Purché finisca bene

di Shily
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chi dice donna dice danno ***
Capitolo 2: *** Non esistono donne brutte, dipende dalla Vodka ***
Capitolo 3: *** L'occasione fa l'uomo ladro ***
Capitolo 4: *** In vino veritas... in birra catastrofe ***
Capitolo 5: *** Chi ben comincia è a metà dell'opera ***



Capitolo 1
*** Chi dice donna dice danno ***


00. Chi dice donna dice danno 
 

"Bevilo tutto, bevilo tutto. Tutto, tutto, tutto."
Presi il bicchiere di birra che avevo davanti e me lo portai alle labbra. Strinsi gli occhi, reprimendo un colpo di tosse dovuto al bruciare lungo la gola. Il liquido scendeva giù senza difficoltà, fino a incendiarmi il petto. Mi sentivo vivo, carico, elettrizzato.
Alzai un pugno verso l'alto, facendo un ultimo sforzo e sbattendo il boccale vuoto con forza sul bancone. Intorno a me si levarono urla e cori, sorrisi trionfante e mi pulii il mento con la manica della camicia.
Una mano, brusca e inaspettata, mi afferrò il polso, portando anche l'altro braccio verso l'alto. "Sei un mostro," urlò mio cugino Robert, sovrastando il rimbombo della musica. "Questo è mio cugino, un vincente."
"Non si scherza con gli Adams," risi e feci cozzare le nostre fronti con uno schiocco.
Tirai in fuori il petto, beandomi della gloria: ero ufficialmente il re della serata.
"Cazzo, sei un animale," disse Dave, traballante sebbene seduto su uno sgabello. "Voglio la rivincita."
"Ma se non ti reggi in piedi," Robert poggiò un gomito sulla mia spalla, appoggiandosi con tutto il peso. "Sei andato, amico. Vero, Jim?"
Feci un cenno affermativo con la testa e mi portai una mano al petto, mentre una strana sensazione mi pervadeva il corpo. Uno strano rimbombo all'altezza dello stomaco mi provocò un formicolio, fino a quando pochi secondi dopo non mi esibii in un sonoro rutto.
Dave e Robert si scambiarono un veloce sguardo, entrambi interdetti, prima di urlarle all'unisono: "Il ruggito del campione."
Scoppiai a ridere, felice e spensierato, e mi alzai sulle punte alla ricerca di Bill, colui che completava quello strano e disadatto gruppo che formavamo.
"Eccoti," urlai una volta avvistata la figura alta e massiccia del mio amico. "Che fine avevi fatto? Hai visto che ho vinto? Mi devi cinque sterline."
"Eccolo che riscuote," mi prese in giro e mi battè una mano sulla schiena.
Mi ritrovai a tossire, massaggiandomi la spalla con una mano. "Vacci piano, amico. Sei un armadio, un'altra così e mi rompo."
Bill scosse la testa e rise. "Io vado, Jim. Ci sentiamo per la prossima."
"No,no,no," lo fermai e gli passai un braccio intorno alle spalle. "La notte è ancora giovane, perché vuoi andare?"
"Sono le tre passate, domani ho un meeting e Katie mi aspetta."
"Ascolta, Bill, lascia che ti spieghi una cosa sulle donne..."
"Bill?"
Lo guardai confuso: "Chi è Bill?"
"Non lo so, dimmelo tu. Io sono Bob."
"Chi?"
"Bob?"
"Chi è Bob?"
"Ma io," il ragazzo allargò le braccia esasperato. "Non mi chiamo Bill, James. Sono Bob."
A quelle parole schiusi le labbra dalla sorpresa. "Robert, Robs!" afferrai mio cugino per un braccio e me lo portai vicino. "Lui è Bob."
"Amico, è un piacere. Io sono Robert," gli porse la mano e sorrise.
"Ci conosciamo da una vita, ragazzi. Io e James andavamo a scuola insieme."
Ma certo! MI battei una mano violentemente contro la fronte, quello era Bob.
Bob l'armadio. Dalla scusa sempre pronta, con più ore di lezioni saltate alle spalle di quando fosse concesso e una riserva di erba sempre pronta.
Il mio amico Bob.
"Bob," esclamai all'improvviso e lo abbracciai commosso. "Ti voglio bene, amico."
"Anche io, Jim. Anche io," qualche pacca sulla schiena e mi allontanò. "Ma devo andare per davvero, domani Katie ha anche la visita dal medico."
Robert e io ci guardammo spaventati e assumemmo entrambi un'espressione seria.
"Cos'è successo, amico?" chiese mio cugino. "E' grave?"
"Per qualsiasi cosa noi ci siamo, lo sai."
"Siete proprio due coglioni, Katie è incinta e lo sapete."Ah. Giusto. "Io vado," infilò la giacca e tirò fuori le chiavi della macchina. "Se non riuscite a guidare chiamate un taxi, mi raccomando. E salutatemi Dave," con un cenno della testa indicò il ragazzo.
A quel punto mi voltai verso il punto indicato, trovando subito il mio amico collassato sul bancone del bar e con un rivolo di saliva che gli sporcava la guancia.
Finiva sempre così, con Robert che dimenticava persino il suo nome e Dave che si addormentava da qualche parte sull'orlo del coma.
Menomale che c'ero io a tenerli sulla retta via.
E Bob, ovviamente, che da quando aveva saputo di star diventato padre alternava momenti di gioia assoluta ad attacchi di panico fulminanti.
Salutammo un'ultima volta il nostro amico e Robert si espresse in un poco virile e malcelato singhiozzo a causa dell'alcol, che come diceva sempre lo rendeva "fin troppo sensibile, ho il cuore tenero io."
"Andiamo da Dave, coraggio," mi passò un braccio intorno alle spalle e, insieme, ci dirigemmo al bancone.
Mi accomodai sullo sgabello libero e presi a picchiettare sulla fronte del ragazzo. "È proprio morto. Dovremmo preoccuparci?"
"Ma no," Robert scosse la testa e alzò una mano verso il barista. "Ehi, John, me ne dai un'altra?"
"Mi dispiace, capo. Mi hanno detto di non darle più nulla," il ragazzo ci guardò da sotto le palpebre cadenti e raccolse uno strofinaccio. "Comunque io sono Jared."
"Ma questo è il mio locale, accidenti," sbottò Robert e si passò una mano sulla fronte, allontanando i ricci che vi si erano attaccati. "Jim, fa qualcosa."
"Io..." mi portai una mano all'altezza dello stomaco e feci una smorfia. "Credo di dover vomitare."
"Non questo, fa qualcosa per aiutarmi."
"Robs, sei più ubriaco del vecchio che viene ogni mattina. E non ricordi neanche il nome del tuo dipendente."
"Non c'entra, non me lo ricordo perché è nuovo."
"Sono qui da due mesi," s'intromise Jared e si sporse con un bicchiere verso un ragazzo.
Mio cugino, in risposta, si espresse tramite un ringhio e sprofondò con la testa nelle braccia.
Che delusione. Ormai non eravamo più giovani come una volta, adesso bastava qualche birra e subito capitolavamo - capitolavano, loro non io. Con un velo di malinconia ricordai le serate dei miei vent'anni, quando tiravamo fino all'alba e il giorno dopo eravamo subito pronti a ripartire.
Poi eravamo cresciuti e niente era stato più lo stesso: Robert aveva rilevato il locale con George e Marcus; Bob l'armadio si era innamorato e aveva un figlio in arrivo; io stesso ero forse quello cambiato di più da quando era successo il fattaccio: avevo trovato un lavoro, mi ero impegnato e qualche mese prima avevo anche portato una laurea a casa. Mia mamma aveva pianto per giorni e l'aveva appesa in salotto, proprio vicino alle foto di quand'ero piccolo.
Unica consolazione, Dave invece era sempre lo stesso ma almeno quello andava bene così.
"Robs," chiamai e cercai di alzarmi dallo sgabello. "Robs," feci una smorfia per la musica assordante che mi impediva di pensare. "Robert!"
Si mise dritto di scatto ed eseguì il tipico saluto militare. "Al servizio, signore."
"Ascolta, ho deciso: io vado."
"Vai dove?" si sporse per riuscire a sentire cosa dicevo.
"A parlarle. A Gambe chilometriche dico."
Alzò le sopracciglia talmente tanto da farle quasi sparire sotto l'attaccatura dei capelli.
"Vai e conquista, cugino," alzò il bicchiere e gonfiò il petto. "E rendi onore agli Adams."
"A testa alta."
"E a cazzo duro."
Sistemai la camicia ormai sgualcita e, ignorando il prepotente mal di testa che mi martellava, mi diressi verso la mia meta.
Gambe chilometriche non era altro che la bella, bionda e formosa ragazza che mi guardava da quando eravamo entrati nel locale. Ci eravamo scambiati sguardi per tutta la serata e quello mi spinse di agire.
Che diamine, ero pur sempre il grande James Adams: avevo sempre avuto un certo ascendente sulle ragazze e non era certo a ventisei anni che avrei perso la carica distintiva.
Mi sistemai il colletto della camicia e feci qualche passo. Non appena mi trovai davanti a lei, spalancò gli occhi e, superata la sorpresa, sorrise.
"Ti conosco?"
"Dovresti," mi appoggiai al muro con una spalla, "Perché io ti conosco."
Gambe lunghe si scambiò uno sguardo complice con l'amica e si portò il bicchiere alle labbra, nascondendo il sorriso.
"Ah, si? Puoi ricordami chi sei?"
"L'uomo della tua vita e, visto che ormai siamo qui, sarebbe sciocco perdere altro tempo."
"Carina questa. Quante volte l'hai già provata?"
"Se dicessi che sei la prima?" sorrisi e ammiccai come mi aveva insegnato mio zio ai tempi d'oro - lui sì che ci sapeva fare con le donne.
Poi si era sposato e aveva perso tutto lo smalto che l'aveva da sempre caratterizzato. Non c'erano dubbi per me: il matrimonio era la tomba della passione. E dell'amore e della vita sociale.
"Non ci crederei mai," rispose e tese una mano. "Io sono Brooke."
"James, al tuo servizio," le strinsi la mano e, nel lasciarla, feci in modo di attardarmi più del dovuto. Alle ragazze piaceva sempre. "Ti va di ballare?"
Brooke sorrise, mostrando i denti banchi e dritti da dietro le labbra rosse. "Credo proprio di non potere, sono qui con la mia amica."
Mi voltai velocemente verso la ragazza al suo fianco che, altrimenti, bassa com'era non avrei visto.
E va bene, questa volta ero stato cattivo.
"Sono sicuro che non le dispiacerà, sarà solo per il tempo di una canzone."
Brooke però non era dello stesso avviso e, con l'aria di chi non ha intenzione di dartela vinta e con espressione fintamente dispiaciuta, si strinse nelle spalle.
Se solo la situazione me l'avesse permesso, sarei scoppiato a ridere senza ritegno: le donne a volte sapevano essere così scontate. A loro piaceva giocare al gatto e al topo, e non sarei stato certo io a deludere le convinzioni di Gambe lunghe.
"Allora ti lascio con la tua amica, è stato un piacere," risposi e, con un veloce occhiolino, le diedi le spalle.
"Aspetta," sentii le dita piccole e sottili della ragazza legarsi intorno al mio braccio e contrassi il muscolo. "Magari possiamo scambiarci i numeri."
Scontato, prevedibile e meraviglioso. Mi sarei dato una pacca sulla spalla da solo per la bravura dimostrata.
"Ne sarei onorato."
Sentivo lo sguardo di Robert su di me, attento a capire quale sarebbe stato l'epilogo della conversazione, e quando tornai al bancone cinque minuti dopo lo trovai in attesa del mio racconto.
"O sei sorprendentemente veloce o ti è andata male," fu l'accoglienza di mio cugino, che mi batté una mano sulla schiena.
Con studiata calma mi sedetti sullo sgabello e lo guardai di sottecchi. "Ho il suo numero," sventolai il telefono davanti ai suoi occhi e mi costrinsi a non voltarmi un'ultima volta verso di lei.
"Non è con i numeri di telefono che si fanno le guerre."
"E questa da dove ti è uscita?"
"L'ho sentita l'altro giorno in un film. È molto d'effetto, vero?"
"Lo è, ma non credo sia proprio così la frase," gli feci notare e controllai che Dave fosse ancora vivo.
"Non ti abbattere," fece dopo qualche minuti, "Si vedeva da subito che era una da occhi dolci e basta. Ti attirano nella loro trappola e poi... tac," tagliò l'aria con un braccio.
"Se lo dici tu," abbozzai e presi a giocare con una cannuccia. "Però è bella da far paura, vero?"
"Non così tanto," si strinse nelle spalle. "Certo, ha un gran bel paio di..." mimó con le mani il suo apprezzamento, "Ma niente di più. Non pensarci troppo, domani è un nuovo giorno."
Cosa strana le ragazze, comunque. Anzi no, cosa strana le donne perché finché erano giovani come te, desiderose solo di divertirsi e fare esperienza andava tutto alla grande. Si era sulla stessa lunghezza d'onda, si volevano le stesse cose, si era chiari... poi crescevano e diventano complicate.
Anzi no, rettificai per la seconda volta, poi crescevano e volano sposarsi. Proprio non le capivo.
A ventisei anni, ormai, potevo vantare una certa esperienza oltre che un numero spropositato di donne in famiglia, ma per me sarebbero sempre state un enigma.
Insomma, mi sembra un'equazione elementare: sei bella, sono bello. Ti guardo, mi guardi. Lo voglio, lo vuoi.
Però poi ogni volta facevano finta di no per qualche motivo a me sconosciuto. Possibile che un ragazzo non potesse divertirsi e basta?
Io di impegnarmi non ne avevo voglia ed ero sicuro che Brooke, infondo ma proprio infondo, fosse della mia stessa opinione.
Donne, valle a capire.
"Jim," mi richiamò Robert, distogliendomi dai pensieri suicidi. "Sono almeno... quanti, sei mesi che non vai con nessuna?"
"Ma i cazzi tuoi mai?"
Per la precisione erano otto mesi, due settimane, quattro giorni e - guardai l'orologio - dodici ore ma dopotutto chi teneva il conto? Per amor proprio, tuttavia, preferii non dirlo.
Incrociai le braccia sopra al tavolo e vi nascosi la testa dentro, mentre Robert continuava a blaterare qualcosa di incomprensibile. Da ubriaco perdeva qualsiasi facoltà discorsiva, dando l'impressione che la lingua si arrotolasse su se stessa.
"Ho fame. Andiamo a magiare?"
"Robs, sono le quattro del mattino."
"Da quando abbiamo un orario per fare le cose?"
Mi ritrovai a dargli ragione e, ignorando un rumore lontano di vetri infranti, mi portai una mano allo stomaco. "Ho fame anche io, ci prendiamo un kebab?"
A quelle parole si illuminò e scattò in piedi. "Ha aperto uno qui di fronte fantastico," annunciò e fece un cenno di saluto a Jared dietro al bancone. "Anche se ho qualche dubbio sulla qualità dei prodotti."
"Dave, coraggio, svegliati," cominciai a scuotere il ragazzo per una spalla. "Amico, andiamo!"
A smuovere la situazione ci pensò Robert, si avvicinò al suo orecchio e urlò con forza: "DAVE! POLIZIA!"
Lui a quelle parole scattò in piedi e cadde dallo sgabello. "Non ho niente, lo giuro."
Robert e io ci scambiammo un'occhiata fugace e scoppiamo a ridere, aiutandolo a rialzarsi.
"Dobbiamo andare a lavoro? È già ora?" chiese Dave stranito mentre uscivamo all'aria aperta.
"Cazzo, è vero," mi portai una mano alla testa: era la fine. "Domani è lunedì. Se faccio tardi un'altra volta, Owen mi apre il culo."
"Non preoccuparti, Jim," Robert si accese una sigaretta e socchiuse gli occhi per il vento. "Sei o non sei la punta di diamante di quel posto?"
"Non sono proprio nessuno," mi schernii. "Anzi, se farò tardi sarò disoccupato, ecco cosa. Dammene una, và."
Afferrai il pacchetto di sigarette e ne presi una, portandomela alle labbra. Era il caso di proclamare la nicotina come patrimonio dell'umanità.
Proprio in quel momento un gruppo di ragazze, dovevano essere cinque o sei, passò davanti a noi e, senza ritegno alcuno, mi sporsi per seguirne la scia.
"Brutta cosa l'astinenza, eh?"
"Ma vaffanculo, Robs."


