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Quando ti ho conosciuta, quando mi hanno
presentato a te, eri una ragazzina. Nemmeno sedici anni.
Esile. Composta. Educata. Schiva. Diffidente
anche. Ma una ragazzina.
Quanto tuo padre ci ha fatto conoscere ho
provato pena per te: ti avrei rovinato la vita.
Lo sentivo, il Maestro che ti parlava di
me, che ti spiegava minuziosamente ogni cosa, che mi legava a te indissolubilmente.
Non hai emesso un sibilo. Non hai versato
una lacrima. Non hai avuto uno spasmo. Ho davvero ammirato la forza nascosta
che percorreva le tue membra.
Ma quando, qualche sera dopo, finalmente mi
hai visto, nei tuoi occhi l’odio e il rancore si sono annidati in
maniera troppo chiara per negarli.
Non hai pianto, ancora. Ma hai odiato me e
la mano di tuo padre, che ci aveva avvolti in una catena che non avrebbe mai
potuto spezzarsi.
Da quel giorno mi hai portato con te, ma
non mi hai più rivolto una singola occhiata. Una parte del dolore che ti avevo
causato si era chetata, ma l’altra ti avrebbe bruciata per sempre.
Ancora, non ho potuto provare che pena. Eri
una ragazzina, alla quale la mia presenza avrebbe impedito una vita normale.
Eri una ragazzina a cui non importava di
me, anche se comprendevi in una certa misura la mia importanza. A prescindere,
non era abbastanza per perdonare la mia presenza coercitiva.
La prima volta che ho sentito la sua voce,
attutita da strati di tessuto, gridava. Chiedeva aiuto. Per tuo padre.
Ma era troppo tardi.
Non sapevo chi fosse, ma dato che chiamava
il vecchio Berthold Maestro ho intuito fosse il suo allievo.
Il Signor Mustang. Roy.
Ti avevo sentita pronunciare il suo nome
qualche volta, nel buio sicuro della notte. Gli eri già allora affezionata in
una maniera che tuttavia ancora non riuscivi a comprendere. Come avresti potuto
dopotutto? La solitudine era la tua realtà.
“Posso affidarle
la mia schiena’”
Quando hai pronunciato quelle parole non
potevo crederci. Davvero?
Davvero eri arrivata a tanto?
Davvero ti fidavi di lui a tal punto?
La prima volta che ho visto lui i
suoi occhi erano sgranati, e nel suo sguardo ammirazione e orrore si
mescolavano in torbidi mulinelli.
Anche lui, al pari tuo, mi odiava. Odiava la
mia presenza lì.
Forse, addirittura, iniziava ad odiare anche chi lì mi ci aveva messo.
Però mi ha accarezzato – ha accarezzato
me o te quel giorno? – e tu hai rabbrividito.
Mi ha chiesto per sé, e tu hai
acconsentito. Se avessi avuto una voce, allora, avrei gridato. Ma non ho mai
avuto voce, e non avevo modo di mettervi in guardia.
Gli hai permesso di guardarmi, di
studiarmi, di avermi completamente. E vi siete salutati.
Dolore…
Il mio ultimo ricordo di te sarà questo:
dolore!
Sarà anche il mio ultimo ricordo di lui.
La sola differenza è che, stavolta, il tuo
dolore sarà voluto.
Dolore per prendere coscienza. Dolore per
espiare. Dolore per chiedere perdono.
Mi dispiace, bambina: non ci sarà alcun
perdono. Non oggi almeno.
Il dolore di lui, invece, è lo
stesso che hai provato tu anni fa. Il dolore di una scelta che non ne da altre.
Perché lo so, lo so, che sta soffrendo per ciò che gli hai chiesto, che
sta soffrendo perché sarai tu a patire, dopo.
Non vi capisco. Davvero. A voi due proprio
non vi capisco.
Perché non lasci che lui ti accarezzi
– che ci accarezzi entrambi – come vorrebbe fare? Perché non lasci che
stavolta lui abbia te, invece che me?
Ormai sono domande inutili. Hai preso la
tua decisione, e ho imparato presto che non sei una che si rimangia le parole o
recrimina. No, tu sopporti e ti assumi tutte le responsabilità.
Che sia per questo che il vecchio mi ha
affidato a te?
E va bene, ragazzina: facciamolo! Che sia
questa la fine.
E mentre il rosso delle fiamme ci
avviluppa entrambi – il rosso delle MIE fiamme – riesco a vedere che la
catena che tuo padre ci ha imposto non era poi così assoluta come credevo.
Non posso che sperare che quella che lega voi
sia più ignifuga almeno.
Angolino dell’Autrice (più o meno):
Allora, da dove partire? Diciamo che se non
lo so io dubito possiate saperlo voi.
Questa idea si arrovellava nella mia
testolina da tanto, tanto tempo. Trovare un modo per buttarla giù così da dargli
un qualche senso e una quale forma è stato tragico, lo ammetto.
Cosa ne sia venuto fuori, soprattutto in
questa prima one-shot, non saprei dirlo. Sono soddisfatta ma non lo sono, ma se
ci avessi messo mano avanti non penso che le cose sarebbero migliorate.
Nella mia testa il protagonista è chiaro, è
sempre stato chiaro, ma ho volutamente cercato di far sì che non si capisse
nemmeno alla fine. Se ci sono riuscita o meno lascio decidere a voi.
In questo caso vediamo in maniera un po’ contorta
quello che è uno spezzone del rapporto RoyAi dagli
occhi del TATUAGGIO che lei porta sulla schiena. Mi rendo conto che sembra una
follia, tranquilli.
In una certa misura è più uno scorcio di Riza che di entrambi, ma ho pensato che non
poteva che essere così dato che è stato prima di tutto un peso suo, poi
un peso anche di Roy e poi di entrambi.
Detto questo… Passo la mano a voi. Se mi
dovete lanciare uova e pomodori avvisatemi che almeno gli occhiali me li tolgo
eh xD
Non ho mai voluto diventare madre,
semplicemente perché sapevo che non avrei voluto esserlo.
Non ero come la maggior parte delle ragazze
della mia generazione; non condividevo i loro desideri e le loro volontà.
