EXARION - Parte II: Eco di Sirene

di KaienPhantomhive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** intermezzo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 14: Anonimo Veneziano ***
Capitolo 3: *** Capitolo 15: Un Desiderio ***
Capitolo 4: *** Capitolo 16: American Beauty ***
Capitolo 5: *** Capitolo 17: Il Monarca Bianco ***
Capitolo 6: *** Capitolo 18: Il Drago delle Maree ***
Capitolo 7: *** Capitolo 19: All the lonely people ***
Capitolo 8: *** Capitolo 20: Acqua, sale e ghiaccio tritato ***
Capitolo 9: *** Capitolo 21: Götterdämmerung ***
Capitolo 10: *** Capitolo 22: Una richiesta da essere umano ***
Capitolo 11: *** Capitolo 23: Quello che gli uomini sanno fare meglio ***
Capitolo 12: *** Capitolo 24: Ultimatum alla Luna ***
Capitolo 13: *** Capitolo 25: Le Stelle ***



Capitolo 1
*** intermezzo ***


 

Intermezzo

 

18 Giugno 2050. Ore 18:45.

Isola di Mauna Kea; Arcipelago delle Hawaii.

 

Garriti di gabbiani sorvolavano un oceano calmo, sfumato di viola e arancio, dove il Sole si era già quasi del tutto andato ad annegare. Il profumo della sera, dei fiori tropicali e della salsedine si univa allo sciabordio delle onde, chiudendo quell’angolo di mondo in una bolla di pace.

Molto più alto, dove il verso degli uccelli lasciava il posto a grandi silenzi, le cupole bianche dell’Osservatorio Astronomico del Pacifico scintillavano nel tramonto dalla vetta del vulcano Mauna Kea. Due figure – due donne dalla carnagione scura – se ne stavano appoggiate al parapetto della terrazza panoramica.

“Ma quanto ci vuole? Ho fame e devo ancora fare i bagagli.” – chiese la più giovane, senza staccare gli occhi dallo smartsquare su cui digitava ininterrottamente. Aveva lunghi capelli rasati sul lato sinistro e raccolti in una coda alla base del collo; in origine avrebbero dovuti essere neri ma ora erano coperti da uno strato di tinta rosso pompeiano. Non poteva avere più di venticinque anni.

“Eccomi, eccomi. Scusatemi, signore!” – fu la squillante risposta che venne da un uomo appena uscito da uno degli osservatori. Era un bell’uomo che non aveva ancora raggiunto i quaranta, indiano forse, con barba e capelli curati e – da quanto si poteva evincere dai muscoli dell’avambraccio messi di evidenza dalle maniche rigirate della sua camicia – anche piuttosto in forma. Nella mano destra reggeva una valigetta metallizzata che non sembrava avere alcuna chiusura visibile.

“Ce ne hai messo.” – l’altra donna, più vicina all’età del suo interlocutore di quanto non lo fosse la prima ragazza, si voltò verso di lui – “Tutto in ordine?”

“Abbiamo ricevuto l’analisi comparata dei Registri dal laboratorio di Marte, dovrò stilare un rapporto e consegnarlo a tu-sai-chi. Quelli della VRIL Society scalpitano.”

“Ho saputo della Machine dei russi.” – la donna si accese una sigaretta e si sistemò dietro un orecchio una ciocca di lucidi capelli neri che le stava solleticando il viso.

“Già.” – lui si sgranchì la schiena – “Ora che è in mano nostra gli sviluppi del Prototipo potrebbero chiudersi entro i prossimi due mesi.”

“Giusto in tempo per la missione di recupero in Iraq.”

– la donna tirò ancora con la sigaretta e poi alitò via il fumo, fissando l’orizzonte. – “Prima però dovremmo vedercela con quell’altra Machine, quella che deve ancora risvegliarsi.”

“So che ti hanno messa a capo di Eleanor. Tratta bene la mia piccola, per favore.” – e le fece un occhiolino, a cui lei rispose scuotendo la testa come chi a che fare con un bambino incontentabile.

Poi la donna si guardò le punte degli stivali e i suoi occhi scuri si velarono di inquietudine conferendo ancora più durezza ai nobili lineamenti africani: “Se tutto procede come nei piani, ora inizieremo a fare sul serio. Anche per Amber sarà la prima volta.”

“Guarda che ti sento!” – il rimprovero che le giunse dalla ragazza riuscì a strapparle un sorriso.

“E allora?” – chiese infine, girandosi verso di lei – “Pensi che sarai grado, Amber?”

La ragazza che rispondeva a quel nome, ora di spalle, si staccò finalmente dal cellullare, sollevò la testa e la piegò di lato, fissando la coppia sue spalle con la coda dell’occhio. Sul viso spruzzato di lentiggini si stagliava un sorriso di eccitata trepidazione: “È tutta la vita che aspetto per questo momento.”

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 14: Anonimo Veneziano ***


Capitolo 14.

Anonimo Veneziano

 

20 Giugno. Venezia, Italia; Eurasia.

Il freddo sonnolento della mattina si riscosse al frullare ali di piccioni che si libravano dal cornicione di una casa storica, verso il cielo limpido di Venezia.

Quando il rumore degli uccelli fu lontano dalla sua finestra e la sveglia puntata alle 7:00 iniziò a suonare, il ragazzo era già sveglio. Rimase qualche istante immobile seduto sul letto, fissando la chiazza d’umidità sul soffitto della camera matrimoniale: si era allargata ancora.

 

Una manciata d’acqua gelida in viso e tutto sembrava sempre più lucido a ogni risveglio. Premette le mani bagnate contro la pelle e poi le fece scivolare via; sollevò la testa e fissò il volto che gli apparve allo specchio del bagno in maioliche: un adolescente nel pieno della pubertà, dai capelli corti e neri. I suoi grandi occhi blu scrutarono il riflesso ancora un po’, come se si aspettasse un cambiamento, ma era sempre tutto uguale. Scese in pigiama e a piedi nudi le scale ritorte che portavano al piano inferiore, dove la luce dalle alte finestre inondava il salone-ingresso, illuminando gli antichi affreschi semi-scrostati sulla parete non ristrutturata.

La sua bella, elegante e silenziosissima casa.

Non c’era nessuno ad accoglierlo. Nessun genitore, nessun fratello o sorella, nemmeno un animale d’appartamento. Nessuno. Come da tre mesi a quella parte.

Si aggirò tra le cartacce del menù pronto di un fast food, resti abbandonati a terra dalla cena della sera prima. La catasta di poste sigillate sul tavolino accanto all’entrata finì nel suo campo visivo, ma la ignorò. Che nel 2050 il Comune di Venezia si ostinasse ancora a spedire posta bollata a casa anziché notificarlo per email era una cosa che non capiva. Acqua, gas, luce, telefono. Due avvisi per ognuno, che tanto non avrebbe pagato.

Notò che il parquet era caldo. A quanto pareva il riscaldamento funzionava ancora bene, segno che loro stavano davvero provvedendo a pagare ogni suo bisogno, anche se con un certo ritardo. Aprì il frigo e l’ampia scelta di tre merendine, una busta di latte e due bottiglie di cola gli suggerì di optare per una merendina e la busta di latte. Scartò la merendina e la finì in un paio di morsi, mentre il poco latte rimasto fu trangugiato direttamente dal brick.

Poi, con metodica passività, si preparò: vestiti, libri di scuola, tracolla sempre sulla spalla destra e già che c’era l’ultimo volume del manga che doveva ancora terminare, preso direttamente dalla colonna di romanzi e fumetti che aveva impilato vicino al divano e che ora iniziava ad assumere un’altezza alquanto importante. Infilò le chiavi nella toppa della porta e uscì.

Fu così che Màrino Alto concluse il suo rituale mattutino.

 

Camminò sullo schermo translucido posto sul canale che scorreva proprio davanti al suo uscio; degli esagoni luminosi vibrarono per un momento sotto il peso dei suoi passi e poi imboccò il marciapiede. Il popolo veneziano del suo rione non aveva ancora preso il ritmo, a quell’ora, così che la strada era quasi del tutto deserta. Nell’aria c’era un profumo d’acqua e d’estate.

 

A sedici anni, Màrino non era molto alto, non si poteva dire che avesse il fisico dell’atleta e, purtroppo per lui, chi si fosse trovato a parlarne non lo avrebbe descritto come particolarmente bello o intelligente. Amava perdersi nel suo mondo perfetto fatto di racconti, personaggi e luoghi senza età che popolavano le pagine muschiate dei suoi libri o quelle che puzzavano d’inchiostro dei fumetti. Maghi o guerrieri, creature impossibili o supereroi che combattevano per ideali immortali, poteri incredibili che permettevano qualunque cosa…al confronto, la vita reale era un’inutile distrazione tra i sogni notturni e quelli in veglia. Gli ricordava che era solo.

Tre mesi prima Màrino tornava da scuola e ritrovava la sua casa circondata dalla polizia. Si era fatto largo tra quanti avevano tentato di risparmiargli invano una vista dolorosa e ciò che aveva trovato erano stati i corpi dei genitori stesi al suolo, con un cappio ancora legato al collo e la scritta ‘FASCI MAIALI’ sulle pareti di casa.

La scritta era andata via con una mano di vernice, ma il ricordo di quel giorno no. Disperarsi era inutile: non aveva altri parenti ma solo una meravigliosa sfilza di sconosciuti che lo compativano miseramente. Ma a lui non importava più. Dopotutto aveva trovato loro, i suoi nuovi benefattori, che gli evitavano di finire in orfanotrofio pagando tutte le sue spese.

Continuò in silenzio il suo tragitto.

Aveva calcolato tutto: venti minuti di preparazione a casa, quindici minuti di tragitto a passo moderato, cinque per salire in aula tenendo conto anche del traffico studentesco e gli avanzava anche del tempo prima dell’inizio delle lezioni.

Fece tutto per bene e anche la giornata scolastica iniziò e finì nello stesso torpore.

Nel tornare a casa non mancò di fermarsi al suo bar preferito in piazza San Marco, seduto sempre al tavolino esterno accanto alle piante. Ordinò la regolare coppa gelato con guarnizione di panna e croccante, pagò e se ne andò. Si fermò sul molo per i suoi immancabili dieci minuti di osservazione di tutto ciò che entrava nel suo campo visivo e poi lasciò anche quel posto.

Scelse la strada più lunga per il ritorno, gironzolando per le viuzze traboccanti maschere in cartapesta di pessima qualità per i turisti e infine ritrovò la sua dimora di mattoni rossicci, là dove era sempre stata, nel Sestiere Cannaregio. A volte sperava di non trovarla al suo posto, come se un mago l’avesse fatta scomparire per dispetto. Così, tanto per avere qualcosa di cui sorprendersi.

E invece nessun mantello dell’invisibilità steso sulla sua casa a due piani.

Rientrò. Si spogliò. Una quasi-cena di cibo su ordinazione. Il televisore non venne nemmeno toccato, quella sera. Un film sulla TV a pagamento e poi “luci off”.

 

Il giorno seguente, i piccioni erano nuovamente sul suo balcone, intenti a tubare tra loro. Come sempre Màrino aveva gli occhi spalancati prima della sveglia e quando il dispositivo entrò in funzione si mise a sedere sul letto.

Sospirò.

 

*   *   *

 

Ore 10:30. Nuovo Liceo Classico Internazionale ‘Marco Foscarini’.

 

La lezione di Storia procedeva senza interesse. L’ometto baffuto che aveva per professore continuava a blaterare suoni che arrivavano indistinti alle orecchie di Màrino, troppo immerso a osservare i profili ammiccanti di bifore e archi bianchi degli antichi palazzi della città, che si estendevano fuori dalla finestra come un tappeto adagiato sull’acqua.

 

Da quando l’Italia si era uniformata al nuovo programma di istruzione euroasiatico, la scuola era un impegno che si protraeva fino alla fine di Giugno e, sebbene tale novità non fosse stata accolta con entusiasmo da nessuno degli studenti italiani nei primi tempi, cinque anni erano stati sufficienti per renderla semplice abitudine.

 

Sul suo quaderno era stato scribacchiato in una pessima grafia qualche appunto:

  • 2035: Russia e Cina formano Repubbliche Neo-Socialiste Russoasiatiche, per opporsi agli Stati Uniti
  • 2036: Unione Europea chiede formazione di una sola potenza continentale
  • 1 Gennaio 2039: nasce Blocco Continentale Economico Eurasiatico (EECB)  entra in vigore euroyuan  EURNY (nuova moneta unica, prima avevamo euro)
  • 4 Luglio 2040: Austramerica è la risposta all’Eurasia. USA, Sud America e Canada vengono annesse ad America del Nord; si forma supergoverno degli Stati Federati d’Austramerica (FSA)
  • 2042: Africa e Medio Oriente restano le uniche indipendenti  stringono Patto di Mediazione delle Nazioni Arabiche (tipo vecchia Europa)
  • 30 Aprile 2050: il Reich è tornato.

Con il dorso della mano a sorreggergli la testa rimase a fissare il l’ondeggiare degli alberi in cortile. Un mare verde frusciante che mormorava sospiri a metà della sua vita.

 

*   *   *

 

Quattro ore dopo.

 

Màrino spense il terminale dell’aula computer, staccando l’hard disk esterno e infilandoselo in borsa. Anche la ricerca di chimica era stata completata, ovviamente sempre in totale solitudine, neanche a specificarlo. Sembrava che le persone tendessero ad avvicinarsi a lui solo quel tanto che era inevitabile in una civile tolleranza, ma nessuno provava a superare la soglia che con il tempo si era circoscritto. Non che lui stesso ne avesse poi molta voglia, in realtà; se era impossibile trovare punti di incontro con gli altri, allora tanto valeva starsene per conto proprio.

Ripercorreva il corridoio nel senso contrario, quando qualcosa catturò la sua attenzione. All’inizio fu solo una sensazione, quasi un istinto, che gli solleticò i sensi. Non sembrava avere una consistenza e non era nemmeno certo che stesse davvero accadendo qualcosa, al punto che si fermò per sincerarsene. Era come avere un granello di sabbia nell’orecchio, qualcosa che si muove appena ma che non si riesce a distinguere. Mosse qualche altro passo avanti e poi il granello di sabbia iniziò a muoversi con più precisione e più in fretta: ora era quasi un ronzio. Ancora un passo. Il ronzio era sempre più continuo e nitido. Iniziò a capire.

Non era un ronzio: era musica. Vibrazioni brevi e decise che producevano un suono caldo e armonioso; di sicuro si trattava di uno strumento ad archi. Erano sequenze di note che non riconosceva ma di cui comunque riusciva a intuire il ritmo; frasi musicali molto simili tra loro che si ripetevano differenziandosi sempre al più di qualche nota. Si lasciò guidare dalla melodia costante e piacevole e si ritrovò presto davanti alle porte di vetro dell’aula di musica, dalla quale giungeva finalmente intellegibile.

Era strano. Non si era mai interessato di musica classica, l’aveva sempre trovata tremendamente monotona, ma quella volta era diverso. Forse perché inattesa, forse perché non aveva di meglio da fare, restava il fatto che quella serie ordinata di suoni l’aveva catturato come un incantesimo.Spinse piano un battente per osservare meglio l’artefice di tanta bellezza – si aspettava forse un ometto in abito da concerto o solo uno stereo in loop – e chi vide lo stupì notevolmente.

Era un ragazzo. Di spalle, quindi non poteva vederlo in volto, ma immaginò che non potesse essere tanto più grande di lui. Il musicista per adesso era solo un sottile gilet di cachemire bianco e una chioma nocciola, seduto su una seggiola al centro della grande stanza vuota, piena di luce. Era curvo su sé stesso, intento a muovere il lungo archetto che impugnava nella mano destra su quello che a Màrino parve nient’altro che un violino gigante. Che musica ambigua! C’era della gioia in quel brano, ma era soppressa, quasi intimidita da una nota di fondo di lieve solitudine, il tutto indurito da una tecnica perfetta. Adesso stava accelerando e faticava, si vedeva, e dopo un paio di colpi d’arco una nota s’impennò come un cavallo imbizzarrito, stonando meravigliosamente male. Al violoncellista quasi cadde di mano lo strumento. Emise un sospiro sconfortato e poi fece per voltarsi.

Màrino si ritrasse immediatamente oltre la porta, riuscendo a non farsi notare. Perché nascondersi? Non stava facendo nulla di male, però non volle comunque che il musicista senza nome né volto venisse a sapere che lo stava origliando. Quella musica…quel ‘qualcosa’ che non riusciva a spiegarsi era stata spiazzante. Una novità! Per una volta! Si sorprese nell’accorgersi di stare sorridendo.

 

*   *   *

 

Era ormai pomeriggio inoltrato quando incrociò per caso Alfredo Zanin, gondoliere che si era fatto una certa nomea per Venezia per la sua indole sconsideratamente romantica e invasiva, in grado di regalare traghettate gratis alle coppiette che accettavano di raccontargli un po’ di affari loro.La sua gondola nera era passata sotto un ponticello, affiancando Màrino che procedeva a piedi.

Alfredo – detto ‘Alfio’ – aveva fatto amicizia con lui poco tempo dopo l’omicidio-suicidio dei coniugi Alto. Magari solo per compassione, ma da allora non erano state poche le volte che si erano intrattenuti l’un l’altro con lunghe traversate.

Si salutarono e Màrino fu invitato a saltare a bordo con un gesto.

“Dove si va oggi?” – chiese il gondoliere, sorridendo da sotto il capellino di paglia.

“Al Malipiero.”

“Ricevuto, capo.”

La gondola ripartì con un colpo di remo.

 

La barca scivolò sulle acque rapida e quieta come un’ombra acque.Si immise nel Canal Grande, sorpassò le volte bianche e leggiadre del Ponte di Rialto e proseguì diritta, contro la fresca brezza.La via risplendeva dei colori degli holo-cartelli sospesi a mezz’aria, che di tanto in tanto cambiavano forma e colore per regolare il traffico di imbarcazioni gremite di veneziani a fine giornata. Atone voci robotiche annunciavano a ogni incrocio l’altezza della marea di quel giorno. L’ologramma di un divieto, sospeso accanto a un palo a strisce bianche-rosse, si rovesciò in un ‘via libera’ verde.

Proseguirono senza parlare molto, limitandosi a gustare la pace del pomeriggio. Poi, a poche decine di metri, i grandi e curati alberi del Giardino Malipiero iniziarono a verdeggiare sul lato destro del canale.

C’era anche qualcun altro sul parapetto di marmo: una piccola figura pallida che sembrava seguirli con lo sguardo, immota. La gondola accostò sul pontile bianco e Zanin salutò il suo giovane amico con un piccolo inchino, e presto la barchetta fu solo una lontana virgola scura sospesa sulla parola ‘acqua’.

 

Màrino mosse qualche passo incerto fino a raggiungere la piccola presenza che avevano avvistato e le si sedette accanto, sui gradini.

Era una ragazza della sua stessa età, esile e minuta, dall’incarnato diafano. Indossava un abitino di pizzo bianco che le copriva anche le braccia e che sembrava davvero troppo leggero anche per la stagione. Sopra il bianco delle sue vesti risaltava il colore dei suoi capelli, che le ricadevano lisci e composti sulle spalle.

Capelli celesti; completamente.

Ma la cosa che più lo affascinava e insieme inquietava era il suo piccolo viso di porcellana, coperto da bende bianche che le lasciavano libera solo la bocca, il naso e la metà sinistra del volto. Sopra quelle fasciature era stato applicato un piccolo bouquet di rose di un azzurro cianotico, che parevano sbocciare direttamente dalla sua orbita.

Màrino squadrò diffidente il suo abito e chiese: “Ma non hai freddo, così?”

“Non ha granché importanza.” – rispose lei con una voce lieve e gradevole – “Certo, la brezza della sera è così azzurra e il profumo dell’acqua è blu e questi colori potrebbero far rabbrividire, ma essi sono anche il colore del cielo e le profondità del mare…e non c’è nulla di più piacevole di un cielo terso o di un mare calmo.”

“Ehm…sì. Ok.” – Màrino alzò un sopracciglio, incerto se replicare o meno, ma il tono di immensa pacatezza con cui lei aveva pronunciato quella frase gli aveva tolto la voglia di contestare. Non era nemmeno certo che avesse detto qualcosa di sensato, ma da un po’ si era abituato a quel modo tutto singolare di parlare.

 

Era successo un mese e mezzo prima, in una giornata come tante – l’ennesima di una fila interminabile di giorni assopiti – ma che era iniziata in modo differente: un incubo, o forse solo un sogno meno quieto del solito, perché non avrebbe potuto considerarlo troppo terrificante. In esso lui affondava; affondava senza sosta in un abisso marino le cui ombre nascondevano forme sconosciute che sembravano osservarlo. E poi due sottili occhi rossi sul fondo dell’oscurità, mani ricoperte d’acciaio che si muovevano lente e una voce femminile che lo invitava a esprimere un desiderio, per avere accesso ai segreti celati nel cuore di quel mondo sommerso.

Il giorno stesso della nottata surreale aveva incontrato lei, seduta sempre sul ciglio del Malipiero, ad attenderlo e a presentarsi con la stessa voce che aveva animato il suo sogno: Na-El.

 

Lei si voltò nella sua direzione e gli sorrise con dolcezza.

Màrino sussultò alla vista dell’iride sinistra: avrebbe potuto essere una bellissima gemma in un occhio felice e invece era un opale torbido. Il ragazzo dimenticava quasi ogni volta l’assenza di vita in quegli occhi a cui era stata negata la luce. Ma nonostante questo lei sembrava sempre seguire tutto attentamente – dagli uccelli in volo alle barche natanti – al punto che ebbe sovente il dubbio che non fosse cieca come voleva far credere. Ma lo era davvero e per questo fu ancora più sorpreso.

“Scusami se te lo chiedo…” – indugiò in imbarazzo, fissando un punto a terra – “…ma come fai a dirlo? Sì, insomma…i colori, intendo. Voglio dire, non sei…ecco…?”

“Perché sono cieca?” – disse Na-El, senza alcun timore – “Solo perché non posso vedere le cose come le vedi tu non significa che il mio mondo sia vuoto. Ci sono così tanti colori nei suoni! E nei rumori. E nei profumi. Non bisogna avere gli occhi per sentire un colore. Ogni persona ha dentro di sé un’idea di ‘albero’, di ‘mare’, di ‘cielo’ e anche di ‘colore’.”

Màrino rimase in ascolto, fissando il suo puro e vergine profilo indorato dai raggi di un Sole morente, che iniziava a ritirarsi dietro profilo dei tetti

“Il rosso della passione, il blu della quiete, il viola della solitudine, il giallo della gioia, il rosa della nostalgia, il bianco, il nero e tutto ciò che c’è in mezzo. Puoi trovare un’infinità di sfumature per tutto ciò che esiste a questo mondo e quei colori sono radicati dentro di noi, dal momento della nascita. Puoi gustarli, puoi udirli e puoi annusarli anche a occhi chiusi. Puoi vivere tutti i colori non visti che vuoi.”

Màrino rivolse lo sguardo all’acqua infuocata dal tramonto e si domandò come mai potesse esserci un modo per immaginare tutti quegli scintillii, quei riflessi, quelle onde increspate senza averli mai conosciuti. Era un’altra delle cose che non riusciva a capire di quella ragazza spuntata dal nulla, come una sirena.

Una Sirena. – cominciava quasi a credere a quella parola.

Si alzò in piedi, pronto a tornare a casa: “Oggi è stata una bella giornata.”

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 15: Un Desiderio ***


15.

 

Un Desiderio

 

Giorno seguente. Ore 9:30.

 

Quella mattina Màrino si sentiva più carico del solito: era la ‘giornata di Sara’.

 

Sara era una ragazza della sua stessa età e frequentavano la stessa scuola, sebbene in sezioni diverse. Per lungo tempo erano anche stati vicini di casa, prima che i genitori di lei ne cercassero una più piccola, circa un anno prima della morte di quelli del ragazzo. Màrino conosceva perfettamente il motivo di quel trasloco: il padre di Sara, Fernando, era stato sempre un uomo modesto, sia nei modi che nel lavoro, ma negli ultimi tempi era cambiato. Con il contratto a tempo determinato agli sgoccioli, era finito a contrarre debiti su debiti (motivo ulteriore per cercare una casa più economica), che avevano portato alle lunghe nottate combattute per locali a bere e a imbottirsi i polmoni di nicotina, finché alcool e sigarette non avevano iniziato a essere sostituiti da qualcosa in grado di impadronirsi di fette sempre più ampie del suo cervello, rendendogli facili le urla e le mani su una moglie che altro non voleva che rimanergli accanto. Una sera però i ruoli si erano invertiti: nell’unico moto di coraggio trovato, quella donna concesse l’ultimo sguardo d’amore a sua figlia e l’ultimo di rancore verso il marito, poi si richiuse per sempre la porta alle spalle. Màrino sapeva che da allora le cose erano tutt’altro che migliorate per l’amica. Lei faceva il possibile per evitare l’argomento ma gli sguardi bassi, la voce insicura e alcune macchie scure sui polsi non mentivano. E come ciliegina sulla torta si aggiungeva l’incidente in cui era caduta in acqua per errore dalla banchina, cosa che l’aveva costretta in ospedale già da due settimane. Màrino le faceva visita ogni tre giorni e come sempre accade per due cuori tanto giovani, l’amicizia si era trasformata in qualcosa di più, perlomeno per lui. E a difesa di qualcosa di bello sorge spesso l’odio verso ciò che tenta di minacciarlo: il signor Fernando meritava una punizione. Ma non certo da Màrino, lui che era solo al mondo, lui non che non aveva molti amici, lui che non era forte o coraggioso. Anche se da quando aveva conosciuto quella Na-El…

 

Il ragazzo si obbligò a smettere di pensare a quanto accaduto e si preparò il più in fretta possibile, sperando di non ritardare per l’orario delle visite.

Esitò solo un momento sulla sua scrivania, dove fece ondeggiare un dito indeciso su due volumi della saga letteraria che stava prestando all’amica; non ricordava a che punto fosse arrivata ma alla fine optò per il terzo libro.

 

*   *   *

 

Giunto all’ Ospedale Dell’Angelo, Màrino non ebbe bisogno di perdere tempo con le bacheche digitali del punto informazioni. Aveva imparato in fretta la strada per la camera della ragazza ma, pur sapendo di essere in orario, chiese comunque alla donna che presiedeva alla reception del reparto convalescenze: “Sono qui per Sara De Bortoli. Sono ancora in tempo?”

L’infermiera concesse un’occhiata disinteressata all’orario delle visite: “È la 209. Hai dieci minuti.”

 

Era sul punto di entrare quando qualcuno che veniva in senso opposto lo urtò sovrappensiero. Due occhi spossati, animati da un lume torvo e infossati in un viso paonazzo, irto di qualche spillo di barba ingrigita, il tutto confezionato da capelli scuri, unticci e scomposti che a Màrino francamente davano il voltastomaco. Fernando De Bortoli, il padre di Sara. Il ragazzo indietreggiò di mezzo metro, colto di sorpresa, mentre Fernando chiese con un mezzo grugnito che dimostrava tutta la difficoltà nell’apparire sobrio: “E tu che vuoi, qui?”

“Sono venuto a trovarla.” – rispose innervosito Màrino guardando altrove e provando a superarlo.

“Ora non puoi vederla.” – De Bortoli gli mise una spalla davanti.

“È l’orario di visita, certo che posso.” –lo stava sfidando con le pupille ben piantate addosso a lui.

“Chi è, papà?” – arrivò una vocetta tremante da dentro la stanza.

“Sono io!” – esclamò Màrino con una voce allegra che cozzava con lo sguardo raggelante che aveva assunto.

Fernando si risollevò sulla schiena e lo squadrò da capo a piedi, masticandosi la lingua per trattenere l’impulso di mettergli le mani al collo.Annuì amareggiato con la testa, distolse lo sguardo e poi se ne andò senza replicare anche se a Màrino non sfuggì il poco fine “Stronzetto.” che gli aveva dedicò tra i denti.

Quando entrò nella stanza la trovò lì dove se la immaginava: seduta sul letto della stanzetta d’ospedale, con le gambe sotto lenzuola bianche. Il suo profilo in controluce era scuro, ma sembrava proprio che non attendesse altri che lui.

Quando le si sedette accanto – sulla seggiola pieghevole di plastica – lei lo salutò raggiante: “Ehi, sei venuto anche oggi!”

“Ovvio.” “– ammise lui sorridente – “Un giorno sì e tre no.”

“Molto carino da parte tua. E anche un po’ inquietante, eh.”

Una breve risata li unì. Poi il ragazzo si ricordò del libro nella tracolla e lo estrasse: “Ah, tieni. Ti ho portato il terzo volume. Ti mancava questo, giusto? Non mi ricordo bene.”

“Sì, sì, è lui!” – confermò Sara, girandosi il volume tra le mani, tutta entusiasta – “Grazie, Màrino!”

“Prego.” – tentò di contenere il sorriso, come se dimostrarsi troppo soddisfatto fosse disdicevole.

“Sono contenta che vieni sempre. E voglio subito iniziare a legg-”

Una scarica di tosse la interruppe. Breve ma violenta.

Màrino sussultò e le mise istintivamente una mano sulla schiena:

“Ehi, piano! Non parlare a voce troppo alta.”

“Non è niente. Scusa.” – cercò di ricomporsi, schiarendosi la voce indebolita – “I medici dicono che la polmonite è stata leggera, sono già quasi guarita. Resta solo un po’ di irritazione.”

Màrino non ne sembrava molto convinto ma sperava sinceramente che i ‘dottoroni’ di Venezia sapessero fare il loro mestiere. Stava per dire dell’altro quando notò qualcosa che lo disturbò non poco: “E qua cos’hai?”

Le prese d’istinto il polso: da sotto il pigiama antisettico spuntava un braccino sottile sporcato di macchie di un grigio sfilacciato di violastro. Lividi, vecchi di almeno un paio di giorni.

“Niente.” – lei si ritrasse di scatto, tirando giù la manica – “Non è niente.”

“Chi te l’ha fatti?” – domandò accigliato Màrino, temeva già la risposta.

“Me li sono fatta da sola.” – la voce di Sara era incrinata, tentando di convincere sé stessa.

“E come?”

“Quando sono caduta in acqua.”

“L’acqua non stringe i polsi.”

Lei dischiuse appena le labbra per replicare ma evidentemente non le venne in mente nulla, perché le richiuse. Aveva paura di dirlo ma ancora di più avrebbe voluto farlo. Si tratteneva a stento, glielo si leggeva negli occhi persi nel vuoto. Màrino intuì in quel silenzio tutto il peso della verità.

“Tuo padre?” – mormorò lentamente, con orrore – “È stato lui?”

“No.” – lo disse tanto in fretta da risultare premeditato.

“Te li ha fatti lui?!” – ora Màrino stava iniziando ad alzare la voce, stringendo le lenzuola in un pugno.

“No, guarda, ti sbagli.” – gli occhi le si stavano inumidendo e le labbra le tremavano dal nervosismo.

“Che schifo.” – sibilò lui, scattando in piedi – “Io vado dalla polizia.”

“No!” – gridò lei, paralizzandolo – “Per favore, non lo fare.”

“Ma guarda che ti ha fatto!”

“Non è stato lui.” – ci stava provando in tutti modi a sembrare credibile.

“Come puoi difenderlo, dopo questo?!” – Màrino stava iniziando ad attirare l’attenzione degli infermieri che passavano per il corridoio.

Era davvero sconcertato: come era possibile che lei si ostinasse a coprire l’inutile esistenza di quella versione mancata di uomo che aveva l’unico merito di averle donato parte del suo DNA? Poteva spingersi a tal punto l’amore di una figlia verso suo padre? Era forse lui quello a non capire, troppo privato dei sentimenti dopo la morte dei suoi genitori?

“Dai, su, non è grave.” – disse ancora lei, grattandosi le unghie; la sua voce ora era fredda, lontana – “Non fa niente. Sono stanca, quindi se potessi farmi riposare…”

“Ma…”

“Per favore.” – lo stava mandando via.

Lui rimase fermo come un palo, inebetito da quel comportamento: lui la adorava, era la sua amica. Di più: lui le voleva bene. Probabilmente un giorno avrebbe capito che il suo affetto andava molto oltre la semplice amicizia e per tanto non avrebbe mai – in alcun modo possibile – accettato che quella ragazza così fresca e spontanea potesse rimanere ferita da qualcosa, benché meno da un essere ripugnante come Fernando De Bortoli.

Tutto quello che lui desiderava era starle accanto. Il suo Desiderio, già. Quel segreto che aveva pronunciato alla ragazza nel sogno – Na-El – che in cambio gli aveva promesso di donargli la forza e i mezzi necessari per adempiere a quel compito. Difenderla, come un eroe difende i più deboli, era la sua missione. Tutto ciò che contrastava doveva essere eliminato. Anche il signor De Bortoli. Anche suo padre.

“Grazie ancora per il libro.” – ripeté Sara, che ora aveva girato lo sguardo alla finestra.

Era proprio il caso di andarsene. Prima di uscire dalla stanza si voltò ancora verso di lei per dirle un’ultima frase che tuttavia dimenticò. Si decise ad andarsene una volta per tutte.

 

*   *   *

 

Màrino era sulla via del ritorno, ma la sua mente rimaneva appigliata per una mano a quella ragazza che aveva appena lasciato.

Io cerco di aiutarla e lei mi manda via! Perché lo fa? Perché lo protegge?! Vorrei che quell’uomo crepasse. Se potessi…!

L’aria di metà mattinata era ancora fresca quando un tonfo sordo, lontano ma distinto, gli colpì i timpani. Era come un sacco che cade a terra. O un corpo. Seguì un secondo rumore più forte, come di legno che si spezza e poi suoni indistinti che dovevano essere umani. Accelerò il passo, verso il ponticello che collegava il suo lato della strada con il successivo e allora capì. Dall’altra parte del sestiere, proprio sul ciglio del canale, due uomini erano ritti davanti a quello che all’inizio gli apparve solo come un mucchio di grossi pezzi di abete rosso e una grande scatola nera aperta al suolo, ai piedi di una terza figura che se ne stava rannicchiata a terra.

“Ehi!” – urlò loro contro, senza nemmeno riflettere – “Che gli state facendo?!”

Quello per terra non era semplice legno, ma uno strumento ad archi ormai inservibile, la scatola nera il suo contenitore e la figura a terra un ragazzo. Davanti a lui si ergevano due uomini di età indefinibile dato lo stato di trascuratezza in cui versavano loro e le loro felpe smunte. Uno dei due – che aveva la testa rasata e un tatuaggio di un Fascio Littorio sulla nuca – diede un colpetto all’altro, indicando l’intruso. Il compagno dai capelli più ispidi si voltò verso Màrino e fece di rimando: “Ehi, muso de’ mona! Cazzo ti guardi?!”

Màrino non pensò nemmeno lontanamente che avrebbe potuto essere poco saggio lanciarsi di petto in quella faccenda, ma agì d’impulso. Scese dal lato opposto del ponticello, fronteggiandoli a pochi metri di distanza. Ora poteva vedere il ragazzino steso a terra, che gli rivolse un’occhiata supplichevole.

“Ma che vi ha fatto?!” – gridò –“Lasciatelo stare!”

Il suo degno compare sgranò gli occhi come ste stesse parlando con un folle scriteriato: “Come, scusa? Ma chi ti credi di essere, cojon!”

“Aspetta un attimo…” – il tizio pelato lo squadrò interamente e poi chiese divertito – “…sei mica il figlio degli Alto? Quello che gli si sono suicidati i genitori?”

Centro. Màrino deglutì senza rispondere.

“Un cagnolino orfano dovrebbe starsene a casa, anziché cercare rogne.” – il sorriso di quel tipo era un ghigno orrendo.

Màrino fissò prima lui, poi il ragazzo a terra e poi ancora il tizio nerboruto.

“Vi ho chiesto che cosa vi ha fatto.” –la sua voce iniziava a farsi meno spavalda.

“Lo vuoi sapere?” – l’uomo puntò il ragazzo con l’archetto del suo strumento ad archi, che doveva avergli strappato dalle mani prima dell’arrivo di Màrino – “ ‘Sto imatonìo è un insetto ebreo! E pure reciòn, te lo dico io.”

Pronunciò quelle parole con così tanto disprezzo da farlo sembrare un peccato capitale.

“E non è nemmeno italiano. Vengono qui a sporcarci la città!”

E gli spezzò l’archetto con un ginocchio.

Insetto ebreo! Màrino non credeva alle sue orecchie. Che razza di giustificazione voleva essere? Nel 2050 la gente andava in giro a picchiare ragazzini di religione diversa? E in più quel tale aveva parlato con una tale certezza delle proprie ragioni che pareva si aspettasse di essere supportato.

“E per questo lo trattate così?!”

“Ma ti se sbregà?!” – sbottò il tizio con la camicia allargando le braccia, più sorpreso che infuriato – “Sei uno degli Alto, no? Cazzo ti frega de ‘sto mona! Uno come te dovrebbe stare dalla nostra parte!”

Dalla vostra parte?” – ripeté lui, colmo di disprezzo – “Cosa vi fa credere che io sia come voi? Non vi azzardate manco per sogno a parlare di noi!”

Qualcosa scattò come una molla nel cervello del ragazzo, facendo prendere una vacanza al senso di autoconservazione, mentre gli si scagliò contro. Il tipo dalla testa rasata incassò l’impatto con il suo corpo, ma non ci volle grande sforzo per afferrarlo per le braccia e rispingerlo via: “Ehi, oh, piano. Fai poco l’eroe.”

Màrino sbatté dolorosamente il fondoschiena e terra, finendo per fare compagnia all’altro ragazzo. Ma ormai era entrato in una dimensione parallela in cui l’unico dolore che poteva avvertire era quello dentro di lui.

“Sono quelli come voi che infangano il nome della mia famiglia!”

‘Dovresti stare dalla nostra parte’. Era tutto lì. Se i suoi erano morti, se ora lui era rimasto a sorreggere il peso della vita in solitudine, se la gente lo allontanava come ricoperto da un’aura funesta.Tutto era per quella frase, per quella convinzione che si era diffusa come un morbo per i vicoli gorgoglianti di muschio di quella città in putrefazione.

“È per gente come voi che mamma e papà ci sono andati di mezzo!” – strinse un pugno fino a conficcarsi le unghie nella carne.

Gli Alto: dei bigotti. Era iniziata così e poi aveva attraversato tutte le sfumature dei ‘ricconi’, ‘razzisti’, dei ‘ladri’ e alla fine dei ‘fascisti’. Quando poi si venne a sapere i Nazisti erano tornati sulla Terra e che i movimenti estremisti avevano iniziato a prendere forma anche a Venezia fu la fine: l’idea di un’influente coppia di procuratori distrettuali di indirizzo centro-conservatore aveva messo in un tale allarme la popolazione che presto la diffidenza divenne paranoia. E poi minacce. E alla fine l’omicidio-suicidio – nessuno seppe dare una sentenza definitiva – dei coniugi Alto. Màrino era orfano per via di un gossip.

“È anche per colpa vostra se adesso sono solo!” – ormai la voce era un ringhio rabbioso.

Qualcosa di oscuro baluginò in fondo ai suoi occhi e non sfuggì ai due uomini. Non avrebbero potuto dire cosa animasse il suo sguardo, né perché improvvisamente si sentissero in pericolo. Ma c’era una vibrazione profonda, ancestrale – istinto base, forse – che suggerì loro che quel giorno era meglio cambiare aria. Il tizio con il Fascio tatuato scosse lentamente la testa, incapace di scollargli gli occhi di dosso ma anche di attaccarlo. Un po’ alla volta indietreggiarono: “Ma va’ a cagar sule ortighe.”

E se ne andarono, spinti da quella indescrivibile sensazione.

“Ora puoi alzarti, se ne sono andati.” – disse Màrino, dopo qualche secondo – “Dai, ti aiuto.”

Lo tirò su per un braccio. Ora che aveva modo di squadrarlo meglio, si rese conto che quella chioma lucida di capelli nocciola, in parte appiattita sulla tempia sinistra da due sottili forcelle, non gli era del tutto nuova e nemmeno il gilet di cachemire bianco. Neanche i pezzi di quello strumento musicale gli erano proprio stranieri, a pensarci bene. Poi l’illuminazione: era lui. Era davanti al violoncellista – se avesse conosciuto il termine – senza volto dell’aula di musica.

“Mi dispiace per…” – gli disse, provando a indicare il violoncello a pezzi, ma lasciò perdere l’idea di dargli un nome più preciso – “…quello.”

Ma il ragazzo non sembrava ascoltarlo, così insistette: “Beh, potresti anche ringraziare, eh.”

Lui si voltò con gli occhi bassi e ciancicò impacciato: “Oh…yeah. Thanks.”

Una risposta in un’altra lingua.

“Parli Inglese?”

Il ragazzo confermò con un cenno veloce del capo.

“E ce l’hai un nome?” – era peggio di estrarre un molare.

Quello non rispose subito, forse non aveva del tutto colto la frase.

“Il tuo nome.” – gli ripeté, paziente – “What’s your name?

La più scolastica delle frasi pronte. Il ragazzo batté gli occhi in segno di comprensione, come se gli si fosse accese una lampadina in testa, e rispose con una vocetta debole e insicura: “Oh. Aaron. Aaron Alford.”

“Io sono Màrino.”

 

Camminavano già da un quarto d’ora abbondante, dopo che Aaron era stato aiutato a recuperare i pezzi sparsi dello strumento e a chiuderli nella grande custodia da schiena.

“E così sei a Venezia per studio?” – quel nuovo incontro aveva riacceso tutta la curiosità di Màrino.

“Sì. Sono…ehm…transfer student.” – non ne sembrava troppo convinto – “Studio Italiano. Provo.”

Tendeva a eliminare qualche congiunzione ma la pronuncia era buona.

“E da dove vieni di preciso?”

England. Liverpool.”

“Ah, come la squadra di calcio! E ti trovi bene, qui?” – ma realizzò di quanto era appena successo e non lo trovò proprio un bel cartellino da visita – “Cioè, a parte…certa gente. Ma non siamo mica tutti così.”

Yeah, yeah. Lo so.” – Aaron provò a rassicurarlo con un sorriso forzato – “Qui sto bene. Più caldo di Liverpool. Però anche più acqua!”

Quell’ovvia constatazione strappò a Màrino una risata.

“Solo che…” – Aaron si grattò la testa e strizzò gli occhi, come se aspettasse di ricevere uno scapaccione – “…ho rotto cello.”

“Cosa?”

Cello. Ah, giusto. Violoncello, si dice da voi, no?”

“È quello strumento che porti lì dentro?”

It was. È della scuola. Preso in prestito.” – Aaron fece schioccare la lingua in un’ammissione di colpa – “Mi sa che andranno…pretty mad.

Nel tempo di questa conversazione erano intanto arrivati davanti alla suddetta scuola, che ora appariva come un patibolo per il povero ragazzo inglese.

“Ma no.” – lo incoraggiò Màrino – “Se gli quello che è successo, capiranno sicuramente.”

 

Tre rampe di scale e diverse imprecazioni dopo, Màrino si ritrovò smentito. A poco servì mostrare i pantaloni rovinati dall’asfalto o spergiurare che era stato testimone oculare della scena, il preside – al netto di una certa dose di scettiscismo – non avrebbe potuto chiudere un occhio neanche volendo davanti a uno dei preziosi violoncelli della scuola, ridotto in quello stato. Quando uscirono dall’ufficio del preside, Aaron si lasciò cadere se una sedia in corridoio. Avrebbe voluto piangere dal senso di colpa, mentre Màrino aveva i nervi a fior di pelle: “Assurdo! E ora?”

“Chiamo i miei.” – Aaron fece spallucce – “Pagheranno la multa.”

