How To Love

di Soul Mancini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


How To Love
 
I

 
 
 
 
 
 
“Diciott’anni! Diciotto fottutissimi anni, ragazzi!” sbottò Jonas in preda all’entusiasmo, sollevando maldestramente il suo bicchiere in aria.
Lo osservai mentre mandava giù l’ultimo sorso del suo drink; le luci del locale scorrevano tra i suoi capelli dalle ciocche multicolore, scendevano sulla sua camicia azzurra con le margherite e indugiavano sulla mano di Stephen, stretta attorno al suo ginocchio.
“Domani hai l’esame più importante della tua vita: dovresti arrivarci sobrio” asserì Destiny con una risatina.
“Sarò sobrio abbastanza, tesoro” biascicò lui, per poi scoppiare a ridere e abbandonarsi contro il corpo di Stephen.
Quest’ultimo sghignazzò e gli lasciò una carezza tra i capelli. “E tu vorresti prendere la patente? Diventerai un pericolo pubblico!”
“Grazie per la fiducia, amore mio!”
Presi un sorso di champagne dal bicchiere ancora pieno per metà e tentai di distogliere l’attenzione da quella conversazione, focalizzandomi sulla musica di sottofondo che non era poi tanto interessante.
Non amavo le feste né le serate trascorse a far nulla nei locali, ma quella volta avevo fatto uno sforzo per rendere felice il mio gruppo di amici. I diciotto anni di Jonas erano un evento importante per tutti quanti.
“Ehi, io ho voglia di ballare! Chi viene con me in pista?” esclamò Toyah, ravviandosi i capelli castano scuro dietro le spalle. Detto ciò si voltò verso Destiny, seduta accanto a lei, e prese a fissarla con insistenza, gli occhi colmi di aspettativa.
Lei, dopo diversi secondi, sollevò gli occhi al cielo e sospirò. “E va bene, andiamo a ballare! Per colpa tua sto collezionando talmente tante figure di merda che ormai ho perso il conto…”
Toyah si lasciò sfuggire un gridolino di gioia, saltò in piedi e afferrò il polso della sua ragazza per incitarla a fare lo stesso.
Le osservai dirigersi verso il centro della pista mentre ridevano; erano proprio una bella coppia.
“Stephen?” strillò Jonas, nonostante l’orecchio dell’interessato si trovasse a pochi centimetri dalle sue labbra.
“Dimmi.”
“Andiamo a ballare anche noi?”
“Ma se non ti reggi in piedi!” gli fece notare Stephen con una risatina.
“Sì invece! Ti prego, voglio andare a ballare…”
“D’accordo.”
I due si misero in piedi – Stephen cingeva le spalle dell’altro con fare protettivo –, poi parvero accorgersi della mia presenza e si voltarono verso di me.
“Vieni con noi, Joy?” mi domandò il più grande, stringendo più forte a sé il corpo di Jonas per evitare che barcollasse troppo.
Scossi il capo e posai il bicchiere ormai vuoto sul tavolino, attorno a cui ero rimasta solo io.
“Andiamo, è divertente! Ci sono pure Michael e Scott! Sei la persona più noiosa sul suolo lunare!” tentò di convincermi il ragazzo dai capelli multicolore, scoccandomi un sorriso sbilenco.
Mi strinsi nelle spalle. “Sto aspettando Indi, magari vi raggiugiamo più tardi” lo liquidai, sperando che smettesse di insistere. Non amavo particolarmente ballare, e quel giorno non ero decisamente in vena di festeggiamenti e divertimento.
Entrambi gettarono la spugna e si avviarono verso la pista, lasciandomi finalmente sola.
Mi godetti quell’istante di calma, nonostante mi sentissi soffocare dentro il pub: mi sarebbe piaciuto uscire all’aria fresca, o meglio, trovare una scusa per andarmene definitivamente e stare lontana da tutto e tutti, ma non sapevo cosa inventarmi.
Dopo qualche minuto mi accorsi di una presenza al mio fianco e realizzai che il momento di quiete era inesorabilmente terminato.
“Tesoro, ciao! Che ci fai qui tutta sola?” esordì Indi, accomodandosi sulla sedia accanto alla mia e stampandomi un bacio sulla guancia.
“Gli altri sono andati a ballare, ma io non ne avevo voglia” ammisi.
“Sempre la solita” commentò lei con una risatina, poi si accoccolò con la testa sulla mia spalla. “E che cosa ti va di fare?”
Ci riflettei su per qualche istante. “Beh… tra pochi minuti sorgerà il sole: mi piacerebbe vedere l’alba.”
Era vero: l’alba e il tramonto erano degli eventi naturali che mi rilassavano parecchio, adoravo osservarli e cercavo sempre di non perdermeli, visto che ne potevamo godere soltanto qualche volta al mese.
“Allora usciamo a vederla” sentenziò lei, alzandosi nuovamente e rivolgendomi un sorriso raggiante.
Lasciammo il locale e ci immergemmo nell’aria fresca tipica dei periodi d’ombra. Il cielo aveva già cominciato a colorarsi e illuminarsi all’orizzonte
 
 
 
Non era una sala d’aspetto come tutte le altre, come quelle degli studi medici o degli uffici. L’arredamento era sontuoso, i mobili in mogano conferivano un aspetto anticato all’ambiente e le poltrone imbottite davano l’illusione di una comodità che nessuno provava davvero là dentro.
Quando qualcuno entrava nella Stanza degli Elettrodi, quando un proprio caro era sottoposto alla grande prova di verifica che avrebbe sancito il suo destino, nessuno stava comodo in sala d’aspetto. C’era sempre quel pizzico d’ansia da parte di amici e parenti, quel dubbio che i neurologi trovassero qualcosa che non andava, qualcosa di diverso dalle aspettative.
Mi alzai dal divanetto imbottito su cui mi trovavo e raggiunsi la porta che conduceva al piccolo balconcino laterale apposito per i fumatori; la presenza di Indi, ma soprattutto quella di Stephen, non facevano che accentuare il senso di soffocamento che provavo in quel momento.
Una volta all’esterno, estrassi con gesti nervosi una sigaretta dal pacchetto e l’accesi. Sapevo che questo non avrebbe aiutato a distendere i nervi, ma un po’ ci speravo.
Pensavo a Jonas che si trovava all’interno di uno sterile studio medico, col capo trapuntato di elettrodi e attorniato da un’orda di neurologi intenti nel decretare se i circuiti del suo cervello si fossero formati nella giusta maniera – a decidere se fosse degno o meno di vivere sul nostro pianeta.
Intenti a esaminare il suo cuore oltre che la sua mente, a scavare dentro di lui per capire chi fosse predisposto ad amare. E alla fine, sulla base di questo, l’avrebbero osannato o condannato.
Non m’importava veramente di Jonas: la sua presenza, anzi, mi irritava parecchio e non riuscivo a sopportare che fosse il ragazzo di Stephen, che fossero così affiatati – ma era giusto far credere a tutti che fossi amica di entrambi. O meglio, era l’unica soluzione per non destare sospetti su di me; cosa fosse giusto o sbagliato, nessuno di noi era nella posizione di sentenziarlo.
Ciò che mi preoccupava davvero era che mancavano meno di due mesi al mio diciottesimo compleanno e che presto la Stanza degli Elettrodi sarebbe toccata a me.
Pensavo e nel contempo consumavo la mia sigaretta con nervosismo, urgenza, come fosse l’unica ancora di salvezza a cui potermi aggrappare. Una nuvola di fumo mi fluttuava attorno al viso e, anche se non potevo averne la certezza, supposi che anche le mie iridi fossero altrettanto offuscate.
“Joy.”
La voce di Indi alle mie spalle mi riscosse, ma non battei ciglio e non mi voltai. Avevo sperato fino all’ultimo che non mi seguisse, ma ormai sapevo com’era fatta.
“Tesoro, che c’è?” Mi affiancò e poggiò i gomiti sulla balaustra che ci stava di fronte, poi si sporse appena in avanti in modo da potermi guardare in viso.
Non sopportavo il suo atteggiamento invadente, quel suo volermi leggere dentro – come se realmente potesse comprendere qualcosa di me. Per quanto le volessi bene, era una persona troppo semplice per riconoscere le mie lotte interiori e capire quand’era il momento di lasciarmi in pace.
“Niente” ribattei in tono piatto.
“Sei preoccupata per Jonas?” incalzò, facendosi ancora più vicina.
“Sì” mentii.
“Anche io. Siamo tutti un po’ in ansia, Joy, ma secondo me non c’è nulla da temere: lui è la persona più gay dell’universo e gli esami non potranno dire il contrario! Vedrai che andrà tutto bene e lo avremo ancora tra noi.”
Avrei voluto allontanarla, gridare che non me ne poteva importare di meno di Jonas, che era ovvio che il suo esito sarebbe stato positivo, ma che il mio non sarebbe stato altrettanto scontato. Invece tacqui, come avevo sempre fatto per diciassette anni, e mi tenni ancora una volta tutto dentro, pronta a recitare il prossimo atto che componeva la mia vita.
“Lo spero.”
“Già gli esami di Stephen sono andati bene: questo secondo me è solo grazie all’amore che lega lui e Jonas. Si amano, quindi cosa potrebbe andare storto? Un po’ come noi due.”
Il sole illuminava i suoi occhi colmi di euforia e qualcosa che forse era amore. Avrei dovuto essere attratta da quelle iridi così particolari, color indaco, e dal suo viso bello e armonioso, dal suo corpo perfetto e dalle forme morbide. Indi era stupenda ed era giusto che io l’amassi, ma non ci riuscivo.
Annuii, accennai un sorriso tirato e tornai a guardare un punto indefinito davanti a me. Secondo lei eravamo una bella coppia, ma era soltanto una ragazzina di sedici anni che non aveva mai conosciuto il vero amore: a lei andava bene tutto, l’importante era essere fidanzata. Era innamorata dell’immagine di sé che dava all’interno di una relazione, non di me.
Senza nemmeno rendermene conto, avevo spento il mozzicone ormai consumato e le mie dita erano automaticamente andate in cerca di una nuova sigaretta. Poco prima che potessi accenderla, le dita dalle unghie laccate di viola di Indi si posarono sul mio polso. “Dovresti smetterla di fumare, lo sai? Te lo dico sempre.”
“Prima o poi smetterò.”
“Lo prometti ogni volta e non lo fai mai.” Mi attirò a sé e posò le labbra sulle mie, imbrattandole del suo rossetto viola abbinato alle unghie.
Non mi opposi anche se avrei voluto, e non lo feci nemmeno quando approfondì quel contatto e costrinse la mia lingua a una danza a cui non voleva partecipare. Lei in quei baci ci credeva, se li godeva, chiudeva gli occhi e si lasciava andare al piacere, mentre io ero sempre rigida e le mie palpebre restavano ben aperte.
Il mio sguardo corse altrove, oltre la vetrata, nella sala d’aspetto in cui erano ancora accomodati i genitori di Jonas e Stephen. Mi soffermai soprattutto su quest’ultimo, sul suo viso – bellissimo nonostante i lineamenti tirati dalla preoccupazione –, sui capelli castano chiaro tra cui passava le dita per scacciare il sudore. Erano le sue labbra che avrei voluto incollate alle mie, era il suo odore mascolino e non quello fruttato di Indi che volevo nelle mie narici, erano le sue mani che volevo strette attorno ai miei polsi.
Un crampo allo stomaco mi sorprese e mi scostai gentilmente da Indi, sperando che mi lasciasse in pace. Non riuscivo a sentirmi sbagliata per ciò che provavo nei confronti di Stephen, eppure sapevo di esserlo. Per la società, per la nostra cultura, lo ero e dovevo tener segreta quest’oltraggiosa attrazione.
O meglio, l’avrei celata finché non mi fossi trovata nella Stanza degli Elettrodi, e allora avrei dovuto pregare per un miracolo.
Avrei dovuto pregare per non ricevere il marchio bianco sul polso e non essere mandata in esilio.
“Che c’è?” mi domandò Indi, sistemandomi affettuosamente una ciocca di capelli corvini dietro l’orecchio.
“Niente, è che… voglio fumarla comunque, un’altra sigaretta” affermai evasiva, accendendo finalmente la stecca di tabacco e portandomela alle labbra.
Lei tossicchiò teatralmente. “Sembra di stare accanto a una ciminiera.”
Allontanati se ti dà fastidio, avrei voluto dirle.
Tanto non si sarebbe mai accorta che a perdere fumo ero io, che stavo implodendo dentro la mia giacca, che la mia mente si stava riducendo in polvere a furia di crogiolarmi nella disperazione.
Che a lasciare una scia di cenere ovunque passassi ero io, non la mia sigaretta.
“Comunque sei davvero bellissima, anche se qualche volta mi fai dannare. Questa giacca da dove salta fuori? È stilosissima!”
Abbassai lo sguardo sull’indumento in jeans scuro: era da uomo, mi stava largo, ma dal primo momento in cui l’avevo indossato mi ero sentita a mio agio.
“Me l’ha prestata Steph” spiegai, accennando al nostro amico oltre la vetrata.
Proprio in quel momento la porta della Stanza degli Elettrodi si spalancò e un raggiante Jonas ne uscì, raggiungendo la sua famiglia e tuffandosi tra le braccia di Stephen. Lo vidi sollevare il polso destro, su cui era stato inciso grazie a un laser un marchio riportante i sette colori dell’arcobaleno. Perfettamente abbinato ai suoi capelli.
Indi si lasciò sfuggire un gridolino entusiasta. “Ce l’ha fatta, è positivo! Che dici, entriamo?”
Annuii mio malgrado e fui costretta a spegnere la sigaretta.
Stephen e Jonas si stavano scambiando un appassionato bacio proprio davanti ai miei occhi, tutti erano contenti, eppure io non riuscivo a festeggiare – proprio come era avvenuto la sera precedente.
Jonas, durante la sua adolescenza, aveva sviluppato i giusti circuiti neurali che gli avevano permesso di essere un omosessuale modello, un degno membro della nostra società. Ora che aveva superato quella prova, poteva reputarsi libero di costruirsi una vita insieme al suo ragazzo.
Sentivo il cuore stringersi in una morsa alla consapevolezza che per me non sarebbe stato lo stesso.
 