Quand’ero giovane mi dicevano che ero un
cavallo matto – e se di cognome fai Mustang sembra proprio una battuta
di infimo livello.
Era mio fratello quello che sognava una
famiglia, una bella moglie e una casa stabile. Proprio da idillio insomma. Lo
sognava, lo voleva e alla fine se l’è preso. Per troppo poco tempo.
E così mi sono ritrovata io con un
marmocchio attaccato alla sottana. Il giorno del loro funerale ho riso e
pianto insieme, pensando a quanto la cosa mi sembrasse grottesca.
Ma ho comunque preso con me quel bimbo che
tanto assomigliava al mio fratellone, anche se la dolcezza nello sguardo non
poteva che essere di sua madre.
Ho fatto del mio meglio con quello che
avevo. Né più, né meno.
E comunque Roy è
sempre stato un bambino indipendente, intraprendente e sveglio. Anche se forse,
forse, una buona parte di quel carattere malizioso e un po’ farfallone è
stato dettato dall’ambiente in cui l’ho fatto crescere. Ma in fondo ho sempre
saputo che sarebbe stato una persona buona.
Sì, sono sempre riuscita a sapere, a
capire, con Roy – anche quando si nascondeva dietro a
quel ghigno bastardo e menefreghista.
Di Lei, invece, ho sempre saputo
troppo e troppo poco.
Fa quasi strano pensarci adesso, a come
tutto sia scaturito da quello che potrei benissimo definire un infantile
capriccio di un moccioso fastidioso.
Quando mi ha detto di voler studiare
l’Alchimia gli ho detto che andava bene, che poteva scegliere quello che
voleva.
Avevo deciso quando lo avevo preso con me
che gli avrei permesso di vivere la vita che voleva senza rompergli le scatole.
Almeno sarei stata diversa dai miei genitori.
Tuttavia, all’epoca, ancora non avevo idea
di come questa decisione avrebbe toccato la vita di molti, né delle
ripercussioni che ci sarebbero state.
Anche dire che l’ho cresciuto suona
tanto di barzelletta, dato che è stato più il tempo che ha passato lontano
da me che altro che quello che ha passato con me.
Tuttavia, Roy non
è cresciuto da solo. No, Roy è cresciuto con
Lei.
Ricordo le lettere che mi mandava nel
periodo dell’apprendistato, tante nei primi tempi e sempre più rade man mano
che gli anni passavano; palava del suo Maestro, di quanto fosse severo e di
quanto lo ammirasse, dei suoi studi che proseguivano.
E scriveva di Lei – della ragazzina
bionda; della figlia del Maestro Hawkeye; della sua amica.
Ridacchiavo sempre, leggendo di Lei.
Di come scriveva di Lei.
Roy nemmeno se ne rendeva conto, ma da quelle
lettere trapelava già allora un profondo affetto che si stava trasformando in
ingenuo amore adolescenziale.
Curiosa, mi chiedevo quanto sarebbe durato,
quanto sarebbe sopravvissuto una volta che lui fosse uscito da quella casa. Gli
amori adolescenziali sono, per definizione, finiti. Si concludono. Terminano.
Quando mi scrisse che sarebbe entrato
all’Accademia Militare decretai per lui la parola fine.
“Ecco, ora non
rimarrà che una vaga malinconia che pian piano si trasformerà in dolce
ricordo.”
Allora non avevo ancora capito nulla.
Iniziai a sospettare qualcosa un paio
d’anni dopo, quando tornò a casa a seguito del funerale del vecchio.
“E Lei?”
L’occhiata che mi rivolse valse tutte le
parole che non avrebbe mai pronunciato, non allora almeno.
Nel suo sguardo si annidava qualcosa che
quasi mi provocò un brivido, viscido e fastidioso.
Mi disse che sarebbe stata bene, ma il tono
era così piatto e falso che credergli era impossibile.
Cos’era successo? Cos’era successo in quei
pochi giorni? Dov’era l’ammirazione per il suo Maestro? Dov’era
l’infantile affetto che lo aveva legato a Lei?
Non chiesi. Sapevo che non avrebbe parlato.
I sospetti iniziarono a trasformarsi in paura
di aver ragione nel periodo di Ishval.
Roy non scriveva quasi mai a casa –
quattro lettere in totale – e più che lettere erano telegrammi.
“Sto bene.”
“Sono vivo.”
“C’è Maes…”
“Lei è qui!”
Sgranai gli occhi, orripilata.
Merda!
Già Roy, così
giovane, così idealista. Ma Lei… Era una ragazzina! Quanti anni aveva
allora? Non sapevo l’età esatta ma a venti non ci arrivava.
Avevo imparato ad interpretare le poche
parole di quei messaggi, così come avevo imparato a leggere tra la falsa
arroganza che quel ragazzo usava come scudo. Le uniche cose che mi scriveva
erano quelle degne di nota, e se aveva voluto farmi sapere della sua
presenza lì…
Non chiesi più nulla da quel momento.
Nemmeno quando quell’Inferno ebbe fine e i sopravvissuti poterono
tornare a casa – quei pochi che tornarono.
Lui tornò distrutto, con qualcosa di peggio
del rimpianto a scavargli nelle iridi. Con qualcosa di più forte del dolore a
trapassargli gli occhi.
Un peccato…
Fu lui a dirmi che avevano iniziato
a lavorare insieme, a spiegarmi quell’idea folle che aveva preso a bruciarlo
– a bruciare anche Lei; a bruciare loro.
Ebbi la certezza dei miei sospetti anni
dopo. Erano stati trasferiti a Central City.
Maes era morto… Quel giorno c’erano
stati i funerali.
Era venuto al locale, a bere così tanto da
stordirsi. Le ragazze intorno a lui, che cercavano inutilmente di accaparrarselo
a turno. Neanche uno sguardo per loro.
Fu a mezzanotte passata, quando ormai si
era arreso con la testa appoggiata sulle braccia, fradicio, che lo sentì dire
il suo nome.
“Riza…”
Lo guardai sottecchi, la sigaretta che si
consumava tra le mie labbra tremanti.
Erano anni, anni, che non pronunciava
più il suo nome.
Alzai la cornetta sospirando e invocando la
pazienza.
Nemmeno mezz’ora dopo la porta del locale
si aprì, e finalmente la vidi.