Provando a cambiare argomento, Màrino disse: “Comunque, per il resto è tutto ok? Preferisci che ti accompagno a casa?”

“No, grazie. Tutto ok. Non è un problema.”

“Ok.” – e, come se avesse spento l’interruttore delle conversazioni, Màrino fece per andarsene.

Wait!”

Si voltò ancora.

“Uhm.” – Aaron tamburellava con le dita sulle gambe, imbarazzato – “Sono qui da poco. Uhm. Non conosco bene Venezia e…non ho amici. Ancora. Sarebbe un…uhm…problema, se ci vedessimo ogni tanto?”

Màrino pensò un momento alla possibilità e con lo stesso trasporto con cui si può accettare di andare in una direzione anziché in un’altra, annuì: “Si può fare.”

 

*   *   *

 

Ore 21:00. Giardino ‘Malipiero’.

 

Le luci delle case rilucevano sui canali immersi nella sera quando Màrino raggiunse la sua amica al loro ritrovo abituale. Le si sedette accanto, come ogni volta, guardando i tremuli riflessi dei lampioni sull’acqua.

“Stavo per andarmene.” – disse Na-El in un modo che sembrò un rimprovero.

“Ho fatto tardi, scusa.”

Rimasero per un po’ in silenzio, nel freddo e silenzioso vento dall’odore salmastro. Poi Màrino prese la parola: “Oggi ho conosciuto uno. Penso che potremmo diventare amici.”

Na-El si voltò verso di lui. Fu un movimento quasi a rallentatore, nel vento delicato che le scuoteva appena le chiome turchesi. Piegò la testa nella sua direzione come se potesse vederlo, con quell’occhio vitreo e quella bendatura floreale. La sua piccola bocca si incurvò impercettibilmente verso l’alto: “Allora dovresti presentarmelo, un giorno.”

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 16: American Beauty ***


16.

American Beauty

 

16 Luglio.

Deserto di Wādī ʻAraba; Giordania; Nazioni Arabiche Unite.

 

Un proiettile di calibro 120mm trapassò l’aria della notte, andando a schiantarsi contro una duna. Poi un altro. E un altro.

Due, quattro, sei carri armati mimetici spararono, ondeggiando per il rinculo. Ovunque fiamme, ordini strillati a perdere il fiato a un piccolo esercito di uomini che correva spasmodico, incespicando nel terreno molle e farinoso. E poi i fuochi incrociati dei mitragliatori che, tra una duna esplosa e l’altra, falciavano chiunque incorresse nel loro raggio d’azione. Una decina di uomini in uniformi tattiche color sabbia si erano trincerati dietro una muraglia di blocchi di cemento, sparando a volontà e scagliando bombe a mano sotto comandi urlati in Arabo. Le parole si accavallavano e si confondevano, sovrastate dal crepitio di rottami in fiamme e proiettili volanti, ma il loro significato era chiaro: uccidere l’invasore e proteggere il segreto. Un enorme, ciclopico, segreto. Una massa informe e inerte, all’interno di una voragine accerchiata da grandi macchine scavatrici. Era perlopiù nascosta da teli, ma quel poco che restava scoperto rivelava cavi e lamine di metallo verde. Era immensa, molto più grande di qualsiasi altra cosa prima vista; qualcosa che un tempo doveva essere stata meccanica, ma che ora era quasi irriconoscibile anche solo nella sua funzione.

Dall’altra parte del terreno di guerra, le forze militari d’Austramerica continuavano a far fuoco con gli esoscheletri di fanteria, tank camminatori e lanciarazzi. Dietro la formazione di uomini e veicoli si ergeva un enorme cingolato corazzato, tanto alto che sarebbe potuto passare per un edificio: un Dollhouse di classe Land Rider. All’interno del container verticale attendeva seduto un gigante dall’armatura a strisce nere e giallo ocra, sommerso da spessi tubi innestati nelle gambe, nelle braccia e nel torace.

Sulla corazza, tappezzata di segnali d’avvertenza semi-scrostati e dei loghi della NATO, una scritta si ripeteva più volte: ‘ASM - Mark. Proto’. Un prototipo militare.

 

*   *   *

 

“Il nemico sta ripiegando verso la linea difensiva.”

“Il numero di carri superstiti è sceso a quattro.”

“Integrità del modello sperimentale non compromessa.”

“Nessun movimento dall’obiettivo della missione.”

Tre voci maschili e una di donna risuonarono all’interno dell’abitacolo di guida, riempendo l’attesa. L’oscurità era appena rischiarata dal chiarore degli schermi ricurvi che rivestivano la cabina, sui quali stringhe di codici informatici scorrevano e frinivano di continuo, come cicale.

Una figura femminile era semi-seduta sul lungo sedile, in una tenuta di gomma aderente e imbottita, dalle tinte nere e gialle, cosparsa di sensori. Respirava ritmicamente. Del suo viso era rimasta solo una bocca dalla pelle scura, sotto un pesante casco dal visore arancione connesso allo schienale da spessi cavi fosforescenti.

Esplosioni rimbombarono lontane, ovattate, facendo vibrare le pareti.

“Amber, riesci a sentirmi?” – chiese una nuova voce femminile. Era decisa, corposa, bella.

“Forte e chiaro, sorella.” – rispose la ragazza nell’ombra; sembrava essersi ripresa dal torpore.

“Quando siamo in campo io sono solo il Capitano McCoy.” – la redarguì la voce fuori campo – “Dovresti attenerti al codice.”

“Che formalità inutili. Mi hai distratta solo per questo?”

“Il nemico ha superato la linea d’intervento. Da adesso entri in campo tu.”

“Finalmente, era ora!” – inarcò il dorso e si stirò le scapole come un felino; la tuta produsse un suono gommoso – “Non riesco più a stare in questa posizione, dovete assolutamente micronizzare alcuni circuiti della synchro skin!”

“Anche la tuta è solo un prototipo e non è disponibile un backup del kernel di bordo. Mi rendo conto che per essere la tua prima uscita in campo le condizioni non siano le migliori, ma non ci resta altro tempo.”

“Non importa, cominciamo!”

 

*   *   *

 

Due sirene rosse ai lati del Dollhouse entrarono in funzione, allertando le truppe a terra.

“Ordine di attivazione, allontanarsi!”

“Preparazione del carico! Iniziare il riscaldamento dell’acceleratore post-nucleotonico!”

Un cilindro in vetro e metallo lungo sei metri e mezzo – posto su un blindato di supporto – venne collegato ai due tubi principali della gabbia toracica. Archi elettrici azzurri balenarono al suo interno, segnandone l’accensione.

“Reazione nucleare stabile. La temperatura di scissione sarà raggiunta in otto-punto-trentasei secondi.”

“Procedere al bail-in della Synchro Chamber!”

La mandorla di titanio che formava l’abitacolo di guida venne calata all’interno del corpo del robot, innestandosi tra due motori simili a polmoni.

Bail-in completato! Connessione abilitata!”

Due archi di plasma si scontrarono nella camera d’accelerazione, producendo un bagliore accecante.

“Realizzato contatto a post-nucleotoni! Avviare Elettroconduzione Doppio-alternata!”

Dal reattore nucleare dipartirono fremiti di elettricità e plasma che risalirono i cavi conduttori, facendoli vibrare, finché non raggiunsero la coppia di alternatori toracici. Tutto il corpo del gigante giallo subì un intenso fremito. I cavi si scollegarono con una piccola detonazione e le piastre di armatura si richiusero sul petto.

 

*   *   *

 

Interno.

 

“Sistema operativo: inizializzazione. Avvio delle funzioni disponibili.”

“Connessione delle aree corticali M1 e M2; percentuale di asincronia non significativa.”

“Pilota, inserire i codici complementari di sblocco.”

Amber digitò rapidamente due sequenze alfanumeriche sulle tastiere laterali, quindi infilò le mani nelle cavità all’altezza dei fianchi e afferrò le leve nascoste. Le ruotò in verticale e poi le trasse verso di sé. Le pareti-schermo si liberarono dalle stringhe di dati di programmazione e rivelarono la visione esterna: il deserto immerso in una notte stellata e incendiata di guerra. La ragazza agitò un paio di volte i comandi manuali, avvertendo tutta la struttura scricchiolare sotto i primi cenni di vita del robot: “Eccolo, si muove! Che figata pazzesca!”

Stava succedendo davvero: quell’immane arma dall’aspetto umanoide su cui era salita stava rispondendo ai suoi ordini mentali. Avrebbe combattuto sul serio, non aspettava altro! Sentiva il cuore batterle per l’emozione e il suo orgoglio le gridava di essere fiera. Ma non aveva ancora compiuto la missione, non era ancora il momento di lasciarsi distrarre.

Concentrò i suoi pensieri verso il panorama che il casco riproduceva sul visore: “Qui soldato speciale Amber McCoy, pronta al collaudo decisivo sul campo! Unità Prototipo Sperimentale, Prima sWARd Machine Artificiale: attivazione!”

Sul suo visore si illuminarono le lettere: ONLINE.

 

*   *   *

 

La testa del gigante si addrizzò. Sulla piccola maschera facciale si accese un’unica lente ottica rossa, spandendo la sua luce come un taglio orizzontale. Una ventola di scarico termico iniziò a girare nell’ampio disco posto in cima all’elmo. Le dita robotiche delle mani si dischiusero di colpo, afferrando il bordo del Dollhouse e il torso dell’automa si curvò in avanti. Lentamente, si erse in tutti i suoi quarantacinque metri di altezza, gemendo di innumerevoli cigolii di piastre sovrapposte e giunture meccaniche. Affondò nella sabbia i piedi dalle coperture squadrate.

Aveva funzionato.

Quel colosso dall’aspetto coriaceo ed insieme precario si reggeva sulle sue gambe. La prima sWARd Machine totalmente artificiale era operativa.

 

Lontani, come formiche sparpagliati, i soldati nemici gridavano terrorizzati alla vista della nuova comparsa. Correvano senza una meta precisa, chi tentando di nascondersi dietro una duna, chi sparando a vista verso i propri nemici e chi perfino dandosi alla fuga.

Sono talmente minuscoli, da qui. Insignificanti. – pensò Amber. A lei non importava di quelle persone; non le importava se sarebbero morte per mano sua. Perché avrebbe dovuto? In fin dei conti, avevano imbracciato le armi di loro sponte, no?

“Soldato.” – disse di nuovo la voce di sua sorella – “L’obiettivo è ancora fuori dalla nostra portata. Estingui il nemico e recupera l’O-part.”

O-part: oggetto sconosciuto databile come molto antico; realizzato con tecnologie vastamente aldilà di quelle disponibili all’epoca di riferimento. Amber non aveva idea di quale fosse la forma dell’oggetto che si celava sotto la montagna di teli militari ma la sola idea che il Governo Austramericano l’avesse classificato in quel modo la eccitava oltremisura.

“Ricorda che il carico di post-nucleotoni è al minimo. Non potrai agire oltre il tempo di autonomia operativa del Prototipo.”

“Sta’ tranquilla.” – le dita strinsero le cloche – “Finirà tutto in trentotto secondi!”

E premette il tasto d’avvio.

Il Prototipo si piegò sulle gambe e i repulsori all’altezza dei talloni iniziarono a crepitare; gli ultimi cavi elettrici ancora collegati vennero espulsi e la Machine spiccò uno slancio in avanti, sollevando un’onda di sabbia. Un ufficiale delle Nazioni Arabiche Unite ordinò alle sue truppe di rispondere all’offensiva: dalle sabbie emersero rapidi come trappole tre grandi mitragliatrici automatiche anti-carro. La Machine corse a grandi falcate sulle dune in cui affondava a ogni passo, lasciando che le scie dei missili la mancassero per un soffio, esplodendo al suolo. Uno riuscì perfino a colpirla sulla spalla sinistra, ma non fu sufficiente a strapparla. Il visore di Amber localizzò due gatling MW40S su misura posizionati sul campo dal suo squadrone. Uno era ancora chiuso nel fodero.

Il Prototipo si lanciò sulla sabbia con una rovinosa capriola sulla spalla sinistra, afferrò l’arma e con un piede premette l’enorme leva sul bordo del fodero. La copertura saltò via in sei piastre snodate, espellendo l’altro mitragliatore. Lo afferrò e li sollevò entrambi.

Amber controllò per un istante i monitor: venticinque secondi di autonomia. Danni al braccio.

“Al diavolo!” – premette il grilletto.

Le quattro canne dei mitragliatori iniziarono a roteare veloci; i fuochi giallastri della polvere da sparo lampeggiavano nella notte.

I proiettili tempestavano il deserto, sollevando nuvole di polvere.

Grida umane riecheggiavano nell’aria invasa da corpi martoriati scagliati lontano e lamiere accartocciate di carri armati. Le cinture di proiettili scorrevano attraverso il tamburo dei gatling, entrando piene di bossoli ed uscendo svuotate. Quando l’ultima munizione fu sparata le canne smisero di girare.

Oltre le decine di cadaveri piantati nella sabbia come sterpaglia, due grandi stealth mimetici si alzarono in volo dall’area degli scavi, iniziando a sollevare la massa informe che tanto avevano provato a difendere, agganciata con tiranti di ferro che sembravano sul ciglio di spezzarsi.

Diciassette secondi.

“Tornate qui!” – gridò la ragazza, protendendosi in avanti con tutto il torso.

Il Prototipo si rimise in piedi e si rimise a correre per poco più di un centinaio di metri, prima che un suono di giunture incrinate e uno spruzzo di olio nero lo costringessero a incespicare e cadere su una mano. La scossa fece sobbalzare Amber nell’abitacolo e le spezzò il fiato. Gli allarmi d’emergenza la assordavano.

“La pressione del liquido stabilizzante ha raggiunto il limite…” – ansimava – “…e le articolazioni non reggeranno ancora a lungo! Questo catorcio non si muove!”

“Amber, stanno fuggendo!” – questa volta la voce di sua sorella vibrò di panico.

La ragazza guardò gli aerei già alti nel cielo: erano due e non avrebbe mai potuto raggiungerli con le gambe ridotte in quel modo. Non le rimanevano altre munizioni e la spalla sinistra era quasi del tutto andata, ma aveva ancora una mina incendiaria. L’occhio le cadde sul timer nell’angolo del visore.

“Sei secondi!”

Fece rialzare il Prototipo e mosse due lunghi passi sulle gambe incerte, quindi si afferrò la scapola danneggiata e vi piantò gli artigli. Tirò con forza fin quando il ferro, i cavi e le giunture meccaniche non si strapparono del tutto dal busto con un pandemonio di scintille. Il feedback inflisse un dolore insopportabile alla pilota ma il suo lamento di sofferenza si trasformò in un ringhio: “Andate a fare in culo!”

La Machine lanciò con tutta la forza rimasta il braccio strappato.

Un arco di liquido meccanico nero attraversò il cielo notturno, macchiando la visione della luna come una pennellata sbagliata. Il volò fino a schiantarsi di peso su uno dei due aerei. Il palmo destro del Prototipo si aprì nel centro, scoprendo una grossa bomba sferica. Amber gridò ancora e la scagliò come una palla da baseball contro il secondo areo, annientandolo.

L’immenso fagotto denominato ‘O-part’ ricadde fragorosamente tra le dune del deserto, ora quiete.

Zero secondi.

Le gambe, le spalle e la base del collo del gigante scricchiolarono sotto gli ultimi gemiti e nuvole di fumo sbuffarono dalle articolazioni. Cadde sulle ginocchia, scoordinato, con la testa rovesciata all’indietro come un pupazzo rotto. Carburante scuro iniziò a colare stancamente tra le piastre di armatura. La copertura pettorale si sollevò, espellendo la Synchro Chamber. Quando anche il portellone a tenuta stagna dell’abitacolo si fu aperto, la sua pilota si aggrappò ai bordi e salì in piedi sulla capsula. Si sfilò a fatica il pesante elmetto, gettandolo da parte. Riprese fiato. I capelli rossi raccolti nella coda danzavano nel vento caldo della notte desertica, riscaldata dagli ultimi fuochi della battaglia e illuminata da un manto di stelle verso il quale si levavano faville crepitanti.

Aveva l’aria stremata ma non smetteva di sorridere, con quei suoi occhi felini a fissare l’enorme pira bruciante che tingeva d’arancio l’orizzonte. Quel fuoco era il parto di una battaglia consumata con le sue mani, ma anche lei era figlia della guerra e in questo si sentiva a suo agio. Quella puzza di zolfo, olio bruciato e fiamme…lo trovava quasi materno. Lei aveva vinto, il suo nemico no. Lei era forte. Lei era viva, era felice.

Una voce piatta parlò alla trasmittente: “Missione terminata. Recuperare il bersaglio e prepararsi al rientro.”

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 17: Il Monarca Bianco ***


17.

Il Monarca Bianco

 

Un’interminabile processione parte dall’inizio di Selborne Street e si snoda lungo tutta la via, fino alle porte della grande sinagoga in mattoni rossi di Princes Road.

Aaron Alford, in un ricco abito di un bianco candido con un fiore rosso all’occhiello.

Mille sagome nere formano un corridoio fino alla sinagoga; le teste sono macchie confuse, come nebbie sfuocate o scarabocchi isterici di una matita spezzata. Risate maligne.

Oltre il massiccio portone moresco il corteo prosegue all’interno della chiesa inondata della luce del rosone, fino all’altare. Una ragazza dai capelli azzurri e dal viso bendato a metà si lascia superare senza voltarsi.

Un accordo è stato stretto, un Desiderio è stato espresso, senza bisogno di parole.

Lui raggiunge la tomba di marmo che ha preso posto dell’altare. Sopra sono state disposte due spade bianche incrociate, una stola ripiegata dello stesso colore ed una corona d’argento. Protende una mano verso quella composizione ed è una mano sporca di sangue.

 

/   /   /

 

Circa due mesi prima.

Centro di Controllo Esecutivo, Agenzia Speciale ECHELON, Contea di Santa Clara; California; Austramerica.

 

Primi piani del volto di Aaron si alternavano a riprese dell’intera saletta insonorizzata in cui si trovava. Sedeva a un tavolo insieme ad una coppia di mezza età – uomo e donna – e a quello che altri non poteva essere se non il principe ereditario d’Inghilterra, dietro il quale svettava una nerboruta guardia giurata e un’altra donna, in tailleur, con in mano una cartellina per gli appunti. La coppia seduta accanto al ragazzo era visibilmente emozionata di parlare a tu-per-tu con un Reale e pareva sforzarsi di incitare lo stesso tipo di sentimento anche in Aaron, che si limitava però a tenere gli occhi bassi, vacui, e a mormorare brevi frasi non udibili in video.

 

“Quindi sarebbe lui l’altro Meister?” – chiese il Capitano Andrea McCoy, china sul tavolo luminoso sul quale era riprodotta la registrazione, insieme a copie virtuali di altri documenti.

“Non ci sono dubbi.” – anche Rajesh Khurana si trovava in quell’ufficio – “La perizia psicoanalitica ha confermato che anche le caratteristiche del suo sogno sono analoghe a quelle degli altri.”

“Dio mio.” – Andrea schioccò la lingua, tirandosi su – “È solo un ragazzino.”

“Ma è anche per questo che stiamo lavorando al modello artificiale, no?”

“Come se questo potesse esimerli davvero.” – la McCoy esaminò gli altri documenti sul tavolo luminoso, disposti ordinatamente per un raffronto veloce. Erano scansioni di tre schede identificative, tutte contrassegnate in alto dall’inconfondibile logo a cinque occhi: ECHELON. C’erano un mucchio di informazioni doviziosamente riportate nelle apposite sezioni del form – tra dati anagrafici, comportamentali e previsionali – ma il suo sguardo si soffermò sui mezzi busti delle persone fotografate e l’elenco puntato di anagrafica essenziale che le accompagnava. La prima era una ragazza dai capelli tinti di magenta, ritratta frontalmente con un’espressione molto seria: Nataša Novikov, data di nascita 23 Maggio 2029, Russia. Seguiva un’altra giovane donna, dai tratti somatici orientali particolarmente belli: Nang Jun-Hee; nata il 18 Aprile 2023; Corea del Sud. E da ultimo lo stesso ragazzo dall’aria dimessa del video: Aaron Alford; 5 dicembre 2033; Regno Unito.

“È comunque meno deplorevole che esaltarsi perché il proprio figlio è stato scelto per un programma militare segreto.” – aggiunse Rajesh, arricciando la bocca alla vista della coppia seduta accanto ad Alford.

La McCoy scosse la testa e con un gesto della mano allontanò le schede sul tavolo touch screen, spostandosi su delle riproduzioni di fotografie, che ingrandì con un pizzico dell’indice e pollice.

Quattro foto un po’ fuori fuoco ma ancora abbastanza nitide da far riconoscere il soggetto: un ragazzino poco più giovane di Aaron, dai corti capelli scuri. Era stato colto palesemente a sua insaputa e lo si vedeva seduto al parco insieme a una ragazza probabile sua coetanea, sull’uscio di casa intento a richiudersi dietro la porta, su una gondola veneziana in compagnia del gondoliere e poi in mezzo a una piccola folla riunita davanti a un portone sul quale campeggiava a caratteri cubitali la scritta ‘FASCI MAIALI’, in vernice spray.

“E di lui che mi dite?” – chiese.

“Non siamo ancora riusciti a individuare la Siren, ma continuiamo con le ricerche.” – rispose uno di due uomini dell’Agenzia Speciale, dall’altra parte del tavolo.

“Stategli addosso.” – concluse lei, senza distogliere gli occhi da quelle foto – “Di certo si farà viva per il Risveglio della Machine.

 

*   *   *

 

26 Agosto.

Venezia, Italia.

 

Nei giorni a seguire dal loro primo incontro, il rapporto tra Màrino ed Aaron si era andato stringendo. Le prime uscite sporadiche si fecero frequenti, fino ad incontrarsi ogni giorno, facilitati dalla frequentazione della stessa scuola. Aaron si rivelò essere per Màrino un compagno insospettabilmente piacevole e anche la barriera linguistica si andò sempre più assottigliando. Sebbene Aaron avesse presto imparato ad apprezzare la cortese riservatezza del suo amico, aveva maturato una certa curiosità su alcuni aspetti della sua vita, pur non osando mai chiedere più di quanto non fosse lui stesso a raccontargli: era convinto che Màrino non volesse svelare qualcosa di grigio celato nel suo cuore, ma non riteneva giusto spronarlo a farlo.

Ed in questo modo – nella tiepida discrezione dei loro rapporti – procedevano i giorni, tra la noia interminabile delle lezioni e l’attesa del potersi rivedere il pomeriggio. Pomeriggi che avevano il colore turchese dei canali della città, lo scintillio del sole sulle increspature dell’acqua e il calore delle pareti ricamate dei caffè barocchi di Venezia. Il silenzio assordante che si era impadronito della vita di Màrino iniziò squarciarsi, lasciando filtrare spiragli di luce e musica. Spesso Aaron si lasciava ascoltare e osservare durante le sue prove al violoncello e a Màrino sembrava che il miracolo della vita prendesse vita al muoversi di quell’arco sulle corde. Come era possibile che ci fossero persone in grado di produrre suoni tanto meravigliosi? Un paio di volte, spinto dalla curiosità, si lasciò convincere a provare una viola per un duetto decisamente strimpellato e goffo, ma la musica non era più piacevole delle loro risate.

Anche Sara De Bortoli era finalmente stata dimessa e da due si era passati in tre. Adesso la felicità era all’angolo di una viuzza storica non esplorata o in un gelato consumato su un ponte sul Canal Grande. Piedi scalzi correvano su una spiaggia nel Sole delle cinque e mani si ferivano nell’arrampicarsi su uno scoglio per respirare un tramonto che profumava di salsedine. Il sudore e la fatica non esistevano più e i compiti delle vacanze non erano una tortura. Se Aaron non aveva in programma di lasciare l’Italia e se Sara era con loro, i granelli di sabbia che restavano tra le pagine dei libri valevano più dell’oro e perfino la guerra di cui parlavano gli adulti sembrava solo una fantasia.

E così, tra un Canone di Bach e una canzone di Tommaso Paradiso, l’estate volse agli sgoccioli così com’era arrivata. Aaron cominciò a sentirsi sempre meno smarrito in quella nuova città dai segreti nascosti tra i vicoli e a Màrino sembrò che le cose, dopo tanto tempo, potessero migliorare.

 

Era una giornata come tante altre già trascorse e anche questa volta il loro bighellonare li aveva riportati al fresco della casa di Màrino, dove lui si era lasciato cascare sul divano dissestato. Aaron aveva avuto il coraggio di addentrarsi nel regno della cucina di casa Alto, sbirciando tra mensole e frigorifero in cerca di qualcosa di rinfrescante che andasse oltre il solito gelato.

“Ma qua ci sono solo schifezze?” – aveva esclamato, alla vista dell’ennesimo pacchetto di snack e bibite gassate.

Ma ora che avevano preso una certa confidenza, Màrino sentì il bisogno di ignorare il commento e porre una domanda che lo tormentava dal primo giorno in cui si erano visti: “Senti, stavo pensando…a una cosa.”

“Cosa?” – Aaron richiuse sconfortato il frigo.

“È un cosa un po’ stupida, ti avverto.” – la domanda non era delle più felici e sperò che l’amico non si offendesse troppo.

“Ok.”

Màrino soppesò ogni parola, come se dovesse scegliere le meno peggio da un vocabolario di soli termini imbarazzanti: “A voi ragazzi…ehm, ebrei…fanno ancora…quella cosa?”

“Cosa?”

“Si dai…quello. Voglio dire, tu hai il…ehm…”

“Che stai dicendo?”

Màrino era diventato paonazzo nel provare a mimare la parola: “Si insomma…dai, hai capito, no?”

E piegò la testa in direzione dell’inguine di Aaron.

Aaron rimase dubbioso per un momento poi l’illuminazione arrivò e le sue guance avvamparono al limite della fosforescenza: “What the f-! Non sono affari tuoi!”

“Non hai negato, quindi vuol dire che ho ragione!” – Màrino sgranò gli occhi e portò le mani al cavallo dei pantaloni neanche sentisse dolore fisico – “Mio Dio, che brutta cosa!”

 “Si chiama brit milah ed è un segno culturale!”

“E com’è? Fa male?”

“Non ero abbastanza grande per ricordarmelo! Potremmo cambiare argomento?!”

“Stavo solo chiedendo.” – sbuffò Màrino.

A quel punto Aaron pensò bene che la circostanza fosse propizia per tirare in ballo un argomento che anche lui voleva approfondire da un pezzo: “Senti, anche io ho una domanda per te.”

“Cioè?”

“Perché non mi parli dei tuoi genitori? Non ti vengono a prendere, sembra che tu non abbia orari, non li chiami mai nemmeno per salutarli. Avete litigato?”

Stavolta fu lui a irrigidirsi, come un istrice che punta gli aculei.

“No.” – disse freddamente.

“E allora?”

“Di questo vorrei non parlare.”

“Eh, no!” – Aaron incrociò le braccia – “Non vale. Non puoi farle solo tu le domande scomode.”

“Non siamo sullo stesso piano.” – Màrino strinse un pugno.

“E questo che vorrebbe dire?”

“Che loro sono…!” – Màrino trattenne l’ultima parola, non tanto perché l’avrebbe urlata, ma perché dirla ad alta voce l’avrebbe probabilmente fatto vomitare. Espirò come una valvola delle emozioni espellerebbe gas: “Sei sicuro di volerlo sapere?”

“Te l’ho chiesto io.”

Màrino scattò in piedi, nervoso: “Allora usciamo. E non fare domane finché non siamo arrivati.”

 

*   *   *

 

Cimitero di San Michele.

 

Lente onde si accasciavano contro gli argini delle rive coperte di mattoni rossi dell’isolotto, risuonando lontane attraverso i viottoli lastricati del cimitero. Alti cipressi verdeggianti sussurravano alla brezza del pomeriggio morente, mentre sepolcri di pietra grigia parlavano di silenzio ai fiori rossi e violetti depositati al loro cospetto. Una Madonna di granito sorreggeva un Cristo disteso sulle sue gambe e da qualche angioletto a cui il marmo aveva negato la vita si aggrappano a viticci di inferriate nere. Era fresco, all’ombra.

 

Màrino ed Aaron erano in piedi dinanzi una lastra di marmo lucido, che doveva essere recente.

 

ISABELLA E GIOVANNI ALTO

2010, 2005 – 2050

Nel sempre vivo ricordo del figlio.

 

“Volevi conoscere i miei? Eccoli qui.” – Màrino fissava la tomba ai suoi piedi – “Contento ora?”

Aaron era alle sue spalle, a un passo da lui: “Io non pensavo che…”

Mosse la bocca come in cerca d’aria, sperando di trovare parole sensate, ma nulla, né in Italiano né in Inglese, poteva andare oltre il: “Mi dispiace.”

“Non c’è nulla di cui scusarti.” – la voce del figlio degli Alto era tornata a mesi fa, fredda e atona – “La colpa è mia. Il fatto è che non sono mai stato bravo a fare amicizie e non avrei dovuto risponderti in quel modo. O forse dovevo parlartene prima, non so.”

Guardò il mazzo di ciclamini che aveva abbandonato lì un paio di settimane prima: erano secchi, scoloriti e fragili. Pensò che fossero scheletri di piante.

“Com’è successo?” – chiese Aaron fissando anche lui gli stessi fiori.

Sentì Màrino lasciarsi sfuggire un ghigno soffocato, amaro come la gramigna: “Vorrei saperlo anch’io.”

Poi, senza guardarlo, iniziò a raccontare: “Tornavo da scuola, come se nulla fosse. Ci eravamo salutati solo qualche ora prima. Quella mattina mi erano sembrati un po’ tesi, però…non lo so, non so cosa pensassero, o cosa sapessero. E poi…poi…” – arricciò le labbra, deglutì e aggrottò la fronte – “…li ho trovati così, impiccati nel salone di casa nostra. Quello stesso salone dove mangiavamo ogni giorno.”

Le sue palpebre si distesero e le sue pupille si allargarono mentre si perdeva in quel ricordo vorticoso: “C’era tanta di quella gente intorno alla casa…mormoravano…e poi tutte le sirene della polizia.”

Serrò i denti e i pugni, che erano abituati ai segni delle unghie nei palmi: “Loro dicono che si sono suicidati ma io lo so che me li hanno ammazzati!”

La voce si era incrinata e riflessi acquosi iniziarono ad invadergli gli occhi blu.

“Chi è stato?” – Aaron trovò la forza di alzare un po’ la testa.

“Non lo so. Qualcuno. Gente che credeva che i miei fossero delle cattive persone. Quando arrivarono i Nazisti, tutti si erano convinti che i miei fossero dalla loro parte! Ma non è vero, io lo so che non lo è, non lo erano mai stati!”

Una prima lacrima iniziava a fuggire dalla stretta delle sue ciglia, mentre le guance gli andavano a fuoco e con la voce non chiedeva altro che pietà.

“Il giorno dopo vennero degli uomini a dirmi che mi avrebbero preso in custodia, così non sarei dovuto andare in un orfanotrofio.”

Aaron fu tanto felice quanto stupito di quel fatto: “Dei benefattori? E chi sono?”

“Non li conosci.” – rispose immediatamente il ragazzo; gli sovvenne un sorriso al vetriolo – “Da ridere, eh? Di tanti possibili…”

Aveva una parola e un segno che gli ballavano nella coscienza.

“Però almeno posso tenermi la casa.” – aggiunse – “Quella casa in cui li ho trovati morti.”

Era troppo. Il vaso del suo animo colmo di vernice nera si ruppe su un pavimento a scacchi di rabbia e solitudine e le parole presero il sopravvento sulla sua lingua: “Però la verità è che io ormai sono solo!”

Stava gridando, e piangendo, e tutto il suo corpo tremava come se volesse esplodere, eppure non vi riusciva e così le lacrime iniziarono a sgorgare copiose e incontrollate.

“Per colpa di un pettegolezzo, a sedici anni, io i genitori non ce li ho più!” – aveva così tanta rabbia e subito dopo tanto amore – “Gli abbracci di papà…e i baci di mamma…io non li riavrò mai più indietro! Ma perché proprio io?!”

Gocce di cristallo caddero dalle sue guance e s’infransero sul marmo. Si coprì il viso con le mani: “Mai più.”

Aaron sgranò gli occhi, mentre spade di dolore si sfilavano dal cuore sanguinante del suo amico per conficcarsi nel suo. Poi Màrino gridò ancora, con tutta quell’incommensurabile solitudine che aveva ormai preso il posto della sua vita, parlando, parlando e parlando ancora: “E tutto quello posso fare è fissare questo pezzo di pietra, che continua a non rispondermi e che non mi consola mai! E non posso nemmeno rimanerci troppo a lungo, perché non sono forte e dopo un po’ fa male!”

Le lacrime gli finirono in bocca ma poi…

“Basta.” – la mano di Aaron fu un tizzone ardente sulla spalla, la sua voce fu l’abbraccio di un fratello mai avuto – “Non c’è bisogno che continui.”

Màrino provò un fremito, qualcosa di inesprimibile, mentre l’amico gli si avvicinò solo qualche centimetro di più: “Mi dispiace. Vorrei poterti aiutare, ma non so come. Però, se almeno può servire…”

E nella cedevole sera silenziosa scesa sul cimitero, la mano di Aaron Alford cercò le dita tremanti dell’amico e le strinse.

“…tu non sei più solo.”

 

*   *   *

 

Il giorno dopo.

Bibione, provincia di Venezia.

 

Del tramonto non restava ormai che qualche strascico. Le ghirlande di lampadine retrò erano già tutte accese sulla veranda in legno bianco dello Shabby Discobeach, gremito di clienti. Le sdraio e gli ombrelloni erano stati sostituiti con letti a baldacchino dai veli vaporosi e con angoli cocktail rivestiti di canne di bambù. Il programma prevedeva una serata revival della musica dall’Italia degli anni ‘80 e il DJ avrebbe lasciato spazio alla conversazione ancora per un po’, con una rispolverata dei 45 giri di una Nada che parlava di amori disperati e vite che girano senza un perché. Tra finger food in piattini di plastica, alcolici in mano e musica soft, non c’era spazio per cose distanti come Macchine giganti che combattevano in un’altra Nazione.

 

Aaron e Sara erano in attesa fuori dal locale e chiacchieravano già da una decina di minuti. L’idea di una seratina in discoteca li aveva spronati a sfoderare il meglio del loro guardaroba estivo, con la camicia a delicate stampe floreali e shorts verdi acqua di lui e la combo top sblusato-e-minigonna svolazzante dell’amica. Quando le vide giungere dal lungomare, Aaron agitò un braccio per farsi notare e due sagome accelerarono il passo: erano Màrino, che per l’occasione aveva addirittura rinunciato alle t-shirt per indossare una Polo, e un’altra ragazza dall’aria affatto familiare in abitino di pizzo bianchissimo. Rapido scambio di saluti all’italiana, con annessi baci sulle guance a cui Aaron aveva imparato ad aderire.

“Scusate se ci abbiamo messo un po’.” – disse subito, accompagnare Na-El era un piacere, ma un piacere lento – “Ah, le presentazioni! “Sara, Aaron, questa è Na-El. Na-El, Sara e Aaron.”

Dire che entrambi non ne rimasero turbati sarebbe ipocrita. Avevano davanti una ragazzina piccola, con un visetto candido e serafico…ma quelle bende di seta piene di fiori e l’unico occhio scoperto, tanto spento da far pietà, li disturbarono non poco. E poi quei capelli azzurri. Il ragazzo prese le mani di Na-El e le avvicinò a quelle dei suoi amici fino a far sfiorare le dita, cosicché potesse avere percezione del nuovo arrivato.

“Oh.” – Sara tentò di avviare le cortesie per prima, non senza qualche indecisione – “Ehm…ciao! Molto piacere.”

“Il piacere è mio.” – disse lei piegando appena di lato la testa.

Aaron fu trapassato da un déjà vu: il suo sogno; la giovane in piedi all’altare di marmo ed il contratto stipulato col sangue sulle vesti regali immacolate. Era lei.

“Sì…anche per me, certo. Piacere.” – cercò di imbastire un po’ disorientato, senza staccarle gli occhi di dosso.

Màrino si avvicinò a loro, sussurrando: “Lei non ci vede, quindi…”

“Ce ne siamo accorti, tranquillo.”

Visto che la nuova arrivata non sembrava molto loquace, Sara batté le mani per evitare che il silenzio diventasse imbarazzante: “Bene! Io avrei un sacco di fame, voi?”

Fu accolta da una conferma generale. Màrino iniziò a farsi strada all’interno del locale, tra gomiti e schiene, in cerca di qualcuno a cui chiedere un tavolo. Aaron prese per mano Na-El, accompagnandola mentre Sara provava goffamente a rompere il ghiaccio con domande quali “Che bella tinta di capelli, da chi sei andata?” o “Che bel vestito, di che marca è?” e ricevendo per risposta solo vaghi giri di parole.

Quando finalmente riuscirono a ritagliarsi un divano in un angolo del locale, Aaron chiese all’amico: “Non ti facevo tipo da discoteca.”

Il sorriso che Màrino aveva avuto fino a quel momento si spense solo un po’. Si voltò verso la spiaggia a alle loro spalle, respirando la salsedine mista al profumo drink alla frutta. “Non lo sono. Però ho pensato che con questa guerra che è scoppiata nel mondo forse non ci rimane più molto tempo per fare quello che non facciamo mai…o essere di buon umore. Quando mi sento felice vorrei non smettere.”

Aspettò che un soffio di vento gli sfiorasse la fronte e poi si voltò verso gli amici, riacquistando in un attimo l’euforia: “Vado a ordinare qualcosa da stuzzicare! Voi non vi conoscete, quindi rimanete qui e…” – mimò una sorta di scatola con le mani – “…fate amicizia, ok?”

“Se vuoi ti aiu-”

“Vengo con te!” – Sara passò davanti ad Aaron nella fila per chi avrebbe fatto compagnia a Màrino. Il ragazzo inglese ricadde al suo posto, lasciando da parte l’idea di insistere e li guardò allontanarsi verso il bancone centrale. Adesso erano soli, lui e Na-El, la quale se ne stava ferma e composta come una statua babilonese in un cantuccio del divanetto, mani sulle ginocchia e lo sguardo perso nel vuoto. Continuava a lanciarle occhiate fugaci, quasi per assicurarsi che non svanisse come un’illusione, ma non sapeva veramente di che parlare. Rimasero inebetiti per un po’, poi la voce di lei lo fece quasi sobbalzare: “È esattamente così.”

“Come, scusa?” – la guardò perplesso.

“Che è come pensi. Noi ci siamo già visti. Nei tuoi sogni.”

Aaron sussultò. Quella tipa faceva sul serio?

“Non…non ti seguo.”

“Perché sei così stupito? Avverto tutto il grigio dei tuoi dubbi. Ora che ne hai certezza, di cosa ti meravigli?”

Aaron rimase a bocca aperta. In effetti, per quanto assurdo fosse, quella coincidenza combaciava perfettamente con quanto gli agenti governativi internazionali gli avessero detto circa la storia della ‘Machine’ e del suo ruolo in quella faccenda.

“Quindi, tu…sai già tutto, vero?”

Lei annuì.

“In quanto Siren devota al Drago delle Maree e al Monarca Bianco è mio preciso dovere vigilare sui Meisters scelti da essi.”

“E come fai? Puoi vedere, tipo, il Futuro?”

“No.” – nella sua voce c’era un filo di rimorso – “La vostra è una storia già raccontata. Tutto quello che posso fare è ricordare scintillii di vite passate e frammenti di memorie.”

Aaron chinò la testa. Non capiva bene ciò che Na-El intendeva ma ora, improvvisamente, sentiva che avrebbe potuto raccontarle qualunque cosa. Si conoscevano senza conoscersi. Era tornato a cercare il suo amico con lo sguardo, e lo trovò alla fila per le ordinazioni che non smetteva di conversare allegramente con Sara.

“È molto innamorato di lei, non è così?” – chiese con un sorriso mesto.

“Sì, lo è.”

Per un motivo di cui non poteva essere certo, gli occhi di Aaron si riempirono di un sentimento più scuro della delusione ma non tanto quanto la tristezza. Avrebbe preferito che gli dicesse di no, ma in qualche modo si aspettava quella risposta.

“Però, Aaron…” – Na-El aveva voltato la testa verso di lui; non poterlo vederlo, era ovvio, ma sembrava il contrario – “…però tu devi restare al suo fianco. Perché quel suo amore, un giorno, porterà a una tragedia molto più grande.”

L’animo del ragazzo tremò e la guardò con occhi pieni di timore. Tuttavia, dopo che il resto del quartetto fu tornato al tavolo, la cupezza venne sciacquata via da un mojito alla fragola e qualche salatino e tutto parve tornare alla normalità.

 

Quella notte ballarono a lungo su canzoni di un altro millennio e si sentirono nostalgici di un’epoca mai vissuta. Quando il Centro di gravità permanente di un immortale Battiato iniziò a suonare, avevano già abbandonato ogni freno e lo spirito volava in cielo, spinto sempre un po’ più su da una ricarica di troppo di alcolici. Bicchieri vennero portati in alto tra gesuiti euclidei e corpi ondeggiarono insieme a capitani coraggiosi in un twist improvvisato, finché nessuno si curò più di seguire il ritmo di chi gli stava intorno. Aaron non capiva la metà delle parole di quella canzone e nemmeno Màrino e Sara avrebbero potuto vantare di meglio, nella rubiconda leggerezza che faceva girare la testa, sorridere stupidamente e muovere i piedi, ma la musica di sintetizzatori e sassofoni era una lingua universale che parlava di un mondo senza pensieri e che quella notte era solo per loro. Un centro di gravità permanente, che mi non faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente. Se solo avessero saputo di quanto avrebbero avuto bisogno di quelle parole, di quanto presto si sarebbero trovati a leggere sé stessi in quelle strofe.

Ma la musica di sintetizzatori e sassofoni era una lingua che parlava di un mondo senza pensieri e che quella la notte era solo per loro…

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 18: Il Drago delle Maree ***


 

18.

Il Drago delle Maree

 

Il tramonto è un cielo disegnato con pastelli a cera e le onde del mare sono assi di cartone che scorrono l’una contro l’altra, tra pesciolini ritagliati che boccheggiano come marionette. Lampioni neri e sottili sono già accesi e brillano di carta velina giallo intenso.

Due ragazzi sono seduti sulla riva di una spiaggia da riporto, disseminata di mille oggetti piatti come fogli: cassetti, bottiglie, sedie altissime ed un divano affossato per metà. A qualche passo da loro dei bambini di cartapesta si coprono le bocche piene di denti aguzzi con le rigide manine e ridono.

I due ragazzi fissano il panorama e sperano che quel momento sia eterno. Entrambi fanno scorrere le mani sulla sabbia, lentamente, finché le dita non si incrociano. Si voltano piano l’uno verso l’altro e i loro visi sono solo macchie scure. Si avvicinano – i profili neri contro l’arancio del tramonto – e quelle maschere piatte che hanno per faccia sono ora a pochi millimetri l’una dall’altra. Le mani si stringono, le labbra si avvcinano e…

 

/   /   /

 

Aaron si mise a sedere sul letto.

Era notte e il suo profilo lumeggiò per un istante, quando la luce di qualche veicolo attraversò rapida la finestra della sua camera.Era sudato e assonnato, risvegliarsi era stato faticoso come riemergere dalle sabbie mobili.Passò qualche secondo prima che iniziasse ad avvertire una certa tensione in mezzo alle gambe. Ingoiò un groppo amaro, si strinse nelle ginocchia ed affondò le mani nei capelli scomposti.Gemette.

Perché proprio lui?

