Una scatola color carta da zucchero

di settembre17
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La mattina dopo. Oscar. ***
Capitolo 2: *** La mattina dopo. André ***
Capitolo 3: *** E adesso? ***
Capitolo 4: *** Tornare indietro per andare avanti ***
Capitolo 5: *** Lontani? ***
Capitolo 6: *** Un altro attendente, un'altra amica ***
Capitolo 7: *** Il giorno del ritorno di André ***
Capitolo 8: *** Quello che voglio ***



Capitolo 1
*** La mattina dopo. Oscar. ***


Una scatola color carta da zucchero

Questi personaggi non mi appartengono e sono di Ryoko Ikeda.

“Nessuno mai sulla terra
ha scoperto da parte d’un dio
un segno certo di ciò che sarà;
la cognizione del futuro è cieca.
Molte cose succedono agli uomini
contro il piacere; altri s’imbattono
in un vortice di pene
e mutano in breve il male
in un bene profondo”
(Pindaro, Olimpica XII)

Il temutissimo (per chi scrive) finale dell’episodio 28 e l’inizio dell’episodio 29. Da qui parte questa piccola storia. Nei primi capitoli il tempo scorre molto lentamente, più all’indietro che in avanti, poi la vicenda procederà secondo una strada diversa da quella originale.

Come sempre nei miei racconti, più introspezione che avventura. Buona lettura e sempre grazie!
 
CAP 1. La mattina dopo. Oscar.
 
- Una bellissima parata. Siete stati splendidi.
Si tolse i guanti tenendo gli occhi socchiusi.
Non voleva guardare di nuovo le sue mani.
 
La parata, comunque, era stata davvero splendida, Girodelle si era superato: da quando era arrivata nel suo ufficio per l’ultima mattina in servizio, era stata investita da una generale atmosfera carica di emozione, aveva ammirato la perfezione dei gesti dei soldati, aveva ascoltato commossa i discorsi ufficiali nei quali, al di sotto delle parole di rito, sentiva fremere vera riconoscenza, aveva compreso che nella cura esasperata per ogni dettaglio della cerimonia si manifestava un addio commosso. Doveva ammetterlo, nell’organizzare cerimonie di classe Girodelle non aveva rivali: il suo sguardo severo aveva passato in rassegna tutto, dal cortile perfettamente spazzato e quasi luccicante ai bottoni lucidati delle divise ai cavalli ben strigliati e tutti con la criniera pettinata e spostata dallo stesso lato, agli ordini che aveva impartito con il suo timbro di voce, nasale ma profondo e secco, e infine al rinfresco, poco sfarzoso ma ricercato, specialmente nella scelta dei vini.
E lei era davvero grata per quel festeggiamento, se ne era lasciata assorbire completamente: quella mattina si era svegliata molto presto, o forse non aveva mai dormito?, si era vestita ancora al buio, poi era uscita senza vedere nessuno e, arrivata molto presto alla reggia, aveva dedicato le prime luci del giorno a percorrere per l’ultima volta i viali dell’immenso giardino imponendosi di evitare qualunque tipo di commozione.
 
E ci era riuscita. Da quando nella sua stanza aveva indossato la solita divisa rossa, si era riappropriata di sé stessa: le lacrime, il dolore, tutto svanito. I gesti, le parole della sera prima: riguardavano un’altra lei.
Poi, mentre cavalcava piano lungo il Grand Canal, appena aveva avvertito nell’anticamera della sua memoria il pensiero di lui, aveva dato un colpo ai fianchi del cavallo e si era diretta al galoppo verso la caserma.
 
E lì era stata inghiottita dalle attenzioni di tutti con un sollievo mai provato negli ultimi mesi; aveva vissuto quella mattinata di saluti con una ostinata concentrazione, con la determinazione di chi vuol essere solo “qui e ora”, di chi non vuole ricordare di avere un passato, né remoto né, men che meno, recente. E ancora il sollievo, il sollievo nell’osservare quelli che la circondavano: tutti soldati, tutti ufficiali.
Nessun attendente.
E lei si godeva quella fresca e soleggiata mattinata di fine febbraio con la presunzione che non fosse poi così difficile accantonare quello che era successo solo una manciata di ore prima.
Dunque si era lasciata trascinare dall’entusiasmo di tutti mostrando un trasporto che Girodelle aveva trovato sorprendente: si sentiva lusingato ed emozionato come un ragazzino.
Il momento più toccante era stato quando, durante il rinfresco, lei, che era impegnata in una conversazione con altri ufficiali, gli aveva lanciato uno sguardo attraverso la sala, uno sguardo insistente, avrebbe giurato Girodelle, e poi aveva tirato le labbra in un sorriso di approvazione e di muto ringraziamento. Lui aveva risposto da lontano con un contenuto inchino e con un sorriso deferente, ma dentro… dentro si era sentito divino, un prescelto, un eletto!
Molti anni prima, quando aveva incominciato a nutrire una sorta di attrazione per l’allora capitano Oscar, Girodelle si era inizialmente spaventato e poi onestamente interrogato sulle sue inclinazioni e sulle sue preferenze: perché quella predilezione per una donna che chiunque avrebbe scambiato per un uomo? Perché in effetti, a vederla, aveva ben poco di femminile: l’andatura marziale, il tono della voce severo, l’uniforme sempre perfettamente abbottonata, nessuna curva su cui fantasticare, mani grandi, abituate a reggere le redini e a impugnare armi. Insomma, non è che in fondo in fondo quell’interesse rivelasse come a lui piacessero di più… gli uomini? Ma poi erano venute in suo soccorso avvenenti signorine, dame, ballerine, che l’avevano rassicurato sui suoi gusti. E così era tornato a guardare lei, nella sazietà dei sensi, e si era scoperto innamorato. Da allora non aveva più fatto caso alla stranezza di lei, al suo essere donna che cerca di essere uomo, ma aveva collezionato dettagli, particolari che gli rivelavano la femminilità nascosta di lei: il profilo aristocratico, più vicino alle bellezze di Botticelli che a quelle di Tiziano, la linea del collo, bianco e liscio come la porcellana più fine, che spariva sotto il colletto dell’uniforme, il lobo dell’orecchio, una mandorla perfetta, che fuoriusciva da una massa di capelli, invero poco disciplinati, ma simili a una cascata di oro zecchino, la coscia lunga e tornita da Venere capitolina e, soprattutto, gli occhi, occhi di un blu che gli ricordava lo zaffiro che aveva sempre ammirato al dito di sua madre. Era una creatura straordinaria, una bellezza per pochi, si era detto Girodelle; una creatura per me, aveva concluso.
Quando il rinfresco ormai volgeva alla fine e molti stavano già salutando e andando via, lui con sgomento aveva realizzato l’ovvio, cioè che da quel giorno non l’avrebbe vista più. E così l’aveva guardata, come per fissare ancora una volta quei lineamenti tanto amati, e si era accorto, possibile?, che anche lei era smarrita e che si era passata la mano sulla fronte, come a voler scacciare un brutto pensiero e allora, lì, in quella sala affollata ma che per lui conteneva solo due persone, Girodelle pensò che sì, sicuramente anche lei doveva aver realizzato… che non si sarebbero visti più! Che quello, tra loro, era un addio!
Fu in quel momento, un momento che si impresse nella sua memoria e che amò rivivere a lungo nelle settimane seguenti, che prese la decisione più importante della sua vita: avrebbe chiesto la mano di quella donna fuori dal comune, sì, era lei la moglie con cui voleva trascorrere il resto dei suoi anni!
 
Il povero Girodelle non sbagliava: lei davvero si era sentita improvvisamente smarrita. Ma allo stesso tempo il povero Girodelle si sbagliava di grosso: non era lui l’uomo che stava occupando i pensieri di madamigella Oscar.
Era successo infatti che madamigella Oscar si stesse intrattenendo in una conversazione con il sottotenente de la Fère, giovane promettente di un casato con una gran storia alle spalle, nei pressi della finestra che dava sulla piazza d’armi. Lei, rispondendo a una domanda posta dal giovane al suo fianco, al quale non sembrava vero di avere per sé tutta l’attenzione del colonnello in persona, con pazienza illustrava quale fosse l’ordine di spiegamento delle truppe più adatto in un’area di combattimento di quelle dimensioni, ipotizzando un attacco frontale portato da nemici a cavallo. Il sottotenente, che aveva già la stazza di un uomo fatto ma lo sguardo inebriato di chi conosce la guerra solo dai libri, dotato di un incontenibile impeto giovanile, le poneva domande e a sua volta ipotizzava altri scenari gesticolando con entusiastico vigore:
- Ma se i nostri fossero schierati con una leggera inclinazione nord-sud, - e aveva mimato con la mano l’inclinazione - colonnello, non potrebbero anticipare l’attacco e tentare così di sbaragliare il nemico incuneandosi nelle sue fila?
Allora lei, senza pensare, aveva avvicinato la sua mano alla mano del ragazzo a disegnare nell’aria uno schieramento lievemente obliquo sul lato nord della piazza d’armi:
- Vedete, questa è una decisione che si potrebbe prendere solo all’ultimo momento, considerata la velocità dei cavalli lanciati al galoppo, dal momento che se anche il nemico dovesse presentarsi schierato così…
 
E poi, mentre accompagnava le parole con quel gesto si era bloccata.
 
- Così come, colonnello? Chiese lui che pendeva letteralmente dalle sue labbra e ancora non si capacitava di avere il privilegio di quella sorta di lezione privata.
Ma lei non lo sentiva più.
Nel vedere le mani vicine, la sua e quella del giovane conte de la Fère, si era sentita morire: erano piccole! dannatamente piccole le sue mani! Da quando? Da quando le parevano così piccole?
Che domanda idiota, pensò, sai benissimo da quando.
 
Da quando lui le aveva bloccato i polsi.
Da quando le aveva stretto i polsi.
Da quando lei aveva visto sparire le sue mani nella presa di lui.
 
Mani da donna, maledizione.
Eppure non le erano sembrate piccole le sue mani quando avevano coperto e chiuso con affetto le mani della regina, le mani di Rosalie, le mani di sua madre: si era sentita un ufficiale, un fratello maggiore, un figlio, in quei momenti.
Ma ora.
Si era passata la mano sulla fronte e aveva fissato, per un attimo, il vuoto davanti a sé.
Era riuscita a congedare non troppo bruscamente il giovane conte e poi si era voltata verso Girodelle che la stava fissando dall’altro lato della sala. Gli aveva rivolto un cenno d’intesa: era giunto il momento del saluto.
Si era infilata nervosamente i guanti e si era avviata verso il suo ufficio. Girodelle l’aveva seguita con alcuni soldati scelti come rappresentati delle truppe per il congedo dal colonnello uscente.
E così erano entrati nell’ufficio e lei aveva detto, togliendosi i guanti ad occhi socchiusi:
- Una bellissima parata. Siete stati splendidi.
 
Allora prese la sua spada e, con un movimento deciso e perentorio, la stese di fronte a Girodelle e gli affidò il comando al suo posto.
Poi uscì dalla stanza, con il suo passo elegante, con le spalle dritte, con i capelli che ondeggiavano e coprivano il mistero dei pensieri di quella creatura che fino a quel giorno tutti lì avevano chiamato “Colonnello Oscar François de Jarjayes”.
 
Ora che era fuori da quell’ufficio, sapeva che cosa l’attendeva.
Chi l’attendeva.
Sapeva che lui era fuori ad aspettarla. A reggere le briglie del suo cavallo. L’aveva fatto ogni giorno, per quasi vent’anni: non sarebbe certo mancato l’ultimo. Nemmeno dopo quello che era successo. Lo conosceva bene, lei. Avrebbe potuto scrivere un trattato sull’ostinazione di André Grandier.
Sentì la rabbia crescere, avrebbe voluto avere davanti a sé un vaso di lillà e fracassarlo per terra. E in quel momento, di nuovo, sentì il materasso cedere sotto il loro peso. E poi, di nuovo, si sentì nuda.
Le sembrò all’improvviso di non aver vissuto niente di quella mattina e di essere precipitata un’altra volta lì, in camera sua, al buio, con addosso una camicia strappata e la sensazione, definitiva, irrimediabile, di aver perduto per sempre un amico.
 
Lei e lui, lei e lui, lui e lei, lui e lei. Da sempre insieme, da sempre vicini. E ora troppo, troppo!, vicini; così vicini che lo sentiva lontanissimo.
No, non era ancora pronta ad affrontare la sua vista, aveva bisogno di solitudine: solo qualche minuto di solitudine.
 
Si avviò verso un vestibolo nascosto sulla destra del lungo corridoio dove aveva intravisto una poltrona e un tavolino seminascosti nella penombra ai piedi di una scala che portava al piano superiore. Si sedette con la schiena ben dritta e le gambe accostate. Poi appoggiò le sue mani sulle ginocchia e iniziò ad osservarle. Ripensò alle sue mani vicine a quelle del giovane conte de la Fère e ancora si sentì in preda a un disagio mai provato. Eppure erano sempre le sue mani, quelle che avevano definito “mani da pianista”, sua madre, “mani da ladra”, un complimento del cavaliere nero quando era stato suo forzato ospite, “mani da spadaccino” e “mani da generale”, suo padre, mani che lei aveva sempre usato e mai osservato. Erano anche capaci di far male quelle mani… come la definiva, lui, quando erano piccoli? Manesca. E anche la sera prima ne aveva dato prova, a dire il vero: la sua mano era stata capace di uno schiaffo poderoso sulla guancia di quello sputasentenze.
Ah, con che rabbia l’aveva colpito! Era stata tutta istinto in quel momento: pura violenza, forza in movimento.
Ma lui… ma lui.
Lui era stato forza immobile, rovere ben piantato a terra. Solo uno spostamento di lato del volto, ma i piedi fermi a terra.
 
E poi quel silenzio.
E poi le sue mani che le chiudevano i polsi.
Che stringevano i polsi.
E le sue mani che sparivano nella morsa delle mani di lui.
La dimostrazione della sua forza.
La dimostrazione della sua debolezza.
E mentre di nuovo il rancore saliva dalle viscere, scattò in piedi, pronta a uscire, gli occhi fiammeggianti.
 
E poi.
E poi all’improvviso dovette ripararsi gli occhi con una mano perché un raggio di luce che proveniva dalle ampie finestre del corridoio vicino aveva colpito la specchiera davanti a lei e per un istante l’aveva accecata. Serrò le palpebre per tornare a vedere distintamente intorno a sé e quando aprì gli occhi si vide sorridere nello specchio.
Era bastato quel raggio per tornare indietro di più di vent’anni.
Inverno.
Il salotto dei ragazzi.
Sua sorella: un’adolescente alle prese con la vanità.
Lei: una bambina che gioca a fare il maschio di casa.
Lui: un bambino concentrato sulla sua mossa alla scacchiera.
Sua sorella, facendo smorfie con la bocca di fronte a uno specchietto: “Lo metto a destra o a sinistra questo neo di velluto?”
Lei e lui non rispondono.
“Ehi, ho detto a voi due! A destra o a sinistra della bocca?”
“… Sinistra…”, “… Destra….”
“Non mi avete neanche guardata, siete insopportabili! Lo dico a Nanny!”
“No, ti prego, ora ti guardo”, dice lui. “Per me sta meglio a destra”.
“Grazie, André, se aspetto Oscar…”
“Hai mai badato al tempo che passi davanti allo specchio? Intanto che tu ti guardi, la gente vive, cara sorella! E fa cose decisamente più interessanti che mettersi nei finti sulla faccia!”
“Sei solo invidiosa perché maman mi ha regalato questo bellissimo specchio grande come il mio viso e con il manico di madreperla!”. Stringe le dita sul manico, non sopporta più quella specie di sorella.
“Ah ah, certo, certo.” Poi, guardandola di traverso, gli occhi ridotti a una fessura di gelido blu, non si trattiene e aggiunge: “A me maman ha regalato il tricorno più bello di Parigi, era nella scatola tonda color carta da zucchero che ho trovato nel salone ieri sera! Sai che cosa me ne faccio di uno stupido specchio! Io non passo il tempo a scrutarmi la faccia!”
“…………… altre cose…..” borbotta lui.
“Che hai detto?” lo chiedono entrambe e lo guardano attente.
“Ho detto che uno specchio fa anche altre cose”.
“Ah sì? Sentiamo, per esempio?”
Lui le guarda e poi gentilmente prende lo specchio, lo rigira tra le mani e poi si infervora:
“Si può catturare il sole!”
“Oh, sì, catturami il sole, André!” dice una con le mani giunte vicino alla guancia e lo sguardo sognante.
L’altra alza gli occhi al cielo con aria di sopportazione:
“Dai, usciamo sul terrazzo e andiamo a caccia del sole! Muoviti, André” e poi esce dalla porta finestra con lo specchio in mano e si mette ad armeggiare inclinando lo specchio verso il sole.
È talmente concentrata che quasi non si accorge che lui le ha appoggiato sulle spalle la giacca di velluto perché non prenda freddo.
“Proviamo insieme?” lui domanda gentile.
“Sì, tu reggi lo specchio da quel lato, io lo tengo qui”.
Uno specchio, quattro mani. Vicine. Simili.
“Ce l’abbiamo fatta, André!”
“Non guardare nello specchio, ti accechi, Oscar!”
 
Ti accechi.
Ti accechi.
Ti accechi.
 
Controllò con un movimento automatico che la spada fosse ben agganciata; il sorriso era svanito e una tristezza senza fine la invadeva: la sentiva arrivare da lontano e poi sommergerla come un’onda, sempre più alta, sempre più alta.
Come si possono proteggere i bambini dallo scorrere del tempo?
 
Sentì dei passi nel corridoio e, prima di essere sorpresa lì, si decise ad uscire.
Aprì la porta e vide il sole di febbraio luccicare sulle poche lastre di ghiaccio che ancora non si erano sciolte.
Ora doveva attraversare il portico, scendere le scale, raggiungere il suo cavallo.
Vedere lui.

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Capitolo 2
*** La mattina dopo. André ***


CAP. 2 La mattina dopo. André.
 
Quando il chiarore del giorno fece capolino tra le persiane e tra le tende tirate con furia la sera prima, cominciò a sentirsi meglio.
Aveva dormito? Non lo sapeva nemmeno lui.
Appena entrato nella sua stanza, la sera prima, un groviglio di dolore e di rimorso lo aveva assalito e prostrato fino a farlo crollare ai piedi del suo letto, la testa tra le mani e gli occhi serrati con forza contro le ginocchia rannicchiate al petto. Non si era nemmeno sentito degno di sdraiarsi sulle coperte, o forse non voleva provare di nuovo quella sensazione, quella del materasso che si deforma sotto al suo peso.
E quel groviglio era ancora lì, nel suo pensiero, nel suo unico occhio, sulla sua pelle, sulla sua bocca.
 
Ma, André si stupì, non c’era solo quello.
Intrecciato a quel disgusto di sé, al senso di colpa, altro ribolliva dentro di lui, ora che la luce dell’alba iniziava a svelare non solo le cose ma anche i loro contorni, la loro definita presenza.
E sentì dentro di sé, ancora, rabbia.
Si alzò e si avvicinò alla finestra. Allargò le mani sul piano della scrivania lì vicino ma non le guardò. Non voleva vedere le sue mani. Con lo sguardo fermo davanti a sé, iniziò a grattare con le unghie le venature del legno con un movimento lento e ritmato, lasciandosi guidare da quelle sottili linee in rilievo.
Riuscì, finalmente, faticosamente, a risalire con la memoria più indietro: prima di quando le aveva strappato la camicia, prima di quando lei, sdraiata, aveva urlato vicino al suo orecchio, prima di quando l’aveva fatta sbilanciare all’indietro, prima di quando aveva incollato le labbra alle sue, prima di quando le aveva afferrato i polsi, prima di quando lei l’aveva colpito.
 
Prima.
Quando lei aveva assunto quell’aria distaccata, gli aveva dato le spalle e, con quel tono privo di un qualsiasi colore, gli aveva detto: “Non ho più bisogno di te”.
Ma doveva andare ancora un po’ più indietro per sentire male davvero.
 
“Ora che ho deciso di vivere come un uomo”
 
Afferrò il calamaio e lo scaraventò contro l’armadio.
Se avesse detto: “Ora che anche Fersen mi ama, non ho più bisogno di te”, sarebbe uscito in silenzio da quella stanza e anche dalla sua vita. Forse le avrebbe augurato la felicità, o forse, più realisticamente, non avrebbe detto niente e sarebbe andato ad ubriacarsi fino a morire. Ma non l’avrebbe toccata.
Invece lei aveva detto:
 
“Ora che ho deciso di vivere come un uomo”
 
Guardò l’inchiostro che lentamente lasciava una macchia nera e vischiosa sul legno dell’anta dell’armadio. Lo seguì con lo sguardo.
Vide una lacrima di inchiostro scorrere piano, giù, e la vide piangere. Lei che piangeva per colpa sua, lei che piangeva perché lui non aveva saputo tacere un’ultima volta quello che da anni taceva. Lei che piangeva perché pensava ad altri baci. Lei che piangeva perché da lui non si aspettava quello. Lei che piangeva e che non aveva nemmeno tentato una difesa.
Eppure sarebbe bastato un bel colpo con il ginocchio proprio lì, in mezzo alle sue gambe, lo aveva imparato nei suoi primi addestramenti, quando suo padre l’aveva messa in guardia su come difendersi da assalti troppo ravvicinati di maschi più alti e grossi di lei.
Sapeva che cosa fare, Oscar, lo sapeva.
Ma non con lui.
Non contro di lui.
 
Si odiò.
Si disse che mai lei l’avrebbe perdonato.
Si disse che mai lui si sarebbe perdonato.
 
Strinse i pugni fino a far diventare bianche le nocche.
E poi la rivide: vicinissima, il respiro iroso di lei che esce dalle narici e scende, troppo vicino, a scaldare la bocca che lui tiene serrata, gli occhi di lei che lo trafiggono,
 
“Devi dirmelo, André!”
 
ma che cosa? che cosa, deve dirle?? che cosa c’è ancora da dire quando lei, lei!, ha annullato ogni distanza fisica tra di loro, ora che le loro camicie si toccano e che forse anche le loro cosce, così vicine, si sfiorano, ora che lei lo tiene per il collo della camicia, ora che tra i loro profili quasi non passa più la luce? Che cosa? che cosa vuole che le dica? eppure gli è sembrato di essere stato così chiaro!
 
“Vuoi che ti spieghi la metafora, Oscar?” gli scappò un sorriso amaro. Immaginò la scena:
“Ma certo Oscar, ora te lo dico; scusa, scostati un po’ e sediamoci davanti al camino, vuoi?”
 
E invece l’aveva baciata. 
Ma non con lussuria, no. Ne era certo. Forse nemmeno con passione. Milioni di volte aveva immaginato il suo primo bacio con lei: d’inverno in una carrozza piccola; contro il tronco di un albero al termine di un duello; nella scuderia, nascosti tra i loro due cavalli; nel parco, nei giardini della reggia, sulla torre la notte; davanti al fuoco, in riva al mare con i pantaloni arrotolati al polpaccio e i capelli sulla faccia; in camera di lei vicino al pianoforte; sul terrazzino, al tavolo della colazione oppure appoggiati alla balaustra; in camera di lui, alla scrivania, oppure nascosti contro il fianco dell’armadio, o seduti sul suo letto; a Parigi su un ponte sulla Senna, in una stradina di Montmartre, al Café Procope scandalosamente in mezzo a una folla di avventori, contro un muro, nel tavolo più intimo di una taverna che conoscevano solo loro e dove andavano da ragazzi; a cavallo, ognuno sul suo mentre cavalcano vicini, oppure tutti e due sullo stesso cavallo; sull’erba, sulla paglia, sulla seta, insomma, ovunque, ovunque.
E tutte le volte, tutte le volte, in ogni sua fantasia, appena prima che le loro labbra si sfiorino, lei si illumina in un sorriso.
 
Che cosa ho fatto?
Ebbe un brivido.
 
Poi, all’improvviso, comprese sé stesso e quello che voleva fare con quel maledetto bacio, che nemmeno gli era piaciuto, che aveva cancellato dalla sua memoria con una tale forza che ora non ricordava nemmeno più che sapore avesse. Sentì ancora la voce incrinata di lei:
 
“Che cosa vuoi dimostrare, André?”
 
L’aveva capito, lei, che quel bacio, con tutto quello che era successo dopo, era una dimostrazione.
E di nuovo, un’altra volta, ma quante volte l’aveva rivissuta quella scena?, tornò a quell’istante maledetto, l’istante prima di perdere il senno:
 
“Devi dirmelo, André!”, aveva urlato lei.
 
Ma non c’era niente da dire.
Avrebbe potuto restituirle lo schiaffo.
Avrebbero potuto prendersi a pugni come a quindici anni.
Ma era troppo tempo che i loro corpi avevano disimparato l’arte di toccarsi, da troppo tempo risolvevano le cose con il silenzio.
E lui non era riuscito, maledizione!, a tacere, ma nemmeno a trovare parole, a spiegare, a chiarire, a lasciare andare.
 
Che cosa vuoi dimostrare, André?
Che sei un idiota.
Che hai rovinato tutto.
Che non ti perdonerà mai.
Che tu non ti perdonerai mai.
 
Sentì il rumore del cancello che veniva aperto e poi gli zoccoli di un cavallo che battevano al galoppo la ghiaia.
Era lei.
Andava alla reggia. Senza di lui, naturalmente.
 
Restò in attesa che qualcosa dentro di lui gli dicesse che cosa fosse meglio fare: lasciarla stare? inseguirla? far finta di niente e tornare alle incombenze previste per la giornata assecondando passivamente il ritmo degli impegni esterni?
Sì, l’ultima ipotesi gli parve la migliore. Non far accadere, ma lasciar accadere.
Una soluzione che richiedeva autocontrollo. E proprio per questo gli piaceva: le avrebbe dimostrato di essere il solito affidabile André, non lo sconosciuto della sera prima.
 
Che cosa vuoi dimostrare, André?
Che sono sempre io, Oscar.
Che mi prendo cura di te.
Che puoi sempre contare su di me.
 
Prese un po’ di fiato e si decise ad aprire la finestra: l’aria fresca che entrò gli diede sollievo, gli fece venir voglia di lavarsi, di togliersi di dosso le tracce di quella notte senza fine e di incominciare la giornata più difficile della sua vita.
 
Ma bastò il pensiero di cambiarsi la camicia per incupirlo di nuovo.
 
Le aveva strappato la camicia.
Sul petto.
Aveva visto il suo seno.
Aveva visto il suo seno?
Non lo ricordava più.
In quel maledetto istante, quando aveva sentito il rumore della stoffa che si strappava sotto le sue dita, quando ormai era troppo tardi, era tornato di colpo alla realtà.
Si portò istintivamente le mani alle orecchie e fissò immobile un punto sul pavimento.
Era rimasto con il lembo di camicia in mano, con l’unico occhio sbarrato davanti a lei seminuda: ma non aveva visto niente di lei. Aveva visto invece sé stesso da fuori, anzi aveva visto tutta la stanza da fuori: la penombra, le gambe di lei di traverso sul letto, il rosa della sua pelle circondato da brandelli di cotone bianco, riccioli biondi che cadevano dal bordo del cuscino, lei, con lo sguardo assente, il suo corpo elastico privo di movimento, innaturalmente fermo, e poi, a due passi dal letto, lui. Colpevole. Responsabile di tutto. Un predatore. E così, atterrito e paralizzato dal dolore, aveva lasciato cadere a terra il lembo di quella camicia, aveva chinato il capo e aveva chiesto perdono e aveva giurato che mai più, mai più, mai più.
 
L’aveva coperta senza guardarla.
Lei l’aveva lasciato fare senza protestare.
Le aveva confessato il suo amore.
Lei non aveva detto niente. Ma piangeva.
 
Che cosa vuoi dimostrare, André?
Niente, Oscar.
Non voglio dimostrare più niente.
Ormai.
 
Si spogliò.
Si fece la barba usando lo specchio solo per vedere porzioni del suo volto, non sopportava di vederlo nella sua interezza.
Si lavò e si vestì.
Uscì chiudendo piano la porta e si avviò verso l’ingresso.
 