 
🍓



"Adams, hai fatto le ore piccole stanotte?"
Sbuffai e, stropicciandomi gli occhi assonnati, scossi la testa. Sistemai l'elmetto protettivo in testa, controllando contemporaneamente la pianta del progetto, e un brivido di freddo mi attraverso la schiena.
Repressi un sonoro sbadiglio, dato che il capo cantiere Owen era ancora fermo su di me e non era il caso di ammettere che sì, avevo fatto le ore piccole, e spalancai le palpebre per impedire che si chiudessero.
Dopo il kebab Robert aveva insisto per guarda l'alba, fino a convincermi per esasperazione. Sei proprio un quindicenne, mi aveva preso in giro, ma con la vista della città davanti e una birra in mano non avevo potuto che apprezzare la testardaggine di mio cugino.
Peccato che così facendo non ero riuscito a tornare a casa, la quale distava più di un'ora dal cantiere, e mi ero limitato a lavarmi i denti a casa sua.
E a scroccare la colazione, ovviamente. Altrimenti che gusto c'era?
Mi guardai brevemente intorno, individuando poco distante da me Dave, così stanco da rischiare di cadere faccia a terra. Come sempre era la certezza a cui appigliarmi in qualsiasi momento. Dove c'ero io, sapevo che ci sarebbe stato anche lui e viceversa: in ogni cazzata, ogni sgridata, ogni risata lui era lì con me.
Avevamo fatto sempre tutto insieme noi due: dal primo bacio con due gemelle perfettamente identiche, alle feste incasinate dell'Università.
C'era stato alla mia prima sbronza, quando era finita con la mia prima ragazza - che, preso dalla foga dei quattordici anni, avevo dichiarato essere la donna della mia vita - e, sopratutto, in quello che era stato il periodo buio della mia vita. Quando tutto mi era sembrato andare a rotoli e non vedevo la fine del tunnel in cui mi ero infilato.
Dave era sempre stato al mio fianco, nonostante i numerosi difetti di entrambi e il fatto che insieme sembrassimo regredire ai tempi dell'adolescenza.
Proprio in quel momento alzò la testa verso di me e mi fece un cenno veloce. Stanco com'era, pregai che non finisse per tagliarsi un braccio e mi voltai verso il capo cantiere Owen, ancora fermo su alcuni blocchi di cemento e le braccia conserte.
Quello mi odiava e non era una mia mania di persecuzione, come aveva detto Robert più di una volta. A dirmelo era stato l'uomo stesso uno dei miei primi giorni di lavoro allo studio di architettura Thoughtbilders.
"Capo," fece una voce dietro di me, "Hanno portato dei carichi, dove li mettiamo?"
Con ancora lo sguardo sui fogli mi voltai verso la voce alle mie spalle.
Stef - che in realtà era Stefanie ma odiava sentirsi chiamare in quel modo - era una delle poche donne che lavoravano sul campo e che era riuscita a guadagnarsi un posto in un mondo competitivo come quello architettonico.
Ogni volta non riuscivo a impedirmi di guardarla con un velo di ammirazione e timore allo stesso tempo. Era di quelle donne - anzi no, persone! - che ti fanno sentire incredibilmente piccolo e inadatto.
Aveva coraggio e lo sfoggiava fieramente.
"Ti ho già detto di non chiamarmi capo, ho fatto l'esame finale solo da qualche mese," la ripresi scherzoso.
"Però sei il capo del mio gruppo, no?" obiettò Stef e annuii, il ragionamento non faceva una piega.
Decisi di sorvolare sulla questione e di tornare a lavoro, quella giornata avevo già avuto due richiami per colpa della lentezza post sbornia.
"Lasciali pure lì, comunque," risposi infine. "Ci pensiamo dopo noi."
Lei annuì e indicò un punto alle sue spalle, dove gli altri l'aspettavano. "Allora andiamo da Owen, oggi è più scorbuto del solito."
Una vibrazione attirò la mia attenzione e, con un'occhiata in direzione degli altri, tirai fuori il telefono dalla tasca del pantalone.
Era un messaggio di mia cugina Rebecca che mi ricordava di passare a prendere la pizza quella sera, prima di raggiungerli. Menomale che c'era lei a farmi da promemoria personale per tutto o mi sarei scordato persino di andare a dormire la sera.
Abbiamo anticipato di un'ora o Leanne si addormenta di nuovo.
Sbuffai una risata e risposi, magari nel pomeriggio avrei scritto a Brooke Gambe lunghe. Alzai un braccio e mi annusai: magari prima facevo una doccia.






A pié di pagina:
Sono così emozionata che non avere idea. Ho tante aspettative e speranze per questa storia, però allo stesso tempo sono così piena di timori che non avete idea.
Concludo con tre punti:
A. Questo è l'unico capitolo che supera le tremila parole. Per una volta ho deciso di fare capitoli più brevi, e quindi una storia un po' più lunga.
B. Questo è il prologo, e preparatevi perché già dal capitolo 3 ci sarà da divertirsi.
C. Mi raccomando che il dividi paragrafo (🍓) non è casuale, chi indovina avrà una piccola anticipazione.


Au revoir!



 

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Capitolo 2
*** Non esistono donne brutte, dipende dalla Vodka ***


01. Non esistono donne brutte, dipende dalla Vodka 
 

"Buonasera anche a lei," mi chiusi la porta della pizzeria alle spalle e tirai fuori il cellulare dalla tasca.
Mi ero fatto una doccia veloce a casa di Robert, che mi aveva lasciato le chiavi sotto il tappetino così che non dovessi farmi quaranta minuti di moto per tornare alla mia.
Sospirai. Non vedevo l'ora che fosse pronta la mia personale, indipendente e centrale casa. Avevo passato quasi un anno alla ricerca di quella perfetta: economica, non troppo distante, piccola ma non troppo e soprattutto in fitto.
Alla fine con qualche aiuto di mio zio Benji ce l'avevo fatta, ottenendo anche un piccolo prezzo di favore. Peccato che la casa fosse inutilizzata da anni e, prima di renderla abitabile, ci fossero voluti dei mesi: i pro e i contro di aver pagato poco, così aveva detto mio zio. Adesso però i lavori erano quasi alla fine e io non ne potevo più di aspettare.
Anelavo indipendenza e, soprattutto, un bagno mio e non sempre occupato da mia sorella Leanne.
Con le pinze in bilico nella mano cominciai a scorrere le numerose chat che mi affollavano la schermata, tutte appartenenti a gruppi che avevo rigorosamente silenziato: i colleghi di lavoro, gli ex studenti del collegio, la famiglia, i fratelli, la famiglia senza adulti, quei tre disadattati dei miei amici, quei tre disadattati senza Bob perché boh... ma quello che più mi straniva era un gruppo in cui gli unici membri eravamo Dave e io; nonostante i mille sforzi non riuscivo proprio a capirne l'utilità.
Finalmente, dopo almeno due minuti di ricerca, trovai la chat che mi interessava e scrissi un messaggio veloce a mia cugina Rebecca:
Pizze ritirate, cinque minuti e sono lì.
Accesi la moto, il grande amore della mia vita, e sistemai le pizze nello scompartimento. Gli occhi mi bruciavano per le troppe ore che avevo passato sveglio senza dal loro un attimo di tregua e, per impedire di addormentarmi in moto, mi diedi uno schiaffo sul viso.
Un lieve formicolio si diffuse lungo la guancia e mi sentii nuovamente sveglio.
Salii in sella alla moto e partii. Neanche cinque minuti dopo, come predetto, ero sotto il palazzo di Rebecca e con un numero esorbitante di pizze in mano: in famiglia eravamo decisamente troppi. Avevo rischiato di farle cadere almeno tre volte nel tragitto, dovendomi così fermare per sistemarle.
Suonai il campanello, tenendo i cartoni e il casco in bilico nella stessa mano. Pochi istanti dopo un rumore elettronico attirò la mia attenzione, subito seguito dalla voce di mia sorella Leanne.
"Chi è?"
"Io," risposi con uno sbuffo. Precisare chi l'io fosse era ovviamente superfluo, chi mai doveva essere?
"Cosa?" chiese e alzò la voce. "Ragazzi, non sento niente: abbassate la voce!"
Una serie di urla seguirono quelle parole e fui costretto ad allontanarmi per non essere stordito dal suo urlo. Come se non fossi già in una posizione precaria...
Con una smorfia suonai nuovamente il citofono per ricordarle che ero ancora lì.
"Scusa Jim," fece lei e seguì il suono d'apertura.
Finalmente! Diedi un calcio al portone e, con un movimento veloce, entrai nel palazzo prima che si richiudesse.
"Ragazzi," la voce di Robert si diffuse per le scale prepotentemente. "È arrivato Felix Aggiustatutto con le pizze."



