mano sinistra alla stessa spalla. Ecco! Riuscì a prendere l’arco che trasse avanti a sé. Padroneggiò con eleganza ed equilibrio arco e freccia all’unisono: tese il primo, posizionò la seconda dritta davanti a sé.
La sentì vibrare oltre le urla, oltre l’aria.
Veloce come una saetta, percorse il vuoto davanti a lei, non ancora colmato, scontrandosi con la fronte di un contadino che ne fu colpito in pieno, ricadendo all’indietro a terra.
Era l’uomo che li guidava, avanzato per primo ad incitare i compagni: l’esempio che andava distrutto.
Lavinia si concesse di respirare. Il seno le altalenava nel petto, la mano, le braccia tremolanti, compiuto il gesto che aveva arginato l’adrenalina nel suo corpo.
“Ora! Attaccate!” urlò vendetta per i suoi uomini, che avrebbero contraccambiato impietosi quello sgarro ai Montetardo. “Ricordate il monito di mio fratello, o sarò io a rinfrescarvelo!” ironizzò con un sorriso arrogante e complice. Sapeva difenderli e metterli avanti a sé, ma non c’era dubbio che avrebbe altrettanto denunciato la loro codardia.

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Capitolo 7
*** Da che parte stare ***


Capitolo 6 Da che parte stare

 “Sentiamo.” esordì languida Lavinia, mentre con una pagliuzza solleticava fastidiosamente il collo di uno dei contadini che li avevano attaccati: uno a caso tra i molti superstiti. Per cominciare. Gli altri in un angolo ammucchiati; prostrati dopo la morte del loro capo.
Il villaggio li aveva accolti, senza colpo ferire. I capi schini degli sconfitti d’avanguardia a precederli, a smorzare ogni tentativo di resistenza.
Quelli erano gli uomini più forti e avevano fallito.
Il granaio del villaggio sequestrato. Le scorte trasferite nei loro cavalli. Uno dei tre casolari destinato a prigione.
L’uomo in ginocchio davanti a lei, conservava un’aria aggressiva, ma non osava risponderle; cercando di nascondere trovasse molesto quel fastidio.
Lavia rise, alzando la fossetta della labbra a sinistra, “Sei un duro, accordò.” ma il timbro della sua voce, precisò non ne fosse convinta. Guardò i ribelli, buttando a terra annoiata la pagliuzza, come trovasse una perdita di tempo interrogarli.
“Ludovico è il nostro signore.” ringhiò il contadino, con rinnovata grinta.
“Ed io la vostra, di signora.” gli rise in faccia, sostenuta dai suoi uomini.
“Non lo siete…” aggiunse il contadino. Le risate finirono, come la pazienza di Lavinia! Lo colpì in pieno viso; un ceffone con la mano aperta sulla guancia, così forte da fargli girare il viso di lato, smuovendogli la guancia nel fastidio della gengiva dolorante.
“Gregorio e Nicandro di Montetardo sono i vostri signori!” precisò, prendendogli aggressiva i capelli, tirandoli verso l’alto e facendolo seguire quella salita a forza, sbilanciandolo; legato com’era alle mani e ai piedi. Il contadino vacillò ma mantenne il proprio precario equilibrio in asse.
“Prenderemo quanto ci spetta!” disse velenosa, sembrando indisposta ad accettare scusanti alla loro mancanza, salvo suggerire, “A meno che…”. I suoi uomini per primi avrebbero beneficiato di quell’irresponsabilità nel accoglierli con i forconi. A giudicare dai loro sorrisi, le guardie dei Montetardo, approvavano con gratitudine l’ipotesi di una piccola licenza.
“Faremo quello che volete!” fu svelto a frenarli il contadino, che messo alle strette oltre la propria vita, era ritornato magicamente collaborativo. Le voci dei compagni che lo sostenevano dall’angolo.
Vero! Lavinia aveva giocato vigliaccamente, ma semplicemente allargò i palmi e scrollò le spalle “Non posso tornare a mani vuote?”.
Il contadino approvò ogni sua parola e gesto, mentre lei tranquilla confermava “Buono!”, spostando l’indice all’insù, come appuntasse fosse un’ottima scelta ubbidire.
“Hai visto dei cavalli? Dei cavalieri? Ludovico Chiarofosco?” ironizzò, facendo una smorfietta con il naso minuto.
L’uomo fu pronto a rispondere “Tre cavalli sì! Tre uomini li hanno venduti a Valdo, stamattina. Un moro, un rosso, un biondo!” approvò il contadino, sicuro di aver merce solida per cautelare villaggio, famiglia e compagni, “Valdo, li ha incontrati al fiume.”.
“E bravo, Valdo!” accordò Lavinia soddisfatta e ironica.
“Quindi qui non ci sono?” chiese Lavinia cercando approvazione, avanzando il bel volto, annuendo, amichevole.
L’uomo glielo assicurò.
“Ottimo!” allungò l’ultima vocale, dilatando le aspettative.
“Oltre i cavalli, hanno lasciato qualche bagaglio?” indagò vaga.
L’uomo rifletté, ammettendo tuttavia dispiaciuto “Solo un pugnale sbeccato.”.
Lo sguardo di Lavinia si ravvivò, chiedendone notizia.
Liberò l’uomo dalle corde, lei personalmente, riservandogli una grande premura. “Portami quel pugnale.” comandò e, l’uomo eseguì veloce.
Il contadino tornò facendo l’atto di consegnarglielo, ma fu il fidato soldato, Mavio, a richiederlo, ponendolo tra le pieghe di un pezzo di stoffa; maneggiandolo come fosse prezioso.
“Mi siete stati utili.” disse Lavinia, accomodandosi i lunghi capelli e il mantello, nell’atto di ripartire. La tensione sembrò sciogliersi. La sua espressione era soddisfatta.
“Torniamo a Rocca Lisia!” ordinò: i contadini increduli di quelle parole.
Rinunciava a cercare Ludovico?
“La prossima volta non intralciatemi!” li avvertì infastidita. Chiaramente non ammetteva contestazioni.
I contadini muti, restii a rispondere. Il suo bel volto, di giovane donna, strideva con parole di tono gelido.
“Per questa volta avete salva la vita.” accordò magnanima. Li guardò negli occhi: uno a uno. Scolpendosi i loro visi; loro fecero altrettanto col suo.
“Chi comanda?” richiese.
I contadini increduli di ammettere “I Montetardo.”.
“Non lo dimenticherete!” impartì con voce secca. Il tempo di uscire dall’uscio per ordinare “Bruciate le case! E’ una punizione sufficiente!”.
Quel villaggio non avrebbe mai più dato loro problemi.
Un alleato in meno per Ludovico.

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Capitolo 8
*** Solo un bacio ***


 

Capitolo 7 Solo un bacio

 
Ben misera cosa era tornare alla rocca con vettovaglie, tuttavia la dimostrazione di forza verso Risicone poteva risparmiare loro una punizione: Gregorio era inflessibile nell’impartirle.
Lavinia se ne fece una ragione.
Ludovico poteva avere dalla sua consensi imprevisti che lei doveva riferire a suo fratello, che vi avrebbe messo mano.
Concesse una carezza a Palafreno, il suo nero stallone, come a sollevare la stanchezza di un vecchio amico. Rocca Lisia era ormai vicina, ma la pioggia che accompagnava il loro ritorno metteva tutti di cattivo umore.
Non era felice di quanto fatto. Incendiare tre case era stato misero sfoggio di forza, ma sufficiente per far abbassare nuovamente la testa di quei contadini.
Con loro era stato facile, mentre con Moros…
Lui non l’aveva mai accettata come sua signora. Un tempo l’aveva odiata, poi ignorata e poi, ancora… Simpatizzato con il nemico, avrebbe sorriso indulgente Nicandro.
Così Lavinia ricordò una serata danzante. Il melodioso suono d’un flauto e di una viella che allietavano un banchetto del suo tutore Guglielmo. Il vino che l’aveva accalorata, il bisogno di respirare l’aria cristallina del tardo pomeriggio, nei bagliori del fuoco rosso del tramonto.
Nel piazzale sottostante la servitù ballava accogliendo la primavera, tra lo sfavillio di innumerevoli fiaccole, mentre i menestrelli mimavano viaggi e giganti, disegnando grandi gesti in aria con le braccia.
L’invito di Nicandro a ballare, il braccio alzato ad accogliere il suo per iniziare le danze, in un atteggiamento quasi ardito per la sua giovane età “Mia signora, ballate?”. Il suono della rotta che scioglieva ogni tensione nell’allegria propria di quella melodia. Privi di malizia avevano danzato, come fratello e sorella, avanzando assieme e indietreggiando, accompagnati dal suono delle risate che salivano dal piazzale sottostante la terrazza, quelle dei servitori e dei soldati più chiassosi. Stanchi, poi, si erano sporti al parapetto, ridendo lieti; Guglielmo che li raggiungeva, bonariamente rimproverandoli avessero disertato il banchetto. Il sorriso di Guglielmo che riempiva i loro sguardi. Quasi un padre: amorevole, premuroso, buono. Gli occhi di cielo che riempivano l’oscurità e che lei adorava.
Ricordava ogni discorso di quella sera, ogni ottimismo di Guglielmo sul loro futuro, sul favore del re Bressano, in quelle terre o altrove; ricordò il descrivere Montetardo a Nicandro perché accettasse di farne parte, come figlio legittimo.
E poi quella sensazione, di sentirsi spiata, tra i fuochi, le foci, le danze.
Rimasta sola nella terrazza; quella sensazione non l’aveva abbandonata.
Quegli occhi!
Gli occhi di Moros che dal piazzale sottostante la fissavano, rimuginando.
Lavinia odiava quegli occhi, che la colpevolizzavano: quegli occhi che la mettevano a nudo. Quel viso impassibile.
Lei tentò di guardarlo con altrettanta freddezza, avvantaggiata dall’essere in alto: perché lo era. Lei, la Signora di Raucelio. Lavinia Montetardo.
Eppure era rimasta muta, incapace di sfidarlo. Quella sera. Vigliacca.
Scendi! s’era sentita ordinare da quegli occhi e lei non aveva potuto ignorare quel comando, quasi in gioco l’onore nell’accettare una sfida.
Le serve, gli uomini che chinavano il capo al suo apparire in cima alla scalinata, che separava le loro misere esistenze dal piano nobile del palazzo di Raucelio. I soldati che si ricomponevano, dagli angoli in cui si dilettavano, per decenza, in sua presenza.
Moros non l’aveva aspettata, incamminandosi. Lei aveva preso a seguirlo a distanza, a testa alta. L’abito rosso, damascato che ne faceva fiamma di candela in mezzo alle tenebre.
Era entrata nella stalla, vuota e silenziosa, debolmente illuminata: il fiato dei cavalli che evaporava dalle narici che sembravano annusare l’aria caotica che giungeva dalla festa.
Quelle mani, così sapienti nell’accarezzare Palafreno, la incantarono, mentre lente scorrevano sulla criniera setosa, quasi spazzolandola. Era come ammirare l’eroe di un dipinto in attesa della sua prova.
Non bastavano le parole a descrivere l’emozione che Lavinia aveva provato. Il cuore che le martellava in petto, in presenza di Moros.
Lei non tollerava quelle emozioni. Voleva osteggiare la sua ribellione; osteggiare il fuoco che era sempre nei suoi occhi verso di lei.
Sembrava proprio non riuscissero ad andare d’accordo, cedendo ad una tregua.
“Lo porterà a Montetardo, vero?”.
Quelle parole la gelarono, dettandole di giustificarsi, quasi ne fosse responsabile “Non puoi parlare sul serio.”, si scandalizzò “Nicandro vuol bene a Guglielmo. Sarà suo legittimo erede.”.
“Signore di Montetardo.” disse sprezzante Moros, ironizzando sul loro nome.
Era troppo! Lavinia si gettò di slanciò verso di lui, ricambiando aggressiva quelle parole con un gesto offensivo del braccio in aria “Tu! Non hai il diritto…”, con la rabbia che si impadroniva del suo volto leggiadro facendone una maschera, mentre le labbra le tremolavano aggressive. Lui che si limitava a trattenerla, rendendola frustrata di non riuscire ad averla vinta su quella fisicità che la dominava, senza ferirla, ma arginandola.
“Villano.” Aveva argomentato, ingaggiando una lotta che non aveva né vincitore né vinto, logorante per tutti e due.
“Tua madre l’ha accettato...” rispose velenosa.
“Quella donna, baratterebbe anche me per pochi denari.” confidò inclemente Moros: disprezzandone lo spirito non proprio materno.
“Esentarci dalle tasse in cambio della vita di mia cugino.” ci scherzò su. La lasciò.
“Sei ignobile.” era rimasta inorridita di sentirlo sputare sentenze su un generoso atto di Guglielmo, che lei avrebbe difeso ad oltranza.
“Sai che mi importa.” argomentò con una scrollata di spalle, evitando di guardarla.
“Vivono l’uno per l’altro.” cercò tuttavia di capirlo nell’affetto. Guglielmo e Nicandro avevano sofferto molto: il primo privato dalle malattie di moglie e figli, il secondo del padre e della madre.
“E’ stato un incontro del destino il loro.” giustificò lei; “E’ stata la tua maledetta freccia!” controbatté lui, feroce, facendola indietreggiare quando le si voltò contro nuovamente.
“Sul mio onore.” lo frenò Lavinia, arginando la sua rabbia “Lo proteggerò sul mio onore.”. Parlava col cuore, per abbattere quella diffidenza. Moros conosceva e stimava Guglielmo, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Come non poteva negare il vantaggio di sottrarre il cugino da una vita di miseria in confronto alla liberalità che gli veniva offerta.
Fu la prima volta che gli prese la mano, per trattenerlo: quella mano forte da tagliaboschi, che tanto strideva con la sua delicata.
Fu la prima volta che lui le toccò la guancia, soffermandovisi. Fu la prima volta che il bel volto di Moros si chinò sul suo e le sfiorò dolcemente le labbra: uno sfioro appena che la travolse. Senza parlare, lui continuò e… lei accettò quel lungo e sapiente bacio che non avrebbe mai voluto avesse fine. Non ci fu’ altro. Solo un bacio. Il suo primo bacio,
Ed ora di quel bacio, cosa restava? Solo un amaro ricordo.
Non era venuta meno, alla sua promessa, ma lui non vi era stato incluso!
Ringraziò la pioggia che ora le lavava il viso, coprendo le sue lacrime.

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Capitolo 9
*** Cause perse ***


Capitolo 8 Cause perse

 
Mani callose scostarono l’edera che avvolgeva il vecchio capanno, nascosto tra cataste di legno e roccia, in cui sembrava adagiato; in disuso ormai, in quelle terre un tempo disboscate ed ora nuovamente dimora di un’impenetrabile foresta.
La figura incappucciata entrò guardinga. Vi era determinazione in quel passo, ma soprattutto una dose di pazzia nel farsi portavoce di un’impresa ardita.
“Dichiarati! O sei morto!”, un pugnale alla gola accolse quella figura all’ingresso, prima che si addentrasse ulteriormente all’interno.
Più un respiro o un singolo sbuffo di fiato. La lama che inclemente lambiva la carne del collo. Le membra restarono tese per il panico.
Il copricapo fu portato alle spalle per vederne il volto.
Sembrò esserci tregua e un’impercettibile retrocedere della lama perché parlasse.
Senza pensarci due volte venne la risposta “Vengo in pace!”.
Una parola troppo grossa per un contadino! fu il simultaneo pensiero di Ludovico, Federico e Alberico, che si guardarono negli occhi complici, nella penombra.
Ludovico fece un cenno, portando il capo a lato, a ordinare all’amico un allontanamento. Il bruno Federico si distanziò veloce, ritraendo la lama, al contempo spingendo il contadino, che sbilanciato cadde a terrà, salvandosi con le mani da una caduta rovinosa.
“Rocca Lisia è stata privata della giusta guida di Ludovico.” parlò senza indugi il pover’uomo, parlando al suo signore quanto agli uomini che avevano lealmente scelto di condividerne il destino. Restò in ginocchio cercando di intravedere, abituando i propri occhi alla poca luce, il volto del signore che cercava e che, lui e i compagni contadini, ipotizzassero avesse trovato riparo in quella foresta.
La voce mesta di chi potrebbe morire, solo per capriccio. “Il popolo ha bisogno di voi!”. Una lusinga che non avrebbe commosso il biondo Ludovico.
Lo lasciano adularlo, pregarlo, implorarlo, finché il rosso Alberico aggredì il contadino in vece di Ludovico “L’avete deposto e ora lo evocate.”.
Il contadino raccolse il proprio capo tra le mani di fronte alla verità enunciata. “Quando Iorio, vostro padre, è morto.” parlò al nobile “Ci siamo sentiti impreparati.. sietee gio..vaneee.”, si difese maggiormente la testa, chiudendola tra le spalle.
Forse nei pensieri di quell’uomo, Ludovico avrebbe potuto capirli: erano pavidi, né più né meno pecore, che avevano scioccamente ignorato di avere un pastore in grado di condurle. Il contadino fece ammenda “Ma la vostra determinazione nel voler difendere la rocca ci ha stupiti!” confessò petulante, alzando di poco il capo, perché gli occhi riuscissero ad impietosirlo.
“Zelio ha detto che non ci sarebbe stata battaglia.” esplose in un piagnucolio isterico il contadino, che si appiattì al suolo, toccando i piedi di Ludovico e sviolinando “Gregorio e’ vicario del re Bressano. Il suo nome lo precedeva. Ma ora… Ci stiamo organizzando.”. Finì col piangere “Siamo disperatiiii.”.
L’amico Federico incalzò inclemente “Avete lasciato che Zelio montasse una rivolta… favorendo un vile mercenario!” urlò alle spalle del contadino, facendo tremare quelle membra raccolte.
Ludovico pose la mano avanti, in un atto di clemenza, ma senza mezzi termini richiese “Come avete fatto a trovarmi?”. Il tono della sua voce non mascherava l’indignazione che a scovarli fosse riuscito un semplice contadino; una ciocca bionda ondeggiò adombrando il suo bel volto di ventenne.
“Dal fiume, qualcuno di noi ricordava..” iniziò il suo racconto. “Gli anziani.” precisò il contadino, trasferendo su di loro la colpa o il merito, “Ricordavano si accedesse di nascosto alle Vecchie Terre.”: una zona trascurata dalle colture perché marginale, in cui si faticava a strappare il dominio alla vegetazione; considerata dimora di animali feroci e rinnegati, nonché ricettacolo di creature pericolose e magiche.
Il rosso Alberico, di un pallore del viso che metteva a disagio, intervenne “Ve l’ha detto l’uomo a cui abbiamo lasciato i cavalli?”. Alberico sembrò rimuginare di aver, nel caso, un conto in sospeso con quel ribaldo dalla lingua troppo lunga. Pur vero l’avessero pagato per portare i cavalli oltre il villaggio e disfarsene, sapendo di darlo in pasto alle ritorsioni di Gregorio Montetardo, rendendolo involontario aiuto alla loro causa.
“Quell’uomo è già morto!” precisò veloce il contadino: gli occhi in fuori che sembravano riportare alla memoria la macabra vista di cui il contadino era stato spettatore. La voce, preda di un tremolio “Non è stato il solo. Il villaggio di Risicone è nella sventura!”.
“Sbagliavamo a non temere i Montetardo. Gregorio e sua sorella non hanno interesse per le terre… Temevano la cattiveria di Zelio ma speravamo ci difendesse…” un groppo in gola per confessare l’agire del capitano “Zelio ci ha dato in pasto ai soldati di Gregorio.”.
“I Montetardo.” nominò meditabondo Ludovico. Il nome dei nemici che l’avevano usurpato e ora occupavano la sua terra.
Le parole crude del bruno Federico confermarono una verità amara, sentenziando “Zelio ha agito unicamente per interesse.”: solo sciocchi contadini potevano cascarci. “Per salvarsi!”.
Una svolta.
La voce rotta continuò “Ci siamo esposti contro i soldati che vi davano la caccia..”; non c’era bisogno raccontasse l’esito dello scontro, glielo si leggeva in faccia.
Il biondo Ludovico lo ascoltò. Alzò un labbro, rimuginando non li valutasse in grado di reagire.
Ulteriori confessioni “Il nostro raccolto, il nostro bestiame, le nostre donne.. sono a rischio.” in una melodrammatica cantilena. “La sorella di Ludovico ha sequestrato il grano e bruciato le case di Risicone.”.
Federico sempre più inquietante e pratico “Vi aspettavate potesse bastare una scusa?”; rise.
“Come ci possiamo fidare?” continuò Federico, traendo a forza in piedi l’uomo e strattonandolo aggressivo, quasi sfogando tutta la propria rabbia. Alto e di braccio forte sovrastò il contadino, come fosse un burattino, nonostante il fisico sodo e vigoroso, abituato alla fatica.
Ludovico lo frenò, toccando l’amico alla spalla per dettargli calma e Federico eseguì.
Federico lasciò improvviso la presa, lasciando che il contadino rovinasse a terra. Lo sdegno nei suoi occhi chiari; una smorfia sulla bocca che assunse una piega di disgusto, come di fronte ad un verme, mentre Alberico ricontrollò l’esterno. Potevano averlo seguito.
Piangeva sincere lacrime, ma il volto di Federico e Alberico non mascheravano di volerne ignorare le suppliche.
“Vogliamo il vostro ritorno. Possiamo ribellarci! Siamo pronti a lottare per voi!” quella la rivelazione. Il motivo per cui era là e cercava Ludovico!

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Capitolo 10
*** Uno strano giorno di pioggia ***


 

Capitolo 9 Uno strano giorno di pioggia

Santi numi, che pioggia! si disse Moros, correndo sotto la pioggia inciampando tra le pozzanghere che rendevano umido il terreno, tramutato in pantano. Veloce si riparò sotto la tettoia che fiancheggiava tutti i lati di una locanda. L’ubriacone che sedeva a terra, si ridestò alle sue parole, dal cumulo di stracci in cui aveva trovato rifugio dal freddo, in una pausa che sapeva di lunga durata.
“Quella vecchietta aveva ragione!” disse scanzonato Moros cedendo ad una limpida risata. Girò il collo da spalla a spalla dinamico per controllare il suo stato. Non era per nulla bagnato. Salvo per fino negli stivali; dalle pozzanghere e dai rigagnoli che scorrevano lungo il selciato di grossolane pietre che rendevano più agevole l’arrivo dei carretti alle poche case di quel modesto villaggio, fatte di mattoni di fango e assi di legno malfermi, che sembravano sul punto di crollare.
Quel mantello tarmo, all’inizio, non aveva fatto gran bene il proprio lavoro: gli era calzato più come uno straccio che come un capo da viaggio. La verità? S’era vergognato nell’indossarlo quando, pure due malandati e miseri contadini, ne avevano mortificato la vecchiezza, incrociandone la strada. Aveva finito col riporlo nella bisaccia, ma non l’avrebbe abbandonato, perché tuttavia, l’aveva promesso.
Che razza di acquisto! s’era rammaricato, criticato da quei volti che sembravano sbeffeggiarlo alle spalle.
La pioggia insistente l’aveva deciso a ritrattare di tenerlo nascosto. Avrebbe bagnato quello, così alla locanda avrebbe potuto tenere quello buono, che sarebbe rimasto sotto all’asciutto.
Pur intensa e scrosciante, alzato l’ampio cappuccio l’aveva quasi ignorata. O lei aveva ignorato lui, aveva ironizzato Moros.
L’acqua scivolava via dal tessuto, come fosse pregno di grasso.
E come teneva caldo! Non aveva più sentito freddo, tanto che ora disprezzava di toglierlo.
Decisamente aveva cambiato la propria opinione, si disse rinfrancato sulla fiducia, come se sì, proteggesse da ogni malanno, pure dal pessimismo.
“Non sono affatto bagnato!” volle incuriosire l’uomo a terra, o meglio, aveva semplicemente voglia di parlare per smorzare la solitudine di quel viaggio inconcludente. Sperava di avere notizie di Ludovico. Delle sue gesta o della sua infamia: qualsiasi cosa lo portasse a lui.
L’uomo dette una scrollata delle spalle, sorpreso dalle sue parole. Gli occhi offuscati dall’alcolica bevanda che fissò vuoto.
L’ubriaco continuò a fissarla per saggiarne la quantità contenuta e bevuta, alzando il gomito.
“Sei di poche parole!” disapprovò Moros corrucciando le sopraciglia.
Un mugugnare dell’ubriaco, che collerico si sistemava nella sua seduta, borbottando fastidioso “Che mi prenda un accidenti!”.
Moros rispose negando col capo “Se lo dici tu, amico!”.
“Amico, szzz” disse disgustato l’ubriaco riponendo il collo della bottiglia alle labbra screpolate. Il viso paonazzo e infastidito d’ascoltarlo, che si girò di scatto. L’uomo bevette una sorsata veloce, poi con la bottiglia sembrò scacciarlo e quasi lo colpì sulla gamba destra. Ci andò vicino, anzi sembrò proprio lo colpisse ma il frenetico agitare l’aria nei fumi dell’alcol non portarono l’uomo a concludere nulla. Aggredì feroce l’aria, scacciando una mosca e lui insieme, per poi ritornare pacato.
Moros si inginocchiò per armonizzare la loro altezza.
“Calma! Calma!” disse Moros, quando l’uomo tornò a bere: non voleva essere maleducato e presentarsi a dovere.
Abbassò il cappuccio sulle spalle, dicendo amichevole “Bella giornata!”.
L’uomo ebbe un tremo, come colto di sorpresa: preso alla sprovvista dal suo ironico saluto. Pose la mano al cuore, alzando finalmente lo sguardo “Che mi prenda un accidente!”. Bevette avido una sorsata più lunga delle precedenti, suscitando l’ilarità di Moros che iniziò a trovarlo divertente, nonostante l’odore stantio dei vestiti e l’alito d’alcol.
“Bella un accidente!” rispose l’uomo bevendo, raggiungendo finalmente il fondo della bottiglia: forse era l’unica frase che quell’uomo riusciva a dire.

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Capitolo 11
*** Incertezze dal passato ***


Ciao a tutti ^-^
Mi spiace aver tardato ad aggiornare, ma sto' cercando di fare un buon lavoro, così vi prego di perdonarmi.
Grazie a tutti quelli che leggeranno e commenteranno!

Capitolo 10 Incertezze dal passato

 
“So’ che non amate i consigli..” la affiancò a cavallo Mavio, grattandosi con l’indice la tempia: il pesante cappuccio del mantello, afflosciava sul collo la maglia metallica in più pieghe che sembravano infastidirlo, la fronte sgombera dai capelli castano miele, trattenuti da una fascetta orizzontale che gli cingeva il capo, come d’uso tra molti soldati e nobili.
Lavinia ne percepì l’imbarazzo di parlarle così francamente, oltreché per la voce che teneva sospesa la frase, anche per i lineamenti del volto, tirati in un forzato sorriso. Entrambi, sapevano benissimo fosse vero quell’aspetto del carattere di Lavinia, tanto era il tempo che si conoscevano: restia a confidarsi e palesare incertezze.
Le rughe più marcate, nel volto del soldato, raccontavano il passare degli anni: per Lavinia dalla fanciullezza alla maturità, per Mavio dall’irrequietezza della giovinezza all’equilibrio dell’età adulta che ormai, oltre la trentina, lo rendeva cauto e misurato negli approcci.
Lavia accennò un sorriso tagliente che sembrò disapprovarne l’ardire di giudicarla, mentre come se fosse infastidita dall’umidità veloce pulì gli occhi lucidi. La pioggia non cessava di bagnarle le guance, confondendo le pene del suo cuore agli occhi del fidato soldato. Fradici, i mantelli pregni ormai d’acqua pesavano sulle spalle. Anche i cavalli avanzavano chini, quasi abbattuti, dondolando la testa a confermare un generale abbattimento, in sintonia con i propri cavalieri. Palafreno non faceva eccezione, spendendo un’andatura da ronzino fiaccato, che le sue carezze non risollevavano nel passo. Il percorso sgombro d’ostacoli tuttavia poteva mantenerli rilassati: una campagna silenziosa, d’erbe basse, che permetteva un calpestio sicuro.
Mavio si sistemò il cappuccio del mantello nel parlarle, quasi lo sfruttasse come un nascondiglio.
Suvvia, parla! rimuginò Lavia.
Mavio era l’unico che poteva osare parlarle a quel modo, in maniera così franca: del resto ne avevano passate tante assieme…
Mai una volta mi hai tradita, rifletté Lavia riconoscente. Neppure di fronte a Gregorio o meglio di fronte alla sua vigliaccheria.
Ricordò quel “Metteresti in pericolo chi ami!” che aveva detto Mavio a Moros, convincendolo a lasciare Montetardo due anni prima. Nello stretto corridoio che anticipava le prigioni, la punta della spada di Mavio aveva sfidato la punta di quella tempestivamente recuperata da Moros, sfiorandola in un suono brillante di metallo che s’era divulgato vibrante tra le vuote e annerite pareti; scivolando su quella di Moros semplicemente accompagnandola verso terra, inclinandola leggermente, guidandola senza inimicizia. La voce ferma di Mavio che dettava l’unica strada percorribile per Moros “Non hai scelta.”. Mavio, gli occhi neri severi, aveva usato parole crude ma sagge, di cui Lavinia continuava a rendergli merito. Le avesse pronunciate lei, Moros le avrebbe rinnegate, giustificandole come un residuo d’amore o credendole monito di un odio crudele che chiedeva vendetta, quanto di egoismo, a protezione degli interessi e della vita di Gregorio.
“Hai sfuggito la morte. Allontana l’ombra della prigionia. Non la tollereresti!” aveva consigliato brutale e comprensivo allo stesso tempo il buon Mavio. Lavinia ne ricordò il viso, che si manteneva rigido, ostile all’apparenza, mentre spartiva la stessa altezza di quello di Moros che gli era di fronte.
Solo apparenza, null’altro, perché Lavinia vi aveva riconosciuto bontà d’animo nel coprire un’evasione che poteva significare speranza e non disfatta, in quanto unica garanzia di vita per Moros.
Quel funesto giorno, di quel patto di lealtà e di amicizia, a terra morto era rimasto Bastiano, vile sicario di Gregorio, che di quella prigione avrebbe dovuto fare la tomba di Moros a dispetto delle preghiere di Nicandro, garantite a voce da Gregorio, ma lontane dall’essere lealmente esaudite.
“Sono un soldato, non un assassino!” parole di cui Guglielmo sarebbe stato fiero, nelle labbra di Mavio, che confidava “A Guglielmo Montetardo giurai fedeltà, così rientra la sua discendenza, prescritta nello stesso giovane che mi fu affidato il giorno che ci incontrammo!”; s’era giustificato Mavio, chinandosi sul ginocchio di fronte a Moros. Fosse sufficiente garanzia per lasciare Montetardo?
Lavinia ricordò d’aver trattenuto il fiato, pregando, sperando facessero breccia nell’ostilità e determinazione di Moros di non fuggire da solo da Montetardo. La spada del giovane, infatti, risollevata e rivolta verso chi considerava un ostacolo tra lui e la libertà del cugino.
La testa curva di Mavio, che non temeva ritorsioni perché giustizia parlava per lui, l’aveva commossa nel giorno in cui aveva lottato con le punture delle pupille che volevano dilatarsi e sciogliersi in un pianto dirotto.
“Moros, vattene!! O sarò costretta a ucciderti con le mie mani!” aveva invece pronunciato aggressiva: parole che i suoi denti stringevano una ad una, restii a farle uscire. Va’ via!, implorava il suo cuore, che per una volta ubbidisse. Un’unica volta per amore e non per un ordine altero e meschino.
Lavinia ricordò di aver strappato il mantello al cadavere di Bastiano, lanciandolo a Moros perché capisse che non c’era più tempo e potesse confondersi nella fuga: quasi un gesto di premura che cancellava ogni debito tra loro. Averle salvato la vita in battaglia. Una vita tuttavia strappata a Guglielmo, che aveva data la propria in cambio delle vite di entrambi, nella speranza che condividessero il futuro assieme. Ora, quel futuro, non sarebbe più esistito.
Sfoderando la spada, a cascata i lunghi capelli bruni, le erano scesi a inombrarle il volto, blando tentativo di mascherare la disperazione di non vederlo mai più, considerandolo da quell’istante fuggiasco… loro nemico. Suo nemico.
“Mi avevi fatto una promessa!” l’aveva aggredita Moros, l’indice inclemente verso di lei, rabbioso, mentre il tempo si accorciava e assottigliava un tentativo di fuga che non poteva più essere rimandato.
Quasi il proprio animo avesse voluto trattenerlo era avanzata; il braccio si era allungato a lui, così la sua mano, fino sulla punta delle dita, quasi il desiderio di toccarlo, di osare di spartirne la sorte. L’amarezza di sapere entrambi che non avrebbe potuto seguirlo, perché il suo posto era là.
Non avrebbero dunque mai spartito la stessa altezza? Essergli compagna? Sarebbero stati come la luna ed il sole.
Il bel volto di Moros negava, senza parole, di aver anche solo pensato di amarla. Aver confuso malvagità con amore. Perché le streghe non possono mutare in fate… come lui l’aveva appellata al loro primo incontro.
Bene, trattenne un respiro, sollevando le spalle. Ora, come non poteva riconoscere un amico in quel viso, leggermente più rugoso negli anni; che non chiedeva motivazioni ora, come non le aveva chieste in passato, capendo e rispettando un sentimento chiamato amore, tra il proprio comandante, Lavia, e il giovane Moros.
Sospirò, per far tacere il passato. Un respiro lungo e liberatorio, mentre si svuotava dalle incertezze che il suo cuore di donna non riusciva a spegnere.
“Infatti!” replicò altezzosa, tagliando corto un discorso che non voleva cominciare.
Sapeva che Mavio ignorava il suo stato emotivo, o meglio non poteva immaginarsene la causa in quel momento, ma era comunque seccante giustificarsi con lui per la sua scelta di tornare a Rocca Lisia senza il prigioniero che Gregorio si aspettava.
Immaginò quel dialogo, un banco di prova prima di un confronto con il fratello.
I capelli appiccicati più che sulla fronte, ai lati del viso, le provocarono un fastidioso solletico mentre le finirono sulle labbra. Li allontanò.
“Cerca di essere più diretto!” accordò amichevole, sottolineando il proprio carattere pratico. Sbuffò perché si sbrigasse a parlare, non condividendo quel modo di agire,
Ripensò per l’ennesima volta a Moros o meglio al compiacimento di Guglielmo quando sottolineava avessero lo stesso carattere.
Moros non aveva timore nel parlarle, anzi non esitava a criticarla, a dispetto delle ritorsioni a cui sarebbe andato incontro.
“Non lo sopporti, solo perché ti tiene testa!” ironizzava Guglielmo, pungolandola, picchiettandole il naso scherzoso, mentre lei rispondeva pestando i piedi e stringendo i pugni delle mani, stirandoli lungo i fianchi, a trattenere un’esplosione di rabbia per stabilire “Non lo sopporto!”.
E Guglielmo? Si limitava a sorriderle.
Come le mancava quel sorriso, che illuminava le sue giornate, come il sole ristora i fiori del prato, rifletté.
Lei rispondeva “Mi infastidisce con quel suo modo di fare presuntuoso!”, iniziando a camminare su e giù per la stanza, sviolinando il suo pensiero; incontenibile di tacere su un argomento che le stava a cuore. E Guglielmo si limitava a sorridere, lasciandola libera di parlare, di confidare le pene che albergavano nel suo inesperto e giovane cuore.
Poi, le forti mani di Guglielmo la raggiungevano alle sue, con tenerezza, stringendole con affetto e i suoi occhi azzurri si armonizzavano ai suoi marroni “Lasciati guidare da quest’ardore, ma non lasciarti consumare.”.
Come poteva non consumarsi per quella fiamma che ardeva in lei ma che si sentiva di dover spegnere? Lei aveva di scatto, scostato il volto di lato, abbassando lo sguardo: le guance divenute una fiamma “Io non volevo parlare male di lui.”. Non riusciva neppure a nominarne il nome, Moros, senza figurarselo davanti ed ora non era diverso a dispetto di ciò che si riprometteva…
La sua voce che sviolinava a Guglielmo “Non posso farne a meno, dopo come mi ha trattata nella foresta.”: la foresta in cui era iniziata la loro storia… Ed il suo tutore l’aveva trattenuta “Lavinia!”, facendola sentire una cerbiatta in fuga. “Confida in lui.” parole così lontane, ma che le risuonavano nelle orecchie, come nuove dopo il ritrovamento della freccia.
“Perché non continuare le ricerche?” sviolinò d’un fiato Mavio, riportandola al presente.
“Avevamo perso le sue tracce!” precisò seccata, tornando al proprio incarico “Un dispiego di forze inutili.”. In guerra come in amore non si poteva essere indecisi e lei, non era una leziosa contessina smorfiosa, quindi basta perdere tempo con i se. Se fosse rimasto? Moros, sarebbe morto!
“Era azzardato seguirli al fiume?” proseguì inclemente Mavio, invitandola ad essere più esaustiva e più esplicita. Meno titubante e quasi irrisorio lui, questa volta. Ora sì che riconosceva un camerata, si disse Lavia.
Era soddisfatta della sua vita; cercò di farsene una ragione. Doveva pensare a Ludovico. A lui e basta!
“Era azzardato seguirli ovunque.” sentenziò, tuttavia concedendo una spiegazione maggiormente accurata “Li abbiamo braccati, ma a questo punto è più importante intuire il loro agire e prevedere le loro mosse.” precisò e Mavio sembrò approvare.
“L’insoddisfazione dei contadini può essere d’appoggio al trono di Ludovico!” approvò Mavio.
“Sicuramente fungerà da incentivo al suo desiderio di riconquistare Rocca Lisia.” accordò lei.
“Perfetto, si sta’ riorganizzando.” rise Mavio, ma inarcò le sopraciglia, sfiancato di quella risoluzione che significava battaglia in vista.
A Lavia sfuggì un sorriso. “E’ certo, che lo stia facendo!” lo guardò di storto, tanto da farlo frenare l’andatura per ritirarsi di qualche posizione rispetto a lei.
“E’ come un fuoco a cui dobbiamo togliere la legna!” suggerì pacata, mentre Mavio si riallineava, incitando il proprio destriero a rivedere l’andatura “Sapremo trovarlo?”abbassò il capo Mavio, in ascolto.
“Sapremo dove è stato e con tutta probabilità dove ritornerà!” approvò lei “Sempre che il pugnale sia suo o dei suoi uomini.”: meglio non cantare Vittoria! prima del tempo.
“Questo basterà a vostro fratello?” corrugò la fronte Mavio.
“Questo basterà a Nicandro!” sentenziò lei.
“Tuttavia come è fuggito, così potrebbe decidere di stupirci e fare un’improvvisata!” ammise velatamente la sua preoccupazione nel non sapere il come fosse riuscito a uscire dalla rocca.
“Tornerà a Rocca Lisia, dunque?” aggiunse indignato Mavio, titubante di quell’evoluzione che sembrava un azzardo.
“Credo sia ciò che spera mio fratello Gregorio!” concluse lei brillante. Di certo non si aspettavano si arrendesse senza colpo ferire.

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Capitolo 12
*** I casi della vita ***


 

Capitolo 11 I casi della vita

 
Chissà cosa aveva portato quell’uomo a ridursi così, goccio dopo goccio, rifletté Moros con amarezza. Sentì lui stesso che il rimorso poteva condurti a quel punto. Anche lui vedeva lontana la sua meta, forse irrealizzabile.
Puntò lo sguardo a fissarlo; del resto l’ubriaco dormiva o così era all’apparenza, nel torpore che sembrava avvolgerlo quanto gli stracci che indossava. Il respiro rantoloso, come se baruffasse nel sonno; la posizione scomoda che lo faceva russare con ritmo regolare per poi farlo destare per l’apnea mentre ruminava la saliva e piegava le labbra quasi sprezzante verso i suoi sogni inquieti.
“Prima” l’ubriaco fece un cenno con il capo all’indietro, “Non ti aveva visto…” lo chiamò in causa d’un tratto. Imbarazzato per averlo fissarlo, Moros si portò la mano destra al centro del capo in un atteggiamento monello.
L’ubriaco si ricompose seduto, come se fosse ritornato vigile nell’animo ma stanco nel corpo.
“Braccioforte è il mio nome.” annunciò presentandosi.
Un nome d’arte appropriato, ironizzò Moros, prima che l’uomo alzasse a muscolo il braccio che prima tratteneva la bottiglia e lo esibisse: vigoroso e sodo come quello d’un fabbro.
A Moros comparve per lo stupore una leggera smorfia tra le labbra che fece sorridere l’uomo.
“Moros.” si presentò alla spiccia allungando la mano a stringere la sua, che l’uomo gli aveva sporto: una stretta decisa ma veloce.
“Sono stato maleducato.” si scusò Moros, non avrebbe dovuto arrivare a conclusioni frettolose, ma l’uomo non sembrò portargli rancore “Non scusarti.” scrollò le spalle, che ora sembravano molto più larghe “Qualche volta mi buttò giù!” ammise intendendo l’altalenante umore.
“A chi non succede.” approvò Moros, prendendo posto accanto a lui, pronto ad ascoltare la sua storia.
“Iorio Chiarofosco morì per una pernice durante un banchetto.” sembrò iniziare alla lontana quell’uomo per poi stravolgere la narrazione “Così mia moglie, il giorno dopo. Cucinandola aveva fatto pochi assaggi…” disse tristemente.
Moros per rispetto restò in silenzio senza sviolinare inutili mi dispiace.
“Ero soldato a Rocca Lisia e Zelio il mio capitano. Fu lui a comandarmi di portare alla mia Betta quella pernice. Per quello bevo!” palesò il suo rimorso.
“Lasciasti il castello?”.
“Sì. Disgustato.” ammise l’uomo conscio di non poter più servire un capitano di cui non aveva più stima e fiducia. Vendicarsi sarebbe stato impossibile, del resto non aveva prove e “Gli eventi mi hanno dato ragione!” confidò: Zelio aveva rinnegato la propria fedeltà a Ludovico, confessandosi meschino.
“Tu, invece? Sei un ramingo?” chiese Braccioforte curioso.
Ramingo? Costretto da un destino avverso ad un continuo peregrinare? Non ci aveva mai pensato! rifletté Moros.
“Sono nato contadino e taglia boschi a Raucelio.” cominciò la sua storia catturando l’attenzione di Braccioforte che incalzò “Ma ora non lo sei più? O sbaglio?”.
“Ho servito Guglielmo Montetardo come scudiero nella battaglia di Castelferrato ma non seppi difenderlo.” confidò di cuore. Braccioforte si scurì giudicando le sue parole con interesse e portando la mano a strofinare il mento “Volevi difenderlo però...” quasi si aspettasse che un motivo si era messo di traverso e, in battaglia succedeva spesso.
“Mi impose di salvare sua figlia.”.
“Una fanciulla.” gli dette merito Braccioforte credendo Lavinia dolce e inoffensiva. Moros sorrise ma chiarì fosse soldato di ventura lei stessa e ben abile, ritornando con la mente a quel giorno.
Spalla a spalla avevano combattuto lui e Guglielmo che sottolineava “Ti ho addestrato bene!” mentre schivano i colpi dei soldati del castello di Castelferrato che tentavano di arginare l’assalto delle truppe assoldate da Re Bressano per sconfiggere il loro signore.
La spada di Moros che schermava una spada che voleva giungere a colpire Guglielmo, prontamente tenuta lontana “Da contadino a soldato, non male?” aveva scherzato, prima che non scorgesse Lavinia in soccorso di Gregorio in difficoltà, in pericolo come nei timori di Nicandro. Lei che ribaltava la situazione del fratello mentre lui cautelava Guglielmo, finché l’impensabile, l’immaginabile…
“Tua sorella. Difendi tua sorella! Non lasciarla scoperta!” aveva gridato a Gregorio che l’aveva guardato velenoso, dandogli poi le spalle come se non gli importasse, nella calca concitata della lotta. E lui? Ci era cascato di brutto in quella trappola: quella di accorrere a salvare la donna che amava, facendosi seguire da Guglielmo che mai li avrebbe abbandonati, mettendolo senza volerlo in pericolo.
Una spada aveva sfiorato il capo di Lavinia nel tentativo di mozzarla, un’azione che li aveva resi feroci entrambi. Una spada che raggiungeva di striscio Lavinia che capitombolava a terra tra la polvere del calpestio.
Quelle parole “Spetta a me! E’ mia figlia!”, parole che solo a ricordarle lo facevano aggredirsi al capo con entrambe le mani a far tacere la mortale risoluzione a cui Guglielmo era andato incontro per colpa sua, ordinandogli “Portala in salvo!”.
“Sei l’uomo che ama.” una confessione che aveva destabilizzato Moros, perché involontariamente vi aveva sperato a dispetto del suo chiuso comportamento. Un padre non poteva far dividere la propria figlia dall’uomo che amava. Se una scelta spettava a qualcuno, quella spettava a Guglielmo e a nessun altro! “Dille… che l’ho sempre amata!”. Come se Lavinia già non lo sapesse! Null’altro tempo per dire addio a Nicandro se non dettare a Moros di proteggerlo.
“Una triste storia.” confermò pacato Braccioforte facendo l’atto di alzarsi, ma per sfortuna di Moros quello era stato solo l’inizio.

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Capitolo 13
*** Quando Berta filava ***


Quando Berta filava

 
Un tenerissimo e spontaneo abbraccio di Nicandro accolse l’arrivo di Lavinia nell’intimità delle stanze padronali, sorvolando sulla presenza del soldato Mavio che era con lei. Il soldato si limitò a augurare il buongiorno al giovane Montetardo che contraccambiò con un breve scambio di battute, informandosi sulla ferita che segnava il viso del soldato all’altezza dell’orecchio sinistro. Lavinia ospitò Nicandro sotto la sua ala protettiva in quella cornice dai toni rosso e oro, a cui Gregorio non aveva ancora fatto l’abitudine.
Per lui, dimorare nell’espugnata Rocca Lisia continuava a metterlo a disagio; a nulla era servito rimuovere e bruciare gli arredi strettamente personali dei Chiarofosco. “Non voglio più vedere un volto di Charofosco!” aveva aggredito i servi, mettendo in chiaro chi ormai li comandava. Il suo stesso braccio aveva provveduto ad alzare una torcia e attizzare il fuoco che li avrebbe estirpati.
Una fastidiosa sensazione gli guastava il volto, alzandogli una narice in una smorfia, quasi le mura fossero pregne dei sospiri degli antenati di Ludovico o forse era il solito disgusto per le smancerie dei propri congiunti.
Vide Mavio accostarsi alla porta, eclissando la propria presenza dai loro discorsi, fin tanto non venisse nuovamente richiesto un incarico.
Il calore profuso da Lavinia e Nicandro parve alleggerire l’aria di quella stanza composta e gradevole, in cui il fuoco brillava e crepitava con armonia nel camino; la cui grandezza riempiva l’intera parete in cui era collocato: parte incassato, parte di poco sporgente. Gli arredi erano pochi ma pregiati, di un gusto raffinato e probabilmente frutto di meticolosa ricerca tra gli abili artigiani: un lungo tavolo scuro levigato a specchio accoglieva in sé quattro sedie dal lungo schienale, accoppiate a due a due, parallelamente ai lati lunghi, invogliando la conversazione, sia erudita quanto frivola.
“Ho contato gli istanti dalla tua partenza.” confidò Nicandro a Lavinia, mentre lei lo accompagnava a prendere posto su una cassapanca, dallo schienale e dal piano addolcito da morbidi cuscini, negli stessi toni delle pareti dipinte a quadrettoni rossi su sfondo laccato color crema. Gli occhi acquamarina del ragazzino non si staccavano dal profilo del viso statuario di lei, come soggiogati. Lavinia, pur non eguagliando lo zotico cugino di Nicandro, era diventata come una sorella per il ragazzino: l’unica presenza in grado di attenuarne la solitudine a cui era costretto. Gregorio stesso l’ammirò: i bruni capelli lasciati ricadere sulle spalle, portati all’indietro lasciavano scoperte guance e fronte facendo risaltare gli occhi marroni, indecifrabili. Colse in lei una bellezza nuova, come se il suo sguardo serio avesse maturato in consapevolezza durante l’ultima missione e i suoi imprevisti, rendendola ancor più determinata di quanto già non dimostrasse solitamente. Mavio sembrava attribuirle ogni giorno di più autorità e più volte a Gregorio, al loro arrivo, era parso si fosse morso un labbro per non intervenire in appoggio al resoconto del suo comandante, Lavia, come la chiamavano i commilitoni.
Lavinia e Nicandro rimanevano seduti una di fronte all’altro, tenendosi vicendevolmente le mani, mentre la luce del tardo mattino entrava ovattata dalle finestre alte e strette dai vetri piombati in cerchi, come fondi di bottiglia. Affezionati oggi, come dal primo giorno.
“Non dovevi temere. Sono tornata!” accordò spavalda Lavinia, annuendo. “Sana e salva, ne dubitavi?” sorrise, con quell’aria composta che la faceva somigliare a una dea, le labbra sottili quasi imbronciate.
“Temevo, per voi.” si scusò Nicandro, la voce bassa, mortificata, guardando Lavinia e portando lo sguardo anche su Mavio.
“Il tuo consiglio mi è risultato prezioso.” confidò lei: le guance si alzarono in un sorriso quanto si ravvivò il colorito di Nicandro, imbarazzato di quella confessione che ne riconosceva il merito. “Siamo in dovere di ringraziarvi.” intervenne anche Mavio, sentendosi chiamare in causa: abbassò il viso con rispetto.
“Dovere.” accordò Nicandro con voce sollevata e un respiro liberatorio mentre poneva le mani al petto, prima che Gregorio rompesse ironicamente quell’idillio sottolineando “E così noi dovremmo essere i cattivi.”. Lo disse accomodando verso l’orecchio un ricciolo bruno della sorella, raccogliendo l’attenzione dei presenti a cui volle togliere la scena.
“Credo Ludovico si avvantaggerà di questo pensiero!” convenne pragmatica Lavinia, chiara e diretta. Appena scesa da cavallo aveva informato della lealtà dei contadini a Ludovico.
Le iridi acquamarina di Nicandro si alzarono verso di lui, forse a giudicare la sua retorica, cui tuttavia non osò intervenire; del resto lo sbattere improvviso dello sgabello sul patibolo per dar aria alle gambe dei traditori non era testimonianza di magnanimità. Diciamo che Nicandro non aveva propriamente uno stomaco forte per certe visioni, rifletté divertito.
Lavinia proseguì argomentando “I contadini giudicano la bontà delle guerre solo in relazione ai raccolti.”: gli occhi fattisi sottili le corrugarono la fronte quasi trovasse difficile palesare un ragionamento tanto lampante.
Gregorio dondolò il capo, il mento alzato a ragionarci su.
“Anche tu la pensi così sui contadini, Nicandro? Dovresti conoscere il loro pensiero.” ironizzò sgradevole, mentre Nicandro si irrigidiva e sviava lo sguardo indirizzandolo a terra muto, sapendo fosse meglio incassare che ribattere; che lo fosse stato o che ne conoscesse sapeva fosse meglio tacere, come rinfacciare le stesse umili origini di Gregorio.
Di certo il ragazzino ne conosceva uno particolarmente caparbio.
“Sono dei codardi.” sentenziò Gregorio: le labbra pronunciate come se fosse cosa ovvia. Il riferimento a Moros era indubbio. Un’antipatia reciproca li aveva accomunati dal primo giorno, ma pur spavaldo, era stato costretto a fuggire: l’unico merito che gli si poteva attribuire. “Del resto è fuggito da solo...” cantilenò, facendo impallidire Nicandro per una ferita che ancora gli bruciava l’animo nel sentirsi abbandonato. La frase non fece in tempo a imbarazzare Mavio e freddare Lavinia, il cui voltò si tirò che Nicandro si alzò di scatto “Rapire un Montetardo, l’avrebbe condannato a morte. Del resto è questo che volevate ottenere… Bastiano non ci è riuscito, vero?”, mettendo in chiaro il legame stabilito da Guglielmo e quanto ancora confidasse in Moros. Non un sorriso spavaldo ma quasi un principio di lacrime.
Non ci mise due volte ad aggredirlo, colpendolo in viso e scaraventandolo a terra, mentre Lavinia interveniva frapponendosi tra loro “Non osare un gesto di più.” levò il dito aggressiva mentre Mavio si preoccupava di aiutare Nicandro a tornare in piedi.
Gregorio d’autorità smorzò il dito della sorella abbassandolo “Dovrebbe sapere di frenare la lingua, anche se sì, vedrei volentieri Moros sulla forca.” spiegò, mettendo in dubbio la lealtà di Lavinia “Vedo che per Nicandro sarebbe un problema, mi chiedo non lo sarebbe anche per te.”.
“No!” rispose secca Lavinia “Moros non è una mia priorità!” mise in chiaro: gli occhi freddi, sicuri di da che parte stare.
“Ho sottolineato l’evidenza.” concesse tregua a Nicandro, avvicinandosi per sistemargli la stoffa stropicciata del farsetto, che ricompose perfetto.
“Facciamo i buoni.” consigliò. Non solo per Moros aveva antipatia, era evidente.
Ludovico voleva giocare? Avrebbero giocato! Ma non avrebbe fatto lui la parte del cattivo. Era troppo banale rifletté Gregorio, sfiorando con l’indice il sottile e lungo baffetto che gli separava le labbra dal curato pizzetto che gli sagomava il mento poco sotto le guance, dello stesso colore biondo castano dei capelli; la fronte alta, resa ampia da una pronunciata stempiatura che tuttavia evidenziandone gli occhi verde smeraldo gli conferiva un fascino altero.
I contadini avevano paura degli orchi cattivi ma lui non avrebbe fatto quella parte e neppure il biondo Ludovico non sarebbe stato il bel principe azzurro.
“C’era una volta…” ricordò la curiosità che innumerevoli volte aveva suscitato in lui quella frase, mentre la vecchia Berta filava nel tepore della cucina del castello di Raucelio. Eppure il giorno in cui Guglielmo aveva salvato Nicandro, non si era soffermato ad ascoltare le storie di quella vecchia, perché già sentiva descrivere ovunque Guglielmo, eroe; elogiato come esempio da imitare.
Era entrato correndo come una furia nella vaporosa cucina, dove gli aromi delle spezie, di cipolla, solleticavano il naso, curioso di dove fosse stato sistemato il fanciullo salvato.
Là non l’aveva trovato, pur cercandolo tra i giacigli dei servi, che aveva scoperto arrogante, sollevando le paglie che facevano da materasso.
Il pesante cinghiale arrostiva intanto sullo spiedo: già dipinto come un drago nel chiacchiericcio dei corridoi.
Berta aveva sollevato il viso dall’arcolaio per guardarne il colorito intenso delle guance che Gregorio sfoggiava dopo la corsa. Il perpetuo giro della grande ruota non era cessato, continuando ad imprimere una rapida e lunga rotazione alla canocchia, così da unire in un trefolo una buona quantità di filo di lana.
“Posso aiutare, mio giovane signore?” aveva detto Berta, con voce servile, rispondendo pacata ai suoi curiosi e altrettanto isterici ed insistenti “Dov’è? Dov’è?”, ignorando la confusione che il suo ingresso aveva provocato nell’evasione degli incarichi delle sguattere.
Lui, ben lontano dall’avvicinarsi al fuso per paura di pungersi, aveva allargato snervato le braccia impaziente “Il fanciullo. Dove l’avete messo?” e afferrato un grosso pezzo di pane, caldo e appena sfornato, lo aveva divorato, sbriciolandone in giro come suo solito. Dove l’avete messo? come fosse stato una cosa.
“Non è qui.” aveva risposto cortese Berta, da sotto la cuffia immacolata che le tratteneva i capelli grigi quasi sollevandolo di quella certezza: non è qui.
Ma… Il tuc tuc meccanico era rallentato fino a cessare, mentre la voce di Berta rivelava, come proveniente da uno specchio incantato, avverso e inclemente, quello che sembrava per lui, a tutti gli effetti, un infausto presagio “E’ nelle stanze del padrone.”: una voce così rispettosa, quanto impertinente.
Non aveva avuto dubbi! S’era recato nelle stanze di Guglielmo, perché là era il fanciullo, tra materassi di piume e lenzuola profumate.
Aveva dunque fatto capolino dalla porta: una porta pesante, dalle bordature di scuro ferro, quasi quella d’una caverna fatata che voleva trattenere i propri segreti.
E lì lo vide. Dormiva, nel biancore del latte delle lenzuola, come il personaggio d’una fiaba, protetto da luci e rumori dalla cornice del baldacchino da cui scendevano stole di tessuto, trattenute da cordoncini miele. Anche Guglielmo al capezzale s’era assopito.
Cauto, si era avvicinato: i piedi che si spostavano felpati per non fare alcun rumore. Fu come guardare un unicorno bellissimo tramutato in umano, del biancore della luna. Neppure i bendaggi alla spalla osavano offuscarne il fascino.
Neppure i sedativi inficiavano il respiro regolare che infondeva pace alla stanza.
Gregorio non aveva avuto il coraggio di disturbare finché non aveva notato il contatto tra quelle due mani… La grande mano di Guglielmo poggiata su quella più piccola del fanciullo.
Il subitaneo progetto di staccarle per puntiglio, per gelosia, non altro sentimento, perché non provava affetto per Guglielmo: un uomo che non avrebbe mai potuto sostituire un padre deceduto troppo presto.
Un farfugliare, tra le sottili labbra del colore di un tenero bocciolo di rosa, nel momento in cui procedeva a separare con cautela le loro mani.
“Nobile aquila.” mugugnò il fanciullo nell’involontaria stretta del suo protettore. Erano parole dettate da chissà quale arcano mistero, che Gregorio non poté far a meno di scolpire nel proprio animo, tanto erano curiose.
Accolte, ancor più, con sorpresa quando, medesime, erano state pronunciate da re Bressano come lode alla lealtà di Guglielmo nell’atto di attribuirgli quella stessa immagine simbolica: un’aquila.
Certo era che i contadini credevano nelle favole, nei buoni e nei cattivi, ma il punto era… il buono poteva essere lui?