Smoke was coming off my jacket
And you didn't seem to mind
I left a long trail of ashes
And you said "I like your style"
 
 
 
Indi lo chiamava fare l’amore, mentre per me era una tortura a cui cercavo sempre di sfuggire. Le dicevo che ero bloccata, che non mi sentivo pronta e soltanto in rare occasioni, quando faceva il muso lungo e mi implorava di tentare, le donavo quell’anfratto di me così intimo in cui non avrei fatto entrare nessuno – nessuno a parte Stephen.
Non sentivo mai niente, se non fastidio. Indi ci teneva a farmi provare piacere, a ricambiare con le stesse sensazioni che io le procuravo, ma non andava mai così.
Sdraiate sul letto sfatto della mia ragazza, entrambe nude e con la pelle madida di sudore, ci lasciavamo cullare dalle note di un brano di cui non conoscevo il titolo, ma che Indi adorava. Ogni volta che ci ritrovavamo da sole lei metteva su un album dal titolo Girl di una certa Maren Morris, uno dei suoi preferiti. Non mi aveva mai coinvolto granché, ma ormai lo conoscevo a memoria e alcune canzoni avevano finito per entrarmi in testa.
Indi mi stringeva da dietro, cingeva i miei fianchi e faceva aderire il suo seno e il suo ventre alla mia schiena.
Now heartbreak ain't a competition, but I took it in a landslide” sussurrò, seguendo la voce della cantante, prima di lasciarmi un bacio tra i capelli e abbracciarmi ancora più forte.
Non provai niente, come al solito. Mi sentivo soltanto una prigioniera, ma ormai anche quella frustrante sensazione si era tramutata in un flebile pizzicore alla gola: mi ero arresa.
A volte provavo a farmela piacere, a sviluppare attrazione e amore nei suoi confronti; ma, tutte le volte che riuscivo a provare qualcosa, non era Indi la persona che mi invadeva la mente. E se con lei potevo fingere, nella Stanza degli Elettrodi nessuna menzogna avrebbe retto. Nessuna bugia avrebbe potuto ingannare la scienza.
Mentre combattevo con l’ansia che mi opprimeva il petto, una frase nel testo della canzone attirò la mia attenzione e forse la ascoltai per la prima volta, nonostante l’avessi sentita per mesi.
 
Your kind of heaven's been to hell and back
To hell and back
 
 
 
“Oggi approfondiamo la storia del grande trasloco sulla Luna.”
Rizzai le orecchie a quelle parole e aprii il mio quaderno, cercando una pagina pulita per poter prendere appunti.
Storia era una materia che mi piaceva tantissimo; quell’argomento in particolare mi aveva sempre incuriosito, ma alle elementari non ne avevamo parlato tanto.
I miei compagni di classe ridacchiarono e continuarono a chiacchierare alle mie spalle come se il professor Lawyer non avesse nemmeno aperto bocca.
“Chi si ricorda la data del primo sbarco dell’uomo sulla Luna?” domandò l’insegnante, facendo scorrere il suo sguardo perennemente calmo tra di noi.
Io sapevo la risposta, ma come al solito non mi azzardai a parlare.
“1969.” Spostai lo sguardo fino al banco di Stephen, nella seconda fila a destra: era stato lui a rispondere.
La classe del corso di Storia non mi piaceva, ma la sua presenza rendeva tutto più sopportabile. Era il mio unico amico.
“Esatto. È una data che dovreste ricordarvi bene, tutti quanti, perché sancisce l’inizio della storia moderna. All’epoca gli uomini vivevano tutti sulla Terra, ma quello fu il primo passo perché si potessero gettare le basi per un trasferimento di massa: dopo il primo allunaggio l’uomo poté studiare il pianeta, la sua superficie, il suo habitat e le sue caratteristiche fisiche, in modo da apportare le giuste modifiche e renderla un ambiente vivibile.”
“Professore, ma c’è stato un periodo in cui le persone vivevano sia sulla Terra che sulla Luna, giusto?” prese la parola Ritchie, uno dei pochi ragazzini interessati alle lezioni.
“Adesso ci arriviamo.” Come suo solito, il professor Lawyer cominciò a passeggiare tra i nostri banchi mentre spiegava. “Come tutti voi saprete c’è stato un tempo, prima della grande Esplosione, in cui sulla Terra vigeva la supremazia dell’eterosessualità: era la norma che un uomo stesse con una donna, la cultura era strutturata in modo che quell’immagine passasse per giusta e scientificamente non si avevano ancora i mezzi perché ci si potesse riprodurre anche tra persone dello stesso sesso, quindi l’unico modo per portare avanti la specie era farlo in maniera naturale. Gli omosessuali erano costretti a nascondersi e vivere clandestinamente le loro relazioni amorose, dal momento che costituivano una minoranza e peraltro non conforme alle regole dell’epoca.”
Ormai la maggior parte dei miei compagni era ammutolita e ascoltava con interesse. Probabilmente molti di loro – così come me – erano rimasti spiazzati: veniva davvero difficile immaginare che in passato le cose fossero andate nella maniera contraria a come eravamo abituati.
Io, affascinata, segnavo tutto sul mio quaderno.
“Etero e omosessuali condivisero lo stesso pianeta per secoli; questi ultimi erano costretti a lottare costantemente per veder riconosciuti i loro diritti, finché le tecnologie non furono sufficienti per permettere alla comunità allora chiamata LGBT+ di trasferirsi sulla Luna.”
“Perché si chiamava così?” domandò Stephen, gli occhi curiosi fissi sul professore.
“G sta per gay, L per lesbiche, B per bisessuali e T per transgender. Il più invece sta a sottintendere altre categorie che sono state aggiunte successivamente, come gli asessuali, ma non rientrano nella prima versione dell’acronimo.”
Nell’aula si diffuse un borbottio sommesso. Tutto ciò ci sembrava fantascienza: ai nostri tempi non era certo necessario identificarci con una sigla, eravamo semplicemente… noi.
“Dicevamo…” riprese Lawyer. “La Luna era un pianeta piccolo rispetto alla Terra, ma sufficiente per ospitare tutti i non-etero. Più tardi ci soffermeremo meglio sui personaggi che hanno reso il trasloco possibile, ma intanto dovete sapere che i nostri antenati si sono impegnati per ricreare un mondo il più simile possibile a quello fino ad allora conosciuto. Grazie alla scienza e alla genetica, trovarono un metodo perché le coppie omosessuali potessero dare alla luce dei figli con il proprio DNA. Forse in scienze avete già studiato quest’argomento… chi sa dirmi di cosa si tratta?”
Sophie, che sedeva sempre al primo posto della bancata centrale, sollevò la mano. “Tramutare il cromosoma X in cromosoma Y in una donna e fare il contrario per le coppie di uomini.”
“Esatto.”
“E l’Esplosione della Terra allora? Quando arriva?”
“Ora ne parliamo. Intanto: qualcuno sa la data esatta del trasloco sulla Luna?”

