Stars are burning (and I love you)

di Cress Morlet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Last Christmas ***
Capitolo 2: *** O Children ***



Capitolo 1
*** Last Christmas ***


Note di introduzione.
Questa storia si colloca due anni dopo gli eventi di "Just us together". Un giorno scriverò anche le mille vicende accadute tra questi due anni. Buona lettura!






L’acqua fredda lo stava aiutando a calmarsi. 
L’aria nella stanza era diventata catrame liquido nella sua gola e sulle ossa del suo sterno. Nel suo corpo troppe emozioni avevano cominciato a vibrare in maniera frenetica e a strappargli il respiro. La testa ovattata tra pensieri incoerenti. Le labbra asciutte e senza parole da articolare. Un attacco di panico.
Di scatto si era alzato dalla sedia e si era rinchiuso in cucina con la scusa di voler sistemare cibo e decorazioni. Era la Vigilia di Natale. 
Cosa avrebbe dovuto fare? Certamente non avrebbe dovuto essere lì.
Si era aggrappato alla manopola del lavabo e aveva posizionato le braccia sotto il getto dell'acqua. Dopo aver posato la fronte contro l’anta di legno aveva serrato le palpebre con talmente tanta ansia da avere degli spasmi ai muscoli del viso. Respirare gli faceva ancora male e non sapeva come comportarsi.
Che stupido. Avrei dovuto immaginarlo.
Inarcò i polsi nel tentativo di placare il battere furioso delle sue vene ingrossate e di placare il dolore alle ossa delle sue dita. Ruotò altre due volte la manopola del rubinetto e l’acqua corse giù come una cascata. Gli bagnò la pelle e i polsini e la camicia e la cintura.
Le sue tempie erano dei carboni ardenti che pulsavano e che strisciavano verso la sua fronte e l’attaccatura dei capelli.
Dilaniavano e stringevano e sgretolavano.
Avrei dovuto prevederlo. Hux mi ha trascinato a questa stupida festa non senza un motivo. 
Non dovevano festeggiare il patetico Natale. Non dovevano festeggiare il fidanzamento ufficiale di Poe e Finn. E Rey non era in un’altra città. Rey era...
Si piegò - quasi un’involontaria contrazione alla base della schiena - e senza pensarci mise la testa sotto l’acqua e poi la nuca, i capelli, il collo.
Il suono della sua risata ancora nelle sue orecchie e nella sua testa e nel suo sangue. Poi il suo sguardo risentito. La sua schiena ritta e rigida con il suo corpo nascosto da un immenso maglione.
Rey. Lei era sempre stata a pochi passi. Pochi passi lontana da lui.
Strinse il lavabo con delle nocche troppo bianche e respirò con affanno. L’acqua continuava ad insinuarsi nella sua gola e nelle sue narici costringendolo a tossire e a sbattere la fronte contro alcuni piatti sporchi. Le sue ciglia erano attaccate da sottili fili d’acqua che gli impedivano di osservare cosa esistesse ancora.
Di scatto girò tre volte la manopola dalla parte opposta e la cascata smise di inzuppargli i vestiti e di gocciolare sul pavimento della cucina.
Cosa ho sbagliato?
La sua testa era una cacofonia di domande spezzate e di urla angosciate.
Cosa? Cosa? Mi hai lasciato senza neanche una spiegazione. Dovevamo essere io e te.
Le vertigini capovolsero il suo mondo mentre le sue mani era diventate cadaveriche nello sforzo di non lasciarlo cadere.
Soltanto io e te per sempre.
“Possiamo parlare?”
Con dolore intravide la sua figura confusa e tremolante. Lei era sulla porta della cucina. C’era rabbia nella sua postura e nel modo in cui si proteggeva il ventre e negli angoli delle labbra abbassati. E a lui non era concesso sapere come si erano trasformati in due estranei.
Sembra la maledizione del Natale.
Sei tu ad essere arrabbiata con me? Tu? Io sono stato lasciato con una lettera. Sono tornato in una casa vuota. Senza i tuoi vestiti nell’armadio. La tua valigia scomparsa. Fermo ad osservare una camera da letto svuotata. Come se tu non fossi mai esistita. Eri stata soltanto un sogno. Un’illusione. Una follia.

Due anni prima si erano lasciati poco prima di Natale. Rey era stata ferita a causa sua - della sua vigliaccheria.
Aveva implorato il suo perdono. Anche dentro di lei aveva continuato a chiederle scusa e senza mai fermarsi. Le aveva stretto i fianchi e si era mosso male e con una strana frenesia. Perdonami. Lo aveva ripetuto fino a quando non aveva perso la voce. Perdonami. Ti amo. Perdonami.
Come era possibile? 
Perché sei fuggita? Perché in questo modo? Ho cercato una spiegazione. E ho ottenuto poche parole su un foglietto spiegazzato.
Ho bisogno di tempo. Ecco cosa aveva trovato. Ho bisogno di tempo. Tornerò.
Ecco cosa mi sono meritato. Poche parole senza un senso. Poche parole e nessuna comprensione.
Con le dita si mosse alla cieca vicino al bordo del tavolo e prese uno strofinaccio con cui tamponarsi gli occhi.
Gli parve di vedere Rey avvicinarsi e un gorgoglio caldo si diffuse nella sua pancia. Ancora non coordinava i suoi movimenti. Le sue domande si formavano stiracchiandosi nella sua mente obnubilata da un dolore acuto mischiato a desideri contrastanti. Una sensazione di nausea e di eccitazione che incendiava le sue arterie e gli sconquassava ogni muscolo senza permettergli di compiere un respiro completo. Panico tra i suoi pensieri attorcigliati e delusione nascosta tra le pieghe degli angoli bui della sua coscienza. Riusciva a rendersi conto di poche cose. Come che lei era bella.
Bella. Sei sempre tanto bella.
E che delle stelle nere erano in grado di trafiggerlo al centro del petto. Delle schegge rosse gli dividevano il viso in una maschera di mille crepe. Distrutto tra grida disperate e agghiaccianti. Da solo.
Lui era solo. Loro due insieme non esistevano. Non più. Mai più.
Ho bisogno di aria. Ho bisogno di calmarmi. Io non riesco a vivere.
Desiderava cacciare via il suo torpore e baciarla fino ad avere sangue sul mento e sulla clavicola. Poi no. Forse desiderava urlare con la bocca premuta contro lo strofinaccio e con le unghie conficcate nel cranio. Inginocchiarsi e chiederle perdono di ogni suo peccato. Anche se non sapeva quale fosse l’ennesimo errore che aveva compiuto. La sua vita era stata un incessante scorrere di decenni in cui aveva implorato aiuto senza mai ottenere nulla. Soltanto persone che non gli avevano creduto. Soltanto porte chiuse.
Forse era meglio distruggere la stanza e con ogni colpo eliminare la nausea che gli impastava il palato. Domandarle perdono. Alzarle il maglione e sbottonarle quei jeans e prenderla sulla porta con delle spinte forti e scoordinate che lo avrebbero riportato a casa. Lei lo avrebbe stretto e stretto e stretto e gli avrebbe chiesto di non allontanarsi mai più.
Forse se rimango sepolto dentro di te potremmo smetterla di vivere lontani - di essere lontani anche se siamo nella stessa stanza.
Forse se ti ricordo cosa eravamo potresti voler tornare. Forse potresti volermi ancora. Forse smetteresti di guardarmi con tanto odio anche se sono un mostro. Forse dimenticheresti che sono un mostro. Forse mi accetteresti di nuovo. Forse.

“Perché non mi hai aspettato?”
La sua domanda ebbe il potere di fargli sentire il pavimento sotto i piedi e l’aria nella stanza. Strofinò via le lacrime dalle guance e con immenso stupore si rese conto che stava ancora respirando.
Non sto morendo.
Prima lo spazio aveva assunto delle sembianze sfocate e quasi impalpabili - come un caos aggrappato con le punte delle dita dei piedi ad un’asse storto.
Mise a fuoco l’ambiente che lo circondava e distinse i suoni della casa. Il ronzio nelle sue orecchie se ne era andato e gli aveva lasciato la testa scombussolata.
Lui era insieme a Rey in una camera messa a soqquadro dal suo attacco di panico. La nebbia stava cominciando a diradarsi e ad abbandonarlo gocciolante in una cucina che non era neanche la sua.
Da due mesi aspettava il suo ritorno.
E lei si era nascosta a casa di Finn.
L’aveva creduta distante un oceano e invece erano stati soltanto pochi isolati.
“Non ti ho aspettato?”
Gettò lo straccio sul tavolo e prese a massaggiarsi la fronte con l’intento di calmarsi. Non riusciva a placare la sensazione di essere stato preso in giro - da chiunque.
La disperazione di averla lì e di non poterla toccare. Uno strazio.
Che scopo aveva avuto tutta la sua sofferenza? Quale atto mostruoso aveva compiuto?
Due mesi prima ero l’uomo più felice e fortunato del mondo. Avevo te. Tu eri accanto a me in ogni momento della mia vita. La tua essenza era costante. Mi svegliavo e c’era il tuo viso vicino al mio. Potevo sporgermi e baciarti e abbracciarti. Mi sentivo bene. Stavo bene. Ti sentivo ovunque. Sul mio petto e tra le mie gambe. Sulla mia bocca e tra i miei pensieri. Invece adesso sei lontana e all’improvviso ti sei trasformata un’altra volta in un miraggio. Non posso più stringerti a me e dirti quanto ti amo. Non ha senso. Anche se io ti ho aspettato. Io ti ho sempre aspettato.
“Io non ti ho aspettato?”
Lei strinse le labbra e scosse la testa in maniera seccata. Perché mi odi tanto?
“So ogni cosa quindi smettila di usare questo tono con me.”
Tentando di non scivolare si avvicinò di due passi a Rey e alle sue braccia ostinatamente conserte. I capelli erano raccolti in tre crocchie e il suo volto struccato gli mostrava profonde occhiaie viola terribilmente simili alle sue.
Ma perché? Cosa sapeva? O cosa credeva di sapere? Lo stava giudicando senza chiedergli neanche un confronto e aveva deciso ogni cosa senza di lui?
Era forse diventata come i suoi genitori?
O come Luke?
La rabbia che aveva inutilmente cercato di sbriciolare si rinvigorì ancora una volta e gli oscurò la vista.
“E che cosa sai? Dimmelo. Dimmi cosa pensi di sapere e spiegami il motivo di tutto questo. Mi hai costretto a vivere dentro un incubo atroce. Sono due mesi che ti aspetto. Dimmi che cosa ho fatto di talmente tanto sbagliato da aver meritato di essere lasciato con un biglietto sul cuscino. Dimmelo.”
Stava ancora pronunciando l’ultima parola quando venne spintonato. Rey aveva scontrato le sue nocche contro il suo petto e non era riuscito a smuoverlo. Si spinse un’altra volta contro il suo corpo e lo colpì con le mani strette a pugno - e gli nascondeva uno sguardo colmo di acredine e di risentimento.
Quei pugni erano niente.
Erano le sue espressioni disgustate a pugnalargli l’addome e a colpirlo con una ferocia crudele. Il suo odio tanto evidente dagli occhi e dal modo in cui le spalle erano incassate. Il suo labbro inferiore tremolante e i suoi occhi arrossati da un groppo di lacrime che saliva ad ingrossarle la gola. Insopportabile. Non poteva restare immobile e guardarla soffrire. Avrebbe voluto avvicinarsi a lei. Tentare di aiutarla e di consolarla in qualche modo.
Ma non ebbe la possibilità di avvicinarsi. Le sue parole ebbero il potere di ancorarlo al suo posto. Di colpirlo a morte.
“Sei un mostro. Tu sai benissimo cosa hai fatto. E non mentirmi. Io non ti avevo lasciato. Ho scritto che sarei ritornata e che avevo bisogno di trascorrere del tempo da sola e che dovevo capire una cosa. Tu sai benissimo che cosa hai scelto. Tu hai distrutto ogni cosa. Hai deciso di distruggere tutto e sei un mostro.”
Gli incideva il petto. Continuava a parlare e lo lasciava sanguinare senza alcuna pace. Riusciva soltanto a vedere le sue labbra arricciate da una smorfia di disgusto - sempre quando pronunciava la stessa parola.
Mostro.
Tu sei un mostro.
Mostro.