 
🍓



"Non è giusto," urlò Danielle, la più grande delle mie cugine, sbattendo il pugno sul tavolo. "È stato Marcus a dirtelo sennò neanche te ne accorgevi."
"Non mettermi in mezzo," esclamò il ragazzo e incrociò le braccia al petto.
"Danielle, devi pagarmi," Leanne si alzò e allungò una mano verso i soldi della cugina. "Eliston road è mia e tu ci sei finita sopra."
"Se tu sei distratta non è colpa mia, Noah ha tirato i dadi. Ormai è tardi."
Seduto a qualche sedia di distanza, mi passai una mano sugli occhi stancamente mentre le due ragazze si fronteggiavano ai lati opposti del tavolo.
Avevamo deciso di giocare a Monopoly sotto le insistenze di Rebecca e Josh, e nonostante il mio malcontento: non ero mai stato capace di tenere i soldi per più di due giri.
C'era solo da sperare che non avrei dimostrato la stessa attitudine anche nella vita reale.
"Che dici, finisce come il Natale del 2010?" sussurrò Robert, mio compagno di squadra, alludendo a quando Leanne e George avevano litigato così tanto da non parlarsi per più di una settimana.
La causa era stata uno scambio di contratti non andato a buon fine, conclusosi con Josh che buttava tutto per l'aria esausto e Rebecca che correva dalla madre in lacrime.
"Lo spero proprio," risposi rammaricato. "Se passiamo di nuovo sulle proprietà di Logan andiamo in banca rotta."
Mio fratello Noah si sporse verso di noi e mi guardò dubbioso. "Credi che dovremmo intervenire? Leanne sa essere davvero competitiva."
"Nah," mi strinsi nelle spalle. "Lascia che ci pensi Ethan, sennò a che serve? Diamogli un'utilità dopo tanti anni di onorevole servizio."
"Hai ragione, facciamo così."
Proprio in quel momento Ethan, ormai storico fidanzato di Leanne e a detta mia inguaribile masochista, decise di prendere in mano la situazione.
"Stellina," posò una mano sul braccio alzato di mia sorella. "Sono solo cento euro, non fa niente."
"Ma potevo comprarci un'altra casa," mormorò Leanne e puntò gli angoli della bocca verso il basso.
Ethan sorrise con molta pazienza e le lasciò un veloce bacio sui capelli. "Prometto di passarci io."
Che vi avevo detto?
Era proprio un santo! Cosa avesse fatto lei per incastrarlo proprio non lo capivo.
"Nelly," s'intromise Logan, marito di Danielle. "Tu non vuoi chiedere scusa a Leanne per non averla pagata?"
"Scusa, Leanne," borbottò contrariata lei e sbuffò.
Le due ragazze si scambiarono un ultimo sguardo di sfida e tornarono ai propri posti. Vidi con la coda dell'occhio mia sorella tirare un pugno sul braccio del fidanzato, colpevole di non averla difesa, e tirai fuori il cellulare dalla tasca. Digitai la password e sbloccai lo schermo, trovando un paio di messaggi nuovi: la maggior parte erano di Dave, che mi invitata a raggiungerlo subito perché c'erano delle ragazze troppo da sventola, l'ultimo invece era del mio vicino di casa Daniel che mi invitava a prendere un caffè prima della sua partenza. 
"Ehi," Robert mi fece gomito, "Indovina chi mi ha scritto?"
"Non lo so," replicai curioso. "Chi?"
"Jennifer tette da paura."
Le sopracciglia mi slittarono verso l'alto in segno di meraviglia: lei sí che aveva due tette stratosferiche, di quelle che non si scordano facilmente.
"Intendi quella figa che vi consegna gli alcolici?" s'intromise Josh, catapultandosi in mezzo a noi e avido di informazioni.
Ma eravamo anche noi così a ventitré anni?
No, mi rassicurai, no di certo. Io ero James Adams, non ne avevo bisogno.
"Non sei piccolo per queste cose?" lo prese in giro Roberto e gli picchiò indice e medio sulla fronte.
"E voi non siete troppo grandi per dare ancora dei soprannomi alle ragazze?"
Tutti e tre ci voltammo all'unisono verso colei che aveva parlato: Annabeth  - alias la migliore amica di mia sorella, alias membro acquisito della famiglia, alias l'unica ragazza non consanguinea con cui riuscivamo a essere senza filtri - ci squadrava da dietro le lenti degli occhiali con espressione contrariata, le labbra premute l'una contro l'altra e un sopracciglio levato verso l'alto.
Trovandomela di fianco e con la sua miglior aria di rimprovero abbozzai un sorriso, inarcando uno solo degli angoli. "Direi più che sono apprezzamenti, Annie."
"Ve l'hanno mai detto che siete disgustosi quando fate così?"
"L'hai fatto tu," rispose Josh tranquillo, "A me almeno una volta al giorno da quando ci conosciamo."
Annabeth alzò gli occhi al cielo e nascose un sorriso. Si avvicinò a noi con aria curiosa e appoggiò il mento sul palmo della mano, lasciandomi perplesso a seguire ogni suo movimento:
"Non pensate mai che a una di queste ragazze potrebbe dare fastidio?"
Robert la guardò confuso. "Ma non diciamo mica che sono brutte, lo sanno tutti che su di loro non si deve infierire. Ci ha già pensato la vita a farlo."
Lei, a quelle parole, lasciò che la mascella l'abbandonasse definitivamente, troppo sorpresa da quello che aveva sentito. Io, di riflesso, nascosi il volto tra le mani, scosso da un prepotente attacco di risa.
Mio cugino era proprio una specie da preservare.
"Ma dici sul serio?" Josh lo guardò allibito e ammirato allo stesso tempo.
"Certo, perché non dovrei?" si mise comodo, pronto a spiegare il suo punto di vista. "Ammettiamolo, tutti noi se vediamo una brutta ragazza lo pensiamo. E non provate a mentire, che tanto lo so," nessuno di noi provò a ribattere. "Allora non vedo il motivo per cui dovrei dire che invece è solo una ragazza particolare e tutte quelle altre stronzate. Io se fossi brutto preferirei che qualcuno me lo dicesse, invece che dirmi che sono interessante a modo mio."
Mi voltai al mio fianco, incontrando l'espressione divertita di Annabeth: ci scambiammo il medesimo sguardo, indecisi su come replicare.
"Non fate quelle facce," Robert si sporse verso la bottiglia di birra e la portò alla bocca. "Mica vado da un ragazza e le dico che è brutta, però a me piacciono belle," ci guardò pensieroso, per poi ritrattare: "Belle e con una quarta di seno."
"Stavi andando quasi bene," Annabeth lo guardò con biasimo, ripresasi velocemente dallo stupore iniziale.
"Già," convenni, "Ti sei rovinato all'ultimo."
"Un gran peccato," Josh gli strinse una spalle, "Sembravi quasi un ragazzo profondo."
Lui buttò la testa all'indietro e scoppio a ridere. "Cercavo solo di giustificarmi con Annabeth. Allora lo volete sapere o no di Jennifer belle tette?"
Josh e io annuimmo contemporaneamente e avvicinammo le sedie senza remora alcuna, Annabeth ci seguì poco dopo:
"Tanto Leanne e Danielle stanno discutendo di nuovo," minimizzò per giustificarsi.
"Non si può mai giocare con loro," fece Josh, "Finisce sempre così."
Lo zittii con una mano, invitando Robert a cominciare il racconto. Almeno uno di noi aveva ancora una vita sentimentale degna di essere chiamata tale, non come me che l'ultima volta che avevo condiviso il letto con una ragazza era stato con Leanne.
Mi facevo tristezza da solo.
"Allora, come vi dicevo l'altra giorno ho ricevuto un messaggio e..." Robert si lanciò in una lunga e attenta descrizione della conversazione tra lui e Jennifer, soffermandosi con attenzione su quelli che per lui erano i punti più importanti.
"Cioè voi avete..." Josh spalancò la bocca, "E lei era d'accordo?"
"Sesso telefonico, sì," gli andai incontro mentre, al mio fianco, Annabeth afferrava una manciata consistente di patatine.
"Non proprio telefonico," corresse Robert, "Direi più... messaggistico? Si può dire?"
"Non mi sono mai posto il problema," risposi, facendo cadere la domanda.
"Ma così?" fece Josh, "Senza neanche vedervi? Sei un grande!"
"Ma no, eravamo stati insieme un paio di volte un po' di tempo di tempo fa, poi si era messa con un tatuatore e sai com'è."
"E ora uscirete?" chiese Annabeth curiosa e si appoggiò alla mia spalla per arrivare alla birra. "Me la passi? Non ci arrivo."
"Certo," mi sporse verso il tavolo e le passai una bottiglia, soffermandomi inevitabilmente sulla sua scollatura nel mentre. No! Mi diedi una botta mentale in testa e mi riscossi. "Allora," mi rivolsi a Robert, "Quando vi vedete?"
"Non lo so, non c'è fretta, Jim. Il tatuatore aveva due spalle così," allargò le braccia, "Voglio essere sicuro che tra loro sia finita, sai com'è."
"Mi sembra giusto," convenne partecipe Annabeth mentre io guardavo freneticamente per la stanza pur di non dovermi voltare di nuovo verso di lei. 
Dio solo sapeva cosa sarebbe successo se mi avesse beccata a guardarla.
"Ma ti ha inviato qualche foto?" chiese invece Josh, curioso di sapere di più.
A essere sinceri anche io morivo dalla curiosità e sapevo che mio cugino, una volta soli, non mi avrebbe risparmiato dai dettagli. Motivo per cui decisi di mettere su la mia miglior espressione beffarda, limitandomi ad ascoltare la conversazione come se già sapessi tutto.
"Dì un po'," Annabeth mi richiamò, distraendomi dal racconto di Robert e rendendomi difficile ignorarla. "Ma davvero le ha così grandi?"
Bene, non si era accorta di niente. 
Ora, James, rilassati e non fare la ragazzina in preda all'attacco di panico... oddio, parlavo con me stesso in terza persona.
Strizzai gli occhi, cercando di ricordare la ragazza ma con scarsi risultati. "Lui esagera, lo sai com'è."
"Ah ecco, mi sembrava strano."
"E voi?" Josh ci richiamò e sventolò una mano nella nostra direzione. "Si o no? Risposta secca."
"Ma di che stai parlando?" portai una gamba sul ginocchio, mettendomi comodo.
"Del sesso telefonico. Lo fareste o no?"
"Non mi dispiace," ammisi candidamente, "Però non mi fa impazzire, sai. Non ha niente a che vedere con quello vero e proprio."
"A me invece piace," rispose lei con tono incurante. "Certo, devi essere bravo, sennò è una noia. Un paio di anni fa, per esempio, stavo con uno che non era per niente capace," prese una pausa e inclinò la testa da un lato, pensierosa. "In realtà non era bravo a prescindere, ma questa è un'altra storia. Perché mi guardate così?"
Mi voltai verso i miei cugini e incontrai uno specchio della mia stessa espressione: labbra socchiuse, occhi spalancati e braccia abbandonate lungo i fianchi.
Hai capito la piccola Annabeth.
"Voglio saperne di più," esclamò Robert, il primo a riscuotersi. Prese una mano della ragazza tra le sue e vi poggiò la fronte, "Ti prego, illuminami la vita."
"Perché io non ne sapevo nulla? Scommetto che a Leanne hai detto tutto," Josh imbronciò le labbra. "Ti riferivi a Kyle, vero? Scusa, ma perchè non ti confidi con me?"
Annabeth si voltò verso di me con un sorriso in volto e gli occhi che trasmettevano il suo divertimento. "Tu non dici nulla?"
Vagliai mentalmente tutte le risposte che avrei potuto dare ma, ignorando la curiosità che mi tempestava, feci quella che premeva di più:
"Come hai fatto a stare con uno che si chiama Kyle?"