“3 gennaio 2417” mi lasciai sfuggire a voce bassa.
“Brava, Joy” si complimentò il professore, mandandomi a fuoco le guance. Non pensavo mi avesse sentito.
“I due secoli che intercorsero tra il trasloco e l’Esplosione, avvenuta nel 2604, furono particolari. Gli etero e la nostra comunità cercarono di mantenere un rapporto civile: strinsero il Patto di Residenza, secondo cui gli abitanti della Terra si impegnavano a ospitare coloro che fossero nati sulla Luna ma fossero risultati etero e viceversa. Così ognuno sarebbe stato collocato nel luogo più adatto a lui in base al suo orientamento sessuale; era un buon metodo, almeno fino all’Esplosione. Fu una catastrofe, distrusse la maggior parte della superficie terrestre e spazzò via quasi ogni traccia di civiltà. Morirono più di cinque milioni di persone.”
Trattenni il fiato. Non riuscivo nemmeno a immaginarle, tutte quelle vite umane.
“Solo due territori rimasero abitabili.” Il professor Lawyer si voltò verso la lavagna 3D, in cui campeggiava la riproduzione della Terra prima dell’Esplosione, e indicò un punto quasi sulla cima della sfera. “La Terra Nera, quella che in origine era la Scandinavia, e la Terra Bianca,” accennò a un punto più in basso, nei pressi del ventre panciuto del pianeta, “il vecchio Sudafrica.”
“Ma quelle sono le terre dove gli etero vengono mandati in esilio!” esclamò qualcuno, dando voce ai miei pensieri.
Non ne sapevo tanto sull’argomento, ma avevo sentito dire che chi a diciotto anni non passava il test nella Stanza degli Elettrodi veniva spedito sulla Terra e non faceva più ritorno. Non avevo mai avuto il coraggio di chiedere di più e anche per quel motivo ero contenta di studiare quella fetta della nostra storia. Volevo sapere come funzionava.
Il professore scosse il capo. “Non chiamarlo esilio, non si tratta di questo. I diciottenni che non hanno sviluppato i giusti circuiti, e che quindi non risultano né omosessuali né bisessuali, vengono mandati sulla Terra per un periodo chiamato percorso di correzione. Ai ragazzi viene destinata la Terra Nera, mentre alle ragazze la Terra Bianca: trascorrendo tanto tempo a stretto contatto esclusivamente con persone dello stesso sesso, gli etero hanno la possibilità di correggere i loro circuiti neurali e sperare in un futuro sulla Luna.”
E se questo non succede?, avrei voluto chiedere, ma non ne ebbi il coraggio.
“Ma la Terra è distrutta, è un ambiente orribile in cui vivere!” obiettò Ritchie. “E poi non è vero che si tratta solo di un periodo di tempo: Charlie, mio cugino, è partito cinque anni fa e non è ancora tornato.”
Nell’aula cadde un pesante silenzio che nemmeno il professor Lawyer sapeva bene come spezzare; anzi, sembrava a disagio e i suoi occhi erano stati velati da una strana malinconia. Sembrava sapere qualcosa che però non voleva dirci.
Dopo qualche istante si schiarì la gola. “Non è tutto così terribile come sembra, ragazzi.” Ma il tono rassegnato che utilizzò non fu per nulla convincente. “La nostra società è stata costruita affinché tutti, fin da piccoli, sviluppino i giusti circuiti e i casi in cui ciò non avviene sono estremamente rari.”
“E perché le persone etero non possono restare a vivere sulla Luna?” domandò Sophie scettica.
Lawyer sorrise amaramente. “Per il Patto di Residenza. Dopo l’Esplosione, sotto il governo di Megan Raynor, vi fu un grande referendum che diede la possibilità alla popolazione lunare di decidere se abolire il Patto o lasciare le cose come stavano, nonostante la Terra fosse diventata un pianeta ostile. La maggioranza votò per il mantenimento del Patto di Residenza, così il 21 ottobre 2604 venne negato il permesso d’asilo ai pochi sopravvissuti della comunità terrestre sul nostro suolo e vennero istituiti i percorsi di correzione.”
Ero veramente disgustata da quello che avevo appena sentito: ragazzi di appena diciotto anni venivano allontanati dalle loro famiglie e dal loro amici per essere spediti in un luogo inospitale… per colpa di leggi vecchie di quasi quattro secoli.
Avevo da poco compiuto tredici anni e già avevo compreso il sistema marcio in cui ero nata e cresciuta.
 
 
 
Stephen aprì il portone di casa e, non appena mi vide, il suo sguardo si illuminò e mi avvolse in un affettuoso abbraccio. “Joy! Come sono andati gli esami di fine anno?”
Mi sentivo morire ogni volta che mi stringeva tra le braccia in quel modo così caloroso, che non avrebbe dovuto implicare nessuna malizia. Aveva il fisico scolpito da anni di basket, ma era capace di una delicatezza che mi spezzava il cuore. Jonas era un uomo davvero fortunato.
Ricambiai il gesto, poi lo seguii dentro casa. “Abbastanza bene, credo. Ho risposto con sicurezza alle domande di storia, ma fisica… non ce la posso fare!”
Lui ridacchiò e si diresse verso il frigo per portar fuori la solita bottiglia di succo di frutta alla fragola – sapeva bene che lo adoravo, ormai non era più necessario domandare.
“A proposito di fisica: ecco il tuo libro” dissi, poggiando sul tavolo il volume che mi aveva dato in prestito. “E questa è la tua giacca” aggiunsi, lasciando sulla spalliera della sedia l’indumento in jeans per cui Indi mi aveva fatto i complimenti settimane prima.
“Non lo voglio indietro.”
“Cosa, il libro?”
“No, il giubbino. Tienilo pure: ti sta bene.”
Non era un complimento che celava secondi fini, nella sua testa ero solo un’amica, ma non potei fare a meno di arrossire; per dissimularlo, abbassai lo sguardo e lasciai ricadere i capelli sul volto – erano troppo corti per farmi davvero da scudo.
“Ne sei sicuro?”
“Certo! Ho mille altre giacche simili. Comunque avrei dovuto darti qualche ripetizione in più su fisica… che domande ti sono capitate?” Tornò al tavolo, vi posò due bicchieri pieni di succo rossastro e picchiettò con l’indice sulla copertina del libro.
“Soprattutto sulla gravità.”
“Non posso accettare che tu fallisca proprio nel mio campo di interesse!” si finse indignato, per poi ridacchiare.
Accennai un sorriso e afferrai il contenitore colmo della mia bibita preferita. Non potei fare a meno di pensare a quanto Stephen fosse intelligente, tra le altre cose: era entrato all’università, superando un test d’ingresso famoso per essere parecchio tosto, per specializzarsi in Gravità. Il suo sogno era lavorare presso i grandi tralicci che erano stati impiantati secoli prima per tutta la superficie della Luna e che avevano il compito di ricreare la stessa forza di gravità presente sulla Terra; era un mestiere che richiedeva grosse responsabilità e abilità, quasi alla stregua dell’astronauta.
Stephen era un ragazzo ambizioso e sapevo che ce l’avrebbe fatta. Aveva avuto e avrebbe avuto tutto dalla vita.
“Non so se avrei retto altre ripetizioni su questa roba” ammisi con una risatina.
“Invece come argomento a piacere cos’hai presentato?”
Mandai giù un sorso del liquido zuccherino. “Genetica.”
“Tosto!”
“Non direi: è un ramo che mi affascina molto.”
Lui ci rifletté su. “Ora che hai finito con gli studi superiori, potresti pensare di iscriverti all’università e specializzarti in Genetica.”
Abbassai il capo e cominciai a giocherellare nervosamente col bordo della giacca che Stephen mi aveva implicitamente regalato. Non avevo mai pensato a un futuro, perché negli ultimi anni avevo appreso che non ne avrei avuto uno.
“Mi piace molto anche la Storia” bofonchiai, sperando di togliermi dall’impaccio.
Continuammo a chiacchierare del più e del meno con quella complicità che aveva sempre contraddistinto il nostro legame – Stephen era una delle poche persone con cui riuscivo ad aprirmi davvero – finché lui, una volta controllato l’orologio, non annunciò che sarebbe dovuto uscire a breve.
“Non ti voglio buttare fuori da casa mia, ma ho promesso a Jonas che sarei passato a prenderlo: al cinema danno un nuovo film drammatico che non vuole assolutamente perdersi” spiegò roteando gli occhi con finta esasperazione.
“Come sta?” buttai lì, giusto per fare conversazione ed evitare che mi liquidasse così in fretta. Per quanto mi riguardava, Jonas poteva aspettarlo anche per tutta la sera.
“È contentissimo da quando ha passato il test degli Elettrodi, ha cominciato a fare un sacco di progetti per il futuro, non sta zitto e fermo un secondo… stiamo pensando di andare a vivere insieme, sai?”
Mi morsi l’interno della guancia per trattenere un’esclamazione di disappunto. “Ah, ottimo! È una cosa molto carina, ve lo meritate…”
“Ehi, ma sbaglio o tra poco è il tuo compleanno?” s’illuminò all’improvviso.
Annuii, lo stomaco che mi si rivoltava.
“Quindi si avvicina il tuo turno per la Stanza degli Elettrodi.”
Mi veniva da piangere: ci pensavo già abbastanza di mio, non avevo bisogno che qualcuno lo rimarcasse. Ma le lacrime, come le parole, erano qualcosa che avevo ben imparato a trattenere.
“Joy… che c’è? Sei preoccupata?” mi chiese Stephen, addolcendo il tono della voce e sporgendosi sul tavolo per potermi scrutare in viso.
Ero fottutamente terrorizzata.
“Non proprio, cioè… è che tutta questa faccenda mi infastidisce.”
“In che senso?”
Una cosa che amavo di lui era che stava sempre a sentire ciò che avevo da dire, con lui potevo esprimere le mie idee senza sentirmi giudicata o sminuita.
“Tutto. Questo sistema. Il fatto che siamo costretti a sottoporci a questo controllo per essere ufficialmente inseriti in una categoria: omosessuali o eterosessuali. Il fatto che questi ultimi debbano essere mandati in esilio come dei criminali, quando la loro unica colpa è amare qualcuno del sesso opposto, qualcosa che non possono controllare o decidere. E anche se restassero con noi sulla Luna, cosa cambierebbe? Farebbero forse del male a qualcuno?”
Stephen mi guardò smarrito per un attimo, poi le sue iridi verdi si venarono di una triste rassegnazione. “Dobbiamo farlo, non possiamo opporci a prescindere dalle nostre idee.”
“Ma è il principio a essere sbagliato… non trovi? Mi sembra tutto un po’ ipocrita. Insomma, un tempo eravamo noi a lottare per ritagliarci il nostro spazio nel mondo, mentre ora trattiamo gli etero come fossero il nemico… esattamente come veniva trattata la nostra comunità. Abbiamo combattuto per secoli per far capire alla comunità etero che l’amore è giusto a prescindere del suo oggetto, mentre ora stiamo agendo nella maniera contraria.” Ammutolii, rendendomi conto che mi stavo infervorando forse un po’ troppo, come non mi capitava mai. Era raro che portassi fuori la mia opinione in quel modo, era qualcosa che spaventava anche me; tuttavia si trattava di un argomento a cui tenevo particolarmente.
Stephen sospirò e si passò una mano tra i capelli. “Hai ragione. Ci ho pensato anche io qualche volta, ma non è una questione che mi ha sfiorato in prima persona e ho sempre lasciato perdere. Non ho mai conosciuto delle persone che sono risultate negative al test degli Elettrodi, non ho mai perso nessun amico, ma immagino quanto può essere avvilente essere mandate in esilio in un luogo in cui non è rimasto niente. Però sai che ti dico? Se è un argomento a cui tieni tanto, esistono dei movimenti a cui prendere parte. Esistono un sacco di associazioni giovanili che scendono in piazza per manifestare e propagandare, che tentano di cambiare il sistema e salvaguardare i diritti degli etero. Sicuramente ne avrai sentito parlare anche tu, no?”
Annuii: ne ero venuta a conoscenza a scuola, tramite dei volantini che circolavano sottobanco per mano di alcune ragazze degli ultimi anni. Avevo sempre trovato interessanti quelle iniziative e un paio di volte mi era saltato in mente di partecipare a qualche riunione, ma avevo sempre rinunciato per codardia – per paura di essere additata come etero. Ci avevo rimuginato sopra per anni, ma ormai era troppo tardi.
“Sei sempre in tempo per associarti e combattere” affermò Stephen.
Avrei voluto dirgli che il mio tempo era finito, che l’unica speranza per me era risultare quantomeno bisessuale durante il test e che avrei dato qualsiasi cosa pur di non entrare in quella maledetta stanza. Ma erano segreti troppo oscuri che non avrei potuto rivelare nemmeno a lui, nonostante fosse l’unico a sapere quasi tutto di me.
Si mise in piedi e mi posò una mano sulla spalla con fare rassicurante. “Andrà tutto bene, quando sarai lì ti accorgerai che non è nulla di così spaventoso. Già il fatto che tu abbia una relazione stabile con Indi la dice lunga sul tuo orientamento sessuale.”
Mi veniva da ridere e da piangere allo stesso tempo.
 