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Capitolo 14
*** Ricerca ***


Ricerca

 
“Veramente non ho capito cosa vorresti fare?” chiese in tutta franchezza Braccioforte, curioso perché un giovane in fuga fosse finito proprio nelle terre di chi lo aveva messo al bando, visto che Rocca Lisia era ora disponibilità dei Montetardo. Moros non poté dargli torto, mentre le loro voci si confondevano con quelle interne alla locanda, che visti i molti spifferi, fuoriuscivano come fossero accanto a loro.
“E’ questo il motivo per cui cerchi Ludovico…” indagò Braccioforte, continuando a ragionare, l’indice alla fronte. “Vorresti entrare a Rocca Lisia.” disse quasi completamente sicuro; gli occhi fattisi grandi e tondi nel’aggiungere “Segretamente.” il suo volto divenne scuro e pensieroso, ma si capiva a cosa pensasse: per rubare qualcosa, uccidere qualcuno, cose che disapprovava in pieno.
“Tu hai lavorato per Iorio e Ludovico.” incalzò Moros “Gli sei sempre stato fedele.” esplose entusiasta “Scommetto che mi potresti aiutare!”. Moros si sentì leggero come un soffione in volo e, si toccò vivace il petto fiero. La sua voce corse veloce “Disegnami com’è fatta Rocca Lisia… Descrivimi Ludovico…”, non avendolo mai visto in volto era più di quanto avesse sperato.
Braccioforte si portò una mano in fronte e chiuse gli occhi impotente “Benedetto ragazzo!”, giudicando che il suo piano, facesse acqua da tutte le parti. Il viso che aveva giudicato burbero, ora a Moros appariva disponibile e comprensivo: le sopraciglia grigie che addolcivano il contorno bianco della barba ben sagomata in viso che cerchiava la bocca sopra e sotto le labbra; gli occhi neri come i suoi.
“Non se ne parla!” chiarì senza rimorso Braccioforte sicuro e allo stesso tempo dubbioso di tanta determinazione “Se vuoi che mi fidi di te devi fidarti di me!” insegnò: quella era la base per un’amicizia. Moros non poteva dargli torto ma non voleva rischiare nel rivelare più del dovuto, ma un passo lo doveva fare se così sperava facesse Braccioforte.
“E va bene.” piegò il suo orgoglio e sviolinò “Mio cugino è in quella rocca.”, confidò stupendo Braccioforte.
Una porta sbatté improvvisa e Moros rizzò le spalle. Quel fracasso, gli ricordò involontariamente casa e la poca grazia che sua madre infondeva su gesti che divenivano solo molesti e sgradevoli, cornice all’apatia della donna verso gli innumerevoli figli, partoriti come conigli, tra un’alzata di sottana e l’altra. Fratelli tra di loro indifferenti, tali solo per identità di madre.
Una donna uscì barcollando dalla locanda. Pur di spalle, si notava portasse davanti al grembo un pesante cesto di viburno intrecciato, che le infastidiva l’andatura. Moros la vide dirigersi verso un piccolo recinto e poi darsi lo slancio vigorosa, esclamando un liberatorio “Oplà!”.
La vide abbandonare di malo modo il cesto vuoto, che finì addosso alla staccionata; infine sistemarsi il vestito, alla buona, sbeffeggiando “E’ tutto vostro, bestie schifose!”, rivolta ai maiali che accorrevano grufolanti e voraci a festeggiarne l’arrivo. Un timbro di voce allegrotto e derisorio, quanto profetico, “Oggi a me, domani a voi!”, a sottolineare che la fatica da lei fatta non era gratuita per quei suini.
La donna si pulì i palmi delle mani, sfregandoseli energica, quasi applaudendo. Raddrizzando le spalle, si riassettò nuovamente il vestito: un lungo camicione color del grano che faceva risaltare il corvino viperino della sua chioma fluente e ondeggiante fino ai glutei dall’aria soda.
Quasi si sentisse spiata, la donna si girò di scatto.
Due occhi inchiostro si fermarono su Moros. Aveva un bel volto, dalla pelle diafana, come se la luna avesse preso forma terrena, mentre le labbra si stagliavano come un arco teso nella sorpresa ci fosse uno straniero.
Bella, stese il lungo collo, di una piega aggraziata, a controllare chi e se fosse solo. Sembrò sollevata dalla presenza di Braccioforte. “Ahhh, è un tuo amico!” sbottò, guardandoli ancora seduti a terra.
Moros, si alzò in fretta educato, precisando “Non volevo spaventare.”, mimando con le mani il gesto di frenare un eventuale panico della donna, ma non ce ne fu bisogno “E chi si spaventa?”. Quella donna, praticamente gli rise in faccia, appuntando beffarda “Con chi credi di avere a che fare, moccioso?”.
Moccioso? Quella parola gli fece effetto o meglio lo offese proprio, facendo ridere grossolanamente Braccioforte, che spalancò la larga bocca, espettorando un sonante colpo di tosse che sprizzò alcol nell’aria.
Minimamente sconvolta dalla sua indignazione, “Pochi uomini mi sanno tenere testa!” precisò avanzando a falcate in un ondeggiare del petto, di glutei e capelli. Una camminata energica e decisamente grossolana. Fu veloce ad arrivargli quasi sotto il naso, per poi smorzare la propria ostilità quando lo guardò maliziosa “In tutti i sensi.”. provocante, con un ché di fatale, giudicò Moros.
“Non so’ se mi spiego.” ammiccò lei, arricciando il naso. Moros deglutì. Restò immobile, a disagio per la loro discutibile vicinanza. Decisamente quella frase era sconveniente per… una fanciulla? Meglio signora, perché doveva essere più matura di lui di una decina d’anni, anche se non era affatto sciupata a vederla.
L’odore genuino di lei era stuzzicante e il calore che sentì alla mano gli provocò quasi un brivido, che faticò a trattenere per orgoglio.
“Mi piacciono i forestieri.” lo lusingò lei. La temperatura di Moros ebbe un rialzo quasi febbrile. Non sembrava mentire.
“Una mano forte…” convenne quella donna, che prendendogli la mano tra le sue, iniziò a girarla da palmo a palmo, con tutto l’intento di iniziare un approccio “Che dici di entrare?”.
Moros alzò lo sguardo leggermente, per cercare di fuggire all’imbarazzo che provava per il calore che sentiva invaderlo a quel contatto tanto banale quanto intimo; quasi non volendo mancarle di rispetto, se si fosse accorta dell’inquietudine che gli provocava a pelle.
“Ohhh.” soffiò lei verso l’alto, solleticandolo sul mento col suo alito; leggermente più bassa di lui.
“Sei innamorato.” rise civettuola, spiazzandolo.
Moros negò come un ragazzino incerto, rimproverato da un tono pretenzioso e gustosamente divertito di lei.
Lavinia. No! Non sono per nulla innamorato di lei! Il primo pensiero che gli sfiorò la mente.
“Di me?” saggiò la donna: una voce carezzevole, come un battito d’ali, non aspettandosi altre risposte se non una conferma. “Come tutti!” la sentenza inclemente che dettò di se stessa, rispondendosi da sola. Era sicura di sé. Anche troppo, giudicò Moros.
Il rossore si impadronì del suo volto, imbarazzato. Non era abituato ad una donna così. Non vi era in lei il broncio schivo di Lavinia e neppure la naturalezza di molte fanciulle che aveva conosciuto. Ogni atteggiamento di lei era conturbante, il brillare di quelle due tormaline nere che le dimoravano negli occhi, come perle nere.
“Lascialo in pace…” prese le sue difese Braccioforte, seccato dell’intromissione, vigile sì, ma visibilmente disturbato per il goccio vuoto “E’ un bravo ragazzo.” confermò, scatenando l’effetto contrario perché lei ammiccò sul doppio senso pronunciando le labbra, appuntando “Tu non t’impicciare!”, precisando a Moros con un voluttuoso sorriso, avanzando la mano perché lui la raccogliesse “Malia. Questo è il mio nome.”. Lo proferì con voce seducente, stringendolo alla vita con entrambe le mani che sembravano frementi. Malia era di nome e di fatto.
“Non entrare o ti farà suo schiavo.” confidò leale Braccioforte, dandogli un calcio sul polpaccio perché non rispondesse a quell’invito e chissà se parlava per esperienza.
Lei ritirò la mano ma fu veloce a precisare “D’amore!”, mentre quella stessa mano scivolava dolcemente lungo il fianco di Moros, quasi volesse insinuarsi tra le pieghe dei suoi vestiti.
“Aiii!”. Malia ritrasse improvvisa la mano, quasi si fosse scottata o punta e Moros la vide scuotere la mano più e più volte come se veramente le dolesse atrocemente. “Che diamine!”. Sembrò una vipera infastidita “Ma con cosa è fatto? Con le ortiche?” lo riprese seccata e lui non seppe cosa rispondere “Tua madre o tua sorella devono aver lavorato in silenzio per farlo!” ammise indignata, rievocando antiche dicerie.
“Che mi prenda un accidente!” ridacchiò Braccioforte, subito rimproverato acidamente da Malia che gli rispose per le rime, digrignando i denti perfetti e bianchi “A te!”, mentre questi continuava a ridere a crepapelle.
Lei sembrò fare il verso alla sua risata, mentre assottigliava alla vita il camicione, cingendosi i fianchi. “Bhaaa” esclamò isterica “Venite dentro!” li invitò tutti e due con un atteggiamento militare. Si girò senza aspettarli con passo deciso, borbottando e brontolando tra sé.
Malia non si voltò indietro. Sull’esempio di Braccioforte, che si alzò fiaccamente, Moros la seguì.
Era una locanda piccola e per nulla accogliente. Regnava la confusione e tutto sembrava disposto a casaccio.
Sgabelli impilati, giacigli di paglia a terra negli angoli. Un camino annerito sembrava sul punto di collassare su se stesso, ma un paiolo spandeva un gradevole profumino. Avventori ciarloni, viandanti sonnacchiosi, stravaccati sui tavoli, uomini spocchiosi ben vestiti che stonavano indignati da quella sosta forzata, inaspettati visto che Moros non aveva visto né carrozze né cavalli. Moros si sentì praticamente a casa. Non che ne fosse felice, ma poteva capire la fatica e gli imprevisti che quella donna doveva affrontare. Decisamente l’ammirò, perché vivace e non piegata nell’animo.
“Siedi, moccioso.” si sentì invitare Moros con un cenno di mano, mentre Malia stappava una bottiglia e se ne versava generosa un bicchiere colmo.
“Bevi?” indagò lei: lui doveva pagare.
“Preferisco mangiare, prima.” si scusò lui e lei scrollò le spalle, ma si dette da fare a sfornare qualcosa. Fu un pranzo squisito: bocconi di maiale navigavano in un brodino di densa farina ebbene sì accompagnati da vino dolce.
“Posso? Permetti?” invitò Moros. Lui non afferrò subito il concetto, ma di fronte al suo sorriso di presa in giro ed ai suoi occhi orientati sulla sua mano capì.
Un leggero sorriso nelle labbra di Braccioforte, che approvò con un cenno del capo.
Lei restò in silenzio per qualche istante, limitandosi solo a guardargli la mano, per poi iniziare, disegnando un cerchio sul suo palmo lenta e attenta.
“Ohhhh.” si scurì, ma non suggerì a cosa si riferisse, tuttavia il suo indagare sembrava evocare vicende passate più che future.
“Ahhhh annn?” timbrò vittoriosa, come se avesse centrato il bersaglio “Una fanciulla.”. Malia, ora, lo guardava fisso negli occhi, per intuire gli sfuggisse una qualche reazione su cui far breccia.
Moros non ci sarebbe cascato! si disse.
Lei sorrise compiaciuta, tornando alle tracce disegnate; studiandole meticolosa.
“Pena nel cuore…” schiacciò l’unghia sul punto che aveva individuato, facendolo gridare di colpo “Aiii!” e ritirare la mano, al ché lei rise sfacciata: ora erano pari.
Lui riconsegnò la mano, ma si trattenne tuttavia dall’approvare, sentendo sviolinare “Sei in fuga… da qualcuno…” e, Moros sempre attento a non cedere di rispondere per darle suggerimenti. Una piega irrisoria illuminò il volto di Braccioforte che con il braccio diede una leggera gomitata a Malia, come ne svilisse le capacità.
Moros sorrise di quelle ciarle: quale giovane non aveva amato una fanciulla, quale viandante non poteva essere in fuga o in cerca di avventure, ma dovette ricredersi.
Inappellabile e sicura la voce di Malia puntualizzò “Questa linea è spezzata da una freccia!”.
Moros sudò freddo e non poté evitare di trattenere un viso tirato.
“Una freccia ha cambiato la tua vita.” disse Malia studiando le sue reazioni. Rincarò la dose “Non solo la tua!”. Non era una dilettante. Trattenne tra i denti il labbro inferiore vittoriosa.
“Un solo bacio. Unico… Scotta… Consuma…” Malia rise: una risata cristallina. “Sono quelli che preferisco.” disse senza pudore, come se provasse una gioia immensa anche solo al pensare a quel concetto: alzò le spalle quasi assaporando la dolcezza di un dolce, come se la sua virtù si stringesse in una stretta di passione.
Moros ritrasse veloce la mano, sfuggente. Rosso come il fuoco in volto.
Lei sporse la lingua umettandosi le labbra, il volto diretto a Braccioforte “Allora… cosa volevi suggerire al tuo amico? Di non fidarsi?”. Lui fece il gesto di riempire i loro bicchieri, annunciando leale “Chiedo perdono.”.
Moros non seppe cosa pensare “Come ci riesci?” gli sfuggì, ma lei non rispose, limitandosi a sorridere, portando l’indice alle labbra intimando il silenzio.
“Ti do’ un consiglio da amica…” rivelò alzando un sopraciglio “Lei non ti ama.”, poi un sospiro di stanchezza nella voce, come fosse sfiancata dai sentimenti, non solo da quelli di Moros.
“Io non amo proprio nessuno!” mise in chiaro lui acido e quasi prepotente.
“Sì! Sì!” fece lei di contro, immaginando esattamente il contrario. Sembrava più chiaro a Malia, il suo cuore, che a lui stesso.
“Sentiamo… Se non ti porta qui la tua bella, allora cosa ti porta?” indagò. Ecco forse il futuro non era propriamente la sua materia.
“Vuole incontrare suo cugino. E’ a Rocca Lisia.” intervenne Braccioforte amichevole.
“Chiedere di entrare?” ammise ironica lei.
Lui non rispose. “Diciamo che Gregorio Montetardo non sarebbe d’accordo!” aggiunse pungente Braccioforte: questo era chiaro come il sole.
“Certi lavori non si possono commissionare. Vanno affrontati da soli!”  accordò Malia, riempiendosi nuovamente il bicchiere, stuzzicata dai propositi di Moros ma soprattutto da una storia che si faceva interessante: un occhio anche agli altri avventori, che ne richiedevano le grazie.
A Moros fece effetto quella parola: commissionare. Sentì la gola farsi riarsa, perché tanto sembrava evocare l’assoldo di un assassino, come succedeva nelle fiabe, quasi fosse una strega cattiva.
“Dunque, sei un nemico di Gregorio Montetardo o un simpatizzante di Ludovico?” alzò la voce, perché tutti i presenti sentissero la risposta. Mettendolo alle strette in una confessione che avrebbe potuto rovesciarli addosso antipatie. In ogni locanda succedeva sempre nessuno si facesse gli affari suoi, rifletté Moros.
Braccioforte lo trattenne al braccio consigliando di moderare la voce, ma lui come volesse fronteggiarla vociò determinato “Non parteggio per nessuno. Devo entrare a Rocca Lisia! Il resto è affar mio!” chiarì esuberante, come se non temesse nessuno.
“Ma che paura!” lo sbeffeggiò lei; sembrava trovare la questione divertente, tanto da fargli sviolinare “Deve esserci…”.
Una voce irritata lo riprese imponendosi sopra le altre “Ragazzo, non fare così chiasso.”. Un uomo biondo, vestito di buona fattura lo fissava indisposto. E anche se fosse?
Lui non aveva dubbi sulla sua missione.

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Capitolo 15
*** L'ipotesi di Zelio ***


L’ipotesi di Zelio

 
Bussò fiero e veloce sulla porta, prima di spingerla per entrare facendosi precedere da un deciso “Sono Zelio, mio signore.”; quasi gridato per evitare imbarazzi. Controllò mentalmente il rigore del proprio viso: un viso disarmonico dalla fronte ampia e appuntito nel mento glabro quasi da cinghiale; con due baffi lunghi e sottili congiunti sotto il naso che si allungavano ai lati delle guance finendo in un folto pelame, soffice come il manto di una pecora pronta da tosare. Gli occhi celesti e i capelli portati all’indietro sparpagliati che sembravano un mantello alzato al vento.
Trovò il giovane signorino Nicandro seduto e la bella Lavinia nell’atto di accomodarsi accanto a lui, mentre sembrava scusarsi di qualcosa o più probabilmente di qualcuno. Come se Zelio non intuisse chi fosse quel qualcuno.
L’antipatico e sempre impeccabile soldato Mavio a lato della cassapanca sembrava vegliare su entrambi, quasi potesse spartirne empaticamente i dispiaceri; tuttavia la cosa più evidente fu notare l’umore di Gregorio che sembrava guasto.
Si schiarì la voce con un ringhio di gola, prima di annunciare, scusandosi dell’intromissione “Abbiamo cercato ovunque dettagli sulla fuga di Ludovico.”.
Mai che nessuno lo ringraziasse dell’impegno, rifletté mentre il giovane Nicandro sembrava soppesare le sue parole, quanto inclementi Mavio e Lavinia sembravano giudicarle e denigrarle, come se avessero sempre sospettato fosse impresa impossibile, confidando nei propri come negli altrui servitori, di cui apprezzavano la dote della lealtà.
“E credi di trovarlo qui?” lo aggredì ironico Gregorio, umiliandolo, mentre con un gesto plateale, allargando le braccia e rivolgendo le mani aperte ai presenti, esibiva i suoi affetti più cari: la sorella Lavinia e il pupillo Nicandro. Lo so’ benissimo, non sia qui! avrebbe sbottato Zelio ma si trattenne,
“E’ fuggito da un passaggio segreto.” ipotizzò, l’unica verità possibile.
Ecco! Ora aveva l’attenzione di tutti puntata addosso. La sentiva lungo la linea della schiena che raddrizzò per darsi un contegno orgoglioso.
“Il suo popolo l’ha tradito non dimenticarlo!” minimizzò quell’evoluzione Gregorio che sollevò un precedente a loro favore. Per ora quella l’unica costante e, così per rimetterlo al suo posto gli ci volle il tempo di dire quella frase odiosa, che lo ricollocava dove doveva stare: in basso.
“Può un principe e due sole guardie avere qualche possibilità?” scherzò Gregorio chiamando in causa Nicandro che non rispondendo sembrò appoggiarlo, come fosse frase retorica. Il giovane principe era scappato con Alberico e Federico, gli inseparabili amici d’infanzia, che Zelio si disprezzò di non aver tolto di mezzo a tempo debito. Per Gregorio, in tre non potevano rappresentare un problema, come non l’avrebbero rappresentato i contadini che avevano affrontato Lavinia.
“Un informazione da ricompensare.” evidenziò Zelio, a corto di idee.
Gregorio lo squadrò deciso, fulminandolo con gli occhi che gli volse a dosso diretti. “Ricompensa?” disse sgradevole, con voce indignata. “Usa altri metodi!” ordinò alzando la voce, tanto da far sussultare Nicandro, che ebbe un tremito; intuendo cosa Gregorio intendesse per altri metodi.
“Piuttosto trova chi possa saperne qualcosa!” richiese Gregorio, suggerendo inclemente “Servi di vecchia data, muratori.”, facendo decidere la sorella Lavinia ad intervenire in appoggio o semplicemente per indulgenza verso quegli sventurati, “Fai controllare pozzi e cantine. L’uscita non può essere lontana. Magari è solo una breccia, una feritoia.”; sottovalutò quella che Zelio faceva sembrare ai suoi occhi un’infantile ansia.
Al contrario il composto giovinetto invece inclinò il capo a guardare il muro oltre lo schienale della cassapanca; indifferente al chi e al come o forse tutto il contrario.
Trova, Controlla… Un fastidio dietro l’altro, pensò. Avrebbe tirato un’insolenza piuttosto, ma annuì come fosse l’imbeccata che aspettava, pur non pigolando lodi per briciole. Aveva dignità, si disse.
“Ora vattene! Abbiamo da fare!” lo rifiutò Gregorio, portando all’indietro il braccio, come fosse la seccatura che per lui era. Scacciato come una mosca fastidiosa, mentre Gregorio tornava alla cura dei suoi ospiti con un sorriso caricaturale, avvicinandosi loro a braccia aperte.
Zelio schiena dritta, si pose sull’attenti e se ne andò. Diciamo tra noi: non vedeva l’ora!

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Capitolo 16
*** Il pugnale ***


 

Il pugnale

 
“E’ un pugnale.” sbiancò Nicandro nel vedere l’oggetto che Mavio aveva svolto da un fazzoletto e adagiato sul tavolo davanti a loro.
Lavinia gli si fece più vicina, inclinando il suo sguardo su di lui per incoraggiarlo “Crediamo possa essere di Ludovico quando è fuggito… Deve averlo portato con sé nella fuga e forse se ne è liberato poco prima del nostro arrivo.” disse con voce delicata. “E’ la cosa più recente che possiamo aver trovato di lui..” si giustificò.
Che ci fosse ancora un qualche legame con l’uomo che l’aveva brandito?
Nicandro parve osservarne la lama. Era sbeccato ma deglutì ugualmente nel silenzio che era calato nella stanza.
Forse poteva essere stato usato come utensile ma essenzialmente era un’arma. Di quelle adatte al combattimento corpo a corpo. Aveva una guardia trasversale per evitare che la mano scivolasse dal manico sulla lama quando si effettuava un affondo, una punta acuminata per una migliore penetrazione e filo a doppio taglio per poter sferrare fendenti con entrambi i lati della lama. Decisamente era stato usato per difesa e offesa, chissà in quanti e svariati contesti, rifletté Lavinia. Personalmente non adorava i pugnali, preferendo la spada, ma c’era chi tra i loro soldati che ne aveva proprio una venerazione. Il giovane e biondo Enrico, per esempio, quando aveva due soldi ne barattava vecchi per nuovi e “minacciosi” come diceva lui, spocchioso agli scherni dei compagni. Bhe! Ma Enrico non era completamente a posto, rifletté Lavinia. Era un tipo sadichetto e lo si capiva dagli occhi azzurri e fissi con cui ti fissava insistente fino a metterti a disagio. Uno dei tanti leccapiedi che trovavano in Gregorio e nel suo modo di comandare la loro giusta alcova.
La lama sberciata non tagliava già più. Era logoro e usato, ma avrebbe ancora lavorato egregiamente nuovamente lussato il filo: attenta al suo uso più che a ciò che rappresentasse.
“Allora?” si spazientì Gregorio, la cui voce uscì insofferente e molto poco accomodante, spicciando Nicandro che di malavoglia sporse la mano restio però a toccare la lama.
Pensò che rivolgendogli un sorriso, questo bastasse a stemperare la tensione di Nicandro.
Vide le dita incerte se proseguire in quella traiettoria, mentre Gregorio sarcastico avvertiva con voce mordace “Non morde.”, come se il giovinetto fosse di tutt’altro avviso.
Una cruda tirata di capelli portò all’indietro il collo di Nicandro che urlò; le caviglie che si sollevavano da terra; prima che Gregorio di colpo lo liberasse. “Vediamo di spicciarci!”. Mavio fu lesto a sorreggere Nicandro quanto lei restò basita, anche se poteva immaginare che Gregorio non amava le attese.
“Dovesti sapere che una guerra non si vince tergiversando.” si giustificò con lei.
Lezioni di opportunità che non ammettevano contradditorio.
Si rimangiò tutte le insolenze che aveva in gola. Basta! Troviamo Ludovico, si disse e strappando Nicandro a Mavio vomitò “Fallo!”. Lei aveva abbracciato la guerra, come le sue vittorie; non le sconfitte e Nicandro non doveva fare i capricci. Fallo o ti ucciderà, pregò con l’anima al cielo. Sul mio onore aveva promesso. Lo proteggerò sul mio onore aveva giurato, ma il come era lei a deciderlo in base alle circostanze.
Strattonò Nicandro solo di poco, mettendo in chiaro al fratello Sono con te.
Ed ora erano nuovamente al punto di partenza, dinanzi al pugnale, che Nicandro accettò con un respiro, nasale. Sembrò per un istante avere la stessa determinazione del cugino quando squadrò l’inerme arma, ma fu la mano di Gregorio ad abbassargliela veloce, costringendolo a stringere, chiudendolo in una morsa.
“Concentrati!” ordinò Gregorio. Ormai non c’era scampo a quell’epilogo.
Nicandro dominò la paura o forse temeva di più Gregorio di tutto il resto, Lavinia non ebbe dubbio; vedendolo chiudere gli occhi e raccogliere la concentrazione.
Diciamo che pure il nerbo di Mavio ebbe un leggero tracollo di fronte al slavarsi del viso di Nicandro e alla sua sofferenza; il sudore della fronte umettata di goccioline, le labbra stinte che sembravano sul punto di evocare qualcosa.
In quel tracollo un ordine al suo signore “Allontanat...”, che obbligò Lavinia ad assestare a Mavio, con un moto dell’avambraccio, un pugno in pieno viso perché non concludesse “..tegli la mano”. Meglio quello che altro. Mavio! Non ti ci mettere anche tu! avrebbe voluto urlare per la frustrazione, sapendo bene che Moros non ci avrebbe messo un istante a offenderla dicendole che se l’era meritata da sola quella situazione.
Forse era vero; perché lui sì aveva a cuore chi amava, anche se i loro proclami bandivano tutt’altro.
Gregorio non certo per premura verso Nicandro o per seguire il velato consiglio del buon Mavio allentò la stretta, guidando poi la mano del pupillo a staccarsi, facendogli riprendere all’istante un fiato che gli si era fatto corto ma che non osò negare la risposta che attendevano.
Gregorio sorresse Nicandro. “Nulla ho visto di Ludovico o dei suoi uomini.” espettorò tra colpi di tosse il ragazzino. Non c’era nulla di spontaneo nell’uso che Gregorio richiedeva di quel potere, ma nonostante questo a quella confessione Gregorio lo abbandonò deluso e se già non fosse incattivito sottolineò “Tutto qui?”.
La sottile figura di Nicandro si lasciò andare a terra, stanca, ma il suo viso aveva ripreso un leggero colorito di pesca che gli velava le guance delicate.
Le premonizioni se spontanee svelavano come petali le trame della vita ma indagare con presuntuosa arroganza passato, presente e futuro per passatempo e personale tornaconto richiedeva uno scotto, a cui tuttavia non sarebbe incorso Gregorio.
Mavio, la mano ancora al naso, con l’altro braccio si abbassò ad aiutare Nicandro; Lavinia li aiutò entrambi, mentre Gregorio sboccava “Incompetenti!”, sfogandosi con un grido isterico, prima di andarsene sbattendo la porta. Avrebbe per loro fortuna sfogato la propria rabbia altrove.

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Capitolo 17
*** Errore! ***


Errore!

 
Anche Braccioforte non aveva dubbi dovesse aiutarlo, perché lo tirò per un braccio per consigliargli di tacere e non cadere nei tranelli di Malia, che tutto era tranne un’amica e ora infatti sorrideva tagliente da dietro un grezzo bancone.
“Sentiamo… Devi entrare a Rocca Lisia?” continuò l’uomo dandogli le spalle mentre l’amico che gli era accanto iniziava a ridacchiare, ingobbito sotto il mantello che lo avvolgeva e ne camuffava fisico e lineamenti. La voce era interessata ma per nulla amichevole mettendo in chiaro aspettasse una risposta. “Non è così difficile entrare.” continuò l’uomo misurato lasciando intuire ci fosse effettivamente una concreta possibilità.
Moros strattonò il braccio per sottrarsi all’amico, sporgendo collo e capo per sapere di più di quei due. “Testa dura!” brontolò Braccioforte; disprezzando la curiosità della giovinezza, non mascherando fosse risentito. Moros lo confortò bonariamente sulla spalla, ma ora non aveva tempo di stare a sentirlo.
“Credo esista un passaggio segreto.” sviolinò il suo pensiero ai due, tuttavia ridicolizzato dall’amico burlone del biondo che azzardò “Tu dici?”, come fosse una diceria ma non escludesse potesse essere la verità.
La speranza di Moros ebbe un’impennata, quanto un ridimensionamento nel sentirsi consigliare con voce pacata dal biondo, “Conosco un altro metodo per entrare.”.
L’uomo si alzò flemmatico: una ragguardevole altezza e prestanza nelle spalle, che per ora era l’unica cosa che vedeva, mentre l’ottimismo di Moros ebbe un vero e proprio tracollo quando spiritoso e velenoso al tempo stesso il compagno del biondo suggerì, nell’atto stesso di venire in piedi anche lui, mentre scostava il mantello che lo avvolgeva “Così riabbraccerebbe Nicandro.”.
“Noi entriamo da soldati, tu da prigioniero!” disse sicuro il biondo: ora non c’era più nulla da ridere per nessuno.
Ora, li riconosceva: Ottavio e Vittorio, guardie di Gregorio Montetardo.
Si maledì di non aver dubitato, per essere così scioccamente caduto in inganno credendo fossero chi poteva aiutarlo. Il più anziano Ottavio, cedette il passo al più giovane Vittorio, dagli occhi neri che tanto contrastavano con il color grigio turchese dei capelli, scomposti alle spalle; un unico ciuffo lungo e liscio che rimaneva fluente ai lati dell’occhio sinistro. La bocca larga dalle labbra minute in un viso romboidale di pelle diafana. “Sarà un piacere!” avvertì Vittorio avanzando e traendo dalla giubba un pugnale.
Moros indietreggiò “Che accoglienza, ragazzi!” temporeggiò, mentre anche Ottavio controllava la situazione pronto a intervenire, quasi mettesse alla prova quello che considerava un pivellino che controllò nei movimenti con quei suoi occhi neri, a forma di mandorla.
Vittorio fece una smorfietta infantile con il naso, evidenziando quanto il viso fosse d’un giovane; coetaneo di Moros.
“Le spade dove le avete lasciate?” indagò Moros risentito, ma fu Ottavio che intervenne “Il comandate Lavia ci ha lasciato in ricognizione. Non cercavamo te!” mise in chiaro, mentre i pochi tavoli si svuotavano o gli avventori si ingoffivano per occultarsi e non venir immischiati.
Malia si versò da bere incurante dello scontro, anzi sembrando godersi lo spettacolo, una mano a grattarsi sulla scollatura.
Vittorio aveva preso a giocherellare con il pugnale, roteando il polso mentre avanzava al ritmo di Moros che indietreggiava.
Non deve intervenire Ottavio o sono guai, si disse Moros. Era abile e tenace; pure testardo e, non sarebbe tornato al castello senza di lui avendolo tra le mani. Quando aveva servito come scudiero di Guglielmo l’aveva conosciuto rigido e inflessibile e sempre allineato al tenore degli ordini che gli venivano impartiti.
“Non è leale!” appuntò Moros “Dovevate dichiararvi.” ne punzecchiò l’ego, mentre altrettanto provvedeva a rifornirsi di un’arma: lo stiletto che teneva sotto il mantello. Era sempre restio a usarlo, si disprezzò.
“Non è che a Gregorio interessi proprio?” disse retorico Vittorio, trovando divertente la sua battuta di spirito, mentre avanzò di scatto per un affondo.
Moros sentì il vibrare l’aria mentre la lama inclemente fendeva su di lui, osteggiata dallo stiletto. Il viso di Vittorio avanzò verso il suo, come quello di uno spiritello crudele, ma giurò che fu il soffio di un gigante e non la sua resistenza a scaraventare il coetaneo lontano, quasi all’estremità opposta della sala.
Vide Ottavio reagire fulmineo in aiuto del compagno; pronto ad un corpo a corpo contro Braccioforte che sembrando proteggersi dal suo affondo lo intrappolò col gomito, per reagire: una furia che sembrò far avvampare l’aria. I bronchi che suggerirono “Scappa!”.
Moros non ebbe probabilmente una reazione altrettanto veloce rispetto a ciò che si aspettava Braccioforte perché fuggirono assieme. Braccioforte lo prese per mano senza complimenti portandolo con sé, come un bimbetto spaurito.
“Ti manca la tecnica, ragazzo!” suggerì nella fuga mentre correvano a scapicollo inoltrati nella foresta, dopo vari “Di qua!” e “Di là!” e ancora “Di qua!” inoltrandosi sempre di più.
“Ehhh, basta!” si offese ad un certo punto, tirando bruscamente il braccio, stanco di restare a seguito e sballottato a sinistra e a destra. Non l’avesse mai fatto perché un paterno ceffone lo fece cadere all’indietro a terra.
“Grazie!” si congratulò Braccioforte, voltandosi irritato per non vederlo, prima fosse tardi e decidesse di prenderlo a calci sul sedere dopo avergli impartito la sua seconda lezione. La prima amicizia. La seconda fiducia.
“Hai ragione!” confermò “Grazie.” aggiunse senza incertezza o risentimento “Da solo non ce l’avrei mai fatta!” annunciò leale. La terza lezione e, forse la più importante o solo quella di cui lui aveva più bisogno!

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Capitolo 18
*** Risentimento ***


 

Risentimento

 
“Siete tutti in pericolo!” li aveva avvertiti Nicandro con voce distinta, entrando di colpo nel salone dov’erano raccolti al castello di Montetardo: lei, Guglielmo, Moros e Gregorio, guadagnando la loro attenzione; la mano destra, aperta al centro del petto, i capelli che di solito erano composti perfettamente in un caschetto, dalla frangia frontale appuntita al centro del viso in un morbido ciuffo, erano spettinati, nonostante la fascetta sottile che li cerchiava il capo come un diadema.
Nicandro era preoccupato e il suo viso era tirato in un’espressione che esprimeva la confusione dei suoi pensieri e l’imbarazzo di esprimerli.
Lei ricordò, lui, fosse in piedi; le spalle appoggiate alla parete accanto alla finestra che scrutava fuori: attento e allo stesso tempo con aria disinvolta, ignorando i resoconti presuntuosi di Gregorio su una battuta di caccia a dir poco impareggiabile. Lui, si era girato di colpo verso il cugino, sembrando valutarne in silenzio le condizioni.
Ora lei sapeva: Moros non voleva che Nicandro parlasse o meglio rivelasse nel bene e nel male quello che i suoi pensieri avevano catturato tra le nebbie del tempo.
Più vicino all’ingresso rispetto a loro, Moros si mosse verso Nicandro a contenerne l’incertezza.
Lavinia l’aveva visto poggiare le mani sulle minute spalle di Nicandro, “Tranquillo per un attimo. Cosa succede di così terribile?”.
Come invidiava quel ricordo: avrebbe voluto trovarsi lei, sotto quelle braccia; sentirsi dire che non c’era nulla di così terribile.
L’espressione di Nicandro era mutata, tornata calma. Una calma infusa su di lui dal cugino.
“Ho fatto un sogno.” si scusò con voce divenuta sottile Nicandro, quasi uno squittio. I grandi e tristi occhi acquamarina si persero per un attimo in quelli cupi di Moros che gli sorrise lievemente, sembrando trovare con difficoltà la parola, mentre Gregorio ironizzava come suo solito, privo di tatto, “Ci spaventiamo per un sogno?”.
A Lavinia era sembrato che Gregorio trattasse Nicandro come un bambino che si vuol zittire per celare qualche ingombrante segreto: cosa che col tempo capì fosse perfettamente vera.
Quel sogno descritto come un terribile incubo in cui le lacrime di Lavinia e le urla di Moros facevano da padrone mentre Gregorio guardava le proprie mani, colme di sangue, lasciando intendere una ferita mortale. Nicandro teneva per la loro vita. Per un sogno così nitido da sembrare reale.
“Non è così che ci si deve presentare” era intervenuto Guglielmo, correggendo benevolmente il proprio erede, alzandosi con indulgenza dalla tavola che condivideva con lei e Gregorio, già puntuali al suo invito.
“Ha ragione Moros, i brutti sogni passano sempre!” aveva sostenuto Guglielmo, accordando favore al proprio scudiero.
Una frase che la mente di Lavinia aveva iniziato a ripetere, dopo l’amarezza provata davanti al pugnale. Ha ragione Moros, i brutti sogni passano sempre! Ha ragione Moros.
“Perché ha ragione?” gridò isterica nell’intimità della propria stanza da letto, agguantando la brocca di terracotta, che teneva sopra il camino per la propria toeletta. La fece di proposito urtare con estrema violenza sul pavimento. Provò un piacere insano nel vederla frantumare in grossi pezzi e schizzare scheggette e polvere ovunque. La forma tondeggiante e panciuta rotta in forme scomposte. Il beccuccio per versare staccato dal resto in un unico grosso pezzo.
Si accorse di tremare, nervosa. Si portò le mani alle guance, Con le mani salì fin sopra le orecchie per stringersi il capo e chiudere in una morsa furente la morbidezza corposa dei capelli.
Si lasciò sedere sul letto. Il fondoschiena che sprofondava sul morbido materasso, alzò ai lati le coperte e le lenzuola, compresse dall’improvviso carico.
Rifletté seduta: le mani sulle ginocchia.
Devo trovarlo! Non ho scelta, si disse lucida.
Si alzò: dritta.
Si sistemò. Una tenuta per cavalcare; pantaloni, stivali alti, mantello corto. Era perfetta per lasciare Rocca Lisia.
Andò alle stalle. “Gherardo! Ubaldo! Qui!” urlò tonante, come chiamando dei fidi bracchi.
“Vi affido il giovane Nicandro fino al mio ritorno. Sarete agli ordini di Mavio in mia assenza.” disse breve: il suo sguardo freddo era esplicito di comprendere tutti i se e i ma che avrebbero voluto esprimere.
I due uomini non osarono chiedere dove andasse; né quel toro di Gherardo dal viso grossolano e tozzo né lo smilzo Ubaldo dal viso spigoloso. Cosa avrebbero dovuto dire a Gregorio di cui erano agli ordini? Tacere? Entrare in conflitto con lui? Sembrarono affidarsi alla certezza che Mavio sapesse.
Così Lavinia lasciò il castello.
Sentì che doveva lasciarlo al più presto, anche solo per respirare l’aria di una lunga cavalcata liberatoria.
Sciolse i lunghi e bruni capelli, ondeggiando il collo mentre sentiva i boccoli setosi sparpagliati sulla schiena, mentre incitava furente Palafreno al galoppo, come se li seguissero lupi feroci. Il cavallo in fuga come se sentisse il pericolo alitargli addosso.
Si sentiva viva. Libera. L’aria la rinvigoriva, l’orizzonte le dava vitalità.
“Riportami a Raucelio, ti prego.” l’aveva implorata Nicandro quando con Mavio l’aveva portato a riposare in camera sua.
Nicandro gli si era spinto addosso con la poca forza che gli rimaneva, ma lei l’aveva scostato e basta, indolente al suo pregarla.
“Senza Guglielmo il mio posto è là.” l’aveva pregata di lasciarlo andare: non voleva essere un burattino nelle mani di Gregorio.
“Riposa, se puoi.” aveva risposto fredda, palesando l’inevitabile “Presto, dovrai nuovamente usare il tuo dono.”. Che altro poteva fare? A Raucelio come altrove Gregorio l’avrebbe trovato e ricondotto a sé.
Ricordò il chinarsi del capo di Nicandro sul suo petto annientato dal suo cinismo, mentre poche lacrime gli colavano dagli occhi e i singhiozzi si facevano bassi, mentre Mavio con discrezione suggeriva e soprattutto accompagnava il ragazzino ad ubbidire “Ora, riposa un po’.”. Il volto disponibile di Mavio, addolcito dal caldo color miele dei capelli, sembrò smorzare le resistenze del ragazzino. Del resto che scelta aveva Nicandro?
Lavinia si disse l’avesse lasciato in buone mani. Con quella consapevolezza incitò nuovamente Palafreno. Doveva trovarlo! Non c’era più tempo! Gregorio voleva certezze e lei gliele avrebbe date: nella testa di Ludovico.




NdA: Scusate se avevo cancellato il capitolo, ma era pieno di errori! Così l'ho rivisto. Grazie a tutti quelli che leggeranno e lasceranno una recensione.

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Capitolo 19
*** Nemici e Amici ***


 

Nemici e Amici

 
“Vivremo sempre assieme.” rifletté sicuro il bambino più grande accennando con la testa il suo proposito: un taglio disarmonico dei capelli scuri in occhi freddi come l’acciaio, che tuttavia in quel momento brillavano di luce.
“Vivremo nella foresta e io farò il taglialegna.” continuò programmando il loro avvenire, mentre il viso del più piccolo si incupiva inizialmente nel pensare di vivere in una foresta, la casa delle streghe, ma che di fronte alla sua sicurezza, annuiva in assenso fosse un’ottima idea. Del resto i taglialegna nelle favole vincevano sempre.
Da quando Nicandro era stato consegnato alla zia Matilda, madre di Moros, i due cugini, avevano legato più che fossero fratelli. Un incendio aveva distrutto i beni e la famiglia di Nicandro, lasciandolo unico superstite ma non esente da molte bruciature sul braccio e gamba sinistra. La perdita dei genitori il motivo per cui una vecchia vicina si era decisa a condurre Nicandro dalla zia per convincerla ad occuparsene.
“Uno più o uno meno.” aveva scrollato le spalle Matilda. Se ne sarebbe disinteressata comunque e Moros, poco più che tredicenne, non aveva avuto dubbi su questo!
Infatti, Matilda era stata svelta a scaricarlo agli altri figli, ma con talmente tanta noncuranza da convincere Moros a reagire e comportarsi all’opposto di quanto la donna si aspettasse, facendo del suo meglio per far sentire Nicandro a proprio agio.
Nicandro gli si era seduto accanto, sul pavimento, in silenzio.
Le loro mani si erano strette, per dormire si erano avvicinati, nelle passeggiate si erano affiancati, diventando a poco a poco uno parte dell’altro.
Braccioforte lo lasciò raccontare della sua vita, come lui aveva fatto altrettanto con l’amico.
“Ecco siamo arrivati!” annunciò sollevato l’omone, “Questa notte dormiremo qui.” indicò il capanno con il grosso dito.
Questa volta fu Moros a frenare l’amico intimando il silenzio; facendo il segno con l’indice ci fosse probabilmente qualcuno: appesa ad asciugare c’era una brocca lucida e, colpita dal sole sembrava essere stata lavata da poco.
Braccioforte sembrò orgoglioso di lui e allo stesso tempo seccato di non averla notata, prima che Moros non lo spingesse di malo modo, urtandolo maleducato.
“Che fai?” sbottò Braccioforte, girandosi e vedendolo allargare le mani con i palmi aperti “Scusa, non è colpa mia!” disse Moros.
Dietro a Moros un giovane dai capelli rossi e dal viso pallido puntava una spada alla schiena del giovane.
Un nome sfuggi a Braccioforte “Alberico!”, indietreggiando, mentre questi annunciava incredulo “Tu?”.
“Che mi prenda un colpo?” si accavallò al rosso un uomo bruno dagli onesti occhi azzurri. “Braccioforte!” lo accolse, come gli fosse commilitone.
Vecchi compagni lo erano davvero. Sotto il comando di Zelio, dai tempi di Iorio e Alberico e Federico anche con Ludovico, di cui erano sempre stati inseparabili amici.
“Ludovico Chiarofosco? Siete ai suoi ordini?” esclamò Moros non riuscendo a restare zitto, intervendo. Non ci volle molto perché li seguisse dentro il capanno.
Ludovico lo accolse come un nemico: in maniera guardinga, fissandolo con labbra all’ingiù quasi fosse indeciso se lasciarlo in vita. Non aveva un viso amichevole, ma viste le circostanze Moros poteva comprenderlo.
Era un giovane alto, di spalle larghe e fisico atletico. Più alto di Moros di una decina di centimetri. I suoi capelli erano biondo castano e grosse lunghe ciocche cadevano davanti il viso fino alle sole guance. La fronte era ampia e lasciata scoperta. Gli occhi erano verde arancio.
“Qual cattivo vento ti porta da noi!” parlò inclemente Lodovico rivolto a Braccioforte “E’ dalla morte di mio padre che non ti vedo!” indagò sottile.
“Mia moglie è morta!” tagliò corto l’amico, mettendo in chiaro avessero perso entrambi persone care.
“Sì!” accettò Ludovico con un tono della voce greve. Poi investigatore “Ho sempre pensato fosse più che una coincidenza!” chiarì. Gli occhi fissi sull’espressione di Braccioforte, quando indagò “Tuttavia ho trovato sospetta la tua decisione di congedarti dal castello, pur non avendo prove per muoverti accuse.”. Lo condannava di aver preso parte all’assassinio del proprio padre.
Braccioforte trattenne la sua furia, stringendo un pugno, finché non divenne livida l’intera mano. “La pernice gliela diede Zelio in persona, ma che prove avevo?” perse le staffe, prima a parole, poi scagliando un pugno sulla parete, tanto da far scuotere l’intera costruzione, che vibrò.
Federico frenò l’amico invitandolo a calmarsi. Il tetto di paglia e fascine, scuotendosi, fece cadere un leggero nuvolo di polvere: quasi un soffio di cenere che finì addosso a tutti loro.
La situazione era tesa ma liberatoria allo stesso tempo, per entrambi.
Zelio era la causa di tutto! Lui il responsabile della morte di Iorio e di Betta. Lui l’artefice della presa di Rocca Lisia.
“Mi vendicherò!” promise Ludovico: lo sguardo acceso. Gli occhi tizzoni ardenti.
“La vendetta, non riporterà in vita Betta.” lo esortò Braccioforte, subito dimensionato da Federico che augurava “Rocca Lisia è la nostra casa! Dobbiamo batterci per lei.” disse orgoglioso “Per te!” confermò lealmente al suo signore.
“Hai ragione.” approvò solo in quell’istante il biondo giovane.
“Per vendetta o per orgoglio.” approvò il rosso Alberico, sbilanciando il suo pensiero, che non escludeva a priori nessuno dei due sentimenti.
Moros sentì di poter intervenire. “Qual è il vostro piano?”.

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Capitolo 20
*** Cavalieri e contadini ***


 

Cavalieri e contadini

 
“Il problema non è qual è il nostro piano.” disse con un sorriso ironico Ludovico sottolineando, “Il problema è: tu chi saresti?”.
In effetti non c’erano state presentazioni. Moros portò l’indice della mano destra al capo imbarazzato e forse impacciato di quell’interrogatorio. La voce di Ludovico era ostile mentre lo fissava; la schiena appoggiata ad una parete portante del capanno; un’aria di sufficienza in viso.
Moros raccolse il coraggio a due mani, di fronte a quei cavalieri sconosciuti chiarendo chi fosse. “Sono Moros e vengo dalle campagne di Raucelio.” fece allungando la mano amichevole.
“Ztt” alzò il lato della guancia Ludovico, mentre ritornato schiena dritta e allungato il braccio, gli abbassò sgradevole la mano con la sua, “E che aiuto ci potresti dare. Sentiamo?”.
Moros si sentì umiliato. Era così che mortificavano i potenti: non solo con il castigo delle spade, ma anche con le parole.
Si stupì a pensare nessuno avesse preso le sue difese, neppure Braccioforte. Del resto perché l’omone avrebbe dovuto cantare le sue lodi? Si conoscevano appena.
Indietreggiò e negando col capo si accorse di essersi sbagliato. Lui non si era offerto d’aiutarli, ma cosa più grave aveva pensato di chiedere aiuto ad un giovane non diverso dallo stesso Gregorio, che in passato l’aveva accolto al castello con un ambiguo Chi non muore si rivede!
Braccioforte intervenne trattenendolo saldo al braccio e prendendo, ora sì, le sue difese.
“Non giungere a conclusioni avventate, Ludovico Chiarofosco!” consigliò l’amico, mentre Moros orgoglioso chiariva non avesse più importanza: non avrebbe di certo strisciato di fronte ad una persona simile per farsi aiutare.
Ma Braccioforte non gli avrebbe permesso di andare senza una risposta, infatti paternamente lo rispese “Non fare il bambino.”, subito accavallato dalla voce del rosso Alberico, che con un sorrisetto sottile in viso ironizzava “Lo è!”; anche se i tre cavalieri non dovevano essere più grandi di Moros se non di pochi anni. Di certo la vita che avevano condotto li aveva resi più sicuri rispetto a quello che consideravano uno sprovveduto contadinotto.
“Forse hai ragione!” concesse tregua Ludovico, ma gli occhi verde arancio sembravano valutare Moros solo in base ai vantaggi che avrebbe apportato alla loro causa.
“Sei di Raucelio.” rifletté il biondo giovane “Di certo non ci seguiresti per ritornare a Rocca Lisia.”: era chiaro chiedesse… Quindi perché?
“Sei un mercenario?” indagò il bruno Federico, guardando con attenzione il suo abito da viaggio. Correggendosi poi “Non lo sembri.”, come se avesse parlato prima di pensare. Gli occhi azzurri indagatori, mentre andava a sedersi su di uno sgabello malfermo.
“E’ un contadino.” parlò per Moros, Braccioforte, senza disprezzarne la condizione.
“Speri in terre?” sviolinò Ludovico: le tempie corrucciate, impressionato e interessato, come se potesse mercanteggiare, con poco, tanto.
Bhe! Il biondo giovane si sbagliava si disse Moros, perché il suo coraggio non era in vendita.
“Non mi interessa la terra.” avvertì. “Non mi interessa Rocca Lisia.” azzardò come potesse conquistarla anche da solo. “Potrei avere un conto in sospeso con Gregorio Montetardo.” avvertì vago, creando involontariamente aspettativa.
“Gregorio?” appuntò Ludovico come se affermasse La cosa si fa interessante!
“Diciamo che valgo un premio!” scherzò Moros, facendo stendere il sorriso di Ludovico di una piega maliziosa, che ironizzò “Una taglia.”.
Converti le paure del nemico in possibilità! Rischia! La voce di Guglielmo, suo mentore, dentro di lui, lo portò a dire : “Voglio sapere del passaggio segreto.” sfidando Ludovico mentre lo guardava negli occhi.
“Se c’è?” indagò il rosso Alberico separandosi i ciuffi dei capelli con noncuranza: un taglio corto, scalato sul collo.
“Non era una domanda.” disse freddo Moros, determinato.
“Ed è sì, la risposta.” accordò Ludovico sorprendendolo, non cessando di sorridere superbo, visto che forse potevano trovare un accordo. Un uomo in più per un segreto in meno.
Non era la prima volta che Moros si stupiva della liberalità di chi si sentiva superiore a lui all’inizio, ma poi restava stupito della sua risolutezza e cocciutaggine. Si ricordo del magro soldato Ubaldo: arrivato con arroganza davanti alla casa di Matilda.
Ubaldo non era sceso da cavallo. “A voi di casa!” aveva sgarbatamente urlato per far uscire qualcuno.
Giustamente erano usciti o arrivati tutti, dalla casa e dai campi adiacenti: Matilda e i figli, Moros compreso. Uno stuolo di monelli, grandi e piccoli, robusti e malconci, cenciosi o meglio rattoppati.
“Cerco madama Matilda.” si guardò intorno Ubaldo con aria di sufficienza; puntando il viso spigoloso proprio al volto di sua madre che acconsentì a dire “Sono io. Matilda.” La donna fece un goffo inchino, alzando di pochi centimetri la lunga tunica; i capelli arruffati e cotonati che sembravano un cespuglio o degli stracci sfatti e ammucchiati a chiocciola. Il volto del soldato Ubaldo che la squadrava con un visibile disgusto, se non valutarne la formosità di fianchi e seno, che prominente Matilda non si dava cura di contenere, al contrario evidenziava con un’ampia scollatura.
“Il mio signore e vostro, Guglielmo Montetardo, conte di Raucelio, tiene a dimora vostro nipote Nicandro.” declamò il soldato, accompagnando a quelle parole un sacchettino che lasciò cadere ai piedi del proprio cavallo “Questo è per il disturbo, da parte del mio signore.”.
Matilda perplessa in viso. Non si era neppure presa la briga di cercare Nicandro e del resto se Ubaldo non avesse specificato nipote avrebbe avuto difficoltà a riflettere su chi potesse mancare all’appello. Il suo solito: uno più uno meno.
Ubaldo concluse “Non venite a cercarlo.” chiarì. “Non vogliamo accattoni pidocchiosi.”: i fratelli Fernando e Bernardo che inopportunamente gli si scaccolavano davanti, Jacopo con il solito moccolo al naso che colava come cera di una candela, Berenice che si grattava la testa e non solo quella. Di certo non smentivano quell’affermazione.
Ubaldo girò il cavallo senza attendere un assenso, messaggi o proteste. Finiva tutto così. I suoi fratelli che già sfollavano, chi dentro, chi a giocare, chi riprendeva a sfaccendare in casa e nella campagna.
Moros aveva guardato gli altri per cercare qualcuno che avesse rimorso di chiedere spiegazioni, ma di fronte al loro girare le spalle s’era deciso a frenare il soldato iniziando a corrergli appresso, nell’indifferenza dei fratelli.
“Aspettate.” continuò a rincorrere l’andatura al trotto del soldato che non sembrava intenzionato a girarsi o aspettarlo.
Lo seguì richiamandolo ancora e poi ancora, ma alla fine tacque per risparmiare il fiato, limitandosi a rincorrerlo.
“Golia, abbiamo compagnia.” lo sentì suggerire al cavallo: un buon palafreno dal manto color marrone lucido.
Il soldato aveva capelli castani, miele una volta accarezzati dai raggi di un sole generoso che riscaldava l’aria.
Ubaldo si girò un istante a guardarlo: aveva un viso triangolare magro e scavato, basette a mezza guancia e pizzetto sulla punta del mento, gli occhi scuri e una fascetta rossa che gli cingeva la fronte come un anello. Anche se di fisico asciutto aveva un’aria forte e uno sguardo che sapeva il fatto suo.
Moros lo guardò bieco. Si fermò un istante spolpato, le mani al fianco sinistro dolorante, ma poi continuò per non farsi seminare. Con uno scatto riprese a seguirlo, ma gli sembrò che l’andatura del cavallo fosse stata frenata.
Iniziò ad affiancarlo, ma incespicando finì a terra di colpo. Tirò un’insolenza mai vista, dettata dalla frustrazione, ma si rialzò nuovamente.
Si dette uno slancio per raggiungerlo, ma si sorprese nel vederlo fermarsi.
“Deve essere importante.” accordò il soldato.
“Sono Ubaldo.” si presentò breve, mentre porgeva una carezza al suo cavallo, lucido nel manto, nobile e stabile come sull’attenti.
“Moros, signore.” fece altrettanto, mentre tendeva il viso verso l’alto rivolto al cavaliere.
“Sei mai salito su un cavallo?”.
Moros negò, poi a parole pronunciò “Mai.”.
“Piede sulla staffa. Ti aiuto a salire!” disse il soldato togliendo il proprio piede dal sostegno, perché Moros si desse lo slancio a salire, nel contempo favorendogli la mano.
Moros aiutato e agile in prima persona riuscì a salire al primo colpo e non sembrò goffo, meritandosi un “Ottimo, ragazzo!”.
“Mi ricordo di te.” avvertì il soldato: era uno degli uomini che avevano minacciato Moros con le lance il giorno in cui aveva conosciuto la ragazza della freccia.
Che solo ora aveva un nome: Lavinia.