Gli sembrava di essere imprigionato in un mondo senza luce. Aveva la testa abbassata e guardava Rey dall’alto verso il basso mentre lei gli riversava contro tutta la sua rabbia e il suo dolore. Sentiva delle lacrime e del muco tra le pause delle sue frasi e nei momenti in cui respirava in maniera agitata e si portava il polso vicino al naso. Le rispose con la sua stessa voce spezzata.
“Sì. Sono un mostro. Sì, lo sono. Sei contenta o hai bisogno che lo urli? Sono un mostro. Sono uno schifo d’uomo e non te l’ho mai nascosto. Vuoi che lo ripeta ancora? Sono un mostro e tu lo sapevi e hai detto di amarmi comunque. Sono un mostro e sono tutto il male del mondo. Ma tu avevi detto che non ti interessava e che mi amavi e che avresti amato soltanto me. E io ti ho creduto anche se non avrei dovuto farlo. Come avresti mai potuto amare me?”
Lei nascose i suoi occhi con i dorsi delle mani e schiuse la bocca con un sorriso amaro che non gli piaceva e che odiava e che avrebbe voluto dimenticare. Una tensione malsana lo spingeva ad allungare le dita verso le sue spalle o verso la sua guancia. Non riusciva a raggiungerla mai. Non era in grado di sentirla e di capirla. Era troppo.
E non conoscere il motivo rendeva ogni cosa peggiore. Lo privava di una base solida da cui cominciare a ritrovare la strada che lo avrebbe condotto da lei. Era perso. Perso in un labirinto di macerie.
“Io amavo soltanto te. Io sono un’idiota che continua ad amare soltanto te. Anche se tu hai dimostrato di non amarmi e che non sono niente e non sono mai stata importante. Sono il nulla.”
Ma non per me.

“Io non ti amo? Mi sono rinchiuso dentro casa ad aspettare tue notizie. La nostra casa, l’appartamento in cui abbiamo deciso di abitare insieme da due anni. Te lo ricordi? O hai dimenticato la strada ed era impossibile tornare anche soltanto una volta e spiegarmi che cosa stesse succedendo? Seduto sul divano ad aspettare una tua chiamata o almeno un altro messaggio. Ho trascorso ogni giorno piangendo e sperando di vederti aprire quella maledetta porta e tornare da me! Ma sono stato uno stupido ad aspettarti. Fin dal primo momento in cui ti ho vista sapevo che te ne saresti andata. I primi mesi insieme ho vissuto con il costante timore che il tempo stesse finendo. La mattina mi svegliavo e mi domandavo se l'attesa fosse finita e se era arrivato il giorno in cui mi avresti lasciato. Felice e lontana da me per sempre. Ci sono state delle volte in cui sono morto nell’attesa e ho sperato che accadesse subito. E ci sono state altre volte in cui ho pregato che tu non vedessi mai come chiunque altro avrebbe potuto offrirti una vita più bella di quella che potevo offrirti io. Ma tu restavi con me. Abbiamo vissuto delle difficoltà e tu sei rimasta con me. Hai conosciuto mio padre e sei rimasta con me. Ti ho raccontato tutto del mio passato e sei rimasta con me. Allora ho davvero pensato che saremmo rimasti insieme. Ho creduto che tu mi amassi. E nello stesso istante in cui ho smesso di avere paura tu te ne sei andata.”
Svelarle tutte le sensazioni che non era mai riuscito a sussurrare neanche a se stesso o che non aveva mai compreso ed analizzato gli sradicò qualcosa dal petto. 
Respirava a fatica - come se gli avessero squarciato l’addome e strappato bruscamente ogni costola e stretto il cuore in una morsa di lame ghiacciate.
Con le dita si aggrappò alla sua stessa camicia nel tentativo di trovare un appiglio al centro del suo sterno. La sua mano si chiuse vicino alla sua clavicola mentre la sua bocca era avvolta da abrasioni dell’aria. Cosa doveva fare?
Poteva uscire dalla stanza. Non ascoltarla. Allontanarsi da lei senza chiedere perdono. Non voltarsi indietro.
Ma non lo fece. Non avrebbe mai scelto di andarsene e di abbandonarla. Non era possibile.
Io ti prometto.
Lui aspettava lei.
Io ti prometto ora e sempre.
Lui avrebbe mantenuto la sua promessa.
Tu non sarai mai più sola.
“Per questo motivo hai deciso di non aspettarmi più e di farmi del male?”
La sua voce agguantò le ossa della sua schiena e lo costrinse ad aprire le spalle incurvate. Si morse un labbro e rimase fermo al suo posto. Perché non poteva neanche abbracciarla?
“Che cosa ho fatto?”
Le braccia di Rey si sciolsero da sotto il suo seno e scivolarono lente lungo i suoi fianchi. Dovette inspirare diverse volte prima di riuscire a rispondergli. Quando gli rispose gli distrusse il mondo in milioni di miliardi di buchi neri.
“Tu mi hai tradita.”

                                                                                                                                             *****

In alcuni momenti Rey non ricordava il modo giusto in cui si impugnavano le posate. Le afferrava con un pugno e le dita non riuscivano a spostarsi o ad articolarsi tra gli spazi. Scuoteva la testa e faceva finta di nulla. Aspettava che il suo meschino attacco scomparisse e che i muscoli delle mani ricordassero che da sette anni avevano imparato ad utilizzare quegli utensili. Era paziente. Sapeva tutto riguardo all’aspettare.
Invece Ben era diverso. Lui soffriva in silenzio.
Da tre anni l’espressione persa di Rey gli mordeva sempre il cuore fino a recidere ogni singola coronaria. Gli colpiva il petto che sanguinava copioso e che gocciolava tra le sue costole e le ossa del suo sterno.
Si sporse verso di lei senza riuscire a fermarsi 
- inaccettabile vederla soffrire.
Le spostò il pugno chiuso intorno alla forchetta, lo mosse dal centro verso l’alto.
“Non c’è bisogno, adesso passa. Sono capace di farcela.”
Le sue parole erano state bofonchiate con sottile ansia e frustrazione e lui le aveva baciato le nocche, scusandosi di essere intervenuto e di averla offesa. Lei lo aveva osservato di sottecchi e aveva accennato un debole sorriso mentre aveva continuato a giocare con il cibo cinese che avevano comprato. Aveva fatto rotolare ogni raviolo da un lato all’altro del suo piatto e aveva stretto le labbra in una linea dura.
L’aveva baciata.

Era - sempre - una necessità impossibile da fermare.
Ogni volta che scorgeva quella espressione sul suo viso era in grado di vedere i dieci anni che Rey aveva vissuto all’orfanotrofio e le barbarie a cui era stata sottoposta. Vedeva il modo in cui era stata costretta a mangiare ogni cibo soltanto con le mani, come se fosse un animale. Vedeva lo sguardo perso di una ragazzina quindicenne che - per la prima volta - utilizza forchetta e coltello.
Cosa sono? Come si chiamano? A che cosa servono?
Sapeva che ogni tanto la sua mente si perdeva nei ricordi e che le sue dita si bloccavano in un fermo immagine di anni che non avrebbe mai voluto vivere.
A me sembra di affogare insieme a te.
Rey lo aveva baciato stringendo forte le posate e lui si era spostato a baciarle l’angolo della bocca e la guancia e la punta del naso.
Quando l’aveva sentita ridere era riuscito a rilassarsi.
Rey gli aveva cercato di nuovo la bocca e lo aveva baciato a stampo in mezzo alle labbra. Gli aveva sussurrato un grazie.
E lui aveva pensato una cosa soltanto.

Domani. Domani te lo chiederò.
Aveva continuato ad osservarla mentre lei aveva ricominciato a mangiare riuscendo a non perdersi nel dedalo dei suoi incubi.
Domani ti chiederò di sposarmi.
Come avrebbe potuto immaginare che il giorno dopo si sarebbero lasciati?