 

*   *   *

 

30 Agosto.

 

La nebbia densa e bluastra del mattino le sponde dell’Isola di San Sèrvolo, dove pali di legno simili ad ossa spezzate affioravano dalle acquee e vecchie barche abbandonate galleggiavano sui flutti come cadaveri macilenti. Seduti sul ciglio di un pontile malmesso, Blau Nixe e Na-El aspettavano il sopraggiungere di qualcosa.

“Quindi è oggi.” – disse il ragazzo, stringendo al petto una gamba dallo stivale di cuoio blu – “Il giorno in cui combatterò sul serio.”

“Ti avevo messo in guardia, quando hai espresso il tuo Desiderio.” – rispose Na-El, con l’occhio vitreo rivolto alla laguna – “Per chi sceglie di consegnare la propria anima alla Machine, il Futuro riserva solo dolore e guerra.”

“Lo so. Ma ho stipulato il Contratto per Sara e non posso rimangiarmi la parola adesso.”

Si alzò in piedi e la guardò: “Tu mi aiuterai?”

L’occhio di Na-El ammiccò appena, pieno di malinconia: “Io esisto solo per questo.”

 

Un sottomarino nero di oltre trecento metri, coperto da effigi del Reich, sostava vicino al punto più profondo del fondale, tra le isole di San Sèrvolo e San Clemente. Le eliche al temine della pinna di poppa e sotto il corpo principale non smettevano di girare, facendo ribollire l’acqua. I potenti fari anteriori tagliavano l’oscurità blu intenso, illuminando un’enorme bara di titanio nero, che, ancora incrostata dal fango e dalle escrescenze marine del fondale da cui era stata estratta, veniva ora stretta dalle chele meccaniche del Krakendorf. Due larghi anelli metallici sostenuti da quattro batiscafi la circondavano, mandando il ronzio sommesso e costante della risonanza magnetica.

 

All’interno dalla stanza di controllo Krakendorf, sei operatori in uniformi Naziste battevano incessantemente sulle loro postazioni, intorno al piano rialzato sul quale si ergeva una sedia più ampia delle altre. Katrina Winkler osservava con interesse, facendo scorrere nervosamente un dito guantato sul labbro inferiore.

“A che punto siamo con la riesumazione?” – chiese.

“L’estrazione della bara è al 97% di completamento.” – ripose un sottoposto, dal viso rischiarato dai monitor – “Il termine del processo è previsto entro i prossimi venti minuti.”

“Nessun’anomalia da segnalare. L’Unità è silente.” – aggiunse il commilitone al suo fianco.

“E Blau Nixe?”

Un’operatrice donna scorse rapidamente una mappa digitale, triangolando la posizione di due icone rosse: “Sia lui che la Siren si trovano nelle vicinanze. Il localizzatore che gli abbiamo affidato è ancora attivo.”

Meine Fräulein!” – esclamò l’addetto alle rilevazioni, calcandosi un paio di grosse cuffie sulle orecchie – “Il sonar delle boe di sorveglianza rileva undici grandi masse in avvicinamento! Velocità: 120 nodi orari! Si direbbe che una di loro si sposti sotto la superficie.”

La Winkler si sporse di colpo in avanti: “L’analisi delle vibrazioni dei motori?”

“Propulsione nucleare da superficie. Sembra che il sottomarino rilasci perturbazioni elettromagnetiche, è la prima volta che vedo un motore simile!”

Katrina strinse il bracciolo: “La Marina inglese!”

Ne era certa, nessun’altra flotta al mondo disponeva di navi simili. Ma se lo aspettava, dopotutto. E se lo aspettavano anche gli Inglesi, a quanto pareva. Partire da Portsmouth Harbor, circumnavigare la Vecchia Europa e l’Italia fino a raggiungere Venezia…con quei motori ci avrebbero impiegato circa 53 ore. L’Inghilterra sapeva delle attività dei Nazisti e sapeva della Machine sepolta. Era vero, era tutto vero. Ogni risvolto di trama previsto dai Registri di Paracelso era preciso e infallibile. Katrina Winkler si sentì entusiasta: “Dite a Blau Nixe di muoversi. Iniziamo.”

 

*   *   *

 

Le sagome delle fregate da guerra di classe Duke Type-35 interrompevano i riflessi del Sole che filtravano dai flutti. Sotto di esse, una lunga ombra viaggiava silenziosa come una balena, illuminata solamente dalle finestre della torretta di controllo e dai fari posizionali sparsi lungo la carena. Su entrambe le fiancate spiccava un elaborato ricamo in oro, con al centro le effigi della Royal Navy. La nuova Nave Ammiraglia della Marina di Sua Maestà, Corazzata Sottomarina ‘HMS Eleanor Rigby’.

 

“Distanza dal nemico: quattromilacentottanta metri; siamo entrati nella red-zone.” – annunciò un uomo sulla trentina, in piedi accanto la mappa nautica virtuale del Ponte di Comando – “Gli scandagli sonar di profondità rilevano oscillazioni magnetiche: probabile tentativo di Elettroconduzione della Machine!”

Il Ponte era posizionato sulla prua della nave: una sala ritagliata da un settore di sfera allungato, dal tetto lievemente curvo. Cinque enormi finestroni anti-pressione abissale formavano la parete frontale, mostrando il panorama subacqueo. I tecnici informatici, i fonici delle trasmissioni, gli analisti e i sottoufficiali di campo: tutti trovavano posto sulla piattaforma circolare di lucido acciaio che formava il pavimento. Sul profilo interno di un anello obliquo, che ruotava con grande lentezza intorno al Ponte, scorrevano comunicazioni telegrafiche. Grandi cartografie 3D erano aperte ovunque per la sala, con finestre in continuo aggiornamento. Al centro, in piedi e con le braccia conserte, vi era una donna in divisa dalla pelle scura e capelli nerissimi raccolti alla base della nuca che lasciavano pendere ai lati del viso solo due ciocche ondulate. A trentadue anni, Andrea McCoy era Capitano della marina Austramericana e, con il ritorno del Reich, l’Alleanza della Faglia del Pacifico le aveva consegnato il nulla osta eccezionale per l’esercizio delle sue funzioni anche per conto dell’Eurasia.

“Comunicate alle unità navali di disporsi in formazione.” – comandò– “Tentiamo un ammonimento preventivo. Se reagiscono all’inibitoria, rispondete.”

“Sissignora!”

“Che cosa mi dite di Alford?”

“Procedo alla triangolazione.” – rispose una ragazza, digitando velocemente sulla sua plancia.

Una serie di zoomate ingrandirono la mappa satellitare sullo schermo principale, inquadrarono un puntino rosso, tra i palazzi della città.

“Individuato. È in prossimità della laguna, possiamo tentare un attracco di emergenza.”

“L’Unità è pronta all’attivazione?”

“Affermativo.”

“Allora comunicategli la nostra posizione.”

 

*   *   *

 

Quella mattina Aaron si era dato all’esplorazione dell’isoletta di San Giorgio Maggiore, proprio difronte al Bacino di San Marco, nella speranza che quel girovagare in solitaria lo avrebbe distratto dai dubbi che gli tenevano occupata la mente. Il sogno di quella notte lo aveva turbato al punto da non riuscire a pensare a nient’altro. I suoi pensieri erano sempre più spesso rivolti a Màrino e iniziava a temere che di questo passo se ne sarebbe ammalato. Quando erano insieme i tormenti cessavano, ma non appena si perdevano di vista metà del suo cervello riconcorreva affannosamente la sua immagine. Se glielo avesse detto Màrino non avrebbe mai capito, ne era certo. Avrebbe creduto di aver a che fare con un monomane, uno stalker o chissà cos’altro. No, non poteva dirglielo, doveva provare a…

Urtò la schiena di un uomo.

Senza quasi rendersene conto aveva raggiunto l’altro capo dell’isola, attraversando i giardini che circondavano il Teatro Verde, gremiti di turisti. Chiese subito scusa per la sua maldestrezza, ma l’interessato non si voltò affatto, troppo preso a fissare qualcosa molto più distante. Lui e anche tutto il resto della gente radunatasi sul belvedere. Aaron si guadagnò uno spazio tra la calca e guardò nella loro stessa direzione. Lo stomaco gli si svuotò.

Undici sagome grigie avanzavano sulla laguna della città, lanciando riflessi metallici sotto il sole. Aaron le riconobbe subito: Sono già qui! Ma allora…!

Una sirena acuta risuonò nell’aria e il vociare della gente divenne urla di panico: i cartelli olografici per i battelli scomparvero o si tramutarono in segnali di pericolo, i ponti composti da esagoni trasparenti si ritirarono lungo gli argini e un’infinita serie di paratie di piombo si innalzarono lungo il Canal Grande, interrompendo il percorso a tutte le barche. Le navette attraccarono immediatamente e i passeggeri si riversarono fuori scompostamente, spingendosi, colpendosi, scavalcandosi.

L’improvviso fremito generale stordì Aaron al punto che gli parve gli parve di diventare sordo. Nessuno che lo avesse avvertito, nessun segno d’allerta nei giorni precedenti. Stava per iniziare una battaglia e nessuno aveva avuto anche solo la pietà di dirglielo, cosicché potesse razionalizzare l’idea che di lì a poco sarebbe morto. Era sul punto di vomitare quando sentì vibrare la tasca dei pantaloni. Per riflesso inserì la mano e ne estrasse il cercapersone militare che gli era stato affidato dal Governo. Era arrivato un messaggio con immagine allegata.

Lo aprì.

Sul ciglio di un molo erano ritte due esili figure. L’immagine era chiaramente stata scattata da una grandissima distanza, con un cannocchiale navale magari, e i non tutti i dettagli erano nitidi, ma la tecnologia focale del 2050 era comunque sufficiente a non lasciare adito a dubbi, circa quelle due persone. La prima che riconobbe fu una ragazza vestita di bianco, dai capelli di un azzurro impossibile: Na-El. La seconda fu un ragazzo, non molto alto e vestito in una maniera bizzarra, con abiti di un blu intenso talmente ricercati da risultare fuori luogo. Al braccio sinistro era stata legata una fascia rossa rigata di bianco, che aveva tutta l’aria di un decoro nazista, e reggeva in mano una maschera che doveva essersi appena sfilato. Fu allora che Aaron si sentì morire.

 

Della sua missione gli era stato parlato estensivamente prima della partenza per l’Italia. Ogni minuzia del suo soggiorno era stata accuratamente pianificata a tavolino perché potesse assicurargli un agiato e credibile finto soggiorno di studio presso una città estera. Dell’esistenza di Màrino Alto ne era stato a conoscenza prima ancora di incrociare la sua strada, e l’incontro con Na-El o l’insistente interesse del Governo inglese verso di loro avrebbero già dovuto convincerlo della veridicità di quella faccenda. Ma la speranza è il dono degli illusi e una parte di sé non aveva mai rinunciato all’ipotesi che si sbagliassero o, quantomeno, che le cose sarebbero finite in modo molto diverso. E invece…

 

Allora era vero. – fu come se ogni osso gli si sciogliesse in corpo, come se perdesse ogni respiro –Perché doveva essere proprio lui?

La foto sparì, sostituita da una chiamata in arrivo sulla linea criptata.

“Sono Aaron.” – a dispetto dello shock riuscì ancora a rispondere – “Sì. Sì, ho visto. Va bene.”

Fine della comunicazione.

Guardò ancora la foto del suo amico, paralizzato in quella posa, e gli occhi gli si arrossarono.

Era stato tradito! Per tutta una vita aveva sofferto in silenzio, si era represso, inscenando la parte dell’adolescente ben inserito nel mondo di carta che la sua famiglia e la sua scuola avevano costruito intorno a lui…e proprio ora che la vita gli offriva una nuova città in cui ripartire da zero, che aveva trovato qualcuno per cui provare reale affezione – qualcuno a cui aprirsi – ecco che gli si parava davanti nella sua vera natura. Che fosse un altro Meister avrebbe anche potuto accettarlo, ma non poteva credere che il ragazzo spezzato nell’animo che fino a qualche giorno prima si sforzava di avere un motivo per sorridere ora indossasse quelle vesti. Lui, che diceva di odiare profondamente quegli uomini, era uno di loro. Arrivò a sperare che tra un battito di ciglia e l’altro la foto stessa potesse svanire, ma era sempre lì. Era vero, dopotutto.

Era stato tradito.

Era stato tradito.

Era stato tradito.

 

*   *   *

 

Il cuore di Màrino era sul punto di saltargli fuori dal petto, alla vista di quelle navi da guerra. Gli era stato detto di combatterle e lui l’avrebbe fatto. Gli era stato detto di invocare la sua Machine e lui ci avrebbe provato. Ma nessuna delle due cose gli sembrava possibile: secondo loro avrebbe dovuto affrontare un esercito e per giunta alla guida di un’arma che nemmeno riusciva a vedere. Era una cosa priva di senso, un gioco da bambocci, eppure tutti sembravano crederci. Da bravo ragazzino frustrato quale era, in passato si era trovato ad azzuffarsi con alcuni compagni e di solito ce le aveva sempre prese. Le aveva anche date, sì, ma perlopiù prese. E adesso avrebbe dovuto abbattere delle navi militari?

“Non c’è altra soluzione, vero?” – chiese alla ragazza.

“Vorrei che ci fosse.” – gli rispose.

“E funzionerà?” – pensò a quella specie di formula magica che avrebbe pronunciato.

“Sì.”

Si diede uno sguardo intorno, assicurandosi che non ci fosse nessuno nei paraggi a riconoscerlo. Si sentiva sporco all’idea di stare aiutando quelle orribili creature, ma al pensiero di una vita da orfano senza il loro aiuto gli riscosse la volontà: “Proviamoci, Na-El.”

E lei iniziò il rito.

Un canto antico vibrò nell’aria, caricandola di staticità. Màrino scavò nella sua memoria in cerca del Desiderio espresso in quella notte fatidica. In cerca di Sara.

“Svegliati.” – proferì. Dio, quanto si sentiva stupido a montare quel teatrino! Non avrebbe mai funzionato, era un’idiozia! Ma quella lingua sconosciuta a cui ora Na-El stava facendo appello risvegliava certezze primordiali.

“E ruggisci tra i mari in tempesta…” – quel nome; doveva pronunciare quel nome – “…Hydraggsjl!

Le corde vocali Na-El toccarono una nota altissima.

 

Sul fondo del mare, il sigillo simile ad un occhio che chiudeva la bara nera s’irradiò d’azzurro.

“Rilevato Effetto Siren! Reazioni quantico-alchemiche all’interno dell’Athanor!” – esclamò un soldato nel sottomarino nazista.

Katrina Winkler esultò: “Sta per schiudersi!”

Profonde fratture si aprirono nel sarcofago, emettendo energia.

 

Una torre di luce celeste esplose dal mare, innalzandosi verso il cielo, mentre tonnellate d’acqua si sollevavano e spiralizzavano attorno ad essa. Vibrò tutta e la sommità esplose in una nuvola di spruzzi, ruggendo come un animale: una testa di drago si era modellata dall’acqua. Come mossa da vita propria, la colonna si fletté su sé stessa e saettò in direzione della costa. Màrino lo vide arrivare e indietreggiò di un passo, terrorizzato. Stava per morire? Stava per morire! Stava per…

Il drago d’acqua lo raggiunse, spalancò le fauci e lo investì in pieno, come azzannandolo, poi iniziò a contorcersi e raggomitolarsi in aria come una matassa, fino a creare un enorme globo.

 

Màrino avvertì il suo corpo abbandonare qualsiasi legame con la realtà, sospeso a peso morto in un mondo di caos abissale, dove archi di energia liquida lo scuotevano tra le dimensioni: un fantoccio in balìa di onde aliene che dissolvevano i suoi vestiti e tramutavano la sua pelle in qualcosa di più bianco ed etereo. Gli sembrò di affondare, mentre le sue dita si scomponevano in bolle d’acqua, poi la mano, il braccio e poi tutto il suo corpo. Il plasma blu in cui ora si era ridotto scivolò rapido in molte direzioni, concentrandosi poi verso il corpo di un gigantesco essere dalla pelle grigiastra e dal volto tanto mostruoso da far uscire di senno. Due onde si incrociarono all’altezza dello sterno, solidificandosi in un’armatura dalle piastre pettorali a cuspide. Masse d’acqua si avvolsero intorno alle braccia; esplosero in grandi spruzzi, rivelando un rivestimento meccanico turchese. La creatura si voltò completamente e un’altra massa d’acqua formò un piccolo scudo a ottagono irregolare sul braccio sinistro, adornato da ricami dorati. L’acqua alchemica s’intrecciò lungo le gambe, coprendole di metallo azzurro e strinse i piedi in rivestimenti dalla punta ricurva e dagli alti stiletti. Uno spruzzo all’altezza dei fianchi creò due piastre metalliche, come brevi code di un frac. Scoppi d’acqua pressurizzata formarono spallacci ricurvi con arabeschi dorati di creature marine di un altro mondo. Un’onda ricoprì il volto da rettile con un elmo che lasciava liberi solo le iridi rosse e due lunghe corna nere simili a bracci d’àncora si estero ai lati della testa. Al centro della fronte il casco si aprì e un Oreikhalkos di rubino si spalancò come un terzo occhio. Il gigante si batté un pugno sul torace, estraendo da una runa di luce una lunga spada claymore.

 

L’ammasso d’acqua sospesa in aria esplose con violenza e la terra tremò quando la Machineatterrò nel basso fondale della riva di Venezia.Conficcò la punta della spada nel terreno e vi poggiò una mano sopra, torreggiando sui palazzi.

Era la bellezza di una creatura marina e l’inquietudine degli abissi.

Era la solitudine dell’abbandono e la forza della giovinezza, il coraggio d’un eroe reietto e la sofferenza dell’esser vivi.

Il Drago delle Maree si era infine ridestato.

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 19: All the lonely people ***


19.

All the lonely people

 

 

“Ha funzionato.” – un sorriso incerto si dipinse sul volto di Màrino, – “Ha davvero funzionato!”

Inspirò a fondo e la salsedine gli solleticò le narici. Ma non c’era salsedine, lì dentro. No, era una sensazione indotta. Era l’odore che la Machine poteva avvertire dall’esterno. Funzionava, eccome.

Uno scossone.

Tutta la cabina vibrò e Màrino arcuò la schiena, trafitto da un dolore sopportabile ma imprevisto. Si voltò e il gigante metallico fece lo stesso, scrollandosi di dosso il fumo residuo di un’esplosione. Guardò le navi della Marina inglese schierate a tre quarti di chilometro da lui, i cannoni puntati nella sua direzione.

Una voce maschile, militaresca, risuonò da un megafono sulla nave centrale, intimandogli in Inglese qualcosa a cui Màrino non prestò minimamente orecchio. Lui aveva un solo compito, non era lì per patteggiamenti pacifisti. Hydraggsjl si piegò sulle gambe, assumendo una posizione di guardia.

“Non osate avvicinarvi!” – gridò di rimando e mosse un passo.

L’intera flotta avversaria fece fuoco. HydraggsjiI si coprì il volto con lo scudo e i proiettili vi si infransero senza sortire effetto.

“Lo avete voluto voi!”

Il robot azzurro compì uno slancio, raggiungendo con una sola falcata la nave più vicina. Sembrò quasi scomparire e riapparire in un nugolo di spruzzi d’acqua, proprio davanti alla torre di controllo; il corpo proteso in avanti, la mano sinistra caricata per un affondo. Gli uomini all’interno del ponte raggelarono davanti alle enormi iridi rosse oltre le vetrate; l’ultima cosa che videro furono artigli metallici sfondare le pareti della stanza. Con un brontolio rauco Hydraggsjl spinse il braccio più in profondità, strinse nel pugno una manciata di lamiere accartocciate e le strappò da quel che rimaneva della torretta.

 

All’interno del Krakendorf il personale di bordo tripudiò quando una delle navi inglesi sparì dai radar, decretando la prima vittoria del nuovo pilota. Katrina sentì un brivido di gioia perversa fremere per tutto il corpo, fino al limite dell’eccitamento.

Con le mani a coprirle le guance arrossate, esclamò ebbra di piacere: “Wieder, wieder! Töte Sie alle!”[1]

 

Uno sfrigolio anticipò lo sparo di altri due cannoni a cariche elettrostatiche. Colpirono lo scafo della nave sulla quale era ancora inginocchiata l’Unità e una violenta esplosione la nascose alla vista.

“Non lo vedo più!” – gridò la vedetta di una delle navi, prima che qualcosa la scuotesse da cima a fondo.

“Non ho paura di voi!” – la corazzata si inarcò per la spinta di qualcosa di enorme sotto di essa: ruggendo in modo animalesco, il torso di Hydraggsjl riemerse dal mare, sorreggendo sulle braccia lo scafo della nave; solo i due luminosi occhi rossi rilucevano demoniaci nell’ombra.

Màrino mimò un immane sforzo nella cabina, gridando a pieni polmoni: “Non ho paura di nessuno!”

Hydraggsjl ripeté il movimento e con forza disumana scagliò via la fregata, facendola schiantare contro la terza della lista. Esplosero.

“Non se ho questo potere!” – si voltò di tre quarti, il volto contratto dall’ira.

Senza preavviso, una grossa torpedine acqua-aria emerse dal mare e si andò a schiantare contro la schiena del robot, costringendolo a piegarsi sulla colonna vertebrale. Poi un’altra e un’altra ancora. Rimasero compresse contro il suo corpo per un secondo prima che detonassero. Ma dalla coltre di fumo che ne seguì riemerse la sua mole gigantesca. Era ancora illeso.

 

A bordo dell’Eleanor Rigby, un operatore esclamò: “Ci sta decimando! Cosa facciamo?!”

“Dite alla flotta di guadagnare tempo!” – fu l’ordine della McCoy – “Dobbiamo raggiungere Alford e attivare l’Unità!”

 

Le coperture di sicurezza sul ponte di una fregata inglese si scoperchiarono, liberando una batteria di missili anti-aereo con una fontana di fumo bianco. Hydraggsjl posò un piede sulla superficie marina e una runa azzurra si illuminò al di sotto, sostenendone il peso. La Machine corse a pelo d’acqua, inseguita dai razzi che si tuffavano ed esplodevano. Saltò, un grande circolo alchemico si aprì a mezz’aria e, come un trampolino, lo sospinse in alto di centinaia di metri. Altre due serie di razzi a ricerca vennero sganciate verso di lui. Hydraggsjl si lasciò cadere a peso morto, brandendo la spada con cui fendeva i missili che gli danzavano intorno. Assestò un fendente a vuoto e lo spostamento d’aria fu tale da innalzare un muro d’acqua con tanto impeto da tagliare a metà due delle ultime tre navi superstiti.

Màrino rivolse lo sguardo verso l’ultimo obiettivo: “Ho vinto ormai!”

L’Oreikhalkos si illuminò e il gigante distese un braccio davanti a sé: una sfilza di rune di luce si aprirono in sequenza sull’acqua, sfoderando lame di spade. L’ultimo circolo alchemico si allargò sotto la fregata superstite e una colossale lama d’argento incisa a caratteri luminescenti impalò di netto la nave militare.

 

Aaron aveva osservato con occhi increduli la battaglia consumata fino ad allora, ignorando la mandria di civili terrorizzati. Si era accorto della torretta di controllo blu scura che faceva capolino dai flutti, in alto mare, e che si avvicinava a sempre maggior velocità verso i centri abitati, come la pinna di uno squalo. Stava venendo per lui.

 

“Aprire le bombole a pressione!” – ordinò la McCoy – “Eleanor Rigby: emersione!”

Sei vani si spalancarono sotto le casse di emersione nel ventre della nave, espellendo aria e acqua. La superficie del mare si incurvò sopra la spinta dell’Eleanor Rigby. Tonnellate d’acqua scorrevano su uno scafo longilineo ed elegante, pitturato di un blu mimetico, lungo oltre trecento metri. L’albero di controllo, basso e smussato, era affiancato da un paio di radar di profondità e quattro cannoni a torretta. Una doppia linea di cannoni sfilava lungo i margini del lungo ponte di coperta tappezzato da pannelli solari. A poppa brillava un propulsore elettromagnetico e la prua terminava in tre rostri disposti a Y, a protezione del Ponte di Comando frontale dalle grandi vetrate.

“Emersione completata.” – confermò il timoniere.

“Avviate la manovra di attracco: estendere i blocchi di ancoraggio!”

 

La nave virò completamente fino ad allinearsi alla banchina dell’isolotto, investendola d’acqua, Aaron compreso. Due sezioni laterali della fiancata di sinistra di sollevarono e ripiegarono all’insù, snodando due grandi stabilizzatori a tenaglia che si serrarono sulla terra ferma, incrinando l’asfalto. Un portellone di ingresso si aprì in cima allo scafo e una scalinata pieghevole si estese a scatto verso il marciapiede.

“Sali! Forza!” – intimò una voce dall’altoparlante.

Con un groppo in gola, Aaron obbedì. Sorpassò la soglia blindata e risalì le scalette che portavano al ponte di coperta. Camminò incerto sul rivestimento a pannelli solari ancora coperto dall’acqua di mare che gli inzuppava scarpe e pantaloni.

 

“Ce n’è un altro?” – Màrino, in lontananza, trovò la cosa più seccante che pericolosa. Poi la visuale dell’abitacolo zoomò fino ad inquadrare una minuscola figura in piedi sulla nave.

“Ma quello è…” – impossibile – “…Aaron?!”

 

La porzione centrale del ponte di coperta si abbassò e divise, rientrando nelle fiancate. Il coperchio di una bara in titanio emerse.

“Ora sali su quello scrigno e avvicinati al sigillo! Fai come al simulatore!” – questa volta la voce della McCoy fu riconoscibile.

Aaron sentì mancarsi il respiro e non fu solo per l’ondeggiare della nave sotto di lui. Quella puzza di ferro e benzina bruciata, quella salsedine sulla pelle, quella paura e quel senso di tradimento… tutto questo era reale. Si voltò verso la torre di controllo dell’Eleanor, poi ancora verso la bara nera e infine verso Hydraggsjl, lontano. Non ci sarebbe stato un finale diverso. Capì che in quel momento un solo sentimento superava di gran lunga ogni altro, perfino il terrore di morire. E capì che era rabbia.

Con un salto separò la breve distanza tra l’orlo del vano alloggiamento e la bara. Camminò in fretta verso il centro e presto si ritrovò in piedi sul sigillo dell’Athanor, abbastanza largo da poter accogliere una piccola piscina. Stavolta la voce arrivò dal cercapersone, una scelta che sembrò decisamente più intima, più umana: “Sai cosa devi fare.” C’era della rassegnazione in quella frase.

Deglutì. E lo disse: “Svegliati.”

La gemma del sigillo s’irradiò di luce bianca, innalzandosi in una colonna fino in cielo.

 

Aaron venne gettato in mondo di scintillii e calore, dove porte bidimensionali si spalancavano in un’infilata di stanze dalle carte da parati variegate, senza pavimenti né soffitti, e dove tende di carta velina davano su spazi cosmici insondabili. Gli abiti si disfecero in stelle filanti e una coperta di plasma avvolse il suo corpo in posizione fetale, racchiudendolo in una crisalide metafisica, che poi si fessurò, lasciando fluire via plasma multicolore come ali di un lepidottero e un essere emaciato dalla pelle grigiastra emerse dal bozzolo. Mosse un passo su una runa dorata e zampilli di energia risalirono lungo le sue gambe, rivestendole di una robusta armatura bianca striata di rosso, dai calzari metallici appuntiti. Immerse le mani, una dopo l’altra, in altre rune e ne riemersero ricoperte da artigli affilati e vambraci e rebraci bianchi. Fili di luce formarono un corpetto intorno al torso, solidificandosi in una corazza pettorale e altri spruzzi liberarono spallacci bianchi decorati da geroglifici scarlatti. Migliaia di ingranaggi e cavi si radunarono sulla sua schiena e due ali di vetro, come quelle di una libellula, si ripiegarono sotto pannellature di metallo. Un elmo dalla falda frontale oblunga calò sulla sua testa, una lama argentea si materializzò sulla punta, formando un corno frontale, e la maschera della Machine coprì il volto. Gli occhi rossi si spalancarono e materializzò un pesante scudo bianco sul quale splendeva un’ampia effige rossa e argento.

La torre di VRIL si annullò e il sole riverberò sulla corazza della nuova Divinità Metallica.

Era la grandezza di un cuore e la brevità di una farfalla; le lacrime di un monarca senza impero e la purezza di un amore inespresso.

“Spiega le ali al tramonto dei tuoi giorni…” – pronunciò Aaron – “…Bragjantyr.”

 

 “Aaron!” – la voce di Màrino venne riprodotta all’esterno della sua Unità– “Tu sei un Meister?! Com’è possibile? Perché non me lo hai detto?”

“Io?! Come avrei potuto dirti una cosa del genere? Tu, piuttosto! Tu sei…un...” – non riusciva nemmeno a dirlo ad alta voce – “…uno di loro! Come puoi essere dalla loro parte?! Hai idea di quello che fanno a quelli come me?!”

“Tu non puoi capire.” – Màrino abbassò lo sguardo pieno di rimorso – “Questo per me è l’unico modo.”

“C’è sempre un altro modo! Dopo tutto quello che hai passato anche tu, per giunta!” – poi provò a moderare i toni – “Non voglio combatterti, Màrino. Lascia perdere e vieni via con me.”

“Non posso farlo. Ho degli ordini.”

“E tu prendi ordini da quelli?! Con che coraggio?!”

 

A bordo del sottomarino nazista il fermento iniziava a sfociare in un imbarazzato sconcerto: “Ma che stanno facendo? Si mettono a litigare?”

Un operatore fece per prendere delle cuffie: “Dico subito a Blau Nixe di…”

“No, aspettate.” – li fermò la Winkler; accavallò una gamba e sorrise compiaciuta davanti a quello spettacolo – “Restiamo a guardare. Lasciamo crescere l’odio.”

 

“Non è così semplice!” – Màrino agitò i pugni in segno di protesta e perfino la sua sWAn ripeté quel gesto infantile, totalmente sincronizzata – “Sono loro che mi stanno proteggendo! Sennò che fine avrei fatto?! Loro mi hanno dato Hydraggsjl ed è solo così che potrò realizzare il mio Desiderio! Solo così posso salvare Sara!”

“Cosa li leggi a fare quei fumetti?!” – Aaron si sentiva diviso tra l’impulso di prenderlo a pugni o abbracciarlo – “Hai mai visto un eroe aiutare gente del genere?! Sei un ipocrita!”

Màrino sgranò gli occhi per la furia: lui un ipocrita? Di tanti al mondo, aveva il coraggio di dare dell’ipocrita a lui? Lui che aveva perso tutto senza guadagnare niente? Lui che aveva sacrificato la sua stessa anima pur di non veder più soffrire la persona che amava? No, non poteva sopportarlo. E più di ogni altra cosa, non poteva reggere l’idea che a dirlo fosse quello che fino al giorno prima avrebbe voluto considerare il suo migliore amico. Era troppo.

“Tu non capisci niente!” – ringhiò a testa bassa, come un cane da guardia – “Questa Machine è l’ultimo legame con la mia vita! E se uso il suo potere…io sarò un eroe!”

Hydraggsjl scattò verso il suo nuovo nemico e di rimando Bragjantyr accese i propulsori posteriori e decollò dal ponte di coperta. Espulse una manciata di razzi cilindrici dalla schiena in direzione di Hydraggsjl, che correva a pelo d’acqua contro di lui e che, con uno scatto del filo della spada, sollevò spruzzi d’acqua che si immobilizzarono per un momento a mezz’aria. Quindi, con un gesto del braccio, le masse d’acqua si estesero in getti sinuosi dalla forma di serpenti marini. Missili e serpenti acquatici si avvicinarono in un intricato gioco di spire per poi collidere ed esplodere. Bragjantyr riemerse in volo, sgrullandosi di dosso stracci di fumo grigio, diretto verso il cielo; le sue effimere ali di vetro brillavano contro il sole. Màrino arrestò la sua Machine e un ampio mantello fuoriuscì da sotto le piastre dorsali. Vi si arrotolò dentro, e lo riaprì con un gesto deciso, rivelando cinque spilli di VRIL blu che si solidificarono in altrettante spade. Il mantello si disfece come acqua. Roteando velocemente su un solo tacco, le scagliò in cielo come proiettili, una dopo l’altra, ma a Bragjantyr bastò un’unica ampia virata aerea per schivarle. Con la claymore che brandiva nella mano destra, Hydraggsjl caricò un fendente verso il nemico. Nella mente di Màrino era già impressa l’immagine della testa staccata dal corpo di quel robot bianco, ma s’illuse: Bragjantyr parò il colpo con l’enorme scudo, atterrò in mare e portò la mano al fiancale sinistro, afferrando un cilindro metallico agganciatovi. Un lama laser rosata si estese dall’elsa. Nell’esatto momento in cui la spada di Hydraggsjl tentò ancora di decapitarlo, il Monarca Bianco estrasse la spada, tranciando di netto la lama nemica. A Màrino si spezzò il fiato nel vedere il suo colpo andare del tutto a vuoto, mentre la punta tagliata e incandescente piroettava in aria per centinaia di metri, per poi abbattersi e tagliare in due un palazzo storico della Giudecca Est. Il giovane Meister sputò un grumo di saliva che gli si era formato in bocca, mentre visualizzò mentalmente una nuova soluzione: con uno spruzzo d’acqua, una seconda lama scattò fuori da sotto il piccolo scudo sull’avambraccio sinistro.

“Un’altra?!” – Aaron sgranò gli occhi.

Hydraggsjl mirò l’affondo dritto verso gli occhi di Bragjantyr, ma incontrò di nuovo la resistenza del suo scudo. Màrino gridò più forte e spinse ancora più a fondo, finché la lama non scivolò oltre lo scudo, andando a perforargli lo spallaccio sinistro. Anche la lama si spezzò. Aaron perse la presa tanto dello scudo quanto della spada laser, indietreggiando goffamente verso il centro abitato. Abbandonata ogni arma, passarono alle mani: gli artigli meccanici si incrociarono, palmo contro palmo.

 

Più a largo, l’Ammiraglia inglese fendeva le acque in direzione del triangolo rosso sulla mappa nautica: il Krakendorf.

Meine Fraulein,” – avvisò un sottoposto – “il nemico si dirige a tutta velocità verso la nostra posizione. Devono averci individuato!”

Ma Katrina Winkler non aspettava altro: “Che vengano! Mostreremo loro la potenza dalla Divisione Marine Kreutz!”

E come un leviatano dell’antichità, la mole nera del sottomarino nazista emerse dal mare in un tripudio di rivoli d’acqua. Tre grandi eliche, due ventrali e una sulla poppa, lo sostenevano in aria a pochi metri dalla superficie del mare. Un mostruoso crostaceo corazzato, dal dorso gobbo fatto di sezioni sovrapposte, che terminava in una coda tozza, e due gigantesche tenaglie frontali. Una svastica e un trifoglio stilizzato erano state dipinte sulla parte frontale.

 

Le sWARd Machines avevano ormai invaso la città, facendone un elegante e fragile terreno di battaglia, mentre il suono di ferraglie scontrate risuonava a ogni pugno. Quando i due giganti raggiunsero Piazza San Marco la pavimentazione rimbalzò come un tatami, insieme a uno stormo frenetico di piccioni e folle urlanti.

“Smettila! Stai distruggendo la tua stessa città!” – gridò Aaron liberandosi non senza sforzo da quella posizione e sferrando un pugno contro la maschera facciale di Hydraggsjl. Questo tentennò un solo attimo, prima di rispondere con un altro pugno: “Sei tu che ti sei messo in mezzo!”

Continuarono a colpirsi e a spingersi a turno, con i tacchi che incidevano l’asfalto, aggirando lentamente le Procuratie. Ma nonostante Aaron facesse di tutto per evitare che la sua Unità limitasse i danni o schiacciasse cittadini in fuga, Màrino non sembrava curarsene allo stesso modo, quantomeno dei palazzi.

“Non è così che dovresti comportarti! Non ci credo che è questo chi sei davvero!” – disse ancora Aaron, tra un gancio e l’altro.

“Sta’ zitto!” – urlò Màrino, senza nemmeno badare al dolore. Hydraggsjl gli affondò un montante nel basso ventre, inchiodandolo al campanile di San Marco, che tremò mentre la punta andava franando al suolo. Resistendo al rischio di distruggere del tutto quello che ne restava, il gigante bianco afferrò il suo avversario per le spalle e con tutta la forza possibile lo spinse indietro, atterrandolo al centro della piazza. Il corno frontale di Bragjantyr iniziò a vibrare velocissimamente, producendo un ronzio acuto e una luminosità soffusa. Un istinto atavico, violento, si stava impossessando di Aaron, mentre affondò con rabbia il corno all’altezza della clavicola della Machine nemica. Come tagliata da una sega elettrica, la corazza sprizzò prima una pioggia di scintille, poi venne un rumore di carne ed ossa maciullate e il sangue, denso e vermiglio, a imbrattare l’elmo immacolato di Bragjantyr. Rigagnoli rossi scorrevano sulla lucida armatura e andavano raggrumandosi in petali di rose. Màrino gridò di dolore – il Mercury-C faceva ribollire un segno rosso sulla sua pelle, in corrispondenza della ferita del gigante – ma, come per il resto della sua vita, quel dolore si tradusse in carburante: afferrò il corno ancora conficcato nella spalla della sua Machine, ferendosi così anche una mano, e riuscì ad estrarlo. Allontanò da sé il torso dell’altro gigante quel tanto sufficiente da poter ripiegare una gamba tra i loro corpi e calciarlo via con forza. Il Monarca Bianco caracollò sull’ala opposta delle Procuratie, sfondandola. Hydraggsjl si mise a sedere con fatica, una colata di sangue scorreva dalla spalla fino al bacino, creando una pozza di petali scarlatti al suolo. Màrino stava riprendo fiato quando l’eye tracking degli schermi mise a fuoco qualcosa che pose fine a qualunque altro suo pensiero: a terra, tra i calcinacci di edifici semidistrutti e zolle di asfalto sollevate, c’era un uomo. Era vivo, ma se ne stava immobile semidisteso, con la gamba sinistra piegata in una posizione innaturale e i pantaloni laceri e insanguinati. Non riusciva a muoversi, ma in compenso si era accorto di essere osservato. D’altro canto, difficile non notare una testa gigante e quelle due pupille rosse, sbarrate e senza palpebre, ruotate verso di lui. Il suo viso era stravolto dal terrore e dal dolore, ma in quei lineamenti sfatti e rubicondi, in quei capelli sudaticci e scomposti, Màrino riconobbe qualcuno.

Fernando De Bortoli.

Per un momento il mondo smise di girare.

 

In quella giornata funesta, in cui aveva scoperto di essere in grado di pilotare un mostro alto come un palazzo, in cui l’istinto gli aveva suggerito il modo per materializzare armi dal nulla senza saperne il perché, in cui tutto quello che aveva costruito nei mesi addietro insieme al suo migliore amico stava crollando insieme ai palazzi della città in cui era nato e cresciuto…in tutto quel pandemonio surreale, la sorte aveva voluto che il signor De Bortoli – l’uomo che, per quanto poteva dirne, lo disgustava più di ogni altro – si trovasse proprio lì, adesso. Nella mente di Màrino scorsero una manciata di immagini scomposte, dai lividi sul braccio di Sara e al suo evidente disagio ogni qualvolta temeva di fare tardi nel rientrare a casa, allo sguardo di disprezzo reciproco che lui e Fernando si erano scambiati in ospedale. Non si preoccupò di come potesse essere finito lì, del perché ci si trovasse, o anche solo se Sara potesse essere nei dintorni. Ora la mente di Màrino era un ripostiglio semi-vuoto, in cui si trovavano solo poche fotografie sgradevoli sparse a terra e in cui rimbombava il suono del suo battito cardiaco, improvvisamente rallentato. Quell’uomo era ferito, debole, atterrito, minuscolo. Era alla sua mercé. Solo questo riusciva a pensare. Sarebbe bastata una mano di Hydraggsjl – neanche, un solo mignolo! – a estinguere la vita di De Bortoli così come con un insetto molesto. E in effetti, l’idea gli sembrò davvero semplice da attuare.

 

Senza preavviso, Hydraggsjil allungò una mano verso l’ometto al suolo e lo ghermì. Aaron stava ancora cercando di rialzarsi dalla posizione in cui era stato scaraventato, quando si accorse della piega che aveva preso la vicenda.

“Aspetta, fermo!” – provò a gridare, ma Màrino ormai era in una dimensione tutta sua. Aveva sollevato in aria il pugno da cui spuntava solo la testa e un braccio dell’uomo, che ora urlava a perdifiato, mischiando bestemmie a suppliche. Chissà cosa stava pensando, in quel momento. Si sarà chiesto cosa avesse fatto di male? Perché un gigante uscito da chissà dove, che fino ad ora si era battuto con uno suo pari, ora se la prendeva proprio con lui? Avrà pensato di stare per morire, avrà fatto ammenda dei suoi peccati davanti a Dio e alla coscienza di sua figlia e sua moglie? Quanto potrebbe far male venire stretto da una mano guantata di metallo, grande quanto due piani di una casa? Le ossa si saranno già tutte rotte? Questi ed altri pensieri saltellavano felicemente nella mente di Màrino, mentre la sanità mentale sembrava solo una parola democristiana per reprimere quello che ora era il suo bisogno più impellente.

“Tu!” – Màrino sfoderò un sorriso mefistofelico, fissando la sua preda – “Se ora ti ammazzo, tutti i problemi di Sara e i miei saranno finiti!”

Strinse ancora la presa e vide il volto dell’uomo gonfiarsi come una spugna e diventare paonazzo mentre gli occhi si iniettavano di sangue e la lingua annaspava fuori dalla bocca sbavante: “Tutti quanti!”

Aaron sentì che stava per accadere l’irreparabile e gridò straziato: “NON FARLO!!!”

Splat.

Sangue, interiora, un braccio e una testa spruzzarono tra le dita di Hydraggsjil come un tubetto spremuto di acrilico rosso.

“Ce l’ho fatta…” – il viso di Màrino era una maschera di follia, trasformato da un’esultanza resa instabile da qualche nervo saltato di troppo – “…ce l’ho fatta! Si è realizzato!”

Poi si voltò verso il mare, dove le due navi avversarie apparivano ora pericolosamente vicine e si ricordò che quel giorno le cose da sbrigare non erano ancore finite.

 

“La nave nemica è uscita allo scoperto!” – annunciò l’Ufficiale in seconda dell’Eleanor Rigby.

“Prepariamoci ad aprire il fuoco.” – ordinò la McCoy – “Rimozione delle sicure anti-flooding! Passare a sistema di puntamento automatico!”

Le protezioni delle bocche dei mortai del sottomarino inglese si aprirono e tutti fecero fuoco contemporaneamente. I proiettili anti-corazzata esplosero sul Krakendorf, ma tutto quello che riuscirono a ottenere fu qualche fenditura.

“E questo è il meglio che l’Eurasia ha da offrire?!” – Katrina Winkler trattenne l’istinto di mettersi a ridere.

Per risposta, due vani sul dorso dell’ibrido navale nazista si scoperchiarono, vomitando una pioggia di missili dalla punta a trivella.

I cannoni a torretta del Rigby si mossero in autonomia, mitragliando rapidamente verso il cielo e neutralizzando la quasi totalità dei missili. Quei pochi che sfuggirono si schiantarono in mare o sulle fiancate, senza sortire danni consistenti.

“Un sistema antiaereo di tipo Aegis? Avrei dovuto prevederlo!” – non era il caso di sottovalutare il nemico, ma per Undine l’opzione della sconfitta era ancora ben lontana – “Sarà il caso di passare a misure più primitive. Erst Steurmann[2]: assetto da combattimento a distanza zero!”

Jawhol, meine Freulein!”