 
🍓



"Ragazzi, io sono stanca morta," Leanne si alzò dalla sedia e, portando le braccia verso l'alto, si stiracchiò. "Andiamo?"
"Subito, Stellina. Ma guai se ti addormenti in macchina, questa volta non ti prendo un braccio," Ethan la seguì e le passò un braccio intorno alla vita, lasciando che gli si appoggiasse contro. "Annabeth, vieni con noi?"
"No, non vi preoccupate," rispose lei con un sorriso. "Allungheresti di molto, chiamo un taxi."
"Non dire sciocchezze," rispose Leanne, raccogliendo telefono e portafoglio dal tavolo. "Non è mica un problema per noi."
Nel frattempo io controllai il telefono assicurandomi che Dave fosse ancora al locale di cui mi aveva parlato quella mattina e inviai l'indirizzò a Robert.
"Davvero," insistette mia sorella, "Non farti rispondere male, Annie, e sali in macchina."
Diedi un ultimo sguardo alla posizione inviata, assicurandomi di ricordare il tragitto, e prestai attenzione alla conversazione:
"La posso accompagnare io, passo più o meno per casa sua."
"Sei sicuro?" s'informò lei e mi guardò incerta.
"Non vieni a casa?" s'informò Noah, passandomi accanto.
"Al cento per cento, Annie. Altrimenti non lo proponevo," rassicurai e mi rivolsi a mio fratello: "Dave mi aspetta in centro, forse rimango a dormire da lui così sono vicino al cantiere."
"Va bene, ricordati di lasciare la moto nel suo garage, così domani prendi tu la macchina," rispose, alludendo alla divisione settimanale che avevamo organizzato quando avevamo acquistato insieme la macchina.
"Stasera glielo dico," confermai. "Annabeth, tu sei pronta?"
La ragazza scattò in piedi, raccolse la borsa e con un saluto generale mi seguì fuori dalla stanza.
"Ci vediamo direttamente lì," mi salutò Robert, "Accompagno George così mi tengo la macchina e arrivo."
"Fammi un messaggio quando arrivi," annuii. "Andiamo, Annie."
"Sí, eccomi," avanzò il passo per raggiungermi.
"Fammi un messaggio quando sei a casa," le urlò dietro Leanne.
Rebecca ci accompagnò fino all'ingresso salutandoci con un veloce abbraccio e dandoci appuntamento per la settimana dopo.
"Sì, ci sentiamo per pranzare insieme domani," le diedi un bacio sulla guancia e aprii la porta.
"Ehi, James," Annabeth avanzò il passò per riuscire a starmi dietro. A quella vista rallentai per permetterle di raggiungermi. "Grazie per il passaggio, Ethan e Leanne hanno sempre poco tempo per stare insieme con i turni in ospedale di lui, mi dispiaceva farli allungare."
"Non ti preoccupare, davvero sei di passaggio," tirai fuori le chiavi della moto e mi bloccai sul posto. "Dì un po', mica hai paura vero?"
"Per chi mi hai presa?" scherzò e mi superò. Mi persi un momento nel movimento delle sue gambe fasciate dai jeans, prima di ridestarmi e raggiungerla.
Ma cosa mi passava per la testa? Era già la seconda volta che succedeva quella sera, era imbarazzante. Dovevo assolutamente conoscere qualche ragazza in discoteca o la situazione mi sarebbe definitivamente sfuggita di mano.
Avevo guardato il sedere della migliore amica di mia sorella: era inaccettabile oltre che fuori dal normale. 
Annabeth era... Annabeth.
"Ecco, prendi," le porsi il casco di riserva. "Mica è largo?"
Annabeth agitò la testa per provarlo. "Non troppo," rispose e si issò sul cavalletto.
Un tuono attirò la nostra attenzione, portando entrambi ad alzare lo sguardo in l'alto, verso il cielo coperto da un manto di nuvole. 
"Sbrighiamoci o ci beccheremo un acquazzone, e con la moto non è l'ideale" misi in moto e partii.
 






A piè di pagina:
Eccoci qui!
Sono stata davvero contenta anche di aver visto che James è piaciuto. Lui è un po' come quel figlio su cui hai tanti dubbi perché hai paura che possa fare danni mondiali... Sono un po mamma chioccia, insomma.

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Capitolo 3
*** L'occasione fa l'uomo ladro ***


02. L'occasione fa l'uomo ladro

Un lampo squarciò il cielo davanti a noi e allentai la presa sull'accelerazione, rallentato dalla pioggia che rendeva l'asfalto scivoloso e la moto precaria.
Sentii Annabeth stringersi contro la mia schiena e  aumentare la presa sulla mia vita, mentre l'acqua ci inondava senza pietà
Non era esattamente così che mi ero immaginato quella parte della serata, ma soprattutto ora dovevo trovare un modo per entrare nel locale con abiti asciutti.
"Va tutto bene?" urlai per superare il rumore della pioggia e strinsi gli occhi.
Guidare stava diventando impossibile oltre che pericoloso. Rallentai ulteriormente, andando quasi a passo d'uomo per evitare uno scivolone sull'asfalto.
"Sì, tranquillo," allungò un braccio. "Siamo arrivati," annunciò.
Virai verso destra, avvicinadomi al marciapiede e poggiando i piedi a terra per dare stabilità alla moto. Annabeth esercitò una lieve pressione sulle mie spalle e scese, ritrovandosi in piedi e bagnata davanti a me.
"Grazie per il passaggio, Jim," mi passò il casco, mostrando i capelli ormai bagnati.
Mi portai indice e medio uniti contro la fronte e feci un occhiolino. "Dovere, milady. Che non si dica che James Adams lascia una ragazza da sola in un taxi o sotto la pioggia."
"Sia mai, non ti darebbe giustizia. James, per favore, stai attento ora che riparti," puntó il naso verso l'alto, osservando con il naso arricciato la pioggia in aumento. "Per caso vuoi..."mi guardò incerta, "Vuoi salire il tempo che diminuisca un po'?"
A quella proposta inaspettata alzai le sopracciglia verso l'alto e la guardai di sbieco, mentre imbarazzata aspettava una risposta.
Se dovevo essere sincero no, non volevo. Si sarebbe solo creata una situazione imbarazzante e di disagio, mentre io volevo solo andare a divertirmi con i ragazzi.
O dormire, visto che mi si chiudevano gli occhi, ma questo non l'avrei ammesso neanche sotto tortura. Avevo una reputazione da rispettare io.
Conoscevo Annabeth dalla bellezza di dieci anni, da quando per la precisione Leanne aveva messo piede al collegio ed erano diventate l'una la costola dell'alta. Eppure non eravamo mai stati solo noi due soli, mai nessuna conversazione che andasse al di là delle battute superficiali.
"Si, grazie," rispose infine con disinvoltura, perché dopotutto era solo Annabeth, la migliore amica di mia sorella, e non c'era bisogno di agitarsi.
La conoscevo da quando portava l'apparecchio, un paio occhiali più grandi del suo viso perché andavano di moda ed era alta un metro e due noci.
E poi Annabeth era simpatica, mi dissi scendendo dalla moto. Anzi no, corressi, era sarcastica e ogni volta finivo per invidiarla perché io invece non ne ero capace.
"Vuoi qualcosa per la moto?" chiese e aprí il portone.
"No, tranquilla, tanto non appena ho un giorno libero devo comunque darle una pulita."
Annabeth annuì ed entrò nel piccolo ascensore, facendomi spazio per seguirla. Passammo i successivi minuti stretti spalla contro spalla e in silenzio, entrambi rigidi sul posto e intenti a guardarci intorno all'interno di uno spazio quattro per quattro.
Mi passai una mano tra i capelli bagnati, allentandoli dalla fronte e giocciolando sul pavimento. "È molto che vivi qui?"
Lei mi guardò con le sopracciglia alzate. "Più o meno tre anni, mi hai anche aiutato a portare le mie cose."
Ah.
Complimenti Jim. Rimani sempre un campione delle figure di merda.
Abbozzai un sorriso e tirai fuori la mia migliore espressione da schiaffi - come la definivano sempre in famiglia.
"Piccolo lapsus," mi giustificai e Annabeth scosse la testa. "Quindi," feci un veloce calcolo, "Avevi vent'anni?"
"In realtà diciannove, sono nata a fine anno quindi ufficialmente non ne avevo ancora venti," spiegò e aprí la porta di casa.
La seguii con circospetto, inibito dalla conversazione appena avvenuta, e cominciai a guardarmi intorno curioso di di spiare un po' della sua vita.
A essere sinceri, sebbene lei stesse praticamente sempre a casa nostra a tal punto da essere considerata di famiglia, non ero esattamente sicuro di cosa le piacesse o cosa facesse di solito nel tempo libero.
Ma più di tutto, Annabeth che lavoro faceva?
Forse avevano ragione i miei fratelli quando dicevano che ero troppo concentrato su me stesso.
"Allora," mi tolsi la giacca bagnata, "Come mai così presto?"
"Cosa così presto?" chiese lei e sparì in una stanza, riuscendovi pochi istanti dopo con due asciugami. "Tieni."
"Grazie," l'afferrai e cominciai a tamponarmi la maglietta appiccicosa. "Dicevo, perché te ne sei andata così presto?"
"Non conosci mia madre, stavo impazzendo con lei. Ti spiace se vado in bagno a cambiarmi un attimo?"
Scossi la testa e la seguì con lo sguardo mentre usciva dal salotto. Presi il telefono, miracolosamente asciutto, e scrissi velocemente un messaggio a Robert.

Faccio tardi, aspetto che smetta.