                                                                                                                                                    *****

Tu mi hai tradita.
Riuscire a ripeterlo nella sua mente gli era costato una parte di se stesso. Non poteva pensare al suo reale significato. Immaginarsi in una tale intimità con un’altra donna gli corrodeva l’anima fino a ridurla a brandelli. E poi si rese conto che Rey credeva realmente nella sua accusa e questa consapevolezza gli inflisse un dolore inumano. Gli sradicava la ragione dalla testa e il cuore dal petto.
Per un momento ebbe la certezza che le lacrime non sarebbero mai state abbastanza e che non sarebbe riuscito a parlare mai più.
Rey riprese a spiegarsi con un tono di voce diverso. Non era agitato e rancoroso. Era mortalmente calmo e atono - come una ferita che sanguina incessantemente colorando di rosso delle bende fresche e candide.
“Ero tornata a casa. Per due anni abbiamo dormito insieme ogni notte e dopo soltanto un giorno senza di te mi sembrava di impazzire. Riuscivo a chiudere gli occhi soltanto poche ore e mangiavo pochissimo. C’erano incubi ad aspettarmi e tanta stanchezza. Rivivevo una sensazione di vuoto che ormai avevo dimenticato. Mi mancavi troppo e non ho resistito lontana da te. Dentro di me c’era ancora tanta paura ma non era giusto continuare a nascondermi. Cinque giorni dopo la mia stupida fuga sono tornata a casa e sulla soglia della tua porta ho visto te. E poi lei. Zorii. Tu l’hai lasciata entrare e non mi hai visto. Ti ho guardato e ho detto il tuo nome e tu non mi hai neanche sentito. Ho aspettato un’ora seduta sulle scale. Niente.”
Tu mi hai tradita.
Così hai pensato che sia successo qualcosa tra me e Zorii?

Non riesce ancora a crederci. Non riesce a concepirlo. In questo modo ogni sua parola e ogni suo gesto non avevano mai avuto alcun reale significato. Gli stava svuotando il corpo e strappando i ricordi. Non aveva senso. Il bruciore all’addome non aveva motivo di esistere. Non esisteva nulla. Erano niente.
Avrebbe voluto ridere in maniera isterica e svegliarsi dal nuovo incubo in cui era stato scaraventato. Era necessariamente un incubo. La sua unica speranza era che una tale follia non fosse reale. Svegliarsi e sentire le dita della mano di Rey ancora intrecciate alle sue.
Noi non siamo questo e tu non puoi pensare che io sia un mostro del genere. Non puoi. No. Ti prego. No.
Delle vertigini ricominciarono ad appannargli la vista e ad ovattargli l’udito. Stava perdendo il controllo su se stesso.
“Sono tornata a casa di Finn e mi sono stesa sul letto con ancora il cappotto addosso a guardare il soffitto. Volevo chiamarti. Era la cosa giusta da fare, no? Essere matura. Confrontarmi con te. Ma avevo paura. Non so a che ora mi sono avvicinata al cellulare e ho visto che c’era un messaggio di Zorii. È stata molto gentile ad avvisarmi di aver fatto sesso con te e a rassicurarmi che non sarebbe successo un’altra volta. L’ha definita la follia di una sola notte. Ha voluto dirmi tanti dettagli. Mi ha anche scritto che ha trovato molto interessante la cicatrice che ti attraversa il petto e che non era riuscita a resistere dall’assaggiarla. Una donna con una grande classe. Ha concluso dicendo che sono una ragazzina con una grande fortuna e mi ha inviato anche la foto della nostra camera da letto. Le lenzuola ancora disordinate.”
Ben non si mosse dal suo posto e non comprese subito la trasformazione del suo viso. Gli era sembrata incredula e spaesata un momento prima - una bambina senza una certezza a cui potersi aggrappare nell’istante più buio - e poi all’improvviso il volto era stato deformato dalla rabbia e dalla sofferenza.
“Tra tutte le donne con cui avresti potuto tradirmi hai scelto Zorii. Lei. E non mentirmi mai più dicendomi che mi hai aspettata.”
La osservava. Non sentiva il borbottio del suo cuore. Non si rendeva conto di respirare male. Ascoltava soltanto il cicalio delle sue accuse e si confondeva tra le immagini dei suoi ricordi.
Ricordava il modo spontaneo in cui le sue dita erano solite intrecciarsi alle mani di Rey. La sensazione di tranquillità quando erano sdraiati sul divano e decidevano di guardare la televisione. Il modo in cui si muovevano insieme. Lei che stendeva le gambe sulle sue ginocchia e gli tracciava linee immaginarie sulle ossa dell’avambraccio. Lui che le toccava i capelli o il viso. I momenti in cui Rey si stancava del film e iniziava a stuzzicarlo mordendogli le orecchie. Si era sempre vergognato delle sue orecchie.
A me piacciono. Glielo aveva sussurrato tra i baci sul collo e sulla nuca. A me piace tutto di te.
Le aveva creduto e si era sentito sereno. Felice di piacerle e di essere apprezzato. Gli era sempre importato di piacere soltanto a Rey. Non aveva mai desiderato nessun’altra. Glielo aveva detto. Glielo aveva dimostrato.
Una voce ricominciò a tormentarlo nel profondo. Non vali nulla.
“Cosa dovrei dirti adesso? Cosa ti aspetti?”
La sua voce era fioca. Non gli sembrava fosse sua. Ma non desiderava riflettere. Qualcosa di cattivo gli bruciava le vene e gli inondava l’addome con una tale costanza da occludergli la gola da impastargli la lingua. Un fuoco caldo colava tra ogni spazio delle sue costole costringendolo a piegarsi in avanti. Era tutto troppo sfocato.
Si concentrava sulla sagoma delle venature di legno della porta oltre il capo e le alte crocchie di Rey. Tentava di arginare ogni suo scatto e di calmarsi. Era un’azione complessa. Davvero inutile.
Che senso aveva continuare a trattenersi?
“Il motivo.”
Lei aveva sussurrato con voce incredula e spaesata. Forse si stava tormentando le nocche. Si scorticava le mani con le unghie nei momenti in cui era nervosa. Un ennesimo colpo al cuore lo costrinse a boccheggiare quando comprese che non avrebbe abbassato le ciglia con l’intento di accertarsene e di bloccare il suo gesto.
La sua risposta era stata aria in grado di scuotere e contorcere del fuoco spento. Lingue biforcute che assumevano le sembianze di una treccia e che sfumavano tra il viola e l’arancio. Un caos che gli scardinava ogni certezza e che sbriciolava ogni ricordo.
Tu pensi questo di me?
Dopo tre anni. Dopo avermi conosciuto in ogni modo - e aver conosciuto che persona io sia senza dare importanza ad un nome legato ad un’eredità scomoda.
Dopo tutte le mie dimostrazioni e l’amore che ho tentato di darti in ogni forma possibile. Tu pensi questo di me. Tu pensi che io sia capace di tradire te e le nostre promesse. Le nostre speranze. Sei la donna che io desideravo sposare e tu neanche lo sai. Ma dovresti saperlo. Anche se non mi ha permesso di chiedertelo e te ne sei andata prima. Dovresti saperlo.
Quando ho letto il tuo biglietto d’addio avevo tra le dita la scatola dell’anello che avevo scelto pensando a te. L’ho stretta talmente tanto forte da averla distrutta. Non pensavo che tu potessi ferirmi.