Le gigantesche tenaglie si spalancarono ed allungarono, afferrando saldamente le fiancate dell’Eleanor. I propulsori verticali del Krakendorf aumentarono di potenza al punto che l’intera Eleanor Rigby iniziò a essere trascinata fuori dall’acqua.

“Siamo stati agganciati!” – esclamò allarmata una militare donna, che come tutti gli altri dovette reggersi alla sua postazione per evitare di rotolare via, mentre tutta la nave si impennava in verticale.

“Dobbiamo opporre resistenza!” – nemmeno per Andrea McCoy la posizione era delle più comode, ma la lucidità era un’arma tanto quanto le altre – “Estendere flap e pinne stabilizzatrici! Repulsori a massimo regime!”

Due grandi vele metalliche si allargarono dalle fiancate e si snodarono in due sezioni insieme a una ventina di ipersostentatori sollevati lungo entrambe le fiancate; la luce azzurra emessa dal motore posteriore si fece più intensa. Si ritrovarono in un tiro alla fune da cui non sarebbe stato semplice sottrarsi.

“Vi schiacceremo come gli insetti che siete!” – disse la Winkler, decisamente più irritata di prima.

Nonostante l’Eleanor continuasse a bombardarle senza tregua, le tenaglie meccaniche strinsero con più vigore lo scafo, che iniziò a comprimersi e incrinarsi.

“Danni al ponte e alla carena! I cannoni non sortiscono alcun effetto!” – il cigolio preoccupante che proveniva dalle pareti copriva la voce dell’equipaggio.

“Non ci resta che usare l’arma principale!” – propose Andrea McCoy.

“Ma Capitano,” – si oppose una ragazza al quadro di controllo dei generatori energetici – “il TWC non è stato mai usato a distanza così ravvicinata! Ci sono dei test da effettuare e…”

“Sarà comunque meglio di niente! Eseguite!”

“Sissignora.”

“Apertura dello scrigno di prua, Ponte di Comando in posizione di tiro!” – ordinò ancora e i monitor della sala di controllo si riempirono di segnali gialli d’allerta.

Con uno scatto, i morsetti che chiudevano la prua dell’Eleanor Rigby si allentarono e la mezzaluna del Ponte di Comando si ritirò verso l’alto. In una sinfonia di ingranaggi, pulegge e sistemi a scorrimento, la prua tri-puntuta iniziò ad aprirsi come un fiore di tigridia, rivelando un intrico di turbine in funzione collegate alla canna di un cannone collassabile, che si allungò verso l’esterno.

“Cosa?!” – ora Katrina Winkler aveva perso ogni parvenza di spavalderia.

La sequenza di comandi impartiti dalla McCoy procedeva ancora come da manuale: “Abbassare gli scudi!”

Paratie di metallo scesero sulle vetrate del Ponte e la visuale passò al megaschermo frontale.

“Scudi abbassati!” – le confermarono.

“Convogliare l’energia al generatore principale!”

I rostri frontali si schiusero: non erano frangiflutti, ma protezioni per tre sottili antenne collegate a fusibili scoperti. Iniziarono a vibrare e archi elettrici bluastri ne unirono le punte alle turbine ventrali, mandandole su di giri. Onde luminose lampeggiarono all’imboccatura del cannone, disegnando un campo di forza magnetico.

Achtung!” – l’addetto alle frequenze radio di Marine Kreuzt si voltò verso la Comandante – “Rilevazioni elettromagnetiche in forte aumento!”

Lei capì al volo e si detestò per non aver previsto contromisure adatte a una simile evenienza: “Un attacco EMP?!”

Dalle fiancate dell’Eleanor Rigby si sollevarono due volano, vorticando a grande velocità ed espellendo fumo e scintille elettriche.

“Antenne transienti alzate! Scarico termico in funzione!” – continuavano ad annunciare i sotto-Ufficiali inglesi – “Lo scattering elettronico ha raggiunto la soglia di Compton!”

“Obiettivo inquadrato, pronti a sparare!”

Con la fronte imperlata di sudore, la McCoy pregò di non morire per sua stessa mano e poi ordinò senza altri ripensamenti: “Transient Wave Cannon: fuoco!”

E un raggio di particelle azzurre esplose dal cannone frontale, investendo il Krakendorf e proseguendo diritto fino in cielo. L’aria stessa sembrò strapparsi con un rumore cupo e stordente, fortissimo, come se migliaia di televisori restassero fulminati all’unisono.

I computer del Krakendorf sfrigolarono impazziti e le lampade rosse di emergenza gettarono l’equipaggio nel panico: “Sistemi in avaria! Impossibile mantenere la quota!”

Come risultato, le tenaglie che stringevano l’Ammiraglia inglese allentarono la presa. Entrambi i sottomarini ricaddero in mare.

Un barrito inumano provenne a mezzo chilometro di distanza: abbandonato il suo rivale, Hydraggsjl stava giungendo in loro soccorso, correndo su dischi di VRIL a pelo d’acqua.

Spiccò un balzo e riatterrò sulla nave di Marine Kreuz, si voltò verso quella degli Inglesi ed estrasse una spada da una runa luminosa a mezz’aria. La sollevò, pronto a calarla sul nemico, ma uno sparo dei cannoni dell’Eleanor gli spappolò la mano. Màrino gridò.

“Non c’è altra scelta, ritiriamoci!” – Katrina scattò in piedi e per la prima volta sentì davvero il fiato della morte sul suo collo – “Dite alla base di trasmettere la Machine con il Bilröst Gatter!”

E mentre anche Bragjantyr volava rapidamente verso il centro della battaglia, una colonna di luce sfondò le nuvole in cielo e investì l’Unità azzurra, scomponendola in milioni di particelle e trasportandola altrove. Allo stesso tempo, una scialuppa sottomarina d’emergenza si sganciò dalla carena del Krakendorf, puntando rapidamente verso il mare aperto. Il resto della mostruosità meccanica, invece, era ormai un ammasso inerte di ferraglia fumante a cui non restava che finire di sprofondare sul fondale.

Dopo ore di esplosioni e morte, il silenzio era tornato a regnare a largo di Venezia.

“Obiettivo silente.” – decretò l’Ufficiale in seconda della Marina Inglese; sembrava incredulo della loro stessa vittoria – “Anche la Machine nemica è scomparsa dal radar.”

Andrea McCoy riprese fiato, stanca e sudata. Si appoggiò alla plancia della sua postazione e sentì che le gambe erano sul punto di cederle. Si passò una mano sulla fronte madida di sudore e si ricompose i capelli corvini: “Ottimo lavoro. Grazie a tutti.”

 

*   *   *

 

Per tutta la durata della battaglia, Na-El aveva atteso sulle sponde di San Sèrvolo, seduta. Quando il freddo della canna di un mitra le toccò la nuca, la cosa non la turbò, né la sorprese. Si voltò lentamente e, anche senza il dono della vista, seppe che ad accoglierla c’era una squadra di sei soldati della Marina Inglese, misti ad altri tre agenti in uniformi scure, decorate con il logo a cinque occhi della ECHELON. Dietro di loro, ormeggiata, si ergeva l’Eleanor Rigby e, in piedi su di essa, il cavaliere dall’armatura bianca: Bragjantyr.

 

 

 

[1] Dal Tedesco; letteralmente: “Ancora, ancora! Uccidili tutti!”

[2] Dal Tedesco; lett. “Primo Timoniere”

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Capitolo 8
*** Capitolo 20: Acqua, sale e ghiaccio tritato ***


20.

Acqua, sale e ghiaccio tritato

 

 

Una settimana dopo.

Ufficio del presidente; Gran Palazzo del Cremlino; Mosca.

 

Edvard Novikov era chino sulla scrivania di legno massello, intento a sfogliare ed approvare i provvedimenti sulla redistribuzione del denaro alla sanità pubblica che tanto gli stavano facendo passare le notti insonni. Spostare i fondi a favore della ricerca bellica, con quello che costava in particolare manutenere il gioiellino segreto noto come Fredya, comprimeva gli emolumenti a qualunque altro Ministero e minimizzare i danni non era una mossa né popolare e né da sbandierare ai quattro venti. A interromperlo ci pensò un bussare alla sua porta che precedette il garbato capolino della sua segretaria: “Прости, Эдвард. Прибыл доктор Khurana.”[1]

Впусти его, спасибо.”[2]

Quindi la donna si fece da parte, lasciò entrare un uomo dai tratti indiani armato di una valigetta in metallo e richiuse la porta.

“Ah, ben arrivato. La stavo aspettando” – Novikov si alzò in piedi e aggirò la scrivania a mano già tesa, con il suo Inglese da cui non riusciva a eliminare del tutto l’accento russo – “Piacere di conoscerla di persona, finalmente.”

“Il piacere è tutto mio, Presidente.” – gli ricambiò la stretta di mano.

“Volato bene?”

“Direi di sì, grazie. Con il Capitano Andrea McCoy siamo atterrati ieri. Un po’ di jet lag da digerire, ma ormai non ci faccio quasi più caso.”

“Non lo dica a me.” – Novikov attraversò la stanza per andare ad abbassare le saracinesche delle finestre, gettandoli nella semioscurità – “Di questi tempi viviamo in areo.”

Poi tornò dietro alla sua scrivania, ma senza sedersi: “Ha portato quello che mi avevano promesso?”

“Certamente.” – Khurana posò sul tavolo la valigetta; posò i polpastrelli dei diti medi sugli angoli e un bip segnò che le impronte digitali erano state riconosciute; la valigetta si aprì con un meccanismo fluido, separandosi in due cassetti – “Controlli pure.”

All’interno erano riposti ordinatamente 3 plichi di documenti cartacei, singolarmente foderati in cartelline trasparenti. Due di questi recavano, in alto a sinistra, un logo a cinque occhi. Novikov lesse i titoli stampati a caratteri squadrati sui fronti.

 

PROJECT EX

State of Work (Sept. 2050)

 

PROJECT ROSETTA

Supplementary documentation on “P-REDACTED-s’ Records” conducted by the Mars Research Committee (1 of 5)

 

Spostò lo sguardo sul terzo plico, contraddistinto invece dalle bandiere dell’Eurasia, dell’Austramerica e dal logo della NATO.

 

UNITED KINGDOM ROYAL NAVY | MINISTRY OF DEFENSE

Mission report (copy)

 

Su tutti e tre era stato apposto un timbro rosso, [CONFIDENTIAL], e su quello intitolato ‘PROJECT EX’ il relatore aveva aggiunto anche un [FOR YOUR EYES ONLY] a scanso di equivoci.

Novikov prese la cartellina, estrasse il primo documento e ne saggiò la filigrana tra pollice e indice, compiacendosene: “Con tutta la tecnologia che c’è in quest’epoca la carta è l’unica che non tradisce mai.”

Rajesh Khurana incrociò le mani dietro la schiena, dondolandosi un po’: “Spero di non risultare indisponente, ma questo è il momento in cui le devo chiedere il corrispettivo.”

“Come minimo.” – Novikov infilò una mano sotto il piano della scrivania, dove normalmente teneva le gambe, e si udì un rumore a scatto. La tirò su e stavolta fu lui a porgere una cartella: “Ecco a lei. Mi raccomando di estrarre e consegnare alla Seong-Wang e alla Reinfold solo i rispettivi capitoli.”

“Certamente. La ringrazio” – Rajesh la sostituì ai documenti nella ventiquattrore meccanizzata, richiudendola.

Espletate le formalità, Novikov non poté esimersi dal lasciarsi andare a facili pettegolezzi: “Certo che quell’operazione di recupero in Giordania avrebbe potuto essere condotta con un po’ più di discrezione.”

“Non è con me che ne deve parlare.” – lo scienziato fece spallucce – “Ma le Nazioni Arabiche sono ben consapevoli che abbiamo prove dei giochetti che i gruppi separatisti intrattengono con i Nazisti. Non credo vogliano fare a gara a chi la fa più grossa.”

E così dicendo liberò la scrivania presidenziale dalla sua valigetta e si preparò ad alzare i tacchi: “Con permesso. Buona giornata.”

“Le faccio chiamare un taxi per l’aeroporto?” – chiese Novikov poco prima che l’indiano uscisse dalla porta dell’ufficio.

“No, grazie. Penso che mi fermerò in città per un po’.” – un’idea che doveva essere divertente gli attraversò la mente, perché gli si accese il volto – “Mi piacerebbe salutare una vecchia conoscenza.”

 

*   *   *

 

Settore-12, Höhe -3; Golgotha.

 

Un getto d’acqua gelida investì il viso di Màrino, costringendolo a stringersi ancora di più in sé stesso. Se ne stava lì, nudo, in quell’ampia doccia pubblica vuota e scura, dall’illuminazione fioca e oppressiva, a farsi spruzzare d’acqua da una pompa di gomma. Gli sembrò che gli stessero tirando a dosso secchiate di ghiaccio che puzzavano di varecchina e qualche altro germicida.

Das ist genug.”[3] – disse l’uomo in camice bianco in fondo alla stanza.

Quella tortura era durata meno di un minuto ma era sembrata non finire mai e quando il soldato chiuse il getto Màrino rimase intirizzito, piegato su un lato, con i capelli zuppi d’acqua e i piedi in ammollo nella pozza che si era creata sul pavimento di metallo. Il dottor Karl Schultz gli si fece vicino. Sembrava il guardiano di qualche scimmietta esotica, prostrata e spaventata davanti a lui. Màrino non riusciva quasi ad alzare lo sguardo e gli venne istintivo coprirsi le nudità. Schultz gli prese la mascella con una mano, delicato ma fermo, e la rigirò da parte a parte, squadrandolo da sotto gli occhialetti tondi.

Seine Farbe sieht gut aus.” – disse tutto concentrato, e un altro uomo in camicie medico annotò qualcosa su un foglio di carta – “Er braucht nicht kein Melaninheilmittel.”[4]

Gli lasciò andare la mascella e indicò un tavolino alle sue spalle, accanto gli uomini, su cui era stata ripiegata la sua uniforme da Meister.

“Puoi rivestirti.” – stavolta lo disse in un ottimo Italiano.

 

Alle 7:45 in punto, Màrino entrava nella sala ristorazione dedicata ai vertici del Reich, dopo esservi stato accompagnato da un paio di guardie. Gli sembrò di essere a scuola, quando faceva tardi a lezione, perché trovò già sei individui in piedi dietro le loro sedie: quattro uomini in uniforme nera – dedusse che dovevano essere degli Ufficiali, dalle mostrine appuntate sulle giacche, ma non avrebbe saputo decifrarne il grado – e due Meister, che aveva ormai imparato a riconoscere da quegli abiti assurdi che sarebbero andati bene giusto per il Carnevale: Arachne e Schattennarr (non ricordava i nomi veri). Con una certa titubanza provò a sedersi a un posto qualunque ma l’iniziativa fu smorzata dal fatto che nessuno lo seguì. Si irrigidì imbarazzato e restò ad attendere un segnale di cui non aveva idea, tamburellando con le dita sulle cosce fasciate dai pantaloni gessati. Helena scosse la testa e ruotò gli occhi al soffitto: il tizio nuovo non aveva proprio idea di come stare al mondo. Fortunatamente per lui e il suo stomaco, non dovette attendere molto prima che Luft-Oberst, Schwarz Ritter e la signorina Winkler (l’unica di cui avesse memorizzato il nome e la prima ad essersi relazionata con lui, da quando era iniziata la collaborazione) entrassero nella sala, prendendo posto, e solo a quel punto tutti si sentirono autorizzati a fare lo stesso. Mentre gli altri iniziarono a mangiare il contenuto del loro vassoio, Màrino picchiettò il suo con la punta della forchetta: due fette sottile di qualcosa di lungo e bianco (un pesce bollito?), dei cavoli dal colore smunto e due fette di pane scuro come non ne aveva mai visto, e in più una piccola pasticca lasciata di lato. Il tutto gli ispirava una tristezza assoluta.

“Non è di tuo gradimento?” – chiese Helena piuttosto stizzita, che tuttavia gli concesse il dono di parlagli nel suo idioma.

“No, no…è buono.” – si sforzava di trovarlo tale, temendo di attirarsi le loro antipatie, e se ne mise in bocca un pezzo – “È buono.”

“Non c’è bisogno di fingere.” – aggiunse Jung, che non smetteva di ridere sotto ai baffi da quando lo aveva visto – “La cucina sulla Terra è più gustosa.”

Sembrava proprio che tutti se la cavassero alla grande con l’Italiano.

“Non è che di recente mangiassi tanto meglio.” – Màrino azzardò un risolino impacciato, infilzando un pezzo di cavolo. Poi, pensando che si stessero dimostrando inclini alla conversazione, prese l’ardire di porre addirittura una domanda: “Perché loro mangiano di là?”

Stava indicando con la forchetta la sfilza di teste rasate oltre la vetrata della loro stanza.

“Loro non sono come noi.” – rispose la Winkler, che era seduta davanti a lui – “Ci sono oneri e onori nell’essere un Ratsmiglieder.”

“Un…?” – Màrino cercò con lo sguardo qualcuno che gli spiegasse quella parola ma lasciò perdere in fretta. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una barretta incartata nella stagnola che gli avevano consegnato la mattina presto e la mise a fianco alla pillola misteriosa che era sul suo vassoio. Le scrutò dubbioso sul da farsi.

“Quella ti conviene tenertela per dopo, sennò a fine giornata non ci arrivi.” – disse ancora Helena, tra un boccone e l’altro – “La pillola invece è per evitare che ti vengano le voglie.”

“Voglie?”

Quelle voglie. Quelle da maschio.”

La mente di Màrino impiegò qualche secondo per passare in rassegna tutte le possibili ‘voglie’ che un uomo può avere e alla fine capì: “Ah.”

“Se proprio non riesci a contenerti dovresti prenderne una, ma un Meister dovrebbe imparare controllarsi.” – stavolta fu lo Schwarz Ritter a parlare, dal fondo della tavolata, ma neanche lui lo degnò di uno sguardo.

Decidendo di aggirare l’argomento scomodo, Màrino guardò ancora fuori dalla vetrata e rimase sorpreso alla vista del primo vero segno di umanità e positività in quel Purgatorio di ferro: un paio di donne (o presunte tali, visto l’accenno di seno, difficile esserne certi in quel mare di teste rasate tutte uguali) erano state accerchiate da un gruppetto di persone, maschi e femmine, e discutevano vivacemente. Sembravano più felici del resto della mensa.

“E lì che succede?” – chiese ancora.

“Abbiamo perso molti uomini di recente, c’è bisogno di ricambio.” – finalmente anche Luft-Oberst aveva deciso di sbloccare la lingua – “Sono state autorizzate a procreare.”

“Così non dovranno neanche prendersi quella pasticca per qualche giorno.” – aggiunse ancora Helena.

Le parole ‘autorizzate’ e ‘procreare’ suonarono così distanti e posticce alle orecchie di Màrino che sperò di aver frainteso: “Qui non…insomma, le persone non possono…?”

“Siamo in un sistema chiuso, nessuno può fare come gli pare.”

Quest’ultima risposta della Winkler sancì definitivamente un silenzio ancor più denso di prima, che fece sentire il ragazzo talmente a disagio da dover posare le posate. Si strinse di nuovo in sé stesso.

“Finisci di mangiare.” – quella fu l’ultima cosa che la Winkler che gli disse per il tempo restante – “Poi faremo un giro.”

 

Il giro promesso avvenne. Cominciarono da una passeggiata a Gravità ridotta lungo il cratere principale del Settore-12 e gli fece strada ai livelli inferiori. Gli mostrò la Reichschule – la scuola – ovvero un totale di ventuno bambini, tra i quattro e i dieci anni, intenti a fissare immagini di repertorio di un Hitler acclamato dal popolo e gli infiniti cortei cerimoniali di Norimberga, sotto gli occhi attenti di una giovane insegnate dai capelli raccolti in un’acconciatura che ricordava di aver visto solo in documentari sui primi decenni del XX secolo. Più che ripudio, Màrino provò un senso di profondo straniamento, nel vedere con quanto trasporto quella donnina parlava dei meriti del Terzo Reich, delle opere pubbliche costruite, del vivo amore che i loro antenati tedeschi avevano nutrito verso la Svastica, e con quanto innocente stupore i bambini restavano a fissarla. Quando la maestra giunse a proiettare le immagini di donne rasate e semi-svestite, che nella Francia del 1944 erano state accusate di collaborazionismo con il Reich per essere esposte all’ignominia pubblica dai loro connazionali, i bambini iniziarono a piagnucolare. Fu l’ultima cosa che Màrino vide, prima di chiedere di passare oltre.

Con Undine attraversarono poi i fumi e l’umidità dell’impianto di filtraggio aria e acqua, al Livello -4, e s’immisero nella sezione dedicata alla catena di produzione delle barrette alimentari.

“Devi capire che qui esistono delle regole e come nuovo membro della mia Divisione Marine Kreutz non puoi sottrarti.” – diceva Katrina mentre camminavano sulla passerella che sovrastava la filiera produttiva – “Cerca di abituarti il più in fretta possibile, perché la vita qui non è come sulla Terra.”

Sorpassarono gli enormi imbuti e cisterne in cui ribollivano informi masse organiche grigiastre, che venivano risputate in parallelepipedi di otto centimetri. Raggiunsero il Livello dedicato all’allevamento intensivo delle risorse organiche e Màrino resto a bocca aperta nel passare tra immense vasche illuminate, piene d’acqua e di pesci bianchi, sulle quali si muovevano scienziati in tenuta asettica.

“Qui mi guardano tutti strano.” – disse all’ennesima persona che gli riservò un saluto Nazista, solo per poi dargli le spalle e bofonchiare qualcosa di incomprensibile.

“È naturale.” – lei era sempre un passo avanti a lui e lo costringeva a fissarle la schiena per il grosso del tempo – “Tu non sei nato qui, non appartieni a questo posto.”

Forse avrebbe dovuto sentirsi sollevato che un gruppo di Nazisti non lo considerasse ancora parte integrante del quadro, ma un pezzettino di sé soffriva all’idea che ormai non era rimasto più un luogo al mondo – o fuori dal mondo – da chiamare ‘casa’.

“Però ciò non toglie che tu sia un Meister.” – continuò lei, guardandolo con la coda dell’occhio –“E, come ti dicevo, non c’è nessun altro come te.”

Da quella ittica erano passati all’ala dedicata all’allevamento da terra, una stalla grande come un campo di calcio dove poco meno di un centinaio di bovini di un bianco albino muggivano e si lamentavano, muovendosi lentamente lungo corridoi forzati verso porte automatiche, che si aprivano e chiudevano ritmicamente su antri scuri e per i quali gli animali mostravano un innato timore.

“Ognuno qui ha un compito. C’è chi rende tollerabile l’aria che respiriamo, chi si sporca le mani o perde un braccio nel riparare una falla o chi scende sul campo di battaglia. Perfino gli animali offrono la propria vita per la sopravvivenza del nostro Reich.”

Ora erano entrati nella Sala Macchine secondaria, dove Hydraggsjl giaceva inchiodato al suolo con funi d’acciaio e un gruppo di meccanici, abbarbicati sul suo corpo, era intento a saldare a fuoco una rudimentale placca di ferro scuro sulla ferita riportata alla spalla sinistra. Pensò che gli ricordavano una scena tratta da I Viaggi di Gulliver. Notò anche la presenza di almeno quattro ragazzini, tutti maschi, dai volti sporchi di grasso nero misto a chissà che altro, che facevano uno sforzo immane per tendere enormi cavi elettrici da un trasformatore a parete fino alla Camera di Flamel esposta nel torace.

“Anche i bambini devono lavorare?” – chiese guardando già dal parapetto.

“Voi terrestri considerati ‘bambini’ quegli individui a cui la società impone lo studio anziché il lavoro. Per noi non c’è differenza tra le due cose e l’una è necessaria all’altra. Per i primi dieci anni lasciamo che i nuovi nati si limitino ad apprendere le lingue e la cultura del nostro pianeta madre, ma dopo si richiede che anche loro assumano un ruolo all’interno del sistema.”

Màrino credette di iniziare a capire la logica, nemmeno troppo alla rovescia, con cui girava quel mondo. Guardando quell’automa – o essere? Non avrebbe saputo dirlo – dall’elegante ma mostruosa armatura cavalleresca, Màrino sentì che quelle persone erano a lavoro per lui e, allo stesso modo, lui era al servizio della sua Machine: “E il mio ruolo sarebbe solo…salire a bordo di Hydraggsjl? Devo solo combattere quando me lo ordinate?”

“No.” – Katrina si fermò e finalmente lo guardò negli occhi – “Il tuo – il nostro – è di riportare tutti a casa.”

Lo sguardo della donna parve assentarsi ma la verità è che vi si era accesa la luce dell’ispirazione: “Queste uniformi, la Svastica…sono solo simulacri. È il Reich a essere vivo. È un concetto, un’idea eterna che sopravvivrà a noi e proseguirà per sempre, quando finalmente tornerà a guidare i popoli della Terra! Noi siamo solo i veicoli attraverso cui si compie la volontà del Reich e del nostro Kaiser, suo Messia.”

L’estasi con cui quella donna parlava di una cultura che aveva trucidato milioni di persone appena un Secolo prima lo turbò, ma non gli passò neanche per la mente l’idea di contraddirla. Si accorse però di un dettaglio che fino ad ora gli era sfuggito: uno dei lunghi guanti neri di Katrina era leggermente sceso sull’avambraccio, rivelando quelli che potevano essere tre fori provocati da aghi sottili, intorno ai quali si erano formate delle macchie biancastre sulla pelle color caramello. Non erano cicatrici, ma qualcosa di più profondo: una sfumatura di colore, o forse la perdita di colore, a chiazze irregolari, come inchiostro bianco sciolto in acqua nera. La mente di Màrino le assimilò al ‘contrario di un tatuaggio.

“È…” – non era sicuro che fosse una buona idea indagare ma voleva anche sondare quanto in là poteva spingersi con le domande – “…è tutto a posto, con il braccio?”

Katrina rispose di sì, ma la velocità con cui si ritirò su la manica suggerì il contrario.

 

L’escursione trovò fine nella sala del Consiglio, nel Settore-1, appena in tempo per la riunione già in programma. Per la prima volta da quando esisteva la colonia lunare, tutti i seggi erano occupati.

“La sconfitta della Divisione Marine Kreuz è un altro duro colpo da digerire.” – fu il primo commento del Mond-Kaiser – “Pensare che siamo stati colti così impreparati è inaccettabile.”

Deludere così il reggente di Golgotha! Katrina Winkler si sarebbe punita da sola, colma di vergogna, se solo glielo avesse chiesto: “Mi perdoni, mein Kaiser. Mi assumerò personalmente la responsabilità di quanto accaduto.”

“Ma non è stata una tragedia totale.” – il fatto che non fosse troppo contrariato era una buona notizia, ma quello che continuasse a parlare come se non l’avesse neanche sentita era un segnale inequivocabile – “Il Risveglio del Drago delle Maree ci porta in una posizione di vantaggio rispetto alla Terra e la destrezza dimostrata da Blau Nixe merita una lode.”

“Vi…vi ringrazio.” – che provenisse o meno da un Nazista, quel complimento fece sentire Màrino di qualche utilità.

“Tuttavia…” – il tono di voce del Kaiser cambiò quel tanto che bastava da permettere chi lo conosceva meglio di leggervi tutto il disgusto e la rabbia che erano in lui – “…l’Eurasia si è dimostrata in possesso di un’ennesima Machine. Facendosi beffa dei nostri avvertimenti hanno nascosto la sua esistenza e hanno osato attaccarci di sorpresa. Questo può significare solo una cosa…”

Stava per dirlo? Stava per succedere davvero? Il presentimento era vivido in tutti, era una mossa che attendevano da tempo, ma l’accelerazione che avevano preso gli eventi era stata inattesa.

“…mostriamo loro che il Reich tiene sempre fede alla parola data!”

 

*   *   *

 

Centro di ricerca militare, sezione sperimentazione biologica; Mosca; Russia.

 

Ekaterina Asimov presidiava all’operato di altri due colleghi in camice bianco, affaccendati a un trittico di computer adiacenti, posti innanzi a una finestra di vetro rinforzato. La finestra dava su una sala ben illuminata, dentro cui quattro uomini in tenuta antisettica, mascherine e occhiali protettivi, armeggiavano e si scambiavano pareri intorno a una macchina diagnostica di forma cilindrica, dalla quale spuntavano solo le punte delle dita di piedi diafani.

Gli elaboratori della stanza di osservazione stavano riproducendo, strato dopo strato, la radioscopia di un corpo femminile. In un angolo della schermata, una telecamera era fissa sul viso di una ragazza dagli occhi chiusi. Mai si era vista in vita una giovane dalla pelle tanto pallida, né alcuna tinta per capelli avrebbe mai potuto riprodurre quell’azzurro fino alle radici.

“Proprio come immaginavo.” – Ekaterina studiò con attenzione le analisi biometriche, mentre finestre pop-up confrontavano eliche di DNA di almeno tre specie diverse – “La sequenza genomica corrisponde per il 14% con quella delle sWARd Machines.”

“C’è anche una compatibilità del 78% con il DNA umano, però…” – con un gesto del mouse, un assistente isolò tre bastoncelli di codice genetico, creandolo un grafico di raffronto separato – “…rimane fuori una sequenza di codice. È qualcosa di completamente nuovo.”

La donna sentì vibrare la tasca destra del suo camice e ne estrasse uno smartsquare. C’era un messaggio in sovrimpressione sullo schermo, che citava un luogo e un orario per un appuntamento. Memorizzò le informazioni e lo rimise in tasca.

“Forse è solo la conferma che stavamo cercando.”

Guardò ancora la radiografia e si soffermò sull’unica cosa per la quale non serviva una laurea in Ingegneria Biomeccanica per dedurre che dal luogo da cui proveniva quella ragazzina le cose non potevano essere come nel nostro: sotto la gabbia toracica, battevano alternativamente due cuori e quattro sacche polmonari.

 

*   *   *

 

Golgotha.

 

Nel mondo senza Sole della base lunare, mattina e sera si confondevano senza confini precisi. La sveglia nell’appartamento-cella di Màrino segnava le 18:13, un orario a cui non si sarebbe mai messo a dormire sulla Terra, ma la fatica mentale e il senso di spaesamento avevano distorto il tempo e l’orologio biologico.

Se ne stava supino sulla sua branda, in mutande e canottiera, gli abiti da Meister accantonati in un angolo. Neanche si era preso il disturbo di disfare il ‘cubo’, per quanto era duro e scomodo quel letto, e pensò che non ci si sarebbe mai abituato. Fissava la luce, pallida e nebbiosa come tutte le altre, che proveniva dalla lampada al neon sul soffitto. Il senso di nausea e giramento di testa che avvertiva da quando aveva messo piede sulla Luna ora si era fatto meno intenso, ma comunque presente, e trasportò una melassa fluida e faticosa di pensieri: l’immagine di Fernando De Bortoli spremuto nel suo pugno, impasti informi di proteine e fibre in un macinatore, lui ed Aaron che si gridavano addosso a vicenda, la Machine azzurra legata al suolo e coperta da bambini-schiavi, e poi la sensazione di venire disfatto – non c’era modo in cui avrebbe potuto esprimerlo a parole – dal flusso di fotoni del Bilröst Gatter per poi ricomporsi miracolosamente dentro quella base…tutto si mischiava nella sua mente e si sovrapponeva sulla sua retina.

Vomitò nel water chimico della sua camera.

Tornato sul letto, fissò ancora la luce che gli intorpidiva i sensi. Le pupille si restrinsero e le palpebre si dilatarono e un pensiero si rese inevitabile.

Ma che ho fatto?

 

*   *   *

 

Centro di Mosca.

 

Il cielo andava velandosi di nuvole, ma dietro di esse il Sole del tardo pomeriggio era ancora sufficiente a indorare i palazzi e le vie gremite di passanti e turisti. Il caldo torrido dell’estate aveva iniziato a cedere il passo all’umidità, sebbene i tempi delle rinfrescate settembrine a Mosca fossero passati già da un decennio.

Nataša Novikov risalì le scale della metropolitana, ritrovandosi sulla via principale della fermata ‘Park Cultury’. Parlava al telefono, cercando qualcuno con lo sguardo: “Non ti vedo…no, non sei tu…eccoti!”

Dall’altro lato della strada, Miša Vasyljev agitava un braccio. Cercando di non farsi investire, attraversò in fretta la strada senza passare sulle strisce e fu da lei. Rapido scambio di saluti, niente eccesso di abbracci o dimostrazioni fisiche, ma entrambi sapevano che non c’era un’altra persona al mondo che avrebbero voluto incontrare al posto dell’altra. Nat si scusò per il leggero ritardo – sfuggire alle grinfie dei bodyguard assoldati da suo padre aveva richiesto molta diplomazia – ma finalmente erano lì.

“Allora?” – chiese Nat, con una trepidazione ritrovata da mesi lontana da un campo di battaglia – “Qual è questo posto in cui mi volevi portare?”

“Datti tempo!” – il tempo era proprio quello che gli sembrava di avere sempre meno – “È un sacco che non ci concediamo una passeggiata solo tra noi. Prendiamocela comoda, no?”

E, offrendole il braccio, iniziarono le loro peregrinazioni pomeridiane, diretti verso il Gorky Park.

“Allora, che mi racconti?” – incalzò dopo poco.

“Che dire.” – sospirò, perdendosi nel fissare i passanti che venivano nel senso opposto della Garden Ring – “Ormai sono un’affezionata visitatrice del centro di addestramento, e meno male che si tratta solo di simulazioni. E ho iniziato a vedere una psicologa militare.”

“Sul serio?”

 

“Sì.” – Nat rispose con decisione, se ne stava parlando era perché aveva già passato la fase del rifiuto – “Dopo l’ultima missione ho pensato che mi servisse qualcuno con cui parlarne. Qualcuno di esterno ai fatti, intendo.”

“E ti aiuta?”

“Abbastanza, sì.”

Ma c’erano altri aggiornamenti da dare, meno incoraggianti: “Più che altro mio padre è sempre nervoso per le pressioni politiche da tutte le parti e i miei ora non vanno più tanto d’accordo.”

“Mi dispiace. Sarà una fase, sicuramente.”

Per Miša la coppia dei Novikov era sacra, praticamente i genitori che avrebbe voluto per sé, e immaginarli in lite era contro natura.

“Lo spero. Tanto perché sentirli discutere è proprio quello che mi ci vuole di questi tempi.” – scosse la testa, amareggiata – “Immagina: un bel divorzio in mezzo a una guerra! Molto maturo da parte loro.”

“Non pensare già al peggio!”

Lei si strinse nelle spalle e nel farlo si strinse anche a lui: “Ho come la sensazione che l’unica cosa che glielo impedisca ora come ora siano i giornali scandalistici.”

Sospirò ancora molto pesantemente e le venne da tirare un po’ su col naso: “Così diventeremo anche noi come quelle famiglie fallite che non riescono a salvare neanche un matrimonio.”

La frase innescò in Miša un colpo di tosse, da cui si riprese annuendo rassegnato. Si morse un labbro, con la bocca secca: “Già.”

“Oh. Cavolo…scusami, non ci ho pensato.”

Nat aveva razionalizzato solo dopo e si sentì davvero indelicata per aver parlato senza connettere prima il cervello alla bocca.

 

La famiglia di Miša era una di quelle, con l’ulteriore aggiunta che era una coppia un po’ attempata rispetto all’età del figlio. Tutto era successo quando andava ancora alle medie. Suo fratello Dmitry, di otto anni più grande, era da poco entrato all’accademia militare, ma l’esperienza era durata poco. Un giorno, una telefonata inattesa li aveva informati di un’esercitazione aerea – il test di volo 457, così l’avevano chiamata – finita molto male. Nat non aveva mai capito appieno le dinamiche familiari – dopotutto lei era ancora alle elementari – ma era chiaro che qualcosa si era rotto tra i genitori del suo amico e come spesso accade in questi casi, il peso delle conseguenze era ricaduto sulle spalle dell’ultimo figlio rimasto. Nat non aveva mai osato confessarglielo, ma riteneva che quella vocazione alla carriera militare, quella dedizione nel cercare di primeggiare nel volo, fosse una diretta conseguenza degli eventi, consapevole o meno.

 

“No, no, è tutto a posto.” – fu la sua risposta che non riuscì a convincere troppo Nat – “In fondo è vero.”

Quindi si schiarì la voce e migrò la conversazione altrove: “Comunque potresti anche andare a vivere da sola. Fai come me!”

Nat arricciò la bocca e lo squadrò dall’alto del suo metro e sessantacinque: “Tu vivi in una caserma, Miša.”

Lui, per tutta risposta, fece spallucce: “Tra maschi ci si intende meglio.”

E per il resto del pomeriggio non si toccò più l’argomento, la giornata era troppo corta e l’occasione troppo rara per poterla sprecare crogiolandosi nell’autocommiserazione.

Si lasciarono cullare dal venticello pomeridiano mentre attraversavano con calma i viali alberati e i ricchi giardinetti in fiore del Gorky Park, fermandosi di tanto in tanto ad osservare i battelli turistici attraversare placidi il fiume Moskva, o ingannando il tempo davanti ai giochi d’acqua delle grandi fontane. Ragazzi facevano slalom tra i passanti su hoverboard non proprio padroneggiati alla perfezione, e una famiglia passò loro accanto pedalando su biciclette elettriche, come un’anatra seguita dai suoi pulcini. Il Sole era ancora alto ma il colore mutava e sfumava verso tinte sempre più roventi e gli eleganti lampioni storici iniziavano ad accendersi. Un paio di volte si trovarono a dover aggirare le insistenze di un gruppo di attivisti politici, che dai loro gazebo improvvisati spargevano volantini contro il Governo, dai quali Nataša si liberò fingendo un interesse tattico, quel tanto che bastava per imbonirli e poter telare via con meno resistenze.

Dopo circa un’ora e mezza di dolce far niente, un certo languorino li portò a rintanarsi in uno dei più recenti locali aperti nel parco, proprio al centro di uno spiazzo attorniato da dalie e ciclamini viola e bianchi. Era una pasticceria graziosa, molto femminile nei suoi colori confetto, e la scelta era da attribuirsi più a Nat che al suo amico, un po’ come tutte le volte in cui uscivano insieme. Quando i dolci arrivarono a tavola, i commenti sulla bontà di questo o quel pasticcino non si risparmiarono e quando Miša fu sul punto di ordinarne una seconda porzione, Nat gli diede un colpetto sulla mano: “Basta ingozzarti di carboidrati!”

“Ma io brucio in fretta” – bofonchiò, quasi sputando un pezzo di pasticcino, e gonfiando un bicipite – “Guarda che roba.”

“.. e ora nuovi aggiornamenti in merito a quanto accaduto in Italia la settimana scorsa.” – al teleproiettore appeso sul muro stavano passando un servizio – “Si avvisa che le immagini potrebbero urtare la sensibilità degli spettatori.”

“Ehi, guarda lì.” – trovandosi di fronte al TP, Nat richiamò l’attenzione di Miša per farlo voltare.

Sull’ologramma passavano immagini tanto mosse da far venire il mal di mare: sembrava una città antica, da quanto si poteva scorgere dalle balconate dei palazzi, ma polvere e calcinacci volavano d’dappertutto; chiunque stesse facendo quella ripresa doveva aver incespicato, perché la visuale finì quasi al livello del terreno, dove fu un per un soffio che non venne travolto da una folla urlante e in fuga. Poi l’inquadratura si era rialzata e due colossi – uno azzurro e uno bianco – erano rimasti visibili per un paio di secondi, più alti degli edifici circostanti. Il video si bloccò e la linea tornò a un servizio di qualità migliore. Ora in primo piano c’erano solo una giornalista e un signorotto in carne con il microfono puntato. Dietro di loro Nat e Miša riconobbero quello che restava di Piazza San Marco (non ci erano mai stati, in Italia, ma l’avevano vista tante volte nei documentari e su Internet), dissestata e tappezzata di nastri della polizia. Tutto appariva calmo, ma di una calma inerte, cimiteriale.

“Io l’ho visti bene, ero lì.” – disse l’intervistato; parlava in Italiano, richiedendo che la voce di un traduttore si sovrapponesse alla sua – “Uno è uscito dall’acqua e poi quello bianco era nascosto in una nave. Non lo so, non lo so perché combattevano. Hanno iniziato a sparare dalle navi e poi ci sono state esplosioni dappertutto.”

Lo videro girarsi in direzione della piazza, con la faccia che gli si faceva paonazza. Si morse un dito per non piangere, ma l’emozione era impossibile da nascondere: “Guadate qua, che disastro! Non si riconosce più, non si riconosce più…”

Il servizio tagliò su due ospiti in studio, accanto al conduttore, ma ogni tentativo di seguirne i commenti fu vano, perché un brusìo generale si era già sollevato nel locale: “Dio mio, guardate lì!”, “Ma sono veri?”, “Somigliano a quelli di qualche mese fa!”, “Ho sentito che ci sono anche gli Inglesi di mezzo.”, “È il mondo che va a puttane, guardate se qui non scoppia la Terza Guerra Mondiale!”

Nat aveva seguito attonita, come se fosse costretta a rivivere in un incubo da cui pensava di essersi appena svegliata: “Non è possibile…”

“Ce ne sono altri?” – anche a Miša penzolava la bocca come un pesce.

“Questo vuol dire che ci sono anche altri Mei-”

“Non dovremmo parlare di queste cose qui.” – Miša frenò Nat prima che i pensieri le sfuggissero po’ troppo nitidamente.

Estrasse il suo smartsquare e si preparò a pagare, selezionando la carta di debito digitalizzata: “Meglio se ce ne andiamo.”

 

*   *   *

 

Erano le ventuno di sera.

L’attesa di Ekaterina Asimov veniva scandita dal tamburellare delle sue unghie sulla pochette, al tavolo del ristorante a cui sedeva già da qualche minuto. Non erano molte le serate che si concedeva per sé oltre l’orario di lavoro e la cosa meritava almeno di rispolverare il suo abito di seta panna e di dare un senso alla parure d’oro che le era stata regalata ai tempi del PhD. Il Blue Saxophone era un locale molto chic, immerso nelle luci ovattate di lampadari art déco e frequentato da una clientela raffinata di coppie non proprio di primo pelo miste a giovani benestanti, tutti seduti a tavoli rotondi coperti da tovaglie bianche e apparecchiati con gusto. Sul palco centrale un pianista suonava arrangiamenti soft di Sinatra, e una cantante adagiata sulla coda nera prestava la sua voce ammiccante.

 

Quando vide arrivare gli interessati, Ekaterina si alzò in piedi per andare loro incontro: Rajesh Khurana, che poteva godere del privilegio degli uomini di farsi bastare un completo per portare a casa il risultato, e una giovane donna afroamericana – Andrea McCoy – sulla quale un tubino nero d’alta sartoria, un paio di sandali gioiello e un pendente dorato davano il meglio di loro.

“Non c’è niente da fare.” – Khurana accolse la sua vecchia conoscenza con un ampio sorriso – “Eka mi fa sembrare sempre in ritardo anche quando sono puntuale.”

“Ben trovato anche tu, Raji.” – ricambiò il sorriso, più contenuto.

“Eka, ti presento Andrea McCoy.” – si fece da parte per lasciare avvicinare le due donne – “Andrea, Ekaterina Asimov.”

“Sì, ci conosciamo di nome.” – disse Andrea, sorridente, tendendo una mano – “Molto piacere, comunque.”

“Diciamo di sì. Piacere mio.” – Ekaterina la strinse e nel farlo non poté non pensare che il girovita di quella donna fosse migliore del suo e che forse il nero sarebbe stato più adatto alla sera.

I convenevoli durarono poco e, mentre si accomodavano al tavolo, Andrea posò solo la borsetta: “Vado un attimo a lavarmi le mani, voi scegliete pure.”