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Capitolo 21
*** Qui per me ***


 

Qui per me

 
Il suo sgradevole “Che ci fai tu qui?” rivolto a Moros giunto nel cortile interno del castello di Raucelio, accolse il ragazzo, mentre il soldato Ubaldo ne prendeva a suo modo le difese giustificandone la presenza “E’ qui per vedere suo cugino.”. Qui per Nicandro, pensò con antipatia lei.
Squadrò Moros, ma il volto del ragazzo non fece tuttavia una piega se non salutarla con un “Buongiorno.”, stringato, a cui lei minimamente rispose. Mantenne un’aria di sufficienza, altera: i capelli imboccolati sulle punte che le scendevano sul petto fluenti, ben pettinati sul capo con una linea che li divideva in due parti uguali. Un ricco vestito rosso scarlatto: il suo colore preferito.
“Ah, sì?” aveva pronunciato stupita a Ubaldo, passando da uno sguardo truce a uno affabile, limitandosi a dire “Vado a chiamarlo.”, forse perché presa alla sprovvista di trovarselo là. Si rimproverò di non aver mandato altri ad annunciare quella visita.
Voltò i tacchi dei pregiati stivaletti a lacci incrociati, che dalle caviglie si chiudevano al ginocchio e lasciò il cortile per la residenza padronale.
Aveva camminato impettita, piano nell’uscire di scena, ma poi fuori dalla visuale del ragazzo, era corsa veloce per nascondersi: le gote infiammate, portandosi entrambe le mani al viso, sentendole scottare.
Non era là per lei: quel pensiero l’aveva più che offesa, tormentata.
Ma perché?
Lei, lo odiava. L’aveva odiato dal primo istante. Ed ora lui era qui, s’era detta.
E’ qui. Credeva di poter morire di quella consapevolezza.
Aveva portato l’indice alle labbra a riflettere. Lei lo odiava e quel pensiero la trattenne ferma nel corridoio per qualche minuto, morsicando una pellicina del dito, nervosa. No! Scacciò il pensiero di lui. Lui era antipatico, perciò lei… Si sforzò di non pensare a lui, ignorandolo; cosa che non poteva succedere in compagnia di Fiamma, Doralice, Carlotta e Viviana. Domestiche, più che amiche, ma sicuramente in quel periodo una buona spalla.
“E’ li da quante ore?” osservava la bionda e grossoccia Carlotta. “Certo che è tenace!” sottolineava Viviana. “E’ molto bello.” esprimeva la sua preferenza Doralice. “Avete visto che sguardo?” giudicava Fiamma, tutte accalcate a spiare Moros dalla finestra della sala da pranzo, dove s’erano perse a discorrere assieme, osservandolo da più di tre ore in paziente attesa di aspettare. Dunque, riusciva ad essere paziente, si disse.
“E’ proprio cocciuto.” fece lei alle proprie fantesche, minimamente intenzionata ad introdurlo in casa, appoggiata in quel proposito, quanto invogliata a fare esattamente il contrario. Le domestiche avrebbero fatto volentieri gli onori di casa; Doralice e Fiamma sembravano parecchio interessate a lui, cosa che iniziò a darle fastidio e la fece irritare “Non ho nessuna intenzione di farlo entrare!”, prima che Carlotta le picchiettasse la spalla.
“Lavinia?” si sentì richiamare: una voce sicura di non sbagliare fosse lei. Lei strizzò gli occhi al cielo, mentre le quattro domestiche le facevano ala e si inchinavano.
Guglielmo, assieme a Nicandro, indagò “Cosa cattura così la tua attenzione?”, accigliato, mentre lei diventava paonazza, per vergogna o per…
Guglielmo si era limitato a guardare con circospezione dalla finestra, senza mutare d’espressione, mentre altrettanti sorrisetti confusi comparivano nel volto delle fantesche.
Corse qualche istante di silenzio. Lei si sentì mozzare il respiro.
“Abbiamo ospiti. Ci scuseremo del ritardo.” disse cordiale Guglielmo nella sua tenuta migliore: la barba perfetta che gli sagomava il viso, i capelli fluenti che scendevano morbidi appoggiandosi sulle spalle. Un ricco farsetto di colore blu zaffiro. Lui che da nulla era divenuto conte le ricordò il concetto di nobiltà: quella dell’animo.
Come si era sentita ridicola e frivola quel giorno, soprattutto alla luce dell’abbraccio tra Moros e Nicandro, luminoso come non si vedessero da secoli. Le braccia di Moros che alzavano in aria Nicandro in un volo, come fosse leggero come l’aria.
Lavinia lanciò un sasso nell’acqua, seduta sopra una vecchia roccia. Si sfogò con quel gesto. Avrebbe voluto, lei, volteggiare tra quelle braccia, quella era la verità.
Di sentimenti non aveva mai capito molto, per questo le piaceva il più delle volte star sola.
Accanto a quel fiumiciattolo, dall’alveo quasi asciutto, aveva deciso di sbocconcellare qualcosa, prima di ripartire nella sua ricerca.
L’amore per lei non era né l’ondeggiare dei glutei di Doralice né la vischiosità dei baci della soffice Carlotta, quando le aveva scorte rivolgere le loro attenzioni ai soldati del castello. Eppure sotto il sapiente bacio di Moros era quasi annegata.
L’amore per lei poteva essere un sorriso, ma li aveva perduti: tutti. Quello di Guglielmo, quello di Nicandro. Restava solo l’odio di Moros.





NdA. Mi scuso con chi legge, se alle volte posto velocemente e altre volte no ^_^ 
Forse è perchè mi piace scrivere e lo faccio di getto. Così per non perdere la vena creativa lascio andare le emozioni.
Del resto non sempre si ha tempo per le proprie passioni e quando succede è stupendo!

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Capitolo 22
*** Il posto più bello ***


 

Il posto più bello

 
Il posto più bello è con chi si ama.
Lei l’aveva sempre saputo; visto negli occhi di Nicandro quando era assieme al cugino e quando era con Guglielmo; anche se le era sembrato strano quell’incomprensibile “Devo tornare a casa… Zia Matilda sarà in pensiero?”, mentre tutti guardavano stupiti Nicandro, come se fosse la stranezza più singolare del mondo. Anche se doveva essere quella più naturale.
Chi non sogna di vivere in un castello? Quella bella stanza, rispecchiava la ricchezza: un comodo letto a baldacchino con tendaggi ai lati, un bel baule da corredo di legno chiaro borchiato nei vertici, portafiaccole di ferro lavorato a edera, un pregevole arazzo in cui un’armonia di animali oziavano tra toni di colore caldi.
Così quando Nicandro fece l’atto di venire in piedi, alzandosi dal letto, quattro braccia lo ricoricarono con dolcezza, tra mille premure e suggerimenti. “La ferita si è infettata.” e “Non è prudente!”. Legittimi quei dinieghi che obbligavano ad essere pazienti. I severi curatori, nei loro sai, non avrebbero arretrato nel loro consiglio.
Che non si reggesse in piedi per la febbre era evidente, nel viso bianco e nel tremolio che lo pervadeva, ma probabilmente trovarsi in mezzo a estranei lo rendeva ancora più nervoso.
“Offendi il mio tutore, se te ne vai!” appuntò saccente Lavinia, additandogli un dito contro. Guglielmo non meritava una simile onta: l’aveva salvato e condotto al castello.
“Non voglio offendere nessuno, ma tornare a casa mia.” si giustificò il ragazzino con voce cauta. Di certo non voleva oltraggiarli e poca la forza per sfidarli.
“La zia Matilda dovrà attendere.” azzardò cocciuta “Per ora dormi.”. Lo guardò, ma già aveva seguito il suo consiglio, volente o nolente per la febbre. Da giorni altalenava i dormi veglia, ma sembrava migliorare con le cure che gli venivano rivolte.
Decisamente s’era incuriosita di sapere chi fosse questa zia Matilda; così l’aveva cercata, trovata e spiata e diciamocelo s’era davvero arrabbiata sul fatto che Nicandro avesse detto di preferirla a Guglielmo.
Era una donna pigra e più d’un uomo sembrava frequentarla e frequentare la sua casa: una casupola dal tetto di paglia, che sembrava rattoppata di fango.
Più d’una volta era stata sul punto di venir sorpresa dai fanciulli e ragazzetti che la abitavano: tutti diversi uno dall’altro, pochi i tratti materni che li accumunavano. Tutti chiassosi, irosi e piagnucolosi che si alternavano in un caotico andirivieni. Ma ecco… Lui?
Era la sua casa? Cosa centrava lui?
Abitava dunque lì. Il contadino della sua storia.
Il posto più bello è con chi si ama.
Ritornava a casa con una gerla di viburno sulle spalle, riempita di legna. Il suo sguardo abbattuto. Fischiettando cupamente era apparso in fondo al sentiero che inoltrava nel bosco. Guardava a terra mentre si avvicinava. Smise di fischiare quando girò le spalle per lasciare la gerla cadere a terra, prima di entrare.
Il suo cuore si era stretto un istante, conscia che lo sconforto non doveva essere un sentimento che si confaceva a quel ragazzo.
Il posto più bello è con chi si ama.
Valeva anche per lei: valeva per tutti.
 

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Capitolo 23
*** Seguimi e ti porterò da un principe! ***


 Seguimi e ti porterò da un principe!

 
Lavinia tirò un altro sasso, ma si disprezzò d’averlo fatto e dare così nell’occhio: c’erano visite!
Corse a ripararsi tra gli alberi, dove aveva sistemato anche Palafreno, a cui trattenne gentilmente il muso, sussurrandogli all’orecchio di stare fermo e in silenzio. Palafreno pur infastidito accettò il comando, muovendo leggermente la punta delle orecchie.
Una goffa figura di donna fece la sua comparsa sbucando dal limitare del bosco: l’andatura spedita ma sbilanciata nel portare un paniere sottobraccio. Una raccoglitrice di funghi, pensò Lavinia nel vedere la figura camuffata da un mantello sbrindellato.
La figura sembrava estremamente irritata di portare quel paniere, imprecando a voce alta, non le confacesse e si dovesse prima o poi vendicare su un qualcuno: un uomo di sicuro, da come concordavano al maschile le tante insolenze che lanciava.
Lavinia la trovò insolitamente comica, mentre la vedeva avanzare a falcate, energica. La donna raggiunse il fiume, posando il paniere di sasso e alzando le maniche. La lisciata che diede alle braccia per rinfrescarle fu spontanea e seducente, con le movenze ricercate che avrebbe usato una ragazza maliziosa nel catturare l’attenzione di un pretendente.
Lavinia non poté far a meno di incuriosirsi a lei.
“Credi di essere trasparente?” si sentì colpevolmente richiamare. La donna alzò la voce saccente, girandosi a guardarla con due tormaline scure al posto degli occhi. Un bel viso liscio dai lineamenti decisi, alteri e sprezzanti.
Lavinia fece capolino, imbarazzata.
“Cos’è? Una soldatessa ha paura di una fanciulla?” sottolineò la donna misurandone le fattezze: le labbra stese in un arco severo.
“Non ho nulla da nascondere.” si giustificò Lavinia, avvicinandosi, ma la mano all’altezza della spada, che portava sul fianco, mise in chiaro che era cauta nei suoi incontri.
“Neppure io!” disse spavalda la nuova venuta con fare indifferente, continuando a rinfrescarsi, tamponando una pelle segnata da quelle che potevano essere vecchie scottature o inclementi frustate.
“Cosa ci fai qui? Sono rari gli incontri da queste parti.” le chiese la donna: i lineamenti alteri che cedevano ad un atteggiamento più cordiale, quasi frivolo ma molto indagatore.
“Sono di passaggio. Dovevo far riposare il mio cavallo.” avvertì Lavinia muovendo il capo, inclinandolo in direzione di Palafreno, a cui la nuova arrivata dette un sommario sguardo.
“Sono in missione.” spiegò Lavinia spiccia, spartendo una complicità che sentì di poter accordare ad un’altra donna. Del resto, l’aveva riconosciuta un soldato, quindi non aveva senso mentire.
“Anch’io!” rise l’altra: una risata ampia, con la bocca sgraziatamente aperta, che fece vibrare l’aria e far levare in volo un solitario uccello indispettito da quel molesto rumore.
“Per i funghi?” ipotizzò Lavinia, volendo sminuire l’imbarazzo tra loro.
“Esatto! Ma come siamo perspicaci!” ironizzò l’altra e svolse il fazzoletto che copriva il paniere, con moto delicato e quasi sofisticato nella sua lentezza. “Mi chiamo Malia.” disse mostrandoli e riempiendole gli occhi del colore bianco e marrone dei porcini e giallo dei finferli.
“Lavinia.” si presentò altrettanto, con un sorriso di labbra, e guardandoli approvò “Bellissimi!”: il capo che si avvicinava per osservarli meglio.
“Lavinia…” ripeté Malia, come valutasse quel nome. “Devi essere quella Ehmm.. Lavia…” rifletté “Potresti esserlo! Quella Lavia degli uomini giunti nella mia locanda.” parlò ad alta voce, seguendo le fila dei propri pensieri.
“Vittorio e Ottavio?” si agitò. Dovevano aver trovato Ludovico! si disse, richiedendo all’istante “Devo raggiungerli!”.
“Non ti allarmare! La mia locanda è qui vicino!” rassicurò inizialmente, per poi chiarire “Ma gli uomini di cui ti dicevo hanno preso una bella batosta, soldati o non soldati.” scherzò, mentre lei ripeteva sorpresa e incredula “Batosta?”.
“Una rissa con qualche spintone.” la frenò Malia “Erano malconci, ma vivi e vegeti.” precisò con lo stesso pragmatismo che avrebbe usato Moros.
Erano? rifletté Lavinia, volendo saperne di più. Dov’erano ora? Quindi non più alla locanda.
Malia infatti argomentò “Le hanno prese da un vecchio soldato. Comunque sono partiti appena ritornati in piedi.” ne sbeffeggiò l’esito deludente.
“Un vecchio soldato?” ripeté Lavinia: non erano tipi da attaccar briga, per lo meno Ottavio. Cercò di farsene una ragione, mentre Malia scrollò le spalle “Un ubriacone della zona, niente di ché....” minimizzò, ricoprendo il cestino dei funghi.
“Sai in che direzione sono andati?”; erano stati battuti da un ubriacone, ma dov’erano finiti?
“Mi è parso di sentire che dovevano riferire al castello di quell’incontro...” rispose vaga Malia e Lavinia rifletté: su di uno scontro con un ubriacone? Picchiò il piede su di un sasso irritata: avrebbe potuto avvantaggiarsi della loro presenza e invece, nulla. Forse non erano riusciti a sapere nulla su Ludovico o forse qualcosa di abbastanza determinante li aveva decisi a riferire.
“Non hanno nominato nessuno?”.
“Hanno parlato con un tale… Un bel ragazzo!” valutò ricordandolo, per poi continuare “Di un passaggio segreto.. Prigioni… Cose simili! Da soldati!” argomentò Malia.
“Non di Ludovico Chiarofosco?” chiese interessata, focalizzando la sua attenzione solo su ciò che poteva essere determinante per la sua missione.
“No! Di Chiarofosco non hanno parlato.” ammise. “Hanno nominato un altro nome, pensandoci…” portò l’indice alle labbra, “Nicandro, se non sbaglio. Sì proprio Nicandro!”.
“Non per vantarmi ma ho una memoria di ferro.” si pavoneggiò nel tentativo quel nome la sbottonasse.
E aggiungerei una curiosità innata per gli affari degli altri, rifletté Lavinia precisando stringata “E’ mio fratello.”: probabilmente il suo volto esprimeva il turbamento non riuscisse a collegare quel nome alla partenza dei propri soldati.
I suoi uomini avevano parlato con un ragazzo; bello: l’aveva aggiunto Malia.
Di prigioni e di un passaggio segreto: questo era interessante!
Avevano parlato di Nicandro: forse avrebbe potuto scoprire dove si trovava il passaggio con esattezza o quasi, rifletté Lavinia.
Avevano importunato un ubriacone, un vecchio soldato, o lui, importunato loro: chissà.
“E così, ti ritrovi sola soletta?” indagò Malia, impertinente, ironica e quasi antipatica.
“Sono abituata alla solitudine!” la riprese seccata e d’autorità, con un broncio in viso per quel commento offensivo delle sue personali capacità.
Malia la guardò inclinando un sopraciglio “Non ci si abitua alla solitudine, carina!”, la sua voce aveva assunto un tono melenso e le sue labbra avevano accennato un sorriso, come se conoscesse quel sentimento o meglio si arrogasse di saperlo gestire: i suoi occhi neri, uno specchio cupo per un animo che sembrava desideroso di poterla imporre agli altri. Sentimento non di certo onorevole, per nessuno! Per nessuno…
Lavinia sentì un brivido a quelle parole che sembravano parlarle nel profondo: lei era sola, ma quel che era peggio imponeva la solitudine, a Nicandro e… L’aveva imposta a Moros.
Loro non avevano chiesto quella condizione e senza la sua freccia avrebbero continuato a condurre la loro vita insieme. Spontanei, leali, liberi nei boschi dove li aveva conosciuti.
I suoi occhi li rividero: Moros, più ragazzo di quanto uomo oggi non potesse essere diventato, seduto spavaldo, quasi puntellato, su di un muretto troppo alto che guidava il cugino a salire, per condurlo con sé. Due sorrisi che erano uno.
Quella mano…
Quella mano da sempre forte, la cui carezza avrebbe sempre voluto assaporare, ma che non era mai stata per lei e mai lo sarebbe stata.
Il suo cuore soffriva, ma s’era ripromessa di farlo tacere, facilitata dal sorriso di Malia, che la distolse dai ricordi “Bhe! Ora non sei più sola. Ci sono io!” esplose allargando le braccia, la mano a spostarsi i lunghi capelli fluenti e setosi.
“Ti va di mangiare assieme a me?”, la inviò cordiale. “I funghi sono belli ma non saporiti come questa!” si sentì lusingare e Malia trasse da sotto lo sbrindellato mantello, frugando in un’ampia tasca, una bella e lucida mela dall’aspetto appetitoso: color verde-rosso.
“Vuoi favorire?” disse accomodandosi a terra, avanzando la mela a offrirgliela; sedendosi a gambe incrociate portandosi il mantello sotto al fondoschiena.
Com’era invitante, pensò Lavinia che si accomodò altrettanto, ma rifiutò, traendo dalla bisaccia, che portava a tracolla, le proprie gallette “No, grazie. Ho queste!”.
“Non fare i complimenti.” insistette Malia, avanzando la mano “E’ buona! Assaggiala!” sottolineò, invitandola ad assaggiarla e facendola sfilare davanti al suo viso. Il colore slavato delle sue gallette nonché il loro aspetto asciutto strideva come una corda pizzicata male rispetto al bel frutto che riempiva gli occhi, come sembrava poter riempire la pancia.
“Lo immagino, ma no, grazie!” disse mortificata di deluderla, ma sicura di non voler approfittare di tanta cortesia.
Malia arricciò il naso, leggermente offesa, ma riportò a sé la mela con un gesto veloce del braccio, come spazientita dalla sua cocciutaggine. La trattenne con entrambe le mani: belle, lisce e affusolate; dita dalle unghie perfette e ben curate, cui doveva tenere in gran cura, nonostante sporcate dal duro lavoro di raccolta che le impolverava di un colore marrone, granuloso, di terra.
Lavinia addentò una galletta, della stessa consistenza di un sasso e Malia accennò un sorrisetto ironico: come faceva a preferirle alla sua mela?
“Una vera soldatessa!” la prese in giro, nuovamente ridendo a pieni polmoni, assestandole un calcetto col ginocchio come fossero amiche da sempre.
Lavinia pensò che Malia fosse un personaggio pittoresco: d’aspetto sofisticato e volgare allo stesso tempo; come se curasse l’apparenza ma poi la sua parte più ruspante riprendesse il sopravvento sui suoi modi, facendoli scadere.
Comunque Malia la lasciò sbocconcellare l’intera galletta, ma quasi subito annoiata, o forse in cerca di chiacchiera, indagò “Dicevi… Sei in missione?”.
Lavinia annuì.
“E cosa cerchi di bello in questa foresta?” sbottò Malia “Forse un bel taglia legna?”.
“Nooo.” si stupì a dire Lavinia, finendo di masticare l’ultimo boccone, che quasi le andò di traverso, colorandole le guance di porpora. Nella mente l’accostamento taglia legna-Moros la destabilizzò di ogni sicurezza; il pensiero rivolto alle braccia muscolose e armoniche che brandivano l’ascia.
Malia sembrò aver lanciato un amo, attendendo che un pesce abboccasse, scherzando di quella infelice battuta “Sei una donna-soldato... Avrai di sicuro un incarico particolare…”.
Lavinia si sentì offesa e portò le spalle all’indietro risentita “Sono un comandante e non cerco taglia legna.” portò la mano destra al fianco seccata. I suoi incarichi erano seri.
Malia la guardò attenta: due occhi indagatori, dicendo solo un fuggevole “Ah, si? Magari sono loro che cercano te.” suggerì, volendo stuzzicarla.
“Credo che un taglia legna abbia di meglio da fare, che cercare me.” non riuscì a tacere; di certo Moros non l’avrebbe cercata per richiedere le sue grazie, meno che meno quello che il giovane considerava uno sprezzante favore. Eppure sentiva una strana sensazione avvolgerla; come dovessero incontrarsi di nuovo.
Malia alzò in un sorriso la guancia ammettendo villana “Vero, sei sicuramente ricca. Ambisci di sicuro ad un gradevole principe.”.
Lavinia non poté mascherare il proprio imbarazzo: cercava un principe, ma non in quel senso.
Malia rise orgogliosa “Vedo che ho centrato il tuo obbiettivo, cerbiattina mia.” l’apostrofò, facendola nuovamente irritare.
“Ma tu guarda!”, Lavinia incrociò le braccia, ma Malia non la prese sul serio.
Malia aveva travisato il suo incarico, meglio così, si disse prima che la ragazza ironizzasse “Amare è stupendo. Soprattutto i principi!”; appuntò col dito indice alzato, “Sono quelli che preferisco, oltre ai taglia legna si intende!” disse con tono malizioso, facendole l’occhiolino, come se scherzasse di una favola o sul suo cuore incerto dell’amore, quasi entrando in competizione.
“Principi?” sfuggì a Lavinia ad alta voce “Perché dovrei voler trovare un principe se non per dovere?”. Malia aveva amato dei principi o diceva così per dire? Non uno, ma tanti? Era bellissima, poteva veramente essere stata tra le braccia di ricchi nobili, pensò. Quella pelle lunare, quelle perle nere in occhi segnati dal bistro potevano sedurre. Si sorprese a chiedersi sotto quel malridotto mantello quale corpo voluttuoso poteva celare, perché sembrava saper bene come, quando e con chi usarlo.
“Sono i più pepati!” rise Malia saccente, rinfrancando il paniere sottobraccio, arricciando il nasino. Chi usava, chi? si sorprese a riflettere Lavinia sulla licenziosità di quella ragazza.
“Pensavo cercassi il bel biondino Chiarofosco?” ammise l’altra, “Ma se non è così? Non hai bisogno di me!” parve dispiaciuta, facendo una smorfia delle labbra profuse.
Malia si alzò. “Vuoi seguirmi?” suggerì un invito “Più in là nella foresta.” disse avanzando un dito verso il fitto fogliame “O temi di incontrare un lupo cattivo anziché un biondo principe?” la prese in giro; facendola spicciare ad alzarsi a sua volta.
“Non ho paura di nulla!” mise in chiaro Lavinia “Se sai dove si nasconde, fammi pure strada!” disse temeraria, aggiungendo “Parli troppo liberamente dell’amore.” consigliò sistemando la bisaccia e dirigendosi verso Palafreno.
“L’amore è una freccia che ti trafigge al cuore!” disse Malia senza timore o riguardo, quasi ostile, con l’esito inclemente di destabilizzarla: le due tormaline fisse a lei, mentre Lavinia si fermava immobile.
L’amore una freccia! fu trafitta nell’animo. Riprese il passo ma il viso le si era slavato; anche se aveva girato le spalle, non poteva nascondersi da quella donna.
“Non puoi dire di aver amato, se non tra le braccia di un principe.” sembrò cambiare discorso Malia, attendendola. Il passo di Lavinia divenuto stanco e fiacco d’un colpo.
Si riprese. “Io non amo!” rispose risentita: lei non voleva affatto parlare, confidarsi meno che meno.
“E’ un peccato.” suggerì indifferente Malia. “Baciare è stupendo!” continuò, reggendo la grossa mela con entrambe le mani, avanzandola alla labbra come una coppa, facendo forza sul braccio destro perché il peso del cestino non impedisse quel movimento.
“Guarda questa mela. Due mani la racchiudono per assaggiarla.” parlò piano, quasi gustando quel pensiero “Come un viso nel suo primo bacio.”.
“Lo sguardo innocente resta schiavo di quella emozione… di quella…” sembrò evocare una storia “Magia.”.
Grunch! Malia addentò la mela con un morso, scavandone un pezzetto, spezzando con un rapido e crudo morso l’incantesimo del suo racconto.
Lavinia ripensò al suo primo bacio: bello e gentile ma unico e irripetibile. “Un amore può deludere.” rimproverò a Malia, come a se stessa; questa che rimetteva in tasca la mela.
“Vero.” accordò la ragazza, mostrando le cicatrici sulle braccia; svelando quelle strisce, simili a corde, che le segnavano la carne. “Questi sono ricordi d’un amore che non poteva dirsi tale!” confidò. E alla curiosità del suo viso iniziò: “Si chiamava Baltasar. Prese dimora nel mio villaggio.” iniziò. “Era potente e bello.” rimuginò sognante con la mano destra alla guancia. “Alto, capelli lunghi. Lisci e corvini. Sapeva dove condurmi...” sospirò arricciando un lungo ciuffo, con voce languida. “Tu non capiresti!” ritornò impertinente sventolandosi con la mano; squadrandola da capo a piedi come la valutasse estranea a quella materia. “Mi aveva promesso di essere la sua regina…”.
Regina addirittura, rifletté Lavinia, questa volta prendendosi lei gioco di Malia, stendendo le labbra all’infuori, mentre questa continuava “Se solo avessi..”. Tacque.
La curiosità si impadronì di Lavinia che incalzò “Se solo avessi?”, mentre conduceva a mano Palafreno.
Malia si morse il labbro, sbottonandosi “Lo delusi nelle aspettative...” concluse “Storia passata. Mi è arrivata voce sia morto!”.
“Mi spiace.” si sentì di dirle, per rispetto alla morte oltre che complice di quegli intimi sentimenti.
Una vipera avrebbe fatto meno male! “Ma cosa hai capito? Credi fossi ancora illibata a quel tempo?” si offese di fronte all’intima scelta che per Lavinia, quel Baltasar, avrebbe potuto averle richiesto o imposto e preteso.
“Non voleva me!” chiarì Malia, con una voce che trasmetteva come per lei quella risoluzione fosse un’immane smacco delle proprie doti. Come una postilla capestro su di un editto già di per sé gravoso.
Lavinia tacque imbarazzata non esperta alle faccende di cuore e indubbiamente e soprattutto di quelle di letto.
“Sarebbe stato così facile, altrimenti!” s’inacidì Malia, come se la sua sicurezza a quel tempo fosse andata in pezzi.
“Lo sapevo anch’io che era difficile!” prese a sgambettare avanti e indietro, quasi collerica. “Ma no! Dovevo proprio innamorarmi di lui!” lo stesso gergo farcito di insolenze di quando era comparsa.
Lavinia sbatté le palpebre, osservandola.
“Insomma, ti si deve spiegare proprio tutto?” sembrò seccata, precisando “Voleva un cuore innocente!” precisò guardandola fissa negli occhi: lo stesso trasporto del narrare di una favola. “E’ sempre difficile trovarlo. Tanto valeva mi chiedesse quello di un eroe, quel bastardo.”, confidò indispettita facendo volare parole grosse: i denti stretti, le labbra leggermente socchiuse, quasi aggressive. Forse proprio l’innocenza spezzava gli incantesimi di cui Malia sembrava essere prigioniera, sicuramente quelli mentali, si disse Lavinia.
Esisteva una qualche scala di preferenza, sentì di poterci scherzare Lavinia: eroe in testa, ma trattenne una risata e misurò un sorriso “Bhe! Allora, non ti è utile il mio!” scherzò: pazza per pazza. “Tutto sono tranne che innocente!” precisò, ma già Malia sembrava saperlo, perché increspò il naso come se le prudesse “Me l’ero immaginato, carina!”, come avesse fiuto.
Non era neppure un eroe o un'eroina. Gli eroi erano buoni e lei non lo era, tuttavia quel carina, iniziava a infastidirla.
“Per quello ora mi interessano solo i principi!” rise Malia, presuntuosa come fossero meno impegnativi nelle loro richieste.
“Perché sono pepati!” l’assecondò Lavinia, strappandole una risata spassosa.
“Sì! Hai detto bene.” concordò Malia. “Seguimi, soldatessa. Ti porterò dal tuo principe! Ma poi non dire che non ti avevo avvertita!” disse con malizia.

NdA: Grazie per aver letto ^_^ Se avete letto, Vi prego di condividere con me le Vostre impressioni, mi farebbe veramente piacere!

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Capitolo 24
*** Un'uscita non è sempre un'entrata ***


 

Un uscita non è sempre un’entrata

 
“Quando vedi dei soldati, nasconditi!” aveva suggerito in passato a Nicandro, perché non si cacciasse nei guai, quando quegli spocchiosi giungevano per godere dei favori di Matilda, facendo i gradassi.
Eppure, nonostante quegli avvertimenti i soldati erano entrati nella loro vita ugualmente.
Certamente, non poteva disprezzare il salvataggio perpetrato da Guglielmo verso il cugino, ma Lavinia era categoricamente esclusa da questo favore, in quanto era stata la causa delle loro disavventure.
E’ tutta colpa sua! Quante volte l’aveva urlato al cielo senza ottenere che qualcuno o qualcosa lo ascoltasse e provvedesse a punirla; le mani alzate dirette ad una luna indifferente.
Era solo una principessina viziata, quello il primo pensiero di Moros; anche se era difficile immaginarsela a quel modo. Altera lo era per certo, ma in conseguenza del suo carattere orgoglioso, non di certo per pusillanimità.
Te la farei ingoiare quella freccia! avrebbe voluto spolmonarle addosso più volte ma non l’aveva mai fatto. Non era nel suo carattere. La fierezza va oltre beni o titoli: Guglielmo stesso l’aveva dimostrato con la sua persona, il suo carisma, la sua autorevolezza. Un soldato divenuto conte. Un uomo pacato eppure implacabile nella lotta al pari di un fulmine; quasi quanto l’immagine che Moros aveva degli dei. Un uomo, un soldato attorniato da altrettanti soldati, che chiamava per nome, di cui si interessava, di cui spartiva disagi e scomodità negli scontri. Un padre per Nicandro, quanto quello che sapeva avesse perduto. Occhi benevoli che pur vivendo di guerra sapevano quando ripudiarla.
E per lui? Era un esempio. Un punto luminoso negli anni aridi della sua adolescenza. Un simbolo di speranza e ottimismo.
Come stridevano gli occhi limpidi d’azzurro di Guglielmo con quelli verde-arancio del biondo ventenne che aveva di fronte, che sembrava studiarlo e dissimulare una natura più crudele, di quanto le sue giovani e principesche fattezze esprimevano.
“Ti riprenderai tuo cugino.” disse breve Ludovico per poi rivendicare “Ed io la mia Rocca.” come non vi fosse paragone tra le due imprese.
Moros sentì la mano di Braccioforte poggiarsi sulla sua spalla, in un gesto di lealtà ai suoi sentimenti e alla speranza di riabbracciare Nicandro. Mille parole non avrebbero eguagliato quel gesto.
Quanto doveva rimpiangere il ricordo dell’amata Betta; quanto il fatto di saperlo così partecipe delle sue incertezze, glielo rendeva già un caro amico, come lo fossero stati da sempre; quanto strideva dalla prima impressione che gli aveva fatto: quella di un ubriaco senza speranza.
Era come se quegli occhi neri come i suoi volessero parlargli, quasi in modo paterno; la barba bianca che ne dimostrava l’avanzare degli anni.
“Esiste un passaggio segreto. Con pochi uomini addestrati, potremo impadronirci nuovamente della rocca!” ammise Ludovico, iniziando il racconto della loro fuga.
“Potremo ripagare Zelio con la stessa moneta spesa contro re Iorio!” si intromise il rosso Alberico meritandosi un’occhiata indignata dal proprio signore: cauto di ipotizzare vittoria. Del resto anche Moros lo giudicò più uno sfogo, che un proposito facilmente attuabile. Avrebbero rischiato più loro che quel tale, Zelio; non c’era ombra di dubbio.
Con un bastone, in terra, Ludovico disegnò sulla polvere una visione approssimativa di Rocca Lisia.
Quattro lati ed ecco realizzato il poderoso mastio rettangolare con i solai: diviso in tre piani. Poco lontano, Ludovico disegnò la torre di difesa e di ingresso e il muro di cinta, con un abbozzo di merlature seghettate, che la collegava con il mastio. Infine stendendo delle linee più spesse e marcate ecco rappresentato il possente basamento con le cisterne di raccolta sotterranee. A lato della torre di difesa disegnato il borgo.
Moros era rimasto incantato nell’osservarlo tracciare quei segni che descrivevano in figure razionali e schematiche l’intera costruzione. Lui non s’era mai dedicato a tale arte, ma non poteva ignorarne l’utilità; a cui solo ora riconosceva merito.
“Di che tipo di passaggio parlate?” volle saperne di più, quasi scettico di sentirsene fortunato perché di reale esistenza.
Ludovico traccio una linea dal terzo piano del mastio al borgo, fuori le mura.
“Il camino nella camera di mio padre. E’ quello il passaggio segreto! Dietro al braciere.” spiegò Ludovico guardandolo: gli occhi verde-arancio che sondavano l’acciaio bluastro dei suoi per saggiare la sua determinazione a proseguire. Hai paura? la velata presunzione che ipiegasse per codardia.
Moros ricambiò assottigliando lo sguardo in una tacita conferma non ne avesse, prima di confermare “Vai avanti!”.
Ludovico annuì in un sorrisetto arrogante proseguendo “Anche a camino spento l’apertura è invisibile. Pure ad un occhio esperto.”.
Ludovico si diresse a lato della finestra, vigile verso l’esterno, mentre spiegava “Percorre l’intero castello. Dal camino una carrucola dotata di pulegge porta al basamento, poi uno stretto camminamento in discesa sbuca poco fuori dal borgo in un vecchio terrapieno a ridosso del bosco.”.
“Ci siamo addentrati velocemente.” disse il bruno Federico cancellando, con energici strisciate a terra dello stivale, i segni di Ludovico, dopo che il suo signore aveva concluso la sua esposizione.
Ecco chiarito il benevolo esito della fuga di Ludovico.
“Nessuno vi ha visti?” chiese Moros, quasi istantaneamente zittito dalla sicurezza di Alberico “Nessuno!”.
“Nessuno vi è a conoscenza?” incalzò Moros non meno fastidioso, inimicandosi ancor più Alberico che rispose indignato “Nessuno!”.
Moros mise le mani avanti a frenare il rosso cavaliere, con un gesto che consigliava la calma, ma precisò il suo dubbio “Presumo sia stato facile uscire, non dando nell’occhio, nell’atmosfera concitata.” guadagnandosi la loro istantanea antipatia, quanto il consenso di Braccioforte “Moros ha ragione! Non credo si aspettino tentiate un assalto dall’interno, ma credo non tralascino di prendere le loro precauzioni.”.
I tre cavalieri rimasero in silenzio.
Ora fu il turno di Ludovico nel dire “Vai avanti.”.
“Voi avete usato il diversivo del protrarsi della lotta di chi vi era leale. Per entrare varrà lo stesso?”.
“Siete in tre.” sostenne Braccioforte “Troppo pochi.”.
“I contadini ci forniranno man forte.” disse Federico, ma il suo tono era cauto.
“Contro i soldati?” incalzò Braccioforte facendo il conto e la scuola del soldato stagionato; le pronunciate sopracciglia grigie che si aggrottavano.
“Sono alla fame e incerti sulla benevolenza dei Montetardo nei loro confronti. Si batteranno per noi!” disse Alberico, mentre Ludovico non si sbilanciava.
“Gregorio è abile a mercanteggiare e sa come forzare la mano.” ammise Moros inombrando lo sguardo, assestando alla loro superbia e orgoglio un duro colpo.
Ludovico sembrò valutare attentamente le sue parole, ma lo sguardo restò imperturbabile.
“Sembri conoscerlo bene?” lo stuzzicò Alberico mettendo in dubbio che la storia del cugino fosse vera: il viso pallido curvo, indagatore su di lui.
“Fu mio cugino a salvarmi: rinunciando alla propria libertà!” disse Moros, breve. Rivangare il passato gli era penoso e non voleva mettere in piazza il proprio vissuto.
“Gregorio ti ha risparmiato per le promesse di un servo?” ci scherzò Alberico sleale verso i suoi sentimenti. Per i tre qualcosa non quadrava Deve essere importante questo servo. L’affermazione di Alberico era limpida; lo stesso Braccioforte non poteva impugnarla, del resto l’amico intervenne prima fosse tardi con un grintoso “Spiegati!”.
I cavalieri che si disponevano in difesa del principe, alla sua destra e alla sua sinistra, e in offesa con le mani all’impugnatura delle spade.
Moros s’accorse che dubitavano di lui, ma si fece forza del fatto che non avessero intuito che Nicandro fosse un Montetardo, se non di fatto e pieni poteri, sicuramente di nome. Del resto non aveva mai detto fosse null’altro che il proprio cugino.
Come dunque dovrei chiamarti? ricordò di aver scherzato lui per primo, nel rivedere Nicandro dopo alcuni mesi di separazione; Forse? aveva portato indice e pollice sul mento riflettendo Mio nobile signore? aveva fatto una buffa riverenza con il braccio, mentre il cugino lo accoglieva con un sorriso e un abbraccio, nonostante Lavinia appuntasse Per te, come per tutti, è Nicandro Montetardo, Conte di Raucelio con il tono indignato di chi pensava Dovresti saperlo! L’una e l’altro mai così belli e regali assieme, come il dipinto di un quadro in cui non esiste che colore, luce e pulizia; due composti fiori di giardino che alla brezza riempiono l’aria di un gradevole profumo che non è quello delle stalle e del sudore.
“Tra me e lui non corre buon sangue. Lo fa’ per vendetta!” cercò di creare un espediente valido per Ludovico e i suoi cavalieri. Sapeva di arrampicarsi sugli specchi ma parlando di Gregorio poteva indurli a pensare fosse possibile un simile comportamento.
“E il motivo di tale screzio?” scherzò Alberico, volendo infierire di lama sulla sua affermazione. Le scappatoie non erano un’opzione.
Le tasse, il grano, cacciare di frodo… “Ho tagliato un albero senza permesso.” sbottò veloce; una furbizia che fece sbottare il rosso Alberico in un impertinente “Tutto qui?”, quasi deluso ma smuovendo dalle proprie perplessità Ludovico che la trovò un’angheria calzante.
Il viso di Braccioforte meditabondo, prima che si esprimesse puntuale sulla loro missione, tornando sull’obbiettivo, “Controlleranno gli accessi. Corridoi e piazzali.”.
“Da qui a tre giorni ci sarà l’Adunanza nella piazza grande della rocca.” intervenne Ludovico spiegando a Moros, più che agli altri presenti, un’usanza di antica data “I contadini giungono a rinnovare la promessa di lealtà al loro signore portando le scorte di sementi perché siano conservate al castello.”: la scusa per l’ingresso degli accoliti contadini!
Ludovico sempre d’occhio vigile all’esterno: come se attendesse qualcuno da un momento all’altro; come se l’ansia e l’incertezza dovessero prima o poi prevaricarne l’animo. La principesca mano si strinse a pugno a lenire quasi un tremolio impercettibile che sembrava incrinarlo verso una rabbia cieca che augurava al nemico solo Morte!
“Le armi saranno confiscate!” frenò Braccioforte, mentre il pugno di Ludovico batteva di colpo sulla parete, facendola vibrare; parve ondeggiare.
Silenzio.
Ludovico sembrò calibrare il tono della voce e dominarsi nella frustrazione “Ci avevo pensato.” disse espirando l’aria quasi trattenuta. “Le nasconderemo dentro ai sacchi di grano.”.
Braccioforte negò col capo come non fosse sufficiente. Ludovico pur non voltandosi a guardare il soldato proseguì “In segreto apriremo l’armeria. Giungendo dal passaggio.” espose veloce quasi volesse allontanare ogni dubbio.
“L’armeria.” rifletté pacato Braccioforte “Per armare i contadini.”.
“La festa distrarrà i soldati.” convenne Federico, guardingo nel misurare lo sguardo di Ludovico che sembrò approvare paventasse quella possibilità a loro favore.
“Li pensate docili come agnellini per una bevuta di troppo?” ridimensionò Braccioforte.
“Sarà sufficiente!” calcò la mano Ludovico: gli occhi determinati, quasi giurandolo.
“E’ una buona idea.” commentò Braccioforte ma Moros non sentì enfasi nella sua voce. Lo sguardo dell’amico era tirato. Che pensasse al destino di quei soldati, che forse avrebbero fatto di una leggera licenza una sconfitta?
Si stupì quando Braccioforte gli diede una sonora pacca sulla spalla “Hai sentito ragazzo?”, come se approvasse il piano di Ludovico e lo invitasse a fare altrettanto “Basterà una bevuta!” rise, soddisfatto da buon ubriaco.
Restò perplesso come non fosse una giustificazione sufficiente “E se qualcuno avesse scoperto il passaggio? Se qualcuno vi avesse tradito?” fu veloce a frenarli insistente, mentre la mano di Braccioforte gli stringeva la spalla come a voler farlo tacere.
“Non ho altra alternativa che rischiare!” sentenziò Ludovico e Moros pensò gli facesse onore tanta determinazione, tuttavia era un piano troppo azzardato, se non fosse che Ludovico argomentò “I corpi dei ribelli sono esposti sulle mura.” come fosse garanzia sufficiente per la conta dei possibili traditori. “La vendetta muove molte mani che mi saranno compagne.” si fece forza delle ritorsioni di Gregorio sul suo popolo.
“Basta aver risparmiato un solo uomo disposto a tradirvi.” disse Moros avanzando l’indice, mentre gli occhi di tutti gli si puntavano addosso.
“Non c’è servo, paggio, famiglio che conosca quel passaggio! Pena la morte. Vi fosse stato il solo sospetto ne avesse intuito l’esistenza.” disse sicuro Ludovico, senza mezzi termini. Moros sentì le ossa irrigidirsi di fronte a quella crudeltà che per garantire la fuga dei signori del castello chiedeva in scotto altre vite.
“E se uno tra i vostri sostenitori tradisse?”.
Braccioforte intervenne “Questo ragazzo è crudo del mestiere!” sembrò giustificarlo e farsene garante, minimizzando la scaltrezza e l’ardire dei poveri contadini. Negli occhi scuri uno paterno zittirlo; come non accettava continuasse la sua vuota invettiva. Lo esortò “Andiamo a riempire le boracce per questa notte.” premunendosi di avvertire “Se per voi va bene? Al rigagnolo che è qui fuori!” indicò l’esterno e soprattutto una posizione vicina: ormai erano della squadra e non potevano più lasciare il gruppo e allontanarsi in libertà per non metterli in pericolo, facendoli scoprire.
Braccioforte gli arpionò ancor più la spalla a smuoverlo, sfottendolo “Credo abbia bisogno d’aria!”, inclemente, quasi sollevandolo da terra per trascinarlo con sé all’esterno.
“Non ho bisogno d’aria!” si risentì Moros, come un bambino in castigo, indignato di quel trattamento in presenza di quegli spocchiosi cavalieri.
Lo seguì di protesta quasi divincolandosi finché Braccioforte lo zittì rude “Lo so’ infatti! Tappati quella bocca una buona volta! Usciamo per l’acqua!”. Fu come disse quest’ultima frase che Moros capì che il suggerimento di Braccioforte fosse importante per la loro vita. Forse dovevano parlare: da soli!
 