La voce di Annabeth mi richiamò, portandomi a sporgermi nel corridoio.
"Che hai detto?"
Sentii lo scroscio dell'acqua interrompersi. "Ho un phon in camera," urlò dal bagno. "Nel primo cassetto sotto al letto, usalo pure."
La ringraziai e mi diressi verso la stanza dove l'avevo vista entrare poco prima. La prima cosa che mi saltò all'occhio, una volta aperta la porta, fu l'ordine quasi innaturale che caratterizzava ogni singola cosa, oltre alle tante foto che facevano bella mostra di sé su ogni superficie disponibile. Feci come aveva detto e mi abbassai ad aprire il cassetto sotto il letto, sentendomi in imbarazzo per quella violazione della privacy.
Al suo interno, però, non c'erano altro che prodotti da bagno e allungai una mano verso il phon. Stavo giusto per richiudere il cassetto quando il mio sguardo cadde su delle confezioni colorate: erano assorbenti e, neanche avessi ancora dodici anni, mi ritrovai a chiuderlo di scatto.
Come se non fossi cresciuto con due sorelle e una madre poi.
Attaccai la spina in una presa e cominciai ad asciugarmi i capelli, dando contemporanea uno sguardo alla stanza. Mi soffermai in particolare sulle foto, individuando subito un' Annabeth di diverse età sempre in compagnia di Leanne.
Incurvai le labbra verso l'alto alla vista di mia sorella a dodici anni con due treccine ai lati del volto e l'espressione infantile. Passai poi alla seconda foto che ritraeva Annabeth circondata da quasi tutti i cugini Adams: indossavamo tutti delle finte corna o capellini natalizi, a eccezione di Robert che aveva deciso di circondarsi di lucine.
Non mi ci volle molto a individuare il me di qualche anno prima, soffermandomi con una smorfia sui capelli legati in una coda e il pizzetto.
Quell'anno mi aveva preso in giro persino Allison, la più piccola della famiglia.
"Eri davvero inguardabile conciato in quel modo."
Spensi il phon e mi girai verso la porta. Annabeth mi guardava con un sorriso, appoggiata allo stipite e con le braccia incrociate: aveva i capelli biondi sciolti sulle spalle, gli occhiali in una mano e la sua tipica espressione ironica in volto.
"Non ci crederai ma avevo una fila immensa di ragazze."
"E ora dove sono?" mi prese in giro e, con un cenno della testa, mi invitò a seguirla.
Con un movimento veloce arrotolai il filo su stesso e riposi il phon al suo posto. Arrivato in salotto la trovai seduta sul divano e con due birre in mano.
"Visto che sei bloccato qui per colpa mia," me ne tese una, "Il minimo che posso fare è offrirti da bere."
"Lo sai che non dico mai di no," la raggiunsi e mi accomodai sul divano.
Appoggiai la testa sullo schienale e chiuse gli occhi, rilassandomi per la prima volta da quasi quarantott'ore.
"Dio," sospirai, "È comodissimo. Posso sposare il tuo divano?"
Annabeth rise e fece toccare le nostre bottiglie in un brindisi. "Per me va bene ma dovrai vedertela con Anna." La guardai interrogativo, "La mia coinquilina," spiegò allora, "Il divano è suo."
Strinsi le labbra l'una contro l'altra e alzai le sopracciglia. "La tua coinquilina si chiama Anna, davvero?"
"Immaginavo questa battuta e ti dirò di più: non sei stato il primo, Ethan è arrivato prima di te."
"Vorrei ben vedere," bevvi un sorso di birra. "Anna e Annabeth, le coinquiline perfette. Dí un po', non c'è un po' di confusione quando qualcuno vi chiama?"
In risposta, si limitò tirarmi un cuscino in faccia, alzandomi contro il dito medio.
"Me lo sono meritato," replicai inossidabile.
Una canzone attirò la mia attenzione e Annabeth, con un salto, si sporse fino al tavolino. Afferrò il suo cellulare e lo spense, riattaccando la telefonata.
"Drastica," commentai, asciutto. "Chi è il poveretto?"
"Nessuno," si strinse nelle spalle, per poi guardarmi confusa. "E chi ti dice che è un lui?"
"Io so tutto, dovresti saperlo ormai," sorrisi sfacciato e mi passai una mano tra i capelli umidi.
"Giusto, dimenticavo le tue grandi doti," alzò gli occhi al cielo.
Alzai la bottiglia ormai vuota in sua direzione. "E non sono neanche le più grandi."
Nel momento stesso in cui terminai la frase, desiderai poter avere un tasto per riavvolgere la scena: era Annabeth, per l'amor del cielo. La migliore amica di mia sorella!
Lei invece si voltò a guardarmi sorpresa e con gli occhi spalancati, prima di scoppiare a ridere incurante del mio povero orgoglio.
"Non l'hai detto davvero," esclamò e cercó di riprendere fiato. "Fa così tanto battuta anni duemila."
Mossi la punta del piede verso la sua gamba e le diedi un leggero calcio, fingendomi offeso. "Piuttosto, me lo dici chi è quello con cui non vuoi parlare? Se ti da fastidio basta che me lo dici e..."
Annabeth mi portò una mano sulle labbra, interrompendomi. "Per favore, non dirlo. Basta proporre di picchiare tutti i miei ex, lo fai da quando ho quattordici anni."
"Hai un ragazzo?" chiesi, incurante della sua accusa. "Cioè, lo avevi?"
"Non essere così sorpreso, ti prego."
"Ma no," risi e agitai una mano per aria, "Non intendevo in quel senso. È che Leanne l'avrebbe detto a tutto il mondo e invece non ne sapevo nulla."
Si fiondò a bere l'ultimo sorso di birra che le rimaneva. "Prometti di non dirlo a nessuno?"
"E con chi dovrei parlare, scusa?" Ma poi non dire cosa ?
"Tipo con i miei amici, ovvero tutta la tua famiglia," fece notare con ovvietà. "Ascolta, Leanne non ne sa nulla e non deve saperlo."
Mi misi comodo sul divano e virai il busto verso di lei. "Non ti sembra di esagerare? Con chi potrai mai essere..."
"Il mio capo," quasi urlò e si nascose il viso tra le mani. "Merda, merda, merda."
"Merda. Hai capito Annabeth, non l'avrei mai detto."
"E non lo dovrai mai dire! Lui è sposato e io..." si afflosciò su se stessa. "E io sono una rovina famiglie, vero?"
Ebbi l'impressione che qualsiasi cosa avessi detto, si sarebbe ritorta contro di me. Un lampo improvviso illuminò la stanza e deglutii in difficoltà.
Mi aspettava una conversazione lunga e tortuosa.
Non capivo come ma finivo sempre per trovarsi in situazioni scomode e rischiose per la mia incolumità - e il mio bel viso di cui andavo molto fiero.
"Vuoi parlarne?"tentai debolmente.
"Non c'è molto da dire," abbracciò uno dei cuscini del divano e vi appoggiò la guancia. "Ha quaranta anni, ha una moglie e due figli. Piccoli."
"Grazie per la precisazione, è di indubbia importanza."
Mi guardò contrariata. "Vuoi saperlo oppure no? Vado a prendere due birre, ne avrò bisogno."
Si alzò dal divano per tornare dopo pochi minuti con due bottiglie in mano stappate e i piedi scalzi sul pavimento caldo.
"Allora," si sedette e incrociò le gambe, "Ci tengo a precisare che ormai è ex e ci rimarrà."
"Ti ascolto."
"È iniziato tutto un anno fa, lavoravo da qualche mese lí e lui era molto gentile e disponibile."
"Quello sicuramente," commentai a mezza voce.
"Ti pregherei di non interrompere, non è una cosa di cui vado fiera. Come ho detto era molto paziente con la mia inesperienza, e ti prego non fare la battute che penso," richiusi la bocca. "Non so cosa mi sia preso, cioè lo so. Lui è un bell'uomo, davvero!"
"I dettagli no, ti prego. Mi basta essere il tuo diario segreto per questa sera."
Con un gesto di stizza mi rubò la birra di mano e bevve un sorso. "Se non mi interrompessi avrei già finito, non c'è molto da raccontare. Abbiamo iniziato a vederci di nascosto, poi ho scoperto che era sposato e mi ha promesso che l'avrebbe lasciata."
"Ma non l'ha fatto," intuii.
"Chiaramente no," abbassò la testa e cominciò a giocare con un filo del cuscino. "Credo... sì, ecco, io mi stavo innamorando e ci credevo davvero. Non mi importava il lavoro né quanti anni avesse, avrei solo voluto che mi scegliesse."
Feci una smorfia.
A vederla così piccola e indifesa, desiderai poter avere quel bastardo davanti. E al diavolo il temperamento agitato.
"Ho bisogno di bere ancora," commentò Annabeth.


 
🍓



"Nooo," urlò Annabeth e si buttò addosso. "Lo voglio io l'ultimo."
Allungai il braccio all'indietro per non farla arrivare alla bottiglia, l'ultima rimasta della scorta che aveva in casa - comprese quelle di Anne la coinquilina.
La situazione era, sin da subito, sfuggita al nostro controllo nel momento in cui la ragazza aveva dichiarato che per affrontare quella conversazione aveva bisogno di una notevole dose di alcol.
"Sei cattivo," si imbronciò e incrociò le braccia al petto.
Al mio sguardo, sebbene avessi i riflessi rallentati, non sfuggì il movimento del suo seno. Percorsi lentamente il suo profilo, lasciato libero dalla felpa e fasciato solo da una canotta slabbrata dal tempo.
Siano lodati i termosifoni e la birra.
"L'hai finita," commentò tristemente nel frattempo, ignara dei miei pensieri. "E io ora come faccio?"
"Ne hai già bevute tre," le feci notare, imponendomi di distogliere lo sguardo dalla sua scollatura.
"Quattro," ammise e, con un movimento ampio del braccio, si allontanò i capelli dal viso. "Ho bevuto anche a casa di Rebecca. È che Monopoly non piace, perdo seeeeeeeeeeempreeee."
"Hai detto qualche lettera di troppo," le feci notare divertito io, che tra i due ero quello più sobrio.
Il che doveva farmi intuire quanto invece lei fosse più che andata.
Annabeth scoppiò a ridere, contorcendosi al mio fianco in modo innaturale. In quella convulsione però non riuscii a vederci niente di sbagliato o brutto, trovandola solo dannatamente sexy.
"Credo..." mi scappò un singhiozzo allarmato, "Credo sia meglio che io vada ora."
"Ma piove."
"Lo so."
"E sei ubriaco."
"Non è vero."
"Allora reggiti in piedi su una sola gamba," mi sfidò e si inginocchiò per osservare meglio.
Non abbassare gli occhi. Non abbassare gli occhi. Non... li avevo abbassati.
"James Adams," pronunciò lentamente Annabeth, accarezzando ogni lettera del mio nome. "Mi stai forse guardando le tette?"
"No," scossi la testa energicamente, provocandomi un breve giramento. "Proprio no. Guardavo... il tuo petto, hai una collanina molto carina."
"Ah, si. Grazie," sorrise, mostrando i denti perfetti e bianchi.
Com'era possibile che, quella sera, tutto di lei mi sembrasse tremendamente attraente? Avevo bisogno di dormire.
Dovevo andare via, era la migliore amica di Leanne quella che non riuscivo a smettere di guardare. Senza contare il suo essere più piccola e il fatto che ci conoscessimo da praticamente una vita.
Era sbagliato.
Promemoria per il futuro: non bere mai più con Annabeth.
"Credo... cioè devo..." mi sembrava di fare una fatica immensa per parlare, come se la lingua non ne volesse proprio sapere di seguire i miei comandi. "Io vado."
Mi alzai in piedi con fretta e raccolsi il cellulare dal tavolino. Con pochi ma veloci passi raggiunsi il corridoio d'ingresso e mi infilai la giacca.
Fuori un ennesimo tuono interruppe il silenzio della notte.
Una mano, piccola e leggera, si posò sulla mia spalla e volandomi trovai Annabeth vicinissima. D'istinto feci un passo indietro e andai a sbattere contro l'attaccapanni.
"James," disse e mi persi nel movimento delle sue labbra. "Mi prometti che non dirai niente a nessuno?"
"Di noi due?"
Lei mi guardò stranita. "Del mio capo. Di quello che ti ho raccontato."
Complimenti per l'ennesima figura di merda, James. Davvero un campione.
"Giusto, certo. Puoi contarci," abbozzai un sorriso e misi una mano sulla maniglia della porta, spalancandola per l'impeto. "Ciao, eh."
Mi catapultai fuori dall'abitazione e mi chiusi la porta alle spalle, poggiandocimi contro.
Cazzo!
Tirai fuori il cellulare e controllai l'orario: era passata la mezzanotte, fuori diluviava e io era ben lontano dall'essere sobrio.
Infilai le mani in tasca, le chiavi non c'erano.
Cazzo!
Con un sospiro rassegnato alzai il pugno per bussare, quando la porta si aprì senza che ce ne fosse bisogno. Mi ritrovai davanti Annabeth, incerta e arrossata, che alzava una mano in segno di saluto.
"Stavi per bussare," esclamò confusa. "Perché?"
"Mi stavi spiando. Perché?"
Ci guardammo per alcuni istanti in silenzio e sentii una lieve tensione nei pantaloni. Pochi secondi dopo eravamo l'uno nelle braccia dell'altro, avvinghiati in un bacio famelico e appassionato.
La porta venne chiusa con un calcio e lei, per la foga, finí per scontrarsi bruscamente con l'attaccapanni.
"Scusa," mormorai e le infilai una mano sotto la canotta, incontrando la schiena nuda e libera dal reggiseno.
"Andiamo in camera," mi spinse all'indietro, sfilandomi contemperamento la giacca di dosso e lasciandola cadere a terra.
"Aspetta, aspetta. E la tua coinquilina?"
"È in Spagna per sei mesi," spiegò. "Erasmus."
"Ah, bella la Spagna," commentai, indeciso sul da farsi. "Ci sono stato dopo il diploma."
"Molto interessante, magari ne riparliamo," prese a baciarmi il collo e mi sbottonò il pantalone. "O preferisci parlare della sangria?"
Deglutii osservando Annabeth farsi scivolare il pantalone della tuta lungo le gambe.
Al diavolo tutto!
La presi in braccio, facendole incrociare le gambe intorno alla vita, e le afferrai il sedere con una mano. Lo strinsi con forza e socchiusi gli occhi quando le sfuggì un gemito.
Cominciai a indietreggiare per arrivare a una superficie su cui stendermi e cercai le labbra rosse e gonfie di Annabeth.
Alla camera da letto non riuscimmo ad arrivarci, troppo impazienti di andare oltre, limitandoci a raggiungere il divano e sprofondandovici dentro in un insieme di baci, pelle e sussurri.
"James," ansimò e mi strinse con forza le spalle. "Comunque io non ho una collana."
Ah.
 