 
 
Nemmeno il trucco che mamma Lili si era premurata di applicare sul mio viso con precisione maniacale era in grado di dissimulare il mio aspetto sciupato e consumato. Mi guardavo allo specchio e, laddove tutti vedevano una bella ragazza appena diciottenne, io riuscivo a scorgere ogni segno della mia anima che andava in pezzi.
I miei occhi dalle iridi grigie sembravano ancora più grandi e tempestosi sul viso magro e pallido. Sistemai la frangia sulla fronte in modo che coprisse quelle pozze di dolore, così magari sarei riuscita a fingere di essere contenta e desiderosa di festeggiare.
Quelle ciocche lunghe erano l’unica cosa che avevo lasciato intatte quando, il giorno prima, ero stata dal parrucchiere: avevo chiesto un taglio netto, radicale, e i capelli corvini che prima mi si posavano sulle spalle ora mi accarezzavano a malapena la base del collo. Nessuno aveva capito il motivo della mia scelta, ma non potevo certo spiegare alla mia famiglia che sulla Terra Bianca avrei sofferto il caldo se avessi tenuto i capelli lunghi.
Mi morsi il labbro, poi mi ricordai del rossetto rosa pastello che lo colorava in maniera estremamente falsa. Erano labbra sottili e spente le mie, che non si stiravano in un sorriso da chissà quanto tempo e sicuramente non l’avrebbero fatto quella sera.
Sarebbe stata l’ultima giornata della mia vecchia vita, prima che tutte le persone che dicevano di amarmi mi ripudiassero.
"Joy, tesoro, sei pronta?” Mamma Carol si affacciò alla porta spalancata del bagno, bussando appena sullo stipite e parlando in tono allegro. “Indi è appena arrivata, ti sta aspettando.”
Mi voltai a guardarla, incrociando le sue iridi dello stesso grigio delle mie, e annuì appena. “Sto per finire.”
Lei spalancò gli occhi e un enorme sorriso le si dipinse sulle labbra. “Tesoro, ma sei stupenda! Quel vestito ti sta d’incanto!”
Abbassai lo sguardo sull’abito blu notte, sui dettagli argentei che brillavano sul corpetto stretto e sulla gonna che mi scendeva fin quasi ai piedi. Era stato il vestito del diciottesimo di mamma Lili, che lei aveva conservato nella speranza di poterlo un giorno donare a un’eventuale figlia femmina.
“C’ero anche io alla sua festa, già le andavo dietro… era bellissima, proprio come lo sei tu” ricordò dolcemente mamma Carol, gli occhi pieni di emozione e nostalgia.
Accennai un sorriso e afferrai una boccetta di profumo per spruzzarne qualche goccia sui polsi.
Volevo soltanto scomparire quel giorno, la sola idea di dover uscire con il mio gruppo di amici mi metteva voglia di chiudermi in bagno, prendere una lametta e farla finita.
Invece ancora una volta mi costrinsi ad affrontare tutto a testa alta e con la morte nel cuore: mi diressi in soggiorno, dove mamma Lili stava chiacchierando con Indi.
La mia ragazza era innegabilmente bella, con il suo tubino indaco che metteva in risalto le sue forme generose pareva lei la star della serata. Eppure la sua vista non fece che disgustarmi, come tutte le volte.
“Joy! Amore mio, sei magnifica!” cinguettò non appena mi vide, per poi precipitarsi da me, gettarmi le braccia al collo e baciarmi con trasporto.
Se già i suoi baci mi erano indigesti, detestavo ancora di più quel suo atteggiamento davanti alle mie madri.
Loro però sorridevano contente, ci osservavano con occhi pieni di gioia e orgoglio.
Mamma Lili si accostò a me e mi carezzò appena una guancia, gli occhi lucidi. “Quasi non ci credo, i diciotto anni della nostra stellina…”
Volevo piangere.
Mamma Lili e mamma Carol erano due donne unite da un amore sincero; si erano impegnate perché crescessi felice, serena e senza avvertire alcuna mancanza. Mi avevano trasmesso la loro calma e pace, si erano sempre mostrate orgogliose dei miei successi e comprensive nei confronti dei miei errori. Le amavo, nonostante nel profondo sapessi che nessuna delle due mi avesse mai pienamente compreso; del resto non era colpa loro se non parlavo e non raccontavo nulla della mia vita. Avevo sempre cercato di non dar loro problemi e di tenere per me il mio pensiero divergente dal resto del mondo, nella paura di deluderle e di non essere accettata.
Era tutta colpa mia se non conoscevano affatto la loro unica figlia, era colpa mia se il giorno successivo avrei spezzato loro il cuore con una notizia tanto tragica quanto inaspettata. La sola idea di dare un dispiacere così grande alle mie mamme, quasi paragonabile a un lutto, mi toglieva il fiato.
Ricacciai il magone che mi stava bloccando la gola e lanciai un’occhiata a Indi. “Si sta facendo tardi, forse è meglio andare.”
Restare in quella stanza con loro stava diventando una tortura, non riuscivo più a sostenere i loro sguardi.
La mia ragazza annuì e mi prese per mano.
“Divertitevi tanto, ragazze!” ci salutò mamma Carol.
“Passate una buona serata” le fece eco mamma Lili, la voce rotta dall’emozione.
Uscimmo di casa ed ero già pronta ad avviarmi verso il nostro solito locale, quando Indi mi strattonò appena verso di sé e sussurrò a un centimetro dalle mie labbra: “Sei bellissima ogni singolo giorno, ma oggi… oggi sei la donna più bella dell’universo”, per poi baciarmi con passione.
Repressi quel moto di disgusto che mi assaliva a ogni suo bacio e stavolta serrai gli occhi, pregando che Indi scomparisse in quell’istante.
Almeno uno dei miei desideri sarebbe stato realizzato il giorno seguente.
 
When my demons come a-calling
You don't even bat an eye


 
 
 
 
 
 
[Per note e spiegazioni rimando alla fine del secondo capitolo.]

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Capitolo 2
*** II ***


 
 
 
 
 
 
Singhiozzi e grida riempivano la stanza, un turbinio di colori senza contorni occupava il mio campo visivo e si condensava in una macchia bianca. Non un vero colore, la tinta della vergogna.
Sentivo pungere nella mia testa, come se un miliardo di elettrodi fossero ancora conficcati nel mio cuoio capelluto.
Fu una spinta più forte delle altre a riscuotermi: Indi mi strattonava per la maglia e poi mi lasciava andare bruscamente nella speranza di vedermi perdere l’equilibrio, il volto distorto dalla rabbia e incrostato di lacrime.
“Pensavo che tu mi amassi! Sei una stronza, una traditrice… ti odio! Fai schifo, sei una vergogna per la nostra comunità! Come hai potuto ingannarmi così?” strillava istericamente, la sua voce acuta e robusta sembrava sul punto di far crollare le pareti della sala d’aspetto. Quelle stesse pareti che, un paio di mesi prima, avevano assistito a festeggiamenti, sorrisi e sguardi colmi d’orgoglio.
Rimasi inerme, gli occhi che si spostavano dal volto della mia ex ragazza al marchio che mi circondava il polso destro. Sembrava un bracciale candido, solo che sarebbe rimasto al suo posto per il resto della mia vita.
Sapevo già come sarebbe andata a finire, ma non per questo faceva meno male. Ero talmente stordita che non riuscivo nemmeno a proiettarmi nel futuro, non m’importava.
Mamma Lili e mamma Carol piangevano in un angolo, strette in un abbraccio doloroso nel tentativo di farsi forza a vicenda. Non sapevo se ad alimentare la loro disperazione fosse la delusione nei miei confronti e la consapevolezza che nel giro di una settimana mi avrebbero perso per sempre.
Jonas aveva lasciato la sala d’aspetto non appena avevo varcato la soglia col mio nuovo marchio sul polso, insieme a Destiny, Toyah e qualche altro amico che aveva partecipare a quella grottesca cerimonia. L’unico a essere rimasto lì era Stephen, che osservava impotente la furia di Indi.
“Non parli? Cos’hai da dire? Sei la persona peggiore che abbia mai abitato questo pianeta, meriti di marcire sulla Terra insieme a tutte le altre puttane come te!” gridò ancora lei, mollandomi un pugno all’altezza del seno destro.
Avvertii un dolore pungente e d’istinto mi ritrassi, andando a sbattere contro una poltroncina che mi stava alle spalle.
“Indi, calmati” intervenne Stephen, facendo un passo avanti e bloccando la ragazza per un braccio.
Lei si divincolò e gli mollò una gomitata. “Dovrei stare calma secondo te?! Sono stata per quasi due anni con un’etero del cazzo, mi sono illusa che potesse esserci un futuro per noi… io pensavo che mi amasse!” Si voltò nuovamente verso di me e tirò un altro pugno, stavolta diretto al volto; lo zigomo mi bruciò maledettamente e la vista mi si appannò. “Ti odio, hai capito? Sei una merda! Succhiacazzi, troia!”
Ci trovavamo in un luogo pubblico e Indi stava mettendo su una scenata che in qualsiasi altra circostanza sarebbe stata fermata e sanzionata, ma stavolta era diverso: era quasi legittimata a trattarmi in quel modo, lo meritavo, ero uno scarto della società. Nessuno sarebbe intervenuto per difendere un errore di percorso come me.
“Mi dispiace” biascicai, ma in realtà non mi dispiaceva affatto per averla ferita. Nemmeno lei mi aveva mai amato, lo sapevo bene, ma soprattutto non aveva mai fatto alcuno sforzo per capirmi. Io avevo semplicemente sperato di poter cambiare, di potermi correggere accanto a lei, ma Indi non era stata in grado di sortire quest’effetto su di me.
 