Ekaterina attese che la linea sinuosa della sua schiena fosse abbastanza lontana prima di lasciarsi andare a un secco: “Una volta pensavo che ti piacessero le bionde.”

“E io che ti piacessero le donne.” – ribatté lui, iniziando a sfogliare il menù.

“Che cafone.” – Ekaterina si aggiustò l’asticella degli occhiali e prese anche lei un menù.

“Hai cominciato tu.” – Rajesh non riusciva a contenere un sorrisetto divertito; quel pizzica-e-mozzica continuo gli era mancato.

Con il tono di chi sta venendo distratta dal fondamentale compito di scegliere l’antipasto, la Asimov cambiò argomento: “Come mai ti sei trattenuto? Pensavo ti occupassi del Progetto Ex.”

“Cavolo, Eka, non ci vediamo da cinque anni e già mi hai rifilato un rimprovero e iniziato a parlare di lavoro?” – stavolta era più serio che ironico, ma non se la prese troppo – “Per la verità sto lavorando a varie cose, di recente. Mi hanno affidato temporaneamente al Progetto Rosetta, per cui resterò nei paraggi per un po’.”

Ekaterina lo guardò da sopra il bordo delle lenti allungate degli occhiali da vista: era ancora un bell’uomo, ma qualche ruga ai lati degli occhi non poteva essere nascosta. Averlo accanto di nuovo, dopo tutto quel tempo, era strano. Le sembrava di conoscerlo un po’ meno, di averlo in parte scordato, ma ogni parola, ogni movimento impercettibile delle sue mani o della sua testa, le facevano riaffiorare ricordi ed era come se fossero passati mesi, al massimo.

“Rieccomi.” – Andrea McCoy era tornata al tavolo e il suo arrivo aveva incentivato anche un cameriere a farsi vicino. Senza chiedere la carta dei vini, Andrea ordinò un bianco frizzante e Rajesh la seguì a ruota.

La richiesta della Asimov, però – “Un bicchiere d’acqua e sale, con del ghiaccio tritato. E anche un po’ di lime, grazie.” – lasciò di stucco Andrea.

“Questa è la prima volta che la sento!”

“Sono a dieta.” – le rispose l’altra, mentendo.

“Lascia perdere la dieta, fatti dare un consiglio, e goditi il cibo, che è una delle poche gioie della nostra vita. Per la linea basta un po’ di palestra.”

“Purtroppo non mi resta molto tempo, a fine giornata.” – si era di nuovo irrigidita e ora perdeva tempo a lisciarsi il tovagliolo sulle gambe.

Rajesh non si intromise nella conversazione, ma quella serie di risposte non gli era nuova. Dopo poco il cameriere fu di ritorno con i vini e riempì loro i calici, al che Ekaterina pensò che sembrare un po’ meno sulle sue fosse più appropriato e chiese: “Allora, Andrea. Ho saputo che hai condotto la missione di recupero della Siren. È stata decisiva per-”

“Oh, no, perdonami, cara.” – la frenò subito – “Sono certa che da qualche parte al Ministero avrete un intero fascicolo su di me che potrà raccontarti tutto quello che mi riguarda.”

Poi prese anche la bottiglia dal secchiello argentato e, a dispetto delle sue rimostranze, ne versò un bel po’ anche nel calice dell’altra donna: “No, oggi è il mio giorno libero e francamente ho solo voglia di spendere un mucchio di soldi in vini costosi e cibi che non mi sazieranno! E tu dovresti fare lo stesso.”

E così fu. Al piano misero su un’interpretazione sensuale e melanconica di Fly Me To The Moon e la serata passò in fretta, tra una tartina al caviale e una schiuma di finocchio. La musica accompagnava discorsi di giorni passati e i ricordi di gioventù cambiarono aspetto al locale. Ekaterina e Rajesh raccontarono di quanto il Blue Saxophone fosse diverso, una decina d’anni prima: un pub dalle mura in legno per amanti di jazz o studenti insonni che approfittavano della notte per stendere la tesi di ricerca. Ora era un ristorante d’alto livello, si era arricchito e aveva cambiato aspetto – e in questo videro una certa affinità – ma continuava a dare musica jazz in un disperato bisogno di nostalgia. Il mix di vino e molluschi fece il suo effetto, di soppiatto, nel fondo delle loro menti, sbloccando la lingua sempre di più e, in quella giostra di amabili chiacchiere, centritavola elaborati e ghirlande di lampadine, fu come se il Natale fosse arrivato alla fine dell’estate. Quel Natale dai tempi dell’università.

 

Uscirono dal ristorante che ancora ridevano, le donne un po’ instabili sui tacchi alti a tarda serata, e si ritrovarono sulla grande via della Naberezhnaya Tarasa Shevchenko, proprio nel punto in cui curvava costeggiando il fiume, a pochi passi dalla montagna squadrata di luci dell’Ukraina Hotel.

“Allora io vi abbandono, questi tacchi mi stanno uccidendo.” – Andrea aveva già il suo taxi ad attenderla – “Ci vediamo in albergo, Raji.”

Si salutarono e l’auto partì. Ekaterina chiese all’uomo se non avesse preferito accompagnarla ma lui propose di fare due passi.

Indugiarono nell’aria serale, che finalmente pareva aver rinfrescato, camminando lungo una linea un po’ sbilenca. Rajesh aveva abbandonato l’idea di tenersi la giacca indosso e anche Ekaterina avrebbe fatto volentieri a meno delle scarpe, ma a trattenerla c’era qualcosa di invisibile che metteva anche una barriera di circa un metro tra loro. Le melodie ascoltate al ristorante restavano sedute prepotenti nella sala da ballo della loro testa e immaginarono di camminare su grandi tasti di pianoforte, continuando a suonare quelle note a ogni passo. Parlavano poco, per non spezzare quella melodia che era solo nella loro mente.

“Comunque,” – Rajesh provò a interrompere quel loro torpore, accavallando la giacca su una spalla – “l’ho notato che lo hai fatto ancora, sai?”

“Che cosa?”

“Quella fissa dell’acqua e sale.”

“E quindi?”

Khurana prese un bel respiro mentre sapeva di starsi per inoltrare su un sentiero accidentato: “La chiedi quando sei a disagio. Lo hai sempre fatto, da quando ti conosco.”

Lei ruotò gli occhi al cielo, accelerando appena l’andatura e frapponendo un altro mezzo metro tra loro: “E tu invece non hai mai smesso di fare l’invadente. E nemmeno il cascamorto.”

“Ooh.” – anche lui accelerò, per riprenderla, improvvisamente solleticato – “È un po’ di gelosia quella che sento, Asimov?”

“Ma per favore.” – si voltò dall’altra parte e lo colpì leggermente con i capelli biondi – “È che vedere un uomo della tua età comportarsi come un adolescente in fase ormonale è imbarazzante.”

“Che posso farci!” – Rajesh allargò le braccia, ormai un po’ pezzate di sudore – “Concedimi un po’ di gioco. Provo solo a destreggiarmi tra le frustrazioni di ogni giorno e il gentil sesso.”

Le si avvicinò ancora.

“Sai, non è per niente facile. Specie quando una donna che porta scarpe col decolté incontra una che preferisce i sandali.”

“Che vuoi dire?” – lo guardò stranita, un po’ per la stanchezza e un po’ perché si sentì chiamata in causa.

“Che fingi di aver paura di camminare sui tacchi.”

“Questa cosa che hai detto non ha senso.” – ancora qualche passo più lontano da lui – “E poi io li porto tutti i giorni, i tacchi.”

Lui continuò a parlare seguendo un discorso tutto suo: “Anche la scusa che non hai tempo per te stessa. Non mi è sfuggita nemmeno quella. Pensavo che ti fossi trovata qualcuno, nel frattempo.”

“Ma…” – Ekaterina scosse la testa ancora e non si accorse di stare stringendo la pochette – “…che razza di discorsi sono, adesso?”

“Dovresti guardarti di più in giro, uscire con qualcuno.” – proseguì Rajesh, imperterrito – “Sicuramente ti farebbe bene avere una relazione.”

Tutta la serenità della serata svanì in un soffio. Ekaterina sentì una collera difficilmente spiegabile farle saltare i nervi: “Ah! Non ho intenzione di accettare lezioni da un uomo che passa il poco tempo libero che ha a spingere ferro in palestra, solo perché non ha mai saputo approcciarsi in modo costruttivo a una donna!”

Al suono di queste parole Rajesh Khurana si inchiodò ed Ekaterina se ne accorse solo dopo aver percorso qualche altro metro. Si voltò e lo vide fermo, severo in viso, all’angolo di un semaforo. Forse aveva esagerato.

“Scusami,” – gli disse – “sono stata ingiusta.”

“No, scusami tu.” – le si riavvicinò, cautamente – “Non sono affari miei.”

Avevano ormai raggiunto il ponte che congiungeva le due sponde del Moskva e ripresero a camminare più lentamente.

“È che tutto si è fatto più difficile.” – Ekaterina si fermò a metà del ponte, appoggiandosi alla balaustra, fissando le acque nere illuminate dai lampioni – “Papà è morto, lo sai, e ora ho paura di non essere abbastanza, da sola. La guerra, questo…schifo di faccenda in cui siamo capitati. Dio, siamo riusciti a coinvolgere perfino un ragazzino.”

Si portò una mano alla bocca e Rajesh combatté l’istinto di sfiorarla: “Devo chiederti scusa anche di questo. Ho saputo del lutto, ma forse non ti sono stato vicino come avrei dovuto.”

“No, è normale.” – lei si rigirò verso di lui, ma ancora senza trovare la forza di guardarlo – “Il nostro è un lavoro per gente sola, dopotutto.”

Il mascara iniziava a sgretolarsi.

“Ognuno si è fatto la propria vita ed è giusto così. Però, quando ti perdi di vista e poi ti rincontri, fa sempre strano.” – le labbra si arricciarono in qualcosa che non era né un sorriso né una smorfia di tristezza – “È come tagliare un filo colorato e riattaccarlo in punto diverso, dove la trama non combacia più. E in quel pezzo che è andato perduto possono essere cambiate molte cose. Anche riconsiderare le proprie aspettative dalla vita, o pensare se si è più da scarpe col decolté o da sandali.”

Lui si masticò la lingua, annuendo a testa bassa: “Abbiamo sprecato un po’ di tempo, eh?”

“Più che altro ti accorgi che le cose che rimandavi al giorno dopo, o al mese dopo, o a un altro anno…non è più il momento di farle, a un certo punto.”

Anche lei annuì e le venne istintivo guardarsi un anello che portava al dito: le andava un po’ largo, quella sera.

Fu un attimo. Lui le prese il mento, lievemente, sollevandolo solo quel tanto che bastava per poterla guardare finalmente negli occhi. C’era una mezza Luna in cielo. Sotto le luci della città, entrambi si trovarono ad ammettere senza dirlo che la bellezza non era sfiorita, per nessuno dei due, e che ora si era rifatto vivo, dalla polvere del Passato, quel senso di insicurezza e fragilità che provavano ogni volta che erano l’uno accanto all’altra.

Fammi volare fino alla Luna! – diceva quella canzone – E fammi vedere com’è la primavera, su Giove e su Marte!

“Eka…” – le parole gli uscirono con un soffio.

I lampioni erano una cornice ricamata di nero, i loro sguardi si annegarono l’uno nell’altro.

In altre parole, prendimi la mano!

Le schiene si incurvarono finché le labbra furono così vicine da potersi sfiorare.

Ma…

Rajesh si trovò una mano poggiata sul petto. La donna che aveva davanti si era fatta indietro e aveva abbassato lo sguardo. Si lasciò respingere deliacamente. La bocca gli si era seccata e pensò che anche quella sera la sua personale regola aurea dell’andare in bianco non era stata confutata.

Ekaterina faticò solo un attimo a riprendere parola, ma alla fine riuscì ad accennare un sorriso: “Grazie per la serata, Raji.”

Lui si fece da parte, alzando i palmi in segno di resa: “Ha fatto piacere anche a me.”

Ekaterina indietreggiò di qualche passo e si incamminò verso l’entrata della metropolitana, dall’altra parte della strada. Prima di andarsene, trovò la forza di concedergli un ultimo saluto: “Ci vediamo presto.”

In altre parole, ti prego, sii sincero!

In altre parole…

 

*   *   *

 

Nel silenzio e nel buio della suite d’albergo, Andrea McCoy sedeva a terra davanti al divano damascato, sul quale aveva gettato abito e scarpe. Solo le luci di auto passeggere fuori dalla finestra illuminavano il suo viso rigato da rivoli di trucco sciolto. Guardò, per l’ennesima volta da quando era lì seduta, la catenella che reggeva in mano con appese due targhette metalliche. “F.S.A. Navy” l’una, “Eurasia Navy” l’altra. Il suo cognome e nome, seguito dal codice di previdenza sociale, su entrambe.

Quella notte nella mente di Andrea McCoy suonava una musica molto diversa da quella che aveva accompagnato i passi dei suoi colleghi. Una musica scandita da grancasse di spari, orchestre di esplosioni e cori di grida di compagni e sottoposti.

Se solo avessero potuto immaginare quanto sfiancante era dover indossare il vestito buono e fingersi disinvolta nel camminare su quei trampoli, o nel conversare del più e del meno davanti a un tavolo apparecchiato, come se il male del mondo cessasse di esistere solo per la voglia di nouvelle cuisine! Quanto stomaco serviva per convincersi che chiudere la copertina di un fascicolo sarebbe bastato a cancellare dalla coscienza una lista di nomi defunti!

Gli occhi lucidi le si posarono brevemente sulla bottiglia di Polugar che aveva preso dal frigo bar: era mezza vuota; l’altra metà l’avrebbe rigettata di lì a poco nella tazza del bagno.

La notte era ancora lunga, ma l’alcool non si decideva a fare effetto e il trucco era già quasi tutto sciolto.

 

*   *   *

 

Nat e Miša misero piede sul tappeto rosso che rivestiva il pavimento in pietra e una zaffata di fumo e alcool investì le loro narici.

 

Miša l’aveva portata in quel posto dopo esser usciti dalla pasticceria e aver passato in preoccupato semi-silenzio la successiva mezz’ora. Visto il brusco calo di positività, Miša aveva colto l’opportunità per suggerire di visitare finalmente il posto da cui tutta quella giornata era dipesa e l’aveva riportata praticamente all’inizio del loro itinerario, dove avevano preso la Linea 1 metropolitana e da Park Kultury avevano raggiunto la fermata di Okhotnyy ryad. Erano scesi e avevano doppiato il Teatro Bol’shoj, fiancheggiandolo sulla destra e percorrendo la via di Petrovka Ulitsa per meno di mezzo chilometro, finché non si erano trovati davanti a uno squallido venditore di cibo cinese da strada, alla vista del quale Nataša non volle credere che potesse davvero rappresentare il top dell’intrattenimento serale per il suo amico. Ma quando Miša era entrato e aveva salutato il ragazzo asiatico dietro il bancone, rivolgendogli un gesto con la mano che aveva una connotazione decisamente comunista, e aveva anche detto qualcosa sulla scia de “Il solito.”, le cose erano cambiate. Il tipo li aveva scortati in bagno – Nat stava per lasciarsi andare a un’esclamazione davvero poco garbata – e aveva bussato un paio di volte sulla parete. E si era aperta.

 

“Uno speakeasy?!” – l’eccitazione di Nat era tornata, mentre scendeva le scale intagliate nella pietra verso un seminterrato un po’ claustrofobico ma arredato in modo indiscutibilmente figo. Luci calde e una trentina di persone, uomini e donne a un veloce sguardo non troppo più grandi di loro due, che si passavano di mano bottiglie e bicchieri. Lo speaking sarebbe stato più easy se la musica elettronica che suonava dalle casse appese ovunque fosse stata leggermente più bassa, ma le orecchie si abituarono presto. C’erano tappeti rossi su tutto il pavimento e banconi in legno, che dovevano risalire ai primi del ‘900, dietro ai quali un barman rasato versava alcolici a profusione, poster vintage dei primi anni 2000 e tende di vari tessuti e fantasie appese alla bell’e meglio alle pareti ricavate nella pietra. Tutto appariva un po’ logoro e casuale, ma nel complesso il risultato poteva essere voluto e riusciva a conservare il fascino dell’intenzione originale.

“Allora?” – le chiese sornione – “Ti ho sorpresa, stavolta, ammettilo.”

“Sei arrivato, finalmente! E quanto ci voleva! – l’esclamazione venne da un ragazzo piuttosto sudato con una t-shirt kaki, che si era avvicinato con tale impeto da quasi urtare Miša e che si era trascinato dietro altre due ragazze.

“Mica ti sarai già scolato tutto, spero!” – fece Miša.

Nat era rimasta un po’ inebetita da quella comparsa ma una mano afferrò la sua e la fece voltare: “Tesoro!”

Anya e Irma: in una mise scollata, drink colorato in mano e uno stato d’ebbrezza non inferiore a quello del loro accompagnatore.

“Che ci fate voi qui?!”

“Ce l’ha fatto conoscere Miša!” – rispose Anya, tirando su un sorso di drink con la cannuccia – “È fichissimo!”

“Per farti una sorpresa!” – aggiunse Irma – “Cazzo, vatti a prendere uno di questi cosi, è da paura.”

“E tu devi essere la figlia di Novikov, quindi!” – ora il ragazzo si era rivolto a lei – “Ivan, molto piacere.”

E senza nemmeno darle il tempo di replicare mollò una pacca sul torace di Miša: “Ma quante amiche mi hai portato stasera?”

Ma si beccò un’occhiata intimidatoria da parte dell’amico.

“Dai, forza, venite.” – senza neanche curarsi che lo stessero seguendo davvero, il ragazzo si ritirò verso il centro del locale, tirandosi dietro Irma e Anya, che le lanciarono a Nat l’invito a unirsi prima di sparire tra mille schiene. Un “Ehi, Miša si è portato la ragazza!” riecheggiò sopra la musica e accese un entusiasmo generale. Anche Miša era sul punto di gettarsi nella mischia, ma Nat lo afferrò per la maglietta, fermandolo. Con la migliore delle espressioni di rimprovero che riuscì a sfoggiare, chiese: “Aspetta un attimo, tu! Che cosa hai raccontato a questi tizi? Chi sono?!” “Tranquilla! Niente di compromettente.” – le rispose, un po’ troppo su di giri.

“Ah no?!” – quel ‘la sua ragazza’ già le sembrava di troppo.

“È tutto a posto!” – la prese per un braccio – “Dai, ti faccio conoscere qualche amico.”

Avvenne un rapido giro di saluti, in cui Nat fu sballottata a destra e a manca e si ritrovò a reggere i bicchieri di almeno due persone di cui non aveva neanche afferrato il nome. Per tutti era “la figlia di Novikov” o “la figlia del Presidente”, e per qualcuno anche “la ragazza di Miša”, convinzione che si premurò di smentire il più in fretta possibile. Le quote rosa della serata erano in rapporto di 3-a-1 rispetto alla compagine maschile e la cosa la metteva leggermente a disagio – tutt’altro si sarebbe detto delle sue amiche – ma tutto sommato avere sempre a fianco il metro e novanta di Miša era un deterrente efficace.

Venne a conoscenza che buona parte di quella gente erano compagni di caserma di Miša, tra cadetti e soldati ai primi anni di servizio, e che il duetto costituito da lui e Ivan (egli stesso un suo collega) godeva di una certa popolarità. I restanti frequentatori del locale, se non erano conoscenti diretti di Miša, erano almeno amici-di-amici. L’intero pub era stato affittato da un gruppo di persone che evidentemente si frequentavano da tempo e più che una festa pareva una riunione di qualche tipo. Dopo un generico tergiversare che stava iniziando ad annoiare Nat, Ivan si ritagliò uno spazio sgombro dai divanetti e portò al centro un tavolo, trascinandolo rumorosamente. Ci salì sopra.

“Un momento, gente, un momento, per cortesia!” – e tutti, compresa la musica, si quietò; iniziò a declamare in piedi sul tavolo, brillo più che mai, con grande teatralità – “Oggi siamo molto fortunati, e mi riferisco soprattutto ai miei colleghi uomini, perché stasera abbiamo con noi tre bellissime ragazze!”

L’attenzione fu indirizzata verso Nat, Irma e Anya, nella prima fila del cerchio umano che si era formato intorno a Ivan. Un bell’applauso, e qualche fischio, scoppiò tra i presenti.

“Ma non è finita qui!” – Ivan alzò le braccia – “Perché tra loro abbiamo nientepopodimeno che la figlia del nostro Presidente! Un altro bell’applauso per la nostra Nataša Novikov!”

E tutti eseguirono ancora. Anche Miša, Irma e Anya si erano uniti, euforici, ma Nat non era avvezza a questo genere di manifestazioni e rivolse uno sguardo allarmato all’amico – come a voler dire “Tirami in salvo!” – ma lui, continuando ad applaudire, le mimò in labiale “È tutto ok”.

“Innanzitutto,” – Ivan si impettì, in una caricatura di formalità e con un registro linguistico più che accettabile per lo stato in cui si trovava – “ci tengo a far sapere alla nostra Nataša che tutti i qui presenti, nessuno escluso, sono grati al lavoro che il caro Presidente Novikov sta svolgendo e che siamo certi che ci saprà portare fuori da questa triste situazione in cui ci troviamo! Giusto?”

E comandò un “Sì!” generale con un gesto della mano. Nat ci lesse dell’onestà in quelle parole e si sentì un po’ più suo agio.

“E in secondo luogo, voglio ricordare alla presenza delle nostre gentili ospiti che qua noi ci riuniamo una volta al mese,” – la sua espressione si fece repentinamente più infervorata, mentre la voce si faceva sempre più forte e intrisa di rabbia – “per ricordarci che questo Paese è ancora socialista e morirà socialista! E che quelle fottute merde di Nazisti se ne devono tornare nel buco di culo della Storia da cui sono usciti!”

Pestò un paio di volte un piede sul tavolo, scatenando un tripudio generale di pugni alzati.

“E ora offriamo un bello spettacolo alle nostre amiche!” – e, ancora livido in volto dallo sforzo, saltò giù del tavolo.

L’euforia si riaccese in fretta, mentre qualcuno cambiò la playlist con qualche musica tradizionale. Sotto la carica di cori e tenori russi gli uomini ritrovano vigore e si lanciarono in un ballo scoordinato e galvanizzante. C’era chi si limitava ad ondeggiare a ritmo, e chi – incitato dall’applauso e dal coro della platea – saliva a turno sul tavolo facendone pista da ballo. Quando iniziò a suonare la Kalinka, i piedi dei presenti batterono a ritmo, dapprima lentamente, in crescendo, per poi accelerare sempre più in un tripudio di “Kalinka, kalinka, kalinka moya!”. Un ragazzone rubicondo dalla barba folta rubò la scena all’improvviso, intonando la strofa lirica della canzone con una voce limpida che usciva direttamente da polmoni d’acciaio. Sul momento tutti si ammutolirono, ma quando passò alla strofa melodica, rivolgendo i palmi delle mani verso la platea come solo un attore d’Opera avrebbe saputo, tornarono le risate e gli applausi d’acclamazione di tutti. Anche Nat si guardò con le amiche e incurvarono la bocca in un segno di vivo apprezzamento di quelle doti canore. E poi, di botto, riprese il battere di mani e piedi, il tintinnare di posate su bicchieri, i fischi e i cori per tenere alto l’impegno durante il ritornello. Nella baldoria generale anche Miša venne tirato in mezzo dal suo degno compare, saltellando sottobraccio al centro dell’anello come due cosacchi, sotto l’incitazione del pubblico, e ci vollero bei riflessi per evitare di caracollare a terra quando per errore si incrociarono con le gambe.

Irma e Anya avevano perso ogni freno e non facevano altro che strillare, applaudire e cercare di spingere l’amica al centro dell’anello, e anche Miša le tendeva la mano mettendoci tutte le speranze del mondo, ma non ci fu niente da fare. Al massimo riuscirono a strapparle qualche selfie, sforzandosi tutti e quattro di ritrarsi nelle espressioni meno lucide che erano in grado di concepire. All’apice dell’euforia generalizzata, un paio di presenti tirarono fuori addirittura una tovagliaccia bianca sulla quale era stata dipinta una Svastica con del sugo di gulash e la tesero per largo, mentre qualcun altro sfoderava un bruciatore da chef abbastanza lungo da poter rimanere a distanza di sicurezza. In un eccesso di tracotanza o solo troppi gradi alcolici sopra il livello accettabile, Miša si scolò d’un fiato quello che restava di una bottiglia di vodka e, sotto la spinta di decine di voci in visibilio, si lasciò andare a un sonoro rutto in direzione della fiammella ossidrica, prorompendo in una svampa di fiamme blue e rosse che andarono a lambire la Svastica. Ennesima esplosione di cori e applausi e perfino Nat, che iniziava a viaggiare sulla stessa scia delle amiche, scoppiò a ridere davanti a quella versione così maschia del timido e gentile Miša Vasiljev. Sotto il chiasso che copriva ogni voce, Anya e Irma le passarono un bicchiere di qualcosa che neanche avrebbe potuto dire cosa fosse e che lei rifiutò scuotendo la mano, ma senza smettere di ridere a crepapelle, ma stavolta insistettero una volta di più e la invitarono a smettere di fare la ‘santarellina’, invito davanti al quale non poté non cedere e si scolò anche lei il bicchierino tutto d’un colpo.

Tutti ridevano, tutti erano allegri e tutti non avevano altro spazio in cuore che per un’illusione di speranza. Ma nel breve istante in cui Nat riprese il dominio critico di sé, il suo sguardo andò alla tovaglia in fiamme. Proprio come quella volta a Varsavia, sul dirigibile abbattuto, quella croce uncinata, quel segno, ora moriva strozzata tra fiamme che la sbranavano come un cane rabbioso farebbe con un pezzo di carne.

Sarebbe davvero finita così? Avrebbero sentito il dolore delle fiamme anche quegli uomini, in un’universale e spietata Legge del Contrappasso?

Bruciare. Dovevano bruciare e sparire in cenere.

 

 

 

 

[1] Dal Russo; pron. “Prosti, Edvard. Pribyl doktor Khurana.”; lett. “Scusami, Edvard. Il dottor Khurana è qui.”

[2] Dal Russo; pron. “Vpusti yego, spasibo.”; lett. “Fallo entrare, grazie.”

[3] Dal Tedesco; lett.: “Così è sufficiente.”

[4] Dal Tedesco; lett.: “Ha un bel colorito. Non ha bisogno di una cura alla melanina.”

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Capitolo 9
*** Capitolo 21: Götterdämmerung ***


21.

Götterdämmerung

 

25 Settembre.

Mare Serenitatis. Lato chiaro della Luna.

 

“Pressione dei liquidi di raffreddamento stabile, nessuna interruzione nel sistema.”

“L’energia del motore ha raggiunto il livello 1.200. Procedere alla fase di attivazione manuale.”

Le voci degli ingegneri del Reich si accavallavano nella Camera di Flamel di Zeitland Dietrich. Fafner, il cui braccio sinistro era ricresciuto ma aveva richiesto la sostituzione dell’armatura originale con una versione nera di rimedio, era una virgola scarlatta contro la sterminata pianura di polvere bianca, mentre sorvolava lentamente l’enorme voragine aperta nella roccia lunare. Il sito di costruzione era un cratere artificiale largo mezzo chilometro e profondo quasi duecento metri, attorniato da gru, cavi di trasmissione e navette di sorveglianza. Qualcosa di scuro, immane, riposava sul suo letto, sostenuto da ponti di ancoraggio. Poche decine di metri più in alto di Fafner, il soffitto trasparente di una cupola geodetica copriva l’intera zona.

“Decollo imminente.” – annunciò ancora la voce di un operatore – “Sgomberare l’area.”

Zeitland, sospeso nel suo abitacolo, fissò prima la Terra, oltre il profilo dell’orizzonte lunare, e poi il cratere sotto di lui: “Ci siamo.”

 

*   *   *

 

Settore -3; Golgotha.

 

Era il giorno promesso.

Solo un’ora prima, cinquecento persone, ripartite ordinatamente in cinque file, presiedevano quel momento nella Sala Grande del Reich: un hangar dagli alti palchi sopraelevati, convertito nel luogo in cui la voce del Kaiser incarnava quella del Reich e diventava legge. Lunghi arazzi di Svastiche incombevano sui centoventi soldati, fucili in mano, delle prime file, seguiti da Ufficiali di rango minore e qualche civile. La trepidazione che, come mai prima d’ora, era nell’aria si fece venerazione quando, dal palco più alto, una figura ammantata di nero e oro emerse scortata dai Gruppenführer: l’uomo dal viso celato dietro una maschera, il Mond-Kaiser in persona, aveva benedetto il popolo di Golgotha con la sua presenza. A memoria d’uomo, si era mostrato solo altre due o tre volte negli ultimi decenni del Reich lunare. Se ora era lì, era perché tutti fossero consapevoli che quel giorno si scriveva la Storia.

“Popolo di Golgotha!” – la sua voce riecheggiò per la sala; era una sensazione surreale poterla sentire, quasi come se un dio della cui esistenza non si ha mai avuto certezza parlasse finalmente con voce umana – “L’attesa è finita! Il momento del nostro riscatto, la nostra vendetta, è alle porte! Per troppo tempo abbiamo patito l’umiliazione di strisciare nel buio e nella polvere! I nostri Gruppenführer hanno svolto un ottimo lavoro, negli ultimi mesi, e nuovi alleati sono entrati nei nostri ranghi. Ovunque, le coscienze dei terrestri si riscuotono dal torpore e dalla mediocrità in cui quel mondo, che ha preferito rifiutarci, li ha gettati e il momento in cui Reich dominerà su ogni mare, terra o cielo è sempre più prossimo!”

Allargò le braccia: “Ma ora, miei fedeli incrollabili, siamo chiamati a un’ultima fatica!”

Ecco! Erwin Albrecht, Zeitland Dietrich, Adler Jung, Màrino Alto, Helena Heathfield e l’androide Zwei Stein. Tutti loro, in fila a fianco al loro leader supremo, seppero che non c’era più argine che potesse reggere contro l’onda che si ergeva all’orizzonte.

Solo una persona mancava all’appello…

 

*   *   *

 

Sala ‘Truman’; Nuova Sede Centrale dell’ONU – Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; Terra.

 

La croce uncinata del Quarto Reich campeggiava sul proiettore principale della sala.

“Queste pretese sono senza fondamento!”

“Smettetela di oltraggiare quest’aula con la vostra presenza!”

Giunti a una nuova riunione d’emergenza, convocata con preavviso di poche ore dalla portavoce in seconda del Quarto Reich, i rappresentanti della Terra avevano messo da parte la diplomazia e si erano lanciati in quella che poteva solo essere definita una cagnara scomposta di insulti e obiezioni. Più della metà erano assenti, tanto era stato breve il tempo loro concesso per recarsi a New York, ma la notizia che era in arrivo sarebbe presto passata di bocca in bocca, di testata in testata, attraverso tutto il globo, anche in loro assenza.

Katrina Winkler, ritta al centro della sala, affrontava quel pubblico con il ghigno della vittoria stampato in viso. Incurante del chiasso, declamò il suo messaggio al mondo: “Membri delle Nazioni Unite, ascoltate il proclama del Kaiser! Vi era stata offerta la pace e voi l’avete scartata! Vi era stata mostrata la via della convivenza…e il vostro egoismo l’ha bruciata!”

 

*   *   *

 

Golgotha.

 

“Si sono mostrati sordi ai nostri avvertimenti,” – il Kaiser continuava il suo monologo, certo che a migliaia di chilometri da lì, la sua Gruppenführer stesse riportando le sue esatte parole – “e hanno osato muovere un’altra Machine contro di noi! I popoli della Terra, gli stessi che ci hanno relegato qui, si sono fatti beffe di noi per l’ultima volta! Questo non può che condurre a una sola conclusione! Questa…”

 

*   *   *

 

ONU.

 

“Questa è una dichiarazione di guerra!” – l’annuncio di Undine trasformò lo sdegno in terrore e d’un tratto il mondo intero ebbe memoria di anni in cui nessuno era nato, ma che tutti avevano imparato a conoscere e rifuggire.

 

*   *   *

Golgotha.

 

“Adesso andate, figli della Luna scelti dal Nidhoggr! Che gli spiriti del Terzo Reich vi guidino!” – il Kaiser tese il braccio destro e la platea si divise in due, lasciando al centro un drappello di quindici soldati in armatura. Sollevò in alto la mano e la serrò in un pugno con veemenza: “Scenda su di loro il Crepuscolo degli Dèi! Si compia la sentenza della Storia!”

Centinaia di braccia si tesero in risposta e le pareti tremarono, all’inno di “Heil Kaiser! Heil Kaiser! Heil Kaiser!”

 

*   *   *

 

“Procedere con la sequenza manuale! Tutto il personale di secondo e terzo grado alle postazioni stabilite!”

Nel cratere di costruzione del Nidhoggr, i preparativi volgevano al termine. Qualunque fosse l’aspetto con cui esso si sarebbe mostrato, era troppo grande perché si potesse intuire nella sua interezza; tanto grande che perfino Hydraggsjl e Sigridúnn – la riesumata Machine dalla corazza viola ad ampie falde e dalle gambe sostituite con arti meccanici simili a quelli di un artropode – sembravano giocattoli, al suo cospetto. In mezzo alla frenesia di soldati e ingegneri che saltavano da un piano all’altro, nella Gravità ridotta, le gru e i bracci meccanici che sostenevano l’immenso apparecchio nero iniziavano a ritirarsi, e pulegge calavano con cautela un immenso cannone sulla sua sommità. Viti automatiche si serrarono da sole, bloccandolo in mezzo a equilibratori e sistemi elevatori di proporzioni gigantesche.

“Cannone Dainsleif collegato.” – annunciò qualcuno dai megafoni sparsi per il cantiere.

Hydraggsjl, su una piattaforma ai livelli più alti del cratere, sorreggeva con ambo le braccia un cilindro metallico lungo il suo doppio, collegato con un sistema a scorrimento fino alla camera di scoppio del cannone. Sul letto del cratere, tra serbatoi di liquido refrigerante, tubi di alimentazione e propulsori in fase di riscaldamento, Sigridúnn puntava una lancia, connessa al suo corpo tramite cavi elettrici, verso una profonda apertura nella parte inferiore del corpo dell’Arma Finale, in fondo alla quale s’intravedeva un frammento di pietra spaziale, spaccato a metà a rivelare un nucleo semifuso.

Arachne,” – era la voce di Herr Doktor, all’interno dell’abitacolo di Helena – “innesca l’ignizione del motore con il VRIL!”

“Lo so da me! Ti dimentichi che l’abbiamo progettato insieme, pezzo di ferraglia?!” – rispose Helena; il suo corpo nudo bloccato fino alla cintola da una guaina sintetica ancorata alle pareti della Flam-ber, accerchiato da rune che sfrigolavano instabili e disordinate: un abitacolo di guida ibrido, costruito per sottomettere la Machine semi-distrutta al volere di una Meister che ancora non aveva conosciuto la sua Siren. Senza il sarcofago a impedirlo, la procedura di Elettroconduzione forzata di Sigridúnn era potuta avvenire direttamente sul corpo della gigantessa e, grazie alle protesi meccaniche a sostituzione delle membra mancanti, la Machine aveva dimostrato molta meno resistenza al contatto con la Meister anche senza necessità di un rituale di Risveglio. Ma ora che vi si trovava a bordo e avrebbe dovuto far ricorso all’energia VRIL concessale dal Contratto, in Helena viveva il dubbio che qualcosa potesse punirla per la sua brama di potere che l’aveva portata a violare la sacralità di quel rito.

Senza distogliere lo sguardo dal nucleo del motore, la ragazza si rivolse alla finestra di dialogo aperta sul volto di Màrino, alla sua destra: “Blau Nixe, pronto a chiudere il circuito al mio comando!”

“Sì!”

“Procedo al contatto!” – la ragazza ordinò mentalmente a Sigridúnn di premere l’interruttore sulla lancia, accese il fusibile agganciato sulla punta e vi trafisse il nucleo, irradiandolo di energia – “Adesso!”

Con uno sforzo disumano, Màrino mimò il movimento all’interno della sua cabina e Hydraggsjl lo copiò: facendo leva sulle maniglie del fusibile, lo spinse con forza fin dentro la camera di scoppio del cannone. Su un megaschermo, il diagramma di un circuito a due generatori apparve completo. Le voci degli operatori si fecero più tese, mentre l’intero sito iniziava franare: “Motore in funzione! Arma Finale pronta al decollo! Abbandonare l’area!”

 

E ciò che vide Zeitland Dietrich, appena emerso nello Spazio esterno oltre la cupola geodetica, fu l’orizzonte lunare – apparentemente deserto – riempirsi di scintille e lampi, mentre porzioni di nulla sfrigolavano e schizzavano ovunque sotto la spinta di qualcosa di ciclopico: il camuffamento ottico della cupola geodetica era saltato e ora, come da un uovo prima invisibile, emergeva…esso. Un corpo circolare nero, di oltre trecento metri di diametro, cosparso di propulsori a Vuoto Perpetuo spiraliformi e antenne simili a spine, al centro del quale si ergeva un torso meccanico, dalla cintola in su, alto almeno più del doppio di Fafner, all’aspetto esile e precario ma ricurvo e mostruoso come un demone degli abissi cosmici. Braccia di pistoni idraulici terminavano in lame al posto delle dita e una spina dorsale innaturalmente lunga sosteneva una testa robotica, dai quattro occhi rossi e asimmetrici, come una parodia grottesca delle eleganti maschere delle sWARd Machines. Sorreggeva sulla schiena un cannone spropositato, su cui la parola Dainsleif era stata vergata a caratteri gotici. Fafner dovette scansarsi, e in gran fretta, per evitare di essere travolto da quella montagna in movimento che si levava dal lato chiaro della Luna. Era una mostruosità meccanica senza precedenti: il Leviatano di cui monaci e adepti di ogni religione annunciavano la venuta alla fine dei Tempi, la prima e più potente Machine artificiale costruita da Golgotha, l’ultima eredità lasciata loro dal Terzo Reich.

Già alto nello Spazio, puntava al pianeta azzurro all’orizzonte.

 

*   *   *

 

Osservatorio Astronomico del Pacifico; Isola di Mauna Kea; Hawaii.

 

Alle dodici del mattino, l’allarme che risuonò all’interno della stanzetta d’osservazione fu talmente imprevisto che l’ometto stempiato alla plancia di controllo lasciò cadere di colpo la tazza di thè che stava sorseggiando, inzuppandosi la camicia. Inveì per la scottatura ma le imprecazioni migliori le avrebbe riservate per dopo. Un suo collega scivolò fino a lui sulla sedia girevole dall’altro capo della stanza: “Che succede?”

Il computer dedicato al sistema Terra-Luna mostrava una notifica di allarme a caratteri cubitali. Il tizio stempiato passò la visuale alle telecamere satellitari puntate sulla Luna e un moto di terrore lo invase.

“E quello…” – si piegarono entrambi sulla scrivania, a bocconi – “…che cazzo è?”

Una serie di fotogrammi sempre più ravvicinati inquadrò la spaventosa macchia nera del Nidhoggr, i cui quattro occhi trapassavano il buio come spilli di luce rossa.

L’ometto stempiato batté rapidamente qualche comando sulla tastiera, generando una previsione di traiettoria.

 

OBJECT: unknown

CURRENT POSITION: 8°30′N 31°24′E (Moon)

PREVISIONAL POSITION: 37°47'13.5"N 122°50'57.1"W (Earth)

ETA: 62h – 13m – 43s – 09ms

 

I 43 secondi passarono a 42, 41, 40…

“Cristo santo, è velocissimo! Entrerà in atmosfera tra meno di tre giorni!”

“Sarà una nuova arma dei Nazisti?!” – chiese l’altro, alzandosi già in piedi – “E ora che facciamo?”

“E io che ne so!” – il collega stempiato deglutì l’ultimo sorso di thè residuo in uno scatto di nervi e si passò una mano sulla pelata sudata – “Chiama l’esercito, o il Governo! Chiama chi ti pare, ma avvertiamo chiunque sia su quell’elenco telefonico per le emergenze!”

 

*   *   *

 

Casa Novikov; Mosca; Russia.

 

“No, è fuori discussione!” – fu la prima reazione di Arina Novikov davanti all’ennesima novità portatale in casa da suo marito – “Non posso credere che tu lo stia proponendo ancora!”

Suo marito era rincasato intorno alle quindici del pomeriggio, dopo che la notizia della dichiarazione di guerra era arrivata al suo gabinetto ed era stato incastrato in un fiume di telefonate da ogni Ministero e dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ora era chiamato ad affrontare l’ennesima decisione sul futuro del proprio Paese in veste di massima autorità e, cosa per lui forse più difficile, anche ricoprire il suo ruolo di marito e padre. Dall’esterno proveniva il rumore di pale di un elicottero in lenta rotazione. Un drappello di soldati – la sua scorta privata – attendeva fuori dalla porta d’ingresso, tentando di ignorare per quanto possibile i commenti che si udivano in casa.

“Arina, ti prego.” – l’ansia che assaliva Novikov in quel momento non facilitava il dialogo, ma le lancette dell’orologio non avrebbero smesso di ticchettare – “Non possiamo discuterne come se fosse una decisione solo nostra. C’è mezzo pianeta che si è mobilitato per questa situazione!”

Suo figlio Luka, in un angolo del disimpegno, chiese in preda allo stesso panico che dai suoi genitori fluiva e decuplicava in lui: “Papà che succede? Stanno venendo qui?”

“Non qui, ma cambierà poco se non ci muoviamo.” – lo disse con un tono talmente perentorio e freddo da risultare inumano.

“Guardalo!” – Arina indicò Luka, spiazzata dalla mancanza di tatto del marito – “Guarda quanto è spaventato tuo figlio! Edvard, c’è un maledetto elicottero militare parcheggiato in giardino!”

“Io non capisco.” – Nat, che fino ad ora era rimasta compressa contro una parete con la fronte una mano, in preda a un nauseante mal di testa che le era salito appena era stato fatto il suo nome, si decise a intervenire – “Come…come farei a combattere? Non avevano portato via la mia Unità?”

“Hanno già rimosso il blocco gravante su di essa.” – ancora una volta Edvard rispose più come un giornalista suscettibile, che come un padre.

“Questo non cambia niente, amore, stai tranquilla. Tu non vai da nessuna parte.” – sua madre si voltò verso Nat e poi ancora verso di lui, fulminandolo.

“Oh, ma per piacere!” – adesso la pazienza del Presidente Novikov stava giungendo al limite – “Non parlarne come se stessimo discutendo se mandarla in vacanza con gli amici o comprarle un’auto nuova! C’è una guerra in corso, per Dio!”

“È proprio perché c’è una guerra che dovremo restare uniti, come una famiglia!” – Arina era sul punto di una crisi di nervi, premendosi il petto con le mani, neanche avesse paura che il cuore le cadesse in terra.

“Ma lo saremo! Domani sera tornerò da voi!”

Quest’ultima informazione fece scattare sull’attenti Nat: le aveva accennato di stare via di casa per tre giorni, ma se lui aveva in programma di rientrare il giorno dopo…

“Aspetta, quindi non resterai con me?!” – ora si sentiva non solo spaventata, ma anche improvvisamente sola.

La riserva di calma e diplomazia di Edvard Novikov toccarono il fondo e diede loro le spalle bruscamente, per afferrare la maniglia del portone: “Non posso perdere tempo in questo modo. Tra meno di tre giorni saremo attaccati dai Nazisti e noi stiamo qui a discutere come dei cretini. Nat, va’ a prenderti un cambio!”

E abbassò la maniglia.

“No!” – gridò Arina, mentre lui apriva già il portone, fingendo di non sentirla.