Rimasi scioccata.
Non era la ragazzina di cui Roy mi parlava nelle sue lettere – e come avrebbe potuto più
esserlo? – ma una giovane donna in pieno boccio.
Il mio primo pensiero su di Lei fu
che non c’entrava nulla con quel posto, con quel locale.
Vestita alla meglio, i capelli severamente
raccolti, e un’aria marziale che non l’abbandonava nemmeno smessa la divisa.
Schiena dritta, spalle rigide, sguardo
secco. In mezzo a tanto sfarzo e ostentazione e abiti colorati e risatine
alterate spiccava in maniera quasi fastidiosa. E gli sguardi, malgrado tutto,
erano per Lei.
“Non c’entri
nulla qui…”
Mi scusai per l’ora e per Roy, ma si limitò ad un’alzata di spalle. Di poche parole
la ragazza!
Qualche cliente decisamente alticcio le
lanciò un paio di commenti poco ortodossi, e per risposta si beccarono
un’occhiata tale da far quasi passare la sbronza.
Storsi il naso. Quello era un comportamento
che le ragazze non avrebbero mai avuto. Non in maniera così diretta per lo
meno. Avrebbero ridacchiato e ammiccato, e poi sarebbero scivolate vie
elegantemente.
Mi chiesi istintivamente se avesse mai
avuto un uomo, se un uomo avesse mai avuto Lei.
La risposta arrivò una frazione di secondo
dopo.
Si avvicinò a Roy
e lo scosse delicatamente finché lui non alzò lo sguardo.
“Riza…”
Di nuovo il suo nome dalle sue labbra…
Ma Lei scosse la testa, limitandosi
ad aiutarlo a tirarsi su.
E da come Roy si
appoggiò a Lei, da come le circondò le spalle mentre Lei lo
prendeva per la vita, da come entrambi indugiarono nella più invisibile delle
carezze, da come lui faceva ciondolare la testa fino ad appoggiarla alla
spalla di Lei…
Capii tre cose quella sera.
Primo: Roy non
era assolutamente sbronzo!
Secondo: un uomo Lei lo aveva avuto,
un uomo aveva avuto Lei.
Terzo: quell’uomo era Roy.
E seppi anche che quello non era stato
sesso, non era stato un aversi nel senso più carnale del termine.
No!
Lei era stata quella che di Roy aveva
avuto la dolcezza di carezze date per volontà e non per seduzione; aveva avuto
i baci infuocati che tolgono ossigeno e fanno girare la testa; le mani che
s’intrecciato così forte da far male; le braccia che si avvolgono anche dopo.
Soprattutto, Lei di Roy aveva avuto il sonno.
Unica tra tutte.
E seppi anche che quella notte,
nessuno dei due avrebbe dormito solo.
Quando la porta del locale si fu chiusa
alle loro spalle scoppiai a ridere sguaiatamente.
“Ah, Roy-Boy… Ti sei scelto proprio una bella gatta da pelare!”
Angolino
dell’Autrice (più o meno):
Ed eccomi di nuovo qui! E questa volta i
lanci di frutta e verdura marcia me li aspetto seriamente xD
Prima di tutto i ringraziamenti, che sono d’obbligo:
MizukiSun3008 grazie per aver messo la
storia tra quelle da ricordare.
Tammy1997 grazie per aver messo questa
storia tra le seguite.
RedLolly grazie mille per aver commentato!
Ora… Passiamo a questo nuovo capitolo. Un’altra
epopea. E seriamente non ho idea di cosa ne sia venuto fuori.
In questo caso il narratore non ho mai voluto
fosse un mistero, infatti credo che tutti abbiano capito chi parla: Chris
Mustang ovviamente xD
Un personaggio difficile da trattare senza
rischiare di sfondare nell’OOC. Ho provato in tutti i modi a tenere per lei
quella che penso sia la sua linea di pensiero, scindendola tra la donna diretta
che è e l’affetto che mostra seppur a modo suo per il nipote.
Un paio di piccole specifiche: nella mia
testa l’addestramento a casa Hawkeye di Roy almeno un paio d’anni sarà durato, se non di più. Da informazioni
ufficiali sappiamo che si è avvicinato all’Alchimia già da ragazzino in
effetti. Sappiamo altresì che entra in Accademia a 18 anni.
In più (santa wikipedia
inglese) ai tempi di IshvarRoy
dovrebbe avere 23 anni e Riza 19 se non sbaglio. Da
qui il commento orripilato di Chris.
Sempre nella mia testolina ho immaginato
che Roy scrivesse di tanto in tanto alla zia, quando
studiava, e che qualcosa le raccontasse pure. Ho immaginato anche che Chris e Riza non abbiano mai avuto modo di sconoscersi. Tutto comunque
– il loro primo incontro – è opera della mia fantasia.
Così come il fatto che, a Ishvar, Roy e Riza
abbiamo diciamo intrapreso una relazione. Non preoccupatevi: su questo tornerò xD
Diciamo che il 90% di questa one-shot è
tutta un po’ campata per aria.
Divertente è stato mettere a confronto Riza con le ragazze del locale. Forse ho anche un pochino
esagerato. Abbiate pietà dai xD
Detto ciò me la filo che è quasi l’una di notte e domani
ho a sveglia all’alba.
Non so quanti anni io abbia. Non li ho mai
davvero contati.
Non mi è mai importato di contarli, forse
per il semplice fatto che il conteggio in sé lo si esegue nell’ottica di un
qualcosa che finirà, di un qualcosa di conclusivo.
Gli esseri umani, ad esempio,
contano i propri anni e festeggiano gli stessi perché sono creature finite per
natura intrinseca. O forse semplicemente perché sono così ossessivi da dover
tenere tutto sotto controllo e avere una spiegazione ad ogni cosa. Più o
meno…
Io non ho mai sofferto di queste paranoie,
di queste ridicole psicosi.
Il tempo, a me, non da noie. Il suo
scorrere non intacca quello che è il mio compito e la mia natura.
Pensavo sarebbe stato così per sempre.
Ora so che nulla è eterno, a questo mondo.
Nulla è immutabile. Credo che sia quello che gli esseri umani chiamano
il senno di poi. O forse evoluzione…
Hanno iniziato a contare per me più di 400
anni fa, più o meno. Non lo so. Non ricordo. All’epoca non m’interessava.