You didn't change me
You didn't think I needed changing
 
“È tutto quello che sai dire? Col tuo dispiacere mi ci pulisco il culo” continuò a sbraitare Indi, il mascara colato sulle guance e il viso ancora paonazzo di rabbia.
Una fitta allo stomaco mi colse impreparata, la vista mi si appannò e per un attimo temetti che sarei svenuta lì, in quell’istante. Avevo un viscerale bisogno di uscire, lasciarmi alle spalle quella che non potevo più considerare la mia gente e fumare una sigaretta.
Superai Indi, che intanto aveva preso a piangere disperata con le mani sul volto, e tirai dritto verso la porta che dava sul terrazzo. Poco prima di afferrare la maniglia però sentii una mano posarsi sul mio braccio sinistro; mi voltai di scatto e mi trovai davanti il viso di mamma Lili. I suoi lineamenti delicati erano distorti dal dolore, gli occhi celesti gonfi di pianto e i capelli biondi completamente sfatti e scarmigliati. Sembrava aver perso improvvisamente una decina d’anni, pareva più vecchia e sciupata.
Mi sorpresi del fatto che avesse avuto il coraggio di toccarmi, dal momento che rappresentavo il disonore della famiglia.
“Tesoro” mormorò con un filo di voce.
“Sono un mostro” ribattei io atona. Era un dato di fatto.
“Non mi importa: sei mia figlia” singhiozzò, prima di attirarmi a sé e stringermi in un abbraccio straziante.
Ero in una fase di shock talmente profonda che non riuscii a ricambiare né di piangere a mia volta, rimasi inerme a lasciarmi cullare tra le braccia di mia madre, a pensare che non meritavo quell’amore da parte sua. Non riuscivo nemmeno a immaginare come si sentisse in quel momento, mentre abbracciava la sua gioia e il suo dolore più grandi. Le sue lacrime piovevano tra i miei capelli, inondavano anche la mia pelle e io desiderai di morire lì, in quell’esatto istante, avvolta dall’ultima briciola d’affetto che avrei mai ricevuto nella vita.
Le concessi tutto il tempo di cui aveva bisogno, ma quando mi lasciò andare mi precipitai subito fuori ed estrassi il mio pacchetto di sigarette. Ne accesi una, presi una boccata di fumo e poi feci scorrere la punta incandescente a un millimetro dalla pelle del polso destro, dove campeggiava il mio nuovo bracciale terribilmente bianco.
Il bianco non era considerato un colore, non era niente, era del tutto rifiutato dalla nostra società. Così come il nero, che marchiava il polso dei ragazzi etero.
Sognavo di scacciarlo via, quel tatuaggio indelebile che mi aveva appena rovinato la vita. Magari se mi fossi bruciata la pelle abbastanza in profondità e avessi lasciato che una cicatrice mi attorniasse il polso, sarebbe scomparso.
Fumai, tossii, sollevai gli occhi al cielo e vidi la Terra che svettava sopra la mia testa, enorme e minacciosa. Se avessi potuto spiccare un salto e raggiungerla, mi sarei risparmiata la settimana di agonia prima della mia partenza ufficiale.
“Joy.”
Stephen. L’ultima persona con cui avrei voluto parlare in quel momento. Prima di uscire l’avevo visto cingere le spalle di Indi nel vano tentativo di consolarla, non pensavo che mi avrebbe seguito.
Non risposi.
“Lo sapevi?” Mi affiancò, ma nonostante ciò non mi voltai e continuai a fumare con i gomiti poggiati alla balaustra in cemento.
“Non ti faccio schifo?” borbottai in tono duro.
“Sono soltanto sconvolto, non so come… non me l’aspettavo. Questo significa che te ne andrai…” Era la prima volta che lo vedevo così in difficoltà con le parole.
“Sì. Non mancherò a nessuno.”
“Non è vero!” obiettò subito lui, la voce venata di qualcosa simile alla disperazione. Perché non mi odiava come tutti gli altri? “Lo sapevi?”
Mi morsi il labbro.
“Perché non mi hai detto niente?”
Mi faceva quasi tenerezza: nemmeno lui aveva capito niente di me, in fondo. Non gli era bastato essere il mio migliore amico per leggermi dentro – a nessuno era bastato, ero troppo diversa da tutti loro.
 
You didn't save me
You didn't think I needed saving
 
“Perché non me ne hai parlato? Avremmo lottato, avremmo fatto qualcosa per…” proseguì, ma io non ne potevo più.
Spinsi la punta del mozzicone sul polso destro, avvertendo un dolore atroce e bruciante che mi si conficcava fin nel cervello; forse questo mi avrebbe riscosso una volta per tutte.
“Joy! Che cazzo fai?”
“Lo vuoi capire o no che sono risultata negativa a questo fottuto test perché sono innamorata di te?!” strillai isterica, liberando tutte le lacrime che non avevo mai pianto e le verità a cui non avevo mai osato dar voce. Una pioggia calda mi inondò le guance; lasciai cadere la sigaretta oltre la balaustra e diedi le spalle a Stephen, sperando che dopo quella disgustosa dichiarazione mi lasciasse in pace. Tremavo, il polso mi bruciava in maniera lancinante e nonostante ciò volevo farmi del male, ancora e ancora.
Ma Stephen non se ne andava, avvertivo la sua presenza alle mie spalle. Non ne voleva sapere di lasciarmi singhiozzare in pace.
“Mi dispiace” mormorò infine. “È colpa mia.”
Ma che diavolo stava dicendo? Sapevamo entrambi che la peccatrice tra i due ero io.
Ebbi il coraggio di lanciargli uno sguardo con la coda dell’occhio e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi. Non potei fare a meno di pensare che fosse di una bellezza senza eguali, così fragile e trasparente.
“Non puoi fare niente.”
“Avresti dovuto dirmelo prima, Joy.”
“E rovinare la nostra amicizia? Volevo goderne fino all’ultimo giorno.”
Lui mi sorprese, cingendomi i fianchi e attirandomi a sé per abbracciarmi forte. Mi fece posare il capo sulla sua spalla e mi carezzò piano una guancia umida di pianto, mentre le nostre lacrime cominciarono a fondersi.
Avrei voluto spingerlo via e andare a nascondermi in un angolo, perché dopo quella stretta sarebbe stato ancora più doloroso dirgli addio. Ci stavamo facendo del male a vicenda e lo sapevamo entrambi.
“Me l’hai detto tu qualche settimana fa, no? Non c’è nulla di sbagliato nell’amore, qualunque sia il suo oggetto. E quello che provi ai miei occhi ti rende ancora più nobile, Joy.”
Lo amavo. E, nonostante le devastanti conseguenze di quel sentimento, non me ne pentivo.
 
The skeletons I wanted to bury
You liked out in the light
 
 
 
Non avevo portato nulla con me, se non lo stretto necessario: avevo indossato la giacca in jeans che era appartenuta a Stephen, messo al collo il ciondolo d’oro che le mie mamme mi avevano regalato per i miei diciotto anni, con i nostri tre nomi incisi sopra, ed ero salita sul razzo che mi avrebbe portato via dalla Luna per sempre.
Ero riuscita a non piangere durante il momento dell’addio. Non che in molti si fossero premurati di venire a salutarmi per l’ultima volta: oltre alle mie madri – mamma Lili disperata e in lacrime, mamma Carol un po’ più distaccata e refrattaria per via dell’enorme delusione che le avevo dato –, solo Stephen mi era rimasto accanto fino alla fine.
Mentre lo guardavo in viso per l’ultima volta – quel bellissimo viso dai lineamenti marcati ma non troppo affilati, così armonioso che sarebbe potuto appartenere a un angelo – avevo pensato che ero stata estremamente fortunata ad averlo avuto nella mia vita e ad aver goduto della sua amicizia per tutti quegli anni. Era un ragazzo speciale, dotato di una sensibilità fuori dal comune e, nonostante fossi contro tutti i principi del suo mondo, se ci fosse stato un modo per salvarmi lui sicuramente l’avrebbe fatto.
Non lasciai trasparire e non raccontai a nessuno del dolore che provavo all’idea di andarmene e perdere tutto: mi sentivo svuotata, stordita, morta dentro.
Era il 22 giugno 3005.
Mentre guardavo fuori dal finestrino del razzo, dove un abisso scorreva tra la Luna e la Terra, cominciai a pensare forse per la prima volta a ciò che mi avrebbe atteso sul mio nuovo pianeta. Non ne sapevo molto, ero soltanto consapevole che della civiltà terrestre non fosse rimasto quasi niente e che tornare indietro era praticamente impossibile.
Inizialmente quei percorsi di correzione erano stati ideati, appunto, per correggere i circuiti neurali deputati all’orientamento sessuale, ma erano estremamente rari i casi in cui una persona negativa al test degli elettrodi potesse risultare positivo più avanti. Talmente rari che negli anni il Governo aveva deciso di tagliare i fondi per i controlli periodici sulla Terra, quindi le possibilità di tornare indietro erano state ridotte all’osso fino a scomparire. Da barlume di speranza, quel viaggio si era tramutato in un esilio senza ritorno.
Per la prima vera volta, dentro quella cabina immersa nella penombra dotata di ogni comfort, mi sentii davvero sola.
Serrai le palpebre fino a strizzarle con violenza e abbandonai il capo sul soffice schienale della mia postazione, sentendolo pesante per la miriade di pensieri che l’avevano affollato e continuavano ad affollarlo.
Nelle ultime due settimane non avevo chiuso occhio e improvvisamente un senso di spossatezza, misto alla più opprimente impotenza, mi si era abbattuto contro.
 
 
Camici bianchi, uno schermo luminoso che fendeva l’oscurità della stanza, un silenzio interrotto solo dal leggero ronzio dei macchinari.
Tanti piccoli aghi a pungermi il cuoio capelluto.
“Osserva attentamente queste immagini per diversi secondi. Rilassati e lasciati trasportare dalle sensazioni che ti danno.” Era una voce ostile a pronunciare quelle parole, lontana e vicina allo stesso tempo, quasi rimbombasse direttamente nella mia testa.
Attorno a me avvertivo delle presenze, ma un terrore paralizzante mi impediva anche solo di roteare gli occhi; allora li tenevo fissi sullo schermo, ora di un azzurro intenso che aveva la capacità di ipnotizzarmi.
Dentro le mie iridi cominciarono a scorrere delle immagini, dei volti: uomini e donne, in ordine casuale e dai diversi tratti. E poi altre parti del corpo: petti, seni, fianchi, vite, cosce.
Avevo il respiro corto, volevo smettere di guardare ma era come se il mio capo fosse stretto in una morsa – forse lo era davvero.
Nella mia testa le foto si susseguivano all’impazzata, allo stesso ritmo del cuore che picchiava impazzito contro la gabbia toracica.
Avevo le mani sudate.
Le orecchie in fiamme.
Ogni muscolo teso.
Qualcosa si faceva strada tra le mie cosce, una sensazione disgustosa e strisciante che voleva maciullarmi le viscere.
Davanti a me comparvero dei volti noti: quelli dei miei amici.
Il volto di Indi.
Il volto di Jonas.
Il volto di Stephen.
Fu in quel momento che smisi di respirare.
Una voce alle mie spalle ruppe il silenzio, poco più di un sussurro ma dalla potenza distruttiva di un’esplosione: “Qualcosa non va”.
 