“Hai deciso tu ogni cosa. Scegli tu anche il motivo.”
Devo andarmene via da qui.
“Non dici nulla?”
La voce di Rey si era spezzata ancora quando aveva pronunciato questa domanda e qualcosa gli disse che avrebbe dovuto pensarci e preoccuparsi. Non si mosse.
Rey mi abbraccia quando io sono agitato. Mi bacia il collo e mi stringe forte.
Concentrato a non cadere in una diga di errori e di autocommiserazione.
Dovrei spiegarle la situazione e dirle che Zorii ha cercato di ingannare entrambi. Che non l’ho mai tradita. Mai potrei.
Troppo concentrato a respirare senza urlare.
Non ci riesco.
L’anno scorso Rey si era seduta sotto l’albero di Natale e gli aveva detto di essere lei il suo regalo. Lui aveva riso e aveva provato a toglierle il pigiama dicendo che doveva assolutamente scartare il suo regalo. Subito. Ma Rey aveva detto che bisognava aspettare mezzanotte. E poi sarò tua. Sempre.
Non voglio riuscirci.
“Cosa devo dire? Cosa vuoi che dica?”
Fece un passo avanti e si morse il labbro superiore. Volse la testa verso il basso e la osservò.
Che senso ha provarci?
Dopo un secondo distolse lo sguardo e si resse allo schienale di una sedia pur di costringersi a provare dolore e a sentire le ossa spezzarsi e trapassargli la carne. Necessitava di qualche colpo al costato e di costole rotte. Aveva bisogno di un mondo oscuro e di tenebre che lo inghiottissero.
“Tu pensi che io sia colpevole. E quindi? Vuoi che lo ammetta ad alta voce? Devo dire che ti ho tradito e che sono andato a letto con Zorii? Che ho scopato con lei nel nostro letto? Vuoi che ti confermi che non ti ho aspettato e che non ci sono altre spiegazioni per le cose che hai visto e che ti hanno detto? Tanto hai deciso di condannarmi. Non valgo nulla. Le mie parole e le mie promesse cosa sono? Niente. Tutte le cose che ho fatto pur di essere degno di te? Sono niente. Che senso ha parlarti? Sono stato soltanto un idiota a illudermi di avere un valore per te quando io sono niente. Lo devo ripetere? Sarà sempre così. Sono io il niente. Io a pregare di essere degno di te e sperare di esserlo e crederlo per un secondo e poi ritrovarmi come sono sempre stato. Solo.
Forse aveva urlato. Forse aveva gettato la sedia a terra e si era coperto il viso tra le mani e tra i capelli. Forse aveva colpito il tavolo e aveva iniziato a piangere tra i conati di vomito. Non era sicuro di nulla. Cercava un senso soltanto con i forse.
“L’unica persona che ho mai desiderato in tutta la mia esistenza sei tu. Non ho mai voluto altro se non essere con te. Niente altro. Anche solo guardarti e sapere che tu sei felice e al sicuro. Sentirti ridere. Come puoi pensare che io possa ferirti tanto profondamente? Tradire tutto di me e te. Essere un’altra persona. Sono questo? Anche tu mi vedi in questo modo?”
Con il polso pressato sulle labbra assaporava un gusto acido di bile.
Immaginarsi ancora con un’altra donna gli strinse lo stomaco con foga. Rendersi conto di quanto fosse un mostro agli occhi di Rey ebbe il potere di piegarlo in due e di fermarlo.
Prese un respiro dal naso. E poi un altro. Un altro. Un altro ancora. Ancora.
Un sapore amaro continuava ad impastargli la bocca e dei pugni allo stomaco lo costrinsero a muoversi con cautela. Con l’interno del suo polso - con le sue vene pulsanti ad un ritmo ingestibile - pulì la cortina dinanzi ai suoi occhi e intravide la sedia aperta in due ai suoi piedi e le scarpe di Rey e come le sue braccia erano strette intorno al suo ventre. Il suo collo arrossato e le sue lacrime e il suo sguardo - troppo sbagliato e troppo doloroso.
Rimase immobile ad osservare il suo viso e si costrinse a cercare un equilibrio tra le pieghe di una tempesta senza salvezza.
Rey odiava le urla.
Rey odiava la violenza.
Rey aveva paura.
Doveva interessarsi soltanto a questo. Ripeterselo in mente come una cantilena e comprendere cosa significava. Non importava quanto lui potesse essere straziato e dilaniato.
Lei era - e lo sarebbe sempre stata - la persona più importante della sua esistenza.
E se Rey soffriva allora nulla aveva un senso. E niente era importante.
Un altro respiro. Un altro. Un altro ancora.
Lui doveva soltanto fermarsi e provare ad aiutarla in qualsiasi modo possibile.
“Mi dispiace.”
Scavalcò la sedia e mise avanti le mani con i palmi aperti. Lei sciolse le braccia ma non si mosse dal suo posto.
Tese le dita verso le sue e Rey assunse una strana smorfia. Dovette contare ancora i respiri prima di riuscire a parlare.
“Mi dispiace. Sono... sono imperdonabile. Voglio solo sapere se stai bene prima di andarmene. Mi stai spaventando.”
Lei gli strinse l’indice e lui mosse un mezzo passo nella sua direzione. Comprese a mala pena la sua domanda sussurrata. Dovette inclinare il capo e avvicinare l’orecchio sinistro alle sue labbra.
“Vuoi andartene?”
Rey non gli lasciava la mano ma non lo guardava. E non poteva biasimarla.
“Penso che adesso tu non voglia vedermi.”
Lei fece un passo verso di lui e con l’altra mano gli sfiorò il mento e il collo. Fu naturale seguire il tocco dei suoi polpastrelli. Aveva bisogno del suo calore.
“Io penso che tu non possa sopportare di stare con me. Ho sbagliato tutto. Adesso me ne rendo conto. E mi vergogno.”
Smise di sfiorarlo e si perse ad osservare i suoi piedi. Gli stringeva ancora le dita ma singhiozzava in silenzio e serrava i denti.
“Posso spiegarti.”
Sono stato incastrato. Non ti ho tradita. Posso dimostrartelo.
“No. Non dirmi nulla. Ho sbagliato tutto. Tutto. Tutto.
Lui allargò le braccia nel gesto di stringerla e Rey scosse il capo. Sussurrava che non lo meritava. Che aveva distrutto ogni cosa. Che dentro se stessa lo sapeva. Lo aveva sempre saputo.
“Sapevo che non mi avresti mai tradita e che avrei dovuto parlartene subito. Ma era più semplice così, no? Non volevo fare i conti con i miei errori e ammettere di aver sbagliato tutto. Sono stata una codarda. Ho riversato ogni cosa su di te. Sono io a non meritarti. Non sono stata migliore dei tuoi genitori. Di Luke. Ti meriti di meglio.”
Non avrebbe nuovamente tollerato parole del genere. Rey piangeva e si ostinava ad avere il viso girato a destra.
Basta.
Lui immerse le dita tra i suoi capelli e le chiese di voltarsi. Le concesse pochi secondi e di rilassare i muscoli del collo. Con le sue mani accompagnò i movimenti del suo volto e poi abbassò le spalle e la baciò. Fu poco accorto. Baciò soltanto il suo labbro superiore e il naso mentre Rey tratteneva respiro e singhiozzi. Le chiese di non dirlo mai più. Di non pensarlo. Di non lasciarlo.
Lei si alzò sulle punte dei piedi e gli baciò il mento e tra le labbra e lì rimase. Trattenne un altro singhiozzo e lo baciò con dolcezza. Bocca contro bocca gli chiedeva scusa. 
Ti ho inflitto troppo male. Non perdonarmi. Io non mi perdonerò.
Rey continuava a piangere. E lui sapeva che era grave. Che era male.
Rey non piangeva mai.
“Dimmelo. Perché? Rey, perché?”
Io ti perdonerò sempre.
“Tu non li vuoi. Hai sempre detto di non volerne. Sempre.”
Con i pollici cercava di cacciare il pianto dal viso di Rey ma gli sembrava un’impresa impossibile. Erano grosse lacrime che continuavano a scivolare giù dagli angoli dei suoi occhi e a cadere dalle sue ciglia. Le sue guance gli bagnavano le mani. Non sapeva come calmarla e un peso enorme prese a tormentargli le vertebre e a sciogliergli ogni pensiero razionale.
“Cosa non ho mai voluto?”
Continuava ad accarezzarle il volto e in questo modo il suo polso rese ovattati i suoi singhiozzi e lamenti. Le labbra di Rey baciarono le sue vene mentre lacrime e muco imbrattavano i suoi polsini. A lui non importava - voleva soltanto capire.
Desiderava che Rey stesse bene. Non sopportava che fosse disperata e infelice. Era un dolore fisico che gli prosciugava il sangue e le ossa.
“Ti prego. Parlami. Spiegami. Ti prego.”
Lei scosse il capo e si morse le labbra. Lui baciava la sua fronte e la sua tempia sinistra senza mai smettere di sussurrarle ti prego e di racchiuderle il viso tra le dita.
“Non esiste nulla che non possiamo affrontare. Ti giuro che qualsiasi cosa sia saremo insieme e che non sarai sola. Io sono qui, sono qui. Parla con me. Rey, ti amo, non esiste nulla che tu non possa dirmi. Siamo solo io e te. Io e te insieme.”
Rey si sporse a baciargli le labbra un secondo e poi tese il collo all’indietro come per riuscire a guardarlo meglio. Il suo corpo tremava di meno e il suo sguardo era più fermo. Deglutiva facendo rumore ma c’era una forza dentro di lei che non si sarebbe mai spenta. Era stata una ragazzina coraggiosa ed era cresciuta diventando una donna con uno spirito implacabile. Creava punti di equilibrio anche nei suoi momenti più bui - come adesso tra le sue braccia e tra le carezze dei suoi polpastrelli.
Rey schiuse le labbra con un’espressione di stupore e di meraviglia capovolgendo un’altra volta ogni base della sua esistenza. Sentì il suo cuore battere impazzito al livello della sua pancia.
Poi soltanto silenzio.
“Sono incinta.”







Angolo autrice.

Ciao a tutti! Non completamente natalizio, vero? Vi prometto che ci sarà un lieto fine. Vi prometto anche che i due non hanno risolto così facilmente e che nel prossimo capitolo Rey spiegherà perfettamente le sue ragioni e cosa l'ha spinta a sbagliare tanto (dovrei scriverlo dal suo Pov, quindi Rey sarà molto più approfondita).  Ringrazio infinitamente Koa e Hanna per i tantissimi consigli e la pazienza. Hanno riletto questa storia davvero molte volte.
Il paragrafo centrale in corsivo è un flashback, spero sia comprensibile con questa formattazione. Il riferimento alla prima volta che Ben e Rey si sono lasciati è un collegamento a "Just us together". Questa storia rappresenta un pò la conclusione di questo ciclo di AU, ma vorrei in futuro scrivere dei racconti precedenti a questa fine. Ho in mente da tanto il primo incontro Ben-Han-Rey. Ci riuscirò? Non lo so, ma spero questa storia vi stia piacendo e che vorrete leggere il prossimo capitolo. A presto e buone feste :)

 

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Capitolo 2
*** O Children ***


Prima della lettura!
Per aiutare la lettura, i paragrafi completamente in corsivo sono dei flashback. Siamo passati al punto di vista di Rey, doveva spiegare anche lei la sua storia. Spero vi piaccia.





C’era un silenzio assordante nella sua testa. 
L’assenza si insinuava sotto la sua cute mentre un senso roboante di solitudine scivolava nelle sue ossa. Un’emozione non nuova - essere legata con dei fili di fuoco ai suoi incubi di bambina abbandonata, simile a della spazzatura.
Non sono come mia madre. Non posso.
Il marciapiede su cui sostava era distante dallo scorrere del traffico cittadino. L’ambiente circostante era in grado di richiamare alla mente gli spazi spogli di ogni cosa brutta.
L’orfanotrofio. L’aeroporto. Gli accampamenti di fortuna.
Con le ossa della schiena adagiate sul portone dell’edificio osservava con poca cura gli alberi senza foglie e colori. Rachitici nello stesso modo in cui lo sono gli scheletri.
Un po’ simili a me.
Le poche persone che avevano scelto di affrontare il gelo erano troppe immerse nei loro pensieri e non degnavano di uno sguardo la sua figura: una ventunenne incinta e circondata soltanto da chicchi di neve mescolata a gocce di pioggia.
Era poco cosciente del fatto che tutte le ciocche dei suoi capelli erano bagnate e attaccate alla sua nuca e al suo viso. Il cappuccio del giubbotto era scivolato e non se ne era accorta. Sbadata e goffa.
Perché continuava a piangere. Dalla notte della vigilia di Natale le sue guance si erano trasformate in una ragnatela di illusioni e cruda realtà.
Ogni cosa è colpa mia. Sono sola a causa mia. Ho una voragine dentro al cuore e l’ho creata io. Sono senza respiro e senza pace e ogni errore è mio. Ho sbagliato tutto io.
Nessuno era in grado di consolarla. L’unico che avrebbe potuto aiutarla non doveva sapere nulla. Era la sua condanna da espiare. Simile ad una penitente nel deserto - abbandonata con un’unica fede da stringere negli attimi di disperazione.
Abbiamo scelto questo. Lui sta meglio così. Io devo aspettare. Sono brava ad aspettare. Io so tutto riguardo all’aspettare. Posso aspettare. Attendo qui.
Strinse le mani sul suo ventre e si rese conto che continuava ad essere una delusione come madre e che forse sua figlia la odiava. La sentiva costantemente irrequieta, anche quando non avrebbe potuto sentirla. Eppure l’aveva percepita subito e aveva cercato in ogni modo di difenderla. E c’era stato poco da tentare. Di fatto sembrava che entrambe stessero bene soltanto vicino a Ben.
Non deve sapere che piango e che sto male e che vorrei strapparmi il dolore dalle costole e strozzarlo e gettarlo lontano. Deve scegliere liberamente. Gli devo questo e tanto altro. Posso essere migliore. E non voglio continuare a rovinargli l’esistenza.
Il suo sterno fu scosso da un altro singhiozzo che cercava di trattenere con le labbra strette e i denti serrati.
Basta basta basta. Lui presto sarà qui.
La sua mezzacoda era un disastro. Si strofinò le guance con i polsi e poi con i palmi segnati dalle sue unghie.
Difficile trattenersi nei momenti in cui era insieme a Ben. Era un obbligo morale bloccare ogni suo gesto poco ragionato.
Come baciarlo e chiedergli di non lasciarla e di essere costantemente nella sua vita e di ricominciare insieme. Sentire sempre le sue mani sulla pancia e i dolci bisbigli con cui coccola la bambina. Il naso contro il suo ombelico e le risate serene sui suoi fianchi.
Trattenne a stento altre lacrime ed il cappuccio abbandonò ancora il suo capo, liberandole la visuale. Lui correva a grandi passi nella sua direzione ed il suo stomaco si contorse con morsi caldi di denti avvelenati.
Come il primo giorno in cui ti ho visto camminare a testa bassa sotto un acquazzone.
“Rey, perché sei ancora qui? La clinica non ha già aperto? Rischi di ammalarti e di far star male entrambe.”
Le sue dita accarezzarono la sua guancia e poi la strinse contro il suo petto e circondò i loro corpi con il suo enorme cappotto. Si rese conto che era un misero momento che sarebbe durato un istante soltanto. Eppure non era importante.
Si illuse che sarebbe stato così per sempre. Che avrebbero scelto di bloccarsi in un abbraccio stretto. Insieme e non più soli.
Ricordati la realtà e scorticati i palmi delle mani.
Il portone si aprì e Ben la strinse con meno forza. Non c’era più bisogno.
Loro non erano più una coppia. Erano due persone sole e alla deriva.
Ed è colpa mia. È tutta colpa mia.