“Ti aspetto sull’elico-”

Con un “NO!” straziante sua moglie gli si gettò addosso, lo scansò e si schiacciò con la schiena contro la porta, richiudendola. Atterrita, rossa in volto e scapigliata: sembrava un animale messo al muro.

“Non ti permetterò di distruggere questa famiglia! Non stavolta!”

Quella scena era qualcosa a cui Nat non si sarebbe mai sognata di dover assistere, nemmeno nei suoi incubi più tristi, e tentò con voce flebile di arginare i danni: “Mamma, aspetta…”

Ma Edvard Novikov era di tutt’altra idea.

“Levati da questa porta!” – e la strattonò via sua moglie, con violenza.

Nel barcollare all’indietro Arina si lasciò sfuggire un gridolino, più per lo stupore che per il dolore, ma fu abbastanza da farle correre suo figlio in contro, gli occhi gonfi di lacrime. Era davvero loro padre quello che aveva davanti? Quello che li aveva cresciuti per una vita? Quello che gli aveva insegnato a giocare a calcio? Quello che baciava sua moglie di soppiatto quando si incrociavano per casa, e poi si ritraeva subito per sottrarsi ai commenti sarcastici dei suoi ragazzi? Era lui, quello adesso con il viso paonazzo e il pugno sollevato, in una smorfia estrema di nervi: “Non posso credere che tu ti stia comportando in modo così…Dio, Arina, c’è in ballo tutto!”

Nat aveva portato le mani al viso, premendosi in cima al setto nasale nel gesto istintivo che le veniva sempre quando iniziava a farle male perfino il lobo frontale: “Vi prego…per favore, potete smet-”

“È mia figlia, Edvard!”

Ora stavano urlando veramente forte.

“Lo so benissimo!” – Novikov mosse un passo in avanti, imponendosi su sua moglie – “È anche mia figlia! O no?!”

Quel punto di domanda fu in grado di paralizzare la moglie più che se le avesse tirato uno schiaffo. Cos’era? Ora giocava anche la carta del dubbio d’infedeltà? A questo era arrivato? A questo lo aveva portato quel periodo?

“Non posso crederci.” – scosse la testa, disgustata, quasi sputandogli addosso le parole – “Così in basso ti riduci?”

Le ingiurie reciproche impiegarono poco a scatenarsi – le parole a quel punto erano solo un fiume confuso – e nella grettezza umana che aveva ormai preso possesso di loro, la voce di Nat riuscì finalmente e farsi udire chiara: “Insomma, a qualcuno frega qualcosa di me?!”

Si tacquero.

La videro in piedi, con quel poco di trucco sugli occhi aveva iniziato a sciogliersi, sotto lacrime trattenute con ostinazione. Le venne da parlare a scatti, nella difficoltà di mantenere il controllo di sé: “Non posso sentirvi litigare così! Parlate di me come se fossi un oggetto! Un interruttore da accendere o spegnere!”

Non vedendo alcuna reazione da parte loro – li aveva mandati in cortocircuito – fece lo sforzo di addolcire lo sguardo e il tono: “Mamma. Lasciami andare.”

“No.” – una reazione l’aveva suscitata, in sua madre, ed era senso di impotenza. Le si avvicinò in un soffio, prendendo il viso di sua figlia tra le mani, singhiozzando, nella consapevolezza che tutte le urla sprecate fino a quel punto non erano valse a nulla: “No, no, no no!”

Nat le prese le accarezzò e se le sfregò sulle guance rigate dalle lacrime che ora uscivano a dispetto dei suoi sforzi: “Ti prego, mamma. Ti prego.”

“No, Nat, no. Non puoi lasciarmi, io non potrei vivere se…”

“Andrà bene. Me lo sento.” – annuì molte volte cercando di convincere in primo luogo sé stessa.

A poco servono le suppliche di sua madre, perché le si sfilò di torno e si volse verso suo padre.

“Verrò.” – aveva assunto un’aria di sfida, la stessa di quando le aveva proposto per la prima volta di prendere parte a quella guerra. – “Ma non lo faccio per te. Se questa è l’occasione per mettere una pietra su questa faccenda…allora voglio finirla con le mie mani.”

Lui restò un momento in silenzio, squadrandola dall’alto in basso e deglutendo un groppo di saliva che per troppi minuti gli era rimasta in bocca. Poi annuì e si fece da parte, lasciandola uscire di casa, sotto gli occhi ancora increduli di sua madre e suo fratello.

Con una minima calma rinnovata, Edvard sentì crescere in lui il desiderio di abbracciarli, di baciarli, di rassicurarli che sarebbe tornato a casa il giorno dopo, ma ebbe anche l’impressine che non sarebbe ricambiato. Concesse solo un rapido saluto a suo figlio e mise un piede oltre la soglia di casa.

“Edvard.” – sua moglie lo richiamò ancora; l’ira delirante di prima l’aveva abbandonata e ora se ne stava stretta nelle braccia, rigida e fredda come una statua di sale, gli occhi vacui – “Se Nataša prende quell’elicottero tra noi è finita.”

Lui le riservò un ultimo sguardo e si richiuse dietro la porta.

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Capitolo 10
*** Capitolo 22: Una richiesta da essere umano ***


22.

Una richiesta da essere umano

 

Da qualche parte, nell’Oceano Pacifico Settentrionale.

 

Le prime luci del mattino, che penetravano dall’oblò graffiato dell’aero militare, trafissero gli occhi di Nat, interrompendo ancora una volta il sonno inquieto e zoppicante in cui si era rivoltata per tutta la notte. Dopo essere stata trasportata in elicottero all’aeroporto militare di Mosca, si era imbarcata su un secondo apparecchio, che si era messo in volo senza sosta dalla sera prima.

“Nat.” – una voce d’uomo, calda e gentile, la riaccompagnò alla realtà – “Nat, ci siamo quasi.”

Si rivoltò sotto la coperta di lana verde che aveva tanto faticato a tenersi su in quelle ore e si stiracchiò sul sedile imbottito, avvertendo le ossa chiedere pietà per la scomoda posizione in cui era stata per tutte quelle ore. Quando riuscì ad aprire gli occhi appiccicati dal sonno, il primo volto che vide fu quello di suo padre. Aveva l’aria stanca, i capelli brizzolati avevano perso la loro solita compostezza e qualche spillo di barba iniziava a ricrescere sul mento. La giacca, la cravatta e le scarpe del completo erano sul sedile a fianco e portava la camicia sbottonata. Le toccò un ginocchio, delicatamente: “Ben svegliata.”

Per un momento la speranza che fosse stato tutto un incubo attraversò la mente di Nataša, ma scomparse altrettanto in fretta non appena si accorse di quello che scorreva oltre il finestrino. Erano in mare. Acqua e cielo a perdita d’occhio, tanto azzurro da far perdere ogni netta distinzione tra sotto e sopra, con solo il Sole nascente a congiungere le due metà di orizzonte. Poi, dato che si faceva sempre più grande, si rese conto di stare volando in direzione di una macchia scura in mezzo all’Oceano. Non ci volle molto perché fossero abbastanza vicini da capirne la natura e accorgersi che di macchie ce ne erano ben più d’una.

Sospesi sull’acqua si stagliavano i ponti e le torrette di una piattaforma artificiale grande come non ne aveva mai viste. La superficie doveva essere almeno dieci volte quella di una normale piattaforma petrolifera, rinforzata da piloni e paratie in metallo che avrebbero fatto invidia a una corazzata; quattro eliporti erano posizionati agli angoli estremi – era l’Air Force One del Triumvirato austramericano quello che scorgeva? – e una torre di controllo, irta di antenne, sorgeva al centro della struttura. E come se non bastasse, tre portaerei militari, una strana nave dalla prua tri-puntuta e una mezza dozzina di navi da guerra di minori dimensioni erano ormeggiate intorno alla base marina. Le bandiere delle Nazioni Unite e dell’Alleanza del Pacifico sventolavano lungo tutto il perimetro.

Ma quello…? – notò un fighter rosso sulla portaerei contrassegnata da una bandiera della Russia.

“Chiedo scusa.” – un soldato in uniforme dell’aviazione si prese la briga di interrompere il loro slow-start mattutino – “Siamo arrivati.”

 

I repulsori verticali accompagnarono l’atterraggio dell’Ilyushin II-96-650M militarizzato lungo la pista che si protendeva dal lato Ovest. Una scala d’imbarco semovente venne spinta fino al portellone dell’aereo, lasciando scendere il Presidente e Novikov e sua figlia, protetti da un drappello di soldati. Nel momento esatto in cui mise piede sul pavimento in metallo, Nat provò un lieve sbandamento – come se il suolo le oscillasse sotto – e una zaffata di vento che puzzava di salsedine e catrame la colpì in volto. Oltrepassarono una doppia fila di soldati impettiti in un saluto marziale e, con meno sorpresa ma non meno gioia di quanta ne avrebbe avuta fino a qualche mese prima, Nat incrociò tra quelli anche lo sguardo di Miša Vasyljev, accanto al Caposquadra Ivanovič e a quel poco che rimaneva della prima formazione della Krasnaya Zvezda, che le salutò con una fugace strizzata d’occhio. Un uomo sulla cinquantina, in abiti formali, si precipitò ad accoglierli. Con la tipica espressione compiacente dei diplomatici, tese una mano a Novikov e lo salutò in un Inglese dall’inconfondibile accento nordamericano: “Bene arrivato, Presidente Novikov. Benvenuti su Tartarus.

“Grazie, Jeremy. Ben ritrovato.”

Jeremy Hopkins, Supervisore Capo dell’Alleanza della Faglia del Pacifico. Questo diceva il cartellino identificativo che pendeva dal suo collo.

“Gli altri Presidenti e i Ministri alla Difesa sono tutti di là, la faccio scortare nella meeting room. La ragazza può raggiungere il resto della squadra, invece.”

“Mi raccomando, mi aspetto massima sicurezza sull’identità di mia figlia.” – rispose Edvard, finendo di aggiustarsi la cravatta che si era riannodato meno di cinque minuti prima.

“Senza dubbio.” – li invitò a superarlo – “Prego, vi faccio strada.”

 

Hopkins li guidò attraverso gli ampi terrazzamenti e livelli della base marina. Lungo il cammino Nat riuscì a scorgere almeno altri quattro gruppi armati, che intuì appartenere a Nazioni differenti sulla base dei colori delle uniformi e di qualche bandierina intessuta sopra. Austramerica del Nord, Regno Unito, Russia e Corea del Sud, più forse qualcun altro che non riuscì a identificare. Nel percorso che univa l’ala Ovest a quella Nord-Est, si ritrovarono anche a passare davanti alla prima delle molte sconcertanti novità che quel giorno li avrebbero attesi: su un palco a picco sul mare, quattro alte strutture portanti sostenevano in posizione eretta quella che a tutti gli effetti parve a Nat una sWARd Machine dall’armatura arancione e nera, tappezzata di marchi militari, con le braccia ancora separate dal tronco e sospese a mezz’aria da macchine industriali. Non ebbe il tempo di soffermarsi sui dettagli, ma riuscì comunque a registrare due loghi che, in mezzo a quelli delle Nazioni Unite, dell’Austramerica e chissà cos’altro, erano ripetuti più volte sulla corazza nuova di zecca: Seong-Wang Electronics e Reinfold Heavy Industries. Hopkins non mancò di magnificare la creazione che a detta sua era la “nostra neonata Irradiance”, ma riguardo a cui si astenne da ulteriori dettagli per “non rovinare la spiegazione” a cui gli ingegneri a capo del progetto li avrebbero inevitabilmente sottoposti. Raggiunta la torre centrale, Edvard Novikov avvertì sua figlia che avrebbe dovuto ora occuparsi delle questioni politiche che tenevano in bilico la collaborazione con le altre Nazioni alleate, promettendole poi di rivedersi più avanti in giornata. Jeremy Hopkins, da canto suo, si assicurò che la visibilmente spaesata Nataša, Miša Vasyljev (che fino a quel momento era riuscito a non rivolgerle nient’altro che qualche occhiata d’intesa) e pochi altri soldati russi fossero scortati all’interno del labirinto di porte automatiche e rampe di scale che si snodavano all’interno del corpo principale.

 

*   *   *

 

L’ambiente in cui Nat e Miša si ritrovarono era una stanza rettangolare che, tra sedie girevoli, computer d’analisi e un tavolo touch screen centrale, dava nel complesso l’idea di qualcosa a metà strada tra un ufficio militare e un laboratorio. Idea, questa, rafforzata dalla presenza di un finestrone lungo quanto tutta la parete sinistra, affacciato su una sala macchine di qualche tipo. Nella stanza era già presente un nutrito gruppo di persone che, con il loro arrivo, raggiunse la quindicina. L’unico volto familiare era quello di Ekaterina Asimov, nel suo immancabile camice bianco, dall’altra parte del tavolo digitale. Alla sua destra stava una bella donna, alta e snella, dalla carnagione bruna e dai capelli nerissimi, in uniforme decorata; a farle da altra ala, un secondo ricercatore – un uomo, stavolta – che per quanto ne sapeva poteva venire dall’India o dal Medio Oriente. Nat, Miša e la loro scorta trovarono posto in uno spazio lasciato libero proprio davanti a quel terzetto che la ragazza dedusse dover ricoprire un ruolo di spicco in quella stanza. In mezzo alla sfilza di sguardi induriti di soldati, uno stonava nettamente: il viso magro di un adolescente – non poteva essere altrimenti – dallo sguardo intimorito, che cascava dentro la giacca antivento palesemente prestatagli da qualcun altro.

“Ah, bene. Voi dovreste essere la compagine della Russia.” – disse la donna in uniforme; parlava con un accento americano.

Nat alzò una mano e si diede un’occhiata intorno, in un abbozzo imbarazzato di saluto. Il ragazzo a fianco a lei fu l’unico a ricambiare.

“Ora come ora il tempo è tiranno, quindi andrei rapida con la presentazioni.” – continuò la donna – “Piacere di conoscervi. Io sono Andrea McCoy, Primo Capitano della Divisione Mezzi Speciali sotto il controllo delle Nazioni Unite. Questi al mio fianco sono gli Ingegneri Capo del progetto per l’impiego e lo sviluppo militare delle Armi Bioniche note come sWARd Machines: la dottoressa Ekaterina Asimov, dall’Eurasia, e il dottor Rajesh Khurana in rappresentanza dell’Austramerica. In virtù del nulla osta concessoci, saremo noi a guidare l’operazione di risposta all’ultimatum lanciatoci dal nemico. Con alcuni di voi ci conosciamo già…” – le venne istintivo cercare con lo sguardo il ragazzo in cappotto antivento – “…con gli altri lo faremo presto. Nataša Novikov.”

“Sì?” – a sentir chiamare il suo nome, Nat ebbe un mini-attacco di panico, che provò a nascondere con la razionalità necessaria a parlare in un’altra lingua.

“Tu sei la pilota scelta per la guida della sWARd Machine posseduta dalla Russia, non è così?”

“S-sì.”

“Ti presento Aaron Alford, dall’Inghilterra.” – il suo sguardo cadde ancora sul ragazzo alla destra di Nat – “Come te, anche lui è un Meister.”

Aaron annuì: “Piacere.”

“Meister…” – quella parola suscitò in Nat un senso di colpa, di sporcizia e di paura che non provava da mesi.

 

Lei accasciata nel pavimento di cemento nudo, lurido e impolverato di uno scantinato. Mani guantate di nero che la tenevano ferma. Occhi duri e distanti come scaglie di ghiaccio che la fissavano. Sensazione di labbra premute contro le sue. E poi un nome, Zeitland Dietrich, e un segno, una Svastica. “Sei tu la Meister, giusto?”

 

“Sì.” – la voce della McCoy la tirò in salvo da quel gorgo di ricordi – “Questo è come chiamiamo i piloti delle Machines.”

“Ma…” – lo guardò meglio e le sembrò davvero troppo giovane – “…quanti anni hai?”

“Diciassette.”

“Come?!” – ed ecco lo spirito da attivista mancata di Nataša Novikov rifarsi vivo, cancellando le inibizioni iniziali – “Ma non è neanche maggiorenne!”

“Purtroppo non siamo noi a fare le regole.” – fu Khurana risponderle, inarcando le sopracciglia.

Questa frase se l’era sentita dire più volte da quando era iniziata tutta quella faccenda, come se niente fosse colpa di nessuno, e iniziava davvero a suonarle come una pessima scusa per lavarsi le mani: “E chi allora?”

Khurana e le altre due donne si guardarono per un momento, e poi ordinò a un soldato accanto a una porta automatica su uno dei lati corti della stanza: “Fatela entrare.”

La porta in metallo di divise in due e quattro militari in nero – Nat li riconobbe dal logo sulle uniformi, ECHELON, gli stessi che l’avevano recuperata a Varsavia – spinsero all’interno una strana sedia a rotelle: chiusure ermetiche coprivano completamente le gambe e le mani di una figura minuta, esile, seduta: una donna – o una bambina, viste le proporzioni – vestita di uno strano abito azzurro lucido, di un materiale semirigido plastificato di difficile identificazione, con una chiusura a doppiopetto vagamente maschile e una gonna squadrata ampia fino alle ginocchia. Gambe e braccia erano coperte da lunghi guanti bianchi dello stesso materiale, ma la cosa che più disturbava era la testa, chiusa in un casco metallico senza alcun foro apparente per la respirazione e che sembrava pesantissimo.

“Liberatela.” – disse ancora la McCoy e un soldato toccò dei pulsanti nascosti sul casco, sui braccioli e sulla pedana della sedia. Si sbloccarono uno dopo l’altro e, quando anche la maschera di ferro fu aperta e sollevata via, capelli azzurri le ricaddero morbidi sulle spalle e dei fiori spiegarono i loro petali cianotici da sopra bende che le coprivano metà del viso. Due dei quattro soldati la aiutarono a mettersi in piedi, mentre gli altri le tenevano puntate addosso le canne dei fulminatori.

“Ora puoi parlare, per favore.”

“Vi porgo i miei saluti.” – la ragazza dai capelli blu parlò con voce delicata come vetro, le mani giunte in grembo, e sollevò lentamente la testa – “Voi potete chiamarmi Na-El.”

E aprì l’unico occhio scoperto, in tutta la sua vuota opalescenza.

Ekaterina Asimov si aggiustò l’asta degli occhiali sull’orecchio: “Questa che vedete davanti a voi…è una Siren.”

Siren?” – fece eco Miša

“La custode di una sWARd Machine. È molto tempo che i nostri Paesi ne sono alla ricerca, ma dopo la battaglia di Venezia siamo riusciti finalmente a catturarne una.”

“Ed è anche merito del nostro Aaron.” – aggiunse Khurana – “Non è così?”

Aaron abbassò lo sguardo, trafitto da un senso di rimorso che gli rendeva impossibile guardare direttamente la ragazzina: “Sì. Vedete…Na-El è la Siren della mia Unità. Di Bragjantyr.”

Miša si piegò appena verso l’orecchio di Nat, nella speranza di non farsi capire dal resto dei presenti: “О чем они говорят, Нат? Вы что-нибудь знаете об этом?[1]

“Io non…credo di capire.” – ma lei rispose nella lingua nota a tutti – “Che vuol dire che è una custode?”

“Io” – parlò ancora Na-El, come un soffio di vento – “sono la sacerdotessa devota al Drago delle Maree e al Monarca Bianco. Il compito della mia esistenza è trovare i Meister designati da essi e permettere il loro Risveglio.”

“Significa attivare l’Unità.” – precisò ancora Rajesh Khurana.

Nat cercò conferma almeno nell’unica persona a lei nota: “Ma dottoressa! Io non ho idea di chi siano queste Siren, allora com’è possibile che sia riuscita ad attivare la mia?”

“Se esiste una Machine, allora deve esistere anche una Siren preposta ad essa, da qualche parte.” – le rispose – “Semplicemente non abbiamo ancora trovata la tua.”

“C’è un’altra cosa che abbiamo scoperto.” – la McCoy diede il La alla collega per passare a quello che ritenevano l’informazione più importante.

La dottoressa squadrò Na-El duramente: “Non lasciatevi confondere dal suo aspetto. Questa ragazza…non è umana.”

Un parlottio sommesso e sgomento si impossessò dei presenti.

“Analizzando il suo DNA siamo finalmente riusciti a trovare conferma di ciò che sospettavamo da tempo, e cioè che lei e le sWARd Machines discendono da una razza comune. Una razza che non appartiene a questo pianeta.”

“Ha detto ‘razza’?” – Miša sperò che il suo Inglese fosse abbastanza arrugginito da aver frainteso – “Come degli animali?”

“Novikov.” – la McCoy guardò oltre il finestrone che dava sulla sala macchine, indirizzando l’attenzione della ragazza – “Osserva.”

Nat si avvicinò al vetro, che iniziava a vibrare sotto clangori metallici provenienti dai recessi della base: sul fondo della sala, una sezione di pavimento metallico recante il logo delle Nazioni Unite si aprì, mentre bracci meccanici sollevarono dal fondo del Tartarus una gigantesca umanoide nera, immobile come una mummia tra i blocchi di sicurezza.

Fredya!” – Nat avrebbe forse dovuto aspettarsi di ricontrarla, ma rivederla dopo mesi fece comunque un certo effetto.

“Nataša.” – proseguì la Asimov – “Queste Machines non sono semplici armi. Non le abbiamo costruite noi, ma solo rinvenute. Quella che vedi non è altro che una forma di vita extraterrestre semi-quiescente, caduta sul suolo russo nel 2013 insieme a un meteorite. Il suo sarcofago era all’interno della roccia. Anche l’Unità di Alford è stata ritrovata per puro caso, scavando sotto la piana di Cerne Abbas in Inghilterra.”

Che cosa…a bordo di cosa sono salita?! – fissare quella gigantessa all’apparenza senza vita le sembrò ancor più orrido del solito e si rese conto di come perfino le sue proporzioni anatomiche, così magre e longilinee, ora le sembrassero fuori posto. Senza vita…eppure, a pensarci bene, quella spiegazione le sembrava più sensata che un pezzo di metallo inerte in grado di agire di propria volontà. Quell’elmo senza lineamenti, quella corazza di piastre decorate e sigillata ermeticamente…cosa nascondevano, davvero, lì sotto?

“Aspettate,” – si intromise Miša – “volete dire che quei robot…che quella ragazza…sono alieni?!”

“Esattamente. Non ci sono dubbi. La loro stessa armatura è composta da una lega che non può essere ottenuta sulla Terra.”

“Che cos’è il VRIL?” – la voce di Nat, che ancora fissava attonita la sua Unità, giunse senza preavviso, piatta e atona.

“Prego?”

“Ho chiesto,” – si voltò di nuovo verso gli altri, lo sguardo perso nel vuoto, come se cercasse di ricostruire un ricordo lontano – “che cos’è…il VRIL? L’ho sentito nominare una volta.”

Rajesh Khurana si aggiustò i pantaloni e si sedette sul tavolo: “Beh, speravo di arrivare a questa parte della spiegazione con un po’ più di enfasi, ma tanto vale. Vedi, il VRIL…è la chiave per la comprensione delle sWARd Machines. Un’energia cosmica che pervade lo Spazio e attraversa ogni cosa, studiata da scienziati ed esoteristi fin dalla Seconda Guerra Mondiale. Facendo vibrare atomi, colore e temperatura della materia, le Machines possono attingere a poteri inarrivabili e creare armi dal vuoto apparente!”

“Quello che è successo al lago di Baksheevo” – aggiunge Ekaterina – “è frutto della risposta della Machine ai tuoi istinti vitali più primitivi. Una manifestazione del potere del VRIL.”

Facendosi coraggio, anche Aaron prese parola: “È la stessa cosa che è successa anche durante la mia battaglia contro l’Unità azzurra, vero?”

“Tu sapevi queste cose?” – chiese Nat stupefatta; ora anche un ragazzino ne capiva di più di lei?

“Diciamo che…sospettavo qualcosa.” – abbassò di nuovo lo sguardo, sfregandosi un gomito con la mano opposta.

Nat si sentì improvvisamente sola in mezzo a tanti, come se al posto di persone ci fossero solo dei manichini: “Volete dirmi che ero l’unica a non sapere niente di tutto questo? E come pensavate che potessi esservi d’aiuto? Perché non avete scelto qualcun altro?!”

Ancora una volta, Khurana provò a offrirle una spiegazione con la migliore scelta di parole che riuscì a formulare in quel momento: “Perché purtroppo non è possibile. Per anni abbiamo tentato di trovare dei sostituti, ma sembra che le Machine originali rispondano solo ai vostri ordini. Anche Irradiance, l’Unità che avete visto qui fuori, non è altro che un’imitazione, una versione artificiale senza alcun potere. Il tentativo di unire la scienza umana a quella aliena, per compiere un miracolo.”

Andrea McCoy si schiarì la voce, interrompendo per un momento quella corte marziale che la figlia di Novikov aveva messo in piedi: “A questo proposito, vorrei presentarvi la risorsa scelta per pilotare la nostra nuova arma.”

Indicò una ragazza di colore in canottiera e shorts militari, con la giacca mimetica annodata alla cintola, che fino ad allora se ne era rimasta in disparte e in silenzio. Senza staccare la schiena dal muro, si diede una sistemata alla ciocca non rasata dei suoi capelli tinti di rosso, e riservò ai suoi interlocutori un’espressione piuttosto seccata: “Pensavo che ti fossi dimentica di me! Sono Amber McCoy, e – prima che possiate chiederlo – sì, io e lei siamo sorelle. Detto questo, piacere di conoscervi.”

“Io non avrei chiesto.” – Miša si guardò la punta dei piedi, mugugnando tra sé.

Lo sguardo di Andrea cambiò; non era diminuito di fermezza, ma le si poteva leggere dentro un sentimento più umile del comando che avrebbe anche potuto sentirsi autorizzata a esercitare: “In ogni caso, la verità è che noi non abbiamo alcun controllo sulle Machines, né su di voi. Vi diciamo tutto questo solo nella speranza che voi possiate capire e scegliere da che parte stare. Siamo chiamati a prendere parte a una battaglia che nessuno di noi ha mai affrontato in vita sua. Per questo vi chiedo, non come vostro Capitano, ma come essere umano: per favore…combattete al nostro fianco!”

E nel pieno di quel tumulto di consapevolezza, senso del dovere, paura e insieme speranza che batteva nel cuore di tutti, Amber McCoy proruppe con il più ferino dei sorrisi: “Beh? Finito di chiacchierare? Passiamo al piano?”

 

*   *   *

 

A metà mattinata, l’aereo militare russo stava già scaldando di nuovo i motori e il Presidente Edvard Novikov aveva finito di stringere mani e firmare documenti davanti ai quali aveva rischiato di farsi cadere la penna di mano. Nataša e suo padre erano sulla pista di decollo e il vento scompigliava loro i capelli.

“Io…ora vado. Torno a casa.” – disse Edvard, cercando parole che non trovava.

“Sì.” – Nat ringraziò il rumore dei motori che attutiva quello del suo animo che andava in pezzi – “Buon viaggio. Sarà lungo.”

“Già.” – gli venne da grattarsi la nuca – “Berrò molti caffè.”

“Sì, anche io.”

Si morsero a turno le labbra, aride come terra desertica.

“Bene. Allora…buona fortuna, tesoro.”

“Grazie”.

Mosse qualche passo verso l’areo ma una corda invisibile lo costrinse a girarsi ancora verso sua figlia. Rimasero a fissarsi così, in silenzio, per qualche secondo che sembrò l’eternità. Che cosa si poteva dire ad una figlia, prima di lasciarla andare? Prima di non vederla per i successivi due giorni e forse mai più? Cosa dovrebbe dire, o fare, un padre in un momento come quello? Per fortuna o per disgrazia, furono i loro corpi a rispondere al posto loro. Senza quasi volerlo, si ritrovarono stretti nel più vigoroso abbraccio che si erano potuti riservare, o almeno il più forte che potessero ricordare. Le lacrime scorrevano dagli occhi di Nat, bagnandogli la camicia in cui affossava la faccia quasi fino a fondersi con essa: “Ti voglio bene, papà. Ti voglio bene.”

“Anche io. Sei tutta la mia vita.” – nemmeno lui poté trattenerle più, mentre le accarezzava la testa.

“Ho paura!” – ripeteva tra i singhiozzi – “Ho tanta paura!”

“Lo so.” – la strinse ancora più forte – “Lo so, ma non devi! Non averne!”

“Per favore,” – la voce le si ridusse a un pigolio – “se non torno a casa…”

“Non dirlo nemmeno!”

“…se non torno a casa devi promettermi che non ti lascerai con la mamma! Se non è per me, fallo per Luka!”

Lui la scostò appena e le sistemò una ciocca di capelli porporini che le si era appiccicata sul viso: “Ascoltami, Nat. È normale avere paura. Ma io ti giuro – su Dio, se ne esiste uno, lo giuro! – che andrà tutto bene! Devi avere forza, adesso.”

Ma visto che queste parole non sembravano rincuorarla neanche un po’, provò la mossa dell’effetto sorpresa: “Altrimenti come faccio a darti il regalo di laurea?”

Stavolta riuscì strapparle una risata, singhiozzata e tremula, ma ci riuscì: “Ma perché, mica l’avrai già comprato?”

“No, è per questo che devi tornare a dirmi cosa vuoi!”

Si lasciarono benedire ancora da uno strascico di risata, prima che Edvard afferrasse le mani di sua figlia. Se le portò alle labbra e le baciò forte, premendosele sulla bocca e strizzando le palpebre, neanche potessero evaporare via.

“Amore mio. La mia principessa, la mia ballerina.”

La guardò diritta negli occhi e in quelle due pozze umide Nat riconobbe, finalmente e ancora una volta, l’uomo che le aveva dato la vita e che l’aveva cresciuta.

“Adesso fatti coraggio…e falli pentire di essere tornati al mondo!”

 

 

 

[1] Dal Russo; pron. “O chem oni govoryat, Nat? Vy chto-nibud' znayete ob etom?”; lett.: “Ma di cosa stanno parlando, Nat? Ne sai qualcosa?”

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Capitolo 11
*** Capitolo 23: Quello che gli uomini sanno fare meglio ***


 

23

Quello che gli uomini sanno fare meglio

 

Giorno seguente.

San Francisco; California; Austramerica.

 

“A tutti i cittadini, questa non è un’esercitazione. Il Governo ha dichiarato DEFCON 1: procedere all’evacuazione immediata della città, mantenendo la calma. Le forze dell’ordine e l’esercito vi indirizzeranno verso i rifugi più vicini. Ripetiamo: questa non è un’esercitazione.”

Nelle ultime ore immediatamente antecedenti la venuta dell’Arma Finale, la città costiera di San Francisco fu svegliata dal richiamo che dai droni di sorveglianza si diffondeva in ogni quartiere. Come formiche stanate nel loro nido, gli abitanti abbandonarono le loro abitazioni, gli uffici, i bar, le metropolitane affollate, per riversarsi nelle strade presidiate da militari armati e agenti di Polizia in tenuta antisommossa. Nella sua perfetta efficienza, la grande macchina della guerra si mise in moto al volere del Capitano Andrea McCoy.

 

“Questo è il piano.” – aveva spiegato il giorno precedente alla platea di piloti, soldati e rappresentati politici di mezzo mondo radunatisi sulla base oceanica – “In base alla traiettoria del nemico, il punto più diretto in linea d’aria da cui preparare la contro-offensiva è la città di San Francisco.”

 

Grandi navi militari provenienti da Eurasia e Austramerica solcarono le acque scure del Pacifico, sotto un cielo plumbeo e opprimente. Squadre di cinque caccia aerei in formazione a V sfrecciarono a pelo d’acqua, costeggiando e superando la flotta, in direzione della Bay Area.

Code infinite di automobili incolonnate sulle sopraelevate e sul Golden Gate strombazzavano dai clacson, lanciandosi segnali con i lampeggianti, mentre gente si arrampicava sugli sportelli nel tentativo di incitare quelli davanti a proseguire, inutilmente; qualcuno perfino si sporse per gridare “Guardate là!”, alla vista dell’Eleanor Rigby che passava sotto il ponte, sfiorandolo con la torre di controllo.

Un elicottero sorvolò i grattacieli del quartiere finanziario, pronto a discendere verso la control room prefabbricata nel Golden Gate Park, insieme al resto dell’accampamento allestito.

 

“Le forze di mare e di terra ci copriranno le spalle qualora la battaglia si spostasse sul pianeta, ma il nemico arriverà dall’orbita.”

 

Decine di carri armati e blindati avanzavano, in fila per due, lungo le strade del centro e della Steep Hill, seguite da enormi camion a nove ruote equipaggiati con gru e piattaforme pieghevoli.

Nella zona portuale, l’Eleanor Rigby e quattro navi di classe Defender della Marina Inglese viravano fino a dare la poppa alla costa. Droni delle dimensioni di furgoni e hovercraft a motore collegarono gruppi elettrogeni giganti sui ponti delle navi al motore dell’Ammiraglia.

In cielo, sopra i tetti dei grattacieli, una scorta di dieci jet e un bombardiere accompagnavano tre Dollhouse, contrassegnati dalle bandiere di Nord America, Russia e Inghilterra: il settimo battaglione aviotrasportato delle Nazioni Unite, Divisione Mezzi Speciali.

A terra, operatori dai giubbotti catarifrangenti indicavano con ampi gesti delle bacchette luminose le manovre da eseguire agli autocarri speciali della Space X, facendoli disporre lungo la linea immaginaria che da Huntington Park passava per la Union Square fino a Yerba Buena Gardens. A blocchi di quattro, si disposero al centro delle piazze e unirono insieme i pannelli superiori per creare piattaforme di lancio. I Dollhouse si aprirono e le tre armi umanoidi, trattenute per le spalle, furono portate in corrispondenza delle piattaforme. Quando un comando univoco autorizzò i piloti dei velivoli a sganciarle, una dopo l’altra, il terreno tremò sotto il loro peso e i vetri di auto e negozi s’incrinarono.

 

“Dovremmo combattere nello Spazio?” – aveva chiesto Aaron, titubante – “E come ci arriviamo?”

“Chiederemo a NASA e Space X di improvvisare qualcosa.” – era stata la risposta Rajesh Khurana.

“Le vostre Unità sono troppo preziose per schierarle in prima linea. Scenderete in campo solo nel caso ogni altra offensiva risultasse inefficace.”

“Saremo soli?”

“Avrete anche il supporto di Vasyljev.” – aveva detto la Asimov e, conoscendo la vena polemica di Nataša quando lo si tirava in mezzo, si era anche affrettata a spiegare – “Il suo aereo è l’unico con un trattamento termico adatto a operare nello Spazio.”

“E non potete affidarlo a qualcun altro? È troppo pericoloso!”

“Non c’è problema.” – era stata la categorica sentenza di Miša, con un ardore negli occhi che Nat riconobbe non essergli mai bruciato prima tanto intensamente – “Sono io che lo voglio.”

 

Voci nelle ricetrasmittenti avvisarono che “Il secondo e terzo convoglio sono qui.”, mentre i binari della nuova stazione ferroviaria si allineavano per l’arrivo di treni merci con a bordo componenti di volo e propulsori a cilindro mutuati da qualche navetta spaziale.

Dall’altra parte della città, sezioni di una rampa di lancio direzionabile venivano trasportate lungo la pista di decollo dell’aeroporto internazionale affacciato sul Pacifico; morsetti automatici serrarono insieme i tratti di rampa e il Raròg della Russia venne posizionato su una catapulta all’inizio del percorso. Ampie estensioni per le ali, due code direzionali protesiche e motori ausiliari erano stati agganciati alla fusoliera, a guisa di imbracatura, raddoppiandone la lunghezza totale.

Ancora all’opera nei pressi del centro urbano, bombardieri, elicotteri e gru si innalzavano in una danza di tiranti e snodi a iniezione, issando ponti mobili all’altezza degli abitacoli delle Unità e installandovi sulle schiene gruppi di tre motori propellenti allacciati insieme da fasce in acciaio. Due set di razzi extra vennero apposti alla cintola ad Irradiance, connessi da cavi e fusibili a un compartimento nella bassa schiena. Ingegneri aviospaziali annunciarono che i Solid Rocket Booster erano allineati e che i reattori a post-nucleotoni risultavano stabili e pronti alla fissione: due cilindri metallici a terra, collegati da grandi tubature all’equipaggiamento e al torace di Irradiance entrarono in funzione, lanciando bagliori azzurrognoli.

 

Infine, duecento chilometri più in alto della superficie terrestre, un mastodontico complesso bianco si portò in corrispondenza della traiettoria prevista dal Nidhoggr: la Nuova Stazione Spaziale Internazionale, irta di pannelli solari, moduli di espansione e ponti circolari per il controllo artificiale della gravità. A farle da schermaglia, orbitava una ventina di satelliti anti-meteorite ad alta manovrabilità inaugurati dalla Space X nel decennio precedente.

 

Alle 22:15, la città di San Francisco era stata convertita in un proscenio allestito con armi e veicoli militari.

“Conferma dell’evacuazione della città. Passare alla Fase 2.”

 

*   *   *

 

Ponte di Comando dell’Eleanor Rigby.

 

Il planisfero virtuale 3D galleggiava puntellato da decine di puntini rossi. Una sfera separata – la Luna – lo affiancava, congiunta da una linea pulsante su cui scivolava lentamente un puntatore triangolare. Dai megaschermi frontali e laterali provenivano gli sguardi tesi e severi dei pezzi da 90 dello scacchiere internazionale. L’interezza degli Stati Federati d’Austramerica nella loro personificazione del Triumvirato; Emirati, Sud Africa, Pakistan e Israele dalle Nazioni Arabiche Unite; e poi Regno Unito, Francia, Russia, Cina, Corea del Sud ed India dal Blocco Eurasiatico. Anche lo Stato Indipendente del Vaticano presenziava per tramite del suo camerlengo. La trepidazione e l’ansia faticavano ad essere contenute dai sotto-Ufficiali microfonati all’opera sui computer di bordo.

“Preparativi completati. Sistemi di difesa anti-meteorite schierati.”

“Centri di Comando Militare alleati presenti all’appello. Siamo connessi con l’ISS.”

In un quadro separato del mosaico di facce, comparve anche quello di Annette Martin, in rappresentanza del suo equipaggio: “Qui Stazione Spaziale Internazionale, vi riceviamo!”

Le telecamere satellitari dell’ISS trasmisero l’immagine della spettrale massa nera del Nidhoggr, ancora lontana ma distinguibile, contro la faccia bianca della Luna.

“La distanza attuale del nemico?” – chiese Andrea McCoy, affiancata da Khurana e Asimov a cui aveva concesso l’onore e onere di presidiare a bordo della nave.

“Ancora diecimila chilometri.”

“Proprio sul filo del rasoio.

Passò in rassegna rapidamente i volti dei presidenti connessi e – più per forma che per reale necessità – chiese ai suoi sottoposti: “Che mi dite dei Paesi assenti?”

“Giappone, Germania, Italia e gli altri Paesi arabici si sono chiamati fuori.”

Studiò ancora il planisfero e quella spolverata di puntini rossi che riportavano ‘EOBM – ARMED’.

“A che punto siamo con il piano di lancio?”

“I Presidenti e i Generali sono nelle panic room e hanno ricevuto i codici di lancio. Missili Balistici Extra-Orbitali armati.”

Ekaterina incrociò le braccia sul petto, parlando tra sé: “Un’utilizzo delle armi nucleari bandito dal Patto di Disarmo del 2033. Davvero una scelta intrisa dell’ipocrisia di tutte le Nazioni.”

“Siamo davvero sicuri di quello che stiamo facendo?” – chiese Rajesh – “Questa cosa avrà delle conseguenze.”

Andrea spostò lo sguardo altrove, combattendo dentro di sè l’essere invisibile che cercava ostinatamente di lasciare socchiusa la porta dei suoi dubbi: “I politici si servono di noi per non sporcarsi le mani di sangue con la guerra, ma a nostra volta usiamo la politica per lavarci via la coscienza. Ormai dovremmo averlo ammesso a noi stessi, no?”

La sua porta interiore venne richiusa appena in tempo per dare le istruzioni finali ai presenti: “Qui Capitano McCoy. Alle ore 22.25 ha inizio l’Operazione Titanomakhia. Con la vostra autorizzazione, procediamo a sincronizzare i lanci delle testate.”

Un “Permesso accordato.” generale provenne dagli uomini e dalle donne connesse in diretta e a quel punto Andrea McCoy capì che la vetta della sua carriera professionale sarebbe consistita nel dichiarare il Giorno del Giudizio.

“Presidenti della Prima Ondata, inserite le chiavi, per favore.”

Lo stato degli EOBM degli alleati arabici, del Regno Unito, della Francia e del Vaticano passò da ‘ARMED’ a ‘DEPLOYED’.

Stava accadendo. Anche se non potevano assistere con i loro occhi alla partenza dei missili, chiunque in quella sala sapeva che il più grave atto militare degli ultimi trent’anni era stato appena compiuto. Con una goccia di sudore a imperlarle la fronte, Andrea ordinò ancora: “Presidenti della Seconda Ondata, ora è il vostro turno. Inserite le chiavi, adesso!”

Un segnale acustico decretò la risposta di Russia, Cina, Corea del Sud e delle decine di altri avamposti sparsi per il territorio austramericano.

 

In tutto il mondo, armi di distruzione di massa vennero rilasciate al ritmo di pulsanti premuti e cerniere aperte. Combinazioni parziali di numeri e interruttori vennero sbloccate all’unisono dal Presidente della Russia, nel suo bunker domestico, e dal suo Ministro alla Difesa, seduto nel suo ufficio e accerchiato da un entourage mai stato così attento. Codici a diciassette cifre furono composti su computer custoditi in valigette nere da ciascuno dei presidenti d’Austramerica, a bordo dell’Air Force One in volo. Ora, missili Eureka emergevano dalle strutture di contenimento sotterranee nel deserto del Colorado, in Florida, in Carolina e in Canada, di concerto con sottomarini a largo dell’Atlantico, con i loro boccaporti superiori spalancati. Altri sfilavano lungo le strade di Mosca, come ombre verdi su cingolati; gli uomini si nascondevano dentro le abitazioni e le madri coprivano gli occhi ai figli, mentre sistemi elevatori addrizzavano i missili in verticale, trasformando la Piazza Rossa in una base di lancio. Una chiave dorata passò di mano dal camerlengo vaticanense a Sua Santità il Papa Urbano XIX, che con mano malferma la inserì in una plancia nascosta nel doppio fondo della sua scrivania a Castel Sant’Angelo: la pavimentazione di Piazza San Pietro, il cuore cristiano di Roma, si divise e ritirò sotto terra e le automobili sul ciglio della piazza precipitarono nel silo sotterraneo, da cui si innalzava un singolo razzo bianco marchiato da tre chiavi nere incrociate. Invocazioni di suore e fedeli in lacrime si levarono nel frastuono dei motori e la terra – non importa se coperta d’asfalto, steppa o rossa polvere desertica – bruciò sotto le vampe dei propulsori.

Ottantaquattro testate nucleari decollarono come emissari di sventura e i cieli di tutto il globo, nel nero della notte o nel Sole abbagliante, furono segnati dai graffi di fumo.

Quelle immagini sarebbero state riproposte infinite volte in mondovisione, davanti alle quali milioni di persone non avrebbero potuto far altro che rassegnarsi al volere compiuto da altri e pregare per la loro sorte.

 

Sul ponte dell’Ammiraglia inglese, l’Estimated Time of Arrival delle due ondate di EOBM iniziò a scorrere all’indietro e, da quel momento fino ai successivi 103 minuti e 51 secondi, premere il tasto ‘reset’ della Storia non sarebbe stato più possibile.

 

*   *   *

 

Mentre saliva le scalette di accesso al tetto dell’edificio su cui si trovava, Nataša finì di scorrere con il pollice l’interminabile lista di messaggi che da tutto il pomeriggio le intasavano la chat di gruppo con Irma, Anya e gli altri compagni di università.