🍓



Buongiorno Stelline (chi sa capirà), come promesso siamo arrivati subito alla porta "scottante". Ve lo aspettavate?
Forse sì, forse se no... Ma soprattutto, come vi state trovando con la prima persona per la narrazione? È la prima volta che la uso, per cui mi sarebbe davvero d'aiuto capire per migliorarmi.
Detto ciò, mi farebbe piacere sapere le vostre opinioni proprio qui, per confrontarci e conoscerci.
Avete capito il perché della fragola?
 

 

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Capitolo 4
*** In vino veritas... in birra catastrofe ***


03. In vino veritas... in birra catastrofe


Di cazzate nella vita ne avevo fatte tante, al punto tale da non riuscire a ricordarle tutte - mia madre invece sì, lei probabilmente aveva ognuna di esse stampate nella memoria.
Ne avevo fatte di grosse e di piccole, come quando ero quasi stato espulso per aver cercato di rubare una copia del compito di scienze o quando, a nove anni, avevo quasi rischiato di rompere una gamba a Leanne per spingerla giù da un muretto; la più epocale era certamente quella di me e Robert che, ancora minorenni, in un sabato d'estate avevamo rubato la macchina dei nonni e, senza patente, eravamo andati a un festival della musica.
Bello, per carità, ma non valeva neanche la metà della punizione che avremmo trovato a casa.
Tanti gli sbagli e le stronzate che mi portavo alle spalle da aver avuto la nomea del teppista per anni: avevo tradito ed ero stato tradito, avevo avuto ragazze da una notte, ragazze più grandi - donne. C'era stata poi la cugina Cassie, che in realtà era cugina di Robert da parte di madre, ma una nostra lontana parentela non ci aveva fermati dall'appartarsi al compleanno dello zio.
Col senno di poi, forse, qualcuno dei tanti rischi non l'avrei rifatto oppure sì, ma con più attenzione così da non essere scoperto. Ma mai, nella lunga lista che mi caratterizzava, avevo fatto una cazzata come quella della sera prima.
Perché, e scusatemi il francesismo, porca miseria ero andato a letto con Annabeth.
Sentivo il suo respiro al mio fianco mentre le prime luci del mattino filtravano dalla finestra socchiusa. Mi voltai verso di lei, distesa sul materasso - sul quale, ancora sotto gli effetti dell'alcol, aveva insisto perché ce la portassi nuda e in braccio.
Mi soffermai sulla schiena bianca e liscia, passando per i capelli sparsi sul cuscino e terminando con il lenzuolo che la copriva dalla vita in giù.
Questa volta l'avevo fatta proprio grossa.
"Sei sveglio," constatò lei, continuando a darmi le spalle.
Chiusi gli occhi e inspirai profondamente, prima di iniziare l'inevitabile conversazione.
"Anche tu," mi passai una mano tra i capelli umidi a causa dei termosifoni troppo alti e dei piumoni pesanti.
Almeno avevo scoperto qualcosa su di lei quella sera, oltre alla sua taglia di reggiseno ma a quello preferii non pensare: era troppo freddolosa.
"James," chiamò e rotolò sul letto per guardarmi, "Abbiamo fatto sesso?"
"Temo proprio di sì," risposi. "Ho bisogno di fumare. Ti dispiace?"
"Un po sí in realtà, nelle altre stanze va bene ma in camera da letto poi rimane," la vidi scorrere con lo sguardo su tutta la mia figura. "Com'è potuto succedere?"
Quella era esattamente la stessa domanda che mi stavo facendo dal momento in cui avevo aperto gli occhi. Avevo urgentemente bisogno di una sigaretta e Annabeth sospirò al mio fianco, ricordandomi la sua presenza.
Magari ne avrei fumare due, và.
"Mi scoppia la testa," mormorò e si mise seduta, afferrando il lenzuolo per coprirsi. "Ti va un caffè?"
Mi sporsi verso il comodino alla ricerca del telefono e lo trovai ai piedi del letto. Lo raccolsi e controllai l'orario... Accidenti, ma quanto avevo dormito?
"In realtà dovrei andare a lavoro, sennò rischio di fare tardi."
Vidi Annabeth aprire uno dei cassetti, portandosi il lenzuolo dietro, e recuperare una maglietta. Dopo quella che mi sembrò un'eternità, si decise finalmente ad alzare lo sguardo su di me.
"Ti aspetto in cucina," disse con tono incolore. "Se vuoi puoi darti una sciacquata prima di andare."
Annuii e mormorai un ringraziamento, restando a guardare mentre usciva di corsa dalla stanza. Mi ributtai sul letto con un tonfo e un rimbalzo dovuto all'impatto, desiderando solo una pala e un posto dove sotterrarmi.
Da quel momento in poi, sobrio per tutta la vita.
Fu solo venti minuti, molte imprecazioni e una notevole dose di coraggio dopo che varcai la soglia della cucina. Annabeth era lì che aspettava appoggiata al bancone, una tazza in mano e i capelli stravolti.
"C'è del caffè se vuoi," indicó una caffettiera color giallo limone e notai le profonde occhiaie che le segnavano il volto.
"Annabeth, ascolta, per quello che è successo stanotte..." mi accarezza il principio di barba con le nocche.
"Non lo diremo mai," mi interruppe con lo sguardo ancora perso nel vuoto. "A nessuno, neanche a Robert."
Lasciai cadere la mano e tirai un sospiro di sollievo, felice che lei fosse sulla mia stesa lunghezza d'onda. Come se non lo fosse già stata anche quella notte... No!
Stop, James. Dimentica tutto.
"Come se non fosse mai successo, nessuno lo saprà."
"Specialmente Leanne. Tu sei suo fratello e lei..."
"La regine del dramma, lo so," conclusi per lei, immaginando perfettamente l'apocalisse che avrebbe generato una rivelazione del genere. "Sarebbe una tragedia."
Annabeth annuì e sospirò profondamente. "Che gran casino, eh?"
Grande lo era sì, cazzo.
"Annie, mi dispiace."
Lei provò a sorridere, sebbene con scarsi risultati, limitandosi ad alzare un angolo della bocca.
"E di cosa? Non mi hai mica costretto."
"Lo so, però potevo evitarlo."
"Se non ricordo male hai bevuto quando me," mi fece notare. "E sono io che ti sono saltata addosso."
"Non me ne lamento, tranquila," provai a scherzare, incontrando però l'espressione sofferente della ragazza. "Ricevuto, è ancora troppo presto."
Annabeth alzò un sopracciglio in modo eloquente e mi pentii subito di aver aperto la bocca.
"James," prese una piccola pausa, "Io di solito non le faccio queste cose, ci tengo a precisarlo."
"Quali cose?"
"Queste. Noi due," mosse il dito tra di noi. "Non le faccio, non sempre per lo meno. E soprattutto non con il fratello della mia migliore amica"
"Annabeth Foster," mi portai la tazza alle labbra per nascondere il sorriso beffardo, "Allora non sono la tua prima avventura di una notte: sei una continua sorpresa."
"Dí un po', dove vuoi che ti tiri la tazza? In testa, nello stomaco, nel..."
"Va bene così," la interruppi divertito. "Non serve che continui, ho già capito. Non ti facevo così aggressiva, sai?"
Alzò gli occhi al cielo e trattenne un sorriso, mordendosi il labbro inferiore. Come un lampo mi tornano in mente i ricordi della sera prima, quando l'avevo baciata fino allo sfinimento in ogni parte del corpo e quando le sue labbra avevano sfiorato ogni superficie possibile del mio corpo.
Cazzo, dovevo smetteterla.
"Devo andare," esclamai all'improvviso senza darle il tempo di ribattere. "Il lavoro, sai com'è."
Lei annuì e mi guardò stranita. "Buona giornata allora. E ricorda, nessuno deve sapere."
"No, nessuno," ripetei cantilenante e posai la tazza nel lavandino. "Ehm... grazie per tutto."
Io cosa?
Annabeth strabuzzò gli occhi e mi precipitai fuori dall'abitazione.

 
🍓



Grazie per tutto avevo detto ed ero scappato via.
Ma, esattamente, grazie per cosa?
La birra?
L'ospitalità?
Il caffe?
L'orgasmo?
Grazie per tutto, e probabilmente avrei cambiato nome e continente pur di non rivedere Annabeth mai più.
"Jim, sei sicuro che vada là?"
Mi girai verso il mio amico Dave, intento a indicarmi dubbioso una lunga asse di legno che dei ragazzi stavano trasportando.
"Ehm... no, non lo so. Mi ero distratto," mi pettinati i capelli con una mano.
"Va tutto bene?" mi guardò. "Sei un po' strano oggi."
"Alla grande," mi sforzai di sorridere e sembrare naturale. "Solo un po' di stanchezza."
"Come vuoi. Alla fine ieri che fine hai fatto? Ti aspettavamo."
Ho rovinato per sempre la mia vita e il rapporto con mia sorella.
"Sono rimasto da un amico, pioveva troppo e non me la sentivo con la moto."
"Quale amico?"
"Non... non lo conosci," mi finsi impegnato a raccogliere dei materiali da terra.
"Jim, i tuoi amici sono anche i miei. Dai, dimmi chi è."
Sentii un'ondata di panico montarmi dentro e mi cominciai a guardare intorno alla ricerca di un salvagente. Poco lontano da lì, la grande e luminosa insegna di un negozio di materassi faceva bella mostra di se:

Daniel Shermann, dove la comodità non è un sogno.