                                                                                                                                                     *****************


Ben sembrava scomparso nell’armadio.
Era strano - era un uomo troppo grande.
Cercava una coperta e dei calzini. Non ne era certa. I suoi pensieri si contorcevano come bozze sbilenche e catorci logorati da chicchi di polvere.
Era un paradosso non riuscire a vederlo. Impossibile che fosse capace di scomparire con il suo corpo immenso.
Ben chiuse un cassetto e bofonchiò qualcosa contro il suo disordine. Non poteva dargli torto.
La sua camera da letto era nel caos e nulla era al suo posto - la camera che Finn le aveva offerto e che si era trasformata in un suo rifugio negli ultimi due mesi.
Lei si era seduta sul ciglio del letto e non era ancora in grado di contenere l’ansia.
Con le punta delle dita toccò l’angolo della fronte che Ben aveva baciato e si domandò che cosa avesse voluto significare. Gli aveva rivelato di essere incinta e niente. Lui non aveva detto nulla. L’aveva osservata in un modo tale che aveva sbriciolato granelli di sabbia ammucchiati nei recessi della sua anima. Le aveva baciato la fronte e stretto la nuca ed era stato come cadere in un cerchio di luce in grado di affogare la sua anima nella disperazione. Qualcosa doveva averla colpita a fondo e il suo corpo aveva tremato d’istinto - facendo credere a Ben che lei avesse freddo.
Camminando tra i corridoi di una casa deserta - dove erano Finn e Poe? Armitage e Rose? - aveva smesso di porsi domande e si era trascinata in camera. Non appena aveva visto il materasso si era bloccata con un miscuglio di panico e di vergogna.
Sono stata sola qui. Piangendo tutte le mie lacrime e stringendomi la pancia. Come posso star già deludendo la vita che cresce dentro di me? Come posso essere una madre? Una madre buona?
Si era aggrappata a Ben e le loro mani erano rimaste intrecciate e strette - con tanta forza da scontrare le ossa.
Un velo oscuro aveva adombrato le sue ciglia e Ben le aveva baciato la fronte. Ancora contorto in una strana disperazione che impediva ad entrambi ogni respiro.
Lui si era allontanato alla ricerca di maglioni caldi nel suo armadio - maglioni o calze o coperte? - e lei non aveva potuto fare altro. Si era seduta come se qualcuno avesse strappato una molla nel suo corpo e i suoi muscoli si fossero spenti. Scivolata giù come una goccia d’acqua in un terreno arido. Stanca e desolata.
Le cadde la mano in grembo.
C’era una fitta al centro del suo petto e si rese conto che il senso di colpa consumava le sue costole fino a spaccargli il cuore. Il suo palmo si contrasse in maniera involontaria e brividi scivolarono tra le vertebre della sua schiena.
Ho sbagliato ogni cosa. Ho perso tutti.
Vide Ben ed il profilo della sua schiena e la grandezza delle sue spalle. Il modo in cui le sue mani si muovevano frenetiche a cercare nei cassetti. Il morso nervoso delle sue labbra e delle sue guance.
Un’altra fitta corse a strapparle il fianco con una spina grondante veleno.
Lui era ovunque in lei. E lei lo amava oltre ogni misura.
Era una consapevolezza che aveva ancora il potere di immobilizzare il suo corpo e di serrarle la gola. Non era capace di dirgli qualcosa o di tendergli la mano e raggiungerlo.
Io posso soltanto lasciarlo andare. Non sarebbe giusto trattenerlo. L’ho costretto a soffrire. Mesi di dolore senza una spiegazione. Sono stata imperdonabile.
“Ben.”
Un maglione cadde dal cassetto in alto e lui lo accolse tra le mani voltandosi al suono della sua voce. Sembrava avesse trovato anche due paia di calze grigie e nessuna coperta.
“Scusami. Sto cercando degli indumenti caldi e non riesco a trovarli.”
Tra le coperte c’è un tuo maglione che ho abbracciato ogni notte. Lascia stare.
“Ho bisogno di parlarti.”
La sua voce avrebbe dovuto essere ferma e sicura. Svuotata da ogni tentennamento o ripensamento. Invece sembrava soltanto scontrosa e ingrata.
“Certo. Ma stai continuando a tremare e sono preoccupato.”
Il maglione posato sull’incavo del gomito e delle calze spaiate mosse avanti e indietro mentre erano srotolate: quel movimento e la sua preoccupazione erano un marchio incandescente - il modo in cui costantemente si prodigava per lei.
Lo vide piegarsi su un ginocchio e sfilare una sua pantofola. La sua mano le avvolse il tallone e lei si riscosse.
“Fermati, Ben. Faccio da sola.”
Gli porse il palmo con uno strano atteggiamento di sfida che lui non raccolse. Non si scompose e non cedette calze o maglione.
“Lascia che ti aiuti. Stai ancora tremando.”
Lo vide in equilibrio sui talloni e un ricordo strinse le sue tempie con artigli di ghiaccio e con una nuova scossa alla testa. Si sporse ad acciuffare entrambe le calze.
“Non ho freddo.”
Le uniche sillabe biascicate mentre si copriva i piedi con le pantofole.
Ci sono tante altre emozioni che mi consumano dall’interno e che mi trasformeranno in una carcassa decomposta sotto il sole cocente.
Ma ogni sua parola si sciolse sulla sua bocca. Lo sguardo di Ben continuava a scivolare sul suo ventre e c’erano emozioni tristi nei suoi occhi.
Sono una stupida. Sono ancora una bambina spaesata che fugge.
Lui era tra le sue gambe con le dita che si flettevano vicino ai suoi calcagni. Lei gli accarezzò l’angolo dell’occhio sinistro, scendendo a tracciargli la guancia e poi il mento.
Non ho imparato nulla e non sono cambiata tanto. Sono destinata alla solitudine. Peggio. Un’esistenza lontana da te.
Lo aveva amato dal primo istante. Non aveva mai smesso e mai tentennato - neanche nei momenti senza alcuna speranza.
Sapeva a cosa era destinata: senza di lui significava essere un granello di sale senza acqua di mare.
Significava bruciare e basta.
“Ben. Non puoi perdonarmi. Sono stata imperdonabile e ti ho fatto soffrire per mesi. Sono stata una persona orribile.”
“Cosa stai dicendo?”
Raccolse un po’ di coraggio e lo stese sulle sue ossa, cercando di trasformarle in nuove armi impossibili da scalfire.
“Tu non devi preoccuparti. Non devi tornare con me perché sono incinta. Io non te lo chiederei mai.”
Con le sue parole Ben divenne ancora più irrequieto. Vide il suo volto trasformarsi in una maschera di orrore. Disperato.
Desiderava calmarlo con un bacio e stringergli le dita delle mani e sfiorargli le labbra. Permettersi di godere di un dolce calore allo stomaco e di un formicolio alla nuca.
Da incoerente decise di abbandonarsi e di avvicinarsi. Immerse le mani tra i suoi capelli e senza riflettere stese il viso contro il suo collo. Le sue tempie erano solleticate dal suo respiro che si allungava sulla sua pelle con dolcezza. Sulla sua bocca ascoltava il battere del suo cuore. Di scatto si strinse a lui e di questo fu cosciente.
Le ciocche di Ben erano ancora bagnate. Lui era scombinato e stanco a causa sua - ti ho giudicato e non ti ho ascoltato e ti ho detto di essere un mostro.
I suoi polpastrelli sfiorarono i suoi capelli umidi ed ebbe una stretta dolorosa nel suo sterno. C’era un peso nel suo cuore. Tanto potente che sarebbe stato in grado di sotterrarla tra antichi relitti, nascosta da terra e detriti.
Tu non hai mai voluto dei figli e me lo hai sempre detto chiaramente. Io non posso obbligarti. Non sono in grado di agire diversamente. Mi giudico e mi odio.
“Ti ho detto delle cose orribili. Sono stata come i tuoi genitori. Sono stata come Luke. Non ti ho creduto e non ti ho concesso di spiegare. Io ero talmente tanto spaventata. Sai di cosa? Io so che mi ami. Sono assurda. Io so che mi ami quanto io amo te. Per questo motivo tu avresti accettato questo bambino. Pur di non ferire me. E dopo ti saresti reso conto di esserti rinchiuso in una gabbia di cui io non mi sarei mai perdonata. Non sta accadendo lo stesso adesso? Sei triste. Lo sento, Ben. Sei triste e disperato e lo comprendo. Credevo che la mia paura fosse di diventare come i miei genitori. Ho scoperto di essere incinta ed avevo un unico pensiero. Non deludere mio figlio e non lasciarlo solo al mondo. Invece ho compiuto atti peggiori dei miei genitori. Sono scappata e non ti ho dato modo di contattarmi. Esattamente come essere abbandonati sul ciglio di una strada a cinque anni. Sono affogata nei sensi di colpa. La consapevolezza di essere un fallimento era un macigno sul cuore. Tu mi mancavi in ogni istante e avevo bisogno di chiarire con te e bloccare la tortura che continuavo ad infliggere ad entrambi. Invece ho sbagliato ancora. Ho indirizzato tutta la rabbia che provavo verso me stessa contro di te. Io sono il vero mostro. Tu meriti di meglio e non dovresti amare me.”
Il suo cuore continuava a scontrarsi contro le costole del suo seno sinistro. Duro e pesante nel suo petto - come un pugno di granito logorato dalle mani di mercanti e di cerca rottami.
Un peso dentro al suo corpo. Simile ad una pietra spigolosa sopra cui era germogliata una vita che non era previsto esistesse. Pensava ai fiori del deserto e ad una bambina senza genitori e senza un futuro.
Ebbe un gorgoglio alla bocca dello stomaco e la sensazione di doversi aggrappare al suo ventre e proteggere suo figlio - distoglierlo da tutte le emozioni tristi.
Le sue colpe le resero la voce roca.
“Non ho mai creduto davvero alle bugie di Zorii. Suppongo che fosse semplice in questo modo: credere che tu fossi il solo colpevole. Offuscava il terrore di affrontare tutto il resto. Ogni cosa che doveva essere necessariamente affrontata.”
Si strinse la pancia con più forza. Fu un gesto che scosse la schiena di Ben e il suo volto. Sembrava che tutta la disperazione degli ultimi minuti fosse lì. Tra le sopracciglia aggrottate e lo sfarfallio delle ciglia.
“Rey. Tu vuoi tenere il bambino?”
Non comprese il suo tono e il suo sguardo. Lui si era posizionato con il capo chino e guardava le sue dita e il modo in cui sembrava cullare il suo ventre con i palmi aperti. Lei non ebbe esitazione.
“Sì.”
Ci fu un sospiro di sollievo e Rey era talmente tanto tesa che si accorse con qualche secondo di ritardo che non era sfuggito dalla sua bocca. Dalle spalle di Ben cadde ogni traccia di tensione e di disperazione. E le sorrise.