Mi hanno dato un nome, mi hanno dato
un’età. E li ho lasciati fare. Ricordate? Le stupide paranoie umane.
Ho dato loro ciò che chiedevano, ciò
di cui necessitavano. Li ho lasciati proliferare con disinteresse.
A pensarci ora forse non avrei dovuto
essere così ospitale. Forse le cose si sarebbero risolte prima, o forse
addirittura non sarebbero mai nemmeno iniziate.
Non so se esista un modo per spiegarla a
parole: la viscida sensazione di migliaia di persone che ti scorrono dentro,
occupando tutto lo spazio possibile, esistente, con grida e lamenti incomprensibili.
E sai che non sono tue, che non ti appartengono, che appartengono a
qualcun altro, ma di te hanno fatto una dimora non voluta e non scelta.
È qualcosa di destabilizzante, una volta che
se ne prende coscienza. Ingloba ogni cosa, toglie ogni cosa, inibisce
ogni altra cosa. Potrei dare la definizione di rivoltante.
Non ho avuto modo di scamparvi, a questo destino.
Mi hanno dato un’età.
Mi hanno dato un
nome.
Mi hanno dato
uno scopo.
Allora ho capito che non avrei dovuto
essere così ospitale.
E ho provato disgusto.
Tutte quelle persone… Tutte quelle nuove
vite che erano germogliate e che crescevano anche grazie a me… Tutto quello che
ogni giorno potevo osservare…
Tutto sarebbe finito. Tutti sarebbero
diventati un fiume di anime senza più un’esistenza propria, una coscienza
singola, un’identità a cui aggrapparsi.
Non so se sia questo ciò che gli esseri
umani chiamano amore materno, ma non mi viene in mente paragone più
calzante per descrivere la disperazione della comprensione e il rimorso per la
mancata protezione.
Avrei voluto fare qualcosa, in un raptus
momentaneo. Avrei voluto cambiare qualcosa.
Ma non sapevo cosa. E ho stretto le
redini della mia natura ipocrita: immobilità.
Poi, chissà quando e quanto tempo dopo la
mia presa di coscienza, sono arrivati loro.
Come fiori spuntati dal cemento, prima Lui
e poi Lei.
Esistente al limite, provate fin dall’infanzia
dalle regole impietose della vita, che si sono trovate e allacciate.
Cresciuti insieme, tra sogni e disillusioni,
tra affetto nascosto e un acerbo amore poi sbocciato.
Li ho seguiti, con avidità. Anche loro
come tutti quelli che li avevano preceduti si sono nutriti di quanto
avevo da offrire. Ma invece si sorpassare questo dono con disinteresse
ne hanno fatto una ragione per vivere e un sogno per poter morire.
Invece di dare a me uno scopo, hanno
fatto di me e delle mie genti il loro scopo.
E grazie a loro ho capito che la mia natura
non era l’immobilità. No, non c’era mai stata immobilità.
Ho dato loro i natali.
E un giorno, piccoli esseri umani, quando
giungerà la vostra ora, vi riaccoglierò nel mio grembo.
Insieme.
Così come da quando avete camminato su di
me, così come quando vi stenderete dentro di me.
Gli esseri umani dicono “che la
terra ti sia lieve” quando perdono qualcuno. E io voglio essere la più lieve
delle terre.
Prima che quel giorno avvenga, tuttavia,
voglio dare i natali anche a ciò che genererete.
Angolino
dell’Autrice (più o meno):
Ok…
Ehm Ehm… Diciamo che mi rendo perfettamente conto
della necessità di dare spiegazioni. Vi racconto solo questo piccolo aneddoto
prima, perché secondo me rende bene l’idea di COSA mi sono imbarcata a fare xD Il mio migliore amico, il primo a leggere sempre ciò che
scrivo, un po’ per affetto un po’ perché non me le manda a dire e quindi mi
fido ciecamente del suo giudizio, mi ha detto questo: “se scrivessi sotto
effetto di LSD forse, forse, potrei giustificare cosa ti frulla nella testa!”.
Ora
spiegazioni. Questa one-shot è assurda, astrusa e incomprensibile per molti
versi. Volevo che lo fosse, in realtà, ma allo stesso tempo mi sono divertita a
spargere indizi sul/sulla protagonista che è (rullo di tamburi grazie):
AMESTRIS!
Vabbè,
finisco le spiegazioni e poi mi vado a rintanare nel mio angolino. Promesso xD
I
400 anni sono ovviamente indicativi. Sappiamo, da fonti ufficiali (sempre sia
lodata Wikipedia), che la data di nascita di Hohemhein
è il 17 settembre 1464, per cui se i conti sono esatti
dovrebbe avere 450/451 anni quando Bortherhood si
ambienta. Sappiamo inoltre (episodio 35 dell’anime) che il primo grosso
spargimento di sangue ad Amestris risale al 1588. I conti
più o meno tornano insomma.
La “viscida sensazione di migliaia di persone
che ti scorrono dentro” è ovviamente un riferimento alla Pietra Filosofale
che viene fatta appunto scorrere sotto la terra, e che di fondo non sono che le
anime degli abitanti di Xerxes. Il termine inibisce
fa anche riferimento a questo concetto, che è spiegato dallo stesso Hohemhein all’interno dell’anime a Mei.
Precisazione forse inutile: ovviamente
NATALI non è inteso come la festa, ma come la terra che da i natali (bello che mi
ricordo ancora qualcosa di letteratura dopo tutti questi anni xD).
L’ultima frase può essere intesa a
piacimento. Ho lasciato spazio alla fantasia. Potete prenderla come dare i
natali ad uno Stato diverso, a nuove idee o magari anche a qualcuno.
Roy e Riza in questa
one-shot non vengono propriamente intesi come coppia, passatemi il
termine dai. Ho voluto puntare su un aspetto diverso, romantico ma non
romantico. Vabbè, se non lo so spiegare nemmeno io siamo proprio in regola dai xD
Prima di chiudere il papiro (ancora un po’
più lungo della storia in sé) un ringraziamento speciale a RedLolly,
i cui commenti e messaggi leggo davvero volentieri dato che non ti fermi mai
alla superficie ma riesci a scavare proprio nei punti che cerco di mettere in
evidenza e mi dai anche nuovi spunti di riflessione.