Intravide sua nonna indaffarata a preparare la colazione al tavolo della cucina e accelerò il passo per non farsi vedere. Ma poi, appena superata la porta della cucina, si fermò e tornò indietro:
“Ciao, nonna, come stai stamattina?” Avrebbe voluto abbracciarla, anzi essere abbracciato da lei e sentire che era tutto come prima. Lei tenendo gli occhi fissi sull’impasto che le sue mani esperte massaggiavano con forza gli rispose:
“André, ma che ci fai qui? Muoviti che madamigella è già uscita! E non ha fatto colazione! Ah come si può iniziare la giornata a stomaco vuoto lo sa solo lei! Tieni, porta con te qualche biscotto”.
Lui aveva sorriso di commozione e di tristezza. Dio, nonna, se tu sapessi!
“Nonna, oggi c’è il rinfresco per l’addio di Oscar alle Guardie Reali, non credo di poterle portare i tuoi biscotti, ti pare?” forzò un sorriso.
“Va bene, va bene. Allora prendili tu, caro. E ora scusami, ma qui c’è tanto da fare. Su, su, vai!”
Si era avvicinato e le aveva dato un bacio sulla cuffia. Da quella mattina lui non aveva che quella donnetta energica.
 
Poi arrivò alla reggia, recuperò il cavallo di lei e aspettò che la festa fosse finita. Che lei uscisse da quella porta.
 
“André, vieni con noi a farti un goccetto? Ne avranno ancora per un bel po’!”, la voce di Jacques, l’attendente di Girodelle, lo destò dai suoi pensieri.
“No grazie, Jacques.”
“Cos’è, è troppo presto per te? Ah, io a un goccetto non dico mai di no”, e gli strizzò l’occhio.
André sorrise e lo lasciò andare: mentre Jacques si allontanava e veniva raggiunto da altri attendenti, André ne invidiò la leggerezza.
 
Lui invece si sentiva così pesante. Pensò che forse quella era l’ultima volta che avrebbe visto Versailles.
Rimase lì, immobile, con le briglie dei due cavalli in mano, mentre il suo pensiero vagava, confusamente e senza ordine nei ricordi di una vita. Ma erano tutti frammenti, immagini ferme di balli, di feste, di addestramenti, di corridoi silenziosi, di stucchi dorati, di vetri trasparenti, di fontane e di giardini, di gioielli, parrucche, abiti dalla forma talmente esagerata che spesso ne aveva riso.
Pensò che non ne avrebbe sentito la mancanza.
Pensò che non avrebbe più rivisto la famiglia reale.
Pensò che la regina che giocava a fare la contadina non gli piaceva. Non gli era piaciuta nemmeno la giovane regina alle prese con la moda, ma ora non riusciva ad essere indulgente. Quello che una volta le perdonava senza grande sforzo, adesso lo vedeva come un’offesa al popolo francese. Eppure c’era stato un tempo in cui anche lui aveva provato ammirazione per quella giovanissima principessa che veniva dall’Austria…
E poi, in una ovvia concatenazione di associazioni nei fili della memoria, lo assalì il ricordo che non voleva ricordare: la principessa su un cavallo impazzito lungo il Grand Canal e lui, a terra, trascinato tra la polvere da quell’animale ormai senza controllo, lui che cerca di non lasciare le redini e lei, lei, Oscar, che alla fine, eroicamente ferita, salva tutti.
Oscar che lo prende in giro, sdraiata a letto convalescente per la ferita al braccio, che lo prende in giro davanti a Fersen. Oscar che regala sorrisi a Fersen.
Fersen che non se ne è nemmeno accorto, di quei sorrisi.
Lui invece fa collezione, di quei sorrisi.
 
E li rivede, anche quelli alla rinfusa, senza ordine, ma tutti nitidi:
“Adesso puoi aprirla, Oscar” dice sua madre con dolcezza.
E lei appoggia sulle ginocchia quella grande scatola color carta da zucchero e poi, con emozione, solleva un poco il coperchio solo dalla sua parte, cosicché lui, che le è di fronte, non può vedere che cosa contiene quella scatola, ma la vede guardare dentro e poi illuminarsi e vede il sorriso che nasce sul suo volto e vede che i suoi denti, così bianchi, appena appena si scoprono, e poi lei fa volare il coperchio e, estraendo un copricapo nero con le piume bianche, gli dice entusiasta:
“Guarda! Guarda, André!”
E lui le sorride, poi va a raccogliere il coperchio da terra e le dice:
“Tienila questa scatola, Oscar. È così bella”.
 
E poi rivede le risate.
Eccola lì, tutta stretta nella sua uniforme rossa, una sera che erano andati a Parigi solo loro due e lei era così triste, dio così triste! Ma poi, alla prima birra, lei si era sporcata con la schiuma e le erano venuti due bei baffoni e allora lui, rapido come una saetta, era scattato sull’attenti davanti a lei, si era portato la mano tesa alla fronte e tutto serio aveva scandito:
“Agli ordini, Generale Bouillé!” e avevano riso fino a farsi venire mal di pancia.
 
E ancora i sorrisi, tanti. Solo per lui: quelli della buonanotte, quelli del buongiorno, quelli abbozzati mentre è concentrata al pianoforte, quelli orgogliosi quando lui la stupisce con qualche prodezza o quando l’allenamento con la spada le è piaciuto, quelli riconoscenti di quando la nonna lo sgrida al posto suo, quelli tristi di quando sembra dire “Se non ci fossi tu, André” e quelli…
 
“Ehi, André! Sei ancora tra noi? Dio, ma come fai a stare lì da due ore? Non sei congelato?”
“Jacques…”
“La festa è finita, io vado dall’altro lato della caserma a prendere il cavallo del mio padrone. Ci si vede in giro, amico, magari ci facciamo una birra una di queste sere, che dici?”
“Certo, certo… grazie…”
Lo vide sparire dietro al colonnato e sentì in lontananza la sua voce allegra che chiamava un altro attendente.
 
Poi André rimase da solo, nel silenzio.
 
Una strana calma, a dispetto di tutto, si impadronì di lui al pensiero di rivederla: ogni cosa in quella mattinata apparentemente normale convergeva lì, su quel piazzale dove tra poco si sarebbero incontrati. Solo loro due lo sapevano. Tutto quello che avevano vissuto dalla sera prima, risvegli, parate, ringraziamenti, corse al galoppo, saluti e strette di mano, tutto, tutto era solo l’attesa di quel momento. Lo sapeva lui e lo sapeva lei. E la mossa ora spettava a lei, lui non poteva chiedere nulla, non poteva dire nulla. Ma era lì. Questa era la sua mossa.
 
Si aggiustò la giacca, controllò con una rapida occhiata i cavalli, tolse le coperte dalla groppa, prese le briglie e tornò al presente. Solo al presente, a quel momento, a quel luogo. Chiuse a chiave in fondo al cuore quello che era successo la sera prima e si preparò a rivederla.
 
Che cosa vuoi dimostrare, André?
Che qualcosa ci lega.
Che qualcosa ci ha sempre legato, amore mio.
 
Poi sentì la porta aprirsi e capì che l’avrebbe rivista.
Pochi passi e un abisso tra loro.

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Capitolo 3
*** E adesso? ***


CAP. 3 E adesso?
 
La porta non si era ancora richiusa alle sue spalle che lei già l’aveva intravisto nel cortile in fondo al colonnato. Al solito posto. Si accorse che per la prima volta l’idea di vederlo non le piaceva. Accarezzò la spada al suo fianco, poi tenne il palmo ben chiuso sul fodero mentre iniziava a camminare.
 
E allora, mentre ogni passo la avvicinava un po’ di più a lui, le tornò in mente quello che dalla sera prima fingeva di non aver sentito.
 
Io ti amo, Oscar.
Si sentì invadere dalla tristezza.
Credo di averti sempre amata.
Come poteva odiarlo?
 
Dove era finita la rabbia? Sentiva invece uno struggimento senza fine, come se nella sua testa cento violini suonassero la musica più straziante che si potesse immaginare. E con quella musica nella testa riviveva tutto: lo schiaffo, le parole urlate sulla sua faccia, i polsi chiusi nelle mani.
 
Senza fermare il passo respirò profondamente nell’ombra di una colonna.
 
Io ti amo, Oscar.
Lui l’amava.
Credo di averti sempre amata.
Lei oggetto di amore, da sempre. Lei era amata. Da sempre.
 
E ancora, ancora quei violini.
E poi ecco che gli archetti prolungano la loro corsa sulle corde per produrre un lamento insostenibile: lui che la bacia. Lei con gli occhi sgranati. Loro sul letto. Lei che urla, ma non è un urlo, è l’assolo di un violino che piange. Lui che le strappa la camicia e poi piange, piange, piange.
 
Io ti amo, Oscar.
Che cosa ho fatto a quest’uomo?
Credo di averti sempre amata.
Perché non riesco ad incolpare solo te?
 
E poi, a pochi passi da lui, il rumore di un gruppo di colombi che si alzano in volo cancella la musica e lei rimane avvolta nel silenzio, nuda, davanti all’unico occhio di lui. Manca un pezzo di camicia tra di loro, manca un occhio.
 
“Non guardare nello specchio, ti accechi!”
Ti accechi.
Ti accechi.
 
Io ti amo, Oscar.
E quanto male ci siamo fatti, André?
Credo di averti sempre amata.
Non torneremo mai più quelli di prima. Mai più.
 
Poi arrivò davanti a lui.
 
Lui abbassò leggermente la testa di fronte a lei, ma riusciva comunque a vederla.
Eccola, davanti a lui: ancora un passo e le avrebbe passato le briglie, come sempre. E come sempre la vide, la sua bellissima Oscar, per l’ultima volta avvolta nel rosso dell’uniforme. E lui, per l’ultima volta attendente.
Abbassò lo sguardo in attesa di ascoltare gli ordini, ma lei non disse niente, prese le briglie facendo attenzione a non toccarlo, poi montò a cavallo e solo quando ormai gli dava le spalle scandì bene:
“Vado a Parigi a visionare la mia nuova destinazione. Tu puoi andare a casa o dove vuoi, ma non seguirmi.”
“Bene”, lui aveva sollevato la testa e ora le guardava la schiena. Come se l’intensità di quello sguardo avesse il potere di farla voltare. Ma lei non si voltò.
E non si voltò perché lo sentiva quello sguardo puntato nella schiena e non si sentiva in grado di sostenerlo.
 
Io ti amo, Oscar.
Ho capito, André.
Credo di averti sempre amata.
Ma questa è una cosa che non so come gestire, André.
 
“Per quello che è successo ieri sera non ce l’ho con te…” e mentre lo diceva sentiva che era davvero così. Che non c’era più rancore, non c’era più rabbia in lei. Che aveva compreso nel profondo le sue intenzioni, al di là dei gesti sbagliati, delle parole taglienti.
“… ma preferisco dimenticare.” E mentre lo diceva sentiva che non era così. Che non era una sua scelta dimenticare o non dimenticare e che il ricordo di tutto quello che era successo l’avrebbe tormentata ancora.
 
Lui aveva abbassato lo sguardo e non aveva detto niente.
Poi lei si era allontanata al galoppo e lui l’aveva vista andare via dalla sua vita.
 
Rimase lì a fissare l’orizzonte vuoto di lei finché il suo cavallo non lo colpì con il muso sulla spalla.
Decise allora di dar retta al suo corpo, che reclamava un po’ di caldo, di cibo e qualche ora di sonno, e tornò a casa.
Era stanchissimo.
 
 
Non appena entrò dal cancello e si avvicinò alle scuderie, vide arrivare verso di lui Léonie, la giovane cameriera tuttofare, che aveva tra le mani la cesta della biancheria da stendere. Léonie era quel che si dice una forza della natura, aveva un corpo agile e un’energia pressoché inesauribile, faceva di tutto: oltre alle comuni incombenze da cameriera, si dedicava anche a lavori di piccola falegnameria, si arrampicava sulle scale più alte per spolverare lampadari, governava i fuochi della cucina e più di una volta aveva aiutato lo spazzacamino a pulire le cappe con vere e proprie acrobazie. La tenevano lontana solo dal servizio a tavola: troppo brusca nei gesti, troppo eloquenti i suoi sguardi. André, quando poteva, cercava volentieri la sua compagnia innanzitutto perché Léonie, come aveva messo in chiaro da subito, non provava alcuna attrazione nei suoi confronti, secondariamente perché non gli faceva mai domande su Oscar. Lui, dal canto suo, la ascoltava volentieri e, cosa che Léonie sommamente apprezzava, non la giudicava. Tutto questo rendeva la loro amicizia quasi cameratesca, rilassata, priva di qualsiasi tipo di complicazione:
“Non offenderti, André, ma non sei proprio il mio tipo” gli aveva detto una delle prime volte che erano rimasti da soli; era mattina molto presto e stavano tornando dal mercato con il calesse.
“Non mi offendo, Léonie” era scoppiato a ridere lui.
“No, perché, sai, a me quelli belli e tormentati non mi fanno sangue. Oddio, scusa, non ti sarai mica offeso? Beh, comunque ti ho detto che sei bello, no? È pur sempre un complimento!”
Lui si stava divertendo da matti. “E chi sarebbe il tuo tipo, Léonie?”
“Ah, ti dico, uno che non perde tempo, caro mio. Io il mio corpo lo uso anche per divertirmi, che ti credi? Ma sto attenta, eh! E comunque sai che ti dico? Il grande amore io non lo cerco e non lo voglio! Che poi, per me, neppure esiste il grande amore! Come l’araba felice, insomma!”
“L’araba fenice, Léonie! Ahaha!” non era riuscito a trattenere una risata sonora.
“Felice, fenice, quel che è. E comunque, dicevo, che io alla storia del vero amore non ci credo, caro mio. Di sposarmi, poi, non ne ho proprio voglia. E fare figli…, per carità! E per darli a questo mondo di m…”
“Léonie…” fece la voce di un finto rimprovero.
“Oh, scusami, poverino… ti turbano le parolacce?” aveva sbattuto le palpebre incurvando la bocca all’ingiù per prenderlo in giro, poi gli aveva piantato un gomito nel fianco e infine si era avvicinata al suo orecchio e aveva sussurrato: “a questo mondo di” e poi aveva alzato la voce, urlando a squarciagola nella campagna avvolta nella nebbia: “MER…..” ma lui fulmineo le aveva tappato la bocca ridendo e da lì erano diventati definitivamente amici.
 
Nel cortile Léonie non si era ancora avvicinata, che già gli stava dicendo a voce alta e con tono imperioso:
“Sbrigati, André. Il generale ha chiesto di te. Non farlo aspettare perché tira una brutta aria!” gli passò vicino sbuffando per il peso che portava tutto sbilanciato su un fianco.
“Léonie, per amor del cielo, ma come fai a portare quella roba da sola? Aspetta che ti aiuto, zuccona!”, balzò giù da cavallo e la seguì.
 
“Sono forte come un uomo, caro, non ho bisogno di te!”.
 
Lei rise. Lui no.
 
La raggiunse, le prese di slancio la cesta e la portò ai piedi dello stenditoio sul retro del palazzo precedendola a lunghe falcate.
Quando gli arrivò di fronte, lei era furente:
“Non farlo mai più, André! So badare a me stessa e lo faccio ogni giorno, anche quando tu non ci sei. Se vuoi fare gesti di cavalleria, scegli una cameriera più bisognosa di me.”
“Sai qual è il tuo problema, Léonie?” calcò sulla parola “tuo” in un modo che a lei non sfuggì.
“No, sentiamo il signor ‘sotuttoio’! dai, rivelami il mio problema, non vedo l’ora” il sarcasmo di lei lo colpì come uno schiaffo.
Allora lui abbassò la voce, la guardò negli occhi e piano, con pazienza, le disse:
“Il tuo problema è che sei troppo orgogliosa per chiedere una mano e che sei troppo concentrata su te stessa per poter dire semplicemente ‘grazie, André’. Ti ho solo portato una cesta pesante, non avevo intenzione di darti una lezione di vita. Mi dispiace se ti sei offesa.”
E la lasciò lì.
Mentre tornava verso l’ingresso del palazzo avvertì il cerchio di un fastidioso mal di testa che iniziava a pulsare sulla fronte.
 
Quando arrivò nell’atrio sentì la voce alterata del generale:
“… si può sapere dove è finito? Lo voglio nel mio studio! Appena arriva!”
E poi la voce un po’ tremante della nonna:
“Certo signore… certo, sarà subito da voi… Dovrebbe arrivare da un momento all’altro…”
“Sono qui”
“Alla buon’ora! Dove sei stato? Seguimi, André, dobbiamo parlare di una questione importante”.
La nonna guardò il generale avviarsi su per la scalinata e poi si voltò interrogativa verso il nipote, stropicciandosi nervosamente il grembiule con le mani. Lui la rassicurò con un sorriso, poi allargò le mani come per dire che non aveva idea di che cosa si trattasse e seguì il generale.
 
Lei intanto era arrivata a Parigi, nei pressi della caserma dei soldati della Guardia Metropolitana. Aveva calcolato mentalmente il tempo impiegato da Versailles a lì e poi aveva approssimativamente stimato il tempo di percorrenza da palazzo Jarjayes, ipotizzando giornate di sole, di pioggia, strade innevate, percorsi notturni. Insomma, le cose pratiche avevano preso felicemente possesso della sua mente.
Poi si era messa a gironzolare nei dintorni della caserma, aveva fatto il giro delle grosse mura che la circondavano coprendo un intero isolato e si era compiaciuta di quell’aspetto possente e severo, lontano dagli esili cancelli dorati della reggia.
Quando infine si era immaginata mentre usciva dalla cancellata di ingresso al comando di un drappello a cavallo e aveva ipotizzato tragitti e percorsi verso le zone più importanti di Parigi, si era accorta di non padroneggiare a sufficienza l’intricato reticolo di strade della città:
“Quale sarà il tragitto più veloce dalla caserma alla Gendarmerie Nationale?” disse ad alta voce, come se stesse parlando con qualcuno.
Ma nessuno rispose, naturalmente, dal momento che era lì, da sola, in groppa al suo cavallo. Tirò nervosamente le briglie per far girare il cavallo, si guardò in giro e poi decise di andare al Café de la Régence, dove ricordava di aver visto, appesa a una parete, una bellissima stampa della città.
Ma, una volta arrivata, non scese nemmeno da cavallo: alla porta del Café si accalcava gente che spingeva e vociava per entrare.
“Ma che succede?” chiese a un passante che si dirigeva verso il Café con aria entusiasta.
“Ma come, non lo sapete!, al Café è in corso una grande sfida a scacchi, oggi, Monsieur! Il Café sarà assediato! Per fortuna mio cugino mi sta tenendo un posto! Ah, che sfida!” e scappò via agitando le braccia per salutare un uomo che gesticolava verso di lui al di là della vetrina.
Lei, decisa a portare a termine la sua indagine, cambiò allora destinazione: attraversò la Senna e, dopo qualche esitazione, si convinse a dirigersi al Café Procope. Era un posto molto noto a Parigi, ma a Versailles, negli ultimi tempi, si preferiva fingere che non esistesse. Giravano voci a corte su discorsi sentiti in quel Cafè, discorsi pericolosi, discorsi sovversivi addirittura. Ma era anche il Cafè più antico di Parigi, e vantava una notevolissima raccolta di stampe e pubblicazioni consultabili dagli avventori; sicuramente avrebbe trovato tra quelle una mappa della città. Lei non era mai era entrata lì, ma conosceva bene quel posto perché gliene aveva parlato spesso And… Interruppe il pensiero, legò il cavallo e varcò la soglia del Café.
Entrò a testa bassa senza guardare nessuno, si diresse al fondo della bella sala scansando un gruppo di persone che intorno a un tavolino rotondo parlavano tutte infervorate sovrapponendo una voce all’altra e poi si sedette su una poltrona di velluto rosso posta a fianco di un elegante contenitore di legno dorato dal quale, tra una velina e l’altra, spuntavano fogli di carta stampata.
Prima di mettersi all’opera si concesse uno sguardo alla sala, ma non era interessata, in verità, agli arredi o alla gente che si avvicendava al bancone, no, si guardò intorno piuttosto come se stesse cercando una sagoma familiare, come se tra la folla avesse potuto riconoscere…
“Smettila!”, si disse, “Smettila di pensare a lui.”
Ordinò un caffè e poi si mise a scartabellare i fogli cercando quello che le interessava, ma mentre con impazienza voltava immagini mitologiche e stampe di cappellini e parrucche alla moda, sentì una voce familiare che la salutava:
“Colonnello…”
“Jacques!” riconobbe subito l’attendente di Girodelle e poi, con un’incontrollabile ansia, perché lei sapeva che a volte Jacques e André si erano visti a Parigi e magari…, con un’ansia che le fece battere furiosamente il cuore, guardò vicino a lui per vedere se per caso ci fosse anche…, ma no, Jacques era solo, e lei, provando sollievo ma anche qualcos’altro che non capiva bene, gli sorrise.
“Se posso permettermi, Colonnello, che cosa state cercando? E che cosa ci fate in un posto, ehm… come questo?”
“Sto cercando una mappa di Parigi, in realtà. Mi servono alcune informazioni topografiche e speravo di trovare qui una veloce risposta ai miei dubbi.” Proseguì nella ricerca senza guardarlo, le dita veloci che scorrevano i fogli.
“André non è con voi? Lui conosce questa città come le sue tasche, se chiedete a lui avrete la risposta in un baleno!”
Le mani si erano fermate e lei aveva stretto i denti in una smorfia che aveva nascosto nel bavero della giacca. Poi, ricomponendosi, senza guardare Jacques, l’aveva oltrepassato dicendo con tono impersonale:
“André non è più con me. Cercherò nella mia biblioteca a palazzo. Ti ringrazio. Porta i miei saluti al capitano Girodelle”.
Aveva appoggiato delle monete al bancone ed era uscita senza voltarsi.
Quando aveva ripreso il cavallo, aveva visto uscire dal Café due degli avventori che rumorosamente discutevano quando lei era entrata e sentì che uno diceva all’altro con entusiasmo:
“Sembra di essere tornati agli anni di Voltaire e di Diderot, vero? C’è fermento, c’è aria di rinnovamento!”
E l’altro rispondeva:
“Oggi Danton ha detto grandi cose, io credo che la nobiltà non se la passerà bene nei prossimi anni e che il popolo….”
Non riuscì a sentire il resto, ma rimase concentrata con le briglie in mano a collegare ricordi: André che la porta in una chiesa di campagna a sentire discorsi politici, André che ammira il Cavaliere Nero, André che legge Rousseau, André che nel tempo libero frequenta il Café Procope, André che era sempre al suo fianco…
 
André che la ama, André che l’ha sempre amata.
 
“Che cosa stai facendo in questo momento, André?”, una domanda che era nata da sola, senza che lei lo volesse.
Scacciò tutti quei pensieri che improvvisamente l’avevano investita come un uragano lanciando al galoppo il suo cavallo e facendosi sferzare dal vento di un pomeriggio ormai buio di febbraio.
 
Tornò a casa e, senza cambiarsi, andò in biblioteca. Con sollievo chiuse la porta alle sue spalle e si diresse verso lo scaffale della cartografia, sapeva esattamente dove cercare. Prese una cartelletta di cuoio, la portò al tavolo di fronte alla finestra e si sedette.
Trovò la mappa, la studiò una buona mezz’ora con gli occhi del comandante, del futuro generale che era in lei. Poi iniziò a fissare lo sguardo sulla zona di Saint-Germain-des-Prés: il Café Procope…, e ancora… strade, vicoli, passaggi che conosceva così bene, i posti della sua gioventù. Poi lo sguardo risalì più su, oltre la Senna, e si fermò di fronte alla scritta OPÉRA: e rivide all’improvviso, tra le luci di una festa in maschera, una ragazza bionda, con i boccoli e le spalle scoperte, appartata con un ragazzo alto ed elegante che le teneva la mano e le parlava piano e vide negli occhi di entrambi la scintilla di un amore che ancora durava, e così, come un lampo che all’improvviso illumina una stanza avvolta nel buio, realizzò che dalla sera prima non aveva ancora dedicato nemmeno il più minuscolo dei suoi pensieri all’uomo di cui si diceva innamorata.
“Fersen…” mormorò cercando di evocare un sentimento che non arrivava più al suo cuore.
“Fersen…” ripeté senza convinzione.
Allora, guidata da un istinto che raramente assecondava, dopo aver controllato di essere sola e che la porta fosse chiusa, prese dal fondo di un cassettino della scrivania una piccola chiave, si avvicinò all’anta di legno più lontana dalla porta e quasi nascosta dal tendone della finestra, l’anta che chiudeva la parte inferiore della libreria occupata nella sua parte alta a vetri dalla sezione “Poesia francese”, uno degli scaffali meno consultati in quella casa; si inginocchiò e aprì.
Osservò senza toccare quello che solo lei sapeva che avrebbe trovato lì dentro e cioè due scatole, disposte una sopra l’altra: quella più in alto era rettangolare, foderata di raso rosso con eleganti inserti dorati, chiusa da un coperchio di un rosso più scuro, l’altra, quella sotto, era rotonda, aveva il bordo del coperchio leggermente consumato ed era color carta da zucchero.
Solo lei sapeva che cosa contenessero quelle due scatole.
Le guardò con uno sguardo assente, poi richiuse l’anta e si infilò la chiave nella tasca della giacca.
 
Dopo cena, nel salire la scala per tornare in camera, riuscì a dire distrattamente alla nonna: “Non ho visto André, stasera.”
“Ma… Oscar…, tuo padre non te l’ha detto?”
“No, che cosa mi avrebbe dovuto dire?”
“André è partito, Oscar, è andato nella villa in Normandia. Starà via un mese.”

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Da questo capitolo abbandono la strada maestra di Madame Ikeda, incrocio le dita e vediamo che succede ai nostri amati!
Ci tengo tanto a dire grazie e sempre grazie a chi legge e a chi ha voglia di lasciare un commento.

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Capitolo 4
*** Tornare indietro per andare avanti ***


È un capitolo lungo e me ne scuso, ma proprio non si poteva spezzare.
Qui, in mezzo a un turbinio di pensieri, André si dedica anche al what if? e Oscar, col suo piglio deciso, dice addio.
Non succede niente, o forse succede tanto. A voi il giudizio!
A chi legge, a chi commenta, a chi segue, sempre e sempre grazie.
 

CAP. 4 Tornare indietro per andare avanti

 
André guardava i gabbiani e i gabbiani volavano sul mare con giri ampi e lenti. La giornata volgeva al termine e lui sentiva con piacere che il suo corpo era stanco, stanchissimo. Quella notte avrebbe dormito bene, pensò.
Era in Normandia da quindici giorni e stava sperimentando una solitudine che in alcuni momenti lo straziava, in altri lo rendeva lucido come mai gli era accaduto di essere. Cercava di svolgere gli incarichi che gli erano stati assegnati dal generale al mattino e nel primo pomeriggio, sfruttando le ore di luce in modo che il suo occhio non si dovesse sforzare eccessivamente. Poi, una volta libero, cavalcava in riva al mare, oppure camminava sulla spiaggia seguito dal cane dei custodi della villa, che gli scodinzolava tra le gambe e gli portava pezzi di legno perché lui li lanciasse lontano. A volte correva anche lui e incitava il cane, che mugolava di piacere per quell’umano che giocava con lui. E André sentiva il suo corpo come mai l’aveva sentito: libero, agile, scattante, obbediente a qualunque suo desiderio, che fosse correre, incitare il suo cavallo al galoppo, camminare fino ai punti più lontani all’orizzonte, un corpo resistente al freddo, al vento, un corpo forte. Anche l’occhio non l’aveva più tradito e, anzi, gli pareva che le cose intorno a lui gli rivelassero sempre più particolari. Forse il dottore aveva ragione, il riposo gli faceva bene.
 