 

> @Nat stai vedendo le notizie? Danno la diretta stasera!

> Voi la seguite, vero???

> Tuo padre che dice di questa storia???

> Ragazze io ho paura…

> @Nat rispondiii

 

Lo smartsquare le iniziò a vibrare in mano – il nome di Irma comparve sullo schermo – ma preferì mutarlo. Trovò la porticina di ferro del tetto già aperta e la ragione le fu subito chiara.

“Sembra proprio che mi sia scelta un posticino affollato!” – era Amber McCoy, che aveva già imparato a riconoscere dal tono di voce perennemente sopra le righe.

Evidentemente, l’idea di arrivare sul tetto di quell’hotel per trascorrere con i propri pensieri quelli che avrebbero potuto essere i suoi ultimi minuti di vita, era venuta in mente anche a qualcun altro. La pilota militare dai capelli tinti di rosso – nella sua synchro skin di polimeri elastici – si era appoggiata al parapetto del palazzo, con un panino integrale al pollo e insalata tra le mani. Poco distante da lei stava invece il ragazzo inglese che rispondeva al nome di Aaron, infagottato nel solito antivento prestato e intento a bofonchiare qualcosa davanti allo schermo del suo cellulare, che gli illuminava il viso pallido e contrito. Ma più che la loro presenza, a sorprenderla davvero fu accorgersi che in loro compagnia c’era anche Na-El, ritta e compita come una bambolina dai capelli azzurri e dal vestito di plastica, che le era stata presentata come la visitatrice di un altro mondo.

“Scusate, pensavo di essere sola.”

L’aria della sera aveva rinfrescato e il venticello che soffiava tra i palazzi alti le scompigliò appena i capelli.

“Vuoi?” – le chiese Amber, allungandole il panino mangiucchiato.

“No, grazie.” – le rispose con un fil di voce, mentre trovava posto in mezzo a loro – “Non ho molta fame.”

La ragazza americana ruotò gli occhi al cielo: “Tutti così, che allegria.”

Ora che le dava le spalle, Nat si accorse delle vertebre metalliche che correvano lungo la schiena di Amber e di come quella tuta aderente nera e arancio presentasse delle aperture in corrispondenza delle articolazioni dei gomiti e delle ginocchia, delle caviglie e dei fianchi e alla base del metacarpo e metatarso. Rispetto a sé stessa ed Aaron, per cui indossare abiti militari o civili non avrebbe fatto molta differenza dopo essere entrati nella Camera di Flamel, quella muta cibernetica doveva essere il segno che il sistema di guida di una Machine artificiale era completamente diverso. Guardò il panorama di grattacieli silenziosi che facevano da pazienti testimoni di quella notte: sotto di loro, Powell Street si allungava a destra e a sinistra, proprio dirimpetto alla Union Square, illuminata a giorno dagli allestimenti militari. Irradiance svettava oltre i tetti della piazza dalla cintola in su e, più in lontananza, la sua Freya e la Machine bianca di Aaron attendevano muti, le orbite delle maschere facciali vuote e spente, come immense cariatidi. Si rese conto che, in effetti, per quanto tutte e tre fossero molto differenti, qualcosa in Irradiance lo era di più. Le armature curvilinee e cesellate di strane iscrizioni – che ora si chiedeva da chi fossero state incise – delle due Machine aliene assumevano forme più squadrate e grezze su quella di Amber; le articolazioni degli arti, del collo e del ventre non erano solo delle maglie flessibili di acciaio, ma veri snodi robotici fatti di pistoni e cavi elettrici che i progettisti non erano riusciti a mascherare del tutto; i tacchi inverosimilmente acuminati non avrebbero potuto sorreggere il peso di Irradiance ed erano stati replicati con versioni più basse e robuste; gli avambracci e i fiancali non avevano nulla della delicata eleganza di Freya e anzi erano spessi, coriacei e disarmonici rispetto al design complessivo, come se qualcuno avesse voluto attaccare delle specie di coltellini svizzeri giganti dal gomito in giù, senza contare quel blocco sgraziato di metallo agganciato dietro le scapole e che sembrava nient’altro se non un terzo braccio ripiegato. L’elmo e le mani erano gli elementi che meglio erano riusciti a replicare l’estetica originale che i designer avevano cercato di imbrigliare, ma anche in quel caso qualcosa era sfuggito. Forse gli occhi bionici, dalle iridi gialle anziché rosse? O quelle due mezze corna-antenne frontali, che sembravano essere rimaste incompiute? L’immagine complessiva era di…un falso. Niente di più, niente di meno. L’imitazione ingenua di un capolavoro, che per quanto chiunque l’avesse progettata si fosse sforzato di mantenerne intatto l’involucro, aveva inevitabilmente finito per snaturarne l’intima essenza. E considerando ciò che ora sapeva nascondersi sotto la corazza della sua Unità, trovò il tutto quasi rassicurante.

 

“…il cui Nome è buono e cui dobbiamo rendere omaggio. Benedetto Tu, Signore, che benediciltuopopoldiIsraeleconlapaceAmen.” – Aaron finì di colpo il borbottio in cui era assorto e si accucciò a terra con le ginocchia al petto: “Come fai a mangiare sapendo che tra meno di un’ora dovremmo combattere?”

Amber inarcò le sopracciglia, sbigottita: “E io dovrei rovinarmi l’appetito dell’ultimo pasto? A maggior ragione.”

Addentò ancora il panino e continuò a bocca piena come se niente fosse: “Comunque. Questi giorni non abbiamo avuto molto tempo per conoscerci, vero? È un peccato. Soprattutto con te, zarina dei Novikov.”

“Chi, io?” – era la prima volta che Nat si sentiva chiamare in quel modo.

Amber allargò le mani e si guardò intorno: “Vedi altre Novikov? Dai, su, racconta. Come ci sei finita, in questa storia?”

Altro boccone di pollo e insalata, aspettando la risposta.

Nat sospirò, cercando le parole per rispondere alla domanda che le era stata posta. Già, come era iniziato tutto? Se sarebbe stato difficile esprimersi in Russo, figurarsi in un’altra lingua.

“Io…” – strinse con le mani il bordo della balaustra, incerta – “…non lo so. Vorrei poter dire che sarebbe bastato non compiere ventuno anni, ma…ho come la sensazione di starmi perdendo dei pezzi. Qualcosa che ho lasciato dietro, tanto tempo fa, e che forse, se la recuperassi, le tessere del puzzle andrebbero al loro posto. E invece non so mai niente, mentre chiunque altro sembra essere a conoscenza di cose che ignoro e che non vogliono dirmi, mentre le situazioni continuano a piovermi addosso.”

Amber finì di leccarsi le dita guantate dalle ultime briciole: “Tutto, nella vita, ci piove addosso. Non è che possiamo farci qualcosa, dobbiamo solo imparare ad affrontarlo.”

La mancanza di pietà in quelle sue parole la ferì Nat. Se l’avesse compatita si sarebbe sentita umiliata, ma non era nemmeno pronta ad ammettere che fosse solo colpa del caso, se non addirittura sua.

“E se non volessi?” – le chiese accigliata – “Perché non posso solo rifiutarmi? Tu sei una militare, lo hai scelto tu, è facile per te. Io odio ho la guerra! E detesto questi…mostri su cui siamo costretti a salire! E nonostante questo non riesco a fare niente, non riesco a sottrarmi e neanche a combinare la cosa giusta. Continuo solo a farmi trascinare dalla corrente.”

Amber sprofondò il mento nella mano, sinceramente stupefatta: “Quindi esistono persone che non sono felici di salire su una sWARd Machine?”

“E come potrebbero?!”

“Scherzi?” – Amber si raddrizzò tutta – “Una ragazza a bordo di un robot gigante! Sai quante altre vorrebbero essere al posto nostro?”

Dal suo angoletto livello pavimento, Aaron si piegò verso di loro, scuro in volto più del cielo sopra le loro teste: “Ma come fai a pensare a una roba simile? Questi esseri possono solo portare disgrazie e rovinare tutto!"

“Ahi ahi, sembra che abbiamo toccato un tasto dolente.” – Amber sollevò un sopracciglio e l’angolo destro della bocca le si incurvò in un sorrisetto interessato. Restò in attesa di una reazione da parte del ragazzo fin quando questi non si sentì tanto a disagio a restare in silenzio da preferire continuare a parlare: “Per me è così. L’avrete visti, i video dell’attacco a Venezia. Internet ne è pieno. Beh, il Meister dell’Unità azzurra è…”

Si trattenne, stringendosi una manciata di capelli nel pugno, quasi a volersi punire.

“…era mio amico. Tutto andava così bene, lui mi sembrava così…diverso. E invece sono stato solo stupido!”

“Ha ragione lui.” – disse ancora Nat – “Ogni volta che saliamo a bordo di questi affari succedono cose terribili. Sarebbe meglio se non esistessero affatto.”

Accartocciando quel che restava dell’incarto unticcio del suo panino, Amber sgrullò le spalle: “Mi spiace per voi. È un peccato che non ne vediate il lato positivo.”

“E quale sarebbe?”

La ragazza poggiò i gomiti e la schiena alla balaustra. Inalò l’odore della sera e le sue parole si raffreddarono nella brezza, uscendo più delicate del solito: “Guardate la mia: è soltanto una copia senza valore o potere speciale, e di certo quando saremo lassù io potrei anche essere sacrificata al posto vostro. Eppure, io sono contenta così. Magari non si direbbe dalle marche di alcolici che si scola mia sorella, ma noi non veniamo certo da una famiglia agiata. Per una come me salire a bordo di Irradiance è la dimostrazione che ce l’ho fatta, che ora sono gli altri ad aver bisogno di me! Aldilà di tutto, mi fa sentire utile.”

“Per me non c’è nessuno che abbia mai avuto bisogno di me, e non penso neanche di volerlo.” – Aaron si stuzzicò le unghie della mano senza uno scopo – “Mi mancano solo i miei amici. Voglio tornare a scuola e fare una vita normale.”

Amber sorrise, ma di un sorriso depurato da ogni sarcasmo: “Intendo dire che avete in mano un enorme potere. Questo mondo fa schifo, è vero, lo sappiamo tutti. Ma se chi ha la possibilità di cambiare le cose molla la presa, allora tutto precipiterà ancora di più. Non sareste meno colpevoli. È così che volete sentirvi?”

Quella provocazione li aveva ammutoliti e ci volle lo squillo del telefono di Nataša per riattivare i neuroni. Guardò lo schermo: era Miša. L’autorizzazione a rispondere le fu data da una strizzata d’occhio dell’altra ragazza, invitandola a “rispondere al suo fidanzatino.” Nat fu sul punto di contestare che non era il suo fid-oh ma che importanza aveva! Lasciò Amber a girarsi i pollici e Aaron a risprofondare nel suo mondo con un paio di auricolari nelle orecchie e si appartò in un angolo del terrazzo.

“Ehi.” – era tutto il giorno che attendeva quella telefonata.

“Ehi!” – le fece eco Miša, la voce un po’ distante e attutita da rumori di fondo – “Come stai?”

“Secondo te?”

“Già. Domanda stupida.” – sembrava più rilassato di lei, ma sapeva che non era così – “Hai chiamato a casa?”

“No.” – tirò su col naso e non solo per il freddo – “Non voglio che suoni come l’ultima telefonata, tipo. Spero di non pentirmene. Te, invece?”

“Solo mamma, stamattina. Con mio padre sai che non parlo da un po’, non credo che abbia molto valore cercarlo solo ora.”

Lei non avrebbe potuto dire di essere d’accordo con quella visione, ma d’altronde come avrebbe potuto giudicare le necessità di un altro essere umano in un momento come quello? Sorvolò i tetti della città con lo sguardo, in cerca dell’oceano e dell’aeroporto. Da lì era solo un tappeto di fiochi lumicini nelle finestre e nelle vetrine dei negozi che, anche in condizioni normali, sarebbero rimaste accese per tutta la notte.

“Non riesco neanche a vedere dove sei. Non è giusto.”

“Ci vedremo tra poco, non ti conviene avere troppa fretta!” – azzardò una risata, ma gli uscì scalcinata e sibillina; tornò serio – “Affronteremo anche questa cosa insieme, come abbiamo fatto dall’inizio. Pensa solo a questo.”

“Lo so. Grazie, per essere sempre stato l’amico che sei. Anche ora.”

Non ebbe bisogno di occhi per sapere che le sorrideva e che doveva aver alzato la testa verso il suo stesso panorama: “Guarda questa città…quanto è silenziosa e buia, adesso! Scommetto che non lo è mai stata così tanto.”

“Già.” – ora anche lei stava sorridendo di rimando, a isolati interi di distanza – “Mi sarebbe piaciuto visitarla da turista, con tutta la gente.”

“Ehi, Da-Russia-Con-Amore!” – di nuovo Amber, dall’altro lato del terrazzo – “Ok un po’ d’intimità, ma non tagliateci fuori del tutto!”

Accettando senza troppe remore la proposta, Nataša si riavvicinò agli altri e avvertì Miša che lo avrebbe messo in vivavoce.

“Uhm…ciao.” – la voce del ragazzo uscì dal telefono, ora tenuto in mezzo al gruppetto.

Profondamente soddisfatta del risultato ottenuto, Amber li esortò con un: “Beh, avanti, continuate pure.”

La conversazione non poteva dirsi facilitata con quelle premesse e sul momento nessuno dei due riuscì a mettere in fila due sillabe sensate, ma alla fine qualcosa si smosse. Nataša non era meno preoccupata, ma sapere che ora erano tutti lì, insieme, su quel tetto, nello stesso momento, a condividere paure e speranze che nessun altro sulla faccia della Terra avrebbe potuto comprendere, le diede l’impressione che non fossero del tutto sconosciuti tra loro. Chissà quante cose non sapeva di quelle persone, chissà quanti dossi e fossati dovevano aver scavalcato nella loro vita e tutti li avevano condotti in quel metro quadrato di cemento sotto le loro scarpe.

“Lo so che sembra stupido da dire adesso, ma mi sembra di essere in fila per un esame all’università.” – lo disse pacatamente, con la stessa passiva leggerezza con cui si riemerge dopo aver vomitato – “Stanotte potremmo anche morire. Però, per qualche motivo…non provo più paura, adesso.”

“Hai ragione.” – Aaron si tirò su, lasciando da parte cuffie e telefono – “Comunque vada, almeno sarà finita.”

Amber piegò la testa di lato, riflettendoci su: “Che pensiero drastico!”

“Certo che” – aggiunse anche Miša – “se avessi saputo di dover morire così presto mi sarei comprato una casa tutta mia. Avrei chiesto un bel mutuo, per non doverlo neanche finire di pagare.”

Qualcosa che si classificava leggermente sotto la risata venne dalle loro bocche. Ma poi…

“Com’è strano.”

L’aggiunta di una quarta voce causò a tutti una piccola sincope.

“Chi è?!” – chiese Miša, che non poteva vedere niente.

“Oh, era solo la nostra piccola E.T. dai capelli azzurri.” – Amber non provò nemmeno a nascondere la diffidenza con cui la trattava – “Ogni tanto le si scioglie la lingua.”

Ma Na-El non sembrò curarsi minimamente di lei, continuando a parlare con l’occhio vitreo rivolto al pavimento: “Com’è strano. In momenti come questi, quando sentono approssimarsi la loro morte, gli umani iniziano a rincorrere i pensieri più bizzarri e a domandarsi cos’altro avrebbero potuto fare prima.”

“Beh, ecco, penso sia normale fare un bilancio della propria vita, no?” – replicò la voce di Miša – “Per sapere se si sta lasciando questo mondo con dei rimpianti.”

“Se voi umani spendeste meno tempo a preoccuparvi di ciò che avrebbe potuto essere, e vi concentraste di più su cosa potreste ancora fare, la vostra percezione della vita sarebbe più lunga.”

Non c’era mai intonazione in nessuna delle parole che uscivano dalle labbra di quella Siren e nonostante tutto sembravano essere sempre velate di compassione.

Amber incrociò le braccia: “Ma senti tu che lezioncina!”

“Umani…” – la voce di Miša tremò incerta, dall’altro capo della cornetta – “…quasi mi scordavo. Questa storia che lei…stiamo davvero parlando a un’extraterrestre? È una cosa, tipo…wow!”

Na-El ruotò la testa nella loro direzione e ancora una volta sembrò che potesse vederli attraverso con quell’iride vitrea: “Ti stupisci perché parlo, o perché assomiglio ad una di voi? Conosco la rappresentazione che voi terrestri avete delle forme di vita fuori dal vostro pianeta. Vi stupireste nel vedere quanto siete lontani dalla realtà.”

Poi sollevò la testa al cielo: un viso nero cosparso di lentiggini luminose, con un solo occhio aperto, bianco e lattescente, e sopracciglia di nuvole. Stava pensando alla sua casa tra le Stelle, che le tingeva il viso di nostalgia?

“Questo nostro Universo è così vasto, così pieno di meraviglie…eppure tutte le forme di vita che lo abitano, dalla più elementare alla più evoluta, condividono la stessa sorte. La morte biologica, l’istinto a voler proseguire la propria esistenza, il nostro ruolo nel mondo…tutto l’Universo si pone le vostre stesse domande. Perciò, quando vi sentite soli, guardate il cielo, respirate, e pensate che, per quanto siano incommensurabili le distanze che vi separano dagli altri…voi non siete soli. E siete compresi.”

Il silenzio scese su di loro e per qualche secondo nient’altro fu udibile, se non la melodia che, a mala pena, usciva dagli auricolari a terra di Aaron. Traccia 23: Stand By Me.

Ci sarebbe stato così tanto altro da dirsi, così tante cose da confessare. Avrebbero voluto avere il tempo di ripercorrere tutti i ricordi migliori della loro esistenza, sceglierli a uno a uno per essere sicuri che – semmai fosse esistita una vita dopo la morte – non sarebbero stati lasciati indietro. E invece, fingere che il mondo scomparisse, come se già non vi appartenessero più o addirittura non vi fossero mai appartenuti, sembrò loro il modo più semplice per lasciare che ciò che ancora doveva accadere potesse profilarsi all’orizzonte senza rimorsi.

Poi, una minuscola macchia nera divenne visibile contro la sagoma della luna immacolata.

La sveglia del telefono di Amber suonò. Mezzanotte e un quarto.

“È ora.”

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Capitolo 12
*** Capitolo 24: Ultimatum alla Luna ***


24.

Ultimatum alla Luna

 

Golgotha.

 

“Venti minuti all’arrivo dell’Arma Finale. Sorpassata l’Esosfera. Schieramenti nemici in vista!”

C’era fermento nella Sala della Guerra della base lunare, tappezzata di megaschermi e arazzi nazisti. Sulla piattaforma sopraelevata al centro della sala, torreggiando sugli addetti alle comunicazioni radio e ai fisici della guerra spaziale, Erwin Albrecht attendeva l’istante in cui dichiarare la fine della Terra, a mani giunte dietro la schiena: “Comunicate all’equipaggio di iniziare la decelerazione e controllo inerziale. Prepararsi a-”

‘ACHTUNG’ rossi riempirono la Sala, sotto il suono di una sirena d’allarme.

“Che succede?”

“Codice 99! Violazione d’area di primo tipo!”

“Un intruso?!”

Alcuni degli schermi di controllo spostarono la visuale dal pianeta blu al suolo lunare e lo sgomento si impossessò dei soldati di Golgotha: in mezzo a nuvole di polvere, si stagliava una sagoma umanoide gigante, chiara e lucente contro il nero dello Spazio.

“Una Machine, qui?!” – l’androide Zwei Stein, in piedi tra il suo team di ingegneri, si raddrizzò i baffi sintetici per paura che potessero cadergli davanti a quella scena – “Che usi una Traccia VRIL basata sulla fotoscomposizione?”

“Devono averci identificato dopo che il cratere del Nidhoggr è stato scoperchiato. Eppure, le avevo esposto i miei dubbi sulla posizione del cantiere.” – lo redarguì Albrecht e il cyborg dovette tacere sull’inefficienza delle sue previsioni di casualità; poi si rivolse alla squadra comunicazioni: “Questa seccatura non può ritardare i piani del Reich. Dite allo Schwarz Ritter che se ne occupi lui.”

 

*   *   *

 

Mare Serenitatis.

 

Zeitland Dietrich sedeva sulla brandina di metallo, in compagnia degli altri due soldati con cui aveva condiviso i tre giorni di quasi ininterrotta veglia dall’avamposto sotterraneo sul Lato Chiaro. La loro paziente attesa di novità dal fronte era stata turbata già da un paio di minuti, dopo che poco rassicuranti tremori avevano fatto vibrare il soffitto e oscillare la lampada al neon che forniva loro una magra illuminazione. Stava iniziando a domandarsi di cosa potesse trattarsi, quando il telefono incassato nella parete squillò, facendolo scattare in piedi.

“Qui Dietrich.” – quello che gli venne annunciato dall’altra parte non gli piacque affatto – “Cosa?!”

 

*   *   *

 

Il gigante si rialzò lentamente, tra la polvere che ancora si levava dalla rottura nel terreno sotto il suo ginocchio, come se vi fosse atterrato da una grande altezza. Un’armatura bianca e lucente adorna di corte frange mobili e intarsiata d’oro sugli spallacci, fiancali, schinieri e calzature; un piccolo scudo circolare d’oro era agganciato al braccio sinistro. Nel silenzio spaziale, le sottili iridi rosse si accesero sotto l’elmo e il riflesso di un Sole distante fece brillare l’Oreikhalkos blu incastonato nella mezzaluna di platino sulla sua fronte.

Si guardò intorno in mezzo ai resti distrutti del cantiere del Nidhoggr, in cerca di un’apertura o un condotto che non fosse ostruito dalle macerie, ma la sua esplorazione trovò fine quando una sezione quadrata di terreno non molto distante rientrò nel sottosuolo e una piana elevatrice portò in superfice un’altra Machine inginocchiata e armata di un enorme scudo rosso.

“E così i terrestri ha deciso di spingersi fin qui?” – disse Zeitland, notando la bandiera della Corea del Sud dipinta sulla spalla destra del nemico senza nome – “Il costo di quest’ultimo affronto ricadrà sui vostri figli.”

Avvertimenti e tentativi di mediazione, che sarebbero stati in ogni caso superflui, furono saltati a piè pari: Fraener scattò in avanti, materializzando la spada dall’elsa a due mani, ma incontrò il filo di una scimitarra d’argento prodotta dal suo avversario. Si allontanarono l’uno dall’altro, prendendo lo slancio per riavvicinarsi ancora, molte volte, lanciando lingue di energia dalle lame. Facendo forza sulle gambe, Fraener caricò un affondo, parato dallo scudo della Machine bianca, e per inerzia finì per inarcarsi del tutto, staccandosi da terra. Saltò, si capovolse, e atterrò ancora sullo scudo con entrambi i piedi; i tacchi acuminati dell’Unità coreana affondarono nel terreno. Ancora una volta, Fraener si rispinse all’indietro, riatterrò e saltò ancora, preparandosi a un nuovo colpo in caduta libera. Il suo nemico fece appena in tempo a scansarsi, mente la punta della spada andò a conficcarsi nel terreno, con un’onda d’urto tanto irruenta da gonfiarlo e fratturarlo in una caterva di cubi di regolite lunare. Tra i detriti ancora sospesi nella gravità ridotta, l’occhio della Machine nazista era un diamante blu che splendeva di una luce senza pietà. Risalì rapido oltre i blocchi di pietra, librandosi in aria. La Machine sconosciuta aprì i palmi delle mani e cinque fili di luce dorata, come righe di un pentagramma, fuoriuscirono da essi, avvolgendosi intorno a due macigni ancora sospesi e, torcendo il corpo sotto l’immane sforzo, glieli scaraventò contro. Fraener riuscì a deviare il primo con un calcio, ma il secondo lo colse impreparato, schiantandolo a terra con veemenza. Approfittando del ribaltamento degli eventi, la Machine bianca passò all’attacco: tracciò netti tagli di luce nel vuoto che avrebbero dovuto essere intangibili, ma che un ultimo gesto della spada fece allontanare verso il bersaglio; Fraener si coprì con lo scudo, uscendone inciso di solchi incandescenti. Lo abbassò quel tanto sufficiente da accorgersi che il suo nemico aveva ora indirizzato il braccio sinistro verso di lui e il piccolo scudo circolare andava aprendosi in un intrico di piastre e meccanismi, snodandosi e trasformandolo in due bracci flettenti uniti insieme da un filo di luce: un arco. Formò un angolo retto con l’indice e il pollice sinistro, tese indietro la corda con la mano destra e una freccia di VRIL prese forma dal nulla, surriscaldandosi fino a emettere un chiarore lattescente; la scoccò e il dardo attraversò in un soffio la piana bianca.

I riflessi di Zeitland Dietrich, amplificati dalla forza sovrumana dell’Unità, gli permisero di schivare di striscio la freccia, che si perse molto al didietro di lui. Un lampo cruciforme anticipò l’esplosione a cupola che avrebbe scavato l’ennesimo cratere. Fraener si avvitò in aria, oltrepassando il nemico e riatterrando pesantemente a un paio di centinaia di metri. Si voltò indietro e protese il braccio destro, agglomerando una sfera di VRIL rosso al centro della mano, che degenerò in un raggio di energia. Il gigante senza nome, che ora correva verso di lui, si staccò dal suolo e inarcò il corpo con una destrezza ed eleganza che Zeitland non avrebbe creduto possibili, lasciando che il raggio gli scorresse al di sotto, sfregiando la Luna con un solco chilometrico.

Dietrich ansimava, con tutto il corpo a ricordargli quanto faticoso fosse sincronizzarsi con quell’essere. Era troppo stanco, troppo sovraeccitato: se il suo nemico era provato almeno la metà di quanto lo era lui, allora lo nascondeva bene. Lo vide preparare nuovamente l’arco di energia e scoccare una freccia: si preparò mentalmente a riceverla, ma il contatto non avvenne. Al contrario, la freccia svanì a pochi centimetri dalla faccia di Fraener. Ebbe a mala pena il tempo di chiedersi cosa fosse successo, che un varco iridescente si aprì alle spalle della Machine bianca, riversando contro di lui una pioggia di frecce di VRIL. Le punte trapassarono l’armatura di Fraener da parte a parte come aghi su un pezzo di carne morta, l’impeto fu tale da inchiodarlo al suolo. Le frecce si smaterializzarono in polvere di luce, lasciando solo una miriade di fori lungo tutto il corpo dell’Unità, spillanti fiotti di sangue.

Petali rossi si formarono nella gravità ridotta.

Zeitland urlò, sentendo fascicolare ogni muscolo del suo corpo, cosparso di punti rossi dove i recettori del dolore venivano traumatizzati dal sistema di interfaccia dualistico. Lentamente, la Machine intrusa prese la mira per un’ultima volta: stava puntando al torace, alla Camera di Flamel. Poteva già dirsi un miracolo (della peggior specie) che il pilota nazista fosse sopravvissuto all’attacco precedente, quindi adesso avrebbe dovuto assicurarsi di finire il lavoro. Incoccò una terza freccia e fu quasi per rilasciare la corda, quando una schermaglia di spade sopraggiunse come una scarica di proiettili, piantandosi ai suoi piedi. Si voltò alla sua sinistra e scorse un altro gigante, in armatura azzurra interrotta solo da una sutura di ferro scuro all’altezza della spalla sinistra, emergere da un condotto sotterraneo in prossimità del cantiere distrutto.

 

I sensi stavano rapidamente abbandonando Zeitland Dietrich. La vista si appannava e i sistemi di guida di Fraener sembravano fiammelle tremule, indeboliti dalla sua coscienza che andava perdendosi. Hydraggsjl e il suo nemico erano ridotti a ombre colorate, che danzavano confusamente davanti ai suoi occhi.

Sto per essere sconfitto di nuovo? Dopo tutto gli sforzi, non sono ancora degno di pilotare Fraener?

Il suo cervello ripescava ricordi visivi e sensoriali del suo primo scontro, sulle rive del lago Baksheevo: il dolore di un braccio strappato, l’umiliazione di sentirsi inerme, sopraffatto, dalla sua nemica, da una donna. Il sangue trovò la forza per ribollirgli nelle vene, il desiderio di rivalsa si unì e superò quello di sopravvivenza.

No! Io ho una missione!

Le sue pupille combattevano strenuamente per mettere a fuoco il profilo della Terra, oltre l’orizzonte lunare. Allungò una mano, quasi volesse afferrarla, e il proiettore della sua mente inserì diapositive di ricordi da un tempo che non riusciva a definire. Pellicole logore che scorrevano sui piatti di una moviola immaginaria, tra la pioggia d’autunno che cadeva sul suo viso nel grigiore di palazzi di una città di cui non conosceva il nome, il profumo della nebbia che si levava da foreste sconfinate e gli occhi azzurri di una ragazza dai capelli porporini – la pilota della Machine nera – in un assolato campo di granturco e poi sempre lei e la sua schiena nuda in una notte stellata. Immaginò di poter chiudere in un pugno la Terra, di poter chiudere in un pugno quelle immagini, e pensò: Io voglio…tornare su quel pianeta!

 

Fu una forza primordiale quella che gli sbarrò gli occhi e mutò le sue iridi in qualcosa di più animalesco, più alieno. Il gigante rosso si levò a sedere e poi a carponi. Artigliò la terra e si erse a fatica sulle braccia e gambe sanguinanti. Gli schermi della Flamb-er si tinsero di rosso e rune indecifrabili.

“Non perderò ancora contro un altro Meister!”

La placca rossa sulla mascella inferiore di Fraener si schiuse, forzandone la morsa e scoprendo una sfilza di zanne acuminate che facevano da letto a una lingua biforcuta. Il Drago dei Nibelunghi gettò la testa all’indietro, ingrossò la gola e ruggì di un ruggito non di questo mondo. Così forte, così antico, da rendersi udibile anche in assenza d’aria, richiamando l’attenzione degIi altri due piloti. Incurvò il torso, estroflettendo le code bioniche dalla spina dorsale, e le piantò nel terreno. Un cerchio alchemico rosso si allargò sotto i piedi delle Machine, la crosta lunare esplose, e le code di Fraener fuoriuscirono triplicate. Hydraggsjl rotolò su un fianco, per evitare di essere travolto, e l’Unità bianca si schivò e mozzò code metalliche finché una più rapida delle altre non gli strappò la spada di mano.

 

“Il tasso di sincronizzazione con la Machine è triplicato! Oscillazioni quantiche nella struttura dell’Oreikhalkos!” – esclamarono gli ingegneri del Reich nella Sala della Guerra, dall’altro capo del pianeta. Diagrammi di distorsione spazio-temporale segnavano deboli influenze provenire dalla sWARd Machine.

“Che sta succedendo, Herr Doktor?” – chiese Albrecht.

I simulatori emotivi di Zwei Stein non erano abbastanza progrediti da poter riprodurre un’espressione facciale che potesse esprimere a pieno il misto di estasi, stupore e paura che quella nuova mutazione gli causava, e finirono per incastrargli i muscoli sintetici in una smorfia accartocciata: “Il livello di Libido è salito oltre il tasso di stabilità! Sta riscrivendo il codice binario del Limitatore di Oreikhalkos, per portarlo a un nuovo stadio evolutivo! Zweite Phase! Dunque, Fraener non era il Deva del fuoco? Questa Traccia…che sia…?”

 

Fraener correva, gli artigli sfoderati e le fauci spalancate schiumanti saliva: se qualche parvenza di umanità era mai stata infusa in quell’essere, ora era stata spazzata via. Un altro grido, fuso a quello del suo pilota, fece accadere l’impossibile: uno spostamento d’aria che non c’era, una curvatura nel tessuto stesso dello Spazio, una bolla di nulla che dal centro del suo corpo si espanse tutt’intorno, senza confini, fino al punto che dire se fosse limitata al campo di battaglia o all’interno Universo sarebbe stato impossibile. Polvere e detriti si fermarono prima di cadere al suolo, Hydraggsjl e l’Unità della Corea restarono congelati nell’attimo in cui vennero colti, i contorni delle loro figure sfocati. Il mondo si fermò in un’istantanea rubata.

Solo Fraener, preda di una frenesia che non ammetteva raziocinio, raggiunse il suo nemico, afferrandolo per la gola e sollevandolo da terra. La bolla di Tempo si riassorbì all’interno del suo palmo e ogni cosa ripartì: i detriti ricaddero a terra, il cuore di Màrino Alto tornò a battere e il peso della Machine afferrata per il collo si fece sentire lungo il braccio di Fraener prima e di Dietrich poi. Uno ghigno trionfante si dipinse sulla bocca del Cavaliere Nero, alla vista del rivestimento della trachea nemica che scricchiolava sotto le sue dita. Nella mano sinistra preparò un nuovo globulo di VRIL scarlatto – una tonalità di nero aveva iniziato a tingerlo – pronto a vaporizzarlo. Ma quando fu sul punto di mirare alla testa, la Machine bianca si slacciò: fibre e atomi si scomposero in pentagrammi di luce dorata e tutto il corpo, dalla testa ai piedi, si smaterializzò davanti agli occhi suoi e degli increduli soldati alla base. Con velocità appena inferiore a quella dei fotoni di cui sembravano essere composti, i fili di luce si retrassero in direzione della Terra, scomparendo alla vista.

 

Il furore abbandonò gli occhi di Zeitland e l’umanità gli rifluì in corpo. Anche Fraener si abbandonò a terra, sorreggendosi tremante su una delle spade abbandonate da Hydraggsjil.

“Ce l’ho fatta.” – questo fu l’unico pensiero ad attraversare la mente esausta dell’Oberstleutenant Dietrich, prima di perdere del tutto coscienza – “Posso ancora sperare…di tornare…sulla T-”

Fu il buio.

 

*   *   *

 

Golgotha.

 

La Siren Al’ya si accasciò sul pavimento di marmo della camera privata del Mond Kaiser, trapassata da una fitta allo sterno che le tolse il respiro.

“È accaduto.” – boccheggiò – “Il Deva Fraener…”

Il Kaiser, privo della sua maschera, le si avvicinò e scoprì i denti: “Lo hai avvertito, non è così? Il vero potere di una Divinità!”

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

Bastò uno squillo perché il Capitano McCoy afferrasse il telefono incassato sul tavolo del ponte di comando dell’Eleanor Rigby.

“Si?” – ascoltò ciò che il tizio dall’altra parte della cornetta aveva da dirle e finì con l’accigliarsi più di quanto già non fosse – “Ho capito. Grazie comunque.”

Riagganciò.

“Novità?” – chiese Rajesh.

“Il piano dei Coreani è fallito. La Nang si è ritirata.”

“Capitano, il nemico è a meno di tre chilometri da noi!” – l’avvisò la caposquadra dell’ISS, visibilmente in ansia – “Che cosa facciamo?”

Non era necessaria telepatia o capacità divinatorie, per attendersi ragionevolmente che i pensieri di Andrea McCoy e dell’Oberst-Gruppenführer Albrecht potessero essere i medesimi, quando dichiararono: “Cominciare l’attacco.”

 

*   *   *

 

Stratosfera terrestre.

 

Lenti rosse si aprirono su tutti i satelliti anti-meteorite in orbita, sparando laser in linea retta verso l’abominio meccanico del Reich, incidendo tatuaggi di guerra incandescenti sulla sua corazza mentre continuava ad avanzare. La prima decina di satelliti aprì i container laterali, espellendo una pioggia di missili in tutte le direzioni, ma torrette mitragliatrici manovrate dall’interno si sollevarono dalla parte circolare del corpo del Nidhoggr, abbattendone metà prima che potessero toccarlo. Quelli che riuscirono ad andare assegno non arrecarono danni visibili.

 

Annette Martin e il suo equipaggio osservavano impotenti dall’ISS la marcia inarrestabile: “Le armi non sortiscono alcun effetto! L’obiettivo non accenna a rallentare!”

“Continuate a insistere.” – era l’unica soluzione proposta dalla Terra – “Dobbiamo guadagnare tempo per gli EOBM.”

 

I satelliti della Space X scaricavano granate deframmentanti a ruota libera: esplosivi che avrebbero dovuto ridurre in briciole interi meteoriti non erano più efficaci di una manciata di bombe a mano contro una montagna. I quattro artiglieri del Nidhoggr risposero al fuoco con proiettili all’uranio impoverito, riuscendo a far fuori metà dei satelliti.

 

“La prima linea di difesa è stata sfondata!” – esclamarono sul ponte dell’Eleanor.

“Passare ai droni a ricerca automatica!”

 

Due moduli a silo ai lati della Stazione Spaziale Internazionale spalancarono i boccaporti e uno sciame di trenta droni bianchi quadrimotore, grandi come elicotteri militari, si disperse tutto intorno e superò la muraglia di satelliti ancora attivi. Cinque caddero in volo quasi immediatamente, ma i superstiti raggiunsero l’obiettivo, ronzando e sfrecciando a gruppi di dieci in anelli e catene suggeriti dall’intelligenza artificiale che li comandava come un’unica mente. Chiunque li avesse progettati doveva aver ritenuto che i mitragliatori dei quali erano provvisti sarebbero stati sufficienti a polverizzare i residui di meteorite deframmentati, ma le migliaia di strati di corazza del Nidhoggr erano un’eventualità non considerata e con contro cui ora i droni andavano scontrandosi piuttosto letteralmente, come moscerini su un parabrezza che continuava, imperterrito, ad avanzare senza sosta. A nulla servì nemmeno che i satelliti restanti si schierassero a scudo della Stazione Spaziale, su cui l’ombra colossale ormai incombeva, prima di finire travolti.

La speranza abbandonò gli animi dell’equipaggio dell’ISS, spingendo alcuni di loro a gettarsi verso le capsule di salvataggio e riducendo gli altri in lacrime. Annette Martin poté solo restare paralizzata, inerme, davanti alla finestra oltre la quale nemmeno le stelle erano più visibili, oscurate da una Svastica incisa nel metallo.

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

Gli indicatori dei droni e satelliti sulla mappa dell’Eleanor Rigby si spegnevano una dopo l’altro, sostituiti da X rosse.

“Caduta anche la seconda linea! L’ISS è rimasta scoperta!”

“Obiettivo in rotta di collisione!

“ISS, abortire missione!” – fu la sua parte irrazionale a spingere Andrea McCoy a gridare l’ennesimo ordine, ignorando quella razionale che sapeva già quanto fosse fiato sprecato – “Abbandonate la Sta-!”

“Non si ferma! Il nemico non rallenta!” – il grido disperato di Annette Martin gelò il sangue nelle vene di tutti, le sue urla distorte dalle interferenze radio – “Oh Dieu! Oh mon Dieu, il vient sur nous! Aide! A-aaaaaaaah![1]

Urla e strepiti del resto dell’equipaggio, rumori metallici e di vetri infranti si sovrapposero a quelle della donna, prima di essere troncati da un crepitio di staticità. Una muta X rossa prese il posto dell’ISS sullo schermo principale, sotto gli occhi sgomenti di tutti.

“Perso il contatto con la Stazione! L’obiettivo è quasi nella Mesosfera!”

L’istinto di sopravvivenza del Capitano McCoy riuscì ancora ad impedirle di perdere il senno, stringendo salde le redini del comando: “Quanto manca agli EOBM?!”

“Venti secondi all’impatto della Prima Ondata!”

 

*   *   *

 

Spazio.

 

La canna del cannone gravitonico, poi la piccola testa e infine il torso scheletrico e ricurvo del Nidhoggr emersero tra rottami in fiamme e brandelli di corpi umani, avanzando tra gli stracci di fumo e scintille che morivano in fretta nel vuoto spaziale. Davanti ad esso, contro la sfera blu notte della Terra, i primi cinquantuno Missili Balistici Extra-Orbitali delle Nazioni Unite erano in arrivo, seguiti da interminabili scie di fumo denso, formando un semicerchio intorno al loro bersaglio.

Il Leviatano lunare sollevò la testa e, in mezzo agli altri quattro sensori ottici, una quinta lente rossa si accese al centro della faccia. Un laser si allungò nel buio e, come un compasso mortale, tracciò un rapido anello intorno a sé. I missili rallentarono fin quasi a fermarsi. Cinquantuno sorde esplosioni sferiche presero il loro posto.

Poche decine di chilometri più indietro, altre trentatré testate nucleari si profilavano sulla linea di curvatura della Terra: non sarebbero arrivate prima di altri cinque minuti abbondanti.

La lente sulla fronte del Nidhoggr rilucette ancora una volta e il raggio si estese a perdita d’occhio, spazzando l’orizzonte da Ovest ad Est. Sfere di fuoco biancheggiarono in lontananza.

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

“Terza e quarta linea di difesa sfondate! Tutti i Missili sono stati neutralizzati!”

“Le armi più potenti del pianeta…spazzate via così?” – sudore scorse lungo il collo Rajesh Khurana e le dita si fecero fredde. Nemmeno Ekaterina poté nascondere ulteriormente il sacro timore che le strisciava in corpo: “Ci troviamo davanti a un demonio che ha la forma di una Machine.”

I commenti si affollavano sul ponte di comando e rimbombavano nel cervello sovraccarico di stress del Capitano McCoy e che iniziava a rendersi conto che nient’altro sulla faccia della Terra avrebbe mai potuto chiudere in loro favore quella battaglia. A parte forse…

“Ormai possiamo affidarci soltanto a loro.”

 

[1] Dal Francese; lett. “Oh Dio! Oh mio Dio, ci viene addosso! Aiuto!”

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Capitolo 13
*** Capitolo 25: Le Stelle ***


25.

Le Stelle

 

Gli archi elettrici che danzavano all’interno del pennacchio di scarico dei motori spaziali lasciarono il posto ad anelli e fiamme coniche bluastre, al culmine della fase di riscaldamento.

Un vento rovente di combustili criogenici agitava fronde di alberi e carta straccia abbandonata per le vie adiacenti le piattaforme di decollo delle tre Machine. Agganciato con un’inclinazione di settantacinque gradi alla rampa di lancio nella zona aeroportuale, il Raròg condivideva la loro attesa.

In mezzo alle voci dei tecnici che scandivano le operazioni preparatorie per il decollo si aggiunse quella del Capitano McCoy: “Il nemico ha superato ogni altra contromisura. Arrivati a questo punto passa tutto nelle vostre mani.”

Nataša ed Aaron, ai quali la nudità dell’abitacolo garantiva almeno il dono della scioltezza, erano calati nel muto raccoglimento che avrebbe dovuto dare loro la lucidità necessaria ad accendere mentalmente i propulsori delle loro Unità.

“Attenetevi al piano che abbiamo elaborato. Noi cercheremo di offrirvi tutto il supporto di cui siamo capaci.”

Miša, costretto a testa in giù dalla posizione, saggiò la vivacità dei motori dando carburante un paio di volte.

Amber McCoy, semi-sdraiata sul sedile munito solo di quattro leve e una di una serie di menù virtuali lungo le pareti-schermo della Synchro Chamber, finì di calcarsi in testa il casco dall’ampia visiera, che notò con piacere essere migliore e più leggero rispetto quello del suo primo test. Tubi gommosi di un arancione fosforescente le collegavano polsi, caviglie e collo al retro dell’abitacolo.

“Soldato McCoy. Amber.” – la finestra di dialogo le si aprì in un angolo del casco – “Conto su di te per condurre l’operazione in campo.”

“Sissignora.” – rispose senza il minimo segno di inquietudine e sul suo casco si accese a caratteri luminosi la parola - ONLINE -.

“Che Dio vi protegga. Grazie!”

Le gru e gli altri veicoli militari circostanti si fecero da parte.

“Settimo battaglione delle Nazioni Unite, Divisione Mezzi Speciali: lift-off!”

E decollarono all’unisono.

Tre colonne di fumo e fiamme, che dalla città svuotata si innalzavano nel cielo notturno sotto un cupo rombo di motori.