 
 
Faceva caldo. Non si trattava solo di afa, ma di un bollore talmente bruciante che non appena misi piede al suolo venni colta da un capogiro. Mi strappai di dosso la giacca in jeans, ma ben presto compresi che non sarebbe bastato nemmeno spogliarmi del tutto per lenire quella sensazione soffocante.
A scuola ci avevano insegnato che prima dell’Esplosione la Terra era protetta dall’atmosfera, una stratificazione di gas che ne garantiva equilibrio termico e protezione dalle radiazioni solari; durante il trasloco sulla Luna si era cercato di emulare artificialmente questo sistema, in modo da rendere il pianeta un luogo vivibile.
Dopo l’Esplosione qualcosa era cambiato sulla Terra: una falla nella stratosfera aveva rotto gli equilibri e, nonostante il baricentro del problema si trovasse presso le vecchie Americhe, le ripercussioni si sentivano anche laddove la Terra era rimasta vagamente abitabile.
Il razzo era atterrato su un’enorme distesa sabbiosa e arida sulla quale non vi era traccia di vita vegetale: la polvere grigio-giallastra rifletteva fastidiosamente la luce del sole, feriva gli occhi e s’infiltrava nelle narici.
Tuttavia mi sorpresi nel notare che non eravamo soli.
Mentre l’astronauta si preparava a ripartire, un’orda di donne dalle diverse età raggiunse di corsa il monumentale mezzo bianco lucente. Cominciarono a bussare disperatamente sulla superficie del razzo per attirare l’attenzione della donna ai comandi; lo shuttle era stato preso d’assalto come succedeva alle serate importanti con le auto dei VIP.
Mi distanziai e osservai la scena con confusione: dopo qualche insistenza l’astronauta scese dal mezzo, protetta dalla sua tuta, e con fare schivo afferrò alcuni oggetti che la folla le tendeva.
Non sapevo come catalogare l’evento a cui stavo assistendo.
“È l’unico modo che abbiamo per sopravvivere.”
Colta alla sprovvista, sobbalzai e mi voltai di scatto. Una ragazza poco più bassa di me, dai fianchi larghi e i lunghi capelli castani e mossi, mi scrutava con una certa curiosità. Mi sentii subito in soggezione.
“Non appena un razzo atterra nei dintorni, facciamo delle richieste all’astronauta di turno affinché la prossima volta ci porti delle risorse dalla Luna. In teoria sarebbe illegale, ma insistiamo e impietosiamo tanto che alla fine ci accontentano. Non potremmo sperare di ricostruire un mondo civilizzato altrimenti.”
Rimasi colpita non tanto dalle parole che quella ragazza aveva detto, ma dal fervore con cui le aveva pronunciate e dalla luce che le illuminava le iridi color mogano. C’era qualcosa in lei che mi trasmetteva forza, determinazione, speranza.
Non sapevo bene come ribattere.
“Ehi, benvenuta all’inferno comunque” proseguì allora lei, tendendomi una mano. “Io sono Miracle. E non ridere: i miei padri non potevano scegliere nome peggiore per me!”
Non avrei riso comunque. Strinsi debolmente le sue dita e mi presentai: “Joy”.
Subito il mio sguardo corse al suo polso, dove campeggiava il tatuaggio identico al mio; un bracciale di un bianco cangiante, ancora più evidente sulla sua pelle arrossata.
Miracle sorrise amaramente. “Quello sta lì da quattro anni ormai.” Diede una rapida occhiata al mio marchio. “Invece vedo che tu hai cercato di eliminarlo. Beh, sappi che è impossibile, quello rimarrà lì qualsiasi cosa tu faccia” commentò, notando le piccole ustioni che mi ero causata con la sigaretta qualche giorno prima.
“Non credo cambi molto a questo punto” borbottai, guardandomi brevemente attorno.
“Senti… è pericoloso stare qua fuori durante il giorno, le radiazioni solari sono molto forti e la prolungata esposizione ci farà venire qualche tumore a lungo andare. In genere noi trascorriamo le giornate dentro.”
“Dentro?” mi lasciai sfuggire, sempre più perplessa. Ero atterrata nel bel mezzo del niente, dove avremmo potuto trovare riparo?
Solo affinando la vista mi resi conto che sulla linea dell’orizzonte si stagliava un complesso di strutture che non riuscii a identificare meglio, complice la lontananza.
Miracle annuì e cominciò ad avviarsi in quella direzione a passo svelto, facendo cenno di seguirla. “Ecco, quella che vedi là in fondo è Città del Capo… o meglio, sono i suoi resti. Un tempo è stata la capitale legislativa della Repubblica del Sudafrica ed è una delle pochissime costruzioni artificiali che l’Esplosione non ha del tutto spazzato via. Quando la comunità delle Bianche ha provato a rimettere insieme uno straccio di civiltà, è partita proprio dalle sue macerie. Adesso è il nostro epicentro, la nostra unica casa.”
“E tutte quelle persone? Non sono a rischio sotto il sole?” chiesi preoccupata, accennando al capannello di donne che ancora stazionava attorno al razzo.
“Ci seguiranno non appena avranno finito. Non c’è altra soluzione.”
Lungo il tragitto che ci separava da Città del Capo, Miracle non smise per un attimo di parlare: mi spiegò, senza neanche attendere che glielo chiedessi, il modo in cui si viveva in quel luogo e come le ragazze approdate sulla Terra cercavano di sopravvivere. Mi rassicurò sul fatto che sul pianeta luce e ombra si alternavano ogni giorno, quindi si aveva la possibilità di uscire e svolgere qualsiasi attività durante la notte; raccontò di come, attraverso dei favori chiesti alle astronaute di passaggio, la comunità fosse riuscita a costruire delle piccole serre e degli spazi al coperto in cui colture e bestiame potessero crescere lontani dalle dirette radiazioni solari, che ne avrebbero altrimenti stroncato la vita. Era così che si nutrivano, anche se il loro sistema di protezione era abbastanza rudimentale e ciò che ricavavano da agricoltura e allevamento era appena sufficiente per la sopravvivenza.
“Gli animali si ammalano, le piante muoiono e anche noi facciamo la stessa fine. Il cibo che mangiamo non è sano, ma è tutto ciò che abbiamo. Da una settantina d’anni a questa parte è stato inaugurato pure uno studio medico e scientifico in cui le più colte ed esperte in materia conducono degli studi sul problema, quantomeno per provare ad arginarlo e cercare delle potenziali cure per noi.”
Era pazzesco: ero arrivata da poco meno di mezz’ora e avevo subito trovato qualcuno pronto ad accogliermi e a spiegarmi le regole di quel nuovo mondo. Mi domandai più volte come mai Miracle fosse tanto gentile con me, che risultavo così fredda e chiusa nel mio ostinato silenzio, ma non le posi il quesito.
Una volta giunte presso la vecchia Città del Capo, mi resi conto che si trattava di un assembramento di bassi edifici, alcuni in parte crollati, altri restaurati alla bell’e meglio con ciò che il territorio offriva – macerie, rovine, resti di qualcosa che in passato era stato molto più grande.
Le strade polverose, sterrate e disseminate di calcinacci erano deserte; un’afa soffocante si sprigionava dal suolo, talmente intensa da far bruciare gli occhi. Tentai comunque di tenerli aperti ed esaminare il più possibile quel luogo spettrale e devastato, avvolto dal silenzio e da un’immobilità assoluti, spaventosi. Venni colta da un moto di repulsione e contemporaneamente da una profonda tristezza.
Dopo una breve camminata, arrivammo presso un edificio che a me pareva uguale a tutti gli altri e Miracle bussò a un’approssimativa porta in legno per annunciare il suo arrivo, poi si voltò verso di me con fare complice. “Io vivo nella casa di Annie. È un po’ piccola, ma sono sicura che staremo comode anche in tre.”
Entrammo e io ebbi fin da subito la sensazione di essere un’intrusa. Le finestre erano ovviamente oscurate e sbarrate con dei pannelli in legno, così i miei occhi dovettero abituarsi alla penombra prima di scorgere qualcosa dell’angusto ambiente. Non c’era molto da vedere in realtà: una ragazza dai capelli lisci e scuri stava seduta attorno a quello che somigliava a un tavolo ed era intenta in qualche attività che non riuscivo a identificare – forse cuciva.
“Ehi Annie, c’è un nuovo arrivo!” annunciò a gran voce Miracle.
Lei sollevò il capo e mi scrutò per un istante, per poi sorridermi dolcemente e alzarsi per potersi presentare. “Io sono Annie, una delle veterane: mi trovo qui da undici anni. Benvenuta a casa, sarò felicissima di accoglierti” esordì con un tono di voce basso e calmo, quasi rassicurante.
Per la prima volta da quando avevo lasciato la Luna mi sentii un po’ meglio. C’era qualcosa in Annie, nel modo sicuro con cui mi stringeva la mano e nella dolcezza che lessi dentro i suoi occhi, che sapeva di famiglia.
Biascicai il mio nome, sempre più frastornata, poi aggiunsi: “Non vorrei essere di disturbo”.
Annie scosse il capo. “Tutti hanno bisogno di una casa e, in una situazione complicata come la nostra, chi ne ha una la apre al prossimo. Siamo felici di averti nella nostra famiglia e nella nostra comunità.”
“Questa sarà la tua postazione, accanto alla mia!” esclamò Miracle, che intanto era già schizzata dall’altra parte della stanza e indicava un piccolo spazio vuoto accanto a uno spoglio giaciglio. “Non abbiamo un letto, ma dopo il tramonto penseremo anche a questo. Intanto se vuoi riposarti puoi prendere il mio: immagino che sarai esausta dopo il viaggio.”
Effettivamente sentivo le gambe cedere, avevo bisogno di sedermi. Le rivolsi un’occhiata grata e presi posto su quel letto improvvisato per niente comodo, ma più accogliente di qualsiasi materasso avessi mai provato.
Miracle mi sorrise in una maniera così genuina e sincera che un nodo mi si formò in gola.
Adesso capivo come mai era stata così gentile fin dall’inizio: per quanto calpestate, esiliate e costrette a una tortura disumana, tra le donne della Terra Bianca vigeva una solidarietà che le legava nel profondo. Non era il cibo scarso o il riparo dalle radiazioni a garantire loro la sopravvivenza, ma la forza e la determinazione che nasceva dalla loro unione.
E io ora facevo parte del loro mondo.
 