Oh, ma ciao piccolo uomo. Finalmente
ci conosciamo, eh?
Sapevo che prima o poi saresti passato di
qua. Era talmente ovvio che non c’è mai nemmeno stato il gusto di scommettere.
Perché sai, piccolo uomo, tutti quelli
come te prima o poi passano di qui.
C’è chi ci arriva troppo presto; c’è chi ci
arriva con una calma esasperante a mio avviso.
La maggior parte non sopravvive.
Tutti si chiedono cosa sia o dove si
trovino.
Fammelo dire, piccolo uomo: mi hai
fatto aspettare parecchio. Stavo quasi iniziando a pensare di essermi
sbagliato. Il che non succede mai.
Le condizioni non sono certo le solite,
quelle tradizionali, ma dopotutto sono le variabili che rendono
le cose interessanti a mio modesto parere. E tu piccolo uomo, sei una variabile
di quelle deliziosamente fastidiose. Al midollo, se permetti.
Tu…
Lei… Voi…
Ah, che gran casino. Voi esseri umani
siete sempre così: un casino. Gli Alchimisti in particolar modo. Tu – Voi
– siete da emicrania, se solo avessi un cervello che potrebbe dolere. Una gran
fortuna per me.
È stato divertente, sai? Scavare in quella notevole
massa grigia che ti ritrovi. Notevole davvero.
Come se non sapessi già tutto di te!
Ma concedimelo, un piccolo vezzo. Hai avuto
l’ardire di farmi aspettare, oh.
Addirittura, ti sei autoimposto di non
volermi incontrare.
Qualcosa pur mi dovevi, per la tua arroganza.
Beh, ad essere sincero qualcosa mi
dovrai comunque. Non volermene: nulla di personale. Tuttavia
le regole del gioco le conosci anche tu, e ben lungi da me avere una
qualsivoglia volontà di cambiarle. In fondo è divertente, un modo come un altro
per spezzare la noia. Ed è anche interessante.
“Come pagherai?”
Mi diletto a chiederlo giusto per passare
un po’ il tempo.
Il più delle volte è una domanda inutile,
visto che so la risposta prima ancora di vedervi.
Oh, piccolo uomo, perché mi guardi
così? Hai capito vero? L’ho detto io che hai una notevole massa grigia. Non mi
stai certo deludendo.
Te ne prego, non fare quella faccia terrorizzata.
Non sono mica così crudele!
Ok, forse non la penserai allo stesso modo
– e come te tutti gli altri – ma dopotutto le definizioni sono qualcosa
che piace molto a voi umani. A me no. Le vedo solo come l’ennesima trappola che
vi autocostruite.
Perché ti guardi intorno, piccolo
uomo? Sei solo qui. Non vedrai certo i suoi occhi.
Non sorprenderti, suonerebbe offensivo
verso il mio complimento di poco fa.
So a cosa – chi – sta pensando. Chi stai
cercando con lo sguardo. In fondo, io sono anche te.
E Lei.
Assurdo. Siete stati insieme così a lungo
che persino io fatico a scindervi. Forse avrebbe dovuto esserci anche Lei
qui. Forse sarebbe stato più facile da capire.
Anzi no! Che me la scampi. Altrimenti mi
verrebbe il diabete.
Sapete davvero essere sdolcinati in
modo fastidioso.
Ma dopotutto, se così non fosse, tu saresti
arrivato qui molto prima. Perché io lo so – lo so! – che è stata lei
la ragione di questo ritardo.
L’ombra che ti ha coperto. La mano che ti
ha guidato. Gli occhi che ti hanno vegliato.
Se si potesse, penso sarebbe questo
il pagamento corretto. Ma, ripeto, le regole sono le regole.
Non imbroglierò, piccolo uomo.
Giocherò corretto.
Per cui vai, piccolo uomo. Vai pure.
C’è ancora qualcosa che devi fare. Certo il metodo sarà un po’ particolare,
ma penso che questa volta sia decisamente più importante il fine che il mezzo.
Oh, te ne prego no! Non fare quella faccia
sconvolta.
Non sono stato crudele. Credimi.
Non ci vedi, piccolo uomo?
C’è solo oscurità?
Sembri un bambino che impara a camminare, e
i cui passi malfermi lo fanno ruzzolare a terra.
Per pietà! Ti ho preso la vista, non
l’equilibrio! Vedi almeno di stare fermo in piedi, oh!
Cos’è? Ti senti inutile?
Effettivamente lo sei.
Ah, no, mi sbagliavo. Non sei inutile. A
quanto pare scindervi è proprio impossibile.
Smielati. Fastidiosamente smielati!
Ma vedo che finalmente hai capito.
Non sono stato crudele.
Ti ho preso la vista, non gli
occhi.
C’è una bella differenza.
Decisamente non sono stato crudele.
Altrimenti, avrei preso lei.
Angolino dell’Autrice (più o meno):
Dopo un sacco di tempo ritorno… Con l’ennesima
follia com’è giusto che sia xD Sinceramente dubito
che sentivate la mancanza di queste piccole perle da psichiatria, ma ho
iniziato e quindi andiamo avanti ;)
Questa one-shot la posso definire solo in
un modo: il risultato di scrivere quando si è simili ad un’ameba causa pressione
bassa!
Ho troppo e troppo poco da dire su questo
capitolo. Il/la protagonista non so se si sia capito ma… LA VERITÀ!!!
È stato qualcosa che non so definire, quindi
lascio la parola a voi. Ho cercato in tutti i modi di attenermi a quello che
vediamo nell’anime e nel manga per quanto riguarda questa figura. Probabilmente
ho esagerato con il cinismo, ma non ho trovato formula che mi sembrasse più
giusta.
Il resto è un agglomerato di frasi, parole,
citazioni e indizi. Ho provato ad amalgamare tutto e non so se ci sono riuscita.