 
NdA: A tutti i miei carissimi lettori e a tutti quelli che entreranno per caso un augurio di Buona Pasqua e Pasquetta ^_^  

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Capitolo 25
*** Da qui a tre giorni ***


Da qui a tre giorni

I lamenti, le invocazioni, permeavano la penombra confondendo ogni altro suono. Lo squittio dei topi e l’andirivieni degli scarafaggi graffiavano il pavimento scuro, incrostato e maleodorante, tra rantoli e brutali colpi di tosse.
Le rassicurazioni bisbigliate di Moros, con cui sembrava volersi ergere a paladino del cugino, pur dietro la grata che lo teneva, lui sì, unico e solo, prigioniero, erano cessate di colpo al loro arrivo.
“Guarda guarda che due piccioncini?” aveva ironizzato in tono stucchevole quel giorno nelle prigioni, sorprendendoli assieme; spalleggiato dai suoi uomini e dalla sorella Lavinia. Un fremito alla schiena di Nicandro; la tenera mano che poggiava sulla guancia di Moros che la tratteneva con affetto nella sua più grande, aveva tremato, mentre si confidavano le incertezze sul loro futuro dopo la morte di Guglielmo.
Nicandro s’era girato, spalle all’inferriata, quasi a far scudo al cugino o forse a voler arretrare lui stesso all’interno della cella. In entrambi, nelle loro labbra, nella loro voce il suo nome.
Gongolò di quella gratificazione: “Gregorio!” la voce di Moros rabbiosa, quanto quella di Nicandro spaventata, come se avesse visto un incubo.
“In persona!” aveva platealmente detto, seguito alle spalle dal non ancora defunto Bastiano e da Vittorio.
“Ma sapete che siete davvero carini?” aveva esclamato divertito all’inizio, per poi convergere nell’antipatia “Se non fosse che il vostro affetto offende la memoria di Guglielmo!”.
Li aveva ammutoliti, del resto non erano in posizione di arrogare alcunché, anche se ostinato Nicandro aveva squittito “Gregorio. Io.. Dovevo vederlo..”, non riuscendo a credere il cugino responsabile della morte del proprio tutore: una fiducia che continuava haime! imperterrita tutt’oggi.
“Non ha colpe!” aveva recriminato Nicandro con un filo di voce, avanzando, con occhi imploranti, dilatati dall’emozione nel rievocare il pensiero inaccettabile della morte di Guglielmo. Il triste epilogo della battaglia non poteva gravare sulle sole spalle di suo cugino, probabilmente quello il suo gentile pensiero.
Il freddo pungente delle prigioni, l’aria stantia sembrò frenare il tempo nel suo scorrere.
“Moros era il suo scudiero!” l’aveva zittito freddamente. Come la lama di un boia aveva continuato inclemente “Doveva difenderlo a costo della propria vita! Questo ci si aspettava da lui!” e aveva accompagnato quelle parole a un viso cinico e disgustato. Gli occhi verde smeraldo erano apparsi in tutta la loro freddezza e il baffetto aveva seguito in una piega discendente la linea delle labbra sottostanti, nel rimprovero.
“Non dovresti trovarti qui!” aveva ammesso quasi indignata Lavinia al ragazzino, fuori luogo nelle prigioni; tirata in viso nel rievocare la propria parte di colpa. Accavallata nel commento dall’altruismo di Moros che chiariva “Nicandro non voleva offendere nessuno, nel venire a farmi visita!”.
“Certo! L’ultima!” aveva chiarito Gregorio decretando un inclemente epilogo. E taci una buona volta! s’era detto infastidito.
Lo strazio nella voce di Nicandro, nel suo diniego lacerante, in quei sofferti “Non puoi.. Ti prego.”. Di contro, il lugubre silenzio di Moros, che non avrebbe implorato clemenza.
Lavinia muta nell’accettare la sentenza, come avrebbe fatto per chiunque altro, salvo stringere a pugno le mani che teneva lungo i fianchi. Avrebbe detto che la sorella potesse esprimere tutt’altri sentimenti verso il bruno taglia legna, ma doveva ammettere che s’era dovuto ricredere a riguardo.
Con una garbata carezza, Gregorio, aveva scomposto i sottili capelli biondo cenere di Nicandro che gli si era cinto addosso supplicandolo, abbracciandolo per tentare di scalfirne il verdetto con l’affetto “Risparmia la sua vita!”; finché, riconoscendolo insensibile a quello, il ragazzino gli si era vincolato con l’obbligo, implorandolo, alzando il viso umido, “Farò ciò che mi chiedi, lo prometto.”. Fino a garantirgli quell’impegno fedele “Non ti negherò un solo pensiero. Finché avrò respiro!”.
Mentre continuava ad accarezzargli lentamente i capelli, gli occhi lucidi e grandi, gli avevano giurato sincera fedeltà, purché la vita del cugino fosse risparmiata; nonostante Moros invocasse perspicacemente di non scendere a patti.
Proprio la consapevolezza delle gratificanti rimostranze di Moros l’avevano fatto decidere di accogliere quell’obbligata richiesta; intollerabile per Moros, quanto disapprovata dalla stessa Lavinia che pur non implicitamente conosceva e condivideva l’animo fiero del taglia legna di Raucelio.
Perciò Gregorio aveva garantito “E sia!”, come se l’impegno di ora potesse o meglio dovesse valere per sempre.
Quella l’esatta dimostrazione di quanto essere nelle grazie di Gregorio potesse avere un qualche vantaggio, come il non esserlo: il tok che proveniva dal tendersi dei cappi sul patibolo ne era attuale conferma.
Mangiavano con la finestra chiusa, ma il rumore della folla concitata che presenziava all’esecuzione in burla e a dispetto dei giustiziati, per lo più cocciuti contadini, non migliorava il silenzio di quel pasto.
Gregorio si era affacciato un istante alla finestra per i saluti di rito al popolo, ma poi era ritornato a sedere, facendo riempire i loro piatti di cacciagione, stufati, zuppe in un andirivieni di serve in tuniche di lino di colore spento.
Sorrise stendendo le labbra nel vedere il limpido risentimento di Nicandro, che fissava svogliato il proprio piatto: critico non solo per l’opulenza di un pasto che l’intero reggimento avrebbe faticato a finire, ma condannando le esecuzioni che si protraevano dalla sera precedente; quasi gli avessero guastato il sonno e lo stomaco. Il coltello che puntava la pietanza senza decidere di pungerla e si limitava a picchiettarla.
Dal canto suo Zelio mangiava con gli occhi la pernice che risaltava sul tavolo, il cui profumo solleticava le narici, in un sugo denso che coloriva la carne e la rendeva lucida e invitante. Mavio e Gherardo indifferenti in disparte, quasi annoiati mentre Ubaldo a dispetto del fisico smilzo fissava attento piatto su piatto.
“Ancora non l’hai trovato!” disse acido Gregorio; “Sei un incapace!” disprezzò il capitano: infastidito dalle inconcludenti ricerche, aumentate nell’insoddisfazione delle sporadiche ma seccanti ribellioni dei contadini. “Lo voglio in catene!” convenne strofinandosi il pizzetto a cui aveva dato una forma più morbida, in un nuovo taglio. Parlavano di Ludovico.
Mangiò un boccone. Poi un altro, obbligando Zelio ad assistere al suo gustare quelle pietanze succulente: tornato dopo un giro di pattuglia stanco, assettato e impolverato in confronto ai suoi soldati riposati, sazi e presentabili, come se la fiducia dovesse essere conquistata sul campo con i risultati, per un traditore come lui, ancora vivo a patto lo servisse rigoroso.
“Suvvia! Mangia!” esortò il suo pupillo a fargli compagnia nel pasto, per poi sghignazzare del risentimento che il ragazzino faticava a trattenere in viso quando lo sentì rimuginare “Parlasti di bontà. Dovrebbero dunque preferirti a Ludovico?”.
“Farebbe esattamente lo stesso con i traditori.” rispose indifferente “Lo sai benissimo anche tu.” precisò inclemente Gregorio, scrutando Zelio che annuì approvandone il pensiero.
“Erano sudditi, non traditori.” argomentò Nicandro, subito corretto “Ora dalla parte sbagliata!”.
Nicandro poggiò il coltello, precisando la fine del pasto e di un monologo cui non avrebbe tollerato assistere.
Poche parole: stringate e lente. “Resta seduto.”. Masticate, come un boccone di carne indigesto.
Immaginò lo stomaco di Nicandro che si accartocciava. Il capitano a disagio, che contava gli istanti che lo separavano da una sfuriata di cui non avrebbe voluto essere testimone, che fissava il vuoto davanti a sé, ma i cui occhi erano volontariamente rivolti al soffitto per non incontrare lo sguardo di nessuno; al contrario di Ubaldo che si irrigidiva in un atteggiamento protettivo al pari di Mavio.
“A meno che, non facciano ammenda.” ponderò Gregorio giustificando il proprio agire, attento al desiderio di Lavinia di vegliare su Nicandro. Tuttavia, Chi vuol intendere intenda, il messaggio celato tra le righe.
Nicandro l’ubbidienza l’aveva imparata a forza. Di certo Mavio, Gherardo e Ubaldo sarebbero rimasti al loro posto in un diverbio tra i due Montetardo di cui solo uno vestito di una carica effettiva.
“E farli penzolare sembra l’unica opzione possibile per voi?” considerò Nicandro ritornando a partecipare al banchetto: la forchetta nuovamente tra le dita, che la stringevano tremolanti; la giovane voce che sembrava maledire ogni singola parola, come trovasse odioso l’argomento.
“Che incolpino pure quel biondino codardo a cui si affidano!” Gregorio minimizzò il sentirsi colpevole di quelle sentenze a nome Montetardo.
“Da qui a tre giorni ci sarà l’Adunanza. Quei contadini potranno concedervi promessa di lealtà.” concluse Nicandro che sembrò trattenere un magone
“Concedete clemenza, ve ne prego.” cercò comprensione, chinando il viso, anche se sapeva, quella richiesta, fosse una proforma che sarebbe stata inascoltata.
Gregorio lo ignorò infatti: bevendo da un calice lucido.
“Forse lo rimpiangono ma non tesseranno più le sue lodi, a meno che non ne enfatizzate il ritorno.” squittì Nicandro.
Gregorio aggrottò la fronte, riflettendo; arrossato in viso dopo una lunga sorsata, propria della frustrazione per non aver ancora acciuffato il biondo principe rivale.
Stese la fronte, mentre l’atmosfera sembrava diventare più distesa. Non era un ragionamento errato.
“Quale consiglio.” rise Gregorio, poi parlando a Zelio, “Cerchiamo di essere accomodanti o offenderete il mio pupillo.”.
Il volto del capitano restò rabbuiato, come se dicesse E come di grazia? ma rispose ubbidiente “Sarà fatto!”, battendo i tacchi. Un sorriso di scherno spartirono le labbra di Mavio e Ubaldo, quasi sicuri non avesse intuito il messaggio di limitarsi nelle angherie.
“Contento, il mio principino?” scherzò, invitando Nicandro a riprendere il pasto.
“Ora vattene!” poche parole per cacciare Zelio.
“Vado!” annunciò il capitano, sfollato come una gallina dall’aia.
Gregorio riprese a mangiare giustificandosi “Mi spiace dell’interruzione.”, avventandosi su un cosciotto, in un silenzio che rimaneva tombale.
Si fece riempire tre volte la coppa di vino prima di notare il protrarsi dell’inappetenza di Nicandro, che continuava a rimuginare davanti al piatto all’ennesimo tok del patibolo a cui seguiva un brusio quasi isterico della folla.
I cavalieri stessi sembravano mal digerire il susseguirsi delle sentenze.
“Odio anch’io questo posto!” allargò le braccia cordiale, ipotizzando volesse rientrare a Montetardo, ma non ottenne risposta nonostante incalzasse “Finita questa faccenda di Ludovico. Ti rispedirò al castello!” si sbarazzò veloce del tovagliolo con cui s’era pulito, come potesse far altrettanto del ragazzo.
“Non importa…” mugolò Nicandro, convincendolo a moderare l’aggressività. Detestava vederlo così!
“Sei pallido!” sottolineò con una premura che concedeva a pochi.
“Sono solo un po’ stanco.” sentì ammettere.
Lui rise sfacciato “Stanco?”, ma mordendosi la lingua cercò di essere accomodante e alzandosi da tavola, si affacciò offrendo carne, mentre le serve si allontanavano per non intralciarlo, seguite nei fondoschiena dagli occhi interessati di Ubaldo e Gherardo che si allinearono a seguirne la traiettoria ondeggiante.
“Cibo pregiato: da nobili!” sottolineò. Nicandro gli scostò la mano che gli aveva avvicinato quasi imboccandolo.
Ci restò contrariato ma ironizzò “Ci si fa’ l’abitudine, vero?”, mentre Nicandro quasi smorfioso girava il viso.
“Quel broncio non ti si addice!” svelò insoddisfatto di quei capricci, buttando il cosciotto sgraziatamente in mezzo al tavolo, che urtata una bottiglia di vino dipinse sulla tovaglia un grosso cerchio color vinaccia che si estese omogeneo avanzando sul tessuto candido.
La pazienza non era proprio il suo forte, rifletté Gregorio.
Lo vide fissare l’incidente. La voce che pronunciava sottile, poco udibile, “Il vino.”, come se fosse un fatto determinante; come se le sue parole gli fossero indifferenti e non le sentisse neppure, interessato maggiormente alla macchia sulla stoffa che si espandeva.
Allargò le braccia sfinito “Qui sei protetto, non come nel villaggio di morti di fame da cui Guglielmo ti ha salvato!” ammise con disprezzo, verso l’umile condizione di nascita del ragazzino.
Nicandro restò in silenzio, come se non sentisse il suo rimprovero, mentre una serva tamponava la macchia con una pezza asciutta.
Lo sentì farfugliare “E’ macchiato…” poi con voce bassissima “Lo saranno i soldati.”: il volto a Mavio, Ubaldo e Gherardo come se quelle parole li riguardassero, divenuti ora seri.
“Tutto bene?”.
“Sono confuso, ti prego di perdonarmi.” lo sentì dire, mentre si portava la mano alla tempia.
Probabilmente anche Nicandro era nervoso, pensò. Gregorio sapeva che avrebbe volentieri lasciato Rocca Lisia se solo l’avesse permesso, ma il punto era che non l’avrebbe mai permesso! Del resto aveva promesso di restargli accanto. Per rispetto ai soldati presenti che ne erano responsabili cercò di mantenersi accomodante.
“In fondo hai risparmiato ferro e fuoco a parecchi villaggi nelle ricerche, dovresti esserne fiero.” ritornò al proprio posto. Si sedette sfaccendato e annoiato, allargando le braccia come fosse già una sufficiente vittoria “Diventi sempre più viziato!” lo rimproverò bonariamente.
“Non voglio che soffrano.”. Poverini! A chi importa? pensò in una risposta che trattenne per sé.
Gregorio sospirò, ma si alzò deciso “Proprio non riesco a non viziarti!” si elogiò. Concesse la mano a Nicandro invitandolo alla finestra.
“Aprila!” comandò a Mavio che si precipitò svelto nell’eseguire, fino a smuovere il chiavistello della serratura, per spalancarla.
La cacofonia del piazzale cessò, incredulo di rivedere affacciarsi il signore del castello. Gli occhi, non negò di notare, puntati sul bel giovinetto che gli era accanto.
Gregorio alzò il braccio a raccogliere l’attenzione della folla presente, pendente dalle sue labbra.
La sua voce decisa “Soldati! Sospendete le esecuzioni! E’ un ordine.”.
Un urlo di giubilo della folla.
Indietreggiò, portandosi dietro anche Nicandro mentre la finestra veniva nuovamente chiusa. “Ho concesso tre giorni!” indicò il numero con le dita, davanti il volto di Nicandro, mettendo in chiaro “Non un’eternità!”, come il limite della sua pazienza, che poteva riguardare anche lui.
 
NdA: tutti gli scrittori hanno bisogno di lettori! 
Vi prego, vi prego, datemi un parere, un suggerimento, un feedback mi farà tanto piacere e credo anche a voi! ^_^ 

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Capitolo 26
*** Il mio obbiettivo ***


 

Capitolo 25 Il mio obbiettivo

 
“Voglio la verità prima che sia tardi!” lo mise letteralmente spalle ad un albero Braccioforte. Moros sudò freddo sentendosi in trappola; nella schiena marchiate le venature della corteccia.
La mano di Braccioforte sul suo torace, come un ariete premuto su di un portone, gli impediva quasi di respirare per la compressione a cui sottoponeva il suo fisico.
“Non voglio tu corra pericoli inutili. Lo stesso vale per tuo cugino, chiunque lui sia.”. Lo sguardo di Braccioforte confermava avesse intuito non fosse un servo o a patto lo fosse, ci fosse dell’altro, tanto da renderlo di valore per Gregorio.
Nonostante questo, Moros tacque: le sue labbra serrate.
Il soldato lo fissò negli occhi, per poi ammettere comprensivo “E’ dunque così importante da non rivelare la verità!”.
Lui annuì, ma gli costò fatica farlo.
“Se è così portalo via da Rocca Lisia e non seguire i progetti di Ludovico.” disse dettandogli la priorità di non concedersi altri incarichi, neppure provvisori o tamponatori.
L’amico diminuì la presa “Non perdere il tuo obbiettivo!” consigliò da soldato. “Ludovico cerca eroi ma non baderà ai tuoi interessi. Anzi è probabile li calpesterà! Tu stesso gli hai dato una carta da giocare, muovendoti come un pivellino!” disse inclemente.
Moros restò nuovamente muto, arido di parole, ferito nell’orgoglio, tuttavia rilassando le spalle indolenzite, ora meno costrette.
“E’ un delitto credere nell’affetto e, che per gli altri valga altrettanto?” confidò il proprio animo. L’amico lo lasciò definitivamente, solo dicendo con voce buona e leale “No. Affatto.”: lui le condivideva, ma non era così per tutti.
Braccioforte lo lasciò e si sedette stanco, a terra, nello steso posto in cui l’aveva aggredito “Ti capisco.”.
Moros fece altrettanto, sedendosi a terra, rivelando “Io sono sempre stato solo o meglio mi sono sempre sentito tale.” ma sapeva non fosse una giustificazione sufficiente per il vecchio soldato. “Ho avuto una madre, ma come ti ho detto, non s’è mai curata di me e dei miei tanti fratellastri. Un po’ mi spiace parlare di lei così, povera donna…” sviolinò con lui. Si morse il labbro “Forse, se avessi avuto un padre sarebbe stato diverso. Sarebbe stato diverso per tutti.” disse con voce fiacca, leale verso i propri familiari.
“Fu quando Nicandro arrivò da noi, che capii che potevo riuscire ad essere il punto di riferimento di qualcuno, pur essendo io stesso alla deriva. Con Nicandro mi risultò facile.”.
Braccioforte ascoltò. “Fosti bravo, allora.” lo sostenne ed un accenno di sorriso gli alzò leggermente le guance. “Io… Io. Noi” parve scusarsi con la memoria della propria Betta “Abbiamo avuto due figli.” lo stupì, confidandosi.
“Maschi!” disse con orgoglio.
Braccioforte sospirò.
“Gli abbiamo persi.” rivelò crudo “Oliviero di malattia ancora in fasce. Goffredo…” continuò “Un soldato. Per una ferita che s’infetto.” increspò le labbra fino a dire la verità “Bevo, alle volte, per sentirli vicini… Tutti e tre.” disse sensibile e gli occhi parvero cedere a un moto liquido che tuttavia non sgorgò.
Silenzio.
“E di tuo padre sai nulla, ragazzo?”.
Moros parve rifletterci, la mano al mento “Ricordo un giorno… ci fu un uomo da Matilda. Ben vestito. Lei lo accolse come un buon amico e mi chiamò. Disse che gli somigliavo, ma ero piccolo e non ci feci caso, pur incuriosito.” ammise. “Più grande chiesi notizie su mio padre, ma lei negò di non sapere nulla se non del suo viso e dei suoi attributi.” rise un po’ imbarazzato di parlare apertamente del tenore su cui vertevano i giudizi di sua madre.
Braccioforte sorrise, arruffandogli la testa bruna per smorzare il suo disagio; scomponendogli il ciuffo frontale.
“Ti sei fatto eroe di qualcuno! Ti fa’ onore.” non lesinò le parole, dandogli conforto.
“Come ti ho detto fu anche merito del carattere di Nicandro!” scherzò modesto delle lodi ricevute, mentre nel suo cuore affioravano mille ricordi che lo vedevano assieme al cugino e il suo viso prendeva ad illuminarsi.
“Scommetto che non ha il tuo!” ammise Braccioforte con volto disteso e tono ironico.
“Per questo andiamo d’accordo!” scherzò lui, poi quasi in sberleffo confidò “Faceva bene anche a me avere qualcuno accanto.”: avere il cugino tra le braccia lo faceva sentire meno solo e quel respiro così sottile e rilassato riempiva la sua notte con la dolcezza di una musica.
Braccioforte si alzò di slancio, stupendolo. Gli allungò la mano per aiutarlo “Perciò datti da fare. Pensa solo al tuo obiettivo!” gli rammentò il precedente monito.
Moros si alzò annuendo, concedendogli la mano; una mano piccola in confronto a quella che sembrava di un gigante.
Il suo obbiettivo.
Quanti ricordi riaffiorarono in lui a quelle parole.
“E dai sbrigati! E’ possibile che non tieni mai il mio passo e resti sempre indietro?” e le infinite scuse del cugino, di camminata meno spedita della sua in zoccoli, forse troppo grandi di taglia, in cui incespicava.
Il sentiero sempre uguale, procedeva serpentino lungo la foresta che vi faceva da margine, mentre ragazzetto ripeteva mille raccomandazioni saputello.
“Non mangiare i funghi colorati di rosso, anche se sono belli.”.
“Se vedi forestieri, non ti fidare e starne alla larga.”.
E ancora, un guarnito repertorio frutto delle paranoie di Matilda o orecchiate dai suoi frequentatori: per carità, alcune legittime.
“Segui il sentiero. Non ti addentrare da solo nella foresta perché potresti incontrare il lupo…”.
Fece una pausa, mentre aspettava Nicandro.
“Perché altrimenti ti mangerebbe in un sol boccone!” ammoniva decisamente impertinente. Sì, perché il lupo avrebbe mangiato solo Nicandro. Lui, non poteva comparire altrettanto, nella lista delle vivande?
“Se procedi per la strada maestra sarai protetto…”.
“Dai taglia legna e dai cacciatori.” ripeteva a seguire Nicandro, prendendolo in giro: appuntando non ci fosse poi stata molta differenza, se il taglia legna in questione fosse stato Moros, ma concludendo a memoria l’epilogo da bravo allievo.
Così proseguivano lieti tra un “Aspettami!” e un altro.
“Se non ti sbrighi resterai nuovamente indietro!” argomentò nuovamente seccato.
Le gerle sulle spalle erano pesanti, ma quella di Moros decisamente più carica, larga e scomoda. Anche le sue spalle erano a pezzi, non faceva eccezione, eppure camminava!
Uno scoiattolo veloce era corso tra gli alberi, tra le fronde alte, veloce. La coda che sbucava e ne faceva intravedere i movimenti che si confondevano con lo sfondo bruno del fogliame. Una coda fulva e lunghissima, all’apparenza soffice e lanosa. Istintivamente Moros corse avanti al grido “Bellissimo! Uno scoiattolo!”.
Ristette. Immobile.
Intimò al cugino il silenzio col dito, solo bisbigliando “La regina del bosco.”.
Come un funambolo, una splendida volpe rossa se ne stava in equilibrio sopra alcuni tronchi d’albero caduti con in bocca un grosso e pasciuto roditore. Lo guardò con le iridi color ambra, quasi incuriosita.
Un corpo affusolato con zampe brevi. Il muso aguzzo con lunghe vibrisse sensoriali. I denti affilati e sporgenti che tenevano la preda in un morso deciso. Il pelo rosso arancio era brizzolato di scuro facendo risaltare la parte inferiore del muso bianca, con la tipica linea di demarcazione netta.
Attenta, teneva le orecchie triangolari dritte mentre la coda, lunga e folta, controbilanciava il corpo, concedendo un’immagine aggraziata.
Nonostante il rispetto reverenziale che provava, Moros sentì di promettere “Quella coda, ti terrebbe al caldo.”: l’estremità bianca che sembrava invitarlo.
“Potrebbe avere dei piccoli..” fu il veloce ammonimento di Nicandro.
Moros si sentì di poterlo ignorare; le spalle che si liberavano veloci della gerla, poggiandola cauto a terra; gli occhi alla volpe che continuava a fissarlo, rinsaldando il morso.
Scattò al medesimo scatto della volpe, rapido quanto lei sfuggente, accompagnato dalle proteste di Nicandro di lasciarla andare “Non è necessario!”.
“Se riesco ad acciuffarla potremo venderla!” gridò, sicuro di acchiapparla.
Aumentò il ritmo della corsa, respirando ampie sorsate d’aria a caricare i polmoni; le gambe che veloci si muovevano; i muscoli che gli davano slancio per tentare di gareggiare con l’agilità dell’animale.
La volpe svicolò tra gli alberi: polpastrelli scuri che picchiettavano e raschiavano veloci sottobosco, rocce e nodose radici affioranti.
“Ti prenderò!” urlò Moros, non demordendo nella caccia.
La perse di vista più volte, fortunatamente rintracciandola: il bianco esteso sul ventre e sul petto mentre si fermava quasi con curiosità ad attenderlo o forse solo per riposarsi. Finché non sparì dalla sua vista.
“Oh! Mi è sfuggita!” disse: il dispiacere dipinto in viso, mentre increspava con una smorfia le labbra. La foresta silenziosa, se non il cupo cadere delle ghiande da qualche albero che se ne liberava per non appesantirsi troppo.
Peccato! pensò.
“Sarà meglio tornare indietro.” si voltò ritornando sui suoi passi.
S’era addentrato un po’ più del dovuto nella foresta. Si sentì spaesato. La foresta sembrava tutta uguale attorno a lui e più buia nelle luci del tramonto imminente.
Si girò più volte per orientarsi prima di decidere da dove fosse arrivato. Faticò a ritornare sul sentiero.
La foresta era divenuta silenziosa.
“Nicandro?”.
Si girò su se stesso. A che altezza si trovava rispetto al cugino?
E ancora: “Nicandro?” urlò più forte. La sua mente che si chiedeva Perché non risponde? e subito s’irritava con tono leggermente più alto “Non fare scherzi!”. Un senso di panico l’aveva invaso.
Mise le mani a lato delle labbra, parallele, quasi potesse aumentare la forza della propria voce “Nicandro?”, ma già il suo tono vacillava per la tensione di non ricevere risposta. Tirò un’insolenza.
Prese un forte inspiro ed espirò l’aria per calmarsi e non cedere all’angoscia di correre a casa e uscire da quel buio che sembrava avanzare. Corse indietro sentendone finalmente la voce che lo chiamava e in risposta a quella voce aumentò la velocità della sua corsa.
“Non potevo abbandonarla. Hai fatto tanta fatica.” si giustificò il cugino con dispiacere di non essere riuscito a trasportare la gerla da solo, mentre tentava di smuoverla, trascinandola.
Moros lo abbracciò, tastandolo sul capo, sulle guance, alle spalle, sui fianchi a sincerarsi fosse reale, nonostante ne ricevesse il rimprovero “Ma che fai? Mi fai il solletico.”.
“No, perdonami tu, sono stato presuntuoso. Non dovevo lasciarti solo.” si sentì in dovere di scusarsi.
In quel momento, capì l’onestà delle parole di Braccioforte: Non perdere di vista l’obbiettivo. Doveva restare concentrato sui suoi affetti. Ludovico nella parte di un’insignificante volpe!
Quella volta non era stata l’unica in cui purtroppo aveva lasciato indietro Nicandro, ma non sarebbe più successo!
“Hai ragione!” si sentì in dovere di ringraziare Braccioforte del suo consiglio.
“Avevo effettivamente bisogno d’una boccata d’aria!” si scusò monello, le mani alla sommità del capo, mentre Braccioforte si scuriva in viso.
“Hai ragione. Il piano di Ludovico vacilla!” gli dette ragione l’amico.
“Non bastano dei contadini per fermare i soldati di un castello. Per certo non è sufficiente aprire un’armeria per dar loro ulteriori armi, sia pure grazie ad un passaggio segreto. Quanto del semplice vino.” sottolineò concludendo.
Semplice vino? rifletté Moros; nella mente le parole del rosso cavaliere Alberico. Potremo ripagare Zelio con la stessa moneta spesa contro re Iorio! quindi più che un proposito la certezza di attuare una simile vigliacca strategia.
Sentì nuovamente quella sgradevole sensazione di fastidio, nel trovarsi invischiato in un simile proposito. Gli parve superfluo e quasi da imbecille proporre all’amico “Non c’è un’altra strada per entrare?”; la sua voce coperta da un’altra: di donna.
“Heilà, voi della casa?”. Una richiesta impertinente che non sembrava rivolta a loro, schermati com’erano dall’ombra del capanno e dal fogliame che garantiva loro riparo.
Riconobbero entrambi quella voce, ma soprattutto quella rozza andatura quasi cavalcante: Malia.
Lui e Braccioforte si chinarono rapidi, nascondendosi, silenziosi.
“Cosa ci fa qui, quella donna?” sbottò Moros ricordando quanto l’aveva messo in difficoltà alla locanda.
“Sicuramente porta guai!” confermò Braccioforte.
 
 
 
NdA: grazie a tutti coloro che seguono le mie storie ^_^ vorrei davvero (anche privatamente) sapere cosa ne pensate. Vi ringrazio tantissimo  

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Capitolo 27
*** Il ritrovo ***


 

Capitolo 26 Il ritrovo

 
“Un capanno!” disse Lavinia, calibrando il tono della voce per frenare il proprio entusiasmo, indicando col dito; subito abbattuta da Malia che disse sfottendola “Cosa ti aspettavi una casetta di marzapane?” per poi suggerire “Resta in disparte. Vado io!”: la solita marcia energica e grossolana; come un soldato in missione e senza paura; fino a stupirla nel vociare “Heilà, voi della casa?”.
Alla faccia della prudenza, pensò Lavinia. Quella donna era davvero imbarazzante, rifletté.
Nessuna risposta, ma Malia aprì il mantello e dandosi una palpata ai seni con le mani a rassodarli, come per rendersi meglio presentabile, si avvicinò alla finestra, picchiettando sullo stipite col pugno chiuso.
“Gradireste comprare funghi o una bella mela succosa?” disse avanzando il cestino all’interno. Ritirò il braccio vuoto. Guardò in sua direzione facendole l’occhiolino: tra le labbra un sorriso scaltro e la punta della lingua sul labbro inferiore che i denti morsero.
Lavinia la vide rassettare nuovamente il vestito, allargandone la scollatura, lavorando con le braccia e, ravvivarsi i corvini e lunghi boccoli ondeggianti. Malia si portò innanzi alla porta e avanzò la mano, entrando civettuola, come una dama ammessa in un castello per dilettarne i signori con abilità e grazia.
E adesso? si disse Lavinia. Cosa avrebbe dovuto fare? Attendere?
Sentiva di essersi cacciata nei guai. Poteva fidarsi di quella Malia? Sembrava una volpe: astuta e avida.
Cosa aveva sperato? Di trovare Ludovico e fare cosa? Lei da sola per giunta? Intimargli di arrendersi? E con quale esercito al suo fianco?
Sapeva dov’era Ludovico, ma adesso? Se anche fosse stato nascosto in questo luogo non avrebbe atteso che lei avvertisse Gregorio Montetardo del nascondiglio. Immancabilmente Chiarofosco si sarebbe spostato o meglio si sarebbe avvantaggiato di catturarla.
Osservò il capanno.
Era piccolo: sette persone sarebbero state strette in quella casupola di assi, malferma nella sua struttura. Non aveva notato né cavalli né uomini in pattuglia, ma non poteva sentirsi al sicuro. La vegetazione era fitta, con alberi che si abbracciavano nelle radici e nei rami che si intersecavano.
Lavinia, sei una stupida! si disse. Malia palesando la propria presenza li aveva messi sicuramente in allarme a meno ché non l’attendessero. Un’eventualità che Lavinia non si sentì di scartare. Forse l’aveva condotta in una trappola.
Forse altri uomini rimanevano nascosti dietro al capanno: pronti a sbucare per circondarla.
L’intuito le disse di ritornare sui propri passi. Strinse tra le mani le briglie di Palafreno che la seguiva mansueto; quasi guidato dal suo umore guardingo. Le zampe caute nel loro calpestio.
No! si disse Questo posto non è sicuro. Un senso di nausea le invase lo stomaco.
Con la mano destra bloccò l’avanzata di Palafreno. Indietreggiò. Lo sguardo sempre rivolto al capanno da cui si udiva un brusio confuso di voci che interagivano; nulla più del ronzio di un frenetico alveare.
Restò attenta a non incespicare all’indietro.
“Piano.” consigliò a Palafreno: la voce bassa.
Chiuse il muso al cavallo “Bravo.”, continuando cauta a mettere distanza tra lei e i nemici.
Voleva per lo meno restare fuori dalla loro portata, o meglio,: perché negarlo, era pronta a scappare.
Sono una preda facile per loro, si disprezzò. Come poteva godere di vantaggio in quel luogo che non conosceva e che loro probabilmente frequentavano fin da ragazzi, conoscendolo come le proprie tasche?
“Pss.”.
“Psssss.”
Lavinia ristette, richiamata nell’attenzione. Un brivido le corse sulla schiena nel girarsi. L’inquietudine di venir aggredita al capo da qualche inclemente mazza nell’atto di voltarsi.
Credette di veder buio, come se veramente fosse successo, tirando un sospiro di sollievo nel vedere... Ottavio e Vittorio.
Finalmente, ragazzi! Al suo volto sembrò sfuggire un’espressione euforica nel ritrovarli, quanto contrariata, come appuntasse Dov’eravate finiti?
Il giovane Vittorio, solitamente impassibile, stese la bocca larga in un broncio, incassando il rimprovero che le si leggeva in viso, giustificandosi “Moros è dietro al capanno.”, bisbigliò; stupendola.
“Moros?” ripeté sorpresa, allargando le pupille marroni: mille domande in testa. La prima e più pressante Che ci fa qui? Nel mentre, Ottavio avvertiva picchiettando col dito l’aria in direzione della costruzione. Il tono sempre basso. “Cercava Ludovico. Lo abbiamo seguito e ci ha condotti da lui.”. La voce tutt’altro che gongolante per l’impresa in cui s’erano cacciati, ligi al dovere ma forse imprudenti.
Bhe! Lo siamo stati tutti e tre, valutò Lavinia.
Non riuscì a non chiedersi Per quale fastidioso motivo cerca Ludovico? Troppo sarebbe stato chiederlo ai suoi uomini.
Da quando, Moros, parteggiava per i nemici? Le montò la collera verso di lui, a quel pensiero. Strinse i pugni e serrò i denti a labbra chiuse. Avrebbe voluto prenderlo a schiaffi!
Probabilmente non era sola prerogativa di Mavio notare il guastarsi del suo umore, tanto che Ottavio tentò di sanare il dubbio per la presenza dello scudiero di Guglielmo, messo al bando.
“Credo voglia introdursi a Rocca Lisia per sottrarre Nicandro a Gregorio.”, sputò il rospo che lei mal digerì e che la fece scurire ancor più in volto. Sottrarre che cosa? E a chi? Ma non siamo ridicoli, sbeffeggiò tra sé la superficialità di Moros. Un leggero sorriso le caricò le labbra.
Si sentì innervosita dal tanto pressapochismo di quel giovane.
Il solito impulsivo.
Se anche fosse riuscito a incontrare Nicandro che speranza avrebbe avuto la loro fuga? Per nascondersi dove? Era così sicuro che Nicandro preferisse la vita di un tempo? Si consolò di quella sicurezza.
Ti sei presa gioco di noi! Mi facesti una promessa! Quella voce aggressiva nella testa continuava a tormentarla.
Proteggere e imprigionare è la stessa cosa per Gregorio, ma vale lo stesso per te? probabilmente l’avrebbe rimproverata così Moros; senza paura di ferirla, in quel cuore che lui presupponeva duro come la pietra.
Per quale strana ragione la faceva sempre sentire la brutta strega delle fiabe? Quel suo “Brutta strega!” le riecheggiava nelle orecchie dal loro primo incontro.
Gonfiò una guancia e stirò il labbro sul lato sinistro. Non serviva che Moros la incoronasse a quel ruolo di cattiva, al contrario di quello di una buona fata madrina o di un tormentato cacciatore che avrebbe lasciato fuggire la dolce principessa o principe in questo caso.
“Ora non pensiamo a Moros!” trascurò la partecipazione dei suoi uomini alle sue paranoie sentimentali. “Mettiamo fine al regno dei Chiarofosco.” chiarì “Una volta per tutte!”.
Liberò la mano dalle briglie. Una carezza appena, quasi di commiato, prima di sculacciare piano il fondoschiena di Palafreno per spicciarlo ad allontanarsi dalla parte opposta al capanno. “Buon amico…” disse sottovoce.
Guardò ottimista i due compagni “Bene. Siamo in tre!” disse sottovoce, approvando col capo, affiancata nei due lati da loro.
“Fuori e dentro quanti sono, lo sapete?” chiese in un veloce aggiornamento a cui rispose il più anziano Ottavio “Moros e un soldato dietro il capanno.”.
“Un tipo nerboruto.” sintetizzò il giovane Vittorio, mentre il lungo e liscio ciuffo grigio turchese slittava sul lato sinistro, inombrandogli la guancia. Ottavio proseguì “Quattro dentro, compresa la donna.”.
“Presupponiamo siano armati e addestrati.” sentenziò, calcolando l’abilità dei nemici. “Saranno pronti a morire!” aggiunse inclemente.
“E noi li accontenteremo!” ammise arrogante Vittorio.
Non sarebbero tornati indietro.




Ciao a tutti
Mi scuso con chi ha seguito questa mia storia per non aver aggiornato nel periodo estivo.
Spero di non deludervi ^_^
Fatemi sempre sapere con i Vs. commenti se vi piace o cosa  vi rende perplessi, mi fanno tanto piacere gli scambi di opinioni sulla scrittura.
Grazie se leggerete
Un saluto e un abbraccio a tutti! 

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Capitolo 28
*** Malia e il principe ***


 
 

Capitolo 28 Malia e il principe

 
“Baltasar fermo, non è necessario!” aveva gridato Malia prima che fosse tardi, cercando di raggiungerlo con la mano aperta, le cinque dita distanziate una dall’altra, allungate fin sulle punte per afferrarlo, per ritrarlo, per riportarlo a sé; come se bastasse portare un’unghia solo un poco più avanti. Eppure, tardi, già lo era! L’incendio aveva purtroppo attecchito, saltando da una casa all’altra come un folletto dispettoso.
“E perché? E’ divertente non trovi?” aveva commentato quella voce un tempo piacevole ; sotto un cielo notturno ravvivato, più che dal pallore della luna piena e la punteggiante luce delle stelle, dall’ardere degli alberi e delle case, per cui il fuoco era stato solo un diversivo: una copertura ad un furto, probabilmente progettato alacremente da tempo.
Mi aveva promesso che sarei stata la sua regina…  si disprezzò di avergli creduto. Di fronte alle sue incertezze e al suo rimorso quell’avvoltoio nero, Baltasar di Foresta Cupa, l’aveva lasciata ridendole in faccia “Mi hai deluso. Sei solo una sciocchina.” aveva sottolineato ilare stringendo le lunghe labbra sottili quasi accennate “Posso trovarne cento come te!”; quasi sottintendesse Per così poco? Un misero incendio?
Una risata beffarda, pungente e isterica aveva fatto inclinare il collo di Baltasar e gonfiare il torace, mentre i lunghi capelli, neri come la notte, gli finivano sulle spalle come una cascata. Sarcastico aveva cercato nuovamente di smuoverla.
“Non lo senti più il mio ardore?” aveva declamato folle con quel suo viso spigoloso, bianco e altero, gongolando per la gioia di vederla ferita: bruciata più che dal fuoco, dal rimorso di essersi accompagnata a lui. Come se l’imprudenza di seguirlo fin dentro quella casa banale fosse maledizione eterna per lei.
“La spada!” le aveva intimato di consegnargliela.
Lei, di contro, l’aveva trattenuta a sé, stretta, come fosse stato un bimbo in fasce da proteggere o meglio come se si accorgesse fosse l’unico mezzo per proteggere se stessa.
Negando col capo gli disse “Solo a una condizione..”.
“Chiedi.”, poi un tono spiccio “Svelta!”.
“Non farmi del male” l’unica cosa che le passò per la mente di dire.
Baltasar non rispose, ma sembrava agitato. “La spada!” richiese di fretta. Il tempo stringeva. Gli uomini si stavano organizzando e lui ne avrebbe fatto le spese.
Malia indietreggio: avendo più timore di lui che del fuoco.
Ebbe una crisi di panico, di ansia “Giuro che la getto dentro!”. Si girò per farlo. Se era tanto importante per lui, il fuoco non sarebbe più stato così divertente.
Fu lui questa volta ad avanzare la mano “Non ti farò del male.” proferì.
E dovrei crederti?
Lei lo incalzò, sospettosa, ormai ingrata al loro amore “Giuralo su questa spada!”e, lui giurò, dandole la sensazione fosse una vittoria.
Alle sue spalle c’era il fuoco, il metallo con il calore iniziava a scottare ma Malia non osò avanzare. Fu lui a strappargli la spada dalle mani.
Quando i loro occhi si fronteggiarono, le sfuggì l’ultimo soffio della loro passione tra le labbra “Credevo tu fossi un eroe…” si giustificò. “Il mio!”.
“Un eroe di questi tempi è merce pregiata” la risposta secca che Baltasar le concesse la inorridì, facendole scendere un brivido fin sulla schiena.
Ora, lui le puntava la spada alla gola. Il collo di Malia alla sua mercé. Si sentì in trappola. Restò immobile.
Lui a dispetto del suo terrore sorrise “E’ tutto merito tuo, mia bellissima Malia!” affermò, ma quelle parole non sembrarono una lusinga.
Baltasar abbassò la spada, ma solo per dirigerla orizzontalmente feroce, razionale, nella direzione che ora era tizzone, poi un’altra risata gli aveva modificato la bocca in un ghigno depravato, come dicesse E solo l’inizio!
Era salito a cavallo e Malia non l’aveva più visto.
L’aveva lasciata là a guardare il triste coronamento del loro desiderio. Perché l’amore, quello vero e onesto, doveva essere un’altra cosa…
L’aveva lasciata e, lei era rimasta solitaria e muta. Si trascinò lontano a sedere, fissando il suolo perché della luna si sentiva indegna, finché….
Si era accorta di non essere più sola… o meglio di essere osservata, perché i lamenti e i pianti facevano da macabra cornice alle sue orecchie, nonostante cercasse di ripararle.
“E tu cosa guardi? Mi hai sentita?” aveva gridato irritata a donna Agata che muta rimaneva a guardare Macerino bruciare. Malia sentiva gli occhi fuori dalle orbite in preda ad un panico che non riusciva a combattere.
“Non è colpa mia!” aveva urlato addosso grintosa alla donna, senza neppure la forza di alzarsi; il mal di stomaco troppo intenso per non stringersi la pancia con le mani nel tentativo di assottigliarla; le gambe troppo tremanti per reggersi in piedi. Sapeva di esserle entrata in casa in sua assenza. Baltasar le aveva chiesto di entrare al posto suo, nella casa di Agata, perché fosse stato scoperto non avrebbe avuto motivo di trovarsi là. Lei per non mettere in pericolo il buon nome della donna, visitata da un uomo in segreto, aveva accettato.
In fondo, Baltasar le aveva confidato si conoscessero, nonostante Agata avesse negato di aver mai preso servizio presso la signora madre di Baltasar.
Ci mancava solo quella selvatica contadina solitaria, che le facesse la morale! aveva pensato Malia.
Agata non aveva fatto l’atto di aiutarla come se le imputasse quel disastro, restando a guardare il fuoco che si alzava a rischiarare la notte, a riscaldare l’aria fredda rendendola tiepida; quasi un regalo in quei giorni particolarmente rigidi d’autunno.
Infine, la donna le si era avvicinata, ma nell’esatto istante in cui aveva tentato di accarezzarla, Malia si era scostata, quasi per pudore di sentirsi messa a nudo nei propri difetti.
“Lui ti ha usata…” aveva commentato Agata, senza mezzi termini.
Malia sbottò “E tu, cosa ne vuoi sapere?” si era girata a guardarla in quel viso soffice: quegli occhi le erano sembrati indulgenti, cosa strana per quella donna che solitamente apriva la bocca solo per polemizzare, rimproverare qualcosa o ordinare. “Lui non mi ha usata!” chiarì, ma la sua voce cedette e si perse nella gola sull’ultima parola: era stata lei a permetterli una simile azione.
“Ti avevo detto di non credere a quel giovane!” l’aveva rimproverata Agata com’era prevedibile.
“Avresti dovuto dirmi chi fosse!” l’aveva smascherata.
Agata, quasi se l’aspettasse si mantenne severa “A prescindere fosse mio figlio volevo proteggerti” rimarcò.
“So’ proteggermi da sola.” mise in chiaro “Perciò va’ a salvare qualcun altro!” l’aveva cacciata via a parole, trattenendo a fatica le lacrime che volevano spezzare l’arroganza del suo viso che si dimostrava impassibile al dolore.
“La famiglia del fabbro è in salvo e anche le famiglie di Eugenio e Leandro. Tutti stanno aiutando. Io devo pensare a te, ora!” l’aveva ripresa stizzita Agata.
“So’ proteggermi da sola.” ripeté decisa. “Te lo ripeto! Va’ a salvare qualcun altro!”le urlò.
“Lo farò!” precisò mentre le calava un ceffone che fece un sonoro clap! sulla sua guancia che divenne infuocata e che la lasciò basita, mentre Agata la fissava seria.
“Che brava, ti sei data questo compito ingrato per lenire le pene causate da tuo figlio?” le si era rivolta ironica incassandolo, sviolinando “Immagino sapessi che cercava quella spada?” ipotizzò sbruffona.
A questo punto Agata annuì “Era stata di suo padre. Ma non la meritava... Era la spada di un eroe e lui è un vigliacco.”.
Malia non si fece impressionare e, sorrise, alzando una fossetta “Un eroe”, “Non ne ho mai incontrato uno” si burlò di lei, prima di confessare “Non la meritava, ma saprà usarla e conoscendolo…” sostenne il suo sguardo, volontariamente lasciando sul vago l’uso che Baltasar ne avrebbe fatto. Continuò inclemente “Non sei stata leale al villaggio” precisò Malia “Hai mentito di non conoscerlo.”.
“Non pensavo arrivasse a tanto…” disse breve l’altra, concludendo con una riflessione che non risparmiò a Malia “A viso aperto non avrebbe avuto la forza di affrontarmi per chiedermela.”.
“Affrontarti? Un figlio, un uomo come lui?” la squadrò dall’alto in basso. “Ha preferito far agire te, togliendoti l’innocenza!” aveva appuntato Agata, facendole infiammare le guance nel rimarcarle quanto Baltasar si fosse approfittato di lei.
“Quest’unguento aiuterà le tue ferite…” l’aveva infine stupita, traendo dalla tasca dell’ampia gonna quella che sembrava un paniere di foglia con dentro dello sputo lumacoso.
“Ma mettilo tu! Che schifo!” aveva rimproverato disgustata, facendo una smorfia che le aveva fatto fuoriuscire la lingua intera e ritirandosi per allontanarsi.
“Che ragazza pusillanime!” rimproverò Agata, per cui tutti erano dei pusillanime! Soprattutto, tutti dovevano darle retta, motivo per cui si ritrovava spesso lasciata da parte al suo polemizzare.
Agata l’aveva guardata dondolando il capo, mantenendo tuttavia avanzata la mano “Per quella del cuore non ho rimedio, mi spiace.” aveva ammesso con rimorso.
Infatti Malia sentiva il cuore in cenere come quegli innocenti, pesante della colpa di aver amato la persona sbagliata, nel modo sbagliato.
Era come se le fosse diventato d’un colpo difficile amare e fidarsi di qualcuno.
“Ahhh, insomma, dai qua’!” l’aveva fatta breve. Agata era abbastanza cocciuta, che accettare era l’unico modo per togliersela dai piedi.
Spalmato l’unguento sulle braccia, ne sentì l’effetto calmante. Il cuore riprese a battere in maniera più regolare e poté pensare…
A quando ancora nel villaggio di Macerino la vita scorreva lenta, gaia e sempre uguale; i paesani si salutavano il mattino con lo stesso cuore lieto come non si vedessero da mesi, mentre nelle vie si rincorrevano giocosi i bambini e negli orti le colture crescevano.
Poté pensare a quando da una cupo cavallo era sceso un bellissimo giovane…
Fu quello il primo incontro tra Baltasar e la bella Malia. Lei aveva interrotto la propria consegna di lavare i panni alla fontana e si era fissata su quella elegante figura, imbambolata come le altre fanciulle di fronte a quel giovane distinto.
Gli uomini erano accorsi per informarsi che cosa volesse quel forestiero; quali fossero le sue intenzioni, anche se non sembrava una minaccia per tutti loro.
“Sono Baltasar di Foresta Cupa.” si era presentato con garbo agli uomini “La mia vecchia madre morente mi ha chiesto di recapitare un messaggio ad una sua vecchia e fedele domestica. Credo abiti nel vostro villaggio…” poche parole che per Malia sembrarono essere l’inizio di una fiaba di cui voleva far parte: quel bellissimo giovane avrebbe mantenuto fede alla promessa di soddisfare le ultime volontà materne, forse grazie a lei!
“Io credo si riferisca alla nostra Agata!”aveva detto lei prontamente, gaia e veloce per riceverne le attenzioni, imbarazzando oltre i presenti, il proprio padre.
Negli occhi di Baltasar aveva sfavillato il bagliore di un lampo, gratificandola d’essere stata d’aiuto.
Eppure suo padre era divenuto incerto sul da farsi “Mia figlia si sbaglia…” era sembrato imbarazzato come di uno scherzò, descrivendo Agata come una donna da tempo sola e modesta, brava nel rammendo e nell’essiccare i funghi “Di certo, estranea al casato di Vossignoria”, aveva precisato.
“Mia madre la ricorda con affetto.” si era rimproverato il gentil giovane “Vorrei incontrare questa donna.”.
Dondolato il capo chiese “Il prima possibile. Temo l’aggravarsi delle condizioni di mia madre.” si scusò, le mani alle tempie, struggendosi al doloroso pensiero.
Malia, le mani giunte, aveva pregato fosse proprio Agata la serva che lui cercava. Una così bella persona, che non disdegna di mettere piede tra la gente semplice, per un obbiettivo tanto nobile, doveva portare a compimento il proprio impegno.
“Vorrei mi indicaste quella donna…” aveva sperato il bel giovane, alto più della media, accarezzandosi il colletto di zibellino.
“Si è allontanata giorni fa, in cerca di erbe, mi disse” si giustificò il capo del villaggio a nome dei presenti “Non so’ quando sarà di ritorno…” parlò deludendolo, con il cuore in mano “Ogni uomo qui è prezioso per cercarla e anticipare un vostro incontro” si era scusato.
“Vorrei attenderla.” aveva appuntato il giovane: una voce che tutto un tratto era mutata in più cauta e sottile; quasi più cupa, meno mielosa.
“Pagherò bene il mio soggiorno.” aveva precisato avvicinandosi al capo del villaggio e, prendendogli una mano ci aveva vuotato sopra il contenuto di un sacchettino: quattro sonanti monete d’oro erano apparse luccicanti tanto da abbagliare lo sguardo, pizzicando le orecchie dei presenti con il loro tintinnare. Mai viste tante… tutte insieme.
In tutta la sua eleganza il giovane era indietreggiato, accollando il proprio mantello, lucido come il piumaggio di un corvo, nell’attesa di un prevedibile assenso.
Benevolmente accolto dal capo del villaggio in persona, prima di seguire il proprio ospite aveva timbrato in direzione del padre di Malia “Avete una figlia deliziosa.”, facendola arrossire: elevandola da quel momento a sua prediletta.
Era bastata una lusinga… e , se lo rimproverava ancora!
Perciò come non dare torto a Braccioforte! Malia i guai li portava con sé come patrimonio personale, soprattutto per gli uomini che, ora, le si allacciavano alla sottana e tribolavano per lei.
Perduta l’innocenza con Baltasar e disincantata dell’amore, quanto un’avida falena aveva preso a giocare con gli uomini come con dei lumi, attenta a non scottarsi, ma beandoli del suo svolazzo per sfruttarne le sostanze.
Calcolatrice incallita li usava e illudeva che ci fosse spazio anche per loro nel suo cuore.
Cingendoli sottobraccio, sorrideva esuberante tra un bicchiere e l’altro senza esagerare, invogliandoli di contro a fare l’esatto opposto, inebriandoli non solo con i liquori.
Curiosa come un gatto li osservava come fossero topolini; con il palmo della mano sotto il mento sorniona fingendo di interessarsi ai loro discorsi, anche i più banali.
Ti risparmierò i dettagli… poteva dirle un uomo, ma con Malia ahimè! per lui non esisteva l’eventualità di negarli.
Che fosse là, non doveva perciò stupire nessuno più di tanto; primo fra tutti Ludovico, tra i pochi fortunati che aveva il privilegio di avvalersi della sua scaltrezza e farne com’era stato per suo padre, la propria informatrice.
“Caro il mio principe azzurro!” sviolinò Malia entrando nel capanno: un saluto a Ludovico e una valutazione d’insieme che comprendeva anche il rosso Alberico e il bruno Federico. Tre figure aitanti; tutti alti e atletici; fisici vigorosi cui i pantaloni, nel loro taglio sagomato, rendevano merito. Visi sani, capelli lucidi in una variante di colore che li rendeva irresistibili: il marrone dei fusti degli alberi nella chioma di Federico, l’infiammato rosso delle foglie in quella di Alberico, infine il giallo del sole per il bel principe Ludovico, in un concentrato d’autunno che riempiva lo sguardo.
“Quale bella regina di bosco!” l’apostrofò di rimando l’ironia di Ludovico, come parlasse più che di una primizia da raccogliere che di una gentil dama; gli occhi verde arancio le si puntarono addosso interessati.
Denoto impazienza, mio bel principino? rifletté ottimista, sorvolando sullo spocchioso appellativo con cui l’aveva accolta. Che l’aspettasse già ne lusingava l’ego.
Tuttavia una smorfia le corrugò le tempie mentre imbronciava il labbro sulla sinistra, interessata allo scambio di sguardi tra Ludovico e Alberico. La loro curiosa vicinanza, la fece sorridere all’istante, quanto malignare con voce dispiaciuta “Ho forse interrotto qualcosa di piccante?”, alzò il sopraciglio sinistro, allentando indifferente il mantello con aria svogliata come se entrasse tra garzoni di una bottega.
Non devo essermi sbagliata poi tanto… convenne all’immediato risponderle a tono di Alberico che ringhiò incattivito “Qualcosa di cui non saresti all’altezza!”: gli occhi color ambra, stretti e fissi su di lei mentre si avvicinava loro con un sorriso beffardo.
“Vogliamo scommettere?” lo punzecchiò, sicura di sé. Deve ancora esistere uomo a cui non saprò tener testa! si risparmiò dal dire, ma la sua mano fu lesta nel dare una lisciatina lasciva al pantalone del cavaliere, dal ginocchio all’inguine. Occhi su occhi, lei e Alberico si fissarono quasi sfiorandosi le labbra mentre Malia gli avanzava sul viso melensa e lui inclinava all’indietro il capo, portando le mani ad allontanarla, spingendone le spalle, quasi il suo carnale odore lo infastidisse.
“Le scommesse lasciamole agli stolti.” mediò tra loro Ludovico, separandoli paciere con le mani, vivace nel sorriso, superiore di fronte alla loro scaramuccia, spalleggiato dall’indiscreta curiosità di Alberico che indagò“E così, ora, vivi nel bosco?”.
“Sì, come la vecchia delle favole!” sbottò lei, mani ai fianchi, come un tacchino dalla ruota aperta a ventaglio, facendoli sorridere e trattenere a stento una risata che stemperò la tensione.
“Perciò scommetto che mi aiuterai.” azzardò Ludovico galante. “Le vecchie non aiutano forse i principi?” cercò di intenerirla e, biondo e irresistibile com’era, sarebbe stato facile cedervi per qualsiasi altra fanciulla.
“Aiutano gli eroi!” puntualizzò lei con voce seccata, spostandosi all’indietro la nuvola di capelli corvini che ne facevano una dea in terra, tanto erano setosi e lucidi. Prese a girarsi un ciuffo snervata, mettendo in chiaro non fosse un’ingenua sprovveduta da liquidare con quattro chiacchiere.
“Un principe è un eroe!” rispose prontamente Federico che fino a quel momento era rimasto in disparte, a sostegno del proprio principe.
Un eroe è colui che è disposto a dare la propria vita per coloro che ama. Non per recuperare quattro mura, considerò per poi ridere impertinente “Il mio probo Federico. Un eroe di questi tempi è merce pregiata.”. “Te l’ha detto la vecchia Agata?” incalzò Alberico, riferendosi alla donna che s’era presa cura di Malia, non lasciandola sola e sconsolata dopo l’incendio di Macerino che l’aveva vista rinnegare l’inviso amato.
Lei lo volle mettere al proprio posto all’istante, furiosa di ricordare quell’avvoltoio nero “No, me lo disse per primo Baltasar! Prima di farmi questo!” mostrò le bruciature sulle braccia, che ricordavano l’incendio accorso al gaio e cordiale villaggio che l’aveva vista nascere e li avevi visti sfortunatamente incontrare.
Alberico sbuffò il fiato in una risatina “Quando ancora ti amava?”.
“Quando ancora un uomo poteva gloriarsi di sottomettermi!” usò parole grosse “Cosa di cui tu attualmente non puoi gloriarti.”, costringendo Ludovico a intervenire limitando la reazione del rosso cavaliere verso di lei “Calma, mia bella signora. Ti sapevo innocente a quel tempo.” la sgravò dal peso di una colpa che le era stata impressa sulla carne.
“A quell’epoca eri meno presuntuoso” si fece ardita.
“E tu meno aggressiva”
Così, certa di esser orami una donna perduta, accettò quel gioco  “Comunque io non sono vecchia, perciò posso aiutare pure i principi!” volle mettere in chiaro, rubando l’ennesima risata a Ludovico, mentre gli lisciava col dito il torace.
“Dai su, la verità” la interrogò scherzoso scrollando i biondi ricci “L’hai più visto?”
“Sarebbe difficile, visto che ha tirato le cuoia.” sbottò breve avvicinandosi, con il viso che esprimeva vittoria a quel pensiero. “Parliamo d’affari piuttosto!” continuò dunque senza mezzi termini.
“Affari… Null’altro?” annuì col capo Ludovico, assottigliando la loro vicinanza: la cinse alla vita e Malia ne sentì l’odore maschio,il vigore dei pettorali che le venivano premuti contro.
“Mi mancava il profumo della tua pelle.” accordò retorico avvicinando il proprio viso al suo.
“Non mentire!”disse lei con due tormaline che sembravano essersi accese a tizzoni.
“E chi mente…” vi sorvolò Ludovico con un sospiro, mentre le sue mani le scendevano lungo le braccia. Lui rudemente si impose su di lei, stringendole ancor più la vita, riprendendola e avvicinandosela perché fossero a contatto : un tono imperioso ma ancora indulgente “Nessuna donna può dire di aver amato, se non ha amato un principe.” chiarì lui.
“Abbiamo detto di non scommettere!” gli fece eco lei, civettuola.
“E’ dalla presa di Rocca Lisia che non ti vedo?” le sfiorò il collo con la punta del naso, mentre la voce diveniva più roca e il respiro lasciava intuire un rigore assai poco appropriato per la figura che ti immagini di un principe. “Sono rimasto dispiaciuto.” ammise diretto.
“L’atmosfera si faceva un po’ troppo vivace per i miei gusti, ma sono sicura che hai trovato di che consolarti…” civettò evasiva quanto sfacciata “O forse non ne avete avuto il tempo?” sembrò scherzarci su.
“La tua dipartita ci è parsa sospetta” precisò Federico.
“Che brutto termine…” s’imbronciò lei, sporgendo le labbra al principe perché le umettasse.
“Iorio è morto avvelenato!” s’irritò Alberico indisposto dalle sue smancerie col principe.
“E dovrei essere stata io?” s’indignò lei, la mano al petto a suggerire platealmente fosse impossibile. “Baltasar a suo tempo, mi ha già abbastanza incatramata, perché io ambisca a crearmi nuovi nemici, non trovate?”.
“Lanciagli un osso” mediò conciliante Ludovico. “E’ stato Zelio, il traditore!”, ma non negò di aver pensato “Tuttavia tu avresti potuto aiutato?”.
Quasi le sfuggi un vago “In effetti…Potrei averlo fatto?” che fece loro alzare le spade.
“Attenti.” avvertì lei; suadente come una vipera che avverte della sua presenza e delle proprie armi. Gli stessi occhi di un’ombra. “Attenti, voi per primi chiedete qualcosa di pericoloso o sbaglio?” disse bilanciando le loro posizioni, ridimensionando la loro diffidenza.
“Deduco che non sono l’eroe che ti aspettavi.” ammise Ludovico staccandosi da lei, rimirandola dall’alto al basso, per averne uno sguardo d’insieme “Del resto non sei tu la principessa a cui ambisco” la dileggiò.
“Non sono giocattolo con cui giocare.” precisò Malia, allusiva “Potresti scottarti!”.
“Ed io non sono il cuore puro che potrebbe liberarti della colpa che sconti per aver amato Baltasar.” scherzò velenoso, cingendola “Cerco vendetta, null’altro.”.
“Vendetta e il trono che ti è destinato….” lo corresse lei.
A quelle parole, le labbra del principe le si incollarono addosso. La solidità di quelle braccia s’impressero sulla sua vita.
“Potrei darti ciò che cerchi.” solleticò i desideri principeschi.
Un bacio procedette intenso, estraneo alla timidezza, ingorda furia, in un gioco di lingua che scavava dentro la sua bocca, finché senza mezzi termini Ludovico si staccò da lei, le mani sul suo capo ferree “Hai quello che ti ho chiesto?”.
“Sì!” si limitò a rispondere.
“Aiuti un uomo nonostante Baltasar?”.
“Aiuto un principe in memoria di un re!” disse Malia rievocando sincero affetto per Iorio. “Quanto la vecchia Agata, lui credette in me!”
“Iorio credette nelle tue grazie!” ironizzò Ludovico ma forse per rispetto alla memoria di suo padre ritornò ai propri interessi più urgenti “Dimmi solo quanto è potente!”.
“Per una cisterna basterebbe metà boccetta.” confidò stirando il nasino pepata, mentre gli metteva le braccia al collo avida di lui. “Spero tu non voglia metterlo nel vino? E’ troppo banale.” gli alitò sull’orecchio.
“Ho già pensato dove potrei!” se la tirò in braccio, mentre lei lo cingeva con un abbraccio di gambe, ammettendo disponibile “Non vedo l’ora di scoprirlo!”.