Aveva impiegato qualche giorno per capire quella inattesa esplosione di vitalità, che gli pareva così in contrasto con i suoi pensieri, spesso inquieti, e con i suoi sentimenti, troppo spesso dolorosi. Il fatto era, però, e questo André faticò molto ad ammetterlo, che quella sera, quella sera che lui aveva maledetto mille volte, si era rivelata anche una sera benedetta per lui. Quella sera, inutile negarlo!, lui si era liberato di un peso che portava con sé da vent’anni: l’amore segreto che custodiva nel suo cuore, che non doveva essere rivelato a nessuno, che non doveva essere intuito da nessuno, che non doveva essere sospettato da nessuno, che non doveva manifestarsi e che anche lui stesso cercava di seppellire sotto i gesti della quotidianità era invece esploso e finalmente era stato confessato.
A lei.
Ora non aveva più segreti, ora lei sapeva tutto.
E il suo corpo si sentiva liberato, riconoscente per quel fardello troppo a lungo celato e ora finalmente rimosso.
André respirò l’aria del mare facendola entrare nei polmoni, aprendo il petto e allargando le spalle.
Poi all’improvviso si incupì.
Certo, la possibilità che proprio per questo lei lo allontanasse per sempre c’era; la possibilità che lei, per ignorare quell’amore, decidesse di ignorare anche lui si era concretizzata l’ultima volta che l’aveva vista: era di spalle, aveva detto “preferisco dimenticare”, i tacchi, che nervosi battono sui fianchi del cavallo, e infine lei che sparisce.
Ma davvero si sarebbero ignorati per sempre? Non gli pareva possibile.
 
Forse stare lontani era necessario, forse sarei dovuto venire qui prima, pensò un giorno camminando sulla spiaggia.
Per uscire dalla routine, dalle giornate sempre uguali, dalle frasi di circostanza e dai silenzi assordanti… “Per quanto tempo ancora avremmo potuto continuare così?”
Si sentì quasi riconoscente verso il generale che l’aveva spedito lì in fretta e furia.
André stava iniziando a comprendere che quella lontananza forzata poteva essere un’opportunità, ma non l’opportunità a cui il generale aveva accennato, no: nella solitudine della Normandia, André realizzò che gli era stata data l’opportunità di scegliere ancora lei. Tornare o non tornare più? La risposta era una sola: tornare, tornare da lei.
E allora anche il fatto che lei l’avesse congedato era un’opportunità, si disse.
“L’opportunità di dimostrarti che sto vicino a te perché lo voglio, non perché devo.”
Poi si accorse che in tutti quei pensieri aveva trascurato qualcosa di importante, anzi di fondamentale e avvertì come uno schianto nel cuore.
Sorrise di sé stesso con amarezza: “Bravo, André, bravo. È vero, ti ha detto che non ce l’ha con te, peccato però che lei ti abbia congedato, peccato che lei non voglia te.”
Ma davvero non lo voleva? Si fermò a guardare le onde e si tirò il bavero della giacca sul mento. Si concentrò sul rumore dell’oceano per zittire una voce, fioca ma insistente, che da sempre, da quando erano ragazzi che si prendevano a pugni, sentiva in fondo, in fondo al cuore. Quella voce stava dicendo:
“non sei mai stato solo un attendente… anche lei, anche lei… e forse… adesso che sa… forse…”
Coprì quella voce con un fischio prolungato al cane e tornò a casa.
 
Ma la sera arrivava la parte più difficile della giornata, specialmente quando si avvicinava quell’ora. L’ora in cui lei gli aveva detto:
“non ho più bisogno di te”
La riviveva con un tormento ogni sera diverso: a volte prevaleva il ricordo dello schiaffo, di lei furiosa, furiosa contro di lui; altre volte aveva la meglio il rimorso per quello che le aveva fatto, il disgusto di sé per averla trattata con quella brutalità; altre volte si concentrava su quella follia di lei che vuole essere un uomo, come se bastasse volerlo per esserlo!
Ma poi, sempre, tutte le sere, quando ormai nella bottiglia non rimaneva più niente e lui poteva misurare nel silenzio che lo circondava la sua solitudine, lo sommergeva un languore senza fine.
Gli mancava da morirne.
Mancava al suo corpo, mancava ai suoi sensi: vederla, ascoltare la sua voce, sentire il suo odore, la concretezza del corpo di lei che occupa lo spazio intorno a lui… a volte si alzava in piedi di scatto e placava quel desiderio di averla vicino uscendo sul terrazzino della sua stanza a torso nudo. Quando, dopo qualche minuto, finalmente avvertiva il freddo penetrare al di sotto della sua pelle e sentiva che i battiti del cuore non erano più così accelerati, la mente riprendeva possesso del corpo. E trovava le forze per disciplinarsi, per prepararsi alle incombenze del giorno successivo convincendosi che un buon sonno l’avrebbe rimesso in sesto.
Ma per dormire era necessario stancarsi, molto. Che la stanchezza del corpo vincesse i tormenti del cuore e della mente.
Perché lei era sempre lì.
“Che cosa stai facendo, adesso, Oscar?”
 
Una notte, forse era sveglio, forse era un sogno, non lo sapeva nemmeno lui, si era immaginato tutta una storia alternativa su quella sera. Una storia così piena di dettagli da risultare quasi vera. Quasi.
In quella storia lei, dopo aver suonato il suo brano al pianoforte, dopo aver bevuto il tè, dopo aver appoggiato la tazzina sul piattino, gli diceva “Aspetta André…”, e in effetti gliel’aveva detto, ma… che cosa sarebbe successo se lei… se…
 
“Aspetta, André.”
“Che cosa c’è, Oscar?”, lui tiene ancora il gomito appoggiato alla mensola del camino e la guarda, la sua snella figura intera davanti a lui, e cerca di prolungare quel momento tutto per loro finché può.
Lei appoggia la tazzina su un tavolino, poi gli dà le spalle ed entra di un passo nella sua alcova, ma un po’ trema e lui in quel momento se ne accorge e allora si avvicina, solo di un passo, perché non la deve toccare, lui lo sa. Però sente che c’è un’atmosfera diversa dal solito, che lei non lo sta allontanando, che non gli dirà “No, non è niente, buonanotte”, no, non questa sera. C’è ancora qualcosa che deve accadere, così lui aspetta.
E lei, con una voce sommessa che raramente lui le ha sentito usare, fa un sospiro grande, come se volesse far uscire dai polmoni tutto il dolore insieme all’aria, e alla fine mormora:
“Non ce la faccio più, André…” e ha la voce spezzata, ma ancora si tiene dritta e ancora non si volta perché ha pronunciato parole che non devono essere sentite davvero. Parole che domani negherà di aver pronunciato, anche a sé stessa.
E allora lui, sempre in silenzio ma tutto proteso solo e unicamente verso la sua sofferenza, fa ancora un passo verso di lei e così davanti ai suoi occhi non c’è più la sua figura intera, ma solo il busto di lei: la camicia bianchissima che ondeggia leggermente sui lati, la schiena coperta dalla massa dei suoi capelli in cui intravede incastrata una piccola foglia della pianta vicina alla scuderia, la testa leggermente chinata di lato.
“Posso fare qualcosa per te?”
Lo sussurra piano, le parole dell’abitudine, ma il tono della loro intimità.
Lei allora, sempre di spalle, scuote con energia la testa per dire di no e prende fiato per dire qualcosa, ma non può farlo perché insieme alla voce le uscirebbero anche lacrime, forse un singhiozzo.
E allora lui fa ancora un passo. E lei è sempre lì, non si muove, non si gira e non si sposta. Come se aspettasse. E lui ora vede solo i suoi riccioli biondi, quella piccola foglia tra i capelli, il lobo di un orecchio, intravede il profilo del naso. E sente: il tremito, il calore del suo corpo.
E poi lei fa l’impensabile: si sbilancia poco, pochissimo indietro, giusto quanto basta perché la sua schiena prima sfiori e poi si appoggi e aderisca al petto di lui. E allora lui, piano, con delicatezza, come se non fosse sicuro di poterlo fare, apre le braccia e la stringe così, con le braccia incrociate un po’ sopra il petto di lei, le mani chiuse sulle sue spalle e la guancia che ormai ha raggiunto quella di lei.
E lei allora si aggrappa alle sue braccia e sempre di spalle, sempre senza guardarlo, finalmente, piange.
 
Ma non era andata così.
Due pessimi giocatori, avevano sbagliato tutte le mosse. “Ma io di più”, si disse.
 
E così ritornava il disgusto per quello che le aveva fatto, e anche l’inquietudine per quell’altro André che all’improvviso aveva preso il sopravvento su di lui.
Il fatto era che André sapeva da tanti anni che il suo amore era fatto anche di desiderio, lo aveva imparato molto presto, ma era sempre stato capace di soffocare e contenere la sua passione: da ragazzo aveva provato a farlo con ragazze facili, che non volevano altro da lui che un po’ di piacere. Ma poi, crescendo, la curiosità si era esaurita, il piacere era diventato nauseante e la considerazione di sé stesso era precipitata. A nemmeno ventitré anni, André Grandier aveva messo una pietra sopra all’amore carnale. O meglio, aveva sentito chiaramente che non c’era alcuna bellezza in quello strusciare di corpi. Che ne poteva fare tranquillamente a meno.
Che per lui quella pagina si sarebbe riaperta solo con la donna che amava. O mai più.
 
Si rivide con quel pezzo di camicia in mano: “Dio, che cosa ho fatto?”
Provò lo stesso ribrezzo che aveva provato una delle prime sere dopo che era arrivato.
Da una settimana era lì, quando una sera il nipote del custode della villa, un ragazzo di neanche vent’anni, aveva tanto insistito per portarlo al villaggio a bere. E lui ci era andato, anche se di malavoglia: gli piaceva la sua solitudine, starsene solo con i suoi pensieri, immaginare, ricordare. Invece l’avevano trascinato in un posto chiassoso, una delle taverne più sudice della zona che lui e Oscar avevano sempre evitato, un posto pieno di gente che si dava appuntamento lì ogni sera per dare una raddrizzata a giornate troppo dure, troppo amare, troppo pesanti. E poi quel gioco di ruoli: maschi che adocchiano femmine, femmine troppo truccate che si fanno adocchiare da maschi troppo disinvolti… e poi mani, mani che palpano, che sgusciano sotto la stoffa, che coprono possessive e lascive il cavallo dei pantaloni… André aveva sentito con una crescente nausea che non era posto per lui:
“Io vado, torno a casa”, aveva detto al ragazzo.
“Ehi! Che c’è? Non vuoi divertirti un po’?”
No, non voleva divertirsi, nulla in quella locanda lo divertiva. Aveva aperto la porta e se ne era andato.
La frescura della sera lo aveva ripulito da tutto quel fumo e da quell’odore stomachevole che aveva respirato ed era tornato con la mente a lei, a quel pezzo di camicia che aveva stretto tra le mani quella dannata sera: no, nemmeno quella sera si era divertito. Nemmeno per un istante. Non gli era piaciuto niente di quella sera, niente.
Si era messo a correre per mettere a tacere i pensieri ed era arrivato alla villa con il fiatone.
Non ti farò mai più una cosa del genere, te lo giuro.
“Non ti toccherò mai più. Le mie mani resisteranno, non si avvicineranno più a te. E anche io resisterò, resisterò, Oscar. Ma se un giorno lo vorrai, se un giorno qualcosa ti porterà da me, queste mani saranno tue, solo tue.”
 
**********
 
Quelle due scatole erano il segreto di Oscar François de Jarjayes. Un segreto di cui si sarebbe vergognata davanti a chiunque e che custodiva da anni nella sua biblioteca, in un’anta chiusa a chiave che nessuno a parte lei avrebbe mai aperto. Perché se qualcuno l’avesse aperta e se avesse trovato quelle due scatole e, infine, se le avesse aperte, avrebbe visto tutta la sua fragilità solo con uno sguardo.
Teneva la chiave nella tasca dei pantaloni e si sorprese più volte a rigirarsela tra le dita provando una sorta di strana attrazione per il segreto che quell’anta custodiva.
 
“Il camino in biblioteca è acceso, signore. Ora sistemo anche questo che si sta spegnendo.”
“…mh…?”
Non si era nemmeno accorta che era entrato un cameriere. Era così assorta… lo era spesso, in effetti.
Erano passati quindici giorni, ma veramente li aveva contati?, e a volte le sembrava impossibile che il tempo continuasse a scorrere come prima, indifferente a quello che era successo nella sua vita.
Che poi, che cosa era successo? Niente!
Le sue giornate, vuote dei soliti incarichi, trascorrevano nell’attesa di prendere servizio a Parigi; durante una serata al circolo militare, una delle idee di Girodelle invitarla lì: “Ci sono persone che vi devo presentare, madamigella. Persone che sarete contenta di conoscere. Vi prego, non dite di no”, le era stato presentato il comandante uscente dei soldati della Guardia, che non le era piaciuto, e sempre quella sera aveva conosciuto il colonnello d’Agoult, che le era piaciuto, che invece sarebbe stato il suo diretto sottoposto. Si era fatta dare da lui gli elenchi dei soldati del reggimento e quelli dei sottufficiali, aveva studiato le note di merito e di demerito dei soldati e ora conosceva a memoria nomi e cognomi di tutti.
Sorrise e si complimentò con sé stessa, si sentiva nata per quella vita.
Suo padre poteva essere orgoglioso di lei; ma suo padre non le parlava. Suo padre non era mai in casa, oppure era di fretta. Come se la stesse evitando di proposito.
“Vi ho deluso, padre? Non sono abbastanza blasonati questi soldati che comanderò? O forse mi evitate perché non volete che vi chieda di…” sorrise amaramente guardando il cameriere che da qualche minuto lottava con il camino del salotto perché il ceppo di legna prendesse fuoco.
Aveva provato a indagare sull’incarico in Normandia di André, ma, un po’ per non mostrare eccessivo interessamento, un po’ per non sentire cose che non voleva sentire, si era accontentata di quello che le aveva raccontato Nanny dopo che era arrivata una breve lettera di André un paio di giorni prima:
“Dice che sta bene, che tornerà entro la fine del mese… Una lettera così breve…”
Ora iniziava ad accorgersi che non le bastava più:
“Che cosa gli avete detto, padre?”.
“Che cosa stai facendo, André?”
 
Da giorni poi avvertiva che in quella perfetta vita da uomo le mancava qualcosa, o meglio, qualcuno. Ed era inutile che Girodelle e Jacques continuassero a girarle intorno, non potevano assolutamente riempire lo spazio lasciato libero da…
“Fersen…” mormorò come faceva un tempo. Niente. Attese qualche istante, poi lo disse ancora:
“Fersen…” Niente, nessuna emozione nel suo cuore. Solo un vago imbarazzo le fece abbassare lo sguardo e la costrinse a spostarsi dal vetro che rifletteva fiocamente la sua figura.
 
Allora si rimproverò per la sua debolezza, raddrizzò la schiena, aprì le spalle e poi infilò la porta con passi lunghi e decisi; quando arrivò alla scalinata ormai quasi correva e sicuramente stava correndo quando percorse il corridoio del piano nobile fino ad arrivare alla porta della biblioteca in cui entrò di slancio per poi chiudersi la porta alle spalle con decisione.
Andò diretta verso la parte bassa della libreria, quella quasi coperta dal tendone vicino alla finestra, prese una piccola chiave dalla tasca, si inginocchiò, aprì l’anta, estrasse due scatole che appoggiò, ancora una sopra l’altra, sulla scrivania di fronte alla finestra.
Si avvicinò alla vetrinetta dei liquori, versò del cognac in un bicchiere, poi si sedette alla sedia della scrivania e fissò la scatola più in alto.
 
Teneva la scatola rossa sulle ginocchia, ancora chiusa. C’era una certa ironia nel fatto che quella scatola aveva contenuto un tempo un regalo di Sua Maestà la regina e che ora conteneva…
Sorrise con amarezza e allungò la mano verso il bicchiere, bevve un sorso di cognac e poi si lasciò portare dai ricordi a un Natale di tanti, tanti anni prima. Erano gli anni in cui a corte le dame ascoltavano una sola donna: Madame Bertin. Arrivava con le sue commesse che reggevano pile di scatole di vestiti e accessori per la regina e per le sue dame di compagnia, che si contendevano piume e merletti con un’animosità e cattiveria che lei aveva raramente visto. Ricordava un barone che una sera durante un ballo nel fumoir aveva detto: “Se volete vedere persone spietate e disposte a tutto, non dovete andare nei bassifondi, mio caro duca, ma nel salotto di Sua Maestà la Regina quando arriva Madame Bertin!”.
Una volta André,
 
…André… André…, io ti amo, Oscarcredo di averti sempre amata
 
una volta, insomma, lui le aveva raccontato che la contessa di Polignac aveva mandato di nascosto una sua cameriera a rompere due stecche di un ventaglio, portato da Madame Bertin e ancora confezionato nella sua scatola, destinato a un’altra dama di compagnia della regina e lui,
 
… AndréAndréAndréAndré…, serrò gli occhi, poi scosse la testa e li riaprì,
 
le aveva raccontato che la contessa, nel congedare la cameriera, le aveva sussurrato: “E bada di non sbagliare, e di non farti scoprire. Ricorda che io conosco quella topaia in cui abitano i tuoi genitori…”
Pensò con sollievo che non avrebbe più messo piede a corte.
 
Poi tornò a guardare la scatola e si immerse nel ricordo: quel Natale la regina aveva tanto insistito perché lei accettasse un regalo e aveva voluto consegnarglielo di persona.
“Madamigella Oscar, decidete voi se preferite che sia un regalo di compleanno o un regalo di Natale, ma permettetemi di ringraziarvi con un piccolo dono per tutto quello che fate per me.”
Così aveva ricevuto tra le mani quella scatola rossa e dorata e l’aveva aperta con un sorriso leggero e pieno di riconoscenza e commozione: aveva visto, tra la paglia che riempiva il fondo, un paio di guanti di capretto, bianchi, foderati all’interno di velluto color glicine. Erano bellissimi. “Ho chiesto a Madame Bertin di farli appositamente per voi, madamigella, spero che vi piacciano.” Lei si era inginocchiata e aveva ringraziato, commossa per il dono. Forse per la prima volta aveva compreso la vanità femminile. Li aveva usati per anni, li indossava ancora ogni tanto come guanti di scorta dal momento che ormai si erano scuriti e in qualche punto consumati.
Aveva conservato anche la scatola. E l’aveva riempita.
 
La scatola del regalo della regina… era piena di resti dei regali di Fersen.
 
Scosse la testa dandosi della stupida, poi sollevò il coperchio e guardò: davanti ai suoi occhi un insieme confuso di biglietti e di tappi di sughero.
I regali di Fersen.
Ogni anno, il giorno della Vigilia di Natale, dal palazzo del conte di Fersen arrivava puntuale un cameriere in livrea azzurra e, tutto sussiegoso, consegnava una cassa di legno chiaro e una busta indirizzata “al Conte Oscar François de Jarjayes”. E lei, stranamente emozionata, ogni Natale aspettava l’arrivo di quella cassa e di quel biglietto e poi, durante le feste, quando almeno una bottiglia del pregiato champagne veniva stappata per un brindisi di fine pasto, magari la sera di Capodanno, lei, furtiva, recuperava il tappo rotolato sul tavolo o per terra e lo infilava in tasca. Ricordava che una sera di qualche anno prima, quando lui era in America ma la cassa era comunque arrivata puntuale come sempre, era andata a letto e aveva annusato quel tappo tra le lenzuola tenendolo stretto tra le dita, e al mattino l’aveva recuperato tra le coperte. Si era sentita molto sola. Poi era andata a riporre il tappo nella scatola rossa, dove aveva raggiunto tutti i tappi degli anni precedenti. E sempre in quella scatola aveva messo il biglietto di auguri, legandolo con una corda sottile a tutti gli altri.
 
Sospirò ancora e prese tra le mani i biglietti, tolse la corda che ormai si era quasi consumata e li sfogliò lentamente uno dopo l’altro: li conosceva a memoria, li aveva letti e riletti, a caccia di un segnale, di un indizio, di un qualunque incoraggiamento a sperare. Si era emozionata quando lui era passato, molti anni prima, dal firmarsi “Conte Hans Axel von Fersen” al più informale “Hans Axel von Fersen” e poi, poco prima di partire per l’America, al semplice “Fersen”. Ma in quei biglietti non aveva mai trovato altro che “stima”, “ammirazione”, “amicizia”. Del resto le regalava ogni anno una cassa di vino, i tappi di sughero erano lì, beffardi nella scatola di Maria Antonietta, a ricordarle che se Fersen avesse mai visto in lei una signora non le avrebbe di certo regalato una cassa di bottiglie di vino.
E anno dopo anno lui le dimostrava implacabilmente che non l’avrebbe mai, mai!, vista come una donna da amare, che lei era il “suo migliore amico”, che in lei cercava la complicità di una virile amicizia, non l’intimità di una compagna di vita e di letto.
Più lui la vedeva come un uomo, più lei si sentiva infastidita. Avrebbe voluto urlarglielo in faccia che lei era una donna! L’avrebbe anche preso a schiaffi in certi momenti, quando lui, senza nemmeno accorgersi di quanto fosse indelicato, buttava là frasi come “non vi sentite mai a disagio?”. Ma una parte di lei, una parte che aveva provato a zittire mille volte, non sentiva ragioni e voleva disperatamente l’attenzione di quell’uomo, come se solo quell’uomo potesse legittimare la sua femminilità. E così, visto che lui proprio non capiva e non andava oltre quello che vedeva, aveva voluto fargli vedere che era donna nel modo più esplicito che poteva: si era lasciata vestire, truccare e pettinare, pettinare… ebbe un sussulto e deglutì, pettinare come una dama, e in un gioco che solo lei stava capendo, aveva nascosto il colonnello sotto l’aspetto della bellissima dama in cui per una sera si era trasformata. Ma lui non aveva capito e quando infine, dopo molto ballare e troppo chiacchierare, aveva finalmente intuito la verità, non era riuscito a riunire in un’unica persona il colonnello e la dama. E così era finito tutto: tra le lacrime.
 
Gli aveva detto addio. Due volte.
La prima volta era da sola e l’aveva detto alla notte e al suo cuore di donna: piangeva e si era detta che doveva dimenticare quell’uomo che non l’avrebbe mai amata. Era appoggiata al bordo di una fontana, con addosso un vestito che ora trovava imbarazzante.
La seconda volta l’aveva detto a lui ed era stata straziante: aveva giocato a carte scoperte, ma poi aveva dovuto dargli le spalle, perché non poteva pensare di guardarlo negli occhi mentre gli confidava il suo amore e perché lui non doveva vedere le sue lacrime.
 
“Decisamente troppe lacrime”, disse rivolta alla scatola.
 
Appoggiò la scatola rossa sul tavolo, si alzò e si avvicinò alla finestra.
Più Fersen la vedeva solo come un uomo, più lei si sentiva infastidita.
Più André le ricordava che era una donna, più sentiva montare una rabbia sorda dentro di sé.
Si sentì confusa, incoerente, ingiusta.
 
Io ti amo, Oscar.
Mi hai mai visto come un uomo, André?
 
Credo di averti sempre amata.
Anche quando ti ho fatto male, André?
 
Si stupì di quanto il pensiero di Fersen fosse lontano da lei, di quanto la sé stessa innamorata di Fersen le fosse estranea.
E così, senza un’esitazione, con il suo tipico piglio deciso, prese tra le mani la scatola, si avvicinò al camino e poi, ad uno ad uno, fece cadere i biglietti tra le fiamme; infine, senza esitare, buttò nel fuoco anche i tappi di sughero, tutti tranne uno.
Non c’erano lacrime nei suoi occhi, solo un po’ di malinconia mescolata a uno strano senso di pace.
 
“Ora è davvero un addio, Fersen. E non fa male.”
 
Chiuse la scatola rossa con dentro l’unico tappo rimasto, la mise nello scaffale, ma la ripose in fondo al ripiano più basso, spostando dei vecchi disegni conservati lì alla rinfusa da anni. Li prese in mano, li guardò distrattamente e infine con noncuranza li appoggiò sulla scatola rossa. Chiuse l’anta e lasciò nella piccola serratura la chiave.
Non c’erano più segreti lì dentro, solo il ricordo di un tempo ormai lontano.
 
Poi da lì guardò la scatola color carta da zucchero che era ancora sulla scrivania.
“A noi due”, mormorò; la prese e, reggendola con il braccio e con la mano contro il fianco, si incamminò verso la sua camera da letto.

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Capitolo 5
*** Lontani? ***


CAP. 5 Lontani?

 
Chiuse il registro sul quale aveva lavorato tutta mattina e poi stese le gambe stiracchiandosi e inarcandosi sullo schienale della sedia. Il suo lavoro in Normandia poteva considerarsi pressoché concluso e si avvicinava il momento di tornare a palazzo Jarjayes, a quella che aveva sempre chiamato “casa”. Lo sarebbe stata ancora?  Decise di rimandare ogni questione legata al suo futuro e si concentrò su quello che lo attendeva quel pomeriggio.
 
Un funerale.
 
Si rivide, un paio di settimane prima, nello studio del generale:
“André, ho bisogno di te. Devi andare alla villa in Normandia, oggi stesso, subito.”
“Signore, io…” cerca un modo per dirgli che la sua posizione in quella casa è cambiata da quando la sera prima… Si passa la mano sulla fronte per scacciare pensieri che non possono avere spazio in quel momento.
“Ascolta, André, io non so che cosa stia passando per la testa di Oscar in questi giorni, ma ieri sera a cena ha accennato al fatto che d’ora in poi vuole “cavarsela da sola”, così mi ha detto. Ecco, il modo in cui l’ha detto… ti ha congedato dal suo servizio, vero?”. Incredibile come quell’uomo così cieco su tante cose, in certi momenti avesse la vista più acuta di un falco.
“…sì.” abbassa lo sguardo e china il capo. Nel farlo sente quel male alla testa spostarsi dietro le palpebre e al centro delle sopracciglia.
“Va bene. Quindi, visto che non hai più obblighi nei suoi confronti, io voglio che tu ti occupi di un grave problema che richiede l’intervento immediato di una persona intelligente, fidata e discreta.”
“Come volete, signore”, la solita risposta obbediente sostituisce il “No!” che vorrebbe urlare. E il cerchio alla testa aumenta e gli impedisce di rimanere lucido.
“Ieri sera ho ricevuto una lettera dalla figlia di Mabeuf. André.”
Monsieur Mabeuf…” alza la testa sentendo quel nome, così estraneo alla quotidianità di palazzo Jarjayes.
“Sì, l’amministratore della proprietà in Normandia. La figlia dice che la malattia del padre si è aggravata e che ora lui è in punto di morte. Come sai, Mabeuf ha solo lei, non ha avuto figli maschi e quindi non posso passare l’incarico a un suo erede. Sai anche che, benché io abbia sempre ammirato il suo fiuto per gli affari e la sua efficienza amministrativa, non mi sono mai fidato fino in fondo di quell’uomo.”
“Lo so, signore. Mi avete sempre detto di tenerlo d’occhio quando io e…”, deglutisce e avverte una fitta al petto, “quando andavamo alla villa d’estate.”
“Esatto. Ora, André, io temo che Mabeuf approfitti del poco tempo che gli rimane per chiudere qualche losco affare alle mie spalle.”
“Ma a quale scopo, signore?”
“Allo scopo di dare una dote cospicua a sua figlia e così farla sposare con qualche nobile spiantato in modo che abbia sia il titolo nobiliare sia la sostanza, per esempio! Del resto questi scandalosi matrimoni tra nobili e gente del popolo paiono diventati frequenti ultimamente”, chiude il generale con una certa stizza.
“Che cosa volete che faccia, allora?” avverte un nodo alla bocca dello stomaco e sta facendo uno sforzo notevole per mantenersi distaccato.
“Voglio che tu vada immediatamente laggiù, che tu prenda i registri e i libri contabili e confronti le cifre dell’ultimo anno con quelle degli anni precedenti per vedere se ci sono ammanchi, cifre che non ti tornano, capito?”
“Certo, signore.” Ormai asseconda gli eventi, si sente galleggiare in un mare deserto: lui come sdraiato sulla superficie dell’acqua, le braccia aperte e gli occhi chiusi contro la luce del sole e la corrente che lo trasporta, peso privo di volontà, alla deriva. Gli arriva da quella distanza la voce del generale:
“… e poi voglio un inventario di tutti i beni della villa: quadri, mobili, oggetti di valore…”
Lui si riscuote: “Ma signore, non credete che una verifica così minuziosa possa sembrare…” non riesce a cercare nel suo vocabolario una parola appropriata alla differenza di rango che li separa per dirgli che i suoi scrupoli altro non sono che accuse non troppo velate all’onestà di un uomo che da trent’anni si prende cura di quel posto.
“No, André. Io non credo più a niente di questi tempi e non mi importa che cosa può sembrare. Dopo il Cavaliere Nero, dopo aver sentito quello che si dice in giro sui nobili e sulla famiglia reale… No! Io non mi fido più di questa gente del popolo che ci odia, capisci?, ed è pronta a tutto pur di… Basta! Voglio che tu parta, ti ci vorrà almeno un mese per fare tutto.”
 