 
 
“Come mai sei qui, Joy?”
L’improvvisa domanda di Miracle mi fece sobbalzare e abbassai istintivamente lo sguardo sul modesto pasto che avevo nel piatto: verdure rachitiche e dal colorito biancastro.
Io, lei e Annie sedevamo al tavolo per quella che poteva considerarsi una cena – non sapevo bene in quale parte della giornata ci trovassimo, ma mi avevano detto che a breve il sole sarebbe tramontato.
“Beh… sono risultata negativa al test degli Elettrodi” bofonchiai in imbarazzo.
Da quando ero giunta sulla Terra, il giorno precedente, non avevo parlato granché e non avevo raccontato nulla alle mie nuove coinquiline; ero ancora troppo scossa e stordita da quel nuovo presente.
“Questo era ovvio. Voglio dire… sapevi già di essere etero o è stata una sorpresa?” proseguì Miracle.
“Smettila” la rimproverò Annie a mezza voce, carpendo il mio disagio.
“Io per esempio” riprese la più giovane, mandando giù un boccone, “non mi sono innamorata di un ragazzo, però da adolescente ho cominciato a interessarmi al cinema pre-Esplosione e sono andata a cercare del materiale a riguardo, negli archivi online illegali ovviamente. Hai mai fatto caso al fatto che in tv o al cinema si trovano solo storie con delle coppie omosessuali?”
Annuii: certo che ci avevo fatto caso, era una delle tante strategie che la società metteva in atto per inculcare l’omosessualità come unica opzione.
“Ovviamente i film prodotti sulla Terra non vengono diffusi e trasmessi, nonostante ne esistano a milioni. È stato proprio informandomi sull’argomento che ho scoperto questo diverso modo di amare e mi ci sono riconosciuta. Fino ad allora sentivo di avere qualcosa di diverso dagli altri, ma non riuscivo a capire di cosa si trattasse perché ero totalmente ignorante sull’eterosessualità.”
“Un’intera fetta di arte ci è stata negata solo perché non conforme alle convenzioni” commentai, rendendomi conto solo in quel momento della gravità della situazione.
Miracle si batté una mano sulla fronte. “Lasciamo perdere…”
“Io ho avuto una vera storia d’amore prima di essere portata qui” intervenne Annie. I suoi occhi nocciola, solitamente sereni e capaci di infondere calma, si erano velati di malinconia. “Mi sono innamorata di un ragazzo, Aiden, e lui si è innamorato di me; abbiamo vissuto clandestinamente la nostra relazione per un anno e mezzo, siamo riusciti a non farci scoprire e abbiamo cercato di godere di ogni momento, consapevoli che al nostro diciottesimo compleanno saremmo stati divisi.”
“Wow.” Ammiravo sinceramente il loro coraggio e la loro scelta, lei e il suo amato avevano sfidato la sorte pur di vivere il loro amore.
“Pochi giorni prima del mio test nella Stanza degli Elettrodi venne fuori che ero incinta.” Annie serrò per un attimo le palpebre, la sua voce era venata di un dolore che non credevo potesse appartenerle. “Non poteva che essere il frutto di un’unione tra un uomo e una donna. Dovetti rivelare il nome del padre – l’avrebbero comunque scoperto tramite il test del DNA – e mi costrinsero ad abortire, prima di caricarmi su un razzo il più in fretta possibile. Non hanno nemmeno concesso a me e Aiden un ultimo saluto. E mio figlio… li ho supplicati in ginocchio di lasciarmi tenere il bambino, che già amavo con tutta me stessa: cresceva dentro me, era il frutto di un amore sincero, era tutto ciò che mi rimaneva di Aiden. Ma non me lo permisero.” La voce di Annie era intrisa di sofferenza, le sue iridi ne erano colme.
Strinsi i pugni, indignata per il trattamento che era stato riservato a quella povera ragazza. A diciott’anni si era ritrovata a perdere tutto: la famiglia, la sua vecchia vita, un amore vero e soprattutto un figlio, il dono più grande che un essere umano potesse ricevere. Non esistevano parole per commentare un gesto tanto disgustoso.
Nessuna di noi osò aggiungere altro, così trascorsero alcuni pesanti secondi di silenzio nell’attesa che Annie si ricomponesse. Fu proprio lei a rivolgersi a me, riacquistando il solito tono dolce e tranquillo: “Se ti va, Joy, puoi raccontare anche tu la tua storia”.
Presi un profondo respiro e parlai di Stephen, della nostra amicizia che era andata avanti per nove anni, della sua relazione con Jonas e della mia con Indi. Non entrai nei dettagli – in parte perché non era da me, in parte perché rivangare quei ricordi così recenti e vividi era estremamente doloroso – ma mi venne spontaneo aprirmi con quelle ragazze che avevano appena messo a nudo una parte importante di loro.
“Indi doveva essere un tantino stupida per non capire che ti faceva schifo” commentò Miracle con una risata.
Mi ritrovai a sorridere. “Non credo le importasse poi tanto, voleva semplicemente la sua felicità e se la prendeva.”
Davanti agli occhi mi scorrevano, come in un film, i ricordi di tutti i suoi baci che per me erano stati soltanto un incubo e di tutti i momenti che mi ero costretta a vivere con lei perché la mia copertura risultasse credibile.
Mi costava ammetterlo, ma ora che mi trovavo lontana da tutto e tutti mi mancava perfino Indi e il suo essere inopportuna.
“Ehi, se non ti va di parlarne non devi sentirti costretta” mi rassicurò Annie, probabilmente leggendo la nostalgia nei miei occhi.
“È normale che le persone che mi hanno ripudiato adesso mi manchino?” buttai fuori tutto d’un fiato, mordicchiandomi un labbro. In diciott’anni non ero mai stata abituata a parlare delle mie emozioni, ma ora sentivo la necessità di esternarle; erano un carico troppo pesante e intricato da gestire.
“Succede a tutte nel primo periodo. È normale sentirsi perse, in fondo è come cominciare a vivere un’altra vita. Ma a lungo andare, quando comincerai a prendere dimestichezza con questo mondo, ti ritroverai perfino a provare disprezzo per il tuo passato. A essere del tutto sincera, non tornerei sulla Luna nemmeno se mi pagassero” ribatté Miracle con una certa sicurezza.
Mi pareva un’assurdità: certo, anche io serbavo una certa rabbia verso la comunità omosessuale, ma avrei dato qualsiasi cosa pur di lasciare quel luogo infernale che era la Terra Bianca.
“Perché mi guardi così?” si incuriosì, piegando appena il capo di lato.
“Preferisci rimanere sulla Terra?”
“Certo! Come potrei preferire quel covo di criminali? Diciamoci la verità: la Terra Bianca è una merda, ma ciò che noi abbiamo costruito sopra queste macerie è autentico, vero, pieno d’amore. Io sono estremamente orgogliosa di questo marchio,” sollevò il polso destro e il suo tatuaggio bianco brillò nella penombra, “perché rappresenta ciò che sono, la comunità in cui mi identifico. Una comunità non esclusiva, basata sull’uguaglianza e la libertà di amare, una comunità che combatte per costruirsi un futuro nonostante gliel’abbiano negato.”
Ancora una volta rimasi spiazzata dalla determinazione che Miracle era in grado di trasmettere con le sue parole: credeva in ogni singolo concetto che esprimeva, nei suoi grandi occhi si leggeva chiaramente l’amore e la devozione che provava verso quella gente che le aveva salvato la vita e donato un barlume di speranza a cui aggrapparsi.
Ero affascinata. Chissà se un giorno avrei provato gli stessi suoi sentimenti.
Non mi sfuggì comunque il sospiro quasi rassegnato di Annie. Come se tutto quell’idealismo non le fosse mai appartenuto o le fosse già scivolato via.
“Ma qui si muore per via della fame, degli stenti e delle radiazioni” trovai il coraggio di obiettare.
Il viso di Miracle – pareva quello di un’attrice, era bellissimo ma in modo molto più autentico rispetto alle ragazze che avevo conosciuto fino ad allora – si fece ancora più serio e lei si tirò indietro i capelli. “Tutti moriamo prima o poi, questo non mi spaventa. Ciò che mi fa veramente paura è l’idea di vivere in una società che ci tratta come delle appestate semplicemente perché amiamo. Io non voglio più nascondermi, non voglio far parte di questo… perché io non sono questo.”
Qualcosa di nuovo ed elettrizzante mi attraversò il corpo, qualcosa che mi fece sentire forte come non lo ero mai stata: senso di appartenenza.
Miracle aveva ragione. In lei mi rispecchiavo, le sue parole erano i pensieri che da sempre mi avevano affollato la testa, la sua voglia di reagire e lottare era la stessa che avevo represso per anni.
Sollevai la mano destra in aria, osservai il mio bracciale bianco brillante e sorrisi. Ero ancora spaventata, ma mi sentii a casa.
“Cosa posso fare per aiutare la comunità?” domandai.
Da quel che avevo capito, ognuna ricopriva un ruolo in quel bizzarro mondo: c’era chi metteva a disposizione le sue conoscenze per la medicina e gli studi scientifici, chi si impegnava a mantener viva la Storia della Terra, chi si occupava della produzione e la distribuzione del cibo, chi – come Annie – si occupava di assistenza per persone in difficoltà e piccole faccende quotidiane. Era un continuo scambio, un perenne aiutarsi.
“Quali campi ti interessano maggiormente?” si informò la padrona di casa.
Scrollai le spalle. “Ho sempre amato la Storia e non mi dispiaceva nemmeno la Biologia, ma non mi sento portata per fare il medico.”
Le due ragazze si scambiarono uno sguardo complice.
“Hai studiato anche Storia della Terra?” si informò Annie.
Annuii. “Ho letto molti libri sull’Esplosione e sul periodo che l’ha preceduta.”
“Quindi conosci bene anche la geografia del pianeta?”
Assentii nuovamente col capo. Erano argomenti che mi avevano sempre affascinato.
La più giovane si aprì in un sorriso e si sporse verso di me con fare complice. “Potresti partecipare al nostro studio più ambizioso.”
Inarcai un sopracciglio, confusa.
“Da qualche anno un gruppo di donne ha deciso di imbarcarsi in un progetto ambizioso: trovare un modo per raggiungere la Terra Nera. Molti territori tra il Sudafrica e la Scandinavia sono stati distrutti e non sappiamo con certezza cosa ne sia rimasto; il loro compito è scoprirlo. Riunirci agli uomini rappresenterebbe una speranza per la nostra sopravvivenza: potremmo riprodurci e sperare che l’evoluzione faccia il suo corso, conferendo ai nostri posteri l’immunità alle radiazioni.”
“È rischioso, non è certo che funzioni, ma le nostre ragazze sono determinate ed è l’unica briciola di futuro in cui possiamo credere.” Mentre pronunciava quelle parole, gli occhi di Annie brillavano.
Sapevo a cosa stava pensando, riconoscevo le emozioni di chi come me aveva vissuto sulla pelle un amore intenso: non aveva mai perso la speranza di ritrovare Aiden.
Era una follia. Ma la prospettiva di poter almeno tentare, di cambiare il destino che ci era toccato in sorte, mi rinvigorì e mi fece sentire potente. Per la prima volta potevo essere qualcuno, fare qualcosa, non lasciarmi trasportare dal corso degli eventi.
“Voglio partecipare” dichiarai, la voce ferma e sicura come non lo era mai stata.
Miracle si alzò. “Stanotte ti presento le altre ragazze.”
Fuori dalla nostra dimora il sole era ormai tramontato e per le strade si propagava il vociare della città che si risvegliava e usciva allo scoperto, di una comunità che non si fermava e che la voce non l’avrebbe mai abbassata.
Era giunto anche per me il momento di uscire.
Era giunto il momento di tornare a vivere.
O forse, addirittura, di vivere per la prima volta.
 