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Capitolo 29
*** Della Paura ***


Capitolo 29  Della Paura

 
 
“No! Non vi è altra strada per entrare!” rispose categorico Braccioforte, quasi a mettergli il cuore in pace. La voce tenuta bassa per non farsi udire se non da lui: Malia poteva non essere arrivata da sola.
Leale alle confidenze di Ludovico, l’amico continuò ammonendolo serio “Non pensare nemmeno di fuggire ora!”; conciso ricordò “Spartiamo un segreto.”. L’onore era motivo ben più importante che rammentare a Moros quanto pericoloso fosse stato un tempo anche solo ipotizzare di conoscere l’esistenza del passaggio segreto, per chi non appartenesse alla famiglia reale.
“Non pensavo di fuggire.” si giustificò immediatamente Moros, quasi il piagnisteo di un bambino sgridato. “Potrei tentare un’altra via.” ribatté poi agguerrito, mordendosi le labbra per non alzare troppo la voce: dibattuto da mille alternative, tutte onestamente irrealizzabili quanto sciocche.
Scalerò le mura…  Era un’idea tanto semplice quanto azzardata: non avendo le dovute competenze avrebbe unicamente rischiato di finire nel vuoto; come un imbecille.
Mi travestirò… Sì! Poteva essere un buon piano.
Certo! Come no? Avrebbe funzionato, solo se avesse dovuto semplicemente entrare dentro le mura. In quel caso sarebbe stato fattibile. Tuttavia lui doveva raggiungere Nicandro nelle stanze padronali di Rocca Lisia, sorvegliate da guardie a cui la sua faccia non sarebbe passata inosservata, visto che un tempo era stato loro compagno. Con Vittorio e Ottavio ne aveva avuto la prova: l’avevano riconosciuto subito e senza troppi complimenti l’avevano attaccato. Perciò, trovarsi davanti al reggimento al completo non sarebbe stata un’allegra rimpatriata tra amici. Sapete ragazzi, avevo voglia di rivedere mio cugino, passavo di qua, così mi son detto perché non vado a salutare tutti? Perciò, Salve! Un discorso spavaldo che avrebbe potuto essere invero il suo ultimo.
Forse la sua faccia esprimeva limpidamente questi pensieri, perché Braccioforte lo guardava dubbioso, o meglio rabbuiato in volto, prima di prenderlo d’impeto al braccio sinistro, ferreo “Non vi è altra via! Al meno non prima di aver parlato con Ludovico!”. Il principe meritava spiegazioni prima di essere lasciato: era chiaro il pensiero dell’amico. A dopo travestimenti, scalate e tutte le ulteriori idiozie che la sua giovane mente vaneggiante avrebbe partorito.
“Ma se Ludovico volesse avvelenare Gregorio… i soldati…”non osò paventare la morte del cugino, coinvolto nella vendetta del principe.
Giustificazioni, solo giustificazioni che volevano frenarlo nell’agire di affiancare Ludovico nella ripresa di Rocca Lisia.
“Non lo sappiamo con certezza!” lo frenò Braccioforte, dando il beneficio del dubbio a Ludovico o forse concedendogli la possibilità di rinunziare a quel proposito vile e quasi indegno per un principe; poi più pragmatico “Come non sappiamo cosa potrebbe intossicarli!”. Era sbagliato lasciare i cavalieri in questo momento, rischiando di invischiarsi nel loro inganno, ignorando cosa avrebbe veicolato il veleno.
Moros ribatté “Farò in tempo… Basterà portare via Nicandro.”; lasciare Ludovico adesso gli avrebbe fornito un ragguardevole vantaggio rispetto all’uso del veleno. Non è così sbagliato tentare.
“Anticipare le mosse di Ludovico è ciò che vuole anche Gregorio” ironizzò Braccioforte “Tu potresti esservi già compreso, dopo l’incontro con quei due soldati!” sembrò cercare di mettergli paura. Gregorio si aspettava il ritorno di Ludovico e sicuramente anche il suo!
“Hai solo una via sicura per entrare, ma sembra tu non voglia usarla?” si sentì rimproverare e, Moros riconobbe fosse quella la verità.
La prima volta che Braccioforte aveva cercato di metterlo a nudo aveva cercato di ignorarlo, ma ora gli era impossibile continuare a farlo. “Non pensare nemmeno di fuggire ora!”quanto erano vere e crude le parole usate dall’amico e, pensandoci non era la prima volta che se le sentiva calare addosso. La paura era come una pioggia che gli scrosciava addosso, che lo inzuppava fin nelle membra ma a cui non sapeva reagire. Restava là, fermo a prenderla. Si faceva bagnare e non osava correre per ripararsi, neppure allungando le mani alla testa per coprirsi, indifferente pure alla vergogna, perché lui non la riconosceva tale. Era solo pioggia. Era solo tentare altre alternative. Era solo separarsi per un po’ da Nicandro...
In fondo era già successo…
Era semplice uscire di scena, facendo finta che nulla in fondo dipendesse da lui. Era facile fingere non gli importasse degli altri, fossero amici appena conosciuti come Braccioforte, un principe a cui s’era detto leale nella comunanza di un obbiettivo o un cugino che avrebbe dovuto lasciare com’era già successo in passato…
“Allora sei pronto?” aveva sorriso Lavinia a Nicandro. Il nasino di lei puntiglioso, i capelli composti in una lunga treccia perfetta, vestita come una dea della caccia, in pantaloni sagomati sulle gambe sottili; spavalda e sicura, imperiosa come ci si aspettava fosse nel giorno che l’avrebbe ricondotta alla loro vera casa: Montetardo.
Moros restava solitario in disparte in quella sala, dal soffitto a cassettoni e le pareti tinteggiate di rosso ocra, che avrebbe fatto da cornice al loro commiato. Davanti ai suoi occhi un dipinto spennellato in quell’istante in tinte chiaroscuro, in cui le mani di Lavinia raccoglievano quelle di Nicandro come fossero preziose, alzandole unitamente alle sue.
Moros si stupì di quel tenero gesto rivolto a suo cugino, come non se l’aspettasse da lei.
“Dobbiamo andare..” la voce di Lavinia indulgente, sovrastata da quella indispettita di Gregorio che si informava “Non dirmi che ci hai ripensato?” mentre inclinava la testa incuriosito; la sua figura più alta, di ventenne, torreggiante sulla sorella quindicenne e il fanciullo che avrebbe fatto parte della loro famiglia.
Quasi a rimarcare il proprio territorio, Moros era avanzato in quel momento, solo di qualche passo, “Mi raccomando non metterti nei guai.” aveva sbottato infastidito, puntando solo il cugino, volendolo mettere alle strette perché rispondesse veloce. Di’ che vai con loro! Me ne farò una ragione!
Un incerto “Io…” in risposta. Come se Nicandro potesse tornare indietro dalla decisione di seguire il capofamiglia Guglielmo, tutore di Lavinia e Gregorio e presto anche suo. Quasi dicesse Per te potrei rinunciarvi.
Così sembrò. Così fu.
Nicandro sembrò tornare sui propri passi, correndogli incontro come se tutto fosse nuovamente facile: la certezza di restare assieme!
Quella sola richiesta: “Vieni con me!”. L’abbraccio stretto di Nicandro alla vita, quasi lo volesse in trappola e solo là lo conducesse.
Gli occhi del cugino che si alzavano a ricercare i suoi. Li rivedeva nel loro colore acquamarina.
“Diventa un soldato!”. Non si era aspettato quelle parole: una richiesta dalle lucide labbra di Lavinia, un’intromissione che l’aveva portato ad allontanare il cugino da sé, quasi fosse lo strumento di un inganno.
“Rimani con Nicandro. Ne sarà felice.”. Il sorriso di Lavinia vittorioso. A lui risuonarono Hai forse paura di diventare un soldato? pronunciate con una sottile voce da strega, accompagnata dalle lusinghe di Gregorio “Saresti il benvenuto tra i miei soldati.”, degno miagolante gatto nero.
“Non ho bisogno di seguire come un’ombra mio cugino, se l’affido a voi!” disse con freddezza, accrescendo l’ego di Gregorio che sembrò soddisfatto di toglierselo dai piedi; del resto aveva intuito quanto tra lui e Lavinia non scorresse buon sangue.
“Mi mancherai!” la confessione di Nicandro: crudele, nel tentativo di smuoverlo.
“Matilda ha bisogno di me!” s’era giustificato “Se venissi con te..”
“Come scudiero saresti ben pagato!”  aveva incalzato Lavinia, denigrando l’aiuto che paventava alla madre; sorvolando arrogante sul fatto che gli sarebbe diventata signora; più di quanto già non fosse possedendo Raucelio, con le terre e le vite che conteneva.
Sì! Certo! s’era detto, avrebbe seguito Nicandro per vederlo Signore del castello , quanto a lui sarebbe toccato il ruolo di soldato, mettendo costantemente a rischio la vita. Sai che guadagno!
Diplomatico le sue parole erano state “Per il futuro potrei prendere in considerazione la tua proposta”.
“Ma oggi no!” aveva sorriso Lavinia, mentre Ubaldo entrava avvisando fosse ora di partire.
“Fate buon viaggio!” aveva augurato in commiato, mentre il biondo Ubaldo si era soffermato a osservarlo, finché soli aveva contestato “Sul serio non ti importa? Scommetto che è la paura a parlare per te.”. Lui s’era mosso di un quarto di giro, sbottando grintoso “Per me possono andare dove vogliono i Montetardo!”, vedendo il soldato allargare le braccia mentre un sorriso sghembo gli appariva in viso “Infatti, possono farlo. Quanto a te, ritorna pure dove preferisci!”.
Moros era diventato paonazzo, ma per Ubaldo non avrebbe mai rappresentato un problema una contesa con lui “Francamente non interessa a nessuno!”.
Moros aveva stretto i pugni ma non s’era mosso.
“Se la paura ti frena, allora hai già perso!” aveva concluso Ubaldo.
Com’era vero! Stava già rinunciando. Si era dato un obbiettivo: doveva portarlo avanti senza scusanti.


NdA: Ciao a tutti
E' un periodo difficile, perciò mi scuso se non sarà uno scritto perfetto.
La scrittura spero mi darà sollievo e forza.
Grazie a tutti.

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Capitolo 30
*** E se avessi ferito qualcuno? ***


 

  “E se avessi ferito qualcuno?”

 
“Cosa dovrà dire a Ludovico, quella donna?” chiese a Braccioforte senza ottenere risposta, se non un leggero cenno di diniego col capo e un arricciamento delle grosse labbra carnose dell’amico, che sporsero dalla barba che gli sagomava il viso e ne evidenziava il solco che anticipava il mento.
Malia era sicuramente là per aiutare il principe nella sua impresa di riconquistare Rocca Lisia; per il resto, tutto era loro oscuro.
“Facciamo parte anche noi della squadra di Ludovico, giusto?” concesse ottimista Braccioforte, rubandoli un sorriso assieme ad una conferma.
“Giusto!”.
L’avrebbero scoperto presto.
“Rientriamo o Ludovico metterà in dubbio la nostra onestà.” argomentò Moros con scaltrezza, ammettendo “Fino all’ingresso alla Rocca gli sarò leale, poi ognuno andrà per la sua strada, fedele al proprio obbiettivo!”.  Lo disse con voce risoluta; il suo volto serio esprimeva che non più ombre ne offuscavano la determinazione.
“Così si parla!” gli concesse Braccioforte con una pesante pacca sulla spalla. Gliela calò giù pesante come un padre orgoglioso; infondendogli fiducia e coraggio.
Dopo una prima occhiata cauta, per verificare Malia fosse arrivata sola, fecero l’atto di ritornare sui propri passi e rientrare nel capanno.
Di scatto, Moros trattenne l’amico per un braccio “Aspetta!”.
Fu’ in quel momento che gli sembrò di…
All’unisono lui e Braccioforte si ripararono, accucciandosi il più possibile. L’amico chiedeva con gli occhi spiegazioni in uno sguardo particolarmente vigile e circospetto. Cos’aveva visto? O meglio chi?
Moros intimò il silenzio con il dito indice a sigillare le labbra: aveva bisogno di assicurarsi di non essersi ingannato e chiedeva a Braccioforte di essere paziente.
Strinse gli occhi, cercando per ben due volte di mettere a fuoco qualcosa tra gli alberi: una sagoma; quella di una bruna chioma che si confondeva con i colori del bosco. Perché pur nascosta dalla visuale del capanno, non poteva esserlo altrettanto lateralmente, nonostante immobile e mimetica nel colore spento dei suoi abiti da pattuglia…
Non poteva sbagliarsi: quel colore era di Lavinia; di colei la cui grazia gli era da sempre sembrata eguagliare quella di una cerbiatta vigile ai profumi e alle voci delle foresta che restava paziente in attesa, appartata per non cadere in trappola.
Di colei che, pur non volendolo ammettere, gli ricordava una ninfa dei boschi, che ti cattura con i suoi occhi per non lasciarti più andare e con l’ardore che la fa’ primeggiare non può che farti suo schiavo e suddito. Colei che lui aveva battezzato la ragazza della freccia.
“Due uomini.” precisò Braccioforte soffiandogli quasi nell’orecchio per mantenere bassa la voce, riconoscendo per primi i soli compagni di Lavinia.
“Ottavio e Vittorio.” confermò Moros sottovoce, notando la loro presenza solo in quel momento, come se vedere Lavinia gli avesse fatto trascurare tutto il resto.
“Braccano Ludovico.” precisò conciso e nel dirlo gli parve che la sua voce uscisse delusa, come se disprezzasse che lei non fosse là per lui.
Ma perché dovrei pensare ad una cosa così sciocca? Perché dovrei sentirmi lusingato dell’attenzione di quella smorfiosa arrogante? Da quando chiedeva d’esserne valletto o preda?
“Allora sono nemici!” appuntò Braccioforte e, valutando finalmente la presenza di una fanciulla chiese“Anche lei?”.
Sconcertato nel volto, l’amico indietreggiò sul collo, sbigottito di incrociare una donna in missione.
“Lei per prima…” biascicò Moros: la sua voce tuttavia uscì incerta, come se non vi credesse affatto. Sentì uno strano calore invaderlo internamente mentre un sudore freddo gli irrigidiva gli arti facendolo restare immobile. Sentì il suo volto tirarsi e farsi livido; le mani gli si gelarono come al contatto con la neve.
Una reazione che non sfuggì a Braccioforte “La conosci?”.
Le parole gli morirono in gola. Un nodo gliele intrappolò come un cappio stretto, prima che riuscisse a dire “Colei è la fonte della mia sventura.”, quasi ne ammettesse la vittoria, sapendo Nicandro in sua custodia. Ma era stato solo Nicandro preda di quella dea della caccia? O lo era stato anche lui?
In quel momento, nonostante la distanza, Moros ne incontrò lo sguardo e  fu come se, in tutti e due, riemergesse la consapevolezza che nuovamente una foresta li faceva incontrare, come allora…
I loro occhi si incrociarono vicendevolmente come fossero entrambi la punta di una freccia che fissa il proprio bersaglio  e  non ammette di mancarlo.
Ma in quell’ istante si disse di poter impedire una nuova infausta scoccata di Lavinia, impedendo la cattura di Ludovico.
Sapeva benissimo cosa avrebbe comportato osteggiarla, come se risentisse ancora una volta nelle orecchie il suo rimprovero “Era la mia freccia!”, “Come hai osato?”  ma le spade dei soldati non sarebbero state sufficienti a fermarlo questa volta. Il rovescio della medaglia era che salvare Ludovico avrebbe significato dividersi da lui e perdere la possibilità di entrare con lui alla rocca.
Lasciò alle spalle quell’indecisione e così gridò. Incurante di soldati, di pretese.  “E’ una trappola!”, disse ad alta voce, perché fosse chiaro all’interno del capanno. Nel farlo si rialzò fiero e palesò la sua presenza avanzando verso Lavinia, Ottavio e Vittorio.
“Soldati di Gregorio!” dichiarò leale, flettendo il collo e inclinando la testa, chiarendo chi fossero ai compagni, se si fossero affacciati a guardare l’entità del nemico “Sono solo in tre!”.
Vide lo sconcerto nei volti dei nemici che restarono immobili, increduli fosse svanito d’un colpo l’effetto sorpresa in cui avevano sperato.
Braccioforte lo riproverò con un grido che imponeva di stare attento “Non agire da stolto!”.
Moros non arretrò di un passo, quasi una barriera tra i nemici e il capanno. Del resto Lavinia, Ottavio e Vittorio rimasero immobili, le sole spade alzate, messisi al riparo degli alberi, non appena il suo avviso aveva fatto alzare in volo un rapace della foresta che aveva emesso un suono acuto quanto un fischio.
A debita distanza, indagò “Anche questa volta sei a caccia?”: le orecchie che udivano la frettolosa uscita di scena di Ludovico e dei suoi uomini, cui avrebbe coperto la fuga. Dando un calcio alle assi malferme erano usciti dal retro.
“Fuggite, penserò io a loro!” confermò deciso, evitando fraintendimenti e una solidarietà che non sarebbe andata a vantaggio di nessuno.
Un gustoso sorriso gli si stagliò in viso al rimprovero di Ludovico  a cui continuò a dare le spalle “Non essere presuntuoso.”, prima che lui rinnovasse il suo “Fuggite!” ricevendo l’impegno del principe “A buon rendere!”.
Un’insolenza di Braccioforte gli arrivò come una critica, ma non si rimproverava nulla. Meglio lasciar fuggire Ludovico che consegnarlo a Lavinia e soddisfare la boria di Gregorio.
Lavinia lo guardava stranita: gli occhi fuori dalle orbite.
“Ormai sono fuggiti!” alzò il mento sfrontato.  Lo disse con un tono vittorioso, come se guastare la festa che avevano in programma per il principe bastasse a dargli soddisfazione.
Non fece in tempo a gioirne che Lavinia, paonazza per la collera l’aggredì “Moros! Come hai osato intrometterti?” , tra l’intersecarsi dei rami, che scostò con le lunghe e flessuose braccia nell’avanzargli contro. I begl’occhi marroni divenuti i soliti tizzoni indignati. Il nasino arricciato con lo stesso cipiglio vanesio di quando l’aveva conosciuta ragazzina.
Lui le sorrise screanzato “E se avessi ferito qualcuno?”.
Una frase che sembrò riecheggiare nella mente della fanciulla facendola esplodere in un’invettiva “Sei un impudente! Rimani il solito villano!” : le labbra strette, quasi aggrovigliate dalla rabbia.
Non ci volle molto perché Vittorio e Ottavio la raggiungessero.
“Ed ora, ci mancava pure Moros?” esordì Vittorio spalleggiandola; pettinandosi il lungo ciuffo color grigio turchese in un atteggiamento quasi svogliato, per poi informarsi “Ed ora dobbiamo catturarlo?”. Ottavio si pose alla destra a completare il terzetto, muto in attesa dei comandi della sua signora.
Lavinia portò all’indietro le braccia, imponendo restassero dietro di lei, con la solita alterigia degna dell’esserne a comando.
“Che cosa accidenti ti è passato per la mente?” lo interrogò decisa, mantenendo la sua posizione “Aiuti un nemico?” lo rimproverò spavalda.
“Perché tu saresti mia amica?” le rise addosso, facendola accalorare alle guance lisce e perfette in cui fiorì un bocciolo scarlatto che sembrò schiudersi per guadagnare spazio fin ai lati del viso.
“Ludovico è un nemico dei Montetardo.” la sentì precisare rabbiosa.
“Non mi sembra che vi abbia mai dichiarato guerra se non dopo l’usurpazione del proprio trono.” la ridicolizzò facendo traboccarne il vaso della pazienza.
“E’ questione di opportunità!” rimarcò Lavinia calcando veloce la distanza che li separava, con aria di sfida; insofferente all’esortazione alla prudenza di Ottavio.
“La stessa per cui Gregorio trattiene mio cugino?” le inveì addosso quando lei gli si piantò davanti. Le sibilò quell’offesa come fosse il morso di un serpente, quasi sorprendendosi di provare per lei tanta smisurata cattiveria.
Del resto, fu sorpreso che per la prima volta la loro altezza si eguagliasse, e i centimetri di lei che gli erano sembrati fastidiosi un tempo e tanto lo mettevano in soggezione, oggi facevano in modo che i loro occhi si fronteggiassero alla perfezione.
Dopo tanto tempo, gli arrivava nuovamente ai sensi il profumo di Lavinia: un sudore che tutto gli sembrava fuorché fastidioso e che anzi sembrava un tepore che l’avvolgeva, salendo lieve dalla pelle del collo nudo.
Forse la vicinanza sembrò intollerabile anche per Lavinia perché la vide indietreggiare, come se avesse osato troppo nel finirgli quasi addosso. Ma lei era Lavinia perciò non si stupì quando pur visibilmente a disagio, nel rossore che conservavano le guance, recriminò “Perché tu cosa gli avresti offerto?”.
“La libertà!” disse ardente in risposta, la voce alta come a rendere omaggio al sentimento invocato.
“Quella libertà che in questi anni hai conservato solo per te stesso restando nascosto nelle foreste?”. Calcò le parole solo per te stesso.
Moros si disse, fosse sempre uguale, sempre la stessa cocciuta irremovibile: dalla spada tratta a difesa di Gregorio.
Nascosto, un accidente?  avrebbe voluto controbattere ma si trattenne  per meglio intimarle “Fa’ che sia Nicandro a scegliere!” .
Bhe! Erano cocciuti entrambi, rifletté.
A dispetto della reazione che si aspettava un sorriso comparve tra le labbra di Lavinia che con voce chiara dichiarò “Nicandro l’ha già fatto!” per poi aggiungere “Lo fece quando di noi scelse il nome, quello del nostro tutore, mio e di mio fratello. E alla tua fuga.”.
“Fu per salvarmi la vita!” rimarcò ferreo, mentre lei appuntava  “E tu allora la sprechi così?”. Era pronta a combattere e lui non rientrava nei suoi programmi. A lei, era chiaro, interessava unicamente Ludovico e lui si trovava nella condizione di ostacolo.
Si guardarono feroci, ma un applauso smorzò la tensione tra loro e, come due attori di fronte ad un pubblico si girarono ricercando chi li stesse acclamando.
“Bellissimi!” e poi “L’imperiosa soldatessa e il boscaiolo!” li apostrofò Malia  che, dalla finestra spalancata, era ferma a guardarli. Il mento poggiato sulle mani che facevano da treppiede alle braccia, con la stessa aria pepata come aggiungesse Carina o Carino a seconda del caso.
Li mise in un attimo in completo disagio.  Veramente non solo loro, ma anche Braccioforte, Ottavio e Vittorio.
“Non fate caso a me!” agitò la mano come se la sua presenza fosse trascurabile per poi suggerire “Comunque quì se ne sono andati!” precisò leale a Moros quanto dispettosa verso Lavinia “Sai preferisco i boscaioli!” strizzò l’occhio a Moros imbarazzandolo, escludendo divertita i soldati dal proprio favore.
La videro ritrarsi dalla finestra e nel mentre del loro silenziò uscire dal capanno incrociando gli indici  a croce davanti al viso “E adesso? Vi fronteggiate o vi baciate?” rise di gusto, sguaiata come una vecchia strega delle favole, mentre Vittorio la guardava mantenendo la bocca aperta e Braccioforte si concedeva l’ennesima insolenza, ammettendo “Ed ora?”.
“Se ne sono andati, non c’è più motivo di restare!” concesse Lavinia, riponendo la spada ; ammaestrando i propri uomini. Guardò Moros come se si aspettasse confermasse la tregua.
Moros rimase in silenzio, indietreggiando cauto, non togliendole lo sguardo di dosso, prima di restare stupito dalle sue parole.
“Se Ludovico è certo di rientrare alla rocca allora preferisco farmi trovare pronta per accoglierlo! E in quel caso mi prenderò cura di Nicandro.” lo disse come se non avesse fatto altro fino a quel giorno.
“La lasci andare così?” intervenne Malia, avanzando a falcate come al solito, ponendosi accanto a Moros. Quasi suggerendo una ripicca.
Lui mise in chiaro “Non sono io a lasciarla andare, ma lei che lascia andare me!”, ma per tenerla a bada azzardò “Del resto, cosa dovrei fare? Ucciderla?” negò col capo “Farebbe differenza?” interrogò Malia.
Malia scrollò le spalle “Hai fatto la tua scelta, ragazzo!”.
“Non sono più moccioso?” sorrise punzecchiandola, mentre Lavinia e i suoi uomini si allontanavano circospetti.
Non perse uno sguardo di Lavinia in quel momento, non una piega delle sue labbra e gli sembrò strano di non sentirla per la prima volta una nemica.




NdA: scusate, scusate 
Ho fatto una variazione. Malia si riferisce a Moros dicendo spesso moccioso. Così nell'ultima frase Moros per forza deve usare quello! 

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Capitolo 31
*** Due giorni o poco meno... ***


Due giorni o poco meno…

 
“E così hai aiutato Ludovico!” esordì Braccioforte arrivandogli accanto, la sua voce aveva un timbro orgoglioso, come se Moros avesse fatto la migliore delle scelte possibili.
Personalmente non lo credeva. “Una scelta stupida, vorrai dire?” piegò il labbro superiore in una smorfia di delusione. “Accidenti!” sfogò la propria rabbia con il primo sasso a portata della punta del suo stivale destro, facendolo volare lontano. Malia intanto aveva preso a strofinarsi le braccia per ristorarle dal freddo che iniziava a farsi sentire; via via che i raggi del sole, sempre più obliqui, venivano schermati dagli alberi della foresta non riuscivano a penetrare nel suo fogliame.
Braccioforte calcò nuovamente la pesante mano sulla spalla di Moros “Torniamo alla locanda di Malia, ti va’?” annunciò, suggerendo non ci fosse null’altro da poter fare a breve.
“Ahh, voi due!” sembrò dare in escandescenza Malia, tutt’altro favorevole a quell’avviso.
Le avrebbero portato guai, rifletté Moros, mentre Braccioforte cercava di rassicurarla, alzando il palmo delle mani in segno di tregua.
“Devo spiegarvi proprio tutto?” si lasciò andare nervata la donna: la bocca mezza storta e le braccia cadenti, con la voce che assunse un tono gracchiante. Infine ribadì il suo cavallo di battaglia “Certi lavori non si possono commissionare. Vanno affrontati da soli!”.
Moros l’assecondò “Troverò un altro modo per entrare.” ma il suo viso deluso non poteva di certo sprizzare l’ottimismo che, al momento, non aveva.
Malia si diede una pacca sulla fronte con il palmo della mano destra “Ed io allora a cosa servo?”. In tutta onestà li lasciò imbarazzati più che curiosi, perché allargato il  mantello con le braccia aveva favorito involontariamente il seno sodo e prorompente, che loro non poterono non fissare.
Moros e Braccioforte restarono muti, cercando entrambi di controllare il genuino impulso a cui quella vista procace li aveva sottoposti.
Lei lì guardò con gli occhi sgranati, stringente di incitarli ad una conferma che non le davano.
Braccioforte picchiettò con il gomito al braccio di Moros: era lui a dover parlare! O almeno, a trovare il coraggio di farlo. Moros inghiottendo la saliva che gli si era fermata in gola si fece coraggio, ma l’unica cosa che gli uscì fu’ un deludente “Sarebbe?”, la mano alle tempie confuso, spostandosi il ciuffo di capelli scuri che prese a massaggiarsi nervosamente, quasi spalmandolo sulla fronte.
“Sei senza speranza…” lo apostrofò Malia dondolando il capo, come rimproverasse un garzone di bottega troppo zuccone.
Prima che lo punzecchiasse ulteriormente, Braccioforte intervenne come un diversivo, prendendo le redini del discorso “Invece di intralciarci, non potresti darci un suggerimento sul piano di Ludovico?”, brontolò.
La risposta pronta di Malia non tradì l’opinione che Moros si era fatto di lei “E chi vi dice che sarebbe la verità?” imbrogliò l’enigma, lisciando il petto di Braccioforte con il dito indice.
Era lei a condurre il gioco. “Comunque inizia a fare freddino…” appuntò massaggiandosi ancora le braccia e, accollandosi il mantello addosso “Ritorniamo alla locanda!” annunciò spiccia, pronta a non tergiversare ed intraprendere la solita camminata decisa.
“Aspetta!” la rincorse Moros, calcandole addosso il mantello di cui si era velocemente privato, lasciandola per la prima volta immobile e muta, come una statua.
Le mani di Malia si portarono timide all’indumento.
La vide accarezzarne e saggiarne la morbidezza con i polpastrelli delle dita. Piano se lo sistemò addosso, per poi quasi nascondervisi dentro con la passione con cui probabilmente abbracciava un uomo; quasi sollevandosi sulle punte mentre alzava leggermente le spalle in un moto di godimento estremo.
La vide assaporarne il calore, “Com’è caldo.”: la voce quasi d’una bambina non avvezza ai regali e proprio per quello così manifestamente grata.
Malia inclinò il collo per lisciare la guancia sul tessuto, annusandolo “Sa di te.” lo imbarazzò, facendolo arrossire.
“Morbidoooo.” sussurrò estasiata: gli occhi semichiusi come si trovasse su una soffice nuvola.
“Puoi tenerlo, se ti piace così tanto!” sorrise Moros, pago di vederla così felice, rovistando nella sacca da viaggio per tirarne fuori il secondo più logoro, che agganciò veloce al collo a sua volta.
Malia ristette alla proposta e gli calò gli occhi addosso, quasi in attesa. “Questo è nuovo…” ammise con voce diffidente. La sua voce meditava su di un inganno e il suo volto aveva riassunto un’aria pericolosa.
“E questo è un regalo!” la rimproverò lui scherzoso, dando aria al mantello con una scrollata di spalle. Gli calzava perfetto, come se gli fosse stato cucito addosso e, lungo dal collo lo accarezzava fino alle caviglie.
“Ancora quel mantello tarmato!” si allontanò lei, memore del loro primo incontro, ma sembrò convincersi della sua liberalità.“Scommetto che è un regalino del tuo Nicandro, per quello non te ne separi?” lo sbeffeggiò seccata, col dito indice inquisitore.
“No!” rispose lui prontamente “Ma ci sono affezionato!” le fece l’occhiolino per accattivarsela.
Malia arricciò il naso e il labbro superiore “Non fare lo sbarazzino, moccioso-taglialegna!” lo apostrofò con occhi impertinenti.
“Volete perdere altro tempo o rincasare? Fra poco sarà buio!” li interruppe Braccioforte circospetto. La foresta di notte non era sicura e incamminarsi al buio imprudente.
“Hai ragione!” confermò Moros, facendo l’atto di seguirlo nella direzione da cui erano venuti .
“Ragione un corno!” li frenò Malia con voce decisa. “Se vuoi entrare alla Rocca non hai tempo da perdere!”.
Moros si fermò su due piedi, in attesa.
“Da qui a meno di due giorni, i contadini entreranno al castello.” ammise. “Sono schierati dalla parte di Ludovico e avranno parte nel suo disegno.” disse con voce fredda.
“Come?” fu spontaneo nell’interrogarla; incalzato da Braccioforte che ipotizzò“Centra un veleno?”.
Malia pose le mani avanti “Ho detto che vi farò entrare. Il resto è affar mio!” precisò. Non avrebbe tradito Ludovico.
“E quindi?” fu più cauto Moros. Una domanda gli uscì spontanea “Come?” inclinò il bel volto di lato.
“Credo sarà facile…” ipotizzò sospesa Malia sorprendendoli, prima di ammettere “Ma prima devo verificare una cosa…” , la voce più bassa di un tono.
“Facile?” richiesero in coro lui e Braccioforte in attesa: il volto dubbioso e corrucciato, stentati di crederle.
Malia si umettò il labbro superiore con la lingua che si volse all’insù, valutando le parole da usare, mentre la tensione irrigidiva Moros. Anche l’amico guardingo di udire piani troppo folli e  irrealizzabili.
Malia portò un dito sulle labbra, come pensasse, calcolasse, quasi corteggiasse un’idea.
“Se mancano due giorni non ho molto tempo!” azzardò Moros, quasi spazientito dal suo silenzio di protagonismo.
“Ti trasformerò in un uccello!” ammise Malia di botto, sprizzando allegria dagli occhi, mentre apriva di colpo la mano sinistra che aveva stretta a pugno e con la destra faceva un rapido cerchio col dito indice, nella direzione del giovane.
La spontaneità con cui fece quel movimento, fece balzare istintivamente Moros di qualche passo indietro, nel tentativo di evitare chissà quale maleficio. Inciampò al grido quasi isterico di “Non so’ volare!”; finendo rovinosamente addosso a Braccioforte che lo trattenne in piedi davanti a lui, quasi lo volesse piantare a terra.
La risata screanzata di Malia lo riportò alla realtà come il rimprovero di Braccioforte che le suggeriva “Non prenderlo in giro, sciagurata!”.
Malia si batté le mani sulle ginocchia, piegandosi sulla pancia “Scusami, ma era troppo divertente!”.
Moros indignato si rimise diritto “Come divertente?”.
Malia, dalla risposta sempre pronta, ridimensionò “Non ti ho forse detto che dovevo verificare una cosa?”.
Il suo coraggio, probabilmente. Malia sorrideva quanto lui era rimasto stupito e in fondo al cuore amareggiato non avesse tutti i torti per prenderlo in giro.
“Non fare quella faccina triste.” continuò lei “Tu vuoi incontrare Nicandro fra due giorni! Quindi scusami, ma ti ci vorrebbero settimane per imparare!” come se avesse potuto veramente riuscire in quel bizzarro incantesimo.
Si voltò civettuola “E poi ti preferisco bellino, come sei!” gli strizzò l’occhio. Agitò le mani mimando“Con le alette, il becco e tutto il resto…” scherzò.
“Grazie del pensiero, allora!” rispose comico pure lui, dondolando il capo.
Malia, siamo al punto di partenza! rifletté snervato, ma questa volta la donna concluse il suo gioco.
“Per entrare in un labirinto basta conoscere la strada giusta.” scherzò definitiva “E si dà il caso che io la conosco!” parve cercare di tranquillizzarlo. Negli occhi di Moros lo sbigottimento fosse rimasta viva per raccontarlo.
“ Frequentavo Iorio Chiarofosco… perciò conosco il passaggio per la sua stanza.” sorrise pepata ai dubbi di Moros, sul rischio che aveva corso nel partecipare a quel segreto.
“Per me fece un’eccezione.” sorrise lei “E anche il suo pargolo!” concluse rivolgendogli una boccaccia con la lingua in fuori; il più recente attaccamento al principe forse il motivo più valido fosse ancora con i piedi sopra la terra.
“Mi sarei stupido del contrario!”  si comportò altrettanto monello lui, come davanti ad una sorella maggiore che l’aveva tenuto in scacco fino a quel momento.
Pure lei si dimostrò indulgente… “Sei stato in gamba, a spalleggiare il principe.” si congratulò lei per azzardare “Sappi che Ludovico non è lo spocchioso che sembra!”.
Moros sembrò incerto di confermarlo.
“Ha conti in sospeso con i Montetardo. Tuo cugino non sarà in pericolo… Non ha tempo di badare a servi, paggi o prigionieri di merito.” spiegò pratica. “Tolti di mezzo i Montetardo, vedrai che ritroverai Nicandro!” confermò.
Oddioooo, non ci aveva minimamente pensato. Agitò la testa a destra e sinistra. Il viso vuoto e perduto, meritandosi il volto interrogativo di Malia.
“Non ho mai nominato con Ludovico il nome Nicandro.” si colpevolizzò, sostenuto dall’indagine di Malia “E con questo?”.
“E’ un Montetardo!” rivelò a denti stretti “Mio cugino ne porta il nome.” rivelò confuso, conscio che la cosa fosse complicata.
“Come… un Montetardo?” lo rimproverò Malia.  A che gioco state giocando?
Indignata e furiosa di una verità che decisamente non si aspettava quasi balbettò incredula “Lui? Tu?” prima di dominarsi “Hai da spiegarmi parecchie cose, moccioso e vedi di non tralasciare nulla questa volta!”.
 

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Capitolo 32
*** Un pericolo? Di che tipo? ***


Un pericolo? Di che tipo?

 
Insomma, decidetevi a parlare!
Nicandro supino sul letto, tamburellava ritmicamente le gambe, che sporgevano dal ginocchio alle caviglie dalla sponda del letto; gli occhi che sembravano ispezionare il soffitto a cassettoni.
Su consiglio di Gregorio, aveva cercato di dormire per lenire il proprio nervosismo, all’idea che il popolo venisse punito se scoperto fedele al Chiarofosco; ma non gli era granché riuscito. Non di certo per la presenza nella sua stanza di Gherardo e Ubaldo, pronti a proteggerlo, seguendo scrupolosi le istruzioni di Lavinia, che si intrattenevano rumorosi nel gioco dei dati per ammazzare la noia di quel pomeriggio apatico, in cui sembrava proprio non potesse succedere nulla. Anzi, fin da quando ne aveva memoria era il silenzio a renderlo inquieto o meglio l’attimo che precede l’estrema concentrazione, prima di udire una voce che poteva essere malvagia.
Scacciò di colpo dalla testa quel pensiero, dando una scrollata al capo, mentre qualche cinerea ciocca gli sfiorava il viso.
“Non siate nervoso.” lo consigliò Mavio in piedi a lato delle cupe e strette finestre che contraddistinguevano la dimora che era stata di Ludovico, di cui probabilmente quella era stata la stanza privata; i compagni seduti in terra accanto alla porta; lo sguardo fisso alla ciotola piana che circoscriveva l’area del loro gioco.
“Non lo sono.” sospirò prima di chiarire “Pensavo a Ludovico…”.
Già Ludovico! Nicandro non l’aveva mai visto di persona ma tutto in quella stanza parlava di lui. Ne aveva percepito l’essenza stessa nell’aria, vedendone l’immagine quasi aleggiare come uno spirito che ripercorreva passati passi: piccole e frenetiche corse di un piccolino sorridente e birbantello con un cespuglio di biondi ricci che trotterellava e saltellava. Poi di un giovane, cresciuto di sguardo e fattezze quasi in un battito di ciglia, cambiato in vanesio mentre si aggiustava il militare farsetto a maglia quasi incollerito di poter non apparire perfetto; consapevole di colui che era e, sarebbe stato: un principe, un re! Infine l’ardore e l’irremovibilità di un soldato restio a capitolare, nonostante i crudi moniti di fedeli amici che gli ricordavano fosse in gioco la vita, non solo la dimora di famiglia. Svelto! Andiamo! Rocca Lisia è perduta per ora! e poi Non lo sarà, se tu resterai in vita! Risentiva quei moniti nelle orecchie, come fossero gridati in quel momento.
Che l’ammirasse? Di certo Nicandro ammirava quell’ardore, lo stesso che animava l’alterigia di Lavinia quando non ammetteva sconfitta, ferendo l’ego di Moros che di una aggressività puntigliosa battagliava contro di lei, a dispetto di nome e origini.
Sospirò. Un sospiro lungo come il passare di pochi anni che sembravano ere ai suoi occhi… talmente li sentiva lontani e quasi ne disprezzava l’evoluzione.
“Non credo proprio Nicandro voglia ritornare dalla tua Matilda!” ammetteva categorica Lavinia. Arrogante come una regina; altera come l’alba che ferisce gli occhi; ineluttabile come un temporale che smuove le nubi nel cielo.
“Lascialo decidere a lui se ritornare o meno con me!” controbilanciava con sicurezza Moros. Quel con me che sembrava voler soverchiare la presunzione di Lavinia, tirandolo per la tunica di lino; di una fattezza a cui troppo presto, personalmente, aveva fatto l’abitudine. Al contempo Lavinia rimproverava impertinente, tirandolo dalla parte opposta “Ne abbiamo già discusso e Nicandro è d’accordo!”: una verità inoppugnabile in un tono della voce deciso, a cui non aveva avuto il coraggio di controbattere.  La voce indigesta di Moros “E’ uno scherzo?”.
A dispetto di ciò che Moros aveva continuato ostinatamente a credere, quando la loro partenza era ormai programmata, quella era la verità!
Perché sì! Era stato d’accordo con Lavinia: sarebbe partito.
Del resto, aveva scelto i Montetardo. A quel tempo c’era Guglielmo e quella presenza era stata determinate per lui e per la sua decisione.
Ora, semplicemente vi doveva tener fede, per orgoglio, per lealtà; del resto si sarebbe sentito meschino, nonostante Moros.
Tornando a Ludovico, non sembrava il tipo da arrendersi… se quelle erano le passioni che avevano da sempre contraddistinto il suo cuore, il rispetto delle proprie origini, Ludovico non avrebbe conosciuto la parola rinuncia.
Perciò sì! Lo ammirava. Ammirava ciò che lo circondava e, parlava di lui, sentendo l’affetto che il principe aveva nutrito per quelle mura, per quei corridoi, per i propri sudditi…
Si alzò di slancio a sedere sul letto, scacciando Ludovico dalla propria testa, confuso di provare interesse per un nemico, quasi parteggiasse per lui.
Devo chiederglielo! Sì, certo, ormai è naturale succeda.. O forse no? Nicandro sorrise quando nella sua mente si sostituì l’imbarazzante garbo di Mavio che riascoltava cerebralmente il timbro della risata dell’amata Lucilla di cui era prossimo di chiedere la mano. Preferirei una lancia in pancia!  sproloquiò mentalmente Gherardo per la verruca che gli doleva, mentre al contempo dava voce alla sua insofferenza per una partita ai dadi che non gli dava soddisfazione; cercò di ignorarlo. Incarcò un sopraciglio.
Sembravano tutti tentare di eludere un pensiero che lui aveva intuito prendere il sopravvento su quello di tutti e tre.
Decidetevi!
Si lasciò cullare un attimo dall’affetto che l’animo di Ubaldo rivolgeva a Golia, a riposo nella stalla; privato poco prima di una dannosa zecca che lo aveva reso per giorni irrequieto senza che Ubaldo se ne accorgesse e per cui ora si rimproverava la poca attenzione. Che razza di padrone sono!
Perché non avete il coraggio di chiedermelo?
“Cinque e cinque!” proferì sicuro, nello stesso istante in cui i dadi lanciati da Ubaldo si fermavano e il soldato si lasciava ad esultare con le mani aperte a palmo in direzione del segno “Dieci contro sette! Ho vinto io!”.
Nicandro strinse gli occhi, quasi ferito da quel timbrò improvviso, mentre Ubaldo e Gherardo si giravano non più di tanto increduli verso di lui e Mavio ammetteva “Perdonate le grida di Ubaldo.”; distogliendo lo sguardo da uno spiraglio della finestra che gli permetteva di sbirciare l’esterno e ascoltare i suoni che avrebbero potuto anticipare guai, che i vetri scuri, a fondo di bottiglia, altrimenti avrebbero celato.
Nicandro alzò la fossetta di sinistra, abbozzando un sorriso indulgente, mentre Ubaldo riprendeva i due dadi veloce, stringendoli nel pugno, quasi la fortuna potesse abbandonarlo se non la ripigliasse in fretta per i capelli “Ancora un lancio!”.
Ubaldo gli strizzò l’occhio, sentendosi vincente, incitandolo “Indovina!”.
“Lancia!” confermò con un cenno di assenso del capo, prima di abbassare le palpebre e stringere il pungo sinistro di fronte al viso.
“Otto!” confermò a voce alta, come fosse cosa certa.
“Sei!” riaprì gli occhi nello stesso momento in cui, dopo una veloce piroetta, i dadi lanciati a seguire da Gherardo rimanevano inermi sulla ciotola. “Otto contro sei!” festeggiò Ubaldo che si alzava in piedi di slancio “Ero certo che avresti indovinato!”.
“Non so’ come tu ci riesca!” rise Ubaldo vittorioso. Lo raggiunse per scomporgli i capelli con un buffetto e, indifferente al viso cupo di Mavio si lanciò bocconi sul letto.
“Non ho indovinato!” appuntò Nicandro, fissando il viso spigoloso del biondo soldato, fattosi quasi più tagliente nella magrezza che lo contraddistingueva.
“Lo sapevi come fosse già successo…” ammise in risposta Ubaldo,  prima di esporsi teso in viso “Lo saranno anche i soldati, hai detto.” sbottò di colpo, senza giri di parole.
I compagni preoccupati della risposta, mentre Ubaldo incalzava “Siamo in pericolo?”.
“Lo siamo sempre!” rimproverò veloce Mavio, nel loro ruolo di soldati, era una circostanza prevedibile.
Non era costretto a parlare… ma annuì concedendo la risposta che Ubaldo chiedeva. “Ho percepito un pericolo per voi…” parlò altrettanto diretto guardando il soldato.
Ubaldo sedette, facendoglisi vicino col viso “Un pericolo? Di che tipo? C’entra con il vino?”.
Silenzio.
“E’ stato…” si schiarì la voce Ubaldo “Hai detto così… quando il nostro signore Gregorio l’ha rovesciato…” cercò di chiarire i suoi timori. “Potrebbe essere un veleno che dobbiamo evitare?”.
Troppe domande. Troppe…
“Non è così semplice.” si portò le mani a coprire il viso mortificato. Perse ogni sicurezza. La voce mesta “Seguire quella pista potrebbe precluderne un’altra…” spiegò la propria responsabilità nell’esprimere ipotesi avventate.
“Succede sempre così…” si chiuse a riccio, in un gesto di disperazione. “Credo siate in pericolo ma non posso evitarlo…” si rimproverò, il viso nascosto sulle ginocchia. Ubaldo lo stupì alzandosi, minimizzando “Saremo guardinghi.”.
“Riuscirai ad avvertirci in tempo!” assicurò Mavio.
Che ne fosse certo?
Era troppo sconvolto per capirlo.

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Capitolo 33
*** Con te o senza di te! ***


Capitolo 33   Con te o senza di te!”





“E questo è tutto!” ammise Moros dando una scrollata di spalle; continuando spedito la marcia a cui Malia li stava obbligando. Gli era sembrato avessero ripercorso all’indietro la strada che li aveva condotti là dalla locanda, ma ad un certo punto avevano svoltato seguendo un sentiero adorno di fragoline selvatiche e more.
Braccioforte muto, quanto la donna, nell’ascoltarlo durante tutto il racconto sui fatti salienti della vita sua e di Nicandro fino alla loro separazione; entrambi concordi nell’evitare di interromperlo perché non perdesse il filo dei propri pensieri. Cosa che aveva apprezzato.
Malia non accennò a fermarsi, anzi accelerò il passo, tuttavia non si lasciò scappare l’opportunità di prendere finalmente la parola, quasi potesse dare sfogo alle proprie domande. “Nicandro è stato portato a Matilda da una vicina…” sembrò indagare arricciando il naso “Ed è così che vi siete conosciuti…” ricordò con il tono di chi esprime un dubbio. Strappato un lungo stelo di erba menta lo usò come un frustino davanti a sé disinvolta.
“E’ una domanda?” ridacchiò spavaldo, come se trovasse divertente che Malia riportasse, di tutto il racconto, il solo antefatto.
“No,no, affatto.” ridimensionò Malia, quasi provasse a scusarsi. “Dicevo così per dire.”: restò in silenzio, come se dovesse aggiungere qualcosa.
Infatti, precedendo le domande di Moros, si sbilanciò “Lasciami dire sia curioso. Una donna che si mette in viaggio per un bambino…”.
“In effetti… “ rifletté Moros che non ci aveva mai troppo riflettuto.
Malia dondolò la testa, facendogli finire quasi in faccia i capelli che gli lasciarono sul viso il profumo di menta che avevano catturato dall’aria.
Moros si massaggiò il viso, solleticato “Curioso che sia stato portato a Matilda!” ammise divertito. Si portò una mano a spostarsi il ciuffo della fronte; gli occhi blu acciaio rischiarati dallo spasso che per qualcuno suo madre fosse donna altruista e responsabile. “Quella donna non si ricorda nemmeno il nome e numero delle proprie sorelle.”; rincarò la dose “E questo da sobria!”.
“Mi stupisco, pure, abbia accettato.” sbottò Malia perplessa di fronte al suo divertimento.
“Berenice che aprì a quella vicina, ci raccontò che quella donna consegnò qualche soldo per incentivarla!” spiegò ricordando la sorellastra: madre certa, padre meno.
“Ecco che fine fanno i legami di sangue!” disprezzò Braccioforte limpidamente, mentre seguiva Moros alle spalle.
“Era figlio di Francesca!” disse Moros monello, per poi scoppiare a ridere “O di Chiara… o Sara.” Si spiegò meglio “Era così sbronza quella sera che non si ricordava nemmeno di quale sorella fosse!”; poi colto da genuino e incondizionato affetto per colei che l’aveva pur sempre generato “Non è cattiva… ma sono certo che se quei due saputelli, di Fernando e Bernando, non ci avessero ripetuto fino allo sfinimento il nome Nicandro, non ne avremmo saputo neppure il nome.”.
“Ed io che pensavo di essere la sola ad avere un passato fuori dalle righe….” ammise Malia stupefatta, giratasi indietro con le sopracciglia aggrottate che sembravano quasi toccarsi. Moros stirò le labbra all’esterno, i denti in evidenza, in un sorriso d’imbarazzo.
“Quel che importa è che sono stato felice.” ammise Moros soddisfatto di quei tempi. Sapeva che il suo volto aveva preso l’intensa luce che avvolge i bei ricordi.
“Mi fai venire il volta stomaco.” si toccò la pancia Malia, come presa da un malessere, tanto le sembravano in odio le storie sdolcinate.
Le ricordava tanto una vecchia strega. Una gran bella strega, rifletté.
Lei dondolò il capo, sulle labbra ancora il disgusto per l’indigestione di zucchero a cui l’aveva obbligata, prima di valutare “E’ cresciuto con te… fino alla freccia di quella là!” appuntò riferita a Lavinia, che di certo non rientrava tra le sue simpatie.
“Appunto quella là!” scherzò Moros, alzando una fossetta che sembrò accattivarsi lo sguardo di Malia.
“Ed è finito dritto dritto in un castello.” ammise con voce invidiosa Malia, con lo stesso tono maldisposto con cui avrebbe obiettato al fato Ma perché non è capitato a me? ; la voce di Braccioforte appuntò, superandoli entrambi per avere la loro completa attenzione, “Ed ora il nostro Moros lo vuole prelevare da lì e..” fece il gesto di chiudere le quattro dita all’ingiù, una con l’altra, tutte unite al pollice, per poi far salire l’avambraccio, come dovesse trarre qualcosa da un sacchetto o da un recipiente per farlo uscire.
“Ma non ho capito perché?” sentenziò Malia facendosi spazio attorno con le braccia, ipotizzando “Sentiamo… Perché Gregorio ne sfrutta i poteri?”.
Poteva essere una scusante, ma che detta da Malia sembrò non avere la forza necessaria a giustificare una simile impresa. “Conviene pure a lui stare là!” obiettò Malia con le braccia ai fianchi, come se fosse la cosa più normale della terra “Vuoi mettere fare il nobile!”.
“Mi sembra di aver capito che è nobile!” puntualizzò Braccioforte, meritandosi il grugno che Malia gli rivolse. Fare, essere ma che differenza vuoi che faccia? sembrò esprimere con sguardo irritato lei; gli occhi fissi.
“Ma se io ti dicessi che mi devi aiutare per forza, tu mi aiuteresti?” l’affrontò Moros.
“Certo che no!” fece una smorfia lei, dondolando il viso a destra e sinistra, rendendo il naso ancora più storto.
“Ecco! Vedi! Ho ragione io!” proclamò vittorioso Moros, prima che lei gli picchiettasse con uno schiocco di dita la fronte “Ragione, un cavolo!”.
Moros rimase serio, quasi infuriato, i lineamenti del volto teso, più come un bambino cocciuto che come un adulto indispettito da un commento realistico.
“Figurarsi se vuole tornare con te in quella topaia che chiamavi casa…” puntualizzò Malia “Ma ci hai pensato almeno una volta?”. Era come dicesse Io non lo farei di certo! Puntualizzando un egocentrico Io.
Era No la risposta che gli si dipinse in viso. Ed era come se fino a quel momento, Moros, lanciandosi a capofitto sull’idea di riportare Nicandro con sé, avesse trascurato il resto: l’ovvio.
“Dalle stelle è difficile tornare alle stalle.” specificò Malia con una linguaccia.
“Con me…” mise in chiaro “in quella stalla non gli è mancato nulla!”.
“Mi sono sempre preso cura di lui. Gli ho insegnato a parlare, a non temere il fuoco… Bhe veramente lo teme ancora.” divagò sviolinando i propri meriti.
Ora lei gli era col viso addosso e col seno premeva sul suo torace “Ma non hai una vita tua?” lo destabilizzò, facendogli quasi perdere l’equilibrio.
“Se me lo dici così?” fu la sciocca risposta che gli uscì spontanea dalle labbra, disorientato dal calore che gli provocò quel seno nello spirito e, non solo in quello.
“Non c’è margine di trattativa!” mise in chiaro Malia, sbeffeggiandolo nuovamente come fosse solo un ragazzetto.
“Dai che ti piaccio!” cercò di intenerirla. Inclinò il capo spiritoso e lei gli sventolò la mano per allontanarlo, in un gesto bonario, sbuffando.
“Io ci tengo a mio cugino!” chiarì appuntandosi il petto. “E siccome non ci credo voglia spontaneamente aiutare Gregorio” vociò ponendo l’accento sulla parola aiutare “Voglio che sia lui a dirmelo a quattrocchi!”.
“Sei senza speranza…” sbuffò nuovamente Malia, prima che quasi la rincorresse per arrivare primo al traguardo dell’avere ragione “E poi c’è la storia di Ludovico…” si giustificò.
“Qui Ludovico non centra nulla!” lo stupì lei, marciando e, mantenne il silenzio.
Lui insistette. La solita argomentazione Nicandro fosse in pericolo, a cui lei non badò minimamente fino a raggiungere un grosso cumolo d’aghi, di cui si erano appropriate le formiche. “Passiamogli sopra! O accanto! Vedete voi, ma veloci!” insisté.
Gli passarono accanto, sbucando lungo una strada: a ridosso della rocca.
Lo stupore gli si dipinse in viso, lasciandolo attonito “Ma come? Siamo già arrivati?”.
“Rocca Lisia…” alitò Braccioforte, preda di un affetto che solo casa sapeva infondere: gli occhi che cedevano alla commozione che li rendeva vitrei.
Malia scrollò le spalle “Sì!”.  Moros ancora con la bocca aperta, fissava quella struttura circolare che lo soverchiava. Un muro troppo alto da scalare. Un posto che sentiva opprimente. Solo ora se ne rendeva conto. Non era la facile impresa a cui aveva creduto.
“E’ tutta tua!” annunciò Malia, concedendo la mano in direzione della fortezza, ironica e cinica.
Moros indietreggiò “E il passaggio?”. Quel è tutta tua! cosa significava? Quasi si arpionò all’amico, come se le gambe non lo reggessero più.
“Ludovico è stata la scintilla che ti ha messo in cammino.” si sentì rimproverare da Malia “Ma il motivo è che ti sentivi vuoto.”.
Vuoto: una parola; che gli provocò un brivido nell’animo.
Malia senza freni sviolinò “Ti mancava Nicandro, ma è Lavinia che ti ha scagliato la freccia che ti trafigge!”. Lo guardò dritto negli occhi: fredda e crudele.
“Perciò ti chiedo vuoi ancora salvare Nicandro? O vuoi salvare te stesso dalla paura di restare da solo?”. Ecco! L’aveva spiazzato.
Moros cercò con il viso, quello di Braccioforte. L’amico restava muto ma i suoi lineamenti sembravano incitarlo a dare una risposta soddisfacente e soprattutto autentica.
“Baltasar avrebbe riso di te!” concluse Malia con arroganza: nella sua voce l’amarezza di un confronto incolmabile tra i due uomini. Uno sicuro, l’altro fragile. Uno cinico, l’altro un cuore immaturo.
Come puoi parlarmi così? Chi ti autorizza?  Mise in chiaro “Voglio vederlo felice!”.
“E contento?”  ironizzò lei “Come nelle fiabe?”.
Moros si raddrizzò. “Sì, certo!” appuntò severo, per poi cedere ad una smorfia, ripetendo a pappagallo “Come nelle fiabe!”.
“Con te o senza di te!” trovò la forza di dire. La sua voce uscì fiera. Le parole ben scandite.
Forse, ora, il tuo Baltasar non riderà così tanto!
Finalmente l’aveva impressionata. La determinazione che si era impadronita di lui, aveva infine fatto tacere Malia, che lo fissava.
“Se la metti su questo punto… allora… Con me!” annunciò Malia prendendolo alla sprovvista sottobraccio, quanto fece con Braccioforte come se dovesse essere scortata da entrambi.
“E dovrei preferire Lavinia?” gli sfuggì di dire.
“Cane e gatto andrebbero più d’accordo di noi!” lo rimproverò lei.