“questa gente del popolo… che ci odia…” aveva pronunciato quelle parole con un tono, il generale, e le aveva accompagnate con uno dei suoi sguardi eloquenti, dritto nell’unico occhio di André, come se nelle due parti contrapposte, quella “gente del popolo” e quel “noi”, desse per scontata la presenza di André nella seconda. André si alzò e si diresse verso il camino che si stava spegnendo. Ravvivò la fiamma e poi si mise a spostare oziosamente la cenere disegnando forme circolari con la punta dell’alare.
Questa gente del popolo… ma il generale si era accorto che stava parlando con lui? Con uno del popolo? E poi aveva aggiunto quel “ci”, “ci odiano”, come se volesse comprendere anche lui tra i nemici del popolo…
Se non si fosse trattato del generale avrebbe riso, ma non gli veniva da ridere: quell’uomo che aveva volutamente cresciuto una figlia femmina facendole credere di essere un maschio ora confondeva lui con una specie di aristocratico? Si sarebbe mai accorto quell’uomo convinto di poter imporre la sua volontà persino sulla natura di non poter ridurre sé stesso e le persone che aveva intorno al ruolo che desiderava, che nessun essere umano può essere ridotto a un’unica definizione? Che lui stesso era generale ma anche padre, servitore fedele del re ma anche esempio di una rigorosa morale che ben poco aveva a che fare con le depravazioni della corte; marito per contratto ma sposo per amore? Che aveva preteso da sua figlia che se la sapesse cavare contro tutto e contro tutti ma che, per anni, ogni giorno ricordava a lui, ad André, di vegliare su di lei e di fare in modo che non le succedesse nulla? Che lui per primo, lontano dalle occasioni ufficiali, chiamava Oscar con aggettivi declinati al femminile? Che più di una volta negli ultimi tempi André lo aveva visto con lo sguardo umido mentre, credendo di non essere visto, osservava sua figlia allenarsi con le pistole?
Ma, concluse André, lui voleva bene a quell’uomo così pieno di contraddizioni e sentiva che loro due, al fondo di ogni questione, si comprendevano. E si comprendevano perché amavano, anche se di un amore diverso, la stessa persona.
“Se va avanti così, il prossimo passo sarà dire a Oscar che si è sbagliato e darla in moglie a qualcuno! Che follia!” scosse la testa con un sorriso amaro.
 
Poi piegò l’avambraccio sulla mensola del camino, appoggiò la fronte sul braccio e fissò più intensamente le fiamme del fuoco, che guizzavano verso l’alto con una danza allegra: sposarsi… sistemarsi…
“Lo sai che ti sarò sempre riconoscente, André. E se tu in questo mese ti accorgessi di essere tagliato per il lavoro, se tu volessi diventare il mio nuovo amministratore al posto di Mabeuf… Lo sai, André, niente mi farebbe più felice. E poi… una volta là potresti sistemarti, farti una famiglia… So che stare al servizio di Oscar ti ha impedito di pensare alla tua vita. Pensaci, André.”
Lui non riesce a rispondere perché il dolore è troppo grande: ogni singola parola è un pugno nello stomaco. E la testa, la testa gli fa male e l’occhio si sta appannando e i pensieri arrivano come rallentati. E il fatto che quel discorso contenga in realtà la più sincera forma di affetto che il generale possa esprimere non fa che accrescere il dolore.
 
Lo aveva congedato, con quelle parole? Lo stava mandando via? O forse gli stava dando un’occasione? Quel giorno, in quello studio saturo dell’odore della pipa del generale, aveva sentito che le sue narici chiedevano aria fresca, ossigeno, che la sua testa stava per crollare. Solo pochi minuti prima era tornato a casa dalla reggia con l’intenzione di riordinare le idee, di darsi tempo per riflettere e invece si era sentito nuovamente messo all’angolo.
 
Non ho più bisogno di te.
Ho bisogno di te in Normandia.
In quelle due frasi riesce a sentire solo una verità:
Non devi stare qui, André, vai via.
Ecco, un doppio benservito in meno di venti ore.
Allora fa un mezzo inchino e, senza aggiungere una parola, esce dalla stanza.
Poi in una sequenza forsennata di movimenti, all’unico scopo di non pensare, prepara una sacca da viaggio, saluta in fretta e furia la nonna, prende il suo cavallo e parte al galoppo, facendosi sferzare dal vento e percorrendo in poche ore una distanza mai raggiunta prima in così poco tempo.
 
Guardando quelle fiamme che gli scaldavano piacevolmente le gambe, André ripensava ora con una nuova tranquillità al discorso del generale.
Con il passare dei giorni era riuscito a considerare diversamente il suo incarico in Normandia: si era accorto che in effetti c’era bisogno di qualcuno di casa Jarjayes che prendesse in mano gli affari, perché il vecchio Mabeuf era davvero ridotto in fin di vita e lui stesso, come aveva sussurrato tra un gemito e l’altro ad André che era andato subito a trovarlo, era molto preoccupato per la sorte di una proprietà così vasta e di una villa così bella. Sapeva, il vecchio Mabeuf, che tenute di quel tipo non andavano lasciate incustodite, che se non c’è chi le difende sono preda di ladri e malviventi. Così, dopo aver giurato su tutti i santi del paradiso la sua onestà, aveva supplicato André di prendersi cura di quel posto a cui lui aveva dedicato la vita. La figlia, una ragazza dai capelli rossi, assisteva in silenzio alla scena da un angolo della stanza; quando André si era alzato per andarsene l’aveva accompagnato alla porta e poi, una volta sulla strada, si era aggiustata il grembiule e gli aveva detto alzando il mento e assumendo uno sguardo pieno di dignità:
Monsieur Grandier, vorrei che fosse chiaro che noi non abbiamo bisogno di nulla da parte del generale. Mio padre aveva un lauto stipendio e nella sua vita ha risparmiato molto per me, che ero la sua unica famiglia. Sto per sposarmi e mio marito conosce la mia situazione finanziaria; il lavoro non ci spaventa e non abbiamo alcun desiderio di vivere al di sopra delle nostre possibilità. Davvero, quello che abbiamo ci basta.”
“Capisco.”
“No, voi non capite. Mio padre è una persona onesta, monsieur. La fiducia del generale era ben riposta, anche se lui preferisce sospettare di chiunque. Siamo brave persone, monsieur!”
Poi era rientrata in casa e aveva chiuso a chiave la porta.
 
Sistemarsi, farsi una famiglia: eccola lì, la concretezza di una casa, di una famiglia che stava per nascere. L’aveva letta negli occhi di quella fiera normanna. Ma lui… in tutta la sua vita non l’aveva mai nemmeno sfiorata quella concretezza, non sapeva nemmeno che cosa volesse dire davvero “sistemarsi”.
Chiuse gli occhi contro il suo braccio.
Solo quando siamo insieme io mi sento “sistemato”. Solo quando siamo io e te, anche quando stiamo in silenzio, o quando ci diciamo le solite frasi, quelle di tutti i giorni…
E poi un’eco lontana:
grazie, André
hai bisogno di qualcosa Oscar?
andiamo!
allora io vado a dormire
André, seguimi…
Dio, che nostalgia della sua voce. Sarebbero stati ancora capaci un giorno di tornare a scambiarsi qualche parola? O doveva dirle addio? No, qualcosa dentro di lui rifiutava categoricamente quell’ipotesi.
So che stare al servizio di Oscar ti ha impedito di pensare alla tua vita.
No, signor generale, no: non ho bisogno di rimuginare sulla mia vita quando sono con Oscar. Vivo e basta quando sono con lei. Vivo e sento la pienezza della mia vita solo quando sono con lei, generale.
 
Si infilò le mani tra i capelli e si tenne la testa chiudendo gli occhi. Dopo qualche minuto si voltò, guardò ancora una volta i registri aperti sul tavolo, li sfogliò a ritroso partendo dal fondo e arrivando alle prime pagine, poi infilò la giacca e uscì a dare l’estremo saluto a Monsieur Mabeuf.
 
Durante il funerale André, che aveva preso posto in fondo alla piccola chiesa e che dalla sua posizione laterale poteva vedere la sagoma della cassa sulla quale era stata adagiata una semplice corona di edera, si era sorpreso spesso a fissare la figlia di Mabeuf e un ragazzo, sicuramente il suo futuro marito, che le stava vicino. Lui, benché evidentemente addolorato, aveva trascorso tutta la funzione con lo sguardo unicamente rivolto a lei; con una discrezione tale che lei probabilmente nemmeno se ne accorgeva ne studiava ogni più piccolo movimento, ogni respiro, avrebbe detto André, per anticipare un suo possibile crollo, un improvviso bisogno di lasciarsi andare al dolore; lei invece fissava un punto a mezza altezza alle spalle del sacerdote e André poteva vederne le spalle dritte, il profilo immobile del volto, il fazzoletto tenuto tra le mani e mai portato agli occhi.
Quando anche il rito della sepoltura fu terminato e solo poche persone circondavano le zolle di terra che presto avrebbero completamente coperto Monsieur Mabeuf, André aspettò che mademoiselle Mabeuf si avviasse verso l’uscita del camposanto per raggiungerla.
“Grazie di essere venuto, Monsieur Grandier” disse lei sollevando lo sguardo. André vide allora che, a dispetto del contegno impassibile tenuto da lei per tutta la funzione, gli occhi erano gonfi e cerchiati e si sentì a disagio per quello che doveva dirle.
Mademoiselle, sono molto dispiaciuto per vostro padre. E scusatemi, vi prego, se sono inopportuno, ma io tra pochi giorni tornerò a Parigi e prima di partire ho assoluto bisogno di parlarvi…”
Monsieur, come vi permettete, non vi accorgete del posto in cui ci troviamo? Di quello che mia… che mademoiselle sta vivendo? E che cosa state insinuando? Che cosa volete da Mademoiselle Mabeuf?” il fidanzato, parlando a bassa voce ma facendo uscire le parole tra i denti con chiara ostilità e indignazione, aveva fatto un passo avanti verso di lui lasciando la figlia di Mabeuf alle sue spalle, “le fa da scudo”, pensò André prima di riuscire a rispondere.
Ma lei prese il ragazzo per un braccio:
“Lascia stare, Guillaume, va tutto bene” e gli fece un mezzo sorriso nel quale André intravide quanto quella donna altera fosse in realtà capace di dolcezza, e poi, rivolta ad André:
Monsieur Grandier, scusate il mio fiancé: sta facendo pratica da un avvocato di Bayeux e temo che veda pericoli ovunque ultimamente. Permettete che ve lo presenti: Guillaume Durand. Guillaume, Monsieur André Grandier.”
I due si strinsero la mano, il primo ancora diffidente, il secondo più conciliante.
“Se per voi va bene, verrò alla villa domani mattina, monsieur” proseguì lei aggiustandosi i guanti.
“Ma Honorine…”, disse lui a bassa voce attirandola con lo sguardo lontano da André. André però capì la preoccupazione di quel ragazzo e si affrettò a precisare:
“Scusate se mi intrometto, Monsieur Durand, ma è inteso che se mademoiselle lo desidera, aspetterò volentieri anche voi domani mattina.”
Lui fece per rispondere, ma fu anticipato da lei:
“Bene, Monsieur Grandier, allora ci vedremo domani. E ora vogliate scusarci.”
André fece un mezzo inchino e quando sollevò lo sguardo vide Honorine Mabeuf che si incamminava verso il calesse, mentre Guillaume Durand, un passo più indietro, la seguiva, “come un’ombra”, pensò André.
 
*********
 
Era ormai notte fonda e lei era ancora vestita di tutto punto, seduta su una poltrona nel salottino della sua camera, davanti al camino ormai spento. Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, le spalle appoggiate allo schienale della poltrona, le braccia abbandonate lungo i fianchi e una mano aperta, con il palmo rivolto verso l’alto, l’altra con il pugno chiuso. Non si era nemmeno accorta di essere in quella posizione, di avere il corpo totalmente abbandonato. Stava ricordando:
 
“Prendi la scatola color carta da zucchero, André!”
“Eccola!”
La aprono e tra la paglia prendono tanti piccoli oggetti avvolti nella carta velina: pastori, pecorelle, la sacra famiglia, animali, angeli, artigiani di ogni specie. Il presepe napoletano che dal 1702 apparteneva alla famiglia Jarjayes e che ora appartiene a lei, all’erede del casato, le è stato ufficialmente donato nel Natale del 1763, al compimento dei suoi otto anni. Ora ne ha quattordici. La scatola che originariamente conteneva il presepe si era definitivamente rotta qualche anno prima, così lei ha voluto riporlo nella sua bellissima scatola color carta da zucchero, rimasta vuota e inutilizzata dopo che il tricorno è finito in una cassa in solaio insieme ad altri indumenti divenuti ormai troppo piccoli per lei.
“Questo sarà l’ultimo anno in cui faremo il presepe, André.”
“E perché, Oscar?”
“Perché lo voglio regalare alla mia nipotina Marguerite, voglio che sia suo.”
“Come vuoi, ma la scatola inizia a essere rovinata, guarda qui, sul coperchio la carta si è già un po’ staccata”
“Oh, no! La scatola la tengo, è mia. Darò a Marguerite il presepe in una cassetta di legno nuova, ne ho già parlato a mia madre.”
“E che cosa ne farai della scatola?”
“Ancora non lo so, ma la voglio tenere. Magari ci metto qualche ricordo…”
“Oscar, tu sei la persona meno legata agli oggetti che io conosca! Hai persino seppellito il coltellino rosso e la trottola in giardino!”
“Beh, sono sottoterra in giardino, no? Sono ancora lì, se volessi li potrei andare a prendere… In ogni caso, sono affezionata a questa scatola un po’ rovinata, mi ricorda solo cose belle… il nostro presepe, il tricorno che mi aveva regalato mia madre…”
Cala il silenzio e lui vede, forse per la prima volta, nel volto di lei adolescente il volto della donna che sarà. Mentre fa girare tra le mani la statuetta di una pecorella, lei ha assunto un’aria assorta e malinconica:
“André, hai mai paura di crescere? Di non essere ancora pronto per quello che gli altri vogliono da te? Di non avere ancora capito che cosa devi fare?”
In realtà vorrebbe chiedergli se secondo lui lei riuscirà ancora a mettere in quella scatola ricordi felici, o se la felicità, quella leggera e innocua dell’infanzia, stia per uscire per sempre dalla sua vita.
Lui, che ha capito quello che lei vuole dire e che sa quanto lei possa essere spaventata all’idea di quello che il destino le riserverà, non la guarda volutamente, allunga una mano nella scatola e sceglie una figura incartata sul fondo:
“La nonna dice che a volte uno si sente incompleto ed invece è soltanto giovane…”
Poi le sorride, scarta una figura dalla velina e la porge a lei:
“Questo è il tuo angioletto preferito, mettilo tu!”
Anche lei sorride, perché sa che si sono capiti e si accorge che di quel ragazzo seduto vicino a lei non saprebbe fare a meno.
“Va bene, allora tu metti questo soldato romano, André.”
 
E così vide, nitidi nella memoria, i loro volti vicini e concentrati, le mani che veloci scartano, lo sguardo a distanza che si concedono una volta terminata l’opera. Sorrise al ricordo e strinse un po’ di più il pugno chiuso.
 
Credo di averti sempre amata…
Mi amavi anche allora, André?
 
E poi sentì la voce argentina di quella lei ragazzina che gli dice:
“André, ho deciso che cosa voglio come regalo di compleanno” sta guardando il parco avvolto nella neve.
“Che cosa, Oscar?”
“Deve essere un segreto, André. Un segreto tra me e te.”
Lui si fa attento, forse è anche un po’ preoccupato: in genere lei ha idee avventurose, per non dire pericolose…
“Ascolta: io vorrei che nella prima notte di luna piena dopo il giorno del mio compleanno io e te, di nascosto da tutti, scendessimo nella tenuta e…”
“E….” lui deglutisce, quel guizzo nello sguardo non promette nulla di buono.
“E duellassimo! Nella neve! Al buio!”
Lo guarda trionfante.
“Vorresti questo come regalo? Un duello notturno?”
“Mi piacerebbe moltissimo! Ti prego, dimmi di sì!!”
Lui resta a guardarla per un istante, poi si spettina il ciuffo come se volesse liberarsi di tutte le precauzioni e per una volta accontentarla e basta, senza pensare a freddo, pericoli, ghiaccio, scivoloni e raffreddori… Perché no? Una notte all’anno, una sola. Solo loro due.
“E così sia, allora!” aveva concluso lui inchinandosi davanti a lei con teatralità.
 
E l’avevano fatto davvero, per anni. Non lo sapeva nessuno. Lui bussava discretamente alla porta verso la mezzanotte, quando tutti, specialmente la nonna, dormivano, le porgeva il mantello e la spada e poi si avviavano verso un giardino del parco lontano dal palazzo perché nessuno sentisse il rumore dei ferri. Duellavano nell’erba fino a sudare nonostante il freddo pungente, con le guance rosse, il fiato che usciva dalla bocca formando nuvole di fumo, le mani nude che si ghiacciavano sull’elsa mentre i guanti restavano su una panchina di pietra poco lontano, appoggiati sul mantello di André che racchiudeva al suo interno quello di Oscar.
I primi anni, finito il duello, tornavano di corsa a palazzo e si infilavano in camera veloci veloci e poi sotto le coperte. La mattina dopo, quando si incrociavano in cucina o in corridoio, si lanciavano uno sguardo complice e compiaciuto; talvolta lui le strizzava l’occhio.
 
Credo di averti sempre amata…
Ci siamo divertiti così tanto insieme, André…
 
Allargò il pugno e guardò l’oggetto al centro del suo palmo. Lo accarezzò con il pollice, poi richiuse il pugno, ma senza stringere.
 
Con il passare degli anni al rituale duello di compleanno, “di non-compleanno!” sottolineava lei puntigliosa, si era aggiunta una bevuta, “senza brindisi, André! Senza brindisi!”, al tavolino della scacchiera. “Ogni anno un vino diverso!”, aveva decretato lei la prima volta, forse aveva diciott’anni, e a lui spettava sorprenderla con una bottiglia scelta dalle cantine di palazzo.
E ogni anno avevano rispettato la tradizione, sempre: anche quando lei non ne aveva voglia e a lui toccava trascinarla e mostrare l’entusiasmo necessario a entrambi ma che nessuno dei due possedeva, anche quando lei stava pensando a un altro, soprattutto quando lei stava pensando a un altro, anche quando lei avrebbe preferito saltare il duello e passare direttamente al vino per dimenticare, dimenticare guerre e nuovi continenti.
 
Credo di averti sempre amata…
E io come ho fatto a non vederlo, André?
 
Ruotò la mano chiusa a pugno e la appoggiò sul grembo, poi la aprì. Ed eccola, davanti a lei: una meravigliosa forcina d’argento. Due rebbi lunghi poco meno delle sue dita, spessi e ondulati come i suoi capelli, chiusi da una piastra d’argento su cui era stato inciso, da una mano davvero in stato di grazia, il volto del dio Marte: il profilo alto verso il cielo, l’elmo crinito, da cui escono, mossi dal vento, folti riccioli che come un’onda disegnano la parte alta della piastra, il collo del dio è lungo, affusolato, come di donna, è un dio giovanissimo ed efebico.
Una forcina. Con il dio Marte.
Sorrise a quella forcina come se stesse sorridendo a lui, a lui che gliela aveva regalata dieci anni prima:
 
“Oscar, senti…” fa freddo e loro hanno appena finito di duellare.
“Che c’è, André?” si sfrega le mani dopo avergli passato la spada.
Lui l’aiuta a mettere il mantello, poi indossa il suo e, standole di fronte, abbassa le palpebre ma poi attraverso le ciglia la guarda e parla piano, ma senza tremito nella voce: “Quest’anno ti ho disobbedito…”
“…mh…?” lo guarda incuriosita e si ferma, la lunghezza dei capelli sparita sotto il collo del mantello la fa sembrare di nuovo una ragazzina con le guance arrossate dal freddo.
“Ti ho preso un regalo di compleanno.” Estrae dalla tasca un pacchetto avvolto in una ruvida carta marrone con un bel fiocco di raso verde scuro.
Lei non vuole regali di compleanno, non li ha mai voluti, ma sente che quel pacchetto è suo e lo desidera, desidera aprirlo con la stessa emozione con cui un giorno di tanti anni prima ha estratto un tricorno da una scatola color carta da zucchero.
“Non… dovevi, André. Lo sai.” Lo dice con dolcezza, però, perché ha intuito che per lui è importante.
“Quando l’ho visto ho pensato subito a te e…, non ho voluto che fosse di nessun altro. Ma se non ti piacerà puoi buttarlo nell’ultimo dei tuoi cassetti e non guardarlo mai più.” Sorride e cerca di alleggerire e smorzare un’atmosfera troppo intensa, che lui teme di non poter gestire a lungo.
“Allora… lo apro…” allunga le mani sul fiocco di raso, scarta con delicatezza l’involucro di carta e apre un astuccio di velluto scuro. Lo ruota leggermente verso la luce della luna che lo svela a poco a poco ai suoi occhi attenti.
“André… grazie… è bellissima…” poi fa una pausa. Le si annebbia un po’ la vista e sente tremolare qualcosa di umido tra le ciglia, “sicuramente per il freddo” si dice con poca convinzione. “Ma io non uso le forcine, André.” Lo dice piano, forse anche un po’ mortificata.
“Non importa se non la usi. Volevo solo che fosse tua, te l’ho detto.”
Stanno in silenzio sotto la luna piena e lei guarda la forcina nel suo astuccio accarezzando l’immagine di Marte mentre lui la osserva e sorride.
 
Credo di averti sempre amata…
È stato così bello quel momento, André.
 
Ricordò che quella notte, prima di tornare in camera sua, senza farsi vedere da André, era andata in biblioteca, aveva preso la scatola color carta da zucchero, che da quando aveva regalato il presepe a sua nipote conservava vuota nel ripiano inferiore del suo carrellino portadocumenti a fianco del camino: tempo prima aveva impedito a Nanny di buttarla via, “Ma Oscar, è rovinata! Ed è vuota! A che cosa serve?”, e, prima che lei di nascosto la facesse sparire, l’aveva messa al sicuro in un’anta della libreria, nella stessa anta in cui conservava una scatola rossa di cui nessuno sospettava l’esistenza. Non aveva mai trovato niente con cui riempire quella scatola color carta da zucchero, però anche solo guardarla, a volte l’aveva fatta stare meglio. Ma quella sera, senza esitazione, aveva preso la scatola e poi, proprio al centro aveva sistemato la carta marrone, il nastro di raso e l’astuccio con la forcina. Poi aveva chiuso l’anta con una chiave che aveva nascosto in fondo a un cassetto minuscolo della sua scrivania.
Così, nei mesi e poi negli anni seguenti, certe sere in cui faticava a prendere sonno o certi giorni, quando sentiva sulle sue spalle il peso di quello che lei doveva essere per tutti, o certe mattine, quando la giornata iniziava troppo presto, andava in biblioteca, si accucciava vicino all’anta, e si regalava la visione di quel dio guerriero a cui sentiva di assomigliare e nel quale a volte le sembrava ormai di specchiarsi.
 
Realizzò all’improvviso che mai aveva aperto le due scatole insieme: che quello che la spingeva, non così spesso a dire la verità, ad aprire la scatola rossa era ben diverso dall’urgenza che a volte avvertiva di vedere sé stessa nel dio d’argento inciso su quell’oggetto così femminile.
Fino a poco tempo prima, in effetti, aveva amato quei momenti di solitudine, e non solo li aveva amati: li aveva cercati e li aveva protetti dallo sguardo e dal giudizio di chiunque, finché… finché tutto era precipitato. E l’inizio di quel precipitare, lei lo sapeva, era stato quella sera in cui…
 
Si riscosse da tutti quei ricordi con un brivido di consapevolezza, si sentì attraversare da una lucidità nuova, da un chiarore che illuminava cose che lei pensava di aver sempre visto e che invece… ora… ora mostravano il loro vero aspetto…
“Non è vero che non l’ho mai usata, André…” portò la forcina alla fronte chiudendo gli occhi, come se stesse chiedendo perdono.
 
Qualche mese prima, nella sua stanza:
“Metti la parrucca, bambina, così non ti riconosceranno…”
“Non voglio mettere nessuna parrucca, acconciami i capelli in qualche modo ma non chiedermi di mettere la parrucca.”
“Va bene, va bene, come vuoi, Oscar.”
La nonna le ha raccolto i capelli in alto, con una complicata impalcatura di piccole forcine sulla quale ricade una folta ciocca di capelli che crea uno chignon alto sopra la sua nuca, per la prima volta nuda e visibile al mondo intero.
Non si è mai sentita così audace. E così inerme, riflette preoccupata. Niente uniforme, niente spada: uniche armi quelle della seduzione. Ma le sa usare? Pensa con sgomento che per usare le armi bisogna allenarsi e che lei non si è mai allenata ad usare quelle armi. Allora l’attraversa fulminea un’idea: prima di indossare l’ingombrante abito chiede alla nonna un minuto, si precipita, con scarsa femminilità bisogna ammettere, in biblioteca, prende dalla scatola color carta da zucchero la forcina di Marte e la nasconde nella mano, poi, a vestizione ultimata, di nascosto dalla nonna, appena prima di uscire dalla porta della sua camera, con una velocità e con un’abilità di cui si è persino meravigliata, la infila sotto lo chignon, in modo che sia completamente nascosta dai capelli. Lei e Marte contro Fersen!, pensa battagliera.
“In qualche modo sei riuscito a essere con me anche quella sera, André…” pensò seguendo con la punta delle dita la curva dei rebbi.
 
Poi ebbe un sussulto nella memoria: tornò a quell’istante, quando, nello scendere le scale, davanti a lei aveva visto André e aveva sentito i suoi occhi così verdi, … così… innamorati!, posarsi su di lei,
 
Credo di averti sempre amata
Dio, che stupida, André! È tutto così chiaro, così semplice, ora!
 
E poi si immerse con sincerità in quel ricordo e ammise a sé stessa, finalmente, che allora, quando aveva visto André, con una vaga certezza aveva presagito che quella forcina nascosta tra i suoi capelli non l’avrebbe mai portata da Fersen e che a quel ballo le cose non sarebbero andate come lei credeva di volere.
E infine, quando il presentimento era divenuto realtà e tra le lacrime, “troppe lacrime!”, lei si era spogliata di quel vestito e, a una a una, aveva fatto cadere a terra le forcine ed era poi arrivata alla forcina di Marte, l’aveva presa e riportata al suo posto. Ma nei giorni successivi aveva provato imbarazzo per quella forcina, per quella scatola, che aveva perso ora tutta l’innocenza e la bellezza di un tempo.
 
Così non l’aveva più aperta, fino al giorno in cui aveva dovuto farlo perché doveva, sì doveva, contenere ancora una cosa, quella scatola.
Scacciò quel pensiero, “Non stasera.”
 
Decise con risolutezza che avrebbe tenuto la forcina in bella vista sulla mensola del camino e che non l’avrebbe più messa nella scatola.
 