Come fossi stato colto da un'illuminazione divina, esultai mentalmente e risposi:
"Daniel, il mio vicino di casa, ora abita in centro. Te lo ricordi?"
"Non molto," Dave si strinse nelle spalle e io, per la felicità, mi sarei dato il cinque da solo.
Triste. Molto tristeragazzi.
"Adams," tuonò una voce e, racimolando tutta la mia pazienza, mi voltai verso il capo cantiere Owen. "La tua pausa pranzo è iniziata cinque minuti, se inizi più tardi non riavrai il tempo perso."
"Va bene, vado subito," urlai e alzai un pollice verso l'alto. Mi rivolsi poi a Dave: "Quello mi odia."
"Non è vero, è solo un po' burbero."
Esausto mi tolsi il casco protettivo e pulii le mani sui pantaloni. "Con te forse, perché sei il figlio di uno dei soci dello studio. A me odia proprio."
Dave si strinse nelle spalle. "Credo sia colpa della tua faccia, ad alcuni può dare fastidio."
La mia faccia?!
Evitai di rispondere, cacciando indietro l' autostima che cadeva a picco, e mi allontanai dal cantiere. Appoggiati alla mia moto e intenti a litigare, trovai Robert e Rebecca.
"Sei un'animale," sbottò lei e si allontanò dal ragazzo.
"Come sei pesante, ti ho solo spinta un po'. Non è colpa se sei così leggera che voli."
"Spinta un po'?" ripetè Rebecca e sbattè un piede per terra. "Mi hai fatto cadere dalla moto. Col sedere per terra."
"Mi auguro ci sia un video della caduta," sorrisi e mi avvicinai a loro.
"Purtroppo no, è successo tutto troppo velocemente," rispose Robert e mostrò due buste targate Mc Donald's.
"È un gran peccato," mossi il busto per evitare un pugno. "Però scendi da là, Robs. Non si mangia su di lei."
"Scusa, non volevo sporcare la tua fidanzata," alzò le braccia al petto. "Anche perché è l'unica che hai al momento."
Con una spinta a mio cugino, presi il panino e cominciai a mangiare voracemente. Non me ero reso conto di averne così tanta fame, ma nel momento stesso in cui avevo sentito l'odore delle patatine il mio stomaco si era svegliato tutto all'improvviso, accusando il colpo della mancata colazione.
"Siete disgustosi," commentò Rebecca, cercando un punto pulito del marciapiede su cui sedersi. "Sembra che non mangiate da un mese."
"Allora perffe maii c' 'po?"
"Jim, ingoia prima, ti prego."
"Dicevo," mi pulii il mento con una manica della maglietta. "Perché mangi con noi allora?"
"Perché quando avevo cinque anni la nonna mi ha chiesto di pensare a voi, altrimenti stava pensiero."
Come ragionamento  non faceva una piega.
"A proposito di stare in pensiero," Robert mi guardò male, in un'ottima imitazione di sua madre, "Si può sapere che fine hai fatto ieri sera?"
Assurdo! Ventisei anni e ancora mi giustificava per dove passava la notte... Con Roberto poi.
"Ma niente," mi strinsi nelle spalle, evitando accuratamente il suo sguardo. "Te l'ho detto che non riuscivo a venire per la pioggia."
"Non è vero," mi puntò un dito contro. "Hai detto che facevi tardi e mi hai lasciato da solo con Dave, è stato impossibile avvicinare una ragazza."
"Non esagerare, dai" mi sentii in dovere di rispondere. "Dave se la cava."
"Ma non quanto il collaudato duo Jim-Robs. Rebecca, digli qualcosa anche tu."
Nostra cugina si sporse oltre di lui per riuscire a parlare . "Dov'eri, Jim? Hai avuto difficoltà a tornare a casa con la pioggia?"
Mi guardava con un'espressione sinceramente preoccupata e io, alla vista delle due persone con cui ero cresciuto e che mi conoscevano meglio di chiunque altro, fui quasi sul punto di vuotare il sacco.
Non desideravo altro che potermi togliere il peso di quel segreto e dividerlo con qualcun altro, raccontare di come le cose fossero precipitate senza che nessuno dei due potesse fare qualcosa per impedirlo. Ma più di tutto avrei voluto dimenticare i sospiri di Annabeth che mi avevano accompagnato per tutta la mattina, e il suo profumo di cui ora ogni cosa sembrava impregnata.
Che schifo di situazione in cui mi ero infilato.
"Terra chiama James," Robert mi agitó una mano davanti agli occhi.
"Sí, eccomi. Mi ero incantato."
"Già, ce n'eravamo accorti."
"Robert, fa un po' silenzio," lo richiamò Rebecca. "Allora, James, dove sei stato?"
Abbassai gli occhi, incapace di reggere il loro sguardo, e mentii. Perché Annabeth quella mattina aveva detto la verità: nessuno poteva sapere o sarebbe stata la fine.
Io avrei fatto la parte del solito James che combinava casini e non pensava prima di agire e lei... beh, lei era la migliore amica di Leanne e tanto bastava per creare uno scenario catastrofico.
"Mi ha ospitato un amico del lavoro, abita vicino Annabeth e quando ho visto il tempo l'ho chiamato."
"Chi?" chiese Robert. "Lo conosco?"
"No," risposi con troppa foga, mi ero rotto che tutti volessero la lista delle mie amicizie. "È nuovo, non l'hai mai visto."
Ora dovevo solo evitare che Dave e Robert si incontrassero.
Speranza quasi impossibile visto che era con loro che uscivo, mangiavo e respiravo.
Rebecca controllò l'orario sul telefono e si alzò in piedi, passandosi una mano sul jeans per pulirlo. "Io devo andare, ho lasciato il locale alla nuova apprendista e devo controllare che non abbia fatto saltare niente in aria," annunciò, riferendosi alla pasticceria in cui lavorava.
"Lavori troppo, Rebs," la rimbeccai affettuosamente.
"Detto da te, che non ti allontani dal cantiere neanche per la pausa pranzo, suona un po' finto."
Robert nasconde il viso tra le mani. "Siete diventati due adulti noiosi, che fine hanno fatto i cugini che uscivano a far festa con me?"
"Io non l'ho mai fatto," rispose lei e raccolse la borsa da terra.
"L'altro ieri abbiamo fatto l'alba insieme," obbiettai e mi alzai in piedi per salutare mia cugina.
"Ci sentiamo, ragazzi," diede a entrambi un veloce bacio sulla guancia e corse via.
"Allora," Robert raccolse i residui del nostro pranzo da terra, "Che facciamo?"
"Io," sottolineai con forza, "Torno a lavoro, o è la volta buona che Owen mi caccia."
"E io che faccio, scusa?"
"Non è colpa mia se hai aperto un locale notturno," gli diedi una veloce e consolatoria pacca sulla spalla. "Magari passo stasera, dai."
"Ci conto," allungò il pugno chiuso contro il mio a mo' di saluto.
Diedi uno sguardo al cellulare e vidi una nuova notifica. Avevo perso una chiamata da mia madre. Controllai un' ultima volta l'orario e portai il telefono vicino all'orecchio. Pochi istanti dopo la voce calma e familiare di mia mamma saluto.
"Ciao, ma'. Ho trovato la chiamata, è successo qualcosa?"
"Jim, mi sono preoccupata."
"Ma sono a lavoro, ma'," distesi le labbra verso l'alto.
Non lo voleva proprio accettare che quando ero in cantiere non le potevo rispondere e, inevitabilmente, finiva sempre per preoccuparsi. Forse era colpa delle tante volte in cui le ero scomparso da sotto al naso tra l'infanzia e l'adolescenza.
"Hai ragione, scusa," rispose. "Non è che quanto torni puoi..."
"Che?" mi spinsemi il telefono contro l'orecchio con forza. "Mamma, non ti sento. Sei in bagno, vero?"
"Sono in salotto, lo so che lì non prende," fece e sentii in sottofondo dei passi veloci. "Dicevo: me lo prendi il pane quando torni?"
Scossi la testa divertito. "Certo! Ti faccio un messaggio quando sto tornando."
"Lo spero bene, sono tre sere che non torni a casa!"
Sospirai e mi passai una mano sugli occhi: ecco che ripartiva il solito disco del "Questa casa non è un albergo" e "Io ti ho fatto e, se voglio, io ti disfo."
Non vedevo l'ora che casa mia fosse pronta per reclamare un po' dell' indipendenza che avevo tanto desiderato da quando aveva sette anni - a mia difesa ero sempre stato precoce per la mia età.
"Hai ragione, stasera sono tutto tuo," risposi e, sebbene lei non mi potesse vedere, assunsi la mia miglior espressione pentita. "Ci guardiamo un film insieme noi due?"
"E i tuoi fratelli dove li metti?"
"Lasciali stare loro," minimizza. "Almeno qualche volta fammi credere di essere figlio unico, reggimi il gioco."
La sentii ridere e la immaginai portare le mani sui fianchi in segno di rimprovero. "Vai a lavorare, và. Così posso vantarmi con quell'antipatica della signora Robinson che mio figlio progetta case."
"Fai la brava," la ripresi con affetto. "Io vado. Un bacio, ma'."
Chiusi la telefonata e feci per riporre il cellulare nella tasca, quando l'arrivo di una nuova notifica attirò la mia attenzione.
Ancora un po' e l'avrei buttato da un ponte.
Le mie intenzioni erano di leggere il mittente e rimandare la questione a dopo il lavoro, ma il numero non era salvato in rubrica. Preso dalla curiosità aprii la chat per vedere la foto del contatto.
Era Annabeth.
Il biasimo per me stesso mio piombò addosso come un macigno: Annie passava le vacanze a casa mia da anni, avevamo trascorso la maggior parte delle feste insieme e ci ero persino andato a letto. Ma nonostante ciò non avevo il suo numero salvato.
Anche questa volta mi feci i complimenti da solo.
Mi sono sentita con Leanne. Mi hai lasciata a casa prima che iniziasse a piovere, se dovesse chiedere anche te.
Una bugia in più o in meno, ormai, non faceva la differenza.
Un unico pensiero mi accompagnò mentre indossavano il casco protettivo e mi avvicinavano ai colleghi: l'astinenza era proprio un brutto affare.


 
🍓
 


Rimanendo in tema di felicità, io lo sono che voi non avete idea. Vedere i vostri commenti, scleri e supporto nei miei confronti e della storia è inspiegabile.
Mille e uno volte grazie.
Da me, da James (che si sta rivelando un ottimo protagonista) e da Annabeth (che, per tutti noi, si sta rivelando un ottima sorpresa).
E insomma, grazie per tutto (cit) 😜
Di nuovo, mi farebbe piacere sapere che ne pensate.
 

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Capitolo 5
*** Chi ben comincia è a metà dell'opera ***