NdA: Grazie a tutti quelli che leggono.
Sappiate che il vostro parere per me è importantissimo ^_^ 
Ringrazio di CUORE tutti quelli che recensiscono, in particolar modo Francyzago77 e Vento di Luce.
Faccio a tutti i miei migliori auguri di Buon Natale.

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Capitolo 34
*** Entrare ***


 Entrare

 
In arrivo dei contadini; avanguardia di quelli che sarebbero giunti in quei giorni alla Rocca. Il passo breve e stanco al loro comparire in lontananza.
Mano a mano che si avvicinavano, quelli riconosciuti vestiti, si riappropriavano del loro valore di stracci, pezza su pezza.
Un brusio allegro li accompagnava: canzoni fischiettate, cantilene delle donne che cullavano tra le braccia bambinelli, che solo ora si delineavano; i cui gorgheggi arrivavano finalmente alle orecchie.
Qualche carro giungeva ad affiancare quei rurali viandanti; altri li seguivano carichi di sacchi di grano e barili di vino dolce.
Moros, Braccioforte e Malia restarono muti nel guardarli arrivare, muti quando i primi iniziarono a passare oltre salutandoli per buona creanza.
Malia suggerì a voce bassa “Ci confonderemo con loro. Abbiate solo un po’ di pazienza.”: scrutò il gruppo, si alzò sulle punte per meglio guardare in lontananza; si portò le mani alla fronte e strinse gli occhi.
Moros la frenò, bloccandole l’avambraccio “Che ne è del passaggio?”.
Lei lo fulminò con quelle due nere tormaline “Mi devi promettere…” mise in chiaro “Che ti fiderai di me!”. Il suo sguardo era acido e poco propenso a sentire le sue ragioni.
“Si.” confermò lui incerto, stupito da tanta determinazione ma dubbioso di quello che sembrava un piano avventato quanto quelli immaginati da lui.
Solo una breve risposta a chetarlo.“Tu sta’ a vedere!”: Malia gli fece l’occhiolino.
Per quasi un’ora la vide ondeggiare sul posto, aguzzando lo sguardo. Le ombre sembravano avanzare, i contadini scemare, qualche carro ritardatario sbeffeggiato dalle parole di quella incomprensibile donna “Non sarà mica l’ultimo come al solito?”  e, parve spazientita.
 Poi finalmente…
“Adelberto!” salutò vivace con la mano lei.“E’ il mugnaio.” precisò rassettandosi mantello e poi sotto il vestito, fin nella scollatura.
Attesero il carro si avvicinasse e che l’uomo la riconoscesse. “Malia, che piacere!” disse allegro quello, tirando subito un’insolenza che sembrava far parte del suo gergo abituale, fermando il carro dinamico.
Nel tempo che lo fece sentirono valutare “Ciao Strega!” : il timbro allegro di una vocina di bambina.
“Oh, la Gnoma!” esclamò Malia, mentre una bambina lentigginosa appariva da dietro al carro e la raggiungeva allegra di corsa.
“Quante volte ti ho detto che non mi devi chiamare così!” la rimproverò Malia offesa, ammonendola col dito, quando se la ritrovò davanti. Lei sembrò non farci caso, anzi rise ancora di più, incavando il collo tra le spalle divertita.
“Ma io ti conosco!” intervenne Moros riconoscendo la fantesca della locanda. Dalla risposta pronta, anche lei confermò “E tu, sei Uomo Misterioso!” fece guardinga ma ospitale.
Malia, indiscreta, intervenne “E tu che ci fai qui?” sottinteso Non dovresti essere con tuo zio alla locanda?
Adelberto il mugnaio tra una pittoresca e grossa risata e un’insolenza affiancò la bambina, calcandole la mano sulla spalla, precisando viaggiassero assieme.
Ed ecco il riporto di un racconto che aveva un sapore di fiaba, pensò Moros.
“Vado da zio Bertoldo… E’ malato. Gli porto un unguento per l’artrite.” disse la piccola cercando di rispondere concisa, rovistando nelle tasche e traendone una piccola zucca secca, usata da contenitore.
Il viso di Moros manifestò quanto la giudicasse positivamente: abbassò e rialzò lievemente il capo, quasi approvasse un  Che brava bambina!  inviperendo Malia che riprese tutti e due: “Questa smania di mandare delle bambine in giro da sole per aiutare qualcuno che sta’ male!” rimproverò, facendo ridere la piccola a crepapelle mentre rispondeva “Ho seguito la strada maestra…”, veloce ad argomentare “Ed ero con zio Adelberto; inorgogliendo il mugnaio, rivestendolo da eroe. La bambina alzò la guancia sinistra in un sorriso.
Malia sbuffò, dando il tempo alle presentazioni. “Belinda!”si presentò la fantesca.
“Moros.” fece la propria presentazione, per vedersi completamente ignorato. “Uomo misterioso!” ripeté la piccola, decidendo fosse quello il nome che gli si addiceva.
“Allora che ti serve?”  bandì i convenevoli Adelberto, che imbeccò Malia di spicciarsi: divagando ormai erano rimasti solo loro in strada.
“Un passaggio.” sviolinò lei “Per due!” precisò.
A Braccioforte e Moros i conti non tornarono più in quel momento. Avrebbero dovuto separarsi? Si scambiarono un’occhiata perplessa.
Attento ai risvolti e forse ipotizzando il piano di Malia, Moros si sentì tirare per il mantello. “Tu e Malia state insieme?” sentì chiedere. Chinò il capo in direzione della bambina, un po’ confuso per quella domanda indiscreta“Come scusa?”.
“Vi amateeee?” sviolinò la bambina interessata, facendolo arrossire istantaneamente in viso.
Cercò di ignorare le insistenze di Belinda che gli tendeva il mantello, continuando a interrogarlo “Io sono la sua assistente! Puoi essere sincero.” si pavoneggiò; poi usando la carta di allungare il mento, facendogli il muso lungo, alleggerendo la tensione di Braccioforte che sorrise “Allora state assieme?”.
Assistente? Squilibrata come Malia, vorrai dire! rifletté Moros, più interessato ai commenti di Adelberto che al tirare di Belinda, che in quanto a tenacia doveva essere cocciuta come la sua maestra.
“Belinda, zitta! Basta dare aria a quella boccuccia ficcanaso.” la riprese Malia che la invitò “Ritorna a salire sul carro. Fai strada a Braccioforte!”.
“E io?” istintivamente intervenne Moros: di sicuro fuori dal conteggio preannunciato al mugnaio.
Malia lo incitò a seguirla dietro al carro, dove barili di grano occupavano tutto lo spazio disponibile. Malia scoperchiò un barile pieno a metà. “Nasconditi qui dentro!” disse.
Una risposta secca di Moros “Ma se ne accorgeranno! E se controllassero?”. La risposta “Al bando la paura, mio caro taglialegna!”.
Malia restò ad indicare con la mano la botte.
Dopo una pestata di piedi, arrabbiato, Moros cercò di farsi spazio tra il grano, smovendolo per nascondersi. Finendo coperto fino al collo. Lo spazio dal collo al capo, fin ai capelli, all’aria.
“Sono già in trappola!” calcolò indisposto, forse aspettandosi il doppiogioco della donna. “Ti ho detto di fidarti di me!” lo rimproverò seccata, poi aprì e chiuse veloce la mano tre volte, come se stesse per toccare qualcosa di disgustoso. Con le due mani gli tirò il cappuccio del mantello a coprirgli la testa “Non osare di togliertelo!” puntualizzò.
“Ma così faccio fatica a respirare!” protestò, mentre lei ritraeva veloce le mani dalla grezza stoffa. “Ehi! Noooo.” reclamò nel sentirla prendere da terra il coperchio. “Malia, ferma! Non scherzare!” protestò ma ormai Malia aveva chiuso la botte, lasciandolo al buio. Ovattate le proteste di Braccioforte che però tacquero ad una veloce spiegazione che forse bastò.
Si disprezzò di essere stato così stupido, finché un bussare a lato del suo orecchio non lo fece restare in ascolto. La voce di Malia gli arrivò chiara: poche parole che già gli erano state rivolte “Protegge da ogni malanno.”.


NdA: Tanti cari auguri di Buon Natale
Che possiate viverlo in gioia e serenità

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Capitolo 35
*** "Fateli passare!" ***


 

“Fateli passare!”

 
“Non ti secca se mi siedo qui?” disse divertita Belinda, addossandosi alla botte in cui era nascosto Moros.
Fa pure! brontolò lui a mente; del resto poteva dirle di no?
In cosa si era cacciato!
Era sempre stato bravo a giocare a nascondino, ma aveva per la prima volta infranto la regola base: mai restare intrappolato nel proprio nascondiglio! Perciò Ufff sbuffò. Avrebbe voluto incrociare le braccia per esprimere il proprio disagio, ma gli era impedito pure quello.
“Arrivo io e libero tutti!” ricordò i giochi dell’infanzia, quando risollevava le sorti della partita con i fratelli. La mano che si fiondava ad un muro, ad un albero, anticipando la corsa alla tana di chi faceva la conta. Bei tempi!
“Credevo che dopo Baltasar con gli uomini avesse chiuso!” confidò Belinda con voce da cospiratrice, attutita dallo spessore del legno. Moros, se la immaginò mentre gesticolava con le braccia in un gesto categorico. “Ma poi sei comparso tu con lei…” la sentì continuare con voce squillante.
Chi? Io? La bambina iniziò a fare castelli in aria ipotizzando il rapporto che s’era instaurato tra lui e Malia.
Che razza di smorfiosetta, pensò Moros nel sentirla ciarlare di passeggiate e scambi di ghirlande fiorite.
Sta’ un po’ zitta!  s’irritò tra sé dopo la prima mezz’ora di quel bambinesco e fantasioso monologo, a cui tuttavia non osava rimproverare.
Del resto, era venuto alla conclusione che fosse impossibile per la piccola Belinda tenere chiusa quella boccuccia, che nonostante le dimensioni contenute buttava fuori più aria di un mantice in piena attività.
E così Moros conobbe tutta l’infanzia di Belinda, della madre Donna Francesca e dell’oste Augosto compresi quanti ratti quest’ultimo era riuscito a catturare negli anni: di cui la piccola teneva un rendiconto segreto, in una tavola segnapunti. Provò nostalgia nell’ascoltarla: Belinda era padrona del proprio passato. Era come una pianta ancorata  a solide radici, mentre lui… Aveva conosciuto solo Matilda, che per lui, come per i fratelli, aveva stabilito fosse indifferente conoscere o meno chi l’aveva cavalcata, diciamo così, per qualche ora. “Non ci sono figli di signori, qui!” gracchiava Matilda, tanto per non indurre speranze o meglio alimentare pretese di protagonismo e desiderio di riscatto nei figli.
“Ma se tu sei un eroe, allora compirai un’impresa?” lo interrogò la bambina, interrotta di prepotenza dalla critica di Malia, che a differenza di Moros, esternava quanto fosse infastidita da quel continuo petulante chiacchiericcio pettegolo “Ma quale eroe?”.
“Ma cosa sto’ facendo di male?” brontolò Belinda tacendo: la voce imbronciata.
“Vedi di fidarti, moccioso!”concluse Malia, picchiettando sulla botte “O la tua impresa finirà prima di cominciare!”.
“Sono tutto un brivido!” la sfotté spavaldo Moros in risposta, beccandosi un acido “Screanzato di un moccioso!”. Tuttavia sembrò rabbonirla.
Il lato positivo? Ora Belinda taceva!
Le mie orecchie…  ringraziò il cielo Moros, finché dopo un breve periodo di riposo tattico, per arginare il rimprovero, Belinda ricominciò con “Dov’ero rimasta? Ah sì!”. Se la figurò che si teneva il mento con la mano riflessiva. Pensandoci, doveva essere buffissima, ma…
No, basta! Pietà! Moros si calcò ancor più il cappuccio sulla testa, per quello che gli riuscì possibile, imbrogliato com’era dall’abbraccio del grano. Come rimpiangeva la riservatezza di Nicandro. Silenzi che come i suoi erano carichi di domande su di un passato che la loro giovane età aveva privato di ricordi nitidi, che per il cugino aveva un unico nome: Macerino, il villaggio natale di Nicandro.
“Sono certo che vuole qualcosa in cambio…” indagò Belinda, con una vocetta bassa bassa, che suggeriva attenzione.
Che fosse vero? Se la prima regola di nascondino l’aveva elencata prima, la prima per Matilda era non fidarsi di nessuno! O meglio che tutto si fa’ per qualcosa in cambio.
Una brusca frenata fece oscillare lievemente il carro, i suoi ospiti e Moros dentro la botte.
Oddio! Un controllo! Era quello il motivo della sosta.
Il vociare dei soldati. “Ordini di Gregorio Montetardo!” sentì programmare dal duro gergo delle guardie.
Doveva restare calmo! Sapeva che sarebbe giunto quel momento, ma  non aveva immaginato la precisazione che ne seguì“Passiamo a lancia sacchi e botti!”.  Deciso e conciso. Nessuna discussione ammessa.
Preghiere mute gli restarono sulle labbra cucite, mentre i compagni intervenivano a far ragionare i soldati che impassibili iniziarono lesti la loro consegna palesemente infischiandosene.
Era la fine. Non poteva reagire.
Sentì Braccioforte rischiare di venire alle mani con i soldati, salvo l’intervento di Malia che s’era frapposta tra loro. Una scena che si svolgeva veloce alla luce del sole, ma celata ai suoi occhi.
L’urlo di Belinda, gli confermò fosse in una trappola da cui non si sarebbe salvato!
Sentì il fruscio della lancia, il suo abbattersi mentre si conficcava sul legno e ne sfondava il centro del coperchio su di un solo punto, per avanzare nel contenuto. La forza della mano del soldato che si imprimeva in un affondo.
S’impose di non urlare, nonostante l’appuntito metallo s’abbattesse sul cranio a fratturarlo e sugli arti per spaccarli.
Strinse gli occhi, più forte che gli fu possibile.
Ogni malanno.
Rivolse un pensiero per Guglielmo, immaginò l’abbraccio che avrebbe concesso a Nicandro se gli fosse stato possibile incontrarlo, lanciò la sua maledizione a Lavinia e  un insulto a Gregorio, artefice della sua malasorte.
Gli occhi restavano chiusi.
“Bene, potete andare!”  la frase che le sue orecchie ascoltarono forte e chiaro, lo ridestò da paura, impotenza, terrore.
Non riusciva a capire…
Un passaggio di consegna tra le guardie “Fateli passare!”.
Sono vivo! realizzò. Sentiva ancora la testa, gli arti, le ossa.
Forse perdeva sangue, ma si sentiva bene. Stranamente bene.
Ascoltò, si fa per dire, il mutismo dei compagni mentre il solo mugnaio salutava le guardie e si augurava che la purezza del proprio grano non avesse risentito del contatto col metallo ruggine; tra un’insolenza e l’altra, tanto spontanee nella sua parlata da non risultare offensive ma far ridere della grossa le guardie che continuavano ad atteggiarsi prepotenti.
Minuti di silenzio passarono. Tanti. Troppi, finché la voce ansiosa e concitata di Braccioforte  suggerì “Apriamo la botte!”.
“Non ancora.” sentì suggerire da Malia all’amico, “Se non vuoi che il tuo caro figlioletto finisca male fai come dico!” la sentì ridacchiare.
Onestamente gli fecero bene quelle parole, come il non sentirle disprezzare da Braccioforte, che sentiva quasi un padre. Una figura diversa da quella irraggiungibile di Guglielmo Montetardo, una più concreta e quotidiana.
Continuò il silenzio dei compagni, sovrastato dalle voci delle botteghe interne al castello in cui erano stati accolti.
Schiamazzi, tonfi, grida che riempivano l’aria e, finalmente la voce ammiccante di Malia “Sono sorpresa, tu ti sia fidato.” , prima di concludere “Pronto ad uscire, moccioso?”.
Non se lo sarebbe fatto ripetere due volte! E quando lei scoperchiò la botte, era già pronto a fissarne il viso intensamente; come un fiore che aspetta il sole per aprirsi ad un nuovo giorno.
Lei sembrò calargli le mani addosso, a tastargli il viso o perdersi nel grano, prima di dire spazientita e isterica, quasi allergica ai sentimentalismi “Oh! Insomma. Liberati di quel cappuccio ed escì!”. Malia gesticolò riportandosi la mano al vestito per ripulirsi della sfarinatura del grano “Ti ho già detto che mi punge le dita!” brontolò quasi a giustificarsi.
Moros portò con fatica la mano al cappuccio abbassandolo come lei aveva tentato di fare poco prima. Si ritrovò a sorriderle “Obbedisco!”, ma le strizzò l’occhio, mentre si riportava diritto e finalmente riassaporava l’aria.

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Capitolo 36
*** A buon rendere! ***


A buon rendere!

 
Chi sono io? Un principe vigliacco? si chiese Ludovico. Gli veniva quasi da ridere Sono stato salvato da un contadino…
“Fuggite, penserò io a loro!”  aveva stabilito Moros. La forza di un re; a cui lui aveva rimproverato “Non essere presuntuoso.”
Certo, avrebbe potuto combattere, ma il diversivo creato da Moros, gli aveva impedito di perdere tempo inutilmente, in una schermaglia che non avrebbe mutato le sorti di una decisiva battaglia, da combattere solo a Rocca Lisia.
“Quindi oggi, dobbiamo la nostra buona sorte ai contadini?” rise ironico Alberico. Proprio nelle vicinanze dell’ingresso del passaggio segreto, i soldati nemici in pattuglia erano stati provvidenzialmente distratti da un combattimento tra galli per cui avevano iniziato a scommettere.
Così Ludovico e i suoi compagni si erano velocemente intrufolati in una breccia del terrapieno ossidionale che proteggeva la rocca e, che a ridosso del bosco celava l’ingresso al passaggio: tanto di ausilio contro i nemici, quel bastione avrebbe servito anche dall’esterno al suo compito di lealtà ai Chiarofosco.
Tra le rudi lastre di pietra infisse a terra come un sostegno, crepate dal tempo, simboli astrali e solari a curve concentriche, una celava quella che poteva sembrare una comunissima tana, un grossolano buco da cui sarebbero potuti sbucare solo grossi topi. Facendola slittare di poco, tuttavia, il buco sarebbe aumentato di dimensione tanto da far passare un uomo di lato.
Intrufolati, Federico schermò nuovamente l’apertura dietro di loro.
Dopo la conta di tre passi, la parete di quella tana finiva tastandola con le mani, ma con i piedi quel terzo passo finiva sopra del legno. Nascosta dalle ombre c’era una botola.
Si calarono ancor più nel buio.
Là, un corridoio.
La prudenza, anche ora, non era mai troppa.
 “Procediamo cauti.” suggerì guardingo Ludovico in un bisbiglio.
Trattennero il respiro. Il silenzio fu’ loro di conforto perché significava fossero soli.
Il buio era totale.
“Prendo una fiaccola!” informò i compagni. Fortunatamente per il fumo era stato realizzato un condotto d’aria corrente che l’avrebbe trasportato lontano.
Tolse i guanti.
A tentoni sul muro, ne cercò una. La mancò diverse volte, lisciando la parete col palmo, ma alla fine la raggiunse facendosi guidare dall’olfatto; percependo l’odore pungente e sgradevole di un olio ossidato e degradato.
La trattenne tra le gambe e con le mani libere, presa la piccola piastra di acciaio temprato, la batté su di una altrettanto piccola pietra focaia, che portava sempre con sé. Ne ricavò qualche scintilla che illuminò di piccole scariche rossastre il buio, fino ad una soffiata che divampò dal cotone impregnato di salnitro.
Rischiarò il percorso di fronte a sé. Puntò la poca luce ovattata dall’umidità verso il pavimento. Alcune pietre sbeccate avevano una precisa collocazione, tanto da informare i compagni con sicurezza “Non c’è stato calpestio.”. Non erano state spostate da un passo frenetico e distratto come poteva essere quello di un inseguitore.
“Meglio essere ugualmente prudenti!” suggerì Federico che accordò “Vi precedo!” sembrando potesse essere più sicuro lasciare Ludovico nel mezzo della fila che avrebbero costituito.
Non protestò: era troppo importante per Rocca Lisia e non avrebbe potuto offendere l’onore del cavaliere che si era proposto di cautelarne la vita.
“Facciamo presto!” accordò, disprezzando tentennamenti: era pericoloso restare fermi troppo a lungo, quanto proseguire o ripiegare.
Passò la fiaccola a Federico.
Mentre procedevano, si sentì aggredire le ossa come sfiorato da mano spettrali. Com’era differente la sensazione che provava nel rientrare a casa. Se scappando aveva solo pensato a correre per allontanarsi, ora era diverso: sentiva di dover calcolare ogni singolo passo, come se pessimista credesse in un insuccesso che l’avrebbe portato alla morte.  Il tempo sembrava dilatato, come se invece di avvicinarsi, si allontanassero dalla meta.
“Credo non si aspettino il nostro ingresso dalla stanza di re Iorio.” azzardò Alberico, incalzato da Federico “Piuttosto, sei davvero sicuro di usare il veleno di Malia?”. Federico, da buon amico, voleva persuaderlo a suo modo, nonostante rispettasse la sua decisione.
Ludovico si morse le labbra.
Lo so’! E’ un mezzo vile, avrebbe voluto dire, ma erano troppo pochi per ribaltare la situazione senza un simile espediente.
Malia, pensò. Se la immaginò dinanzi in tutta la sua conturbante bellezza. Le due tormaline nere, le labbra voluttuose, quella nuvola di capelli corvini che ondeggiavano durante i loro amplessi.
Malia, perché non mi hai fermato? rifletté pensando a come lei gli aveva chiuso tra le mani la boccetta precisando “Non c’è filtro più potente.”. Tanta era l’incertezza che si era impadronita di lui che, sarebbe bastato un solo suo commento, al loro tremolio, per farlo indietreggiare. Invece lei era rimasta muta, arginando il loro tremore.
Ti credevo diversa… Diversa da chi? Da Baltasar che l’aveva guidata nella sua follia fino a perdere se stessa?
Quel veleno dimostrava appieno cos’era diventata. E lui che l’avrebbe usato?
Non seppe il motivo , ma gli uscì di labbra “Volevo usarlo nella cisterna dell’acqua...”. La verità che aveva negato a Moros e a quella povera parte di mondo che il ragazzo rappresentava. Che sentisse un sentimento di gratitudine nei suoi confronti? Lui, un Chiarofosco verso un, né più né meno, contadino?
Però ha rinunciato al suo intento per salvarmi.
“Ma non lo farai.” azzardò Alberico: la voce assunse irrimediabilmente un tono lugubre. Era saltato il loro espediente?
“L’avrei resa fatale.” ammise le proprie remore. “So’ che vi ho deluso.” si fermò su due piedi. Lo sguardo abbassato, mentre Alberico lo confortò sulla spalla “E’ qui il nostro posto!”. Seguirlo. Ritornare a casa con lui o morire con lui nel tentare di farlo.
“Non siamo fatti per la fuga.” li sostenne Federico: continuò a dare loro le spalle, senza sentimentalismi.
“E infatti combatteremo!” si ridestò in quel momento. “Lo userò! Nelle nostre spade.” si fece risoluto. “Bagnate di veleno, uno striscio sarà sufficiente per sbaragliare un nemico senza dispendio di energia, rendendoci in grado di competere con un esercito intero, ma di soli soldati!”. Il suo avversario non era un inerme villico.
“Renderci rivali all’apparenza temibili potrebbe far capitolare l’intera guarnigione.” ragionò Alberico che gli era prossimo. Non bastasse, vederli in vantaggio avrebbe spronato i contadini alla rivolta contro Gregorio, in riscatto del passato tradimento.
“Basterebbe venire alle spade con Gregorio!”  rifletté più pragmatico Federico. Giungendo dalla stanza del re, avrebbero potuto avvicinarlo e…
“Non dimentichiamo quel vile di Zelio.” intervenne Alberico, ritenendolo l’obbiettivo principe della propria vendetta sulla meschinità.
“Non sarà comunque così facile!” ipotizzò concreto, ma catturare Gregorio poteva essere la loro carta vincente. I Montetardo dovevano morire! Perciò sì, contro di loro avrebbe usato quel potente filtro, come aveva precisato Malia, sperando fosse potente come diceva, anche se il suo ego di cavaliere ne avrebbe subito la macchia per sempre!
Contro i Montetardo!
Rifletté: Anche contro quella donna? Moros era intervenuto contro di lei oppure era l’esatto contrario? Qualcosa li legava. Non il cugino o servo che fosse, qualcosa di più grande. L’odio o…
 

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Capitolo 37
*** Prevedibilità ***


 

Prevedibilità

 
“Chi avete incontrato?” strabuzzò gli occhi Gregorio, sputando di colpo il vino che aveva nel gozzo; in uno fiotto che schizzò tende e tappeto. Aveva sentito bene? Il suo naso restò arricciato in una smorfia, come per un’improvvisa paralisi facciale.
Moros? Ancora?
Ma era una persecuzione, quel ragazzo!
Allargò le braccia. Ecco a cosa portava la bontà!
Assecondare il desiderio di Nicandro di tenerlo in vita era stata una rogna!
Ah, Bastiano, Bastiano… se avessi fatto il tuo lavoro!  rifletté, visto che quella doverosa bontà era stata l’effetto dell’inneficienza che il subalterno aveva dimostrato in vita. Se Bastiano avesse eliminato Moros al primo colpo non sarebbero stati ancora là a parlarne.
“Aiuta Ludovico!” volle arginarlo Lavinia, spiegando il motivo della riapparsa dello scudiero di Guglielmo, ma il suo tono non celava affatto l’entusiasmo che provava per un nuovo scontro. La sorella portò il pungo destro, chiuso, davanti al petto grintosa; quasi fremesse nell’attesa.  Il volto di Lavinia era luminoso, le guance sollevate quasi in un sorriso, gli occhi marroni allargati.
“Come? Cosa?” domandò, chiedendosi per quale astruso motivo la sorella agognava l’ennesimo e inclucludente scontro con Moros, nonché per quale bislacco disegno avrebbero lottato assieme: un contadino e un principe.
Preso il tovagliolo, lo attorcigliò e come una frusta lo rivolse verso il servo che lo stava servendo, che subì stoico l’atipica scudisciata.
Allargò le pieghe della bocca in un sorriso di labbra stinte, tendendo il pizzetto sul mento come fosse elastico.
 Quanto semplicemente odiava quei due!  Lavinia e Moros, intendeva!
Da una vita si rincorrevano senza mai capire che quando i loro destini si intrecciavano, erano unicamente loro colpevoli di separarli nuovamente.
E, gli dava un fastidio, che in quella treccia lo facessero sempre inciampare! Avrebbero potuto strozzarvisi e gli avrebbero fatto un piacere!
La mia pazienza è finita! Ormai lo diceva spesso a tutti, ma era davvero stanco di graziare!
“Manca l’aria!” ordinò aggressivo al servo che prontamente si rivolse alla finestra per aprirla. La spalancò a due mani, facendo retrocedere i vetri all’interno.
Il tepore mitigò l’animo di Gregorio che respirò a pieni polmoni, gonfiando il petto come un gallo cedrone.
Rifletté, massaggiandosi frustrato il viso, premendo forte le guance, fin alla consapevolezza di...
Di scaraventare addosso a Moros tutte le guardie!
Reclude comprese! “Penderà dalla corda… o… gli taglierò la testa!” rifletté ad alta voce, quasi indeciso. Finalmente si preannunciava una giornata appagante, sorrise. E che Nicandro piangesse pure questa volta!
Si portò in piedi, ma si trovò dinanzi Lavinia.
Si spostò di lato e Lavinia fece altrettanto bloccandogli la via.
Ebbe un fremito nervoso e urlò, la voce alta e rabbiosa “Cosa c’è?” come se il mondo fosse stato creato esclusivamente per infastidirlo “Non ti va’ bene, sorella?” l’aggredì, facendo saltare i nervi del servo che ebbe un fremito e indietreggiò alla finestra, quasi fosse preferibile buttarvisi fuori piuttosto che rimanere.
“Ludovico sa’ come entrare!” lo stupì Lavinia, che diversamente da lui non sembrava aver pensato, come primo problema, al contadino di … Quel paesetto…Come si chiamava? Ah… Sì. Raucelio.
“E noi non sappiano da dove sbucherà quel topo di fogna, immagino?” ipotizzò arguto e soprattutto inviperito. Le sopracciglia sottili si avvicinarono alla curva del naso, evidenziando il verde smeraldo degli occhi.
“No!” fu breve Lavinia, per nulla spaventata  “Credo userà un passaggio segreto.”.
Ebbe un moto di cedimento perché sembrò incespicarle addosso “Pure un passaggio segreto?”, la sua voce uscì piatta. Era uno scherzo?
“E i contadini gli sono solidali.” spiegò lei, adducendo certezza.
Sempre con questi contadini… Gregorio si portò i pugni chiusi davanti alla faccia e iniziò a batterseli addosso.
Lei lo lasciò fare, impettita come il militare che era o si credeva.
“Bada! Che mi stò irritando!” reclamò. “E sai che non è una buona cosa!” volle mettere i puntini sulla propria autorità.
“Comunque sono tre, compreso Ludovico.” precisò Lavinia.
“Solo tre?” ristette. Alla faccia di riorganizzare le truppe. Questo sì che gli risollevò l’umore. Mimò in ordine, con pollice, indice e medio il numero tre, passando poi ad aprire tutte le dita delle mani: lui aveva più soldati! Quello il suo conto.
“E’ mio dovere fare rapporto.” concluse seria Lavinia: inflessibile davanti le sue congetture, mentre lui si copriva l’occhio sinistro con la corrispondente mano “E lo fai al meglio!” accordò, quasi sfinito da tanto rigore.
Quindi ora, aveva più chiara la situazione.
“Bene! Bene! Bene!” riflettè gongolando, sfiorandosi il pizzetto. Allungandolo per renderlo il vertice di un triangolo.
Sviolinò l’indice davanti alla sorella, come rimproverasse una monelleria, non a lei era chiaro, ma a Moros.
“Birbantello!” ironizzò.“Noi” sottolineò “sappiamo bene come agisce Moros, vero?”, sorvolò sul contadino come fosse talmente prevedibile da risultare inoffensivo.
“In maniera inconcludente?” fece eco lei perplessa. Lo sguardo severo, indagatore.
“Avventata? Impulsiva?” suggerì giulivo lui: come non definirne così l’agire.
“E’ tutto tuo!” la lusingò. Ma la voce secca sembrava infastidita, come suggerisse un sgradevole E.. vai! Vai, ad acciuffarlo!
“Sai, la strada!” precisò arrogante. I servi chiacchieroni avrebbero fatto la loro parte, mettendo quel rustico al corrente delle disposizioni delle stanze di Rocca Lisia! Dove poteva sbucare se non in prossimità di Nicandro? Sarebbe bastato lo aspettassero là. E così avrebbero fatto!
 

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Capitolo 38
*** Dipingere con la voce ***


N.d.A. attenzione ho postato due capitoli, perchè mi sono divertita a scrivere ^_^ quindi date un'occhiata anche al precedente capitolo. Un abbraccio a tutti!

Dipingere con la voce

 
Il braccio di Belinda era sprofondato nel barile fino al gomito. Il suo volto era chino, gli occhi puntellati sul fondo; sembravano cercare un qualcosa che le chiarisse il mistero che la faceva scervellarsi.
“Ma io… Ho visto calare una lancia....” borbottava. “Non mi sono sbagliata… No! No!”.  La voce perplessa che usciva attuttita dal barile in cui aveva ficcato il capo “Non ti sei fatto nulla? Incredibile!”. “Incredibile, davvero!” aveva confermato lo zio mugnaio, prima di lasciarli per un’urgenza del corpo che l’aveva fatto correre via come un fulmine.
Braccioforte aveva semplicemente aggredito Moros di slancio, cingendolo alle spalle e avvolto in uno stritolante abbraccio che non gli aveva lasciato tregua, smorzandogli il respiro.
Era come se l’amico non lo volesse più lasciare. Non chiedeva come si fosse salvato o il perché non fosse ferito, aveva solo detto “Moros, ragazzo mio!” e per un attimo la voce gli si era incrinata  nella gola.
“Sì! Sono tutto intero!” lo aveva rassicurato Moros quasi euforico “Sto’ bene!” aveva continuato a confermare fin quando l’amico non l’aveva lasciato.
Braccioforte gli restò davanti “Ho creduto di perdere anche te!” confidò: la voce così profonda che sembrava uscire dal vuoto di una caverna.
“Non mi perderai così facilmente!” sorrise con ottimismo, volendo scusarsi d’averlo lasciato in ansia. Era quell’anche te che l’aveva conquistato, quasi lo includesse… nella famiglia che l’amico aveva avuto un tempo. No, impossibile. Devo essermi sbagliato! pensò troppo imbarazzato per un pensiero che l’avrebbe lusingato più di un titolo reale. Una famiglia era ciò che più gli era mancata nella vita.
Guglielmo era stato padre per Nicandro, non per lui!
Quello vero non l’aveva e avrebbe mai conosciuto e forse non gli importava ora come ora, ma l’amico, quel maturo soldato era forse l’esempio che aveva da sempre cercato.
No! Era davvero troppo per Moros, perciò tentò di mantenere le distanze. Farsi coinvolgere così, non era da lui. Girò di lato il viso per non guardare l’amico, finendo nuovamente a fissare Belinda che ancora indagava.
“Cosa speri di trovare?” ridacchiò.
“Ci nascondi qualcosa uomo misterioso!” lo apostrofò accigliata Belinda.
“Che uomo misterioso sarei se svelo i miei segreti?” la riprese birbante come un monello, beccandosi un altrettanto infantile sberleffo. Gli occhi di Braccioforte continuarono a guardarlo paternamente e i lineamenti del suo volto erano rilassati; un leggero sorriso gli alzava il profilo delle labbra. “Moros, vorrei dirti una cosa.”  chiarì l’amico in quel momento, nello stesso in cui sentì sulla pelle l’ironico sorriso di Malia che gli gelò le spalle.
“Nasconde nulla o tutto!” intervenne la donna, le mani incrociate sul petto; in risposta alla bambina che la guardò perplessa.
Sentì poggiarsi sulla spalla la mano di Braccioforte che ne difese la correttezza di carattere “E’ più limpido di uno specchio d’acqua!”.
“Forse è l’eroe che cerchi?” pronunciò Belinda, le labbra rovesciate all’esterno, come soffiasse.
 “Non ho bisogno di alcun eroe! E anche se fosse, non sarebbe un moccioso come lui!” sbottò Malia, allungando la mano per arruffargli i capelli. Moros si lasciò tormentare da quella coccola innocente, quasi fosse una sorella maggiore, tanto diversa dalla prorompente e nevrotica donna che aveva conosciuto e che sembrava avercela col mondo.
“Malia, grazie. Ti devo la vita!” l’afferrò al braccio per trattenerla “Sento per certo sia grazie a te!” ammise dal profondo del cuore.
“No! Non c’entro!” gli rispose lei con freddezza. I suoi occhi neri erano mutati come si fosse inacidita “Non mi devi ringraziare…”. Stava per dire qualcosa, ma trattenne quella confessione tra le labbra “Non ho bisogno di ringraziamenti, ma di..”. Tacque.
“Permettimi… Posso fare qualcosa?” continuò tenendola salda.
“Tu, no!” disse mestamente “Non puoi fare niente!” strattonò il braccio lei, liberandosi; del resto lui l’aveva lasciata subito andare.
 “Non volevo. Scusami!” chiarì, notando al braccio una vistosa cicatrice da scottatura. Sperò di non aver stretto troppo, facendole del male.
Un’ustione. Era molto evidente. Una macchia lucida e chiara che tendeva la pelle dell’avambraccio.
Restò imbambolato a fissarla, decisamente indelicato, ma non potè evitarlo: ripensò involontariamente a suo cugino. Si disprezzò. Anche Nicandro si trovava a disagio per le proprie e le celava gelosamente, nonostante lui non vi facesse caso.
Ed ecco la solita Malia!
“Macché scusa e scusa. Non posso fare qualcosa perché mi va? Devo rendere conto a te?” scrollò le spalle, con la vocetta di Belinda “Lo sapevo! L’hai fatta arrabbiare…”.
“Ora ti trasformerà in un rospo!” rise la bambina, come fosse vero.
“Malia dice semplicemente, che è anche merito tuo!” confidò Braccioforte approvando con il capo “Sei stato coraggioso. Avessi urlato, ti avrebbero scoperto!”.
“L’avessero infilzato avrebbe urlato di sicuro!” ipotizzò arrogante Belinda, meritandosi un bonario calcio sul sederino da Malia “Era impossibile!” la zittì e di certo sembrava parlare per cognizione di causa “Altro che panforte e miele… quando verrai nella mia casetta troverai solo della resina appiccicosa da sbocconcellare.” sviolinò Malia alla bambina che rise a crepapelle di quella frase bislacca, che Malia tuttavia aveva concluso con un occhiolino.
Moros si appuntò l’indice addosso “Se è solo merito mio, allora devo dimostrarlo fino in fondo.” sorrise fino però a concludere “Da ora proseguirò solo!”.
“Non posso chiedervi di più!” subito contraddetto da Belinda “Ma viene ora il difficile!”: pure lei lo sapeva.
Eppure né Malia né Braccioforte controbatterono, come fosse giusto così. Non condividevano il suo obbietivo e l’amico non cercava vendetta.
E… era giusto così!
“Ricorda che non hai nulla da offrire a tuo cugino.” fu realistica Malia, puntando sulla materialità dei sentimenti, che tra una coperta di lino e gli sfronzoli di un baldacchino non avrebbero scelto la paglia secca e pungente sopra un pavimento di fango. Non si offrì di dare loro un tetto sopra la testa anche se probabilmente non glielo avrebbe rifiutato.
“Una casa di legno.” intervenne Braccioforte. La voce calma che lo stupì mentre continuava “Un orto.”, precisando meglio “Pieno di erbacce.”.
Moros incredulo di sentirlo dipingere con la voce “Con qualche gallina, se qualcuno non se l’è già mangiate in mia assenza.”; riflettendo fosse molto probabile.
L’amico chiedeva loro di far parte di quel quadro. Per lui, per loro, un posto dove tornare e ricominciare da capo; come se mai una freccia fosse stata scoccata!

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Capitolo 39
*** Ucci Ucci Ucci ***


NdA: ed eccomi con un nuovo capitolo. Un abbraccio a tutti i miei lettori, a quelli che recensiscono ma anche a quelli che leggono soltanto. Comunque, se potete datemi il vostro parere. Lo apprezzo molto ^_^ 

Ucci Ucci Ucci

 
Quel dono quanto male faceva... Svelava il futuro, ma restava inutile per ricordare il passato: nulla più di sogni confusi tipici di un bambino piccolo. Nelle orecchie il nome che Moros continuamente gli ripeteva, perché lo imparasse. “Mo-ro-s.”. “Mo-ro-s.”.
Un bambino serio che però cocciuto continuava a precisare con voce amica “Siamo cugini.” per poi mettere in chiaro “Tu però sei molto più piccolo di me!”.
Ma prima di Moros c’era comunque stato qualcosa…
Quella donna che gli dava le spalle, affaccendata in una banale quotidianità domestica, somigliava a zia Matilda, ma non era ancora lei. S’era ricordata della mancanza di un ingrediente e, con un cenno di sbadataggine alla testa aveva esclamato di non poterne fare a meno, affermando che sarebbe uscita.
“Mi assenterò per poco.” aveva detto ad alta voce, rivolta più al grosso gatto che sornione dormiva, che a lui, tra i vapori ovattati di un grande paiolo sul fuoco.
Che posto era?
Dove sono?
A chi apparteneva quella casa? aveva pensato Nicandro.
Ma soprattutto, lui là cosa ci faceva?
Dove mi trovo?
Era come se potesse percepire la scena e basta!  Vedendola da lontano.
Come se avesse i soli occhi e non le mani, composte di sola aria.
“Meglio coprirti!” aveva esclamato quella donna: assomigliava ad una semplice fantesca con una grande cuffia in testa e un grembiule chiaro annodato in vita.
Gli gettò addosso quella che sembrava una coperta. Un grosso panno, pesante come un macigno per giunta! Senza premure, come faceva Moros quando gettava i vestiti sopra una sedia vuota.
Aveva cercato di proteggersi con quelle mani d’aria, che sembravano fluttuare, ma quel grosso scampolo gli era finito addosso. E… S’era fatto improvvisamente buio: un buio pesto che aveva attutito ogni altro suono.
S’era sentito caricare un ulteriore peso addosso, ma non era riuscito a compiere alcun movimento per sgusciarvi fuori.
“Che maniere!” aveva pensato privo di voce, prima di aggredirsi con le mani la gola: privo di parole.
Aveva aperto le labbra ma dalla gola non era uscito nulla.
Prima che potesse rendersene conto, la donna era già uscita di scena.
La mia voce?
Lui non possedeva voce: una consapevolezza innata.
Sarebbe rimasto in attesa. S’accorse che non gli sarebbe pesato, come se da sempre fosse stato paziente di attendere…
Attendere che cosa?
Che qualcuno lo cercasse!
Passò il tempo, nel silenzio della stanza movimentata dallo zampettio del gatto, dal calore che spandeva dal paiolo, i cui ceppi ogni tanto crepitavano consumati dal fuoco.
Finalmente la porta s’era aperta. Questa volta insolitamente piano.
“Andiamo via!” aveva sentito bisbigliare, poi un “Cosa cerchi di preciso?”.
Nessuna risposta, se non passi sempre più vicini.
“Baltasar!” , “Pss.”, “Insomma, Baltasar, mi vuoi rispondere?”, “Andiamo via!”.
E poi quella voce….Che lo riscosse fin nell’animo.
La voce che aspettava.
La sentì dire solo “Shhhh, mia dolce Malia. Pazienza.” in un tono ironico: di quelli che sono certi di avere la vittoria in tasca.
La voce di ragazza continuò petulante, quanto quella del giovane continuò a ignorarne i commenti se non calmierandone l’ansia per quella che era senza dubbio un’intrusione nella casa della donna che lo nascondeva.
Si era reso conto fosse là per lui!
Sì! Lo era. Ne ebbe conferma immediatamente, perché come in una favola antica lo sentì curiosare, smuovendo brocche e paioli, aprendo ante che cigolarono, sussurrando tra le labbra un ilare “Ucci… Ucci… Ucci”.
Nicandro ricordò che quella voce maschile aveva riso, di una risata che sapeva conquistare e che inconsapevolmente lo lusingò rendendo il buio che lo ricopriva fastidioso, perché li teneva lontani uno dall’altro...
Eppure era come se quel buio lo proteggesse…
Ricordò di aver mugugnato, ridestandosi all’esortazione di Moros che lo chiamava.
“Nicandro?”. “Nicandro? Sveglia! Insomma!” e Moros l’aveva smosso dal pavimento, trascinato per le gambe; prendendosi un calcio che involontario gli aveva allungato nel sonno.
Lui si era aggrappato con le mani alla paglia, stringendone qualche fascetta, che usciva dall’una all’altra estremità del pugno per ribellarsi al cugino.
“Che.. be… lllaaa voocee…” aveva detto con la gola ancora impastata dal sonno.
“La mia voce?” l’aveva interrogato Moros.
“Noooo, non la tua!” ne aveva sminuito la presenza sbadigliando. Non intendeva Moros! Aveva realizzato solo in quel momento di aver sognato. Si era riscosso dal torpore del sonno e in un attimo s’era puntato sulle ginocchia per alzarsi. “Ho le mani!” aveva urlato sbigottito.
“E le gambe!” l’aveva strattonato Moros adducendo “Ma non la testa! Quella ti è volata via nel sonno!”, sbottando  “Matilda ci vuole fuori!” .
“Che qui diamo fastidio!” aveva sorriso Nicandro in quel momento sveglio da un sogno che sembrava di una vita non sua, che sapeva di magia.
Ma non era il passato a tormentarlo. Era il futuro!
In cui…
 “Ti uccido!” lo sguardo satirico di Gregorio verso Moros, posto a difesa del biondo giovane che Nicandro sapeva essere il fiero Ludovico Chiarofosco, ora ferito al fianco e sbilanciato nella postura. Il biondo che respirava faticosamente.
Il sangue colava anche lungo il braccio di Moros, per una ferita che gli segnava la spalla all’altezza della scapola.
Era evidente in quel frammento di tempo, la superiorità di stile che separava l’allenato Gregorio all’improvvisato Moros, nel corridoio delle stanze private dei signori della rocca.
Vedo anche lei.
Vide Lavinia stesa a terra, che si massaggiava la testa dolente; sfrastornata.
Si stava svolgendo uno scontro tra soldati che conosceva e altri che non aveva mai visto, dove uno spiccava per capelli rosso fiamma.
Lui voleva raggiungerli…. Doveva salvare suo cugino! Quella la sua visione. Ma quanto mancava a quel giorno?
Quando precipitosa la vide sbucare nel corridoio ebbe la certezza che fosse giunto il momento che tanto aveva tentato di allontanare.
“Mavio! Ubaldo…. A rapporto! Subito!” aveva gridato Lavinia. La dea della guerra, fatta persona. Spavalda. Risoluta. Impietosa.
L’aggressività sembrava sbranarle il cuore.
Senza mezzi termini ignorò la sua presenza, per informare i propri soldati. “Ludovico sa’ come entrare!” si rivolse a Mavio.
Poi lanciò un’occhiata anche a lui.
“Moros è tornato!” lo disse come una minaccia ai suoi uomini, ma con il dorso della mano si sfiorò la guancia nervosa “E’ qui per te!”, come lo sentisse un tradimento “Non si rassegnerà mai!”.
Fulmineo Nicandro le andò incontro per superarla ed uscire, dettandole i suoi veri sentimenti “Dov’è?”, quasi fosse già nella rocca e solo pochi istanti li separassero.
Lavinia del resto sembrava già lo stesse aspettando.
Lei lo bloccò al braccio mentre la affiancava “No! Non puoi andare da lui!”: certo che, pur dolce nell’aspetto, aveva una morsa al posto delle mani.
“Lasciami Lavinia!”  disapprovò,  confidando una verità che mai avrebbe dovuto esternare “Devo salvarlo! Morirà oggi!”. La sua voce dettava la certezza di chi sapeva di un destino di morte.
Lavinia vacillò, come in un capogiro. Cosa? Perché svelava solo ora quella confidenza? I suoi occhi sgranati parlavano per lei.
Lo girò di colpo, per guardarlo diritto, urlandogli contro “Menti!” criticò, alzandolo quasi da terra, quasi fosse stata un gigante.
Nicandro restò in silenzio.
“ Un tempo…” lo riprese lei  “Erano state le mani di Gregorio a sanguinare, ma la morte è stata quella di Guglielmo!” lo scuoté forte.
Lavinia non trovava pace di quello che aveva considerato un’ingannevole presa in giro del fato, che aveva giocato con la profondità dei suoi sentimenti per Guglielmo e per Gregorio.
E sembrò balenarle un’idea, in quella frustrazione, quasi che il pericolo fosse solo un espediente di Nicandro per incontrare Moros “Non ti troverà mai!”. Lo scrollò nuovamente, ma non lo mollò, anzi lo trascinò sì nel corridoio, ma per infilarlo nella stanza di Gregorio.
“Lasciami!” gridò Nicandro “Devo proteggerlo!”.
“Tu?” la beffarda considerazione di Lavinia che fece gli occhi sottili. Nicandro si attaccò allo stipite della porta “Non mi rinchiuderai!”  ma la furia di Lavinia lo trascinò via.
 “Me la vedrò io con Moros e il suo amico Ludovico!” disse aggressiva, quasi le fosse tornata quell’ arroganza che la contraddistingueva da bambina.
“No! Nell’armadio, nooo….” aumentò la sua ribellione Nicandro che all’intervento di Mavio vi finì proprio chiuso dentro.
Mavio girò la chiave lasciandolo in trappola.
“Sbollisci la tua boria!” lo incitò Lavinia, ricomponendosi i ciuffi sulla fronte, beccandosi in risposta tutti i calci che Nicandro sapeva tirare, ma che il legno massiccio rendeva vani.
“Cosa vuoi ottenere, Lavinia?”.
“Uno sistemato!” la sentì dire, forse lisciandosi i palmi delle mani,  mentre Mavio accennava una risata “Chiuderai anche Moros in un armadio?”.
“Taci!” mortificò il soldato: il ringhio quasi di un lupo ferito. “Non sanno che cacciarsi nei guai!” sbottò, quasi fosse sempre lei a dover rimediare.
“Nei guai ci hai cacciata tu!” le inveì contro Nicandro che aveva preso a battere anche i pugni sul legno al suono di un appellativo non proprio da lui, ma che a Lavinia non risultava poi tanto insolito “Brutta strega!”.
“Che razza di soluzione è questa?” continuò a scaldarsi Nicandro, ma Lavinia aveva già ben altri programmi e il massiccio spessore del legno ovattava il suo grido, rendendolo uno squittio.
“Griderò e scalcerò finchè non mi troverà!”  azzardò furioso. Voleva la guerra? L’avrebbe avuta!
Un sussurro all’altezza della serratura “Ti svelo un segreto… Questa volta è proprio quello che voglio anch’io!”.

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Capitolo 40
*** Troppo facile! ***


Troppo facile!