Finalmente si alzò e andò verso il pianoforte, sul quale aveva appoggiato la scatola color carta da zucchero che era lì aperta, con il coperchio leggermente scostato. Guardò con la coda dell’occhio il pezzo di stoffa che si intravedeva sul fondo della scatola, poi richiuse il coperchio:
“No, stasera no. Nessun ricordo doloroso stasera, André”.
 
Poi andò a dormire.

 
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La frase “a volte uno si sente incompleto ed invece è soltanto giovane” non è di Nanny, né tantomeno mia, ma è di Italo Calvino.
 
Mi avete incoraggiato e mi sa che questa volta il capitolo è ancora più lungo del precedente!
Approfitto di queste ultime ore di Natale per farvi il mio più caro augurio di passare questi giorni dedicandovi a tutto quello che più vi piace!
Sempre grazie del vostro tempo e della vostra lettura.

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Capitolo 6
*** Un altro attendente, un'altra amica ***


Buon anno a tutti!
Questo capitolo, a differenza dei due precedenti, è tripartito: Oscar, André, Oscar.
Sempre grazie a chi legge, davvero grazie.
 

CAP. 6 Un altro attendente, un’altra amica

 
La mattina dopo, finalmente ristorata da un sonno mai interrotto, mentre con un insolito buonumore faceva colazione al tavolo della sua camera, sentì uno scalpicciare di zoccoli di cavallo sul viale: non riuscì a controllare l’emozione e si chiese se… forse… Si precipitò fuori alla balconata che dava sull’atrio d’ingresso e vide entrare un uomo in uniforme seguito da un’altra persona. Non distingueva chi fossero per la luce del sole che li avvolgeva, ma poi, quando entrarono nel cono d’ombra della stanza, con delusione riconobbe Girodelle e il suo attendente.
“Girodelle, a cosa devo questa visita?” reagì alla delusione con un mezzo sorriso, stupendosi di quanto si sentisse accomodante e...
“Madamigella Oscar, sono passato da voi prima di recarmi a corte per porgervi un saluto e anche per…”
“Aspettate, scendo.” … ospitale, ecco, si sentiva ospitale.
Girodelle la osservò scalino dopo scalino e intanto la immaginò avvolta di seta, con i capelli raccolti e un ventaglio tra le mani: sarebbe stata meravigliosa, si disse prima che lei si parasse davanti a lui e nel suo tipico tono secco, ma velato di una insolita gentilezza, domandasse:
“Dicevate?”
Allora lui imitò il suo tono, gentile ma formale, e rispose:
“Ecco, ho saputo che il vostro attendente non è più al vostro servizio e così ho pensato che posso lasciare a voi Jacques, che voi ben conoscete e che sarà onorato di servirvi come a voi parrà più opportuno.”
“Vi ringrazio Girodelle, ma non mi…”
“Non dite di no, madamigella, avrete bisogno di qualcuno che si occupi delle vostre necessità e non potete certo allenarvi alla spada da sola. Fintanto che non troverete un sostituto al vostro attendente, contate su Jacques come se fosse un servo vostro. A presto madamigella, il mio dovere mi chiama.”
Lei non ebbe tempo di replicare che lui le aveva dato le spalle e in pochi istanti era già montato a cavallo e galoppava fuori dal cancello.
Rimase con gli occhi sgranati a fissare il punto dell’orizzonte in cui Girodelle era sparito non sapendo se essere più arrabbiata o più sconcertata da quell’iniziativa presa da un uomo al quale aveva sempre dato ordini. Da quando Girodelle le faceva visita a casa? Da quando si preoccupava che lei fosse o meno da sola? E, soprattutto, che se ne faceva ora di Jacques?
 
Eppure quel calore che avvertiva da quando si era svegliata e, ancora in camicia da notte, aveva guardato la sua forcina sul camino non si era raffreddato e le veniva quasi voglia di farsi una risata.
Guardò Jacques da dietro la spalla e lo vide che fissava il pavimento in attesa di ordini, allora si piantò di fronte a lui e, quasi per non fargli un dispiacere, indicando l’edificio dall’altro capo del viale, gli diede il primo compito di quella strana giornata:
“Bene Jacques, prepara il mio cavallo. Ti raggiungo alle scuderie tra pochi minuti.”
Jacques batté i tacchi chinando la testa e poi si diresse fuori verso le scuderie.
 
“Ho sentito delle voci, Oscar, chi era?” la nonna era apparsa nell’atrio e la stava guardando con aria interrogativa.
“Niente… era Girodelle…” rispose tenendo lo sguardo fisso davanti a sé senza guardarla.
“Oh… si fa vedere spesso ultimamente…”
Lei si riscosse, intuendo che in quella frase ci fosse un sottinteso che però non riusciva proprio ad interpretare e così guardò la nonna con aria interrogativa.
Ma lei sembrava divertita e senza aggiungere altro si avviò verso la cucina. Allora, vincendo anche l’ultima esitazione, prima che la nonna sparisse dietro la porta, buttò fuori:
“Hai avuto notizie di… André?”
Non vedeva l’ora di farle quella domanda, da quando si era svegliata aveva provato mentalmente mille modi per chiederle se lui avesse scritto, da quando si era svegliata sentiva che ogni pensiero la portava a lui, che una specie di calore si diffondeva nel suo corpo solo evocando il suo nome, e non avrebbe saputo dire quante volte quella mattina il suo sguardo era stato attratto dalla forcina appoggiata sulla mensola del camino. Ma sopra ogni cosa, da quando si era alzata, aveva sentito il desiderio irresistibile di pronunciare a voce alta il suo nome in presenza di qualcuno, di rendere vero l’esistere di lui nel suo stesso mondo nominandolo. E quando il nome era uscito dalle sue labbra, nella domanda invero insignificante che aveva rivolto alla nonna, aveva sentito qualcosa di indefinibile rimescolarsi dentro di lei, come se quel nome non l’avesse mai pronunciato prima. E così, un istante dopo aver formulato la sua domanda, fu costretta a dare le spalle alla nonna, perché sentì di essere arrossita.
“No, cara, nessuna notizia… ma forse ha scritto a tuo padre…”
La delusione, la seconda delusione della giornata, non scalfì il suo buonumore e lei si avviò verso la sua camera:
“Vado a cambiarmi e poi esco a cavallo, non aspettarmi a pranzo. E voglio che nella mia stanza non sia toccato niente.”
“Come vuoi, Oscar.”
 
Quando fu nella sua camera, dopo essersi cambiata, si avvicinò alla finestra che dava sul viale d’ingresso e vide Jacques che l’attendeva reggendo le briglie di entrambi i cavalli. Lo soppesò con lo sguardo a lungo: era quello che molte a corte avevano definito “un bell’uomo”: alto, i lineamenti regolari, elegante nei modi, sempre impeccabile nell’abbigliamento e nel portamento. Eppure nel guardarlo le scappò da ridere; ma da dove arrivava tutto quel buonumore? si chiese per un attimo, ma lei lo sapeva da dove arrivava:
 
“Girodelle ha un nuovo attendente” lui la guarda con aria divertita dondolandosi sulla sedia.
“Ah sì?” a lei proprio non interessa, si è svegliata di malumore. La sera prima all’ennesimo ballo a corte ha sentito che La Fayette è stato ferito in battaglia e che la guerra in America sarà tutt’altro che breve.
“Si chiama Jacques. Vuoi sapere che cosa distingue Jacques? Che cosa lo rende così… Jacquerelle?” a lui viene proprio da ridere ed è inutile, quando fa così è contagioso.
Jacquerelle?” lo guarda e, contro ogni sua volontà, le viene da ridere, anche se vorrebbe continuare a mantenere un contegno serioso, adatto alle sue preoccupazioni, ma è che… proprio non ci riesce e lui se ne accorge e allora comincia a ridere e anche lei, che ancora non ha capito niente, ride con lui, prima nascondendo il sorriso nel bavero della giacca, poi non ce la fa più:
“Smettila, André!”, ormai ride apertamente e allora lui, tra una risata e l’altra, le dice:
“Ma sì… ahah, Girodelle ha scelto Jacques perché… gli assomiglia! Fisicamente, intendo! È un alter-Girodelle, un… Jacquerelle!!”
 
E così, con gli occhi che ancora luccicavano di ilarità, guardò Jacques che la aspettava: le onde castane dei capelli chiuse dal solito nastro celeste, la postura impeccabile, come si conviene all’uomo che deve fare da sfondo alle apparizioni di Victor Clément Florian de Girodelle.
Si voltò un’ultima volta verso il camino, sentì ancora quello strano calore nella pancia e poi uscì.
 
**************
 
“Vi ringrazio, Monsieur Grandier”, lo sguardo di Honorine Mabeuf era diretto e franco.
“Sono contento del nostro chiarimento, mademoiselle, farò il possibile per voi e per Monsieur Durand, è una promessa.”
Sorrise a entrambi e poi li guidò verso l’uscita.
“Speriamo di rivedervi presto, Monsieur Grandier, quando ripartirete?” chiese Durand.
“Al massimo fra tre giorni, vi farò avere presto notizie, non temete.”
“Allora fate buon viaggio e grazie ancora per la vostra comprensione, è raro trovare una persona così diretta e così disponibile, monsieur. E vi ringrazio anche a nome del mio povero padre che, credetemi, non avrebbe potuto comportarsi diversamente. Gli eventi l’hanno costretto a fare quello che ha fatto e…”
“Lasciate stare, davvero, mademoiselle, è tutto chiaro.”
Li salutò e rimase a guardare il calesse che si allontanava, mentre Honorine si teneva con la mano il largo cappello di paglia e Durand incitava il cavallo.
 
“Bene, André, ora non puoi più rimandare”, si disse, “è ora di pensare al tuo futuro.”
Prese il cavallo e lo lanciò al galoppo verso le dune di sabbia che lo dividevano dal mare. L’aria gli entrava nei polmoni, gli liberava la fronte dai capelli, gli solleticava le ciglia, gli gonfiava il mantello sulla schiena. Allora chiuse gli occhi e stringendo le cosce sui fianchi del cavallo abbandonò le mani sulle gambe facendosi investire dal vento. Capì che cosa volesse dire “essere libero come l’aria” e si accorse con struggimento che in quella assoluta libertà era ancora prigioniero. Prigioniero di un unico pensiero.
Poi, una volta sulla riva, scese da cavallo e si mise a camminare sulla battigia. Raccolse un ciottolo levigato e, mentre lo accarezzava nella mano, tornò con la mente a qualche tempo prima. Al tempo in cui Fersen era ospite a palazzo e lui trovava sollievo al tormento nei pochi momenti in cui poteva godere della compagnia di Léonie.
 
Léonie, seduta su uno sgabello, nel cortile sul retro pulisce una gigantesca pentola incrostata di unto: ha le maniche rimboccate e in mezzo alle gambe aperte ha la pentola che tiene ferma con le ginocchia e che sfrega energicamente con una pezza.
“Senti, la vuoi smettere di guardarmi con quel sorrisino e darmi una mano?”
“Oh, no, non mi permetterei mai di darti una mano. Tu sai fare tutto no?”
“Sei un idiota, André. Quando ho finito con questa maledetta liscivia ti faccio una carezza, vuoi? Sentirai che manina morbida!”
“E dai, scherzavo. Dammi quella pezza, vado un po’ avanti io.”
“Grazie, non mi sento più le braccia. È la quinta che pulisco. Guarda, io te lo dico, quello svedese lo odio”.
“Léonie…” dice lui con tono di rimprovero ma con il sorriso che guizza negli occhi.
“No, sentimi, non scherzo. Ti rendi conto che è qui a fare il parassita da dieci giorni? E sono dieci giorni che noi si cucina come se dovessimo sfamare un reggimento! Che poi, mi ha detto Juliette, che quello neanche mangia di gusto. Dice che sta lì, con la forchetta a mezz’aria, sospira, gli vengono gli occhi lucidi… e poi manda indietro il piatto ancora pieno! Ma ti rendi conto? C’è gente in cucina che comincia a credere di non saper più preparare un piatto decente, eh!”
Lui non riesce a trattenere una risata.
“E poi non ti dico lavare le lenzuola, a quello lì. Ogni tre giorni, dico, ma siamo matti? Tanto lavo io, no? Che poi portasse almeno un po’ di allegria, quello stoccafisso!”
“Beh, Léonie, non essere ingiusta, è considerato uno degli uomini più affascinanti di…”
“Ma chi? Quello lì? A me proprio non mi fa sangue… gli ho visto le mani, l’altro giorno mentre rientrava a cavallo: tiene le redini in punta di dita, fa così – e mima lo svedese con la bocca all’ingiù, gli occhi socchiusi e le punte delle dita unite a reggere briglie immaginarie - Io quelli che toccano le cose come se avessero solo il pezzo di dito dell’unghia…”
“l’ultima falange…” dice lui chino sulla pentola,
“… ecco, che bravo che sei tu, bravo ragazzo istruito! – gli dà una pacca sulla spalla - Comunque, dicevo, quelli che toccano le cose come se avessero solo l’ultima falange e che non toccano con tutta la mano, capisci?, dita e palma…
“palmo…”
“La smetti? E poi sono sicura che si dice ‘portare in palma di mano’…”
Lui alza gli occhi al cielo e tace continuando a sfregare.
“E comunque, se tanto mi dà tanto, quello svedese lì non sa nemmeno che cosa vuol dire allargare bene la mano sul didietro di una donn…”
“Ma Léonie, ti prego! Possiamo cambiare discorso? Ecco, ho finito, la lascio qui ad asciugare?”
“Sì, grazie. Ti va una pausa?”
Lui non dice niente e sorride, poi con le mani in tasca si incammina verso l’argine del canale che costeggia la proprietà. Si siedono sulla sponda, all’ombra di un tiglio.
“André?” lei guarda lontano, è diventata seria.
“Sì?”
“Tu pensi mai al tuo futuro?”
“Cerco di farlo il meno possibile” dice con sincerità.
“Ma tu… pensi di morire da servo? Io no, André. Io non voglio.”
Raccoglie le ginocchia al petto e ci appoggia sopra una guancia, poi prosegue:
“Non fraintendere, sono riconoscente al generale e voglio bene a tua nonna. E so che tra tutte le famiglie nobili che ci sono a noi è andata bene. Ma… io sogno di essere una donna libera, un giorno, André.”
“Libera da chi?”
“Libera! Da tutto! Libera dai nobili, libera dal generale, che può disporre di ogni ora della mia giornata, che può decidere della mia vita in un battito di ciglia, che può decidere se mi sposerò e con chi. Non è giusto, e tu lo sai.”
“Se il generale non mi avesse accolto, la mia vita sarebbe stata molto più triste e vuota.”
“Questo non lo puoi sapere, André.”
“Fidati, lo so.”
Poi, allungando le gambe sull’erba, lui le chiede pensieroso:
“Léonie… pensi davvero che sia possibile essere liberi? Se tu potessi venire con me a Versailles… A volte guardo tutti quei nobili e mi sembrano più servi di me, sai? Servi del re, dell’adulazione, del potere, della ricchezza, dell’ostentazione… A volte mi sembrano creature così infelici, Léonie…”
Lei scuote la testa sorridendo, si alza rassettandosi il grembiule e scende al canale a sciacquarsi le mani. Lui la segue, poi le porge il fazzoletto per asciugarsi e lei lo stropiccia tra le dita energicamente, poi dice:
“Io odio i nobili. I nobili hanno un servo per tutto. Un nobile non sa fare nulla di pratico da solo. Persino se piange ha un servo che gli porge il fazzoletto, ti rendi conto? Santiddio, tieni un fazzoletto in tasca, no? Invece sai per cosa usano i loro preziosi fazzoletti? Per scambiarli di nascosto con le dame o per sventolarli sotto al naso della gente, così mettono in mostra pizzi e ricami. Oppure li imbevono di profumo e se li premono sul naso per non essere costretti a sentire gli odori della plebe o lo sterco di cavallo. Poi però quando devono riempirlo del loro schifoso moccio o delle loro lacrime, indovina? Chiedono il fazzoletto al cameriere! Dio che parassiti, non li sopporto!”
Si inerpica sull’argine alzando la gonna sopra le caviglie con entrambe le mani e ignorando la mano che lui le porge per aiutarla a salire.
“Faccio da sola, grazie.”
Lui è ancora pensieroso, concentrato.
“Ci sono molti tipi di servitù, Léonie e alcuni sono così puri… Mio padre avrebbe sacrificato sé stesso per me e per mia madre… al Café Procope a volte ho sentito i discorsi di persone che sarebbero disposte a morire per i loro ideali… Rosalie si sarebbe prostituita pur di dar da mangiare a sua madre… Siamo tutti servi di qualcuno o di qualcosa, Léonie, è solo una questione di prospettiva.”
Lei allora sposta lo sguardo nel suo e con decisione dice:
“Sai cosa ti dico, André? Io non so se ho capito quello che hai detto, parli troppo difficile per me a volte. O forse mi reputi più intelligente di quello che sono. Ma io ti dico questo: se è come dici tu e siamo tutti servi di qualcuno o di qualcosa, io voglio essere libera di decidere di chi o di che cosa essere serva, allora. Poi magari, da donna libera bada bene, deciderò - calca sulle parole tenendo il dito medio alzato verso la punta del naso di André - di venire a servizio dal generale lo stesso, perché… – abbassa l’indice e con entrambe le mani si aggiusta il fiocco del grembiule sulla schiena con fare fintamente distratto - stare qui mi piace… e tu alla fine sei un ragazzotto simpatico, sai?”
Poi gli strizza l’occhio con fare impertinente e lui scuote la testa fingendo rassegnazione.
“Ma da donna libera, André.”
Poi lei gli dà un bacio sulla guancia, gli sorride e nell’allontanarsi grida:
“Ah, che cosa faresti senza di me! E domani mi devi aiutare con i vetri del salone! Sai com’è, abbiamo ospitiiii!!!”
Lui ride di cuore e la vede sparire nella porta sul retro.
 
Allora André, nella luce di un pomeriggio normanno di marzo, sentì che ogni cosa andava a posto, che sapeva esattamente quello che avrebbe fatto e che lo sapeva con una tale chiarezza che non avvertiva alcun tumulto nel cuore, solo la calma che deriva dalle decisioni definitive.
Essere libero di decidere di chi o di che cosa essere servo
“Torno da te, Oscar. Torno da te.”
La immaginò fredda, glaciale, altera come solo lei sapeva essere.
“Non ti chiederò niente. Non avanzerò alcuna pretesa. Manterrò la distanza che tu vorrai impormi. Ma torno da te.”
La immaginò nella sua uniforme, il passo marziale, la spada agganciata sul fianco.
“Non importa se non vuoi più pensare all’amore. Non importa se non è me che ami. Non importa se dovrò vederti convinta di poter vivere come un uomo. Torno da te.”
La immaginò a Parigi, in mezzo ai rozzi e brutali soldati della Guardia.
“Credi che non l’abbia saputo? La nonna mi ha scritto apposta per dirmelo. Tu sai in che posto stai andando? Lo sai quanto ti metteranno alla prova quei soldati? Potrebbero anche rifiutarsi di obbedirti. E so che tu pensi di farcela da sola, e forse è vero. So che pensi di non aver bisogno di me, e forse è vero. Ma io sarò lì, per te, per quella parte di te che in mezzo a tante facce sconosciute, cercherà il conforto di un amico. Torno da te, torno da te.”
La immaginò furente di fronte alla sua scelta di seguirla comunque, nonostante lei l’abbia congedato.
“Mi hai dato tu la libertà, Oscar. Potrei fare molte altre cose, sai? Potrei quasi vivere di rendita con i miei risparmi. Potrei trovare un lavoro in città e comprare un piccolo appartamento per me e per la nonna. Bernard mi ha offerto di aiutarlo più di una volta, in effetti… Potrei partire da Parigi, dalla Francia e vivere dove voglio: qui in Normandia, in Provenza, a Venezia o a Firenze… Potrei fare l’amministratore di questa proprietà, potrei allevare cavalli, potrei fare il giornalista, potrei salire su una nave e attraversare l’Oceano… Potrei mettermi un sacco sulle spalle e non tornare più… Potrei essere amato, Oscar. Potrei trovare una donna, potrei avere una famiglia. È questa la libertà, Oscar?”
Prese il sasso che lisciava tra le mani da quando era smontato da cavallo. Era piatto, liscio, grande quasi come il suo palmo: lo posizionò tra il pollice e l’indice della mano destra, poi curvò leggermente il busto e con un movimento secco del polso lanciò il sasso sul pelo dell’acqua. Al quarto balzo il sasso affondò. Lui sorrise.
“Torno da te, torno da te, amore mio.”
 
****************
 
Tornò in camera sua sconvolta: la mente che velocissima esaminava pensieri, parole, ricordi, il cuore messo a tacere con la forza della volontà. Fece sbattere la porta alle sue spalle e si diresse alla porta finestra. La rabbia, - ma verso chi di preciso? verso Jacques? o verso sé stessa? -  l’aiutava a controllare le lacrime, a non piangere.
Non voleva piangere.
Uscì sul terrazzino e allargò le mani sulla balaustra, cercando di controllare un tremito che non accennava a diminuire. L’orizzonte mostrava i colori del crepuscolo e, sul retro del palazzo, il sole moriva nell’aria tersa di marzo.
Nulla di quella bellezza la colpiva. Non la vedeva nemmeno, quella bellezza.
 
Era andato tutto storto: la giornata che lei aveva iniziato con una leggerezza nuova si era progressivamente trasformata in un crescendo di sofferenza.
 
Si era illusa che lui fosse tornato: invece si era trovata davanti Girodelle e Jacques.
Aveva chiesto alla nonna notizie di lui: non c’erano notizie di lui.
Che cosa stai facendo in Normandia, André! Torna qui!
 
Era uscita a cavalcare: non sapeva dove andare. Qualunque posto le ricordava lui e portare Jacques in uno di quei posti le sembrava una… profanazione.
Allora erano finiti nella radura dove lei e Girodelle si erano battuti la prima volta, Jacques nemmeno lo sapeva, e lì lei gli aveva chiesto di duellare.
Lui, obbediente, si era preparato all’allenamento.
E come era stato quel duello?
“Perfetto, naturalmente”, si disse. Poteva Girodelle scegliere come attendente uno spadaccino meno abile? Certo che no.
Ma.
Ma lei non si era divertita. Per niente.
Duellare con Jacques era divertente come ripetere le cinque declinazioni, i paradigmi dei verbi irregolari.
Duellare con André… era… emozionante. Come tradurre Virgilio e Orazio, come leggere Shakespeare e il Don Chisciotte!
Che cosa stai facendo in Normandia, André! Torna qui! Vieni a duellare con me!
 
Poi aveva voluto andare a Parigi.
“Portami a bere, Jacques!”
Lui l’aveva guardata, interdetto:
“Madamigella, io vi seguo e vi aspetto fuori. Non mi permetterei di accompagnarvi in un café o in una taverna…, non sarebbe… appropriato…”
Lei l’aveva fulminato con lo sguardo e aveva sentito con insofferenza che la presenza di Jacques le era di peso anziché di aiuto. Si sentiva in dovere di includerlo nella sua giornata, di coinvolgerlo in quello che desiderava fare, ma…
Ma a lui non importava niente di quello che lei faceva o che lei voleva fare! Lui… obbediva!
Non sapeva che farsene di un accompagnatore ubbidiente!
E così aveva chiaramente capito che fare l’attendente era per Jacques un lavoro, un lavoro che certamente lui svolgeva con encomiabile zelo, ma comunque un lavoro.
Che cosa stai facendo in Normandia, André! Torna qui! Portami a bere, André!
 
E allora, mentre procedevano al passo verso Parigi, lei, con gli ultimi brandelli di buonumore che le erano rimasti e che ormai si stavano sfilacciando sempre più, aveva voluto indagare un po’ sul “mestiere dell’attendente”, del quale si era accorta di sapere ben poco, visto che non si era mai sentita in dovere di mettere confini tra la vita di André e il suo incarico come attendente.
Così aveva chiesto, con un finto distacco:
“Quali incombenze svolgi di solito per il capitano Girodelle, Jacques?”
“Oh, madamigella Oscar, la mia giornata inizia al mattino presto, preparo i cavalli e attendo il capitano, poi ci rechiamo alla reggia. Nel tardo pomeriggio, dopo un allenamento alla spada nella palestra di palazzo Girodelle, pulisco le armi e ne controllo l’efficienza, sistemo i cavalli nella scuderia, lucido gli stivali in modo che siano pronti per il giorno successivo…”
“E poi?” l’aveva interrotto, era sovrappensiero.
“E poi… sono libero… fino alla mattina successiva.”
 
Sono libero. Sono libero. Sono libero.
André non era mai libero. Non ufficialmente libero.
Si sentì una tiranna senza cuore. Un’egoista. Un’approfittatrice.
 
Ma proseguì, perché aveva intuito che c’era dell’altro con cui farsi davvero male:
“Hai mai pensato al tuo… futuro, Jacques?”, eccola, la domanda che mai aveva fatto ad André. La domanda che a volte le era arrivata sulle labbra e che lei aveva sempre ricacciato giù perché aveva troppa paura della risposta.
 
Ricordava una volta che era stata a un passo dal chiederglielo, in una bettola di Parigi.
L’obiettivo non dichiarato della serata è ubriacarsi: lei è tristissima, lui pare aver esaurito il repertorio con cui farla divertire. Fissano i boccali di birra davanti a loro, ciascuno perso nei suoi pensieri; lei si allontana con la mente sempre di più e a un certo punto si immagina Fersen che, tornato dalla guerra, arriva in quel posto lungo la Senna, fende la folla di distratti avventori, la prende per mano, la fa alzare e le dice: “Madamigella Oscar, io vi amo!” e poi la porta via sul suo cavallo.
“Cose degne di mia nipote Marguerite… ma davvero c’è stato un tempo che fantasticavo in modo così… dozzinale?” si era chiesta per un attimo.
Ad ogni modo, quando si ridesta da quella fantasticheria, vede André perso in chissà quali pensieri e si sente un po’ in colpa per quella sua rêverie, che prevede appunto di lasciare lì André senza nemmeno un saluto. Così, per farsi perdonare il suo non-comportamento nella non-realtà che aveva immaginato e non-vissuto, avverte il bisogno di rompere il silenzio e le sale alle labbra quella domanda: Hai mai pensato al tuo futuro, André?
E invece, con un’improvvisa istintiva paura di quello che lui potrebbe rispondere, chiede: “E se passassimo al vino, André?”.
 
Intanto Jacques, che nemmeno si era accorto di quanto lei si fosse allontanata dalla conversazione per seguire il filo della memoria, dopo aver cacciato con il frustino due cani randagi che gli sembrava avessero la schiuma alla bocca e che si erano avvicinati troppo ai cavalli, aveva ripreso la conversazione:
“Il mio futuro… Oh, sì, certo, madamigella. L’incarico di attendente è la migliore opportunità che mi potesse capitare. Ho un buono stipendio e sto risparmiando perché…” si era interrotto arrossendo e chiedendosi se quella conversazione non stesse diventando troppo… amichevole.
“Perché…?” lei aveva provato una strana curiosità.
“Vedete… c’è una signorina… una cameriera di palazzo Girodelle… e… mi piacerebbe avere una famiglia, ecco. Forse tra un paio d’anni riusciremo ad affittare una piccola casa nelle proprietà del capitano e allora…”
Era andato avanti a raccontare, per la prima volta in quella giornata infervorato e accalorato.
 
Lei aveva forzato un sorriso, ma qualcosa la trascinava sempre più giù, più giù.
Come aveva potuto ritenere ovvio che ad André andasse bene dedicare la sua vita a lei?
Che presunzione, che arroganza!
Girodelle sì che rispettava le persone al suo servizio! Si preoccupava del loro futuro! Lei invece che cosa era stata per anni? Una padrona senza cuore, ecco che cosa era stata! Come se André fosse cosa sua! Come un servo! Anzi no, come uno schiavo!
Si odiò ferocemente.
 