Qui Roy e Riza… Niente, è solo un po’ come vedo io il loro rapporto,
con molto meno miele e sdolcinatezza varie. Forse un po’ di zucchero c’è, ma lo
prendo come un edulcorante e non come vero zucchero xD
Infine… RedLolly…
Mia cara eccomi qui. In super velocità come sempre ma torno anche per te xD Perché la passione che hai per questa coppia e questo
fandom mi danno una carica che non immagini nemmeno! Ed è una cosa rara per me.
Non sai quanto! E soprattutto non finirò mai per ringraziarti dei meravigliosi
commenti che mi lasci. Se trovi qualcosa da criticare divertiti pure: una critica
da qualcuno che riesce ad andare così a fondo in quello che legge è solo che
bellissimo e utile.
Guardandoti ho pensato che fosse un errore.
Di aver commesso un errore.
Perché doveva esserci un errore.
Era sbagliato. Non aveva senso.
Come potevo aver creato una vita?
“Ricordo la
prima volta che ti ho visto.”
Un ragazzetto dall’aria arrogante e il
sorriso deciso. Forte.
Guardandoti mi sono chiesto se non fosse un
errore. Se non avessi commesso un errore.
Perché, per la miseria, più il tempo
passava e più mi accorgevo che doveva esserci stato un errore.
Era sbagliato. Non aveva senso.
Come potevo star creando la vita di
un Alchimista?
“E il tempo
passava, e di te capivo sempre meno.”
Troppo esile. Troppo delicata. Fragile.
Ti sbucciavi le ginocchia costantemente. Ti
tagliavi con i coltelli da cucina. Ti pungevi con gli aghi da cucito. Riuscivi
a ferirti pure con le pagine dei libri.
E non mi seguivi. Non seguivi i
miei passi. Non seguivi la mia strada.
Decisamente c’era stato un errore.
“E il tempo
passava, e di te mi pareva di capire sempre meno.”
Troppo arrogante. Troppo imperscrutabile. Forte.
Non mi ascoltavi, non mi capivi. Potevo
tenerti ancorato a quella sedia ma niente. Potevo obbligarti sui libri ma era
inutile. Riuscivi a distrarti anche con un raggio di sole che illuminava la
polvere.
E non mi seguivi – o se lo facevi ci
mettevi il tuo buon impegno a farmi perdere qualche capello prima.
Sentivo già che non stavi seguendo
la mia strada.
Probabilmente c’era davvero stato un errore.
“E poi sbirciavo
di tanto in tanto dalle finestre…”
Improvvisamente sembrava che i ruoli
s’invertissero.
Lo tenevi in riga.
La
guardavi e abbassavi il capo.
Cosa diavolo c’era di sbagliato?
Dov’era stato il mio errore?
“E vi ho visti
crescere…”
Un errore dopo l’altro.
Una sequenzialità di errori se
proprio vogliamo. Uno più uno fa due. Queste sono le regole.
Per uno scienziato, un Alchimista,
le regole della matematica e della fisica sono tutto. E c’è un’unica Verità
possibile.
Ne sono sempre stato convinto.
“E allora
quell’Errore dove stava?”
Era forse nel sorriso deciso che le
vedevo in viso?
Era forse nel sorriso meno arrogante ma più
vero che gli vedevo affiorare?
Era forse nelle ginocchia sbucciate di entrambi,
scorticatesi a causa della testardaggine di arrampicarsi su qualche
albero per cogliernei frutti?
Era nelle tazze di caffè che gli portava
nelle ore tarde per aiutarlo a studiare?
Era nella tazza di tè delle prime luci
dell’alba per ringraziarla della nottata in bianco?
“Dov’era?
Dov’era l’Errore?”
Forse negli occhi fermi che mi hanno
comunicata la sua decisione, la sua scelta di vita.
Forse negli occhi tremanti quando hanno
saputo la verità, lo scopo, della mia scelta.
Ma poi non ha pianto. Non una
singola lacrima, non un singolo lamento. Nulla.
Ma poi ha tremato, dicendomi come
stavano le cose. Ha abbassato di poco lo sguardo e la voce si è fatta meno decisa.
Tutto.
“Due anni…”
Due anni di silenzi. Due anni di
parole silenziose.
Due anni di Nulla e di Tutto.
Due anni e finalmente l’ho visto, l’Errore.
“Ogni
Alchimista, dal primo all’ultimo, sarà sempre una creatura votata alla Verità.”
Una massima di vita che non ho mai
abbandonato, o mai ho voluto abbandonare.
Poi avete deciso di stravolgere ogni mia
convinzione.
Credevate che non avessi visto?
Credevate che non avessi capito?
Oh, l’ho fatto. Dal primo momento. Ho
semplicemente guardato dal filtro sbagliato.
Per questo te l’ho chiesto.
Per questo non te l’ho mai chiesto.
“Roy… Mia figlia…”
L’Errore è sempre stato mio.
Con Lei.
Con Lui.
E questa, alla fine l’ho capito, è stata
anche l’unica cosa che a voi mi ha legato.
Un Errore.
È ciò che vi ho dato.
È ciò che vi ho lasciato.
“Un Errore…”
Eppure, ora che di me non resta nulla,
mi rendo conto che forse, forse, è stata la cosa migliore.
Vi ho dato un Errore…
“Com’è che ho la
vaga sensazione che lo trasformerete in una Verità?”
Angolino dell’Autrice (più o meno).
Potrei iniziare scusandomi, ma credo che ne
abbiate già le scatole piene delle mie scusa xD
Ok, battute a parte purtroppo ho avuto e
continuo ad avere problemi con il PC: lavorare in smart working non è MAI una
buona cosa sta scoprendo (soprattutto dopo un anno e mezzo). Ho perso gran
parte di quello che già avevo scritto causa un BANALE problema tecnico e
riscrivere tutto con il tablet è un incubo. La cosa positiva è che ho il vizio
di scrivere anche con carta e penna, quindi almeno il
50% del lavoro non è andato a p******.
Passiamo a questo capito il cui
protagonista è…?! BetholdHawkeye.
Mandatemi pure a quel paese forza xD
Questo capitolo nasce più come flusso di
coscienza che altro in realtà, e credo che la cosa sia palese in una certa
misura.
Cambia lo stile. Ovvio. Non potevo farne a
meno.