 
Bado alle ciance, era ora di andare! Solo un “Sta’ attento” di Braccioforte e un bacio sulla fronte da parte di Malia a mo’ di fata madrina.
Moros allungò le braccia fuori dal mantello “So’ che ti punge il suo tessuto…” sorrise dolce a quest’ultima. Sul suo viso regolare gli occhi apparvero di un color acciaio così lucente da sembrare appena levigato, come fossero specchio del cuore, mentre le stringeva entrambe le mani.
“Cosa mi tocca sentire.” rispose lei smaliziata, come se non bastasse un sorriso per farla cadere ai piedi di un uomo, ma lo stupì “Ti voglio alla mia locanda entro domani notte!” pose un veto da fiaba puntandogli l’indice al petto, sopra il cuore.
Lui sorrise, alzando tutti e due i bordi delle labbra. “Ad un invito così, non posso mancare?” accordò ironico: la voce allegra di chi sa’ distinguere un invito galante dalla ramanzina con cui l’avrebbe accolto se avesse tardato.
Si allontanò da loro assieme a ‘zio’ Adelberto, che si era offerto di proseguire un poco con lui.
Belinda quando furono a distanza, non paga del commiato, tentò di urlare sbracciandosi “Ciao, Mooo…”. La bocca le fu subito tappata dalle mani  di Malia, che comicamente la rimproverò di cucirgliela per sempre.
Lui e Adelberto non si voltarono più.
Ed ora entrimo nella grotta dell’orso!  prese un grosso respiro, mentre Adelberto aveva un’espressione di presa in giro: un sorriso che gli evidenziava le rughe sotto gli occhi, mentre con la mano destra mimava il gesto della codardia, allontanando e avvicinando le dita al pollice al detto “Pargolo, hai fifa?” e gli diede una pacca sulla spalla così forte che lo fece avanzare di tre passi; tanto che mancò gli sfuggisse il barile che si era offerto di spingere, che rotolò più spedito dei suoi passi.
“Avevo proprio bisogno di un aiuto!” disse Adelberto, quasi non fosse vero il contrario.
Moros non se lo sarebbe mai aspettato ma, da sempre sostenitore di re Iorio, Adelberto rese possibile l’impossibile e, senza neppure troppo sforzo.
Dopo un breve dialogo farcito di insolenze, gli aveva presentato tale Eugenio, un biondo omone panciuto, di una parlata farfugliante, a tratti animalesca, che sovrintendente alle scorte di Rocca Lisia, teneva in vero e proprio scacco i soldati che contavano sul suo buon rancio.
Nel regno di Eugenio, la dispensa, sarebbe stato momentaneamente al sicuro.
“E’ un amico di Malia!” chiarì Adelberto strizzandogli l’occhio.
Chissà come mai se l’aspettava, rifletté strusciandosi l’indice alla fronte. Certo che ne conosce di tipi strani quella? si disse.
“Avanti ragazzo, prendi questo!” l’aveva sollecitato Adelberto che aprendo la mano di colpo gli aveva gettato sul capo una manciata di farina; imbiancandogli i capelli e sbiancandogli il viso; sbeffegginadolo con un’insolenza per averlo così facilmente colto di sorpresa; come dicesse Che cosa vorresti fare tu? Ma fammi il piacere, pargolo!
Se la stava per scrollare ma le sue mani furono letteralmente inchiodate da Eugenio che bofonchiò “Co ff pri ff ti.. la teffsta!”.
Più di uno sputo di saliva gli arrivò sulla faccia.
Oddio, è disgustoso! pensò come se gli fosse arrivato lo stranuto di un grosso e peloso folletto di foresta addosso, ma visto l’entusiasmo di quei due ci rise sù e, l’umorismo gli venne in aiuto “Devo essere la portata di qualcuno?”. Eugenio rise a bocca aperta: i denti gialli e sbeccati belli in mostra. Le spalle che si alzavano in quelli che sembravano ripetuti spasmi di un singhiozzo.
La goffa camminata di Eugenio, ancheggiante per via di una gamba più corta dell’altra gli fu da esempio, per imitarne l’andatura.  Fu l’unica volta in vita sua, che Moros si augurò di assomigliare a qualcuno tanto goffo e di fisico così infece. Il fascio di stracci legato davanti alla pancia fecero il resto.
“Due gocce d’acqua!” rise Adelberto, fiondando insolenze.
Lui stesso avrebbe fatto fatica a distinguersi da quell’uomo, camuffato com’era.
“Nessuno infastidisce Eugenio!” e senza troppi complimenti, cogliendolo di nuovo alla sprovvista, Adelberto lo imboccò con una grossa cucciaiata di minestra, che gli fece solo dire “Mmmm. E’ buonissima!”, per confermare “E hanno ragione a tenerselo amico!”. Però, potrei trovare Nicandro ingrassato? riflettè, divertito.
Mentre gustava quella squitezza che gli era stata concessa in bocca, vide Eugenio andare ad una cesta di corda e alzare con garbo uno straccio. Sotto c’erano alcuni gattini di pochi giorni. L’uomo si assicurò gentile stessero bene, spostandoli uno da sopra all’altro per distanziarli, attento che non gli sgusciassero dalle grosse mani ciciotte; accarezzandoli, per poi ricoprirli con cura.
Aiuta anche loro, pensò Moros. Era proprio vero: un eroe ha molte sembianze.
Eroe è colui che compie gesti gentili, rifletté.
Fu così che entrò nella parte padronale da Eugenio, per poi lasciarne gli abiti e, ritornare Moros.
Rivestito il proprio consunto ma preferibile mantello… L’epilogo del suo viaggio aveva inizio!
Com’è che ci si sente a percorrere i corridoi di un castello che non si conosce? Una soglia nemica ostile e perigliosa?
Non ci pensò!
Corse e basta, maledicendo ad ogni svolta la possibilità di trovarsi di fronte ai soldati di Gregorio.
“Cappuccio sulla testa!” e, una pausa di Malia prima di puntualizzare nel lasciarlo,  “Sempre”, fino a esplodere seccata “Bhe! Ci siamo capiti… Non farti vedere o ti taglieranno il collo!”: aveva gesticolato, restia al solito contatto con il dozzinale tessuto, con le mani che sembravano zampette impazzite “Sei abituato ai boschi.. perciò sii un’ombra!” l’aveva rimproverato, come se fosse così imbecille da farsi annunciare dal suono del corno.
Seguì quel consiglio. Il cappuccio abbassato sul volto, il passo felpato di un lupo.
Qualche rientranza del muro gli fu provvidenziale, quanto le ombre che ormai si impadronivano degli androni; lo stesso rumoreggiare della truppa, chiassosa nel cortile, contribuiva a schermarne il passo.
Eppure, più d’un volta trattenne il fiato. Più di una volta sentì di essere in procinto di essere scoperto.
Davvero era così facile entrare in un castello?
Stranamente, lo sembrava.
Era accaldato.
Si abbassò sulle spalle il cappuccio e si sfregò il collo sudato.
La tensione lo stava uccidendo.
Vivremo nella foresta e io farò il taglialegna. aveva da sempre programmato l’avvenire suo e di Nicandro. Un sogno banale ma così confortante, perché era nei castelli che viveva la strega cattiva, non di certo nel bosco con i buoni nani, anche se Nicandro del folto del bosco aveva comunque paura e si copriva gli occhi come se bastasse chiuderli per fuggire dal buio.
Lui credeva ancora in quel sogno!
Ricordò tuttavia la verità inoppugnabile con cui s’era dovuto confrontare in quel viaggio e che non s’era rifiutato di ammettere: parole sue “Quella era la spada di un nobile signore, non di un contadino….”.  Come la più vera di tutte. “Ed io, non sono un eroe…” per lo meno un eroe nel senso più pratico del termine: quelli che salvano le principesse per intenderci.
“Guarda che Nicandro non è la tua pulzella!” aveva una volta arricciato il naso una giovanissima, quanto fastidiosa, Lavinia. Insofferente di trovarselo tra i piedi e, da brava antipatica qual’era, non si era fatta remore di punzecchiarlo. Lui le aveva risposto per le rime “Di certo non parli per esperienza.”. Gregorio, attorniato dall’immancabile scorta, il gomito poggiato sul ginocchio, tanto divertito da proibire a Bastiano di intervenire, alzando l’avambraccio e la mano in un gesto di freno, per non perdersi quello che spesso definiva  il teatrino spassoso; anche se Ubaldo e Vittorio intimavano di fargli pagare l’offesa, il primo pacato, il secondo rabbioso , mentre Mavio stoico non commentava.
Posso farcela, si disse, ritornando al presente, riportando in capo il cappuccio del mantello, prima che…
Ubaldo?!? Non ci voleva! pensò, quando lo vide arrivare in sua direzione dal fondo del corridoio.
Moros fiancheggiò l’angolo del muro. Un punto morto. Buio più della notte, rispetto alla luce che ancora padroneggiava l’intero passaggio per via di una finestra. I fasci di pulviscolo che danzavano nell’aria come sabbia d’oro.
Ubaldo avanzava.
Prenderlo di sorpresa? Colpirlo?
Sarebbe stato un azzardo.
E se l’avesse catturato? Costretto ad indicargli la via per Nicandro…
Decise di istinto, quando il soldato gli sfilò accanto.
Si dette più slancio che potè per saltargli addosso come un felino di montagna.
Ce l’ho fatta!  esultò  in un primo momento. Eppure quando intuì che le sue mani avessero mancato l’obbiettivo, si ritrasse fulmineo, sbilanciandosi all’ indietro, riportandosi nell’ombra; irritato dal mantello che sembrava aver compromesso il suo attacco, intralciandolo nei movimenti e facendogli annaspare l’aria.
In un gesto rabbioso di entrambe le mani si liberò il capo. Le orecchie attente ad ogni minimo rumore.
Ho calcolato male la distanza? si disse fradicio per il sudore; tanto stagliato addosso a quel muro da poterci finire all’interno. Il terrore di aver fallito; anzi di essere perduto.
Ubaldo passato oltre si era girato; aveva assotigliato lo sguardo, ma aveva proseguito di qualche passo.
Moros, sei uno stupido! s’era detto. Aveva rischiato di rovinare tutto. Altro che felino!
Ubaldo portò il braccio al lato del capo: era voltato ma probabilmente sfregava gli occhi, infatti ammise “Dovrei riposare!”. “Questi turni sono massacranti!”. Precisò “Ragazzi miei, dovrei proprio dirvi che sto’ invecchiando!” si premette con il braccio sinistro la spalla destra per rinfrancare i muscoli.
Moros fece l’opposto: non ne mosse uno.
Il soldato andò all’unica finestra: nessun vetro, ma un’inferriata. Con un movimento rilassato poggiò i gomiti sul davanzale e sui polsi delle mani il mento, guardando all’esterno.
Silenzio.
Ubaldo assaporò l’aria salubre che soffiava dall’esterno. Alzò la linea del mento. La fronte al sole, con l’immancabile fascetta rossa che gli cingeva la fronte come un anello.
“Qui è diverso da Raucelio!” constatò il soldato. Un timbro nostalgico della voce, mentre sembrò rievocare mentalmente quei luoghi.
Parlava a se stesso.
Silenzio.
“Perché siamo giunti a questo punto?” scandì Ubaldo: la voce sempre neutra.
Cambiò il tono.
“Allora, Moros?” precisò crudo “Perché sei tu, quella figura nell’ombra?”.
Si voltò in sua direzione.
Un rivolo di sudore calò dal capo di Moros lungo lo zigomo. Restò muto, ma già sapeva che Ubaldo non era avversario da sottovalutare. Di pochi anni più vecchio di quando l’aveva lasciato: il solito viso triangolare quasi più emaciato, con le basette a mezza guancia e il pizzetto sulla punta del mento. Il fisico sempre asciutto ma nerboruto.
Moros uscì dall’ombra: quasi il viso di un bambino colto in flagrante.
“E’ sorprendente non mi sia accorto della tua presenza.” avvertì Ubaldo, dandogli merito.
Moros riconobbe gli fosse stato amico… Un tempo era stato lui a condurlo dai signori di Raucelio, i Montetardo, come avrebbe fatto ora del resto, era chiaro come il sole!
“Ti porterò da Nicandro, ma questa volta non ti aiuterò a salire!”.
Ecco ora sì, aveva la conferma che non era facile entrare in un castello, salvo che da prigioniero!

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Capitolo 41
*** La colpa ***


La colpa

 
“Perché cerchi di farti i boccoli?”.
“Per sembrare più bella.” ironizzò lei quel giorno: una giovinetta severa, che non metteva per nulla a suo agio un ragazzo. Una mano alla spazzola e l’altra impacciata a trattenere i capelli sopra la testa davanti ad uno specchio che ne racchiudea in un arco chiuso il viso.
“Tu sei già bella.” aveva appuntato altrettanto ilare, perché bella lo era davvero con qulle guance piene e quelle ciglia a raggiera. Ma ancora più divertente era riuscire ad irritarla. Perciò apposta disse “E’ per Moros?”.
“Mavio, non hai ancora imparato che non si entra nella stanza di una fanciulla?” sviò il discorso lei:  più familiarità con una spada che con una spazzola.
“Sbaglio o questa fanciulla vuole diventare il mio capitano?” aveva scherzato, poggiato sullo stipite della porta della camera; perché sì sarebbe stato troppo sfacciato a entrare.
Lo era diventata!
E loro, erano sempre amici, come allora; se si può definire amicizia l’affiatamento tra due monelli prima e sottoposto e superiore poi. Cosa strana era, a detta di Ubaldo e Gherardo, che quell’amicizia non fosse mai mutata in qualcosa di più.
D’altronde era la sarta Lucilla a scaldare fino al cielo il cuore di Mavio e il suo letto, quanto era Moros a far inviperire il solo cuore di Lavinia!
Avessero provato anche un letto, Lavia non sarebbe stata così lunatica, pensava spesso, ma di certo non poteva permettersi di dirglielo!
E così eccoli sguinzagliati per Rocca Lisia, dalla cripta all’ingresso del piano privato dei signori, con Gregorio nella sala dei banchetti assieme a lui in attesa di vociare “A me le guardie!” al primo comparire di Ludovico, mentre Nicandro se ne stava buono, sì fa’ per dire, chiuso in un armadio nella stanza più inespugnabile di Rocca Lisia, a sgolarsi, minacciare, sfoderare calci con tutta la grinta che ci avrebbe messo Moros. Beh! Almeno così l’aveva lasciato.
Tutta la faccenda aveva un che’ di comico.
Sbrigati  principe, a farti vedere! cantilenò nella propria testa. Non si sentiva tranquillo:  i contadini erano sempre più numerosi e in questo momento riempivano il piazzale sottostante, Gregorio più pressante nell’informarsi dell’esito delle ricerche e Moros si negava forse per dare il meglio di sé in una grande entrata scenografica.
Nicandro aveva avvertito che il culmine della battaglia sarebbe stato oggi… Perché doveva sbagliarsi, il ragazzino?
Erano state le mani di Gregorio a sanguinare, ma la morte è stata quella di Guglielmo! aveva rinvangato Lavinia, ma davvero Nicandro aveva sbagliato quella volta?
Aprì la finestra al cenno seccato di Gregorio che alzò un solo dito indice, prima di alzarsi da tavola. In piedi, il padrone si lisciò il pizzetto, si accomodò nervoso le maniche del farsetto e i risvolti di merletto che sembravano troncargli le mani “Dannate!” sbottò, dirigendosi alla finestra.
Un banditore giù nel piazzale esaltò la sua presenza al popolo “Salutate Gregorio di Montetardo, signore di Rocca Lisia. Vostro protettore!”.
Le acclamazioni di alcune fanciulle raggiunsero Gregorio. Il resto furono le solite ovazioni di rito, che auguravano salute e lunga vita.
Ruffiani!
“Perché una mano è macchiata di sangue?” ricordò la domanda che Nicandro gli aveva posto un tempo.
Ricordò la risposta e il sopracciglio aggrottato “Per una ferita o per una colpa.”.
E Nicandro aveva scelto per quella incolpevole…
Mavio vergognosamente l’aveva sempre saputo.
Perché si era comportato in maniera così vigliacca? Semplicemente era stato più facile così! Senza Guglielmo sarebbe stato Gregorio a reggere la loro compagnia, come ora faceva! Le teste chine dei contadini ne erano la prova. La rabbia contenuta dalla paura di una spada che non badava a lacerare un arto perché il signorotto arrogante che la muoveva era stato addestrato ad usarla e da quello dipendeva la ricchezza che ora sfoggiava e che gli era valsa il titolo di conte.
Aveva preferito Gregorio perché Lavia restava comunque una donna e Moros altri non era che un ragazzino di bosco.
Se Lavinia l’avesse saputo… Il suo cuore sarebbe andato in pezzi e probabilmente non l’avrebbe perdonato. Alzò le spalle, automatico. Tanto Gregorio era di spalle; troppo lusingato dalle fanciulle sottostanti  che ne solleticavano l’attenzione per avere l’opportunità di salire al castello e non solo su quello.
Eppure se ripensava al passato, Mavio, sentiva un brivido correre sulle membra. Erano le parole di Guglielmo il giorno in cui aveva esortato Moros a credere nel futuro: Mio nonno era un capitano di ventura. Non meno popolano di quanto sei tu ora!
Perché il suo cuore non si era opposto a quel consiglio che le sue labbra avevano spacciato per una soluzione: Hai sfuggito la morte. Allontana l’ombra della prigionia. Non la tollereresti!
Aveva offerto a Moros la fuga su di un piatto d’argento.
Moros e Nicandro avevano commesso un errore, ma era stato lui a suggerire loro la strada sbagliata, credendo di far loro un piacere che invece si era dimostrata una condanna per entrambi.

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Capitolo 42
*** L'ingresso ***


 

 

NdA. Ho scritto velocemente, quindi prima di leggere questo capitolo scorrete l’indice! Capitolo La colpa

 L’ingresso

 
Bagnarono le lame col liquido della boccetta.
I ruvidi guanti li cautelarono in quest’operazione, negando il tremore delle loro mani nel compiere un gesto che aveva un che’ di rituale.
Non serviva dire che quella stessa lama l’avrebbero rivolta mortalmente contro se stessi come estrema risoluzione, se non fosse valsa contro i nemici.
Ludovico poggiò la mano, dal palmo aperto, sul muro della parete che avrebbe compiuto mezzo giro per aprirsi all’interno del camino, scoprendo la strada della loro rivalsa.
Un rumore di ingranaggi raschiò l’aria, che il  silenzio parve  ingigantire.
Ebbero paura di essere individuati.
Federico immobile; il piede sospeso in aria come se il calcare il pavimento aggiungesse rumore a rumore e li facesse scoprire definitivamente.
Attese prima di decidersi di varcare il passaggio.
Dopo alcuni minuti, Ludovico negò col capo: un cenno di pochi millimetri in orizzontale  a riprova non fosse giunto nessuno.
Nessun rumore nella stanza vuota.
Sembrava che quel piano della rocca fosse stato abbandonato, forse a vantaggio della sala dei banchetti maggiormente ariosa e difendibile da un ricco contingente.
Ludovico ben sapeva che i contadini sarebbero stati a portata degli arceri che pur invisibili rispetto ai comuni soldati erano pronti a scoccare una pioggia di frecce per relegarli al loro posto di sudditanza.
La stanza di suo padre gli parve cambiata, priva degli arredi che ricordava.
Il quadro di mia madre?  
Invano lo cercò. Quello della bellissima Aurora, dallo sguardo indulgente, i lunghi capelli biondi, cornice ad una carnagione lattea.
Che tu sia dannato! inveì a denti stretti verso Gregorio Montetardo,  trattenendo una rabbia di stomaco.
Non più un’insegna drappeggiata sulla tappezzeria del letto e delle tende, come se quella stanza non fosse mai appartenuta a suo padre.
Misurò i passi. La porta dritta di fronte a lui.
Un rumore improvviso.
Prima di dargli un nome, veloci lui e Federico  si portarono con una scivolata sotto il grande letto, mentre Alberico si riparava dietro la pesante tenda damascata.
“C’è qualcuno?” esordì una voce. Un suono ovattato.
Proveniva dall’armadio?  
Federico gli picchiettò sulla spalla.  
Si sporsero entrambi a guardare: i battenti facevano leva sulla chiusura insistenti, come qualcuno li spingesse dall’interno.
Imprudente Alberico si fiondò verso l’armadio, osteggiando quel movimento fino a farlo cessare. Quel rumore li avrebbe fatti scoprire!
Alberico consigliò il silenzio, ma richiese “Non è un armadio a parlare?” soffiò sulla serratura. “Dunque, chi sei?”.
Nessuna risposta, ma lo stesso rumore di un topo che rifugge da un pericolo stendendosi sul lato opposto, più riparato, negata ogni altra via di fuga.
Mentre Alberico stagliava l’orecchio all’armadio, in silenzio lui e Federico si decisero ad uscire e sbarrare la porta, addossandole un grosso baule, che trascinarono con cautela.
Restarono muti, come muto restava l’armadio.
Alberico si chinò a raccogliere la grossa chiave dorata a tre denti dalla testa a cuore, inerme nel pavimento.  Sarebbe bastata inserirla, dare un giro e ruotando la chiave avrebbe sollevato le lastre che allineate avrebbero fatto correre il chiavistello.
Restava a loro decidere.
Gli occhi azzurri di Federico tradivano la superstizione di trovarsi di fronte a quello che tutti potevano credere un genio.
La sua audacia non venne meno; “Sei un nume?” alitò  Ludovico con benevolenza e determinazione assieme. “Se qualcuno ti ha imprigionato non sarò io a volerti rinchiuso.” ammise.
Nessuna voce.
“Non aprire!” consigliò Federico “Lasciamolo qui!”, quasi trattenendo la sua mano per evitare che inserisse completamente la chiave nella toppa.
“Vuoi essere libero?”.
Un rumore. Qualcosa si era avvicinato alla serratura “Non sono un nume.” ratificò una voce di un timbro ancora gentile, propria di un giovinetto.
“Lo è!” si oppose Federico come fosse un tranello.
“Sì, di grazia.” optò per la liberazione la voce, esacerbando la richiesta di Federico “Non dargli soccorso! Chi dunque ti ha imposto questa prigione?”.
La risposta. Un nome. “Gregorio Montetardo.”.
Il chiavistello scattò per mano di Ludovico.

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Capitolo 43
*** Motivazioni ***


NdA: Ciao a tutte ^_^
riprendo con piacere la mia storia dopo un periodo di assenza. Volevo finirla prima di postarla e ormai mi mancano due capitoli da scrivere. Ricomincierò a postare con regolarità. Mi scuso per avervi lasciato con il fiato sospeso.
Quindi bado alle ciance e riprendiamo le avventure di Moros, Lavinia, Nicandro e tutti gli altri personaggi che sennò si offendono.
Buona lettura e grazie a coloro che mi seguono!



 
“Mi aspettavo questo benvenuto!” ammise Moros con freddezza; la mascella tesa.
Ubaldo non commentò l’ovvio.
Per entrambi il silenzio fu preferibile alle parole, perchè cominciare con una soltanto avrebbe fatto straripare un fiume di emozioni che li avrebbe travolti.
Il soldato era serio in volto e le labbra sembravano assaggiare un sapore amaro. “Non hai voluto dimenticarlo”, sospirò.
“No.” disse breve Moros.
Ubaldo mantenne il silenzio.
“Egli è il mio unico e vero affetto.” si giustificò sicuro.
“Ritengo che per lui non sia altrettanto adesso.” rispose Ubaldo senza mezzi termini. La sua lontananza da una parte, la quotidianità con Gregorio e Lavinia dall’altra, potevano aver sgretolato un’antica vicinanza.
Tutti me lo dicono ultimamente! rifletté con disagio. “Può essere che negli anni sia stato istruito bene.” commentò con una scrollata di spalle. “Ma sono sicuro che non mi ha dimenticato.” sorrise sfacciato.
Ubaldo si scurì ancor più in viso. “Impudente!”.
Capisco. Non era consigliabile continuare a rinvangare il passato, ma limitarsi a chiarire. “Sono pronto a riscattarlo!”.
“Riscattarlo?” ripeté Ubaldo impressionato. Le tempie corrucciate. Così dicendo aveva ormai la sua attenzione.
L’aria gli arrivò fredda sul collo o forse sentiva solamente la tensione crescere.
“Lui non è libero.” iniziò: Ubaldo meritava una spiegazione. “Decise di restare a patto mi fosse risparmiata la vita.”.
“Una promessa?” soppesò il soldato, ma non chiese ulteriori spiegazioni.
“Sfiderò Gregorio sciogliendolo da ogni vincolo.”. Il suo tentare era legittimo con quella premessa.
“Impossibile.” sentenziò Ubaldo con voce pacata, come a dire l’esito dello scontro fosse senza alcun dubbio scontato e non a suo favore.
“Non è più tempo per me di vivere da fuggiasco.” rivendicò Moros.
“E condanni Nicandro ad esserlo al tuo fianco? Se prenderà nuovamente le tue difese quale sarà l’epilogo?” valutò spietato Ubaldo, come gli rimproverasse: Cresci!
“Se intuisci che Nicandro potrebbe accettare allora devo tentare!” disse confortato da quell’affermazione.
Ubaldo inarcò un sopraciglio. “Da quando sei così ottimista?”.
Un incento sorriso gli alzò la guancia sinistra. Lo ringraziava di aver pensato che Nicandro avrebbe potuto accettare.
“Tsk” fece Ubaldo. “Se tu morrai… Lui… che scelta avrà dopo aver preso posizione?”.
Si sentì frustare dall’amarezza e una parte di lui pensò a Ludovico. Si maledì di preferire la vendetta del principe sui Montetardo a quella che Gregorio avrebbe imposto a Nicandro, sulla forca.
“Vattene!” lo sorprese Ubaldo: una concessione che mai avrebbe consigliato a un nemico.
Come senza combattere? Capì che Ubaldo voleva sottrarlo alle prepotenze dei compagni. L’altra faccia della medaglia era che gli proponeva di dimenticare nuovamente Nicandro e lasciar perdere la resa dei conti con Gregorio.
“Questa volta no! Non prima di incontrare mio cugino.”.
Ubaldo strinse il pugno. I guanti scricchiolarono. “Me ne pentirò di sicuro!” ringhiò più con se stesso che contro di lui e lo guardò diritto.
Moros deglutì.
“Raggiungi Nicandro.” ordinò.
Moros restò incredulo e scuotè a piccoli tratti il capo come non avesse udito bene.
“Corri in fondo al corridoio. Sali le scale.” scandì Ubaldo accompagnado il dito in quella direzione. “Fa veloce!” consigliò. “Tra non molto sentirai il corno annunciare il cambio delle guardie.” lo istruì pratico.
Ormai, nessuno dei due, avrebbe potuto tornare indietro.
Clap! Clap! Clap!
“Che altruismo.”. Un applauso accompagnò una voce alle spalle di Ubaldo. Una seconda commentò “Te ne penterai di sicuro!”.
Ubaldo non si girò, quasi li vedesse specchiati negli occhi di Moros che li chiamò per nome. “Vittorio.”, “Ottavio.”.
“Mi stupisco di te Ubaldo!” gioì Ottavio nel vedere il soldato sfoderare la spada mentre si frapponeva tra loro e Moros.
“Chi non muore si rivede!” disse il giovane Vittorio dal viso da spiritello impertinente; suggerì fosse giunto il momento di fare i conti tra di loro.
“Penserò io a questi due!” rivendicò Ubaldo. Mise in chiaro “Se è per proteggere il mio signore Nicandro la mia spada è con te!”. Quella era lealtà non tradimento.

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Capitolo 44
*** Non c’è tempo! ***


Non c’è tempo! 


Una fessura appena. Poi una luce abbagliante si stagliò a dividere in due metà il suo occhio sinistro che si chiuse spontaneo. Ci portò la mano sopra, per coprirlo.
L’anta continuò ad aprirsi. Lo mise a nudo, mentre si schermava entrambi gli occhi per abituarsi alla luce.
Davanti a lui distise tre sagome, che via via presero contorni e somiglianze più chiare.
La prima: quella di u iln giovane dai capelli biondi.
Era Ludovico. Era giovane che aveva visto, grazie alle sue percezioni. Le fattezze di un paladino. Gli occhi verde ipnotizzavano smerarldi lucenti e, la voce… Parlò altera eppure disponibile. “Non avere paura.”.
Tanto bastò a Nicandro per fidarsi. Si sporse per uscire; si trascinò con le gambe fino a farle uscire dall’armadio e poggiò i piedi a terra. Restò seduto sul bordo.
Un uomo dai capelli marroni indicava con il braccio verso di lui; l’indice che lo puntava. “Avete visto? Sembra innofensivo, ma è un inganno.”. Il tono era aggressivo e la bocca ringhiò timore e incredulità assieme.
Il biondo giovane che l’aveva liberato mitigò la diffidenza del compagno. “Non spaventarlo. E’ solo un fanciullo!”. Un tono liberatorio. La fossetta sinstra delle labbra alzata dal divertimento. “Federico ti crede un nemico. Lo sei?”.
Nicandro tacque d’istinto; le sue labbra restarono socchiuse. Non fosse stato spalle all’armadio avrebbe indietreggiato.
Il suo salvatore si sporse con il viso verso il suo. “Allora? Ha ragione Federico?”.
Deglutì. Rimarcò “Non vi sono nemico ma debitore.”.
Ludovico ne fu lusingato tanto che rivolse un sorriso ai compagni. “Allora potrò esprimere tre desideri!” scherzò. Ritornò a guardarlo serio, mentre un sedcondo compagno, dai capelli rossi, lo affiancava con un’aria poco rassicurante e diplomatica. Il viso era serio e la mascella dura. “Chi sei? Perché Gregorio ti ha rinchiuso?”: senza giri di parole eleganti, gli mise la mano tra spalle e collo. “Rispondi!” lo tirò verso di sé.
“Nicandro. Mi chiamo Nicandro. E… Sono fratellastro di Gregorio…” sviolinò imprudente, colto di sorpresa. In quei pochi attimi, i lineamenti dei suoi salvatori mutarono in quello di carnefici come se i volti cedessero alle fattezze di lupi; le fauci che bramavano vendetta ammettendo “Un Montetardo!”, “Uccidiamolo!”, “No, ci sarà utile!”, “Prendiamolo in ostaggio!”.
“No! Vi supplico… Devo incontrare Moros!” urlò spaventato il suo ultimo desiderio.
Di fronte a quel nome i giovani si bloccarono.
“Devo salvarlo!” enfatizzò frustrato. “Gregorio sa che vi ha aiutati!” confessò di sapere chi fossero.
Sentiva il viso in fiamme di fronte a quegli estranei, ma non celò il proprio passato. “Un tempo fui salvato dal tutore di Gregorio, che mi prese con sé al castello come suo figlio.” disse. Prese fiato. “Moros è mio cugino! Se voi lo conoscete… Portatemi da lui!”.
“Tu sei il cugino che cerca?”; “Non eri un servo!” affermarono i cavalieri. “Nicandro…” ripeté Ludovico guardandolo come fosse una statua di grande interesse, cosa che lo mise in imbarazzo.
Aveva paura. “Io devo dirgli…”. Cercò le giuste parole. Non le trovò.
No! Devo parlare! s’impose. Prese coraggio.
“Il tempo per lui corre veloce.” ammise: un tono così sicuro da suonare lugubre. “Anche per voi!” aggiunse.
Un avvertimento che suonò come una minaccia.
“Attendo a te, ragazzino!” l’ammonì il cavaliere dai capelli rossi. “Chiarisci le tue parole!”.
Ludovico toccò il braccio del cavaliere per consigliare la calma. “Parli di una trappola? Siamo consci si aspettino un nostro ritorno.” precisò con calma per rassicurarlo fossero preparati al peggio.
Non era più il momento di tacere, si decise. “Userete un veleno o meglio così...” li stupì, mentre Federico incalzava a metà del discorso“Come lo sai?”. Lui proseguì e Ludovico lo lasciò parlare.“Ho interpretato quello che il mio dono mi ha svelato.” svelò.
“Hai detto dono?” lo interrogò con voce superstiziosa Federico che indietreggiò rinsaldando la mano alla spada.
Lui annuì per confermare e Ludovico chiarì quanto capito. “Possiedi il dono della lungimiranza.”.
“Capacità profetiche?” cercò un chiarimento Federico che scatenò con quelle parole il cavaliere dai capelli rossi.“Allora parla!”.
Sentì quelle mani pesanti sulle spalle mentre lo esortava. “Devo sapere!”. Se vedeva nel futuro doveva informarli di cosa avrebbero dovuto affrontare.
“Mi fai male!” si oppose, ma Ludovico aveva già ordinato al cavaliere di limitarsi.
“Non è capacità che può comandare.” disse il principe.
Nicandro lo ringraziò. Si era comportato esattamente come ci si aspettava dal regale protagonista di una bella fiaba.
“Ora capisco la vostra storia.” disse Ludovico. “Per questo Gregorio ha cura di te.”.
“E’ pericoloso.” suggerì Federico che bisbigliò sottovoce a Ludovico. Si capiva che per lui fosse una minaccia tenerlo in vita.
“E’ una capacità involontaria.”. Con queste parole, il cavaliere dai capelli rossi, vide svanire l’aiuto insperato di cui avrebbero potuto avvantaggiarsi. Colpì di pugno l’anta dell’armadio che cigolò oscillando.
Ludovico restò in silenzio qualche istante. Rifletté a voce alta “Devo molto a Moros… Mi è stato leale e d’aiuto.”. Prese una pausa. “Perciò nonostante tu sia un Montetardo, complice di Zelio, ti lascerò in vita.”.
Non l’avrebbe ucciso ne fatto prigioniero.
“Io posso rendervi agevole la strada.” si sentì in dovere di suggerire.
Ludovico gli sorrise. Abbassò il volto per guardarlo meglio negli occhi: un brillante verde con sfumature arancio, in quel momento caldo e rassicurante.
“Ti metterei in pericolo e Moros non farebbe che rincorrerti senza riferimenti.” lo istruì sulla cosa giusta da fare. Precisò “Del resto non è mia intenzione usarti come ostaggio per liberarmi la via.”.
Nicandro allargò gli occhi a quelle parole.
“Gregorio e Zelio sono per certo nella sala dei banchetti…” volle aiutarli fornendogli un’indicazione, prima che grida all’esterno provocarono un frastuono che identico si propagò nei corridoi.
I cavalieri si posero sulla difensiva, mentre Nicandro riportava il nome udito, pronto a raggiungerlo: Moros!

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Capitolo 45
*** Una voce ignorata ***


Una voce ignorata


“Comandanteee Laviaaa.”, “Maviooo.”, “Moros è qui!” si sentì gridare.
La voce, uscita dalla finestra, dapprima fu udita debolmente nel piazzale.
“Laviaaaa. Mavioooo. Accidenti dove siete?” gridò con più forza la voce.
L’aria la portò sottile alle orecchie dei contadini che non vi fecero caso nel brusio delle loro voci che discorrevano; finché di soldato in soldato arrivò amplificata come una minaccia al comandante Lavinia; che da come si mosse veloce sembrava aspettare quell’arrivo da sempre. “Moros è qui!” diceva quella voce.
“E’ la voce di Ubaldo!”.
“La sento!” disse lei rabbiosa a Mavio che gli correva appresso.
“L’ha trovato!” le rispose affannato. “Si è fatto furbo per arrivare tanto vicino a Nicandro!”.
Lavinia si girò aggressiva verso di lui: non era il momento né degli elogi né di sarcasmo. In effetti era stato abile!
Erano ormai vicini.
“Rinforzi!”, “Rinforzi!” si accavallarono altre voci. Distinse quelle di Ottavio e di Vittorio.
Stupidi! Perché chiedono ulteriore supporto?
Corse per arrivare prima.
Ringraziò di esserci riuscita.
“Lasciatelo a me!” disse prima di rendersi conto che Ubaldo non era affatto in difficoltà con Moros, ma con Ottavio e Vittorio, tanto che disse “Esigo una spiegazione!”.
Qui si mette male… sembrò esprimere il volto di Vittorio nel vederla: lo abbassò quasi volesse mascherare la piega delle labbra con il lungo ciuffo.
Fu Ubaldo a rispondere mentre Vittorio intimava un frettoloso “Taci!”.
“Moros vuole sfidare Gregorio per sciogliere Nicandro dalla sua promessa. Quella la sua sola richiesta!” precisò Ubaldo senza indietreggiare di fronte al superiore.
Un’azione legittima, s’interrogò Lavinia e nel farlò guardò Moros. Il viso più determinato di quanto ricordasse, gli occhi di un blu così profondo che le sembrava di aver sempre ignorato, i capelli lucidi che avrebbe voluto sfiorare, la pelle che avrebbe volentieri accarezzato, le labbra…
“Lui è mio!” disse ma la voce le vacillò nell’affermarlo. Mavio mascherò male un sorrisetto ironico che Ubaldo freddò con un’occhiataccia.
Schiarì la voce con un colpo di gola. “Restate ai vostri posti!” comandò con decisione.
“Non voglio sfidare te, ma Gregorio!” disse Moros. In lui solo la freddezza che lei aveva costruito per se stessa da una vita intera.
Perché mi tratti così...
“Cosa dici?” le uscì di bocca mentre gli correva quasi incontro stupendo i compagni. Le guance tese, livide. Si impose di non finirgli addosso. Avrebbe voluto toccarlo come l’ombra di un sogno.
Pensò al passato… Non ci sarebbero state fiammelle quella sera e neppure quel bacio quasi clandestino, ma dentro di lei lo stesso stravolgimento della sera che aveva diviso i due cugini di Raucelio.
Solo ora capiva di aver impedito da sempre che quel momento si ripresentasse, come l’ultimo epilogo di una tragedia. “Perché sei qui, proprio adesso?”.
“Non ho mai perso le vostre tracce, lo sai bene.”. Era vero, non poteva negarlo. “Solo ora ho preso coraggio!” ammise la verità.
Una determinazione sconosciuta al giovane tanto criticato da lei.
“Sei qui per Nicandro.”.
Poche parole. “E’ come ha detto Ubaldo. Sono qui per sfidare Gregorio! Lasciami tentare.”. Era conscio della superiorità di suo fratello.
Lavinia si morsicò il labbro superiore. Pensa… Lavinia… Pensa…, si disse.
“Non posso…” soffiò; gli occhi che iniziavano a offuscarsi. Perché cedevano le sue convinzioni? Cos’era cambiato?
Le parole.
“Brutta strega!”, le aveva detto a Raucelio cinque anni fa, ma ora…
“Lavinia…” le disse pacato. “Aiutami a spezzare l’incantesimo che ci hai imposto.”.
Restò catatonica a quelle parole. Il capo in un movimento involontario negò di poterlo fare. Non è colpa mia!
Voleva dire non vi riuscisse, ma lui lo interpretò per l’ennesimo diniego a cui si ribellò come allora.
“Restituiscimi Nicandro!” s’avventò su di lei: le forti mani di taglialegna sulle sue spalle a scrollarla, mentre i ciuffi della fronte le finivano scomposti ai lati degli occhi. Perdonami! Non posso farlo! Avrebbe gridato, ma invece restò muta.
Mavio cercò di intervenire ma Ubaldo gli si pose davanti di petto.
“Se è vero che hai diritto di vita e di morte…” sentì riconocere mentre la scrollava, “Comportati con benevolenza! Se mi comandi rispetta il mio reclamo…” la esortò.
Era sconvolta per quelle parole.
Lui la lasciò.
Lo vide inchinarsi e piegare la testa. “Mi appello al vostro giudizio!”.
Per lui da strega si era tramuta in regina.
Per lei da taglialegna si era tramutato in cavaliere.
Sentì il cuore frantumarsi, come se una freccia l’avesse colpito. Vacillò, portando la mano al petto sul seno sinistro.
Doveva accogliere quella richiesta; non vi si poteva più sottrarre…, ma non sarebbe stato così per Gregorio che sghignazzò alle sue spalle.


NdA: Ringrazio di cuore tutti coloro che mi leggono; chi segue le mie storie e chi mi ha messo tra i suoi autori preferiti.
In particolare ringrazio Vento di Luce e Francyzago di cui Vi consiglio le storie perchè sono davvero bellissime ^_^


 

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Capitolo 46
*** Mavio! Non abbandonarmi proprio ora! ***


titolo del capitolo: “Non abbandonarmi proprio ora!”






“Mi chiedevo cos’era tutto questo chiasso.” sghignazzò.
“Gregorio!”. Moros masticò quel nome indigesto. “Tuuuu!” lo additò.
“Lo dici come fossi la fonte delle tue disgrazie!” ironizzò lui, aggiungendo velenoso “Quando è lei la causa!” e indicò la sorella. La vide sconvolta toccarsi il petto quasi fosse stata colpita.
“Ti sfido!” mise in chiaro Moros con un ringhio.
“Non lasciare che l’odio parli per te, ti inacidisce il volto!” scherzò lui, mantenendosi nelle retrovie di Ottavio e Vittorio.
Il dialogo a due impose agli altri di tacere.
“Sono pronto a sfidarti!”.
Gregorio tenne chiuse le labbra, anzi le strinse ancor più, per impedire l’equivoco accettasse. Urlò. “Ottavio!”. “Fai prepare la forca!” sorrise.
Il soldato avanzò verso Moros. Lavinia li separava. “Non intrometterti!” mise in chiaro Ubaldo incorciando la spada con Ottavio. Non aveva paura di prendere le difese dell’antico scudiero di Guglielmo.
“Fermi!”. Qualcuno accorse verso di loro dal fondo opposto del corridoio.
Gregorio riconobbe quella voce.
“Nicandro.” pronunciò Moros quando lo vide. Un tono sentimentale, come valutasse: Quanto tempo…
Nicandro smise di correre. Prese fiato. Avanzò la mano. “Sospendo il comando.”.
Ottavio restò immobile, mentre Ubaldo approvava “Hai sentito gli ordini?”.
Come hai fatto a uscire? pensò. “Come osi!” s’infuriò.
“Sospendo il comando!” rivendicò Nicandro: il volto serio. Le labbra di Moros si mossero a chiamarne il nome quando gli fu vicino; come di fronte ad uno spirito di passaggio nel regno terreno.
Nicandro toccò Moros al braccio. Lo strinse un’istante come lo volesse rassicurare. Le dita si mossero sulla tramatura del mantello. Si soffermò per farvi una carezza. Moros lo mise in guardia, ma Nicandro gli rivolse un sorriso appena. Questa volta avrebbe pensato lui al cugino; passò oltre.. “Ordino di sospendere un giudizio arbitraio!”. Restò a distanza.
“Non puoi…” disapprovò Gregorio. “Questi sono i miei uomini!”. Rise e con gesto plateale indicò attorno a sé e verso il soffitto. Tutto gli apparteneva!
“Nicandro Montetardo è il mio singore!” rivendicò Ubaldo per primo, ma solo.
“Irrilevante!” sfotté le esigue risorse di Nicandro, che tuttavia non perse di coraggio.
“Neghi per paura?” si sentì tentare.
Torse le labbra prima di giocare con l’affetto. “Moros potrebbe morire  e, sarebbe colpa tua!” sentenziò sfidandolo con lo sguardo.
Nicandro non fece in tempo a rispondere, che una voce dal tono regale pronunciò “Moros è disposto a morire per la propria ragione.”.
Nuove figure apparvero dal fondo del corridoio: indistinte.
Spettri?
Indietreggiò. Agguzzò lo sguardo. Assottigliò gli occhi, mentre le figure avanzavano.
“Nicandro e Moros non sono soli. La mia spada serve a difendere dai soprusi!” argomentò la voce. Finalmente ne riconobbe le sembianze: distinse quella chioma bionda che tanto aveva distrutto nei quadri!
Ludovico Chiarofosco!
Non era momento di tergiversare.
La situazione richiede calcolo. Gridò. “Guardie! A me!”. Più alto di ogni altra parola, un nome: “Ludovico!”, “Il principe è qui! Prestoooo!”.
E quel nome corse. Serpeggiò tra i corridoi del castello, scavalcò il balcone della finestra, soffiò sui galletti segnavento, agitò le fiamme dei camini della cucina di Eugenio, arrivò tra i soldati e sul piazzale dov’erano radunati i contadini.
“Ludovico?”, “E’ qui!”, “Andiamo, presto!”. I soldati sollecitati dalla richiesta sfoderarono le spade come se il principe fosse già presente tra loro.
Non ci volle molto che Zelio apparisse davanti a tutti, ma si fermò nelle retrovie.
“Vi staneremo come topi!” precisò Gregorio ricevuta manforte. Della larghezza di appena otto braccia aperte, il corridoio era troppo stretto per l’intervento dei soldati per circondarli, ma era altrettanto vero che i nemici erano in trappola: potevano solo salire, morire combattendo o lanciarsi nel vuoto dalle torri.
Ludovico con i suoi due sottoposti, Moros e Ubaldo con Nicandro, non avrebbero rappresentato alcun problema.
“Di Moros e del principe occupatene tu!” ordinò infastidito alla sorella. “Di Nicandro mi occuperò io!” concluse seccato. Ludovico era di Zelio!
“Non osare!” sentì ringhiare Moros, come se la fiamma della collera fosse rinvigorita nel temere per il cugino. Lavinia gli stava di fronte e i loro occhi si specchiavano l’uno nell’altra.
“Avanti Mavio!” sentì dire da Lavinia. Fu rassicurato da come lo disse. Ricordava che un’altrettanta fiamma animava la sorella contro quel giovane.
Si girò per andarsene ma il suo passo frenò di colpo all’udire la richiesta di Lavinia all’amico d’infanzia. “Mavio! Non abbandonarmi proprio ora!”.
“Andrei in capo al mondo per te!” confessò il soldato che facendo un mezzo giro completo, come in una danza, eseguì gli stessi movimenti di Lavinia che prendeva posizione simbolicamente per i nemici.

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Capitolo 47
*** Colpe e malefici ***


NdA  questo capitolo è un po' lunghetto. Quindi mettetevi comodi!
ps ho postato velocemente, quindi occhio al capitolo precedente. Buona lettura e grazie infinite di leggere 



47 Colpe e malefici                   



“Ludovico?”, “E’ qui!”, “Andiamo, presto!”. L’andirivieni dei soldati aveva consigliato a tutti di sedersi e non dare fastidio.
“Ecco quì la mia simpatica assistente!” disse quando Belinda le corse incontro.
Guardò l’intero piazzale dove tutti i contadini, arrivati per la cerimonia dell’Adunanza, sembravano bivaccare nell’attesa di promettere lealtà. Adelberto e Eugenio sedevano a terra in attesa.
“Quindi è per il mio bel principe tutta questa confusione!” disse agli amici, con le mani ai fianchi quasi fosse una seccatura.
Pfa..re di ffi!” rispose Eugenio sputacchiando parole, mentre Belinda si alzava sulle punte dei piedi per danzare; portò le mani alle guance e pigolò “Ahhh… Quant’è bello Ludovico...”.
Lei si accomodò tra loro sopra una balla di foraggio. Diede aria alle caviglie, accomodò la lunga gonna e anche se il suo vestito era umile, questo non le impedì di atteggiarsi a consumata e altera regina pronta a un’udienza, distinguendosi dalla folla. Poggiò il cestino da cui spuntava il collo di più di una bottiglia. La chioma nera incorniciava la carnagione dal colorito sano. Gemme di onice davano forma agli occhi. Le labbra erano il sottile flettente di un arco.
“Chissà se si sono già incontrati.” disse e, si strofinò la punta del naso. “Chi?” chiese Belinda.
“Ludovico, Moros e Nicandro.”. I capelli dondolarono in morbide ciocche.
A Belinda brillarono gli occhi nel fantasticare sui tre giovani: i suoi tre principi.
 “Dai sietidi e resta buona…” suggerì, ma Belinda fece il broncio, “Uffaaa!”.
La chiamò a sé con un colpetto a lato del fianco, un po’ come si fa con un cagnetto. “Siedi.”: la voce volutamente bassa come qualcuno dormisse.
Belinda si sedette di malavoglia finché lei non disse “C’era una volta…”.
L’urlo di gioia che cacciò Belinda fu contagioso nonostante il pandemonio dei soldati tipico di quella che a tutti gli effetti era un’incursione nemica.
Bambini si materializzarono tutt’intorno a lei, con i soliti candelotti di muco al naso ma anche i sorrisi.
“La storia inizia con due cugini. Moros e Nicandro vivevano spensierati insieme…”.
Pure Adelberto la guardò, curioso di quella favola.
“Finché…”. Malia avanzò il braccio destro e fece indietreggiare il gomito sinistro. “Zaphf!” esclamò quando il gomitò scattò un po’ più indietro nel mimare l’uso di un arco. “La freccia di una soldatessa non divise il loro destino…”.
“Una soldatessa?” rise di gusto Mario, il figlio del ciabattino. “Sarà stata una strega!” appuntò.
“No, carino! Era una soldatessa e tu dovresti stare zitto!” si mostrò innervosita. Risero tutti al contrario del bambino mortificato per averla interrotta. Le bambine incredule, che una donna fosse un soldato e non una principessa da salvare, incitarono “Racconta!”.
Belinda le rubò la parola. “Nicandro fu l’involontario legame tra lei e Moros.” disse saputella con il dito indice alzato.
“Una storia d’amore? Bleah!” fecero i maschietti con tutta la lingua di fuori. “Che smorfiosa che sei Belinda!” disse con la sua vociona pastosa il pigro e grassotello Antonio.
“Tutt’altro! Si odiano a morte!” rispose Belinda veloce. “Cacciò via Moros e Nicandro restò al castello.”.
“Perché? Era tenuto prigioniero dalla soldatessa?” chiese un bambino dai capelli a cespuglio. Belinda negò “Macché prigioniero. Un nobile divenne suo padre. Nicandro ci stava benone nel castello. Ma sei matto a starci male in un castello? ” gesticolò unendo le dita delle mani e muovendole avanti e indietro.
Tutti risero e il bambino si toccò la fronte dandosi un pugno come dovesse averlo immaginato prima di parlare e farsi prendere in giro.
“E Moros cosa faceva tutto il giorno senza Nicandro?” intervenne una bimba.
“Carolina!” l’apostrofò Belinda “Devo dirti proprio tutto? Era un boscaiolo. Quindi le solite cose… tagliare la legna, andare a rane, cacciare…”.
“I draghi!” rise un altro. “Leopoldo! I draghi non esistono!” precisò Belinda, ma poi ci rifletté su. “In effetti, cacciava giganti e stregoni....” disse con un cenno del capo.
 “Ooooh.”
Belinda sei incorreggibile! Malia dondolò il capo.
“Comunque Moros è qui al castello per Nicandro.” li lasciò a bocca aperta riprendendo la parola. “Vuole parlargli… Ricondurlo con sé, forse… Se glielo permetterà… o meglio se glielo permetterà Gregorio Montetardo.” chiarì con sguardo sottile e truce. Conoscevano il nome di colui che li comandava con ferocia.
Malia si prese un ciuffo di capelli e lo avvolse sull’indice. Portò avanti la mano destra e la guardò contemplandosi le unghie come fossero artigli. Mise in chiaro. “Sappiate che ho cercato di far desistere Moros!” commentò sgradevole in una limpida antipatia con il personaggio di Nicandro, raccogliendo l’attenzione dei bambini a cui sapeva piacessero dinamiche impreviste.
“Ho un piccolo segreto da confidarvi…” ammise.
Silenzio.
“Nicandro era piccolo quando dopo un tremendo incendio lasciò Macerino.” raccontò.
“Ooooh.”
“Anch’io vengo da Macerino.” stupì i presenti e Eugenio, attento, con loro.
“Ooooh.”
Svelò le proprie bruciature. “L’incendio ci è impresso nella carne!” disse. Guardò con un sorriso tenebroso i bambini che urlarono.
“Aaaah.”. Amavano le storie di paura e più di uno guardò la pelle tesa e lucida con un misto di curiosità e repulsione.
“Morti i suoi genitori…” disse lugubre, “Fu la vecchia Agata a salvarlo e portarlo da…” sembrò faticare a ricordare un nome che infine proferì. “Sì, ora ricordo!”. Si picchiettò il capo tre volte sulla fronte nel ricordare.“Zia Matilda!” rise ironica.
“Zia!” sembrò trovare comica la cosa. Si batté sulle cosce, gustandosi l’esito di quella rivelazione che smascherava non fosse autentico quel legame.
“Non era mica sua zia!” precisò Belinda per chi non avesse capito.
“Non è mia zia?”. Malia mimò un giovinetto preoccupato che si struggeva di quella rivelazione. I bambini negarono col capo a Nicandro. Che razza di pesti!
Che i suoi genitori fossero morti Nicandro l’aveva sempre saputo, ma che Moros non fosse veramente suo cugino lo ignorava.
“Agata non era un tipo materno tanto da allevarlo di persona.” confidò Malia, anche se sotto mentite sembianze non l’aveva mai perduto di vista; fosse anche una semplice volpe, un topolino sfuggente o un’impertinente ranocchia.
“Matilda, sbandata e ciucca era perfetta per impersonare la parte di una parente.”, ne fece la caricatura col singhiozzo.
Tutti risero, anche le donne che si erano accomodate sulla scia dei loro entusiasti marmocchi.
Allungò la piega delle labbra fino a renderle una linea orizzontale “Così Nicandro e Moros crebbero assieme.”.
“Che bella storia!” sottolineò Lucilla di Ferro Lucio, mentre la piccola Agata di Ruggero il macellaio intervenne. “Perché Agata salvò Nicandro?”.
Malia avanzò con il volto. “Si sentì in colpa. Fu suo figlio a incendiare Macerino.”.
“Ooooh.”.
“Lui era…?”. Malia agitò le mani avanti a sé come mescolasse l’aria di un pentolone magico e vaporoso. “Baltasar di Foresta Cupa!” lo nominò di colpo.
“Aaaah.”.
Indietreggiarono tutti come fosse tenebra da cui tenersi lontano. Lucilla si rannicchiò su se stessa come una chiocciola che nasconde testa e antenne.
“Ahh, non temete. E’ morto!” rise di pancia Malia, sventolando la mano come per un’inezia. Nascose il viso con le mani e le portò verso i lati, finché non raggiunsero il mento a formare una coppa sulle guance. “Agata aveva sposato un cavaliere, un eroe buono, ma Baltasar non seguì le loro orme e crebbe competitivo, ambizioso e malvagio.”. Usò tre aggettivi inequivocabili di come fosse stato di carattere Baltasar. “Già prima della morte di suo padre, indegno di spade e titolo… Incontentabile si rivolse contro la sua stessa madre.” annuì puntuale.
“Uomini avidi ci saranno sempre.” sottolineò Malia come se Zelio non rappresentasse un’eccezione. Una lezione per tutti.
“Ma ora Moros dov’è?” chiese Lucilla ritornata con la testa al sole.
“Corre nei corridoi del castello!” li stupì agitandoli tutti d’entusiasmo mentre le mamme gesticolavano e intimavano di stare seduti.
“Ma tu come lo sai?” disse Carolina.
Lei alzò le spalle. “Moros doveva forse preferire una vita senza Nicandro?”. Negarono di brutto e lei si tappò le orecchie al loro “Nooooo.”.
“Lui è il mio eroe!” sottolineò Belinda che già si vedeva sposa, inimicandosi Carolina, che appuntò “E’ anche il mio!”. “Ma io lo conosco e tu no!”. Ne sfociò un battibecco tra ragazzine che consigliò al paciere Antonio di farsi da parte.
“Un eroe di questi tempi è merce pregiata.” corresse quella superficialità come avrebbe fatto la vecchia Agata verso di lei, ma ai bambini non importava: un eroe avrebbe salvato la favola.
“Basta chiacchere!” si disse. Doveva pensare a come aiutare Ludovico e Moros e una mezza idea ce l’aveva per sguarnire i soccorsi a Gregorio e Zelio.
Guardò le preziose bottiglie e si alzò.
Vide il buon Eugenio gesticolare con gli arceri, che sulle cortine chiedevano qualche goccio d’acqua. Non avevano lasciato le loro posizioni.
Eugenio spostò l’aria con la mano per posticipare la loro richiesta, quindi ora entrava in scena lei! Nicandro ti affido Moros! Spero che tu sappia interpretare quanto prezioso è il dono di Agata.
Agitò la mano civettuola a un arcere e agli altri, apparsi come piccioni di uno stormo al porgere del grano.
“Heilà, bei soldatini!” fece intendere di salire e imbracciò il bottino che avrebbe portato con sé. Una sorsata sarebbe bastata; se non vino anche l’acqua portata da una bella donna sarebbe stata gradita.
Qualcuno le tirò il vestito con insistenza. Ora mocciosi, lasciatemi in pace. Si inalberò, “Cosa c’è ancora?”.
“Non ti hanno insegnato a trattare una signora?” disse seccata all’ennesimo nanerottolo.
Rimase fredda quando chinò il viso verso quegli occhi verdi intenso su di un incarnato bianco e i capelli neri, lucidi come il piumaggio di un corvo.
Balta… si trattenne dal vaneggiare.
“A cosa serve un eroe?” insistetté il bambino che ora a guardarlo bene non assomigliava per nulla all’uomo di cui si era innamorata un tempo.
Si guardò attorno. Fosti tu a confidarmelo. Girò la testa a destra e a sinistra e dietro di sé, mentre involontaria proferiva la risposta, alla sola aria. “A spezzare un maleficio!”.
Sentì gelare le mani. Grazie di avermelo ricordato, mio spietato carceriere.
Sospirò. Non vale per quello che mi hai imposto. Da Macerino il fuoco. Da Macerino le lacrime. Non bastava il cuore di un eroe o la sua spada per far cessare il rimorso.