Ma ancora non era finita. C’era ancora un mare di dolore in cui affondare, un mare che lei conosceva e che stava scientemente ignorando dal giorno precedente, un mare dal quale nessun ricordo dell’infanzia, nessun duello di mezzanotte, nessuna sbronza parigina, nessuna forcina d’argento avrebbero potuto salvarla.
E allora lei aveva sentito dentro di sé che era un bene che André quella mattina non fosse tornato, che non avesse incontrato quella lei allegra e leggera. Che non si poteva risolvere tutto con un sorriso e con un “André credo di aver capito di amarti”, dio che stupida! Come poteva anche solo averlo vagamente pensato!
C’erano cose che lei ancora doveva affrontare, c’era ancora quella scatola sul suo pianoforte!
 
Stava già pensando di congedare Jacques con una scusa e di tornare a casa, quando aveva afferrato una frase nelle parole dell’ormai loquace Jacques:
“… certo che André, poveretto…”
Poveretto?
“… una disgrazia così…”
Lo aveva guardato con lo sguardo interrogativo, gli occhi sbarrati, le palpebre che avevano dimenticato il loro ritmico movimento:
“Che cosa hai detto?” la voce incolore.
“Dicevo che tutti noi, noi attendenti intendo, siamo molto dispiaciuti per André. L’avevamo già avvertito quel giorno che si è presentato in caserma con i capelli corti, Alphonse lo diceva sempre: tagliarsi la coda equivale a una dichiarazione di guerra a Versailles! Insomma, come poteva pensare di restare in servizio pettinato come quel ladro mascherato?”
Lei lo aveva guardato inebetita, ma non lo aveva interrotto, troppo interessata a quello che evidentemente lui aveva ancora da dire.
“E poi… beh… quando abbiamo visto…” e Jacques aveva abbassato lo sguardo con evidente commozione “quando abbiamo visto… la cicatrice…”
Lei aveva avuto un capogiro e aveva stretto involontariamente le cosce sui fianchi del cavallo,
“… ecco, era evidente che si trattava del taglio di una lama… di una spada…”
“Ve l’ha detto lui?” aveva chiesto con la voce bassa, grave come l’ultimo tasto del suo pianoforte.
“Oh, no. Lui non ha mai detto niente. Né dei capelli né dell’occhio. Ma non è più venuto a bere con noi. Mai più. Forse non voleva che noi facessimo domande… lo capisco. Immagino che dolore anche per voi, madamigella…”
“… per me?”
“Dover rinunciare a un uomo che vi è stato fedele per anni… ma del resto come può restare a servizio della casa di un generale un uomo che ha l’aspetto di un rivoluzionario? E come può continuare a fare l’attendente un uomo ormai guerc… ah!”
Il sangue le era arrivato all’improvviso, tutto insieme alla testa, lo aveva sentito formicolare al di sotto dei capelli, poi era piombato giù, fino ai suoi piedi lasciandola con le labbra livide, dello stesso colore della pelle del viso. L’aveva preso per il bavero e lo fissava, occhi negli occhi, i nasi che quasi si toccavano, poi la voce era uscita, un sibilo tagliente:
“Non azzardarti mai più a pronunciare quella parola riferendoti ad André. E non presumere di sapere quello che non sai. Ora puoi andare, la tua giornata al mio servizio è terminata. Non tornare domani.”
“Ma madamigella, il mio padrone…”, lui era paralizzato da quella reazione, la versione più violenta e agghiacciante che si fosse mai vista della celeberrima “glacial furia” del colonnello, come la chiamavano in caserma.
“Scriverò io a Girodelle, e non preoccuparti, questa conversazione non rientra nelle cose che intendo riferire a lui.”
Poi aveva tirato le briglie ed era corsa indietro, verso casa, incitando il cavallo con una violenza che il povero animale subiva senza colpa alcuna; avvertiva che la luce del mattino si era ormai trasformata nelle tenebre della sera.
 
E mentre cavalcava i ricordi, muti, di una notte che mai, mai avrebbe voluto rivivere ma che ora doveva rivivere.
Loro due euforici cavalcano nella notte. All’improvviso un uomo avvolto in un mantello nero. Indossa una maschera. Lei è trionfante: eccolo, finalmente! Caduto nella trappola!
Ma lui non è affatto interessato a lei, lui vuole giustizia, lui vuole vendetta, lui vuole André.
Inizia il duello: quello attacca senza pietà e con notevole tecnica, André si difende. Non vuole ferirlo. Lei non capisce più chi sia uno e chi sia l’altro.
La soddisfazione di averlo stanato scivola sempre più verso una indefinita paura, un senso di tragedia incombente non le dà scampo.
E poi in quel ricordo senza suoni, un grido assordante che strappa l’aria, il cielo e le stelle tutte.
 
Aveva incassato il collo nel bavero mentre il cavallo galoppava, come se il colletto della giacca potesse arrivare a tapparle le orecchie per non sentire il suo nome “Oscaaar” graffiato dalla voce di lui distorta dal dolore.
 
E allora lei lascia cadere la pistola, dimentica il cavallo, la spada, quel maledetto ladro, perché può fare solo una cosa.
Corre, corre verso di lui, corre e non riesce a respirare
Credo… di averti sempre amato, André
Gli prende la mano che lui contorce nell’aria
Credo di averti sempre amato
Riesce solo a dire il suo nome mentre guarda il sangue scendere sulla sua guancia
Credo di averti sempre amato
Raccoglie la maschera da terra e la fissa stranita. La mette in tasca.
Credo di averti sempre amato, André.
 
E così era arrivata a casa mentre ancora ripeteva quella frase, credo di averti sempre amato, così semplice e così vera, roccia immobile nella bufera che era il suo cuore, ed era balzata giù da cavallo e volata nella sua stanza.
 
Allargò le mani sulla balaustra e piegò la testa fino a toccare il petto con il mento.
E lo sapevo, lo sapevo che tu mi avevi sempre amata. Lo sapevo, André.
“Sono contento di essere stato ferito io e non tu, davvero.”
Lo sapevo ma ho preferito ignorarlo.
 
Sentì che doveva andare avanti a ricordare. Che doveva affrontare la sua colpa, la sua responsabilità.
Lo rivede entrare nella sua cella al Palais Royal
“André!”
Lo vede galoppare nella notte, dopo che l’ha liberata, dopo che hanno catturato il Cavaliere Nero, per l’ultima volta spensierato
Lo vede paralizzarsi all’improvviso per il terrore della cecità
Ti accechi
Le parole del dottore
Ti accechi
“Sono contento di essere stato ferito io e non tu, davvero”
Ti accechi
Lei che corre in cerca di vendetta
Lei che rinuncia alla vendetta
Ti accechi
Lei che invece di vendicarsi corre in biblioteca e apre la scatola color carta da zucchero: la forcina di Marte e la maschera nera, eccole lì
Due regali di André che lei ha rovinato.
 
Strinse i pugni ormai ghiacciati sulla pietra della balaustra e poi entrò in camera; non guardò il camino e si diresse al pianoforte, chiuso da giorni, sul quale era ancora appoggiata la scatola color carta da zucchero.
La aprì.
Prese l’unica cosa rimasta sul fondo, la stese tra le mani e la guardò: un pezzo di stoffa chiuso da un fiocco ancora stretto in modo da formare una fascia. Un pezzo di stoffa lungo, rettangolare, nero; sul lato opposto al nodo un foro da un lato, dall’altro un altro foro reciso a metà. I bordi del taglio erano slabbrati e al tatto sentiva che in alcuni punti la parte liscia di raso si trasformava in una superficie più in rilievo e più ruvida… grumi di sangue.
Del sangue di André.
Crollò a terra, seduta tra le sue ginocchia, le spalle scosse dal pianto più violento che era mai uscito dal suo corpo.
Piangeva.
Piangeva e teneva sul petto quella maschera imbrattata di sangue.
Piangeva e avrebbe voluto piangere per sempre.
 
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So che il pianoforte è un anacronismo per l’epoca di Oscar, ma fingo di non saperlo come Dezaki.

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Capitolo 7
*** Il giorno del ritorno di André ***


CAP. 7 Il giorno del ritorno di André
 
Matin
 
Prima ancora di vederlo, sentì che era arrivato. Le parole di Girodelle sempre più lontane, lo sguardo puntato verso la grande finestra del salottino verde al pianoterra, nell’ala sud di palazzo Jarjayes: da lì scorgeva chiaramente un tratto del viale che a destra finiva verso le scuderie, a sinistra conduceva fino alla facciata del palazzo.
E all’improvviso, dopo quasi un mese, lei rivide André: conduceva il suo cavallo al passo e aveva una sacca a tracolla sulle spalle, una sacca di documenti pensò osservandone la forma, e poi c’era un’altra sacca, quella con i suoi effetti personali naturalmente, legata sulla parte posteriore della sella; poi André, di profilo, incorniciato nel legno chiaro della vetrata, fermò il cavallo.
“Posso leggervi ora, madamigella, le disposizioni per il servizio d’ordine programmato in occasione della Santa Messa Pasquale? Un vostro parere mi sarebbe di grande aiuto”, Girodelle, seduto di spalle alla finestra, non si accorse di niente; del resto, i rumori da fuori giungevano attutiti e alle sue orecchie il tramestio mattutino di casa Jarjayes non aveva nulla di strano né di interessante. Certo lei aveva l’aria assorta, ma quella vaghezza di lei era uno dei tratti che Girodelle più amava e rubò avidamente lo sguardo sottile, le ciglia che quasi coprivano l’azzurro dell’iride, rinunciando a interpretare i motivi di quella perfetta, statuaria fissità.
Lei, avvertendo dal silenzio che improvvisamente era calato che forse Girodelle stava aspettando che lei dicesse qualcosa e sapendo che qualunque cosa avesse detto sarebbe andata bene, se ne uscì con un incolore:
“Ma certo, Girodelle”, una frase passe-partout, si disse.
Lui allora fece un mezzo sorriso, fissò lei senza sapere che lei stava fissando un altro uomo e iniziò a leggere scandendo ad alta voce:
“Il 23 marzo dell’anno del Signore 1788, in occasione della Santa Pasqua, la Famiglia Reale assisterà alla Santa Messa nella Cappella…”
Ma già lei non lo sentiva più.
Guardò André scendere da cavallo: la gamba nascosta dal fianco dell’animale che scavalcava la sella e il piede che raggiungeva terra, subito seguito dall’altro, un movimento veloce della mano per ravviare i capelli. L’aveva visto compiere quei gesti ogni giorno, per anni. Eppure…
Poi vide la figurina svelta della nonna uscire dalla porta a vetri dell’androne, le mani giunte al petto e un sorriso felice sul volto. Lui le andò incontro, ora era di spalle: continuando a tenere le redini del cavallo, le fece una carezza sul capo e le disse qualcosa che lei non poteva sentire.
“… la scorta che aprirà il corteo sarà comandata dal Colonnello Victor Clément…” la voce di Girodelle si perdeva in un punto lontano alle sue spalle mentre lei continuava a fissare il ritorno di André.
Lo vide consegnare alla nonna la borsa con i documenti e poi lo vide togliersi la giacca di fustagno dopo aver messo nella tasca il fazzoletto del collo. Con quel fagotto tra le mani, la nonna fece energicamente segno di no con la testa: di sicuro lui le aveva chiesto se riusciva a portare tutto dentro da sola o se la doveva aiutare.
Poi lui rimase da solo, si rimboccò le maniche della camicia, si slacciò i bottoni del gilet e si voltò verso il suo cavallo: il profilo di lui contro il muso dell’animale. Gli sussurrò qualcosa mentre lo accarezzava vicino alla cavezza; il cavallo gli rispose con un colpo del muso sulla spalla e allora lei, anche se era lontana, intuì il sorriso di André. E sorrise senza nemmeno accorgersene.
Ma Girodelle se ne accorse e interruppe la lettura:
“Qualcosa vi fa sorridere, madamigella?”
“… cosa? oh, no, Girodelle, vi prego, continuate. Sono molto colpita dalla vostra capacità organizzativa…”
E Girodelle, lusingato, allungò sul piano del tavolo le braccia che reggevano i fogli e così facendo si curvò un po’ in avanti, verso di lei, non accorgendosi che con quella flessione del busto le aveva sgombrato ulteriormente la visuale e che ora lei poteva non solo vedere distintamente la figura intera di André ma anche seguirla mentre con la sua consueta eleganza si avviava verso le scuderie.
“… dopodiché si procederà al ricovero dei cavalli nelle scuderie, al rientro in caserma e all’ultima rivista prima del congedo serale.” La conclusione della frase aveva avuto un crescendo che, fortunatamente, non le era sfuggito e che l’aveva riportata lì, nel salotto verde con Girodelle. Lui alzò lo sguardo dal foglio:
“Che dite, madamigella? Il vostro parere conta molto per me.”
“Non avete bisogno del mio parere, Girodelle. Mi pare che voi ve la caviate egregiamente…”
Lui sorrise di compiacimento.
“… ma ora scusatemi, la mia giornata prevede altre incombenze che non posso rimandare. Vi devo congedare.”
“Ma certo. E scusatemi se vi ho disturbato e se ho approfittato del vostro tempo.”
“Nessun disturbo. Conoscete la strada, vero?”
Intravide André di ritorno dalle scuderie che si dirigeva verso la porta della cucina.
“Certo. Grazie ancora, madamigella… e… a proposito di Jacques… siete proprio sicura che non vi serva il suo aiuto?”
“Ne sono sicurissima, Girodelle.”
Immaginò André addentare il pane dolce che la nonna aveva infornato quella mattina, sicura del suo arrivo.
“Come volete. Arrivederci, madamigella Oscar”, la guardò ancora un istante, il tempo di un altro piccolo e innocente furto, il tempo di fissare nella memoria quello sguardo azzurro che mai gli era apparso così liquido, così… languido?, non osò sperarlo, il povero Girodelle.
 
Intanto André, dopo aver portato la sacca da viaggio nella sua camera ed essersi velocemente rinfrescato, era tornato in cucina dalla nonna.
Aveva deciso, mentre galoppava verso casa lasciandosi alle spalle il mare e il vento della Normandia, che una volta arrivato si sarebbe scrupolosamente dedicato a qualunque incombenza pratica, perché sapeva che, varcati i cancelli di palazzo Jarjayes, le emozioni l’avrebbero sopraffatto e che sarebbe stato difficile resistere all’urto dei ricordi, specialmente degli ultimi ricordi legati a quelle mura.
E naturalmente, mentre le basse coste diventavano paludi, praterie, campagne solcate da corsi d’acqua silenziosi e poi mentre via via i boschi si infittivano, i fiumi gorgogliavano per le recenti piogge e per la prima acqua del disgelo e ancora mentre le colline si susseguivano con un ondeggiamento familiare e l’infittirsi di carri sulle strade rivelava i maggiori centri abitati e infine mentre il chiarore delle luci all’orizzonte annunciava la vicinanza a Parigi e a lei, André aveva anche pensato che tornare a casa significava rivederla.
Ma non avrebbe dovuto cercarla, lui ormai non aveva più il diritto di cercare la sua compagnia, era chiaro:
Non ho più bisogno di te, André
Questo lei aveva detto, ben prima che lui, con il suo gesto folle, avesse reso ancora più definitiva quella frase
Preferisco dimenticare
Questo aveva detto l’ultima volta che gli aveva rivolto la parola. E poi se ne era andata
Non seguirmi
Questo aveva detto.
 
Per tutte queste ragioni, una volta arrivato a palazzo, André aveva deciso di mettersi subito al servizio di sua nonna:
“Nonna, ti posso aiutare?”
“Oh, qui c’è sempre da fare, caro. Ma non sei stanco per il viaggio?”
“No, nonna, ieri sera mi sono fermato a un paio d’ore di strada da qui e ora sono riposato e scattante come un giovanotto!”
Le abbracciò le spalle e le scoccò un bacio sulla guancia, ricacciando in fondo al cuore il motivo vero per cui aveva deciso di tornare a casa di mattina quando tutta la servitù sarebbe stata in movimento, la casa sveglia e investita dalla luce piena e… lei, lei… sicuramente impegnata, magari fuori. L’ultima sera che aveva passato a palazzo era ancora un ricordo talmente doloroso… tornare con il buio avrebbe significato immergersi di nuovo in quell’atmosfera di sofferenza, tornare a quella sera… e poi lei sarebbe sicuramente stata in casa e lui non si sentiva pronto ad incrociare il suo sguardo alla luce delle candele, un attimo prima di andare a dormire… no! Aveva preso la decisione giusta la sera prima, quando a quel bivio, indeciso se fermarsi o proseguire, aveva chiesto una camera in una locanda; le ore del mattino sono le ore della servitù!, si era detto.
“Allora fammi il favore, André, dai un’occhiata al calesse: Pierre dice che la ruota posteriore cigola tremendamente ma da solo non riesce a sistemarla. Dagli una mano, che oggi deve andare a Parigi a ritirare della merce.”
“Ma certo nonna, vado subito.”
E si avviò dopo aver allungato la mano sul cestino del pane dolce che lei gli aveva preparato.
“…mmmhh, è buonissimo!!” e sparì a passo svelto.
Quando dopo circa un’ora rientrò in casa, la forza dell’abitudine lo condusse all’ingresso principale anziché alla porta sul retro della cucina e fu così che, in modo assolutamente fortuito e imprevisto, alzò lo sguardo verso lo scalone d’onore e la vide.
 
 
Una volta congedato Girodelle, lei era stata ancora un po’ nel salottino verde con la scusa che doveva studiare alcune parti del Regolamento della Caserma dei soldati della Guardia che d’Agoult le aveva fatto recapitare. Aveva sfogliato distrattamente le pagine, poi aveva ripreso il segno che aveva lasciato il giorno prima e si era costretta a proseguire nella lettura. Ma la concentrazione non arrivava, il pensiero era tutto immerso nel fragrante calore della cucina, dove immaginava Nanny che, tutta contenta, trotterellava intorno a una figura di uomo di spalle, un uomo in camicia bianca e pantaloni di fustagno marroni, un uomo con i capelli scurissimi che gesticola nell’aria facendola ridere e arrossire.
E senza accorgersene era arrossita anche lei, circondata da quella carta da parati verde, un libro sul tavolo, due antenati alle pareti, il fuoco nel camino che si stava spegnendo. Aveva provato a riprendere la lettura da dove l’aveva interrotta, ma si era accorta di non aver trattenuto niente di quello che aveva letto, così aveva deciso di salire in camera sua. A fare che? Non lo sapeva nemmeno lei. Ma doveva uscire da lì. Così, come se avesse chissà quale importantissimo affare da sbrigare, aveva salito le scale ed era arrivata alla sua stanza.
Senza incontrare nessuno, aveva constatato con rammarico.
Una volta in camera aveva gironzolato in cerca di un’ispirazione, poi, spazientita e irritata con sé stessa per quel suo stupido modo di fare, aveva preso in mano la situazione: afferrata la prima giacca che aveva trovato nell’armadio, era uscita.
Ma non era arrivata nemmeno a metà scala che aveva dovuto fermarsi di colpo.
 
Vide André entrare dalla porta: era in camicia, le maniche arrotolate sopra i gomiti, si stava asciugando le mani appena lavate con un telo bianco.
Le sembrò di non averlo mai visto prima e restò lì a fissarlo, con la mano appoggiata al corrimano, un piede su un gradino l’altro su quello più basso.
Lui, chiamato da quello sguardo muto, alzò la testa e, ricordando una sera in cui si trovava ai piedi di quella scala di fronte a lei, a lei che amava un altro uomo, abbassò subito lo sguardo.
Lei, ricordando la medesima sera, quella in cui l’aveva visto ai piedi della scala di fronte a lei, si toccò istintivamente la testa, dietro, appena sopra la nuca, come se stesse cercando qualcosa.
Ma lui non la vedeva, perché il suo sguardo era basso e, in effetti, anche se avesse visto quel gesto non l’avrebbe capito.
E lei sapeva che spettava a lei dire qualcosa, che lui non l’avrebbe fatto, ma non le uscivano le parole che voleva e allora il silenzio si prolungò.
 
Finché non arrivò la nonna, trafelata, le gonne leggermente sollevate:
“André…, oh, vi siete incontrati!, avete visto madamigella? Il nostro André finalmente è tornato!,… André, presto il generale ti cerca, non devi farlo aspettare! Vai subito!”
 
Allora lui alzò lo sguardo e sorrise alla nonna lasciandole il telo di cotone tra le mani:
“Vado subito, nonna.”
Fece un piccolo inchino con la testa verso di lei, aspettò che lei scendesse e poi, dopo averla superata con un leggero indugio che lei colse e che la fece rabbrividire, salì le scale, sparendo in fondo al corridoio.
 
 
 “Quindi mi stai dicendo che da anni quei registri sono falsificati???”
Lei era arrivata dietro alla porta accostata dello studio in tempo per sentire l’indignazione di suo padre esplodere. Non era la prima volta che si nascondeva per origliare una conversazione tra suo padre e André; vide lui di schiena e suo padre, stizzito, che sferrava un pugno su una pila di documenti.
“Da due anni soli, signore. E, se permettete, i registri sono falsificati nella grafia, ma non sono affatto falsificate le cifre, né i capitoli di spesa, né le entrate. Honorine Mabeuf ha dovuto sostituire suo padre quando ormai lui a causa della malattia non riusciva più né a scrivere né a tenere i conti…” lui spiegava con pazienza, ma venne bruscamente interrotto:
“Ah, quindi la giovane mademoiselle si è inventata contabile negli ultimi due anni? Suvvia, André, come puoi pensare che si possa imparare un mestiere in così poco tempo!”
“Signore, - lui era esattamente come lei l’aveva sempre visto, deferente ma tenace – Mademoiselle Mabeuf ha aiutato suo padre ad amministrare la proprietà da quando ha compiuto i quattordici anni. Il padre l’ha istruita anno dopo anno proprio nel timore di ammalarsi o di morire improvvisamente…”
“Avrebbe fatto bene a parlarne con me, di questa sua bella iniziativa! Ah! Sua figlia!”
Lei vide che André aveva abbassato la testa e che restava in silenzio. Ma poi André aveva stretto un po’ il pugno e aveva proseguito coraggiosamente:
“Signore, con tutto il rispetto a voi dovuto, Monsieur Mabeuf aveva ricevuto da parte vostra la più ampia libertà d’azione e la figlia si è dimostrata non solo capace, ma anche appassionata del lavoro di amministratore e…”
“Ma certo! Che sciocchezze, André! È una donna: pensi forse che lascerei gestire le mie proprietà a una…”
Un silenzio irreale era calato nella stanza: il generale, a cui le parole erano morte sulle labbra, tratteneva il respiro con gli occhi sbarrati nella consapevolezza delle implicazioni di quello che stava per dire. Lei, nascosta dietro il battente della porta, tratteneva il fiato e osservava le spalle di André che si alzavano e si abbassavano. Poi capì che avrebbe parlato lui per primo. E che suo padre l’avrebbe ascoltato:
“Signore, se permettete, nessuno meglio di voi sa che esistono donne capaci, determinate e in grado di svolgere compiti maschili meglio di molti uomini. – lei arrossì e si coprì la bocca con le dita - Per quanto ho potuto vedere, Honorine Mabeuf è una di queste donne. Ha un grande senso dell’onore, una straordinaria inclinazione per i conti e per gli affari, conosce perfettamente la proprietà e non recherebbe mai, mai, disonore alla memoria di suo padre – era un’impressione o André aveva calcato su quelle ultime parole? -. Io capisco le vostre resistenze, ma considerate quanto sarebbe vantaggioso per voi, signore, non dover cercare un altro amministratore e avere anche al vostro servizio una mente brillante come quella di mademoiselle Mabeuf.”
Mentre parlava muoveva piano nell’aria la mano destra e lei guardava quelle dita che le sembravano accarezzare l’aria, accompagnate da quella voce così gentile ma così ferma.
Il generale, che mai aveva visto Honorine Mabeuf ma che ormai la immaginava bionda, con gli occhi azzurri e la vedeva misurare in lungo e in largo il parco della villa in Normandia in groppa a un destriero bianco, abbassò il tono della voce e scandì come se stesse sottolineando l’ovvio:
“Una donna, per quanto dotata delle migliori qualità, non può firmare registri contabili, né figurare come amministratore di una proprietà…”
“Ho parlato di questo con mademoiselle e con il suo futuro marito, Monsieur Durand, apprendista avvocato a Bayeux. Si sposeranno il mese prossimo. Monsieur Durand firmerà tutti i documenti e risulterà ufficialmente amministratore. Non c’è alternativa, purtroppo…”
“Che vuol dire purtroppo?” la voce di suo padre si era alzata di nuovo.
“Non vuol dire niente, scusate signore.” André aveva di nuovo chinato il capo.
“Va bene, André. Ci penserò. Ti aspetto dopo cena per dettarti la lettera con le mie decisioni che farai recapitare a mademoiselle Mabeuf.”
Lei si allontanò prima che André rispondesse e poi di corsa arrivò alla scuderia, si infilò stivali e giacca ed uscì al galoppo. Voleva stare sola e ripetersi mille e mille volte nella mente le parole di André.
 