                                                                                                                                                                           *************


Stendersi sul lettino con i pantaloni slacciati era imbarazzante. Per rendere il controllo semplice si sfilò la maglietta e la diede a Ben chiedendogli di buttarla su una sedia o sul suo zaino.
Era questione di praticità e di non far sporcare i suoi indumenti di gel. Le era bastata la prima volta e i tanti giorni in cui una delle sue felpe migliori si era impregnata di un odore insopportabile. 
Le aveva procurato nausea anche nel pomeriggio - e bastavano le nausee mattutine che la accompagnavano da mesi anche senza alcuna stimolazione olfattiva.
Povero Finn. Ho dovuto scongiurarlo di smettere di prepararmi tazzine e tazzine di caffè. E lui non mi ha costretto a spiegargli nulla. Lo aveva mai fatto? No. La sua amicizia era sempre stata un dono, non uno scambio equo. Un altro mio errore.
Si riscosse sentendo una porta delle vicinanze aprirsi e le voci dei dottori e degli infermieri. La sua dottoressa ancora non era rientrata nello studio e non sapeva come mostrarsi a suo agio. Nell’attesa scelse di abbassarsi meglio i pantaloni sotto i glutei. In tale posa credeva di essere sempre immensamente stupida. E insieme a Ben non era più semplice. Piuttosto tutto più imbarazzante. Tutto più assurdo.
Si era posizionato vicino al lettino e guardava verso l’alto con le mani nascoste dietro la schiena.
Ebbe una stilettata di dolcezza e di malinconia alla bocca dello stomaco.
Si sporse a toccargli un polso e lui si volse a guardarla. Solo in quel momento si accorse che i suoi occhi erano lucidi.
Per questo non mi guarda. Cerca di contenersi. Tenta di placare le sue emozioni.
Il suo cuore si strinse ancora una volta su se stesso. Ben Solo era un concentrato di emozioni vissute al limite. I suoi atti d’amore erano questo. Tendere verso la calma e la quiete. Distogliere l’attenzione dai suoi tormenti. Quasi scomparire.
Io ti amo così come sei.
“Sei emozionato?”
Il suo sorriso era un’arma capace di spezzarla e di tormentarla con altri caldi crampi. Fu costretta a sollevare di poco i fianchi nel tentativo di rilassare la pancia e di trovare sollievo. Non ne fu in grado.
“Molto. Molto emozionato.”
Non gli lasciò il polso e gli prese la mano.
“Puoi avvicinarti di più?”
Era consapevole dell’errore nel suo comportamento e si era redarguita diverse volte in tantissime occasioni, con vergogna e risentimento verso se stessa.
Essere una bambina con il nulla tra le dita ti rende un essere umano avido e bisognoso di avere di più e di più e sempre di più.
Puoi avvicinarti di più? Per favore. Possiamo avere di più? Puoi amarmi di più?
Ben le strinse le dita con delicatezza e le baciò le nocche. Si pose vicino a lei continuando a stringerle la mano e ad osservarla con uno sguardo sereno.
Di più e di più e di più.
Forse Ben desiderava domandarle qualcosa. Ma il suo unico pensiero era altro: di più e di più e di più.
Lei mosse il capo mentre lui si sporgeva a dirle delle parole sulla fronte e si bloccarono in un gesto di compromesso. Un bacio che coinvolgeva gli angoli delle bocche e niente altro.
Eppure Ben non si mosse. Avrebbe potuto spostarsi. Invece premette più forte le labbra e rimase lì.
Di più e di più e di più.
Il corpo di Rey ebbe una scossa tale da scombussolarla soltanto all’interno, ogni organo rimescolato e disposto nel luogo sbagliato. Il cuore lo ebbe in gola e poi sulla lingua.
Spostò la testa e gli diede un bacio a stampo. Un secondo. Un millesimo di secondo o ancora meno. Il solletico di una vibrissa.
Smettila. Subito.
Si allontanò e comprese di essersi comportata in maniera sbagliata. Da egoista e da neonata con vizi e capricci.
Che gesto stupido.
“Scusami. Io non dovevo.”
Il suo stomaco si contorse con orrore e altre lacrime rigarono la sua gola resa asciutta dal vuoto nel suo sterno. Pose le mani sulle spalle di Ben, cercando una distanza data dalla lunghezza delle sue braccia. Qualcosa di fragile - facile da distruggere con un po’ di risolutezza.
E lui osservava con la bocca schiusa.
Stupore e non disgusto.
“No. Va bene. Va molto bene.”
Sentì le sue mani avvolgerle le guance e poi le orecchie e alcune ciocche. Non le mosse il viso mentre lei era in un mondo reso ovattato dai calli delle sue dita. Lui la baciò. Il suo naso quasi scontratosi contro il suo occhio sinistro a causa della loro strana posizione e le sue labbra premute sulla sua bocca che si aprì al tocco della sua lingua. Sì. Finalmente.
Una nuova scossa invase con foga le dita accartocciate dei suoi piedi e la base della schiena. Immerse le mani nei suoi capelli e si abbandonò al delirio di ogni suo gesto. Il modo in cui stringeva il suo capo e continuava a baciarla senza concedere aria a nessuno dei due. Toccava la sua bocca, i denti, la lingua. I gemiti che si strappavano con ogni movimento delle labbra non li contenevano. Ben continuava a consumarla mentre il diaframma di entrambi protestava rendendo gli occhi rossi di lacrime.
Non mi importa. Consumami.
Desiderava sentirlo di più. Chiedergli di infilarsi tra le sue gambe e dentro di lei.
Subito. Adesso.
Si mosse e le gambe fasciate dai pantaloni diedero una nuova consistenza al momento. Erano ad un appuntamento medico e attendevano un’ecografia. Lei era mezza svestita su un lettino e nel volto di Ben coglieva il riflesso del suo.
Guance arrossate e capelli in disordine. Pochi respiri scoordinati e mani che tremavano. Sguardo perso.
Sfiorò le sue labbra con le punte delle dita.
“Ben.”
Qualsiasi concetto avrebbe desiderato esprimere rimase incastrato alla base della sua gola. Sentirono dei rapidi colpetti contro la porta e poi la dottoressa Ahsoka Tano entrò con il volto sorridente ed una cartella in mano.
“Perdonate il mio ritardo. Finalmente possiamo cominciare. Siete emozionati?”