Il tutto si conclude con un capitolo un po’
(tanto) sconclusionato. Si passa dal “tu” alla terza persona, in una giostra
non sempre chiara e attraverso le stagioni dell’infanzia e dell’adolescenza di Roy e Riza, qui visti in
un’ottica un po’ deformata: quella di un uomo che prima che padre è stato
alchimista.
La mia visione Bertholt
sta tutta in queste righe: un uomo non esente dall’affetto, ma incapace di
mostrarlo; un uomo preda di un demone che è stata la sua ricerca, e che lo ha
spinto in tutte le direzioni tranne in quella (forse) giusta; un uomo che vede
il mondo tramite il suo essere Alchimista, e non il suo essere umano.
Però a mio avviso è stato proprio lui a
formare, almeno in una certa misura, Roy e Riza. Con i suoi, appunto, errori. Dopotutto anche dagli
errori nasce qualcosa di buono, no!??!?!?
Per concludere…
RedLolly! Mia cara! Il commento del precedente
capito l’ho divorato. Proprio divorato. Prossima settimana dovrei avere il PC
in riga (lo spero almeno) e vedrò di rispondere ad ogni commento e ad ogni
conversazione privata. Perché il bello delle ff sono
proprio questi legami dietro ad una tastiera a mio avviso.
“… Questa Guerra
ci sta insegnano fin troppo, a mio avviso, e nella maniera sbagliata.
A tutti Noi.
Nessuno escluso.
È strano come
improvvisamente, in questo luogo sterile, a cui abbiamo tolto e continuiamo a
togliere, qualcosa possa germogliare.
O forse
crescere.
Non lo so…
Inizio a non
comprendere più certe cose. Le banalità della vita quotidiana mi sembrano ora
misteri invalicabili; le piccole cose a cui ero abituato, ciò che era scontato,
improvvisamente sembrano arcani irrisolvibili.
Loro rientrano
in questa categoria. Ma suppongo non sia colpa di questa Guerra.
Credo che sia
così per natura o forse per una folle scelta…”
Rileggere queste righe, ad anni di
distanza, è straniante.
Non strano. Non doloroso. Non faticoso. No.
Straniante.
È come se non fosse reale, ma lo fosse; è
come se non fosse la mia vita, ma lo fosse; è come se non fossero i miei
ricordi, ma lo fossero.
È una giostra sulla quale sono salita più o
meno consapevole di quale fosse l’effettivo giro, e dalla quale ho scelto di
non voler scendere.
In realtà penso sia molto più facile di
così in realtà: è la classica storia del “se ti prendi l’uomo devi prenderti
anche tutto ciò che lo accompagna”.
Più basilare di così.
Lo sapevo dall’inizio, questo principio.
Sapevo che sposando Lui sarebbe stato un po’ come sposarsi anche Loro
– in senso lato magari, ma il risultato è lo stesso.
Dopotutto, è stato il ruolo finale che ho
scelto per me: né dentro, né fuori. In mezzo.
In mezzo ad ogni cosa, ad ogni persona. Ad
ogni legame.
Incastrata, per mia volontà, tra le volontà
altrui.
Incastrata tra Loro.
Ricordo di averLi
conosciuti nello stesso modo, anche se in tempi diversi: attraverso una
lettera.
Durante il periodo in Accademia, Lui
mi scriveva di Lui.
Durante Ishvar, Lui
mi scriveva di Lui.
Durante Ishvar, Lui
mi scriveva di Lei.
Quando tutto si sia confuso non lo
so, forse lo è sempre stato.
Quando tutti si sono confusi non lo
so, forse lo sono sempre stati.
Eppure ricordo un episodio, una frase, una richiesta.
“Insegni come
vivere. Insegnami come vivere in un mondo che non sia Ishvar…”
Me lo ha chiesto con la disperazione nella
voce, e con il rimpianto negli occhi.
Me lo ha chiesto come un bimbo spaventato
dal mondo.
Me lo ha chiesto come un uomo senza più
nulla.
Me lo ha chiesto malgrado davanti al mondo
fingesse fosse semplice.
“Raccontami.
Raccontami, ti prego. Raccontami chi sei e chi sei diventato.”
Raccontami di te.
Raccontami di chi eri lì.
Raccontami di chi ha camminato al tuo
fianco, di chi cercavi gli occhi, di chi c’era quando non c’era nessuno.
Raccontami di Voi.
Questo gli ho chiesto senza cattiveria o
gelosia.
E lui parlava di Voi.
Ci sono troppi
Voi, qui. Troppi legami.
C’è troppo…
Vi
ho conosciuti dai suoi racconti, dall’affetto delle sue parole, dalle battute
irriverenti e dagli insulti affettuosi.
Vi
ho conosciuti come la sua famiglia; sgangherata, assurda, piena di
buchi, che a malapena stava in piedi e che nemmeno si sognava di definirsi
tale. EppureVi ho conosciuti.
Poi Vi ho visti, e ho capito che non
avrei mai compreso.
Non del tutto. Non veramente.
In mezzo a
tutto.
In mezzo a
tutti.
Il ruolo che ho
ritagliato per me.
Non ho capito Maes
e Roy – fratelli non di sangue, ma di qualcosa che
del sangue se ne fregava.
Non ho capito Maes
e Riza – estranei che fingevano di essere tali, ma si
capivano con uno sguardo.
Non ho capito Roy
e Riza – il cui baratro che li separava sembrava
infinito, ma che erano così lontani da essere vicini.
Alla fine ho smesso di cercare di capire.
Alla fine ho smesso di cercare una motivazione.
Ma ho imparato.
In mezzo a
tutto.
In mezzo a
tutti.
Il ruolo che ho
ritagliato per me…
…
Perché non c’era
posto migliore per assistervi.
Non sono mai stata un soldato, né un
alchimista.
Non conosco il peso della divisa,
tantomeno quello della Guerra.
Ma l’Amicizia e l’Amore…
Ho imparato con Voi.
Ricordo ancora quel giorno…
Elicia era nata da poco, e tra infinite
tribolazioni eravate riusciti a venire. Per farci le congratulazioni.
Per un abbraccio. Per conoscere la mia bimba.
Ricordo di aver sorriso serena, mentre
allungavo le braccia e Riza la accoglieva tra
le sue.