Midi
 
André, poco dopo aver parlato con il generale, scese in cortile. Aveva bisogno di schiarirsi le idee.
Ma appena fuori lo accolse una voce familiare:
“Ehi, non si saluta?”
“Léonie! Come stai?”
“Ma fatti un po’ vedere… che cosa ti è successo?”
“Mh…?”
“Sì, dico, sei… diverso… Oddio, l’aria tormentata ce l’hai sempre eh… ma… cos’è, hai per caso fatto un giro fino alla fontana dell’eterna giovinezza?”
“Ma che dici, Léonie?”
“Ma hai sempre avuto le spalle così larghe? E poi hai un colorito… fa’ un po’ vedere questo braccio…” lo prese per il polso e tirò su la manica ben oltre il gomito “caspita…”
“Léonie, mi sembra che tu stia esaminando un cavallo al mercato…” lui riprese possesso del suo braccio “piuttosto dimmi, che stai facendo?”
“Ho finito adesso di scaricare il calesse del mugnaio, ora mi tocca l’argenteria, caro. Eh, che vuoi, c’è chi va al mare e c’è chi resta qui a lavorare…”
“Dai, smettila, ti accompagno: hai molto da lucidare oggi?”
“Oggi l’argenteria del piano nobile, non so se mi spiego! Comunque, volente o dolente mi tocca…”
“Volente o nolente…”
“Dio, come mi sei mancato!” gli diede un pizzicotto sulla guancia “ma questa volta ho ragione io, caro, perché nolente è una parola che non esiste, mentre dolente significa “che duole” e lo so io quanto duole pulire tutto quell’ammasso di roba!”
“Mi sei mancata anche tu, Léonie”, rise lui.
Poi lui prese la pentola riempita di cenere e le pezze di cotone e l’accompagnò al piano di sopra: mentre percorrevano scale e corridoi fino al locale di servizio del primo piano, lui rimase silenzioso perché avrebbe voluto farle una domanda, ma lui e lei non avevano mai parlato di…
“Sai che mentre eri via è comparso un altro attendente per madamigella Oscar?” Léonie parve avergli letto nel pensiero.
“Cosa…?”
“Non è durato nemmeno un giorno, ahahah!”
Lui abbozzò un sorriso, ma sentì che qualcosa lo disturbava. Profondamente.
“Quindi… sta cercando un altro attendente…?”
“Mah, a quanto ho capito lei non lo vuole per niente. Gliel’ha appioppato il suo amico capellone una mattina e lei l’ha rimandato indietro nel pomeriggio. Gran donna, se posso permettermi!”
Lui fu sollevato, ma qualcosa ancora lo disturbava. L’accenno a Girodelle, per la precisione.
“Eccoci arrivati! E ora all’opera! Mi mescoli la cenere con un po’ d’acqua per favore?”
“Sì subito. Senti… l’amico capellone è il capitano Girodelle?”
“E chi se no?” lei cominciò a disporre i primi oggetti da pulire su una sedia che aveva posizionato davanti a quella su cui stava seduta “si fa vedere spesso quello lì, con una scusa o con un’altra. A me, comunque, uno così non mi fa sangue, te lo dico…”
“Non avevo dubbi, Léonie…” lo disse quasi sovrappensiero, attratto da un piccolo oggetto che aveva visto tra una coppia di candelieri e una zuccheriera decorata.
“Ma sì, quel Girodelle, per me, è uno di quelli che si mette gli specchi in camera da letto… sissignore, uno di quelli che vuol essere parfait e che vuole ammirarsi anche quando ha intorno alla schiena le cosce sudate di una… ehi, non mi interrompi?”
“Chi ti ha dato questo oggetto da pulire?” teneva tra le mani una forcina.
“Nessuno, mi fanno trovare l’argento da lucidare e io lo lucido. Non faccio mica domande, io! Bello quel deo greco, comunque…”
“Dio, non deo, Léonie…” le parole gli uscivano dalla bocca ma lui non avrebbe saputo dire che cosa aveva appena detto, perché una dolcezza senza fine si era impadronita di lui e si chiedeva che cosa avesse spinto lei, la sua Oscar, a volere che quella forcina fosse lucidata.
“Dio, deo, come vuoi tu, sapientone. Ma ti sei incantato? Mi aiuti o no?”
“Certo, certo, scusa. Dicevi?” lui appoggiò la forcina e procedette a mescolare la cenere.
“Dicevo che quel Girodelle…”
Ma improvvisamente di Girodelle non gli importava più niente: “Senti, lasciamo perdere Girodelle. Raccontami di te, piuttosto: che hai fatto in quest’ultimo mese?”
Questa volta fu lei a tacere: finse grande concentrazione nel lucidare un doppiere, ma in realtà stava morendo dalla voglia di dirgli una cosa. Così sputò fuori tutto d’un fiato:
“Ho conosciuto un uomo e credo di aver perso la testa per lui.”
Lui ebbe un brillio malizioso negli occhi:
“Non mi dire! Ma non volevi essere libera tu?”
“Ecco, lo sapevo, linguaccia mia statti zitta!”
“E dai, sono felice per te! Mi racconti, per piacere?”
Lei allora si sedette in punta di sedia, continuò a lucidare e intanto con un profluvio di parole raccontò:
“Hai presente la mia amica Diane? No, non l’hai presente. Allora, c’è questa ragazza, Diane appunto, che è mia amica, ogni tanto lavora alla sartoria dove tua nonna mi manda a prendere i nostri abiti e la biancheria per il palazzo. Siccome alla sartoria ci vado sempre io, ho fatto amicizia con questa ragazza che ti dico André, se tu la vedrest…” – lui ebbe come un brivido e la guardò supplichevole – “vedessi, ti piacerebbe un sacco. Comunque tu penserai che io e Diane ci assomigliamo, e invece no: lei è proprio all’opposto di me, dolce, riservata, introversa, silenziosa, verg…” – lui la guardò di nuovo con aria di rimprovero – “vabbè, hai capito, no? Che poi, scusa, perché uno dovrebbe avere come amici solo quelli che gli somigliano io non so! A me Diane piace proprio perché vede le cose così diversamente da me! E a volte ha pure ragione!”
“Sei unica, Léonie!”
“Insomma, per fartela breve, Diane ha un fratello…” sospirò un po’ gemebonda e lui la fissò stranito “dovresti vedere che pezzo di…”
“Léonie, passiamo oltre, vuoi?”
“Ti giuro, André, quando l’ho visto la prima volta… Aveva la camicia talmente slacciata che pareva a dorso nudo…”
“Torso…”
“E che vuol dire torso? Dorso, dorso, come il dorso della mano no?”
Lui alzò gli occhi al cielo.
“Comunque, ci siamo già visti un paio di volte e credo che oggi pomeriggio lo rivedrò…”
“Ah sì?”
“Sì, oggi arrivano i teli da bagno con lo stemma di famiglia e devo andare a ritirarli con Pierre. E così ne approfitto per fare un saluto a Diane e sulla via del ritorno passo in caserma a salutare Alain!”
Lui interruppe di colpo la lucidatura di un oggetto tutto nascosto dal panno che aveva tra le mani:
“In caserma?”
“Sì, caro, il mio Alain è un soldato della Guardia!”
“Léonie, di’ a Pierre che oggi ti accompagnerò io a Parigi. Voglio conoscere questo Alain”, lui appoggiò sul tavolo il lavoro che aveva finito e la pezza, si alzò, le diede un bacio sulla guancia e fece per andarsene:
“Sei un tesoro, Léonie!”
Lei rimase lì, con la pezza a mezz’aria, poi guardò tra le cose lucidate e vide brillare su un vassoio il profilo del dio Marte.
 
E intanto lei, dopo aver galoppato a lungo e senza meta, arrivata all’argine dell’ultimo canale che finiva nei giardini della reggia, smontò da cavallo vicino a un filare di cipressi e mise ordine nella tempesta che sentiva agitarsi in lei da quando quella mattina aveva visto André arrivare sul viale di casa:
Sei tornato, André.
Sei tornato da me, anche se credi che io non ti voglia.
Sei tornato da me, lo so.
Sei magnifico, André.
 
Après-midi
 
Rientrò a casa e volò in cucina:
“André è qui?” chiese con il solito tono di comando.
“No, cara è appena…” la nonna si interruppe: le parve di avere di fronte ancora quella bambina riccioluta e indomabile, i capelli arruffati dalla galoppata, le guance arrossate dall’aria frizzante di marzo, gli occhi lucidi e frementi di impazienza e poi era entrata con un’irruenza così diversa dal passo svelto ma cadenzato e severo che le era proprio….
Appena la nonna aveva iniziato a rispondere lei aveva già stretto i pugni per la stizza:
“Dove è andato?”
“A Parigi, Oscar. Gli ho affidato delle commissioni… dovrebbe essere partito da poco, non l’hai visto nel rientrare? O forse è ancora in camera sua a prepararsi…”
Una speranza! Esultò e fece per dirigersi verso la camera di André,
“… ma no, no, cara, vado io. Torno subito…”
Lei la fermò:
“No, tu continua a fare quello che stavi facendo. Non volevo disturbarti, vado io a vedere se André è ancora in casa.” Si complimentò con sé stessa per la credibilità di quel tono di voce così neutro e lasciò la nonna a chiedersi se fosse meglio che André fosse già partito o no.
 
Ma lui non c’era.
Lei bussò e poi, non ricevendo risposta, spinse piano la porta, che, spicchio dopo spicchio le rivelò, tra la polvere che danzava nella penombra procurata delle ante leggermente accostate, il piccolo mondo privato di André.
Rimase sulla soglia perché era tanto tempo che non entrava più lì e perché André non c’era e se fosse arrivato all’improvviso lei si sarebbe sentita fuori posto e questa consapevolezza, di fatto, era la prova che lei non doveva essere lì.
Però.
Però voleva respirare l’aria di quella stanza, ancora una volta.
Ferma sull’uscio, dopo aver ripreso lentamente confidenza con quei muri, con quegli arredi, con quel profumo, infine volse lo sguardo a sinistra, al letto di André.
Non si era ancora sdraiato, constatò osservando il copriletto perfettamente tirato.
Sono contento di essere stato ferito io all’occhio e non tu, davvero.
Era sdraiato lì quando gliel’aveva detto.
Allora, si appoggiò allo stipite della porta, le mani dietro alla schiena ad accarezzare il legno dell’intelaiatura e lo sguardo a vagare su quelle lenzuola e si immaginò una sé stessa diversa, più consapevole, più disinvolta, più… giusta e…
 
Immaginò:
Lui la guarda ancora una volta con un’espressione così innamorata che solo una stupida potrebbe non accorgersi dei sentimenti di quell’uomo. La accarezza tutta con l’unico occhio mentre l’alba sta sorgendo. Ma lei non è interessata all’alba, non ha detto quella frase “Guarda, André, è l’alba”, no, si è avvicinata a lui, si è seduta sulla sedia a fianco del letto e gli ha detto preoccupata:
“Ti fa molto male André?” e poi gli ha sfilato una mano da sotto le coperte e gliel’ha stretta.
“Sono qui, André.”
Allora lui le dice quella frase, quella che lei non sostituirebbe mai con nessun’altra in nessun sogno ad occhi aperti o chiusi,
Sono contento di essere stato ferito io all’occhio e non tu, davvero
E allora lei, spostandogli una ciocca di capelli dal volto con una mano e tenendolo sempre per mano con l’altra, mormora:
Sei molto caro, André
E la mano che gli ha spostato i capelli scende piano sulla sua guancia e lì si ferma. Poi lei avvicina il volto al suo e no, non ha intenzione di baciarlo sulla bocca, quello non è il momento, ma quando il suo viso raggiunge quello di lui, appoggia piano la sua guancia a quella sinistra di André, finché sente il ruvido della benda vicino anche al suo occhio e stanno così, poco, forse qualche secondo. Entrambi con gli occhi chiusi.
 
Perdonami, André, perdonami.
Poi si allontanò verso la sua stanza.
 
Soir
 
André tornò da Parigi che era quasi buio, la mente piena di pensieri.
Si era arruolato in fretta e furia, senza avere il tempo di realizzare quello che aveva fatto, perché quel pomeriggio si chiudevano gli arruolamenti di marzo. Avrebbe preso servizio a partire dal mese di aprile.
Aveva ancora una decina giorni per congedarsi da palazzo Jarjayes e dare inizio a una nuova vita.
L’avrebbe detto a lei?
O si sarebbe fatto trovare lì, in mezzo agli altri soldati, pronto a vedere gli occhi di lei farsi fuoco nel riconoscerlo?
Non aveva ancora deciso: aveva però saputo per certo che quella era la compagnia giusta, visto che l’ufficiale con cui aveva parlato aveva accennato all’arrivo di un nuovo comandante per la metà di aprile.
André poi aveva provato un’istintiva simpatia per Alain, il fiancé di Léonie – e chi si aspettava poi di vedere Léonie così… innamorata? Certo il brio e l’euforia non le mancavano mai, ma André aveva visto anche il rossore dipingersi sulle sue guance quando lui si era avvicinato strizzandole l’occhio e poi aveva visto un luccichio nei suoi occhi quando l’aveva salutato… -, sì, gli era piaciuto quel ragazzo: in particolare ad André era piaciuto che gli avesse stretto la mano con energia mentre lo guardava negli occhi. Da quando aveva perso un occhio André si era accorto che molte persone di fronte a lui abbassavano lo sguardo, per una forma di riguardo che in realtà non faceva che accentuare la sua condizione. Alain invece l’aveva guardato dritto in faccia senza fare domande e poi l’aveva inquadrato subito: “Parli poco, tu, vero? Meglio così, si capisce che quando parlerai dovrò ascoltarti con grande attenzione!” e poi insieme si erano avviati dall’ufficiale del bureau d’enrôlement.
 
Appena entrò in casa si accorse dalle luci accese nella sala da pranzo che Oscar e il generale erano già impegnati nella cena: gli pareva incredibile che fosse passata quasi un’intera giornata senza che lui e lei avessero avuto un momento per parlare. Si chiese se fosse stato lui abile ad evitarla o lei determinata ad ignorarlo. Lasciò cadere la questione, si fece circondare dalle affettuose premure della nonna e dopo aver cenato si preparò all’incontro con il generale.
 
Al termine di una cena particolarmente silenziosa, suo padre, appoggiando il tovagliolo sulla tovaglia e alzandosi, si era rivolto a lei:
“Mi ritiro nel mio studio, Oscar. Devo vedere André per risolvere una questione che richiederà un po’ di tempo. A domani.”
Lei era rimasta lì senza rispondere, aveva sentito suo padre chiamare André e in quel preciso istante aveva avvertito che iniziava a montare una furia incontrollabile dentro di lei.
Strozzò il tovagliolo con entrambe le mani mentre sentiva i loro passi perdersi su per le scale.
Che cosa stava facendo suo padre? Le stava rubando André?
È mio, è mio!
Suo padre che lo manda in Normandia, suo padre che per un mese tiene una fitta corrispondenza con André, suo padre che evidentemente sta pensando come impiegare André ora che lei…., suo padre che dopo cena si chiude nel suo studio con André.
Gli offrite anche da bere, padre?
André, vieni da me!
Dedica il tuo tempo a me! A me, André!
Le veniva quasi da piangere, ma poi ricordò le parole di suo padre che l’avevano accompagnata fin dai primi addestramenti, quando ancora era una bambina, anzi, un bambino:
“Non piangere! Reagisci!”
Reagire. Reagire.
Reagì.
Salì le scale con impeto bellicoso, entrò nella sua camera e si diresse al pianoforte. Prese tra le mani la scatola color carta da zucchero e la aprì, afferrò dal fondo la maschera nera di André e la dispose sul leggio come fosse uno spartito.
Poi iniziò a suonare.
Una musica dapprima appena accennata, una sola mano e una sequenza di tasti premuti quasi in modo incerto, poi l’altra mano, un accordo, un altro, poi le mani che suonano insieme e una musica sempre più veloce, sempre più forte.
Mi senti, André? Raggiungerò ogni angolo di questo palazzo con questa musica
Mi senti, André?
Chiuse gli occhi e immaginò André e il generale nello studio investito dalla sua musica
Mi senti, André?
Immaginò André che interrompeva il generale e correva da lei
Mi senti, André?
Immaginò André che la faceva alzare dallo sgabello e senza dirle una parola la abbracciava circondandola tutta con le braccia
Mi senti, André?
Immaginò André che spalancava la porta e la guardava con lo sguardo acceso della sua stessa passione
Mi senti, André?
Immaginò André dietro di lei che le spostava i capelli e le scopriva la nuca e poi si inginocchiava e un attimo prima di baciarle il collo sospirava vicino al suo orecchio
Mi senti, André?
Immaginò André, in ginocchio tra le sue gambe, che le raccoglieva con la bocca il sudore che sentiva scendere sul petto mentre con i capelli le solleticava la gola e mentre faceva scorrere le mani aperte sulle sue cosce, dalle ginocchia fino alle anche…
Poi aprì gli occhi, il cuore impazzito, il sudore sulle tempie, un languore nelle viscere.
Vide la maschera e immaginò, dentro a quei buchi, gli occhi verdi di André.
 
Era tardi quando André uscì dallo studio del generale, appena in tempo perché lui non vedesse che barcollava. Nelle sue orecchie ancora rimbombavano parole di cui riusciva a comprendere solo l’assurdità:
“Oh, Oscar non comanderà mai i soldati della Guardia”, dice il generale scaldando tra le mani il bicchiere di cognac. Ha l’aria pacata e soddisfatta: sta sistemando tutto, lui. La Normandia nelle mani della futura Madame Durand, André braccio destro per chissà quali altri incarichi di fiducia e lei…
André dovette reggersi alla balaustra per non cadere.
“Girodelle mi ha chiesto la sua mano e io ho acconsentito. Un’ottima soluzione non credi? Immagino che fossi preoccupato anche tu all’idea che finisse in quel postaccio, no? Del resto ho fatto anche io molti errori e Girodelle pare persino innamorato… Non potrei volere di meglio per Oscar.”
 
Scese le scale mentre il mondo gli crollava addosso.
Finito.
Tutto era finito.
Era per questo che lei aveva suonato il piano in quel modo così… disperato?
O forse sperava di coprire le parole di suo padre, sperava che lui non sentisse?
Si attaccò al collo della prima bottiglia di vino che trovò.
 
Nuit
 
Quando a notte fonda, ancora insonne, lei scese in cucina, lo trovò riverso sul tavolo.
Lo chiamò.
Lui non rispose.
Si avvicinò e con una piccola esitazione gli spostò i capelli dalla fronte.
Vide che piangeva, ma era incosciente. Era incosciente e piangeva.
Quando lei disse piano, di nuovo, “André”, lo sentì mormorare qualcosa di indistinto. Allora si avvicinò un poco e lui ripeté, come una nenia rivestita di dolore:
“Non ti sposare, Oscar. Ti prego, non ti sposare.”
 
…………………………………………………………………………………….
Scusate, ma stasera sto litigando con l'editor e non riesco a usare il carattere dei capitoli precedenti, uff.
Grazie sempre per la vostra lettura, per le recensioni, per l’apprezzamento.
La storia si avvia alla sua conclusione e non sapete quanto mi avete spronato capitolo dopo capitolo. Grazie di cuore!
 

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Capitolo 8
*** Quello che voglio ***


CAP. 8 Quello che voglio

 

Aube

Non aveva chiuso occhio tutta notte: era rimasta sveglia con lo sguardo al soffitto in un letto che non toccava da quando era bambina, a fianco di un uomo incosciente per il vino e per il dolore. Dopo averlo messo con fatica sul letto si era sdraiata anche lei, il suo corpo a un palmo da lui: non lo sfiorava nemmeno, ma averlo vicino, sentire il suo respiro nell’oscurità, saperlo lì, accanto a lei, la rendeva forte, caparbia, libera. In quel letto, con lucidità, aveva messo insieme gli indizi che suo padre e Girodelle avevano incautamente sparso qua e là nell’ultimo mese, di certo dimenticandosi che avevano a che fare con lei e non con una damina sprovveduta.
E per questo, quando ancora all’alba suo padre l’aveva fatta chiamare, lei sapeva esattamente dove lui voleva andare a parare, perché ci aveva pensato per ore a quelle parole di André, Oscar ti prego non ti sposare, e aveva senza sforzo capito tutto: i progetti di suo padre e quelli di Girodelle le si erano rivelati chiarissimi nel buio della notte, a una spanna dal corpo addormentato di André.
 
Il generale misurava a lunghe falcate il tappeto, era molto concentrato.
Due cose doveva dirle: che non avrebbe comandato quei soldati a Parigi e che si sarebbe sposata con Girodelle. Due cose. E lei avrebbe chinato il capo perché quello era il volere di suo padre. Punto. Serrò involontariamente i pugni guardando il sole che prepotente si alzava all’orizzonte.
“Padre, mi avete fatto chiamare.”
“Vieni, Oscar, ti devo parlare. Siediti qui.” Le mostrò la sedia di fronte alla sua stendendo il palmo della mano. Pareva stranamente mansueto, ma a lei avevano spiegato che gli animali feroci sono più pericolosi proprio quando si mostrano docili. Così, dopo essersi accomodata, gli lasciò il campo:
“Padre, ditemi, allora.”
Lui la guardò e si sentì rassicurato dalla gentilezza filiale di lei; c’era solo un dettaglio fuori posto ed erano quelle occhiaie, quegli occhi… leggermente arrossati… come se lei non avesse dormito…
Optò per un cauto accerchiamento:
“Immagino che questo periodo di congedo tra un incarico e l’altro ti abbia dato modo di pensare alle tue scelte e al tuo futuro e vedo che hai mantenuto rapporti amichevoli con il tuo successore, con Girodelle, intendo…”
Ma lei aveva passato la notte ad affilare le armi ed ora era pronta alla prima stoccata:
“Girodelle è sempre stato un ottimo sottoposto. Farmi obbedire da lui in questi anni è stato molto facile, lo riconosco.”
Lui si ritrovò impicciato: non era quello il ritratto di un futuro marito! Che stava facendo sua figlia? Stava anticipando le sue mosse? La fissò con attenzione mentre lei proseguiva:
“In tutta sincerità, padre, avete ragione: ho avuto occasione di riflettere a lungo in questo mese e vi confesso che sono impaziente di iniziare il mio nuovo incarico. Comandare i soldati della Guardia a Parigi è una sfida nella quale avrò occasione di mettere alla prova la preparazione militare e l’attitudine al comando che voi mi avete insegnato sin dalla mia più tenera età.”
Si accorse allora che lei lo stava accerchiando con spietatezza scientifica: l’accerchiatore che si ritrova accerchiato, ah!
Così, spazientito, cambiò tattica e optò per l’attacco frontale, perché, in fondo, aveva ragione il generale Bouillé quando gli diceva “Jarjayes, avreste voi il mio posto se non foste tanto irruente!”, e allora, guardandola negli occhi, sguainò la sua arma:
“Ho preso delle decisioni che ti riguardano, Oscar.”
Ma lei non si impressionò:
“Vi ascolto, padre.”
Il tono era accomodante, ma gli occhi dardeggiavano: lui se ne accorse e si irritò. Che cosa stava facendo sua figlia? Lo stava sfidando a colpire per primo? Pensava di avere una qualche arma da usare contro di lui?
“Non comanderai i soldati della Guardia. È un incarico che ti espone a una vita troppo dura e rischiosa.”
La guardò e vide lo sforzo che lei faceva per dominare la rabbia, ma soprattutto riconobbe nel suo sguardo il furore che aveva sempre cercato di suscitare nei suoi sottufficiali troppo spesso svogliati e indolenti. Avrebbe voluto portare sua figlia ad esempio per quei rammolliti! Così si distrasse e lei, che se ne accorse, ne approfittò con destrezza:
“Padre, non vi dovete preoccupare di questo: voi mi avete addestrato, voi sapete che sono pronta ad affrontare qualunque tipo di difficoltà. Sarò il vostro orgoglio.”
Gli aveva rubato l’arma? Stava usando la sua arma contro di lui? Non sapeva se essere più furioso o più ammirato.
Così, nell’incertezza di lui, lei, implacabile, proseguì:
“D’altro canto, padre, la mia vita è la vita di un militare, proprio come la vostra. Come potrei, alla mia età, cambiare il mio modo di vivere? Che cosa dovrei fare invece che comandare i soldati della Guardia? Dovrei per caso… sposarmi??” e scoppiò in una risata talmente argentina che rendeva perfettamente l’assurdità di quell’ultima ipotesi.
Lui si accorse con chiarezza di essere sotto assedio, ma tentò una resistenza:
“Che cosa significa alla tua età? E perché dovrebbe farti ridere l’idea di sposarti? Sei una donna, Oscar, non hai mai pensato a quello che ti è mancato a causa della mia decisione di allevarti come un uomo?”
Ecco, una piccola concessione per minare la sicurezza dell’avversario.
Lei invece gli sorrise e con pazienza rispose:
“Padre, la vostra decisione mi ha consentito una vita che è preclusa alle altre donne. Se mi aveste allevato come una contessa, chissà, ora probabilmente starei pensando ad accasare i miei figli… - un altro accenno di quella risata - invece, guardate: da colonnello sono stata promossa Comandante! Sono nel pieno della mia carriera, padre. Come potrei non ringraziarvi?”
Lui, traboccante di orgoglio paterno, sentì di voler abbracciare quel nemico che in realtà amava e il pensiero di lei in abito da sposa al fianco di quel belloccio di Girodelle gli parve uno degli abbagli più grandi che mai avesse preso.
Ma c’era ancora qualcosa che non gli consentiva di lasciarsi andare, di arrendersi: si accorse in effetti che doveva decifrare qualcosa che gli stava sfuggendo, ma che lui, con l’istinto, con il fiuto, percepiva chiaramente.
La studiò e tornò a quello che aveva notato quando era entrata: aveva le occhiaie, gli occhi cerchiati di chi non ha dormito… ma perché non aveva dormito?
Ma certo!
Come aveva potuto trascurare quel dettaglio? E come conciliare quella evidente stanchezza fisica con la ferma combattività che stava dimostrando? Da dove le veniva quella forza?
Poi, improvvisa, una rivelazione: non doveva chiedersi da dove, ma da chi!
E lui sapeva da chi!
Dall’uomo che era tornato da un giorno solo, dall’uomo che lui stesso quasi trent’anni prima aveva posto al fianco di sua figlia, dall’uomo che nemmeno un prestigioso incarico in Normandia aveva tenuto lontano da lei!
Così, quando lei si era già alzata e si stava ritirando da vincitrice, ma da vincitrice clemente, da vincitrice che risparmia il nemico, purché il nemico sappia ben chiaramente di essere stato graziato, in quel momento lui, che non voleva la sua clemenza e che era ormai determinato a mettere in chiaro tutto, la colpì alle spalle, come il peggiore dei nemici:
“Girodelle mi ha chiesto la tua mano e io ho accettato. Sono però disposto a tornare sulla mia decisione a patto che lui ritiri la sua proposta visto che evidentemente i suoi sentimenti non sono da te ricambiati. Come dici tu, alla tua età, meriti di poter scegliere con chi vuoi condividere la tua vita. A meno che quella persona non sia…”
Lei si voltò di scatto, il respiro trattenuto e un fuoco a incendiarle gli occhi: suo padre, un avversario da non sottovalutare!
Lui restò impietrito, indeciso se esultare per aver colto nel segno o se inorridire per quello che la reazione di lei rendeva esplicito.
Ma lei voleva la vittoria, piena, assoluta:
“Padre, in più di trent’anni l’ultima cosa di cui vi siete occupato è stata la mia vita personale. Che cosa ho fatto, che cosa ho provato, se ho conosciuto l’amore… questi argomenti fanno arrossire me come figlia e, credo, anche voi come padre. Lasciate stare la mia vita privata come avete sempre fatto. La mia vita pubblica sarà al comando dei soldati della Guardia, come vuole la nostra Regina, e al servizio della Francia.”
Detto questo, senza aspettare risposta se ne andò, lasciando il generale vinto e consapevole di quanto sua figlia gli somigliasse.
 

Matin

Lui si svegliò abbracciato al suo cuscino e vestito come la sera prima. Impiegò un po’ di tempo a percepirsi nello spazio e nel tempo, finché realizzò che era mattina avanzata e che si trovava nel suo letto.
Come ci era arrivato? Non ne aveva idea.
Che ore erano? Non gli importava.
Della sera prima ricordava solo una cosa. Orribile.
Eppure… eppure vagamente ricordava anche… no… impossibile…
Eppure… ad un certo punto, ma era davvero ubriaco in effetti, gli era persino sembrato che lei l’avesse… accarezzato? No… impossibile!
Eppure… strizzò gli occhi chiusi per recuperare ancora un frammento di ricordo… un profumo conosciuto… un braccio che lo sorregge fino alla porta della sua camera… no, no… impossibile.
“André, sei un povero illuso!”
Aprì gli occhi e poi, con un movimento deciso, si alzò: il corpo chiamava.
Dopo essersi sistemato, lavato e rasato prese il cuscino per sprimacciarlo e fu in quel momento che vide sul lenzuolo stropicciato un lungo, lunghissimo capello biondo.
Lo guardò incredulo: possibile?
 