                                                                                                                                                               ********************


Ben cadde sulle ginocchia e lei gli strinse le spalle temendo che si stesse sentendo male e che stesse avendo un mancamento. Gli prese il volto tra le dita e sotto i suoi polpastrelli sentì le pieghe del suo sorriso. Gli occhi lucidi e lo sguardo emozionato - e qualcosa che si risvegliava dentro se stessa.
Si perse ad osservare ogni tratto del suo viso mentre la sua pancia era contorta in una strana emozione che sconquassava i suoi muscoli in un caos liquido. La mancanza di queste sensazioni era stata una tortura che si era inflitta con una cattiveria mascochista. Ed ora non riusciva a smettere di guardarlo e non ne aveva mai abbastanza.
Come sarà nostro figlio? Con i tuoi capelli e le tue labbra? Alto e grande come te? Domande a cui non aveva mai permesso di germogliare nella sua mente o di stiracchiarsi nei suoi sogni. Le aveva soffocate con freddezza e le aveva costrette ad essere inghiottite dal buco nero in cui si era trasformato il suo cuore. Non si era mai adagiata su un cuscino di forse. Si era imposta di accettare una vita solitaria e senza una gioia completa.
Una vita senza Ben.
E lui ora stava deglutendo a fatica e schiacciava la fronte contro le sue ginocchia.
“Cosa succede?”
Che domanda sciocca aveva posto. Tutto. Sta succedendo tutto.
“Posso abbracciare la pancia? Non voglio forzarti o farti sentire a disagio. Desidero soltanto conoscere nostra figlia.”
Figlia?
“Per te sarà una bambina?”
Lui annuì contro le sue gambe. Le sembrava che fosse emozionato. Forse felice. Tutti i forse che aveva soffocato avevano deciso di ergersi rigogliosi. Adesso si giostrava in un trampolino di forse e forse e forse.
Si chiese se lui stesse trattenendo un groppo in gola e se stesse cercando di dimostrarsi una roccia.
“Lo sento. Sarà una bambina. Intelligente e bellissima come te.”
Non ci aveva mai pensato.
Tre mesi erano passati da quando era stata da sola in un bagno pubblico e si era bloccata ad osservare un bastoncino bianco che confermava ogni suo sospetto - era incinta e la sua vita era stata derubata da ogni equilibrio e certezza.
Dentro di lei cresceva una vita.
Era una creatura (e basta).
Era la sua ragione di vita (e qualcosa di astratto).
Era una nuova esistenza che mai avrebbe abbandonato e che amava con ogni fibra del suo essere (ma lo aveva mai reso reale nella sua mente?).
Una bambina.
Ben. Tu che cosa provi? Che cosa senti? Ami me? Ami lei? Vuoi ancora una famiglia? Siamo la tua famiglia?
Con lentezza Rey sollevò il maglione fino ad arrotolarlo sotto il suo seno e poi si rese conto che non era abbastanza. Il pantalone avvolgeva il suo ventre e copriva il piccolo arrotondamento che si era formato in quei quattro mesi. Ben si mosse calmo e con un tocco leggero. Le sbottonò il jeans e aprì la cerniera, facendo scivolare la parte superiore lungo i suoi fianchi.
Avrebbe potuto essere un gesto erotico.
Ben l’aveva spogliata molte volte.
Velocemente - pur di toccare subito la pelle delle sue cosce e baciarle le ginocchia e morderle i polpacci.
Lentamente - solo i due bottoni da sfilare dalle sue asole senza la minima resistenza e la sua mano che con una carezza si immergeva dentro di lei.
Avrebbe potuto essere un gesto di forza.
I jeans sbottonati da una mano estranea era stata un’immagine orribile che l’aveva perseguitata negli incubi. Una sensazione di impotenza e di paura e di violazione.
Un trauma che non aveva mai superato e che aveva cercato di dimenticare insabbiandolo nella coscienza della sua anima e della sua mente.
Lei aveva colpito la testa di Unkar Plutt con un tubo pur di fermarlo e di salvarsi. Lui era svenuto sopra il suo corpo tremante e con la mano ancora attaccata alla sua cerniera.
Si era sentita tanto sporca prima di incontrare Ben. Comprendere di non avere colpa e di poter amare se stessa era ancora un processo senza fine.
Abbassò il capo e vide il sorriso del padre di sua figlia. Gli prese i polpastrelli e li posò sopra il suo ventre. Sul punto esatto in cui percepiva la bambina.
E in quei secondi comprese.
Ogni loro gesto avrebbe potuto assumere un significato qualsiasi e forse avrebbe potuto passare il resto della sua vita ad immaginarli tutti.
Quanti forse c’erano adesso.
Ben le coprì la pancia con le dita e poi con la mano intera e con il polso. Non trattenne un singhiozzo che sembrava di risata e lacrime insieme. Lei osservava tutto con uno strano incanto. Sospesa.
Comprese che ogni loro movimento era una cosa soltanto.
Lui sorrise tra i singulti che gli stavano martoriando l’addome e la gola. Rise e avvicinò il viso, affondando il naso nel suo ombelico. Con l’altro braccio le cingeva i fianchi mentre i capelli neri gli coprivano le guance e le labbra. Stava mormorando delle parole capaci di sciogliere ogni suo terrore. La amo già. Rey, la amo già.
Speranza. Erano gesti di speranza.
Qualcosa si curò dentro di lei. E fu per sempre.
Sua figlia non sarebbe stata abbandonata. Sua figlia avrebbe avuto un padre.
Non vivrà la mia vita.
Sentì un bacio di Ben sul ventre e così altre parti di se stessa trovarono la strada di casa.



                                                                                                                                                                                              ************


Il cursore si muoveva sul monitor delineando un’immagine. Veloce e con tocchi precisi.
“Vedete? Ecco vostro figlio.”
Figlia. Ben sente che sarà una bambina.
“Come sta?”
Sono un fallimento? Cresce male a causa mia? Sente quanto sono triste?
“Il bambino sta bene.”
Il tono sembrava nascondere altro. Oppure era paranoica? Non era mai stata in grado di interpretare i medici e così il suo turbamento aumentava senza nulla a cui aggrapparsi.
Le dita di Ben erano intrecciate alle sue e uno spasmo al cuore la costrinse a stringerle con più forza - un’intensità dettata dal terrore di essere un errore umano.
“C’è qualcosa che non va?”
Lo chiese Ben e lei distolse lo sguardo dall’immagine della loro bambina. Si accorse che i suoi occhi erano con tante lacrime trattenute a stento e che la felicità di vedere sua figlia - per la prima volta - era offuscata dall’ansia e dal panico.
Con il pollice gli accarezzò l’interno del polso. Non preoccuparti, avrebbe voluto dirgli. Andrà tutto bene.
“L’ecografia mostra una situazione nella norma. Ma le analisi ci stanno dicendo che è necessario essere più attenti.”
La dottoressa Tano spense il monitor e le passò dei fazzoletti con cui pulirsi dal gel. Il suo corpo era teso e del sudore freddo colava lungo la sua nuca.
“Rey. Come stai vivendo questa gravidanza? Sei molto magra. Ho letto la tua cartella e tutte le informazioni relative al tuo rapporto con il cibo e al modo in cui ha influenzato il tuo corpo. Non dobbiamo dimenticarlo in questa fase delicata e non dobbiamo neanche allarmarci. Bisogna semplicemente agire con prevenzione. Lavori molto? Sei giovane e sarai abituata ad un ritmo di vita differente. Nei primi mesi di gravidanza sembra di poter continuare l’esistenza come se fosse tutto uguale. Io credo fermamente che sia così. Allo stesso tempo, però, bisogna anche operare con delle attenzioni maggiori. Mangiare di più, introdurre determinate vitamine nella dieta, assumere degli integratori. Nessuna situazione di stress eccessivo. Hai chi possa esserti vicino in questo momento?”
Le sue parole ebbero la capacità di stordirla. Trafitta con il volto contrattato e la mano immobile a stringere i fazzoletti umidi e appiccicosi.
Il modo in cui stava vivendo era un rischio per la sua bambina. Fuggire dalla sua casa e mesi di pianto e di autocommiserazione. Struggersi vicino a Ben. Tutto un errore.
Mi sono incatenata ad una situazione che odio e che mi sviscera l’anima e l’ho fatto da sola con i miei sbagli. Adesso che voglio che ogni cosa sia diversa non è possibile. E sono triste, infelice, disperata. Vorrei soltanto indietro la mia famiglia. Smettere di sbagliare.
Coprì il suo ventre e si schiarì la voce. Ma Ben si era già avvicinato alla scrivania della dottoressa e parlò per primo.
“Ci sono io. Aiuterò io Rey in tutto. Ci dica cosa dobbiamo fare.”

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“Rey? Perché piangi?”
“Non preoccuparti, Finn. Sto bene.”
Sono di nuovo sola.
Peggio.
Sono senza Ben.

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I consigli della dottoressa Tano erano giunti ovattati alle sue orecchie. Li aveva ascoltati - erano importanti e riguardavano sua figlia.
Ma era accaduto nella sua bolla. Come un istrice spaventato e indifeso che si raggomitola su se stesso tra lo scorrere di centinaia di macchine senza freni.
La situazione si ingarbugliava senza che avesse la possibilità di intervenire. Leggeva i nomi delle medicine e degli integratori che si moltiplicavano sul ricettario. Il suo unico segno di presenza consisteva nell’annuire durante la spiegazione.
Questa pastiglia due volte al giorno e soltanto dopo i pasti. Queste buste di integratori da assumere ogni ventiquattro ore per due settimane. Pasti da consumare cinque volte al giorno. Aggiungere tanta frutta e verdura alla sua dieta. Non esagerare con gli sforzi fisici.
Era intenta ad ascoltare ogni cosa e spesso gettava lo sguardo verso Ben cercando di cogliere le sue emozioni - era concentrato e assorto mentre chiedeva molte informazioni precise.
Prima si era velocemente rivestita e poi aveva preso la sua mano. E sotto la scrivania continuavano a stringersi le dita. Entrambi con forza e con una strana smania. Legati come ancore negli immensi oceani.
Questo è contro il nostro patto. Questo scombina tutto. Non rispettiamo le regole mai pronunciate ad alta voce.
La dottoressa Tano fu gentile a non sottolineare la strana atmosfera nella stanza. Sembrava un animo dolce e quieto. Una donna che camminava in linea retta, certa del terreno sotto i suoi piedi. Senza mai un tentennamento tra scosse e voragini. Un’anima con il suo posto nel mondo. Immensamente in grado di aiutare gli altri e di mostrare compassione.
L’avrebbe ringraziata con più calore e partecipazione se fosse stata maggiormente presente a se stessa. Se la sua mente non fosse stata confusa, colma di nuove informazioni e spaventata a causa dell’imprevedibile svolgersi degli eventi.
“Possiamo incontrarci di nuovo tra tre settimane se volete monitorare i cambiamenti. Sono certa che saranno migliorati. Potreste aspettare qui cinque minuti? Il macchinario sta creando dei problemi e non riesco a stampare le immagini scattate oggi.”
Sul suo palmo e sulle sue unghie sentì Ben trasalire e cercare di mantenersi calmo.
Certo. Lo aveva derubato di tante esperienze.
Non gli aveva concesso di incantarsi davanti all’immagine nera e grigia della sua bambina, di girovagare con la foto in tasca e poi di scrutarla la sera poco prima di addormentarsi.
Buonanotte, bimba mia. Ti amo. Sono il tuo papà. Ti aspetto. Quanto ti amo.
Forse non aveva realizzato. Forse era tanto emozionato e in qualche modo felice.
Il senso di colpa costringeva il suo cuore a battere colpi di ghiaccio e calore nelle sue orecchie. Colpi ritmici di una guerra da cui era strisciata fuori a fatica. Sconfitta e derubata di tutto.
Per questo abbiamo scelto di prenderci del tempo. Per questo motivo lui mi ha chiesto di ricominciare con calma e con i nostri spazi. Io ancora a casa di Finn e lui da solo nel nostro appartamento.
Non mi ha colpito a fondo con crude espressioni e sguardi rancorosi. Non è stato cattivo e vendicativo. Nulla del genere.
E così io ho compreso cosa ci fosse di sottinteso tra i suoi silenzi. L’ho sentito pesante sulla bocca dello stomaco.