Ricordo di aver ridacchiato divertita,
quando Roy si è avvicinato e gli è stata gentilmente
messa in braccio la bimba, e la sua espressione stranita.
Ricordo il flash della macchina fotografica
che ha abbagliato tutti, le espressioni stupite e quel pezzo di carta che
sarebbe diventato tra i più importanti.
E ricordo le parole di Maes a loro, la sua richiesta che era anche
la mia.
“Se qualcosa va
storto…”
Sarete Voi ad occuparvene.
Non ho mai avuto dubbi. Mai.
Ho sempre detto che non avremmo potuto
scegliere persone migliori.
Quella foto, stampata poco tempo
dopo, mi ha dato la conferma.
Una famiglia…
Lo sembravate, la sareste stati e lo siete
stati.
Anche se il mondo non ne ha mai saputo
nulla per molto tempo.
Anche se per anni nessun altro a
parte me e Maes ha sentito Elicia
dire quelle due paroline.
“Zio, mi prendi
sulle spalle?”
“Zia, balli con
me?”
“Zio. Zia. Mi
raccontate una storia?”
No, il Mondo non l’ha saputo per
lungo tempo.
Ma io sì.
Ma lui sì.
Siete stati per Elicia
una famiglia, la stessa che siete stati per Maes.
Lo siete stati anche per me.
Ricordo i giorni peggiori, quelli in cui
ogni cosa andava nascosta, in cui ogni gesto doveva essere accurato,
controllato, studiato.
Ricordo il dolore negli occhi di mia
figlia, che non capiva; ricordo le sue lacrime perché pensava di avervi fatti
arrabbiare; ricordo che chiedeva di Voi, e io dovevo mentire per tutti.
E ricordo quel
giorno…
Dimissioni
dall’ospedale, ma fasciature che nascondevano ferite ancora sanguinanti.
Il campanello
aveva suonato ed Elicia, come suo solito, ch’era
corsa ad aprire.
E il silenzio.
Mi ero
precipitata spaventata e la mia bimba era al sicuro tra le braccia di Riza, una mano di Roy sulla sua
testolina e l’altra che si poggiava delicata sul fianco della donna.
“Zio. Zia.”
Lacrime visibili.
Mie. Di mia
figlia.
Lacrime invisibili.
Roy. Riza.
No, non avremmo
potuto fare scelta migliore.
Lo pensavo allora
e lo penso oggi.
L’ho pensato quel
giorno all’ospedale, quando Elicia ha conosciuto sua
cugina.
L’ho pensato
quando ho saputo della scelta della mia bambina: la divisa.
L’ho pensato
quando si è diplomata e il Comandate
Supremo Mustang le ha dato mostrine e diploma.
E lo penso oggi,
il giorno del suo matrimonio, mentre c’è qualcuna che la
tranquillizza come io non riesco a fare e c’è qualcuno che l’aspetta
per accompagnarla verso qualcun altro.
Una famiglia…
Sgangherata,
assurda, piena di buchi e di rattoppi, che ora sta in piedi e che malgradi non
si sia mai sognata di definirsi tale lo è, lo è diventata e lo è sempre stata.
E io sono in
mezzo.
Ma non c’è posto
migliore.
Angolino dell’Autrice
(più o meno):
Beh, almeno
stavolta sono stata (semi) veloce a pubblicare. Il che potrebbe essere un
record xD
Passando alla
storia… Immagino che si sia capito chi parla: ovviamente Glacier!
Lo so, ormai qui
stiamo alla follia, ma è anche questo il bello xD
Anche in questo
caso un capitolo che per certi tratti può ricordare il precedente per stile di
scrittura, anche grazie al fatto che passiamo a parlare di terzi in senso
generico a sembrare di parlare direttamente con loro. Anche in questo caso come
nel precedente è una scelta voluta, studiata e adattata. Nulla viene lasciato
al caso (sì, come no! Non ci credo nemmeno io!).
In questo
capitolo ho cercato di capire Glacier, la sua vita, i suoi sentimenti, e il suo
legame.
Il tutto si
risolve in qualcosa che in una certa misura va da sé.
Gran parte delle
cose sono frutto della mia fantasia (diciamo un buon 98% dai), tuttavia
sappiamo che Maes le scriveva da Ishvar,
e mi fa strano pensare che non abbia mai scritto di CHI era lì con lui. Il resto
è quasi una conseguenza logica. In una certa misura è quasi una MaesRoyRiza (nella mia mente sono tre personaggi inscindibili,
vista Ishvar; perché è lì che loro 3
sono nati come quelli che abbiamo conosciuto noi). Glacier è il quarto
elemento, una variabile entrata nel gioco delle parti per Maes,
ma che è impossibile scindere dal resto. Così come Elicia.
Nella mia mente
Glacier ha il ruolo dell’esterna e dell’interna; è quella che sa ma non sa; è
quella a cui racconti ma non racconti; è quella che mette insieme le tessere
del puzzle pezzo dopo pezzo, parola dopo parola, azione dopo azione. E non è
stupita, ed è vissuta con Maes abbastanza tempo da capirne
i legami. Mi piace pensare che lei abbia sempre saputo, ma che abbia rispettato
il suo “ruolo” per così dire.
Tutta la
questione Elicia è SERIAMENTE nata dalla fantasia, ma
un po’ di zucchero non guasta. Nei limiti del possibile. In più l’ho sempre
immaginata come una cosa MOLTO possibile.
Questo capitolo
in realtà in certa misura sarà ripreso, o almeno saranno riprese alcune questioni
qui inserite. Sì, mi piace creare collegamenti pure nelle raccolte che
dovrebbero essere fini a sé stesse. Sono un caso disperato.
Infine…
RedLolly! Mi ucciderai a
breve perché ancora non mi sono messa a recensire come promesso. Se vuoi ti do
l’indirizzo così mi vieni a tirare il collo direttamente (che sarebbe più che
giusto). In realtà sappi che sto abbozzando le recensioni, perché un minimo di
senso logico in una recensione è d’obbligo. E sappi che sei stata lo sprone per
questo nuovo capitolo; mi hai dato la carica che mi serviva. Non so davvero
come ringraziarti! Per tutto! Grazie anche per il commento del precedente
capitolo. Domani se tutto va bene inizio a mettermi in pari. Incrocio le dita.