Quando arrivò nell’atrio di ingresso dove la nonna stava sistemando nei vasi i fiori appena arrivati, le andò incontro e lei, con aria di rimprovero lo scrutò dalla testa ai piedi:
“Abbiamo dormito stamattina, Monsieur Grandier!”
“Scusami nonna, ieri sera devo essere crollato… la stanchezza…”
Lei lo guardò da sopra gli occhiali con aria investigativa: che cosa vedeva la nonna nel suo volto? André avrebbe voluto saperlo.
“Comunque, fatta eccezione per te, la casa si è svegliata presto stamane. Il generale ha fatto colazione all’alba e poi ha voluto subito parlare con Oscar…”
Perché sua nonna faceva quelle pause dense di sottintesi? Lui non aveva idea di che cosa fosse successo quella mattina, i movimenti di Oscar e del generale gli erano completamente sconosciuti.
“E quando hanno finito lei è corsa a prendere il cavallo ed è uscita al galoppo…”
Di nuovo quella sospensione della frase: che cosa doveva capire, lui?
“Nonna, perché mi stai dicendo queste cose come se io dovessi saperne più di te?” sbottò infine.
Allora lei lo prese per un braccio e lo condusse in un angolo dell’atrio, vicino a un tendone e lontano dalle orecchie delle altre cameriere che giravano per la casa affaccendate:
“Senti, non so, non so che cosa stia succedendo in questa casa. Ma da un mese, un mese!, lei non suonava il pianoforte: beh, ieri, che casualità vero?, ha suonato! E per essere precisi, lei non stava semplicemente suonando, nossignore, ieri quel pianoforte parlava! E io non so di che cosa parlava, ma ho una certa idea di sapere a chi parlava.”
Lui le mise le mani sulle spalle e con un impercettibile tremito le disse:
“Nonna, non ti devi preoccupare così, non è davvero il caso…”
“No, sei tu che non ti devi preoccupare – disse lei con tristezza – e non ti devi nemmeno ubriacare, André. Non sposerà mai Girodelle, per quanto lui possa essere insistente – alzò gli occhi verso di lui, strinse le labbra con forza e poi abbassò la voce – ma questo non vuole dire niente, per te. Ricordatelo, André.”
“Nonna…”
Non fece in tempo a proseguire che sentirono gli zoccoli di un cavallo battere la ghiaia e poi videro lei che balzava giù dalla sella mentre il cavallo ancora correva. Si affacciò alla porta con il frustino in mano, accaldata, le guance rosse e gli occhi che lacrimavano per il vento fresco della mattina:
“Sei qui, André” disse in modo diretto guardandolo negli occhi.
“Buongiorno, Oscar” la salutò senza chinare il capo, restituendole lo sguardo. Pensò che da ragazzi si guardavano sempre così.
La nonna borbottò un “allora io vado…” che non ottenne risposta perché entrambi stavano trattenendo il respiro nell’emozione di incontrarsi di nuovo.
Allora lei, rinunciando a comandare, a dare ordini, a volere, disse:
“Hai voglia di venire a Parigi con me?”
Lui capì dalla inflessione un po’ scivolata di quella domanda che c’era qualcosa di diverso in lei, qualcosa che gli riusciva difficile decifrare e così esitò a rispondere. Ma poi ricordando lo schiaffo il bacio la camicia strappata, ricordando i progetti del generale e ricordando anche le parole della nonna, ma non ricordando la forcina che lui stesso aveva lucidato, la musica che aveva sentito e nemmeno quel capello biondo che si era trovato sul letto, le rispose:
“Oscar, c’è tanto da fare stamattina e io ho promesso alla nonna che…”
Allora lei fece un passo ancora verso di lui e quasi con timidezza ripeté:
“Hai voglia di venire a Parigi con me?”
Come poteva resisterle? Come poteva?
Si morse appena le labbra per scacciare l’ultima esitazione, poi avanzò verso di lei e poco prima di superarla di lato, disse a voce bassa:
“Dammi un minuto, vado a prendere il cavallo.”
Lei sentì alle sue spalle il frusciare della sua camicia e percepì la consistenza della sua presenza intorno a lei.
Si voltò e riempì i suoi occhi con la figura di André, l’uomo che le stava insegnando la libertà.
 
Mentre galoppavano verso Parigi, André dimenticò quella sera in cui le aveva strappato una camicia, dimenticò che lei amava un conte svedese, dimenticò che lei avrebbe forse sposato un conte francese, dimenticò che lei voleva vivere come un uomo. Non pensò a nessuna di queste cose perché era troppo concentrato a vivere quel momento in cui di nuovo erano insieme e lui era al suo fianco e insieme volavano nel vento.
Mentre galoppavano verso Parigi, Oscar non dedicò nemmeno un pensiero al povero Girodelle; quella mattina presto, all’ultimo incrocio prima della reggia dove lei lo stava aspettando con l’impazienza di chi legge l’ultima riga di un libro poco interessante per poi chiudere la quarta di copertina una volta per tutte, l’aveva liquidato senza lasciargli il tempo di rispondere: “Dovete dimenticarmi, e in fretta. Vi prego di ritirare la vostra proposta, se è vero che tenete a me come dite” così gli aveva detto. Ma lei proprio non pensò a Girodelle e, mentre galoppava leggera nel mattino profumato di primavera, si fece superare più volte da André per poi inseguirlo e superarlo a sua volta: non voleva perderlo di vista, non voleva che lui galoppasse dietro di lei come un Jacquerelle qualunque, non voleva che la figura di quell’uomo fosse lontana dai suoi occhi. Tutto il resto? Che andasse al diavolo!
 

Midi

Entrati in città e percorso un tratto oltre la Senna, lei tirò con forza le redini e arrestò il cavallo:
“Guarda, André!”
Lui si fermò e tutto quello che aveva rimosso gli piombò addosso di colpo: davanti a lui, imponente, massiccia, investita dalla luce che veniva poi riflessa dai finestroni che davano sulla piazza d’armi c’era la caserma dei soldati della Guardia. Ebbe un capogiro e anche l’occhio sano si appannò per un istante.
Vide sé stesso, il giorno prima, uscire felice e incosciente da quel cancello, rivide il braccio alto di Léonie che gli faceva segno dal calesse, rivide il sorriso sghembo di Alain.
“Dal mese prossimo sarò in servizio qui, comanderò i soldati della Guardia”, lei gli parlava guardando la cancellata d’ingresso.
Lui sentiva salire il dolore strato dopo strato, parola dopo parola:
Oscar… tu non comanderai questi soldati…
“Senti, André, devo ritirare dei documenti dal colonnello d’Agoult: vuoi venire con me?” nel chiederlo si voltò verso di lui e fu colpita dall’evidente sforzo che lui stava facendo per assecondarla.
“Oh, no, Oscar, vai pure. Io ti aspetterò qui, non devi preoccuparti.”
“Come vuoi, André. Non mi ci vorrà molto.”
E mentre lei sul suo cavallo bianco entrava nella caserma e mentre il rumore degli zoccoli sul selciato si allontanava, André sentì crescere la disperazione.
Che cosa farò qui, se tu non ci sarai?
Come potrò vivere lontano da te?
 
In effetti lei tornò presto. Pareva molto concentrata e seria. Lui le fece un cenno con la mano e lei gli si affiancò; allora lui indicò con lo sguardo il fondo del viale e le chiese:
“Vuoi tornare a casa, adesso?”
“No.” Lei lo guardava negli occhi, ma la sua voce non tradiva emozioni.
“Preferisci restare sola?” anche lui la guardò.
“No.”
Perché lo guardava così? Che cosa stava cercando di dirgli con quegli occhi? Quale strana creatura aveva di fronte?
Poi lei scavalcò tutti i suoi pensieri con una frase, anzi con due.
“André, non credo proprio che mi sposerò tanto presto. E fidati, io comanderò questi soldati.”
Lui trasalì perché intravide sotto le ciglia di lei brillare una determinazione nuova e allora lesse nei suoi occhi:
Ti fidi di me?
E André si affidò a quella donna che amava e sentì placarsi tutte le tempeste del suo cuore e le credette: no, non si sarebbe sposata e sì, avrebbe comandato quei soldati; e sentì la speranza che tornava ad abitare il suo cuore e mentre dentro di lui tutto pareva acquistare una nuova luce, con il suo occhio le rispose:
Certo che mi fido di te
Poi lei con uno sguardo allegro e lieve, tirando le redini al petto gli disse:
“Posso chiederti un favore, André?”
Da quando chiedeva? Chiedeva e non ordinava?
“Ma certo, Oscar”, la voce gli uscì strozzata.
“Portami al Café Procope, ho voglia di un gelato!” e poi lei rise, rise!, e girò il cavallo verso la riva della Senna.
 
Quando furono seduti a un piccolo tavolo rotondo in fondo alla sala e vicino al camino che scoppiettava allegramente, lei gli chiese curiosa:
“E che cosa fai di solito, André, quando vieni qui?”
Lui non aveva ancora capito da dove fosse spuntata quella donna così sicura, così loquace, così diretta: rinunciando a volerlo scoprire e deciso a godersi la sua compagnia, assecondò il suo buonumore:
“Di solito leggo il giornale.”
Allora lei allungò la mano verso il tavolo vicino, afferrò due fogli piegati e glieli porse:
“Eccoti il giornale, allora.”
“Vuoi che te lo legga?”
“Oh, no. Leggilo tu, io intanto mi gusto il mio déjeuner.”
Sei così… strana, pensò lui, … ma io voglio solo vivere questo momento. Io e te al Café Procope… quante volte avrei voluto portarti qui…
Così stettero al tavolo una buona mezz’ora: lui, seduto di tre quarti, con le gambe accavallate che si allungavano sul tappeto, ben appoggiato allo schienale della poltroncina, reggeva il giornale tenendo un braccio sul tavolo; lei, di fronte a lui, gustava gelato e caffè cercando di farli durare più a lungo possibile. Osservava anche il viavai degli avventori, guardandoli tutti ma non fissando l’attenzione su nessuno, come se non fossero altro che lo sfondo del suo déjeuner con André. E poi di tanto in tanto lo sbirciava, concentrato nella lettura, con quella piccola ruga tra le sopracciglia che forse indicava lo sforzo di leggere con un solo occhio, le mani, dio che belle mani!, che reggevano i fogli con eleganza, le dita morbidamente piegate che scorrevano verso l’alto o verso il basso dei margini dei fogli a seconda del punto che André stava leggendo…
Dopo un po’ lui si sentì osservato e abbassò il giornale per guardarla:
“Ti stai annoiando, Oscar? Vuoi che andiamo?”
“Cosa…? oh, no… no, André. Finisci pure di leggere. Mi stavo solo chiedendo… come mai non c’è nessuno che discute, che parla? Una volta mi hai detto di aver ascoltato discorsi politici, qui.”
“Oh, per quello bisogna venire nel tardo pomeriggio, Oscar, meglio ancora la sera. A quest’ora la gente lavora…” poi si fermò temendo di averla offesa.
Ma pareva che niente la potesse turbare quel giorno:
“Hai ragione, André. Sono una sciocca, come ho potuto non pensarci?”
Lui la fissò negli occhi, chi sei tu?, poi, non lasciando gli occhi di lei che ricambiavano lucidi il suo sguardo, piegò i fogli che ripose sul tavolo. Si sporse un po’ verso di lei e lentamente, trattenendo a stento il desiderio di baciarla lì, in pubblico, in mezzo a quella sala di specchi e d’oro, con la voce bassa le disse:
“Vado a pagare. Mi sembri stanca, forse hai voglia di riposare.”
Lei rimase seduta:
“… sì… non ho dormito stanotte…” mormorò.
“L’avevo immaginato” alzò la mano per spostarle una piccola ciocca di capelli dal viso ma poi si trattenne e lasciò che facesse lei.
Turbata e stranamente inquieta, Oscar lo vide avviarsi al bancone e poi alla rimessa dei cavalli.
Quando la luce del giorno la inondò, mentre usciva dal café e andava verso di lui, sentì il mondo che si fermava.
 

Après-midi

Si avviarono verso palazzo Jarjayes nella tiepida luce del primo pomeriggio.
Lui non parlava: tante cose erano ancora irrisolte, sospese, indefinite, ma lui sapeva che in quel loro linguaggio fatto di tanti sguardi e di poche parole stavano tornando a capirsi come un tempo. E poi c’era anche altro nel loro ritrovarsi dopo quel mese di lontananza, un’emozione nuova e mai vissuta prima, una tensione irresistibile a cui lui non osava dare un nome. Ma al Café, al riparo di quei due fogli di giornale, in quel loro silenzio così familiare e così dolce, mentre con lo sguardo stava leggendo le ultime notizie e con il cuore stava sentendo la calda presenza di lei e mentre, contemporaneamente, la memoria selezionava ricordi del passato da avvicinare a quello che stavano vivendo lì, davanti a quel gelato e a quel caffè, gli era balenato nella mente che in effetti non erano mai andati a Parigi per un gelato, ma sempre per bere… e che era sempre sera tardi… e che… di solito lei era triste mentre in quel momento… no, non lo era per niente… E poi André, con la velocità di chi ritrae la mano da un bellissimo fiore che sta per cogliere quando vede che la sua corolla è abitata da un’ape, aveva cacciato lontano da sé l’inizio di una intuizione.
E quell’intuizione, fulminea, era il pensiero che quel giorno a quel tavolo del Café Procope c’erano solo loro due. Solo loro e nessun fantasma di un conte svedese.
 
Lei non parlava: ad ogni passo sentiva che la sua vita si stava aggiustando, pezzo dopo pezzo: suo padre, Girodelle, i soldati della Guardia… ma soprattutto...
Lui. Lui che era tornato. Loro due ancora insieme, fianco a fianco. E quel loro capirsi senza troppe parole, quello stare insieme senza avvertire il bisogno di conversare… aveva sempre amato la naturalezza con cui lei e André sapevano condividere il silenzio. E poi la presenza del suo corpo alla portata dei suoi occhi, il corpo di André…
Due cose sole restavano in sospeso: la prima la faceva sentire smarrita e in bilico, la seconda la faceva sentire a un passo dal comprendere che cosa fosse la felicità.
La prima: Hai pensato al tuo futuro, André?
La seconda: Hai capito che cosa mi è successo, André? Hai capito che ti amo?
 
In silenzio e senza essersi messi d’accordo rallentarono all’altezza del laghetto della loro infanzia e poi, con un cenno d’intesa, deviarono fino alla radura.
Liberarono i cavalli che andarono pigramente verso l’acqua, mentre lei si sdraiava al sole e lui un po’ più indietro, per proteggere la vista nella penombra creata dalla chioma di un faggio.
“Mi è sempre piaciuto questo posto” disse lei ad occhi chiusi stiracchiandosi un po’.
Lui non disse niente.
“André?”
“Dimmi, Oscar.”
“Com’era la Normandia?”
Lui non disse niente. Allora lei aprì gli occhi e lo guardò:
“André, raccontami della nostra Normandia, ti prego.”
Disse proprio così, “della nostra Normandia”.
E André rinunciò ancora una volta a chiedersi perché lei fosse così diversa dalla donna che si aspettava di trovare al suo ritorno e così simile alla donna di cui si era innamorato e decise che quello non era il tempo delle domande. E decise che quel momento di armonia assoluta lui se lo sarebbe preso e bevuto tutto, perché non riusciva a immaginare nulla di più bello che parlare con lei, nella radura invasa dalla primavera, con l’orizzonte che finiva nella figura di lei, stesa nell’erba, con gli occhi chiusi e con le labbra curvate in un morbido sorriso.
E allora André, che si era accorto già al Café Procope di quanto lei fosse stanca e che fin da quando l’aveva vista nell’atrio di casa aveva intuito che quella notte lei non aveva dormito affatto, raccontò della Normandia con la voce bassa e lenta di chi sta raccontando una storia della buona notte.
E lei che voleva proprio questo, si lasciò cullare dalle parole di André che raccontavano di tutte le stanze della villa in Normandia in cui avevano giocato a nascondino da piccoli, del vento che la notte soffiava così forte, a volte, che persino le doppie cortine di velluto che sua madre aveva voluto in ogni camera da letto non bastavano a coprire gli spifferi, del fuoco dell’atrio d’ingresso, secondo André il camino più ingovernabile del mondo, fin dal tempo in cui da ragazzo aveva impiegato ore perché finalmente la cappa tirasse adeguatamente, e… e poi André, che si era accorto che lei ormai dormiva, continuò a raccontare, perché voleva che lei al risveglio sapesse che lui non si era fermato e voleva che lei si svegliasse ancora con la sua voce a portarla dal sonno alla veglia e allora andò avanti e con le parole uscì dalla porta della villa e le fece vedere le dune di sabbia e poi le fece sentire le onde del mare, il vento che gli sollevava le falde del mantello e che innervosiva i cavalli, il grido di albatri che si perdeva nei colori della sera e poi le fece sentire la consistenza della sabbia, dalle dune morbide vicino alla villa fino a quella dura e bagnata della riva, lì a loro piaceva cavalcare, vero?, in quella striscia che non era più terra e ancora non era mare, sì: lì a loro piaceva cavalcare - forse fu in quel momento che lei sognò di cavalcare con lui in riva al mare? -  e poi ancora le raccontò dei colori, del profumo dell’erica, delle conchiglie e dei sassi che aveva raccolto per portarli a lei - tanto lei non sentiva: poteva dirglielo, no? - e poi ancora le raccontò della palizzata che aveva riparato dopo che una tempesta ne aveva fatto cadere tutti i paletti e le raccontò che sempre, sempre, ogni giorno aveva pensato a lei e poi le raccontò ancora che era stato poco in mezzo alla gente in quel mese e che il suo occhio destro stava meglio perché aveva imparato che doveva lasciarlo riposare qualche ora e tenerlo al riparo dal sole diretto e…
E vide che lei lo guardava. Era seria e attenta:
“Continua, André”
“E… - le sorrise - e non è vero che se perdi un occhio comunque ti rimane l’altro. Perché l’altro fa fatica e allora bisogna aiutarlo.”
“Come lo aiuti, André?”
Ma perché era così preoccupata? Perché pareva che fosse lei ad aver perso un occhio?
“Ma non ti devi preoccupare, Oscar, davvero. Lo chiudo per un paio di ore al giorno, lo riparo dalla luce diretta del sole e poi ho imparato a tenere con me una lente d’ingrandimento per leggere…”
“Non l’hai usata al Café Procope…”
“Non volevo che tu mi prendessi in giro!”
Lei allungò il braccio e gli diede una manata sul polpaccio:
“Sei uno stupido, Grandier!”
“E tu sei una zuccona, madamigella. Hai freddo, vero? Stai tremando! Dai, torniamo a casa che hai dormito almeno un’ora sull’erba di marzo!”
“Quasi aprile”, puntualizzò lei montando in sella, “a chi arriva primo?”
Lui rise e la seguì.
 
Arrivarono a palazzo insieme a un carro pieno di merce:
“Guarda, Oscar, è arrivato il carico dalla Normandia.”
“mh?” lei osservò stupita il carro dal ciglio della strada, aveva fatto accostare il cavallo per lasciarlo passare.
“Tuo padre ha voluto che riportassi indietro alcuni oggetti di famiglia… un paio di quadri, la poltrona dello studio rosso, i cuscini che tua madre ricamava d’estate…”
Tutte le cose che suo padre più amava, pensò lei. E con una stretta al cuore comprese che suo padre pensava di non vedere mai più la Normandia.
Arrivarono in silenzio davanti alla scuderia, smontarono da cavallo e, mentre lui prendeva le briglie di entrambi, lei, prima di avviarsi verso il palazzo, appoggiò una mano al pannello del portone e guardandolo disse:
“Un tempo sono stata innamorata di Fersen…”
Lui si bloccò e si voltò verso di lei, ma lei aveva distolto lo sguardo e fissava un punto imprecisato davanti a sé con aria concentrata, con le sopracciglia strette nello sforzo e poi aggiunse, come sovrappensiero:
“… ma ora… non me lo ricordo più… non me lo ricordo più…”
Poi diede le spalle al portone e si mise di fronte a lui:
“Vuoi cenare con me?”
Lo chiese ancora con quel tono, il tono di chi contempla anche un no come risposta, e con quel sorriso un po’ timido di chi di quel no ha paura.
“Oscar, forse io e te dovremmo parlare, non credi?”
Allora lei si aggrappò alle briglie del cavallo di lui, le mani un po’ più in alto di quelle di André, poi lo guardò e ripeté:
“Vuoi cenare con me, stasera?”
“Certo che voglio cenare con te. Ma dobbiamo parlare, io ti devo parlare.”
 

Soir

Poco più tardi, però, nella sala da pranzo, André non fece in tempo a iniziare nessun discorso che lei venendogli incontro lo investì di parole: furente brandiva tra le mani dei fogli che fece precipitare sul tavolo con il movimento più violento che potesse:
“Mi vuoi spiegare che cos’è questo, André?”
Lui non capiva.
“Sai perché stamattina sono andata in caserma? Indovina? Per avere l’elenco aggiornato dei soldati della Guardia dopo la chiusura dell’arruolamento di marzo!”
Lui contrasse la mandibola e la fronteggiò senza abbassare lo sguardo:
“Quindi?”
“Quindi?? Ti sei arruolato!! Ti sei arruolato, André!!”
“Certo che mi sono arruolato! Che cosa credevi, che ti avrei lasciato da sola tra i soldati della Guardia? Che sarei rimasto qui a palazzo ad aspettarti tutte le sere? Che cosa ti aspettavi, di preciso, da me, Oscar?”
Ma lei non finì di sentirlo, furiosa salì in camera sua ed entrò sbattendo la porta.
 
Qualche minuto dopo, lei sentì bussare alla porta della sua stanza.
“Puoi uscire, per favore? Ti prego, parliamo.”
“Entra.”
“Preferirei non entrare, Oscar. Ti prego, scendi con me.”
“Ho detto: entra, André.”
Era la prima volta in quel giorno che lei ordinava.
Lui obbedì, ma entrare in quella stanza era molto faticoso.
Sapevano tutti e due che cosa era successo in quella stanza un mese prima.
Lei però sembrava non ricordarlo: gli dava le spalle e guardava fuori dalla finestra. Un po’ tremava. Ma non tremava come quel giorno, non tremava di rabbia, non c’era rabbia in quella stanza, no.
Lui appoggiò sul tavolino vicino al fuoco una cassetta di legno chiaro che teneva tra le mani e nel farlo si accorse che sulla consolle di fronte a lui c’era la scatola color carta da zucchero. Si avvicinò con emozione:
“E questa? Pensavo che tu l’avessi buttata anni fa…”, la dolcezza del ricordo di una bambina bionda e riccioluta che indossa un tricorno e che scarta statuine del presepe si impossessò di lui, “che cosa contiene ora?” Lei si voltò di scatto per impedirgli di aprirla, ma lui stava già guardando perché il coperchio era solo appoggiato un po’ sbilenco sulla parte superiore della scatola e vedere dentro era proprio facile.
Così, quando si voltò, lei vide lui che già osservava il fondo della scatola.
“Oscar…” non sapeva che cosa dirle. Ma il suo cuore capiva, capiva e cercava di spiegare alla sua ragione ancora incredula.
 
“Non permetterò che tu sacrifichi altro per me, André. Non voglio che tu ti arruoli.” Lo disse piano, guardandolo con tutto l’amore di cui era capace.
Lo capisci che ti amo, André?
Allora lui, che ormai aveva capito, tese la mano verso di lei.
Ma certo che ho capito, lo vedi che ti amo anche io?
Lei non pensò e tese la mano verso di lui.
Ciao
Lui strinse quella mano e la avvicinò un poco a sé.
Ciao
 
Poi con l’altra mano prese la maschera dal fondo della scatola e, sempre tenendo lei per mano, la portò davanti al fuoco.
“Non sono queste le cose che voglio che tu conservi di me”, la maschera si accartocciò tra le fiamme.
Poi lui alzò lo sguardo: vide sulla mensola la forcina e sorrise.
“Mi sono già arruolato. È una vita che siamo insieme, non mi pare il caso di smettere ora, non trovi?”
Anche lei sorrise guardando la forcina e un po’ arrossì:
“Fa’ come ti pare, Grandier” ma la sua voce era miele e i suoi occhi dicevano
Non lasciarmi mai, André
Poi lui voltò la testa al tavolino alle loro spalle:
“Ti ho portato un regalo dalla Normandia, magari lo vuoi vedere.”
“Una cassetta di champagne?”, in effetti questo c’era sul tavolo.
Lei guardò il regalo con aria stupita e vagamente delusa. Ma lui fu veloce a prendere tra le mani quella cassetta:
“Beh, portarti lo champagne poteva essere un’idea, ma… no, niente champagne. Quello l’ho portato per Léonie, la cameriera tuttofare: dice che non ha mai posseduto una bottiglia di champagne!”
Quando lei lo vide ridere, leggero come un tempo, desiderò violentemente di baciare quel sorriso.
E poi, sentendo freddo alla mano che lui le aveva appena lasciato per prendere la cassetta, disse:
“Appoggiala qui – e indicò la consolle –, vicino alla scatola” e quando lui la appoggiò, gli riprese la mano e con naturalezza intrecciò le dita alle sue:
“Aiutami ad aprirla”
Facendo scattare i fermagli, aprirono il coperchio e lei fu avvolta da un profumo conosciuto e amatissimo e vide mazzetti di erica che coprivano conchiglie intere e a pezzi, sassi grandi e piccoli, legni nodosi, stortati dal vento e levigati dal mare.
“Mi hai portato la Normandia, André…” e strinse forte la mano di lui sperando che da quella stretta lui capisse quanto l’amava.
“Se vuoi possiamo mettere tutto in quella scatola vuota e buttare questa brutta cassetta di champagne”, le sorrise lui trattenendo a stento il desiderio di sollevarla tra le braccia e stringerla e baciare quelle labbra che stavano per aprirsi e dire qualcosa che non gli importava, non gli importava, non gli importava,
“Sì, è una buona idea. Ma non adesso” non le importava niente, niente, non le importava di quelle due scatole in quel momento perché una sola cosa lei non poteva più, non poteva più rimandare e…
E allora lei si accorse che piano, con trepidazione e con dolcezza, tutto il suo orizzonte era chiuso prima dal volto di lui e poi solo dalla sua bocca e subito dopo con un brivido avvertì un calore sospirato sulle sue labbra e poi… e poi una morbidezza mai sentita si posò sulla sua bocca e si mosse piano per assaggiarla e in quel momento, un’esplosione nel cuore, mentre quel bacio ancora non era umido ma era solo l’incontrarsi nuovo e inesplorato della pelle di lei e della pelle di lui, sentì in ogni sua fibra di essere amata di un amore purissimo e allora chiuse gli occhi e si lasciò invadere da quella dolcezza perché non voleva che gli occhi la distraessero. E prima che quel loro bacio diventasse vorace e impetuoso, prima che lei sentisse di desiderare con un’urgenza assoluta che la sua pancia aderisse completamente a quella di lui, e quindi prima che quell’abbraccio diventasse una stretta, prima che entrambi avvertissero come un odioso ostacolo quel sottile strato di cotone che divideva la loro pelle, e prima che le loro mani, mosse da una frenesia sconosciuta, alzassero la stoffa della camicia uno dell’altra fuori dai pantaloni e lasciassero correre le dita e i palmi delle mani sulla schiena dell’altro e prima che la mano di lei, decisa e ardita, scivolasse giù dalla schiena sotto la cintura dei pantaloni di lui e la mano di lui, impaziente e golosa, si avventurasse più in alto verso una rotondità a lungo sognata, e prima ancora che entrambi, contemporaneamente, decidessero di levare di mezzo quelle inutili camicie e prima che sentissero, con un brivido lunghissimo che cosa significava stare pelle contro pelle e quindi si guardassero per un lungo istante negli occhi, riconoscendo se stessi fino in fondo, prima che lui interpretasse quello sguardo come un invito, prima che lei sentisse che i loro corpi parlavano un linguaggio ben più esplicito di quello delle parole, prima allora, che lui si decidesse a spogliare completamente entrambi senza che lei opponesse alcuna resistenza ma piuttosto con un incitamento sospirato e ansimato al suo orecchio e con una completa collaborazione in ogni movimento, e poi, prima che scivolassero su quel letto, come? non lo sapevano nemmeno loro, e prima che scoprissero che cosa vuol dire diventare una sola, un’unica creatura nella carne e nello spirito, prima che pronunciassero parole d’amore che nessuno aveva insegnato loro, insomma prima che tutto questo accadesse, quando ancora erano in piedi e le loro labbra si erano appena conosciute, quando chiuse gli occhi, lei sentì che una mano si avvicinava alla sua guancia e poi sentì che la sua guancia aderiva a quel palmo che la conteneva come se fosse la cosa più preziosa del mondo e sentì in quel bacio e in quella carezza che lei apparteneva a quell’uomo, da sempre, e sentì che allo stesso modo lui le apparteneva, che era suo, e così sollevò anche lei la mano, e in un gesto gemello, la posò delicatamente sulla guancia di lui e la tenne lì, ferma e sicura.
 

(Nuit)

Fine

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Alla mia carissima Galla88, che è una persona speciale, dedico un particolare ringraziamento per aver esaudito il mio desiderio di chiudere questa storia con una sua opera: sono onorata!
 
Arrivata alla fine, vi confesso quanto sia stato laborioso questo capitolo. Oscar e André sono per me due passionali, ma io li ho sempre visti come due persone che comunicano, anche l’amore, più con gli sguardi e con i gesti che con le parole. Non so se sono riuscita nel mio intento, me lo direte voi. Io vi dico che l’affetto di cui mi avete sommerso è difficile da raccontare e sicuramente impossibile da dimenticare.
E quindi grazie a chi c’è sempre, grazie a chi si aggrega in corsa, grazie a chi legge e commenta, a chi legge e non commenta, a chi ha letto e vorrebbe commentare ma è timido, a chi ha letto e, pur non apprezzando, si è astenuto dalle critiche, a chi anche a distanza di tempo leggerà.
Grazie,
Settembre

 
 

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