Riscosse nella sua mente le parole mai pronunciate che tormentavano ogni suo secondo di esistenza. Le pronunciò piano.
Ho bisogno di una pausa da te e dal male che mi hai fatto. Non ti ho perdonato. Ho bisogno di tempo.
Lo sapeva. Sapeva di essere stata una stupida bambina imperdonabile. Di aver sbagliato ogni cosa e di aver perso tutte le cose belle della sua esistenza.
Lui che ancora cerca di proteggermi e di essere buono con me.
Si erano incontrati quasi ogni giorno e spesso non erano stati soli. La distanza si era accorciata in alcuni istanti - brevi attimi di collaudata conoscenza delle abitudini e dei movimenti dell’altro.
Senza mai baci o qualcos’altro che qualcuno avrebbe potuto credere fosse amore.
(amore per la ragazza-nessuno)
L’unica certezza meravigliosa era l’adorazione che mostrava verso sua figlia.
(non alla ragazzina senza un cuore e senza testa)
Le chiedeva di poter toccare il suo ventre e di bisbigliare qualcosa alla sua pancia.
Ciao amore, sono il tuo papà. Papà ti ama tanto. Papà è felice vicino a te. Sei un miracolo. Ti amo tantissimo. Ti sto aspettando.
La vigilia di Natale era stata la notte in cui tutti avevano scoperto il suo segreto. I loro amici erano rientrati a mezzanotte - avevano trascorso la serata passeggiando al freddo per dar loro modo di chiarire senza altre orecchie indiscrete a casa.
Erano rientrati silenziosamente e avevano trovato i regali sotto l’albero e la cucina aggiustata. Lei seduta ad una sedia mentre Ben chiedeva scusa ondeggiando agitato da un piede all’altro.
Mi dispiace aver distrutto la vostra cucina. Scusatemi. Pagherò qualsiasi danno.
Continuavano a chiedere cosa fosse successo e Ben si torceva le dita delle mani. Finn l’aveva guardata e lei non era più riuscita a trattenersi. Non era mai stato spontaneo nascondersi e mentire. E Finn era sempre stato il suo nascondiglio perfetto.
Sono incinta. Ecco cosa succede.
Lo aveva detto mentre Ben ancora parlava e si scusava e gesticolava verso la sedia con la gamba rotta.
Rose era corsa ad abbracciarla e lei aveva nascosto le lacrime contro il suo cappotto.
Sono incinta e resto qui. Questo avrebbe dovuto dire. Io e Ben non stiamo insieme. Non so più cosa siamo. Non so bene che cosa ho accettato. Ho sbagliato e non penso mi amerà mai più. Che cosa ho fatto? Cosa devo fare adesso?
Udì la porta della stanza chiudersi ed il camice di Ahsoka Tano scomparire dietro ad essa. Si volse a sinistra e le parole della sua mente uscirono dalla sua bocca.
“Come dobbiamo fare adesso?”
Ben la guardò con stupore.
“Cosa?”
“Ben. Tre settimane fa abbiamo deciso di non stare più insieme. Non puoi essere tu ad aiutarmi e non ho neanche bisogno dell’aiuto di qualcuno. Posso fare da sola.”
Lui si morse le labbra e l’interno della guancia. E lei ebbe qualcosa di spezzato tra i suoi battiti. Una scheggia d’acqua che era scesa nel buio oscuro del suo sterno. Lui stringeva ancora la sua mano e la osservava come se fosse un tesoro - un miracolo.
Come sussurrava ogni giorno alla sua pancia e alla loro bimba.
Da tempo c’è un pezzo di ghiaccio incastrato nel mio cuore. Ogni secondo sprofonda sempre di più nei miei incubi e nei miei pensieri. Tu non ci sei. Soltanto un brivido sulla mia nuca ogni volta che scorgo la desolazione che ho creato intorno a me. Che stupida.

Ben non lasciò la sua mano e le baciò le nocche.
Che stupida.
“Per me sarebbe un onore aiutarti. Se non vuoi vivere insieme a me, solamente noi due, possiamo trovare un’altra soluzione. Posso trasferirmi con te e Poe e Finn. Oppure, se è troppo, posso prendere una stanza in un albergo vicino alla casa di Finn. Mi piacerebbe molto essere più presente. Ogni secondo senza di voi mi sembra uno spreco.”
Le sue parole e il suo volto erano un dolore come di spine gettate con poca grazia sulle sue costole. Un male che sottraeva il suo respiro e la sua scarsa calma.
“Io voglio vivere con te. Da settimane desidero… tu hai proposto di riflettere. Hai detto che hai bisogno di tempo. Che hai bisogno di capire.”
Ho capito che non vuoi la nostra storia. Solo io e te. Che vuoi essere padre di nostra figlia e nulla con me.
“Rey. Non significa non stare insieme.”
E la scheggia scese sotto ai suoi talloni.
Tu sei stato distante e non hai cercato nulla con me. E non credo sia ingiusto. Hai ragione e sto cercando di accettarlo da tempo. Quindi che cosa stai dicendo? Perché illudermi?
“Hai chiesto di rimanere distanti. Hai detto di averne bisogno e io lo capisco e concordo con te. Ma non stiamo insieme. Non vuoi e va bene così.”
La sua testa gridava.
No. Non va bene. Non va bene così. Non andrà mai bene così. Cosa stai dicendo non lo sai neanche tu. Ma non va bene. Non va bene e non va bene. Non così. Mai così.
Ben sembrava aggrapparsi alla sua mano. Scosse la testa e le sfiorò il gomito e poi il mento.
“Come puoi dire una cosa del genere? Io non voglio assolutamente questo, non può essere. Io ti amo e l’unica cosa che abbia mai desiderato è una vita insieme a te.”
Lei non sentì le sue parole.
Io ti ho ferito. Io non sono perdonabile.
Io sono relegata lontana da te. Abbastanza da non procurarti più del male. Sufficiente a consumare me. Costantemente.

Riccioli di fumo e sabbia nella sua testa che occultavano a stento l’immenso senso di solitudine e di colpa da cui era soggiogata. 
Ti ho lasciato. Come ho potuto farlo.
Non ti ho detto subito di nostra figlia. Che cosa ho fatto.
Ti ho incolpato di avermi tradita. Come sono stata cieca.
Che stupida.

“Rey.”
Le mani di Ben sulle sue guance.
“Rey.”
La sua bocca tra le sue labbra ed il suo naso.
“Ascoltami. Tu non sei sola. Mi senti? Tu non sei sola ed io ti amo più della mia stessa vita e non voglio mai più separarmi da te. Possiamo parlarne meglio a casa nostra? Vorresti?”
Non si era resa conto di aver chiuso gli occhi e li riaprì mentre lo sfarfallio delle luci elettriche scuoteva le sue sensazioni.
“Non c’è bisogno, Ben.”
C’era un immenso abisso nel suo stomaco contratto su se stesso. La nausea tormentava un punto in mezzo alle costole, la sua gola e la sua lingua.
Lui non si allontanava. Con dolcezza i suoi polpastrelli continuavano ad accarezzarle le guance e la spinsero a guardarlo.
Hai degli occhi bellissimi.
“Non ti ho chiesto queste cose con l’intento di farti del male. Te lo giuro. Credimi, per favore. Posso spiegarti non appena finisce la visita? Da soli? In casa nostra?”
Lo vide deglutire rumorosamente e muovere le labbra in un sussurro.
Per favore.
Non lo aveva immaginato.
Per favore.
Mosse la testa su un lato e lo sentì sulla cute.
Per favore.
“Ben. Mi dispiace averti lasciato solo. Io sono stata terribile e so…”
Le sue parole rimasero incagliate tra i denti con il cigolio della porta e la comparsa della dottoressa Tano. Si sciolse dall’abbraccio e si risedette meglio al suo posto senza allontanare le dita di Ben dalle sue. Lui continuava ad osservarla come in attesa di una risposta o di altre parole. C’era una strana atmosfera nella stanza che doveva essere stata percepita anche dalla ginecologa - anche se sembrava tentare di ignorarla o di ridimensionarla.
Non era turbata dalle loro guance rosse e dagli occhi lucidi. O dal tremore.
Sembriamo pile elettriche sul punto di scoppiare e di bruciare lo spazio che ci circonda.
“Ci sono riuscita. Perdonate nuovamente l’attesa. Il mio assistente Ezra non comprende la tecnologia, proprio come me. Abbiamo dovuto chiedere l’aiuto anche di Sabine.”
Stese sul tavolo le foto scattate e per qualche secondo nessuno dei due si mosse. Poi si avvicinarono insieme e delle piccole immagini rettangolari confusero ancora di più i suoi pensieri.
Sua figlia. La sua bambina. Così piccola.
Delle grandi mani coprirono gli angoli e poi i colori delle foto in una carezza. Avvertì il ventre contrarsi e sorrise dinanzi allo stupore estatico di Ben - dinanzi alla sua venerazione.
Tra le sue mani c’era la vita di entrambe.
Lui la ama davvero. Sarà un padre meraviglioso. L’unica bellissima certezza della mia vita: nostra figlia sarà amata tantissimo.
E per lei - un’orfana abbandonata - il desiderio di ricevere amare incondizionato e le dimostrazioni di affetto assomigliavano da sempre ad una ciotola di ciliegie. Gustose e buone: necessario chiederne sempre di più. Si devono pretendere. Ci si tinge le dita di rosso nel tentativo di soddisfarsi. Si devono sottrarre agli altri. Ci si trasforma in giovani donne avide. Inconsapevolmente.
Il vuoto dentro di lei era senza misura. Con le sue costole scucite e strappate avrebbero scoperto il pozzo senza fondo che era sempre stata. Un nero pece che era da stupidi cercare di colmare. Completamente inutile. Ogni cosa bella era consumata dal suo abisso. Pochi secondi di luce e poi niente più.
Come la mia storia con Ben. Disintegrata dai traumi nati nel momento in cui, da bambina, mi sono voltata e ho visto la macchina dei miei genitori trasformarsi in un’immagine sfocata all’orizzonte.
Nella mia bocca c’è ancora il sapore della sabbia.






Angolo autrice.
Salve! Praticamente aggiorno dopo un anno. Non so se qualcuno aspettava la continuazione, eccola qui. Sì, c'è bisogno di un terzo capitolo. Questa storia ha avuto bisogno di tempo e poi io anche. Spero il risultato sia accettabile, ditemelo senza problemi :) A presto!

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