 

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Capitolo 48
*** Il confine varcato ***


  Il confine varcato     



“Lo scontro è inevitabile!” disse Ludovico. Urlò. “Zelio vieni avanti!” e la sua spada frustò l’aria con un sibilo.
“Lo stesso vale per te, Gregorio!” precisò Moros.
“Mi è lecito chiedere quando e dove?” s’informò cordiale sorvolandovi.
Gregorio vide Ludovico annuire a Moros che rispose senza farselo ripetere, a nome di tutti e due. “Qui e adesso!”.
“Quanta determinazione leggo ora nel tuo sguardo.” apprezzò e applaudì con tre colpetti della mano destra sulla sinistra. “Commovente!” sentenziò.
“Sto aspettando!”.
“Metteresti in pericolo la tua vita solo per sciogliere Nicandro dalla sua promessa?” lo interrogò con volto bieco.
Un secco “Sì!” caricò l’aria di aspettativa in entrambe le parti.
“Moros… Moros…”disse scettico. “Mi dedudi.”.“Commutai la tua pena in sua preghiera e ora entrambi mi biasimate.” rimarcò. “Non volevo farti un torto.” chiarì e una genuina incredulità fece da cornice alle sue parole. “Per quello che mi riguarda Nicandro è libero da ogni promessa.” disse pacato.
“Non ti credo!” disse il boscaiolo al lupo.
Zelio si pulì la bocca nervoso: per lui non c’era scorciatoia al combattere contro Ludovico che lo sfidava con uno sguardo impaziente.
“Puoi credere ciò che vuoi!”. Gregorio portò la mano al farsetto e vi scavò dentro con la mano. “Questo era di Guglielmo!” disse traendo un pendaglio d’argento.
Moros osservò il cimelio. Lo riconobbe. Era una piastra metallica, lavorata a sbalzo e raffiguarava un’aquila dalle ali aperte. Era il simbolo dell’acquisito titolo di conte del capitano di ventura Guglielmo Montetardo.
“Puoi tenerla tu, Nicandro.”. Gregorio la strinse nel pugno.
Nicandro non osò avvicinarsi, così lui fece l’atto di piegarsi sulle ginocchia per posarla a terra. Allungò la mano verso il pavimento.
“No!” lo frenò Nicandro per impedire un affronto alla memoria di Guglielmo.
Lui si bloccò. Aprì il palmo. “E’ tua!” insisté. Avanzò la mano.
Nicandro si decise ad accettare e, senza farselo ripetere poggiò entrambe le mani a racchiudere la sua. “Lo terrò come il gioiello più caro.” disse con un soffiò. “Volevo solo salvargli la vita.” Confessò. “Aveva eseguito l’ordine di Guglielmo.” difese l’agire del cugino.
“L’ho compreso.” confermò con poca convinzione. Sprezzante girò il capo.
“Gregorio...”. “Per quello che vale, ti ringrazio.” riconobbe Nicandro. In quelle parole c’era la riconoscenza per la famiglia che lui e Lavinia gli avevano dato.
“Hai fatto la tua scelta.” disse. Aveva superato il confine che non avrebbe mai dovuto varcare. Il loro commiato era giunto.
“Se permetti….” disse.
Nicandro assecondò il calzare del pendente che Gregorio gli calò sul capo e, rimirò il ciondolo, pendente sul proprio petto.
Ora!
Gregorio ringhiò di gola e veloce aggrovigliò la catena al pugno. Tirò, mentre le mani di Nicandro reagivano automatiche verso il collo.
Sentì l’intervento di Lavinia alle braccia, nel tentativo di contenere e bloccare la sua furia, mentre le spade iniziavano a incrociarsi per tutti gli altri. Zelio e i suoi uomini contro Ludovico e i suoi compagni, Ottavio contro quel traditore di Ubaldo, il giovane Vittorio contro Moros, finchè Mavio non prese il posto di quest’ultimo perché aiutasse Lavinia.
“Non intrommerti!” affrontò la sorella, mentre gli sfuggiva la presa sulla catena. Riuscì a scaraventarla verso la finestra dove urtò la testa, mentre Nicando finì a terra.
Moros gli arrivò addosso. Lui rispose veloce di spada e lo ferì alla scapola sinistra costingendolo a indietreggiare, come se inciampasse.
Con lo sguardo a Lavinia, Moros ignorò la ferita; sollevato di veder Nicandro respirare a pieni polmoni e tossire più volte con entrambe le mani davanti alla bocca ad accompagnare i sussulti per far rifluire l’aria.
Lavinia mosse il capo e riprese coscienza. Frastornata si massaggiò la testa con la mano macchiata del sangue della tempia sinistra, dove la cute era lesa.
Moros accorse da lei e si chinò al suo capezzale, nonostante una macchia rossastra gli coprisse la scapola. “Pensa a Nicandro.” disse lei.
“Che cosa dici?” rispose lui alla conferma di Nicandro di stare bene. Lei lo prese al braccio. “E’stata tutta colpa mia.” fece ammenda. Lui le sorrise e, tra cuore e braccia, le distese il lembo del mantello, come se volesse proteggerla e riscaldarla con il suo stesso calore.
Gregorio portò la mano sul viso; il palmo aperto per non vederli. Uniti non aveva più potere su di loro.
“Avrei dovuto ucciderti un tempo!” disse a Moros. La rabbia saliva. Sentiva le guance tese, i denti strisciare. “Questa volta non delegherò ad altri questo compito.” Sentenziò. Lavinia ne fu sconvolta.
“Commissionai io a Bastiano il compito di uccidere Moros, ma lui fallì.” disse con livore, mente Nicandro lo guardava quasi balbettando dall’agitazione. “A…ve…vi… promesso…”.
“Le promesse sono vuote.” lo istruì ilare.
“No! sono importanti!” intervenne Ludovico.

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Capitolo 49
*** Posizioni invertite ***


“Finalmente principe!” lo accolse, poi guardò Zelio con labbra sprezzanti stabilendo le priorità. “Occupatene tu!”.
Vide Nicandro indietreggiare senza alzarsi da terra verso la finestra e fermarsi con le spalle al muro.
Moros coprì col proprio corpo Lavinia e lui ironizzò soltanto “Se insisti?”. Li avrebbe uccisi tutti e due. Lui prima, lei dopo.
Stava per avventarsi su di loro, quando dovette evitare Vittorio che in una caduta contro Mavio, capitò nella sua traiettoria.
“Perdono!” si giustificò il ragazzo mentre il ciuffo, dall’insolita tintura grigio turchese, veniva sfilacciato da un colpo laterale di Mavio.
Gregorio divenne ancora più aggressivo di quanto già non fosse. “Incapaci!” urlò.
I soldati accorsi in sua richiesta restavano dubbi di intraprendere la lotta contro Ubaldo e Mavio. Nonostante le sue insistenze il loro sguardo era per Lavinia e Nicandro difesi e non attaccati.
Non andava meglio a Zelio i cui soldati si erano accasciati man mano che incrociavano le spade con i compagni di Ludovico. Così abili sono questi giovani? Che sia possibile che le loro spade siano…?
Indietreggiò. Moros e Lavinia non valevano un tale rischio e li lasciò rialzarsi.
“Avanti! Che state a fare razza di incapaci!” ammonì le guardie, che come cani ben addestrati eseguirono il comando, riducendo lo spazio disponibile per i nemici e costringendoli a ripiegare.
 “Gregorio basta!” lo richiamò Nicandro.
Lo ignorò. Doveva verificare il proprio timore e trovò l’occasione durante la carica di Zelio che diede soddisfazione al principe che lo attendeva.
Ogni singolo arto si muoveva calcolando offesa e danno. L’assalto equivaleva a scoprirsi, la difesa significava esporsi a ferite che nessuno dei due era intenzionato a procurare a se stesso.
Zelio roteò la spada improvviso. Ludovico si abbassò di colpo flettendo le ginocchia e la spada non trovando ostacolo finì oltre.
“Santo cielo! Vittorioooo…” urlò Lavinia al ragazzo, che restava pur sempre uno dei suoi uomini. Lo avvertì appena in tempo e, come un sottoposto di Zelio, anche Vittorio schivò il pericolo e si rialzò lesto. Un terzo uomo rimase a terra; troncato in due.
“Sarò un pazzo ma non posso tradire il mio capitano!” sentì dire al ragazzo. Incredulo di quel passo Vittorio portò la punta della spada in basso.
“Bravo!” si congratulò Lavinia, raggiante come una madre nel vedere il figlio fare la cosa giusta.
Le posizioni iniziavano a sbilanciarsi pendendo verso Moros e compagni.
Poteva non essere detta l’ultima parola.
Un soldato restava immobile a terra, ferito dalla spada del cavaliere di nome Alberico. “Soldato! Alzati!” lo spronò sporgendosi. Si chinò sul ginocchio e lo strattonò alle spalle, fino a tastarlo sul collo: era caldo. Lo guardò meglio. Un dito! Il mignolo si mosse. Non è veleno! Era solo un potente narcotico.
“Avanti! Uccideteli!” urlò ottimista.
Ottavio incalzò Ubaldo ma l’esempio di Vittorio lo trattenne da un affondo mortale, a cui anche Ubaldo non cedeva.
“Non abbiamo interesse a Rocca Lisia.” rivendicò Nicandro . “Il soldo di Zelio è insufficiente a coprire le perdite che stiamo subendo e il nostro giudizio non è più imparziale.” sottolineò ai presenti.
“Il tuo di giudizio!” rivendicò Gregorio.
“Gregorio, ti prego rinsavisci!” lo trattò da pazzo con due occhioni imploranti, già dimentico del suo gesto vendicativo. “La soluzione è rientrare a Montetardo e tu lo sai bene!” non gli lasciò tregua Nicandro. “Non sono bastate le ritorsioni a incrinare la fiducia del popolo verso Ludovico e ho compreso io per primo il carisma che lo contraddistingue.”.
“Chiudi quella bocca!” ringhiò Zelio e Nicandro s’acquattò: una mossa di sottomissione che distolse l’attenzione di Zelio verso di lui.
Infatti… “Mi sono affidato a voi, Gregorio!” rivendicò il loro patto, nello stesso momento in cui Ubaldo e Ottavio indietreggiavano di colpo da chi, morto, sembrava ridestarsi alla vita. “Che stregoneria è mai questa?” disse Ottavio.
Con un colpo di tosse improvviso uno dei soldati creduto morto, iniziava un lento risveglio: una mano alla testa com’era stato per il risveglio di Lavinia. Si girò sul lato, mentre una gamba si riprendeva dall’intorpidimento.
Moros guardò il principe, incredulo. Aveva usato un veleno! “Ne saresti stato capace?” disse. Ludovico accennò un mezzo sorriso, poi approvò con il capo. La sua scelta era evidente, tuttavia qualcuno gli aveva giocato un brutto scherzo.
“Credimi, Moros, è meglio così!” disse Ludovico. Strinse le labbra, poi frustò l’aria con la propria spada per tre volte. “Mi è stato impedito di commettere un atto vile!” ringraziò e il volto era sereno. Il principe scelse un destino imprevisto. “Proteggerò te e la tua amata!” disse allo scudiero “Fino alla fine!” sentenziò, quasi che difendere loro fosse più importante di ritornare sul proprio trono. Avrebbe difeso l’amore.
“Aaargh”.
Un lamento improvviso anticipò un fiotto di sangue che schizzò nell’aria.
Il compagno di disavventura di Vittorio iniziò a schiumare dalla bocca a spruzzo; incredulo in viso di non ricordare ferita mortale se non uno strappo sulla manica che ora guardava con occhi di fuori.
Come Gregorio tutti capirono: le posizioni si erano appena invertite!

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Capitolo 50
*** Amata... Amato... ***


 NdA:  anche questa volta sono incorreggibile. Ho macinato capitoli. Perciò attenti all'ultimo capitolo letto!
Un grande abbraccio a tutti dalla vostra Alarnis ^_^


Amata… Amato…
 
Ricordava gli svenevoli commenti di Fiamma e Doralice “Come siete fortunati! Dimorerete a Montetardo!” “E’ un luogo meraviglioso?”.
Lei e Nicandro quasi soffocati da quell’impeto vivace quanto ipocrita. Retorica e semplice chiacchiericcio di due affettate domestiche, che dimenticavano che per lei Montetardo fosse già casa!
Strinse la mano a Nicandro, imbarazzato per quei discorsi che non sapeva commentare, appuntando per entrambi “Non vediamo l’ora di rientrare!”.  Sorrise civettuola.
Lo disse, mentre Carlotta sembrata invidiare il loro prossimo viaggio mentre Viviana restava muta quasi fosse amareggiata di non poterla accompagnare come fidata, come se Gregorio non sapesse rimpiazzare le sue moine con quelle di un’altra fanciulla altrettanto leziosa.
“E’ naturale.” aveva alzato le spalle, come scrollandosi di dosso un peso fastidioso ma ovvio e, la verità… Aveva fatto apposta a iniziare quell’argomento. Da bravo pescatore aveva buttato l’amo perché un pesciolino abboccasse.
“Certo! Guglielmo l’ha restaurata e fortificata.” appuntò breve, evidenziando fosse più appropriata dimora di Raucelio. Aveva imparato a sminuire i privilegi, come fossero banali, perché s’era accorta che più lo faceva più le domestiche cadevano nella lusinga per una vita che le invidiavano. Nel dirlo si sedette sulle gradinate che anticipavano il portone principale del palazzo di Raucelio. Nicandro prese posto accanto a lei. Le amiche fecero altrettanto, quasi delle copie della loro padrona.
Lo fece, guardando Moros diritta: un pesce difficile da tirare nella sua barca.
Eppure c’era stato un attimo in cui aveva creduto fosse già attaccato alla sua lenza. Lo vide fermarsi su due piedi all’udire quel monito che annunciava una separazione dal cugino. Era rimasto in piedi, come lui non potesse prendere posto accanto a Nicandro.
Il viso tirato, nella sensazione della terra che ti si cancella da sotto i piedi, che diventa friabile all’improvviso e ti annienta così, senza darti il tempo di realizzare cosa sta succedendo attorno a te.
Ed ora quello stesso giovane si poneva in sua difesa e il principe Ludovico, un nemico, l’aveva definita amata di quel giovane cuore.
Come aveva fatto ad essere così sciocca?
“Credo che un taglia legna abbia di meglio da fare, che cercare me.” aveva detto a Malia, ignorando che era sempre stata lei a cercarlo. Del resto quel giorno nella foresta aveva lanciato le sue frecce pensando che prima o poi avrebbe incontrato un eroe che l’avrebbe fatta innamorare.

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Capitolo 51
*** Lo scontro ***


La risata isterica di Gregorio riempì l’aria.
Rideva e rideva: la bocca aperta come una maschera grottesca.
“Ed ora principe che intendi fare?” chiese ilare, mentre Zelio aveva fatto il vuoto attorno a sé.
Era bene approfittarne, si disse Gregorio, a lato tra i due schieramenti: quello che vedeva Zelio, solo da un lato e, principe, Moros e compagni dall’altro.
Allungò il braccio e la sua spada impedì la fuga di Nicandro, rimasto rasente il muro. “Te ne vuoi già andare?” scherzò parandogliela dinanzi. “Non trovi si abbia una visuale di prim’ordine?”. Nicandro muto, lo fissò con occhi sbarrati. “Farò finta non sia successo nulla.” disse Gregorio. “Resta buono e goditi lo spettacolo!” sorrise magnanimo prima di ordinare seccato “Guardie! Avanzate!”. Il timore del veleno teneva gli uomini a distanza.
“Restate indietro!” suggerì al contrario Ludovico. C’era cautela non timore in quel consiglio a voce bassa. Restava davanti a Lavinia e Moros, con i suoi cavalieri che lo affiancavano come ali; a loro volta spalleggiati da Ubaldo da un lato, Mavio eVittorio dall’altro. Ottavio si aggiunse infine, per poi retrocedere a favore del principe cui non voleva recare oltraggio.
Ma che bel quadretto!
“Siamo in troppi!” rivendicò Alberico irritando l’amor proprio di Lavinia, Ubaldo e Mavio. “Non ti permettere!”. “Non abbiamo paura!” mise in chiaro Lavinia; le guance arrossate.
Per la prima volta ti vedo sperduta, gioì Gregorio; un largo sorriso in faccia.
Zelio incalzò in quel momento fiondandosi in avanti: gli bastava puntare a caso nel mucchio.
Una mossa congiunta delle spade di Ubaldo e Alberico, incrociate una sull’altra, bloccarono l’azione. Zelio alzò la guancia sinistra in un sorriso freddo e si ritrasse. “Il prossimo andrà a segno!” mise tutti in guardia.
“Attacca!” lo spornò impertinente, quasi fosse un cane da izzare.
In quel momento Nicandro lo chiamò. Cercò di allontanare la spada che gli era rivolta addosso all’altezza delle gambe. La toccò.
La spada restò esattamente dov’era: tra Nicandro e i ribelli.
“Per il bene di tutti… ritornerò con te…” chiese venia il ragazzino. “Devi fermare Zelio…” cercò di convincerlo. Portò le mani alle guance.
“Fermarlo?” ironizzò lui. Tutt’altro!
I capelli cenerini ondeggiarono dinanzi a lui. Si sentì consigliare a mani giunte, “Aiuta Moros.”. Lui di contro ripeté quel nome odioso.
“Non posso assistere alla vostra…”. Nicandro tentò di cancellare l’orrore di quella confessione.
A Gregorio si bloccò la mascella.
Non riuscì a trattenersi da dire “Vai avanti…”, ma Nicandro tacque. Come al solito, non riusciva a rispondere a una semplice domanda. Vedeva solo un nulla catastrofico, si disse Gregorio.
“Proteggi Moros! Confessa!” volle farlo ammettere un inganno perpetrato a vantaggio del cugino.
“Non ti mentirei mai.” lo sentì dire con un soffio.
“Prenderò le mie precauzioni!” avvisò secco, mentre seguiva attento un nuovo affondo di Zelio ai nemici.
Il capitano sembrava divertirsi mentre narrava di come era stato facile uccidere Iorio con quello stesso veleno.
Il “Nooo!” di Nicandro riecheggiò nel corridoio.
All’indietreggiare di Zelio, ritornato in posizione di equilibrio, avanzò la propria lama a colpirlo alle spalle. Nicandro girò il volto mentre ogni uomo si bloccavala nella scena.
Zelio lasciò la presa sulla spada e sembrò scalare l’aria con le mani. Trapassato in mezzo alla schiena ondeggiò in avanti verso Ludovico che sembrò volerlo trattenere in piedi.
Gregorio ne approfittò e impugnò l’arma che gli avrebbe assicurato vantaggio e vittoria. “Ora sarà solo Moros a preoccuparsi!” ironizzò, mentre vedeva il taglialegna di Raucelio tirare indietro Ludovico perché non fosse a portata. Gesto Saggio!
Zelio barcollò verso la finestra e là, appoggiato al balcone, restò con la testa di fuori, accasciato sulle ginocchia.
Un brusio si alzò dal basso: urla, un nome, domande dalla folla e dai soldati di presidio.
“Ed ora chi sarà il prossimo?” scherzò Gregorio e, con la punta della lama sembrò tirare a sorte sulla sua prossima vittima.
Rise. “Non ne avevo più bisogno!” commentò; il volto al capitano. “Quanto a voi, pensate davvero di potermi sfuggire?”.
“Guardie.” disse con voce autoritaria e con un arco della mano suggerì lo precedessero. “Sapete chi comanda e ciò che comporta!” puntualizzò, mentre Zelio tamponava la ferita al petto, premendoci la mano.
“Una vendetta l’hai pur avuta principe.” sentì dire a Moros: era chiaro giudicassero non ci fosse più onore a battersi con un uomo privo di forza. “Tocca a me affrontare Gregorio.” aggiunse sfidandolo, come si trattasse di un addio. Gregorio alzò la guancia sinistra in un sorriso sghembo.
“Pensa a loro!” fu l’impegnò che Moros rivolse al principe nei confronti di Nicandro e Lavinia.
Gregorio capì che il suo intento non era ucciderlo ma togliergli la spada.

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Capitolo 52
*** Sei qui ***


Sei quì
 
“Sospendo il comando!” aveva rivendicato.
Perché sei tornato? avrebbe voluto chiedergli quando l’aveva raggiunto richiamato dalle voci di Ubaldo,Vittorio e Ottavio.
Com’era cambiato fisicamente. Si era fatto alto. Bello lo era sempre stato, pensò orgoglioso Nicandro.
Da ragazzo, Moros, era diventato uomo.
Quando furono vicini, negli occhi di lama, lesse l’obbiettivo che li aveva ricongiunti: non l’avrebbe lasciato indietro.
Non erano più bambini in una foresta ma la promessa del bosco era rimasta. “Vivremo sempre assieme.”.
Sei vero o un sogno? si era detto. Moros aveva ripetuto il suo nome altrettanto incredulo, poi l’aveva consigliato di non commettere avventatezze nell’intromettersi tra lui e Gregorio e lui aveva cercato di rassicurarlo.
L’aveva voluto toccare… e, né più né meno della puntura dell’ago di un fuso sulle dita, il logoro mantello aveva parlato.
Una vecchia donna l’aveva stretto prima del cugino e a lui l’aveva offerto in dono con fiabesche parole: “Un eroe ha molte facce… Sembianze che non ti immagini.”. “Non te ne pentirai…”. “Il suo cappuccio…” “Protegge da ogni malanno.”.
Una seconda carezza al tessuto portò alle orecchie di Nicandro la voce allegra con cui il cugino aveva salutato un ubriaco, “Bella giornata!”. L’uomo aveva portato la mano al cuore, “Che mi prenda un accidente!” aveva detto con occhi buoni e vitrei su cui non si rispecchiava che un umido giorno di pioggia.
Nicandro inspirò. Nonostante le apparenze, quell’ubriaco rappresentava per Moros quello che Guglielmo era stato per lui. Ne fu felice e un accenno di sorriso gli sollevò le guance.
Una terza puntura gli narrò dell’incontro con una ragazza… anzi no, una donna, con una cascata di capelli neri. Bellissima. Tanto bella da togliere il fiato e seccare la gola. Stava chiudendo Moros… in un barile? “Ti ho detto di fidarti di me!” aveva risposto seccata e, come se la scena si svolgesse in quel momento dinanzi a lui, la donna aveva aperto e chiuso veloce la mano tre volte, come se stesse per toccare qualcosa di disgustoso; poi con le due mani aveva tirato il cappuccio del mantello a coprire la testa di suo cugino. “Non osare di togliertelo!” aveva detto piccata. “Protegge da ogni malanno.”. Quella parola soverchiò le altre, negandogli ogni altra immagine del cugino. Del resto…Quella voce? Gli sembrava di averla già sentita… ma quando? In un sogno forse?
Forse…
Una quarta piccola scossa e, c’era solo Ubaldo. Solo.
“Protegge da ogni malanno.”
Quella frase così ricorrente… All’apparenza priva di senso…
All’apparenza...
Purtroppo il tempo correva veloce per pensare. Tutto ciò che temeva si stava avverando. Lavinia per proteggerlo era stata scagliata a terra da Gregorio, Moros era ferito e il pericolo per i soldati era il veleno della spada di Zelio.
In quel momento Gregorio incitò il capitano. “Attacca!” disse con occhi che chiedevano sangue.
Doveva fermare Gregorio. Cercò di spostare la spada per avvicinarsi e parlargli ma lui la mantenne esattamente dov’era.
Bastò quel tocco… e la sua mente vide l’affondo che Zelio avrebbe portato al cugino, confuso con mille altri affondi già segnati da quella spada che decimava vite come fossero trofei, mentre vedeva Gregorio indietreggiare verso il balcone, sinistro come se fosse un limite da non varcare.
Gregorio non gli aveva dato ascolto o meglio…
“Nooo!” aveva gridato e la sua voce era riecheggiata nel corridoio all’indietreggiare di Zelio colpito alle spalle.
Il “Pensa a loro!” di suo cugino al principe gli arrivò rallentato quanto quel “Ti uccido!” urlato da Gregorio con sguardo satirico. Lavinia circondata dalle braccia di Mavio e Ubaldo era trascinata indietro mentre Ludovico e i cavalieri fronteggiavano l’assalto delle guardie.
L’atmosfera era caotica, come in un incendio. Il clangore delle spade feriva le orecchie, i respiri intensi nei movimenti veloci urtava le pareti ritornando al centro in un eco.
Respirò con affanno, come in un incendio. Il petto si gonfiò per prendere l’aria che arrivava dalla finestra. Accanto a lui Zelio lo guardava; il respiro altrettanto affannoso.
“Come in un incendio…” ammise sleale il capitano con occhi fluidi e svaniti: sapeva il suo punto debole.
Chiuse gli occhi alla paura. Era piccolo; una maschera di pianto. Non capiva né quel calore né quel colore. Restava fermo e piangeva. Piangeva forte. Era solo e solo fiamme c’erano attorno a lui. La pelle già scottava ma portò le braccia in avanti quando lei apparve. “A differenza di Baltasar, ho il raffinato fiuto di un gigante!” disse giuliva in viso quella donna, “Oltre a mille altrei doni!”. Chissà da dove era apparsa? Lui si artigliò al suo mantello e lei sorrise “Se quel bellimbusto di mio figlio sapesse di te, quello che so io, te lo ritroveresti oggi stesso tra i piedi!” gracchiò minimamente scomposta di ciò che si consumava attorno a loro. Guidò la sua manina al cappuccio che teneva sulle spalle e con la sua lo accompagnò a ricoprirle il capo. “Facciamo un gioco assieme ad Agata?”. Non attese risposta da lui, ma disse solo “Cucù!”.

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Capitolo 53
*** “Gregorio, fermati!” ***


 NdA: mi ero ripromessa di finire questa storia per ottobre, dopo la lunga pausa estiva. Ci siamo quasi ^_^
Ci stiamo avvicinando alla conclusione. Vi ringrazio della lettura!



Le grida isteriche non le si addicevano, quindi quando Zelio spuntò di testa dalla finestra lei reagì lasciando alle altre donne il privilegio di sgolarsi terrorizzate.
Che cosa diamine stanno combinando lassù? si disse arricciando le labbra e, con passi lunghi e distesi decise che l’avrebbe scoperto.
Si fece a spintoni largo tra le guardie, come fosse un uomo ben piantato ma fu solo dopo aver appreso che Gregorio aveva aggredito Zelio, vivo ma ferito, che dichiarò di essere un’esperta curatrice per aver la strada libera. Eugenio le veniva goffamente dietro trascinato per le braccia dalla spinta di Adelberto che sembrava volerlo lanciare come il sasso di una fionda dall’elastico troppo duro.
Più di un soldato li aveva guidati per i corridoi: Zelio era pur sempre il loro capitano e lo preferivano a Gregorio, l’ultimo despota in lizza; così all’apparrenza. Ludovico era chiaro lo davano già per spacciato.
Frenò sulle punte come di fronte ad un precipizio: una battaglia di spade infuriava e Gregorio e Moros la facevano da padroni al centro. Ludovico e i suoi uomini impegnati contro quelli di Rocca Lisia.
“Non l’avevi previsto, vero?” sentì scherzare Gregorio Montetardo mentre cercava di pungolare con la spada Moros. Il giovane spostava la sua da una parte all’altra in maniera scomposta: era stato scudiero ma negli ultimi anni non doveva averla granchè usata. Non c’era un movimento che avesse senso, in confronto con quelli cauti e ragionati di Gregorio che sembrava giocare come il gatto con il topo; per spaventarlo prima che colpirlo.
Un leggero colpetto alla schiena la riscosse. “Non sei una guaritrice?” sottolineò uno dei soldati che l’avevano accompagnata, alitandole con il naso, avanzando rispetto a Eugenio e Adelberto.
“E tu non sei una guardia del castello? Fatti avanti!” gli rispose lei per le rime come dovesse lui darsi da fare e non la sottoscritta che doveva guarire non finire pure lei ferita. Portò la mano aperta dritta, in linea davanti a sé. “Vedi dov’è Zelio? Come ci arrivo, volando?” commentò villana, facendolo tacere. Neppure lui si sarebbe fiondato in mezzo per farle da apripista ed erano già in troppi in quella calca che affollava un corridoio che sembrava un sottobosco brulicante di frenetiche formiche.
Si sentì osservata.
Ludovico! La fissava ma non sembrava arrabbiato. Quella consapevolezza le infiammò le guance.
“Lo so’ ho fatto una stupidaggine!” gridò senza ritegno, ma fu Alberico e non il principe a risponderle. “Chissà perché non sono sorpreso!” la beccò il rosso.
“Ma tu da che parte stai?” rivendicò il soldato che l’affiancava.
“Da quella di Rocca Lisia.” fu breve lei.
“Bhe! Siamo in due!” confermò quello mentre lei scuoteva avvilita il capo in un dondolio di capelli che sembrava il movimento di più di un braccialetto sul polso. “Bravo! Resta indietro!” disse non volendo trovarselo tra i piedi. Lui d’altro canto le ubbidì come aspettasse solo la giusta scusa per defilarsi dalla battaglia.
Al balcone, Zelio rantolò il viso sulla piana, come a sfiammare il caldo che lo soffocava. Fece forza sulla gamba destra malferma che gli dette sostegno e ritornò diritto. Si ripulì la saliva che gli colava sulla barba. A quel gesto,il ragazzino che aveva accanto si distanziò da lui: doveva essere Nicandro senz’ombra di dubbio.
“Malia ti prego aiuta Moros!” invocò Lavinia nel vederla. Era stretta alle braccia da due uomini, che le intimavano di non immischiarsi nello scontro tra Moros e Gregorio, ma al suo riconoscerla un’amica, i suoi carcerieri la lasciarono sgusciare via. Le capitombolò addosso, aggrappandosi ,“Fai qualcosa per lui!”.
“Moros è il tuo di amore, mica il mio!” mise in chiaro. “Da quando da cacciatrice sei diventata cerbiatta?” l’apostrofò inclemente.
Si tolse da quell’abbraccio appiccicoso come se la disgustasse. “Una volta pestavi i piedi superba e viziata ed ora guardati!” disse villana allargando le braccia, indignata come fosse di fronte ad un vestito sgualcito. Lavinia restò basita. Era vero!
“Hai un antidoto?” la soverchiò uno dei soldati di Lavinia.
“E tu hai un nome?” fece di rimando lei, come una madre che ripristina la dovuta educazione: prima le presentazioni.
“Allora?” intervenne insistente anche l’altro compare al seguito della cerbiatta.
“Sei qui in veste di spettatrice o vuoi aiutare?” la interrogò Federico che impegnato nella lotta cercò di metterle fretta.
“Ma perché non siete scappati da dove siete venuti, imbecilli?” sentenzio per tutti. Doveva risolvere lei quella confusione?
“Chi lo sente il taglialegna a fuggire senza Nicandro?” rispose nella foga dello scontro Ludovico.
Malia si portò una mano alle tempie: erano ridicoli.
Moros rivendicò. “Non posso fuggire per sempre!”.
“No, muorici pure qui!” ironizzò lei senza ritegno, in spregio di quel testardo. Testrado sì, ma bellissimo! I muscoli delle braccia sgusciavano dal mantello quando avanzava il braccio per la parata; i lisci capelli sudaticci sfilavano ai lati. Il ciuffo nel guardarla gli scivolò sulla fronte.
Era vero… Era sempre scappato. E in questo erano simili.
“Baltasar!”, “Pss.”, “Insomma, Baltasar, mi vuoi rispondere?”, “Andiamo via!”; anche lei aveva sempre preferito non farsi troppe domande e non rischiare, perciò lo capiva.
Zelio si ripose in piedi, incerto come un morto che si incaponiva a osteggiare la tomba; il viso di un cencio sciacquato male e tra le labbra un biascicare malevolenze verso Gregorio. “Ma…le..det…to!”.
Una mossa ardita di Moros, fece indietreggiare Gregorio, che finì addosso a Nicandro. Gregorio spalle al muro reagì come un elastico. “Gregorio, fermati!” gli si artigliò addosso Nicandro, quasi togliendogli il fiato; abbracciandolo tra spalla e gola.
“Sei a portata di spada!” gridò Moros, mentre Gregorio strattonava le braccia per liberarsi, non riuscendo a colpire il ragazzino, irriducibile a non mollare la presa.
“Moros non colpirlo!” instette Nicandro, frenandone la reazione. “Guardie non intervenite!” lottò di peso con Gregorio. “E’ un ordine!”.
“Guardie!” rivendicò d’altro canto Gregorio ma tra i due Montedardo in una situazione incerta era impossibile scegliere per le guardie.
“Lasceremo Rocca Lisia! E’ un ordine.” dettò Nicandro. “Riavrete il vostro principe!” mise in chiaro ai soldati presenti. “Giammai!” negò Gregorio, ma ormai le spade erano abbassate.
“Quello che meritate.” sentenziò Zelio con una risata gracchiante, in beffa della loro autorità.
“Gregorio non puoi sfidare il destino!”. Nicandro strideva i denti, non smorzando la presa.
“Devi fermarti!” insistette nello stesso momento in cui Gregorio lo scaraventò soddisfatto addosso al muro.
“Ecco il tuo destino!” gioì Gregorio. Lavinia non trovò più voce o preghiere di fronte all’affondo rivolto a Nicandro.
La stessa Malia sentì piedi e braccia farsi pesanti. Davanti a loro, Moros si era lanciato tra Gregorio e Nicandro: le spalle, un muro, a difesa del cugino che voleva proteggere da quella spada che già approvava lo scambio, premendogli sulla schiena.
Moros portò le mani avanti, per mantenere lontano da sé Nicandro. Non dovevano morire in due.
“Godetevi il vostro ultimo abbraccio.” scherzò Gregorio deciso a trafiggerli entrambi.

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Capitolo 54
*** Finale ***


 NdA: Mettetevi comodi!




Nicandro restò dov’era e, a dispetto della separazione che gli imponeva Moros, si racchiuse nel suo abbraccio spingendosi a lui con il busto: la mano sinistra alla sua guancia e la mano destra al collo, a toccargli la spalla, pronto a unirsi al suo stesso destino.
Moros sentì la mano aperta del cugino premergli la guancia: era calda e soffice; la stessa che lo rassicurava del suo affetto di cuginetto quan’erano bambini e che per lui era così importante nel disinteresse di Matilda e dei fratelli.
Forse era giusto così. Se vivere assieme era loro negato, almeno avrebbero condiviso l’aldilà.
Sorrise a Nicandro. Andava bene così: non era arrabiato di quella scelta.
La consapevolezza che Ludovico sarebbe rimasto l’unico vincitore lo rendeva fiero di averlo aiutato a riconquistare un trono; a cui il principe mai s’era rassegnato di aver perduto.
L’unico suo rimpianto?
Lavinia. Era stata così sbagliata quella freccia? Poteva addossare ogni colpa solo a lei?
No. Aveva deciso lui soltanto di fare di Nicandro il centro del suo mondo; lui soltanto di essere uno scudiero mediocre per Guglielmo.
E adesso? L’unica cosa importante era che finalmente sapeva perché era là. Non aveva paura di realizzare l’obiettivo che si era proposto e quell’obbiettivo era ora con lui, tra le sue braccia, senza rancore, con un sorriso dolcissimo.
“Restiamo assieme.” si sentì chiedere. “Per sempre.” rispose lui.
Nicandro gli si aggrappò con la mano al collo per spingergli in basso la fronte e farla incontrare alla sua. Moros sentì salire i capelli sopra la testa come in un massaggio; gli arrivarono sulla fronte assieme al mantello che lo incappucciò nello stesso momento in cui la spada di Gregorio gli premette sulla schiena.
Nicandro fece un sospiro, chiuse gli occhi poi soffiò poche parole. “Protegge da ogni malanno.”.
Esclamazioni stupite, incredule, si unirono alla voce asfittica di Zelio.“Chi di veleno ferisce, di veleno perisce!”.
Il viso del capitano gli comparve spettrale davanti agli occhi come volesse dar loro il benvenuto all’altro mondo, ma si accorse di sbagliare. Quel monito era per Gregorio a cui non facevano più barriera, spariti sotto un mantello che li aveva resi aria. Senza la resistenza della sua schiena, Gregorio capitombolò in avanti trovandosi addosso a Zelio che lo pugnalò.
Tra ossa e muscoli d’aria, Zelio era passato loro attraverso con la stessa facilità fossero stati fantasmi.
Impalpabile, Moros aveva vibrato al passaggio del capitano e provato un brivido.
Gregorio e Zelio si aggrapparono l’uno all’altro: avvinghiati in uno scontro ultimo e rabbioso. Finirono a terra. Le bocche mute di maledizioni, lamenti e reciproche accuse. La spada di Gregorio restò conficcata sul capitano quanto il pugnale di Zelio sul cuore di Gregorio.
Riapparvero.
Nicandro gli aveva scoperto la testa. Il mantello era ritornato sulle sue spalle.
Il cugino respirò come dopo un tuffo e sorrise incredulo. Rise anche, mentre Federico con un urlo lasciò alle spalle le superstizioni di una vita, che vedevano la magia come una minaccia.
“Come lo sapevi?” chiese in una domanda sciocca Moros. Nicandro lo abbracciò forte, “Non lo sapevo… Non ne ero certo…”.
Lavinia era scivolata su se stessa a terra come un torrione collassato. “Eravate spariti…” biascicò. Mavio e Ubaldo la trassero in piedi e sostenendola si avvicinarono a lui e a Nicandro. “Come avete fatto?”, Ubaldo lo tastò per capacitarsi fosse reale, ma aveva capito fosse opera del mantello. Lavinia, priva di parole, guardava Gregorio a terra.
“Ed ora?”, “Cosa facciamo?”. I soldati mantennero le spade abbassate.
“Tranquilizzate il popolo!” ordinò ai presenti Alberico, come avesse l’autorità di comandarli. “Avete sentito? Basta offese!” aggiunse Mavio dopo uno sguardo d’intesa con il rosso cavaliere.
“Fate come dicono…” approvò Ludovico: la voce stanca mentre passava la mano sulla fronte. Rocca Lisia era libera e stentava a crederci.
Tra un “Ubbidisco!” e l’altro, i soldati sfollarono ammaestrati da Alberico e Mavio che agirono assieme dimostrando con i fatti che la contesa apparteneva al passato.
“Parlate al popolo.” intervenne Nicandro chino assieme a Lavinia su Gregorio. Le loro mani avevano ricomposto giunte quelle fredde di lui e sembravano scaldarle.
Ludovico annuì. Si abbassò sul ginocchio per dare un ultimo addio ai rivali. Mise Zelio supino e gli chiuse gli occhi.
Ora, c’era bisogno di silenzio, e così lo mantennero severi, finché Ludovico tornò in piedi. “Parlerò al popolo.” approvò e aiutò Nicandro a rialzarsi quando lasciò alla sola Lavinia la veglia funebre. “Restatemi vicini…” ammise, come se lo spocchioso principe conosciuto un tempo da Moros fosse solo un ricordo. Gli occhi chini su chi rimaneva a terra.
“L’ho deluso.” parlò Lavinia a bassa voce.
“L’avete ferito, non più di altri.” disapprovò Ludovico e tutti sapevano fosse la verità, Moros compreso. Nicandro stesso non aveva preso le sue difese: caparbia nel parlare di rimorso, quanto un tempo priva di compassione.
“Parlate al popolo. Nicandro ha ragione!” esortò Federico. La via verso il balcone era libera e da lì tutti avrebbero udito e gioito.
Ludovico annuì.
“Accompagnatemi.” chiese il principe.
“E’ il tuo momento!” obiettò Moros a nome dei presenti.
“Il mio è il nostro da ora in poi!” commentò Ludovico: il tono di un ordine. In questo non era cambiato, ma aveva sorriso nel dirlo, soprattutto a Moros a cui precisò. “Mi hai mentito!”: Nicandro doveva essere un servo, non un Montetardo.
Altrettanto, Moros sorrise. Con la mano al capo si spostò imbarazzato i capelli. “Ed io ero solo un braccio in più per la tua causa?”. Erano pari.
“Bene! Direi che me ne posso anche andare…” commentò Malia ironica, subito contradetta da lui. Lei semplicemente ammiccò.“Non vi preoccupate mi farò viva!” e arricciato il naso soffiò un bacio con la mano verso Ludovico. “So’ la strada!” gli fece l’occhiolino e lui ricambiò con un sorriso che Moros intuì di complicità.
“Non andare!” la frenò Nicandro. Moros lo vide accorciare la distanza. Malia corrugò le sopraciglia. “Non accetto consigli sul futuro!” mise in chiaro spostando la mano sinistra verso l’esterno come creasse un limite invalicabile.
Nicandro rimase immobile.
Lei stirò le labbra in un sorriso soddisfatto, poi con superficialità lanciò un bacetto con indice e medio tra le labbra. “Addio!” li salutò.
“Conosco il tuo passato. So’ chi sei e da dove vieni.” sviolinò Nicandro e nel farlo si morsicò le labbra. “Allora ti consiglio di starmi alla larga.” rispose veloce Malia, già di spalle. “Non c’è nulla da chiarire.” precisò Ludovico: sapeva fosse stata succube dell’uomo che amava e che per lui avesse fatto cose di cui pentirsi. “Sei libera di andare se è questo che vuoi.” approvò Ludovico.
Vuoi proteggerla, vero? pensò Moros.
“Sono anch’io di Macerino.” si giustificò Nicandro, quasi dovesse rivendicare qualcosa che il principe avrebbe dovuto ascoltare.
“Una ragione in più per non scottarti!” consigliò semplicemente Malia.
Moros si fece vicino al cugino e gli mise una mano sulla spalla “Non insistere.”. Malia percorreva da sola la propria strada e non avrebbe fatto eccezioni. Lui lo sapeva.
“Non tornare nel bosco...” disse piano Nicandro, afferrandola al braccio.
“Perché potrei incontrare il lupo?” scherzò lei: gli occhi puntati a quella mano che la stringeva.
“L’hai già incontrato.” disse con un soffio suo cugino che lasciò la presa.
Lei mutò la bocca larga in un sorriso forzato. “Perfetto! Non vivrò felice e contenta.” rise e le spalle le si alzarono. Allargò le braccia. Sorrise a tutti accattivante. “Comunque, non ho bisogno né di un principe né di un boscaiolo.” dondolò il capo, poi lanciò i capelli dietro alle spalle. Era il suo commiato.
“Io sì! Io sì!” alzò le mani Belinda sbucata dal nulla. Con tutta probabilità sgattaiolata dopo l’uscita di scena dei soldati.
“Morossss” lo salutò e gli si lanciò addosso di corsa: le braccia al collo. Rimase penzolante e lui fu costretto a prenderla in braccio per non rischiare uno stiramento. “Dice che non può liberarsi da un incantesimo!” commentò subito saccente Belinda, mentre Alberico s’irritava per la sua presenza di bambina e Malia la sfotteva “Come noi di te!”.
“E’ la verità!” s’imbronciò la piccola che lanciò una boccaccia verso Malia.
Belinda insistette. “Il suo problema è che non ha mai trovato l’eroe che cerca!” commentò con leggerezza. Alla sua età credeva alle favole, come altrettanto credeva all’amore vero.
“Il mio problema???”. Nonostante Malia avesse un volto sbigottito e si alzasse le maniche fino al gomito come per lanciare un incantesimo, Belinda disse incurante “Ma non sei tu, vero?”. Il suo viso corrucciato sperava che non fosse Moros quell’eroe, perché altrimenti non sarebbe più potuto essere il suo sposo.
“Calmiamoci tutti!” disse Federico frapponendosi tra Malia e Belinda che s’era incantata a guardare anche Ludovico: più che nel suo viso, nei begli occhi verde-arancio e tra le bionde ciocche dei suoi capelli.
“Dovrei strozzarla!” urlò Malia, rivendicando di acchiapparla nonostante Federico: le mani che torcevano l’aria come fosse uno strofinaccio da strizzare.
“Forse non ha cercato bene!” commentò Nicandro sopra tutti.
Moros vide Belinda stirare il collo. “Se è per questo pure io!” sbottò spontanea. La vide illuminarsi tutta. I principi erano una cosa seria per lei e uno in più faceva un’enorme differenza per Belinda, sorrise Moros.
Un grido di gioia riempì il corridoio e quasi dovettero tapparsi tutti le orecchie, mentre la piccola si sbracciava verso Nicandro. “Sono Belinda e saremo felici!” la sentirono dire. “Lasciami Moros! Sono di fretta!” disse smorfiosa divincolandosi da lui: era già finito all’ultimo posto della classifica sposi.
Di contro Nicandro si ritrasse, ma già era tardi. Lei gli era già aggrappata al braccio e iniziava un lungo monologo sul loro futuro. “E così la gnoma ha trovato il suo principe!” sbuffò Malia. La piccola aveva sollevato l’animo di tutti, lei compresa.
“Un eroe ha molte facce!” proseguì Nicandro e Belinda fece silenzio al mistero evocato da quella frase, ma non lo lasciò.
“Sembianze che non ti immagini!” finì la frase Moros. Già qualcuno gli aveva svelato quel mistero.
Un eroe… Non un principe, non un boscaiolo…
“Era un mago molto potente…” timbrò la second’ultima parola: Malia si portò il pollice alle labbra per morsicare la cuticola di un’unghia, quasi fosse una bambina incerta.
“Le tue ferite scottano ancora.” approvò Nicandro, tra le righe ben inteso come le mie. Non era un eroe ma per lei lo sarebbe stato.
Nicandro cinse Belinda alle spalle e lei rimase tranquilla in ascolto.
Malia sospirò. “Da Macerino il fuoco.” pronunciò la propria maledizione. “Da Macerino le lacrime!” si morse le labbra.
“Basta non farle più scorrere e far battere di nuovo il tuo cuore.” svelò Nicandro: il perdono avrebbe vinto sul rimorso. Spostò Belinda da sé. Si avvicinò a Malia e questa volta lei non si oppose anzi… Moros la vide abbassare gli occhi… fragile.
Nicandro le prese le mani tra le sue. “Ora puoi tornare nel bosco o rimanere quì…”. Che comprendesse Ludovico quel consiglio?
“Non dimenticare che la scelta è tua, non di Baltasar che hai sconfitto!” rivendicò Nicandro. Alzò la fossetta della guancia sinistra. “Per quella del cuore non ho rimedio, mi spiace.” sembrò scherzare con lei.
A Moros sembrò che un brivido la percorresse.
Lei ritornò a guardare suo cugino. Lo fissò intensamente, incredula, prima di stupirli tutti. Lo abbracciò scivolandogli addosso dalla vita alle gambe finchè non finì seduta a terra. Nicandro si abbassò con lei e le accarezzò la guancia. Lei non si oppose ma già le labbra alzavano le guance “Che ragazza pusillanime!” disse e si sfiorò l’occhio. “Devo prendere delle precauzioni per quel mantello tarmato…”.
“Mi è bastato toccarlo!” approvò complice Nicandro che le sorrise.
 
***

Le esultazioni per Ludovico riempivano l’aria di Rocca Lisia.
I forconi dei contadini si erano alzati vittoriosi ma al suo prendere la parola ogni lingua o gesto erano cessati in rispetto di chi s’era dimostrato forte e fiero quanto re Iorio.
Il principe li aveva lasciati gioire, poi li aveva ammoniti per il futuro, fino a decretare la fine della tirannia di Zelio.
Nella sala delle udienze Lavinia aveva atteso mortificata il proprio destino: la benda alla testa, i capelli fluenti sulle spalle, gli occhi bassi.
Quando Ludovico entrò, Nicandro e Malia lo affiancavano. Tutti attesero che Malia prendesse posto alla destra del trono di Ludovico; Nicandro accanto a lei. Il solo principe restò in piedi.
“Moros, Alberico, Federico.” chiamò. Due sole parole per loro. “Vi ringrazio!” più che il re era un compagno a parlare loro. “Senza la vostra amicizia e lealtà il mio regno non esisterebbe più, come la mia vita. Vi devo tutto. Permettetemi di potervi chiamare fratelli.” disse.
“Mai onore più grande ricevetti in vita.” sentenziò Federico.
“E’ così anche per me.” si limitò a dire Alberico mentre gli occhi si facevano liquidi. Chinò il viso e i capelli rossi gli finirono sul volto in una cascata che celò la commozione.
“Avevo sentito parlare di un principe fuggiasco di un trono vacillante, ho trovato un re.” sottolineò Moros. “Quanto ora trovo un fratello che non merito.” si chinò sul ginocchio destro sull’esempio dei cavalieri, ora suoi compagni.
Ludovico che si era avvicinato, li esortò ad alzarsi. Sollevò le mani e l’acclamazione degli astanti fece levare i piccioni e le colombe appollaiate sulle travi.
“Viva il principe Ludovico!” urlò Belinda e tutti la seguirono.
Ludovico prese posto sul trono; alla sua destra Malia.
Rivolse la propria attenzione su Lavinia.
“Avete vinto.” riconobbe lei in un susssurro. “Accetterò ogni punizione.” acconsentì con parole capaci di impietosire per l’umiltà che le aveva contraddistinte.
Nicandro avrebbe mai potuto perdonarla? Quella domanda negli occhi marroni di lei.
“E semplice sarebbe abbonare ogni colpa.” intervenne Malia ammutolendo i presenti che sapevano fosse legittimo quel pensiero.
Moros istintivo avanzò di un passo per proteggere Lavinia ma Nicandro lo frenò avanzando la mano. Doveva lasciare parlare Malia che si alzò. “Merita una pena esemplare.” s’inchinò a chiedere approvazione a Ludovico. La sua voce si levò sul brusio che ne scaturì. “Braccò il nostro principe.” fece largo attorno a sé con le mani. “Perseguitò i suoi fedelissimi per seguire Zelio e Gregorio.” annunciò spietata.
“E’ la verità! Lo feci.” ammise Lavinia. Moros avrebbe voluto tacesse invece che riconoscerla ma non sarebbe stata Lavinia se fosse scesa a compromessi.
“Calpestasti sentimenti e ignorasti il cuore.” la colpevolizzò Malia, puntandole il dito indice contro. Riprese posto.
Belinda mugugnò “Eri cattiva…”, ma Moros la rimproverò con lo sguardo. “Antipatica!” aggiunse lei con una linguaccia che volentieri le avrebbe tagliato.
Lavinia ripeté cruda “Dici il vero.” e nel farlo si morsicò le labbra. Il passato non si poteva cambiare, ne erano tutti consapevoli.
“Che soluzione proponi, dunque?” chiese Ludovico a Malia. Nicandro bisbigliò qualcosa all’orecchio di lei che le riportò a sua volta al principe.
“Credo tu abbia ragione!” confermò gustoso e quasi divertito Ludovico. Malia ammiccò. “E’ punizione sufficiente?” interrogò Nicandro che confermò serio.
Moros pregò avessero scelto per la grazia.
“Farete dono della vostra vita…” quelle parole lo freddarono. Intervenne negando mentre Lavinia interrompeva a sua volta Ludovico per cautelare la sua impulsività. “Se è vostro desiderio posso solo accettare.” confermò decisa mentre Mavio e Ubaldo incaprettavano Moros alle braccia. “E’ il vostro capitano?” rivendicò lui.
“E che così sia!” sentenziò Ludovico spazientito, ignorando il Noooo di Moros.
“Donerete la vostra vita e il vostro cuore per rimettere pace tra i Chiarofosco e i Montetardo…” sospirò, “Sempre che mio fratello avrà la cortesia di approvare il proprio fidanzamento!”.
In quel momento Moros si trovò libero e quasi non si rese conto di stringerla tra le braccia. Il volto di lei mai così luminoso e dolce.
 
***

La lasciò dormire… Bella come l’aveva sempre sognata. Una dea della caccia serena in grembo al proprio bosco.
Aperta la finestra, affacciato alla finestra, si era stiracchiato e visti gli amici già nel piazzale li aveva raggiunti quasi con i vestiti in mano per non essere da meno in quanto a puntualità.
Ludovico stava dando istruzioni alle guardie. Alberico e Federico parlavano con Ubaldo e Mavio e le risate e i visi allegri rendevano solo un brutto ricordo il passato da nemici.
Ludovico lo salutò mentre si avvicinava e con una pacca sulla spalla lo salutò. “Avrò bisogno di un capitano.” disse.
Sbigottito rispose modesto, “Non credo di essere il tuo uomo…”.
Sono lusingato ma…
Il volto di Ludovico esprimeva la convinzione fosse perfetto per quell’incarico. Sapeva non avesse mai ricoperto un ruolo così importante ma non era un buon motivo per rifiutare. Infatti lo guardò truce. “Se non tu, chi altro, per ora?” fu diplomatico nel suo ordine e un mezzo sorriso suggerì che non era più il tempo delle indecisioni.
Era l’amico a suggerire e il re a parlare.
Moros ricambiò il sorriso ma chiarì, “Non ho abbastanza esperienza, ma so’ chi mi potrà guidare al meglio!”.
“E’ quello che volevo sentirti dire!” commentò Ubaldo alle sue spalle; la mano alla spalla destra.
Non c’era più alcun dubbio. Le indecisioni le avrebbe lasciate una volta di più alle spalle, per se stesso e per gli amici che gli erano accanto; che credevano in lui e nelle sue capacità che più facilmente aveva preferito ignorare in passato.
 
***
 
“Andiamo?” disse Moros al cugino.
Nicandro approvò “Sono pronto.”.
Con buoni cavalli arrivarono velocemente alla piccola casa. Poco fuori le mura di Rocca Lisia. La zona tutt’intorno disboscata.
C’erano lavori in corso; quelli che sembravano un ampliamento di una casupola più piccola dal tetto di paglia sfilacciato in più punti che aveva un chè di trascurato.
Travi di legno erano poggiate oblique su un alto muro di pietre sovrapposte ,che costituiva la canna fumaria di un grosso e solido camino dall’aria appena costruito.
L’uomo di spalle rialzò la schiena curva. Era alto e robusto.
“Bella giornata!” lo salutò Moros come al loro primo incontro.
“Ero sicuro che sareste arrivati!” disse Braccioforte e nel vederli scendere tutti e tre constatò “Ho fatto bene a cominciare i lavori. Ci sarà bisogno di una casa più grande!” disse fregandosi le mani impolverate.
Lavinia gli rivolse un viso riconoscente. Nicandro scese veloce da cavallo, brioso di vedere il compagno delle sue avventure.
“Un soldato deve abitare al castello.” non si tirò indietro dal dire scanzonato “E lì c’è posto per tutti!” rise birbante, mentre Braccioforte inarcava le sopracciglia.
Mitigò quella proposta. “E va bene… Ci faremo dare qualche licenza di tanto in tanto, vero capitano?”.
“Capitano? E per chi?” parve perplesso il soldato.
“Ma di Ludovico Chiarofosco e di chi senno?” rispose lui come si fidasse ciecamente del proprio re.
Era incredibile com’erano cambiate le cose. Moros per primo non ci avrebbe creduto all’inzio del suo viaggio. Si grattò la testa mentre Braccioforte familiarizzava con Nicandro accennando di aver sempre sentito parlare di lui e finalmente di avere l’occasione di conoscerlo.
Lavinia sorrise.
“Però per questa sera, vi voglio miei ospiti per cena.” gli offrì ospitalità il soldato.
“Allora, ci servirà selvaggina!” suggerì Lavinia. Lo prese lesta al braccio e lo esortò a fare la propria parte. Ci aggiunse un bacio sulla guancia e questo non guastò. “Lascia fare a noi due!” confermò Moros che le rubò monello dalla faretra una freccia.
Questa volta avrebbero cacciato assieme.
 
fine
 
 
NdA: Così si conclude "L'ombra della signoria". Spero che vi sia piaciuta la storia e spero di non aver fatto un buco nell'acqua con il finale. Non mi piacciono i finali aperti così ho deciso che dovevo dare al lettore almeno un’indicazione di massima ^_^
Non ho voluto abbandonare nessun personaggio e portarli con Voi fino alla fine.
Sono onorata che abbiate letto. Vi sono grata del tempo che mi avete dedicato!
Dal profondo del mio cuore, grazie!!
Bisous
Alarnis
 
Fra qualche mese mi concentrerò sulla revisione. E' stata una bella sfida scrivere di personaggi femminili oltre che maschili che trovo più facili da trattare. Difficile creare una storia dall'inizio alla fine, dando un finale che per me fosse soddisfacente. Spero di migliorare sempre di più, per me stessa e per chi leggerà le mie storie.
Sempre grata a chi ha recensito:Vento di luce e Francyzago e soprattutto a Sissi1978

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