Gli occhi vacui di Na-El, sul tetto dell’albergo in Union Square, sembrarono poterli seguire davvero, e, con lei, anche tutto il mondo rimase a guardare.

 

Nel bunker sotto casa Novikov, madre e figlio erano stretti sul divano con gli occhi fissi sul teleproiettore, rivolgendo ogni loro pensiero alla ragazza che si nascondeva all’interno del gigante nero e che ora stava per toccare le nuvole. Edvard Novikov, dietro la parete della stanza in cui la paura, il rimorso e il senso di impotenza lo avevano costretto fin dal suo rientro a casa, volse gli occhi a un cielo nascosto dal soffitto e, serrando i pugni, lanciò la sua provocazione finale a quel Dio a cui tutti riservavano una supplica al momento del bisogno: Io non mi sono mai in ginocchiato per te. Ma se davvero esisti, questo è il momento buono per dimostrarlo!

 

Il mondo scorreva e si rimpiccioliva rapido oltre gli abitacoli degli ultimi alfieri della Terra, in un’ascesa turbolenta e inesorabile che comprimeva i corpi dei loro piloti sotto il peso di macigni invisibili. Su, sempre più in alto, finché i contorni della città divennero quelli della California e poi dell’America stessa e le nuvole divennero solo un tappeto lontanissimo.

I motori si arrestarono di colpo, senza bisogno di comandi.

“Altitudine raggiunta.” – annunciò Amber – “Passaggio a sistemi di movimento newtoniano. Procedere al jettison dei componenti extra.”

Le viti e le giunture che legavano i Solid Rocket Booster alle Unità si separarono automaticamente, e getti di idrogeno li espulsero del tutto. Solo due fasci di propulsori rimasero agganciati ai fianchi di Irriadiance e le estensioni protesiche delle ali e delle code del Raròg.

Per un momento, ci fu solo pace. Una pace mortale, sospesa tra i resti distrutti di apparecchi spaziali.

“Siamo davvero…” – balbettò Aaron – “…nello Spazio?”

Se qualcuno gli avesse chiesto, anche soli pochi mesi prima, dove si sarebbe visto tra cinquant’anni, l’orbita terrestre non sarebbe stata nemmeno considerata.

“Però dov’è il nemico?” – chiese Miša, frugando con lo sguardo in mezzo alla prateria di detriti, ma la risposta non tardò ad arrivare.

A circa un chilometro e mezzo più a Ovest di loro, l’ammasso accartocciato di pannelli solari e parabole che avrebbe dovuto costituire il settore destro dell’ISS si disgregò, scoprendo il Nidhoggr dalla sua tana.

Accortasene, Amber lanciò un “Attenti!” e – troppo di fretta per indossare i guanti di velluto – scalciò via Bragjantyr con forza, evitandogli di finire liquefatto da un laser entrante.

“Eccolo lì! Assumete le posizioni stabilite!” – ordinò la ragazza al resto della squadra, che, secondo il piano ripassato mentalmente fino alla nausea nelle ultime ore, si disperdeva in quattro direzioni opposte – “Unità Nera, tu e io occupiamoci dell’attacco a distanza! Unità Bianca e Unità Rossa, puntate ad abbattere le armi del nemico!”

Le giunse la risposta affermativa di entrambi i piloti russi, ma soltanto la loro.

“Alford, hai capito?! Alford!”

 

Ancora sotto l’effetto della spinta ricevuta, Bragjantyr capriolava a peso morto come una bambola di pezza, sempre più lontano da loro, urtando lamiere spaziali. Difficile per Aaron articolare alcuna risposta sensata, nello stato di iperventilazione in cui era piombato. Il cuore gli pulsava nelle orecchie al ritmo degli impatti contro la corazza della sua Unità, otturandole dai commenti degli analisti collegati dal campo base, che blateravano esagitati di “Battito cardiaco iper-accelerato!” e “Fallimenti nel tasso di sincronizzazione provenienti dall’ippocampo!”.

È quello il nostro nemico? Qualcosa di così gigantesco? È mostruoso, spaventoso! Come mai potrei farcela? E così che morirò? Nello Spazio, a bordo di questo coso? Non ha senso, non ha il minimo senso! Non ce la faccio, non ne sono capace!

Bragjantyr si schiantò contro un rottame di satellite abbastanza grande da poterlo fermare.

 

Schivando le raffiche provenienti dai mitragliatori inferiori, il Raròg di Vasyljev sfrecciò sotto il Nidhoggr.

“Non ha aperture visibili!” – esclamò irritato mentre sei missili appena sganciati facevano esplodere una torretta. Lo superò e, con una virata a sinistra per spostarsi sull’altro fianco, rilasciò altri quattro missili verso una delle torrette posteriori, che però – con suo sommo disappunto – si retrasse all’interno del corpo principale, senza ricevere danni. Il ragazzo imprecò nel suo idioma.

Freya, portandosi oltre la testa del nemico, fece fuoco con la coppia di fucili automatici XLFN-F2049 affidatele, ma i proiettili rimbalzarono contro il suo rivestimento. Il torso della Machine gigante si incurvò e, con movimenti lenti e grotteschi, sollevò un braccio per proteggersi il cranio.

Irritata dal fatto che il collega inglese si stesse dimostrando inutile, Amber si lasciò andare a uno schiocco di lingua e diresse Irradiance attraverso il campo di detriti. Atterrò sul satellite su cui Bragjantyr giaceva e vi si ancorò snodando due rostri dai calcagni. Aaron sentì sulla sua pelle la mano meccanica di Irradiance che scuoteva energicamente la spalla della sua Unità.

“Ehi, Alford!” – quel gesto lo riportò a una parvenza di lucidità – “Che ti prende adesso?!”

“Non ce la faccio!” – si prese la testa tra le mani, vietandosi di guardare la battaglia che si stava consumava– “Non posso combattere contro un mostro simile, non posso, non po-”

“Questo non è il momento per farsi prendere dal panico!”

“Voglio tornare a casa, non voglio restare qui, non-”

“A casa non ci puoi tornare e nessuno qui ha tempo di farti da baby-sitter!” – quest’ultimo rimbrotto riuscì almeno ad ammutolire il ragazzo, costringendolo a fissare inerme Freya ed Raròg ronzare come mosche intorno alla Machine nazista, troppo impegnate a fuggire dalla raffica di proiettili per poter rispondere all’offensiva.

“Ehi.” – Amber si decise ad aprire il collegamento video, che si sovrappose all’enorme testa di Irradiance sui monitor e, facendo appello a tutte le sue forze per non mollarlo lì su due piedi, cercò di regalargli un sorriso deciso – “Adesso ascoltami. Ripensa a quello che vi ho detto prima. Se qui c’è qualcuno che può tirarci fuori da questa faccenda siete tu e quella ragazza. Quello che posso fare io, almeno, sarà starvi accanto fino alla fine! Mi hai capito?”

Lui annuì. Un po’ istericamente, ma lo fece.

“Bene. Dimostra a quel tuo amico che è lui ad aver scelto la fazione sbagliata!” – così si tolse di torno la Machine bianca con una poderosa manata sulla schiena – “E sii uomo!”

Finalmente sola sulla sua postazione tattica, Amber tornò all’unica mansione che le premeva davvero in quel momento: sganciare dal booster di destra un Super-Enhanced Sniper Rifle XLXM2050 lungo quindici metri, puntare alla testa del Nidhoggr e premere il grilletto per ben tre volte, prima di riuscire a spappolare la mano copriva l’enorme testa nemica. Ricaricò il fucile e puntò il mirino verso la faccia. Stavolta il cranio si mosse verso di lei, fissandola con quegli occhi bionici, e sparò ancora con il laser. Irradiance abbandonò la carcassa di satellite con uno scarto di solo mezzo secondo, risparmiandosi di subire la stessa liquefazione.

 

Otto aperture si scoperchiarono lungo la circonferenza del Nidhoggr, mostrando una batteria di quaranta grosse punte di trivelle nere già in funzione.

“Oh, ma scherziamo!” – esclamò Miša dopo aver compreso cosa potessero essere quegli arnesi: missili perforanti a ricerca, lanciati in simultanea in un circo di scie di fumo scuro. Rapidi s’intrecciarono intorno al fighter russo, costretto a sua volta, tra virate e avvitamenti da capogiro, a rinunciare a tutti i flare e metà dei missili disponibili per ridurne il numero. Altri inseguirono la Machine di Nataša Novikov, che nonostante gli sforzi per schivarli e abbatterli a suon di fucile automatico, non poté impedire che una trivella la colpisse in pieno volto.

“Nat!” – le gridò dietro l’amico, vedendola sbalzata via.

“Sto bene!” – gli rispose, premendosi una mano sull’occhio sinistro appena indolenzito. Il visore d’ametista di Freya si era fratturato, fumante, mettendo a nudo un occhio organico, tra strati di circuiti a piastre.

Irradiance si fece strada tra i rottami di apparecchi spaziali, sfuggendo a un’altra sequela di missili che trapanavano ogni superficie d’intralcio, e sparò in volo, ripetutamente, col fucile da cecchino. Un paio di proiettili lisciarono del tutto l’obiettivo, ma alla fine anche la torretta posteriore di sinistra fu abbattuta.

Da quella distanza, il precario gioco di pistoni idraulici, che sorreggevano il punto in cui la spina dorsale del Nidhoggr si innestava nel corpo inferiore, si mostrò evidente ad Amber: “Il tronco è più esposto del resto! Concentratevi su quello!”

Un’altra raffica di proiettili all’uranio si riversarono contro Bragjantyr, in arrivo a piena velocità dall’fondo del campo di battaglia, e ne crivellarono il grande scudo bianco. Lo mollò da parte, sfoderò una spada di luce dalla cintola e scontrandosi, più che raggiungendo, il nemico la piantò con forza sulla torretta anteriore di destra. Stupito del suo stesso risultato, Aaron realizzò che da quella posizione sarebbe bastato solo un pizzico di spavalderia in più per recidergli la spina dorsale con un taglio netto, ma un movimento del suo gigantesco braccio lo scacciò via senza sforzo. La metà umanoide del Leviatano iniziò a mulinare sul disco alla base del tronco alla stessa maniera con cui un animale fuori di sé dalla rabbia terrebbe alla larga insetti molesti.

Amber guidò Irradiance poco oltre la sommità dell’Arma Finale, ricaricando il fucile.

“Soldato McCoy, il cannone!” – le giunse l’ammonimento di sua sorella, attraverso gli auricolari – “Neutralizzalo!”

“Pensi che non lo avrei già fatto se stesse fermo un attimo?!”

Con una destrezza impensabile per una simile dimensione, la mano scheletrica del Nidhoggr afferrò al volo l’Unità arancione per la gamba destra. Amber gridò sotto le scariche di dolore che la sua tuta le trasmetteva, mentre le giunture dell’anca di Irradiance davano cenni di rottura e i propulsori all’idrogeno continuavano a spingere in senso opposto. La pilota selezionò più in fretta che poté una configurazione dal menù olografico al suo fianco: la mano destra del suo robot si retrasse dentro l’avambraccio e un paio di lame a cesoia si snodarono al suo posto. Tentò goffamente di tranciare un paio di dita che la stringevano, ma la corazza si mostrò tanto coriacea da spezzare le forbici, prontamente rimpiazzate da un’altra lama a serramanico iper-surriscaldata. Gliela piantò nel metacarpo, sprizzando scintille, ma non avrebbe mai fatto in tempo a liberarsi, se non fosse stato per la Machine della Russia, che tranciò di netto l’enorme polso con un singolo colpo di spada potenziata al VRIL.

“Sto iniziando a capire solo ora come funziona!” – ammise Nataša, anticipando qualunque possibile osservazione a quella novità.

La sua capacità di visualizzare mentalmente gli armamenti di cui aveva bisogno era decisamente messa alla prova della frenesia della battaglia. Nonostante questo, però, sentiva che un istinto innato si stiracchiava dentro di lei, guidandola. Non era come quella notte al lago e nemmeno come a Varsavia. Essere finalmente consapevole della natura e delle possibilità del VRIL che muovevano quella macchina – no, quell’essere – non la spaventava e quelle armi e quei movimenti ora non le sembravano più separati dalla sua volontà. Al contrario, per la prima volta da quando era stata costretta a salirvi a bordo, si sentiva finalmente padrona delle redini di Freya.

 

*   *   *

 

Golgotha.

 

“Abbiamo perso due artiglieri!” – comunicò l’equipaggi dell’Arma Finale.

“Poniamo fine a quest’inutile seccatura.” – disse Albrecht – “Autorizzo l’uso del Cannone Dainsleif!”

 

*   *   *

 

L’equipaggio del Nidhoggr iniziò un alacre scambio di direttive con la base lunare per dare infine vita al sogno di distruzione del Kaiser.

“Portare il Cannone in posizione di tiro! Sistemi elevatori in funzione. Abbassare di quarantadue gradi.”

“Quarantadue gradi Sud, posizionato.”

“Allineamento orizzontale: quindici gradi Est.”

L’immenso mortaio scorse tra le guide e si fermò ed estese le ultime due sezioni di canna collassabile, dritto verso la Terra.

“Quindici gradi Est, posizionato. Equilibratori bloccati.”

“Inizio accumulazione particellare fino alla soglia di iper-densità.”

Il cilindro di metallo che pochi giorni prima era stato caricato manualmente da Hydraggsjl si innestò ancora più profondità nella camera di scoppio.

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

Un sottoufficiale della Marina inglese ruotò sulla sedia girevole verso Andrea McCoy: “Capitano, il nemico ha azionato l’arma principale! Punta verso di noi!”

“Vuole bombardarci da lì?!”

“Un momento!” – si aggiunse l’addetto allo scambio di dati con gli osservatori spaziali – “Si registrano distorsioni gravitazionali crescenti! L’obiettivo è assimilabile a un pozzo di Gravità!”

La cosa suonò pessima alle orecchie del dottor Khurana: “Che hai detto? Questo significa che…”

“Hanno completato il Cannone a gravitoni prima di noi!” – la Asimov finì la sua frase.

 

*   *   *

 

Dapprima, fu il tessuto spazio-temporale davanti all’imboccatura del cannone a incresparsi. Si contorse e affondò in un cerchio scuro; si sarebbe detto un’ombra, ma senza nulla a proiettarla: un piccolo Buco Nero, non più largo di qualche metro, che distorceva le immagini circostanti come una biglia premuta su un quadro di vernice fresca.

“E ora che succede?! I comandi fanno resistenza!” – chiese Miša, tirando a sé con tutte le forze le leve irrigidite, mentre il suo aereo sembrava venire tirato per la coda da una forza invisibile e tremendamente potente.

“Aiuto!” – si aggiunse la voce Nat, sovrapposta all’immagine di Freya che annaspava nel vuoto – “C’è qualcosa che mi trascina!”

La forza di gravità sradicò il silenziatore dalla canna del fucile di Irradiance, quindi il mirino e infine le strappò di via l’intera arma, facendola accartocciare e scomparire all’interno del micro-Buco Nero. Aaron sganciò due coppie di missili dalla schiena che subirono la stessa sorte non appena raggiunto l’orizzonte dell’evento.

“È assurdo!” – ogni vite o giuntura della Synchro Chamber di Amber stava cigolando – “Che cos’è quell’arma?!”

 

“Stadio di iper-densità raggiunto.” – annunciarono ancora i manovratori del Nidhoggr – “Armonizzazione della tri-brana e soppressione del campo gravitazionale.”

Il Buco Nero si allargò, raggiungendo un diametro di poco inferiore a quello delle stesse Unità contro cui è rivolto, e mutò in una sfera rossa avvolta da nebbie di particelle elementari instabili.

“Proiettile gravitonico passato a massa-zero. Pronti a sparare al suo comando, Herr Oberst-Gruppenführer!”

E il comando di Erwin Albrecht giunse, limpido e netto come lo scoppio che preannunciava: “Fuoco.”

Il fusibile cilindrico della camera si tirò indietro e il cannone sparò il globo particellare con un poderoso rinculo – la forza invisibile che risucchiava le Machine si annullò di colpo – e in una manciata di secondi fu solo un minuscolo lume rosso, contro la vastità del continente americano.

Eleanor Rigby, via di lì!” – gridò Amber, come se davvero potessero averne il tempo, ma qualcosa di imprevisto accadde: prima di scomparire del tutto alla vista, la sfera di gravitoni virò bruscamente verso Est, allontanandosi a velocità inaudita fino a perdersi all’orizzonte.

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

“Ha cambiato direzione!” – esclamò qualcuno sul ponte dell’Ammiraglia – “La velocità di fuga supera i duecento chilometri al secondo!”

“Così veloce?!” – Andrea McCoy era incredula – “Com’è possibile?!”

“È strano, dai calcoli del computer di bordo si direbbe che il proiettile non abbia alcuna massa!”

“Ora è chiaro.” – disse la Asimov – “È un agglomerato di particelle quantistiche che sfrutta l’accelerazione del campo gravitazionale terrestre. Userà la nostra orbita come una catapulta!”

“Avevano calcolato tutto fin dall’inizio.” – ignorando la catena del comando, Khurana si prese la libertà di ordinare ai fisici militari – “Svelti, applicate le correzioni di Bohm alla traiettoria!”

Digitarono freneticamente sulle tastiere e il supercalcolatore di bordo restituì una curva sul planisfero tridimensionale che lo attraversava dal 38° al 42° parallelo, ricadendo a terra.

“Correzioni effettuate. Di questo passo il punto di Ground Zero sarà raggiunto in soli novanta secondi!”

“E quale sarebbe?!”

Ma le coordinate a schermo offrivano già la loro risposta:

 

39°54′20″N 116°23′29″E

 

*   *   *

 

La sfera di gravitoni solcò l’Oceano Atlantico, distorcendo lo Spazio al suo passaggio. Attraversò i cieli dell’America, immersi nella notte, e poi quelli d’Europa, prossimi a tingersi dei colori dell’alba. Superò le città e oltrepassò le distese mediorientali, una Cometa scarlatta che annunciava l’avvento di un Messia molto diverso. Decelerò e iniziò a perdere quota solo quando fu in corrispondenza del deserto del Gobi.

Gli abitanti di una Pechino immersa nel sole pomeridiano levarono gli occhi al cielo, attratti da una luce sanguigna che filtrava oltre le nuvole. Era una stella, una fiamma, o solo un’allucinazione collettiva quella sfera di luce rossa, che vedevano scendere su di loro, rapida e silenziosa, tra spirali di particelle? Era reale quella sensazione di alleggerimento, di assenza di peso, che li attraversava mentre ammiravano lo splendore che pioveva su di loro?

Dei sassolini si sollevarono appena qualche centimetro da terra, e così fecero le cartacce e i bicchieri di qualche fast food abbandonati sui marciapiedi. Così successe alle ruote delle auto, alle zampe dei cani a passeggio, al cibo dentro buste della spesa portate a mano, alle catenine al collo e agli infanti nei passeggini o tra le braccia di una madre che spalancò gli occhi pieni di meraviglia, nei quali si rifletteva il rosso giudizio della Storia.

Nessuno era preparato a quel momento, nessuno ebbe tempo per affidare la propria anima al cielo.

Il Crepuscolo degli Déi, rinchiuso nel suo uovo rosso, si abbatté sui tetti, lampeggiò, e una croce di luce dai bracci curvi anticipò la sua schiusa. Bastò un solo istante perché ogni cosa – cielo, edifici, persone – si torcesse e deformasse verso l’epicentro dell’esplosione e tutto ciò che era vivo non lo fu più, strappato e spezzato dall’interno, quando la sfera, infine, si espanse in tutta la sua immensità. Si aprì dal centro di Pechino e dentro lo Spazio-Tempo, gonfiandolo e scansandolo, allargandosi rapidamente e investendo ogni cosa in un diametro di quattordici chilometri. Più che bruciare, la materia si annullò, quasi evaporando, disintegrata sotto una pressione gravitazionale che spinse gli atomi fuori dai loro legami. Scomparvero le coperture in vetro dai palazzi e dopo le strutture portanti, alberi e piante si ridussero ad apparati linfatici e poi più nulla, la pelle e i muscoli abbandonarono gli uomini quasi allo stesso momento degli organi e delle ossa. Una cupola di luce abbacinante ricoprì la città e tutto ciò che la circondava, innalzandosi ad altitudini vertiginose.

Dallo Spazio, un occhio rosso pulsò in mezzo alla Cina.

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

“Scossa gravitazionale registrata al 42° parallelo!”

“Perso il contatto con la base di Pechino! Nessuna risposta dal Governo cinese!”

“HAARP-2 è stato scollegato dal circuito!”

Il ponte del Rigby piombò in un ciangottio indistinto quando decine di fotografie satellitari affollarono lo schermo principale, riproducendo tutte la stessa scena: una voragine nera, piatta e uniforme, aveva preso il posto di quella che un tempo era la capitale cinese. Un orrore che non conosceva precedenti si impossessò dei loro cuori.

Andrea McCoy sentì che le gambe stavano per cederle; avrebbe voluto mettersi a piangere, se solo l’avesse purgata da quell’angoscia che non pensava avrebbe mai sperimentato in vita su: “Mio Dio. Ma contro chi diavolo siamo scesi in guerra?”

 

*   *   *

 

Golgotha.

 

“Il test di funzionamento del Cannone è andato buon fine!” – esclamò vittorioso uno dei piloti del Nidhoggr – “Esplosione confermata, l’obiettivo è stato distrutto!”

Un tripudio scoppiò nella Sala della Guerra di Golgotha, al suono di “Heil Kaiser! Heil das Vierte Reich!”: dopo oltre un secolo, la possibilità di impossessarsi della Terra non era più solo una fantasia.

 

Quel coro invasato fece gracchiare gli interfoni della camera privata dell’Imperatore.

“Li senti, Arya?” – disse, con una smorfia in cui disprezzo e compiacimento erano presenti in pari misura – “Senti come gioiscono per lo sterminio di decine di milioni della loro specie. Come puoi anche solo provare pietà verso una razza simile?”

La donna ai suoi piedi non sorresse il suo sguardo: “Quanta altra morte hai intenzione di causare prima di essere sazio, Endymion?”

E lui pronunciò lentamente la sua sentenza: “Tutta quella che riterrò necessaria.”

 

Dalla sua postazione nel centro di controllo, Albrecht sorrise soddisfatto alla vista del risultato. Gli venne istintivo di sollevare il mento, gonfiando il torace: “Prepararsi al secondo colpo.”

 

*   *   *

 

Gli animi dei piloti in orbita vacillavano, preda delle immagini che i commenti degli ufficiali del Rigby suggerivano alla loro mente.

“Hanno davvero raso al suolo…” – mormorò Miša – “…un’intera città?”

“Non siamo riusciti nemmeno a impedire questo?” – il puro terrore aveva inghiottito Nataša.

“Io ve l’avevo detto.” – si aggiunse la voce tremante di Aaron – “Non possiamo vincere, non ce la faremo mai!”

Mentre tornava ad avanzare verso la Terra, il Leviatano reinserì il fusibile nella camera di scoppio.

“Restate lucidi!” – li richiamò il Capitano McCoy – “Dobbiamo impedirgli di scendere sulla Terra. Passiamo al piano d’emergenza!”

 

*   *   *

 

Trentotto ore prima.

 

“Che cosa facciamo se tutto il resto fallisce?” – aveva chiesto Nataša durante il briefing della missione, dopo che l’accurata presentazione delle linee di difesa da schierarsi in campo fu conclusa.

La McCoy si era scambiata un breve cenno di intesa con Miša, prima di risponderle: “C’è un’ultima possibilità.”

Sul tavolo tattile scorse il render tridimensionale di un ordigno mai visto.

“L’aereo di Vasyljev sarà equipaggiato con uno speciale missile-antenna. Lo piazzerete sul nemico prima che venga sparato il raggio EMP da terra.”

“È l’unico a disposizione.” – aveva precisato Rajesh – “Cercate di non sprecarlo.”

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

“Prepararsi a usare il Transient Wave Cannon! Nave in posizione di tiro!”

I supporti di attracco laterali si estesero dalle fiancate e afferrarono le due cacciatorpediniere adiacenti. I repulsori inferiori dell’Ammiraglia iniziarono a spingere la prua verso l’alto, aiutati dagli snodi a gomito dei supporti laterali. Il peso schiacciava le carene delle due classe-Defender, affondandone la poppa.

La prua e i rostri del Rigby si spalancarono come un’unica bocca, mostrando le turbine e le antenne di trasmissione. Entrarono in funzione, convogliando elettricità dai trasformatori ausiliari delle altre due navi al generatore principale.

Output al cento…centocinquanta…duecento percento!” – disse uno degli operatori di ponte – “Scattering elettronico iniziato. Le correzioni all’asse di tiro sono affidate al computer per compensare l’effetto della rotazione terrestre.”

“Il bersaglio è ancora fuori portata e attendiamo l’innesco del catalizzatore!” – aggiunse l’armatore del cannone principale, osservando come il cerchio del mirino sul suo schermo non riuscisse ancora a sovrapporsi all’icona del nemico.

 

*   *   *

 

La filosofia dell’attacco come miglior difesa era stata presa alla lettera dai manovratori del Nidhoggr, che ora facevano ruotare freneticamente il laser ottico in ogni direzione. Pur riuscendo a scivolargli agilmente intorno per ben due volte, il caccia russo non poté impedire alla fine che gli venisse segata di netto un’ala. Iniziò a mulinare scompostamente, a precipizio verso la Terra. Dentro la cabina che si capovolgeva di continuo, riempita dalla voce allarmata di Nataša che gridava il suo nome, Miša trattenne un conato di vomito con un gorgoglio e, seppur quasi alla cieca, riuscì a premere con un pugno un pulsante alla sua destra. La scritta EMERGENCY WING apparve a schermo e il moncherino incandescente venne scalzato via da una nuova ala, simile allo scheletro di un rapace, che emerse da sotto la fusoliera; getti di carburante dalle code protesiche del velivolo riuscirono infine frenarlo.

Nel frattempo, il micro-Buco Nero davanti la bocca del Cannone si apprestava a degenerare nuovamente in massa-zero.

Miša rifiatò, ansimante, prima che Nataša gli chiedesse conferma della sua incolumità.

“Sto bene, ma in questo stato non posso volare a lungo. Unità Arancione!”

L’areo riaccese i motori e da sotto la pancia sganciò un singolo, lungo, siluro bianco dalla forma cilindrica, facendolo atterrare direttamente nella mano di Irradiance.

Schivando il raggio che le passò sopra la testa, Amber gridò a sua volta “Ragazzino!” verso Bragjantyr e scagliò a mano il missile a centinaia di metri di distanza, prima che il braccio sinistro le venisse tranciato dal laser vagante. Ignorò il dolore che le saliva fino alla clavicola, insignificante se paragonato alla vista dell’ammasso rosso che ora si era riformato nel Dainsleif: “Sta per sparare ancora!”

“No!” – Nat spinse la Machine al massimo, travolgendo il Cannone dal basso, e lo spinse in senso opposto l’attimo prima che il colpo partisse, perdendosi a vuoto nello Spazio. Freya mantenne stretta la presa, ma l’inerzia fu tale da farla girare completamente, gli artigli metallici che graffiavano la superficie lisca della canna. Nataša digrignò i denti e serrò le palpebre quanto più poté, obbligando Freya ad abbracciare la canna per trattenerla in verticale.

“Nataša!” – dimentico di quanto poco atletico fosse sempre stato fuori da quella palla di ferro in cui era chiuso, Aaron le lanciò con quanta più precisione possibile il testimone. Con un verso rabbioso, Nat conficcò il missile nello snodo elevatore del Cannone: quattro speroni si estroflessero dallo shell, bloccandolo in posizione, e il cilindro si aprì in un’antenna a dipolo.

 

*   *   *

San Francisco.

 

“Catalizzatore in posizione!”

“Ma il bersaglio è ancora fuori portata e avanza rapidamente!”

“Avete sentito?!” – chiese la McCoy alla squadra in volo - “Dovete riportarlo in linea di tiro!”

 

*   *   *

 

“Vasyljev, crea un diversivo!” – gli impartì Amber e l’Raròg, per tutta risposta, scollegò due intere casse di lanciarazzi automatici per alleggerirsi, riversando tutti le munizioni residue contro la testa del Nidhoggr. Diretto a tutta velocità contro la faccia del mostro e facendo fuoco a raffica con i mitra, Miša strinse i denti e si convinse che la scelta che sarebbe seguita era l’unica possibile.

Non sarebbe morto su un aereo da guerra, come suo fratello. Per nessuna ragione al mondo.

“Perdonami, Raròg!” - ruppe con un pugno una copertura in vetro accanto alla cloche e tirò a sé la leva rossa sottostante.

La fusoliera dell’aereo si divise in due, eiettando all’indietro l’abitacolo rinforzato, mentre il resto dell’apparecchio si schiantava contro la faccia del Leviatano. La testa riemerse dall’esplosione con i sensori ottici irreparabilmente compromessi.

“Questo è tutto quello che posso fare. Il resto lo lascio a voi. Buona fortuna!” – la voce di Miša sparì tra le interferenze radio, mentre l’abitacolo piombava verso la Terra come una Sojuz.

Abbandonata ogni altra alternativa razionale, l’unico modo che Aaron trovò per frenare l’ingresso in atmosfera del Leviatano fu pararglisi davanti, a palmi aperti, nella speranza che i propulsori di Bragjantyr fossero abbastanza potenti da contrastarlo. Ma era come sperare di prendere al volo un meteorite.

“Tieni duro!” – gridò Amber, vedendolo restare travolto, e si diresse a tutta velocità verso di lui. Il braccio di riserva sulla schiena di Irradiance si agganciò alla spalla amputata e un gatling a quattro canne fuoriuscì dall’avambraccio, sputando lunghissime funi d’acciaio arpionate; si conficcarono sul disco inferiore del Nidhoggr. Amber dovette combattere con tutto il suo corpo la spinta del momento angolare che strattonava la sua Machine, spazzando una grande area per centinaia di metri, ma non appena il momento fu propizio e il nemico difronte a lei, sparò altri due arpioni dalla cintola della sua Unità. Le carrucole entrarono in funzione all’interno del braccio e dei fiancali: con un unico movimento, Irradiance si capovolse dalla testa ai piedi e in una manciata di secondi si trovò a contatto con la prua del Nidhoggr. I booster spaziali sui fianchi si riallinearono con uno scatto, infiammandosi a piena potenza, ma la discesa contro la Terra proseguiva inesorabile. I dorsi di Irradiance e Bragjantyr iniziarono ad arroventarsi e vampe infuocate danzavano oltre gli schermi degli abitacoli invasi da segnali di pericolo.

Amber si sentiva schiacciare dalla forza g fino a toccare le ginocchia con il petto: “Ma quanto spinge!”

“Non ce la faccio!” – Nat digrignava i denti, intenta a trattenere il mostro per il Cannone – “È troppo pesante!”

“Mi serve più potenza!” – le dita della pilota americana si mossero agilmente sulle leve di comando, aprendo un compartimento nascosto e premendo un interruttore. Due connettori sulla schiena dell’Unità, che la collegavano ai propulsori spaziali, si scambiarono di posto: le fiamme gialle dei booster raddoppiarono di intensità, tingendosi di violetto. Il display indicò il supplemento ricevuto dalla riserva di carburante, a scapito del carico di post-nucleotoni; il timer di operatività, che fino a quel momento aveva indicato dieci minuti abbondanti, calò a picco a due e mezzo.

“Amber, le Unità non sono equipaggiate per un rientro in Atmosfera così veloce!” – l’agitazione di sua sorella aveva ormai toccato picchi impossibili da dissimulare – “Di questo passo finirete disintegrati nel deorbit burn! Dovete rallentare!”

“È quello che faccio!” – le ringhiò di rimando, per poi accorgersi con panico della spia lampeggiante sul timer che correva più in fretta dei suoi pensieri – “Sessanta secondi!”

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

Le scariche elettriche che scoppiettavano tra le turbine pieno regime del Rigby costrinsero il dottor Khurana a far presente che nulla di quella situazione volgeva a loro favore: “Abbiamo raggiunto la soglia di Compton. Dobbiamo sparare, non c’è più tempo!”

 

*   *   *

 

Aaron quasi non sentiva più braccia e mani, premute contro gli schermi della Camera di Flamel che sfrigolavano ogni secondo di più. Le ossa gli facevano male e la pelle della schiena iniziava a bruciargli. Ogni fibra dei suoi muscoli gridava pietà, eppure, in quel dolore che non avrebbe dovuto dare spazio a nient’altro, si fecero largo immagini sconnesse nella sua mente: i suoi genitori che ricevevano una chiamata dagli agenti governativi; la loro chiacchierata davanti a una misera camomilla al tavolo della cucina, discutendo se fosse o meno il caso di accettare quella barca di soldi per prendere parte a un programma miliare segreto e il concludere che l’idea non era poi male; una corsa sul lungo mare di una città italiana; gli occhi spenti di una ragazza diafana dai capelli azzurri; il sorriso, la lacrime, e poi le urla di rabbia di un amico, che stritolava tra dita metalliche giganti un uomo, uccidendolo. Gli tornò in mente anche l’immagine di sé stesso a terra, malconcio, con un violoncello fatto a pezzi da due teppisti che avevano preso con troppo entusiasmo tutta la faccenda del nuovo Reich. Anche loro erano sulla Terra, in quel momento. E lui che stava facendo? Era anche per loro che stava mettendo a rischio la sua vita, ora? Ne valeva la pena? Non sarebbe stato meglio che tutto bruciasse per sempre? “Tu non capisci niente!” gli era stato detto, mentre si batteva contro la Machine azzurra.

“Non è vero!” – le parole gli uscirono di bocca senza volerlo; anche un residuo di sogno erotico gli era tornato in mente, insieme a quell’inspiegabile tremore e insicurezza che cercava di nascondere ogniqualvolta era al fianco di Màrino Alto. – “Sei tu che non hai capito niente!”

E con un spruzzo di luce, il dispositivo di volo sulla schiena del gigante bianco esplose, liberando un paio di grandi ali di plasma azzurro.

Una farfalla monarca.

Si dispiegarono all’indietro, tramutandosi in geyser di energia tre volte più lunghi. Aaron urlò con tutto il fiato che aveva in gola fino a farsi lacrimare gli occhi, e, mentre gli schermi della Flam-ber crepitavano e s’incrinavano, Bragjantyr iniziò a spingere le mani fin dentro l’armatura del nemico, così che quella che fino ad allora era stata una discesa a senso unico rallentò, si arrestò, e poi invertì direzione.

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

Ekaterina Asimov osservò sbalordita la curva di Libido sul suo computer assorbire totalmente quella di Destrudo: “I livelli di Libido nel kernel sono superiori alla norma…la Traccia VRIL sta cambiando!”

Anche l’Unità Nera registra valori analoghi.” – notò Khurana – “Ma allora...”

“Stano entrando in Second Phase!”

 

*   *   *

 

L’equipaggio del Nidhoggr entrò nel panico più totale quando si rese conto che nessuno dei motori ausiliari o delle manovre stabilizzatrici avrebbero potuto impedire loro di risalire la Mesosfera, spinti da un gigante con una forza ancestrale che non poteva essere arginata da alcunché.

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

Quando finalmente puntatore e icona dell’obiettivo si allinearono, con un margine del 98.7% di probabilità di andare a segno, l’armatore del TWC dichiarò: “L’obiettivo è di nuovo a tiro! Capitano!”

“Adesso!”

Con una spinta tale da affondare per metà le navi su cui poggiava, l’Eleanor Rigby emise dalla prua il fascio di elettroni, diritto come lancia verso il cielo prossimo all’alba.

Dall’altra parte del mondo Luka Novikov fissò con occhi sbarrati il teleproiettore di casa, tenendo un braccio intorno a sua madre che si era coperta il viso con le mani giunte in preghiera.

 

*   *   *

 

Il raggio a EMP raggiunse lo spazio e investì l’Arma Finale, tra le imprecazioni del suo equipaggio che vide andare in tilt i controlli.

Dopo aver impostato la sua Unità sulla modalità a risparmio energetico, Amber si voltò verso la finestra video con il viso di Nataša Novikov: “Zarina, se vuoi avere l’onore di chiudere in bellezza puoi accomodarti!”

Anche senza quell’invito, già da un po’ la mente di Nat correva attraverso gli ultimi mesi. La lunga passeggiata per i giardini di Mosca insieme a Miša; le lacrime versate sulla camicia di suo padre, il sapore della Scharlotka alla mattina del suo compleanno, la disperazione provata a Varsavia, nel vedere quelle persone maciullate sotto la sua Machine per colpa della sua stessa goffaggine e insicurezza; gli occhi azzurri di un uomo vestito di nero, il piacere e la vergogna nel concedersi a lui e la bandiera di una Svastica che bruciava e si consumava. Infine, come l’ultimo chiodo conficcato dentro al cuore, sua madre e suo padre che si urlavano addosso.

“Io voglio che tutto questo…” – le iridi le accesero dello stesso rosso di quelle della sua Machine e le pareti dell’abitacolo si inscrissero di rune luminose – “…finisca!”

Due nastri di VRIL si spiralizzarono intorno la braccia di Freya, convertendole in lunghe canne di fucile decorate d’argento. Le incrociò oltre la testa, accumulando energia, e le rilasciò davanti a lei in un possente raggio.

Come se tutto il peso fosse scomparso in un istante, il Nidhoggr venne spinto via a velocità inconcepibile, giù attraverso tutti gli strati dell’Atmosfera terrestre, mentre scaglie dell’armatura nera di Freya mutavano in piastre translucide color magenta.

 

Con tutto il resto del corpo sempre più arroventato e l’armatura che andava sgretolandosi, il Cannone Dainsleif si spezzò in più pezzi. Sfondò le nuvole, passando di fianco al modulo di emergenza del Raròg, ancora alto nel cielo grazie ai paracaduti di rientro. Miša contemplò senza fiato l’informe massa di metallo nero in fiamme precipitare come un meteorite, fino ad abbattersi nel Pacifico con una montagna d’acqua.

Il raggio VRIL trapassò il corpo del Leviatano, liquefacendo i corpi del suo equipaggio, si aprì una strada dalla parte opposta e proseguì ancora, sotto le onde, fino piantarsi sul fondale oceanico.

 

Migliaia di metri più in alto, dall’orbita, Freya separò le braccia – un colpo netto e preciso – e il raggio si divise in due.

 

Passò attraverso la carcassa del Nidhoggr e lungo il fondo oceanico, per decine e decine di chilometri. Una fenditura si aprì nella crosta terrestre, sputando magma vivo.

Le due metà del suo corpo, tagliato da una linea incandescente, scivolarono l’una sull’altra.

Una spolverata di scintille e lampi.

Poi, ciò che rimaneva dell’Arma Finale detonò in una sfera di luce nera, che divise le acque. Filamenti cruciformi di un plasma grigiastro vi galleggiavano dentro.

Con un risucchio, la sfera collassò su sé stessa fino a ridursi a un punto minuscolo, scomparendo infine alla vista.

 

Nat rimase ad ansimare profondamente e per lunghi istanti il suo respiro fu l’unica cosa udibile.

 

*   *   *

 

San Francisco.

 

Solamente un sottoufficiale di ponte dell’Eleanor Rigby osò rompere il silenzio, cautamente: “Esplosione avvenuta al largo del Pacifico Settentrionale. L’obiettivo è sparito dal radar.”

Raccontare l’esultanza che ne conseguì sarebbe superfluo.

 

*   *   *

 

Golgotha.

 

Un’osmosi di emozioni aveva trasportato sulla Terra tutta la speranza che prima dominava nella Sala della Guerra, lasciando l’esercito lunare nello sconcerto più totale. Nessuna comunicazione dall’equipaggio del Nidhoggr, nessuna emissione gravitazionale.

Il dono della parola sembrava aver abbandonato persino il Luft-Oberst Albrecht. Dopo i tre giorni di attesa precedenti quella battaglia, dopo decenni di preparazione e stenti, dopo aver pregustato così distintamente il sapore della vittoria…tutto quello che adesso si poteva testimoniare fu racchiuso nell’unico commento che Zwei Stein sentì di dover esprimere: “Alla fine…abbiamo perso.”

 

*   *   *

 

Del silenzio e dello stupore che seguirono a quella battaglia, nessuno dei piloti avrebbe più saputo raccontarne.

Ora, tre corpi di giganti rivestiti di metallo, dalle armature danneggiate e annerite dalle esplosioni, galleggiavano esanimi come bambole tra i rottami spaziali.

Non più violenza, non più un rumore o l’alternarsi di grida. Solo una vasta, fredda, antica quiete.

Un freddo spaziale, a cui prima sarebbe stato impossibile far caso, filtrava attraverso le Camere di Flamel e accarezzava con dita gelide i corpi nudi dei Meister, sospesi nella gravità-zero.

“Quindi…” – chiese Aaron, atono e supino, fissando le pareti danneggiate del suo abitacolo – “…è tutto finito?”

“Sì. Ce l’avete fatta.” – gli rispose Andrea McCoy. Una risposta asciutta, spogliata di qualunque altra emozione, la semplice constatazione di essere ancora vivi – “Guardate.”

Nataša strinse al petto le ginocchia nude, percorsa da lievi brividi. Le sembrò di essere tornata a un tempo prima della sua esistenza, protetta da un utero nero e cosparso di stelle. Si voltò appena, disegnando figure liquide con i capelli porporini, e la più profonda meraviglia entrò in lei.

Per quanto frastagliato dai frammenti dell’ISS e dei satelliti, l’orizzonte che si offrì a loro li riempì di una pienezza mai sperimentata. Chissà dov’era la Luna, ora sparita alla vista. Quella Luna a cui un tempo poeti e sognatori avevano dedicato tante parole e che ora era divenuta il vessillo bianco della paura. Ma, a dire il vero, anche se fosse stata lì davanti a loro non sarebbe importato…perché, sotto di loro, il terzo pianeta del sistema solare si mostrava a perdita d’occhio, trapunto delle luci delle città degli uomini, avvolto da un tenue chiarore, come un’aura.

“La Terra.” – mormorò la ragazza, mentre gli occhi azzurri le iniziavano a luccicare acquosi. – “Non pensavo che l’avrei mai vista da qui.”

Aaron accostò il viso agli schermi, a bocca aperta: “È bellissima.”

Abbandonato il casco in un angolo, Amber incrociò le gambe sul sedile reclinato, posò la testa sul braccio e si limitò a sorridere.

“Osservate bene. Questo” – disse ancora il Capitano McCoy – “è il pianeta che oggi avete difeso.”

E tra le incalcolabili profondità dello Spazio ammantato di stelle, i raggi del Sole sorsero oltre la curva del pianeta blu, come avevano fatto da miliardi di anni e come ancora avrebbero fatto in seguito.

Rimasero così – loro tre in orbita e Miša Vasyljev in mare, in piedi sulla cabina di salvataggio che ondeggiava sui flutti – ad ammirare il nuovo giorno che nasceva.

 

Magari nel giro di qualche ora sarebbero stati recuperati da rumorosi moduli spaziali, o da qualche nave di soccorso in mare. Magari avrebbero pianto, o forse riso incontrollabilmente, tra le braccia di genitori e amici che temevano di non rivedere mai più. Magari si sarebbero scambiati un abbraccio interminabile, sul ponte di una portaerei, involtati in coperte di lana, e avrebbero capito che da quel momento in poi avrebbero condiviso qualcosa di più che un’amicizia d’infanzia. Magari ancora avrebbero sentito l’impulso di premere le proprie labbra le une contro le altre e l’avrebbero respinto senza nemmeno capirne il perché.

 

Però, per il momento, rimasero solo così – loro tre in orbita e Miša Vasyljev in mare – ad essere testimoni di un’alba cosmica che illuminava il Creato.


 

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