You didn't change me
You didn't think I needed changing […]
Lucky for me
Your kind of heaven's been to hell and back
To hell and back


 
 
 
Il tramonto mi feriva gli occhi con la sua luce dorata, davanti alla quale si stagliava la figura di Stephen.
Era bello, di una bellezza mozzafiato. I suoi capelli castano chiaro assumevano una tonalità quasi bionda, i raggi tiepidi rendevano il suo viso più dolce, quasi fanciullesco. E i suoi occhi verdi e luminosi erano tutti per me.
Io piangevo, il volto sepolto fra le mani.
“Joy. Che c’è?” Si accostò a me, avvertii il suo tocco gentile su una spalla e poi le sue braccia che mi cingevano i fianchi. La sua vicinanza mi fece tremare da capo a piedi, mi sarei voluta abbandonare contro il suo corpo ma c’era qualcosa di sbagliato in tutto ciò.
“Non dovresti essere qui” mormorai tra i singhiozzi.
Le sue dita affusolate cercarono il mio viso, mi accarezzarono piano la fronte e scacciarono le ciocche della mia frangia. “Perché?” sussurrò dolcemente al mio orecchio. Era sempre così delicato nei miei confronti.
“Perché ti amo.”
Lui mi strinse più forte a sé, prese a carezzarmi la schiena e mi posò un rispettoso bacio sulla fronte. “Joy, questo non è un male, non è un difetto. A me non importa, tu sei speciale e vai bene così come sei.
Serrai gli occhi e mi aggrappai a lui per sentirlo vicino, ancora e ancora. Volevo dirgli di non lasciarmi mai più e tantissime altre cose, ma le parole vennero soffocate dai singhiozzi.
Stephen mi lasciò un tenero bacio tra i capelli, poi uno sulla guancia. Sentivo il suo respiro sulla pelle, le sue mani che si posavano sul mio corpo con una cura e un rispetto che appartenevano solo a lui.
Solo a lui…
 
 
Mi svegliai in un bagno di sudore, ma ben presto mi resi conto delle gocce bollenti che mi scorrevano sulle guance.
Joy, questo non è un male, non è un difetto. A me non importa, tu sei speciale e vai bene così come sei.
Quelle parole non appartenevano soltanto a un sogno. Stephen le aveva pronunciate davvero, solo che aveva dieci anni, ci eravamo conosciuti da poco e io ero abbattuta perché tutti mi additavano come secchiona e mi prendevano in giro.
Fin dal primo giorno, dalla più piccola difficoltà alla più grande tragedia, Stephen c’era stato. Nessuno mi aveva amato e capito come lui, nessuno aveva avuto una perseveranza tale da leggermi dentro, da cogliere ogni sfumatura del mio mondo. Mi si era annidato nel cuore pian piano e non rappresentava soltanto l’uomo che amavo, ma la persona più importante della mia esistenza. In tutti i sensi.
 
I wonder how you treasure
What anyone would call a flaw
 
Ormai le lacrime scorrevano senza tregua sul mio viso, i singhiozzi mi scuotevano il petto e io sentivo il cuore allo stesso tempo più leggero e più pesante.
Sapevo di non essere sola, volevo fermarmi ma non ci riuscivo.
“Ehi.” Un sussurro esplose accanto al mio orecchio. D’un tratto venni avvolta dal calore di una presenza al mio fianco e mi sentii stringere forte in un abbraccio.
Si trattava di Miracle.
Seppellii il viso nella sua spalla, presi a torturare una ciocca dei suoi capelli e continuai a singhiozzare disperata.
“Joy… hai fatto un incubo?” bisbigliò con una dolcezza inedita. Il modo in cui mi cullava e mi carezzava era quasi materno, tanto tenero da spezzarmi il cuore.
“Stephen… mi manca” riuscii a farfugliare tra i singulti.
Mi mancava da morire, la sua assenza mi toglieva il respiro.
Mentre lui proseguiva con la sua vita, si dimenticava di me, si dedicava a Jonas.
Lei mi abbracciò più forte e mi fece posare la testa sulla sua spalla. “Tesoro, mi dispiace così tanto…”
Non poteva fare niente, se non assorbire tutte le lacrime che le riversavo addosso – per quanto tempo le avevo trattenute?
Era tutto così ingiusto. Per rivederlo, anche solo per un minuto, avrei perfino accettato di non amarlo più, di tornare con Indi, di essere attratta dalle ragazze. Se solo avessi potuto decidere chi amare…
“Magari… magari un giorno troveremo un modo. Una soluzione anche per questo” mormorò Miracle mentre mi carezzava una guancia.
Nessuna delle due ci credeva, ma entrambe ci speravamo.
E forse Stephen avrebbe lottato per me.
Forse quel filo invisibile che ci legava era lungo abbastanza da unire la Terra e la Luna.
 
You didn't save me
You didn't think I needed saving


 
 
 
 
 
 
♣♣♣
 
 
E siamo alla fine di questa folle storia, mio primissimo esperimento per quanto riguarda la fantascienza ^^
Non so nemmeno io cosa esattamente mi sia preso, forse l’acqua che bevo ogni giorno contiene qualche droga (?), ma ho cercato di dare un senso e una logica a questa strana idea che ho partorito un paio di mesi fa.
Prima di passare alle varie spiegazioni devo necessariamente ringraziare due persone: Kim, che è stata fondamentale per la nascita della storia e grazie al suo incoraggiamento l’ho portata a termine, e Koopa, giudice del contest che ha contribuito con i suoi pacchetti a ispirare questa follia. Senza di loro probabilmente non mi sarei mai imbarcata in un esperimento così folle!
Se il risultato finale è accettabile o meno, starà a voi decretarlo: non sono affatto esperta di fantascienza, quindi se ho scritto una schifezza perdonatemi ^^
Bene! Da dove cominciare?
In primo luogo spero che la storia non risulti offensiva in alcun modo: ho voluto creare questo universo distopico (esperti della fantascienza: è un universo distopico o me lo sto inventando? XD) senza nessuna intenzione di criticare alcuna categoria nello specifico: io sono con Joy, contro le discriminazioni di alcun tipo! Mi intrigava però creare un mondo dove fosse tutto al contrario, dove l’omosessualità è la normalità e l’eterosessualità non è vista di buon occhio, dove tutto ciò che ci sembra normale è invece visto come strano, dove si manifesta e si lotta per i diritti inversi a quelli per cui lottiamo oggi.
Ho sfiorato anche il tema dell’autoghettizzazione (estremizzato all’ennesima potenza), che mi sta molto a cuore, e ovviamente quello dell’eccesso di potere. Capita sempre così nella storia dell’umanità: una fetta del popolo combatte per ottenere qualcosa, ma quando ne esce vincitore e acquisisce un certo potere la situazione degenera. Tante volte si è vista una democrazia diventare dittatura, questo perché il potere dà alla testa agli esseri umani… e ho immaginato che in una situazione del genere potesse capitare la stessa cosa.
Un altro capovolgimento che spero si sia notato è quello riferito alla denominazione dei territori vivibili: non è un caso che io abbia chiamato Terra Bianca un Paese appartenente all’Africa e Terra Nera uno appartenente all’Europa settentrionale ^^
Un piccolo appunto sulla bandiera arcobaleno e la comunità LGBT: so che sono stati aggiunti diversi colori rispetto ai classici sette e che sotto l’acronimo sono oggi raccolte altre categorie, ma ho voluto fare affidamento all’organizzazione più “basica” della comunità perché ho immaginato che dei dati più “concreti” e consolidati nel tempo avessero maggior possibilità di passare alla storia. Cosa succederà nel futuro e se verranno apportate altre modifiche, non lo posso sapere XD
Passando ad alcune piccole annotazioni astrologiche: quando Joy dice che può assistere all’alba e al tramonto solo qualche volta al mese, si riferisce al fatto che effettivamente un giorno lunare corrisponde a 29,5 giorni terrestri (quasi un mese); metà di questo periodo è di ombra, mentre l’altra metà di luce. Le differenze di temperatura sulla Luna sono date principalmente da questo alternarsi di sole e buio, anche considerando che le stagioni sono pressoché inesistenti.
Per quanto riguarda l’anno (da quel che mi è parso di capire, ma non prendete queste informazioni per oro colato perché potrei sbagliarmi) la Luna, essendo un satellite della Terra, non ha un vero e proprio anno basato sulla sua rivoluzione intorno al Sole. Ho così pensato di mantenere lo stesso sistema che utilizziamo sulla Terra (è pur sempre una civiltà di terrestri che poi si sono trasferiti).
(VI PREGO ASTROLOGI NON PICCHIATEMI)
Passando all’atmosfera terrestre: è divisa in diversi strati che si differenziano in base alla concentrazione di gas a diverse “altitudini” rispetto alla superficie terrestre. Per farla breve: tra questi vi è la stratosfera, che include un’alta percentuale di ozono. Quest’ultimo è il gas deputato all’assorbimento delle radiazioni solari che altrimenti colpirebbero la Terra e la renderebbero un luogo inospitale. Ovviamente se sulla Terra c’è stata un’Esplosione, dovrà pur aver rotto qualche equilibrio.
È vero che le radiazioni solari possono causare dei tumori e anche dei seri problemi agli occhi; ovviamente in una situazione del genere questi problemi si acutizzerebbero.
Il famoso test nella Stanza degli Elettrodi è la trasposizione fantascientifica di qualcosa che esiste già: esistono tanti test psicologici e neurologici che tramite degli elettrodi misurano l’attività cerebrale di un individuo quando è esposto a determinati stimoli. Non so se ne esista già uno per determinare l’orientamento sessuale, io non ne ho mai sentito parlare.
Le varie soluzioni che gli abitanti della Luna hanno adottato per renderlo un pianeta vivibile sono di mia invenzione (le mutazioni sui geni X e Y, i tralicci per sistemare la forza di gravità, l’atmosfera ricreata artificialmente), non credo che entro il 3005 tutto ciò sarà possibile ma usiamo l’immaginazione!
Ultima cosa: tutte le citazioni inserite nella storia sono tratte dal testo di To Hell & Back di Maren Morris, brano che mi è capitato in sorte per il contest ^^ e sì, è la stessa canzone che Indi ascoltava sempre insieme a Joy. Vi lascio il link, se siete curiosi di sentirla:
https://www.youtube.com/watch?v=kdE0ojviSjg
Che altro aggiungere?
Scrivere questa storia è stato un vero e proprio parto plurigemellare, mi ha tenuto impegnata per più di un mese (senza contare il suo “concepimento” nella mia testa), non penso che scriverò mai più fantascienza perché è DIFFICILISSIMO ma è stata anche un’esperienza bellissima. Mi sono affezionata tantissimo ai personaggi e spero che abbiano lasciato qualcosa anche a voi!
Grazie a chiunque sia stato tanto coraggioso da arrivare fin qui e… vado a riposarmi, non ne posso più AHAHAHAHAH
Alla prossima ♥
 
 

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