Chi ben comincia è a metà dell'opera

"Sono esausto," commentò Jared, un mio collega di lavoro, e sistemò gli ultimi fogli. "E stasera è anche il compleanno di mia nipote."
In risposta abbozzai un sorriso cortese e infilai la giacca velocemente, desideroso di andare a casa, buttarmi sotto una doccia e non uscirne più.
Di settimane lunghe, interminabili e stancanti ne abbiamo?
Io sì, a bizzeffe.
"Se me l'avessero detto a vent'anni," intervenne un altro, comprensivo, "Non mi sarei mica sposato."
Era uno dei collaboratori importanti dello studio ma io, troppo impegnato a inseguire una laurea e mantenere una parvenza di vita sociale, non gli avevo mai dato troppa importanza: un certo Aaron qualcosa, intorno alla cinquantina e sulla via della perdita di capelli.
A essere onesto e forse anche un po' cattivo, non capivo proprio cosa avesse da lamentarsi nell'essersi riuscito a sposarsi egocentrico e borioso com'era.
Ma, ehi, io l'avevo detto da subito che quello dell'architettura era un mondo competitivo e pieno di testosterone, a volte non ne potevo più neanche io.
Quasi fosse una gara su chi la faceva più lunga. Prima tappa e avevi il lavoro, seconda e i colleghi anziani ti salutavano. Terza avevi una promozione, quarta diventavi l'ombra di te stesso fino all'ultima tappa in cui ti trasformavano in una macchietta di quello che eri.
Diventavi un Aaron qualsiasi, ti lamentavi delle feste in famiglia e ti pentivi di esserti spostato.
Che, per carità, io neanche ero favorevole al matrimonio ma da lì a passare anni della mia vita affianco a una persona per rinnegarla durante il lavoro ne passava di acqua sotto i ponti.
E va be, avevo già capito l'andazzo di quella serata. Mi sentivo polemico fin sotto la sulla delle scarpe.
"Beato te," continuò Jared e mi strinse una spalla. "Hai ancora tutta la vita davanti.
Se solo sapesse tutta l'invettiva che avevo appena fatto contro di lui. Lui, Aaron... Era proprio il sistema che era sbagliato.
Sì, va be. Meglio tornare a casa.
"E nessuna moglie che ti aspetta," continuò Aaron pensando di essere divertente. "Dí la verità, hai una fila di ragazze fino alla porta di casa."
"Già," mormorai, incapace di fingermi complice e cercando di non irrigidirmi sotto i loro occhi attenti.
A volte mi mancava il diciassettenne che ero stato, pronto a far valere le proprie idee contro tutti. A urlare, sbattere piedi e pugni per far sentire la propria voce perché cazzo sì se avevo qualcosa da dire. Ma ero cresciuto, di pensieri ne avevo ancora tanti ma di consapevolezza anche di più: crescere comportava scendere a compromessi e darsi qualche pizzico di tanto in tanto.
La risata di Aaron qualcosa mi arrivò alle orecchie grassa e prepotente e chiusi gli occhi.
Ero stanco di darmi pizzichi, per quella sera avevo finito.
Con un'occhiata veloce al polso controllai l'orario, desideroso di smettere i panni del neo architetto e sbottonarmi il colletto della camicia.
Quasi preferivo le giornate in cantiere rispetto a una lunga e noiosa giornata dietro una scrivania.
Leviamo pure il quasi. Le preferivo nettamente.
"Adams," chiamò una voce dal corridoio, alla quale seguí qualche attimo dopo una testa. "C'è una ragazza di sotto che chiede di te."
"Di me?" chiesi stranito, "Sei sicuro, Johnson? Ma per caso è una ragazza un po' bassa con i capelli corti e mossi?" portai una mano al petto, rappresentativo dell'altezza di mia sorella.
Johnson scosse la testa. "Bionda e con gli occhiali. Mi ha chiesto se lavoravi qui. Dovevo dire di no?"
Annabeth, realizzai sorpreso, ma subito lo sconcerto fu sostituito dalla preoccupazione.
Che qualcuno avesse scoperto cos'era successo? Sarebbe stato il finale perfetto di una settimana di per sé disastrosa.
E visto che nella vita mai nulla accadeva per caso, col tempo avevo capito che le sfighe - quando potevano, cioè sempre - cercavano sempre di accumularsi.
"No, tranquillo. È un amica," ringraziai e mi avvicinai alla porta. "Buona serata a tutti."
Feci giusto in tempo a sentire una battuta sulle belle ragazze che ti aspettavano a fine giornata e mi precipitai per le scale.
Abbassai la maniglia, quasi mi buttai il portone addosso e inspira l'aria fredda di fine gennaio.
Annabeth era lì che mi aspettava, aveva riconosciuto la mia moto e vi si era appoggiata nell'attesa. Alla sua vista, in barba ai miei consolidati ventisei anni, sentii venir meno tutta la sicurezza di cui mi ero sempre vantato. Mi avvicinai a lei con indecisione mentre immagini della notte trascorsa insieme mi scorrevano davanti, vorticandomi davanti agli occhi.
"James," si alzò dal sellino e mi venne incontro, nascondendo le mani nelle tasche della giacca. "Spero non ti abbia dato fastidio che mi sia seduta."
"Non preoccuparti," la rassicurai e abbozzai, indeciso su come salutarla. "È successo qualcosa?"
"No, tranquillo. Anzi, scusami l'improvvisata, ma l'altro giorno ti ho sentire dire che oggi lavoravi in studio e così ero sicura di trovarti.."
Accidenti, che memoria! Io a stento ricordavo cosa mangiavo la mattina per colazione... A proposito, cereali senza latte perché Leanne l'aveva finito, giusto?
Annabeth dovette interpretare male il mio silenzio e fece una smorfia  "Con questo non voglio assolutamente dire che ti seguo, spio o altre cose da psicopatica."
"Menomale," mi finsi sollevato. "Sarebbe stato da spiegare una stalker."
"Intendi ammettere che sei andato a letto con una psyco o che la suddetta è la migliore amica di tua sorella?"
Tuochè. Sorrisi e Annabeth mi imitò, attirando la mia attenzione sulle simpatiche fossette ai lati delle guance.
Annabeth si avvicinò e mi porse una busta.
"Hai lasciato questa da me e ho pensato di restituirla lontano da domande indiscrete."
Abbassai lo sguardo verso la bustina che mi porgeva e allungai la mano.  "Grazie, non ci avevo proprio fatto caso.
Potevi chiamare, sarei venuto io."
"Non è stato un problema," si passò i capelli da un lato, cominciando a passarci le mani. "Ho staccato da poco dal lavoro e ne ho approfittato."
"Se è così allora..." abbozzai un sorriso. "Hai già come tornare a casa o posso accompagnarti per sdebitarmi?"
"Non preoccuparti, non serve. Faccio una passeggiata."
"Sei sicura?" feci un passo verso di lei e mi guardai intorno, le strade erano quasi deserte. "Sono quasi le otto e si gela."
Subito dopo tornai indietro di due, dubbioso su come comportarmi dopo quello che era successo. E dopo che avevo scoperto tutti le deliziose lentiggini che aveva sul corpo, ricordai dolorosamente.
"È tardi," mi fece notare, "E tu devi fare quasi un'ora di viaggio."
Alzai gli occhi al cielo perché, sinceramente, io i finti complimenti li avevo sempre trovati inutili. Con lei poi, che ci conoscevamo da dieci anni e ci eravamo persino visti nudi, mi sembrava alquanto eccessivo oltre che fuori luogo.
Scossi la testa e tirai fuori le chiavi. "Non dirlo neanche, non ci metto niente ad arrivare a casa tua e lo sai. Quindi non farmi insistete e sali su."
Passai una gamba dall'altra parte della moto e vi salii sopra, facendola scendere dal cavalletto. Vidi Annabeth mordersi il labbro inferiore e guardarmi incerta, prima di avvicinarsi e issarsi sul sellino.
Nel frattempo mi immaginai la scena di me che scendevo dalla moto, le afferravo il viso e la baciavo come sognavo da giorni.
Perché, se dovevo essere sincero, Annabeth baciava da orgasmo.
Misi in moto e percepii le sue dita che mi sfioravano lo stomaco, delicate ma allo stesso tempo sicure.
Un po' com'era Annabeth stessa e come avevo imparato a capire in quegli anni, solo che di tempo ce n'era voluto anche troppo: vedendola la prima volta, così piccola e indifesa, avevo pensato che si sarebbe potuta spezzare con un soffio di vento, poi invece apriva la bocca, o semplicemente ti guardava, e ti ribaltava dal profondo. Una sola parola e riusciva a smuoverti dentro, cambiandoti anche le convinzioni più radicate.
Con le parole ci giocava, le faceva sue senza difficoltà, però era con gli occhi che ti dava il colpo deciso. Ti annichiliva, uno sguardo ed eri ai suoi piedi. Un po' come quando, anni prima, aveva sgridato Noah e me per essere eccessivamente apprensivi con Leanne senza il minimo imbarazzo.
E ci tenevo a precisare che, a farmi parlare, non era la nuova veste in cui l'avevo vista qualche sera prima. O per meglio dire, la non veste.
Semplicemente Annabeth era così: ti calamitava con una semplicità disarmante. Entrava in una stanza e non potevi fare a meno di voltarti perché emanava sicurezza, carisma. E forse il naso aveva una gobetta non necessaria - oltre che invisibile - e gli occhiali le coprivano tre quarti del viso, ma lei entrava e tu eri attirato.
Virai verso destra con il manubrio e individuai alla fine della strada il palazzo in cui abitava la ragazza. Il suo respiro mi solleticava la nuca, provocandomi la pelle d'oca fin giù alle scapole, e la vicinanza del suo corpo mi destabilizzava più di quanto ero disposto ad ammettere.
Erano queste le conseguenze di quasi nove mesi di astinenza?
Non la vedevo da due giorni, precisamente da quando quel segreto ci aveva uniti, e nonostante i rimorsi e la consapevolezza che fosse stato un grande errore non ero più riuscito a togliermela dalla testa.
Ogni attimo di quella sera era vivido nei miei ricordi - e a volte anche nei pantaloni, con non poco imbarazzo da parte mia - e sembrava non volermi dare tregua.
"Grazie, James," fece Annabeth e arrestai la moto per farla scendere. "Mi hai evitato un quarto d'ora di camminata."
"Dovere," mi strinsi nelle spalle e la salutai, rimanendo a guardare la sua schiena che si allontanava.
Con un sospiro mi sistemai meglio sul sellino, progettando una lunga doccia fredda e aggiustando la busta posizionata tra le mie gambe. Aprii le due estremità con le dita, stringendo gli occhi alla vista del suo contenuto.
Tirai fuori il pezzo di stoffa, riconoscendo una sciarpa verde bottiglia, e aggrottai le sopracciglia.
Ci vollero almeno due minuti affinché ricollegassi tutto e ogni puntino andasse al proprio posto. Con l'espressione di chi nella vita non ha mai capito nulla, mi alzai dalla moto di tutta fretta e le misi il cavalletto.
Io non aveva una sciarpa quella sera.
Ignorando il buonsenso che mi  gridava a gran voce di tornare indietro, fingere che la sciarpa fosse mia e dimenticare tutta quella storia, mi precipitai al portone del palazzo. Portai le mani a coppa intorno agli occhi, cercando di vedere attraverso il vetro del portone e sbattei il naso per la foga. Suonai il citofono e, contemporaneamente, bussai con un pugno.
Da qualche parte doveva pur rispondermi.
Qualche secondo dopo Annabeth era di fronte a me, con il portone ancora semi aperto e gli occhi spalancati. Mi guardava sorpresa ed era in procinto di dirmi che qualcosa, ma io fui più veloce.
Le misi una mano dietro la nuca e, spingendola contro la porta, la baciai lasciando che le mie narici venissero avvolte da quel bizzarro odore di fragola che portava con sé.
La risposta fu immediata e schiuse le labbra, aggrappandosi alle mie spalle e intrecciando le nostre lingue.
E mentre l'altra sera avevo potuto addossare la colpa alle troppe birre, questa volta non avevo alcuna traccia di alcol in corpo.
Era sobrio e consapevole di ciò che stavo facendo ma nonostante ciò la spinsi l'indietro, seguendola e facendo aderire i nostri corpi.
"La sciarpa non è mia," mi staccai dalle sue labbra e respirai, cercando di riprendere fiato e calmare il battito accelerato. "Non l'avevo quella sera.."
"Ah," Annabeth boccheggiò e si passò una mano tra i capelli. "Mi spiace... Devo essermi sbagliato, l'altra sera è venuto questo amico della mia coinquilina per  prendere un libro e..."
"Possibile, sì..." la interruppi e mi passai una mano tra i capelli. "Che dici... vuoi invitarmi a salire?"
"Tu... Ti va di salire?" chiese allora lei, seguendo il ritmo di quella strana e improvvisata conversazione.
"Con molto piacere," mi chiusi lentamente il portone alle spalle e la seguii fino al l'ascensore.
Sentivo il respiro accelerato di Annabeth vicino a me, mentre si sporgeva a premere il pulsante. Seguii la linea delle sue spalle coperte dal pesante cappotto, le onde leggere dei capelli e chiusi gli occhi.
Inavvertitamente cominciai a regolare il respiro seguendo il suo ritmo e, un'istante dopo, il vecchio ascensore del palazzo partì e le nostre mani si toccarono.
Trasalii.
Stavo salendo a casa sua? Sí.
Avremmo fatto sesso di nuovo? C'erano buone speranze.
Era un errore? Sotto ogni aspetto.
Ma, come mi ero reso conto nel momento in cui ero entrato nell'abitacolo, era proprio quello che volevo. Avevo passato due giorni a ripensare interamente e ininterrottamente a tutto ciò che avevamo fatto. A un certo punto, poi, non avevo trovato più nessun ricordo che non avessi già ispezionato in precedenza ed era stato inevitabile cominciare a pensare a tutto ciò che avremmo potuto fare ancora.
E se era sbagliato anche solo pensarla e ricordare quella notte io proprio non lo sapevo, ma era stata una cosa oltre la mia volontà. Un desiderio quasi istintivo, naturale e animale che si era incastrato tra i gemiti di Annabeth, sotto il calore della sua pelle.
Poi era stato un istante, quella sera, tra il momento in cui mi aveva salutato e quello in cui avevo visto la sciarpa, avevo capito che non me ne importava proprio nulla. Eravamo entrambi grandi, maturi e consapevoli delle nostre decisioni, inoltre lei non era più la ragazzina che per ogni festa comandata correva a casa nostra nelle vesti della migliore amica di mia sorella.
A essere sinceri, più la guardavo mentre l'ascensore scorreva lentamente ogni piano e meno riconoscevo in lei la bambina che era stata.
Annabeth era diventata consapevole di sé stessa, come mi aveva ampiamente dimostrato qualche sera prima. E sebbene faticassi ad associarla alla ragazzina con i codini e le troppe lentiggini, era diventata una donna dalla quale ero tremendamente attratto.
E il sesso con lei era stato pazzesco, quindi perché non ripetere?
Giacché ero sempre stato famoso per essere colui che prima agiva e solo poi rifletteva, ritenevo fosse giunto il momento di abbracciare quella mia tendenza con più consapevolezza. Annabeth chiaramente era parte di quel processo.
"È il settimo piano," mormorò lei e mi lanciò un'occhiata. "Ancora un po' e ci siamo. Dicono sempre di volerlo cambiare con uno più veloce e moderno ma alla fine non lo fanno mai."
"Lo so," replicai con voce bassa e mi posizionai alle sue spalle. "Nel caso io conosco un ottimo architetto che potrebbe aiutarvi nella restaurazione."
Trattenne il respiro. "Lo farò presente al condominio."
Le sfiorai i capelli con la punta del naso, proseguendo lungo la linea dell'orecchio e raggiungendo infine il collo nudo e bianco. La sentì inspirare e si lasciò andare contro il mio petto, abbandonandosi nelle mie mani.
Senza timori si era fidata a me, appoggiandosi al mio corpo senza lasciare spazio all'estrazione.
Annabeth, avevo scoperto, era terribilmente istintiva. Ed era un gran bene visto che ero sempre stato convinto che il sesso si componesse in gran parte di istinto e fiducia.
In sé stessi e nell'altro. Nel coraggio di lasciarsi andare e farsi guidare, nell'ammettere cosa si vuole e cosa no. 

 
🍓
 


Ve lo aspettavate?
Annabeth era come pensavate?
Istintiva, passionale, di quelle che si buttano a capofitto nelle cose per pensarci solo nel dopo.
Molto più simile a James di quanto avremmo mai immaginato.
Arrivando a noi:
Che ne pensate di questo James? A tratti sempre immaturo, a tratti no perché segnato da... Da cosa?
Idee cosa possa essere il 'fattaccio' a cui si faceva riferimento nel primo capitolo?
Ma soprattutto... Abbiamo finalmente scoperto questa fragola cosa significa.

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